Grice e Jaja: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia pugliese –
scuola di Bari -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Conversano). Filosofo
italiano. Conversano, Bari, Puglia. Grice: “I like Jaja – of course you cannot
understand Jaja unless you understand Fiorentino, Croce, Spaventa and Gentile!
The quintessential Italian philosopher!” – Grice: “Jaja is a sensualist, like
me.” –Grice: “My favourit essential Italian philosopher. Figlio di Florenzo Jaja,
a cui è dedicato l'Ospedale Civile di Conversano. Si trasfere a Napoli, dove studia
sotto la guida di FIORENTINO. Si sposta a Bologna, dove si laurea per seguire
il suo maestro. Il suo incontro filosofico
principale e con SPAVENTA. Col trasferimento di J. a Napoli i rapporti con
Spaventa divennero regolari. Insegna a Pisa. J. non è stato mai considerato un
filosofo particolarmente originale, ma ha avuto il merito storico d'introdurre
GENTILE allo studio di Spaventa – “although he was possibly more than Hardie
was to me!” – H. P. Grice -- merito che l'allievo riconosce sempre. Altri saggi:
“Origine storica ed esposizione della critica della RAGION PURA”; “Studio
critico sulle CATEGORIE e forme dell'essere”; “Dell'A PRIORI nella formazione dell'anima
e della coscienza,”; “ L'unità SINTETICA e l'esigenza positivista,”; “Sentire e
pensare,”; “Identita e Semiglianza ed identità”’[cf. Grice: “Cfr. My theory of
identity-relative, as a critique to Wiggins” -- “ Sentire, pensare, conoscere,”
“ L'intuito nella coscienza.”; Preti, J., filosofo europeo oltre Gentile, su ricerca. repubblica,.
treccani. J.: neoidealismo italiano, su orthotes.com. J. Gentile, Memoria, su sba.unipi, Spaventa
Gentile Idealismo, J. Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degl’italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. open, Horizons Unlimited srl. Gentile,
Memoria su J., su sba.unipi. J.. Grice on “Sentire” e Pensare. Rupert
Brooke: “I love Grice: “I feel,’ never ‘I think’!” – “If a is a, is a LIKE a” –
a knife is not like a knife, but something that is not a knife can be like a knife.” Implicature!” Comincia gli studi al seminario in vista di una
futura carriera ecclesiastica, ma dopo l'unificazione, si trasfere a Napoli,
dove studia sotto la guida del filosofo neo-kantiano FIORENTINO (si veda) e a Bologna, per seguire
il maestro, con il quale si laurea. Dopo la laurea insegna a Caltanissetta e Chieti.
Tornato a Bologna vi conobbe e frequenta MEIS (si veda) e per suo tramite SPAVENTA
(si veda) che, oltre a influenzare lo stesso Fiorentino, divenne in seguito una
figura chiave per la formazione intellettuale di J. Con Spaventa i rapporti
dello J. divennero regolari quando egli si trasferì a Napoli per insegnare. Consegue
la libera docenza e ottenne la cattedra
di filosofia teoretica a Pisa. Tra i suoi allievi ha Gentile, che gli successe
poi sulla cattedra, e Radice. Nella dissertazione di laurea, data alle
stampe a Bologna con il titolo Origine storica ed esposizione della Critica
della ragion pura di Kant, colloca Kant all'origine di una scena della
filosofia che raccoglie le due tradizioni precedenti lungo le quali egli
articola la storia della filosofia successiva a Cartesio. Da una parte il
filone filosofico che si pone il problema dell'infinito, dell'universalità e
della necessità -- Malebranche, Spinoza, Leibniz. Dall'altra la tradizione
francese, ma soprattutto inglese, sensistica ed empiristica -- Locke e Hume. Kant pone il problema, ritenuto centrale da J.,
del debito che il giudizio ha nei confronti sia dell'esperienza, sia
dell'universale. Tuttavia J. ritiene che Kant non da una soluzione adeguata e
definitiva ed è anzi incline a sostenere che la soluzione vada trovata nei
continuatori dell'opera kantiana. Emerge già qui chiaramente la tendenza a
leggere la tradizione idealistica alla luce degli interrogativi kantiani, in
una prospettiva che egli deriva da FIORENTINO. Secondo J., Kant pone il
problema della conciliazione di questi due elementi, di senso e intelletto, ma
non lo risolve. La manchevolezza è nell'intima natura del sistema kantiano. In
questo, lo spirito è dualità, scissura, intuizione e concetto, recettività e
spontaneità, entrambi irriducibili, mentre la soluzione consiste nel mettere in
luce l'unità, nel mostrare come l'universale kantiano sia non esclusivamente
soggettivo ma OGGETIVO e pertanto corrisponda alla realtà. – cf. H. P. Grice,
the justification of objective value, The Carus Lectures, Oxford. Compare qui
un interesse di J. per il modo in cui
l'intelletto proviene dal senso -- cfr. Plebe, in Guzzo – Plebe -- che mostra
anche una sensibilità più vasta verso il regno della natura e le scienze
empiriche e che in seguito lo porta a confrontarsi con il positivismo e
l'evoluzionismo. Pesano in questo probabilmente sia gl’interessi positivistici
di Fiorentino, cui egli dedica questo saggio, sia l'ambiente intellettuale
bolognese, in cui spiccavano figure quali quella di MEIS (si veda). Ha modo
di sviluppare e precisare tali temi in uno Studio critico sulle categorie e
forme dell'essere di Serbati. Qui critica Serbati della teosofia in quanto non
dà spazio né illustra la centralità della mente nel suo rapporto con l'essere,
mentre questo va visto alla luce dell'essere pensato dalla mente: È necessario
studiare la mente nella serie non interrotta dei suoi fenomeni, attraverso cui
passa nel formarsi. Kant ha colto questo punto in quanto ha mostrato che prima
di poter parlare dell'essere si deve indagare la natura della mente, e tuttavia
finisce con il postulare una irriducibile alterità della cosa in se rispetto
alla mente. Dopo Kant, Fichte, e quindi Hegel,
invece completano il necessario passo in avanti mostrando come ciò che è
fuori della mente o psiche è il risultato o effeto di ciò che la mente e il
pensiero hanno rivelato. Gentile ha modo di considerare a questo
proposito che la lettura che il proprio maestro da di Hegel e personale e forse
inadeguata sul piano interpretativo. E uno Hegel mediato in primo luogo da SPAVENTA,
che ne sottolinea l'aspetto soggettivistico, e che J. legge in modo ancora più
immanentistico facendo equivalere l'essere con il pensiero o la psichi umana. Temi
e ispirazioni filosofiche, in cui si mescolavano influssi hegeliani, fichtiani,
e interessi verso le scienze e la dimensione empirica del pensiero - spinsero
J. a occuparsi del positivismo e in particolare di Spencer. In “Dell'A PRIORI
nella formazione dell'anima e della coscienza” (Napoli) -- ma si veda anche “La
somiglianza nella scuola positivista e l'identità nella metafisica nuova” -- J.
nell'esaminare e nel correggere
Fiorentino si occupa dei tre momenti della conoscenza: sensazione,
rappresentazione e concetto. Nel discutere della sensazione ha già modo di
articolare una posizione cui dette poi compiutezza in Sentire e pensare. La
sensazione non è solo lo stimolo – alla STEVENSON (H. P. GRICE) -- che proviene
dall'esterno ma è anche modificazione. E interna all'ATTO INTROSPETTIVO del
sentire e alla sfera spirituale. In questo, da una parte valorizza l'importanza
dello studio scientifico dei modi in cui la conoscenza sorge e ha luogo. Dall'altra
mette in luce l'inadeguatezza di un punto di vista esclusivamente empirico o
ESTERNALISTA, o ESTROPETTIVO, POSITIVISTA, ESTERIORE. Tornato su questi temi in
“L'unità SINTETICA kantiana e l'esigenza positivista” si propose di conciliare
l'esigenza positivistica, che nega elementi a priori e che è invece interessata
a ricostruire geneticamente il formarsi dei fenomeni, e l'esigenza kantiana,
che vuole mantenere valido il punto di vista universale. Opera tale
conciliazione ritenendo che il passaggio dalla sensazione sino alle forme più
evolute di coscienza sia solo un passaggio di grado, mai categorico. Si
appropria dell'idea di sviluppo e di ricostruzione genetica e la colloca
nell'immagine idealistica di un essere che dà forma a se stesso a partire dai
gradi più semplici e primitivi sino alle forme più sofisticate. La
trattazione di questi temi prelude al “Sentire e pensare”. È mio fermo convincimento che il problema
speculativo, in tutta la sua ampiezza, resta un labirinto senza uscita finché
non solo non e studiato sul terreno indicatogli dalla filosofia in genere e
dalla critica kantiana in particolare, cioè su quello della conoscenza, e per
esso della COSCIENZA – cf. Grice, “Personal identity,” “Intention and
Disposition” – Stout vs. Prichard -- coscienza, ma più ancora finché nello
studiare la coscienza non avremo preso le mosse da quel giusto punto, dove il
senso finisce e la coscienza incomincia. O, dove il senso non è più solamente
senso, e già la coscienza comincia a mandare sul tronco di esso i suoi primi
germogli. – cfr. Grice on Empiricism as a bete noire --. J. è interessato
a individuare il momento in cui la sensazione e la coscienza si sovrappongono.
Da una parte è desideroso di fare propria la lezione dei positivisti e degl’evoluzionisti,
fino a spingersi ad affermare che il principio assunto oggi a base delle
scienze naturali, l'evoluzione è vero e fecondo, un'affermazione non priva di
interesse in un autore che esercita il suo influsso nella formazione di una
filosofia idealistica italiana lontana e refrattaria alla scienza e in
particolare all'evoluzionismo. Dall'altra vuole rivendicare la presenza nella
sensazione degl’elementi embrionali della coscienza e cioè l'universalità
propria della mente concepita kantianamente. Questo tentativo di conciliazione
di due esigenze opposte non è di per sé indicativo di un fallimento di
un'autentica comprensione di tali esigenze. In altri termini, è interessato a
conciliare una comprensione scientifica mecanicista della natura, che prescinde
da una descrizione in termini INTENZIONALI, e che l'evoluzionismo ha esteso
anche agl’organismi viventi sino all'essere umano, con una sua comprensione in
termini concettuali. Ma, usando l'evoluzionismo come immagine filosofica
anziché come prospettiva di studio alternativa a quella filosofica idealistica,
chiude quasi subito la sfida tra queste due comprensioni. Perciò parla in
termini evolutivi del passaggio dalla sensazione alla coscienza per significare
che non vi sono passaggi categorici ma solo di grado. La sensazione è foriera
della coscienza e n'è la immediata preparazione. Dall'una all'altra è passaggio
-- non salto. Gl’elementi tutti della coscienza sono elementi della sensazione.
La vita della coscienza è due cose. E la continuazione della vita del senso, e
per esso della natura tutta, e n'è il compimento insieme. L'immagine evolutiva
è impiegata per significare questo passaggio dalle diverse forme della vita,
che intende come una forza che si
dispiega. Il fatto adunque, di cui prendiamo nota, è che, nel sentire – cfr.
Grice in Schwarz, SENSING PERCEIVING -- si raccoglie tutto il mondo naturale
sottostante, e che questo mondo naturale è qualche cosa di vivo, viva essendo e
perenne e senza limiti la produzione degl'individui diversi, che si succedono e
s'incalzano in tutti i diversi ordini della natura. Questo mondo naturale che
si raccoglie nel sentire è la forza. Ed è forza il sentire. Quando la forza
sottostante, compiute tutte le condizioni, sale al grado di sentire, produce
ancora. E non intendiamo dei soli individui che compongono il grande regno
animale. Il sentire è per sé solo forza, perché per esso gl'individui senzienti,
forniti delle capacità, della forza di sentire, non vivono soltanto,
assimilandosi e trasformando gl’elementi del mondo inorganico, ma il mondo pre-esistente
della vita trasformano in una superiore esistenza, nell'esistenza RAPPRESENTATIVA
– cfr. Grice on Aristotle on life and soul --. Nella rappresentazione, la forza
naturale incomincia a ritrovare se stessa, iniziando quel movimento di ritorno
sopra di sé – META-REPRESENTAZIONE – reflessiva -- nel cui compimento è il suo
possesso, e la sua integrazione. Puo già leggere in Spencer una concezione
dell'evoluzione come un processo diretto a un fine, un'idea lamarckiana lontana
dall'evoluzionismo di Darwin, di cui Spencer non si libera mai. Ma egli chiude
subito le possibili tensioni interne a questo paradigma e usa l'immagine
evolutiva come un motore esplicativo di tipo hegeliano, spingendosi sino a
invocare il superamento del principio di non contraddizione per spiegare il
modo in cui la sensazione si evolve verso la coscienza. Non resta dunque, che
sieno e non sieno identiche, che sieno in parte identiche, in parte diverse. I
fautori della inviolabilità del vecchio principio di contraddizione, così come
era e poteva esser dato nella logica formale potranno trovare dura questa
conclusione. L'evoluzione è immagine della forza che dal regno della natura
ritrova se stessa, cioè si rende consapevole nel mondo dello spirito. In questo
senso, J. può essere ascritto alla schiera di quanti hanno usato
l'evoluzionismo per produrre una loro filosofia della storia. Una
conclusione, questa, che trova conforto in uno scritto successivo di J., L'intuito nella coscienza.. È qui
affrontata la questione se l'intuito ha una parte nella ricerca scientifica. J.
risponde affermativamente, sostenendo che tuttavia esso è posto in primo piano
solo quando il pensiero indagatore sente il bisogno di ricorrere alla
conoscenza in se medesima, e scrutarne il valore, e cioè quando vi è
perplessità sull'evidenza del proprio oggetto di studio. Nel mostrare come la
conoscenza non sia solo accumulo e accostamento di fatti, J. afferma, di nuovo contro i positivisti, che
i fatti e la storia, se sono la realtà, non sono tutta la realtà. La realtà
storica, oltre ad essere quella che è, e che ognun vede, è anche in miglior
modo nell'universale e per l'universale. I fatti e la storia sono testimoni
cioè di un universale che li raccoglie e dà loro un senso. Nel successivo
Ricerca speculativa. Teoria del conoscere (Pisa), insiste sul concetto del
pensiero che ritrova sempre se stesso e non ha niente di anteriore. Egli
ritiene che la filosofia sia l'unica disciplina che non ha un oggetto specifico
di studio che non sia l'esigenza stessa di conoscenza. Si tratta di salire
nelle alte regioni dell'intendimento puro, di usare del conoscere per costruire
l'atto, il puro ed universalissimo atto, del conoscere. Se alcuni interpreti
hanno ritenuto che in quest'opera
traesse le conseguenze del suo lavoro precedente e in particolare di
Sentire e pensare (Plebe, in Guzzo – Plebe), Gentile invece vi ha voluto
scorgere la trasformazione dell'idealismo assoluto in spiritualismo assoluto,
una posizione che preludeva agli sviluppi che egli stesso avrebbe dato
all'idealismo italiano. Come nota, a tal proposito, J. qui non muove più dal
senso e dal bisogno di trascendere il senso quale è DATO dalla coscienza, per
spiegare la coscienza sensibile, senza incorrere nello scetticismo. Si mette
innanzi l'atto del conoscere, prescindendo da ogni rapporto di esso con la
verità, per trattare lo stesso del puro conoscere come principio unico ed
assoluto di tutto, presupposto com'è da qualunque altro possibile pensiero. Oltre
agli saggi menzionati, si segnalano ancora, fra gli altri: Un po' di polemica
nella quale principalmente si discorre dell'articolo 73 dello statuto in
rapporto a' poteri supremi dello Stato, Bologna; Saggi filosofici, Napoli -- raccoglie scritti già pubblicati e
l'inedito La virtù e i suoi elementi costitutivi -- la prefazione alla raccolta
di Scritti filosofici di Spaventa, cur. Gentile, Napoli; Enigma della
coscienza, in Rivista filosofica; L'insegnamento filosofico universitario ed il
regolamento nuovo, Pisa. Membro della Società reale di Napoli e cavaliere
dell'Ordine della Corona d'Italia. Fonti e Bibl.: Necr. in Il Messaggero
toscano, (C. Sgroi); Corriere
toscano, (Tarantino); Gentile, Lettera a
J., in Gentile. La vita e il pensiero, a cur. della Fondazione Gentile per gli
studi filosofici, lettera di Gentile
laureato al maestro; Battaglia, Lettere di Meis a J., in Memorie dell'Accademia
di scienze dell'Istituto di Bologna, cl. di scienze morali; Gentile, J.,
Carteggio, a cura di Sandirocco, Firenze; Miccolis, Lettere inedite di J.,
Firenze s.d.; Gentile, J., Pisa, Le origini della filosofia contemporanea in
Italia, Messina Alliney, I pensatori
della seconda metà del sec. XIX, Milano ad ind.; Croce, Conversazioni critiche,
Bari; Guzzo - Plebe, Gli hegeliani d'Italia, Torino; Guzzo, Cinquant'anni di esperienza idealistica
in Italia, Padova; Vacca, Recenti studi sull'hegelismo napoletano, in Studi
storici, Cristallini, Il pensiero filosofico di J., Padova
(con bibliogr. degli scritti dello e sullo J.); Carcuro, Polemiche
filosofiche antirosminiane: Mamiani e J., Aversa; A. De Gubernatis, Diz. biogr.
degli scrittori contemporanei, Firenze , s.v.; Enc. Italiana, XVIII, s.v.; Enc.
filosofica, IV, s.v.; F. Abba Luzzato, Diz. generale degli autori italiani
contemporanei, I, sub voce. Grice: “Jaja is especially important for the fact that he tutored
Gentile. He wrote on the ‘supreme powers of the state’, since he was a Hegelian
at heart, as a collection published in Italia thus calls him – “Gli hegeliani
d’Italia: Tocco, Jaja, Gentile. While he studied Kantism in depth, he finds
that the Hegelian absolute, the State, as compromise between ‘gl’individui, as
Jaja calls them, is the maximum!” Donato Jaia. Donato Jaja. Jaja. Keywords:
implicatura, I potere supremo dello stato, la virtu. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Jaja” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Jerocades: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della filosofia della
massoneria – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Parghelia). Filosofo
italiano. Parghelia, Fitili, Vibo Valentia, Calabria. Grice: “I would consider
Jerocades more of a poet than a philosopher, but then he was a priest and a
Mason!” Essential
Italian philosopher. Scrisse il saggio “Dell'umano sapere”, di stampo
illuministico, che verrà successivamente pubblicato a Napoli, e “La partenza
delle Muse”, edito na Messina. Si trasferì
a Napoli. Dietro raccomandazione di Genovesi, col quale era entrato in
corrispondenza, venne assunto al "Collegio Tuziano" di Sora come
maestro d' “ideologia”. Frequenta gli ambienti massonici. Secondo il clero
sorano, tuttavia, quelle opere non si attagliavano ai giovani del collegio,
tant'è che prima della rappresentazione di “Il ritorno di Ulisse” -- che
conteneva alcuni intermezzi ridicoli e di stampo anticlericale, in particolare
il Pulcinella da Quacquero, il vescovo emise un editto di censura: ne seguì un
processo per eresia e sedizione, con la reclusione di Jerocades nel carcere
vescovile. Scarcerato dopo sette mesi, lasciò Sora per tornare a Napoli, dove
divenne popolare come poeta improvvisatore. E in Calabria: qui si dedica alla
composizione delle raccolte Quaresimale poetico e La lira focense,
testimonianza di un «illuminismo massonico». Insegna a Napoli. Fonda la Società
Patriottica Napoletana, coagulo dei principali esponenti del giacobinismo e
dell'antigiurisdizionalismo partenopeo, ovvero che miravano a costituire una
repubblica, cosa che determinò la sua incarcerazione a Castel dell'Ovo e il
processo per apostasia, ma riebbe presto la libertà, avendo deciso di
ritrattare. Anche per il conflitto interiore causato da una siffatta scelta, sostenne
attivamente le idee rivoluzionarie, che però, in seguito alla breve esperienza
della Repubblica Napoletana, gli costarono nuovamente il carcere, e quindi
l'esilio a Marsiglia. Ritornato a Napoli razie all'amnistia prevista dalla pace
di Firenze compose l'elogio di suo padre e di suo fratello, motivo che indusse
a farlo rinchiudere nel convento dei Liguorini di Tropea. Saggi: “Esercizii
spirituali in compendio ossia il filosofo in solitudine” Napoli); “Il Paolo, o
sia l'umanità liberata poema” (Napoli: presso Porcelli, Inni di Orfeo esposti
in versi volgari, Napoli, La gigantomachia, ovvero La disfatta de' giganti,
Napoli: La lira focense, Napoli: si vende da Gennaro Fonzo, strada Forcella, Olinto
e Sofronia, dedic. Orazione per l'apertura della Scuola di Economia e Commercio,
Napoli, Orazione recitata ne' funerali solenni di Marcello Accorinti morto in
Messina nel terremoto. Napoli, Fedro, “Esopo alla moda, ovvero delle favole di
Fedro, Parafrasi Italiana” (Napoli: Porsile, Orazio); “Le odi di Orazi esposte
in versi volgari” (Napoli); “Le odi di Pindaro tradotte ed esposte in versi
volgari” (Napoli: Russo); Biografia degli uomini illustri del regno di Napoli,
D. Martuscelli, Gervasi, Napoli B. Croce, La rivoluzione napoletana Biografie,
storie, racconti, Laterza, Bari L.
Alonzi, Il giacobinismo napoletano, in Idem, Il Vescovo-prefetto. La diocesi di
Sora nel periodo napoleonico, Sora, A. Piromalli, Illuminismo massonico, La
letteratura calabrese, I, Pellegrino
editore, Cosenza, B. Croce, D. Ambrasi, Il clero a Napoli tra rivoluzione e
reazione, in Cestaro Lerra, Il Mezzogiorno e la Basilicata fra l'età giacobina
e il Decennio francese, Atti del Convegno, Maratea, I, Venosa, Croce, La rivoluzione
napoletana, Biografie, Racconti, Ricerche, Bari, Laterza, Saggio dell'umano
sapere, D. Scafoglio, Vibo Valentia, Sistema Bibliotecario Vibonese, J., La
lira focenseː un abate poeta in loggia, Piromalli e Bravetti, Foggia, Bastogi. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. 1. T) Indaro , figliuolo di Diifanto,e di
Mirto, J» nacque in Tebe , città capitale della Beozia. Mono il padre , eh’ era
sonator di tibie , la ma- dre , eh’ era ancor sonatrice sposò Scopelino , e ,
quindi , dopo la morte di lui , sposò Pagonida , ambi professori di musica. Di
qui è,ché al nostro Poeta si danno tre padri , de' quali due nel vero sono
patrigni . Or questa sua sorte fece la sua virtù; imperciocché nacque, visse, e
morì tra le Muse, le quali a quel t&mpo erano e ricche, e nobili ,ed
onorate. I suoi primi studj fu- rono la musica, e la poesia, che apprese da Laso
Ermìoneo, e che peifezionò sotto Simonide , ed Eschilo i quali' fiorivano in
quella età. Indi , , dato l'animo allo studio delle scienze, seguì la , tutta
la sua v»ta al modello della pietà . Tra gii altri numi venerava spezialmente
Pane, Rea, e Febo e siccome la sua casetta era vicina al tempio ; , propagata
per la Beozia , e non la scuola Italica J mica ; onde fu scolare di Pittagora,
e non di Talete. La sua dottrina dunque divenne sacra, e tnis ica in modo , che
pieno di queste idee, formò di Rea, egli era o uno de' sacerdoti , o almeno il
compagno e il partecipe de' sacri misteri. , a. La sua dotta e saggia pietà e
l’ornamento, e'1 retaggio della sua industre e faticosa famiglia. Imperciocché
, ricevuti da Timossena , sua consorte , un maschio , chiamato Diofanto', e due
fem- mine, per nome Protomache , e Polimeri trasfu- , se col sangue la sua
virtù per modo ne’ figli che gli mandava il giorno e la notte al tempio dej
padre, e della madre de’ numi. La sua casetr A9 me • #- , §a medesima era un
tempietto dtvoto, in cui con vi- cenda soave si passava dai coro alla mensa , e
dalla cetra atta tazza , cioè dal travaglio al riposo, e dal - ripeso al
travaglio. Non senza ragione gli Spartani prima, e qnndi i Macedoni, liberarono
dall'in- cendio comune l'albergo di lui riguardato qual ,, saero asilo delle
Muse , e di Febo . Di fatti la faina di Pindaro era sparsa per tutta la Grecia
, e al di là della Europa; già che Serse nella sua famosa spedizione n' ebbe
ancor del rispetto , come dipoi n’ ebbe Alessandro gloria del re della Persia
3. Or qual si fu la vita civile di Pindaro? Applicato alla poesia , e alla
musica , non cantava , che numi , ed eroi . L'antichità vide e lodò i suoi
carmi , Inni , Ditirambi, Treni, Peani, ed altri Lirici,e Melici componimenti,
rapportati da Sm- ela , che non vinsero la forza vorace dell' igno- ranza,
dell'invidia, e del tempo, e de' quali so- lo si mostrano alcuni frammenti, da
Stefano va- riamente, e con diligenza raccolti , Restano dunque eli lui quattro
libri de’ Vincitori Olitnpj, Pizj, Ne- mei , ed istmici , de' quali Aristofane
. grammatico di gran nome , ne fece una raccolta , ordinata a suo modo, e
chiamata Periodo. Ed egli è qui da notarsi , che tra le opere di Esiodo si è
serbata la Teogonia , e si è perduta 1’ Erogonia ; ma tra quellf di Pindaro al
contrario si sono serbati gl' Inni degli Eroi , e gl* Inni degli Dei si sono
perdu- ti . Queste opere f.inno la vita del nostro Poeta, siccome le guerre, e
i viaggi fanno la vita d’Achille^ d' Uhsse. Ma benché Pindaro per forma- re i
suoi carmi divini dovea menar i giorni nella pace , nel silenzio , e nell’ozio,
e vivere con se stesso , col mondo, e co’ numi; non potea di- spensarsi dal
viaggio > e dal cvmraercio co’ Prmci- ,1 , quasi emulando la Dìgitized by
Google 5 pi del suo tempo, e dal conoscimento di varj po- poli , e
di varj costumi senza i quali so'corsi ; non si può essere, nè si può fare il
Poeta. Ol- tre il viaggio di rutto e quanto il mediterra- neo (eh* eia il
viaggio alla moda in quel secolo) e’ vide Coma , Siracusa , e Cirene , e
familiarmen- te u ò de’ Re e con confidenza trattò nelle Corti. , Nelle giostre
festive fu più volte e spettatore, e spettacolo , e sceso al paragone con
Corinna , pian- se la v.irtù della Musa vinta dalla beltà del- la Musa. In
mezzo all’ armonia dunque il Teba- no cantore visse la sua vita dividendo le
ore fra , lo s'adio,ei! teatro, le due scuole dell’antica vir- tù : e così
finalmente morì , cadendo nelle brac- cia di Teosseno giovanetto di Tenedo,
dopo , avere ascoltato con sommo piacere una festa teatra- le, ed armonica.
N.ito nell' Olirne. 65. morì nell’ Olimp. 36. di anni 84.,bìochè altri narrino
altri- menti e la vita, e la morte di lui. La vita de* saggi , sempre disputata
, non è il corso di peri- gliose avventure gravi di speciosi e nobili avve- 1
nimenti. Ella si legge ne loro libri , e tutti i qua- dri d’ un Poeta formano
il quadro di lui . E qui si offre il nome eh’ e' diede a’ suoi carmi di qua- ,
dri . E’ chiamò ogni sua Canzone siSog, immagi- ne , simulacro , o per la varia
sorte de’ versi Litici ; o perchè tal è la poesia, cioè pittura, e ri- tratto o
perchè siccome ad ogni vincitore si al- $, zava una statua col nome dell'eroe,
della pa- tria, e del giuoco $ e’ gliene voleva alzar un’altra di versi , di
quella più perenne ed eterna . E' fece u- so del dialetto dorico che più
confassi con lo sti- , le sublime. Ma quello, che più distingue Pinda- ro dag i
altri Poeti si è P uso smoderato degli , Episodj imitato non sempre felicemente
, da ,, {'lacco .Lo stile delle sue poesie à Lirico-tragico, A3 e tal % e
tal volta Lirico-comico; imperciocché , siccome in Omero ci ha favole, e
favolette , co>l in Pindaro ci ha canzoni, e canzonette. Per questa ragione
nel tradurle , ed esporle si è tenuta una maniera diversa, secondo che oggi è
fuso d’ Europa. Di fatti oggi in Europa è in pregio solamente la poe- sia , e
la musica Lirica , e questa è o tragica detta altrimenti Pindarica , e Alcaica
; o comica , altrimenti detta Anacreontica, e Saffica. Ne' tea- tri si unisce
l'uno e l’altro stile Lirico , onde so- no i recitativi, come si dicono, e le
arie. Ma l’epica, e la drammatica , tanto tragica quanto , comica , è poesia
disgiunta oggidì dalla musica , ed *’sì deono rispettare le superbe vicende del
secoli . Ecco la ragione, onde ho tradotte ed espo- ste le Odi di Pindaro all'
uso del Guidi; e tal volta, ma di raro , all’ uso delle cantate da sce- na.
Nèmisi parlidistrofe, d'antistrofe, ed’ epodo ? di ternioni quaternioni , e
quinternioni ,j che oggi sono più che vecchie monete . Chi ha voluto tener le
usanze antiche , si ha dato una legge importuna, che poi ha dovuto pagare col
prezzo di tante gloriose fatiche. Chi non esalta il merito di Adimari , e
Gauter ? E pochi sono , che apprezzano le loro Erculee imprese ; e spesso hanno
errato per necessità di consiglio . Or la- sciando a tutti e traduttori , e
cementatori di Pindaro la gloria immortale del nome; io ho ardito d’
incominciare ad uso mio questo faticoso lavoro, e ho ardito ancor di compirlo a
mio mo- do. Se questa è una lode , io la confesso ; poiché mi è grato un onore,
che mi venga dal merito. Sog- giungo ancora d'aver letta, a quest’ uopo ,
Plutarco, Eliano, Pausania, Clemente , Stobeo, Eusebio, Quintiliano, Orazio,
fra gli antichi ; Suida, , GiraJdi , Motóri , "• Baile , Fabbiicio ,
Schmid io , A\ Be, 1 Pindaro, il quale, quando è gustato, è conosciu- to • |o
confesso ancora di aver vinto la causa , di cui la questione si fu: Se gl’inni
Cristiani sono da più , o da meno, degl* Inni Pagani ? Io proposi, son già molti
anni passati, che sono da più ; e per dimostrarne l'assunto col fatto, tra-
dussi ed esposi gl’inni Cristiani , e gl'inni Paga- ni, e lasciai la causa alla
fede, e alla ragione de* - giudici. Pubblicati gl’inni d’ Orfeo e di altri e ,,
quindi le Odi d’ Orazio, non restavano, che gli Inni di Pindaro al compimento
dell’opera. Ecco la iuta fede legata già sciolta. Chi legge , se ha sénno vegga
e conosca la 4; verità . A non voler dir altro , basta il dire che , negl'inni
Pagani o manca la persona, o rrnnca il soggetto, eh’ è la virtù., E se dicesi,
che ap- presso i Pagani tal era la persona reale , e tale il soggetto dell*
inno; io dico che cangiate le idee, , dubbiamo venerare le nostre. Ma le
Liturgie, per una sorte comune sono ignorate da chi le , adora, e conosciute da
chi le disprezza. Quindi è , che questa causa spetta al giudi ciò de’ posteri
come accenna nella Od. i. Olimp. il nostro poeta. Nel resto non può negarsi,
essere oscura e confusa 1 antichità, e chiara e distinta h nostra età, in cui
quel che si legge, si vede, e quel che si vede, s’ intende . Per me m’inebbrio
di gioja quando canto nel coro un inno de' nostri; e. nel cantare un inno
Pagano , sia superbo e pomposo, non mi sento nel petto un senso di dolce pietà.
£ non abbiamo noi i nostri agonistì, i campioni» -gli atleti r , gli atlanti,
gli aicidi di Cristo? Altro che kcorsa f , e Ja lotta, sono le virtù del Benedetti,
Aditimi, Stefano, Gaìitefj ed altri fra i moderni e di averne tratto profitto
ma , di. aver sempre apprezzato sovra di tutti lo stesso la Chiesa . Si
legga solo F inno di Venanzio giovanetto, e santo deli’ Umbria, e si vegga,
quai sono in vero gii eroi. E’ non vi ha dubbio, che iti Pindaro vi sono le più
belle sentenze e mo- , lali, e politiche che il suo stile spesso è orien- ;
tale, come lo stile liturgico di Asaflfo, d' Orfeo d’Omero, e di Ossian; ma
queste bellezze, che di rodo si ammirano ne' poeti Pagani, ne’ nostri sono e
profuse, e neglette. 5. Mi resta a dir due parole su i Giuochi, che formano F
argomento dell’ opera • I Giuochi , dette ancora feste giostre certami agojii ,
con- (,,, trasti ) erano o ginnici , o musici . I musici eran prode del conto,
del suono, della poesia, della storia, e della eloquenza; e tal volta erano
dispu- te circolari da scuoia. Questi si davano d' ordina- rio neU’Odèo, nel
Musèo, nel Licèo, nel Teatrone di rado assai nello Stadio, infra il romor delia
turba, il vincitore avea la corona, la sta- tua, e il soldo pubblico,e forse
Finno della vittoria. Mi questi giuochi non eran molto famosi. I Giuochi
ginnici erano o sacri , o profani . £ profanieranolascherma,ei!
bersaglio,edaltri, destinati col tempo alle pene de’ rei., I sacri &
solenni eran cinque, la corsa , la lotta, la pugna , la danza, la palla, detti
in generale Pentatlo da' Greci , da’ LATINI Qoinquerzio , e tal volta Pan-
crazio , benché Pancrazio comprendea solamene te;la pugna, e la lotta* La corsa
era a piedi, a nudo', o armato a cavallo , o frenato, o senza ; freno ; e col
carro , tirato da due. o da quattro cavalli £ Il premio della ,virtù eia kt
stessa virtù; o pure una corona di olivo f di lauro, d’apio, di rame , o di
ferro ; una statua col nome so»* della patria, del giuoco; e un inno di lode,
ond’ era accom- pagnato* litornapdo' in trionfo, alia patria 1 luogo di
questi Giuochi era lo Stadio, in tre par-* t» diviso, e distinto con tre
colonnette. Vi prese* devanoi pubblicimagistrati cometestimoni egiu- ,, dici
delle contese. Tali feste, instituite da Ercole, da Pelope, da Enomao da Ifito
e p;ù volte tralasciare, e più volte riprese si celebravano , nel principio d'
ogni cinque anni piade non era diversa dal Lustro, che fu la gran festa degli
antichi ROMANI. Questa città, eh’ è stata sempre la madre degl randó altre
insegne e divise , onde vivano ignoti al mondo, e noti solo a se stessi. Vivi
fra * morti , e mprti fra i vivi , passano in pace la vira e fanno il lor nome
risonare nel silenzio , della virtù. Fra molti, che io venero, ha luogo Gaetano
Ancora Napoletano giovane d’ alti ta- ,, lenti , e di aurei costumi . E’
rubando agli alti , affari politici, e al vigor giovanile, e alle ombre
notturne poche ore del tempo le consacra a quel ,, profondo studio , che da'
primi anni coltivò, d* una maschia e robusta Letteratura Latina , e va di
quando in quando esponendo una parte di quella Sapienza vera, che nel tesoro
delia età vetusta si serba come un sacro depost- , ,, <5. Molte, e varie notizie
si sono d'america vate 11 da Pausania , da Natale de Conti, e da saggi
scrittori delle Greche antichità , Ma disperando di poterne qui dare un Saggio
compiuto che servisse di scorta alla legione di Pindaro, ho prega- to il mio
doke amico, e maestro Ancora y il quale, tra le gravi cure della Corte, cori va
. con applauso universale i più severi studj della Letteratura, oggimai quasi
moribonda e spirante.- 1 ingegni , e la scuola di tutte le Muse non ar- , 1
disce più di onorare il nome de suoi gran figli col titolo di saggi e di dotti
e va lor proccu- ,, , onde T Olim- JO to della umani, e divina ragione .
Quindi la Repubblica delle lettere gode di tante dissertazioni dilui,
chesonodiraro, diutile, edifestivo argomento , e che raccolte si daranno a. suo
tem- po al'a luce. Or egli piegandosi gentilmente al- , le mie premurose
preghiere, ha scritto un Saggio tu i Giuochi solenni di Grecia, il quale,
stampa- to alla fine del libro la erudizione comune , serve al- e al
rischiaramento delle ©ni di Pindaro. Perciò son io contento delle mie fatiche ,
le quali con questo lume compariranno , come spero , meno oscure, e meno
importune $ e la Musa Dircèa sarà più sacra, e più venerata. A vero dire non
deve un Poeta ri sublime , e sì sacro , come colui , che canta da eroe le virtù
degli eroi giacersi nell' ingrato obblìo d' una facile indifferenza, o d' una
criminosa ignoranza? eseiohofattosì, cheil suonomesiatranoi p ù conosciuto, ed
imitato almeno nelle sentenze, se non si può-nello stile, Sublimi feriam sidera
Tropea. Palazzo Sant'Anna. odierna sede del Municipio ed ex Collegio dei
Gesuiti. J. visse da filosofo inquieto una esistenza drammatica. Pur
affascinato dalle idee di libertà di cui si è fatto assertore e promotore, non
smise mai di produrre opere di natura religiosa e devozionale, anche pervase di
amore e tenerezza, soprattutto verso la Vergine Maria. E' un ecclesiastico che
non sovrappone il livello della politica a quello della fede, ma tenta
piuttosto un equilibrio che apparirà fortemente precario e non convincerà nè il
potere politico nè il potere religioso. Dall'una e dall'altra parte fu
perseguitato per tutta la vita, tuttavia non sconfessò mai la sua fede
cristiana, nè resistette fermamente al tiranno fino alla morte.
Quest'uomo che le istituzioni hanno più volte punito secondo i loro statuti con
il carcere e con l'esilio fu un 'uomo contro', ma non aveva la vocazione al
martirio. Io mi fermerò a considerare l'ultima prigionia dell'abate
Jerocades. Fu la conclusione di una vita oltremodo inquieta. A Tropea, nel
collegio dei Padri Redentoristi non si chiudeva solamente una vita, si spegneva
il tentativo di conciliazione di un credente massone e giacobino con il mondo
moderno. UNA VITA ESAUSTA L'abate J. non aveva la vocazione al martirio e
tuttavia la sua vita inquieta è stata vissuta nella lotta, una opposizione
ideologica contro i potenti e una tuonante avversione al mondo clericale.
Il terremoto del Capo, questa operetta indiavolata, come la definisce Tigani
Sava, ci dà la misura di quanti fossero i suoi nemici, ma anche di quanto egli
sapesse usare la lingua e la parola per colpire, offendere, insultare. La
parola fu la grande arma che Jerocades usò per illuminare le menti, per
eccitare i cuori, per aggredire chi lo contrastava, per lottare i suoi numerosi
nemici. Dotato di grande facilità di parola, scriveva e verseggiava con
facilità e spesso dava alle stampe i suoi scritti senza rileggerli.
L'ultima prigionia a Tropea, nella casa dei Redentoristi, fa pensare a Daniele
nella fossa dei leoni. Ma l'accostamento biblico ci richiama anche altri
protagonisti calabresi di utopie religiose e politiche: penso a Fiore, a CAMPANELLA,
profeti perseguitati per i loro sogni di libertà. Con uno spessore certamente
diverso, ma con un'ansia di fondo che ha una matrice comune nella natura
rivoluzionaria del cristianesimo. Credo sia opportuna una riflessione
sulla condizione ecclesiastica di J. e sulla sua formazione, perchè ci consente
di cogliere elementi di approfondimento in lui come anche nelle figure più
rilevanti del giansenismo, del protestantesimo, del giacobinismo, della
massoneria: tutti più o meno di provenienza culturale e ambientale non solo
cattolica, ma specificamente ecclesiastica (si pensi a Salvi, Aracri, Serrao,
Padula, Angherà, Nudi o altri meno noti). Il valore culturale, etico,
sociale di queste personalità e della loro opera in Calabria e fuori, osserva
Mariotti, e stato messo in rilievo da studi seri ed accurati, "che
tuttavia non sempre superano del tutto la tendenza ad interpretare
illuministicamente l'aspetto contestativo soprattutto in chiave di apertura
alle novità, al progresso contro l'ignoranza, l'arretratezza, il bigottismo
degli am bienti ecclesiastici. Pare sia più maturo un ripensamento, almeno
su alcune complesse personalità: anche per capire meglio il dramma umano,
religioso, morale di questi uomini, spesso condizionati dal disagio di una
vocazione non autentica, talora esasperati da situazioni realmente invivibili;
e per cogliere, al di qua dell'asprezza delle manifestazioni, la radice
autenticamente cristiana e cattolica di certe esigenze e critiche, nello
spirito in cui oggi leggiamo e accettiamo i rilievi al loro tempo sospetti, di
Muratori sulla Regolata devozione dei cristiani, di SERBATTI su Le cinque
piaghe della chiesa." Penso che, leggendo l'ancora inedita Orazione
per l'apertura della Scuola di Economia e Commercio nell'Università di Napoli,
detta da J., questa riflessione si riveli quanto mai opportuna. Egli,
rievocando gli anni della giovinezza, ricorda: "... Nato in un ignoto
villaggio dell'estrema Calabria da parenti oscurissimi, applicati alla pesca,
alla navigazione, al commercio, respirai le prime aure di vita, tra i remi e le
reti, nè mi sentia fremer d'intorno di altro il linguaggio che del dolore,
dell'opera, della fatica, i tre compagni primieri de' dolenti, operosi e
travagliati mortali, nè di altre immagini la mia mente bambina poteva
ricolmarsi giammai, che di povertà libera e di libertà bisognosa... piacque a
mio padre di ascrivermi tra l'ordine clericale e gà cominciai pur io, e ben per
tempo, a menar la vita tra i Salmi e gli Inni, imparando, ed insegnando ogni
giorno le Christiane dottrine... Chiuso il Seminario vidi e conobbi i primi
elementi dell'umano e divino sapere, e mosso dalla fama del Martorelli e del
Genovesi venni a Napoli ad ammirare quei due valenti e in filologia e in FILOSOFIA,
e con essi loro mi strinsi in familiare e soave amicizia." E'
altrettanto importante annotare che la preoccupazione per il seminario
rappresenta per i vescovi calabresi nella seconda metà del '700 la volenterosa
disponibilità di attuare una delle poche veramente innovative prescrizioni
tridentine. Ma in realtà molti seminari furono semplici convitti, che potevano
influire su una percentuale ristretta del clero, in quanto spesso surrogavano i
collegi per i laici, mentre i chierici in genere erano formati con
un'infarinatura di morale e di cerimonie dai parroci di campagna. Una circolare
per la diocesi di Tropea ritiene validi 10 giorni di ritiro come preparazione all'ordinazione
sacerdotale di coloro che erano stati presentati dai parroci. Si trattava di
una preparazione intensiva, che era tutto ed era poco! Il clero che proveniva
dai seminari invece si qualificò più per gli aspetti culturali che per quelli
pastorali. Per molti lo stato ecclesiastico rappresentava soltanto una
carriera ambita. In un ambito di cristianità il prete era il notabile,
circondato da uno steccato di privilegi. La vocazione era pertanto nella linea
delle pressioni sociali. Moltissimi erano i preti al di fuori di ogni quadro
pastorale: gli abati oziosi, i preti altaristi, i pedagoghi, gli eruditi, i
commercianti, i sensali, i selvaggi, i preti coniugati, gli eremiti. I sinodi
sono pieni di richiami agli abusi di questo clero che, privo di forti ideali,
dopo aver "strapazzato" la messa e l'ufficio, si dava all'ozio, agli
spettacoli, al cicisbeismo. Del resto va notato che il Concilio di Trento
aveva obbligato i vescovi a fondare i seminari, non i candidati agli ordini ad
entrarvi. La cura animarum suprema lex era molto disattesa, pur essendo
un principio fondamentale del Tridentino che aveva posto come capisaldi della
vita diocesana le visite pastorali, i sinodi e i seminari. Ma anche i sinodi
diventano sempre più radi: a Tropea l'ultimo sinodo celebrato è stato di
Ibanez: nessun altro sinodo verrà celebrato nel corso del settecento e fino al
vescovo Vaccari. La preoccupazione per
il seminario appare sempre viva e addirittura appare quasi ossessiva in un
vescovo latitante come Mele nella corrispondenza col suo vicario don A.
Meligrana. Questo vescovo fu l'ultimo a reggere la diocesi di Tropea prima
della sua unione con Nicotera. Durante il suo episcopato avvennero fenomeni che
hanno cambiato il corso della storia, ma egli riuscì (e non fu per nulla il
solo!) a rimanere fermamente legato alla tradizione; durante il suo episcopato
morì a Tropea J.. Sugli anni compresi sembra prevalere un grande silenzio
su J. nei documenti vescovili o comunque tropeani. Mentre il Martuscelli,
primo biografo del J., ci riporta con alquanta dovizia di particolari l'ultimo
periodo di vita dell'abate (cfr. Accatatis, Uomini illustri della Calabria,
Cosenza), le notizie che abbiamo di lui dai contemporanei locali sono molto
scarne e tendenziose (Vito Capialbi, Memorie per servire alla storia della
santa chiesa tropeana, Napoli, Paladini, Notizie storiche sulla città di
Tropea, Catania- ed. anastatica a cura di Bella). Quasi irreperibili
nell'archivio vescovile di Tropea. Quello che ci lascia interdetti è la
mancanza di fonti 'tropeane', degli uomini di cultura suoi contemporanei o
quasi: Galluppi, ad esempio, o Politi, o Scrugli, o Melograni... Gli
archivi locali, sia quelli ecclesiastici che quelli privati, sono molto avari
di notizie. Nell'archivio vescovile di Tropea è assente il suo nome, se si
eccettua un documento di dispensa dall'età canonica per l'ordinazione
sacerdotale e di annotazioni sulla sua assenza da Parghelia nelle visite
pastorali: Visita Paù: nell'elenco dei preti di Parghelia manca J.; Visita
Monteforte: adsunt extra patriam... D. A. J. Visita Monforte: absens...: A. J.;
Visita Mele: D. Antonius Jerocadi absens. Negli archivi privati si è
trovata qualche piccola traccia del suo passaggio nell'archivio Meligrana di
Parghelia: una lettera di Vito Capialbi, datata Monteleone a Meligrana ricorda
che "le cose di J. [per lui trascritte] non sono che ordinarissime
composizioni, ma di un autore così celebre ogni cosuccia è buona". E più
avanti ricorda ancora di aver avuto in regalo dal nipote di J. (Raffaele)
"un autografo in francese e in italiano di suo zio". Da Parghelia,
attraverso don G. Meligrana, Vito Capialbi ha avuto molti testi di J., che dice
di conservare nella sua biblioteca (Cfr. Memorie, cit.). L'archivio più
fornito dovrebbe essere quello dei Jerocades-Colace che allo stato attuale
risulta pittosto disperso, diversamente da come era stato rilevato da Tigani
Sava, relativamente alla produzione di Jerocades (Cfr. il contributo
bibliografico più completo - pur se con qualche piccola carenza - di Francesco
Tagani Sava in La Calabria dalle riforme alla restaurazione, S. E.
Meridionale. Il silenzio delle fonti tropeane del periodo che corrisponde
agli ultimi anni di vita di J. sta ad indicare la sua emarginazione, dovuta a
una avversione profonda, soprattutto da parte del clero tropeano, che, nel
Terremoto del Capo, era stato oggetto di derisione e di gravi accuse di
immoralità, ma anche del mondo laico che non condivideva le idee giacobine
dell'abate, anche se alle logge massoniche da lui fondate, o che, come dice
Gaetano Cingari, certamente influenzò, a Parghelia e a Tropea, in molti avevano
dato la loro adesione. Tanto meno fanno menzione di lui gli accademici degli
Affaticati. J. viene ignorato, sia perchè è scomodo, sia perchè è ostile e
pericoloso politicamente, sia infine perchè ha usato la parola come arma che ha
colpito duramente. Forse non e esagerato pensare che si aspettava il
momento giusto per presentargli il conto. LA SOLITUDINE DELLA MORTE
Martuscelli racconta con dovizia di particolari gli ultimi anni della vita di
Antonio Jerocades e la sua morte. fu mandato in Francia", egli scrive: in
realtà, più precisamente, fu esiliato con altri 500, mentre Colace e Mazzitelli
erano stati uccisi. J. figura tra gli esiliati a Marsiglia per i fatti e,
nell'elenco dei condannati dalla Suprema Giunta di Stato, si fa anche una
descrizione fisica dell'abate. A Marsiglia scrive tra l'altro l'orazione
funebre per Vincenzo suo fratello. Nel mese di agosto 1801, dopo la pace di
Firenze, rientra in Italia a Civitavecchia con la nave e da lì a Roma dove 'si
ammalò mortalmente'; riavutosi andò a Napoli e da lì giunse a Parghelia. Dopo
dieci mesi fu mandato nella casa del PP. Liguorini di Tropea, e dissesi che ciò
fu per correggerlo di quanto avea scritto nell'elogio funebre di suo fratello
Vincenzo", denunziato da Giuseppe Costanzo per vilipendio in quanto nella
detta orazione aveva parlato male del cardinale Ruffo. L'ordine era di
tenerlo segregato. E all'inizio l'abate "viveva nella quiete", scrive
il Paladini, che fu testimone oculare della sua prigionia; il quale aggiunge
che, cominciando J. al suo solito a satirizzare, perdè la confidenza dei
religiosi". In realtà la situazione appare più complessa, come
risulta dalla lettera di Migliaccio, successore del Pappaona, inviata a Mele e
conservata a Tropea nell'archivio Francia: Ecc. Rev.ma con ven.ta
carta V. E. Rev.ma partecipò al mio antecessore che il sig. Preside della
Provincia, col parere del sig. Av.to F.te D. Calenda le avea scritto che il
superiore di questa casa, quante volte i medici ne conoscano la necessità,
potrà far uscire a camminare il sac. J. di Reale ordine qui detenuto, in
compagnia degli individui di questa Comunità. E' il detto mio antecessore
subito, con più di buon core che di considerazione, le risposte che
avrebb'eseguiti gli ordini. Ora io mi dò l'onore di rappresentarle, che essendo
nei principi del passato luglio venuto da quella di Catanzaro a governar questa
Casa, ho trovato che non si era potuto eseguire quanto di buon cuore si era
mostrato di voler eseguire; imperciocchè essendo qui una piccola Comunità, e
vivendosi, come si vive tra noi, ritirati nelle proprie stanze, ci parliamo un
poco dopo pranzo e dopo cena; e quando poi si esce un po' a camminare, ch'è un
par di volte la settimana, allora ci comunichiamo insieme i nostri sentimenti o
il nostro approfittamento nelle lettere, o nello spirito; e sarebbe anzi una
noia uscire in compagnia di persona, con cui non si ha confidenza. Ma questo è
poco. I Reali ordini rispetto al predetto sacerdote sono di non farlo uscire,
nè trattare con nessuno; e di ciò il Sig. Ud.re Perrotta ne volle firmato un
obbligo dal passato Superiore. Ormai il Sig. Preside dice: quante volte i
medici conoscano la necessità di farlo uscire, il superiore potrà permetterlo,
ma in compagnia degl'individui di casa. Resterebbe dunque a carico del
superiore la verità della cognizione dei Medici, e la necessità del Jerocadi.
Cotesta risponsabilità non si vuol'aver'affatto. Risponderà ogn'individuo della
propria condotta; ma non potrà rispondere di quella degli altri. Il superiore
passato non dovea pur firmare quell'obbligo; ch'egli non era fatto castellano
nè carceriere. La M.S. si confidava della di lui religione; ed egli, ed ogni
successore si facea un pregio di custodirlo, e di rappresentare subito ogni
trasgressione, che mai ci fossa stata. Per le quali ragioni, e per altre, che
non è necessario di esporre, non è eseguibile di farlo uscire in compagnia
degl'individui di casa. All'incontro J. fa delle premure presso di me,
rappresentando i suoi mali, e 'l male dei mali, ch'è la sua vecchiaia, o amara
decrepitezza. Ma io non vedo altra via da poter'esser'abilitato, se non che, se
il Sig. Preside, per compassione dei mali di questo infelice, si assicuri egli
della cognizione dei medici e delle necessità del Jerocadei, e così lo abiliti
a uscire a camminare in compagnia di altro sacerdote secolare ben visto
all'E.V.Rev:ma. E pien di rispetto le bacio le sacre mani, e chiedo la paterna
benedizione. Collegio di Tropea U.mo e obblg.mo servitor vero e
suddito Migliaccio del S.mo Red.re Di V.E. Rev.ma Mons. Mele
Vescovo di Tropea "In quel soggiorno - scrive ancora il Martuscelli
- molto si indebolì la sua salute - pur nondimeno scrisse molte cantate,
sonetti, molte orazioni sacre, novene di alcuni santi, tradusse il salterio. Finalmente
logoro dai disagi e dalla improba applicazione allo studio munito dei santi
sacramenti nei sensi della vera pietà rese l'anima a Dio. Da colà fu il suo
corpo trasportato nella patria, e depositato nella sepoltura dei
sacerdoti". Muore. L'atto di morte si conserva nel registro della
parrocchia di S. Demetrio di Tropea ed è stato trascritto anche in quello della
parrocchia di Parghelia. Li riporto entrambi, oltre che per precisare e
definire la data di morte, anche per farvi notare delle coincidenze e delle
differenze: Parghelia - Parrocchia di S. Andrea Apostolo Atto di
morte Rev. Sacerdos J., annum sextum ac sexagesimum cum attigisset,
sacramentis opportunis rite munitus, die decima nona dicti novembris obiit
Tropeae, in domo Patrum SS.mi Redemptoris; cuius cadaver in hoc casale delatum
in Eccl.ia Archipresbiterali S. Andreae Ap.li in sepultura sacerdotum tumulatum
fuit. A. arch. Taccone TROPEA - Parrocchia di S.
Demetrio - Atto di morte Sacerdos J. casalis Pargheliae hujus Diocesis
utriusque juris atque sac. Theologiae Doctor. Professor publicus in
Universitate Neapolis, sexaginta quatuor fere annis natus, munitus sacramentis
poenitentiae et Eucharistiae postea subita morte peremptus, animam exspiravit,
eiusque cadaver in ecclesia archipresbiterali casalis Pargheliae tumulatum
fuit. Franciscus Antonius Grillo Vito Capialbi, precisando che
Jerocades fu sacerdote, che "dopo varie, che diresti romanzesche
vicissitudini, involuto nelle tristissime vicende andonne ramingo in Francia,
ed in altri Regni d'Europa; e già era rientrato nella patria in seguito del
trattato di Firenze del Finalmente, stando nella casa de' PP del SS. Redentore
di Tropea, morissi Per concludere che
"più copiose notizie di questo vasto, e stravagante ingegno si riferiranno
nelle nostre Centurie degli scrittori calabresi". Di questo periodo
della vita esausta dell'abate Jerocades sono state dette certamente delle
esagerazioni (il tetro carcere - la cella - le punizioni - le torture... il veleno
- cfr Didier), non suffragate da alcuna documentazione, ma solo ampiando voci e
dicerie, ma tante altre cose sono state taciute. Stupisce però che il
vescovo Mele, nella visita ad limina, presenti una visione idilliaca del clero
e della diocesi, mentre nella visita pastoralee in altri documenti conservati
nell'Archivio storico di Tropea tuoni contro la disobbedienza e
l'ingovernabilità del clero e contro l'immoralità dilagante: nessuna nota
abbiamo potuto rintracciare relativa al caso J., tranne tracce indirette
nell'Archivio Meligrana di Parghelia e la lettera del P. Migliaccio al vescovo
Mele. Nell'archivio dei PP Redentoristi della casa provinciale spero possa
essere trovato del materiale documentario che già lascia intravvedere Orlandi,
storico dell'ordine, il quale in Specimen Historicum CSSR-.FI "I
Redentoristi napoletani tra ricoluzione e restaurazione" dedica pagine
interessanti all'abate Jerocades. Era comune che le autorità inviassero
dei condannati al soggiorno abbligato a scontare la loro pena in qualcuna delle
case della Congregazione. "Per quelle calabresi - scrive Orlandi - si
trattava di un compito assegnatogli dal dispaccio regio del 22 marzo
1790: 'Qualora i vescovi diocesani o vicini per correzione volessero
mandare dei preti o chierici a fare gli esercisi spirituali nelle loro case,
dovranno sempre riceverli, con esigere anche per compensare del loro incommodo
quell'oblazione che non venga eccedere il tarino al giorno, pel tempo della
dimora che da quei preti o chierici si sia fatta presso di loro. L'ordine reale veniva poi eseguito dai
vescoli. Pertanto i Redentoristi "si trovavano nell'impossibilità di
sottrarsi a questo forzato esercizio dell'ospitalità, che tra l'altro non era
sempre immune da rischi, come nel caso J.. Nella lettera del P. Migliaccio si
afferma con forza: Il superiore passato non dovea pure firmare quell'obbligo,
ch'egli non era fatto castellano, o carceriero. Orlandi, storico dei
Redentoristi, riporta un passo di Capasso (Un abate massone, Parma. Che in
questa nuova relegazione J. abbia continuato a mostrarsi secondo i casi massone
e rivoluzionario, si può facilmente ammettere, anche perchè è certo che non
cessò mai dallo scrivere ed improvvisare al modo antico. Ma l'esilio,
quantunque raddolcito dalle cure di chi l'assisteva, diè l'ultimo crollo al suo
cervello, di già a bastanza indebolito. Naturalmente, se a J, era sgradito soggiornare a Tropea, ai
Redentoristi lo era ancor più il doverlo ospitare. Dura da un anno quello stato
di cose, quando il Ierocades ottenne di poter passeggiare fuori clausura,
accompagnato da uno di quei frati. Ma, proprio il giorno in cui cominciava a
fruire di tale concessione, intavolato col compagno una discussione di teologia,
non essendo contento delle risposte dell'altro, passò dagli argomenti alle
impertinenze, e poi "usando dell'estro poetico", sepellì il frate
sotto una valanga di contumelie. Ricorse perfino al bastone, e buon per il
frate che riuscì a scansarlo". La lettera del padre Migliaccio sopra
riportata conferma quanto scrive Capasso. Orlandi conclude che
"invano i Redentoristi ricorsero ripetutamente alla corte per essere
liberati dalla sgradita presenza di J. che rimase a Tropea fino alla
morte". Paladini ci lascia una testimonianza di prima mano. Dopo un
giudizio fortemente negativo: "Fiorì soprattutto a' suoi tempi [del
vescovo Monforte] J. di Parghelia noto nella repubblica letteraria per talenti
e cognizioni; non sempre tuttavia seppe scriver bene soprattutto nella prosa;
volle poi trovare per tutto i delirii massonici; e fu traditore degli stessi
sedotti da lui; in breve il suo stile fu imperfetto, la sua scienza non retta,
la sua morale non buona". Il teologo ci lascia questo racconto della morte
di J. Muore ai suoi tempi [del vescovo Mele] D. Antonio Jerocades.
Questi, ritornato dalla Francia dov'era stato in esilio, fu denunziato da Costanzo,
da Parghelia quale autore di autore di una orazione funebre di un suo fratello,
dove parlava male del Ruffa ricuperatore di questo regno; quindi fu chiuso dal
Ministro Pirrotta tra i Padri del Santissimo Redentore di Tropea sotto il
rettore Pappaona. Ivi sulle prime viveva nella quiete, ma, cominciando al
suo solito a satirizzare, perdé la confidenza de' religiosi. Caduto
infine in delirio malinconico, e dubitandosi di sua vita, il Vescovo delegò tre
membri del Capitolo, cioè l'Arciprete e il Penitenziere Mazzitelli e Paladini a
ricevere la sua professione di fede. Egli, invitato a ciò, diè segno di
approvazione, come il diè in tutta la lettura di detta professione. Richiesto a
sottoscrivere, prese la penna, e scrisse le due prime lettere del suo nome A ed
n, ma poi invece di seguire a scrivere il t col resto, scrisse g. Allora il
padre Migliaccio gli rimproverò forte ch'ei volea dirsi Angelus, con fargli
altresì delle minacce per questa e per quella vita: per lo contrario il Teologo
disse: o egli in questo momento è nel delirio, ed a chi parliamo noi? o è in
retta ragione e sarebbe meglio prima indurlo al dovere con convincerlo, con
pregarlo ecc. Intanto l'ammalato proseguì la sottoscrizione col rimaner sempre
il g, ma col fare il r e tutt'altro, come gli dettarono i tre delegati. Munito
poi de' sacramenti dal Parroco, morì e fu trasportato ad essere seppellito in
Parghelia." Questo racconto ci fa intravedere quali fossero le
preoccupazioni del vescovo Mele (solo formali e... di salvare un'anima!) e
quali fossero i sentimenti del Paladini, il cui zio Gaetano l'abate aveva
fortemente fustigato e vilipeso nel Terremoto del Capo. Sul versante
laico il racconto di Didier in L'Italie pittoresque, Pigoreau, Paris, appare
assai ricco di anticlericalismo e di spirito romantico: J., autore della Lira
focense "fu crudelmente perseguitato. Relagato nella sua città natale
(sic!), ebbe per prigione un convento in cui i monaci, razza fanatica,
ritenendolo ateo e giocobino, si resero compiacenti esecutori delle vendette
reazionarie dei Borboni di Napoli. Investiti da questo ministero poco
cristiano, l'esercitarono con una barbarie meticolosa e veramente monacale. Non
vi sono torture che essi non inflissero al carbonaro poeta: il povero
prigioniero morì presto, e colui che gridava, in uno slancio di benedizione,
"Vita, dono del ciel, sei bella, ti amo. Perchè ti so...", vide i
suoi giorni spegnersi nella prigionia oscura, silenziosa d'un chiostro fanatico
e persecutore. La salma del martire riposa a Tropea in attesa del Pantheon
riparatore che riunirà in un solo altare tutti i martiri dispersi della libertà
italiana. La terra sia loro leggera fino al giorno prossimo delle
riabilitazioni!" La fonte del Didier era certamente legata allo
spirito patriottico che aveva bisogno di creare i martiri. Questo spiega anche
la data errata e il riferimento alla salma che riposa a Tropea mentre sappiamo
che Jerocades fu seppellito a Parghelia. Nella prefazione alla Lira
Focense pubblicata a Cosenza, Francesco Migliaccio accentua il carattere
persecutorio: "fu dalle calunnie, dalle persecuzioni e da mille disastri
assalito ed oppresso. Credette farsi schermo e difese [...] negli occulti
recessi della sua patria. Ma per la malvagità dei tempi... fu nella sua
veneranda vecchiezza rinchiuso nella casa di Missionarj di Tropea. Quivi nella
indigenza, schiacciato dalla ferrea mano che l'oprimeva chiuse i suoi
giorni". A parte i comprensibili toni romantici del Didier e di
Francesco Migliaccio, l'abate Jerocades chiuse i suoi giorni nell'abbandono e
nella solitudine, senza un'ombra di affetto o di pietà. Neppure la visita del
Pepe a Tropea potè dare ristoro al vecchio poeta, che non trovava più motivi al
suo canto. La sua voce, un tempo bellissima e ammirata, adesso era solo
il lamento di un uomo finito che vedeva stroncarsi senza rimedio il suo cocente
anelito alla libertà. La morte improvvisa che lo colse dopo aver ricevuto i
sacramenti della penitenza e dell'Eucarestia ha trovato un uomo distrutto e che
nelle parole del salmo 50 da lui amato ha trovato l'ultimo motivo per affidare
alla forza della parola l'anelito del cuore. UN DIGNITOSO CONGEDO
Non fu una morte normale quella di Jerocades: nella sua inquietudine non bastò
la famiglia dei liberi muratori, non soccorse l'avventura giacobina, diede
sofferenza la chiesa alla quale apparteneva. Nella post-fazione
dedicatoria l'abate Jerocades ricorda che alcune poesie che formano la Lira
focense sono sacre e ricavate dai libri cristiani e ne dà una spiegazione
storica; ma a me sembra che egli voglia darci atto di non aver mai abbandonato
la certezza cristiana come in questa Salve piena di affetto e di fiducia.
O Regina, il Ciel ti salvi. Di Dio madre, e sposa, e figlia, Volgi,
ah volgi a noi le ciglia, Bella madre di pietà. Mostra vita, e
nostro bene, Nostra speme, e nostro amore, Volgi a noi quel tuo bel
core, Ch'è la stessa carità. Figli di Eva, abbandonati,
Dell'esiglio a' lunghi affanni, Dal furor dei rei tiranni Chi ci
salvi, oh Dio! non c'è. Senti il grido, ascolta il pianto Di chi
giace in ree catene, Bella Madre, in tante pene Ci volgiamo
afflitti a te. Dunque o nostra Protettrice, Volgi a noi quel tuo
bel ciglio; Mostra a noi quel tuo bel figlio, Quando ha fine il
lungo error. Tu sei madre assai pietosa, Bella Vergine Maria;
Tu sei dolce, e tu sei pia, Tutta pace, e tutta amor. E mi appare
persino commovente la Novena alla Madonna di Portosalvo, che l'abate Jerocades
dedica a Raffaele suo nipote, figlio del fratello Vincenzo: "Nel
Castello dell'Ovo, villa un dì di Lucullo, ove fui tre anni prigioniero di
stato dopo tre anni di esilio e in altri prigioni e in altri esili, dopo Dio
non ho altro obbiettivo delle nie cure e delle mie preci che la Madre di
Dio. Serbando fede alla patria, l'ho sempre invocata col nome di Madonna
di Porto Salvo, e questo conveniva ancora al mio stato perchè nelle tempeste si
cerca un porto e nelle battaglie si cerca un asilo, impaziente di altra
dimora: "Ch'io son vivo al desir, morto alla spema".
Gravato d'anni e d'affanni, ho scritto questa Novena che a voi, caro nipote,
offro e consacro qual dono e qual debito. Io ve la consacro qual dono
poichè è frutto dei miei studi e dei miei talenti. Sono povero di fortuna e
quel che mi ha dato la natura, spetta anche a voi quando non disdegnaste di
dirvi mio nipote". A me quest'ultima frase appare commovente per la
carica emotiva che sottende. Ma c'è dell'altro che J. dice ancora come credente
e come sacerdote: "Chi sono i testimoni della fede? I vecchi. Io,
che vecchio pur sono, così presbitero, qual attestato maggiore di questo
donarvi della religione e fede di Cristo? A te, Raffaele, e all'eredità
del padre e dell'avo aggiungerete la mia. A te, e nella Chiesa di Porto
Salvo fra i suoi monumenti della pietà dell'avo e del padre appenderete ancora
s'è degna questa Novena, in cui leggerete le grazie e le glorie di Maria, da
noi venerata sotto il nome di Madonna di Porto Salvo". Il senso di
verecondia che traspare da queste parole non ci rivela forse il dramma di un uomo,
di un credente, di un sacerdote che, guardando indietro alla sua vita
tormentata fa un bilancio coraggioso e definitivo? "Dopo Dio non ho
altro obietto delle mie cure e delle mie preci che la Madre di Dio" Antonio Jerocades. Jerocades. Keywords:
filosofia della massoneria, Esopo in Italia, lira focense, giaccobinismo, ‘repubblica romana” “repubblica partenopea”, le
odi di pindaro, ginnasia, antichi romani. – Grice on Plato’s Republic. Refs.: “Grice
e Jerocades” – The Swimming-Pool Library. Jerocades.
Grice e Jervolino: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- ermeneutica del
dialogo – filosofia campanese – scuola di Sorrento -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Sorrento). Filosofo italiano.
Sorrento, Campania. Grice: “I like Jervolino, but then I like any philosopher
of language! He is a Ricoeurian, and I’m a Griceian!”essential Italian philosopher.
Allievo
di Piovani. Insegna a Napoli. Collabora con diverse riviste specialistiche di
filosofia (Filosofia e Teologia, Studium). Esamina aspetti riguardanti a Ricoeur,
tra cui: la ricerca di un filo
conduttore unitario all'interno della sterminata ermeneutica (“Il cogito e
l'ermeneutica: La questione del soggetto e la inte-azione” (Procaccini,
Napoli). Messa in questione del soggetto chomskyano auto-centrato e auto-trasparente.
Ricoeur appare nei suoi studi come
caratterizzato dall'attenzione verso le peripezie del Cogito che, ferito e
spezzato nella sua autosufficienza, cerca di ritrovare sé stesso attraverso un
lavoro ermeneutico. Individua come centrale il paradigma della trans-ductio,
trans-implicatura, trans-patia, come modello fondato sulla co-ospitalità
conversazionale e la co-apertura all'altro conversazionale. Altre saggi:“Il
cogitamus e l'ermeneutica. La questione del soggetto e sui interazione” (Procaccini,
Napoli); “La filosofia senza assoluto” (Athena, Napoli) – cfr. H. P. Grice,
“Absolutes” --; “Logica del concreto,
logica dell’astratto” -- “Ermeneutica della vita morale.” Newman, Blondel,
Piovani, Morano, Napoli); “L'amore” (Studium, Roma); “Il segno della prassi.
Saggi di ermeneutica, Città del sole, Napoli);“Trans-ductio, trans-implicatura”
(Morcelliana, Brescia); “Ermeneutica ed implicatura” (Guerini, Milano); La
traduzione, la traditio -- etica, Morcelliana, Brescia, “Etica e morale,
Morcelliana, Brescia, Ricoeur e la psico-analisi (Angeli, Milano); Quei ragazzi di nome Fausto Bertinotti Boys – Archivio
Panorama. Grice: Jervolino is playing with Calvino. You see,
Calvino, a rather unimaginative writer, wrote a collection of things he titled,
in the whole thing and in the first part, “Glia mori difficili” – People would
have forgotten about it had it not been for Nino Manfredi who brilliantly
played the ‘soldato’ (to Bulco’s vedova) in ‘L’amore difficile’, sic in the
singular but indeed, ‘L’avventura del soldato’ – in that collective film.
Jervolino is having in mind this, and now poses Ricoeur as the widow and himself
as the soldier. On top, he invites Ricoeur to write the prologue which he
stupidly agrees to! Caputo has analysed the reciprocity of love and the
stupidity of seeing it as ‘difficile’. The blame is Calvino – the original sin
– who could have checked with the etymology of ‘difficilis’!” Domenico Jervolino. Jervolino. Keywords:
ermeneutica del dialogo. Refs.: Luigi Speranza, “Girce e Jervolino” -- “Two
cartesian egos”. “Peripezie conversazionale”. “Peripezia ed implicatura”.
“Cogitamus.” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Jommelli: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del musicista filosofo
– muovere l’aria – l’azione melodrammatica – filosofia campanese – scuola di
Caserta -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Aversa). Filosofo
italiano. Aversa, Caserta, Campania. Essential Italian philosopher. Mattei riporta il seguente aneddoto sul suo soggiorno
in questa città. Andato in visita a Martini (già considerato come uno dei più
sapienti musicisti d'Italia), si era presentato a lui come allievo, chiedendo
di entrare nella sua scuola. Il maestro gli diede un soggetto di fuga che egli
trattò con molta abilità. -«Chi siete voi?», chiese Martini, «volete burlarvi
di me? Sono io che voglio apprendere da voi!» - «Il mio nome è Jommelli, sono
io il maestro che deve scrivere l'opera per il teatro di questa città» - «È un
grande onore per questo teatro avere un musicista filosofo come voi, ma vi
auguro di non trovarvi in mezzo a gentaglia corruttrice del gusto musicale». Grice: “I like Jommelli. Like
Speranza, I play the piano. My avant-garde compositions are thought to be too
avant-garde, too. I especially recall with affection how I would trio with my
father on the violin and my younger brother Dereck on the cello. Dereck became
a professional cellist with Hampshire. My obituary might well read,
“Professional philosopher and amateur cricketer” – well, Dereck is a
professional cellist. With Jommelli we
never know where the amour is!” La teoria degli affetti (in tedesco
Affektenlehre) può considerarsi la prima forma retorica (in tedesco
Figurenlehre) adottata nella storia della musica, infatti puntava a muovere gli
affetti dell'uditorio; già i greci avevano la concezione che la musica potesse
suscitare emozioni: è proprio da questo concetto che i teorici e i musicisti
dell'epoca attingono per applicarlo alla loro musica (si parla nelle prime
cronache rinascimentali di interi pubblici commossi dalla musica). Le autorità
civili ed ecclesiastiche, consapevoli del forte potere della musica sulla
psiche, la utilizzarono come veicolo dei propri messaggi propagandistici.
Ficino apprezza di più le forme semplici e comunicative rispetto alla polifonia
poiché la prima era maggiormente capace di muovere gli affetti, suscitare o
placare le passioni umane rispetto alla seconda, che era vista come artificiosa
e innaturale. Dello stesso parere era Vincenzo Galilei, che preferiva la musica
greca per le sue capacità affettive. La teoria musicale identifica ogni
affetto con un diverso stato dell'animo (es. gioia, dolore, angoscia)
identificati da specifiche figure musicali definite figurae o licentiae
(licenze). La loro particolarità era contraddistinta da anomalie nel
contrappunto, negli intervalli e nell'andamento armonico, appositamente
inserite per suscitare una particolare suggestione. Athanasius Kircher – gesuita
matematico, musicologo ed occultista tedesco – nel suo Musurgia universalis
afferma. La retorica ora allieta l'animo, ora lo rattrista, poi lo incita
all'ira, poi alla commiserazione, all'indignazione, alla vendetta, alle
passioni violente e ad altri effetti; e ottenuto il turbamento emotivo, porta
infine l'uditore destinato ad essere persuaso a ciò cui tende l'oratore. Allo
stesso modo la musica, combinando variamente i periodi e i suoni, commuove
l'animo con vario esito.» (Athanasius Kircher, Musurgia universalis)
Questo trattato e stampato anche a Roma.
Tra le classificazioni e distinzioni degli affetti umani compilate è da
menzionare quella di Cartesio che, nel trattato Les passions de l'âme del 1649,
ne distingueva sei ritenuti principali, quali meraviglia, amore, odio,
desiderio, gioia e tristezza. Invece Giovanni Maria Artusi ne L'Artusi,
ovvero Delle imperfettioni della moderna musica (Venezia, 1600), attacca questa
nuova forma musicale che utilizzava intervalli "così assoluti et
scoperti", poiché trasgredivano le regole contrappuntistiche (per esempio
le dissonanze non sempre sono precedute da una consonanza per risolvere su di
un'altra). Monteverdi difenderà quella che lui definisce seconda pratica
nell'Avvertimento del Libro quinto: queste licenze hanno uno scopo preciso, e
devono essere viste in un nuovo modo di comporre, diverso dalla concezione
musicale di Gioseffo Zarlino. Già dai madrigali infatti Monteverdi con le
dissonanze intensifica e rende maggiormente pungenti le immagini proposte dal
testo. Vologeso was
written using a wordy libretto by Verazi, itself an extensive reworking of
Apostolo Zeno's Lucio Vero. The plot deals with the constancy of love in the
face of great obstacles, in this case the love of Vologeso, king of the
Parthians, and his wife Berenice. The Roman general Lucio Vero has defeated and
captured Vologeso, fallen in love with Berenice, and spends most of Acts I and
II seducing and bullying her into abandoning her husband. When Lucilla,
daughter of the Roman emperor and Lucio's fiancee, turns up, she and the Roman
emissary Flavio are disgusted by his behavior; Flavio, assisted by Vologeso, leads
a revolt that results in Lucio's capitulation and the restoration of their
freedom and their kingdom to Vologeso and Berenice. The plot allows ample
opportunity for dramatic movement and spectacle, e.g., in Lucio's importunities
and their rejection by Berenice, Vologeso's confrontation with lions in an
arena, and the revolt that ends the opera. The music is conventional in
its use of recitative followed by arias, but forward-looking in that many of
the recitatives in Acts II and II are accompanied by the orchestra rather than
the traditional basso continuo - the arias are often in abbreviated da capo
form so that they do not slow up the action, and the chorus and orchestra play
a more considerable part in the proceedings than is usual in Baroque operas. J.
had no great gift for melody and the opera offers few memorable tunes, but he
had a talent for brilliant vocal display and dramatic orchestral effects. The
total effect is imaginative, lively, and attractive. The casting is odd;
with only one male voice and five sopranos it's hard to tell the characters
apart. Odinius, Rossmanith, and Schneiderman all have good voices and are
comfortable with Baroque style and ornamentation and expressive in their
characterizations. Waschinski and Taylor are as good as most falsettists,
though as usual their uneven voice production and unfocused tones set my teeth
on edge, and Waschinski sounds much too feminine to make plausible the heroic
figure of Vologeso. (I really do not understand why conductors and producers
nowadays insist on using these voices in Baroque opera, a practice that has
neither historical nor aesthetic justification.). The Stuttgart Chamber
Orchestra is alert and responsive, Bernius keeps everything moving along
briskly, and the sound is excellent. Il Vologeso doesn't stand up too well
compared to the Italian operas of Handel or Gluck, but taken on its own terms
and as presented here, it is thoroughly enjoyable While Mozart may
have claimed Jommelli’s musical style to be passé, Vologeso itself is a
reworking of an already antiquated libretto by Apostolo Zeno, originally called
Lucio Vero and first set by Pollarolo for Venice. Moreover, the version set by
Jommelli and performed here by Classical opera is in fact a modification of a
modified libretto. The new librettist Mattia Verazi had revised the by then
popular version produced by Guido Lucarelli for Rinaldo di Capua’s setting of
1739 rather than Zeno’s original. The story is a familiar one, mingling
political intrigue with love both unrequited and true. In the eastern provinces
of the Roman Empire, Lucio Vero (Jackson) is victorious in battle and captures
Berenice (Gemma Summerfield), wife of the Parthian king Vologeso (Kelly).
Captivated by her beauty, Lucio Vero makes every effort to win her with the
assistance of his minister Aniceto (Verney). Meanwhile, Vologeso attempts to
assassinate Lucio Vero but is recognised by Berenice, causing him too to be
taken prisoner. Further complicating matters, Lucio Vero’s betrothed, Lucilla
(Angela Simkin), has arrived in Ephesus with Flavio (Jennifer France), an
ambassador from Lucio Vero’s co-emperor, ANTONINO (si veda). After many
separations of the faithful Vologeso and Berenice, increasingly cruel plots on
Lucio Vero’s part to attain the latter, and the threat of civil war from Marcus
Aurelius, all is resolved and the various couples are reunited without any
blood being shed. Although Zeno’s libretto is not remotely like those
produced by later poets and composers interested in reforming operatic
conventions, the play’s enduring appeal might well be attributed to its strong
sense of spectacle, which coincided neatly with the objectives for reform.
Indeed, the play contains on-stage depictions of Lucio Vero’s attempted
assassination, Vologeso’s fight with a lion in the arena, and at least one ‘mad
scene’ for Berenice in addition to traditional opera seria ingredients of
triumphal marches, grand armies, and the obligatory chorus announcing a lieto
fine. Sometimes I felt that this element of spectacle was lost in the context
of a concert performance. Though that is of course an unavoidable casualty of
this mode of presentation, it was further compounded by Jommelli’s own
reluctance to capitalise on these aspects of the play as did other
contemporaries. Furthermore, artistic director Ian Page writes in the
introduction to the programme that besides the expected editing of the
recitative, he chose to cut not only a number of pieces in their entirety, but
also some arias’ middle-sections and their reprises in the interests of
‘maximising our potential to appreciate and enjoy the opera’. Of these, one was
the opening chorus, which might have helped to restore some of this sense of
grandeur, if indeed Page’s goal was to get a feeling of ‘[experiencing] what a
typical eighteenth-century opera was like’. J.’s musical style in this opera
has clearly moved on from the grand and expansive show pieces we find in his
earlier operas, such as Didone abbandonata of 1747 (performed in London in 2014
and also reviewed here). With the exception of one or two numbers which might
be said to respond to a more traditional heroic opera seria style, such Crede
sol che a nuovi ardori, Flavio’s only aria, the focus in Vologeso is instead on
creating a more declamatory mode and ‘realistic’ rendering of the dramatic and
emotional content of the text. As such, the use of coloratura is generally much
reduced and arias very often feel more like ariosos, often to the point that it
feels like accompanied recitative intrudes upon melodic lines. The music is
nevertheless still imbued with grace and lyricism, and is marked by sometimes
fussy, yet fine, delicate and lace-like accompaniments. And there are some
really good and interesting numbers too: the quartet Quel silenzio, Lucio
Vero’s Se tra ceppi, Lucilla’s first aria Tutti di speme al core, the already mentioned
Crede sol, as well as some very effective and attractive accompagnatos.
In spite of the title, this version (or at least as it has been presented to us
with the cuts) nevertheless still focuses greatly on the character of Lucio
Vero and his relationship with Berenice. Stuart Jackson’s performance came
across as something of a slow burning affair, only really coming fully into the
character after interval and reaching the apogee of dramatic intensity in his
final aria. And yet it felt largely like Lucio Vero was being interpreted as
being the youthful hero, the primo uomo role usually reserved for a castrato.
This may well be due to Verazi’s redaction of the opera, which seems to me to
result in a somewhat schizophrenic character, vacillating between tyrannical,
or rather psychopathic, conqueror and lovelorn hero. This is effectively
underlined by the kind of music with which J. furnishes the character: languid
arias with long, plangent melodic lines, such as his opening Luci belle and the
cavatina Che farò? in Act 2, and a handful of arias which verge on aria di
furia territory. To my mind, Lucio Vero’s actions are not driven by real love
for Berenice but rather an overwhelming desire for power: not only in and of
itself, but also power over others. To this end, his rejection of Lucilla is
not merely an amorous choice, but a rejection of the power of Rome and the
authority of his co-emperor Marcus Aurelius altogether. So too the
psychological manipulation of Berenice in an attempt to bend her to his will.
Thus, Stuart Jackson’s characterisation of Lucio Vero as the amorous lead did
not always sit quite well for me, in spite of a good voice and elegant
execution. The performance otherwise had much working in its favour. I
very much enjoyed Sutherfield’s portrayal of Berenice, and there was some
excellently judged acting from Rachel Kelly. I have already mentioned Jennifer
France, whose delightful aria was executed with all the charm and grace that
the butterfly described in her text required. One did feel slightly for Tom
Verney, his solid performance in his lone aria aside: his role of Aniceto was
decidedly minor in this version of Zeno’s play, with the character’s love for
Lucilla never really explored (again a shortcoming of the libretto). And, of
course, the orchestra itself was as sharp and on-point as we have come to
expect from Classical Opera. My overall impression from the programme
notes, however, is that Vologeso in and of itself was perhaps somewhat
unconvincing to the artistic team in the first instance. Indeed, Page writes
further in his introduction that ‘Jommelli does not belong among the truly
great composers, to be sure. While undoubtedly there are countless flops
littering the battlefields of eighteenth-century opera, and works that are best
left to languish in obscurity, credit must be given where credit is due. And J.’s
legacy is by far too monumental to ignore. The assertion that much of the music
of contemporaneous composers sounds quite like Mozart for much of the time
should rather be inverted: it is Mozart, his uniqueness notwithstanding, who is
effectively a product of his time! A final note: a future Classical Opera
concert this year is to feature some arias from Semiramide by Josef Mysliveček,
another figure well known to the Mozart family and whose work has occasionally
been misattributed to the young Wolfgang in the past. A full opera of his at
some point, further showing how Mozart was fully integrated into the existing
musical landscape, would be most welcome indeed! Jommelli. Keywords:
musicista filosofo, Vincenzo Galilei, Grice’s piano, pavane. Meistersinger,
Mahler, music-hall ditties. Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Jommelli” –
The Swimming-Pool Library. Jommelli
Grice e Juvalta: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Chiavenna). Filosofo italiano. Chiavenna, Sondrio, Lombardia. Grice:
“At Harvard, I said I was ‘enough of a rationalist,’ but perhaps Juvalta would
say that wasn’t enough!” – Grice: “Juvalta has explored the limits of
rationalism, in connection with value and reason: if value is irrational, how
can co-operation be rational in terms of an accord to follow conversational
maxims?” essential Italian philosopher. Ogni
sforzo di derivare una valutazione morale da qualche cosa di cui non sia già
riconosciuto il valore morale è dunque vano e illusorio. O non dà quel che si
cerca, o presuppone quel che si pretende di fondare.» Il genitore e il
barone Corrado Juvalta, cancelliere della locale pretura originario di Villa di
Tirano. Dopo gli studi liceali trascorsi tra Como e Sondrio, si iscrive a Pavia
dove si laurea con una tesi su Spinoza, sotto la guida di CANTONI.
Successivamente insegna a Caltanissetta, Potenza, Spoleto, e Torino. Le
tematiche accademiche prevalentemente trattate riguardarono soprattutto i
valori di libertà e di giustizia con ampie riflessioni etiche. Convinto della
loro generalità e universalità, arriva ad auspicarne una loro applicazione anche
nello studio delle categorie politiche ed economiche. La filosofia di J. è una profonda riflessione sull'etica portata
avanti con il metodo dell'analisi. Anche se, come risulta dalla sua, non
troviamo nei suoi scritti importanti contributi sul piano gnoseologico ed
epistemologico, dal momento che il suo principale campo d'indagine fu
prevalentemente il Sistema morale, possiamo affermare senza dubbio che sia il kantismo
che il Positivismo costituirono il nucleo di fondo della sua posizione, da cui
sviluppò la sua impostazione metodologica. Il positivismo, in
particolare, è stato il primo grande sistema filosofico con cui si è misurato
nella prima fase della sua elaborazione concettuale. Tuttavia J. sarà costretto a prendere presto le distanze
da una siffatta visione della morale. I motivi di questa rottura sono da
imputare principalmente al suo fermo rifiuto di accogliere come sostenibile la
pretesa positivistica di fondare l'etica sulla scienza. Il giudizio con il
quale si afferma il valore di un oggetto è diverso e non deducibile dal
giudizio col quale ne afferma l'esistenza o la possibilità o la connessione
modale o condizionale con altri soggetti. Apprendere come le cose sono, è tutt'altra
cosa dal valutarle. Dal momento che l’etica si concreta nella costruzione di una
teoria ed in particolare di un sistema coerente di valori morali, il giudizio
che sta alla base di una qualsivoglia teoria etica deve configurarsi come “un
giudizio originario” che ha una natura eminentemente etica, quindi non
scientifica né tantomeno metafisica. Se però una etica scientifica appare
insostenibile per il motivo dell'indebita derivazione di un giudizio di valore,
di natura morale, dal giudizio ‘aletico,’ di natura fattuale, è indubbio che la
costruzione di un sistema morale debba essere condotta con criteri di
scientificità. Nella misura in cui ogni teoria si basa su criteri logico-deduttivi
e viene definita dalle relazioni logiche che intrattengono in essa i propri
elementi costitutivi, così anche la costruzione di un sistema etico deve
seguire la stessa metodologia e mostrare possibilmente l'identica costruzione
formale. Questo sistema di valori ha l'obbligo di mantenere al loro interno un
imprescindibile grado di coerenza, se vogliono risultare sostenibili ed essere
così accettati dalla ragione (pratica). Quando parla di ‘teoria’ dell’etica lo
fa proprio pensando a questo carattere logico-deduttivo dei valori all'interno
di un sistema. In particolare vede garantita la coerenza di un sistema morale
nella misura in cui un coerente insieme di valori viene rigorosamente derivato (volitativamente)
da un postulato, imperativo categorica, o assioma, di valore morale capace di
fungere da premessa all'intero sistema (allora come insieme di massime
universalisabili). Una volta prese le distanze dai positivisti, si avvicina successivamente
al Kantismo; in particolare accoglierà, anche se con alcune riserve, molte
delle posizioni assunte dal cosiddetto Neokantismo, il movimento di pensiero
che ha come obiettivo la ri-valutazione piena del filosofo di Konisberg
riadattando i contenuti del suo pensiero ad esigenze e problematiche tipiche della
contemporaneità. Vede in Kant il più grande filosofo della modernità, colui che
meglio di qualsiasi altro pensatore ha saputo cogliere il vero senso
dell'autonomia della morale, svincolando per sempre l'etica dai saperi di
natura conoscitiva (aletica, pura, o giudicativa), i quali, proprio in quanto
si rivolgono all'ambito del fenomeno, non riescono a coglier interamente tutto
ciò che ha a che fare con la sfera dei valori (come per esempio la scienza e in
generale l'ambito teoretico). L'indipendenza e l'indeducibilità del valore
morale da qualsiasi speculazione teoretica fu, come tutti sanno, riconosciuta e
affermata, nella forma più esplicita e con grandissimo vigore dal Kant. Kant ha
il grande merito di consegnare alla morale uno speciale statuto di autonomia e di
indipendenza. La morale esprime questo suo carattere di autonomia e di “auto-assiomaticità”
per poter continuare ad essere coerente e allo stesso tempo attendibile sotto
il profilo puramente teorico. Abbracciare l'idea di autonomia della morale
significa accettare una visione anti-fondazionalista dell'etica. L’etica non
può prendere le mosse che da se stessa. Ogni tentativo di fondare l’etica su
ambiti del sapere diversi da quello morale, finisce con il configurarsi come
un'indebita pretesa di intromissione da parte di chi si illude di derivare un
contenuto del valore morale da una premessa fattuale o metafisica o estetica.
Alla base di un sistema coerente del valore morale, cioè un sistema morale
costruito deduttivamente, deve esserci un postulato originario (assioma o
imperative categorico) di natura etica e non di natura aletica o peggio ancora
metafisica, e questo per questioni eminentemente logico-analitiche, che
impongono ad ogni sistema coerente di evitare la fallacia logica della petitio
principii, cioè l'errore di voler caparbiamente dimostrare ciò che invece
abbiamo già implicitamente accettato nelle premesse. Una volta
riconosciuto il contenuto di quel postulato morale e pensato come un valore che
può essere vissuto ed accettato da un soggetto agente e concreto, allora si
creano i presupposti di base perché una coscienza riconosca in esso
un'intrinseca validità, che trova una sua precisa giustificazione solo a
partire dalla sua intima natura assiologica. È proprio questo suo riferimento
al contenuto del valore morale che lo costringe a rivedere i limiti di una
filosofia morale incardinata su binari formalistici e a non accettare tout
court la filosofia morale di Kant. L'ambito della giustificazione e
l'ambito esecutivo. Assumere come principi della ricerca etica l'autonomia,
l'antifondazionalismo, l'antiformalismo porta J. a distinguere l'ambito della
giustificazione, cioè il momento riflessivo che ci vede impegla ricerca di
ragioni che possano difendere razionalmente la scelta di un fine e di un valore
morale, dall'ambito esecutivo che invece coinvolge il momento motivazionale
dell'azione ed è fortemente condizionato da elementi contingenti legati al
momento storico, inter-soggetivo, e culturale nel quale il soggeto si trova ad
agire. Con un atteggiamento tipicamente moderno difende la possibilità
dell'esistenza di una pluralità di fini morali sia sul piano teorico che
pratico, e con la stessa energia cerca di trovare una soluzione per definire le
precondizioni teoriche che rendano possibile una compatibilità tra i diversi
valori. La modernità define un passaggio epocale e pieno di tensione nel
campo della filosofia morale ed ha segnato il tramonto di un'unica, grande e
coerente visione dell'etica. Con l'avvento dell'epoca moderna si è fatta strada
l'idea del tutto legittima dell'accettazione di differenti sistemi di valori e
di diverse visioni del mondo, i quali trovano, da questo momento, una loro
precisa dignità e legittimità in virtù delle ragioni che le diverse dottrine
filosofiche hanno saputo elaborare in favore della loro sostenibilità. Invita a
prendere coscienza di questo cambiamento di prospettiva e a considerarlo,
asetticamente, come un passaggio dal vecchio problema della morale, in cui il
fine principale era la ricerca di una fondazione dell'etica e di una
giustificazione dell'esigenza del bisogno di moralità all'interno di ogni
coscienza, al nuovo problema della morale riassumibile nella domanda; come
possiamo decidere i beni e i valori desiderabili in sé una volta che abbiamo
accertato l'esistenza di una pluralità dei postulati di valutazione
morale? La scelta del fine supremo e i limiti del razionalismo etico
Juvalta vede nel momento della determinazione della scelta del fine supremo, il
cui contenuto costituisce la base per il postulato di valore primario, il
principale limite del razionalismo etico. La razionalità può solamente
giustificare, cioè portare ragionamenti a favore di una tesi, o stabilire
relazioni e deduzioni tra elementi di un sistema, in questo caso valori, che
sono legati dalla loro stessa natura; ma essa non può imporre i fini. La
razionalità accetta, per così dire, il giudizio di valore morale come un dato,
ma non lo può stabilire lei in via preliminare perché nel campo etico la
razionalità non riesce a cogliere interamente la natura dei nostri giudizi di
valore. La ragione dei mezzi per quanto si faccia non dà valori; la
ragione esige la coerenza; teorica: dei giudizi fra di loro e con i principi e
i dati su cui si fondano; pratica: delle valutazioni derivate e mediate con le
valutazioni direttamente o postulate, e delle azioni con le valutazioni. Le valutazioni
sono, come espressioni di una esperienza interiore sui generis, valide di per
sé. I valori ultimi di libertà e giustizia
Tuttavia il messaggio di Juvalta contiene anche un aspetto propositivo, non
secondario. Anche se esiste una pluralità di valori che la coscienza può
scegliere come fini, i quali si costituiscono come le linee guida della nostra
condotta individuale, una volta adottato il criterio razionale di ‘universalizzazione’
del valore è possibile intuire che le scelte si riducono rispetto a quelle che
la ragione può immaginare come possibili e, soprattutto, viene meno la completa
arbitrarietà della scelta originaria. E convinto che due valori su tutti
debbano essere visti come i fini supremi su cui improntare la nostra
vita e organizzare le nostre società, vale a dire, primo, il valore morale
della libertà; secondo il valore morale della giustizia. Libertà e giustizia
costituiscono le pre-condizioni della vita morale e gli unici due valori
morali, tra quelli possibili, che risultano universalizzabili. Essi sono le
sole precondizioni che permettono ad ogni essere umano di realizzare il proprio
fine e di raggiungere i propri beni o valori, in vista di una totale e piena
realizzazione della natura umana, senza limitare la ricerca della moralità dell’altro.
Libertà e giustizia rappresentano per così dire i cardini di ogni sistema
morale con i quali poter impostare se non un vero e proprio ripensamento di
ogni pratica umana almeno una profonda critica ai modelli di società dominanti
quali l'individualismo liberale, l'autoritarismo o la proposta
socialista. La libertà esprime l'esigenza delle condizioni inter-soggettive
necessarie a fare dell'uomo una persona padrona di sé di fronte a sé e di
fronte ad ogni altro. La giustizia esprime l'esigenza delle condizioni
inter-soggetive necessarie all'esercizio universalmente efficace di questa
libertà. Non fu un pensatore sistematico e non cercò mai di definire un sistema
filosofico che rendesse ragione dell'organicità del suo pensiero. E sostanzialmente
contrario a ingabbiare la riflessione filosofica in grandi narrazioni o in
arbitrari sistemi, dal momento che era fermamente convinto che il pensiero
soprattutto etico sfuggisse per così dire all'idea di sistematicità e
organicità che aveva così profondamente caratterizzato la maggior parte del
lavoro filosofico ottocentesco. D'altra
parte questo non significa che non esiste un'evoluzione all'interno della sua
riflessione, o che la sua proposta nel campo della filosofia morale non trovi
una sua coerenza e una struttura di fondo ben definita. Saggi: “I due limiti
del razionalismo etico: liberta e giustizia” (Einuadi, Torino). Contiene:“
Prolegomeni a una morale distinta dalla filosofia” (Bizzoni, Pavia); Le dottrine
delle due etiche, Rivista filosofica; Per una scienza normativa morale, Rivista
filosofica; Il fondamento intrinseco del diritto; Su i limiti della morale, Bocca,
Torino; Il metodo dell'ECONOMIA pura nell'etica, Rivista filosofica; Postulati
etici e postulati metafisici, Rivista di filosofia; Postulati etici e
imperativo categorico, Atti congresso di filosofia, Bologna, Formiggini, Genova;
Sula pluralità dei postulati di valutazione morale, Atti del congresso della
società filosofica, Genova, Formiggini, Genova; I vecchio e il nuovo problema
della morale, Z, anichelli, Bologna; In cerca di chiarezza; Questioni di morale;
I limiti del razionalismo etico, Lattes, Torino; Il conflitto morale, Rivista
di filosofia; La dottrina morale di Spinoza, Rivista di filosofia; Basciani, L’etica
della giustizia, Desclèe, Roma; Picardi, La morale in J., Filosofia, Marzorati,
Milano; Viroli, L'etica laica, Angeli, Milano); J., «Rivista di storia della filosofia», Angeli, Milano, Dizionario Biografico degli
Italiani, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, Guido Scaramellini,
Chiavennaschi nella Storia, Chiavenna, Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Grice: “Again, these Italians! I know that I had I
been one, I had been ‘il filosofo di Harborne’ – now Juvalta, they doubt as to
how Italian he can be seeing that he is listed in Scaramellini’s little book,
“Schiavennaschi nella storia”!” Grice: “Unlike me, Juvalta is a baron, from the
‘grigioni’ – i. e. the grey league – because of the grey wool they wore --.
‘grissone,’ as in my surname, so in a way we ARE related!” ” IL VECCHIO E IL NUOVO PROBLEMA DELLA MORALE; Su la
pluralità dei postulati di valutazione morale. IL FONDAMENTO DELLA MORALE. Sula
pluralità dei postulati di valutazione morale. IL CARATTERE DEL PROBLEMA E LE
SUE FORME Se la saldezza di un giudizio dovesse giudicarsi dall'accordo delle
dottrine che cercano di stabilirne il fondamento, nessuna specie di giudizi
sarebbe piú incerta dei giudizi morali. Se così non è, se i giudizi, o almeno
alcuni, sono, nonostante l'incertezza del fondamento, riconosciuti e ac- colti
come validi incontestabilmente, può apparire legittimo il dubbio, o che il vero
fondamento non sia ancora trovato, o che non si possa trovare: cioè che il
problema sia insolubile. E in questo caso: se sia insolubile per difetto di mezzi,
ossia per radicale nostra incapacità a risolverlo; o perché è un problema mal
posto, cioè nella forma con la quale si presenta, illusorio e fittizio.
Dichiarando subito che a mio credere il problema è insolubile, ed è insolubile
perché fittizio, m'è appena necessario di soggiungere che ciò non equivale in
nessun modo (come potrebbe parere a prima vista) a ritenere prive di
significato ed infeconde le indagini e le discussioni delle quali fu lie- vito,
né tanto meno ad ammettere che, rimosso il problema fittizio, nessun problema
gli sottentri, anzi non ne rampollino piú altri al luogo suo. Mostrare come e
perché un problema sia mal posto, non è altro in effetto che la preparazione
necessaria a sostituirgliene degli altri. Il problema del fondamento è ispirato
primamente e dominato, si può dire, in tutte le sue forme da una preoccupazione
pratica e apologetica: Bisogna dimostrare che la morale ha ragione; che quel
che essa suggerisce o prescrive è veramente bene che la sua autorità è
legittima e deve es- sere rispettata. Ora un tal modo di porre il problema
presuppone manifestamente che su ciò che la coscienza morale prescrive non cada
dubbio; o che, se il dubbio sorge nasca non da incoerenza o opposizione di
criteri diversi o contrastanti, ma da errore e confusione di interpretazioni e
di giudizio nelle applicazioni concrete. Il che si accorda con la osservazione
di fatto che fino a quando il presupposto è legittimo, cioè nei limiti nei
quali corrisponde a una convinzione universale salda- mente stabilita, non è
questa o quella dottrina sul fondamento della morale che fa accettare o re-
spingere i dettami della coscienza morale, secondo che si accordano o no con la
dottrina, ma sono le convinzioni morali che fanno accettare e respingere una
dottrina secondo che è o appare adatta o disadatta a dar ragione della loro
certezza, a mostrarne la validità. Questa preoccupazione pratica spiega
l'insistenza e la pertinacia degli sforzi volti a risolvere un problema
radicalmente insolubile: di giustificare ciò che è presupposto in ogni
giustificazione; di derivare da delle idee una volontà; di creare con dei
ragionamenti un potere; illusione che si rivela nelle forme piú svariate e
negli indirizzi piú diversi, e per la quale accade, cosa notissima, che a cia-
scun sistema riesce assai piú facile dimostrare l'insufficienza degli altri,
che provare la sufficienza propria. Il problema fu infatti inteso in modi
diversi, e la soluzione cercata in direzioni corrisponden- ti, distinte e
chiaramente separabili; sebbene il piú delle volte variamente intrecciate e
sovrapposte l'una all'altra in un medesimo indirizzo di pensiero e anche in uno
stesso sistema. Infatti la domanda: «Perché dobbiamo noi fare, cioè volere ciò
che la coscienza morale ci detta», che è la forma piú larga e indifferenziata
in cui il problema si esprime, suggerisce quattro te- si o tipi di soluzione
diversi. Considerare i principi e le norme morali come «verità» di cui si cerca
il fondamento in una realtà obbiettivamente data alla coscienza. Dimostrare la
bontà di ciò che la morale prescrive, cioè derivarne le norme da un fine ossia
da un bene o ordine di beni (qualunque ne sia poi la natura) che ne giustifichi
l'osservanza. Provarne l'autorità; e cercare di questa autorità il fondamento:
a) sia nella storia; b) sia in una volontà distinta dal volere personale e che
si impone ad esso. Ciascuno di questi tipi di soluzione deve essere esaminato
piú brevemente che sia possibile, ma esaurientemente. Sulla pluralità dei
postulati di valutazione morale. La persuasione che i principi morali, i
criteri di valutazione, le norme della condotta, non solo possano ma debbano
avere il loro fondamento in un ordine di verità accertabile teoricamente, cioè
si possano ricavare da rapporti o leggi validi obbiettivamente, in nessuna
altra forma forse ap- pare piú chiaramente che in quella della questione,
dibattuta con tanto accanimento, se la morale si fondi sulla scienza o sulla
metafisica, e nella natura degli argomenti messi in campo così dall'una come
dall'altra parte. Perché la scienza si sforzava di dimostrare che la realtà a
cui faceva appello la metafisica era immaginaria o inverosimile, e in ogni caso
arbitraria ed incerta, e quindi non poteva su di essa fondarsi nulla di
obbiettivamente valido; e la metafisica insisteva nel porre in evidenza la
relatività, la contingenza, la limitatezza della conoscenza empirica; e
l'impossibilità di attingere in essa al- cuna verità necessaria ed universale,
e perciò una qualsiasi validità né di forma, né di fine, né di doveri. Ora l'uno
e l'altro tipo di argomentazione si svolgevano e si svolgono appunto
nell'ambito di questo presupposto: che i principi morali debbano fondarsi su
qualche cosa d'altro, che li legittimi, che ne dimostri la certezza, che ne
faccia riconoscere la verità; senza avvertire che il fatto stesso del
discutere, cioè dell'ammettere la buona fede, cioè dunque la moralità del
contraddittore, smentisce il presupposto. Il che concorda con l'osservazione
ovvia ma non negabile per la sua massiccia evidenza: che si trovano degli
uomini di sincera e provata rettitudine morale fra i seguaci delle piú diverse
dottrine. Né vale l'obbiezione che si può fare e si fa: che non si tratta di
vedere se ci siano delle per- sone morali, tra i seguaci di una dottrina, ma se
questi siano logici o siano coerenti con se stessi; os- sia se con quelle
dottrine si possa ragionevolmente conciliare quel modo di giudicare e di
valutare. Perché una tale obbiezione non esce dall'ambito del presupposto, anzi
lo implica, appunto perché ammette come pacifico che un criterio di valutazione
morale abbia una connessione necessa- ria, cioè logica, con certi principi
teorici, e che non possa essere accettato se non in grazia di quei principi. Ma
è il presupposto del fondamento teorico che bisogna provare; e non si prova con
una petizione di principio. Il criterio morale a non si legittima se non col
principio teorico A; se troviamo accettato a con B con C con D e non con A,
vuol dire che quella coscienza è illogica, incoerente. Ma perché diciamo noi
che sono illogiche le menti che non connettono a con A invece di riconosce- re
semplicemente l'altra alternativa: che è possibile così l'una come l'altra
connessione, che non vi è nessuna necessità intrinseca di dipendenza di a da A?
Appunto perché, se si ammettesse che un medesimo criterio morale può accordarsi
con principi teorici diversi, si dovrebbe ammettere che non si fonda né
sull'uno né sull'altro, cioè che la fon- dazione teorica è illusoria. Insomma
il ragionamento si riduce a un procedimento di questo genere: per dar certezza
a una valutazione morale è necessaria una certa fondazione teorica; ciò importa
che, o non si debba trovare quella certezza senza questa fondazione, o che se
si trova, essa sia una certezza erronea, una certezza irragionevole illogica,
una certezza che non ci dovrebbe essere. Tu qui! Ma è impossibile! dice la
metafisica alla morale quando la vede in casa dell'empirista; e il medesimo
rimbecca l'empirista alla morale del metafisico. Ed ambedue hanno torto, perché
dove la morale si trova, ella è in casa sua anche quando paia a chi dimora con
lei di averla ospite1 in casa propria. 1 Neppure vale a toglier peso al fatto
l'osservazione che questa possibilità di coesistenza indifferente è soltanto
apparente, perché dovuta a difetto di riflessione e di rigore logico; e sia
inattendibile, perché dove si avvera, manca la [Ma se questa fondazione
extra-morale della morale è illusoria, donde nasce l'illusione e di che si
alimenta? Quando il sociologo afferma che le norme morali esprimono le esigenze
della vita sociale e si fondano sulle leggi della sociologia, ciò che si tratta
di vedere non è già se veramente le norme morali corrispondono o no a tali
esigenze e soltanto a quelle; né quali siano, tra le innumerevoli leggi
scoperte e che si vanno scoprendo, quelle nelle quali la morale trova il suo
fondamento; ma si tratta di vedere se dalla sociologia si possa ricavare il
valore della società, dalle leggi della vita il valore della vita, dal processo
di formazione e di incremento della civiltà il valore della civiltà, in una
parola, dai rapporti condizionali il valore del condizionato. Ora una scienza,
qualunque scienza, formula dei rapporti, non dà valori; i rapporti possono
bensì far attribuire un pregio a qualchecosa, se stabiliscono la dipendenza condizionale
e causale di un valore da ciò che, appunto per tale connessione, diventa a sua
volta un valore mediato; ma il πρῶτον ἄξιον deve essere già dato, posto,
riconosciuto come valore, perché sia possibile qualsiasi giudizio assiologico
su ciò che ha relazione con esso. Tutte le piú complicate e piú delicate
meraviglie della vita non bastano a darle il benché mi- nimo pregio se non si
riconosce già come bene o la vita stessa o almeno alcuni dei fini ai quali può
esser volta: anzi non sono «meraviglie» se non perché si illuminano di questo
valore finale. Che la civiltà e la cultura siano da preferire alla barbarie e
all'incultura sembra dimostrabile; ed è infatti; ma quando sia ammesso o
sottinteso — come accade in effetto — che abbiano piú di pregio o di dignità o
di desiderabilità certe facoltà e attività e forme di condotta che certe altre,
cioè quando sia già posto e accettato un criterio di valutazione. Pare a prima
vista una pedanteria. Non si riconosce infatti da tutti che la vita valga la
pe- na di essere vissuta? e anche quelli che la negano a parole, non sentono
nell'istinto profondo smentire la loro negazione? Ammettiamo senza discutere,
sebbene la cosa non sia così liquida come pare, l'universalità del consenso od
almeno dell'istinto. Si tratta qui di vedere se questo apprezzamento della
società e della vita, questo riconoscimento di valore è posto, è dato dalla
scienza; se questa voce dell'istinto, questa volontà di vivere abbia o no
l'autorità che le si attribuisce o suppone. Cioè si tratta di sapere, insomma,
se chi vedesse nella società e nei suoi frutti un groviglio di miserie e di
vergogne possa trovar mai nella sociologia la confutazione del suo giudizio; e
se a chi trovasse la vita un limbo in- differente possano le leggi della
biologia farla apparire desiderabile; e se sia la conoscenza della so- ciologia
o della biologia o della psicologia che darebbe voce all'istinto se fosse muto,
e autorità, se non ne avesse, alla sua voce. competenza richiesta. Un
libriccino pubblicato dal LALANDE alcuni anni fa -- Précis raisonné de Morale
pratique, Alcan -- si distingue dai molti consimili nostrani e di fuori (qui
non occorre accennare ad altri pregi) per questa circostan- za caratteristica:
che il catechismo morale che vi è esposto e spiegato era stato sottoposto
all'esame e aveva raccolto il consenso esplicito dei piú noti e autorevoli
moralisti di credenze e di opinioni filosofiche diversissime. La testimonianza
dei «competenti» veniva in questa occasione a confermare quello che è un luogo
comune della storia delle dottrine e della pratica morale: che sul valore e sul
contenuto delle norme morali siamo tutti d'accordo, perché tutti siamo d'accor-
do, quanto all'essenziale, nel giudicare la nostra condotta o l'altrui: Tutti
quali che siano le convinzioni filosofiche e religiose ed anche se non abbiamo
in proposito convinzioni di sorta» (VARISCO, Massimi e problemi, Metafisica e
morale. E Varisco, come è noto, è persuaso che una vera morale implichi una
Metafisica «definitiva»). Quanto all'accordo sul «contenuto» forse, come si
vedrà in seguito, pare piú largo di quel che in realtà non sia. Ma qui si
tratta del valore. Quanto poi alla Metafisica definitiva si chiede: a che
stregua si giudicherà la metafisica adatta a fondare la morale? Non si ammette
già che il criterio sarà fornito dall'accordo con la «vera morale» e cioè,
dunque, che la vera morale è già data prima e fuori della Metafisica? Neanche è
da credere che tutto si riduca a questo salto; e che superato il passaggio
incolmabile dall'effetto al fine e dalla conoscenza al valore, fatto proprio
dalla scienza il presupposto iniziale di valutazione che essa non può dare,
ogni difficoltà di questo genere sia allontanata. Quel che non può dare
una conoscenza empirica non può dare una conoscenza metafisica, se non a patto
di intendere già per conoscenza metafisica la conoscenza non di una realtà
«intelligibi- le» e in quanto è intelligibile, ma di una realtà già apprezzata
o apprezzabile; non la conoscenza di enti ma la conoscenza di valori. Quando
Rosmini si sforza con grande vigore di dimostrare che la conoscenza dell'essere
è conoscenza del grado di entità, e quindi del grado di perfezione delle cose,
e che perciò la stima speculativa (la conoscenza del grado di perfezione) può e
deve diventare modello e norma della stima pratica (l'assenso del nostro
volere), egli assume già nel concetto dell'essere quello di bene, nel concetto
di realtà quello di perfezione, cioè di valore; e non deriva il secondo termine
dal primo se non perché lo ha surrettiziamente già identificato con esso. La
sua «stima speculativa» in quanto è stima, cioè apprezzamento e valutazione, è
già pratica, perché non ha luogo se non in rapporto alle «potenze pratiche»; in
quanto è speculativa cioè conoscenza obbiettiva, intellezione della realtà, non
implica nessun apprezzamento. Insomma, in quanto è stima non è speculativa, in
quanto è speculativa non è stima. La cosa appare anche piú manifesta se si bada
che l'essere non può servire di criterio alla stima se non perché si ammette un
ordine, una gradazione di enti, e quindi di realtà. Ma la realtà, in quanto
esistenza, non ha gradi; ciò che si può graduare è il pregio o il valore, in
qualunque entità esso sia riconosciuto, non l'esistenza delle cose; e la realtà
è graduata perché sono graduati pregi, o i beni, o i valori che essa ci
presenta realizzati. Che i due termini siano diversi e l'uno non deducibile
dall'altro appare manifesto dalla ne- cessità di assumere, secondo la profonda
e costante tendenza del platonismo, il concetto di perfezione come sintesi dei
due concetti del reale e del bene, o con espressioni piú moderne, dell'esisten-
za e del valore. Ora la perfezione non si può intendere se non in relazione con
un modello, con un disegno attuato o da attuarsi, con una finalità; e la finalità
implica una valutazione, cioè una scelta, cioè una volontà. Ed eccoci alla
sorgente unica e comune della impossibilità di derivare un criterio di morale
dalla realtà obbiettiva, empirica o metempirica, da qualsiasi dato o legge o
induzione o verità teore- tica, sia scientifica, sia metafisica. Una realtà
data o possibile non può dare un criterio di valutazione se non la si considera
co- me una finalità, ossia se non le si riconosce un valore. E il giudizio con
il quale si afferma il valore di un oggetto è diverso e non deducibile dal
giudizio col quale ne affermiamo l'esistenza o la possibilità o la connessione
modale o condizionale con altri oggetti. Apprendere come le cose sono, è
tutt'altra cosa dal valutarle3. Per interpretare le leggi naturali come leggi
morali bisogna scegliere tra le leggi necessarie e le condizioni utili a una
forma di vita e le leggi e condizioni utili a una forma diversa. Ad ogni nuovo
passo, ad ogni bivio si sostituisce alla conoscenza obbiettiva la valutazione,
si rende necessaria una scelta; e la valutazione se anche non è espressa, e
sot- tintesa. Caratteristica, a questo proposito è la affermazione del
Levy-Bruhl che «la conquista metodica della realtà» cioè «un'arte razionale
fondata sulla scienza della realtà sociale» deve prendere il posto della
«concezione immaginaria di un ideale -- La morale et la scienze des mœurs. Questa
conquista metodica della realtà sarà pur guidata, — e non può essere altrimenti
— se non da un idea- le, ché ogni ideale è soppresso, dall'idea di qualche cosa
che si pone come piú desiderabile o migliore. Ma quale è il criterio di questo
meglio? di quella amélioration che, come dice poche righe piú sotto delle
parole citate, non bisogna di- sperare di portarvi? Questo criterio non può
essere il reale stesso che bisogna modificare e migliorare; sarà dunque, di
nuovo, in ideale o qualche cosa che lo sostituisce. «L'ombra sua torna ch'era
dipartita». Il pragmatismo, anche per chi è pragmatista, qui non ha nulla da
vedere. Può essere verissimo che anche la nostra conoscenza sia stimolata,
sorretta, guidata, controllata da un interesse, l'interesse teorico, e come
tale sia, anzi è senz'altro, un valore intellettuale: ma ciò non muta d'un ette
la distinzione notata. Sulla pluralità dei postulati di valutazione
morale. Ora la conoscenza, o è teoretica, e ci dà oggetti e fatti e rapporti di
oggetti e di fatti come so- no, cioè come dobbiamo concepirli per comprenderli;
o li interpreta e li giudica come utili o nocivi, buoni o cattivi, preferibili
o non preferibili, superiori o inferiori, e non è piú conoscenza, o almeno non
piú conoscenza soltanto; e il criterio del buono e del cattivo, dell'utile e
del disutile, del bello e del brutto è criterio di preferenza, di scelta, di
valutazione che essa non trova nelle cose se non perché ve l'ha già posto, e
ponendovelo ha ubbidito, consciamente o no, a un interesse che non è teori- co,
ma è pratico nel senso che può restare a questa parola anche dopo le analisi
del pragmatismo: pratico nel senso che, se si suppone tolta la volontà, è tolta
non soltanto la molla che spinge a ricercare e a trovare le distinzioni tra gli
oggetti, ma sparisce la distinzione stessa tra gli oggetti. Ora, quando si
intenda chiaramente e in tutta la sua portata questa irreducibilità dei giudizi
di valore ai giudizi di esistenza o causali o teoretici (o percettivi, come mi
parrebbe preferibile chiamarli), e la conseguente impossibilità di ricavare gli
uni dagli altri, di pretendere che un giudizio di ciò che è, possa servir di
fondamento a un giudizio di ciò che vale o che merita di essere, ap- parirà piú
manifesta la insolubilità della questione del fondamento intesa in questo senso
e cercata in questa direzione, e le ragioni di questa insolubilità. E con ciò
si chiarisce anche l'inanità della controversia accennata fra metafisica e
scienza e se ne spiega nello stesso tempo l'insistenza. In breve e trascurando
le inevitabili inesattezze delle formule riassuntive: La realtà si può
interpretare come sistema di forze e come sistema di valori. Se si interpreta
come sistema di forze se ne fa una costruzione puramente intelligibile, cono-
scitiva, anassiologica, estranea ad ogni moralità perché estranea ad ogni
valutazione; sia essa co- struzione scientifica, sia metafisica, empirica o a
priori, monistica, dualistica o pluralistica. Se queste forze si giudicano cioè
si valutano, cioè si vede o si pone in esse, o operante per esse, un ordine, o
un conflitto, o un processo di attuazione di fini, allora la conoscenza della
realtà diventa conoscenza dei valori, e i fini della natura o della provvidenza
diventano il modello o il cri- terio del giudicare morale; e il fondamento
della morale si troverà nella conoscenza di questa realtà; si consideri essa
come scienza o come metafisica. Ma perché quelle forze siano apprezzate come
valori occorre che siano dati i valori a cui si ragguagliano tali forze; e
perché i fini della natura siano i fini di una Provvidenza è necessario che il
processo della natura sia riferito ad uno scopo il cui valore di bontà è già
dato e riconosciuto. Così il criterio della valutazione non si ricava dalla
conoscenza della realtà se non perché la realtà era già stata valutata secondo
il principio che si pretende di ricavarne; e non si trova in essa il fondamento
della morale se non perché la coscienza morale ha spirato nell'intimo della
realtà quell'anima di be- ne che crede di estrarne come suo principio e
fondamento. Ed è anche facile comprendere perché gli assertori della fondazione
metafisica si sentissero meglio armati alla difesa e piú vivaci nell'attacco.
La scienza interdicendosi — nel programma se non nell'attuazione — ogni
interpretazione finalistica, e quindi ogni valutazione della realtà, si trovava
piú manifestamente a disagio quando pretendeva di derivare dai suoi rapporti
obbiettivi un criterio, che ne aveva deliberatamente escluso. E quando voleva
trovare nelle leggi un valore morale troppo facilmente rendeva palese la
propria incoerenza. Perciò volgeva i suoi sforzi a considerare e a spiegare la
moralità come un prodotto na- turale o un risultato meccanico di un giuoco di
forze per sé spoglio di ogni finalità. Onde la tenden- Senza volontà di
conoscere non ci sarebbe conoscenza; sta benissimo, o almeno possiamo qui
lasciar di discu- tere; ma la conoscenza è volontà di conoscere le cose come
sono cioè come appaiono a chi non è mosso da altro inte- resse che quello del
conoscere; e il valutare è giudicare le cose così conosciute (cioè costruite in
conformità all'interesse teoretico) rispetto a finalità distinte da quelle del
conoscere, cioè a interessi di altro genere, edonistico, estetico, morale, e
via dicendo. Altro è dire che in Engadina fa fresco e altro dire che amano il
fresco quei che vi passano l'estate. za costante dell'«etica scientifica» a
identificare il problema nel fondamento col problema dell'ori- gine, la
valutazione con la spiegazione; e a considerare una reale o pretesa naturalità
come criterio di moralità. E la metafisica poteva tanto piú trionfalmente
mettere in chiaro l'equivoco, e dimostrare l'impotenza assiologica della
scienza quanto piú sentiva non solo non estranea, ma legittima, ma implicita
nella propria costruzione della realtà, una interpretazione teleologica; ed era
avvezza a considerare la morale come sua pupilla perché... ne amministrava il
patrimonio. Ma se il problema della fondazione teorica, nella forma classica,
e, direi nel senso piú bello della parola, ingenua, di derivazione dei valori
da una realtà, è insolubile, perché o urta contro una radicale irreducibilità,
o si riduce a una petizione di principio, essa non sparisce se non per lasciar
scoperto dietro di sé il problema che nascondeva o adombrava, e nel quale
attraverso Kant si è venuto via via trasfigurando. Non si tratta piú di trovare
nella conoscenza della realtà la prova che le nostre valutazioni sono vere,
poiché le valutazioni sono, come espressioni di una esperienza interiore sui
generis, valide per sé; ma di sapere se su questi dati valutativi si può
costruire una conoscenza oggettiva; se i valori morali siano prova dell'esistenza
di certe condizioni e di quali; se sia possibile, non trovare nella realtà il
fondamento del valore, ma trovare nel valore il fondamento della realtà. Il
problema si aggira sempre in ultimo attorno al medesimo dubbio: se il mondo, la
natura, la vita abbiano un si- gnificato morale, se l'anima dell'universo
guardi al medesimo fine che la coscienza morale; se gli sforzi della volontà
buona siano fecondi di frutti durevoli o siano un lavoro di Sisifo, che ogni
co- scienza riprende faticosamente per lasciare che ciascun'altra rifaccia,
destinato in ultimo a cadere pur esso nel nulla, uno sforzo piú grande. Ma
l'atteggiamento è diverso. L'ontologismo metafisico subordinava, almeno nella
riflessio- ne consapevole e nella costruzione logica, il giudizio di valore al
giudizio di realtà. Nella filosofia dei valori il giudizio di realtà è
subordinato, anche nel processo riflessivo e costruttivo, al giudizio di
valore. Il momento che nell'intellettualismo ontologico era nascosto e
inconsapevole, quello della assunzione tacita del concetto di valore nel
concetto di realtà, nella filosofia dei valori diventa chiaro e consapevole e
si allarga nel tentativo di tradurre il passaggio psicologico in processo
discorsivo e di fondare un sistema di verità teoretiche su quella certezza che
veramente era ed è il dato iniziale, l'ubi consistam di ogni costruzione etica,
sia scientifica o metafisica, progressiva o regressiva, ascendente o
discendente: la certezza diretta e intuitiva dei valori morali. Illusione poco
meno antica accompagnata da sforzi parimenti tenaci, e forse piú multiformi di
tradurla in dottrina rigorosa, è quella di credere che si possa ricavare la
valutazione morale da qualche bene indiscutibilmente supremo, del quale essa
esprima le esigenze e formuli le condizioni necessarie. Questo sommo bene,
questo fine supremo, questo valore, sorgente prima, termine ultimo di tutti i
valori si credette di trovare: o in un dato della coscienza empirica, un fine
inerente alla vita e subordinante di fatto tutte le tendenze, aspirazioni e
attività dell'uomo; o in un fine che domina ben- sì, ma trascende la vita e la
natura umana, e subordina di diritto ogni altra forma di bene e ogni cri- terio
di valutazione. Alle due diverse concezioni del fine rispondono due tipi
principali di dottrine morali, dei quali è facile rilevare la corrispondenza
coi due tipi di dottrine sulla fondazione di cui si è detto nel capitolo
precedente. Ma la corrispondenza non è coincidenza. Là l'origine dell'illusione
era nella pretesa di derivare la valutazione morale da una realtà la cui
conoscenza si impone all'intelletto; qui di derivarla da fin bene il cui valore
è ammesso, o si suppone che debba essere ammesso inconte- stabilmente come
supremo o massimo, o almeno superiore ad ogni altro. Ora l'illusorietà della
pretesa consiste in ciò: che il valore morale non è morale se non a patto che
se ne riconosca, o, meglio, se ne senta la superiorità, la preminenza su ogni
altro valore; il suo essere morale consiste (con ciò non si escludono gli altri
caratteri) in questa sua supremazia. Perciò ogni tentativo di assegnare un bene
supremo che lo giustifichi, si riduce all'uno od al- l'altro termine di questa
alternativa: o di ammettere che questo bene è già esso stesso il valore mora-
le che si crede di derivarne, o di mostrare che ciò a cui si dà valore morale,
è valore anche per altri rispetti; cioè sarebbe un valore di altro genere anche
se non fosse valore morale. I tentativi che si raccolgono intorno al primo tipo
fine: la felicità, o il piacere. riescono di solito quando e nella misura che
possono a quest'ultimo risultato; quelli del secondo tipo (fine: il possesso
del divino, l'avvicinamento a Dio, la santità) riescono di solito al primo: a
presupporre quel che credono di derivare. Dell'utilitarismo in generale e delle
sue diverse forme sarebbe fastidioso, e non è qui neces- sario, ripetere per la
centesima volta le critiche note. Basta mettere in chiaro quel che meno fu
notato e che piú importa al nostro scopo: cioè non tanto le lacune, le
insufficienze e le incongruenze dei tentativi, ingegnosi assai piú che
fortunati, di ricondurre le norme morali al criterio dell'utilità, e di
mostrare le coincidenze tra il contenuto delle norme morali e il contenuto
delle regole utilitarie, quanto la ragione per la quale la derivazione è
impossibile; o, quando appare possibile, dissimula in realtà una petizione di
principio. Supponiamo pure che si ammettano cose troppo manifestamente
arbitrarie: che la felicità sia non un nome vago, un recipiente vuoto nel quale
ciascuno versa il liquido preferito e che non è sempre neppure per la stessa
persona il medesimo ma abbia un contenuto determinato (poniamo l'acquisto o il
possesso di certi beni: salute, amore, potenza, gloria, simpatia, cultura,
ingegno, soddisfazione della propria co- scienza; e che tra questi beni sia
possibile perfetta conciliazione ed armonia); e che si possa dimo- strare
davvero, e non per salti o per ripieghi, che il nodo non pure piú sicuro, ma il
solo veramente sicuro e indispensabile per raggiungerla, sia l'osservanza
costante delle norme morali. Con ciò non si sarebbe dimostrato che ciò che fa
il valore morale delle norme consiste nella loro utilità come guida della
felicità; ma soltanto che i valori morali sono anche valori eudemono- logici;
che il contenuto della valutazione morale e quello della valutazione utilitaria
coincidono; non mai che il valor morale di un'azione consista nel suo esser
mezzo alla felicità. Resta fuor di questione s'intende e deve esser quasi
superfluo avvertirlo la considerazione dell'efficacia pratica o esecutiva; se
sia o no piú persuasiva o piú impulsiva l'una o l'altra valutazio- ne. Si può
anche ammettere, senza soverchio sforzo immaginativo, che sia per lo piú la
edonistica; ma ciò non prova affatto che questa si confonda o si identifichi
con la valutazione morale, o valga a sostituirla. Dimostrare a un giudice che
il dar sentenze imparziali è il modo piú sicuro di far carriera, potrebbe
essere, in ipotesi, un mezzo efficace a promuovere l'imparzialità. Ma nessuno
sognerà di far consistere l'onestà del giudice nel suo desiderio di far
carriera. Ma in realtà, come tutti sanno, il contenuto della felicità non è
determinato, né determinabile se non ad arbitrio; e solo significato comune e
costante del termine finisce per essere quello di ap- pagamento dei desideri,
di soddisfazione, di piacere, o di liberazione dal dolore, che si pensa dover-
si trovare nel raggiungimento di ogni fine. E la diversità persiste e risorge
nella molteplicità varia e contrastante dei desideri e dei pia- ceri, e non
basta raccoglierli sotto uno stesso nome per ridurli a unità e farne un unico
fine. Perché se l'unità ci deve essere davvero, allora è necessaria o una
riduzione o una gradazione e subordinazione; e questa spunta infatti nella
storia dell'utilitarismo con il criterio della qualità so- vrapposto e in
effetto sostituito dal Mill a quello della quantità. E allora si capisce come
possa avvenire che il criterio della felicità finisca per accordarsi con quello
della valutazione morale; se le soddisfazioni migliori sono le soddisfazioni
morali, e il bene piú desiderabile l'appagamento della coscienza morale,
l'accordo tra i due criteri quanto al contenu- to è, non solo possibile, ma
necessario. Ma è troppo facile vedere a quale patto è raggiunto. Il valore di
quella felicità alla cui stregua si pretende di giudicare il valore morale è
assunto come supremo perché e in quanto contiene questo valore morale ed è
graduato esso stesso secondo un criterio mo- rale; approva e disapprova in nome
della felicità quel che trova approvato e disapprovato in nome della coscienza
morale. Viene in mente il modo, col quale un marito sincero si vantava di aver
risolto il problema di una pace coniugale perfetta: dove marito e moglie erano
dello stesso avviso era la moglie che se- guiva il parere del marito, dove
erano di avviso contrario era il marito che faceva la volontà della moglie.
Adunque, anche ridotta a questa forma, la felicità non fornisce il criterio
della valutazione morale se non in quanto è foggiata essa stessa su un criterio
morale; e quel che pretende di aggiun- gervi come giustificazione, non è ciò
che costituisce il valore morale, ma è qualchecosa di distinto, di sopraggiunto
ad esso (giusta la veduta di Aristotele) sebbene lo accompagni; è una
valutazione secondaria, edonistica od egotistica (non oserei dire egoistica)
del valore morale. Porre come bene supremo la santità (il divino in quanto è
sentito e voluto come modello o norma della vita si determina in un ideale di
santità) è derivare il valore morale dal valore religioso, concepito come
principio e termine di ogni valore, e del quale esso valor morale è un
elemento; o Ne ho parlato altrove (La dottrina delle due etiche di Spencer e la
morale come scienza) e non occorre insistervi qui. 5 Sebbene il parlare della
soddisfazione della propria coscienza come di un bene desiderabilissimo sia
legitti- mo, non è legittimo, né conforme alla verità psicologica, considerarlo
come il fine della condotta morale. Il fine è l'attuazione di quel valore che
la coscienza riconosce come morale; e non è l'altezza della soddisfazio- ne che
se ne possa attendere, che costituisce il pregio dell'azione, ma è il pregio
dell'azione che misura l'altezza della soddisfazione; la quale è pura soltanto
a patto che non se ne faccia lo scopo dell'operare. Su la pluralità dei
postulati di valutazione morale Erminio Juvalta meglio, l'attuazione di questo
è voluta come una condizione, o un momento dell'attuazione, di quello. E qui
giova premettere due osservazioni non peregrine ma utili alla chiarezza. Che
questo valore supremo del divino, della santità e, in termini piú generali, il
valo- re religioso non può essere dimostrato o insegnato con lo stesso processo
conoscitivo, con il quale si dimostrano, si insegnano e si comunicano delle
proposizioni o verità teoretiche, e, in quel che han di contenuto teoretico, i
dogmi stessi delle dottrine religiose. Questo valore è sentito, è, come si dice
con frase piú suggestiva che chiara, vissuto dalla coscienza; e quanto è sicuro
ed efficace l'appello ad esso, dove è vivo, altrettanto è vano dove non vive.
Fondare la valutazione morale sui valori religiosi è dunque presupporre che
siano sentiti e vissuti nella loro forma e natura specifica quei valori
religiosi da cui si fanno sgorgare i morali. Ma dove essi valori religiosi non
siano sentiti e vissuti, nessuna dottrina teologica e nessun catechismo può
crearli6 o sostituirli. Che, per converso, nessuno sforzo d'analisi e nessun
ragionamento basta a spogliare, nell'anima di un mistico, i valori morali da
quel sentimento del divino, a svestirli di quell'alone reli- gioso del quale
egli investe non solo questi ma anche gli altri valori spirituali; come sarebbe
diffici- le nella intuizione e nel sentimento di un esteta di sottrarre i
valori morali e i valori religiosi a una valutazione estetica. Come accade
sempre dove un grande interesse spirituale predomina sugli altri, cioè dove una
categoria di valori occupa, per dir cosí, il centro della coscienza, e
raccoglie ad unità, come attorno ad un nucleo, i valori di altre specie; che è
quel che suole piú comunemente e nor- malmente avvenire per i valori morali. Ma
fatta (come dicono i legali) questa riserva, bisogna riconoscere che nessuna
valutazione morale si potrebbe ricavare da qualsivoglia valore religioso, se
non vi sia già esplicitamente o im- plicitamente contenuta; cioè se non a patto
che si sia incorporata nel valore religioso una valutazio- ne morale la cui
validità sussiste o sussisterebbe anche all'infuori di quello; ed è la ragione
per la quale viene assunta nel valore religioso. Non è necessario, a
persuadersene, di discutere il problema formidabile della essenza del va- lore
religioso. Se si accetta l'opinione del Höffding che il nucleo essenziale della
religione è la credenza nella conservazione dei valori, e, s'intende bene,
soprattutto dei valori morali, la indipendenza e la priorità di questi sono, re
ipsa, riconosciute. In effetto quali si possano essere le reazioni di tale
credenza sulle valutazioni, resta pur sem- pre che non è l'esigenza della
conservazione quella che dà ai valori la loro qualità di morali, ma il loro
esser sentiti, il loro valere come morali che ne fa postulare la conservazione.
Di che ho già det- to altrove7, e non occorre del resto insistervi. Se invece
si ammette, come io credo, che la natura specifica, la «forma» del valore
religioso non sia riducibile a quella credenza, e che sia essenziale e
caratteristico del sentimento e della valu- tazione religiosa il riferimento
del nostro pensare, del nostro sentire e del nostro fare, anzi di tutto il
nostro essere, ad un altro essere; sommità dell'aspirazione religiosa l'esserne
penetrati e posseduti; e misura del valore religioso, la devozione ad esso,
l'abbandono di sé alla volontà che ne realizza le perfezioni; allora il valore
religioso è per sé altra cosa del valore morale; ma, se non si risolve in
questo, neppure lo pone, ma se lo appropria ed incorpora. E se può sembrare
all'anima religiosa che esso sgorghi da questa idealità e se ne alimenti, la
ragione sta in ciò, come si è accennato: che al mi- 6 È appena superfluo
aggiungere che non penso neppur per sogno di negare una possibile efficacia
all'insegna- mento religioso in quanto esso, come ogni insegnamento, non è mai
(salvo forse agli occhi di chi lo misura col tassame- tro) pura comunicazione
di notizie o di idee, ma è vigore di convinzione, calore di affetti, opera di
formazione; insom- ma, educazione. Ma anche l'educazione suppone le condizioni
dell'educabilità. E si suppone poi sempre che chi legge faccia uso del consueto
grano di sale. 7 Cfr. Postulati etici e postulati metafisici.] stico riesce
impossibile di concepire altrimenti che perfetto, cioè perfetto anzitutto e
soprattutto mo- ralmente, l'Essere che adora, e nel quale vede non un bene, ma
ogni bene, il Bene. Ma la perfezione che vede in lui, a quale stregua è
giudicata tale? L'ideale che trova realizza- to in quello non è foggiato
secondo un criterio di valutazione morale la cui validità è accettata e ri-
conosciuta all'infuori dell'atteggiamento religioso della devozione a Dio? Anzi
non è quella perfe- zione morale che lo fa degno di adorazione? Un mistico a
cui si domandasse se concepisce Dio perfetto perché lo adora o se lo adora per-
ché è perfetto, forse non saprebbe rispondere, e troverebbe che la domanda
scompone quel che è per lui uno e indissolubile. Ma ciò non toglie che la
devozione e la adorazione non costituiscano per sé i pregi e le doti di ciò che
è adorato; e nessuna coscienza potrebbe trovare in Dio i valori morali se non
li conoscesse già come valori, e non li distinguesse come morali dai valori di
altro genere. Questa priorità e questa indipendenza, questo sussistere per sé,
questa selbständigkeit della valutazione morale, appare confermata dalle
discussioni sul valore delle religioni, il cui termine di confronto piú
consueto e piú decisivo è dato dal rispettivo contenuto morale. Il che implica
manife- stamente che questo contenuto possa esser giudicato e apprezzato per
sé. E il prevalere sempre piú largo delle preoccupazioni morali nelle controversie
di indole religiosa (per esempio la lotta intorno al modernismo) mostra che la
validità del criterio morale è tenuta come certa di una certezza che è data e
riconosciuta indipendentemente da ogni valutazione religiosa. Quanto
all'affermazione che la morale non può reggersi senza religione, essa, sebbene
ambi- gua nella forma, non significa affatto, come è facile capire, che non sia
possibile sentire e giudicare ciò, che è giusto o ingiusto, buono o cattivo se
non con un criterio e da un punto di vista religioso; vuol dire invece che non
è o non si crede possibile una moralità salda e costante, cioè una sicura
conformità della condotta alle valutazioni morali, se la valutazione morale non
è sorretta, conforta- ta, fatta praticamente efficace dalla connessione dei
valori morali con una finalità religiosa; cioè dal considerare i valori morali
come preparazione e condizione necessaria di quel fine; e quindi i pre- cetti
morali come precetti religiosi. Che è tutt'altra cosa; importantissima dal
punto di vista propriamente pratico o esecutivo, ma estranea alla questione
presente e da trattarsi a parte, analogamente a quel che si è accennato sopra
della possibile importanza pratica di una valutazione edonistica. Dire che
l'olmo sorregge la vite, non è dire che la vite sia una propaggine dell'olmo, e
nep- pure che sia l'olmo che porta l'uva; sebbene sia anche vero che, dove la
vite non si regge da sé, non dovrebbe parer savio tagliar l'olmo anche a chi
ami soltanto la vite. Quel che si è detto dei tentativi di una fondazione
edonistica e di una fondazione religiosa si potrebbe ripetere di ogni altro
tipo di morale di cui si pretenda di trovare il fondamento in un inte- resse
diverso dall'interesse propriamente e specificamente etico (notevolissima fra
le altre la morale estetica), e dalle forme miste e intermedie; le quali, se
sono dottrinalmente fiacche e spesso incoe- renti, hanno però in realtà largo
consenso nelle credenze e nelle opinioni piú comuni. Di queste ultime meritano
di essere ricordate, perché piú significative, le due forme, nelle quali si
mescolano e si sovrappongono i due tipi di valutazione qui sopra brevemente
analizzati, la edonistica e la religiosa; che sembrano a prima vista i piú
lontani e l'uno all'altro opposti. Si può avere cosí una interpretazione
edonistica della valutazione religiosa (esempio l'utilita- rismo teologico) e
un'interpretazione religiosa della valutazione utilitaria (altruismo comtiano,
mi- sticismo umanitario). Da quanto si è discorso pare si debba concludere che
queste indagini (spesso nei particolari ingegnosissime e suggestive) nelle
quali si cerca la ragione del valore morale nella sua connessione 15 Su
la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta o congruenza
con altri valori, abbiano importanza solamente nel rispetto strettamente
pratico o ese- cutivo; in altre parole una importanza parenetica o pedagogica,
in quanto una tale connessione con- forta, sorregge o surroga con motivi di
altra natura e sgorganti da interessi diversi il motivo specifi- camente
morale. Sarebbero dunque analisi ed indagini preziose per l'educatore e per
l'uomo politico (dato che si propongano fini morali), ma senza interesse per lo
scopo a cui mirano, di costituire il fondamento o la giustificazione dei valori
morali, perché radicalmente viziate dal falso supposto che la ragione della
supremazia dei valori morali si possa cercare in qualchecosa che non abbia già
essa per sé valore morale. Ma questa conclusione sarebbe precipitata e
eccessiva. Intanto è fuor di questione che, no- nostante il carattere di
artificiosità che si trova piú o meno largamente diffuso nelle costruzioni di
questo genere, come nei sonetti a rime obbligate, vi è in tutte una parte
notevole di verità; verità s'intende non in quel che credono di dimostrare, ma
nei rapporti e nelle concordanze e nelle diffe- renze rilevate, e che
dovrebbero servire alla dimostrazione. Questa parte di verità ha radice nel
fatto, troppo noto e troppo chiaro perché ci sia bisogno di illustrarlo, e già
sottinteso a piú riprese in questo capitolo, che non vi è giudizio sul valore
morale di un oggetto, qualità, tendenza, azione, del quale non si possa trovare
la ragione, oltreché nella forma speciale di interesse o di esigenza che gli dà
questo carattere specifico di valore morale, anche in un interesse diretto o
indiretto d'altra natura: non vi è bene morale che non sia bene anche per altri
rispetti; come d'altra parte non vi è bene di altro genere che non sia o non
possa diventare, diretta- mente o indirettamente, un bene morale. I valori
delle diverse specie si connettono, si intrecciano e si complicano fra loro in
mille guise. È bensì vero che ciò che fa esser morale un valore (e analogamente
si potrebbe dire dei valori di ogni altra specie) non è, come s'è visto, il suo
coincidere o il suo essere connesso sia pure per un rapporto di condizionalità
costante, con un valore — per quanto grande — di altro genere, o anche con piú
altri ordini di valori o con tutti; ed è perciò che nessuna sottigliezza di
logica può estrarre un valore morale se non di là dove esso si sia già posto o
insinuato; e che credere di poter trovare un valore morale tra valori che non
siano già morali è fare a un dipresso come chi vada frugando fra le idee degli
altri con la speranza di trovarvi le proprie. Ma è pur vero che sussistono
altri valori, e sussistono le relazioni fra i valori; e ciò che è og- getto di
valutazione morale, poniamo la sincerità, può essere apprezzato dal punto di
vista dell'inte- resse conoscitivo od artistico o economico; e, per converso, ciò
che è oggetto di valutazione edoni- stica o estetica o d'altro genere, la
ricchezza, l'arte, la dottrina, può essere valutato anche come bene di ordine
morale. Ora: È possibile una conciliazione dei valori morali con gli altri
valori e di questi fra di loro? E se non è possibile, quale è il criterio della
loro graduazione e subordinazione? Vi è, per rispetto alla natura delle
relazioni o connessioni tra valori di diversa specie, qual- che differenza
caratteristica che distingue i valori morali dai valori non morali anche per il
contenu- to? E vi è, segnata ancora dalla sfera delle relazioni condizionali o
strumentali con valori di altro genere, una differenza che distingue, rispetto
al contenuto, gli stessi valori morali fra di loro? E non potrebbe questa
considerazione giovare a intendere le incoerenze e i contrasti tra valu-
tazioni diverse e anche opposte, che pure si presentano col medesimo carattere
di valutazioni mora- li? Cosí, dietro i tentativi illusori di cercare fuori e
al di là dei valori morali il fondamento della valutazione morale e la ragione
decisiva che ne giustifichi la supremazia, restano i problemi: della
valutazione indiretta o rivalutazione condizionale o strumentale, di una
graduazione delle diverse categorie di valori; e della possibilità della loro
conciliazione. Della quale, la conciliazione tra virtù e felicità non è che un
aspetto particolare, e forse non il piú importante. Il carattere di
autorevolezza col quale si presenta alla coscienza il giudizio morale, che noi
approviamo bensì come nostro, ma che ci pare nello stesso tempo sgorgare da una
sorgente piú alta o piú profonda, e quello di precetto imperativo nel quale si
traduce, tendono a far derivare questi caratteri, e, quando siano considerati
essenziali della moralità, lo stesso giudizio morale, da un'autorità distinta
dalla coscienza, e che, pur rivelandosi in essa, la trascende e la supera. Il
fondamento di questa autorità fu riposto o nel processo stesso di formazione,
consapevole o inconsapevole, delle idee e dei sentimenti morali che danno
contenuto alla valutazione; o in un volere superiore e distinto dal volere
individuale, al quale si riconosce potestà imperativa e alla cui scelta o
decisione si riconduce in ultimo il criterio della valutazione morale.
L'autorità delle valutazioni morali avrebbe dunque in ultimo, come ogni altra
minore autorità politica o sociale, il suo fondamento e la sua legittimazione o
nei titoli di una sua nobiltà storica, o nella volontà di un potere sovrano. a)
Della storia. L'appello alla storia può assumere, assunse in effetto, forma e
apparato e significazione di- versi, secondoché si credette di fondare
l'autorità della valutazione in un processo genetico di evo- luzione selettiva
operante attraverso l'esperienza organizzata della specie; o in un processo
storico di svolgimento e di elevazione progressiva dei costumi, della cultura,
degli istituti e delle idealità etiche nei popoli civili; o nella elaborazione
logica di un pensiero riflesso rintracciato nella succes- sione storica delle dottrine
e dei sistemi. La prima delle forme accennate che si connette alla dottrina
dell'evoluzione e che culmina nella tesi di un progressivo adattamento dei
bisogni, dei sentimenti, delle attività alle condizioni di una vita sociale
sempre piú elevata, piú complessa e piú armonica (lasciando ogni questione che
non sarebbe oggi piú neanche di buon gusto sulla consistenza scientifica della
dottrine), si risolve in ultima analisi, come fondazione etica, nel postulare
quella superiorità e quella autorità dei sentimen- ti e delle norme di condotta
morali, che pretende di provare derivandola dal processo di selezione
progressiva che ne ha costituito e consolidato la prevalenza nel corso
dell'evoluzione. Infatti il criterio, per il quale giudichiamo progressiva piuttosto
che regressiva o indifferente l'evoluzione o la selezione delle idee e dei
sentimenti, è un criterio di valutazione di cui si riconosce e si accetta la
validità indipendentemente dal processo di cui sarebbe — nell'ipotesi — il
prodotto; (e del quale processo, anzi, è esso stesso, questo prodotto, che ci
fa riconoscere il valore). Ed è troppo chiaro che non è perché il progresso del
senso giuridico ha portato all'aboli- zione della tortura che noi condanniamo
la tortura, ma è perché condanniamo la tortura che ravvi- siamo nella sua
abolizione un progresso etico nello svolgimento del diritto. Ché se si obbietta
derivare l'autorità delle norme morali dalla loro convenienza e corrispon-
denza alle forme di vita «superiore», ai tipi di relazioni «più elevati» dei
quali esprimono le esigen- ze, si dimentica che all'infuori di un criterio —
quale esso sia — di valutazione non vi sono forme superiori o inferiori, tipi
derivati e tipi bassi. E un criterio di valutazione è, sempre, necessariamen-
te, in modo esplicito o implicito, assunto o sottinteso. Tanto ciò è vero, che
il massimo rappresentante e sistematore dell'evoluzionismo, lo Spencer, fu
condotto a sovrapporre, per giustificarlo — al criterio genetico
dell'adattamento pro- gressivo a un tipo di vita completa — il criterio
edonistico di un piacere puro corrispondente all'a- dattamento completo. Se a
una selezione esteriore e meccanica, nella quale la coscienza è risultato e non
attività, si sostituisce uno svolgimento interiore e psichico — nel quale la
coscienza etica viene costruendo ed elaborando le sue valutazioni le sue norme
le sue idealità sempre piú alte e sempre piú ampie nel passaggio da età ad età
e da popoli a popoli in sfere di civiltà piú larghe, e, sulla via che
l'induzione storica rivela attraverso le soste, le deviazioni, gli oscuramenti
e i ritorni apparenti, si scorge col Wundt la direzione ideale e si disegnano i
fini, i motivi, le norme in cui la coscienza morale viene raccogliendo le sue
conquiste — la concezione della formazione storica è senza dubbio piú propria,
piú adeguata e piú probabile; ma non è tolto il vizio d'origine, l'errore,
direi di prospettiva, comune a ogni tentativo di fondamentazione storica dei
valori morali. (E il medesimo sarebbe da dire per le altre specie di valori).
Lasciamo pure la vecchia calunnia (se bene le calunnie sogliono aggrapparsi a
qualche unci- no di verità) fatta alla storia: Hic liber est in quo quaerit sua
dogmata quisque; e neppure discutiamo della possibilità e dei limiti di una
induzione legittima sui fatti storici; ciò che importa, e che basta notare, è
che questa induzione, posto che fosse legittima, e non avesse già per filo
conduttore e regolatore quella direzione ideale che vi rintraccia
ingegnosamente, non pone essa il valore delle conclusioni a cui giunge, non è
essa che ci fa riconoscere la bontà, la elevatezza, la eccellenza morale delle
idealità che segnano la meta. Questa valutazione è irreducibile alla storicità;
ed è anzi dalla storia — in quanto voglia es- sere giudizio comparativo di
valori umani — sempre e inevitabilmente presupposta. Di che è prova il fatto
che, mutato il criterio valutativo, sostituita all'una un'altra scala di
valori, la prospettiva si rovescia; e Nietzsche vede una nefasta degenerazione
dove il democratico e l'umanitario ravvisano l'indice sicuro di un felice
progresso morale. E se il criterio valutativo della coscienza si contrappone a
quello che ha o sembra avere a un momento dato il conforto della storia, non vi
è in questo nessuna ragione intrinseca di superiorità o di inferiorità dell'uno
sull'altro dal punto di vista etico, che è quello che importa; anzi neppure dal
punto di vista storico, perché quel conforto (quale esso sia) della storia, che
oggi fa difetto al primo, non è escluso che lo assista domani. La storia è
conservazione e svolgimento, ma anche innovazione e opposizione; non è, di- ciamo
pure, con termini hegeliani, una cosa se non perché è nello stesso tempo
l'altra. Se passiamo ora ad esaminare lo svolgimento storico nel pensiero
riflesso, troviamo che il problema attorno al quale sembra disegnarsi meglio la
continuità logica della speculazione morale nella successione dei sistemi, è,
nella sua forma piú generale, il seguente: Come dobbiamo concepi- re la realtà
perché essa risponda alle esigenze delle nostre intuizioni morali; e se e come
siano possibili le condizioni di una tale realtà. Lo svolgimento logico e
dialettico delle dottrine riguarda so- prattutto, se non esclusivamente, i
problemi che nascono da questo problema centrale; le forme di- verse sotto le
quali si presentano; e il processo di sostituzione e di eliminazione e di superamento,
per il quale i problemi antichi trapassano nei problemi nuovi. Ma la sostanza
delle intuizioni morali non è data, e non potrebbe essere, né da questo o quel
sistema, né dalla successione fosse pur continua e rigorosamente coerente dei
sistemi, che ne scopre e ne snoda le esigenze, e viene cercando una risposta
alle domande che queste esigenze sollevano e presentano alla riflessione
critica. In questo sforzo essenzialmente speculativo di sistemazione, e per dir
cosí, di inquadramento delle intuizioni morali in una concezione unitaria della
realtà che ne ac- colga le postulazioni, sarebbe fuor di luogo pretendere di
trovare la ragione d'essere di quelle valu- tazioni, dalle quali la
speculazione prende le mosse, e che ne ispirano e alimentano le indagini. È
bensí vero che a questo travaglio di costruzione speculativa si annoda e si
intreccia l'anali- si e l'indagine di indole propriamente etica, sulla natura
dei diversi principî e criteri valutativi, che ne saggia la fecondità, ne
svolge le conseguenze, mette in luce i rapporti di accordo e di contrasto tra
le valutazioni morali attinenti a sfere di esperienza diverse, svela i legami
spesso sottili e inattesi che stringono in gruppi di affinità alcune di queste
intuizioni sia tra di loro, sia con valutazioni di altro genere, noetiche
estetiche e religiose. Ma questa elaborazione che è pure di importanza capita-
le per rendersi conto della «rilevanza» e della portata dei criteri di
valutazione e per tentarne la uni- ficazione in una dottrina etica strettamente
intesa (che è altra cosa da un sistema filosofico di etica), si svolge attorno
a un contenuto valutativo, fornito dalla immediata esperienza morale; assume
co- me validi per sé i giudizi apprezzativi che ne costituiscono gli elementi,
i punti saldi di riferimento, i dati, alla cui validità è legata la consistenza
della costruzione. E vi può essere finalmente nei sistemi morali, e certamente
si trova nei piú grandi e signifi- cativi, un filone piú o meno ricco di
intuizioni morali nuove, che si aggiungono o sovrappongono o sostituiscono alle
intuizioni date nell'esperienza della coscienza morale comune, e segnano la
crea- zione di nuovi valori e aprono la visione di una regione morale
inesplorata. È la parte che spetta al genio morale ed è il sale di quella
dottrina etica, in cui l'intuizione è accolta, ospite o signora. Ma questa
novità di intuizione, questo allargamento, o arricchimento, o soprattutto,
orientamento diver- so di valori, nessuno vorrà considerare come il frutto di
una deduzione logica, anche se nel sistema ne vestisse le forme: anche se fosse
esclusivamente opera dei grandi costruttori di sistemi e si accompagnasse
sempre con una riflessione critica acuta e una meditazione ostinata. Questa
concomitanza (che del resto non si può dire costante, perché novità di
intuizioni mo- rali si trova pure in dottrine, pensamenti, apostolati estranei,
almeno in origine, ad una costruzione sistematica) significa soltanto che
quella medesima profondità di intuizione e intenso ardore di en- tusiasmo morale
dai quali erompe la nuova idealità, promuovono e preparano, quando secondino le
forze dell'intelletto, i grandi sistemi morali. Cosí anche questa affermazione
o posizione di valori nuovi8, non importa qui cercare da quale concorso di
circostanze interiori od esteriori suscitata o svincolata, non è la conclusione
di u- n'indagine scientifica o filosofica, ma è un penetrare o un irrompere
della coscienza morale nella corrente del pensiero riflesso; che non li dà
esso, ma li accoglie; li illumina, ma non li crea. b) Il fondamento cercato in
una volontà. La forma di precetto imperativo nella quale si traduce l'esigenza
di conformare l'azione al giudizio morale fa considerare la moralità come
l'adempimento di un obbligo e questo come l'obbedienza a un'autorità inconcussa
e indiscutibile. A questo momento della moralità corrisponde la tendenza a
cercare il fondamento del valore morale stesso in un Potere (che, in quanto si
esercita in vista di un fine o in conformità a una norma, è Volere) immanente o
trascendente, personale o soprapersonale, del quale i giudizi morali espri-
mono i comandi. L'autorità della coscienza morale rispecchia l'autorità di quel
potere, e risuona l'eco di quel comando nel tono imperativo dei suoi precetti.
Ora qui è necessario sgombrare il terreno dagli equivoci che nascono dal
trasportare un me- desimo termine da uno ad altri concetti connessi ma diversi,
o dal costringere in un solo concetto momenti distinti di un processo
psicologico complesso. Quando si parla del dovere, come di una caratteristica
della valutazione morale, si cade in un equivoco di questo genere. Il dovere
non è dovere di valutare, ma di conformare l'azione alla valu- tazione. È forse
superfluo avvertire che qui si parla di valori nuovi immediati e diretti; non
di valori indiretti o mediati. Di questi altri, anzi, ogni incremento del
sapere moltiplica il numero e le gradazioni; ed è in questa derivazione e dedu-
zione dei valori indiretti e mediati dai diretti e immediati, che l'etica
applicata prende a prestito dalla conoscenza scienti- fica le premesse minori
dei suoi sillogismi valutativi. La valutazione morale precede, nell'ordine
delle esigenze ideali, l'obbligo e lo giustifica; e non inversamente; anche se
nella pratica coincidessero sempre e questo fosse la ratio cognoscendi di
quella. E qui occorre una analisi alquanto sottile e una riflessione un po'
attenta. La valutazione morale è preferenza, scelta, opzione fra qualità o
proprietà, cioè modi possi- bili di essere o di agire, tra i quali non vi è
gradazione, ma opposizione, e dei quali non può realiz- zarsi l'uno senza che
sia tolto l'altro. Porre l'uno come valore è insieme porre l'altro come non
valore o disvalore. Approvare la sincerità, la fortezza, l'alacrità come
valori, implica disapprovare l'ipocrisia, la fiacchezza, la pigrizia. Il
valutare morale è dunque un prendere partito per l'uno contro l'altro di due
soli atteggia- menti possibili; ma poiché, e questo punto è di importanza
decisiva, i valori morali, a differenza de- gli altri valori, non possono attuarsi
o vivere in noi se non sono voluti e solo in quanto sono voluti (la volizione
implica per quanto sono eseguibili tutte le azioni che ne dipendono, anzi
consiste nel- l'ordinare e nel promuovere queste azioni), cosí non è possibile
riconoscere un valore morale (che è quanto dire constatare l'opzione, la
posizione ideale dell'uno e la negazione dell'altro, la esigenza che l'un
termine acquisti o conservi sussistenza e l'altro la perda) senza approvare
l'atteggiamento richiesto a porlo in essere; anzi, senza pensare la volontà
nell'atto di realizzarlo. Ancora: gli altri valori soffrono di essere
commisurati tra di loro e posposti ai valori morali senza perdere la loro
qualità di valori, cioè senza che questo posporli smentisca il loro
riconoscimento. I valori morali invece non soffrono di essere posposti senza
essere smentiti; perché non sono morali se non a patto di essere sovraordinati
a ogni altro valore, e in quanto esprimono non stati singoli, ma modi di
essere, non atti, ma modi di operare posti come costantemente normativi della
volontà. Ne segue che riconoscere un valore morale implica approvare, se si
rivela come dato, esige- re, se è concepito solo come possibile o potenziale,
l'atteggiamento costante della volontà col quale esso valore è posto; costante,
cioè tale che si attui ad ogni presentarsi della stessa alternativa. Perché non
si può pensare che cessi di esser voluto senza pensare che cessi di esistere e
che sia posto con- tro di esso la sua negazione, il non-valore, per atto di
quella stessa volontà il cui atteggiamento posi- tivo è un'esigenza implicita
nel riconoscimento di quel valore come morale, cioè è idealmente po- stulato
nella valutazione. Perciò, se accade che chi ritiene valore morale, poniamo, la
sincerità, si sia lasciato trascor- rere a una menzogna, l'atto presente e
momentaneo del mentire appare a lui come un rinnegamento del suo proprio
volere; il quale rimane potenzialmente e conativamente morale pur nel momento
della volizione singola che gli si oppone e lo nega. Perché il valore non cessa
di essere sentito e ri- conosciuto come morale, cioè come valore che esige per
essere tale di essere attuato ossia voluto costantemente9. Ora il dovere, in
quanto è proprio e caratteristico della moralità, cioè in quanto è interiore e non
riducibile al sentimento di una coazione esterna (ossia all'obbligo di cui si
dirà tra poco), è la coscienza di questa esigenza del valore morale e si
manifesta — come necessità di rispettare questa esigenza, di tener fermo nelle
volizioni singole il valore morale, — nella sua forma piú chiara, quando è in
contrasto con motivi di altra natura. Ma è presente anche se non vi sia
attualmente que- sto conflitto, in quanto è presente alla coscienza la
possibilità di impulsi contrastanti. Di qui nasce la tendenza incoercibile,
manifesta nei maggiori pensatori, a identificare il volere puro, il volere che
esprime l'essenza della personalità umana, il volere libero e autonomo, il vero
volere col volere morale; e a con- siderare gli atti immorali come prodotti non
dalla volontà, ma da difetto di volontà, da qualche cosa di esterno ad essa;
non come espressione di attività e libertà, ma di passività e servitù. Da
quel che si è detto risulta che non si può parlare di dovere nel senso ora
chiarito, cioè di dovere morale, se non presupponendo data una valutazione
morale. I valori morali devono già essere sentiti voluti come tali: se non
sono, non vi può essere do- vere. E non avrebbe senso parlare di un dovere di
riconoscere dei valori morali a una coscienza che fosse chiusa ad ogni
valutazione etica; di un suo dovere di affermare la superiorità su ogni altro
valore, di qualche cosa a cui non riconosce alcun valore. Non avrebbe senso piú
di quel che avrebbe il pretendere che debba capire che ci son anche dei suoni e
che valgon piú dei rumori chi non avesse udito mai che rumori, e i suoni stessi
non li sentisse se non in forma di rumori. E quando si dice, poniamo, che un
uomo deve pur sentire che la lealtà vale di piú del tradi- mento, il «deve» o
non ha senso, o ha un senso al tutto diverso da quello propriamente morale. Non
ha senso se si vuol dire che nella realtà tutti lo riconoscono, cioè se si vuol
affermare o constatare una verità di fatto. Ha un senso diverso se si vuol dire
che per essere uomini bisogna sen- tire cosí, che non si può chiamar uomo o che
non merita questo nome chi sente e giudica altrimenti, cioè se si afferma che
al concetto di uomo è essenziale quella nota. Che è tutt'altra cosa. Perché
significa non che abbia il dovere di sentire in un modo chi non sente che in un
altro, ma che non sia veramente uomo se non chi sente cosí. Il che anche se
fosse del tutto arbitrario non sarebbe assurdo. Ma dunque i «sordi morali», se
ve ne sono, non hanno doveri? Non ne hanno: perché non possono sentire
l'esigenza di conformarsi a una valutazione che non han fatta e che non fanno,
di at- tuare dei valori che non riconoscono come tali. Ma hanno tuttavia e possono avere degli
obblighi. L'obbligo di operare come se riconoscessero, se non tutti i valori
morali, almeno alcuni, i piú grossolani e massicci e coercibili esteriormente,
cioè suscettivi di esser presentati come motivi ap- prezzabili anche da una
coscienza non morale. È questo obbligo, quello del quale si è tessuta con
grande abbondanza di passaggi e di fasi la genesi psicologica e l'origine
sociale nelle sanzioni esterne, e si è discusso a perdifiato se bastasse o non
bastasse a dar ragione del dovere (ed evidentemente non basterebbe a darne
ragione anche se bastasse a spiegarne la formazione); e questo obbligo implica
necessariamente il riferimento a un potere superiore e distinto dal volere
individuale. E come questo Potere si impone in vista di un fine e in conformità
a certe norme, è concepito come potere di una Volontà che comanda l'osservanza
di quelle norme. Senonché anche quest'obbligo può prendere forma e significato
morale; come può non avere altro valore che di costrizione subita: appunto come
le pene del codice per i galantuomini di princi- sbecco. E anche qui occorre un
po' di pazienza. Quella esigenza interiore che s'è visto sopra esser posta
nella valutazione stessa e per la qua- le il valore morale si fa sentire come
norma e si esprime nella coscienza del dovere (dovere di non negare nelle
singole volizioni il volere costante implicito nella valutazione morale) si
accompagna, come si è pure accennato, alla consapevolezza — data
nell'esperienza e suggerita dalla forma stessa antitetica della valutazione
normale — della possibilità di volizioni, cioè di azioni, immorali; o (che
torna il medesimo) della esistenza di tendenze, impulsi, motivi antagonistici
al volere morale. Il volere morale si manifesta perciò (in quanto tali motivi
antagonistici tendono a contrastar- ne l'attuazione) come esigenza della
subordinazione costante di questi motivi, come appello a una forza coercitrice
che li soverchi, sovrapponendo ad essi altri motivi opposti dello stesso
ordine, e rovesciandone per tal modo il valore. Questa disposizione di spirito
fa che si approvi l'obbligo e si approvi il Potere obbligante, se esiste o si concepisce
che esista; se ne ponga la necessità e se ne invochi la presenza dove e quando
manchi; cioè fa che si riconosca giusto l'obbligo, giusta la sanzione
dell'obbligo, e giusto il Potere che lo pone. In questa disposizione per la
quale l'obbligo e la sanzione sono interiormente approvati e voluti come
garanzia di moralità, e il Potere obbligante è invocato e idealmente posto in
nome della esigenza morale, sta la caratteristica differenza che dà all'obbligo
valore morale, e lo distingue dal- l'obbligo sentito come pura costrizione
esterna; che distingue il potere che merita rispetto dalla for- za che si deve
subire; l'autorità dall'arbitrio; sia che il comando di questa autorità si
consideri limita- to a una certa sfera di valori morali, sia che si faccia
coincidere collo stesso valore morale e si iden- tifichi con esso. Ma cosí
nell'uno come nell'altro caso resta la medesima, di fronte all'obbligo e al
Potere ob- bligante, la differenza di atteggiamento tra la coscienza che valuta
moralmente e la coscienza che sia chiusa, per ipotesi, alla valutazione morale.
Per la prima è la valutazione morale che fa riconoscere e rispettare l'obbligo.
Per la seconda è l'obbligo che fa riconoscere i valori morali; i quali valgono
non perché sono morali, ma perché sono riconosciuti, in forza dell'obbligo e
della sanzione, come valori strumentali di altri valori, co- me condizione
imposta e inevitabile di quei beni che soli la coscienza amorale desidera e
apprezza. L'osservanza dell'obbligo non è interiore moralità, ma è conformità
esteriore a certi comandi che valgono quel che vale la sanzione che li
accompagna. La valutazione propriamente e specificamente morale manca, ed è
surrogata da una valutazione del tutto diversa. Il suono dei valori morali non
può farsi sentire, per questa sordità morale, se non diventa il rumore di un
interesse diverso. Raccogliamo i risultati dell'analisi e vediamo che cosa ne
segue. Il dovere esprime l'esigenza di conformare l'atto al giudizio, di non
smentire, con la volizio- ne attuale, la preferenza, la opzione che si afferma,
come criterio di apprezzamento nel giudicare l'operare proprio e l'altrui,
nella valutazione morale; di non opporre il mio volere in quanto è stimo- lo e
causa dell'azione, potere di produrre movimenti, al mio volere in quanto è
scelta fra posizioni possibili opposte, e attribuzione continua e persistente
di valore all'una, e di disvalore all'altra. Se si separa la volontà come causa
delle volizioni attuali e contingenti, come potere di ese- cuzione, dalla
volontà che pone i valori e si esprime nella valutazione, il dovere si presenta
come l'esigenza dell'obbedienza del Volere operante al Volere valutante, del
volere esecutivo al volere le- gislativo, del volere a cui spetta attuare i
valori morali nelle contingenze mutevoli di luogo e di tempo, al volere che li
ha posti e li fa sentire e riconoscere come tali. Ora, quando la incertezza,
l'incostanza, la debolezza del carattere, il prepotere di istinti, di impulsi e
di tendenze opposte in noi e negli altri, facciano sentire alla coscienza
morale la necessità di un Potere che assicuri la preminenza di fatto e non
soltanto di diritto dei valori morali, e ne tuteli l'osservanza, il valore
morale di questo Potere e delle sanzioni con le quali impone i suoi comandi,
viene manifestamente dall'essere questo Potere pensato come conforme
all'esigenza morale, come proprio di una volontà, che si accorda, in tutto o in
parte, con quel che si è detto il Volere valutante; cioè di una Volontà che
tende all'attuazione dei valori morali. Se quel Potere è pensato senza limiti e
attribuito a una volontà perfettamente morale cioè a una volontà la cui norma
si identifichi con quella del mio Volere-valutante, questa Volontà — in cui il
potere adegua il valutare e per la quale la attuazione dei valori morali adegua
la posizione di essi valori come tali, cioè come degni di essere attuati — sarà
pensata non solo come un potere che im- pone, ma come Autorità che merita,
un'obbedienza incondizionata; e apparirà che derivino da un'u- nica sorgente
cosí il comando che esprime la potenza operante di quella volontà, come la
valutazio- ne morale che ne esprime la norma; cioè apparirà fondato su
quell'Autorità il criterio stesso della valutazione. Ma lasciando ogni
questione sulla legittimità delle postulazioni implicite in questi processi
costruitivi e sulla possibilità della loro sintesi, è facile vedere come
rimanga sempre inevitabilmente distinta e presupposta nel concetto
dell'autorità imperante la valutazione, che giustifica il comando, che dà
autorità al potere, che suggerisce l'identificazione di un Volere onnipotente
con un Volere legiferante; la valutazione data nella coscienza morale, la quale
rimane il postulato inespugnabile; non derivabile e non superabile; anche dove
è sottinteso e dove sembra, a primo aspetto, derivato o subordinato. Cosí se il
teologo ammonisce di non biasimare come ingiusto o cattivo ciò che la
Provviden- za dispone o permette, non contrappone alla valutazione morale una
valutazione diversa, ma sosti- tuisce e sovrappone alla «veduta corta d'una
spanna» una sapienza infinita la quale vede i fini remo- ti di quell'ordine che
a noi rimane occulto; e per il quale in realtà è bene quel che fuori di
quell'ordi- ne a noi appare un male. Ma appunto il criterio di questa bontà è
il criterio morale; ed è il non sapere conciliare i fini apparenti con
l'esigenza morale che induce l'opinione o la certezza di fini ulteriori che si
accordino con essa. Dopo quanto s'è detto riuscirà piú chiara l'analisi delle
forme principali nelle quali si presenta, e si è presentata storicamente, la
dottrina del fondamento autoritativo della morale. Se la distinzione tra il
potere e l'esigenza morale che lo legittima non è superata, come s'è vi- sto,
neppure quando si unificano i due termini nel concetto di un'autorità che sia
insieme irresisti- bilmente potente e indefettibilmente morale, tanto piú
manifesta sussisterà nelle forme in cui l'unificazione non è posta, o
l'adeguazione è incompleta. Ma restano, almeno all'apparenza, due vie: a) o
negare ogni valore alla coscienza morale come tale, e fondare ogni valutazione,
sul potere che la pone a suo arbitrio; b) o trasferire il criterio della
valutazione morale dalla coscienza personale a un'altra coscienza, impersonale
o collettiva, la cui autorità viene da qualche cosa di diverso che dal suo
accordarsi totale o parziale con la coscienza della persona. Sulla prima tesi
non c'è da osservare che questo: Che essa o non risponde alla domanda alla
quale pretende di rispondere; perché non è dire donde venga l'autorità della
valutazione morale negarle ogni valore, per riconoscere soltanto il pote- re
che la impone, ma che potrebbe imporre il contrario. O non toglie se non a
parole la distinzione, che ritorna attraverso a qualsiasi sottigliezza, tra
l'arbitrio e la giustizia, tra la forza e il bene. E quando il Callicle
platonico condanna le leggi come un'imposizione dei molti ai pochi, degli
inetti e fiacchi agli ingegnosi e ai forti, egli deve, per non contraddire se
stesso, non escludere, ma includere nel suo biasimo un criterio morale, un
criterio superiore alla forza; poiché serve a giudicarla, a distinguere quella
degli ingegnosi, degli intelligen- ti, dei superiori, da quella del numero; a
riconoscere che v'è una forza che dovrebbe valere di piú e che non è giusto sia
sopraffatta dall'altra. Ma dunque non è piú la forza che costituisce la
giustizia? E il potere illimitato del Sovrano, al quale Hobbes riconduce ogni
criterio di morale e di diritto, esclude solo in prima istanza, cioè in
apparenza, ogni valutazione diversa: perché, come tutti sanno, l'arbitrio di
questo potere è legittimato da un'esigenza diversa; quella stessa per cui si
suol riconoscere che è meglio una legge cattiva che nessuna legge, e un governo
tirannico che nessun governo. La seconda delle vie indicate conduce a far
riconoscere l'autorità morale come propria, o della collettività concepita come
aggregato dei singoli, o dello stato come distinto e superiore alle persone:
sia come organo della società ai cui fini sono subordinati i fini individuali, sia
come Volere universale al quale devono inchinarsi le volontà particolari. Le
due tesi hanno, come è noto ed è facile capire, significato e valore diverso.
Se la collettività è intesa come semplice aggregato e somma di singoli, non si
può evitare il criterio della maggioranza, cioè in ultimo della forza. Un
giudizio morale che non è valido se cor- risponde alla valutazione di n-1
coscienze, diventa valido se quell'una cambia parere. È il criterio della
democrazia politica; di cui non si discute ora il valore come criterio politico
(cioè come crite- rio di preferenza tra i mezzi, non di giustizia tra i fini);
ma del quale nessuno riconosce sul serio il valore di criterio morale supremo;
per la stessa o analoga ragione per cui il buon senso non è il sen- so comune,
e il discorrere concludente di un solo vale piú che il chiacchierare
sconclusionato di cento; e per la quale la maggioranza dei votanti può bastare
a fare una legge ma non a farne ricono- scere l'equità. Ché se l'autorità
morale della valutazione collettiva vale in quanto essa esprime l'unanimità dei
singoli, e perciò serve a distinguere la sfera piú o meno ampia di valutazioni
in cui tutte le coscienze concordano, da quelle sulle quali l'accordo sparisce,
si riconoscono due cose: che per cia-
scuna persona non vi può essere autorità morale superiore a quella della
propria coscienza; che la distinzione la quale può essere di importanza
capitale per i rapporti tra morale e politica, cioè tra norme etiche e norme
giuridiche, non ha valore morale se non a patto di essere fondata essa stessa
su una distinzione di valore apprezzata o apprezzabile (non importa ora cercar
come) dalla coscien- za morale personale che la deve riconoscere. Manca dunque
sempre il qualche cosa di diverso dalla coscienza personale, a cui dovrebbe
ricondursi l'autorità della coscienza collettiva. Quando si parla di fini della
società diversi dai fini individuali, e di coscienza sociale di- stinta dalla
coscienza personale, si corre facilmente nell'equivoco di opporre come
separati, o, peggio ancora, precedenti l'uno all'altro due termini correlativi;
e si dimentica o si trascura di tener pre- sente che i fini della società non
sono fini se non per gli esseri associati che li concepiscono e li fan propri;
e che la coscienza sociale non esiste e non si rivela che nelle coscienze
individuali; come, per converso, che i fini individuali sono nello stesso
tempo, o direttamente o indirettamente, fini della società; e un certo grado di
distinzione e differenziazione delle coscienze individuali è correla- tivo a un
grado corrispondente di coscienza sociale. Ciò non significa negare il fattore
sociale e le esigenze della socialità. Ma significa che quando si parla di
individui e di coscienza individuale, questo individuo è già il socio; è esso, e
nel- lo stesso tempo la società a cui appartiene; e la coscienza personale sua
è insieme coscienza di sé individuo e coscienza di altri e del tutto: ed è cosí
legittimo dire che esprime le esigenze dell'io di fronte a quelle della
società, come dire che esprime quelle della società di fronte a quelle dell'io.
Fatta questa avvertenza, che non sarebbe a rigore necessaria per la discussione
presente, rie- sce meno strana l'affermazione che i valori sociali non sono
morali se non perché e in quanto sono sentiti e valutati come tali dalla
coscienza personale; e che dal punto di vista etico non è la società che dà
valore ai miei criteri morali, ma sono i miei criteri morali che danno valore
alla società. La socialità stessa, come tendenza e come esigenza, può essere ed
è valutata alla stregua del- la esigenza morale. Derivare la valutazione morale
da fini sociali significa dunque derivarla da qualche cosa il cui valore è
giudicato e posto in grazia di quella stessa valutazione che se ne vuol trarre.
Di che si può trovare la prova in due considerazioni non difficili. La prima è
questa: che il giudizio sulla maggiore o minore eccellenza e dignità dei fini
designati come sociali e delle istitu- zioni, delle leggi, dei tipi di società,
ammette o sottintende postulati morali; e che non v'è riforma sociale piccola o
grande che non invochi e non debba affrontare il giudizio della coscienza
morale. Quella stessa dottrina sociale (il marxismo) che formulò piú
apertamente il proposito del piú risoluto amoralismo per fondarsi su un
rigoroso determinismo storico, vede dissiparsi il suo baga- glio scientifico, e
star saldo quel nocciolo di idealità etiche per le quali professava in vista il
piú a- perto dispregio, e che in realtà avevan dato l'anima alla dottrina e
l'ali alla certezza. L'altra osservazione è questa; che appunto quel che vi è
di vivo e di vitale e di durevole nella fede («fede è sostanza di cose
sperate») che prende il nome dal socialismo, è sociale non nel fine, ma nel
mezzo; mentre è, nel fine, e non potrebbe non essere, suggerito e alimentato da
un ideale morale che ha per oggetto e per centro l'individuo, la unità
personale umana. Poiché la proprietà collettiva è concepita, attesa, voluta
come condizione necessaria a rendere effettiva la libertà di tutti, a far
veramente di ogni individuo umano una persona umana. Che poi quella sia la
condizione necessaria, e che sia sufficiente; o che gli effetti siano per
essere diversi o opposti da quelli sperati, è tutt'altro discorso. La vieta
analogia biologica che fa degli individui le cellule dell'organizzazione
sociale, se anche rispondesse a verità per quel che riguarda le condizioni
dell'esistenza, dovrebbe sempre venir rovesciata nel rispetto della valutazione
morale. Perché soltanto nella cellula-individuo l'organismo- società acquista
coscienza di sé; e soltanto nella coscienza dell'individuo vale come organismo,
e per essa soltanto potrebbe acquistar valore di finalità riconosciuta e voluta
da lui come superiore a se stesso. Né concluderebbe il dire che non si tratta
in ultimo che di un «punto di vista diverso; e che, se dal punto di vista
dell'individuo i valori sociali sono valori individuali, dal punto di vista
della società è vero l'inverso: perché la coscienza che pone i valori sociali,
e che giudica e valuta dal «punto di vista» sociale, che funge da coscienza
sociale, è ancora, sempre, inevitabilmente, una co- scienza individuale.Più
breve discorso è da fare per il proposito nostro, della dottrina assai piú
sottile e complicata che concentra ogni autorità e ogni finalità sociale nello
stato e fa dello stato l'organo dell'Eticità. Perché in quanto la volontà dello
stato sovrano si identifica col Volere universale cioè col volere morale, non
c'è che da ripetere quel che si è detto sopra a proposito dell'identificazione
del Volere- potere col Volere-valutazione. Ciò che fa essere lo stato arbitro
della valutazione, e l'autorità dei suoi comandi criterio supremo dei valori
morali, è questa affermata identità del Volere dello stato col Volere morale
che si viene attuando nella Storia. Le difficoltà che possono nascere dagli
sforzi di conciliare lo stato com'è con lo stato com'è concepito, e di
interpretare i processi reali del suo divenire storico come momenti di
attuazione del- lo Spirito universale cioè del Volere morale, rimangono
estranee al punto in questione; il quale è questo: che il valore etico dello
stato nasce dall'essere esso e esso solo l'organo adeguato di quel Volere
universale, il quale è lo stesso Volere etico, che informa di sé la coscienza
personale e si fa valere in essa. Cosi qualunque sia il Potere e qualunque il
Volere a cui si voglia ricondurre l'autorità della coscienza morale, sempre si
trova dietro a quel Potere e dietro a quella Volontà, inevitabilmente dato o
presupposto, quel valore morale che legittima il primo e dà autorità al
secondo; come dietro la firma dell'uomo d'affari sia, non vista e non detta, ma
sottintesa, la ricchezza reale o supposta, che fa della sua cambiale un valore.
Ma se l'autorità della valutazione morale non è derivabile da nessun'altra
autorità superiore diversa da quella della coscienza personale, bisogna
ammettere: o che le valutazioni morali delle diverse coscienze coincidano
totalmente, cioè che le coscienze personali non siano che copie o esemplari di
una medesima coscienza morale che si esprime per mille voci uguali di tono e di
conte- nuto; o altrimenti che si trovi, nella natura stessa dei valori morali,
posta, insieme con la esigenza dell'accordo rispetto ad alcuni, quella della
differenza e dell'opposizione rispetto ad altri valori. E in questo caso al
problema della fondazione storica e della fondazione consensuale della
valutazione morale si sostituisce l'altro problema: Quali sono i valori morali
nel cui riconoscimento l'autorità dell'induzione storica e l'autorità del
consenso universale coincidono con quella della co- scienza personale? E in che
cosa differiscono dai valori morali per i quali manca tale accordo? È
legittima, e perché ed entro quali limiti, una subordinazione (che in ogni caso
non potreb- be né in fatto né in diritto estendersi all'atteggiamento
interiore, ma valere soltanto rispetto alle ma- nifestazioni esteriori) dei
secondi ai primi? E del pari si trasforma il problema sul fondamento del
dovere. Il dovere non riguarda, come s'è visto, il valutare, ma il conformare
la condotta alla valutazione; e suppone il rapporto tra due volontà distinte o
concepite come distinte, tra un volere presen- te e momentaneo che si rivela
nella volizione attuale e concreta, e il volere dell'io persona, il Volere
valutante o normativo, che le dà unità. Se l'io momentaneo o contingente è
dominato totalmente e assorbito dall'io persona, e il Volere operante si
identifica col Volere valutante, il dovere si attenua e svanisce perché
sparisce il termine subordinato; se il Volere valutante manca e l'io non è che
ag- gregato temporaneo e variabile di impulsi e di tendenze accidentali, il
dovere non sorge perché manca il termine subordinante. Il problema del dovere è
perciò il problema di questo rapporto, e delle difficoltà che nascono, sia dal
concepire il Volere operante come uno e identico col Volere valutante; sia dal
concepirlo come distinto e diverso; sia infine dal concepire, secondo importa
la necessità di una conciliazione, le due volontà come distinte e diverse nell'uomo
individuo, ma come una e identica in un Potere so- prapersonale del quale il
valore morale esprime la legge nella coscienza individuale. Ogni sforzo di
derivare una valutazione morale da qualche cosa di cui non sia già ricono-
sciuto il valore morale è dunque vano o illusorio. O non dà quel che si cerca,
o presuppone quel che si pretende di fondare. In realtà i valori morali o
valgono per sé o sono tali in grazia di altri valori che valgono essi come
morali per sé. Epperò ogni ragionamento col quale si dimostri per esempio che
un'azione è buona o giusta, si risolve o nel ricondurre quell'azione a una
classe di azioni, a un modo di operare già riconosciuto come morale, o nel
dimostrare che questa azione fu od è voluta come condizione o mezzo di attuazione
di un valore morale. I valori morali diretti e immediati, apprezzati e voluti
per sé, sono dunque dati di una espe- rienza morale non riducibile ad altre
forme di esperienza e i giudizi nei quali questa validità diretta e immediata è
ammessa o riconosciuta, sono postulati di valutazione morale (postulati etici
in proprio senso). E una dottrina morale in quanto è sistema di valutazioni si
fonda in ultimo sui postulati etici, espressi o sottintesi, di cui si assume
che sia ammessa la validità: cioè che siano dati immediati del- la coscienza
morale. Quando sia chiaramente riconosciuta questa indipendenza, questa
validità per sé o autoassia dei postulati etici, le costruzioni dottrinali
rivolte a cercare fuori della morale un fondamento che essa né può trovare né
ha bisogno di cercare altrove, prendono un carattere e un significato diverso
se non opposto; e forse considerate da questo aspetto rivelano meglio la
tendenza profonda che muove e avviva in forme sempre risorgenti di tentativi
diversi, i tipi di costruzione morale esaminati nei capi precedenti. L'idea
centrale dell'intellettualismo morale di cercare il fondamento morale in una
realtà ob- biettivamente data, e, in una conoscenza di questa realtà, dei suoi
gradi di entità e di perfezione, il criterio della valutazione morale, diventa,
guardata da questo aspetto, un'espressione della tendenza profonda e
incoercibile, di trovare nel valore il senso e la ragion d'essere della realtà,
nel criterio morale la chiave della sua interpretazione; di commisurare la
realtà alla dignità, e riconoscere come esistente veramente soltanto ciò che è
degno di esistere, facendo del bene il solo vero reale, e del male un
mancamento, un difetto di realtà, l'irreale. Dietro il pensiero che muove i
tentativi dell'utilitarismo sotto qualunque forma si presenti (non soltanto
edonistico, ma estetico, noetico, umanitario, religioso) di trovare la ragione
del valore morale in un bene supremo o maggiore o piú alto di ogni altro, che
ne persuada l'utilità o ne giusti- fichi l'autorità, appare la convinzione che
anche sotto il rispetto soggettivo della felicità (per l'uomo patologico,
direbbe il Kant) non è in ultimo veramente bene se non ciò che è morale, o ciò
a cui la moralità apre la via. Tutto ciò che ha valore, in quanto ha valore
davvero, non può contrastare, ma si accorda, de- ve accordarsi coi valori
morali, consistere in questi, o essere — in ultimo — condizionato da questi. E
quando si tormenta la storia (storia esterna e storia interna della civiltà)
per trovare nel processo di svolgimento, nella selezione subita o nel trionfo
conquistato, i titoli di nobiltà che spieghino e legittimino l'autorità della
morale, della nostra morale, si agita dietro l'acume e la sotti- gliezza delle
indagini e sotto gli accorgimenti dell'induzione storica, il bisogno di trovare
nella sto- ria l'attuazione di un disegno etico, di fare dell'accadere storico
un divenire morale, di confermare con l'esperienza morale del passato
l'esperienza del presente, la nostra esperienza morale, la mia. Come l'appello
al consenso universale degli uomini, meglio che allo scopo di fondare su questo
consenso la mia certezza morale, risponde alla esigenza che realmente abbiano
valore per ogni coscienza quei valori che sono posti come universali dalla mia,
e costituiscono non il mio sol- tanto, ma il patrimonio ideale piú prezioso di
ogni uomo, dell'uomo. E finalmente, quando dell'autorità si cerca il fondamento
in una volontà superiore e distinta dalla volontà di ciascuno, che si impone a
questa e ha il potere di obbligarla, l'esigenza a cui si ob- bedisce è quella
stessa di cui si alimenta la coscienza del dovere: l'esigenza che il volere piú
alto e il piú degno di autorità perché è il volere che pone i valori morali,
sia nello stesso tempo un potere a- deguato al compito suo, il potere piú
forte10; sia, come il vero volere, cosí il supremo potere. La forma generale, con la quale si presentano
da questo punto di vista i problemi, è dunque inversa a quella nella quale sono
posti e considerati nelle dottrine che cercano fuori della morale il fondamento
della morale. Si tratta non già di vedere quale ragione d'essere, e d'esser
tali piuttosto che altri o diversi, trovino i valori morali nella realtà che
conosciamo, nei beni d'altro genere che desideriamo, nelle tradizioni e negli
esempi del passato, nei giudizi dei contemporanei, nel comando di un Volere
onnipotente; ma di vedere se e come sia possibile e sia legittimo costruire una
realtà, graduare dei valori, interpretare la storia, pretendere il consenso,
postulare una Volontà in cui si adegui il potere al volere, sul fondamento
della certezza e validità immediata e diretta dei valori mo- rali, e delle
esigenze che essi implicano. La formulazione generale di quei problemi dal
punto di vista morale è dunque segnata da questo procedimento: Quali sono i
valori morali; e quali sono le esigenze derivanti dalla loro posizione; se e
quali postulazioni di ordine teoretico siano richieste a soddisfare queste
esigenze; se e quale legittimità abbiano le postulazioni teoretiche fondate
sopra di esse. Ma qualunque cosa si pensi di questi problemi e delle loro
soluzioni, sussiste, indipendente da ogni giudizio su di essi, e rimane
stabilita chiaramente e incontestabilmente, la primarietà, la indipendenza, la
auto-assiomaticità delle valutazioni morali. A fondamento dei giudizi morali
non vi sono e non vi possono essere che dati e postulati di valutazione
morale. L'idea di «potere» è un elemento inespugnabile del concetto di
volontà, perché la volontà è produzione, crea- zione, iniziativa. Dove si
ravvisa o si presume che ci sia o ci debba essere una volontà, ivi si presume
una forza (non è anzi la volontà la prima, e la sola forza, cioè attività che
ci sia rivelata dall'esperienza diretta?); e una forza tanto mag- giore quanto
più grande e difficile è il compito che la volontà si pone. Ed è perciò che
questa forza appare nella forma più chiara, quando il volere morale si traduce
in atto contro gli impulsi di ogni altro genere ed a prezzo dei più gravi
sacrifici; è perciò che il sacrifizio è la prova più alta e la testimo- nianza
più sicura (nell'espressione stupenda del Cristianesimo testimonio è il
martire) della saldezza, della serietà del volere morale. Ed è anche per ciò
che appare inevitabilmente pietoso o ridicolo un volere senza potere; e che il
senso comune si fa beffe dei padri Zappata. Dei due elementi della volontà, la
direzione consapevole e la forza, il senso co- mune è tratto senza esitazione a
fare maggior stima della forza. Ha torto? ha ragione? L'indipendenza e
l'indeducibilità dei grandi valori morali da qualsiasi speculazione teoretica
fu, come tutti sanno, riconosciuta e affermata, nella forma piú esplicita e con
grandissimo vigore dal Kant. Perciò le conclusioni riassunte nell'ultimo
capitolo sembrano mettere capo alla sua dottrina e alla soluzione data da lui
al problema che l'analisi precedente pone come il problema veramente centrale
dell'etica: quale sia il dato o quali siano i dati indeducibili della morale;
o, che torna lo stes- so: quale sia il criterio (o quali i criteri) a cui si
riconduce la valutazione morale. Bisogna dunque cercare prima di tutto se
questa soluzione sia veramente esauriente. Ma giova intanto avvertire subito,
per evitare le facili confusioni e gli equivoci indotti da connessioni abituali
di idee e di dottrine, che la indeducibilità dei valori morali, come non
implica necessaria- mente i principi e i procedimenti tenuti dal Kant nel
riconoscerla (poiché vi si giunge, come abbiam visto, anche per altra via),
cosí non richiede, per sé, né che si accettino né che si ricusino le
conclusioni alle quali si arriva. La connessione fra le diverse tesi che si
raccolgono attorno alla autonomia kantiana può es- sere, anzi veramente è, nel
suo pensiero una connessione necessaria, ma non è necessaria fuori di esso e
fuori del sistema di dottrine che lo esprime. Cosí il «primato della ragione
pratica» nella soluzione dei problemi metafisici non è una conseguenza
logicamente inevitabile della indipendenza e validità per sé dei valori morali;
benché possa essere e sia anzi facilmente accolta da chi riconosce questa
indipendenza e validità. Ciò che si presenta come conseguenza di questo
riconoscimento è il problema della conci- liazione tra le esigenze della
speculazione teoretica e le esigenze della valutazione morale; del qual
problema il primato della ragion pratica esprime una soluzione o traccia la via
per la quale Kant la cerca. Ma veniamo al punto che ci interessa. Il concetto
fondamentale dal quale il Kant prende le mosse è, come è noto, quello del
volere buono. Il volere buono è il volere che si determina non per un oggetto,
qualunque esso sia, che ab- bia un valore di fine per chi lo vuole (motivo
«patologico»), ma per il dovere: cioè per il rispetto al- la legge perché è
legge; non già in vista di quel che la legge comanda, ossia delle conseguenze
che il volere conforme alla legge apporta. Il rispetto della legge in quanto è
legge, astrazione fatta dal suo contenuto, è dunque il ri- spetto di ciò che la
fa esser legge, della sua validità universale. L'universalità è la forma della
ragione che si pone come esigenza del volere puro; è la ragio- ne stessa in
quanto si manifesta come volontà, è la ragione pura pratica. Se l'uomo fosse
pura ragione, cioè se non fosse insieme un essere sensibile soggetto a ten-
denze, a impulsi di altre specie, il suo volere sarebbe santo, e non si
potrebbe parlare di dovere. In- vece il dovere c'è perché c'è l'esigenza di
conformare l'azione alla ragione e non agli impulsi della sensibilità. E il
volere buono e appunto il volere che posto fra la legge e quegli impulsi — di
qua- lunque specie siano — si determina per la legge, cioè per l'universalità,
che è la forma della volontà razionale. Il criterio supremo della moralità è
perciò espresso nella nota prima formula dell'imperativo categorico, di cui si
dice piú sotto. Come si deve intendere quella universalità? E basta essa ed
essa soltanto a fornire la caratte- ristica della valutazione etica, a
distinguere ciò che vale moralmente da ciò che non vale? Quando la prima
formula dell'imperativo dice: «Opera soltanto secondo quella massima che tu
puoi volere nello stesso tempo che diventi una legge universale», — questa
possibilità di voler che la massima diventi legge universale può esser presa in
due significati diversi. Può voler dire la possibilità che sia seguita
universalmente senza che l'osservanza da parte degli uni tolga o impedisca o
limiti la possibilità della medesima osservanza da parte degli altri; la
possibilità di pensarla senza contraddizione come legge universalmente valida;
o può significare invece la possibilità che il valore universale della massima
sia riconosciuto senza che questo riconoscimento contraddica o neghi il valore,
che è o si suppone già ammesso, di un principio piú generale; ossia che si
possa volere l'universale validità della massima senza disvo- lere
l'universalità di una MASSIMA piú generale che la comprende, e si suppone che
già sia o debba essere ammessa come legge. I due significati sono profondamente
diversi, sebbene possa parere a prima vista che coinci- dano. Che, negli esempi
che dà e nei commenti con cui li accompagna, lo stesso Kant non mescoli qualche
volta i due sensi e non ne oscuri le differenze, non oserei negare; ma non
parmi si possa dubitare che il vero significato inteso e voluto da lui sia il
secondo e non il primo. Se s'intende l'universalità nel primo senso bisogna
riconoscere che non soltanto si può concepire, ma può darsi in effetto che sia
seguita universalmente, una massima senza che perciò se ne ammetta il valore
morale; come per converso; può darsi che di una massima di condotta non sia
possibile l'osservanza universale senza che perciò se ne riconosca
l'immoralità. a) Come esempi del primo caso basta citare uno di quelli addotti
dallo stesso Kant (nella Fondazione) in sostegno del criterio
dell'universalità: l'esempio dell'uomo d'ingegno che pre- ferisce il darsi buon
tempo alla fatica di esercitare e perfezionare le sue doti naturali (dove è
chiaro che non vi è nessuna impossibilità di concepire che tutti seguano quella
medesima massima, sebbe- ne questo non importi nessun riconoscimento di valore
morale); e quello (addotto dallo Schopenhauer contro il Kant) della ragione del
piú forte. Anche qui è possibilissimo ammettere che dappertutto dove vi è un
forte di fronte al debole il primo sopraffaccia il secondo, cioè che la
subordinazione del debole al forte sia fatta valere uni- versalmente come
legge, senza che perciò se ne ammetta la moralità. Per converso, tra le massime
che non possono pensarsi universalmente osservate sen- za contraddizione vi
sono non solo massime comunemente riconosciute come immorali, per esem- pio,
che ciascuno possa appropriarsi l'altrui, ma anche massime come l'opposta: che
ciascuno ceda il proprio a vantaggio d'altri. Della quale, se non gli
economisti, almeno San Francesco e i suoi ammiratori non metteranno in dubbio
la santità. Ed è manifestamente del pari impossibile pensare universalmente
praticate cosí la seconda come la prima. Ben diverso è il secondo significato;
per il quale la possibilità o l'impossibilità di univer- salizzare la massima
non riguarda l'osservanza, ma la compatibilità o l'incompatibilità di questa
universalizzazione della MASSIMA con la volontà che la pone. Senonché questa
incompatibilità (restringo, per semplificare, l'esame alla forma negativa che è
anche la piú importante) può esprimere due specie diverse di contrasto: può
voler dire che univer- salizzando la massima si viene a togliere la ragione
per la quale si è accolta, ossia a negare il motivo stesso che la
giustifica; oppure che si nega il valore di un'altra massima che già vale, o si
ammette che valga o debba valere per la volontà, come legge universale. I due
casi debbono essere considerati a parte e si possono chiarire facilmente con
esempi. Supponiamo che oggi io, piú forte, trovandomi di fronte a un debole lo
costringa a fare il piacer mio, e che giustifichi la mia prepotenza con la
massima che il forte ha diritto di soggiogare il debole. Se il motivo, che mi
ha indotto a formulare la massima è l'interesse egoistico, accadrà che in nome
di questo stesso interesse io dovrò negare la massima quando le vicende
facciano di me, del piú forte di ieri, il debole di oggi. Ossia la massima non
può essere universalizzata, senza che venga posta con ciò la possibili- tà che
sia negato il principio (cioè il motivo o l'interesse) in grazia del quale l'ho
accolta. Se si suppone invece che io riconosca essere nella forza il fattore di
ogni elevazione mo- rale, e nell'esercizio incondizionato di essa il valore
morale piú alto, la massima della prepotenza che approvo quando il piú forte
sono io, dovrà essere parimente approvata — anche se hic et nunc mi dispiaccia
— quando il piú forte sia altri; e l'universalità della massima potrà esser
voluta senza contraddizioni, perché si accorda con il mio supremo criterio
morale (che è quanto dire universale) di valutazione; ossia perché è una forma
subordinata di un'altra massima già posta dal mio volere come legge universale.
Il significato nel quale è preso dal Kant il criterio della universalizzazione,
è, come si è detto, il secondo; e propriamente quella forma del secondo che
risponde all'ultimo dei casi ora esaminati. Né potrebbe cadere sotto qualsiasi
altra la considerazione, che è la sola veramente decisiva, fatta da lui per
provare che non potrebbe essere universalizzata la massima proposta nel 3°
esempio, già citato, dell'uomo che ha ingegno e rinuncia a coltivarlo. «Egli
vede bene che senza dubbio una natura, malgrado una tale legge universale,
potrebbe sempre ancora sussistere, anche quando l'uo- mo (come l'abitatore del
Mar del Sud) lasciasse arrugginire i suoi talenti e non pensasse che a vol-
gere la sua vita verso l'ozio, il piacere, la propagazione della specie, in una
parola, verso il godimen- to; ma egli non può assolutamente volere che questa
divenga una legge universale della natura e che ciò sia innato in noi come
istinto naturale. Perché come essere ragionevole egli vuole necessaria- mente
che tutte le facoltà siano sviluppate in lui». (Fondazione). La medesima
considerazione è ripetuta a proposito dall'altro esempio in cui si fa l'ipo-
tesi del brav'uomo, che si propone di non far del male a nessuno, ma quanto
all'adoperarsi nei biso- gni altrui è del parere: ciascuno per sé, e Dio per
tutti. «Quantunque sia possibile che sussista una legge universale della natura
conforme a quella massima, è impossibile di volere che un tale princi- pio
valga come legge della natura» Per il Kant dunque l'universalità della massima
non è criterio della sua bontà e del valore morale della volontà che vi si
conforma, se non perché essa è una prova dell'accordarsi della mas- sima
seguita nell'azione con la natura dell'essere ragionevole, con la legge posta
dalla Ragione, che è la legge stessa morale. Soltanto intesa cosí la formula (nella
Fondazione) della volontà di ogni essere ragionevole che istituisce per mezzo
delle sue massime una legislazione universale, o nei termini della Critica
della ragion pratica. Opera in modo che la massima del [Con quel che risulta
evidente da questa ipotesi si accorda il fatto assai notevole della profonda
diversità di valore che può assumere nel nostro giudizio morale la medesima
regola pratica, secondoché noi vediamo dietro di essa un motivo soprasoggettivo
e impersonale (anche se contrario al nostro criterio di valutazione) o un
motivo soggettivo e personale; a seconda che ci appare una massima accettata
veramente da chi opera come norma, o un comodo pretesto o compromesso del
momento; cioè a seconda che vi si trova o no quella condizione necessaria, se
non sufficiente, del ca- rattere morale, che è la coerenza dei giudizi tra di
loro e delle azioni coi giudizi. La ragione di natura egoistica che Kant fa
seguire può valere tutt'al più come un tentativo poco felice di giu- stificare
la simpatia dal punto di vista dell'interesse individuale, ma non varrebbe per
sé in alcun modo a dimostrare l'impossibilità di volere di cui si parla, se non
a patto di identificare (pericolo forse non avvertito) il volere dell'uomo
«come essere ragionevole» col volere del caro Io. Il corsivo delle parole
sottolineate in questa e nella citazione precedente è mio, tranne per la parola
volere spa- zieggiata. Cito per la Fondazione della metafisica dei costumi la
bella traduzione del Vidari (Pavia, Mattei Speroni); per la Critica della
ragion pratica mi riferisco al testo originale nella edizione della R.
Accademia di Prussia (Kant's Gesammelte Schriften, Reimer, Berlin). Kritik der praktischen Vernunft, tuo volere
possa valere insieme come principio di una legislazione universale»; e
coll'autonomia del volere come principio di tutte le leggi morali e dei doveri
conformi ad esse. E soltanto cosí si può intendere come egli creda di derivare
dall'universalità la formula famosa e piú fecon- da (ma feconda in quanto dà un
contenuto all'universalità, non in quanto semplicemente ne riceve la forma. Opera
in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni
altro, sem- pre ad un tempo come fine e non mai soltanto come mezzo. Ma intesa
cosí l'universalità, essa non esprime che una doppia esigenza: dell'universale
con- formità delle massime alla ragione, alla legge morale, al volere puro come
principio di una legisla- zione universale, vale a dire, alla legge morale; e
della universale validità delle massime come co- mandi, cioè dell'universalità
del dovere. Ma né dall'universale imperatività delle massime, né dalla
universale loro conformità alla legge morale è possibile ricavare quali sono i
modi di operare che le massime impongono, quale sia la legge universale che la
volontà per mezzo delle sue massime pone a se stessa. Se ora vogliamo, e
possiamo ormai farlo legittimamente, uscire dalla terminologia kantiana e
servirci dei termini usati nella parte precedente, possiamo raccogliere e
completare l'analisi del criterio kantiano in una forma forse piú chiara. I
valori morali sono valori riconosciuti dalla pura ragione, valori che esprimono
la volontà dell'uomo in quanto è essere ragionevole. La esigenza caratteristica
sentita profondamente dal Kant, che i valori morali siano superiori ed estranei
ad ogni interesse egoistico, e apprezzati e voluti per sé, indipendentemente da
ogni considerazione delle loro conseguenze, lo spinge (poiché la volontà come
potenza pratica gli sembra inevitabilmente legata a tendenze e impulsi
sensibili, a fini, cioè a rappresentazioni di conseguenze valutabili solo in
rapporto alla sensibilità del soggetto) a fare dei valori morali degli enti di
ragione, a trarli dalla ragione pura, a fare della ragione pura la ragione
pratica («la ragione pura è per se stessa pratica»). Ma la ragione per quanto
si faccia non dà valori; la ragione esige o impone la coerenza; teo- rica: dei
giudizi fra di loro e con i principi e i dati su cui si fondano; pratica: delle
valutazioni deri- vate e mediate con le valutazioni direttamente date o
postillate, e delle azioni con le valutazioni. Non dà dunque le valutazioni,
sebbene sia tutt'altro che trascurabile, anche per questo rispetto, l'ufficio
di confronto, riduzione, subordinazione, unificazione che le è proprio. Non è
meraviglia che a voler cavare, da essa soltanto, i valori morali, non se ne
estragga in ultimo che questa esigenza di una universale coerenza della volontà
con se stessa; esigenza necessa- ria e caratteristica di ogni uomo che sia
persona, perché sottintesa, affermata, voluta (anche quando coi fatti la
smentiamo, ma sempre a malincuore) costantemente, come prova e testimonianza a
noi stessi della unità spirituale, della esistenza e continuità dell'io come
persona. Ma essa per sé non ci dice né che cosa sono i valori, né quali sono i
valori sui quali si fonda e ai quali deve far capo l'esi- genza unificatrice
della coerenza. La ragione appresta, scegliendoli dal groviglio delle
conoscenze, i riti adatti a fornir la trama dell'ordito. Ma i fili dell'ordito,
i valori fondamentali sono dati dalla vo- lontà; né si può derivarne la natura
dalla natura della trama; né dal disegno della tela.Né maggior luce può venire
dalla Volontà come Kant la concepisce; né dal concetto del Volere puro né da
quello del Volere buono. Il Volere puro, il Volere autonomo, il Volere spoglio
come s'è detto, di ogni impulso sensi- bile, e capace di volere i valori morali
per sé, non può esser per lui che il Volere che vuole la ragione, la ragione
stessa in quanto è pratica, in quanto è forma legislatrice, e non dà che questa
medesi- ma universalità.Quanto al concetto del volere buono, esso aggiunge
bensì alla nota dell'universalità (rispetto della legge perché è legge) la nota
dell'obbligatorietà (un'azione è buona quando è compiuta per il dovere); ma
questa nota è possibile nel volere buono soltanto in causa del conflitto tra il
rispetto della legge morale — col quale si identificherebbe per sé il volere
puro — e gli impulsi sensibili. È dunque un carattere che riguarda la moralità,
non la valutazione morale, e che esprime il pregio la eccellenza la supremazia
dei valori morali in confronto degli altri valori; ma non dice in che
consistano i valori, né donde nasca questa eccellenza (se non dall'universalità
della legge). In ogni caso anche se il dovere è, nella conoscenza dell'uomo
empirico, la ratio cognoscendi della leg- ge, sta però nella legge la ragion
d'essere del dovere e non nel dovere la ragion d'essere della legge. Sapere che
i valori morali debbono essere attuati non è sapere in che consistono, né
sapere perché meritano che si debba attuarli. Che debbano essere scritti con la
iniziale maiuscola tutti i sostantivi che viene imparando, potrebbe anche
essere per uno scolaro tedesco il criterio per distinguerli come tali dalle
altre voci del discorso; ma non è l'obbligo di scriverli con l'iniziale
maiuscola che li fa essere e diventare so- stantivi. Resta da esaminare la
forma che il criterio di valutazione assume nella 2a delle note formule; quella
in cui si assegna alla legge un contenuto cioè un fine; e il rispetto della
legge perché legge, diventa rispetto dell'umanità o della persona umana come
fine in sé. Ma è facile vedere come questa pretesa derivazione dalla prima
formula, o è veramente chiusa nei limiti di una derivazione e non dice nulla di
piú di quella onde è dedotta; o assume davvero un contenuto, e questo
costituisce per sé un criterio di valutazione distinto e diverso da quello da
cui si pretende dedurlo. Il quale non si esaurisce piú nell'universalità della
valutazione morale ma richiede un riferi- mento agli oggetti della valutazione;
ed è un criterio non piú formale soltanto, ma anche materiale. Se, anche inteso
cosí, sia adeguato al bisogno resterà da vedere piú innanzi. Il termine che
media il passaggio kantiano dalla legge come forma all'umanità come fine è il
rispetto della natura ragionevole. Poiché la legge è la ragione, il rispetto
della legge, cioè della ragione, importa il rispetto dell'essere ragionevole,
come tale; della natura di essere ragionevole e della persona umana nella quale
si manifesta a noi questa natura. Si potrebbe già discutere, a rigore, sulla
legittimità di passare dal rispetto della ragione al rispetto di una natura
ragionevole, perché ciò che impone rispetto nella ragione è secondo Kant la sua
forma legislatrice e non il soggetto, qualunque sia, che la porta, e in cui si
realizza questa forma. Tuttavia, finché si pensa l'essere ragionevole come
puramente tale cioè come costituito di sola ragione ed esaurientesi in essa, il
passaggio si riduce in fondo ad una ipostasi, e il contenuto non muta. Ma
quando si deve venire all'uomo, il trapasso è ben diverso. L'uomo è essere
ragionevo- le, ma non tutto, e non soltanto ragione. Ora: quando si dice
rispetto della persona umana, si intende rispetto di tutta la persona in quanto
nella persona si rivela una coscienza uno spirito (che la com- prende sí, ma è
ben lungi dall'esaurirsi nella ragione), oppure si intende la persona in quanto
è essa stessa ragione e null'altro, cioè in quel che ha di universale, di
medesimo in tutti gli uomini, di (co- me si dice, sebbene il dirlo qui paia un
bisticcio) impersonale? Non c'è che da ripetere quel che s'è detto già;
dall'assumere come fine questa persona- ragione vuota di ogni altro contenuto
non si ricava altro criterio che sempre e ancora il rispetto della ragione come
tale. E solo verrebbe fatto di chiedersi se questo inchinarsi davanti alla
persona, soltanto per quel che vi è in essa di medesimezza e di identità con
ogni altra persona e non anche per quel che vi è di proprio originale,
individuale e irriducibile, non si assomigli all'inchinarsi davanti a un
apparecchio telefonico per il rispetto dovuto alla voce autorevole che in esso
risuona. Oppure si intende che la ragione (o meglio un Volere razionale)
conferisce dignità all'uomo, a tutto l'uomo, a tutte le facoltà e attività che
essa ordina e fonde nella unità inscindibile del medesimo e del diverso, del
comune e del proprio, dell'universale e dell'individuale; che non la ragione,
ma lo spirito umano nella interezza delle sue manifestazioni, la coscienza
vivente in ogni persona merita questo rispetto; e allora, allora soltanto, si
può parlare di un contenuto che non si esaurisce nella forma. Ma è troppo
evidente che inteso cosí il rispetto alla persona non si può derivare dal rispetto
alla ragione e alla legge perché legge. Intesa cosí la persona umana, essa non
è piú l'universalità vuota e astratta di una legge fine a se stessa, ma è la
sorgente di quei valori morali dei quali la «ragione» constata la universale
validità e la riconosciuta sovranità sugli altri valori, mette in luce le
esigenze, determina le condizioni di at- tuabilità; (e potrà poi indagare se e
come tali esigenze e condizioni si possano conciliare con quelle degli altri
ordini di valori e in particolare con quello del sapere); di quei valori morali
che il «Volere puro» pone in forma di legge, e il «Volere buono» attua in forma
di doveri. Che per la natura ragionevole dell'uomo si intenda non soltanto la
pura forma della ragione, ma anche altre facoltà, disposizioni, modi di essere
e forme di attività, e che il Volere ragionevole non riconosca come valore
morale soltanto la conformità alla forma della ragione, ma la conserva- zione
l'incremento l'esercizio di queste altre facoltà e attività spirituali, appare
in forma tipicamente significativa nel commento già riferito sopra con
l'esempio (nella Fondazione) a cui si riferisce. Come essere ragionevole egli
(l'uomo) vuole necessariamente che tutte le facoltà siano svi- luppate in lui,
visto che gli sono state date per servirgli ad ogni sorta di fini possibili».
Questo volere dell'uomo ragionevole, che è il volere puro, il volere autonomo,
morale, è dunque il volere che vuole necessariamente lo sviluppo di tutte le
facoltà, cioè il volere di cui si pensa e si ammette che il contenuto sia
costituito da valori già dati e riconosciuti senza contestazione come fini di
un volere buono cioè come valori morali14. E appare manifesto che la riduzione
del criterio di valutazione morale a criterio puramente formale suppone che
siano già noti, quanto al contenuto, i fini dell'operare morale; già conosciuti
e determinati, quanto all'oggetto loro, i doveri. E risponde alla domanda:
quand'è che l'intenzione del- l'operare è veramente buona, che un atto è
veramente morale? ma non alla domanda: quali sono le azioni, in cui questa
buona intenzione si deve tradurre; quali sono i fini a cui il volere buono deve
rivolgersi; ossia quali sono i valori, nella cui attuazione fatta con purità di
volere consiste la moralità? [ E che veramente si sottintendano come già noti e
riconosciuti è confermato all'evidenza dall'analisi di ciò che costituisce
veramente il presupposto fondamentale non solo di quella citata ma dalle altre
esemplificazioni; con le quali si prova — non già, come s'è visto, l'impossibilità
per sé di universalizzare — ma l'impossibilità di volere che una tal massima
valga come universale. Infatti la ragione per la quale non si può erigere a
massima universale il principio che chi è stanco della vita può uccidersi non è
già l'impossibilità di concepire seguíta una tal massima da tutti quelli che
sono stanchi della vita, ma l'impossibilità di volere che sia riconosciuta e
adottata; perché essa implica che si affermi la superiorità del piacere sui
valori morali (dei quali la vita è condizione); mentre, appunto perché li
riconosciamo come morali, af- fermiamo e vogliamo il contrario. Così nel
secondo, il dato contro cui urta la universalizzazione della massima — che sia
lecito promettere con l'intenzione di non mantenere — è la superiorità sottintesa
della sincerità e della lealtà sull'interesse egoistico; e la con- seguente
impossibilità di volere che cessi di essere riconosciuta universalmente quella
superiorità di cui noi siamo certi. Del terzo esempio si è detto, e si è
accennato anche al quarto; nel quale ultimo è sottinteso manifestamente il
valore della simpatia e della benevolenza, che non possiamo ammettere sia
subordinato al valore della propria quiete o dei propri comodi. Alla quale
domanda si presume dunque che la risposta sia già data dalla coscienza morale.
E la risposta è data infatti, e non può esser data, che da lei. Ma se la
risposta non fosse univoca? Se, supposto pari in due coscienze il rispetto
della legge, la legge comandasse all'una quel che vieta o non comanda all'altra,
potrebbe bastare a dirimere il contrasto tra le due leggi il sapere che il
volere è buono quando si determina per rispetto alla legge, e che la moralità
consiste nel compiere il dovere per il dovere? Non vi è una coscienza morale,
ma vi sono, a rigor di termini, tante coscienze morali quante sono le coscienze
personali nelle quali sono riconosciuti come supremi e normativi e validi
indipen- dentemente dal flusso momentaneo e variabile delle valutazioni
transitorie e accidentali, certi valo- ri; ed è riconosciuta l'esigenza che il
criterio di valutazione corrispondente possa valere non solo come norma
costante del giudicare e del volere proprio, ma anche come norma costante del
giudica- re e del volere altrui; ossia come norma universale del giudicare e
del volere di ogni persona. Se si ammette o si suppone che quei certi valori
siano per tutte le coscienze i medesimi, si può parlare della coscienza morale,
come una ed identica non solo di forma, ma anche di contenuto; se si ammette il
contrario, si deve riconoscere una pluralità di coscienze morali piú o meno
discor- danti e una pluralità di criteri di valutazione che si presentano alle
diverse coscienze con la medesi- ma autorità di valutazioni morali, cioè con la
medesima forma. Il fascino singolare che esercitò ed esercita la morale di Kant
viene non dal suo formalismo per sé, ma dal fatto che, mentre spoglia e
purifica la moralità da ogni fine materiale e quindi dal pe- ricolo di ogni
considerazione soggettiva, la dottrina è sostenuta e vivificata dalla fiducia
salda e in- crollabile che si debba riconoscere o si possa dimostrare che
dentro quella forma cape, e non può capire che un solo contenuto; dietro quella
legge si debbano trovare infallibilmente i fini che la co- scienza morale
riconosce come buoni, e quelli soltanto. Ma s'è visto che lo sforzo è, e non
poteva non essere, vano. Il criterio formale di Kant sem- bra convenire ad un
solo e unico contenuto, a certi valori ed a quelli soltanto, perché si ammette
già che la coscienza morale sia unica; che la sua voce non soltanto parli in
ogni coscienza con lo stesso tono, ma dica le medesime cose. In realtà il
criterio formale non esprime che l'esigenza della razionalità: una legge non è
leg- ge se non è valida sempre nei medesimi casi; una norma non è suprema se
non a patto che ogni altra norma sia subordinata ad essa; un criterio di
valutazione non è piú un criterio, ma un capriccio, se i miei giudizi di valore
non si accordano costantemente con quello; se io non riconosco legittimo —
fatto da qualsiasi altro — il giudizio che quel criterio esigerebbe da me nel
medesimo caso. Ma è un'illusione credere che possa bastare la razionalità per
sé a distinguere i valori dai non valori; i valori morali dai valori non
morali, a farci riconoscere — senza appello diretto o indi- retto a qualche
dato o postulato non razionale — il valore di un oggetto qualsiasi (di un
contenuto), ideale o reale. Si governa non meno razionalmente l'avaro, quando
giudica ed opera in ogni caso come se il danaro fosse l'unico bene per sé, il supremo
bene, purché riconosca legittimo che ogni altro giudichi e operi allo stesso
modo, di quel che faccia l'esteta quando ragguaglia ogni cosa a un ideale di
bel- lezza, o l'intellettuale che non riconosca altro scopo degno alla vita che
la ricerca della verità. E quando si dice o si crede di dimostrare che è
«contrario alla ragione» non un giudizio apprezzativo che contraddice al
criterio accettato, ma il criterio stesso come tale, non si può affermare o
dimo- strare questa contrarietà se non perché si sottintende che vi sono — cioè
sono riconosciuti e deside- rati — altri valori diversi, superiori o non
subordinabili a quello dal quale è tratto il criterio in que- stione; e si
trova contrario alla ragione che non si tenga conto di quest'altri valori, che
si giudichi e si operi come se questi non esistessero, o fossero inferiori
mentre sono superiori, o incondizionati mentre sono condizionati. Ma se si fa
l'ipotesi che questi altri valori non siano tali per un Tizio che li ignora,
qualsiasi istanza di irragionevolezza contro di lui cadrebbe a vuoto, anzi
sarebbe essa irragionevole. Adunque il criterio di Kant non supera, dato che ci
siano, le differenze di contenuto valuta- tivo. Se in nome della mia coscienza
morale io pongo il valore dell'umiltà, e in nome della propria coscienza morale
un'altra persona lo nega, l'universalizzare le massime che rispondono alle due
va- lutazioni opposte non mi fa avanzare d'un passo verso una soluzione del
conflitto, se non a questa condizione: che io creda di poter dimostrare che una
delle massime si accorda e l'altra contrasta con una terza massima nella quale
è affermata l'esigenza di un volere riconosciuto o ammesso inconte- stabilmente
come morale. E si presenta inevitabilmente, senza che sia possibile eluderla,
la domanda: C'è o non c'è questa pluralità di contenuti discordanti nella
valutazione morale? C'è. Si è osservato piú sopra che ogni oggetto ideale o
contenuto di valutazione morale ha o può avere nello stesso tempo valore per
altri rispetti, cioè può essere considerato come un valore di altra specie.
Anzi è per questa relazione dei valori morali con valori di ordine diverso che
si è cercato e si è creduto di poter trovare il fondamento della valutazione,
la ragione d'essere del valore morale in una finalità di natura edonistica, egoistica
o altruistica, o noetica o estetica o religiosa. Se si considera una tale
rivalutazione eterogenea come pretesa di far valere — con questa e per questa
ragione — per morale, un valore che non sia già sentito come morale, il
tentativo, è come s'è visto, del tutto illusorio. Ma se si considera, al
contrario, come espressione di una finalità che può assumere in questa o quella
coscienza importanza prevalente, che può o potrebbe — all'infuori del carattere
specifico di eticità per il quale è posto da quella stessa coscienza come
valore morale — essere sentita come su- periore in pregio ai fini di ogni altro
ordine, e degno di subordinarli, essa contiene in sé la ragione capitale della
diversità e discordanza dei fini e dei criteri, che pretendono di valere
ciascuno come supremo nella valutazione del contenuto proprio dei valori
morali. L'esteta si foggia un suo modo ideale di bellezza per il quale i valori
si ordinano da sé in una scala determinata dalle connessioni di inerenza e di
condizionalità degli altri valori, con i valori estetici; e il mistico un
ideale di santità, al quale subordina gli altri valori, accogliendoli e
graduando- li in quanto convengono, negandoli in quanto disconvengono; e cosí
lo spirito contemplativo che ama sopra ogni cosa la verità, e cosí l'egoista
calcolatore e l'altruista generoso. I valori che, per essere morali, hanno già
una validità e un'autorità intrinseca che li distingue dagli altri valori, si
vestono di necessità nella coscienza dell'esteta del mistico e cosí degli
altri, di quel particolare colore, che li fa sentire e riconoscere
rispettivamente come valori estetici, religiosi, noetici e via dicendo; e se
continuano a valere per la forma come morali, valgono — per il contenuto —
soprattutto come valori di quell'ordine che è nella coscienza il dominante.
Basta per convincersene badare alle differenze caratteristiche della
motivazione, con la quale ciascuno dei tipi di co- scienza supposto giustifica
a sé e agli altri il valore che riconosce, poniamo, alla temperanza, o alla
forza di volontà, o alla veracità, o ad altra virtù. Ora questo coincidere e
fondersi, quanto al contenuto, del valore morale col valore dell'ordi- ne che
esprime l'orientamento prevalente della coscienza — anche quando non è in
giuoco la valu- tazione etica — non solo conduce alla transvalutazione notata,
ma tende a indurre insieme un pro- cesso di transvalutazione inversa; cioè a
dar colore e calore di convinzione e di apprezzamento mo- rale ai valori di
quell'ordine, a riconoscerli come morali e a pretendere che siano riconosciuti
per tali anche dalle persone, nelle quali non si afferma il medesimo
orientamento. Ed è istruttivo (e non è sfuggito agli umoristi) il calore col
quale parla di diritti offesi e ri- vendica gli interessi sacrosanti della
giustizia l'egoista gretto che vede frustrato un suo piccolo cal- colo
ingegnoso che aveva a mala pena il pregio di non urtare nel codice penale; e
quello (sia pure di dignità fuor di paragone diversa) dell'artista, che grida
allo scandalo e invoca un preciso dovere dello stato a reprimerla, se offenda
il suo senso estetico, la trascuranza per un tronco di colonna di- menticato. E
si potrebbe continuare, in modo anche piú evidente, per gli altri. Cosí
ciascuno degli orientamenti valutativi tende ad allargare nella direzione corrispondente
la sfera dei valori morali, includendovi un contenuto proprio diverso, e non
coestensivo al contenuto di ciascun altro. E perciò accade che i diversi
sistemi di valutazione — animati come sono e pervasi da un interesse
tipicamente diverso — abbiano in realtà in comune soltanto una parte di quei
valori che ognun d'essi, per l'esigenza sua propria, riconosce come morali;
abbiano cioè comuni soltanto quei valori morali che sono nello stesso tempo
valori diretti o indiretti del proprio genere, o che al- meno non contrastano e
non negano quella propria specifica esigenza. I diversi sistemi assomigliano
cosí a cerchi eccentrici di vario raggio che si intersechino fra di loro; dei
quali è minima la superfi- cie comune a tutti, ed è sempre piú grande la parte
d'estensione rispettivamente comune a un numero di cerchi minore; e in misura
variabile, secondo che sono meno o piú eccentrici fra di loro. D'altra parte,
anche la coscienza nella quale l'orientamento tipico è dato dall'interesse
stesso morale (la coscienza dell'homo ethicus) si trova a dover considerare nei
valori estetici religiosi intel- lettuali economici il valore morale diretto o
indiretto che assumono o possono assumere in grazia di relazioni analoghe a
quelle considerate sopra (il valore p. es. che l'attività scientifica e
l'estetica e le doti richieste e promosse da questa attività possono avere per
la cultura morale). E non solo: ma per la considerazione felicemente messa in
evidenza dal Moore sul valore organico (il «quanto» per il quale il valore di
un tutto eccede il valore di uno dei suoi fattori non è necessariamente eguale
a quello del fattore che rimane: ethics, Intrinsic value), si trova a dovere
apprezzare diversamente l'oggetto ideale della valutazione morale, quando esso
è nello stes- so tempo oggetto di una valutazione diversa, intellettuale, per
es., od estetica. (Non è senza significato anche per questo rispetto che il
Sommo Bene sia stato identificato col Sommo Bello). Si aggiunga finalmente (il
finalmente chiude ma non esaurisce le osservazioni su questo proposito) che il
carattere di interiorità dei valori morali, il quale si fa tanto piú spiccato
quanto piú la coscienza personale è concepita come sorgente e creatrice
autonoma dei valori, tende a staccare, anche nella coscienza dell'homo ethicus,
il valore morale dagli schemi che esprimono una esteriore conformità alla
valutazione, per riconoscere un pregio preminente alle note interiori di
spontaneità, di libertà, di autonomia; il che porta ad estendere la dignità
intrinseca dei valori morali anche a que- gli altri valori spirituali nei quali
splende un raggio di quelle medesime luci; e non tanto a distingue- re i valori
morali da altri valori spirituali, quanto a distinguere il contenuto interiore
e spirituale dei valori dal contenuto esterno e materiale nel quale si
traducono. Cosí nella coscienza personale si attenua e si fa piú incerta, e
trasmutabile per molti modi, la distinzione tra i valori morali e gli altri
valori spirituali. In altri termini: mentre, si può dire a un di- presso, dal
trionfo dell'etica cristiana fino al Kant la valutazione morale aveva avuto per
le diverse coscienze della stessa civiltà e cultura un contenuto comune
determinato e costante (e, in ogni caso, la parte di contenuto sulla quale
cadeva il dissenso finiva per essere praticamente quasi trascurabi- le), a
partire dalla dichiarazione dei diritti della Rivoluzione francese, si delinea
e si allarga nel campo della valutazione morale una sempre maggiore differenza
di contenuto tra coscienza e co- scienza; e si fa piú frequente e piú profondo
il contrasto tra i criteri di valutazione rispettivamente accolti come supremi.
E i sistemi nei quali i valori morali sono ricondotti a un criterio
intellettuale, o estetico, o re- ligioso, o etnico, o umanitario, o filogenetico,
o solidaristico, o egotistico, o quale altro si voglia, non sono piú, guardati
per questo rispetto, tentativi dispersi, ma, per cosí dire, paralleli di
giustifica- 39 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale
Erminio Juvalta re o di «fondare» il valore di un medesimo contenuto; essi
esprimono invece, nella parte forse mag- giore e piú significativa, una
diversità di contenuti contrastanti; e soltanto in parte un contenuto co- mune,
che si colora pur esso diversamente, secondo la fiamma a cui si riscalda.
Perciò, considerata nell'interiorità della coscienza personale, la parte di
contenuto etico nella quale essa sente di concordare colle altre non ha per sé
autorità maggiore o diversa delle parti per le quali discorda. A meno che la coscienza
stessa possa o debba riconoscere, senza abbandonare il proprio criterio di
valutazione, una qualche differenza, se non di natura, di grado, tra quella e
queste. Se si suppone, per un'ipotesi inverosimile, che lo spirito
filantropico, lo speculativo, il reli- gioso, l'estetico, non riconoscano
rispettivamente altri valori all'infuori di quelli che si possono commisurare
al criterio di valutazione proprio di ciascheduno, si troverà tuttavia che
certe doti spiri- tuali, poniamo, l'alacrità, la tenacia, il dominio di sé,
l'ardimento, sono e debbono essere considerate come valori da tutti
indistintamente i tipi supposti; perché tutti (nell'ipotesi, sottintesa, che
siano in- telligenti) debbono riconoscere che quelle doti personali sono
condizioni o indispensabili o som- mamente utili alle forme di attività
corrispondenti, cioè all'attuazione di quell'ordine di valori che ciascuno ha
posto a sé come tali. Per la medesima ragione si troverà (la deduzione è troppo
ovvia perché occorra piú che l'ac- cenno) che debbono essere riconosciuti come
valori il rispetto della integrità e della libertà persona- le, l'osservanza
dei patti, lo scambio dei servizi e via dicendo, e con essi i costumi, le
istituzioni, le leggi che assicurano la conservazione e l'incremento di queste
condizioni sociali; e le disposizioni di spirito (lealtà, imparzialità,
simpatia) che ne avvalorano il rispetto nella coscienza personale. Adunque
tutti i tipi suddetti, e gli altri che si potrebbero analogamente supporre,
saranno portati a riconoscere e ad apprezzare in sé e negli altri — astrazion
fatta da ogni valutazione morale — dei valori, sia propriamente personali (doti
della persona che possono sussistere nel soggetto in- dipendentemente dal suo
atteggiarsi rispetto ad altre persone); sia sociali (doti che riguardano questi
atteggiamenti); valori che nascono dal rapporto di condizionalità costante che
li stringe a ciascuno degli ordini supposti. Di piú: il rapporto di
condizionalità dal quale viene ai valori citati in esempio il carattere di
strumentalità, è diverso, come è facile vedere, da quella strumentalità esterna
accidentale e variabile che lega il blocco di marmo all'opera dello scultore, o
la conferenza di propaganda al disegno del- l'altruista, o un libro agiografico
all'interesse del mistico, o la scala dell'Osservatorio agli studi del-
l'astronomo: appunto perché là si tratta di condizioni preliminari
indispensabili e permanenti, il cui valore non solo non si esaurisce nell'atto
singolo che ne dipende, ma non è sostituibile da alcun altro strumento o
condizione. È dunque una condizionalità necessaria, permanente e insurrogabile,
in forza della quale ciascuno dei detti tipi dovrà riconoscere a siffatti
valori condizionanti una superiorità, se non di pre- gio intrinseco, di precedenza
imprescindibile sui valori diretti e finali che ne dipendono. Non occorre lungo
discorso per intendere come per effetto del medesimo rapporto il filan- tropo
potrà essere condotto a riconoscere i detti caratteri di condizionalità anche a
qualità attitudini forme di attività, alle quali o non potrà attribuirli o
dovrà forse attribuire un valore negativo, o di o- stacolo, ossia un disvalore,
il mistico o l'esteta; e inversamente; e come perciò sarà possibile una di-
stinzione tra i valori propri esclusivamente di ciascun tipo di valutazione, e
i valori condizionanti comuni a qualsiasi ordine, dato (come gli esempi citati
dimostrano possibile) che ve ne siano di co- siffatti. Questi valori comuni
avranno dunque oltre ai caratteri già notati, anche quello di essere
strumentali rispetto a quale si voglia criterio di valutazione che sia posto
come normativo; cioè a- vranno una condizionalità universalmente necessaria
permanente e insurrogabile. Aggiungiamo ora un nuovo elemento all'ipotesi; e
supponiamo che tanto il filantropo quanto lo speculativo e il mistico e
l'esteta riconoscano, ciascuno, come l'ordine dei valori morali, quell'or- dine
di valori che risponde alla direzione tipica della propria coscienza. Accadrà
che la valutazione morale dell'uno coinciderà quanto al contenuto con la
valutazione morale di ciascun altro soltanto per quei valori nei quali si
riscontra la sopraddetta condizione; e che mentre ciascuno interiormen- te
riconoscerà come una esigenza morale l'attuazione di tutti i valori posti e dichiarati
dalla sua co- scienza a lui come morali, dovrà riconoscere in pari tempo, che,
per le volontà per le quali vale co- me normativo un ordine di valori diverso,
la detta esigenza non comprende tutti questi medesimi va- lori, ma soltanto
quelli la cui strumentalità condizionale è universalmente necessaria. Cioè
dovrà riconoscere che, esteriormente alla propria coscienza, l'imperatività del
proprio criterio è limitata a questa piú ristretta sfera di valori. In altri
termini, non potrà esser posto come criterio morale e comune se non un criterio
di valutazione che assuma, come universalmente validi e costantemente su-
bordinanti ogni altro valore, quei valori appunto nei quali si riscontra la
detta priorità condizionale; ma che insieme non neghi, e non escluda i valori
morali propri di ciascuna coscienza in particolare, cioè nessuno di quegli
ordini di valori, nel quale si inquadra e si giustifica per ciascuna coscienza
individuale quel contenuto comune. Si delinea dunque, per la riflessione
critica obbiettiva, una distinzione tra i valori la cui at- tuazione è
riconosciuta come un'esigenza universale e costante per qualsiasi coscienza
capace di moralità, e i valori la cui attuazione è un'esigenza soltanto per la
coscienza che li pone a sé come morali; tra i valori per i quali ogni coscienza
può riconoscere legittima una legislazione esterna che ne imponga la validità;
e i valori dei quali una legislazione esterna deve soltanto non escludere la
possibilità; tra i valori che possono essere oggetto di una obbligazione a un
tempo interna ed ester- na, e i valori che, non possono essere oggetto che di
una obbligazione interna. Gli esempi addotti in principio di questo capitolo
per chiarire il concetto di un contenuto comune universalmente valido, non
rispondono a una determinazione rigorosa; e hanno soltanto un carattere
provvisorio di opportunità. Se ora cerchiamo di fissare con precisione quali
sono propria- mente i valori che lo costituiscono, troveremo facilmente che
essi si assommano in due condizioni riconosciute in effetto (e non potrebbe
essere altrimenti) come valori primari fondamentali da ogni sistema morale: la
libertà e la giustizia. La libertà esprime l'esigenza delle condizioni
soggettive necessarie a fare dell'uomo una persona padrona di sé di fronte a sé
e di fronte a ogni altra persona; la giustizia esprime l'esigenza delle
condizioni obbiettive necessarie all'esercizio universalmente efficace di
questa libertà. L'attuare in sé e in ogni altra persona questi valori di
libertà e di giustizia (ed i valori impli- citi in questi) deve dunque essere
riconosciuto come un dovere universalmente valido, anzi come il solo dovere (o
la sola categoria di doveri) veramente universale. Ma qui è da notare una
circostanza rilevante. La libertà non è una condizione di fatto, un possesso
dato; ma è, come vide e affermò fervi- damente il Fichte, una conquista da
fare, una idealità che si viene realizzando e che richiede sforzi sempre nuovi
e impone sempre nuovi doveri. E il medesimo è da dire della giustizia che è lo spec-
chio sociale della libertà. Ora se il valore della libertà e della giustizia (e
la validità dei doveri che ne derivano) consi- ste, come apparirebbe dalla
deduzione fattane qui, soltanto nel loro essere condizione necessaria ad ogni
ordine di valori; è continua ed inevitabile la possibilità di un contrasto
nella coscienza dell'in- tellettuale, dell'esteta, dell'altruista, tra
l'interesse sempre presente, diretto della conoscenza o della bellezza o della
simpatia e i doveri mediati e indiretti della libertà e della giustizia; o, in
termini generali, tra i valori diretti e per la coscienza individuale supremi,
e i valori che per lei appaiono sol- tanto indiretti e strumentali. Cosí
obbiettivamente nell'ordine di una possibile legislazione esterna, sarebbero
doveri pri- mari, soli veri doveri, quelli appunto che soggettivamente per la
legislazione interna di molte se non di tutte le coscienze individuali, valgono
come doveri derivati, cioè tali soltanto in grazia di doveri d'altro ordine,
dei quali l'obbligatorietà esterna tutela subordinatamente, ma non impone
l'osservan- za. E resta in ogni caso la questione: Quei valori che una
coscienza riconosce come valori in sé, e a cui commisura gli altri valori sono
posti ad arbitrio? La distinzione stabilita nel capitolo precedente implica che
siano valori morali diretti, cioè supremi e normativa per ogni coscienza,
soltanto quelli che la coscienza stessa pone a sé e ricono- sce come tali; e
non dà ragione del fatto che siano posti e riconosciuti come valori morali diretti,
cioè valori per sé, anche quei valori di libertà e di giustizia che appaiono,
nella deduzione che se n'è fatta qui sopra, come valori morali universali
soltanto in grazia del rapporto necessario di preceden- za condizionale che li
lega ai primi. E ciò significa che la distinzione stessa non ha che un valore
provvisorio, finché non si ammette quella tesi, e non si dà ragione di questo
fatto. C'è, sottinteso, nella tesi del resto inevitabile — che siano valori
morali per ciascuna co- scienza quei valori che essa pone a sé come supremi e
normativi, qualche presupposto? E qual è questo presupposto? Non è difficile
scoprirlo. Perché un ordine di valori, diciamo per comodità di espressione, una
idealità, sia riconosciu- ta da una coscienza come suprema e normativa si
richiedono due condizioni imprescindibilmente: 1° che la detta idealità possa
costituire un criterio di valutazione atto a subordinare ogni altro valore, a
dare unità coerente alle valutazioni e a segnare una direzione costante alla
volontà; 2° che essa sia in effetto posta dalla volontà come suprema e
riconosciuta degna di diri- gerla; e perciò che l'attuazione di quella e la
esclusione di ogni atto che la neghi sia sentita come un esigenza
incondizionata (esigenza di non smentire con la volizione la volontà, con
l'atto la valuta- zione); e sia sentito o posto idealmente come dovere il
subordinare ad essa ogni altro valore e il ne- gare ogni interesse che
contrasti con quello. Ma queste due condizioni sono le condizioni stesse che
fanno dell'io temporaneo disgregato e molteplice una unità, cioè una Volontà
consapevole e coerente, un carattere, una persona; sono in una parola le
condizioni della personalità. Riconoscere il valore supremo di ciò che
costituisce l'unità personale, di ciò per cui l'indivi- duo si afferma ed
esprime la sua volontà di essere persona, implica dunque il presupposto del
valore diretto, originario, incomparabile e incommensurabile, cioè assoluto,
della persona umana, come volontà di essere tale e come coscienza di questa volontà.
Questo valore per sé, intrinseco e assoluto della persona, è dunque il
presupposto implicito, il postulato sottinteso in ogni valutazione morale;
perché non si può riconoscere il valore morale di nessun oggetto o fine o
idealità senza postulare il valore della volontà personale che lo pone, e fuori
della quale non avrebbe senso l'esigenza normativa che lo fa essere morale. Ed
è vana, anzi in sé contraddittoria, ogni discussione sulla sua legittimità.
Perché discutere di questa legittimità non è possibile senza ammettere e
postulare come dato e fuori di ogni contestazione, qualche valore intrinseco,
al quale si possa riferire e col quale si possa confrontare e commi- surare il
valore in discorso. E poiché il valore che dovrebbe servire di termine di confronto
e di dato incontestabile per giudicarlo, implica necessariamente la validità di
ciò che deve essere giudicato, cioè la legittimità del presupposto del quale si
discute, ogni contesa assiologica intorno ad esso si avvolge irrimedia-
bilmente in un circolo vizioso. Avviene, mutatis verbis, qualche cosa di
perfettamente analogo a quel che accade nel campo della conoscenza, quando si
discute del valore teorico della ragione. Ogni critica presuppone neces-
sariamente la validità di quella ragione che è chiamata in causa. Bisogna
dunque accettare o respingere la legittimità del presupposto; accettando o
respin- gendo insieme ciò che si regge sulla sua validità. Non c'è via di mezzo
possibile. Ricusarlo vuol dire negare ogni valore morale; accettarlo vuol dire
riconoscere valore morale a ciò che costituisce la personalità, a ciò che le è
essenziale, e che la fa essere non la personalità astratta e comune che non
sussiste per sé e non basta a costituire questa o quella persona, la mia
persona; ma la persona individuata viva e concreta, in quel che ha di
universale e di comune e in quel che ha di proprio, di suo, di individuale;
l'umanità non dell'uomo genere, dell'uomo tipo, ma di questo o di quell'uomo.
In quanto è uomo, senza dubbio; ma anche in quanto è questo. L'uomo-ragione dà,
come s'è detto e ripetuto, la sola coerenza. Non è poco, ma non è tutto.
L'uomo-volontà pone questa coerenza come legge del mio valutare e del mio fare,
impone a me che l'idealità posta e riconosciuta come suprema valga veramente come
suprema, che io ne af- fermi il valore intrinseco, ne approvi o ne accetti le
esigenze sempre dovunque si presentano, in me e fuori di me; mi impone, in una
parola, di essere persona; e di volere che ogni uomo sia persona. Ma non è
ancor tutto. Quel che io devo essere per valere come persona, l'idealità che
deve dare unità al mio io, e in cui si esprime non la volontà in genere, ma la
mia volontà di essere perso- na, è posta da questa mia volontà ed ha valore per
me perché è posta da lei. Certo, la mia coerenza deve essere e non può essere
altro che la coerenza della ragione; l'e- sigenza che la mia volontà impone a
me di essere persona è quella medesima esigenza che la volon- tà di ciascun
altro (capace di moralità) impone a lui, e che a me e a lui e a ciascun altro
impone il rispetto della persona come tale; ma l'una e l'altra esigenza non
investono il medesimo contenuto spirituale in me e negli altri. Limitano le
categorie di valori, nelle quali l'io può attingere l'idealità regolatrice, ma
non determinano per tutte la medesima idealità. La mia volontà deve — per far
di me una persona — uniformarsi a quelle due esigenze che sono le esigenze
necessarie e costanti di ogni personalità (non solo reale, ma anche fittizia);
e deve perciò superare l'io transitorio, l'io degli interessi momentanei e
mutevoli (dei quali non si misura il valore che dal loro effetto su di me), e
appuntarsi in una idealità che le sia norma; ma non può usci- re di sé per
diventare una volontà diversa, non può cessare di essere quella certa volontà,
che fa di me non la persona umana in generale, ma la mia persona. Insomma non
può volere l'unità se non di quello spirito di cui è la volontà. Ma quale è la
prova che questa idealità non è un capriccio dell'io transitorio e mutevole, ma
è veramente legge delle mie valutazioni e delle mie azioni? La prova non è e
non può essere data se non a me stesso, da me, dall'attestazione della mia
coscienza. Ed è perciò che la legittimità dei valori posti da me non è
contestabile da altri né control- labile. Ma vi è tuttavia una prova esterna,
di fatto, tenuta normalmente valida nel giudizio comune; e che è veramente
necessaria, anche se non è sempre sufficiente; e questa prova è il sacrificio.
Ap- punto perché il sacrificio attesta che ogni mia facoltà, ogni mio potere si
raccoglie e si appunta nella volontà di attuazione di quel valore; e che io
nego e respingo da me ciò che mi costringerebbe a ne- garla. Cosí è che il
valore della vita si misura dal valore di ciò a cui si è disposti a
sacrificarla; e che, per converso, l'esser pronti alla morte apparisce
l'affermazione piú decisiva del valore di ciò a cui si è devoti. Le esigenze
costitutive della personalità si attuano dunque informando di sé un contenuto
spirituale che è sempre in qualche parte proprio e caratteristico di ciascuna
coscienza individuale; come raggi di una medesima luce che tralucono per
cristalli diversi; e ciò fa di quel particolare con- tenuto la condizione o il
mezzo per il quale la personalità si pone e si realizza nell'io individuale e
concreto; la materia che si suggella di quella forma. E il valore morale di
questo contenuto nasce da questo suo essere lo strumento il tramite, per il
quale si esprime nella coscienza individuale il valore assoluto della
personalità umana. Per tal modo l'idealità, nella quale si concreta per la
coscienza delle persone singole il crite- rio o la legge della valutazione
morale, costituisce per ciascuno l'affermazione della unità spirituale della
sua volontà di essere persona, della sua libertà. Cosí la libertà, che nella
deduzione esteriore ed empirica del capitolo precedente acquista valore solo
strumentalmente universale e necessario, in quanto l'attuazione dei valori di
libertà ap- pare la condizione comune e imprescindibile della attuazione di
ogni ordine di valori, è invece qui valore per sé immediatamente universale; e
sorgente di quegli stessi valori che valgono per le co- scienze singole come
supremi soltanto perché sono lo strumento del realizzarsi di essa libertà in
cia- scheduna. È, quindi, la sorgente cosí dei valori costitutivi della
personalità in astratto, come dei va- lori costitutivi delle diverse
personalità in concreto; cosí dei valori universali della persona ideale come
dei valori propri della persona reale. Nel presupposto stesso di ogni
valutazione morale ha dunque radice cosí l'esigenza dell'uni- versale come
l'esigenza dell'individuale; l'esigenza di una valutazione comune e l'esigenza
di una valutazione singolare e propria; ossia l'esigenza che la volontà
personale si affermi ad un tempo, come riconoscimento dell'una e dell'altra, o,
meglio, dell'una nell'altra. L'imperativo della libertà è ad un tempo: sii
persona, e: sii la tua persona; sii uomo, e: sii quel che tu devi essere per
essere uomo; rispetta l'umanità, e: rispetta in te e in ogni altro l'espres-
sione individuale e concreta dell'umanità. A nessuno verrà in mente di credere
che si intenda di stabilire cosí il dovere di creare nuovi valori, di affermare
nuove intuizioni morali; e porre accanto al dovere di essere giusti, quello di
es- sere originali. Sarebbe come voler obbligare uno scienziato a fare delle
scoperte, almeno nel senso che si suol dare comunemente alla parola. Le
intuizioni morali nuove, come le scoperte scientifiche, come le nuove forme di
arte, si presentano a chi... le trova. Spiritus flat ubi vult. Ma vi sono, in
un certo senso piú modesto, come nella ricerca scientifica le piccole continue
scoperte di indagatori e di studiosi mediocri ma coscienziosi, che cavano e
puliscono la selce e tem- prano l'acciarino, dai quali l'uomo di genio farà
sprizzare la scintilla, cosí nella vita morale le picco- le nuove intuizioni e
nuove interpretazioni, e connessioni, ed elevazioni di valori morali, che
prepa- rano il solco alla semente dei grandi. Vi è, a guardar bene, perfino
nell'apparente applicazione mo- notona di una medesima massima alla medesima
classe di azioni, un'impronta, un segno, una sfu- matura, nella quale si rivela
l'originalità morale della persona; originalità di finezza, di delicatezza, di
grazia, di abnegazione, di calore, di fantasia, di acume; gradazioni e
colorazioni diverse di valori noti, combinazioni nuove di pregi prima
disgiunti. Ciò che è proprio di una persona anche comune (sia venia al
bisticcio) non è tanto il rivelarsi di una proprietà, o dote, o qualità
diversa; di un nuovo elemento di valore (che non è novità frequente neanche nei
grandi); quanto questo modo, col quale si raccolgono, si mescolano e si fondono
per lui in sintesi nuove i valori elementari già intuiti. Ciò che è
caratteristico dell'individuo consiste anche qui, se si dà alla parola il suo
significato originario, in una «idiosincrasia». Queste minori e, nella loro
infinita varietà inafferrabili, differenze individuali, si raccolgono però,
come accade, attorno a tipi diversi, segnati soprattutto dal prevalere,
conforme a quel che si è accennato già, di un ordine di valori sugli altri. Dal
che possono derivare non solo differenze assai grandi, ma opposizioni recise. E
qui sta appunto la sorgente dei contrasti tra valutazioni morali diverse, di
fronte ai quali la critica non può fare che opera di constatazione e di
sistemazione. Come possa adempiere a questo ufficio e quali frutti se ne
possano attendere non è qui il luogo di esaminare. Qui importa solo notare come
questa indagine e sistemazione critica non potrà che presenta- re, nella forma
tipica piú compiuta e recisa e col massimo rilievo, i contrasti che sorgono
natural- mente dal prevalere, nella unificazione morale della coscienza
personale, di uno piuttostoché di un altro ordine di valori, e dalla misura di
questa prevalenza. Ma la forma fondamentale sarà data dal contrasto tra i
valori universali morali — i valori di libertà e di giustizia — e quelli che
valgono come supremi (cioè che pretendono, come i morali, la direzione suprema
della valutazione), nella coscienza individuale. Se la libertà e la sua sorella
germana, la giustizia, fossero patrimonio acquisito e non come è, come deve
essere, una conquista faticosa del genere umano che dura e durerà nei secoli,
il problema non esisterebbe se non nella forma di esigenza della conciliazione
di quei valori spirituali che non si presentano come necessariamente e
universalmente morali. Problema formidabile anche questo, ma non tale da
segnare una antitesi di criteri non conci- liabili; antitesi che rende
necessaria la subordinazione dell'uno dei due all'altro, ma che può legitti-
mare nella coscienza personale cosí l'una come l'altra soluzione. Questa
antitesi è, in breve, tra i valori di giustizia e i valori di cultura; tra
l'esigenza che ogni uomo sia o possa diventare persona, cioè volontà libera
consapevole e coerente, e l'esigenza che si accresca e si arricchisca di nuovi
valori l'uomo che è già persona, che è già, se non l'uomo libero del Fichte,
l'uomo che ha coscienza del suo dover e del suo poter farsi libero, e che vi
tende come al suo supremo valore. È, in termini forse meno precisi ma piú
recisi, l'antitesi tra il numero e la qualità, tra l'esten- sione e
l'intensità; tra il dovere di rendere partecipi (di porre la possibilità che si
facciano partecipi) dei valori di libertà — accessibili soltanto ad alcuni —,
quelli che non ne sono partecipi, e il dovere di accrescere in quelli che già
li possiedono i valori di cultura, che sono pure, almeno mediatamen- te,
incremento dei valori di libertà. L'umanità (la persona umana) si rispetta
elevandone in sé e negli altri il valore; si eleva cosí nell'uno come
nell'altro dei modi anzidetti. Le due vie sono convergenti? Speriamo che siano;
ma, nella valutazione presente, tra l'incremento di una cultura, dalla quale
sono esclusi i piú tra quelli che pur ne sono strumento necessario, e la
possibilità di togliere o scemare questa esclusione, quale è l'esigenza morale
prevalente? Dire che la cultura dei pochi è necessariamente elevazione di tutti,
o dire che l'elevazione di tutti è necessariamente incremento della cultura, è
baloccarsi con parole; è un ripetere su un altro verso le vecchie coincidenze
del bene generale col bene individuale. Il dire non basta a porre in es- sere
quel che si dice. Alla distinzione fondamentale che ha origine nel presupposto
stesso di ogni valutazione morale (il valore assoluto della persona umana), tra
valori morali universali e valori morali propriamente personali, corrisponde
naturalmente una distinzione nel carattere di obbligatorietà che as- sume
rispettivamente nella coscienza l'attuazione degli uni e quella degli altri. Ai
primi corrisponde, o si concepisce che debba e possa corrispondere una
obbligatorietà ad un tempo interna ed esterna, ai secondi solamente una
obbligazione interna. In quanto la società or- ganizzata, lo stato, il Potere
politico è posto come potere che fonda e garantisce le condizioni ester- ne
della moralità, l'ideale politico è una derivazione necessaria e un elemento
dell'idealità morale; e rivestendo per tutti ugualmente il medesimo carattere
formale di Potere giusto, cioè di Potere la cui esistenza e validità è
affermata e voluta in grazia dell'esigenza morale a cui soddisfa, assume
tuttavia per ciascuno un contenuto in misura maggiore o minore diversa, secondo
il modo nel quale è concepita la giustizia che si potrebbe dir costitutiva;
cioè la giustizia come posizione e conservazio- ne delle condizioni esterne
necessarie alla libertà di tutti. È notissimo, e sarebbe superfluo chiarire questo
punto, che qui si disegnano due orientamen- ti di coscienza diversi e in
alcuni, se non tutti i postulati pratici, opposti; e due concezioni politiche
corrispondenti, tra le quali intercorrono gradazioni varie di partiti. E sono:
l'indirizzo che prende norme dal liberalismo conservatore: — la giustizia è la
garan- zia della libertà di tutti nelle condizioni sociali storicamente date e
quello che prende impropria- mente nome dal socialismo: — la giustizia è la
costituzione di condizioni sociali tali che ciascuno trovi in esse la medesima
possibilità esterna di valere come persona — (che coincide con l'interpre-
tazione piú universalmente radicale della famosa seconda formula della
Fondazione di Kant). Ciò che qui importa di notare è piuttosto che in essa si
rivela una forma del conflitto fonda- mentale di cui si è toccato, nel modo di
intendere la conciliazione o meglio la subordinazione delle due esigenze
costitutive della personalità: l'esigenza universale e l'esigenza individuale.
Senonché, appunto perché il conflitto tra queste due esigenze è considerato
soltanto in rela- zione alle condizioni esteriori, esso prende quanto alla
forma veste giuridica e quanto al contenuto natura economica; si presenta come
negazione o posizione nel Potere politico della facoltà di sotto- porre ad una
legislazione esterna il possesso e l'uso dei mezzi di produzione e i modi di
distribuzio- ne della ricchezza. La quale limitazione del carattere del
conflitto è dovuta non solamente e non tanto all'abbassamento inevitabile che
ogni idealità subisce nel tramutarsi da esigenza etica in programma politico,
quanto ad una necessità intrinseca alla costituzione stessa del Potere e alle
condizioni della sua vali- dità. Questo capitolo presenta soltanto nei suoi
lineamenti più generali una materia che deve essere trattata distesamente a
parte [Il quale dal punto di vista etico trova, e non potrebbe essere
altrimenti, la sua giustificazione in una finalità di contenuto individuale. È
individualismo; universalistico si, ma individualismo. Una prova di ciò assai
significativa è appunto la deduzione che Fichte fa dal dovere che ciascuno ha
di attuare in sé la massima libertà, del diritto alla formazione ed educazione
morale di sé, alla cultura, ai mezzi necessari alla cultura, al lavoro.
Insomma, ai medesimi postulati del socialismo; salvo che là sono detti in modo
diverso. Nell'esemplificazione introdotta qui sopra si è supposto che l'idealità normatrice
potesse avere per contenuto un ordine di valori noetici o estetici o religiosi
o edonistico- altruistici, ma non si è considerato distintamente il caso che
l'ordine normativo dei valori fosse dato dall'edonismo egoistico; perché esso,
nell'opinione comune, che risponde anche solitamente a verità, non presenta
quei caratteri formali di validità morale e di esigenza normativa, con i quali
può, o si concepisce che possa, presentarsi nella coscienza il contenuto
costituito dagli altri ordini di valori. Ma questo non toglie che anche
l'egoismo possa erigersi a massima di condotta, a principio normativo, purché,
si intende, l'egoista razionalizzi il suo egoismo; cioè riconosca legittimo che
valga nelle medesime condizioni per tutti quello stesso criterio di
valutazione, che assume come va- lido per sé, e che dà, per ipotesi, coerenza
al suo giudicare e al suo fare. Ora è da notare che dal puro calcolo egoistico
razionalizzato si deduce quel medesimo ordi- ne di valori universalmente
strumentali di libertà e di giustizia, che si deduce da ciascuna delle i-
dealità normative supposte. E basta a persuadercene il fatto che l'economia
pura assume come presupposto, cioè come norma universale di condotta dell'homo
oeconomicus, appunto un postulato edonistico, non solo, ma
edonistico-egoistico. Ed è noto che il liberalismo politico è modellato —
s'intende sempre nel suo aspetto puramente politico, cioè esteriore — sul
liberismo economico. Questa considerazione contraddice solo in apparenza la
tesi, per la quale non può essere normativo che un valore considerato come
valore per sé distinto dagli impulsi e dai desideri transi- tori e variabili
del soggetto; perché il valore che l'economia contempla in realtà, non è il
piacere, o la soddisfazione soggettiva, ma la ricchezza. La quale ha bensì
sempre normalmente soltanto un va- lore strumentale, ma (anche lasciando in
pace l'esempio dell'avaro) può essere — ed è in effetto dal- l'economista —
considerata come valore per sé, e come comune termine di riferimento di ogni
spe- cie di valori edonistici; e perciò di ogni ordine di valori in quanto sono
considerati e valutati nel loro effetto edonistico, nel quanto di soddisfazione
e di godimento che se ne trae e che è misurato ob- biettivamente dal quanto di
ricchezza necessario a procacciarli. Ne segue che il Potere politico e il
sistema giuridico che riceve da esso sanzione e validità di diritto positivo,
possono assumere un significato e un valore al tutto diversi — pur avendo per
con- tenuto una medesima materia — secondo che questo contenuto è valutato come
un ordine di valori strumentali che trova la sua ragion d'essere e la sua
giustificazione soltanto nel suo carattere di con- dizione necessaria della
coesistenza degli egoismi individuali, o secondo che è considerato come un
ordine di valori morali diretti e immediati, come un'esigenza del valore
primario assoluto della per- sona umana, e della libertà che ne è la nota
essenziale. E ne segue parallelamente che si possa ravvisare nell'ordine
giuridico cosí la realizzazione di un'esigenza etica, come un sistema di
condizioni che precede idealmente l'esigenza etica e la rende possibile, ma che
sussiste e sussisterebbe per sé indipendentemente da essa. In realtà, siccome
il valore morale non è valore e non è morale se non per la coscienza che lo
sente e lo riconosce come tale, l'alternativa che ne nasce è questa: che o si
riconosce come ordine di valori per sé, suscettivo di assumere in alcune o in
molte delle coscienze individuali carattere e for- ma di valori morali, anche
l'ordine dei valori edonistico-egoistici, o si deve ammettere che il conte-
nuto del diritto, in quanto fosse legittimato soltanto da una deduzione etica e
non dal principio della convenienza egoistica, resterebbe estraneo all'egoista;
subito da lui, ma non approvato e non voluto. Cioè tale che non si potrebbe
pretendere ragionevolmente da lui che lo riconosca e lo accetti. Dal che nasce
la conseguenza che la deduzione etica del diritto deve coincidere, quando al
contenuto, con la deduzione puramente egoistica, cioè che le norme di diritto
devono essere stabilite come se la loro ragion d'essere fosse unicamente
l'utilità egoistica. E il fatto — inevitabile — che la sanzione (premio o pena)
ha un contenuto egoistico, cioè si risolve in un motivo egoistico
dell'osservanza del diritto, sembra confermare tale conseguenza. Di qui seguono
due corollari non trascurabili per la valutazione dei rapporti tra morale e po-
litica. Il primo è questo: che il potere politico, in quanto è forza di
coazione che pone come ester- namente obbligatorie certe condizioni quali si
siano (negative o positive) dell'attività dei singoli, non è mai per sé,
direttamente, organo morale; perché il valore morale, che è del tutto
interiore, in- sindacabile e incoercibile, sfugge a questa azione; e perché i
mezzi di cui la legislazione esterna può disporre — sia di persuasione (premi),
sia di costrizione (pena) — non possono presentarsi che co- me motivi di ordine
egoistico; e hanno per sé un valore o premorale (cioè di condizione di fatto
an- teriori alla moralità ed estranei ad essa) o pro-morale (cioè tengono luogo
del motivo morale o ne surrogano l'efficacia pratica quanto agli effetti
esteriori della condotta). Perciò gli istituti politici non sono in sé né
morali né immorali se non in quanto sono valutati come tali interiormente dalla
coscienza dei singoli. Il secondo è questo: che dovendo l'ordine giuridico
poter essere giustificato da un punto di vista puramente egoistico, affinché il
Potere politico possa avere un contenuto, non soltanto negati- vo, ma positivo,
comune col contenuto delle diverse idealità tipiche morali (essere o diventare
organo promotore e fautore dei mezzi di cultura), è necessario che il contenuto
di queste idealità sia o possa essere considerato insieme come il medesimo, o
come elemento o condizione essenziale del contenuto medesimo, delle
soddisfazioni egoistiche; o in altri termini, che i valori, poniamo, intel-
lettuali, estetici, simpatetici, religiosi, siano nello stesso tempo i valori
piú desiderati o desiderabili nel rispetto edonistico, o elementi o condizioni
essenziali dei valori egoistici. E ciò equivale a dire che la funzione primaria
e preliminare del Potere politico come organo di cultura è quella di ordinare i
mezzi atti a dare ai motivi edonistici un contenuto sempre piú spiri- tuale e
morale, ossia ad elevare e affinare nei singoli la capacità di sentire e
apprezzare come beni migliori e piú desiderabili di ogni altro i valori
spirituali. La funzione positiva preliminare è dunque quella di apprestare i
mezzi o le condizioni ester- ne necessarie alla possibile educazione ed
elevazione spirituale di ciascuno. Fin qui si è considerato il Potere politico
soltanto come organo di obbligatorietà esteriore ri- spetto ai singoli soci,
dalla cui volontà è idealmente posto, astrazione fatta da ogni relazione dello
stesso potere con altri poteri; cioè come stato di fronte ad altri stati. Ma se
si considera per questo rispetto, esso assume ipso facto natura e funzione di
Persona in rapporto con altre Persone e raccoglie in sé, unifica e fonde in
un'unica Volontà e personalità le volontà e le persone dei singoli. I quali per
rispetto agli stati esteri spariscono come volontà distinte, e sono sostituite
nel loro valore assoluto di persona dallo stato. Il che significa nello stesso
tempo che per questo rispetto la volontà dello stato è per la coscienza di
ciascuno la propria volontà, e che lo stato diventa esso soggetto e sorgente di
idealità etiche. Non è possibile e non è necessario esaminare distesamente le
conseguenze che nascono da questo diverso significato e valore che lo stato
assume in forza dei suoi rapporti con altri stati; ma non è difficile vedere
l'antinomia che ne deriva nei rapporti tra il cittadino e lo stato, secondoché
lo stato è considerato nella sua azione interna o nella sua condotta esterna.
Rispetto a quella il Potere politico è, dal punto di vista etico, mezzo, e la
persona singola, fine; rispetto a questa lo stato è fine e il singolo è mezzo.
Nel primo rispetto il cittadino non ha doveri verso il Potere politico, se non
in quanto vede nell'osservanza di questi doveri una condizione necessaria alla
tutela dei propri diritti; nel secondo rispetto non ha diritti di fronte alle
stato, se non in quanto la garanzia di questi diritti sia una condizione
necessaria all'adempimento del suo dovere verso di esso. Dai suoi rapporti col
Potere, considerato per quel rispetto, è esclusa (almeno idealmente) ogni
esigenza di sacrifizio di sé; considerato per questo, tale esigenza è
necessaria. Di qui la tendenza a far prevalere il secondo ordine di concetti
nei partiti politici che consi- derano come insuperabile l'opposizione degli
stati ed eticamente incondizionata la sovranità di ciascuno; e la tendenza
opposta nei partiti, che credono superabile l'opposizione, e condizionata
etica- mente la sovranità degli stati nelle loro mutue relazioni. Si è avuto
occasione di notare nel capitolo precedente che per la ragione stessa per la
quale la idealità è concepita e voluta dalla coscienza di ciascuno come
normativa di tutta la condotta, per questa ragione la subordinazione di ogni
interesse individuale e, quando sia richiesto, il sacrifizio di sé individuo
all'idealità etica che lo costituisce in persona, diventano la prova viva e
continua del valore intrinseco supremo riconosciuto all'idealità; della
conformità, per adoperare termini già usati, del volere operante o esecutivo
col volere valutante o legislativo. In questa devozione a un Valore sentito e
voluto come valido per sé all'infuori di ogni interesse puramente soggettivo e
accidentale dell'individuo è già la nota caratteristica della religiosità; nota
che è rilevata, sebbene con qualche incertezza e confusione, anche nel
linguaggio comune. Dove il verbo «adorare» significa appunto devozione a un
oggetto, al quale si riconosce un valore incomparabile e a cui si è disposti a
sacrificare ogni altro bene. Ma questa devozione all'idealità, perché sia
piena, effettiva e costante, suppone o richiede le disposizioni spirituali, le
condizioni soggettive, nelle quali e per le quali si viene attuando; richiede
da noi, in noi, il potere di tenerle fede. Ora, quando noi concepiamo l'ideale
morale come un Ente, una Virtualità, una sorgente di energie spirituali, a cui
attingiamo il potere nostro di realizzarlo in noi stessi, e a cui possono
attin- gere i partecipi della stessa idealità il medesimo potere, e quella
virtualità è sentita come divina, e lo spirito perfetto che lo realizza in sé
come Dio, la nostra devozione è religione. Vi è dunque per questo rispetto una
certa analogia nei rapporti della Morale con la Politica e con la Religione. Il
Potere politico realizza le condizioni esteriori della moralità, la Virtù
divina realizza le condizioni interiori. E poiché l'attuazione del valore
morale consiste essenzialmente nell'atto del volere, cioè è interiore e
spirituale, e la conformità materiale ed esteriore trae il suo valore dalla
prima; cosí il Potere politico potrà apparire alla coscienza religiosa come
mezzo e strumento del Potere religioso. Anzi dovrà apparir tale finché essa
considera le condizioni esterne della convivenza come ideal- mente poste e
giustificate soltanto in forza della propria idealità, e non giustificabili
fuori di quella. Ma se si guarda un po' piú dentro si vede che la coscienza
stessa religiosa deve esser condot- ta a riconoscere che quella subordinazione
non è neppure per essa necessaria; perché la legislazione esterna trova la sua
giustificazione in quella stessa esigenza etica fondamentale, in nome della
quale essa coscienza riconosce il valore supremo della propria idealità, e
l'autorità divina del Potere che la realizza. È la esigenza del rispetto della
persona umana come sorgente di ogni valore; del valore stes- so e della
inviolabilità della fede che essa attesta, e che oppone a ogni altra fede. Ed
implica quella libertà che essa non può negare in altra persona senza negarne
il valore per sé: che ogni altro deve riconoscere a lei per non vilipendere la
propria; che è il principio da cui muove e il termine a cui riesce ogni
elevazione dello spirito. Inoltre: Ogni sforzo che si faccia per tradurre un
dovere religioso in obbligo giuridico e dar- gli una sanzione materiale
esterna, contraddice, nel momento stesso che sembra affermarla, l'esi- genza
della religiosità. Perché tende a sostituire al motivo religioso — del tutto
interiore — della devozione e della adorazione, un motivo esteriore e di
necessità egoistico; il motivo della sanzione. Il quale si trova cosí invocato
a garantire ciò di cui è la negazione: la disposizione interiore dello spirito,
e la purità delle intenzioni. Ed è poi, questa distinzione e indipendenza del
Potere politico e della legislazione esterna da ogni particolare fede
religiosa, da un punto di vista obbiettivo, inevitabile non meno che la
indipen- denza già notata da ogni particolare idealità morale. Perché ciò che
fa la certezza e la inconfutabilità della convinzione religiosa è insieme ciò
che ne fa la incomunicabilità e la indimostrabilità. È certo che la «esperienza
religiosa» del mistico non può essere negata da altri. Le intuizioni alle quali
essa si riconduce sono, per la coscienza che le prova, certe di una certezza
diretta, cioè anteriore a ogni prova, non meno delle sensazioni. Ma al pari di
queste non sono comunicabili ad una coscienza che non le prova e non le vive.
Potrebbe parere materia di discussione l'interpretazione che il mistico fa di
questi dati, il momento (che l'analisi obbiettiva può distinguere dal momento
dell'intuizione) per il quale la co- scienza trapassa dalla intuizione sua,
dall'esperienza propria diretta, all'affermazione del divino in sé, come
oggetto dell'intuizione. Ma anche questo processo sfugge alla discussione
perché non è logico ma psicologico: anzi non è per la coscienza del mistico un
passaggio, una argomentazione, ma una integrazione che si pone coll'atto stesso
dell'intuizione e che è vissuta con la medesima certezza. Perciò, chi vuol sotto-
porre dal di fuori questo processo ad analisi critica, analizza in realtà
qualche cosa di diverso. Ana- lizza il processo discorsivo che dovrebbe fare,
per provare la validità della sua conclusione, una co- scienza che non senta
già la certezza di questa conclusione; o, piú esattamente, che consideri come
conclusione di un passaggio logico, quel che per il mistico non è conclusione
logica, ma è evidenza psicologica. E d'altra parte è pur vero che questo
medesimo carattere di evidenza immediata che rende la certezza del mistico
invulnerabile ad ogni attacco di critica, le toglie nel medesimo tempo ogni
pos- sibilità di dimostrazione. Se poi la certezza religiosa si fonda
sull'autorità e non sull'«esperienza» non ne è perciò me- no inevitabile la
individualità e la incomunicabilità. Perché se l'autorità della rivelazione è
accettata come tale per un atto di ossequio, di riverenza e di devozione alla
divinità dalla quale è data, essa è un atto di volontà, non di ragionamento, e
presuppone quella certezza del divino, alla quale essa ri- velazione dà bensì
un contenuto dogmatico, ma non dà, se non lo trova, il valore di certezza. E se
la mia coscienza la accoglie in virtù di prove teoriche o storiche o morali,
per le quali sia indotta a riconoscere nella rivelazione stessa un'origine
divina, le prove della rivelazione (sup- ponendo pure superati tutti i problemi
che vi si riferiscono) non sono prove della certezza che io ho del divino, ma
sono prove che mi inducono a riconoscere nella rivelazione un segno di quel
divino, di cui ho la certezza. Ma il riconoscere questo carattere interiore
personale e insindacabile cosí delle diverse idea- lità etiche come delle
diverse credenze religiose (anche se si accompagni alla consapevolezza che ciò
che costituisce la legittimità e inviolabilità dell'una è, nello stesso tempo,
ciò che costituisce la medesima legittimità e inviolabilità di ciascun'altra),
non è la medesima cosa che spogliare ognuna di esse di quella tendenza alla
negazione non solo, ma alla esclusione delle dottrine opposte, che è propria di
ogni fede, vale a dire della affermazione del valore intrinseco di una
idealità, che per ciò si riconosce come degna di valere universalmente. In
questa diversità e molteplicità varia e inesauribile di valutazioni sta la fonte
di ogni in- cremento della cultura e di ogni elevazione spirituale. Ciascuna di
queste voci è una voce umana, la voce di una persona; e ciascuna deve poter
farsi sentire. Ma quella ragione medesima che pone questa esigenza ne pone il
limite; e i limiti sono i valori morali universali il cui contenuto si allarga
e si arricchisce della potenzialità di sempre nuovi valori nella esperienza
dolorosa e gloriosa dei secoli; e che tralucono per tutto dove è qualche lume
di umanità, perché sono il pregio a cui si riconosce l'uomo e si misura la sua
dignità di uomo. Liberum esse hominem est necesse; vivere non est necesse.Ho
cercato di mostrare altrove1 come e perché sorga logicamente — e, si può dire,
dalla ne- cessità intrinseca dello svolgimento morale — il problema di una
pluralità di contenuto nella co- scienza morale; sorga, quando si abbandoni il
presupposto che è la forza segreta del formalismo kantiano, che l'imperativo
categorico, l'universalità della legge, la razionalità del volere convengano a
un solo, a quel solo contenuto, che si pretende poi, nelle deduzioni della
dottrina del Diritto e della Virtú, di ricavarne; in termini piú chiari e meno
tecnici, quando si cessi di ammettere che la co- scienza morale sia una e la
medesima in tutti; non solo per il tono con cui parla dentro ogni persona, ma
per le cose che dice; non solo per l'autorità con la quale comanda, ma per ciò
che comanda. Questo problema viene a sovrapporsi o meglio ad anteporsi (se non
anche a sostituirsi), — e in ogni caso (come pure ho cercato di dimostrare) a
mutar senso e posizione — al problema che è tuttora, almeno nella forma
consueta, considerato come il problema centrale, il vero problema del- l'etica:
quello del fondamento. La quale forma di trattazione sembra supporre — già nel
modo di porre il problema (filosofia della morale) — che sul contenuto concreto
di ciò che si chiama morali- tà, sul modo di condotta che si distingue come
morale, sui criteri coi quali giudichiamo del giusto e dell'ingiusto, del bene
e del male, non cada dubbio; e il dubbio riguardi le ragioni per le quali si
de- ve veramente tener giusto e buono quel modo di condotta, e legittimo quel
criterio; e ingiusto e ille- gittimo il contrario2. Che questo presupposto sia
ora, dico non solo nella letteratura, ma nella coscienza viva con- temporanea,
arbitrariamente assunto; che nel decidere — se ciò che vale di piú sia la
verità, o la bellezza, o la giustizia, o la carità, o la forza; l'affermazione
di sé o la rinunzia, l'umiltà o l'orgoglio, la disciplina o l'indipendenza non
tutte le coscienze vadano d'accordo; che nella stessa coscienza di una persona
non volgare e non ignara dei problemi morali, né estranea alla consuetudine di
una sincera e severa meditazione, si presentino, tra questi valori diversi,
contrasti e opposizioni non sempre e non facilmente superabili, è ciò che
nessuno potrà e vorrà negare; ed è in ogni caso una realtà che non cesserebbe
di sussistere e di imporsi all'attenzione, anche se fosse negata. Lo stesso
apparire nelle discussioni dottrinali e nelle storie generali e particolari
dell'Etica di teorie dette immoralistiche, dimostra che le differenze ci sono e
che giungono a tale da dar luogo non solo a contrasti ma ad opposizioni
contraddittorie. E qualunque sia il giudizio anche sommario che si voglia
portare su di esse bisogna ricono- scere che non avrebbe senso qualificare
immorale una dottrina, se il contenuto suo non si opponesse appunto a quello
delle dottrine morali come specie a specie nel medesimo genere; cioè se non
pre- tendesse di valutare e regolare — in modo diverso — la medesima materia3.
Ciò basta a confermare, se di conferma vi è bisogno, che il problema di una
pluralità di con- tenuti della morale, ossia di una pluralità di criteri di
valutazione, non è un problema di semplice possibilità astratta, cioè una
curiosità scientifica e filosofica, ma è un problema d'attualità concreta e
viva; è, veramente, a mio giudizio, il problema per eccellenza della coscienza
morale contemporanea. 1 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale; Il
Vecchio ed il nuovo Problema della morale. Questo modo di vedere è favorito, se
non conservato, dal preconcetto, del tutto arbitrario, che la morale sia una
dipendenza della filosofia teoretica; e che nella filosofia teoretica sia da
cercare la ragione dei criteri e dei principi che reggono e giustificano la
condotta. Il quale preconcetto è all'incirca così ragionevole, come quello di
chi andasse a cercare nella luce che viene a illuminare una sala, la
spiegazione degli atteggiamenti nei quali sono veduti quelli che vi si trovano.
3 Né in sede di discussione e di critica si può respingere senz'altro come
amorali o immorali dottrine che hanno pure un loro contenuto valutativo senza
assumere come valido appunto quel contenuto di cui le dottrine in questione
contestano la validità. Non si comincia un dibattimento giudiziario con una
sentenza di condanna. Del resto, se può parere nuovo il problema, a cui
dà luogo — quando si fa piú aperta e mani- festa — la pluralità dei criteri,
non è nuova questa pluralità. Anzi, forse non vi è sistema, per quanto vi
domini potente lo sforzo logico della coerenza, che non nasconda sotto l'unità,
apparentemente raggiunta, del criterio supremo, una piú o meno lar- ga e
profonda pluralità o almeno dualità di contenuto. Per non ricordare con
Aristotele la duplicità di felicità e virtù — ben vivere e ben fare — e per
lasciare l'antica e non mai del tutto superata dualità di vita attiva e di vita
contemplativa, l'unità reale di criteri nella valutazione della condotta non è
raggiunta se non in apparenza, nella stessa mo- rale teologica cristiana; la
quale, mentre non rinunzia, e non può rinunziare, a regolare la condotta umana
anche nel rispetto della vita terrena finita, si sforza poi invano di
ricondurre i precetti che re- golano questa al medesimo criterio di valutazione
che è suggerito o imposto dal contenuto sopran- naturale del fine che la
giustifica. E il distacco logico inevitabile tra il fine invocato a
giustificare le norme e il criterio usato a determinarle, è dissimulato ma non
superato, nell'unità della rivelazione o della intuizione religiosa. Perfino
nell'età del razionalismo, nella quale l'unità di natura e l'identità di doveri
e di diritti di tutti gli uomini è affermata col massimo di consenso e di
calore, indipendentemente da ogni par- ticolare dogmatismo confessionale,
l'unità della valutazione morale si può dire raggiunta soltanto perché se ne
restringe la considerazione al campo propriamente etico-giuridico, e si
trascura o si la- scia nell'ombra la parte piú specialmente personale e che
tocca gli aspetti e le forme della vita inte- riore. E quell'unità parziale di
contenuto sembra essere il segno e la prova di un unico supremo cri- terio di
valutazione morale, perché viene comunemente ricondotto a un fine che dissimula,
sotto l'i- dentità nominale del termine, la possibilità di determinazioni
diverse per quel che tocca la parte del- la condotta etica che sfugge
all'attenzione di quel tempo; e che riguarda i fini propri della persona, e le
forme della vita interiore. Ma il romanticismo e lo storicismo, per vie diverse
ma cospiranti, posero in luce quel che il razionalismo aveva lasciato
nell'ombra o trascurato; e l'uno affermando, illustrando ed esaltando la
ricchezza, la varietà, il valore, se non esclusivo, superiore della vita
spirituale e della attività interio- re, originale, spontanea; l'altro cercando
nella realtà storica la ragione e la giustificazione delle for- me di vita
sociale, religiosa, politica che in nome della natura e della ragione erano
state condannate, avevano condotto a questo doppio risultato: per un verso, ad
allargare smisuratamente l'ambito della vita interiore, raccogliendo e quasi
contraendo in essa tutte le attività spirituali, facendone il campo piú degno,
e, se non esclusivo, certo dominante della condotta morale, e comprendendovi
della vita sociale, al più, quel che in essa si dispiega di spontaneo e
d'ingenuo: la pietà, la carità, l'amore, con l'aperta tendenza a distinguerlo
non solo, ma a staccarlo dalle attività considerate come esteriori, della vita
politica e giuridica. Per l'altro verso, a negare, non solo ogni realtà ed ogni
fon- damento storico, ma ogni valore, alle costruzioni politiche e giuridiche
del giusnaturalismo; alle dottrine dello stato di natura, del contratto sociale,
dei diritti innati; e a considerare come un prodot- to storico le forme
politiche e giuridiche; le quali trovano, nelle condizioni che le hanno
generate e che le rendono adatte rispettivamente alle esigenze dei popoli
diversi in luoghi e tempi diversi, la loro giustificazione necessaria e
sufficiente; e quindi a fare il diritto estraneo all'etica e indipendente da
qualsiasi giustificazione morale, lasciando aperto il campo alle piú svariate
forme di relativismo: biologico, sociologico, storico. Cosí quel che per il
razionalismo era il contenuto comune della coscienza morale, finiva per essere
considerato quasi estraneo alla morale. E mentre si faceva piú largo e piú
profondo il distacco tra interiorità e esteriorità, si attenuava sempre piú la
distinzione tra i valori morali e i valori spirituali di diversa specie e di
diverso contenuto, e prendeva colore e calore di valutazione morale una
molteplicità sempre piú varia di tendenze, di aspirazioni, di attività, di fini
di- versi. Per tal modo penetra nella vita e nella cultura, e si manifesta non
solo nella filosofia, ma in quella che si chiama piú propriamente letteratura,
quella molteplicità di indirizzi, di opinioni, di ere- sie morali che è la
caratteristica, e che esprime, per dir cosí, la maturità storica del problema,
prima dissimulato e trascurato. Non si vuol dire, né sarebbe a priori
probabile, che ad ogni novità di intuizione particolare, geniale o no, su
questa o quella forma di vita e di attività individuale, su nuovi aspetti della
cultura speculativa o religiosa o sentimentale, su nuove direzioni della
volontà, sul valore dei tipi di istituti, familiari, politici, economici (reali
o immaginati) corrisponda una diversità di criteri morali; né tan- to meno che
ciascuno esprima una orientazione di coscienza morale radicalmente diversa
dalle al- tre; ma neppure è possibile dissimulare che questa molteplicità è
altra cosa dalla «dualità» notissi- ma, che nella tradizione e nella credenza
comune e nella dottrina piú largamente diffusa, raccoglie- va e, direi,
polarizzava attorno a due termini contrari i valori della vita, opponendo i
beni razionali ai beni sensibili, e negando a questi ogni valore morale.
Perché, lasciando pur fuori di questione ciò che tocca i beni detti sensibili
(per semplicità di discorso, non perché anche su questo punto le que- stioni
sieno escluse di fatto, o siano da escludere a priori), la caratteristica nuova
e piú rilevante di tale molteplicità, è appunto questa: che è nel regno stesso
dei beni razionali, che la diversità delle tendenze si è venuta delineando
sempre piú spiccata. E i contrasti di tendenze e di opinioni si rive- lano
anche, anzi soprattutto, nel campo di quei valori che era pacifico considerare
come patrimonio, se non uno e indivisibile, almeno indiviso, e non costituito
di parti discordanti. E mentre si venivan disegnando, cosí, conflitti di
primato, se non contrasti irreducibili, tra i valori stessi tenuti
tradizionalmente come superiori, si presentavano: di là, idealizzate, e sotto
veste di valori razionali — o giustificate in nome di esigenze razionali —
tendenze e forme di vita spon- tanee, passionali, o istintive, considerate già
come estranee se non contrarie alla vita morale: e di qua si esaltavano come
centro e culmine dei valori morali le forme religiose, intuitive, sentimentali
e mistiche, avverse, almeno in apparenza, ad ogni pretesa di procedimento
razionale, e che ad ogni modo si affermavano in atti di aperta sfida contro la
ragione. E insieme si negava ogni significato etico — anche nella loro forma di
idealità sociali e politiche — a quei principî razionali del diritto, nei quali
il secolo precedente aveva visto ad un tempo il segno piú alto della dignità
umana e il maggior trionfo della ragione. Di fronte a cosí grande e cosí varia
pluralità di contrasti tra criteri di valutazione, o tra «scale di valori»
diverse, può bastare a risolvere i conflitti e a ricostituire — posto che sia
necessaria — l'unità del contenuto, e l'universalità del consenso, affermare
che la morale è universale perché è ra- zionale, o è razionale perché è
universale? Né è possibile fare appello alla ragione come autorità morale
suprema quando i moralisti che se ne fanno interpreti non riescono, pur
affilandone tutte le armi, né a convincere né a vincere i de- trattori, se non
argomentando ad hominem cioè facendo appello a qualche principio o criterio da
quelli stessi assunto od ammesso. E i detrattori non riescono a formulare
neppure una sentenza di condanna che abbia, non si dice un valore, ma un
significato quale si sia, senza servirsi di quella ra- gione che coprono di
contumelie, e che presta pure la sua assistenza, con divina larghezza, anche a
chi la bestemmia. Dal che parrebbe di dover ragionevolmente concludere che
della ragione non si può fare a meno, in materia di morale piú che in qualsiasi
altro campo; ma che non si può trovare in essa la sorgente delle valutazioni
morali. E tuttavia non solo fu — nell'età aurea del razionalismo — ma è tuttora
largamente sostenuta ed accolta, non senza che la tenacia degli sforzi abbia un
profondo significato, l'idea di cercare nella ragione anche ciò che la ragione
non può dare; e di riferire a lei non soltanto l'esigenza della coerenza,
dell'unità, e quindi di leggi, di criteri e massime, ma anche di certe leggi e
di certi criteri, piuttosto che di leggi e criteri diversi. Ma l'idea è
illusoria. E l'illusione sta in ciò essenzialmente: nel credere che la ragione
obbli- ghi ad ammettere non soltanto certi giudizi, dato che se ne accettano
certi altri, certe conseguenze, se si accettano certe premesse; ma obblighi
senz'altro ad accettare certi giudizi: quei giudizi stessi che fanno da
premessa; che «esser ragionevole» voglia dire non soltanto osservare le leggi
della logica, rispettare quei principi logici senza dei quali non è possibile
nessun ragionamento e nessun «uso della ragione», ma voglia dire essere
obbligati a riconoscere "certe verità", ad ammettere certi principî;
principî non logici o formali, ma materiali; dati o postulati che facciano da
sostegno al ra- gionamento, e comunichino la loro certezza ai giudizi che se ne
ricavano. Ora io lascio di considera- re, perché non è necessario qui, il campo
dei giudizi propriamente teoretici e la distinzione che sa- rebbe necessaria
tra giudizi condizionali e giudizi di esistenza; e mi restringo al campo
«pratico». In questo adunque la ragione sarebbe essa che pone ad un tempo
l'esigenza della legge e la legge; cioè, non solo l'esigenza dell'unità e le
norme da osservare per realizzarla, ma anche i criteri attorno a cui si deve
raccogliere questa unità; quei giudizi stessi che non si giustificano, ma che
servono di fon- damento alla giustificazione. Questa «funzione pratica»4 della
ragione si può intendere in tre modi diversi: O i criteri di valutazione, i
giudizi di valore che stanno a fondamento dei giudizi morali, hanno la stessa
validità e si possono o dimostrare o porre con la stessa necessità od evidenza
con la quale si impone la validità delle forme logiche. Oppure se il dato o
principio che sia a fondamento delle valutazioni è diverso dalle verità
teoretiche, assunto dalla ragione, non posto da lei ma offerto a lei, questo
dato è tale che essa non ha che da scoprirlo, da formularlo, da presentarlo
alla riflessione di ogni uomo ragionevole per- ché ne sia riconosciuta ed
ammessa come indiscussa e indiscutibile la validità. — O finalmente è la
ragione stessa che pone la legge, ed è l'esigenza razionale che basta a
determinarla, senza che a costituire la validità della legge e del contenuto
che essa incorpora in con- formità della sua esigenza, sia necessario
riconoscere la validità di alcun dato o principio materiale estraneo alla forma
stessa della legge. Non vi sono che queste tre vie possibili; e sono le vie che
anche storicamente il Nazionali- smo ha seguito con maggiore o minore sforzo di
argomentazioni e varietà e ricchezza di gradazioni particolari. La prima via,
la piú antica, quella aperta da Socrate quando si presentò per la prima volta
il problema morale in condizioni analoghe per certi rispetti (nessuno pensa a
dire uguali) a quelle che lo fanno risorgere ora in una forma somigliante (il
contrasto nelle opinioni intorno a ciò che è bene, o in breve, il problema
della pluralità dei criteri morali), è la via che si direbbe piú propriamente
in- tellettualistica. I principî morali sono verità5 della medesima natura
delle altre, accertabili teoreti- camente, o deducibili da verità teoretiche. È
l'indirizzo del quale ho parlato già altrove6 e il cui vizio radicale consiste
nel fare dei giudizi di valore giudizi teoretici, e pretendere di derivare
quelli da questi. Ma quanto alla derivazione nessuno sforzo logico può fare che
concluda con un giudizio di valore un ragionamento che non abbia per premessa,
espressa o sottintesa, un giudizio di valore. Quanto alla certezza immediata
nessuna evidenza logica può fare che sia contraddittorio in sé stimare di piú
il proprio cane che il prossimo, se non si suppone che io ammetta che un uomo 4
Questa espressione può avere in morale tre sensi diversi che importa
distinguere. Si può intendere che dipen- da dalla ragione il valutare, cioè
riconoscere e graduare i valori; o che dipenda dalla ragione il conformare la
condotta alla valutazione, muovere la volontà: e questi sono i due sensi che
rispondono all'uso piú comune del termine «pratico» e che pur si confondono tra
di loro, benché siano diversissimi; come è diverso riconoscere la giustizia o
la bontà di una norma e osservarla, stimare la virtú e praticarla. Ciò che è in
discussione qui e nel seguito è sempre, se non si dica espressamente il
contrario, il primo signifi- cato. Finalmente vi è un terzo senso, quello
propriamente kantiano, che consiste nel riconoscere la possibilità e la le-
gittimità di affermare per il bisogno morale l'esistenza di ciò che la ragione
speculativa non può conoscere; di fondare sulla morale una certezza metafisica
che è preclusa all'uso teoretico della ragione; ed è a un tal uso che si
riferisce, come tutti sanno, la notissima espressione «primato della ragion
pratica. La tesi morale di Socrate è duplice come tutti sanno: che il bene e il
male si possono conoscere (se ne pos- sono fare dei concetti veri) come si
conoscono le altre cose. che conoscere il bene e praticarlo è il medesimo,
ossia che la moralità (la pratica del bene) è sapere; chi fa il male lo fa
perché ignora che cosa sia il bene. La prima tesi sta indipendentemente dalla
seconda che qui è lasciata in disparte. Di solito quando si parla della tesi di
Socrate in tema di morale si intende dire di questa seconda e non di
quell'altra, la quale anzi è comunemente ascritta, e in un certo senso
giustamente, a merito di lui. Vecchio e nuovo Problema]qualsiasi vale piú di un
qualsivoglia cane, o che dove c'è pensiero, ivi c'è una dignità incomparabile
con qualsiasi pregio di natura diversa. Ma in questo caso la contraddizione è
tra un mio giudizio e un altro mio giudizio; che si suppone pure ammesso da me
e per me valido. Ma chi o che cosa mi obbliga ad ammettere questo valore del
pensiero? E perché cadrei nell'assurdo se lo negassi? Forse perché con ciò
diminuisco o nego un valore che è anche mio? Sarebbe dunque il rispetto e la
stima di sé un principio logico? E la despectio sui del Geulinx contiene dunque
una contraddizione in termini? Se si incalza che il giudizio sulla inerenza
all'uomo di proprietà o doti che mancano al cane è di evidenza oggettiva e che
riconoscere un maggior valore all'uomo che al cane è la stessa cosa che
riconoscere all'uomo una maggior realtà, cioè una maggior perfezione, è facile
avvertire che in que- sta identificazione si assume appunto ciò che è in
questione: che la perfezione o il pregio delle cose e delle proprietà delle
cose sia accertata o accertabile teoreticamente come la loro esistenza e appar-
tenenza; mentre basta una non lunga riflessione per accorgersi che il giudizio
sul pregio e sul valore o il «grado di perfezione» di qualsiasi ente o
proprietà implica il riferimento a una gerarchia, a un ordine, a un disegno,
cioè in ultimo, a un modello, e quindi a un fine attuato o da attuarsi. E, che
possa o debba valere come fine, che meriti di valere, non è un giudizio in
realtà; tanto che il negargli questo valore non implica negare sia la realtà,
sia la possibilità, sia alcuna delle proprietà dell'ente. Cosí come negare alla
sfera il valore di forma perfetta che le davano i peripatetici, non implica per
GALILEI (si veda) la negazione né della costruibilità della sfera, né di alcuna
qualesivoglia delle sue proprietà geometriche. La sfera rimane la sfera. Si
potrà o non si potrà ammettere che essa abbia, in grazia di quelle proprietà,
un pregio particolare, ma l'ammetterlo o negarlo non appartiene alla geometria;
e mentre io rinuncio ad essere intelligente se non capisco il concetto della
sfera, e rinunzio ad essere ragionevole, se non ammetto tutte le proprietà che
ha o avrebbe una sfera reale costruita secondo quel concetto, non rinunzio né
all'intelligenza né alla ragione se nego che la sfera valga piú del cubo o
della piramide. Lo stesso, mutatis verbis , vale per l'esempio allegato del
cane e dell'uo- mo. Senonché qui un rosminiano potrebbe insistere, che il caso
è appunto diverso e che la diversità ha un suo significato: perché mentre io
non provo internamente alcuna ripugnanza ad ammettere che la sfera non valga
piú della piramide, non posso senza ripugnanza invincibile, ammettere che il
cane valga quanto l'uomo. Che è questa ripugnanza, se non il segno della
«contraddizione che nol consente»? Che nell'esempio citato -- non per nulla
nella scelta SERBATI (si veda) ha la mano felice -- la repu- gnanza ci sia, è
innegabile — sebbene le tenerezze di certe dame possano far dubitare della
univer- salità del riconoscimento —; ma questa ripugnanza è una ripugnanza
morale, non una incongruenza o contraddizione teoretica, ed è comune nella misura
in cui è comune la valutazione su cui si fonda. Anche qui, ancora e sempre:
negando questa differenza di valore tra il cane e l'uomo io non nego nessuna
delle differenze di realtà che esistono e che si possono conoscere; non nego
nessuno dei ca- ratteri e delle proprietà dell'uomo o del cane, qualunque poi
sia il giudizio che faccio sul valore di- retto o indiretto di ciascuna di
quelle doti e di tutte insieme, e degli esseri che le posseggono. Che io faccia
maggior conto del potere di astrazione dell'uno che della finezza di odorato
dell'altro, o che apprezzi di piú l'amore della libertà dell'uomo che la
ubbidienza cieca del cane, non è per nulla una implicazione necessaria del
riconoscere rispettivamente nell'uomo quella proprietà che nego nell'al- tro. E
il giudizio potrebbe essere rovesciato, e un grossolano estimatore di tartufi
potrebbe preferire il fiuto del suo cane a quel qualunque potere di astrazione
che la natura prodiga ha largito a lui pure, senza che muti di un ette la
verità riconosciuta da ambedue: che l'uomo ha un certo senso meno fine del cane,
e il cane manca di un potere che ha l'uomo. — E se finalmente accadesse
davvero, come parrebbe anche naturale, che nessuno potesse disconoscere la
differenza di valore tra i due, questa universalità di riconoscimento non
cesserebbe di essere, per la sua natura e per il suo fondamento, diversa da
quella. L'essere universalmente ammessa una differenza di valore fra i due
enti, prova, nel caso che è universalmente ammessa o sentita l'esigenza morale
in grazia della quale quella dif- ferenza è posta: ma non prova che il giudizio
di valore, cosí espresso, sia una conoscenza teoretica; ossia, comunque,
riducibile alla conoscenza oggettiva dei due esseri, o ricavabile da questa. La
verità è che i giudizi morali (come ogni altro giudizio di valutazione) paiono
della stessa natura dei giudizi teoretici perché sono nella massima parte, e
con una frequenza di gran lunga maggiore, giudizi derivati e possono
presentarsi sotto forma di giudizi derivati, anche quando sono considerati,
sotto un altro rispetto, come primari e assunti come tali in una costruzione
diversa. Ora nei giudizi derivati, la validità della valutazione è ricondotta
alla validità di un altro giudizio (primi- tivo o primario o diretto) con un
processo, che non differisce in nulla, quanto alle leggi logiche che ne
governano la legittimità, dal comune processo di dimostrazione col quale si
prova la connessione necessaria di certe conseguenze con certe premesse. Con
questa circostanza, per dir cosí, aggravante: che, come s'è accennato, accade
di frequente, anzi solitamente, che quegli stessi giudizi che figu- rano in un
processo di giustificazione come premessa o principio, compaiono o possono
comparire in un altro ragionamento come conseguenza o conclusione. Tanto che
riesce difficile decidere, quando si tratta di valutazione, quali siano i
giudizi primitivi, e quali i derivati, comparendo a volta a volta secondo le
costruzioni diverse e i diversi punti di vista e talvolta nello stesso autore
(e senza che si possa per ciò solo appuntare i ragionamenti corrispondenti di
circolo vizioso e di petizione di principio), come giudizi derivati, dei
giudizi che figurarono in altro luogo, e per un altro proposito, come
primitivi, e inversamente; al contrario di quel che accade di solito nelle
costruzioni scientifi- che: dove i principî o proposizioni fondamentali hanno e
conservano costantemente il loro carattere e il loro ufficio. Sfuggendo cosí
all'osservazione, per la vicenda di ufficio logico al quale possono a volta a
volta essere assunti, quali siano i giudizi di valore primitivi, cioè quelli in
cui si assume la validità diretta e immediata (senza che sia ricondotta alla
validità di qualche altro giudizio), riesce piú difficile, o almeno si presenta
meno frequente e meno aperta, la opportunità o la necessità di e- saminare la
natura e di coglierne questo carattere di diversità, radicale e irreducibile,
dai giudizi teoretici. La quale diversità può sfuggire anche piú facilmente o
essere posta in luce tanto piú diffi- cilmente, per un'altra circostanza che ha
a quest'effetto un influsso anche piú decisivo. E la circostanza è questa: che
una parte considerevole dei giudizi valutativi che assumono piú frequentemente
valore di primari, o sono abitualmente sottintesi (tanto sono o si suppongono
incontestati), o sono incorporati e quasi assorbiti nei giudizi teoretici,
senza che l'apprezzamento, per lunga consuetudine congiunto all'idea
dell'oggetto, o della proprietà, o dell'atto, o dell'effetto possibile, sia
formulato in un giudizio distinto; anzi, talvolta, neppure sia espresso piú
nell'enunciazione del giudizio stesso da una di quelle particelle (aggettivi,
avverbi, interiezioni) che portano nel giudizio la espressione di una
valutazione, o, come si può dire con forma piú generale, la nota del
sentimento; la quale non appare talvolta che nel tono di voce dell'interprete o
lettore, o si rifugia nella scelta sapiente delle parole e delle sfumature
suggestive, di cui è ricca una lingua satura di civiltà. Dire di un uomo che è
indolente o che è intemperante, è, se non si parla a vanvera, attribuir- gli
una qualità, della quale è possibile dimostrare che veramente gli spetta, cioè
si posson dare delle prove oggettivamente certe e accertabili: è un giudizio
teoretico. Ma ognun vede che vi è tacitamen- 7 È tuttavia da notare anche qui
una tendenza a considerare l'ufficio logico rispettivo di principî e di conse-
guenze, suscettivo di essere invertito. Così nella piú rigorosa delle scienze
deduttive, la geometria, si può vedere la pos- sibilità, sfruttata per ragioni
didattiche o anche per maggior semplicità o eleganza di costruzione, di
invertire la dedu- zioni; assumendo come dato quel che si è ricavato, e
inversamente; come avviene del resto nelle dimostrazioni della connessione
reciproca di due proprietà fra di loro.] te assunto insieme un giudizio di
valutazione, nella misura che l'indolenza o l'intemperanza sono per chi parla o
per chi ascolta qualità non pregevoli, o biasimevoli; il che diventa
evidentissimo quando si tratti di qualità o di attributi, o modi di operare piú
gravemente e piú universalmente biasimati, come si dicesse: bugiardo, venale,
falsario e simili. Anzi, i giudizi di valutazione sono gravi in pro- porzione
della loro prova teoretica assai piú che delle espressioni di biasimo che li
accompagna; ap- punto perché il biasimo può essere piú facilmente sottinteso. E
non per nulla la diffamazione è punita piú dell'ingiuria. Cosí il giudizio
valutativo (sottinteso) sembra essere fondato su prove, come si dice, di fatto,
ossia su giudizi teoretici; mentre i giudizi teoretici provano bensì
l'esistenza del fatto o la legittimità dell'imputazione, ma non provano in
nessun modo il valore dell'azione. Il qual valore è già riconosciuto e ammesso
e incorporato nell'idea di quel modo di operare, di quel difetto o colpa di cui
l'azione è prova, e non ha bisogno di essere formulato a parte perché tutti lo
sentono e tutti lo sottintendono. Ora i giudizi di valore a cui si dà ufficio
di primari, cioè che si assumono a fondamento degli altri e alla cui validità
si riconduce la validità di questi, sono presi, solitamente, tra i giudizi il
cui valore per essere comunemente riconosciuto e, come si dice, pacifico, è
appunto piú facilmente sot- tinteso. Quando si è detto a una persona
intelligente «bada che quella pistola è carica», non occorre altro discorso per
persuaderla a maneggiarla con prudenza; e nessuno pensa che è sottinteso, o
meglio, nessuno ha bisogno di pensare distintamente che è sottinteso, un
giudizio sul valore della vita, e che l'avvertimento non avrebbe peso se la
vita non valesse piú di una cartuccia. Ora il giudizio: la vita è un bene; che
qui è sottinteso, può essere considerato come primario, per esempio in tutti i
precetti dell'igiene (dove anzi fa da primario un giudizio, che è già esso
derivato rispetto a questo, sul valore della sanità): ma può essere non
primario per chi giustifica a sua volta il valore della vita col valore del
sapere, o del bello, o della giustizia, o della carità, o della potenza, o
della gloria, o di qualsiasi altro ordine di fini o di attività o di godimenti.
Ma poi, quando si dice che l'arte, o la scienza, o la pietà sono un conforto
della vita, si fa di ciascuno di quei beni che sopra sono assunti come beni per
sé, un bene derivato rispetto a quello della vita. E cosí se si dice che il
sapere accresce la ricchezza, o la giustizia assicura la tranquillità, o
l'onestà alimenta la fiducia reciproca, si pongono, almeno occasionalmente,
come derivati, dei valo- ri primari, e si assumono come primari rispetto ad
essi, dei valori derivati. È adunque chiaro che i giudizi di valore si legano
fra di loro in una catena continua, anzi in un groviglio di catene, del quale
non è necessario qui cercar di capire piú particolarmente la struttura; e che
per queste mutue e varie connessioni delle diverse valutazioni fra di loro, si
può assumere come primario in un sistema di deduzioni un giudizio di valore che
figura come derivato in un sistema diverso. Ma in qualsiasi processo di
giustificazione, questo giudizio primario di valore e- spresso o sottinteso ci
deve essere; e si tratta di vedere — nel caso di valutazioni morali — non se
spetta alla ragione giustificare la scelta, ossia dimostrare da che cosa nasca
l'attribuzione di valore (che sarebbe precisamente fare del valore diretto un
valore derivato; la quale dimostrazione, se è possibile, nessuno dubita che sia
un processo razionale); ma, se ci sia un principio di valutazione, una
affermazione diretta o primaria di valore che sia razionale in sé, e che si
distingua come razio- nale da altre valutazioni primarie, che non siano in sé
razionali; cioè che non sia razionale accetta- re, che la ragione impedisca di
ammettere. Se si tien conto di quanto s'è avvertito sopra, la questione della
razionalità o irrazionalità dell'egoismo si riduce a vedere se l'egoista,
accettando il principio assiologico che assume come primario quando giustifica
il suo sistema di valutazioni egoistiche e le massime di condotta corri-
spondenti, rinneghi la ragione, e quindi, poiché è ragionevole, si trovi in
contraddizione con se stes- so. E cadrebbe in contraddizione: O perché operando
da egoista non raggiunge lo scopo al quale è rivolta la sua opera. O perché il
criterio egoistico contrasta con altri che l'egoista stesso in quanto egoista
non può fare a meno di accettare e di ammettere. È certo che l'egoista spesso
sbaglia i conti e fallisce lo scopo; ma questo non ha che fare nel- la
questione. I conti li sbagliano un po' tutti, o li possiamo sbagliare, senza
che ciò voglia dire nulla circa il valore o il disvalore, la dignità o
l'indegnità dei nostri scopi. Lo sbagliare riguarda la scelta o l'uso dei mezzi
e dà luogo ad un giudizio di abilità o inabilità, di successo o di insuccesso;
e sba- gliano i conti i filantropi forse piú spesso degli egoisti. Lasciamo
dunque le delusioni che possono venire agli egoisti da errori di calcolo.
Concludente invece, anzi decisiva, sarebbe, se valesse, l'altra obbiezione che
non si possa essere egoisti senza contraddirsi. La quale però ha il torto di
configurare un egoista incoerente (an- che se in realtà è il tipo comune, anzi
forse cedendo appunto alla suggestione della realtà) cioè, che pretende bensì
di subordinare ogni interesse, di qualunque genere, degli altri al suo
interesse pro- prio, ma pretende insieme che gli altri non facciano cosí; e ha
l'aria di dire agli altri: ma, insomma, se fate gli egoisti anche voi, come
faccio io a servirmi di voi per i miei comodi? Naturalmente quando si è
foggiato un egoista su questo tipo, è facile dimostrare che si contraddice. Non
è mai, in generale, molto difficile ritrovare in qualche cosa qualcos'altro che
vi sia posto dentro prima. Ma non vi può essere un egoista coerente? E come si
dimostrerebbe che non vi può essere? Vediamo come dovrebbe essere; e se,
essendo coerente, cesserebbe di essere egoista. Questa è ma- nifestamente la
tesi che si deve dimostrare per concludere alla irrazionalità dell'egoismo.
Egoista coerente è chi riconosce buono l'operare di ciascuno quando è dettato
dal suo inte- resse maggiore, ossia buono per ciascuno il modo di operare che
procura ad esso operante il mag- gior numero di vantaggi e il minor numero di
danni; ossia, un egoista coerente è esso senza riguardi 8 Non si può
considerare come esempio di contraddizione intrinseca dell'egoismo il caso
frequentissimo e co- munissimamente notato di chi si mostra in questa o quella
circostanza egoista perché opera da egoista o come se fosse egoista, mentre
sente dentro di sé di «aver torto», sente che la sua azione presente è disforme
da quel modo di operare che la sua coscienza morale riconosce come giusto; quel
modo di operare che egli approva quando giudica le azioni de- gli altri e che
egli stesso seguirebbe se non fosse in gioco. Ossia egli sente che dovrebbe
fare così e sente che farebbe così se il fare non gli costasse un sacrifizio;
il sacrifizio di quella certa sua piú o meno grande comodità. Ora certamente
qui (ed è il caso comune, tipico, notato migliaia di volte del contrasto, dello
scontento interiore e del rimorso) questa discordia interna è colta e segnalata
dalla ragione. È una esigenza razionale l'unità delle valutazio- ni, la
costanza dei criteri, la coerenza tra il valutare e il fare, ed è un processo
razionale che rivela le incoerenze e i con- trasti. Ma la questione non sta
qui. Il contrasto segnalato per il quale chi opera da egoista è colto in fallo
e deve riconoscere il suo torto, è possibile perché il supposto egoista ha
operato bensí da egoista, ma sente e giudica e valuta conforme a giustizia.
Egli è in con- traddizione perché il criterio di valutazione, cioè di scelta
tra i motivi, seguíto nella sua azione concreta è contrario al criterio di
valutazione che egli accetta come persona morale, che applica nel giudizio
sulle azioni altrui e, in quanto rie- sce ad essere imparziale in causa propria
anche a se stesso. E la vera questione qui sarebbe di vedere se quel criterio
di valutazione che egli accetta come persona morale è posto dalla ragione; se
dato che non fosse sentito e accettato dalla sua coscienza, potrebbe un
processo razionale farlo sorgere per gli altri, ma ammette e trova naturale e
legittimo nello stesso tempo, che ciascun altro sia senza riguardi per lui. È
pronto a sopraffare, potendo farlo senza danno, gli altri; ma non protesta se
altri, potendo, sopraffà lui. — Dov'è qui la contraddizione? Si dirà che cosí
facendo si riesce all'uno o all'altro di questi risultati: o alla limitazione
reciproca degli egoismi per mezzo di norme di condotta che li renda
compatibili, e abolisca lo spettro hobbesiano del «bellum omnium contra omnes»;
o al riconoscimento del valore supremo, della forza come criterio ultimo della
condotta. Ora il primo risultato — si dirà — è la negazione dell'egoismo;
l'egoismo, diventando ragio- nevole sbocca in un criterio diverso, anzi
contrario: si fa legge, cioè diritto, cioè giustizia. Il secondo tiene sospesa
sull'egoista la spada di Damocle della sua condanna: il piú forte d'oggi può
essere piú debole domani, il piú forte contro i singoli è meno forte contro la
coalizione dei singoli. Il numero, il «gregge» può sopraffarlo; e se lo
sopraffà esso ha ragione perché è il piú forte. Per sostenere che il criterio
della forza deve valere soltanto tra i singoli e singolarmente presi,
occorrerebbe un altro presupposto, un altro giudizio, un altro criterio fuori
della forza, che valga a distinguere entro quali limiti l'uso della forza è
legittimo. Ma fuori di questa clausola (che ricondur- rebbe al risultato
precedente), la forza contiene in sé la propria condanna perché genera da sé la
propria negazione. Né l'uno né l'altro di questi discorsi che paiono vittoriosi
è, se si guarda spassionatamente, concludente. Cominciamo dal secondo. È bensì
vero che l'egoismo se non scende a patti con gli egoismi che gli si possono
contrapporre sbocca nel criterio della forza; ma il criterio della forza non si
nega e non si smentisce finché si ammette che esso valga per tutti, che la mia
volontà sia legge finché il piú forte sono io, e che sia legge la volontà degli
altri quando piú forti sono gli altri. Sarebbe invece smentita appunto, quando
valesse finché il piú forte sono io e non valesse piú se il piú forte è un al-
tro. Si può dunque dire che il criterio della forza può riservare delle
sorprese, e portare, a chi l'accet- ta, piú danni che utili. Ma non si può dire
che sia in sé contraddittorio; come non è contraddittorio per un giocatore
accettare la legge del gioco coi suoi rischi e le sue promesse, anche se queste
sono superate da quelli. Ciò riguarda dunque, non la coerenza intrinseca del
criterio, ma la questione se a un egoista accorto convenga o no di farne la sua
legge. Se ci pensa bene, se pesa il pro e il contro con pruden- za, forse non
sceglierà una strada nella quale i pericoli sono superiori alle speranze. Se si
trova difficoltà a immaginare seguíto questo criterio fra gli individui, non c'è
che da pensare al principio che ha regolato in ultima istanza, fino a ieri, se
non fino ad oggi, i rapporti fra gli stati, e che dovrebbe regolarli sempre
secondo l'imperativo nazionalistico o etnico o storico, che passò e passa
tuttora - agli occhi di molti - come il solo imperativo seriamente politico. In
questa concezione dei rapporti fra gli stati non domina forse nella sua forma
rigorosa quella tesi estrema - che lo Stirner formulò per i singoli individui -
e che parve ad alcuni per il suo stesso rigore una caricatura ironica dell'a-
narchismo di una società di egoisti, che vale fin che mi giova e dura finché mi
piace? O si vorrebbe dire che non sono «ragionevoli» i politici, filosofi o no,
che accettano e difendono questo crite- rio, non solo come l'unico criterio
possibile, - in determinate circostanze storiche, ma come il solo razionale? Senonché
anche la razionalità dell'egoismo statale non è data, ma presupposta, o fondata
su un presupposto: che l'interes- se, anzi, un certo interesse dello stato abbia
un valore incondizionatamente supremo. Ed ecco l'altra alternativa:
l'egoismo che si limita e si fa diritto. Ma qui è ancora piú facile scorgere
l'equivoco e può parer superfluo il metterlo in evidenza. L'egoista che accetta
il diritto come garanzia della sua sicurezza, della sua tranquillità, della sua
li- bertà, cioè la limitazione dell'egoismo per motivi egoistici, non cessa
perciò solo di essere egoista, e non v'è nessuna contraddizione intrinseca, per
lui, nell'accettare condizioni che per lui sono vantag- giose. Che un diritto
cosí giustificato non abbia valore morale e non debba identificarsi con la giu-
stizia è evidente: che un diritto il quale non abbia altro fondamento che
questo calcolo egoistico sia poco saldo e non abbia piú consistenza di realtà
storica che lo stato di natura, è inutile dire; ma non si può dire in nessun
modo che l'egoista contraddica se stesso quando accetta e riconosce una legge
che limita il suo egoismo. E l'economia politica assume, come tutti sanno,
l'ipotesi dell'uomo che produce e scambia la ricchezza secondo motivi egoistici
e per puri motivi egoistici, ma osserva per- fettamente le altre forme
giuridiche piú rigorose della giustizia, senza che questa osservanza venga a
contraddire menomamente il presupposto egoistico. Anzi, ognuno sa che la
limitazione piú rigida e piú incondizionata dei fini particolari di ciascuno
sotto la legge di un dispotismo senza limiti e senza controllo, è giustificata
dal Hobbes in nome dell'egoismo e dell'espressione piú elementare e piú grossolana
dell'egoismo (la conservazione della vita); e che a un calcolo puramente
egoistico si riconducono dall'Helvetius (cosa parimenti notissima) ogni forma
di condotta ed ogni azione uma- na. E nelle dottrine che prendono nome di
utilitarie (con un battesimo antonomastico che non si ca- pisce se faccia piú
torto, come si crede, alle dottrine, o a chi le ha designate con questo
nome11), la difficoltà piú grave, la sola difficoltà insormontabile dal punto
di vista del proposito che le ispira, è quella che nasce dalla esigenza di
conciliare la utilità individuale con la utilità sociale: alla quale e- sigenza
si crede di soddisfare nel modo piú efficace, facendo dell'utile della società,
il mezzo e la condizione dell'utile individuale; cioè giustificando da un punto
di vista egoistico, le norme della vi- ta sociale. E questo stesso sforzo di
giustificare con una motivazione egoistica ogni ordine di attività anche piú
elevata non solo dimostra che è tutt'altro che evidente la contraddizione
intrinseca e la ir- razionalità dell'egoismo, ma fa pensare piuttosto il
contrario: che l'illusione di questa possibilità sia nata, e la tenacia dello
sforzo alimentata, appunto dall'opinione che la via migliore, se non l'unica,
di persuadere che l'operare moralmente è conforme alla ragione, sia di mostrare
che le norme morali coincidono con quelle di un bene inteso cioè di un
intelligente egoismo. Ma con ciò si suppone o si accetta, ma non si pone la
pretesa legittimità evidente per sé del- l'egoismo, come norma suprema di condotta,
accanto o contro la legittimità del criterio opposto. Ed è sempre sottinteso il
presupposto arbitrario che vi sia un criterio di valutazione il quale è per sua
natura conforme alla ragione, di fronte ad altri criteri contrari. Mentre
contrario alla ragione non è né l'uno né l'altro criterio per sé. Ma è soltanto
la pretesa di accettare un certo criterio e insieme non accettarlo, di
ammetterlo come norma di condotta e non applicarlo. Chiedo scusa al lettore se
adopero questa volta frasi di questo genere - adatte piú ad effetti stilistici
che a precisione di pensiero - per segnalarne il pericolo. Non bisogna
dimenticare che in queste espressioni l'egoismo che si nega, l'arbitrio che
limita se stesso e molte altre somiglianti, il senso voluto significare è reso
possibile perché e in quanto il termine in questione (egoismo o altro) è preso
a indicare in una due significazioni diverse: nell'una è l'astratto (la
connotazione comune a tutti egoismi); nell'altra è il collettivo (l'insieme
degli egoismi particolari e degli arbitri diversi che si contrastano). Il quale
è un tacito riconoscimento che gli uomini considerano veramente utili soltanto
le azioni che servono a certi fini e a certe soddisfazioni loro. Ma utili in
qualche modo sono tutte le azioni; se no (ah questo sí), non sarebbero
ragionevoli. Sono utili, o credute utili, al fine a cui sono dirette,
economico, scientifico, estetico, religioso, politico, ecc. Che siano dette
utili soltanto le prime, parrebbe dunque significare che abbiano vera importanza
per l'uomo soltanto quei certi fini, che poi si dimostra con molti discorsi che
sono meno nobili degli altri. Su la pluralità dei postulati di valutazione
morale \ Con ciò la tesi egoistica cerca di porsi su quella medesima via che è
nella tradizione dei si- stemi e delle scuole la via piú comune del
razionalismo morale, ed è in effetto la piú semplice, si di- rebbe quasi la piú
ovvia ed ingenua: quella notissima di ricondurre le norme a un bene, a un fine,
a un ideale, di cui si è riconosciuto o si debba riconoscere incontestabile il
valore supremo. Qui ciò che fa da principio della dimostrazione d’assioma medio
o proprio della costru- zione morale, è il giudizio in cui si assume questo
valore e questa dignità suprema del fine. Posto che il fine assunto sia il fine
che l'uomo riconosce come supremo e che si dimostri come le norme morali siano
ordinate ad esso, la loro legittimità è dimostrata. Quale sia questo fine e in
che consista spetta alla ragione di trovare o di giudicare; di trovare e
formulare, se questo fine supremo è dato e si assume come riconosciuta e
incontestata la sua vali- dità di supremo; — di giudicare, se su questo valore
cade dubbio, o se si pensa che non basti un ri- conoscimento di fatto, ma sia
necessario un riconoscimento di diritto; che spetti alla ragione, non già o non
soltanto di scoprire, se vi è, un tal fine, ma di giudicare perché esso debba
valere. Nella prima maniera il valore del fine e quindi del criterio supremo
che la costruzione logica assume, e sul quale si fonda la giustificazione delle
norme morali, è manifestamente dato alla ragione, non posto da lei; ma
l'assumerlo può apparire e appare praticamente legittimo, finché è ammesso e
fuori di contestazione che il fine è supremo, perché è in realtà il fine unico,
segnato dalla stessa «natura u- mana»; quello a cui si riducono tutti i fini
particolari; che li comprende, li concilia e li subordina tutti. Tale è nella
sostanza il procedimento logico delle dottrine che assumono come fine naturale
— al quale necessariamente si riconduce o mette capo qualsivoglia fine parziale
— la felicità o la perfezione o altro preteso fine dello stesso tipo, che li
compendii tutti. Ma è appena necessario os- servare come quegli stessi
caratteri per i quali pare cosí naturale, cosí evidente e cosí «ragionevole»,
riconoscere questo fine come il fine per eccellenza, senza contestazione e
senza eccezione comune e costante e incoercibile della natura umana, sono quei
medesimi che fanno di questo fine apparen- temente unico, un termine vago e
vacuo di ogni contenuto determinato e concreto; del quale nessu- no contesta
che sia supremo, finché ciascuno può dare a quel termine il significato che si
accorda, per lui, col valore che gli si attribuisce di supremo. Ma perché una
qualsiasi costruzione sia possibile è necessario che il termine assuma un cer-
to contenuto determinato; il quale contenuto è esso che serve di fondamento
alla deduzione; mentre ciò di cui si riconosce come supremo e fuori di
contestazione il valore è quella Felicità, o Perfezione, o altro Bene, della
quale quel contenuto assume la veste, il titolo e le prerogative; e in nome
del- la quale si presenta appunto come fine. E cosí accade che, mentre
nell'apparenza il fine è uno, in re- altà è duplice: uno è il fine nominalmente
assunto, a significazione indeterminata e che per sé non potrebbe servire a
costruirvi sopra che delle tautologie inconcludenti, ma che reca il titolo e le
inse- gne, e quasi la formula magica, della sua sovranità: ed è la felicità (o
quell'altro termine dello stesso genere); l'altro è il fine realmente assunto.
Il contenuto determinato che serve alla deduzione, che regge la dottrina, e che
fornisce veramente il criterio al quale si riconduce logicamente la legittimità
delle norme, dei precetti e dei giudizi che se ne ricavano. Cosí resta
giustificato in nome della felicità ciò che viene determinato in conformità a
quel certo contenuto. L'uno serve a costruire, l'altro a dar valore alla
costruzione. Ora finché si ammette che la felicità o quel qualsiasi altro
termine che lo sostituisce consiste veramente in quel contenuto sul quale si è
costruita la dottrina, e l'accordo sulle deduzioni favorisce e conforta questa
certezza, la distinzione fra il dato della costruzione e il supposto che lo
investe del valore di fine, non ha luogo, o apparirebbe ingiustificata o
pedantesca. È, o si ammette come pacifi- co, che il dato e il supposto
coincidono, che l'uno esprime il significato dell'altro. Ma se, sotto
l'apparente unità del termine si mostrano le differenze di contenuto; e i fini
par- ticolari che si credevano fusi e, unificati in quell'unico fine, rivelano
la loro incompatibilità; e un fi- ne e un ordine o specie di fini pretende di
valere come sommo, subordinando a sé od escludendo gli altri; allora è
necessario scegliere. E la scelta tra due o piú specie di "Felicità"
(come tra due o piú forme di «Perfezione») non può essere fatta in nome della
felicità. Tra due o piú ordini di fini che si presentano come fini della
«natura umana» non si può sentenziare in nome della natura; oppure si deve
ricorrere a distinzioni tra felicità e felicità, tra natura e natura, che
rivelano l'assunzione aperta o tacita di un criterio che serve a distinguere la
vera da una falsa o apparente felicità, e a determinare in che consista e in
che si appunti la «vera» natura umana. «Considerate la vostra semenza...» E
cosí il riconoscimento di fatto si muta in riconoscimento di diritto. Non è
questo davvero, finalmente, il compito della ragione? Di far capire, di
persuadere, di dimostrare che alcuni fini sono degni e altri sono indegni
dell'uomo, alcuni superiori, altri inferiori? E fare questa scelta non vuol
dire fare una gradazione di fini, e giudicare quale meriti di essere
riconosciuto come il fine supremo che serva di termine di confronto, per subordinare
quelli che si conciliano ed escludere quelli che sono inconciliabili con esso?
Qui adunque pare veramente che sia razionale, non solo il processo di deduzione
dal fine, ma razionale la scelta stessa del fine, il riconoscimento del valore
che esso deve avere di fine supremo. Senonché non è difficile scorgere
l'equivoco e trovarne la origine. Il criterio in base al quale la ragione
giudica la dignità dei fini, ne fa la scelta, la subordinazione e la
esclusione, è desunto dal- la coscienza morale, cioè in ultimo da quelle stesse
valutazioni che la costruzione razionale è chia- mata a giustificare. In realtà
il giudizio della ragione è il frutto di un processo che è bensì esso
razionale, ma che si fonda su dati di valutazione morale. Il processo reale, palese
o nascosto, è, in breve, questo: La coscienza morale dice all'uomo quale è la
condotta buona, la condotta che è giusto che segua, che deve seguire. La
ragione mostra (non cerchiamo se con regressione del tutto rigorosa e univoca,
ma in o- gni caso adempiendo un ufficio che è propriamente e incontestabilmente
suo), mostra, dico, che quella condotta è ordinata a certi effetti, raggiunge
un fine che è perciò — dal punto di vista dedut- tivo e giustificativo
dell'esigenza razionale che vuole l'unità e la coerenza — il Bene morale; e
poiché non sarebbe morale se non valesse come sommo, questo Bene deve essere
riconosciuto e posto come supremo. Non è dunque perché la ragione lo giudica
supremo che esso vale come fine morale; ma è perché esso deve valere come fine
morale, deve adempiere a questo ufficio nella unità logica del si- stema, che
la ragione gli riconosce questo valore di fine supremo. Il che viene a dire che
il titolo sul quale il giudizio della ragione è fondato, il criterio seguito
nella scelta è il carattere che esso assu- me, o è capace di assumere, di fine
morale. Riconoscergli questa attitudine, questa capacità a dar ragione dei
giudizi morali, a servire ad essi di principio di giustificazione, cioè di dato
dal quale razionalmente si ricavano le norme, equi- vale a riconoscerlo come
fine morale; e assumerlo come tale, equivale ad assumerlo come supremo. Adunque
è bensì la ragione che giudica questa attitudine o questa capacità che ha il
fine di servire di giustificazione dei giudizi morali. Ma il valore morale di
queste valutazioni è dato, deve essere ammesso o presupposto. La ragione porta
il suggello di questo valore su quel fine del quale essa mostra la congruenza
con le valutazioni morali. Se in questo proposito di ricondurre le valutazioni
della coscienza morale a un fine unico, possa riuscire o no, e, dato che possa,
entro quali limiti e con quali frutti, è una questione che qui può essere
lasciata in disparte. Ciò che importa notare è che quel «Fine» ha valore
supremo per l'uomo dotato di coscienza morale; per una natura umana per la
quale valga l'esigenza morale e valgano le valutazioni che essa richiede e che
la esprimono. È supremo dunque nell'ipotesi che l'uomo senta la superiorità di
certe aspirazioni su certe altre, di certe attività su certe altre, di una
«natura» su l'altra. Per far riconoscere il valore supremo di questo fine noi
dobbiamo dunque supporre ammes- so il valore di quei giudizi morali, dei quali
dimostreremo poi razionalmente la validità, deducendo- li da quel fine. Sono questi
giudizi, di cui è o si assume incontestabile il valore morale, il dato o i dati
primi della costruzione assiologica; e la ricerca del fine supremo non è che lo
sforzo logico di ricondurli a un solo principio di valutazione, a un unico
criterio; di costruirli in sistema. Del quale perciò la va- lidità logica, la
coerenza necessaria, l'unità di sistema è posta dall'esigenza razionale; ma la
validità assiologica esprime una esigenza morale, la quale è già data o
postulata [Se i giudizi primari di valore, i criteri ultimi, attorno a cui si
raccolgono e ai quali si subor- dinano le valutazioni, sono assunti e non posti
dalla ragione, come si può parlare — e manifesta- mente se ne parla con
fondamento — di massime di condotta sulle quali tutte le persone ragionevoli vanno
d'accordo, e il dissentire delle quali è tenuto come segno patente di
irragionevolezza? Che significa ciò se non questo per l'appunto, che basta per
riconoscere la bontà di quelle massime, essere ragionevoli, cioè dunque, che
basta la ragione a giustificarle? Pare infatti di sí, a prima vista, e si può
anche entro certi limiti accettare dall'uso questa for- ma di espressione senza
inconvenienti; ma ciò non toglie che l'espressione sia impropria e che l'os-
servazione notissima e comunissima prova qualchecosa d'altro; un fatto assai
notevole, e a cui si collega una considerazione d'importanza capitale per il
modo d'intendere i rapporti tra valori morali e valori di altre specie: che le
massime delle quali si discorre, esprimono o valutazioni primarie e- lementari,
di cui è superflua, perché è comune e manifesta, ogni giustificazione, oppure
delle valu- tazioni nelle quali si incontrano criteri assiologici tra loro
diversi. Sono queste valutazioni mediate o indirette che si possono ricondurre
cosí all'uno come a ciascun altro dei criteri suddetti; quasi ponte di
passaggio a cui mettano capo strade di origine diversa, o linea di intersezione
di piani diversi. Cosí nel raccomandare i precetti della temperanza si
incontrano stoici ed epicurei, edonisti e mistici, egoisti ed altruisti, sia
pure per motivi diversi, ossia in vista di fini diversi e anche opposti tra di
loro; e nel raccomandare l'osservanza dei patti, l'homo œconomicus e l'homo
ethicus si trovano pienamente d'accordo; ossia qualunque possa essere, tra
quelli che sono comunemente accolti, il cri- terio assunto, chi lo accetta,
deve ragionevolmente accettare quella norma; o, in altri termini, qua- lunque
sia, tra i normalmente possibili, il fine accolto come supremo, chi lo accetta
deve riconosce- re che esso richiede come suo mezzo o condizione quel modo di
operare. Non riconoscerlo vorrebbe dire volere il fine e non il mezzo. Ora
riconoscere che se si vuole il fine bisogna volere il mezzo, che se si accetta
un principio bisogna accettare le conseguenze, questo è appunto, essere
ragionevole. E poiché dai diversi principi tra i quali suole essere cercato,
se- condo le tendenze, quello che si assume come criterio, la deduzione logica
conduce a quel medesi- mo precetto, questo precetto appare fondato in ragione,
ragionevole per sé. E in effetto, non si po- trebbe giustificare se non per
mezzo della ragione; appunto perché è essa che ne dimostra volta a volta la
connessione necessaria con ciascuno dei criteri che possono essere
rispettivamente assunti per legittimarlo. Ma il valore di questi criteri primi
o supremi è, per ciascuno dei casi, ammesso o presupposto. Di che si ha la
riprova nel fatto che se, per ipotesi, si assume un criterio le cui conse-
guenze valutative non coincidono con le valutazioni comuni, cessa di apparire
«ragionevole» quel modo di operare che è ritenuto — ed è in effetto — tale,
finché sono considerati come legittimi i criteri consueti. Usar pietà diventa
irragionevole se chi usa pietà è persuaso che il fine piú degno è la forma-
zione del superuomo e che a formare il superuomo è necessario essere spietati.
Questo esempio può parere poco convincente perché troppo remoto dalla
probabilità di essere riconosciuto e accolto. Ma, lasciando pure di notare che
esso sarebbe probativo anche se fosse del tutto ipotetico, è da os- [Anzi su
questa circostanza si fonda la considerazione, a cui ho accennato, di
importanza capitale per l'etica e di cui ho trattato di proposito altrove
(confronta Vecchio e nuovo problema): cioè che una qualità, una virtù, un modo
di operare che ha valore per un rispetto, può aver valore anche per altri
rispetti diversi. Un atto morale può avere, anzi di solito ha, anche un valore
di utilità individuale o sociale e così via. Il che spiega: come avvenga che la
giustificazione delle medesime norme morali si sia potuta cercare in fini di
natura diversa; come sia possibile, anzi sia la sola soluzione legittima del
problema, di giustificare, ricavandolo da un fine diverso, il pre- cetto
morale, questa: di considerare la pretesa giustificazione come una
rivalutazione sotto un rispetto diverso (edonisti- co o sociale o d'altro
genere) di ciò che ha già un valore per sé, morale. E non è, come tutti sanno servare
che pur prescindendo da negazioni e contrasti cosí recisi, sull'accordo tra le
persone ragio- nevoli sono da fare assai piú riserve che non paia a prima
vista; appunto perché, dove il consenso abituale del costume e l'accordo delle
opinioni accettate senza critica non sopraffà o non nasconde le divergenze, e
soprattutto nel campo della vita interiore, queste sono assai maggiori che non
si creda. Anzi si può dire che su certi campi l'accordo tra persone di tendenze
e di indirizzi morali di- versi è raggiunto, non in grazia della ragione, ma
nonostante la ragione, la quale se fosse rigorosa- mente applicata,
richiederebbe un modo diverso di valutare e di giudicare l'azione. Il che viene
a di- re che qui l'accordo c'è, non perché tutti sono ragionevoli, ma perché
alcuni si dimenticano di essere, o credono di essere mentre non sono.
Nell'esempio allegato sopra si ha la prova di un giudizio di valore tenuto come
contrario alla ragione, che appare conforme a ragione quando muti il criterio
al quale si riconduce. Non meno, anzi piú significativo è il caso inverso, di
principî tenuti come razionali che ces- sano di essere riconosciuti tali, se
cessano di essere ammessi certi dati o postulati dei quali si sottin- tendeva
che non potessero essere ragionevolmente negati. Di che l'esempio storico piú
insigne e piú istruttivo è offerto da quei principî etico-giuridici che passano
come il modello caratteristico di una costruzione puramente razionale. Anzi, su
questa idea che la costruzione giuridica — della quale l'espressio- ne piú nota
è la Dichiarazione dei diritti — sia una pura astrazione razionale, è fondata
la critica ormai stereotipa che si ripete in nome del senso storico; mentre
nella elaborazione e nella si- stemazione di quei principi ebbe la sua parte, e
la adempì magistralmente, la ragione; ma non era e non è la ragione che ne pone
la validità e ne fa sentire la giustizia. Il vero difetto della costruzione
razionale non è di aver per soggetto l'uomo astratto in luogo dell'uomo storico
(qualsiasi costruzione, non solo sistematica, ma anche storica, non può fare a
me- no dell'astratto), ma è di aver assunto a fondamento della propria
costruzione un astratto (l'uomo- ragione) insufficiente a reggere l'edificio
che si voleva fondare su di esso. Infatti l'uomo-ragione supposto dal
razionalismo non è soltanto ragione; è, insieme e impre- scindibilmente, nel
concetto razionalistico, l'uomo che ammette certi principî, espressi o
sottintesi, che sono incorporati e assorbiti, almeno nell'opinione comune,
surrettiziamente e inconsapevol- mente nel concetto di uomo-ragione. Non si capisce
la razionalità dei diritti dell'uomo e del cittadino, se non supponendo che sia
un dato razionale ammettere che nessun uomo debba essere trattato come
strumento della volontà altrui; cioè senza supporre il valore assoluto
dell'uomo come tale, e il postulato giuridico corrispon- dente,
dell'uguaglianza di diritti di tutti gli uomini. È in effetto per questo
soltanto che ad ogni uomo in quanto cittadino15 sono riconosciuti di fronte
allo stato tutti quei diritti che fanno scandalizzare Comte, sogghignare Marx e
sorridere l'homo historicus. Né si dica che Nietzsche è finito al manicomio;
ciò non proverebbe nulla: perché non è teoria solo del Nie- tzsche ma di molti:
e divenne in veste politica, dottrina di un popolo o di una razza; perché
quando Nietzsche la pensò non era pazzo; perché anche se fosse stato pazzo, la
teoria di un pazzo non è necessariamente una teoria pazza; perché in ogni caso
sarebbe da dire non che è irragionevole la massima, la quale, poste quelle
premesse, è ragionevo- lissima, ma che è inumano, o ripugnante, o indegno,
accettare una o l'altra delle premesse, o ambedue. Ma è tutt'altro che l'unica
perché fu preceduta, come è noto, non solo delle dottrine del liberalismo
inglese, ma anche dai Bills of Rights dei diversi stati dell'Unione Americana.
E quanto al luogo comune delle «Ideologie france- si» ha ragione il Janet, di
rilevare che in un testo scolastico universitario inglese, «Philosophiae
moralis institutio com- pendiaria», stampato a Glasgow di un autore tutt'altro
che ignoto, Hutcheson, si parla come di cosa pacifica, venti anni prima del
Rousseau, del patto primitivo degli uomini fra di loro, e dei sudditi col loro
governo. Un altro luogo topico che potrebbe senza danno essere lasciato in
disparte, è quello che vede nei famosi dirit- ti l'affermazione estrema
dell'individualismo e la tesi dell'individuo-fine e dello stato-mezzo. Mentre
il riconoscimento di quei diritti esprime a parte singuli la garanzia della
libertà individuale, ma esprime insieme l'ufficio fondamentale e preliminare di
ogni stato: la tutela della giustizia. E combattere le violazioni della libertà
e della giustizia, fatte in nome. Mentre, se si esclude quel supposto e si
ammette che lo stato abbia un valore in sé superiore a quello della persona, o
se si ammette che i diritti debbano essere subordinati alla cultura, alla po-
sizione sociale, alla costituzione politica dello stato, quei diritti
«naturali» non hanno piú nessuna ragione di essere riconosciuti come diritti.
Ma il principio che la persona umana ha valore per sé e che non è giusto usare
la persona come mezzo, è un postulato di valore (cosí come è un postulato di
valore il principio che ogni uo- mo, in quanto soggetto di diritti, valga
quanto qualsiasi altro); i quali possono essere assunti e pos- sono essere
negati senza che chi li accetta o li nega cessi, per questo fatto
dell'accettarli o negarli, di essere ragionevole, o diventi ragionevole se non
era. Perciò non è da meravigliare che quando i postulati di valore impliciti in
quella costruzione razionale del diritto sono messi in dubbio o negati, la
costruzione debba sembrare campata in aria. Mentre non era campata in aria, e
non è, per chi assume come soggetto di quei diritti un uomo che è dotato di
ragione non solo, ma insieme di una certa coscienza morale e giuridica; la
coscienza mo- rale e giuridica che si raccoglie nei detti postulati e si può
dedurre da essi. Questi postulati il razionalismo aveva torto di pensare che
fossero impliciti necessariamente nella ragione, ossia di credere che «uomo ragionevole»
volesse dire insieme uomo che accetta quei principî di valutazione. (Il che non
vuol dire, si badi bene, che avesse torto nell'accettarli e nell'as- sumerli
come degni di essere accettati). Ma se si ammette o si suppone che siano
accettati, la costruzione razionale che se ne ricava, come dottrina dei
rapporti etici e giuridici che governerebbero qualsiasi società umana, nella
quale essi fossero sanciti come criteri supremi della condotta, in ogni sua
forma — sia dei cittadini tra di loro, sia dei cittadini verso lo stato, e
inversamente, sia degli stati fra di loro —, non solo non è ille- gittima, ma è
la sola legittima. E il suo valore etico, giova affermarlo, sussiste, se c'è,
qualunque possa essere la distanza che si osserva o si immagina intercedere fra
uno stato conforme a quella esigenza ideale, e questa o quella forma di realtà
storica e concreta. Anzi, per chi assume quell'esigenza come avente valore
morale supremo, i doveri corrispon- denti all'attuazione e all'osservanza di
quei rapporti saranno i doveri fondamentali precedenti in au- torità e in
obbligatorietà ogni altra sfera di doveri, e i diritti correlativi esprimeranno
i valori sociali e politici supremi indipendentemente da ogni giudizio sulla
realtà e attuabilità delle forme ideali di Enti o di rapporti tra gli Enti cosí
configurati16. Per converso, chi respinge questo postulato, non solo può, ma
deve, ragionevolmente, nega- re ogni valore alla costruzione razionale
corrispondente (sebbene avrebbe l'obbligo — in sede di di un preteso interesse
della collettività e dello stato, non è negare l'interesse della Società, ma
piuttosto difenderlo. Anzi l'homo ethicus è povero di contenuto appunto perché
si esaurisce nei doveri del cittadino, cioè nei va- lori giuridici e politici,
e dimentica o trascura i valori propri della vita personale interiore. Il che
prova che sono lasciati nell'ombra non solo i fini propri dello stato (uffici
positivi) ma anche i fini spe- ciali dei singoli; appunto perché domina e vince
ogni altra preoccupazione quella dei fini comuni universali e fondamentali -
così per la vita individuale come per la vita sociale - della libertà e della
giustizia. Chiamare la concezione ideale di una forma di diritto una
astrattezza e usare questo termine a dispregio, non è esatto e non è giusto se
non quando questa forma ideale sia concepita fuori dalle condizioni necessarie
a farlo essere diritto. Nel qual caso sarebbe legittimo dire che il diritto
ideale è un diritto impossibile, e sarebbe sciocco e vano conce- pirlo e
parlarne. Ma un diritto ideale concepito nelle condizioni che sarebbero
richieste a farlo sussistere come diritto positivo, non è piú astratto che un
diritto positivo qualsiasi concepito nelle sue condizioni storiche. Salvo che
nel secondo caso le condizioni esterne del diritto sono reali, nel primo sono
possibili; nel concetto dell'un diritto l'idea delle condizioni che ne fanno o
ne hanno fatto un diritto positivo, trova corrispondenza nella realtà, e nel
concetto dell'altro l'idea delle con- dizioni che farebbero del diritto ideale
un diritto positivo, non ha trovato o non trova più, in una forma storica di
realtà, la sua corrispondenza. Su la pluralità dei postulati di
valutazione morale J. morale — di chiarire quale postulato assuma al posto di
quello che respinge, e quale sarebbe il si- stema etico-giuridico che ne
discende). Ma commette una grossolana fallacia elenchi, quando pretende di
confutare o condannare quella costruzione etico-giuridica in nome della realtà
o della storia. Perché la realtà e la storia da- ranno la stregua della
attuabilità dei rapporti prospettati nella costruzione ideale, ma non del
valore di questi rapporti. Cosí il razionalismo assume erroneamente come dati
razionali dei postulati di valore e si il- lude di poter imporre in nome della
ragione dei principi che non valgono se non supponendo accet- tati quei
postulati che li giustificano: e lo storicismo si illude di togliere ogni
valore alle costruzioni fondate su quei postulati dimostrando che la realtà
storica è diversa da quelle costruzioni. Come se il riconoscere che gli uomini
non hanno nelle condizioni di fatto eguali diritti, o che la società non è
fondata sul contratto, o che non v'è diritto naturale, ma vi sono soltanto
diritti positivi, equivalga a dimostrare: che non sia bene l'eguaglianza dei
diritti; e che non possa essere apprezzata e apprezza- bile una società
ordinata in modo tale da poter pensare che non sarebbe diversa se fosse
costituita per contratto volontario di tutti i cittadini; o non possa essere
piú desiderabile che abbia sanzione di diritto e valga come tale un ordine di
rapporti conforme a certi criteri piuttosto che a certi altri. A risolvere
queste questioni, il sapere storico non è competente. D'altra parte lo storico
non potrebbe risolverle senza cessare di essere storico e diventare moralista o
ideologo, reazionario o rivoluzionario, «conservatore» o «riformatore». Perché
non vi è altra via: O ricusa certi postulati di valore per assumerne altri
diversi, pure di valore. O rinunzia, non solo a qualunque giudizio, ma a
qualunque intervento della volontà uma- na nella storia, cioè nella produzione
degli eventi umani. Perché ogni azione umana, cioè consape- vole e volontaria,
implica una direzione verso un risultato che si giudica preferibile tra i
possibili, cioè implica una scelta, e quindi una valutazione. Tanto nel
«razionalismo» quanto nel «realismo» o «storicismo», i criteri di valutazione
pos- sono bensí essere ricondotti a un postulato di valore, ma questo postulato
non è posto dalla ragione né è dato dalla realtà17. Approvarlo o disapprovarlo,
ammetterlo o respingerlo, non vuol dire né rispettare o rinnega- re la ragione,
né riconoscere o misconoscere la storia; avere o non avere senso storico. Il
che è la prova piú manifesta che non è un dato della ragione il postulato di
valore a cui si riconduce l'esi- genza espressa nella dottrina del diritto
razionale, come non è un dato della storia il postulato, pure di valore, a cui
si riconduce l'esigenza implicita nella dottrina del diritto storico. Resta da
osservare al nostro proposito per quel che riguarda il razionalismo
etico-giuridico, come da questa illusione che l'universalità della ragione
volesse dire anche universalità di consenso nei postulati valutativi
incorporati surrettiziamente in essa, derivò l'errore di credere che potesse
ba- [A questa differenza fondamentale tra valutazione e giudizio storico, è da
ricondurre, a mio giudizio, la questione del rapporto tra spirito
rivoluzionario e senso storico, di cui tratta dottamente e sottilmente MONDOLFO
(si veda) nella «Nuova rivista storica». Il rivoluzionario (come del resto ogni
innovatore di grandi o anche di piccole cose, anzi ogni uomo di iniziative) è,
o si pone, fuori della storia in quanto valuta, cioè giudica e opta per un
ideale; (anche se questo ideale è un pro- dotto storico, non è perché è un
prodotto della storia che è stimato desiderabile, preferito e voluto). È nella
storia e deve aver senso storico in quanto è uomo politico, cioè vuole agire
sulle condizioni presenti nella direzione voluta. Insomma: in quanto sceglie
tra diverse direzioni concepite come possibili (cioè come tali da potere essere
favo- rite e contrastate dalle nostre azioni), non è nelle storia, se non in
quanto sono nella storia e della storia le sue stesse ide- alità morali. In
quanto si rende conto della realtà sulla quale vuole agire e del modo col quale
la sua azione può inserirsi efficacemente su tale realtà, è nella storia.] stare
per fare accettare questi postulati «illuminare» le menti, dissipare «i
pregiudizi», ragionare; come è nata per contrasto l'illusione inversa che per
respingere le applicazioni, le «conseguenze pra- tiche» di quegli stessi
postulati e dei criteri che ne derivano, non ci fosse altra via che di far
tacere la ragione o screditarla e dare a lei la colpa, non solo delle
conseguenze, che essa secondo l'ufficio suo veniva svolgendo e costruendo in
sistema coerente, ma degli errori e delle violenze commesse da quelli che
smentivano con l'opera i principî o li applicavano a rovescio, e piú spesso
senza cono- scenza degli uomini e delle cose, cioè senza tener conto della
realtà concreta e della storia. E cosí si passava da una ragione fatta soggetto
di meriti non suoi, a una ragione fatta oggetto di biasimi non meritati. Ma la
ragione è al di là di quei meriti, e di questa imputazione. La ragione ha un
compito inestimabile; necessario, anzi imprescindibile, ma arduo e non fi- nito
mai; di costruire incessantemente l'unità della persona; l'unità dell'uomo
teoretico, l'unità del- l'uomo pratico e l'unità (a cui bisogna pur mirare,
come miravano gli antichi) dell'uomo teoretico con l'uomo pratico. Ha un
ufficio di continua eliminazione e ricostituzione; un ufficio nella vita spi-
rituale della persona analogo, direi, a quello che ha nella vita fisica la
circolazione del sangue. Ma non si può pretendere di ricavare da essa il
principio dell'esistenza, ossia il dato o i dati attorno ai quali si possa
affermare la realtà obbiettiva di ciò che è oggetto del sapere; né si possono
trovare in essa, o ricavare da essa i criteri sui quali si fonda la valutazione
e attorno ai quali la ragione unifica i giudizi di valore. Come non dà essa la
certezza dell'esistenza, cosí non dà essa la coscienza del valore. Resta
un'ultima via, la terza; la piú audace e radicale. È la ragione che pone la
legge morale; ma perché la ponga non è necessario che ricorra a nessun dato o
principio materiale, sia stabilito o fondato su verità di ordine teoretico o
dimostrabili o evidenti per sé, sia cercato in un fine a cui possa ricondursi
il contenuto della legge. È la esigenza razionale che si pone come legge, senza
che a costituirla sia necessario fare appello al valore di qualche oggetto o
risultato dell'azione e dare a quel qualsiasi contenuto materia- le che venga
assunto dalla legge, un valore morale pur che sia, all'infuori da quello che
gli viene dalla forma di legge che lo impronta. È, come ognun vede, la tesi di
Kant, che è non solo la piú vigorosa, ma la sola veramente ri- gorosa del
razionalismo morale. La prima delle vie indicate, quella del platonismo, e in
modo particolare quella dei platonici della scuola di Cambridge, riconduce la
morale alla ragione perché la riconduce a principi teoretici di cui si crede
che la ragione dimostri la verità o faccia rico- noscere l'evidenza: la
certezza morale è razionale perché è razionale (o è assunta come tale) la cer-
tezza teoretica. È, si può dire, veramente, un intellettualismo morale. Per
Kant invece, non solo i principi pratici non si fondano su dati teoretici; ma è
soltanto nell'uso «pratico» che la ragione può varcare i limiti del fenomeno, e
affermare del noumeno ciò che è conforme all'esigenza della morale, ciò che la
ragione postula per il suo bisogno pratico. E i postulati pratici sono
veramente, non postulati etici, ma postulati metafisici affermati sul
fondamento dell'esigenza etica. Or dunque l'esigenza razionale che è esigenza
formale di una legge in generale, in morale è esigenza della legge, di quella
legge che è essa la sola razionalmente necessaria. Ma essendo incontrastato per
Kant questo punto, sono possibili sul rapporto della forma e della legge col
contenuto tre soluzioni: O si può intendere che la legge morale è una forma
senza nessun contenuto; cioè che la forma dà il valore morale alla legge e il
criterio per osservarla e praticarla, senza che occorra una qualsiasi
determinazione del contenuto. O si può pensare che occorre bensì un contenuto
che si adatti a quella forma, che sia su- scettivo di assumerla o di esserne
investito; ma non importa che esso sia tale piuttosto che diverso. Insomma: è
necessario un contenuto, ma è indifferente quale esso sia, purché possa essere
contenu- to di quella forma. Non è perciò escluso a priori che possano essere
piú, fra di loro diversi. Si può pensare che la forma razionale, la forma della
legge morale conviene a un solo contenuto, quel contenuto che si concreta
appunto in relazione con quella forma. Ossia, che l'esi- genza razionale basti
a determinare univocamente il contenuto della legge18. La prima interpretazione
che sembra la piú semplice e sulla quale s'è fatto un gran discutere, è
insostenibile, perché si risolve in un circolo vizioso, dal quale non è
possibile uscire in nessun modo. Forse a queste tre interpretazioni,
teoricamente possibili, si può trovare che corrispondano le tre formule note
dell'imperativo kantiano; corrispondano almeno nel senso che ciascuna delle tre
si avvicina di più rispettivamente a una delle interpretazioni possibili che
alle altre due. Così la prima formula (dell'universalità) sembra rendere
possibile la prima interpretazione. La formula (terza) dell'autonomia del
volere come principio di tutte le leggi morali e dei doveri conformi ad esse,
pare che possa convenire alla seconda interpretazione. E finalmente la seconda
formula (tratta la per- sona umana come fine, ecc.) pare che risponda meglio
alla terza interpretazione di un contenuto determinato
inequivocabile. Quella stessa illustrazione kantiana che sembra
legittimarla mette capo a una formula, che fu bensì intesa spesso e trattata
come puro criterio dell'universalità sic et simpliciter -- la possibilità di
concepire la MASSIMA come legge universale dell'operare --, ma che, nei termini
precisi in cui è e- spressa, implica di necessità il riferimento a un qualche
contenuto senza del quale mancherebbe o- gni possibilità di adoperarla come
norma di quell'operare del quale vuole esprimere l'obbligatorietà. Secondo quella
formula, il criterio per giudicare della bontà della massima è che io possa
volere che valga come legge universale. Ma io posso volere che una massima
valga universalmente, soltanto quando, o meglio, se, la massima cosí
universalizzata non contraddice al mio Volere puro, alla Ragione, cioè che è
tutt'uno al Volere morale; alla legge, dunque, che fa morale il mio volere; il
che viene a dire che una massima è morale quando è conforme alla legge del
volere morale, ossia quando è conforme alla legge morale. Il valore morale
dell'azione si giudica dalla possibilità che la massima sia voluta come legge,
ma questa possibilità di essere voluta come legge, si riconosce dall'accordo
della massima con quel- la legge morale della quale non è dato altro carattere
che l'universalità, e altra applicazione che cercare se il modo di operare
corrispondente si possa universalizzare in massima. Che il riferimento a un contenuto
sia anche nel pensiero di Kant necessariamente implicito nel criterio, appare
poi mani- festamente, non dico dagli esempi, ma da una chiosa che non si
capisce se non a patto di ritenerlo ammesso in modo espresso o sottinteso. A
proposito del quarto esempio della Fondazione (il brav'uomo che non fa male a
nessuno ma bada ai fatti suoi e non si cura d'altro) chiosa Kant in forma
decisiva: «quantunque sia possibile che esista una legge universale della
natura conforme a tale massima, è impossibile di volere che un tale principio
valga come legge della natura». Ma perché è impossibile? Manifestamente perché
il Volere razionale vuole già qualchecosa che è incompatibile con ciò che è
espresso dalla massima «ciascuno per sé» (la quale tuttavia è pos- sibile che
esista come legge universale della natura); vuole qualchecosa che ogni uomo
come essere ragionevole vuole necessariamente. Insomma, il criterio
dell'universalizzazione vale in quanto è possibile confrontare la legge, a cui
darebbe luogo la massima se valesse universalmente, con una certa legge che
abbia una qualche determinazione, cioè un contenuto. Senza questo riferimento,
questo ubi consistam della volontà, non è possibile sapere se la massima
dell'azione abbia o non abbia i requisiti necessari, perché si possa volere che
valga come legge universale. Con ciò il pensiero di Kant sembra escludere non
soltanto la prima, ma anche la seconda in- terpretazione (che la forma
razionale possa convenire a piú di un contenuto, cioè che possano presentarsi
come leggi morali, modi di valutare o sistemi di norme fra di loro diversi); e
ammettere che a dare all'esigenza razionale sussistenza effettiva di legge,
determinazione di oggetto che la renda applicabile, non sia adatto che un solo
ed unico contenuto; e che la legge voluta dall'essere ragione- vole, non possa
essere che quella certa legge. Che questo sia veramente il pensiero di Kant
credo sia indubitabile, né importa insistervi qui. Piuttosto è necessario
rilevare come questa pretesa di deter- minare la legge, quella legge soltanto
in funzione della forma, possa parere possibile e legittima finché è sottinteso
o ammesso che la legge morale deve essere universale non soltanto nella forma,
ma anche nel contenuto; e che perciò le massime in discorso sono soltanto le
massime di quel certo operare che ne resta quindi determinato in modo univoco.
E cosí il criterio dell'universalizzabilità coincide praticamente con quel
contenuto di cui si sa già e si ammette riconosciuto universalmente E va da sé
che anche l'azione, di cui si vuole saggiare a questa stregua la massima, deve
avere un contenuto che la fa essere quella azione, conforme o disforme da una
massima. Se no, non si può parlare di massime dell'operare, anzi neanche di
un'azione qualsiasi.] il valore, di cui quindi si sa che è impossibile volere
che valga come morale una massima che lo ne- ga20. Adunque questa impossibilità
non sorge dall'esigenza razionale se non in quanto questa e- sigenza si trova
essere l'esigenza di un essere ragionevole, che è insieme una volontà che vuole
cer- ti valori; o piú chiaramente ancora questa impossibilità non emerge
necessariamente dalla ragione, ma dalla natura dell'essere ragionevole; la
quale natura è ragione, ma è insieme un volere che vuole ciò di cui la ragione
formula la legge. Ora, se si suppone che quel Volere non ponga come assoluti e
supremi quei valori, cessa o- gni ragione di volere quella legge piuttosto che
un'altra, e quindi è tolta ogni impossibilità di volere che valga come legge
una massima che è incompatibile con questa. Adunque, posto che un volere non
voglia quei valori e ne voglia altri, cessa questo Volere di essere il Volere
di un essere ragione- vole? Cessa di essere un Volere ragionevole quello che
riconosce l'esigenza di porre e di osservare la legge che ordina e unifica le
massime della condotta in conformità a quegli altri valori che esso riconosce
come morali? Non è anche in questa ipotesi salva l'esigenza razionale? Questa
ipotesi (che la realtà della coscienza morale contemporanea prova, come s'è visto,
non essere pura ipotesi), conferma in concreto quel che l'analisi della formula
rivela inoppugnabil- mente: che il dato iniziale, originario o primario della
legge morale è presupposto dalla ragione, non posto; presupposto come oggetto o
contenuto di una Volontà la quale è bensì razionale in quanto pone a sé come
legge la norma dell'operare corrispondente; ma non è né razionale né
irrazionale in quel che riguarda la posizione di quei valori primari, che
costituiscono il terminus ad quem dell'o- perare, l'oggetto della volontà,
attorno al quale l'esigenza razionale stringe la condotta in unità coe- rente
di legge. A una conclusione del medesimo genere riesce per altra via la difesa
che del formalismo kantiano fa il Martinetti in una sua memoria densa e vigorosa21
nella quale egli si sforza di salvare il carattere formale della legge pur
riconoscendo la necessità di un contenuto; e lo salva facendone la forma, non
di un contenuto sensibile, ma di un contenuto soprasensibile. Ma questa
soluzione urta contro nuove difficoltà inerenti alla concezione di questo fine
tra- scendente o di questo mondo soprasensibile che è l'oggetto proprio della
legge morale. Perché delle due l'una: O si ammette che di questo mondo
soprasensibile non possiamo af- fermare altro, se non appunto questo: che esso
è il mondo nel quale trova piena attuazione la legge morale, il mondo nel quale
la legge morale vale come legge naturale, senza che se ne diano altre de-
terminazioni di sorta. Ovvero questa realtà ha altre determinazioni, attua un
certo ordine di rapporti, [Mi sia lecito riferirmi per la chiarezza a uno degli
esempi di Kant. La ragione per la quale non si può volere erigere a massima
universale il principio che chi è stanco della vita può uccidersi (1° esempio),
non è già che sia impos- sibile concepire seguita una tal massima
universalmente (non c'è nessuna contraddizione intrinseca nel pensare che tutti
quelli che sono stanchi della vita si uccidano); e neanche che non sia
possibile a una volontà che vuole una legge - ma che sia indifferente per
ipotesi ai valori morali, e apprezzi sopra ogni cosa il piacere o la
liberazione del dolore - volere che valga universalmente. (È così possibile
che, come tutti sanno, non mancò chi la praticasse e la predicasse anche tra i
filosofi). Ma è impossibile che voglia una tal legge chi ammette la superiorità
dei valori morali. Ossia l'irrazionalità del- la massima emerge, non da
un'impossibilità intrinseca della massima e neppure dalla impossibilità di
sussistere di un Volere che sia indifferente a certi valori, ma dal suo
contrasto con un Volere che riconosce la superiorità di certi valori (morali)
sugli altri (egoistici); e quindi non può volere che valga come legge una
massima che smentisce questa superiorità. Sul formalismo della morale kantiana
estratto dalla Miscellanea di studi pubblicata per il cinquantenario della R.
Accademia scientifico-letteraria di Milano. Inserito poi in Saggi e Discorsi,
Libreria Editrice lombarda, Milano] che non possiamo conoscere
speculativamente, ma di cui possiamo tuttavia essere certi e affermare e
riconoscerne la perfezione, la bontà, il valore. Se si ammette la prima tesi,
l'affermare una realtà soprasensibile di cui non possiamo dir al- tro se non
che è il contenuto della forma morale, non ci dice in che consiste questo
contenuto, e non ci fa uscire da questa forma. Dice che vi è un mondo conforme
alla legge morale, ma non dice quale sia, come sia fatto questo mondo. Non ci
illumina dunque, su questo punto, piú di quel che valga a far capire quali sono
le disposizioni di una legge, il pensare che questa legge sia perfettamente os-
servata. Per uscire davvero dalla forma e da questo circolo vizioso di un mondo
di cui non si sa altro se non che è governato dalla legge morale, e di una
legge morale che ha valore perché è la legge di quel mondo, bisogna dunque
attenersi alla seconda tesi; la quale, come pensa il Martinetti, e come io
credo, risponde veramente al pensiero di Kant, se non come si mostra punto per
punto nelle stret- toie della sua esposizione, come risponde all'intento
fondamentale che anima la sua dottrina del primato della ragione pratica e piú
chiaramente ancora al proposito esplicitamente ammesso da lui nella prefazione
alla seconda edizione della Critica della Ragion pura. In realtà «l'uso pratico»
della ragione consiste nello spalancare all'esigenza morale quelle porte della
metafisica che sono chiuse alla speculazione teoretica; nel lasciar libero alla
fede il campo del soprasensibile vietato alla conoscenza; nell'ammettere, se
vogliamo usare espressioni corren- ti, piú che il diritto la necessità di
credere, la necessità «razionale» di ammettere quel che la ragione, in quanto è
garanzia di certezza teoretica, non può né dimostrare né affermare; di
oltrepassare — per rendersi conto della possibilità del dovere — il campo
dell'esperienza sensibile e postulare l'esi- stenza di una realtà che trascende
l'esperienza. Ma questo ufficio pratico sarebbe senza frutto, se una certezza
diversa dalla scientifica, ma non minore, non potesse valicare quelle porte del
soprasensibile che la ragione apre soltanto all'esi- genza morale, ma apre per
lei e in nome suo. Sulla soglia del sopra-sensibile la ragione sembra dire
all'esigenza morale quel che VIRGILIO a ALIGHIERI all'entrata del Paradiso terrestre.
SE VENUTO IN PARTE OV’IO PER ME PIU OLTRE NON DISCERNO. Ma la fede fondata
sull'esigenza morale entra e procede sicura in questo mondo, dinanzi al quale
la conoscenza si arresta. Come se venuta meno ogni luce dal di fuori, questo
mondo si illumi- ni della luce che la certezza morale accende in sé e sprigiona
da sé e diffonde attorno a sé in quello che è il suo regno. È questo mondo
soprasensibile l'oggetto del Volere razionale, la realtà di cui la legge morale
è la forma. Il contenuto sensibile al quale nel mondo dell'esperienza si
applica la legge, non ha valore per sé, ma perché e in quanto partecipa di
questa forma che è forma di una realtà superiore alla qua- le la realtà
inferiore deve essere subordinata. Il concetto dominante di questa prefazione
(che è da raccomandare all'attenzione di quanti credono che la soluzione dei
problemi morali sia un corollario di dottrine speculative) si può considerare
riassunto in questa, che direi confessione caratteristica. Ich musste also das
Wissen (si intende, del mondo soprasensibile) aufheben um zum Glauben Platz zu
bekommen» (Kritik der reinen Vernunft. Vorrede zur zweiten Auflage, Cassirer).
Nella prefazione citata, a proposito della limitazione che la critica della
ragion pura porta alla ragione specu- lativa negandole la possibilità di una
conoscenza del soprasensibile, Kant nota che il «vantaggio d'una metafisica
così purificata» non è soltanto negativo ma anche positivo perché permette
l'uso pratico della ragione. E osserva con un pa- ragone assai significativo
che negare «a questo servizio della critica il vantaggio positivo sarebbe come
dire che la poli- zia non dà nessun vantaggio positivo perché il suo compito
principale è soltanto di tenere in freno la violenza; affinché ciascuno possa
attendere ai suoi affari tranquillo e sicuro» (ib., pag. 23; il corsivo è
mio). Su la pluralità dei postulati di valutazione morale J. In questa
interpretazione24 il termine di paragone c'è, il Volere razionale ha un
oggetto, il circolo vizioso — del valore di una legge che si rimanda a un
contenuto e del valore di un contenuto che si rimanda a un Volere che vuole la
legge — è rotto. Ma è facile vedere che il dato primo a cui la costruzione
valutativa si appoggia, è il valore di questo mondo soprasensibile postulato
dalla ragione in nome della esigenza morale; ma che appun- to per ciò non è un
dato della ragione, ma della certezza morale. E l'affermazione della realtà di
quel mondo è riconosciuta legittima, perché la sua esistenza è richiesta da
questa certezza. Qui è an- cora, per Kant, la Ragione che riconosce la
legittimità della postulazione metafisica; ma la ricono- sce in quanto accetta
come incontestabile la certezza morale; la quale è certezza di valori, non evi-
denza razionale. Cosí adunque anche la tesi della trascendenza della legge
morale implica accanto alla esigenza razionale un oggetto della volontà, un
ordine di valori, un dato valutativo irreducibile alla pura razionalità e che
trae la sua validità d'altronde. Quale ne sia la sorgente, non si può cercare
u- tilmente in breve, e non è facile; forse la sua origine è in quella stessa
attività volontaria nella quale bisogna cercare la fonte della credenza in una
esistenza obbiettiva del mondo. La volontà è direzione ed è forza. In quanto è
forza, e si esercita come forza e si rivela come sforzo (il quale richiede e
suppo- ne una resistenza) è il dato irreducibile della credenza in una realtà
obbiettiva distinta dal soggetto. In quanto è direzione, cioè scelta, cioè
azione in vista di un risultato, è il fondamento irreducibile dei giudizi
primari di valore, i quali esprimono le direzioni originarie della volontà,
delle qua- li acquistiamo consapevolezza attraverso le forme fondamentali del
sentimento. Non è il caso di cercare qui se e che cosa MARTINETTI (si veda)
mette di suo e di postkantiano nella sua interpretazione, né di vedere se e
fino a che punto il fondo mistico del pensiero di Kant si accordi con la
dottrina che do- vrebbe sottrarlo ad ogni pericolo. Qui basta notare la
difficoltà radicale in cui vengono a cadere le soluzioni del mede- simo genere.
La quale è inerente al modo di concepire il rapporto tra il contenuto sensibile
che, per essere applicabile alla realtà empirica, la legge morale deve pure
assumere, e il mondo sovrasensibile che è l'oggetto proprio della legge morale,
quello che ha valore per sé e dà valore di simbolo o di partecipazione (qui
ritornano i dubbi del platonismo) al contenuto sensibile. Infatti delle due
l'una: o si ammette che il contenuto atto a farsi suggello di quella forma,
differisce da un con- tenuto diverso oltreché per il valore formale (nel quale
si esaurirebbe il valore morale), anche per un valore di altro genere. E allora
vi è luogo a cercare se vi sia o no una connessione necessaria, intrinseca tra
questo suo valore specifico e il valore formale; e in ogni caso si riconosce
che il contenuto sensibile della legge morale ha un suo valore proprio che
sussiste ed è riconosciuto anche all'infuori dell'impronta formale. O si
ammette che questo contenuto sensibile non ha nessun altro valore, cioè è per
sé indifferente; che ciò che la legge morale comanda non vale, per rispetto a
questo mondo empirico, di più di ciò che essa vieta, cioè se non fosse questo
riferimento a un mondo superiore non vi sarebbe nessuna ragione di anteporre un
modo di operare ad un altro; e le difficoltà si moltiplicano. Per lasciare le
intrinseche e più sottili, basti rilevare qui da un punto di vista diciamo pure
profano la stranezza quasi ironica del contrasto tra la soluzione del problema
e l'intento che la esprime. Perché nell'atto di affermare l'esigenza di una
osservanza incondizionata della legge morale si nega ogni valore intrinseco a
ciò che la legge coman- da; e mentre si dà alla legge un'autorità
incontrastabile perché trascendente qualsiasi valutazione empirica, si toglie
ad essa ogni ragione di venir applicata (e se si guarda bene ogni possibilità
di applicazione) a quel mondo sensibile di fron- te al quale deve essere fatta
valere questa sua autorità. Infatti, togliendo all'operare ogni valore, che
dipenda dalla direzione verso un fine empirico qualunque esso sia, non resta a
costituire la moralità, cioè la bontà del volere, che questo affisarsi nel
mondo soprasensibile, questo ten- dere a una realtà trascendente, nella quale
consiste ogni valore. Ma questa soluzione non isfugge a quella singolare
commistione dì forza e di debolezza che è caratteristica di ogni morale
rigorosamente mistica: forza, in quanto è intuizione, atto di fede, certezza
interiore inespugnabile; debolezza, in quanto voglia farsi deduzione ragionata
di valutazioni empiriche. La quale urta nella impossibilità di stabilire
logicamente, ossia dimostrare discorsivamente, una relazione necessaria tra la
condotta che deve valere come morale nel mondo sensibile e quel mondo soprasensibile
che ne costi- tuisce l'oggetto e il termine; di superare un distacco logico del
genere di quello accennato tra il criterio usato a determinare le norme di
quella condotta e l'ordine di valori invocato a giustificarle. L'intento
di Kant di liberare la legge morale da ogni mescolanza e contaminazione
patologica di sentimenti, di inclinazioni, di tendenze — che si traduce in
isforzi laboriosi ed ingegnosis- simi ma vani — forse non sarebbe stato
proseguito con cosí risoluta tenacia se il Kant, meno preoc- cupato dal
preconcetto (alimentato dalle dottrine eudemonistiche del tempo) che ogni forma
di sen- timento e qualsiasi genere di fini, sia inevitabilmente soggettivo,
relativo, interessato, fosse stato di- sposto a riconoscere che vi possono essere
forme universali di valutazione intrinseca, cosí come vi sono forme
disinteressate e universali di sentimento. Il metodo ddll'econonia pura nell’etica.
Pavia. Dizioni. Rivista filonofica PAVIA, BIZZOSI Corso Vittorio
Em.inuele; Prolegomeni a una /Ifòoiale balla /Iftetatisica Pavia SUCCESSORI BIZZONI -Vi iC^osstbilttà
e i Ximtti bella /Iftorale come Sciensa La Dottrina delle due Etiche
di Spencer e la Morale come Scienza. Per una Scienza Normativa
Morale. Il Fondamento Intrinseco del Diritto secondo VANNI. Toi-itio
BOGGA — Torino SI I w NELL*
ETiea PAVIA BIZZONI Corso Vittorio Emaniu'e, W* MB*« W%i»
'SSS-»» lBiS«M«» «!.<f. IL moo OEUE CfliiOMm mi. mrmu «"iJi! hypotheses
fingo. L'economia assume, come è noto, l'ipotesi che gli xwmiìii nel
produrrCy consiunare, distribuirsi e far circolare la ricchezza siano
7nossi esclusivameìiie dal desiderio di coyisegiiire la maggior possibile
soddisfazione dei loro bisogni mediante il minore possibile sacrifizio
individuale. Alla costiuzione deduttiva, che se ne ricava, dei teoremi
economici, ossia delle leggi della condotta dell’homo oeconoìnicus, è
indiffei-ente la questione se il postulato edonistico esprima veramente
una condizione di fatto, ossia se l'ipotesi da cui si deduce ogni
verità economica coincida o diverga ed in quale misura dai motivi
che effettivamente determinano le azioni umane, come è indifferente qualsiasi
valutazione che e del postulato assunto, e della condotta dell’uomo
econo77iico, e degli ef- fetti di questa condotta, si possa fare da un
punto di vista morale. In effetto il giudizio sul valore di
giustizia o di bontà del motivo economico e delle leggi che ne
discendono, varia, Fa parte degli Atti del Congresso Filosofico di Parma,
al quale doveva essere presentato coi titolo più generale : € Condizioni e
limiti di una trattazione scientifica dell'etica ». (2 Cfr.
Pantaleoni. Principii di Economia Pura. IL METODO dell'economia PURA
XELl'eTICA come tutti sanno, da un illimitato ottimismo al pessimismo
piir radicale; e il giudizio sulla corrispondenza dell’ipotesi
colla realtà varia del pari, da quelli che riconoscono nel motivo
assunto l'unico motivo di tutta quanta l'attività umana, a quelli che lo
considerano come uno dei fattori, non l'unico, nel campo stesso
dell'economia; i quali, appunto perchè l'economia cosi intesa studia
soltanto l'azione di UN FATTO [cfr. Grice, ‘a dull’ – ‘enough of a
rationalist’] fattoi'e, isolato per astiazione dal complesso degl’altri la
cui efficacia si esercita in realtà simultaneamente, non riconoscono alle
sue leggi che un valore ipotetico, correlativo al carattere ipotetico
dell'uomo economico e dello stato economico. Ma qualunque sia cosi l'uno
come l'alti'O giudizio, il carattere scientifico della costruzione
deduttiva rimane incontestabile. Nella misura che la corrispondenza colla
realtà psicologica è inadeguata, si riconosce l'arbitrarietà del
postulato, e della costruzione che ne dipetide, in quanto pretenda di
porsi come scienza della realtà; e a secoruìa che si ammette o si nega che
il postulato ha valore morale, si ammette o si nega valore morale alla
disciplina precettiva che se ne volesse ricavare. Ma in ogni caso restano
incontestati questi due punti. La ricerca intorno alla corrispondenza colla
realtà psicologica e storica del motivo economico e delle condizioni
nelle quali si suppone che agisca, è diversa e distinta dalla costruzione
deduttiva del teorema economico, la quale è valida, 7iei limiti dell' ipotesi,
sempre, qualunque sia il grado di questa corrispondenza. Qualsiasi
indagine valutativa del postulato, e delle leggi, e degli effetti sia prossimi
sia remoti che ne derivano o ne deriverebbero, è parimenti distinta, ed
estranea alla costruzione scientifica il metodo dell'economia nell'etica 6 <iometale;
la quale rimane la medesima tanto se il motivo economico è considerato
come morale quanto se è tenuto come immorale, o amorale, e quali che
siano le ragioni di questa valutazioue. Supponiamo ora che il
postulato edonistico – o EUDEMONISTICO (GRICE) -- sia riconosciuto
universalmente e accettato come postulato morale. E chiaro che la
disciplina precettiva derivata o derivabile dall'economia ha valore e
carattere di precettistica morale; sia che il valore morale del motivo
economico e accettato per se come un dato primo e immediato, sia che venne
derivato, ossia giustificato alla sua volta, da un fine o da una esigenza
ulteriore; e qualunque e questa ulteriore giustificazione. E
opportuno su questo punto un breve chiarimento. Nella supposizione ora
fatta che il valoi'e morale <iel motivo economico sia universalmente
riconosciuto, non è in alcun modo implicita l'affermazione che sia
riconosciuto da tutti per la medesima, o per le medesime ragioni. Si
potrebbe ammettei'e che esso si fondi per alcuni sulla legittimità, senz'altro
ammessa dell'egoismo individuale (GRICE: “SELF-LOVE”) o dell'egoismo di specie
come regola di condotta. Da altri sul carattere attiibuito alle leggi economiche
di leggi naturali e necessarie e non modificabili dalla volontà dell'uomo; da
altri sopra una interpretazione OTTIMISTICA (cf. GRICE OPTIMISM in
Philosophical Psychology) delle leggi stesse o degli effetti o risultati
che l'osservanza piena ed universale di esse produce o tende a produrre.
E si puo del pari ammettere che l’ordine di relazioni conforme al principio
economico e considerato come provvidenziale o divino – “design” Grice -- e si
riversi su di esso il prestigio e l'autorità di sentimenti e di credenze
religiose o metafìsiche. IL .METODO dell'economia PURA XELl'eTICA. Anzi
si può affermare a priori che questa ulteriore giustificazione o valutazione,
dato che si faccia, e diversa per le diverse coscienze a seconda delle
opinioni religioseo filosofi che diverse sulla «latura e sul fondamento
della moralità. E tuttavia il valore morale della MASSIMA conforme
al motivo economico e della norma che ne deriva puo, nella
disciplina precettiva supposta, essere legittimamente assunto come un
dato di FATTO (GRICE: ‘recognised fact’) e trovare in questo la sua
giustificazione immediata, astrazion fatta dalla diversità delle
ulteriori valutazioni. E in questo caso si avvererebbero le seguenti
condizioni. Rimane fuori di discussione il carattere scientifico della
costruzione e della disciplina precettiva che se ne ricava, il quale è
dato dalla validità logica delle conclusioni, cioè dal rigore col quale sono
dedotte dal postulato. Rimane del pari fuori di discussione la elettiva
validità morale del postulato il quale è, per ipotesi, riconosciuto
universalmente conforme all'esigenza morale. Questa validità morale del
postulato (e del sistema di norme che ne dipende) sussiste così se il
detto riconoscimento sia concepito indipendente, come se sia concepito
dipendente da un' ulteriore motivazione, e in questo caso, qualunque sia
il FONDAMENTO (cf. GRICE, “Fundamental Question”) ultimo di questa
valutazione ulteriore. E resterebbe perciò distinto dal campo
della costruzione deduttiva il campo delle indagini intorno alla natura e
al fondamento dell' esigenza morale, e intorno alle condizioni
soggettive della sua validità e della sua efficacia. Ossia il campo
«Iella ricerca propriamente filosofica o metafisica e quello della ricerca
propriamente psicologica e, nelle sue applicazioni, pedagogica. Ma,
(,ui' avverandosi queste condizioni, anzi appunto per il loro avverarsi,
la costruzione scientifica in discorso non potrebbe tuttavia sfuggiie alle
due limitazioni seguenti. Non puo dirsi la scienza della condotta
morale, ma la scienza della condotta richiesta da an ceì'to
motivo morale (quello di cui si è ;H)stulata come un dato di fatto la
conformità all'esigenza morale). Perchè rimai'rebbe sempre da risolvere LA
QUESTIONE (GRICE: Fundamental Question). Se quel motivo esaurisca tutto il
contenuto dell'esigenza morale, o questa non comprenda altri motivi irreducibili
ìì (|uello ; e quindi se le norme contemplino tutta la condotta morale
nella sua estensione e nella sua complessità o ne contemplino solo una
parte od un aspetto – “only the rational aspect of conversational qua
cooperative endeavour”. Essa non esprimerebbe le norme di una
condotta attuabile sic et simpliciter in una forma reale
storicamente data di società – il OXFORD da H. P. GRICE “things an honest
chap does”-- ; m:. di una condotta la cui piena attuazione non è
possibile se non nelle condizioni astrattamente supposte; cioè la condotta dell’uomo
morale ipotetico in una società morale ipotetica. Oi'a il concetto
che ho sostenuto e sostengo intorno alla possibilità, al carattere e ai
limiti della morale come scienza coincide, nei suoi lineamenti formali,
con quello che risulta dall'ipotesi qui sopra abbozzata, lo penso che
sia [Mi permetto di riferirmi qui e nel seguito di questo articolo ai
saggi, Prolegomeni a una Morale distinta dalla Metafìsica. Pavia,
Bizzoai; e Su la possibilità e i limiti della morale come Scienza.
Torino. Bocca fm'mmme'9mmm>é'>f A s
essenziale cosi all'esigenza pratica come all'esigenza teorica (ìi una
trattazione morale, il costiruii'si di una scienza etica, nella forma e
con un procedimento analoghi a quelli dell'economia; e colla })ieiia
consapevolezza che la validità normativa e la applicabilità della
disciplina precettiva che se ne ricavi sono possibili alle condizioni e
dentro i limiti che si sono oi- ora accennati. Ma una costruzione
etica analoga a quella dell'economia pui'a presenta una difficoltà
preliminare che non si è superata, ma soltanto lasciata in disparte,
supponendo, corno si è fatto artificiosamente, riconosciuto valore morale
al motivo economico. Se qualche critico osservas che é fuor di proposito
voler trasportare nell’Etica un metodo e un procedimento che nell’economia
stessa é oramai superato, o almeno r ripudiato, dalla scuola storica in
nome della realtà, e dalle varie tendenze moralistiche in nome delle
esigenze etiche, potrei accontentarmi di rispondere che dell'obbiezione
si dovrà tener conto quando i moralisti avranno fatto nel fondare una
trattazione scientifica dell’Etica tanto cammino, quanto ne lece nel
campo dell'economia la scuola classica; e che a mettere in canzone le
ipotesi e le Robinsonate degl’economisti si comincia dopo che l’ipotesi hanno
già reso i più importanti servigi e perchè si era preteso di scambiare
senz' altro le astrazioni con la realtà. Ma si può anche aggiungere che
il metodo e il procedimento della scuola deduttiva, accompagnati da una
chiara coscienza delle condizioni e dei limiti della validità delle loro
conclusioni, sono più vivi che mai nei cultori né pochi né oscuri
dell'economia; e che la scuola storica, se ha il merito di cercare e
mettere in evidenza la mutabilità e la relatività delle categorie e delle
pretese leggi economiche, si muove pur sempre entro i quadri posti dalla scuola
deduttiva (cfr. Gide, Principes d' Ec. Poi. Noi. Gen.) e ne presuppone le
leggi determinandone le deviazioni e le limitazioni nelle diverse (orme
storiche. I.e scuole moralistiche poi, in quanto si rivolgono a criticare
e correggere i concetti e i precetti dell'economia classica non ne negano
il valore scientifico nei limiti dell’ipotesi, ma ne negano il preteso valore
morale. Negano cioè il carattere di giustizia e di inviolat)ilità
attril)UÌto arbitrariamente alle leggi economiche. Ed é facile avvertire
che gl’economisti di queste scuole (con qualunque nome si chiamino) in
realtà sono moralisti che cercano di 'il [La difficoltà l'iguai'da
la scelta e la determinazione del postulato; il quale deve soddisfai-e a
due condizioni. L’una comune all'etica e all'economia. L’altra esclusiva
dell'etica. La condizione comune è l'applicabilità universale del
postulato come principici informatore di tutta la condotta; la condizione
propria dell'etica è che il motivo, di cui si postula questa universale e
incontrastata efficacia, abbia valore morale. Ora, VI è un motivo, del
quale si possa legittimamente presumere che sia riconosciuto
universalmente il valore morale, e del quale sia insieme possibile l’applicazione
universale e simultanea a tutta quanta la condotta individuale e
COLLETTIVA? A questa domanda ho già cercato altrove di trovare una
l'isposta; esaminando prima in che consista l'esigenza caratteristica di
una norma morale; e poi se vi sia e quale volgere a uno scopo pratico
(nella scelta del quale sono guidati da un criterio etico) delle
conoscenze fornite dalle dottrine e dalle indagini economiche: e la
forma-limite di questa tendenza é una intera ricostruzione su basi etiche
dei rapporti eeonomici. Fanno dunque quello che da un pezzo avrebbero
dovuto fare i moralisti; cioè sentono la necessità di considerare
l'esigenza etica estesa alla stessa struttura, non soltanto politica, ma
anche economica della società. Ma ciò che più ini])orta di osservare
a questo proposito é che una critica radicale — da un punto di vista etico —
della realtà dei rapporti economici porterebbe, a guardar bene, a rimproverare
all'economia pura non un eccesso ma un difetto di astrazione. E il
difetto di astrazione si rivela in ciò: che mentre l'economia si propone
di studiare l'azione isolata del motivo economico, e perciò suppone
ridotta l'azione dello Stato ada tutela dell'UGUALE LIBERTA PER TUTTI, assume
nello stesso tempo — come condizioni di uguale libertà ~ certe condizioni (p.
es. la proprietà fondiaria, il capitalismo e il salariato) che limitano o
alterano T universalità o l'eflicacia del motivo. Cioè o considera, per
questo rispetto arbitrariamente, come categorie necessarie^deWe categorie
5ioric/ie, o considera, pure arbitrariamente, come conforrni all'ipotesi
delle condizioni disformi. poss.'i essere il fine che abbia il carattei'e
<ìi uiìivei'sale e pi'einiiif'iite desiderabilità richiesto a
«^nustificai'e il valore normativo del motivo corrispondente. La
conclusione di questa analisi era la seguente. LA DESIRABILITA di un
ordine di effetti, che si assuma come FINE non viene tanto dalla DESIRABILITA
che gli si l'iconosca come bene, cioè come oggetto diretto e immediato
di godimento, quanto dalla DESIRABILITA degl’effetti, lei (juali esso
apjiarisca la condizione necessaria. E perciò, inentie è vano andar
cercando quale sia il fine ultimo, il quale non si trov.a mai, o si
risolve in una pura espressione verbale, il fine che può valei'e come
su premo si deve cercai'e non nell’uno o nell'altro de: fini a cui
si riconosca valore per sé, ma in un ordiiM^ di effetti, in un sistema di
condizioni, dato che sia assegna- bih*, nel quale si possa l'iconoscere
questo carattere ap- [)unt() di condizione necessaria non di alcuni, ma
di tutti quei beni, ai quali si attril)uisce valore per se. E
quimii il fine che può avei'e universalmente una DESIRABILITA superioi'e
a ogni altro, non juiò consistere se non m un ordine genei'ale e, si
potrebbe dire, preliminare di condizioni, la cui attuazione apparisca
necessaria perchè sia possiì)ile universalmente la ricerca ulteriore
<li ([uei beni. Non può essei'e cioè supremo nel senso di una
gerarchia, della quale segni il culmine, nò nel senso di una grandezza o
quantità, di cui sia il massimo, ma nel senso (iella precedenza necessaria
o della indispensabilità; per la (juale venga a l'accogliersi su di esso
come in un unico foco la luce e il calore di DESIRABILITA che irraggia
dai fini ai quali apre universalmente la via. E perciò, ammesso che
qualsivoglia fìne lancino ha, come ha in l'ealtà, per condizione la
convivenza e LA CO-OPERAZIONE sociale, il fine che può avere questo valore
di precedenza necessaria sugl’altri deve essere di necessità il
raggiungimento o il mantenimento di certe condizioni di convivenza e di CO-OPERAZIONE
sociale, cioè di una qualche forma di società. Ma perchè a.] una forma di
società possa essere riconosciuto questo carattere universalmente,
occorre che le condizioni della sua esistenza hanno per tutti un
valore potenzialmente uguale. Ossia che nessuno dei FINI dei quali quella
forma di CO-OPERAZIONE pone la POSSIBLITA [Grice trascendentale] e dai
quali attinge il suo valore, sia, per dato e fatto delle esigenze di essa
forma, precluso o impedito a nessuno dei componenti la società. in altri
termini che tutti i .socn trovino nelle condizioni di esistenza della
società la medesima equivalente possibilità esteriore d\ rivolgere la
loro attività alla ricerca di qualsivoglia dei fini, dei quali la
convivenza e COOPERAZIONE sociale è CONDIZIONE [GRICE, metaphysical
justification]. Ora se si riconosce come esigenza della GIUSTIZIA, questa
esigenza alla quale deve soddisfare una forma sociale perchè ha
universalmente valore di fine prossimamente supremo, determinare questo fine
equivale a determinare un tipo di società nel quale siano attuate le
condizioni richieste della giustizia cosi intesa, ossia un tipo ideale -
conforme a questa esigenza - di HOMO IVSTVS e di socielas insta. E ciò
equivale a cercare quale sistema di relazioni risulterebbe
effettuato nell’ipotesi che gli uomini, sia come collettività sia
in-dividualmente, ossia in qualunque forma di azione o di in/Iuenza che
si eserciti cosi dalla società come da ciascuno dei singoli,
subordinassero universabne^ite e costantemente qualsiasi altro motivo o
desiderio al desiderio della giustizia. E se supponiamo che con un
procedimento analogo a quello tenuto dall'ecoiioinia pura (1) il .sistema
Hi l'elazioni che iji avverei'ebbe nell'ipotesi, e già deteterminato,
noi avremmo una scienza pura della giustizia -- una diceologia » piD'a,
alla quale sarebbei-o totalmente applicabili le considerazioni circa i
cai'atteri e le limitazioni che pi'esenta una costi'uzione
siffatta. Ili, Posto, adunque, che fosse costruita (questa Scienza
pura della giustizia, si poti'ebbero muovere ad essa, fondandole
sulle limitazioni notate, tre obbiezioni capitali: di essere una
costruzione aì'bitraria, oziosa, e, in ogni cas(ì, monca. Di queste
obbiezioni occoi're chiaiMre la portata. L'arbitrarietà della costruzione
supposta pU(') essei'e intesa in due sensi. Nel senso che la validità
delle norme che se ne ricavano è relativa alla validità del postulato, il
cui valore è bensì assunto come un DATO DI FATTO, ma senza una ragione
perentoria che obblighi ad accettarlo; oppure nel senso che è difjbrrne
dalla realtà e insussistente l’ipotesi di una condotta subordinata
universalmente e costantemente all'esigenza della giustizia. Se si
intende 1' arbitrarietà nel primo senso, qualunque dottrina etica è aidjitraria
; perchè il valore del postulato fondamentale (ossia del motivo, o del
tine, o del [L'economia dà al postulato edonistico – e EUDEMONISTICO _- un
contenuto materiale determinato considerando come soddisfazioni le
soddisfazioni di certi bisogni. e come sacrifìci certe privazioni e certe
pene; mentre al postulato della giustizia il contenuto materiale, al
quale se ne deve fare l'applicazione, é dato (la tutte le specie
d'attivuà o da tutte le categorie di fini (esclusi soltanto quelli la cui
ricerca o proseguimento importano la negazione del principio regolatort^
supposto) che in una società data sono possibili. ili criterio di
valutazione) quale si sia, è sempre ammesso assunto, ossia si suppone o
si ammette che sia riconosciuto come tale; e nessuna dottrina etica può
compiere il miracolo di obbligare a.l accettarlo. Perchè, la ragione
perentoria - se è una ragione, non può consistei-e che nel ricondurre il
valore del postulato a quello di un altro fine o di un'altra esigenza
ulteriore, della quale si ammette o SI suppone ancora che la validità sia
riconosciuta. E se si dice che è propio del fine o dell'esigenza morale
il presentarsi alla coscienza come un valore che non si può disconoscere, si
auìmette che questo carattere è già dato nel fatto stesso che l'esigenza
è riconosciuta come morale; anzi che il motivo vale assolutamente,
appunto perchè vale come morale; il che vuol dire che impone il proprio
valore solamente in quanto la coscienza lo accetta, e che è sempre in
ultima analisi il valore morale dell'esigenza che é preso come un dato
primo o come un postulato. Se si intende dunque in questo senso,
qualsivoglia dottrina etica è, perchè etica, arbitraria. Se poi si
pone come caratteristica del valore morale la possibile validità
universale della MASSIMA corrispondente, nessuna esigenza è piti
radicalmente universale di quella che esprime la CONDIZIONE stessa di
questa POSSIBILITA. Che all'esigenza assunta sia o no riconosciuto
in effetto valore morale, ossia che il postulato corrisponda o non
corrisponda e più o meno adeguatamente a un dato della realtà psicologica
rivelato dall'analisi della coscienza morale, è una questione diversa. E
se l'arbitrarietà s'intende in questo secondo senso, come difetto totale o
parziale di questa corrispondenza, essa consiste, nel caso nostro, non
nel considerare come morale l'esigenza della giustizia, ma neir assumere
questo motivo come il motivo morale. fi JH^ffriaililf».W'.ifc^ ] menti'e
la realtà empirica ne pi*esenta anche altri ; e nel considerai'lo isolato
da questi, mentre nella realtà sono più o meno strettamente connessi e
coopei'anti o contrastanti con q ìlei lo. Non ho nessuna ditlicoltà
a riconoscere che la costruzione supposta è, anche per questo ris[)etto,
arbitraria ; al modo stesso che è sempre pili o meno arhiti'ario
qualunque sistema di deduzioni ricavate da un' ipotesi. Ma un'
arbitrarietà di questo genere non implica nessuna fallacia finché non si
pretende che essa espi'ima la i*ealtà del mondo mt)- l'ale dato ; e la
costruzione si dà per quel che è, cioè per una scienza che sai-ebbe la «
vei'a scienza » della morale com' è , se le condizioni dell' ipotesi
rispecchiassero la realtà — Intendo quel che si può dire: — Perchè
supporre che il motivo egemonico sia la giustizia, e non un alti'(\
poniamo il motivo altruistico – GRICE: OTHER-LOVE? 0, meglio, perchè non
assumere come motivi morali, o l'ispondenti all'esigenza morale, tutti i motivi
che la realtà psicologica l'ivela valere in effetto come tali? La
l'isposta all'una e all'altra domanda non è diffìcile. L'assumere
come rispondenti all'esigenza morale i critei'i molte[)lici che si i-ivelano
nelle norme empiricamente date come morali costi'ingerebbe in ultimo ad
assumere l'esigenza stessa moi'ale come in sé contraddittoria e a costi'uire
non una scienza, ma una veste d’Arlecchino. Perchè la morale
empii'icamente data rivela criteri non di rado opposti, e del medesimo
ci'iterio le applicazioni più artificiose e vai-iabili. Ora, che l'esigenza
morale possa U) Tralasciando pure di insistere, come lio già
osservato altrove, perchè è cosa troppo nota, sull'antitesi fondamentale
esistente tra le norme di condotta che valgono come morali rispettivamente
nelle condizioni di pace e di guerra, e sui contrasti, tragici talvolta,
tra i doveri famigliari e i do- co„,poru,.e criter,, ì,ver.i e anche
opposti ,fi val,„az,one senza cessare di essere morale, s, potrà aocl.e
ammettere (purché s, s.a disposti ad accettarne le conseguenze;; ma
che si possa, assumendo criteri contraddittori!, costruire una dottirina
coerente, non si può sostenere. Bisogna dunque scegliere; e la scelta ,iel
motivo della giustizia, se è arbitraria hi quanto e seella ,U uno fra
più "on e arbitraria in guanto mandnno le ragioni della scelt..
Poiché è facile rilevare che il motivo delia giustizia e 'I solo al quale
si possa supporre che risponda in effetto universalmente e costantemente
tutta la condotta senza che l’osservanza da parte degl’uni richieda o
presupponga l’inosservanza da parte degli altri. L'altruismo (GRICE OTHER LOVE)
non potrebbe essere oss.Tvato universalmente, se non a patto che fosse
subordinato alla sua voka a mia norma di giustizia. Infatti, affinché sia
possibile I abnegazione e la rinuncia incondizionata di sé agl’altri, veri
sociali, bisogna osservare che le „or,„e date e accettate come morali o.o,.o
contemplare e contemplano realn.ente, almeno parte, de„e rela- wL;
T ' ,•'^i" "> S-iadi relazioni pr.ma,,e e
fondan.entah, che le „orn,e non contemplano e che sono la negazione del crueno
applicato in qne.le norme. Mi sia lecito spiegarmi e „ ruiieTau:
r"'T, t"'-^ I iano i In
""'. '^ cercare ,,uale a qu le concila la minima fatica
del primo col minimo disagio del secondo crueno seguito qu, é un criterio
d’EQUITA. Si riconosce ciocche non sa- omodi;e tutte le
comodità per se senza tenere in conto le comodità dell'altro. .Ma se
questo crueno (seguito nello stabilire la condotta migliore, Jata ,,uella
conLol <i.ve,.a de, due, fosse applicato a determinare la rela.one
t,-a i due p,Jl Z^JT'"P~« e portato, questa .:J^::Z TorT
"T"»™"'--^^ colle p,.opr,e gambe. Ossia la norma
nor. le regola nel caso supposto un rapporto che non esis,e,.ebbe, o
sai-ebbe tutto d,verso, se essa fosse applicata al sorgere di quel
.-apporto NH itì'i^tli^ì-. Hif
^••s«ì»?T<P7** Ifi bisogna chf^ gli nni si
.saci'ifichii)0 e gli altri o qualche alti-o accattino il sacnfi/io ;
cioè bisogna che gli uni os^or- vino LA MASSIMA (lell'altruismo, e gli
altri o qualche altro quella dell'egoismo. Se poi si ammette che nessuno
debba poter saci'ifìcarsi più di un altro qualsiasi (lasciando di
osservare che in tal caso praticamente i sacrifici si eli<le- rebber.))
fiisogna che la condottta altruistica di ciascuno non impedisca una pari
condotta altruistica degl’altri. Cioè bisogna che fattività altruistica alla
sua volta sia governata da una norma di giustizia. Ciò viene a dire
che la famosa formula kantiana, se si considera nella possibilità della
sua applicazione simultanea per tutti a tutta la coìidotia e.sterna non è
suscettiva d'altra inter[)retazi()ne che di massima univeisale di
giustizia nel senso sopra chiarito. In un Saggio originale e sucrgestivo,
che vale bene più di qualche grosso volume inconcludente, CALDERONI (si
veda) illustra una concezione
economica della morale (che non tocca in nulla, benché a prima vista
sembri antitetica, il concetto qui esposto) nella quale egli osserva
giustamente come la maggior parte delle azioni virtuose non siano
considerate come tali se non perchè sono prodotte in quantità inferiore
alla domanda; e son per noi un dovere appunto perché gli altri uomini non
le lanno,' e rimangono tali a condizione che non siano troppi gli uomini
capaci e volonterosi di imitarle. E trae da questa considerazione la
conseguenza che la formula di Kant è del tutto inapplicabile. Ora è
certo che Kant intende di parlare di validità universale del motivo a cui
si informa l’azione. che può essere quindi variabile secondo le
circostanze, pur rimanendo il medesimo il motivo che la detta; e che non
può richiedere uniformità di condotta esterna se non nel caso che si
tratti della medesima attività esercitata nelle medesime condizioni
esterne. Ma (juando m supponga avverato questo caso, si troverà che l’unico
motivo, il quale comporti uniformità universale di condotta è il motivo
della GIUSTIZIA; e che intesa così, la formula di Kant resiste alla
critica anche dal punto di vista di CALDERONI (si veda) Disarmonie economiche
e disarmonie morali, Firenze, Lumachi. La marginalità nella Morale. Assumetelo
dunque, se cosi vi piace, codesto vostro postulato, e costru.tevi la
vostra . Scenza pura della giustizia. Cile ne farete poi? A che c<,sa
propriamente potrebbe servire costruita elle fosse, non si può con
esattezza determinare ,n precedenza. Si potrà vedere, nel caso, quando sia
fatta o pi ut- "«to, a mano a mano elle si venga facendo. Troppe
ricerche . el resto non si farebbero se si aspettasse di averne
diino- strato 1 utilità; e ,li troppe altre , risultati portarono
frutti <lel tutto remoti da ogni previsione. E dato pure che riuscisse
inconcludente, nessuno tiirà che «ia „é la prima „ó u'iica ,n questo
genere, specialmente nel campo della morale. E t,.a le molte curiosità,
perchè non dovrebbe trovar posto anche questa : ,ii sapere come
andrebbero le faccende di questo mondo se gli uomini si decidessero
ad essere tutti e sempre e in ogni contingenza della vita so-
liratutto e prima di tutto giusti? M.-i è pur naturale d'altra parte che
debba intravederne almeno qualche possibilità ,li applicazione eh, la
propone e che ne debba dire qualche cosa. Le applicazioni possono
essere principalmente due: come mezzo di interpretazione o di
sistemazione scientifica della realta morale ,lata; e come fondamento di
una disciplina precettiva, ossia di un'etica applicata della giustizia. Se
l’osservazione psicologica dimostra che è arbitraria, l'assunzione del motivo
della giustizia come unico motivo morale, dimostra pure <die
quel valore gli è però realmente riconosciuto: e che se non ., riconduce
ad esso effettivamente ogni valutazione ^nica, esso entra però come
elemento o fattore di valutazione in qualunque giudizio morale. Può essere
dunque opportuno, a uno scopo di sistemazione coerente delle norme
effettivamente vigenti, conoscere quali sarebbero se questa esigenza
operasse isolatamente, cioè se tutte si ispirassero unicamente ad essa; e
considerai-e, con un artifizio di cui tutte le scienze offrono
innumerevoli esempi, come deviazioni limitazioni risultanti dalla presenza di
alti'i motivi, le norme che non coincidono con quelle astrattamente
dedotce. Sarebbero, per un vei'so, da considerare come tali le norme
della condotta politica interna ed esterna ispirate dall'interesse dello
Stato, o del maggioi- numero, o di una classe, in quanto al rispetto di
queste esigenze sia attiibuito valore morale. E sarebbe, pei- un altro
vei'so, possibile interpi'etare le norme della BENEFICENZA come
espressioni della stessa esi-genza della giustizia, in quanto si considerano
rivolte a sanare o a lenire gli effetti che ne accompagnano 1' inossei'vanza,
e le deviazioni o le limitazioni. Ma l'applicazione più rilevante
riguarderebbe l'Etica propriamente intesa come disciplina
normativa. La scienza pui'a della giustizia appunto perchè considera
già raggiunte e attuate tutte le condizioni richieste dalla esigenza che
essa postula, ossia, in termini equivalenti, fa astrazione da ogni
circostanza interna od esterna che ne impedisca o ne limiti 1' efìTicacia,
configura un sistema di relazioni sociali e un tipo di condotta, cioè
formula Sarebbe possibile per questa via togliere — dico nella
trattazione teorica — certe contraddizioni o antinomie davanti alle quali si
arrestano solitamente i filosofi quando ne determinano l’esigenze
razionali delle leggi, le quali possono valere come tali soltanto nelle
condizioni contemplate dall' ipotesi,- vale a Hn^e non sono suscettive
,li applicazione, sic et simpliciler, a condizioni iliverse. Ma se si
ammette che T onime di relazioni ipoteticamente costruito abbia valore di fine,
cioè se si ammette come normativa l'esigenza della giustizia, vi sarà
luo-^o a cercare e a .leterminare (bencbè questa determinazlne
debba riuscire, come è facile prevedere, assai difficile e complicata)
quale sia in condizioni reali storicamente date la condotta, die nei
limiti imposti da queste, è ini, atta a favorirne la trasformazione nella
direzione segnala dalle condizioni ideali contemplate
nell'ipotesi. Ossia si potrà ricavarne un'etica applicata della Giustizia,
alla quale la realtà storica fornirà la conoscenza delle condizioni tra
le quali si deve spiegare e dei mezzi ai quali deve ad.-guarsi, per
essere praticamente efficace la condotta rivolta a quel fi ne ; cosi come
darà la conoscenza 'Ielle varie specie di attività che l'esigenza .iella
giustizia e chiamata a regolare; cioè darà, volta a volta, alla
forma <lella giustizia il contenuto materiale. E le norme, cosi
ricavate da questa applicazione a una realtà data delle leggi .Idia
Giustizia pura, saranno valide, se SI accetta come fine morale
prossimamente supremo, cioè precedente a ogni altro fine generale e
speciale, l'attuazione del sistema di relazioni contemplato da quella, e
come morale la condotta corrispomlente. Cosi questa Etica applicata, come
la Scienza Pura dalla quale essa si ricava, è indipendente da qualsiasi
dottrina metafisica, ma non pretende di sostituirla. Ignora i problemi
metafìsici ; ma nel senso che non no richiede e non ne assume una certa
soluzione piuttosto che un'alti*a; non nel senso che ne neghi l'esistenza
o ne escluda la trattazione. Ilimane di fronte ad ossa iinpi'ogiudicata, e da
essa distinta, ogni questione sulla natura e sul fondamento ukinìo dell’esigenza
stessa morale; così come rimane impi'egiudicato il pi'oblema pratico, o
pi'opriamente psicologico e pedagogico, intorno al valoi-e e all'
efficacia delle credenze religiose o metafìsiche come condizioni o
fattori sof^^-jcttivi dolla moralità. Ma, ciò nonostante, o forse appunto
pei'ciò, è verisimile che sia giudicata, specialmente alla stregua delle
tendenze più apei'tamente dominanti nel p(insiei*o contcmpoi'aneo, doppiamente
monca; monca considerata come dotti'ina; monca considerata rispetto alla
efficacia pratica. a) Cei'tamente può parere strana se non ingenua
Tnlea di segnai'e una divisione di competetjza tra T indagine
scien- tifìca e rin(iagine proprianifMite filosofìca e metafìsica,
men- ti'e pai'e di assistere a una specie di atto di coiitrizion<'
delle stesse scienze speciali già formate; le quali, dopo essersi staccate e
aver pi'oclamato la loro indipendenza dalla filosofìa, sentono il bisogno
di ritornare ad essa e di rintracciare in lei le origini della loi'o vita e la
ragione del loro valore. Tuttavia una considerazione un po' più attenta
può mosti-are die il contrasto è soltanto a})parente e che la tendenza
delle scienze speciali all' inter|)retazione e alla integrazione
filosofìca dei loro presupposti e dei loro risultati non esclude, ma
piuttosto include, la legittimità di una distinzione anche nel campo delia
morale. Perche essa }) resuppone appunto che le scienze abbiano i ÌOt'O
postulati, i loro metodi i Ioì'O risultati, e che i sistemi speciali
di dottrine cosi edifìcati sussistano ed abbiano una validità
propria, sia pure limitata e provvisoria, all'infuori dell'interpretazione e
della valutazione che ne debba o ne possa fare la metafìsica. In questa
specie di Conferenza permanente dell' Aia (sia detto senza intenzioni maligne)
che è la mutua collaborazione delle diverse discipline alla critica
e alla integrazione del sapere e del valere umano, sono gli Stati che
hanno territorio e giurisdizione propria che possono far sentire la loro
voce. I delegati della Corea sono esclusi. Intendo quello che si può
dire. La morale è essa stessa la metafisica, e pone essa le esigenze alle
quali è subordinata la valutazione di tutte le altre discipline dei
loro principii e delle loro conclusioni. Fosse pure, o, piut- tosto,
dovesse pure essere cosi. Quali sono queste esigenze della morale? Come
si determinano ? Qual'è, fra i molti sistemi diversi opposti e anche
contraddittorii, quello autorizzato a rappresentare « la morale *, e a far
valere le sue esigenze come esigenze ideila morale *ì E se si può
distinguere una esigenza immediala e caratteristica, dato che SI trovi,
della valutazione morale, dalle esigenze ulte non, argomentale o poste da
questo o da quel sistema per interpretarla o giustificarla, allora è
nello stesso tempo data la distinzione tra esigenza propriamente morale
ed esigenze avanzate ,ia una interpretazione o integrazione metafìsica
della esigenza morale; e si delinea insieme una separazione legittima tra
l’indagine che cerca di risalire dall'esigenza morale ai postulati
metafisici, e l'indagine che ricava dall'esigenza morale le applicazioni che
logicamente ne discendono. Ma, nella realtà viva e vissuta della
coscienza, valutazione morale e valutazione metafisica formano un
tutto unico; e separando l'esigenza etica dalla fede metafisica colla quale è
fusa e della quale si alimenta, s, è spezza r unità della
coscienza , si oscura o si cancella il signitìcato e il valore interiore
della moralità, e si presenta come vita morale lo scheletro o, meglio, lo
stampo esterno e quasi l'impronta fossile dell'atto morale. Sarà
verissimo; ma nessuna costi-uzione dotti-inaU può sfuggire a questa
obbiezione. Tutto ciò che la logica tocca e che è fatto oggetto di
conoscenza riflessa e i-agionata diventa perciò stesso un tipo, uno
stampo, un fossile; anzi stampo è la parola, stampo ò la stessa
rappresentazione artistica se non è vivificata e i-isvegliata da chi la
deve intendere e gustare; anzi sono diventate ormai stereotipe, per
colmo di evidenza probativa, perfino le fi*asi e le immagini usate
a mostrare la « i-icchezza e la varietà inesauribile della coscienza e
delle sue ci'eazioni. E quanto al sepai«are nella teoria ciò che nella
realtà è unito, bisogna pur rassegnarvisi. Pei'chè ogni nctM'ca è
prima di tutto distinzione, sepai-azione, asti'azione; il fatto stesso,
ogni fatto (diceva già un chimico, Chevreul) è un' astrazione. Ciò che
importa veramente è di non dimenticare che l'astrazione non è tutta la
realtà. Ora, sceverando dal complesso degli elementi, onde la vita
etica nella coscienza personale iMsiilta o può risultare, quello che è
suscettivo della più universale applicazione, e costruendo il tipo di
vita che ne risulterebbe, non si pretende di esaurire il contenuto della
coscienza, ma soltanto di distinguere le norme di condotta a giustificare
le quali basta uu certo postulato, dalle norme e dalle forme di
vita morale che si fondano sopra altre esigenze ossia l'ichie- dono
altri postulati. E chi crede che la chiarezza dei concetti e il
l'igoi-e del procedimento si debbano poi'iare, fin dove è
possibile, anche nella speculazione etica, ammettei-à che può
essei-e que- utile allo scopo, se non anche necessario, il
seguir( sta via. Rimangono altri problemi. E chi lo nega? Ma prima
condizione per cercar di risolverli con frutto è di non confonderli tra
di loro. E nasce da una confusione di problemi diversi l'obbiezione,
che si potrebbe dire pragmatistica, del difetto di efficacia pratica, o
più esattamente parenetica o pedagogica, di una dottrina morale che faccia
astrazione da ogni valutazione metafìsica, e presenti un sistema di norme
che ha di necessità soltanto un valore ipotetico, cioè, nel caso nostro,
condizionato al valore che può avere nella coscienza il motivo impersonale
della giustizia. (lì Le espressioni di più d' un antiintellettualista
indurrebbero 4uasi ad ammettere che la morale sia una specie di grande
imbroglio, nel quale a voler vederci chiaro, si finisce per non credere
più. Ora, altro è riconoscere Cile ogni valutazione é in ultimo data alla
intelligenza e non dalla intelligenza, e che nessuna conoscenza e nessun
ragionamento può far volere un fine che non sia già voluto, o per sé, o
come condizione a un altro fine- altro è credere ed aOermare che l’intelligenza
o la ragione sia in contrasto olla moralità. Come potrebbe essere?
Non certamente in quanto si rivolge a determinare 1 mezzi necessari e
convenienti a un fine. Nel qual caso non è nemica, ma ancella della
volontà in generale, e, se la volontà é « buona ». della volontà morale.
Non potrebbe essere, dunque, se non in quanto toglie o muta la valutazione del
fine (cioè delP oggetto o contenuto materiale del motivo morale) mostrandone \^
connessione, prima ignorata o trascurata, con qualche cosa d' altro, che
sia oggetto di una valutazione diversa; diciamo, per comodità, negativa o
repulsiva. E allora, poiché la valutazione di questo qualcosa d'altro non
può venire dall' intelligenza (la quale, come si sa. chia- risce
rapporti, non dà valori), manifestamente non si possono dare che due casi:
ha origine nel motivo stesso morale; e la conoscenza non avrà fatto
che mettere in chiaro come quel fine che gli si riteneva in tutto conforme,
sia in realtà più o meno disforme in forza della connessione notata. Ma
ciò non Poiché è uggioso a se e agli alti-i l'ipetere cose già
dette, e su questo punto ho insistito a lungo altrove, mi restringo qui a
riafTermare la legittimità, anzi la necessità logica e la convenienza
morale, di tenei- separata netta- mente ogni ricerca che si volge a
detei-minare quali siano le norme di condotta richieste da un certo fine,
dalla ricerca delle condizioni e dei fattori dai quali dipende o può
dipendere l’osservanza delle norme. La legittimità delle deduzioni, dato
che ci sia, e la validità dei precetti rispetto al fine sussistono
indipendentemente dalla presenza o dalla assenza dei motivi che ne
persuadono o ne impongono l'osservanza, e dalla natura di questi motivi. Come
il contenuto e la giustificazione delle prescrizioni d'un medico non
dipendono dalla disohbedienza o dall' obbedienza dell' ammalato nò dalle
ragioni di questa obbedienza. tocca in nulla il valore e
l'efficacia del motivo morale. Ammettere il contrario sarebbe come dire che
cessa di amare la giustizia chi cessa di difendere una causa che ha
riconosciuto ingiusta. ha origine in un motivo non morale (poniamo in un
interesse egoistico); e anche qui l' intelligenza non farebbe che
rivelare una condizione di fatto : la presenza e Tefficacia di motivi non
morali nella valutazione dei fini e :lella condotta. La conoscenza
dunque, anche in questo caso, non altera il valore del motivo morale; può
eventualmente mostrare che il valore e l’efficacia sua non è esclusiva, o
incontrastata come si supj)oneva. Ma correggere un errore di giudizio non
é cambiare uno stato di fatto. Potrebbe dunque, tutt' al più, togliere un'
illusione. Ma è nell' illudersi d'esser morali che consiste la
moralità? Questo conformarsi o non conformarsi si suole a torto, per
abuso di linguaggio, attribuire a una pretesa efiicacia pratica delle
norme; mentre le norme - perse - hanno, a promuovere l'azione corrispondente,
una efficacia non maggiore di quella che abbiano i fanali di una strada a
muovere le gambe dei nottambuli. E un simile abuso di linguaggio, che
nasce da un difetto d'analisi, ha alimentato la confusione tra esigenza
giustifica- tiva e esigenza esecutiva, tra l'obbligo e la giustificazione
dell'obbligo, e la pretesa illusoria che una norma possa o debba avere in
sé forza obbligativa. Cfr. Prolegomeni ecc. , e. I: (L'esigenza
esecutiva) ; e Studi su la possibilità (La pregiudiziale dell'imperativo
categorico). La reale presenza ed efficacia di motivi «ufficienii a
determinare T osservanza è in ogni caso si>,pposta, non . posla da
qualnnque costi-uzione precettiva; e il «„ppori-e operativo d motivo
della giustizia non esclude, ma piut- i tosto include, una ulteriore
valutazione del motivo stesso ' ogniqualvolta nella realtà esso derivi in
tutto o in parte la sua forza da questa sopravalutazioiie. Ma anche
in questo caso non bisogna dimenticare che una tale efficacia .sarebbe
sempre essa stessa posMata come un dato di fatto, non comunicata o
la,-g,la da una fon.ìazione qualsivoglia. Perchè anche una fondazione religiosa
o metafisica non pone essa le credenze, ma le sup. pone già viventi e
.operanti. Il suo valore come motivazione morale dipende dal valore reale che
esse hanno nella coscienza, dalla loro forza operativa. Essa fa
appello a questa forza, ma non dà, essa, la forza; ossia vale,,el-
i ipolesi che valga in effetto nella coscienza la fede nei dati assunti
da lei. E se questa fede mancasse, una fon- <iaz,one metafisica o
religiosa, qualunque fosse, avrebbe sulla condotta una efficacia non
diversa né maggiore di qualsi- voglia costruzione arbitraria. Senonchè si
potrebbe, su basi pragmatistiche, osservare che SI ,ie^e appunto volere
quella fede dalla quale si può aspettarsi l'incremento del motivo morale,
e che, poiché SI tratta di optare, conviene dal punto di vista'
pratico optare per una fede moralizzatrice. E compito del moralista «ara
perciò di affermare e suggerire quella fede come presidio e cnforro,
utile se non necessario, della moia- l'tà, e presentare la dottrina
morale connessa e incorporata con quella fede. Su un discorso di questo
genere ci sarebbero da .lire molte' cose; notiamone poche. E prima
di tulio convien pur ripetere che un tal compilo. t^ 1 fc m (lato che spetti al inoi-alista,
^Hi spetta in quanto è o pretende (li essere educatore o apostolo, non in
quanto si propone di cercare quali concernenze ini[)liclii l’accettazione
di un cei-t() postulato e si contenti di atierniare che chi accetta il
postulato deve accettai-e le hoimikì che ne discendoiHi. I due uffici non
si identificano ; chi ha slo//(i di ricercatore può non avere
stoft";i di a[)()stolo o di avvocato ; e potrehhe in og"ni caso
invocare aiiche qui il principio delhi divisione del lavoro. Ma dal
[)unto di vista stesso pedagogico la tesi è tutt' altro che incontestahile.
Suggerire e infondere una fede! E presto detto. Ma in che modo o per
(jual via? Partendo dall'esigenza pratica per arrivare alla credenza,
cioè presentando la fede a[)punto come sostegno e guarentigia della ni
orai ita? Lasciamo pui'e di indagare se con ciò non si nega in
effetto, neir atto stesso che si afferma, il valore assoluto dei
postulati religiosi o metatisici, dal inoinetito che essi sono affermati
o posti come condizioni o fattori nella produzione di certi effetti, cioè sono
valutati utilitariamente; e se non si offende il sentimento religioso,
considerandolo unicamente come un motivo sussidiano invocato a supplii'e
alla fiacchezza del uiotivo morale. Un pragmatista conseguente potrehhe
non avere (ii «juesti scru[)oli. Ma lo scopo stesso a cui mira il
pragmatista vieti meno in realtà dacché, per tal via, si suppone dato ciò
che si vuol produire; ossia si pone a sostegno del motivo morale un
sentimento che vien fondato sopra esso, e vale in forza di esso. Con un
risultato non dissimile da quello che hanno di solito le discussioni ;
dove le rai'ioni usate a sostenei'e un'opinione persuadono soltanto chi è
già persuaso; cioè hanno in effetto tanto maggior [)eso quanto più è
superfluo servirsene. Se si tiene invece una via diversa, e si
intende di edificare la credenza su una educazione propriamente dogmatico-religiosa,
dov'è più la opzione, la affermazione libera e spontanea della
coscienza? E come può il moralista educatore presentare o imporre come
unica e definitiva una iede, o una credenza religiosa o filosotìca^che
egli sappia essere personale e volontaria? La verità è che mentre
nel valore morale (posto che sia riconosciuto) del postulato che si
assume a fondamento della costruzione scientifica, è necessariamente implicito
il valore morale delle norme che ne esprimono l'applicazione, non è
necessariamente implicita l'accettazione di certi piuttosto che di cert' altri
postulati metafisici. Mentre, accettato un postulato di cui sia possibile
r applicazione alla condotta umana, la coerenza logica basta a dare la
legittimità delle norme che se ne deducono, la coerenza logica n07i basta
a porre come necessariamente richiesta da quel postulato una determinata
fede religiosa filosofica ad esclusione di qualsiasi altra. La salita
al cielo dei postulati metafisici non si fa colle scale della logica. (Il
che, come tutti sanno, ha il suo riscontro nel fatto che possono trovarsi
concordi nelT accettare e nell' osservare la medesima esigenza morale uomini di
opinioni i-e- ligiose e filosofiche diverse; come, inversamente, può
la stessa fede religiosa e filosofica presentarsi, nella realtà
storica e psicologica, connessa con norme morali discordanti). E la libertà
dì coscienza sarebbe una frase vuota di senso o piena di immoralità se il
voler la giustizia e Tesser giusti richiedesse o l'esclusione di ogni
fede o l'accettazione della medesima fede. ài fondata da Sen.
C; Rivista Filosofica VRLO Cantoni. La Possibilità l I e i
Limiti MORALE STUDI TORINO. BOCCA. In questo volume sono
raccolti tre scritti pubblicati in più riprese nella Rivista Filosofica
diretta dal mio indimenticabile maestro ed amico CANTONI (si veda), al quale
il profondo e tenace convincimento delle proprie dottrine non tolse
mai di rispettare e stimare sopra tutto, anche nei discepoli, la lil>ertà e
la sincerità. Benché diversi di titolo, i tre studi che ora
ripubblico riveduti e in parte aumentati, sono lo svolgimento del medesimo
pensiero fondamentale, e presuppongono quasi, ciascuno dei successivi, i
precedenti. Anzi il primo dì essi è, alla sufi* volta, continuazione
di un altro pubblicato anteriormente col, titàlol Prolegomeni a una
morale distinta dalla metafisica; nel quale è esaminato il problema della
possibilità di un’ Etica normativa indipendente da qualsivoglia
soluzione, positiva o negativa, dei problemi di natura metafisica. E
perciò spero di essere scusato se mi riferisco qualche volta anche ad
esso ; e se in in questo volume sono lasciate in disparte, o trattate con
brevità che altrimenti sarebbe soverchia, alcune questioni delle quali
s’è già discorso in quello. Anche to' importa di avvertire, sempre a
proposito dello Studio La dottrina delle due etiche di Spencer e la
morale come scienza, che — se nella esposizione sia generale, sia
particolare, della dottrina esaminata, ho cercato studiosissima mente dì
rendere intiero ed esatto il pensiero dello Spencer — nella critica ho
considerato la dottrina dal punto di vista speciale additato dall’intento
essenzialmente teoretico che assegnavano a questa ricerca le conclusioni
dello studio precedente. E per questa ragione ho tralasciato
deliberatamente non solo qualsiasi digressione, ma ogni discussione che
non fosse strettamente necessaria allo scopo mio particolare. A ciò si deve la
mancanza quasi totale di accenni alle critiche anteriori, anche dei più
valorosi. Pavia. e la Morale come Scienza. Movente etico-sociale
dell’opera dello Spencer. Conseguenze nella valutazione delle suo dottrine. La
Dottrina etica in generale. Il concetto informatore. La distinzione delle due
Etiche. Il metodo dell’ Etica. dati dell’ Etica. Soluzione dell’ antitesi
tra fine e metodo, e possibilità di conciliazione fra i dati dell’ Etica.
La dottrina delle due Etiche. Due questioni fondamentali , attorno a cui si
raccoglie la dottrina. Il giusto assoluto. Il giusto relativo.
Errore comune nel modo di concepire la condotta ideale. La priorità
scientifica dell’ Etica Assoluta sull’Etica Relativa. Confronto colle
altre scienze. Critica Preliminare : Le Questioni Pregiudiziali e il
preconcetto dal quale hanno origine. La pregiudiziale dell’imperativo
categorico Partizione della Critica. L’imperativo categorico. L’obbligo e la
giustificazione. La progiudiziale dell’ obbligo categorico è estranea
alla determinazione e alla giustificazione della norma.In che consista
la differenza caratteristica tra 1’ Etica e le altre costruzioni
precettive. Compito dell’ Etica. La pregiudiziale, .sul modo di intendere
il compito normativo dell’ Etica. La progiudiziale sul compito
normativo dell’Etica. Come esso sia inteso nei due indirizzi prevalenti.
Due presupposti arbitrari comuni ad ambedue: che le norme siano già
determinate e note. che si accordino fra di loro. Necessità di un
criterio per la determinazione. La soluzione dell’indirizzo sociologico -
Suo difetto capitale: non vale a giustificare le norme. La soluzione
dell’ indirizzo prammatistico-idealistico. Difetto capitale: la costruzione
metafisica postulata, come qualsiasi costruzione metafisica, non serve a
determinai e 10 norme. Il preconcetto fondamentale Presupposto comune
ai due indirizzi. Da questo nasce l’antitesi tra esigenza scientifica
(determinazione) ed esigenza etica (giustificazione). Legittimità di
porre il piobleina in una forma diversa. Conclusione della Critica
Preliminare. La dottrina delle due Etiche e le esigenze di una
scienza normativa morale. Il criterio del limite dell' evoluzione e
dell’adattamento completo non serve a determinare il tipo di condotta
cercato . Due tesi distinte nella dottrina delle due Etiche; la validità
dell’ una non dipende da quella dell’ altra. Il tipo di società
giusta non è determinato dal limite dell’ evoluzione. Nè dall’ adattamento
completo. Su quali dati sia costruito veramente ; quale posto tenga
nella costruzione dello S. il postulato dell adattamento
completo. Il criterio del piacere puro, corrispondente
all’adattamento completo, non serve a giustificare il tipo di condotta proposto.
Il piacere puro non può essere il criterio della massima DESIRABILITA. La
questione del fine e dei fini -
Soluzione illusoria trovata nel termine felicità e altri equivalenti. Equivoco
nell’identificazione dell’ oggetto dell’ attività col piacere. Quale
possa essere il fine che soddisfa alla doppia esigenza della
determinazione e della giustificazione delle norme. Il tipo di società
giusta dello Spencer. Come concepisca la società giusta Spencer.
Presupposto illegittimamente assunto dalla biologia. Difetto
fondamentale : Incocrenza fra il tipo dell’ uomo giusto c il tipo della
società giusta. Difetto che ne deriva nella relazione tra giustizia e BENEFICENZA.
L’ individualismo dello Spencer e il postulato della giustizia. Ufficio e
limiti di una costruzione scientifica dell' Etica. Come debba concepirsi un
tipo ideale di società giusta. Etica Pura ed Etica Applicata. Conclusioni della
Critica. Presupposto fondamentale, e carattere ipotetico dell’etica come
scienza normativa. Pubblicando I dati dell’Etica prima che fossero
composti il II e il III volume dei Principii di Sociologia, Spencer
giustifica questa deviazione dall’ordine del suo programma col timore di non
poter compiere l’opera finale della serie: I principii di Etica. Degli
indizi che in questi ultimi anni si ripetono con maggior frequenza e
chiarezza m’hanno avvertito che la salute, se non la vita, mi può venir
meno per sempre, prima che io compia l’ultima parte del compito che ho
assegnato a me stesso. Quest'ultima parte è quella per la quale io
considero come sussidiarie tutte le parti precedenti. Il mio primo Saggio su
L’Ufficio proprio del Governo indica vagamente il mio pensiero intorno a
certi principi generali di bene e di male nella condotta politica; e
da quel tempo in poi il mio fine ultimo , lasciando indietro tutti i
fini prossimi, è stato quello di trovare una base scientifica ai
prìncipi del giusto e dell’ingiusto nella condotta in tutta la sua
estensione. Lasciare incompiuto questo fine, dopo aver fatta una
preparazione cosi ampia per raggiungerlo, sarebbe una sventura alla cui
probabilità non posso pensare senza sgomento e_sono ansioso di evitarla,
se non del tutto, almeno in parte. The Principles of Ethics. London Qualche
cosa di simile alla catastrofe preveduta sopraggiunse infatti; perchè
dopo un lento decadimento e indebolimento progressivo egli fu costretto a
sospendere qualsiasi lavoro. Fortunatamente potè riprenderlo: ed anche
allora, la sua prima preoccupazione fu quella di compiere i
principi di Etica; e pose subito mano a quella parte della Morale, che
dopo i Dati gli pareva più importante: la IV a Giustizia. Colle parole e
col fatto egli mostrava dunque che Tintento supremo al quale
consapevolmente convergevano tutti i risultati della sua speculazione, era
u n intento mor ale. Par che riecheggi in lui la voce di Spinoza: Finis
in scientiis est unicus ad quem omnes sunt dirigendae. E in p
realtà, come le idee madri della sua teoria pene¬ trano e
illuminano tutti gli scritti suoi, anche i minori, così vi circola dentro
e li riscalda il soffio vigoroso del suo ottimismo; e la dottrina
dell’evoluzione, par che diventi nel suo pensiero sopratutto la
comprensione del processo naturale e necessario che produrrà in un
avvenire lontano ma sicuro una umanità giusta e felice. Animata cosi di
speranza, la dottrina prende colore di fede. E veramente egli la
professò come una fede; non soltanto visse per la sua dottrina, ma visse
la sua dottrina. E i prin- [.
(wlien first iss. sep.) De. Intell. Emend.]—
cipi che pone a fondamento della morale e del diritto, € di cui
vuol trovare le ragioni nelle leggi stesse dell’universo, ispirano e
governano con indomita costanza tutti i suoi giudizi e tutte le sue
opinioni, da quelle sulla Educazione a quelle sull’Etica delle
carceri, dalle idee sulla Morale Politica Assoluta alle proteste contro
il « br igantaggio politi co », dalle ironie contro «la Sapienza
collettiva» a quelle contro « i diecimila sacerdoti della religione
d’amore che! non apron bocca quando la nazione è mossa dalla '
religione dell’odio.» Quell a unità e solidarietà di principi teorici e
pratici , p er cui la sua mora le si presenta come s cienz a ella sua
scienza come una morale, e questo continuo cimentare che egli faceva i
suoi principi con tutti i problemi più vivi del suo tempo, onde la
sua dottrina pareva prender veste di programma sociale e politico, hanno
certamente contribuito a produrre^ questo doppio effetto: che la preoccupaz i,
morali' si insinuasse anche nella critica delle sue dottrine teoriche; e
che l’opera sua, considerata prevalentemente, se non talora quasi
esclusiva- mente, come l’espressione di certe tendenze e di un
certo indirizzo religioso morale economico politico, apparisse, col prevalere
di tendenze e di aspirazioni diverse, invecchiata c oltrepassata di più,
e più presto, di quel che altrimenti sarebbe apparso. E cosi potè
facilmente accadere che anche certi principi, certi metodi e certe ipotesi
fossero lasciati in disparte, o si stimassero superati e come
logori e fuori d’uso, non perchò se ne fosse mostrata la falsità o
la infondatezza, ma perchò apparivano connessi e solidali con quel sistema o
quell’indirizzo che si giudicavano superati. Ora se è vero
che a intendere il significato e il valore di una dottrina particolare è
necessario considerarla nelle relazioni col sistema di dottrine di cui fa
parte, non è perciò meno legittimo considerare se essa possa aver valore e
segnare un acquisto, anche all’infuori della validità di quel sistema e
di quelle altre dottrine, colle quali primamente si
svolse. L’intento di questo saggio ó appunto di esaminare il valore
teorico e metodico della distinzione tra Etica Assolut a ed Etica Relativa; la
quale ò bensì, nel pensiero dello Spencer, parte integrante del suo
sistema, ma hg, secondo il mio avviso, ragione di essere, indipendentemente
dall’applicazione che egli ne fa e dai postulati che l’hanno
suggerita. Perciò si divide naturalmente in due parti: espositiva e
critica; la prima rivolta a mettere in chiaro le ragioni e il significato
della distinzione nella filosofa di Spencer; la seconda a esaminare la
possibilità e la utilità di mantenerla e applicarla sotto una forma
diversa. L’esposizione comprenderà pure necessariamente due
parti: una che richiama, in modo breve quanto è possibile ma esatto, il
concetto informatore e i lineamenti fondamentali di tutta l’etica;
l’altra che traccia più distesamente la dottrina particolare
esaminata. Quella legge di evoluzione , che si manifesta nell’intero univ
erso visibi le, nel sistema solare come un tutto, nella terra come parte
di questo, nella vita in generale, e nella vita di ciascun organismo
individuale, nei feno meni ment ali degli esseri animati fino al più
elevato; qu ella stessa legge si manifesta nei fenomeni della vita umana
e sociale é quindi a nche in quei fenomeni della condotta, dei quali
tratta la morale. In conformità di questa legge] j^etWnr.< e delle
leggi via via subordinate in cui essa si rifrangevi produce una el
evazione^progres siva nelle forme della vita sub-umana ed umana, la quale
si traduce in un adattamento s empre migliore, più esteso e più
durevole alle condizioni da cui dipende l’esistenza dell’individuo, e
l’esistenza della specie; e, dove la vita sociale apparisca, l’esistenza
della società. Per l’uomo adunque l’adattamento riguarda tre ordini
di condizioni; ossia è di tre forme; e, benché si possa astrattamente
considerare ciascuna forma per sè, tuttavia, per la connessione
naturale e necessaria dei fattori dai quali dipendono, le tre forme
d’adattamento nella realtà procedono di conserva con mutue azioni creazioni
continue; cosicché a ogni progresso in una forma di adattamento
corrisponde un progresso nelle altre forme. Il limite, verso il q
ua le tend questo processo, è l’adattamento completo a tutte le
condizioni della vita umana più elevata; per il quale il massimo
svolgimento della vita individuale, e della parentale, e della
sociale, non solo si conciliano, ma si favoriscono a vicenda. Questo
adattamento completo implica non soltanto una perfetta conformità esteriore
dell’operare alle esigenze di una tal vita; ma implica del pari una
conformità correlativa e della struttura, e delle attività, fisiologiche
e psichiche; è insomma ad un tempo adattamento della condotta e
adattamento dei fattori interni della condotta. Quindi anche le idee,
i sentimenti, le tendenze sono, nella loro qualità e intensità e gradi di
subordinazione, pienamente adatti e conformati ai bisogni e alle esigenze
della vita in tutte le sue manifestazioni, e trovano nelle forme di
condotta corrispondenti il loro appagamento pieno e concordante. che viene a
dire che l’adattamento completo attua in sé le condizioni della
massima FELICITA. Adunque, ma ssim a elevazione della vita, adattamento
eoj puleto . massima FELICITA (eudaimonismo – GRICE), sono per Spencer tre
concetti che coincidono; o, meglio, sono faccie o aspetti diversi di un
medesimo risultato finale, ed esprimono il limite verso il quale
tende l’evoluzione della vita umana nello stato sociale. E’ appunto
per q uesta ide ntificazione, che sta in fondo al pensiero dello Spencer,
tra evoluzione e aumento di felicità, che egli può porre come
ottima la cpndotta rispondente al limite della evoluzione. Perchè
Spencer, come è noto, ammette esplicitamente che il fine ultimo, espresso o so
ttinteso, d ell’operare, non può essere che una forma di coscienza
desiderab ile, cioè di piacere; e che la condotta ò buona nella misura che essa
apporta, tenuto conto di tutti gli effetti presenti e futuri sopra
di sè e sopra gli altri, un avanzo dei piaceri sui
dolori. Totalmente buona, dunque, o perfetta, non è che la forma di
condotta che coyà&ponde a quel limite; ogni altra forma diversa,
ossia adatta a gradi di evoluzione più o meno lontani dal limite,
non può essere che imperfetta, ossia buona relativamente, non assolutamente.
Quindi due Etiche: Etica Assoluta che determina le leggi della
condotta ottima; ed Etica Relativa che cerca di stabilire per
approssimazione quale sia la condotta relativamente buona, ossia la
condotta, che, date certe condizioni reali di svolgimento e di
adattamento incompleto, è la migliore, o la meno lontana dalla condotta
perfetta. E quindi la necessità, e la priorità logica dell’Etica Assoluta; le
cui determinazioni rirelazioni più generali, più semplici, più
esattamente definite di quelle contemplate dall’Etica Relativa. Or
come si costruirà l’Etica Assoluta? ossia quale sarà il metodo? Spencer
si accorda cogl’utilitarist i che lo precedono nell’assumere come criterio per
giudicare la condotta e determinarne le norme l a natura degli effetti o
dei risulta ti. Ma se ne distingue subito per il pr ocedim ento col
quale egli crede che questi effetti dei diversi modi di condotta si
possano e debbano conoscere. Per gl’UTILITARISTI che lo precedono è l’induzione
empirica, per lui la deduzione. Non si tratta per lo Spencer
di trovare che, in un certo numero di casi, certi danni o certe
utilità si accompagnano con certi atti o cert’altri, e di inferirne che
rapporti simili si manterranno nell’avvenire; si tratta invece di determinare
comee^er- chè alcuni modi di condotta siano dannosi e altri utili;
o più chiaramente, quale condotta debba essere dannosa e quale debba
essere utile. Non è dunque sopra certe relazioni empiricamente osservate,
ma sulla connessione causale necessaria tra le azioni ed i loro
effetti che deve fondarsi la determinazione delle norme morali. E, poiché
questa connessione deve essere alla sua volta una conseguenza necessaria
della costituzione delle cose, deve essere pos- sib ile dedurre da
principii fondamentali quali specie di azioni tendano a produrre FELICITA
e quali a pròdurre infelicità. E le deduzioni così ottenute debbono essere
riconosciute come leggi di condotta e aver valore indipendentemente da
una estimazione diretta (individuale e occasionale) del piacere e
del dolore. Ciò che distingue adunque l’Utilitarismo che Spencer
chiama Razionale, dall’Empirico, e dà carattere di rigore scientifico alla
ricerca morale, è il riconoscimento pieno e adeguato della
causalità naturale dei fenomeni della condotta; e il vero metodo
scientifico dell’ Etica, come delle altre scienze che abbiano superato lo
stadio empirico, deve consistere nel cercare e nel costruire in sistema
non alcune relazioni empiricamente stabilite, ma le relazioni
necessariamente esistenti tra cause ed ef¬ fetti in tutta quanta la
condotta. Ma se le leggi della condotta debbono determinarsi per deduzione
necessaria, quali sono i dati sui quali questa deduzione deve fondarsi ?
I fatti di cui si occupa l’etica non costituiscono un ordine nuovo
che si distacchi da un ordine inferiore o precedente, come, per es., le
formazioni organiche rispetto alle inorganiche, o i fenomeni sociali
rispetto ai biologici: ma appartengono per un verso alla biologia in
quanto sono effetti in- [Spencer li considera anche come appartenenti alla
fisica, in quanto, esaminati esternamente, si riducono a movimenti
e combinazioni di movimenti che cooperano a produrre una forma
di terni ed esterni di fenomeni vitali prodotti nel tipo più elevato
degli animali; e per un altro alla psicologia in quanto sono coordinamenti di
azioni suscitati dai sentimenti e guidati dalla intelligenza; finalmente
in quanto queste azioni direttamente o indirettamente riguardano esseri
associati, appartengono alla sociologia. La condotta è adunque ad un
tempo una formazione biologica, una formazione psichica, e una formazione
sociale: e perciò è nei risultati delle scienze corrispondenti che si
devono cercare i principii fondamentali, i dati dell’etica. E quindi
i dati da cui si debbono dedurre le norme dell’etica assoluta sono forniti
dalle condizioni che la biologia, la psicologia e la sociologia
indicano rispettivamente come proprie di un adattamento completo. Ora,
in conformità alle leggi di queste scienze, la condotta corrispondente a
un adattamento completo ossia la condotta ottima, è caratterizzata dalle
condizioni che si possono riassumere nei seguenti tre punti: Condizioni
biologiche : Corrispondenza perfetta tra gli organi e facoltà umane e le
attività necessarie alla vita completa. Il che importa che tutte le
attività necessarie al massimo svolgimento equilibrio più o meno
regolare e durevole. Ma questa considera¬ zione (aspetto fìsico della
condotta) può qui senza danno essere tralasciata. della vita per sò e per
gli altri trovino il loro comimento nell’esercizio spontaneo di facoltà
debitamente proporzionate e producenti quando entrano in azione il loro
quantum di soddisfazione (cioè di piacere). Corrispondenza
per- fet ta dei sentimenti, come motivi deir operare, ai I nsog ni.
11 che importa che i piaceri e i dolori, cui danno origine i sentimenti
distinti come morali, siano, al pari dei piaceri e dolori fisici,
impulsi positivi e negativi proporzionati nella loro forza ai modi
di operare richiesti. Condizioni sociologiche: Accordo perfetto t rp
le attività dei consociati. Il che importa che tutte le attività
conducenti alla vita completa di ciascuno non solo non impediscano
direttamente nè indirettamente, ma favoriscano la vita completa di
tutti. Stato di pace permanente. CO-OPERAZIONE cooperazione; nessuna
aggressione diretta o indiretta; scambio di servizi gratuiti. La
condotta ottima è dunque quella che sod- [Non è difficile vedere come
l’assumere le condizioni suesposte equivalga a supporre direttamente o
indirettamente eliminate tre antinomie che sotto varie forme compaiono ,
si può dire , in tutta la storia della morale ; l’antinomia tra il
piacere presente e il piacere futuro, cioè tra piacere e utilità;
l’antinomia tra il bene proprio e il bene degl’altri, tra ciò che è
richiesto dalla FELICITA individuale e ciò che è richiesto dalla felicità
generale ; e 1’ antinojnia tra sentimenti egoistici (GRICE SELF LOVE) e
sentimenti altruistici (GRICE OTHER LOVE), tra la tendenza al piacere e la
coscienza del dovere. disfa a tutte queste condizioni ad un tempo; e
però compito dell’etica Assoluta resta quello di dedurre da queste
condizioni le norme a cui tutte le forme di attività umana, a qualunque
fine siano volte, debbono conformarsi per essere totalmente buone.
Per tal modo sono determinati i principi o i dati sui quali deve
costruirsi l’Etica Assoluta: le condizioni della vita umana, individuale,
parentale e sociale, proprie dello stato di adattamento perfetto; è
determinato il metodo: la deduzione; ed è posto fuori di contestazione il
fine ultimo clic giustifica le norme così dedotte e dà alla
condotta proposta valore di ottima: la massima FELICITA universale.
Ma restano d ue grandi difflcoltà: una incocrenza, almeno apparente, da
togliere, e una lacuna da colmare. L’incoerenza è questa: Come si
può sostenere che il fine della condotta buona è LA FELICITA, se le norme
di essa condotta devono essere dedotte dalle leggi necessarie della vita
nello stato sociale, e devono valere indipendentemente da ogni
estimazione diretta e individuale del piacere e del dolore ì 0 , in altri
termini, come si risolve l’antitesi tra il fine assunto e il metodo
proposto? La lacuna è la seguente: Le condizioni che si pongono
come proprie della condotta ottima e che la deduzione morale deve
prendere come dati , sono esse possibili, o non esprimono delle esigenze
in tutto o in parte incompatibili fra di loro? Insomma quello stato
finale di adattamento completo sotto tutti i rispetti, nel quale le
condizioni contemplate sono raggiunte, in qual modo e per qual via
può ottenersi ì . L’incocrenza è risolta così: Il fine è la
felicità; ma questa, a mano a mano che la vita si eleva, dipende da
una serie sempre più lunga e complicata di mezzi, ciascuna delle quali deve
essere rag¬ giunta perché sia possibile il fine. Le norme morali
rappresentano la serie più generale e preliminare di mezzi, appunto perchè
costituiscono la serie più lontana dal fine, e quella che deve
essere osservata prima di tutte le altre; la condizione delle altre
condizioni. Ora siccome tutte le attività necessarie alla vita tendono a
diventare una sorgente diretta di piacere, (perchè i piaceri sono
relativi alla struttura e questa si modifica secondo le attività) così le fo
rme di attività morale, appunto perchè necessarie, debbono diventare una
sorgente diretta di piacere. Per tal modo, l’osservanza delle condizioni che
conducono alla FELICITA diventa direttamente piacevole, ed è adempiuta. senza
che essa FELICITA (che rimane il fine [L’analisi e la soluzione di queste
due questioni, le quali si legano per parecchi nessi tra di loro, ma che
per chiarezza bisogna considerare a parte, occupano i Principi di Etica. )
sia lo scopo diretto e immediato della condotta; ossia, (ed è un pensiero
che fa ricordare Aristotele) lo stato di godimento finale
sopraggiunge come una conseguenza, non direttamente voluta nò
chiaramente rappresentata, all’ esercizio delle attività morali divenuto per sè
immediatamente gradevole. La soluzione della seconda difficoltà
derivante dalla lacuna notata, si trova nella conciliazione oggettiva,
tra bene proprio e bene altrui, e nella conciliazione soggettiva, tra
egoismo (GRICE SELF LOVE) e altruismo (GRICE OTHER LOVE), raggiunte per
effetto e della solidarietà crescente tra le condizioni di vita dei
singoli e quelle del tutto, e dello sviluppo concomitante della
simpatia. Colla soluzione di queste due difficoltà Spencer intende dunque
che sia dimostrata la possibilità — dal punto di vista scientifico — e la
legittimità dal punto di vista morale — della sua costruzione; e
con questa dimostrazione il pensiero che informa la trattazione
dell’Etica, è nelle sue linee generali, compiuto. Ed ora, tracciato
il disegno in cui si inquadra Le induzioni dell’Etica, che nella
traduzione francese porta il titolo di Morale de differente peuples,
dall’esame delle diversità di idee e sentimenti morali dei diversi popoli
raccoglie la conferma di alcuni dei principi fondamentali dedotti dalle
leggi della vita nello stato sociale ; e principalmente della estrema
variabilità dei sentimenti morali, e della corrispondenza generale di due
tipi opposti di moralità ai due tipi di coesistenza e CO-OPE- [ la dottrina
particolare che più direttamente ci interessa, diciamo alquanto piii
distintamente di questa. S’è visto come nel pensiero dello Spencer
la condotta ottima sia la condotta pienamente adatta, la condotta che c
orrispon de al limite dell’evoluzione; mentre l e forme di condotta più n _mpnn
lontane da quel limite so no, di molto o di poco, meno adatte, cioè meno
buone; onde la distinzione di Etic Assoluta ed Eftej> Ora si
presentano spontanee due domande: l.° Perchè introduce lo
Spencer, contro il modo comune di comprendere 1’ ufficio dell’ Etica,
questa distinzione t ra Morale Assoluta e Relativa ? Non è forse compito
del l’Etica] CO-OPERArazione CO-OPERAZIONE sociale (tipo militare e tipo
industriale). Le altre quattro parti, Etica della Vita Individuale, ed
Etica della Vita Sociale : la Giustizia, la Beneficenza Negativa e la
Beneficenza Positiva contengono le
dednzioni o applicazioni particolari ; nelle quali, in conformità ai
principi e al metodo accennati, vogliono essere determinate le norme della vita
privata e deila vita pubblica quali risultano rispettivamente dalle
condizioni contemplate dall’ Etica Assoluta e da quelle contemplate dall’
Etica Relativ a. Notiamo subito, benché l’avvertenza debba parer
quasi inutile , che per lo Spencer la parol i fl.v<vofn^o non ha nè può a
vere n ell’Etica un significato metafisi co ; le norme etiche per lui
non hanno ragione di essere all’ infuori dell’ esistenza animata quale
si manifesta fenomenicamente; all’infuori di esseri capaci di pia¬ ceri e
di dolori. quello di stabilire le norme della condotta retta, della
giustizia pura, e, senza curare gli impedimenti e le imperfezioni che i difetti
della natura umana possono ingenerare, presentare il tijoo ideale
di pe rfezione al quale ciascuno deve cercare di avvicinarsi? E se così è. non
ò del tutto oziosa_e viziosa la distinzione? Ammesso che dal punto di
vista speciale di Spencer questa
distinzione sia legittima, non è un fuor d’opera l’Etica Assoluta, dal
momento elle la realtà presente ci dà uno stato di adatta¬ mento
imperfetto, ossia assai diverso da quello che essa
suppone? L’esposizione del pensiero di Spencer intorno alle foie
Etiche mi pare si possa acconciamente raccogliere in due parti, nelle
quali trovi successivamente risposta ciascuna delle due questioni. Cominciamo
dalla prima. Si crede comunemente che si possa determinare un tipo di
condotta assolutamente giusta in condizioni reali di esistenza
imperfetta, mentre questa determinazione non è possibile; e, se
fosse, non darebbe il tipo voluto. Sia nei giudizi dei moralisti, sia nei
discorsi comuni, djie postulati^ sono tacitamente accettati come veri; e
pare infatti che senza di essi non sia possibile giudizio morale,
per- -- Absolute and Relative Ethics. -- che la distinzione stessa
tra atti giusti e atti ingiusti sembra implicarli necessariamente. Sono questi:
Che in ogni caso vi sia un modo di operare assolutamente giusto. Che sia
possibile stabilire quale sia. Ma l’analisi di un gran numero di
azioni dimostra che in casi assai numerosi non è possibile il giusto, ma
soltanto un minimo ingiusto; e in casi pure numerosi non è nemmeno
possibile determinare in che cosa questo minimo ingiusto
consista. Il giusto assoluto esclude del tutto il dnltw che è il
correlativo di qualche specie di male, di qualche divergenza da
quell’adattamento perfetto che soddisfa pienamente a tutte le esigenze
della vita completa. Se il concetto di condotta buona è, in ultima
analisi, il concetto di una condotta che produce in qualche parte un
avanzo di piacere; e di condotta cattiva, che produce un avanzo di
dolore; il bene o il giusto assoluto nella condotta può esser quello soltanto
che produce p iacere pur o, pi acere non misto a dolore di sorta . E
quindi la condotta che produce qualche conseguenza dolorosa ò
parzialmente cattiva, e la forma più elevata che una condotta cosifatta
può raggiungere ò il minimo ingiusto, il giusto relativo. Ora le forme di
adattamento incompleto presentano, più o meno vasto e grave, un doppio difetto
: Discordanza od antitesi fra i tre ordini di fini della vita, per la
quale atti che producono UTILITA o piacere all’ individuo o alla prole
portano danno e dolore agli altri, e viceversa ; e discordanza
anche nello stesso ordine tra fini immediati e mediati, presenti e futuri ; per
la quale 1’azione richiesta dall’ utile avvenire può esser sorgente di
dolore nel presente, o la soddisfazione di un desiderio immediato può impedir
di raggiungere un bene lontano e mediato, o esser causa di un male
futuro. Nella misura in cui queste due specie di incongruenze (le quali
si incrociano e si complicano fra di loro) fanno sentire i loro effetti,
le azioni devono produrre una certa somma di dolore sia sull’agente
sia sugli altri. Ora « finché v’ ò dolore v’è male ; e la condotta che
apporta qualche male non può esser giusta assolutamente. A chiarire
questa distinzione Spencer cita degli esempi di azioni assolutame nte
giuste e di altre solo relativamente giuste. Una madre sana che
allatta un bimbo sano, un padre che, dotato di eccitabilità simpatica,
partecipa ai giuochi del figlio e li guida, sono esempi della prima
specie. Nell’un caso e nell’altro l’azione produce piacere a chi la fa e
a chi la riceve; e aiutando lo sviluppo fisico o quello psichico, o l’uno e
l’altro insieme, è utile al benessere futuro ; cioè produce direttamente e
indirettamente soltanto piacere senza dolore. Del pari imo scambio fatto
di pieno accordo e con soddisfazione e UTILITA RECIPROCA; e gli
atti di BENEVOLENZA di chi fornisce una notizia o un consiglio, o
chiarisce un equivoco, o compone un dissidio tra amici, possono essere
classificati come giusti assolutamente per la medesima ragione. Degl’esempi
addotti da Spencer di azioni solo relativamente giuste, scelgo due che mi
paiono tipici anche per il contrasto che offrono col modo di
giudicare comune: La cura di molti figli cagiona a una madre assai
dolori, ma le sofferenze immediate e le lontane che l’incuria apporterebbe
supererebbero di gran lunga quei dolori. La condotta giudicata buona in
questo caso è quella che produce minor male ; ma non è ottima. È la meno
ingiusta. non 1’ assolutamente giusta. Così 1’ allontanamento dei clienti da un
negoziante che esiga prezzi troppo alti o venda merci scadenti, o
falsi la misura, fa diminuire il suo benessere e forse apporta
danni e dolori ad altre persone a lui congiunte; ma il salvar lui da questi
mali e sopportar quelli che la sua condotta cagiona, produrrebbe un
male assai più grave e generale. L’abbandono è perciò giustificato: ma
l’atto è solo relativamente giusto. Riconosciuta così la verità che
una gran parte della condotta umana non è giusta assoluta-
Burnente, si deve riconoscere l’altra verità che in molti casi non é
possibile stabilire quale sia il minimo ingiusto. É facile trovarne le ragioni,
se si considerano gli effetti che quella stessa discordanza, già
rilevata, tra i fini della vita, deve produrre. V’è un limite fino al
quale é relativamente giusto che un genitore faccia sacrifizio di sè
stesso pel vantaggio dei figli, e v’è un limite oltre il quale
l’abnegazione non può spingersi senza ch’egli apporti non soltanto a sò ma a
tutta la famiglia danni maggiori di quelli che il sacrifizio tende
ad impedire. Chi può dire quale sia questo limite? Dipendendo esso
dalla costituzione e dai bisogni delle persone in causa, non è neppure in
due casi il medesimo, e non può essere per ciascun caso più che una
congettura. Un commerciante che sia travolto nel fallimento d’un suo debitore e
posto nella necessità di fallire egli stesso se non è aiutato, deve
o no domandai^un prestito a un amico? Il prestito potrebbe trarlo dalle
difficoltà, e in questo caso non sarebbe cosa ingiusta verso i suoi
creditori non chiederlo? Ma fors’anco non lo salverebbe, e allora non è
una frode procurarselo? Benché in casi estremi possa esser facile
decidere, come sarebbe possibile in tutti quei casi in cui anche il più
intelligente e competente non può calcolare le probabilità ? Questo
doppio errore del confondere il giusto assoluto col minimo ingiusto, e del
credere che si possa in ogni caso stabilire quale sia, nasce dall’
errore che si commette nel concepire il tipo della condotta, la condotta
dell’ uomo ideale. Si suppone clic l’uomo ideale viva e agisca nelle
condizioni sociali esistenti. Ciò che si cerca determinare è, non quali
sarebbero le sue azioni in circostanze tutte- insieme mutate, ma quali
sarebbero, date le condizioni presenti. E questa ricerca ò vana per due
ragioni: La coesistenza di un uomo perfetto e di una società
imperfetta è impossibile; dato che potessero coesistere, la condotta che ne
seguirebbe non fornirebbe il tipo MORALE MERCATO. In primo luogo, date le
leggi della vita come esse sono, un uomo di natura ideale non può essere
prodotto in una società composta di uomini- che hanno una natura lontana
dall’ ideale. Aspettarsi che tra uomini organicamente immorali nesorga uno
organicamente morale è come aspettarsi di veder nascere tra i Negri un
bambino di tipa inglese. Se non si vuol negare che il carattere dipenda
dalla struttura ereditata, si deve ammettere che in ogni società ciascun
individuo discende da uno stipite, che risalendo a poche generazioni
si ramifica per ogni parte nella società e partecipa della natura
media di questa ; e che quindi, nonostante spiccate differenze individuali,
deve conservarsi una comunanza di natura tale da impedire che un uomo,
qualunque sia, raggiunga un tipo ideale, finché il resto della società
rimane di gran lunga inferiore. In secondo luogo, la condotta
ideale, quale è contemplata dalla teoria morale, non è possibile per
l’uomo ideale in mezzo ad uomini costituiti diversamente. Una persona
assolutamente giusta c perfettamente simpatica non potrebbe vivere
e operare in conformità alla natura sua in una tribù di cannibali.
Tra un popolo perfido e al tutto privo di scrupoli, una intiera veridicità
e franchezza debbono apportare rovina. Se tutti intorno a lui riconóscono solo
la legge del più forte, un uomo la cui natura non gli permetta di
inlliggere dolore agli altri deve soccombere. Fra la condotta di
ciascun membro della società e la condotta degli altri vi deve
essere per necessità una certa congruenza. Un modo di operare interamente
diverso dai modi di operare prevalenti non può continuare con buon
esito, ma deve condurre alla morte dell’ agente, o della sua discendenza,
o di ambedue. Adunque perchè l’uomo ideale possa servire di tipo, egli
deve essere concepito non a sé, senza relazione colle condizioni che sono
necessarie perchè la condotta possa essere giusta, ma in corrispondenza
con queste. L’uomo ideale deve essere considerato come esistente in una società
ideale. Perciò, secondo l’idea di Spencer, il voler, per esempio,
stabilire quale sarebbe la condotta deiruomo ideale quando fosse posto nel
bivio o di farsi gettare sul lastrico colla famiglia, o di mentire alle
sue convinzioni politiche, sarebbe perfettamente vano ; perchè le condizioni
cosi supposte contraddicono a quelle richieste dalla definizione
dell’uomo ideale. In una società ideale, nella quale soltanto può
concepirsi 1’ uomo ideale, non esiste violenza e non esistono abusi ; nè
vi può essere collisione tra i modi di sentire e di operare
richiesti dal bene proprio e della discendenza, e chiesti dal bene
pubblico. Viene in mente, e lo ricordo perchè può servire di
commento al pensiero di Spencer, ma perchè la somiglianza è
significativa, queh^ udjko ^ dei “Promessi Sposi”, nel quale il padre
Cristoforo è invitato a far da giudice in una questione di
cavalleria. Suonava rumorosa la disputa tra i commensali di Don Rodrigo su
questo punto. Se fosse lecito a un cavaliere bastonare il messo che
gli consegna un cartello di sfida senza avergliene chiesto licenza ; e il
padre Cristoforo, chiamato in causa, dopo essersi invano schermito, esce
finalmente in quella sentenza che fa meravigliare, tanto pare fuor
di proposito, tutti quei dialettici della cavaileria. Il mio debole parere
sarebbe clic non vi fossero nò sfide, nè portatori, nè bastonate. Ecco
riconosciuta nel caso particolare l’esigenza fondamentale dell’Etica
Assoluta di Spencer: Non vi può essere condotta giusta finché vi
sono condizioni contrarie alla giustizia. Ma la realtà presente e
viva è appunto così. Oh! questa è grossa, risponde infatti il conte
Attilio. Mi perdoni, padre, ma ò grossa. Si vede che lei non conosce il
mondo. E se è il mondo coni’è quello con cui si ha a fare, 1’ufficio
dell’ Etica non sarà quello di stabilire quale deve essere la condotta nel
mondo reale presente, non in un mondo ideale avvenire? 0, almeno,
non ò inutile, anche ammessa la distinzione Spenceriana, correr dietro al
fantasma di una condotta ottima, adatta a uno stato di perfezione, che
l’evoluzione apporterà, sia pure, ma che per noi non esiste? A
questa seconda domanda risponde la dimostrazione della precedenza necessaria —
nell’ordine della trattazione scientifica — dell’Etica Assoluta sull’ Etica
Relativa. In qualunque ordine di ricerche le verità scientifiche si sono
raggiunte trascurando prima i fattori di perturbazione, che alterano ed
oscurano l’azione dei fattori fondamentali, e tenendo conto
soltanto di questi. Quando la estimazione di questi fattori fondamentali,
non, come si presentano nella realtà, mascherati e complicati di elementi
secondari, ma quali si suppongono idealmente con un processo di
astrazione, ha aperto la via a conoscere e formulare le leggi generali, allora
diventa possibile la estimazione dei casi concreti, tenendo copto dei
fattori accidentali che nella realtà alterano i rapporti i deali
contemplati da quel le leg gi. Ma le leggi generali, le verità fondamentali,
solo per questa via si possono ricercare e scoprire, e solo con
questo procedimento il sapere passa dalla sua forma EMPIRICA alla sua
forma razionale. Per ottenere la formula che esprime il potere
-ifjicfip»tv* della leva s i suppone N una leva che non si pieghi ,
iàz<Jbz ma sia assolutamente/rigid a ; un fulcro che non
abbia, come nella realtà, una certa superficie; e si suppone che la
potenza e la resistenza si esercitino su un punto, invéce che su una
parte più o meno estesa della leva. Del pari la determinazione del
corso di un proiettile si ottiene trascurando dapprima tutte le deviazioni
prodotte dalla sua forma e dalla resistenza dell’ aria. E il medesimo
negli altri casi. St abilite così q u este verità ideali, diventa
possibile tener conto degli elementi dai quali si è fatta astrazione,
delle complicazioni risultanti dall’attrito, dalla plasticità, dalla coesione,
dalla resistenza dell’aria : e ottenere così una determinazione ' Jt- ^
"(VOM, P-O sempre più esattamente approssimata al l'atto
reale. Qui è manifesta la re lazione tra certe verità assolute della
meccanica e certe verità relative che implicano le prime, come è manifesto che
non si possono stabilire scientificamente le verità relative finché
non sieno formulate indipendentemente da queste le verità assolute. Il
che equivale a dire che la scienza meccanica applicala può svilupparsi
soltanto dopo che si è sviluppata la scienza meccanica ideale. Le
medesime considerazioni valgono per la scienza morale. È impossibile
determinare con approssimazione scientifica quale sia, date certe circostanze
reali, il modo di operare meno ingiusto, se non si conosce quale sarebbe
il modo di operare giusto; e questo non si può conoscere se non si
suppongono eliminate tutte le circostanze che lo impediscono o lo limitano
e ne falsano i caratteri ed i risultati: cioè, in breve, se non si
suppongono, scevre da ogni perturbazione, le condizioni
ideali, nelle quali è possibile l’operare assolutamente giusto. A
chiarir meglio questa relazione tra Etica Assoluta ed Etica Relativa lo Spencer
ricorre a un altro esempio di relazione analoga preso dalle scienze
biologiche; la relazione tra la Fisiologia e la Patologia. La Fisiologia, nello
studio degli organi e delle funzioni che combinate costituiscono e
conservano la vita, suppone l’organismo sano e le funzioni sane, non
tenendo conto dei difetti, degli eccessi, delle anomalie di cui si occupa
la Patologia : e questa poi presuppone quella, perchè le idee anche più
rozze intorno alle malattie suppongono idee di stati sani di cui le malattie
sono deviazioni; e la conoscenza degli stati e dei processi anormali e
morbosi può diventare scientifica soltanto quando vi sia già una conoscenza
scientifica di stati e processi non morbosi. Similmeste la morale assoluta
deve precedere laJSl orak ^llclativa; la quale non deve applicare
sic et simpliciter alle condizioni particolari della vita reale le
conclusioni dell’etica Assoluta ; ma riconoscendo ciò che vi è di diverso
nella condotta che corrisponde a uno stadio di vita imperfetta,
deve determinare di quanto essa si allontana dal giusto e come si possa
ottenere, date queste condizioni reali imperfette, la massima
approssimazione al giusto contemplato dall’ Etica Assoluta. Questi
confronti coi quali lo Spencer intendeva illustrare il suo concetto intorno
alla relazione fra le due Etiche e alla priorità logica dell’Etica Assoluta
sull’ Etica Relativa, si direbbe che abbiano servito ad abbuiarlo; e però
non è fuor di luogo qualche breve chiarimento. Dall’esposizione che
precede deve essere apparso, spero, che è per una esigenza inerente alla
natura della ricerca scientifica che Spencer sostiene la necessità che
l’Etica Assoluta prec^g la Relativa; lì e appunto por chiarire questa
precedenza necessaria egli cita l’esempio della precedenza analoga della
Meccanica Razionale rispetto alla Meccanica Applicata, e della Fisiologia
Normale rispetto alla Fisiologia Fatologica. Nel pensiero di Spencer
la priorità dell’ Etica Assoluta non è che l’applicazione a un
campo particolare di ricerche di un suo criterio metodico generale; del quale
egli trova la conferma in tutte le scienze, che hanno superato lo
stadio empirico. Il paragone non è dunque, propriamente, tra la sua Etica
Assoluta e la Meccanica Razionale o la Fisiologia Normale, nè tra la
sua Etica Relativa e la Meccanica applicata o la Fisiologia Patologica;
non è, voglio dire, di quelle scienze pure tra di loro, o di queste
scienze applicate tra di loro ; ma è paragone tra le loro relazioni. E il
significato del confronto è questo : che tra le due Etiche, come le
concepisce lo Spencer, corre una relazione analoga a quella che
intercede rispettivamente tra le due Meccaniche (diciamo così) e
tra le due Fisiologie. E in questo senso che il paragone deve essere
inteso ; e in questo senso è appropriato. Perciò, quando la critica
obietta che l’Etica ha caratteri ed esigenze diverse dalla Meccanica e
dalla Fisiologia, può essere che abbia ragione, ma interpreta il confronto
in un senso diverso da quello voluto da Spencer. Perchè il concetto, per
il quale il paragone è assunto è, nella sua espressione più
semplice, questo: che anche per l’Etica la soluzione scientifica o
scientificamente approssimata dei problemi più complessi richiede la
soluzione dei problemi più semplici. Il paragone non deve dunque
essere staccato da questo concetto e preso con una significazione
diversa; altrimenti si fraintende e paragone e concetto ; e rimane
oscurato uno dei punti più importanti della dottrina particolare ora
esposta. La quale non ebbe mai molta fortuna nò presso i fautori di
una morale scientifica, nè presso gli avversari. Questi, preoccupati forse
in generale dal pensiero di mostrare la insufficienza
dell’indirizzo naturalistico, hanno veduto nella dottrina delle due
Etiche (illustrata da quei confronti!) sopratutto una figliazione del
concetto meccanistico, e f’hanno combattuta in nome delle esigenze della
Morale; quelli hanno notato nella affermata necessità di
costruire un’Etica Assoluta, una contraddizione colla
teoria dell’evoluzione, e col principio della relatività della morale
e del diritto: e l’hanno combattuta in nome delle esigenze della scienza.
Gl’uni e gl’altri hanno considerato la dottrina particolare unicamente
in relazione colla dottrina generale colla quale si presentava connessa,
senza badare alle ragioni che la possono legittimare all’infuori del
sistema e della forma speciale di applicazione che in esso ha
trovato. La pregiudiziale dell’imperativo categorico. La dottrina
esposta traccia il piano che Spencer si è proposto di seguire per soddisfare al
compito da lui assegnato all’Etica: quello di determinare,
scientificamente le norme della condotta morale.] Ma già intorno a questo
modo di intendere l’ufficio dell’Etica incalzano lejtifficoltà e le
obbiezioni; le quali devono essere, almeno nel loro contenuto
sostanziale, esaminate. Perchè, se non si riconosce la legittimità del
suo concetto sull’ufficio dell’Etica è vano discutere della possibilità e
legittimità del piano proposto per attuarlo. L’esame critico si distingue
perciò naturalmente in due parti; delle quali la prima potrebbe
dirsi critica preliminare. L’Etica può, o non può, essere scienza
normativa? Ecco una prima questione pregiudiziale, che, a giudizio di un
profano, (solamente dei profani?) potrebbe dare un’idea poco lusinghiera dei
progressi e dei frutti della speculazione morale. L’opinione se non
universalmente, certo generalmente. dominante è che non possa. L’opinione
dominante par che si chiuda in questa alternativa: l’etica o è scienza, e
non è più normativa; o ò normativa, e non è più scienza. La ragione
dell’antitesi, che così si pone, tra le esigenze della scienza e le
esigenze della morale, è nota. Dicono i puri moralisti. Una morale che
non dia alla norma carattere di obbligatorietà non può essere vera
morale; e darle obbligatorietà assoluta non si può senza uscire dal campo
della scienza. Nel latto, una condotta che si ponga scientificamente come
morale, è obbligatoria soltanto se si accetta il fine, al quale è ordinata
la norma; cioè è obbligatoria ipoteticamente, non categoricamente. E se non c’è
imperat ivo categorico, non c’è m orale. E i puri scienziati
rincalzan. La scienza è scienza delle cose e dei latti come sonq e non
come dovrebbero essere. Si può cercare quali sono i caratteri e i
fattori, la formazione e le trasformazioni dei modi di operare, dei
sentimenti delle credenze distinti come morali; si potrà anche, tracciati
i lineamenti generali del processo di formazione, argomentare
induttivamente una possibile evoluzione ulteriore con qualche probabilità;
ma la scienza non sa di bene e di male; cerca ciò ciò che è; tenta di
prevedere, se le riesce, quel che sarà; dimostrando che certi effetti
dipendono da certe condizioni, ci fa capire che se vogliamo gli effetti
dobbiamo volere quelle condizioni, ma non può obbligare nè à volerle nè a
disvolerle. Gli uni e gii altri, accordandosi nell’ammettere
che la scienza non possa dare un imperativo categorico, par che ammettano
esplicitamente o implicitamente che la morale debba o possa essere una
dottrina che determina la norma obbligatoria, ossia una teoria da cui si
ricava il dovere. Ora. se hanno ragione nell’ ammettere la prima
cosa, hanno torto di supporre la seconda ; hanno torto di credere
che compito dell’Etica possa essere quello di dimostrare
l’obbligatorietà, e di supporre che una dottrina religiosa o metafisica
possa fondare quel che riconoscono non poter essere fondato da una
dottrina puramente scientifica; possa fondare il “tu devi” — “tu
devi” è un giudizio di constatazione e non può essere altro. Dicendo « tu devi
» io non posso intendere che l’una o l’altra di queste due cose: o
« tu senti dentro di te qualchecosa che [ Ho già mostrato altrove,
in un capitolo rivolto direttamente a questo esame (Prolegomeni a una morale
distinta dalla metafisica, Pavia, Bizzoni) come e perchè sia
perfettamente va no e illusorio credere che da una costruzione , teorica
l sojjmtificn n no. nossa ricavarsi in qualsiasi modo una norma
obbligatoria , se l’obbligatorietà non è già per altra via data o assunta
o supposta; e come nasca e si mantenga 1’illusione, e lo sforzo di
credere che non è un’ illusione. Ma 1’ argomento è di capitale importanza
; e , del resto, la breve trattazione che segue, benché concluda il medesimo,
è fatta da un punto di vista diverso. ti spinge, senti di essere
obbligato a non fare o a fare; oppure quest’altra: c’è una volontà
cbe ha il potere di obbligarti. Nel primo caso si fa appello alla
coscienza ; a uno stato o a un fatto di coscienza che esiste o si suppone
che esista ; nel secondo caso si fa appello a un potere, che parimenti o
esiste o si ammette che esista. Ma nell’uno e nell’ altro caso nessuno
sforzo dialettico può ricavare l’obbligo dalla natura della cosa
comandata o proibita; nessuna costruzione dottrinale può far
esistere, se non esiste già, nò quel fatto di coscienza, nè questo
potere. Si dirà che v’è un altro senso. È vero; ma un senso
improprio. “Tu devi” può voler dire: È giusto che tu faccia; è giusto che
ti senta obbligato a fare, o che ci sia chi ti obbliga. Ma se vuol dir
questo, l’espressione è equivoca. Che sia giusto il fare e che sia giusto
l’obbligo di fare (quando questo fare sia già sentito come un obbligo) si
raccoglie d al contenu to, non dal tono del comando: e non basta a porre
l’obbligo, lo giustifica dato die ci sia, e potrà far desiderare che
esista, dato che non ci sia. Ma porre le ragioni che giustificano
l’obbligo, non è porre in essere la forza o il potere o l’impulso (con
qualunque nome si chiami) che obbliga. Ed è così vero che le due
cose .sono diverse e non confondibili tra di loro, che non si può
ridurre 1’una all’altra senza togliere una delle due. Non si può derivare
l’obbligo dalle ragioni che giustificano la norma, senza riconoscere che
l’obbligo vale solamente in quanto valgono queste ragioni; fcioè senza
assegnargli un valore ipotetico, non più CATEGORICO. Nè si può ricavare la
giustificazione della norma dall’obbligo categorico, senza riconoscere che la
norma vale so lo i n quanto esiste l’obbli go; ossia senza negare
qualsivoglia giustificazione, cioè riconoscere che il contenuto della norma non
avrebbe nessun valore se l’obbligo mancasse. Gli è che quando si
dice essere il dovere condizione necessaria della morale, si scambia
la morale colla moralità, la norma colla conformità alla norma. Ma
l’obbligo riguarda l’osservanza, <*/J» non ] a determinazione della
norma. Ora, che dell’osservanza della norma sia condizione necessaria e
caratteristica il dovere, è cosa che potrà o non potrà ammettersi, ma ha
ad ogni modo un senso; che sia essenziale alla determinazione della
norma, non è neppure discutibile, perchè non ha senso. Sarebbe come dire
che è essenziale alla costruzione della scienza medica l’obbligo di
prendere le medicine. È verissimo che sarebbero perfettamente inutili le
prescrizioni mediche se non si supponesse che vengano osservate ; ma è
non meno vero che l’obbligo di osservarle, posto che ci fosse, non
muterebbe in nulla il contenuto e il valore delle prescrizioni. L’obbedienza
del cliente non muta la scienza del medico. E le condizioni da cui
dipende l’osservanza sono così distinte dalle ragioni che
giustificano una norma , che fi ufficio di tutte le scienze precettive si
fa consistere nel cercare e determinare le relazioni tra certi mezzi e un
certo fine, nella supposizione che il fine sia voluto, e ai- fi
infuori da ogni preoccupazione che riguardi la reale esistenza ed
efficacia del desiderio o dell’ obbligo di conseguirlo. Il che si vede manifestissimamente
in una scienza precettiva, che, a rigore, costituisce un capitolo dell’etica
; nella quale la questione dell’ osservanza delle norme (e dell’ obbligo
di questa osservanza) è rimasta perfettamente distinta dalla questione
della ricerca e della determinazione delle norme; forse appunto perchè fu
considerata e trattata indipendentemente dalla morale; voglio dire nell’igiene.
Dove a nessuno viene in mente di pretendere' che sia una condizione
della legittimità o del valore delle norme dettate da lei, questa:
che il conformarsi ad esse sia sentito com e un d over e. E se accade,
come può accadere in effetto, che l’osservanza di qualcuno dei suoi precetti
sia già tenuto come un dovere, il riconoscere che questo precetto è
ordinato a un fine, al quale si dà valore di bene, fa che fi obbligo
stesso appaia giusto. Ma in questo caso è facile vedere che la
giustificazione dell’ obbligo riesce in ultimo a questo: a dare un valore
ipotetico all’ obbligo categorico; cioè à dimostrare che sarebbe bene osservare
il precetto, anche se non ci fosse l’obbligo. Ora lo stesso vale, nè più
nè meno, per la morale. Altro è cercare quali siano le norme da osservare per
raggiungere un certo ordine di effetti (quello che la morale ponga come
fine) e altro è cercare da quali condizioni dipenda che l’osservare
queste norme possa essere sentito e posto come un dovere. E l’importanza
che questo secondo problema può avere non toglie che esso sia diverso e
debba essere distinto dal primo. La pregiudiziale dell’obbligo categorico
non tocca dunque la c ostruzione dottrinale delle norm e; in primo
luogo perchè l’obbligo categorico si constata o si assume, e non si
dimostra, nè si ricava da una dottrina qualsiasi. In secondo luogo perchè
se si intende, come si intende in effetto, che 1’ Etica deve dare
non V obbligo, ma la giustificazione dell’obbligo, questa giustificazione non
può consistere che nel mostrare come la norma abbia valore anche
indipendentemente dall’ obbligo ; cioè che sarebbe bene o sarebbe giusto
conformarsi ad essa anche se il conformarsi non fosse sentito come
un dovere indiscutibile. Ossia, poiché dimostrare il valore di una norma
vuol dire mostrar la derivazione di una norma da un fine a cui sia riconosciuto
quel valore, giustificare 1’ obbligo viene a dire derivare la norma da un
fine, il cui valore si ammetta non dipendere dall’ esistenza dell’
obbligo, e al quale perciò rimane del tutto estranea la considerazione
dell’obbligo e delle condizioni che lo rendono possibile. La
caratteristi ca di una dottrina etica no n sta dunque nell’
obbligatorietà, ma sta nel valore d el fine che si assume. Ed eccoci alla
vera ed j unica differenza tra 1’ Etica e le altre costruzioni
precettive; che è questa. Qualsivoglia scienza precettiva si riduce a un
sistema di relazioni e di leggi che hanno valore di norme da seguire per
chi si propone come fine quell’ effetto o quell’ ordine di
effetti, del quale esse leggi esprimono le condizioni $ ed i
fattori ; cioè suppone la desiderabilità che dà valore di fine a
quell’effetto; ma non pretende nè che questa desiderabilità sia
riconosciuta universalmente, nè che essa sia, pure universalmente, riconosciuta
come superiore e preminente rispetto a quella di qualsiasi altro fine. Ma
questo appunto [Sono lieto di notare che in “Ethics, a science”, Philosophical
Review, McGilvary insiste sul concetto, clip è conforme a quel che ho
sostenuto e sostengo, che 1’Etica, come scienza, è indicativa non
imperativa. Senonchè, per un verso, non si capisce dall’ articolo se egli
ammetta o escluda il medesimo di qualsivoglia costruzione dottrinale; per
l’altro, egli non tien conto di quella differenza, nella quale consiste a
mio giudizio la earatteristica dell’etica. pretende l’etica. Onde il
compito dell’etica si specifica in due punti, di cui il primo segna la
sua caratteristica: l.° cercare se vi sia e quale sia l’effetto o
l’ordine di effetti che possa avere un tal valore, cioè il fine del quale
possa essere ammessa la UNIVERSALE DESIDERABILITA sopra ogni altro,
determinare le condizioni e i fattori da cui quell’ effetto dipende. E, nel
supposto che dipenda dall’azione umana individuale e collettiva,
determinare la condotta, ossia le norme dell’operare, corrispondente. Se
il fine di cui può essera assunta questa universale e preminente desiderabilità
è umanamente possibile, cioè tale che se ne riconosca possibile il
raggiungimento senza assumere o postulare nessun intervento sopranaturale
e sopraumano, la costruzione etica sarà scientifica; se no, sarà religiosa
o metafisica. E quindi il problema della possibilità di un’Etica
scientifica assume questa forma: se si possa assegnare un fine,
naturalmente cioè umanamente possibile, al quale sia riconosciuto un
valore superiore a ogni altro fine. La determinazione delle norme morali
sarebbe data dalle relazioni trovate o da trovarsi tra quel fine e la
condotta individuale e collettiva da essa richiesta. Ed eccoci a una
seconda questione pregiudiziale. Non è improbabile che qualche
lettore trovi que sto modo di porre il problema intorno al co mpito
dell’Etica , antiqua to e fuori della realtà. Sento dirmi. Nella realtà
il compito dell’etica è concepito e proseguito in modo assai diversp
anzi opposto. Le n prme della condotta morale sono già d ate e
conosc iute. Ciò è tanto vero, che sulla determinazione concreta dei precetti
particolari, di quelli che si chiamano “doveri” e che si raccolgono
nella parte comunemente chiamata Morale Speciale, non cadono
sostanzialmente dubbi o contestazioni, e i filosofi della morale ne
sdegnano quasi la trattazione o ne danno soltanto le linee generali.
Nella realtà dunque l’indagine morale non ha per iscopo di cercare
e determinare le norme ricavandole da un certo fine; ma di costruire la
sistemazione teorica di un codice di condotta già dato, raccogliendo e
unificando le norme particolari in una norma generale, della quale si cerca
quale possa essere la giustificazione; anche se la costruzione
induttivamente così ottenuta rivesta poi l’apparenza logica di una
costruzione deduttiva. Quindi è antiscientifico e inutile andar cercando fuori
della realtà, nel campo di una possibilità, ipotetica, un fine — poniamo
pure che sia possibile trovarlo — il quale risponda a quelle esigenze, per
il gusto di ricavarne delle norme. Le quali, o si accorderanno con
quelle riconosciute in effetto e vigenti come morali, o
discorderanno. Se si accordano, ciò vuol dire che la pretesa derivazione
deduttiva delle norme da quel fine nasconde una reale derivazione
induttiva del fine dalle norme; se discordano, questa discordanza viene a
dimostrare l’inutilità, a dir poco, di norme elle contrastano con quelle
riconosciute e accettate, e a far respingere come non morali o utopistiche
le norme e il fine dal quale sono ricavate. Io non ho difficoltà a riconoscere
che i due indirizzi prevalenti nella speculazione morale contemporanea—
l’indirizzo sociologico-storico. e l’indirizzo idealistico-prammatistico — si
accordano fondamentalmente nel respingere le costruzioni etiche razionali
o pure, e nell’assumere come punto di partenza legittimo la realtà dei dati
morali ; dei quali l’uno considera principalmente l’aspetto
esterno, sociale, e l’altro l’aspetto interno, psicologico. Ma noto
subito che la novità nel punto di partenza e nel processo di costruzione,
è soltanto apparente; o, per essere più esatto, la novità consiste nel- [Adagio però anche con questa
novità. Perchè, almeno quanto al riconoscere esplicitamente la
legittimità del procedimento regressivo, all’ invertire deliberatamente la
costruzione morale, Kant avrebbe de’ diritti d’autore da
rivendicare. l’assumere la legittimità di un procedimento, che
inconsapevolmente domina in generale la speculazione etica, e che si scorge più
evidente in quei sistemi i quali hanno raccolto rispettivamente nei diversi
tempi e luoghi più largo consenso; (consenso non verbale, si intende, ma
reale). In altri termini non si fa che seguire in modo consapevole e
riflesso quella stessa tendenza e preoccupazione, a cui ha obbedito
in generale la speculazione morale, almeno nella forma riconosciuta
rispettivamente nei diversi tempi come ortodossa, o retta, o sana che si
voglia dire; la preoccupaziono di giustificare, il modo di operare,
di sentire e di giudicare già tenuto come buono. Ora il rendersi conto
che la costruzione etica — sotto l’apparenza logica di una
deduzione progressiva di certi precetti particolari da una norma generale
e di questa da un fine posto come supremo — fu sempre, in sostanza,
regressiva (dai precetti particolari alla norma' generale e da questa
ai principi che la giustificano), segna certamente un progresso e un
acquisto quanto alla conoscenza del processo reale storico e psicologico
di formazione dei sistemi morali. Ma altro è conoscere quale sia
stato il processo realmente seguito, altro ò affermare la legittimità del
processo. Certo sarebbe un fortissimo argomento di probabilità, se avesse fatto
buona prova. Ma se si guarda ai risultati, vien fatto piuttosto di
pensare il contrario; di pensare, che la speculazione morale sia viziata nelle
origini appunto dal preconcetto che la domina e dal procedimento
che il preconcetto suggerisce. Ed è da questo preconcetto che nasce, a mio
giudizio, così il diletto della soluzione a cui riesce l’indirizzo
sociologico, come di quella a cui fa capo l’indirizzo
prammatistico. In primo luogo importa notare che ambedue gli indirizzi,
appunto perchè hanno comune il presupposto che compito dell’Etica sia
quello di unificare le norme già date, risalendo da esse ai
principi o ai postulati, sembrano ammettere questi due punti. Che le
norme morali siano già tutte conosciute e determinate, o che dalle norme
conosciute si ricavi il criterio per quelle non determinate. Che le norme date
siano fra di loro concordanti o compatibili, o almeno non in contraddizione
l’una coll’altra. Ora nè 1’ una nè l’altra di queste condizioni si
avvera nel fatto. E prima di tutto non è esatto che le norme
della condotta siano già date e conosciute. Anche se Spencer ha torto,
come io credo e si vedrà più innanzi, di assumere a criterio del giusto
l’adattamento perfetto o il piacere puro, ha ragione nel sostenere che in
un gran numero di casi la coscienza non ci dice quale sia il modo di
operare giusto o approssimativamente meno ingiusto. Ma, oltre ai casi
del genere di quelli citati da lui, (nei quali si potrebbe dire, che se
non riusciamo a determinare quale sia la migliore applicazione del
criterio, sappiamo però quale sia il criterio da usare) vi sono sfere
intere di azioni, per le quali la coscienza non saprebbe suggerirci una
scelta sicura, e per le quali non ci dice, come per altre, non è giusto o
è giusto. Difenderò io il divorzio o lo combatterò? Approverò o non
approverò l’allargamento del suffragio politico? Sarò conservatoreoliberale,
monarchico o repubblicano, individualista o socialista, liberista o
protezionista? In quali circostanze ed entro quali limiti seguirò l’uno o
l’altro indirizzo? Non serve rispondere che ciascuno deve operare
in queste materie secondo la propria coscienza. Si tratta di sapere
come una coscienza onesta deve operare perchè alla bontà delle intenzioni
(che è presupposta) corrisponda la bontà degli effetti. E abbandonando
questo giudizio alla coscienza individuale si riconosce o che possono
coesistere criteri morali diversi, o che lo stesso criterio morale
può legittimare ugualmente modi di operare opposti, o finalmente
che quelle parti della condotta escono dal campo della morale. Ma se
possono legittimamente coesistere per certe parti della condotta criteri
morali opposti, quale sarà il criterio superiore che serve a decidere
fra questi criteri contrastanti? o altrimenti, perchè non si ammette
che possano del pari legittimamente coesistere criteri contrastanti anche
per le altre parti della condotta? Se poi lo stesso criterio morale
può legittimare due modi di operare opposti, ciò non può essere che per
mancanza di determinazione delle circostanze; e prova in ogni modo che le
norme particolari della condotta morale non sono tutte determinate e
conosciute. E se finalmente quelle parti della condotta escono dal campo
della morale, quale norma suprema è mai quella che non ha nulla da
dire intorno a una parte così grande dell’operare, come è, per esempio,
tutta la condotta politica dell’individuo e della società? Si dirà che per
questa parte, per la quale le norme non sono date, il criterio si ricava
de quelle già date e accettate come morali? Urtiamo in una seconda
difficoltà. Per ricavare dalle norme già date il criterio cercato, per
unificarle cioè in una norma più generale, occorre che le norme date
concordino fra di loro, che in tutte si possa riconoscere appunto
questa unità di criterio. Ora, tralasciando pure di insistere, perchè è
cosa troppo nota, sull’antitesi fondamentale esistente tra le norme di
condotta che valgono come morali rispettivamente nelle condizioni di pace
e di guerra, o sui contrasti, tragici talvolta, tra i doveri famigliari e
i doveri sociali, bisogna osservare che le norme date e accettate come morali
possono contemplare e contemplano realmente, almeno in parte, delle relazioni,
direi, secondarie, le quali esistono e sono possibili in grazia di
relazioni primarie e fondamentali, che le norme non contemplano e che
sono la negazione del criterio applicato in quelle norme. Mi sia
lecito spiegarmi con un esempio ipotetico assai semplice. Se si
suppone che un uomo sia saltato sulle spalle di un altro e si faccia
portare da lui, v’è luogo a cercare quale sia la posizione migliore per
il portante e per il portato; sia quella, poniamo, la quale concilia la
minima fatica del primo col minimo disagio del secondo. Il criterio seguito qu
i è un criterio d i equit à; si riconosce cioè che non sarebbe o
giusto, o buono o utile per nessuno dei due, il pretendere tutte le
comodità per sè senza tenere in conto le comodità dell’altro. Ma se
questo criterio (seguito nello stabilire la condotta migliore, data,
quella condizione diversa dei due) fosse applicato a determinare la relazione
tra i due, prima che siano divenuti rispettivamente portatore e portato,
questa condizione sparirebbe, e ciascuno camminerebbe colle sue gambe. Ossia
la norma morale regola nel caso supposto un rapporto che non esisterebbe se
essa fosse applicata al sorgere di quel rapporto. E può avverarsi, così,
delle norme morali qualchecosa di analogo a quel che racconta di sé Senofonte,
che all’oracolo chiedeva quale via dovesse tenere per giungere più felicemente
in Asia, guardandosi bene dal chiedere prima se era bene o male che
andasse. Un sociologo potrebbe stringersi nelle spalle e osservare
che è colla realtà data che bisogna fare i conti, e che è ozioso andar
cercando come sarebbe giusto che essa fosse; non resta che
acconciarvisi alla meno peggio. Vedremo ora come questa posizione di puro
adattamento passivo sia, per forza stessa della realtà, che diviene e
muta, insostenibile: ma ò opportuno notar subito che quando si renda
palese un contrasto del genere notato, colla consapevolezza di questo
contrasto è inevitabile che nasca nella coscienza morale l’aspirazione a
una realtà diversa; e quindi l’aspirazione o a modificare la realtà se
essa appare mutabile, o a cercare la ragione della giustizia fuori della
realtà. Queste lacune e queste incongruenze delle norme in effetto
vigenti come morali in un dato tempo e luogo, dimostrano intanto due
cose: che, quale sia la condotta migliore in un determinato momento
storico, non è una semplice constatazione da fare, ma è un problema da
risolvere ; e un problema assai più difficile e complicato di quel che
possa apparire e si sia abituati a considerarlo; e che in ogni caso
è necessario assumere un criterio il quale valga come guida a colmare le
lacune, e a risol¬ vere o giustificare le incoerenze. Ma un
criterio, comunque assunto, a cui si attribuisca questo ufficio e questo
valore, è un criterio alla stregua del quale devono essere valutate anche
le norme particolari già riconosciute come certe, poiché deve valere per
tutta la condotta. E ciò viene a dire che il processo di determinazione
di tutte lo norme si deve fondare sul criterio assunto, allo stesso
modo che se le norme si dovessero tutte determinare ex novo,
astrazion fatta e indipendentemente dalle norme in effetto già accettate
e seguite. (Il che del resto è precisamente quello che avviene in
tutte le scienze precettive; dove, se anche i precetti scientificamente
stabiliti si trovano a coincidere coi precetti empiricamente seguiti, la
determinazione scientifica procede come se spettasse ad essa di determinarli e
giustificarli). E allora il problema torna ad essere quello del criterio
che deve essere assunto. Ora il criterio che l’indirizzo
sociologico suggerisce è, come è noto, — e conforme al concetto , che
esso pone in evidenza, della relatività della morale e del diritto — la
corrispondenza alle esigenze sociali del momento storico che si
considera. Il codice morale di un dato tempo e luogo delinca la forma di
condotta richiesta dalle condizioni dell’esistenza sociale in quel tempo e
luogo, e trova in esso la sua giustificazione. A nessuno può
venire in mente di negare la reale ed effettiva dipendenza delle norme
morali dalle esigenze della vita sociale. Ma se queste esigenze possono
spiegare come si sia formato storicamente e psicologicamente il codice di
condotta correlativo finché sono inconsapevolmente identificate colle esigenze
della coscienza morale, esse non bastano più, neppure a determinare quale
sia la condotta adatta in un certo momento storico, una volta che
siano assunte come criterio riflesso e consapevolmente seguito; non
bastano, tranne che in un caso: nel caso che le condizioni di esistenza,
da cui quelle esigenze emergono, siano considerate come immutabili o come
assolutamente sottratte ad ogni azione od efficacia che possa
esercitare su di esse la condotta umana , individuale e collettiva. Perchè
quando intervenga la consapevolezza di una possibile efficacia
modificatrice della condotta umana sulle condizioni sociali e sulle
esigenze che ne nascono, allora entra di necessità nella valutazione
della condotta la considerazione di questa efficacia; la quale, richiede
il confronto tra lo stato presente e uno stato futuro, tra uno
stato reale e uno stato possibile. E la ragione della scelta tra i due
non può essere data dalla realtà dello stato presente, ma dalla diversa
desiderabilità dei due stati messi a confronto; e quindi non soltanto
dalle esigenze dello stato reale, ma anche da quelle dello stato
possibile o creduto tale. Per conseguenza, condotta buona apparirà non quella
semplicemente che è richiesta dalle condizioni di fatto, ma quella che,
nei limiti imposti dalle condizioni reali, tenda a modificarla nella
direzione segnata dallo stato più desiderabile. Soltanto in un
caso, puramente teorico, la condotta tracciata in conformità con questo
criterio, coinciderebbe colla pura e semplice corrispondenza alla realtà
delle condizioni fiate; nel caso che lo stato reale presente apparisse
universalmente e sotto ogni rispetto più desiderabile di ogni altro. Ma anche
in questo caso la valutazione è data dalla desiderabilità, non dalla
realtà. Insomma, altro è comprendere che una forma di condotta
è conforme a certe condizioni, altro è [Di qui si vede quanto sia abusiva
l’espressione comunemente ripetuta, sopratutto dai seguaci più rigidi del
materialismo storico, che la condotta giusta è ad ogni momento quella che
è resa necessaria dalle condizioni del momento; i quali poi sono spesso
ardenti e anche non di rado generosi fautori e propugnatori di riforme
e di innovazioni anche radicalissime nelle condizioni e nella struttura
stessa della società. Sento 1’obbiezione. Gli è che noi prevediamo necessario e
inevitabile il mutamento in quella direzione, e ci affatichiamo , come la
levatrice , a rendere meno doloroso il parto del futuro dai fianchi del
presente. Lasciamo, per restare nella metafora, che altro è voler
agevolare il parto e altro voler affrettarlo. Ma, insomma, vi
affatichereste voi a prepararlo, questo futuro, se non vi apparisse
desiderabile in confronto del presente? E che (iosa vuol dire render meno
doloroso il parto, se non apprestare con un intervento consapevole e riflesso
certe condizioni che altrimenti non si realizzerebbero ? Adunque
l’apprestare queste condizioni , pensate che sia desiderabile e possa dipendere
dall’opera vostra; cioè nel giudicare ciò che è giusto, sovrapponete,
almeno per questa parte, il criterio della desiderabilità a quello della
obiettiva ed esteriore necessità. Cosi la condotta corregge la
dottrina. Gran.... ist alle Theorie— Und grilli des Lébeus goldner Baiati].
aver coscienza della bontà di quella condotta; la quale non può
nascere che dalla coscienza della bontà di un fine a cui la condotta ò, o
si crede che sia, ordinata; altra cosa è la necessità di certe
condizioni, altra è la loro desiderabilità; altra cosa è la spiegazione
storica, e altra la giustificazione etica. Di questa esigenza di una
giustificazione, alla quale, una volta che sia sorto il lavorìo riflesso
della comparazione e della critica, nessuna costruzione etica può
sottrarsi, si preoccupa invece il nuovo prnmmnt.iid.ico. il cui presente successo
si deve, come credo, in gran parte, alla insu fficienza d el rel ativismo
sociologico e storico nel campo della morale. Esso è in sostanza,
come è noto, un ritorno alla metafìsica in nome delle esigenze
pratiche; la affermazione del diritto di ciedere alì’ esistenza reale di quelle
condizioni che si pongano come necessarie a dare un fondamento oggettivo
al valore delle norme e dei motivi morali. In questa reazione a difesa
della fede il nuovo idealismo, fatto audace cìàPfavore delle circostanze
e dalla debolezza degli avversari, è passato, come accade, dalla
difensiva alla offensiva; e non solo afferma la legittimità del proprio
indirizzo nel campo della morale e della religione, o, come si dice,
nel campo dei valori pratici; ma anche nel campo della scienza, o d
ei valori teoretici ; pretendendo che in ultimo anche il sapere
teoretico, benché non se ne accorga o si dia l’aria di non accorgersene,
non abbia altra ragione per giustificare i principi e i postulati che assume a
fondamento delle sue interpretazioni dei fatti e delle leggi particolari, se
non una ragione di convenienza ; il valore che quei principi hanno
come mezzi per la sistemazione del sapere, cioè in ultimo per la
soddisfazione di un bisogno speculativo. Qui non è il luogo di
discutere ciò che nella dottrina ci può essere di vero — più come
intuizione di un aspetto trascurato della realtà psicologica, che come
legittimazione di un metodo — per quel che riguarda la ricerca scientifica;
la con- [Però non posso fare a meno di notare l'equivoco che, a mio
giudizio, si nasconde sotto la pretesa analogia tra la ragione che
legittima i principi teorici, e la ragione che il prammatismo invoca a
legittimare i principi pratici. L’equivoco è questo: E verissimo che 1’ im rva
Ira tura d<jl sanerò teor ico (a proposito, si può parlare di un
sapere non teorico?) è ìjj^tgriali, diciamo cosi,
grovvisori^dijmstulati^e^dijmtesi che si assumono perditi e in quanto
possono servire. Ma servire a che? A unificare e sistemare le cognizioni delle
cose dei fatti e dei rapporti come nono n on come desideriamo che nan o ;
a costruire non quella verità che piace a noi di ammettere, ma la verità
senz’ altro, sia o non sia conforme ai nostri desideri e ai nostri
capricci. Perchè il bisogno teoretico o scientifico è appunto il bi sogno
di .salier e le cose che s^no jejxmejsono, e non che desideriamo e come
le desideriamo. E qualunque sia il senso che noi diamo all’espressione come
sono esso è sempre distinto e diverso da quello che può aver 1’espressione come
desideriamo che sieno. Perciò non è il caso di ripetere qui, sotto veste
gnoseologica, la domanda di Pilato. Perchè quando si parla, per es.,
delle leggi di gravità, si può bensì sostesidero nel campo della morale, c
soltanto rispetto ali’argomento che ci riguarda. Per questo rispetto la
soluzione che essa dà del problema della giustificazione etica, non dilferisce
sostanzialmente dalle altre soluzioni di carattere metafisico, se non
per il fondamento. A proposito del quale, siccome, se anche se ne
ammetta la validità, questa non toglie il difetto che nasce dal
'carattere metafisico della soluzione, mi accontento di osservare, per
quelli che credono di sfuggire per questa via all’utilitarismo, che essa
conduce a una forma, mistica se si vuole, ma ad una forma di utilitarismo
; anzi alla forma estrema e più radicale: la valutazione delle
stesse credenze metafisiche e religiose dal punto di vista di un
interesse umano ; sia pure questo interesse il massimo, il termine di
confronto di tutti gli altri. Perchè conduce a considerare la credenza
come un sostegno della moralità, ossia in ultima analisi come un mezzo
pedagogico. E non nere che questo è un modo nostro di formulare e
unificare i fatti ; ma i fatti sono quelli, e a nessuno viene in mente di
pensare che noi li crediamo veri perchè abbiamo bisogno di reggerci in
piedi. E anche chi ammette che 1’ acqua sia stata fatta a posta per
cavarci la sete, sa benissimo (diamine !) che altro è dire che in un
pozzo c’ è dell’ acqua, e altro dire che hanno sete quei che vi guardano
dentro. Di questa indebita intrusione di argomenti gnoseologici in que¬
stioni scientifiche, (fisiche ecc.) tratta esaurientemente, con profondità e
con chiarezza, c ome suole, VARISCO (V. in particolare: Introduzione alla
filosofia naturale, e Studi di filosofia naturale).] è escluso il dubbio che, a
questo modo, proprio nel mentre ehe si pone il valore della credenza, si
venga a togliere valore all’oggetto della credenza. Venendo ora al
nostro argomento, è certo che l a soluzione del prammatism o, come in
genere le altre soluzioni di carattere metafisico, soddisfa a
quella esigenza della giustificazione etica, alla quale non soddisfa il
relativismo storico. Ma aneli’essa presenta — dico all’infuori da ogni contesa
sulla legittimità del fondamento e sulla validità teoretica dei principi e dei
postulati ammessi — il difetto capitale delle costruzioni
metafisiche. Ed è che il fine di ordine sopranaturale cosi postulato, non
può servire a determinare le norme. Non può servire, per la ragione perentoria
che la relazione tra un fine, che è al di fuori e al di sopra della vita
umana naturale e finita, e una con¬ dotta, qualunque essa sia, che si
deve dispiegare nell’ ambito delle leggi naturali e i cui effetti
determinabili sono contenuti nei limiti della vita finita individuale e
sociale, una relazione di questo genere, dico, non può essere in nessun
modo dimostrata, ma soltanto affermata. Ne è prova il fatto che lo stesso
fine sopranaturale, la stessa costruzione metafisica può essere assunta a
giustificare norme concrete di condotta non soltanto diverse, ma
opposte, senza che si possa ricavare da essa nessuna ragione per la quale
tra due forme di condotta diverse, una possa o debba giudicarsi
preferibile all’altra. Gilè, se si trova una ragione di preferenza nell’
ordine degli effetti, che le due condotte rispettivamente producono o tendono a
produrre, quest’ordine di effetti, dà alla condotta correlativa un valore che
sussiste indipendentemente dal fine sopranaturale, e diventa il fine
naturale della condotta medesima. Con questa differenza tra i due
fini: che mentre dato il primo, non si può (se non facendo appello
a una rivelazione, cioè a una autorità, e quindi a una pura affermazione)
ricavare da esso quale sia la condotta atta a raggiungerlo; dato questo
fine naturale, le norme si ricavano appunto dalle condizioni da cui il
fine dipende, cioè dalla connessione naturale tra la condotta e gli
effetti della condotta. Ossia un fine sopranaturale non può fornire
esso il criterio per determinare la condotta, se non a patto che —
implicitamente o esplicitamente — si assuma, come subordinato ad esso e
da esso richiesto un fine, o un ordine di fini, naturale, in relazione al quale
in realtà le norme sono stabilite. Nè concluderebbe nulla in contrario
l’osservare che il criterio desunto dagli effetti che l’azione
tende a produrre, riguarda la condotta esterna, non la interna,
nella quale sopratutto consiste il valore morale. In primo luogo anche se
per le due condotte, esterna e interna, valessero criteri diversi,
bisognerebbe pur sempre riconoscere che, poicliò anche la condotta
esterna conta pure qualchecosa, sarebbe ancora necessario ammettere un
criterio che valga a determinarla. In secondo luogo, benché siano,
in ultima analisi le tendenze, le aspirazioni i sentimenti che hanno
valore e danno valore alle cose e alle azioni, e ogni valutazione si
riduca a valutazione comparativa di tendenze o sentimenti diversi;
non bisogna dimenticare che i sentimenti, come le aspirazioni, si
distinguono per il loro contenuto rappresentativo, cioè pe 1’oggetto a cui
si riferiscono; e che anche le intenzioni sono sempre intenzioni di
qualche cosa. E finalmente, una forma di perfezione interiore che si
consideri come fine, a cui Tuomo possa giungere o avvicinarsi, non
può essa stessa fornire il criterio per determinare quale sia la
condotta richiesta a questo scopo, se non in quanto questa perfezione si
consideri come un effetto o un ordine di effetti che dipende naturalmente (in
parte al meno se non in tutto) da certe condizioni, ossia da certi mezzi.
Le pratiche dell’ascetismo non avrebbero senso se non si riconoscesse a loro
questo carattere di mezzi atti a produrre certi effetti. Concludendo: la
soluzione metafisica a cui fa appello l’indirizzo prammatistico, come
ogni altra soluzione di carattere metafisico, non può avere, anche
se non si ponga in dubbio la sua legittimità, che un ufficio consolatore,
non regolatore; può servire a dare o aggiunger valore a certe norme e ai
fini umani connessi con queste, ma non può servire a determinarle; può fornire
un principio di giustificazione, non un criterio di derivazione. E
perciò lascia da parte o suppone risoluto il problema che riguarda la
determinazione delle norme; il che ò quanto dire che lascia sussistere il
problema, e la validità delle ragioni per le quali si pone, e se ne
cerca la soluzione. Così dei due tipi diversi di costruzione etica
corrispondenti ai due indirizzi esaminati, l’uno q « — quello del
relativismo storico — se anche può offrire un criterio di
determinazione scientifica di un sistema di norme, non soddisfa
all’esigenza morale, ossia non giustifica il valore che ad esse si vuole
attribuire. Perchè, alle norme stabilite in conformità al criterio della
corrispondenza alle esigenze della vita sociale, non si può riconoscere
un valore superiore a ogni altra norma, se non supponendo che la forma di
esistenza sociale correlativa si riconosca universalmente e sotto ogni rispetto
più desiderabile di ogni altra; presupposto che non è per nulla
legittimato, nè si può ricavare. dal criterio assunto. L’altro — quello dell’i
dealism o prammatistico — in quanto fa capo a principi e postulati
metafisici, serve a giustificare il valore che si attribuisce alle norme
morali, ma ò radicalmente impotente a fornire un criterio di determinazione
delle norme. Il primo può determinare le norme, ma non giustificarle
; il secondo può giustificarle ma non determinarle. L’uno e l’altro
tipo di soluzione hanno comune il preconcetto fondamentale che compito
dell’Etica debba essere quello di trova re le ragioni sulle quali ò
fondata la bontà o la giustizia di quella forma di condotta, che già
teniamo come buona. Ammesso tacitamente o esplicitamente questo
presupposto, l ’esigenza scientifica porta a riconoscere le connessioni
naturali tra quella forma di condotta e i bisogni della vita sociale del
momento storico, e quindi ad assumere come criterio etico la
corrispondenza a questi bisogni ; l ’esigenza morale o giustificativa
porta a cercare a quali patti o condizioni quella forma di condotta possa
veramente essere riconosciuta come buona, e quindi ad assumere come fine
della condotta un bene il quale soddisfaccia a quel requisito di
universale e preminente desiderabilità, che non si trova in quel fine,
che è in realtà il fine naturale della condotta. E i moralisti che cercano di
conciliarle ambedue, e soddisfare all’esigenza scientifica senza rinunciare
alla esigenza giusti- E allora la conseguenza legittima è questa : che una
scienza normativa morale è possibile soltanto se il fine naturale che
serve a determinare le norme vale anche a giustificarle. Ma il fatto — che
questa esigenza non ò soddisfatta finché si cerca la giustificazione di un
codice di condotta già dato, assumendo questo come punto di partenza, e
quindi come fine la forma di convivenza e di cooperazione sociale alla
quale esso codice corrisponde, — non prova l’impossibilità di una
etica normativa scientifica; prova al più la impossibilità di una tale
scienza finche si intende £0 il compito dell’ Etica in quel modo, [
CeMJ Anf ibio. Ora perché non sarà possibile e lecito porre il problema in
un modo diverso: cercare quale possa essere il fine che soddisfa a questa
esigenza, e dalle condizioni che esso richiede ricavare le norme
della condotta? Il porre il problema in questa forma non è forse
legittimato dalle difficoltà che abbiamo visto nascere dal porlo in forma
diversa, e dall’analogia] ficativa, tentano di risolvere l’antinomia assumendo
in conformità all’ esigenza scientifica il criterio , e in conformità
all’ esigenza morale la giustificazione ; ossia attribuendo un valore
metafisico al fine umano-sociale al quale in realtà sono ordinate e dal
quale si possono ricavare le norme. Senonchè i due principi assunti e
in apparenza unificati restano sempre distinti : e quando si tratta
di stabilire quale è la condotta da tenere, compare 1’ uno; e
quando si tratta di dire perchè quella condotta è giusta, compare l’altro;
senza che si veda nessuna ragione perchè il secondo debba essere cosi
pronto a trovar giusto quello che l’altro suggerisce (che l’esigenza
caratteristica della norma etica non toglie) colle altre scienze
precettive? Sento risorgere l’obbiezione: Posto pure che l’impresa
riuscisse, a che cosa gioverebbe? Ma ò facile la risposta. In primo
luogo, anche se non servisse praticamente a nulla, non cesserebbe
di avere un valore teorico il sistema di rapporti che per tal modo
si venisse a conoscere. In secondo luogo a nessuno ò dato affermare a
priori l’inutilità pratica di una cognizione scientifica, sia pure che
riguardi dati ipotetici (E quale cognizione scientifica non contempla
dati, almeno in parte, ipotetici?). E finalmente a queste due ragioni
generali se ne può aggiungere una terza particolare. Chi può dire clic al
modo stesso, almeno, col quale può essere utile la conoscenza delle
relazioni che esistono tra forme diverse di moralità e condizioni
storiche diverse, non possa tornare utile la conoscenza delle relazioni
scientificamente stabilite tra una forma di condotta possibile c un
ordine di condizioni possibili? Concludo. Il problema, s e una
scienza normativa etica sia possibile, non è un problema risoluto,
ma è un problema da ris olve re. Se si possa e si debba risolvere nel
modo tenuto da Spencer, è questione diversa e clic rimane da esaminare.
E questa critica preliminare mentre avrà servito, come spero, a
dimostrare che il presupposto fondamentale di Spencer intorno al compito
dell’Etica non può essere a priori escluso, ha posto in chiaro le
esigenze fondamentali alle quali una scienza normativa morale deve
soddisfare. E così ci fornisce una guida per la critica della
dottrina. Il criterio del tinnite dell ’ evoluzione e dell’
adattamento completo nm^se^e a determinare il tipo di condotta cercato. Il
programma che Spencer traccia e si propone di seguire (non dico che in realtà
gli sia rimasto fedele) per costruire una scienza normativa etica, si può
raccogliere, in queste due te si: I.° La necessità di assumere come tipo
della condotta morale la condotta dell’ uomo giusto in una Società
giusta; e la necessità conseguente d ella disti nzione 'ìdfn fv** i tra etica
pura (Ji/icr assoluta) ed etica applicata parevo*)» f (Etica Relativa) e
della precedenza teorica della prima sulla seconda. II. 0 La
identificazione della condotta giusta, oggetto dell’oca Assoluta,
col tipo di condotta che egli pone come proprio del limite
dell’evoluzione. Ora, benché nel pensiero dello Spencer le due tesi
siano solidalmente connesse, e la seconda sia ilei'quadro del sistema la
fondamentale e quella che legittima e rende possibile ad un tempo la
sua costruzione, non ò difficile vedere come da un punto di vista
critico esse possono e debbono essere considerate a parte. La prima, infatti,
formula una veduta metodica ; la seconda esprime la speciale
applicazione che di quella veduta metodica Spencer ba creduto di fare. In altri
termini, è astrattamente possibile riconoscere che il tipo ideale dell’uomo
giusto non possa determinarsi se non in relazione con una società giusta
e clic per determinare la condotta giusta relativamente a certe
condizioni reali, sia necessario aver prima riconosciuto quale sarebbe la
condotta giusta in condizioni idealmente supposte, anche se non si
accetta che il tipo ideale di condotta giusta possa essere
concepito in quella forma e su quel fondamento che Spencer crede di
dovergli assegnare. Anzi io penso che la veduta espressa nella prima
tesi non solo si possa, ma si debba accettare come legittima e
necessaria, e che in essa si racchiuda come in germe un concetto fecondo.
Certo, credo, se una scienza normativa morale ò possibile, è possibile
per quella via; e i difetti della costruzione etica dello Spencer nascono
non dall’averla seguita, ma piuttosto dall’ essersene allontanato.
Cosicché la critica stessa della seconda tesi riesce a confermare
la legittimità della prima. Assumendo come tipo ideale di condott a
insta la condotta corrispondente al limite dellV vn- ! azione, Spencer
riconosce, esplicitamente o implicitamente, alla forma di vita individuale e
sociale che segna quel limite, valore di fine morale. Ora. lasciando la
difficoltà, sulla quale altri ha già zifjf.'w’Ui insistito, che uno s
tato concepito come il risultato necessario dell’evoluzione naturale
possa aver valore di fine liberamente e deliberatamente voluto e
proseguito? difficoltà che non mi pare insuperabile, io credo che questa
identificazion e presenta He due difetti capitali : essa non vale,
per se, a for- O' La difficoltà nasce dal modo di intendere la
possibilità e la necessità. Affermare la possibilità die si produca un
fatto, non è altro che riconoscere o ammettere la presenza reale dei
fattori, l’azione dei quali, qumido non incontrasse ostacoli,
produrrebbe, secondo i rapporti causali noti, cioè necessariamente, quel
fatto. Ora lo stesso effetto che può apparire necessario in quanto si ammette
la reale e adeguata efficacia di tutti i fattori da cui dipende, ' può
essere proposto come fine quando tra i detti fattori entri l'azione
MI'uomo, cioè quando la necessità. dell’effetto sia condizionata dalla
presenza e dalla efficacia di certe idee, sentimenti, aspirazioni : cioè in una
parola dalla presenza e dalla efficacia adeguata del desiderio ili quell'
effetto. In questo caso non è escluso che l’effetto m questione possa aver
valore di fine, anzi è incluso elio 1’ abbia ; perchè la « necessità »
dell’effetto è subordinata appunto al valore che gli si riconosca di
fine, e al dispiegarsi, nell’ azione corrispondente, della volontà di raggiungerlo. Che
questa interpretazione sia compatibile coi principii dell’evoluzionismo
Spenceriano è questione che, come si vedrà, rimane estranea all’ intento
di questo studio, e che i più risolvono negativamente (cfr., tra gli altri,
ZECCANTE, La dottrina della co- [ni re un criterio per la derivazione delle
norme morali (nella realtà, come si vedrà più innanzi, il tipo
ideale è determinato da Spencer sopra un altro fondamento); e non è
sufficiente come principio di giustificazione. Cominciamo dal primo. Il
concetto di evoluzione, come quello di tempo, del quale esso è, in fondo,
nuli’altro che la traduzione in termini di causalità naturale, esclude
l’idea di limite, inteso almeno come termine fisso, oltre il quale ogni
processo di trasformazione, cioè di causazione, si arresti. Il processo
stesso di dissoluzione che, secondo il pensiero di Spencer, si alterna a
periodi indefinitamente grandi con quello di evoluzione, non segna il
termine di un periodo e l’inizio d’ uno nuovo se non dal punto di vista scienza
movale in Spencer; e G. V ijiaki: SERBATI (si veda) e Spencer. Di queste,
come di tutte le obbiezioni mosse all'etica di Spencer, a cominciare dal Guyau e dal
Sidgwick fino ai critici più recenti, tratta con grande larghezza e
ricchezza di notizie SALVADORI nel saggio “L’Etica Evoluzionista” che è una
apologia entusiastica di tutto il sistema Spenceriano. Colgo questa
occasione per dichiarare che ho dovuto astenermi da ogni richiamo sia
delle obbiezioni e discussioni di questi, come di altri critici valorosi
(tra i quali sia ricordato a titolo d’ onore il compianto Icilio Vanni),
sia delle varie opinioni che si connettono colle questioni generali toccate,
per due ragioni : in primo luogo perchè il punto di vista dal quale è qui
considerata la dottrina delle due etiche è diverso, e diversa la via seguita;
in secondo luogo perchè se avessi voluto per ogni questione toccata discutere
le diverse opinioni, avrei dovuto fare, a commento di un breve scritto,
tutta, o poco meno, la storia della morale. di una valutazione umana o
teologica. In realtà il cammino non si arresta per tracciar di segni
che l’uomo faccia sulla via della natura. Nè, del resto, quando
Spencer parla di limite dell’ evoluzione della vita umana, intende di
significare il momento in cui la vita si arresta o si spegno, ma
quello in cui la vita raggiunge il massimo svolgimento. Senonchò
questo massimo svolgimento non può essere. necessariamente, che relativo a
forme date e conosciute o comunque determinate di vita, cioè di
organi, di funzioni, e di attività; e, anche inteso cosi, non può venir
stabilito se non fissando un grado che si consideri come massimo; cioè,
insomma, segnando nel processo (non importa ora con quale criterio) un
momento, che sia punto di arrivo di una serie (della quale sia
rappresentato da punto di vista teleologico come fine), ma che
potrebbe essere preso, con un criterio diverso, come punto di partenza di
una serie ulteriore. È sufficiente a segnare questo momento il
criterio dell’adattamento completo ai tre ordini di fini: della vita
individuale, della vita della specie e della vita sociale? È subito
chiaro che questo adattamento completo non può bastare esso stesso, se non
si determina quali siano le sfere di attività e di fini,
l’adattamento ai quali serve di criterio per stabilire se il limite è
raggiunto. Perchè se si intende per adattamento completo un adattamento
definitivo a tutti i fini di tutti e tre gli ordini, termine fìsso
e insuperabile al quale si arresti, e oltre il quale non sorgano nuove
aspirazioni e nuovi fini, noi non potremmo argomentare nò che un tale
limite sia per essere raggiunto mai, nò, (ciò clic qui importa di più)
dato che si raggiunga, quale sia il grado o la forma di vita, che un tale
adattamento sia per fissare e suggellare come definitivo. Perchè i
fini sono, come ognuno sa, correlativi ai desideri o ai bisogni. Ora a
mano a mano che le forme di attività si moltiplicano c si differenziano,
si moltiplicano i bisogni e quindi i fini; nò si può nò induttivamente,
nè deduttivamente determinare a qual punto questo processo possa o debba
arrestarsi. Pcrchò, pur non uscendo dalla tesi evoluzionista, ogni
adattamento implica diminuzione di sforzo e quindi, ceteris paribus,
avanzo di energia; la quale appunto perciò si viene dispiegando in nuoA r
e forme di attività, c quindi nella ricerca di nuovi fini. Anzi il
sorgere di ogni forma più complessa di attività, — ad esempio ogni funzione
più elevata — presuppone normalmente l’adattamento già avvenuto delle attività
meno complesse e relativamente elementari, — funzioni più semplici — di
cui essa ò una nuova ordinazione. Onde per questo rispetto l’adattamento a
certi fini, ò parallelo all’ insorgere di fini nuovi indefinitamente.
Oltredichè il processo stesso del conoscere portando a scoprire sempre
nuovi rapporti di cose e di fatti, viene continuamente riversando la DESIDERABILITA
dei beni conosciuti su nuovi oggetti che acquistano valore di utilità, c
moltiplica così i beni, cioè i desideri e i bisogni; o trova nel mutare
delle condizioni esterne nuovi modi di soddisfare ai bisogni già
esistenti ailìnandoli ed elevandoli; o apre la via a nuove aspirazioni,
alle quali la soddisfazione già assicurata dei vecchi bisogni, permette
che si rivolgano gli sforzi e l’opere. Cosi ogni adattamento raggiunto è
condizione e stimolo a nuove forme di attività al modo stesso che ogni
conoscenza acquistata fa sorgere nuovi problemi, e nascere « a guisa di
rampollo, appiè del vero il dubbio. Si dirà che Spencer intende
l’adattamento completo nel senso di mutuo adattamento dei tre
ordini di lini fra di loro; intende cioè la conciliazione e l’accordo tra le
esigenze della vita individuale quelle della vita della specie e quelle
della vita sociale. Ma lasciando di notare che la difficoltà
sopra notata risorge a proposito di questa conciliazione perfetta,
si presenta la domanda: A quali patti si fa questa conciliazione? Perchè
se è vero, come Spencer ha cura di ripeter spesso, che nelle condizioni
presenti di esistenza i fini di un ordine non possono essere prosemiti c
raggiunti senza sacrificio almeno parziale dei fini di un altro ordine,
bisogna evidentemente perchè la conciliazione si faccia, che intervenga
una cessazione, o una modificazione o una sostituzione nei fini o di
uno o di due o di tutti tre gli ordini considerati; ossia una
modificazione nei bisogni e nelle esigenze dell’individuo, o della specie,
o della società. Supponiamo ora per semplicità di discorso che i
fini individuali e i fini della specie si possano considerare fin dal
presente conciliati; o, per usare i termini dall’economia pura, che si
possa assumere 1’ egoismo di specie come comprendente m se l’egoismo
individuale (il che è in gran parte conforme alle vedute stesse di Spencer); la
conciliazione resterebbe da farsi tra i fini della vita individuale e i
fini della vita sociale. E allora il problema è il seguente: Nello
stato di conciliazione contemplato, fino a qual punto sono i
bisogni e i fini individuali da noi conosciuti o immaginati che avranno
mutato di specie, di estensione, di intensità, per adattamento alle esigenze
sociali, e fino a qual punto si troveranno invece modificate le esigenze
sociali per adattamento ai fini della vita individuale? E manifesto che
per conoscere in che cosa la conciliazione sia per consistere bisogna o
che sia definita la sfera delle esigenze individuali, in corrispondenza
colla aliale si possa determinare la sfera delle sociali che con quelle si
accordi; o sia definii sfera delle esigenze sociali per una
determinazione tersa; o finalmente siano definite certe corni z on
(qualunque sia il modo tenuto per assegnarle) 1 H vacano, esse, a
determinare ad un tempo, limiti «Ielle une e delle altro.
:ì Queste condizioni Spencer ricava dalle esigenze del “r »
™<ità induetnale !«<<»' cui si suppone realizzato il puro
«gnu» ' u ?» tratto sotlo la leggo dell'uguale liberta ; e> 4*
il limite dell'evoluzione è in realtà ,1 della società industriale del suo temp
, tamento completo consist costruttiva biologica e psicologica 1
nenti la società umana a questo tipo d, convivenza e di cooperazione. Per
conseguenza non è un [qua.» riatto no «i *“Spencer che qui il Etta , (cio4
quando que- biella II. n edizione dei‘ de i System of
et’ opera fu ^pubblicata come Synth. Phil.) si trova aggiun e
cbe eva stato lo stesso titolo « Conciliarne • pubbliC azione, fu
dettato prima; ma, smarrì o poi Qra in quel ca pitolo geisostituito da
quello che figura ne . . ident ifi c hiuo provare la possibilità
che le attività ^«isMche ^ colle egoistiche, si citano gli mse 1 s
’ nism i di- [e—. -certo tipo di vita completa che serve a determinare il
tipo ideale della società giusta, ma è il tipo considerato come ideale di
società giusta che determina la vita completa. Adunque, poiché la conciliazione
dei diversi ordini di fini è subordinata all’ attuarsi delle condizioni
che definiscono il tipo ideale di società ed è relativa a queste, è il
tipo ideale di società clic in edotto è assunto come fine, e sono
le condizioni proprie di quel tipo che servono a determinare le norme. benessere
individuale non maggiore di quello che è necessario alla conservazione
della vita individuale; ed esser possibile il formarsi negli individui di
una organizzazione tale che la ricerca delle soddisfazioni che la natura loro
richiede, porti ad esercitare quelle attività che il benessere della comunità
richiede. Si noti che, aggiungendo in appendice il capitolo che contiene
questo passo, Spencer non fa riserve di nessun genere, anzi dice
esplicitamente che esso può servire a chiarire e compiere il pensiero
espresso nel testo. Un altro luogo in cui è ribadito in forma diversa, ma non
meno recisa, lo stesso concetto fondamentale, si trova nella seconda lettera
di risposta alle critiche di Davies sull’ obbligazione morale, pubblicata col
resto della polemica nella- Appendice C. alla Giustizia. Lasciatemi
ripetere qui una verità sulla quale ho altrove insistito: che appunto
come il cibo è giustamente preso quando è preso per soddisfare la fame,
mentre il doverlo prendere quando manca l’appetito implica uno stato
fisico disordinato; cosi una buona azione o un atto di dovere è fatto
giustamente soltanto se è fatto per soddisfare, un sentimento immediato ;
mentre se è fatto per la considerazione di certi risultati finali in
questo o in un altro mondo, implica uno stato morale imperfetto (A.
Sistem ecc. The Moral Motive. Nella trad. it. della Giustizia edita da
Lapi questa appendice è omessa. Ma se così è, quanto alla determinazione
delle nolane il postulato dell’adattamento completo, posto clic si
possa assumose, non serve a nulla; equivale semplicemente a supporre clic
tutti gli individui i quali compongono la società ideale abbiano una
natura così latta, che l’osservanza della condotta corrispondente costituisca
per essi un bisogno o un desiderio superiore a ogni altro, senza
possibilità di conflitto con altri bisogni o desideri; cioè, tiene
nella costruzione etica lo stesso posto che nei sistemi morali è comunemente
tenuto dal dovere, e nelle scienze precettive in genere dalla
supposizione che esista un desiderio o un bisogno specifico
corrispondente al fine da cui si ricavano le norme. E quindi allo
stesso modo che l’esistenza e la natura specifica dei motivi da cui può
dipendere l’osservanza di una norma, non hanno che fare colla
determinazione teorica di essa, così l’ipotesi dell’ adattamento completo
dei bisogni e desideri individuali a certe condizioni di convivenza e CO-OPERAZIONE
sociale, non ha che fare colla determinazione di queste norme. Perchè le norme
sono ricavate appunto da quelle condizioni, alle quali si suppone
avvenuto l’adattamento; e che perciò servono esse di critetio e per determinare
le norme e per conoscere se l’adattamento è raggiunto. Uljh&MJ?
Jabot* Il criterio del piacere puro, corrispondente all’ adattamento
completo, non ser re a giustificare il tipo di condotta proposto. Ma
perchè assume Spencer come proprio della Società ideale un adattamento
completo, che, mentre esclude arbitrariamente ogni evoluzione ulteriore,
non serve a definire questa Società ideale perchè è definito esso stesso
in relazione con quella? Perchè soltanto quando esso sia raggiunto,
la condotta umana in tutta la sua estensione apporta a sè e agli
altri nel presente c nel futuro puro piacere, piacere non misto a dolore di
sorta ; e per Spencer, come s’è visto, il giusto assoluto e sclude
il dolore . E perciò il tipo ideale contemplato dall’etica Assoluta non può
essere se non quello nel quale la condotta apporta puro
piacere. L’ adattamento completo darebbe dunque al tipo ideale
di convivenza e cooperazione sociale quel carattere di universale e
preminente desiderabilità, che deve avere il fine assunto dall’etica. Lo
dà veramente? Benché a prima vista possa parere strano il
dubbio e inutile la discussione, bisogna riconoscere che un tipo di
esistenza individuale e sociale nel quale tutta quanta la condotta in
tutta la sua estensione porti sempre e soltanto piacere, non è, date le
leggi psisologiche conosciute, e non può essere, un fine.universalmente
desiderabile sopra ogni altro. Lascio di discutere se, supposta una
condotta, diciamo così per brevità, totalmente piacevole, il
piacere stesso non verrebbe a sparire, come stato di coscienza distinto,
per mancanza di quel contrasto e di quell’ alternanza fra gli stati
psichici (così bene illustrata tra gli altri dall’ Hòffding), senza
della quale anche i godimenti più forti il languidiscono e vaniscono nella
ripetizione abituale; e di considerare se la forma di vita
corrispondente non riuscirebbe a sopprimere in ultimo anche ogni
forma di coscienza riflessiva e di deliberazione volontaria, cioè
l’intelligenza stessa e la volontà, almeno nelle loro forme più elevate riducendo
la vita a una sorta di automatismo istintivo, al quale
corrisponderebbe la fissazione stereotipa di modelli d’uomini meccanizza
ti. Certo, se si bada clic l’attenzione attiva è sempre, in grado maggiore o
minore, sforzo, e clic lo sforzo è alimentato principalmente, se non
unicamente, dal dolore e non dal piacere, bisogna riconoscere che la
capacità dello sforzo e l’esercizio dell’ attenzione tenderebbero a
svanire collo sparir del dolore; e il vigore dell’intelligenza si
affievolirebbe; come già si può osservare in quelle persone sfaccendate e
sonnolente, le quali abbiano in pronto senza alcuna fatica o cura
tutto quel che desiderano, e non sentano l’aculeo di altri bisogni, e di
aspirazioni diverse. E lo stesso discorso sarebbe da ripetere a
maggior ragione per la volontà. Certamente le leggi psicologiche
conosciute tendono ad escludere, per le ragioni accennate sopra a
proposito dell’adattamento completo, che un tale stato possa avverarsi ;
ma, dato che potesse attuarsi, non ci sarebbe nessuna ragione per negare,
in forza delle medesime leggi, l’eventualità se non della
soppressione, di un oscuramento progressivo delle facoltà psichiche più
elevate. E allora si presenta subito la questione, se, ammessa pure
soltanto la possibilità che a un tale stato si accompagnasse questo effetto,
potrebbe una forma di esistenza siffatta apparire desiderabile sopra
ogni altra. Si potrebbe dire: Che importa l’oscuramento e anche la
soppressione dell’ intelligenza e della volontà, purché sparisca il
dolore? E quando non vi siano altri bisogni e altri desideri che quelli
appunto che trovano già una soddisfazione adeguata, ossia, quindi, non ci
sia più nemmeno la possibilità di rappresentarsi bisogni e beni diversi,
non è una tal vita nel suo genere beata; anzi la sola beata perché é
esclusa la capacità di provare altri bisogni? Ora che un tale stato
possa, anzi debba apparire il più desiderabile quando si supponga
l’adattamento già raggiunto, è fuori di contestazione; ma qui si
tratta di vedere se un tale stato possa essere preferibile per chi ne ò
fuori, e dovrebbe proporsi come scopo di raggiungerlo. Se, cioè, a chi
esercita certe forme di attività possa parere desiderabile sopra
ogni altro un tipo di vita, nel quale per avventura quelle attività
fossero oscurate o soppresse. In questo caso possono valere
l’osservazione notissima del Mill e la ragione colla quale la conforta;
che, certo, non avrebbero valore nel primo caso. Ma anche lasciando
questo aspetto della questione, non bisogna dimenticare che appunto
perchè il piacere puro è il correlato subiettivo dell’ adattamento
completo, la medesima condizione di una condotta totalmente piacevole, per
le ragioni dette a proposito dell’indeterminatezza nel numero e
nella specie dei (ini, rispetto ai quali l’adattamento [ È meglio essere
un nomo i nfelice che un jjj^o.ap,ddi.sfotto: è meglio essere Socrate
malcontento che un imbecille beato. Ora la ragione addotta da Mill vale
per l’uomo, ma non per l’animale, e l’Hoffding non ha torto di spendere,
come egli dice graziosamente, (i nalch e parola hi difesa del porco e dell’
imbecille. E nota infatti che un uomo il (piale abbia ottenuto la
soddisfazione intera dei suoi desideri, non ha nessuna ragione di paragonare
il suo stato con quello di altri uomini. Senonchè riconosce poi che
la conoscenza di gradi più elevati farebbe nascere anche nell’uomo felice
il desiderio ardente di giungervi che è appunto ciò che <pii importa.
(Hoffding - Morale). potrebbe essere raggiunto — può concepirsi
attuata non in una sola ma in più forme di vita fra di loro diverse
; e resterebbe sempre da trovare un criterio comparativo della DESIRABILITA,
o da ammettere che tutti i tipi di vita, per i quali si concepisce
possibile una conciliazione fra i tre ordini di fini (anche se la
conciliazione fosse ottenuta allo stesso modo che nelle società animali,
cfr. la nota qui sopra), siano ugualmente desiderabili. Il che
importerebbe la legittimazione a pari titolo di forme di condotta fra di
loro diverse e anche opposte; e si dovrebbe ricavare daltronde che
dal piacere puro il fondamento della legittimazione. E qui tocchiamo un
argomento il quale si allarga fuori del campo particolare della dottrina
di Spencer e riguarda nello stesso tempo una questione più generale: la
natura del fine. Siccome il carattere che si richiede nel fine
assunto a giustificare le norme morali è, come s’è ripetutamente detto,
quello della universale e preminente desiderabilità sopra ogni altro, si
pensa che esso debba essere il fine dei fini, il fine ultimo e
supremo ; uno stato definitivo , oltre il quale, e al di là, non ci sia
più nulla da desiderare e da cercare. E allora non resta che questa
alternativa : o si cerca un fine il quale contenga e comprenda in
sò tutti i fini; e prendono forma I FANTASMI DI FELICITA, DI BEATITUDINE [CICERONE],
di perfezione, noi quali si fd" figurano definitivamente appagati tutti i
desideri, e scomparsi o sommersi quelli che non vi trovano
appagamento ; oppure si considera come fine la forma colla quale si
presenta alla coscienza la soddisfazione di qualsiasi desiderio; cioè il
piacere o la liberazione dal dolore. Ma tanto l’una quanto l’altra
delle soluzioni non sono che apparenti, o si risolvono in una vana
tautologia. PORRE COME FINE LA FELICITA senza determinare quale sia o IN CHE
CONSISTA LA FELICITA DI CUI SI DISCORRE è certamente un modo per
conciliare verbalmente tutte le differenze di opinioni e superare tutte
le difficoltà; ma nella realtà non le concilia e non le supera, più di
quel che valgano a togliere le diversità di opinioni politiche e a
raccogliere i partiti ad unità di intenti certi ordini del giorno in cui si
afferma all’ unanimità essere fine supremo per tutti il bene della patria
o la prosperità della nazione o altre formule somiglianti. E se si
determina in che si faccia consistere la felicità, quali siano i fini che
si comprendono nel fine unico chiamato con questo nome, allora
delle due l’una: o i diversi fini così compendiati e compresi nel fine
unico, sono veramente unificati, e, perchè ciò sia. occorre che essi
possano ridursi ad uno; e quindi diesi possa dimostrare che uno fra
essi è causa o condizione degli altri, o che tutti dipendono da una
medesima condizione o ordine di condizioni; e in questo caso la felicità
è caratterizzata o da quel fine o dal conseguimento di questa condizione,
che diventa esso fine, perchè su esso si riversa la desiderabilità di
tutti ; e il termine FELICItA non è che.un duplicato di quel certo fine o
di questa condizione. Oppure i diversi fini non sono clic sommati
insieme, e giustaposti l’uno all’altro, rimanendo in realtà distinti e
senza che si veda la necessità della loro connessione; e allora 1’
unità non è che verbale, e in realtà invece di un fine, si hanno più
fini, ciascuno nel suo genere supremo. Si dirà che si dà alla FELICITA
non il senso di un certo contenuto determinato che la costituisca, ma
il senso di appagamento dei desideri, di soddisfazione dei bisogni, senza clic
si definisca quali ne siano per essere il numero e le specie; nel
qual senso si può affermare che LA FELICITA rimane sempre il fine
ultimo pur restandone indeterminato il contenuto? E si riesce allora alla
seconda alternativa, di considerare come fine ciò che si ammette esservi
di comune e di costante nel raggiungimento di qualsiasi fine; cioè, come
s’è detto, la forma sotto la quale si presenta la soddisfazione di qualunque
desiderio : il piacere o la liberazione dal dolore. Ma dire che il fine
ultimo è il piacere è come dire che il line ultimo è il godimento
che accompagna il raggiungimento del fine o dei fini, o che lo
scopo dei desideri è la soddisfazione dei desideri. E allora si vede perchè
il puro piacere non possa dare un criterio di legittimazione e di
valutazione comparativa dei fini e quindi delle forme di condotta. Perchè
o si prende come criterio la quantità del piacere, la intensità della
soddisfazione, senza badare alla natura del desiderio a cui corrisponde,
e non è possibile assegnare un solo desiderio che abbia lo stesso valore,
nonché per due coscienze diverse, neppure per la stessa coscienza
in momenti diversi. 0 si valuta la soddisfazione secondo i desideri cui corrisponde,
e allora ciò che distingue un desiderio dall’altro non è la soddisfazione
ma l’oggetto a cui il desiderio si rivolge; non l’effetto soggettivo
gradevole, ma le condizioni che lo producono, non è il godimento del
bene, ma il bene. Ora è qui che si nasconde 1’ equivoco nell
identificare il bene col piacere; il fine, cioè l’ordine di effetti che
costituisce l’oggetto del desiderio, collo stato soggettivo che è il
godimento (quando ci sia) del fine raggiunto. È bensì vero che un
bene di cui si concepisse che nessuno mai potesse godere in nessun modo,
non avrebbe valore di bene; ma è non meno vero che un godimento del
quale non si sapesse assegnare nessuna causa o condizione o mezzo atto a
produrlo, non potrebbe mai essere proposto o assunto come scopo di
un'at¬ tività qualesivoglia. Ora quando si parla di un fine desiderabile
sopra ogni altro al quale sia ordinata la condotta, non si può intendere che
un bene, il quale sia bensì, direttamente o indirettamente causa o mezzo
o condizione di godimento, senza di che non sarebbe bene; ma che non
può consistere nel godimento stesso, ma in un certo effetto o
ordine di effetti determinabile e possibile, che possa costituire
l’oggetto di una ricerca attiva, cioè di una certa condotta Senonchè
bisogna evitare anche qui lo stesso e quivoco che CONDUCE A RIPORRE IL
FINE NELLA FELICITA o nel piacere; l’equivoco che questo effetto o ordine
di effetti debba costituire un fine ultimo, uno stato definitivo, al di
là del quale non siano assegnabili altri fini. Uno stato, o un ordine
di effetti definitivo è contraddittorio non soltanto colle leggi
della vita, per le ragioni già dette, ina col presupposto stesso
fondamentale che si assume di necessità quando si voglia determinare
scientificamente un sistema di norme. Perchè qualunque [Non altrimenti
avviene nel campo speciale dell’economia. E bensì vero che se non si
supponesse la possibilità del consumo, cioè del godimento dei diversi
beni che costituiscono la ricchezza, questa non avrebbe valore, e non
avrebbe senso la produzione ; ma 1’oggetto a cui si volge 1’attività
produttrice e del quale si cercano le leggi, è la ricchezza, non il
consumo. fine rappresentato come umanamente possibile, appunto perchè
deve essere concepito come un effetto, che si produce, date certe
condizioni, è a sua volta pensato come condizione di altri effetti, cioè
mezzo ad altri fini. Pensare un effetto naturalmente possibile che sia
ultimo, è come pensare chiusa e finita a un momento dato la serie della
causazione, abolita e spenta in un effetto che sia stato prodotto ogni
efficacia causativa; e allora vien meno ogni ragione di pensare come
dipendente da certi mezzi, cioè da certe cause, anche l’effetto
stesso che si considera come fine ultimo; e quindi è tolto ogni
fondamento a qualsivoglia determinazione di rapporti tra mezzi e fini, e
perciò anche a qualsiasi determinazione di norme. Si dirà che si intende ultimo
rispetto alla salutazione, cioè talea cui si riconosca valore per
sé, indipendentemente da ogni considerazione ulteriore. Ma se si
ammette che da quel fine, quando sia raggiunto, dipendono altri effetti,
nell'atto stesso che lo si pensa condizione di tali effetti ulteriori,
la valutazione di questi (che non può essere esclusa) •muta il
valore del fine egli dà nello stesso tempo valore di mezzo. Dal che
nasce questa conseguenza assai notevole: che la desiderabilità di un
ordine di effetti, che si assuma come fine, non viene tanto dalla
desiderabilità che gli si riconosca come bene. cioè come oggetto diretto e
immediato di godimento, quanto dalla DESIDERABILITA degl’effetti, dei
quali esso apparisca la condizione necessaria. E che perciò, mentre è
vano andar cercando quale sia il fine ultimo, il quale non si trova mai,
o si risolve in una pura espressione verbale, il fine che può
valere come supremo si deve cercare non nell’uno o nell’altro degli scopi
a cui si riconosca valore per sè, ma in un ordine di effetti, in un
sistema di condizioni, dato che sia assegnabile, nel quale si possa
riconoscere questo carattere appunto di condizione necessaria, non di alcuni,
ma di tutti quei beni, ai quali si attribuisce valore per sè. E
quindi il fine che può avere universalmente una DESIDERABILITA superiore
a ogni altro, non può consistere se non in un ordine generale e, si
potrebbe dire, preliminare di condizioni, la cui attuazione apparisca
necessaria perchè sia possibile universalmente la ricerca ulteriore di
quei beni. Non può essere cioè supremo nel senso di una gerarchia, della
qiiale segni il culmine, nè nel senso di una grandezza o quantità,
di cui sia il massimo, ma nel senso della precedenza necessaria o della
indispensebilità; per la quale venga a raccogliersi su di esso come
in un unico foco la luce e il calore di DESIDERABILITA che irraggia dai fini ai
quali apre universalmente la via. E perciò, ammesso che qualsivoglia fine
umano abbia, come ha in realtà, per condizione la convivenza e la CO-OPERAZIONE
sociale, il line che può avere questo valore di precedenza necessaria
sugli altri deve essere di necessità il raggiungimento o il
mantenimento di certe condizioni ili convivenza e di cooperazione
sociale, cioè di una qualche forma di società. Ma perchè ad una forma di
società possa essere riconosciuto questo carattere universalmente, occorre che
le condizioni della sua esistenza abbiano per tutti un valore potenzialmente
uguale: ossia che nessuno dei fini, dei quali quella forma di
cooperazione pone la possibilità e dai quali attinge il suo valore, sia,
per dato e fatto delle esigenze di essa forma, precluso o impedito
a nessuno dei componenti la società. 0, in altri termini, sia
qualsivoglia il fine che si suppone cercato, ciascuno trovi nelle
condizioni proprie di quella forma sociale la medesima esteriore possibibilità
di rivolgere a quella ricerca l’attività propria. che vi trova qualsiasi
altro. L’analisi ci ha dunque portato a queste conclusioni: a riconoscere
che il limite dell’evoluzione, 1’adattamento completo, la massima FELICITA,
nè for- [Il che non implica, occorre appena avvertirlo, una uguaglianza
nei risultati ottenuti, o come si dice inesattamente, una uguale
distribuzione di FELICITA la quale supporrebbe, insieme colla condizione
notata, anche una uguaglianza di attitudini, di attività e di preferenze.] nisce
un criterio ili determinazione delle norme, nò basta come principio di
giustificazione; a riconoscere la legittimità del concetto, clic bisogna
assumere come fine un tipo ideale di società; e a stabilire le esigenze
fondamentali, alle quali questo tipo deve soddisfare. Ed ora
è facile vedere per quali ragioni il tipo sul quale in realtà Spencer ha
modellato la sua società giusta non soddisfaccia a queste esigenze. Il
tipo di società giusta di Spencer. In un articolo di risposta ad alcune
critiche mosse ai dati dell’etica Spencer polemizzando con Means così si
esprimeva a proposito del modo di intendere la giustizia: A molti
sembra ingiusto che la dura fatica di un bifolcogli faccia guadagnare in una
settimana meno di quanto un medico guadagna facilmente in un quarto
d’ora. Molti sostengono essere ingiusto che i figli del povero non
possano avere i vantaggi del l’educazione che hanno i figli del ricco. Ma
quest e deficenze nelle quote di FELICITA che alcuni ritraggono dalla CO-OPERAZIONE,
sicc ome clerivano da ereditata inferiorità di natura, o da inferiorità
di c oMizioniMn cui i loro antenati inferiori sono c a- ~ cinti, sono deficienze colle quali la
giustizia, come io la intendo, non ha nulla che fare. L’ingiustizia
che trasmette alla discendenza malattie c deformità,
l’ingiustizia che infligge alla prole le conseguenze penose delle
stupidità e della cattiva condotta dei genitori, la ingiustizia che
costringe quelli che ereditano delle inc apac ità, a lottare colle
difficoltà clic ne derivano, l’ ingiustizia che lascia in relativa
p overtà la gran maggioranza, le cui facoltà,.di or - < 1 i ne
inferiore, apportano ad essi scarsi profitti, 6 una specie di ingiustizia
estranea alla mia tesi. il i cose stab ilii'-, quantunque in forza
di esso, una inferiorità della quale l’individuo non ha colpa produca i
suoi mali, e una superiorità della quale egli non può vantare nessun
merito, apporti i suoi benefìzi; e dobbiamo accettare, come
possiamo, tutte quelle disuguaglianze che ne deri vftrm vantaggi che
i cittadini si procacciane rispettive attività. Ho citato questo
passo, non perchè gli stessi concetti qui espressi non siano, esplicitamente o
impli¬ citamente, sostenuti in tutta quanta la sociologia e la
morale dello Spencer, ma perchè forse in nessun altro luogo appare piu
manifesto il presupposto che vizia la sua concezione della società
ideale. Assu¬ mendo come elemento del concetto di giustizia —
accanto a quello dell’ uguale libertà — la condi¬ [Replie to Criticism on
The Data of Etihcs in Mind. zionc ricavata dalla biologia, che la vita
progredisce c si eleva soltanto a patto che gli individui superiori
godano i vantaggi della loro superiorità e gli inferiori subiscano i
danni della loro inferiorità, egli identifica la inferiorità fisiologica e
psichica colla inferiorità sociale; la inferiorità obesi potrebbe
chiamare nativa o costituzionale colla inferiorità clic si potrebbe dire di
posizione. Ora, che un uomo debole non possa vincere le medesime
resistenze che uno forte, che un bambino poco intelligente impari meno e
peggio di un intelligente, è naturale e necessario; ma non si può dire
che sia giusto nè ingiusto. Che i figli ereditino F ingegno o l’ottusità, la
sensibilità o l’insensibilità, il vigore o l’infermità dei genitori, e che
i primi godano i vantaggi e i secondi sopportino i danni che sono conseguenza
rispettivamente di questa loro soperiorità o inferiorità ereditata, sarà del
pari biologicamente necessario, ma non è ancora nè giusto nè ingiusto;
diventa bensì giusto o ingiusto rispettare o violare questa relazione
naturale, soltanto se si considera questa relazione come condizione di una
elevazione progressiva delle specie che sia assunta come effetto
universalmente desiderabile, cioè come fine. Ma che i figli del contadino
non abbiano la possibilità di venire istruiti o educati, non dipende
dalla costituzione fìsica e mentale loro propria, ereditata o no, ma dipende da
una inferiorità sociale, la quale toglierebbe ad essi questa possibilità
anche se la loro costituzione fisica e mentale Cosse attissima a questa
coltura. Ora, mentre l’analogia della selezione biologica importerebbe
che i figli del contadino al pari di quelli del lord potessero porsi allo
stesso cimento, salvo a ricavare dalle loro rispettive capacità e sforzi frutti
maggiori o minori, la diversità delle condizioni sociali esclude gli
uni dalla gara c toglie non solo la necessita ma la possibilità clic
l’opera di selezione si rinnovi tra i superstiti di ogni nuova generazione
sull’unico fondamento delle loro rispettive attitudini e attività. Sul che
non è necessario insistere dopo le critiche note e ripetute; ma valga l’accenno
per rilevare che a torto Spencer identifica colla inferiorità biologica, o
meglio, costituzionale, l’inferiorità clic deriva dalle condizioni sociali, e
crede che possa valere a giustificare le conseguenze della seconda,
lo stesso fine che invoca a giustificare le conseguenze della prima.
Perchè la limitazione alla sfera dei beni conseguibili che è imposta da
condizioni esteriori è cosa affatto diversa dalla limitazione clic nasce dalla
capacità e dalle doti intrinseche; e se questa è giusta, posto che si
prenda per fine superiore a ogni altro V elevazione della specie (e
dato che ne sia condizione), quella è giusta soltanto se si considera
come fine superiore quella certa forma ili cooperazione sociale che la
rende necessaria. Anzi quella limitazione d’origine sociale che si ponga
come giusta per quest’ ultimo rispetto, appare ingiusta per l’altro. E
l’ammettere che sia giusta la condizione che ciascuno sopporti i
danni della sua inferiorità e goda i vantaggi della sua superiorità » non
include, ma piuttosto esclude l’altra condizione, a torto da
Spencer compresa o conglobata con quella; che ciascuno sopporti i
danni o goda i vantaggi che sono conseguenza di una inferiorità o di una
superiorità, la quale risulta non dalle sue doti fisiche e mentali, ma
dalla assenza o dalla presenza di certe circostanze esteriori. E in
verità sarebbe da meravigliare che Spencer non abbia rilevato la differenza, o
non ne abbia tenuto conto, se non si ricordasse che il punto di
partenza, il foco centrale da cui muove e attorno a cui si raccoglie la
sua speculazione, è, come s’ò detto in principio, un ideale etico,
anzi propriamente sociale e politico; onde l’intento principale diventa
quello di trovare la giustificazione del suo ideale nelle leggi della
vita, e per esse nelle leggi stesse dell’ universo. l ( h Ora
il suo ideale sociale e politico è in sostanza quello stesso del
liberalismo, in cui crebbe e si maturò il suo pensiero, che era già
compiuto e definito nelle sue parti quando uscì il Prospectus; e perciò
nel costruire la sua società di uomini giusti, per quel che si attiene
alla struttura sociale, egli non fa che supporre realizzati i desiderati
teorici, o già riconosciuti espres¬ samente, o ricavati logicamente dai
postulati economici e politici di quel liberalismo. Il quale era bensì
arditamente coerente nella affermazione dei principi e dei corollari
riassunti nella formula della giustizia (la uguale libertà per tutti), ma
conside¬ rava o come anteriori ed estranee a questa legge, o come
naturali ad un tempo e conformi ad essa, le dive rsità storicamente date
di condizione econ o- mica degli individui e delle classi socia li. Onde Spencer
non tenne conto della disuguaglianza effettiva, che nell’ esercizio di quella
libertà, formalmente uguale per tutti, porta 1’ esistenza di quella
diversità, che egli credeva giustificata dalle leggi biologiche . 1
frinii. Ne segue che mentre nella sua società ideale egli
costruisce l’individuo giusto facendo astrazione da tutto ciò che nei
fini individuali vi può essere di incompatibile non solo colla
cooperazione, ma anche colla simpatia ; n el costruire invece la società
giusta fa ben s ì astrazione da ogni forma di aggre ssione esterna e
interna che si esercit i, dato lo stato di cose stabilito, ma non fa
astrazione da quelle con dizioni che importano una reale limitazione
diversa nella sfera delle attività é dei fini conseguibili dei singoli; e però
la sua non è una società giusto, ma una società di uomini giusti;
giusti, dirci, secondimi quid; la cui giustizia, cioè, è modellata sulle
esigenze di una certa struttura sociale, nel configurare la quale egli
non tien conto di quelle condizioni che pur suppone soddisfatte nel
formare il tipo dell’ uomo giusto. E cosi si avvera qui una i n eoe ronz a
del genere che si ò accennato più sopra: che le norme della sua
giustizia siano applicate a regolare delle relazioni derivate, le quali
esistono e sono possibili in grazia di relazioni primarie e fondamentali,
che le norme non contemplano e che sono la negazione del criterio
applicato in quelle. Perchè mentre suppone che gli individui seguano nella loro
condotta una perfetta imparzialità subordinando alle esigenze della giustizia
o dell’uguale libertà — fine prossimamente supremo — tutti gli altri fini
generali e particolari, suppone poi, come proprie di una tale
cooperazione di uomini giusti, condizioni che sono in tutto o in parte la
negazione dell’imparzialità, e che non esisterebbero se lo stesso criterio
dell’ imparzialità fosse seguito nel costruire il tipo della società
giusta. E in questo senso che, accennando incidentalmente altrove all’etica
assoluta dello Spencer, notavo come un vizio di essa non un eccesso, ma
piuttosto un difetto di astrazione; perchè egli assuine abusivamente come
esigenze costanti e universali di ogni forma di CO-OPERAZIONE, e quindi
anche del suo tipo ideale, le condizioni proprie di un certo momento
storico; e pone come dati fon¬ damentali di una cooperazione regolata
dalla legge della uguale limitazione per tutti, delle condizioni
che importano una limitazione disuguale. Stando così le cose, il
raggiungimento o l’approssimazione a un tale tipo di società, non può
apparire come fine universalmente preferibile, nè le norme che esprimono
la condotta richiesta da quel tipo possono avere carattere di universale
osservabilità sopra ogni altra, E ciò da un doppio punto di vista. Agli
individui delle classi sociali poste, per effetto di quella disuguale
limitazione, in condizione di inferiorità, questa inferiorità che non è
conseguenza della propria condotta, deve apparire una menomazione
ingiusta dei diritti; agli individui delle, classi sociali poste in
condizioni di superiorità, questa superiorità, che parimenti non è
conseguenza della propria condotta, deve apparire, se la coscienza
si elevi a una imparzialità universale e coerente, una menomazione
ingiusta dei doveri, E nasce di qui quel se greto rancore in
chi riceve, e quel senso indefinito di malcontento e quasi di rimorso in
chi dà, clic avvelenano talvolta dalle sorgenti la simpatia, oscurando la
serenità della beneficenza, se la accompagni il dubbio che essa non sia
se non un compenso parziale e tardivo di ingiustizie patite e di
ingiustizie godute. La simpatia non può essere schietta dove
non regna la giustizia; e non si possono definire le forme e i
limiti della beneficenza se non dopo die siano definite, e siano o si
suppongano osservate le norme della giustizia; onde la necessità logica
che il tipo ideale della società giusta sia determinato all’infuori da
ogni supposta efficacia modificatrice che la SIMPATIA e la BENEFICENZA
esercitino sulle condizioni e sulla condotta dei singoli e della società.
Soltanto così è possibile accertare se il tipo di cooperazione assunto
come ideale possa essere universalmente desiderabile, e soltanto
così è possibile determinare dove la giustizia finisca e la
beneficenza cominci; dove finiscano le relazioni di diritto e dove
comincino le relazioni di simpatia. Ora il tipo di società ideale di Spencer
pre- i cti'Qlf senta anche questo difetto che deriva inevitabil-mente dal
primo; di supporre realizzate le condizioni della perfetta simpatia in una
società nella [Questo si riflette con tutta chiarezza nella pratica
quando si tratta di rapporti semplici e sulla giustizia dei quali non
cada dubbio; poniamo tra due commercianti onesti che abbiano
relazioni d’affari e relazioni di amicizia. Dove gli scambi di cortesie
che sono frutto della simpatia, non mutano di un ette i diritti e
gli obblighi del dare e dell’avere; e se li mutano, oscurano e
tingono d’altro colore i rapporti di simpatia. quale non sono
realizzate le condizioni della giustizia. La sua società è una società più o
meno ingiusta di uomini perfettamente simpatetici ; dalla quale
egli ricava per un verso le norme della giustizia, e per l’altro le norme
della simpatia; invece di essere una società giusta di uomini
giusti, quando si tratti di determinare le norme della giustizia ;
e una società giusta di uomini perfettamente SIMPATIZZANTI quando si tratti di
determinare le norme della simpatia e della beneficenza. Ma anche
supposto che per questa guisa la perfetta simpatia venga a sanare gli
effetti delle inferiorità imposte dalla cooperazione sociale, il
tipo che ne risulta presenterebbe sempre questo difetto: che la ricerca e
il raggiungimento di alcuni dei fini, ai quali LA CO-OPERAZIONE serve,
apparirebbe per una parte dei COOPERANTI subordinata alla benevolenza di
un’ altra parte. Il qual difetto basterebbe per togliere, nel giudizio di una
coscienza imparziale, a quel tipo di CO-OPERAZIONE il carattere di
univers ale preferibilità. Ma il difetto era, come s’ò detto, dato
il presupposto Di Spencer, inevitabile. La simpatia è pe r lui il
mezzo di conciliazione dell’egoismo coll’altruismo. Ma poiché i limiti
rispettivi dell’egoismo e dell’altruismo sono segnati dalle esigenze del
suo tipo sociale, la perfetta simpatia è in ultimo la condizione
dell’adattamento psicologico dei singoli a queste esigenze. Ed ò caratteristico
a questo riguardo il latto che il capitolo, nel quale si tratta
dello svolgimento progressivo della simpatia come l’attore della
conciliazione , porta lo stesso titolo e sostituisce nei dati »il
capitolo smarrito e aggiunto poi in appendice, che ho citato più sopra, nel
quale si cita come esempio di conciliazione tra l’egoismo e l’altruismo
l’adattamento alle esigenze della vita sociale delle api e delle
formiche. Per questo rispetto direi, se non sembrasse un paradosso, che
il grande assertore e propugnatore dell’individualismo, è in fondo,
senza che se ne accorga, un difensore della subordinazione totale e
definitiva dell’individuo a un tipo di CO-OPERAZIONE sociale, che egli
considera bensì come la condizione necessaria alla vita più elevata dell’individuo
e della specie, ma che in realtà vincola il grado di elevazione della
vita di un gran numero se non di tutti gli individui, alle esigenze di
una certa struttura economica. E quando egli combatte l’intervento
della società nel regolare i rapporti economici, in nome dei
diritti dell’individuo, dimentica che una parte considerevole di quei diritti,
sono in realtà diritti di alcuni soltanto, e non di tutti, c che questa
disparità ha la sua radice nella costituzione economica, che lo stato,
come egli lo vuole, interviene pure a sancire e a difendere. La quale
osservazione, giova notarlo, non vale per sè nè prò nè contro il
cosidetto Socialismo di Stato. Vale soltanto a provare che
l’individualismo di Spencer non è, come pare, un individualismo
universale, ma un individualismo particolare. Cosi, i l difetto
capitale del tipo di società di Spencer come in genere del cosidetto stato
di diritto nasce non da quel che afferma, ma da quel che dimentica
; non dal riconoscere e difendere le esigenze della uguale libertà per
tutti, ma dal non riconoscerle tutte; cioè dal trascurare o dal1’omettere,
come se fossero soddisfatte, mentre non sono, le condizioni che rendono
possibile 1’ uguale libertà. E, ad esprimerlo in termini
kantiani, il difetto si riduce a questo.DOVE VI E CO-OPERAZIONE CON
EFFETTIVA PARITA DI DIRITTI, CIASCUNO DEI COOPERANTI HA AD UN TEMPO RIGUARDO A
QUALISIASI DEGLI SCOPI DELLA CO-OPERAZIONE, PER UN RISPETTO RAGIONE DI MEZZO E
PER L’ALTRO RAGIONE DI FINE. SE INVECE L’ESIGENZE DELLA CO-OPERAZIONE
INDERDICONO A QUASIVOGLIA DEI [Nota LORIA che quando si grida contro la concorrenza
come causa di una infinità di mali, si attribuisce alla concorrenza
la produzione di effetti che nascono dalla mancanza di concorrenza,
cioè dal monopolio. Perchè la concorrenza domina soltanto nel campo
innocente della circolazione, e qui ha una influenza benefica. Mentre i
mali lamentati nascono dalla distribuzione , e sono il risultato, anziché della
concorrenza che qui non esiste, della mancanza di concorrenza fra
lavoratori e capitalisti. (Cost. Ec. Odierna)] COOPERANTI la ricerca di una
parte dei beni, a cui E CONDIZIONE NECESSARIA LA CO-OPERAZIONE DI TUTTI, per
questa parte l’escluso ha soltanto RAGIONE DI MEZZO, e *non* RAGIONE DI FINE. Il
che avviene appunto, malgrado il riconoscimento formale, o meglio, verbale,
della uguale libertà, anche nella società ideale di Spencer. La
quale perciò non può aver valore di universale e preminente DESIRABILITA perchè
non soddisfa alla condizione richiesta: che tutti i sodi trovino
nelle condizioni di esistenza della società la medesima o equivalente
possibilità esteriore di rivolgere la loro attività alla ricerca di QUALSIVOGLIA
DEI BENI, AI QUALI LA CO-OPERAZIONE SOCIALE E MEZZO. Questo è il POSTULATO
CARATTERISTICO DELL’UNIVERSALE DESIDERABILITA DI UNA FORMA DI CONVIVENZA, ossia
è il postulato caratteristico della GIUSTIZIA. E supporre una società giusta di
uomini giusti equivale a supporre riconosciuta e applicata universalmente
e costantemente in qualunque specie di azione o di influenza che si
eserciti, così dalla società come da ciascuno dei singoli, l’esigenza
di quel postulato. Ufficio e limiti (li una costruzione scientifica
dell’ Etica. LA SOCIETA GIUSTA così intesa non rappresenta dunque un tipo
definitivo della vita più elevata possibile, analogo ai tanti regni
dell’Utopia che la fantasia morale ò venuta fingendo nei diversi
tempi. Anzi per questo rispetto una maggiore o minore elevatezza, complessità o
intensità di vita, di attività, di fini, non ò affatto implicita
nel postulato nè si può ricavare da esso ; e si può concepire (e non ne
mancano in effetto gli esempi) una forma di società in cui sia, almeno
parzialmente l'aggiunto un grado assai elevato di civiltà, la quale
sia tuttavia meno giusta di un’altra più semplice e meno civile. Appunto
perchè la giustizia riguarda la universale possibilità di cercare i
beni, ai quali E CONDIZIONE la convivenza e LA CO-OPERAZIONE SOCIALE, e
non include che questi beni siano di molte o di poche specie, di maggiore
o di minor pregio. Onde è pienamente compatibile col postulato
anche la concezione pessimistica della vita ; perchè, anche dal punto di
vista del pessimismo, uno stato di giustizia, che è la condizione
necessaria della universalità della simpatia e quindi della compassione,
deve apparire preferibile a ogni altro. E se anche si riguardasse come
fine ultimo la negazione universale della volontà di vivere, lo stato di
giustizia apparirebbe la condizione più favorevole perchè 1’ uomo prenda
coscienza della necessità naturale c inevitabile della propria
infelicità, spongliandosi dell’illusione che essa sia occasionale e
contingente, ed effetto di malvagità degli uomini o di iniquità degli
istituti sociali. E QIESTA DESIDERABILITA dello stato di giustizia anche
rispetto al pessimismo è forse una conferma non trascurabile del
valore di universale preferibilità che gli si è riconosciuto, e a un
tempo della sua indipendenza da ogni particolare concezione metafisica. Adunque,
poiché uno stato di giustizia non è caratterizzato da altro se non dall’ipotesi
che le esigenze di quel postulato siano soddisfatte, non si può nè
si deve pretendere di ricavare dal postulato un contenuto determinato, ma
soltanto la forma generale delle norme. Il contenuto specifico deve
essere ricavato dai fini, ai quali SI RICONOSCE O SI SUPPONE CHE LA
CO-OPERAZIONE SOCIALE SIA O DEBBA ESSERE MEZZO, e in relazione al quali
si possano definire le condizioni richieste dal postulato della
giustizia. Quali siano questi fini non si può stabilire se non o per
constatazione o per ipotesi. Per constatazione, quando corrispondano alla
osservazione della realtà psicologica in un dato momento storico, ossia
in una forma di civiltà. Per ipotesi, quando si voglia cercare
preliminarmente quali sarebbero le condizioni richieste dalla possibilità
di ciascuno dei fini isolatamente preso o di un gruppo. Ed è inutile
a questo proposito insistere qui sulla eventuale opportunità o necessità
di ricorrere a tali ipotesi specialmente nelle ricerche, come
questa, nelle quali non è possibile la sperimentazione. Ma tanto
nell’uno quanto Dell’altro caso le condizioni che se ne ricavino e che
vengano stabilite come proprie del tipo di società giusta considerato,
presentano questo carattere : che non sono date, ma costruite, che non
sono reali, ma ideali. Ora, se noi determiniamo quali siano le norme
di condotta corrispondenti a quelle condizioni, queste norme
esprimeranno quale sarebbe il modo di operare nella supposizione che esse siano
già date e reali, e non quale sia il modo di operare che tende a
realizzarle, mentre sono date condizioni piu o meno diverse. La
prima determinazione è oggetto di un’etica pura: la seconda di un’etica applicata,
nella quale si consideri come fine il raggiungimento delle condizioni
ideali che sono assunte nell’ etica pura, e si stabilisca per
approssimazione quale sia in un dato momento storico la condotta sociale
e individuale, che, nei limiti necessariamente imposti dalle condizioni
reali date, ò più atta a favorire la trasformazione di queste nella direzione
segnata da quelle. Soltanto così l’Etica può evitare un errore
del genere di quello nel quale cadevano gli economisti della SCUOLA
CLASSICA; i quali, dopo aver supposto l 'homo oeconomicus mosso
unicamente dall’interesse personale, il che avevano diritto di fare, lo
considerarono poi come reale e die dero valore di leggi n aturali e
necessarie alle conclusioni ricavate da questo e dagli altri dati
astratti supposti. Ora appunto percliò le condizioni soggettive e
oggettive dell’ homo iustus e della societas insta, sono supposte e
non reali, le norme che esprimono quale sarebbe la condotta dell’ homo
iustus e della societas iusta non sono immediatamente nè integralmente
applicabili in condizioni diverse dalle supposte. I « doveri » e i diritti
dell’ uomo giusto nella società giusta non coincidono coi doveri e i
diritti dell’ uomo storico in determinate condizioni storiche; alla
stessa guisa che i diritti naturali dei filosofi dello stato di natura non
coincidevano coi diritti positivi delle società in cui vivevano. Ma
se si dà valore di fine all’attuazione delle condizioni proprie della societas
iusta, i doveri e i diritti 1 dell’ homo iustus diventano il modello al
quale si riconosce desiderabile che cerchi di avvicinarsi il
sistema di doveri e di diritti che vale come giusto in una società reale
data. Alla stessa guisa, se la costituzione di una società foggiata in
conformità all’ipotesi dello stato di natura e del CONTRATTO, si fosse
riconosciuta (con verisimiglianza maggiore ed evitando la confusione fra
giustifica¬ [Gide. Principes d’ éc. poi.] zione etica e spiegazione
storica) come fine da raggiungere invece che come stato originario, il diritto
naturale ricavatone sarebbe legittimam ente apparso come il tipo
idealmente giusto, al quale il diritto positivo doveva avvicinarsi e
adattarsi. Adunque/qu ando si eviti l’errore di scambiare i
dati ipotetici coi dati reali, c la pretensione utopistica di applicare
direttamente e integralmente le conclusioni ricavate dai primi alle
relazioni che sono imposte dai secondi A a ppare evi dente ad un
tempo e la 1 ( frittimi t à della distinzione, e la priorità logica dell’Etica
Pura surf mica Applicata. Raccogliamo in breve i resultati dell’ analisi. Una
scienza normativa etica non differisce dalle altre scienze precettive se
non pe il valore, che si attribuisce al line suo: il quale deve essere
desiderabile univ ersalm ente jyjjma e a preferenza di ogni a ltro , se si
vuole che sia riconosciuto lo stesso carattere alle norme ricavate da
esso. Questo fine universalmente preferibile non nuò essere che un
fine relativamente prossimo, il quale (abbia o no anche valore per sè)
sia mezzo o condizione di tutti i fini che si considerano come ultimi; e
quindi non può essere che una forma di convivenza e di */ . amw Per maggiori chiarimenti sulla relazione fra
le due etiche cosi intese e sulle parti di ciascuna, mi sia lecito
riferirmi a quanto ebbi occasione di dire nei « Prolegomeni ecc. » già
citati. coopcrazione, nella quale 1’ universalità dei singoli possa
riconoscere tale requisito. Ma una società siffatta ò supposta, non
reale, e le norme di con¬ dotta che se ne ricavano regolano delle
relazioni che sono parimenti assunte per ipotesi, e non sono perciò
applicabili direttamente a relazioni più o meno diverse. Tuttavia la loro
determinazione è non soltanto utile, ma necessaria; necessaria dal
punto di vista scientifico alla determinazione delle norme che debbono
regolare le relazioni più complicate della realtà ; necessaria dal punto di
vista etico alla giustificazione di queste norme ; perchè esse sono
valide in quanto esprimono ravvicinamento, nei limiti del possibile, di queste
relazioni reali a quelle relazioni ideali. Il che viene a dire che
l’etica pura fornisce all’etica applicata il criterio per determinare le
norme, e il valore che le giustifica. Ma non bisogna dimenticare
che le norme, sia dell’etica pura, sia dell’etica applicata, hanno
il valore che si assegna a loro, nella ipotesi fondamentale che si accetti come
valido e fuori di contestazione il postulato della giustizia. Ossia hanno
valore se si suppone che OGNI socio RICONOSCA
che una forma di convivenza e di CO-OPERAZIONE nella quale ciascuno
abbia, quanto alle limitazioni esterne, valore di fine a pari titolo di
qualunque altro è preferibile a una forma di CO-OPERAZIONE nella quale
una parte dei <? socii » abbia, per uno o più rispetti, soltanto
valore di mezzo e non di FINE. Quindi, è bensì vero clic
l’assunzione di quel postulato è la condizione necessaria all’
universale riconoscimento della norma, e clic perciò, se si pone
come caratteristica della norma morale 1’ universalità, rinunciare a quello
vuol dire rinunciare a questa ; ma ciò non toglie che si debba
affermare chiaramente e senza sottintesi che il sistema di norme per
tal guisa stabilito ha, come qualunque altro sistema di norme, del quale
si richieda una giustificazione, valore ipotetico; e che perciò
questo valore ò incontestabile solo in quanto si riconosce
incontestabile il postulato. Appare di qui che è vano e illusorio
cercare la giustificazione di una norma morale nelle leggi |
naturali. Perchè ciò che giustifica una norma di condotta non è la
naturalità, ma LA DESIRABILITA dell’ effetto contemplato ; e le leggi
naturali stesse possono apparire giuste od ingiuste secondochè si
assumano come universalmente desiderabili o no i resultati, ai quali la
conformità della condotta' fi 1 affo irafic-li itr [v yJ.tA ttfilk
t**' he* ìtU 'o jqie j. La conoscenza delle leggi naturali
suggerirà i mezzi necessari a raggiungere un fine; e darà modo di giudicare
della come- yuibìlità di questo o quel fine che eia proposto ; ma non
serve a dar valore di universale DESIRABILITA a un ordine di effetti, per
il solo fatto che ce ne riveli la produzione « naturale » a quelle leggi
conduce, o ò creduta condurre. Può essere vero (e non è da discutere qui)
che l’essere o no un ordine di effetti desiderabile (ossia, in
ultimo, l’essere o no presenti ed efficaci nella coscienza umana certi bisogni,
desideri, aspirazioni, credenze), sia un portato necessario della
natura stessa delle cose e dell’ uomo, e che le tendenze umane, si
siano, rebus ipsis dictantibus, modellate cosi da condurre a riconoscere
nella osservanza delle leggi naturali un valore di giustizia e di
bontà; ma anche in questo caso non ò la naturalità, che ne fa ammettere
la giustizia e la bontà, ma è la loro, diretta o indiretta,
desiderabilità. Onde per questo rispetto nulla vieta che si
concepiscano possibili, almeno teoricamente, più Etiche diverse;
possibile, per esempio, (sebbene l’accoppiamento esplicito dei termini
ripugni) un’Etica dell’ingiustizia, quando si assuma come postulato la
prefe- ribilità di una comunione sociale in cui una parte non abbia
che diritti e un’altra non abbia che doveri. Benché allora 1’etica si
sdoppierebbe in due etiche diverse, anzi opposte: l’etica degli uomini-fini
e l’etica degli uomini-mezzi; o, per usare le parole del Nietzsche, la ,orale
dei padroni e la morale degli schiavi; e la medesima condotta sarebbe,
seguita dagli uni, giusta, seguita dagli altri, ingiusta. Che una
giustizia di questo genere ripugni alla psiche del socius per una ragione
analoga a quella per la quale ripugna alla psiche dell’ uomo logico
ammettere che un rapporto tra due cose o fatti, sia vero per gli uni, e
falso per gli altri, è credibile; (sul presupposto di quella
ripugnanza, si fonda, io credo, la giustificazione etica della
coazione e delle sanzioni). E certamente rimane aperto qui un campo
ulteriore di indagini intorno ai problemi che riguardano il come e il
perchè il postulato che assumiamo possa e debba essere accettato ; e se
alla esigenza che esso esprime si possa o si debba assegnare un ufficio,
e quale, nella interpretazionetotale del mondo, dell’ uomo e della
storia. Ma da queste indagini, le quali sono di natura metafisica, la
costruzione scientifica dell’Etica, come qui fu abbozzata, può e deve
tenersi indipendente, per una ragione analoga a quella per la quale
l’igiene è e si mantiene indipendente da ogni questione intorno al
fondamento e al valore del postulato assunto da lei, e dal quale deriva
il valore normativo dei suoi precetti: che un organismo sano sia
preferibile a un organismo malato. Perciò, finché si rimane nel campo della
ricerca scientifica, la sincerità richiede che, anche nell’etica,
malgrado ogni interiore certezza, questa condizionalità del valore delle
norme sia esplicitamente riconosciuta, e che anche nei termini si eviti 1’equivoco,
e fin dalle parole sia bandita ogni pretensione a un valore che non sia
condizionato al presupposto assunto. Per questa ragione, oltreché
per fissare rispetto alla dottrina di Spencer le differenze notate
nel modo di intendere il fine, e di concepire la
società giusta e 1’uomo giusto, e la priorità non soltanto
logica ma giustificativa di un’etica rispetto all’altra, LUa p«A* è
conveniente, sostituire ai termini Etica Asso- ‘fvulfyh luta ed Etica
Relat iva » i termini « Etica P ura V'.',:r , ì ' pvi n l iuta i v
a » i ieri mmi « e~=r . 1 ", della giustizia ed etica applicata
della giustizia. (^ 3 ; n*fac- E se tosso poi, c'Sfne~r _ l n
effetto, necessario od 'GlfiULiffil opportuno determinare quali
dovrebbero essere le norme di condotta nell’ ipotesi che, osservate
preliminarmente le condizioni della giustizia, fosse assunto come fine
l’adempimento delle condizioni richieste dalla universale solidarietà, si
avrebbero due ulteriori sezioni dell’Etica: l’etica pura della simpatia
e l’etica Applicata della SIMPATIA. A leggere questo titolo, quelli che VARISCO
chiama felicemente i filosofi dell’ oramai e quegli altri che si
potrebbero chiamare i girasoli della filosofia (i due tipi coincidono in
parte, ma non in tutto) c’è da scommettere che sorrideranno. Non è
oramai pacifico che di una scienza della morale non si può parlare? E
vale la pena di perdere il tempo attorno a un problema oltre-passato? Io
mi rassegnerò a lasciarli sorridere; ma non son persuaso dell’oramai, e
trovo che il problema è tutt’ altro che superato. La quale persuasione
per altro non garantisce nulla, pur troppo, rispetto all’ altra faccenda
del perder tempo; perchè il tempo si può perdere, e far perdere, come
sappiamo benissimo tutti, anche trattando di argomenti non oltrepassati. Dico
dunque che il problema, almeno nel modo nel quale credo che debba essere
posto e ho cercato di porlo, è più vivo che mai e di interesse capitale
così per l’Etica come per la Filosofia del diritto. E chiedo scusa fin da
ora al lettore se dovrò, richiamandomi a cose già dette, parlare, più
spesso che le buone regole non consiglino, in prima persona. Quando
sostengo la possibilità e la legittimità di una scienza normativa morale, non
intendo che una tale scienza possa o
debba sostituire la metafisica, e bandirla proprio da quel campo che è il
vero vivaio dei problemi metafisici, il campo delle idee e dei sentimenti
morali. E nemmeno che possa pretendere di costruire la morale, l’unica
vera morale erigendo a norme della condotta certe leggi naturali cosmiche,
o biologiche o psichiche o sociologiche o storiche, alle quali si
presuma di dare valore imperativo. La tesi che ho sostenuto e sostengo è
diversa. Una scienza normativa etica, non può, al pari di qualsivoglia
scienza precettiva, consistere in altro che in u n sistema di relazioni e di
legg i, le quali hanno valore di norme da seguire nell’ ipotesi che sia
assunto come fine quel- F effet to o quell'ordine di effetti, del quale
esse ’-ggi esprimono le condizioni e i fattori. Ma dibosco dalle altre,
perchè s uppone che al fine suo [MJLjcTalfA Ò)lCJUjLt>
'ittl, del quale esse ’Sl'Kp tkf si a rico n osc iuto un valore di
universale pref eribilità e precedenza sopra ogni altro fine. Perciò
una determinazione scientifica di norme etiche richiede due condizioni. Che
il fine sia umanamente possibile; cioò tale che se ne possa stabilire la
dipendenza condizionale da una certa forma di condotta collettiva e
individuale. Di qui dipende il carattere scientifico della costruzione
; perché la relazione che lega le norme con quel fine potrà essere
lunga, complicata e difficile, ma non richiede ad essere conosciuta altri
mezzi che quelli di una indagine scientifica. Che sia ammesso
come postulato che il riconoscere al fine assunto valore di universale
preferibilità e precedenza rispetto a qualsivoglia altro fine umanamente
possibile, è un 'esigenza morale. É ovvio di per sè che se si ricusa di
ammettere questo postulato o se ne nega la legittimità, la determinazione
delle norme di condotta richieste dal fine contemplato non perde nulla del
suo carattere scientifico; ma le norme non hanno valore morale. Ossia,
il valore morale delle norme così ricavate ò relativo alla accettazione
del postulato; e la derivazione scentifica di un sistema di norme dal
fine in discorso non ò, a rigor di termini, la scienza della condotta
morale; ma la scienza di una certa condotta; la quale è la condotta
morale, se si ammette e in quanto si ammette quel postulato. Ma è
altrettanto ovvio che non avrebbe senso, o sarebbe al tutto arbitrario e
fuori di proposito, l’attribuire in ipotesi al fine un valore che nessuno
fosse disposto a riconoscergli, e assumere come Ua esigenza morale
una esigenza che non trovasse nella / r f>' r \ c < ’• ' a •
fi «.e realtà nessuna corrispondenza. Ed è perciò che ho cercato di porre
in chiaro in primo luogo quale fosse l’esigenza caratteristica del valore
morale di una norma; poi, se si potesse assegnare un fine umano, e
quale potesse essere, che rispondesse a queste condizioni. Non è il
caso di ripetere il già detto; qui ne ricordo soltanto le conclusioni: che
l ’esigenza che assum o, e, credo aver dimostrato, legittimamente, come
caratteristica di una norma morale ò quella di una universale giustizia; e che
il fine che soddisfa a questa esigenza non può essere che una forma
di società umana tale, che tutti i sodi trovino nelle sue stesse
condizioni di esistenza la medesima o equivalente possibilità esteriore
di rivolgere la loro attività alla ricerca di qualsivoglia dei BENI AI
QUALI LA CONVIVENZA E CO-OPERAZIONE SOCIALE E MEZZO. Supponendo dunque
ammesso il postulato sopra detto, non ho fatto e non faccio una
ipotesi arbitraria; poiché l’esigenza della giustizia, alla quale il postulato
fa appello, è la più profonda e più tenace e più incoercibile
dell’uomo in quanto è socius, cioè in quanto è soggetto di moralità
e considera se stesso, ed è considerato, come persona a pari titolo di
ogni altro socio. Mi riferisco, qui e nel corso di questo scritto, a
quello clie che lo precede nel presente volume, e a un altro studio:
Prolegomeni a una morale indipendente dalla metafisica, Pavia, Bizzoni. Tuttavia
per quanto possa parere ed essere legittimo prendere per concesso qu esto
postulato, non bisogna dimenticare, ma anzi importa rilevare chiaramente
, che il fine e le norme corrispondenti hanno quel valore che si
attribuisce a loro, soltanto nell’ ipotesi che lo si accetti come valido
e fuori di contestazione. Se non 6 ammesso, ò vano pretendere
clic la costruzione normativa valga a farlo accettare o possa
obbligare ad accettarlo. Essa non può che mostrare la coerenza delle
norme proposte col fine assunto, e di questo colla esigenza della
giustizia; e mostrare con ciò che non si può ragionevolmente
ammettere questa esigenza senza ammettere il valore di universale priorità
attribuito al fine, e quindi alle norme. Ma che l’esigenza invocata
sia ammessa in realtà, o sentita come tale, ò un dato di fatto che
la costruzione normativa trova, se c’è; ma che non pone essa, ne per sò
vale a mutare. Adunque la scienza normativa morale così intesa si
riduce alla determinazione delle norme di condotta valide per una
coscienza che anteponga a ogni altra esigenza l’esigenza della universale
giustizia. Se in ipotesi volesse determinare le norme di condotta per una
coscienza per la quale valga come suprema l’esigenza egoistica, le norme
risulterebbero diverse. Ma il procedimento sarebbe il medesimo; la
deduzione sarebbe, o si può concepire che potrebbe essere,
ugualmente ragionata e scientifica. E del pari se si assumesse come
regolatrice l’esigenza dell’abnegazione o della rinuncia incondizionata
di sò agli altri, o qualsivoglia altra esigenza e un fine possibile
corrispondente. Di qui si vede quanto sia superficiale c vuota di
significato l’opinione tante volte ripetuta, e che forma quasi il
leitmotiv di un’ opera che ha latto gran rumore, che la ragione non ci
comanda che l’egoismo. La ragione per sè non comanda nulla. NE L’EGOISMO
NE L’ALTRUISMO -- nè la giustizia. La ragione cerca, e mostra, se le
riesce, i mezzi che servono a conservar la vita a chi la vuol conservare,
a distruggerla a chi la vuol distruggere; addita ai pietosi le vie della pietà,
ai giusti le vie della giustizia, e le vie del proprio tornaconto
agli uomini senza scrupoli. Ma l’egoismo non 6 per sè più razionale
dell’altruismo, nè il regresso più razionale del progresso, nè la
conservazione dell’individuo più razionale di quella della specie, nè 1’
utile proprio più razionale che 1’ utile della collettività. RAZIONALI
NON SONO I FINI, MA LE RELAZIONI DEI MEZZI AI FINI. Ed è così ragionevole che
dia la -- Dire che la ragione non consiglia che l’egoismo equivale
a dire che una condotta non egoistica non si può RAGIONEVOLMENTE
GIUSTIFICARE. Ossia viene a dire una di queste due cose : 0 che di un
fine non egoistico non si possono assegnare mezzi possibili, e vita per
un’idea chi pregia più l’idea che la vita, come che taccia la verità per
un ciondolo chi ama più i ciondoli che la verità. Ma forse dicendo
così si è ancora giusti verso la ragione. Perchè se ciò che si chiama uso
della ragione può avere, come non dubito che abbia, una efficacia
indiretta nella valutazione dei fini, non è dubbio che questa efficacia
si esercita in favore di quei fini e di quelle norme che rispondono
alla quindi non si può determinare quale sia la condotta atta a
raggiungerlo; cioè che si tratta di un fine fuori di ogni efficienza
umana. E in questo caso non ci sarebbe senso a proporlo come fine dell’operare
nè in nome della ragione nè in nome di qualsivoglia altra cosa, dal
momento che qualsiasi condotta sarebbe rispetto ad esso indifferente.
Oppure che un fine non egoistico non è mai fine per sfi, ma ha bisogno di
essere giustificato da un fine egoistico al quale sia mezzo o condizione.
Ma il valore per sè di questo fine egoistico ultimo, al quale si riporta
la giustificazione, non può essere alla sua volta giustificato, ma deve essere
un dato di fatto reale o supposto; il quale dunque, appunto per ciò, è
fuori di ogni ragionamento. E il vero senso dell’ affermazione in
discorso è allora non che la ragione consiglia l’egoismo; ma che gli uomini
sono tutti e sempre e inevitabilmente egoisti (poiché i fini ai quali
soltanto riconoscono valore per sè sono fini egoistici); e quindi, finché
sono e rimangono egoisti, non possono trovar ragionevole altra condotta
all’ infuori di quella suggerita dall’egoismo. Sapevhm- celo ; ma non
vuol dire che l’essere egoisti sia più ragionevole die il non
essere. D’altra parte, posto che gli uomini fossero inevitabilmente
egoisti, anche il precetto o il consiglio di non seguire la ragione,
dovrebbe, per avere valore pratico, fare appello in ultima istanza a in
fine egoistico, nè più nè meno di quel che farebbero nello stessè caso i
consigli della ragione. Con questo bel risultato : che gli uomini rinuncino ad
essere ragionevoli per continuare ad essere egoisti. tendenza
caratteristica dell’attività razionale: l’universalità. Ora nel campo
dell’attività pratica il fine del quale soltanto si può concepire
universale il raggiungimento, e la norma, della quale soltanto si
può concepire universale l’osservanza, sono un fine e una norma conformi
all’esigenza della giustizia. Ma, tornando al nostro argomento, anche il
riconoscere che il fino e le norme determinate in conformità al postulato
hanno, e possono avere essi solamente, la nota razionale
dell’universalità, non ne toglie il carattere necessariamente e
insuperabilmente ipotetico; perchè se il loro valore si fa dipendere da
questa loro universalità, si prende per concesso che l’universalità sia
assunta come criterio di valutazione; ossia che dell’esigenza ra- [Son
trovo che si sia dato il peso dovuto alla considerazione che non solo
l’egoismo, ma neppure l’altruismo può fornire una regola di condotta, che
si possa concepire nei rapporti tra gli uomini universalmente e costantemente
osservata, senza contraddizione, o senza che sia necessario supporla
subordinata alla sua volta a una norma di giustizia. Perchè sia possibile
l’abnegazione e la rinuncia incondizionata di sè agli altri, bisogna che gli
uni si sacrifichino, e gli altri o qualche altro accettino il sacrifizio;
cioè che gli uni seguano la massima dell’ altruismo, e gli altri o
qualche altro quella dell’egoismo. Se poi si ammette che nessuno debba
poter sacrificarsi piu di un altro, (oltreché il sacrifizio si riduce a
un tacito SCAMBIO DI SERVIGI RECIPROCI), bisogna che la condotta
altruistica di ciascuno non impedisca o limiti una pari condotta altruistica
degli altri ; cioè bisogna che 1’ altruismo alla sua volta sia governato
da una norma di giustizia. zionalc e teoretica dell' universalità la
coscienza faccia una stima pratica, attribuendole un valore e un’
autorità superiore ad ogni altra esigenza. Concludendo: la scienza
normativa etica, alla quale mi riferisco, è la scienza della condotta
richiesta da un fine conforme all’ esigenza detta. Se si riconosce come
caratteristica del valor morale di un fine e delle norme che ne dipendono
una esigenza diversa, o se si pone come congruo ad essa un fine
incongruo, o si assumono come condizioni conformi all’esigenza di una
universale giustizia delle condizioni clic negano o limitano questa
universalità, le norme riconosciute e accettate come morali saranno
diverse. Ma non concluderebbe nulla contro la tesi che difendo
l’opporre che le norme o alcune delle norme in effetto tenute o seguite
come morali sono diverse o contrarie a quelle proposte e ricavate
in conformità al postulato assunto. Perchè qui non si tratta già di
esporre (piali sono le norme accettate, o di farne l’apologia ; nè di
cercare che cosa bisogna ammettere per accettarle; ma di determinare
quali sarebbero le norme della condotta morale nell’ipotesi che si accetti il
postulato. Insomma si fa un’ ipotesi e si cerca che cosa ne
segua. Ma per negare valore scientifico a una tale costruzione ipotetica
bisogna negare la dipendenza condizionale del fine assunto da una certa
condotta collettiva e individuale; e per negarle valore morale, bisogna
negare il valore morale dell’esigenza, o ammettere che essa è o dove essere
subordinata a un’esigenza diversa. Finché non si giustifica nè l’una nè l’altra
negazione, il dichiarare oltrepassato il problema vale poco; e il
sorridere vale anche meno. Perchè esponendo questo concetto io non
mi sono dissimulato le difficoltà e le obbiezioni possibili; sopratutto
quelle che fanno capo alla affermazione comune della impossibilità di una
determinazione di norme morali che non si fondi sopra una dottrina
metafisica. Questa questione anzi ho esaminato di proposito, e le
conclusioni di quell’analisi non furono confutate. Avrei dunque, « in
tesi di diritto » ragione di ritenere spostato l’obbligo della
prova. Ma nel fatto, come tutti sanno, ò sempre chi dissente dalle
opinioni stabilite che ha torto; e deve rassegnarsi a battere e ribattere
per tutti i versi lo stesso chiodo. E prima di tutto occorre qualche
parola su quella che si potrebbe chiamare la tesi scettica, [Che
essa possa e debba aver valore anche dal punto di vista del diritto è
cosa evidente; ma come c quanto non sono questioni da risolvere cosi di
sfuggita. della impossibilità di una qualsiasi determinazione di
norme morali. Il fatto etico è contingente, multiforme e variabile in
ogni circostanza, e sfugge ad ogni tentativo di determinazione razionale.
Oltredichè esso dipende dal sentimento e dalla volontà e non dalla
conoscenza, e non si può ricavare da un processo di deduzione logica. Questa
tesi ha il grave torto di confondere la morale colla moralità; confusione
sulla quale dovrò tornare anche più innanzi. Il fatto etico e
variabile. Certamente. E il fatto giuridico, che ò una specie dell’
etico, non ò esso pure variabile? E forse perciò non si stabiliscono
nonne giuridiche determinate e precise, e non si considera questa
determinazione come un’esigenza della vita sociale, e non si misura dalla
sua precisione e coerenza il progresso della vita e della coscienza
giuridica? E non è un luogo comune la lode fatta a ROMA di MAESTRA DEL
DIRITTO? Non si venga a dire che il fatto giuridico riguarda solo
la non, come la morale, anche e sopra tutto la interna ; qui si fa
questione, anche per la morale, appunto, della condotta ester na, nella quale
la moralità interiore deve pur tradursi; ed è assurdo dire, per esempio,
che non ha senso il precetto non frodare, e vano cercar di
determinare in che la frode consista, perché la frode è, forse più che
qualunque altra cosa al mondo, contingente multiforme e variabile.
È pur fuori di dubbio che l’operare in un modo piuttosto che in un altro,
dipende dal sentimento e dall a volontà, e non dalla co noscenza del
precetto; e che non si può dedurre da nessuna combinazione di premesse
l’azione. Nessun congegno di premesse, nessun processo logico, nessun
sistema di conoscenze pone in essere la benché minima cosa; .A}*
VcttmaJ. ’l| conseguenza di un ragionamento ò sempre fin giudizio,
non un’azione; nella morale come in qualunque altro campo; l’azione., potrà.. o
non potrà seguire, secondo che le disposizioni sentimentali c.
volitiv e sono tali o tali altre; potrà anche seguire senza che ci sia il
giudizio. Verissimo e giustissimo. Ma non conclude nulla al proposito.
Perché qui è questione non di fare, ma di sapere quel che convenga fare,
chi si proponga e ammesso che si proponga un certo fine. Ora lo stabil ire
queste relazioni tra un certo fine e certe operazioni necessarie a
raggiungerla é ufficio della conoscenza, non della volontà ; e io spero
che nessun voluntarista vorrà sostenere che è indifferen te a chi vuol
andare, poniamo, a Canossa, conoscere quale sia la strada per arrivarvi.
E il dire che non è la conoscenza nè di un certo effetto, nè dei mezzi,
ciò che fa volere l’effetto e volere i mezzi, non toglie nulla all’ufficio
specifico della conoscenza; anzi, e appunto perciò, lo determina. E
rimproverare a un sistema di norme di essere per sè inefficace a muovere l’azione
non ha senso ; come non avrebbe senso pretendere che una formula chimica
produca essa il composto del quale indica la combinazione. L’ ufficio
delle norme morali, come di ogni altro sistema di norme qualesivoglia,
non può essere che un ufficio informativo, non formativo ; di guida, non
di stimolo, di indicatore, non di propulsore. E quelli che
adducono, per mostr are l a inanità di una costruzione norma tiva, l a
dipendenza dell’ azione dal se ntimento e dalla volontà , non si
accorgono di confondere essi il conoscere coll’operare, cioè, come'
s’è detto, la ni qrfllo nnIlp mo ralità, la determinazione_delle norm e colla c
onformità alle norm e. Senonchò si può soggiungere che la determinazione
in questo campo non serve, perchè la conoscenza delle norme si sprigiona volta
per volta come da sè fuor dalle circostanze, per un intuito
naturale che è più fine e delicato di qualunque deduzione scientifica. E così
viene in campo, accanto alla tesi dell’ impossibilità, quella dell’
inutilità: l a cos cienza morale rende inutile la dottrina morale. Lasciamo per
ora la difficoltà capitale che nasce dal fatto stesso da cui è nata
la riflessione critica della morale: il fatto della diversità di
contenuto nelle coscienze morali diverse; e poniamo —
senza concedere — che 1’intuito basti per tutti e sempre a segnare
caso per caso la via. Non ne seguirebbe ancora l’inutilità di una ricerca
che si proponesse la determi nazione sistema tica del fine a cui .intuiti
vamente tend e e delle norme che intuitivamente segue la coscienza morale.
Come la guida istintiva dei bisogni (^feUe^enTazioni non basta a
rendere inutile l’igiene; o come non basta a condannare la
conoscenza fisiologica, per esempio, della digestione, il fatto che digeriscono
bene, anzi di solito digeriscono meglio, quelli che non sanno di
quelli che sanno come la digestione avvenga. E veniamo alle
obbiezioni che toccano direttamente la nostra tesi. In primo luogo si può
osservare che la p retesa scienza della mora le, nell’ atto stesso
che dichiara di voler tenersi estranea a qualunque affermazione di
carattere metafisico, presuppone una certa soluzione di un problema
essenzialmente metafisico. Perchè, assumendo come fine morale un ordine
di effetti umanamente possibile, pone come risoluto il problema se il
fine supremo possa o debba essere umano o sovrumano, relativo o assoluto;
risolve cioè, sia pure negativamente, un problema metafisico. Cerchiamo di
intenderci. Si supporrebbe risoluto il problema, se assumendo un fine
(diciamo per brevità) umano, si ponesse questo fine come ultimo
assolutamente, come definitivamente supremo; cioè se gli si assegnasse un
valore assoluto ; e si negasse la possibilità di una ulteriore valutazione
del fine stesso; di una sopravalutazw We^Tciafisica, per la quale
sia creduto mezzo alla sua volta, o condizione o preparazione di un fine
sopraumano. Ma questa possibilità 1’ipotesi non la esclude. Si dirà
che in tal caso il fine umano non è più il vero fine; e che perciò le
norme debbono essere ricavate da quello a cui si dà davvero valore
di fine ultimo, valore assolutamente, non relativamente, supremo; e
che questa necessità riporta il problema della determinazione delle norme
in piena metafìsica. Ma è questo che io nego ; e dichiaro di non capire
come da un fine assoluto si possano ricavare delle norme per la condotta
in condizioni finite, da un al di là le norme per un al di qua; e
dubito che quelli i quali dichiarassero di capire, equivochino sui
termini. Perchè non si potrà mai dimostrare un legame di condizionalità tra un
certo modo di operare o un fine sopra naturale; essendo il proprio
e caratteristico del sopranaturale c del sopraumano di esser fuori dalla
efficienza naturale e umana. Se si considera il fine sovraumano
come un effetto che può essere condizionato da mezzi puramente umani esso
cessa di essere sovraumano (Urmson, Saints and heroes). Ma se invece rimane
tale, cioè trascende la efficienza umana, si potrà bensì credere ed
affermare che a raggiungerlo si richiede una certa condotta, ma non
si può assegnare una relazione di condizione tra la condotta ed il fine, cioè
non si può ricavare dal fine la norma. La riprova si ha nel fatto,
evidente ad ogni osservatore non del tutto superficiale, che, anche nei
sistemi di morale teologica o metafisica, quando si tratta di determinare
le norme che debbono regolare la condotta nelle relazioni della vita
comune, famigliare e sociale, non è più il fine assoluto quello da cui si
deducono le norme, ma un fine umano, sia prossimo, sia remoto; un certo
ordine e un certo tipo di vita individuale e sociale. Le norme dedotte da
questo fine subordinato si presentano bensì come derivate aneli’esse dal
fine assoluto, perchè si assume quello come posto o voluto o necessitato
da questo ; ma in che modo dal fine assoluto si ricavi il fine relativo,
come e perchè, per raggiungere o approssimarsi a quel fine sopraumano,
sia necessario tendere a questo fine umano, non si dimostra nè si può
dimostrare. E quando par che si dimostri, gli è che si è assunto
tacitamente e come incorporato in modo surrettizio nel fine assoluto il
fine relativo, che poi se ne deriva ; cioè in ultima analisi non si è
fatto altroche porre o assegnare un valore sopraumano al fine umano;
ossia si è fatta (fucila che ho chiamata una sopravalutazione metafisica di
quel certo fine umano dal quale in realtà sono ricavate le
norme. Non è dunque vero che assumendo un fine umano si risolva, o
si postuli una certa risoluzione di un problema metafisico. Non si la che
ubbidire a una esigenza, la quale sussiste sia che si risolva
positivamente, sia che si risolva negativamente il problema intorno alla
natura del fine assolutamente ultimo o supremo; un’esigenza logica alla
quale non si può sfuggire: che un sistema di norme di condotta
individuale e sociale non si può stabilire se non in relazione a un certo
fine, esplicitamente o implicitamente assunto, che dipenda
condizionalmente dalla condotta, cioè che sia umanamente possibile. Ma
non è un’altra esigenza, un’ esigenza propriamente morale, che il fine
abbia un valore assoluto e non soltanto relativo? Non discuto se sia o
non sia; perchè si tratta in ultimo di constatare un fatto di coscienza,
e per la constatazione di un fatto la discussione non approda. Poniamo
che sia. Forsechè le dottrine che pon gono un fine assoluto fanno
qualcluTco^ ~~di meglio che postulare la possibilità di quel fi ne
e postularne il valore ? Cioè supporre che quella possiljilità e questo
valore siano dati nelle intuizioni o nelle credenze, dalle quali li
prendono, per dir cosi, a prestito, e sulle quali fanno
assegnamento? E se è cosi, e non può essere altrimenti, se la credenza nel
fine e il riconoscimento del suo valore assoluto, e la derivazione da
esso del (ine o dei fini relativi della vita finita, non possono
essere dati o fondati dalla dottrina, ma soltanto assunti o
affermati, è facile vedere che la dottrina vale per la coscienza clic la
sente e, direi, la vive già, e che accetta l’affermazione perchè la trova
corrispondere a ciò che è già dato in lei stessa; ma non vale essa, la
dottrina, a far accettare queste sue affermazioni a una coscienza che
intuisca e senta c creda diversamente. La costruzione dottrinale
metafisica non riesce dunque clic a fare appello a un a intuizione o a
una v alufazio ne di cui ammette o suppone 1’ esistenza, ma n on a farla
sorgere dove manca ; e quindi, di fronte a una coscienza diversa da
quella che essa suppone, si trova nella stessa condizione della
costruzione non metafisica. Cioè vien meno alla ragione per la quale il
valore assoluto del fine è richiesto. Questa ragione, se il valore
assoluto del fine non è già assunto come una constatazione di
fatto, consiste nella pretesa illusoria che la dottrina possa e
debba assicurare per questo modo alle norme una validità universalmente
riconosciuta; e nasce da una preoccupazione pratica analoga a quella
dalla quale è ispirata l'altra pretesa che l’etica dia alle norme
autorità imperativa. Ed eccoci all’argomento capitale: 1’esiggenza del
carattere imperativo della norma. Ho già ripetutamente segnalato
l’equivoco sul quale si fonda la pretesa esigenza dell’obligatorietà
della norma morale. È in fondo il medesimo già notato più sopra a
proposito della istanza sulla inefficacia della conoscenza a determinare
l’azione; l’equivoco di con fondere la morale colla moralità, la
norma col la conformità alla norma: e quindi di pretendere da una
dottrina quello che nessuna dottrina nè metafisica nè non metafisica può
dare: la garanzia dell’osservanza, cioè 1’efficacia esecutiva. Il
linguaggio favorisce anche qui il persistere dell’errore; e l’uso di definire l’etica
la scienza o la dottrina dei doveri, contribuisce a ribadire il
preconcetto. nato dalla preoccupazione pratica, che compito di una
dottrina morale possa o debba essere quello di costruire o fondare delle norme obligatorie.
Mentre l’etica, dico qualunque dottrina etica, non può fare altro che
dedurre, o indurre, o comporre a sistema, delle norme o ilei
precetti, i quali hanno valore di doveri, se e in quanto la
coscienza concepisce, o meglio sente e vuole , come dovere, l’osservanza
dei precetti stessi, o la prosecuzione del fine (o dei fini) dal (piale quei
precetti Yi (yivuni l&u vuxnrib I nei
— sono derivati. E se anche tutte le coscienze universalmente, in ogni tempo e
luogo, concordassero nel sentire come obbligatoria 1’ osservanza di
una certa norma, non per questo si potrebbe dire che l’imperativo è
un carattere della norma ; l'imperativo sarebbe sempre anche in questo caso un
carattere del motivo che spinge all’ osservanza della norma; un dato
della coscienza che la abbraccia, che la riveste e la investe di questo
motivo, clic la sente così. Quale sia la preoccupazione pratica da
cui nasce e si alimenta il preconcetto, e. quale, sia il processo
per cui si viene ad assegnare alla costruzione normativa un compito al quale
essa non può soddisfare in nessun modo, ho pure già cercato di
mostrare altrove, e non serve di ripetere. Piuttosto non mi par
privo di interesse mettere in chiaro con 1’analisi come i modi, nei quali può
essere interpretato e tentato il proposito di fondare una norma
obbligatoria si riducano a postulare l’esistenza dell’obbligo, quando non
riescono a una forma più o meno larvata di IMPERATIVO IPOTETICO. E
come poi, per il verso opposto, assumendo l’imperativo categorico
per dato o postulato, non se ne possa ricavare la determinazione delle
norme; ma si richieda perciò l’assunzione espressa o sottintesa di un
fine, o di un criterio di valutazione e derivazione, estraneo e indipendente da
quello. Il compito di assegnare una norma che abbia autorità
obbligatoria può essere, e lu in effetto, inteso in più significati diversi; i
quali si possono ridurre ai quattro tipi seguenti. Dimostrare che la
norma proposta corrisponde a un sentimento, a un motivo, a una disposizione che
si manifesta nella coscienza come obbligo. Allora il senso reale ò, non
già che la do ttrina dia essa autorità o bbligatoria alle su e
norme; bensì questo: che essa riduca, traduca o formuli in norme i modi
di condotta ai quali la coscienz a si sente obbligata. Ma così la categoricità
del precetto è constatata e assunta, non posta, nè fondata dalla dottrina;
e la norma obbliga solo se •ed in quanto i suoi comandi ripetono i
comandi della coscienza; il suo tono imperativo è un’eco, e vien
meno se tace la voce della quale assume il tono. Presentare le norme
come ordini di un Potere (qualunque ne sia la natura)
irresistibile, che costringe volenti e nolenti a seguirlo. Intesa così
l’autorità non viene nò dalla natura delle norme, nò da quella del fine a
cui sono ordinate, ma da quel Potere del quale l’Etica fa, per dir
così, la presentazione; anzi il suo ufficio si riduce in realtà a quello
di interprete ed araldo di quel Potere ; che essa non pone, ma a cui là
appello, e che suppone sia riconosciuto dalle coscienze alle quali
parla in nome suo. Ad ogni modo l’espressione analizzata, se si usa
ad indicar questo ullìcio, è del tutto abus iva; l’espressione esatta ò
questa: compito dell’Etica ò di determinare quale sia la legge imposta da
quel potere indis cutibile e irresist ibile, di cui si ammette o si
riconosce l’esistenza. Dimostrare che ciò che la norma prescrive
dovrebbe esser voluto dall’ uomo, sopra ogni altra cosa : cioè sarebbe
voluto in effetto, se, invece di essere come ò, 1’uomo fosse diverso;
seguisse la sua vera natura, fosse giusto, o perfetto, o realizzasse un
certo tipo ideale. Ma è chiaro che in questo senso non si là che o
determinare il fine in l'unzione di un certo tipo ideale, o il tipo in
funzione del line; ossia, in altre parole, determinare la relazione che
sussiste tra una certa natura e una certa condotta. La qual
relazione per necessaria che sia, non si vede come [tossa far nascere la
coscienza d’ un obbligo. Se si pensa di fondare in tal modo 1’obbligatorietà,
manifestamente si suppone ebe il conformarsi a un certo tipo, il
realizzare un certo ideale sia già sentito come obbligo; e si rientra,
quanto al fondamento di questo, nel primo dei casi enumerati. Se poi si
intendesse dire che chi vuoi essere uomo davvero, giusto, o perfetto,
deve proporsi un certo fine o seguire una certa condotta, si avrebbe
non piii un imperativo categorico, ma un IMPERATIVO IPOTETICO (GRICE,
CONCEPTION OF VALUE). Dimostrare che ciò che la norma prescrive, dece
essere voluto universalmenta e incondizionatamente. Questo ò manifestamente il
significato che pare più proprio, e nel quale intesero e intendono
l’esigenza i moralisti i quali credono di poter ricavare l’obbligo dalla natura
del fine che assumono come ideale etico. Ma l’intendere la tesi
così, implica che si ammetta la possibilità di una di queste due vie o
derivare l’obbligatorietà dal valore riconosciuto al fine, assumendo
questo riconoscimento come dato o postulato; o derivare dalla natura del
fine l’ obbligo di riconoscere al fine stesso un tal valore. E l’una e
l’altra di queste due tesi deve essere considerata distintamente e un po’
più a lungo. Posto pure che al fine assunto fosse riconosciuto in
realtà universalmente valore di sommo bene, non ne seguirebbe in nessun
modo che il sentirlo e riconoscerlo come sommo bene porti con se il
sentirsi obbligati a volerlo e cercarlo. Questo riconoscimento non genera
la coscienza dell’obbligo, bensì ne mostra la ragionevolezza, fa che la
coscienza approvi l’autori tà ob bligante; cioè giustifica P obbligo,
posto che ci sia. Ora una tale giustificazione riesce a questa
alternativa: o serve a dimostrare che Insognerebbe ragionevolmente trovar
buona e seguire la norma anche se non si sentisse l’obbligo, perchè la norma è
ordinata a quel certo fine che è riconosciuto come sommamente DESIDERABILE.
E in questa forma la pretesa fondazione dell’ imperativo categorico si riduce
alla formulazione di un imperativo ipotetico, che si sostituisce o si aggiunge
al categorico. 0 riesce a un’argomentazione di questo genere : Siccome è
bene sommo il fine, è bene l’osservanza della norma; e poiché si
ammette o si suppone che la coscienza d’un obbligo assoluto sia
necessaria a garantire questa osservanza, l’imperativo categorico
appare la condizione sine qua non, acquista valore di MEZZO
indispensabile al proseguimento del FINE. Nel primo modo si viene a dire
che l’imperativo categorico è giustificato perchè è bene ciò che esso
comanda; nel secondo che è giustificato perchè è bene che esso comandi in quel
tono. Ma nè l’uno nè l’altro modo nè ambedue insieme riescono a
fondare l’obbligo assoluto; anzi appunto perchè 10 giustificano gli
tolgono il carattere di categorico. Il che se nel primo caso è più
evidente, non è meno vero nel secondo. Infatti, posto pure che la
categoricità dell’ imperativo sia condizione necessaria all’osservanza
della norma, non ne viene perciò che l’obbligo sia categorico, ma soltanto
che sarebbe bene che fosse, che è desiderabile che sia: ossia la pretesa
derivazione che se ne fa, mostra la necessità di una condizione, non la
pone in atto se manca; pone in chiaro un’esigenza, non la soddisfa. In
secondo luogo la dimostrazione stessa di questa esigenza è contradditoria,
perchè a convincere la necessità dell’obbligo categorico ne assegna le
ragioni; il che equivale ad ammettere che venendo meno queste ragioni verrebbe
meno quella necessità; ossia che l’obbligo dovrebbe valere come
categorico, finché è utile che valga; come chi dicesse un’ autorità che si fa
valere incondizionatamente sotto certe condizioni. Adunque, se la c Qscienza
d’un obbligo asso luto manca, la derivazione che se ne pretenda fare
da un fine, qualunque sia il valore che gli si attribuisce, non può farla
sorgere; se c’è, la giustificazione riesce ad assegnare le condizioni della
sua validità, cioè a togliergli il carattere di obbligo
incondizionato. Il che può però aver un senso, se si guarda bene; ma in
un caso soltanto: nel caso che la coscienza la quale si rende
ragione delle condizioni che importano questa necessità o utilità dell’
imperativo categorico, e la coscienza nella quale 1’imperativo vale come
categorico, siano due coscienze diverse; ossia nel caso che una coscienza
riconosca la necessità che 1’imperativo valga incondizionatamente per un’altra
coscienza. Che è un senso assai meno strano di quel che possa parere
a prima vista. Oppure finalmente si intende che apprendere ciò clic
è posto come line equivalga per ciascuno a dover riconoscerlo come tale;
che non si possa conoscere la natura del line senza sentirsi
obbligati a riconoscergli valore di bene supremo ; cioè che la conoscenza
generi la coscienza d’un obbligo. Questa che è in sostanza la tesi difesa,
tra gli altri, con grande vigore dal nostro SERBATI, è veramente
l’interpretazione tipica, più audace e radicale, del pensiero di derivare
l’obbligo dal fine, o di dare all’obbligo un fondamento oggettivo nella
natura stessa di quello. Ma senza dilungarmi su questo tema in una
critica troppo nota è inevitabile questa alternativa. O il dover riconoscere
esprime una necessità puramente logica, e non può dare quello a cui è
invocata, cioè nè il valore né l’obbligo di riconoscere il valore; o vuol
esprimere una necessità diversa, e si riduce a un paralogismo; perchè pretende
ricavare da una determinazione obbiettiva la constatazione di uno stato
subiettivo, la quale presuppone appunto resistenza di quella coscienza
dell’obbligo, che crede di far nascere e senza della quale la
constatazione non è possibile. E per tal modo si ricade ancora una volta
nel primo tipo di interpretazione; quando non si voglia ammettere
questa tesi : che è obbligo riconoscere quel fine come sommo bene e volerlo,
così se lo si crede tale, come se non lo si crede; cioè sia che la
coscienza senta sia che non senta di dover attribuirgli quel valore.
Ossia non si ammetta la tesi dell’obbligo di credere anche senza o contro
l’attestazione della coscienza. Il che renderebbe inevitabile l’appello a una
autorità esterna, alla quale la coscienza si deve inchinare; e
farebbe della morale del bene oggettivo una morale dommatica, che rientra
nel secondo tipo. Adunque l’analisi dei modi nei quali può essere
interpretato e tentato il compito di fondare una norma obbligatoria conduce a
questa conclusione: o si intende che fondare una norma obbligatoria »
voglia dire derivare l’autorità della norma dal valore del fine; e
allora, come s’è visto, c come avea notato chiarissimamente Kant,
non si può per questa via riuscire che a un imperativo ipotetico –
cf. Grice, THE CONCEPTION OF VALUE -- ; o si intende che voglia dire
assumere come dato l’obbligo e determinare le norme in conformità a
questo dato. Nel primo caso 1’ esigenza in questione non è
soddisfatta. Nel secondo 1’ obbligazione è assunta, non posta o
dimostrata; ossia o esiste: e la sua esistenza e validità sussiste all’
infuori della costruzione dottrinale, che la postula, ma non la fa
essere; o non esiste: e il fatto di assumerla come esistente non la pone
in essere, nè ne legittima per sè l’assunzione. Per tal modo, se il
difetto capitale di una scienza normativa etica conforme al
concetto esposto sul suo ufficio e i suoi limiti, è quello di non^
poter presentare le norme col carattere di imperativo categorico, questo
difetto è comune, e non potrebbe essere altrimenti, a qualsiasi costruz
ione dottrinale. die non si proponga di derivare le norme da un
imperativo categorico assunto come dato. Ed allora resta da vedere
se. prendendo l’imperativo categorico per dato o postulato, si possa ricavare
da esso la determinazione delle norme; o se non si debba ancora ricorrere
all’ assunzione espressa o sottintesa di un fine, o di un criterio
di valutazione e di derivazione, estraneo e indipendente da quello. CJie^
i 1 dato dell’ imperatività sia per sè in sufficiente alla d eterni i nazione
.-dei le jparmc morali è manifesto, qualora si intenda con esso
assumere null a più che la forma destinata a rivestire un contenuto
qualsiasi ricavato d’altronde: nel qual caso è pur manifesto che, appunto
perciò, il dato dell’obbli- gazione rimane estraneo alla costruzione
dottrinale. Ma non è altrettanto evidente, quando si ammetta che nel
dato dell’ obbligazione è contenuta ad un tempo la forma dell’ imperativo
e la m ater ia del precetto ; ossia che da questo dato si possa
ricavare, hjUifot vtA »pUóh UàwtiH o ad esso debba conformarsi
e subordinarsi sia la determinazione del fine sia il contenuto
delle norme. Senonchè, quando si prenda come dato non la pura
ferina soltanto ma un cer to contenuto, si è inevitabilmente condotti,
come l’analisi precedente ha dimostrato, a fondare la morale
.sull’autorità, superiore ad ogni discussione, di una certa rivelazione,
interna o esterna ; e ad assegnare all’ Etica 1’ufficio di espositrice e
interprete di questa. Rilevando questa conseguenza io non intendo
affatto di darle il valore di una dimostrazione per assurdo. La tesi
nella forma a cui è ridotta ò tutt’altro che nuova e straordinaria; ed ha, in
confronto dell’ affermazione generica e ambigua che la morale deve dare
norme obbligatorie il pregio di essere chiara e non equivoca. .Ma
appunto perciò essa fa apparire manifesta la difficoltà, a cui si
trova di fronte. Tanto se si intende che la rivelazione da
interpretare sia in|£g^ quanto se si intende che sia esterna, si presenta
la medesima difficoltà; quella difficoltà, antica e notissima, dalla
quale venne il primo stimolo alla riflessione e alla critica nel campo
della morale: l a pluralità delle rivelazioni. Poiché i responsi della
cosc ienza morale sono s toricamente diversi e anch e-apposti, come sono
divèrse e in parte op poste le rivelazioni religio se, resta, o che si
riconosca a tutte la medesima autorità, cosi co me i l tono imperativo è. il
medesimo; o che si scelga. Quanto alle. religion i ò .troppo chiaro
che nessun criterio ricavato dalla rivelazione stessa può valere a
dimostrar l’autorità di una piuttosto che del1’altra, poiché t utte si danno
come assolutament e certe e indiscutib ili ; e le stesse prove sulle
quali una rilevazione attesta la sua autorità sono adoperate da ciascun’altra
per asserire la propria, e da tutte risuona sui precetti morali diversi
il medesimo tono di comando. Si cerca il criterio della scelta nella natur
a del le cose co mandate o proibite, come avviene quando si parla
di m aggior sapienz a o el evatez za o n obiltà de i prec etti morali di
una religione rispetto a quelli di un’altra? Allora è i ^contenuto dei
precetti morali che viene assunto come criterio dell’autorità della
rivelazione. E il valore di questo contenuto, che è così usato a
provare la superiorità di una rivelazione sulle altre, si può dunque
riconoscere indipendentemente dal suo presentarsi sotto la forma di un
comando rivelato, dal momento che è esso invocato a provare l’autorità
del comando. Ma allora I’ulhcio dell’Etica lungi dall’essere quello di interprete
e araldo di una rivelazione, 6 quell,o_di giudice _deHc % U- t ? ^
rivelazio ni. Il che importa a ben più forte ragione che tanto il
fine quanto le norme morali si suppone che possano e debbano essere conosciute
c determinate a ll’ infuori di ogni snodale rivelazione. cioè all’infuori
da ogni appello all’autorità. Ciò che vale per l’autorità di una
rivelazione esterna, vale per quella di una rivelazione interna. Tra
due coscienze, delle quali rispetto alla medesima azione una ponga come obbligo
il fare e l’altra il non fare, il criterio di valutazione
comparativa non può esser dato dal carattere imperativo, che è
comune ad ambedue, ma deve essere un altro. Ed anche allora il criterio
che serve alla valutazione comparativa sarebbe esso in realtà quello da
cui dipende cosi la determinazione come la giustificazione delle
norme. Non resterebbe che riconoscere ja medesima autorità a tutte le
rivelazioni. Il che importa l’una e l’altra di queste conseguenze: o la
assoluta indifferenza del contenuto per qualsiasi luogo -“ e tempo; o la
limitazione a determinate condizio ni storiche dell’autorità e del valore
di ciascuna. Se non si vuol accettare la prima, si presenta la domanda:
Questa limitazione ha o non ha Mi permetto di non fermarmi ad esaminare
la tesi della assoluta indifferenza del contenuto. Sarebbe come sostenere nel
campo della terapeutica che ciò che importa nella ricetta è la firma
della sua ragion di essere nelle condizioni storiche, dalla cui presenza è
circoscritta la sua validità? Se la limitazione non dipende da queste
condizioni, ma essa pure non ha altra ragione di essere all’ infuori dell’
autorità o del carattere imperativo col quale hic et nunc si presenta, allora
si ammette che, astrazion l'atta da questo carattere di
obbligatorietà col quale una certa norma si presenta in quel certo tempo e
luogo, non vi sarebbe nessuna ragione di preferire nelle stesse
circostanze una norma ad un’altra, cioè si giunge per un altra via
all’indifferenza del contenuto. Se poi questa limitazione ha la sua
ragione di essere nelle condizioni storiche stesse, entro le quali
è valida, cioè in una parola se ò relativa a queste condizioni, allora si
ammette che sono queste condizioni il criterio della limitazione ed è la
corrispondenza a queste condizioni storiche il criterio della validità.
Cioè si ammette che vi è qualche cosa che dà alla norma il suo valore
all’ infuori del1’ obbligazione e al disopra dell’autorità obbligante, medico,
e le prescrizioni di qualunque genere si equivalgono 1’una l’altra. E
forse è ancor meno manifestamente falso questo che quello. Non sarà
però inopportuno avvertire che ogni questione intorno al merito dell’
agente rimane qui al tutto in disparte. (lT E lascio^ le difficoltà che
nascono dalla necessità di ammettere un’altra rivelazione alla cui autorità si
possa ricondurre la limitazione in discorso. dal momento che esso
serve anche a stabilire i limiti entro i quali 1 autorità è riconosciuta
come valida. Cioò si viene a riconoscere ancora come 1’ obbligazione non
possa essere un dato sufficiente alla determinazione e valutazione delle
norme, e come per essa non solo non possa essere negata, ma venga
confermata la legittimità di una scienza normativa morale. Senoncliè a questo
punto mi sento opporre un nome, un gran nome: Kant. Ma dunque non esiste
la morale kantiana ? Non ricava egli dalla volontà buona, dal dovere,
dall’osservanza della l egge perda legge, la norma morale suprema,
nella notissima formula, nella quale, indipendentemente da ogni particolare
rivelazione storica, c sopra ogni speciale contenuto materiale, si
raccoglie tutto un sistema di norme razionali? E se la sua
morale è f m^gle. cessa perciò di avere il suo valore, e sopratutto cessa
di esistere, e, a fortiori, di essere possibile? Certamente a
nessuno può venire in mente di negare la possibilità di un sistema che ò
esistito ed esiste, e a me, forse meno che ad altri, di negarne il
valore. Così la grande costruzione razionale dei doveri dell’ uomo di
Kant, come la grande costruzione razionale dei diritti dell’uomo che
piglia nome dalla rivoluzione francese sono ben lungi dal melo ri
tare il facije compatimento col quale parlano di astrazioni e di
formalismo certi fonografi della sociologia. Ma qui al proposito nostro
importerebbe vedere la costruzione razionale del Kant sia fondata
sul d ato dell’ obbligazione, co me pare, o non ni ut trist o
sulbesigenza dell' universalitaTche n KanT crede bensì trovare implicita
nel concetto del dovere, ma v* /v T< ì»-^uAtv\ 7 u-iC' che
è invec e caratteristica dell’ idea di ' » senza la quale ci può essere
Yobbligo, ma non Yap- p robazione interiore dell’obbligo, che è
propria della ^ -y j coscienza del dovere. Perchè i l concetto
iÌT"degg e che serve a Kant per passare dal dato del dovere
all’esigenza dell’universalità, non è un elemento contenuto nel dato
stesso e che possa esserne ricavato analiticamente, ma (L una sintesi
nella qual e insieme coll’obbligazione è già assunta l’esigenza
dell’universalità che la giustifica. Ed è questa esigenza dell’
universalit à, non il dato dell’ obbligazione che fornisce al Kant il
criterio supremo della morale. Ma a ben chiarire questo punto — come, anche
nella morale kantiana, l’imperatività non sia un dato sufficiente alla
determinazione delle norme, e come in realtà venga assunto non solo un
criterio (1) Di questo argomento ho trattato di proposito altrove.
Cfr. Prolegomeni ecc. ( C* «M. ÀtydL* UO-rutL Kv non ricavato da
quella, ma implicitamente anche un certo contenuto — occorrerebbe
un’analisi assai meno sommaria; poiché non è questo un argomento da
sbrigarsi così alla lesta. Basti per ora non aver omesso 1’accenno. Il
Fondamento Intrinseco del Diritto secondo Vanni. Il volume dal
titolo Lezioni di Filosofìa, la cui pubblicazione è curata con riverente pietà
e con devota ammirazione dalla vedova e da alcuni tra i più valenti discepoli
poco dopo la morte immatura di VANNI (si veda), è forse tra i saggi di
Vanni quello in cui la sua dottrina appare più compiutamente ordinata a
sistema, e nel quale a un tempo si rivelano felicemente congiunte
le qualità dello scienziato e dell’insegnante; e veramente si può considerare
come il testamento scientifico del celebrato maestro. Certo,
qualunque giudizio porti sul fondamento e sulla validità intrinseca del
sistema, nessuno può disconoscere la larghezza e la profondità della
coltura filosofica e giuridica, e la chiarezza della trattazione; e
sopratutto la sincerità e, direi, 1’ onestà scientifica che ò propria di
chi medita e scrive per amore disinteressato del vero. Vanni, Lezioni di
Filosofia, BOLOGNA, Zanichelli. La l'ilosofia del Diritto abbraccia,
secondo il tre ricerche : la ricerca critica ; la ricerca sintetica
o lcnomenologia giuridica; e la ricerca deontologica. Nella prima
egli comprende non soltanto la determinazione dell’oggetto, dei metodi e dei
rapporti della filosofia del diritto colle scienze affini, ma anche
una indagine preliminare di critica gnoseologica. che GROPPA li accordandosi con
FRAGAPANE ritiene, a mio giudizio giustamente, estranea al compito di
questa disciplina. Giustamente, finché si intende che la filosofia del
diritto debba istituire una sua propria ricerca gnoseologica ; ma non
se si intende anche di negare la opportunità di premettere, come in fondo
fa Vanni in queste lezioni, quali sono i presupposti gnoseologici
accettati. Poiché ogni dottrina deve pur assumerne, di una o
d’altra speeie, esplicitamente o implicitamente. Ed è bensì vero che essi
si possono sottintendere e si applicano di solito nelle ricerche speciali
tacitamente. Ma compito del filosofo è appunto, come osserva Rosmini, di
c omprendere e fo rmulare elii aramente quello che gli altri sottintendon
o. Del resto il fatto che Vanni voglia prender le mosse da
una v alutazione critica sulla natura e al sapere giuridico, prova
quanta larghezza di pensiero, e direi, di coscienza filosofica egli portasse
nelle sue ricerche, e con quanto scrupolo sentisse l’obbligo di rendersi
conto anche dei più lontani e generali presupposti della sua dottrina.
La seconda ricerca si sdoppia in due parti : statica, che determina
la nozione logica del diritto, inducendola dell’analisi del diritto
positivo dei popoli più progrediti, e similmente dello Stato; DINAMICA, genetica
o storica, che studia la genesi e la formazione storica del Diritto e
dello Stato; e si potrebbe anche chiamare filosofìa della storia
del diritto. Finalmente un’altra ricerca di carattere etico o
valutativo ha per oggetto il problema della giustizia, ossia del fondamento
intrinseco e delle esigenze razionali del diritto. Questa, che
costituisce la parte ultima, ò senza dubbio la più importante, perchè
riguarda quello che è il problema centrale della filosofìa del diritto; e
nella cui soluzione principalmente Si manifesta la nota caratteristica delle
diverse dottrine. E la dottrina del Vanni, benché l’indirizzo e. direi,
la moda oggi prevalente la consideri oltrepassata, merita di essere
ricordata e discussa; perchè mentre intende il compito della filosofia
del diritto non soltanto come storico-genetico, ma anche come normativo,
(nel che si accorda coll’ idealismo) si propone di assolvere questo
compito tenendosi nei limiti d’una costruzionc puramente scientifica, ed
escludendo ogni postulato di natura metafisica; nel che consente
col proposito, se non col metodo, dello storicismo c del
positivismo. Ora il difetto principale della sua dottrina, non
nasce, come può parere a prima vista, dalla pretesa e comunemente ammessa
inconciliabilità tra il compito normativo e la validità scientifica ;
chè anzi questo intendimento, chiaramente concepito e tenacemente
proseguito, di una costruzione normativa scientifica del diritto, è a mio
giudizio, un alto titolo di merito; ma nasce dall’essersi fermato,
direi, a mezza via nel rilevare a quali condizioni sia possibile una
costruzione etico-giuridica che soddisfaccia a un tempo ad ambedue le
esigenze. La jiottrina d VANNI, per quel che riguarda il fondamento
intrinseco del diritto e il metodo, si può considerare come una forma di
quella che Spencer ha propugnato e difeso col nome di utilitarismo razionale: e
infatti, pur rilevando giusta¬ mente l’importanza e il valore del
pensiero di Romagnosi, egli la riconosce come il precedente più
immediato e più notevole della sua. Ma la trova erronea per tre rispetti
; perchè ammette un diritto naturale; perchè pretende di costruire una
norma etico-giuridica assoluta; e perchè Analmente lo Spencer
intende le condizioni di esistenza da cui le norme devono essere dedotte,
in un senso puramente biologico. Principalmente su questo ultimo punto
egli accentua il suo dissenso, prendendo come base, non le condizioni
dell’esistenza individuale e la legge della sopravvivenza dei più adatti,
ma le condizioni dell’esistenza sociale. Il fondamento dell’ etica
sta dunque nella necessità per chi vive in società (e la socialità è la esigenza
suprema del1’esistenza umana) di uniformarsi alle condizioni ed alle
esigenze poste dallo stato sociale ; e l’etica dimostra intrinsecamente
necessarie quelle forme e quei modi di condotta che sono richiesti dalle
condizioni della vita in comune. Fra queste condizioni ve ne sono alcune
che hanno un’ importanza fondamentale e primaria, in quanto rappresentano
l’indispensabile per la convivenza e la cooperazione; e nell’osservanza
delle quali consiste la giustizia. Ma poiché queste potrebbero non essere
spontaneamente osservate, è necessario che le azioni relative ad esse non
restino abbandonate alla buona volontà e alla spontaneità e che con una
norma di condotta irrefragabilmente obbligatoria ed eventualmente coattiva
s’induca all’osservanza anche il volere recalcitrante. Quindi in altri
termini la necessità del diritto, il quale ci apparisce allora come una
norma che ha da garantire le condizioni fonlamentali per la coesistenza e la
cooperazione umana. Cosi non soltanto l’Etica, ma anche il diritto viene
ad avere un fondamento intrinseco, e viene ad averlo anche lo Stato, il
quale è indispensabile alla funzionalità (tei Diritto Non è necessario un lungo discorso per
vedere che quando il Vanni crede di fondare in questo modo l’esigenza
razionale del diritto finisce per assumere in realtà come presupposto il
principio che egli vuole, e crede di dovere, derivare apoditticamente, e
al quale appunto è subordinato il valore di necessità razionale assegnato alle
norme ideali che devono servire di modello e di criterio di
valutazione. Infatti la relazione naturale e necessaria tra una certa condotta
e certe condizioni, necessarie alla loro volta alla convivenza e
cooperazione sociale, serve bensì a stabilire che quella condotta deve
essere riconosciuta come un mezzo necessario al fine di conservare e
promuovere la convivenza e la cooperazione sociale, posto che questo
sia riconosciuto e voluto come fine ; ma non vale a stabilire la
necessità razionale di riconoscerlo come fine; e fine precedente in
valore e autorità ad ogni altro. Il \ anni par che intenda superare
la difficoltà osservando che la necessità puramente naturale in
quanto è pensata dalla mente si trasforma appunto in una esigenza ed in
una necessità razionale. Essa allora esprime un principio logico
fondamentale, il principio di contraddizione. Se in forza della natura
stessa delle cose c dei rapporti causali, per ottenere un certo fine è
indispensabile un certo mezzo, e per raggiungere un certo risultato è
indispensabile un certo modo di condotta, implica contraddizione che si potesse
impiegare un mezzo diverso o seguire una condotta diversa. Ma ò facile
vedere 1’ equivoco. Contraddizione vi è certamente tra il pensare che una
condotta è indispensabile a raggiungere un certo fine e pensare che
questo stesso fine possa essere raggiunto con una condotta diversa ; ma
io non violo nessun principio logico e non sono punto in contraddizione con me
stesso se, ammettendo che un certo fine dipende da certi mezzi, non
voglio il fine e non voglio perciò neanche i mezzi. E neppure vale
il ricongiungere Vordine sociale all’ordine cosmico, considerandolo come
la forma più alta a cui riesce iì processo della evoluzione
universale. Perchè non si fa altro in questo modo, che spostare il
presupposto; cioè ammettere, ancora e sempre, che si riconosca valore di fine
subiremo a questo adattamento all’ ordine cosmico. Il quale
presupposto potrà o non potrà venir legittimamente assunto come dato o
postulato ; ma è e rimane un presupposto. E perciò le norme ideali
che se ne deducono hanno questo valore di nonne nell’ ipotesi che si
accetti come fine supremo quell’ordine di effetti dal quale sono
dedotte. Ma rilevando cosi il carattere necessariamente ipotetico
della costruzione, alla quale riesce anche il « sistema delle condizioni
della vita in comune del Vanni, io non intendo, anzi escludo, che questo
carattere ipotetico costituisca per sò un vizio proprio di questa e di tutta
una classe di costruzioni etico-giuridiche, come pretende P idealismo
metafì¬ sico. Il quale si illude di poter esso sfuggire a questo
carattere ipotetico riallacciando quel tipo di convivenza e di relazioni
sociali, che assume come modello e in conformità al quale determina
le norme ideali, a un fine di natura metafìsica, che abbia perciò
valore assoluto. Dove sono da notare, sia detto di passata, due
circostanze, a mio giudizio, decisive: che le norme ideali sono pur
sempre ricavate o dedotte, malgrado ogni sforzo od ogni apparenza
contraria, dal tipo sociale assunto come modello, e non dal fine metafisico,
della cui autorità e del cui valore esso si riveste; che il valore
assoluto di questo fine metafisico non può essere che assunto aneli’esso
o come dato o come postulato. La verità è semplicemente che un
sistema di norme giuridiche contempla di necessità un certo ordino
di vita individuale e sociale; e che la validità dello norme dipende dal valore
che si suppone riconosciuto a questo ordine di vita. Questo
riconoscimento di valore, questa valutazione del fine è dunque il
presupposto inevitabile della validità etica del sistema (la quale non esclude
la validità scientifica, ma non si esaurisce in questa); e la questione
si riduce a decidere se si pub o non si può assumere legittimamente come
dato o come postulato questo riconoscimento del valore che nel
sistema è assegnato al fine. Ora è nel rispondere a questa questione,
non nel carattere ipotetico, che si rivela l’insufficienza del
sistema di Vanni e dell’ indirizzo naturalistico in genere; e alla quale
del resto non riesce a sfuggire neppure l’indirizzo metafisico. Infatti una
risposta adeguata alla questione esige che si determinino le condizioni
richieste perchè a un ordine di convivenza e di CO-OPERAZIONE SI
RICONOSCA VALORE DI FINE UNIVERSALMENTE REGOLATORE -- valore, direi,
piuttosto che di summum bonum di PRIMVM DESIRABILE. Ossia perchè si possa
ammettere che tutti i soci consentano liberamente nel valutarlo e volerlo
come tale. E che si assuma poi, come modello per dedurne le norme ideali,
il tipo sociale che soddisfa a questa esigenza ; cioè il tipo sociale
configurato in conformità di quelle condizioni. Ma non è rispondere alla
questione il dimostrare la naturalità della convivenza sociale in genere,
o di un certo tipo che si assuma volta a volta come modello. Questa
dimostrazione può servire a farmi trovar buona o giusta o desiderabile l’osservanza
dell’ordine naturale, se io trovo già buono o giusto o degno di essere
voluto, quel tipo di vita sociale, cbe si presenta come suo effetto ; ma
non inversamente. E se, non trovandolo tale, mi rassegnassi a subirlo per
la coscienza della sua necessità naturale. chi potrebbe legittimamente
scambiare questo subire con un volere . e la rassegnazione a un
male con la aspirazione a un bene? Nemmeno gioverebbe, d’altra
parte, il ricorrere a postulati metafisici. Posto che io non
riconosca l’ordine sociaie ideale contemplato da un sistema come
degno di essere voluto, in qual modo si può presumere legittimamente che
valga a farmelo riconoscere tale l’affermazione (poiché qui di dimostrazione
non si potrebbe parlare) che esso ha un fondamento o una giustificazione
metafisica, se la ragione per la quale il sistema gli assegna
questo fondamento consiste appunto nel valore di fine che esso gli
attribuisce e cbe io, per ipotesi, non gli riconosco? Ma Vanni (per
restringermi a lui. poiché all’ndirizzo metafisico non ho accennato qui se
non per debito di sincerità e di chiarezza) obietterebbe con tutta
probabilità che per la via indicata come la sola legittima si riesce a
una costruzione puramente astratta, di un tipo utopistico di società che
non trova nella realtà storica nessuna corrispondenza; e che si ricade nei
difetti (ai quali appunto egli, d’accordo in ciò con la scuola storica,
s’ è proposto di sfuggire) o del puro formalismo, o di un diritto
assoluto valevole per tutto c sempre, e senza riferimento possibile alla
variabilità dei rapporti sociali. Mentre riponendo, come egli fa, il
fondamento intrinseco del diritto n ella conformità della condotta alle
condizioni richieste dalla vita in comune, questo riferimento non solo
appare possibile ma inevitabile. Infatti, insiste egli nel rilevare, le
condizioni della vita in comune non sfuggono al moto dell’ evoluzione e
della storia ; e se anche alcune hanno il carattere d’una certa
uniformità e costanza, altre invece variano correlativamente al grado di
sviluppo umano e alle forme di organizzazione sociale, e sono proprie di ciascun
grado e di ciascuna forma. Il che importa che debbono variare
corrispondentemente le norme regolatrici; ossia che nell’applicazione il
sistema etico-giuridico fondato sulle condizioni di esistenza va
combinato col principio di evoluzione e subordinato al criterio
della relatività storica.” Ora, lasciando di rilevare come con questa
subordinazione si assuma sempre per presupposto che l’osservanza delle
condizioni richieste dal tipo sociale storicamente dato, abbia, per il solo
l'atto che la coscienza ne riconosce la necessità storica, anche
valore di fine, importa notare come si venga con ciò a rinunziare ad ogni
valutazione comparativa delle diverse forme storiche del diritto. Perchè
una valutazione comparativa richiede di necessità un criterio, il
quale non può essere dato dalla corrispondenza alle condizioni storiche. E se
si prende un criterio diverso, allora è la conformità a questo
criterio e non la necessità storica, che si assume come esigenza
razionale o come giustificazione inrinseca del diritto. È certo che se una
costruzione etico-giuridica per essere razionale dovesse rimanere
sospesa, come gli dei dell’ORTO, tra cielo e terra, e fuori di ogni
possibilità di applicazione alla condotta individuale e collettiva, bisognerebbe
accettare la tesi del fenomenismo, e negare alla filosofia del
diritto qualsiasi funzione pratica riconducendola nell’ ambito della pura
sociologia. Ma esiste davvero questa incompatibilità? E non potrebbe
essa dipendere, invece che dalla radicale sterilità di una costruzione
veramente razionale, dalla preoccupazione di giustificare eti- Se, e a
quali condizioni, una tale costruzione sia possibile, è argomento del
quale si è già discorso altrove e che non può esere toccato di sfuggita.
camentc forme di diritto che non sono eticamente giustificabili, di
assumere come condizioni richieste dalla giustizia e conformi ad essa
certe condizioni, reali sì, e storicamente date, ma che sono la negzione
di quelle richieste dalle esigenze ideali? Perchè se fosse cosi, In conclusione
da trarne sarebbe non che la costruzione razionale ò inapplicabile
come criterio di valutazione e come modello normativo, ma che, essendo le
condizioni reali diverse da quelle idealmente contemplate, le norme
ideali non possono essere applicate simpliciter a condizioni
diverse dalle supposte. Ma esse potranno, anzi dovranno ugualmente servire come
criterio per determinare quale sia in un dato momento storico la condotta
sociale e individuale che, nei bifidi delle esigenze reali
necessariamente imposte dalle condizioni in effetto esistenti, è più
acconcia a favorire la trasformazione di queste nella direzione se¬ gnata
da qualle esigenze ideali, ossia tende ad attuarle. il che importa che le
esigenze corrispondenti alle condizioni proprie di un certo momento
storico non siano assunte esse come esigenze razionali del diritto,
ma forniscano il criterio per stabilire entro quali limiti sia possibile
tradurre in norme di diritto positivo le norme ideali. Ossia in breve:
l’esigenza razionale segna le condizioni a cui deve soddisfare un ordino
sociale perchè possa aver valore di fine; la realtà storica. La dottrina
delle due etiche di Spencer e la morale come scienza. Per una scienza
normativa morale Il fondamento intrinseco del diritto secondo Vanni.
Erminio Volfango Francesco Juvalta. Herren von Juvalt. Juvalta. Keywords:
implicature, il metodo dell’economia pura nell’etica, il principio della
cooperazione, cooperazione e desiderabilita universale, ragione e cooperazione,
cooperazione come mezzo, ragione di mezzo, tra altruism ed egoism, amore
proprio, benevolenza, giustizia. --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Juvalta on
the categorical imperative,” The Swimming-Pool Library, Villa Grice.
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