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Tuesday, September 24, 2024

GRICE ITALO A/Z J

 

Grice e Jaja: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia pugliese – scuola di Bari -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Conversano). Filosofo italiano. Conversano, Bari, Puglia. Grice: “I like Jaja – of course you cannot understand Jaja unless you understand Fiorentino, Croce, Spaventa and Gentile! The quintessential Italian philosopher!” – Grice: “Jaja is a sensualist, like me.” –Grice: “My favourit essential Italian philosopher. Figlio di Florenzo Jaja, a cui è dedicato l'Ospedale Civile di Conversano. Si trasfere a Napoli, dove studia sotto la guida di FIORENTINO. Si sposta a Bologna, dove si laurea per seguire il suo maestro.  Il suo incontro filosofico principale e con SPAVENTA. Col trasferimento di J. a Napoli i rapporti con Spaventa divennero regolari. Insegna a Pisa. J. non è stato mai considerato un filosofo particolarmente originale, ma ha avuto il merito storico d'introdurre GENTILE allo studio di Spaventa – “although he was possibly more than Hardie was to me!” – H. P. Grice -- merito che l'allievo riconosce sempre. Altri saggi: “Origine storica ed esposizione della critica della RAGION PURA”; “Studio critico sulle CATEGORIE e forme dell'essere”; “Dell'A PRIORI nella formazione dell'anima e della coscienza,”; “ L'unità SINTETICA e l'esigenza positivista,”; “Sentire e pensare,”; “Identita e Semiglianza ed identità”’[cf. Grice: “Cfr. My theory of identity-relative, as a critique to Wiggins” -- “ Sentire, pensare, conoscere,” “ L'intuito nella coscienza.”; Preti, J.,  filosofo europeo oltre Gentile, su ricerca. repubblica,. treccani. J.: neoidealismo italiano, su orthotes.com.  J.  Gentile, Memoria, su sba.unipi, Spaventa Gentile Idealismo, J. Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. open, Horizons Unlimited srl. Gentile, Memoria su J., su sba.unipi. J.. Grice on “Sentire” e Pensare. Rupert Brooke: “I love Grice: “I feel,’ never ‘I think’!” – “If a is a, is a LIKE a” – a knife is not like a knife, but something that is  not a knife can be like a knife.” Implicature!” Comincia gli studi al seminario in vista di una futura carriera ecclesiastica, ma dopo l'unificazione, si trasfere a Napoli, dove studia sotto la guida del filosofo neo-kantiano  FIORENTINO (si veda) e a Bologna, per seguire il maestro, con il quale si laurea. Dopo la laurea insegna a Caltanissetta e Chieti. Tornato a Bologna vi conobbe e frequenta MEIS (si veda) e per suo tramite SPAVENTA (si veda) che, oltre a influenzare lo stesso Fiorentino, divenne in seguito una figura chiave per la formazione intellettuale di J. Con Spaventa i rapporti dello J. divennero regolari quando egli si trasferì a Napoli per insegnare. Consegue la libera docenza  e ottenne la cattedra di filosofia teoretica a Pisa. Tra i suoi allievi ha Gentile, che gli successe poi sulla cattedra, e Radice.  Nella dissertazione di laurea, data alle stampe a Bologna con il titolo Origine storica ed esposizione della Critica della ragion pura di Kant, colloca Kant all'origine di una scena della filosofia che raccoglie le due tradizioni precedenti lungo le quali egli articola la storia della filosofia successiva a Cartesio. Da una parte il filone filosofico che si pone il problema dell'infinito, dell'universalità e della necessità -- Malebranche, Spinoza, Leibniz. Dall'altra la tradizione francese, ma soprattutto inglese, sensistica ed empiristica -- Locke e Hume.  Kant pone il problema, ritenuto centrale da J., del debito che il giudizio ha nei confronti sia dell'esperienza, sia dell'universale. Tuttavia J. ritiene che Kant non da una soluzione adeguata e definitiva ed è anzi incline a sostenere che la soluzione vada trovata nei continuatori dell'opera kantiana. Emerge già qui chiaramente la tendenza a leggere la tradizione idealistica alla luce degli interrogativi kantiani, in una prospettiva che egli deriva da FIORENTINO. Secondo J., Kant pone il problema della conciliazione di questi due elementi, di senso e intelletto, ma non lo risolve. La manchevolezza è nell'intima natura del sistema kantiano. In questo, lo spirito è dualità, scissura, intuizione e concetto, recettività e spontaneità, entrambi irriducibili, mentre la soluzione consiste nel mettere in luce l'unità, nel mostrare come l'universale kantiano sia non esclusivamente soggettivo ma OGGETIVO e pertanto corrisponda alla realtà. – cf. H. P. Grice, the justification of objective value, The Carus Lectures, Oxford. Compare qui un interesse di  J. per il modo in cui l'intelletto proviene dal senso -- cfr. Plebe, in Guzzo – Plebe -- che mostra anche una sensibilità più vasta verso il regno della natura e le scienze empiriche e che in seguito lo porta a confrontarsi con il positivismo e l'evoluzionismo. Pesano in questo probabilmente sia gl’interessi positivistici di Fiorentino, cui egli dedica questo saggio, sia l'ambiente intellettuale bolognese, in cui spiccavano figure quali quella di MEIS (si veda). Ha modo di sviluppare e precisare tali temi in uno Studio critico sulle categorie e forme dell'essere di Serbati. Qui critica Serbati della teosofia in quanto non dà spazio né illustra la centralità della mente nel suo rapporto con l'essere, mentre questo va visto alla luce dell'essere pensato dalla mente: È necessario studiare la mente nella serie non interrotta dei suoi fenomeni, attraverso cui passa nel formarsi. Kant ha colto questo punto in quanto ha mostrato che prima di poter parlare dell'essere si deve indagare la natura della mente, e tuttavia finisce con il postulare una irriducibile alterità della cosa in se rispetto alla mente. Dopo Kant, Fichte, e quindi Hegel,  invece completano il necessario passo in avanti mostrando come ciò che è fuori della mente o psiche è il risultato o effeto di ciò che la mente e il pensiero hanno rivelato.  Gentile ha modo di considerare a questo proposito che la lettura che il proprio maestro da di Hegel e personale e forse inadeguata sul piano interpretativo. E uno Hegel mediato in primo luogo da SPAVENTA, che ne sottolinea l'aspetto soggettivistico, e che J. legge in modo ancora più immanentistico facendo equivalere l'essere con il pensiero o la psichi umana. Temi e ispirazioni filosofiche, in cui si mescolavano influssi hegeliani, fichtiani, e interessi verso le scienze e la dimensione empirica del pensiero - spinsero J. a occuparsi del positivismo e in particolare di Spencer. In “Dell'A PRIORI nella formazione dell'anima e della coscienza” (Napoli) -- ma si veda anche “La somiglianza nella scuola positivista e l'identità nella metafisica nuova” -- J. nell'esaminare e nel correggere  Fiorentino si occupa dei tre momenti della conoscenza: sensazione, rappresentazione e concetto. Nel discutere della sensazione ha già modo di articolare una posizione cui dette poi compiutezza in Sentire e pensare. La sensazione non è solo lo stimolo – alla STEVENSON (H. P. GRICE) -- che proviene dall'esterno ma è anche modificazione. E interna all'ATTO INTROSPETTIVO del sentire e alla sfera spirituale. In questo, da una parte valorizza l'importanza dello studio scientifico dei modi in cui la conoscenza sorge e ha luogo. Dall'altra mette in luce l'inadeguatezza di un punto di vista esclusivamente empirico o ESTERNALISTA, o ESTROPETTIVO, POSITIVISTA, ESTERIORE. Tornato su questi temi in “L'unità SINTETICA kantiana e l'esigenza positivista” si propose di conciliare l'esigenza positivistica, che nega elementi a priori e che è invece interessata a ricostruire geneticamente il formarsi dei fenomeni, e l'esigenza kantiana, che vuole mantenere valido il punto di vista universale. Opera tale conciliazione ritenendo che il passaggio dalla sensazione sino alle forme più evolute di coscienza sia solo un passaggio di grado, mai categorico. Si appropria dell'idea di sviluppo e di ricostruzione genetica e la colloca nell'immagine idealistica di un essere che dà forma a se stesso a partire dai gradi più semplici e primitivi sino alle forme più sofisticate. La trattazione di questi temi prelude al “Sentire e pensare”.  È mio fermo convincimento che il problema speculativo, in tutta la sua ampiezza, resta un labirinto senza uscita finché non solo non e studiato sul terreno indicatogli dalla filosofia in genere e dalla critica kantiana in particolare, cioè su quello della conoscenza, e per esso della COSCIENZA – cf. Grice, “Personal identity,” “Intention and Disposition” – Stout vs. Prichard -- coscienza, ma più ancora finché nello studiare la coscienza non avremo preso le mosse da quel giusto punto, dove il senso finisce e la coscienza incomincia. O, dove il senso non è più solamente senso, e già la coscienza comincia a mandare sul tronco di esso i suoi primi germogli.  – cfr. Grice on Empiricism as a bete noire --. J. è interessato a individuare il momento in cui la sensazione e la coscienza si sovrappongono. Da una parte è desideroso di fare propria la lezione dei positivisti e degl’evoluzionisti, fino a spingersi ad affermare che il principio assunto oggi a base delle scienze naturali, l'evoluzione è vero e fecondo, un'affermazione non priva di interesse in un autore che esercita il suo influsso nella formazione di una filosofia idealistica italiana lontana e refrattaria alla scienza e in particolare all'evoluzionismo. Dall'altra vuole rivendicare la presenza nella sensazione degl’elementi embrionali della coscienza e cioè l'universalità propria della mente concepita kantianamente. Questo tentativo di conciliazione di due esigenze opposte non è di per sé indicativo di un fallimento di un'autentica comprensione di tali esigenze. In altri termini, è interessato a conciliare una comprensione scientifica mecanicista della natura, che prescinde da una descrizione in termini INTENZIONALI, e che l'evoluzionismo ha esteso anche agl’organismi viventi sino all'essere umano, con una sua comprensione in termini concettuali. Ma, usando l'evoluzionismo come immagine filosofica anziché come prospettiva di studio alternativa a quella filosofica idealistica, chiude quasi subito la sfida tra queste due comprensioni. Perciò parla in termini evolutivi del passaggio dalla sensazione alla coscienza per significare che non vi sono passaggi categorici ma solo di grado. La sensazione è foriera della coscienza e n'è la immediata preparazione. Dall'una all'altra è passaggio -- non salto. Gl’elementi tutti della coscienza sono elementi della sensazione. La vita della coscienza è due cose. E la continuazione della vita del senso, e per esso della natura tutta, e n'è il compimento insieme. L'immagine evolutiva è impiegata per significare questo passaggio dalle diverse forme della vita, che  intende come una forza che si dispiega. Il fatto adunque, di cui prendiamo nota, è che, nel sentire – cfr. Grice in Schwarz, SENSING PERCEIVING -- si raccoglie tutto il mondo naturale sottostante, e che questo mondo naturale è qualche cosa di vivo, viva essendo e perenne e senza limiti la produzione degl'individui diversi, che si succedono e s'incalzano in tutti i diversi ordini della natura. Questo mondo naturale che si raccoglie nel sentire è la forza. Ed è forza il sentire. Quando la forza sottostante, compiute tutte le condizioni, sale al grado di sentire, produce ancora. E non intendiamo dei soli individui che compongono il grande regno animale. Il sentire è per sé solo forza, perché per esso gl'individui senzienti, forniti delle capacità, della forza di sentire, non vivono soltanto, assimilandosi e trasformando gl’elementi del mondo inorganico, ma il mondo pre-esistente della vita trasformano in una superiore esistenza, nell'esistenza RAPPRESENTATIVA – cfr. Grice on Aristotle on life and soul --. Nella rappresentazione, la forza naturale incomincia a ritrovare se stessa, iniziando quel movimento di ritorno sopra di sé – META-REPRESENTAZIONE – reflessiva -- nel cui compimento è il suo possesso, e la sua integrazione. Puo già leggere in Spencer una concezione dell'evoluzione come un processo diretto a un fine, un'idea lamarckiana lontana dall'evoluzionismo di Darwin, di cui Spencer non si libera mai. Ma egli chiude subito le possibili tensioni interne a questo paradigma e usa l'immagine evolutiva come un motore esplicativo di tipo hegeliano, spingendosi sino a invocare il superamento del principio di non contraddizione per spiegare il modo in cui la sensazione si evolve verso la coscienza. Non resta dunque, che sieno e non sieno identiche, che sieno in parte identiche, in parte diverse. I fautori della inviolabilità del vecchio principio di contraddizione, così come era e poteva esser dato nella logica formale potranno trovare dura questa conclusione. L'evoluzione è immagine della forza che dal regno della natura ritrova se stessa, cioè si rende consapevole nel mondo dello spirito. In questo senso, J. può essere ascritto alla schiera di quanti hanno usato l'evoluzionismo per produrre una loro filosofia della storia. Una conclusione, questa, che trova conforto in uno scritto successivo di  J., L'intuito nella coscienza.. È qui affrontata la questione se l'intuito ha una parte nella ricerca scientifica. J. risponde affermativamente, sostenendo che tuttavia esso è posto in primo piano solo quando il pensiero indagatore sente il bisogno di ricorrere alla conoscenza in se medesima, e scrutarne il valore, e cioè quando vi è perplessità sull'evidenza del proprio oggetto di studio. Nel mostrare come la conoscenza non sia solo accumulo e accostamento di fatti,  J. afferma, di nuovo contro i positivisti, che i fatti e la storia, se sono la realtà, non sono tutta la realtà. La realtà storica, oltre ad essere quella che è, e che ognun vede, è anche in miglior modo nell'universale e per l'universale. I fatti e la storia sono testimoni cioè di un universale che li raccoglie e dà loro un senso. Nel successivo Ricerca speculativa. Teoria del conoscere (Pisa), insiste sul concetto del pensiero che ritrova sempre se stesso e non ha niente di anteriore. Egli ritiene che la filosofia sia l'unica disciplina che non ha un oggetto specifico di studio che non sia l'esigenza stessa di conoscenza. Si tratta di salire nelle alte regioni dell'intendimento puro, di usare del conoscere per costruire l'atto, il puro ed universalissimo atto, del conoscere. Se alcuni interpreti hanno ritenuto che in quest'opera  traesse le conseguenze del suo lavoro precedente e in particolare di Sentire e pensare (Plebe, in Guzzo – Plebe), Gentile invece vi ha voluto scorgere la trasformazione dell'idealismo assoluto in spiritualismo assoluto, una posizione che preludeva agli sviluppi che egli stesso avrebbe dato all'idealismo italiano. Come nota, a tal proposito, J. qui non muove più dal senso e dal bisogno di trascendere il senso quale è DATO dalla coscienza, per spiegare la coscienza sensibile, senza incorrere nello scetticismo. Si mette innanzi l'atto del conoscere, prescindendo da ogni rapporto di esso con la verità, per trattare lo stesso del puro conoscere come principio unico ed assoluto di tutto, presupposto com'è da qualunque altro possibile pensiero. Oltre agli saggi menzionati, si segnalano ancora, fra gli altri: Un po' di polemica nella quale principalmente si discorre dell'articolo 73 dello statuto in rapporto a' poteri supremi dello Stato, Bologna; Saggi filosofici, Napoli  -- raccoglie scritti già pubblicati e l'inedito La virtù e i suoi elementi costitutivi -- la prefazione alla raccolta di Scritti filosofici di Spaventa, cur. Gentile, Napoli; Enigma della coscienza, in Rivista filosofica; L'insegnamento filosofico universitario ed il regolamento nuovo, Pisa. Membro della Società reale di Napoli e cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia.  Fonti e Bibl.: Necr. in Il Messaggero toscano,  (C. Sgroi); Corriere toscano,  (Tarantino); Gentile, Lettera a J., in Gentile. La vita e il pensiero, a cur. della Fondazione Gentile per gli studi filosofici,  lettera di Gentile laureato al maestro; Battaglia, Lettere di Meis a J., in Memorie dell'Accademia di scienze dell'Istituto di Bologna, cl. di scienze morali; Gentile, J., Carteggio, a cura di Sandirocco, Firenze; Miccolis, Lettere inedite di J., Firenze s.d.; Gentile, J., Pisa, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, Messina  Alliney, I pensatori della seconda metà del sec. XIX, Milano ad ind.; Croce, Conversazioni critiche, Bari; Guzzo - Plebe, Gli hegeliani d'Italia, Torino;  Guzzo, Cinquant'anni di esperienza idealistica in Italia, Padova; Vacca, Recenti studi sull'hegelismo napoletano, in Studi storici, Cristallini, Il pensiero filosofico di  J., Padova  (con bibliogr. degli scritti dello e sullo J.); Carcuro, Polemiche filosofiche antirosminiane: Mamiani e J., Aversa; A. De Gubernatis, Diz. biogr. degli scrittori contemporanei, Firenze , s.v.; Enc. Italiana, XVIII, s.v.; Enc. filosofica, IV, s.v.; F. Abba Luzzato, Diz. generale degli autori italiani contemporanei, I, sub voce. Grice: “Jaja is especially important for the fact that he tutored Gentile. He wrote on the ‘supreme powers of the state’, since he was a Hegelian at heart, as a collection published in Italia thus calls him – “Gli hegeliani d’Italia: Tocco, Jaja, Gentile. While he studied Kantism in depth, he finds that the Hegelian absolute, the State, as compromise between ‘gl’individui, as Jaja calls them, is the maximum!” Donato Jaia. Donato Jaja. Jaja. Keywords: implicatura, I potere supremo dello stato, la virtu. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Jaja” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Jerocades: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della filosofia della massoneria – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Parghelia). Filosofo italiano. Parghelia, Fitili, Vibo Valentia, Calabria. Grice: “I would consider Jerocades more of a poet than a philosopher, but then he was a priest and a Mason!” Essential Italian philosopher. Scrisse il saggio “Dell'umano sapere”, di stampo illuministico, che verrà successivamente pubblicato a Napoli, e “La partenza delle Muse”, edito na Messina.  Si trasferì a Napoli. Dietro raccomandazione di Genovesi, col quale era entrato in corrispondenza, venne assunto al "Collegio Tuziano" di Sora come maestro d' “ideologia”. Frequenta gli ambienti massonici. Secondo il clero sorano, tuttavia, quelle opere non si attagliavano ai giovani del collegio, tant'è che prima della rappresentazione di “Il ritorno di Ulisse” -- che conteneva alcuni intermezzi ridicoli e di stampo anticlericale, in particolare il Pulcinella da Quacquero, il vescovo emise un editto di censura: ne seguì un processo per eresia e sedizione, con la reclusione di Jerocades nel carcere vescovile. Scarcerato dopo sette mesi, lasciò Sora per tornare a Napoli, dove divenne popolare come poeta improvvisatore. E in Calabria: qui si dedica alla composizione delle raccolte Quaresimale poetico e La lira focense, testimonianza di un «illuminismo massonico». Insegna a Napoli. Fonda la Società Patriottica Napoletana, coagulo dei principali esponenti del giacobinismo e dell'antigiurisdizionalismo partenopeo, ovvero che miravano a costituire una repubblica, cosa che determinò la sua incarcerazione a Castel dell'Ovo e il processo per apostasia, ma riebbe presto la libertà, avendo deciso di ritrattare. Anche per il conflitto interiore causato da una siffatta scelta, sostenne attivamente le idee rivoluzionarie, che però, in seguito alla breve esperienza della Repubblica Napoletana, gli costarono nuovamente il carcere, e quindi l'esilio a Marsiglia. Ritornato a Napoli razie all'amnistia prevista dalla pace di Firenze compose l'elogio di suo padre e di suo fratello, motivo che indusse a farlo rinchiudere nel convento dei Liguorini di Tropea. Saggi: “Esercizii spirituali in compendio ossia il filosofo in solitudine” Napoli); “Il Paolo, o sia l'umanità liberata poema” (Napoli: presso Porcelli, Inni di Orfeo esposti in versi volgari, Napoli, La gigantomachia, ovvero La disfatta de' giganti, Napoli: La lira focense, Napoli: si vende da Gennaro Fonzo, strada Forcella, Olinto e Sofronia, dedic. Orazione per l'apertura della Scuola di Economia e Commercio, Napoli, Orazione recitata ne' funerali solenni di Marcello Accorinti morto in Messina nel terremoto. Napoli, Fedro, “Esopo alla moda, ovvero delle favole di Fedro, Parafrasi Italiana” (Napoli: Porsile, Orazio); “Le odi di Orazi esposte in versi volgari” (Napoli); “Le odi di Pindaro tradotte ed esposte in versi volgari” (Napoli: Russo); Biografia degli uomini illustri del regno di Napoli, D. Martuscelli, Gervasi, Napoli B. Croce, La rivoluzione napoletana Biografie, storie, racconti, Laterza, Bari  L. Alonzi, Il giacobinismo napoletano, in Idem, Il Vescovo-prefetto. La diocesi di Sora nel periodo napoleonico, Sora, A. Piromalli, Illuminismo massonico, La letteratura calabrese,  I, Pellegrino editore, Cosenza, B. Croce, D. Ambrasi, Il clero a Napoli tra rivoluzione e reazione, in Cestaro Lerra, Il Mezzogiorno e la Basilicata fra l'età giacobina e il Decennio francese, Atti del Convegno, Maratea, I, Venosa, Croce, La rivoluzione napoletana, Biografie, Racconti, Ricerche, Bari, Laterza, Saggio dell'umano sapere, D. Scafoglio, Vibo Valentia, Sistema Bibliotecario Vibonese, J., La lira focenseː un abate poeta in loggia, Piromalli e Bravetti, Foggia, Bastogi. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  1. T) Indaro , figliuolo di Diifanto,e di Mirto, J» nacque in Tebe , città capitale della Beozia. Mono il padre , eh’ era sonator di tibie , la ma- dre , eh’ era ancor sonatrice sposò Scopelino , e , quindi , dopo la morte di lui , sposò Pagonida , ambi professori di musica. Di qui è,ché al nostro Poeta si danno tre padri , de' quali due nel vero sono patrigni . Or questa sua sorte fece la sua virtù; imperciocché nacque, visse, e morì tra le Muse, le quali a quel t&mpo erano e ricche, e nobili ,ed onorate. I suoi primi studj fu- rono la musica, e la poesia, che apprese da Laso Ermìoneo, e che peifezionò sotto Simonide , ed Eschilo i quali' fiorivano in quella età. Indi , , dato l'animo allo studio delle scienze, seguì la , tutta la sua v»ta al modello della pietà . Tra gii altri numi venerava spezialmente Pane, Rea, e Febo e siccome la sua casetta era vicina al tempio ; , propagata per la Beozia , e non la scuola Italica J mica ; onde fu scolare di Pittagora, e non di Talete. La sua dottrina dunque divenne sacra, e tnis ica in modo , che pieno di queste idee, formò di Rea, egli era o uno de' sacerdoti , o almeno il compagno e il partecipe de' sacri misteri. , a. La sua dotta e saggia pietà e l’ornamento, e'1 retaggio della sua industre e faticosa famiglia. Imperciocché , ricevuti da Timossena , sua consorte , un maschio , chiamato Diofanto', e due fem- mine, per nome Protomache , e Polimeri trasfu- , se col sangue la sua virtù per modo ne’ figli che gli mandava il giorno e la notte al tempio dej padre, e della madre de’ numi. La sua casetr A9 me • #- , §a medesima era un tempietto dtvoto, in cui con vi- cenda soave si passava dai coro alla mensa , e dalla cetra atta tazza , cioè dal travaglio al riposo, e dal - ripeso al travaglio. Non senza ragione gli Spartani prima, e qnndi i Macedoni, liberarono dall'in- cendio comune l'albergo di lui riguardato qual ,, saero asilo delle Muse , e di Febo . Di fatti la faina di Pindaro era sparsa per tutta la Grecia , e al di là della Europa; già che Serse nella sua famosa spedizione n' ebbe ancor del rispetto , come dipoi n’ ebbe Alessandro gloria del re della Persia 3. Or qual si fu la vita civile di Pindaro? Applicato alla poesia , e alla musica , non cantava , che numi , ed eroi . L'antichità vide e lodò i suoi carmi , Inni , Ditirambi, Treni, Peani, ed altri Lirici,e Melici componimenti, rapportati da Sm- ela , che non vinsero la forza vorace dell' igno- ranza, dell'invidia, e del tempo, e de' quali so- lo si mostrano alcuni frammenti, da Stefano va- riamente, e con diligenza raccolti , Restano dunque eli lui quattro libri de’ Vincitori Olitnpj, Pizj, Ne- mei , ed istmici , de' quali Aristofane . grammatico di gran nome , ne fece una raccolta , ordinata a suo modo, e chiamata Periodo. Ed egli è qui da notarsi , che tra le opere di Esiodo si è serbata la Teogonia , e si è perduta 1’ Erogonia ; ma tra quellf di Pindaro al contrario si sono serbati gl' Inni degli Eroi , e gl* Inni degli Dei si sono perdu- ti . Queste opere f.inno la vita del nostro Poeta, siccome le guerre, e i viaggi fanno la vita d’Achille^ d' Uhsse. Ma benché Pindaro per forma- re i suoi carmi divini dovea menar i giorni nella pace , nel silenzio , e nell’ozio, e vivere con se stesso , col mondo, e co’ numi; non potea di- spensarsi dal viaggio > e dal cvmraercio co’ Prmci- ,1 , quasi emulando la Dìgitized by Google   5 pi del suo tempo, e dal conoscimento di varj po- poli , e di varj costumi senza i quali so'corsi ; non si può essere, nè si può fare il Poeta. Ol- tre il viaggio di rutto e quanto il mediterra- neo (eh* eia il viaggio alla moda in quel secolo) e’ vide Coma , Siracusa , e Cirene , e familiarmen- te u ò de’ Re e con confidenza trattò nelle Corti. , Nelle giostre festive fu più volte e spettatore, e spettacolo , e sceso al paragone con Corinna , pian- se la v.irtù della Musa vinta dalla beltà del- la Musa. In mezzo all’ armonia dunque il Teba- no cantore visse la sua vita dividendo le ore fra , lo s'adio,ei! teatro, le due scuole dell’antica vir- tù : e così finalmente morì , cadendo nelle brac- cia di Teosseno giovanetto di Tenedo, dopo , avere ascoltato con sommo piacere una festa teatra- le, ed armonica. N.ito nell' Olirne. 65. morì nell’ Olimp. 36. di anni 84.,bìochè altri narrino altri- menti e la vita, e la morte di lui. La vita de* saggi , sempre disputata , non è il corso di peri- gliose avventure gravi di speciosi e nobili avve- 1 nimenti. Ella si legge ne loro libri , e tutti i qua- dri d’ un Poeta formano il quadro di lui . E qui si offre il nome eh’ e' diede a’ suoi carmi di qua- , dri . E’ chiamò ogni sua Canzone siSog, immagi- ne , simulacro , o per la varia sorte de’ versi Litici ; o perchè tal è la poesia, cioè pittura, e ri- tratto o perchè siccome ad ogni vincitore si al- $, zava una statua col nome dell'eroe, della pa- tria, e del giuoco $ e’ gliene voleva alzar un’altra di versi , di quella più perenne ed eterna . E' fece u- so del dialetto dorico che più confassi con lo sti- , le sublime. Ma quello, che più distingue Pinda- ro dag i altri Poeti si è P uso smoderato degli , Episodj imitato non sempre felicemente , da ,, {'lacco .Lo stile delle sue poesie à Lirico-tragico, A3 e tal %  e tal volta Lirico-comico; imperciocché , siccome in Omero ci ha favole, e favolette , co>l in Pindaro ci ha canzoni, e canzonette. Per questa ragione nel tradurle , ed esporle si è tenuta una maniera diversa, secondo che oggi è fuso d’ Europa. Di fatti oggi in Europa è in pregio solamente la poe- sia , e la musica Lirica , e questa è o tragica detta altrimenti Pindarica , e Alcaica ; o comica , altrimenti detta Anacreontica, e Saffica. Ne' tea- tri si unisce l'uno e l’altro stile Lirico , onde so- no i recitativi, come si dicono, e le arie. Ma l’epica, e la drammatica , tanto tragica quanto , comica , è poesia disgiunta oggidì dalla musica , ed *’sì deono rispettare le superbe vicende del secoli . Ecco la ragione, onde ho tradotte ed espo- ste le Odi di Pindaro all' uso del Guidi; e tal volta, ma di raro , all’ uso delle cantate da sce- na. Nèmisi parlidistrofe, d'antistrofe, ed’ epodo ? di ternioni quaternioni , e quinternioni ,j che oggi sono più che vecchie monete . Chi ha voluto tener le usanze antiche , si ha dato una legge importuna, che poi ha dovuto pagare col prezzo di tante gloriose fatiche. Chi non esalta il merito di Adimari , e Gauter ? E pochi sono , che apprezzano le loro Erculee imprese ; e spesso hanno errato per necessità di consiglio . Or la- sciando a tutti e traduttori , e cementatori di Pindaro la gloria immortale del nome; io ho ardito d’ incominciare ad uso mio questo faticoso lavoro, e ho ardito ancor di compirlo a mio mo- do. Se questa è una lode , io la confesso ; poiché mi è grato un onore, che mi venga dal merito. Sog- giungo ancora d'aver letta, a quest’ uopo , Plutarco, Eliano, Pausania, Clemente , Stobeo, Eusebio, Quintiliano, Orazio, fra gli antichi ; Suida, , GiraJdi , Motóri , "• Baile , Fabbiicio , Schmid io , A\ Be, 1 Pindaro, il quale, quando è gustato, è conosciu- to • |o confesso ancora di aver vinto la causa , di cui la questione si fu: Se gl’inni Cristiani sono da più , o da meno, degl* Inni Pagani ? Io proposi, son già molti anni passati, che sono da più ; e per dimostrarne l'assunto col fatto, tra- dussi ed esposi gl’inni Cristiani , e gl'inni Paga- ni, e lasciai la causa alla fede, e alla ragione de* - giudici. Pubblicati gl’inni d’ Orfeo e di altri e ,, quindi le Odi d’ Orazio, non restavano, che gli Inni di Pindaro al compimento dell’opera. Ecco la iuta fede legata già sciolta. Chi legge , se ha sénno vegga e conosca la 4; verità . A non voler dir altro , basta il dire che , negl'inni Pagani o manca la persona, o rrnnca il soggetto, eh’ è la virtù., E se dicesi, che ap- presso i Pagani tal era la persona reale , e tale il soggetto dell* inno; io dico che cangiate le idee, , dubbiamo venerare le nostre. Ma le Liturgie, per una sorte comune sono ignorate da chi le , adora, e conosciute da chi le disprezza. Quindi è , che questa causa spetta al giudi ciò de’ posteri come accenna nella Od. i. Olimp. il nostro poeta. Nel resto non può negarsi, essere oscura e confusa 1 antichità, e chiara e distinta h nostra età, in cui quel che si legge, si vede, e quel che si vede, s’ intende . Per me m’inebbrio di gioja quando canto nel coro un inno de' nostri; e. nel cantare un inno Pagano , sia superbo e pomposo, non mi sento nel petto un senso di dolce pietà. £ non abbiamo noi i nostri agonistì, i campioni» -gli atleti r , gli atlanti, gli aicidi di Cristo? Altro che kcorsa f , e Ja lotta, sono le virtù del Benedetti, Aditimi, Stefano, Gaìitefj ed altri fra i moderni e di averne tratto profitto ma , di. aver sempre apprezzato sovra di tutti lo stesso  la Chiesa . Si legga solo F inno di Venanzio giovanetto, e santo deli’ Umbria, e si vegga, quai sono in vero gii eroi. E’ non vi ha dubbio, che iti Pindaro vi sono le più belle sentenze e mo- , lali, e politiche che il suo stile spesso è orien- ; tale, come lo stile liturgico di Asaflfo, d' Orfeo d’Omero, e di Ossian; ma queste bellezze, che di rodo si ammirano ne' poeti Pagani, ne’ nostri sono e profuse, e neglette. 5. Mi resta a dir due parole su i Giuochi, che formano F argomento dell’ opera • I Giuochi , dette ancora feste giostre certami agojii , con- (,,, trasti ) erano o ginnici , o musici . I musici eran prode del conto, del suono, della poesia, della storia, e della eloquenza; e tal volta erano dispu- te circolari da scuoia. Questi si davano d' ordina- rio neU’Odèo, nel Musèo, nel Licèo, nel Teatrone di rado assai nello Stadio, infra il romor delia turba, il vincitore avea la corona, la sta- tua, e il soldo pubblico,e forse Finno della vittoria. Mi questi giuochi non eran molto famosi. I Giuochi ginnici erano o sacri , o profani . £ profanieranolascherma,ei! bersaglio,edaltri, destinati col tempo alle pene de’ rei., I sacri & solenni eran cinque, la corsa , la lotta, la pugna , la danza, la palla, detti in generale Pentatlo da' Greci , da’ LATINI Qoinquerzio , e tal volta Pan- crazio , benché Pancrazio comprendea solamene te;la pugna, e la lotta* La corsa era a piedi, a nudo', o armato a cavallo , o frenato, o senza ; freno ; e col carro , tirato da due. o da quattro cavalli £ Il premio della ,virtù eia kt stessa virtù; o pure una corona di olivo f di lauro, d’apio, di rame , o di ferro ; una statua col nome so»* della patria, del giuoco; e un inno di lode, ond’ era accom- pagnato* litornapdo' in trionfo, alia patria  1 luogo di questi Giuochi era lo Stadio, in tre par-* t» diviso, e distinto con tre colonnette. Vi prese* devanoi pubblicimagistrati cometestimoni egiu- ,, dici delle contese. Tali feste, instituite da Ercole, da Pelope, da Enomao da Ifito e p;ù volte tralasciare, e più volte riprese si celebravano , nel principio d' ogni cinque anni piade non era diversa dal Lustro, che fu la gran festa degli antichi ROMANI. Questa città, eh’ è stata sempre la madre degl randó altre insegne e divise , onde vivano ignoti al mondo, e noti solo a se stessi. Vivi fra * morti , e mprti fra i vivi , passano in pace la vira e fanno il lor nome risonare nel silenzio , della virtù. Fra molti, che io venero, ha luogo Gaetano Ancora Napoletano giovane d’ alti ta- ,, lenti , e di aurei costumi . E’ rubando agli alti , affari politici, e al vigor giovanile, e alle ombre notturne poche ore del tempo le consacra a quel ,, profondo studio , che da' primi anni coltivò, d* una maschia e robusta Letteratura Latina , e va di quando in quando esponendo una parte di quella Sapienza vera, che nel tesoro delia età vetusta si serba come un sacro depost- , ,, <5. Molte, e varie notizie si sono d'america vate 11 da Pausania , da Natale de Conti, e da saggi scrittori delle Greche antichità , Ma disperando di poterne qui dare un Saggio compiuto che servisse di scorta alla legione di Pindaro, ho prega- to il mio doke amico, e maestro Ancora y il quale, tra le gravi cure della Corte, cori va . con applauso universale i più severi studj della Letteratura, oggimai quasi moribonda e spirante.- 1 ingegni , e la scuola di tutte le Muse non ar- , 1 disce più di onorare il nome de suoi gran figli col titolo di saggi e di dotti e va lor proccu- ,, , onde T Olim-  JO to della umani, e divina ragione . Quindi la Repubblica delle lettere gode di tante dissertazioni dilui, chesonodiraro, diutile, edifestivo argomento , e che raccolte si daranno a. suo tem- po al'a luce. Or egli piegandosi gentilmente al- , le mie premurose preghiere, ha scritto un Saggio tu i Giuochi solenni di Grecia, il quale, stampa- to alla fine del libro la erudizione comune , serve al- e al rischiaramento delle ©ni di Pindaro. Perciò son io contento delle mie fatiche , le quali con questo lume compariranno , come spero , meno oscure, e meno importune $ e la Musa Dircèa sarà più sacra, e più venerata. A vero dire non deve un Poeta ri sublime , e sì sacro , come colui , che canta da eroe le virtù degli eroi giacersi nell' ingrato obblìo d' una facile indifferenza, o d' una criminosa ignoranza? eseiohofattosì, cheil suonomesiatranoi p ù conosciuto, ed imitato almeno nelle sentenze, se non si può-nello stile, Sublimi feriam sidera  Tropea. Palazzo Sant'Anna. odierna sede del Municipio ed ex Collegio dei Gesuiti. J. visse da filosofo inquieto una esistenza drammatica. Pur affascinato dalle idee di libertà di cui si è fatto assertore e promotore, non smise mai di produrre opere di natura religiosa e devozionale, anche pervase di amore e tenerezza, soprattutto verso la Vergine Maria. E' un ecclesiastico che non sovrappone il livello della politica a quello della fede, ma tenta piuttosto un equilibrio che apparirà fortemente precario e non convincerà nè il potere politico nè il potere religioso. Dall'una e dall'altra parte fu perseguitato per tutta la vita, tuttavia non sconfessò mai la sua fede cristiana, nè resistette fermamente al tiranno fino alla morte.  Quest'uomo che le istituzioni hanno più volte punito secondo i loro statuti con il carcere e con l'esilio fu un 'uomo contro', ma non aveva la vocazione al martirio.  Io mi fermerò a considerare l'ultima prigionia dell'abate Jerocades. Fu la conclusione di una vita oltremodo inquieta. A Tropea, nel collegio dei Padri Redentoristi non si chiudeva solamente una vita, si spegneva il tentativo di conciliazione di un credente massone e giacobino con il mondo moderno. UNA VITA ESAUSTA  L'abate J. non aveva la vocazione al martirio e tuttavia la sua vita inquieta è stata vissuta nella lotta, una opposizione ideologica contro i potenti e una tuonante avversione al mondo clericale.  Il terremoto del Capo, questa operetta indiavolata, come la definisce Tigani Sava, ci dà la misura di quanti fossero i suoi nemici, ma anche di quanto egli sapesse usare la lingua e la parola per colpire, offendere, insultare.  La parola fu la grande arma che Jerocades usò per illuminare le menti, per eccitare i cuori, per aggredire chi lo contrastava, per lottare i suoi numerosi nemici.  Dotato di grande facilità di parola, scriveva e verseggiava con facilità e spesso dava alle stampe i suoi scritti senza rileggerli.  L'ultima prigionia a Tropea, nella casa dei Redentoristi, fa pensare a Daniele nella fossa dei leoni. Ma l'accostamento biblico ci richiama anche altri protagonisti calabresi di utopie religiose e politiche: penso a Fiore, a CAMPANELLA, profeti perseguitati per i loro sogni di libertà. Con uno spessore certamente diverso, ma con un'ansia di fondo che ha una matrice comune nella natura rivoluzionaria del cristianesimo.  Credo sia opportuna una riflessione sulla condizione ecclesiastica di J. e sulla sua formazione, perchè ci consente di cogliere elementi di approfondimento in lui come anche nelle figure più rilevanti del giansenismo, del protestantesimo, del giacobinismo, della massoneria: tutti più o meno di provenienza culturale e ambientale non solo cattolica, ma specificamente ecclesiastica (si pensi a Salvi, Aracri, Serrao, Padula, Angherà, Nudi o altri meno noti).  Il valore culturale, etico, sociale di queste personalità e della loro opera in Calabria e fuori, osserva Mariotti, e stato messo in rilievo da studi seri ed accurati, "che tuttavia non sempre superano del tutto la tendenza ad interpretare illuministicamente l'aspetto contestativo soprattutto in chiave di apertura alle novità, al progresso contro l'ignoranza, l'arretratezza, il bigottismo degli am bienti ecclesiastici. Pare sia più maturo un ripensamento, almeno su alcune complesse personalità: anche per capire meglio il dramma umano, religioso, morale di questi uomini, spesso condizionati dal disagio di una vocazione non autentica, talora esasperati da situazioni realmente invivibili; e per cogliere, al di qua dell'asprezza delle manifestazioni, la radice autenticamente cristiana e cattolica di certe esigenze e critiche, nello spirito in cui oggi leggiamo e accettiamo i rilievi al loro tempo sospetti, di Muratori sulla Regolata devozione dei cristiani, di SERBATTI su Le cinque piaghe della chiesa."  Penso che, leggendo l'ancora inedita Orazione per l'apertura della Scuola di Economia e Commercio nell'Università di Napoli, detta da J., questa riflessione si riveli quanto mai opportuna. Egli, rievocando gli anni della giovinezza, ricorda: "... Nato in un ignoto villaggio dell'estrema Calabria da parenti oscurissimi, applicati alla pesca, alla navigazione, al commercio, respirai le prime aure di vita, tra i remi e le reti, nè mi sentia fremer d'intorno di altro il linguaggio che del dolore, dell'opera, della fatica, i tre compagni primieri de' dolenti, operosi e travagliati mortali, nè di altre immagini la mia mente bambina poteva ricolmarsi giammai, che di povertà libera e di libertà bisognosa... piacque a mio padre di ascrivermi tra l'ordine clericale e gà cominciai pur io, e ben per tempo, a menar la vita tra i Salmi e gli Inni, imparando, ed insegnando ogni giorno le Christiane dottrine... Chiuso il Seminario vidi e conobbi i primi elementi dell'umano e divino sapere, e mosso dalla fama del Martorelli e del Genovesi venni a Napoli ad ammirare quei due valenti e in filologia e in FILOSOFIA, e con essi loro mi strinsi in familiare e soave amicizia."  E' altrettanto importante annotare che la preoccupazione per il seminario rappresenta per i vescovi calabresi nella seconda metà del '700 la volenterosa disponibilità di attuare una delle poche veramente innovative prescrizioni tridentine. Ma in realtà molti seminari furono semplici convitti, che potevano influire su una percentuale ristretta del clero, in quanto spesso surrogavano i collegi per i laici, mentre i chierici in genere erano formati con un'infarinatura di morale e di cerimonie dai parroci di campagna. Una circolare per la diocesi di Tropea ritiene validi 10 giorni di ritiro come preparazione all'ordinazione sacerdotale di coloro che erano stati presentati dai parroci. Si trattava di una preparazione intensiva, che era tutto ed era poco! Il clero che proveniva dai seminari invece si qualificò più per gli aspetti culturali che per quelli pastorali.  Per molti lo stato ecclesiastico rappresentava soltanto una carriera ambita. In un ambito di cristianità il prete era il notabile, circondato da uno steccato di privilegi. La vocazione era pertanto nella linea delle pressioni sociali. Moltissimi erano i preti al di fuori di ogni quadro pastorale: gli abati oziosi, i preti altaristi, i pedagoghi, gli eruditi, i commercianti, i sensali, i selvaggi, i preti coniugati, gli eremiti. I sinodi sono pieni di richiami agli abusi di questo clero che, privo di forti ideali, dopo aver "strapazzato" la messa e l'ufficio, si dava all'ozio, agli spettacoli, al cicisbeismo.  Del resto va notato che il Concilio di Trento aveva obbligato i vescovi a fondare i seminari, non i candidati agli ordini ad entrarvi.  La cura animarum suprema lex era molto disattesa, pur essendo un principio fondamentale del Tridentino che aveva posto come capisaldi della vita diocesana le visite pastorali, i sinodi e i seminari. Ma anche i sinodi diventano sempre più radi: a Tropea l'ultimo sinodo celebrato è stato di Ibanez: nessun altro sinodo verrà celebrato nel corso del settecento e fino al vescovo Vaccari.  La preoccupazione per il seminario appare sempre viva e addirittura appare quasi ossessiva in un vescovo latitante come Mele nella corrispondenza col suo vicario don A. Meligrana. Questo vescovo fu l'ultimo a reggere la diocesi di Tropea prima della sua unione con Nicotera. Durante il suo episcopato avvennero fenomeni che hanno cambiato il corso della storia, ma egli riuscì (e non fu per nulla il solo!) a rimanere fermamente legato alla tradizione; durante il suo episcopato morì a Tropea J..  Sugli anni compresi sembra prevalere un grande silenzio su J. nei documenti vescovili o comunque tropeani.  Mentre il Martuscelli, primo biografo del J., ci riporta con alquanta dovizia di particolari l'ultimo periodo di vita dell'abate (cfr. Accatatis, Uomini illustri della Calabria, Cosenza), le notizie che abbiamo di lui dai contemporanei locali sono molto scarne e tendenziose (Vito Capialbi, Memorie per servire alla storia della santa chiesa tropeana, Napoli, Paladini, Notizie storiche sulla città di Tropea, Catania- ed. anastatica a cura di Bella). Quasi irreperibili nell'archivio vescovile di Tropea. Quello che ci lascia interdetti è la mancanza di fonti 'tropeane', degli uomini di cultura suoi contemporanei o quasi: Galluppi, ad esempio, o Politi, o Scrugli, o Melograni...  Gli archivi locali, sia quelli ecclesiastici che quelli privati, sono molto avari di notizie. Nell'archivio vescovile di Tropea è assente il suo nome, se si eccettua un documento di dispensa dall'età canonica per l'ordinazione sacerdotale e di annotazioni sulla sua assenza da Parghelia nelle visite pastorali:  Visita Paù: nell'elenco dei preti di Parghelia manca J.; Visita Monteforte: adsunt extra patriam... D. A. J. Visita Monforte: absens...: A. J.;  Visita Mele: D. Antonius Jerocadi absens.  Negli archivi privati si è trovata qualche piccola traccia del suo passaggio nell'archivio Meligrana di Parghelia: una lettera di Vito Capialbi, datata Monteleone a Meligrana ricorda che "le cose di J. [per lui trascritte] non sono che ordinarissime composizioni, ma di un autore così celebre ogni cosuccia è buona". E più avanti ricorda ancora di aver avuto in regalo dal nipote di J. (Raffaele) "un autografo in francese e in italiano di suo zio". Da Parghelia, attraverso don G. Meligrana, Vito Capialbi ha avuto molti testi di J., che dice di conservare nella sua biblioteca (Cfr. Memorie, cit.).  L'archivio più fornito dovrebbe essere quello dei Jerocades-Colace che allo stato attuale risulta pittosto disperso, diversamente da come era stato rilevato da Tigani Sava, relativamente alla produzione di Jerocades (Cfr. il contributo bibliografico più completo - pur se con qualche piccola carenza - di Francesco Tagani Sava in La Calabria dalle riforme alla restaurazione, S. E. Meridionale.  Il silenzio delle fonti tropeane del periodo che corrisponde agli ultimi anni di vita di J. sta ad indicare la sua emarginazione, dovuta a una avversione profonda, soprattutto da parte del clero tropeano, che, nel Terremoto del Capo, era stato oggetto di derisione e di gravi accuse di immoralità, ma anche del mondo laico che non condivideva le idee giacobine dell'abate, anche se alle logge massoniche da lui fondate, o che, come dice Gaetano Cingari, certamente influenzò, a Parghelia e a Tropea, in molti avevano dato la loro adesione. Tanto meno fanno menzione di lui gli accademici degli Affaticati. J. viene ignorato, sia perchè è scomodo, sia perchè è ostile e pericoloso politicamente, sia infine perchè ha usato la parola come arma che ha colpito duramente.  Forse non e esagerato pensare che si aspettava il momento giusto per presentargli il conto.  LA SOLITUDINE DELLA MORTE  Martuscelli racconta con dovizia di particolari gli ultimi anni della vita di Antonio Jerocades e la sua morte. fu mandato in Francia", egli scrive: in realtà, più precisamente, fu esiliato con altri 500, mentre Colace e Mazzitelli erano stati uccisi. J. figura tra gli esiliati a Marsiglia per i fatti e, nell'elenco dei condannati dalla Suprema Giunta di Stato, si fa anche una descrizione fisica dell'abate.  A Marsiglia scrive tra l'altro l'orazione funebre per Vincenzo suo fratello. Nel mese di agosto 1801, dopo la pace di Firenze, rientra in Italia a Civitavecchia con la nave e da lì a Roma dove 'si ammalò mortalmente'; riavutosi andò a Napoli e da lì giunse a Parghelia. Dopo dieci mesi fu mandato nella casa del PP. Liguorini di Tropea, e dissesi che ciò fu per correggerlo di quanto avea scritto nell'elogio funebre di suo fratello Vincenzo", denunziato da Giuseppe Costanzo per vilipendio in quanto nella detta orazione aveva parlato male del cardinale Ruffo.  L'ordine era di tenerlo segregato. E all'inizio l'abate "viveva nella quiete", scrive il Paladini, che fu testimone oculare della sua prigionia; il quale aggiunge che, cominciando J. al suo solito a satirizzare, perdè la confidenza dei religiosi".  In realtà la situazione appare più complessa, come risulta dalla lettera di Migliaccio, successore del Pappaona, inviata a Mele e conservata a Tropea nell'archivio Francia:  Ecc. Rev.ma  con ven.ta carta V. E. Rev.ma partecipò al mio antecessore che il sig. Preside della Provincia, col parere del sig. Av.to F.te D. Calenda le avea scritto che il superiore di questa casa, quante volte i medici ne conoscano la necessità, potrà far uscire a camminare il sac. J. di Reale ordine qui detenuto, in compagnia degli individui di questa Comunità. E' il detto mio antecessore subito, con più di buon core che di considerazione, le risposte che avrebb'eseguiti gli ordini. Ora io mi dò l'onore di rappresentarle, che essendo nei principi del passato luglio venuto da quella di Catanzaro a governar questa Casa, ho trovato che non si era potuto eseguire quanto di buon cuore si era mostrato di voler eseguire; imperciocchè essendo qui una piccola Comunità, e vivendosi, come si vive tra noi, ritirati nelle proprie stanze, ci parliamo un poco dopo pranzo e dopo cena; e quando poi si esce un po' a camminare, ch'è un par di volte la settimana, allora ci comunichiamo insieme i nostri sentimenti o il nostro approfittamento nelle lettere, o nello spirito; e sarebbe anzi una noia uscire in compagnia di persona, con cui non si ha confidenza. Ma questo è poco. I Reali ordini rispetto al predetto sacerdote sono di non farlo uscire, nè trattare con nessuno; e di ciò il Sig. Ud.re Perrotta ne volle firmato un obbligo dal passato Superiore. Ormai il Sig. Preside dice: quante volte i medici conoscano la necessità di farlo uscire, il superiore potrà permetterlo, ma in compagnia degl'individui di casa. Resterebbe dunque a carico del superiore la verità della cognizione dei Medici, e la necessità del Jerocadi. Cotesta risponsabilità non si vuol'aver'affatto. Risponderà ogn'individuo della propria condotta; ma non potrà rispondere di quella degli altri. Il superiore passato non dovea pur firmare quell'obbligo; ch'egli non era fatto castellano nè carceriere. La M.S. si confidava della di lui religione; ed egli, ed ogni successore si facea un pregio di custodirlo, e di rappresentare subito ogni trasgressione, che mai ci fossa stata. Per le quali ragioni, e per altre, che non è necessario di esporre, non è eseguibile di farlo uscire in compagnia degl'individui di casa. All'incontro J. fa delle premure presso di me, rappresentando i suoi mali, e 'l male dei mali, ch'è la sua vecchiaia, o amara decrepitezza. Ma io non vedo altra via da poter'esser'abilitato, se non che, se il Sig. Preside, per compassione dei mali di questo infelice, si assicuri egli della cognizione dei medici e delle necessità del Jerocadei, e così lo abiliti a uscire a camminare in compagnia di altro sacerdote secolare ben visto all'E.V.Rev:ma. E pien di rispetto le bacio le sacre mani, e chiedo la paterna benedizione.  Collegio di Tropea U.mo e obblg.mo servitor vero e suddito Migliaccio del S.mo Red.re  Di V.E. Rev.ma  Mons. Mele Vescovo di Tropea  "In quel soggiorno - scrive ancora il Martuscelli - molto si indebolì la sua salute - pur nondimeno scrisse molte cantate, sonetti, molte orazioni sacre, novene di alcuni santi, tradusse il salterio. Finalmente logoro dai disagi e dalla improba applicazione allo studio munito dei santi sacramenti nei sensi della vera pietà rese l'anima a Dio. Da colà fu il suo corpo trasportato nella patria, e depositato nella sepoltura dei sacerdoti".  Muore. L'atto di morte si conserva nel registro della parrocchia di S. Demetrio di Tropea ed è stato trascritto anche in quello della parrocchia di Parghelia.  Li riporto entrambi, oltre che per precisare e definire la data di morte, anche per farvi notare delle coincidenze e delle differenze:  Parghelia - Parrocchia di S. Andrea Apostolo  Atto di morte  Rev. Sacerdos J., annum sextum ac sexagesimum cum attigisset, sacramentis opportunis rite munitus, die decima nona dicti novembris obiit Tropeae, in domo Patrum SS.mi Redemptoris; cuius cadaver in hoc casale delatum in Eccl.ia Archipresbiterali S. Andreae Ap.li in sepultura sacerdotum tumulatum fuit.  A.  arch.  Taccone  TROPEA - Parrocchia di S. Demetrio - Atto di morte  Sacerdos J. casalis Pargheliae hujus Diocesis utriusque juris atque sac. Theologiae Doctor. Professor publicus in Universitate Neapolis, sexaginta quatuor fere annis natus, munitus sacramentis poenitentiae et Eucharistiae postea subita morte peremptus, animam exspiravit, eiusque cadaver in ecclesia archipresbiterali casalis Pargheliae tumulatum fuit.  Franciscus Antonius Grillo  Vito Capialbi, precisando che Jerocades fu sacerdote, che "dopo varie, che diresti romanzesche vicissitudini, involuto nelle tristissime vicende andonne ramingo in Francia, ed in altri Regni d'Europa; e già era rientrato nella patria in seguito del trattato di Firenze del Finalmente, stando nella casa de' PP del SS. Redentore di Tropea, morissi  Per concludere che "più copiose notizie di questo vasto, e stravagante ingegno si riferiranno nelle nostre Centurie degli scrittori calabresi".  Di questo periodo della vita esausta dell'abate Jerocades sono state dette certamente delle esagerazioni (il tetro carcere - la cella - le punizioni - le torture... il veleno - cfr Didier), non suffragate da alcuna documentazione, ma solo ampiando voci e dicerie, ma tante altre cose sono state taciute.  Stupisce però che il vescovo Mele, nella visita ad limina, presenti una visione idilliaca del clero e della diocesi, mentre nella visita pastoralee in altri documenti conservati nell'Archivio storico di Tropea tuoni contro la disobbedienza e l'ingovernabilità del clero e contro l'immoralità dilagante: nessuna nota abbiamo potuto rintracciare relativa al caso J., tranne tracce indirette nell'Archivio Meligrana di Parghelia e la lettera del P. Migliaccio al vescovo Mele. Nell'archivio dei PP Redentoristi della casa provinciale spero possa essere trovato del materiale documentario che già lascia intravvedere Orlandi, storico dell'ordine, il quale in Specimen Historicum CSSR-.FI "I Redentoristi napoletani tra ricoluzione e restaurazione" dedica pagine interessanti all'abate Jerocades.  Era comune che le autorità inviassero dei condannati al soggiorno abbligato a scontare la loro pena in qualcuna delle case della Congregazione. "Per quelle calabresi - scrive Orlandi - si trattava di un compito assegnatogli dal dispaccio regio del 22 marzo 1790:  'Qualora i vescovi diocesani o vicini per correzione volessero mandare dei preti o chierici a fare gli esercisi spirituali nelle loro case, dovranno sempre riceverli, con esigere anche per compensare del loro incommodo quell'oblazione che non venga eccedere il tarino al giorno, pel tempo della dimora che da quei preti o chierici si sia fatta presso di loro.  L'ordine reale veniva poi eseguito dai vescoli.  Pertanto i Redentoristi "si trovavano nell'impossibilità di sottrarsi a questo forzato esercizio dell'ospitalità, che tra l'altro non era sempre immune da rischi, come nel caso J.. Nella lettera del P. Migliaccio si afferma con forza: Il superiore passato non dovea pure firmare quell'obbligo, ch'egli non era fatto castellano, o carceriero.  Orlandi, storico dei Redentoristi, riporta un passo di Capasso (Un abate massone, Parma. Che in questa nuova relegazione J. abbia continuato a mostrarsi secondo i casi massone e rivoluzionario, si può facilmente ammettere, anche perchè è certo che non cessò mai dallo scrivere ed improvvisare al modo antico. Ma l'esilio, quantunque raddolcito dalle cure di chi l'assisteva, diè l'ultimo crollo al suo cervello, di già a bastanza indebolito. Naturalmente, se a J,  era sgradito soggiornare a Tropea, ai Redentoristi lo era ancor più il doverlo ospitare. Dura da un anno quello stato di cose, quando il Ierocades ottenne di poter passeggiare fuori clausura, accompagnato da uno di quei frati. Ma, proprio il giorno in cui cominciava a fruire di tale concessione, intavolato col compagno una discussione di teologia, non essendo contento delle risposte dell'altro, passò dagli argomenti alle impertinenze, e poi "usando dell'estro poetico", sepellì il frate sotto una valanga di contumelie. Ricorse perfino al bastone, e buon per il frate che riuscì a scansarlo".  La lettera del padre Migliaccio sopra riportata conferma quanto scrive Capasso. Orlandi conclude che "invano i Redentoristi ricorsero ripetutamente alla corte per essere liberati dalla sgradita presenza di J. che rimase a Tropea fino alla morte".  Paladini ci lascia una testimonianza di prima mano. Dopo un giudizio fortemente negativo: "Fiorì soprattutto a' suoi tempi [del vescovo Monforte] J. di Parghelia noto nella repubblica letteraria per talenti e cognizioni; non sempre tuttavia seppe scriver bene soprattutto nella prosa; volle poi trovare per tutto i delirii massonici; e fu traditore degli stessi sedotti da lui; in breve il suo stile fu imperfetto, la sua scienza non retta, la sua morale non buona". Il teologo ci lascia questo racconto della morte di J. Muore ai suoi tempi [del vescovo Mele] D. Antonio Jerocades.  Questi, ritornato dalla Francia dov'era stato in esilio, fu denunziato da Costanzo, da Parghelia quale autore di autore di una orazione funebre di un suo fratello, dove parlava male del Ruffa ricuperatore di questo regno; quindi fu chiuso dal Ministro Pirrotta tra i Padri del Santissimo Redentore di Tropea sotto il rettore Pappaona.  Ivi sulle prime viveva nella quiete, ma, cominciando al suo solito a satirizzare, perdé la confidenza de' religiosi.  Caduto infine in delirio malinconico, e dubitandosi di sua vita, il Vescovo delegò tre membri del Capitolo, cioè l'Arciprete e il Penitenziere Mazzitelli e Paladini a ricevere la sua professione di fede.  Egli, invitato a ciò, diè segno di approvazione, come il diè in tutta la lettura di detta professione. Richiesto a sottoscrivere, prese la penna, e scrisse le due prime lettere del suo nome A ed n, ma poi invece di seguire a scrivere il t col resto, scrisse g. Allora il padre Migliaccio gli rimproverò forte ch'ei volea dirsi Angelus, con fargli altresì delle minacce per questa e per quella vita: per lo contrario il Teologo disse: o egli in questo momento è nel delirio, ed a chi parliamo noi? o è in retta ragione e sarebbe meglio prima indurlo al dovere con convincerlo, con pregarlo ecc. Intanto l'ammalato proseguì la sottoscrizione col rimaner sempre il g, ma col fare il r e tutt'altro, come gli dettarono i tre delegati. Munito poi de' sacramenti dal Parroco, morì e fu trasportato ad essere seppellito in Parghelia."  Questo racconto ci fa intravedere quali fossero le preoccupazioni del vescovo Mele (solo formali e... di salvare un'anima!) e quali fossero i sentimenti del Paladini, il cui zio Gaetano l'abate aveva fortemente fustigato e vilipeso nel Terremoto del Capo.  Sul versante laico il racconto di Didier in L'Italie pittoresque, Pigoreau, Paris, appare assai ricco di anticlericalismo e di spirito romantico: J., autore della Lira focense "fu crudelmente perseguitato. Relagato nella sua città natale (sic!), ebbe per prigione un convento in cui i monaci, razza fanatica, ritenendolo ateo e giocobino, si resero compiacenti esecutori delle vendette reazionarie dei Borboni di Napoli. Investiti da questo ministero poco cristiano, l'esercitarono con una barbarie meticolosa e veramente monacale. Non vi sono torture che essi non inflissero al carbonaro poeta: il povero prigioniero morì presto, e colui che gridava, in uno slancio di benedizione, "Vita, dono del ciel, sei bella, ti amo. Perchè ti so...", vide i suoi giorni spegnersi nella prigionia oscura, silenziosa d'un chiostro fanatico e persecutore. La salma del martire riposa a Tropea in attesa del Pantheon riparatore che riunirà in un solo altare tutti i martiri dispersi della libertà italiana.  La terra sia loro leggera fino al giorno prossimo delle riabilitazioni!"  La fonte del Didier era certamente legata allo spirito patriottico che aveva bisogno di creare i martiri. Questo spiega anche la data errata e il riferimento alla salma che riposa a Tropea mentre sappiamo che Jerocades fu seppellito a Parghelia. Nella prefazione alla Lira Focense pubblicata a Cosenza, Francesco Migliaccio accentua il carattere persecutorio: "fu dalle calunnie, dalle persecuzioni e da mille disastri assalito ed oppresso. Credette farsi schermo e difese [...] negli occulti recessi della sua patria. Ma per la malvagità dei tempi... fu nella sua veneranda vecchiezza rinchiuso nella casa di Missionarj di Tropea. Quivi nella indigenza, schiacciato dalla ferrea mano che l'oprimeva chiuse i suoi giorni".  A parte i comprensibili toni romantici del Didier e di Francesco Migliaccio, l'abate Jerocades chiuse i suoi giorni nell'abbandono e nella solitudine, senza un'ombra di affetto o di pietà. Neppure la visita del Pepe a Tropea potè dare ristoro al vecchio poeta, che non trovava più motivi al suo canto.  La sua voce, un tempo bellissima e ammirata, adesso era solo il lamento di un uomo finito che vedeva stroncarsi senza rimedio il suo cocente anelito alla libertà. La morte improvvisa che lo colse dopo aver ricevuto i sacramenti della penitenza e dell'Eucarestia ha trovato un uomo distrutto e che nelle parole del salmo 50 da lui amato ha trovato l'ultimo motivo per affidare alla forza della parola l'anelito del cuore.  UN DIGNITOSO CONGEDO  Non fu una morte normale quella di Jerocades: nella sua inquietudine non bastò la famiglia dei liberi muratori, non soccorse l'avventura giacobina, diede sofferenza la chiesa alla quale apparteneva.  Nella post-fazione dedicatoria l'abate Jerocades ricorda che alcune poesie che formano la Lira focense sono sacre e ricavate dai libri cristiani e ne dà una spiegazione storica; ma a me sembra che egli voglia darci atto di non aver mai abbandonato la certezza cristiana come in questa Salve piena di affetto e di fiducia.  O Regina, il Ciel ti salvi.  Di Dio madre, e sposa, e figlia,  Volgi, ah volgi a noi le ciglia,  Bella madre di pietà.  Mostra vita, e nostro bene,  Nostra speme, e nostro amore,  Volgi a noi quel tuo bel core,  Ch'è la stessa carità.  Figli di Eva, abbandonati,  Dell'esiglio a' lunghi affanni,  Dal furor dei rei tiranni  Chi ci salvi, oh Dio! non c'è.  Senti il grido, ascolta il pianto  Di chi giace in ree catene,  Bella Madre, in tante pene  Ci volgiamo afflitti a te.  Dunque o nostra Protettrice,  Volgi a noi quel tuo bel ciglio;  Mostra a noi quel tuo bel figlio,  Quando ha fine il lungo error.  Tu sei madre assai pietosa,  Bella Vergine Maria;  Tu sei dolce, e tu sei pia,  Tutta pace, e tutta amor. E mi appare persino commovente la Novena alla Madonna di Portosalvo, che l'abate Jerocades dedica a Raffaele suo nipote, figlio del fratello Vincenzo:  "Nel Castello dell'Ovo, villa un dì di Lucullo, ove fui tre anni prigioniero di stato dopo tre anni di esilio e in altri prigioni e in altri esili, dopo Dio non ho altro obbiettivo delle nie cure e delle mie preci che la Madre di Dio.  Serbando fede alla patria, l'ho sempre invocata col nome di Madonna di Porto Salvo, e questo conveniva ancora al mio stato perchè nelle tempeste si cerca un porto e nelle battaglie si cerca un asilo, impaziente di altra dimora:  "Ch'io son vivo al desir, morto alla spema".  Gravato d'anni e d'affanni, ho scritto questa Novena che a voi, caro nipote, offro e consacro qual dono e qual debito.  Io ve la consacro qual dono poichè è frutto dei miei studi e dei miei talenti. Sono povero di fortuna e quel che mi ha dato la natura, spetta anche a voi quando non disdegnaste di dirvi mio nipote".  A me quest'ultima frase appare commovente per la carica emotiva che sottende. Ma c'è dell'altro che J. dice ancora come credente e come sacerdote:  "Chi sono i testimoni della fede? I vecchi. Io, che vecchio pur sono, così presbitero, qual attestato maggiore di questo donarvi della religione e fede di Cristo?  A te, Raffaele, e all'eredità del padre e dell'avo aggiungerete la mia.  A te, e nella Chiesa di Porto Salvo fra i suoi monumenti della pietà dell'avo e del padre appenderete ancora s'è degna questa Novena, in cui leggerete le grazie e le glorie di Maria, da noi venerata sotto il nome di Madonna di Porto Salvo".  Il senso di verecondia che traspare da queste parole non ci rivela forse il dramma di un uomo, di un credente, di un sacerdote che, guardando indietro alla sua vita tormentata fa un bilancio coraggioso e definitivo?  "Dopo Dio non ho altro obietto delle mie cure e delle mie preci che la Madre di Dio"  Antonio Jerocades. Jerocades. Keywords: filosofia della massoneria, Esopo in Italia, lira focense, giaccobinismo,  ‘repubblica romana” “repubblica partenopea”, le odi di pindaro, ginnasia, antichi romani. – Grice on Plato’s Republic. Refs.: “Grice e Jerocades” – The Swimming-Pool Library. Jerocades.

 

Grice e Jervolino: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- ermeneutica del dialogo – filosofia campanese – scuola di Sorrento -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sorrento). Filosofo italiano. Sorrento, Campania. Grice: “I like Jervolino, but then I like any philosopher of language! He is a Ricoeurian, and I’m a Griceian!”essential Italian philosopher. Allievo di Piovani. Insegna a Napoli. Collabora con diverse riviste specialistiche di filosofia (Filosofia e Teologia, Studium). Esamina aspetti riguardanti a Ricoeur, tra cui:  la ricerca di un filo conduttore unitario all'interno della sterminata ermeneutica (“Il cogito e l'ermeneutica: La questione del soggetto e la inte-azione” (Procaccini, Napoli). Messa in questione del soggetto chomskyano auto-centrato e auto-trasparente.  Ricoeur appare nei suoi studi come caratterizzato dall'attenzione verso le peripezie del Cogito che, ferito e spezzato nella sua autosufficienza, cerca di ritrovare sé stesso attraverso un lavoro ermeneutico. Individua come centrale il paradigma della trans-ductio, trans-implicatura, trans-patia, come modello fondato sulla co-ospitalità conversazionale e la co-apertura all'altro conversazionale. Altre saggi:“Il cogitamus e l'ermeneutica. La questione del soggetto e sui interazione” (Procaccini, Napoli); “La filosofia senza assoluto” (Athena, Napoli) – cfr. H. P. Grice, “Absolutes” --;  “Logica del concreto, logica dell’astratto” -- “Ermeneutica della vita morale.” Newman, Blondel, Piovani, Morano, Napoli); “L'amore” (Studium, Roma); “Il segno della prassi. Saggi di ermeneutica, Città del sole, Napoli);“Trans-ductio, trans-implicatura” (Morcelliana, Brescia); “Ermeneutica ed implicatura” (Guerini, Milano); La traduzione, la traditio -- etica, Morcelliana, Brescia, “Etica e morale, Morcelliana, Brescia, Ricoeur e la psico-analisi (Angeli, Milano);  Quei ragazzi di nome Fausto Bertinotti Boys – Archivio Panorama. Grice: Jervolino is playing with Calvino. You see, Calvino, a rather unimaginative writer, wrote a collection of things he titled, in the whole thing and in the first part, “Glia mori difficili” – People would have forgotten about it had it not been for Nino Manfredi who brilliantly played the ‘soldato’ (to Bulco’s vedova) in ‘L’amore difficile’, sic in the singular but indeed, ‘L’avventura del soldato’ – in that collective film. Jervolino is having in mind this, and now poses Ricoeur as the widow and himself as the soldier. On top, he invites Ricoeur to write the prologue which he stupidly agrees to! Caputo has analysed the reciprocity of love and the stupidity of seeing it as ‘difficile’. The blame is Calvino – the original sin – who could have checked with the etymology of ‘difficilis’!”   Domenico Jervolino. Jervolino. Keywords: ermeneutica del dialogo. Refs.: Luigi Speranza, “Girce e Jervolino” -- “Two cartesian egos”. “Peripezie conversazionale”. “Peripezia ed implicatura”. “Cogitamus.” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Jommelli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del musicista filosofo – muovere l’aria – l’azione melodrammatica – filosofia campanese – scuola di Caserta -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Aversa). Filosofo italiano. Aversa, Caserta, Campania. Essential Italian philosopher. Mattei riporta il seguente aneddoto sul suo soggiorno in questa città. Andato in visita a Martini (già considerato come uno dei più sapienti musicisti d'Italia), si era presentato a lui come allievo, chiedendo di entrare nella sua scuola. Il maestro gli diede un soggetto di fuga che egli trattò con molta abilità. -«Chi siete voi?», chiese Martini, «volete burlarvi di me? Sono io che voglio apprendere da voi!» - «Il mio nome è Jommelli, sono io il maestro che deve scrivere l'opera per il teatro di questa città» - «È un grande onore per questo teatro avere un musicista filosofo come voi, ma vi auguro di non trovarvi in mezzo a gentaglia corruttrice del gusto musicale». Grice: “I like Jommelli. Like Speranza, I play the piano. My avant-garde compositions are thought to be too avant-garde, too. I especially recall with affection how I would trio with my father on the violin and my younger brother Dereck on the cello. Dereck became a professional cellist with Hampshire. My obituary might well read, “Professional philosopher and amateur cricketer” – well, Dereck is a professional cellist. With Jommelli we never know where the amour is!” La teoria degli affetti (in tedesco Affektenlehre) può considerarsi la prima forma retorica (in tedesco Figurenlehre) adottata nella storia della musica, infatti puntava a muovere gli affetti dell'uditorio; già i greci avevano la concezione che la musica potesse suscitare emozioni: è proprio da questo concetto che i teorici e i musicisti dell'epoca attingono per applicarlo alla loro musica (si parla nelle prime cronache rinascimentali di interi pubblici commossi dalla musica). Le autorità civili ed ecclesiastiche, consapevoli del forte potere della musica sulla psiche, la utilizzarono come veicolo dei propri messaggi propagandistici. Ficino apprezza di più le forme semplici e comunicative rispetto alla polifonia poiché la prima era maggiormente capace di muovere gli affetti, suscitare o placare le passioni umane rispetto alla seconda, che era vista come artificiosa e innaturale. Dello stesso parere era Vincenzo Galilei, che preferiva la musica greca per le sue capacità affettive.  La teoria musicale identifica ogni affetto con un diverso stato dell'animo (es. gioia, dolore, angoscia) identificati da specifiche figure musicali definite figurae o licentiae (licenze). La loro particolarità era contraddistinta da anomalie nel contrappunto, negli intervalli e nell'andamento armonico, appositamente inserite per suscitare una particolare suggestione. Athanasius Kircher – gesuita matematico, musicologo ed occultista tedesco – nel suo Musurgia universalis afferma. La retorica ora allieta l'animo, ora lo rattrista, poi lo incita all'ira, poi alla commiserazione, all'indignazione, alla vendetta, alle passioni violente e ad altri effetti; e ottenuto il turbamento emotivo, porta infine l'uditore destinato ad essere persuaso a ciò cui tende l'oratore. Allo stesso modo la musica, combinando variamente i periodi e i suoni, commuove l'animo con vario esito.»  (Athanasius Kircher, Musurgia universalis) Questo trattato e  stampato anche a Roma. Tra le classificazioni e distinzioni degli affetti umani compilate è da menzionare quella di Cartesio che, nel trattato Les passions de l'âme del 1649, ne distingueva sei ritenuti principali, quali meraviglia, amore, odio, desiderio, gioia e tristezza.  Invece Giovanni Maria Artusi ne L'Artusi, ovvero Delle imperfettioni della moderna musica (Venezia, 1600), attacca questa nuova forma musicale che utilizzava intervalli "così assoluti et scoperti", poiché trasgredivano le regole contrappuntistiche (per esempio le dissonanze non sempre sono precedute da una consonanza per risolvere su di un'altra). Monteverdi difenderà quella che lui definisce seconda pratica nell'Avvertimento del Libro quinto: queste licenze hanno uno scopo preciso, e devono essere viste in un nuovo modo di comporre, diverso dalla concezione musicale di Gioseffo Zarlino. Già dai madrigali infatti Monteverdi con le dissonanze intensifica e rende maggiormente pungenti le immagini proposte dal testo. Vologeso was written using a wordy libretto by Verazi, itself an extensive reworking of Apostolo Zeno's Lucio Vero. The plot deals with the constancy of love in the face of great obstacles, in this case the love of Vologeso, king of the Parthians, and his wife Berenice. The Roman general Lucio Vero has defeated and captured Vologeso, fallen in love with Berenice, and spends most of Acts I and II seducing and bullying her into abandoning her husband. When Lucilla, daughter of the Roman emperor and Lucio's fiancee, turns up, she and the Roman emissary Flavio are disgusted by his behavior; Flavio, assisted by Vologeso, leads a revolt that results in Lucio's capitulation and the restoration of their freedom and their kingdom to Vologeso and Berenice. The plot allows ample opportunity for dramatic movement and spectacle, e.g., in Lucio's importunities and their rejection by Berenice, Vologeso's confrontation with lions in an arena, and the revolt that ends the opera.  The music is conventional in its use of recitative followed by arias, but forward-looking in that many of the recitatives in Acts II and II are accompanied by the orchestra rather than the traditional basso continuo - the arias are often in abbreviated da capo form so that they do not slow up the action, and the chorus and orchestra play a more considerable part in the proceedings than is usual in Baroque operas. J. had no great gift for melody and the opera offers few memorable tunes, but he had a talent for brilliant vocal display and dramatic orchestral effects. The total effect is imaginative, lively, and attractive. The casting is odd; with only one male voice and five sopranos it's hard to tell the characters apart. Odinius, Rossmanith, and Schneiderman all have good voices and are comfortable with Baroque style and ornamentation and expressive in their characterizations. Waschinski and Taylor are as good as most falsettists, though as usual their uneven voice production and unfocused tones set my teeth on edge, and Waschinski sounds much too feminine to make plausible the heroic figure of Vologeso. (I really do not understand why conductors and producers nowadays insist on using these voices in Baroque opera, a practice that has neither historical nor aesthetic justification.). The Stuttgart Chamber Orchestra is alert and responsive, Bernius keeps everything moving along briskly, and the sound is excellent. Il Vologeso doesn't stand up too well compared to the Italian operas of Handel or Gluck, but taken on its own terms and as presented here, it is thoroughly enjoyable  While Mozart may have claimed Jommelli’s musical style to be passé, Vologeso itself is a reworking of an already antiquated libretto by Apostolo Zeno, originally called Lucio Vero and first set by Pollarolo for Venice. Moreover, the version set by Jommelli and performed here by Classical opera is in fact a modification of a modified libretto. The new librettist Mattia Verazi had revised the by then popular version produced by Guido Lucarelli for Rinaldo di Capua’s setting of 1739 rather than Zeno’s original. The story is a familiar one, mingling political intrigue with love both unrequited and true. In the eastern provinces of the Roman Empire, Lucio Vero (Jackson) is victorious in battle and captures Berenice (Gemma Summerfield), wife of the Parthian king Vologeso (Kelly). Captivated by her beauty, Lucio Vero makes every effort to win her with the assistance of his minister Aniceto (Verney). Meanwhile, Vologeso attempts to assassinate Lucio Vero but is recognised by Berenice, causing him too to be taken prisoner. Further complicating matters, Lucio Vero’s betrothed, Lucilla (Angela Simkin), has arrived in Ephesus with Flavio (Jennifer France), an ambassador from Lucio Vero’s co-emperor, ANTONINO (si veda). After many separations of the faithful Vologeso and Berenice, increasingly cruel plots on Lucio Vero’s part to attain the latter, and the threat of civil war from Marcus Aurelius, all is resolved and the various couples are reunited without any blood being shed.  Although Zeno’s libretto is not remotely like those produced by later poets and composers interested in reforming operatic conventions, the play’s enduring appeal might well be attributed to its strong sense of spectacle, which coincided neatly with the objectives for reform. Indeed, the play contains on-stage depictions of Lucio Vero’s attempted assassination, Vologeso’s fight with a lion in the arena, and at least one ‘mad scene’ for Berenice in addition to traditional opera seria ingredients of triumphal marches, grand armies, and the obligatory chorus announcing a lieto fine. Sometimes I felt that this element of spectacle was lost in the context of a concert performance. Though that is of course an unavoidable casualty of this mode of presentation, it was further compounded by Jommelli’s own reluctance to capitalise on these aspects of the play as did other contemporaries. Furthermore, artistic director Ian Page writes in the introduction to the programme that besides the expected editing of the recitative, he chose to cut not only a number of pieces in their entirety, but also some arias’ middle-sections and their reprises in the interests of ‘maximising our potential to appreciate and enjoy the opera’. Of these, one was the opening chorus, which might have helped to restore some of this sense of grandeur, if indeed Page’s goal was to get a feeling of ‘[experiencing] what a typical eighteenth-century opera was like’.  J.’s musical style in this opera has clearly moved on from the grand and expansive show pieces we find in his earlier operas, such as Didone abbandonata of 1747 (performed in London in 2014 and also reviewed here). With the exception of one or two numbers which might be said to respond to a more traditional heroic opera seria style, such Crede sol che a nuovi ardori, Flavio’s only aria, the focus in Vologeso is instead on creating a more declamatory mode and ‘realistic’ rendering of the dramatic and emotional content of the text. As such, the use of coloratura is generally much reduced and arias very often feel more like ariosos, often to the point that it feels like accompanied recitative intrudes upon melodic lines. The music is nevertheless still imbued with grace and lyricism, and is marked by sometimes fussy, yet fine, delicate and lace-like accompaniments. And there are some really good and interesting numbers too: the quartet Quel silenzio, Lucio Vero’s Se tra ceppi, Lucilla’s first aria Tutti di speme al core, the already mentioned Crede sol, as well as some very effective and attractive accompagnatos.  In spite of the title, this version (or at least as it has been presented to us with the cuts) nevertheless still focuses greatly on the character of Lucio Vero and his relationship with Berenice. Stuart Jackson’s performance came across as something of a slow burning affair, only really coming fully into the character after interval and reaching the apogee of dramatic intensity in his final aria. And yet it felt largely like Lucio Vero was being interpreted as being the youthful hero, the primo uomo role usually reserved for a castrato. This may well be due to Verazi’s redaction of the opera, which seems to me to result in a somewhat schizophrenic character, vacillating between tyrannical, or rather psychopathic, conqueror and lovelorn hero. This is effectively underlined by the kind of music with which J. furnishes the character: languid arias with long, plangent melodic lines, such as his opening Luci belle and the cavatina Che farò? in Act 2, and a handful of arias which verge on aria di furia territory. To my mind, Lucio Vero’s actions are not driven by real love for Berenice but rather an overwhelming desire for power: not only in and of itself, but also power over others. To this end, his rejection of Lucilla is not merely an amorous choice, but a rejection of the power of Rome and the authority of his co-emperor Marcus Aurelius altogether. So too the psychological manipulation of Berenice in an attempt to bend her to his will. Thus, Stuart Jackson’s characterisation of Lucio Vero as the amorous lead did not always sit quite well for me, in spite of a good voice and elegant execution. The performance otherwise had much working in its favour. I very much enjoyed Sutherfield’s portrayal of Berenice, and there was some excellently judged acting from Rachel Kelly. I have already mentioned Jennifer France, whose delightful aria was executed with all the charm and grace that the butterfly described in her text required. One did feel slightly for Tom Verney, his solid performance in his lone aria aside: his role of Aniceto was decidedly minor in this version of Zeno’s play, with the character’s love for Lucilla never really explored (again a shortcoming of the libretto). And, of course, the orchestra itself was as sharp and on-point as we have come to expect from Classical Opera. My overall impression from the programme notes, however, is that Vologeso in and of itself was perhaps somewhat unconvincing to the artistic team in the first instance. Indeed, Page writes further in his introduction that ‘Jommelli does not belong among the truly great composers, to be sure. While undoubtedly there are countless flops littering the battlefields of eighteenth-century opera, and works that are best left to languish in obscurity, credit must be given where credit is due. And J.’s legacy is by far too monumental to ignore. The assertion that much of the music of contemporaneous composers sounds quite like Mozart for much of the time should rather be inverted: it is Mozart, his uniqueness notwithstanding, who is effectively a product of his time! A final note: a future Classical Opera concert this year is to feature some arias from Semiramide by Josef Mysliveček, another figure well known to the Mozart family and whose work has occasionally been misattributed to the young Wolfgang in the past. A full opera of his at some point, further showing how Mozart was fully integrated into the existing musical landscape, would be most welcome indeed! Jommelli. Keywords: musicista filosofo, Vincenzo Galilei, Grice’s piano, pavane. Meistersinger, Mahler, music-hall ditties. Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Jommelli” – The Swimming-Pool Library. Jommelli

 

Grice e Juvalta: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Chiavenna). Filosofo italiano. Chiavenna, Sondrio, Lombardia. Grice: “At Harvard, I said I was ‘enough of a rationalist,’ but perhaps Juvalta would say that wasn’t enough!” – Grice: “Juvalta has explored the limits of rationalism, in connection with value and reason: if value is irrational, how can co-operation be rational in terms of an accord to follow conversational maxims?” essential Italian philosopher. Ogni sforzo di derivare una valutazione morale da qualche cosa di cui non sia già riconosciuto il valore morale è dunque vano e illusorio. O non dà quel che si cerca, o presuppone quel che si pretende di fondare.» Il genitore e il barone Corrado Juvalta, cancelliere della locale pretura originario di Villa di Tirano. Dopo gli studi liceali trascorsi tra Como e Sondrio, si iscrive a Pavia dove si laurea con una tesi su Spinoza, sotto la guida di CANTONI. Successivamente insegna a Caltanissetta, Potenza, Spoleto, e Torino. Le tematiche accademiche prevalentemente trattate riguardarono soprattutto i valori di libertà e di giustizia con ampie riflessioni etiche. Convinto della loro generalità e universalità, arriva ad auspicarne una loro applicazione anche nello studio delle categorie politiche ed economiche. La filosofia di  J. è una profonda riflessione sull'etica portata avanti con il metodo dell'analisi. Anche se, come risulta dalla sua, non troviamo nei suoi scritti importanti contributi sul piano gnoseologico ed epistemologico, dal momento che il suo principale campo d'indagine fu prevalentemente il Sistema morale, possiamo affermare senza dubbio che sia il kantismo che il Positivismo costituirono il nucleo di fondo della sua posizione, da cui sviluppò la sua impostazione metodologica.  Il positivismo, in particolare, è stato il primo grande sistema filosofico con cui si è misurato nella prima fase della sua elaborazione concettuale. Tuttavia J.  sarà costretto a prendere presto le distanze da una siffatta visione della morale. I motivi di questa rottura sono da imputare principalmente al suo fermo rifiuto di accogliere come sostenibile la pretesa positivistica di fondare l'etica sulla scienza. Il giudizio con il quale si afferma il valore di un oggetto è diverso e non deducibile dal giudizio col quale ne afferma l'esistenza o la possibilità o la connessione modale o condizionale con altri soggetti. Apprendere come le cose sono, è tutt'altra cosa dal valutarle. Dal momento che l’etica si concreta nella costruzione di una teoria ed in particolare di un sistema coerente di valori morali, il giudizio che sta alla base di una qualsivoglia teoria etica deve configurarsi come “un giudizio originario” che ha una natura eminentemente etica, quindi non scientifica né tantomeno metafisica. Se però una etica scientifica appare insostenibile per il motivo dell'indebita derivazione di un giudizio di valore, di natura morale, dal giudizio ‘aletico,’ di natura fattuale, è indubbio che la costruzione di un sistema morale debba essere condotta con criteri di scientificità. Nella misura in cui ogni teoria si basa su criteri logico-deduttivi e viene definita dalle relazioni logiche che intrattengono in essa i propri elementi costitutivi, così anche la costruzione di un sistema etico deve seguire la stessa metodologia e mostrare possibilmente l'identica costruzione formale. Questo sistema di valori ha l'obbligo di mantenere al loro interno un imprescindibile grado di coerenza, se vogliono risultare sostenibili ed essere così accettati dalla ragione (pratica). Quando parla di ‘teoria’ dell’etica lo fa proprio pensando a questo carattere logico-deduttivo dei valori all'interno di un sistema. In particolare vede garantita la coerenza di un sistema morale nella misura in cui un coerente insieme di valori viene rigorosamente derivato (volitativamente) da un postulato, imperativo categorica, o assioma, di valore morale capace di fungere da premessa all'intero sistema (allora come insieme di massime universalisabili). Una volta prese le distanze dai positivisti, si avvicina successivamente al Kantismo; in particolare accoglierà, anche se con alcune riserve, molte delle posizioni assunte dal cosiddetto Neokantismo, il movimento di pensiero che ha come obiettivo la ri-valutazione piena del filosofo di Konisberg riadattando i contenuti del suo pensiero ad esigenze e problematiche tipiche della contemporaneità. Vede in Kant il più grande filosofo della modernità, colui che meglio di qualsiasi altro pensatore ha saputo cogliere il vero senso dell'autonomia della morale, svincolando per sempre l'etica dai saperi di natura conoscitiva (aletica, pura, o giudicativa), i quali, proprio in quanto si rivolgono all'ambito del fenomeno, non riescono a coglier interamente tutto ciò che ha a che fare con la sfera dei valori (come per esempio la scienza e in generale l'ambito teoretico). L'indipendenza e l'indeducibilità del valore morale da qualsiasi speculazione teoretica fu, come tutti sanno, riconosciuta e affermata, nella forma più esplicita e con grandissimo vigore dal Kant. Kant ha il grande merito di consegnare alla morale uno speciale statuto di autonomia e di indipendenza. La morale esprime questo suo carattere di autonomia e di “auto-assiomaticità” per poter continuare ad essere coerente e allo stesso tempo attendibile sotto il profilo puramente teorico. Abbracciare l'idea di autonomia della morale significa accettare una visione anti-fondazionalista dell'etica. L’etica non può prendere le mosse che da se stessa. Ogni tentativo di fondare l’etica su ambiti del sapere diversi da quello morale, finisce con il configurarsi come un'indebita pretesa di intromissione da parte di chi si illude di derivare un contenuto del valore morale da una premessa fattuale o metafisica o estetica. Alla base di un sistema coerente del valore morale, cioè un sistema morale costruito deduttivamente, deve esserci un postulato originario (assioma o imperative categorico) di natura etica e non di natura aletica o peggio ancora metafisica, e questo per questioni eminentemente logico-analitiche, che impongono ad ogni sistema coerente di evitare la fallacia logica della petitio principii, cioè l'errore di voler caparbiamente dimostrare ciò che invece abbiamo già implicitamente accettato nelle premesse.  Una volta riconosciuto il contenuto di quel postulato morale e pensato come un valore che può essere vissuto ed accettato da un soggetto agente e concreto, allora si creano i presupposti di base perché una coscienza riconosca in esso un'intrinseca validità, che trova una sua precisa giustificazione solo a partire dalla sua intima natura assiologica. È proprio questo suo riferimento al contenuto del valore morale che lo costringe a rivedere i limiti di una filosofia morale incardinata su binari formalistici e a non accettare tout court la filosofia morale di Kant. L'ambito della giustificazione e l'ambito esecutivo. Assumere come principi della ricerca etica l'autonomia, l'antifondazionalismo, l'antiformalismo porta  J. a distinguere l'ambito della giustificazione, cioè il momento riflessivo che ci vede impegla ricerca di ragioni che possano difendere razionalmente la scelta di un fine e di un valore morale, dall'ambito esecutivo che invece coinvolge il momento motivazionale dell'azione ed è fortemente condizionato da elementi contingenti legati al momento storico, inter-soggetivo, e culturale nel quale il soggeto si trova ad agire. Con un atteggiamento tipicamente moderno difende la possibilità dell'esistenza di una pluralità di fini morali sia sul piano teorico che pratico, e con la stessa energia cerca di trovare una soluzione per definire le precondizioni teoriche che rendano possibile una compatibilità tra i diversi valori.  La modernità define un passaggio epocale e pieno di tensione nel campo della filosofia morale ed ha segnato il tramonto di un'unica, grande e coerente visione dell'etica. Con l'avvento dell'epoca moderna si è fatta strada l'idea del tutto legittima dell'accettazione di differenti sistemi di valori e di diverse visioni del mondo, i quali trovano, da questo momento, una loro precisa dignità e legittimità in virtù delle ragioni che le diverse dottrine filosofiche hanno saputo elaborare in favore della loro sostenibilità. Invita a prendere coscienza di questo cambiamento di prospettiva e a considerarlo, asetticamente, come un passaggio dal vecchio problema della morale, in cui il fine principale era la ricerca di una fondazione dell'etica e di una giustificazione dell'esigenza del bisogno di moralità all'interno di ogni coscienza, al nuovo problema della morale riassumibile nella domanda; come possiamo decidere i beni e i valori desiderabili in sé una volta che abbiamo accertato l'esistenza di una pluralità dei postulati di valutazione morale? La scelta del fine supremo e i limiti del razionalismo etico Juvalta vede nel momento della determinazione della scelta del fine supremo, il cui contenuto costituisce la base per il postulato di valore primario, il principale limite del razionalismo etico. La razionalità può solamente giustificare, cioè portare ragionamenti a favore di una tesi, o stabilire relazioni e deduzioni tra elementi di un sistema, in questo caso valori, che sono legati dalla loro stessa natura; ma essa non può imporre i fini. La razionalità accetta, per così dire, il giudizio di valore morale come un dato, ma non lo può stabilire lei in via preliminare perché nel campo etico la razionalità non riesce a cogliere interamente la natura dei nostri giudizi di valore. La ragione dei mezzi per quanto si faccia non dà valori; la ragione esige la coerenza; teorica: dei giudizi fra di loro e con i principi e i dati su cui si fondano; pratica: delle valutazioni derivate e mediate con le valutazioni direttamente o postulate, e delle azioni con le valutazioni. Le valutazioni sono, come espressioni di una esperienza interiore sui generis, valide di per sé.  I valori ultimi di libertà e giustizia Tuttavia il messaggio di Juvalta contiene anche un aspetto propositivo, non secondario. Anche se esiste una pluralità di valori che la coscienza può scegliere come fini, i quali si costituiscono come le linee guida della nostra condotta individuale, una volta adottato il criterio razionale di ‘universalizzazione’ del valore è possibile intuire che le scelte si riducono rispetto a quelle che la ragione può immaginare come possibili e, soprattutto, viene meno la completa arbitrarietà della scelta originaria. E convinto che due valori su tutti debbano essere visti come i fini supremi su cui improntare la nostra vita e organizzare le nostre società, vale a dire, primo, il valore morale della libertà; secondo il valore morale della giustizia. Libertà e giustizia costituiscono le pre-condizioni della vita morale e gli unici due valori morali, tra quelli possibili, che risultano universalizzabili. Essi sono le sole precondizioni che permettono ad ogni essere umano di realizzare il proprio fine e di raggiungere i propri beni o valori, in vista di una totale e piena realizzazione della natura umana, senza limitare la ricerca della moralità dell’altro. Libertà e giustizia rappresentano per così dire i cardini di ogni sistema morale con i quali poter impostare se non un vero e proprio ripensamento di ogni pratica umana almeno una profonda critica ai modelli di società dominanti quali l'individualismo liberale, l'autoritarismo o la proposta socialista. La libertà esprime l'esigenza delle condizioni inter-soggettive necessarie a fare dell'uomo una persona padrona di sé di fronte a sé e di fronte ad ogni altro. La giustizia esprime l'esigenza delle condizioni inter-soggetive necessarie all'esercizio universalmente efficace di questa libertà. Non fu un pensatore sistematico e non cercò mai di definire un sistema filosofico che rendesse ragione dell'organicità del suo pensiero. E sostanzialmente contrario a ingabbiare la riflessione filosofica in grandi narrazioni o in arbitrari sistemi, dal momento che era fermamente convinto che il pensiero soprattutto etico sfuggisse per così dire all'idea di sistematicità e organicità che aveva così profondamente caratterizzato la maggior parte del lavoro filosofico ottocentesco.  D'altra parte questo non significa che non esiste un'evoluzione all'interno della sua riflessione, o che la sua proposta nel campo della filosofia morale non trovi una sua coerenza e una struttura di fondo ben definita. Saggi: “I due limiti del razionalismo etico: liberta e giustizia” (Einuadi, Torino). Contiene:“ Prolegomeni a una morale distinta dalla filosofia” (Bizzoni, Pavia); Le dottrine delle due etiche, Rivista filosofica; Per una scienza normativa morale, Rivista filosofica; Il fondamento intrinseco del diritto; Su i limiti della morale, Bocca, Torino; Il metodo dell'ECONOMIA pura nell'etica, Rivista filosofica; Postulati etici e postulati metafisici, Rivista di filosofia; Postulati etici e imperativo categorico, Atti congresso di filosofia, Bologna, Formiggini, Genova; Sula pluralità dei postulati di valutazione morale, Atti del congresso della società filosofica, Genova, Formiggini, Genova; I vecchio e il nuovo problema della morale, Z, anichelli, Bologna; In cerca di chiarezza; Questioni di morale; I limiti del razionalismo etico, Lattes, Torino; Il conflitto morale, Rivista di filosofia; La dottrina morale di Spinoza, Rivista di filosofia; Basciani, L’etica della giustizia, Desclèe, Roma; Picardi, La morale in J., Filosofia, Marzorati, Milano; Viroli, L'etica laica, Angeli, Milano); J.,  «Rivista di storia della filosofia»,  Angeli, Milano, Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, Guido Scaramellini, Chiavennaschi nella Storia, Chiavenna, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Grice: “Again, these Italians! I know that I had I been one, I had been ‘il filosofo di Harborne’ – now Juvalta, they doubt as to how Italian he can be seeing that he is listed in Scaramellini’s little book, “Schiavennaschi nella storia”!” Grice: “Unlike me, Juvalta is a baron, from the ‘grigioni’ – i. e. the grey league – because of the grey wool they wore --. ‘grissone,’ as in my surname, so in a way we ARE related!” ” IL VECCHIO E IL NUOVO PROBLEMA DELLA MORALE; Su la pluralità dei postulati di valutazione morale. IL FONDAMENTO DELLA MORALE. Sula pluralità dei postulati di valutazione morale. IL CARATTERE DEL PROBLEMA E LE SUE FORME Se la saldezza di un giudizio dovesse giudicarsi dall'accordo delle dottrine che cercano di stabilirne il fondamento, nessuna specie di giudizi sarebbe piú incerta dei giudizi morali. Se così non è, se i giudizi, o almeno alcuni, sono, nonostante l'incertezza del fondamento, riconosciuti e ac- colti come validi incontestabilmente, può apparire legittimo il dubbio, o che il vero fondamento non sia ancora trovato, o che non si possa trovare: cioè che il problema sia insolubile. E in questo caso: se sia insolubile per difetto di mezzi, ossia per radicale nostra incapacità a risolverlo; o perché è un problema mal posto, cioè nella forma con la quale si presenta, illusorio e fittizio. Dichiarando subito che a mio credere il problema è insolubile, ed è insolubile perché fittizio, m'è appena necessario di soggiungere che ciò non equivale in nessun modo (come potrebbe parere a prima vista) a ritenere prive di significato ed infeconde le indagini e le discussioni delle quali fu lie- vito, né tanto meno ad ammettere che, rimosso il problema fittizio, nessun problema gli sottentri, anzi non ne rampollino piú altri al luogo suo. Mostrare come e perché un problema sia mal posto, non è altro in effetto che la preparazione necessaria a sostituirgliene degli altri. Il problema del fondamento è ispirato primamente e dominato, si può dire, in tutte le sue forme da una preoccupazione pratica e apologetica: Bisogna dimostrare che la morale ha ragione; che quel che essa suggerisce o prescrive è veramente bene che la sua autorità è legittima e deve es- sere rispettata. Ora un tal modo di porre il problema presuppone manifestamente che su ciò che la coscienza morale prescrive non cada dubbio; o che, se il dubbio sorge nasca non da incoerenza o opposizione di criteri diversi o contrastanti, ma da errore e confusione di interpretazioni e di giudizio nelle applicazioni concrete. Il che si accorda con la osservazione di fatto che fino a quando il presupposto è legittimo, cioè nei limiti nei quali corrisponde a una convinzione universale salda- mente stabilita, non è questa o quella dottrina sul fondamento della morale che fa accettare o re- spingere i dettami della coscienza morale, secondo che si accordano o no con la dottrina, ma sono le convinzioni morali che fanno accettare e respingere una dottrina secondo che è o appare adatta o disadatta a dar ragione della loro certezza, a mostrarne la validità. Questa preoccupazione pratica spiega l'insistenza e la pertinacia degli sforzi volti a risolvere un problema radicalmente insolubile: di giustificare ciò che è presupposto in ogni giustificazione; di derivare da delle idee una volontà; di creare con dei ragionamenti un potere; illusione che si rivela nelle forme piú svariate e negli indirizzi piú diversi, e per la quale accade, cosa notissima, che a cia- scun sistema riesce assai piú facile dimostrare l'insufficienza degli altri, che provare la sufficienza propria. Il problema fu infatti inteso in modi diversi, e la soluzione cercata in direzioni corrisponden- ti, distinte e chiaramente separabili; sebbene il piú delle volte variamente intrecciate e sovrapposte l'una all'altra in un medesimo indirizzo di pensiero e anche in uno stesso sistema. Infatti la domanda: «Perché dobbiamo noi fare, cioè volere ciò che la coscienza morale ci detta», che è la forma piú larga e indifferenziata in cui il problema si esprime, suggerisce quattro te- si o tipi di soluzione diversi. Considerare i principi e le norme morali come «verità» di cui si cerca il fondamento in una realtà obbiettivamente data alla coscienza. Dimostrare la bontà di ciò che la morale prescrive, cioè derivarne le norme da un fine ossia da un bene o ordine di beni (qualunque ne sia poi la natura) che ne giustifichi l'osservanza. Provarne l'autorità; e cercare di questa autorità il fondamento: a) sia nella storia; b) sia in una volontà distinta dal volere personale e che si impone ad esso. Ciascuno di questi tipi di soluzione deve essere esaminato piú brevemente che sia possibile, ma esaurientemente. Sulla pluralità dei postulati di valutazione morale. La persuasione che i principi morali, i criteri di valutazione, le norme della condotta, non solo possano ma debbano avere il loro fondamento in un ordine di verità accertabile teoricamente, cioè si possano ricavare da rapporti o leggi validi obbiettivamente, in nessuna altra forma forse ap- pare piú chiaramente che in quella della questione, dibattuta con tanto accanimento, se la morale si fondi sulla scienza o sulla metafisica, e nella natura degli argomenti messi in campo così dall'una come dall'altra parte. Perché la scienza si sforzava di dimostrare che la realtà a cui faceva appello la metafisica era immaginaria o inverosimile, e in ogni caso arbitraria ed incerta, e quindi non poteva su di essa fondarsi nulla di obbiettivamente valido; e la metafisica insisteva nel porre in evidenza la relatività, la contingenza, la limitatezza della conoscenza empirica; e l'impossibilità di attingere in essa al- cuna verità necessaria ed universale, e perciò una qualsiasi validità né di forma, né di fine, né di doveri. Ora l'uno e l'altro tipo di argomentazione si svolgevano e si svolgono appunto nell'ambito di questo presupposto: che i principi morali debbano fondarsi su qualche cosa d'altro, che li legittimi, che ne dimostri la certezza, che ne faccia riconoscere la verità; senza avvertire che il fatto stesso del discutere, cioè dell'ammettere la buona fede, cioè dunque la moralità del contraddittore, smentisce il presupposto. Il che concorda con l'osservazione ovvia ma non negabile per la sua massiccia evidenza: che si trovano degli uomini di sincera e provata rettitudine morale fra i seguaci delle piú diverse dottrine. Né vale l'obbiezione che si può fare e si fa: che non si tratta di vedere se ci siano delle per- sone morali, tra i seguaci di una dottrina, ma se questi siano logici o siano coerenti con se stessi; os- sia se con quelle dottrine si possa ragionevolmente conciliare quel modo di giudicare e di valutare. Perché una tale obbiezione non esce dall'ambito del presupposto, anzi lo implica, appunto perché ammette come pacifico che un criterio di valutazione morale abbia una connessione necessa- ria, cioè logica, con certi principi teorici, e che non possa essere accettato se non in grazia di quei principi. Ma è il presupposto del fondamento teorico che bisogna provare; e non si prova con una petizione di principio. Il criterio morale a non si legittima se non col principio teorico A; se troviamo accettato a con B con C con D e non con A, vuol dire che quella coscienza è illogica, incoerente. Ma perché diciamo noi che sono illogiche le menti che non connettono a con A invece di riconosce- re semplicemente l'altra alternativa: che è possibile così l'una come l'altra connessione, che non vi è nessuna necessità intrinseca di dipendenza di a da A? Appunto perché, se si ammettesse che un medesimo criterio morale può accordarsi con principi teorici diversi, si dovrebbe ammettere che non si fonda né sull'uno né sull'altro, cioè che la fon- dazione teorica è illusoria. Insomma il ragionamento si riduce a un procedimento di questo genere: per dar certezza a una valutazione morale è necessaria una certa fondazione teorica; ciò importa che, o non si debba trovare quella certezza senza questa fondazione, o che se si trova, essa sia una certezza erronea, una certezza irragionevole illogica, una certezza che non ci dovrebbe essere. Tu qui! Ma è impossibile! dice la metafisica alla morale quando la vede in casa dell'empirista; e il medesimo rimbecca l'empirista alla morale del metafisico. Ed ambedue hanno torto, perché dove la morale si trova, ella è in casa sua anche quando paia a chi dimora con lei di averla ospite1 in casa propria. 1 Neppure vale a toglier peso al fatto l'osservazione che questa possibilità di coesistenza indifferente è soltanto apparente, perché dovuta a difetto di riflessione e di rigore logico; e sia inattendibile, perché dove si avvera, manca la [Ma se questa fondazione extra-morale della morale è illusoria, donde nasce l'illusione e di che si alimenta? Quando il sociologo afferma che le norme morali esprimono le esigenze della vita sociale e si fondano sulle leggi della sociologia, ciò che si tratta di vedere non è già se veramente le norme morali corrispondono o no a tali esigenze e soltanto a quelle; né quali siano, tra le innumerevoli leggi scoperte e che si vanno scoprendo, quelle nelle quali la morale trova il suo fondamento; ma si tratta di vedere se dalla sociologia si possa ricavare il valore della società, dalle leggi della vita il valore della vita, dal processo di formazione e di incremento della civiltà il valore della civiltà, in una parola, dai rapporti condizionali il valore del condizionato. Ora una scienza, qualunque scienza, formula dei rapporti, non dà valori; i rapporti possono bensì far attribuire un pregio a qualchecosa, se stabiliscono la dipendenza condizionale e causale di un valore da ciò che, appunto per tale connessione, diventa a sua volta un valore mediato; ma il πρῶτον ἄξιον deve essere già dato, posto, riconosciuto come valore, perché sia possibile qualsiasi giudizio assiologico su ciò che ha relazione con esso. Tutte le piú complicate e piú delicate meraviglie della vita non bastano a darle il benché mi- nimo pregio se non si riconosce già come bene o la vita stessa o almeno alcuni dei fini ai quali può esser volta: anzi non sono «meraviglie» se non perché si illuminano di questo valore finale. Che la civiltà e la cultura siano da preferire alla barbarie e all'incultura sembra dimostrabile; ed è infatti; ma quando sia ammesso o sottinteso — come accade in effetto — che abbiano piú di pregio o di dignità o di desiderabilità certe facoltà e attività e forme di condotta che certe altre, cioè quando sia già posto e accettato un criterio di valutazione. Pare a prima vista una pedanteria. Non si riconosce infatti da tutti che la vita valga la pe- na di essere vissuta? e anche quelli che la negano a parole, non sentono nell'istinto profondo smentire la loro negazione? Ammettiamo senza discutere, sebbene la cosa non sia così liquida come pare, l'universalità del consenso od almeno dell'istinto. Si tratta qui di vedere se questo apprezzamento della società e della vita, questo riconoscimento di valore è posto, è dato dalla scienza; se questa voce dell'istinto, questa volontà di vivere abbia o no l'autorità che le si attribuisce o suppone. Cioè si tratta di sapere, insomma, se chi vedesse nella società e nei suoi frutti un groviglio di miserie e di vergogne possa trovar mai nella sociologia la confutazione del suo giudizio; e se a chi trovasse la vita un limbo in- differente possano le leggi della biologia farla apparire desiderabile; e se sia la conoscenza della so- ciologia o della biologia o della psicologia che darebbe voce all'istinto se fosse muto, e autorità, se non ne avesse, alla sua voce. competenza richiesta. Un libriccino pubblicato dal LALANDE alcuni anni fa -- Précis raisonné de Morale pratique, Alcan -- si distingue dai molti consimili nostrani e di fuori (qui non occorre accennare ad altri pregi) per questa circostan- za caratteristica: che il catechismo morale che vi è esposto e spiegato era stato sottoposto all'esame e aveva raccolto il consenso esplicito dei piú noti e autorevoli moralisti di credenze e di opinioni filosofiche diversissime. La testimonianza dei «competenti» veniva in questa occasione a confermare quello che è un luogo comune della storia delle dottrine e della pratica morale: che sul valore e sul contenuto delle norme morali siamo tutti d'accordo, perché tutti siamo d'accor- do, quanto all'essenziale, nel giudicare la nostra condotta o l'altrui: Tutti quali che siano le convinzioni filosofiche e religiose ed anche se non abbiamo in proposito convinzioni di sorta» (VARISCO, Massimi e problemi, Metafisica e morale. E Varisco, come è noto, è persuaso che una vera morale implichi una Metafisica «definitiva»). Quanto all'accordo sul «contenuto» forse, come si vedrà in seguito, pare piú largo di quel che in realtà non sia. Ma qui si tratta del valore. Quanto poi alla Metafisica definitiva si chiede: a che stregua si giudicherà la metafisica adatta a fondare la morale? Non si ammette già che il criterio sarà fornito dall'accordo con la «vera morale» e cioè, dunque, che la vera morale è già data prima e fuori della Metafisica? Neanche è da credere che tutto si riduca a questo salto; e che superato il passaggio incolmabile dall'effetto al fine e dalla conoscenza al valore, fatto proprio dalla scienza il presupposto iniziale di valutazione che essa non può dare, ogni difficoltà di questo genere sia allontanata. Quel che non può dare una conoscenza empirica non può dare una conoscenza metafisica, se non a patto di intendere già per conoscenza metafisica la conoscenza non di una realtà «intelligibi- le» e in quanto è intelligibile, ma di una realtà già apprezzata o apprezzabile; non la conoscenza di enti ma la conoscenza di valori. Quando Rosmini si sforza con grande vigore di dimostrare che la conoscenza dell'essere è conoscenza del grado di entità, e quindi del grado di perfezione delle cose, e che perciò la stima speculativa (la conoscenza del grado di perfezione) può e deve diventare modello e norma della stima pratica (l'assenso del nostro volere), egli assume già nel concetto dell'essere quello di bene, nel concetto di realtà quello di perfezione, cioè di valore; e non deriva il secondo termine dal primo se non perché lo ha surrettiziamente già identificato con esso. La sua «stima speculativa» in quanto è stima, cioè apprezzamento e valutazione, è già pratica, perché non ha luogo se non in rapporto alle «potenze pratiche»; in quanto è speculativa cioè conoscenza obbiettiva, intellezione della realtà, non implica nessun apprezzamento. Insomma, in quanto è stima non è speculativa, in quanto è speculativa non è stima. La cosa appare anche piú manifesta se si bada che l'essere non può servire di criterio alla stima se non perché si ammette un ordine, una gradazione di enti, e quindi di realtà. Ma la realtà, in quanto esistenza, non ha gradi; ciò che si può graduare è il pregio o il valore, in qualunque entità esso sia riconosciuto, non l'esistenza delle cose; e la realtà è graduata perché sono graduati pregi, o i beni, o i valori che essa ci presenta realizzati. Che i due termini siano diversi e l'uno non deducibile dall'altro appare manifesto dalla ne- cessità di assumere, secondo la profonda e costante tendenza del platonismo, il concetto di perfezione come sintesi dei due concetti del reale e del bene, o con espressioni piú moderne, dell'esisten- za e del valore. Ora la perfezione non si può intendere se non in relazione con un modello, con un disegno attuato o da attuarsi, con una finalità; e la finalità implica una valutazione, cioè una scelta, cioè una volontà. Ed eccoci alla sorgente unica e comune della impossibilità di derivare un criterio di morale dalla realtà obbiettiva, empirica o metempirica, da qualsiasi dato o legge o induzione o verità teore- tica, sia scientifica, sia metafisica. Una realtà data o possibile non può dare un criterio di valutazione se non la si considera co- me una finalità, ossia se non le si riconosce un valore. E il giudizio con il quale si afferma il valore di un oggetto è diverso e non deducibile dal giudizio col quale ne affermiamo l'esistenza o la possibilità o la connessione modale o condizionale con altri oggetti. Apprendere come le cose sono, è tutt'altra cosa dal valutarle3. Per interpretare le leggi naturali come leggi morali bisogna scegliere tra le leggi necessarie e le condizioni utili a una forma di vita e le leggi e condizioni utili a una forma diversa. Ad ogni nuovo passo, ad ogni bivio si sostituisce alla conoscenza obbiettiva la valutazione, si rende necessaria una scelta; e la valutazione se anche non è espressa, e sot- tintesa. Caratteristica, a questo proposito è la affermazione del Levy-Bruhl che «la conquista metodica della realtà» cioè «un'arte razionale fondata sulla scienza della realtà sociale» deve prendere il posto della «concezione immaginaria di un ideale -- La morale et la scienze des mœurs. Questa conquista metodica della realtà sarà pur guidata, — e non può essere altrimenti — se non da un idea- le, ché ogni ideale è soppresso, dall'idea di qualche cosa che si pone come piú desiderabile o migliore. Ma quale è il criterio di questo meglio? di quella amélioration che, come dice poche righe piú sotto delle parole citate, non bisogna di- sperare di portarvi? Questo criterio non può essere il reale stesso che bisogna modificare e migliorare; sarà dunque, di nuovo, in ideale o qualche cosa che lo sostituisce. «L'ombra sua torna ch'era dipartita». Il pragmatismo, anche per chi è pragmatista, qui non ha nulla da vedere. Può essere verissimo che anche la nostra conoscenza sia stimolata, sorretta, guidata, controllata da un interesse, l'interesse teorico, e come tale sia, anzi è senz'altro, un valore intellettuale: ma ciò non muta d'un ette la distinzione notata.  Sulla pluralità dei postulati di valutazione morale. Ora la conoscenza, o è teoretica, e ci dà oggetti e fatti e rapporti di oggetti e di fatti come so- no, cioè come dobbiamo concepirli per comprenderli; o li interpreta e li giudica come utili o nocivi, buoni o cattivi, preferibili o non preferibili, superiori o inferiori, e non è piú conoscenza, o almeno non piú conoscenza soltanto; e il criterio del buono e del cattivo, dell'utile e del disutile, del bello e del brutto è criterio di preferenza, di scelta, di valutazione che essa non trova nelle cose se non perché ve l'ha già posto, e ponendovelo ha ubbidito, consciamente o no, a un interesse che non è teori- co, ma è pratico nel senso che può restare a questa parola anche dopo le analisi del pragmatismo: pratico nel senso che, se si suppone tolta la volontà, è tolta non soltanto la molla che spinge a ricercare e a trovare le distinzioni tra gli oggetti, ma sparisce la distinzione stessa tra gli oggetti. Ora, quando si intenda chiaramente e in tutta la sua portata questa irreducibilità dei giudizi di valore ai giudizi di esistenza o causali o teoretici (o percettivi, come mi parrebbe preferibile chiamarli), e la conseguente impossibilità di ricavare gli uni dagli altri, di pretendere che un giudizio di ciò che è, possa servir di fondamento a un giudizio di ciò che vale o che merita di essere, ap- parirà piú manifesta la insolubilità della questione del fondamento intesa in questo senso e cercata in questa direzione, e le ragioni di questa insolubilità. E con ciò si chiarisce anche l'inanità della controversia accennata fra metafisica e scienza e se ne spiega nello stesso tempo l'insistenza. In breve e trascurando le inevitabili inesattezze delle formule riassuntive: La realtà si può interpretare come sistema di forze e come sistema di valori. Se si interpreta come sistema di forze se ne fa una costruzione puramente intelligibile, cono- scitiva, anassiologica, estranea ad ogni moralità perché estranea ad ogni valutazione; sia essa co- struzione scientifica, sia metafisica, empirica o a priori, monistica, dualistica o pluralistica. Se queste forze si giudicano cioè si valutano, cioè si vede o si pone in esse, o operante per esse, un ordine, o un conflitto, o un processo di attuazione di fini, allora la conoscenza della realtà diventa conoscenza dei valori, e i fini della natura o della provvidenza diventano il modello o il cri- terio del giudicare morale; e il fondamento della morale si troverà nella conoscenza di questa realtà; si consideri essa come scienza o come metafisica. Ma perché quelle forze siano apprezzate come valori occorre che siano dati i valori a cui si ragguagliano tali forze; e perché i fini della natura siano i fini di una Provvidenza è necessario che il processo della natura sia riferito ad uno scopo il cui valore di bontà è già dato e riconosciuto. Così il criterio della valutazione non si ricava dalla conoscenza della realtà se non perché la realtà era già stata valutata secondo il principio che si pretende di ricavarne; e non si trova in essa il fondamento della morale se non perché la coscienza morale ha spirato nell'intimo della realtà quell'anima di be- ne che crede di estrarne come suo principio e fondamento. Ed è anche facile comprendere perché gli assertori della fondazione metafisica si sentissero meglio armati alla difesa e piú vivaci nell'attacco. La scienza interdicendosi — nel programma se non nell'attuazione — ogni interpretazione finalistica, e quindi ogni valutazione della realtà, si trovava piú manifestamente a disagio quando pretendeva di derivare dai suoi rapporti obbiettivi un criterio, che ne aveva deliberatamente escluso. E quando voleva trovare nelle leggi un valore morale troppo facilmente rendeva palese la propria incoerenza. Perciò volgeva i suoi sforzi a considerare e a spiegare la moralità come un prodotto na- turale o un risultato meccanico di un giuoco di forze per sé spoglio di ogni finalità. Onde la tenden- Senza volontà di conoscere non ci sarebbe conoscenza; sta benissimo, o almeno possiamo qui lasciar di discu- tere; ma la conoscenza è volontà di conoscere le cose come sono cioè come appaiono a chi non è mosso da altro inte- resse che quello del conoscere; e il valutare è giudicare le cose così conosciute (cioè costruite in conformità all'interesse teoretico) rispetto a finalità distinte da quelle del conoscere, cioè a interessi di altro genere, edonistico, estetico, morale, e via dicendo. Altro è dire che in Engadina fa fresco e altro dire che amano il fresco quei che vi passano l'estate. za costante dell'«etica scientifica» a identificare il problema nel fondamento col problema dell'ori- gine, la valutazione con la spiegazione; e a considerare una reale o pretesa naturalità come criterio di moralità. E la metafisica poteva tanto piú trionfalmente mettere in chiaro l'equivoco, e dimostrare l'impotenza assiologica della scienza quanto piú sentiva non solo non estranea, ma legittima, ma implicita nella propria costruzione della realtà, una interpretazione teleologica; ed era avvezza a considerare la morale come sua pupilla perché... ne amministrava il patrimonio. Ma se il problema della fondazione teorica, nella forma classica, e, direi nel senso piú bello della parola, ingenua, di derivazione dei valori da una realtà, è insolubile, perché o urta contro una radicale irreducibilità, o si riduce a una petizione di principio, essa non sparisce se non per lasciar scoperto dietro di sé il problema che nascondeva o adombrava, e nel quale attraverso Kant si è venuto via via trasfigurando. Non si tratta piú di trovare nella conoscenza della realtà la prova che le nostre valutazioni sono vere, poiché le valutazioni sono, come espressioni di una esperienza interiore sui generis, valide per sé; ma di sapere se su questi dati valutativi si può costruire una conoscenza oggettiva; se i valori morali siano prova dell'esistenza di certe condizioni e di quali; se sia possibile, non trovare nella realtà il fondamento del valore, ma trovare nel valore il fondamento della realtà. Il problema si aggira sempre in ultimo attorno al medesimo dubbio: se il mondo, la natura, la vita abbiano un si- gnificato morale, se l'anima dell'universo guardi al medesimo fine che la coscienza morale; se gli sforzi della volontà buona siano fecondi di frutti durevoli o siano un lavoro di Sisifo, che ogni co- scienza riprende faticosamente per lasciare che ciascun'altra rifaccia, destinato in ultimo a cadere pur esso nel nulla, uno sforzo piú grande. Ma l'atteggiamento è diverso. L'ontologismo metafisico subordinava, almeno nella riflessio- ne consapevole e nella costruzione logica, il giudizio di valore al giudizio di realtà. Nella filosofia dei valori il giudizio di realtà è subordinato, anche nel processo riflessivo e costruttivo, al giudizio di valore. Il momento che nell'intellettualismo ontologico era nascosto e inconsapevole, quello della assunzione tacita del concetto di valore nel concetto di realtà, nella filosofia dei valori diventa chiaro e consapevole e si allarga nel tentativo di tradurre il passaggio psicologico in processo discorsivo e di fondare un sistema di verità teoretiche su quella certezza che veramente era ed è il dato iniziale, l'ubi consistam di ogni costruzione etica, sia scientifica o metafisica, progressiva o regressiva, ascendente o discendente: la certezza diretta e intuitiva dei valori morali. Illusione poco meno antica accompagnata da sforzi parimenti tenaci, e forse piú multiformi di tradurla in dottrina rigorosa, è quella di credere che si possa ricavare la valutazione morale da qualche bene indiscutibilmente supremo, del quale essa esprima le esigenze e formuli le condizioni necessarie. Questo sommo bene, questo fine supremo, questo valore, sorgente prima, termine ultimo di tutti i valori si credette di trovare: o in un dato della coscienza empirica, un fine inerente alla vita e subordinante di fatto tutte le tendenze, aspirazioni e attività dell'uomo; o in un fine che domina ben- sì, ma trascende la vita e la natura umana, e subordina di diritto ogni altra forma di bene e ogni cri- terio di valutazione. Alle due diverse concezioni del fine rispondono due tipi principali di dottrine morali, dei quali è facile rilevare la corrispondenza coi due tipi di dottrine sulla fondazione di cui si è detto nel capitolo precedente. Ma la corrispondenza non è coincidenza. Là l'origine dell'illusione era nella pretesa di derivare la valutazione morale da una realtà la cui conoscenza si impone all'intelletto; qui di derivarla da fin bene il cui valore è ammesso, o si suppone che debba essere ammesso inconte- stabilmente come supremo o massimo, o almeno superiore ad ogni altro. Ora l'illusorietà della pretesa consiste in ciò: che il valore morale non è morale se non a patto che se ne riconosca, o, meglio, se ne senta la superiorità, la preminenza su ogni altro valore; il suo essere morale consiste (con ciò non si escludono gli altri caratteri) in questa sua supremazia. Perciò ogni tentativo di assegnare un bene supremo che lo giustifichi, si riduce all'uno od al- l'altro termine di questa alternativa: o di ammettere che questo bene è già esso stesso il valore mora- le che si crede di derivarne, o di mostrare che ciò a cui si dà valore morale, è valore anche per altri rispetti; cioè sarebbe un valore di altro genere anche se non fosse valore morale. I tentativi che si raccolgono intorno al primo tipo fine: la felicità, o il piacere. riescono di solito quando e nella misura che possono a quest'ultimo risultato; quelli del secondo tipo (fine: il possesso del divino, l'avvicinamento a Dio, la santità) riescono di solito al primo: a presupporre quel che credono di derivare. Dell'utilitarismo in generale e delle sue diverse forme sarebbe fastidioso, e non è qui neces- sario, ripetere per la centesima volta le critiche note. Basta mettere in chiaro quel che meno fu notato e che piú importa al nostro scopo: cioè non tanto le lacune, le insufficienze e le incongruenze dei tentativi, ingegnosi assai piú che fortunati, di ricondurre le norme morali al criterio dell'utilità, e di mostrare le coincidenze tra il contenuto delle norme morali e il contenuto delle regole utilitarie, quanto la ragione per la quale la derivazione è impossibile; o, quando appare possibile, dissimula in realtà una petizione di principio. Supponiamo pure che si ammettano cose troppo manifestamente arbitrarie: che la felicità sia non un nome vago, un recipiente vuoto nel quale ciascuno versa il liquido preferito e che non è sempre neppure per la stessa persona il medesimo ma abbia un contenuto determinato (poniamo l'acquisto o il possesso di certi beni: salute, amore, potenza, gloria, simpatia, cultura, ingegno, soddisfazione della propria co- scienza; e che tra questi beni sia possibile perfetta conciliazione ed armonia); e che si possa dimo- strare davvero, e non per salti o per ripieghi, che il nodo non pure piú sicuro, ma il solo veramente sicuro e indispensabile per raggiungerla, sia l'osservanza costante delle norme morali. Con ciò non si sarebbe dimostrato che ciò che fa il valore morale delle norme consiste nella loro utilità come guida della felicità; ma soltanto che i valori morali sono anche valori eudemono- logici; che il contenuto della valutazione morale e quello della valutazione utilitaria coincidono; non mai che il valor morale di un'azione consista nel suo esser mezzo alla felicità. Resta fuor di questione s'intende e deve esser quasi superfluo avvertirlo la considerazione dell'efficacia pratica o esecutiva; se sia o no piú persuasiva o piú impulsiva l'una o l'altra valutazio- ne. Si può anche ammettere, senza soverchio sforzo immaginativo, che sia per lo piú la edonistica; ma ciò non prova affatto che questa si confonda o si identifichi con la valutazione morale, o valga a sostituirla. Dimostrare a un giudice che il dar sentenze imparziali è il modo piú sicuro di far carriera, potrebbe essere, in ipotesi, un mezzo efficace a promuovere l'imparzialità. Ma nessuno sognerà di far consistere l'onestà del giudice nel suo desiderio di far carriera. Ma in realtà, come tutti sanno, il contenuto della felicità non è determinato, né determinabile se non ad arbitrio; e solo significato comune e costante del termine finisce per essere quello di ap- pagamento dei desideri, di soddisfazione, di piacere, o di liberazione dal dolore, che si pensa dover- si trovare nel raggiungimento di ogni fine. E la diversità persiste e risorge nella molteplicità varia e contrastante dei desideri e dei pia- ceri, e non basta raccoglierli sotto uno stesso nome per ridurli a unità e farne un unico fine. Perché se l'unità ci deve essere davvero, allora è necessaria o una riduzione o una gradazione e subordinazione; e questa spunta infatti nella storia dell'utilitarismo con il criterio della qualità so- vrapposto e in effetto sostituito dal Mill a quello della quantità. E allora si capisce come possa avvenire che il criterio della felicità finisca per accordarsi con quello della valutazione morale; se le soddisfazioni migliori sono le soddisfazioni morali, e il bene piú desiderabile l'appagamento della coscienza morale, l'accordo tra i due criteri quanto al contenu- to è, non solo possibile, ma necessario. Ma è troppo facile vedere a quale patto è raggiunto. Il valore di quella felicità alla cui stregua si pretende di giudicare il valore morale è assunto come supremo perché e in quanto contiene questo valore morale ed è graduato esso stesso secondo un criterio mo- rale; approva e disapprova in nome della felicità quel che trova approvato e disapprovato in nome della coscienza morale. Viene in mente il modo, col quale un marito sincero si vantava di aver risolto il problema di una pace coniugale perfetta: dove marito e moglie erano dello stesso avviso era la moglie che se- guiva il parere del marito, dove erano di avviso contrario era il marito che faceva la volontà della moglie. Adunque, anche ridotta a questa forma, la felicità non fornisce il criterio della valutazione morale se non in quanto è foggiata essa stessa su un criterio morale; e quel che pretende di aggiun- gervi come giustificazione, non è ciò che costituisce il valore morale, ma è qualchecosa di distinto, di sopraggiunto ad esso (giusta la veduta di Aristotele) sebbene lo accompagni; è una valutazione secondaria, edonistica od egotistica (non oserei dire egoistica) del valore morale. Porre come bene supremo la santità (il divino in quanto è sentito e voluto come modello o norma della vita si determina in un ideale di santità) è derivare il valore morale dal valore religioso, concepito come principio e termine di ogni valore, e del quale esso valor morale è un elemento; o Ne ho parlato altrove (La dottrina delle due etiche di Spencer e la morale come scienza) e non occorre insistervi qui. 5 Sebbene il parlare della soddisfazione della propria coscienza come di un bene desiderabilissimo sia legitti- mo, non è legittimo, né conforme alla verità psicologica, considerarlo come il fine della condotta morale. Il fine è l'attuazione di quel valore che la coscienza riconosce come morale; e non è l'altezza della soddisfazio- ne che se ne possa attendere, che costituisce il pregio dell'azione, ma è il pregio dell'azione che misura l'altezza della soddisfazione; la quale è pura soltanto a patto che non se ne faccia lo scopo dell'operare.  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta meglio, l'attuazione di questo è voluta come una condizione, o un momento dell'attuazione, di quello. E qui giova premettere due osservazioni non peregrine ma utili alla chiarezza. Che questo valore supremo del divino, della santità e, in termini piú generali, il valo- re religioso non può essere dimostrato o insegnato con lo stesso processo conoscitivo, con il quale si dimostrano, si insegnano e si comunicano delle proposizioni o verità teoretiche, e, in quel che han di contenuto teoretico, i dogmi stessi delle dottrine religiose. Questo valore è sentito, è, come si dice con frase piú suggestiva che chiara, vissuto dalla coscienza; e quanto è sicuro ed efficace l'appello ad esso, dove è vivo, altrettanto è vano dove non vive. Fondare la valutazione morale sui valori religiosi è dunque presupporre che siano sentiti e vissuti nella loro forma e natura specifica quei valori religiosi da cui si fanno sgorgare i morali. Ma dove essi valori religiosi non siano sentiti e vissuti, nessuna dottrina teologica e nessun catechismo può crearli6 o sostituirli. Che, per converso, nessuno sforzo d'analisi e nessun ragionamento basta a spogliare, nell'anima di un mistico, i valori morali da quel sentimento del divino, a svestirli di quell'alone reli- gioso del quale egli investe non solo questi ma anche gli altri valori spirituali; come sarebbe diffici- le nella intuizione e nel sentimento di un esteta di sottrarre i valori morali e i valori religiosi a una valutazione estetica. Come accade sempre dove un grande interesse spirituale predomina sugli altri, cioè dove una categoria di valori occupa, per dir cosí, il centro della coscienza, e raccoglie ad unità, come attorno ad un nucleo, i valori di altre specie; che è quel che suole piú comunemente e nor- malmente avvenire per i valori morali. Ma fatta (come dicono i legali) questa riserva, bisogna riconoscere che nessuna valutazione morale si potrebbe ricavare da qualsivoglia valore religioso, se non vi sia già esplicitamente o im- plicitamente contenuta; cioè se non a patto che si sia incorporata nel valore religioso una valutazio- ne morale la cui validità sussiste o sussisterebbe anche all'infuori di quello; ed è la ragione per la quale viene assunta nel valore religioso. Non è necessario, a persuadersene, di discutere il problema formidabile della essenza del va- lore religioso. Se si accetta l'opinione del Höffding che il nucleo essenziale della religione è la credenza nella conservazione dei valori, e, s'intende bene, soprattutto dei valori morali, la indipendenza e la priorità di questi sono, re ipsa, riconosciute. In effetto quali si possano essere le reazioni di tale credenza sulle valutazioni, resta pur sem- pre che non è l'esigenza della conservazione quella che dà ai valori la loro qualità di morali, ma il loro esser sentiti, il loro valere come morali che ne fa postulare la conservazione. Di che ho già det- to altrove7, e non occorre del resto insistervi. Se invece si ammette, come io credo, che la natura specifica, la «forma» del valore religioso non sia riducibile a quella credenza, e che sia essenziale e caratteristico del sentimento e della valu- tazione religiosa il riferimento del nostro pensare, del nostro sentire e del nostro fare, anzi di tutto il nostro essere, ad un altro essere; sommità dell'aspirazione religiosa l'esserne penetrati e posseduti; e misura del valore religioso, la devozione ad esso, l'abbandono di sé alla volontà che ne realizza le perfezioni; allora il valore religioso è per sé altra cosa del valore morale; ma, se non si risolve in questo, neppure lo pone, ma se lo appropria ed incorpora. E se può sembrare all'anima religiosa che esso sgorghi da questa idealità e se ne alimenti, la ragione sta in ciò, come si è accennato: che al mi- 6 È appena superfluo aggiungere che non penso neppur per sogno di negare una possibile efficacia all'insegna- mento religioso in quanto esso, come ogni insegnamento, non è mai (salvo forse agli occhi di chi lo misura col tassame- tro) pura comunicazione di notizie o di idee, ma è vigore di convinzione, calore di affetti, opera di formazione; insom- ma, educazione. Ma anche l'educazione suppone le condizioni dell'educabilità. E si suppone poi sempre che chi legge faccia uso del consueto grano di sale. 7 Cfr. Postulati etici e postulati metafisici.] stico riesce impossibile di concepire altrimenti che perfetto, cioè perfetto anzitutto e soprattutto mo- ralmente, l'Essere che adora, e nel quale vede non un bene, ma ogni bene, il Bene. Ma la perfezione che vede in lui, a quale stregua è giudicata tale? L'ideale che trova realizza- to in quello non è foggiato secondo un criterio di valutazione morale la cui validità è accettata e ri- conosciuta all'infuori dell'atteggiamento religioso della devozione a Dio? Anzi non è quella perfe- zione morale che lo fa degno di adorazione? Un mistico a cui si domandasse se concepisce Dio perfetto perché lo adora o se lo adora per- ché è perfetto, forse non saprebbe rispondere, e troverebbe che la domanda scompone quel che è per lui uno e indissolubile. Ma ciò non toglie che la devozione e la adorazione non costituiscano per sé i pregi e le doti di ciò che è adorato; e nessuna coscienza potrebbe trovare in Dio i valori morali se non li conoscesse già come valori, e non li distinguesse come morali dai valori di altro genere. Questa priorità e questa indipendenza, questo sussistere per sé, questa selbständigkeit della valutazione morale, appare confermata dalle discussioni sul valore delle religioni, il cui termine di confronto piú consueto e piú decisivo è dato dal rispettivo contenuto morale. Il che implica manife- stamente che questo contenuto possa esser giudicato e apprezzato per sé. E il prevalere sempre piú largo delle preoccupazioni morali nelle controversie di indole religiosa (per esempio la lotta intorno al modernismo) mostra che la validità del criterio morale è tenuta come certa di una certezza che è data e riconosciuta indipendentemente da ogni valutazione religiosa. Quanto all'affermazione che la morale non può reggersi senza religione, essa, sebbene ambi- gua nella forma, non significa affatto, come è facile capire, che non sia possibile sentire e giudicare ciò, che è giusto o ingiusto, buono o cattivo se non con un criterio e da un punto di vista religioso; vuol dire invece che non è o non si crede possibile una moralità salda e costante, cioè una sicura conformità della condotta alle valutazioni morali, se la valutazione morale non è sorretta, conforta- ta, fatta praticamente efficace dalla connessione dei valori morali con una finalità religiosa; cioè dal considerare i valori morali come preparazione e condizione necessaria di quel fine; e quindi i pre- cetti morali come precetti religiosi. Che è tutt'altra cosa; importantissima dal punto di vista propriamente pratico o esecutivo, ma estranea alla questione presente e da trattarsi a parte, analogamente a quel che si è accennato sopra della possibile importanza pratica di una valutazione edonistica. Dire che l'olmo sorregge la vite, non è dire che la vite sia una propaggine dell'olmo, e nep- pure che sia l'olmo che porta l'uva; sebbene sia anche vero che, dove la vite non si regge da sé, non dovrebbe parer savio tagliar l'olmo anche a chi ami soltanto la vite. Quel che si è detto dei tentativi di una fondazione edonistica e di una fondazione religiosa si potrebbe ripetere di ogni altro tipo di morale di cui si pretenda di trovare il fondamento in un inte- resse diverso dall'interesse propriamente e specificamente etico (notevolissima fra le altre la morale estetica), e dalle forme miste e intermedie; le quali, se sono dottrinalmente fiacche e spesso incoe- renti, hanno però in realtà largo consenso nelle credenze e nelle opinioni piú comuni. Di queste ultime meritano di essere ricordate, perché piú significative, le due forme, nelle quali si mescolano e si sovrappongono i due tipi di valutazione qui sopra brevemente analizzati, la edonistica e la religiosa; che sembrano a prima vista i piú lontani e l'uno all'altro opposti. Si può avere cosí una interpretazione edonistica della valutazione religiosa (esempio l'utilita- rismo teologico) e un'interpretazione religiosa della valutazione utilitaria (altruismo comtiano, mi- sticismo umanitario). Da quanto si è discorso pare si debba concludere che queste indagini (spesso nei particolari ingegnosissime e suggestive) nelle quali si cerca la ragione del valore morale nella sua connessione 15  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta o congruenza con altri valori, abbiano importanza solamente nel rispetto strettamente pratico o ese- cutivo; in altre parole una importanza parenetica o pedagogica, in quanto una tale connessione con- forta, sorregge o surroga con motivi di altra natura e sgorganti da interessi diversi il motivo specifi- camente morale. Sarebbero dunque analisi ed indagini preziose per l'educatore e per l'uomo politico (dato che si propongano fini morali), ma senza interesse per lo scopo a cui mirano, di costituire il fondamento o la giustificazione dei valori morali, perché radicalmente viziate dal falso supposto che la ragione della supremazia dei valori morali si possa cercare in qualchecosa che non abbia già essa per sé valore morale. Ma questa conclusione sarebbe precipitata e eccessiva. Intanto è fuor di questione che, no- nostante il carattere di artificiosità che si trova piú o meno largamente diffuso nelle costruzioni di questo genere, come nei sonetti a rime obbligate, vi è in tutte una parte notevole di verità; verità s'intende non in quel che credono di dimostrare, ma nei rapporti e nelle concordanze e nelle diffe- renze rilevate, e che dovrebbero servire alla dimostrazione. Questa parte di verità ha radice nel fatto, troppo noto e troppo chiaro perché ci sia bisogno di illustrarlo, e già sottinteso a piú riprese in questo capitolo, che non vi è giudizio sul valore morale di un oggetto, qualità, tendenza, azione, del quale non si possa trovare la ragione, oltreché nella forma speciale di interesse o di esigenza che gli dà questo carattere specifico di valore morale, anche in un interesse diretto o indiretto d'altra natura: non vi è bene morale che non sia bene anche per altri rispetti; come d'altra parte non vi è bene di altro genere che non sia o non possa diventare, diretta- mente o indirettamente, un bene morale. I valori delle diverse specie si connettono, si intrecciano e si complicano fra loro in mille guise. È bensì vero che ciò che fa esser morale un valore (e analogamente si potrebbe dire dei valori di ogni altra specie) non è, come s'è visto, il suo coincidere o il suo essere connesso sia pure per un rapporto di condizionalità costante, con un valore — per quanto grande — di altro genere, o anche con piú altri ordini di valori o con tutti; ed è perciò che nessuna sottigliezza di logica può estrarre un valore morale se non di là dove esso si sia già posto o insinuato; e che credere di poter trovare un valore morale tra valori che non siano già morali è fare a un dipresso come chi vada frugando fra le idee degli altri con la speranza di trovarvi le proprie. Ma è pur vero che sussistono altri valori, e sussistono le relazioni fra i valori; e ciò che è og- getto di valutazione morale, poniamo la sincerità, può essere apprezzato dal punto di vista dell'inte- resse conoscitivo od artistico o economico; e, per converso, ciò che è oggetto di valutazione edoni- stica o estetica o d'altro genere, la ricchezza, l'arte, la dottrina, può essere valutato anche come bene di ordine morale. Ora: È possibile una conciliazione dei valori morali con gli altri valori e di questi fra di loro? E se non è possibile, quale è il criterio della loro graduazione e subordinazione? Vi è, per rispetto alla natura delle relazioni o connessioni tra valori di diversa specie, qual- che differenza caratteristica che distingue i valori morali dai valori non morali anche per il contenu- to? E vi è, segnata ancora dalla sfera delle relazioni condizionali o strumentali con valori di altro genere, una differenza che distingue, rispetto al contenuto, gli stessi valori morali fra di loro? E non potrebbe questa considerazione giovare a intendere le incoerenze e i contrasti tra valu- tazioni diverse e anche opposte, che pure si presentano col medesimo carattere di valutazioni mora- li? Cosí, dietro i tentativi illusori di cercare fuori e al di là dei valori morali il fondamento della valutazione morale e la ragione decisiva che ne giustifichi la supremazia, restano i problemi: della valutazione indiretta o rivalutazione condizionale o strumentale, di una graduazione delle diverse categorie di valori; e della possibilità della loro conciliazione. Della quale, la conciliazione tra virtù e felicità non è che un aspetto particolare, e forse non il piú importante. Il carattere di autorevolezza col quale si presenta alla coscienza il giudizio morale, che noi approviamo bensì come nostro, ma che ci pare nello stesso tempo sgorgare da una sorgente piú alta o piú profonda, e quello di precetto imperativo nel quale si traduce, tendono a far derivare questi caratteri, e, quando siano considerati essenziali della moralità, lo stesso giudizio morale, da un'autorità distinta dalla coscienza, e che, pur rivelandosi in essa, la trascende e la supera. Il fondamento di questa autorità fu riposto o nel processo stesso di formazione, consapevole o inconsapevole, delle idee e dei sentimenti morali che danno contenuto alla valutazione; o in un volere superiore e distinto dal volere individuale, al quale si riconosce potestà imperativa e alla cui scelta o decisione si riconduce in ultimo il criterio della valutazione morale. L'autorità delle valutazioni morali avrebbe dunque in ultimo, come ogni altra minore autorità politica o sociale, il suo fondamento e la sua legittimazione o nei titoli di una sua nobiltà storica, o nella volontà di un potere sovrano. a) Della storia. L'appello alla storia può assumere, assunse in effetto, forma e apparato e significazione di- versi, secondoché si credette di fondare l'autorità della valutazione in un processo genetico di evo- luzione selettiva operante attraverso l'esperienza organizzata della specie; o in un processo storico di svolgimento e di elevazione progressiva dei costumi, della cultura, degli istituti e delle idealità etiche nei popoli civili; o nella elaborazione logica di un pensiero riflesso rintracciato nella succes- sione storica delle dottrine e dei sistemi. La prima delle forme accennate che si connette alla dottrina dell'evoluzione e che culmina nella tesi di un progressivo adattamento dei bisogni, dei sentimenti, delle attività alle condizioni di una vita sociale sempre piú elevata, piú complessa e piú armonica (lasciando ogni questione che non sarebbe oggi piú neanche di buon gusto sulla consistenza scientifica della dottrine), si risolve in ultima analisi, come fondazione etica, nel postulare quella superiorità e quella autorità dei sentimen- ti e delle norme di condotta morali, che pretende di provare derivandola dal processo di selezione progressiva che ne ha costituito e consolidato la prevalenza nel corso dell'evoluzione. Infatti il criterio, per il quale giudichiamo progressiva piuttosto che regressiva o indifferente l'evoluzione o la selezione delle idee e dei sentimenti, è un criterio di valutazione di cui si riconosce e si accetta la validità indipendentemente dal processo di cui sarebbe — nell'ipotesi — il prodotto; (e del quale processo, anzi, è esso stesso, questo prodotto, che ci fa riconoscere il valore). Ed è troppo chiaro che non è perché il progresso del senso giuridico ha portato all'aboli- zione della tortura che noi condanniamo la tortura, ma è perché condanniamo la tortura che ravvi- siamo nella sua abolizione un progresso etico nello svolgimento del diritto. Ché se si obbietta derivare l'autorità delle norme morali dalla loro convenienza e corrispon- denza alle forme di vita «superiore», ai tipi di relazioni «più elevati» dei quali esprimono le esigen- ze, si dimentica che all'infuori di un criterio — quale esso sia — di valutazione non vi sono forme superiori o inferiori, tipi derivati e tipi bassi. E un criterio di valutazione è, sempre, necessariamen- te, in modo esplicito o implicito, assunto o sottinteso. Tanto ciò è vero, che il massimo rappresentante e sistematore dell'evoluzionismo, lo Spencer, fu condotto a sovrapporre, per giustificarlo — al criterio genetico dell'adattamento pro- gressivo a un tipo di vita completa — il criterio edonistico di un piacere puro corrispondente all'a- dattamento completo. Se a una selezione esteriore e meccanica, nella quale la coscienza è risultato e non attività, si sostituisce uno svolgimento interiore e psichico — nel quale la coscienza etica viene costruendo ed elaborando le sue valutazioni le sue norme le sue idealità sempre piú alte e sempre piú ampie nel passaggio da età ad età e da popoli a popoli in sfere di civiltà piú larghe, e, sulla via che l'induzione storica rivela attraverso le soste, le deviazioni, gli oscuramenti e i ritorni apparenti, si scorge col Wundt la direzione ideale e si disegnano i fini, i motivi, le norme in cui la coscienza morale viene raccogliendo le sue conquiste — la concezione della formazione storica è senza dubbio piú propria, piú adeguata e piú probabile; ma non è tolto il vizio d'origine, l'errore, direi di prospettiva, comune a ogni tentativo di fondamentazione storica dei valori morali. (E il medesimo sarebbe da dire per le altre specie di valori). Lasciamo pure la vecchia calunnia (se bene le calunnie sogliono aggrapparsi a qualche unci- no di verità) fatta alla storia: Hic liber est in quo quaerit sua dogmata quisque; e neppure discutiamo della possibilità e dei limiti di una induzione legittima sui fatti storici; ciò che importa, e che basta notare, è che questa induzione, posto che fosse legittima, e non avesse già per filo conduttore e regolatore quella direzione ideale che vi rintraccia ingegnosamente, non pone essa il valore delle conclusioni a cui giunge, non è essa che ci fa riconoscere la bontà, la elevatezza, la eccellenza morale delle idealità che segnano la meta. Questa valutazione è irreducibile alla storicità; ed è anzi dalla storia — in quanto voglia es- sere giudizio comparativo di valori umani — sempre e inevitabilmente presupposta. Di che è prova il fatto che, mutato il criterio valutativo, sostituita all'una un'altra scala di valori, la prospettiva si rovescia; e Nietzsche vede una nefasta degenerazione dove il democratico e l'umanitario ravvisano l'indice sicuro di un felice progresso morale. E se il criterio valutativo della coscienza si contrappone a quello che ha o sembra avere a un momento dato il conforto della storia, non vi è in questo nessuna ragione intrinseca di superiorità o di inferiorità dell'uno sull'altro dal punto di vista etico, che è quello che importa; anzi neppure dal punto di vista storico, perché quel conforto (quale esso sia) della storia, che oggi fa difetto al primo, non è escluso che lo assista domani. La storia è conservazione e svolgimento, ma anche innovazione e opposizione; non è, di- ciamo pure, con termini hegeliani, una cosa se non perché è nello stesso tempo l'altra. Se passiamo ora ad esaminare lo svolgimento storico nel pensiero riflesso, troviamo che il problema attorno al quale sembra disegnarsi meglio la continuità logica della speculazione morale nella successione dei sistemi, è, nella sua forma piú generale, il seguente: Come dobbiamo concepi- re la realtà perché essa risponda alle esigenze delle nostre intuizioni morali; e se e come siano possibili le condizioni di una tale realtà. Lo svolgimento logico e dialettico delle dottrine riguarda so- prattutto, se non esclusivamente, i problemi che nascono da questo problema centrale; le forme di- verse sotto le quali si presentano; e il processo di sostituzione e di eliminazione e di superamento, per il quale i problemi antichi trapassano nei problemi nuovi. Ma la sostanza delle intuizioni morali non è data, e non potrebbe essere, né da questo o quel sistema, né dalla successione fosse pur continua e rigorosamente coerente dei sistemi, che ne scopre e ne snoda le esigenze, e viene cercando una risposta alle domande che queste esigenze sollevano e presentano alla riflessione critica. In questo sforzo essenzialmente speculativo di sistemazione, e per dir cosí, di inquadramento delle intuizioni morali in una concezione unitaria della realtà che ne ac- colga le postulazioni, sarebbe fuor di luogo pretendere di trovare la ragione d'essere di quelle valu- tazioni, dalle quali la speculazione prende le mosse, e che ne ispirano e alimentano le indagini. È bensí vero che a questo travaglio di costruzione speculativa si annoda e si intreccia l'anali- si e l'indagine di indole propriamente etica, sulla natura dei diversi principî e criteri valutativi, che ne saggia la fecondità, ne svolge le conseguenze, mette in luce i rapporti di accordo e di contrasto tra le valutazioni morali attinenti a sfere di esperienza diverse, svela i legami spesso sottili e inattesi che stringono in gruppi di affinità alcune di queste intuizioni sia tra di loro, sia con valutazioni di altro genere, noetiche estetiche e religiose. Ma questa elaborazione che è pure di importanza capita- le per rendersi conto della «rilevanza» e della portata dei criteri di valutazione e per tentarne la uni- ficazione in una dottrina etica strettamente intesa (che è altra cosa da un sistema filosofico di etica), si svolge attorno a un contenuto valutativo, fornito dalla immediata esperienza morale; assume co- me validi per sé i giudizi apprezzativi che ne costituiscono gli elementi, i punti saldi di riferimento, i dati, alla cui validità è legata la consistenza della costruzione. E vi può essere finalmente nei sistemi morali, e certamente si trova nei piú grandi e signifi- cativi, un filone piú o meno ricco di intuizioni morali nuove, che si aggiungono o sovrappongono o sostituiscono alle intuizioni date nell'esperienza della coscienza morale comune, e segnano la crea- zione di nuovi valori e aprono la visione di una regione morale inesplorata. È la parte che spetta al genio morale ed è il sale di quella dottrina etica, in cui l'intuizione è accolta, ospite o signora. Ma questa novità di intuizione, questo allargamento, o arricchimento, o soprattutto, orientamento diver- so di valori, nessuno vorrà considerare come il frutto di una deduzione logica, anche se nel sistema ne vestisse le forme: anche se fosse esclusivamente opera dei grandi costruttori di sistemi e si accompagnasse sempre con una riflessione critica acuta e una meditazione ostinata. Questa concomitanza (che del resto non si può dire costante, perché novità di intuizioni mo- rali si trova pure in dottrine, pensamenti, apostolati estranei, almeno in origine, ad una costruzione sistematica) significa soltanto che quella medesima profondità di intuizione e intenso ardore di en- tusiasmo morale dai quali erompe la nuova idealità, promuovono e preparano, quando secondino le forze dell'intelletto, i grandi sistemi morali. Cosí anche questa affermazione o posizione di valori nuovi8, non importa qui cercare da quale concorso di circostanze interiori od esteriori suscitata o svincolata, non è la conclusione di u- n'indagine scientifica o filosofica, ma è un penetrare o un irrompere della coscienza morale nella corrente del pensiero riflesso; che non li dà esso, ma li accoglie; li illumina, ma non li crea. b) Il fondamento cercato in una volontà. La forma di precetto imperativo nella quale si traduce l'esigenza di conformare l'azione al giudizio morale fa considerare la moralità come l'adempimento di un obbligo e questo come l'obbedienza a un'autorità inconcussa e indiscutibile. A questo momento della moralità corrisponde la tendenza a cercare il fondamento del valore morale stesso in un Potere (che, in quanto si esercita in vista di un fine o in conformità a una norma, è Volere) immanente o trascendente, personale o soprapersonale, del quale i giudizi morali espri- mono i comandi. L'autorità della coscienza morale rispecchia l'autorità di quel potere, e risuona l'eco di quel comando nel tono imperativo dei suoi precetti. Ora qui è necessario sgombrare il terreno dagli equivoci che nascono dal trasportare un me- desimo termine da uno ad altri concetti connessi ma diversi, o dal costringere in un solo concetto momenti distinti di un processo psicologico complesso. Quando si parla del dovere, come di una caratteristica della valutazione morale, si cade in un equivoco di questo genere. Il dovere non è dovere di valutare, ma di conformare l'azione alla valu- tazione. È forse superfluo avvertire che qui si parla di valori nuovi immediati e diretti; non di valori indiretti o mediati. Di questi altri, anzi, ogni incremento del sapere moltiplica il numero e le gradazioni; ed è in questa derivazione e dedu- zione dei valori indiretti e mediati dai diretti e immediati, che l'etica applicata prende a prestito dalla conoscenza scienti- fica le premesse minori dei suoi sillogismi valutativi. La valutazione morale precede, nell'ordine delle esigenze ideali, l'obbligo e lo giustifica; e non inversamente; anche se nella pratica coincidessero sempre e questo fosse la ratio cognoscendi di quella. E qui occorre una analisi alquanto sottile e una riflessione un po' attenta. La valutazione morale è preferenza, scelta, opzione fra qualità o proprietà, cioè modi possi- bili di essere o di agire, tra i quali non vi è gradazione, ma opposizione, e dei quali non può realiz- zarsi l'uno senza che sia tolto l'altro. Porre l'uno come valore è insieme porre l'altro come non valore o disvalore. Approvare la sincerità, la fortezza, l'alacrità come valori, implica disapprovare l'ipocrisia, la fiacchezza, la pigrizia. Il valutare morale è dunque un prendere partito per l'uno contro l'altro di due soli atteggia- menti possibili; ma poiché, e questo punto è di importanza decisiva, i valori morali, a differenza de- gli altri valori, non possono attuarsi o vivere in noi se non sono voluti e solo in quanto sono voluti (la volizione implica per quanto sono eseguibili tutte le azioni che ne dipendono, anzi consiste nel- l'ordinare e nel promuovere queste azioni), cosí non è possibile riconoscere un valore morale (che è quanto dire constatare l'opzione, la posizione ideale dell'uno e la negazione dell'altro, la esigenza che l'un termine acquisti o conservi sussistenza e l'altro la perda) senza approvare l'atteggiamento richiesto a porlo in essere; anzi, senza pensare la volontà nell'atto di realizzarlo. Ancora: gli altri valori soffrono di essere commisurati tra di loro e posposti ai valori morali senza perdere la loro qualità di valori, cioè senza che questo posporli smentisca il loro riconoscimento. I valori morali invece non soffrono di essere posposti senza essere smentiti; perché non sono morali se non a patto di essere sovraordinati a ogni altro valore, e in quanto esprimono non stati singoli, ma modi di essere, non atti, ma modi di operare posti come costantemente normativi della volontà. Ne segue che riconoscere un valore morale implica approvare, se si rivela come dato, esige- re, se è concepito solo come possibile o potenziale, l'atteggiamento costante della volontà col quale esso valore è posto; costante, cioè tale che si attui ad ogni presentarsi della stessa alternativa. Perché non si può pensare che cessi di esser voluto senza pensare che cessi di esistere e che sia posto con- tro di esso la sua negazione, il non-valore, per atto di quella stessa volontà il cui atteggiamento posi- tivo è un'esigenza implicita nel riconoscimento di quel valore come morale, cioè è idealmente po- stulato nella valutazione. Perciò, se accade che chi ritiene valore morale, poniamo, la sincerità, si sia lasciato trascor- rere a una menzogna, l'atto presente e momentaneo del mentire appare a lui come un rinnegamento del suo proprio volere; il quale rimane potenzialmente e conativamente morale pur nel momento della volizione singola che gli si oppone e lo nega. Perché il valore non cessa di essere sentito e ri- conosciuto come morale, cioè come valore che esige per essere tale di essere attuato ossia voluto costantemente9. Ora il dovere, in quanto è proprio e caratteristico della moralità, cioè in quanto è interiore e non riducibile al sentimento di una coazione esterna (ossia all'obbligo di cui si dirà tra poco), è la coscienza di questa esigenza del valore morale e si manifesta — come necessità di rispettare questa esigenza, di tener fermo nelle volizioni singole il valore morale, — nella sua forma piú chiara, quando è in contrasto con motivi di altra natura. Ma è presente anche se non vi sia attualmente que- sto conflitto, in quanto è presente alla coscienza la possibilità di impulsi contrastanti. Di qui nasce la tendenza incoercibile, manifesta nei maggiori pensatori, a identificare il volere puro, il volere che esprime l'essenza della personalità umana, il volere libero e autonomo, il vero volere col volere morale; e a con- siderare gli atti immorali come prodotti non dalla volontà, ma da difetto di volontà, da qualche cosa di esterno ad essa; non come espressione di attività e libertà, ma di passività e servitù. Da quel che si è detto risulta che non si può parlare di dovere nel senso ora chiarito, cioè di dovere morale, se non presupponendo data una valutazione morale. I valori morali devono già essere sentiti voluti come tali: se non sono, non vi può essere do- vere. E non avrebbe senso parlare di un dovere di riconoscere dei valori morali a una coscienza che fosse chiusa ad ogni valutazione etica; di un suo dovere di affermare la superiorità su ogni altro valore, di qualche cosa a cui non riconosce alcun valore. Non avrebbe senso piú di quel che avrebbe il pretendere che debba capire che ci son anche dei suoni e che valgon piú dei rumori chi non avesse udito mai che rumori, e i suoni stessi non li sentisse se non in forma di rumori. E quando si dice, poniamo, che un uomo deve pur sentire che la lealtà vale di piú del tradi- mento, il «deve» o non ha senso, o ha un senso al tutto diverso da quello propriamente morale. Non ha senso se si vuol dire che nella realtà tutti lo riconoscono, cioè se si vuol affermare o constatare una verità di fatto. Ha un senso diverso se si vuol dire che per essere uomini bisogna sen- tire cosí, che non si può chiamar uomo o che non merita questo nome chi sente e giudica altrimenti, cioè se si afferma che al concetto di uomo è essenziale quella nota. Che è tutt'altra cosa. Perché significa non che abbia il dovere di sentire in un modo chi non sente che in un altro, ma che non sia veramente uomo se non chi sente cosí. Il che anche se fosse del tutto arbitrario non sarebbe assurdo. Ma dunque i «sordi morali», se ve ne sono, non hanno doveri? Non ne hanno: perché non possono sentire l'esigenza di conformarsi a una valutazione che non han fatta e che non fanno, di at- tuare dei valori che non riconoscono come tali.  Ma hanno tuttavia e possono avere degli obblighi. L'obbligo di operare come se riconoscessero, se non tutti i valori morali, almeno alcuni, i piú grossolani e massicci e coercibili esteriormente, cioè suscettivi di esser presentati come motivi ap- prezzabili anche da una coscienza non morale. È questo obbligo, quello del quale si è tessuta con grande abbondanza di passaggi e di fasi la genesi psicologica e l'origine sociale nelle sanzioni esterne, e si è discusso a perdifiato se bastasse o non bastasse a dar ragione del dovere (ed evidentemente non basterebbe a darne ragione anche se bastasse a spiegarne la formazione); e questo obbligo implica necessariamente il riferimento a un potere superiore e distinto dal volere individuale. E come questo Potere si impone in vista di un fine e in conformità a certe norme, è concepito come potere di una Volontà che comanda l'osservanza di quelle norme. Senonché anche quest'obbligo può prendere forma e significato morale; come può non avere altro valore che di costrizione subita: appunto come le pene del codice per i galantuomini di princi- sbecco. E anche qui occorre un po' di pazienza. Quella esigenza interiore che s'è visto sopra esser posta nella valutazione stessa e per la qua- le il valore morale si fa sentire come norma e si esprime nella coscienza del dovere (dovere di non negare nelle singole volizioni il volere costante implicito nella valutazione morale) si accompagna, come si è pure accennato, alla consapevolezza — data nell'esperienza e suggerita dalla forma stessa antitetica della valutazione normale — della possibilità di volizioni, cioè di azioni, immorali; o (che torna il medesimo) della esistenza di tendenze, impulsi, motivi antagonistici al volere morale. Il volere morale si manifesta perciò (in quanto tali motivi antagonistici tendono a contrastar- ne l'attuazione) come esigenza della subordinazione costante di questi motivi, come appello a una forza coercitrice che li soverchi, sovrapponendo ad essi altri motivi opposti dello stesso ordine, e rovesciandone per tal modo il valore. Questa disposizione di spirito fa che si approvi l'obbligo e si approvi il Potere obbligante, se esiste o si concepisce che esista; se ne ponga la necessità e se ne invochi la presenza dove e quando manchi; cioè fa che si riconosca giusto l'obbligo, giusta la sanzione dell'obbligo, e giusto il Potere che lo pone. In questa disposizione per la quale l'obbligo e la sanzione sono interiormente approvati e voluti come garanzia di moralità, e il Potere obbligante è invocato e idealmente posto in nome della esigenza morale, sta la caratteristica differenza che dà all'obbligo valore morale, e lo distingue dal- l'obbligo sentito come pura costrizione esterna; che distingue il potere che merita rispetto dalla for- za che si deve subire; l'autorità dall'arbitrio; sia che il comando di questa autorità si consideri limita- to a una certa sfera di valori morali, sia che si faccia coincidere collo stesso valore morale e si iden- tifichi con esso. Ma cosí nell'uno come nell'altro caso resta la medesima, di fronte all'obbligo e al Potere ob- bligante, la differenza di atteggiamento tra la coscienza che valuta moralmente e la coscienza che sia chiusa, per ipotesi, alla valutazione morale. Per la prima è la valutazione morale che fa riconoscere e rispettare l'obbligo. Per la seconda è l'obbligo che fa riconoscere i valori morali; i quali valgono non perché sono morali, ma perché sono riconosciuti, in forza dell'obbligo e della sanzione, come valori strumentali di altri valori, co- me condizione imposta e inevitabile di quei beni che soli la coscienza amorale desidera e apprezza. L'osservanza dell'obbligo non è interiore moralità, ma è conformità esteriore a certi comandi che valgono quel che vale la sanzione che li accompagna. La valutazione propriamente e specificamente morale manca, ed è surrogata da una valutazione del tutto diversa. Il suono dei valori morali non può farsi sentire, per questa sordità morale, se non diventa il rumore di un interesse diverso. Raccogliamo i risultati dell'analisi e vediamo che cosa ne segue. Il dovere esprime l'esigenza di conformare l'atto al giudizio, di non smentire, con la volizio- ne attuale, la preferenza, la opzione che si afferma, come criterio di apprezzamento nel giudicare l'operare proprio e l'altrui, nella valutazione morale; di non opporre il mio volere in quanto è stimo- lo e causa dell'azione, potere di produrre movimenti, al mio volere in quanto è scelta fra posizioni possibili opposte, e attribuzione continua e persistente di valore all'una, e di disvalore all'altra. Se si separa la volontà come causa delle volizioni attuali e contingenti, come potere di ese- cuzione, dalla volontà che pone i valori e si esprime nella valutazione, il dovere si presenta come l'esigenza dell'obbedienza del Volere operante al Volere valutante, del volere esecutivo al volere le- gislativo, del volere a cui spetta attuare i valori morali nelle contingenze mutevoli di luogo e di tempo, al volere che li ha posti e li fa sentire e riconoscere come tali. Ora, quando la incertezza, l'incostanza, la debolezza del carattere, il prepotere di istinti, di impulsi e di tendenze opposte in noi e negli altri, facciano sentire alla coscienza morale la necessità di un Potere che assicuri la preminenza di fatto e non soltanto di diritto dei valori morali, e ne tuteli l'osservanza, il valore morale di questo Potere e delle sanzioni con le quali impone i suoi comandi, viene manifestamente dall'essere questo Potere pensato come conforme all'esigenza morale, come proprio di una volontà, che si accorda, in tutto o in parte, con quel che si è detto il Volere valutante; cioè di una Volontà che tende all'attuazione dei valori morali. Se quel Potere è pensato senza limiti e attribuito a una volontà perfettamente morale cioè a una volontà la cui norma si identifichi con quella del mio Volere-valutante, questa Volontà — in cui il potere adegua il valutare e per la quale la attuazione dei valori morali adegua la posizione di essi valori come tali, cioè come degni di essere attuati — sarà pensata non solo come un potere che im- pone, ma come Autorità che merita, un'obbedienza incondizionata; e apparirà che derivino da un'u- nica sorgente cosí il comando che esprime la potenza operante di quella volontà, come la valutazio- ne morale che ne esprime la norma; cioè apparirà fondato su quell'Autorità il criterio stesso della valutazione. Ma lasciando ogni questione sulla legittimità delle postulazioni implicite in questi processi costruitivi e sulla possibilità della loro sintesi, è facile vedere come rimanga sempre inevitabilmente distinta e presupposta nel concetto dell'autorità imperante la valutazione, che giustifica il comando, che dà autorità al potere, che suggerisce l'identificazione di un Volere onnipotente con un Volere legiferante; la valutazione data nella coscienza morale, la quale rimane il postulato inespugnabile; non derivabile e non superabile; anche dove è sottinteso e dove sembra, a primo aspetto, derivato o subordinato. Cosí se il teologo ammonisce di non biasimare come ingiusto o cattivo ciò che la Provviden- za dispone o permette, non contrappone alla valutazione morale una valutazione diversa, ma sosti- tuisce e sovrappone alla «veduta corta d'una spanna» una sapienza infinita la quale vede i fini remo- ti di quell'ordine che a noi rimane occulto; e per il quale in realtà è bene quel che fuori di quell'ordi- ne a noi appare un male. Ma appunto il criterio di questa bontà è il criterio morale; ed è il non sapere conciliare i fini apparenti con l'esigenza morale che induce l'opinione o la certezza di fini ulteriori che si accordino con essa. Dopo quanto s'è detto riuscirà piú chiara l'analisi delle forme principali nelle quali si presenta, e si è presentata storicamente, la dottrina del fondamento autoritativo della morale. Se la distinzione tra il potere e l'esigenza morale che lo legittima non è superata, come s'è vi- sto, neppure quando si unificano i due termini nel concetto di un'autorità che sia insieme irresisti- bilmente potente e indefettibilmente morale, tanto piú manifesta sussisterà nelle forme in cui l'unificazione non è posta, o l'adeguazione è incompleta. Ma restano, almeno all'apparenza, due vie: a) o negare ogni valore alla coscienza morale come tale, e fondare ogni valutazione, sul potere che la pone a suo arbitrio; b) o trasferire il criterio della valutazione morale dalla coscienza personale a un'altra coscienza, impersonale o collettiva, la cui autorità viene da qualche cosa di diverso che dal suo accordarsi totale o parziale con la coscienza della persona. Sulla prima tesi non c'è da osservare che questo: Che essa o non risponde alla domanda alla quale pretende di rispondere; perché non è dire donde venga l'autorità della valutazione morale negarle ogni valore, per riconoscere soltanto il pote- re che la impone, ma che potrebbe imporre il contrario. O non toglie se non a parole la distinzione, che ritorna attraverso a qualsiasi sottigliezza, tra l'arbitrio e la giustizia, tra la forza e il bene. E quando il Callicle platonico condanna le leggi come un'imposizione dei molti ai pochi, degli inetti e fiacchi agli ingegnosi e ai forti, egli deve, per non contraddire se stesso, non escludere, ma includere nel suo biasimo un criterio morale, un criterio superiore alla forza; poiché serve a giudicarla, a distinguere quella degli ingegnosi, degli intelligen- ti, dei superiori, da quella del numero; a riconoscere che v'è una forza che dovrebbe valere di piú e che non è giusto sia sopraffatta dall'altra. Ma dunque non è piú la forza che costituisce la giustizia? E il potere illimitato del Sovrano, al quale Hobbes riconduce ogni criterio di morale e di diritto, esclude solo in prima istanza, cioè in apparenza, ogni valutazione diversa: perché, come tutti sanno, l'arbitrio di questo potere è legittimato da un'esigenza diversa; quella stessa per cui si suol riconoscere che è meglio una legge cattiva che nessuna legge, e un governo tirannico che nessun governo. La seconda delle vie indicate conduce a far riconoscere l'autorità morale come propria, o della collettività concepita come aggregato dei singoli, o dello stato come distinto e superiore alle persone: sia come organo della società ai cui fini sono subordinati i fini individuali, sia come Volere universale al quale devono inchinarsi le volontà particolari. Le due tesi hanno, come è noto ed è facile capire, significato e valore diverso. Se la collettività è intesa come semplice aggregato e somma di singoli, non si può evitare il criterio della maggioranza, cioè in ultimo della forza. Un giudizio morale che non è valido se cor- risponde alla valutazione di n-1 coscienze, diventa valido se quell'una cambia parere. È il criterio della democrazia politica; di cui non si discute ora il valore come criterio politico (cioè come crite- rio di preferenza tra i mezzi, non di giustizia tra i fini); ma del quale nessuno riconosce sul serio il valore di criterio morale supremo; per la stessa o analoga ragione per cui il buon senso non è il sen- so comune, e il discorrere concludente di un solo vale piú che il chiacchierare sconclusionato di cento; e per la quale la maggioranza dei votanti può bastare a fare una legge ma non a farne ricono- scere l'equità. Ché se l'autorità morale della valutazione collettiva vale in quanto essa esprime l'unanimità dei singoli, e perciò serve a distinguere la sfera piú o meno ampia di valutazioni in cui tutte le coscienze concordano, da quelle sulle quali l'accordo sparisce, si riconoscono due cose:  che per cia- scuna persona non vi può essere autorità morale superiore a quella della propria coscienza; che la distinzione la quale può essere di importanza capitale per i rapporti tra morale e politica, cioè tra norme etiche e norme giuridiche, non ha valore morale se non a patto di essere fondata essa stessa su una distinzione di valore apprezzata o apprezzabile (non importa ora cercar come) dalla coscien- za morale personale che la deve riconoscere. Manca dunque sempre il qualche cosa di diverso dalla coscienza personale, a cui dovrebbe ricondursi l'autorità della coscienza collettiva. Quando si parla di fini della società diversi dai fini individuali, e di coscienza sociale di- stinta dalla coscienza personale, si corre facilmente nell'equivoco di opporre come separati, o, peggio ancora, precedenti l'uno all'altro due termini correlativi; e si dimentica o si trascura di tener pre- sente che i fini della società non sono fini se non per gli esseri associati che li concepiscono e li fan propri; e che la coscienza sociale non esiste e non si rivela che nelle coscienze individuali; come, per converso, che i fini individuali sono nello stesso tempo, o direttamente o indirettamente, fini della società; e un certo grado di distinzione e differenziazione delle coscienze individuali è correla- tivo a un grado corrispondente di coscienza sociale. Ciò non significa negare il fattore sociale e le esigenze della socialità. Ma significa che quando si parla di individui e di coscienza individuale, questo individuo è già il socio; è esso, e nel- lo stesso tempo la società a cui appartiene; e la coscienza personale sua è insieme coscienza di sé individuo e coscienza di altri e del tutto: ed è cosí legittimo dire che esprime le esigenze dell'io di fronte a quelle della società, come dire che esprime quelle della società di fronte a quelle dell'io. Fatta questa avvertenza, che non sarebbe a rigore necessaria per la discussione presente, rie- sce meno strana l'affermazione che i valori sociali non sono morali se non perché e in quanto sono sentiti e valutati come tali dalla coscienza personale; e che dal punto di vista etico non è la società che dà valore ai miei criteri morali, ma sono i miei criteri morali che danno valore alla società. La socialità stessa, come tendenza e come esigenza, può essere ed è valutata alla stregua del- la esigenza morale. Derivare la valutazione morale da fini sociali significa dunque derivarla da qualche cosa il cui valore è giudicato e posto in grazia di quella stessa valutazione che se ne vuol trarre. Di che si può trovare la prova in due considerazioni non difficili. La prima è questa: che il giudizio sulla maggiore o minore eccellenza e dignità dei fini designati come sociali e delle istitu- zioni, delle leggi, dei tipi di società, ammette o sottintende postulati morali; e che non v'è riforma sociale piccola o grande che non invochi e non debba affrontare il giudizio della coscienza morale. Quella stessa dottrina sociale (il marxismo) che formulò piú apertamente il proposito del piú risoluto amoralismo per fondarsi su un rigoroso determinismo storico, vede dissiparsi il suo baga- glio scientifico, e star saldo quel nocciolo di idealità etiche per le quali professava in vista il piú a- perto dispregio, e che in realtà avevan dato l'anima alla dottrina e l'ali alla certezza. L'altra osservazione è questa; che appunto quel che vi è di vivo e di vitale e di durevole nella fede («fede è sostanza di cose sperate») che prende il nome dal socialismo, è sociale non nel fine, ma nel mezzo; mentre è, nel fine, e non potrebbe non essere, suggerito e alimentato da un ideale morale che ha per oggetto e per centro l'individuo, la unità personale umana. Poiché la proprietà collettiva è concepita, attesa, voluta come condizione necessaria a rendere effettiva la libertà di tutti, a far veramente di ogni individuo umano una persona umana. Che poi quella sia la condizione necessaria, e che sia sufficiente; o che gli effetti siano per essere diversi o opposti da quelli sperati, è tutt'altro discorso. La vieta analogia biologica che fa degli individui le cellule dell'organizzazione sociale, se anche rispondesse a verità per quel che riguarda le condizioni dell'esistenza, dovrebbe sempre venir rovesciata nel rispetto della valutazione morale. Perché soltanto nella cellula-individuo l'organismo- società acquista coscienza di sé; e soltanto nella coscienza dell'individuo vale come organismo, e per essa soltanto potrebbe acquistar valore di finalità riconosciuta e voluta da lui come superiore a se stesso. Né concluderebbe il dire che non si tratta in ultimo che di un «punto di vista diverso; e che, se dal punto di vista dell'individuo i valori sociali sono valori individuali, dal punto di vista della società è vero l'inverso: perché la coscienza che pone i valori sociali, e che giudica e valuta dal «punto di vista» sociale, che funge da coscienza sociale, è ancora, sempre, inevitabilmente, una co- scienza individuale.Più breve discorso è da fare per il proposito nostro, della dottrina assai piú sottile e complicata che concentra ogni autorità e ogni finalità sociale nello stato e fa dello stato l'organo dell'Eticità. Perché in quanto la volontà dello stato sovrano si identifica col Volere universale cioè col volere morale, non c'è che da ripetere quel che si è detto sopra a proposito dell'identificazione del Volere- potere col Volere-valutazione. Ciò che fa essere lo stato arbitro della valutazione, e l'autorità dei suoi comandi criterio supremo dei valori morali, è questa affermata identità del Volere dello stato col Volere morale che si viene attuando nella Storia. Le difficoltà che possono nascere dagli sforzi di conciliare lo stato com'è con lo stato com'è concepito, e di interpretare i processi reali del suo divenire storico come momenti di attuazione del- lo Spirito universale cioè del Volere morale, rimangono estranee al punto in questione; il quale è questo: che il valore etico dello stato nasce dall'essere esso e esso solo l'organo adeguato di quel Volere universale, il quale è lo stesso Volere etico, che informa di sé la coscienza personale e si fa valere in essa. Cosi qualunque sia il Potere e qualunque il Volere a cui si voglia ricondurre l'autorità della coscienza morale, sempre si trova dietro a quel Potere e dietro a quella Volontà, inevitabilmente dato o presupposto, quel valore morale che legittima il primo e dà autorità al secondo; come dietro la firma dell'uomo d'affari sia, non vista e non detta, ma sottintesa, la ricchezza reale o supposta, che fa della sua cambiale un valore. Ma se l'autorità della valutazione morale non è derivabile da nessun'altra autorità superiore diversa da quella della coscienza personale, bisogna ammettere: o che le valutazioni morali delle diverse coscienze coincidano totalmente, cioè che le coscienze personali non siano che copie o esemplari di una medesima coscienza morale che si esprime per mille voci uguali di tono e di conte- nuto; o altrimenti che si trovi, nella natura stessa dei valori morali, posta, insieme con la esigenza dell'accordo rispetto ad alcuni, quella della differenza e dell'opposizione rispetto ad altri valori. E in questo caso al problema della fondazione storica e della fondazione consensuale della valutazione morale si sostituisce l'altro problema: Quali sono i valori morali nel cui riconoscimento l'autorità dell'induzione storica e l'autorità del consenso universale coincidono con quella della co- scienza personale? E in che cosa differiscono dai valori morali per i quali manca tale accordo? È legittima, e perché ed entro quali limiti, una subordinazione (che in ogni caso non potreb- be né in fatto né in diritto estendersi all'atteggiamento interiore, ma valere soltanto rispetto alle ma- nifestazioni esteriori) dei secondi ai primi? E del pari si trasforma il problema sul fondamento del dovere. Il dovere non riguarda, come s'è visto, il valutare, ma il conformare la condotta alla valutazione; e suppone il rapporto tra due volontà distinte o concepite come distinte, tra un volere presen- te e momentaneo che si rivela nella volizione attuale e concreta, e il volere dell'io persona, il Volere valutante o normativo, che le dà unità. Se l'io momentaneo o contingente è dominato totalmente e assorbito dall'io persona, e il Volere operante si identifica col Volere valutante, il dovere si attenua e svanisce perché sparisce il termine subordinato; se il Volere valutante manca e l'io non è che ag- gregato temporaneo e variabile di impulsi e di tendenze accidentali, il dovere non sorge perché manca il termine subordinante. Il problema del dovere è perciò il problema di questo rapporto, e delle difficoltà che nascono, sia dal concepire il Volere operante come uno e identico col Volere valutante; sia dal concepirlo come distinto e diverso; sia infine dal concepire, secondo importa la necessità di una conciliazione, le due volontà come distinte e diverse nell'uomo individuo, ma come una e identica in un Potere so- prapersonale del quale il valore morale esprime la legge nella coscienza individuale. Ogni sforzo di derivare una valutazione morale da qualche cosa di cui non sia già ricono- sciuto il valore morale è dunque vano o illusorio. O non dà quel che si cerca, o presuppone quel che si pretende di fondare. In realtà i valori morali o valgono per sé o sono tali in grazia di altri valori che valgono essi come morali per sé. Epperò ogni ragionamento col quale si dimostri per esempio che un'azione è buona o giusta, si risolve o nel ricondurre quell'azione a una classe di azioni, a un modo di operare già riconosciuto come morale, o nel dimostrare che questa azione fu od è voluta come condizione o mezzo di attuazione di un valore morale. I valori morali diretti e immediati, apprezzati e voluti per sé, sono dunque dati di una espe- rienza morale non riducibile ad altre forme di esperienza e i giudizi nei quali questa validità diretta e immediata è ammessa o riconosciuta, sono postulati di valutazione morale (postulati etici in proprio senso). E una dottrina morale in quanto è sistema di valutazioni si fonda in ultimo sui postulati etici, espressi o sottintesi, di cui si assume che sia ammessa la validità: cioè che siano dati immediati del- la coscienza morale. Quando sia chiaramente riconosciuta questa indipendenza, questa validità per sé o autoassia dei postulati etici, le costruzioni dottrinali rivolte a cercare fuori della morale un fondamento che essa né può trovare né ha bisogno di cercare altrove, prendono un carattere e un significato diverso se non opposto; e forse considerate da questo aspetto rivelano meglio la tendenza profonda che muove e avviva in forme sempre risorgenti di tentativi diversi, i tipi di costruzione morale esaminati nei capi precedenti. L'idea centrale dell'intellettualismo morale di cercare il fondamento morale in una realtà ob- biettivamente data, e, in una conoscenza di questa realtà, dei suoi gradi di entità e di perfezione, il criterio della valutazione morale, diventa, guardata da questo aspetto, un'espressione della tendenza profonda e incoercibile, di trovare nel valore il senso e la ragion d'essere della realtà, nel criterio morale la chiave della sua interpretazione; di commisurare la realtà alla dignità, e riconoscere come esistente veramente soltanto ciò che è degno di esistere, facendo del bene il solo vero reale, e del male un mancamento, un difetto di realtà, l'irreale. Dietro il pensiero che muove i tentativi dell'utilitarismo sotto qualunque forma si presenti (non soltanto edonistico, ma estetico, noetico, umanitario, religioso) di trovare la ragione del valore morale in un bene supremo o maggiore o piú alto di ogni altro, che ne persuada l'utilità o ne giusti- fichi l'autorità, appare la convinzione che anche sotto il rispetto soggettivo della felicità (per l'uomo patologico, direbbe il Kant) non è in ultimo veramente bene se non ciò che è morale, o ciò a cui la moralità apre la via. Tutto ciò che ha valore, in quanto ha valore davvero, non può contrastare, ma si accorda, de- ve accordarsi coi valori morali, consistere in questi, o essere — in ultimo — condizionato da questi. E quando si tormenta la storia (storia esterna e storia interna della civiltà) per trovare nel processo di svolgimento, nella selezione subita o nel trionfo conquistato, i titoli di nobiltà che spieghino e legittimino l'autorità della morale, della nostra morale, si agita dietro l'acume e la sotti- gliezza delle indagini e sotto gli accorgimenti dell'induzione storica, il bisogno di trovare nella sto- ria l'attuazione di un disegno etico, di fare dell'accadere storico un divenire morale, di confermare con l'esperienza morale del passato l'esperienza del presente, la nostra esperienza morale, la mia. Come l'appello al consenso universale degli uomini, meglio che allo scopo di fondare su questo consenso la mia certezza morale, risponde alla esigenza che realmente abbiano valore per ogni coscienza quei valori che sono posti come universali dalla mia, e costituiscono non il mio sol- tanto, ma il patrimonio ideale piú prezioso di ogni uomo, dell'uomo. E finalmente, quando dell'autorità si cerca il fondamento in una volontà superiore e distinta dalla volontà di ciascuno, che si impone a questa e ha il potere di obbligarla, l'esigenza a cui si ob- bedisce è quella stessa di cui si alimenta la coscienza del dovere: l'esigenza che il volere piú alto e il piú degno di autorità perché è il volere che pone i valori morali, sia nello stesso tempo un potere a- deguato al compito suo, il potere piú forte10; sia, come il vero volere, cosí il supremo potere.  La forma generale, con la quale si presentano da questo punto di vista i problemi, è dunque inversa a quella nella quale sono posti e considerati nelle dottrine che cercano fuori della morale il fondamento della morale. Si tratta non già di vedere quale ragione d'essere, e d'esser tali piuttosto che altri o diversi, trovino i valori morali nella realtà che conosciamo, nei beni d'altro genere che desideriamo, nelle tradizioni e negli esempi del passato, nei giudizi dei contemporanei, nel comando di un Volere onnipotente; ma di vedere se e come sia possibile e sia legittimo costruire una realtà, graduare dei valori, interpretare la storia, pretendere il consenso, postulare una Volontà in cui si adegui il potere al volere, sul fondamento della certezza e validità immediata e diretta dei valori mo- rali, e delle esigenze che essi implicano. La formulazione generale di quei problemi dal punto di vista morale è dunque segnata da questo procedimento: Quali sono i valori morali; e quali sono le esigenze derivanti dalla loro posizione; se e quali postulazioni di ordine teoretico siano richieste a soddisfare queste esigenze; se e quale legittimità abbiano le postulazioni teoretiche fondate sopra di esse. Ma qualunque cosa si pensi di questi problemi e delle loro soluzioni, sussiste, indipendente da ogni giudizio su di essi, e rimane stabilita chiaramente e incontestabilmente, la primarietà, la indipendenza, la auto-assiomaticità delle valutazioni morali. A fondamento dei giudizi morali non vi sono e non vi possono essere che dati e postulati di valutazione morale. L'idea di «potere» è un elemento inespugnabile del concetto di volontà, perché la volontà è produzione, crea- zione, iniziativa. Dove si ravvisa o si presume che ci sia o ci debba essere una volontà, ivi si presume una forza (non è anzi la volontà la prima, e la sola forza, cioè attività che ci sia rivelata dall'esperienza diretta?); e una forza tanto mag- giore quanto più grande e difficile è il compito che la volontà si pone. Ed è perciò che questa forza appare nella forma più chiara, quando il volere morale si traduce in atto contro gli impulsi di ogni altro genere ed a prezzo dei più gravi sacrifici; è perciò che il sacrifizio è la prova più alta e la testimo- nianza più sicura (nell'espressione stupenda del Cristianesimo testimonio è il martire) della saldezza, della serietà del volere morale. Ed è anche per ciò che appare inevitabilmente pietoso o ridicolo un volere senza potere; e che il senso comune si fa beffe dei padri Zappata. Dei due elementi della volontà, la direzione consapevole e la forza, il senso co- mune è tratto senza esitazione a fare maggior stima della forza. Ha torto? ha ragione? L'indipendenza e l'indeducibilità dei grandi valori morali da qualsiasi speculazione teoretica fu, come tutti sanno, riconosciuta e affermata, nella forma piú esplicita e con grandissimo vigore dal Kant. Perciò le conclusioni riassunte nell'ultimo capitolo sembrano mettere capo alla sua dottrina e alla soluzione data da lui al problema che l'analisi precedente pone come il problema veramente centrale dell'etica: quale sia il dato o quali siano i dati indeducibili della morale; o, che torna lo stes- so: quale sia il criterio (o quali i criteri) a cui si riconduce la valutazione morale. Bisogna dunque cercare prima di tutto se questa soluzione sia veramente esauriente. Ma giova intanto avvertire subito, per evitare le facili confusioni e gli equivoci indotti da connessioni abituali di idee e di dottrine, che la indeducibilità dei valori morali, come non implica necessaria- mente i principi e i procedimenti tenuti dal Kant nel riconoscerla (poiché vi si giunge, come abbiam visto, anche per altra via), cosí non richiede, per sé, né che si accettino né che si ricusino le conclusioni alle quali si arriva. La connessione fra le diverse tesi che si raccolgono attorno alla autonomia kantiana può es- sere, anzi veramente è, nel suo pensiero una connessione necessaria, ma non è necessaria fuori di esso e fuori del sistema di dottrine che lo esprime. Cosí il «primato della ragione pratica» nella soluzione dei problemi metafisici non è una conseguenza logicamente inevitabile della indipendenza e validità per sé dei valori morali; benché possa essere e sia anzi facilmente accolta da chi riconosce questa indipendenza e validità. Ciò che si presenta come conseguenza di questo riconoscimento è il problema della conci- liazione tra le esigenze della speculazione teoretica e le esigenze della valutazione morale; del qual problema il primato della ragion pratica esprime una soluzione o traccia la via per la quale Kant la cerca. Ma veniamo al punto che ci interessa. Il concetto fondamentale dal quale il Kant prende le mosse è, come è noto, quello del volere buono. Il volere buono è il volere che si determina non per un oggetto, qualunque esso sia, che ab- bia un valore di fine per chi lo vuole (motivo «patologico»), ma per il dovere: cioè per il rispetto al- la legge perché è legge; non già in vista di quel che la legge comanda, ossia delle conseguenze che il volere conforme alla legge apporta. Il rispetto della legge in quanto è legge, astrazione fatta dal suo contenuto, è dunque il ri- spetto di ciò che la fa esser legge, della sua validità universale. L'universalità è la forma della ragione che si pone come esigenza del volere puro; è la ragio- ne stessa in quanto si manifesta come volontà, è la ragione pura pratica. Se l'uomo fosse pura ragione, cioè se non fosse insieme un essere sensibile soggetto a ten- denze, a impulsi di altre specie, il suo volere sarebbe santo, e non si potrebbe parlare di dovere. In- vece il dovere c'è perché c'è l'esigenza di conformare l'azione alla ragione e non agli impulsi della sensibilità. E il volere buono e appunto il volere che posto fra la legge e quegli impulsi — di qua- lunque specie siano — si determina per la legge, cioè per l'universalità, che è la forma della volontà razionale. Il criterio supremo della moralità è perciò espresso nella nota prima formula dell'imperativo categorico, di cui si dice piú sotto. Come si deve intendere quella universalità? E basta essa ed essa soltanto a fornire la caratte- ristica della valutazione etica, a distinguere ciò che vale moralmente da ciò che non vale? Quando la prima formula dell'imperativo dice: «Opera soltanto secondo quella massima che tu puoi volere nello stesso tempo che diventi una legge universale», — questa possibilità di voler che la massima diventi legge universale può esser presa in due significati diversi. Può voler dire la possibilità che sia seguita universalmente senza che l'osservanza da parte degli uni tolga o impedisca o limiti la possibilità della medesima osservanza da parte degli altri; la possibilità di pensarla senza contraddizione come legge universalmente valida; o può significare invece la possibilità che il valore universale della massima sia riconosciuto senza che questo riconoscimento contraddica o neghi il valore, che è o si suppone già ammesso, di un principio piú generale; ossia che si possa volere l'universale validità della massima senza disvo- lere l'universalità di una MASSIMA piú generale che la comprende, e si suppone che già sia o debba essere ammessa come legge. I due significati sono profondamente diversi, sebbene possa parere a prima vista che coinci- dano. Che, negli esempi che dà e nei commenti con cui li accompagna, lo stesso Kant non mescoli qualche volta i due sensi e non ne oscuri le differenze, non oserei negare; ma non parmi si possa dubitare che il vero significato inteso e voluto da lui sia il secondo e non il primo. Se s'intende l'universalità nel primo senso bisogna riconoscere che non soltanto si può concepire, ma può darsi in effetto che sia seguita universalmente, una massima senza che perciò se ne ammetta il valore morale; come per converso; può darsi che di una massima di condotta non sia possibile l'osservanza universale senza che perciò se ne riconosca l'immoralità. a) Come esempi del primo caso basta citare uno di quelli addotti dallo stesso Kant (nella Fondazione) in sostegno del criterio dell'universalità: l'esempio dell'uomo d'ingegno che pre- ferisce il darsi buon tempo alla fatica di esercitare e perfezionare le sue doti naturali (dove è chiaro che non vi è nessuna impossibilità di concepire che tutti seguano quella medesima massima, sebbe- ne questo non importi nessun riconoscimento di valore morale); e quello (addotto dallo Schopenhauer contro il Kant) della ragione del piú forte. Anche qui è possibilissimo ammettere che dappertutto dove vi è un forte di fronte al debole il primo sopraffaccia il secondo, cioè che la subordinazione del debole al forte sia fatta valere uni- versalmente come legge, senza che perciò se ne ammetta la moralità. Per converso, tra le massime che non possono pensarsi universalmente osservate sen- za contraddizione vi sono non solo massime comunemente riconosciute come immorali, per esem- pio, che ciascuno possa appropriarsi l'altrui, ma anche massime come l'opposta: che ciascuno ceda il proprio a vantaggio d'altri. Della quale, se non gli economisti, almeno San Francesco e i suoi ammiratori non metteranno in dubbio la santità. Ed è manifestamente del pari impossibile pensare universalmente praticate cosí la seconda come la prima. Ben diverso è il secondo significato; per il quale la possibilità o l'impossibilità di univer- salizzare la massima non riguarda l'osservanza, ma la compatibilità o l'incompatibilità di questa universalizzazione della MASSIMA con la volontà che la pone. Senonché questa incompatibilità (restringo, per semplificare, l'esame alla forma negativa che è anche la piú importante) può esprimere due specie diverse di contrasto: può voler dire che univer- salizzando la massima si viene a togliere la ragione per la quale si è accolta, ossia a negare il motivo stesso che la giustifica; oppure che si nega il valore di un'altra massima che già vale, o si ammette che valga o debba valere per la volontà, come legge universale. I due casi debbono essere considerati a parte e si possono chiarire facilmente con esempi. Supponiamo che oggi io, piú forte, trovandomi di fronte a un debole lo costringa a fare il piacer mio, e che giustifichi la mia prepotenza con la massima che il forte ha diritto di soggiogare il debole. Se il motivo, che mi ha indotto a formulare la massima è l'interesse egoistico, accadrà che in nome di questo stesso interesse io dovrò negare la massima quando le vicende facciano di me, del piú forte di ieri, il debole di oggi. Ossia la massima non può essere universalizzata, senza che venga posta con ciò la possibili- tà che sia negato il principio (cioè il motivo o l'interesse) in grazia del quale l'ho accolta. Se si suppone invece che io riconosca essere nella forza il fattore di ogni elevazione mo- rale, e nell'esercizio incondizionato di essa il valore morale piú alto, la massima della prepotenza che approvo quando il piú forte sono io, dovrà essere parimente approvata — anche se hic et nunc mi dispiaccia — quando il piú forte sia altri; e l'universalità della massima potrà esser voluta senza contraddizioni, perché si accorda con il mio supremo criterio morale (che è quanto dire universale) di valutazione; ossia perché è una forma subordinata di un'altra massima già posta dal mio volere come legge universale. Il significato nel quale è preso dal Kant il criterio della universalizzazione, è, come si è detto, il secondo; e propriamente quella forma del secondo che risponde all'ultimo dei casi ora esaminati. Né potrebbe cadere sotto qualsiasi altra la considerazione, che è la sola veramente decisiva, fatta da lui per provare che non potrebbe essere universalizzata la massima proposta nel 3° esempio, già citato, dell'uomo che ha ingegno e rinuncia a coltivarlo. «Egli vede bene che senza dubbio una natura, malgrado una tale legge universale, potrebbe sempre ancora sussistere, anche quando l'uo- mo (come l'abitatore del Mar del Sud) lasciasse arrugginire i suoi talenti e non pensasse che a vol- gere la sua vita verso l'ozio, il piacere, la propagazione della specie, in una parola, verso il godimen- to; ma egli non può assolutamente volere che questa divenga una legge universale della natura e che ciò sia innato in noi come istinto naturale. Perché come essere ragionevole egli vuole necessaria- mente che tutte le facoltà siano sviluppate in lui». (Fondazione). La medesima considerazione è ripetuta a proposito dall'altro esempio in cui si fa l'ipo- tesi del brav'uomo, che si propone di non far del male a nessuno, ma quanto all'adoperarsi nei biso- gni altrui è del parere: ciascuno per sé, e Dio per tutti. «Quantunque sia possibile che sussista una legge universale della natura conforme a quella massima, è impossibile di volere che un tale princi- pio valga come legge della natura» Per il Kant dunque l'universalità della massima non è criterio della sua bontà e del valore morale della volontà che vi si conforma, se non perché essa è una prova dell'accordarsi della mas- sima seguita nell'azione con la natura dell'essere ragionevole, con la legge posta dalla Ragione, che è la legge stessa morale. Soltanto intesa cosí la formula (nella Fondazione) della volontà di ogni essere ragionevole che istituisce per mezzo delle sue massime una legislazione universale, o nei termini della Critica della ragion pratica. Opera in modo che la massima del [Con quel che risulta evidente da questa ipotesi si accorda il fatto assai notevole della profonda diversità di valore che può assumere nel nostro giudizio morale la medesima regola pratica, secondoché noi vediamo dietro di essa un motivo soprasoggettivo e impersonale (anche se contrario al nostro criterio di valutazione) o un motivo soggettivo e personale; a seconda che ci appare una massima accettata veramente da chi opera come norma, o un comodo pretesto o compromesso del momento; cioè a seconda che vi si trova o no quella condizione necessaria, se non sufficiente, del ca- rattere morale, che è la coerenza dei giudizi tra di loro e delle azioni coi giudizi. La ragione di natura egoistica che Kant fa seguire può valere tutt'al più come un tentativo poco felice di giu- stificare la simpatia dal punto di vista dell'interesse individuale, ma non varrebbe per sé in alcun modo a dimostrare l'impossibilità di volere di cui si parla, se non a patto di identificare (pericolo forse non avvertito) il volere dell'uomo «come essere ragionevole» col volere del caro Io. Il corsivo delle parole sottolineate in questa e nella citazione precedente è mio, tranne per la parola volere spa- zieggiata. Cito per la Fondazione della metafisica dei costumi la bella traduzione del Vidari (Pavia, Mattei Speroni); per la Critica della ragion pratica mi riferisco al testo originale nella edizione della R. Accademia di Prussia (Kant's Gesammelte Schriften, Reimer, Berlin).  Kritik der praktischen Vernunft, tuo volere possa valere insieme come principio di una legislazione universale»; e coll'autonomia del volere come principio di tutte le leggi morali e dei doveri conformi ad esse. E soltanto cosí si può intendere come egli creda di derivare dall'universalità la formula famosa e piú fecon- da (ma feconda in quanto dà un contenuto all'universalità, non in quanto semplicemente ne riceve la forma. Opera in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sem- pre ad un tempo come fine e non mai soltanto come mezzo. Ma intesa cosí l'universalità, essa non esprime che una doppia esigenza: dell'universale con- formità delle massime alla ragione, alla legge morale, al volere puro come principio di una legisla- zione universale, vale a dire, alla legge morale; e della universale validità delle massime come co- mandi, cioè dell'universalità del dovere. Ma né dall'universale imperatività delle massime, né dalla universale loro conformità alla legge morale è possibile ricavare quali sono i modi di operare che le massime impongono, quale sia la legge universale che la volontà per mezzo delle sue massime pone a se stessa. Se ora vogliamo, e possiamo ormai farlo legittimamente, uscire dalla terminologia kantiana e servirci dei termini usati nella parte precedente, possiamo raccogliere e completare l'analisi del criterio kantiano in una forma forse piú chiara. I valori morali sono valori riconosciuti dalla pura ragione, valori che esprimono la volontà dell'uomo in quanto è essere ragionevole. La esigenza caratteristica sentita profondamente dal Kant, che i valori morali siano superiori ed estranei ad ogni interesse egoistico, e apprezzati e voluti per sé, indipendentemente da ogni considerazione delle loro conseguenze, lo spinge (poiché la volontà come potenza pratica gli sembra inevitabilmente legata a tendenze e impulsi sensibili, a fini, cioè a rappresentazioni di conseguenze valutabili solo in rapporto alla sensibilità del soggetto) a fare dei valori morali degli enti di ragione, a trarli dalla ragione pura, a fare della ragione pura la ragione pratica («la ragione pura è per se stessa pratica»). Ma la ragione per quanto si faccia non dà valori; la ragione esige o impone la coerenza; teo- rica: dei giudizi fra di loro e con i principi e i dati su cui si fondano; pratica: delle valutazioni deri- vate e mediate con le valutazioni direttamente date o postillate, e delle azioni con le valutazioni. Non dà dunque le valutazioni, sebbene sia tutt'altro che trascurabile, anche per questo rispetto, l'ufficio di confronto, riduzione, subordinazione, unificazione che le è proprio. Non è meraviglia che a voler cavare, da essa soltanto, i valori morali, non se ne estragga in ultimo che questa esigenza di una universale coerenza della volontà con se stessa; esigenza necessa- ria e caratteristica di ogni uomo che sia persona, perché sottintesa, affermata, voluta (anche quando coi fatti la smentiamo, ma sempre a malincuore) costantemente, come prova e testimonianza a noi stessi della unità spirituale, della esistenza e continuità dell'io come persona. Ma essa per sé non ci dice né che cosa sono i valori, né quali sono i valori sui quali si fonda e ai quali deve far capo l'esi- genza unificatrice della coerenza. La ragione appresta, scegliendoli dal groviglio delle conoscenze, i riti adatti a fornir la trama dell'ordito. Ma i fili dell'ordito, i valori fondamentali sono dati dalla vo- lontà; né si può derivarne la natura dalla natura della trama; né dal disegno della tela.Né maggior luce può venire dalla Volontà come Kant la concepisce; né dal concetto del Volere puro né da quello del Volere buono. Il Volere puro, il Volere autonomo, il Volere spoglio come s'è detto, di ogni impulso sensi- bile, e capace di volere i valori morali per sé, non può esser per lui che il Volere che vuole la ragione, la ragione stessa in quanto è pratica, in quanto è forma legislatrice, e non dà che questa medesi- ma universalità.Quanto al concetto del volere buono, esso aggiunge bensì alla nota dell'universalità (rispetto della legge perché è legge) la nota dell'obbligatorietà (un'azione è buona quando è compiuta per il dovere); ma questa nota è possibile nel volere buono soltanto in causa del conflitto tra il rispetto della legge morale — col quale si identificherebbe per sé il volere puro — e gli impulsi sensibili. È dunque un carattere che riguarda la moralità, non la valutazione morale, e che esprime il pregio la eccellenza la supremazia dei valori morali in confronto degli altri valori; ma non dice in che consistano i valori, né donde nasca questa eccellenza (se non dall'universalità della legge). In ogni caso anche se il dovere è, nella conoscenza dell'uomo empirico, la ratio cognoscendi della leg- ge, sta però nella legge la ragion d'essere del dovere e non nel dovere la ragion d'essere della legge. Sapere che i valori morali debbono essere attuati non è sapere in che consistono, né sapere perché meritano che si debba attuarli. Che debbano essere scritti con la iniziale maiuscola tutti i sostantivi che viene imparando, potrebbe anche essere per uno scolaro tedesco il criterio per distinguerli come tali dalle altre voci del discorso; ma non è l'obbligo di scriverli con l'iniziale maiuscola che li fa essere e diventare so- stantivi. Resta da esaminare la forma che il criterio di valutazione assume nella 2a delle note formule; quella in cui si assegna alla legge un contenuto cioè un fine; e il rispetto della legge perché legge, diventa rispetto dell'umanità o della persona umana come fine in sé. Ma è facile vedere come questa pretesa derivazione dalla prima formula, o è veramente chiusa nei limiti di una derivazione e non dice nulla di piú di quella onde è dedotta; o assume davvero un contenuto, e questo costituisce per sé un criterio di valutazione distinto e diverso da quello da cui si pretende dedurlo. Il quale non si esaurisce piú nell'universalità della valutazione morale ma richiede un riferi- mento agli oggetti della valutazione; ed è un criterio non piú formale soltanto, ma anche materiale. Se, anche inteso cosí, sia adeguato al bisogno resterà da vedere piú innanzi. Il termine che media il passaggio kantiano dalla legge come forma all'umanità come fine è il rispetto della natura ragionevole. Poiché la legge è la ragione, il rispetto della legge, cioè della ragione, importa il rispetto dell'essere ragionevole, come tale; della natura di essere ragionevole e della persona umana nella quale si manifesta a noi questa natura. Si potrebbe già discutere, a rigore, sulla legittimità di passare dal rispetto della ragione al rispetto di una natura ragionevole, perché ciò che impone rispetto nella ragione è secondo Kant la sua forma legislatrice e non il soggetto, qualunque sia, che la porta, e in cui si realizza questa forma. Tuttavia, finché si pensa l'essere ragionevole come puramente tale cioè come costituito di sola ragione ed esaurientesi in essa, il passaggio si riduce in fondo ad una ipostasi, e il contenuto non muta. Ma quando si deve venire all'uomo, il trapasso è ben diverso. L'uomo è essere ragionevo- le, ma non tutto, e non soltanto ragione. Ora: quando si dice rispetto della persona umana, si intende rispetto di tutta la persona in quanto nella persona si rivela una coscienza uno spirito (che la com- prende sí, ma è ben lungi dall'esaurirsi nella ragione), oppure si intende la persona in quanto è essa stessa ragione e null'altro, cioè in quel che ha di universale, di medesimo in tutti gli uomini, di (co- me si dice, sebbene il dirlo qui paia un bisticcio) impersonale? Non c'è che da ripetere quel che s'è detto già; dall'assumere come fine questa persona- ragione vuota di ogni altro contenuto non si ricava altro criterio che sempre e ancora il rispetto della ragione come tale. E solo verrebbe fatto di chiedersi se questo inchinarsi davanti alla persona, soltanto per quel che vi è in essa di medesimezza e di identità con ogni altra persona e non anche per quel che vi è di proprio originale, individuale e irriducibile, non si assomigli all'inchinarsi davanti a un apparecchio telefonico per il rispetto dovuto alla voce autorevole che in esso risuona. Oppure si intende che la ragione (o meglio un Volere razionale) conferisce dignità all'uomo, a tutto l'uomo, a tutte le facoltà e attività che essa ordina e fonde nella unità inscindibile del medesimo e del diverso, del comune e del proprio, dell'universale e dell'individuale; che non la ragione, ma lo spirito umano nella interezza delle sue manifestazioni, la coscienza vivente in ogni persona merita questo rispetto; e allora, allora soltanto, si può parlare di un contenuto che non si esaurisce nella forma. Ma è troppo evidente che inteso cosí il rispetto alla persona non si può derivare dal rispetto alla ragione e alla legge perché legge. Intesa cosí la persona umana, essa non è piú l'universalità vuota e astratta di una legge fine a se stessa, ma è la sorgente di quei valori morali dei quali la «ragione» constata la universale validità e la riconosciuta sovranità sugli altri valori, mette in luce le esigenze, determina le condizioni di at- tuabilità; (e potrà poi indagare se e come tali esigenze e condizioni si possano conciliare con quelle degli altri ordini di valori e in particolare con quello del sapere); di quei valori morali che il «Volere puro» pone in forma di legge, e il «Volere buono» attua in forma di doveri. Che per la natura ragionevole dell'uomo si intenda non soltanto la pura forma della ragione, ma anche altre facoltà, disposizioni, modi di essere e forme di attività, e che il Volere ragionevole non riconosca come valore morale soltanto la conformità alla forma della ragione, ma la conserva- zione l'incremento l'esercizio di queste altre facoltà e attività spirituali, appare in forma tipicamente significativa nel commento già riferito sopra con l'esempio (nella Fondazione) a cui si riferisce. Come essere ragionevole egli (l'uomo) vuole necessariamente che tutte le facoltà siano svi- luppate in lui, visto che gli sono state date per servirgli ad ogni sorta di fini possibili». Questo volere dell'uomo ragionevole, che è il volere puro, il volere autonomo, morale, è dunque il volere che vuole necessariamente lo sviluppo di tutte le facoltà, cioè il volere di cui si pensa e si ammette che il contenuto sia costituito da valori già dati e riconosciuti senza contestazione come fini di un volere buono cioè come valori morali14. E appare manifesto che la riduzione del criterio di valutazione morale a criterio puramente formale suppone che siano già noti, quanto al contenuto, i fini dell'operare morale; già conosciuti e determinati, quanto all'oggetto loro, i doveri. E risponde alla domanda: quand'è che l'intenzione del- l'operare è veramente buona, che un atto è veramente morale? ma non alla domanda: quali sono le azioni, in cui questa buona intenzione si deve tradurre; quali sono i fini a cui il volere buono deve rivolgersi; ossia quali sono i valori, nella cui attuazione fatta con purità di volere consiste la moralità? [ E che veramente si sottintendano come già noti e riconosciuti è confermato all'evidenza dall'analisi di ciò che costituisce veramente il presupposto fondamentale non solo di quella citata ma dalle altre esemplificazioni; con le quali si prova — non già, come s'è visto, l'impossibilità per sé di universalizzare — ma l'impossibilità di volere che una tal massima valga come universale. Infatti la ragione per la quale non si può erigere a massima universale il principio che chi è stanco della vita può uccidersi non è già l'impossibilità di concepire seguíta una tal massima da tutti quelli che sono stanchi della vita, ma l'impossibilità di volere che sia riconosciuta e adottata; perché essa implica che si affermi la superiorità del piacere sui valori morali (dei quali la vita è condizione); mentre, appunto perché li riconosciamo come morali, af- fermiamo e vogliamo il contrario. Così nel secondo, il dato contro cui urta la universalizzazione della massima — che sia lecito promettere con l'intenzione di non mantenere — è la superiorità sottintesa della sincerità e della lealtà sull'interesse egoistico; e la con- seguente impossibilità di volere che cessi di essere riconosciuta universalmente quella superiorità di cui noi siamo certi. Del terzo esempio si è detto, e si è accennato anche al quarto; nel quale ultimo è sottinteso manifestamente il valore della simpatia e della benevolenza, che non possiamo ammettere sia subordinato al valore della propria quiete o dei propri comodi. Alla quale domanda si presume dunque che la risposta sia già data dalla coscienza morale. E la risposta è data infatti, e non può esser data, che da lei. Ma se la risposta non fosse univoca? Se, supposto pari in due coscienze il rispetto della legge, la legge comandasse all'una quel che vieta o non comanda all'altra, potrebbe bastare a dirimere il contrasto tra le due leggi il sapere che il volere è buono quando si determina per rispetto alla legge, e che la moralità consiste nel compiere il dovere per il dovere? Non vi è una coscienza morale, ma vi sono, a rigor di termini, tante coscienze morali quante sono le coscienze personali nelle quali sono riconosciuti come supremi e normativi e validi indipen- dentemente dal flusso momentaneo e variabile delle valutazioni transitorie e accidentali, certi valo- ri; ed è riconosciuta l'esigenza che il criterio di valutazione corrispondente possa valere non solo come norma costante del giudicare e del volere proprio, ma anche come norma costante del giudica- re e del volere altrui; ossia come norma universale del giudicare e del volere di ogni persona. Se si ammette o si suppone che quei certi valori siano per tutte le coscienze i medesimi, si può parlare della coscienza morale, come una ed identica non solo di forma, ma anche di contenuto; se si ammette il contrario, si deve riconoscere una pluralità di coscienze morali piú o meno discor- danti e una pluralità di criteri di valutazione che si presentano alle diverse coscienze con la medesi- ma autorità di valutazioni morali, cioè con la medesima forma. Il fascino singolare che esercitò ed esercita la morale di Kant viene non dal suo formalismo per sé, ma dal fatto che, mentre spoglia e purifica la moralità da ogni fine materiale e quindi dal pe- ricolo di ogni considerazione soggettiva, la dottrina è sostenuta e vivificata dalla fiducia salda e in- crollabile che si debba riconoscere o si possa dimostrare che dentro quella forma cape, e non può capire che un solo contenuto; dietro quella legge si debbano trovare infallibilmente i fini che la co- scienza morale riconosce come buoni, e quelli soltanto. Ma s'è visto che lo sforzo è, e non poteva non essere, vano. Il criterio formale di Kant sem- bra convenire ad un solo e unico contenuto, a certi valori ed a quelli soltanto, perché si ammette già che la coscienza morale sia unica; che la sua voce non soltanto parli in ogni coscienza con lo stesso tono, ma dica le medesime cose. In realtà il criterio formale non esprime che l'esigenza della razionalità: una legge non è leg- ge se non è valida sempre nei medesimi casi; una norma non è suprema se non a patto che ogni altra norma sia subordinata ad essa; un criterio di valutazione non è piú un criterio, ma un capriccio, se i miei giudizi di valore non si accordano costantemente con quello; se io non riconosco legittimo — fatto da qualsiasi altro — il giudizio che quel criterio esigerebbe da me nel medesimo caso. Ma è un'illusione credere che possa bastare la razionalità per sé a distinguere i valori dai non valori; i valori morali dai valori non morali, a farci riconoscere — senza appello diretto o indi- retto a qualche dato o postulato non razionale — il valore di un oggetto qualsiasi (di un contenuto), ideale o reale. Si governa non meno razionalmente l'avaro, quando giudica ed opera in ogni caso come se il danaro fosse l'unico bene per sé, il supremo bene, purché riconosca legittimo che ogni altro giudichi e operi allo stesso modo, di quel che faccia l'esteta quando ragguaglia ogni cosa a un ideale di bel- lezza, o l'intellettuale che non riconosca altro scopo degno alla vita che la ricerca della verità. E quando si dice o si crede di dimostrare che è «contrario alla ragione» non un giudizio apprezzativo che contraddice al criterio accettato, ma il criterio stesso come tale, non si può affermare o dimo- strare questa contrarietà se non perché si sottintende che vi sono — cioè sono riconosciuti e deside- rati — altri valori diversi, superiori o non subordinabili a quello dal quale è tratto il criterio in que- stione; e si trova contrario alla ragione che non si tenga conto di quest'altri valori, che si giudichi e si operi come se questi non esistessero, o fossero inferiori mentre sono superiori, o incondizionati mentre sono condizionati. Ma se si fa l'ipotesi che questi altri valori non siano tali per un Tizio che li ignora, qualsiasi istanza di irragionevolezza contro di lui cadrebbe a vuoto, anzi sarebbe essa irragionevole. Adunque il criterio di Kant non supera, dato che ci siano, le differenze di contenuto valuta- tivo. Se in nome della mia coscienza morale io pongo il valore dell'umiltà, e in nome della propria coscienza morale un'altra persona lo nega, l'universalizzare le massime che rispondono alle due va- lutazioni opposte non mi fa avanzare d'un passo verso una soluzione del conflitto, se non a questa condizione: che io creda di poter dimostrare che una delle massime si accorda e l'altra contrasta con una terza massima nella quale è affermata l'esigenza di un volere riconosciuto o ammesso inconte- stabilmente come morale. E si presenta inevitabilmente, senza che sia possibile eluderla, la domanda: C'è o non c'è questa pluralità di contenuti discordanti nella valutazione morale? C'è. Si è osservato piú sopra che ogni oggetto ideale o contenuto di valutazione morale ha o può avere nello stesso tempo valore per altri rispetti, cioè può essere considerato come un valore di altra specie. Anzi è per questa relazione dei valori morali con valori di ordine diverso che si è cercato e si è creduto di poter trovare il fondamento della valutazione, la ragione d'essere del valore morale in una finalità di natura edonistica, egoistica o altruistica, o noetica o estetica o religiosa. Se si considera una tale rivalutazione eterogenea come pretesa di far valere — con questa e per questa ragione — per morale, un valore che non sia già sentito come morale, il tentativo, è come s'è visto, del tutto illusorio. Ma se si considera, al contrario, come espressione di una finalità che può assumere in questa o quella coscienza importanza prevalente, che può o potrebbe — all'infuori del carattere specifico di eticità per il quale è posto da quella stessa coscienza come valore morale — essere sentita come su- periore in pregio ai fini di ogni altro ordine, e degno di subordinarli, essa contiene in sé la ragione capitale della diversità e discordanza dei fini e dei criteri, che pretendono di valere ciascuno come supremo nella valutazione del contenuto proprio dei valori morali. L'esteta si foggia un suo modo ideale di bellezza per il quale i valori si ordinano da sé in una scala determinata dalle connessioni di inerenza e di condizionalità degli altri valori, con i valori estetici; e il mistico un ideale di santità, al quale subordina gli altri valori, accogliendoli e graduando- li in quanto convengono, negandoli in quanto disconvengono; e cosí lo spirito contemplativo che ama sopra ogni cosa la verità, e cosí l'egoista calcolatore e l'altruista generoso. I valori che, per essere morali, hanno già una validità e un'autorità intrinseca che li distingue dagli altri valori, si vestono di necessità nella coscienza dell'esteta del mistico e cosí degli altri, di quel particolare colore, che li fa sentire e riconoscere rispettivamente come valori estetici, religiosi, noetici e via dicendo; e se continuano a valere per la forma come morali, valgono — per il contenuto — soprattutto come valori di quell'ordine che è nella coscienza il dominante. Basta per convincersene badare alle differenze caratteristiche della motivazione, con la quale ciascuno dei tipi di co- scienza supposto giustifica a sé e agli altri il valore che riconosce, poniamo, alla temperanza, o alla forza di volontà, o alla veracità, o ad altra virtù. Ora questo coincidere e fondersi, quanto al contenuto, del valore morale col valore dell'ordi- ne che esprime l'orientamento prevalente della coscienza — anche quando non è in giuoco la valu- tazione etica — non solo conduce alla transvalutazione notata, ma tende a indurre insieme un pro- cesso di transvalutazione inversa; cioè a dar colore e calore di convinzione e di apprezzamento mo- rale ai valori di quell'ordine, a riconoscerli come morali e a pretendere che siano riconosciuti per tali anche dalle persone, nelle quali non si afferma il medesimo orientamento. Ed è istruttivo (e non è sfuggito agli umoristi) il calore col quale parla di diritti offesi e ri- vendica gli interessi sacrosanti della giustizia l'egoista gretto che vede frustrato un suo piccolo cal- colo ingegnoso che aveva a mala pena il pregio di non urtare nel codice penale; e quello (sia pure di dignità fuor di paragone diversa) dell'artista, che grida allo scandalo e invoca un preciso dovere dello stato a reprimerla, se offenda il suo senso estetico, la trascuranza per un tronco di colonna di- menticato. E si potrebbe continuare, in modo anche piú evidente, per gli altri. Cosí ciascuno degli orientamenti valutativi tende ad allargare nella direzione corrispondente la sfera dei valori morali, includendovi un contenuto proprio diverso, e non coestensivo al contenuto di ciascun altro. E perciò accade che i diversi sistemi di valutazione — animati come sono e pervasi da un interesse tipicamente diverso — abbiano in realtà in comune soltanto una parte di quei valori che ognun d'essi, per l'esigenza sua propria, riconosce come morali; abbiano cioè comuni soltanto quei valori morali che sono nello stesso tempo valori diretti o indiretti del proprio genere, o che al- meno non contrastano e non negano quella propria specifica esigenza. I diversi sistemi assomigliano cosí a cerchi eccentrici di vario raggio che si intersechino fra di loro; dei quali è minima la superfi- cie comune a tutti, ed è sempre piú grande la parte d'estensione rispettivamente comune a un numero di cerchi minore; e in misura variabile, secondo che sono meno o piú eccentrici fra di loro. D'altra parte, anche la coscienza nella quale l'orientamento tipico è dato dall'interesse stesso morale (la coscienza dell'homo ethicus) si trova a dover considerare nei valori estetici religiosi intel- lettuali economici il valore morale diretto o indiretto che assumono o possono assumere in grazia di relazioni analoghe a quelle considerate sopra (il valore p. es. che l'attività scientifica e l'estetica e le doti richieste e promosse da questa attività possono avere per la cultura morale). E non solo: ma per la considerazione felicemente messa in evidenza dal Moore sul valore organico (il «quanto» per il quale il valore di un tutto eccede il valore di uno dei suoi fattori non è necessariamente eguale a quello del fattore che rimane: ethics, Intrinsic value), si trova a dovere apprezzare diversamente l'oggetto ideale della valutazione morale, quando esso è nello stes- so tempo oggetto di una valutazione diversa, intellettuale, per es., od estetica. (Non è senza significato anche per questo rispetto che il Sommo Bene sia stato identificato col Sommo Bello). Si aggiunga finalmente (il finalmente chiude ma non esaurisce le osservazioni su questo proposito) che il carattere di interiorità dei valori morali, il quale si fa tanto piú spiccato quanto piú la coscienza personale è concepita come sorgente e creatrice autonoma dei valori, tende a staccare, anche nella coscienza dell'homo ethicus, il valore morale dagli schemi che esprimono una esteriore conformità alla valutazione, per riconoscere un pregio preminente alle note interiori di spontaneità, di libertà, di autonomia; il che porta ad estendere la dignità intrinseca dei valori morali anche a que- gli altri valori spirituali nei quali splende un raggio di quelle medesime luci; e non tanto a distingue- re i valori morali da altri valori spirituali, quanto a distinguere il contenuto interiore e spirituale dei valori dal contenuto esterno e materiale nel quale si traducono. Cosí nella coscienza personale si attenua e si fa piú incerta, e trasmutabile per molti modi, la distinzione tra i valori morali e gli altri valori spirituali. In altri termini: mentre, si può dire a un di- presso, dal trionfo dell'etica cristiana fino al Kant la valutazione morale aveva avuto per le diverse coscienze della stessa civiltà e cultura un contenuto comune determinato e costante (e, in ogni caso, la parte di contenuto sulla quale cadeva il dissenso finiva per essere praticamente quasi trascurabi- le), a partire dalla dichiarazione dei diritti della Rivoluzione francese, si delinea e si allarga nel campo della valutazione morale una sempre maggiore differenza di contenuto tra coscienza e co- scienza; e si fa piú frequente e piú profondo il contrasto tra i criteri di valutazione rispettivamente accolti come supremi. E i sistemi nei quali i valori morali sono ricondotti a un criterio intellettuale, o estetico, o re- ligioso, o etnico, o umanitario, o filogenetico, o solidaristico, o egotistico, o quale altro si voglia, non sono piú, guardati per questo rispetto, tentativi dispersi, ma, per cosí dire, paralleli di giustifica- 39  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta re o di «fondare» il valore di un medesimo contenuto; essi esprimono invece, nella parte forse mag- giore e piú significativa, una diversità di contenuti contrastanti; e soltanto in parte un contenuto co- mune, che si colora pur esso diversamente, secondo la fiamma a cui si riscalda. Perciò, considerata nell'interiorità della coscienza personale, la parte di contenuto etico nella quale essa sente di concordare colle altre non ha per sé autorità maggiore o diversa delle parti per le quali discorda. A meno che la coscienza stessa possa o debba riconoscere, senza abbandonare il proprio criterio di valutazione, una qualche differenza, se non di natura, di grado, tra quella e queste. Se si suppone, per un'ipotesi inverosimile, che lo spirito filantropico, lo speculativo, il reli- gioso, l'estetico, non riconoscano rispettivamente altri valori all'infuori di quelli che si possono commisurare al criterio di valutazione proprio di ciascheduno, si troverà tuttavia che certe doti spiri- tuali, poniamo, l'alacrità, la tenacia, il dominio di sé, l'ardimento, sono e debbono essere considerate come valori da tutti indistintamente i tipi supposti; perché tutti (nell'ipotesi, sottintesa, che siano in- telligenti) debbono riconoscere che quelle doti personali sono condizioni o indispensabili o som- mamente utili alle forme di attività corrispondenti, cioè all'attuazione di quell'ordine di valori che ciascuno ha posto a sé come tali. Per la medesima ragione si troverà (la deduzione è troppo ovvia perché occorra piú che l'ac- cenno) che debbono essere riconosciuti come valori il rispetto della integrità e della libertà persona- le, l'osservanza dei patti, lo scambio dei servizi e via dicendo, e con essi i costumi, le istituzioni, le leggi che assicurano la conservazione e l'incremento di queste condizioni sociali; e le disposizioni di spirito (lealtà, imparzialità, simpatia) che ne avvalorano il rispetto nella coscienza personale. Adunque tutti i tipi suddetti, e gli altri che si potrebbero analogamente supporre, saranno portati a riconoscere e ad apprezzare in sé e negli altri — astrazion fatta da ogni valutazione morale — dei valori, sia propriamente personali (doti della persona che possono sussistere nel soggetto in- dipendentemente dal suo atteggiarsi rispetto ad altre persone); sia sociali (doti che riguardano questi atteggiamenti); valori che nascono dal rapporto di condizionalità costante che li stringe a ciascuno degli ordini supposti. Di piú: il rapporto di condizionalità dal quale viene ai valori citati in esempio il carattere di strumentalità, è diverso, come è facile vedere, da quella strumentalità esterna accidentale e variabile che lega il blocco di marmo all'opera dello scultore, o la conferenza di propaganda al disegno del- l'altruista, o un libro agiografico all'interesse del mistico, o la scala dell'Osservatorio agli studi del- l'astronomo: appunto perché là si tratta di condizioni preliminari indispensabili e permanenti, il cui valore non solo non si esaurisce nell'atto singolo che ne dipende, ma non è sostituibile da alcun altro strumento o condizione. È dunque una condizionalità necessaria, permanente e insurrogabile, in forza della quale ciascuno dei detti tipi dovrà riconoscere a siffatti valori condizionanti una superiorità, se non di pre- gio intrinseco, di precedenza imprescindibile sui valori diretti e finali che ne dipendono. Non occorre lungo discorso per intendere come per effetto del medesimo rapporto il filan- tropo potrà essere condotto a riconoscere i detti caratteri di condizionalità anche a qualità attitudini forme di attività, alle quali o non potrà attribuirli o dovrà forse attribuire un valore negativo, o di o- stacolo, ossia un disvalore, il mistico o l'esteta; e inversamente; e come perciò sarà possibile una di- stinzione tra i valori propri esclusivamente di ciascun tipo di valutazione, e i valori condizionanti comuni a qualsiasi ordine, dato (come gli esempi citati dimostrano possibile) che ve ne siano di co- siffatti. Questi valori comuni avranno dunque oltre ai caratteri già notati, anche quello di essere strumentali rispetto a quale si voglia criterio di valutazione che sia posto come normativo; cioè a- vranno una condizionalità universalmente necessaria permanente e insurrogabile. Aggiungiamo ora un nuovo elemento all'ipotesi; e supponiamo che tanto il filantropo quanto lo speculativo e il mistico e l'esteta riconoscano, ciascuno, come l'ordine dei valori morali, quell'or- dine di valori che risponde alla direzione tipica della propria coscienza. Accadrà che la valutazione morale dell'uno coinciderà quanto al contenuto con la valutazione morale di ciascun altro soltanto per quei valori nei quali si riscontra la sopraddetta condizione; e che mentre ciascuno interiormen- te riconoscerà come una esigenza morale l'attuazione di tutti i valori posti e dichiarati dalla sua co- scienza a lui come morali, dovrà riconoscere in pari tempo, che, per le volontà per le quali vale co- me normativo un ordine di valori diverso, la detta esigenza non comprende tutti questi medesimi va- lori, ma soltanto quelli la cui strumentalità condizionale è universalmente necessaria. Cioè dovrà riconoscere che, esteriormente alla propria coscienza, l'imperatività del proprio criterio è limitata a questa piú ristretta sfera di valori. In altri termini, non potrà esser posto come criterio morale e comune se non un criterio di valutazione che assuma, come universalmente validi e costantemente su- bordinanti ogni altro valore, quei valori appunto nei quali si riscontra la detta priorità condizionale; ma che insieme non neghi, e non escluda i valori morali propri di ciascuna coscienza in particolare, cioè nessuno di quegli ordini di valori, nel quale si inquadra e si giustifica per ciascuna coscienza individuale quel contenuto comune. Si delinea dunque, per la riflessione critica obbiettiva, una distinzione tra i valori la cui at- tuazione è riconosciuta come un'esigenza universale e costante per qualsiasi coscienza capace di moralità, e i valori la cui attuazione è un'esigenza soltanto per la coscienza che li pone a sé come morali; tra i valori per i quali ogni coscienza può riconoscere legittima una legislazione esterna che ne imponga la validità; e i valori dei quali una legislazione esterna deve soltanto non escludere la possibilità; tra i valori che possono essere oggetto di una obbligazione a un tempo interna ed ester- na, e i valori che, non possono essere oggetto che di una obbligazione interna. Gli esempi addotti in principio di questo capitolo per chiarire il concetto di un contenuto comune universalmente valido, non rispondono a una determinazione rigorosa; e hanno soltanto un carattere provvisorio di opportunità. Se ora cerchiamo di fissare con precisione quali sono propria- mente i valori che lo costituiscono, troveremo facilmente che essi si assommano in due condizioni riconosciute in effetto (e non potrebbe essere altrimenti) come valori primari fondamentali da ogni sistema morale: la libertà e la giustizia. La libertà esprime l'esigenza delle condizioni soggettive necessarie a fare dell'uomo una persona padrona di sé di fronte a sé e di fronte a ogni altra persona; la giustizia esprime l'esigenza delle condizioni obbiettive necessarie all'esercizio universalmente efficace di questa libertà. L'attuare in sé e in ogni altra persona questi valori di libertà e di giustizia (ed i valori impli- citi in questi) deve dunque essere riconosciuto come un dovere universalmente valido, anzi come il solo dovere (o la sola categoria di doveri) veramente universale. Ma qui è da notare una circostanza rilevante. La libertà non è una condizione di fatto, un possesso dato; ma è, come vide e affermò fervi- damente il Fichte, una conquista da fare, una idealità che si viene realizzando e che richiede sforzi sempre nuovi e impone sempre nuovi doveri. E il medesimo è da dire della giustizia che è lo spec- chio sociale della libertà. Ora se il valore della libertà e della giustizia (e la validità dei doveri che ne derivano) consi- ste, come apparirebbe dalla deduzione fattane qui, soltanto nel loro essere condizione necessaria ad ogni ordine di valori; è continua ed inevitabile la possibilità di un contrasto nella coscienza dell'in- tellettuale, dell'esteta, dell'altruista, tra l'interesse sempre presente, diretto della conoscenza o della bellezza o della simpatia e i doveri mediati e indiretti della libertà e della giustizia; o, in termini generali, tra i valori diretti e per la coscienza individuale supremi, e i valori che per lei appaiono sol- tanto indiretti e strumentali. Cosí obbiettivamente nell'ordine di una possibile legislazione esterna, sarebbero doveri pri- mari, soli veri doveri, quelli appunto che soggettivamente per la legislazione interna di molte se non di tutte le coscienze individuali, valgono come doveri derivati, cioè tali soltanto in grazia di doveri d'altro ordine, dei quali l'obbligatorietà esterna tutela subordinatamente, ma non impone l'osservan- za. E resta in ogni caso la questione: Quei valori che una coscienza riconosce come valori in sé, e a cui commisura gli altri valori sono posti ad arbitrio? La distinzione stabilita nel capitolo precedente implica che siano valori morali diretti, cioè supremi e normativa per ogni coscienza, soltanto quelli che la coscienza stessa pone a sé e ricono- sce come tali; e non dà ragione del fatto che siano posti e riconosciuti come valori morali diretti, cioè valori per sé, anche quei valori di libertà e di giustizia che appaiono, nella deduzione che se n'è fatta qui sopra, come valori morali universali soltanto in grazia del rapporto necessario di preceden- za condizionale che li lega ai primi. E ciò significa che la distinzione stessa non ha che un valore provvisorio, finché non si ammette quella tesi, e non si dà ragione di questo fatto. C'è, sottinteso, nella tesi del resto inevitabile — che siano valori morali per ciascuna co- scienza quei valori che essa pone a sé come supremi e normativi, qualche presupposto? E qual è questo presupposto? Non è difficile scoprirlo. Perché un ordine di valori, diciamo per comodità di espressione, una idealità, sia riconosciu- ta da una coscienza come suprema e normativa si richiedono due condizioni imprescindibilmente: 1° che la detta idealità possa costituire un criterio di valutazione atto a subordinare ogni altro valore, a dare unità coerente alle valutazioni e a segnare una direzione costante alla volontà; 2° che essa sia in effetto posta dalla volontà come suprema e riconosciuta degna di diri- gerla; e perciò che l'attuazione di quella e la esclusione di ogni atto che la neghi sia sentita come un esigenza incondizionata (esigenza di non smentire con la volizione la volontà, con l'atto la valuta- zione); e sia sentito o posto idealmente come dovere il subordinare ad essa ogni altro valore e il ne- gare ogni interesse che contrasti con quello. Ma queste due condizioni sono le condizioni stesse che fanno dell'io temporaneo disgregato e molteplice una unità, cioè una Volontà consapevole e coerente, un carattere, una persona; sono in una parola le condizioni della personalità. Riconoscere il valore supremo di ciò che costituisce l'unità personale, di ciò per cui l'indivi- duo si afferma ed esprime la sua volontà di essere persona, implica dunque il presupposto del valore diretto, originario, incomparabile e incommensurabile, cioè assoluto, della persona umana, come volontà di essere tale e come coscienza di questa volontà. Questo valore per sé, intrinseco e assoluto della persona, è dunque il presupposto implicito, il postulato sottinteso in ogni valutazione morale; perché non si può riconoscere il valore morale di nessun oggetto o fine o idealità senza postulare il valore della volontà personale che lo pone, e fuori della quale non avrebbe senso l'esigenza normativa che lo fa essere morale. Ed è vana, anzi in sé contraddittoria, ogni discussione sulla sua legittimità. Perché discutere di questa legittimità non è possibile senza ammettere e postulare come dato e fuori di ogni contestazione, qualche valore intrinseco, al quale si possa riferire e col quale si possa confrontare e commi- surare il valore in discorso. E poiché il valore che dovrebbe servire di termine di confronto e di dato incontestabile per giudicarlo, implica necessariamente la validità di ciò che deve essere giudicato, cioè la legittimità del presupposto del quale si discute, ogni contesa assiologica intorno ad esso si avvolge irrimedia- bilmente in un circolo vizioso. Avviene, mutatis verbis, qualche cosa di perfettamente analogo a quel che accade nel campo della conoscenza, quando si discute del valore teorico della ragione. Ogni critica presuppone neces- sariamente la validità di quella ragione che è chiamata in causa. Bisogna dunque accettare o respingere la legittimità del presupposto; accettando o respin- gendo insieme ciò che si regge sulla sua validità. Non c'è via di mezzo possibile. Ricusarlo vuol dire negare ogni valore morale; accettarlo vuol dire riconoscere valore morale a ciò che costituisce la personalità, a ciò che le è essenziale, e che la fa essere non la personalità astratta e comune che non sussiste per sé e non basta a costituire questa o quella persona, la mia persona; ma la persona individuata viva e concreta, in quel che ha di universale e di comune e in quel che ha di proprio, di suo, di individuale; l'umanità non dell'uomo genere, dell'uomo tipo, ma di questo o di quell'uomo. In quanto è uomo, senza dubbio; ma anche in quanto è questo. L'uomo-ragione dà, come s'è detto e ripetuto, la sola coerenza. Non è poco, ma non è tutto. L'uomo-volontà pone questa coerenza come legge del mio valutare e del mio fare, impone a me che l'idealità posta e riconosciuta come suprema valga veramente come suprema, che io ne af- fermi il valore intrinseco, ne approvi o ne accetti le esigenze sempre dovunque si presentano, in me e fuori di me; mi impone, in una parola, di essere persona; e di volere che ogni uomo sia persona. Ma non è ancor tutto. Quel che io devo essere per valere come persona, l'idealità che deve dare unità al mio io, e in cui si esprime non la volontà in genere, ma la mia volontà di essere perso- na, è posta da questa mia volontà ed ha valore per me perché è posta da lei. Certo, la mia coerenza deve essere e non può essere altro che la coerenza della ragione; l'e- sigenza che la mia volontà impone a me di essere persona è quella medesima esigenza che la volon- tà di ciascun altro (capace di moralità) impone a lui, e che a me e a lui e a ciascun altro impone il rispetto della persona come tale; ma l'una e l'altra esigenza non investono il medesimo contenuto spirituale in me e negli altri. Limitano le categorie di valori, nelle quali l'io può attingere l'idealità regolatrice, ma non determinano per tutte la medesima idealità. La mia volontà deve — per far di me una persona — uniformarsi a quelle due esigenze che sono le esigenze necessarie e costanti di ogni personalità (non solo reale, ma anche fittizia); e deve perciò superare l'io transitorio, l'io degli interessi momentanei e mutevoli (dei quali non si misura il valore che dal loro effetto su di me), e appuntarsi in una idealità che le sia norma; ma non può usci- re di sé per diventare una volontà diversa, non può cessare di essere quella certa volontà, che fa di me non la persona umana in generale, ma la mia persona. Insomma non può volere l'unità se non di quello spirito di cui è la volontà. Ma quale è la prova che questa idealità non è un capriccio dell'io transitorio e mutevole, ma è veramente legge delle mie valutazioni e delle mie azioni? La prova non è e non può essere data se non a me stesso, da me, dall'attestazione della mia coscienza. Ed è perciò che la legittimità dei valori posti da me non è contestabile da altri né control- labile. Ma vi è tuttavia una prova esterna, di fatto, tenuta normalmente valida nel giudizio comune; e che è veramente necessaria, anche se non è sempre sufficiente; e questa prova è il sacrificio. Ap- punto perché il sacrificio attesta che ogni mia facoltà, ogni mio potere si raccoglie e si appunta nella volontà di attuazione di quel valore; e che io nego e respingo da me ciò che mi costringerebbe a ne- garla. Cosí è che il valore della vita si misura dal valore di ciò a cui si è disposti a sacrificarla; e che, per converso, l'esser pronti alla morte apparisce l'affermazione piú decisiva del valore di ciò a cui si è devoti. Le esigenze costitutive della personalità si attuano dunque informando di sé un contenuto spirituale che è sempre in qualche parte proprio e caratteristico di ciascuna coscienza individuale; come raggi di una medesima luce che tralucono per cristalli diversi; e ciò fa di quel particolare con- tenuto la condizione o il mezzo per il quale la personalità si pone e si realizza nell'io individuale e concreto; la materia che si suggella di quella forma. E il valore morale di questo contenuto nasce da questo suo essere lo strumento il tramite, per il quale si esprime nella coscienza individuale il valore assoluto della personalità umana. Per tal modo l'idealità, nella quale si concreta per la coscienza delle persone singole il crite- rio o la legge della valutazione morale, costituisce per ciascuno l'affermazione della unità spirituale della sua volontà di essere persona, della sua libertà. Cosí la libertà, che nella deduzione esteriore ed empirica del capitolo precedente acquista valore solo strumentalmente universale e necessario, in quanto l'attuazione dei valori di libertà ap- pare la condizione comune e imprescindibile della attuazione di ogni ordine di valori, è invece qui valore per sé immediatamente universale; e sorgente di quegli stessi valori che valgono per le co- scienze singole come supremi soltanto perché sono lo strumento del realizzarsi di essa libertà in cia- scheduna. È, quindi, la sorgente cosí dei valori costitutivi della personalità in astratto, come dei va- lori costitutivi delle diverse personalità in concreto; cosí dei valori universali della persona ideale come dei valori propri della persona reale. Nel presupposto stesso di ogni valutazione morale ha dunque radice cosí l'esigenza dell'uni- versale come l'esigenza dell'individuale; l'esigenza di una valutazione comune e l'esigenza di una valutazione singolare e propria; ossia l'esigenza che la volontà personale si affermi ad un tempo, come riconoscimento dell'una e dell'altra, o, meglio, dell'una nell'altra. L'imperativo della libertà è ad un tempo: sii persona, e: sii la tua persona; sii uomo, e: sii quel che tu devi essere per essere uomo; rispetta l'umanità, e: rispetta in te e in ogni altro l'espres- sione individuale e concreta dell'umanità. A nessuno verrà in mente di credere che si intenda di stabilire cosí il dovere di creare nuovi valori, di affermare nuove intuizioni morali; e porre accanto al dovere di essere giusti, quello di es- sere originali. Sarebbe come voler obbligare uno scienziato a fare delle scoperte, almeno nel senso che si suol dare comunemente alla parola. Le intuizioni morali nuove, come le scoperte scientifiche, come le nuove forme di arte, si presentano a chi... le trova. Spiritus flat ubi vult. Ma vi sono, in un certo senso piú modesto, come nella ricerca scientifica le piccole continue scoperte di indagatori e di studiosi mediocri ma coscienziosi, che cavano e puliscono la selce e tem- prano l'acciarino, dai quali l'uomo di genio farà sprizzare la scintilla, cosí nella vita morale le picco- le nuove intuizioni e nuove interpretazioni, e connessioni, ed elevazioni di valori morali, che prepa- rano il solco alla semente dei grandi. Vi è, a guardar bene, perfino nell'apparente applicazione mo- notona di una medesima massima alla medesima classe di azioni, un'impronta, un segno, una sfu- matura, nella quale si rivela l'originalità morale della persona; originalità di finezza, di delicatezza, di grazia, di abnegazione, di calore, di fantasia, di acume; gradazioni e colorazioni diverse di valori noti, combinazioni nuove di pregi prima disgiunti. Ciò che è proprio di una persona anche comune (sia venia al bisticcio) non è tanto il rivelarsi di una proprietà, o dote, o qualità diversa; di un nuovo elemento di valore (che non è novità frequente neanche nei grandi); quanto questo modo, col quale si raccolgono, si mescolano e si fondono per lui in sintesi nuove i valori elementari già intuiti. Ciò che è caratteristico dell'individuo consiste anche qui, se si dà alla parola il suo significato originario, in una «idiosincrasia». Queste minori e, nella loro infinita varietà inafferrabili, differenze individuali, si raccolgono però, come accade, attorno a tipi diversi, segnati soprattutto dal prevalere, conforme a quel che si è accennato già, di un ordine di valori sugli altri. Dal che possono derivare non solo differenze assai grandi, ma opposizioni recise. E qui sta appunto la sorgente dei contrasti tra valutazioni morali diverse, di fronte ai quali la critica non può fare che opera di constatazione e di sistemazione. Come possa adempiere a questo ufficio e quali frutti se ne possano attendere non è qui il luogo di esaminare. Qui importa solo notare come questa indagine e sistemazione critica non potrà che presenta- re, nella forma tipica piú compiuta e recisa e col massimo rilievo, i contrasti che sorgono natural- mente dal prevalere, nella unificazione morale della coscienza personale, di uno piuttostoché di un altro ordine di valori, e dalla misura di questa prevalenza. Ma la forma fondamentale sarà data dal contrasto tra i valori universali morali — i valori di libertà e di giustizia — e quelli che valgono come supremi (cioè che pretendono, come i morali, la direzione suprema della valutazione), nella coscienza individuale. Se la libertà e la sua sorella germana, la giustizia, fossero patrimonio acquisito e non come è, come deve essere, una conquista faticosa del genere umano che dura e durerà nei secoli, il problema non esisterebbe se non nella forma di esigenza della conciliazione di quei valori spirituali che non si presentano come necessariamente e universalmente morali. Problema formidabile anche questo, ma non tale da segnare una antitesi di criteri non conci- liabili; antitesi che rende necessaria la subordinazione dell'uno dei due all'altro, ma che può legitti- mare nella coscienza personale cosí l'una come l'altra soluzione. Questa antitesi è, in breve, tra i valori di giustizia e i valori di cultura; tra l'esigenza che ogni uomo sia o possa diventare persona, cioè volontà libera consapevole e coerente, e l'esigenza che si accresca e si arricchisca di nuovi valori l'uomo che è già persona, che è già, se non l'uomo libero del Fichte, l'uomo che ha coscienza del suo dover e del suo poter farsi libero, e che vi tende come al suo supremo valore. È, in termini forse meno precisi ma piú recisi, l'antitesi tra il numero e la qualità, tra l'esten- sione e l'intensità; tra il dovere di rendere partecipi (di porre la possibilità che si facciano partecipi) dei valori di libertà — accessibili soltanto ad alcuni —, quelli che non ne sono partecipi, e il dovere di accrescere in quelli che già li possiedono i valori di cultura, che sono pure, almeno mediatamen- te, incremento dei valori di libertà. L'umanità (la persona umana) si rispetta elevandone in sé e negli altri il valore; si eleva cosí nell'uno come nell'altro dei modi anzidetti. Le due vie sono convergenti? Speriamo che siano; ma, nella valutazione presente, tra l'incremento di una cultura, dalla quale sono esclusi i piú tra quelli che pur ne sono strumento necessario, e la possibilità di togliere o scemare questa esclusione, quale è l'esigenza morale prevalente? Dire che la cultura dei pochi è necessariamente elevazione di tutti, o dire che l'elevazione di tutti è necessariamente incremento della cultura, è baloccarsi con parole; è un ripetere su un altro verso le vecchie coincidenze del bene generale col bene individuale. Il dire non basta a porre in es- sere quel che si dice. Alla distinzione fondamentale che ha origine nel presupposto stesso di ogni valutazione morale (il valore assoluto della persona umana), tra valori morali universali e valori morali propriamente personali, corrisponde naturalmente una distinzione nel carattere di obbligatorietà che as- sume rispettivamente nella coscienza l'attuazione degli uni e quella degli altri. Ai primi corrisponde, o si concepisce che debba e possa corrispondere una obbligatorietà ad un tempo interna ed esterna, ai secondi solamente una obbligazione interna. In quanto la società or- ganizzata, lo stato, il Potere politico è posto come potere che fonda e garantisce le condizioni ester- ne della moralità, l'ideale politico è una derivazione necessaria e un elemento dell'idealità morale; e rivestendo per tutti ugualmente il medesimo carattere formale di Potere giusto, cioè di Potere la cui esistenza e validità è affermata e voluta in grazia dell'esigenza morale a cui soddisfa, assume tuttavia per ciascuno un contenuto in misura maggiore o minore diversa, secondo il modo nel quale è concepita la giustizia che si potrebbe dir costitutiva; cioè la giustizia come posizione e conservazio- ne delle condizioni esterne necessarie alla libertà di tutti. È notissimo, e sarebbe superfluo chiarire questo punto, che qui si disegnano due orientamen- ti di coscienza diversi e in alcuni, se non tutti i postulati pratici, opposti; e due concezioni politiche corrispondenti, tra le quali intercorrono gradazioni varie di partiti. E sono: l'indirizzo che prende norme dal liberalismo conservatore: — la giustizia è la garan- zia della libertà di tutti nelle condizioni sociali storicamente date e quello che prende impropria- mente nome dal socialismo: — la giustizia è la costituzione di condizioni sociali tali che ciascuno trovi in esse la medesima possibilità esterna di valere come persona — (che coincide con l'interpre- tazione piú universalmente radicale della famosa seconda formula della Fondazione di Kant). Ciò che qui importa di notare è piuttosto che in essa si rivela una forma del conflitto fonda- mentale di cui si è toccato, nel modo di intendere la conciliazione o meglio la subordinazione delle due esigenze costitutive della personalità: l'esigenza universale e l'esigenza individuale. Senonché, appunto perché il conflitto tra queste due esigenze è considerato soltanto in rela- zione alle condizioni esteriori, esso prende quanto alla forma veste giuridica e quanto al contenuto natura economica; si presenta come negazione o posizione nel Potere politico della facoltà di sotto- porre ad una legislazione esterna il possesso e l'uso dei mezzi di produzione e i modi di distribuzio- ne della ricchezza. La quale limitazione del carattere del conflitto è dovuta non solamente e non tanto all'abbassamento inevitabile che ogni idealità subisce nel tramutarsi da esigenza etica in programma politico, quanto ad una necessità intrinseca alla costituzione stessa del Potere e alle condizioni della sua vali- dità. Questo capitolo presenta soltanto nei suoi lineamenti più generali una materia che deve essere trattata distesamente a parte [Il quale dal punto di vista etico trova, e non potrebbe essere altrimenti, la sua giustificazione in una finalità di contenuto individuale. È individualismo; universalistico si, ma individualismo. Una prova di ciò assai significativa è appunto la deduzione che Fichte fa dal dovere che ciascuno ha di attuare in sé la massima libertà, del diritto alla formazione ed educazione morale di sé, alla cultura, ai mezzi necessari alla cultura, al lavoro. Insomma, ai medesimi postulati del socialismo; salvo che là sono detti in modo diverso. Nell'esemplificazione introdotta qui sopra  si è supposto che l'idealità normatrice potesse avere per contenuto un ordine di valori noetici o estetici o religiosi o edonistico- altruistici, ma non si è considerato distintamente il caso che l'ordine normativo dei valori fosse dato dall'edonismo egoistico; perché esso, nell'opinione comune, che risponde anche solitamente a verità, non presenta quei caratteri formali di validità morale e di esigenza normativa, con i quali può, o si concepisce che possa, presentarsi nella coscienza il contenuto costituito dagli altri ordini di valori. Ma questo non toglie che anche l'egoismo possa erigersi a massima di condotta, a principio normativo, purché, si intende, l'egoista razionalizzi il suo egoismo; cioè riconosca legittimo che valga nelle medesime condizioni per tutti quello stesso criterio di valutazione, che assume come va- lido per sé, e che dà, per ipotesi, coerenza al suo giudicare e al suo fare. Ora è da notare che dal puro calcolo egoistico razionalizzato si deduce quel medesimo ordi- ne di valori universalmente strumentali di libertà e di giustizia, che si deduce da ciascuna delle i- dealità normative supposte. E basta a persuadercene il fatto che l'economia pura assume come presupposto, cioè come norma universale di condotta dell'homo oeconomicus, appunto un postulato edonistico, non solo, ma edonistico-egoistico. Ed è noto che il liberalismo politico è modellato — s'intende sempre nel suo aspetto puramente politico, cioè esteriore — sul liberismo economico. Questa considerazione contraddice solo in apparenza la tesi, per la quale non può essere normativo che un valore considerato come valore per sé distinto dagli impulsi e dai desideri transi- tori e variabili del soggetto; perché il valore che l'economia contempla in realtà, non è il piacere, o la soddisfazione soggettiva, ma la ricchezza. La quale ha bensì sempre normalmente soltanto un va- lore strumentale, ma (anche lasciando in pace l'esempio dell'avaro) può essere — ed è in effetto dal- l'economista — considerata come valore per sé, e come comune termine di riferimento di ogni spe- cie di valori edonistici; e perciò di ogni ordine di valori in quanto sono considerati e valutati nel loro effetto edonistico, nel quanto di soddisfazione e di godimento che se ne trae e che è misurato ob- biettivamente dal quanto di ricchezza necessario a procacciarli. Ne segue che il Potere politico e il sistema giuridico che riceve da esso sanzione e validità di diritto positivo, possono assumere un significato e un valore al tutto diversi — pur avendo per con- tenuto una medesima materia — secondo che questo contenuto è valutato come un ordine di valori strumentali che trova la sua ragion d'essere e la sua giustificazione soltanto nel suo carattere di con- dizione necessaria della coesistenza degli egoismi individuali, o secondo che è considerato come un ordine di valori morali diretti e immediati, come un'esigenza del valore primario assoluto della per- sona umana, e della libertà che ne è la nota essenziale. E ne segue parallelamente che si possa ravvisare nell'ordine giuridico cosí la realizzazione di un'esigenza etica, come un sistema di condizioni che precede idealmente l'esigenza etica e la rende possibile, ma che sussiste e sussisterebbe per sé indipendentemente da essa. In realtà, siccome il valore morale non è valore e non è morale se non per la coscienza che lo sente e lo riconosce come tale, l'alternativa che ne nasce è questa: che o si riconosce come ordine di valori per sé, suscettivo di assumere in alcune o in molte delle coscienze individuali carattere e for- ma di valori morali, anche l'ordine dei valori edonistico-egoistici, o si deve ammettere che il conte- nuto del diritto, in quanto fosse legittimato soltanto da una deduzione etica e non dal principio della convenienza egoistica, resterebbe estraneo all'egoista; subito da lui, ma non approvato e non voluto. Cioè tale che non si potrebbe pretendere ragionevolmente da lui che lo riconosca e lo accetti. Dal che nasce la conseguenza che la deduzione etica del diritto deve coincidere, quando al contenuto, con la deduzione puramente egoistica, cioè che le norme di diritto devono essere stabilite come se la loro ragion d'essere fosse unicamente l'utilità egoistica. E il fatto — inevitabile — che la sanzione (premio o pena) ha un contenuto egoistico, cioè si risolve in un motivo egoistico dell'osservanza del diritto, sembra confermare tale conseguenza. Di qui seguono due corollari non trascurabili per la valutazione dei rapporti tra morale e po- litica. Il primo è questo: che il potere politico, in quanto è forza di coazione che pone come ester- namente obbligatorie certe condizioni quali si siano (negative o positive) dell'attività dei singoli, non è mai per sé, direttamente, organo morale; perché il valore morale, che è del tutto interiore, in- sindacabile e incoercibile, sfugge a questa azione; e perché i mezzi di cui la legislazione esterna può disporre — sia di persuasione (premi), sia di costrizione (pena) — non possono presentarsi che co- me motivi di ordine egoistico; e hanno per sé un valore o premorale (cioè di condizione di fatto an- teriori alla moralità ed estranei ad essa) o pro-morale (cioè tengono luogo del motivo morale o ne surrogano l'efficacia pratica quanto agli effetti esteriori della condotta). Perciò gli istituti politici non sono in sé né morali né immorali se non in quanto sono valutati come tali interiormente dalla coscienza dei singoli. Il secondo è questo: che dovendo l'ordine giuridico poter essere giustificato da un punto di vista puramente egoistico, affinché il Potere politico possa avere un contenuto, non soltanto negati- vo, ma positivo, comune col contenuto delle diverse idealità tipiche morali (essere o diventare organo promotore e fautore dei mezzi di cultura), è necessario che il contenuto di queste idealità sia o possa essere considerato insieme come il medesimo, o come elemento o condizione essenziale del contenuto medesimo, delle soddisfazioni egoistiche; o in altri termini, che i valori, poniamo, intel- lettuali, estetici, simpatetici, religiosi, siano nello stesso tempo i valori piú desiderati o desiderabili nel rispetto edonistico, o elementi o condizioni essenziali dei valori egoistici. E ciò equivale a dire che la funzione primaria e preliminare del Potere politico come organo di cultura è quella di ordinare i mezzi atti a dare ai motivi edonistici un contenuto sempre piú spiri- tuale e morale, ossia ad elevare e affinare nei singoli la capacità di sentire e apprezzare come beni migliori e piú desiderabili di ogni altro i valori spirituali. La funzione positiva preliminare è dunque quella di apprestare i mezzi o le condizioni ester- ne necessarie alla possibile educazione ed elevazione spirituale di ciascuno. Fin qui si è considerato il Potere politico soltanto come organo di obbligatorietà esteriore ri- spetto ai singoli soci, dalla cui volontà è idealmente posto, astrazione fatta da ogni relazione dello stesso potere con altri poteri; cioè come stato di fronte ad altri stati. Ma se si considera per questo rispetto, esso assume ipso facto natura e funzione di Persona in rapporto con altre Persone e raccoglie in sé, unifica e fonde in un'unica Volontà e personalità le volontà e le persone dei singoli. I quali per rispetto agli stati esteri spariscono come volontà distinte, e sono sostituite nel loro valore assoluto di persona dallo stato. Il che significa nello stesso tempo che per questo rispetto la volontà dello stato è per la coscienza di ciascuno la propria volontà, e che lo stato diventa esso soggetto e sorgente di idealità etiche. Non è possibile e non è necessario esaminare distesamente le conseguenze che nascono da questo diverso significato e valore che lo stato assume in forza dei suoi rapporti con altri stati; ma non è difficile vedere l'antinomia che ne deriva nei rapporti tra il cittadino e lo stato, secondoché lo stato è considerato nella sua azione interna o nella sua condotta esterna. Rispetto a quella il Potere politico è, dal punto di vista etico, mezzo, e la persona singola, fine; rispetto a questa lo stato è fine e il singolo è mezzo. Nel primo rispetto il cittadino non ha doveri verso il Potere politico, se non in quanto vede nell'osservanza di questi doveri una condizione necessaria alla tutela dei propri diritti; nel secondo rispetto non ha diritti di fronte alle stato, se non in quanto la garanzia di questi diritti sia una condizione necessaria all'adempimento del suo dovere verso di esso. Dai suoi rapporti col Potere, considerato per quel rispetto, è esclusa (almeno idealmente) ogni esigenza di sacrifizio di sé; considerato per questo, tale esigenza è necessaria. Di qui la tendenza a far prevalere il secondo ordine di concetti nei partiti politici che consi- derano come insuperabile l'opposizione degli stati ed eticamente incondizionata la sovranità di ciascuno; e la tendenza opposta nei partiti, che credono superabile l'opposizione, e condizionata etica- mente la sovranità degli stati nelle loro mutue relazioni. Si è avuto occasione di notare nel capitolo precedente che per la ragione stessa per la quale la idealità è concepita e voluta dalla coscienza di ciascuno come normativa di tutta la condotta, per questa ragione la subordinazione di ogni interesse individuale e, quando sia richiesto, il sacrifizio di sé individuo all'idealità etica che lo costituisce in persona, diventano la prova viva e continua del valore intrinseco supremo riconosciuto all'idealità; della conformità, per adoperare termini già usati, del volere operante o esecutivo col volere valutante o legislativo. In questa devozione a un Valore sentito e voluto come valido per sé all'infuori di ogni interesse puramente soggettivo e accidentale dell'individuo è già la nota caratteristica della religiosità; nota che è rilevata, sebbene con qualche incertezza e confusione, anche nel linguaggio comune. Dove il verbo «adorare» significa appunto devozione a un oggetto, al quale si riconosce un valore incomparabile e a cui si è disposti a sacrificare ogni altro bene. Ma questa devozione all'idealità, perché sia piena, effettiva e costante, suppone o richiede le disposizioni spirituali, le condizioni soggettive, nelle quali e per le quali si viene attuando; richiede da noi, in noi, il potere di tenerle fede. Ora, quando noi concepiamo l'ideale morale come un Ente, una Virtualità, una sorgente di energie spirituali, a cui attingiamo il potere nostro di realizzarlo in noi stessi, e a cui possono attin- gere i partecipi della stessa idealità il medesimo potere, e quella virtualità è sentita come divina, e lo spirito perfetto che lo realizza in sé come Dio, la nostra devozione è religione. Vi è dunque per questo rispetto una certa analogia nei rapporti della Morale con la Politica e con la Religione. Il Potere politico realizza le condizioni esteriori della moralità, la Virtù divina realizza le condizioni interiori. E poiché l'attuazione del valore morale consiste essenzialmente nell'atto del volere, cioè è interiore e spirituale, e la conformità materiale ed esteriore trae il suo valore dalla prima; cosí il Potere politico potrà apparire alla coscienza religiosa come mezzo e strumento del Potere religioso. Anzi dovrà apparir tale finché essa considera le condizioni esterne della convivenza come ideal- mente poste e giustificate soltanto in forza della propria idealità, e non giustificabili fuori di quella. Ma se si guarda un po' piú dentro si vede che la coscienza stessa religiosa deve esser condot- ta a riconoscere che quella subordinazione non è neppure per essa necessaria; perché la legislazione esterna trova la sua giustificazione in quella stessa esigenza etica fondamentale, in nome della quale essa coscienza riconosce il valore supremo della propria idealità, e l'autorità divina del Potere che la realizza. È la esigenza del rispetto della persona umana come sorgente di ogni valore; del valore stes- so e della inviolabilità della fede che essa attesta, e che oppone a ogni altra fede. Ed implica quella libertà che essa non può negare in altra persona senza negarne il valore per sé: che ogni altro deve riconoscere a lei per non vilipendere la propria; che è il principio da cui muove e il termine a cui riesce ogni elevazione dello spirito. Inoltre: Ogni sforzo che si faccia per tradurre un dovere religioso in obbligo giuridico e dar- gli una sanzione materiale esterna, contraddice, nel momento stesso che sembra affermarla, l'esi- genza della religiosità. Perché tende a sostituire al motivo religioso — del tutto interiore — della devozione e della adorazione, un motivo esteriore e di necessità egoistico; il motivo della sanzione. Il quale si trova cosí invocato a garantire ciò di cui è la negazione: la disposizione interiore dello spirito, e la purità delle intenzioni. Ed è poi, questa distinzione e indipendenza del Potere politico e della legislazione esterna da ogni particolare fede religiosa, da un punto di vista obbiettivo, inevitabile non meno che la indipen- denza già notata da ogni particolare idealità morale. Perché ciò che fa la certezza e la inconfutabilità della convinzione religiosa è insieme ciò che ne fa la incomunicabilità e la indimostrabilità. È certo che la «esperienza religiosa» del mistico non può essere negata da altri. Le intuizioni alle quali essa si riconduce sono, per la coscienza che le prova, certe di una certezza diretta, cioè anteriore a ogni prova, non meno delle sensazioni. Ma al pari di queste non sono comunicabili ad una coscienza che non le prova e non le vive. Potrebbe parere materia di discussione l'interpretazione che il mistico fa di questi dati, il momento (che l'analisi obbiettiva può distinguere dal momento dell'intuizione) per il quale la co- scienza trapassa dalla intuizione sua, dall'esperienza propria diretta, all'affermazione del divino in sé, come oggetto dell'intuizione. Ma anche questo processo sfugge alla discussione perché non è logico ma psicologico: anzi non è per la coscienza del mistico un passaggio, una argomentazione, ma una integrazione che si pone coll'atto stesso dell'intuizione e che è vissuta con la medesima certezza. Perciò, chi vuol sotto- porre dal di fuori questo processo ad analisi critica, analizza in realtà qualche cosa di diverso. Ana- lizza il processo discorsivo che dovrebbe fare, per provare la validità della sua conclusione, una co- scienza che non senta già la certezza di questa conclusione; o, piú esattamente, che consideri come conclusione di un passaggio logico, quel che per il mistico non è conclusione logica, ma è evidenza psicologica. E d'altra parte è pur vero che questo medesimo carattere di evidenza immediata che rende la certezza del mistico invulnerabile ad ogni attacco di critica, le toglie nel medesimo tempo ogni pos- sibilità di dimostrazione. Se poi la certezza religiosa si fonda sull'autorità e non sull'«esperienza» non ne è perciò me- no inevitabile la individualità e la incomunicabilità. Perché se l'autorità della rivelazione è accettata come tale per un atto di ossequio, di riverenza e di devozione alla divinità dalla quale è data, essa è un atto di volontà, non di ragionamento, e presuppone quella certezza del divino, alla quale essa ri- velazione dà bensì un contenuto dogmatico, ma non dà, se non lo trova, il valore di certezza. E se la mia coscienza la accoglie in virtù di prove teoriche o storiche o morali, per le quali sia indotta a riconoscere nella rivelazione stessa un'origine divina, le prove della rivelazione (sup- ponendo pure superati tutti i problemi che vi si riferiscono) non sono prove della certezza che io ho del divino, ma sono prove che mi inducono a riconoscere nella rivelazione un segno di quel divino, di cui ho la certezza. Ma il riconoscere questo carattere interiore personale e insindacabile cosí delle diverse idea- lità etiche come delle diverse credenze religiose (anche se si accompagni alla consapevolezza che ciò che costituisce la legittimità e inviolabilità dell'una è, nello stesso tempo, ciò che costituisce la medesima legittimità e inviolabilità di ciascun'altra), non è la medesima cosa che spogliare ognuna di esse di quella tendenza alla negazione non solo, ma alla esclusione delle dottrine opposte, che è propria di ogni fede, vale a dire della affermazione del valore intrinseco di una idealità, che per ciò si riconosce come degna di valere universalmente. In questa diversità e molteplicità varia e inesauribile di valutazioni sta la fonte di ogni in- cremento della cultura e di ogni elevazione spirituale. Ciascuna di queste voci è una voce umana, la voce di una persona; e ciascuna deve poter farsi sentire. Ma quella ragione medesima che pone questa esigenza ne pone il limite; e i limiti sono i valori morali universali il cui contenuto si allarga e si arricchisce della potenzialità di sempre nuovi valori nella esperienza dolorosa e gloriosa dei secoli; e che tralucono per tutto dove è qualche lume di umanità, perché sono il pregio a cui si riconosce l'uomo e si misura la sua dignità di uomo. Liberum esse hominem est necesse; vivere non est necesse.Ho cercato di mostrare altrove1 come e perché sorga logicamente — e, si può dire, dalla ne- cessità intrinseca dello svolgimento morale — il problema di una pluralità di contenuto nella co- scienza morale; sorga, quando si abbandoni il presupposto che è la forza segreta del formalismo kantiano, che l'imperativo categorico, l'universalità della legge, la razionalità del volere convengano a un solo, a quel solo contenuto, che si pretende poi, nelle deduzioni della dottrina del Diritto e della Virtú, di ricavarne; in termini piú chiari e meno tecnici, quando si cessi di ammettere che la co- scienza morale sia una e la medesima in tutti; non solo per il tono con cui parla dentro ogni persona, ma per le cose che dice; non solo per l'autorità con la quale comanda, ma per ciò che comanda. Questo problema viene a sovrapporsi o meglio ad anteporsi (se non anche a sostituirsi), — e in ogni caso (come pure ho cercato di dimostrare) a mutar senso e posizione — al problema che è tuttora, almeno nella forma consueta, considerato come il problema centrale, il vero problema del- l'etica: quello del fondamento. La quale forma di trattazione sembra supporre — già nel modo di porre il problema (filosofia della morale) — che sul contenuto concreto di ciò che si chiama morali- tà, sul modo di condotta che si distingue come morale, sui criteri coi quali giudichiamo del giusto e dell'ingiusto, del bene e del male, non cada dubbio; e il dubbio riguardi le ragioni per le quali si de- ve veramente tener giusto e buono quel modo di condotta, e legittimo quel criterio; e ingiusto e ille- gittimo il contrario2. Che questo presupposto sia ora, dico non solo nella letteratura, ma nella coscienza viva con- temporanea, arbitrariamente assunto; che nel decidere — se ciò che vale di piú sia la verità, o la bellezza, o la giustizia, o la carità, o la forza; l'affermazione di sé o la rinunzia, l'umiltà o l'orgoglio, la disciplina o l'indipendenza non tutte le coscienze vadano d'accordo; che nella stessa coscienza di una persona non volgare e non ignara dei problemi morali, né estranea alla consuetudine di una sincera e severa meditazione, si presentino, tra questi valori diversi, contrasti e opposizioni non sempre e non facilmente superabili, è ciò che nessuno potrà e vorrà negare; ed è in ogni caso una realtà che non cesserebbe di sussistere e di imporsi all'attenzione, anche se fosse negata. Lo stesso apparire nelle discussioni dottrinali e nelle storie generali e particolari dell'Etica di teorie dette immoralistiche, dimostra che le differenze ci sono e che giungono a tale da dar luogo non solo a contrasti ma ad opposizioni contraddittorie. E qualunque sia il giudizio anche sommario che si voglia portare su di esse bisogna ricono- scere che non avrebbe senso qualificare immorale una dottrina, se il contenuto suo non si opponesse appunto a quello delle dottrine morali come specie a specie nel medesimo genere; cioè se non pre- tendesse di valutare e regolare — in modo diverso — la medesima materia3. Ciò basta a confermare, se di conferma vi è bisogno, che il problema di una pluralità di con- tenuti della morale, ossia di una pluralità di criteri di valutazione, non è un problema di semplice possibilità astratta, cioè una curiosità scientifica e filosofica, ma è un problema d'attualità concreta e viva; è, veramente, a mio giudizio, il problema per eccellenza della coscienza morale contemporanea. 1 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale; Il Vecchio ed il nuovo Problema della morale. Questo modo di vedere è favorito, se non conservato, dal preconcetto, del tutto arbitrario, che la morale sia una dipendenza della filosofia teoretica; e che nella filosofia teoretica sia da cercare la ragione dei criteri e dei principi che reggono e giustificano la condotta. Il quale preconcetto è all'incirca così ragionevole, come quello di chi andasse a cercare nella luce che viene a illuminare una sala, la spiegazione degli atteggiamenti nei quali sono veduti quelli che vi si trovano. 3 Né in sede di discussione e di critica si può respingere senz'altro come amorali o immorali dottrine che hanno pure un loro contenuto valutativo senza assumere come valido appunto quel contenuto di cui le dottrine in questione contestano la validità. Non si comincia un dibattimento giudiziario con una sentenza di condanna.  Del resto, se può parere nuovo il problema, a cui dà luogo — quando si fa piú aperta e mani- festa — la pluralità dei criteri, non è nuova questa pluralità. Anzi, forse non vi è sistema, per quanto vi domini potente lo sforzo logico della coerenza, che non nasconda sotto l'unità, apparentemente raggiunta, del criterio supremo, una piú o meno lar- ga e profonda pluralità o almeno dualità di contenuto. Per non ricordare con Aristotele la duplicità di felicità e virtù — ben vivere e ben fare — e per lasciare l'antica e non mai del tutto superata dualità di vita attiva e di vita contemplativa, l'unità reale di criteri nella valutazione della condotta non è raggiunta se non in apparenza, nella stessa mo- rale teologica cristiana; la quale, mentre non rinunzia, e non può rinunziare, a regolare la condotta umana anche nel rispetto della vita terrena finita, si sforza poi invano di ricondurre i precetti che re- golano questa al medesimo criterio di valutazione che è suggerito o imposto dal contenuto sopran- naturale del fine che la giustifica. E il distacco logico inevitabile tra il fine invocato a giustificare le norme e il criterio usato a determinarle, è dissimulato ma non superato, nell'unità della rivelazione o della intuizione religiosa. Perfino nell'età del razionalismo, nella quale l'unità di natura e l'identità di doveri e di diritti di tutti gli uomini è affermata col massimo di consenso e di calore, indipendentemente da ogni par- ticolare dogmatismo confessionale, l'unità della valutazione morale si può dire raggiunta soltanto perché se ne restringe la considerazione al campo propriamente etico-giuridico, e si trascura o si la- scia nell'ombra la parte piú specialmente personale e che tocca gli aspetti e le forme della vita inte- riore. E quell'unità parziale di contenuto sembra essere il segno e la prova di un unico supremo cri- terio di valutazione morale, perché viene comunemente ricondotto a un fine che dissimula, sotto l'i- dentità nominale del termine, la possibilità di determinazioni diverse per quel che tocca la parte del- la condotta etica che sfugge all'attenzione di quel tempo; e che riguarda i fini propri della persona, e le forme della vita interiore. Ma il romanticismo e lo storicismo, per vie diverse ma cospiranti, posero in luce quel che il razionalismo aveva lasciato nell'ombra o trascurato; e l'uno affermando, illustrando ed esaltando la ricchezza, la varietà, il valore, se non esclusivo, superiore della vita spirituale e della attività interio- re, originale, spontanea; l'altro cercando nella realtà storica la ragione e la giustificazione delle for- me di vita sociale, religiosa, politica che in nome della natura e della ragione erano state condannate, avevano condotto a questo doppio risultato: per un verso, ad allargare smisuratamente l'ambito della vita interiore, raccogliendo e quasi contraendo in essa tutte le attività spirituali, facendone il campo piú degno, e, se non esclusivo, certo dominante della condotta morale, e comprendendovi della vita sociale, al più, quel che in essa si dispiega di spontaneo e d'ingenuo: la pietà, la carità, l'amore, con l'aperta tendenza a distinguerlo non solo, ma a staccarlo dalle attività considerate come esteriori, della vita politica e giuridica. Per l'altro verso, a negare, non solo ogni realtà ed ogni fon- damento storico, ma ogni valore, alle costruzioni politiche e giuridiche del giusnaturalismo; alle dottrine dello stato di natura, del contratto sociale, dei diritti innati; e a considerare come un prodot- to storico le forme politiche e giuridiche; le quali trovano, nelle condizioni che le hanno generate e che le rendono adatte rispettivamente alle esigenze dei popoli diversi in luoghi e tempi diversi, la loro giustificazione necessaria e sufficiente; e quindi a fare il diritto estraneo all'etica e indipendente da qualsiasi giustificazione morale, lasciando aperto il campo alle piú svariate forme di relativismo: biologico, sociologico, storico. Cosí quel che per il razionalismo era il contenuto comune della coscienza morale, finiva per essere considerato quasi estraneo alla morale. E mentre si faceva piú largo e piú profondo il distacco tra interiorità e esteriorità, si attenuava sempre piú la distinzione tra i valori morali e i valori spirituali di diversa specie e di diverso contenuto, e prendeva colore e calore di valutazione morale una molteplicità sempre piú varia di tendenze, di aspirazioni, di attività, di fini di- versi. Per tal modo penetra nella vita e nella cultura, e si manifesta non solo nella filosofia, ma in quella che si chiama piú propriamente letteratura, quella molteplicità di indirizzi, di opinioni, di ere- sie morali che è la caratteristica, e che esprime, per dir cosí, la maturità storica del problema, prima dissimulato e trascurato. Non si vuol dire, né sarebbe a priori probabile, che ad ogni novità di intuizione particolare, geniale o no, su questa o quella forma di vita e di attività individuale, su nuovi aspetti della cultura speculativa o religiosa o sentimentale, su nuove direzioni della volontà, sul valore dei tipi di istituti, familiari, politici, economici (reali o immaginati) corrisponda una diversità di criteri morali; né tan- to meno che ciascuno esprima una orientazione di coscienza morale radicalmente diversa dalle al- tre; ma neppure è possibile dissimulare che questa molteplicità è altra cosa dalla «dualità» notissi- ma, che nella tradizione e nella credenza comune e nella dottrina piú largamente diffusa, raccoglie- va e, direi, polarizzava attorno a due termini contrari i valori della vita, opponendo i beni razionali ai beni sensibili, e negando a questi ogni valore morale. Perché, lasciando pur fuori di questione ciò che tocca i beni detti sensibili (per semplicità di discorso, non perché anche su questo punto le que- stioni sieno escluse di fatto, o siano da escludere a priori), la caratteristica nuova e piú rilevante di tale molteplicità, è appunto questa: che è nel regno stesso dei beni razionali, che la diversità delle tendenze si è venuta delineando sempre piú spiccata. E i contrasti di tendenze e di opinioni si rive- lano anche, anzi soprattutto, nel campo di quei valori che era pacifico considerare come patrimonio, se non uno e indivisibile, almeno indiviso, e non costituito di parti discordanti. E mentre si venivan disegnando, cosí, conflitti di primato, se non contrasti irreducibili, tra i valori stessi tenuti tradizionalmente come superiori, si presentavano: di là, idealizzate, e sotto veste di valori razionali — o giustificate in nome di esigenze razionali — tendenze e forme di vita spon- tanee, passionali, o istintive, considerate già come estranee se non contrarie alla vita morale: e di qua si esaltavano come centro e culmine dei valori morali le forme religiose, intuitive, sentimentali e mistiche, avverse, almeno in apparenza, ad ogni pretesa di procedimento razionale, e che ad ogni modo si affermavano in atti di aperta sfida contro la ragione. E insieme si negava ogni significato etico — anche nella loro forma di idealità sociali e politiche — a quei principî razionali del diritto, nei quali il secolo precedente aveva visto ad un tempo il segno piú alto della dignità umana e il maggior trionfo della ragione. Di fronte a cosí grande e cosí varia pluralità di contrasti tra criteri di valutazione, o tra «scale di valori» diverse, può bastare a risolvere i conflitti e a ricostituire — posto che sia necessaria — l'unità del contenuto, e l'universalità del consenso, affermare che la morale è universale perché è ra- zionale, o è razionale perché è universale? Né è possibile fare appello alla ragione come autorità morale suprema quando i moralisti che se ne fanno interpreti non riescono, pur affilandone tutte le armi, né a convincere né a vincere i de- trattori, se non argomentando ad hominem cioè facendo appello a qualche principio o criterio da quelli stessi assunto od ammesso. E i detrattori non riescono a formulare neppure una sentenza di condanna che abbia, non si dice un valore, ma un significato quale si sia, senza servirsi di quella ra- gione che coprono di contumelie, e che presta pure la sua assistenza, con divina larghezza, anche a chi la bestemmia. Dal che parrebbe di dover ragionevolmente concludere che della ragione non si può fare a meno, in materia di morale piú che in qualsiasi altro campo; ma che non si può trovare in essa la sorgente delle valutazioni morali. E tuttavia non solo fu — nell'età aurea del razionalismo — ma è tuttora largamente sostenuta ed accolta, non senza che la tenacia degli sforzi abbia un profondo significato, l'idea di cercare nella ragione anche ciò che la ragione non può dare; e di riferire a lei non soltanto l'esigenza della coerenza, dell'unità, e quindi di leggi, di criteri e massime, ma anche di certe leggi e di certi criteri, piuttosto che di leggi e criteri diversi. Ma l'idea è illusoria. E l'illusione sta in ciò essenzialmente: nel credere che la ragione obbli- ghi ad ammettere non soltanto certi giudizi, dato che se ne accettano certi altri, certe conseguenze, se si accettano certe premesse; ma obblighi senz'altro ad accettare certi giudizi: quei giudizi stessi che fanno da premessa; che «esser ragionevole» voglia dire non soltanto osservare le leggi della logica, rispettare quei principi logici senza dei quali non è possibile nessun ragionamento e nessun «uso della ragione», ma voglia dire essere obbligati a riconoscere "certe verità", ad ammettere certi principî; principî non logici o formali, ma materiali; dati o postulati che facciano da sostegno al ra- gionamento, e comunichino la loro certezza ai giudizi che se ne ricavano. Ora io lascio di considera- re, perché non è necessario qui, il campo dei giudizi propriamente teoretici e la distinzione che sa- rebbe necessaria tra giudizi condizionali e giudizi di esistenza; e mi restringo al campo «pratico». In questo adunque la ragione sarebbe essa che pone ad un tempo l'esigenza della legge e la legge; cioè, non solo l'esigenza dell'unità e le norme da osservare per realizzarla, ma anche i criteri attorno a cui si deve raccogliere questa unità; quei giudizi stessi che non si giustificano, ma che servono di fon- damento alla giustificazione. Questa «funzione pratica»4 della ragione si può intendere in tre modi diversi: O i criteri di valutazione, i giudizi di valore che stanno a fondamento dei giudizi morali, hanno la stessa validità e si possono o dimostrare o porre con la stessa necessità od evidenza con la quale si impone la validità delle forme logiche. Oppure se il dato o principio che sia a fondamento delle valutazioni è diverso dalle verità teoretiche, assunto dalla ragione, non posto da lei ma offerto a lei, questo dato è tale che essa non ha che da scoprirlo, da formularlo, da presentarlo alla riflessione di ogni uomo ragionevole per- ché ne sia riconosciuta ed ammessa come indiscussa e indiscutibile la validità. — O finalmente è la ragione stessa che pone la legge, ed è l'esigenza razionale che basta a determinarla, senza che a costituire la validità della legge e del contenuto che essa incorpora in con- formità della sua esigenza, sia necessario riconoscere la validità di alcun dato o principio materiale estraneo alla forma stessa della legge. Non vi sono che queste tre vie possibili; e sono le vie che anche storicamente il Nazionali- smo ha seguito con maggiore o minore sforzo di argomentazioni e varietà e ricchezza di gradazioni particolari. La prima via, la piú antica, quella aperta da Socrate quando si presentò per la prima volta il problema morale in condizioni analoghe per certi rispetti (nessuno pensa a dire uguali) a quelle che lo fanno risorgere ora in una forma somigliante (il contrasto nelle opinioni intorno a ciò che è bene, o in breve, il problema della pluralità dei criteri morali), è la via che si direbbe piú propriamente in- tellettualistica. I principî morali sono verità5 della medesima natura delle altre, accertabili teoreti- camente, o deducibili da verità teoretiche. È l'indirizzo del quale ho parlato già altrove6 e il cui vizio radicale consiste nel fare dei giudizi di valore giudizi teoretici, e pretendere di derivare quelli da questi. Ma quanto alla derivazione nessuno sforzo logico può fare che concluda con un giudizio di valore un ragionamento che non abbia per premessa, espressa o sottintesa, un giudizio di valore. Quanto alla certezza immediata nessuna evidenza logica può fare che sia contraddittorio in sé stimare di piú il proprio cane che il prossimo, se non si suppone che io ammetta che un uomo 4 Questa espressione può avere in morale tre sensi diversi che importa distinguere. Si può intendere che dipen- da dalla ragione il valutare, cioè riconoscere e graduare i valori; o che dipenda dalla ragione il conformare la condotta alla valutazione, muovere la volontà: e questi sono i due sensi che rispondono all'uso piú comune del termine «pratico» e che pur si confondono tra di loro, benché siano diversissimi; come è diverso riconoscere la giustizia o la bontà di una norma e osservarla, stimare la virtú e praticarla. Ciò che è in discussione qui e nel seguito è sempre, se non si dica espressamente il contrario, il primo signifi- cato. Finalmente vi è un terzo senso, quello propriamente kantiano, che consiste nel riconoscere la possibilità e la le- gittimità di affermare per il bisogno morale l'esistenza di ciò che la ragione speculativa non può conoscere; di fondare sulla morale una certezza metafisica che è preclusa all'uso teoretico della ragione; ed è a un tal uso che si riferisce, come tutti sanno, la notissima espressione «primato della ragion pratica. La tesi morale di Socrate è duplice come tutti sanno: che il bene e il male si possono conoscere (se ne pos- sono fare dei concetti veri) come si conoscono le altre cose. che conoscere il bene e praticarlo è il medesimo, ossia che la moralità (la pratica del bene) è sapere; chi fa il male lo fa perché ignora che cosa sia il bene. La prima tesi sta indipendentemente dalla seconda che qui è lasciata in disparte. Di solito quando si parla della tesi di Socrate in tema di morale si intende dire di questa seconda e non di quell'altra, la quale anzi è comunemente ascritta, e in un certo senso giustamente, a merito di lui. Vecchio e nuovo Problema]qualsiasi vale piú di un qualsivoglia cane, o che dove c'è pensiero, ivi c'è una dignità incomparabile con qualsiasi pregio di natura diversa. Ma in questo caso la contraddizione è tra un mio giudizio e un altro mio giudizio; che si suppone pure ammesso da me e per me valido. Ma chi o che cosa mi obbliga ad ammettere questo valore del pensiero? E perché cadrei nell'assurdo se lo negassi? Forse perché con ciò diminuisco o nego un valore che è anche mio? Sarebbe dunque il rispetto e la stima di sé un principio logico? E la despectio sui del Geulinx contiene dunque una contraddizione in termini? Se si incalza che il giudizio sulla inerenza all'uomo di proprietà o doti che mancano al cane è di evidenza oggettiva e che riconoscere un maggior valore all'uomo che al cane è la stessa cosa che riconoscere all'uomo una maggior realtà, cioè una maggior perfezione, è facile avvertire che in que- sta identificazione si assume appunto ciò che è in questione: che la perfezione o il pregio delle cose e delle proprietà delle cose sia accertata o accertabile teoreticamente come la loro esistenza e appar- tenenza; mentre basta una non lunga riflessione per accorgersi che il giudizio sul pregio e sul valore o il «grado di perfezione» di qualsiasi ente o proprietà implica il riferimento a una gerarchia, a un ordine, a un disegno, cioè in ultimo, a un modello, e quindi a un fine attuato o da attuarsi. E, che possa o debba valere come fine, che meriti di valere, non è un giudizio in realtà; tanto che il negargli questo valore non implica negare sia la realtà, sia la possibilità, sia alcuna delle proprietà dell'ente. Cosí come negare alla sfera il valore di forma perfetta che le davano i peripatetici, non implica per GALILEI (si veda) la negazione né della costruibilità della sfera, né di alcuna qualesivoglia delle sue proprietà geometriche. La sfera rimane la sfera. Si potrà o non si potrà ammettere che essa abbia, in grazia di quelle proprietà, un pregio particolare, ma l'ammetterlo o negarlo non appartiene alla geometria; e mentre io rinuncio ad essere intelligente se non capisco il concetto della sfera, e rinunzio ad essere ragionevole, se non ammetto tutte le proprietà che ha o avrebbe una sfera reale costruita secondo quel concetto, non rinunzio né all'intelligenza né alla ragione se nego che la sfera valga piú del cubo o della piramide. Lo stesso, mutatis verbis , vale per l'esempio allegato del cane e dell'uo- mo. Senonché qui un rosminiano potrebbe insistere, che il caso è appunto diverso e che la diversità ha un suo significato: perché mentre io non provo internamente alcuna ripugnanza ad ammettere che la sfera non valga piú della piramide, non posso senza ripugnanza invincibile, ammettere che il cane valga quanto l'uomo. Che è questa ripugnanza, se non il segno della «contraddizione che nol consente»? Che nell'esempio citato -- non per nulla nella scelta SERBATI (si veda) ha la mano felice -- la repu- gnanza ci sia, è innegabile — sebbene le tenerezze di certe dame possano far dubitare della univer- salità del riconoscimento —; ma questa ripugnanza è una ripugnanza morale, non una incongruenza o contraddizione teoretica, ed è comune nella misura in cui è comune la valutazione su cui si fonda. Anche qui, ancora e sempre: negando questa differenza di valore tra il cane e l'uomo io non nego nessuna delle differenze di realtà che esistono e che si possono conoscere; non nego nessuno dei ca- ratteri e delle proprietà dell'uomo o del cane, qualunque poi sia il giudizio che faccio sul valore di- retto o indiretto di ciascuna di quelle doti e di tutte insieme, e degli esseri che le posseggono. Che io faccia maggior conto del potere di astrazione dell'uno che della finezza di odorato dell'altro, o che apprezzi di piú l'amore della libertà dell'uomo che la ubbidienza cieca del cane, non è per nulla una implicazione necessaria del riconoscere rispettivamente nell'uomo quella proprietà che nego nell'al- tro. E il giudizio potrebbe essere rovesciato, e un grossolano estimatore di tartufi potrebbe preferire il fiuto del suo cane a quel qualunque potere di astrazione che la natura prodiga ha largito a lui pure, senza che muti di un ette la verità riconosciuta da ambedue: che l'uomo ha un certo senso meno fine del cane, e il cane manca di un potere che ha l'uomo. — E se finalmente accadesse davvero, come parrebbe anche naturale, che nessuno potesse disconoscere la differenza di valore tra i due, questa universalità di riconoscimento non cesserebbe di essere, per la sua natura e per il suo fondamento, diversa da quella. L'essere universalmente ammessa una differenza di valore fra i due enti, prova, nel caso che è universalmente ammessa o sentita l'esigenza morale in grazia della quale quella dif- ferenza è posta: ma non prova che il giudizio di valore, cosí espresso, sia una conoscenza teoretica; ossia, comunque, riducibile alla conoscenza oggettiva dei due esseri, o ricavabile da questa. La verità è che i giudizi morali (come ogni altro giudizio di valutazione) paiono della stessa natura dei giudizi teoretici perché sono nella massima parte, e con una frequenza di gran lunga maggiore, giudizi derivati e possono presentarsi sotto forma di giudizi derivati, anche quando sono considerati, sotto un altro rispetto, come primari e assunti come tali in una costruzione diversa. Ora nei giudizi derivati, la validità della valutazione è ricondotta alla validità di un altro giudizio (primi- tivo o primario o diretto) con un processo, che non differisce in nulla, quanto alle leggi logiche che ne governano la legittimità, dal comune processo di dimostrazione col quale si prova la connessione necessaria di certe conseguenze con certe premesse. Con questa circostanza, per dir cosí, aggravante: che, come s'è accennato, accade di frequente, anzi solitamente, che quegli stessi giudizi che figu- rano in un processo di giustificazione come premessa o principio, compaiono o possono comparire in un altro ragionamento come conseguenza o conclusione. Tanto che riesce difficile decidere, quando si tratta di valutazione, quali siano i giudizi primitivi, e quali i derivati, comparendo a volta a volta secondo le costruzioni diverse e i diversi punti di vista e talvolta nello stesso autore (e senza che si possa per ciò solo appuntare i ragionamenti corrispondenti di circolo vizioso e di petizione di principio), come giudizi derivati, dei giudizi che figurarono in altro luogo, e per un altro proposito, come primitivi, e inversamente; al contrario di quel che accade di solito nelle costruzioni scientifi- che: dove i principî o proposizioni fondamentali hanno e conservano costantemente il loro carattere e il loro ufficio. Sfuggendo cosí all'osservazione, per la vicenda di ufficio logico al quale possono a volta a volta essere assunti, quali siano i giudizi di valore primitivi, cioè quelli in cui si assume la validità diretta e immediata (senza che sia ricondotta alla validità di qualche altro giudizio), riesce piú difficile, o almeno si presenta meno frequente e meno aperta, la opportunità o la necessità di e- saminare la natura e di coglierne questo carattere di diversità, radicale e irreducibile, dai giudizi teoretici. La quale diversità può sfuggire anche piú facilmente o essere posta in luce tanto piú diffi- cilmente, per un'altra circostanza che ha a quest'effetto un influsso anche piú decisivo. E la circostanza è questa: che una parte considerevole dei giudizi valutativi che assumono piú frequentemente valore di primari, o sono abitualmente sottintesi (tanto sono o si suppongono incontestati), o sono incorporati e quasi assorbiti nei giudizi teoretici, senza che l'apprezzamento, per lunga consuetudine congiunto all'idea dell'oggetto, o della proprietà, o dell'atto, o dell'effetto possibile, sia formulato in un giudizio distinto; anzi, talvolta, neppure sia espresso piú nell'enunciazione del giudizio stesso da una di quelle particelle (aggettivi, avverbi, interiezioni) che portano nel giudizio la espressione di una valutazione, o, come si può dire con forma piú generale, la nota del sentimento; la quale non appare talvolta che nel tono di voce dell'interprete o lettore, o si rifugia nella scelta sapiente delle parole e delle sfumature suggestive, di cui è ricca una lingua satura di civiltà. Dire di un uomo che è indolente o che è intemperante, è, se non si parla a vanvera, attribuir- gli una qualità, della quale è possibile dimostrare che veramente gli spetta, cioè si posson dare delle prove oggettivamente certe e accertabili: è un giudizio teoretico. Ma ognun vede che vi è tacitamen- 7 È tuttavia da notare anche qui una tendenza a considerare l'ufficio logico rispettivo di principî e di conse- guenze, suscettivo di essere invertito. Così nella piú rigorosa delle scienze deduttive, la geometria, si può vedere la pos- sibilità, sfruttata per ragioni didattiche o anche per maggior semplicità o eleganza di costruzione, di invertire la dedu- zioni; assumendo come dato quel che si è ricavato, e inversamente; come avviene del resto nelle dimostrazioni della connessione reciproca di due proprietà fra di loro.] te assunto insieme un giudizio di valutazione, nella misura che l'indolenza o l'intemperanza sono per chi parla o per chi ascolta qualità non pregevoli, o biasimevoli; il che diventa evidentissimo quando si tratti di qualità o di attributi, o modi di operare piú gravemente e piú universalmente biasimati, come si dicesse: bugiardo, venale, falsario e simili. Anzi, i giudizi di valutazione sono gravi in pro- porzione della loro prova teoretica assai piú che delle espressioni di biasimo che li accompagna; ap- punto perché il biasimo può essere piú facilmente sottinteso. E non per nulla la diffamazione è punita piú dell'ingiuria. Cosí il giudizio valutativo (sottinteso) sembra essere fondato su prove, come si dice, di fatto, ossia su giudizi teoretici; mentre i giudizi teoretici provano bensì l'esistenza del fatto o la legittimità dell'imputazione, ma non provano in nessun modo il valore dell'azione. Il qual valore è già riconosciuto e ammesso e incorporato nell'idea di quel modo di operare, di quel difetto o colpa di cui l'azione è prova, e non ha bisogno di essere formulato a parte perché tutti lo sentono e tutti lo sottintendono. Ora i giudizi di valore a cui si dà ufficio di primari, cioè che si assumono a fondamento degli altri e alla cui validità si riconduce la validità di questi, sono presi, solitamente, tra i giudizi il cui valore per essere comunemente riconosciuto e, come si dice, pacifico, è appunto piú facilmente sot- tinteso. Quando si è detto a una persona intelligente «bada che quella pistola è carica», non occorre altro discorso per persuaderla a maneggiarla con prudenza; e nessuno pensa che è sottinteso, o meglio, nessuno ha bisogno di pensare distintamente che è sottinteso, un giudizio sul valore della vita, e che l'avvertimento non avrebbe peso se la vita non valesse piú di una cartuccia. Ora il giudizio: la vita è un bene; che qui è sottinteso, può essere considerato come primario, per esempio in tutti i precetti dell'igiene (dove anzi fa da primario un giudizio, che è già esso derivato rispetto a questo, sul valore della sanità): ma può essere non primario per chi giustifica a sua volta il valore della vita col valore del sapere, o del bello, o della giustizia, o della carità, o della potenza, o della gloria, o di qualsiasi altro ordine di fini o di attività o di godimenti. Ma poi, quando si dice che l'arte, o la scienza, o la pietà sono un conforto della vita, si fa di ciascuno di quei beni che sopra sono assunti come beni per sé, un bene derivato rispetto a quello della vita. E cosí se si dice che il sapere accresce la ricchezza, o la giustizia assicura la tranquillità, o l'onestà alimenta la fiducia reciproca, si pongono, almeno occasionalmente, come derivati, dei valo- ri primari, e si assumono come primari rispetto ad essi, dei valori derivati. È adunque chiaro che i giudizi di valore si legano fra di loro in una catena continua, anzi in un groviglio di catene, del quale non è necessario qui cercar di capire piú particolarmente la struttura; e che per queste mutue e varie connessioni delle diverse valutazioni fra di loro, si può assumere come primario in un sistema di deduzioni un giudizio di valore che figura come derivato in un sistema diverso. Ma in qualsiasi processo di giustificazione, questo giudizio primario di valore e- spresso o sottinteso ci deve essere; e si tratta di vedere — nel caso di valutazioni morali — non se spetta alla ragione giustificare la scelta, ossia dimostrare da che cosa nasca l'attribuzione di valore (che sarebbe precisamente fare del valore diretto un valore derivato; la quale dimostrazione, se è possibile, nessuno dubita che sia un processo razionale); ma, se ci sia un principio di valutazione, una affermazione diretta o primaria di valore che sia razionale in sé, e che si distingua come razio- nale da altre valutazioni primarie, che non siano in sé razionali; cioè che non sia razionale accetta- re, che la ragione impedisca di ammettere. Se si tien conto di quanto s'è avvertito sopra, la questione della razionalità o irrazionalità dell'egoismo si riduce a vedere se l'egoista, accettando il principio assiologico che assume come primario quando giustifica il suo sistema di valutazioni egoistiche e le massime di condotta corri- spondenti, rinneghi la ragione, e quindi, poiché è ragionevole, si trovi in contraddizione con se stes- so. E cadrebbe in contraddizione: O perché operando da egoista non raggiunge lo scopo al quale è rivolta la sua opera. O perché il criterio egoistico contrasta con altri che l'egoista stesso in quanto egoista non può fare a meno di accettare e di ammettere. È certo che l'egoista spesso sbaglia i conti e fallisce lo scopo; ma questo non ha che fare nel- la questione. I conti li sbagliano un po' tutti, o li possiamo sbagliare, senza che ciò voglia dire nulla circa il valore o il disvalore, la dignità o l'indegnità dei nostri scopi. Lo sbagliare riguarda la scelta o l'uso dei mezzi e dà luogo ad un giudizio di abilità o inabilità, di successo o di insuccesso; e sba- gliano i conti i filantropi forse piú spesso degli egoisti. Lasciamo dunque le delusioni che possono venire agli egoisti da errori di calcolo. Concludente invece, anzi decisiva, sarebbe, se valesse, l'altra obbiezione che non si possa essere egoisti senza contraddirsi. La quale però ha il torto di configurare un egoista incoerente (an- che se in realtà è il tipo comune, anzi forse cedendo appunto alla suggestione della realtà) cioè, che pretende bensì di subordinare ogni interesse, di qualunque genere, degli altri al suo interesse pro- prio, ma pretende insieme che gli altri non facciano cosí; e ha l'aria di dire agli altri: ma, insomma, se fate gli egoisti anche voi, come faccio io a servirmi di voi per i miei comodi? Naturalmente quando si è foggiato un egoista su questo tipo, è facile dimostrare che si contraddice. Non è mai, in generale, molto difficile ritrovare in qualche cosa qualcos'altro che vi sia posto dentro prima. Ma non vi può essere un egoista coerente? E come si dimostrerebbe che non vi può essere? Vediamo come dovrebbe essere; e se, essendo coerente, cesserebbe di essere egoista. Questa è ma- nifestamente la tesi che si deve dimostrare per concludere alla irrazionalità dell'egoismo. Egoista coerente è chi riconosce buono l'operare di ciascuno quando è dettato dal suo inte- resse maggiore, ossia buono per ciascuno il modo di operare che procura ad esso operante il mag- gior numero di vantaggi e il minor numero di danni; ossia, un egoista coerente è esso senza riguardi 8 Non si può considerare come esempio di contraddizione intrinseca dell'egoismo il caso frequentissimo e co- munissimamente notato di chi si mostra in questa o quella circostanza egoista perché opera da egoista o come se fosse egoista, mentre sente dentro di sé di «aver torto», sente che la sua azione presente è disforme da quel modo di operare che la sua coscienza morale riconosce come giusto; quel modo di operare che egli approva quando giudica le azioni de- gli altri e che egli stesso seguirebbe se non fosse in gioco. Ossia egli sente che dovrebbe fare così e sente che farebbe così se il fare non gli costasse un sacrifizio; il sacrifizio di quella certa sua piú o meno grande comodità. Ora certamente qui (ed è il caso comune, tipico, notato migliaia di volte del contrasto, dello scontento interiore e del rimorso) questa discordia interna è colta e segnalata dalla ragione. È una esigenza razionale l'unità delle valutazio- ni, la costanza dei criteri, la coerenza tra il valutare e il fare, ed è un processo razionale che rivela le incoerenze e i con- trasti. Ma la questione non sta qui. Il contrasto segnalato per il quale chi opera da egoista è colto in fallo e deve riconoscere il suo torto, è possibile perché il supposto egoista ha operato bensí da egoista, ma sente e giudica e valuta conforme a giustizia. Egli è in con- traddizione perché il criterio di valutazione, cioè di scelta tra i motivi, seguíto nella sua azione concreta è contrario al criterio di valutazione che egli accetta come persona morale, che applica nel giudizio sulle azioni altrui e, in quanto rie- sce ad essere imparziale in causa propria anche a se stesso. E la vera questione qui sarebbe di vedere se quel criterio di valutazione che egli accetta come persona morale è posto dalla ragione; se dato che non fosse sentito e accettato dalla sua coscienza, potrebbe un processo razionale farlo sorgere per gli altri, ma ammette e trova naturale e legittimo nello stesso tempo, che ciascun altro sia senza riguardi per lui. È pronto a sopraffare, potendo farlo senza danno, gli altri; ma non protesta se altri, potendo, sopraffà lui. — Dov'è qui la contraddizione? Si dirà che cosí facendo si riesce all'uno o all'altro di questi risultati: o alla limitazione reciproca degli egoismi per mezzo di norme di condotta che li renda compatibili, e abolisca lo spettro hobbesiano del «bellum omnium contra omnes»; o al riconoscimento del valore supremo, della forza come criterio ultimo della condotta. Ora il primo risultato — si dirà — è la negazione dell'egoismo; l'egoismo, diventando ragio- nevole sbocca in un criterio diverso, anzi contrario: si fa legge, cioè diritto, cioè giustizia. Il secondo tiene sospesa sull'egoista la spada di Damocle della sua condanna: il piú forte d'oggi può essere piú debole domani, il piú forte contro i singoli è meno forte contro la coalizione dei singoli. Il numero, il «gregge» può sopraffarlo; e se lo sopraffà esso ha ragione perché è il piú forte. Per sostenere che il criterio della forza deve valere soltanto tra i singoli e singolarmente presi, occorrerebbe un altro presupposto, un altro giudizio, un altro criterio fuori della forza, che valga a distinguere entro quali limiti l'uso della forza è legittimo. Ma fuori di questa clausola (che ricondur- rebbe al risultato precedente), la forza contiene in sé la propria condanna perché genera da sé la propria negazione. Né l'uno né l'altro di questi discorsi che paiono vittoriosi è, se si guarda spassionatamente, concludente. Cominciamo dal secondo. È bensì vero che l'egoismo se non scende a patti con gli egoismi che gli si possono contrapporre sbocca nel criterio della forza; ma il criterio della forza non si nega e non si smentisce finché si ammette che esso valga per tutti, che la mia volontà sia legge finché il piú forte sono io, e che sia legge la volontà degli altri quando piú forti sono gli altri. Sarebbe invece smentita appunto, quando valesse finché il piú forte sono io e non valesse piú se il piú forte è un al- tro. Si può dunque dire che il criterio della forza può riservare delle sorprese, e portare, a chi l'accet- ta, piú danni che utili. Ma non si può dire che sia in sé contraddittorio; come non è contraddittorio per un giocatore accettare la legge del gioco coi suoi rischi e le sue promesse, anche se queste sono superate da quelli. Ciò riguarda dunque, non la coerenza intrinseca del criterio, ma la questione se a un egoista accorto convenga o no di farne la sua legge. Se ci pensa bene, se pesa il pro e il contro con pruden- za, forse non sceglierà una strada nella quale i pericoli sono superiori alle speranze. Se si trova difficoltà a immaginare seguíto questo criterio fra gli individui, non c'è che da pensare al principio che ha regolato in ultima istanza, fino a ieri, se non fino ad oggi, i rapporti fra gli stati, e che dovrebbe regolarli sempre secondo l'imperativo nazionalistico o etnico o storico, che passò e passa tuttora - agli occhi di molti - come il solo imperativo seriamente politico. In questa concezione dei rapporti fra gli stati non domina forse nella sua forma rigorosa quella tesi estrema - che lo Stirner formulò per i singoli individui - e che parve ad alcuni per il suo stesso rigore una caricatura ironica dell'a- narchismo di una società di egoisti, che vale fin che mi giova e dura finché mi piace? O si vorrebbe dire che non sono «ragionevoli» i politici, filosofi o no, che accettano e difendono questo crite- rio, non solo come l'unico criterio possibile, - in determinate circostanze storiche, ma come il solo razionale? Senonché anche la razionalità dell'egoismo statale non è data, ma presupposta, o fondata su un presupposto: che l'interes- se, anzi, un certo interesse dello stato abbia un valore incondizionatamente supremo. Ed ecco l'altra alternativa: l'egoismo che si limita e si fa diritto. Ma qui è ancora piú facile scorgere l'equivoco e può parer superfluo il metterlo in evidenza. L'egoista che accetta il diritto come garanzia della sua sicurezza, della sua tranquillità, della sua li- bertà, cioè la limitazione dell'egoismo per motivi egoistici, non cessa perciò solo di essere egoista, e non v'è nessuna contraddizione intrinseca, per lui, nell'accettare condizioni che per lui sono vantag- giose. Che un diritto cosí giustificato non abbia valore morale e non debba identificarsi con la giu- stizia è evidente: che un diritto il quale non abbia altro fondamento che questo calcolo egoistico sia poco saldo e non abbia piú consistenza di realtà storica che lo stato di natura, è inutile dire; ma non si può dire in nessun modo che l'egoista contraddica se stesso quando accetta e riconosce una legge che limita il suo egoismo. E l'economia politica assume, come tutti sanno, l'ipotesi dell'uomo che produce e scambia la ricchezza secondo motivi egoistici e per puri motivi egoistici, ma osserva per- fettamente le altre forme giuridiche piú rigorose della giustizia, senza che questa osservanza venga a contraddire menomamente il presupposto egoistico. Anzi, ognuno sa che la limitazione piú rigida e piú incondizionata dei fini particolari di ciascuno sotto la legge di un dispotismo senza limiti e senza controllo, è giustificata dal Hobbes in nome dell'egoismo e dell'espressione piú elementare e piú grossolana dell'egoismo (la conservazione della vita); e che a un calcolo puramente egoistico si riconducono dall'Helvetius (cosa parimenti notissima) ogni forma di condotta ed ogni azione uma- na. E nelle dottrine che prendono nome di utilitarie (con un battesimo antonomastico che non si ca- pisce se faccia piú torto, come si crede, alle dottrine, o a chi le ha designate con questo nome11), la difficoltà piú grave, la sola difficoltà insormontabile dal punto di vista del proposito che le ispira, è quella che nasce dalla esigenza di conciliare la utilità individuale con la utilità sociale: alla quale e- sigenza si crede di soddisfare nel modo piú efficace, facendo dell'utile della società, il mezzo e la condizione dell'utile individuale; cioè giustificando da un punto di vista egoistico, le norme della vi- ta sociale. E questo stesso sforzo di giustificare con una motivazione egoistica ogni ordine di attività anche piú elevata non solo dimostra che è tutt'altro che evidente la contraddizione intrinseca e la ir- razionalità dell'egoismo, ma fa pensare piuttosto il contrario: che l'illusione di questa possibilità sia nata, e la tenacia dello sforzo alimentata, appunto dall'opinione che la via migliore, se non l'unica, di persuadere che l'operare moralmente è conforme alla ragione, sia di mostrare che le norme morali coincidono con quelle di un bene inteso cioè di un intelligente egoismo. Ma con ciò si suppone o si accetta, ma non si pone la pretesa legittimità evidente per sé del- l'egoismo, come norma suprema di condotta, accanto o contro la legittimità del criterio opposto. Ed è sempre sottinteso il presupposto arbitrario che vi sia un criterio di valutazione il quale è per sua natura conforme alla ragione, di fronte ad altri criteri contrari. Mentre contrario alla ragione non è né l'uno né l'altro criterio per sé. Ma è soltanto la pretesa di accettare un certo criterio e insieme non accettarlo, di ammetterlo come norma di condotta e non applicarlo. Chiedo scusa al lettore se adopero questa volta frasi di questo genere - adatte piú ad effetti stilistici che a precisione di pensiero - per segnalarne il pericolo. Non bisogna dimenticare che in queste espressioni l'egoismo che si nega, l'arbitrio che limita se stesso e molte altre somiglianti, il senso voluto significare è reso possibile perché e in quanto il termine in questione (egoismo o altro) è preso a indicare in una due significazioni diverse: nell'una è l'astratto (la connotazione comune a tutti egoismi); nell'altra è il collettivo (l'insieme degli egoismi particolari e degli arbitri diversi che si contrastano). Il quale è un tacito riconoscimento che gli uomini considerano veramente utili soltanto le azioni che servono a certi fini e a certe soddisfazioni loro. Ma utili in qualche modo sono tutte le azioni; se no (ah questo sí), non sarebbero ragionevoli. Sono utili, o credute utili, al fine a cui sono dirette, economico, scientifico, estetico, religioso, politico, ecc. Che siano dette utili soltanto le prime, parrebbe dunque significare che abbiano vera importanza per l'uomo soltanto quei certi fini, che poi si dimostra con molti discorsi che sono meno nobili degli altri. Su la pluralità dei postulati di valutazione morale \ Con ciò la tesi egoistica cerca di porsi su quella medesima via che è nella tradizione dei si- stemi e delle scuole la via piú comune del razionalismo morale, ed è in effetto la piú semplice, si di- rebbe quasi la piú ovvia ed ingenua: quella notissima di ricondurre le norme a un bene, a un fine, a un ideale, di cui si è riconosciuto o si debba riconoscere incontestabile il valore supremo. Qui ciò che fa da principio della dimostrazione d’assioma medio o proprio della costru- zione morale, è il giudizio in cui si assume questo valore e questa dignità suprema del fine. Posto che il fine assunto sia il fine che l'uomo riconosce come supremo e che si dimostri come le norme morali siano ordinate ad esso, la loro legittimità è dimostrata. Quale sia questo fine e in che consista spetta alla ragione di trovare o di giudicare; di trovare e formulare, se questo fine supremo è dato e si assume come riconosciuta e incontestata la sua vali- dità di supremo; — di giudicare, se su questo valore cade dubbio, o se si pensa che non basti un ri- conoscimento di fatto, ma sia necessario un riconoscimento di diritto; che spetti alla ragione, non già o non soltanto di scoprire, se vi è, un tal fine, ma di giudicare perché esso debba valere. Nella prima maniera il valore del fine e quindi del criterio supremo che la costruzione logica assume, e sul quale si fonda la giustificazione delle norme morali, è manifestamente dato alla ragione, non posto da lei; ma l'assumerlo può apparire e appare praticamente legittimo, finché è ammesso e fuori di contestazione che il fine è supremo, perché è in realtà il fine unico, segnato dalla stessa «natura u- mana»; quello a cui si riducono tutti i fini particolari; che li comprende, li concilia e li subordina tutti. Tale è nella sostanza il procedimento logico delle dottrine che assumono come fine naturale — al quale necessariamente si riconduce o mette capo qualsivoglia fine parziale — la felicità o la perfezione o altro preteso fine dello stesso tipo, che li compendii tutti. Ma è appena necessario os- servare come quegli stessi caratteri per i quali pare cosí naturale, cosí evidente e cosí «ragionevole», riconoscere questo fine come il fine per eccellenza, senza contestazione e senza eccezione comune e costante e incoercibile della natura umana, sono quei medesimi che fanno di questo fine apparen- temente unico, un termine vago e vacuo di ogni contenuto determinato e concreto; del quale nessu- no contesta che sia supremo, finché ciascuno può dare a quel termine il significato che si accorda, per lui, col valore che gli si attribuisce di supremo. Ma perché una qualsiasi costruzione sia possibile è necessario che il termine assuma un cer- to contenuto determinato; il quale contenuto è esso che serve di fondamento alla deduzione; mentre ciò di cui si riconosce come supremo e fuori di contestazione il valore è quella Felicità, o Perfezione, o altro Bene, della quale quel contenuto assume la veste, il titolo e le prerogative; e in nome del- la quale si presenta appunto come fine. E cosí accade che, mentre nell'apparenza il fine è uno, in re- altà è duplice: uno è il fine nominalmente assunto, a significazione indeterminata e che per sé non potrebbe servire a costruirvi sopra che delle tautologie inconcludenti, ma che reca il titolo e le inse- gne, e quasi la formula magica, della sua sovranità: ed è la felicità (o quell'altro termine dello stesso genere); l'altro è il fine realmente assunto. Il contenuto determinato che serve alla deduzione, che regge la dottrina, e che fornisce veramente il criterio al quale si riconduce logicamente la legittimità delle norme, dei precetti e dei giudizi che se ne ricavano. Cosí resta giustificato in nome della felicità ciò che viene determinato in conformità a quel certo contenuto. L'uno serve a costruire, l'altro a dar valore alla costruzione. Ora finché si ammette che la felicità o quel qualsiasi altro termine che lo sostituisce consiste veramente in quel contenuto sul quale si è costruita la dottrina, e l'accordo sulle deduzioni favorisce e conforta questa certezza, la distinzione fra il dato della costruzione e il supposto che lo investe del valore di fine, non ha luogo, o apparirebbe ingiustificata o pedantesca. È, o si ammette come pacifi- co, che il dato e il supposto coincidono, che l'uno esprime il significato dell'altro. Ma se, sotto l'apparente unità del termine si mostrano le differenze di contenuto; e i fini par- ticolari che si credevano fusi e, unificati in quell'unico fine, rivelano la loro incompatibilità; e un fi- ne e un ordine o specie di fini pretende di valere come sommo, subordinando a sé od escludendo gli altri; allora è necessario scegliere. E la scelta tra due o piú specie di "Felicità" (come tra due o piú forme di «Perfezione») non può essere fatta in nome della felicità. Tra due o piú ordini di fini che si presentano come fini della «natura umana» non si può sentenziare in nome della natura; oppure si deve ricorrere a distinzioni tra felicità e felicità, tra natura e natura, che rivelano l'assunzione aperta o tacita di un criterio che serve a distinguere la vera da una falsa o apparente felicità, e a determinare in che consista e in che si appunti la «vera» natura umana. «Considerate la vostra semenza...» E cosí il riconoscimento di fatto si muta in riconoscimento di diritto. Non è questo davvero, finalmente, il compito della ragione? Di far capire, di persuadere, di dimostrare che alcuni fini sono degni e altri sono indegni dell'uomo, alcuni superiori, altri inferiori? E fare questa scelta non vuol dire fare una gradazione di fini, e giudicare quale meriti di essere riconosciuto come il fine supremo che serva di termine di confronto, per subordinare quelli che si conciliano ed escludere quelli che sono inconciliabili con esso? Qui adunque pare veramente che sia razionale, non solo il processo di deduzione dal fine, ma razionale la scelta stessa del fine, il riconoscimento del valore che esso deve avere di fine supremo. Senonché non è difficile scorgere l'equivoco e trovarne la origine. Il criterio in base al quale la ragione giudica la dignità dei fini, ne fa la scelta, la subordinazione e la esclusione, è desunto dal- la coscienza morale, cioè in ultimo da quelle stesse valutazioni che la costruzione razionale è chia- mata a giustificare. In realtà il giudizio della ragione è il frutto di un processo che è bensì esso razionale, ma che si fonda su dati di valutazione morale. Il processo reale, palese o nascosto, è, in breve, questo: La coscienza morale dice all'uomo quale è la condotta buona, la condotta che è giusto che segua, che deve seguire. La ragione mostra (non cerchiamo se con regressione del tutto rigorosa e univoca, ma in o- gni caso adempiendo un ufficio che è propriamente e incontestabilmente suo), mostra, dico, che quella condotta è ordinata a certi effetti, raggiunge un fine che è perciò — dal punto di vista dedut- tivo e giustificativo dell'esigenza razionale che vuole l'unità e la coerenza — il Bene morale; e poiché non sarebbe morale se non valesse come sommo, questo Bene deve essere riconosciuto e posto come supremo. Non è dunque perché la ragione lo giudica supremo che esso vale come fine morale; ma è perché esso deve valere come fine morale, deve adempiere a questo ufficio nella unità logica del si- stema, che la ragione gli riconosce questo valore di fine supremo. Il che viene a dire che il titolo sul quale il giudizio della ragione è fondato, il criterio seguito nella scelta è il carattere che esso assu- me, o è capace di assumere, di fine morale. Riconoscergli questa attitudine, questa capacità a dar ragione dei giudizi morali, a servire ad essi di principio di giustificazione, cioè di dato dal quale razionalmente si ricavano le norme, equi- vale a riconoscerlo come fine morale; e assumerlo come tale, equivale ad assumerlo come supremo. Adunque è bensì la ragione che giudica questa attitudine o questa capacità che ha il fine di servire di giustificazione dei giudizi morali. Ma il valore morale di queste valutazioni è dato, deve essere ammesso o presupposto. La ragione porta il suggello di questo valore su quel fine del quale essa mostra la congruenza con le valutazioni morali. Se in questo proposito di ricondurre le valutazioni della coscienza morale a un fine unico, possa riuscire o no, e, dato che possa, entro quali limiti e con quali frutti, è una questione che qui può essere lasciata in disparte. Ciò che importa notare è che quel «Fine» ha valore supremo per l'uomo dotato di coscienza morale; per una natura umana per la quale valga l'esigenza morale e valgano le valutazioni che essa richiede e che la esprimono. È supremo dunque nell'ipotesi che l'uomo senta la superiorità di certe aspirazioni su certe altre, di certe attività su certe altre, di una «natura» su l'altra. Per far riconoscere il valore supremo di questo fine noi dobbiamo dunque supporre ammes- so il valore di quei giudizi morali, dei quali dimostreremo poi razionalmente la validità, deducendo- li da quel fine. Sono questi giudizi, di cui è o si assume incontestabile il valore morale, il dato o i dati primi della costruzione assiologica; e la ricerca del fine supremo non è che lo sforzo logico di ricondurli a un solo principio di valutazione, a un unico criterio; di costruirli in sistema. Del quale perciò la va- lidità logica, la coerenza necessaria, l'unità di sistema è posta dall'esigenza razionale; ma la validità assiologica esprime una esigenza morale, la quale è già data o postulata [Se i giudizi primari di valore, i criteri ultimi, attorno a cui si raccolgono e ai quali si subor- dinano le valutazioni, sono assunti e non posti dalla ragione, come si può parlare — e manifesta- mente se ne parla con fondamento — di massime di condotta sulle quali tutte le persone ragionevoli vanno d'accordo, e il dissentire delle quali è tenuto come segno patente di irragionevolezza? Che significa ciò se non questo per l'appunto, che basta per riconoscere la bontà di quelle massime, essere ragionevoli, cioè dunque, che basta la ragione a giustificarle? Pare infatti di sí, a prima vista, e si può anche entro certi limiti accettare dall'uso questa for- ma di espressione senza inconvenienti; ma ciò non toglie che l'espressione sia impropria e che l'os- servazione notissima e comunissima prova qualchecosa d'altro; un fatto assai notevole, e a cui si collega una considerazione d'importanza capitale per il modo d'intendere i rapporti tra valori morali e valori di altre specie: che le massime delle quali si discorre, esprimono o valutazioni primarie e- lementari, di cui è superflua, perché è comune e manifesta, ogni giustificazione, oppure delle valu- tazioni nelle quali si incontrano criteri assiologici tra loro diversi. Sono queste valutazioni mediate o indirette che si possono ricondurre cosí all'uno come a ciascun altro dei criteri suddetti; quasi ponte di passaggio a cui mettano capo strade di origine diversa, o linea di intersezione di piani diversi. Cosí nel raccomandare i precetti della temperanza si incontrano stoici ed epicurei, edonisti e mistici, egoisti ed altruisti, sia pure per motivi diversi, ossia in vista di fini diversi e anche opposti tra di loro; e nel raccomandare l'osservanza dei patti, l'homo œconomicus e l'homo ethicus si trovano pienamente d'accordo; ossia qualunque possa essere, tra quelli che sono comunemente accolti, il cri- terio assunto, chi lo accetta, deve ragionevolmente accettare quella norma; o, in altri termini, qua- lunque sia, tra i normalmente possibili, il fine accolto come supremo, chi lo accetta deve riconosce- re che esso richiede come suo mezzo o condizione quel modo di operare. Non riconoscerlo vorrebbe dire volere il fine e non il mezzo. Ora riconoscere che se si vuole il fine bisogna volere il mezzo, che se si accetta un principio bisogna accettare le conseguenze, questo è appunto, essere ragionevole. E poiché dai diversi principi tra i quali suole essere cercato, se- condo le tendenze, quello che si assume come criterio, la deduzione logica conduce a quel medesi- mo precetto, questo precetto appare fondato in ragione, ragionevole per sé. E in effetto, non si po- trebbe giustificare se non per mezzo della ragione; appunto perché è essa che ne dimostra volta a volta la connessione necessaria con ciascuno dei criteri che possono essere rispettivamente assunti per legittimarlo. Ma il valore di questi criteri primi o supremi è, per ciascuno dei casi, ammesso o presupposto. Di che si ha la riprova nel fatto che se, per ipotesi, si assume un criterio le cui conse- guenze valutative non coincidono con le valutazioni comuni, cessa di apparire «ragionevole» quel modo di operare che è ritenuto — ed è in effetto — tale, finché sono considerati come legittimi i criteri consueti. Usar pietà diventa irragionevole se chi usa pietà è persuaso che il fine piú degno è la forma- zione del superuomo e che a formare il superuomo è necessario essere spietati. Questo esempio può parere poco convincente perché troppo remoto dalla probabilità di essere riconosciuto e accolto. Ma, lasciando pure di notare che esso sarebbe probativo anche se fosse del tutto ipotetico, è da os- [Anzi su questa circostanza si fonda la considerazione, a cui ho accennato, di importanza capitale per l'etica e di cui ho trattato di proposito altrove (confronta Vecchio e nuovo problema): cioè che una qualità, una virtù, un modo di operare che ha valore per un rispetto, può aver valore anche per altri rispetti diversi. Un atto morale può avere, anzi di solito ha, anche un valore di utilità individuale o sociale e così via. Il che spiega: come avvenga che la giustificazione delle medesime norme morali si sia potuta cercare in fini di natura diversa; come sia possibile, anzi sia la sola soluzione legittima del problema, di giustificare, ricavandolo da un fine diverso, il pre- cetto morale, questa: di considerare la pretesa giustificazione come una rivalutazione sotto un rispetto diverso (edonisti- co o sociale o d'altro genere) di ciò che ha già un valore per sé, morale. E non è, come tutti sanno servare che pur prescindendo da negazioni e contrasti cosí recisi, sull'accordo tra le persone ragio- nevoli sono da fare assai piú riserve che non paia a prima vista; appunto perché, dove il consenso abituale del costume e l'accordo delle opinioni accettate senza critica non sopraffà o non nasconde le divergenze, e soprattutto nel campo della vita interiore, queste sono assai maggiori che non si creda. Anzi si può dire che su certi campi l'accordo tra persone di tendenze e di indirizzi morali di- versi è raggiunto, non in grazia della ragione, ma nonostante la ragione, la quale se fosse rigorosa- mente applicata, richiederebbe un modo diverso di valutare e di giudicare l'azione. Il che viene a di- re che qui l'accordo c'è, non perché tutti sono ragionevoli, ma perché alcuni si dimenticano di essere, o credono di essere mentre non sono. Nell'esempio allegato sopra si ha la prova di un giudizio di valore tenuto come contrario alla ragione, che appare conforme a ragione quando muti il criterio al quale si riconduce. Non meno, anzi piú significativo è il caso inverso, di principî tenuti come razionali che ces- sano di essere riconosciuti tali, se cessano di essere ammessi certi dati o postulati dei quali si sottin- tendeva che non potessero essere ragionevolmente negati. Di che l'esempio storico piú insigne e piú istruttivo è offerto da quei principî etico-giuridici che passano come il modello caratteristico di una costruzione puramente razionale. Anzi, su questa idea che la costruzione giuridica — della quale l'espressio- ne piú nota è la Dichiarazione dei diritti — sia una pura astrazione razionale, è fondata la critica ormai stereotipa che si ripete in nome del senso storico; mentre nella elaborazione e nella si- stemazione di quei principi ebbe la sua parte, e la adempì magistralmente, la ragione; ma non era e non è la ragione che ne pone la validità e ne fa sentire la giustizia. Il vero difetto della costruzione razionale non è di aver per soggetto l'uomo astratto in luogo dell'uomo storico (qualsiasi costruzione, non solo sistematica, ma anche storica, non può fare a me- no dell'astratto), ma è di aver assunto a fondamento della propria costruzione un astratto (l'uomo- ragione) insufficiente a reggere l'edificio che si voleva fondare su di esso. Infatti l'uomo-ragione supposto dal razionalismo non è soltanto ragione; è, insieme e impre- scindibilmente, nel concetto razionalistico, l'uomo che ammette certi principî, espressi o sottintesi, che sono incorporati e assorbiti, almeno nell'opinione comune, surrettiziamente e inconsapevol- mente nel concetto di uomo-ragione. Non si capisce la razionalità dei diritti dell'uomo e del cittadino, se non supponendo che sia un dato razionale ammettere che nessun uomo debba essere trattato come strumento della volontà altrui; cioè senza supporre il valore assoluto dell'uomo come tale, e il postulato giuridico corrispon- dente, dell'uguaglianza di diritti di tutti gli uomini. È in effetto per questo soltanto che ad ogni uomo in quanto cittadino15 sono riconosciuti di fronte allo stato tutti quei diritti che fanno scandalizzare Comte, sogghignare Marx e sorridere l'homo historicus. Né si dica che Nietzsche è finito al manicomio; ciò non proverebbe nulla: perché non è teoria solo del Nie- tzsche ma di molti: e divenne in veste politica, dottrina di un popolo o di una razza; perché quando Nietzsche la pensò non era pazzo; perché anche se fosse stato pazzo, la teoria di un pazzo non è necessariamente una teoria pazza; perché in ogni caso sarebbe da dire non che è irragionevole la massima, la quale, poste quelle premesse, è ragionevo- lissima, ma che è inumano, o ripugnante, o indegno, accettare una o l'altra delle premesse, o ambedue. Ma è tutt'altro che l'unica perché fu preceduta, come è noto, non solo delle dottrine del liberalismo inglese, ma anche dai Bills of Rights dei diversi stati dell'Unione Americana. E quanto al luogo comune delle «Ideologie france- si» ha ragione il Janet, di rilevare che in un testo scolastico universitario inglese, «Philosophiae moralis institutio com- pendiaria», stampato a Glasgow di un autore tutt'altro che ignoto, Hutcheson, si parla come di cosa pacifica, venti anni prima del Rousseau, del patto primitivo degli uomini fra di loro, e dei sudditi col loro governo. Un altro luogo topico che potrebbe senza danno essere lasciato in disparte, è quello che vede nei famosi dirit- ti l'affermazione estrema dell'individualismo e la tesi dell'individuo-fine e dello stato-mezzo. Mentre il riconoscimento di quei diritti esprime a parte singuli la garanzia della libertà individuale, ma esprime insieme l'ufficio fondamentale e preliminare di ogni stato: la tutela della giustizia. E combattere le violazioni della libertà e della giustizia, fatte in nome. Mentre, se si esclude quel supposto e si ammette che lo stato abbia un valore in sé superiore a quello della persona, o se si ammette che i diritti debbano essere subordinati alla cultura, alla po- sizione sociale, alla costituzione politica dello stato, quei diritti «naturali» non hanno piú nessuna ragione di essere riconosciuti come diritti. Ma il principio che la persona umana ha valore per sé e che non è giusto usare la persona come mezzo, è un postulato di valore (cosí come è un postulato di valore il principio che ogni uo- mo, in quanto soggetto di diritti, valga quanto qualsiasi altro); i quali possono essere assunti e pos- sono essere negati senza che chi li accetta o li nega cessi, per questo fatto dell'accettarli o negarli, di essere ragionevole, o diventi ragionevole se non era. Perciò non è da meravigliare che quando i postulati di valore impliciti in quella costruzione razionale del diritto sono messi in dubbio o negati, la costruzione debba sembrare campata in aria. Mentre non era campata in aria, e non è, per chi assume come soggetto di quei diritti un uomo che è dotato di ragione non solo, ma insieme di una certa coscienza morale e giuridica; la coscienza mo- rale e giuridica che si raccoglie nei detti postulati e si può dedurre da essi. Questi postulati il razionalismo aveva torto di pensare che fossero impliciti necessariamente nella ragione, ossia di credere che «uomo ragionevole» volesse dire insieme uomo che accetta quei principî di valutazione. (Il che non vuol dire, si badi bene, che avesse torto nell'accettarli e nell'as- sumerli come degni di essere accettati). Ma se si ammette o si suppone che siano accettati, la costruzione razionale che se ne ricava, come dottrina dei rapporti etici e giuridici che governerebbero qualsiasi società umana, nella quale essi fossero sanciti come criteri supremi della condotta, in ogni sua forma — sia dei cittadini tra di loro, sia dei cittadini verso lo stato, e inversamente, sia degli stati fra di loro —, non solo non è ille- gittima, ma è la sola legittima. E il suo valore etico, giova affermarlo, sussiste, se c'è, qualunque possa essere la distanza che si osserva o si immagina intercedere fra uno stato conforme a quella esigenza ideale, e questa o quella forma di realtà storica e concreta. Anzi, per chi assume quell'esigenza come avente valore morale supremo, i doveri corrispon- denti all'attuazione e all'osservanza di quei rapporti saranno i doveri fondamentali precedenti in au- torità e in obbligatorietà ogni altra sfera di doveri, e i diritti correlativi esprimeranno i valori sociali e politici supremi indipendentemente da ogni giudizio sulla realtà e attuabilità delle forme ideali di Enti o di rapporti tra gli Enti cosí configurati16. Per converso, chi respinge questo postulato, non solo può, ma deve, ragionevolmente, nega- re ogni valore alla costruzione razionale corrispondente (sebbene avrebbe l'obbligo — in sede di di un preteso interesse della collettività e dello stato, non è negare l'interesse della Società, ma piuttosto difenderlo. Anzi l'homo ethicus è povero di contenuto appunto perché si esaurisce nei doveri del cittadino, cioè nei va- lori giuridici e politici, e dimentica o trascura i valori propri della vita personale interiore. Il che prova che sono lasciati nell'ombra non solo i fini propri dello stato (uffici positivi) ma anche i fini spe- ciali dei singoli; appunto perché domina e vince ogni altra preoccupazione quella dei fini comuni universali e fondamentali - così per la vita individuale come per la vita sociale - della libertà e della giustizia. Chiamare la concezione ideale di una forma di diritto una astrattezza e usare questo termine a dispregio, non è esatto e non è giusto se non quando questa forma ideale sia concepita fuori dalle condizioni necessarie a farlo essere diritto. Nel qual caso sarebbe legittimo dire che il diritto ideale è un diritto impossibile, e sarebbe sciocco e vano conce- pirlo e parlarne. Ma un diritto ideale concepito nelle condizioni che sarebbero richieste a farlo sussistere come diritto positivo, non è piú astratto che un diritto positivo qualsiasi concepito nelle sue condizioni storiche. Salvo che nel secondo caso le condizioni esterne del diritto sono reali, nel primo sono possibili; nel concetto dell'un diritto l'idea delle condizioni che ne fanno o ne hanno fatto un diritto positivo, trova corrispondenza nella realtà, e nel concetto dell'altro l'idea delle con- dizioni che farebbero del diritto ideale un diritto positivo, non ha trovato o non trova più, in una forma storica di realtà, la sua corrispondenza. Su la pluralità dei postulati di valutazione morale J. morale — di chiarire quale postulato assuma al posto di quello che respinge, e quale sarebbe il si- stema etico-giuridico che ne discende). Ma commette una grossolana fallacia elenchi, quando pretende di confutare o condannare quella costruzione etico-giuridica in nome della realtà o della storia. Perché la realtà e la storia da- ranno la stregua della attuabilità dei rapporti prospettati nella costruzione ideale, ma non del valore di questi rapporti. Cosí il razionalismo assume erroneamente come dati razionali dei postulati di valore e si il- lude di poter imporre in nome della ragione dei principi che non valgono se non supponendo accet- tati quei postulati che li giustificano: e lo storicismo si illude di togliere ogni valore alle costruzioni fondate su quei postulati dimostrando che la realtà storica è diversa da quelle costruzioni. Come se il riconoscere che gli uomini non hanno nelle condizioni di fatto eguali diritti, o che la società non è fondata sul contratto, o che non v'è diritto naturale, ma vi sono soltanto diritti positivi, equivalga a dimostrare: che non sia bene l'eguaglianza dei diritti; e che non possa essere apprezzata e apprezza- bile una società ordinata in modo tale da poter pensare che non sarebbe diversa se fosse costituita per contratto volontario di tutti i cittadini; o non possa essere piú desiderabile che abbia sanzione di diritto e valga come tale un ordine di rapporti conforme a certi criteri piuttosto che a certi altri. A risolvere queste questioni, il sapere storico non è competente. D'altra parte lo storico non potrebbe risolverle senza cessare di essere storico e diventare moralista o ideologo, reazionario o rivoluzionario, «conservatore» o «riformatore». Perché non vi è altra via: O ricusa certi postulati di valore per assumerne altri diversi, pure di valore. O rinunzia, non solo a qualunque giudizio, ma a qualunque intervento della volontà uma- na nella storia, cioè nella produzione degli eventi umani. Perché ogni azione umana, cioè consape- vole e volontaria, implica una direzione verso un risultato che si giudica preferibile tra i possibili, cioè implica una scelta, e quindi una valutazione. Tanto nel «razionalismo» quanto nel «realismo» o «storicismo», i criteri di valutazione pos- sono bensí essere ricondotti a un postulato di valore, ma questo postulato non è posto dalla ragione né è dato dalla realtà17. Approvarlo o disapprovarlo, ammetterlo o respingerlo, non vuol dire né rispettare o rinnega- re la ragione, né riconoscere o misconoscere la storia; avere o non avere senso storico. Il che è la prova piú manifesta che non è un dato della ragione il postulato di valore a cui si riconduce l'esi- genza espressa nella dottrina del diritto razionale, come non è un dato della storia il postulato, pure di valore, a cui si riconduce l'esigenza implicita nella dottrina del diritto storico. Resta da osservare al nostro proposito per quel che riguarda il razionalismo etico-giuridico, come da questa illusione che l'universalità della ragione volesse dire anche universalità di consenso nei postulati valutativi incorporati surrettiziamente in essa, derivò l'errore di credere che potesse ba- [A questa differenza fondamentale tra valutazione e giudizio storico, è da ricondurre, a mio giudizio, la questione del rapporto tra spirito rivoluzionario e senso storico, di cui tratta dottamente e sottilmente MONDOLFO (si veda) nella «Nuova rivista storica». Il rivoluzionario (come del resto ogni innovatore di grandi o anche di piccole cose, anzi ogni uomo di iniziative) è, o si pone, fuori della storia in quanto valuta, cioè giudica e opta per un ideale; (anche se questo ideale è un pro- dotto storico, non è perché è un prodotto della storia che è stimato desiderabile, preferito e voluto). È nella storia e deve aver senso storico in quanto è uomo politico, cioè vuole agire sulle condizioni presenti nella direzione voluta. Insomma: in quanto sceglie tra diverse direzioni concepite come possibili (cioè come tali da potere essere favo- rite e contrastate dalle nostre azioni), non è nelle storia, se non in quanto sono nella storia e della storia le sue stesse ide- alità morali. In quanto si rende conto della realtà sulla quale vuole agire e del modo col quale la sua azione può inserirsi efficacemente su tale realtà, è nella storia.] stare per fare accettare questi postulati «illuminare» le menti, dissipare «i pregiudizi», ragionare; come è nata per contrasto l'illusione inversa che per respingere le applicazioni, le «conseguenze pra- tiche» di quegli stessi postulati e dei criteri che ne derivano, non ci fosse altra via che di far tacere la ragione o screditarla e dare a lei la colpa, non solo delle conseguenze, che essa secondo l'ufficio suo veniva svolgendo e costruendo in sistema coerente, ma degli errori e delle violenze commesse da quelli che smentivano con l'opera i principî o li applicavano a rovescio, e piú spesso senza cono- scenza degli uomini e delle cose, cioè senza tener conto della realtà concreta e della storia. E cosí si passava da una ragione fatta soggetto di meriti non suoi, a una ragione fatta oggetto di biasimi non meritati. Ma la ragione è al di là di quei meriti, e di questa imputazione. La ragione ha un compito inestimabile; necessario, anzi imprescindibile, ma arduo e non fi- nito mai; di costruire incessantemente l'unità della persona; l'unità dell'uomo teoretico, l'unità del- l'uomo pratico e l'unità (a cui bisogna pur mirare, come miravano gli antichi) dell'uomo teoretico con l'uomo pratico. Ha un ufficio di continua eliminazione e ricostituzione; un ufficio nella vita spi- rituale della persona analogo, direi, a quello che ha nella vita fisica la circolazione del sangue. Ma non si può pretendere di ricavare da essa il principio dell'esistenza, ossia il dato o i dati attorno ai quali si possa affermare la realtà obbiettiva di ciò che è oggetto del sapere; né si possono trovare in essa, o ricavare da essa i criteri sui quali si fonda la valutazione e attorno ai quali la ragione unifica i giudizi di valore. Come non dà essa la certezza dell'esistenza, cosí non dà essa la coscienza del valore. Resta un'ultima via, la terza; la piú audace e radicale. È la ragione che pone la legge morale; ma perché la ponga non è necessario che ricorra a nessun dato o principio materiale, sia stabilito o fondato su verità di ordine teoretico o dimostrabili o evidenti per sé, sia cercato in un fine a cui possa ricondursi il contenuto della legge. È la esigenza razionale che si pone come legge, senza che a costituirla sia necessario fare appello al valore di qualche oggetto o risultato dell'azione e dare a quel qualsiasi contenuto materia- le che venga assunto dalla legge, un valore morale pur che sia, all'infuori da quello che gli viene dalla forma di legge che lo impronta. È, come ognun vede, la tesi di Kant, che è non solo la piú vigorosa, ma la sola veramente ri- gorosa del razionalismo morale. La prima delle vie indicate, quella del platonismo, e in modo particolare quella dei platonici della scuola di Cambridge, riconduce la morale alla ragione perché la riconduce a principi teoretici di cui si crede che la ragione dimostri la verità o faccia rico- noscere l'evidenza: la certezza morale è razionale perché è razionale (o è assunta come tale) la cer- tezza teoretica. È, si può dire, veramente, un intellettualismo morale. Per Kant invece, non solo i principi pratici non si fondano su dati teoretici; ma è soltanto nell'uso «pratico» che la ragione può varcare i limiti del fenomeno, e affermare del noumeno ciò che è conforme all'esigenza della morale, ciò che la ragione postula per il suo bisogno pratico. E i postulati pratici sono veramente, non postulati etici, ma postulati metafisici affermati sul fondamento dell'esigenza etica. Or dunque l'esigenza razionale che è esigenza formale di una legge in generale, in morale è esigenza della legge, di quella legge che è essa la sola razionalmente necessaria. Ma essendo incontrastato per Kant questo punto, sono possibili sul rapporto della forma e della legge col contenuto tre soluzioni: O si può intendere che la legge morale è una forma senza nessun contenuto; cioè che la forma dà il valore morale alla legge e il criterio per osservarla e praticarla, senza che occorra una qualsiasi determinazione del contenuto. O si può pensare che occorre bensì un contenuto che si adatti a quella forma, che sia su- scettivo di assumerla o di esserne investito; ma non importa che esso sia tale piuttosto che diverso. Insomma: è necessario un contenuto, ma è indifferente quale esso sia, purché possa essere contenu- to di quella forma. Non è perciò escluso a priori che possano essere piú, fra di loro diversi. Si può pensare che la forma razionale, la forma della legge morale conviene a un solo contenuto, quel contenuto che si concreta appunto in relazione con quella forma. Ossia, che l'esi- genza razionale basti a determinare univocamente il contenuto della legge18. La prima interpretazione che sembra la piú semplice e sulla quale s'è fatto un gran discutere, è insostenibile, perché si risolve in un circolo vizioso, dal quale non è possibile uscire in nessun modo. Forse a queste tre interpretazioni, teoricamente possibili, si può trovare che corrispondano le tre formule note dell'imperativo kantiano; corrispondano almeno nel senso che ciascuna delle tre si avvicina di più rispettivamente a una delle interpretazioni possibili che alle altre due. Così la prima formula (dell'universalità) sembra rendere possibile la prima interpretazione. La formula (terza) dell'autonomia del volere come principio di tutte le leggi morali e dei doveri conformi ad esse, pare che possa convenire alla seconda interpretazione. E finalmente la seconda formula (tratta la per- sona umana come fine, ecc.) pare che risponda meglio alla terza interpretazione di un contenuto determinato inequivocabile. Quella stessa illustrazione kantiana che sembra legittimarla mette capo a una formula, che fu bensì intesa spesso e trattata come puro criterio dell'universalità sic et simpliciter -- la possibilità di concepire la MASSIMA come legge universale dell'operare --, ma che, nei termini precisi in cui è e- spressa, implica di necessità il riferimento a un qualche contenuto senza del quale mancherebbe o- gni possibilità di adoperarla come norma di quell'operare del quale vuole esprimere l'obbligatorietà. Secondo quella formula, il criterio per giudicare della bontà della massima è che io possa volere che valga come legge universale. Ma io posso volere che una massima valga universalmente, soltanto quando, o meglio, se, la massima cosí universalizzata non contraddice al mio Volere puro, alla Ragione, cioè che è tutt'uno al Volere morale; alla legge, dunque, che fa morale il mio volere; il che viene a dire che una massima è morale quando è conforme alla legge del volere morale, ossia quando è conforme alla legge morale. Il valore morale dell'azione si giudica dalla possibilità che la massima sia voluta come legge, ma questa possibilità di essere voluta come legge, si riconosce dall'accordo della massima con quel- la legge morale della quale non è dato altro carattere che l'universalità, e altra applicazione che cercare se il modo di operare corrispondente si possa universalizzare in massima. Che il riferimento a un contenuto sia anche nel pensiero di Kant necessariamente implicito nel criterio, appare poi mani- festamente, non dico dagli esempi, ma da una chiosa che non si capisce se non a patto di ritenerlo ammesso in modo espresso o sottinteso. A proposito del quarto esempio della Fondazione (il brav'uomo che non fa male a nessuno ma bada ai fatti suoi e non si cura d'altro) chiosa Kant in forma decisiva: «quantunque sia possibile che esista una legge universale della natura conforme a tale massima, è impossibile di volere che un tale principio valga come legge della natura». Ma perché è impossibile? Manifestamente perché il Volere razionale vuole già qualchecosa che è incompatibile con ciò che è espresso dalla massima «ciascuno per sé» (la quale tuttavia è pos- sibile che esista come legge universale della natura); vuole qualchecosa che ogni uomo come essere ragionevole vuole necessariamente. Insomma, il criterio dell'universalizzazione vale in quanto è possibile confrontare la legge, a cui darebbe luogo la massima se valesse universalmente, con una certa legge che abbia una qualche determinazione, cioè un contenuto. Senza questo riferimento, questo ubi consistam della volontà, non è possibile sapere se la massima dell'azione abbia o non abbia i requisiti necessari, perché si possa volere che valga come legge universale. Con ciò il pensiero di Kant sembra escludere non soltanto la prima, ma anche la seconda in- terpretazione (che la forma razionale possa convenire a piú di un contenuto, cioè che possano presentarsi come leggi morali, modi di valutare o sistemi di norme fra di loro diversi); e ammettere che a dare all'esigenza razionale sussistenza effettiva di legge, determinazione di oggetto che la renda applicabile, non sia adatto che un solo ed unico contenuto; e che la legge voluta dall'essere ragione- vole, non possa essere che quella certa legge. Che questo sia veramente il pensiero di Kant credo sia indubitabile, né importa insistervi qui. Piuttosto è necessario rilevare come questa pretesa di deter- minare la legge, quella legge soltanto in funzione della forma, possa parere possibile e legittima finché è sottinteso o ammesso che la legge morale deve essere universale non soltanto nella forma, ma anche nel contenuto; e che perciò le massime in discorso sono soltanto le massime di quel certo operare che ne resta quindi determinato in modo univoco. E cosí il criterio dell'universalizzabilità coincide praticamente con quel contenuto di cui si sa già e si ammette riconosciuto universalmente E va da sé che anche l'azione, di cui si vuole saggiare a questa stregua la massima, deve avere un contenuto che la fa essere quella azione, conforme o disforme da una massima. Se no, non si può parlare di massime dell'operare, anzi neanche di un'azione qualsiasi.] il valore, di cui quindi si sa che è impossibile volere che valga come morale una massima che lo ne- ga20. Adunque questa impossibilità non sorge dall'esigenza razionale se non in quanto questa e- sigenza si trova essere l'esigenza di un essere ragionevole, che è insieme una volontà che vuole cer- ti valori; o piú chiaramente ancora questa impossibilità non emerge necessariamente dalla ragione, ma dalla natura dell'essere ragionevole; la quale natura è ragione, ma è insieme un volere che vuole ciò di cui la ragione formula la legge. Ora, se si suppone che quel Volere non ponga come assoluti e supremi quei valori, cessa o- gni ragione di volere quella legge piuttosto che un'altra, e quindi è tolta ogni impossibilità di volere che valga come legge una massima che è incompatibile con questa. Adunque, posto che un volere non voglia quei valori e ne voglia altri, cessa questo Volere di essere il Volere di un essere ragione- vole? Cessa di essere un Volere ragionevole quello che riconosce l'esigenza di porre e di osservare la legge che ordina e unifica le massime della condotta in conformità a quegli altri valori che esso riconosce come morali? Non è anche in questa ipotesi salva l'esigenza razionale? Questa ipotesi (che la realtà della coscienza morale contemporanea prova, come s'è visto, non essere pura ipotesi), conferma in concreto quel che l'analisi della formula rivela inoppugnabil- mente: che il dato iniziale, originario o primario della legge morale è presupposto dalla ragione, non posto; presupposto come oggetto o contenuto di una Volontà la quale è bensì razionale in quanto pone a sé come legge la norma dell'operare corrispondente; ma non è né razionale né irrazionale in quel che riguarda la posizione di quei valori primari, che costituiscono il terminus ad quem dell'o- perare, l'oggetto della volontà, attorno al quale l'esigenza razionale stringe la condotta in unità coe- rente di legge. A una conclusione del medesimo genere riesce per altra via la difesa che del formalismo kantiano fa il Martinetti in una sua memoria densa e vigorosa21 nella quale egli si sforza di salvare il carattere formale della legge pur riconoscendo la necessità di un contenuto; e lo salva facendone la forma, non di un contenuto sensibile, ma di un contenuto soprasensibile. Ma questa soluzione urta contro nuove difficoltà inerenti alla concezione di questo fine tra- scendente o di questo mondo soprasensibile che è l'oggetto proprio della legge morale. Perché delle due l'una: O si ammette che di questo mondo soprasensibile non possiamo af- fermare altro, se non appunto questo: che esso è il mondo nel quale trova piena attuazione la legge morale, il mondo nel quale la legge morale vale come legge naturale, senza che se ne diano altre de- terminazioni di sorta. Ovvero questa realtà ha altre determinazioni, attua un certo ordine di rapporti, [Mi sia lecito riferirmi per la chiarezza a uno degli esempi di Kant. La ragione per la quale non si può volere erigere a massima universale il principio che chi è stanco della vita può uccidersi (1° esempio), non è già che sia impos- sibile concepire seguita una tal massima universalmente (non c'è nessuna contraddizione intrinseca nel pensare che tutti quelli che sono stanchi della vita si uccidano); e neanche che non sia possibile a una volontà che vuole una legge - ma che sia indifferente per ipotesi ai valori morali, e apprezzi sopra ogni cosa il piacere o la liberazione del dolore - volere che valga universalmente. (È così possibile che, come tutti sanno, non mancò chi la praticasse e la predicasse anche tra i filosofi). Ma è impossibile che voglia una tal legge chi ammette la superiorità dei valori morali. Ossia l'irrazionalità del- la massima emerge, non da un'impossibilità intrinseca della massima e neppure dalla impossibilità di sussistere di un Volere che sia indifferente a certi valori, ma dal suo contrasto con un Volere che riconosce la superiorità di certi valori (morali) sugli altri (egoistici); e quindi non può volere che valga come legge una massima che smentisce questa superiorità. Sul formalismo della morale kantiana estratto dalla Miscellanea di studi pubblicata per il cinquantenario della R. Accademia scientifico-letteraria di Milano. Inserito poi in Saggi e Discorsi, Libreria Editrice lombarda, Milano] che non possiamo conoscere speculativamente, ma di cui possiamo tuttavia essere certi e affermare e riconoscerne la perfezione, la bontà, il valore. Se si ammette la prima tesi, l'affermare una realtà soprasensibile di cui non possiamo dir al- tro se non che è il contenuto della forma morale, non ci dice in che consiste questo contenuto, e non ci fa uscire da questa forma. Dice che vi è un mondo conforme alla legge morale, ma non dice quale sia, come sia fatto questo mondo. Non ci illumina dunque, su questo punto, piú di quel che valga a far capire quali sono le disposizioni di una legge, il pensare che questa legge sia perfettamente os- servata. Per uscire davvero dalla forma e da questo circolo vizioso di un mondo di cui non si sa altro se non che è governato dalla legge morale, e di una legge morale che ha valore perché è la legge di quel mondo, bisogna dunque attenersi alla seconda tesi; la quale, come pensa il Martinetti, e come io credo, risponde veramente al pensiero di Kant, se non come si mostra punto per punto nelle stret- toie della sua esposizione, come risponde all'intento fondamentale che anima la sua dottrina del primato della ragione pratica e piú chiaramente ancora al proposito esplicitamente ammesso da lui nella prefazione alla seconda edizione della Critica della Ragion pura. In realtà «l'uso pratico» della ragione consiste nello spalancare all'esigenza morale quelle porte della metafisica che sono chiuse alla speculazione teoretica; nel lasciar libero alla fede il campo del soprasensibile vietato alla conoscenza; nell'ammettere, se vogliamo usare espressioni corren- ti, piú che il diritto la necessità di credere, la necessità «razionale» di ammettere quel che la ragione, in quanto è garanzia di certezza teoretica, non può né dimostrare né affermare; di oltrepassare — per rendersi conto della possibilità del dovere — il campo dell'esperienza sensibile e postulare l'esi- stenza di una realtà che trascende l'esperienza. Ma questo ufficio pratico sarebbe senza frutto, se una certezza diversa dalla scientifica, ma non minore, non potesse valicare quelle porte del soprasensibile che la ragione apre soltanto all'esi- genza morale, ma apre per lei e in nome suo. Sulla soglia del sopra-sensibile la ragione sembra dire all'esigenza morale quel che VIRGILIO a ALIGHIERI all'entrata del Paradiso terrestre. SE VENUTO IN PARTE OV’IO PER ME PIU OLTRE NON DISCERNO. Ma la fede fondata sull'esigenza morale entra e procede sicura in questo mondo, dinanzi al quale la conoscenza si arresta. Come se venuta meno ogni luce dal di fuori, questo mondo si illumi- ni della luce che la certezza morale accende in sé e sprigiona da sé e diffonde attorno a sé in quello che è il suo regno. È questo mondo soprasensibile l'oggetto del Volere razionale, la realtà di cui la legge morale è la forma. Il contenuto sensibile al quale nel mondo dell'esperienza si applica la legge, non ha valore per sé, ma perché e in quanto partecipa di questa forma che è forma di una realtà superiore alla qua- le la realtà inferiore deve essere subordinata. Il concetto dominante di questa prefazione (che è da raccomandare all'attenzione di quanti credono che la soluzione dei problemi morali sia un corollario di dottrine speculative) si può considerare riassunto in questa, che direi confessione caratteristica. Ich musste also das Wissen (si intende, del mondo soprasensibile) aufheben um zum Glauben Platz zu bekommen» (Kritik der reinen Vernunft. Vorrede zur zweiten Auflage, Cassirer). Nella prefazione citata, a proposito della limitazione che la critica della ragion pura porta alla ragione specu- lativa negandole la possibilità di una conoscenza del soprasensibile, Kant nota che il «vantaggio d'una metafisica così purificata» non è soltanto negativo ma anche positivo perché permette l'uso pratico della ragione. E osserva con un pa- ragone assai significativo che negare «a questo servizio della critica il vantaggio positivo sarebbe come dire che la poli- zia non dà nessun vantaggio positivo perché il suo compito principale è soltanto di tenere in freno la violenza; affinché ciascuno possa attendere ai suoi affari tranquillo e sicuro» (ib., pag. 23; il corsivo è mio).  Su la pluralità dei postulati di valutazione morale J. In questa interpretazione24 il termine di paragone c'è, il Volere razionale ha un oggetto, il circolo vizioso — del valore di una legge che si rimanda a un contenuto e del valore di un contenuto che si rimanda a un Volere che vuole la legge — è rotto. Ma è facile vedere che il dato primo a cui la costruzione valutativa si appoggia, è il valore di questo mondo soprasensibile postulato dalla ragione in nome della esigenza morale; ma che appun- to per ciò non è un dato della ragione, ma della certezza morale. E l'affermazione della realtà di quel mondo è riconosciuta legittima, perché la sua esistenza è richiesta da questa certezza. Qui è an- cora, per Kant, la Ragione che riconosce la legittimità della postulazione metafisica; ma la ricono- sce in quanto accetta come incontestabile la certezza morale; la quale è certezza di valori, non evi- denza razionale. Cosí adunque anche la tesi della trascendenza della legge morale implica accanto alla esigenza razionale un oggetto della volontà, un ordine di valori, un dato valutativo irreducibile alla pura razionalità e che trae la sua validità d'altronde. Quale ne sia la sorgente, non si può cercare u- tilmente in breve, e non è facile; forse la sua origine è in quella stessa attività volontaria nella quale bisogna cercare la fonte della credenza in una esistenza obbiettiva del mondo. La volontà è direzione ed è forza. In quanto è forza, e si esercita come forza e si rivela come sforzo (il quale richiede e suppo- ne una resistenza) è il dato irreducibile della credenza in una realtà obbiettiva distinta dal soggetto. In quanto è direzione, cioè scelta, cioè azione in vista di un risultato, è il fondamento irreducibile dei giudizi primari di valore, i quali esprimono le direzioni originarie della volontà, delle qua- li acquistiamo consapevolezza attraverso le forme fondamentali del sentimento. Non è il caso di cercare qui se e che cosa MARTINETTI (si veda) mette di suo e di postkantiano nella sua interpretazione, né di vedere se e fino a che punto il fondo mistico del pensiero di Kant si accordi con la dottrina che do- vrebbe sottrarlo ad ogni pericolo. Qui basta notare la difficoltà radicale in cui vengono a cadere le soluzioni del mede- simo genere. La quale è inerente al modo di concepire il rapporto tra il contenuto sensibile che, per essere applicabile alla realtà empirica, la legge morale deve pure assumere, e il mondo sovrasensibile che è l'oggetto proprio della legge morale, quello che ha valore per sé e dà valore di simbolo o di partecipazione (qui ritornano i dubbi del platonismo) al contenuto sensibile. Infatti delle due l'una: o si ammette che il contenuto atto a farsi suggello di quella forma, differisce da un con- tenuto diverso oltreché per il valore formale (nel quale si esaurirebbe il valore morale), anche per un valore di altro genere. E allora vi è luogo a cercare se vi sia o no una connessione necessaria, intrinseca tra questo suo valore specifico e il valore formale; e in ogni caso si riconosce che il contenuto sensibile della legge morale ha un suo valore proprio che sussiste ed è riconosciuto anche all'infuori dell'impronta formale. O si ammette che questo contenuto sensibile non ha nessun altro valore, cioè è per sé indifferente; che ciò che la legge morale comanda non vale, per rispetto a questo mondo empirico, di più di ciò che essa vieta, cioè se non fosse questo riferimento a un mondo superiore non vi sarebbe nessuna ragione di anteporre un modo di operare ad un altro; e le difficoltà si moltiplicano. Per lasciare le intrinseche e più sottili, basti rilevare qui da un punto di vista diciamo pure profano la stranezza quasi ironica del contrasto tra la soluzione del problema e l'intento che la esprime. Perché nell'atto di affermare l'esigenza di una osservanza incondizionata della legge morale si nega ogni valore intrinseco a ciò che la legge coman- da; e mentre si dà alla legge un'autorità incontrastabile perché trascendente qualsiasi valutazione empirica, si toglie ad essa ogni ragione di venir applicata (e se si guarda bene ogni possibilità di applicazione) a quel mondo sensibile di fron- te al quale deve essere fatta valere questa sua autorità. Infatti, togliendo all'operare ogni valore, che dipenda dalla direzione verso un fine empirico qualunque esso sia, non resta a costituire la moralità, cioè la bontà del volere, che questo affisarsi nel mondo soprasensibile, questo ten- dere a una realtà trascendente, nella quale consiste ogni valore. Ma questa soluzione non isfugge a quella singolare commistione dì forza e di debolezza che è caratteristica di ogni morale rigorosamente mistica: forza, in quanto è intuizione, atto di fede, certezza interiore inespugnabile; debolezza, in quanto voglia farsi deduzione ragionata di valutazioni empiriche. La quale urta nella impossibilità di stabilire logicamente, ossia dimostrare discorsivamente, una relazione necessaria tra la condotta che deve valere come morale nel mondo sensibile e quel mondo soprasensibile che ne costi- tuisce l'oggetto e il termine; di superare un distacco logico del genere di quello accennato tra il criterio usato a determinare le norme di quella condotta e l'ordine di valori invocato a giustificarle. L'intento di Kant di liberare la legge morale da ogni mescolanza e contaminazione patologica di sentimenti, di inclinazioni, di tendenze — che si traduce in isforzi laboriosi ed ingegnosis- simi ma vani — forse non sarebbe stato proseguito con cosí risoluta tenacia se il Kant, meno preoc- cupato dal preconcetto (alimentato dalle dottrine eudemonistiche del tempo) che ogni forma di sen- timento e qualsiasi genere di fini, sia inevitabilmente soggettivo, relativo, interessato, fosse stato di- sposto a riconoscere che vi possono essere forme universali di valutazione intrinseca, cosí come vi sono forme disinteressate e universali di sentimento. Il metodo ddll'econonia pura nell’etica. Pavia. Dizioni. Rivista filonofica PAVIA, BIZZOSI  Corso Vittorio Em.inuele; Prolegomeni a una /Ifòoiale balla /Iftetatisica Pavia  SUCCESSORI BIZZONI -Vi  iC^osstbilttà e i Ximtti  bella /Iftorale come Sciensa La Dottrina delle due Etiche di Spencer e la Morale come  Scienza.  Per una Scienza Normativa Morale. Il Fondamento Intrinseco del Diritto secondo VANNI.  Toi-itio BOGGA — Torino    SI  I   w  NELL* ETiea    PAVIA  BIZZONI  Corso Vittorio Emaniu'e, W* MB*« W%i» 'SSS-»» lBiS«M«» «!.<f. IL moo OEUE CfliiOMm mi. mrmu «"iJi! hypotheses fingo. L'economia assume, come è noto, l'ipotesi che  gli xwmiìii nel produrrCy consiunare, distribuirsi e far  circolare la ricchezza siano 7nossi esclusivameìiie dal  desiderio di coyisegiiire la maggior possibile soddisfazione dei loro bisogni mediante il minore possibile sacrifizio individuale. Alla costiuzione deduttiva, che se ne  ricava, dei teoremi economici, ossia delle leggi della condotta dell’homo oeconoìnicus, è indiffei-ente la questione se il  postulato edonistico esprima veramente una condizione di  fatto, ossia se l'ipotesi da cui si deduce ogni verità  economica coincida o diverga ed in quale misura dai  motivi che effettivamente determinano le azioni umane, come è indifferente qualsiasi valutazione che e del postulato  assunto, e della condotta dell’uomo econo77iico, e degli ef-  fetti di questa condotta, si possa fare da un punto di vista  morale. In effetto il giudizio sul valore di giustizia o di bontà  del motivo economico e delle leggi che ne discendono, varia,  Fa parte degli Atti del Congresso Filosofico di Parma, al quale doveva essere presentato coi titolo più generale : € Condizioni e limiti di una  trattazione scientifica dell'etica ». (2 Cfr. Pantaleoni. Principii di Economia Pura. IL METODO dell'economia PURA XELl'eTICA  come tutti sanno, da un illimitato ottimismo al pessimismo piir  radicale; e il giudizio sulla corrispondenza dell’ipotesi colla  realtà varia del pari, da quelli che riconoscono nel motivo  assunto l'unico motivo di tutta quanta l'attività umana, a  quelli che lo considerano come uno dei fattori, non l'unico,  nel campo stesso dell'economia; i quali, appunto perchè  l'economia cosi intesa studia soltanto l'azione di UN FATTO [cfr. Grice, ‘a dull’ – ‘enough of a rationalist’] fattoi'e, isolato per astiazione dal complesso degl’altri la cui  efficacia si esercita in realtà simultaneamente, non riconoscono alle sue leggi che un valore ipotetico, correlativo al  carattere ipotetico dell'uomo economico e dello stato economico. Ma qualunque sia cosi l'uno come l'alti'O giudizio, il  carattere scientifico della costruzione deduttiva rimane incontestabile. Nella misura che la corrispondenza colla realtà  psicologica è inadeguata, si riconosce l'arbitrarietà  del postulato, e della costruzione che ne dipetide, in quanto  pretenda di porsi come scienza della realtà; e a secoruìa che si ammette o si nega che il postulato ha valore  morale, si ammette o si nega valore morale alla disciplina precettiva che se ne volesse ricavare. Ma in ogni  caso restano incontestati questi due punti. La ricerca intorno alla corrispondenza colla realtà psicologica  e storica del motivo economico e delle condizioni nelle  quali si suppone che agisca, è diversa e distinta dalla costruzione deduttiva del teorema economico, la quale è valida, 7iei limiti dell' ipotesi, sempre, qualunque sia il grado  di questa corrispondenza. Qualsiasi indagine valutativa del postulato, e delle leggi, e degli effetti sia prossimi sia remoti che ne derivano o ne deriverebbero, è parimenti distinta, ed estranea alla costruzione scientifica il metodo dell'economia nell'etica 6 <iometale; la quale rimane la medesima tanto se il motivo  economico è considerato come morale quanto se è tenuto  come immorale, o amorale, e quali che siano le ragioni  di questa valutazioue. Supponiamo ora che il postulato edonistico – o EUDEMONISTICO (GRICE) -- sia riconosciuto universalmente e accettato come postulato morale.  E chiaro che la disciplina precettiva derivata o derivabile  dall'economia ha valore e carattere di precettistica morale; sia che il valore morale del motivo economico e accettato per se come un dato primo e immediato, sia che venne derivato, ossia giustificato alla sua  volta, da un fine o da una esigenza ulteriore; e qualunque  e questa ulteriore giustificazione. E opportuno su questo punto un breve chiarimento.  Nella supposizione ora fatta che il valoi'e morale <iel  motivo economico sia universalmente riconosciuto, non è  in alcun modo implicita l'affermazione che sia riconosciuto  da tutti per la medesima, o per le medesime ragioni. Si potrebbe ammettei'e che esso si fondi per alcuni sulla legittimità, senz'altro ammessa dell'egoismo individuale (GRICE: “SELF-LOVE”) o dell'egoismo di specie come regola di condotta. Da altri  sul carattere attiibuito alle leggi economiche di leggi naturali e necessarie e non modificabili dalla volontà dell'uomo; da altri sopra una interpretazione OTTIMISTICA (cf. GRICE OPTIMISM in Philosophical Psychology) delle  leggi stesse o degli effetti o risultati che l'osservanza piena  ed universale di esse produce o tende a produrre. E si puo del pari ammettere che l’ordine di relazioni conforme al principio economico e considerato come provvidenziale o divino – “design” Grice -- e si riversi su di esso il prestigio e l'autorità di sentimenti e di credenze religiose o metafìsiche.  IL .METODO dell'economia PURA XELl'eTICA. Anzi si può affermare a priori che questa ulteriore giustificazione o valutazione, dato che si faccia, e diversa  per le diverse coscienze a seconda delle opinioni religioseo filosofi che diverse sulla «latura e sul fondamento della   moralità. E tuttavia il valore morale della MASSIMA conforme al  motivo economico e della norma che ne deriva puo,  nella disciplina precettiva supposta, essere legittimamente  assunto come un dato di FATTO (GRICE: ‘recognised fact’) e trovare in questo la sua  giustificazione immediata, astrazion fatta dalla diversità  delle ulteriori valutazioni. E in questo caso si avvererebbero le seguenti condizioni. Rimane fuori di discussione il carattere scientifico della costruzione e della disciplina precettiva che se  ne ricava, il quale è dato dalla validità logica delle conclusioni, cioè dal rigore col quale sono dedotte dal postulato. Rimane del pari fuori di discussione la elettiva validità morale del postulato il quale è, per ipotesi, riconosciuto universalmente conforme all'esigenza morale. Questa validità morale del postulato (e del sistema  di norme che ne dipende) sussiste così se il detto riconoscimento sia concepito indipendente, come se sia concepito  dipendente da un' ulteriore motivazione, e in questo caso,  qualunque sia il FONDAMENTO (cf. GRICE, “Fundamental Question”) ultimo di questa valutazione  ulteriore. E resterebbe perciò distinto dal campo della costruzione  deduttiva il campo delle indagini intorno alla natura e al  fondamento dell' esigenza morale, e intorno alle condizioni  soggettive della sua validità e della sua efficacia. Ossia il  campo «Iella ricerca propriamente filosofica o metafisica e quello della ricerca propriamente psicologica e, nelle sue  applicazioni, pedagogica. Ma, (,ui' avverandosi queste condizioni, anzi appunto per il loro avverarsi, la costruzione scientifica in discorso non potrebbe tuttavia sfuggiie alle due limitazioni seguenti. Non puo dirsi la scienza della condotta morale,  ma la scienza della condotta richiesta da an ceì'to motivo morale (quello di cui si è ;H)stulata come un dato di fatto la conformità all'esigenza morale). Perchè rimai'rebbe sempre  da risolvere LA QUESTIONE (GRICE: Fundamental Question). Se quel motivo esaurisca tutto il contenuto dell'esigenza morale, o questa non comprenda  altri motivi irreducibili ìì (|uello ; e quindi se le norme contemplino tutta la condotta morale nella sua estensione e nella sua complessità o ne contemplino solo una parte od un aspetto – “only the rational aspect of conversational qua cooperative endeavour”. Essa non esprimerebbe le norme di una condotta  attuabile sic et simpliciter in una forma reale storicamente  data di società – il OXFORD da H. P. GRICE “things an honest chap does”-- ; m:. di una condotta la cui piena attuazione  non è possibile se non nelle condizioni astrattamente supposte; cioè la condotta dell’uomo morale ipotetico in una società morale ipotetica. Oi'a il concetto che ho sostenuto e sostengo intorno  alla possibilità, al carattere e ai limiti della morale come  scienza coincide, nei suoi lineamenti formali, con quello  che risulta dall'ipotesi qui sopra abbozzata, lo penso che sia [Mi permetto di riferirmi qui e nel seguito di questo articolo ai saggi, Prolegomeni a una Morale distinta dalla Metafìsica.  Pavia, Bizzoai; e Su la possibilità e i limiti della morale come  Scienza. Torino. Bocca  fm'mmme'9mmm>é'>f  A  s  essenziale cosi all'esigenza pratica come all'esigenza teorica (ìi una trattazione morale, il costiruii'si di una scienza etica, nella forma e con un procedimento analoghi a quelli  dell'economia; e colla })ieiia consapevolezza che  la validità normativa e la applicabilità della disciplina precettiva che se ne ricavi sono possibili alle condizioni e dentro  i limiti che si sono oi- ora accennati. Ma una costruzione etica analoga a quella dell'economia  pui'a presenta una difficoltà preliminare che non si è superata, ma soltanto lasciata in disparte, supponendo, corno  si è fatto artificiosamente, riconosciuto valore morale al  motivo economico. Se qualche critico osservas che é fuor di proposito voler trasportare nell’Etica un metodo e un procedimento che nell’economia stessa é  oramai superato, o almeno r ripudiato, dalla scuola storica in nome della realtà, e dalle varie tendenze moralistiche in nome delle esigenze etiche,  potrei accontentarmi di rispondere che dell'obbiezione si dovrà tener conto  quando i moralisti avranno fatto nel fondare una trattazione scientifica  dell’Etica tanto cammino, quanto ne lece nel campo dell'economia la scuola classica; e che a mettere in canzone le ipotesi e le Robinsonate degl’economisti si comincia dopo che l’ipotesi hanno già reso i più importanti  servigi e perchè si era preteso di scambiare senz' altro le astrazioni con  la realtà. Ma si può anche aggiungere che il metodo e il procedimento della  scuola deduttiva, accompagnati da una chiara coscienza delle condizioni e  dei limiti della validità delle loro conclusioni, sono più vivi che mai nei  cultori né pochi né oscuri dell'economia; e che la scuola storica, se ha  il merito di cercare e mettere in evidenza la mutabilità e la relatività delle  categorie e delle pretese leggi economiche, si muove pur sempre entro i  quadri posti dalla scuola deduttiva (cfr. Gide, Principes d' Ec. Poi. Noi.  Gen.) e ne presuppone le leggi determinandone le deviazioni e le limitazioni nelle diverse (orme storiche. I.e scuole moralistiche poi, in quanto si rivolgono a criticare e correggere  i concetti e i precetti dell'economia classica non ne negano il valore scientifico nei limiti dell’ipotesi, ma ne negano il preteso valore morale. Negano  cioè il carattere di giustizia e di inviolat)ilità attril)UÌto arbitrariamente alle  leggi economiche. Ed é facile avvertire che gl’economisti di queste scuole  (con qualunque nome si chiamino) in realtà sono moralisti che cercano di  'il  [La difficoltà l'iguai'da la scelta e la determinazione del  postulato; il quale deve soddisfai-e a due condizioni. L’una  comune all'etica e all'economia. L’altra esclusiva dell'etica. La condizione comune è l'applicabilità universale del postulato come principici informatore di tutta la condotta; la  condizione propria dell'etica è che il motivo, di cui si postula questa universale e incontrastata efficacia, abbia valore morale. Ora, VI è un motivo, del quale si possa legittimamente  presumere che sia riconosciuto universalmente il valore  morale, e del quale sia insieme possibile l’applicazione universale e simultanea a tutta quanta la condotta individuale  e COLLETTIVA?  A questa domanda ho già cercato altrove di trovare  una l'isposta; esaminando prima in che consista l'esigenza  caratteristica di una norma morale; e poi se vi sia e quale  volgere a uno scopo pratico (nella scelta del quale sono guidati da un criterio  etico) delle conoscenze fornite dalle dottrine e dalle indagini economiche: e  la forma-limite di questa tendenza é una intera ricostruzione su basi etiche  dei rapporti eeonomici. Fanno dunque quello che da un pezzo avrebbero  dovuto fare i moralisti; cioè sentono la necessità di considerare l'esigenza  etica estesa alla stessa struttura, non soltanto politica, ma anche economica  della società. Ma ciò che più ini])orta di osservare a questo proposito é che una critica radicale — da un punto di vista etico — della realtà dei rapporti economici porterebbe, a guardar bene, a rimproverare all'economia pura non  un eccesso ma un difetto di astrazione. E il difetto di astrazione si rivela  in ciò: che mentre l'economia si propone di studiare l'azione isolata  del motivo economico, e perciò suppone ridotta l'azione dello Stato ada tutela dell'UGUALE LIBERTA PER TUTTI, assume nello stesso tempo — come condizioni di uguale libertà ~ certe condizioni (p. es. la proprietà fondiaria, il  capitalismo e il salariato) che limitano o alterano T universalità o l'eflicacia  del motivo. Cioè o considera, per questo rispetto arbitrariamente, come categorie necessarie^deWe categorie 5ioric/ie, o considera, pure arbitrariamente, come conforrni all'ipotesi delle condizioni disformi. poss.'i essere il fine che abbia il carattei'e <ìi uiìivei'sale e pi'einiiif'iite desiderabilità richiesto a «^nustificai'e il valore  normativo del motivo corrispondente. La conclusione di  questa analisi era la seguente. LA DESIRABILITA di un ordine di effetti, che si assuma come FINE non viene tanto dalla DESIRABILITA che gli si l'iconosca come bene, cioè come oggetto diretto e immediato di godimento, quanto dalla DESIRABILITA degl’effetti, lei (juali esso apjiarisca la condizione necessaria. E perciò, inentie è vano andar cercando quale sia il fine  ultimo, il quale non si trov.a mai, o si risolve in una  pura espressione verbale, il fine che può valei'e come su  premo si deve cercai'e non nell’uno o nell'altro de: fini  a cui si riconosca valore per sé, ma in un ordiiM^ di  effetti, in un sistema di condizioni, dato che sia assegna-  bih*, nel quale si possa l'iconoscere questo carattere ap-  [)unt() di condizione necessaria non di alcuni, ma di tutti  quei beni, ai quali si attril)uisce valore per se. E quimii  il fine che può avei'e universalmente una DESIRABILITA superioi'e a ogni altro, non juiò consistere se non m  un ordine genei'ale e, si potrebbe dire, preliminare di  condizioni, la cui attuazione apparisca necessaria perchè  sia possiì)ile universalmente la ricerca ulteriore <li ([uei  beni. Non può essei'e cioè supremo nel senso di una gerarchia, della quale segni il culmine, nò nel senso di una  grandezza o quantità, di cui sia il massimo, ma nel senso (iella precedenza necessaria o della indispensabilità; per  la (juale venga a l'accogliersi su di esso come in un unico  foco la luce e il calore di DESIRABILITA che irraggia dai  fini ai quali apre universalmente la via. E perciò, ammesso che qualsivoglia fìne lancino ha,  come ha in l'ealtà, per condizione la convivenza e LA CO-OPERAZIONE sociale, il fine che può avere questo valore di  precedenza necessaria sugl’altri deve essere di necessità  il raggiungimento o il mantenimento di certe condizioni  di convivenza e di CO-OPERAZIONE sociale, cioè di una qualche  forma di società. Ma perchè a.] una forma di società possa  essere riconosciuto questo carattere universalmente, occorre  che le condizioni della sua esistenza hanno per tutti un  valore potenzialmente uguale. Ossia che nessuno dei FINI  dei quali quella forma di CO-OPERAZIONE pone la POSSIBLITA [Grice trascendentale]  e dai quali attinge il suo valore, sia, per dato e fatto delle  esigenze di essa forma, precluso o impedito a nessuno dei  componenti la società. in altri termini che tutti i .socn  trovino nelle condizioni di esistenza della società la medesima equivalente possibilità esteriore d\ rivolgere la loro  attività alla ricerca di qualsivoglia dei fini, dei quali la  convivenza e COOPERAZIONE sociale è CONDIZIONE [GRICE, metaphysical justification]. Ora se si riconosce come esigenza della GIUSTIZIA, questa  esigenza alla quale deve soddisfare una forma sociale perchè ha universalmente valore di fine prossimamente supremo,  determinare questo fine equivale a determinare un tipo di  società nel quale siano attuate le condizioni richieste della  giustizia cosi intesa, ossia un tipo ideale - conforme a questa  esigenza - di HOMO IVSTVS e di socielas insta. E ciò equivale  a cercare quale sistema di relazioni risulterebbe effettuato  nell’ipotesi che gli uomini, sia come collettività sia in-dividualmente, ossia in qualunque forma di azione o  di in/Iuenza che si eserciti cosi dalla società come da  ciascuno dei singoli, subordinassero universabne^ite e  costantemente qualsiasi altro motivo o desiderio al desiderio della giustizia.  E se supponiamo che con un procedimento analogo a quello tenuto dall'ecoiioinia pura (1) il .sistema Hi l'elazioni  che iji avverei'ebbe nell'ipotesi, e già deteterminato, noi  avremmo una scienza pura della giustizia -- una diceologia » piD'a, alla quale sarebbei-o totalmente applicabili  le considerazioni circa i cai'atteri  e le limitazioni che pi'esenta una costi'uzione siffatta.  Ili,  Posto, adunque, che fosse costruita (questa Scienza pura  della giustizia, si poti'ebbero muovere ad essa, fondandole  sulle limitazioni notate, tre obbiezioni capitali: di essere  una costruzione aì'bitraria, oziosa, e, in ogni cas(ì, monca. Di queste obbiezioni occoi're chiaiMre la portata.  L'arbitrarietà della costruzione supposta pU(') essei'e intesa in due sensi. Nel senso che la validità delle  norme che se ne ricavano è relativa alla validità del postulato, il cui valore è bensì assunto come un DATO DI FATTO,  ma senza una ragione perentoria che obblighi ad accettarlo;  oppure nel senso che è difjbrrne dalla realtà e insussistente l’ipotesi di una condotta subordinata universalmente e costantemente all'esigenza della giustizia.  Se si intende 1' arbitrarietà nel primo senso, qualunque dottrina etica è aidjitraria ; perchè il valore del  postulato fondamentale (ossia del motivo, o del tine, o del [L'economia dà al postulato edonistico – e EUDEMONISTICO _- un contenuto materiale determinato considerando come soddisfazioni le soddisfazioni di certi bisogni.  e come sacrifìci certe privazioni e certe pene; mentre al postulato della  giustizia il contenuto materiale, al quale se ne deve fare l'applicazione, é  dato (la tutte le specie d'attivuà o da tutte le categorie di fini (esclusi soltanto quelli la cui ricerca o proseguimento importano la negazione del principio regolatort^ supposto) che in una società data sono possibili. ili  criterio di valutazione) quale si sia, è sempre ammesso  assunto, ossia si suppone o si ammette che sia riconosciuto come tale; e nessuna dottrina etica può compiere il  miracolo di obbligare a.l accettarlo. Perchè, la ragione perentoria - se è una ragione, non può consistei-e che nel  ricondurre il valore del postulato a quello di un altro fine  o di un'altra esigenza ulteriore, della quale si ammette o  SI suppone ancora che la validità sia riconosciuta. E se si  dice che è propio del fine o dell'esigenza morale il presentarsi alla coscienza come un valore che non si può disconoscere, si auìmette che questo carattere è già dato nel  fatto stesso che l'esigenza è riconosciuta come morale;  anzi che il motivo vale assolutamente, appunto perchè vale  come morale; il che vuol dire che impone il proprio valore solamente in quanto la coscienza lo accetta, e che è  sempre in ultima analisi il valore morale dell'esigenza  che é preso come un dato primo o come un postulato. Se  si intende dunque in questo senso, qualsivoglia dottrina  etica è, perchè etica, arbitraria. Se poi si pone come caratteristica del valore morale la  possibile validità universale della MASSIMA corrispondente,  nessuna esigenza è piti radicalmente universale di quella che esprime la CONDIZIONE stessa di questa POSSIBILITA. Che all'esigenza assunta sia o no riconosciuto in  effetto valore morale, ossia che il postulato corrisponda  o non corrisponda e più o meno adeguatamente a un dato  della realtà psicologica rivelato dall'analisi della coscienza  morale, è una questione diversa. E se l'arbitrarietà s'intende in questo secondo senso, come difetto totale o parziale di questa corrispondenza, essa consiste, nel caso nostro,  non nel considerare come morale l'esigenza della giustizia,  ma neir assumere questo motivo come il motivo morale.  fi  JH^ffriaililf».W'.ifc^ ] menti'e la realtà empirica ne pi*esenta anche altri ; e nel  considerai'lo isolato da questi, mentre nella realtà sono  più o meno strettamente connessi e coopei'anti o contrastanti con q ìlei lo.   Non ho nessuna ditlicoltà a riconoscere che la costruzione supposta è, anche per questo ris[)etto, arbitraria ; al  modo stesso che è sempre pili o meno arhiti'ario qualunque  sistema di deduzioni ricavate da un' ipotesi. Ma un' arbitrarietà di questo genere non implica nessuna fallacia finché  non si pretende che essa espi'ima la i*ealtà del mondo mt)-  l'ale dato ; e la costruzione si dà per quel che è, cioè per  una scienza che sai-ebbe la « vei'a scienza » della morale  com' è , se le condizioni dell' ipotesi rispecchiassero la  realtà — Intendo quel che si può dire: — Perchè supporre  che il motivo egemonico sia la giustizia, e non un alti'(\  poniamo il motivo altruistico – GRICE: OTHER-LOVE? 0, meglio, perchè non assumere come motivi morali, o l'ispondenti all'esigenza morale, tutti i motivi che la realtà psicologica l'ivela valere  in effetto come tali? La l'isposta all'una e all'altra domanda  non è diffìcile. L'assumere come rispondenti all'esigenza morale i critei'i molte[)lici che si i-ivelano nelle norme empiricamente  date come morali costi'ingerebbe in ultimo ad assumere l'esigenza stessa moi'ale come in sé contraddittoria e a costi'uire non una scienza, ma una veste d’Arlecchino. Perchè  la morale empii'icamente data rivela criteri non di rado  opposti, e del medesimo ci'iterio le applicazioni più artificiose e vai-iabili. Ora, che l'esigenza morale possa   U) Tralasciando pure di insistere, come lio già osservato altrove, perchè  è cosa troppo nota, sull'antitesi fondamentale esistente tra le norme di condotta che valgono come morali rispettivamente nelle condizioni di pace e di  guerra, e sui contrasti, tragici talvolta, tra i doveri famigliari e i do-  co„,poru,.e criter,, ì,ver.i e anche opposti ,fi val,„az,one  senza cessare di essere morale, s, potrà aocl.e ammettere  (purché s, s.a disposti ad accettarne le conseguenze;; ma  che si possa, assumendo criteri contraddittori!, costruire una  dottirina coerente, non si può sostenere. Bisogna dunque scegliere; e la scelta ,iel motivo della  giustizia, se è arbitraria hi quanto e seella ,U uno fra più "on e arbitraria in guanto mandnno le ragioni della  scelt.. Poiché è facile rilevare che il motivo delia giustizia  e 'I solo al quale si possa supporre che risponda in effetto  universalmente e costantemente tutta la condotta senza  che l’osservanza da parte degl’uni richieda o presupponga l’inosservanza da parte degli altri. L'altruismo (GRICE OTHER LOVE) non potrebbe essere oss.Tvato universalmente, se non a patto che fosse subordinato alla sua voka  a mia norma di giustizia. Infatti, affinché sia possibile  I abnegazione e la rinuncia incondizionata di sé agl’altri, veri sociali, bisogna osservare che le „or,„e date e accettate come morali o.o,.o contemplare e contemplano realn.ente, almeno parte, de„e rela-   wL; T ' ,•'^i" "> S-iadi relazioni   pr.ma,,e e fondan.entah, che le „orn,e non contemplano e che sono la negazione del crueno applicato in qne.le norme. Mi sia lecito spiegarmi e „   ruiieTau: r"'T,  t"'-^  I iano i In ""'. '^ cercare ,,uale   a qu le concila la minima fatica del primo col minimo disagio del secondo  crueno seguito qu, é un criterio d’EQUITA. Si riconosce ciocche non sa-   omodi;e tutte le  comodità per se senza tenere in conto le comodità dell'altro. .Ma se questo  crueno (seguito nello stabilire la condotta migliore, Jata ,,uella conLol  <i.ve,.a de, due, fosse applicato a determinare la rela.one t,-a i due p,Jl   Z^JT'"P~« e portato, questa .:J^::Z  TorT "T"»™"'--^^ colle p,.opr,e gambe. Ossia la norma   nor. le regola nel caso supposto un rapporto che non esis,e,.ebbe, o sai-ebbe  tutto d,verso, se essa fosse applicata al sorgere di quel .-apporto  NH     itì'i^tli^ì-. Hif     ^••s«ì»?T<P7**  Ifi    bisogna chf^ gli nni si .saci'ifichii)0 e gli altri o qualche  alti-o accattino il sacnfi/io ; cioè bisogna che gli uni os^or-  vino LA MASSIMA (lell'altruismo, e gli altri o qualche altro quella dell'egoismo. Se poi si ammette che nessuno debba  poter saci'ifìcarsi più di un altro qualsiasi (lasciando di  osservare che in tal caso praticamente i sacrifici si eli<le-  rebber.)) fiisogna che la condottta altruistica di ciascuno  non impedisca una pari condotta altruistica degl’altri. Cioè bisogna che fattività altruistica alla sua volta sia  governata da una norma di giustizia. Ciò viene a dire che la famosa formula kantiana, se  si considera nella possibilità della sua applicazione simultanea  per tutti a tutta la coìidotia e.sterna non è suscettiva d'altra  inter[)retazi()ne che di massima univeisale di giustizia nel senso sopra chiarito. In un Saggio originale e sucrgestivo, che vale bene più di qualche  grosso volume inconcludente, CALDERONI (si veda)  illustra una  concezione economica della morale (che non tocca in nulla, benché a prima vista sembri antitetica, il concetto qui esposto) nella quale egli osserva giustamente come la maggior parte delle azioni virtuose non siano considerate  come tali se non perchè sono prodotte in quantità inferiore alla domanda;  e son per noi un dovere appunto perché gli altri uomini non le lanno,'  e rimangono tali a condizione che non siano troppi gli uomini capaci e volonterosi di imitarle. E trae da questa considerazione la conseguenza che la  formula di Kant è del tutto inapplicabile. Ora è certo che Kant intende di parlare di validità universale del  motivo a cui si informa l’azione. che può essere quindi variabile secondo le  circostanze, pur rimanendo il medesimo il motivo che la detta; e che non  può richiedere uniformità di condotta esterna se non nel caso che si tratti  della medesima attività esercitata nelle medesime condizioni esterne. Ma (juando m supponga avverato questo caso, si troverà che l’unico motivo, il quale comporti uniformità universale di condotta è il motivo della  GIUSTIZIA; e che intesa così, la formula di Kant resiste alla critica  anche dal punto di vista di CALDERONI (si veda) Disarmonie economiche e disarmonie morali, Firenze, Lumachi. La marginalità nella  Morale. Assumetelo dunque, se cosi vi piace, codesto vostro  postulato, e costru.tevi la vostra . Scenza pura della  giustizia. Cile ne farete poi? A che c<,sa propriamente potrebbe servire costruita  elle fosse, non si può con esattezza determinare ,n precedenza. Si potrà vedere, nel caso, quando sia fatta o pi ut-  "«to, a mano a mano elle si venga facendo. Troppe ricerche  . el resto non si farebbero se si aspettasse di averne diino-  strato 1 utilità; e ,li troppe altre , risultati portarono frutti  <lel tutto remoti da ogni previsione. E dato pure che riuscisse inconcludente, nessuno tiirà che «ia „é la prima „ó  u'iica ,n questo genere, specialmente nel campo della  morale. E t,.a le molte curiosità, perchè non dovrebbe  trovar posto anche questa : ,ii sapere come andrebbero le  faccende di questo mondo se gli uomini si decidessero ad  essere tutti e sempre e in ogni contingenza della vita so-  liratutto e prima di tutto giusti?  M.-i è pur naturale d'altra parte che debba intravederne  almeno qualche possibilità ,li applicazione eh, la propone  e che ne debba dire qualche cosa. Le applicazioni possono essere principalmente due: come  mezzo di interpretazione o di sistemazione scientifica della  realta morale ,lata; e come fondamento di una disciplina  precettiva, ossia di un'etica applicata della giustizia. Se l’osservazione psicologica dimostra che è arbitraria, l'assunzione del motivo della  giustizia come unico motivo morale, dimostra pure <die  quel valore gli è però realmente riconosciuto: e che se  non ., riconduce ad esso effettivamente ogni valutazione ^nica, esso entra però come elemento o fattore di valutazione in qualunque giudizio morale. Può essere dunque  opportuno, a uno scopo di sistemazione coerente delle norme  effettivamente vigenti, conoscere quali sarebbero se questa  esigenza operasse isolatamente, cioè se tutte si ispirassero  unicamente ad essa; e considerai-e, con un artifizio di cui  tutte le scienze offrono innumerevoli esempi, come deviazioni limitazioni risultanti dalla presenza di alti'i motivi,  le norme che non coincidono con quelle astrattamente  dedotce. Sarebbero, per un vei'so, da considerare come tali le  norme della condotta politica interna ed esterna ispirate  dall'interesse dello Stato, o del maggioi- numero, o di una classe, in quanto al rispetto di queste esigenze sia attiibuito  valore morale. E sarebbe, pei- un altro vei'so, possibile interpi'etare le  norme della BENEFICENZA come espressioni della stessa esi-genza della giustizia, in quanto si considerano rivolte a  sanare o a lenire gli effetti che ne accompagnano 1' inossei'vanza, e le deviazioni o le limitazioni. Ma l'applicazione più rilevante riguarderebbe l'Etica  propriamente intesa come disciplina normativa. La scienza pui'a della giustizia appunto perchè  considera già raggiunte e attuate tutte le condizioni richieste  dalla esigenza che essa postula, ossia, in termini equivalenti,  fa astrazione da ogni circostanza interna od esterna che  ne impedisca o ne limiti 1' efìTicacia, configura un sistema  di relazioni sociali e un tipo di condotta, cioè formula   Sarebbe possibile per questa via togliere — dico nella trattazione teorica — certe contraddizioni o antinomie davanti alle quali si arrestano  solitamente i filosofi quando ne determinano l’esigenze razionali delle leggi, le quali possono valere come tali soltanto nelle  condizioni contemplate dall' ipotesi,- vale a Hn^e non sono  suscettive ,li applicazione, sic et simpliciler, a condizioni  iliverse. Ma se si ammette che T onime di relazioni ipoteticamente costruito abbia valore di fine, cioè se si ammette  come normativa l'esigenza della giustizia, vi sarà luo-^o a  cercare e a .leterminare (bencbè questa determinazlne  debba riuscire, come è facile prevedere, assai difficile e  complicata) quale sia in condizioni reali storicamente date  la condotta, die nei limiti imposti da queste, è ini, atta a  favorirne la trasformazione nella direzione segnala dalle  condizioni ideali contemplate nell'ipotesi. Ossia si potrà ricavarne un'etica applicata della Giustizia, alla quale la realtà storica fornirà la conoscenza  delle condizioni tra le quali si deve spiegare e dei mezzi  ai quali deve ad.-guarsi, per essere praticamente efficace  la condotta rivolta a quel fi ne ; cosi come darà la conoscenza  'Ielle varie specie di attività che l'esigenza .iella giustizia  e chiamata a regolare; cioè darà, volta a volta, alla forma  <lella giustizia il contenuto materiale. E le norme, cosi ricavate da questa applicazione a una realtà data delle leggi .Idia Giustizia pura, saranno valide,  se SI accetta come fine morale prossimamente supremo, cioè  precedente a ogni altro fine generale e speciale, l'attuazione  del sistema di relazioni contemplato da quella, e come morale la condotta corrispomlente.  Cosi questa Etica applicata, come la Scienza Pura  dalla quale essa si ricava, è indipendente da qualsiasi dottrina metafisica, ma non pretende di sostituirla. Ignora i problemi metafìsici ; ma nel senso che non no richiede e  non ne assume una certa soluzione piuttosto che un'alti*a; non nel senso che ne neghi l'esistenza o ne escluda la trattazione. Ilimane di fronte ad ossa iinpi'ogiudicata, e da essa  distinta, ogni questione sulla natura e sul fondamento ukinìo dell’esigenza stessa morale; così come rimane impi'egiudicato  il pi'oblema pratico, o pi'opriamente psicologico e pedagogico,  intorno al valoi-e e all' efficacia delle credenze religiose o  metafìsiche come condizioni o fattori sof^^-jcttivi dolla moralità. Ma, ciò nonostante, o forse appunto pei'ciò, è verisimile  che sia giudicata, specialmente alla stregua delle tendenze più apei'tamente dominanti nel p(insiei*o contcmpoi'aneo, doppiamente monca; monca considerata come dotti'ina;  monca considerata rispetto alla efficacia pratica.   a) Cei'tamente può parere strana se non ingenua Tnlea  di segnai'e una divisione di competetjza tra T indagine scien-  tifìca e rin(iagine proprianifMite filosofìca e metafìsica, men-  ti'e pai'e di assistere a una specie di atto di coiitrizion<'  delle stesse scienze speciali già formate; le quali, dopo essersi staccate e aver pi'oclamato la loro indipendenza dalla  filosofìa, sentono il bisogno di ritornare ad essa e di rintracciare in lei le origini della loi'o vita e la ragione del  loro valore. Tuttavia una considerazione un po' più attenta  può mosti-are die il contrasto è soltanto a})parente e che  la tendenza delle scienze speciali all' inter|)retazione e alla  integrazione filosofìca dei loro presupposti e dei loro risultati  non esclude, ma piuttosto include, la legittimità di una distinzione anche nel campo delia morale. Perche essa }) resuppone appunto che le scienze abbiano i ÌOt'O postulati,  i loro metodi i Ioì'O risultati, e che i sistemi speciali di  dottrine cosi edifìcati sussistano ed abbiano una validità  propria, sia pure limitata e provvisoria, all'infuori dell'interpretazione e della valutazione che ne debba o ne possa fare la metafìsica. In questa specie di Conferenza permanente dell' Aia (sia detto senza intenzioni maligne) che è  la mutua collaborazione delle diverse discipline alla critica  e alla integrazione del sapere e del valere umano, sono  gli Stati che hanno territorio e giurisdizione propria che  possono far sentire la loro voce. I delegati della Corea  sono esclusi. Intendo quello che si può dire. La morale è essa  stessa la metafisica, e pone essa le esigenze alle quali è  subordinata la valutazione di tutte le altre discipline dei  loro principii e delle loro conclusioni. Fosse pure, o, piut-  tosto, dovesse pure essere cosi. Quali sono queste esigenze  della morale? Come si determinano ? Qual'è, fra i molti  sistemi diversi opposti e anche contraddittorii, quello autorizzato a rappresentare « la morale *, e a far valere le  sue esigenze come esigenze ideila morale *ì E se si può  distinguere una esigenza immediala e caratteristica, dato  che SI trovi, della valutazione morale, dalle esigenze ulte  non, argomentale o poste da questo o da quel sistema per  interpretarla o giustificarla, allora è nello stesso tempo data  la distinzione tra esigenza propriamente morale ed esigenze  avanzate ,ia una interpretazione o integrazione metafìsica  della esigenza morale; e si delinea insieme una separazione  legittima tra l’indagine che cerca di risalire dall'esigenza  morale ai postulati metafisici, e l'indagine che ricava dall'esigenza morale le applicazioni che logicamente ne discendono.  Ma, nella realtà viva e vissuta della coscienza,  valutazione morale e valutazione metafisica formano un  tutto unico; e separando l'esigenza etica dalla fede metafisica colla quale è fusa e della quale si alimenta, s, è   spezza r unità della coscienza , si oscura o si cancella  il signitìcato e il valore interiore della moralità, e si presenta come vita morale lo scheletro o, meglio, lo stampo  esterno e quasi l'impronta fossile dell'atto morale. Sarà verissimo; ma nessuna costi-uzione dotti-inaU può  sfuggire a questa obbiezione. Tutto ciò che la logica tocca e  che è fatto oggetto di conoscenza riflessa e i-agionata diventa  perciò stesso un tipo, uno stampo, un fossile; anzi stampo  è la parola, stampo ò la stessa rappresentazione artistica  se non è vivificata e i-isvegliata da chi la deve intendere  e gustare; anzi sono diventate ormai stereotipe, per colmo  di evidenza probativa, perfino le fi*asi e le immagini usate  a mostrare la « i-icchezza e la varietà inesauribile della  coscienza e delle sue ci'eazioni. E quanto al sepai«are nella teoria ciò che nella realtà  è unito, bisogna pur rassegnarvisi. Pei'chè ogni nctM'ca è  prima di tutto distinzione, sepai-azione, asti'azione; il fatto  stesso, ogni fatto (diceva già un chimico, Chevreul) è  un' astrazione. Ciò che importa veramente è di non dimenticare che l'astrazione non è tutta la realtà.  Ora, sceverando dal complesso degli elementi, onde la  vita etica nella coscienza personale iMsiilta o può risultare,  quello che è suscettivo della più universale applicazione, e  costruendo il tipo di vita che ne risulterebbe, non si pretende di esaurire il contenuto della coscienza, ma soltanto  di distinguere le norme di condotta a giustificare le quali  basta uu certo postulato, dalle norme e dalle forme di vita  morale che si fondano sopra altre esigenze ossia l'ichie-  dono altri postulati. E chi crede che la chiarezza dei concetti e il l'igoi-e  del procedimento si debbano poi'iare, fin dove è possibile,  anche nella speculazione etica, ammettei-à che può essei-e  que-  utile allo scopo, se non anche necessario, il seguir(  sta via. Rimangono altri problemi. E chi lo nega? Ma  prima condizione per cercar di risolverli con frutto è di non  confonderli tra di loro. E nasce da una confusione di problemi diversi  l'obbiezione, che si potrebbe dire pragmatistica, del difetto  di efficacia pratica, o più esattamente parenetica o pedagogica, di una dottrina morale che faccia astrazione da ogni  valutazione metafìsica, e presenti un sistema di norme che  ha di necessità soltanto un valore ipotetico, cioè, nel caso nostro, condizionato al valore che può avere nella coscienza il motivo impersonale della giustizia. (lì Le espressioni di più d' un antiintellettualista indurrebbero 4uasi ad  ammettere che la morale sia una specie di grande imbroglio, nel quale a  voler vederci chiaro, si finisce per non credere più. Ora, altro è riconoscere  Cile ogni valutazione é in ultimo data alla intelligenza e non dalla intelligenza, e che nessuna conoscenza e nessun ragionamento può far volere un  fine che non sia già voluto, o per sé, o come condizione a un altro fine- altro  è credere ed aOermare che l’intelligenza o la ragione sia in contrasto olla moralità. Come potrebbe essere? Non certamente in quanto si rivolge a determinare  1 mezzi necessari e convenienti a un fine. Nel qual caso non è nemica, ma  ancella della volontà in generale, e, se la volontà é « buona ». della volontà  morale. Non potrebbe essere, dunque, se non in quanto toglie o muta la valutazione del fine (cioè delP oggetto o contenuto materiale del motivo morale) mostrandone \^ connessione, prima ignorata o trascurata, con qualche  cosa d' altro, che sia oggetto di una valutazione diversa; diciamo, per comodità, negativa o repulsiva. E allora, poiché la valutazione di questo  qualcosa d'altro non può venire dall' intelligenza (la quale, come si sa. chia-  risce rapporti, non dà valori), manifestamente non si possono dare che due  casi:   ha origine nel motivo stesso morale; e la conoscenza non avrà fatto  che mettere in chiaro come quel fine che gli si riteneva in tutto conforme, sia  in realtà più o meno disforme in forza della connessione notata. Ma ciò non  Poiché è uggioso a se e agli alti-i l'ipetere cose già  dette, e su questo punto ho insistito a lungo altrove, mi  restringo qui a riafTermare la legittimità, anzi la necessità  logica e la convenienza morale, di tenei- separata netta-  mente ogni ricerca che si volge a detei-minare quali siano  le norme di condotta richieste da un certo fine, dalla ricerca delle condizioni e dei fattori dai quali dipende o può  dipendere l’osservanza delle norme. La legittimità delle  deduzioni, dato che ci sia, e la validità dei precetti rispetto  al fine sussistono indipendentemente dalla presenza o dalla  assenza dei motivi che ne persuadono o ne impongono l'osservanza, e dalla natura di questi motivi. Come il contenuto e la giustificazione delle prescrizioni d'un medico non  dipendono dalla disohbedienza o dall' obbedienza dell' ammalato nò dalle ragioni di questa obbedienza.   tocca in nulla il valore e l'efficacia del motivo morale. Ammettere il contrario sarebbe come dire che cessa di amare la giustizia chi cessa di difendere  una causa che ha riconosciuto ingiusta. ha origine in un motivo non morale (poniamo in un interesse egoistico);  e anche qui l' intelligenza non farebbe che rivelare una condizione di fatto :  la presenza e Tefficacia di motivi non morali nella valutazione dei fini e :lella  condotta. La conoscenza dunque, anche in questo caso, non altera il valore  del motivo morale; può eventualmente mostrare che il valore e l’efficacia  sua non è esclusiva, o incontrastata come si supj)oneva. Ma correggere un  errore di giudizio non é cambiare uno stato di fatto. Potrebbe dunque, tutt' al più, togliere un' illusione. Ma è nell' illudersi  d'esser morali che consiste la moralità?  Questo conformarsi o non conformarsi si suole a torto, per abuso di  linguaggio, attribuire a una pretesa efiicacia pratica delle norme; mentre le norme - perse - hanno, a promuovere l'azione corrispondente, una  efficacia non maggiore di quella che abbiano i fanali di una strada a muovere le gambe dei nottambuli. E un simile abuso di linguaggio, che nasce  da un difetto d'analisi, ha alimentato la confusione tra esigenza giustifica-  tiva e esigenza esecutiva, tra l'obbligo e la giustificazione dell'obbligo, e la  pretesa illusoria che una norma possa o debba avere in sé forza obbligativa.  Cfr. Prolegomeni ecc. , e. I: (L'esigenza esecutiva) ; e Studi su la possibilità  (La pregiudiziale dell'imperativo categorico). La reale presenza ed efficacia di motivi «ufficienii a  determinare T osservanza è in ogni caso si>,pposta, non  . posla da qualnnque costi-uzione precettiva; e il «„ppori-e  operativo d motivo della giustizia non esclude, ma piut- i  tosto include, una ulteriore valutazione del motivo stesso ' ogniqualvolta nella realtà esso derivi in tutto o in parte  la sua forza da questa sopravalutazioiie. Ma anche in questo caso non bisogna dimenticare che  una tale efficacia .sarebbe sempre essa stessa posMata  come un dato di fatto, non comunicata o la,-g,la da una  fon.ìazione qualsivoglia. Perchè anche una fondazione religiosa o metafisica non pone essa le credenze, ma le sup.  pone già viventi e .operanti. Il suo valore come motivazione morale dipende dal valore reale che esse hanno  nella coscienza, dalla loro forza operativa. Essa fa appello  a questa forza, ma non dà, essa, la forza; ossia vale,,el-  i ipolesi che valga in effetto nella coscienza la fede nei  dati assunti da lei. E se questa fede mancasse, una fon-  <iaz,one metafisica o religiosa, qualunque fosse, avrebbe sulla condotta una efficacia non diversa né maggiore di qualsi-  voglia costruzione arbitraria. Senonchè si potrebbe, su basi pragmatistiche, osservare  che SI ,ie^e appunto volere quella fede dalla quale si può  aspettarsi l'incremento del motivo morale, e che, poiché  SI tratta di optare, conviene dal punto di vista' pratico optare per una fede moralizzatrice. E compito del moralista «ara perciò di affermare e suggerire quella fede come  presidio e cnforro, utile se non necessario, della moia-  l'tà, e presentare la dottrina morale connessa e incorporata con quella fede. Su un discorso di questo genere ci sarebbero da .lire  molte' cose; notiamone poche.  E prima di tulio convien pur ripetere che un tal compilo.  t^ 1   fc m  (lato che spetti al inoi-alista, ^Hi spetta in quanto è o pretende (li essere educatore o apostolo, non in quanto si  propone di cercare quali concernenze ini[)liclii l’accettazione di un cei-t() postulato e si contenti di atierniare che  chi accetta il postulato deve accettai-e le hoimikì che ne  discendoiHi. I due uffici non si identificano ; chi ha slo//(i  di ricercatore può non avere stoft";i di a[)()stolo o di avvocato ; e potrehhe in og"ni caso invocare aiiche qui il principio delhi divisione del lavoro.   Ma dal [)unto di vista stesso pedagogico la tesi è tutt' altro che incontestahile. Suggerire e infondere una fede!  E presto detto. Ma in che modo o per (jual via? Partendo  dall'esigenza pratica per arrivare alla credenza, cioè presentando la fede a[)punto come sostegno e guarentigia della  ni orai ita? Lasciamo pui'e di indagare se con ciò non si nega in  effetto, neir atto stesso che si afferma, il valore assoluto  dei postulati religiosi o metatisici, dal inoinetito che essi  sono affermati o posti come condizioni o fattori nella produzione di certi effetti, cioè sono valutati utilitariamente;  e se non si offende il sentimento religioso, considerandolo  unicamente come un motivo sussidiano invocato a supplii'e alla fiacchezza del uiotivo morale. Un pragmatista conseguente potrehhe non avere (ii «juesti scru[)oli. Ma lo scopo stesso a cui mira il pragmatista vieti meno  in realtà dacché, per tal via, si suppone dato ciò che si  vuol produire; ossia si pone a sostegno del motivo morale  un sentimento che vien fondato sopra esso, e vale in forza  di esso. Con un risultato non dissimile da quello che hanno  di solito le discussioni ; dove le rai'ioni usate a sostenei'e  un'opinione persuadono soltanto chi è già persuaso; cioè  hanno in effetto tanto maggior [)eso quanto più è superfluo  servirsene. Se si tiene invece una via diversa, e si intende di edificare la credenza su una educazione propriamente dogmatico-religiosa, dov'è più la opzione, la affermazione  libera e spontanea della coscienza? E come può il moralista educatore presentare o imporre come unica e definitiva una iede, o una credenza  religiosa o filosotìca^che egli sappia essere personale e volontaria?  La verità è che mentre nel valore morale (posto che  sia riconosciuto) del postulato che si assume a fondamento della costruzione scientifica, è necessariamente implicito il valore morale delle norme che ne esprimono l'applicazione, non è necessariamente implicita l'accettazione di certi piuttosto che di cert' altri postulati metafisici. Mentre, accettato un postulato di cui sia possibile  r applicazione alla condotta umana, la coerenza logica basta  a dare la legittimità delle norme che se ne deducono, la  coerenza logica n07i basta a porre come necessariamente richiesta da quel postulato una determinata fede religiosa  filosofica ad esclusione di qualsiasi altra. La salita al  cielo dei postulati metafisici non si fa colle scale della logica. (Il che, come tutti sanno, ha il suo riscontro nel fatto  che possono trovarsi concordi nelT accettare e nell' osservare la medesima esigenza morale uomini di opinioni i-e-  ligiose e filosofiche diverse; come, inversamente, può la  stessa fede religiosa e filosofica presentarsi, nella realtà  storica e psicologica, connessa con norme morali discordanti).  E la libertà dì coscienza sarebbe una frase vuota  di senso o piena di immoralità se il voler la giustizia e  Tesser giusti richiedesse o l'esclusione di ogni fede o  l'accettazione della medesima fede. ài fondata da Sen. C; Rivista Filosofica VRLO Cantoni. La Possibilità l I e i Limiti MORALE STUDI TORINO. BOCCA. In questo volume sono raccolti tre scritti pubblicati in  più riprese nella Rivista Filosofica diretta dal mio indimenticabile maestro ed amico CANTONI (si veda), al quale il  profondo e tenace convincimento delle proprie dottrine non  tolse mai di rispettare e stimare sopra tutto, anche nei discepoli, la lil>ertà e la sincerità. Benché diversi di titolo, i tre studi che ora ripubblico  riveduti e in parte aumentati, sono lo svolgimento del medesimo pensiero fondamentale, e presuppongono quasi, ciascuno dei successivi, i precedenti. Anzi il primo dì essi è, alla sufi* volta, continuazione di  un altro pubblicato anteriormente col, titàlol Prolegomeni  a una morale distinta dalla metafisica; nel quale è esaminato il problema della possibilità di un’ Etica normativa  indipendente da qualsivoglia soluzione, positiva o negativa,  dei problemi di natura metafisica. E perciò spero di essere  scusato se mi riferisco qualche volta anche ad esso ; e se in  in questo volume sono lasciate in disparte, o trattate con brevità che altrimenti sarebbe soverchia, alcune questioni delle  quali s’è già discorso in quello. Anche to' importa di avvertire, sempre a proposito dello  Studio La dottrina delle due etiche di Spencer e  la morale come scienza, che — se nella esposizione sia  generale, sia particolare, della dottrina esaminata, ho cercato studiosissima mente dì rendere intiero ed esatto il pensiero dello  Spencer — nella critica ho considerato la dottrina dal punto  di vista speciale additato dall’intento essenzialmente teoretico  che assegnavano a questa ricerca le conclusioni dello studio  precedente. E per questa ragione ho tralasciato deliberatamente non solo qualsiasi digressione, ma ogni discussione  che non fosse strettamente necessaria allo scopo mio particolare. A ciò si deve la mancanza quasi totale di accenni  alle critiche anteriori, anche dei più valorosi.  Pavia.  e la Morale come Scienza. Movente etico-sociale dell’opera dello Spencer. Conseguenze nella valutazione delle suo dottrine. La Dottrina etica in generale. Il concetto informatore. La distinzione delle due Etiche. Il metodo dell’ Etica. dati dell’ Etica. Soluzione dell’ antitesi tra fine e metodo, e possibilità di conciliazione fra i dati dell’ Etica.  La dottrina delle due Etiche. Due questioni fondamentali , attorno a cui si raccoglie la  dottrina. Il giusto assoluto. Il giusto relativo.  Errore comune nel modo di concepire la condotta  ideale. La priorità scientifica dell’ Etica Assoluta  sull’Etica Relativa. Confronto colle altre scienze.  Critica Preliminare : Le Questioni Pregiudiziali e il preconcetto dal quale hanno origine. La pregiudiziale dell’imperativo categorico Partizione della Critica. L’imperativo categorico. L’obbligo e la giustificazione. La progiudiziale  dell’ obbligo categorico è estranea alla determinazione e  alla giustificazione della norma.In che consista la  differenza caratteristica tra 1’ Etica e le altre costruzioni  precettive. Compito dell’ Etica. La pregiudiziale, .sul modo di intendere il   compito normativo dell’ Etica. La progiudiziale sul compito normativo dell’Etica. Come esso sia inteso nei due indirizzi prevalenti. Due  presupposti arbitrari comuni ad ambedue: che le norme  siano già determinate e note. che si accordino  fra di loro. Necessità di un criterio per la determinazione. La soluzione dell’indirizzo sociologico - Suo  difetto capitale: non vale a giustificare le norme. La  soluzione dell’ indirizzo prammatistico-idealistico. Difetto capitale: la costruzione metafisica postulata, come  qualsiasi costruzione metafisica, non serve a determinai e 10 norme. Il preconcetto fondamentale Presupposto comune ai due indirizzi. Da questo nasce l’antitesi tra esigenza scientifica (determinazione) ed esigenza  etica (giustificazione). Legittimità di porre il piobleina in una forma diversa. Conclusione della Critica Preliminare. La dottrina delle due Etiche e le esigenze  di una scienza normativa morale. Il criterio del limite dell' evoluzione e dell’adattamento completo non serve a determinare il tipo di condotta cercato . Due tesi distinte nella dottrina delle due Etiche; la validità   dell’ una non dipende da quella dell’ altra. Il tipo  di società giusta non è determinato dal limite dell’ evoluzione. Nè dall’ adattamento completo. Su  quali dati sia costruito veramente ; quale posto tenga nella  costruzione dello S. il postulato dell adattamento completo. Il criterio del piacere puro, corrispondente  all’adattamento completo, non serve a giustificare il tipo di condotta proposto. Il piacere puro non può essere il criterio della massima  DESIRABILITA. La questione del fine  e dei fini -  Soluzione illusoria trovata nel termine felicità e altri equivalenti. Equivoco nell’identificazione dell’ oggetto  dell’ attività col piacere. Quale possa essere il fine  che soddisfa alla doppia esigenza della determinazione e  della giustificazione delle norme. Il tipo di società giusta dello Spencer. Come concepisca la società giusta Spencer. Presupposto  illegittimamente assunto dalla biologia. Difetto  fondamentale : Incocrenza fra il tipo dell’ uomo giusto c  il tipo della società giusta. Difetto che ne deriva  nella relazione tra giustizia e BENEFICENZA. L’ individualismo dello Spencer e il postulato della giustizia.  Ufficio e limiti di una costruzione scientifica dell' Etica. Come debba concepirsi un tipo ideale di società giusta. Etica Pura ed Etica Applicata. Conclusioni della Critica. Presupposto fondamentale, e carattere ipotetico dell’etica come scienza normativa.  Pubblicando I dati  dell’Etica prima che fossero composti il II e il III  volume dei Principii di Sociologia, Spencer giustifica questa deviazione dall’ordine del suo programma col timore di non poter compiere l’opera  finale della serie: I principii di Etica. Degli indizi che in questi ultimi anni si ripetono con maggior frequenza e chiarezza m’hanno avvertito che la salute, se non la  vita, mi può venir meno per sempre, prima che io compia l’ultima  parte del compito che ho assegnato a me stesso. Quest'ultima parte  è quella per la quale io considero come sussidiarie tutte le parti precedenti. Il mio primo Saggio su L’Ufficio proprio del Governo indica vagamente il mio pensiero intorno a certi  principi generali di bene e di male nella condotta politica; e da  quel tempo in poi il mio fine ultimo , lasciando indietro tutti i fini  prossimi, è stato quello di trovare una base scientifica ai prìncipi  del giusto e dell’ingiusto nella condotta in tutta la sua estensione.  Lasciare incompiuto questo fine, dopo aver fatta una preparazione  cosi ampia per raggiungerlo, sarebbe una sventura alla cui probabilità non posso pensare senza sgomento e_sono ansioso di evitarla,  se non del tutto, almeno in parte. The Principles of Ethics. London Qualche cosa di simile alla catastrofe preveduta  sopraggiunse infatti; perchè dopo un lento decadimento e indebolimento progressivo egli fu costretto a sospendere qualsiasi lavoro. Fortunatamente potè riprenderlo: ed anche allora,   la sua prima preoccupazione fu quella di compiere  i principi di Etica; e pose subito mano a quella  parte della Morale, che dopo i Dati gli pareva più  importante: la IV a Giustizia. Colle parole e col fatto egli mostrava dunque  che Tintento supremo al quale consapevolmente convergevano tutti i risultati della sua speculazione, era u n intento mor ale. Par che riecheggi  in lui la voce di Spinoza: Finis in scientiis est  unicus ad quem omnes sunt dirigendae. E in p   realtà, come le idee madri della sua teoria pene¬  trano e illuminano tutti gli scritti suoi, anche i  minori, così vi circola dentro e li riscalda il soffio  vigoroso del suo ottimismo; e la dottrina dell’evoluzione, par che diventi nel suo pensiero sopratutto  la comprensione del processo naturale e necessario  che produrrà in un avvenire lontano ma sicuro una  umanità giusta e felice. Animata cosi di speranza,  la dottrina prende colore di fede. E veramente egli  la professò come una fede; non soltanto visse per  la sua dottrina, ma visse la sua dottrina. E i prin-  [. (wlien first iss. sep.) De. Intell. Emend.]— cipi che pone a fondamento della morale e del diritto,   € di cui vuol trovare le ragioni nelle leggi stesse  dell’universo, ispirano e governano con indomita  costanza tutti i suoi giudizi e tutte le sue opinioni,  da quelle sulla Educazione a quelle sull’Etica delle  carceri, dalle idee sulla Morale Politica Assoluta  alle proteste contro il « br igantaggio politi co », dalle  ironie contro «la Sapienza collettiva» a quelle contro  « i diecimila sacerdoti della religione d’amore che!  non apron bocca quando la nazione è mossa dalla '  religione dell’odio.»  Quell a unità e solidarietà di principi teorici e pratici , p er cui la sua mora le si presenta come  s cienz a ella sua scienza come una morale, e questo  continuo cimentare che egli faceva i suoi principi  con tutti i problemi più vivi del suo tempo, onde la  sua dottrina pareva prender veste di programma sociale e politico, hanno certamente contribuito a produrre^ questo doppio effetto: che la preoccupaz i, morali' si insinuasse anche nella critica delle sue  dottrine teoriche; e che l’opera sua, considerata  prevalentemente, se non talora quasi esclusiva-  mente, come l’espressione di certe tendenze e di  un certo indirizzo religioso morale economico politico, apparisse, col prevalere di tendenze e di aspirazioni diverse, invecchiata c oltrepassata di più,  e più presto, di quel che altrimenti sarebbe apparso.   E cosi potè facilmente accadere che anche certi principi, certi metodi e certe ipotesi fossero lasciati  in disparte, o si stimassero superati e come logori  e fuori d’uso, non perchò se ne fosse mostrata la  falsità o la infondatezza, ma perchò apparivano connessi e solidali con quel sistema o quell’indirizzo  che si giudicavano superati.   Ora se è vero che a intendere il significato e il  valore di una dottrina particolare è necessario considerarla nelle relazioni col sistema di dottrine di  cui fa parte, non è perciò meno legittimo considerare se essa possa aver valore e segnare un acquisto,  anche all’infuori della validità di quel sistema e di  quelle altre dottrine, colle quali primamente si  svolse. L’intento di questo saggio ó appunto di  esaminare il valore teorico e metodico della distinzione tra Etica Assolut a ed Etica Relativa; la quale  ò bensì, nel pensiero dello Spencer, parte integrante  del suo sistema, ma hg, secondo il mio avviso, ragione di essere, indipendentemente dall’applicazione  che egli ne fa e dai postulati che l’hanno suggerita.  Perciò si divide naturalmente in due parti: espositiva e critica; la prima rivolta a mettere in chiaro  le ragioni e il significato della distinzione nella filosofa di Spencer; la seconda a esaminare la possibilità e la utilità di mantenerla e applicarla sotto  una forma diversa. L’esposizione comprenderà pure necessariamente   due parti: una che richiama, in modo breve quanto  è possibile ma esatto, il concetto informatore e i lineamenti fondamentali di tutta l’etica; l’altra  che traccia più distesamente la dottrina particolare  esaminata. Quella legge di evoluzione , che si manifesta nell’intero univ erso visibi le, nel sistema solare  come un tutto, nella terra come parte di questo,  nella vita in generale, e nella vita di ciascun organismo individuale, nei feno meni ment ali degli esseri  animati fino al più elevato; qu ella stessa legge si  manifesta nei fenomeni della vita umana e sociale  é quindi a nche in quei fenomeni della condotta, dei quali tratta la morale. In conformità di questa legge] j^etWnr.<  e delle leggi via via subordinate in cui essa si rifrangevi produce una el evazione^progres siva nelle forme della vita sub-umana ed umana, la quale si  traduce in un adattamento s empre migliore, più  esteso e più durevole alle condizioni da cui dipende  l’esistenza dell’individuo, e l’esistenza della specie;  e, dove la vita sociale apparisca, l’esistenza della  società. Per l’uomo adunque l’adattamento riguarda  tre ordini di condizioni; ossia è di tre forme; e,  benché si possa astrattamente considerare ciascuna  forma per sè, tuttavia, per la connessione naturale  e necessaria dei fattori dai quali dipendono, le tre forme d’adattamento nella realtà procedono di conserva con mutue azioni creazioni continue; cosicché  a ogni progresso in una forma di adattamento corrisponde un progresso nelle altre forme. Il limite,   verso il q ua le tend questo processo, è l’adattamento  completo a tutte le condizioni della vita umana più  elevata; per il quale il massimo svolgimento della vita individuale, e della parentale, e della sociale,  non solo si conciliano, ma si favoriscono a vicenda. Questo adattamento completo implica non soltanto una perfetta conformità esteriore dell’operare  alle esigenze di una tal vita; ma implica del pari  una conformità correlativa e della struttura, e delle  attività, fisiologiche e psichiche; è insomma ad un  tempo adattamento della condotta e adattamento dei  fattori interni della condotta. Quindi anche le idee,  i sentimenti, le tendenze sono, nella loro qualità e  intensità e gradi di subordinazione, pienamente  adatti e conformati ai bisogni e alle esigenze della  vita in tutte le sue manifestazioni, e trovano nelle  forme di condotta corrispondenti il loro appagamento pieno e concordante. che viene a dire che  l’adattamento completo attua in sé le condizioni  della massima FELICITA. Adunque, ma ssim a elevazione della vita, adattamento eoj puleto . massima FELICITA (eudaimonismo – GRICE), sono per Spencer tre concetti che coincidono; o, meglio, sono  faccie o aspetti diversi di un medesimo risultato finale, ed esprimono il limite verso il quale tende  l’evoluzione della vita umana nello stato sociale. E’ appunto per q uesta ide ntificazione, che  sta in fondo al pensiero dello Spencer, tra evoluzione  e aumento di felicità, che egli può porre come ottima  la cpndotta rispondente al limite della evoluzione.  Perchè Spencer, come è noto, ammette esplicitamente che il fine ultimo, espresso o so ttinteso,  d ell’operare, non può essere che una forma di coscienza desiderab ile, cioè di piacere; e che la condotta ò buona nella misura che essa apporta, tenuto  conto di tutti gli effetti presenti e futuri sopra di  sè e sopra gli altri, un avanzo dei piaceri sui  dolori. Totalmente buona, dunque, o perfetta, non è  che la forma di condotta che coyà&ponde a quel  limite; ogni altra forma diversa, ossia adatta a  gradi di evoluzione più o meno lontani dal limite,  non può essere che imperfetta, ossia buona relativamente, non assolutamente. Quindi due Etiche: Etica Assoluta che determina le leggi della condotta  ottima; ed Etica Relativa che cerca di stabilire per  approssimazione quale sia la condotta relativamente  buona, ossia la condotta, che, date certe condizioni  reali di svolgimento e di adattamento incompleto,  è la migliore, o la meno lontana dalla condotta perfetta. E quindi la necessità, e la priorità logica dell’Etica Assoluta; le cui determinazioni rirelazioni più generali, più semplici, più esattamente  definite di quelle contemplate dall’Etica Relativa. Or come si costruirà l’Etica Assoluta? ossia  quale sarà il metodo? Spencer si accorda cogl’utilitarist i che lo precedono nell’assumere come criterio per giudicare la condotta e determinarne le  norme l a natura degli effetti o dei risulta ti. Ma se  ne distingue subito per il pr ocedim ento col quale  egli crede che questi effetti dei diversi modi di condotta si possano e debbano conoscere. Per gl’UTILITARISTI che lo precedono è l’induzione empirica, per  lui la deduzione.   Non si tratta per lo Spencer di trovare che, in  un certo numero di casi, certi danni o certe utilità  si accompagnano con certi atti o cert’altri, e di inferirne che rapporti simili si manterranno nell’avvenire; si tratta invece di determinare comee^er-  chè alcuni modi di condotta siano dannosi e altri  utili; o più chiaramente, quale condotta debba essere  dannosa e quale debba essere utile. Non è dunque  sopra certe relazioni empiricamente osservate, ma  sulla connessione causale necessaria tra le azioni  ed i loro effetti che deve fondarsi la determinazione  delle norme morali. E, poiché questa connessione  deve essere alla sua volta una conseguenza necessaria della costituzione delle cose, deve essere pos-  sib ile dedurre da principii fondamentali quali specie  di azioni tendano a produrre FELICITA e quali a pròdurre infelicità. E le deduzioni così ottenute debbono essere riconosciute come leggi di condotta e  aver valore indipendentemente da una estimazione diretta (individuale e occasionale) del piacere e del  dolore. Ciò che distingue adunque l’Utilitarismo che Spencer chiama Razionale, dall’Empirico, e dà carattere di rigore scientifico alla ricerca morale, è  il riconoscimento pieno e adeguato della causalità  naturale dei fenomeni della condotta; e il vero metodo scientifico dell’ Etica, come delle altre scienze  che abbiano superato lo stadio empirico, deve consistere nel cercare e nel costruire in sistema non  alcune relazioni empiricamente stabilite, ma le relazioni necessariamente esistenti tra cause ed ef¬  fetti in tutta quanta la condotta. Ma se le leggi della condotta debbono determinarsi per deduzione necessaria, quali sono i  dati sui quali questa deduzione deve fondarsi ? I  fatti di cui si occupa l’etica non costituiscono un  ordine nuovo che si distacchi da un ordine inferiore o precedente, come, per es., le formazioni organiche rispetto alle inorganiche, o i fenomeni sociali rispetto ai biologici: ma appartengono per  un verso alla biologia in quanto sono effetti in- [Spencer li considera anche come appartenenti alla fisica,  in quanto, esaminati esternamente, si riducono a movimenti e  combinazioni di movimenti che cooperano a produrre una forma di terni ed esterni di fenomeni vitali prodotti nel tipo  più elevato degli animali; e per un altro alla psicologia in quanto sono coordinamenti di azioni suscitati dai sentimenti e guidati dalla intelligenza;  finalmente in quanto queste azioni direttamente o  indirettamente riguardano esseri associati, appartengono alla sociologia. La condotta è adunque ad  un tempo una formazione biologica, una formazione  psichica, e una formazione sociale: e perciò è nei  risultati delle scienze corrispondenti che si devono cercare i principii fondamentali, i dati dell’etica. E quindi i dati da cui si debbono dedurre le norme dell’etica assoluta sono forniti dalle condizioni che  la biologia, la psicologia e la sociologia indicano rispettivamente come proprie di un adattamento completo. Ora, in conformità alle leggi di queste scienze,  la condotta corrispondente a un adattamento completo ossia la condotta ottima, è caratterizzata  dalle condizioni che si possono riassumere nei seguenti tre punti: Condizioni biologiche : Corrispondenza perfetta tra gli organi e facoltà umane e le attività  necessarie alla vita completa. Il che importa che  tutte le attività necessarie al massimo svolgimento   equilibrio più o meno regolare e durevole. Ma questa considera¬  zione (aspetto fìsico della condotta) può qui senza danno essere tralasciata.  della vita per sò e per gli altri trovino il loro comimento nell’esercizio spontaneo di facoltà debitamente proporzionate e producenti quando entrano  in azione il loro quantum di soddisfazione (cioè di  piacere).  Corrispondenza per-  fet ta dei sentimenti, come motivi deir operare, ai  I nsog ni. 11 che importa che i piaceri e i dolori, cui  danno origine i sentimenti distinti come morali,  siano, al pari dei piaceri e dolori fisici, impulsi  positivi e negativi proporzionati nella loro forza  ai modi di operare richiesti. Condizioni sociologiche: Accordo perfetto  t rp le attività dei consociati. Il che importa che tutte le attività conducenti alla vita completa di ciascuno non solo non impediscano direttamente nè  indirettamente, ma favoriscano la vita completa di  tutti. Stato di pace permanente. CO-OPERAZIONE cooperazione; nessuna aggressione diretta o indiretta;  scambio di servizi gratuiti. La condotta ottima è dunque quella che sod-  [Non è difficile vedere come l’assumere le condizioni suesposte equivalga a supporre direttamente o indirettamente eliminate  tre antinomie che sotto varie forme compaiono , si può dire , in  tutta la storia della morale ; l’antinomia tra il piacere presente e  il piacere futuro, cioè tra piacere e utilità; l’antinomia tra il bene  proprio e il bene degl’altri, tra ciò che è richiesto dalla FELICITA individuale e ciò che è richiesto dalla felicità generale ; e 1’ antinojnia tra sentimenti egoistici (GRICE SELF LOVE) e sentimenti altruistici (GRICE OTHER LOVE), tra la tendenza al piacere e la coscienza del dovere. disfa a tutte queste condizioni ad un tempo; e però  compito dell’etica Assoluta resta quello di dedurre  da queste condizioni le norme a cui tutte le forme  di attività umana, a qualunque fine siano volte,  debbono conformarsi per essere totalmente buone.  Per tal modo sono determinati i principi  o i dati sui quali deve costruirsi l’Etica Assoluta:  le condizioni della vita umana, individuale, parentale e sociale, proprie dello stato di adattamento  perfetto; è determinato il metodo: la deduzione;  ed è posto fuori di contestazione il fine ultimo clic  giustifica le norme così dedotte e dà alla condotta  proposta valore di ottima: la massima FELICITA universale.   Ma restano d ue grandi difflcoltà: una incocrenza, almeno apparente, da togliere, e una lacuna  da colmare. L’incoerenza è questa: Come si può  sostenere che il fine della condotta buona è LA FELICITA, se le norme di essa condotta devono essere  dedotte dalle leggi necessarie della vita nello stato  sociale, e devono valere indipendentemente da ogni  estimazione diretta e individuale del piacere e del  dolore ì 0 , in altri termini, come si risolve l’antitesi  tra il fine assunto e il metodo proposto?  La lacuna è la seguente: Le condizioni che si  pongono come proprie della condotta ottima e che  la deduzione morale deve prendere come dati , sono  esse possibili, o non esprimono delle esigenze in tutto o in parte incompatibili fra di loro? Insomma  quello stato finale di adattamento completo sotto  tutti i rispetti, nel quale le condizioni contemplate  sono raggiunte, in qual modo e per qual via può  ottenersi ì . L’incocrenza è risolta così: Il fine è la felicità;  ma questa, a mano a mano che la vita si eleva,  dipende da una serie sempre più lunga e complicata di mezzi, ciascuna delle quali deve essere rag¬  giunta perché sia possibile il fine. Le norme morali rappresentano la serie più generale e preliminare di mezzi, appunto perchè costituiscono la serie  più lontana dal fine, e quella che deve essere  osservata prima di tutte le altre; la condizione  delle altre condizioni. Ora siccome tutte le attività  necessarie alla vita tendono a diventare una sorgente diretta di piacere, (perchè i piaceri sono  relativi alla struttura e questa si modifica secondo le attività) così le fo rme di attività morale,  appunto perchè necessarie, debbono diventare una  sorgente diretta di piacere. Per tal modo, l’osservanza delle condizioni che conducono alla FELICITA diventa direttamente piacevole, ed è adempiuta. senza che essa FELICITA (che rimane il fine [L’analisi e la soluzione di queste due questioni, le quali si  legano per parecchi nessi tra di loro, ma che per chiarezza bisogna  considerare a parte, occupano i Principi di Etica. ) sia lo scopo diretto e immediato della  condotta; ossia, (ed è un pensiero che fa ricordare Aristotele) lo stato di godimento finale sopraggiunge  come una conseguenza, non direttamente voluta nò  chiaramente rappresentata, all’ esercizio delle attività morali divenuto per sè immediatamente gradevole. La soluzione della seconda difficoltà derivante  dalla lacuna notata, si trova nella conciliazione oggettiva, tra bene proprio e bene altrui, e nella  conciliazione soggettiva, tra egoismo (GRICE SELF LOVE) e altruismo (GRICE OTHER LOVE),  raggiunte per effetto e della solidarietà crescente tra  le condizioni di vita dei singoli e quelle del tutto,  e dello sviluppo concomitante della simpatia. Colla soluzione di queste due difficoltà Spencer intende dunque che sia dimostrata la possibilità  — dal punto di vista scientifico — e la legittimità  dal punto di vista morale — della sua costruzione;  e con questa dimostrazione il pensiero che informa  la trattazione dell’Etica, è nelle sue linee generali,  compiuto. Ed ora, tracciato il disegno in cui si inquadra  Le induzioni dell’Etica, che nella traduzione  francese porta il titolo di Morale de differente peuples, dall’esame  delle diversità di idee e sentimenti morali dei diversi popoli raccoglie la conferma di alcuni dei principi fondamentali dedotti dalle  leggi della vita nello stato sociale ; e principalmente della estrema  variabilità dei sentimenti morali, e della corrispondenza generale  di due tipi opposti di moralità ai due tipi di coesistenza e CO-OPE- [ la dottrina particolare che più direttamente ci interessa, diciamo alquanto piii distintamente di questa.  S’è visto come nel pensiero dello Spencer  la condotta ottima sia la condotta pienamente adatta,  la condotta che c orrispon de al limite dell’evoluzione; mentre l e forme di condotta più n _mpnn lontane da quel limite so no, di molto o di poco, meno  adatte, cioè meno buone; onde la distinzione di Etic  Assoluta ed Eftej> Ora si presentano   spontanee due domande: l.° Perchè introduce lo  Spencer, contro il modo comune di comprendere  1’ ufficio dell’ Etica, questa distinzione t ra Morale  Assoluta e Relativa ? Non è forse compito del l’Etica] CO-OPERArazione CO-OPERAZIONE sociale (tipo militare e tipo industriale). Le altre quattro  parti, Etica della Vita Individuale, ed Etica della Vita Sociale : la Giustizia, la Beneficenza Negativa e la Beneficenza Positiva  contengono le dednzioni o applicazioni  particolari ; nelle quali, in conformità ai principi e al metodo accennati, vogliono essere determinate le norme della vita privata e  deila vita pubblica quali risultano rispettivamente dalle condizioni  contemplate dall’ Etica Assoluta e da quelle contemplate dall’ Etica  Relativ a. Notiamo subito, benché l’avvertenza debba parer quasi inutile , che per lo Spencer la parol i fl.v<vofn^o non ha nè può a vere  n ell’Etica un significato metafisi co ; le norme etiche per lui non  hanno ragione di essere all’ infuori dell’ esistenza animata quale  si manifesta fenomenicamente; all’infuori di esseri capaci di pia¬  ceri e di dolori. quello di stabilire le norme della condotta retta,  della giustizia pura, e, senza curare gli impedimenti e le imperfezioni che i difetti della natura  umana possono ingenerare, presentare il tijoo ideale  di pe rfezione al quale ciascuno deve cercare di avvicinarsi? E se così è. non ò del tutto oziosa_e viziosa la distinzione?  Ammesso che dal punto di vista speciale  di  Spencer questa distinzione sia legittima, non  è un fuor d’opera l’Etica Assoluta, dal momento  elle la realtà presente ci dà uno stato di adatta¬  mento imperfetto, ossia assai diverso da quello che essa suppone? L’esposizione del pensiero di Spencer intorno alle foie Etiche mi pare si possa acconciamente  raccogliere in due parti, nelle quali trovi successivamente risposta ciascuna delle due questioni. Cominciamo dalla prima.  Si crede comunemente che si possa determinare un tipo di condotta assolutamente giusta  in condizioni reali di esistenza imperfetta, mentre  questa determinazione non è possibile; e, se fosse,  non darebbe il tipo voluto. Sia nei giudizi dei moralisti, sia nei discorsi comuni, djie postulati^ sono  tacitamente accettati come veri; e pare infatti che  senza di essi non sia possibile giudizio morale, per-  -- Absolute and Relative Ethics. -- che la distinzione stessa tra atti giusti e atti ingiusti sembra implicarli necessariamente. Sono questi: Che in ogni caso vi sia un modo di operare assolutamente giusto. Che sia possibile stabilire  quale sia. Ma l’analisi di un gran numero di azioni  dimostra che in casi assai numerosi non è possibile il giusto, ma soltanto un minimo ingiusto; e  in casi pure numerosi non è nemmeno possibile  determinare in che cosa questo minimo ingiusto  consista. Il giusto assoluto esclude del tutto il dnltw che  è il correlativo di qualche specie di male, di qualche divergenza da quell’adattamento perfetto che  soddisfa pienamente a tutte le esigenze della vita  completa. Se il concetto di condotta buona è, in  ultima analisi, il concetto di una condotta che  produce in qualche parte un avanzo di piacere; e  di condotta cattiva, che produce un avanzo di dolore; il bene o il giusto assoluto nella condotta  può esser quello soltanto che produce p iacere pur o,  pi acere non misto a dolore di sorta . E quindi la  condotta che produce qualche conseguenza dolorosa  ò parzialmente cattiva, e la forma più elevata che  una condotta cosifatta può raggiungere ò il minimo ingiusto, il giusto relativo. Ora le forme di adattamento incompleto presentano, più o meno vasto e grave, un doppio difetto : Discordanza od antitesi fra i tre ordini di  fini della vita, per la quale atti che producono UTILITA o piacere all’ individuo o alla prole portano  danno e dolore agli altri, e viceversa ; e discordanza  anche nello stesso ordine tra fini immediati e mediati, presenti e futuri ; per la quale 1’azione richiesta dall’ utile avvenire può esser sorgente di  dolore nel presente, o la soddisfazione di un desiderio immediato può impedir di raggiungere un  bene lontano e mediato, o esser causa di un male  futuro. Nella misura in cui queste due specie di  incongruenze (le quali si incrociano e si complicano  fra di loro) fanno sentire i loro effetti, le azioni  devono produrre una certa somma di dolore sia  sull’agente sia sugli altri. Ora « finché v’ ò dolore  v’è male ; e la condotta che apporta qualche male  non può esser giusta assolutamente. A chiarire questa distinzione Spencer cita  degli esempi di azioni assolutame nte giuste e di  altre solo relativamente giuste. Una madre sana  che allatta un bimbo sano, un padre che, dotato  di eccitabilità simpatica, partecipa ai giuochi del  figlio e li guida, sono esempi della prima specie. Nell’un caso e nell’altro l’azione produce piacere  a chi la fa e a chi la riceve; e aiutando lo sviluppo fisico o quello psichico, o l’uno e l’altro insieme, è utile al benessere futuro ; cioè produce direttamente e indirettamente soltanto piacere senza  dolore. Del pari imo scambio fatto di pieno accordo  e con soddisfazione e UTILITA RECIPROCA; e gli atti  di BENEVOLENZA di chi fornisce una notizia o un  consiglio, o chiarisce un equivoco, o compone un  dissidio tra amici, possono essere classificati come  giusti assolutamente per la medesima ragione. Degl’esempi addotti da Spencer di azioni  solo relativamente giuste, scelgo due che mi paiono  tipici anche per il contrasto che offrono col modo  di giudicare comune: La cura di molti figli cagiona  a una madre assai dolori, ma le sofferenze immediate e le lontane che l’incuria apporterebbe supererebbero di gran lunga quei dolori. La condotta  giudicata buona in questo caso è quella che produce minor male ; ma non è ottima. È la meno ingiusta. non 1’ assolutamente giusta. Così 1’ allontanamento dei clienti da un negoziante che esiga  prezzi troppo alti o venda merci scadenti, o falsi  la misura, fa diminuire il suo benessere e forse  apporta danni e dolori ad altre persone a lui congiunte; ma il salvar lui da questi mali e sopportar  quelli che la sua condotta cagiona, produrrebbe un  male assai più grave e generale. L’abbandono è  perciò giustificato: ma l’atto è solo relativamente  giusto. Riconosciuta così la verità che una gran  parte della condotta umana non è giusta assoluta-  Burnente, si deve riconoscere l’altra verità che in  molti casi non é possibile stabilire quale sia il minimo ingiusto. É facile trovarne le ragioni, se si  considerano gli effetti che quella stessa discordanza,  già rilevata, tra i fini della vita, deve produrre. V’è un limite fino al quale é relativamente giusto che un genitore faccia sacrifizio di sè stesso pel  vantaggio dei figli, e v’è un limite oltre il quale  l’abnegazione non può spingersi senza ch’egli apporti non soltanto a sò ma a tutta la famiglia  danni maggiori di quelli che il sacrifizio tende ad  impedire. Chi può dire quale sia questo limite?  Dipendendo esso dalla costituzione e dai bisogni  delle persone in causa, non è neppure in due casi  il medesimo, e non può essere per ciascun caso più  che una congettura. Un commerciante che sia travolto nel fallimento d’un suo debitore e posto nella  necessità di fallire egli stesso se non è aiutato,  deve o no domandai^un prestito a un amico? Il  prestito potrebbe trarlo dalle difficoltà, e in questo  caso non sarebbe cosa ingiusta verso i suoi creditori non chiederlo? Ma fors’anco non lo salverebbe,  e allora non è una frode procurarselo? Benché in casi estremi possa esser facile decidere, come sarebbe possibile in tutti quei casi in cui anche il  più intelligente e competente non può calcolare le  probabilità ? Questo doppio errore del confondere il giusto assoluto col minimo ingiusto, e del credere  che si possa in ogni caso stabilire quale sia, nasce  dall’ errore che si commette nel concepire il tipo  della condotta, la condotta dell’ uomo ideale. Si suppone clic l’uomo ideale viva e agisca  nelle condizioni sociali esistenti. Ciò che si cerca determinare è, non quali sarebbero le sue azioni in circostanze tutte- insieme  mutate, ma quali sarebbero, date le condizioni presenti. E questa ricerca ò vana per due ragioni:  La coesistenza di un uomo perfetto e di una società  imperfetta è impossibile; dato che potessero coesistere, la condotta che ne seguirebbe non fornirebbe  il tipo MORALE MERCATO. In primo luogo, date le leggi della vita come  esse sono, un uomo di natura ideale non può essere prodotto in una società composta di uomini-  che hanno una natura lontana dall’ ideale. Aspettarsi che tra uomini organicamente immorali nesorga uno organicamente morale è come aspettarsi  di veder nascere tra i Negri un bambino di tipa  inglese. Se non si vuol negare che il carattere dipenda dalla struttura ereditata, si deve ammettere  che in ogni società ciascun individuo discende da  uno stipite, che risalendo a poche generazioni si  ramifica per ogni parte nella società e partecipa  della natura media di questa ; e che quindi, nonostante spiccate differenze individuali, deve conservarsi una comunanza di natura tale da impedire  che un uomo, qualunque sia, raggiunga un tipo  ideale, finché il resto della società rimane di gran  lunga inferiore. In secondo luogo, la condotta ideale, quale è contemplata dalla teoria morale, non è possibile  per l’uomo ideale in mezzo ad uomini costituiti diversamente. Una persona assolutamente giusta c  perfettamente simpatica non potrebbe vivere e  operare in conformità alla natura sua in una tribù  di cannibali. Tra un popolo perfido e al tutto privo  di scrupoli, una intiera veridicità e franchezza debbono apportare rovina. Se tutti intorno a lui riconóscono solo la legge del più forte, un uomo la cui  natura non gli permetta di inlliggere dolore agli  altri deve soccombere. Fra la condotta di ciascun  membro della società e la condotta degli altri vi  deve essere per necessità una certa congruenza.  Un modo di operare interamente diverso dai modi  di operare prevalenti non può continuare con buon  esito, ma deve condurre alla morte dell’ agente, o  della sua discendenza, o di ambedue. Adunque perchè l’uomo ideale possa servire di  tipo, egli deve essere concepito non a sé, senza relazione colle condizioni che sono necessarie perchè  la condotta possa essere giusta, ma in corrispondenza con queste. L’uomo ideale deve essere considerato come esistente in una società ideale. Perciò, secondo l’idea di Spencer, il voler,  per esempio, stabilire quale sarebbe la condotta deiruomo ideale quando fosse posto nel bivio o di  farsi gettare sul lastrico colla famiglia, o di mentire alle sue convinzioni politiche, sarebbe perfettamente vano ; perchè le condizioni cosi supposte  contraddicono a quelle richieste dalla definizione  dell’uomo ideale. In una società ideale, nella quale soltanto può concepirsi 1’ uomo ideale, non esiste  violenza e non esistono abusi ; nè vi può essere  collisione tra i modi di sentire e di operare richiesti  dal bene proprio e della discendenza, e chiesti dal bene pubblico. Viene in mente, e lo ricordo perchè  può servire di commento al pensiero di Spencer,  ma perchè la somiglianza è significativa, queh^ udjko ^  dei “Promessi Sposi”, nel quale il padre Cristoforo è invitato a far da giudice in una questione di  cavalleria. Suonava rumorosa la disputa tra i commensali di Don Rodrigo su questo punto. Se fosse  lecito a un cavaliere bastonare il messo che gli  consegna un cartello di sfida senza avergliene chiesto licenza ; e il padre Cristoforo, chiamato in causa,  dopo essersi invano schermito, esce finalmente in  quella sentenza che fa meravigliare, tanto pare  fuor di proposito, tutti quei dialettici della cavaileria. Il mio debole parere sarebbe clic non vi  fossero nò sfide, nè portatori, nè bastonate. Ecco riconosciuta nel caso particolare l’esigenza  fondamentale dell’Etica Assoluta di Spencer: Non vi può essere condotta giusta finché vi sono  condizioni contrarie alla giustizia. Ma la realtà presente e viva è appunto così. Oh! questa è grossa, risponde infatti il conte Attilio. Mi perdoni, padre, ma ò grossa. Si vede  che lei non conosce il mondo. E se è il mondo coni’è quello con cui si ha a  fare, 1’ufficio dell’ Etica non sarà quello di stabilire quale deve essere la condotta nel mondo reale  presente, non in un mondo ideale avvenire? 0,  almeno, non ò inutile, anche ammessa la distinzione Spenceriana, correr dietro al fantasma di  una condotta ottima, adatta a uno stato di perfezione, che l’evoluzione apporterà, sia pure, ma che  per noi non esiste?  A questa seconda domanda risponde la dimostrazione della precedenza necessaria — nell’ordine della trattazione scientifica — dell’Etica Assoluta sull’ Etica Relativa. In qualunque ordine di ricerche le verità scientifiche si sono raggiunte trascurando prima i fattori di perturbazione, che alterano ed oscurano  l’azione dei fattori fondamentali, e tenendo conto  soltanto di questi. Quando la estimazione di questi fattori fondamentali, non, come si presentano nella realtà, mascherati e complicati di elementi secondari, ma  quali si suppongono idealmente con un processo di  astrazione, ha aperto la via a conoscere e formulare le leggi generali, allora diventa possibile la  estimazione dei casi concreti, tenendo copto dei fattori accidentali che nella realtà alterano i rapporti  i deali contemplati da quel le leg gi. Ma le leggi generali, le verità fondamentali, solo per questa via  si possono ricercare e scoprire, e solo con questo  procedimento il sapere passa dalla sua forma EMPIRICA alla sua forma razionale. Per ottenere la formula che esprime il potere -ifjicfip»tv*  della leva s i suppone N una leva che non si pieghi , iàz<Jbz   ma sia assolutamente/rigid a ; un fulcro che non  abbia, come nella realtà, una certa superficie; e si  suppone che la potenza e la resistenza si esercitino  su un punto, invéce che su una parte più o meno  estesa della leva. Del pari la determinazione del  corso di un proiettile si ottiene trascurando dapprima tutte le deviazioni prodotte dalla sua forma e dalla resistenza dell’ aria. E il medesimo negli  altri casi. St abilite così q u este verità ideali, diventa  possibile tener conto degli elementi dai quali si è  fatta astrazione, delle complicazioni risultanti dall’attrito, dalla plasticità, dalla coesione, dalla resistenza dell’aria : e ottenere così una determinazione  ' Jt- ^ "(VOM, P-O   sempre più esattamente approssimata al l'atto reale.  Qui è manifesta la re lazione tra certe verità assolute della meccanica e certe verità relative che implicano le prime, come è manifesto che non si possono  stabilire scientificamente le verità relative finché  non sieno formulate indipendentemente da queste  le verità assolute. Il che equivale a dire che la scienza meccanica applicala può svilupparsi soltanto  dopo che si è sviluppata la scienza meccanica ideale. Le medesime considerazioni valgono per la  scienza morale. È impossibile determinare con approssimazione scientifica quale sia, date certe circostanze reali, il modo di operare meno ingiusto,  se non si conosce quale sarebbe il modo di operare  giusto; e questo non si può conoscere se non si  suppongono eliminate tutte le circostanze che lo  impediscono o lo limitano e ne falsano i caratteri  ed i risultati: cioè, in breve, se non si suppongono,  scevre da ogni perturbazione, le condizioni ideali, nelle quali è possibile l’operare assolutamente giusto. A chiarir meglio questa relazione tra Etica Assoluta ed Etica Relativa lo Spencer ricorre a un  altro esempio di relazione analoga preso dalle scienze  biologiche; la relazione tra la Fisiologia e la Patologia. La Fisiologia, nello studio degli organi e  delle funzioni che combinate costituiscono e conservano la vita, suppone l’organismo sano e le  funzioni sane, non tenendo conto dei difetti, degli  eccessi, delle anomalie di cui si occupa la Patologia : e questa poi presuppone quella, perchè le  idee anche più rozze intorno alle malattie suppongono idee di stati sani di cui le malattie sono deviazioni; e la conoscenza degli stati e dei processi  anormali e morbosi può diventare scientifica soltanto quando vi sia già una conoscenza scientifica  di stati e processi non morbosi. Similmeste la morale assoluta deve precedere  laJSl orak ^llclativa; la quale non deve applicare  sic et simpliciter alle condizioni particolari della  vita reale le conclusioni dell’etica Assoluta ; ma  riconoscendo ciò che vi è di diverso nella condotta  che corrisponde a uno stadio di vita imperfetta,  deve determinare di quanto essa si allontana dal  giusto e come si possa ottenere, date queste condizioni reali imperfette, la massima approssimazione  al giusto contemplato dall’ Etica Assoluta. Questi confronti coi quali lo Spencer intendeva illustrare il suo concetto intorno alla relazione fra le due Etiche e alla priorità logica dell’Etica Assoluta sull’ Etica Relativa, si direbbe che  abbiano servito ad abbuiarlo; e però non è fuor  di luogo qualche breve chiarimento. Dall’esposizione che precede deve essere apparso,  spero, che è per una esigenza inerente alla natura  della ricerca scientifica che Spencer sostiene la necessità che l’Etica Assoluta prec^g la Relativa; lì e appunto por chiarire questa precedenza necessaria egli cita l’esempio della precedenza analoga  della Meccanica Razionale rispetto alla Meccanica  Applicata, e della Fisiologia Normale rispetto alla  Fisiologia Fatologica. Nel pensiero di Spencer la  priorità dell’ Etica Assoluta non è che l’applicazione  a un campo particolare di ricerche di un suo criterio metodico generale; del quale egli trova la conferma in tutte le scienze, che hanno superato lo stadio empirico. Il paragone non è dunque, propriamente, tra la sua Etica Assoluta e la Meccanica  Razionale o la Fisiologia Normale, nè tra la sua  Etica Relativa e la Meccanica applicata o la Fisiologia Patologica; non è, voglio dire, di quelle  scienze pure tra di loro, o di queste scienze applicate tra di loro ; ma è paragone tra le loro relazioni. E il significato del confronto è questo : che  tra le due Etiche, come le concepisce lo Spencer,  corre una relazione analoga a quella che intercede  rispettivamente tra le due Meccaniche (diciamo  così) e tra le due Fisiologie. E in questo senso che il paragone deve essere  inteso ; e in questo senso è appropriato. Perciò,  quando la critica obietta che l’Etica ha caratteri  ed esigenze diverse dalla Meccanica e dalla Fisiologia, può essere che abbia ragione, ma interpreta il confronto in un senso diverso da quello voluto  da Spencer. Perchè il concetto, per il quale il paragone è assunto è, nella sua espressione più  semplice, questo: che anche per l’Etica la soluzione scientifica o scientificamente approssimata  dei problemi più complessi richiede la soluzione  dei problemi più semplici. Il paragone non deve  dunque essere staccato da questo concetto e preso  con una significazione diversa; altrimenti si fraintende e paragone e concetto ; e rimane oscurato  uno dei punti più importanti della dottrina particolare ora esposta. La quale non ebbe mai molta fortuna nò presso  i fautori di una morale scientifica, nè presso gli avversari. Questi, preoccupati forse in generale dal  pensiero di mostrare la insufficienza dell’indirizzo  naturalistico, hanno veduto nella dottrina delle due  Etiche (illustrata da quei confronti!) sopratutto una figliazione del concetto meccanistico, e f’hanno combattuta in nome delle esigenze della Morale; quelli hanno notato nella affermata necessità di costruire un’Etica Assoluta, una contraddizione colla teoria dell’evoluzione, e col principio della relatività della morale e del diritto: e l’hanno combattuta in nome  delle esigenze della scienza. Gl’uni e gl’altri hanno considerato la dottrina particolare unicamente in  relazione colla dottrina generale colla quale si presentava connessa, senza badare alle ragioni che la  possono legittimare all’infuori del sistema e della  forma speciale di applicazione che in esso ha trovato.  La pregiudiziale dell’imperativo categorico. La dottrina esposta traccia il piano che Spencer si è proposto di seguire per soddisfare al compito da lui assegnato all’Etica: quello di determinare,  scientificamente le norme della condotta morale.] Ma già intorno a questo modo di intendere l’ufficio dell’Etica incalzano lejtifficoltà e le obbiezioni; le quali devono essere, almeno nel loro contenuto  sostanziale, esaminate. Perchè, se non si riconosce  la legittimità del suo concetto sull’ufficio dell’Etica  è vano discutere della possibilità e legittimità del  piano proposto per attuarlo. L’esame critico si distingue perciò naturalmente  in due parti; delle quali la prima potrebbe dirsi  critica preliminare. L’Etica può, o non può, essere scienza normativa? Ecco una prima questione pregiudiziale, che,  a giudizio di un profano, (solamente dei profani?) potrebbe dare un’idea poco lusinghiera dei progressi  e dei frutti della speculazione morale. L’opinione se non universalmente, certo generalmente. dominante è che non possa. L’opinione  dominante par che si chiuda in questa alternativa:  l’etica o è scienza, e non è più normativa; o ò normativa, e non è più scienza. La ragione dell’antitesi, che così si pone, tra le esigenze della scienza  e le esigenze della morale, è nota. Dicono i puri  moralisti. Una morale che non dia alla norma  carattere di obbligatorietà non può essere vera morale; e darle obbligatorietà assoluta non si può senza  uscire dal campo della scienza. Nel latto, una condotta che si ponga scientificamente come morale, è  obbligatoria soltanto se si accetta il fine, al quale è ordinata la norma; cioè è obbligatoria ipoteticamente, non categoricamente. E se non c’è imperat ivo  categorico, non c’è m orale. E i puri scienziati  rincalzan. La scienza è scienza delle cose e dei  latti come sonq e non come dovrebbero essere. Si  può cercare quali sono i caratteri e i fattori, la  formazione e le trasformazioni dei modi di operare,  dei sentimenti delle credenze distinti come morali; si potrà anche, tracciati i lineamenti generali del  processo di formazione, argomentare induttivamente  una possibile evoluzione ulteriore con qualche probabilità; ma la scienza non sa di bene e di male;  cerca ciò ciò che è; tenta di prevedere, se le riesce,  quel che sarà; dimostrando che certi effetti dipendono da certe condizioni, ci fa capire che se vogliamo gli effetti dobbiamo volere quelle condizioni,  ma non può obbligare nè à volerle nè a disvolerle.   Gli uni e gii altri, accordandosi nell’ammettere  che la scienza non possa dare un imperativo categorico, par che ammettano esplicitamente o implicitamente che la morale debba o possa essere  una dottrina che determina la norma obbligatoria, ossia una teoria da cui si ricava il dovere. Ora. se hanno ragione nell’ ammettere la prima cosa,  hanno torto di supporre la seconda ; hanno torto  di credere che compito dell’Etica possa essere quello  di dimostrare l’obbligatorietà, e di supporre che  una dottrina religiosa o metafisica possa fondare  quel che riconoscono non poter essere fondato da  una dottrina puramente scientifica; possa fondare  il “tu devi”   — “tu devi” è un giudizio di constatazione e non può essere altro. Dicendo « tu devi »  io non posso intendere che l’una o l’altra di queste  due cose: o « tu senti dentro di te qualchecosa che   [ Ho già mostrato altrove, in un capitolo rivolto direttamente  a questo esame (Prolegomeni a una morale distinta dalla metafisica, Pavia, Bizzoni) come e perchè sia perfettamente  va no e illusorio credere che da una costruzione , teorica l sojjmtificn  n no. nossa ricavarsi in qualsiasi modo una norma obbligatoria , se  l’obbligatorietà non è già per altra via data o assunta o supposta;  e come nasca e si mantenga 1’illusione, e lo sforzo di credere che  non è un’ illusione. Ma 1’ argomento è di capitale importanza ; e ,  del resto, la breve trattazione che segue, benché concluda il medesimo, è fatta da un punto di vista diverso.  ti spinge, senti di essere obbligato a non fare o a  fare; oppure quest’altra: c’è una volontà cbe  ha il potere di obbligarti. Nel primo caso si fa  appello alla coscienza ; a uno stato o a un fatto di  coscienza che esiste o si suppone che esista ; nel  secondo caso si fa appello a un potere, che parimenti o esiste o si ammette che esista. Ma nell’uno  e nell’ altro caso nessuno sforzo dialettico può ricavare l’obbligo dalla natura della cosa comandata  o proibita; nessuna costruzione dottrinale può far  esistere, se non esiste già, nò quel fatto di coscienza,  nè questo potere. Si dirà che v’è un altro senso. È vero; ma un  senso improprio. “Tu devi” può voler dire: È  giusto che tu faccia; è giusto che ti senta obbligato a fare, o che ci sia chi ti obbliga. Ma se  vuol dir questo, l’espressione è equivoca. Che sia  giusto il fare e che sia giusto l’obbligo di fare  (quando questo fare sia già sentito come un obbligo) si raccoglie d al contenu to, non dal tono del  comando: e non basta a porre l’obbligo, lo giustifica dato die ci sia, e potrà far desiderare che  esista, dato che non ci sia. Ma porre le ragioni che  giustificano l’obbligo, non è porre in essere la forza  o il potere o l’impulso (con qualunque nome si  chiami) che obbliga. Ed è così vero che le due cose  .sono diverse e non confondibili tra di loro, che  non si può ridurre 1’una all’altra senza togliere una delle due. Non si può derivare l’obbligo dalle  ragioni che giustificano la norma, senza riconoscere che l’obbligo vale solamente in quanto valgono queste ragioni; fcioè senza assegnargli un valore ipotetico, non più CATEGORICO. Nè si può ricavare la giustificazione della norma dall’obbligo categorico, senza riconoscere che la norma vale so lo  i n quanto esiste l’obbli go; ossia senza negare qualsivoglia giustificazione, cioè riconoscere che il contenuto della norma non avrebbe nessun valore se l’obbligo mancasse.  Gli è che quando si dice essere il dovere  condizione necessaria della morale, si scambia la  morale colla moralità, la norma colla conformità  alla norma. Ma l’obbligo riguarda l’osservanza, <*/J» non ] a determinazione della norma. Ora, che dell’osservanza della norma sia condizione necessaria e caratteristica il dovere, è cosa che potrà o non  potrà ammettersi, ma ha ad ogni modo un senso;  che sia essenziale alla determinazione della norma,  non è neppure discutibile, perchè non ha senso. Sarebbe come dire che è essenziale alla costruzione  della scienza medica l’obbligo di prendere le medicine. È verissimo che sarebbero perfettamente  inutili le prescrizioni mediche se non si supponesse  che vengano osservate ; ma è non meno vero che  l’obbligo di osservarle, posto che ci fosse, non muterebbe in nulla il contenuto e il valore delle prescrizioni. L’obbedienza del cliente non muta la  scienza del medico. E le condizioni da cui dipende  l’osservanza sono così distinte dalle ragioni che  giustificano una norma , che fi ufficio di tutte le  scienze precettive si fa consistere nel cercare e determinare le relazioni tra certi mezzi e un certo  fine, nella supposizione che il fine sia voluto, e ai-  fi infuori da ogni preoccupazione che riguardi la  reale esistenza ed efficacia del desiderio o dell’ obbligo di conseguirlo. Il che si vede manifestissimamente in una scienza precettiva, che, a rigore,  costituisce un capitolo dell’etica ; nella quale la  questione dell’ osservanza delle norme (e dell’ obbligo di questa osservanza) è rimasta perfettamente  distinta dalla questione della ricerca e della determinazione delle norme; forse appunto perchè fu  considerata e trattata indipendentemente dalla morale; voglio dire nell’igiene. Dove a nessuno viene  in mente di pretendere' che sia una condizione della  legittimità o del valore delle norme dettate da lei,  questa: che il conformarsi ad esse sia sentito com e  un d over e. E se accade, come può accadere in effetto, che l’osservanza di qualcuno dei suoi precetti sia già tenuto come un dovere, il riconoscere  che questo precetto è ordinato a un fine, al quale  si dà valore di bene, fa che fi obbligo stesso appaia giusto. Ma in questo caso è facile vedere che  la giustificazione dell’ obbligo riesce in ultimo a questo: a dare un valore ipotetico all’ obbligo categorico; cioè à dimostrare che sarebbe bene osservare il precetto, anche se non ci fosse l’obbligo. Ora lo stesso vale, nè più nè meno, per la morale. Altro è cercare quali siano le norme da osservare per raggiungere un certo ordine di effetti  (quello che la morale ponga come fine) e altro è  cercare da quali condizioni dipenda che l’osservare  queste norme possa essere sentito e posto come un  dovere. E l’importanza che questo secondo problema può avere non toglie che esso sia diverso e  debba essere distinto dal primo. La pregiudiziale dell’obbligo categorico non tocca  dunque la c ostruzione dottrinale delle norm e; in  primo luogo perchè l’obbligo categorico si constata  o si assume, e non si dimostra, nè si ricava da  una dottrina qualsiasi. In secondo luogo perchè se  si intende, come si intende in effetto, che 1’ Etica  deve dare non V obbligo, ma la giustificazione dell’obbligo, questa giustificazione non può consistere  che nel mostrare come la norma abbia valore anche indipendentemente dall’ obbligo ; cioè che sarebbe bene o sarebbe giusto conformarsi ad essa  anche se il conformarsi non fosse sentito come un  dovere indiscutibile. Ossia, poiché dimostrare il valore di una norma vuol dire mostrar la derivazione di una norma da un fine a cui sia riconosciuto quel valore, giustificare 1’ obbligo viene a  dire derivare la norma da un fine, il cui valore  si ammetta non dipendere dall’ esistenza dell’ obbligo, e al quale perciò rimane del tutto estranea  la considerazione dell’obbligo e delle condizioni che  lo rendono possibile. La caratteristi ca di una dottrina etica no n  sta dunque nell’ obbligatorietà, ma sta nel valore  d el fine che si assume. Ed eccoci alla vera ed  j unica differenza tra 1’ Etica e le altre costruzioni   precettive; che è questa. Qualsivoglia scienza precettiva si riduce a un sistema di relazioni e di leggi  che hanno valore di norme da seguire per chi si  propone come fine quell’ effetto o quell’ ordine di   effetti, del quale esse leggi esprimono le condizioni $ ed i fattori ; cioè suppone la desiderabilità che dà  valore di fine a quell’effetto; ma non pretende nè  che questa desiderabilità sia riconosciuta universalmente, nè che essa sia, pure universalmente, riconosciuta come superiore e preminente rispetto a  quella di qualsiasi altro fine. Ma questo appunto [Sono lieto di notare che in “Ethics, a  science”, Philosophical Review, McGilvary insiste sul concetto, clip è  conforme a quel che ho sostenuto e sostengo, che 1’Etica, come  scienza, è indicativa non imperativa. Senonchè, per un verso, non  si capisce dall’ articolo se egli ammetta o escluda il medesimo di  qualsivoglia costruzione dottrinale; per l’altro, egli non tien conto  di quella differenza, nella quale consiste a mio giudizio la earatteristica dell’etica. pretende l’etica. Onde il compito dell’etica si specifica in due punti, di cui il primo segna la sua  caratteristica: l.° cercare se vi sia e quale sia l’effetto o l’ordine di effetti che possa avere un tal  valore, cioè il fine del quale possa essere ammessa  la UNIVERSALE DESIDERABILITA sopra ogni altro, determinare le condizioni e i fattori da cui quell’ effetto dipende. E, nel supposto che dipenda dall’azione  umana individuale e collettiva, determinare la condotta, ossia le norme dell’operare, corrispondente. Se il fine di cui può essera assunta questa universale e preminente desiderabilità è umanamente  possibile, cioè tale che se ne riconosca possibile il  raggiungimento senza assumere o postulare nessun intervento sopranaturale e sopraumano, la costruzione etica sarà scientifica; se no, sarà religiosa o metafisica. E quindi il problema della possibilità di  un’Etica scientifica assume questa forma: se si possa  assegnare un fine, naturalmente cioè umanamente  possibile, al quale sia riconosciuto un valore superiore a ogni altro fine. La determinazione delle  norme morali sarebbe data dalle relazioni trovate  o da trovarsi tra quel fine e la condotta individuale e collettiva da essa richiesta. Ed eccoci a una seconda questione pregiudiziale.  Non è improbabile che qualche lettore  trovi que sto modo di porre il problema intorno al  co mpito dell’Etica , antiqua to e fuori della realtà.  Sento dirmi. Nella realtà il compito dell’etica è concepito e proseguito in modo assai diversp anzi  opposto. Le n prme della condotta morale sono già  d ate e conosc iute. Ciò è tanto vero, che sulla determinazione concreta dei precetti particolari, di quelli  che si chiamano “doveri” e che si raccolgono nella  parte comunemente chiamata Morale Speciale, non  cadono sostanzialmente dubbi o contestazioni, e i  filosofi della morale ne sdegnano quasi la trattazione o ne danno soltanto le linee generali. Nella  realtà dunque l’indagine morale non ha per iscopo  di cercare e determinare le norme ricavandole da un certo fine; ma di costruire la sistemazione teorica di un codice di condotta già dato, raccogliendo  e unificando le norme particolari in una norma generale, della quale si cerca quale possa essere la  giustificazione; anche se la costruzione induttivamente così ottenuta rivesta poi l’apparenza logica  di una costruzione deduttiva. Quindi è antiscientifico e inutile andar cercando fuori della realtà, nel  campo di una possibilità, ipotetica, un fine — poniamo pure che sia possibile trovarlo — il quale risponda a quelle esigenze, per il gusto di ricavarne  delle norme. Le quali, o si accorderanno con quelle  riconosciute in effetto e vigenti come morali, o  discorderanno. Se si accordano, ciò vuol dire che  la pretesa derivazione deduttiva delle norme da  quel fine nasconde una reale derivazione induttiva  del fine dalle norme; se discordano, questa discordanza viene a dimostrare l’inutilità, a dir poco, di  norme elle contrastano con quelle riconosciute e  accettate, e a far respingere come non morali o  utopistiche le norme e il fine dal quale sono ricavate. Io non ho difficoltà a riconoscere che i due  indirizzi prevalenti nella speculazione morale contemporanea— l’indirizzo sociologico-storico. e l’indirizzo idealistico-prammatistico — si accordano fondamentalmente nel respingere le costruzioni etiche  razionali o pure, e nell’assumere come punto di partenza legittimo la realtà dei dati morali ; dei quali  l’uno considera principalmente l’aspetto esterno,  sociale, e l’altro l’aspetto interno, psicologico. Ma  noto subito che la novità nel punto di partenza e  nel processo di costruzione, è soltanto apparente;  o, per essere più esatto, la novità consiste  nel- [Adagio però anche con questa novità. Perchè, almeno quanto  al riconoscere esplicitamente la legittimità del procedimento regressivo, all’ invertire deliberatamente la costruzione morale, Kant  avrebbe de’ diritti d’autore da rivendicare. l’assumere la legittimità di un procedimento, che  inconsapevolmente domina in generale la speculazione etica, e che si scorge più evidente in quei  sistemi i quali hanno raccolto rispettivamente nei diversi tempi e luoghi più largo consenso; (consenso non verbale, si intende, ma reale). In altri termini  non si fa che seguire in modo consapevole e riflesso quella stessa tendenza e preoccupazione, a cui ha  obbedito in generale la speculazione morale, almeno nella forma riconosciuta rispettivamente nei diversi  tempi come ortodossa, o retta, o sana che si voglia  dire; la preoccupaziono di giustificare, il modo di  operare, di sentire e di giudicare già tenuto come  buono. Ora il rendersi conto che la costruzione  etica — sotto l’apparenza logica di una deduzione  progressiva di certi precetti particolari da una norma generale e di questa da un fine posto come  supremo — fu sempre, in sostanza, regressiva (dai  precetti particolari alla norma' generale e da questa  ai principi che la giustificano), segna certamente  un progresso e un acquisto quanto alla conoscenza  del processo reale storico e psicologico di formazione  dei sistemi morali. Ma altro è conoscere quale sia  stato il processo realmente seguito, altro ò affermare  la legittimità del processo. Certo sarebbe un fortissimo argomento di probabilità, se avesse fatto buona  prova. Ma se si guarda ai risultati, vien fatto piuttosto di pensare il contrario; di pensare, che la speculazione morale sia viziata nelle origini appunto  dal preconcetto che la domina e dal procedimento  che il preconcetto suggerisce. Ed è da questo preconcetto che nasce, a mio giudizio, così il diletto  della soluzione a cui riesce l’indirizzo sociologico,  come di quella a cui fa capo l’indirizzo prammatistico.  In primo luogo importa notare che ambedue gli indirizzi, appunto perchè hanno comune  il presupposto che compito dell’Etica sia quello di  unificare le norme già date, risalendo da esse ai  principi o ai postulati, sembrano ammettere questi  due punti. Che le norme morali siano già tutte  conosciute e determinate, o che dalle norme conosciute si ricavi il criterio per quelle non determinate. Che le norme date siano fra di loro concordanti o compatibili, o almeno non in contraddizione l’una coll’altra. Ora nè 1’ una nè l’altra di queste condizioni si  avvera nel fatto.   E prima di tutto non è esatto che le norme della  condotta siano già date e conosciute. Anche se Spencer ha torto, come io credo e si vedrà più innanzi, di assumere a criterio del giusto l’adattamento perfetto o il piacere puro, ha ragione nel  sostenere che in un gran numero di casi la coscienza  non ci dice quale sia il modo di operare giusto o  approssimativamente meno ingiusto. Ma, oltre ai casi del genere di quelli citati da lui, (nei quali si  potrebbe dire, che se non riusciamo a determinare  quale sia la migliore applicazione del criterio, sappiamo però quale sia il criterio da usare) vi sono  sfere intere di azioni, per le quali la coscienza non  saprebbe suggerirci una scelta sicura, e per le quali  non ci dice, come per altre, non è giusto o è  giusto. Difenderò io il divorzio o lo combatterò?  Approverò o non approverò l’allargamento del suffragio politico? Sarò conservatoreoliberale, monarchico o repubblicano, individualista o socialista,  liberista o protezionista? In quali circostanze ed  entro quali limiti seguirò l’uno o l’altro indirizzo?  Non serve rispondere che ciascuno deve operare in  queste materie secondo la propria coscienza. Si  tratta di sapere come una coscienza onesta deve  operare perchè alla bontà delle intenzioni (che è  presupposta) corrisponda la bontà degli effetti. E  abbandonando questo giudizio alla coscienza individuale si riconosce o che possono coesistere criteri  morali diversi, o che lo stesso criterio morale può  legittimare ugualmente modi di operare opposti, o  finalmente che quelle parti della condotta escono  dal campo della morale. Ma se possono legittimamente coesistere per certe  parti della condotta criteri morali opposti, quale  sarà il criterio superiore che serve a decidere fra  questi criteri contrastanti? o altrimenti, perchè non si ammette che possano del pari legittimamente  coesistere criteri contrastanti anche per le altre  parti della condotta? Se poi lo stesso criterio morale  può legittimare due modi di operare opposti, ciò non  può essere che per mancanza di determinazione delle  circostanze; e prova in ogni modo che le norme  particolari della condotta morale non sono tutte determinate e conosciute. E se finalmente quelle parti  della condotta escono dal campo della morale, quale  norma suprema è mai quella che non ha nulla da  dire intorno a una parte così grande dell’operare, come è, per esempio, tutta la condotta politica dell’individuo e della società? Si dirà che per questa  parte, per la quale le norme non sono date, il criterio si ricava de quelle già date e accettate come  morali? Urtiamo in una seconda difficoltà. Per ricavare dalle norme già date il criterio cercato, per unificarle cioè in una norma più  generale, occorre che le norme date concordino fra  di loro, che in tutte si possa riconoscere appunto  questa unità di criterio. Ora, tralasciando pure di  insistere, perchè è cosa troppo nota, sull’antitesi  fondamentale esistente tra le norme di condotta che  valgono come morali rispettivamente nelle condizioni di pace e di guerra, o sui contrasti, tragici  talvolta, tra i doveri famigliari e i doveri sociali, bisogna osservare che le norme date e accettate come morali possono contemplare e contemplano realmente, almeno in parte, delle relazioni, direi,  secondarie, le quali esistono e sono possibili in grazia di relazioni primarie e fondamentali, che le  norme non contemplano e che sono la negazione  del criterio applicato in quelle norme. Mi sia lecito  spiegarmi con un esempio ipotetico assai semplice. Se si suppone che un uomo sia saltato sulle spalle  di un altro e si faccia portare da lui, v’è luogo a  cercare quale sia la posizione migliore per il portante e per il portato; sia quella, poniamo, la quale  concilia la minima fatica del primo col minimo disagio del secondo. Il criterio seguito qu i è un criterio  d i equit à; si riconosce cioè che non sarebbe o giusto,  o buono o utile per nessuno dei due, il pretendere  tutte le comodità per sè senza tenere in conto le  comodità dell’altro. Ma se questo criterio (seguito  nello stabilire la condotta migliore, data, quella condizione diversa dei due) fosse applicato a determinare la relazione tra i due, prima che siano divenuti  rispettivamente portatore e portato, questa condizione sparirebbe, e ciascuno camminerebbe colle sue gambe. Ossia la norma morale regola nel caso supposto un rapporto che non esisterebbe se essa fosse  applicata al sorgere di quel rapporto. E può avverarsi, così, delle norme morali qualchecosa di analogo a quel che racconta di sé Senofonte, che all’oracolo chiedeva quale via dovesse tenere per giungere più felicemente in Asia, guardandosi bene dal  chiedere prima se era bene o male che andasse. Un sociologo potrebbe stringersi nelle spalle e  osservare che è colla realtà data che bisogna fare  i conti, e che è ozioso andar cercando come sarebbe  giusto che essa fosse; non resta che acconciarvisi  alla meno peggio. Vedremo ora come questa posizione di puro adattamento passivo sia, per forza  stessa della realtà, che diviene e muta, insostenibile: ma ò opportuno notar subito che quando si  renda palese un contrasto del genere notato, colla  consapevolezza di questo contrasto è inevitabile che  nasca nella coscienza morale l’aspirazione a una  realtà diversa; e quindi l’aspirazione o a modificare la realtà se essa appare mutabile, o a cercare  la ragione della giustizia fuori della realtà. Queste lacune e queste incongruenze delle norme  in effetto vigenti come morali in un dato tempo e  luogo, dimostrano intanto due cose: che, quale sia  la condotta migliore in un determinato momento  storico, non è una semplice constatazione da fare,  ma è un problema da risolvere ; e un problema  assai più difficile e complicato di quel che possa  apparire e si sia abituati a considerarlo; e che in  ogni caso è necessario assumere un criterio il quale  valga come guida a colmare le lacune, e a risol¬  vere o giustificare le incoerenze. Ma un criterio,  comunque assunto, a cui si attribuisca questo ufficio e questo valore, è un criterio alla stregua del  quale devono essere valutate anche le norme particolari già riconosciute come certe, poiché deve  valere per tutta la condotta. E ciò viene a dire  che il processo di determinazione di tutte lo norme  si deve fondare sul criterio assunto, allo stesso modo  che se le norme si dovessero tutte determinare ex  novo, astrazion fatta e indipendentemente dalle  norme in effetto già accettate e seguite. (Il che del  resto è precisamente quello che avviene in tutte  le scienze precettive; dove, se anche i precetti scientificamente stabiliti si trovano a coincidere coi precetti empiricamente seguiti, la determinazione scientifica procede come se spettasse ad essa di determinarli e giustificarli). E allora il problema torna  ad essere quello del criterio che deve essere assunto.  Ora il criterio che l’indirizzo sociologico  suggerisce è, come è noto, — e conforme al concetto , che esso pone in evidenza, della relatività  della morale e del diritto — la corrispondenza alle  esigenze sociali del momento storico che si considera. Il codice morale di un dato tempo e luogo  delinca la forma di condotta richiesta dalle condizioni dell’esistenza sociale in quel tempo e luogo,  e trova in esso la sua giustificazione.   A nessuno può venire in mente di negare la  reale ed effettiva dipendenza delle norme morali  dalle esigenze della vita sociale. Ma se queste esigenze possono spiegare come si sia formato storicamente e psicologicamente il codice di condotta  correlativo finché sono inconsapevolmente identificate colle esigenze della coscienza morale, esse  non bastano più, neppure a determinare quale sia  la condotta adatta in un certo momento storico,  una volta che siano assunte come criterio riflesso  e consapevolmente seguito; non bastano, tranne  che in un caso: nel caso che le condizioni di esistenza, da cui quelle esigenze emergono, siano considerate come immutabili o come assolutamente  sottratte ad ogni azione od efficacia che possa  esercitare su di esse la condotta umana , individuale e collettiva. Perchè quando intervenga la consapevolezza di una possibile efficacia modificatrice  della condotta umana sulle condizioni sociali e sulle  esigenze che ne nascono, allora entra di necessità  nella valutazione della condotta la considerazione  di questa efficacia; la quale, richiede il confronto  tra lo stato presente e uno stato futuro, tra uno  stato reale e uno stato possibile. E la ragione della  scelta tra i due non può essere data dalla realtà  dello stato presente, ma dalla diversa desiderabilità  dei due stati messi a confronto; e quindi non soltanto dalle esigenze dello stato reale, ma anche da  quelle dello stato possibile o creduto tale. Per conseguenza, condotta buona apparirà non quella semplicemente che è richiesta dalle condizioni di fatto,  ma quella che, nei limiti imposti dalle condizioni  reali, tenda a modificarla nella direzione segnata  dallo stato più desiderabile. Soltanto in un caso,  puramente teorico, la condotta tracciata in conformità con questo criterio, coinciderebbe colla pura  e semplice corrispondenza alla realtà delle condizioni fiate; nel caso che lo stato reale presente apparisse universalmente e sotto ogni rispetto più desiderabile di ogni altro. Ma anche in questo caso  la valutazione è data dalla desiderabilità, non dalla  realtà.   Insomma, altro è comprendere che una forma di condotta è conforme a certe condizioni, altro è [Di qui si vede quanto sia abusiva l’espressione comunemente  ripetuta, sopratutto dai seguaci più rigidi del materialismo storico,  che la condotta giusta è ad ogni momento quella che è resa necessaria dalle condizioni del momento; i quali poi sono spesso ardenti  e anche non di rado generosi fautori e propugnatori di riforme e  di innovazioni anche radicalissime nelle condizioni e nella struttura stessa della società. Sento 1’obbiezione. Gli è che noi prevediamo necessario e inevitabile il mutamento in quella direzione,  e ci affatichiamo , come la levatrice , a rendere meno doloroso il  parto del futuro dai fianchi del presente. Lasciamo, per restare  nella metafora, che altro è voler agevolare il parto e altro voler  affrettarlo. Ma, insomma, vi affatichereste voi a prepararlo, questo  futuro, se non vi apparisse desiderabile in confronto del presente?  E che (iosa vuol dire render meno doloroso il parto, se non apprestare con un intervento consapevole e riflesso certe condizioni che  altrimenti non si realizzerebbero ? Adunque l’apprestare queste condizioni , pensate che sia desiderabile e possa dipendere dall’opera  vostra; cioè nel giudicare ciò che è giusto, sovrapponete, almeno  per questa parte, il criterio della desiderabilità a quello della obiettiva ed esteriore necessità. Cosi la condotta corregge la dottrina. Gran.... ist alle Theorie— Und grilli des Lébeus goldner Baiati].   aver coscienza della bontà di quella condotta; la  quale non può nascere che dalla coscienza della  bontà di un fine a cui la condotta ò, o si crede che  sia, ordinata; altra cosa è la necessità di certe condizioni, altra è la loro desiderabilità; altra cosa è  la spiegazione storica, e altra la giustificazione etica.  Di questa esigenza di una giustificazione,  alla quale, una volta che sia sorto il lavorìo riflesso della comparazione e della critica, nessuna  costruzione etica può sottrarsi, si preoccupa invece  il nuovo prnmmnt.iid.ico. il cui presente successo si deve, come credo, in gran parte, alla  insu fficienza d el rel ativismo sociologico e storico  nel campo della morale. Esso è in sostanza, come  è noto, un ritorno alla metafìsica in nome delle  esigenze pratiche; la affermazione del diritto di ciedere alì’ esistenza reale di quelle condizioni che si  pongano come necessarie a dare un fondamento oggettivo al valore delle norme e dei motivi morali. In questa reazione a difesa della fede il nuovo idealismo, fatto audace cìàPfavore delle circostanze e  dalla debolezza degli avversari, è passato, come accade, dalla difensiva alla offensiva; e non solo afferma la legittimità del proprio indirizzo nel campo  della morale e della religione, o, come si dice, nel  campo dei valori pratici; ma anche nel campo della  scienza, o d ei valori teoretici ; pretendendo che in  ultimo anche il sapere teoretico, benché non se ne  accorga o si dia l’aria di non accorgersene, non abbia altra ragione per giustificare i principi e i postulati che assume a fondamento delle sue interpretazioni dei fatti e delle leggi particolari, se non  una ragione di convenienza ; il valore che quei  principi hanno come mezzi per la sistemazione del  sapere, cioè in ultimo per la soddisfazione di un  bisogno speculativo. Qui non è il luogo di discutere ciò che nella  dottrina ci può essere di vero — più come intuizione di un aspetto trascurato della realtà psicologica, che come legittimazione di un metodo — per  quel che riguarda la ricerca scientifica; la con- [Però non posso fare a meno di notare l'equivoco che, a mio  giudizio, si nasconde sotto la pretesa analogia tra la ragione che  legittima i principi teorici, e la ragione che il prammatismo invoca a legittimare i principi pratici. L’equivoco è questo: E verissimo che 1’ im rva Ira tura d<jl sanerò teor ico (a proposito, si può  parlare di un sapere non teorico?) è ìjj^tgriali, diciamo cosi, grovvisori^dijmstulati^e^dijmtesi che si assumono perditi e  in quanto possono servire. Ma servire a che? A unificare e sistemare le cognizioni delle cose dei fatti e dei rapporti come nono  n on come desideriamo che nan o ; a costruire non quella verità che  piace a noi di ammettere, ma la verità senz’ altro, sia o non sia  conforme ai nostri desideri e ai nostri capricci. Perchè il bisogno  teoretico o scientifico è appunto il bi sogno di .salier e le cose che  s^no jejxmejsono, e non che desideriamo e come le desideriamo. E  qualunque sia il senso che noi diamo all’espressione come sono esso è sempre distinto e diverso da quello che può aver 1’espressione come desideriamo che sieno. Perciò non è il caso di ripetere qui, sotto veste gnoseologica, la domanda di Pilato. Perchè  quando si parla, per es., delle leggi di gravità, si può bensì sostesidero nel campo della morale, c soltanto rispetto ali’argomento che ci riguarda. Per questo rispetto  la soluzione che essa dà del problema della giustificazione etica, non dilferisce sostanzialmente dalle  altre soluzioni di carattere metafisico, se non per  il fondamento. A proposito del quale, siccome, se  anche se ne ammetta la validità, questa non toglie  il difetto che nasce dal 'carattere metafisico della  soluzione, mi accontento di osservare, per quelli  che credono di sfuggire per questa via all’utilitarismo, che essa conduce a una forma, mistica se  si vuole, ma ad una forma di utilitarismo ; anzi  alla forma estrema e più radicale: la valutazione  delle stesse credenze metafisiche e religiose dal  punto di vista di un interesse umano ; sia pure  questo interesse il massimo, il termine di confronto  di tutti gli altri. Perchè conduce a considerare la  credenza come un sostegno della moralità, ossia in  ultima analisi come un mezzo pedagogico. E non nere che questo è un modo nostro di formulare e unificare i fatti ;  ma i fatti sono quelli, e a nessuno viene in mente di pensare che  noi li crediamo veri perchè abbiamo bisogno di reggerci in piedi.  E anche chi ammette che 1’ acqua sia stata fatta a posta per cavarci la sete, sa benissimo (diamine !) che altro è dire che in un  pozzo c’ è dell’ acqua, e altro dire che hanno sete quei che vi guardano dentro.  Di questa indebita intrusione di argomenti gnoseologici in que¬  stioni scientifiche, (fisiche ecc.) tratta esaurientemente, con profondità e con chiarezza, c ome suole, VARISCO (V. in particolare:  Introduzione alla filosofia naturale, e Studi di filosofia naturale).] è escluso il dubbio che, a questo modo, proprio nel  mentre ehe si pone il valore della credenza, si venga  a togliere valore all’oggetto della credenza. Venendo ora al nostro argomento, è certo  che l a soluzione del prammatism o, come in genere  le altre soluzioni di carattere metafisico, soddisfa  a quella esigenza della giustificazione etica, alla  quale non soddisfa il relativismo storico. Ma aneli’essa presenta — dico all’infuori da ogni contesa sulla legittimità del fondamento e sulla validità teoretica dei principi e dei postulati ammessi  — il difetto capitale delle costruzioni metafisiche.  Ed è che il fine di ordine sopranaturale cosi postulato, non può servire a determinare le norme.  Non può servire, per la ragione perentoria che la  relazione tra un fine, che è al di fuori e al di sopra della vita umana naturale e finita, e una con¬  dotta, qualunque essa sia, che si deve dispiegare  nell’ ambito delle leggi naturali e i cui effetti determinabili sono contenuti nei limiti della vita  finita individuale e sociale, una relazione di questo  genere, dico, non può essere in nessun modo dimostrata, ma soltanto affermata. Ne è prova il fatto  che lo stesso fine sopranaturale, la stessa costruzione metafisica può essere assunta a giustificare  norme concrete di condotta non soltanto diverse,  ma opposte, senza che si possa ricavare da essa  nessuna ragione per la quale tra due forme di condotta diverse, una possa o debba giudicarsi preferibile all’altra. Gilè, se si trova una ragione di  preferenza nell’ ordine degli effetti, che le due condotte rispettivamente producono o tendono a produrre, quest’ordine di effetti, dà alla condotta correlativa un valore che sussiste indipendentemente  dal fine sopranaturale, e diventa il fine naturale  della condotta medesima. Con questa differenza tra i due fini: che mentre  dato il primo, non si può (se non facendo appello  a una rivelazione, cioè a una autorità, e quindi a  una pura affermazione) ricavare da esso quale sia  la condotta atta a raggiungerlo; dato questo fine  naturale, le norme si ricavano appunto dalle condizioni da cui il fine dipende, cioè dalla connessione  naturale tra la condotta e gli effetti della condotta.  Ossia un fine sopranaturale non può fornire esso  il criterio per determinare la condotta, se non a  patto che — implicitamente o esplicitamente — si  assuma, come subordinato ad esso e da esso richiesto un fine, o un ordine di fini, naturale, in relazione al quale in realtà le norme sono stabilite. Nè concluderebbe nulla in contrario l’osservare  che il criterio desunto dagli effetti che l’azione tende a produrre, riguarda la condotta esterna, non la  interna, nella quale sopratutto consiste il valore  morale. In primo luogo anche se per le due condotte, esterna e interna, valessero criteri diversi,   bisognerebbe pur sempre riconoscere che, poicliò  anche la condotta esterna conta pure qualchecosa,  sarebbe ancora necessario ammettere un criterio che valga a determinarla. In secondo luogo, benché  siano, in ultima analisi le tendenze, le aspirazioni  i sentimenti che hanno valore e danno valore alle  cose e alle azioni, e ogni valutazione si riduca a  valutazione comparativa di tendenze o sentimenti  diversi; non bisogna dimenticare che i sentimenti,  come le aspirazioni, si distinguono per il loro contenuto rappresentativo, cioè pe 1’oggetto a cui si  riferiscono; e che anche le intenzioni sono sempre  intenzioni di qualche cosa. E finalmente, una forma  di perfezione interiore che si consideri come fine, a  cui Tuomo possa giungere o avvicinarsi, non può  essa stessa fornire il criterio per determinare quale  sia la condotta richiesta a questo scopo, se non in  quanto questa perfezione si consideri come un effetto o un ordine di effetti che dipende naturalmente (in parte al meno se non in tutto) da certe  condizioni, ossia da certi mezzi. Le pratiche dell’ascetismo non avrebbero senso se non si riconoscesse a loro questo carattere di mezzi atti a produrre certi effetti. Concludendo: la soluzione metafisica a cui fa  appello l’indirizzo prammatistico, come ogni altra  soluzione di carattere metafisico, non può avere,  anche se non si ponga in dubbio la sua legittimità, che un ufficio consolatore, non regolatore; può servire a dare o aggiunger valore a certe norme e  ai fini umani connessi con queste, ma non può servire a determinarle; può fornire un principio di  giustificazione, non un criterio di derivazione. E  perciò lascia da parte o suppone risoluto il problema  che riguarda la determinazione delle norme; il che  ò quanto dire che lascia sussistere il problema, e  la validità delle ragioni per le quali si pone, e se  ne cerca la soluzione. Così dei due tipi diversi di costruzione  etica corrispondenti ai due indirizzi esaminati, l’uno  q « — quello del relativismo storico — se anche può   offrire un criterio di determinazione scientifica di  un sistema di norme, non soddisfa all’esigenza morale, ossia non giustifica il valore che ad esse si  vuole attribuire. Perchè, alle norme stabilite in  conformità al criterio della corrispondenza alle esigenze della vita sociale, non si può riconoscere un  valore superiore a ogni altra norma, se non supponendo che la forma di esistenza sociale correlativa si riconosca universalmente e sotto ogni rispetto più desiderabile di ogni altra; presupposto  che non è per nulla legittimato, nè si può ricavare. dal criterio assunto. L’altro — quello dell’i dealism o  prammatistico — in quanto fa capo a principi e  postulati metafisici, serve a giustificare il valore  che si attribuisce alle norme morali, ma ò radicalmente impotente a fornire un criterio di determinazione delle norme. Il primo può determinare le norme, ma non  giustificarle ; il secondo può giustificarle ma non  determinarle. L’uno e l’altro tipo di soluzione hanno comune  il preconcetto fondamentale che compito dell’Etica  debba essere quello di trova re le ragioni sulle quali  ò fondata la bontà o la giustizia di quella forma  di condotta, che già teniamo come buona. Ammesso tacitamente o esplicitamente questo presupposto, l ’esigenza scientifica porta a riconoscere le  connessioni naturali tra quella forma di condotta  e i bisogni della vita sociale del momento storico,  e quindi ad assumere come criterio etico la corrispondenza a questi bisogni ; l ’esigenza morale o  giustificativa porta a cercare a quali patti o condizioni quella forma di condotta possa veramente  essere riconosciuta come buona, e quindi ad assumere come fine della condotta un bene il quale  soddisfaccia a quel requisito di universale e preminente desiderabilità, che non si trova in quel  fine, che è in realtà il fine naturale della condotta. E i moralisti che cercano di conciliarle ambedue, e soddisfare all’esigenza scientifica senza rinunciare alla esigenza giusti- E allora la conseguenza legittima è questa : che una scienza normativa morale è possibile  soltanto se il fine naturale che serve a determinare le norme vale anche a giustificarle. Ma il fatto — che questa esigenza non ò soddisfatta finché si cerca la giustificazione di un codice di condotta già dato, assumendo questo come  punto di partenza, e quindi come fine la forma di  convivenza e di cooperazione sociale alla quale esso  codice corrisponde, — non prova l’impossibilità di  una etica normativa scientifica; prova al più la  impossibilità di una tale scienza finche si intende  £0 il compito dell’ Etica in quel modo, [ CeMJ Anf ibio. Ora perché non sarà possibile e lecito porre il problema in un modo diverso: cercare quale possa  essere il fine che soddisfa a questa esigenza, e dalle  condizioni che esso richiede ricavare le norme della  condotta? Il porre il problema in questa forma non  è forse legittimato dalle difficoltà che abbiamo visto  nascere dal porlo in forma diversa, e dall’analogia] ficativa, tentano di risolvere l’antinomia assumendo in conformità  all’ esigenza scientifica il criterio , e in conformità all’ esigenza  morale la giustificazione ; ossia attribuendo un valore metafisico al  fine umano-sociale al quale in realtà sono ordinate e dal quale si  possono ricavare le norme. Senonchè i due principi assunti e in  apparenza unificati restano sempre distinti : e quando si tratta di  stabilire quale è la condotta da tenere, compare 1’ uno; e quando  si tratta di dire perchè quella condotta è giusta, compare l’altro;  senza che si veda nessuna ragione perchè il secondo debba essere  cosi pronto a trovar giusto quello che l’altro suggerisce (che l’esigenza caratteristica della norma etica non  toglie) colle altre scienze precettive? Sento risorgere l’obbiezione: Posto pure che  l’impresa riuscisse, a che cosa gioverebbe? Ma ò  facile la risposta. In primo luogo, anche se non  servisse praticamente a nulla, non cesserebbe di  avere un valore teorico il sistema di rapporti che  per tal modo si venisse a conoscere. In secondo  luogo a nessuno ò dato affermare a priori l’inutilità pratica di una cognizione scientifica, sia pure  che riguardi dati ipotetici (E quale cognizione  scientifica non contempla dati, almeno in parte,  ipotetici?). E finalmente a queste due ragioni generali se ne può aggiungere una terza particolare. Chi può dire clic al modo stesso, almeno, col quale  può essere utile la conoscenza delle relazioni che  esistono tra forme diverse di moralità e condizioni  storiche diverse, non possa tornare utile la conoscenza delle relazioni scientificamente stabilite tra  una forma di condotta possibile c un ordine di condizioni possibili? Concludo. Il problema, s e una scienza  normativa etica sia possibile, non è un problema  risoluto, ma è un problema da ris olve re. Se si possa  e si debba risolvere nel modo tenuto da Spencer,  è questione diversa e clic rimane da esaminare. E  questa critica preliminare mentre avrà servito, come  spero, a dimostrare che il presupposto fondamentale di Spencer intorno al compito dell’Etica non  può essere a priori escluso, ha posto in chiaro le  esigenze fondamentali alle quali una scienza normativa morale deve soddisfare. E così ci fornisce una guida per la critica della  dottrina. Il criterio del tinnite dell ’ evoluzione e  dell’ adattamento completo nm^se^e a determinare il tipo di condotta cercato. Il programma che Spencer traccia e si propone di seguire (non dico che in realtà gli sia rimasto fedele) per costruire una scienza normativa  etica, si può raccogliere, in queste due te si: I.° La  necessità di assumere come tipo della condotta morale la condotta dell’ uomo giusto in una Società  giusta; e la necessità conseguente d ella disti nzione  'ìdfn fv** i tra etica pura (Ji/icr assoluta) ed etica applicata  parevo*)» f (Etica Relativa) e della precedenza teorica della  prima sulla seconda. II. 0 La identificazione della  condotta giusta, oggetto dell’oca Assoluta, col  tipo di condotta che egli pone come proprio del  limite dell’evoluzione. Ora, benché nel pensiero dello Spencer le due  tesi siano solidalmente connesse, e la seconda sia ilei'quadro del sistema la fondamentale e quella  che legittima e rende possibile ad un tempo la sua costruzione, non ò difficile vedere come da un punto  di vista critico esse possono e debbono essere considerate a parte. La prima, infatti, formula una  veduta metodica ; la seconda esprime la speciale  applicazione che di quella veduta metodica Spencer ba creduto di fare. In altri termini, è astrattamente possibile riconoscere che il tipo ideale dell’uomo giusto non possa determinarsi se non in  relazione con una società giusta e clic per determinare la condotta giusta relativamente a certe  condizioni reali, sia necessario aver prima riconosciuto quale sarebbe la condotta giusta in condizioni idealmente supposte, anche se non si accetta  che il tipo ideale di condotta giusta possa essere  concepito in quella forma e su quel fondamento  che Spencer crede di dovergli assegnare. Anzi io penso che la veduta espressa nella prima  tesi non solo si possa, ma si debba accettare come  legittima e necessaria, e che in essa si racchiuda  come in germe un concetto fecondo. Certo, credo,  se una scienza normativa morale ò possibile, è possibile per quella via; e i difetti della costruzione  etica dello Spencer nascono non dall’averla seguita,  ma piuttosto dall’ essersene allontanato. Cosicché la  critica stessa della seconda tesi riesce a confermare  la legittimità della prima.  Assumendo come tipo ideale di condott a  insta la condotta corrispondente al limite dellV vn-  ! azione, Spencer riconosce, esplicitamente o implicitamente, alla forma di vita individuale e sociale che segna quel limite, valore di fine morale. Ora. lasciando la difficoltà, sulla quale altri ha già zifjf.'w’Ui  insistito, che uno s tato concepito come il risultato  necessario dell’evoluzione naturale possa aver valore di fine liberamente e deliberatamente voluto  e proseguito? difficoltà che non mi pare insuperabile, io credo che questa identificazion e presenta He   due difetti capitali : essa non vale, per se, a for-  O' La difficoltà nasce dal modo di intendere la possibilità e la  necessità. Affermare la possibilità die si produca un fatto, non  è altro che riconoscere o ammettere la presenza reale dei fattori,  l’azione dei quali, qumido non incontrasse ostacoli, produrrebbe,  secondo i rapporti causali noti, cioè necessariamente, quel fatto.  Ora lo stesso effetto che può apparire necessario in quanto si ammette la reale e adeguata efficacia di tutti i fattori da cui dipende, '  può essere proposto come fine quando tra i detti fattori entri l'azione  MI'uomo, cioè quando la necessità. dell’effetto sia condizionata  dalla presenza e dalla efficacia di certe idee, sentimenti, aspirazioni : cioè in una parola dalla presenza e dalla efficacia adeguata  del desiderio ili quell' effetto. In questo caso non è escluso che l’effetto m questione possa aver valore di fine, anzi è incluso elio  1’ abbia ; perchè la « necessità » dell’effetto è subordinata appunto  al valore che gli si riconosca di fine, e al dispiegarsi, nell’ azione  corrispondente, della volontà di raggiungerlo. Che questa interpretazione sia compatibile coi principii dell’evoluzionismo Spenceriano è questione che, come si vedrà, rimane  estranea all’ intento di questo studio, e che i più risolvono negativamente (cfr., tra gli altri, ZECCANTE, La dottrina della co- [ni re un criterio per la derivazione delle norme  morali (nella realtà, come si vedrà più innanzi, il  tipo ideale è determinato da Spencer sopra un  altro fondamento); e non è sufficiente come principio di giustificazione. Cominciamo dal primo. Il concetto di evoluzione, come quello di tempo,  del quale esso è, in fondo, nuli’altro che la traduzione in termini di causalità naturale, esclude  l’idea di limite, inteso almeno come termine fisso,  oltre il quale ogni processo di trasformazione, cioè  di causazione, si arresti. Il processo stesso di dissoluzione che, secondo il pensiero di Spencer, si  alterna a periodi indefinitamente grandi con quello  di evoluzione, non segna il termine di un periodo  e l’inizio d’ uno nuovo se non dal punto di vista scienza movale in Spencer; e G. V ijiaki:  SERBATI (si veda) e Spencer. Di queste, come di tutte le obbiezioni mosse all'etica di  Spencer, a cominciare dal Guyau e  dal Sidgwick fino ai critici più recenti, tratta con grande larghezza  e ricchezza di notizie SALVADORI nel saggio “L’Etica Evoluzionista” che è una apologia entusiastica di tutto il sistema  Spenceriano. Colgo questa occasione per dichiarare che ho dovuto astenermi  da ogni richiamo sia delle obbiezioni e discussioni di questi, come  di altri critici valorosi (tra i quali sia ricordato a titolo d’ onore  il compianto Icilio Vanni), sia delle varie opinioni che si connettono colle questioni generali toccate, per due ragioni : in primo  luogo perchè il punto di vista dal quale è qui considerata la dottrina delle due etiche è diverso, e diversa la via seguita; in secondo luogo perchè se avessi voluto per ogni questione toccata discutere le diverse opinioni, avrei dovuto fare, a commento di un breve scritto, tutta, o poco meno, la storia della morale. di una valutazione umana o teologica. In realtà il cammino non si arresta per tracciar di segni che  l’uomo faccia sulla via della natura. Nè, del resto, quando Spencer parla di limite dell’ evoluzione  della vita umana, intende di significare il momento  in cui la vita si arresta o si spegno, ma quello in cui la vita raggiunge il massimo svolgimento. Senonchò questo massimo svolgimento non può essere. necessariamente, che relativo a forme date e  conosciute o comunque determinate di vita, cioè  di organi, di funzioni, e di attività; e, anche inteso cosi, non può venir stabilito se non fissando un grado che si consideri come massimo; cioè, insomma, segnando nel processo (non importa ora  con quale criterio) un momento, che sia punto di  arrivo di una serie (della quale sia rappresentato  da punto di vista teleologico come fine), ma che  potrebbe essere preso, con un criterio diverso,  come punto di partenza di una serie ulteriore. È sufficiente a segnare questo momento il criterio  dell’adattamento completo ai tre ordini di fini: della vita individuale, della vita della specie e della  vita sociale? È subito chiaro che questo adattamento completo non può bastare esso stesso, se non si  determina quali siano le sfere di attività e di fini,  l’adattamento ai quali serve di criterio per stabilire se il limite è raggiunto. Perchè se si intende per adattamento completo un adattamento definitivo  a tutti i fini di tutti e tre gli ordini, termine fìsso  e insuperabile al quale si arresti, e oltre il quale  non sorgano nuove aspirazioni e nuovi fini, noi  non potremmo argomentare nò che un tale limite  sia per essere raggiunto mai, nò, (ciò clic qui importa di più) dato che si raggiunga, quale sia il  grado o la forma di vita, che un tale adattamento  sia per fissare e suggellare come definitivo. Perchè i fini sono, come ognuno sa, correlativi  ai desideri o ai bisogni. Ora a mano a mano che  le forme di attività si moltiplicano c si differenziano, si moltiplicano i bisogni e quindi i fini; nò  si può nò induttivamente, nè deduttivamente determinare a qual punto questo processo possa o  debba arrestarsi. Pcrchò, pur non uscendo dalla  tesi evoluzionista, ogni adattamento implica diminuzione di sforzo e quindi, ceteris paribus, avanzo  di energia; la quale appunto perciò si viene dispiegando in nuoA r e forme di attività, c quindi nella  ricerca di nuovi fini. Anzi il sorgere di ogni forma  più complessa di attività, — ad esempio ogni funzione più elevata — presuppone normalmente l’adattamento già avvenuto delle attività meno complesse e relativamente elementari, — funzioni più  semplici — di cui essa ò una nuova ordinazione. Onde per questo rispetto l’adattamento a certi fini,  ò parallelo all’ insorgere di fini nuovi indefinitamente. Oltredichè il processo stesso del conoscere  portando a scoprire sempre nuovi rapporti di cose  e di fatti, viene continuamente riversando la DESIDERABILITA dei beni conosciuti su nuovi oggetti che  acquistano valore di utilità, c moltiplica così i beni,  cioè i desideri e i bisogni; o trova nel mutare delle  condizioni esterne nuovi modi di soddisfare ai bisogni già esistenti ailìnandoli ed elevandoli; o apre  la via a nuove aspirazioni, alle quali la soddisfazione già assicurata dei vecchi bisogni, permette  che si rivolgano gli sforzi e l’opere. Cosi ogni adattamento raggiunto è condizione e stimolo a nuove  forme di attività al modo stesso che ogni conoscenza acquistata fa sorgere nuovi problemi, e nascere « a guisa di rampollo, appiè del vero il dubbio. Si dirà che Spencer intende l’adattamento  completo nel senso di mutuo adattamento dei tre  ordini di lini fra di loro; intende cioè la conciliazione e l’accordo tra le esigenze della vita individuale quelle della vita della specie e quelle della  vita sociale. Ma lasciando di notare che la difficoltà sopra  notata risorge a proposito di questa conciliazione  perfetta, si presenta la domanda: A quali patti si  fa questa conciliazione? Perchè se è vero, come Spencer ha cura di  ripeter spesso, che nelle condizioni presenti di esistenza i fini di un ordine non possono essere prosemiti c raggiunti senza sacrificio almeno parziale dei fini di un altro ordine, bisogna evidentemente  perchè la conciliazione si faccia, che intervenga una  cessazione, o una modificazione o una sostituzione nei fini o di uno o di due o di tutti tre gli ordini considerati; ossia una modificazione nei bisogni e nelle esigenze dell’individuo, o della specie, o della  società. Supponiamo ora per semplicità di discorso  che i fini individuali e i fini della specie si possano  considerare fin dal presente conciliati; o, per usare  i termini dall’economia pura, che si possa assumere 1’ egoismo di specie come comprendente m se l’egoismo individuale (il che è in gran parte conforme alle vedute stesse di Spencer); la conciliazione resterebbe da farsi tra i fini della vita  individuale e i fini della vita sociale. E allora il problema è il seguente: Nello stato  di conciliazione contemplato, fino a qual punto sono  i bisogni e i fini individuali da noi conosciuti  o immaginati che avranno mutato di specie, di  estensione, di intensità, per adattamento alle esigenze sociali, e fino a qual punto si troveranno  invece modificate le esigenze sociali per adattamento ai fini della vita individuale? E manifesto  che per conoscere in che cosa la conciliazione sia  per consistere bisogna o che sia definita la sfera  delle esigenze individuali, in corrispondenza colla aliale si possa determinare la sfera delle sociali che con quelle si accordi; o sia definii  sfera delle esigenze sociali per una determinazione tersa; o finalmente siano definite certe corni z on  (qualunque sia il modo tenuto per assegnarle) 1  H vacano, esse, a determinare ad un tempo,   limiti «Ielle une e delle altro.   :ì Queste condizioni Spencer ricava dalle   esigenze del “r » ™<ità induetnale !«<<»'   cui si suppone realizzato il puro «gnu» ' u ?»   tratto sotlo la leggo dell'uguale liberta ; e> 4*  il limite dell'evoluzione è in realtà ,1   della società industriale del suo temp ,  tamento completo consist costruttiva biologica e psicologica 1  nenti la società umana a questo tipo d, convivenza  e di cooperazione. Per conseguenza non è un [qua.» riatto no «i *“Spencer che qui il Etta , (cio4 quando que-   biella II. n edizione dei‘ de i System of   et’ opera fu ^pubblicata come   Synth. Phil.) si trova aggiun e cbe eva stato lo stesso titolo « Conciliarne • pubbliC azione, fu   dettato prima; ma, smarrì o poi Qra in quel ca pitolo geisostituito da quello che figura ne . . ident ifi c hiuo   provare la possibilità che le attività ^«isMche ^   colle egoistiche, si citano gli mse 1 s ’ nism i di- [e—. -certo tipo di vita completa che serve a determinare il tipo ideale della società giusta, ma è il tipo  considerato come ideale di società giusta che determina la vita completa. Adunque, poiché la conciliazione dei diversi ordini di fini è subordinata  all’ attuarsi delle condizioni che definiscono il tipo  ideale di società ed è relativa a queste, è il tipo  ideale di società clic in edotto è assunto come fine,  e sono le condizioni proprie di quel tipo che servono a determinare le norme. benessere individuale non maggiore di quello che è necessario alla  conservazione della vita individuale; ed esser possibile il formarsi  negli individui di una organizzazione tale che la ricerca delle soddisfazioni che la natura loro richiede, porti ad esercitare quelle attività che il benessere della comunità richiede. Si noti che, aggiungendo in appendice il capitolo che contiene questo  passo, Spencer non fa riserve di nessun genere, anzi dice esplicitamente che esso può servire a chiarire e compiere il pensiero  espresso nel testo. Un altro luogo in cui è ribadito in forma diversa, ma non meno  recisa, lo stesso concetto fondamentale, si trova nella seconda lettera di risposta alle critiche di Davies sull’ obbligazione morale, pubblicata col resto della polemica nella- Appendice  C. alla Giustizia. Lasciatemi ripetere qui una verità sulla quale  ho altrove insistito: che appunto come il cibo è giustamente preso  quando è preso per soddisfare la fame, mentre il doverlo prendere  quando manca l’appetito implica uno stato fisico disordinato; cosi  una buona azione o un atto di dovere è fatto giustamente soltanto  se è fatto per soddisfare, un sentimento immediato ; mentre se è  fatto per la considerazione di certi risultati finali in questo o in  un altro mondo, implica uno stato morale imperfetto (A. Sistem ecc. The Moral Motive. Nella  trad. it. della Giustizia edita da Lapi questa appendice è omessa. Ma se così è, quanto alla determinazione delle  nolane il postulato dell’adattamento completo, posto  clic si possa assumose, non serve a nulla; equivale semplicemente a supporre clic tutti gli individui i quali compongono la società ideale abbiano una natura così latta, che l’osservanza della condotta corrispondente costituisca per essi un bisogno o un  desiderio superiore a ogni altro, senza possibilità  di conflitto con altri bisogni o desideri; cioè, tiene  nella costruzione etica lo stesso posto che nei sistemi morali è comunemente tenuto dal dovere, e  nelle scienze precettive in genere dalla supposizione  che esista un desiderio o un bisogno specifico corrispondente al fine da cui si ricavano le norme.   E quindi allo stesso modo che l’esistenza e la  natura specifica dei motivi da cui può dipendere  l’osservanza di una norma, non hanno che fare colla determinazione teorica di essa, così l’ipotesi  dell’ adattamento completo dei bisogni e desideri  individuali a certe condizioni di convivenza e CO-OPERAZIONE sociale, non ha che fare colla determinazione di queste norme. Perchè le norme sono ricavate appunto da quelle condizioni, alle quali si  suppone avvenuto l’adattamento; e che perciò servono esse di critetio e per determinare le norme  e per conoscere se l’adattamento è raggiunto. Uljh&MJ?  Jabot*  Il criterio del piacere puro, corrispondente all’ adattamento completo, non ser re a  giustificare il tipo di condotta proposto. Ma perchè assume Spencer come proprio della Società ideale un adattamento completo,  che, mentre esclude arbitrariamente ogni evoluzione ulteriore, non serve a definire questa Società  ideale perchè è definito esso stesso in relazione con  quella? Perchè soltanto quando esso sia raggiunto, la  condotta umana in tutta la sua estensione apporta  a sè e agli altri nel presente c nel futuro puro piacere, piacere non misto a dolore di sorta ; e per Spencer, come s’è visto, il giusto assoluto e sclude  il dolore . E perciò il tipo ideale contemplato dall’etica Assoluta non può essere se non quello nel  quale la condotta apporta puro piacere.  L’ adattamento completo darebbe dunque al tipo  ideale di convivenza e cooperazione sociale quel  carattere di universale e preminente desiderabilità,  che deve avere il fine assunto dall’etica. Lo dà  veramente?  Benché a prima vista possa parere strano il  dubbio e inutile la discussione, bisogna riconoscere  che un tipo di esistenza individuale e sociale nel  quale tutta quanta la condotta in tutta la sua estensione porti sempre e soltanto piacere, non è, date  le leggi psisologiche conosciute, e non può essere,  un fine.universalmente desiderabile sopra ogni  altro. Lascio di discutere se, supposta una condotta,  diciamo così per brevità, totalmente piacevole, il  piacere stesso non verrebbe a sparire, come stato  di coscienza distinto, per mancanza di quel contrasto e di quell’ alternanza fra gli stati psichici  (così bene illustrata tra gli altri dall’ Hòffding),  senza della quale anche i godimenti più forti il languidiscono e vaniscono nella ripetizione abituale; e di considerare se la forma di vita corrispondente  non riuscirebbe a sopprimere in ultimo anche ogni  forma di coscienza riflessiva e di deliberazione volontaria, cioè l’intelligenza stessa e la volontà, almeno nelle loro forme più elevate riducendo la  vita a una sorta di automatismo istintivo, al quale  corrisponderebbe la fissazione stereotipa di modelli  d’uomini meccanizza ti. Certo, se si bada clic l’attenzione attiva è sempre, in grado maggiore o minore, sforzo, e clic lo sforzo è alimentato principalmente, se non unicamente, dal dolore e non dal  piacere, bisogna riconoscere che la capacità dello  sforzo e l’esercizio dell’ attenzione tenderebbero a  svanire collo sparir del dolore; e il vigore dell’intelligenza si affievolirebbe; come già si può osservare in quelle persone sfaccendate e sonnolente, le quali abbiano in pronto senza alcuna fatica o cura  tutto quel che desiderano, e non sentano l’aculeo  di altri bisogni, e di aspirazioni diverse. E lo stesso discorso sarebbe da ripetere a maggior  ragione per la volontà. Certamente le leggi psicologiche conosciute tendono ad escludere, per le ragioni accennate sopra a  proposito dell’adattamento completo, che un tale  stato possa avverarsi ; ma, dato che potesse attuarsi, non ci sarebbe nessuna ragione per negare, in  forza delle medesime leggi, l’eventualità se non  della soppressione, di un oscuramento progressivo  delle facoltà psichiche più elevate. E allora si  presenta subito la questione, se, ammessa pure  soltanto la possibilità che a un tale stato si accompagnasse questo effetto, potrebbe una forma di  esistenza siffatta apparire desiderabile sopra ogni  altra. Si potrebbe dire: Che importa l’oscuramento e anche la soppressione dell’ intelligenza e  della volontà, purché sparisca il dolore? E quando  non vi siano altri bisogni e altri desideri che quelli appunto che trovano già una soddisfazione  adeguata, ossia, quindi, non ci sia più nemmeno la possibilità di rappresentarsi bisogni e beni diversi, non è una tal vita nel suo genere beata;  anzi la sola beata perché é esclusa la capacità di  provare altri bisogni? Ora che un tale stato possa, anzi debba apparire il più desiderabile quando si supponga l’adattamento  già raggiunto, è fuori di contestazione; ma qui  si tratta di vedere se un tale stato possa essere  preferibile per chi ne ò fuori, e dovrebbe proporsi  come scopo di raggiungerlo. Se, cioè, a chi esercita  certe forme di attività possa parere desiderabile  sopra ogni altro un tipo di vita, nel quale per  avventura quelle attività fossero oscurate o soppresse. In questo caso possono valere l’osservazione  notissima del Mill e la ragione colla quale la conforta; che, certo, non avrebbero valore nel primo  caso. Ma anche lasciando questo aspetto della questione, non bisogna dimenticare che appunto perchè il piacere puro è il correlato subiettivo dell’ adattamento completo, la medesima condizione di una  condotta totalmente piacevole, per le ragioni  dette a proposito dell’indeterminatezza nel numero  e nella specie dei (ini, rispetto ai quali l’adattamento  [ È meglio essere un nomo i nfelice che un jjj^o.ap,ddi.sfotto: è meglio essere Socrate malcontento che un imbecille beato. Ora la ragione addotta da Mill vale per l’uomo, ma non per l’animale,  e l’Hoffding non ha torto di spendere, come egli dice graziosamente, (i nalch e parola hi difesa del porco e dell’ imbecille. E nota  infatti che un uomo il (piale abbia ottenuto la soddisfazione intera dei suoi desideri, non ha nessuna ragione di paragonare il  suo stato con quello di altri uomini. Senonchè riconosce poi che  la conoscenza di gradi più elevati farebbe nascere anche nell’uomo felice il desiderio ardente di giungervi che è appunto ciò che <pii importa. (Hoffding - Morale).  potrebbe essere raggiunto — può concepirsi attuata  non in una sola ma in più forme di vita fra di  loro diverse ; e resterebbe sempre da trovare un  criterio comparativo della DESIRABILITA, o da ammettere che tutti i tipi di vita, per i quali si  concepisce possibile una conciliazione fra i tre ordini  di fini (anche se la conciliazione fosse ottenuta  allo stesso modo che nelle società animali, cfr. la  nota qui sopra), siano ugualmente desiderabili. Il che importerebbe la legittimazione a  pari titolo di forme di condotta fra di loro diverse  e anche opposte; e si dovrebbe ricavare daltronde  che dal piacere puro il fondamento della legittimazione. E qui tocchiamo un argomento il quale si allarga fuori del campo particolare della dottrina  di Spencer e riguarda nello stesso tempo una  questione più generale: la natura del fine. Siccome il carattere che si richiede nel  fine assunto a giustificare le norme morali è, come  s’è ripetutamente detto, quello della universale e  preminente desiderabilità sopra ogni altro, si pensa  che esso debba essere il fine dei fini, il fine ultimo  e supremo ; uno stato definitivo , oltre il quale, e  al di là, non ci sia più nulla da desiderare e da  cercare. E allora non resta che questa alternativa :  o si cerca un fine il quale contenga e comprenda  in sò tutti i fini; e prendono forma I FANTASMI DI FELICITA, DI BEATITUDINE [CICERONE], di perfezione, noi quali si fd" figurano definitivamente appagati tutti i desideri,  e scomparsi o sommersi quelli che non vi trovano  appagamento ; oppure si considera come fine la  forma colla quale si presenta alla coscienza la  soddisfazione di qualsiasi desiderio; cioè il piacere  o la liberazione dal dolore. Ma tanto l’una quanto l’altra delle soluzioni  non sono che apparenti, o si risolvono in una vana  tautologia. PORRE COME FINE LA FELICITA senza determinare quale sia o IN CHE CONSISTA LA FELICITA DI CUI SI DISCORRE è certamente un modo per conciliare  verbalmente tutte le differenze di opinioni e superare tutte le difficoltà; ma nella realtà non le  concilia e non le supera, più di quel che valgano  a togliere le diversità di opinioni politiche e a  raccogliere i partiti ad unità di intenti certi ordini del giorno in cui si afferma all’ unanimità  essere fine supremo per tutti il bene della patria o la prosperità della nazione o altre formule  somiglianti. E se si determina in che si faccia consistere la  felicità, quali siano i fini che si comprendono nel  fine unico chiamato con questo nome, allora delle  due l’una: o i diversi fini così compendiati e compresi nel fine unico, sono veramente unificati, e,  perchè ciò sia. occorre che essi possano ridursi ad  uno; e quindi diesi possa dimostrare che uno fra  essi è causa o condizione degli altri, o che tutti  dipendono da una medesima condizione o ordine di  condizioni; e in questo caso la felicità è caratterizzata o da quel fine o dal conseguimento di  questa condizione, che diventa esso fine, perchè su  esso si riversa la desiderabilità di tutti ; e il termine FELICItA non è che.un duplicato di quel certo  fine o di questa condizione. Oppure i diversi fini  non sono clic sommati insieme, e giustaposti l’uno  all’altro, rimanendo in realtà distinti e senza che  si veda la necessità della loro connessione; e allora  1’ unità non è che verbale, e in realtà invece di  un fine, si hanno più fini, ciascuno nel suo genere  supremo. Si dirà che si dà alla FELICITA non il senso di  un certo contenuto determinato che la costituisca, ma il senso di appagamento dei desideri, di soddisfazione dei bisogni, senza clic si definisca quali  ne siano per essere il numero e le specie; nel qual  senso si può affermare che LA FELICITA rimane sempre  il fine ultimo pur restandone indeterminato il  contenuto? E si riesce allora alla seconda alternativa, di considerare come fine ciò che si ammette  esservi di comune e di costante nel raggiungimento  di qualsiasi fine; cioè, come s’è detto, la forma  sotto la quale si presenta la soddisfazione di qualunque desiderio : il piacere o la liberazione dal  dolore. Ma dire che il fine ultimo è il piacere è come dire che il line ultimo è il godimento che  accompagna il raggiungimento del fine o dei fini,  o che lo scopo dei desideri è la soddisfazione dei  desideri. E allora si vede perchè il puro piacere  non possa dare un criterio di legittimazione e di  valutazione comparativa dei fini e quindi delle  forme di condotta. Perchè o si prende come criterio  la quantità del piacere, la intensità della soddisfazione, senza badare alla natura del desiderio a cui  corrisponde, e non è possibile assegnare un solo  desiderio che abbia lo stesso valore, nonché per  due coscienze diverse, neppure per la stessa coscienza  in momenti diversi. 0 si valuta la soddisfazione  secondo i desideri cui corrisponde, e allora ciò che  distingue un desiderio dall’altro non è la soddisfazione ma l’oggetto a cui il desiderio si rivolge;  non l’effetto soggettivo gradevole, ma le condizioni  che lo producono, non è il godimento del bene, ma  il bene. Ora è qui che si nasconde 1’ equivoco nell identificare il bene col piacere; il fine, cioè l’ordine di effetti che costituisce l’oggetto del desiderio, collo stato soggettivo che è il godimento  (quando ci sia) del fine raggiunto. È bensì vero  che un bene di cui si concepisse che nessuno mai  potesse godere in nessun modo, non avrebbe valore  di bene; ma è non meno vero che un godimento  del quale non si sapesse assegnare nessuna causa  o condizione o mezzo atto a produrlo, non potrebbe  mai essere proposto o assunto come scopo di un'at¬  tività qualesivoglia. Ora quando si parla di un  fine desiderabile sopra ogni altro al quale sia ordinata la condotta, non si può intendere che un  bene, il quale sia bensì, direttamente o indirettamente causa o mezzo o condizione di godimento, senza di che non sarebbe bene; ma che non può  consistere nel godimento stesso, ma in un certo  effetto o ordine di effetti determinabile e possibile,  che possa costituire l’oggetto di una ricerca attiva,  cioè di una certa condotta Senonchè bisogna evitare anche qui lo stesso  e quivoco che CONDUCE A RIPORRE IL FINE NELLA FELICITA o nel piacere; l’equivoco che questo effetto  o ordine di effetti debba costituire un fine ultimo,  uno stato definitivo, al di là del quale non siano  assegnabili altri fini. Uno stato, o un ordine di  effetti definitivo è contraddittorio non soltanto colle  leggi della vita, per le ragioni già dette, ina col  presupposto stesso fondamentale che si assume di  necessità quando si voglia determinare scientificamente un sistema di norme. Perchè qualunque  [Non altrimenti avviene nel campo speciale dell’economia. E  bensì vero che se non si supponesse la possibilità del consumo,  cioè del godimento dei diversi beni che costituiscono la ricchezza,  questa non avrebbe valore, e non avrebbe senso la produzione ; ma 1’oggetto a cui si volge 1’attività produttrice e del quale si cercano le leggi, è la ricchezza, non il consumo.  fine rappresentato come umanamente possibile, appunto perchè deve essere concepito come un effetto,  che si produce, date certe condizioni, è a sua volta  pensato come condizione di altri effetti, cioè mezzo  ad altri fini. Pensare un effetto naturalmente possibile che sia ultimo, è come pensare chiusa e finita a un momento dato la serie della causazione,  abolita e spenta in un effetto che sia stato prodotto ogni efficacia causativa; e allora vien meno  ogni ragione di pensare come dipendente da certi  mezzi, cioè da certe cause, anche l’effetto stesso  che si considera come fine ultimo; e quindi è tolto ogni fondamento a qualsivoglia determinazione di  rapporti tra mezzi e fini, e perciò anche a qualsiasi determinazione di norme. Si dirà che si intende ultimo rispetto alla  salutazione, cioè talea cui si riconosca valore per sé,  indipendentemente da ogni considerazione ulteriore. Ma se si ammette che da quel fine, quando sia raggiunto, dipendono altri effetti, nell'atto stesso che  lo si pensa condizione di tali effetti ulteriori, la  valutazione di questi (che non può essere esclusa)  •muta il valore del fine egli dà nello stesso tempo  valore di mezzo. Dal che nasce questa conseguenza assai  notevole: che la desiderabilità di un ordine di effetti, che si assuma come fine, non viene tanto  dalla desiderabilità che gli si riconosca come bene. cioè come oggetto diretto e immediato di godimento, quanto dalla DESIDERABILITA degl’effetti, dei quali  esso apparisca la condizione necessaria. E che perciò, mentre è vano andar cercando quale sia il  fine ultimo, il quale non si trova mai, o si risolve  in una pura espressione verbale, il fine che può  valere come supremo si deve cercare non nell’uno  o nell’altro degli scopi a cui si riconosca valore  per sè, ma in un ordine di effetti, in un sistema di  condizioni, dato che sia assegnabile, nel quale si  possa riconoscere questo carattere appunto di condizione necessaria, non di alcuni, ma di tutti quei  beni, ai quali si attribuisce valore per sè. E quindi  il fine che può avere universalmente una DESIDERABILITA superiore a ogni altro, non può consistere  se non in un ordine generale e, si potrebbe dire,  preliminare di condizioni, la cui attuazione apparisca necessaria perchè sia possibile universalmente  la ricerca ulteriore di quei beni. Non può essere cioè  supremo nel senso di una gerarchia, della qiiale  segni il culmine, nè nel senso di una grandezza  o quantità, di cui sia il massimo, ma nel senso della precedenza necessaria o della indispensebilità;  per la quale venga a raccogliersi su di esso come  in un unico foco la luce e il calore di DESIDERABILITA che irraggia dai fini ai quali apre universalmente la via.  E perciò, ammesso che qualsivoglia fine umano abbia, come ha in realtà, per condizione la convivenza e la CO-OPERAZIONE sociale, il line che può  avere questo valore di precedenza necessaria sugli  altri deve essere di necessità il raggiungimento o  il mantenimento di certe condizioni ili convivenza  e di cooperazione sociale, cioè di una qualche  forma di società. Ma perchè ad una forma di società possa essere riconosciuto questo carattere universalmente, occorre che le condizioni della sua  esistenza abbiano per tutti un valore potenzialmente uguale: ossia che nessuno dei fini, dei quali  quella forma di cooperazione pone la possibilità e  dai quali attinge il suo valore, sia, per dato e fatto  delle esigenze di essa forma, precluso o impedito  a nessuno dei componenti la società. 0, in altri  termini, sia qualsivoglia il fine che si suppone  cercato, ciascuno trovi nelle condizioni proprie di  quella forma sociale la medesima esteriore possibibilità di rivolgere a quella ricerca l’attività propria. che vi trova qualsiasi altro. L’analisi ci ha dunque portato a queste conclusioni: a riconoscere che il limite dell’evoluzione,  1’adattamento completo, la massima FELICITA, nè for- [Il che non implica, occorre appena avvertirlo, una uguaglianza nei risultati ottenuti, o come si dice inesattamente, una uguale distribuzione di FELICITA la quale supporrebbe, insieme  colla condizione notata, anche una uguaglianza di attitudini, di attività e di preferenze.] nisce un criterio ili determinazione delle norme,  nò basta come principio di giustificazione; a riconoscere la legittimità del concetto, clic bisogna  assumere come fine un tipo ideale di società; e a  stabilire le esigenze fondamentali, alle quali questo  tipo deve soddisfare.   Ed ora è facile vedere per quali ragioni il tipo  sul quale in realtà Spencer ha modellato la sua  società giusta non soddisfaccia a queste esigenze. Il tipo di società giusta di Spencer. In un articolo di risposta ad alcune critiche mosse ai dati dell’etica Spencer polemizzando con Means così si esprimeva a  proposito del modo di intendere la giustizia: A  molti sembra ingiusto che la dura fatica di un bifolcogli faccia guadagnare in una settimana meno  di quanto un medico guadagna facilmente in un  quarto d’ora. Molti sostengono essere ingiusto che  i figli del povero non possano avere i vantaggi del  l’educazione che hanno i figli del ricco. Ma quest e  deficenze nelle quote di FELICITA che alcuni ritraggono dalla CO-OPERAZIONE, sicc ome clerivano da ereditata inferiorità di natura, o da inferiorità di  c oMizioniMn cui i loro antenati inferiori sono c a- ~  cinti, sono deficienze colle quali la giustizia, come io  la intendo, non ha nulla che fare. L’ingiustizia che  trasmette alla discendenza malattie c deformità,  l’ingiustizia che infligge alla prole le conseguenze  penose delle stupidità e della cattiva condotta dei  genitori, la ingiustizia che costringe quelli che  ereditano delle inc apac ità, a lottare colle difficoltà  clic ne derivano, l’ ingiustizia che lascia in relativa  p overtà la gran maggioranza, le cui facoltà,.di or -  < 1 i ne inferiore, apportano ad essi scarsi profitti, 6  una specie di ingiustizia estranea alla mia tesi.  il i cose stab ilii'-, quantunque in forza di esso, una inferiorità della quale l’individuo non ha colpa  produca i suoi mali, e una superiorità della quale  egli non può vantare nessun merito, apporti i suoi  benefìzi; e dobbiamo accettare, come possiamo,  tutte quelle disuguaglianze che ne deri vftrm vantaggi che i cittadini si procacciane  rispettive attività. Ho citato questo passo, non perchè gli stessi concetti qui espressi non siano, esplicitamente o impli¬  citamente, sostenuti in tutta quanta la sociologia e  la morale dello Spencer, ma perchè forse in nessun  altro luogo appare piu manifesto il presupposto che  vizia la sua concezione della società ideale. Assu¬  mendo come elemento del concetto di giustizia —  accanto a quello dell’ uguale libertà — la condi¬  [Replie to Criticism on The Data of Etihcs in Mind. zionc ricavata dalla biologia, che la vita progredisce c si eleva soltanto a patto che gli individui  superiori godano i vantaggi della loro superiorità  e gli inferiori subiscano i danni della loro inferiorità, egli identifica la inferiorità fisiologica e psichica colla inferiorità sociale; la inferiorità obesi  potrebbe chiamare nativa o costituzionale colla inferiorità clic si potrebbe dire di posizione. Ora, che un uomo debole non possa vincere le  medesime resistenze che uno forte, che un bambino  poco intelligente impari meno e peggio di un intelligente, è naturale e necessario; ma non si può  dire che sia giusto nè ingiusto. Che i figli ereditino F ingegno o l’ottusità, la sensibilità o l’insensibilità, il vigore o l’infermità dei genitori, e che i primi godano i vantaggi e i secondi sopportino i danni che sono conseguenza rispettivamente di questa loro soperiorità o inferiorità ereditata, sarà del pari biologicamente necessario, ma  non è ancora nè giusto nè ingiusto; diventa bensì  giusto o ingiusto rispettare o violare questa relazione naturale, soltanto se si considera questa relazione come condizione di una elevazione progressiva delle specie che sia assunta come effetto  universalmente desiderabile, cioè come fine.  Ma che i figli del contadino non abbiano la possibilità di venire istruiti o educati, non dipende  dalla costituzione fìsica e mentale loro propria, ereditata o no, ma dipende da una inferiorità sociale,  la quale toglierebbe ad essi questa possibilità anche  se la loro costituzione fisica e mentale Cosse attissima a questa coltura. Ora, mentre l’analogia della  selezione biologica importerebbe che i figli del contadino al pari di quelli del lord potessero porsi allo stesso cimento, salvo a ricavare dalle loro rispettive capacità e sforzi frutti maggiori o minori,  la diversità delle condizioni sociali esclude gli uni  dalla gara c toglie non solo la necessita ma la possibilità clic l’opera di selezione si rinnovi tra i  superstiti di ogni nuova generazione sull’unico fondamento delle loro rispettive attitudini e attività. Sul che non è necessario insistere dopo le critiche note e ripetute; ma valga l’accenno per rilevare che a torto Spencer identifica colla inferiorità biologica, o meglio, costituzionale, l’inferiorità clic deriva dalle condizioni sociali, e crede che possa valere a giustificare le conseguenze della  seconda, lo stesso fine che invoca a giustificare le conseguenze della prima. Perchè la limitazione alla  sfera dei beni conseguibili che è imposta da condizioni esteriori è cosa affatto diversa dalla limitazione clic nasce dalla capacità e dalle doti intrinseche; e se questa è giusta, posto che si prenda  per fine superiore a ogni altro V elevazione della  specie (e dato che ne sia condizione), quella è giusta  soltanto se si considera come fine superiore quella  certa forma ili cooperazione sociale che la rende  necessaria. Anzi quella limitazione d’origine sociale che si ponga come giusta per quest’ ultimo  rispetto, appare ingiusta per l’altro. E l’ammettere  che sia giusta la condizione che ciascuno sopporti  i danni della sua inferiorità e goda i vantaggi  della sua superiorità » non include, ma piuttosto  esclude l’altra condizione, a torto da Spencer  compresa o conglobata con quella; che ciascuno  sopporti i danni o goda i vantaggi che sono conseguenza di una inferiorità o di una superiorità,  la quale risulta non dalle sue doti fisiche e mentali, ma dalla assenza o dalla presenza di certe circostanze esteriori.   E in verità sarebbe da meravigliare che Spencer non abbia rilevato la differenza, o non ne  abbia tenuto conto, se non si ricordasse che il  punto di partenza, il foco centrale da cui muove  e attorno a cui si raccoglie la sua speculazione, è,  come s’ò detto in principio, un ideale etico, anzi  propriamente sociale e politico; onde l’intento principale diventa quello di trovare la giustificazione  del suo ideale nelle leggi della vita, e per esse  nelle leggi stesse dell’ universo.   l ( h Ora il suo ideale sociale e politico è in  sostanza quello stesso del liberalismo, in cui crebbe  e si maturò il suo pensiero, che era già compiuto  e definito nelle sue parti quando uscì il Prospectus; e perciò nel costruire la sua società di uomini giusti, per quel che si attiene  alla struttura sociale, egli non fa che supporre realizzati i desiderati teorici, o già riconosciuti espres¬  samente, o ricavati logicamente dai postulati economici e politici di quel liberalismo. Il quale era  bensì arditamente coerente nella affermazione dei  principi e dei corollari riassunti nella formula della  giustizia (la uguale libertà per tutti), ma conside¬  rava o come anteriori ed estranee a questa legge,  o come naturali ad un tempo e conformi ad essa,  le dive rsità storicamente date di condizione econ o-  mica degli individui e delle classi socia li. Onde Spencer non tenne conto della disuguaglianza effettiva, che nell’ esercizio di quella libertà, formalmente uguale per tutti, porta 1’ esistenza di quella  diversità, che egli credeva giustificata dalle leggi  biologiche . 1 frinii.  Ne segue che mentre nella sua società ideale  egli costruisce l’individuo giusto facendo astrazione  da tutto ciò che nei fini individuali vi può essere  di incompatibile non solo colla cooperazione, ma  anche colla simpatia ; n el costruire invece la società giusta fa ben s ì astrazione da ogni forma di  aggre ssione esterna e interna che si esercit i, dato  lo stato di cose stabilito, ma non fa astrazione  da quelle con dizioni che importano una reale limitazione diversa nella sfera delle attività é dei fini conseguibili dei singoli; e però la sua non è  una società giusto, ma una società di uomini giusti;  giusti, dirci, secondimi quid; la cui giustizia, cioè,  è modellata sulle esigenze di una certa struttura  sociale, nel configurare la quale egli non tien conto  di quelle condizioni che pur suppone soddisfatte nel  formare il tipo dell’ uomo giusto. E cosi si avvera qui una i n eoe ronz a del genere  che si ò accennato più sopra: che le norme  della sua giustizia siano applicate a regolare delle  relazioni derivate, le quali esistono e sono possibili  in grazia di relazioni primarie e fondamentali, che  le norme non contemplano e che sono la negazione  del criterio applicato in quelle. Perchè mentre suppone che gli individui seguano nella loro condotta  una perfetta imparzialità subordinando alle esigenze della giustizia o dell’uguale libertà — fine  prossimamente supremo — tutti gli altri fini generali e particolari, suppone poi, come proprie di  una tale cooperazione di uomini giusti, condizioni  che sono in tutto o in parte la negazione dell’imparzialità, e che non esisterebbero se lo stesso criterio dell’ imparzialità fosse seguito nel costruire  il tipo della società giusta. E in questo senso che, accennando incidentalmente altrove all’etica assoluta dello Spencer, notavo come un vizio di essa non un eccesso, ma  piuttosto un difetto di astrazione; perchè egli assuine abusivamente come esigenze costanti e universali di ogni forma di CO-OPERAZIONE, e quindi  anche del suo tipo ideale, le condizioni proprie di  un certo momento storico; e pone come dati fon¬  damentali di una cooperazione regolata dalla legge  della uguale limitazione per tutti, delle condizioni  che importano una limitazione disuguale. Stando così le cose, il raggiungimento o l’approssimazione a un tale tipo di società, non può  apparire come fine universalmente preferibile, nè  le norme che esprimono la condotta richiesta da  quel tipo possono avere carattere di universale osservabilità sopra ogni altra, E ciò da un doppio  punto di vista. Agli individui delle classi sociali poste, per effetto di quella disuguale limitazione, in condizione  di inferiorità, questa inferiorità che non è conseguenza della propria condotta, deve apparire una  menomazione ingiusta dei diritti; agli individui  delle, classi sociali poste in condizioni di superiorità, questa superiorità, che parimenti non è conseguenza  della propria condotta, deve apparire, se la coscienza  si elevi a una imparzialità universale e coerente,  una menomazione ingiusta dei doveri,  E nasce di qui quel se greto rancore in  chi riceve, e quel senso indefinito di malcontento e  quasi di rimorso in chi dà, clic avvelenano talvolta  dalle sorgenti la simpatia, oscurando la serenità della beneficenza, se la accompagni il dubbio che  essa non sia se non un compenso parziale e tardivo  di ingiustizie patite e di ingiustizie godute.   La simpatia non può essere schietta dove non  regna la giustizia; e non si possono definire  le forme e i limiti della beneficenza se non dopo  die siano definite, e siano o si suppongano osservate le norme della giustizia; onde la necessità  logica che il tipo ideale della società giusta sia  determinato all’infuori da ogni supposta efficacia  modificatrice che la SIMPATIA e la BENEFICENZA esercitino sulle condizioni e sulla condotta dei singoli  e della società. Soltanto così è possibile accertare  se il tipo di cooperazione assunto come ideale possa  essere universalmente desiderabile, e soltanto così  è possibile determinare dove la giustizia finisca e  la beneficenza cominci; dove finiscano le relazioni  di diritto e dove comincino le relazioni di simpatia. Ora il tipo di società ideale di Spencer pre- i cti'Qlf senta anche questo difetto che deriva inevitabil-mente dal primo; di supporre realizzate le condizioni della perfetta simpatia in una società nella   [Questo si riflette con tutta chiarezza nella pratica quando  si tratta di rapporti semplici e sulla giustizia dei quali non cada  dubbio; poniamo tra due commercianti onesti che abbiano relazioni  d’affari e relazioni di amicizia. Dove gli scambi di cortesie che  sono frutto della simpatia, non mutano di un ette i diritti e gli  obblighi del dare e dell’avere; e se li mutano, oscurano e tingono  d’altro colore i rapporti di simpatia.  quale non sono realizzate le condizioni della giustizia. La sua società è una società più o meno  ingiusta di uomini perfettamente simpatetici ; dalla  quale egli ricava per un verso le norme della  giustizia, e per l’altro le norme della simpatia;  invece di essere una società giusta di uomini giusti,  quando si tratti di determinare le norme della  giustizia ; e una società giusta di uomini perfettamente SIMPATIZZANTI quando si tratti di determinare  le norme della simpatia e della beneficenza. Ma anche supposto che per questa guisa la  perfetta simpatia venga a sanare gli effetti delle  inferiorità imposte dalla cooperazione sociale, il  tipo che ne risulta presenterebbe sempre questo  difetto: che la ricerca e il raggiungimento di alcuni  dei fini, ai quali LA CO-OPERAZIONE serve, apparirebbe  per una parte dei COOPERANTI subordinata alla benevolenza di un’ altra parte. Il qual difetto basterebbe per togliere, nel giudizio di una coscienza  imparziale, a quel tipo di CO-OPERAZIONE il carattere  di univers ale preferibilità. Ma il difetto era, come s’ò detto, dato il  presupposto Di Spencer, inevitabile. La simpatia  è pe r lui il mezzo di conciliazione dell’egoismo coll’altruismo. Ma poiché i limiti rispettivi dell’egoismo e dell’altruismo sono segnati dalle esigenze  del suo tipo sociale, la perfetta simpatia è in ultimo  la condizione dell’adattamento psicologico dei singoli a queste esigenze. Ed ò caratteristico a questo  riguardo il latto che il capitolo, nel quale si tratta  dello svolgimento progressivo della simpatia come  l’attore della conciliazione , porta lo stesso titolo e  sostituisce nei dati »il capitolo smarrito e aggiunto poi in appendice, che ho citato più sopra, nel quale si cita come esempio  di conciliazione tra l’egoismo e l’altruismo l’adattamento alle esigenze della vita sociale delle api  e delle formiche. Per questo rispetto direi, se non  sembrasse un paradosso, che il grande assertore e  propugnatore dell’individualismo, è in fondo, senza  che se ne accorga, un difensore della subordinazione  totale e definitiva dell’individuo a un tipo di CO-OPERAZIONE sociale, che egli considera bensì come la  condizione necessaria alla vita più elevata dell’individuo e della specie, ma che in realtà vincola il  grado di elevazione della vita di un gran numero  se non di tutti gli individui, alle esigenze di una  certa struttura economica. E quando egli combatte l’intervento della società  nel regolare i rapporti economici, in nome dei  diritti dell’individuo, dimentica che una parte considerevole di quei diritti, sono in realtà diritti di  alcuni soltanto, e non di tutti, c che questa disparità ha la sua radice nella costituzione economica,   che lo stato, come egli lo vuole, interviene pure  a sancire e a difendere. La quale osservazione, giova notarlo, non vale per sè nè prò nè contro  il cosidetto Socialismo di Stato. Vale soltanto a  provare che l’individualismo di Spencer non è,  come pare, un individualismo universale, ma un  individualismo particolare. Cosi, i l difetto capitale del tipo di società di Spencer come in genere del cosidetto stato di  diritto nasce non da quel che afferma, ma da  quel che dimentica ; non dal riconoscere e difendere  le esigenze della uguale libertà per tutti, ma dal  non riconoscerle tutte; cioè dal trascurare o dal1’omettere, come se fossero soddisfatte, mentre non  sono, le condizioni che rendono possibile 1’ uguale  libertà.   E, ad esprimerlo in termini kantiani, il difetto  si riduce a questo.DOVE VI E CO-OPERAZIONE CON EFFETTIVA PARITA DI DIRITTI, CIASCUNO DEI COOPERANTI HA AD UN TEMPO RIGUARDO A QUALISIASI DEGLI SCOPI DELLA CO-OPERAZIONE, PER UN RISPETTO RAGIONE DI MEZZO E PER L’ALTRO RAGIONE DI FINE. SE INVECE L’ESIGENZE DELLA CO-OPERAZIONE INDERDICONO A QUASIVOGLIA DEI [Nota LORIA che quando si grida contro la concorrenza come  causa di una infinità di mali, si attribuisce alla concorrenza la  produzione di effetti che nascono dalla mancanza di concorrenza,  cioè dal monopolio. Perchè la concorrenza domina soltanto nel  campo innocente della circolazione, e qui ha una influenza benefica.  Mentre i mali lamentati nascono dalla distribuzione , e sono il risultato, anziché della concorrenza che qui non esiste, della mancanza  di concorrenza fra lavoratori e capitalisti. (Cost. Ec. Odierna)] COOPERANTI la ricerca di una parte dei beni, a cui  E CONDIZIONE NECESSARIA LA CO-OPERAZIONE DI TUTTI, per questa parte l’escluso ha soltanto RAGIONE DI MEZZO, e *non* RAGIONE DI FINE. Il che avviene appunto, malgrado il riconoscimento formale, o meglio, verbale, della uguale  libertà, anche nella società ideale di Spencer. La quale perciò non può aver valore di universale  e preminente DESIRABILITA perchè non soddisfa  alla condizione richiesta: che tutti i sodi trovino  nelle condizioni di esistenza della società la medesima o equivalente possibilità esteriore di rivolgere  la loro attività alla ricerca di QUALSIVOGLIA DEI BENI, AI QUALI LA CO-OPERAZIONE SOCIALE E MEZZO. Questo è il POSTULATO CARATTERISTICO DELL’UNIVERSALE DESIDERABILITA DI UNA FORMA DI CONVIVENZA, ossia è il postulato caratteristico della GIUSTIZIA. E supporre una società giusta di uomini giusti equivale a supporre riconosciuta e applicata universalmente e costantemente in qualunque specie  di azione o di influenza che si eserciti, così dalla  società come da ciascuno dei singoli, l’esigenza di  quel postulato. Ufficio e limiti (li una costruzione scientifica dell’ Etica. LA SOCIETA GIUSTA così intesa non rappresenta dunque un tipo definitivo della vita più elevata possibile, analogo ai tanti regni dell’Utopia  che la fantasia morale ò venuta fingendo nei  diversi tempi. Anzi per questo rispetto una maggiore o minore elevatezza, complessità o intensità  di vita, di attività, di fini, non ò affatto implicita  nel postulato nè si può ricavare da esso ; e si può concepire (e non ne mancano in effetto gli esempi)  una forma di società in cui sia, almeno parzialmente  l'aggiunto un grado assai elevato di civiltà, la  quale sia tuttavia meno giusta di un’altra più  semplice e meno civile. Appunto perchè la giustizia  riguarda la universale possibilità di cercare i beni,  ai quali E CONDIZIONE la convivenza e LA CO-OPERAZIONE SOCIALE, e non include che questi beni siano  di molte o di poche specie, di maggiore o di minor  pregio. Onde è pienamente compatibile col postulato  anche la concezione pessimistica della vita ; perchè,  anche dal punto di vista del pessimismo, uno stato  di giustizia, che è la condizione necessaria della  universalità della simpatia e quindi della compassione, deve apparire preferibile a ogni altro. E se  anche si riguardasse come fine ultimo la negazione  universale della volontà di vivere, lo stato di giustizia apparirebbe la condizione più favorevole  perchè 1’ uomo prenda coscienza della necessità  naturale c inevitabile della propria infelicità, spongliandosi dell’illusione che essa sia occasionale e  contingente, ed effetto di malvagità degli uomini  o di iniquità degli istituti sociali. E QIESTA DESIDERABILITA dello stato di giustizia anche rispetto al  pessimismo è forse una conferma non trascurabile  del valore di universale preferibilità che gli si è  riconosciuto, e a un tempo della sua indipendenza  da ogni particolare concezione metafisica. Adunque, poiché uno stato di giustizia non è  caratterizzato da altro se non dall’ipotesi che le  esigenze di quel postulato siano soddisfatte, non  si può nè si deve pretendere di ricavare dal postulato un contenuto determinato, ma soltanto la  forma generale delle norme. Il contenuto specifico  deve essere ricavato dai fini, ai quali SI RICONOSCE O SI SUPPONE CHE LA CO-OPERAZIONE SOCIALE SIA O DEBBA ESSERE MEZZO, e in relazione al quali si  possano definire le condizioni richieste dal postulato  della giustizia. Quali siano questi fini non si può stabilire se  non o per constatazione o per ipotesi. Per constatazione, quando corrispondano alla osservazione  della realtà psicologica in un dato momento storico, ossia in una forma di civiltà. Per ipotesi,  quando si voglia cercare preliminarmente quali sarebbero le condizioni richieste dalla possibilità di  ciascuno dei fini isolatamente preso o di un gruppo. Ed è inutile a questo proposito insistere qui sulla  eventuale opportunità o necessità di ricorrere a tali ipotesi specialmente nelle ricerche, come questa,  nelle quali non è possibile la sperimentazione. Ma tanto nell’uno quanto Dell’altro caso  le condizioni che se ne ricavino e che vengano stabilite come proprie del tipo di società giusta considerato, presentano questo carattere : che non sono  date, ma costruite, che non sono reali, ma ideali.  Ora, se noi determiniamo quali siano le norme di  condotta corrispondenti a quelle condizioni, queste  norme esprimeranno quale sarebbe il modo di operare nella supposizione che esse siano già date e  reali, e non quale sia il modo di operare che tende  a realizzarle, mentre sono date condizioni piu o  meno diverse. La prima determinazione è oggetto di un’etica pura: la seconda di un’etica applicata, nella quale  si consideri come fine il raggiungimento delle condizioni ideali che sono assunte nell’ etica pura, e  si stabilisca per approssimazione quale sia in un  dato momento storico la condotta sociale e individuale, che, nei limiti necessariamente imposti dalle  condizioni reali date, ò più atta a favorire la trasformazione di queste nella direzione segnata da  quelle. Soltanto così l’Etica può evitare un errore del  genere di quello nel quale cadevano gli economisti  della SCUOLA CLASSICA; i quali, dopo aver supposto  l 'homo oeconomicus mosso unicamente dall’interesse  personale, il che avevano diritto di fare, lo considerarono poi come reale e die dero valore di leggi  n aturali e necessarie alle conclusioni ricavate da  questo e dagli altri dati astratti supposti. Ora  appunto percliò le condizioni soggettive e oggettive  dell’ homo iustus e della societas insta, sono supposte  e non reali, le norme che esprimono quale sarebbe  la condotta dell’ homo iustus e della societas iusta  non sono immediatamente nè integralmente applicabili in condizioni diverse dalle supposte. I « doveri » e i diritti dell’ uomo giusto nella società giusta non coincidono coi doveri e i diritti  dell’ uomo storico in determinate condizioni storiche; alla stessa guisa che i diritti naturali dei filosofi dello stato di natura non coincidevano  coi diritti positivi delle società in cui vivevano. Ma se si dà valore di fine all’attuazione delle condizioni proprie della societas iusta, i doveri e i diritti 1 dell’ homo iustus diventano il modello al quale  si riconosce desiderabile che cerchi di avvicinarsi  il sistema di doveri e di diritti che vale come  giusto in una società reale data. Alla stessa guisa,  se la costituzione di una società foggiata in conformità all’ipotesi dello stato di natura e del CONTRATTO, si fosse riconosciuta (con verisimiglianza maggiore ed evitando la confusione fra giustifica¬ [Gide. Principes d’ éc. poi.] zione etica e spiegazione storica) come fine da raggiungere invece che come stato originario, il diritto naturale ricavatone sarebbe legittimam ente apparso come il tipo idealmente giusto, al quale il  diritto positivo doveva avvicinarsi e adattarsi.   Adunque/qu ando si eviti l’errore di scambiare  i dati ipotetici coi dati reali, c la pretensione utopistica di applicare direttamente e integralmente  le conclusioni ricavate dai primi alle relazioni che  sono imposte dai secondi A a ppare evi dente ad un  tempo e la 1 ( frittimi t à della distinzione, e la priorità logica dell’Etica Pura surf mica Applicata. Raccogliamo in breve i resultati dell’ analisi. Una scienza normativa etica non differisce dalle  altre scienze precettive se non pe il valore, che si attribuisce al line suo: il quale deve essere desiderabile univ ersalm ente jyjjma e a preferenza di ogni a ltro , se si vuole che sia riconosciuto lo stesso  carattere alle norme ricavate da esso. Questo fine  universalmente preferibile non nuò essere che un  fine relativamente prossimo, il quale (abbia o no  anche valore per sè) sia mezzo o condizione di tutti  i fini che si considerano come ultimi; e quindi  non può essere che una forma di convivenza e di */ . amw  Per maggiori chiarimenti sulla relazione fra le due etiche  cosi intese e sulle parti di ciascuna, mi sia lecito riferirmi a quanto  ebbi occasione di dire nei « Prolegomeni ecc. » già citati.  coopcrazione, nella quale 1’ universalità dei singoli  possa riconoscere tale requisito. Ma una società  siffatta ò supposta, non reale, e le norme di con¬  dotta che se ne ricavano regolano delle relazioni  che sono parimenti assunte per ipotesi, e non sono  perciò applicabili direttamente a relazioni più o  meno diverse. Tuttavia la loro determinazione è  non soltanto utile, ma necessaria; necessaria dal  punto di vista scientifico alla determinazione delle  norme che debbono regolare le relazioni più complicate della realtà ; necessaria dal punto di vista  etico alla giustificazione di queste norme ; perchè  esse sono valide in quanto esprimono ravvicinamento, nei limiti del possibile, di queste relazioni  reali a quelle relazioni ideali. Il che viene a dire che l’etica pura fornisce all’etica applicata il  criterio per determinare le norme, e il valore che  le giustifica.  Ma non bisogna dimenticare che le norme,  sia dell’etica pura, sia dell’etica applicata, hanno  il valore che si assegna a loro, nella ipotesi fondamentale che si accetti come valido e fuori di contestazione il postulato della giustizia. Ossia hanno  valore se si suppone che OGNI socio  RICONOSCA che una forma di convivenza e di CO-OPERAZIONE  nella quale ciascuno abbia, quanto alle limitazioni  esterne, valore di fine a pari titolo di qualunque  altro è preferibile a una forma di CO-OPERAZIONE nella quale una parte dei <? socii » abbia, per uno  o più rispetti, soltanto valore di mezzo e non di  FINE.   Quindi, è bensì vero clic l’assunzione di quel  postulato è la condizione necessaria all’ universale  riconoscimento della norma, e clic perciò, se si  pone come caratteristica della norma morale 1’ universalità, rinunciare a quello vuol dire rinunciare  a questa ; ma ciò non toglie che si debba affermare  chiaramente e senza sottintesi che il sistema di norme per tal guisa stabilito ha, come qualunque  altro sistema di norme, del quale si richieda una giustificazione, valore ipotetico; e che perciò questo  valore ò incontestabile solo in quanto si riconosce  incontestabile il postulato. Appare di qui che è vano e illusorio cercare  la giustificazione di una norma morale nelle leggi |  naturali. Perchè ciò che giustifica una norma  di condotta non è la naturalità, ma LA DESIRABILITA  dell’ effetto contemplato ; e le leggi naturali stesse  possono apparire giuste od ingiuste secondochè si  assumano come universalmente desiderabili o no  i resultati, ai quali la conformità della condotta' fi 1  affo irafic-li itr [v  yJ.tA ttfilk t**'  he* ìtU 'o jqie j.  La conoscenza delle leggi naturali suggerirà i mezzi necessari a raggiungere un fine; e darà modo di giudicare della come-  yuibìlità di questo o quel fine che eia proposto ; ma non serve a dar  valore di universale DESIRABILITA a un ordine di effetti, per il solo  fatto che ce ne riveli la produzione « naturale » a quelle leggi conduce, o ò creduta condurre. Può  essere vero (e non è da discutere qui) che l’essere  o no un ordine di effetti desiderabile (ossia, in  ultimo, l’essere o no presenti ed efficaci nella coscienza umana certi bisogni, desideri, aspirazioni,  credenze), sia un portato necessario della natura  stessa delle cose e dell’ uomo, e che le tendenze  umane, si siano, rebus ipsis dictantibus, modellate  cosi da condurre a riconoscere nella osservanza  delle leggi naturali un valore di giustizia e di  bontà; ma anche in questo caso non ò la naturalità,  che ne fa ammettere la giustizia e la bontà, ma  è la loro, diretta o indiretta, desiderabilità. Onde  per questo rispetto nulla vieta che si concepiscano  possibili, almeno teoricamente, più Etiche diverse;  possibile, per esempio, (sebbene l’accoppiamento  esplicito dei termini ripugni) un’Etica dell’ingiustizia, quando si assuma come postulato la prefe-  ribilità di una comunione sociale in cui una parte  non abbia che diritti e un’altra non abbia che doveri. Benché allora 1’etica si sdoppierebbe in due etiche diverse, anzi opposte: l’etica degli uomini-fini e l’etica degli uomini-mezzi; o, per usare le  parole del Nietzsche, la ,orale dei padroni e la  morale degli schiavi; e la medesima condotta sarebbe, seguita dagli uni, giusta, seguita dagli altri,  ingiusta. Che una giustizia di questo genere ripugni alla psiche del socius per una ragione analoga a quella per la quale ripugna alla psiche dell’ uomo  logico ammettere che un rapporto tra due cose o  fatti, sia vero per gli uni, e falso per gli altri, è  credibile; (sul presupposto di quella ripugnanza,  si fonda, io credo, la giustificazione etica della  coazione e delle sanzioni). E certamente rimane  aperto qui un campo ulteriore di indagini intorno  ai problemi che riguardano il come e il perchè il  postulato che assumiamo possa e debba essere accettato ; e se alla esigenza che esso esprime si  possa o si debba assegnare un ufficio, e quale,  nella interpretazionetotale del mondo, dell’ uomo  e della storia. Ma da queste indagini, le quali sono  di natura metafisica, la costruzione scientifica dell’Etica, come qui fu abbozzata, può e deve tenersi  indipendente, per una ragione analoga a quella per  la quale l’igiene è e si mantiene indipendente da  ogni questione intorno al fondamento e al valore  del postulato assunto da lei, e dal quale deriva il  valore normativo dei suoi precetti: che un organismo sano sia preferibile a un organismo malato. Perciò, finché si rimane nel campo della ricerca scientifica, la sincerità richiede che, anche  nell’etica, malgrado ogni interiore certezza, questa  condizionalità del valore delle norme sia esplicitamente riconosciuta, e che anche nei termini si eviti 1’equivoco, e fin dalle parole sia bandita ogni  pretensione a un valore che non sia condizionato  al presupposto assunto. Per questa ragione, oltreché per fissare rispetto  alla dottrina di Spencer le differenze notate nel  modo di intendere il fine, e di concepire la società  giusta e 1’uomo giusto, e la priorità non soltanto  logica ma giustificativa di un’etica rispetto all’altra,  LUa p«A* è conveniente, sostituire ai termini Etica Asso-  ‘fvulfyh luta ed Etica Relat iva » i termini « Etica P ura    V'.',:r , ì ' pvi n l iuta i v a » i ieri mmi «   e~=r . 1 ", della giustizia ed etica applicata della giustizia. (^ 3 ;  n*fac- E se tosso poi, c'Sfne~r _ l n effetto, necessario od  'GlfiULiffil opportuno determinare quali dovrebbero essere le  norme di condotta nell’ ipotesi che, osservate preliminarmente le condizioni della giustizia, fosse assunto come fine l’adempimento delle condizioni  richieste dalla universale solidarietà, si avrebbero due ulteriori sezioni dell’Etica: l’etica pura della simpatia e l’etica Applicata della SIMPATIA. A leggere questo titolo, quelli che VARISCO chiama felicemente i filosofi dell’ oramai e  quegli altri che si potrebbero chiamare i girasoli  della filosofia (i due tipi coincidono in parte, ma  non in tutto) c’è da scommettere che sorrideranno. Non è oramai pacifico che di una scienza  della morale non si può parlare? E vale la pena  di perdere il tempo attorno a un problema oltre-passato? Io mi rassegnerò a lasciarli sorridere;  ma non son persuaso dell’oramai, e trovo che il  problema è tutt’ altro che superato. La quale persuasione per altro non garantisce nulla, pur troppo,  rispetto all’ altra faccenda del perder tempo; perchè il tempo si può perdere, e far perdere, come  sappiamo benissimo tutti, anche trattando di argomenti non oltrepassati. Dico dunque che il problema, almeno nel modo nel quale credo che debba essere posto e ho cercato di porlo, è più vivo che mai e di interesse  capitale così per l’Etica come per la Filosofia del  diritto. E chiedo scusa fin da ora al lettore se dovrò, richiamandomi a cose già dette, parlare, più  spesso che le buone regole non consiglino, in prima  persona.  Quando sostengo la possibilità e la legittimità di una scienza normativa morale, non intendo che una tale scienza  possa o debba sostituire la metafisica, e bandirla proprio da quel  campo che è il vero vivaio dei problemi metafisici,  il campo delle idee e dei sentimenti morali. E nemmeno che possa pretendere di costruire la morale, l’unica vera morale erigendo a norme della condotta certe leggi naturali cosmiche, o biologiche  o psichiche o sociologiche o storiche, alle quali si  presuma di dare valore imperativo. La tesi che ho  sostenuto e sostengo è diversa. Una scienza normativa etica, non può, al pari di qualsivoglia scienza precettiva, consistere in altro che in u n sistema di relazioni e di legg i, le quali hanno valore di norme da  seguire nell’ ipotesi che sia assunto come fine quel-  F effet to o quell'ordine di effetti, del quale esse  ’-ggi esprimono le condizioni e i fattori. Ma dibosco dalle altre, perchè s uppone che al fine suo  [MJLjcTalfA   Ò)lCJUjLt> 'ittl, del quale esse ’Sl'Kp tkf  si a rico n osc iuto un valore di universale pref eribilità e precedenza sopra ogni altro fine. Perciò una determinazione scientifica di norme etiche richiede due condizioni. Che il fine sia umanamente possibile; cioò tale che se ne possa  stabilire la dipendenza condizionale da una certa  forma di condotta collettiva e individuale. Di qui  dipende il carattere scientifico della costruzione ;  perché la relazione che lega le norme con quel  fine potrà essere lunga, complicata e difficile, ma  non richiede ad essere conosciuta altri mezzi che  quelli di una indagine scientifica.   Che sia ammesso come postulato che il riconoscere al fine assunto valore di universale preferibilità e precedenza rispetto a qualsivoglia altro fine umanamente possibile, è un 'esigenza morale. É ovvio di per sè che se si ricusa di ammettere  questo postulato o se ne nega la legittimità, la determinazione delle norme di condotta richieste dal fine contemplato non perde nulla del suo carattere  scientifico; ma le norme non hanno valore morale. Ossia, il valore morale delle norme così ricavate  ò relativo alla accettazione del postulato; e la derivazione scentifica di un sistema di norme dal  fine in discorso non ò, a rigor di termini, la scienza  della condotta morale; ma la scienza di una certa  condotta; la quale è la condotta morale, se si ammette e in quanto si ammette quel postulato. Ma è altrettanto ovvio che non avrebbe senso, o sarebbe al tutto arbitrario e fuori di proposito,  l’attribuire in ipotesi al fine un valore che nessuno fosse disposto a riconoscergli, e assumere come Ua   esigenza morale una esigenza che non trovasse nella / r f>' r \ c < ’• '   a • fi «.e  realtà nessuna corrispondenza. Ed è perciò che ho cercato di porre in chiaro in primo luogo quale  fosse l’esigenza caratteristica del valore morale di  una norma; poi, se si potesse assegnare un fine  umano, e quale potesse essere, che rispondesse a  queste condizioni. Non è il caso di ripetere il già detto; qui  ne ricordo soltanto le conclusioni: che l ’esigenza che assum o, e, credo aver dimostrato, legittimamente, come caratteristica di una norma morale ò quella di una universale giustizia; e che il  fine che soddisfa a questa esigenza non può essere  che una forma di società umana tale, che tutti i  sodi trovino nelle sue stesse condizioni di esistenza  la medesima o equivalente possibilità esteriore di  rivolgere la loro attività alla ricerca di qualsivoglia dei BENI AI QUALI LA CONVIVENZA E CO-OPERAZIONE SOCIALE E MEZZO. Supponendo dunque ammesso  il postulato sopra detto, non ho fatto e non faccio  una ipotesi arbitraria; poiché l’esigenza della giustizia, alla quale il postulato fa appello, è la più  profonda e più tenace e più incoercibile dell’uomo in quanto è socius, cioè in quanto è soggetto di  moralità e considera se stesso, ed è considerato, come persona a pari titolo di ogni altro socio. Mi riferisco, qui e nel corso di questo scritto, a quello clie  che lo precede nel presente volume, e a un altro studio: Prolegomeni a una morale indipendente dalla metafisica, Pavia, Bizzoni. Tuttavia per quanto possa parere ed essere legittimo prendere per concesso qu esto postulato, non  bisogna dimenticare, ma anzi importa rilevare chiaramente , che il fine e le norme corrispondenti  hanno quel valore che si attribuisce a loro, soltanto  nell’ ipotesi che lo si accetti come valido e fuori di  contestazione.   Se non 6 ammesso, ò vano pretendere clic la  costruzione normativa valga a farlo accettare o  possa obbligare ad accettarlo. Essa non può che  mostrare la coerenza delle norme proposte col fine  assunto, e di questo colla esigenza della giustizia;  e mostrare con ciò che non si può ragionevolmente  ammettere questa esigenza senza ammettere il valore di universale priorità attribuito al fine, e  quindi alle norme. Ma che l’esigenza invocata sia  ammessa in realtà, o sentita come tale, ò un dato  di fatto che la costruzione normativa trova, se c’è;  ma che non pone essa, ne per sò vale a mutare. Adunque la scienza normativa morale così  intesa si riduce alla determinazione delle norme di  condotta valide per una coscienza che anteponga a  ogni altra esigenza l’esigenza della universale giustizia. Se in ipotesi volesse determinare le norme  di condotta per una coscienza per la quale valga  come suprema l’esigenza egoistica, le norme risulterebbero diverse. Ma il procedimento sarebbe il medesimo; la deduzione sarebbe, o si può concepire  che potrebbe essere, ugualmente ragionata e scientifica. E del pari se si assumesse come regolatrice  l’esigenza dell’abnegazione o della rinuncia incondizionata di sò agli altri, o qualsivoglia altra esigenza e un fine possibile corrispondente. Di qui si vede quanto sia superficiale c vuota  di significato l’opinione tante volte ripetuta, e che  forma quasi il leitmotiv di un’ opera che ha latto  gran rumore, che la ragione non ci comanda che  l’egoismo. La ragione per sè non comanda nulla. NE L’EGOISMO NE L’ALTRUISMO -- nè la giustizia. La  ragione cerca, e mostra, se le riesce, i mezzi che  servono a conservar la vita a chi la vuol conservare, a distruggerla a chi la vuol distruggere; addita ai pietosi le vie della pietà, ai giusti le vie  della giustizia, e le vie del proprio tornaconto agli  uomini senza scrupoli. Ma l’egoismo non 6 per sè  più razionale dell’altruismo, nè il regresso più  razionale del progresso, nè la conservazione dell’individuo più razionale di quella della specie, nè  1’ utile proprio più razionale che 1’ utile della collettività.  RAZIONALI NON SONO I FINI, MA LE RELAZIONI DEI MEZZI AI FINI. Ed è così ragionevole che dia la  -- Dire che la ragione non consiglia che l’egoismo equivale a  dire che una condotta non egoistica non si può RAGIONEVOLMENTE GIUSTIFICARE. Ossia viene a dire una di queste due cose : 0 che di  un fine non egoistico non si possono assegnare mezzi possibili, e vita per un’idea chi pregia più l’idea che la vita,  come che taccia la verità per un ciondolo chi ama  più i ciondoli che la verità. Ma forse dicendo così si è ancora giusti verso la ragione. Perchè se ciò che si chiama uso della  ragione può avere, come non dubito che abbia, una  efficacia indiretta nella valutazione dei fini, non è  dubbio che questa efficacia si esercita in favore di  quei fini e di quelle norme che rispondono alla   quindi non si può determinare quale sia la condotta atta a raggiungerlo; cioè che si tratta di un fine fuori di ogni efficienza  umana. E in questo caso non ci sarebbe senso a proporlo come fine  dell’operare nè in nome della ragione nè in nome di qualsivoglia  altra cosa, dal momento che qualsiasi condotta sarebbe rispetto ad  esso indifferente. Oppure che un fine non egoistico non è mai fine  per sfi, ma ha bisogno di essere giustificato da un fine egoistico al  quale sia mezzo o condizione. Ma il valore per sè di questo fine  egoistico ultimo, al quale si riporta la giustificazione, non può essere alla sua volta giustificato, ma deve essere un dato di fatto  reale o supposto; il quale dunque, appunto per ciò, è fuori di ogni  ragionamento. E il vero senso dell’ affermazione in discorso è allora non che la ragione consiglia l’egoismo; ma che gli uomini sono tutti e sempre e inevitabilmente egoisti (poiché i fini ai  quali soltanto riconoscono valore per sè sono fini egoistici); e quindi, finché sono e rimangono egoisti, non possono trovar ragionevole altra  condotta all’ infuori di quella suggerita dall’egoismo. Sapevhm-  celo ; ma non vuol dire che l’essere egoisti sia più ragionevole die  il non essere. D’altra parte, posto che gli uomini fossero inevitabilmente egoisti,  anche il precetto o il consiglio di non seguire la ragione, dovrebbe, per  avere valore pratico, fare appello in ultima istanza a in fine egoistico, nè più nè meno di quel che farebbero nello stessè caso i consigli della ragione. Con questo bel risultato : che gli uomini rinuncino ad essere ragionevoli per continuare ad essere egoisti. tendenza caratteristica dell’attività razionale: l’universalità. Ora nel campo dell’attività pratica il  fine del quale soltanto si può concepire universale il raggiungimento, e la norma, della quale soltanto  si può concepire universale l’osservanza, sono un  fine e una norma conformi all’esigenza della giustizia. Ma, tornando al nostro argomento, anche il riconoscere che il fino e le norme determinate in  conformità al postulato hanno, e possono avere essi  solamente, la nota razionale dell’universalità, non  ne toglie il carattere necessariamente e insuperabilmente ipotetico; perchè se il loro valore si fa  dipendere da questa loro universalità, si prende  per concesso che l’universalità sia assunta come  criterio di valutazione; ossia che dell’esigenza ra- [Son trovo che si sia dato il peso dovuto alla considerazione  che non solo l’egoismo, ma neppure l’altruismo può fornire una  regola di condotta, che si possa concepire nei rapporti tra gli uomini universalmente e costantemente osservata, senza contraddizione,  o senza che sia necessario supporla subordinata alla sua volta a  una norma di giustizia. Perchè sia possibile l’abnegazione e la rinuncia incondizionata di sè agli altri, bisogna che gli uni si sacrifichino, e gli altri o qualche altro accettino il sacrifizio; cioè  che gli uni seguano la massima dell’ altruismo, e gli altri o qualche altro quella dell’egoismo. Se poi si ammette che nessuno debba  poter sacrificarsi piu di un altro, (oltreché il sacrifizio si riduce a un  tacito SCAMBIO DI SERVIGI RECIPROCI), bisogna che la condotta altruistica di ciascuno non impedisca o limiti una pari condotta altruistica degli altri ; cioè bisogna che 1’ altruismo alla sua volta sia  governato da una norma di giustizia.  zionalc e teoretica dell' universalità la coscienza  faccia una stima pratica, attribuendole un valore  e un’ autorità superiore ad ogni altra esigenza. Concludendo: la scienza normativa etica, alla  quale mi riferisco, è la scienza della condotta richiesta da un fine conforme all’ esigenza detta. Se  si riconosce come caratteristica del valor morale  di un fine e delle norme che ne dipendono una  esigenza diversa, o se si pone come congruo ad  essa un fine incongruo, o si assumono come condizioni conformi all’esigenza di una universale giustizia delle condizioni clic negano o limitano questa  universalità, le norme riconosciute e accettate come  morali saranno diverse. Ma non concluderebbe nulla contro la tesi  che difendo l’opporre che le norme o alcune delle  norme in effetto tenute o seguite come morali sono  diverse o contrarie a quelle proposte e ricavate in  conformità al postulato assunto. Perchè qui non si  tratta già di esporre (piali sono le norme accettate,  o di farne l’apologia ; nè di cercare che cosa bisogna ammettere per accettarle; ma di determinare  quali sarebbero le norme della condotta morale nell’ipotesi che si accetti il postulato. Insomma si fa un’ ipotesi e si cerca che cosa  ne segua. Ma per negare valore scientifico a una tale costruzione ipotetica bisogna negare la dipendenza condizionale del fine assunto da una certa condotta  collettiva e individuale; e per negarle valore morale, bisogna negare il valore morale dell’esigenza, o ammettere che essa è o dove essere subordinata a un’esigenza diversa. Finché non si giustifica nè l’una nè l’altra negazione, il dichiarare oltrepassato il problema vale poco; e il sorridere vale anche meno. Perchè esponendo questo concetto io non mi  sono dissimulato le difficoltà e le obbiezioni possibili; sopratutto quelle che fanno capo alla affermazione comune della impossibilità di una determinazione di norme morali che non si fondi sopra  una dottrina metafisica. Questa questione anzi ho  esaminato di proposito, e le conclusioni di quell’analisi non furono confutate. Avrei dunque, « in tesi  di diritto » ragione di ritenere spostato l’obbligo  della prova. Ma nel fatto, come tutti sanno, ò sempre chi  dissente dalle opinioni stabilite che ha torto; e  deve rassegnarsi a battere e ribattere per tutti i  versi lo stesso chiodo. E prima di tutto occorre qualche parola  su quella che si potrebbe chiamare la tesi scettica, [Che essa possa e debba aver valore anche dal punto di vista  del diritto è cosa evidente; ma come c quanto non sono questioni da risolvere cosi di sfuggita. della impossibilità di una qualsiasi determinazione  di norme morali.  Il fatto etico è contingente, multiforme e variabile in ogni circostanza, e sfugge ad ogni tentativo di determinazione razionale. Oltredichè esso dipende dal sentimento e dalla volontà e non dalla  conoscenza, e non si può ricavare da un processo  di deduzione logica. Questa tesi ha il grave torto di confondere la  morale colla moralità; confusione sulla quale dovrò  tornare anche più innanzi.  Il fatto etico e variabile. Certamente. E il  fatto giuridico, che ò una specie dell’ etico, non ò  esso pure variabile? E forse perciò non si stabiliscono nonne giuridiche determinate e precise, e  non si considera questa determinazione come un’esigenza della vita sociale, e non si misura dalla  sua precisione e coerenza il progresso della vita e  della coscienza giuridica? E non è un luogo comune  la lode fatta a ROMA di MAESTRA DEL DIRITTO? Non  si venga a dire che il fatto giuridico riguarda solo  la non, come la morale, anche e sopra tutto la interna ; qui si fa  questione, anche per la morale, appunto, della condotta ester na, nella quale la moralità interiore deve  pur tradursi; ed è assurdo dire, per esempio, che  non ha senso il precetto non frodare, e vano  cercar di determinare in che la frode consista, perché la frode è, forse più che qualunque altra cosa  al mondo, contingente multiforme e variabile.  È pur fuori di dubbio che l’operare in un modo  piuttosto che in un altro, dipende dal sentimento  e dall a volontà, e non dalla co noscenza del precetto; e che non si può dedurre da nessuna combinazione di premesse l’azione. Nessun congegno  di premesse, nessun processo logico, nessun sistema  di conoscenze pone in essere la benché minima cosa; .A}* VcttmaJ. ’l| conseguenza di un ragionamento ò sempre fin   giudizio, non un’azione; nella morale come in qualunque altro campo; l’azione., potrà.. o non potrà  seguire, secondo che le disposizioni sentimentali c.  volitiv e sono tali o tali altre; potrà anche seguire  senza che ci sia il giudizio. Verissimo e giustissimo. Ma non conclude nulla al proposito. Perché qui è  questione non di fare, ma di sapere quel che convenga fare, chi si proponga e ammesso che si proponga un certo fine. Ora lo stabil ire queste relazioni tra un certo fine e certe operazioni necessarie  a raggiungerla é ufficio della conoscenza, non della  volontà ; e io spero che nessun voluntarista vorrà  sostenere che è indifferen te a chi vuol andare, poniamo, a Canossa, conoscere quale sia la strada  per arrivarvi. E il dire che non è la conoscenza  nè di un certo effetto, nè dei mezzi, ciò che fa volere l’effetto e volere i mezzi, non toglie nulla all’ufficio specifico della conoscenza; anzi, e appunto perciò, lo determina. E rimproverare a un sistema  di norme di essere per sè inefficace a muovere l’azione non ha senso ; come non avrebbe senso pretendere che una formula chimica produca essa il composto del quale indica la combinazione. L’ ufficio delle norme morali, come di ogni altro sistema  di norme qualesivoglia, non può essere che un ufficio informativo, non formativo ; di guida, non di  stimolo, di indicatore, non di propulsore. E quelli  che adducono, per mostr are l a inanità di una costruzione norma tiva, l a dipendenza dell’ azione dal  se ntimento e dalla volontà , non si accorgono di  confondere essi il conoscere coll’operare, cioè, come'  s’è detto, la ni qrfllo nnIlp mo ralità, la determinazione_delle norm e colla c onformità alle norm e. Senonchò si può soggiungere che la determinazione in questo campo non serve, perchè la conoscenza delle norme si sprigiona volta per volta  come da sè fuor dalle circostanze, per un intuito  naturale che è più fine e delicato di qualunque deduzione scientifica. E così viene in campo, accanto  alla tesi dell’ impossibilità, quella dell’ inutilità: l a cos cienza morale rende inutile la dottrina morale. Lasciamo per ora la difficoltà capitale che nasce   dal fatto stesso da cui è nata la riflessione critica  della morale: il fatto della diversità di contenuto  nelle coscienze morali diverse; e poniamo — senza concedere — che 1’intuito basti per tutti e sempre  a segnare caso per caso la via. Non ne seguirebbe  ancora l’inutilità di una ricerca che si proponesse  la determi nazione sistema tica del fine a cui .intuiti vamente tend e e delle norme che intuitivamente  segue la coscienza morale. Come la guida istintiva dei bisogni (^feUe^enTazioni non basta a rendere  inutile l’igiene; o come non basta a condannare  la conoscenza fisiologica, per esempio, della digestione, il fatto che digeriscono bene, anzi di solito  digeriscono meglio, quelli che non sanno di quelli  che sanno come la digestione avvenga. E veniamo alle obbiezioni che toccano direttamente la nostra tesi. In primo luogo si può osservare che la  p retesa scienza della mora le, nell’ atto stesso che  dichiara di voler tenersi estranea a qualunque affermazione di carattere metafisico, presuppone una  certa soluzione di un problema essenzialmente metafisico. Perchè, assumendo come fine morale un  ordine di effetti umanamente possibile, pone come  risoluto il problema se il fine supremo possa o  debba essere umano o sovrumano, relativo o assoluto; risolve cioè, sia pure negativamente, un problema metafisico. Cerchiamo di intenderci. Si supporrebbe risoluto il problema, se assumendo un fine (diciamo per brevità) umano, si ponesse questo fine come ultimo  assolutamente, come definitivamente supremo; cioè  se gli si assegnasse un valore assoluto ; e si negasse la possibilità di una ulteriore valutazione del  fine stesso; di una sopravalutazw We^Tciafisica, per  la quale sia creduto mezzo alla sua volta, o condizione o preparazione di un fine sopraumano. Ma  questa possibilità 1’ipotesi non la esclude. Si dirà che in tal caso il fine umano non è più  il vero fine; e che perciò le norme debbono essere ricavate da quello a cui si dà davvero valore di  fine ultimo, valore assolutamente, non relativamente,  supremo; e che questa necessità riporta il problema  della determinazione delle norme in piena metafìsica. Ma è questo che io nego ; e dichiaro di non  capire come da un fine assoluto si possano ricavare  delle norme per la condotta in condizioni finite, da  un al di là le norme per un al di qua; e dubito  che quelli i quali dichiarassero di capire, equivochino sui termini. Perchè non si potrà mai dimostrare un legame di condizionalità tra un certo  modo di operare o un fine sopra naturale; essendo  il proprio e caratteristico del sopranaturale c del  sopraumano di esser fuori dalla efficienza naturale  e umana. Se si considera il fine sovraumano come  un effetto che può essere condizionato da mezzi puramente umani esso cessa di essere sovraumano (Urmson, Saints and heroes). Ma se invece rimane tale, cioè trascende la efficienza umana, si potrà bensì credere ed affermare  che a raggiungerlo si richiede una certa condotta,  ma non si può assegnare una relazione di condizione tra la condotta ed il fine, cioè non si può  ricavare dal fine la norma. La riprova si ha nel  fatto, evidente ad ogni osservatore non del tutto  superficiale, che, anche nei sistemi di morale teologica o metafisica, quando si tratta di determinare  le norme che debbono regolare la condotta nelle  relazioni della vita comune, famigliare e sociale,  non è più il fine assoluto quello da cui si deducono  le norme, ma un fine umano, sia prossimo, sia remoto; un certo ordine e un certo tipo di vita individuale e sociale. Le norme dedotte da questo fine subordinato si  presentano bensì come derivate aneli’esse dal fine  assoluto, perchè si assume quello come posto o voluto o necessitato da questo ; ma in che modo dal  fine assoluto si ricavi il fine relativo, come e perchè, per raggiungere o approssimarsi a quel fine  sopraumano, sia necessario tendere a questo fine  umano, non si dimostra nè si può dimostrare. E  quando par che si dimostri, gli è che si è assunto  tacitamente e come incorporato in modo surrettizio  nel fine assoluto il fine relativo, che poi se ne  deriva ; cioè in ultima analisi non si è fatto altroche porre o assegnare un valore sopraumano al  fine umano; ossia si è fatta (fucila che ho chiamata una sopravalutazione metafisica di quel certo  fine umano dal quale in realtà sono ricavate le  norme. Non è dunque vero che assumendo un fine  umano si risolva, o si postuli una certa risoluzione  di un problema metafisico. Non si la che ubbidire  a una esigenza, la quale sussiste sia che si risolva  positivamente, sia che si risolva negativamente il  problema intorno alla natura del fine assolutamente  ultimo o supremo; un’esigenza logica alla quale  non si può sfuggire: che un sistema di norme di  condotta individuale e sociale non si può stabilire  se non in relazione a un certo fine, esplicitamente  o implicitamente assunto, che dipenda condizionalmente dalla condotta, cioè che sia umanamente  possibile. Ma non è un’altra esigenza, un’ esigenza  propriamente morale, che il fine abbia un valore  assoluto e non soltanto relativo? Non discuto se sia o non sia; perchè si tratta  in ultimo di constatare un fatto di coscienza, e per  la constatazione di un fatto la discussione non approda. Poniamo che sia. Forsechè le dottrine che  pon gono un fine assoluto fanno qualcluTco^ ~~di  meglio che postulare la possibilità di quel fi ne e  postularne il valore ? Cioè supporre che quella possiljilità e questo valore siano dati nelle intuizioni  o nelle credenze, dalle quali li prendono, per dir  cosi, a prestito, e sulle quali fanno assegnamento? E se è cosi, e non può essere altrimenti, se la credenza nel fine e il riconoscimento del suo valore  assoluto, e la derivazione da esso del (ine o dei  fini relativi della vita finita, non possono essere  dati o fondati dalla dottrina, ma soltanto assunti  o affermati, è facile vedere che la dottrina vale  per la coscienza clic la sente e, direi, la vive già,  e che accetta l’affermazione perchè la trova corrispondere a ciò che è già dato in lei stessa; ma non  vale essa, la dottrina, a far accettare queste sue  affermazioni a una coscienza che intuisca e senta  c creda diversamente. La costruzione dottrinale  metafisica non riesce dunque clic a fare appello a  un a intuizione o a una v alufazio ne di cui ammette  o suppone 1’ esistenza, ma n on a farla sorgere dove  manca ; e quindi, di fronte a una coscienza diversa  da quella che essa suppone, si trova nella stessa  condizione della costruzione non metafisica. Cioè  vien meno alla ragione per la quale il valore assoluto del fine è richiesto. Questa ragione, se il valore assoluto del fine  non è già assunto come una constatazione di fatto,  consiste nella pretesa illusoria che la dottrina possa  e debba assicurare per questo modo alle norme  una validità universalmente riconosciuta; e nasce da una preoccupazione pratica analoga a quella  dalla quale è ispirata l'altra pretesa che l’etica  dia alle norme autorità imperativa. Ed eccoci all’argomento capitale: 1’esiggenza del carattere imperativo della norma. Ho  già ripetutamente segnalato l’equivoco sul quale  si fonda la pretesa esigenza dell’obligatorietà della  norma morale. È in fondo il medesimo già notato  più sopra a proposito della istanza sulla inefficacia  della conoscenza a determinare l’azione; l’equivoco  di con fondere la morale colla moralità, la norma  col la conformità alla norma: e quindi di pretendere da una dottrina quello che nessuna dottrina  nè metafisica nè non metafisica può dare: la garanzia dell’osservanza, cioè 1’efficacia esecutiva. Il  linguaggio favorisce anche qui il persistere dell’errore; e l’uso di definire l’etica la scienza o la  dottrina dei doveri, contribuisce a ribadire il preconcetto. nato dalla preoccupazione pratica, che  compito di una dottrina morale possa o debba essere quello di costruire o fondare delle norme obligatorie. Mentre l’etica, dico qualunque dottrina  etica, non può fare altro che dedurre, o indurre,  o comporre a sistema, delle norme o ilei precetti,  i quali hanno valore di doveri, se e in quanto la  coscienza concepisce, o meglio sente e vuole , come  dovere, l’osservanza dei precetti stessi, o la prosecuzione del fine (o dei fini) dal (piale quei precetti    Yi (yivuni   l&u vuxnrib I  nei  — sono derivati. E se anche tutte le coscienze universalmente, in ogni tempo e luogo, concordassero  nel sentire come obbligatoria 1’ osservanza di una  certa norma, non per questo si potrebbe dire che  l’imperativo è un carattere della norma ; l'imperativo sarebbe sempre anche in questo caso un carattere del motivo che spinge all’ osservanza della  norma; un dato della coscienza che la abbraccia, che la riveste e la investe di questo motivo, clic  la sente così. Quale sia la preoccupazione pratica da cui nasce  e si alimenta il preconcetto, e. quale, sia il processo  per cui si viene ad assegnare alla costruzione normativa un compito al quale essa non può soddisfare  in nessun modo, ho pure già cercato di mostrare  altrove, e non serve di ripetere. Piuttosto non mi  par privo di interesse mettere in chiaro con 1’analisi come i modi, nei quali può essere interpretato e tentato il proposito di fondare una norma  obbligatoria si riducano a postulare l’esistenza  dell’obbligo, quando non riescono a una forma più  o meno larvata di IMPERATIVO IPOTETICO. E come poi, per il verso opposto, assumendo l’imperativo  categorico per dato o postulato, non se ne possa  ricavare la determinazione delle norme; ma si richieda perciò l’assunzione espressa o sottintesa di  un fine, o di un criterio di valutazione e derivazione, estraneo e indipendente da quello. Il compito di assegnare una norma che  abbia autorità obbligatoria può essere, e lu in effetto, inteso in più significati diversi; i quali si  possono ridurre ai quattro tipi seguenti. Dimostrare che la norma proposta corrisponde a un sentimento, a un motivo, a una disposizione che si manifesta nella coscienza come obbligo. Allora il senso reale ò, non già che la  do ttrina dia essa autorità o bbligatoria alle su e  norme; bensì questo: che essa riduca, traduca o  formuli in norme i modi di condotta ai quali la  coscienz a si sente obbligata. Ma così la categoricità  del precetto è constatata e assunta, non posta, nè  fondata dalla dottrina; e la norma obbliga solo se  •ed in quanto i suoi comandi ripetono i comandi  della coscienza; il suo tono imperativo è un’eco,  e vien meno se tace la voce della quale assume il  tono. Presentare le norme come ordini di un  Potere (qualunque ne sia la natura) irresistibile,  che costringe volenti e nolenti a seguirlo. Intesa così l’autorità non viene nò dalla natura delle  norme, nò da quella del fine a cui sono ordinate,  ma da quel Potere del quale l’Etica fa, per dir  così, la presentazione; anzi il suo ufficio si riduce in realtà a quello di interprete ed araldo di quel  Potere ; che essa non pone, ma a cui là appello, e  che suppone sia riconosciuto dalle coscienze alle  quali parla in nome suo. Ad ogni modo l’espressione analizzata, se si  usa ad indicar questo ullìcio, è del tutto abus iva;  l’espressione esatta ò questa: compito dell’Etica ò  di determinare quale sia la legge imposta da quel  potere indis cutibile e irresist ibile, di cui si ammette o si riconosce l’esistenza. Dimostrare che ciò che la norma prescrive  dovrebbe esser voluto dall’ uomo, sopra ogni altra  cosa : cioè sarebbe voluto in effetto, se, invece di  essere come ò, 1’uomo fosse diverso; seguisse la  sua vera natura, fosse giusto, o perfetto, o realizzasse un certo tipo ideale. Ma è chiaro che in questo senso non si là che  o determinare il fine in l'unzione di un certo tipo  ideale, o il tipo in funzione del line; ossia, in altre parole, determinare la relazione che sussiste  tra una certa natura e una certa condotta. La qual  relazione per necessaria che sia, non si vede come  [tossa far nascere la coscienza d’ un obbligo. Se si  pensa di fondare in tal modo 1’obbligatorietà, manifestamente si suppone ebe il conformarsi a un  certo tipo, il realizzare un certo ideale sia già  sentito come obbligo; e si rientra, quanto al fondamento di questo, nel primo dei casi enumerati.  Se poi si intendesse dire che chi vuoi essere uomo  davvero, giusto, o perfetto, deve proporsi un certo  fine o seguire una certa condotta, si avrebbe non  piii un imperativo categorico, ma un IMPERATIVO IPOTETICO (GRICE, CONCEPTION OF VALUE). Dimostrare che ciò che la norma prescrive,  dece essere voluto universalmenta e incondizionatamente. Questo ò manifestamente il significato  che pare più proprio, e nel quale intesero e intendono l’esigenza i moralisti i quali credono di poter ricavare l’obbligo dalla natura del fine che  assumono come ideale etico. Ma l’intendere la tesi  così, implica che si ammetta la possibilità di una  di queste due vie o derivare l’obbligatorietà  dal valore riconosciuto al fine, assumendo questo  riconoscimento come dato o postulato; o derivare dalla natura del fine l’ obbligo di riconoscere  al fine stesso un tal valore. E l’una e l’altra di  queste due tesi deve essere considerata distintamente e un po’ più a lungo. Posto pure che al fine assunto fosse  riconosciuto in realtà universalmente valore di  sommo bene, non ne seguirebbe in nessun modo  che il sentirlo e riconoscerlo come sommo bene  porti con se il sentirsi obbligati a volerlo e cercarlo. Questo riconoscimento non genera la coscienza dell’obbligo, bensì ne mostra la ragionevolezza, fa  che la coscienza approvi l’autori tà ob bligante; cioè  giustifica P obbligo, posto che ci sia. Ora una tale  giustificazione riesce a questa alternativa: o serve  a dimostrare che Insognerebbe ragionevolmente trovar buona e seguire la norma anche se non si sentisse l’obbligo, perchè la norma è ordinata a quel  certo fine che è riconosciuto come sommamente DESIDERABILE. E in questa forma la pretesa fondazione dell’ imperativo categorico si riduce alla formulazione di un imperativo ipotetico, che si sostituisce o si aggiunge al categorico. 0 riesce a un’argomentazione di questo genere : Siccome è bene  sommo il fine, è bene l’osservanza della norma; e  poiché si ammette o si suppone che la coscienza  d’un obbligo assoluto sia necessaria a garantire  questa osservanza, l’imperativo categorico appare  la condizione sine qua non, acquista valore di MEZZO  indispensabile al proseguimento del FINE. Nel primo modo si viene a dire che l’imperativo categorico è giustificato perchè è bene ciò che  esso comanda; nel secondo che è giustificato perchè è bene che esso comandi in quel tono. Ma nè  l’uno nè l’altro modo nè ambedue insieme riescono  a fondare l’obbligo assoluto; anzi appunto perchè   10 giustificano gli tolgono il carattere di categorico. Il che se nel primo caso è più evidente, non è meno  vero nel secondo. Infatti, posto pure che la categoricità dell’ imperativo sia condizione necessaria  all’osservanza della norma, non ne viene perciò  che l’obbligo sia categorico, ma soltanto che sarebbe bene che fosse, che è desiderabile che sia: ossia la pretesa derivazione che se ne fa, mostra la  necessità di una condizione, non la pone in atto  se manca; pone in chiaro un’esigenza, non la soddisfa. In secondo luogo la dimostrazione stessa di questa esigenza è contradditoria, perchè a convincere la necessità dell’obbligo categorico ne assegna  le ragioni; il che equivale ad ammettere che venendo meno queste ragioni verrebbe meno quella  necessità; ossia che l’obbligo dovrebbe valere come  categorico, finché è utile che valga; come chi dicesse un’ autorità che si fa valere incondizionatamente sotto certe condizioni. Adunque, se la c Qscienza d’un obbligo asso luto  manca, la derivazione che se ne pretenda fare da  un fine, qualunque sia il valore che gli si attribuisce, non può farla sorgere; se c’è, la giustificazione riesce ad assegnare le condizioni della sua  validità, cioè a togliergli il carattere di obbligo  incondizionato.  Il che può però aver un senso, se si guarda bene; ma in un  caso soltanto: nel caso che la coscienza la quale si rende ragione  delle condizioni che importano questa necessità o utilità dell’ imperativo categorico, e la coscienza nella quale 1’imperativo vale  come categorico, siano due coscienze diverse; ossia nel caso che una coscienza riconosca la necessità che 1’imperativo valga incondizionatamente per un’altra coscienza. Che è un senso assai meno strano di quel che possa parere a  prima vista. Oppure finalmente si intende che apprendere ciò clic è posto come line equivalga per  ciascuno a dover riconoscerlo come tale; che non  si possa conoscere la natura del line senza sentirsi  obbligati a riconoscergli valore di bene supremo ;  cioè che la conoscenza generi la coscienza d’un  obbligo. Questa che è in sostanza la tesi difesa, tra gli altri, con grande vigore dal nostro SERBATI, è veramente l’interpretazione tipica, più  audace e radicale, del pensiero di derivare l’obbligo  dal fine, o di dare all’obbligo un fondamento oggettivo nella natura stessa di quello. Ma senza dilungarmi su questo tema in una  critica troppo nota è inevitabile questa alternativa. O il dover riconoscere esprime una necessità puramente logica, e non può dare quello a  cui è invocata, cioè nè il valore né l’obbligo di  riconoscere il valore; o vuol esprimere una necessità diversa, e si riduce a un paralogismo; perchè  pretende ricavare da una determinazione obbiettiva la constatazione di uno stato subiettivo, la  quale presuppone appunto resistenza di quella coscienza dell’obbligo, che crede di far nascere e  senza della quale la constatazione non è possibile.  E per tal modo si ricade ancora una volta nel primo  tipo di interpretazione; quando non si  voglia ammettere questa tesi : che è obbligo riconoscere quel fine come sommo bene e volerlo, così se lo si crede tale, come se non lo si crede; cioè  sia che la coscienza senta sia che non senta di  dover attribuirgli quel valore. Ossia non si ammetta la tesi dell’obbligo di credere anche senza  o contro l’attestazione della coscienza. Il che renderebbe inevitabile l’appello a una autorità esterna,  alla quale la coscienza si deve inchinare; e farebbe  della morale del bene oggettivo una morale dommatica, che rientra nel secondo tipo. Adunque l’analisi dei modi nei quali  può essere interpretato e tentato il compito di fondare una norma obbligatoria conduce a questa conclusione: o si intende che fondare una norma  obbligatoria » voglia dire derivare l’autorità della  norma dal valore del fine; e allora, come s’è visto,  c come avea notato chiarissimamente Kant, non  si può per questa via riuscire che a un imperativo ipotetico – cf. Grice, THE CONCEPTION OF VALUE -- ; o si intende che voglia dire assumere  come dato l’obbligo e determinare le norme in  conformità a questo dato. Nel primo caso 1’ esigenza in questione non è  soddisfatta. Nel secondo 1’ obbligazione è assunta,  non posta o dimostrata; ossia o esiste: e la sua  esistenza e validità sussiste all’ infuori della costruzione dottrinale, che la postula, ma non la fa  essere; o non esiste: e il fatto di assumerla come  esistente non la pone in essere, nè ne legittima  per sè l’assunzione. Per tal modo, se il difetto capitale di  una scienza normativa etica conforme al concetto  esposto sul suo ufficio e i suoi limiti, è quello di  non^ poter presentare le norme col carattere di imperativo categorico, questo difetto è comune, e non  potrebbe essere altrimenti, a qualsiasi costruz ione  dottrinale. die non si proponga di derivare le norme  da un imperativo categorico assunto come dato.   Ed allora resta da vedere se. prendendo l’imperativo categorico per dato o postulato, si possa ricavare da esso la determinazione delle norme; o  se non si debba ancora ricorrere all’ assunzione  espressa o sottintesa di un fine, o di un criterio di  valutazione e di derivazione, estraneo e indipendente da quello. CJie^ i 1 dato dell’ imperatività sia per sè in sufficiente alla d eterni i nazione .-dei le jparmc morali è  manifesto, qualora si intenda con esso assumere  null a più che la forma destinata a rivestire un contenuto qualsiasi ricavato d’altronde: nel qual caso è  pur manifesto che, appunto perciò, il dato dell’obbli-  gazione rimane estraneo alla costruzione dottrinale. Ma non è altrettanto evidente, quando si ammetta  che nel dato dell’ obbligazione è contenuta ad un  tempo la forma dell’ imperativo e la m ater ia del  precetto ; ossia che da questo dato si possa ricavare,   hjUifot vtA »pUóh UàwtiH o ad esso debba conformarsi e subordinarsi sia la  determinazione del fine sia il contenuto delle  norme. Senonchè, quando si prenda come dato non la  pura ferina soltanto ma un cer to contenuto, si è  inevitabilmente condotti, come l’analisi precedente  ha dimostrato, a fondare la morale .sull’autorità,  superiore ad ogni discussione, di una certa rivelazione, interna o esterna ; e ad assegnare all’ Etica  1’ufficio di espositrice e interprete di questa. Rilevando questa conseguenza io non intendo  affatto di darle il valore di una dimostrazione per  assurdo. La tesi nella forma a cui è ridotta ò tutt’altro che nuova e straordinaria; ed ha, in confronto dell’ affermazione generica e ambigua che la morale deve dare norme obbligatorie il  pregio di essere chiara e non equivoca. .Ma appunto  perciò essa fa apparire manifesta la difficoltà, a cui  si trova di fronte. Tanto se si intende che la rivelazione  da interpretare sia in|£g^ quanto se si intende  che sia esterna, si presenta la medesima difficoltà;  quella difficoltà, antica e notissima, dalla quale venne il primo stimolo alla riflessione e alla critica nel campo della morale: l a pluralità delle rivelazioni. Poiché i responsi della cosc ienza morale sono  s toricamente diversi e anch e-apposti, come sono divèrse e in parte op poste le rivelazioni religio se,  resta, o che si riconosca a tutte la medesima autorità, cosi co me i l tono imperativo è. il medesimo;  o che si scelga.  Quanto alle. religion i ò .troppo chiaro che nessun  criterio ricavato dalla rivelazione stessa può valere  a dimostrar l’autorità di una piuttosto che del1’altra, poiché t utte si danno come assolutament e  certe e indiscutib ili ; e le stesse prove sulle quali  una rilevazione attesta la sua autorità sono adoperate da ciascun’altra per asserire la propria, e  da tutte risuona sui precetti morali diversi il medesimo tono di comando. Si cerca il criterio della scelta nella natur a  del le cose co mandate o proibite, come avviene quando  si parla di m aggior sapienz a o el evatez za o n obiltà  de i prec etti morali di una religione rispetto a quelli  di un’altra? Allora è i ^contenuto dei precetti morali che viene assunto come criterio dell’autorità  della rivelazione. E il valore di questo contenuto, che è così usato  a provare la superiorità di una rivelazione sulle altre, si può dunque riconoscere indipendentemente  dal suo presentarsi sotto la forma di un comando  rivelato, dal momento che è esso invocato a provare l’autorità del comando. Ma allora I’ulhcio  dell’Etica lungi dall’essere quello di interprete e araldo di una rivelazione, 6 quell,o_di giudice _deHc % U- t ? ^   rivelazio ni. Il che importa a ben più forte ragione  che tanto il fine quanto le norme morali si suppone che possano e debbano essere conosciute c determinate a ll’ infuori di ogni snodale rivelazione. cioè all’infuori da ogni appello all’autorità. Ciò che vale per l’autorità di una rivelazione esterna, vale per quella di una rivelazione interna. Tra due coscienze, delle quali rispetto alla medesima azione una ponga come obbligo il fare e l’altra  il non fare, il criterio di valutazione comparativa  non può esser dato dal carattere imperativo, che  è comune ad ambedue, ma deve essere un altro.  Ed anche allora il criterio che serve alla valutazione comparativa sarebbe esso in realtà quello  da cui dipende cosi la determinazione come la giustificazione delle norme. Non resterebbe che riconoscere ja medesima autorità a tutte le rivelazioni. Il che importa  l’una e l’altra di queste conseguenze: o la assoluta indifferenza del contenuto per qualsiasi luogo  -“ e tempo; o la limitazione a determinate condizio ni  storiche dell’autorità e del valore di ciascuna. Se non si vuol accettare la prima, si presenta la domanda: Questa limitazione ha o non ha  Mi permetto di non fermarmi ad esaminare la tesi della assoluta indifferenza del contenuto. Sarebbe come sostenere nel campo  della terapeutica che ciò che importa nella ricetta è la firma della sua ragion di essere nelle condizioni storiche, dalla cui presenza è circoscritta la sua validità?  Se la limitazione non dipende da queste condizioni, ma essa pure non ha altra ragione di essere all’ infuori dell’ autorità o del carattere imperativo col quale hic et nunc si presenta, allora si  ammette che, astrazion l'atta da questo carattere  di obbligatorietà col quale una certa norma si presenta in quel certo tempo e luogo, non vi sarebbe  nessuna ragione di preferire nelle stesse circostanze  una norma ad un’altra, cioè si giunge per un altra via all’indifferenza del contenuto. Se poi questa limitazione ha la sua ragione di  essere nelle condizioni storiche stesse, entro le  quali è valida, cioè in una parola se ò relativa a  queste condizioni, allora si ammette che sono queste  condizioni il criterio della limitazione ed è la corrispondenza a queste condizioni storiche il criterio  della validità. Cioè si ammette che vi è qualche cosa  che dà alla norma il suo valore all’ infuori del1’ obbligazione e al disopra dell’autorità obbligante, medico, e le prescrizioni di qualunque genere si equivalgono 1’una l’altra. E forse è ancor meno manifestamente falso questo che  quello. Non sarà però inopportuno avvertire che ogni questione intorno  al merito dell’ agente rimane qui al tutto in disparte. (lT E lascio^ le difficoltà che nascono dalla necessità di ammettere un’altra rivelazione alla cui autorità si possa ricondurre la  limitazione in discorso. dal momento che esso serve anche a stabilire i  limiti entro i quali 1 autorità è riconosciuta come  valida. Cioò si viene a riconoscere ancora come 1’ obbligazione non possa essere un dato sufficiente alla  determinazione e valutazione delle norme, e come  per essa non solo non possa essere negata, ma  venga confermata la legittimità di una scienza normativa morale. Senoncliè a questo punto mi sento opporre un nome, un gran nome: Kant. Ma dunque  non esiste la morale kantiana ? Non ricava egli  dalla volontà buona, dal dovere, dall’osservanza  della l egge perda legge, la norma morale suprema,  nella notissima formula, nella quale, indipendentemente da ogni particolare rivelazione storica, c  sopra ogni speciale contenuto materiale, si raccoglie  tutto un sistema di norme razionali?   E se la sua morale è f m^gle. cessa perciò di  avere il suo valore, e sopratutto cessa di esistere, e, a fortiori, di essere possibile?  Certamente a nessuno può venire in mente di  negare la possibilità di un sistema che ò esistito  ed esiste, e a me, forse meno che ad altri, di negarne il valore. Così la grande costruzione razionale dei doveri  dell’ uomo di Kant, come la grande costruzione  razionale dei diritti dell’uomo che piglia nome dalla rivoluzione francese sono ben lungi dal melo  ri tare il facije compatimento col quale parlano di  astrazioni e di formalismo certi fonografi della sociologia.  Ma qui al proposito nostro importerebbe vedere  la costruzione razionale del Kant sia fondata sul  d ato dell’ obbligazione, co me pare, o non ni ut trist o  sulbesigenza dell' universalitaTche n KanT crede bensì trovare implicita nel concetto del dovere, ma v* /v T< ì»-^uAtv\  7 u-iC'  che è invec e caratteristica dell’ idea di  ' » senza la quale ci può essere Yobbligo, ma non Yap-   p robazione interiore dell’obbligo, che è propria della  ^ -y j coscienza del dovere. Perchè i l concetto iÌT"degg e che serve a Kant  per passare dal dato del dovere all’esigenza dell’universalità, non è un elemento contenuto nel dato  stesso e che possa esserne ricavato analiticamente,  ma (L una sintesi nella qual e insieme coll’obbligazione è già assunta l’esigenza dell’universalità che  la giustifica. Ed è questa esigenza dell’ universalit à, non il  dato dell’ obbligazione che fornisce al Kant il criterio supremo della morale. Ma a ben chiarire questo punto — come, anche  nella morale kantiana, l’imperatività non sia un  dato sufficiente alla determinazione delle norme, e  come in realtà venga assunto non solo un criterio   (1) Di questo argomento ho trattato di proposito altrove. Cfr.   Prolegomeni ecc. ( C* «M. ÀtydL* UO-rutL Kv non ricavato da quella, ma implicitamente anche  un certo contenuto — occorrerebbe un’analisi assai  meno sommaria; poiché non è questo un argomento  da sbrigarsi così alla lesta. Basti per ora non aver omesso 1’accenno. Il Fondamento Intrinseco del Diritto   secondo Vanni. Il volume dal titolo Lezioni di Filosofìa, la cui pubblicazione è curata con riverente pietà e con devota ammirazione dalla vedova  e da alcuni tra i più valenti discepoli poco dopo  la morte immatura di VANNI (si veda), è forse tra i saggi di Vanni quello in cui la sua dottrina appare più compiutamente ordinata a sistema, e nel  quale a un tempo si rivelano felicemente congiunte  le qualità dello scienziato e dell’insegnante; e veramente si può considerare come il testamento  scientifico del celebrato maestro. Certo, qualunque  giudizio porti sul fondamento e sulla validità intrinseca del sistema, nessuno può disconoscere la  larghezza e la profondità della coltura filosofica e  giuridica, e la chiarezza della trattazione; e sopratutto la sincerità e, direi, 1’ onestà scientifica che  ò propria di chi medita e scrive per amore disinteressato del vero. Vanni, Lezioni di Filosofia, BOLOGNA,  Zanichelli. La l'ilosofia del Diritto abbraccia, secondo il  tre ricerche : la ricerca critica ; la ricerca  sintetica o lcnomenologia giuridica; e la ricerca  deontologica. Nella prima egli comprende non soltanto la determinazione dell’oggetto, dei metodi e dei rapporti  della filosofia del diritto colle scienze affini, ma  anche una indagine preliminare di critica gnoseologica. che GROPPA li accordandosi con FRAGAPANE ritiene, a mio giudizio giustamente, estranea al  compito di questa disciplina. Giustamente, finché  si intende che la filosofia del diritto debba istituire  una sua propria ricerca gnoseologica ; ma non se  si intende anche di negare la opportunità di premettere, come in fondo fa Vanni in queste lezioni, quali sono i presupposti gnoseologici accettati.  Poiché ogni dottrina deve pur assumerne, di una  o d’altra speeie, esplicitamente o implicitamente.  Ed è bensì vero che essi si possono sottintendere  e si applicano di solito nelle ricerche speciali tacitamente. Ma compito del filosofo è appunto, come  osserva Rosmini, di c omprendere e fo rmulare  elii aramente quello che gli altri sottintendon o.   Del resto il fatto che Vanni voglia prender  le mosse da una v alutazione critica sulla natura e   al sapere giuridico, prova quanta larghezza di pensiero, e direi, di coscienza filosofica egli portasse nelle sue ricerche, e con quanto scrupolo sentisse  l’obbligo di rendersi conto anche dei più lontani  e generali presupposti della sua dottrina.   La seconda ricerca si sdoppia in due parti :  statica, che determina la nozione logica del diritto,  inducendola dell’analisi del diritto positivo dei popoli più progrediti, e similmente dello Stato; DINAMICA, genetica o storica, che studia la genesi e la  formazione storica del Diritto e dello Stato; e si  potrebbe anche chiamare filosofìa della storia del  diritto. Finalmente un’altra ricerca di carattere etico o  valutativo ha per oggetto il problema della giustizia, ossia del fondamento intrinseco e delle esigenze razionali del diritto. Questa, che costituisce  la parte ultima, ò senza dubbio la più importante, perchè riguarda quello che è il problema  centrale della filosofìa del diritto; e nella cui soluzione principalmente Si manifesta la nota caratteristica delle diverse dottrine. E la dottrina del  Vanni, benché l’indirizzo e. direi, la moda oggi  prevalente la consideri oltrepassata, merita di essere ricordata e discussa; perchè mentre intende il  compito della filosofia del diritto non soltanto come  storico-genetico, ma anche come normativo, (nel  che si accorda coll’ idealismo) si propone di assolvere questo compito tenendosi nei limiti d’una costruzionc puramente scientifica, ed escludendo ogni  postulato di natura metafisica; nel che consente  col proposito, se non col metodo, dello storicismo  c del positivismo. Ora il difetto principale della sua dottrina, non  nasce, come può parere a prima vista, dalla pretesa e comunemente ammessa inconciliabilità tra  il compito normativo e la validità scientifica ; chè  anzi questo intendimento, chiaramente concepito  e tenacemente proseguito, di una costruzione normativa scientifica del diritto, è a mio giudizio, un  alto titolo di merito; ma nasce dall’essersi fermato,  direi, a mezza via nel rilevare a quali condizioni  sia possibile una costruzione etico-giuridica che soddisfaccia a un tempo ad ambedue le esigenze.  La jiottrina d VANNI, per quel che riguarda  il fondamento intrinseco del diritto e il metodo, si  può considerare come una forma di quella che Spencer ha propugnato e difeso col nome di utilitarismo razionale: e infatti, pur rilevando giusta¬  mente l’importanza e il valore del pensiero di  Romagnosi, egli la riconosce come il precedente  più immediato e più notevole della sua. Ma la trova  erronea per tre rispetti ; perchè ammette un diritto  naturale; perchè pretende di costruire una norma etico-giuridica assoluta; e perchè Analmente lo  Spencer intende le condizioni di esistenza da cui  le norme devono essere dedotte, in un senso puramente biologico. Principalmente su questo ultimo  punto egli accentua il suo dissenso, prendendo come  base, non le condizioni dell’esistenza individuale  e la legge della sopravvivenza dei più adatti, ma  le condizioni dell’esistenza sociale. Il fondamento  dell’ etica sta dunque nella necessità per chi vive  in società (e la socialità è la esigenza suprema del1’esistenza umana) di uniformarsi alle condizioni  ed alle esigenze poste dallo stato sociale ; e l’etica  dimostra intrinsecamente necessarie quelle forme e  quei modi di condotta che sono richiesti dalle condizioni della vita in comune. Fra queste condizioni  ve ne sono alcune che hanno un’ importanza fondamentale e primaria, in quanto rappresentano  l’indispensabile per la convivenza e la cooperazione;  e nell’osservanza delle quali consiste la giustizia.  Ma poiché queste potrebbero non essere spontaneamente osservate, è necessario che le azioni relative  ad esse non restino abbandonate alla buona volontà  e alla spontaneità e che con una norma di condotta irrefragabilmente obbligatoria ed eventualmente coattiva s’induca all’osservanza anche il volere recalcitrante. Quindi in altri termini la necessità del diritto, il quale ci apparisce allora come  una norma che ha da garantire le condizioni fonlamentali per la coesistenza e la cooperazione  umana. Cosi non soltanto l’Etica, ma anche il diritto viene ad avere un fondamento intrinseco, e  viene ad averlo anche lo Stato, il quale è indispensabile alla funzionalità (tei Diritto  Non è necessario un lungo discorso per vedere  che quando il Vanni crede di fondare in questo  modo l’esigenza razionale del diritto finisce per  assumere in realtà come presupposto il principio  che egli vuole, e crede di dovere, derivare apoditticamente, e al quale appunto è subordinato il valore di necessità razionale assegnato alle norme  ideali che devono servire di modello e di criterio  di valutazione. Infatti la relazione naturale e necessaria tra una certa condotta e certe condizioni,  necessarie alla loro volta alla convivenza e cooperazione sociale, serve bensì a stabilire che quella  condotta deve essere riconosciuta come un mezzo  necessario al fine di conservare e promuovere la  convivenza e la cooperazione sociale, posto che questo  sia riconosciuto e voluto come fine ; ma non vale  a stabilire la necessità razionale di riconoscerlo  come fine; e fine precedente in valore e autorità  ad ogni altro. Il \ anni par che intenda superare la difficoltà  osservando che la necessità puramente naturale in  quanto è pensata dalla mente si trasforma appunto  in una esigenza ed in una necessità razionale. Essa  allora esprime un principio logico fondamentale, il  principio di contraddizione. Se in forza della natura stessa delle cose c dei rapporti causali, per  ottenere un certo fine è indispensabile un certo  mezzo, e per raggiungere un certo risultato è indispensabile un certo modo di condotta, implica contraddizione che si potesse impiegare un  mezzo diverso o seguire una condotta diversa. Ma ò facile vedere 1’ equivoco. Contraddizione  vi è certamente tra il pensare che una condotta è  indispensabile a raggiungere un certo fine e pensare che questo stesso fine possa essere raggiunto  con una condotta diversa ; ma io non violo nessun principio logico e non sono punto in contraddizione con me stesso se, ammettendo che un  certo fine dipende da certi mezzi, non voglio il fine  e non voglio perciò neanche i mezzi. E neppure vale il ricongiungere Vordine sociale  all’ordine cosmico, considerandolo come la forma  più alta a cui riesce iì processo della evoluzione  universale. Perchè non si fa altro in questo modo,  che spostare il presupposto; cioè ammettere, ancora e sempre, che si riconosca valore di fine subiremo a questo adattamento all’ ordine cosmico.   Il quale presupposto potrà o non potrà venir  legittimamente assunto come dato o postulato ; ma  è e rimane un presupposto. E perciò le norme ideali  che se ne deducono hanno questo valore di nonne  nell’ ipotesi che si accetti come fine supremo quell’ordine di effetti dal quale sono dedotte. Ma rilevando cosi il carattere necessariamente ipotetico della costruzione, alla quale riesce anche  il « sistema delle condizioni della vita in comune del Vanni, io non intendo, anzi escludo, che questo  carattere ipotetico costituisca per sò un vizio proprio di questa e di tutta una classe di costruzioni  etico-giuridiche, come pretende P idealismo metaf쬠 sico. Il quale si illude di poter esso sfuggire a  questo carattere ipotetico riallacciando quel tipo di  convivenza e di relazioni sociali, che assume come  modello e in conformità al quale determina le  norme ideali, a un fine di natura metafìsica, che  abbia perciò valore assoluto. Dove sono da notare,  sia detto di passata, due circostanze, a mio giudizio,  decisive: che le norme ideali sono pur  sempre ricavate o dedotte, malgrado ogni sforzo  od ogni apparenza contraria, dal tipo sociale assunto come modello, e non dal fine metafisico, della  cui autorità e del cui valore esso si riveste; che il valore assoluto di questo fine metafisico non  può essere che assunto aneli’esso o come dato o come postulato. La verità è semplicemente che un sistema di  norme giuridiche contempla di necessità un certo ordino di vita individuale e sociale; e che la validità dello norme dipende dal valore che si suppone riconosciuto a questo ordine di vita. Questo  riconoscimento di valore, questa valutazione del  fine è dunque il presupposto inevitabile della validità etica del sistema (la quale non esclude la validità scientifica, ma non si esaurisce in questa);  e la questione si riduce a decidere se si pub o non  si può assumere legittimamente come dato o come  postulato questo riconoscimento del valore che nel  sistema è assegnato al fine. Ora è nel rispondere a questa questione, non  nel carattere ipotetico, che si rivela l’insufficienza  del sistema di Vanni e dell’ indirizzo naturalistico  in genere; e alla quale del resto non riesce a sfuggire neppure l’indirizzo metafisico. Infatti una risposta adeguata alla questione esige che si determinino le condizioni richieste perchè a un ordine  di convivenza e di CO-OPERAZIONE SI RICONOSCA VALORE DI FINE UNIVERSALMENTE REGOLATORE -- valore, direi,  piuttosto che di summum bonum di PRIMVM DESIRABILE. Ossia perchè si possa ammettere che tutti  i soci consentano liberamente nel valutarlo e volerlo come tale. E che si assuma poi, come modello  per dedurne le norme ideali, il tipo sociale che  soddisfa a questa esigenza ; cioè il tipo sociale configurato in conformità di quelle condizioni. Ma non è rispondere alla questione il dimostrare la naturalità della convivenza sociale in genere, o  di un certo tipo che si assuma volta a volta come  modello. Questa dimostrazione può servire a farmi  trovar buona o giusta o desiderabile l’osservanza  dell’ordine naturale, se io trovo già buono o giusto  o degno di essere voluto, quel tipo di vita sociale,  cbe si presenta come suo effetto ; ma non inversamente. E se, non trovandolo tale, mi rassegnassi  a subirlo per la coscienza della sua necessità naturale. chi potrebbe legittimamente scambiare questo  subire con un volere . e la rassegnazione a un male  con la aspirazione a un bene?  Nemmeno gioverebbe, d’altra parte, il ricorrere  a postulati metafisici. Posto che io non riconosca  l’ordine sociaie ideale contemplato da un sistema  come degno di essere voluto, in qual modo si può  presumere legittimamente che valga a farmelo riconoscere tale l’affermazione (poiché qui di dimostrazione non si potrebbe parlare) che esso ha un  fondamento o una giustificazione metafisica, se la  ragione per la quale il sistema gli assegna questo  fondamento consiste appunto nel valore di fine che  esso gli attribuisce e cbe io, per ipotesi, non gli  riconosco? Ma Vanni (per restringermi a lui. poiché all’ndirizzo metafisico non ho accennato qui se non  per debito di sincerità e di chiarezza) obietterebbe con tutta probabilità che per la via indicata come  la sola legittima si riesce a una costruzione puramente astratta, di un tipo utopistico di società  che non trova nella realtà storica nessuna corrispondenza; e che si ricade nei difetti (ai quali appunto egli, d’accordo in ciò con la scuola storica,  s’ è proposto di sfuggire) o del puro formalismo, o  di un diritto assoluto valevole per tutto c sempre,  e senza riferimento possibile alla variabilità dei  rapporti sociali. Mentre riponendo, come egli fa, il fondamento  intrinseco del diritto n ella conformità della condotta alle condizioni richieste dalla vita in comune,  questo riferimento non solo appare possibile ma  inevitabile. Infatti, insiste egli nel rilevare, le condizioni della vita in comune non sfuggono al moto  dell’ evoluzione e della storia ; e se anche alcune  hanno il carattere d’una certa uniformità e costanza, altre invece variano correlativamente al  grado di sviluppo umano e alle forme di organizzazione sociale, e sono proprie di ciascun grado e  di ciascuna forma. Il che importa che debbono variare corrispondentemente le norme regolatrici; ossia che nell’applicazione il sistema etico-giuridico  fondato sulle condizioni di esistenza va combinato  col principio di evoluzione e subordinato al criterio  della relatività storica.” Ora, lasciando di rilevare come con questa subordinazione si assuma sempre per presupposto che  l’osservanza delle condizioni richieste dal tipo sociale storicamente dato, abbia, per il solo l'atto che  la coscienza ne riconosce la necessità storica, anche  valore di fine, importa notare come si venga con  ciò a rinunziare ad ogni valutazione comparativa  delle diverse forme storiche del diritto. Perchè una  valutazione comparativa richiede di necessità un  criterio, il quale non può essere dato dalla corrispondenza alle condizioni storiche. E se si prende  un criterio diverso, allora è la conformità a questo  criterio e non la necessità storica, che si assume  come esigenza razionale o come giustificazione inrinseca del diritto. È certo che se una costruzione etico-giuridica  per essere razionale dovesse rimanere sospesa,  come gli dei dell’ORTO, tra cielo e terra, e fuori di ogni possibilità di applicazione alla condotta individuale e collettiva, bisognerebbe accettare la tesi del fenomenismo, e negare alla filosofia del diritto  qualsiasi funzione pratica riconducendola nell’ ambito della pura sociologia. Ma esiste davvero questa incompatibilità? E  non potrebbe essa dipendere, invece che dalla radicale sterilità di una costruzione veramente razionale, dalla preoccupazione di giustificare eti-  Se, e a quali condizioni, una tale costruzione sia possibile,  è argomento del quale si è già discorso altrove e che non può esere toccato di sfuggita.  camentc forme di diritto che non sono eticamente  giustificabili, di assumere come condizioni richieste  dalla giustizia e conformi ad essa certe condizioni,  reali sì, e storicamente date, ma che sono la negzione di quelle richieste dalle esigenze ideali? Perchè se fosse cosi, In conclusione da trarne sarebbe  non che la costruzione razionale ò inapplicabile  come criterio di valutazione e come modello normativo, ma che, essendo le condizioni reali diverse  da quelle idealmente contemplate, le norme ideali  non possono essere applicate simpliciter a condizioni  diverse dalle supposte. Ma esse potranno, anzi dovranno ugualmente servire come criterio per determinare quale sia in un dato momento storico la condotta sociale e individuale che, nei bifidi  delle esigenze reali necessariamente imposte dalle  condizioni in effetto esistenti, è più acconcia a favorire la trasformazione di queste nella direzione se¬  gnata da qualle esigenze ideali, ossia tende ad attuarle. il che importa che le esigenze corrispondenti  alle condizioni proprie di un certo momento storico  non siano assunte esse come esigenze razionali del  diritto, ma forniscano il criterio per stabilire entro  quali limiti sia possibile tradurre in norme di diritto positivo le norme ideali. Ossia in breve: l’esigenza razionale segna le condizioni a cui deve soddisfare un ordino sociale  perchè possa aver valore di fine; la realtà storica. La dottrina delle due etiche di Spencer e la morale come scienza. Per una scienza normativa morale Il fondamento intrinseco del  diritto secondo Vanni. Erminio Volfango Francesco Juvalta. Herren von Juvalt. Juvalta. Keywords: implicature, il metodo dell’economia pura nell’etica, il principio della cooperazione, cooperazione e desiderabilita universale, ragione e cooperazione, cooperazione come mezzo, ragione di mezzo, tra altruism ed egoism, amore proprio, benevolenza, giustizia. --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Juvalta on the categorical imperative,” The Swimming-Pool Library, Villa Grice.

 

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