Grice e Licenzio:
la ragione conversazionale e il filosofo poeta – Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. – A pupil
of Agostino. He achieves a reputation of a poet. Licenzio.
Grice e Limenanti
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. La dialettica come materia di studio trapassa DA ROMA a BOLOGNA nel
Medio Evo. Gli scritti tratteggiati di Marciano Capella, di BOEZIO (si veda),
di Cassiodoro, e in parte anche di Agostino e del Pseudo-Agostino, son le fonti
esclusive che offrirono allora il materiale per lo studio della logica a
BOLOGNA, la prima scuola d’Europa. Li tutt’i luoghi dove, in connessione con il
(Rifondersi del Cristianesimo, o sorsero numerosi centri di cultura del tutto
nuovi, o anche fu talvolta possibile riattaccarsi ad istituti antichi, troviamo
co¬ munemente adottato il corso di studi, più o meno compiuto, del TRIVIO –
grammatica filosofica, dialettica, e retorica -- e del Quadrivio – arimmetica,
geometria, astronomia, e musica. E sebbene il quadrivio non e coltivato
dovunque alla stessa maniera, regna tuttavia per lo più una certa uniformità
nello studio del trivio, in quanto che non c’e scuola dove queste tre arti
mancano. Non è frase o esagerazione il giudizio che pronunziamo relativamente
alla dialettica, che cioè l’intiera ITALIA, per tutta la estensione in cui in
generale la filosofia nella sua graduale diffusione è venuta a contatto con
esso, è stato addottrinato dalla tradizione dei filosofi, testé nominati, della
tarda ROMANITÀ, che cioè in ITALIA si venne effettivamente a conoscenza di un
certo materiale di teorie logiche, e anzi soltanto, in modo esclusivo, sul
fondamento di quella tradizione. Appunto per questo riguardo, tuttavia, sembra
che la storia della dialettica non deve già esorbitare dal campo che le spetta.
Si dà cioè il caso che da notizie isolate sopra istituzioni scolastiche, o da
cataloghi di biblioteche, e via dicendo, non risulti assolutamente nient’altro,
se non che in questo o quel luogo o era semplicemente conservato, o in una
qualunque scuola claustrale era anche soltanto letto uno saggio di dialettica,
opera di Marciano Capella o di BOEZIO (si veda) ecc., ovvero che c’ è stato chi
si è coltivato la mente con questa lettura, o l’ha raccomandata ad altri, e
così via. Orbene, queste notizie, per quanto preziose ci possano apparire,
proprio a cagione della loro sporadicità, noi dobbiamo lasciarle alla storia
generale della filosofia o alla storia della universita di BOLOGNA; poiché per
la storia della dialettica basta in generale il fatto di un diffuso esercizio
delle sette così dette arti liberali, quale generico fondamento per entrar a
parlare del Medio Evo, e su questa base dobbiamo poi andare qui in traccia di
ciò che e prodotto da ima personale, per quanto ristretta, attività, di singoli
filosofi, e che perciò presenta elementi, i quali hanno contribuito al
progresso della filosofia nel corso della sua storia. Inoltre, simili dati, anche
se per essi non si oltrepassi la cerchia del materiale apparentemente
insignificante, conterranno poi bene in sè a lor volta qualche elemento, che
permetta di trarre induzioni relativamente a ciò che dicevamo dianzi, che cioè
accanto all’attività individuale isolata, ha da esserci stata una operosità
collettiva, rimasta attaccata semplicemente al testo della tradizione dei libri
scolastici. Si diffonde nelle scuole la dialettica della tarda LATINITÀ. Ma ima
osservazione sola, riguardo a questo materiale scolastico, bisogna premetterla
subito qui, in tutto il suo rigore e in tutta la sua estensione. Dobbiamo cioè
fin dal principio tener fisso lo sguardo sopra l’assoluta esclusività del
materiale stesso, cioè in primo luogo sopra il fatto che questi prodotti filosofici
LATINI sono incondizionatamente i soli che si trovassero in circolazione, e che
pertanto l’ITALIA non conosce nè poteva adoperare in generale, per la dialettica,
nessun’ altra fonte, all’ infuori da Marciano Capella, BOEZIO (si veda), Cassiodoro
e l’autentico o lo spurio Agostino. A questo periodo del Medio Evo e possibile,
intorno alle opere che stanno a fondamento della dialettica, solamente quella
conoscenza di seconda mano, che puo esser attinta appunto a questi filosofi; e
particolarmente gli scritti del LIZIO (anzi in generale addirittura anche il
nome soltanto di Aristotele) sono conosciuti esclusivamente in quella sola
forma, in cui li aveva trasmessi BOEZIO. Quando in documenti si trovano
menzionati saggi del LIZIO, non si può pensare a nient’altro assolutamente, se
non appunto a queste traduzioni di BOEZIO. Così p. es., quando ') Per Tintento
presente debbo pertanto lasciar da parte un materiale di fonti, non scarso e
che sono riuscito a raccogliere non senza fatica, un materiale che o si
gonfierebbe sino a formare una storia di BOLOGNA, oppure, anche a volersi
limitare (cosa del resto non facile a farsi), a una scelta di passi, strappati
dal contesto e solo attinenti alla dialettica filosofica, comprenderebbe pur
sempre soltanto la documentazione di un fatto, anche senza di ciò
universalmente noto, che cioè il contenuto della scienza scolastica e formato
da quelli filosofi nominati più sopra.] tra i libri della Biblioteca di York viene
nominato anche un « aoer ArisBobeles » 2 ), o quando troviamo ricordate a
Tegemsee le Categorie di Aristotele. Certamente, che simili passi sieno tutti
da spiegare soltanto a questa maniera, e perfettamente chiarito al lettore,
grazie, per così dire, alla sua personale esperienza, soltanto da ciò che si
dirà appresso, come pure dal trapasso a quel periodo, in cui venne a conoscenza
del Medio Evo il testo del LIZIO. Ma si è ritenuto non superfluo delimitare
esattamente fin da questo momento il campo visivo. Naturalmente una eccezione
soltanto apparente è data dalla tradizione di un Bulgaro, un certo Simone, che
avrebbe studiato a Costantinopoli la sillogistica di Aristotele. Poiché, che
nell’IMPERO ROMANO di Oriente i greci si occupassero di tale materia, si è ba- [La
biblioteca fondata a York da Alberto è descritta dallo scolaro di lui, Alcuino,
nel suo poema De Pontificibus et Sanctis ecclesiae Eborucensis, Aixuini Opera,
ed. Frobenius. Ivi si legge, [Fersus de Sanctis Euboricensis Ecclesiae: cfr.
MGH, Poetile latini nevi Carolini, ed. Dùmmler]: Qiute Victor inus script ere BOEZIO
alque, Historici velerei, Pompeius, PLINIO, ipse Acer Aristoteles, rhetor
quoque TuUius CICERONE ingens [P!L]) Un monaco di Tegernsee scrive in una
lettera (riferita dal Pez, Thesaurus Anecdotorum Novissimus, [Codex diplomatico- historico-epistolaris di
Pez e Hueber): stultam fecit Deus sapientiam mundi huius (queste son parole di
S. Paolo, ad Corinth.), poslquam exsiccayit fluvios Ethan. Prae dulcitudine
enim decem chordurum Davidis.... paene oblitus sum totidem culegoriarum Aristotelis.Posso
qui rinviare fino da ora per il momento al noto eccellente lavoro di Jourdain, Recherches
critiques sur Page et l’origine des traductions latines (TAristote, Parigi, sia
pure riservandomi di doverlo in più luoghi correggere e integrare. Liutprandi
Antapodosis Pertz, MGH: hunc etenim Simeonem emiargon, id est semigraecum, esse
idebunt, eo quod a puericiu Bizantii Demostenis rhetoricam Aristotelisque
silogismos didicerit [PL]. Ma c’ è una notizia isolata, e una soltanto, che
potrebbe sembrare in contraddizione con il giudizio da noi pronunziato. Cioè,
Papa Paolo I manda a Pipino il Breve, vari scritti, citando egli stesso tra
questi, nella lettera relativa, anche libri del LIZIO; tuttavia il documento,
se è genuino, e della sua autenticità non sembra esserci ragione di dubitare,
parla assai più a favore che non contro la nostra tesi, poiché manifestamente
questo esemplare, unico allora in quella regione, di mi testo del LIZIO, rimane
sepolto presso la corte di Francia, oppure anda perduto, non riscontrandosi
almeno in alcun luogo la minima traccia di uso che ne sia stato fatto. Inoltre,
per quei paesi, la prima sicura notizia di traduzioni dal LIZIO, cade anzi in
generale soltanto all epoca di Carlo Magno, e appresso verniero ancora i lavori
dello Scoto Eriugena (traduzione del Pseudo-Dionigi. La lettera è stampata da
Cajetanus Cenni, Monumenta dominationis pontificiae, si ve Codex Carolinus
(Roma), dove figura il passo. Direximus edam excellentiae vestrae et libros,
quantos reperire potuimus, id est, Antiphonale, et Responsale, in simul artem
grammaticam, Aristotelis, Dionysii Ariopagitae libros (nel Cenni si legge,
senza segno di divisione, artem Grammaticam Aristotelis), Geomelricam,
Orthographiam, Grammaticam, omnes Graeco eloquio scriptores. La frase “graeco
eloquio’, il cui significato nel linguaggio dell’epoca è fissato con piena
sicurezza, si rifere certo esclusivamente ai libri su nominati, soltanto a
incominciare da Aristotele, perchè 1’ Antiphonale e il Responsale sono
naturalmente in latino, e così pure probabilmente la prima grammatica, mentre
la seconda e in greco. Del resto non si trova questa notizia utilizzata in
Jourdain. P. es. nel Chronieon Saxoniae et vicini orbis Arcloj di David
Chttraeus (Lipsia [ed. di Rostock):
Instiluit autem Carolus Osnabrugae, ut in collegio [BOLOGNA] assidui lectores
Latinae linguae essent. Vidi enim cxerulli um literarum fundationis, ut vocant,
quas ecclesiae Osnabrugensi Carolus dedit. E così in molti luoghi, ma sempre
con riferimento alla nota ambasceria della Imperatrice Irene e alle relazioni
diplomatiche, che ne furono determinate. La tradizione della dialettica
scolastica, nei riguardi delle traduzioni di BOEZIO, è limitata e s’ignorano le
principali opere logiche di Aristotele. In secondo luogo, tuttavia, anche quel
materiale di fonti IN LATINO è, a sua volta, proprio nella parte essenziale,
limitato. Mentre cioè gli scritti del LIZIO avrebbero potuto esser letti tutti
quanti nelle traduzioni di BOEZIO, che sono per tale oggetto LA UNICA FONTE,
proprio qui si presenta ima rigorosa delimitazione; poiché della su citata
produzione letteraria di BOEZIO, si adoperano in modo esclusivo soltanto quelle
traduzioni, eli egli stesso illustra con commenti e apprestate per uso
scolastico A BOLOGNA, cioè, oltre alla doppia ri-elaborazione dell’ “Isagoge” di
Porfirio, soltanto la traduzione delle Categorie e le due edizioni del libro de
interpretatione [cf. “the only two things on which I lectured with J. L. Austin
at Oxford” – H. P. Grice], a cui si aggiungono poi a poco a poco ancora i
compendi che son opera dello stesso BOEZIO. All’ incontro, le versioni dei due
Analitici, come poire della Topica aristotelica e dei Sophistici elenchi, tutte
opere che BOEZIO lascia LATINIZZATA si senza commento, rimaneno, appunto per
questo motivo, escluse dalla considerazione, e si sottrassero pertanto alla
conoscenza, a tal punto che per lungo tempo non si sa in generale nemmeno più
che esistesno. Sicché, quando a poco a poco incominciarono a rendersi note
quelle opere principali del LIZIO, e questo un momento decisivo per lo sviluppo
della dialettica. E mentre L, ritene fallaci tutt’ i tentativi di dividere in
periodi, per motivi interni, la così detta « filosofia » medievale, mi sembra
resa possibile per 1 intiero Medio Evo una parti¬ zione in singoli periodi,
esclusivamente dal punto di vista della quantità del materiale, di volta in
volta esistente o novamente apportato. Così potrei anche nettamente qualificare
la differenza, rilevando elle prevale qui una conoscenza frammentaria di BOEZIO,
mentre nella Sezione prossima si manifesta un influsso chiaramente visibile,
così della conoscenza, che a poco a poco si acquista, DELL’INTIERO BOEZIO, come
pure dell’ apprestamento di traduzioni nuove delle opere non utilizzate finora;
a ciò si aggiungono in sèguito per le Sezioni successive analoghi arricchimenti
di materiale. La dimostrazione di queste 1 mie idee e presentata, come ben
s’intende, qui appresso. In poche parole, dunque — per ripetere la delimitazione
così recisamente e chiaramente quant’ è possibile — , il materiale tradizionale
della dialettica, per questa prima sezione del Medio Evo, è costituito
esclusivamente da quanto segue: Marciano Capella, Agostino, pseudo- Agostino.
Cassiodoro, e BOEZIO. E, precisamente, di BOEZIO: ad Porphyrium a VITTORINO
translatum, ad Porphy - rium a se translatum, ad Aristotelis Categorias, ad
Aristotelis DE INTERPRETATIONE, ad CICERONE Topica, Introductio ad categoricos
syllogismos, De syllogismo categorico, De syllogismo hypothetico. De divisione,
De defninone, De differentiis topicis. Manca invece in questo primo periodo la
conoscenza dei due Analitici, della Topica e dei Sophistici elenchi di
Aristotele. E limitandosi lo studio della filosofia in modo esclusivo alla DIALETTICA,
mentre altri rami, come ■s p. es. la PSCIOLOGIA RAZIONALE e l’ETICA, sono
sistematicamente intrecciati con la teologia morale, anche per la filosofia in
generale i suddetti filosofi formano il materiale quasi esclusivo; poiché vi si
aggiunge ancora solamente, riguardo alla COSMOLOGIA, la traduzione del Timeo
piatonico, opera di Calcidio: come pure, d’altra parte, per la così detta
questione della teodicea, un materiale spesso sfruttato era fornito dal De
consolatione philosophiae di Boezio. Ma duplice e l’attività personale,
esercitata da insegnanti o da filosofi di tutto questo periodo, sopra siffatto
materiale esclusivo della tradizione scolastica. Vale a dire, o si tratta di
aggiustare compendi, per lo più dominati da un affastellamento di svariate
fonti, accozzate a casaccio (in maniera del tutto simile a quel che abbiamo
dovuto rilevare particolarmente a proposito dello scritto di Cassiodoro [De
artibus ac disciplinis liberalium littcrarum ]), oppure ci si occupa di un più
o meno minuto COMMENTO dei libri già in uso, tra i quali si fanno avanti in
prima linea la Isagoge e le Categorie nella redazione (traduzione e commento)
di BOEZIO. Ma inoltre, alla discussione dei problemi della dialettica
s’intrecciavano questioni di teologia GIUDEO-CRITSTIANA – non romana --, come
pure le controversie della logica fanno risentire il loro possente influsso
sopra le contese della dommatica, e anzi in generale domina da principio, per
questo riguardo, una situazione molto caratteristica, che non si può lasciar
esclusa dalla nostra considerazione. Atteggiamento della ortodossia rispetto
alla logica. La dottrina GIUDEO-CRISTIANA, cioè, in se stessa — fatta del tutto
astrazione dal processo di formazione delle idee GIUDEO-CRISTIANE in generale —
e in verità, nel suo primo manifestarsi, informata ad assoluta semplicità e
immediatezza, e parla all’ animo suscettibile di emozione religiosa. Ma nello
stesso tempo si trova determinata, nel corso della sua ulteriore propagazione,
a operare su di una popolazione, la quale in parte possede una cultura, formata
per opera delle scuole che funzionavano nella tarda antichità, e che puo cosi
cougiungere al contenuto nuovo di dottrma giudeo-cristiana e di Anta cristiana,
un aspetto formale del mondo antico. Come da questa mescolanza d’immediatezza
religiosa e di addottrinata capacità didattica, si svolgesse rapidamente
l’antitesi fra LAICATO e clero, si formasse cioè una ecclesia docens, e come la
Chiesa, per il fatto eh era docens, affatto naturalmente ponesse le mani sopra
le istituzioni scolastiche, e così facendo si appoggiasse, formalmente, a quel
che già esiste, sou cose che non c’interessano punto qui, nè più nè meno che le
lotte, condotte con le armi della dialettica, e attraverso le quali si veniva
compiendo la formazione del dogma. Invece è di grande interesse per noi la
circostanza, che venne a manifestarsi da un lato una valutazione positiva, e
dall’altro lato un disdegno della logica, come già si è appunto veduto per due
eminenti rappresentanti della teologia giudeo-cristiana, cioè Girolamo e
Agostino, che abbiamo dovuti ricordare più sopra, e dei quali particolarmente
il secondo mostra molto chiaramente il presentarsi di quelle due tendenze, una
accanto all altra. Ma quanto più energicamente e accentuato in tale contrasto
il punto di vista specificamente giudeo-cristiano, tanto maggior importanza
dove essere riconosciuta a quella intima immediatezza, che Agostino denomina
lux interior: e non soltanto è cosa che si spiega facilmente, ma addirittura
risponde a una esigenza teorica, che proprio i più rigidi fra i primi teologi
giudeo-cristiani, mentre conduceno la polemica obbligatoria contro il contenuto
dell’antica filosofia, hanno un atteggiamento molto riservato anche verso le
forme di quella filosofia, da'l quale la fede non soltanto non può essere
sostituita, ma resta anche sovente turbata. Fatto sta che così si forma
anzitutto un’avversione sistematica contro la logica o dialettica, e se
riflettiamo che nelle lotte per la formazione dei dogmi, proprio gl’Ariani e i
Pelagiani hanno una effettiva superiorità per cultura e ABILITA DIALETTICA, ci
riesce facile spiegarci come quell’avversione si sia sviluppata sino a
diventare animosa ostilità. Non soltanto da Ireneo e Tertulliano, ma
particolarmente nell’epoca culminante della contesa intorno ai dogmi, da
Basilio il Grande, Gregorio Nazianzeno, Epifanio, Hieronymue Presbyter
[Stridonensis: S. Girolamo], Faustino, Mansueto, Eusebio, Socrate, Teodoreto e
altri, può citarsi una stragrande quantità di passi, nei quali LA DIALETTICA è
tacciata di superfluità, o è denominata un ozioso operare, che distrugge se
medesimo, e un’artificiosa filastrocca senza scopo, la quale per il suo
carattere mondanamente versipelle non può profittare alla semplice pura verità,
e in generale è ANTI-cri- [Basilo Magni adversus Eunomium (Opp ., ed. di
Parigi): ij xòrv \ApioxoxéXo'JS 5vxwj xal Xpoaduioo auXÀoY'.sp&v éìei rcpòp
xà |iaOetv Sxi 6 iYÉvvrjxo; où YSY^vrjxat ;
[PG « mira vere Aristotelis aut Chrysippi syllogismis opus nobis erat,
ut disccrcmus eum qui ingenitus est, (neque a seipso, neque ab altero) genitum
fuisse. Tertulliani de praescriptione haereticorum, Opp., ed. di Venezia):
Miserum Aristotelem! qui illis dialecticam instituit, artificem struendi et
destruendi, versipellem in sententiis, coaclam in coniecturis, duram in
argumentis, operariam contentionum, molestarli etiam sibi ipsi, omnia
relractantem, ne quid omnino tractaverit [PL], Grixohii Nazi.anzeni Oratio 26
(Opera, ed. di Colonia): oOx ol5s Xóy“ v o-potfà(, faas xe ooyibv xa l
atviy|iaxa, xal xà; nóppcovo? ivaxàosig, f; è:pééeij, f) àvxiO-éosif, xal
xù>v Xpualintou auXXoYiaptùv xàp éiaXùast?, ■?, xiòv 'ApioxoxéÀoog xsxvùv
x^v xaxoxexvlav. Oratio: yaipovxsg xalj pspVjXoi; xsvo^òiviatf, xal àvxtOéaect
xfjg (tsuìiovòpou Y v( ' ,aso) f’ xa i? eig oòSèv xpL ( at|iov cpepoùaaij XoY 0
l ia X^ al » [PG: Oratio nec verborura flexus et captiones novit, nec
sapientoni dieta et aenigmata, nec Pyrrhonis instantias, aut assensus
retentiones, aut oppositiones, nec syllogismoruin Chrysippi solutiones, aut
pravorn artium Aristotelis artificiuin. PG Oratio quique inanibus verbis, et
contentionibus falso nominatae seientiae, ac disputationum pugnis, quae nullam
utilitatcm afferunt, obleetantur Epiphanii adversus haereses Opera, ed.
Petavius, Colonia): Ssivóxrjxt gàXXov iaoxoùg ÈxSsStiixaaiv, èvSuaà|ievot
’ApiaxoxsXrjv xs xal xoòj SXXoog xoO xóo|iou StaXexxi- xoùs, iùv xal xo'jf
xaprcoùg iiexlaat, |n;8Éva xapnòv 8ixaiooóvi){ eiSóxsf. lbid.. Ili, praef. (p.
809): èx ouXXoYiapffiv y àp xal ’Apiaxo-] -stiana. Epperò tutta la
sillogistica, come deve venir meno dinanzi alle semplici parole degli Apostoli,
serve dal canto suo ancor mia volta soltanto a contra- xsXixcòv xal Y Et0
]iSTptxà>v xòv S-sòv Ttaptoxàv jìoóXovxai- Ibid., Ili, 76, 20 (p. 964):
xaòxa Ss dxpatpstxai itàaav ooD xùv Xóyiov ouXXo- yumxijv nuÀoXoytav. Kal oì)x
èv&èxt'tat ^{*^6 rcpoipé^aatf-ai jiath^ràs Yevéa&ai ’Apia'coxéXoos toD
ao5 éicioxdtou»... Où Y a «° * v Xif(p aoXXoYtaxixip r/ [ìaa'.Xs'.a xcòv
o&pavù>v, xal èv Xó^iji X 0 |iJta:mx, àXX" èv Suvct|isi xal
àXYiO-stqc (v. nota 20). Ibid., 76, 24 (p. 9il): xpooèXaps xò 0-stov, ibg xaxà
xòv aiv Xoyov, si; xr ( v auxoO xiaxiv xijv ouXXoYiaxtx^v xaùxnjv aou x^v
xsxvoXoyiav. 1PG, calliditatem
potius amplexi sunt, seque et ad Aristotelem ac caeteros mundi huius DIALECTICOS
accommodare maluerunt: quorum fructus ita consectantur, nullam ut justitiae
frugem proferant. PCI, quippe
syllogismis quibusdam Aristotelicis ac geometrici Dei naturato explicare
studeut. PG atque haec omnia tuam illam argumentorum fabulam circumscribunt.
Neque id hortatione ulla pcrficere potes, ut Aristotelis praeceptoris lui
discipuli esse velimus. Non enim in syllogismis argumentisve regnum cadeste
positura est, neque IN ARROGANTI INFLATOQUE SERMONE, sed in virtute ac ventate
». PG, Deus, ut asse rere videris, tuum illud DIALECTICAE SVBTILITATIS
ARTIFICIVM, velut quandam lidei euae accessioncm adjecit. Inoltre proprio in
Epifanio si presenta con la massima frequenza affermazioni di questo genere. Cfr.
Hieronvmi de perpetua virginitale B. Mariae adversus Helvidium (i Opp ed. di
Parigi: Non campimi rhetorici desideramus eloquii, non dialecticorum tendiculus
nec Aristotelis spineto conquirimus: ipsa Scripturarum verbo ponendo sunt [PL. Faustini
de Trinitate adversus site de Fide contrai Arianos, Bibliolheca Veterum Patrum,
cura Andreae Gallando, Venezia, VIE. Noli injelix adversus Christum Dominimi
tolius creuturae, Aristotelis artificiosa argomenta colligere, qui te
Christiunum qualitercumque profileris, quasi ex disciplina terrenae
supputationis circumscriptor advenias [P.L. Theodoreti sermo de natura hominis
(Opp., ed. Sirmond, Parigi) [ed. Festa] : fjpslg 8è aòxffiv xf ( v ipjtXrjgiav
òXo^upò|isi>a 8xi 8»; ópùvxsg gapfapocpwvoog àvOpui- xoug xtjv 'EXXtjvtxTgv
eÒYXtoxxlav vevixrjxóxag, xal xoòg xsxop'jis’Jiié- vo'Jg pùS-ODg xavxÉX&g
ijsXtjXapivous, xal xoùg àXiEuxixoog ooXoixp opob? xoùg ’Axxixoùg xaxaXeXoxóxag
E'jXXoyi3|ioù? [PG Graecarum affectionum curatio ): trad. Festa: Ma noi
compiangiamo la stupidità dei derisori. Vedono' pure che uomini di barbara
favella hanno vinta la facondia ellenica, hanno spazzato via. le loro ben
composte favole, vedono che i solecismi dei pescatori hanno dissolto i
sillogismi attici. Quest’allusione alla semplice parlata dei pescatori si trova
pure altrove ancora piuttosto di frequente.] stare e falsificare la fede, come
in particolare si vede nel caso degl’ariani, e così via dicendo. Ma se per tal
modo LA DIALETTICA, della quale per lo pj£i g]*£} latto responsabile
Aristotele, e precisamente in particolare a cagion della sofistica contenuta
nelle Categorie, era quasi diventata oggetto di orrore, insorge tuttavia in
pari tempo da se stesso il senso della necessità di potersi difendere ad armi
uguali contro i nemici della dottrina ortodossa, ed è naturale che finisce con
il prevalere questo motivo, che cioè LA DIALETTICA è UTILE per la lotta contro
gli eretici. Quel che ora importa, e dunque lo spirito e la intenzione, con cui
si coltiva lo studio della DIALETTICA, e a questa maniera si [Irenaei adversus
contro haereses, Opp., ed. di Venezia): minutiloquium miteni et sublimitatem
circa quaestiones, cum sit Aristotelicum, injerre fidei collant II r [cfr. PO,
— Eusf.bii historia ecclesiastica, Opp., ed. di Parigi: Christum ignorarli, sed
quaenam syllogismi figura ad suoni impietalem confimiaridaiti reperilur,
studiose indagarunt; quod si quisquam forte illis aliquod divini eloquii
testimonium pròjerat, quaerunt, ulriim CONIVNCTAM VN DISIVNCTAM syllogismi
figuram possit efficere sollerti impiorum astutia et subtilitate simplicem ac
sinceroni divinarum scripturarum fidem adulterant [cfr. PC, e Griechische
Chrisùiche Schriftsteller traduzione latina di Rufinus, Hieronymi. adversus
[Diulogus contrai Luciferianos, Ariana haeresis magis cum sapientiu seculi
facit, et argumentationum rivos de Arislotelis fontibus mutuatur [PL) Socratis
Historia ecclesiastica, ed. Valesii, Torino: siiOòc o&v èjjsvo?cóva:
(intendi Aezio) xoòg èvxUYXà- vovxag. ToOxo 8è Ijxoìei, ta:j
xaxrjYOpEcus’ApiaxoxéXoos zioxsóiov gt- jìXEov Ss oilxojf ixxlv èmYSYpa|i|isvov
a 5 x(j> - ig aòxàìv xs SiaXsYÓpsvog [xal] iauxijì allaga 7xotv
’ApioxoxéXoos.] puo persino menar vanto delle proprie conoscenze in materia di DIALETTICA
; ma con ciò puo benissimo rimaner legata la idea, che proprio soltanto per
ragioni estrinseche la teologia dommatica ha, servendosi della dialettica,
messo il piede nel campo di un verbalismo affatto esteriore, e pertanto non ci
fa meraviglia trovare più oltre ripetutamente un’aperta ostilità contro
qualunque dialettica in generale. La Isagoge di Porfirio. Ma in ogni caso, come
si è detto, la ecclesia docens e per questa via, pervenuta ad accogliere
nell’ambito della propria attività una certa somma di teorie logiche, e una
volta che, per uso dei chierici, sono adottati compendi quali si vogliano, — se
pure con le debite riserve per quel che riguardava lo spirito informatore e la
intenzione —-, puo e dove bene presentarsi inevita- ouXÀoytO|ix é>S
àXy,9-eiav èxrtaiSeùovxa, àXX’oif; gjtXa x-ij« àXr^slaj xaxà xoù 4>eó8oo£
Y‘T vé l 1 ® va 82 > 1189 ‘ Aristotelis syllogismos, et Platonis facundiam
aurium adjumentis e cieco didicit Didymus, non quasi veritatem ista doceant,
sed quod arma sin! veritatis contra mendacium. Cyrilli Alexandrini Thesaurus de
Trinitate, 11 ( Opp, ed. Auberl, Parigi: Ex pa8-vjpàxtov r,|nv xiòv'Apiaxoxé-
Xoug ipiuópevot, xal xj Seivóxr ( xt xi)£ Ev x6o|i(p aotplag àTioxsxpxinivoi,
xxóxoug èystpcuat ^'rjp.àxtov XEVtòv, oòx e18óxs£ 8 xi xal tipEg xaóxtjv
àpaiHB? 8/ovxej èXsYX s ' 1 Ì 30VTal ' S-aupiaai 5 vxwj àxiXooS-ov. 6 xi 8V)
xàv iispl xoa |isi^ovo£ xal xoO EXàxxovog Esexàsovxsf Xéyov, i-l xòv Ttspl xoO
6|ic£o’J xal àvopolou |iexar:sTCX(óxaotv, oOx eISóxe; 6 xt, xaxà xr/V
’ApiaxoxéXouj xiyyrp, 4 tp* % pàXiaxa |iEYaXo:ppovEtv Etónlaaiv aòxol, oùx et;
xaùxòv xaxaxàxxExat. Y* V °S 33 1:5 6 l i0l0v xal xè àvópoiov. ó)( xal xò
pst^ov xal xò IXaxxov [PG. Ea Aristotelica disciplina nobis insultantes, et
mundanae sapientiae fastu turgidi, inanes verborum crepitus excitant, parum
sibi persuadente se Aristotelicae disciplinae ignaros ostendi posse. Miran- dum
enim est quod, rum rationeni majoris et minoris excutiant, ad sermonem de
simili et dissimili prolabantur, nescientes, juxta Aristotelis placita quo ipsi
plurimum sese jactitant, simile et dissimile non in eodem genere collocari, in
quo maius et minus.] bilmente anche il caso di filosofi isolati, i quali, di
quel materiale che dove altrimenti servire quale mezzo ordinato al fine, fanno
oggetto speciale e indipendente del loro studio. E furono, per questo riguardo,
prima di tutto le Categorie, che, in dipendenza dalla tradizione scolastica
della tarda età classica, trovarono largo impiego nelle fondamentali questioni
teologiche non pagane ma giudeo-cristiane, e soprattutto, precisamente, proprio
in Agostino (relativamente alla Trinità e ai così detti attributi del divino. Anzi
è persino possibile che già abbastanza anticamente si ritene autentico lo
scritto pseudo-agostiniano sopra le Categorie, e ci si sente così
francheggiati, nello studio di quest’oggetto, dall’AUTORITA dello stesso
Agostino. Ma se le Categorie avevano in ogni caso un valore rilevante per la
teologia pagana o romana e giudeo-cristiana, si ha in verità nello scritto di
Porfirio, cioè nelle Quinque voces – genus, species, proprium, accidens,
differentia -- una introduzione alle Categorie, ritenuta indispensabile nella
scuola, e ben e’ intende come, sia per l’insegnamento sia per lo studio, si
prende sempre principio dall’ “Isagoge”, che da uno dei commentatori e stata
anzi persino indicata come condizione preliminare della beatitudine eterna. Ma
tutti due, sia cioè il libro delle Categorie sia anche lo scrittarello di
Porfirio, sono accessibili, per la Chiesa latina, nella traduzione di BOEZIO, e
inoltre corredati anche di note illustrative, e così diventarono i principali
testi scolastici medievali di dialettica. [Miseria del pensiero medievale]. Il
corso della storia ci mostra come, esclusivamente dallo stu- [L’argomentazione
e di questo tenore. Chi non studia l’ “Isagoge”, non intende le Categorie, e
chi non intende le Categorie, non intende il resto dell’Organon. Ma chi non
intende l’Organon, non sa pensare rettamente, e chi non pensa rettamente, non
sa AGIRE rettamente. Ma a un tale uomo non può toccare la beatitudine eterna.]
-dio ininterrotto di Porfirio e di BOEZIO prende origine quella contesa intorno
al valore dei così detti ‘universali’, che, secondo si è finora comunemente
ammesso, si presenta come antitesi di
due termini soltanto, realismo e NOMINALISMO, ma in verità fa venire in luce
una variopinta moltitudine di opinioni, caratteristiche di altrettanti
numerosissimi indirizzi. Queste battaglie sul terreno della dialettica non sono
già suscitate da una filosofia personale, segnato della impronta di una
individualità autonoma, di mi uomo eminente. E bensì una materia tradizionale, sono
pensieri ereditariamente trasmessi per via scolastica dall’antichità, e ora non
si fa che prenderli a poco a poco in considerazione alquanto più rigorosamente,
nè altra che questa e la occasione al formarsi di determinati atteggiamenti,
caratteristici delle varie tendenze, e le cui radici sono di già riposte nella
tradizione stessa. Di creazione, intimamente indipendente, di un motivo nuovo,
non è il caso di parlare, nemmeno nello Scoto Eriugena, e neanche in Abelardo.
E im’epoca che sta ancora attaccata tutta quanta nel modo più assoluto alla
pura tradizione, e così puo tutt’al più, con uno studio assiduo, pieno di
abnegazione, forse anche minuzioso, appesantirsi più ostinatamente, entro gl’angusti
limiti che le sono dati, sopra singoli punti, ma non mai dominare liberamente
la materia. Giustamente colpisce gli scolastici non la taccia di confidente
avventatezza o di tumida vacuità, che li porta forse a scaraventare nel mondo
sistemi belli e fatti, nè ci fan rabbia con la loro verbosità. Ma ben piuttosto
ci prende un senso di compassione, quando vediamo, con un campo visivo
estremamente ristretto, sfruttate fedelissimamente sino all’esaurimento, con
una solerzia senz’ombra di genialità, le vedute unilaterali possibili entro
quel campo 6 tesso, o quando a questa maniera si sprecano secoli intieri nel
vano sforzo d’introdurre metodo nella insensatezza. Simili pensieri malinconici
sopra tanto tempo perduto, si destano in noi per lo più proprio là dove con
maggior violenza si fan guerra, relativamente agl’universali, le diverse
opinioni, svolte sino alle ultime conseguenze, mentre il primo sorgere della
contesa ci può pur sempre apparire in parte come principio di un’azione
fecondatrice e stimolatrice. Per il progresso di quella scienza che si denomina
propriamente filosofia, bisogna considerare questo periodo come un millennio
assolutamente perduto, poiché ci si dove, per mezzo del Rinascimento,
riattaccare proprio a quel punto, a cui ci si e trovati. [La questione degli
universali determina un CONTRASTO DI TENDENZE NEL CAMPO DELLA DIALETTICA:
PREVALENZA DI UN REALISMO platonico]. Se riflettiamo che la “Isagoge” di
Porfirio e il testo scolastico più universalmente diffuso, il quale e ritenuto
condizione preliminare per aver adito allo studio della dialettica, certamente
si riesce a spiegare che in tutte le scuole il filosofo della materia,
nell’interesse suo e de’ suoi scolari, dovesse indugiarsi alquanto più a lungo
sovra UN PASSO d’importanza decisiva, che si trova subito in principio del
libriccino (si sa bene che da principio si va avanti volentieri più
minuziosamente e più lentamente), cioè sopra quel passo, che nella traduzione
di BOEZIO è di questo tenore: essere cioè prima quaestio se gl’universali hnno realtà obbiettiva come
esseri IN-CORPOREI, o sieno solamente finzioni nella sfera dell’intelletto
umano. E se ora la risposta più precisa a questa domanda, che riguarda nel modo
più chiaro l’antitesi di platonismo e aristotelismo, viene evitata da Porfirio-BOEZIO,
perchè altioris ne gotti, proprio da ciò i filosofi piu provetti sono
determinati a decidersi per uno o l'altro dei due indirizzi. Vero è ora che il
neo-platonico Porfirio dice espressamente in quel luogo, che egli si attene
alla tesi della natura obbiettiva degl’universali. Ma in pari tempo ha aggiunto
eh’ egli ha svolto la propria
trattazione, per lo più secondo l’indirizzo del LIZIO anche BOEZIO, dal canto
suo, dichiara, nella forma più sbrigativa, che gl’universali esistono in
verità, e vengono appresi consideratione animi. Cosi da questo passo, di
decisiva importanza, del testo di scuola, e bensì reso possibile che molti con
tutta ingenuità credreno fosse loro dato di seguire insieme un modo di pensare
platonico dell’ACCADEMIA e uno aristotelico del LIZIO. Cf. H. P. Grice, A. Dodd,
IZZING and Hazzing, platonism. Ma
proprio per quelli che vuole pensarci su con alquanto maggior precisione, si
tratta di un aut aut, e rispetto a quest’ alternativa, dal punto di vista
teologico romano e giudeo-cristiano, la risoluzione e propriamente presa di già
in antecipo a favore di un realismo platonico. Poiché, quando la dialettica e
considerata tutta quanta un vuoto formale strimpellamento verbale, quei che si
occupano purtuttavia di questa materia, doveno necessariamente industriarsi di
dare a tutto il complesso un fondamento reale, e precisamente, come ben
s’intende, non puo in ciò esercitare decisivo influsso alcun’altra realtà,
all’infuori da quella che si trova nelle idee giudeo-cristiane. Ed è pur anche
possibile che, come per altri riguardi, così anche relativa- [V. Col'SIN, Ouvrages
inédits d'Abélard, Parigi: riprodotto con alcune correzioni e aggiunte nei
Fragnients de philosophie du moyen-àge, Parigi, ha il grande merito di essere
stato il primo a mostrare questa vera fonte del nominalismo e del realismo, e in
base alle indicazioni di lui, Havréau, De la philosophie scolastique, Parigi, Hist.
de la phil. scol., Parigi, ha tratto dai manoscritti ancora vario materiale
prezioso.] -mente alla dialettica, hanno cooperato qual autorità perentoria,
sentenze che si trovano nell’epistole paoline. Per lo meno vediamo enunciata da
Teodoro Raitliuensis, con riferimento diretto a Paolo, la opinione che si trovi
in contraddizione con l’apostolo chi designi lo studio delle Categorie come un
eminentissimo pregio del teologo, e così porta la pia disposizione d’animo del giudeo-cristiano
a non consister d’altro che di parole o suoni [FLATVS] di parole. E sebbene non
vogliamo citare questo passo addirittura come la prima e più antica
manifestazione dell’anti-tesi fra nominalismo e realismo, è comunque tanto
chiaro tuttavia, che, dalla parte della teologia romana e giudeo-cristiana,
dev’esserci, in dialettica, una corrente prevalente, nel senso del platonismo
dell’ACCADEMIA, e non del nominalismo o concettualismo del LIZIO. La sostanza
indi- [Per es.: ud Corinth., I, 1, 17 : s'ia-;~;s'/JX!i^ba.'. oòx èv ao?!a
[evangelizare: non in sapientia verbi]: xal 6 Xóyos poo xal xò xV/pUYPà poi»
oòx Iv nsiOotc aocflaj Xifo i?, àXX' èv àjtoSelgs'. nvsùpaxos xal Suvà|isioj,
iva Jtlaxif 6p(3v pf/ ^ èv aotplqt àvOptóittov 4XX' èv Sovàpei O-soO [et sermo
meus, et praedicatio mea non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis, sed
in ostensione spiritns, et virtutis: ut fides vestra non sit in sapientia
hominuni, sed in virtute Dei] ; ad ThessaL. I, 1, 5: xó «flaYYèXiov ^ptòv oOx
è^sv^a-ig 5tpò? 5pàs èv Xóyip póvov, àXXà xai èv Sovdpei xal èv nveùpaxi Stylqt
Evangelium nostrum non fuit ad vos in sermone tantum, sed et in virtute, et in
Spiritu sancto »] ; ad Timoth., I, 6, 3-4: et xtj éxspoSi- SaaxaXsì...,
xsxù?(oxai, pr|5èv émaxàpevog, àXXà voacòv itspi ^TjxVjasts xal Xoyopaxiap Si
quis aliter docet superbus est, nihil sciens, sed languens circa quaestiones,
et pugnas verborum. Theodori Presbìteri Raithuensis Praeparatio de incarnatione
( Bibl. Patr. Galland.): i-ziiy, 5è 4 Heuijpog cJiiXat; jtpoxaOé^Exai
cpfflvalj. èv fr/paoi xs póvotp xal ij/oip T1 ì v sùaéjistav 0noxi8-exaf
xalxoiYE xoD àrcoaxóXou XéYOvxop „oò Y“P èv Xiyip ij ga- oiXeta xoS 6so0, dcXX’
èv 5ovàps: xal àXvjOsl:?,, (ad Corinth., I, 4, 20). o5xos 5è xap* a&x(j>
Seotjptp xpolxiaxog S-sÌXoyos y vwpijsxat. tì)g àv xàf xaxrjYopiaj
'AptoxoxéXooj. xal xà Xouxà xiòv S?o) cpiXoaó;pci>v xoptjià ■Jjaxrjpévop
toyX ) Orig. II, 23 (p. 29a) [Lindsay]. In
his quippe tribù» generibus Philosophiue etium eloquio divina consistunt. Nam aut de natura disputare solent, ut in Genesi et
in Ecclesiaste: aut de moribus, ut in Proverbiis et in omnibus sparsim libris: AVT
DE LOGICA [DIALETTICA], prò qua nostri Theoreticam [ma Prantl legge tlteolo-
giorni sibi vindicant, ut in Cantico canlicorum, et Evangeliis [PL. Per lo
meno, quanto al senso, la distinzione coincide perfettamente con quel che si
legge nella introduzione allo saggio di VITTORINO da noi conservato, Expositio
in CICERONE Rhetoricam (ed. Capperonicr ed. Halm, RHETORES LATINI Minores: Q.
Faro Laurentii VITTORINO Explaruitionum in Rhet. M. T. CICERONE, Orig.: Inter
arlem et disciplimim Plato non soltanto e possibile tenere staccati come due
rami separati il dominio della retorica e quello della speculazione, ma era
anche consentito a quest’ultimo di trovare, dal suo lato estrinseco e tecnico,
una particolare maniera di trattazione. Compendio di dialettica nelle Origines.
Così Isidoro divide tutta la sfera della logica o dialettica, anche tenuto
conto della dictio e del sermo, in grammatica, dialettica, e retorica – il
trivio, e a quel modo che, rispetto alla distinzione adottata nelle scuole tra
questa e quella, si attiene parola per parola a Cassiodoro, così in generale
proprio il mostruoso compendio di quest’ ultimo, già da noi più sopra
tratteggiato, è quel che Isidoro trasmette, con al¬ cune varianti o aggiunte.
Dopo avere cioè compiuto il passaggio dalla PARTIZIONE DELLA FILOSOFIA –
psicologia razionale, grammatica razionale -- alla Isagoge in et Aristoteles
hanc difjerentiam esse tolueruiit, dicetiles artem esse in his quae se et
aliler habere possunt. Disciplina vero est, quae de liis agii quae uliter
evenire non possunt. Nam quando veris disputationibus aliquid disseritur,
disciplina erit. Quando uliquid verisimile atque opinabile tractatur, nomen
artis habebit [PL], e differ. spir. Nunc partes logices exsequamur. Constai
autem ex dialectica et rhetorica. DIALECTICA est ratio sive regala disputatali,
intellectum mentis acuens, veraque a falsis distinguens. Rhetorica est RATIO
DICENDI, jurisperitorum scientia [cf. Grice, the devil of scientism], quam
oratores sequuntur. Hac, ut quidam ait, sicut jerrum veneno, sententia armalur
eloquio [PL — Orig.]: Logicam, quae rationalis vocatur, Plato subiimxitdividens
eam in DIALECTICAM et Rlictoricam. Dieta
autem Logica, i. e. RATIONALIS Aóyoj cnim apud Graecos et SERMONEM significai
et rationem [PL — Logici quia in natura et in moribus rationem adiungunt. RATIO
enim Graece Xifog dicitur [PL. Dialectica est disciplina ad disserendas rerum
causas inventa. Ipsa est FILOSOFIA species, quae Logica dicitur, i. e.
rationalis definiendi, quaerendi et disserendi potens. Aristoteles ad regidas
quusdam huius doclrinae argumenta perduxit, et Dialecticam nuncupavit, prò eo
quod in ea de dictis disputatile. I\'um Xextdv dictio dicitur Ideo autem post
Rheloricam disciplinam DIALETTICA sequitur, quia in multis utraque communio
existunt [PL] quella «tessa maniera secca, che abbiamo veduta iu Cassiodoro),
egli presenta una enumerazione e illustrazione delle quinque voces – genus,
species, differentia, proprium, accidens -- dove prende occasione di far risaltare i
meriti di Porfirio, di fronte ad Aristotele e CICERONE), e manifestamente non
ha fatto che attingere alla traduzione di VITTORINO, commentata da BOEZIO, al
quale VITTORINO anzi rinvia egli medesimo). Particolare a lui è, a tal
proposito, la pensata sommamente scolastica, di esprimere a mo' d’esempio le
cinque voci – genus, species, differentia, proprium, contingents -- in una
proposizione. Appresso viene, relativamente alle categorie, una notizia che in
principio e in chiusa è ricavata letteralmente da Cassiodoro), ma nella parte
centrale è più estesa, e particolarmente più ricca di esempi. Dopo di ciò viene
naturalmente de interpr., una Sezione che qui per la prima volta incontriamo
con la barbarica – NON-LATINA -- intestazione De Perihermeniis [ Aristoteli s] Le
parole introduttive e il nu- [Orig. Cuius disciplinae definitionem plenum
existimaverunt Aristoteles et Tulliiis CICERONE ex genere et differentiis
consistere. Quidam postea pleniores in docendo eius perfectam substantialem
definitionem in quinque V partihus. veluti membris suis, dividerunt [PL]. Boezio,
ad Porph. [a Vict. fransi., ed. Brandt [Opp.], ed. di Basilea [PL]: Isagogas aulem ex
Crucco in Latinum transtulil VITTORINO orator, commentumque eius quinque libris
BOEZIO edidit [PL]: et est ex omnibus his quinque partihus oratio plenae
sententiae, ita, “Homo est animai ralionale, mortale, risibile, boni malique
capax” [PL.]. Anche le parole della chiusa del testo d’Isidoro, eh’è guasta,
son da leggere secondo il tenore del luogo corrispondente di Cassiodoro. Si
ravvisava cioè in Perihermeneias inspi ip |iv)vsia?!. SCRITTO IN UNA SOLA
PAROLA, un accusativo plurale, e s’imaginava un corripondente nominativo, “Perihermeneiue”.
Invero troviamo nella Storia di S. Gallo di Ii-defons v. Arx, I, p. 262, “die
Periemerien » di Aristotele”.] eleo centrale vero e proprio -- la definizione
di nomen, verbum, ORATIO (indicativa o enunciativa, imperativa), nuwtiatù,
affirmatio, negatio, contradictio) sono copiate parola per parola da
Cassiodoro, ma in mezzo ci sono alcune osservazioni più generali, che son prese
da BOEZIO, e che, concernendo la relazione tra linguaggio e la psicologia
RAZIONALE, vennero ad assumere grande importanza; ma le parole di chiusa
segnano il passaggio alla SILLOGISTICA in ima maniera più tollerabile che non
sia quella tenuta da Cassiodoro. Segue ora LA SILLOGISTICA stessa, che, dopo un monito introduttivo a
guardarsi dall’abuso sofistico, è presa con la più letterale fedeltà da
Cassiodoro. Appresso viene la teoria della definizione, che Isidoro copia da VITTORINO,
ragion per cui abbiamo dovuto riferirne il contenuto. Ma dalla definizione si
passa alla TOPICA con le stesse parole di Cassiodoro, e anche nella
enumerazione dei loci è utilizzato solamente quest’ultimo. Ma anzitutto
rimangono qui affatto escluse quelle interpola¬ [[Isidoro riproducel anche il
motto su Aristotele: Omnis quippc res, quae una est et uno si^nìficiitur
sermone , aut per nomen significatur, aut per verbum: quae dune partes
orutionis interpretanlur totum, quidquid conceperit mens ad loquendum. Omnis
enim elocutio CONCEPTAE rei mentis interpres est [PL], Particolarmente dobbiamo
a questo proposito mettere in rilievo la locuzione concipere, concepito. \Utililas~\
Perihermeniarum haec est, quod ex his INTERPRETAMENTIS syllogismi fumi. Vnde et
analytica pertructantur: plurimum lectorem adiuvat ad veritatem investigandam
tantum, ut absit ille error decipiendi adversarium per sophismata falsarum
conclusionum [PL).] -zioni estranee), e inoltre, omessi i loci retorici,
vengono, di quelli dialettici, accolti integralmente soltanto di CICERONE, e
tre inoltre di quelli di Temistio. Finalmente la chiusa è data da ima speciale
Sezione De opposilis, che senza dubbio qui non sta nella solita connessione con
la teoria delle categorie, ma si riattacca ancora al materiale della topica,
coni’ è anche di fatto estratta dal commento di BOEZIO alla Topica di CICERONE.
Altri spunti di teorie logiche. Ma, oltre a questo compendio di dialettica, c’
è in Isidoro qualche cos’ altro ancora, che, grazie all’ autorità da lui goduta
esercita influsso sopra la storia. Da un lato cioè si trovano frammenti isolati
di teorie logiche in altre sezioni della sua opera enciclopedica. Così, p. es.,
oltre a ripetere la solita definizione degli omonimi ecc. (nella Sezione
intorno alle categorie), Isidoro viene anche nella Grammatica razionale a
parlare di quest’oggetto, ma qui egli fa uso delle forme verbali greche. Inoltre,
della retorica, è da ri- [fra i loci ivi riferiti di Temistio, troviamo qui
soltanto: a loto , a partibiis [PL Invece, in altra forma: Primum genita est
contrariorum, quod iuxta CICERONE diversum (leggi AD-versum) vocutur. Secundum
genita est relalivorum. Tertium genus est oppositorum -- si osservi la
terminologia inesatta -- habitus vel orbatio. Quod genus Cicero privationem
vocat. Quartum vero genus ex confirmutione et negatione opponilur. Quod genus
quartum apud Dialecticos multimi liabet conflictum, et appellatur ab eis calde
oppositum [PL. La fonte di questo vedila in BOEZIO, ad. CICERONE Top. [PL]; il luogo relativo di Cicerone e citato.
Orig. : Synonyma, hoc est PLVRINOMIA. Homonyma [AEQUI-VOX]. hoc est VNINOMIA PL]]
- cordare in particolare la Sezione De syLlogismis, perchè, da un lato, fa
riconoscere, per l’argomentazioue, un’alto valore all’entimema O IMPLICATURA o
raggionamento implicito --, e perchè, dall’altro lato, contiene una, per quanto
meschina, notizia della esistenza della IN-duzione. II contenuto di questa
teoria del sillogismo non offre, coni’ è naturale, assolutamente NULLA DI NUOVO,
bensì è preso da VITTORINO, e attraverso VITTORINO rinvia «ino a CICERONE e ivi
par¬ ticolarmente il passo relativo, concernente 1 ’ cnthymemd. D’ altra parte,
infine, con alquanti semplici accenni a punti particolari, che in se stessi
stanno FUORI DAL CAMPO DELLA LOGICA – ma la prammatica di Grice -- Isidoro —
quasi direi senza volere — da occasione a quelli che son venuti dopo, di
sollevare questioni, delle quali noi dovremo citare appresso le soluzioni, come
elementi del corso della storia. Una delle cose sopra le quali a tal proposito
fermiamo l’occhio, è la determinazione di mia DIFFERENZA TRA RAZIONALE E
RAGIONABILE [cf. GRICE], che, evidentemente fondata sopra un passo del commento
di BOEZIO alla Isagoge, può aver [ Orig.: Syllogismus Graece, Latine ARGVMENTATIO
– RATIONAMENTVM -- appellatur. Syllogismorum apud rhetores principulia genera duo sunt: inductio et RATIOCINATIO
[PL. Sebbene dunque possa far maraviglia al
lettore che di tali cose io faccia menzione qui, risulteranno più sotto
sufficentemente i motivi, per cui è bisognato che, dello straricco tesoro di
scienza scolastica isidorea, io facessi risaltare proprio questi, e anzi
esclusivamente questi due elementi particolari. Si tratta in generale di
rendersi conto dell’assoluta intima MANCANZA D’INDEPENDENZA dei ‘filosofi’ di
questo periodo. De difjer. spirit., [PL]
GRICE: INTER RATIONABILE ET RATIONALE hoc interesse sapiens quidam [Agostino,
De ordine, PL, dixit RATIONALE est, quod rationis utitur intellectu – ut: “homo.”
RATIONABILE vero, quod ratione dicium vel factum est. Lo stesso, quasi alla
lettera,’ Differ. PL. Porfirio aveva cioè, nell’indicare quel eh’è comune al
yivoc e alla Staqsopà, adoperato come esempio il Xoy ixóv, in un passo che
nella traduzione di BOEZIO (p. 95 [In Porph. a se avuto per conseguenza che in
seguito si facessero oggetto di ancor più accurata ponderazione le parole del
passo. Invece l’altra cosa consiste nell’ affermazione, connessa alla creazione
dal nulla, che LE TENEBRE *NON* sono sostanza, e di ciò non tarderemo a trovare
appresso ima conseguenza ulteriore. Alcuino: sua compilazione di un compendio
di dialettica. Lo stesso punto di vista d’Isidoro, così riguardo al valore
della dialettica, come anche nella bislacca compilazione di un compendio,
prevale pure in Alcuino: coni’è noto, dell’insegnamento, da lui impartito,
della logica allora in voga, profitta lo stesso Carlo Magno. Non soltanto
troviamo in Alcuino la partizione delle scienze secondo transl.: ed. Brandt,
suona cosi: Cumque sit differentia RATIONALIS praedicatur de ea ut differentia
id quod est ratione ufi, non solum aulem de eo quod est RATIONALE, sed etiam de
his qttae sunt sub rationali speciebus praedicabitur ratione uti [PL]. Ora nel
commento di queste parole BOEZIO dice (p. 96 [ ittici ., ed. Brandt): de RATIONALI
duae differentiae dicuntur. Quod enini RATIONALE est, utitur ratione nel habet
rationem. Aliud est aulem. uti ratione, aliud habere rationem.... ergo ipsius
RATIONABILITATIS quaedam differentia est ratione uti, sed sub RATIONABILITATE homo
positus est [PL, Sentent. : Materia ex qua coelum terraque formata est, ideo
informis vocata est, quia nondum ea formata erant, quae formari restabant,
verum ipsa materia ex nihilo facta erat: Non ex hoc substantiam habere
credetulae sunt TENEBRAE, quia dicit dominus per prophetam. Ego Dominus formans
lucem, et creans tenebras [Eisa.] ; sed quia angelica natura, quae non est
praevaricata, lux dicitur. Illa autern quae praevaricata est, tenebrarum nomine
nuncupatur [PL) Einhahdi Vita Karoli lmperatoris [Pertz, MOH: audivit in
discendis caeteris disciplinis Albinum cognomento Alcoinum apud quem et
rethoricae et dialecticae ediscendae plurimum et temporis et laboris impertivit
[PL. Poeta Saxo, Annalium de gestis Caroli Magni Imperatoris, nel Pertz, MGIT,
I, p. 271: Artis rethoricae, seu cui diulectica nomen. Sumpsit ab Alquini
dogmute noticium [PL]] uno schema che si conforma a quello d’Isidoro, ma egli
inoltre ripete letteralmente, attingendo a quest’ultimo, la su riferita
concezione teologica romana o giudeo-cristiana della logica. Nello svolgere
questi pensieri, mostra dappertutto di apprezzare altamente LA FILOSOFIA, non
la TEOLOGIA, e mentre spesso a tale apprezzamento associa lamentele per la
ignoranza largamente diffusa, si leva a sentenziare che le arti liberali son le
sette colonne della sapienza, e così, nelle principali questioni teologiche romane
e giudeo-cristiane sopra il concetto del divino fa largo uso, rimandando ad
Agostino, della tradizionale filosofìa scolastica, cioè della teoria delle
categorie. Ma che lo stesso Alcuino scrive intorno a tutte sette le arti, è ima
credenza già da gran tempo confutata, essendo stato dimostrato che passa per
essere opera di Alcuino mi compendio del De artibus di Cassiodoro, molto letto.
È bensì vero invece eh’ egli coltivò la grammatica, la retorica e la
dialettica, e che inoltre accompagnò 1’ invio a Carlo Magno del libro
pseudo-agostiniano sopra le Categorie con mi prologo metrico dove nel modo
d’in- [Ai.cuini Operu, ed. Frobenius, Ratisbona PL e Dialectìca, P. cs., E
pisi. Epist. 68 (p. 94), E piu. ed. Diinimler, MGH, Epist. Grammatica PL:
Sapicntia liberalium litlerurum septem columnis confirmatur; nec alitar ad perfectam
quemlibet deducit scienliarn, itisi bis septem columnis vel etiam grndibus
exaltetur. De Fide S. Trinitatis ed Epistola nun- eupatorio: ed. Diinimler,
Epist.], Quaestiones de Trin. , Epist., Epist. ed. Dummler, Epist. Dal
Frobenius, nella Praef., PL Tale prologo è del seguente tenore ed. Dummler, MGH
Continet iste decem naturile verbo libellus, Quae iam verbo tenenl remm ratìone
stupenda Omne quod in nostrum poterit decurrere sensum. Qui legit ingenium
veterum mirabile laudet, Atque suum studeat tali exercere labore, Exomans
titulis vitae data tempora honestis. Rune Augustino placuit transferre matender
le categorie è implicito il punto di vista di BOEZIO. Lo stesso compendio di
dialettica, che reca parimente in cima mi simile INSIGNIFICANTE prologo, è
scritto in forma dialogica. LE DOMANDE SONO SEMPRE FATTE DA CARLO MAGNO. Ma Alcuino dà le risposte. In questo
compendio, da principio TUTTO E LETTERALMENTE preso da Isidoro, anche la
divisione della logica in retorica e dialettica. Ma al contenuto vero e proprio
si passa con una partizione, in sommo grado scolastica, della dialettica in
cinque specie, La prima Sezione, cioè, coni’ è naturale, la Isagoge, è COPIATA
PAROLA PER PAROLA da Isidoro, e neanche manca quell’unica proposizione
esemplificativa. Fa seguito una minuziosa notizia, intorno alle categorie, che
è interamente estratta dal compendio pseudo-agostiniano, con trascrizione BARBARICA
delle parole greche che vi s’incontrano. Di nuovo c’è aggiunta una cosa
soltanto, che cioè anche per le categorie viene ora formala qui una frase
unica, presentata come esempio [Ma mentre nel pseudo-Agoslino dopo la decima
categoria dell’habere viene la solita trattazione degli op- gislro De veterum
guzis Graecorum clave latino. Quem libi rex, magnus sophiae sectator, umator,
Munere qui tali gaudes, modo mitto legendum [PL, K. Quot sunt species
dilecticae? A. Quinque principales; isagoge, categoriae, syllogismorum.
formulae, diffinitiones, topica, periermeniae. In veri là una disposizione
mostruosa, che mal si accorda inoltre con il numero di cinque, che si chiude
con le seguenti parole: tlaec commentario sermone de isagogis Porphyrii dieta
sufficiant. Pinne ardo postulat ad Aristotelis categorias nos transire. K. Ex
his omnibus decerti praedicamentis unam mihi conjunge orationem. A. Piena enim
oratio de his ita conjungi potesti Augustinus magnus orator, filius illius,
stans in tempio, hodie infulatus, disputando fatigatur.] posti, per tale
argomento Alcuino disdegna questa fonte, limitandosi a COPIARE ORA PAROLA PER
PAROLA, con la intestazione De contrariis vel oppositis, la Sezione
corrispondente in Isidoro. Invece immediatamente dopo, per i così detti
Postpraedicamenta (prius e simul), fa ancora un salto per ritornare al
Pseudo-Agostino, omettendo tuttavia affatto, di quest’ultimo testo, il cap.
sull’immutatio. Viene poi, con la intestazione De argumentis, prima di tutto un
riassunto estremamente sommario di quell’ estratto della teoria del giudizio,
che BOEZIO incorpora al suo scritto De differentiis topicis, e poi, in quanto
che proprio lì si viene a parlare anche dell’argomentazione, ima meschina
scelta di alcuni esempi di sillogismi ipotetici, svolti da BOEZIO in quello
stesso scritto. Ma a ciò si attaccano ancora subito i quattro primi modi dei
sillogismi categorici, che son tratti da Isidoro. La teoria della [Con la sola
differenza che negl’esempi i nomi propri o il contenuto degli esempi stessi sono
trasportati ■iella sfera morale-teologica romana e giudeo-cristiana. Nè al
principio di questi postpraedicamenta nè in chiusa, è stato segnato un
qualsiasi trapasso, che li riconnettesse alle trattazioni precedenti. Dopo ch !
è stato determinato che cosa sia urgumentum (rei dubiae affirmatio) e che cosa
sia oralio (veruni Dial. Particolarmente
si trova anche fatta qui novamente menzione di concetti imaginari, p. es.: HIRCOCERVVS
quod graece trngelaphus dicitur. PL. K. Num et Ulne aline species quatuor (non
enunciativa, ma, cioè interrogativa, imperativa, deprecativa, e vocativa) ad
dialecticos non pertinenl? — A. Non pertinenl ad dialecticos sed ad grammaticos.]
zione, ma adduce inoltre alquanti esempi attinenti alla sfera delle fallacie
sofistiche, servendogli qui da fonte Aulo GELLIO (si veda)[ Fredegiso da
Tours]. Se questi due compendi che abbiamo sinora considerati, ci presentano
esclusivamente la forma di opere a centone, nella compilazione delle quali non
si fa neanche sentire più il bisogno astrattamente logico di un qualsiasi
ordine di successione che tenesse unito il complesso, certamente, al paragone
di tali prodotti scolastici, ravvisiamo già un progresso, quando vediamo questo
o quello filosofo sentirsi per lo meno stimolato, dal materiale divenuto
tradizionale, a proporre questioni, alle quali tenta di dar tale o talaltra
risposta. Ma non possiamo pretendere gran che da siffatti primi tentativi: e
nient’ altro che un documento di assoluta mancanza di chiarezza, in quelle
questioni che non tarderanno a determinare dissidi di tendenze, ci è dato dalla
maniera in cui Fredegiso, scolaro di Alcuino, abate di Tours, in una Epistola
de nihilo et tenebris, indirizzata ai teologi della corte di Carlo Magno, viene
alle prese con i concetti di « nulla » e di « tenebre », dei Dialogus de
Rhetorica et Virtutibus PL: Si dicis, non idem ego et tu; et ego homo,
consequens est, ut tu homo non sis. Sed quot syllabas habet homo? — Duas. —
Nunquid tu dune itine syllubae es? Ne- quaquam. Sed quorsum ista? Ut
sophislicam intelligas versutiam. Cfr. La [Stampata nella Steph. Baluzii
Miscellanea, ed. Dom. Mansi, Lucca, e di là riprodotta nella PL: ma la edizione
migliore, fondata sopra una nuova comparazione dei manoscritti, si trova curata
da Ahner, Fredegis von fours, Lipsia. Le parole introduttive son di questo
tenore. Omnibus fidelibus et domini nostri serenissimi principis mjt ' J acro
eius F tdntio consistentibus Fredegysus Diaconus [IL, quali, secoudo la maniera
usata, vuol parlare così ratione, cioè logicamente, come anche auctoritate, cioè
conforme alla teologia ortodossa, romana e giudeo-cristiana. La occasione a
tutto il dibattito è data certamente, in generale, dal passo già citato di
Isidoro, ma il modo d’intendere le questioni, a prescindere dal generale punto
di vista teologico romano e giudeo-cristiano, è, per riguardo alla dialettica,
cosi rozzo o così ingenuo, che di fatto non troviamo un termine per
qualificarlo. Poiché, dove non si presenta neanche la più tenue traccia di
riflessione sopra i così detti ‘universali’, ci è impossibile parlare di
realismo o di nominalismo. Insomma si tratta di ima mostruosità tale, da non
potersi neanche designarla come un primo passo verso idee venute fuori in epoca
più tarda. Non soltanto cioè si afferma, in termini secchi, che, insieme con l’ESPRESSIONE
(EXPLICATVRA) verbale, noi intendiamo immediatamente la cosa, ma vengono
inoltre assunte senz’altro come identiche la signi- [Chl j. m,ue Studichi senza
prevenzione, consentirà che questo dualismo di ratio e auctoritas. il quale si
manifesta dappertutto rondo li • nd,e de ' le Par ° 1 ! '' * Fredegiso. Queste,
sei rondo la piu antica lezione riportata dal Baluze i suonano come segue: huic
responsioni oblia,uhm est primari'. Ubet’ sedrZT ‘‘"'T' rfe,We betoniate,
non q ua- . , ’ r "' ,0 ’ ,r ‘ dumtaxat, quae sola auctoritas est salame
immola " f 7 urd / NeS6Uno infaUi si Presterà ad accreditare derZi^ ). Ma
poi, anche nello scritto De institutione clericorum, Hrabano viene a parlare
delle sette arti liberali: e dopo che ivi egli lia già in generale ammonito i
teologi a guardarsi dall’abuso dell’arte di disputare, questo atteggiamento
circospetto è quel che predomina in lui, anche là dove, seguendo l’ordine
solito di successione, viene propriamente a trattare de DIALETTICA dopo avere
parlato della grammatica filosofica e della retorica. Ripete cioè, per prima
cosa. Opera, ed. Colvener, Colonia) Hrabani Mauri) De universo: Logica autem
dividitur in duus species, hoc est DIALECTICAM et Rhetoricam. De instit. cler.:
Sed disputationis disciplina ad omnia genera quaestionum. quae in litteris
sanciis sant penetranda et dissolvendo, plurimum valet; tantum ibi colenda est
Pl 'ioTTo I ^ PUenl ' S e I’815 "or
10 fra r887 « r890) abbia esercitato in . en era e Ti r r ” rì,,i “ ) ’ “ ,,ra
« t:: 1 ,: è noto; ma può darsi che a noi ~z:: e t abbia T imes ° qn6to s. decisiv
° -*• - °° ICa >■ ^iche, relativamente al punto il 122» voT ddla Patralógii
TeWiomtP-"- ,«/; F , t0SS ’ e toTm * ferisco qui nelle citazioni. Ma a
nurlli J"*' 18j ? ’ al qua,e n,i ri ‘ opera dell’ Hauréau il Commentairede
le % 3ggl £ n . t0 ■'"Cora ,,, r lionus Cupella (nelle Nolices et Extraitì
T ^ Ér,gène sur Mar. 2, Parigi 1862 [p. 1 ss.]) Extraits dea Manuscrits, non
r’imér^no r qui*'ì!’a 1 nno ' ^ròv^to un rifl'’ 8 *" 0 C °" lo Soot °
letteratura, avendo Nicola Mofli ™T ,nten f° anche "ella und seme
Irrthiimer OC S F ,• tLEB preso posizione (J. S. E tro Fr. Am. Staudr™*™ U sT
1844) con Ze« 1«G. S. E. e la sci. nl,, ,1 1 . • dle Wissenschuft seiner te
1834), e contro il Saint-Rtné TaiTi.andifr I>1, Gotha 1860), nè da V Kin. '
m"” C dottrina System des J. S E r« TI Jl. » Naulicm (Dos speculatil e,
negli Atti 3,'ll ó è ™ s Peeulativo di G. S. E » IP™!), nè da Gio v. Hubeh (/.
slVf ili vista logico, che lo Scoto si
trova ad avere assunto, non sembra comunque essersi pronunziato ancora un
giudizio esauriente, quando ci si limita a qualificarlo come realismo, o magari
anche come realismo stravagante. Vero è invece che con l’atteggiamento
realistico, che in generale è fondato sopra la concezione biblico-teologica
romana e giudeo-cristiana, e che naturalmente a nessuno può passare per il capo
di negare allo Scoto, si unisce qui, in maniera sommamente caratteristica, un
motivo dialettico, al quale ci sembra di dover attribuire somma importanza,
perchè in esso ravvisiamo i primi lineamenti del nominalismo scolastico. La
prima cosa che certo si manifesta con la massima evidenza a qualsiasi lettore
dello Scoto, è la forma rigorosamente sillogistica, nella quale si volge questo
filosofo, mettendo con ciò in mostra nello stesso tempo, per così dire, le sue
conoscenze scolastiche di logica. È questa ima cosa, della quale per se stessa
non faremmo già particolare menzione, non essendo qui compito nostro di
registrare per avventura tutti quanti gli scritti di tutti quanti i Padri della
Chiesa o filosofi medievali, nei quali si riveli un addestramento logico. Tuttavia
nel caso presente sussiste, a quanto ci pare, una stretta connessione fra tale
cultura scolastica estrinseca e l’intima struttura dell’ordine d’idee
professato dal filosofo. Lo Scoto Eriugena manifestamente, nella persuasione
che la sillogistica, proprio nella sua forma rigorosamente scolastica, abbia un
valore filosofico, trae partito da tutte le cose consimili. Così ne’ suoi
scritti, — a prescindere dalla frequente larga trattazione delle categorie in
senso teologico romano o giudeo-cristiano, si presenta, p. es., della teoria
del giudizio, la divi- [Des ]. E. Stellung zur mittelalterlichen Scholastik und
Mystik f« La posizione di G. E. rispetto alla scolastica e alla mistica
medievale], Rostock), nè da Lod. Noack (Weber Leben und Schriften des ] J. S.
E.: [die Wissenschaft und Bildung seiner Zeit, Della vita e degli scritti di G.
S. E.: la scienza c la cultura del tempo suo »), Lipsia.] aione in giudizi
affermativi e giudizi negativi, e anzi con fa terminologia affirmativus e
abdicativus, o la indicazione delle varie specie di opposti, tra i quali inol-
tre viene sovente messo in particolare rilievo il cosi detto opposto CONTRADITTORIO:
come pure viene fatta menzione delle relazioni anti-tetiche sussistenti fra il
possibile e 1 impossibile. Si trova anche presa in considevolia ilio Scoto (de
dlctóone a^°I'^ 1 p una Cap. delle Categorie pseudo-azostini»,,» - r W3j 111 C0
P‘ are *1 10° sario, -“j! ch è neces '
de div. nat., I, 14, p. 462: Et hoc Ir i • i’ ^“ 8nto a * giudizio, v. p. es.
^soXoyla iKo^onix-rj del Pseudo Dioniei ° r£ “ ; xaxcreaTtxrj e la damus
exempio. Essentia tZaZf A reopag,ta) brevi conci,,. coda : « supe’ressetZTLT **
^ terminologia che ricorre ancor più volte nelIoVom 6 * 0 ''""' alla
confusione che abbiamo trovata di eb n r ’ Va r / 1 f 0n ® chiaro dalla
spieoare Pian, ad duplum... ; am per negat’ionZ Z Z SÌnt ’ ut s, ' m ‘ propter)
qualitates naturales per abZntiam’m°h “*\ °“*^ ( , leggi AVT SECVNDVM
PRIVATIONEM, ut mors etvUa- L n tenebrae sanitas et imbecillitas. Su questo
numi „ s , u contrarl “m, ut desuma fonte che Isidoro (v. sopri la „mwn? aU '
n, ° alla , ne ' cavato malamente dalle parole di 11 *.. : s °hanto che ha ri-
e absentia. 1 ' BOEZIO ° una distinzione tra PRIVATIO [De praedestinatione, 5 ,
8 n ì"». i,„ , , i oluntate posset simul dici « libera est iihe quomodo de
eadem CONTRADICTORIE dicuna,r, quia simul fieri n “ l>; haec enim nat.:
comradictoZnJZ r p0ssunt - ~ De divis. erit veruni, alterimi falsimi Non !«'
9'"a fient, et necessario unum ”r l htsa calidario ZloaZ 7e sZZ versahter
sint, sive particulariter fi, : subjecto eodem, sive unidelia terminologia di BOEZIO
(clntradZ ** Vede ’ C è '"escolanza nota 113) con quella di M^ianoTl n ).
Copella (proloquium) De divis. nat., II, 29 n 597- Pn*.n,ir in numero rerum
computi impossibile dicet.... De quibus quisquis alene T . pl,lloso P lum tium
conira- Owi-E, hi JZ’Z,u,‘Z,ZZ": hoc p Z£L~ illt razione la solita
enumerazione delle varie specie di definizione. Ma principalmente sono messe in
rilievo dallo Scoto, tanto frequentemente, proprio dal punto di vista formale,
le forme dell’argomentazione: e non soltanto troviamo in lui, in molti luoghi,
intrecciati nel testo, sillogismi formulati assolutamente secondo la regola
delle scuole, bensì ancora egli molto si compiace di menzionare, con i loro
nomi tecnici, sillogismi appartenenti alla topica. Ma appunto per quest’ ultimo
riguardo ha grande im¬ portanza per noi, che lo Scoto accuratamente distingua
il procedimento dialettico propriamente detto, cioè il sillo¬ gismo in
generale, dalla rimanente sfera puramente retorica, e per la dimostrazione dia
importanza decisiva alla sopito dispulutum est. È ben facile capire cbe questo
è tutto preso da BOEZIO. Quamvisque multae definitionum species quibusdam esse
videuntur, sola ac vera ipsa dicenda est definitio, quae a Graecis oòaubSr jj,
a nostris vero essentialis rocari consuevit. Aline siquidem aut connumerationes
intelligibilium partium oùatag, ai il argumentationes quaedam extrinsecus per accidentiu,
aut qua- liscunque sententiarum species sunt. Sola vero oòauóSrjs id solum
recipit ad definiendum, quod perjectionem nuturue, quam definit, complet ac
perjicit. Questo può essere ricavato da Alcuino o da Isidoro (v. sopra le note
38 s.) o da BOEZIO. Tali passi non si discostano da quella terminologia ch’è
usuale in Boezio; così, p. es., affirmativus, negativus, termini, diulectica
proposito, jormula syllogismi condilionulis, e così pure connexio (v. la Sez.
XII, nota 141), e persino tropus; inoltre troviamo ancora collectio e reflexio,
che son termini propri di Apuleio (v. la Sez. X, note 15 e 19). 81 ) Così, p.
es., de praedest., 14, 3, p. 410; ibid., 16, 4, p. 420. — De div. nat., I, 49,
p. 491 ; v. anche qui appresso le note 94 ss. 92 ) P. es., de div. nat., I, 27,
p. 474: sunt loci diidectici u genere, a specie, a nomine, ab antecedenlibus, u
consequeiuibus, a contrariis, ceterique hujusmodi, de quibus nunc disserere
longum est. De praedest.: argumentum, quod ub effectibus ad causam sumitur, locus
a contrario e locus a similitudine, e similmente più volte. Anche nel Comment.
ad Muri. Gap. tres purles syllogismorum, i. e. ab antecedentibusi, a
consequentibus, a repugnantibus. Ma la conoscenza di tutti questi loci lo Scoto
la poteva ricavare esclusivamente de Cassiodoro. 'orma logica soltanto.
Anzitutto cioè viene da lui attribuito già il più eminente valore a quèlla
formulazione del sillogismo disgiuntivo, che, da CICERONE in poi, si e
conservata nella tradizione come enthymema , e che per tal via aveva avuto
accoglimento anche nella Enciclopedia d Isidoro (e ripetuta la stessa cosa, a
proposito di Alenino: ed effettivamente Scoto in questa forma del sillogismo
ravvisa il punto culminante di tutti gl’argomenta, i quali invero sono ancora
pur sempre considerati congiuntamente ai signa i r ra in: anzi la forma
dell’entimema ha potere d’in- •'«rio a qualificare l’entimema stesso senz’altro
come syllogismus: e in verità in un altro passo, dove dice espressamente di
volersi servire deIl’*ico8«i*Tix* le dimostrazioni che seguono, sono appunto
presentate esclusivamente in quella forma disgiuntiva; ma nello stesso tempo
egli assegna tuttavia decisamente alle forme del cosidetto sillogismo
categorico un posto ancor più eie- vato, appun to perchè queste non
appartengono al mecca- sumuntur. Qribm tanta ’rii inll [ R - Stu " t
contrarietatis loco excellcntwe suae merito a ('rimri^'è'h""'' qt ‘°
(ìam privilegio conceptiones rLZ sicJZZ e,,lhymemnt “ dicantur. hoc est, munì est
illud, nuoci sumitur * '‘ rsu . met } ,orum omnium forlissi- calium aptissimum
est. quo d ducitur "ab end" ° mnU,m . si S"°rum vo- lhid.. m, 1
n 193 . „ \ tU , et >dem conlranetatts loco. — Diulècticisac
RhètorZiseZnt"” ^ediyimus. a xaTavTC'fpaat .5 IW 4vtt*p«oi ^ TestZmTi’uZ
grnmmaticis ver ° gnorumque verbalium nobilissima v loT^T ar ^ n -n'orum st¬
iri fine, e cfr. poi la nota 189 * qm appresso la nota 96 > concluditur,
quodsemperesTn coni nulo °c" "" '' ,,r * umento (ora segue un
sillogismo della l'orma Non eZnVn'B* 4 ° “** ergo B non est: v. la Se? Vili t.n
i l 1 „ et A est. Idem quoque syllogismiis hnr 'm 1 ' p a • XII, note 13 e 69
).... cibici. 4 3 n T?J w connectitur (id. c. *.). àitoS.txxtx^ utamur,
primufnfadversus ZT"e uTl^’ * C *f" r sillogismi della forma
ricordata or ■ ,U f ann ,° S, '* U1| ° due parole, da uomo consapevole della
vitro* P °A S ‘ con queste Via igitur regia gradiZdtm, r , ?''' C ° ncIllsum
est igitur.... vcrtendum, etc. ’ ° " d d^ternm, nec ad sinislram di- nismo
dell’argomentazione retorica, apparentemente più efficace Bli ). Ma che questa
preponderanza della forma sillogistica sia stata anche subito sentita come tale
dai lettori dello Scoto, ci è confermato dalla ineccepibile testimonianza di un
anonimo del IX secolo, il quale dice che Scoto fa consistere la dialettica in
un continuo incalzarsi e cacciarsi (fuga et insecutio) delle proposizioni. Scoto,
del resto, la conoscenza delle forme sillogistiche da lui usate, la poteva
ricavare esclusivamente da 8l! ) Vale a dire, in occasione di una dimostrazione
piuttosto lunga, relativa alla immaterialità della sostanza ( de div. nat., I,
47 ss.), troviamo anzitutto, dopo le parole introduttive hus inique paucas de
pluribus dialecticas collectiones considera, due sillogi¬ smi categorici
secondo il primo modo della prima figura, c appresso segue un'argomentazione in
forma dilemmatica; ma dopo questa si trova la seguente transizione: l’t uulem
piane cognoscus,... hunc argumentalionis accipe speciem. [Discipulus] Acci
piani ; sed prius quondam formulalii praedictae argumentationis fieri
necessarium video. Nam praedicta ratiocinatio plus argumentum u contrario
videtur esse, quam dialectici syllogismi imago. [Ma¬ gisteri Fiat igilur maxima
propositio sic: e ora seguono quattro sil¬ logismi secondo il modo 2° della 1*
figura, con le parole conchiusive: huec formula idonea est; ma immediatamente
appresso: [D.] Hoc etiam certa dialettica formula imaginari volo. | M. | Fiat
itaque for- nuda syllogismi conditionalis ; il che si verifica nella forma : Si
A est, lì est, A vero est; e dopo tutto questo si trova, per chiudere in
maniera energica, ancora un entimema: Si autem èvtì-upijiiaTOf. hoc est,
conceptionis communis animi syllogismum, qui omnium conclu- sionum principatum
oblinet, quia ex his, quae simili esse non pos¬ simi, assumitur, audire
desideras, accipe hujusmodi formulam. Riferita da V. Cousin, Ouvr. inéd.
d’Abél: Secundum vero Joannem Scottum, est dyalectica quaedam fuga et
insecutio, ut cum quis dicit « omnis honestus est », et insequitur alius
dicendo omnis honestus non est, talis haec disputatio fugae et insecutioni
videtur esse consimilis. Se del resto già l’abate Benedetto da Aniane [Francia
Merid.], si lamenta di un syllogismus deltisionis iipud modernos scholasticos,
maxime apiid Scotos (Baluzii Misceli., ed. Mansi), non è leeito già inferire da
ciò, che lo Scoto abbia potuto ricavare la propria abilità dialettica da studi
di logica che fossero con larga diffusione coltivati nelle scuole della Scozia:
bensì quel lamento si riferisce esclusivamente a un singolo contrasto dommatico
(riguardo alla Trinità), il quale può esser de¬ nominato syllogismus nella sua
formulazione, nè più nè meno che cento altri simili Isidoro o da Marciano
Capella, e non c’èun solo passo che ci costringa ad ammettere eh egli abbia mai
conosciuto anche gli Analitici di Aristotele, nella traduzione di BOEZIO os ).
[b) posizione dello Scoto, rispetto alla dialettica Ma proprio questi elementi,
che per così dire apparten- gono alla prassi logica dello Scoto, ci apron la
via per passar a considerare anche la posizione teoretica di lui, nei rispetti
della dialettica. Nelle arti liberali in gene- rale, egli ravvisa i prodotti di
una naturale attitudine dell amma umana, e pertanto un suo ornamento B8a ), in
quanto che esse sono le compagne e le investigatrici della sapienza "); ma
nello stesso tempo riconosce che quel che importa qui è la disposizione di
spirito, trovando hi par¬ ticolare la dialettica, della quale è facile abusare,
il proprio compito essenziale nella lotta contro gli eretici 10 °). ) 1 oicliè
questo punto avrà ancora più volte importanza ner noi ho dovuto di proposito
fin qua richiamare còsi n inutàumnte rat’ten- zione sopra le fonti della logica
dello Scoto. )G ommenl. ad Mari. Cup.
[Artes libe- :tZ ] n, 0la iPSa amma P erci P' umur ’ nec uliunde
assi,n,untar sed nalurahier in anima mieli,gannir ; p. 30: Liberales
disciplinar ’natu r ali ter insunl in anima, ut aliunde venire non
intelligunUir ■ et ideo TCTTìI ~, Cfr - q,,i appresso la noia l78 - (cioè ri.-’
fi • ’’ ’• P- 430: ^ rrorem - saevissimum eorum (cioè de suoi avversari
dommaUci) ....e* utilium discinlinarum alias , psa sapienti a suas comites
investigatricesque fie^voluTTdr S ira la notai 50), ignorantia credtdenm
sumpsisse primordio In un A ìSi " 4 "'“ — » aZerS denTk 77™
Gotes Uerum- Sez. XII note 84 J ST: Tt ^zrZiiri
uctìones ’ sensui subjacet: cirro nnnm ... . • P nr, ‘ l ' s _>'st, nulhque corporeo versuntur.
Al si illa incorporea est^nuTtìb' Ziter'vìd t omnia, quae ani ei adhaerent, au,
in P « subsistoZ , ' non possimi, incorporea sint 9 ‘slum, et sine ea esse se
immutabiles puro mentis contuitn „ t f r ! ale - f* Q h*er res per ' rontl
‘“" perspiaenlur in sua simplicisce anche il concetto di genere in maniera
del tutto rea¬ listica 115a ), anzi ripete minutamente la dimostrazione,
ricavata dal Pseudo-Dionigi, che essentia e corpus sono totalmente diversi e
non possono essere mai scambia¬ lino. In una parola, è un avversario
sistematico della sostanza individuale (del xóSe ti) di Aristotele. [e)
ontologia e dialettica], Ma dobbiamo riflettere che, per lo Scoto, tutta quanta
la sfera del molteplice (dimque infine anche la pluralità delle categorie
stesse) viene a cadere in quello stadio in cui la sussistenza concreta è
propriamente qualche cosa che non de- v’ essere, perchè la pluralità è
provenuta per via di divisione dalla unità, e ha essenzialmente per funzione di
essere di nuovo risolta nella unità, e in tale processo proprio il punto
mediano dev’ essere quello di massima lontananza, sia dalla unità originaria
sia dalla unità finale. Così la formazione delle cose infinitamente molteplici
del mondo sensibile è la prima parte del processo, come dire una scissione
della Divinità: e Scoto spiega, in accordo con Gregorio da Nissa, il
manifestarsi concreto delle cose sensibili e in tute, aliler senati corporeo in
ali quii materia ex concursu earum facto compositae. Omnia erìim, quae
intellec- tus in rulione universaliter considerai, particulariter per sensum in
rerum omnium discretas cognitiones definitionesque partilur (dun¬ que
rSpiattxóv delle definizioni speciali viene già a esser più perti¬ nente alla
sfera sensibile. Il passo di BOEZIO). ,ls ‘) Comm. ad Alari. Cap„ Genus est
multarum formarum substantialis unitas.... Est enim quaedam essentia quae
comprehen- dit omnem naturam, cujus participatione consistit omne quod est.
Substantia generalis est multorum individuorum substantialis unitas. De div.
nat. Sed adversus eoa, qui non aliud esse corpus, et aliud corporis essentiam
putant, in tantum seducli, ut ipsam substantiam corpoream esse, visibilemque et
traclabilem non dubilent, quaedam breviter dicendo esse arbitrar: f t autem
firmius cognoscas, oòalav id est essentiam, incorruptibi- lem esse, lege librum
sancti Dionysii Areopagilae de divinis Nomi- nibus eie.: e a ciò fa seguito la
dimostrazione estesa. generale la origine della materia, con il fatto che
alcune categorie vengono a trovarsi insieme, per modo da poter essere apprese
dai sensi) : e nello stesso tempo, in questo generarsi, analogamente che per i filosofi
precristiani, opera poi il fuoco, come quello che dà la forma alle cose
sensibili. Ma poiché ora, secondo lo Scoto, non in altro che in questa
molteplicità del mondo deve, per opera della filosofia, essere scomposta
(5iaipruxVj) la unità divina, e da quella deve da capo partire la via da
percorrere per il ritorno alla unità (àvaXtmxrj), quel grado intermedio della
pluralità acquista una speciale importanza anche per la dialettica, poiché
proprio in quella stessa pluralità del sensibile si viene a contessere la
favella umana, come mezzo di espressione. A quel modo perciò che nelle cose
sensibili le categorie, incor¬ poree in se stesse, sono alla fine diventate
corporee (per quanto m maniera enimmatica e mistica), così anche il linguaggio,
in quanto è sensibile, afferrerà le categorie soltanto nella forma verbale
sensibile-corporea (per quan¬ to parimente con un intrecciarsi di motivi
mistici), e appunto lo stadio intermedio della dialettica, vale a dire **? rh '
d ' 34 ’ Quantitàs vero, qualitasque. situs, et habi- fT \ nte \r COeu ’ ltes
mater iem.... jungunt, corporeo sensu per - Wcl nU alluTT GregoriusN y s ^--
orti* raHonibu, ita esse ahud dicens matenam esse, nisi aecidentium quondam
compositi 0, nem ex mvis.lnlibus causi® ad visibile® materica, prò- cedentem
[Lo Scoto cita il Sermo « De Imagine» del NiTsen” ma forse parafrasa I
cap^XXHHV del libro « De hominis opificio *] interni 2 ’ 5' 494 S : - Formarum
al,l ‘e in oùoia. aline in qualitate uVc" r; j ^ '"°' iOÌa «"*■
"‘bstantùdes speciel generis ti^ 'seu mLtn* 8 ’ °, ‘"T- atque P° XÌ,Ì
onem naturali um par - “7 " Ì r r r «d quahtatem referri, formatnque
proprie vo- membra e [ l ",T dl ? ìtt . am 1 en ‘ e « forma, bensì
all’armonia delle membra e bellezza del colorito] ex qualitate ignea, quae est
color FXfrDe i rr tur - Et h r n vocatur a form °’ h ° r - si rai ' d (v! 1 estus [De I erborimi significata ed.
Lindsay, p. 73] s v forma) Udum Sa rii
diffinitione non dissential.... (PL 9 lj,y oj. ): Aristoteli genus, speciem,
difjerentiam. pro- pnum et accidens, subsistere denegava (se. Minerva), quae
Platani subsistentia persuasa. Aristoteli an Plotoni magis credendum pu- latis.
Magna est utriusque aucloritas, quatenus rix audeat quis al- lerum alteri
dignitate praeferre [PL]. Cui rei Aristoteles in libro Peri Ermenias congrua
bis verbis: Sunt ergo ea quae sunt in voce, earum quae sunt. Altre notizie
ancora, appartenenti alla seconda metà o alla fine del secolo X, possiamo
citarle soltanto come documento del perpetuarsi della tradizione scolastica;
tal è il caso, quando vien riferito che il vescovo \ ol¬ ia n g o a Ratisbona
in una disputa teologica trovò maniera di applicare le varie specie in cui può
esser diviso Yaccidens (a tal proposito c degno tuttavia di nota, che il metodo
dialettico viene denominato carnali^ antidotus), o quando vengono menzionati
gli studi di logica, di lAbbone da Orléans, che studia a Fleury e ivi
successivamente insegna, e del vescovo Bernward a Hil- in anima passionimi
nolae [cfr. BOEZIO, p. 216 e 297; Prima cditio, I 1 ed. Meiser, Pars Prior, p.
36; Secunda edilio, I, 1, ed. Meiser, Pars Posi.; PL, 64, 297 e 410], Omnis
nota aUcujus rei nota est. Prius ergo res est quam nota. Res ergo prius
ponderando est, quum nota».... Boetius tir eruditissimus in libro Peri Ermenias
se- cundae editionis [p. 450; VI, 13, ed. Meiser, Pars Post., p. 4a), Spira
pret.. Analitici e Topica, e a proposito di quest’ ultima, d’accordo con BOEZIO
(de diff. top.), riconosca che i due campi, dialettico e retorico, sono a
contatto uno con l’altro, per accennare da ultimo a Cicerone, rappresentante
della retorica vera e propria, in quanto questa non venga a ricadere nella
sfera dialettica 206 ). [§ 22. — Gerberto, figura ASSOLUTAMENTE INSIGNIFICANTE:
a) materiale degli studi di logica al tempo suo]. J "*) Il 1° Libro
(ibid., p. 35) s'intitola: Primus libeUus de studiopoetae, qui et scholasticus,
e dopo aver trattato della poesia, fa seguire la filosofìa: Inde ubi maiorum
tetigit nos cura cibo- rum, Porphyrius claras nobis reseravit Athenas, Qua
multi indige¬ nte librabunt verba sophistae. Cernere erat quondam vidtu
pallente puellam. Pructica cui limbum pinxitque theorica peplum, Et licet
effigiem macularet parva (leggi: prava) vetustas, Ipsa tamen ternas suspendit
ab ubere natas (v. ibid. la tri- partizione della sfera teoretica). Praeslitit
haec nobis summi sub- sellia ledi. Et postquam strato licuit discumbere cocco.
Proceduta senae turba comitante SORORES (cioè dialettica, retorica, ritmica,
matematica, musica, astronomia). Ingenui vultus non absque grave- dine gestus
Adducit famulas praestanti corpore quinas (cioè le cinque parti che vengono
subito appresso) Omnia sub gemino clau- dens Dialectica puncto (il duplice
punto di vista è invenlio e io di¬ cium, v. la Sez. XII, ibid.). Prima quidem
(la Isagoge) miles generali nomine pollens Insignita tribus (cioè genus,
species, difjerentia) unum selegit amictum. Hanc vice continua sequitur
gradiente se- cunda (le Categorie). Tertia (la teoria del giudizio) discredi
quid- quid primaeva coegit, Dans operam sane cirros crispare secundae, Quos
quartae (sillogistica, cioè Analitici) solido collegit fibula nodo. Inslabilem
fucum lulit ultima (la Topica) quinque sororum Dodo quibus geminas decernens
Graecia jormas (cioè loci dialettici e retorici) Pinxit « quale » tribus, «
quid sit » reperendo duabus (cioè il Quale consiste in persona, tempus,
circumstanliae —, e invece il Quid in definitio e descriptio), Ut reboant nobis
deliramentu Platonis (questo non riesco a spiegarlo). Inde suam stipai comilem
pressura sodalem Rhetoricam du- plicis vestitam flore coloris, Quuc iaciens
varias nervo pulsante sagit- tas Monstrat hypothetici nobis spedaicula ludi. Et
ioni cornuta sur- gens ad sidera fronte Causarum rivos putido profudit ab ore.
Sed postquam illatas pepulit conclusilo lites Ipsaque gravigenas conipe- git
pace sophistas. Omnibus asseculum veniente porismate laetis Sub pedibus Eogicae
recubabat nexa coaevae, Commissura tibi reliquie rum munia, Tulli. A ciò fanno
seguito la ritmica e le altre disci¬ pline nominate più sopra. Anche del famoso
Gerberto (Papa Silvestro II) dobbiamo anzi affermare la stessa cosa, che cioè
egli, senza originalità, rimase assoluta- mente irretito nella tradizione
scolastica: purtuttavia c’è d’ uopo bitrattenerci sopra di lui alquanto più a
lungo, appunto perchè a lui e al suo comparire si riconnettono notizie
preziosissime riguardo ai limiti ristretti, entro i quali era contenuta in
quell’epoca la trattazione della logica). Ci racconta cioè anzitutto un
contemporaneo di Gerberto, come questi in gioventù fosse iniziato alla logica
da un chierico eminente (probabilmente Giselberto) a Reims, dove poi incominciò
subito la sua ope¬ rosità di maestro delle solite discipline scolastiche). Ma,
come colui che riferisce la notizia enumera a tal proposito distesamente e
compiutamente anche tutto m ) Per notizie sul conto di lui in generale, v. M.
Buedincer, Gerbert’s U’issenschaftliche und politische Stellung («Posizione
scientifica e politica di G. »), Cassel, e K. Werner, Gerbert !’• Aurillac, die
Kirche und Wissenscfiaft seiner Zeit (« G. da A., la Chiesa c la scienza del
tempo suo»), Vienna [2* ed.,J. a ®) Richeri Historiarum (Pertz, :MGH, V, p. 617): luvenis igitur apud
pupam relictus, ab eo regi (cioè Ottoni) oblatus est. Qui (vale a dire
Gerberto) de urte, sua interrogatus, in mathesi se satis posse, logicae vero
scientiam se addiscere velie respondit.... Quo tempore G. Remensium
archidiaconus in logica clarissimus ha- bebalur. Qui etium a I.othario
Francoricm rege eadem tempestate Ottoni regi Italiae legatus directus est (un
arcidiacono di Reims in quel tempo, con il nome incominciante per G, sarebbe
Giselberto, presente al Concilio d’ingelhcim: v. Marlot, Metro- polis Remensis
historia. Lilla; il Buedincer e 1 Olleris; v. [per la precisa citaz.
delPoperg;, ai quali si unisce il Werner, pensano a Garamnus, menzionato [dal
Mabillon] negli Acta Sanctorum Ordinis S. Benedicti : Saec. [dove precisamente
trovo ricordato il « Signum.... Geranni Archidiaconii »]. Cuius adventu iuvenis
exhila- ralus , regem adiit, atque ut G.... o committeretur obtinuit. E G.—o
per aliquot tempora haesit , Remosque ab eo deductus est. A quo etiam logicae
scientiam accipiens, in brevi admodum profecit, G....S vero cum mathesi operam
daret, artis difficultate iictus, a musica reiectus est. Gerbertus interea
studiorum nobilitate praedicto metro¬ politano commendatus, eius gratium prue
omnibus promeruit. linde et ab eo rogatus, discipidorum turmas artibus
instruendas et adhi- buiI [PL il repertorio di scritti di logica, di cui si
serviva Gerberto nell’ insegnamento, così veniamo in possesso di un do¬ cumento
tanto importante quanto decisivo, per provare che pur alla fine del secolo X
restava ancora sempre sco¬ nosciuta la traduzione, dovuta a Boezio, degli
Analitici e della Topica di Aristotele: perchè proprio di questi man¬ ca la
menzione, mentre vengono citate in fila tutte le altre traduzioni e i lavori
originali di Boezio (v. la Sez. XII, note 72 s.); ed è altresi degno di nota
che Gerberto facesse venire l’insegnamento della retorica soltanto di seguito a
quello della dialettica, come pure che il cro¬ nista nel suo racconto
assegnasse ancora la retorica alla logica, trovandosi pertanto a considerarle
da quel punto di vista, che abbiamo veduto proprio d’Isidoro, Alcuiuo e Hrabano
(note 27, 54 e 79 di questa Sezione) 209 ). Ma ci viene riferito inoltre che
Gerberto si occupava di de¬ lineare una figura, nella quale fosse rappresentata
in una Tabula logica la distribuzione di tutte le cose; venne tuttavia su
questo punto a contesa con Otrico, e con ciò va messa in relazione una disputa
filosofica che si svolse =l *l Ibill, (in continuazione) L4-6-8J : Dialecticum
ergo ordine librorum percurrens, dilucidis senlentiarum verbis enodavit. In primis enim l’orphyrii
ysagogas id est introductiones secunduin Pictorini rhethoris trunslationem,
inde etinm easdem secunduin Mani inni explanavit, Cathegoriarum id est
pruedieamenlorum librino Aristotelis consequenter enucleans. Periermenius vero, id est de interpretatione librimi,
cuius luboris sit, aplissime monstravit. Inde edam topica, id est argumentorum
sedes, a Tullio de Graeco in Latinum translata et u Manlio constile sex
commenlariorum libris dilucidala, suis auditoribus intimavi!. Necnon et quatuor de topicis
differentiis libros, de sillogismis cathegoricis duos, de ypotheticis tres,
diffinitionumque librum unum, divisionum aeque unum, utililer legil et
expressit. Post quorum laborem cum ad rhethoricam
suos provehere velici, id sibi suspectum erat, quoti sine locutiontim mo- dis,
qui in poelis discendi sunt, ad oratoriam arlem ante perveniri non queat. Poelas igitur adhibuit quibus
ussuefactos, locutioniun- que niodis composilos, ad rhethoricam trunsduxit. Qua
instructis sophistum adhibuit: apud quem in controversiis exercerentur, ac sic
ex urte agerent, ut praeter arlem agere viderentur, quod oratoris maximum
videtur. Sed haec de logica. In mathesi vero. etc.
[PL a Ravenna, al cospetto di Ottone II, allora quin¬ dicenne 21 °). Un’ altra
più minuziosa narrazione concernente questo colloquio, ci fa chiaramente
riconoscere, che sopra l’argomento i contendenti sapevano semplicemente a
memoria quel che aveva detto Boezio (nel commento alla Isagoge), e su tal
fondamento dibattevano la controversia, se cioè il concetto di RAZIONALE sia
più ristretto che quello di Mortale, o non piuttosto, viceversa, si dimostri
più ristretto quest’ ultimo Z11 ). ■'") Huconis monachi Virdunensis,
abballa Flaviniacensis, Chro- nicon (P'ertz, MGH) : Quo tempore Otrieus apud
Saxones insigni* habebatur.... Adalbero Romam cum Gerberto petebat, et Ticini
Augustum (cioè Ottonem) cum Ottico reperit, a quo.... duo tus.... Ravennani, et
quia anno superiore Otrieus Gerberti se vepre- hensorem in quudam figura cum
mulliplici diversarum rerum distri¬ buitone (presa da Boezio, p. 25 (in l’orph.
a Vict. transl.: ed. Brandt; PL) monstraverut, iussu Augusti omnes pnlatii
sapientes intra pululium colletti sunt, tirchie piscopus quoque cum Adsone
abbate Dervensi et scolastico- rum numerus non parvus; et coeptu disputatone ,
cum iam pitene lotum diem consumpsissent. Augusti nulu finis impositus est. È
in¬ concepibile che il Werner, abbia potuto, con accento di biasimo,
rinfacciarmi di aver antccipato la data della disputa, riportandola all'anno
870, perchè nella prima ediz. di questo vo¬ lume (pag. 54) si poteva pur
leggere chiaramente il numero 970; senza poi contare che non è lecno ritenermi
capace di far parte¬ cipare a un dibattito nell' 870, un uomo che io stesso dò
come morto nel 1003. "“) Richerj op. cit., e. 60 e 65, p. 620 s.: Otrieus....
a il: «Quo- niam pliilosophiae partes uliquol hreviter uttigisti, ad plenum
oportet ut et dividas, et divisionem enodes...... Tunc quoque Gerbertus: 4
....secundum Vitruvii (leggi Victorini ) atque Boctii divisionem dicere non
pigebit. Est enim philosophia genus; cuius species sunt. predice, et
theorelice: praclices vero species dico, dispensativam, di- stribulivam,
civilem. Sub theoretice vero non incongrue intelligun- lur, phisica naturalis,
mathematica intelligibilis, or theologia intvl- lectbilis. La fonte è BOEZIO.
Tunc ve- hementius Otrieus admirans I versa circa la distinzione tra l’octu.s
necessaria, l'actus non neces- sanus, il quale ultimo ha origine a palesiate
ovvero a subsistendo. e analmente la pura e semplice potenzialità. Gerberto
mette questa partizione in forma di tabella: ma in ciò può ben ravvisarsi sol¬
tanto un modesto titolo di merito, poiché, ch’egli non abbia nean¬ che un solo
pensiero suo personale. Io dimostriamo, qui come ap- P m?’/ IC ? 1 no\emotiva
di Monaco (C.od. lui. 14272), contiene questa lettera. tuisce l’oggetto di
giocherelli sillogistici: dopo averla rap¬ presentata cioè in modo assoluto
come una disutilaccia, a Adalberone viene in mente di saggiare logicamente la
validità universale di questo giudizio riprovativo, e pro¬ cede ora a una
disquisizione in forma dialogica, per so¬ stenere che il giudizio è singolare,
che c’è un opposto contraddittorio del giudizio stesso, e via dicendo: viene
appresso l’invito a fornire a regola d’ arte la dimostra¬ zione della inutilità
di quell’animale 2S0 ) ; ciò si fa per¬ correndo nel dialogo, in forma
antitetica, l’intiero elenco dei giudizi ipotetici 233 ), e a ciò si trovano
anche fram- , hc riempie una pagina e mezzo in folio (fol. 182 tO. Pare elle il
titolo riferito più sopra sia stato semplicemente combinato dal Pez. FUilco).
Denique haec mula.... non esset universaliter, seri polius aut particulariler
aut indefinite, quae paene unum suiti, inu- tilis proponendo.... Igitur quae
particulariter quoquo modo utilis est, omnimodis universaliter inutilis non
est. — A(dalbero). Si hanc iauliiem atque inhonestam indefinite vituperarem,
veruni a falso non diseernerem, nam huius mulae inutilitas, si universaliter
esset dedi¬ catila. particulariler esset abdicatila (cioè sarebbero allora
predi¬ cati nello stesso tempo concetti contraddittori). Sed haec viluperatio
ncque universaliter ncque particulariter est determinata.... igitur quia
singularis est, neutrum horum est. — F. Singulare dedicativum nonne suum hubet
abdicativum?... Putasne, universale propositio universali, purticularis
particolari, indefinita indefinitae sicut siagli- lares contrudictorie
opponuntur? A. Piane opponuntur: si sub- stantia fuerit, erit praedicativa,
sive sit sive non sit. F. Putasne. si accidens? A. Eodem modo opponuntur, si
illud fuit inseparabile. F. Omne inseparabile contrudictorie opponitur? A. Non.
_F. Illud tanlummodo cui aliquid possit uccidere, et illud dicitur
substuntiale. Sed nunc ex arte, non de arte, nostris affirmalionibus cum luis
repugnantiis hanc mulani esse inulilem atque inhonestam ■ onci nei
profiteberis. Qui sono mescolate insieme la teoria di Boe¬ zio (fin Ar. de
interpr.. ed. seconda, II, 7 e III, 10: ed. Meiser, p. 117 ss. e 255 ss.; PL, e
la terminologia di Alareiano Capella (ibid.. nota 66). 31 ) A. Mula haec si
claudicai, male ambulai; atqui claudicai : igitur male ambulai. F. Mula haec si
claudicai, mule ambulai: utqiii non claudicai; igitur non male ambulai . A.
Mula haec non. si claudicai, male non ambulai; atqui claudicat: igitur male
ambulai. F. Mula haec non. si non male ambidat, claudicai : atqui non male
ambulai; igitur non claudicat. A. Si valida non est. debilis est; atqui valida
non est; igitur debilis est, e via dicendo. 106 mischiate enunciazioni di
regole logiche) ma l’insieme, clf è
preso tutto quanto da BOEZIO, si chiude con l’accenno a lma causalità demoniaca
della inutilità della mula, una spiegazione, questa, che dovrebbe, a quel che
sembra, sodisfare ambedue le parti contendenti. Scolaro di Gerberto e pa-
nmente Fulberto, vescovo di Chartres (dove nel 990 aveva aperto una scuola, e
vi resse la sede vescovile dal 100/ [o 1006] sino alla morte,che godette di
grande reputazione come conoscitore della dialettica 234 ), sì che persino gli
f u conferito il sopran¬ nome di Socrate dei Franchi). Ma, mentre assoluta-
mente nulla di preciso ci è noto, in ordine alla sua teoria F e' A ' et negalio
semper est in pruediculis — nota 119) adhibetur, vind/cat sibi vini
contradictionis et modus in- 1 A Hon et eodZTn em P °"" P , r “ cA '
c ""' s Sminati» subiectis. 4 7>liL f'i nominali appresso da Trite- nuo, sono d.
contenuto puramente teologico). erio iì““S . Ji Bereii- m’SLST logica 23B ),
dobbiamo in ogni caso tenerlo in gran conto quale maestro di Berengario da
Tours, sebbene sia lecito argomentare che da Fulberto le conoscenze e
l'abilità, relative alla dialettica, erano ancora tenute del tutto lon¬ tane
dal campo teologieo-dogmatico, poiché per quest’ul¬ timo riguardo egli esortava
i suoi scolari alla più rigo¬ rosa ortodossia 237 ). Ma possiamo, in generale,
scorgere un segno di più intensa operosità, relativamente alle condizioni di
quel¬ l’epoca, già nel fatto che di nuovo si procedeva ad ap¬ prestare compendi
o si elaborava con commenti conti¬ nuativi il materiale esistente a uso delle scuole,
poiché, quantunque in ciò non donimi ancora una energia crea¬ tiva ùltimamente
personale, purtuttavia si torna a ravvi¬ sare nella conservazione o nell’
incremento del sapere logico il vero e proprio fine: l’attività si volge cioè
alla teoria come tale, sebbene senza originalità. [§ 25. — Anonimo rifacimento
metrico della Isa¬ goge e delle Categorie: colorito nominalistico]. Cosi un A
il o n i ni o Ila ri¬ fuso in esametri
la Isagoge e le Categorie), per impri¬ mersi nella memoria, con questo primo
suo lavoro, come dice egli stesso nella introduzione in prosa, indirizzata a un
certo Belinone, il contenuto di quei libri 239 ). Inco- ■ 3, l La notizia, che
Fulberto abbia mandato la Isagoge allo « scholaslicus » di un chiostro (v.
Fui.berti Opera, ed. Villiers, Pa¬ rigi 1608, Ep. 79, fol. 76 b [PL: Ep.) è
priva d'im¬ portanza. I Adelmanno, loc. cit., p. 3 [§ 6-8): obtestans per
secreta ilio.... [colloquiai..., et obsecrans per lacrymas,... ut illue omni
studio properemus, viam regioni directim gradientes, sunctorum Patrum vestigiis
obsenantissime inhaerentes, ut nullum prorsus in diverti- culum. milioni in
novam et fallacem semitoni desiliamus etc. f PL. loc. cit. or ora, nella nota
2351. Il lavoro è riprodotto a stampa, di su un codice di St. Ger- main (n.
1095), dal Cousin, Ouvr. inéd. d’Abél., p. 657-669. ) Chi sia stato o dove sia
vissuto quel tal Bennone, non può mincia con il prendere da Boezio la divisione
(Sex. XII, nota 77) dell’ Organon aristotelico, e pensa a tal proposito che la
faccenda sia andata cosi: che cioè Aristotele abbia incominciato con lo
scrivere i primi Analitici, e poi, siccome questi erano riusciti
incomprensibili, abbia scritto appresso gli Analitici secondi, ai quali per lo
stesso motivo ha dovuto far seguito la Topica, come pure poscia il De interpr.,
e quindi ancora le Categorie; ma non avendo voluto Aristotele scendere, per
farsi capire, a un livello ancor più basso, e avendo perciò passato sotto
silenzio le quinque voces, è intervenuta qui per for¬ tuna, a compier V opera, l’attività
di Porfirio. II contenuto della Isagoge viene poi spicciato molto somma¬
riamente con la semplice indicazione della definizione delle quinque voces 241
), e indi fanno seguito le Catego- ricavarsi dalla introduzione, che si tiene
affatto sulle generali. Del ■no stesso lavoro dice ivi l'Autore: Quoniam
complurium mci ordinis scholusticorum, praesul venerande, oblatus tibi litteras
omni gradarum idacritate saepius te audio suscepisse,... tuue con- fisus....
pietati uliqua et ego offerre litterarum jocularia praesumo tliae maiestati.
Feri animus, Dei aspirante grada, quum puueissimis oratione metrica absolvere,
quod Porphyrii Isagoge et Aristotelis Calegoriae videntur in se continere. Quod
batic ob causam maxime decreta agere, ut, quae illi latius difjudere, breviter
collecta per me tenaci diligentius crederem memoriae. Nomina quoque grueca
quae- doni interposui, ubi lege metri constrictus latina non potili.... Id mihi
ne duculur litio, primum abs te, pater piissime, cui hoc litterarum munere
ingenii mei primitias immolo, deinde ab omnibus veniam /tostalo. ) lbid„ p.
658: Doctor Aristoliles, cui nomen ipsa dedit res, Ingenio pollens miro
praecelluit omnes. Hic, natis post se diulectica ne latuisset, Primos componens
Analilicos studiose. De syllogismis ratio perpenditur in quis, Credidit ut
sapiens hos planos omnibus esse. Sed cum nullus eis intellectu capiendis
Sufficeret, rursus tentai prof erre secundos : Quos ncque posse capi cum
sensit. Topica scripsit ; Hinc Perihermenias, postremo Cathegorias : Post quas
finitas. descen¬ dere noluit infra. Hic genus ac speciem, proprium, distantia,
striti- gens, Simbebicos edam quid sint omnino tacebat. Porphyrius tan¬ dem
cernens, nisi cognita quinque Haec sint, bis quinus nesciri ca¬ thegorias,
Cuique smini finem signavit convenientem. (Cfr. anche Bokzio, p. 113 rio Ar.
prued.. I; PL, 64, 160 s.] ; Sez. XII, nota 841. t Jbid. Dopo la definizione
delle cinque voces, si legge: Ni nimis est longutn. communio dicier horuni
(vale a dire ciò di cui rie. Dice espressamente l’autore, a proposito di
queste, sin dal principio, che si tratta lì non già delle cose per se stesse,
ma soltanto delle voces signativae delle cose 242 1, si che troviamo qui una
ripetizione di quel punto di vista nominalistico, considerato più sopra (note
149 ss. e 159); ma hi ciò consiste anche tutto quel che di più importante
dobbiamo rilevare in questo compendio; poi¬ ché nel rimanente esso si tiene
cosi strettamente attaccato allo scritto pseudo-agostiniano intorno alle
categorie (Sez. Xll, note 43-50), che di l'atto lo si può denominare, in una
parola, una versificazione dello scritto stesso; tut- fai più si può osservare
inoltre, che i numerosi termini greci, i quali vi figurano barbaramente
trascritti, deri¬ vano ugualmente da quella medesima fonte, dove pure si
trovano abbastanza spesso intercalati, restando con ciò molto semplicemente
eliminata ogni ipotesi che even¬ tualmente sorgesse, relativamente a studi che
fin d’al- lora si facessero sopra l’originale greco 243 ). appreso viene a
trattare Porfirio: v. la Sez. XI, note 49 ss.), Non nos barrerei : sed malumus
ergo lucere. Ne generelur in
his libi nausea discutiendis. :l: ) lbid., p. 658 s. : Post haec, bis quinus
pandamus cuthegorias. In quis rir doclus non ex ipsis quasi rebus, Sed
signativis de rerum vocibus orans. SuiniI ab omonymis tractandi synonymisque
Prin- cipium eie. ***) Poiché tutto
questo scrino è semplicemente una ripetizione metrica di quello del
Pseudo-Agostino, appare superfluo fare cita¬ zioni particolari. Ma per quel che
riguarda i termini greci, spiegati per lo più in latino con glosse
interlineari, può ricordarsi: usya, sim- bebicos e simbebicota, enarithnui
(àvdpiitpa : Sez. XII, nota 43), epi- phania (a proposito della quantità)
T6601, poi, a proposito delia re¬ lazione, Pesametro 1662): Thesin, diuthesin,
episthemin, estesili, exin (cioè èiuaxrjprjv, aloDijoiv, IJ'.v e similmente [
il). | Dicilum ornile quod est, rei eneria dinamite (cioè évspysJa e Suvàpzi),
come pure, a proposito della qualità 16631: Exis, diathesis, phisices di¬
ttamis poelesque (rcoiÓTrjg Passibilis, potius seu pathos, scemala morphue
(axtipaTa popcff,c), nella Sezione che tratta degli opposti 1667 \habitus
sleresisque atépr,oi; , e, a proposito del postpraedi- camentum del moto
[668-9] : Auxesis, megesis, genesis, florus, aliu- sis. Et Itala ton joras,
metabeles associato (cioè aB(;l}Olg, |ia£o)atg, YÉvEatg, àXÀoùasig, xatà xòv
tónov, pexagoXtJ). no [§26. — Intensa
attività della Scuola di S. Gallo. Notker Labeo: a) un Tractatus insignificante
].Ma principalmente a S. Gallo noi troviamo, intorno a quell’epoca, una più
estesa rielaborazione del materiale logico in uso nelle scuole, e per tale
riguardo spetta in ogni caso al famoso NotkerLabeo il merito di aver dato P
impulso e diretto la esecuzione, sebbene non tutt’ i lavori dei quali qui si
tratta, sieno venuti fuori proprio dalle sue mani 24 *). Non c’è dubbio che qui
pure il fondamento è dato solamente dal materiale tradizionale, e non c’ è da
aspettarsi propriamente novità 245 ): ma questo materiale tradizionalmente tra¬
smesso è in parte trattato tuttavia in maniera più libera, mostrandosi in ogni
caso un interesse, che si volge con abbandono all’ oggetto della trattazione
per se medesimo. J4 *) Mentre cioè J. Gbimm («Gott. Gel. Anz. », 1835, N. 921 è
(li opinionr che Notker sia l'autore unico di tutti quegli scritti, e a questa
opinione aderisce incondizionatamente anche H. Hattemer iDenkmiiler des
Mitteltdters « Monumenti del M. Evo », III [S. Gallo, p. 3 ss.), ci sembra
invece più giusto, tenuto conto della diversità intrinseca di quei lavori,
ammettere con W. Wacker- NACEL I Orse il ichte dir deulschen Lilteralur «Storia
della letteratura tedesca », p. 80 s. 12* ed., Basilea 18791 : v. di lui anche
la orazione accademica sopra le benemerenze degli Svizzeri verso la lettera¬
tura tedesca, Basilea 1833) che le opere recanti il nome di Notker sieno state
composte da vari autori, semplicemente sotto la dire¬ zione di lui: rfr.
inoltre appresso la nota 262. FI1 Franti non cita Die Schriften Natkers und seiner
Scinde (« (ili scritti di Notker e della sua scuola») editi da P. Piper, Voi. I
(Scritti di argomento filosofico). Frihurgo-Tubinga, 1882], ' 45 l Cose
straordinarie si posson leggere invero nella Geschiehte Din St. Gallai («Storia
di S. Gallo») di Ild. v. Arx. Nella Dialettica, ch’essi dividevano in Logica,
Peripatetica, Stoica e Sofica [sic/l, furono loro maestri Aristotele, Platone,
Porfirio e BOEZIO: eran loro ben note le dieci categorie e le Periemerie del
primo tra essi, le cinque Isagogi di Porfirio e il metodo d’insegnamento di
Socrate. Ma nientr’ è facile scorgere subito che tutta questa notizia può
fondarsi solamente sopra la più crassa ignoranza dell'autore, si dovrebbe
supporre tuttavia ch’esso abbia ricavato da mi qualche manoscritto la
informazione che dà, relativamente alla partizione della dialettica; tuttavia
anche su questo punto sono -tato messo tranquillo dal mio amico e collega
Hofmann, il (piale, in occasione di sue ricerche personali, fece a S. Gallo Tra
questi scritti il più insignificante è un « Tractatus inter magistrum et
discipulum de artìbus »: l’autore in¬ fatti si è limitato qui a riassumere il
Compendio di Al¬ enino (v. sopra le note 48 ss.), conservandone la forma
dialogica, e ha inoltre utilizzato in compendio anche BOEZIO, ma epiest ultimo
soltanto da principio, cioè a proposito della Isagoge e della categoria della
quantità 24 °). [§ b) rifacimento delle Categorie]. — Invece un più diligente
studio delle opere di BOEZIO e una rielaborazione alquanto più libera del
materiale che vi si trova, sono manifesti in altri due scritti, notoriamente di
som¬ ma importanza anche per la storia della lingua tedesca, cioè nel
rifacimento delle KaTTjyopi'at, e nel rifacimento del libro IlepUppTjvelas 247
). Il primo di questi scritti si attiene in complesso rigorosamente, quanto al
testo, alla anche nel mio interesse una verifica relativamente alle opere di
logica, ma non potè trovare assolutamente nient’altro, all’ infuori da quali
t’è stato di già pubblicato, o per lo meno accennato dal (iraff. dal
Wackernagel e dallo Hattemer; v. anche appresso nota 271. ’ / bsisle
manoscritto alla Biblioteca Governativa di Monaco (Coti. lat..), di dove lo
Hattemer ( Denkm. d. Mitlelalt.. [già Cil.l, III, p. 532 ss.) trasse per
pubblicarle le sole intestazioni dei capitoli. La partizione della filosofia e
della logica è quasi letteral¬ mente presa da Alcuino, ma dove si tratta delle
quinque voces, la ' numerazione delle diverse loro sottospecie e gli esempi
illustrativi -ono ricavali da Boezio; la Sezione che tratta delle categorie è
da principio un riassunto da Alcuino, con omissione degli homony- ni"
ecc.; e dopo che di nuovo è stato utilizzato Boezio, solamente riguardo alla
categoria della quantità, si viene in seguito a parlari- delie rimanenti
categorie, attingendo parola per parola ad Alenino, ma soltanto fino alla
categoria dell’/iufiere: e da quell" unica pro¬ posizione esemplificativa
(v. qui sopra la nota 57) si passa subito, con la intestazione Quid su,il
formulile syllogismorum, alle notizie !" -Alcuino intorno all
argomentazione, le quali sono altrettanto '"eraunente riassunte, quanto le
seguenti che riguardano Biffi■ niil( *\ topica e Periermertine. .. 1 F ;^ P 7
Ìo 24S ). ma frammezzo al testo, periodo traduzione di Boezio t n te per
periodo, vi è intrecciata una spiegazione, contendi , S ua volta la parte più
importante del commento dello «Z Boezio, e a BOEZIO una volta Fautore espressa-
niente si richiama: molto spesso la dimostrazione queste spiegazioni viene
articolata ne suoi e 1 maniera perspicua, mediante cenni sommari del conte unto
o altre intestazioni, anzi anche con la indicazione Propositi io, Asmmptio,
Conclusi o«): e gh esempi espli¬ cativi sono in alcuni luoghi personalmente
escogitati da Notker; si può osservare ancora che Fautore, con ma¬ nifesta
predilezione per la geometria, s indugia piu a lungo e con maggiore originalità
su quei passi, che con- tengono un accenno a tale disciplina • re) rifacimento
del De mlerpretalione). - Il rif"'" menlo del II.pt nlliene «—«
1»"- • a 1 ™r«n «tesso della storia della logica, lo ho pre- alcun
influsso nel torso , - zwe i altesten Compendien srwfttiSX* gj d r p ,l l8™“ ,b
‘ di logica in tedesco»), Monaco, , ^ aria ’ zion ;. ta ,l V olta sono ab-
brevT.zSi od Soni ^ - — * — dere, e via dicendo. a pedo mule [el disposino ist
PÌP -; €o S t 4 p. lC eTaT4 a n9 le s Quesfulti.na terminologia è presa da
Hoizio. de syll. hyp.\ v. la nota a • intu itiva «) A questa maniera non
soltanto lp. WZ ss. « u5 mediante disegni "jò^l'^niTesaurita la
trattazione della *- „ .... diseano diverso che in Roezio. to al testo, parola
per parola alla traduzione di BOEZIO, e i commenti che si trovano alla stessa
maniera intrec¬ ciati anche qui, si fondano parimente sopra il commento di
Boezio, del quale l’autore, come accenna egli stesso, ha utilizzato ambedue
l’edizioni ***). Ma ha importanza la introduzione, eh’ è premessa all’ insieme,
in quanto che novamente c’ imbattiamo qui pure nel punto di vista
nominalistico, che ravvisa nel significato delle parole l'oggetto delle Categorie;
ivi inoltre, notizie, ed espres¬ sioni tecniche, tratte da Marciano Capella,
vengono intrecciate in maniera caratteristica con quelle osservazioni die
riguardano l’ordine ili successione dei libri dell’ Or¬ ganon, e che sono
ricavate da BOEZIO: e appunto rispetto a queste ultime notizie, ci è consentito
ancora di ricavare dagl’ ingenui equivoci dell’autore la conchiusione sicura
eh’ egli conosceva gli Analitici e la Topica di Aristotele, proprio soltanto
per sentito dire, da quel passo di BOEZIO, Hattemer, p. 474 a [ ed. Piper, p.
511: rifacimento del De interpr., Lili. I, 111: Est hoc \tractare 1 nlterius
negotii. Taz isl anders uuur zelerenne, samoso er chade, lis mine metaphisicu
(v. BOEZIO, p. 230 [ in de interpr., Prima editio: ediz. Meiser, I, 5, p. 74;
PL, 64, 3151), dar lero ili tih iz. Ahere boetius saget iz fure in, in secunda
editione etc. (cioè Boezio, p. 326 I ih., Seeunda edi¬ tio: ediz. Meiser, II,
5, p. 101; PL. [Est hoc alterius nego- lii. Ciò dev’essere insegnato in altro
luogo; così disse egli: «leggi la mia Metafisica; li te lo insegno». Ma BOEZIO
lo dice apertamente in secunda editione ete. (Della traduzione, di questo, come
dei segg. passi di N. L., debbo esser grato alla dottrina, tanto cortese quanto
sicura, del rh.mo collega BATTISTI (si veda). Neanche mancano qui quelle
figure, con le quali BOEZIO rende intuitiva la teorica del giudizio, e anzi per
esse l’autore rinunzia a servirsi del tedesco. “’) ìhid.. p. 465: Aristotiles
sreib cathegorias, chunl zcluenne, uutiz einluzziu uuori pezeichenen (cfr. più
sopra le. note 149 ss., 159 c 242, e subito appresso la nota 256); nu lutile er
samo chunt ketuon in periermeniis, uuaz zesumine gelogitiu bezeichenen, an dien
veruni linde falsum fernomen uuirdet; tiu latine heizent proloquia; an dien
aher neuueder uernomen neuuirdet, tilt eloquio heizent (la fonte di questa
terminologia, vedila in Marciano Capella, Sez. XII, nota 51, e in Agostino,
ibid., nota 33); tero uersuiget er an disamo buoclie. I nandù ouh proloquia
geskeiden sint, unde einiu heizent 8. il «De parlibue loicae»; nominalismo]. Un
altro scrittarello, intitolato « D e partibus loicae»™) si presenta come una
compilazione compendiosa per uso delle scuole, essendovi anzitutto enumerate le
sei parti* della logica, compresa la prima, che fu aggiunta da Porfi¬ rio alle
cinque aristoteliche) : alla enumerazione fa poi Simplicio, dar eia uerbum ist,
ut homo uiuit, andenu duplicia, dar zuei ucrba sint, ut homo si uiuit spirat,
so leret er hier simplicia, in topicis leret er duplicia. Fone simplicibus
uuerdent predicatoli syllogismi, jone duplicibus uuerdent conditionules
syllogismi (la fonte di questa distinzione, in BOEZIO: A ah periermeniis sol
man lesen prima analitica, tur er beidero syllogi- smorum kemeina regida
syllogislicam heizet: taranah sol man leseti secunda analitica, lar er sull
Arrigo leret predicutinos syllo- gismos, tie er heizet upodiclicam (anche chi
avesse dato appena una occhiata superficiale agli Analitici stessi, non si
potrebb espri¬ mere a questa maniera); zc iungisl sol man lesen topica, un
diener oidi sunderigo leret conditionales, tie er heizet dialecticam. Jiu
purtes heizenl samenl logica. Nu uernim uuio er dih ielle zuo dien proloquiis
(anche nel commento stesso, accanto alla terminologia di BOEZIO, vediamo
sovente figurare proloquium). [Aristotele scrive le Categorie, per indicare che
cosa significhino le parole isolate. Invece nelle Periermeniae egli stesso
dichiarerà quello che signifi¬ cano le combinazioni di parole, con cui viene
enunciato il verum e il falsimi, e che in latino soli dette proloquia ; se
invece non viene enunciata nessuna delle due cose, «on dette eloquio. Ala su
ciò egli tace in questo libro. Inoltre anche nei proloquia si può fare una
distinzione, e taluni, p. es. « homo viviti, in cui c è un verbo solo, vengon
detti « simplicia », altri, in cui ci sono due verbi, p. es. « homo si vivit
spirat», vengon detti « duplicia». Dei simplicia egli ragiona qui, dei duplicia
nei Topica. Dai proloquia semplici si fanno i predicativi syllogismi. dai
duplici i conditiona- les syllogismi. Dopo le Periermeniae, si leggeranno i
primi Anali¬ tici, dove si chiama sillogistica la regola comune agli uni e agli
altri sillogismi; dopo di che si leggeranno i secondi Analitici, dov’egli
insegna separatamente i sillogismi predicativi, la cui regola chiama
apodittica; per ultimo si leggeranno i Topica, dove insegna sepa¬ ratamente i
sillogismi condizionali, la cui regola egli chiama dia¬ lettica. Queste parti
complessivamente portano il nome di logica. Ed ora apprendi coni’ egli ti guida
ai proloquia (ed. Piper, p. 499, op. ull. cit., « Praefatiuncula »)]. 251 )
Edito, di su un manoscritto zurighese, dal XX ackernacel negli Altdeiilsche
Bliitter (« Fogli Altotedeschi ») di FIaupt e Hoffmann, II, p. 133 ss., e dallo
Hattemer, op. cit., p. 537-540. *“) Hattemer, p. 537: Quot sunt partes logicue?
Quinque secun- dum Aristolelem, sextum partem addidit aristotelicus Porphirius;
quae sunt: isagoge, calhegoriae, periermeniae, prima analitica, se¬ cunda
analitica, topica. seguito una più o meno lunga indicazione del contenuto delle
parti stesse. Dopo che cioè della Isagoge sono state citate soltanto, nella
traduzione di Boezio, le definizioni delle quinque voces, viene brevemente
illustrata mia sola delle categorie, la sostanza, senza che sieno neanche no¬
minate le altre nove, ma in tale occasione viene enun¬ ciata 2o6 ) la
concezione nominalistica, ancor più netta¬ mente di quel che s’è veduto or ora,
alla nota 253; segue poi, riguardo ai giudizi, la semplice enumerazione delle
quattro specie (universale affermativo, universale nega¬ tivo, particolare
affermativo, particolare negativo), tratta da Marciano Capella e con la
terminologia di lui 2r ‘ 7 ). Ma ciò che viene detto poi intorno agli Analitici
primi e secondi, ha ugualmente per fondamento quello stesso passo di Boezio,
dove questi espone 1’ ordine delle parti dell’ Organon, e certo neanche qui è
fatto uso della tra¬ duzione da lui curata degli Analitici 23S ). Infine si
tratta minutamente della Topica, e anzi in piena conformità con Isidoro (v.
sopra la nota 39), aggiungendo qui 1* au¬ tore proverbi tedeschi come esempi
dei singoli loci 259 ). fe) scritto De syllogismis, e sua importanza ]. Ma il
più importante fra tutti questi scritti, provenuti da : “ 8 ) Ibid., p. 538 a:
Quid tractutiir in cathegoriis? Prima rerum significano et quid singulae
dictiones significent, utrum substantiam an accidens etc. sn )Ibid.: Quid
narratile in periermeniis ? Quid consideratile in primis analiticis?
SILLOGISTICA quae est communis regula omnium sillogismorum, necessariorum et
probabilium, cathegoricorum et ippolhelicorum, item praedicativo- rum et
condilionalium (raddoppiamento insulso, risultante daH’aver tirato dentro la
terminologia di Marciano Capella. Quid traclatur in secundis analiticis? Apodictica
id est demonslraliva quae demonstral veritatem, id est necessarios siilo-
gismos. w ) È parimente copiato da Isidoro (nota 27) quanto lo Hattemer (ibid.,
p. 530 s.) riporta, da un altro luogo dello stesso manoscritto, intorno alla
differenza tra dialettica e retorica. S. Gallo, è la monografia De syllogismis
2G0 ) ; poiché, sebbene si fondi parimente ancli’essa sopra una compilazione di
materiale svariato, il suo autore, con un maggior corredo di letture, mette
mano qui anche sopra cose, per cui non bastava una conoscenza puramente
superficiale dei compendi scolastici d’Isidoro o di Alcuino; inoltre egli
conserva una notevole indipendenza, in quanto che mostra la tendenza verso una
interna, uni¬ taria finalità della logica: con la esposizione di tale fina¬
lità si chiude la monografia. Prima viene enunciata ) la definizione del SILLOGISMO,
presa da Marciano Capella, con l’aggiunta di alcune parole della Retorica d
Isidoro, — e qui già un considerevole numero di esempi in tedesco serve a chia¬
rire la trattazione: poscia 1 autore, facendo uso di una terminologia mista,
presa sia da Marciano sia da Boe¬ zio, adduce la divisione dei sillogismi in
categorici e ipotetici 2 ' 12 ); presenta quindi, attingendo a Marciano (Sez.
XII, note 63 e 67), le parti costitutive del sillo¬ gismo categorico e del
giudizio categorico), per far poi seguire a ciò la esposizione integrale dei
diciannove modi del sillogismo, la quale è tratta da Apuleio (Sez. X, 1
Integralmente riprodotto a stampa nello IIattf.mer; in forma di estratti, nel
Deutsches Lesebuch [« Anto¬ logia tedesca»] di Gucl. Wackfrnacel, I, p. Ili ss. )
C. 1, ibid., p. 541 a: Quid sii syllogismus. Syllogismus graece, lutine dicitur
ratiocinatio.... quuedam indissolubilis oralio .... quae~
dam orutionis catena et inficia ratio. Et ex iis videntur quidam esse qui
latine dicuntur praedicativi, alii autem qui dicuntur conditionales.... (p.
>12 b) Constai autem omnis syllogismus proloquiis i. e. propo- silionibus.
Dalle parole che vengono appresso — proloquia dicumus cruezeda, similiter
proposiliones cruezeda [ incroci, combinazioni di voci CI, itera proposiliones
pietunga O Bietungen », offerte, trad. lett. di proposiliones 3, alii diami
pemeinunga [« Bemeinungen », enun¬ ciazioni) risulta altresì che in ogni caso
erano in parecchi a occuparsi di simili rifacimenti della logica Od. Piper: r r
hti minori, attinenti a Boezio, lì : «/le Syllogismis », 1], Cioè sumpta,
illatio, subiectivum, declaralivum.n-ote 18 ss.), e chiarita con esempi
tedeschi, che son opera dello stesso compilatore 2M ). Si passa quindi ai
sillogismi ipotetici, e anzi per prima cosa viene presentato, alquanto
liberamente elaborato e con intercalati termini di Boezio, quel che su tale
argo¬ mento si ritrova in Marciano: solamente appresso trova posto la
indicazione compiuta dei sette modi sillogistici enumerati da Cicerone (Sez.
Vili, nota 60), e illustrati qui con una minuta spiegazione, che l’autore trae
dal commento di BOEZIO alla Topica di CICERONE, e correda parimente di esempi
in tedesco 20 °). Ma ora c’ era pur iuoltre in Isidoro un syllogismus rhelo-
rum (v. sopra la nota 43), e in connessione con quanto da lui era stato detto,
viene colta qui la occasione di passar a considerare più minutamente la teoria
retorica, il¬ lustrandosi, con esplicito rinvio a CICERONE (de Inventione, v.
la Sez. Vili, nota 59), l’argomentazione retorica, e facendosi uso perciò di un
esempio che si trova in Cicerone stesso 2B7 ). Ma subito 1’ autore s’in¬
dustria di ricondurre al sillogismo categorico tale specie di sillogismo, in
quanto che questo è adeguato all’ esi¬ genze formali della riprova della
verità, — accennando di nuovo sulle orme di Boezio agli elementi semplici dei
sillogismi in generale 2B8 ), e a ciò unendo spiegazioni re- C. 3-8, p. 543-47.
) C. 9—12, p. 548 s. L’espressioni usate «la Marciano vengono qui intese come
specifica terminologia, cioè: pro/Htsitio, assumptio, conclusio. **) C. 13, p.
55(4—553. Qui LA FONTE è BOEZIO, ad CICERONE Top., V, p. 831 [PL, 64, 1142] ss.
I C. 14, p. 553 a: Transeunt vero syllogismi et nd rlietores iam latiores et
diffusiores factì.... Ilorum esempla sunt upud Ciceronem in libri*
Rhetoricorum. L’esempio ciceroniano del governo del- I universo (de Invcntione
, I, 34, 59), elle del resto figura anche in BOEZIO, de cons. phil., I, p. 958
[PL, , viene poi svolto parimente in tedesco. l Ibid., p. 554 a: Praedicntivus
est ille syllogismus nut condi lative al giudizio 269 ). E dopo che a ciò hanno
fatto se¬ guito disquisizioni etimologiche sopra alcuni concetti, affini per
significato al syllogismus — disquisizioni che sono tratte o direttamente da
Isidoro, o dal così detto Glossario di Salomone (v. sopra la nota 185), e in
parte anche da BOEZIO 27 °) — vien approfondita, in base alla Topica
ciceroniana, la differenza tra dialettica e apodit¬ tica 2T1 ) ; tale
differenza coincide con quella tra sillogismi ipotetici e categorici, ma
proprio per questo, nel fine unico della scoperta del vero, si risolve in ima
superiore unità, poiché con il magistero del ragionare si apprende ogni verità
umana, mentre il divino trascendente s’in¬ tende senza tale arte 272 ).
tionulis?.... Piane ergo praedicativus est.... nam et omnes purtes
syllogismorum, sire propositio sive approbalio sive sumptum sive illatio sive
conclusio sive ut alii dìcunt complexio (v. la Sez. Vili, nota 59) aut
confectio, communi nomine enuntialio vocantur (v. ibid. la nota 45). La fonte
di questa riduzione alla proposizione semplice è Boezio, ad Cic. Top., V, p.
823 [PL, 64, 1129]: cfr. anche la Sez. XII, note 131 e 140. "’) lbid.: Est
autem enuntialio oratio verum aut falsum signi- ficans.... huius species sunl
affirmatio et negatio (Sez. XII, nota 111): successivamente si vien a trattare,
in lingua tedesca, di assumptio, illatio, conclusio. OT ) C. 15, p. 555 a: Cioè
sopra ratiocinari, disputare, iudicare, experimentum ; e inoltre: argumentum
dicitur, ut BOEZIO (ad CICERONE Top., I, p. 763 [PL, 64, 1048]) placet, quod
rem arguii i. e. probat. '”) C. 16, p. 556 a: Quuerendum autem magnopere est,
quare CICERONE dialecticam in ypolhelicis tantum conslituerit syllogismis....
Est enim medius inter Arislolelem et Stoicos (forse che quella tale notizia,
accennata più sopra, nota 245, I. v. Arx l’ha attinta di qua?).... Proplerea
Boetius Arislolilem in thopicis dialecticam et in secundis analiticis
apodicticam docuisse testalur, cioè il complesso è preso da BOEZIO, ad Cic.
Top., I, p. 760 LPL, 64, 1045] g., dove si trova uno svolgimento ulteriore del
punto di vista ricordato. De potentia disputandi, i. e. Fone dero muhte des
uuissprachonis. Si ergo satis intellectum est, omnem apodicticam constare in
decem et novem modis syllogismorum et dialecticam in septem modis
syllogismorum, non sit dubitandum, totam earum utilitatem esse in invenienda
veritate. Ube niunzen sloz apodicticae unde sibeitiii dialccticae muda gelirnet
sin, so uuizin man dormite, duz sie nuzze sint, alla uuarheit mit in
zeeruarenne [Quando si sono bene appresi i 19 sillogismi apodittici e i 7
dialettici, con ciò Così l’autore, la cui concezione già con questo ci
rammenta, in maniera tanto chiara quanto consolante, 10 Scoto Eriugena (note
111-120), può, per la sfera della umana aspirazione alla verità nel mondo di
qua, enun¬ ciare una definizione unitaria della logica, nella quale ha la
propria essenza la dialettica «ovvero» apodittica: e quel ch’egli trovava detto
già da Boezio (Sez. XII, nota 76), prende da lui mia espressione più precisa ed
energica, là dove dice, analogamente allo Scoto, che la logica è la scienza del
giudicare o disputare 273 ) : perchè 11 potere della forma, che si manifesta
nei sillogismi di qualunque specie, è per lui quel che decide, è il termi¬ ne,
nel quale vengono a confluire tutte le differenze che si manifestano entro la
sfera della logica 274 ); la reto- stesso apprendiamo che essi giovano a
riconoscere ogni sorta di veritàl. Omnia enim his Constant, quae in humanam cadunt ratio-
nem. Al daz menniskin irratin mugin, taz
uuirdit hinnan guuissot [Quanto gli uomini arrivano a intendere, tutto viene
saputo con questo mezzo]. Divina excedunt humanam rationem, intcllectu enim
capiunlur. Tiu gotelichin ding uuerdent keistlicho uernomen ane disa
meistrrskaft ILe cose divine vengono apprese con l’intelletto, senza questa
maestria (nel ragionare) (ed. Piper. Quid sit dialectica vel apodictica. Ergo
diffinienda est dialectica sire apodictica, possunt enim unam et eandem
suscipere diffinitionem in hunc modum.. Dialectica est sive apodictica
iudicandi peritia vel ut olii dicunt disputandi scientia (proprio questo già si
trova anche nello Scoto, v. sopra la nota 112). Meisterskafl chiesennes linde
rachonnis, taz ist dialectica, taz ist ouh apodictica [La maestria nel
giudicare e nel disputare, è la dialettica o l'apodittica (ed. Piper, ed.
Piper, ibid.] : l'rius diximus. quia ratio est quae ostendit rem. Reda skeinit
uuaz iz ist. Pi dero redo sol man chiesen. ube iz uusen nuige.... Taranah mag
er [Il discorso dimo¬ stra quel che una cosa è; con questo discorso si
ricercherà se una cossa possa sussistere. In seguito egli potrà] rachon i. disputare,
ioh [e anche] uuarrachon. i. ratiocinari.... Ter uuarrachot. ter mit redo sterchit. linde ze uuare
bringel. taz er chosot. Reda errihtet unsih allis tes man stritet. Ter dia chan uinden. (p. 621) der ist [Ragiona colui
che con il suo discorso rafforza e dimostra quanto ha ricer¬ cato.... Il
discorso c’istruisce in tutto ciò su cui si viene a contesa. Chi può trovare
questo, è un] index, ter ist raliocinator. ter ist disputator. Ter ist
argumentator. ter ist dialecticus. der ist apodicti- cus et sillogisticus. rica
invece, la quale serve soltanto alla verisimigliauza ma non già alla verità, è
perciò situata su di un altro campo, mentre quel che c’è di comune e di più
vera¬ mente omnicomprensivo è la espressione verbale (ver- bum), nella quale
deve spaziare così il sermo filosofico come anche la diclio retorica. Ma
proprio per que¬ sta ragione il punto di vista che è per l’autore assoluta-
mente ovvio e naturale, è quel punto di vista nominali¬ stico, che abbiamo
trovato nello Scoto, poiché la diffe¬ renza tra vero e falso, cioè l’oggetto di
ogni atto giudi¬ cativo o di ogni disputa nella sfera della logica, può
manifestarsi solamente nella forma di giudizi umani, e anche i praedicamenta
non sono appunto nient’altro che enunciazioni 276 ). Comunque, è una cosa che
ci fa veramente piacere, esserci qui imbattuti in un autore, che sa quel che si
vuole, e per noi questo scritto è infinitamente superiore ai giocherelli
pedanteschi e senza costrutto di un Ger- berto o di un Anseimo; è anche ben
difficile imaginare che si sarebbe venuti a presentar le « prove della esi- )
C. 19, p. 558 b [ed. Piper]: Nec panini hoc alten- dendum est. quantum
intellectu quaedam distata, quae simili modo solent interpretati, ut sunti
verbum, sermo, dictio.... Qiuie si unum significatela, nequaquam sermo daretur
philosophis, dictio vero rhe- toribus; ut auctores docenl (cioè Isidoro: v.
sopra la nota 27); nani et Aristotiles dialecticum, quae interprelatur de
dictione, ad rhetores traxil et voluit eam esse in argumentìs rhetoricis, i.
probabilibus, quae ille iudicavit esse (nel manoscritto: rum esse) discernenda
a necessariis argumentìs, de quibus fiunt ypothetici syllogismi et tota
dialecticu, ut Cicero docuit (v. Boezio, cit. nella prered. nota 271).... Dignior est namque sermo et
gravior, ut sapientes decet, dictio humilior est et plus communis data
rheloribus. Verbutn autem om¬ nium est. ■ ''>
IbidEt in interpretando proprie sermo (cfr. la nota 321[?]) saga diritur. sic
et enuntinlio, quae similiter philosophis tradita est. et disputantibus
necessaria est. quia inest ei semper veruni aut fcdsum.... Praedicare autem
est, inquit Doetius To non forse 124? ad Ar. pracd., I; PL, 64, 1761), aliquid
de aliquo dicere, i. eteuuaz sagen fone etcuuiu. linde et praedicnmenlum
dicitur et praedicatio, einis tingis kesprocheni fone demo undermo [Tesser una
rosa detta di un’altra cosa]. stenza di Dio », se in generale si fosse
conservata quel¬ l’avvedutezza, di esercitare cioè belisi in tutte le dire¬
zioni la maestria deH’argoinentare, iiell’ànibito della realtà da noi
percettibile, ma di lasciare invece al pio sentimento dei credenti la
rivelazione del Divino nella sua immediatezza. Del resto, dobbiamo pure qui far
ugualmente rile¬ vare che l’autore di questa monografia non può aver conosciuto
la traduzione degl’analitici curata da BOEZIO, perchè altrimenti, se gli fosse
stata accessibile la sillogistica stessa di Aristotele, egli, che pur mostra in
generale un corredo di letture maggiore di quello degli altri, non sarebbe
certamente andato già a prendere i diciannove modi da Apuleio, nè, con la sua
aspirazione alla unità interiore della logica, si sarebbe riattaccato
esclusivamente a quegli stessi passi, che a ciascuno erano noti, dalle
traduzioni e dai commenti più diffusi di BOEZIO. Ma in quello studio esteso
della logica, quale ci si presenta a quest’epoca in S. Gallo, potremmo ben
anche ravvisare un fenomeno piuttosto isolato, sempre che non sia determinato
solamente da mancanza di notizie il giudizio che pronunciamo, quando diciamo
che nella prima metà del secolo XI in generale ha prevalso una mancanza di
attività, per quel che con¬ cerne il dibattito delle questioni di logica, o
persino la *") In siffatti casi sembra che l'argumentum ex silentio sia
asso¬ lutamente calzante, e elle pertanto si aggiunga, come una convali¬
dazione mollo precisa, alla circostanza generale, vale a dire non esserci, in
tutta questa letteratura, un solo indizio positivo che sia stato fatto uso di
quegli scritti aristotelici. TSoggiugerò qui che lo scritto del Prantl. da lui
citato più sopra, comparso negli Atti della Regia Accademia Bavarese delle
Scienze (Clas¬ se I, voi. "Vili, Scz. I), riguarda non gli scritti logici
di Notker L., bensì due compendi dovuti uno a Ortholph Fuchsperger, l’altro a
Volfango Biitner, e rispettivamente stampati ad Augusta e a Lipsia. compilazione
di compendi. Nel corso della nostra inda¬ gine, dobbiamo invero a ogni passo
tener presente la pos¬ sibilità clic una parte del materiale die esisteva, sia
stata sottratta totalmente alla nostra conoscenza, sebbene si sia portati ad
ammettere che difficilmente le manifesta¬ zioni di una certa importanza
sarebbero dileguate senza lasciar alcuna traccia, e che un silenzio assoluto di
tutte le fonti non sarebbe pensabile, se realmente lo studio della logica fosse
stato più largamente diffuso. [§ 27. — Altri documenti relativi allo studio
DELLA LOGICA NEL SECOLO XI: FrANCONE A LlEGI, OtLOH a Ratisbona, Pier Damiani],
Dalla metà circa del secolo XI ci giunge la notizia che un tal Francone,
scholasticus a Liegi (intorno al 1047), compose, sopra la quadratura del
circolo (v. le note 191 e 251 di questa Sezione), ima monografia che si
riattacca al relativo passo di Boezio 278 ) : e forse della stessa epoca
possiamo citare almeno l’espressioni, con le quali un monaco di St. Emmeram,
Otloh, morto a Ratisbona [dove appunto sorgeva il chiostro di St. Emmeram] ,
vien a ri¬ conoscere che ci sono alcuni dialectici ita simplices, che applicano
il canone dialettico a tutte le parole della Sa¬ cra Scrittura, e credono a
Boezio più che alla Bibbia stessa 278 ). Ma da quest’ultima doglianza bisogna
con- *") Sicebekti Gemblancensis Chronica ad unnum 1047 (Pertz, MiGH, :
Franco scolaslicus Leodicensium et scìentia litterarum et morum probitate
claret; qui ad Herimannum archie- piscopum scripsit librum de quadratura
circuii, de qua re Arislolelcs (com’è riferito da Boezio I in Ar. praed., II;
PL, 64, 230], p. 165) ait: Circuii quadratura, si est scibile, scìentia quidem
non est, illud vero scibile est |PL, 160, 209]. ”°) Oti.ohni Dialogus de tribus
Quaestionibus (riprodotto dal Pez, Thesaur. Anecdot., HI, 2, p. 143 ss.), p.
144-5: Peritos autem dico magis illos, qui in Sacra Scriptura, quarti qui in
Dialectica sunt instructi. Nani dialecticos quosdam ita simplices inveni, ut
chiudere che il su riferito monito di Fulberto (nota 237) non fu disdegnato
solamente da un Berengario, ma che da varie parti fu designata la dialettica
come pietra di paragone in questioni teoretico-dommatiche ). La maggioranza
invece, com’è ben facile intendere, rima¬ neva fedele al punto di vista
originario del Medio Evo cristiano, e può perciò, poiché stiamo ormai per
entrare in un’epoca di contese, ricordarsi soltanto a mo’ d’esempio come Pier
Damiani, assegnasse alla dialettica il compito di starsene quale pia ancella al
servizio della Chiesa, e di tener dietro umilmente pedisequa alla sua padrona
2S1 ), senza che in verità la divota anima del Damiani abbia ancora il minimo
presentimento che anche questa do¬ mestica possa licenziarsi e fondarsi un
proprio foco¬ lare. omnia Sacrae Scriplurue dieta juxta dialecticae
auctoritatem con- stringendo esse decernerent: mugisque Boèlio quam Sanctis
Scrip- toribus in plurimis dictis crederent. Linde et eundern Boètium secuti,
me reprehendebant, quod personae nomen, (dicui, nisi sub- stimtiae rationali,
adscriberem etc. [PL], W. Scheber, Leben VTilliram’s Ables von Ebersberg [«
Vita «li Williram, abate di Ebers- berg »] (nei Rendiconti dell’Accademia
imperiale, Classe filosofico- storica, voi. 53, Vienna, 1866), p. 289, riferisce
queste allusioni a scolari di Lanfranco; cfr. appresso la nota 299. '*')
Poiché, a prescindere dal fatto che nei vari scritti teologici di Otloli non si
parla in maniera particolare della questione della Santa Cena, e pertanto è
difficile che la sua polemica contro i dia¬ lettici si riferisca a Berengario,
nel passo sopra citato si tratta pro¬ prio di casi personali, che Otloh designa
come conseguenza di un indirizzo generale dell’epoca. *“) Petri Damiani Opera,
ed. Cajetano, Parigi,De. divina omnipolentia, V; PL, 145, 603]: Haec piane,
quae ex dialecticorum vel rhetorum prodeunt argumentis, non fa¬ cile divinai-
virtutis sunl optando mysteriis; et quae ad hoc inventa sunt, ut in
syllogismorum instrumenta proficiant, vel clausulas dictionum, absit ut sacris
legibus se pertinaciter inferant et divinae virluti conclusiotiis suae
necessitates opponant. Quae tamen artis humanae peritia, si quando tractandis
sacris eloquiis adhibetur, non debet jus magisterii sibimet arroganler
arripere; sed velut ancilla dominue quodam famulatus obsequio subservire, ne,
si praecedit, oberrel eie. Movimento più vivace nella seconda metà del SECOLO
XI: la scienza giuridica. — Ma proprio nella seconda metà del secolo XI si
manifestò nella sto¬ ria della cultura l’azione di fattori, i quali portarono,
entro la tradizione della logica delle scuole che si con¬ servava uguale a se
medesima, un movimento più vivace, e anche un violento rinnovarsi di vecchi
contrasti fra le varie tendenze. Da due lati diversi si risente un influsso sopra
la logica, ma in varia maniera e in molto vario grado, perchè di questi lati
uno possiamo scorgerlo qui dapprima soltanto in tenui inizi, per poi novamente
riattaccarci a questo punto, quando lo stesso fattore si manifesterà più tardi
con maggiore intensità, mentre l'altro lato sùbito si leva su con tutta la sua
forza, e per molto tempo determina le condizioni in cui la evoluzione compie il
suo corso. Ma questi due lati cor¬ rispondono alla giurisprudenza e alla
teologia dominatica. Se cioè l’amministrazione della giustizia già per se
stessa in generale implica un richiamo alla prassi dialettico-retorica, è
facile spiegare come, in un’epoca in cui in Italia s’iniziava un rinnovamento
della scienza giuridica e incominciavano a sorgere scuole di diritto), si desse
ora maggior peso alla logica pratica, cioè a ima logica, la quale veramente mal
si distingue dalla retorica, ma nella teorica dell’argomentazione e nella
topica rimane pure conforme al solito materiale ch’era in uso nelle scuole di
logica. Come noi stessi per il no¬ stro presente intento abbiamo potuto già da
prima (Sez. Vili, note 52 e 68) trovare la nostra fonte in passi che prendevamo
dalle Pandette, così sembra d’altra parte ■ fL ) Vedi Savigny, GESCHICHTE DER
ROMISCHEN RECHTS IN MITTELALTER Geschichte dea Ròmischen Rcchts im MiUel- alter
[Storia del diritto romano nel Medio Evo],. [trad. it., Torino, J , e Giesebrecht, De lìti, attui, ap.
Itiilos, Berlino, 1845, in -4° [ir. it. Pascal, già cit.]. che IN ITALIA lo
studio della grammatica filosofica e della retorica abbia conservato una
connessione ininterrotta con le materie giuridiche del DIRITTO ROMANO ) : e
sebbene noi preferiamo lasciar da parte l’aneddoto letterario, secondo il quale
tutto quanto lo studio del DIRITTO ROMANO a BOLOGNA avrebbe preso principio da
una spiegazione grammaticale della parola « As » 2S ) Ibid., Aristotelica
didicimus disciplina duarurn spe- cierum commistione lertiam gigni minime.
Rerum etiam naturam puli nomino non posse, duo contraria simili in eodem esse
vel, quod trovava nel commento (li Hoezio alle C-utegorioo. Ma questa medesima
questione fu anche oggetto di una disputa che Anseimo sostenne a Magonza, e
della quale diede minuta relazione in una lettera al suo maestro Droone. Ecco
il nòcciolo della questione: Quando sussiste un’alternativa (p. es. tra lode e
bia¬ simo), si può creder di cogliere il giusto mezzo, non facendo nè una cosa
nè l’altra; ma si obbietta in contrario, die il giusto mezzo è la unione degli
opposti (come p. es. il rosso è la unione di nero e bianco), dunque bi¬ sogna
pure scegliere per conseguenza una delle due cose, qualora non si voglia farle
tutte due al tempo stesso. Ma a ciò da capo si obbietta che il mezzo è propria¬
mente la negazione dei due opposti (dunque p. es. è impossibilius, eandem
essentium procreare. Quod veruni sit necne, quaerimus f Hbetorim., iib. I]. M °
c ) Laudare enim vel vituperare necesse est. «Non lau- dabo, inquid, nec
vituperabo, cuoi medium faciam, quod nec laus est nec viluperatio. Est igilur
possibile utrum non lucere, ubi ali- quod neutrum est invenire. Si medium,
inquam, ut dicitis, fece- rilis, lune et utrumque. Constai enim medium ex
utrisque, ut ex albo et nigro rubrum, et ideo medium. Sicque in faciendo
neutrum facietis utrumque. Utrum ergo facere necesse est, quoniam in utro vel
ulroque utrum non lacere possibile non est». « Medium, inquid, ut dicitis, non
ex utrisque, sed ex nega!ione confìcitur utrorumque, ut non quod et album et
nigrum illud rubrum, set quod est neu¬ trum, illud dicimus rubrum, sicque omne
medium. Utrum ergo lacere necesse non est, quia in meo neutro utrum vel
utrumque possibile non est ». « Si ex negatione utrorumque. medium con- fectum
est, quod, ut dicitis, neutrum est, non magis utrorumque quarti omnium rerum
neutrum est. Quod bene perspectum nichil est. Non enim magis ex albi et nigri
negatione confìcitur rubrum, quam cucii et lerrae ceterarumque rerum. Quia
sicut est veritas ut, quod nec album nec nigrum est, illud rubrum existat, sic
quod nec caelum nec terra nec celerà, illud esse rubrum a veritale non [58]
discrepat, Quod aulem omnibus rebus negatis nichil illarum est, illud res
praedicari inpossibile est. Rcs vero, quod non est illud, nichil esse
necessario consequens est. Sicque in faciendo (diquid facietis nichil. Utrum
ergo facere necesse est, utrumque enim vel neutrum impossibile vel nichil est. Epistola
Anseimi ad Droconem (sic) mugistrum et condiscipulos de logica disputatione in
Gallia habitat. rosso, quel che non è nè bianco nè nero); ma questa obiezione
viene respinta, perchè una tale negazione va di là dall’alternativa data
(perchè allora si potrebbe dire altrettanto bene, che è rosso, quel che non è
nè cielo nè terra), e metterebbe capo infine a una nega¬ zione di tutti gli
opposti, cioè dunque a un nulla. Il risultato è, per conseguenza, che nella
presente alterna¬ tiva bisogna pure scegliere proprio un solo dei due termini.
Abbiamo una prova ulteriore di come la scienza del diritto entrasse in giuoco
nello sviluppo della logica, quando in due uommi eminenti di quell’epoca, Lan¬
franco e Irnerio, vediamo presentarcisi, per così dire, ima unione personale di
quei domìni. È infatti incontestabile che Lanfranco dedica ampiamente e con
buon successo la prima metà della sua operosità, prima che scoppiasse la contesa
intorno alla Santa Cena, princi¬ palmente allo studio del diritto 291 ),
sebbene non si possa, per ragioni cronologiche, pensare a una relazione diret¬
ta, quale persino gli è stata attribuita con lo stesso Imerio); ma in ogni
modo, come risulta dalle testimo- "9 Milonis Crispini Vita Beati
Lanfranci, c. 11 , riprodotta dal Mabillon, Acia Bened. [Sacc. VI, P. II], Tom. IX,
p. 639 [PL, Ab annis puerilibus eruditus est in scholis libe- ralium nrtium, et
legum saecidarium ad siate morern patriae. Ado- lescens orulor veteranos
adversantes in uctionibus causarum frequentar revicit, torrente facundine
accurate dicendo. In ipsa aetale sententias depromere sapuit, quas gratnnter
Jurisperiti aul Judices vel Praetores civitatis acceptabanl. Meminit horum
Papiu (cioè PAVIA sua patria). At cum in exsilio philosopharetur, accendit ani-
mum ejus divinai ignis, et illuxit cordi ejus amor venie sapientiae. Notizie varie, specificamente giuridiche, vedile nel
Merkel, op. cit., p. 14 e 46 s. [12 s. e 35 ss. della cit. trad. it.??J. 5
") Roderti De Monte Auctarium ad chronicam Sigeberti Gem- blacensis ad
anntan 1032 (Pertz, MGII): Lanfrancai Papiensis et Garnerius socius eius,
repertis upud APVD BONONIAM LEGIBVS ROMANIS quas Iustinianus.... emendaverat,
Itis, inquarn, repertis, 9. — C. Prantl, Storia della logica in Occidente, II,
manze, quella medesima abilità dialettica, della quale fanno fede le battaglie
da lui più tardi sostenute con¬ tro i suoi avversari teologici, lo ha assistito
di già fin d’allora. Ma Imerio, e cbe con la sua comparsa segnò, com’è noto,
per LA SCUOLA O LO STUDIO DI BOLOGNA, il passaggio dal pruno’ periodo
embrionale a una più ricca espansione, viene, nelle glosse di Odofredo,
designato espressamente come «logico»; e la circostanza ch’egli sia stato
antecedentemente maestro delle arti liberali, spiega quella esagerata sottigliezza
cb’è venuta a trovarsi nelle sue glosse-’ Avendo d'altra parte lrnerio composto
anche un Formularium, a questo fatto dobbiamo connettere una osservazione
preliminare, essersi cioè venuta a creare una particolare ed estesa
letteratura, la quale serviva all’arte e alla prassi del notariato, e che valse
a mante- ner viva per l’avvenire la relazione tra la retorica in uso nelle
scuole, e la materia del diritto. Questi « F o r m u - operam dederant eas
legere et aliis exponere; sed Garncrius in hoc « vero disciplinas liberales et
litteras divi, tuis m Galli,s multo* edoccns, tandem Beccum verni, et ibi mona,
ehm facili* est [PL], Forse tuttavia la obiezione croTolo- gira sollevata dal Savigny
[p. 25-6 della trad. it |) e m generale fuor di luogo, se, dove si dice «
socius », non pen¬ siamo a relazione personale, ma piuttosto a un comune
atteggia- spirituale nei riguardi della concezione del diritto. minorameli Uge
1 ldtima de in "tegrum resti,utione "l" , . 2, 22); Or, segnar,,
plura non essent dicendo super lege ista Dom.nus lumen } rnenus, quia loicus
fui,, et mogister fui. In c rifate istu in arti bus, antequum docerel in
legibm, fecit imam g ssam sopitisticun ?, quae est obscurior , quam sii textus.
— E (Co- Ìi% l , n /r^ miCa M,and.
Urstis, Francoforte, 1585, p. 433 [Pebtz, >MGH, XX, 376]): l’etrus iste (se.
Abailardus).... habuit.... primo praeceptorem Rozelinum quondam, qui primus noslris temporibus in logica sen-
tenti am vocum instiluil, et post ad gravissimos viros Anshelmum Laudunenscm,
GwUhelmum Campellensem Catalauni episcopum migrans, ipsorumque dictorum pondus,
tanquam sublilitatis acu- mine vacuum iudieans, non diu sustinuit. Inde
magistrum induens Furisius venit (v. la Sez. seguente, nota 258). "')
[Johannes Turmair detto] Aventinus, Atinales Ducum Boia- riae, VI, 3 (ed.
Riezler. Hisee quoque temporibus fuisse reperto Rucelinum Brilanum, magistrum
Petri A belar di, novi lycaei conditorem, qui primus scienliam (leggi
sententinm) vocum sive dictionum insliluit, novam philosophandi ciani invertii.
Eo namque authore duo Arislolelicorum, Peripateticorumque genera esse
coeperunt, unum illud vetus, locuples in rebus procreandis, quod scientiam
rerum sibi vendicai, qttamobrem reales vocantur, allerum noviim, quod eam
distrahit, nominales ideo nuncupali, quod avari rerum, prodigi nominum atque
notionum, verborum vi- dentar esse adsertores. "") Joannis
Saresbehiensis Metalogicon, (Opera, ed. Gi¬ lè?, V, p. 00 [ed. Webh. Naturata
lamen tmiversalium hic omnes expediunt, et allissimum negotium et maioris
inquisitio-[Le notizie sul conto di Roscelino rivelano Vastio degli avversari].
— Ma poiché Anselmo 31B ), che nella sua ortodossomania, inventò la squisita
espressione di « eretici della dialettica » e la usò a carico di Roscelino,
dice, per cieca passionalità o maligna esagerazione, che secondo quella
opinione le sostanze universali non sono nient’altro che un flatus vocis, —
sarà bene che noi acco¬ gliamo non senza cautela anche le altre notizie comuni¬
cate da quello zelatore del realismo, — tanto più che, come vedremo, se si sta
ai prodotti originali della sua dia¬ lettica, non si può ritener che fosse
capace di giudicare sopra questioni di logica; così pure egli non fa invero che
dar espressione al più intransigente odio partigiano, quando rampogna i seguaci
di Roscelino, perchè danno nis contro menlern auctoris esplicare nituntur.
Alius ergo consistit in vocibus; licei haec opinio curii Rocelino suo fere
omnino iam evanuerit. Alius sermones (v. sotto la noia 324) inluetur et ad
illos detorquet quicquid alicubi de universalibus meminit scriptum; in bue
autem opinione deprehensus est Peripateticus Palalinus Abae- lardus noster, qui
multos reliquit et adhuc quidem aliquos habet professioni huius sectatores....
[iPL, 199, 874], — Così anche nel Polycruticus (Opp., IV, p. 127 [ed. Webb, U,
p. 142; PL, 199, 6651): Fuerunt et qui voces ipsus genera dicerenl esse et spe-
cies ; sed eorum inni explosa sententia est et facile cum auclore suo evanuil
(v. la nota 325). "*) Ansfxmi de fide Trin., c. 2 (ed. Gerberon, p. 42 s.
[PL, 158, 265J): llli utique nostri tempori dialeclici (imo dialeclicae
haeretici, qui non nii flatum voci putant esse universales sub- stantias, et
qui colorem non aliud queunt inielligere quam corpus, nec sapienliam hominis
aliud quam animami prorsus a spiritualium quaestionum disputatione sunt
exsufflandi. In eorum quippe ani- mabus ratio, quae et princeps et judex omnium
debel esse quae sunt in /tornine, sic est in imaginationibus corporulibus
obvoluta, ut ex eis se non possit evolvere, nec ab ipsis ea, quae ipsa sola et
pura contemplari debel, valcat discernere. Qui enim nondum intei - ligit,
quomodo plures homines in specie sint uniis homo, qualiter in illa secretissima
et altissima natura comprehendet, quomodo plures personae.... sint uiius Deus? Et cujus
meris obscura est ad discemendum inter equum sinim et colorem ejus, qualiter
discernet inter unum Deum et plures relationes ejus? Denique qui non potest intelligere aliquid esse
hominem, nisi individuum, nullalenus in- telliget hominem, nisi humanam
personam. Omnis enim individuus homo, persona est. Quomodo ergo iste intelliget
hominem assumptum esse a Verbo eie. la ragione in balia corporalibus
imaginationibus : e in verità è lecito sperare, tutt’al contrario, che proprio
nulla ci faccia assurgere così alto al disopra dell accidentalità sensibile,
come il penetrare a fondo nell uni¬ versale contenuto concettuale delle parole,
e che soltanto a questa maniera ci sia aperta la via a un sapere effettivo,
conquistato da noi stessi, mentre a una onto¬ logia soprannaturalistica è
spesso indispensabile ima ima¬ ginazione irretita nella sensibilità. E possiamo
lasciar stare il rimprovero ridicolo, mosso a Roscelino, ossia di non intendere
come la pluralità degl’individui nel con¬ cetto della specie sia una unità
poiché anzi proprio questo è riuscito invece a intendere Roscelino, che cioè la
unità risiede nella parola enimciatrice del concetto. Do¬ vremo ora piuttosto
rimettere, come si conviene, le que¬ stioni nei loro veri termini, per quanto
concerne le altre osservazioni mosse contro Roscelino: vale a dire ch’e¬ gli fa
confusione tra il colore di una cosa e la cosa stessa, e tra le proprietà e i
loro substrati, e parimente ch’egli non si rende conto, come altro sia « Uomo
», e altro il singolo uomo. Infatti la prima osservazione può significare
solamente che, secondo la opinione di Ro¬ scelino, il concetto di una qualità,
in quanto concetto, contiene altrettanta universalità quanta ne contiene il
concetto di una sostanza, in quanto concetto. L’altra os¬ servazione poi
comprende, se la sfrondiamo di quella in- terpetrazione odiosa che le dà il
relatore, il semplice prin¬ cipio fondamentale del nominalismo, che cioè
obbietti¬ vamente, nell’essere concreto, esiste dappertutto soltanto
l’individuale, mentre i concetti della specie e del genere si trovano soltanto
subbiettivamente nelle parole del¬ l’uomo, che insomma obbiettivamente gli
universali non hanno esistenza separata dall’individuale. Che per con¬ seguenza
la Trinità, come obbiettiva essenza di Dio, debba parimente consistere di tre
individui), è implicito in una tale veduta logica, coerentemente svolta: e così
fu che, analogamente a quanto era accaduto con Berengario, la teologia venne a
essere coinvolta nella lotta fra le tendenze che si dividevano il campo della
logica. Ma sembra che Roscelino in generale abbia molto conseguentemente svolto
sino in fondo da tutt i lati il suo punto di vista, perchè altrimenti sarebbe
difficile spiegare, come mai nelle scarse informazioni che ci sono pervenute
sul conto di lui, ci sia ancora una volta un certo punto isolato, che ci
rhuanda in pieno a quel medesimo principio: si tratta cioè del concetto di
parte, che Boezio aveva preso a considerare in vari luoghi, e riguardo al
quale, così per Roscelino come per l’Anonimo già ricordato (nota 171 g), il
momento subbiettivo è ugualmente il momento decisivo; poiché la notizia,
relativa al punto in questione 321 ), va intesa nel senso seguente: Se p. es. il
tetto dev’essere considerato come parte della casa, si ha da riflettere che
obbiettivamente, in “>) Ibid., Epist. n, 41, p. 357 [PL quia Roscelinus
clericus dicil, in Deo tres personas esse tres ab invicem separatns, sicut sunt
tres angeli, ita tamen ut una sit voluntas et poteslas: aut Pulrem et Spiritum
sanctum esse incarnatum, et tres deos vere posse dici, si usus admilteret. *»)
Abaelardi [Dialectica, P. V*. liber] divisionum et defin., p. 471 (ed. Cousin):
Fuit aulem, memini, magislri nostri Roscellim tam insana sentenlia, ut nullam
rem purtibus constare velici, sed sicut solis vocibus species, ila et partes
adscribebat. Si quis aulem rem illam, quae domus est, rebus aliis, pariele
scilicet et fonda¬ mento, constare diceret (è questo il solito esempio di
divisione del tutto in parti, usato da Boezio, p. es. a p. 52 s. [in Porph. a
se trami., I, 8; ed. Brandt, p. 154, 156; PL, 64, 80 s.] e a p. 646 [de
divisione ; PL, 64, 888]), tali ipsum urgumentatione impugnabili: si res illa
quae est puries, rei illius quae domus est, pars sit, cum ipsa domus nihil
aliud sit quam ipse paries et tectum et funda- mentum, profecto paries sui
ipsius et caeterorum pars erit. At vero quomodo sui ipsius pars fuerit?
Amplius, omnis [pars] naturaliter prior est loto suo : quomodo aulem paries
prior se et aliis dicelur, cum se nullo modo prior sit? quanto è una cosa, il
tetto è una entità perfettamente indipendente, poiché, nel riguardo della
obbiettività o dell’essere reale, quel che ci può essere, è appunto sol¬ tanto
un tetto di ca6a, e parimente soltanto una casa fornita di tetto (dato cioè che
debba essere realmente una casa); perciò, se il tetto fosse oggettivamente una
parte della casa, verrebbe a essere ima parte di quella che è ima totalità
obbiettivamente indivisibile, e pertanto, in seguito a tale indivisibilità,
finirebbe con l’essere anche una parte di se stesso: vale a dire che il con¬
cetto di parte, dal punto di vista obbiettivo o dell’essere reale, conduce a
contraddizioni, e la couchiusione giusta è che il tetto viene caratterizzato
come parte esclusivamente dalle nostre parole, racchiudenti in sé i con¬ cetti,
sicché dunque il concetto di parte, come tale, si trova essere di spettanza
della espressione verbale sub- biettiva. Lo stesso può ripetersi, anche relativamente
alla priorità della parte di fronte al tutto, poiché dal punto di vista
obbiettivo, in quanto è cosa, non è pos¬ sibile che il tetto sia antecedente
alla unione obbietti¬ vamente inscindibile di se stesso con qualche cos’altro,
poiché allora alla stessa maniera, a cagione della inscin¬ dibilità,
risulterebbe che il tetto sarebbe prima di se medesimo : sicché bisogna
conchiudere che anche la prio¬ rità del concetto di parte ha luogo solamente
nel pen¬ siero subbiettivo. Ma, come anche questa idea di Ro- scelino fu
malignamente deformata da’ suoi avversari), così egli stesso l’applicò
spiritosamente contro il ra ) Abaelardi Epist. (Opera, ed. Amboes. [ed. Cousin;
PL (Epist., Hic sicut pseudo-Dialecticus, ita et pseudo-Christianus, cum in
Dialeclica sua nullam rem, sed solam vocem partes habere astruat, ita divinam
paginam impudenter perverlit, ut eo loco quo dicitur Dominus parlem piscis assi
comedisse, partem huius vocis, quae est piscis assi, non purtem rei intelligere
cogatur. Che questa lettera [indirizzata a Gilberto vescovo di Parigi] sia
stata scritta da Abelardo, o, com’è opinione del Du Boulay, da un altro intorno
al 1095, è, per quel che ri-mutilato Abelardo, da ciò prendendo occasione per
assegnare, coerentemente, all’atto intellettuale subiettivo anche il concetto
di totalità, poiché, modificandosi la consistenza obbiettiva di una unione
inscindibile, deve essere subito sostituita con una denominazione diversa la
denominazione che si conformava al suo concetto, e che allora non è più in grado
di tener saldo il pen¬ siero soggettivo di una totalità" ')- [c)
conchiusione sopra Roscelino ]. — Che del resto il punto di vista di Roscelino
non fosse, in sostanza, affatto nuovo, risulta manifesto dal confronto con quel
che siamo venuti dicendo più sopra; soltanto che, dopo la com¬ parsa di
Berengario, la idea che, nella questione degli universali e della formazion dei
concetti, si tratti sola¬ mente di parole, e dell’uso che ne fa l’uomo, aveva
prò- vocato ima maggiore circospezione e una più aspra osti¬ lità per parte
della ortodossia. C è invece un punto solamente, e forse anzi il più
importante, che, in seguito alla mancanza di fonti, ci rimane assolutamente
oscuro; nel passo sopraccitato di Giovanni da Salisbury, è fatta cioè una netta
distinzione tra coloro che riponevano gli universali nella « vox », e quelli
che li riferivano ai « sermones », e si soggiunge che Abelardo era di questi
ultimi. Ora, tenuto conto del valore gram- guarda questo passo, indifferente;
del resto quanto è stato detto più sopra, nota 314, sembra avvalorarne
l’attribuzione [oggi infatti non contestata] ad Abelardo). [Il passo citato, in
Lue., XXIV, 421. ra ) Roscelini Epist. [ed. Remerà, p. ol I. S,,J forte Petrum
te appellavi posse ex consuetudine mentiens. Cer- tus sum aulem, quod masculini
generis nomea, si a suo genere deciderit, rem solitam significare recusabit -
Solent emm nomina propriam signìficationem ami tte r e, cum eorum signi¬ ficata
contigerit a sua perfeclione recedere. /Veglie emm ablalo tecto vel pariete domus,
sed imperfecla domus vocabilur. Sublata igitur parte quae hominem facit, non
Petrus, sed imperfectus Petrus appellandus es. maticale delle parole vox e
serrno, e antecipatamente riferendoci a quel che prenderemo a considerare più
sotto (Sez. seguente, note 308 ss.) a proposito di Abelardo, dobbiamo
senz’alcun dubbio congetturare che Ro- scelino, con veduta unilaterale, abbia
tenuto presente soltanto il concetto isolato, e pertanto, senz’avere ri¬ guardo
alla connessione della proposizione, abbia consi¬ derato le parole come
concetti compiuti 324 ); ma non sappiamo invece determinare se la teoria del
giudizio sia stata da lui semplicemente trascurala, o se forse egli non abbia
contestato anche direttamente il valore del giudizio, o quale procedimento
abbia seguito, nel portare così il nominalismo alle ultime sue conseguenze).
Raimberto a Lilla, e la logica « vecchia » di Ottone da CambraiJ. Ma proprio
per l’epoca, nella quale aveva fatto la sua comparsa Roscelino, pos¬ sediamo
una notizia sommamente caratteristica, relati¬ vamente alla lotta delle
tendenze sul terreno della lo- ***) [Cfr., su questo punto, Ueberwec-Gf.yer].
Tra i più vecchi nominalisti potrebbero pertanto essere riawicinati a
Roscelino, per aver dato un più unilaterale rilievo alla vox, quel tale
Pseudo-Hrabano, Jcpa, l’Anonimo, l’Anonimo del Cousin (nota 242), e l’Anonimo
di S. Gallo, che ha rifuso il libro De in- terpr., come pure in parte anche lo
Scoto Eriugena; sarebbero invece più affini ad Abelardo, per aver tenuto eonto
del serrno e del rapporto predicativo, Erico, l’Anonimo di S. Gallo, autore
della monografia De syllogismis, e Berengario. Sarebbe possibile, qualora
Roseclino avesse re alm ente av¬ valorato con argomenti questa orientazione
unilaterale del nomi¬ nalismo, prender alla lettera la succitata espressione di
Ottone (primus.... sententiam vocum instituit ); ma risulta comunque da
Giovanni da Salisbury, che i seguaci del nomi¬ nalismo non tardarono ad
abbandonare questo punto di vista an¬ gusto; soltanto non ci si può, come ha pur
fatto già qualcheduno, esprimer nel senso che Giovanni da Salisbury abbia
dichiarato il nominalismo in generale ormai spento; v. la Sez. seguente, note
76 ss. 150 gica 326 ). C’era cioè a
Lilla un certo Raiinberto, che insegnava la dialettica, al pari di « moltissimi
altri », se- **) Hekmajvni Narratio Heslaurulionis Abbuliae Sancii Martini
Tornacensis, riferita dal D’Acheby, Spicilegium, ed. De la Barre, PL, 180, 41
ss.; MGH, XTV, p. 274-5]: Iam vero, si scolae appropiares, cernercs magistrum
Odonem nunc quidem Feripulelicorum more cura discipulis dovendo deambulan- lem,
nunc vero Stoicorum instar residentem, et diversus quaestio- nes solventem.... Sed cum omnium septem
libcruliurn artium esset peritus, praecipue tamen in dialeclicu eminebat, et
prò ipsa maxime clericorum frequenlia eum expetebat. Scripsit etiam de ea duos
libellos, quorum priorem, ad cognoscendu devitandaque sophismala valde utilem,
inlitulavit « Sopliistem », alterum vero appellavit li- bruiti « Complexionum
»; tcrcium quoque «De re et ente » com- posuit; in quo sol vii, si unum idemque
sit res et ens. In his tribus libellis.... non se Odonem,
sed, sicut lune ab omnibus vocabatur, nominubat Odardum. Sciendum tamen de
eodem magistro, quod eandem dialecticam non juxta quondam modernos (è questo,
qua¬ lora non si vogliano per caso invocare le parole citate il testo più
antico dove si trovano designati i nomi¬ nalisti come moderni) in voce, sed
more Boetii antiquorumque doctorum in re discipulis legebat (dunque, in
opposizione alla pretesa innovazione, Boezio e Por¬ firio, in quanto realisti,
vengon chiamati antiqui. Unde et magister Baimbertus, qui eodem tempore in
oppido Insulensi dialecticam clericis suis in voce legebat, sed et alii quam
plures magistri ei non parum invidebant, et delrahebanl, suasque lectiones
ipsius meliores esse dicebant; quam ob rem non¬ nulli. ex clericis conturbali,
cui magis crederent, haesitabant, quo- niam et magistrum Odardum ub antiquorum
doctrina non discre¬ pare videbant, et tamen aliqui ex eis, more Alheniensium
aut discere aut audire aliquid novi semper humana curiositate studentes, alios
potius laudabant, maxime quia eorum lectiones ad exercilium di- sputandi, vel
eloquentiae, immo loquacilatis et facundiae, plus va¬ lere dicebant (Alcuni
dunque desideravano di poter congiungere tuttavia all’ortodosso realismo il
virtuosismo formale dei loici propriamente detti, cioè dei nominalisti). Unus
itaque ex eiusdem ecclesiae canonicis, nomine Gualberlus.... tanta sentenliarum
erran- tiumque clericorum varietate permolus, quendam pbitonicum (cioè un
indovino rpyt/ion/cum]), surdum et mutum, sed in eadem urbe divinandi
famosissimum, secreto adiit, et, cui magistrorum magis esset credendum,
digilorum signis et nutibus inquirere coepit. Protinus ille (mirabile dictu!)
quaestionem illius intellexit, dexteram- que manum per sinistrae pulmam instar
aratri terram scindentis perlrahens, digitumque versus magistri Odonis scholam
protendens, signifkabat, doctrinam eius esse rectissimam ; rursus vero digìlum
contro Insulense oppidum protendens, manuque ori admota exsuf- flans, innuebat,
magistri Raimberti lectionem nonnisi ventosam esse loquacitatem. Haec dixerim,
non quo pbitonicos consulendos.... arbitrer..., sed ad redarguendum quorundam
superborum nimiam coudo le « moderne » idee nominalistiche (in voce), e
costoro, insieme con i loro seguaci, apertamente si at¬ teggiavano ad accanita
rivalità contro Oddone, vescovo di Camhrai, il quale aveva ricostituito il
chiostro di S. Martino a i ournai, e ivi insegnava logica secondo lo stile «
vecchio », cioè secondo l’indirizzo realistico (in re). Ora, poiché ci sono
diversi che dal fascino della novità si sentivano attratti verso Raimberto, ma
poiché nello stesso tempo, bilanciando tra loro i pregi delle due scuole, non
sem¬ brava si potesse ottenere im risultato ben determinato, uno dei canonici
di Touruai si rivolse a un indovino che godeva allora di gran fama. Questi, SEBBENE
SORDOMUTO, intese subito la questione che gli era rivolta, e con il linguaggio
dei gesti si pronunciò incondizionatamente — nè altro ci si poteva aspettare —
nel senso di riconoscere come giusta ed eccellente la tendenza rappresentata
dalla scuola realistica di Oddone. Se del resto chi ci riferisce questa storia
(l’abate Ermanno, vivente a Tournai nella prima metà del secolo XII), il quale
del pari, da buon ortodosso, si professa natural¬ mente nemico della ventosa
loquacità del nominalismo, ricorda nello stesso tempo scritti di logica,
composti da Oddone, dobbiam certo deplorare ch’essi sieno andati perduti; puramente
si può congetturare che forse il « Liber complexionum » fosse semplicemente
tolto di peso da Boezio (de syll. categ.: v. la Sez. XII, note 131 ss.), e così
pure che il « Sophistes » sia stato puta¬ caso in relazione più stretta con le
polemiche teologi¬ che, o che, com’è possibile, si limitasse anche a ripetere
le nozioni esposte da Cassiodoro (Sez. XII, nota 182); praesumptionem, qui
nihil aliud quarentes nisi ut dicantur sapien- tes, in 1‘orphirii
Aristolelisque libris magis volimi legi suarn adin- ventitiam novitatem, quam
Boetii caetcrorumque antiquorum expo- silionem. maggiore importanza può invece
aver avuta lo ecritto « De re et ente », poiché la questione, se res ed ens
sien lo stesso, era ivi risolta certamente in senso realistico, quantunque sia
da presumere — come la cosa più veri¬ simile — che tutto il complesso
semplicemente si limi¬ tasse a richiamarsi a un passo isolato di Boezio (Sez.
XII, note 89 s.). — Comunque, si potrebbe ammettere tut¬ tavia che il
nominalismo rosceliniano di allora sia stato rappresentato in un numero di
scritti, più considere¬ vole di quel che le nostre fonti non ci diano a
divedere; poiché, per siffatte notizie letterarie occasionali, siamo invero
quasi esclusivamente rimandati ad autori teolo¬ gici, mal disposti sin da
principio, quali avversari di una minoranza ch’era loro sospetta, a parlare
lunga¬ mente di questa, e invece più propensi ad accordarsi con un Fulberto
(nota 237) o un Lanfranco (nota 309) nella condanna della dialettica in
generale. Anselmo d’AOSTA (si veda): a) Vargomento ontologico Se pertanto ci
volgiamo a considerare) F inventore del concetto di haerelicus dialecticae e
dunque il rappresentante attendibile di una logica corret¬ tamente ortodossa,
cioè Anseimo [d’AOSTA, arcivescovo] di Canterbury, per prima cosa c’interessa
soprattutto quel così detto argomento ontologico, al quale egli deve la sua
•") Così dice p. es. Ildeberto da Lavardin, arcivescovo di Tours, Sermo
(Opera, ed. Beaugendre [PL Quidum enim in philosophi- cis jacultatibus qiumulam
subtilitalem inutilem vel inutilitatem subtilem quaerentes, quibusdam minutiis
verborum in cavillatione respondenles utunlur, quibus in disputatione uli, ossa
Christi est incinerare.... Ktsi enim deus convertii nos, arlium liberalium
phanlusmatibus uli, si in hac Scriptum voluerimus similiter sophi- stice
incedere, odibiles Deo erimus, strepitum ranarum Aegypti in terram Gessen
traducere molientes. ra ) Quel che nella prima edizione costituiva il contenuto
delle note 328-333, è stato qui soppresso. pretesa gloria imperitura 33i ), e
che, quanto al suo con¬ tenuto teologico o speculativo, viene a cader fuori dai
limiti che qui ci sono imposti, dovendo fermarsi la nostra attenzione puramente
sopra il suo aspetto formale. Che in generale l’assunto di voler dimostrare la
esistenza obbiettiva di Dio, sia tutto quanto una pazzia (perciò anche lo
Hegel, proprio solamente nella sua qualità di neoplatonico ha ripreso per suo
conto l’ar¬ gomento ontologico), è cosa ammessa da chiunque non sia
filosoficamente già prevenuto, a quel modo stesso che sicuramente si riterrebbe
un controsenso l’assunto di dimostrare per sillogismi la esistenza di un mondo
obbiettivo; ma che in quell’epoca antifilosofica e senza idee chiare potesse
venir fuori un tale tentativo, si spiega benissimo, soprattutto perchè c’era
allora, come sostitutivo della filosofia, solamente ima sfera culturale,
limitata alla teologia dommatica e ad un’abilità tradizio¬ nale nella logica
delle scuole; tostochè, per effetto delle controversie teologiche, ci si era dunque
fatta l’abitudine di unire tra loro questi due elementi, in tal ma¬ niera che
si tentava di dare un fondamento logico anche a singole frammentarie parti del
domma (v. sopra la nota 303), era semplicemente questione di coerenza, che a
tale formulazione si procedesse, incominciando su¬ bito da quello che, nella
professione di fede obbiettivamente dommatica, è il punto supremo. Ma era
perciò naturalmente da porre, quale condizione essenziale, che la posizione
dell’Autore si presentasse come un realismo logico, poiché a un nominalista,
che avesse informato il [La esposizione esaurientemente particolareggiata che
del pensiero di Anselmo è stata pubblicata da Hasse ( Anselm von Canterbury,
Lipsia), è informata a una costante sopravvalutazione della importanza di lui.
Cfr. del resto anche G. Runze, Der ontologische Gottesbeweis, kritische
Darstel- lung seiner Geschichte [« La prova ontologica della esistenza di Dio:
esposizione critica della 6ua storia»]. Halle.
proprio pensiero a una certa coerenza, non sarebbe ve¬ nuto mai in
niente di dimostrare con parole subbicttiva- mente umane la esistenza
obbiettiva di Dio (abbiamo veduto più sopra, nota 272, per questo rispetto, un
esem¬ pio molto onorevole di circospezione); e questa connes¬ sione con il modo
di vedere realistico, è anche il solo motivo, che c’induce a menzionare questi
tentativi di dimostrazione, al loro primo comparire (cfr. anche la Sez.
seguente, nota 94 a); perciò siamo anche ben con¬ tenti di rinunziare — per
tutt’i successivi sviluppi, nei quali vien meno il punto di vista della logica
formale, con la relativa distinzione di contrastanti tendenze — a ricordar le
diverse trasformazioni, per le quali è pas¬ sato l’argomento ontologico (p. es.
nella filosofìa di Car¬ tesio, Leibniz, Wolff, Mendelssolm, ilaumgarten, Kant).
Anseimo si atteneva, nè altro c’è da aspettarsi da un discepolo di Lanfranco,
al punto di vista, secondo il quale il sapere ha, nella fede cristiana, la
propria con¬ dizione e il proprio limite) ; per conseguenza, egli trova, di fronte
al pensiero, una realtà incondizionata¬ mente obbiettiva, nel riguardo
intellettuale già bell’e compiuta, sì che a questa realtà obbiettiva il
pensiero può semplicemente o partecipare o non partecipare: Anseimo, cioè,
com’è di per sè chiaro, in logica è un rea¬ lista. E il singolare desiderio di
costringere irrevoca¬ bilmente il nostro pensiero a questa partecipazione in
senso obbiettivo, cioè d’imporre per forza di dimostrazione il punto di vista
realistico al pensiero umano, è il motivo fondamentale dell’argomento
ontologico 336 ) : ar- ’“) Epist., Il, 41 (Opera, cd. Gcrberon, Parigi, 1675),
p. 357: Chrisliunus per fidem debet ad intellectum proficere, non per in-
telleclum ad fulem accedere, aul, si intelligere non valel, a fide recedere.
Sed cum ad intellectum valel perlingere, deleclalur, cum vero nequit, quod
capere non potest, veneralur [PL], ”*) Broslogion, c. 2, p. 30 [te6to curato
dal Daniels: Beitrage del Baumker, voi. "Vili, fase. I-IIJ : Convincitur
ergo etiam insipiens gomento clie ci offre lo spettacolo della massima con¬
traddittorietà, dovendo invero per esso 1 obbietlivismo sistematico più
rigoroso, ricevere, come tale, proprio un fondamento subbiettivo. il
controsenso di questa intra¬ presa consiste dunque nel proposito stesso del realista,
il quale, mentre a priori riconosce l'ideale solamente come obbiettivo, vuole
dimostrarne la esistenza obbiet¬ tiva ancor soltanto con mezzi subbiettivi; ora
un tale controsenso fu scorto cou perfetta esattezza da G a u- nilone (monaco
nell’abbazia di Marmoutier [Tours]), come dimostra la sua aff ermazione che
l’argomento var¬ rebbe altrettanto bene anche per provare la esistenza di
un’isola incondizionatamente perfetta 337 ), poiché, di fatto, con la medesima
formula il realismo avrebbe po¬ esie vel in inlellectu aliquid quo nihil maius
cogitari palesi, quia hoc, cum audii, intelligil; et quicquid inlelligitur, in
inlellectu est. Et certe id quo maius cogitari nequit non palesi esse in solo
intei- leclu. Si enim vel in solo inlellectu est, potest cogitari esse et in
re, quod maius est. Si ergo id quo maius cogitari non potest est in solo
inlelleclu, id ipsum quo maius cogitari non potest est quo maius cogitari
potest. Sed certe hoc esse non potest. Existit ergo procul dubio aliquid, quo
maius cogitari non valet, et in intellectu et in re [PL, 158, 228J. — Liber
apologeticus contro Gaunilonem [testo c. s.J : Ego dico: si vel cogitari potest
esse, necesse est illud esse. Nani quo maius cogitari nequit, non potest
cogitari esse nisi sine initio. Quicquid uutem potest cogitari esse et non est,
per initium potest cogitari esse. Non ergo quo maius cogitari nequit, cogitari
potest esse et non est. Si ergo cogitari potest esse, ex necessitate est, e via
dicendo, con grossolana continua confu¬ sione tra cogitari ed esse [PL, 158,
2491. U! ) Liber prò insipiente, c. 6 (Anselmi Opp., p. 36 [testo c. s.]):
aiunt quidam ulicubi oceani esse insulam, quam ex difficultale vel potius
impossibilitate inveniendi quod non est cognominanl aliqui perditam, quamquam
jabulanlur.... universis aliis.... usquequaque praestare. Hoc ita esse dicat
mihi quispiam.... At si lune vel ut con- sequenter adiungat ac dicat: non potes
ultra dubitare insulam illam lerris omnibus praestantiorem vere esse alicubì in
re, quam et in intellectu tuo non ambigis esse, et quia praestantius est, non
in intellectu solo sed eliarn esse in re, ideo sic eam necesse est esse, quia
nisi fuerit, quaecunque alia in re est terra, praeslantior illa erit; ac sic
ipsa iam a le praestantior intellecta praestantior non erit —, si inquam per
hacc ille mihi velil astruere de insula illa, quod vere sit, etc, etc. [PL]. —
Più minute notizie sopra Gaunilone son date da B. Hauréau, Singularités
historiques et lit- téraires, Parigi tuto dimostrare anche la esistenza reale
di tutte quante le idee platoniche. Ma quando a ciò Anseimo replica ch’egli non
ha parlato già della esistenza del concreto, bensì ha parlato proprio soltanto
dell’ Incondiziona¬ to 338 ), si lascia necessariamente prendere al suo stesso
laccio; poiché si trova costretto a ricorrer ora tuttavia a un’ascesa per gradi
successivi, onde soltanto a poco a poco ci eleviamo dal minore condizionato,
mentalmente, sino al pensiero del superlativo incondizionato 339 ) ; per
conseguenza, come essere reale, questo Incondizionato non può naturalmente
avere se non una realtà che sia posta dal pensiero; ma, da capo, con questa
conchiu- sione molto male si armonizza invece quel che dice d’al¬ tra parte lo
stesso Anseimo, quando in ciascun pensiero, e anzi espressamente anche nel
pensiero drizzato verso cose concrete, distingue mi aspetto puramente nomi¬
nale (vox signìfìcans) e un intendere reale (id ipsiirn quod res est), in
maniera tale, che in quest’ultimo sia già implicita la esistenza, ma nel primo
sia possibile ogni assurdità 340 ); e infatti, stando così le cose, non c’è *“)
Apoi. c. Gaun., c. 3, p. 38: Sed tale est, inquis, ac si aliquis insulam oceani
etc . Fidens loquor; quia si quis invenerit mihi [ aliquid] aut re ipsa aut
sola cogitatione existens praeter quo[d] maius cogitari non possit, cui optare
valeat connexionem huius meae argumenlationis, inveniam et dabo illi perditam
insulam amplius non perdendam [PL]. “*) Ibid., c. 8, p. 39: Quoniam namque omne
minus bonum in tantum est simile maiori bono in quantum est bonum, patel
cuilibel rationabili menti quia de bonis minoribus ad maiora conscendendo ex
bis quibus aliquid maius cogitari potest multum possumus coni- cere illud quo
nihil potest maius cogituri,... Est igitur linde possit conici quo maius
cogitari nequeat | PL. M0 ) Prosi., c.
4, p. 31: Aliter enim cogitatur res cum vox eam significans cogitatur, aliter
cum id ipsum quod res est intelligitur. Ilio
ilaque modo potest cogitari Deus non esse, isto vero minime. [Nella ed.
Gerberon: Nullus quippe intelligens id quod sunt ignis et aqua palesi cogitare
ignem esse aquam secundum rem ; licet hoc possit secundum voces, ita igitur
nemo intelligens id quod Deus est....] IS'ullus quippe intelligens id quod Deus
est potest cogitare quia Deus non est, licet haec verbo dicat in corde aut sine
ulta aut cum aliqun estranea significatione [PL bisogno, in generale, nè di ima
prova della esistenza, nè di un’ascesa all’Incondizionato, bensì non c è allora
nient’altro da fare, che pensare appunto ciascuna cosa dal suo lato obbiettivo
reale. Con molta accortezza perciò Anseimo non si adden¬ tra con una sola
parola neanche nella più calzante obiezione di Gaunilone; quest’ultimo
rappresenta un no¬ minalismo molto ragionevole, quando dice eh è bensì vero che
la vox da sola, come semplice vox, cioè pura¬ mente come suono di lettere
(dell’alfabeto), non con¬ tiene verità di sorta, ma che nella Bfera della
esperienza, dove il significato intelligibile della parola viene con¬ nesso con
cose note e commisurato a queste, si pensa ef¬ fettivamente nelle parole
l’essere obbiettivamente reale, dovendosi dunque, per quella sfera che
trascende ogni esperienza, star contenti alla significano perccptae vocis, che
non implica in sè la esistenza obbiettivamente reale della cosa significata 341
). Dice cioè Gaunilone: nelle no- *“) L. prò insip., c. 4, p. 36[testo c. s.] :
Neque enim aut rem ipsam [girne deus est] novi aut ex alia possum conicere
simili, quandoquidem et tu talcm asseris illam ut esse non possil simile
quicquam. Nam si de homine aliquo mihi prorsus ignoto, quem etiam esse
nescirem, dici lamen aliquid audirem, per illam specia- lem generalemve
notiliam, qua quid sit homo vel homines novi, de ilio quoque secundum rem ipsam
quae est homo cogitare pos- sem. Et tamen fieri posset ut, mentiente ilio qui
diccret, ipse quem cogitarem homo non esset; cum tamen ego de ilio secundum
veram nihilominus rem, non quae esset ille homo sed quae est homo qui- libet,
cogitarem. Nec sic igitur ut haberem fulsum istud in cogi- tatione vel in
intellectu, habere possum istud, cum audio dici « Deus » aut « aliquid omnibus
maius », cum, quando illud (cioè quell'uomo) secundum rem veram mihique notum
cogitare possem, istud (cioè Dio) omnino nequeam nisi tantum secundum vocem,
secundum quam solam aut vix aut nunquam potesl ullum cogitaci verum. Siquidem
cum ila cogitatur, non tam vox ipsa quae res est utique vera, hoc est
litterarum sonus vel syllabarum, quam vocis auditae significatio cogilelur, sed
non ita ut ab ilio qui novit quid ea soleat voce significavi, a quo scilicet
cogitatur secundum rem vel in sola cogilatione veram : verum ut ab eo qui illud
non novit et solummodo cogitat secundum animi molum illius auditu vocis
effeclum significationemque perceptae vocis conanlem effin- gere sibi. Quod
miruin est si unquam rei peritate potuerit. Ita ergo. stre parole abbiamo la
esperienza concreta convertita in concetti, e nelle parole possediamo anche la
forza di trascender la immediata realtà; ma tostochè questo accada, ci troviamo
esclusivamente nella sfera del pen¬ siero, ed è fatica sprecata voler fare
venir fuori da que¬ sto, in quanto puramente subbiettivo, la esistenza ob¬
biettiva del pensato, perchè, proprio quando ci si volge al cogitavi, si rende
manifesto che esse e non esse ap¬ partengono alla sfera obbiettiva, sicché la
prova onto¬ logica non prova niente, perchè va di là dal proprio campo, e così
prova troppo. [b) realismo anselmino, privo di fondamento scien¬ tifico, nel
Dialogus de veritate]. — Se dunque l’argo¬ mento ontologico è nato solamente
perchè Anseimo non era riuscito a venire logicamente in chiaro neanche del suo
proprio punto di vista realistico, questa medesima debolezza si mostra anche in
quella professione di fede realistica, cli’è contenuta nel « Dialogus de
veritale s >. Già più sopra (nota 319), nel passo indirizzato contro
Roscelino, abbiamo veduto la espressione schiettamente realistica «substantiae
universales » ; ma proprio un tal modo d’intendere impedisce naturalmente ad
Anseimo qualsiasi comprensione di quel che significhi la forma del giudizio
logico: poiché, potendo egli sin dal prin¬ cipio considerare la enuntiatio
solamente come rical¬ cata sopra l’essere o il non-essere obbiettivo, nemmeno
in tale forma assegna alla enuntiatio stessa la verità, ma questa trasferisce
in modo esclusivo nella sfera obbiet¬ tiva, la quale, lungi dall’esser vera nel
suo presentarsi come oggetto del giudizio, contiene invece solamente la nec
prorsus al iter. adirne in intellectu nuo constai illud haberi, cum audio
intelligoque dicentem esse aliquid maius omnibus quae valeanl cogitari. — Haec
de eo quod somma illa natura iam esse dicitur in intellectu meo [PL]. causa
della verità del giudizio 342 ) ; Anselmo auzi espres¬ samente irride alla
forma del giudizio: questo infatti — com'egli si esprime — anche quando è in
contraddi¬ zione con lo stato di fatto oggettivo, continua pur sem¬ pre a
essere un giudizio giusto, per quanto si attiene puramente all’enunciare e al
significare, mentre la vera giustezza, cioè la stessa verità, risiede appimto
solamente in quella obbiettività, a raggiunger la quale, in senso obbiettivo,
s’ha da tender con uno sforzo, ch’è designato quasi come dovere morale 343 ) :
poiché, dato che tutte le cose ricevono Tesser loro solamente dalla suprema
Verità 344 ), Tessere stesso prende infine la forma di un *°) Dialogus de
ventate, Magister. Quando est numi intuì vera? — Discipulus. Quando est, quod
enuntiat si ve affermando sive negando; dico enim esse quod enuntiat, eliam
quando negai esse quod tuta est; quia sic enuntiat, quemadmodum res est. — XI.
An ergo libi videtur, quod res enunliata sit veritas enunlialionis? -— D. Non.
— XI. Quare? — D. Quia nihil est veruni, itisi participando verilatem: et ideo
veri veritas in ipso vero est; res vero enunliata non est in enuntialione vera,
unde non ejus ve¬ ritas, sed causa veritatis ejus dicendo est [PL. "*’)
Ibid., p. 110: XI. Ergo non est illi [se. enuntiationi\ aliud veritas [?], quam
reclitudo.... — D. Video quod dicis: sed doce me, quid respotulere possim, si
quis dicat, quod ctiam cum [ojratio significai esse quod non est, significai
quod dehet: ttariler namque accepit significare esse et quod est et quod non
est. Nam si non accepisset significare esse eliam quod non est, non id
significarci. Quare eliam cum significai esse quod non est, significai quod
debet. Al si, quod debet significando, recto et vera est, sicut ostendisti,
vera est oralio, edam cum enuntiat esse quod non est. — XI. Vera quidem non
solet dici, cum significai esse quod non est; veritatem tamen et rectitudinem
habet, quia jacil quod debet. Sed cum si¬ gnificai esse quod est, dupliciter
jacil quod debet: quoniam signi¬ ficai et quod accepit significare, et [adì
quod facta est. Sed secun- dum hanc rectitudinem et veritatem, qua significai
esse quod est, usu recto et vera dicitur enuntiatio, non secundum illam, qua
signi¬ ficai esse eliam quod non est.... Alia igitur est rectitudo et veritas
enuntiationis, quia significai ad quod significandurn facta est: alia vero quia
significai quod accepit significare. Quippe ista immuta- bilis est ipsi
oralioni: illa vero, mutabilis [ PL, p. 111-2: An putas aliquid esse aliquando,
autalicubi, quod non sit in stimma ventate, et quod inde non accepcril quod est
inquantum est: aut quod possil aliud esse, quam quod ibi est? [PL], Dovere S4B
). Per conseguenza risulta sì un fondamento unitario, semplicemente obbiettivo,
della verità 346 ), ma con quanto maggior energia vien dato rilievo all’ ap¬
prendimento esclusivamente spiritualistico di quello), tanto meno si riesce a
capire, come mai rimanga an¬ cora una qualsiasi funzione di principio alla
forma lo¬ gica del giudizio. [c) punto di vista compassionevolmente basso, nel
Dialogus de grammatico]. — Ma quanto poco accurata¬ mente elaborata sia stata
in generale nell’opera di An¬ seimo la concezione della logica, appare
manifesto con la massima chiarezza dallo scritto intitolato « Dialogus de
grammatico » 34S ). È vero che si tratta semplicemente *“) : In rerum quoque
exislemia, est simililer vera vel falsa significano ; quoniam eo ipso quia est,
dicil se debere esse [PL], Con quest’affermazione è connessa anche la totale
identilicazione che Anseimo stabilisce tra il Non-essere reale, ovvero il Nulla
che è, da una parte, e, dall’altra, il Male ( Epist., II, 8, p. 343 s. [PL),
onde, confrontato con lo Scoto Eriugena (note 133 ss.), egli fa una più
risoluta professione di rea¬ lismo platonico. '“) Ibid., c. 13, p. 115: Si
recliludo non est in rebus illis, quae debent rectiludinem, nisi cum sunt
secundum quod debenl, et hoc solum est illis rectas esse, manifestum est, earum
omnium unam solam esse rectiludinem.... Quoniam illa (se. veritasj non in ipsis
rebus, aut ex ipsis, aul per ipsas, in quibus esse dicitur, habet suum esse;
sed cum res ipsae secundum illam sunt, quae semper praesto est his, quae sunt sicut
debent, tunc dicitur hujus vel illius rei veritas IPL,Nempe nec plus nec minus
continet isla diffinitio veritatis, quam expediat, quoniam nomen reclitudinis
di¬ vidii eam ab ornili re, quae rectitudo non vocatur. Quod vero sola mente
percipi dicitur, sepurat eam a reclitudine visibili [PL]. **) Dice lo stesso
Anseimo (Prologus ad dial. de ver., p. 109 [PL): [edidi tractatum ] non
inulilem, ut puto, inlrodu- cendis ad dialecticam, cujus initium est « De
grammatico»: e da un passo di SiciBKftTO da Gsmbloux (de scriptoribus
ecclesiaslicis, c. 168), dov’è ripetuta questa notizia (vedilo riprodotto dal
Fabri- cius nella Dibl. eccl., p. 114 [PL, 160, 586] : scripsit.... alium li-
brum inlroducendis ad dialecticam admodum utilem, cujus initium est « De
grammatico »), ha avuto origine la opinione erronea, ch’egli abbia scritto una
particolare « Introducilo in dialecticam ».di un esercizio scolastico, composto
da Anseimo, come dice egli stesso, soltanto in considerazione delle solite
numerose trattazioni analoghe 3 '* 9 ) ; ma mentre ci è ignoto se quegli altri
scritti consimili sieno mai stati migliori, scorgiamo in ogni caso che questo
di Anseimo si tiene a un punto di vista compassionevolmente basso. Poiché è un
continuo insulso giocare con proposizioni ricavate da Boezio, e apprese
macchinalmente, senza trarsi fuori dalla tediosa fatica di scovare in un primo
tempo difficoltà, là dove un uomo ragionevole non ne saprebbe trovare, e poi da
capo presentarne la soluzione adeguata; — insomma è il prodotto di una erudizione
scolastica estremamente limitata, tanto meschino quanto lo scritto ricordato
più sopra di Gerberto; e di un qual¬ che impulso che sia da esso derivato allo
studio della dialettica, si può tanto meno parlare, in quanto che, persino
relativamente alla questione che divideva il campo della logica in contrarie
tendenze, si presenta estremamente ottuso e scolorito. Tutta la trattazione si
volge intorno alla questione, se « grammaticus » sia sostanza o sia qualità,
dato che ima e l’altra alternativa debbano entrambe esser ammesse, ma non sia
possibile che sieno in pari tempo tutt’e due vere 35 °). Ma alla risposta
ragionevole, che **) Diulogus de grammatico, Tamen quoniam scis, quantum
noslris temporibus diulectici certent de quaestione a te proposila, nolo le sic
his quae diximus inhaerere, ut ea perlinaciter teneas, si quis validioribus
argumentis haec destruere et diversa valuerit astruere: quod si conti gerii,
saltem ad exercitationem di- sputandi nobis haec profecisse non negabis [PL, .
B °) lbid., c. 1, p. 143: De grammatico peto ut me cerlum jacias, utrum sit
substantia an qualitas, ut, hoc cognito, quid de aliis quae similiier
denominative dicuntur, sentire debeam, agnoscam. La questione ha la propria
fonte in Boezio (p. 121 [in Ar. praed., I; PL, 64, 171-2]), il quale, dove
nelle Categorie vien citato gramma¬ ticus come denominalivum da grammatica,
nomina nel commento Aristarco quale esempio di grammaticus, — e inoltre, nel
trattare della categoria della sostanza (p 134 [ibid.; PL, 64, 189]), espres¬
samente riconduce grammaticus su su ad animai, mentre è da ag¬ li. cioè son pur
vere tutte due le alternative, ci si arriva per via indiretta nel modo più
artificioso 351 ). Alla opi¬ nione di chi ammette che « grammaticus » è
sostanza, perchè invero il grammatico è un uomo, ma l’uomo è sostanza, si
contrappone cioè anzitutto un sillogismo de¬ forme, il quale ha per
conchiusione che nessun gram¬ matico è uomo 352 ) : conchiusione, che per prima
cosa viene confutata con l’argomento, che alla stessa maniera potrebbe anche
dimostrarsi che nessun uomo è un es¬ sere vivente 353 ) ; ora soltanto a tale
argomento vien dis¬ giungere che (p. 185 s. [i6., HI; PL, 64, 256-7J) per la
categoria delia qualità, grammuticus era diventato l’esempio stereotipato.
Perciò Anselmo pone ora una accanto all'altra come reciprocamente
contraddittorie le seguenti espressioni: Ut quidem grammaticus prò - betur esse
substantia, sufficit quia omnis grammaticus homo, et om- nis homo substantia
(cfr. Boezio [ad Porph. a se fransi.], p. 63 s. [probabilmente si deve leggere
36 6.: lib. H, c. 11; ed. Brandt, p. 103-4; PL, 64, 57]).... Quod vero
grammaticus sit qualitas, aperte jatentur philosophi, qui de hoc re
tructaverunt, quorum auclorita- lem de his rebus est impudenlia improbare. Item quoniam necesse est, ut
grammaticus sit aut substantia aul qualitas.... Cum ergo alte- rum horum verum
sit, alterum jalsum, rogo ut julsìtatem detegens, aperius mihi veritatem [PL,
158, 561]. K1 ) Ibid„ c. 2: Argumenla, quae ex utraque parte posuisti, ne¬
cessaria sunt; nisi quod dicis, si alterum est, alterum esse non posse. Quare non debes a me exigere, ut alteram partem esse
falsam osten- dam, quod ab ulto fieri non potesti sed quomodo sibi invicem non
repugnent, aperiam, si a me fieri polest. Sed vellem ego prius a te ipso
audire, quid his probalionibus tuis oblici posse opineris \ib., 561-2]. K ‘)
Ibid.: Ulani quidem propositionem quae dicit, grammaticum esse hominem, hoc
modo repelli existimo : quia nullus grommati• cus potest intelligi sine
grammatica, et omnis homo polest intelligi sine grammatica. Item, omnis
grammaticus suscipit magis et minus (questo è ricavato da BOEZIO, p. 186 [in
Ar. Praed., Ili; PL, 64, 257]), et nullus homo suscipit magis et minus: ex qua
utraque con- textione binarum propositionum conficitur una conclusio, id est,
nullus grammaticus est homo [PL, 158, 562]. * sl ) C- 3, p. 143 s. : Non
sequitur.... Contexe igitur tu ipse qua- tuor.... propositiones.... in duos
syllogismos:... « Orane animai polest intelligi praeler rationalitatem; nullus
vero homo potest intelligi praeter rationalitatem>. Item: que multipliciter
appellatur.... Et communis est multiplex appellatio, edam in his nominibus,
quae veluti genera de speciebus dicuntur;e (p. 183 [ibid., PL): Grammatici enim
a Grammatica nomìnantur, atque hoc est in pluribus, ut posilo nomine, si quid
secundum ipsas qualitales, quale dicilur, ex his ipsis qualilatibus appellatio
derivetur. Etc . distinctis qualitatum vocabulis appellantur.... Così neanche
Anseimo oltrepassa dunque assolutamente la limitata sfera delle fonti sin qui
note, e se si fosse già fin d’allora conosciuta la traduzione degli Analitici,
è da credere che in generale tali disquisizioni sarebbero state impossibili. Anseimo
tuttavia non ci consente ancora di gustare su¬ bito la sua concezione
realistica, bensì ancora per qual¬ che tempo ci mena strascicando attraverso
uno sciocco gingillar con le parole. Se cioè si obietta che « gram¬ matico » e
« uomo » vengono per conseguenza a essere ugualmente predicati significativi, e
che pertanto il pri¬ mo abbraccia del pari in una unità reale il concetto di
uomo e il concetto di grammatica — tale obiezione dev’essere ora confutata con
la considerazione, che al¬ lora « grammatica » non sarebbe accidente, ma diffe¬
renza sostanziale, il che dovrebb’essere altrettanto vero di tutte le qualità
simili: e così pure ne risulterebbe la illazione che un non-uomo, il quale
fosse grammatico, dovrebbe allora proprio perciò essere nello stesso tempo uomo
364 ) ; inoltre bisogna ben riflettere appunto sopra la forma di aggettivo che
ha la parola gramma- ticus, poiché se « uomo » fosse già per sè contenuto in «
grammatico », potrebbe darsi che, con la sostituzione, si dovesse continuar a
ripetere all’infinito la parola « uomo », e in generale si sconvolgerebbe il
punto di vista proprio degli appellativi derivati, perchè allora p. es. anche
hodiemus dovrebb’essere un verbo 363 ). J C. 13, p. 14 ì: Sicut enim homo
constai ex ammali et rationa- litate et morlalitale, et idcirco homo significai
liaec trio, ila gram¬ matici^ constai ex homine et grammatica; et ideo nomen
hoc signi¬ ficai utrumque.... — M. Si ergo itti est, ut tu dicis, diffinitio et
esse grammatici est « homo sciens grammalicam ».... Non est igitur gram¬ matica
accidens, sed substantialis differentia; et homo est genus, et grammaticus
species: nec dissimilis est ratio de albedine, et simi- libus accidentibus:
quod falsum esse totius artis traclatus ostendit ((BOEZIO fin Porph. a se
transl., IV, 1: ed. Brandi, p. 239 ss.; PL, 64, 115 ss.], p. 79 ss.)....
Ponamus, quod sit animai aliquod rationale, non tamen homo, quod ita sciai
grammalicam sicut homo ... Est igitur aliquis non homo sciens grammaticam....
At omne sciens gram¬ malicam est grammaticum.... Est igitur quidam non homo
gramma¬ ticus.... Sed tu dicis in grammatico intelligi hominem.... Quidam ergo
non homo est homo quod falsum est [PL, 158, 571-2], ) Jbid. : Si homo est in
grammatico, non praedicatur cum eo simul de aliquo...; non enim apte dicitur,
quod Socrates est homo animai (Boezio [loc. ult. cit., II, 6: ed. Brandt, p.
192; PL Dopo che si dà così per dimostrato che grammatica* non chiude in sè
unitariamente la sostanzialità dell’uo¬ mo, bensì vale soltanto quale
significazione adeguata della grammatica, deve adesso chiarirsi ancora tuttavia
in qual modo grammaticus sia puramente un appella¬ tivo mediato dell’uomo; e
ciò si fa, con il più balordo scambio di concetti attributivi, mediante questo
esem¬ pio, che cioè, se ci sono, uno accanto all’altro, un ca¬ vallo bianco e
un bove nero, dicendosi senz’altro S,
qUoJ 7. homo solus, i. e. sine grammatica, est gromma - auinno f b ‘ m °' l,S
,ntell W POtest: uno vero, altero falso. Homo quippe (questo e il verni modus)
solus, i. e. absque grammatica est qiTnecToh Ter habe ^ ^ m maticam: grammatica
nam- que, nec sola nec cum honune. habet grammaticum. Sed homo so - irammn '
grammat,ca - ««* grammatici; quia, absente grammatica, nullus esse grammatici
potest (il falsus modus consi alerebbe cioè ne 1 intender quella proposizione
nel senso che non per^ r „a n n e ted a n> ^amniotica alla sostanza 7 ».
stante dell uomo): sicut qui praecedendo ducit alium, et so - . 1 praevius,
quia qui sequitur non est praevius,... et solus non lvL pr i5T l 5m l, !cr n T
f qui T‘ evius esse non P° test la prima delle due alternative viene utilizzata
per la pro¬ fessione di fede realistica, e qui Anselmo aderisce, con l’accento
di chi si rassegna di mala voglia, alle idee dei dialettici aristotelici, per
salvare almeno quel che po¬ teva essere salvato, poiché, visto che le Categorie
gode- van pure di ima così grande autorità, da non poter es¬ sere del tutto
rigettate, bisognava far il tentativo d’inter- petrarle in senso realistico.
Dice Anselmo cioè, che de¬ signare il grammatico esclusivamente come qualità, è
giusto soltanto dal punto di vista delle Categorie ari¬ stoteliche, poiché in
quest’opera si tratta in verità non dell’essere reale delle cose stesse, e
neanche della desi¬ gnazione puramente appellativa mediante parole, bensì delle
voces significativae (v. sopra la nota 363), in quanto che queste significano
immediatamente l’essere sostan¬ ziale in se stesso: e perciò è giusto che tra i
dialettici sia rimasto in uso di tenersi puramente nell’orbita di questa
significazione sostanziale, cioè di servirsi del grammatico, soltanto
com’esempio di qualità 3T0 ) ; peroc- ”“) C. 16: Cum vero dicitur, quod
grammaticus est qualilas, non recte, nisi secundum tractatum Aristotelis de
categoriis, dicitur. C. 17: D. An
aliud habet ille tractatus quam « omne quod est, aut est substantia, aut
quantitas, aut qualilas, etc. » (BOEZIO [in Ar. Praed., I; PL).... — M. Non
tamen fuit princi- palis intentio Aristotelis, hoc in ilio libro ostendere, sed
quoniam omne nomen vel verbum atiquid horum significai; non enim inten- debal ostendere,
quid sint singulae res, nec qiiarum rerum sint ap- pellalivae singulae voces,
sed quorum significativae sint. Sed quo¬ niam roces non significant nisi res,
dicendo quid sit quod voces significant, necesse fuit dicere quid sint res.... De qua significatione videtur libi dicere, de illa
qua per se significant ipsae voces, et quae illis est subslantiulis, an de
altera, quae per aliud est, et acciden- talis? — D. Non nisi de ipsa, quam idem
ipse eisdem vocibus esse, diffiniendo nomen et verbum (Boezio [in de interpr.,
ed. Becunda, I, 1: rdiz. Meiser, Pare Post., p. 13 ss. ; PL, 64, 398-9], p. 293
s.), assignuvil, quae per se significant. — M. An pulas.... aliquem eorum, qui
eum sequentes de dialectica scripserunt, aliter sentire voluisse de hac re, quam
sentii ipse? — D. Nullo modo eorum scripta hoc aliquem opinari permilliinl:
quia nusquam invenitur aliquis eorum posuisse aliquam vocem ad ostendendum
aliquid quod significet per aliud, sed semper ad hoc quod per se signifi¬ cai
[PL, chè, in questo senso realistico, il grammatico, per ri¬ spetto alle
categorie, è, parimente dal punto di vista del linguaggio come nella realtà,
una qualità — laddove, fatta astrazione da questa considerazione dialettica, la
quale tuttavia deve pertanto contenere Tessere essenzialmente sostanziale, ciò
che rimane è solamente il campo della comune maniera di parlare appellativa,
nella quale il grammatico è chiamato «uomo»: non diversamente p. es., nel
considerare le forme grammaticali, è giusto chiamare maschile il sasso, mentre,
nell’uso comune del linguaggio, non c’è nessuno che designi il sasso come mi
essere mascolino 3n ). Dunque Anseimo scorge bensì nelle categorie un pò- tere
formale, ma lo riferisce esclusivamente alla Tabula logica, già obbiettivamente
data, dell’Essere sostanziale. Ma quanto rozzamente ciò da lui sia stato
inteso, ap- pare manifesto dalla concliiusione dello scritto, dove si discute
ancora la questione, se una sola cosa possa ca¬ dere sotto più categorie;
poiché, quando p. es. si dice c ìe armatus può anche rientrare nella categoria
della sostanza, perchè l’armato ha in sè una sostanza, vale a In C ' 18, U s .-
: Si crgo proposila divisione oraefata (cioè L!X n 7 e ;' leCÌ categorie),
quaero a te, q uid sii grammaticm secundum hanc divisionem, et secundum eos.
qui illuni scribendo D P™lT2Z qUUn,Ur t: qU,d QUaer0 ’ ° Ut QUÌd mihi
rospondebi? - _ -A " ÌUC P ° test quaeri ’ nisi de voce aut de re quam
significati quare, qu ia constai grammaticum non significare respondebo^i
'"'“'"'T hominem sed grammaticum, Incuneiamo Tve^oauàerlde de - V °
Ce ' quu ) vox significans quali totem, si vero quaens de re, q uia est q
ualitas.... Quare si ve quaeralur de yZZlil Ve J e ,lf’ CUm quuer,tur quid sit
gr animai-ras secundum A ri- stoici s tractatum et secundum sequaces ejus.
recte respóndZr -Mila' "t t * men s f cundum oppellationem vere est
subslanliu. scribuntd emm V Vere " OS debet ' quod d ulectici ahler utùmur
InLc J bUt S0C ‘ ,ndum quod sunt significativae, ,diter eis dèi Idi //T '"
secun dum qiwd sunt appellativae: si et gromma- tic ahud dietim secundum formam
vocum. aliud secundum reium naturam. Dicunt quippe lapidem esse mascolini
generis.... cum tu rno dicat lapidem esse masculum [PL, dire le armi, cou ciò
si tocca veramente il colmo della incomprensione della logica; e a noi piace
chiudere con la sentenza che Anselmo pronuncia su tale argomento, essere
difficile cioè (— poiché non vuole affermare nean¬ che questo con assoluta
certezza —) che una cosa, la quale eia un tutto uno, possa cadere sotto più
categorie, laddove invece una parola, includente più significati, può ben
essere considerata, come non unitaria, dal punto di vista di più categorie: tal
è p. es. il caso di albus, ch’e di pertinenza così della categoria della qua¬
lità, come anche di quella dell’avere 372 ). Cosi quest’ottuso realismo
s’inviluppava, per la sua propria impotenza, in difficoltà, che in generale,
per chi consideri le questioni secondo un criterio realmente lo¬ gico, sono
inesistenti, e tutto l’atteggiamento di Anseimo ci appare soltanto come un
documento di una congenita disgraziata disposizione, dalla quale è affetto, in
ordine alle questioni di logica, l’oggettivismo realistico. [§ 35. — Grado
ancor basso di sviluppo del con¬ trasto FRA LE TENDENZE. ONORIO DA AUTUN. Ma
ili generale sembra in quel tempo, cioè al limite fra l’XI e il XII secolo,
essersi manifestato, quale risultato di più Nam, si grammaticus est qualilus,
quia significai qualitatem, non video cur armalus non sit substantia,... quia
significai habentem substantiam, i. e. arma:... sic grammaticus signi¬ ficai
habere, quia significai habentem disciplinam. — M. Nullale- nus.... negare
possum, aut armatum esse substantiam aut gromma- ticum [esse] habere.... Rem
quidem unam et eamdem non puto sub diversis apiari posse praedicamentis, licet
in quibusdam dubitari possit: quod majori et altiori disputationi indigere
existimo (sa¬ remmo stati in verità smaniosi (li leggerla, questa altior
disputatio).... Unam aulem vocem plura significamela non ut unum, non video
quid prohibeat pluribus uliqucndo supponi praedicamentis, ut si albus dicitur
qualitas, et habere [PL], Successivamente si prende ancor in esame il concetto
di albus, per sostenere ch’esso non è unitario, ma risulta appunto da qualitas
e habere appiccicati insieme. e meno recenti controversie logiche e teologiche,
un contrasto, ancora dichiaratosi in maniera anzichenò gros¬ solana, tra
nominalisti e realisti: si era cioè incapaci, all’infuori da questi due punti
di vista, di prenderne in’ considerazione alcun altro, come pure si enunciava
cia¬ scuno di quei due unilateralmente, ancora in forma estrema e per così dire
grezza. Uno svolgimento di gran lunga più ricco e meglio disciplinato, ce lo
presente¬ ranno di già subito i prossimi decenni, e più che mai 1 epoca
ulteriore, che per il momento preferiamo tuttavia passar del tutto sotto
silenzio. La usata logica delle scuole poteva anzi esser al¬ lora intesa da
alcuni singoli scrittori in maniera tale, che rimanesse ancor affatto immune da
qualsiasi in¬ flusso del contrasto fra le tendenze, e qual esempio di assoluta
ingenuità, così per questo rispetto come relativamente alla logica in generale,
possiamo, per chiudere questa Sezione, citare ancora, del principio del secolo
XII, alcune amene osservazioni di Onorio da Autun, il quale rappresenta le
sette arti liberali come altrettante sedi dell’anima: ed ecco tutto ciò che, a
tal proposito, egli sa metter avanti, relativamente alla dialettica: per cin¬
que porte (le quinquc voces) si entra nella vera e pro¬ pria fortezza (cioè le
dieci categorie), dove stan pronti due campioni, vale a dire il sillogismo
categorico © quello ipotetico, che Aristotele ha armati nella Topica e ha
portati poi, nel libro de interpr., sul campo di bat- taglia, sicché ci si può
qui metodicamente addestrare nella lotta contro gli eretici S7S ). TO ) Honorii
Aucustodunensis de Animae Exsilio et Patria, c. 4, riprod. dal Pez, Thesaur. Tenia
civilus est Dialet¬ tica, multis quaestionum propugnando munita.... Uaec per
quinque portas adventantes recipit, scilicet per genus, per species, per diffe-
rens, per proprium, per accidens; unde et Isagogae introductiones dicuntur,
quia per has repatriantes introducuntur. Arx hujus urbis est substantia; turres circumslantes
novem sunt accidentia. In hoc duo pugiles sunt et litigantes certa ratione
dirimunt: Calhegorico et hypothetico Syllogismo quasi praeclaris armis viantes
muniunt. Quos Aristoteles in Topica recipit, argumenlis instruit, in Periher-
meniis ad lalum campum syllogismorum educit. In hac urbe docen- tur itineranles
haereticis, et aliis hostibus armis rationis resistere eie. [PL PROGRESSO GRADUALE VERSO LA CONOSCENZA COMPIUTA
DELLA LOGICA ARISTOTELICA Si colmano le lacune del materiale degli STUDI DI
LOGICA, CON LA CONOSCENZA DEI DUE ANALITICI e della Topica, oltre che degli
Elenchi Sofistici]. Dopo aver detto più sopra che c’è un solo motivo di
dividere in periodi la storia della logica me¬ dievale, motivo che consiste per
me nella misura estrin¬ seca della conoscenza, più limitata o più estesa, che
si aveva degli scritti aristotelici, e che la differenza di contenuto fra la
precedente e la presente Sezione si ri¬ duce in ultima analisi al fatto che
sino al principio del sec. XII non erano noti nè utilizzati i due Analitici e
la Topica, insieme con gli Elenchi Sofistici, mentre in se¬ guito, a poco a
poco, anche questi libri furon tratti entro la sfera dei dibattiti sopra le
questioni di logica, — m’incombe ora qui per prima cosa il dovere di fissare
anzitutto precisamente quei dati di storia letteraria, che stanno a fondamento
della separazione. Per tutta que¬ sta Sezione, con la quale entriamo
nell’agitata epoca di Abelardo e procediamo sino al termine del XII se¬ colo,
bisogna cioè in primo luogo metter sott’occliio l’àmbito del materiale di cui
disponevano gli studiosi di logica, e dal quale scaturirono le numerose
controversie di questo periodo, vale a dire bisogna mostrare che, e in qual
modo, a poco a poco, per un verso si pervenne alla conoscenza di tutta quanta
la produzione letteraria di Boezio, che aveva appunto tradotto l’Organon per
intiero, e per l’altro verso si apprestarono traduzioni nuove dei libri
suddetti: perchè, solamente dopo fatto ciò, potremo riferire quale attività si
sia svolta nel frat¬ tempo sopra questo terreno gradatamente ampliato. Che quella
suindicata limitazione sia effettivamente sussistita fino al principio del
secolo XII, si può forse darlo ora per dimostrato, sia dalle notizie positive,
ad¬ dotte nella Sezione precedente, sia anche dall’asso¬ luta mancanza di
qualsiasi accenno in contrario. Ma ap¬ punto, quanto più per questo periodo
antecedente invo¬ chiamo in nostro favore la forza dell 'argumentum ex silentio
’), tanto più diligentemente abbiamo preso in considerazione anche le tracce
isolate e per così dire cancellate, di manifestazioni, dalle quali quel
silenzio viene rotto, a partire da un dato momento. Il punto critico si ha
cioè, quando viene presa conoscenza degli Analitici e della Topica, oltre che
degli Elenchi Sofi¬ stici*), e per quanto ciò sia accaduto soltanto insensi- Certo
non deve perciò negarsi la possibilità di nuove sco¬ perte in qualche
Biblioteca, dalle quali vengano messe in luce notizie, contrastanti con questa
nostra veduta; ma tuttavia si tratte¬ rebbe sempre soltanto di casi isolati,
senz’alcun indosso sopra lo svolgimento generale della logica in quel tempo,
perchè a ricono¬ scere l’andamento della logica in generale, sembrano
sufficienti le fonti sinora accessibili, ") Jourdain nelle sue Rechcrches
critiques si era invero pro¬ posto solamente il compito di ricercare le
traduzioni nuove, venute fuori nel Medio Evo, e poteva escludere dunque dalla
propria con¬ siderazione questa rivoluzione, in quanto essa concerne la cono¬
scenza di Boezio: ma gli sono sfuggiti testi d'importanza decisiva anche per
quel suo intento particolare bilmente e a poco a poco, ci si può bene aspettare
che una conoscenza, sia pur ancora frammentaria, di queste principali opere
aristoteliche non sarà senza connes¬ sione con lo studio della logica, fattosi
ora più ricco e variato. Giacomo da VENEZIA (si veda). Già una notizia che c
del seguente tenore: un tale Giacomo da Venezia [SI VEDA] tradusse dal greco i
due Analitici, la Topica e gli Elenchi Sofistici, e nello stesso tempo li
corredò di un commento, sebbene degli stessi libri ci sia stata una traduzione
più antica » *), — riguar¬ da, come si vede, proprio quelle opere, che il periodo
precedente non aveva nè conosciute nè utilizzate: e, com’è da rilevare da un
lato, che l’informatore, appartenente egli pure al secolo XII, era edotto della
esistenza della traduzione, curata da BOEZIO, di quei libri, — poiché dove si
parla di una traduzione « più antica », non può alludersi se non a quella —, è
parimente chiaro, d’altra parte, che quel tale Giacomo di VENEZIA (si veda) ignorava
che la traduzione stessa esistesse, e proprio da ciò era stato indotto a curar
egli stesso la sua propria versione di quei libri. Ma il paese, al quale
siffatte circostanze vanno ambe¬ due riferite, è L’ITALIA. Prima ancora che si
disponga del testo DEI LIBRI ARISTOTELICI SU RICORDATI, TRAPELANO D’ALTRA FONTE
NOTIZIE SPORADICHE. Si DIMOSTRA CIÒ CON ARGO- *) In nota a un passo di Roberto
da Mont-St.-Michel (Roberti de Monte Cronica, riprod. dal Pertz, MGH, Vili, p.
489), un continuatore (cioè « alia manus », ma, come afferma il Pertz [rectiiu:
L. C. Bethmann]) osserva quanto segue: Iacobus Clericus de VENEZIA (si veda) transtulit
de Graeco in Latinum quosdam libros Aristolilis, et commen¬ tatili est;
scilicet Topica, Anal. priores et posteriores, et Elencos; quamvis anliquior
translatio super eosdem libros haberetur fPIL MENTI TRATTI dagli scritti di
AbelardoJ. Questa im- portante notizia, la quale contiene dunque elementi re¬
lativi alla conoscenza di quelle opere, e inoltre nello stesso tempo elementi
relativi alla non-conoscenza delle opere stesse, non sta tuttavia così isolata,
come si ere- deva 4). Una conoscenza di quei libri sembrerebbe cioè, ben è
vero, rimaner esclusa a prima vista da dichiara- zioni di Abelardo, affatto
categoriche e di amplissima portata. Fatta astrazione dal lamento ch’egli leva,
e che qui non c’interessa, per la mancanza di una traduzione della Fisica e
della Metafisica di Aristotele 5 ) — Abelardo c’indica egli stesso
espressamente le fonti della sua lo¬ gica, e dice che la letteratura in lingua
latina, riguar¬ dante la logica, ha per fondamento sette scritti, ripartiti fra
tre autori: di Aristotele cioè si conoscono soltanto le Categorie e il de
interpr., di Porfirio la Isagoge, ma di BOEZIO sono in uso i trattati de
divisione, de differenti™ topicis, de syllogismo categ., de syllogismo hy-
poth. b ); inoltre, anche una osservazione, tratta dagli , ora ’ ®“P ra Giacomo
da V., anche Ueberwec-Geyer, p. 146] .11I Cousin (Ouvr. inédits d’Abélard, p. L
ss, e anche Fragni. de pini, du moyen àge Parigi) è assolutamente in errore, e
dai passi di Abelardo che dovremo citare subito appresso, trae conchiusioni,
solamente in base al tenore delle parole, estrinse¬ camente considerate, senza
por mente al contenuto delle dispute intorno ai problemi della logica. . “I
Abaelardi Dialectica, negli Ouvr. inéd. (ed. Cousin), p. 200: in l hysicis
[et].... in his libris, quos Metaphysica vocat, exequitur (se. Aristoteles).
Quae quidem opera ipsius nullus adhuc translator latinae linguue aptavit.
Confido.... non pauciora vel minora me praesti- turum cloquentiae peripateticae
munimenta, quam illi praestiterunt, quos latinorum celebrat studiosa
doclrina.... Sunt autem tres, quo¬ rum septem codicibus omnis in hac arte
eloquenza latina armalur. Aristotelis enim duos tantum, Praedicamentorum
scilicel et l J eri ermenias libros usus adhuc latinorum cognovil; Porphyrii
vero unum, qui videlicet de Quinque vocibus conscriptus, genere scilicet,
specie, differentia, proprio et accidente, introductionem ad ipsa praeparal
praedicamenta; BOEZIO autem qualuor in consuetudinem duximus libros, videlicet
Divisionum et [2291 Topicorum cum Syllogismis tam Categoricis quam
Hypotheticis. Quorum omnium summam no- Elenchi Sofistici, Abelardo la cita una
volta, soltanto di seconda mano, espressamente riferendosi a BOEZIO, come a
propria fonte 7 ). Mentre dunque Abelardo, com’è di per sè chiaro, da quei
passi di BOEZIO già più volte menzionati, do¬ veva aver appreso esattamente
quali sieno i libri scritti da Aristotele, si direbbe ch’egli riconosca con le
parole ora riferite, in modo assolutamente inequivocabile, che non gli era
possibile far "uso delle traduzioni degli Ana¬ litici, della Topica e
degli Elenchi Sofistici. Ma tutto quel che ci è lecito conchiudere anche da
questo ricono¬ scimento, si è che Abelardo non aveva a disposizione quelle
opere principali di Aristotele, perchè queste in generale non si trovavano tra
gli scritti entrati nell’uso (si ponga mente all’espressioni « usus....
cognovit » e «in consuetudinem duximus »); vediamo cioè che allora in Francia,
in tutti quei luoghi, per i quali Abelardo si andò aggirando o dove in generale
ci si occupava di lo¬ gica, non si possedeva un esemplare del testo genuino di
quei libri; poiché 6e se ne fosse posseduti, con l’ar¬ dore per gli studi di
logica, caratteristico di quell’e¬ strae dialecticae textus pienissime
concludet etc. Che per Topica qui non sia da intendere nient’altro che lo
scritto de diff. top., è dimostrato, oltre che dalla esposizione che di questo
ramo della dialettica si trova nello stesso Abelardo, anche da una quantità di
passi, dov’egli cita punti singoli 'del de di/}, top. come « Topica» di BOEZIO,
tout court: così, p. es., lntrod. ad thcol. [ed. Amboes.], II, 12, p. 1078 [ed.
Cousin, II, 93; PL, 178, 1065] (si riferisce al de diff. top., I, p. 858 s.
[corrisponde a PL), Theol. Christ. [ed. Martène], IU, p. 1281 [ed. Cousin, II,
p. 488: PL] (si riferisce c. s.). Sic et Non, c. 9, p. 41 della ediz. Henke e
LindenkohI [PL (de diff. top., II, p. 866 [PL, ]), ibid., c. 43, p. 105 [PL,
178, 1405] (de diff. top., III, p. 873 [PL, 64, 1197]), ibid.. c. 144, p. 397
[PL] (de diff. top., II, p. 867 [PL]). ') Dialect., ed. Cousin, p. 258: Sex
autem sophismatum genera Aristotelem in Sophisticis Elenchis suis posuisse,
Boethius in se¬ cando editione Peri ermenias commemorai (BOEZIO, p. 337 s. [in
de inlerpr., Secunda editio, II, 6: ed. Meiser, Pars Post., p. 133-4; PL, 64,
460 s.]). poca, li si sarebbe certamente messi in piena luce. Non rimane invece
esclusa in tali circostanze la possibilità che qualche elemento di quegli
scritti sia tuttavia ve¬ nuto altrimenti a conoscenza del pubblico dei dotti: e
sol che si trovasse anche una unica notizia soltanto, della quale si riuscisse
a dimostrare che non possa essere stata ricavata da uessun’altra fonte se non
da uno di quei libri, sarebbe fornita la prova che in qualche maniera, da
qualche altra parte, dati isolati ricavati dagli Analitici e dalla Topica sono
filtrati nell’atmosfera degli studiosi francesi di logica. Ma dimostrare per
opera di quali uomini e in quale maniera ciò sia accaduto, non è com¬ pito da
assegnare a noi; è impossibile fornir tale prova, anzi nemmeno possiamo
designare la fonte locale. Che cioè al tempo di Abelardo si fosse venuti a co¬
noscenza di elementi staccati, tratti da quegli scritti ari¬ stotelici che fin
allora non erano ancora stati messi a profitto, è cosa della quale possiamo
trarre le prove precisamente da Abelardo stesso, e anzi riferendoci non a un
pimto soltanto, ma a parecchi. Abelardo osserva una volta, a proposito della
definizione del genus 8 ), che in determinate circostanze anche l’individuo può
fare da predicato, come p. es. nella proposizione « hoc al¬ bum est Socrates»,
oppure «/tic veniens est Socrates » : — una considerazione questa, che sarebbe
vano ricercare in tutta la serie dei commenti di BOEZIO, ma che si trova bensì
negli Analitici Primi, con letterale coinci¬ denza di quelle proposizioni
esemplificative; e proprio di là questa notizia dev’essere venuta anche a cono-
[Glossae in Porph., ibid., p. 560: videtur esse falsum, quod individua de uno
solo praedicenlur, cum hoc individuum Socrates de pluribus habeat praedicari,
ut « hoc album est Socrates », « hic veniens est Socrates». Il luogo
aristotelico corrispondente si trova negli Anal. pr., I, 27 (nella traduzione
di BOEZIO PL. scenza di vari altri cultori della logica 9 ). Abelardo rife¬
risce inoltre che ci son « molti » che traspongono la es¬ senza della
definizione esclusivamente nella indicazione delle qualità 10 ) : e non sarebbe
il caso di dire che que¬ sta opinione è soltanto una conseguenza estrema rica¬
vata da un passo [delle Categorie] già da gran tempo conosciuto [nella
traduzione di Boezio] ll ), perchè un contemporaneo di Abelardo formula quella
opinione stessa in termini tali da ricondurci alla vera sua fonte, che troviamo
soltanto nella Topica di Aristotele 12 ). Abelardo poi, a proposito della
controversia intorno agli universali, usa inoltre una maniera di esprimersi
(cioè universalia « appellant in se »), spiegabile soltanto ove si ammetta che
la idea fondamentale di quei passi degli Analitici secondi, dove Aristotele
tratta di xaxà •) Che la cosa abbia dato occasione a una controversia di moda
nelle scuole, ai desume da Joh. Saresb., Metalog., II, 20 (p. 110, ed. Giles d.
Webb; PL]) : Hoc enim ex opinione quoTundam sensisse visus est Aristotiles in
Ancdeticis dicens (segue quel passo medesimo [cit. nella nota precedente]). ’”)
Dialect., p. 492: Unde multi, cum significationem substantiae hitjus nominis
quod est « homo » agnoscant, nec qualitates ipsius satis ex ipso percipiant,
tantum propter qualitatum demonstrationem diffinitionem requirunt. “)
Abistotele, Cut., 5 ; in BOEZIO, PL. L’autore dello scritto De generibus et
speciebus, dal Cousin attribuito a torto ad Abelardo (v. sotto le note 49 e
148), dice a p. 541 9.: Concedunt omnes, species ex differentiis constare....
Dicunl, omnes differentias esse in qualitate etc. In tale forma accentuata,
quest’ultima affermazione poteva esser ricavata solamente da Ari- stotele. Top.
(cioè dalla trattazione, che ivi si trova, della definizione, con la quale si
accordano poi altri passi), e ha dovuto in tal maniera appartenere al novero di
quelle notizie spo¬ radiche, che ora contribuivano a moltiplicare, le
controversie scola¬ stiche; l’autore del De gen. et spec. fa poi sforzatamente
risalire la idea ora citata a un altro passo di BOEZIO, p. 62 (ad Porph. [a se
transl., II, 5: cd. Brandt, p. 186; PL, 64, 93-4]), e dunque è certo che
possedeva come fonti solamente i testi universalmente diffusi. Invece Joh.
Saresb., loc. cit., p. 100 [edL Webb, p. 103; PL, 199, 880] mette già in
connessione con tale questione anche Sopii. El., 22, 178 b 36. 7tavTÓ£ e di xn
pr,ma d °° Magalo! bi >]U,S cairn
istas concedei ; « nllLl , Secunda figura coni,agii m > oni oe justum
possibile est ! lum Possibile est esse bo - zs‘?r, • *■*» : ìt . ’z *• vZ’-£z
iz"tr;« ,ur Zssrzzzr 6 “" ■ *5 (ibid., nota 5721 _ E-.-, . 41 jnstani
esse». Sic et ..._ 6u * veraciter componi. ÉZpus enT n Td Syllog,smi Ibid., c. 27, p. 183 [ed. Webb, p. 193; PL]:
Cete- rum conira eos qui veterum favore potiores AristotiUs libros exclu- dunt
Boetio fere solo contenti, possent plurima allcgari. ■) Ibid., c. 6, ip. 162 s.
[ed. Webb, p. 170-1; PL, 199, 919-20]: rosteriorum vero Analeticorum subtilis
quidem scientia est et paucis Ma come da questa lamentanza risulta naturalmente
manifesto che quei libri eran conosciuti, così d’altra parte viene riferito
ancora che la Topica aristotelica, da gran tempo trascurata, proprio allora è
stata, per così dire, richiamata da morte a vita 2S ) : e alla infor¬ mazione,
secondo la quale questa idea di tirar fuori la Topica ha anche trovato a sua
volta i suoi oppositori, si collega anche l’altra notizia, concernente un certo
D r o g o n e , che non ci è ulteriormente noto, e che a Troyes manifestamente
lavorò attorno alla topica, se¬ condo il modello di quella di Aristotele 2B ).
[| 7. — Nuove traduzioni dell’Organon, nella Bassa Italia e nell’Impero
Bizantino]. — Ma per quanto concerne ora in particolare il venire in luce di
traduzioni nuove, si ricava in verità assai poco da una lettera di Giovanni,
che da Costanza richiede copie ingeniis pervia.... Deinde huec ulenlium
raritate iam fere in desue- tudinem abiil, eo quod demonstralionis usus vix
apud solos malhe- malicos est.... Ad haec, liber quo demonslrativa trudilur
disciplina (cfr. la nota 25), ceteris longe lurbutior est, et transposilione
sermo- num, traiectione litterarum, desuetudine exemplorum, quae a di- versis
disciplinìs mutuata sunt, et postremo, quod non conlingil auctorem, adeo
scriplorum depravatiti est vitio, ut fere quot capita, tot obstacula hubeul. Et
bene quidem ubi non sunt obstacula capi- tibus pluru. Unde a plerisque in
interpretem difficultalis culpa re- junditur, asserenti bus librum ad nos non
vede translulum | perve¬ nisse]. A qual traduttore si fa qui allusione, a
Boezio o a un altro? B ) Ibid., Ili, 5, p. 135 [ed. Webb, p. 140] : Cum itaque
tam evidens sii utilitas Topicorum, miror quare cum aliis a maioribus tam diu
intermissus sit Aristotilis liber, ut omnino aul fere in desue- tudinem
abierit, quando aetate nostra, diligentis ingenii pulsante studio, quasi a
morte vel a somno excitalus est, ut revocarvi er¬ rante* et i iam veritalis
quaerenlibus aperiret [PL]. “) Ibid., IV, 24, p. 181 [ed. Webb, p. 191: e v.
ivi la nota]: Salis ergo mirari non possum quid mentis habeant (si quid tamen
hubent) qui haec Aristotilis opera carpunt.... Magisler Theodoricus, ut memini.
Topica non Aristotilis, sed Trecasini Drogonis irridebat; eadem tamen quandoque
docuil. Quidam auditores magistri Rodberti de Meliduno (v. appresso le note 453
e.) librum hunc fere inutilem esse calumnianlur [PL I di Jibn aristotelici in
generale, e prega inoltre che ven¬ gano anche aggiunte annotazioni, data la
possibilità che non ci sia da fidarsi del traduttore 3 °). È invece di grande
importanza veder da lui citato un medesimo passo, sia nella traduzione di
Boezio, sia anche, e contemporanea- mente, nella versione « nuova >«); e
come quest’ultima si distingue per essere più letterale, così in generale Gio-
vanni si era fatta una opinione abbastanza precisa in latto di traduzioni
(soltanto cioè quando queste aderì- scono, quanto strettamente è possibile,
secondo una re- gola rigorosa, all’originale, è dato ottenere una con,-
prensione, garentita contro qualsiasi pericolo di unila- teralna da una « ratio
indifferentiae »); egli dice che una tale opinione ha trovato allora conferma e
appog¬ gio in un Greco da Severinum (cioè da Szoreny in Un- gliena), versato in
entrambe le lingue 32 ). Ora quella I Epist. 211 (II, p. 54 s ed. Giles 1PL 19Q
oacn ri. > ■ stotehs, quos habelis, mihi facialis exscribi ) \. M,ro . s Ar
" supplicatione, quatinus in operibus Aristoteìis ubiZitr 'T
"7"“ haaonetn: cicadàtionès enimJùntJ -IL ^ rPL 199 io A m ct ' 11 .’
Sl sunt > menu ad rutionem Sei HI° IT ^ ÌPÌat ° n T dÌ ArÌS, ° , •
A’sitcaftratio indifferentiae per se stessa non c’interessa per il momento qui,
bensì la si vedrà intrecciarsi alla nostra esposizione della logica di Giovanni
da Salisbury (note 574 ss.); ma è ben cosa che c’interessa lino da ora, che, in
connessione con quella, egli ricordi inoltre anche un secondo traduttore
(parimente, è vero, senza riferirne il nome), del quale aveva l'atto la
conoscenza nelle Pu¬ glie 33 ). Ma se, coni’ è attestato da questi importanti
passi, il comparire di traduzioni nuove, ebbe impulso nell’ Impero tuzantino,
e, per opera di Greci, nell’ Ita¬ lia meridionale, e se di ciò ebbero notizia
gli studiosi di logica a Parigi o in Inghilterra, si avrebbe qui una prima
traccia, sebbene passeggierà, di un influsso del¬ l’epoca di Anna Comncna (v.
qui appresso le note 219 e 370, come pure altre notizie nella prossima Sezione,
note 1-5 ss.). — Finalmente può ricordarsi ancora, per così dire ad
abundantiam, che negli scritti di Giovanni, accanto a citazioni coincidenti in
modo assolutamente letterale con la traduzione di Boezio, se ne trovano anche
di quelle, che bisogna chiamare per lo meno inesatte, semprechè non sieno state
originariamente attinte ad altra fonte 34 ). manga, aU’infuori da quel
Severinum che si trova in Ungheria [Webb: / orsan e civitate Sanctae Severinae
in Calabria (Santa Se- verina, prov. di Catanzaro)]. ") Ibid., I, 15, p.
40 [ed. Webb, p. 37; PL, 199, 843] : non pigebit re/erre, nec forte audire
displicebit quod a Graeco interprete et qui Latinum linguam commode noverai,
durn in Apulia morarer, ac- cepi eie. M ) Tra le prime vanno annoverate:
Metal., II, 15, p. 86 [ed. Webb, p. 88; PL, 199, 872] (Top., I, 11: nella
traduzione di Boezio, p. 667 [I, 9: PL, 64, 916]) — e II, 20, p. 110 [ed. Webb.
p. 113; PL, 199, 887] (Anal. pr., I, 27: p. 490 della traduzione di Boezio [I,
28: PL, 64, 669]). — Tra le seconde vanno annoverate: Metal., II, 9, p. 76 [ed.
Webb, p. 75-6; PL, 199, 866] (Top., I, 11: p. 667 della traduzione di Boezio
|I, 9; PL, 64, 917]) -— II, 20, p. 100 [ed. Webb, p. 103; PL, 199, 880] (De
sophisticis Elenchis, cap. 22: nella traduzione di Boezio, p. 750 [II, 3; PL,
64, 1032]) — III, 3, p. 126 [ed. Webb, p. 131; PL, 199, 897] (Top., I, 9: p.
666 della traduzione di Boezio [I, 7; PL, 64, 915. Invece lo Webb rinvia a
Cat., 4, 1 b 25 ss.]). CARLO PRANTL f§ - S’iIVTENSIFlCA LO STimm np, , . —A
LOGICA C„„ la " tT Cm ' BEL Pseudo-BoezioJ. — Ora ch’è f , Tr filate
strato a sufficienza come antece 1 , C °“ C1 ° dÌmo " letteraria di
Abelardo ^ “ f 1 ^ 6 aI1 ’ atti vità studio della logica fos’se stataT^à
arrfccWt^ T ^ sovra punti particolari e „ P arricchita, abneno piersi a poco a
dopo 1 , ^ Ve “ Uta P OÌ a c °®- Jisbury (di questo sr T°i 3 temP ° ^ Giovanni
da Sa- ranno ancora “ ale « ; 0m P Ìme «‘o « si presente- - ci è reso noto
cosìVfattor T’- * ?8 ’ 219 allora derivare un birre T t™™: ^ qUale doveva
nell’attività svolti 1 • "V™ ° ' lntensità e di estensione si SDie^a t
rapporto scambievole die ben SJ spiega, una forza cooperante era do, . . .
dalla teologia donunatica: e ciò nere! ' “ a f Uardo ' die Sia di fronte allo
Scoto EringLt a ortodossia, ,„„l le ta Materi , * * " ' “ «“*“'»«. ’•
stata all’erta così • . q e tloni mgJche, era resse, ora che la diale1 1 ^'^
ViSta dtd n,e(lesin '° inte- si» «.loro. z:::~ * r**r « lotte, si tiraron fuori
a Ài * propria vita d intime incularlo teologico affinclo" ordeea>
dall’arma- eon,tastanti J '*— Sci. era 'L SS ““ •“'« 1o»n« eliic’ mischiati
anche elementi di ^ ^ ,rapassassero fra m- ■fera dogmatica p ri » L :,tr;i%r P
a a'rr;“ ì r te: - *■* * * valere, ma ora inZiT' . T *°' * “* P Ur fatta
mettersi in più inten ^ d " C ^ pOSltlvamente a nitro- logica messa in
condizioTeTdot ““ !" 8t ° rÌa deUa ~ no'opera di grazie a una certa
formulazione di principii logico-onto¬ logici, potè esercitare azione
cooperatrice nelle contro¬ versie dei dialettici. Si tratta del de Trinitene
del Peeu- do • B o e z i o, e a tal proposito non mancò natural¬ mente di
manifestar il proprio influsso il fatto che fosse ritenuto suo autore proprio
Boezio, il rappresentante di tutta la logica S5 ). Appunto in quell’epoca cioè,
ossia a K ) Da Fr. Nitzsch (Dos System des Boethius und die ihm zu-
geschriebenen theologischen Schrijten [«Il sistema di Boezio, e gli scritti
teologici a lui attribuiti »]), Berlino, 1860, furono svolte le più valide
ragioni elle si oppongono alla tesi [oggi invece generalmente accettata] che
sia Boezio l’autore dei trattati teologici a lui attri¬ buiti. E se poi Hermann
Usener, Anecdoton Holderi [ : ein Bei- Irug zur Geschichte Roms in Ostgotischer
Zeit (« Testo inedito co¬ municato all’Usener da Alfred Holder: contributo alla
storia di Roma nel periodo ostrogotico »). Festschrift zur Begriissung dcr
XXXII. Versammlung deutscher Philologen und Schulmiinner in Wiesbaden], Lipsia
[rectius : Bonn] ha pubblicato di su un manoscritto di Reichenau del secolo X
un passo di un sunto di uno scritto di Cassiodoro finora sconosciuto (— il
passo Tp. 4] suona così: « Boethius dignitatibus summit excelluit. ulraque
lingua peritissima orator fuit.... scripsit librimi de sanciti trinitate et
capita quaedam dogmatica et librum contro Nestorium. condidit et carmen bucali-
cum. sed in opere artis logicae id est dialecticae transferendo ac mathematicis
disciplinis talis fuit ut antiquos auctores aut uequi- peraret aut vinceret »
—) e a ciò è unito un tentativo di dimostra¬ zione dell’autenticità di quei
trattati, — non direi che gli sia riu¬ scitoconciòdiconfutareffettivamente la opinione,
rappresentata dal Nitzsch e ripetutamente suffragata dai competenti
specialisti. Poiché rimane senza soluzione la contraddizione innegabile, che
cioè un uomo, il quale si mantiene assolutamente entro la sfera della filosofia
della tarda antichità e non fa mai il nome di Cristo, nè dice mai una parola
intorno alla consolazione della idea cristiana dell’opera di redenzione, si sia
occupato minutamente di sottili questioni di doinmatica cristiana. Se l’Usener
(p. 50) dice che si devono appunto tener separate le due personalità, dell’uomo
e dello scrittore appartenente alla storia della letteratura, questa è cosa che
non sembra possibile in tal maniera per l’autore della Consolatio philosophiae,
il quale anzi si trova direttamente in presenza della questione della teodicea,
questione appartenente all’orbita della religione. Ma poiché in quel
manoscritto di Reichenau neanrhe abbiamo un testo che sia dovuto allo stesso
Cassiodoro, bensì sola¬ mente l’opera di un epitomatore, che, come ammette
l’Usener (p. 28), riassume tutto il lavoro originale frettolosamente, e attri¬
buisce a Boezio fra l’altro anche un Carmen bucolicurn , rimane co¬ munque
possibile che l’epitomatore stesso, stando sul terreno della tradizione ch'era
in circolazione dal tempo di Alcuino, abbia fatto partir da Abelardo 36 ), si
accumulano le citazioni tratte da quei quattro libri intorno alla Trinità, e
Gilbert de la Porrée li accompagnò con un ampio commento, sì che non era più
possibile lasciarli da parte, nel trattar delle questioni relative. ,. Ma ’ 111
ordine a un influsso esercitato sopra la logica, c interessano qui
essenzialmente quegli assiomi, che l’Au¬ tore in principio del 3» Libro [cioè
del libro «Quo- modo substantia, in eo quod sint, bonae sint, cum non sint
smistanti alia bona »] mette in testa a tutto, per poi ri arsi da essi, quando
costruisce nel corso ulteriore dei- opera l’edifizio delle sue prove. Premessa
una defini¬ zione della communis conceptio, gli assiomi stessi”) si riferiscono
alla differenza, invalsa nella teologia, tra es¬ senza Oòcfa) ed esistenza
(òrtóaraai?), in quanto che a quest ultima deve ancora aggiungersi la forma
dell’Es- sere, e per essa lia pertanto luogo una partecipazione, come pure
risulta la possibilità di un avere-in-sc, il che poi conduce alla distinzione
di sostanza e accidente, e serve di fondamento a distinguere due modi di essere
di quella partecipazione; ma, a tale proposito, viene ato rilievo anche alla
unità, in cui sono congiunte negli esseri semplici, a differenza dai composti,
la essenza e la es.stenza, e da ultimo viene messa in vista mia na- turale
affinità di essenza in seno alla diversità esplicata. “Tp* * di Parigi, traua
r]af uth ’ ’ !•’ P ' ? 039 ’ Amho ™- [ed. di d’Anjboisel W.Co^II.mTpI.iS 10Mr
,Ser,,ti ^ Fra " S ° ÌS ZtaontZb no,a tìSu/ti£'Za rÌ39Ue etiam d “
ci,jlinis:Pr ° pOSUÌ «EQuesti prineipii, dei quali non ci concerne qui 1 uso
che se ne faccia nel campo teologieo-dommatico, non tar¬ darono a essere
citati, anche da cultori della dialettica, come « regulae », insieme con altre
« auctoritates », e e da ritenere che vari studiosi di logica sin da principio,
su questioni ontologiche, si guardassero daH’andar con¬ tro questi assiomi,
perchè poteva inoltre esserci la mi¬ naccia di conseguenze pericolose,
relativamente alla Tri¬ nità. Così ne venne, che si ebbe qui non già soltanto
una più larga applicazione della logica alla teologia, ma an¬ che un diretto
influsso di elementi dominatici sopra il movimento di elaborazione della logica
nel suo aspetto ontologico. [§ 9. — Contrasto fra logica e dogma]. — Senza
dubbio, con questa mescolanza viene a verificarsi una situazione
caratteristica, ed è cosa notevole che in quel¬ l’epoca, naturalmente incapace
di una chiara e medi¬ tata separazione dei due campi (nel senso in cui 1 hanno
intesa p. es. Cristiano Thomasius o Pietro Bayle), venga enunciata tuttavia la
incommensurabilità delle due ve¬ rità, teologica e logica, mentre si continuava
a svol¬ gere nello stesso tempo i due punti di vista inconcilia¬ bili. Anzi
proprio Abelardo stesso, il Peripateticus Pw- latinus, ne dà la più eloquente
testimonianza, quando 2) Diversum est esse, et id quod est. Ipsum enim esse
nondum est. At vero quod est, accepta essendi forma, est alque consistit. 3)
Quod est, participare aliquo potest. Sed ipsum esse nullo modo aliquo
participat.... 4) Id quod est. Iutiere aliquid praeterquam quod ipsum est,
potest, ipsum vero esse nihil aliud praeler se, habet admistum. 5) Diversum
est.... esse aliquid, et esse aliquid in eo quod est: illic enim uccidens, hic substantia
significalur. 6) Omne quod est, parli■ cipat eo quo est esse, ut sit, ulio vero
participat, ut aliquid sit.... 7) Omne simplex esse suum, et id quod est. unum habet. 8) Omni composito aliud est esse, aliud ipsum est. 9)
Omnis diversitas est discors, similitudo vero quaedam appetendo est. Et quod
appetii aliud, tale ipsum esse naluraliter ostenditur, quale est illud ipsum,
quod appetit fFL, dice che ai cultori della logica, ovvero Peripatetici, Dio
rimane ignoto, perchè da quelli tutto viene sussunto a una o l’altra delle
dieci categorie, laddove Dio non può cadere sotto alcuna di queste 38 ) : e
mentre ciò potreb- b’eseere ancora interpetrato come il punto di vista ge¬
nerale, venuto in uso fra i teologi da Agosthio in poi (efr. lo Scoto Eriugena,
Sez. precedente, note 120 s.), Abelardo, proprio relativamente alla dottrina
della Tri¬ nità, si pronuncia con la massima chiarezza, nel senso che quella ha
i suoi nemici più pericolosi nei dialettici o peripatetici 39 ), argomentando
costoro, dal punto di vista della logica, la unità individuale dalla unità di
essenza delle tre Persone, e, viceversa, dalla diversità delle tre Persone la
diversità della loro essenza 40 ). E non ténTI D B nRANn D VP e0/ ' Chrht
" V- 1271 (ne,la di Mar- tene e Uuram) Thesaurus novus Anccdotorum,
Parigi, 1717, voi V) ed- t-ousin, II, p. 478]: Quod autem illi quoque doctore's
nostri UT intendimi Logieae. ill„ m summam majestatem, quam in n . L eUm eSSe '
,rofì "; nt ", r - omnino ausi non sunt attingere, aut Cum e Z oZ ?
COm P rehender *’ ex ipsorum scriptis liquidum est. Cum erum omnem rem aut
substantiae aut alieni aliorum genera- lissimorum sub],ciani: inique et Deum,
si inter res ipsum eom- dZnnZT ’ aut ? ubstantiis ’ quanti tali bus, aut
ceterorum prue- dicamentorum rebus connumerarent, quod nihil omnino esse ex
ipsis convmcitur (p. 1273) [480].... qui tamen omnem rem aut siibstantiae aut
alieni aliorum praedicamenlorum applicanti palei leni 1 ■’ ruCU,lu h
.enpalelicorum illuni summam [481] majesla- tem omnino esse exclusam [PL], '
Christi'^tion / C 1 ’, P ‘ 1242 C44 , 8] j S " Pr " univers °> s
autem inimicos sani-lue TriniZZZ*’ J,,daeo \ sive Oenliles, subtilius fide,,,
essores d el Perquuunt. e , ucutius arguendo contendimi prò- fessores
dialecticae, seu import,mitas sophistarum. quos verborum agrume atque sermoni,m
inundatione bentos esse Plato irridendo apZtzl mm T dem ’ ° ^ nane dZeZeos
[PL^l 78, ]2 lT™ UUaS ^ maXlmM haere *es.... esse repressas eie. eillinl
"'Z'f 'I' P ' 1266 r472,: in loco Kravissimae et diffi¬ cili,mae
Dialecticorum quaestiones occurrunt. Hi quippe ex unitale duZsTtn, n "
,tuU ' m Pecsonarum impugnanti ac cursus ex [473] rìnZn , Pf ‘ rSO " an,m
ldentlt !' u ‘ m essentiae oppugnare laborant. rPL T?8 A C, TH Z'T"r P
onamus ' r>°'« a dissolvamus di A . r '° A, "dfd fa ora seguire una
enumerazione , ' f P t nl, . tre *«■, ‘•«""•o 'a Trinità, ricavate
dalla logica, per confutarle poi teologicamente. 1 è facile (lifatti metter d’accordo il
concetto aristotelico della sostanza individuale con il domina della Trinità,
sicché a rigore tutt’i cultori della logica, che seguivano Aristotele, si
trovavano inevitabilmente esposti alla tac¬ cia di eresia. [ § io. — Pietro
Lombardo. Bernardo da Ciiiara- valle]. — Così si riesce a spiegare come Pietro
Lombardo (morto nel 1164 [1160.'']), mentre sta ad attestare la connessione tra
la controversia intorno alla Trinità, e la scissione delle tendenze sul terreno
della logica, respinga nello stesso tempo qualsiasi applica¬ zione della logica
a quella fondamentale questione della teologia 41 ). Anzi egli stesso è
esclusivamente puro teo¬ logo in così alto grado, che per lui la questione
degli universali in generale non è neanche oggetto di con¬ tesa; e mentre più
tardi (particolarmente nella Sez. XIX) avremo a sazietà occasione di ravvisare
nei nume¬ rosi commenti ai « Sententiarum libri quatuor » del Lom¬ bardo
(ch’eran divenuti, com’è noto, il fondamento di tutta quanta la letteratura
teologica) un principale tea¬ tro della guerra intorno agli universali, il
Lombardo “) Petri Lomhardi Sententiarum 1, 19, 9 (/. 27, ed. dl Ira, 1516 fdi
Quaracclii: S. Bonaventurae Opera omnia l,p. ifUj): Videlur tamen mihi ita
posse accipi. Cum alt (se- AugustinusJ « substantia est commune, et hypostasis
est particulare » ; non ita haec accepit, cum de Pro dicantur, ut aecipiuntur m
phtlosophtca disciplina, sed per similitudinem eorum quae a philosophis dicun-
tur. locutus est; ut sicu/ ibi commune vel universale dicitur quod praedicatur
de pluribus. particulare vero vel individuimi quod d uno solo; ita hic essentia
divina dieta est universale, quia de omni¬ bus personis simili et de singulis
separutim dicitur, particulare vero singula quaelibet personarum, quia nec de
alus hoc de aliqua aliarum singulariler praedicatur. I ropter similitudinem ergo
pruedicalionis substantiam Pei dixit universale, et P^ s °nas particularia vel
individua.... (e. 101 Dicuntur enim ^ d^erre numero, quando ita difjerunt. ut
hoc non sit tUud.... dl b ferunt Socrates et Pialo et huiusmodi, quae apud
philosophos di- cuntur individua vel particularia; iuxta quemi modum non
possunt dici tres personae differre numero. Etc. [PI-, 192, 57 1 (I, 1, 14 e 1
)]. non si è in alcun luogo immischiato egli medesimo in questa controversia,
bensì solamente, con l’uso di de¬ terminate innocenti parole, ha offerto a’
suoi conunen- tatori motivo occasionale di dare, nella lotta già divani- pata,
libero corso al loro infiammato zelo. E come ciò si è verificato nella più
larga misura per le parole testé mentovate del Lombardo, così il lettore delle
« Sente*- tiae » non può, a proposito di moltissimi luoghi, avere neanche il
piu lontano sentore della caterva di discus- «oni, attinenti a, problemi
logici, che vi si sarebbe più tardi riattaccata la). De] resto ^ p.^
riproducono anche le sofistiche quistioni, più sopra (Sez. precedente, nota
303) citate, dibattute dalla teolo¬ gia medievale « ■»). Nello stesso senso può
ricordarsi che anche un altro celebre contemporaneo, cioè Bernardo da Chi ara
valle (nato nel 1091, morto nel 53) apertamente si professa nemico della
dialettica «). simplex, i. e.'indivisibìlh et inmateliaÙs^pluna’ Es " cn,
j a restie! f r ia ’ te r de •h 1-2)1. O similmente L^L^ T-'T^ Qua «u,r'rÌ’ V
49 ’ r 61 ‘ 5 f?) ’ n, 17, i m ; ’ 19 ’ 1 fed ' logia trovò e aÌche°i dd in — -Ha
teo- tenga esclusivamente alla letteratura tcXrir° 0013 478) ’ appar "
libro di Fr. Protois Pierri* tomi ì ■ .° 0f!ter m veniendam neces- cst logica
causa elLuenZZ N P™ Slma «»'*•» omnium inventa disciplinas investigarmi et
’unireM Tert'’ ^ prn ! !tl ' ct , as Principales tractare, et disserro de UlZc
Zà veracl ™’ honestius dlas cius per dialecticum, honestius ner rhoZ ** ^
(,mmati c«m, vera- cundiae rectitudinem veritatem heU, rtcam. Logica namque fa-
^asi testualmente nel mZZ’X"‘TZ ad ^ nitt ^ U s,esso - 809]); cfr. ibid..
I r „ ) ì 2 Vn 7 m’ TI ; P - 39 fPL > 17 6, 745, 752, 765], P ' ’ 2 (l >-
7); III, 1 (p . i 5) tPL> 176 . 1 Lhdasc., I, 12 (Opp., HI, p . fj) mj j 7fi
7 . q| . repertae fuerant; sed necesse luitloZ ’ * . ' • Ceterae pnus nemo de
rebus con veniente J PljZ quoque invemn ; quoniam quandi rationem agnoverii. —
/ 6 ,u"vi TmÓ' iqf IpZZZm ^ Istae tres usu prirnae lucrimi to/ i * * 176,
8091: venta est logica Ouae cum dt i p ? stca P r °Pter eloquentiam in- debet
in doctrina - Fr, J ‘, -''"'T' Ul " ma ' prima tamen Excerpt. pnor.,
loc. ciL, c. 23: In designa la logica come « sermocionalis », perché tratta «
de vocibus » 47 ), e la divide ora in una maniera che ci ricorda molto da
vicino lo Scoto Eriugena (Sez. prece¬ dente, nota 105), dimodoché, appartenendo
alla logica, secondo la più vasta accezione della parola Àóyoc, ogni
manifestazione della facoltà di parlare, la logica stessa si divide così in
grammatica e logica rarìonalis: que- st’ultima, corrispondente all’accezione
più ristretta della parola Àóyo;, viene poi ulteriormente suddivisa nella
maniera ordinaria, tenuti presenti i passi ovunque divulgati di BOEZIO. Movimento
più intenso: grande estensio¬ ne, E IN PARI TEMPO CARATTERE UNILATERALE, DELLA
LETTERATURA ATTINENTE ALLA LOGICA]. — Ben è vero che sa¬ rebbe stato certo più
comodo lasciare sin da principio legendis urtibus talis est orda servandus.
Prima omnium compa¬ rando est eloquentia, et ideo expetenda logica, deinde etc.
[PL, 177, 202],
■") Didasc., II, 2 (p. 7) [PL Philosophia dividitur in theoricam,
practicam, mechanicam, et logicum. Hae
quatuor omnem continenl scientiam.... Logica sennotionalis, quia de vocibus
tractat.... Hanc divisionem Boetius fucit uliis verbis.... (segue il passo
citato più sopra, Sez. XII, nota 76). *) Ibid., I, 12 (p. 6): Logica dicitur a
Graeco vocabulo Àóyog, quod nomen geminam habet interpretationem. Dicitur enim
Xiyog sermo sive ratio (v. Isidoro, Sez. precedente, nota 27): et inde logica
sermotionalis sive rationalis scientia dici polesl. Logica ralionalis, quae
discretiva dicitur, continet dialecticam et rhetoricam. Logica sermotionulis
genus est ad grammaticum, dialecticam atque rheto¬ ricam: et continet sub se
disertivam. Et haec est
logica sermotionalis, quam quartam post theoricam, practicam et mechanicam
annume¬ rami^ [PL, 176, 749-501. — Excerpt. prior. TI1, c. 22 (p. 339): Logica dividitur in grammaticum,
et rationem disserendi. Ratio disserendi dividitur in probabilem, necessariam.
et sophisticam. Pro- babilis dividitur in dialecticam et rhetoricam. Necessaria
pertinet ad philosophos, sophistica ad sophistas (v. BOEZIO). Grammatica filosofica
est scientia RECTO loquendi. Dialeclica dispulalio acuta, verum a falso
distinguens. Rhelorica est disciplina ad persuudendum quaeque idonea [PL, 177,
201-21. — Didasc., Il, 29 (p. 14): Logica dividitur in grammaticam. et in
rationem disserendi. Grammatica razionale,... est litteralis scientia.... Ratio
disserendi agii de vocibus secundum intellectus fPL, 176, 7631. — Ibid-, 31 (p.
15): Ratio disserendi esaurirsi tutta quauta la logica in un simile cliché
tradi¬ zionale, e a questo modo anche le idee platonico-cristiane, del pari che
la dommatica teologica, avrebbero po¬ tuto continuare, senz’essere turbate
nella loro ingenuità, la innaturale loro alleanza con avanzi di aristotelismo
atrofici e contorti. Tuttavia l’intimo impulso ch’è peculiare alla dialettica,
era pur anche rimasto vivo, già fino a questo momento, in seno alla stessa
ecclesia docens, e poiché ora, come s’è visto, da due lati si faceva strada una
più energica spinta (da due lati: vale a dire, da un lato, proprio per effetto
della controversia dommatica intorno alla Trinità, e dall’altro, per effetto
della cono¬ scenza sporadica, la quale gradualmente veniva com¬ piendosi, dei
libri aristotelici fin allora ignoti), si levò ora, nel tempo stesso, sul
terreno della logica, accanto alla scuola di S. Vittore, con tutto il suo
misticismo, un ricco movimento, diviso in molteplici diramazioni : e qui la
stona della logica, dovendosi stare alle fonti esistenti, entra in un periodo
di difficoltà estrema. La difficoltà consiste cioè per prima cosa in questa
circostanza, che le informazioni a noi accessibili discendono bensì con
abbondanza di notizie sino al minuto particolare, ma in¬ tanto, con la loro
forma semplicemente frammentaria, ci lasciano all’oscuro, riguardo a tutt’i
fili di collegamento: a ciò si aggiunge ancora il carattere indeterminato della
usuale espressione « quidam » ch’era in uso [per designare i rappresentanti di
una data tendenza], o della integrale* * partes habet, inventionem et judicium
(v. più sopra Boe- [XII, nota 76): divisivas vero demonstrationem, probabilem,
sopluslicam■ Demonstratio est in necessariis argnmentis, et pertinet ail
philosophos. Probubilis pertinet ad dialecticos et ad rhetores. Sophistica ad
sopliistas et caviliutores. Probubilis dividitur in dia- lecticam et
rhetoricam, quorum utraque integrales partes habet in- venhonem et judicium
[PL, 176, 764], Parimente ibid.. Ili, 1 • i i * k’ 176, 765], Le stesse notizie
ritornano in una € Epitome iti philosophiam » «li Ugo, edita dall’ Hauréau
(Hugues de Saint-Vi- ctor: nouvel examen de l’èdition de ses oeuvres, Parigi indicazione
del nome di im cultore della logica, con la semplice lettera iniziale; e così
in generale (particolar¬ mente p. es. riguardo a quel frammento, al quale il
Cousin diede il titolo « De generibus et speciebus ») 4 "), la ricerca,
che comunque sarebbe di già malagevole, viene attraversata inoltre da
molteplici difficoltà lette¬ rarie; per di più fra i relatori ce n’è parecchi
che in se medesimi son poco degni di fede, e c’imbattiamo in contraddizioni,
che non possiamo, per mancanza di al¬ tre fonti, risolvere in maniera adeguata.
Ma se poi si domanda ancora come questo materiale slegato e lacunoso debba
venir elaborato per la pre¬ sente esposizione, ecco quel che debbo limitarmi a
ri¬ spondere: data la impossibilità di svolgere il pensiero dei singoli autori
(per la maggior parte non meglio conosciuti) secondo Cordine della successione
storica, io sono riuscito a trovare, dopo molta riflessione, soltanto
l’espediente di presentare l’epoca di Abelardo in blocco, e precisamente in tal
modo che, analogamente a quel che ho fatto nella Sezione XI, vengano messe
sott’oc- cbio le numerose controversie, secondo l’ordine di suc¬ cessione di
quei gruppi che, negli studi di logica di quel¬ l’epoca, prevalgono per
importanza, quanto al conte¬ nuto; a tal riguardo è da notare che le varie
opinioni intorno alla Isagoge, cioè la disputa intorno agli Uni- «) Non poteva
non esser «ausa di grave confusione, l’errore degli eruditi francesi, i quali
con il Cousin hanno ritenuto che questo frammento sia opera di Abelardo; sopra
tale punto ha più rettamente giudicato H. Ritter (sebbene non sia per noi
accetta» bile la sua congettura, riguardo l’autore di quello scritto: v. ap¬
presso la nota 146); invece — a prescindere dal Rousselot, che non poteva ancora
avere sott* occhio, quando compose la sua opera [Études sur la philosophie dans
le Moyen a Parigi, 1840-21, il VII 0 volume del Ritter — anche il RÉMUSAT e
persino I’Haureau han fatto le. viste di non conoscer affatto la opinione del
Ritter,. e, aderendo al Cousin, si sono fondati sopra quello scritto per
costruire argomentazioni, che dovevano nuocere alla esatta esposizione della
controversia intorno agli universali. CABLO PRANTL versali, offrono un
materiale più vasto che non i dibat¬ titi sopra le rimanenti parti della
logica. Ma mentre degli autori più eminenti e meglio conosciuti si viene così a
parlare, in connessione con questi motivi atti¬ nenti al contenuto, bisognava
senza dubbio che io facessi una eccezione, proprio per Abelardo: le vedute di
lui intorno agli universali potranno pine a loro volta esser fatte oggetto di
sufficiente disamina solamente più tardi, quando si tratterà di esporre la
caratteristica di tutta quanta la sua Dialettica, poiché egli è invero il solo,
del quale possediamo uno scritto, che abbracci quasi in¬ tiera la sfera della
logica. Tuttavia mi è sembrato che un tale smembramento della esposizione delle
contro¬ versie, per quanto si riferiscono agli universali, fosse qui proprio il
minore degl’inevitabili inconvenienti. Ad Abelardo potremo poi far seguire,
allo stesso modo, principalmente Gilbert de la Porrée e Giovanni da Sa-
lisbury. Per effetto delle ragioni suindicate, lo studio della logica, a
prescinder dalla sua universale diffusione in tutt’i paesi, decisamente progredì,
quanto alla inten¬ sità, in rigore e precisione, e per quanta era la esten¬
sione del materiale allora accessibile ai cultori della logica, ci si abituò,
con la maggior esattezza possibile, a ponderar e lumeggiare da vari lati tutte
le particolari tesi o controversie: certo con questo lavoro, mancando in modo
assoluto una base propriamente filosofica, po¬ teva venir fuori soltanto una
sottigliezza contraddistinta da unilaterale formalismo, e die per un verso
doveva condurre al massimo sminuzzamento nella formazione di contrastanti
indirizzi, mentre per l’altro verso fu, a sua volta, parimente alimentata e
rafforzata da quello: e il numero dei magiatri, che in tal maniera, per lo più
risolvendo polemicamente i contrasti di opinioni, esplo¬ rarono con cura tutto
il campo della logica, non può forse, nella sola Francia, essere rimasto molto
al di sotto del centinaio. Non farà meraviglia che in un tale movi¬ mento
quelli che non avevano a priori, per ragioni teo¬ logiche, un sacro orrore
della logica, si trovassero spesso imbrogliati, al primo momento che ne
intraprendevano lo studio 50 ) ; anche a noi vengon pure quasi le verti¬ gini,
quando dai particolari frammentari risaliamo a una conchiusione concernente
quella totalità, alla quale essi avevano appartenuto. È una grande illusione, a
pro¬ posito del movimento di quell’epoca nel campo della logica, creder di
potersela cavare con i due termini di « nominalismo » e « realismo », tutt’al
più aggiungen¬ done ancora un terzo, cioè « concettualismo », poiché in primo
luogo, come apparirà manifesto, la divisione in tendenze contrastanti è ben più
molteplice, e questa, in secondo luogo, costituisce soltanto una parte dell’at¬
tività complessiva spiegata nello studio della logica. Le vicende dello studio della logica, NEL
RACCONTO CIIE NE FA GIOVANNI DA SALISBURY. Se ci possiamo interamente fidare di
Giovanni da Sali-sbury, il quale spesso in verità si è limitato a metter giù
impressioni generiche, e in buona parte puramente a memoria (v. appresso la
nota 536), in quei decenni il corso seguito dalla logica nel suo svolgimento,
in quanto essa fu rielaborata in compendi (artes) o in com¬ menti o
semplicemente in glosse 51 ), sarebbe 6tato in complesso il seguente. Giovanni
parla cioè di un awer- M ) Abael. Dialect., ediz. Cousin, p. 436: Sed quia
labor hujus doclrinae diuturna*.... jatigat Icctores, et multorum studia et
aelates sublilitas nimia inaniter consumit, multi.... de ea diffidentes, ad
ejus angustissimas fores non audenl accedere; plurimi vero ejus subtili- tate
confusi, ab ipso aditu pedem referunt. 51 ) Joh. Sakesb. Metal., ITI, Prol., p.
113 (ed. Giles, voi. V [ed. Wclib, p. 117; PL): Nec in transitu vel semel
dialecti- corum attigi scripta, quae vel in arlibus vel in commentariis aul
glosematibus scienliam pariunt aut retinent aut reformanl. 14. — C. Pbantl, Storia delta logica in Occidente. II
sario della sua concezione della logica, da lui simboli¬ camente denominato
Cornificio (v. appresso le note 528 se.), e in tale occasione dice 52 ) che
quel modo di fare, venuto in voga, di chi, senza uno studio metodico e
faticoso, vuol diventare filosofo, ma riesce in realtà a diventare solamente un
sofista e a addestrare gli altri nella pura sofistica, proviene da quella
scuola, nella quale ) Ibid., I, 1, p. 13 [ed. Webb, p. 8]: Cornificius non ter,
stu- diorum eloquenliae imperilus et improbus impugnatoti. (2, p. 14 [ed. Webb,
p. 9]): populum qui sibi credat habet; et.... ei.... turba insipientiurn
adquiescit. lllorum tnmen maxime, qui.... videri quam esse appelunt
sapientes.... 3, p. 15 ss. 110J: sine arlis beneficio.... faciet eloquentes et
tramite compendioso sine labore philosophos.... Eo autem tempore ista
Cornificius didicit quae nunc docenda re- servut,... quando in liberalibus
disciplinis Intera nichil erat et ubique spiritus quuerebutur, qui (ut aiunt)
latet in littera. Ylum esse ab Hercule, validum scilicel argurncnlum a forti et
robusto argumen- tutore..., et in hunc modum docere omnia, sludium illius
aetatis erat. Insolubilis in illa philosophantiurn scola lune temporis quae¬
stio habebatur, an porcus, qui ad renalicium agilur, ab homine an a funiculo
teneatur. Item, an capucium emerit qui cuppam integram comparava. Inconveniens
prorsus erat oratio, in qua haec verbo, «conveniens » et « inconveniens », «
argumentum » et « ratio» non perslrepebant, multiplicatis particulis negativis,
et traiectis per « esse » et « non esse », ita ut calculo opus esset, quotiens
fuerat di- sputandum.... [11] Sufficiebat ad victorium verbosus clamor; et qui
undecumque aliquid inferebat, ad propositi perveniebat metam. Eoe- tae,
liisloriographi habebanliir infames, et si quis incumbebat labo¬ ri bus
anliquorum (cioè degli autori dell’antichità, Porfirio, Boezio), .... omnibus
erat in risum. Suis enirn atit
magistri sui quisque incum- bebat inventis. l\ec hoc tamen diu licitum, curn
ipsi auditores.... urgerentur , ut et ipsi, spretis bis quae a doctoribus suis
audierant, cuderent et conderent novas scctas. Fiebant ergo summi repente phi- losophi; nani qui
illiteratus accesserat, fere non morabatur in scolis ulterius quam eo curriculo
temporis, quo avium pulii plumescunl. Jtaque recentes magistri e scholis ...
pari tempore.... avolabanl.... [12] Bcce nova fiebant omnia; innovabatur
gramalica, immutabatur dialectica, contemnebatur rethorica; et novas totius
quadruvii vias, evacuatis priorum regulis, de ipsis philosophiae aditis
proferebant. Solam « convenientiam » sive « rationem » loquebantur, « argumen¬
tum » sonabat in ore omnium, et.... nominare.... aliquid opertim naturar instar
criminis erat aut ineptum nimis aut rude et a phi- losopho alienum. Impossibile
credebatur « convenienter » et ad rationis » normam dicere quicquam, aut
facere, nisi « convenien- tis» et « rationist mentio cxpressim esset inserta.
Sed nec argu¬ mentum fieri licitum, nisi praemisso nomine argumenti [PL ci si
voleva mostrar geniali di suo, con l’occuparsi, sen¬ z’altro fondamento che
l’attitudine logica innata, di con¬ troversie del genere più balordo (p. es.,
se un maiale, portato al mercato, è tenuto dalla fune o dall’uomo, e simili),
sempre tuttavia sputando con arrogante alba¬ gìa alquanti termini tecnici della
logica, — un indirizzo, questo, tanto intollerante nei riguardi di qualsiasi
altra scienza e studio, quanto destinato, con la sua mania del nuovo e il
rapido trapasso dall’apprendere all’insegnare, a frantumarsi subito nella più
confusa varietà di vedute individuali. Questo anfanare senza ima direzione, ha
avuto ora per conseguenza 53 ), che ialini, persuasi della vanità di siffatte
cose, in preda a un pessimismo uni¬ versale, si son rifugiati nei monasteri,
altri han posto mano, a Salerno e a Montpellier, allo studio della me¬ dicina,
per coltivare ora questa scienza con lo stesso spirito cavilloso che prima
mettevano nello studio della logica : ma altri a lor volta cercavano di campare
alle corti dei ricchi e dei potenti, e altri infine, a nulla pensando fuorché a
guadagnare quattrini, si son dedi¬ cati alle sfere più basse di attività (v.
appresso la nota 530): insomma, con tutta questa genia, la logica e la scienza
in generale son cadute nel massimo dispregio. In seguito tuttavia — continua
Giovanni ) — per opera ") Ibid., c. 4, p. 18 ss. [ini. Webb, p. 12;
PL, Alii namque monuchorum aul
clericorum claustrum ingressi sunt.... de- prehendentes in se et aliis
praedicantes quia quicquid didicerant vanitus vanitatum est.... [13] Alii
autem.... Salernum vel ad Montem Pessulanum projecli, facti sunt clientuli
medicorum, et repente, quales fuerant pliilosophi, tales in momento medici
eruperunt...Alii.... se nugis curiulibus mancipaverunt ut, magnorum virorum
patrocinio jreli, possent ad divitias aspirare.... Alii autem.... ad vulgi
profession.es easque profanas relapsi sunt; parum curante* quid philosophia
doceat.... dummodo rem faciant f 11 » 6
> P- 138 [ed. Webb, p. 143; PL, 199, 904]: Non... inanem reputem operam
modernorum, qui equidem nascentes et convalescentes ab Aristotile, inventis
eius nudlas adiciunt rationes et regalas prioribus aeque firmas..Habemus
graliam.... Peri¬ patetico Palatino, et alus praeceptoribus nostris, qui nobis
proficere studuerunt vel in explanatìone veterum vel in inventione novorum. )
Epist. 181 (voi. I, p. 298, ed. Giles) [PL, 199, 179]: Sludiis tuis
cangratulor, quem agnosco ex signis perspicuis in urbe garrula et ventosa, ut pace
scholarium dictum sit, non tam inutilium argu- mentationum locos inquirere,
quam virlutum. Tuttavia è anche pos¬ sibile, poiché non sappiamo nient’allro
sul conto del Maestro Ra- «E*» N,CER ' destinatario dt questa lettera, che per
urbs ventosa debba intendersi Avignone, essendo passato in proverbio: « Avenio
ventosa, stne vento venenosa, cum vento fastidiosa » fluiva col non sapere
nemmeno più quale fosse la opi¬ nione sua propria S8 ) : e intanto poi, per
amor di gloria personale, si disprezzavano anche gli autori antichi, e si
metteva da parte quell’ordine, al quale la logica sco¬ lastica si soleva
attenere 5B ). E infine vien fatta ora inol¬ tre espressamente la osservazione,
che questo enorme e stupido dispendio di tempo e di energie aveva per suo
principale obbietto la Isagoge, e che questa veniva com¬ mentata, assumendosi a
compito esclusivo e supremo la contesa intorno agli universali 60 ), sicché da
ultimo nella *') Melai., II, 6, p. 72 [od. Webb, p. 71]: Indignantur.... puri
philosophi et qui omnia praeter logicam dedignantur, aeque gram- maticae ut
phisicae experles et ethicae.... c. 7, p. 73 [72] : qui da- mant in compilis et
in triviis docent, et in ea, quam solam profi- tentUT, non decennium aut
vicennium, sed lolam consumpserunt aelatem.... Fiunt itaque in pile rili bus
Achadcmici senes, omnem dictorum aut scriplorum excutiunt sillabam, immo et
litleram; dubi- lanles ad omnia, quaerentes semper, sed numquam ad scientiam
pervenientes; et tandem convertuntur ad [73] vaniloquium, nescien¬ te* quid
loquantur aut de quibus asserant, errores condunt novos, et antiquorum (cioè
degli autori dell’antichità, come più sopra, nota 52) aut nesciunt aut
dedignantur sententias imitari. Compilant omnium opiniones, et ea quae eliam a
vilissimis dieta vel scripta sunt, ab inopia iudicii scribunt et referunl....
Tanta est opinionum oppositionumque congeries, ut vix suo nota esse possit
auctori [PL], — lbid-, c. 18, p. 93 [96; PL] : De magistris ani nullus aut
rarus est qui doctoris sui velit inhaerere vesligiis. Ut sibi faeiat nomea,
quisque proprium cudit errorem. — Polycr., VII, 12, p. 126 [cd. Webb, li, p.
141] : Veterem.... quaestionem in qua lobo- rans mundus iam senuit, in qua plus
temporis consumptum est quam in adquirendo et regendo orbis imperio consumpserit
Coesa- rea domus.... Haec enim tam diu multos tenuit ut, cum hoc unum in tota
vita quaererent, tandem nec istud nec aliud invenirent [PL, 199, 664]. V.
inoltre appresso, nota 540. “1 Enthetìcus, v. 41 ss.: Si sapis auctores,
veterum si scripta recenses , Ut staluas, si quid forte probare velis, Undique
clamabunt « i ctus hic quo tendit asellus? Cur veterum nobis dieta vel acta
refert? A nobis sapimus, docuit se nostra juventus, Non recipit ve¬ terum
dogmata nostra cohors. Non onus accipimus, ut eorum verbo sequamur, Quos habet
auctores Graecia, ROMA colit.... » (v. 59) « Temporibus pioniere suis veterum
bene dieta. Temporibus nostris jam nova sola placent ».... Haec schola non
curat, quid sit modus, ordove quid sit, Quam teneanl doctor discipulusque viam
[PL Metal., II, 16, p. 89 [ed Webb, p. 901: Sed quia ad hunc elementarem librum
(cioè le Categorie) magis elementarem quodam- STORIA DELLA LOGICA IN OCCIDENTE
disamina dello scritto di Porfirio si finiva con il cac¬ ciar dentro tutta la
filosofia, offrendosi in tal modo un campo alla sodisfazione della vanità
personale, e ugual¬ mente recandosi danno all’insegnamento La polemica intorno
agli universali: si PUÒ DIMOSTRARE CHE ALMENO TREDICI ERANO LE CORRENTI, NELLE
QUALI SI DIVIDEVANO LE OPINIONI SU QUESTO PROBLEMA. Così le notizie, di
carattere più generale, trasmesseci da Giovanni da Salisbury, ci portano natu¬
ralmente a prender in esame le controversie intorno agli universali, e da quel
che abbiamo veduto sinora, ci è lecito concliiudere legittimamente, che la contesa
di¬ vampò, in quella maniera unilaterale e sofistica, nei primi decenni del
secolo XII, sicché qui si presenta ma¬ nifesta la connessione storica con la
comparsa di Ro- scelino e con le lotte insorgenti in quell’epoca (v. la Sez.
precedente, note 312 ss., e particolarmente 326). Ci sono anzi ragioni interne,
militanti a favore della opi- modo scripsit Porphirius, eum ante Aristotilem
esse credidit anti- quilas praelegendum. Recte quidem, si recte doceatur; id
est ut tenebras non inducat [91] erudiendis nec consumat aetatem.... c. 17, p.
90: Naturam tamen universtdium hic omnes expediunt, et altissi- munì negotium
et maioris ìnquisitionis contro menlem auctoris expli- care [92] nituntur. —
Ibid., Ili, 5, p. 136 [141]: qui in Porphirio aut Categoria explanandis singuli
volumina multa et magna con- scribunt [PL, 199: 873-4, 903]. Ciò trova conferma
in una espres¬ sione di Abelardo: v. appresso la nota 104. I Ibid., I], 20, p.
113 [ed. Webb] : Nec fideliter cum / or ph trio nec utiliter cum introducendis
versantur qui omnium de generibus et speciebus recensent opiniones, omnibus
obviant, ut tan¬ dem suae inientionis erigant titulum. — Ibid., Ili, 1, p. 117
[ c d. Webb, p. 121]: Austerus nimis et durus magister cst'lollens quod
positura non est et metens quod non est seminatum, qui Porphirium cogit solvere
quod omnes pbilosophi acceperunt; cui salisjactum non est, nisi libellus [122]
doceat quicquid alicubi scriptum inve- nitur. — Polycr., VII, 12, p. 129 [ed.
Webb, II, p. 144]: Qui ergo Porpniriolum omnibus philosophiae partibus replent,
introducendo- rum obtundunt ingenia, memoriam lurbant | PL, 199: 888, 891,
666], Vedi inoltre il passo di Guglielmo da Conches, che si tro¬ verà citato
appresso, ne, secondo la quale, a partir da quel momento, nelle controversie
concernenti gli universali, sarebbe stata piuttosto prevalente, in un primo
tempo, la concezione nominalistica : non soltanto infatti è indizio di una tale
prevalenza la circostanza, che quei cultori della logica, a quanto riferisce
Giovanni, assumevano un contegno esclusivistico e intollerante contro qualsiasi
scienza reale (note 52 e 58), ma riesce anche facile argomen¬ tare che gli
scrittori citati da Giovanni, come beneme¬ riti del risveglio degli studi di
logica, tutti quanti alieni da un nominalismo estremo, o anche in parte
avanzati sino ai limiti estremi del realismo, hanno provocato o promosso in
ogni caso una rivoluzione, la quale deter¬ minò il passaggio dai principii
nominalistici verso dif¬ ferenti cammini. Ma da una più esatta e approfondita
ispezione delle fonti a noi accessibili, risulta chiaro che, per tale ri¬
guardo, come abbiamo già detto, il dissidio delle opi¬ nioni non si aggirava
soltanto entro i limiti di un con¬ trasto dicotomico o tricotomico, bensì si
manifestava di¬ stinto in una serie di graduazioni più numerose. La più precisa
notizia ce la dà ancor una volta Giovanni da Salisbury, e, stando a quella, la
diversità di opinioni relativamente agli universali, ha preso la forma
seguente: 1) la opinione di Roscelino, che gli universali sieno voces 6J ) : —
v. le note 76 ss. di questa Sezione; 2) quella di Abelardo e de’ suoi seguaci,
che cioè gli universali vadano ridotti a sermones, non potendo K ) Metal., Il,
17, p. 90 [ed. Webb, p. 92; PL, 199, 874], dove alle parole testé citate (nota
60) fa seguito immediatamente quel passo intorno a Roscelino, che abbiamo
veduto alla nota 318 della Sezione precedente. mai il predicato di una cosa
esser esso stesso una cosa 03 ): — v. appresso le note 283 ss.; 3) la tesi, che
intellectus o nono, nel senso attri¬ buito a questi termini da Cicerone (cioè
dagli Stoici), sia ciò che si chiama « universale » M ) : — v. appresso le note
581 se. Da costoro Giovanni distingue poi quelli che si ten¬ gono attaccati
alle cose ( « rebus inhaerent »), ma a lor volta si scindono in varie tendenze,
e dunque: 4) la opinione che fu poi subito ancora abbando¬ nata, di Gualtiero
da Mortagne, secondo la quale gli uni- e! ) lbid.: Alius sermones intuetur et
ad illos detorquel quicquid alicubi de universalibus meminil scriptum ; in hoc
attieni opinione deprehensus est Peripateticus Palatinus Abaelardus nosler, qui
mul- tos reliquit et adhuc quidem aliquos habet professionis huius seda- tores
et testes. Amici mei sunt ; licet ita plerumque captivatam de- torqueant
litleram ut vel durior animus miseratione illius movetur. Rem de re praedicari
monslrum dicunt; licet Aristotiles monstruo- sitatis huius auctor sit, et rem
de re saepissime asseral praedicari; quod palam est, nisi dissimulent,
familiaribus eius. **) lbid. (in continuazione): Alius versatur in
intellectibus, et eos dumtaxat genera dicit esse et species. Sumunt enim
occasionem a Cicerone et Boetio, qui Aristotilem laudani auclorem, quod haec
credi et dici dcbeant noliones. « Est autem », ut aiunt, « notio ex ante
perceplu forma cuiusque rei cognitio enodatione indigens » (cosi effettivamente
Cicerone, nel passo citato alla nota 37 della Sez. Vili, passo che mostra
tuttavia nello stesso tempo com’egli si riferisse non già ad Aristotele, bensì
a « Graeci », cioè agli Stoici). Et alibi; « Nodo est quidam intellectus et
simplex animi concepito » (così Boezio, ad Cic. top. [Ili], p. 805 [PL, 64,
1106], dove si com¬ menta quel passo di Cicerone: solo [che in Boezio si legge
r, " ltUr - ea in Versoi r "“°" e singularibus specialissima
gene- lerce 1 aque ™nstuml. Sunt qui more mathematicorum « fornuis » 142] rifinì AW'/ 1 lddquid de univLalibus lert.l.,,1 referunl.
Alu discutiunt « tntellectus » (3) et eos uni- iZ “ U uomimbus censeri
confirmanl. Fuerunt et qui «voces» (lt ìm*h. UùJZ U L S "'“ *•-»» «M,,c
qui r l JVella ediz. Cousin degli Outr. inéd. d’Abélard p 513- n P genertbus et
speciebus diversi diversa sentiunt. Alii namqul voces rebus Zo a n?hil P ho PS
«dngularcs esse affirmant, in rebus vero mìni horum assignant. Alti vero res generales et spe- ciales universales et
singulares esse dicunt; sed et ipsi interne cieTe» 0 * , ' ntlUnt P'"d« m
enim dicunt singularia individua esse spe- cies et genera subalterna et
generalissima, alio et alio modo alterna mento la distinzione tra coloro che
qualificano gli uni¬ versali come vox [voces], e quelli che li considerano come
res, ma della posizione di questi ultimi vengono nominate soltanto due
sottospecie, cioè 10) la così detta ratio indifferentiae (v. appresso le note
132 ss.) e 11) il punto di vista di Guglielmo da Champeaux, — v. le note 102
ss. Di queste varietà di opinioni parla inoltre una volta anche Abelardo 7S ),
ricordando, in seno al realismo, pri- (lo stesso autore indica questa opinione
come « sentendo de indif- ferendo »: v. appresso la nota 133). Atti vero
quasdam essendas universales fingimi, quas in singulis individuis totas
essentialiter esse credunt (che qucst'ultima sia la opinione di Guglielmo,
risulterà chiaramente appresso). ™) iE cioè nelle Glossulae super Porphyrium,
già più sopra (nota 13) ricordate, e riferite dal Rémusat, op. cit., p. 96
(neanche qui purtroppo ci vicn fatto conoscere il testo originale): La grande
queslion que PorphyTe indique en débutant.... arrète Abélard, et il est presque
obligé de la traiter seulement pour la poser. Toules les opinions sur les
universaux se prévalent, diuil, de grundes auto- rités [testo originale, ed.
Geyer: «De generibus et s pe¬ ci eh us quaestiones enodarc compeUiinur, quas
(nec ipse Por- pkyrius ausus est solvere, cum cas tamen tangendo ad earum
inquisitionem accenda! lectorem ». E, dopo aver accennato alla va¬ rietà delle
soluzioni proposte : «tamen unusquisque lue- tur se aurtorilate i u d i c e »
(p. 512)] (già qui la traduzione del Rémusat è sbagliata, poiché nella nota
egli riproduce le parole dell'originale, « unus quisque se tuetur auctoritale
iudice », e queste voglion dire che ciascuno avvalora la propria opinione con
l’auto¬ rità tradizionale, cioè Aristotele).... p. 97 : Le premier syslème est
celiti de l’existence des choses universelles. lì est plusieurs manie- res de
Vétablir. Suivant l’une eie. [Geyer, p. 515: .... primam (se. sententiam de
universalihus) quae de rebus est, primi- tus exequamur. De qua etiam sunt
plurcs opiniones, cum alii aliter res universales esse affirmant. Nominili
cnim....] (ora viene la opinione di Guglielmo da Champeaux: v. appresso la nota
105)... p. 99: «La seconde manière» ecc. [Geyer, ma di tutto le due tesi dottrinali anche
testé ricordate, ma poi 12) una concezione, secondo la quale la differenza ra
genere e individuo risiede soltanto in un modo par- ticolare (propalasi) di
esistere, in quanto che 1W versale può presentarsi così in parecchie cose
insieme come anche in esseri singoli. Invece nel De intellectibus del
Pseudo-Ahelardo (v appresso le note 416 ss.) si trova soltanto espressa, in
amerà ^determinata e generica, la distinzione tra rea- sii, nominalisti, e
opinione di Abelardo u ). l'ZL'mZp mTtó, appreso pou r soutenir que les
universali sonldesdoses VoulZT "T^ la communauté, l’on dii ai,'entri- l„
Voulant expliquer singtdière est une diffide TlrtruTl et l * cho.se a etre
universelle, la proprietà ani Inni' " ,> . ropne, ' i ( l ul consiste
mal, le corps est nniZZl et Zel " ? ^ • bt ****- L'ani- et quelque corps ;
mais dire un étre qui aliter re,
universales esse videninV affi “ " n® r , u m a 1 i i , nitatem
assignnntes dicunt rem .,t;„ • ® ,rniare * Hj re bns comrmi- id est alterins
proprietatis (il C uru . ver . 6a ^ em > aliam singularem, inéd., p. 522 IDe
Zen et s Jc \ « V “ CoVSIN ’ Ou.tr esse ex hoc quod est onivTsai et ^ V ” EAV ’
V, 313) Iaris. Ut animai est universale et mm!!""* h ° C q ” od est
sin SB- vel aliquod corpus. Tale est enini ^ ’ j CC t ? men al| quod animai mal
esse universale, ne si dieatnr- ni. Undum ,lanc sen tentiam ani- animal est, et
tale est hoc animai " a s “ nl quorum unumquodque dieatnr: una sola
rea«J°hoc d T , 8ol °» ac - espressa in forma indeterminata la r „ n l .
na]ment ^ (P- 106) segue, voces [cfr. Geyer, p. 522 - 31 . ’ oncezione degli
universali come ^à-VtoZ^ 63 : Philosophie sco - Quidam enim volimi omnZloZ f *
diversa -^ntiunt. dam nullas ^ro folti snnt (mane. Il lo,., ”ha "“(til T
:zh r p- * T„,-irr rato vel albo Zane cana l VOCabul °' !" ^pus ipsum a
colo-altri invece, e certamente i più sconsiderati e più radi¬ cali, come p.
es. un tal magister « \ . si appigliavano unicamente al « significare », sì che
per e6si in ciascuno dei predicati assegnati a una cosa qualunque, si trova
insieme già significata la cosa stessa: e degno di nota è che costoro si
appoggino per tal riguardo alla gram¬ matica, secondo la quale ogni nome
significa così una sostanza, come anche, al tempo stesso, una qualità 83 ).
Dovevan essere nominalisti di quest’ultima specie anche coloro che, forse
seguendo in maniera unilaterale le vedute di Rosceliuo (Sez. precedente, nota
321), si spin¬ sero sino ad affermare che la semplice dictio (vale a dire la
parola singola, in opposizione con il giudizio) non porta in generale affatto
in sè parti dell’atto intel¬ lettivo, vale a dire neanche parti simultanee,
bensì come un punto, comprende in uniLà indifferenziata tutto quel che cade
entro l’accezione della parola 84 ). — Alcune particolari conseguenze del
nominalismo, in ordme alla teoria delle categorie, vedile appresso, alle note
196 s. e 199. M J lbid.: ....Hi vero, qui onirtem vocum impositionem in signi-
ficutionem deducunt, auctorilatem protendimi, ut eu quoque signi¬ ficati dicant
a voce, quibuscumque ipsa est imposila, ut ipsum quo¬ que hominem ab animali, t
ei Socratem ab homine, vel subjectum corpus ab albo vel colorato; nec solum ex
arte, verum edam ex auctoritate grammalicae id
conantur ostendere. Cum enim tradat grammatica, omne nomen substantium
cum qualitate signi¬ ficare, album quoque, quod subjcctam nominat substantium,
et qua- litqlem determinai circa eam, utrumque dicitur significare (dunque,
secondo il Cousin, questo dovrebb’essere il modo di vedere proprio del realista
Guglielmo da Cbampeaux!). M ) Pseudo-Auael. de ititeli-, loc. cit-, p. 472:
Sunt iluque intei- lectus conjunctarum ve! divisatimi rerum, dictionum tantum;
coti- jungentes vero vel dividentes intellectus, oralionum tantum sunt. liti
quippp simplices sunt, isti compositi (Tale la opinione del- 1 Autore). Sunt
plerique fortassis (cioè nominalisti), qui intellectus simplices nullas ninnino
purtes habere concedant, ncque scilicet per sticcessionem nequc simili (vale a
dire parti non-simultanee, o suc¬ cessive, ne ba in generale soltanto il
giudizio, ma non mai la parola singola). Qui enim, inquilini, plura simul
intelligit, una simplici actione omnia simul attendit [Arali.. Opera, ed.
Cousin, La teoria che gli universali sono « ma- neries » : Ucuccione]. — Ma era
certo una ramifica- zione del nominalismo la tesi sostenuta relativamente alla
« manerics » (v. sopra la nota 69); poiché è vero che Giovanni da Salisbury
l’annovera tra le opinioni realistiche; ma, d’altra parte, non soltanto suscita
in noi gravi dubbi quel passo di lui, riferito più sopra (nota 70), dov’egli
già finisce con il qualificare tutto quanto come realismo, bensì dobbiamo anche
tener conto di un’altra fonte d’informazioni: infatti, secondo quel che viene
altrove perentoriamente riferito, erano i nominalisti che, a sostegno della
loro opinione, se- condo la quale generi e specie sono soltanto le parole, piu
universali o più particolari, enunciate nel soggetto o nel predicato,
senz’altro denominavano, nei rispettivi passi di Boezio e di Aristotele, la «
res » « vox » e il « ge¬ misi « maneries » *>). La parola « maneries » per
"se stessa non e, parimente, nè così mostruosa nè così rara, come Giovanni
mostra di ritenere nella notizia più sopra’ riferita: non soltanto infatti la
s’incontra, con accezione generica, in Bernardo da Cliiaravalle 8S ), ma,
addirittura in senso specificamente logico, in un altro au- ) De gen et spec.,
loc. cit., p. 522: Ntmc illam sementiam quue toces solas genera et species
unìversales et partici,lares prae- subjectas asserii et non res, insistamus....
( p 523 ) Boe- thius, ira commentano super Categorias ([L. I], p . 114 rp[, 64
162n dici « quoniam rerum decem genera sunt prima, necessefuUdSem suhilrH i eSS
\ S,m f. llces voces > dune de simplicibus fin Boezio- subtectis J rebus
d,perenti,r ». Hi tamen exponunt: « genera id est Z"Z1* S L r : 0 r dam ™
Aerili 1 S f 7 Jm - rme p aS ,raduzi0ne di BOEZIO [Prima Ldino, 1 , 7. ed.
Meiser, Pars Pnor, p. 82; PL, 64, 318], p 233)- «rerum alme sani unìversales,
aline sunt singulares». Hi tamen rUatibic Lo r onTì; ,d T ■° C " m HU
"“ tem tnm «PertM aucto- mentili aut e n‘ l ir"* " ,lentes ’ aut
di ™nt «udori,a,es TncTdunt. P labor «utes, quia excoriare nesciunt, pellem .
Epi y- 402 S° pera ’ , d - Martène, Venezia, 1765, 1 , p. 156)- m"614] 1
wn ' s pro * ,f!lll ° sU - dilla ad mommi non erat [PL, tore dei primi del
Duecento, cioè nel canonista Uguc- cione (morto nel 1212), il quale nel suo
scritto lessi¬ cale definisce « species » come « rerum maneries » 87 ). E a
quel modo che questa parola (il francese « manière »), se stiamo alla sua
precisa etimologia, ci riporla da ul¬ timo al significato di « maneggio » o «
modo di trat¬ tare » [« Behandlungsweise » da « Hand », come «ma¬ neries » da «
manus »] S8 ), cosi, nel suo uso logico, ha do¬ vuto anzitutto significare il
modo d’intendere subbiet- tivo, e pertanto raccostarsi alla concezione
nominali¬ stica, o a quel tale « colligere » che abbiamo veduto alla nota 68;
invece, soltanto allorché «maneries» dall’ac¬ cezione « maniera, guisa », a
poco a poco fu volta a si¬ gnificare una « sorta », fu possibile prenderla,
come ter¬ mine della logica, in senso oggettivo, per tal modo che potè entrare
in giuoco la questione dello « status » (nota 65), sebbene, anche trattandosi
di « sorta », venisse an¬ cor fatto abbastanza facilmente di pensare all’ «
assor¬tire » (cioè colligere). I
Platonici: a) Bernardo da Cliartres Gli avversari unilaterali degli unilaterali
nominalisti fu¬ rono comunque i veri e propri platonici, tra i quali ci si
presenta per primo, come principale rappre¬ sentante, Bernardo da Cbartres, soprannomi-
*0 Uguccione, autore di una Stimma Decrelorum e di altri scritti canonistici
(sul conto di lui, notizie più precise nel Sarti, de claris- simis
Arcbigymnasii tìononiensis projessoribus, I, p. 296 ss., c nella Prefazione del
Du Cange al suo Glossario,Ugutionis vocabularium »]), aveva scritto un
vocabolario (liber derivationum), ricavato in parte da quello su ricordato
(Sez. precedente, note 286 ss.) di Papias, e conservatoci in numerosi
manoscritti. Da esso il Du Cange j. v . «Maneries » riferisce le seguenti
parole: Species dicitur rerum Maneries, secundum quod dicitur « Herba huius
speciei, id est, Maneriei, crescit in borio meo ». “) Vedi Diez, Etymtdogisches
Wórlerbuch der romanischen Sprachen, p. 216 [s. v. «Maniero», p. 203 della
5" ediz.j. Parola del tutto diversa è maneria, derivante da maneo e affine
a mansio, con il significato di « soggiorno » (v. il Du Cance, s. v. « Maneria
»).nato Sìlvester (viveva intorno al 1160). [Oggi dai P,U . 81 r,t, ° '' dell,
pera idea platonica, laddove il “tLÀTSH”' fica iniziarsi della mescolanza co „
"*”>■ ■la olitolo l’aggettivo {album) è ritenuto e , •’ m °“ lre
contaminazione insanabile della idea coó 1 T"' '* orna Pertanto ci didicUe
del".;.7b ‘ “"T sieno state rese ne.» . «eptorare che non ci * —i
.™.,r,:;LT H ~ ri ,e nere)], _ PmtaLtt',2ri tu’in 893hVr"“ a o f C 2;;.™* idem 120 [ed i
Wcbb ’ “■ 124; PL AÌebai a R et q “ Ìbus dominamtur den °- a ~r, 2 ?»SSS. tn
ffi emm il/ud , ‘ x culiàs^ l qùod^vJ r b 1 ui^ l lg > ' ,t ^ nem ,/ >v.
nelle Opere del Venerabile Beda (ediz. di Colonia, 1688, li. p. 206 ss. [PL,
90, 1127 ss.]). Ma proprio questa medesima parte della Phi¬ losophia detta
minor la si ritrova da capo, non soltanto ristampata nella Maxima Bibliotheca
Patrum [di Lione], voi. XX, p. 995 [PL, 172, 40 ss.], dov’è indicato come suo
autore Onorio da Autun (Sez. precedente, nota 373) [Honorii Augustodunensis De
Philo¬ sophia Mundi 11 IVI. bensì ancora in un libro che sta a sè, con il
titolo: Philosophicarum et astronomicarum institutionum Gui- lei mi, Hirsaugiensis
olim abbatis , libri tres, Basilea, 1531, in -4°. (Questo abate Guglielmo da
Hirschau, nato nel 1026, morì nel 1091: v. Pertz, MGH, VII, p. 281; XII, p. 54
e p. 64 ss.; XIV, p. 209 ss.). Se ora 1’ Hauréau ( Singularilés hist. et
litlér., p. 240) a favore dell’attribuzione di quello scritto a Guglielmo da
Conches può richiamarsi a un manoscritto di Parigi, e nello stesso tempo allega
la testimonianza di Guglielmo da S. Thierry, un avversario contemporanco, io
ritengo senza dubbio questi argomenti conte de¬ cisivi, ma è da richiamare in
ogni caso l’attenzione sopra il fatto che nella stampa nominata per ultima
(fatta astrazione da frequenti piccole modificazioni della espressione
letterale) è menzionato in più luoghi per nome l’autore arabo Costantino
Cartaginese, e del pari è nominato una volta anche Johannitius, cioè Hunain Ibn
Tshàk, mentre nelle altre edizioni a stampa, in luogo di questi nomi figurano
soltanto le espressioni indeterminate « philosophus » o « philosophì », sicché
questa variante richiede forse ancora una ri¬ cerca più approfondita. Le glosse
di Guglielmo da Conche* al De consol. phil. di Boezio ei sono state fatte
conoscere da Ch. Jour- DAIN (nelle
Notices et Extraìls des manose., voi. XX, p. 21. Ma se, come vuole 1’ Hauréau ( op. ull. cit ., p. 242
s.ì sia da attribuirai al nostro Guglielmo anche il commento al Timeo, che il
Cousin (Ouvr. inéd. d’Abél., p. 644 ss. r648-157]) ha pubblicato in estratti,
attribuendolo a Onorio da Autun, sarebbe cosa da lasciar in dubbio. Senza
contestazione sono invece di Guglielmo quei frammenti [della secunda e tertia
philosophia (Antropologia e Cosmologia)], che il Cousin ha pubblicati ibid.. p.
669 ss. r670-7. — 1 ,’Ott AVMNO ha curato la pubblieaz. di Un brano inedito
della « Philosophia » di G. di C., Napoli, 1935, illustrando nella Prefazione
lo stato attuale delle questioni relative]. glielmo »^) svolge, secondo I ‘ P
l8tIca ~ che G u . grafìa, psicologia e fisica 9 ‘ c ). ben sì ^p 21 ™ 16 di co
»nio- f, oens! ci limiteremo a quel Bcda, p. 207 r (PL. e 9o" 112820l ■
per mundi ère, ,iohoc foctus est aLmT ** ° ngel,,s “-/"'deus \ f To
nnifice ; (irlif( , x mundutn creanti )T°’
r,i ^ v„i. 75 ( 'i873! R ;.1;rs. dc,rArcatlt ' mi; d 'Vie.;: poco clic c’è ila rammentare, in ordine alle
questioni di logica vere e proprie. Guglielmo, che sul terreno della
gnoseologia si pone dal punto di vista platonico, di un idealismo che pro¬ cede
verso l’alto er ’), e anche espressamente sentenzia che tra i filosofi pagani
egli dà la palma a Platone " 6 ), di¬ stingue si una quadruplice maniera
di considerare tutte quante le cose, cioè dialettica, sofìstica, retorica,
filoso¬ fica 87 ), ma relativamente alle prime due (quanto alle due ultime, è
per lui cosa che già s’intende da sè) si schiera risolutamente dalla parte dei
realisti, combat¬ tendo coloro che volevano escludere qualsiasi realtà, o
infine da ultimo neanche volevano ammettere più i nomi delle cose, bensì, in
generale, alquante parole solamente (che sarebbero poi le quinque voces) 9S ).
Ma, analoga¬ mente allo Scoto Eriugena, egli almeno riconosce tut¬ tavia,
richiamandosi a Boezio, che appartiene allo spi¬ rito umano la funzione
d’imporre alle cose che hanno “) V. i frammenti riprodotti dal Cousin, op.
cit., c special- mente p. 673 s. M ) Nella edizione già ricordata del
Gratarolus, p. 13: Si gen¬ tili* adducenda est opinio, malo Plalonis quam
alterius inducalur; plus numque cum nostra fide concordai. ”) Ibid., p. 4: De
eodem numque dialectice, sophistice, rhelo- rìce, vel philosophice disserere
possumus. Considerare numque de ali quo, an sit singultire un universale, est
dialeclicum; probare, ip- sum esse quod non est vel non esse quoti est,
sophisticum est: pro¬ bure, ipsum esse dignum proemio vel poena, rhetoricum:
sed de natura ipsiusque moribus et officiis disserere, est pbilosophicum.
Dialecticus ergo, sophistn, oralor, philosophus, de eudem re diversa
considerunles et intendentes disputare possimi. ”) Ibid., p. 5: Quod
intelligentes quidam res omnes a dialec- lica et sophisticu di sputulione exter
minar erunt , nomina lamen ea- rum receperunt, eaque sola esse universalia vel
singulttria prae- dicaverunt; deinde supervenit stultior aetas, quue et res et
earum nomina exclusit alque omnium disputationem ad qualuor fere no¬ mina
reduxit; ulraqiie tamen seda, quia non erat ex deo, per se defecit. Quei
qualuor nomina non posson essere altro elle le quinque voces, escluso forse il
proprium : in antitesi ron una siffatta ridu¬ zione di numero, incontreremo in
compenso anche sex voces: v. la nota 278. mulo franti. ^r^roi 1 zj ,,on'» - Se
Be 'ZlTcZ, “‘“T* O—»»]. 8rao platonico, princiml mamfe8tava J ano reali- lenm
affermazioni idealistiche"' 6 . e8prÌBlendo8Ì con so- ficanti, era in ogni
caso imn ° 3 am P lificazi om edi- t0ria *”**• d i prender oranti JT ° ^ meri *
relazione debba pensarsi che L ,]i “ 8lderare “ quale esistenti, stiano con
gl’individuf.- U1 "r erSah> come eose c7° C ° nSÌ8te Ia ^portanza 2*^J,
* ten * C h ani P e a ux (morto nel 119 !) ; U ^ llel «o da ! ma lo 8Ìeo, nel
realismo di hii n ’ U pnnto * Imea, rispetto al pimto di ’ P “” ancora m
seconda varsi tuttavia, fin da principio i ^ De ™ rile- Guglielmo da Champeaux
siàm^l "‘T" 0 * Ue idee di C081 minutamente informati , ^ ,lmgi
dall’essere 8in ; di ahri,. pe re h è rir; r r^ ioj,e dei c - assolutamente
andar oltre il n na non Possiamo notizie, a noi accessibili, che ,mnT° * ^ ghw
- ono le a equivoci «»*). “ lascino per nulla adito w ) Ibid., p. 29 - o, • i
Hit 12’un°A OCUlÌS muìlT 1 constituto tr :~«4 ^.rr »" stolrfe in prìmam T?
“‘T"' sub °P™£ dicati?’s "’ m istn Stendi . aliai,,,,,,} * secun dam
dividitur ■ ali,, ‘H*’ un & e "b Ari - \ T ° P° S! "*sio. ’ allf
P‘»ndo ... actus b . 199, 8321 ’ SARESB - I, s, p . 2 , S li r . led - ^cbl»,
p. 16-7; PL Della produzione letteraria di Guglielmo, non ab¬ biamo sotto mano
nulla, cbe riguardi oggetti di perti¬ nenza della logica 103 ) : siamo così
ridotti a servirci prin¬ cipalmente di una notizia di Abelardo, il quale mena
vanto di avere combattuto con felice successo le idee di Guglielmo intorno agli
universali, di guisa che quest’ul¬ timo le modificò in misura notevole: ma con
questo il suo insegnamento ci scapitò, per autorità e per concorso di uditori,
a tal punto che finirono con il passare for- glielmo da Champeaux tutte quante
quelle abbreviazioni (« magi- ster V. », « magister noster V. ») che si trovano
nel manoscritto, nè più nè meno che quei passi, dove si trova « If illelmus » ;
anzi ha persino fatto lo stesso in un certo luogo, dove (de gerì, et spec., p.
509) con le parole « Vel uliter secundum magistrum G. », è indi¬ cata in modo
abbastanza chiaro una posizione antitetica a quella del mngister Willclmus
antecedentemente (p. 507) nominalo, E co¬ me ora è francamente segno di
leggerezza trovare ugualmente in quel magister G. un'allusione al nostro
Guglielmo, cosi non è detto cbe in compenso abbiamo un punto di appoggio
nell’abbreviatura € V. », tanto più che questa lettera stessa parla in senso
contrario. Poiché Abelardo, prima di recarsi presso Guglielmo da Cliam- peaux,
aveva cercato d’istruirsi presso tutti i dialettici eminenti ( Epist ., I, c.
I, p. 4, Amboes. Ted. Quercetanus di Parigi 16161, [ed. Cousin, I, p. 4; PL,
178, 115]: Proinde diversas disputando perambulans provincias, ubicunque huius
arlis vigere studium au- dieram, peripaielicorum uemulalor fuctus sum), come «
magister no¬ ster » egli può indicare una quantità di uomini, dei quali ci è
ignoto il nome, c dobbiamo guardarci daU’argomentare, senza suf¬ ficiente
ponderazione, che si alluda a persone determinate, per evitar di andare fuor di
strada (v. per es. più sopra la nota 82 ). Ma alle deduzioni del Cousin
aderirono il Rousselot, l’Hauréau, e anche H. Rittcr. lra ) L’Hauréau (De la
phil. scoi., I, p. 223 [cfr. Ili ut. de la phil. scol^, I, 322]) riferisce che
il Ravaisson ha trovato, nella Biblioteca di Troyes, 42 frammenti di Guglielmo;
e con la pubblicazione di questi frammenti, E. Michaud, nel suo scritto
Guillaume de Cham- peaux et les écoles de Paris au Xll.e siede (2’ ediz.,
Parigi, 1868), si sarebbe potuto acquistare una benemerenza. In base a quel
ch’è stato detto più sopra (nota precedente), non si può argomentare che
Guglielmo da Champeaux abbia scritto «Glossulae super Pe- riermeneias », perchè
il passo relativo nella Dialectica di Abelardo (p. 225) attribuisce uno scritto
così intitolato semplicemente a un « magister noster V. ». [Ma ora son da
vedere i 47 frammenti « Guillelmi Campellensis Sententiae vel Quaestiones XLVII
» puhbl. da G. Lefèvrk. Les variations de Guillaume de Champeaux et la question
des Universaux, Lilla, 1898, pp. 19 ss.]. malmente tutti alla opinione di
Abelardo 104 ). Guglielmo cioè avrebbe affermato ili primo luogo che gli
univer¬ sali, in quanto sono, nella loro unità, cose uguali, ineri¬ scono nello
stesso tempo essentialiter, in indivisa tota¬ lità, a tutti cpianti
gl’individui che cadono nella loro estensione, e pertanto fra gl’individui non
sussiste dif¬ ferenza di essenza, bensì le differenze hanno fondamento soltanto
nella molteplicità di determinazioni acciden¬ tali. E come ciò trova letterale
conferma nel passo del De gen. et spec., citato più sopra (nota 72), ivi
appunto ci viene data una spiegazione più precisa-la quale persino ci riporta a
un passo, affatto isolato, di Boezio, e ci dà così maniera di veder bene
addentro come il daf¬ fare che si davano a quel tempo con le controversie tra
opposti indirizzi, avesse fondamento in minuzzaglie di erudizione scolastica,
piuttosto che in contrasti intimi fra modi di vedere teoretici. IM ) Abaf.l.
Epist., 1, c. 2, p. 4 [ed. Consinl : Perveni tandem ransius, uh, jam maxime
disciplina liaec florere consueverat, ad \rUiUclmum scilicet Campellensem
praeceptorem meum in hoc lune magisleno re et fama pruecipuum: cum quo
aliquanlulum moratus primo et acceptus, poslmodum gravissimiis extiti, cum
nonnuttas scuicet ejus sententias refellere conarer, et ratiocinari conira eum
sae- pius aggrederer, et nonnunquam superior in disputando viderer tp. a) lum
ego ad eum reversus, ut ab ipso rhetoricam audirem. mler caetera disputationum
nostrarum conamina, antiquam ejus de uni versali bus sententiam patentissimis
argiimentorum dispulationi- hus ipstim commutare, imo destruere compiili. Erat
autem in ea senlenlia de commentiate universalium, ut eamdem essentialiter rem
imam simul smgulis suis inesse astenerci individuisi quorum quidem nulla esset
m essenti!, diversitas, sed sola multitudine accidentium va- netas. ile autem
tstam lune suam correxil sententiam, ut deinceps rem eamdem non essentialiter.
sed individualiter (la variante « indil- ferenter » [accolta dal Comuni, che la
ed. d’Ambois segna in mar- gme Si trovava anche in vari manoscritti; vedi
I’Hauréau, op. cit, 1, p. 236 ( H,st. de la ph. scoi., I. p. 3381), dicere,.
Et.... quum hanc "le correxisset, imo coactus dimisisset sententiam, in
tanlam lectio ejus devoluta est negligentiam, ut jam ad dialecticae lectionem
vix admitteretur: quasi in huc scilicet de universalibus senlenlia tota hiijiis
artis consisterei summit (cfr. la nota 60). Ilinc tantum roboris et auctontatis
nostra suscepit disciplina, ut ii, qui antea vehemen- j nogutro tilt nostro
adhaerebant. et maxime nostram infestabant aoctnnam. ad nostras convolarent
scholas fPL Affermava cioè Guglielmo che in quel quid di acci¬ dentalmente
superaddito (adveniens) son da ravvisare le forme individuali, le quali
improntano la materia, consistente nel concetto del genere (malcriam infor¬
marli), in tal maniera, che con ciò la essenza univer¬ sale ne risente una
individualizzazione secundum totam sitarti quanlitatem : e lo stesso può
ripetersi poi, a que¬ sta maniera, per tutta quanta la scala, dal genere,
attra¬ verso la specie, sin giù giù airindividuo 103 ). Inoltre, co¬ me
riferisce altrove Ahelardo, Guglielmo, incomin¬ ciando dalle dieci categorie,
svolgeva a fondo questo pro¬ cesso d'informazione giù giù sino agl’individui, e
poteva allora, poiché quelle stesse forme più individuali diffe- renzianti
rimandano da capo agli universali, spiegare la predicahilità degli universali
con il fatto che questi spet¬ tano agl'individui, o essenzialmente o
adiettivamente iadjacenter) 10 °). Ma proprio in ciò consiste decisamente Ite
gen. et sper., p. 513 s. : Uomo quaedam species est, res una essenti ali ter,
cui adveniunt forntae quaedam et efficiunt Socra- lem: Ulani eamdetn
essentiuliter eodem modo informata formae fa- cientes Platonern et caetera
indiridua hominis ; nec aliquìd est in So¬ crate, praeler illas jormas
informanles il latti malcriam ad fuciendum Socratem, quia iìlud idem eodem
tempore in Platone informatimi sit formis Plalonis. Et hoc intelligunt de
singulis spcciebus ad individua et de generi bus ad species.... Ubi enim Socrates est, et homo univer- salis ibi est,
secundum totani suoni quantitatem informatus Socratitate (riguardo al concetto
di Socratitas, v. la concezione corrispondente di I orfirio e Boezio: Sez. XI,
nota 43). Quicquid enim res universalis suscipit, tota sui quantitate
retinet.... Quicquid suscipit, tota sui quoti- filale suscipit. Ma anche
questo' è proprio ricavato da Boezio, che dice, a proposito della differenza
{ad Porph. a se transl., p. 87 tEd. Brandt, IV, 9, p. 263; PL, 64, 1261): Aeque
enim sicnt in corpore so¬ ler. esse alia pars alba, alia nigra, ita fieri in
genere potcst; getius enim per se consideratimi partes non habet, itisi ad
species referalur. Quicquid igitur habet, non purtibus, sed tota sui
magnitudine reti- nebit. Cosi, dove si tratta di storia della filosofia
medievale, spesso 1 apparenza [della originalità, o della novità! viene a
ridursi | grazie alla indicazione delle fonti antiche] a quella ch’è la vera
sua portata: “ r - H U ' a PP r re riprod. XTTe"^"'^: dÌ ( ?* differentiam et secundum IdZtiZ^eZd^^' ^
Secundum intUfferentiam l> , e J ll *dem prorsus essentiae. — - n hZ£ s :
adem -=£t2; nrtlSTò ifhix Sfe isrF"’ SS ff *7 rs s »;s£*Atas pure
appartiene infine alla tradizione la notizia isolata, che, riguardo alla
topica, egli portava la essenza della inventio a consistere nella scoperta di
un termine me¬ dio 110 ). [§ 21. — Le difficoltà e i gradi del realismo]. — È
probabile che proprio le difficoltà, alle quali si trova esposta la opinione di
Guglielmo da Champeaux, ab¬ biano dato ai realisti — mentre in generale essi
pote¬ vano approvare il punto di vista di lui — motivo di scindersi essi
medesimi a lor volta fra loro, a forza di tentativi di correggere quella opinione,
o di darle nuovo fondamento: si è così formata una quantità d’indirizzi
divergenti, ai quali — anche passando affatto sotto si¬ lenzio il nome dei loro
rappresentanti — non ci è più possibile tener dietro, considerando minutamente
il de¬ terminarsi delle loro particolari differenze. A parte le difficoltà
teologiche die si sollevavano, sia che si assumessero gli universali quali
prodotti di una creazione, sia che li si assumesse quali entità eterne, tanto
più che alcuni effettivamente designavano per tal modo come « cose » tutt’i
singoli attributi di Dio nl ), — positìonem ejusdem parti* sequatur pars
illius. Sequitur enim bi-
punctalem lineam pars ejus, i. e. punclum., non tamen ad punctum pars ejus
sequitur, quia indiani habet. u ") Joh. Saresb. Metal. Ili, 9, p. 115 [ed.
Webb, p. 152] : Versa- tur in his (se. in Topici*) incentionis muteria, quam
hilaris memoriae fVillelmus de Cam pelli*.... diffinivil, etsi non perfecte,
esse scienliam reperiendi medium terminimi et inde eliciendi argumentum [PL,
199, 9091. m ) De gen. et spec., p. 517 : Genera et species aut creator sunt
aut creatura. Si creatura sunt, ante juit suus creator
quam ipsa crea¬ tura. Ila ante juit
Deus quam justitia et jortitudo.... Itaque ante juit Deus quam esset justus vel
fortis. Sunt auleta qui.... illam divisio-
nem.... sic jaciendam esse dicunt: quicquid est, aut genitum est aut ingenitum.
Universalia autem ingenita dicuntur et ideo coaeterna, et sic secundum eos qui
hoc dicunt,... [noni Deus
aliquorum jactor est. — Abael. Inlrod. ud theol., II, 8, p. 1067 ( Amboes. [ed. Cousin, II, p. 85; PL, 178, 1057]): Terlius vero
praediclorum (se. magistro- rum divinae paginae, cioè un magister in pago
Andegavensi ) non so- ciò che dal punto di vista ontologico si voleva evitare
era proprio quel vicendevole invilupparsi di tutti eli universali. 6 Perciò
alcuni si appigliarono all’espediente, certo grossolano di assumere quel
«sovraggiungersi» (che abbiamo veduto piu sopra, alla nota 105) delle diffe¬
renze specifiche, come qualche cosa di puramente pas¬ seggierò, per salvare
così la indipendenza del genere »*) Altri invece tiraron fuori un modo di
vedere, ch’era proprio di Aristotele, considerando il genere come la materia
che nella sua essenza rimane identica, e che viene diversamente formata nelle
specie: ma, proprio per quella identità di essenza, vennero a trovarsi in con-
lutto con la teoria degli opposti 11S ). Onde a ccadde, da un lato, che,
relativamente a questo «i™ isssrwtsar ir-" -s™ ~~~ hujusmodi, quae iuxta
fiumani * erlcor( i‘ ,im , tram et caelera gnificantur, res quasdam et amil i
lonls , c ? nsuetu di nem in Deo si- t ig jfer res diversas conslituat. '
aicumur, tot in Deo dicunt quidam , quia differentiÌe "quldmn m "J°
rU . slm P l icitatis, quod genere non fondanti* U%kVt generi ’ sed in
subjectum. per se d,c,tur e- sia inasprita, e ahL ►ia n* 1 « a anZ * C ^ C c *
uesta diffìcile controversia si « gran somaro », non essendo C cT alu U "
C " t0 ^ r Z ° sco,astico del passo del De gen. et spec u ( man,era . dl
comprendere il quod scilicet incoteMens eduttl „ ° PPOSlta - «*• in codem,
sententiam tenenl perchè non *" • n { >oss n nt > qui grandis asini
:±,rr"° év-J quale n.n fl 1ZS
processo, con il quale alla materia si dà la forma, venne fuori da capo
la questione, se cioè la differenza speci¬ fica sia solamente il mezzo per
formare le specie, o se essa invece, insieme con il genere, trapassi nello
stesso tempo nella essenza della specie medesima, — e alcuni (evidentemente
tenendosi più vicini a Guglielmo da Champeaux) si son pure effettivamente
decisi a favore della seconda soluzione 114 ) —: e così, d’altra parte, per i
concetti di genere e di specie, veniva in luce una diffi¬ coltà, anche per il
fatto degli opposti che (almeno nella loro esistenza individualizzata) si
trovano in imo e me¬ desimo soggetto: ciò ha per conseguenza che, qualora un
uomo sia bensì casto ma in pari tempo sia avaro, dovrebbe in lui coincidere
l’universale del bene con quello del male; ora, taluni se la cavavano con una
di¬ stinzione tra i generi superiori da un lato, e dall’altro lato le specie
degli opposti, nella loro specializzazione, escludendo almeno queste ultime
dalla possibilità d’in¬ contrarsi [in un medesimo soggetto], laddove altri
esten¬ devano persino ad esse la pericolosa concessione 115 ). 1H ) Abael. Dial., p. 477 : RATIONALITAS
enim et mortalitas, adve- niente* subtantiae animulis, eam in speciem creunt.
quae est homo. Nec cum ipsae generis substuntium in speciem reddunt, ipsae
quoque in essentiam speciei simul transeunt, sed sola genera vel subjecta
specificantur.... non quidem cum
differentiis, sed per differentias.... Si enim differentiae in speciem
transferrentur cum genere,.... sicul quorumdam sententia tenet,... profecto
cogeremur jateri, et dijjeren- tias ipsas cum genere aeque in essentia speciei
convenire ; linde et ipsas de substanlia rei esse, et in partem maleriae venire
contingcrel. m ) Ihid.. p. 390: Sunt uutem quidam qui contraria genera in eodem
esse non abhorrent, sed contrarias species in eodem esse im¬ possibile
confitentur. Dicunt enim quod cum omnia accidenlia per individua in subjecta
veniant, et ipsa contraria genera per individua sua subjeclis contingunt . ut
virtus et vitium, quae in hoc homine per hanc castitatem et hanc avaritiam
recipiunliir, quae individua sunt caslitatis et avaritiae, quae invicem species
non sunt contrarine.... Verum species contrarias esse in eodem per aliquu sua
individua, illud prohibet, quod nec ipsarum individua in eodem possunt esse,
quorum sunt tota substantia ea quae sunt contraria, utpote species.... Sunt
autem et qui species contrarias in eodem posse consistere non denegant. adol e
, T ^ C1 " aUrÌ 3UCOra « indotti a adottare 1 esperte radicale, di
affermare cioè che la .uizmne della differenza specifica in generale ha luogo
tu ta quanta solamente nella categoria della sostanza laddove, quando si tratta
delle qualità, le così dette sue’ eie o sottospecie son propriamente da
considerare sen z altro come formazione d’individui, sicché n es h' e nero
sarebbero due essenze diverse a cuci 1 h che son tali due individui umani ”)’
" ^ 816880 farina, non c’è nane » , . 3 ,10n c e * c e pane », dovendo
prima la ~7 n p, *“’ ” c,,e - “ cb - '»a»c»„r;.jr ,o " awo cì **•£ [§ 22.
Controversie intorno alla definizione- INTORNO al CONCETTO DI PARTE | E
cakie»j. — M a controversie ) De gerì, et spec. d ?4i. c tmnsubnantiae
differentiis haberTdilZTe?™ Solum P^edicamen- tn duas proximas species. dicunt illaT'nn l cllm . J ff uaht ^ dividati,r aliquas differenti,: »ed et in
micas converti tur linde nèn • sc, i ,c el furinam esse deserit non sit , panis
desit. Eie. equicquam concedila ut, si farina di questo genere, che venivano
per lo più agitate, con grande sfoggio di passi di Boezio, sfiorando già, come
si vede, il confine della stupidità, venivano altresì dibat¬ tute, secondo il
modello della logica in uso nelle scuole, anche nell arringo affine della
teoria della divisione (v. sopra la nota 75) e della definizione. Ben è vero
che i realisti si trovavano tutti d’accordo nel preferire, in ar¬ monia con il
modo di pensare di Boezio (Sez. XII, nota 98), o piuttosto di Porfirio (Sez.
XI, note 41 ss.: cfr. la Sez. Ili, note 78 ss.), il procedimento platonico di
ima continua dicotomia 118 ); ma subito a proposito della di¬ visione del
genere, necessaria per la definizione, doveva già ripresentarsi la questione
del come vadan le cose con le parti della essenza, distinguibili nel concetto
del ge¬ nere: e mentre da taluni si affermava che tali parti sono unite per
mescolanza, press’a poco a quel modo che an¬ che dalla mescolanza di bianco e
nero si genera un terzo colore differente 119 ), altri facevano osservare che
tutte le parti della essenza del genere posson pure, anche singolarmente, esser
enunciate come predicati de¬ gl’individui, appartenenti al genere stesso 120 );
per con- ) Ibid., p. 458: Si aulem genus seni per nel in proximas species t ei
in proximas differenlias dìvideretur, omnis divisio generis, sicut Boethio (de
divis p. 643 [PL, 64, 8831) placuit, bimembris essel.,.. Hoc autem ad eam
philosophicam sententiam respicil , girne res ipsus, non tantum voces, genera
et species esse confitetur. ) Oilberti 1 orretae in l. 1 . Boethii de S .
Trinitele commenta • ria_ (Bokth. Opera, eri. [costantemente cit. dal Franti]
di Basilea, 1570), p. 1144 [PL, 64, 12721 : Butani quidam imperiti.... quod non
sit vera dictio. si quis dical « homo est corpus », non addens et ani¬ ma »:
uut si dicat « homo est anima », non addens c et corpus ». Opi - nantes quod,
ex quo diversa, ut unum componant, conjuncta sunt. esse utriusque adeo sit ex
illa conjunctione confusimi, ut sicut cum album et nigrum permìscentur, quod ex
illis fit, nec album nec ni- grum dicilur, sed ciijusdam alterius coloris ex
illa permixtione pro¬ venienti».... 1 Ibid., p. 1143:.... corporalitàs, non
modo de hominis illa parte I qua e corpus e.st], verum etiarn de homine
praedicetur. Et.... ratio- nalitas.... non modo de hominis illa parte, quae
spiritus est, sed etiam de homine praedicatur.... (p. 1144).... quicquid de
parte nuturaliter, idem et de composito affirmandum [PL, 64, 1272-3]. irò,
anche questo fu da capo contestato da alcuni, per- che quelle parti della
essenza sono predicati, soltanto in quanto sono concetti più generali, fatta
cioè astrazione dalla loro connessione con altre note essenziali; dellW mo, p.
es„ viene affermata cioè, come predicato, non -dà la corporeità specificamente
umana, ma proprio in gè- neraie la corporeità nella sua accezione universale, e
tosi parimente anche la spiritualità 121 ). Un’altra controversia
manifestamente comiessa con quel che precede, concerneva la seguente questione
se ' fr J “ dMÌ *"• ^ il 7o,Z f dilTereuza -pacifica si riferisca «oltau.o
alla .peci. O anche, nello stesso tempo, al genere che st r , ’ mento della
specie 122 ! Y , 3 fonda - ia specie ). Via via che si separava più net. amente
a t ìlferenza dal genere (note 112, 114) g j po z::i re p t n r pit ° lbid., p . H44 f PL 6 , ,, 'illuni
rationalitatem guani Uhm quuè est A,"” al ‘ qU ‘ d ‘ cere 8esti unl, d‘ci.
et simUiter scienti,, a liam et alUmr ‘ T™"*' de homine human, corporis
est. ’ 1 sparai,totem quam quae notila. PaSS ° re,atÌV ° è ri P r « d »«
integralmente più sopra> • ^ Abael. Dialect. n 402 • \f 1 * * noe hujus nominis quod est «
homo » 'nen™ s,gn, fi cat ‘t»iem substan- s , at ±' f* x P so percipiant ,
tantum nronlèr nT 7?’ nec ^ ualitat ^ ipsius diffinitionem requirunt. P P r qualitatum demonstrntionem il suo significalo
concettuale, fosse stata accolta, in sen¬ so realistico, quest’ultima
soluzione, sicché la proprietà sarebbe definita come un quid, formato da un
universale (p. es. [il «bianco» è un] formatum albedine), si poteva da capo
domandare se questa sia la definizione della proprietà stessa ( albedo ), o del
sostrato qualifi¬ cato (album); e se poi ci si atteneva alla seconda alter¬
nativa, dato che la prima conduce a mia reduplicazione priva di senso, sorgeva
il dubbio, se con ciò sia definito ciascun singolo di siffatti sostrati, o non
forse invece tutti quanti insieme: e necessariamente ambedue le ipo¬ tesi si
mostravan da capo insostenibili, poiché da un lato non si tratta di definire le
cose stesse, bensì soltanto ima proprietà, nè d’altra parte le cose, per una
sola proprietà che abbian comune, sono identiche nella loro essenza 121 ). Ma a
quel modo che tutta questa discussione si at- Ibid., p. 495: Ai vero in fiis
diffinitionibus quae sumplorum (con questo termine Abelardo suole indicar gli
aggettivi: v. appresso la nota 321) sunl vocabulorum, magna, memini, quaestio
solet esse ub his, qui in rebus universalia primo loco ponunt....; duplex enim
ho- rum nominum quae sumpta sunt, significatio dicitur, altera.... prin-
cipalis, quae est de forma, altera vero secundaria, quae est de for¬ malo. Sic
enim « album », et albedinem, quam circa corpus subjec¬ tum determinai, primo
loco significare dicitur, et secundo ipsius subjectum, quod nominai. Cum ilaque
album hoc modo diffinimus « formatum albedine », quueri solet. ulrum haec
diffinitio sii tantum hujus vocis, quae est « album », an alicujus siine
significationis. Al vero cum vocem non secundum essenliam suam, sed
significulionem diffiniamus, videlur haec diffinitio recte ac primo loco illius
esse. Restat ergo quaerere, sive illius significationis sit, quae prima est, i.
e. albedinis, sit e cjus, quae seconda est. quae est « subjectum idbe- dinis ».
At vero si haec diffinitio albedinis sit, praedicalur de ipsa, et de quocumque
albedo dicitur, et ipsa diffinitio prucdicatur. At vero quis vel albedinem vel
hanc albedinem formuri albedine conce¬ dei?... Si vero diffinitio supraposita
ejus rei, quam « album » nomi- nani, esse dicatur,... quaerilur, utrum
uniuscujusque sit per se, quod albedinem susci pi unt.... | il Cousin corregge:
suscipiat], sive omnium simul acceptorum. Quod si uniuscujusque sit illa
diffinitio, utique et margaritae. Vnde de quocumque illa diffinitio dicitur, et
margarita praedicatur, quod omnino falsum est. Si vero omnium simul accep¬
torum esse concedatur, oporlebit ut, de quocumque diffinitio illa enuntiatur,
omnia simid praedicenlur. quod iterum falsum est. tiene ancora di regola a
quello stesso basso punto di vi- sta, che abbiamo trovato più sopra (Se*,
precedente, note 350 ss.), dove si trattava del realista Anseimo, cosi anche le
dispute sopra il secondo metodo di divisione, cioè sopra la partizione della o
alita ne suoi elementi, recano in sè una ben grave uni- lateraLta. I oiche la
questione di stabilire che cosa s’in- tenda per parte originaria (pars
principalis), fu forzata a prendere la forma di un’alternativa, in quanto che
cioè gli uni denonimavano originarie quelle parti le quali, mentre
costituiscono la essenza della totalità, non sono piu a lor volta parti di una
parte (p. es„ nell’uomo, anima e corpo), e invece gli altri consideravano come
ori- gmane quelle parti costitutive ultime, distrutte le quali viene distrutto
il tutto (p. es. la testa o il cuore) -»)• ma a questa maniera, in seguito al
realismo ontologico, adot- andosi la prima soluzione, tutto questo punto di
vista della divisione rimaneva falsato, e surrettiziamente scam¬ biato con il
terreno proprio della definizione, laddove, se »! adottava la seconda
soluzione, sconsideratamente « trasponeva la funzione subiettiva
dell’intelletto urna- “’ !• q S ° la . Crea ÌJ COncetto di P«le, nella realtà
ZTl ì C0MCeZ1One "«usa, della quale già si era li- noi ^ 9 ! “T m ° r °
8CelÌniauo (Sez. precedente, note 321 s.). Mentre gli uni intendevano la
divisione ab «finito come obbiettivamente materiale, ed esclude- no cosi dalla
considerazione l’attività formale [die gè- cundarias'^àrtès ZocaH^TnTat^alf 0 ’
o- crates. destructa ungula, remanet Socrates et ila quod prius non erat
Socrates, fìt Socrates. O, similmente, ibid., p. 512: Haec.... sen-La teoria
dello « status », come tentativo di conciliazione: Gualtiero da Mortacne]. — Se
a questa maniera il realismo offriva in realtà molteplici documenti di quella
cattiva sorte, che nelle questioni di logica propriamente dette, deve rimanere
insepara. . Je da esso ’ non fa maraviglia che da vari lati si sieno battute
vie nuove per rendersi conto degli universali, r csidcrandosi co 8I di sfuggire
alle difficoltà del reali- amo non meno che alla unilateralità del nominalismo.
mbra doversi interpetrare quale forma di passaggio prima di tutto quella
concezione, che potrebbe, dal suo termine tecnico caratteristico, denominarsi
«teoria e lo status »: e parimente sembra (cfr. la nota “ e *f a 813 8tata
originata dalle obiezioni sorte contro le affermazioni di Guglielmo da
Champeaux. Se cioè la essenza universale del genere deve, per tutta quanta la
sua estensione, venire specializzata mediante lorme individuali (v. sopra la
nota 105), è difficile veder bene addentro, come stiano le cose, riguardo a
quelle «proprietà superaddite » (advenicntia), che, in seno a IimiT’ ° T Ìan °
° 80U0 S ° lamente P asse ggiere. Ora alctmi si appigliarmi qui all’espediente
di ammettere che ! universale e bensì modificato da siffatte qualità, ma non
tuttavia proprio in quanto è un universale: e una faeffe 1 ir e - a arriVatÌ dn
° 3 qUeSt ° P unto ’ 8i rendeva acile la effettiva trasformazione degli
miiversali, i quali dai realisti erano stati tenuti b, conto di cose (res) in
daT >: i CÌOè ° ra ne »a serie graduale che va dal genere all individuo, non
fu più tenuto conto del- 1 Universale, bensì dello .status universali*»: ima
con- cezione questa, che era così abbastanza facilmente sug- gerita dal motivo
usuale di ma Tabula logica, come an- lentia medium digiti naturam unam esse
nonni , creaturam esse merito dubitat. Aut er J Zò , 'che poteva, dal canto
suo, trovare parimente appoggio in un passo di Boezio 129 ). Un rappresentante
di questo modo di vedere fu Gualtiero da Mortagne [de Mauretania] (inse¬ gnante
a Parigi al tempo di Abelardo, e morto, vescovo di Laon, nel 1174) : egli
dedicò, è vero, con preponde¬ rante ardore, la propria attività alle
controversie dom- maticlie ), ma fece sentire, per incidenza, il suo in¬ flusso
anche nel campo della dialettica. Cercò cioè di conciliare la unità numerale
deH’universale con la con¬ nessione essenziale, in cui esso sta con le cose
singole. > Ibid., p. 514 s.: Amplius sanitas et lunguor in corpore ani- mahs
fundalur; albedo et nigredo simpliciter in corpore. (Juod si animai totum
existens in Socrate languore afficilur, et totum, quia quicquid suscipit. Iota
sui quantitale suscipit, eodem et momento nusquam est sine lang[u)ore; est
autem in Platone totum illud idem; ergo edam ibi languerel; sed ibi non
languet. Idem de albe¬ dine et nigredine circa corpus. Ad haec enim non
rejugiant, ut di- cani etc.... Addurli: animai universale languet, sed non in
quantum est universale. L tinum se videant !... Si ad status se transfer ani ,
di - centes I animai in quantum est universale non languet in univer¬ sali
statu », ■ respondcant, de quo velint agere per has voces $ in stata universali
». Ma di questo concetto di « status universalis » scorgeremo a buon diritto la
fonte in Boezio, là dov’egli dice, a pro¬ posito della qualità (ad Ar. praed.
[I. 11IJ, p. 180 |PL, 64. 250J): Nihil impedit, secundum aliam scilicet ulque
aliam causam, unam eamdemque rem gemino generi spedai suae supponere, ut
Socrates in eo quod pater est, ad aliquid dicitur, in eo quod homo, substan¬
tia est, sic in calore atque frigore, in eo quod quis secundum ea videtur esse
dispositus, in disposinone numerula sunt, perchè quel rhc qui deride, è lu
espressione « in eo quod » : e rosi pure in un al¬ tro passo ancor più chiaro
(ibid., p. 189 [PL, 64, 2611): Si secun¬ dum aliam atque aliam rem duobus
generibus eadem res.... supponu- tur, nihil inconveniens cadit. Ita quoque et
habitudines, in eo quod alicuius rei habitudines sunt, in relutione ponuntur,
in eo quod secundum eas quales aliqui dicuntur, in quotitele numerantur. Quare
nihil est inconveniens, unam atque eamdem rem, secundum dnersas naturae suae
potenlias (proprio questo son gli univer¬ sali),... pluribus adnumerare
generibus. Le euc lettere (stampate nello Spicil. del D’Achery, ed. De la
Barre, Parigi, 1723, III, p. 520 ss.) sono soltanto di contenuto dommatico, e
non hanno menomamente rhe fare con la storia della filosofia. [Ora è da vedere
il trattato sopra la teoria della indifferenza, attribuito a Gualtiero da
Mortagne e pubblicato dall’Hau- rcau (1892), poi dal Willner procedendo a
questa maniera, vale a dire con il distin¬ guere nell’individuo, uno per uno,
come status diffe¬ renti, la individualità, e il concetto della specie, e così
pure il concetto del genere, fino su su al sommo gene¬ re 1SI ). Comunque,
sebbene ci manchino del tutto notizie più precise sopra un tal modo di vedere,
c’è questo di notevole in esso, che cioè da un lato l’universale è rac¬ costato
alle cose singole, e dall’altro lato, per quel te¬ nere distinti i diversi «
stati », la operazione intellet¬ tuale subbiettiva si fa più avanti nel primo
piano. Per¬ ciò neanche appare indegna di fede quella notizia (v. sopra la nota
69), secondo la quale sembra che taluni, dalla tesi nominalistica della «
maneries » sieno passati alla questione dello status (v. la nota 88). [§ 24. —
La teoria dell’iindifferenza. Ma la evoluzione interna degli studi di logica ci
conduce con ciò spontaneamente alla teoria della indiffe¬ renza, la quale in
particolare occupa ima posizione di mediatrice tra le varie tendenze. A suo
fondamento sta il principio, che una medesima cosa è, nello stesso tempo,
universale e singolare, nel senso non già che si dia un universale
essenzialmente inerente alle cose, bensì semplicemente che in queste, in quanto
sieno più cose e simili per natura, si presenti alcunché, che esse hanno
indifferenziatamente ( indiff&renter ) in comune; per con¬ seguenza, ciò
che più cose hanno d’indifferente o intrin¬ secamente simile (indifferens o
consimile), è dunque indicato nella definizione come « genere », e, per l’uni¬
versale così inteso, è salva la possibilità della predica¬ zione (praedicari de
pluribus ), laddove il realismo ha sempre corso pericolo di dover, di una cosa,
predicare ima cosa (v. appr. la nota 287): e quest’ultimo aspetto
suhbiettivamente logico poteva ora caso mai venir pure M1 ) Il passo in appoggio,
vedilo più sopra, alla noia unilo anche
con il concetto di status, di modo die cia¬ scuna cosa avrebbe in sè uno «
stato » d’individualità e nello stesso tempo uno « stato » di universalità 132
); ma si tratta nonpertanto di un punto di vista, tutto diverso da quello di
Gualtiero. Mentre là, cioè, si tiene ancor ferma la esistenza del- u ‘) Abael.
Glossulae sup. l’orph., riferite dal Rémusat (v. le note 13 e 73), p. 99 s. :
La seconde manière de soutenir l’universalilé des choses, c’est de prétendre
que la ménte chose est universelle et particulière; ce n’est plus
essentiellement, mais indifféremment que la chose commune est en divers.... Ce
qui est dans Platon et dans Socrate, c’est un indifférent, un semblablc, «
indifferens vel consi¬ mile ». Il est de certaines choses qui conviennenl ou
s’accordent entre elles, c esl-à-dire qui sont scmblables en nature, par
exemple en tanl que corps, en lant qu’animaux ; elles sont aitisi universelles
et particulières, universelles en ce qu’elles sont plusieurs en coni- munaulé d
attributs essenliels, particulières, en ce que chacune est disimele des autres.
La définition du genre (« praedicari de piu- ribus »....) ne s’applique alors
aux choses qu’elle concerne qu’en tanl qu’elles sont semblables, et non pus en
lant qu’elles sont indi- viduelles. Ainsi les mèmes choses ont deux états, leur étal de
genre, leur état d’individus, et, suivant leur étal, elles comportenl ou ne
comportenl pas une définition differente. [Vedasi ora il testo ori¬ ginale, ediz. Geyer, p.
518: Sunt a lii in rebus unii-er salitatela assignantes, qui eandem rem
universalem et parlicularem esse astruunl. Hi namque eandem rem in diversis in
differente r, non essentialiter inferioribus affirmunt. Veluti cum dicunt idem
esse in Socrate et Plutone, « idem » prò indifferenti, idest consimili,
intelligunt. Et cum dicunt idem de pluribus praedicari vel inesse aliquibus,
tale est, ac si aperte diceretur: quaedam in aliqua con¬ venire natura, idest
similiu esse, ut in eo quod corpora sunt vel ammalia. Et iuxta hanc.... senlentium
eandem rem universalem et parti- cularem esse concedunt, diversis tamen
respeclibus; universalem quidem in eo quod cum pluribus communitutem habet,
particularem secundum hoc quod a ceteris rebus diversa est. Dicunt enim singu- las substunlius ita in propriae
suae essentiae discretione diversas esse, ut nullo modo haec substantia sii
eadem cum illa, etiamsi substantiae materia penitus formis carerei, quod tale
secundum illos praedicari de pluribus, ac si dicatur: aliquis status est,
participatione ctiius multae sunt convenientes, praedicari de uno solo, uc si
dicatur: aliquis status est, parlici patione cuius mul¬ tae sunt non
convenientes 1 . Se il Rémusat abbia effettivamente trovato qui [come (v. s.)
effettivamente ha trovato] nel manoscritto il termine « status » — cosi almeno
sembra che sia — o se si tratti di un’aggiunta, fondata solamente sopra il suo
personale modo di vedere, io non lo so. l’universale, e proprio a quest’ultimo
vengono atmbu «stati» differenti, per i sostenitori della tesi della indif¬
ferenza viene avanti in prima linea, con tutto il suo ri¬ gore, la idea,
appartenente al nominalismo (note 77 ».), vale a dire che in generale
null’altro esiste, all infuori dai soli individui, e apprendendosi il pensiero
a questi, come a’ suoi propri oggetti, gli universali si generano soltanto per
la diversità dell’apprendimento (aliter et aliter attentum), sicché status o
natura dell’essere indi¬ viduo o dell’essere specie e via dicendo, sono da
consi¬ derare soltanto come modi di vedere soggettivi: e a tal proposito è
prima di tutto da considerare il carattere, per così dire, negativo del
procedimento che conduce dall’individuo all’universale, in quanto che
Ymtellectus gradualmente lascia da parte (non concipit), intenzio¬ nalmente
dimentica ( oblitus ), posterga e abbandona ( postponit, relinquit) le
differenze individuali, per prò- gredire nell’apprendimento
dell’indifferenziato, sino al grado supremo, cioè alla sostanza 1 ). Pertanto
anche questo modo di vedere, analogamente «*) De geli, et spec., p. 518: Nane
itaque >Uam, quae de indif- ferentia est. sententi,im perquiramus Cujus
*«£«**£**£ JJJJ ninnino est nraeter individuimi; sed et illud aliter et aliter
atten tum specie* et genus et genertdissimum est (ugualmente nel pas.o ' ùo già
opra! nota 72). Itaque Sacrate* in ea natura (m ponga mente al termine « natura
», in luogo del quale subno dopo « de Socrate, quod nota, idemj homo »
-^CmfPponat Zio- aagsH’S z zzi: zzi::‘oli.. „ . .» —«—» bocr “ m quod notul «
substantia », generulissimttm est. agli altri, può richiamarsi a passi isolati
di Boezio, quando si tratta di affermare che l’individuo, conside¬ rato come
individuo, non reca in sè nulla d indifferen¬ ziato, ch’egli abbia in comune
con altri individui, bensì, per così dire, egli è la differenza stessa,
laddove, quanto più si considera questo medesimo individuo come specie o come
genere, tanto in maggior numero si sco¬ prono in lui momenti indifferenziati
comuni, e allora si abbraccia, come concetto del genere o della specie, tutto
quel che c’è di elemento comune 134 ) : cosicché con ciò, poiché infine ogni
manifestarsi d’individui si può pren¬ derlo anche dal lato (status) del suo
genere più univer¬ sale, ci sono in verità tanti generi universalissimi, quanti
sono gl’individui: ora questi generi supremi si raggrup¬ pano a lor volta in
dieci classi (categorie), soltanto me¬ diante la considerazione di quel che
d’indifferenziato hanno in comune, ma d’altra parte tutt’insieme vengono a
formare da capo una unità universalissima, consistente m ) Ibid. : Socrates, in
quantum est Socrutes, nidlum prorsus indifferens habet, quod in alio
inveniatur; sed in quantum est homo, plura habet indifferentia, quae in Platone
et in aliis inve- niuntur. Nam et Plato similiter homo est, ut Socrates, quamvis non sit idem homo
essentialiter, qui est Socrates. Idem
de animali et substantia. Ma per ricondurre questo testo alla sua fonte,
bastano i seguenti passi di Boezio, ad Porph. a se trunsl., I, 11, p. 56 [ed.
Brandt, p. 166; PL, 61, 85J : Cogitantur vero univcrsalia, nihilque aliud
species esse putanda est, nisi cogilatio collecta ex individuo- rum,
dissimilium numero, substantiali similitudine: genus vero co¬ gitano collecta
ex spoderimi similitudine. Sed haec similitudo cum in singularibus est, fit
sensibilis: cum in universalibus, fit intelli- gibilis ; inoltre ibid.. Ili, 9,
p. 76 [ed. Brandt, p. 228; PL, 64, 111]: Individuorurn quidem simililudinem
species colligunl, spe- cierum vero genera. Similitudo autem nihil est aliud,
nisi quaedam unitas qual itati s ; c ibid., TU, 11, p. 78 [ed. Brandt, p. 235;
PL, 64, 114]: ea enim sola dividuntur, quae pluribus communio sunt; his enim
unum quodque dividitur, quorum est commune, quorum- que naturam ac
simililudinem continel. llla vero, in quibus com¬ mune dividitur, communi
natura parteciparti, proprietasque com- munis rei his, quibus communis est,
convenit. Al vero individuorurn proprietas nulli communis est. Qui cioè è
abbastanza chiaramente preannunriato così il simile o commune, come anche il colligere
(nota 136). 17. — C. Pbantl, Storia della logica in Occidente, II.CARCO prantl
ili ciò che son proprio essi 1 elemento comune e indif¬ ferenziato 135 ). Nella
stessa maniera si configura poi anche la rela¬ zione predicativa, poiché,
mentre l'individuo è sempre soltanto il suo proprio predicato, quell’aspetto
suo, che viene inteso come specie o come genere, può recare con sè un
riferimento reciproco ad altri individui: cioè, p. es., Tesser uomo, di
Socrate, è predicato (inhaeret) anche per Platone, e viceversa: e questo esser
genere, dell’in- dividuo, è concetto collettivo (colligitur), cosi per que¬ sto
stesso individuo come anche per gli altri della me¬ desima specie 13 °) —
insomma il rapporto dell’universale e del singolare si riduce a un « in quntum
», e, non es¬ sendoci nè un puro universale nè un puro individuale, dipende
dalla diversità del punto di vista (diversus re- spectus), che l’universale
venga considerato come singp- lare, e il singolare come universale 13T ). [§
25. — Adelardo da Bath: intonazione platonica DA LUI DATA ALLA TEORIA DELLA
INDIFFERENZA]. - Ora U5 ) Jbid., p. 519: Solvunt.... illi dicentes:
generalissima quidem infinita esse essenlialiter, sed per indifferentiam decem
tantum ; quot enim individua substanliae, tot et sunt generulissimae
substantiae. Omnia lamen illa generalissima generalissimum unum dicuntur, quia
indifferentia sunt. Socrates enim in eo quod est substantia, in- difjerens est
cum qualibel substantia in eo statu, quod substantia est. ”“) Ibid.: Sed et hi
dicunt: Socrates in nullo slatti aliati inhae¬ ret nisi sibi essenlialiter; sed
in statu hominis pluribus dicitur in- haerere, quia olii sibi indifferentes
inhaerent; eodem modo in statu animalis.... (p. 520) Dicunt ita: Socrates, in
quantum est homo, de se colligitur (si ponga mente a questa espressione) et de
Platone caelerisque; unumquodque individuimi, in quantum est homo, de se
colligitur. ls, > Ibid., p. 521: Itti tamen non quiescunt, sed dicunt:
nullum singulare, in quantum est singulare, est universale, et e converso; et
cum universale est, singulare est universale, et e converso. — Ibid., p. 520:
Negant hanc consequenliam € si est universale, non est singulare». Nam
imposilione suae sententiae habelur: omne universale est singulare, et omne
singulare est universale diversis respcctibus. questa dottrina dell’
indifferenza viene tuttavia a sua volta ad armonizzare infine con il principio
« Singultire senti tur, universale intelligitur », sicché le era dato di
trovare un appoggio anche in Boezio (Sez. XII, nota 91), e comunque si poteva
ammettere che per noi quaggiù, in questa valle di lacrime, gli universali
soltanto come individui hanno una esistenza percettibile, mentre va
riconosciuta a essi in verità una realtà intelligibile: stando così le cose,
anche i Platonici, particolarmente per via di quella tendenza dell’ individuale
a deviare all’insù, « lasciando » [relinquere] le sue caratteristiche
singolarità, potevano prender gusto alla teoria della indifferenza, mentre
nello stesso tempo gli Aristo¬ telici erano inclini a por mente in essa alla
relazione scambievole tra universale e particolare, come anche al conto in cui
quella tiene la operazione suhbiettiva dell’intelletto (di quest’ultimo modo di
vedere trove¬ remo un esempio appresso, note 432 s., in imo scolaro di
Abelardo). S’intende pertanto come Adelardo da Bat li, il quale compose intorno
al 1115 [tra il 1105 e il 1116] imo scritto De eodem et diverso, che aveva per
fondamento il platonismo 138 ), credesse di potere, proprio con la dottrina
della indifferenza, com¬ porre il contrasto fra Platone e Aristotele. Si
lamenta Adelardo dell’aspro contrasto fra opposte tendenze, nel campo della
logica, come pure della mania d’innova¬ zioni dominante al tempo suo 13,) ), ma
è d’opinione che, lss ) V. sul conto suo maggiori particolari nelle Recherches
cri- tiques dello Jourdain (2* ed. 1843, p. 26-7, 97-9 e 258-277), dove si
riproducono tradotti, di su un manoscritto parigino, notevoli fram¬ menti di
questo libro. [Ma ora del trattato di Adelardo è stato pubblicato integralmente
il testo originale, a cura di H. Willner, nei Beitriige del Baunikcr, IV, 1,
Miinster, 1903, p. 3-34]. “”) Ibid., p. 262: L'un prétend qu’on doit partir dcs choses sen- sibles
, l'autre commence par les choses non sensibles. Celui-là sou-
tient que la
Science n'est que dans les premières, cclui-ci qu’elle est. hors des dernières;
ils s’inquiètent aitisi mutuellement, à fin qu’aucun d’eux ne s’altire la
confiunce.... (p. 263) A qui donc faul-il con il venir
bene in chiaro di quel che concerne gli universali, si potrebbe appianare la
contesa 140 ). Intorno ai concetti di specie e di genere, egli si esprime qui
in perfetto accordo con la teoria della indifferenza, anzi facendo pereino uso
quasi degli stessi termini (p. es. diversus respectus, oblivisci, non attendere
ecc.), sicché può ritenersi che il nostro informatore su ci¬ tato [v. s. la
nota 133] avesse sottocchio lo scritto di Adelardo, non essendoci altra
variante, se non che qui non è messo in campo il concetto di status, ed è forse
dato un certo maggior peso alla denominazione 141 ). Ma croire d'entre ceux qui
tourmenle.nl nos oreilles de leurs innova- tions journalières, qui cheque jour
naisscnt pour nous, nouveaux Aristotes et nouveaux Piatomi, qui prometterà
également et les choses qu’ils savent, et celles qu’ils ignorent? Ili testo
originale, ediz. Willner, p. 6, suona così: « Alius enim a sensibilibus inve-
sligundas (se. res) esse censuil, alter ab insensibilibus incepit; alius eus in
sensibilibus tantum esse arguii, alter praeter sensibilia etiam. esse
divinavit. Sic dum uterque alterum inquietat, neuter fidem adipiscitur.... (p.
7) Cui tandem eorum credendum est, qui cotidia- nis novitatibus aures vexant.”
Et assidue quidem etiam nunc cotidie Platones, Aristoleles novi nobis nascuntur,
qui aeque ea, quae nc sciant, ut et ea, quae scianl, sine frontis iacluru
promittant.... » |. M “> Ibid.,
p. 267: L’un d’eux (cioè Platone e Aristotele), tran- sporté par l’élévation de
son esprit et les uiles qu’il semble s’ètre créés par ses efforts, a entrepris
de connuilre les choses par les principes eux-mémes ; a esprime ce qu’ils élaient
avant qu’ils ne se reproduisissent dans les corps, et a definì les formes
archétypes des choses. L’autre, au conlraire, a commencè par les choses
sensibles et composées ; et puisqu’ils se rencontrent dans leur route, doit-on
les dire opposés? Si l’un a dit que la Science étuit hors des choses sen¬
sibles, et l’autre, qu'elle était dans ces mémes choses, voici coni¬ mela il
jaul les interpréter. [Ed. Willner, p. 11: « Unus eorum meri- lis altitudine
clatus pennisque, quas sibi indui obnixe nisus, ab ipsis iniliis res cognoscere
aggressus est, et quid essent, antequam in corpora prodirent, expressit,
archelypas rerum formas, dum sihi loquilur, definiens. Alter autem.... a
sensibilibus et compositis orsus est. Dumque sibi eodem in itinere obviant,
contrarii dicendi non sunt.... Quod autem unus ea extra sensibilia, alter in
sensibilibus tantum existere dixit, sic accipiendum est. »1. «*) Delle parole ohe ora fanno immediatamente seguito
(p. 267-8 del Jourdain), FHauréau (De la philos. scol., I, p. 255 IHistoire de
la phil. scol.) riproduce il testo latino origi¬ nale [che qui si riferisce
secondo la ediz. Willner] : Genus et species — de his enim senno est — etiam
rerum subiectarum nomina sunt. fan poi seguito, secondo lo spirito del
platonismo, espres¬ sioni di lamento, perchè agli uomini runiversale si pre¬
senta oscurato dalla indispensabile percezione sensibile, mentre gli
universali, nella loro pura semplicità, esi¬ stevano originariamente soltanto
nel No0{ divino 11- ); e*a questo si connette subito la strana affermazione,
che proprio perciò hanno ragione tutti due, così Aristotele, il quale ha
trasportato gli universali in quella sfera, cli’è la sola dove sieno a noi
accessibili, come anche Pla¬ tone, che li confina là dov’essi hanno la vera
loro realtà, che insomma entrambi, mentre nella maniera di esprimersi sembra si
contraddicano, nel merito si trovan d’accordo 143 ). Per arrivare a questa
conciliazione, Ade- Nam si res consideres, eidem essentiae et generis et
speciei et indi¬ vidui nomina imposita sunt, sed respectu diverso. V olcntes etenim philosophi
de rebus agere secundurn Itoc quod sensibus subiectae sunt, secundurn quod a
vocibus singularibus notantur et numeraliter diversae sunt, individua vocarunt,
se. Socratem, Platonem et celeros. Eosdem autem altius intuente s, videlicet
non secundurn quod sen- sualiter diversi sunt, sed in eo quod notantur ab liac
voce « homo », speciem vocavertuti. Eosdem item in hoc tantum, quod ab hac voce
« animai » notantur, considerantes genus vocaverunt. Nec tamen in
consideratione speciali jormas individuales tollunt, sed obliviscuntur, cum a
speciali nomine non ponantur, nec in generali speciales oblatas inielligunt,
sed incsse non attendunt, vocis genendis significatione contenti. Vox enim haec « animai » in re illa notai substantiam
cum animatione et sensibililate ; haec autem « homo » totum illud et in¬ super
cum ralionulitale et mortalitate: « Socrates » vero illud idem addila insuper
numerali accidentium discrelione [ed. Willner, : Assueti enim rebus . cum
speciem in- tueri nituntur, eisdem quodammodo caliginibus implicantur nec ipsam
simplicem notam.... contemplari nec [350] ad simplicem spe- cialis vocis
positionem ascendere queunl. Inde quidam, cum de universalibus ageretur, sursum
inhians « Quis locum earum [se. vocimi] mihi ostendet? », inquit. Adeo rationem
imaginatio pertur¬ bai.... Sed id apud mortales. Divinae enim menti.... praesto
est muteriam sine formis et jormas sine aliis, immo et omnia cum aliis....
distincte cognoscere. Nani et antequam coniuncta essent, universa quae vide?in
ipsa noy simplicia erant [ed. Willner, p. 12]. lbid.: Nunc autem ad propositum
redeamus. Quonium igitur illud idem, quod vides, et genus et species et
individuimi sit, merito ea Aristoteles non nisi in sensibilibus esse proposuit.
Sunt etenim ipsa sensibilia, quamvis acutius considerata. Quoniam vero ea, in-
lardo non deve davvero essersi molto stillato il cer¬ vello 144 ). [§ 26. —
Gauslenus o Joscellinus da Soissons: sua idea del colligere ]. — Un modo di
vedere analogo al principio della teoria della indifferenza, sebbene il metodo
seguito fo9«e alquanto diverso, potrebbe ravvi¬ sarsi nella opinione di
Gauslenus o Joscelli¬ nus da Soissons (dove fu vescovo dal 1125 [1122] al
1151), il quale ritiene cioè che gli universali non si trovano già
negl’individui presi per se stessi, bensì com¬ petono a questi, solamente in
quanto l’individuale viene raccolto in una unità (in unum collectis ) 145 ) ;
poiché questa è ima tesi che sarebbe perfettamente in armo¬ nia con il
principio su riferito (nota 133), vale a dire che esistono esclusivamente
individui; soltanto che il formarsi degli universali nel pensiero umano sarebbe
ottenuto qui non già con mi lasciar da parte [(re/in- quere ) le differenze
individuali], bensì fin da principio con un metter assieme ( colligere ), del
quale infine non poteva pur fare a meno neanche la teoria della indiffe¬ renza
(nota 136). Ma sopra la opinione di Gauslenus non sappiamo assolutamente nulla
di più preciso 14e ) : quantum dicuntur genera et species, nemo sine
imaginatione presse pureque intuetur (qua pertanto troviamo veramente «li già
la « ignota cosa in sé»), Plato extra sensibilia, scilicet in niente divina, et
con- cipi et existere dixit. Sic viri illi, licet verbis contrarii videantur,
re lamen idem senserunt [ed. Willner, p. 12], Tanto più che poteva ben essergli
accessibile, almeno attra¬ verso Agostino (de civ. Dei, Vili, 6 f?j), il noto
passo ciceroniano dello stesso tenore ( Acad. Prior., I, 6 Tv. anche ih., 41,
relativa¬ mente ad Antioco [d'Ascalonal). Abbiamo veduto più sopra (nota 66)
come anche Bernardo da Chartres si sforzasse di conciliare Pla¬ tone e
Aristotele. ’“) Vedi la fonte più sopra, nota 68. “*) Poiché, se H. Bitter, che
sopra Gualtiero da Mortagne, Adelardo da Balli ecc. ci dà notizie, in parte
prive della necessa¬ ria precisione, in parte addirittura erronee, vuole
senz’altro riven¬ dicare a Gauslenus lo scritto De generibus et speciebas, per
indurci e mentre da un lato già molto
avanti abbiamo veduto (Sez. prec., nota 175) cbe anche il realista Ottone da
Cluny si serviva di una espressione analoga, e anzi an¬ che Giovanni da
Salisbury sembra riconoscere in Gau- eleno un realista (il che tuttavia non ha
forse grande importanza: v. sopra le note 70 e 85), d’altro lato può darsi che
soltanto la separazione degli universali da¬ gl’individui singoli sia per noi
il principale motivo che c’induce a raccostare la tesi di Gausleno alla teoria
della indifferenza: e a conferma di ciò potrebbe fors’anche valere il fatto,
ch’egli ha promosso il passaggio alla teo¬ ria nominalistica della « mancries »
(v. sopra la nota 68). Allora avremmo qui una ripetizione di quel che fu già
affermato, a proposito dei primi inizi di una formazione di contrastanti
tendenze dalla parte dell’indirizzo nomi¬ nalistico liT )Lo scritto anonimo de
generibus et specie- bus: punto di vista del suo autore: a) critiche ad al¬ tre
soluzioni del problema degli universali], — Ma se, relativamente agli
universali, l’ordine al quale dobbia¬ mo dar la preferenza (v. sopra la p.
208), ci porta a prender in esame le vedute di AEelardo, come pure di Gilbert
de la Porrée e di Giovanni da Salisbury, sola¬ mente qui appresso, in
connessione cioè con la totalità della loro dottrina, — per il momento ci
rimane da con¬ ati ammettere quest’attribuzione non basterebbero le poche parole
di quel l'unica fonte che possediamo intorno a Gauslenus, neanche qualora esse
fossero in armonia con le vedute dell’autore dello scritto Do gen. et spec. Ma
che un tale accordo sia molto dubbio, può risultare da quanto dovremo ora
subito dire, a proposito di quello scritto anonimo [che invece oggi si tende ad
attribuire ap¬ punto a Gauslenus o a un discepolo di lui. Del Ritter v. la 3“
parte della già cit. St. d. fil. cristiana, p. 381-6 (Allei, da Bath) e 397401
(Gualt. da Mortagne)]. Cioè il Pseudo-Rabano (Sez. precedente, nota 153) e quel
co,i detto Jepa (ibid., nota 170) si sono espressi, intorno al con¬ cetto di
genere, in maniera affatto simile. CABLO PRANTL siderare un unico scrittore
ancora, e questi è l’autore sco¬ nosciuto dello scritto «De generibus et
specie- bus» liS ), il quale ci mostrerà taluni punti di contatto o di affinità
con parecchie delle opinioni menzionate «in¬ ora. In origine il lavoro, nel suo
complesso, si presen¬ tava certo come ima monografia «De divisione » (cfr. le
note 118-128), assolutamente alla stessa maniera dello scritto omonimo di
Abelardo (v. appresso le note 277 e 353 ss.), e, come in principio del testo da
noi con¬ servato si tratta ancora della questione delle parti ori¬ ginarie di
ima totalità, così anche qui l’Autore, altret¬ tanto colto quanto acuto, ha poi
preso occasione, dalla discussione intorno alla divisione del genere, per
inter¬ venire nella disputa intorno agli universali, e lumeggiando criticamente
le opinioni degli altri, e ancora esponendo le ragioni delle sue proprie vedute
149 ). Per prima cosa combatte alla spiccia il nominalismo, con l’argomento che
le parole in generale non hanno un essere, poiché ciò che si genera soltanto
per suc¬ cessione temporale, non può costituire un tutto unita¬ rio: ima osservazione,
questa, che è volta appunto, per 14 “) Del libro, edito dal Cousin ( Ouvrages
inédits d'Abélard, p. 507-550) di su un manoscritto di St. Gerniain, manca il
principio; e il titolo, che è invenzione dello «tesso Cousin, si può forse con¬
tinuare a adottarlo, ma certamente fatta eccezione per l’aggiunta «Petti
Abelardi » ; poiché, che nel suo complesso non sia un’opera di Abelardo (v.
sopra la nota 49), se ne sarebbe dovuto accorgere anche il Cousin; la cosa
appare manifesta non soltanto da parti¬ colarità stilistiche (p. es.
Fespressioni « Attende » o « Solutio », intercalate dove si tratta di risolvere
obiezioni, o ancora, il carat¬ teristico termine « rationabile ingenium », clic
l’Autore mostra di prediligere, ecc.), ma anche da intrinseche divergenze che
modi¬ ficano la teoria stessa, e si acuiscono persino in forma polemica. Sopra
questo punto, a scanso di ripetizioni, mi limito a rinviare alle note seguenti,
150, 167, 168, e particolarmente 171, dove si vedrà addirittura designata come
« ridicola » una opinione che è di Abelardo. ’*) Con lo studio accurato di
questo scritto, potrebbero forse venir meno del tutto le censure enunciate a
suo carico da H. Rrr- ter (VII, p. 363), che lo giudica malcostrutto e oscuro.
quanto in essa si attiene alla funzione del pensiero nel giudizio, anche contro
le idee di Abelardo (v. appresso la nota 315) 15 °); ma poi la relazione tra
materia e for¬ ma, dominante nel passaggio dal genere alla specie, neanche
sarebbe già assolutamente possibile esprimerla con parole, poiché mai ima
parola è materia di un altra parola 151 ). D’altra parte, l’Autore combatte
anche il realismo di Guglielmo da Champeaux, poiché se l’universale, in tutto
quanto il suo contenuto, viene individualizzato nell’individuo (nota 105), non
soltanto questo mede¬ simo contenuto dovrebbe pur trovarsi da capo nello stesso
tempo tutto quanto in un altro individuo 152 ), ma dovrebbero altresì spettare
a tutti gl’individui anche le proprietà varianti o transitorie 153 ), e nioltre
nel concetto del genere si troverebbero poi simultaneamente anche gli opposti
154 ). E ugualmente egli assume più oltre un atteggiamento m ) Cousin, loc.
cit., p. 523: ltem voces nec genera sunt nec species nec universales nec
singulares nec praedicatae nec subjectae, quia omnino non sunt. Nani ex his,
quae per successionem fiunt, nullum omnino totum constare, ipsi qui hanc
sententiam tenent, nobiscum credunt. Quemadmodum statua constai ex aere ma¬
teria, forma autem figura, sic species ex genere materia, forma au- tem
differentia (v. la nota 160 s.), quod assignare in vocibus im¬ possibile est.
Nam cum animul genus sit hominis, vox vocis nullo modo est altera alterius
materia. m ) p. 514: Quod si ita est, quis polest solvere, quin Socrates eodem
tempore Romae sii et Athenis? Ubi enim Socrates est, et homo universalis ibi
est, secundum totani suam quantitatem infor- matus Socratitate.... Si ergo res
universalis, tota Socratitate affecta, eodem tempore et Romae est in Plutone
tota, impossibile est, quin ibi etiam eodem tempore sii Socratitas, quae totani
Ulani essentiam conlinebat. Ubicumque autem Socratitas est in homine, ibi Socrates est: Socrates
enim homo Socraticus est. Ibid.
Il passo si trova citato già più sopra, n. 129. ”*) p. 515: Quam statim enim
rationalitas illam naluram tangit, se. animai, tam statim species efficitur, et
in ea rationalitas funda- tur. llla ergo totum informat animai.... Sed eodem
modo irrationa- lilas totum animai informat eodem tempore. Ita duo opposita
sunt in eodem secundum idem. polemico contro la teoria della indifferenza, cosi
attac¬ candola nel suo principio, cioè in quel tale concetto del « comune »
(nota 134) 155 ), come anche contraddicendo sia la opinione, che i sostenitori
di quella teoria profes¬ sano, relativamente al concetto collettivo (collidere,
nota 136) 15 “), sia del pari la conseguenza, che si ricava, e che consiste
nelTobliterarsi della differenza tra univer¬ sale e particolare 157 ). [b)
soluzione da lui stesso proposta ]. — La sua pro¬ pria opinione traspare già,
in primo luogo, dov’egli tratta della divisione all’infinito (note 126 s.), e
rico¬ nosce che una totalità può ancora continuar a sussistere, quand’anche una
sua parte perda la propria forma e subisca, quanto alla materia, ima
diminuzione 158 ), — e cosi pure particolarmente, in secondo luogo, dov’egli
esprime la idea, che due punti non vengono ancora a formare una linea, se non
c’è la cooperazione di una energia creatrice unitaria (una creatura ) 15B ).
Anche nella p. 519: Ncque enim Socrnles aliquam naturarti, quarti ha- beat,
fiatoni communicut, quia neque homo qui Socrales est neque animai, in aliquo
extra Socratem est. !M ) p. 520: Socrates.... lumen nullo modo de pluribus
colligitur, quia in pluribus non est. Già questo dovrebbe renderci circospetti,
nell attribuzione di tale scritto a Gausleno: ma v. appresso la nota 162. 15t )
P- 521: Al vero nec particuluritas nec universalitas in se transenni. Namque
universalitas potest praedicari de particularitate, ut animai de Socrate vel
Platone, et particularitas suscipit praedi- calionem universalitatis ; sed non
ut universalitas sit particularitas, nec quod particolare est, universalitas
fiat. [Queste parole fan parte di una eitaz. da Boezio, ad Ar. Praed., I, p.
120; PL, 64, 170]. P- 510: Non sequitur « si hic asser est, et medietas hujus
asseris est»; posset enim destrui medietas,.... non quanlum ad to¬ tani ejus
massam, sed quanlum ad formam, et tamen remanentibus ejus aliquibus particulis
non destrueretur hic asser, quoniam me- dietatis ejus materia, forma tantum
pereunte, tota non periret. P- 511 : Si quuelibet duo puncta proxime juncla
faciunt bìpunctalem lineam, quue sit una creatura, tunc habebit unum
fundamentum; sed una atomits non erit ejus fundamentum; jam polemica contro un emendamento [proposto per
sfuggire alle difficoltà] del realismo, egli risolutamente si attiene alla
similitudine derivata da Porfirio (Sez. XI, nota 44), e indi passata nelle
teorie di Boezio (Sez. xn, nota 97) : la similitudine, cioè, dell’opera d’arte,
sic¬ ché per lui il genere è la materia e la differenza è la forma, ma il
prodotto stesso, cioè la specie, nella quale la materia è il sostrato della
forma (formarti sustinet ), viene considerato come una unione permanente, e
desi¬ gnato anche con il termine « materiatum » 160 ) ; in luogo di questo
termine, d’altro canto, trovasi pure, ferma re¬ stando rigorosamente la idea di
parte, la caratteristica espressione « diffinitivum totum » J01 ). Ma un più
preciso fondamento a questa sua opi¬ nione egli lo dà nella maniera seguente:
Nell’individuo una certa «essentia», cli’è la materia, porta in sè ( su¬ stinet
) la forma della individualità, ed è composta con essa, dal che appunto si
genera la diversità degl’indi¬ vidui singoli; ora, proprio questa essenza, in
quanto la si trova non soltanto in uno o nell’altro individuo, ma nello stesso
tempo anche, come materia, in tutti quanti insieme, è la specie, la quale
pertanto, per molte che sieno le essenze singole ( essenrìaliter multa), viene
tutta¬ via designata come concetto collettivo ( collectio) con le enim esset
bipunctaliter linentum.... p. 513 : postarlius dicere quod ipsa bipunctaìis linea fundutur in illis
duabus alomis ut in sub- jeclis, non in subjecto. ’*’) p. 516: Sed dico: facta est species ex genere et
substanliali differentia, et sicut in statua aes est materia, forma autem
figura, similiter genus est materia speciei, forma autem differentia. Materia
est, quae suscipit formam. Ita genus in ipsa specie constituta for¬ mimi
sustinet. Nani et postquum constituta est, ex materia et forma constai, i. e.
ex genere et differentia.... p. 517: ontne materiatum sufficienter constituitur
ex sua materia et forma. ’") p. 522: Speciem ex genere et substanliali
differentia con¬ stare, ut statua ex aere et figura, alidore Porphyrio (in
Boezio, ad Porph. a se trinisi., IV, 11, p. 88 fed. Brandt, p. 268; PL, 64,
128]), constat. Itaque pars est speciei materia et similiter differentia. Ipsa
vero species est totum diffinitivum eorum. parole « un universale », ovvero «
una natura », press a poco come anche il concetto di «popolo» abbraccia molti
individui 162 ); non già viene cioè individualizzata in ciascun individuo
singolo la specie tutta quanta, bensì solamente una sua parte, cioè appunto una
sola siffatta essenza, la quale non è già identica alla totalità che co¬
stituisce la specie (concollectio), ma ha con essa in co¬ mune soltanto la
simile composizione o la simile ener¬ gia creatrice (similis compositio,
similis creatio ): onde neanche la similitudine con il popolo o con un eserci-
cito calza perfettamente, sussistendo tra l’essenze smgole e la loro totalità,
data quella somiglianza nella produ- zione, una maggiore identità di essenza
che non tra un soldato e l’esercito; tutta questa relazione si presta in¬ vece
meglio a esser paragonata con il caso di una massa di metallo piuttosto grande,
la quale in una delle sue parti può esser lavorata in forma di coltello, e
nello stesso tempo, in un’altra sua parte, in forma di stile 163 ). '«■-) p.
524; Quid nobis polius lenendum rideatur de his, Deo annuente, amodo
ostendemus. Unumquodque individuimi . ex materia et forma compositum est, ut
Socrates ex homine materia et Socra- titate forma; sic Plato ex simili materia,
se. homine, et forma di¬ versa, se. Platonitale, componitur; sic et singuli
homines. Et sicut Socratilas, quae formaliler constituit Socratem, nusquam est
extra Socralem, sic illa hominis essentia, quae Socralitatem sustinet in
Socrate, nusquam est nisi in Socrate. Ita de singulis. Speciem igitur dico esse
non illam esscntiam hominis solum, quae est in Socrate, vel quae est in aliquo
alio individuorum, sed tolam illam collectio- nem ex singulis tdiis [5251 hujus
naturae conjunc.tam. Quae tota colleclio, quamvis essentialiter multa sit, ab
auctoritatibus (cioè da Porfirio e Boezio) tamen una species, unum universale,
una natura appellarne, sicut populus (v. la Sez. precedente, nota 153), quamvis
ex multis personis collectus sit, unus dicitur. '«) p . 526: Speciem esse
dicimus multitudinem essentiarum in- ter se similium. ut hominem.... lllud
tantum humanitatis informatur Socratitate. quod in Socrate est. Ipsum autem
species non est, sed illud quod ex ipsa et caeteris similibus essentns
conficttur. Attende. Materia est omnis species sui individui et ejus formam
suscipit, non ita scilicet, quod singulae essentiae illius speciei informentur
illa forma sed una tantum, quae tamen.... similis est compositioms, prorsùs cum omnibus aliis
ejusdem naturae essenliis.... Neque....
diversum judicaverunt [se. auctores] unam essenJiam illius con- [Ora questa
medesima relazioue si ripete per il con¬ cetto di genere, essendo ciascuna
delle esscntiae, appar¬ tenenti alla totalità di una specie, composta a sua
volta di una materia e di una forma, con questa sola diffe¬ renza, che cioè la
forma qui non è più esclusivamente quella sola della individualità, ma involge
essa mede¬ sima in sè la pluralità delle differenze specifiche, cioè
sostanziali; ma quella materia come tale appare indif¬ ferenziata ( indifferens
) in quelle essenze singole, che, come materia, stanno a fondamento della
formazione della specie, e si chiama ora genere la multitudo dell’es- senze,
che possono far da sostrato (sustinere, recipere) alle differenze specifiche
164 ). E lo stesso può infine ripetersi anche relativamenteal « primo principio
», perchè le essentiae appartenenti a un genere, consistono a lor volta di
materia e forma, e sono, quanto alla materia, parimente indifferenziate
colleclionis a tota collectione, sed idem, non quod hoc esset illud, sed quia
similis creationis in materia et forma hoc eral cum ilio.... Massam aliquam
ferream, de qua fuciendi suiti cultellus et Stylus, videntes, dicimus: hoc
fulurum materia cultelli et styli, cum tàmen nunquam tota suscipiut formam
alterulrius, sed pars styli, pars cultelli.... (p. 527) Major.... identitas
alicujus essentiae illius collec- tionis ad totum, quarti alicujus personue ad
cxercitum; illud enim idem est cum suo tato, hoc vero diversum. — Inoltre p.
535: Hoc enim habet nostra sententia, quod animai illud genus in parte sui
suscipit rationalilalem et in parte irrationalitalem. 1M ) p. 525 : Item
unaquaeque essentia hujus collectionis, quae humanitas appellalur, ex muteria
et forma constai, se. ex animali materia, forma autem non una, sed pluribus,
rationalitate et mor- talitate et bipedalitate, et si quae sunt ei aliue substantiales.
Et sicut de homine dictum est, se. quod illud hominis, quod sustinet Socru-
titalem, illud essentialiter non sustinet Platonitatem, ita de animali. Nam
illud animai, quod formas [Cousin corregge: formami huma. nilatis, quae in me
est, sustinet, illud essentialiter alibi non est, sed illi indifferens est in
singulis materiis singulorum individuorum animalis. Hanc itaque mullitudincm
essentiarum animalis, quae singularum specierum animalis formas sustinet, genus
appellandum esse dico: quae in hoc diversa est ab illa multitudine, quae
speciem facit. Illa enim ex solis illis essentiis, quae individuorum formas
sustinent, collecta est; ista vero, quae genus est, ex his, [quae] diversurum
specierum substantiales differentias recipiunt. C (indiff erentes ), mentre
recano in sè, come loro forma, le differenze del genere, e così ancor una volta
si ar¬ riva a una multiludo di essenze, come al generalissi- mum, del quale
infine può ancora dirsi soltanto, che la sua materia è la « mera essentia » o
la sostanza stessa, mentre la sua forma è la susceptibilitas contrario- rum 165
). Così l’Autore, con il suo caratteristico potenziamento o incastramenti della
essenza, si accosta tuttavia ancora molto dappresso a Guglielmo da Cliampeaux;
pertanto non si può in verità dire di lui che, come Gauelenus, ab¬ bia staccato
l’universale dalPiudividilo (v. le note 145 s.), ma nello stesso tempo,
mediante i concetti di collectio e d’indifferens, egli viene a contatto con la
teoria della indifferenza, mentre quei concetti stessi, hanno certa¬ mente per
lui, in grado di gran lunga maggiore, una va¬ lidità obbiettiva. [c) dottrina
del giudizio ]. — Ma tanto più caratte¬ ristica è perciò la forma che deve qui
assumere la con¬ cezione della funzione logica subbiettiva, cioè del giudi¬
care, nei riguardi degli universali, mentre d’altra parte, soltanto con la
enunciazione del modo di vedere dell’Au- ’*) Ibid.: Item, ut usque ad primum
principium perducalur, sciendum est, quod singulae essentiae illius
multitudinis, quue ani¬ mai genus dicitur, ex materia aliqua essendo corporis
et formis substantialibus, animatione et sensibililale, constat, quae, sicut de
animali diclum est, nusquam alibi essentialiler sunt; sed illae in¬ differentes
jormas susdnent omnium specierum corporis. Et haec taliurn corporis essentiarum
multiludo genus dicitur illius naturae, quam ex moltitudine essentiarum
animalis confectam diximus. Et singulae corporis, quod genus est, essentiae ex
materia, se. aliqua essentia substandae, et forma, corporeitate Constant. Quibus
indif- ferentes essentiae incorporeitalem, quae forma est, species, susti- nent
; et illa taliurn essentiarum multiludo substantia generalissimum dicitur, quae
tamen nondum est simplex, sed ex materia mera es¬ sentia, ut ita [526] dicam,
et susceptìbilitate contrariorum forma constattore sopra questo punto, le idee
di lui trovano la loro esplicazione compiuta. Egli si lamenta della mancanza di
una definizione della relazione predicativa; poiché intenderla senz’altro come
inerenza obbiettiva, è un uso non giustificato, a prescinder dal fatto che la
inerenza stessa la si può prendere soltanto nel senso sumdicato di divisione
166 ) : e come ci si deve guardare dalle con¬ seguenze della teoria della
indifferenza, è in generale da respingere la identificazione di praedicari e di
esse, dal punto di vista del contenuto definitorio della specie 187 ) : — mia
osservazione, questa, che certamente è rivolta con¬ tro Abelardo (v. appresso
la nota 318), e più che mai assume il carattere di una espressione specificamente
polemica, allorquando, prendendosi posizione, come non si può disconoscere,
contro una teoria di Abelardo (re¬ lativamente ai « sumpta»: v. appresso la
nota 321), si afferma che tutte quante le denominazioni universali, sieno
aggettivi eieno sostantivi, si riferiscono indiret¬ tamente a forme obbiettive
166 ). Insomma, il giudizio ) p. 526: Audi et attende; praedicari quidem
inhaerere di¬ clini. Usus quidem hoc habet; sed ex auctoritate non imeni ■ con
- cedo tamen; inhaerere autem dico humanitatem Socrati, non quod tota
consumatili- in Socrate, sed una tantum ejus pars Socratitate mformatur (v. la
nota 163). - p. 531: Nasse debes quod nusquam, quid sii praedicari, piane dicit
auctoritas. Nani quod solet dici quod praedicari est inhaerere, usus est ex nulla
auctoritate procedens. , p ; 21 '■ ltem «pec'es in quid praedicatur de
individuo (que¬ st abbreviazione «praedicari in quid» la incontriamo qui per la
prima volta - efr. la nota 282: cioè nella traduzione di Boezio [in p. 527 8.: Sed, dicuril^.. « ralionale »
alterius nomen est, prò impositione scilicet animalis, et aliud est quod
principaliter significai, se. rationalitas, quam praedicat et subjicit; t homo non
asserisce mai che quel dato soggetto e quel dato pre¬ dicato, bensì asserisce
solamente che il soggetto va anno¬ verato fra quell’ essenze, che o son
costituite da una de¬ terminata materia, o sottostanno a una determinata forma
168 )! pertanto (e ad avvalorar le sue parole 1 Au¬ tore può persino
richiamarsi qui a un passo isolato di Boezio) il nome che significa una specie,
viene dato ap¬ punto soltanto ai rispettivi individui singoli, ma non mai alla
specie stessa 170 ); e per tal riguardo si distin¬ guono i sostantivi e gli
aggettivi, in quanto che quelli si riferiscono alla materia e questi alla
forma, sicché chi parlasse di un accidentale, cioè di un « adiacens » — ma è
proprio ancora Abelardo che fa così : v. ap¬ presso le note 283 s. —,
commetterebbe il più grande degli errori m ) ; ma se così stanno le cose per
quel che concerne il significato originario dei termini, modi di dire, come p.
es. « Uomo è un concetto di specie », sono soltanto espressioni traslate,
imposte dalla necessità 17 ). vero nihil aliud vel nominai vel significai, quam
illam speciem. Absit hoc; imo, sicut « Tallonale » et « homo», sic et quodlibet
aliud universale substantivum alterius nomen est, per impositionem quidem ejus,
quod principaliter significai. V. g.: rationale vel al¬ bum imposi timi luit
Socrati vel alicui sensilium ad nommundum propler formas, i. e. rationalitalem
et albedmem, quas principali- ter significant. . . . ’*) p. 528 : Itaque cimi
dicitur « Socrates est homo », lue est sensus «Socrates est unus de
materialiter constitulis ab homine».... Sicut cum dicitur « Socrates est
ralionalis », non iste est sensus « res subjecta est res praedicata », seti «
Socrates est unus de sub- jectis huic jormae, qvae est rationalitas ». ...
"») Ibid.: Quod aulem « homo » impositum sit lus, quae ma¬ terialiter
consliluiinlur ab homine, i. e. individuis, et non speciei, dicit Boethius, in
commentario super Calegonas, his verbis etc. (v. BOEZIO liti ir. praed.. II. p. 129); cfr. la
Se-/., precedente, nota 121. m ) Ibid.: Nomina illa tantum dicunlur
substantiva, quae im- ponuntur ad nominandum aliquem propter ejus malenam....
vel.... expressam essentiam .; adjectiva vero Ma dicuntur, quae ,mpo- nuntur
alicui propler formam, quam principaliter significai.... I\a quod dici solet,
adjectivum esse, quod significai accidens, secun- dum quod adjacet, et
substantivum, quod significai essentiam, ut essentiam, ridiculum est vel sine
inlellectu. '”) p. 529: Sciendum est ergo: vocabula, quae imposita sunl [d) propensione al platonismo ]. — Già da ciò
è ma¬ nifesto che l’Autore (in antitesi con Abelardo) discono¬ sce il valore
effettivo della sintesi che ha luogo nel giu¬ dizio, e, secondo lo spirito del
platonismo, isola le pa¬ role tutte quante, come imagini subbiettive di esem¬
plari obbiettivi: pensiero che non potrebb’enunciarsi con maggior chiarezza di
quel ch’egli stesso fa, quando p. es. dice : « razionale » non è il nome di ciò
che, come soggetto, sottostà al predicato della razionalità, bensi è il nome di
una entità, che vien costituita dalla « razio¬ nalità » 17S ) ; anzi, a questa
maniera, bisogna ch’egli con¬ cepisca il rapporto predicativo in guisa così
indetermi¬ natamente generica, ch’esso si trovi in generale a coin¬ cidere con
il prodursi del termine « significante », ed es¬ sendo quest’ultimo momento,
per il soggetto e per il predicato, il medesimo, la differenza tra uno e
l’altro si riduce a essere puramente esteriore e accidentale; ma, a tal
proposito, l’Autore si appoggia a un passo di Pri- sciano, dove, in base alla
terminologia generalmente adot¬ tata dagli Stoici (v. la Sez. VI, note 112
ss.), le parti- celle vengono denominate « syncategoreumata », dal che si può
argomentare che allora tutte le altre parole sono appunto categoreumata, cioè
predicati 174 ). rebus propter aliud significandum principaliter circa eas,
quando- que transjerunlUT ad agendum de principali signi ficatione ; ut cum....
translative .... dicilur « rationale est differentia » et « album est spe- cies
coloris i, nihil aliud intclligo quam « ralionalitas » et « al- bedo ». Sic....
cum dicilur « homo est species ».... Concedimus ita- que, hanc translationem
necessitate fieri. *”) p. 547: Rationale enim non est nomen subjecti
rationalitatis, sed rei quae a rulionalitale constiluitur, quae non est ipsum
animai. m ) p. 531: Mihi autem videlur, quod praedicari est principa¬ liter
signi ficari per vocem praedicatam; subjici vero, significavi principaliter per
vocem subjectam, et hoc quodammodo videor ha- bere a Prisciano, quod in
tractatu orulionis, unte nomen (cioè nel capitolo che precede la trattazione
del Nomen), dicit praepositiones et conjunetiones « syncategoreumata », i. e.
consignificantia. Scimus autem « syn » apud graecos « cum » praepositionem
[532] signifi¬ care, « categorare » autem « praedicuri » ; unde « categoriae »
« prne- 1S. — Questi syncategoreumaia die, presi dalla grainma. tica, son qui
messi in campo di passata, e che noi in questa Sezione incontreremo ancora
qualche volta (note 206, 348, 620), esercitarono più tardi, a partire da Psello
(Sez. seguente, note 9 e 92) e da Pietro Ispano (Sez. XVII, nota 256), un
influsso estremamente esteso: ma questo è im argomento che, com’è ben naturale,
dob¬ biamo riserbare al seguito della presente esposizione. Invece la
conseguenza che da ciò ricava qui il nostro anonimo Autore, conduce a un
platonismo, che deve farci ricordare da vicino lo Scoto Eriugena. Se cioè «
praedicari », a questa maniera, è la stessa cosa che « significari
principaliter », la funzione dell’in¬ telletto umano trapassa in quelle forme e
maniere di essere obbiettive, che stanno a fondamento degl’indi¬ vidui, poiché
il concetto si genera (intellectus consti - tuitur, generante) per mezzo della
parola, in vista del- l’universale obbiettivo 1 ”), e anche la inerenza, se con
essa si vuole, secondo l’abitudme tradizionale, identi- beare la relazione
predicativa, ha tuttavia appunto esclusivamente mi valore obbiettivo nel
processo del divenire delle cose ”•). Insomma si tratta soltanto delle
irifcantLl d ,"" ur - S .' td . em est «eategoreumata» quoti «si-
fótér» Til n d0m p « praedicari » quoti « significar, principa- vol i , S41 s „
,n SCUN ',°> II, 15 [ed. Hertz, voi I p. 54] suona così: Partes ignur
orationis sunt secundum dudecticos dune, uomo,, et verbum, quia hae solae eliam
per Te coniunctae plenum facium ortUionem, alias attieni partes « syncate-
goremata », hoc est consignificantia, appellabant). WiJJV i" 1 erl * «
praedicari. » quoti « si.gnificari princi¬ pali ’ q i SO r‘ m s, Z m J ìc
ationem recepit Aristoteles, juxta iUud albani mi significai, msi qualilatem
(Cai., 5: v. la Sezione IV nota 476; cosi si storceva qualsiasi testo a favore
del proprio perso’ " • m °'!° dl V e dere) : n Cu m enim album «subjectum
albedinis » nominando significa, illuni solam significationem notaviI.
Aristole- les m qua mtellectus constituitur per vocem.... Sicut ensis et g/a-
diuseumdem generant mlcllcelum, ita ilio duo nomina jacerent. ) p. 53.1: Quod
si «praedicari» quidem prò « inhaerere » ac- liPl ì q “° d ?* c ° ncedl ™us,
ncque enim bonum usimi abo- e lolumus sic dicendum est: omms natura, quae
pluribus in¬ olierei indivulins materuiliter, species est. nature » unitarie,
che stanno a fondamento delle cose: e, quando il concetto di natura viene
ridotto alla similis creatio (v. sopra la nota 163) o rispettiva¬ mente, per
mantener la separazione da altre formazioni, alla dissimilis creatio m ), a ciò
si connette una teoria platonico-mistica della Creazione, la quale qui non
c’in¬ teressa 17S ). Ma è da considerare, a questo proposito, che, da un lato,
secondo è stato detto più sopra, vien a essere posta massimamente in rilievo,
per la predicazione, la distinzione tra essentia materialis ed essendo forma-
lis 17 °), come pure, dall’altro lato, che nel rispetto onto¬ logico viene
attribuita una efficienza alla forma soltan¬ to 1S0 ) ; per tali ragioni va
combattuta quella opinione — la quale del resto appartiene del pari ad Abelardo
(v. appresso la nota 306) — secondo la quale il sommo genere ( genus
generalissimom) sarebbe la materia stessa, e pertanto le forme sarebbero le sue
specie prossime 181 ); OT ) 1 Ititi. : Hic aulem tantum agitur de naturis. Si
uutem quae- ras, quid appellem naturimi, exaudi: naturam dico, quicquid dissi¬
milis crealionis est ab omnibus, quae non sunt vel illud vel de ilio, sive una
essentia sii sive plures, ut Socrutes dissimilis crea- tionis ab omnibus, quae
non sunt Socrates. Similiter et homo spe- cies est dissimilis creationis ab
omnibus rebus, quae non sunt illa species vel aliqua essentia illius speciei.
Anche la obiezione relativa alla f enice, la quale esiste soltanto in esemplare
unico (v. la Sez. XII, nota 87), viene presa in ronsiderazionc, ma (p. 534) la
si rimuove, con la osservazione che la opposizione tra materia e materiatum (v.
sopra la nota 160) dev’essere tuttavia mantenuta nella sua uni¬ versalità.
™> p. 538-540. *'") P- 548 s. : Concedo, rationulilatem praedicari de
homine in substantia, ut animai, sed illud ut formalem essenliam, aliud [Cou-
sin corregge: animali vero ut materialem. Vere attieni assero, imi- Inni
simpUcem jormam de alio praedicari substanlialiter, quam de his, quae
formaliter constiluit. P- 549: Non est diversus effectus materiarum, imo forma-
rum.... Apparvi, quod ille effectus sequitur formas, et non maleriam. m ) p.
546: .... ne concedere cogamur, et muteriam substantiae generalissimum esse
genus, et susceptibilitatem contrariorum, et quaslibet simpliccs formas esse
species.... Respondendum est, quod in diffinitione generis intelligcndum est,
id quod genus est debere 276 e questo perchè, come s’è veduto (nota 165), già
nel sommo genere stesso l’Autore ravvisa un prodotto di ma¬ teria e forma, e
perciò per queU’ultima materia su¬ prema, cioè per la « mera essenza », altro
predicato non gli rimane all’infuori dal puro essere, vale a dire « est » 182 )
; precisamente alla stessa maniera che anche (v. la nota 170) quella essenza,
la quale, come materia, sta a fondamento degl’individui, non ha di già essa
stessa un nome che sia dato a lei quale predicalo, per¬ chè invece mi tale nome
collettivo viene predicato sola¬ mente dei rispettivi individui 183 ). Ma
quest’ultima considerazione viene ora estesa an¬ che alle forme, cioè alle
differenze specifiche; in un lungo dibattito, d’intonazione polemica
estremamente accentuata, contro la tesi usuale (Sez. XI, nota 44, e Sez. XII,
nota 87), si dimostra cioè la impossibilità che la differenza specifica venga a
cadere sotto la categoria della qualità, perchè allora la qualità dovrebbe
scom¬ porsi in due specie supreme, ciò sono la differenza e la qualità residua,
ma ciascuna di esse a sua volta potreb- b’essere costituita solamente mediante
mia differenza specifica, e quest’ultima d’altra parte dovrebbe pure ve¬ nir a
cadere parimenti sotto la categoria delle qualità, il che non le è possibile in
nessuna maniera, cioè nè come genere nè come specie o sottospecie; e così
anche, nemmeno in un’altra categoria ci può essere poi ima dif- praedicari de
pluribus speciebus proxime sibi supposids, quod, quia deest illi maleriae
[Cousin corregge: materia], idcirco non est genus. *) Ibid.: Possumus edam
dicere, quia illa mera essendo ad interrogadonem factum per quid convenienler
non respondetur.... Si ergo quaeritur «quid est [547] substantia »,
respondeamus «est». Neque enirn potest responderi per nomen « sub stantia »;
namque non est nomen nisi materialorum a substantia, vel ipsiits substan- dae.
Per transladonem supervacue responderi manifestum est. “’) p- 534: Opponetur:
illa essendo hominis, quae in me est, aliquid est aut nihil.... Respondemus,
tali essentiae nullum nomen esse dalum, nec per imposidonem nec per
transladonem.ferenza specifica, poiché ciascuna specie della qualità (e a
queste la differenza stessa dovrebbe ben appartenere) potrebb’essere soltanto
una differenza specifica nell’àm¬ bito della qualità stessa 18, II, p. 98; PL,
199, 640]: Sunt autem dubitubilia sapienti quae.... suis m ulramque parlem nituntur
firmamenti. Talia.... sunt, quae quaerunlur.... de materia et motu et
principiis corporum. de progressu multttudims et magnitudini sectione an
terminos omnino non habeanl (v. sopra le noie 125 ss.). de tempore et loco de
numero et mattone, de codoni et diverso, in quo plurima attrilio est, de
dividilo et individuo, de substanlia et forma vocis, de statu universalium , de
usu et fine orluque virlulum eie. logica, la tendenza propria di quell’epoca;
con ciò di¬ remmo di poter in pari tempo rendere compiuta la co¬ noscenza del
terreno, sul quale si esercita la operosità tal proposito, anzitutto le
Categorie, di fronte alle quali alcuni che ne hanno trattato, hanno assunto
invero di Abelardo. [a) sopra le Categorie]. — Per quel che riguarda, a un
atteggiamento svalutativo 18 “), già quei concetti pre¬ liminari di aequivocum,
univocum e denominativum (v. sopra la nota 93) hanno dato motivo a discrepanze
™°). Ma poi la contrapposizione di sostanza e accidente (Sez. XII, nota 90) fu
da taluni contestata, da altri invece o giustificata, limitatamente alle cose
naturali concrete, o riferita alla mera relazione predicativa (cfr. la nota
186), o anche, con uno scambio tra forma e accidente, tra¬ sportata nel
concetto di totalità costituita da parti m ). *'"l Lo stesso, Metal., IV,
2-1 ( Opp ., V), p. 181 [ed. Velili, p. 191J: Alti detrattimi Catliegoriis IPL,
199, 930J. *) lbid-, III, 2, p. 120 [ed. Wehb, p. 124; PL, 199, 893]: Ex
opinione plurima idem principtditer significala denominativa et ca a quibus denominuntur
(un’affermazione come questa, può es¬ sere stata fatta esclusivamente da
segnaci dell'indirizzo realistico). — Arali. . Dialecl., p. 481 : Alee
aequivoca ex sola debent praedU catione judicari ; sed nec unìvoca propler
eamdem communionis causarti.... Sani autem nonnulli, qui.... non ad ca, quibus
est impo- siturn vocabulum acquivocum et de quibus enuntiatur, respiciunt; imo
ad ea, ex quibus est imposilum ; ut « amplector », cum ad eamdem personam,
amplectenlem simul et umplexam. acquivocum dicatur, secundum diversarum
proprietatum diffinitioncs, uclionis scilicet et passionis, non ad personam
commune dicatur, sed ad prò- prietales, quas aeque designat. M Pseudo-Abael. De
inlell. (riferito dal CousiN, Fragments piti- losophiques, Parigi, 1840, p. 493
[Abael. Opera, II, p. 753]): Quae- ritur, un linee divisin, leonini qttae sunt,
aliud est substantia, uUud est accidens », sit sufficicns. Quod si concedatur,
tunc, cum Tulionuli- tas sit, opnrtet esse substantiam vel accidens. Si autem
accidens fuerit, potesl adesse et abesse....; quod falsum est.... Quidam
dicunt, quod de quocumque veruni est dicere « istud est una res», de eodem ve¬
runi est dicere, esse substantiam vel accidens. Hi tamen non conce¬ duti/, rem
imam debere dici, quod per opus hominum liabet exi- slentium, ut domus, nec
quod habet pnrtcs disgregalas, sicut popu- Anche la disamina delle singole
categorie diede pa¬ recchia materia a controversie, le quali non varcarono
tuttavia il limite di quel che si trovava negli scritti di Boezio. Così, per quel
che riguarda la relazione, la di- vergenza, che già si era manifestata fra
Platone e Ari¬ stotele, rispetto al modo d’intendere questa categoria, si era
trasmessa, attraverso i commentatori (Sez. Ili, nota 49; IX, nota 31; XI, nota
71), sino a farsi sentire anche nella discussione che s’incontra in Boezio
(Sez. XII, nota 93), e pertanto questo punto controverso torna a com¬ parire
anche qui I92 ). Si disputava altresì, se i concetti di somiglianza o di
uguaglianza non sieno da ascrivere alla qualità, piuttosto che alla relazione,
a quel modo che studiosi isolati assegnavano alla qualità persino la categoria
della situazione ( situs) 193 ). Ovvero si metteva hi dubbio che fosse giusto
considerare ubi e quando come categorie, dato che son ricavati dai concetti di
spazio e di tempo, i quali appartengono alla quantità, e lus.... Alti vero
duobus modis dicunl [754] divisionem sufficiente ni esse: praedicatione
scilicet, et continentia secundum naluram. Pre¬ dicanone quidem.... v. g.:
animalium aliud est rationale, aliud irra- ttonale ; haec divisto est
sufficiens praedicatione, quia de quocum- que poterit dici: «istud est animai»,
de eodem statim consequelur, esse vel rationale vel irrutionale.
Continentia.... ut tale sit exem- plum: « domus alia pars paries, alia tectum,
alia fundamentum ».... Accidens tamen ibi large accipitur prò forma. ) Abael,
Dialect., p. 201 s.: Quae quidem [ diffinitio ] ab alia in eo maxime diversa
creditur, quod itane Aristoteles secundum re¬ rumnaluram protulil, illam vero
Plato secundum conslruclionein nominum dedit.... Sunt autem qui quemadmodum
Platonicam diffi- nilionem nirnis laxum vituperata, ila et Aristolelicam nimis
strictam uppellant. ' (kid., p. 204: Sunt tamen, qui « acqualis et inaequalis,
simi- hs et dissimilis » inter qualitates contrarias recipianl. — p. 208: Hi
vero, qui similitudinem potius inter qualitates enumerant, ut Ma- gislro nostro
V. (v. la nota 102) piacili t. (La fonte di questa con¬ troversia è Boezio, p.
157, messa a confronto con p. 187 \in Ar Praed., II e III: PL, 64, 219 e 259]).
— Ibid., p. 201: Unus, memini, Magisler noster erat, qui positionis nomea ad
qualitates quasdam aequivoce detorqueret. sono pertanto in perfetto
parallelismo, p. es., con l’av¬ verbio interrogativo « qualiter » 104 ). O,
ancor una volta, si domandava quale fosse la corretta subordinazione dei
concetti di « morte », o di « sonno », e simili 1B5 ). Op¬ pure si discuteva
sul come vada inteso il magis vel mi- nus che compare sovente nelle Categorie,
se cioè la gra¬ duazione concerna puramente il sostrato, o puramente la
proprietà, o uno e l’altra al tempo stesso 106 ). Li tali occa¬ sioni poteva
anche venir fuori la distinzione tra i diversi indirizzi sopra la questione di
principio, in quanto che i nominalisti, p. es., designavano il concetto di «
ieri » come un Non-essere 1B7 ), o facevan valere il proprio lw ) Ibid., p.
199: Videntur autem nec generalissima esse « Ubi » vel « Quando », eo quod
prima principia non videantur. Quae enim ex alio nascuntur, prima non videntur
principia, sed ipsa quoque principia habenl; Ubi autem ex loco. Quando autem ex
tempore..,, originem ducimi.... Solel autem a multis in admiratione[m] ac quae-
si ione [ ni ! deduci, cur magis ex loci vel temporis udjaccntia praedi-
camenta innascantur, quum ex adhaerenlia aliarum specierum sire generum. Tarn
enim bene « Qualiter » unius nomiti generalissimi videtur, sicut « Ubi » vel «
Quando », cujus quidem species bene vel male dicerentur [Cousin: bona vel mala
dicereturl, sicut « Quando » heri vel nudiustertius, vel « Ubi » Romae vel
Antiochiae [200] esse. La fonte di questa controversia, — oltre che la Sezione
riguardante la quantità, e nella quale anzi locus e tempus hanno avuto una
speciale trattazione (Bof.zio, p. 146 [in Ar. praed.. Il: PL, 64, 205]), — è in
particolare il commento dello stesso Boezio, p. 190: « quando» et «ubi» esse
non polesl, nisi locus ac tempus fuerit [in Ar. praed.. Ili: PL, 64, 262], ”“)
Ibid., p. 402: Solel autem de morte et vita quaeri, utrum in privalionem et
habilum, un potius in contraria recipiuntur. — p. 406: Si.... f in dormiente ],
inquiunt, visio esset..., ridere eum oporleret. Si vero caecitas inesset,
nunqunm amplius ipsum ridere contingeret. “*) Gilb. Porret. de sex princ., 8
(puhhl. nella ediz. lat. delle Opere di Aristotele, Venezia, 1552, I, f.34) :
Dicitur autem « magis et minus suscipere » tripliciter. Aiunt enim quidam
secundum ere- mentum vel diminutionem eorum, quae suscipiunt, subiectorum.
Aliter autem et olii, ipsa quidem, quae suscipiuntur, in suscipiente diminuì et
crescere, annuntiant. Alii autem secundum ulrumque, am- borum diminutionem et
augmentationem [cfr. PL, 188, 1268. e la nota 21 di questa Sez.]. w ) Abael.
Dinlect., p. 196: Cum.... « Iteri » rei existentis de- signativum non
videatur.... Sed fortasse hi, qui magis in speciebus 282 CABLO PRANTL punto di
vista, anche in ordine alla relazione e agli op. posti, mentre allo stesso modo
operava, dal canto suo, la corrente realistica 19S ). Ma sembra che, più spesso
di tutto, si sia parlato della categoria della quantità, già per il fatto che
questa of¬ friva la opportunità di passare di nuovo alle questioni concernenti
il concetto di parte (note 125 ss.). Mentre i nominalisti intendevano i
concetti numerali in modo perfettamente analogo a tutto il resto [ intendi :
dei con¬ cetti], e perciò designavano i singoli numeri come spe¬ cie, il cui
genere è il concetto stesso di Numero I99 ), ciò era negato dai loro avversari;
secondo costoro infatti, mancava nei numeri quella essenziale unità di natura,
eh e necessaria per il concetto di specie o di genere, e per conseguenza i
numeri vanno semplicemente qualifi¬ cati come espressioni aggettivali di un
procedimento collettivo; quest’ultimo poi si applicava altresì a tutti quanti i
momenti della quantità, in quanto che a ima realtà sostanziale posson
pretendere soltanto i fonda¬ menti semplici della quantità, vale a dire i
concetti di rerum naturimi quarn vocabulorum impositionem attendimi, per * ^
Qunmduiji praesentem (idjacenliam designari volunt. ) lbid., p. 392: Quod qitidem
multos in hanc sententiam in- duxtt, ut contrarium nomen tantum universalium,
non eliam sitigli- larium confiterentur, albedinis quidem et nigredinis, non
hujus albedmis vel hujus nigredinis. Sic quoque et relutivum et « priva- lio et
habitus » nomina tantum universalium diclini. Relativa qui¬ dem.... tantum
universalìa dicebanl ex relatione construclionis. « Ha¬ bitus» quoque et « prie
alio » universalium tantum nomina diclini, eo quod in individuis non possimi
servaci. — lbid.. p. 398: Quidam talem eum (se. Boethium ) divisionali
invilisse dicunl, quod contra¬ ria alia siint genera, alia specialissima.
Specialissima vero sic subdi- viduniur, ut cornili alia sub eodem genere, alia
sub diversis con- trariis ponantur. ' ') lbid., p. 190: Hi vero, quibus
videtur. in speciulibus uut generalibus vocabulis non solimi ea contineri, quae
una sunt natu- raliter, sed magis ea, quae substantialiter ab ipsis nominantur,
pos¬ simi forlasse et istu (rior i singoli ronrrtli numerali) species appel¬
lare, quum videlicel magis logicum in impositione vocimi sequuntur, quam
physicam in natura rerum investigando.
punto, unità, istante, lettera [dell’alfabeto, come suono elementare],
luogo, ma tutto il resto si riduce a pure espressioni collettive 200 ); fu
altresì da alcuni fatto cenno della differenza che sussiste, rispetto alla
divisibilità, fra il concetto di tempo e quant’altre quantità ci sono, di¬
visibili e continue 201 ). [b) sopra la teoria del giudizio in generale]. —
Nella teoria del giudizio sembra essere stato spesso com¬ pendiato tutto quanto
il contenuto essenziale della lo¬ gica, entro i limiti in cui di questo si
faceva uso, sempli¬ cemente per la istruzione degli scolari più giovani; im¬
perocché si riduceva il libro De interpretatione in forma di compendi, di «
Introductiones » o di « sumrna artis », ”») Ibid., p. 188 Numentm autem
colleclionem unilatum de¬ terminimi....’ I ndo maxime Magistri nostri
sementiti, membri, con- firmabut, binarium, ternarium, caeterosque numeros
spectes numeri non esse, nec numerimi genus oorum, cujus videlicet res una
natu- r,diter non esset. Hae namquc dime unitates in hoc homine liomae
habitante, et in ilio qui est Antiochiae consistimi, atque lume bina- riunì
componimi. Quomodo una res in natura diceretur, aut quomodo ipsae spatio tanto
disluntes imam simili specialem seti generalem na- turam reci pieni? Linde
potius numeri nomen et binarli et ternani et caeterorum a collectionibus
imitatimi sumpta dicebant [così il codice: ma il C. legge « (Magister noster)
dicebal»]. — Ibid., p. 179 s.: Ilarum autem (se. qu.mtilalum) aline sunl
simplices, alme compositae. Simplices vero quinque dicunt: punctum scilicet.
uni- totem, instans quod est indivisibile lemporis momentam, dementimi quoti
est vox individua, simplicem locum.... Ilas autem tantum, quae simplices sunt,
Magistri nostri sementili speciales appellabili natu- ras, eo videlicet quod
sint unite nuturaliter, quae partibus careni, quae vero e* bis sunt compositae,
composita individua dicebat, nec una naturaliter esse....; mugisque eurum
nomina.... sumpta esse a collectionibus quibusdam.... ™) Ibid., p. 186: Cimi
autem res singulae sua habeant tempora in se ipsis jundata, sua scilicet
momento, suas horus, silos dies, rei menses, vel annos, omnes lumen dies simul
existentes, vel menses, vel anni prò uno accipiuntur.... (p. 187) In ttliis....
lotis, lotum po- situm ponil partem, et pars desimela perimit totum.... In
tempore vero e converso est, velati in die. Si enim prima est, dies esse
dicitur, sed non convertitur.... Al vero si dies non est, prima non est. sed
non convertitur.... In his itaque
totis, quae per unum tantum partem semper existunt, iUud, quod de inferenlia
totius et partis Boethms (de difj. top.. TI,
p. 867 [PL, 64, 1188]) docet, non admittunt.
e si mettevano assieme regole sopra le parti e le forme del giudizio, la
quantità, qualità ed equipollenza, il con- trano e il contraddittorio, la
verità e la falsità, la con versione e la modalità dei giudizi ecc., cercandosi
a que - sta maniera di meglio conformare, per così dire, il li. bro
aristotelico all’uso scolastico, e di apportarvi in vari mod! compimenti o
ampliamenti 202 ). Ma, per quest’ul¬ timo riguardo, nessuna più precisa notizia
ci è stata tra¬ mandata: che a tale lavoro si collegassero da capo altre
controversie sovra punti particolari, ci risulta invece an- i le t a e
ristrette fonti, a noi accessibili. Furon così sol- evale subito difficoltà,
già riguardo al concetto di vox significativa (Se*. XII, nota 109), e tali
difficoltà, relati¬ vamente alla propagazione del suono, arrivarono a un tale
colmo di astruseria, che alcuni finirono con il de- «ignare addirittura l’aria,
come ciò che ha la funzione di « significare » *). Non vale molto di più la
questione, QuiZ^n 135]: manifestiti* poteril nuilihet , mterpr.), compendiosius
et excepla reverenti vZborZL fn ZT’ T° d " quas Introduciiones foconi Vix
est Jn," l ‘ b "r rudintentìs > non doceat, adirai* aUis non
mtnTn^LlrS^a qmd nomea, ql ,id verbum, quid oratio none Urrunt ,taque quae
vires enuntiationom 1 orano, qU ae spectes eius, tate, q U ae determinate verae
sunt auUahà^ SOrtÌant “ T aut ( i ,lnlU team, quae consentiant sibi quae
dissentine? 11 ™ qu,bus , l
?qu>pol visim, coniunctim praedicenlur alt con? " ’ 9 “ ae P raed,ca ‘“
dU quae sii natura modalium et auae si et quae non >' il em n ni 11171 .
/> • * Quae smgularium contradìctio _ Pcriermeniis docet?"o'uis^'liimd?
*** quae vel Aristotile* in cairn totius
artìs sumZm Zfc, C ° nq “ lslta l « dicit? Omnes Cfr - ! qUÌaPP^’la noU 366.
/aC ‘ 7,7 "“ fra, „ b „ n j~ sollevata a proposito della unità della
significano, se cioè una parola possa « significare » anche le lettere da cui è
costituita 204 ). Poteva invece esercitare più profondo influsso, — sebbene non
ci sia stata tramandata notizia di ulteriori conseguenze —, la netta
delimitazione che si segnò, a pro¬ posito del nomea, tra significare e
nominare, in quanto che di quello è oggetto la universalità, e di questo il
singolare 205 ). E così pure, prima di tutto, — in occa¬ sione della
controversia, se le preposizioni e le congiun¬ zioni sieno parimente parole «
significanti », o non pos¬ sano invece assolutamente esser annoverate tra le
parti del discorso — grande importanza potè avere il contatto che si venne a
determinare tra i dialettici e i gramma¬ tici: di questi ultimi, taluni si
decisero, da un punto di vista unilaterale, per la seconda alternativa, ma
altri tennero conto anche degl’interessi della logica, rendendo con ciò
effettuabile una conciliazione, in base alla quale si potè almeno preparare a
quelle parti del discorso aeres..., ipsis etiam, quos reverberat, consimilem
soni formam attri¬ buita illeque fortasse aliis, qui ad aures diversorum
perveniunt. — p. 190: Nostri tamen, mcmini, sententia Magislri ipsum tantum aè-
rem proprie audiri ac sonare ac significare volebat. Cfr. qui ap¬ presso la
nota 499. ) lbid., p. 488: Totum constai ex suis parli bus, vox ex suis non
conslituitur significationibus. Et fil quìdem divisio totius in partes, vocis
vero [non] in significationes. Nam etsi hoc in quibus- dam vocibus contingat,
ut scilicet ex suis jungantur significationi- bus. ut hoc vocabulum quod est
xens» ex littcris suis, quas etiam significai, non tamen id ad naturam vocis,
sed totius referendum est; in eo enim quod ex eis constai, totum est earum, non
eas signi- ficans. Est etiam et alia quorumdam solutio, ut scilicet concedant,
nullam vocem conjungi ex signi ficationibus diversis, ad quas videli- cet
diversas impositiones secundum aequivocationem habeal. Ncque enim « eris » ad
quaelibet plora dicunt aequivocum, sed tantum ad divcrsorum subslantias
praedicamenlorum. linde de lilleris, quae in eodem clauduntur praedicamento.
aequivoce non dicilur. *“> J°«- Saresb. Metal., II, 20, p. 100 [ed. Webb, p.
104; PL, 199, 881] : Quod fere in omnium ore celebre est, aliud scilicet esse
quod appellativa significant et aliud esse quod nominant. Nominan¬ te
singularia, sed universalia significantur. (analogamente, si direbbe, al modo
tenuto dall’autore del De gen. et spec.: v. «opra la nota 174) il successivo
loro ingresso nella logica 20 °). Può essere ugualmente at¬ tribuita a im
influsso della grammatica (ed è possi¬ bile sia stato per opera di Bernardo da
Cliartres: v. la preced. nota d9) la introduzione di una terminologia, per la
quale giudizi, come ad es. «Uomo è un sostantivo», furon denominati «
materialiter im posila», ovvero giu¬ dizi « de significante et significato» 207
). Ma nei dibat¬ titi sopra la questione della essenza deiraffermazione e della
negazione, poteva ricomparire il contrasto fra opposti indirizzi, attenendosi
alcuni alla forma gramma¬ ticale, altri ai concetti, altri ancora alla realtà
obbiet¬ tiva 208 ). ) Abael. Dialect., p. 216: Praepositiones et conjunctiones
de rebus corion, quibus apponuntur, quosdum inlellectus facere viden- tur,
alque in hoc impericela canon significalo dicilur, quod... ipsu quoque res, de
qua inlellectus habetur, in hujusmodi dictionibus non tenelur stetti in
nominibus et eerbis, qtute simul et res de- monstrant ac..... I nde certu apud
grammaticos de praepositionibus sementili exlitit, ut res quoque eorum, quorum
vocabulis apponun- tur , ipsae destgnarent.... Vnde illa quorumdam
dialecticorum seti- tentia potior yidetur, qttam grammaticorum opinio, quae
omnino a parlibus orationis hujusmodi voces, quas signifieativas esse per se
non judicavit, divisti, uc magis ea quucdarn supplemento ac colli- gamenta (v.
la Sezione XII, note 43, 60 e 111) partirne orationis esse aicit.... (p. 217)
soni etiam nominili, qui omnino a significativi hujusmodi dictiones remorisse
diulecticos adstruant. Cfr. appresso le note 349 Reggi: 348] e 620. 1Q0
1J?"- 1 S . AK T B - MetaL ’ jfl,. 5 , P- 137 [ed. Webb, p. 142; PL, JU4J.
Interdum tamen dictionem rem esse contingit, cimi idem sermo ad agendum de se
assumitur, ut in his quae jtraecepto- res nostri materialiter dicebant imposi
la et dicibilia; quale est: «Uomo est nomea », «CurriI est verbum ». — Abael.
Dial... p 248- IJitidam tamen trnnsitivam grummaticam in quibusdam propositio-
m US esse volimi; qui quidem propositionum alias de consignifi- cantibus
vocibus ulias vero de significante et significato fieri diclini, ut soni dlae,
quae de ipsis vocibus nomina sua enunciant hoc modo « homo est nomea vcl vox
vel disyUabum ». Cfr. la nota 618. ) Abaei.. Dialect., p. 404: Quidam aiitem
per « jacere sub af- firmatioae et negatione » finitum et infinitum vocabulum
accipiunl.[c) sopra questioni particolari, attinenti alla teoria del giudizio].
— Anche a proposito di vari punti parti¬ colari, che si trovavano dibattuti nel
commento di Boe¬ zio, ci si decise senz’altro iu senso contrario all’autorità
di lui: così, p. os., riguardo alla unità del giudizio 2UB ), o relativamente
alla scomposizione del verbo in due ele¬ menti, la copula e un participio 210
), o a proposito di cpiei giudizi, nei quali 1 « est » non implica la esistenza
effettiva del soggetto 211 ), o a proposito della questione del rapporto
quantitativo tra soggetto e predicato 212 ), ut « sedet, non sedetti quidam
vero intellectus ab affirmalione et negatione generalos (v. la nota 175): sed nos
polius va, quae ab af- firmatione et negatione dicunlur, aceipimus, essentias
scilicel rerum, de quibus per affirmulionem et negationem agitar. Ma non si
riesce a intender bene Joh. Saie Metal., 11, 11, p. 81 Led. Webb, p. 83; IL,
199, 869]: expedit [ dialeclicu J quaestiones...; quale est: An affirmare sit
enuntiare (viceversa, se si potesse leggere « an titilli- tiare sit affirmare
», ci sarebbe qualche maggiore possibilità di con- getturare un significato),
et: An simili exture possit contradictio. •“) Abael. L)ial., p. 298: Sunt
aulem, qui udslruanl, diversa ac- cidentia unam enuntiationem lucere, cum tulio
sumuntur, quae ad diversa referuntur, veluti si dicatur : «/ionio citliaroedus
bonus» (v. Boezio, p. 419 [in de interpr., ed. secunda, V, 11; cdiz. Meiser, Pars Post., p. 363:
PL, 64, 573J). '") lbid., p. 219: Idem dicit « homo ambulata, quunlum prò-
ponit «homo est ambulatisi) (Boezio [ ib., V, 12; p. 390: PL, 64, 586], p.
429). Sed ad hoc, memini, magister nosler V. opponete so' let: si, inquit,
verbum proprium significationem inhuerere dicit, ve¬ runi autem sii, cam
inhuerere, projeclo ipsum verum dicit, ac sen- sum propositionis perfidi. ‘ ) Ibidem, p. 223 s.: Unde quidem, cum dicitur,
Homero quo¬ que defuncto, «Homerus est poiitu » (Boezio [//>., V, il; p.
3734: PL, 64, 578], p. 423).... «esse» quoque, quoil inlerponilur, in desi-
gnatione non existentium vqlunt accipi.... Nostri vero sementili Ma- Bistri non
secundum verbum accidentalem dicebat praedicationem, sed secundum tolius
construclionis significaturam, atque impro- priam loculionem.... Sed quaero in
ilJu significativa locutione, « Ho¬ merus est poeta», cujus nomea « Homerus»
aul « poeta» acci- piatur. At vero, si hominis, falsa est enunciutio, co
defuncto ', si vero poemutis.... est.... nova vocis aequivocalio. ' ) lbid., p.
247: In liis autem quae secundum accidens praedi- cunlur nec totani subjecti
substantium continent, sed in parte tan¬ tum subjectum attingunt (Boezio [in de
interpr., ed. prima, II, 11; ed. Meiser, Pars Prior, p. 159: PL, 64, 358], p.
263).... non est necesse, praedicatum vel majits esse subjecto vel aequale,
veluti cum dicitur « animai est homo », vel « quiddam animai est homo alla
quale questione potevan riattaccarsi pure sotti¬ gliezze grammaticali 213 ).
Anzi le opinioni furono divise, anche in ordine a quei cenni intorno al «
giudizio in¬ definito », con i quali Boezio aveva dato il compimento che ci
voleva allo scritto aristotelico De interpretatione (Sez. XII, nota 115),
essendo stato tale compimento da taluni giustificato, ma da altri respinto, — e
fra que¬ sti ultimi ci vien fatta menzione di un Magister « V. », autore di «
Glossulae super Periermenias » 214 ). Riguardo ai giudizi modali — v. la Sez.
XII, nota 119: il termine tecnico « modalis » appare ora piena¬ mente invalso
—•, si deve ravvisare veramente un modo di vedere individuale nell’
atteggiamento di alcuni, i quali deducevano i giudizi stessi dai giudizi
non-modali, in tal maniera che dalle parole « possibilmente » o « ne¬
cessariamente » rimanesse modificato non il contenuto di fatto, ma il senso
della enunciazione, — ovvero nel¬ l’atteggiamento di altri, i quali dicevano
che in tali giu- (cfr. Boezio ( iniroiì. ad cuthegoricos Syll.: PL, 64, 768],
p. 562). Quamvis tamen et hic quidam concedunt, animai quod subjicitur non esse
majus homine. Diclini cnim, quia animai, quod homo est, ibi subjicitur , quod
non est majus homine. “> J° H - Saresb. Metal., n, 20, p. 101 [ed. Webb, p.
105; PL, 199, 881]:.... quia « omnis homo diligit se». Quod si ex relativae
dictionis proprietate discutias, incongrue dictum forte causabaris et falsum;
siquidem.... sive collcclive sire distributive accipialur quod dicium est «
omnis », pronomen relativum « se », quod subiun- gitur, nec universitati
singulorum nec alicui omnium veraciter el necesse est, So- cralem non esse
equum, possibile est vel necesse esse non equum.... In.... universali bus....
non ita concedunt, ut videlicet tantumdem va- leat « non » ad «esse»
praepositum, quantum id [Cousin: ei], quod « esse » copulai compositum. "i
Ibid., p. 442: Sunt lamen quidam, qui nec discretionem ul- lam inler
categoricam et hypotheticam in disjunclione compositas habenl. sed idem dicunt
proponi, cum dicitur « Socrates est vel sa¬ nile vel aeger », et cum dicitur «
aut Socrates est sanus aut aeger »; ut scilicet omnis enunliatio, quae
disjunctas recipit conjunctiones, hypothetica credatur. Volunt itaque semper in
hujus modi catego¬ rici s. quae disjuncliones recipiunl, hypotheticae sensurn
intelligi.— veduti cum dicitur «Socrales est sanus vel aeger », tale est ac si
dicatur « aut Socrates est sanus aut Socrates est aeger. [d) sopra difficoltà
inerenti alla teoria del sillogi¬ smo ]. — Dalla sfera della sillogistica non
pos¬ siamo a tutta prima aspettarci ima così fatta letteratura sovra punti
controversi, perchè, mentre da un lato i relativi compendi di Boezio, essendo, per
così dire, puri formulari scolastici, non porgono occasione a diver¬ genze di
opinioni, dall’altro lato, come abbiamo veduto (qui sopra, note 8-34),
solamente a poco a poco si venne, appunto in quell’epoca, a conoscenza degli
Analitici ari¬ stotelici, i quali inoltre mancavano anche allora di mi apparato
esegetico, quale da gran tempo erasi avuto per le rimanenti parti della Logica.
Si trova tuttavia, al¬ meno in Giovanni da Salisbury, una notizia, dalla quale
sembra potersi argomentare che sia stato preso parti¬ colarmente in
considerazione quel tal passo estrema- mente difficile degli Analitici Primi,
concernente la con¬ versione dei giudizi modali (Sez. IV, nota 546), in quanto
che si trovò necessaria una particolare termino¬ logia ( materia naturalis,
contingens, remota), per signi¬ ficare i concetti, che ivi s’incontrano, di
quel eh’ è naturalmente determinato [tte^’jxcs], del possibile, e del
non-aver-luogo 219 ). Dalla medesima fonte appren¬ diamo altresì, che dei
sillogismi, già noti ad Abelardo ") Joh. Sar. Metal., IV, 4, p. 160 [ed.
Webb, p. 168; PL, 199, 918], dove in un sommario del contenuto degli Analitici
Primi si legge anche quanto segue: quid in loto esse aul non esse , quas prò -
positiones ad usum sillogisandi converti contingat et quas non; quidve optinent
in his quae modcrnorum (v. la nota 55) usti dicun- tur esse de naturali materia
aut contingenti aul remota. Quibtis praemissis, trium figurarum subneclit
rationes etc. La eennata tri- partizione poteva essere ricavata da Boezio (Sez.
XII, nota 119), il quale dal canto suo aveva attinto ad Ammonio (Sez. XI, nota
157); la terminologia di quest’ultimo passò nel Compendio di Psello (Sez. XV,
nota 14), dove il passo corrispondente presenta, nelle tra¬ duzioni latine, le
tre espressioni testé ricordate (Sez. XVII, note 38 e 155). Ci troviamo
pertanto, anche qui, dinanzi alla possibilità che verso la fine delI’XI secolo
si sieno fatti strada nell’Occidente latino sparsi frammenti della letteratura
scolastica bizantina. (nota 17), formati
da giudizi modali, fu ora fatto uso frequente, così per parte dei teologi, come
pure nelle scuole di dialettica 220 ). Un’argomentazione insidiosa, oc¬
casionalmente menzionata ima volta, e relativa alla pos¬ sibilità del futuro, è
d’imitazione ciceroniana 221 ). [e) sopra questioni di Topica ]. — Invece la
To¬ pica ebbe a godere ancor una volta di una più vasta e varia attività di
studiosi; e ciò risulta già in generale dal¬ l’opera di Abelardo, il quale, a
proposito dei singoli loci, si esprime in tal modo da indurci a ritenere
ch’egli abbia trovato dappertutto già pronto un numero determinato di « regole
» formulate, le quali rappresentavano la reda¬ zione, fatta nelle scuole, delle
notizie riferite da Boezio nel suo scritto De diff. top. 222 ); inoltre, a
partire dal tempo in cui fu tratta fuori novamente la Topica aristotelica (v.
sopra le note 28 s.), ci furono effettivamente alcuni, che tentarono di
arricchire questo ramo della dialettica con la invenzione di nuovi loci e di
nuove « regole » 223 ), Ibid. : Deinde habila modalium rutione transit ad
commix- tiones qitae de necessario sunt aut contingenti rum bis quae sunt de
inesse.... Expositores vero divinar paginae rationem modornm pernecessariam
esse diclini.... [169] Est enim modus, ut aiunt, quasi quidam medius habitus
terminorum (ofr. la Sez. XII, nota 150). Et prafecto, licei nullus modos omnes,
linde modales dicuntur, singu¬ ltitivi enumerare sufficiat, quod quidem nec ars
exigit (v. ibid., noia 163), lumen mugistri scolarum inde commodissime
disputant, Cfr. appresso la nota 623. Lo stesso, Polvcr.. II, 23. p. 125 [ed.
Webb. I, p. 132; PL, 199. 455] : Restai libi illius Stoici lui quaestio....
Quaerebat.... enim.... an posses aliquid facete eorum quae minime faclurus es
etc. Cfr. la Sez. VI, note 136 e 164. '“) Abael. Dialect., p. es. p. 334 (sunt
igitur quatuor hujus in- ferentiae regnine), p. 353 (regulae antecedentis et
consequentis), p. 375 (regidae ab interpretatìone), p. 376 (tres autem regidas
a ge¬ nere in usum duximus), e cosi via pereorrendo tutta la Topica. ■’l Joh.
Sar. Metal., Ili, 9, p. 145 [152]: Non omnes tamen locos buie operi (cioè BOEZIO,
de diff. top.) insertos arbitror, quia nec po- tuerunt, cum et a modernis,
huiiis praeeunte benefìcio, aeque necessa- rios evidentius cotidie docerì
conspiciam. — lbid., 6, p. 138 [1431: ma potè nello stesso tempo diffondersi
altresì una idea giusta del posto e della importanza della dialettica ).
Trasparivano tuttavia anche qui le differenze di ordine generale tra punti di
vista, quando da taluni erano posti unilateralmente in maggior rilievo i
concetti isolati, fatta astrazione dalla espressione verbale 225 ), da altri
in¬ vece s’insisteva solamente sopra la necessità interna del¬ l’ordine di
successione nell’argomentazione 22 “), mentre altri ancora, al contrario, ci
tenevano a veder presa in considerazione proprio la probabilità subbiettiva 227
). Ma c’erano poi varie controversie, che si collegavano anche a singoli loci o
a regole particolari 22S ). Non tamen huic operi (cioè alla Topica
aristotelica) tantum tribuo, ut inanem reputem operam modernorum, qui equidem
nascentes et convnlescentes ab Aristotile, inventis eius multas adiciunt
rationes et regulas prioribus aeque jirmus | PL, 199, 909 e 9011. V. appresso
la nota 413 a. “) Ibid., 5, p. 134 [ed. Webb, p. 139; PL, 199, 9021:... scienti
Topicorum.... ex opinione multorum dialeclico et oratori principu- liter
faciat. ™) Abael. Dialect., p. 426: Dieunlur in argumentis ea, quae a
propositionibus ipsis significanti^, ipsi quidem intellectus, ut qui- busdam
plucet, quorum conceptio, sine eliam vocis prolulione, ad concessionem alterius
ipsum cogit dubitanlem. **•) Ibid-, p- 427: Sunt autem, meniini, qui, verbis
auctoritatis nimis adhaerentes, ornile necessarium argumentum in se ipso ne-
cessarium dici velini. **) Ibid., p. 335: Sunt autem quidam, qui non solum
necessa- rias consecutiones, sed quaslibel quoque probabiles verus esse fa-
teanlur. Dicunl enirn, verilatem hypotheticue proposilionis modo in
necessitale, modo in sola probabilitale consistere; in qua quidem sentenliu
Magistrum etiam nostrum deprehensum dolco.... (p. 336) Dicunl tamen, quia omne
quod probabile est, verum est, saltem secundum eum, cui est probabile. *“) Così
taluni volevano che tra le maximae propositiones (Sez. XII, nota 165) fossero
annoverate anche le regole principali del giu¬ dizio categorico (Abael. Dial.,
p. 339 s.), e c’eran altri che vole¬ vano estenderle anche di più (ibid., p.
366): oppure si trasferi¬ vano l 'antecedere e il consequens nei [intendi: «si
allargava l'ap¬ plicazione delle regulae antecedenti et conseguenti, fino a
com¬ prendere anche le relazioni tra i »] singoli termini del sillogismo
(ibid., p. 353 s.), o si restringeva il locus a praedicalo puramente a giudizi
categorico-ipotetici (p. 381), mentre da altri lo si faceva valere soltanto
come principio di prova del locus a genere (p. 384); 293 U 29 . — Negli studi di logica, la
qualità conti¬ nua A RIMANER MOLTO AL DISOTTO DELLA QUANTITÀ]. - Ma riflettiamo
ora come quasi tutta la materia, che ave¬ vamo da presentar sino a questo
punto, si sia dovuto ricavarla da due scrittori soltanto, vale a dire Abelardo
e Giovanni da Salisbury, dei quali per caso ci sono con¬ servate opere di più
lunga lena, cosicché ci sarebbe co¬ munque da imparar ancora ben di più,
qualora si dispo¬ nesse di fonti più abbondanti: e riflettiamo così pure,
inoltre, che ciascuna delle opinioni sopra citate, relative a punti
particolari, ci permette di argomentare, per parte dello scrittore che se ne fa
sostenitore, un’opero¬ sità di studioso, estesa a tutta quanta la sfera della
lo¬ gica di quell’epoca; se terremo presenti queste conside¬ razioni, ci sarà
difficile andar tropp’oltre, nell’ imagi- narei la estensione dell’attività,
svolta in quel tempo, so¬ prattutto in Francia, nel campo della logica. Ben è
vero che, ad avvalorare, per così dire, una impressione gene¬ rale ben nota,
può darsi che, quanto a intensità, le cose andassero diversamente, perchè in nessuna
parte ab¬ biamo trovato, non che una concezione filosofica, nean¬ che segni di
effettiva originalità. Come in generale il Medio Evo era e rimase dipendente
dal materiale di una tradizione, imposto dal difuori, così anche le nu¬ merose
controversie attinenti alla logica, non prende¬ vano principio da un intimo
impulso, bensì si fondano sopra uno stimolo esterno, dato dal materiale della
tra¬ dizione scolastica, e bisognava, a così dire, che aspettas¬ sero questo
stimolo, per avere in generale occasione di inoltre, anche sopra questo stesso
ultimo /ocus, si dibatteron da rapo varie controversie, disputandosi cioè se
esso abbia validità incondizionata (p. 378), o sia da intendere soltanto in
senso cau¬ sale (p. 386): e controversie analoghe concernevano il locus ab ef¬
ficiente. con partecipazione anche di motivi teologici (p. 413), o il locus ab
interpretatione, trattandosi di decidere fino a qual punto coincida con la
etymologia. manifestarci. Così anche i
rappresentanti delle più im¬ portanti opinioni, caratteristiche dei vari
indirizzi, ab¬ biamo pur dovuto spogliarli della gloria di essersi aperti da sè
la loro strada; poiché certi passi isolati di Boezio, strappali dal contesto, e
che sono stati appunto oggetto di studio appassionato, ci si sono rivelati
(note 105, 129, 134, 170) come i punti di partenza, in base ai quali, a forza
di stiracchiare, è stato poi messo insieme il resto, E se in mani nostre
neanche Abelardo si sottrae forse a un simile destino (nota 286), non ne
abbiamo colpa noi, ma la ragione ne va rintracciata nella verità storica come
tale. [§ 30 . — Abei.ardo : a) suo ingegno: caratteristica ge¬ nerale], —
Proprio la considerazione ora esposta, che cioè in quell’epoca, da un lato, una
grande moltitudine di maestri si occupavano, discendendo sino ai più mi¬ nuti
particolari, del materiale di studi di logica, quale veniva tramandato, e che,
dall’altro lato, per l’appunto nella letteratura tradizionale tutto questo
genere di pro¬ duzione veniva a trovare le proprie condizioni, derivan¬ done il
suo proprio indirizzo — ci doveva già da prin¬ cipio indurre a procedere con
circospezione nel nostro giudizio sul conto di Abelardo (nato nel 1079, morto
nel 1142): e di fatto, a prender in esame più da presso l’opera sua in
connessione con quella dei contem¬ poranei, ci troveremo anche messi in guardia
contro ogni esagerazione nell’apprezzamento di lui 22B ). Mentre “) In
particolare gli studiosi francesi sembrano propensi a so¬ pravvalutare il loro
connazionale, e in ciò, fra i tedeschi, va per lo meno a pari con loro
[Federico Cristoforo] Schlossf.r [in un libro del 1807, su Ab. e fra Dolcino].
La vasta opera di Charles de Rémusat, Abélard, Parigi, 1845, in due voli., è,
per la parte bio¬ grafica, quanto di meglio possediamo, nella letteratura moderna,
sul conto di Abelardo: aH’inoontro, nella esposizione della dottrina, i
presupposti storici, consistenti nei movimenti spirituali generali, propri di
quell’epoca, son forse lasciati troppo nell’ombra, in con- cioè, riguardo
all’etica, ci compiacciamo di ravvisare e riconoscere in Abelardo un eretico
del tempo suo, e delle sue benemerenze di teologo 22Ba ) dobbiamo lasciare in-
vece che si occupi la storia della teologia, ci apparirà chiaro come, nel campo
della logica, egli non abbia esplicato un’attività più originale di forse cento
altri suoi contemporanei 23 °). È innegabile la sua grande vi¬ vacità
d’intelletto, e prima di tutto la sua straordinaria abilità nella forma
retorica di esposizione: anche alla dialettica, come a tutto ciò su cui metteva
le mani, si slanciò sopra con appassionato fervore, e si manifestò subito come
maestro estremamente suggestivo 231 ) ; la sua attenzione era qui
essenzialmente volta all’intento di fronto con le benemerenze personali di
Abelardo : a ciò si ag¬ giunge ancora, riguardo alla dialettica,
l’inconveniente già più sopra (nota 49, e cfr. la nota 148) rilevato con
espressioni di bia¬ simo. w ‘) Su questo argomento, v. la vasta opera di S.
Maht. Deutsch, Peter Abàlard: ein kritischer Theologe des 12. Jahrhunderts [P.
A.: un teologo critico del XII secolo], Lipsia, 1883. a ") Non s’insisterà
mai abbastanza nel ricordare che la nostra indagine si svolge tutta quanta
entro i limili segnati esclusivamente dal quantitativo del nostro materiale di
fonti. E tra Abelardo c gli altri dialettici dell’epoca sua sussiste qui una
differenza sol¬ tanto, che cioè di quello ci sono conservati casualmente
moltissimi scritti, si che di lui, per conseguenza, siamo in grado di ricono¬
scere e pienamente svolgere le idee fondamentali, più largamente ricostruite
nel loro ordine sistematico, mentre per gli altri non ci è possibile fare
altrettanto. Ma dobbiamo guardarci dal convertire in una obbiettiva superiorità
di Abelardo, questa circostanza favo¬ revole, che torna a vantaggio della nostra
esposizione. m ) Ch’egli sia stato scolaro di Roscelino, ma anche di Gu¬
glielmo da Champeaux, e che inoltre abbia cercato e trovato ispi¬ razione in
tutti gli altri eminenti maestri, si vede dalla nota 314 della Sezione
precedente, c dalle note 102 e 104 di questa. Del suo presentarsi come maestro
fa il racconto egli stesso, Epist., I, c. 2, p. 4 (Amboes.) [ed. Cousin, I, p.
4 c 6] : Perverti tandem Parisius... Factum tandem est ut supra vires aetatis
meae de ingenio meo prae- sumens, ad scholarum regimen adolescentulus
aspirarem, et locum, in quo id agerem, providerem ; insigne videlicet tunc
temporis Me- liduni castrum, et sedem regiurn.... (p. 5) Ab hoc autern
scholarum noslrarum lyrocinio [Amboes .: exordio] ita in arte dialeclica no¬
mea meum dilatori coepit, ut non solum condiscipulorum meorum, verum etiam
ipsius magistri (cioè Guilelmi Campellensis) fama farsi capire facilmente,
adattandosi egli, anche nella scelta del materiale, all’esigenze della
scolaresca ), ed è naturale che fosse perciò invitato sovente a esercitare a
profitto di altri il suo talento di maestro di logica **). Ma il nomignolo di «
Peripateticus Palatimis » [nativo di Palet o Palais] egli lo deve soltanto a
questo suo vir¬ tuosismo formale, perchè, da un lato, per i suoi contem¬ poranei
« peripatetico » e « cullor della logica » eran espressioni sinonime, nulla
conoscendosi in generale di Aristotele aH’infuori dall’Organon, e con quella
espres¬ sione volevasi soltanto significare uno che si occupasse molto
estesamente o con particolar efficacia di questi scritti aristotelici 2S4 ),
senza che con ciò si pensasse già a un pieno esauriente svolgimento del
principio aristote¬ lico; ma, d’altro lato, lo stesso Abelardo ha avuto pure
contrada paulatim extinguerelur.... (p. 6) [6] 1 unc ego Melidunum reversus, scholas ibi
nostras, sicut antea, constitui.... Meliduno
l'ari- sius redii . extra civilatem in monte S. Genovejae, scholarum no-
slrarum castra positi [PL, 178, 115-7 e 120J. “) Joh. Saresb. Metal., Ili, 1,
p. 116 (ed. Giles [cd. Webb, p. 120]): Sic omnem librimi legi oportet, ut quam
facillime potasi eorum quae scribuntur hubeatur cognitio. Non enim occasio
quae- renda est ingerendue difficultatis, sed ubiqiie facilitas generando.
Qttem morem secutum recolo Peripateticum Palatinum. Inde est, ut opinor, quod
se ad puerilem de generibus et spedebus, ut pace suorum loquar, inclinavit
opinionem: malens instruere et promo¬ vere suos in puerilibus quam in gravitate
philosophorum esse obscu- rior. Faciebat enim studiosissime quod in omnibus praecipit
fieri Augustinus, i. e., rerum intellecltii serviebut I PL, 199, 890-1J. at )
Abael. Introd. ad llteol., I, Pro!., p. 974 (Amboes. [ed. Con¬ fiti, II, 31):
Ad has itaque dissolvendas controversias cum me suf- ficere arbitrarentur, quem
quasi ab ipsis eunubitlis [Cousin: inai- nabulis] in Philosophiae studiis ac
praecipue Dialecticue, quae om¬ nium mugislra ralionum videtur, conversatimi
sciant, atque experi¬ mento, ut aiunt, didicerint, unanimiter postulane, ne
talenlum miht a Domino commissum multiplicare differam. — Ep. 1, c. 2, p. 5 [51
: Non multo aiitem interjecto tempore, ex immoderata studii afflic- lione
correptus infirmitate, coactus sum repatriare, et per unnos atiquot a Francia
quasi remolus. quaerebar ardentius ab iis, quos dialectica sollicitabat
doctrina [PL, 178. 979 e 118]. =“) Joh. Saresb., loc. cit., I, 5, p. 21 [171 :
Peripateticus Pula- tinus, qui logicue opinionem praeripuit omnibus coetuneis
suis, adeo ut solus Aristotilis crederetur usits colloquio [PL una felice idea,
a tenor della quale poteva, rifacendosi da un unico passo che si trova in
Boezio [v. appr. nota 2861, «connettere ad esso il riconoscimento della giu-
"tozza della teoria aristotelica del giudizio; ma invece e;>/., p. 226,
Abelardo dice, nel passare da questa prima parte principale alla seconda:
Hactenus quidem, Dagoberte frater, de partibus orationis , quas dictiones
appeUamus , sermonem texuimus. Quorum tractatum tribus vóluminibus
comprehendimus. Primarn nam- que partcm libri Partium ante Praedicamenta
posuimus ; dehinc autem Praedicamenta submisimus , denique vero
Postpraedicamenta novis¬ sime adjecimus, in quibus Partium textum complevimus.
Come ven¬ gano intesi gli Antepraedicamenta , apparirà chiaro appresso; ma
intanto nel procedere dai Praedicamenta ai Postpraedicamenta , si dice (p.
209): Evolutus superius textus ad discretionem significano- nis nominum et
rerum natura s, quae vocibus designantur , diligenter secundum distinctionem
decem praedicamentorum aperuit. Nunc autem ad voces significativas recurrenles
, quae solae doctrinae deserviunt , quol sint modi significanti studiose
perquiramus ( similmente alla p. 245: Non itaque propositiones res aliquas
designant simpliciter quemadmodum nomina): e pertanto, alle p. 209—226, segue
non già, come fa ritenere il titolo, arbitrariamente imposto dal Cousin, la
Sezione de intcrpretationc , bensì solamente una trattazione delle parti della
proposizione. Con questa denominazione e suddivisione della prima parte
principale si accordano poi anche le citazioni che Abelardo fa di se stesso,
sia che rinvìi alla Sezione complessiva, denominandola Liber partium (p. 377 :
sicut in libro Partium do- cuimus , e p. 477: sicut in libro Partium , tractatu
speciei , disseruimus ), sia che ricorra proprio a quella denominazione nel
menzionar pure le suddivisioni (p. 174: sicut secundus anle-praedicamentorum de
differentia continet; — p. 249: Nam« homo mortuus» ....compositura nomen
est.... sicut in primo Posl-praedicamentorum ostendimus : e questa citazione,
al pari delle due altre dello stesso tenore, alle pa¬ gine 296 e 299, si
riferisce alla p. 214; negli altri due rinvìi—p. 204: sicut in Libro Partium
ostendimus , e p. 205: in Libro Partium requi - rantur — va certamente letto
primo , anziché libro). Dei resto, con tutto questo sistematico rilievo dato
alle « parti del discorso », riu¬ sciamo ora a spiegarci come Abelardo potesse
effettivamente deno¬ minare « Grammatica » un rifacimento delle Categorie (v.
qui sopra la nota 241). 273 ) p. 227: Susta et debita serie textus exigente ,
post tractatum singularum dictionum occurrit comparano orationum .... Non autem
quarumlibet orationum construclionem (anche questa e una esptes- questa Sezione
Abelardo diede il nome di « Libcr cale- goricorum » 274 )- Ma quando ha poi da
far sèguito la teo¬ ria del giudizio ipotetico, Abelardo, anche a ciò deter¬
minato da Boezio (de diff. top.: v. la Sez. XII, nota 167), fa che la validità
di queste forme di giudizio sia con¬ dizionata dai loci (v. la nota 269), e
pertanto premette il « Liber topicorum », così che soltanto dopo di esso ven¬
gono lo stesso giudizio ipotetico e i sillogismi fondati so¬ pra di questo 275
) : a quest'ultima Sezione dà il nome di « Liber hypotheticorum » 27e ). Così
Abelardo, secondo il suo modo d’ intendere, ha compiutamente svolto la teoria
deirargomentazione, pro¬ cedendo dal semplice, cioè dagli elementi, al
complesso: quanto al « Liber divisionum », designato dal Cousin come quinta
parte della dialettica, non ha alcun nesso sione di Prisciano; v. sopra la noia
263) exequimur, sed in his tantum opera consumenda est , quae verilatem seu
falsitatem continent, in quo¬ rum inquisitione dialecticam maxime desudare
meminimus. Undc cum inter propositiones quaedam earum simplices sinl et natura
priores , ut categoricae, quaedam vero compositae ac posteriores, ut quae ex
ca¬ tegorici jungunlur hypotheticae, has quidem quae simplices sunt prius esse
tractandas...., unaque earum syllogismos ex ipsis componendos esse apparet. 274
) È vero che il manoscritto reca qui il titolo (p. 227) « Abae- lardi....
Analyticorum priorum primus», ma non soltanto si cor¬ regge da se stesso nella
seconda suddivisione di questa Sezione, dove a p. 253 si legge questo titolo: «
Explicit primus; incipit se- cundus eorundem, hoc est categoricorum », bensì ancora
dallo stesso Abelardo questa Sezione è citata come Liber categoricorum (p. 395:
Sed de hoc quidem uberius in libro Categoricorum egirnus). 275 ) p. 437 :
Congruo.... ordine , post categoricorum syllogismorum traditionem ,
hypotheticorum quoque, tradamus constitulionem. Sed sicut ante ipsorum
categoricorum complexiones categoricas propositiones opor- tuit tractari, ex
quibus ipsi materiam pariter et nomea ceperunt, sic et hypotheticorum tractatus
prius est in hypotheticis proposìtionibus eadem causa consumendus , de quorum
quidem locis ac veritate infe- rentiae , quia in Topicis satis, ut arbitror ,
disseruimus, non est hic in eisdem immorandum. Sed satis earum divisiones
exequi. 27e ) Anche qui si verifica la medesima singolare circostanza, che cioè
il manoscritto reca da prima (p. 434) il titolo « Abaelardi.... Analyticorum
posteriorum primus », ma poi nel passaggio dalla prima alla seconda
suddivisione, la indicazione esatta (p. 446): Explicit primus hypotheticorum ,
incipit secundus. con quel che precede 2 "), ma è ima monografia che sta a
sé, concernendo lo stesso oggetto che lo scritto De getter, et spec.; in questa
monografia Abelardo unì immediata¬ mente uno all’altro gli scritti di Boezio,
de divisione e de definitione, cosicché, a chi consideri 1’ intima diver¬ sità
fra questi due (Sez. XII, nota 103), appare con tutta chiarezza, come in
Abelardo l’interesse per la logica si converta in interesse per la retorica.
Seguendo noi ora perciò, per la nostra esposizione, il suindicato motivo, do¬
minante nella divisione della materia secondo Abelardo, ci atterremo
interamente all’ordine già tenuto per Boe¬ zio, e inseriremo, ancor prima della
teoria del giudizio, quel che sarà necessario dire della Sezione de divisione,
la quale si riattacca alla teoria del concetto. [li) esposizione della Isagoge
(Antepraedicamenta), quale risulta dalle Glossae, e soprattutto dalle
Glossulae, super Porphyrium: atteggiamenti polemici sopra la que¬ stione degli
universali]. — Quanto alla prima Sezione della prima parte principale, cioè la
Isagoge o i così detti Antepraedicamenta, la grave lacuna già ricor¬ data
dobbiamo cercar di colmarla attingendo ad altra fonte, e precisamente, in
special modo, ai testi riferiti dal Rémusat (nota 238) : ma inoltre ricorreremo
anche a tutti quegli altri luoghi, che possano aiutarci a compren¬ dere, con
maggior vigore o maggior ampiezza, la posi¬ zione di Abelardo nel contrasto fra
i diversi indirizzi, sicché già qui si ha da chiarire, quante possibile com¬
piutamente, le questioni essenziali e di principio, e da ot¬ tenere mia
conoscenza esatta e approfondita della logica di Abelardo in generale: resterà
poi, relativamente alle altre parti della dialettica, da addurre ancora, su
tale ) Neanche si trova, in alcun punto del libro, fatto cenno a un
ricollegamento con altre parti della dialettica. fondamento, soltanto i testi
relativi a punti più parti¬ colari. Ha in sè qualche cosa di sorprendente il
fatto che Abelardo, nelle glosse alla Isagoge, non soltanto parla di « sei
parole », aggiungendo alle solite cinque anche « in- dividuum », ma osserva
altresì che si tratta, oltre che di queste parole stesse, anche di ciò ch’esse
significano — significala eorum — 27S ); tuttavia la prima circostanza si
spiega in parte con quel passo di Boezio ch’è la fonte, a cui Abelardo attinge
2T9 ), e in parte con la espressa os¬ servazione [fatta dallo stesso Abelardo],
che cioè Por¬ firio non ha avuto bisogno di comprendere, subito da principio,
nel novero delle voces il concetto d’individuo, perchè già 1’ individuo vien
comunque a rientrare sotto le altre cinque parole, e in se stesso è una
denomina¬ zione predicativa di un oggetto, nè più nè meno che i ge¬ neri e le
specie 28 °). Ma se ora proprio questo rilievo che 27s ) Glossae in Porph.,
riferite dal Cousin, p. 553: Intendo Por- phyrii est in hoc opere tractare de
sex vocibus, i. e. de genere, e! de specie, et de dijjerentia, el de proprio,
et de accidenti, et de individuo et de signijìcatis eorum.... Considerare,
nullas voces magis esse necessarias ad Categorias quam istas sex voces, quoniam
ex istis sex vocibus con - stituunlur praedicamenta, ideo perelegit tractare de
istis sex vocibus. Hujus operis sunt materia istae sex voces el earum
significata, finis ipse catcgoriae (il Cousin. con le sue modificazioni e con
la interpun¬ zione, ha guastato il giusto significato del manoscritto).
Scicntiae inveniendi supponitur iste traclatus ([passo già più sopra cit.,]
nota 268), quia hic docemur invenire rationcs sufficienles ad probandas
quaslibet quaestiones Jactas de istis sex vocibus et de signijìcatis earum.
Cfr. appresso la nota 603. 27 *) Questo numero di sei non ha cioè niente che
fare, come si capisce da sè, con quel passo, che si è avuto da citare,
ricavandolo dai commentatori greci (Sez. XI, nota 134). ma ha per fondamento il
contenuto di quelle notizie, date da Porfirio (ibid., nota 43), che son
riferite come segue da Boezio, p. 15 [ad Porph. a Vict. transl. I, 16; ed.
Brandt, p. 44: PL, 64, 28]: Eorum, quae. dicuntur, alia ad unitatem dicuntur,
sicut sunt omnia individua, ut est Socrates et hic et illud, alia quae ad
mulliludinem, ut sunt genera (et) species et differentiae et propria et
accidentia. 280 ) p. 553: Et cum intendat tractare de istis sex vocibus et omne
(leggi omnes) tractat, lamen non proponit nisi [Cousin: vocibus, et omne
tractare tamen non proponit, nisi....] de quibusdam tantum ; ideo Abelardo dà alla relazione predicativa, torna
a coincider pure con il secondo punto, cioè con la presa in conside¬ razione
anche di « quel ck’è significato dalle sei parole », d’altra parte Abelardo
sopra tale questione fondamentale non presenta qui spiegazioni più precise:
bensì, — per¬ sino a proposito di quel passo di essenziale importanza (prima
quaestio), al quale da gran tempo abbiamo ve¬ duto riattaccarsi tutta la
questione, che dividea tra loro le tendenze contrastanti — egli presenta
esclusivamente una sottile distinzione, insignificante nei riguardi degli
universali, tra solus intellectus, nudus intellectus e pu- rus intellectus 2S1
) : e anche nel rimanente della esposi¬ zione, si tiene aderente al testo della
Isagoge, prevalen¬ temente limitandosi a dare spiegazione delle parole 282 ).
Invece proprio sopra questo punto che ci rimane qui ancora oscuro, gettano la
più vivida luce le altre così dette glosse minori alla Isagoge. Ivi cioè
Abelardo, alle notizie che dà sopra le opinioni altrui (e per questo ci è
servito più sopra egli stesso quale fonte) collega in primo luogo osservazioni
polemiche, per poi svolgere la sua personale concezione degli universali.
Contro Gu- non ponit de individuo, quia individuum continetur sub unoquoque, et
in significatione et in praedicamentali ordine : nam quemadmodum genera et
species proprie ponuntur in praedicamento, eodem modo in¬ dividua ipsorum.
Anche questo si trovava nel commento di Boezio al passo citato — dove (p. 16 s.
[loc. ult. cit., p. 49: PL, 64, 30]) si legge: Ita individua, quae ad unitatem
dicunlur, cunctis superio- ribus (cioè quinque vocibus) supposita sunt....
Individua vero.... ad nihil aliud praedicantur nisi ad se ipsa, quae singula
atque una sunt. Atque.... « ad unitatem dicunlur». Abelardo cioè ne ricavò che
le de¬ nominazioni individuali vengono purtuttavia predicate — dicunlur,
praedicantur. 2S1 ) p. 555: Illa dicimus poni in solis intellectibus, quae
tantum in- telliguntur et non sunt.... Illa dicimus poni in nudis
intellectibus. quae, cum sint, aliter intelliguntur esse, quam sirtt.... Illa
dicimus poni in puris inlelleclibus, quae intelliguntur simpliciler ut sunt.
a82 ) Si può osservare che anche qui la locuzione abbreviata, ri¬ cordata già
più sopra (nota 167) „praedicari in quid “ o ., praedicari in quale “ è
comunemente adottata nel senso di „ praedicari in eo quod quid “ o ,,
praedicari in eo quod quale". glielmo da Champeaux osserva (v. sopra la
noia 106) che, se si ammette una così poco stretta connessione tra le forme
individualizzanti e le sostanze universali, tutte le sostanze _non eccettuata
neanche la Fenice, che esiste esclusivamente mia volta sola — appunto come
sostanze, dehhon finir con l’essere uguali e identiche fra loro, e neanche
possono per conseguenza distinguersi dalla so¬ stanza di Dio : e parimente
osserva che questa identità di essenza di tutte le sostanze, o la loro
indifferenza ri¬ spetto a qualsiasi forma individuale che vengan a pren¬ dere,
conduce a dover ammettere anche la coincidenza degli opposti in ima stessa
sostanza 283 ). “*) Glossulae s. l’orph ., riferite dal Rémusat, toc. cit., II,
p. 97-99: Ce SYStème exige que les jormes aient si peu de rapport avec la malière
qui leur seri de sujet, que dès qu'elles disparaissenl, la malière ne diffère
plus d'une aulre malière sous aucun rapport, et que tous les sùjets individuels
se réduisent n l'unité et à l'identité. Une grave hérésie est au bout de cotte
doctrine ; car avec elle, la substance divine, qui est reconnue pour n'admettre
aucune forme, est nécessairement identique à toute substance quelconque ou à la
substance en generai.... Et non - seulement la substance de Dieu, mais la
substance du Phénix (v. la Sez. XII, nota 87), qui est unique, n'est dans ce
système que la sub- stance pure et simple, sans accident, sans propriélé, qui,
partoul la méme, est ainsi la substance universelle. C'est la mème substance
qui est raisonnable et sans raison, absolumenl camme la mème substance est à la
Jois bianche et assise ; car étre blanc et ótre assis ne soni que des jormes
opposées, comme la rationnalité et son contraire, et puisque les deux premières
Jormes peuvent notoirement se trouver dans le méme sujet, pourquoi Ics deux secondes
ne s'y trouveraient-elles pas égale- menl ? Est-ce parce que la rationnalité et
Virrationnalité soni contrai- res ? Ellcs ne le sont point par l'essence, car
elles sont toutes deux de Vessence de qualité ; elles ne le sont.... per
adjacentia, car elles sont, par la supposilion, adjacentes à un sujet
identique. Du moment que la mème substance convient à toutes les Jormes, la
contradiction peut se réaliser dans un seul et mème ótre [ed. Geycr del testo
originale, p. 515:... « Quibus hoc obicimus: quod si hanc sententiain concedi
convenit, quippe si formas contingeret a subiecta materia discedere, ita
scilicct quod subiecta bis penitus rarerent, in nullo pcnitus hir et ille
differrent, sed iste et ille omnino idem efiicerentur. Ex quo scilicet pessimain
haeresim incurrunt, si hoc ponatur, clini scilicet divinam substantiam, quae ab
omnibus formis aliena estidem prorsus oporteat esse cum substantia.... — Ibid.,
p. 517 :... Nec (propter) deum solum verum est, sed etiam propter alias
substantias fortasse, ut est phoenix. — Oportet igilur secundum praedictam
Contro la dottrina della indifferenza, egli oppone (v. la nota 132) per prima
cosa la definizione del con¬ cetto di genere ( genus est, quod praedicatur de
pluri- bus ), dalla quale rimane escluso che ima e medesima cosa possa essere
mai al tempo stesso genere e individuo: e poi le oppone anche la relazione
predicativa in gene¬ rale, stando alla quale bisogna mantenere la distinzione
tra individui e concetti specifici, e deH’universale stesso è impossibile predicare
la individualità, — laddove, se si prende l’individuo già nello stesso tempo
come specie o come genere, il concetto di genere, in quanto vieu pre¬ dicato,
resta privato del proprio soggetto, o, quando si tratta di qualità (cioè di
adiacentia ), non può appunto essere più un predicato, valido per diversi
soggetti [cfr. il testo originale, ed. Geyer, p. 520: « .... non omni generi
convenit, eum omne genus non habeat praedicari in adiacentia »] 2Si ).
sententiam substantiam divinam idem esse cubi qualibet substantia, quam constat
esse veram et simplicem et ab ni nni proprietate irn- muncm. Praeterea si cadem
substantia essentialiter sit in omnibus, ita scilicet (ut) ea quae informata
est ralionalitate, sit irrationalitate occupata, quomodo negari potest, quin
substantia rationalis sit sub¬ stantia irrationalis ? Quibus obiectis
nidlatenus refragari queunt, cum eadem substantia penitus omnibus f'ormis
informari ostendatur. Quis enim cum eandem substantiam albedine et nigredine et
sessione occupatam viderit, ncgabit substantiam albani esse sedentem ? — Si
quis vero dicat insistens rationale esse irrationale, veluti substantia alba
est substantia sedens, cum hae oppositae formac contrarrne sint, illae vero
non, fallitur, quia nec in essentia magis sunt oppositae istae quam illae, cum
eadem essentia qualitatis sit penitus, nec in adiacentia, cum eidem substantiae
penitus adiaceant. Sed si quis di- cit formas istas oppositionem habere ex
oppositis formis quibus in- formantur, fallitur, cum eadem ratione non possit
assignare, onde illae oppositionem trahant »]. 2S1 ) Ibid., p. 100: Muis c’est là ce qui n'esl pus
soutenable. La défi- rtition qui veul que le gerire
soit ce qui est attribuable à plusieurs, a été donnée à l'exclusion de
Vindividu. Ce qu’elle définit ne peut en soi étre à aucun titre , en aucun
état, individu. Dire qu'une méme chose tour à tour comporle et ne comporte pas
la définition du genre, c'est dire que cette chose est, comme genre,
attribuable à plusieurs, mais que, comme genre aussi, elle ne Vest pas, car un
individu qui serait attri¬ buable ò plusieurs serait un genre ; par conséquent
Vassertion est con- [Finalmente, anche contro quella tesi, a noi non meglio
nota, che concerne una proprietas delle cose (v nota 73), rivolge ripetutamente
la stessa obiezione tratta dalla definizione del concetto di genere, e denota
in generale come la cosa più pericolosa e insostenibile. tradicloire, ou plutòt
elle n’a aucun gens. Les auteurs disent que celle nroposition : L’homme se
promène, vraie dans le particulier, est fausse de l’espèce (qui tuttavia il
Réniusat deve o aver avuto sottocchio un testo scorretto, o aver inteso
scorrettamente il testo corretto, poiché lu dottrina ripetutamente enunciata da
BOEZIO, a p. 15 [in Porph. a Vici, transl., I, 16: ed. Brandt, p. 45; PL, 64,
27], p. 36 [i6.. II, 10 (« Cicero sedet.... homo sedei»): cd. Brandt, p. 103;
PL, 64, 57], ecc., facendo uso dello stesso esempio — Cicero ambulai , homo
ambulai — è espressa naturalmente nel senso, che l’accidente è predicato, primitivamente
dell’ individuo e derivativamente della specie, ma non che questa seconda
predicazione sia falsa). Commenl maintenir cotte dislinction, si une ménte
chose est espèce et individu ? (p. 101) V individuai ile résultant de formes
accidentelles ne saurait èlre l'attribut essentiel d’une substance susceptible
d'universalité ; cc- pendant certe substance, en tant que particulière,
distincte de ses som- blables, est esscntiellement individueUe, violation
manifeste de la règie de logique qui porte que „dans un mème, Vaffirmalion de
l'opposé exclut Vaffirmation de l’autre oppose’'’. Lorsqu'on dit que le genre
est atlribuable à plusieurs, on parie ou d'attribution essentielle (praedicari
in quid), ou de toute autre ; s’il s’agit d'attribution essentielle, camme on
le nie aprìs Vavoir affirmé, elle cesse d’ètre essentielle, ou elle em- porte
avec elle son sujet ; s'il s’agit d’attribution accidentelle (in adja- ceutia),
la définition n’est plus exacte, elle ne convient plus à tout genre [ed. Geyer, p. 518 ss. : « ....
Huic autem sentcntiae o p p o na¬ ni u s . . . . In primis inquirendum iudico, quomodo Porphyrius
dicit praedicari de pluribus ad cxclusioncm individuorum, cum illa scilicet
praedicentur de pluribus secundum illos. Sed dicunt mihi, quod cum dicitur
genus de pluribus praedicari, tale est, ac si dica- tur: genus in quantum est
genus, praedicatur de pluribus. quod con¬ stare non potest.... Amplius cum
diffinitio generis sit, quod praedicatur etc., oportet eum concedere quod
individuimi ex stalli individui sit genus, quia ex ilio quod praedicatur de
pluribus, [quod] est animai. Propterea quomodo dicunt « praedicari de pluribus
», quod generi convenit, genus ab individuo removcrc, cum idem pror- sus
individuo conveniat ?... Amplius quomodo dicit B o e t h iu s super Peri ermenias
[Boezio, in libr. de interprete ed. se¬ conda, L. II, c. 6 (ed. Meiser, Pars
Post., p. 133: PL, 64, 461), p. 337] quod haec propositio « homo ambulat » de
speciali falsa est, de par¬ ticolari vero vera est ? Numquid et de universali
similiter vera est, cum idem sit universale et particulare ? Sed fortassis
inquies, quod ab hoc universali ambulatio prorsus removeri potest, a
particulari vero non, hoc modo: nullum universale ex statu universali ambulat.
Sed similiter dici potest, quod nullum particulare ex statu particu- qualsiasi
scambio o confusione tra individuo e univer¬ sale 285 ). [i) soluzione proposta
da Abelardo : il senno praedi- cabilis]. — Ma secondo il suo personale modo di
vedere, egli credeva di aver trovato la via giusta per poter al¬ fine comporre,
com’è sua opinione, il contrasto fra Pla¬ tone e Aristotele, vale a dire
appigliandosi a quell’unico passo del libro De interpr., dove l’universale è
designato come ciò, ch’è « naturalmente fatto per essere predicato laris
anilnilationcm habeat. Haec quippe enuntiatio: « in co quod est universale, non
ambulata, duobus modÌ9 potest intelligi, sive interpositum sive praepositum.
Interpoeituin sic: in eo quod univer¬ sale, non ambulat, ac si diceretur:
proprictas universalis non patitur ambulationem, quod omnino falsum est, eum
eidem subiecto uni- versalitas et particularitas et ambulatio adiaceant. Quod
si praepo- nilur, intelligitur boc modo: non in eo quod est universale, ambu¬
lat, sicut est illud: non in eo quod animai est, habet caput, hoc est: non
exigit proprietas universalis, ut ambulet, sicut non exigit natura animalis,
quod habeat caput. Sed eodem modo verum crii de particulari, orai proprietas
particularis non exigat ambulatio¬ nem ». Ecc. ecc., sino alla p. 521], 286 )
Ibid., p. 102: La difficulté est toujours de faire cadrer ce système avec la
définition du genre. Il faut que la propriété d'ètre attribuable à plusieurs
séparé Vuniversel de l'individuel ; or, on vieni de dire que de plusieurs
choses chacune est individuellement animai ; le nom indiriduel d'animal
serait—il donc le nom de plusieurs ? V indie Uhi se- rait-il attribuable à
plusieurs ? Cela ne se peut. Mais comme animai ne peut plus se dire de
plusieurs, mais de chacun, il n’y a plus de genre, ou plutòt tout est renversé,
c'est l’individu ou le non-universel qui prend la place de Vuniversel, c'est ce
qui ne peut s'ajfirmer de plusieurs qui s'affirme de plusieurs. et c'est une
pluralité où chacun s'affirme de plusieurs que l'on appelle Vindividu [ed.
Geyer, p. 521-22 : « Pri- mum quaerendum est.... quomodo secundum hanc
sententiam in¬ dividuimi ab universali differat per praedicari de pluribus, cum
indi¬ viduimi habeat praedicari de pluribus, id est plura sunt, quorum
unumquodque est individuimi. Sed fortasse inquies, quod recte prae¬ dicari de
pluribus in diffinitione universalis ponitur ad exclusionem individuorum, cum
omne universale praedicari de pluribus habeat, nullum autem individuimi de
pluribus praedicetur. Sed eodem modo inter universale et animai differentia
potcrit assignari, cum omne universale de pluribus et nullum animai de
pluribus... Praeterea secundum banc sententiam concedere oportet, quod
non-universale sit universale et res quae non praedicatur de pluribus,
praedicetur de pluribus et multos quorum unumquodque de pluribus praedi¬ catur,
concedat individuimi appellali»]. di più
cose» (quod natura est de pluribus praedicari ); poteva Abelardo con questo,
nella maniera già più sopra ricordata (nota 254 1 , far procedere insieme la
genesi delle cose qual è data obbiettivamente in natura, e quella pro¬ duzione
subbiettivamente umana che è la denominazione, e anzi esprimere questa
relazione, persino ricorrendo alla similitudine della statua, la quale è
costituita dalla pie¬ tra, che lia esistenza obbiettiva, e dalla forma, ch’è
ag¬ giunta dalla mano dell’uomo 286 ). Ma su ciò si fonda ora il vero e proprio
sciboleth, che contraddistingue la posizione di Abelardo nel con- 2BC ) liuti.,
p. 104 s. : Aristote, au dire d'Abélard, parati l'insinuer clairement, qunnd il
définit l'universel ce qui est né altribuable à plu~ sieurs, quod de pluribus
natum est praedicari. Cest une propriété uree laqtielle il est né, qu’il a
d’origine, a nativitate sua. Ór, quelle est la nativité, l'origine des discours ou des noms ?
Vinstitution humaine, tandis que l’origine des choses est la création de leurs
natures. Celle différence d’origine peut se
rencontrer là méme où il s’agit d’une mème essence. Ainsi dans cel exemple :
cette pierre et cette statue ne font qu’un, l'étal de pierre ne peut ótre donné
à la pierre que par la puissance divine, l’état de statue lui peut ótre donné
par la main des hommes. [ed. Geycr, p. 522: «Est alia de universalibus sen¬ te
n t i a rationi vieinior, quae nec rebus nec vocibus communi- tatem attribuit;
sed serinones sivc singulares sive universales esse disserunt. Quod etiain
Aristote¬ le s ... . aperte insinuat, cuin ait: « Universale est, quod est
natum praedicari de pluribus », idest a nativitate sua hoc contrahit, ex insti-
tutione scilicet.... Hoc enim quod est n o m e u sive s c r m o , ex hominum
institutione eontrahit. Vocis vero sive rei nativitas quid aliud est, quam
naturar creatio, e uni proprium esse rei sive vocis sola operatione nalurae
consistat ? — Itaquc nativitas vocis et sennonis diversitas, etsi penitus in
essentia identitas. Quod diligen-
tius exemplo declarari potest. Cum idem penitus sit hic lapis et haec imago,
alterius tamen opus est iste lapis et a[terius haec imago. Constat enim a divina substantia statura lapidis
solummodo posse conferri, statum vero imaginis hominum comparatione posse for-
mari»]. Nella traduzione di Boezio, p. 338 [ed. secunda, II, 7: ediz. Meiser.
Pars Post., p. 135; PL, 64, 462], il passo aristotelico citato nella Sez. IV.
nota 197, è cioè del seguente tenore: Quoniam autem sani haec quidem rerum
universalia, illa vero singillatim ; dico autem universale, quod in pluribus
natum est praedicari , gingillare vero, quod non, etc. Qui dunque Abelardo
poteva appoggiarsi, per la tesi reali¬ stica, alla parola « natum », e al tempo
stesso, per la tesi nominali¬ stica, alla parola « praedicari ». Così in
quell’epoca, ch’era incapace di assurgere alla visione dei principii, ma si
limitava allo studio « tra ' Van
mdirizzi; ««Perocché, una volta che il predicato venga r, conosciuto come
naturalmente determi nato, ne consegue che nè le cose come tali, nè le paroJ '
come tali sono 1 universale, bensì la universalità è ri posta soltanto nello
stesso praedicari, e dunque in' quella maniera di esprimersi ch’è il giudizio,
insomma el « sermo » : con questo si evita ora la opinione sba ghata e
insostenibile, che cioè di una cosa possa ori carsi una cosa, sì che, a questa
maniera, mia co a f ugual r e in più - e una cm., ma « per r.ppnnto „„ preJica
| 0 ' E, mettendo „ ra Abelardo in eo„„e„i„„ e eon ' conseguenza 1, definizione
già riferita del genere ne ‘ espressamente che
nega mo) sia di • universale il predicato (ser- ” 3 3ll ° ra ‘“tersale
anche la parola in quanto paro a poiché alla stessa maniera si potrebbe d mLT U
Cl,e è “• «. 'ce dell alfabet o; „ deve rnvece, in ,„eli„ definir .. tener
rizzi sano statesenz^tmcozUuIt^o^^* 1 !, 0 he dei J ' vcra ' 'odi- lati diversi
da uno all’altro scrittore 77'l f°? dame ? to di passi iso¬ lai/ Ctteratura in
uso nelle scuole Cfr -Y* !u testi e l‘e formavano ^)Ibid aPPre - S .° k DOta
293 -‘ P1U S ° Pra n ° tC I05 ’ 129 ’ buatte à plufieurs, ni ìefchòses'n'i fet*
1 umversel Pst d'origine altri - c p n est paste mot. la voix. mais le dilriu,
T" Car stori du mot, qui est attribuable à divers C e ? t ~ d ~ dire l ' p
*prcs- dis mots, ce ne sont pas les mots mais Ù . 9 lw, g “ P ' Ù S ° Pra (nota
63 > "tato, di GiovauTda Salisb^ “ PaSS °’ fisso l’occhio sopra
l’oggetto da essa definito, cioè sopra lo stesso genere, e con ciò si rende
manifesto che nella parola singola non è già contenuto il genere stesso nella
sua totalità, bensì invece la parola ch’esprime il genere, viene, in un
giudizio, predicata di diverse cose, insomma che proprio il giudizio è
predicabile, — « sermo est prue - dicabilis » —, perchè il pensiero dispone per
ordine le pa¬ role, in vista della descrizione delle cose 2SS ). Se per con¬
seguenza la parola è predicata, non secondo la esterio¬ rità del suo effettivo
suono, bensì secondo il suo intimo significato, e è dunque il suo significato
che ne fa un uni- - ) Ibid., p. 107 s.: Mais Abelard se faii des objeclions.
Comment l oraison peni-elle elre un,vergelle, et non pas la voix, quand la des-
criplion du genre convieni aussi bien à l’une qu'à Vautre ? Le genre est ce qui
se dii de plusieurs qui diffèrent par Vespèce ; ainsi le décrit PorphyTe. Or,
la descnption et le décrit doivenl convenir à tout suiel quelconque ; c est une
règie de logique, la règie De quocumque, et camme le discours et Ics mots ont
le ménte sujet, ce qui est dit du discours est dii des mots. Vane, comme le
discours, la voix est le genre. Celle prò- posti,on est incongrue, non
congruit; car la lettre étant dans le mot et par consequent s attribuant à
plusieurs comme lui, il s'ensuivrait que la lettre est le genre. Cesi que, pour
que la description ou définition du genre so,t appi,cable il faut qu'on
Vapplique à quelque ckose qui uit en so, la realite du défim, rem definiti;
c'est la condilion de l'appli- catwn de la regie De quocumque, et ici catte
condition n'existe pus Le mot ne contieni pas tout le défini, il n'en a pas
laute la compréhen- s,on et ,1 n est atlnbue a plusieurs, affirmé de plusieurs,
pracdicatum de pluniras. qU e parce que le discours est prédicable. est sermo
prac- dicabibs, c est-a-d,re parce que la pensée dispose des [si direbbe che
Franti intenda come « fosse scritto « Ics »] mots pour décrire toutes choses
[ed. Geyer. p. 522-23: «Cui sementine opponi- tur. 1 rimimi enun quaeritur, cur
sermones et non voces esse uni- versale? astmant cum descriptio generis tam
vocibus quam sermo- mbus conveniate De quocumque enim praedicatur descriptio,
et de- scriptum; sed descriptio generis praedicatur de voce, cum vox sit ifiud
quod praedicatur de pluribus differentibus specie etc.; vox «ri- tur est genus.
— Quod sic s o 1 v i t u r: Huic argumentationi; Cst ' , . , '' ,j US ' ^ mUd q
"° d praedicatur ' ( iuia est sermo PaANTL, Storia detta logia, in
Occidente, II.versale 289 ), ben può dirsi a questa maniera che il genere e la
specie sono una parola (vox), ma non già, viceversa, che la parola è la specie
o il genere, perchè la essenza individuale, che è la parola, non può essere
predicata di più cose, mentre si può, con una tale concezione, am¬ mettere
invece, senza difficoltà, un essere obbiettivamente reale, corrispondente ai
generi e alle specie 2D0 ). Generi e 2#s ) Ibid.. p. 108: On peut dotte dire
que le discours étanl un gente, et le discours étant un mot, un mot est le
genre. Seulement il faul ajouter que c'est ce mot uvee le sens qu’on a entendu
lui donner. Ce n'est pus l essence du mot, en tant que mot, qui peut ètre
attribuée à plusieurs ; le son vocal qui constitue le mot est toujours actuel
et particulier à chaque fois qu’on le prononce, et non pas universel ; mais
c'est la si- gnification qu'on y attaché qui est générale [cd. Geyer, p.
523-4:« Cum haec vox sit hic sermo et hic sermo sit genus, quomodo ratiouab
ili- ter negari poterit, quin haec vox sit genus ? Quod sic solvitur: Cum
dicimus « hic sermo est genus», tale est ac si dicamus: sermo huius institutionis
est genus. Sed cum dicimus « haec vox est genus », tale est ac si dicamus: haec
essentia vocis est praedicabilis ctc., quod falsum est.... — Concedimus itaque
has esse veras: Hoc nomen est genus, hoc nomen est universale. Similiter: Hic
sermo « animai» est genus, hoc vocalndum « animai » est genus et universale, et
si¬ militer omnes in quihus subicitur vox innuens institi! tionem, non
simpliciter essentiam vel prolationem, sed signifìcationem et praedicans
eommunitatem, sicut est: genus, universale, sermo, vo- cabulum, dictio,
oratio.... »]. *®°) Ibid., p. 108-9: Abélard.... permei qu'on dise que le genre
ou l'esp'ece est un mot, est vox, et il rejette les propositions converses ;
car si l on disait que le mot est genre, espèce, universel, on attribue- rait
une essence individuelle, celle du mot, à plusieurs, ce qui ne se peut. C'est de mème qu'on peul dire: cet animai ( hic
status animai) est cette matière, la socratité est Socrate, l’un et l’aulre de
ces deux est quelque chose, quoique ces propositions ne puissent ètre
renversées [ed. Geyer, p. 524: « Nota tamen, quod haec propositio vera est:
genus est vox et species est vox. Tale est enim ac si dicatur: generale
vocabulum est vox vel speciale. Convcrsae harum, scilieet: vox est genus vel
vox est species, non sunt concedendae, cum per illas com- munitas essentiae
ostendatur, quae similiter in omnibus reperitur. Concedimus exiirn
propositiones: hic status animai est, haec materia Socratis est Socrates,
utrumque istorum est aliquid; conversas vero istarum negamus omnino, scilieet:
homo est hic status animai, Socrates est materia Socratis, aliquid ast utrumque
istorum»), — Dialect., p. 480: in significationibus suis vocabula saepe
nominantur , ut cum ea quoque vel genera vel species vel universalia vel singularia
rei substantias vel accidentia nominamus. Nomen autem.... hoc loco accipiendum
est quaelibet vox significativa simplex, qua rebus prae- posita vocabula
praedicamus. specie, cioè, in quanto sono da noi pensati, si riferiscono bensì
a qualche cosa che esiste, e questa cosa afferrano, ina soltanto in senso
figurato poteva dirsi che essi esistono quali universali pensati da noi, poiché
il senso proprio di tale espressione è solanieute questo, che esiste cioè qual¬
che cosa che dà luogo a questi universali 291 ). 2tfl ) Ibid., p. 109 10: Il
décide que. bien que ces concepts (ma chi sa se nell’originale latino ri
leggerà in questo punto « conceptus » ? io eongetturo piuttosto che vi si dica
« intellectus » : v. appresso le note 313 ss.) ne donneiti pas les choses camme
discrètes , L, 64, 121-2], p. 84: rfr. la Sez XI, nota 44), secundum quas ipsa
genera, quae ab ipsis di¬ visa sii nt. specificantur.... Nec cum ipsae generis
subslantiam in spe¬ derà reildunt, ipsae quoque in essentiam speciei simul
transcunt, sed sola "enera vel subjecta specificantur, non qmdem separata
a difie- rentiis. sed, nisi ei differentiae adveniunt, ipsa sola non etiam
differentiae species efficitur, non quidem cum differentiis, sed per
differentias, sicut in libro Partium, tractatu speciei, disseruimus (v la nota
272). Si enim differentiae in speciem transferrentur cum lenere . ipsas de
substantia rei esse, et in partem malenae venire rontineeret.... (p. 478)
Nihil.... aliud materia jam
fannie aclual,ter contunda quam ipsum materiatum, ut nihil aliud est hic
annulus aureus quam aurum in rotundilalem duetum.... Stalline.... compostilo,
quem Boethius (p. 88) ponit . species non riddar, cum nec materia sit unum, sed
operatione hominum, nec substantiae nomen, sed acci- dentis cum statua videtur
et a quadam compositione sumptum. z»«) Introd. ad t/no/.. II, 13, p. 1083 [98]: Cum autem species ex genere
creaci seti gigni dicantur, non lanieri ideo ri eresse est,genus speries suas
tempore, vel per existentiam precedere, ut videlicet ipsum prius esse
contigeril quam Mas. Numquam eternai genus nifi per aliquam speciem suam esse
contingit, vel ullatenus animai juit, antequam calumale vel irrationale fuerit
: et ita quaedam species cum suis generibus simul [99] naturaliter existunt, ut
dMlatenus genus sino illis, sicut nec ipsae sine genere esse‘pomerint [PI.,
178, lOtuj. praedicatio, la quale può riferirsi ora alla forma, ora alla cosa
formata da questa, e via dicendo 29? ). Ma dovendosi, a proposito di questo
generarsi delle specie dai generi, toglier di mezzo quella più difficile que-
stione riguardante gli opposti (v. sopra le note 113 e ilo s.), ecco qual è su
questo punto il modo di vedere di Abelardo: La diversità delle specie può
essere determi¬ nata soltanto dal fatto che sussiste ima diversità delle so¬
stanze; ma questa è un prodotto della differenza specifica la quale si chiama
sostanziale, proprio perchè realizza entro la sostanza ima separazione di
gruppi, e con ciò, al tempo stesso, una unità dei gruppi così separati, eia-
scuno dei quali ha una comune natura 888 ); e a quel modo che, per conseguenza,
la materia, ch’è il genere, non si presenta più, hi identità di essenza, in
tutte quante le specie, cosi dalla differenza specifica vengono esclusiva-
mente prodotte soltanto le specie della sostanza stessa; se perciò tutte le
altre specie, che non procedono dalla so¬ stanza, si debbono generare senza
l’azione esercitata da una differenza sostanziale e debbono pertanto aver il
prò- pno fondamento nella sola materia, la unità di quest’ul- tnna va intesa
come somiglianza di essenza (consimili- tudo), dalla quale per es„ nonostante
la comune essenza ipslls^nriti^t ^ P> 1277 f183]: ^oprie,as ilaque n,aterine
ZZ, v/, , secundum quam ex ea materialitcr al,quid fieri habe'. Materiati vero
proprietàs est ipsa e converso postcrioritas Pro prietates itaque ipsae
impermixtae sunt per praedicMionem licei iosa proprietà.... permixtim de eodem
praedicentur. Aliud quippe est prue Ì7{/~\^]. f ° rma,Um ÌPSUm ' h - e - iP sam
Jormae subjec- “ ) Dialect., p. 418: Diversitas itaque subslantiae diversitatem
quae natura substantiae divina univit operatio.
(lell'esser colori, non rimane esclusa la opposizione con¬ traria del
bianco e del nero 2 "). Così Abelardo tiene distinte, da un lato, quelle
forme, che son, esse medesime, essenze, e che bisogna pur che entrino nella
materia, la quale sta a loro fondamento ( subiectum ), per far di questa
qualche cosa, che senza quelle non sarebbe, — e, dall’altro lato, quelle forme,
che per se stesse non sono essenze, ma son di già contenute nella materia del
genere 300 ) ; naturahnente nelle prime c’è la differenza specifica vera e
propria, a quel modo che nelle seconde c’è la così detta nota casuale di
differenze accidentali, cioè queU’adiacerma (nota 284), cli’è oggetto della
predicazione non-sostanziale 301 ). Ma, con ciò, gli opposti, nelle forme
sostanziali, sono derivati soltanto ! ") Uh/., p. 400, dove al passo
citato più sopra (nota 113) fa sèguito: Si enim omnium specierum est eadem in
essentia materia , tunc albedinis et nigredinis et caeterorum contrariorum,
quae omnia.... ejus- dem generis species esse necesse est.... Nostra quoque
sententi a te net, solas substantiae species differentiis confici , caeterasque
species per solam subsistere materiam, sicut in libro Partium ostendimus. Si
ergo eadem prorsus est materia, quae est in ipsis diversitas ? Sed eadem (cioè
diversitas in ipsis est), quae est in consimilitudine substantiae, non
indeterminatae essentine. Ncque enim ea qualitas, quae est essentia albedinis ,
essentia est nigredinis , essel enim albedo nigredo, sed con¬ similis in natura
generis superioris. Consimilitudo autcm vel sub- stantiae vel jormae
contrarietatem non impedit. Riguardo alla consi¬ militudo, e£r. qui appresso la
nota 307. 30 °) Pseudo-Abael. de intell., edito dal Cousin, Fragm. phil.
(1840), p. 495 s. [Opera, II, p. 755]: Alii autem, qui quasdam formas essentias
esse , quasdam minime, perìiibenl. sicut Abaelardus et sui , qui artem
dialecticam non obfuscando sed diligentissime perscrutando dilucidante nullas
formas essentias esse approbant, nisi quasdam qua- litates, quae sic insunt in
subjecto , quod subjectum ad esse earum non sufficit , sicut ad esse
quantitatum ipsum subjectum sufficit... et ad esse sessionis necessaria est
dispositio partium... Nullam enim for- mam essentiam esse asserunt, cui...
poterit assignari... subjectum ad esse illius sujfficere. Theol. Christ., Ili,
p. 1280 [487]: sire illa forma sii com- munis differentia, h. e. separabile
accidens. ut nasi curvitas, si ve magis propria differentia, i. e.
substantialis, sicut est rationalitas, quae sci - licet substantialis
differentia non solum facit alterum , i. e. quoquo modo diversum, verum etiam
aliud, h. e. substanlialiter atque specie diversum [PL, 178, 1251]. Qui la
fonte è Porfirio (Sez. XI, nota 44), cioè Boezio [ad Porph. a se transl., lib.
IV], p. 79 ss. dall'attività della differenza specifica e sono senz'altro
separati, mentre, trattandosi delle forme non-sostanziali, ci si presentano
nella materia del genere, quali possibi¬ lità’' 2 ): e Abelardo, dato che per
lui a base di tutte quante le opposizioni puramente qualitative non c’era un
substratum sostanziale, mentre un tale substratum andava riconosciuto
esclusivamente per quelle opposi¬ zioni che vengono a costituir delle specie,
poteva molto facilmente, con il mantenere la non-unificabilità degli opposti,
sottrarsi a quella difficoltà che più sopra (nota 115) abbiamo veduta 303 ). '
Ma mentre a questo modo quel processo di creazione, nel quale la differenza
specifica opera separando, e le spe¬ cie cosi separate si raccolgono in
raggruppamenti unitari (nota 298), si estende, in progrediente graduazione,
sino all individuo singolo, il quale è, come tale, essentialiter o entialitcr
(non tuttavia secondo la sua sostanza) sepa- rato dal suo simile 3 °fre (B0tZI0
’ P- ™ nox7Lì h -md ÌS lil l P Ì80 3 r487F-T ^ già , più s °P ra ' aUa mero
sun, difierenlia. q uae loia JL ,.,L. Z^ZTentt disTctsum sire solo numero ab
inviami disteni , ut Socrate* e, i>LT ’ mente come im nome generale equivoco
305 ), ma invece la « subsiantia », in quanto è questo il concetto del genus
generalissimum, dev'essere consideratacome quella su¬ prema ultima materia,
sulla quale incomincia a eserci¬ tarsi Fattività della differenza specifica 308
). Così Abelardo, in quanto è platonico, insegna mia ontologia obbiettiva degli
universali, la quale da un lato vantaggiosamente si distingue, per la maggior
cura con cui si giova di Boezio, dal più grossolano realismo di Guglielmo da
Cbampeaux, ma al tempo stesso, mediante il concetto già sopra menzionato (nota
299) di consimili- tulio, viene, d’altra parte, in certo modo, a mettersi in
contatto con l’autore dello scritto De gen. et spec. (no¬ te 163 e 177) o con
la teoria (nota 132) della indiffe¬ renza 807 ). [mi ma dallo stesso principio
Abelardo trae insieme partito secondo il punto di vista aristotelico ]. — Ma
ora, quanto a quell’altro modo di vedere di Abelardo, die si 305 ) Glossae ad
Porph. (riferite dal Cousin), p. 568: Ens est aequi- vocimi.... [569] videlicet
illam definilionem, quam habel ens in prae- dicamento substantiae, nunquam
habebit in praedicamento quantità- tis.... Ens non habet unam substantialem
diffinitionem, cum qua prae- dicalur de omnibus generalissimis, cum hac
diffinitione praedi- catur ens de substantia : substantia est ens, quod ncque
est qualitas nec quantitas etc. — V. la Sez. XII, nota 89. 30li ) Ibid.. p.
565: Substantia est generalissimum, quia est solum genus.... — (p. 566)
quemadmodum substantia est genus generalis¬ simum, cum suprema sii, eo quod
nullum genus supra eam sit, etc. — Inoltre il passo citato più sopra, nota 298,
e Dialect., p. 485: Genus omne naturaliter prius est suis speciebus.... genus
[est materia] spe- cierum. 307 ) In una maniera consimile, che ricorda quelle
teorie, si espri¬ me Abelardo, Theol. Christ., Ili, p. 1261 [468]: Sed nec
Socrates, cum sit a Platone numero diversus, li. e. ex discretione propriae
essen- tiae ab ipso alius, litio modo ideo ab ipso aliud dicitur. h. e.
substantia- liier differens, cum ambo sinl ejus[dem ] naturae secundum ejusdem
speciei convenientiam, in eo scilicet [1262] quod uterque ipsorum homo est. —
Ibid., p. 1279 [486]: Idem vero similitudine dicuntur quaelibet discreta
essentialiler, quae in aliquo invicem similia sunl, ut specics idem sunt in
genere vel individua idem in specie [PL, 178: 1232 e 1250]. accorda con il
punto di vista logico di Aristotele, bisogna che tentiamo di metter in chiaro,
in qual maniera do¬ vesse, secondo lui, intendersi il concetto già ricordato
(note 286 ss.) di « sermo », e com’egli ne determinasse minutamente il
fondamento: e qui fin da principio sem¬ bra esser degno di nota ch’egli,
rimanendo assolutamente fedele al punto di partenza da cui lì aveva preso le
mosse, si attiene a passi contenuti nel libroDe interpr. Se cioè deve tenersi
fermo il principio dianzi enun¬ ciato, vale a dire che il praedicari è degli
universali, quali sono naturalmente determinati, si ha anzi tutto una sem¬
plice parafrasi dello stesso principio, quando si afferma che la predicazione
(sermo) è in rapporto di originaria affinità con le cose 308 ) : tuttavia,
com’è naturale, ciò va inteso nel senso che la denominazione (vocum impositio
), venendo dopo, è condizionata e dipendente dalle cose ob¬ biettive che essa
significa ( res significala) 30S ), anzi che, in questo senso, anche la
significano della parola è ancora quel primum, dal quale soltanto dipende la
parola come parola 310 ). Vero è poi che a questa maniera i generi e le specie
non sono nient’altro che ciò che da queste parole è significato 3n ), ma quel
che da esse è significato. 3 " 8 ) Introd. ad theol., II, 10, p. 1074
[90]: Conslat quìppe , juxta Boethium ac Platonem , cognatos de quibus
loquuntur rebus oportere [91] esse semiortes [PL, 178, 1062]. — V. Boezio, ad Ar.
de interpr. [ed. seconda, II, 4: ediz. Meiser, Pars Post., p. 93; PL, 64,
440-11, p. 323. J 30 °) Dialect., p. 487: vocem secundum imposilionis suae
originem re significata posteriorem liquet esse. — Ibid., p. 350: Si nòminis
hujus. quod est « homo », propriam impositionem tenueril, secundum id scilicet,
quod substantiae hominis ut existenti ex animali etrationa- litote et
mortalitate datum est, ratam omnino conseculionem viderit. — Inoltre il passo
ricordato più sopra, nota 255. 31 °) Dialect ., p. 345: neque enim nomina ncque
verbo sunt, suis non existentibus significationibus. — Ibid.. p. 482: [propria
signifi- catio. illa ] scilicet. de qua inlelleclum proprie vox queal generare.
3iI ) Glossae in Porph.. p. 567: genera et species. id est ipsa signi¬ ficata harum
vocum, come pure nel passo riferito più sopra (nota 278) si dice sempre: sex
voces et significata eorum. in altro non può consistere, a sua volta, se non
nei pro¬ dotti (li quel processo di creazione, onde dal genere si scende giù
giù sino all’individuo: e avendo i generi e le specie una esistenza concreta
soltanto negl’individui, nella proposizione « Socrate è un uomo » noi parliamo
per esempio soltanto di quel che significato da queste pa¬ role, ina non già
delle parole stesse, in quanto parole 312 ). Ma proprio poiché i generi e le
specie non sono ciò ch’esiste concretamente, l’antico motto « singultire senti-
lur, universale intelligitur » conserva il proprio valore: ed essendo, dal
concetto intellettivo ( intellectus ), affer¬ rato ciò che non cade sotto i
sensi 3113 ), bisogna che — poiché quell’universale che non cade sotto i sensi,
è ciò ch'è destinato a esser predicato — 1 esso concetto necessa¬riamente
contenga in sé il principio onde si genera la predicazione, e venga alla
coscienza, attraverso qualsiasi predicato, come principio del generarsi di
questo, ovve- rossia: sermo generalur ab intellectu et generar infelice- tum
314 ). Così il « predicare » (sermo) è il terreno degli 312) Diale et., p. 204:
Neque enim substantia specierum diversa est ab essentia individuorum, sicul in
Libro (leggi primo: v. la nota 272) rartium ostendimus , nec res ita sicut
vocabolo diversas esse con- tingit. Sunt namque diversae vocabulorum in se
essentiae specialium et singularium, ut « homo » et « Socrates sed non ita
rerum diver¬ sae sunt essentiae. Unde Ulani rem, quae est Socrates. Ulani rem.
quae homo est, esse dicimus ; sed non illud vocabulum, quod est « Socrates »,
illud, quod est « homo», linde quod in re speciali contingit, et in ipsius
individuis necesse est contingere, cum videlicet nec ipsae species ha- beanl
nisi per individua subsislere, nec in ea, quae informant et ad invicem jaciunt
respicere, nisi per individua, venire (cfr. la nota 296). 313) Introd. ad
theol., li, 3, p. 1061: Proprie.... de invisibilibus intellectus dicitur,
secundum quod quidem intellectuales et risibiles naturar dislinguuntur [PL,
178. 1052: e cfr. PL, 76, 1202], 3U ) Theol. Christ.. I, 4, p. 1162 a. [365]:
Licei etiam ipsum no- strae mentis conceptum ipsius sermonis lan i effemini
quam causam ponere, in proferente quidem causam. in audiente effeclum, quia et
sermo ipse loquenlis ab ejus intellectu proficiscens generalur, ut cum - (leni
rursus in auditore generel intellectum. Pro hac itaque maxima sermonum et
intellectuum cognatione non indecenler in eorum nominibus mutuas fieri licei
translationes : quod in rebus quoque et nominibus pro- pter adjunctionem
significationis frequenter contingit [PL, 178, 1130]. alcunché di predicato),
bensì soltanto nel fn) ispirazione aristote/im al giudizio (praedicari) I _ jù
a m dato ce- intellettivo lin e" ^ 1“' “n- non cade , ,1,,,; e "p *»
■“ ■»“» lenivo. Con Jè U 00 “ en “ U Intel- povalità (cfv. la nota 252) Tv '7 ’
m mon,e n‘o di tem. M»v enunciato, richiede „„ cèrio i'.'mm,!!" per
"'ente significante, * non dopo che tnt.e k ,T ' '“'i .teno successi va
mente fatte innanzi- e r, ' r„ alicujus exist.it.... fìuod intei cativam
dicere, quod unum P de hU*eó"""l ."™‘ 9u, ' ml,bel ’ta
signifi- ,V U ! ,a f,,nte è Boezio (ad Ar de ituern l ? tellectus ooncipiatur. Meiser p ars Post ^ ss • PI
T, P ‘ Ynf 1 ' 1 seeu “ da - I. 1; ed. Sez.
XII, nota 110. - 64 ’ 402 S -L P- 296 s.; V. Ja
siste nella unità di quel pensiero, che esso fa nasce- -re sl8 )- Ma
proprio perciò il giudizio, al pari della parola, in quanto
questaèelementodelgiudiziostesso, ha essen¬ zialmente due lati a un tempo, uno
dei quali consiste nelle cose, delle («de») quali il giudizio tratta {signi¬
ficai io reali*), mentre l’altro riguarda il pensiero, che esso giudizio
contiene e genera, ma del quale non tratta (significatio intellectualis ): e
c’è pertanto parallelismo tra essere e non-essere, nella realtà obbiettiva, ed
esser vero e falso, rispetto al giudizio 317 ). Ben è vero, cioè, 316 ) Ibid.,
p. 297: ....ut multiplìcem illam dictionem dicamus, quae pluribus imposila est,
ex quibus non fit unum, li. e. plura in sentenlia tenet non secundum id, quod
ex eis unus procedal intellectus. Sic autem e converso omnis illa una est
diclio, quae plurium signi¬ ficativa est. secundum id, quod ex eis unus
intellectus procedal. V. Boe¬ zio, p. 335 [o non forse 328? Loc. ult. cit. II.
6. p. 106 ss.: PL, 64, 447-8] (cioè Aristotele: v. la Scz. IV, note 185 ss.).
317 ) Ibid., p. 238: Sunt igitur veruni ac falsum nomina intel- lectuum, voluti
cum dicimus „intellectus verus et falsus “, h. e. habi¬ tus de eo, quod in re
est vel non est, quos quulem intellectus in animo audientis prolata propositio
generai.... Sunt cursus vertim ac falsum no¬ mina proposti 1 onum, ut cum
dicimus ,,propositio vera vel falsa" i. e. veruni vel falsum intellectum
generane. Significant propositiones idem, quod in re est, vel quod in re non
est. Sicut enim nominum et verborum duplex ad rem et ad intellectum
significatio. ita etiam propositiones, quae ex ipsis componuntur, duplicem ex
ipsis significationem contrahunt, unam quidem de intelleclibus, aliam vero de
rebus.... Patet insuper adco, per propositiones de rebus ipsis. non de
intellectibus nos agere. — p. 240 s.: Restat itaque, ut de solis rebus, ut
dictum est, propositiones agant, sive idem de rebus, quod in re est, enuncient,
ut „homo est ani¬ mai, homo non est lapis “, sive id, quod in re non est,
proponant, ut „homo non est animai, homo est lapis “, ut etiam de
significatione reali propositionis, non tantum de intellectuali, suprapositae
[Prautl cor¬ regge: supraposita] propositionis diffinitio (Boezio, p. 291 [?
Corri¬ sponde a loc. ult. cit., Prooem., p. 7 ss.: PL, 64, 395-6]) possit
exponi sic significane veruni vel falsum, i. e. dicens illud, quod est in re
vel quod non est in re“, et in hac quidem significatione veruni et fal¬ sum
nomina sunt earum exislentiarum rerum, quas ipsae propositio¬ nes loquuntur.
Cum autem eamdem dijfinilionem et de intellectibus ipsis hoc modo exponimus
„significanles [Prantl: significane] verum vel falsum, h. e. generane secundum
inventionem suam de rebus, de quibus agitur. verum vel falsum intellectum “,
lune quidem ipsos nomi- nani [Prantl: nominai] intellectus. Nota autem, sive de
intellectibus sive de rerum existentiis exponamus, orationis praemissionem
necce-che la parola « praedicari » ha tre significati: vale a dire,ni primo
luogo la si usa, in modo affatto estrinseco, per significare la semplice
collocazione di un soggetto e di un predicato, imo di seguito all’altro, fatta
astrazione da qualsiasi contenuto reale; ma poi quella stessa parola concerne,
in doppio senso, la relazione, qual è data effet¬ tivamente nella realtà
obbiettiva, in quanto che, riguardo a quel tale processo di creazione (note 294
ss. e 312), il praedicari mette in rapporto con la materia del genere o il
formato ( materiatum ) o la forma ; tuttavia, com’è naturale, soltanto tale
relazione, espressa dal termine praedicari in queste due ultime sue accezioni,
è ciò di cui («de quo») tratta il giudizio: e in tale significalo praedicari
vai quanto esse, sicché, — in quanto non pos¬ siamo enunciare giudizi, se non
con parole — che im giudizio sia affermativo, o un altro negativo, e via di¬
cendo, queste son distinzioni che ricadon nell’orbita della modalità della
espressione 318 ). Inoltre c’è pur coinci¬ denza tra quel duplice riferimento
che può esser con¬ tenuto nei giudizi, e l’antica distinzione tra « de subie-
soriani esse. Qui la fonte si trova in Boezio, p. 321 [corrisponde a tm iM ' V/
7 64 ’ 437 ~ 8] -~ Cf "- anche la 347 - ) Unii., p. 366-7 : Tnbus autem
modis „praedicari “ sumilur : uno quidem secundum enuntiationem vocabulorum ad
se invicem in conslructione ; duobus vero secundum rerum ad se inhaerentiam,
aut cum videlicel in essentia cohaeret sicut materia materiato, aut cum alterum
alteri secundum adjacentiam adhaeret, ut forma materiae. Ac secundum
quidemenuntiationem omnis enunliatio.... praedicatum et sub- jectum li a bere
dicitur.... Sed non de his in propositione aeitur. sed de predicanone tantum
rerum, illa scilicet solum. quae in essentia, quae verbo subs,antico expnmitur.
consista!.... Tantum itaque ..praedi- can illud accipimus, quantum si „hoc Mud
esse 1 * diceremus. tantum per ,,removeri'\ quantum per ,,non esse 1 *.... Cum
itaque per ..praedi- cari , „esse accipiamus, superflue rei „rere“ vel ..
affermative “ appo- nitur: Quod emm est aliquid, vere est illud, affirmative
autem enun- tiatioms est determinano, quia tantum in vocibus consisti/
affirmatio sicul et modi vel determinationis oppositio [leggi con il Pronti
appo- sitio). Modus emm vel determinano (v. la Sez. XII, nota 119) tantum vocum
sunt designatila, quae solae moderanmr vel determinata [Prantl: determinantur]
in enuntiatione positae. c/o» e « in
subiccto » (v. la Sez. XII, nota 92), e la h>x praedicamenti ha la propria
sfera d’influenza proprio in quelle due accezioni reali del giudizio 31 °). Con
ciò ci è resa ora soltanto interamente perspicua la su riferita partizione
della dialettica (note 272 ss.) secondo Abelardo. Tutto sta nel sermo, cioè nel
giudi¬ zio. Ma è anche vero che gli universali sono i predicati che son nati,
che sono stati generati nel processo della creazione, e il pensiero li aff
erra, secondo la dottrina di Platone, e, secondo la logica di Aristotele, li
enuncia, come universali, nel giudizio: e anzi perciò Abelardo, accanto alle
solite quinque voces, ne annoverò ancora mia sesta, cioè anche l’individuo
(note 278 ss.), poiché l’individuo, quale prima substantia (Sez. XII, nota 91),
ovvero, come qui anche lo si denomina, quale princi- palis substantia, viene
designato appunto con quella pa¬ rola (vox), che corrisponde all’ultimo grado
del pro¬ cesso della creazione 3l2 °). Ma poi, giacché Abelardo con¬ siderava
la differenza specifica esclusivamente come forza efficiente, e non come tale
che passi essa medesima nella materia del genere (nota 295), egli si trovava a
dover prendere qui il nome della differenza non quale sostantivo, come aveva
fatto Guglielmo da Champeaux 319 ) Glossae in Categ ., p. 579 s. : omnia....
aut dicuntur de princi ’- palibus substantiis sibi subjectis.... servata lege
praedicamenti.... aut sani in eis subjectis. Un diverso modo di esprimersi, in
luogo di questo, si ha (ibid ., p. 585 s.) nella distinzione tra praedicari sub
- stantialiter e praedicari accidentaliter (Boezio, p. 131 \i.n 4r Praed I; PL,
64, 189]): cfr. la nota 322. m> ) Ibid., p. 584: species, in quibus
conlinentur principales sub- slamine.... genera et species ordinata post
principales substantias sola.... dicuntur secundac substantiae (e ripetutamente
a questa stessa ma- mera). p. 591 : Vere primae substantiae significanl aliquid
hoc indi¬ viduale, quia illud, qund significatur a prima substnnlia, scilicet
quae tox est sicut et consimilia (così si deve leggere secondo il mano¬ scritto,
con una piccola modificazione; la lezione del Cousin dà un controsenso), est
individuum et unum numero, i. e. parificalum nu¬ merali descriptione, i. e.
significatur ab hac voce, quae est individuum et unum numero. , bensì alle
obiezioni che su questo punto furono sollevate anche da altri (nota 122),
poteva sot¬ trarsi con l’interpetrare la parola che designa la diffe¬ renza,
come un aggettivo derivato da questa ( — « sump- , um » —,) ss)). Ma a quei
predicati nati seguono poi nelle Categorie le cose stesse, in quanto vengono
desi¬ gnate con parole — « naturae, quae vocibus designati- tur » — e per
conseguenza le categorie contengono le cose a22 ), mentre appresso vengono
prima di tutto con¬ siderate le parole, in quanto esse sono ciò che designa, e
costituiscono il passaggio al giudizio (sermo) stesso, che è composto da
quelle. [o) anche il preteso intellettualismo di Abelardo de¬ riva dal suo
aristotelismo]. — Ma allora il giudizio non contiene già le cose, bensì
contiene il pensiero ( in- telleetus), e invece tratta intorno alle cose, ma
non 321) Dialect., p. 456 : De nominibus dififerentiarum sciendum est, ut non
quidem substantiva, sed sumpta a dififierentiis sumantur, posita lumen loco
specierum. Oportet eitim in eadem significai ione vocabula dijjerentiarum sumi
in divisione generis, in qua significatione ipsa in dijfinitione speciei
ponuntur, cum scilicel nomini generali adjacent.... (p. 457) sicut in nostra
fixum est senlentia, nullo modo inter accidentia dififerentias admiltamus (v.
sopra le note 300 s.). Quod autem Porphyrius per dififerentias genus in species
dividi dixit, secundum eam dictum est sentenliam. qua naturam generalem in
species redigi atque distri¬ buì per susceptionem dififereniiarum realiter
voluit ; aut potius per difi¬ ferentias genus in species dividi voluit, cum
earum vocabula adjuncla nomini generis speciem designant, atque diffinìtionem
speciei compo- nunt. hoc modo „animai aliud ralionale, aliud irrationale animai
.‘ — Ihid , p. 189: In sumplis enim non ea, quae ab ipsis nominantur, com-
parantur, sed tantum fiormae, quae per iosa circa subjccta determinane tur ;
alioquin et subslantias ipsas comparaci contingeret, quae saepe a sumptis
nominibus nominantur, ut ab eo quod est album.... 322 ) lbid.. p. 209 e 245,
cioè due passi, che sono stati citati di già più sopra, nota 272. Ma vedi
inoltre a p. 220: Subiectarum vero rerum diversitas secundum decem
Praedicamentorum discretionem su- perius est ostensa, qua [Cousin: quae]
principale ac quasi substan- tialis nomini significano detur. Caeterae vero
significationes, quae se¬ cundum modos significando accipiuntur, quaedam
posteriores atque ac¬ cidentale* dicuntur. già ili quanto le significhi, bensì
in quanto contiene la connessione, afferrata dal pensiero, tra le cose e il
pro¬ cesso di creazione. Laddove per conseguenza il predi¬ care Tessere (nel
giudizio) non è esso medesimo un es¬ sere, nel predicare si tratta di uno stato
di cose reale, cioè della connessione obbiettivamente reale tra ciò ch’è
significato dal soggetto, e ciò cli'è significato dal predi¬ calo 323 ). Questa
distmzione fra « contenere » e « trat¬ tare » forma l’intimo nòcciolo della
concezione del giu¬ dizio secondo Abelardo 324 ). È ben vero, cioè, che il
predi¬ cato ha un suo aspetto grammaticale, e che, designando noi nel giudizio
una sola e medesima cosa con varie de¬ nominazioni (come per esempio quando
chiamiamo So¬ crate ora uomo, ora corpo, ora sostanza), appunto in ciò consiste
una differenza tra la espressione verbale e la realtà (efr. la nota 312); ma
mentre la praedicatio per eè sola, avulsa dalla obbiettiva rerum inhaerentia,
non è assolutamente nulla, precisamente la logica ha il compito di studiare il
giudizio, in questo senso, dal lato della espressione verbale S2S ). Anzi quel
che più importa è pro- 32S ) lbid., p. 241: Digrumi miteni inquisitione
censemus, utrum Mae existentiae rerum. quas propositiones loquiintur, sint
aliquae de rebus existentibus.... — p. 245: Clanim ilaqiie ex suprapositis
arbi¬ trar esse, res aliquas non esse ea, quae a propositionibus dicuniur....
Palei insuper, ea quae propositiones dieunt nullas res esse, cum vi- delicet
nulli rei praedicatio eorum apiari possit ; de quibus enim dici putest, quod
ipsa sint ..Socrates est lapis “ vel ..Socrates non est lapis"?. ...Esse
autem rernaliquam vel non esse, nulla est omnino rerum essentia. Non itaque
propositiones res aliquas designant simpliciter quemadmo- dum nomina. Imo
qualiter sese ad invicem habeant, utrum scilicel sibi conveniant annon,
proponunt ; quae idcirco verae sunt, cum ita est in re sicut enunciant, lune
autem falsae, cum non est in re ita. Et est projecto ita in re, sicut dicit
vera propositio, sed non est res aliqua, quod dicit. linde quasi quidam rerum
modus habendi se per proposi- liones exprimitur, non res aliquae designantur.
s24 ) Soltanto dall’avere disconosciuto questa differenza è derivato, che il
Cousin, e con lui l’Hauréau e il Rémusat, abbiano ravvisato nella dottrina di
Abelardo un intellettualismo o concettualismo. 3 “) Dialecl., p. 247 s.: Si
quis itaque secundum rerum inhaeren - tiam rcalem acceperit praedicationem ac
subjectionem , secundum id prio ciò, di cui il giudizio « tratta »; ma ciò non
è nè la parola nè il pensiero (intellectus), poiché non può dirsi che dalla
esistenza di tuia data parola venga posta la esigenza che esista un’altra
parola, e neanche sussiste, tra i pensieri, che i giudizi « contengono », una
reci¬ proca affinità che li leghi a forza: poiché in ciascun giudizio abbiamo
pure un unico pensiero soltanto, e ad ammettere che ne abbiamo parecchi insieme,
si arrive¬ rebbe alla conseguenza che avremmo al tempo stesso un numero
infinito di pensieri, essendo obbiettivamente, di fatto, contenuti in ciascuno
stato elementi infiniti in serie continua: invece solamente in ciò, di cui il
giu¬ dizio « tratta », deve trovarsi o fissarsi la connessione reale, ovvero
quell’obbiettiva relazione reciproca (nota 32 3) 326 ) : e perciò anche la
modalità della espressione, sia cioè affermazione o negazione o via dicendo (v.
la scilicet, quod unaquaeque res in se recipit ac subsistit, sicut nihil esse
eam viderel praeter ipsam, ita eam nihil esse per se ipsam invenerit. Al vero
magis praedicationem secundum verbo proposiiionis , quam se¬ di ndum rei
exislenliam, nostrum est attendere, qui logicae deservimus, secundum quod
quidem de eodem diversas facimus enuntialiones hoc modo Socrates est Socrates
vel homo vel corpus vel substantia. Aliud enim in nomine Sacratis quam in
nomine hominis vel caeteris intelli- gitur ; sed non est alia res unius
nominis, quod Socrati inhaeret, quam altcrius. V. inoltre il passo citato più
sopra, nota 255. 328 ) lbid., p. 352 s.: Neque enim veram Itane consequenliam
„si est homo, est animai “ de vocibus agentem possumus accipere, sive
diclionibus sive propositionibus. Falsum est enim, ut, si haec vox ..homo" existat,
haec quoque sit quae est ,.animai “ ; ac similiter de cnuntiationibus sive
earum intellectibus. Ncque enim
necesse est, ut qui intellectum praecedenti propositione generatum habet,
habeal quoque in- tellectum ex consequenti conceptum. Nulli enim diversi
intellectus ita sunt affines, ut ulterum cum altero necesse sit haberi, imo
nullos simul intellectus diversos animam retinere, ex propria quisque
discretione convicerit, sed totani singulis intellectibus, dum eos habet.
vacare in¬ venerit. Quod si quis essentiam intellecluum ad se sequi sicut
essentiam rerum, ex quibus habentur intellectus, concesserit, profecto
quemlibet intelligentem infinilos intellectus habere concederei, secundum id
sci- licei, quod quaelibet propositìo innumerabilia consequentia habet.... Ut
igitur verilatem consecutionis teneamus, de rebus tantum eam agere concedamus,
et in rerum natura regulas anteccdentis ac consequentis accipiamus. nota 318),
non risiede nè nelle parole nè nei pensieri, bensì è da ricondurre soltanto al
loro fondamento ob¬ biettivamente reale 32r ). [p) ma in Abelardo, vero spirito
aristotelico non c’è: il suo interesse centrale è volto, sotto l’impulso di
Boezio e dello stoicismo, alla teoria retorica dell'argomentazio¬ ne}. — Ma se
a questa maniera, secondo Abelardo, nel giudizio si ha clic fare non con il
pensiero ( intellectus ), ma con la inerenza di fatto nella sfera della
oggettività, si capisce ora altresì perchè egli (e il motivo al quale in ciò si
conforma, è dato dal giuoco di combinare assieme elementi stoici con elementi
boeziani) tratti il giudizio categorico solamente come un grado preparatorio al
giu¬ dizio ipotetico, nel quale ultimo s’inserisce la topica, come base della
sua validità. Il giudizio ipotetico, in quanto è complesso, ha anzi la funzione
di servire come espressione adeguata della connessione, e questa viene resa
manifesta nel procedimento dell'argomentazione, mediante ragionamenti, nella
ipotesi che le premesse abbiano, per chi ascolta, un valore di enunciazione espressiva.
Quel, cioè, che l’uomo pensante afferra con la mente, nella maniera rivelata da
Platone, ed enuncia con il giudizio, nella maniera fissata da Aristotele, deve
ora esser utilizzato per l’argomentazione, nella maniera propria della
tradizione retorico-ciceroni alia. Vale a dire che anche neH’argomentazione —
come viene osservato con tono polemico contro altri studiosi: v. la nota 225 —
non si tratta già dei pensieri ( intellectus ), bensì di quel medesimo oggetto
del quale trattano i giudizi, che costituiscono rargomentazione stessa, con
questa sola differen¬ za, che cioè qui la necessaria connessione (necessitas)
che ci si presenta nello stato di fatto obbiettivo, è nel RAGIONARE espressa
precisamente dalla sussunzione (inferentia): ne ad Abelardo sembra d’insistere
mai abbastan¬ za nel rilevare che la relazione di dipendenza tra antecedens e CONSEQUENS
non è data nel pensiero, ma, come esclusivamente obbiettiva, sussiste già da se
stessa nella natura creata, e nel fonda¬ mento reale di tutt i giudizi 329 ). L
perciò, anche a quel- 1 altro modo di vedere unilaterale, che abbiamo incon¬
trato più sopra (nota 215), egli nettamente contrappone la idea, che alla
modalità dei giudizi, anche relativa¬ mente ai concetti di possibile e di
necessario (del pari che più sopra, nota 327), sia da metter a fondamento una
modificazione obbiettiva dell’essere. Dicunlur in argumentis ea. quae a
propositionibus ipsis significantur. ipsi quidem inlcllectus, ut quibusdam
placet, quorum conceptio, SINE ETIAM VOCIS PROLATIONE, ad concessionem al-
terius ipsum cogit dubitantem. XJnde et bene rationis nomea in prae- missa
diffinitione (cioè in quella di Cicerone [intendi la definizione di CICERONE di
ARGVMENTVM ; Top., cap. 2, § 8]: vedila, riprodotta in BOEZIO, neljla Sez. XII,
nota 165) dicunt apponi ; ratio enim no- men est intcllcclus. qui in anima est.
Sed, si divisioni verbo altendamus, potius argumentum accipiendum erit in
designatane eorum, quae a propositionibus dicunlur, quam eorum intellecluum,
qui ab ipsis " e- nerantur.... Neque enim in propositione quidquam de
intellectu dicilur. sed, cum de rebus agitur, per ipsam intcllectus generatur,
qui neque in sua essentia necessilatem tenet, neque in/erentiam ad alterum ...
linde potius de bis, quae propositiones ipsae dicunt, supraposita diffinitio
....est accipienda. 3 “ 9 ) Introd. ad theól III. 7, p. 1134 [141] : Ex quo
apparet , quarti veruni sit,... in illa.... philosophorum regula , cujus
possibile est ante - cedens, et consequens, eos ad creaturarum tantum [142J nomea
accommo- dare [IL. 178, 1112]. — Dialect p. 239 s.: Ex his itaque manife- slum
est, in consequentiis per propositiones de earum inlelleclibus agen- dum non
esse, sed magis de essentia rerum.... Et in hoc quidem signifi- calione eorum,
quae propositiones loquuntur, una tamen exponitur re¬ gula, quae ait, posito
antecedenti, poni quodlibet consequens ejus ipsitts, h. e.: existente aliqua
antecedenti rerum essentia, necesse est existere quamlibet rerum existentiam
consequentem ad ipsam. — Ibid., p. 351: Si quis itaque vocum impositionem recte
pensaverit, enunliationum quarumlibet veritatem facilius deliberaverit, et
rerum consecutionis ne¬ cessitatali velocius animadverterit. — Parimente alle
p. 343 s. e 382. 33 °) Dialect.,
p. 270: Unde oportet, ut rcctae sint modales, ut etiam de rebus, sicut
simplices. agant ; et tunc quidem de possibili et impos¬ sibili et necessario ;
quod quidem tam in his, quae singultire subjectum hdbenl, quam in his, quae
universale, licei inspicere. Con
quel che siamo venuti dicendo intorno alla es¬ senza, al principio e allo
svolgimento della dialettica di Abelardo, crediamo di esser giunti a farcene
ima idea giusta e approfondita, che, ove ce ne fosse bisogno, po¬ tremmo noi
stessi avvalorare con un documento estrin¬ seco, servendoci di un epitafio 331
) composto in onore di Abelardo, da un suo contemporaneo. In questa dialet¬
tica, non è certamente spirito aristotelico quel che ci alita in fronte, bensì
di gran lunga più manifesto vi risentiamo l’influsso ammorbante dello stoicismo
(v. la Sez. VI, note 47-56), che s’era fatto strada negli scritti di Boezio;
poiché quell’associazione di mi rozzo empi¬ rismo con un motivo formale, dato
dal progresso verso mia sempre più complessa composizione, e con l’inte¬ resse
retorico delFargomentazione, prende — proprio là, dove Abelardo sacrifica
dappertutto i motivi logici, per considerare lo stato di fatto obbiettivo — il
posto di una sillogistica che torni veramente a profitto del sapere
definitorio: e a chi tenga presente la logica di Abelardo nel suo nucleo
centrale, egli appare come un retore che fa la teoria dell’argomentazione,
piuttosto che come un platonico o un aristotelico. Tuttavia egli è ampiamente
giustificabile, perchè delle opere principali di Aristo¬ tele, conosceva,
semplicemente per sentito dire, soltanto alcuni particolari frammentari (note
8-18), e in special modo perchè, dato, per un verso, 1 ordine irrazionale in
cui erano disposte le parti dell’Organon, come pure date, 881) Citato,
attingendo al Rawlinson, dal Rémusat, II. p. 101: Hic docuit voces cum rebus
significare , Et docuit voces res significando notare; Errores gencrum correxit
, ita specierum. Hic genus et species in sola voce locavit , Et genus et
species sermones esse notavit . Sigili* ficativum quid sit (questo, cioè, è il
giudizio: v. la nota 315), quid significatami Significans quid sit (questa è la
parola singola), pru- dens diversificar il. Hic quid res essenti quid voces
significar enti Luci - dius reliquis palefiecit in arte perilis. Sic animai
nullumque animai genus esse probalur. Sic et homo et \sed?] nullus homo species
vo- citatur [PL, 178, 104], per 1 altro verso, le idee che Boezio aveva prese
da Por¬ firio, era inevitabile che traesse origine da ciò mia con¬ cezione
contorta e contraddittoria. In Abelardo, e forse in tutti i suoi contemporanei,
si compie la vendetta del fatto che, da un lato la Isagoge e le Categorie
[delle quali, come sappiamo, il Franti contesta l’autenticità: v. la Sez. IV,
nota 5] si tengono più vicine al platoni¬ smo, e che d’altro canto, al tempo
stesso, nei libri suc¬ cessivi si trova contenuto l’aristotelismo; e inoltre
può darsi che Abelardo dal suo medesimo personale talento fosse portato a non
curarsi d’intendere più profonda¬ mente queste antitesi, e trascinato ad
assumere Patteg¬ giamento del retore. Si direbbe ch’egli, se fosse vissuto in
quei secoli più vicini a noi, sarebbe stato certamente un seguace di Pietro
Ramo. [ql continua l'analisi del contenuto della Dialettica: le Categorie]. —
Ma adesso ci rimane il compito di se¬ guire, anche attraverso le singole parti
della dialettica. Io svolgimento che questa ha avuto da Abelardo, il quale ci
si presenta sulla stessa linea degli altri autori di cui sopra, che hanno
promosso le particolari controversie già ricordate, e dei quali ci è ignoto il
nome. Seguendo la partizione dello stesso Abelardo (no¬ te 2,2 ss.), dobbiamo
supporre colmata la lacuna del testo qual è a noi giunto, dovuta alla mancanza
degli Antepraedicarnenta , e pensar di essere già stati condotti così a
trattare le questioni più generali, e che più pro¬ priamente si posson dire
questioni di principio. Agli An¬ te praedicament a tien ora dietro la seconda
Sezione della prima parte principale, cioè i Praedicamenta, do¬ ve, come ben
s’intende, è preso a fondamento Boezio, che viene ormeggiato a passo a passo. I
concetti di uni- vocum, e simili, conforme a quanto abbiamo detto più sopra,
sono naturalmente di spettanza dell [a teoria della predicazione, in quanto
quest’ultima ha anche un] aspet¬ to grammaticale 332 ). La categoria della
substantia, che altrove, d’accordo con il de Trin. del Pseudo-Boezio, viene
intesa anche come subsistentia 333 ), è l’atta qui og¬ getto di una
trattazione, che in tutto e per tutto si man¬ tiene nel più pieno accordo con
Boezio 334 ). Più minutamente è presa in esame la quantità, seb¬ bene qui
Abelardo si dovesse appoggiare a quel che n’era stato detto da altri, perchè,
com’egli medesimo confessa, era ignorante di aritmetica M5 ) ; egli consente
con coloro Icfr. le note 109 e 127), i quali eran di opi¬ nione che la linea
consista di punti 33 °), e, riguardo al concetto di numero, si attiene al
principio della unità naturale, condizionata dal processo della creazione (no¬
ta 304) : per conseguenza, in contrasto con le su riferite opinioni di altri
(note 199 s.), qui il fondamento reali¬ stico è formato dal singolo, in quanto
è particolare, co¬ sicché da un lato il « numero in generale » include già la
pluralità e ha lo stesso significato che « [le] unità », e d’altra parte i
diversi numeri determinati sono, come sostantivi, le denominazioni di diverse
unità collettive su¬ periori, in maniera comparabile con il procedimento col¬
lettivo, onde, secondo diversi punti di vista, raccogliamo 332 ) Così,
occasionalmente, Dialect., p. 480: Hoc ituque nomea, quoti est aequivocum sive
univocum, ex vocabulis tantum in rebus con- tingit. 333 ) Introd. ad theol.,
II, 10. p. 1071 [88]: Unde et subslanliae quasi subsistentiae esse dictae sunt,
et cactcris rebus, quae ei assistunt, [ci] non per se subsistunt. naturaliter
priores sunt [PL, 178, 1060], 334 ) Dialect., p. 173—178. (Il testo del
manoscritto incomincia pro¬ priamente soltanto a mezzo della categoria
substantia, cioè in corri¬ spondenza con Boezio [in Ar. praed., I: PL, 64,
187-8], p. 133). 333 ) Ibid., p. 182: Etsi multas ab arithmeticis solutiones
audie- rim, nullam tamen a me praeferendam judico, quia ejus artis ignarum
omnino me cognosco. 336 ) Ibid. : Talem autem, memini, rationem Magistri nostri
senten- tia praetendebat, ut ex punctis lineam constare convinccretur.... — (p.
183) Alioquin supraposita Magistri sententia , cui et nostra con¬ sentii, etc. le
cose ili specie, o sottospecie, o altrimente ili gruppi 337 ). In quanto che
nello stesso luogo si deve trattare anche del discorso umano inteso come
alcunché di quantita¬ tivo, Abelardo combatte il modo di vedere unilaterale,
che abbiamo trovato più sopra, onde si ritenne che fosse l’aria a adempiere
l’ufficio di «significante»: e, asse¬ gnando egli invece al suono questa
funzione di « signifi¬ care », va in cerca di autorità che suffraghino tale sua
opinione 338 ). Ma, immediatamente dopo la quantità, fa posto alle categorie
ubi e quando, come a quelle che per natura sono collegate, nella loro origine,
con i concetti di luogo e di tempo, presi hi esame nella trattazione della
quan¬ tità 339 ), e mentre così intende quelle due categorie in 337 ) P- 186:
[numerus] semper.... in natura discretionem habct, qui solam unitatis
parlicularilatem requiril.... cum nomea numeri plurale simpliciter videatur
atque idem cum co, quod est unitates.... — p. 189: Unde opportunius nobis
videtur, ut, sicut supra tetigimus, numeri no¬ mea substantivum tantum sii ac
particulare unitatis, atque idem in significai ione quod unitates. Binarius
vero vel ternarius cacteraque nu - merorum nomina in/eriora sunt ipsius
pluralis, sicut homines vel equi ad animalia, aut albi homines et nigri, vel
tres vel quinque homines ad homines. Et fonasse quoniam omnia substantiva
numerorum no- mina in unitalibus ipsis pluraliter accipiuntur, omnia ejusdem
singu- laris pluralia poterunt dici, secundum hoc scilicet, quod diversas uni-
tatum collecliones demonstranl (c£r. la nota 307). Numerus quidem simplex
metialur plurale, alia vero secundum certas collectiones deter¬ minala. A ciò
fa poi seguito il passo citato più sopra, nota 199. Cfr. anche alla p. 421:
Haec enim unitas hominis Parisiis habitanlis et illa hominis Romae manentis,
lume f aduni binarium. Unde sola uni- latum pluralitas numerimi perfidi. — Così
pure a p. 486. ) P* 190: Nos autem ipsum proprie sonum audiri ae significare
concedimus.... — p. 192: unde et Priscianus ( Inst. gramm., I, 1 [ed. Hertz, p. 5]) ait, voccm
ipsam tangere aurem, dum auditur, ac cursus ipse Boethius (deMusica [cap. XIV: PL,63, 1177], p. 1071 [della ediz. delle Opere
di Boezio, Basilea 1546, cit. dal Cousin: p. 1379 della ediz. di Basilea 1570,
alla quale, come s’è visto, suol riferirsi il Prantl]) totam vocem.... ad aures
diversorum simul venire perhibet, dopo di che ci si richiama ancora, con le
seguenti espressioni, di forma singolare, ad Agostino e a Boezio (p. 193):
Ipsum etiam Augusti- num in Categoriis suis asserunt dixisse..., e etiam
Boethius dicitur in libro musicae artis.... [194] adhibuisse. 33 °) P- 195:
Hactenus de quantitale disputationem habuimus. Nunc ad tractalum
pracdicamentorum reliquorum operam transferamus, eaqtie geuso realistico,
includendovi anche p. es. il concetto di « ieri » * * 3 '* 0 ), arriva, per via
dell’« essere nel luogo » e del- T« essere nel tempo », a considerare i vari significati
di « messe » 341 ), ma cerca, in contrasto con obiezioni di al¬ tri, riferite
più sopra (nota 194), le quali mettevano in campo l’analogia con l’avverbio
interrogativo qualiter, di assegnare quell’espressioni concernenti l’inesse,
all’uso del linguaggio secondo la grammatica 342 ), e di giustifi¬ car invece
quelle due categorie, come tali, con la consi¬ derazione che in quelle è
possibile una comparazione, e che pertanto non è il caso di ricondurle alla
quantità, la quale esclude ima comparazione 343 ) : a ciò del resto si lega
ancora il lamento che Aristotele sia stato in ge¬ nerale così parsimonioso
nella trattazione delle ultime sei categorie 344 ). posi quantitatem exequamur,
quae ei naturalitcr adjuncta videntur ac quodam modo ex ea originem ducere ac
nasci. Ilaec aulem ., quando *" ei ..ubi." nominibus Aristoteles
designai. Quorum quidem alterum ex tempore , alterum ex loco duxit exordium.
***) p. 196: v. sopra la nota 196 [reclius 197J. 3)l ) p. 197 : Quum aulem et
..quando" in tempore esse et ..ubi" in loco esse determinamus, non
incommodo hoc loco demonstrabimus, quot modis ..esse in aliquo" accipimus
; Boelliius autem in edilione prima [198] super Categorias novem computai (dei
quali modi segue qui la enumerazione, ricavata da Boezio [in Ar. praed., I; PL,
64. 172], p. 121: v. Sez. XII, nota 92; il Cousin si scandalizza, per non aver
trovato questo passo di Boezio !). 3 «) p. 200: Si quis autem „qualità ■“ dica!
nihil aliud quam quali- tatem demonstrare, et ..ubi"' dicemus nihil aliud
quam locurn designare , vel „ quando “ nihil aliud quam lempus. Unde et carlini
definitiones recte vel „in loco esse “ vel „in tempore [esse]" dicimus,
quae, si gram- maticae proprietatem insistamus, nihil aliud a loco vel tempore
diver- sum ostendunt.... Videntur itaque magis prò nominibus accipienda esse
..esse in loco “ vel ..esse in tempore", quam prò definitionibus. M3 )
Ibid .: Haec autem generalissima ipsa, ut arbitror, compara- tionis necessitas
meditari compulit. Cum enim quantitates non comparaci constarci (Boezio [in Ar.
praed.. II; PL, 64, 215], p. 154), non po- teramus comparalionem ,,diu “ vel
„diuturni “ vel ..extra" ad tempus vel locum reducere: indeque maxime
inveniri pracdicamentu arbitror, ad quae illa reducantur. 3M ) Ibid. : Ac de his
quidern praedicamenlis difficile est pertractare, quorum doctrinam ex
auctoritate non habemus, sed numerum tantum. Ipse enim Aristoteles, in tota
praedìcamentorum serie, sui studii operam Nella controversia intorno alla
categoria della rela¬ zione (v. sopra la nota 192), Abelardo finisce con il de¬
cidersi a favore dell’autorità della definizione aristote¬ lica 3, * n ), e
così pure la questione del posto da assegnare ai concetti di simile e di uguale
(nota 193) è da lui ri¬ solta nel senso che essi appartengano alla qualità 346
). [r) i PostpraedicamentaJ. — I Postpracdica- menta poi, che costituiscono la
terza Sezione del Liber partium, contengono, come si è veduto (nota 272), la
trattazione del nome e del verbo, in quanto questi so¬ no i modi di significare
le cose, e vengono considerati quali parti, da cui il giudizio, come totalità,
è costituito. La opinione di Abelardo, riguardo al concetto di si¬ gnificavi o
significatio, da noi precedentemente messa in chiaro, lo porta qui a
dichiararsi d’accordo con quel Garinondo (nota 82), ch’era un nominalista
moderato, e ìwn nisi qualuor praedicamerUis ndhibuit, Substanliae scilicct.
Quan¬ titali, ad Aliquid, Qualitati ; de Facere autem vel Pati nihil aliud
docuit , nisi quod contrarietatem ac comparalionem susciperent.... De reliquis
autem qualuor. Quando scilicet. Ubi, Situ, Ilabere, eo quod ma¬ nifesta sunt,
nihil praeter exempla posuit.... De Ubi quidem ac Quando, ipso quoque
attestante Boethio (p. 190 [in .-Ir. praed., HI; PL. 64, 262 s.].), in
Physicis, de omnibusque altius subtiliusque in his libris, quos Metaphysica
vocat, exequilur. Quae quidem opera ipsius nullus adirne translator lalinac
linguae aplavit ; ideoque minus natura horum nobis est cognita. Cfr. più sopra
la nota 18, dove abbiamo dovuto accennare di già alla integrazione, portata più
tardi da Gilbert de la Porrée: v. appresso le note 488 ss. Ms ) p. 204:
Aristoteles de imperfcelione restrictionis sicut Plato de acceptatione nimiae
largilatis culpabilis videlur ; uterque enim modum excesserit, alque hic quasi
prodigus, ille tanquam avarus redarguendus. Sed et si Aristotelem
Peripateticorum principem culpare praesumamus, quem amplius in hac arte
recipiemus ? Dicamus itaque, omni ac soli relationi ejus diffìnitionem
convenire eie. 346 ) p. 208: At vero, cum similitudo relationibus aggregetur
(Boe¬ zio [in Ar. praed., II; PL, 64. 219], p. 157),.... non videtur secundum
solas qualitates simile dici.... His autem. qui simile ac dissimile inter
qualitatcs computant (Boezio [in Ar. praed., Ili; PL, 64, 259], p. 187),
monstrari potcst, res quaslibct in eo, quod dissimiles sunt, esse similes....
At fortasse non impedit , si in eo, quod dissimilitudinem participanl, similes
inveniantur (si attiene cioè al passo ult. cit. di BOEZIO. pertanto scorgeva la
essenza della significazione non nella parola come tale, bensì nel contenuto
concettuale della parola stessa: un modo di vedere, questo, che Abe¬ lardo
trova confermato da passi di Boezio ,7 ). Nella di¬ sputa intorno alla
questione, se le preposizioni e le con¬ giunzioni sieno da considerarsi come
parti del discorso ( nota 206), cerca di conciliare i punti di vista imilate¬
rali dei grammatici e dei dialettici, attribuendo bensì a quelle parti del
discorso la capacità di significare, ma ri¬ conducendo questa capacità, alla
stessa maniera che la modalità della predicazione (note 327 e 330), a una mo¬
dificazione obbiettiva 348 ); onde, come si vede, anche se¬ condo la opinione
di Abelardo, i così detti byncatego- reumata (cfr. le note 174 e 206)
dovrebbero coerente¬ mente trovar posto in una o nell’altra parte della lo¬
gica- . . Ma in tutto il resto egli si tiene strettamente vicino a Boezio, e
cerca di confutare obiezioni, sollevate da al¬ tri 349 ), cogliendo la
occasione che di ciò gli era offerta. sn\ 210, dove alle parole già citate
(nota 82) fa seguito im¬ mediatamente: linde manifestimi est, eos velie
vocabula non omnia illa significare, quae nominimi (che p. es. animai non «
significhi » •ria senz’altro homo), sed ea tantum, quae definite designata, ut
animai se, Hat animai sensibile, aut album albedinem, quae semper m ipsis
denotanlur. Quorum scntentiam ipse commendare Boethius (p. bij ['«' divisione:
PL, 64, 877]) videlur, cum ait in divisione vocis „vocis attieni in proprias
significationes divisto fit etc .(p. ZÌI) Oiiamen sanificare" proprie ac
secundum rectam et propnam ejus dijjinilio- nen, signamus, non alias res
significare dicemus, msi quae per vocem concipiuntur. — Cfr. la nota 317. 348 )
p. 217: llla ergo mihi sententia praelucere videtur, ut gram¬ matici consentientes,
qui eliam logicae deserviunt, has quoque per se sisnificativas esse
confiteamur, sed in eo significatwnem earum esse dicamus, quoti quasdam
proprietates circa res forum vocabulorum, qui- bus apponi,ntur praepositiones,
quodam modo determinerà.... t.onjunc- tiones quoque, dum quidem rerum
demonstrantconjiinctionem, quamdam circa eas determinant proprietatem. — Cfr.
la nota 620. ;n ») p eg- 219, dove di fronte alla obiezione ricordata piu sopra
(nòta 210), si osserva: Veruni ipse verbo deceptus erat, ac prave id ceperat ,
verbum dicere rem suam inhaerere. così relativamente a quei giudizi (nota 211)
che non im¬ plicano la esistenza effettiva del proprio soggetto 35 ), e questo
nesso, che consiste in quella ri¬ spondenza, onde i due concetti son riferiti
uno all’altro, è ciò per cui si distingue esso giudizio dal giudizio ca¬
tegorico: questo cioè enuncia la semplice esistenza, men¬ tre l’ipotetico c
valido con assoluta necessità, fatta astra¬ zione dalla esistenza delle cose,
ma appunto per questo ricorre all'aiuto dei loci, relativamente a ciò che non
può desumersi dalla semplice realtà 396 ). In questo senso ex loco firmitalcm
halent. Cujus quidem loci proprietas hacc est : vim inferentiae ex habiludine,
quarti habet ad terminum illatum, conferre consequentiae, ut ibi tantum, ubi
imperjecta est inferentia, locum va¬ lere confiteamur.... Hoc ergo, quod ad
per]eclionem inferentiae deest, loci supplet assignatio. La deno mutazione « inferentia » è derivata dal
termine boeziano « inferre » : e così parimente anche la idea che la
consecuzione abbia a fondamento il nesso della necessità, è presa da Boezio: v.
la Sez. XII, note 153 s. 301 ) p. 330 s.: Quae enim in ea ponuntur vocabula,
essentiae tan¬ tum, non habitudinis, sunt designativa, ut « homo » et « animai
» et « lapis». Qui itaque dicuut « si est homo, est animai, si est homo, non
est lapis», nullo modo de habitudinibus rerum, sed de essentiis agunt, ila....
ut, si aliquid sit essentia hominis, et essenlia animalis esse con- cedatur, et
lapidis subslanlia esse denegelur. 39S ) p. 336: Quod autem veritas
hypotheticae propositionis in ne¬ cessitate consistat, tam ex auctoritate quam
ex ralione tenemus. Questa maniera d’intendere il giudizio ipotetico sembra
essere stata, in modo speciale, peculiare di Abelardo. (Jon. Saresb. Polycr.
II, 22, p. 122 [ed. Webb, I, p. 129]): Solebai nostri temporis Peripateticus
Palalinus omnibus his conditionibus obviare, ubi non sequentis intei- leclum
anlecedentis conceptio claudit, aut non antecedentis contrarium conseqitentis
destructoria ponit, eo quod omnes necessariam tenere consequentiam velint. —
Dello stesso, Metalog., Ili, 6, p. 138 [144]: Miror tamen quare Peripateticus
Palatinus in ipoteticarum iudicio tam artam praescripseril legem....
Siquidem.... ipotelicas respuebat, nisi manifesta necessitate urgente [PL, 199,
453 e 904]). 39 °) p. 343: Categoricarum autem propositionum veritas, quae re¬
rum aclum circa earum existentiam proponil, simul cum illis incipit et desinit.
Hypotheticarum vero sententia nec finem novit nec princi- pertanto, nelle discussioni dialettiche la
concessione fatta daH’mterlocutore va intesa, fatta astrazione dalla sua esatta
corrispondenza alla realtà, come una tale neces¬ sità 3B7 ), e nel giudizio
ipotetico non si tratta già, come taluni ritengono (nota 228), de’ suoi singoli
membri, bensì proprio di tutto quanto il nesso tra antecedens e consequens 3BS
) ; inoltre, per la medesima ragione, nel giudizio disgiuntivo, come già è
stato mostrato da Boezio (v. la Sezione XII, nota 141), è semplicemente da rav¬
visarsi un’altra forma di enunciazione del giudizio ipo¬ tetico 3BB ). Li base
a tale fondamento si parla poi, d’ac¬ cordo con Boezio, delle cosi dette «
maxitnae proposi - tiones » (v. ibid., nota 165), le quali, in polemica con le
idee di altri (v. sopra la nota 228), vengono ristrette alla forma del giudizio
ipotetico 1B0 ). Indi fan seguito pium. Ulule el antequam homo et animai creata
Juerint, vel postquam cliam omnino perierint, aeque in veritate consisti! id,
qupd haec conse- quentia proponit « si est homo animai ralionale mortale, est
animai ». — p. 347: Quia vero calegoricae enuntiationes actum rerum proponunt
quuntum ad enuntiationes inhaerentiae praedicati. actus vero rerum ex ipsarum
rerum praesentia manifestila est, necessitas autem infe- rentiae ex aclu rerum
perpendi non potest, quae acque, ut dictum est, et rebus existcntibus et non
existentibus. permanet, arbitror. hinc. lo- cum tantum in hypotheticis
propositionibus requiri ; cum de vi infe- rentiae rerum earum dubitatur, quae
ex actu rerum convinci non possimi. 3BT ) p. 342: Ncque mirri dialecticus
curai, sive vera sit sive falsa inferentia proposilae consequenliae, ilummodo
prò vera eam recipiat ille, cum quo sermo conseritur.,.. Seti liaec....
concessio vcrae inferen- tiae in necessitate recipienda est. >W) p. 353: Quidam lamen
has regulas non solum in tota antecc- ilenlis et consequcntis enuntiatione ,
veruni ctiam in terminis eorum assignaiUes.... Sed.... regulae sunt accipiendae
in his, quae tota pro- positionum enuntiatione dicuntur. 3 »s) p . 368: Quoti
autem antecedens et consequens in disjunctis quoque lloethius accipit, non ad
renna essentias, sed ad enuntiatio- num constitutionem respexit ....Quod ex
resolutione disjunctae di e no- sci tur ; ex qua etiam resolutione.
hypothelicae, i. e. condilionales, dis- junctivae quoque sunt appellatae. 40 °)
p. 359 s.: Maximarum.... proposilionum proprielales inspi- ciamiis, quibus
quitlem singularum veritas consequenliarum expri- mitur, quaeque ultimam et
perfeclam omnium consecutionum proba- tionem tcnent.... Cum itaque diximus, eas conseculionis sensum habere,
categoricas enuntiationes exclusimus. i singoli loci, e qui Abelardo, esclusi
quelli retorici, vuole metter in campo solamente i dialettici 401 ); l’or¬ dine
di successione in cui son disposti, trova fondamento in Boezio, che, trattando
di questo argomento, cerca (de dijf. top . : v. la Sez. XII, nota 168) di
accordare i loci di Temistio (Sez. XI, nota 96) con quelli cicero¬ niani
‘"'); ma la conchiusione è costituita da osservazioni sopra
^argomentazione in generale, e sopra la impor¬ tanza che han per la retorica la
induzione e l’enti- mema 40S ). Come già più sopra (nota 222) è stato rile¬
vato, la dichiarazione dei singoli loci consiste nella indi¬ cazione ed enumerazione
di « regole », fissate secondo l’uso delle scuole: e anche nella esposizione
dello stesso Abelardo si fa manifesto, hi connessione con quel che 401 ) p. 334
: Illud praesciendum est, nos, qui haec ad doctrinam artìs dialecticae
scribimus, eos solum laens exsequi, quibus ars ista consuevit uti. 102 ) In
confronto con quell’ordine di successione [seguito da Cas- siodoro], del quale
abbiamo dato notizia nel 1° voi. (Sez. XII, nota 184), la materia si dispone
qui nella forma seguente: Anche qui (p. 368) si presentan da principio i loci
tratti dalia sostanza stessa, cioè a diffinitionc, a descriptione, a nominis
inter pretal ione ; ma ap¬ presso vengono, in una scelta risultante da una
combinazione di elementi derivali da Temistio c da Cicerone, i loci che son
tratti dalle conseguenze della sostanza (p. 375), cioè a genere, a toto, a par-
tibus divisivis, a partibus constilulivis, a pari, a praedicato, ab ante¬
cedenti, a consequenli ; a questi fan seguito (p. 386), come loci presi
extrinsecus, solamente le sottospecie del locus ab oppositis, cioè a relatione
(inclusi simul e prius), a contrariis, a privatione et habitu, ab ajfirmatione
et negatione (in questa trattazione delle quattro spe¬ cie di opposizione vien
tirata dentro quasi per intiero la corrispon¬ dente Sezione delle Categorie);
poi, come loci medii, seguono a re¬ lativi^, a divisione et parlitione, a
conlingenlibiis, e sono quindi indi¬ cati inoltre a compimento — come quelli
che vengono raramente in uso (p. 409 : sunt autem alii, quibus diabetici raro
ac nunquam fere utuntur, quos tameri Boethius.,.. non praetermisit) — tra i «
loci» ex consequentibus substantiam, quelli a causa, a materie, a forma, a
fine, a motu. Del resto in tutta questa Sezione il Cousin si è spesso limitato
ad accennare con intestazioni di titoli l’ordine della succes¬ sione, senza
pubblicare il contenuto stesso. 4 " 3 ) p. 430 ss. I passi ai quali
attinge qui Abelardo, son presi da Boezio, de dijf. top., su cui si fondano
queste notizie: v. la Sez. XII, note 82 e 137. »i è visto più sopra (nota 228),
a quanto muneroso con- Lvorsic generale abbi. 1. ..pi» tonato nelle svuole
l’argomento e la occasione 404 )- r z) i sillogismi ipotetici. Giudizio
conclusivo sopra l'opera di Abelardo]. - Infine nel Liber hypo , h e ticorum,
cioè nella teoria dei gtudtzi e 8 dlo gismi ipotetici, viene ora riprodotto per
urti ero d con tenuto dello scritto di Boezio de syll. hypoth Attui trendo a
tale scritto, Abelardo incomincia con lo syol aere per prima cosa 406 ) la
partizione del gmdmo ipo tetico (v. la Sez. XII, note 139 ss.), e,
relativamente ai giudizi che s’iniziano con la congiunzione « cum » n( . h ,, intorno alla causa efficiente e a
motu (p. 41.5 ss.) si e g . 376 8B .) causalità divina del creatore de mondo H
locas « ge ^ Crca . porla a prender in coimderazione il processo Stendere il
locus a ..one e così comdde cernii m iUimit; , ta ,nenie universale praedicato
(p. 484), i fi incontriamo qui la ter- (p. 381). A proposito del Incus
°*>opP - 4fl7 . comp lexa autem miuologia « complexa » c « in P ^ ^ cod em
contraria cnun- contraria eas dicimus proposilionc , 7 acgerrt). e così pure
tiant hoc SS* immediata inferra- « constantia » (p. 408 [nassunto ue ' imme
diMa smt ; qiiam linai habeant , adjietendumesse..ag»J p hrdus]) _ Abelardo ìss'ù.w
ù. >. (v. le note 18 e 344). 405) p. 437-439. tici 406 ); inoltre combatte la opinione già
ricordala (nota 218) di altri, relativamente alla posizione del « vel.... vel »
nei giudizi disgiuntivi 407 ). Ma è poi notevole quel che vien detto appresso,
circa la conversione dei giudizi ipotetici; questi cioè, quando sono in forma
disgiuntiva, potrebbero esser convertiti simpliciter (scambiandosi di posto i
termini della disgiunzione!), e lo stesso potrebbe pure ripetersi del giudizio,
che contenga [la enuncia¬ zione di] una [relazione di] contemporaneità, e che
inco¬ minci con «cum»; invece, quando si tratti del giudizio propriamente
ipotetico, fondato sopra il nesso della ne¬ cessità naturale, il principio
fondamentale, a tutti noto, della consequenlia (vedilo in Boezio, Sez. XII,
nota 145) sarebbe da prendere [cfr. ibid., nota 130] nel senso che qui si dia
un caso di conversiti per contrapositionem 40S ). Ma se questo preteso
compimento della teoria tradizio- 40 "««■ sed ad conceptus tummodo
leritatem Aeque cairn unus est intellectus ..lapis ratio,la- multos intellectus
' *“"iplicem l’ero intellrctum dicimus muuos intellectus ab invicem
dissolutos , ut si dicam animai" pauluhim quiescens, addam „rationale'\ ’
Cfr iuvece ' 4 ?» C " Abc,:!r US Wmim ■ P erso ' lalem discreti,m,m
attendimi, h. e. simpliciter hominem excogilo, ,n eo scilicel tantum, quod homo
est i e animai rat tonale mortale, non edam in co, quod esVhic ho moti file
ri!!ru rSale h “ J iu ‘ c ", s “hslraho individui s. SU itaque abstractio
supe¬ rna r‘ l "- feTtor , lbus : «“ scilicet universalium ab individui
per praedicationem subjecds, sme Jarmari,m a materiis per fundationem no/,
Subtrac "° f ero e con, rario dici potest,... cum alìquis subjeclae
naturam essenti,,,- absque omn, forma nidtur speculari. Uterque autem mtellectus, tam
abstrahens scilicel quam subtrahens, aliter quam res se habet concipere V,
detur.... p. 482: Nusquam enim ita pure subsistit S
smt“- Pl T C ° n rP llUr '- E *. m,ìla esl na •)■ p. 93 a: Non vidctur ergo
transferenda conversatio dialeclicorum ad huiusmodi propter inconvenientia....
— 33, p. 91 b: Quod ergo dica Johannes Damasceni is (v. la Scz. XI. nota 170),
non ita accipiendum, ut universalia et individua ita accipiantur sicut in
philosophicis di- sciplinis.... Si quaeratur, an hoc praedicabile ,.deus“ sii
universale rei CARLO PRANTL tavia in molte delle sue trattazioni al De
Trinitate del Pseudo-Boezio (v. le note 35 ss.), e anzi con la comica
osservazione che quello scritto è fdosofico (!) più che teologico, e che perciò
non si deve lasciarsene sviare 451 ) ; inoltre la distinzione della sostanza
come soggetto e della sostanza come forma, del pari che la distinzione della
forma sostanziale come produttrice dell’individuo e come suscitatrice delle
specie e dei generi, ci fan soltanto ve¬ dere il realismo platonico-teologico
nella sua forma più rozza 452 ). Parimente nel suo contemporaneo Roberto da M e
1 u n [m. 1167], molto celebrato per la sua superfi- ciale abilità nella
dialettica 453 ), si trova nient'altro che il solito realismo ontologico, il
quale teoreticamente è tanto ottuso da non poter in generale interessarsi ai
momenti individuimi, neutrum hic admittendum [PI,, 211 922 e 921], E tutta¬ via
fu anche lui accusato di eresia : v. lu nota 478. 451 ) Ibid., I, 4, p. 8 b:
Ideo imponitur Boelio, quod illam diffmi- tionem (cioèfdi persona ) magis
posuit ut philosophus, quam ut thcolo- P" s - — 32, p. 93 b. : Sed nostri
thcologi plerique non habent illam diffinitionem prò aulhentica, quia magis
Juit philosophus quam theo- ^^923 I {t mag * S
“) Ibid,, 1,6, p. 12 a: Subslantia a subslando dicitur ipsum sub-
jectum, quod substat Jormis, sive sit corpus sive alia res. Substantia a subsistendo
dicitur forma, quae adveniens subjecto illud subsistit, i. e. sub se et aliis
Jormis sistit, i. e. substare sibi et aliis Jacit , sìcut imago sigilli
ceram.... Sed substantialis forma duplex est, vel
quae facit „quis“, et lalis est omnis individualis proprielas, i, e. individuo
et proprio nomine, ut Platonitas, cujus parlicipatione Plato est quis ; vel
quae facit „quid“. ut speciale vel generale, i. e. quae speciali vel gene¬ rali
nomine significatur, ut humanitas, animalitas, cujus participa- tione Plato est
..quid", non vero „quis“ [806-7], 4M ) Joh. Saresb. Metal.. II, 10, p. 78 s.
(ed. Giles [e Webb]): Sic ferme loto biennio conversatus in monte (cioè Sanctae
Genovefae), artis huius praeceploribus usus sum Alberico (v. sotto la nota 521)
et magistro Rodberto Meludensi (ut cognomine designetur quod meruil in scolarum
regimine, natione siquidem Angligena est); quorum al¬ ter.... Alter aulem (cioè
Roberto), in responsione promptissimus, sub- terfugii causa propositum numquam
declinavit articulum, quia alteram contradictionis partem eligeret ani
determinata multiplicitate sermonis doceret unam non esse responsionem.... In
responsis perspicax , brovis et commodus [PL logici, oppure, dove s’interessa,
si mostra appunto in tutta la sua debolezza, come p. es. quando si polemizza
contro chi riconosce carattere unitario al significato che è racchiuso in « est
», e a quello ch’è racchiuso in « ens » 154 ). Ma per conseguenza non fa
maraviglia che gli scolari di questo Roberto vilipendessero la Topica
aristotelica, giudicandola un libro inutile (v. sopra la nota 29). [§ 35. —
Gilbert de la porrée: a) il commento al De Trinitate del Pseudo-Boezio :
posizione teoretica inge¬ nua e contraddittoria]. — Invece LnGilbert de la
Porrée (nato a Poitiers, e perciò detto anche Pietà- viensis, morto nel 1154)
l’alterco dei teologi intorno alla Trinità ha dato occasione a una concezione
logica, net¬ tamente determinata, riguardo agli universali, e bisogna pertanto
che ci teniamo presente più da vicino, oltre allo scritto De sex principila,
reputato di grande importanza nei secoli successivi, anche il commento dello
stesso Gil¬ berto al De Trinitate del Pseudo-Boezio 45 °). Che Gilberto
conoscesse di già gli Analitici di Aristotele, è stato ricor¬ dato già più
sopra (nota 21); tuttavia, fatta astrazione da quella citazione, egli in realtà
non trae ulteriormente 1M ) Oltre alle notizie che si trovano nel De Bollai',
Hist. Uni- versitatis Paris., II. p. 264 [ivi, p. 585—628, testi di R. da M.],
I’IIauréaU, de la phil. scolasi., I, p. 333 ss. [Hist. de la ph. scol., I, p.
491ss.], ha riprodotto ancora vari tratti da manoscritti ; di quel ch’egli
riferisce, poiché tutto il resto non ha che fare con il nostro presente
intento, può citarsi, riguardo a un punto di logica, il passo seguente (p. 333
[492]): Has verovoces „esl“ et „ens** ejusdem esse significa- tionis, omnes philosophicae
clamitanl scriplurae. In istis ergo locutio- tlibus ,,tiiundiis est ens**,
..mundus esf”, terminis oppositis idem signi¬ ficatile; sed nullus tanta
amentia ignorantiac excaecatus est, qui aliquam harum vocum „essentia, est ,
ens** in illa significalione retenta, in qua creaturis convenit , Deuni vcl
essenliam divinam significati praesumut, e via dicendo [Su Rob. da Melun, v.
ora Uebervveg-Geyer, p. 272 e 276-8], «*) Riprodotto a stampa nel voi. delle
Opere di Boezio, ed. di BasUea 1570, p. 1128-1273 [PL, partito da una
conoscenza intrinseca dei principii ivi con¬ tenuti, bensì si limita ad
aggirarsi entro l’orbita, più ri¬ stretta, della logica scolastica generalmente
in uso 4S0 ). Mentre anch’egli ci mostra il singolare spettacolo della contraddizione,
onde da un lato si fa sfoggio di tutto l’acume logico nella discussione sopra
la Trinità (v. tut¬ tavia la nota 478), e intanto, dall’altro lato, si mantiene
ima separazione assoluta di Dio e del mondo della na¬ tura, — semiira in verità
che, sul compito e la posizione della logica, egli non sia stato in se stesso
del tutto chiaro. Nè si può in Gilberto, neanche allo stesso modo che in
Abelardo, distinguere le sfere della ontologia e della logica, ma, a mal grado
di tutto il suo fondamentale tono realistico, egli accetta con piena ingenuità
e senza incertezze il principio della funzione della espressione lin¬ guistica
umana; poiché l’eccitazione della intelligenza egli la fa dipendere affatto
ugualmente, ripetendo un detto di Boezio, dalla proprietà delle cose,
altrettanto che dal significato costituito delle parole 45 . 7 ): e se alla
stessa ma¬ niera trova la qualità del giudizio nella successione delle cose e
delle parole, o nella modalità della espressione, — ciò che potrebbe
rammentarci Abelardo : v. le note 318, 327, 330 —, e con questo richiama
energicamente l’at¬ tenzione sopra la forma verbale 458 ), — egli torna da capo
156 ) Così p. es. a p. 1185 [1315] egli ricorda la differenza tra sil¬ logismo
ed entiinena, a p. 1187 [1317] la« dialecticorum omnibus nota topica generalis,
», a p. 1225 [1361] la «regula dialeclicorum [de conversione] », ap. 1187
[1317] la «concepito communis », a p. 122 1 [1360] il « conceptus non entis
[rectius : ejus quod non esl] » (p. es. i Centauri), a p. 1226 [1362] il nihil
come nomea infinitum. e via di¬ cendo: c anche la menzione che fa de’ sei
sofismi (p. 1130 [1258]) può averla attinta alla stessa fonte che Abelardo (v.
sopra la nota 7). 457 ) p. 1131 [1258]: Cum in aliis inlelligenliam excilel rei
certa proprietas , aul certa vocis positio, ctc.... — p. 1132 [1260] : Trio
quippe sunt. res, et intellectus, et sermo. Res intellectu concipitur, sermone
significatur (Boezio, p. 296 [toc. tilt. cit. (alla nota 436), p.20:PL, 64,
402]: v. la Sez. XII, nota 110). 45s ) p. 1130 [1258]: Qualitas autem orandi
vel in rerum atque die- tionum consequentia. vel in earumdem tropis attenditur.
logica in occidente a collocare il contenuto filosofico, che 6 considerazione
approfondita della proprietàs rerum, immediatamente ac¬ canto alle loqttendi
rationes, che son di competenza della logica, e in pari tempo accanto a,
momenti gram¬ maticali, e a quelli sofistici, e a quelli retorici • ). fb)
concetto di sostanza. Teoria delle formae nativae]. - Pertanto Gilberto, nelle
questioni riguardanti la relazione della obbiettività ontologica con la
subbie»,vita logica, è persino ancor più ingenuo che non fosse stato lo Scoto
Eringena: ma invece, dal primo di tal, punti d, vista, cioè dal lato
obbiettivo-ontologico, il concetto, ond eg i prende posizione tra gl’indirizzi
che si contrastavano nella contesa intorno agli universali, è il concetto d,
sostanza; e se la sua posizione ci mostra punti d, contatto essenziali con
altre correnti, questa è appunto una prova novella dell’incrociarsi delle opposte
tendenze in vari punti nodali. . Nel concetto di sostanza che, in maniera
omnicom¬ prensiva, va considerato come genere supremo d, tutti gli esseri, così
corporei come incorporei, Gilberto distin¬ gue cioè, conforme al punto di vista
della terminologia teologica (ossia dtel Pseudo-Boezio), due aspetti, onde m un
essere viene designata quale g ua sostanza così que ch’esso è (quod est -
subsistens), come anche ciò, per cui esso è quel che è {quo est - subsistenUa)
). Ma ora, m # [1406]: Quia omnis dictio diversa significa,, quid e, de quo
diligens “ u,U X 1246 113831: Ne ergo lectorem decipere possit aliqua dictio,
«Hfndat ; ^ locis am siderans, de tot signifi- irSX’lSto pertinet,
convenientium illi rationum admt- nÌC ‘t i'X 2 [1281]: Hoc nomea, quod est ..substa,aia“
non a pe- _-\ d. 1145 112741: Subsistentia causa est, ut id, quod per eam est
aliquid, suis propriis sit subjectum. — p. 1175 [1305]: Quoties enim subsistens
ex subsistentibus conjunctum est. necesse est, ejus totum esse, i. e. Ulani qua
ipsum perfectum est subsistentiam, ex om¬ nium parlium suarum omnibus
subsistenlus esse conjunctam. concetti ili genere e di specie hanno un altro
essere da quel delle cose stesse; poiché i primi hanno appunto so¬ lamente
l’essere della sussistenza, e invece le seconde hanno l’essere, come soggetti e
sostrati degli attributi uni¬ ficati nella sussistenza 4 ' 0 ). E così il
pensiero intende i concetti generici e specifici, come gli universali di fronte
alle cose particolari, argomentando, con un atto di met¬ ter assieme
(colligere), dagli oggetti particolari concreta¬ mente esistenti, ai quali
ineriscono gli attributi, l’es¬ sere della sussistenza 471 ); e da tale punto
di vista poi le cose naturali, rispetto alla sussistenza del genere e della
specie, alla quale [sussistenza] partecipano, come le cose singole partecipano
all’essere sostanziale, vengono significate con i nomi di specie e di genere,
del pari che gli attributi vengono enunciati come predicati, e, anche
denominativamente, la sussistenza stessa viene chiamata soggetto 472 ). Ma,
come il concetto del metter assieme ( collectio ), for- 47,) ) p. 1239 [1375]:
Genera et species, i. e. generales et speciales subsistentiae, subsistunt
tantum, non substanl vere.Ncque enim acci- denlia generibus speciebusve contingunt.
Ut quod sunt, accidentibus debea ni (il concetto di accidens, qui come
dappertutto, è preso in tal senso da comprendere, di fronte alla sostanza,
tutte nove le altre categorie).... Individua vero subsistunt quidem vere....
Informata enim sunt jam propriis et specificis differentiis, per quas
subsistunt. Non modo autem subsistunt, veruni etiam substanl individua, quoniam
et accidentibus, ut esse possitit, ministrant : dum sunt scilicel subjecta....
accidentibus. 471 ) p. 1238 [ 1371—5] : Essentiae in universalibus sunt, in
partimi- laribus substant . Subsistentiae [così il Prantl, ma nelle ediz. cit.
: substantiae] in universalibus sunt, in parlicularibus capiunt substan- tiam,
i. e. substant.... Universalia, quae intellectus ex parlicularibus colligit,
sunt, quoniam particularium illud esse dicuntur, quo ipsa particularia aliquid
sunt. Particularia vero non modo sunt, quod utique ex hujusmodi suo esse sunt,
veruni etiam substant. 472 ) p. 1137 [1265]: Ad generales quoque et speciales
subsistcn - tias, quae subsistentium, in quibus sunt. esse dicuntur, eo
quodeis, ut sint aliquid, conferunt, ejusdem nominis, i. e. matcriae, alia fil
denominatio. — p. 1140 [1269]: Essentia est illa res, quae est ipsum esse, i.
e. quae non ab alio lume mutuai dictionem, et ex qua est esse, i. e. quae
caeteris omnibus eamdem quadam extrinseca partici- patione communicat ....
Namque et in naturalibus omne subsislen- maluiente usato da Gilberto per dar
una definizione del genere 473 ), lo abbiamo di già incontrato più sopra nella
teoria della indifferenza (nota 136), in Gausleno (nota 146) e nell’autore
dello scritto De gen. et spec. (nota 162), — così Gilberto associa a questo
concetto, ispirandosi a ve¬ dute realistiche, una concezione, da lui designata
con le espressioni « substantialis similitudo » o « conjormantes subsistentiae
», ma di preferenza con il termine, che ri¬ corre in lui così frequentemente,
di« conjortnilas», anche esteso ai nomi delle cose 471 ); nè può qui
disconoscersi tinnì esse ex forma est, i. e. de quocunque subsistcnte dicitur «
est », formar, quam in se habet, participatione dicitur. — p. 1141 [ 1270J :
Omnia de subsistente dicuntur : ut de aliquo homi/ie tota forma substanliae,
qua ipse est perfectus homo, et omne genus omnisque dif- fercntia, ex quibus
est ipsa composita, ut corporalitas et animatio, ...et denique omnia, quae vel
loti illi formae adsunt, ut humanitati risi- bilitas, vel aliquibus partibus
ejus. — p. 1145 [1274]: Quoniam... subsistentia causa est, ut id quod per eam
est aliquid, suis propriis sit subjectum, ipsa quoque per denomi nalionem
eisdcm subjecta dici¬ tur, et eorunUkm materia.... (p. 1146 [rectius : 1142
(1270)]): et ideo gerteraliter cum qualitalibus qualitas ....dicitur, et cum
solis albedini- bus specialiter albedo. Atque adeo multa sunt. quae de. istis
dicuntur : ut saepe etiam efficiendi ralione a coaccidentibus ad ea, quibus
coacci- dunt, denominativa transsumptio fiat. Ut « linea est longa, albedo est
clara». — p. 1199 [1329]: Hoc igitur, quod* habet a sua substantia, nomea, ad
ea, quae ex ipso [il Pranll legge: ipsa] fluxerunt, denomi¬ native transsumptum
est. 473 ) p. 1252 [1389]: Genus vero nihil alimi putandum est, nisi
subsistentiarum secundum totam eorum proprietatem, ex rebus secun¬ dum species
suas differentibus, similitudine comparata collectio. 174 ) p. 1135 [1263] :
,l)iversae,... subsistentiae, ex quartini aliis homines, et ex aliis equi, sunt
ammalia, non imitationis vel imaginaria, sed substantiali similitudine ipsos,
qui secundum eas subsistunt, fa¬ cilini esse conformes. — p. 1136 [1263 s.] :
Dicuntur etiam multa sub¬ sistentia unum et idem, non naturar unius
singularilate, sed multa- rum, quae ralione similitudinis fit, unione ....Ilio,
quae divcrsarum nnlurarum adunai conformitas, genere vel specie unum dicuntur
.... Tres homines.... neque genere ncque specie, i. e. nulla subsistentia¬ rum
dissimilitudine, sed suis accidenlibus dissimilitudinis distant . Sunt
conformantium ipsos subsistentiarum numero plures. — p. 1175 [1305]:
Conformitate aliqua.... plures homines dicuntur unus homo. — p. 1192 [1322]:
Secundum proposìtae naturar plenitudinem.... di¬ citur substantialis similitudo
: qualiter album albo simile est, et homo homini. — p. 1194 [1324]: Tales sunt
omnes differentiae illae, quae- [cunque] rei huic generalissimo proxime cum
ipso quaedam contrae-l’affinità con la« similia creatio» del libro De gen. et
spec. (nota 163), e particolarmente con la « consimilitudo » di Abelardo (nota
299) ; ma è degno di nota che il termine « indìfierentia », che pur doveva
offrirglisi affatto sponta¬ neamente, Gilberto lo usi esclusivamente a
proposito di discussioni teologiche intorno alla Trinità « 5 ), e che pur si
serva invece, così per sostanze come per attributi, del termine « identitas»
47B ). In generale egli intende questa virtù formativa degli universali in
senso realistico, a tal punto, che, p. es., non solamente la bianchezza, ma
anche la unità appare a lui come una tale forma, la quale deve, qualunque sia
il predicato, cooperare per far del soggetto di esso una cosa 477 ): e, mentre
con ciò si trova esposto alla obiezione sopra citata (nota 438) : ed è
possibile che fosse diretta proprio contro Gilberto), arriva qui a sta¬ bilire
una distinzione, utilizzabile per la questione della Trinità, ma poi da capo violentemente
combattuta da altri, fra la unità e 1’ Uno, o in generale tra gli aggettivi
numerali e le forme ideali che stanno loro a fondamento — in quanto che quelli
posson essere predicati soltanto delle fiorii similitudinis consumimi genera ,
quae a logica.... subalterna vo- canlur ■ vel subalterna similiter adhaerentes,
quamlibet siib ipsa Sub- sistentiam specialem componunt- p. 1231 [Ì370]: ffomo
subsistentia spedala, quae est hujus nomina qualità» una uulan conformilate,
sed plures essenliae singulantate, de singola honuni- bus.... Parimente p. 1251
[?}» 1262 [1399], ecc. |9Q0) in ) Così, p. es., p. 1134, 1152 e 1169 [1262,
1280 e 1-99]. 4tg\ p H 69 [1299]: Identitate unionis.... homo idem quod nomo
est. Nam'piato et Cicero unione speciei sunt idem homo. .. auae ex proprietate
est unitatis |Prantl legge: propnetata est unitale ], q “ra,ion P ale P idem
quod rationate est , eduli anima hommu, et,pse homo, non unione speciei, sed
unitale propnetata, sunt unum ra donale. [ 1309 ]: Vnilas omnium.... praedicamentorum
Comes est. Narri de quocunque aliquid praedicatur, idpraticato ?“**'” «* hoc,
quod nomine ab eodem sibi indilo, et verbi iubifonm'i compos.- tione ... esse
significata, sed unitale ,psi cooccidenfe esf um m ul album albedine quiden,
album est, sed un,late cocce,dente albedim, unum, et simul albedine et ejus
comite annate est album unum. cose concrete, che appunto sottostanno all’azione
forma¬ tiva degli universali ideali 478 ). Ma poi al concetto di conjormitas si
associa inoltre an¬ che un modo d’ intendere, secondo il quale nell’ individuo
tutte le determinazioni possibili sono unificate per tal maniera, che esso,
nella totalità della sua sussistenza (cfr. la nota 462), non è conforme a
nessun altro essere, e per¬ tanto la individualità consiste in questa
dissimiglianza di essenza, mentre all’ incontro tutto quel che c’è di non¬
individuale si fonda sopra una somiglianza, e può per¬ tanto venire compartito
ne’ suoi modi di manifestarsi, individuali e concreti, che in esso sono simili,
ma tra loro son dissimili: concezione questa, che Gilberto carat- 47S ) p. 1148
[1277]: Quod est unum, res est unitali subjecta, cui scilicet vel ipsa unilas
inest, ut albo : rei adest, ut albedini. Unitas vero est id, quo ipsum, cui
inest, et ipsum, cui adest, dicimus unum: ut album unum, albedo una. liursus
ea, quae dicimus esse duo, in re¬ bus sunt, i. e. res sunt dualitati similiter
subjcctae, quae dune sunl.... ldeoque non unitas ipsa, sed quod ei subjeclum
est, unum est ; nec dua- litas ipsa, sed quod ei subjectum est, recle dicitur
duo . Nani vere omnis numerus non numeri ipsius, sed rerum sibi suppositarum
est numeriti. Ma che in generale persino questo sforzo, ispirato alla più
stretta ortodossia, abbia raccolto poca gratitudine dalla parte di vari altri
teologi, lo desumiamo dal fatto che, come riferisce il Du Houlay, Il istoria
Universitatis Parisiensis, I, p. 404 [rectius : p. 402 ss.: y. inoltri ibid. p.
741, e particolarmente p. 200], il Priore Gualtiero di S. V ittore compose egli
stesso uno scritto contro i« quat¬ tro labirinti di trancia» [Contro qualtuor
labyrinthos Franciae : lo scritto si suol citare appunto con questo titolo],
cioè contro Pietro Lombardo (v. sopra le note 41 ss.), Abelardo, Pietro da
Poitiers e Gilberto; da manoscritti di tale opera (conservati nella Biblioteca
di S. Vittore) il Launoi, de varia Aristot. in Acad. Paris. Jori., c. 3. p. 29
[p. 189 della ediz. di Vittemberga, 1720], comunica il passo seguente: Quisquis
hoc legerit, non dubitabit, qualuor Labyrinthos Franciae, i. e. Abaelardum et
Lombardum, Pelrum. Pictavinum et Gilbertum Porretanum. uno spiritu Aristotelico
afflalos, dum ineffa- bilia Trinitatis et Incarnationis scholastica levitate
tractarent, mul- tas haereses olim vomuisse, et adhuc errores pullulare [Cfr.
UEBERtYEG— Geyer, p. 271]. Maggiori particolari sopra questo alterco fra teo¬
logi sono stati riferiti dall’UsENER nei Jahrbiicher fiir protestanti- sche
rheologie, voi. V (1879), p. 183 ss. [« Gislcbert de la Porrée» è il titolo
della nota, riprodotta nel IV voi. della raccolta delle Kleine Schriflen
dell’Usener, Lipsia terizza scegliendo, per i così detti nomina appellativa, il
termine « dividila », che troviamo qui per la prima volta, e, per i così detti
nomina propria, il termine « indivi¬ dua » 479 )- Per la logica, una maniera di
trarre partito da questo realismo ontologico consiste nell’andar su e giù per
la Tabula logica, come si fa, secondo il procedimento di Boezio, nella
definizione e nella divisione 48 °) : consiste per¬ tanto nella funzione
predicativa, inquantochè quel che dal predicato si predica, relativamente alle
cose concrete, non è mai l’essere concreto per se stesso, ma solamente la
essenza, cioè la sussistenza e gli attributi essenziali 481 ): vale a dire che
il realismo di Gilberto trova la propria espressione in ciò, ch’egli considera
tutte le categorie come le causalità reali del loro manifestarsi nelle cose
con¬ crete, e le designa pertanto come sommi generi non dei 47 9\ y 1164*
112941: Si enim dividuum facit similitudo, consequens est ut individuimi
dissimilando. - p. 1236 11372]: Homo et sol a Grammatici appellativa nomina, a
Dialeclicis vero dividila vocantiir Plato vero et eius singularis albedo, ab
eisdem Grammatica propria, a Dia lecticis vero individua. Sed horum homo tam
aclu quam natura appella tivum vel dividuum est; sol vero natura tantum, non
aclu. Multi nam que non modo natura, verum etiam actu, et fuerunt, et sunt, et
sant, subslanliali similitudine similes hommes. — p. 1165 11294] . Pestai
igitur, ut illa tantum sint individua, quae ex omnibus compo¬ sita. nullis
aliis in loto possimi esse conformia, ut ex omnibus, quae et actu et natura
fuerunt vel sunt vel futura sunt, Platoms collecta Ha- tomtas. 112g jj 255 j.
Sia* in diffinitiva demonstratione specie» aenere, sic in divisiva genus specie
declaratur. — p. 1130 [1258]: «Nulla species de suo genere praedicatur» in
diffimtionum genere verum est; itero « orarti* species de suo genere
praedicatur » in divisto- num genere verum est. , 48 i\ p. 1244 [1381]: Nunquam
enim id , quod est , praedicatut % sea. esse et quod illi adest, praedicabile
est, et sine tropo, non msi de eo, quod est. (Se Gilberto con queste parole
designava ì giudizi pura¬ mente esistenziali come inconcludenti, si metteva con
ciò da capo in contrasto con certi teologi: v. Otto Frisino, de gest. Fnd.. I,
52 n. 437, ed. Urstis [MGH, XX, p. 379-80]: Erat quippe quorun- da'm in logica
sententia, [quod.] cum quis diceret, Socratem esse, nihil diceret. Quos
praefatus episcopus [intendi appunto 1 episcopus (i tc- taviensis) Gisilbertus
] seclans, talem dicti usuro haud premeditate „d theologiam verterà!). predicati ma degli oggetti, si che per
conseguenza la ja- cultas logica contiene semplicemente un ricalco della realtà
482 ). Ma, su questo punto, non si limita a distin¬ guere le categorie, alla
solita maniera, onde quella della sostanza si contrappone a tutte le altre
nove, bensì que¬ ste ultime si dividono a lor volta, secondo che appar¬ tengono
all’ intima essenza, o han per contenuto sola¬ mente una relazione estrinseca
483 ) ; cioè, qualità e quan¬ tità, che appartengono alla « natura» (nota 461)
o alla sussistenza, servono perciò ancora a predicare il vere esse, laddove le
altre sette categorie, — inclusa dunque pur quella della relazione —,
esclusivamente ricadono nella sfera degli status e delle loro esterne mutevoli
circostanze (status : cfr. circumstantia in Boezio, Sez. XII, nota 166) «“).
4S2 ) p. 1173 [1303]: Ilorum nominum illa significata, quae diver- sis
rationibus Grammatici qualilates, Dialectici cathegorias, i. e. prae-
dicamenla, vocant, praedicantur substantialiter, — p. 1153 11281-2]: Qualilas
....omnium qualitatum gcneralissimum est, et quantilas om¬ nium quantilatum....
Ideoque qualitas est qualitas genere cujuslibet qualitatis, quale vero est
quale qualitate cujuslibet generis.... Sirni- liter nullum, quod est ad
aliquid, relatio est. et nulla relatio est ad ali- quid. Sed.... id, de quo
ijJsa dicilur, est ad aliquid.... Ubi quoque, et quando, et habere, et situm
esse, et Jacere, et pati, rwmina sunt gene¬ ralissima, non eorum quae
praedicantur, sed eorum de quibus prae¬ dicantur.... Ilaec igitur praedicamenta
talia sunt relationibus logicae jacullatis, qualia illa subjecta, de quibus ea
convenit dici, permiserint. — p. 1146 [1274]: Caeteras, quae in corporibus
sunt, vocantes formas, hoc nomine abutimur, dum non ideae, sed idcarum sint
eìxóveq, i. e. imagines, quod ulique nomen eis melius convenit. Assimilantur
enim.... quadam extra substantiam imitatione his formìs, quae non sunt in
materia constitutae, sinceris. 483 ) p. 1153 [1282]: Quidquid hoc est
subsistentium esse; eorundcm substantia dicilur. Quod ulique sunt omnium
subsistentium speciales subsistentiae, et omnes ex quibus hae compositac sunt,
scilicet, eorum- dem subsistentium, per quas ipsa sibi conformia sunt,
generales, et omnes, per quas ipsa dissimilia sunt, dijjerentiales....
Accidenlia vero de illis quidem substantiis, quae ex esse sunt, aliquid
dicuntur, sive in eis creata, sive extrinsecus affixa sint, sed eis tantum,
quae esse sunt, accidunt. 484 ) p. 1156 [1285]: Ilare quidem, i. e.
subslantiae, qualitates, quantitates, sunt talia, quibus vere sunt, quaecunque
his esse propo- nuntur, ideoque recte de ipsis praedicari dicuntur. Reliqua
vero sep- [d) lo scritto De sex principiis: un'abborracciatura]. — Ma proprio
quest’ultimo argomento ci porta a prender in esame lo scritto di Gilberto De
sex principiis , un pasticcio veramente pietoso, che fu già commentato da
Lamberto da Auxerre (v. la Sez. XVII, nota 116), e poi, in conse¬ guenza
dell’autorità goduta da Alberto Magno (ibid., note 439 s.), venne a essere
tenuto in così grande conto da essere formalmente incorporato aH’Organon 485 ).
ivi c’ imbattiamo novamente (cfr. la nota 461) nel concetto di essere
sostanziale, nel quale risiede la forma di un in¬ trecciarsi degli elementi
della essenza 486 ) : e a tale pro¬ posito si fa la osservazione, la quale,
come più sopra (nota 464), resta senza motivazione, che cioè dalla sin¬
golarità delle cose concrete il pensiero trae fuori e in¬ tende quell’elemento,
cb’è, nella sua unità, commune e universale 487 ). Ma poi si passa a considerar
le categorie. lem generai» accidentia.... [non] vera essendi rationc
praedicantur. Narri.... extrinsecis scilicet eircumfusus et determinatili
minime prae- dicaretur, si non prius suis esset per se propri elalibus
informatili. — p. 1160 [1290]: Sic ergo praedicatio alia est, qua vere
inhaerens inhaerere praedicatur ; alia, quae quamvis forma inhaerentium fiat,
tamen ila exterioribus datur, ut ea nihil alieni inhaerere inlelligatur. — p.
1255 s. [1393]: Caetera vero (cfr. la nota 461). quae de ipso no- turaliter
dicuntur, quidam ejus status vocantur, eo quod nunc sic, nunc vero aliler,
rctinens has. quibus aliquid est, mensuras et qualitalcs et ma¬ xime
subsistentias, statuatur.... Situ, vel loco, vel Inibita, vel relatione, vel
tempore, vel actione, vel passione slatuitur. Cori, quanto alla cate¬ goria
della relazione, vien detto inoltre, nella forma più esplicita, a a p. 1163:
relativa praedicatio ....consislil.... non in eo, quod est esse. 485 ) In
conseguenza del suo accoglimento neH’Organon, è stato stampato in quasi tutte
le più antiche traduzioni latine di Aristo¬ tele; io cito dal voi. I delle
Opere di Aristotele in versione latina, Venezia 1552, in fnl. [Qui s’includono
tra parentesi quadre i riferi¬ menti al testo accolto nella PL: cfr. più sopra
la nota 21]. 4S “) Cap. 1, f. 31, v. A: Forma est compositioni contingens, sim-
plici et invariabili essentia consistens.... Substanliale vero est, quod
conferì esse ex quadam composilione compositioni, ut in pluribus, quod
impossibile est deesse ei [PL, 188, 1258—9]. 487 ) f. 31, v. B: Sicut ex
plurium partium coniunclionc constitutio quaedam primorum excedens quantitatem
ejfìcilur, sic ex singularium discretione unum quoddam intelligilur. eorum
excedens praedicatio- nem. — Così anche [Cap. 2], f. 32, r. B: omnes quidem
homines eius hominis. qui communis est, et universale con quella stessa
dicotomia (note 483 ss.) di categorie in¬ trinseche ed estrinseche, ma con
questa differenza tutta¬ via, che cioè qui la categoria della relazione non
viene ora più annoverata fra le categorie estrinseche, bensì questo gruppo
viene a esser costituito dalle ultime sei categorie soltanto (actio, passio,
ubi, quando, situs, ha- bere) : e poiché delle prime quattro categorie ha di
già parlato a sufficienza Aristotele, Gilberto vuole trattare ora più
compiutamente appunto di queste altre sei 488 ). Sodisfa cosi un bisogno, che
abbiamo veduto di già mani¬ festato piu sopra (note 18 e 344): e qualificando
Gil¬ berto, con la sua mania realistica, anche queste categorie come «
principia» (cfr. le note 477 e 482), tale suo scritto, privo di senso comune,
venne ad assumere più tardi, an¬ che in considerazione del suo titolo, una cosi
grande im¬ portanza, da esser accolto per cosi dire nelFOrganon come sua parte
integrante. [e) i sei « principii»: actio, passio, quando, ubi, si¬ tus,
habitus]. — Per prima cosa vien definita l 'actio, e, con il più netto dualismo
tra azione corporea e azione psichica, la si qualifica come legata da relazione
di reci¬ procità con il concetto di movimento 489 ) : a ciò fa seguito la
osservazione che la particolarità delazione ha per 4#8 ) [Cap. 2], f. 32, r. A:
Eorum vero, quae contingunt exislenti, singultirli aul extrinsecus advenit, aul
intra subslanliam consideratur simpliciler : ut linea, superficics, corpus. Ea
vero, quae extrinsecus contingunt, aut actus, aut pati, aul dispositio, aut
esse alicubi, aul in mora, aut habere necessario erutti. Sed de his, quae
subsistunt, et quae non solum in quo existunt exigunl, in eo qui « de
Categoriis» libro inscribilur, disputatimi est: de reliquis vero continuo
aeamus [1260], * 4S “) Cap. 2, ibid. : Actio vero est, secundum quam in id,
quoti sub- iicitur, agere dicimur.... Differunt autem, quoniam ea, quae corpo-
ris est, rnovens est necessario illud, in quo est,.... actio autem animae non
id movet, in quo est, sed coniunclum : anima enim, dum agii, im¬ mobile est....
Omnis ergo actio in mota est : omnisque motus in actione firmabitur sua
proprietà (li produrre la passio, e che pertanto l'actio è il « principio »
primordiale 49 °): a questo punto il concetto di « jacere » viene applicato
anche a tutte le rimanenti categorie in ima serie di affermazioni che son delle
più aride e peggio fondate 491 ) : e secondo il modello delle quattro prime
categorie si fa vedere, anche nel jacere e nel pati, il rapporto di contrarietà
e la gradua¬ zione di più o meno 492 ). Ma poi viene, ciononostante, in secondo
luogo la pas¬ sio, dandosi per essa rilievo alla varietà di accezioni di questo
termine 493 ). Viene appresso presentata, in terzo luogo, la catego¬ ria del
quando, la quale è bensì afline al tempus, ma pur se ne distingue, in quanto
che i tre tempi, passato e pre¬ sente e futuro, non son già un quando, ma sono
solamente un effetto e una proprietà, conforme a cui qualche cosa viene
denominata come passata e via dicendo (v. alcun¬ ché di simile alla precedente
nota 194); inoltre nulla può misurarsi secondo il quando, ma secondo il tempo
sì 494 ). 49 °) f. 32, r. B: Naturqlis vero actionis propnetas est, passionem
ex se in id, quod subiicitur, inferre : omnis enim aclio passionis est
effectiva.... Et sic actus quidem est primordiale principiata [1261]. 491 )
Ibid.: Facere vero id, quod quale est, ex se gignit.... Quanti- tatum vero
particularium positio effectrix est, et qunlilatum uni¬ versa enim liaec a situ
substantiam et generalionem kabent.... Situs autem, agere et pati : in
dispositionis nonuple compositione quaedam generalio simplicium fil, quam in
motiva actione consistere necesse est. Quando vero tempus. Ubi vero locus.
Habere autem corpus : ea enim, quae circa corpus sunt, habere dicuntur [1261],
492 ) Ibid.: Recipit autem facere et pati contrarielalem, et magis et minus :
secare enim ad plantare contrarium est....: et calefieri magis et minus dicilur
[1261-2]. 493 ) C. 3, f. 32, v. A: Passio est effectus illatioque actionis....
Est autem pati eorum, quae multipliciter dicuntur : animae enim actio- num
unaquaeque passio dicitur.... Dicilur quoque passio, quod in naturam agii : ut
morbus.... Ea vero, quae nunc relinquuntur, in eo qui est « de Generatione»
libro tractanlur (questa citazione è presa da Boezio [in Ar. praed.. Ili: PL,
64, 262], p. 190). 494 ) C. 4, ibid. : Quando vero est, quod ex adiacentia
(cfr. la nota 504) temporis reliquitur. Tempus vero quando non est, utriusque
autem ratio coniuncta est, ut tempus quidem praeteritum quando non est, A ciò
fa seguito, come il colmo della stupidità, la indica¬ zione di una differenza
tra quando e ubi, in quanto che il quando del presente, in pari tempo che
l’istante stesso, è in eodem , ciò che non si verifica per Vubi 49S ), e cosi
pure ima divisione del quando e del tempus in semplici e in composti 496 ), e
infine la notizia che la relazione di contrarietà, e di più o meno, non ha
luogo nel quando 497 ). Quarto viene ora ubi, e qui si presenta la distinzione
analoga tra ubi e locus 498 ): e alla impossibilità che due cose sieno in uno
stesso luogo o una stessa cosa in diversi luoghi, si collega anche la
controversia sopraccennata (nota 203) circa la propagazione del suono 499 );
anche Vubi vien distinto in semplice e in complesso, e si esclude che, rispetto
ad esso, abbia luogo la relazione di più efeclus autemcius, et affectio ,
secundum quarti dicilur aliquid fuisse, quando est. Instans autem quando non
est, sed secundum quod ali- quid aequale, tei inacquale est: eius autem
affectio, secundum quam aliquid dicilur in instanti esse, quando est. Futurum
similiter tempus quando non est. — f. 32, v. B: Distai autem et tempus ab eo,
quod quando: quoniarn secundum tempus aliquid est mensurabile : ut mo- tus
animus.... Al vero secundum quando ri ih il mensuratur, sed ali- quando dicilur
esse [1262]. 4 96 ) f. 32, V. B : Differì enim quando ab eo, quod est ubi :
quoniarn in quocunque, tempus est vel fuitvcl erit, in eo quidem quando, est
vel fuit vel erit, quod secundum idem tempus dicilur: quando enim, quod
exislenti est, curn ipso instanti est, et simili in eodern sunt.... Ubi vero et
locus, a quo est, vel fit, nunquam simili in eodem : ubi enim in
circumscriptione est: locus autem in compicciente [1263], 19a ) Ibid. : Quando
....sicut autem et tempus, aliud quidem compo- situm est, aliud vero simplex.
Est autem compositum, quod in compo¬ sita anione consista: simplex vero, quod
cum simplici procedit [1263], 497 ) Ibid.: Inest autem quando, non suscipere
magis et minus.... Amplius quando nihil est contrarium [1263]. 48s ) C. 5, f.
33, r. A: Ubi vero est circumscriptio corporis, a circum¬ scriptione loci proveniens.
Locus autem in
eo, quod capii, est, et cir- cumscribit.... Non est autem in eodem locus et
ubi: locus enim in eo, quod capii, ubi vero in eo, quod circumscribitur et
complectitur [1264]. 4 ") Ibid, : Nequaquam igitur duo in eodem loco esse
simul pos- sunt, nec idem unum in diversis.... Movet autem quis quaestionem f
orlasse, idem in diversis et pluribus concludens ; etenim vox in auri- bus
diversorum est.... Confiteli oportel
omnino, urtarti particulam aeris ad aures diversorum pervenire.... Relinquitur
igitur, diversum sensum esse imaginabiliter se generanlium, et similiter
[1264-5]. o ili meno, e così pure quella di contrarietà, a proposito della
quale l’Autore persino espressamente si riferisce ai concetti di sopra e di
sotto 50 °). Quinto segue situs , ovvero la categoria, come la chia¬ ma
Gilberto, della positio , intesa secondo il realismo più rozzo possibile,
sicché tutte le particolari manifestazioni di questa categoria, nel cui novero
vengono compresi, p. es., anche lo scabro e il levigato (cfr. la nota 193),
sono considerate soltanto come espressioni derivate 501 ); si contesta che
questa categoria comporti opposizione contraria, e ciò perchè i contrari
appartengono soltanto a un medesimo genere, e invece lo star seduti e il gia¬
cere vanno assegnati a generi differenti, in quanto che soltanto esseri
ragionevoli possono star seduti, laddove gli altri stanno a giacere 502 ); e
mentre qui è inammissibile an¬ che la relazione di più o di meno, questa
categoria va messa nella più stretta connessione con quella della sostanza,
pro¬ prio in essa trovando le sostanze il loro ordinamento 503 ). Ml °) f. 33.
r. B: Ubi autem. aliud quidem simplex, aliud vero com- posilum. Simplex quidem,
quod a simplici loco procedit : composilum autem, quod ex composito.... C.arct
autem libi inlenlione et remissione : non enim dicitur alterum altero magis in
loco esse vel minus.... Inesl autem ubi, nihil esse contrarium.... Sursuni enim
et deorsum esse contraria pluribus videntur.... Conlingit autem contraria in
eodem esse.... Si enim sursum esse et inferius esse contraria sunt, cum idem
sursum et deorsum sit, colligitur, idem sibimet contrarium fieri [1265]. 601 )
C. 6, f. 33, v. A: Positio est quidam parlium situs, et genera¬ ti onis
ordinatio, secundum quam dicuntur stantia vel sedentia.... Se¬ dere autem et
lacere positiones non sunt, sed denominative ab his dieta sunt. Solet autem
quaestio induci de curvo et recto, aspero et leni.... Non sunt autem positiones
ea, quae dieta sunt omnia, sed qualia circa situm existentia [1265-6]. 60S )
Ibid. : Suscipere autem videtur situs contrarietates : nam sedere ad id quod
stare contrarium esse videtur.... Ponentibus autem nobis, haec contraria esse,
inconvenientia recipere cogimur, hoc, quod unum sit contrarium plurium.... Amplius
autem conlrariorum quidem ratio est, circa idem natura existere. : sedere enim
et iacere non circa idem natura sunt seiuncta : est enim sedere proprie circa
ralionalia, iacere vero et accumbere circa diversa [1266]. 603 ) f. 3, V. B.:
Proprium autem positionis, ncque magis neque mi¬ nus dici.... Magis autem
proprium videtur esse positionis, substantiae Riinane poi ancora in sesto luogo
Vhabitus, categoria identificata con il concetto di adiacentia, già familiare a
noi, che conosciamo Abelardo (nota 284) 504 ); quando poi si legge che per
habere la relazione di più o di meno è, di regola, ammissibile, ma talora,
come, p. es., nel caso dell’« esser vestito », è inammissibile, e che in questa
categoria non sussiste contrarietà, perchè esser armato ed esser calzalo non
sono opposti 505 ), — anche ciò rende sufficiente testimonianza del talento
logico dell’Autore; come particolarità di questa categoria, viene indicato il
fatto che essa rimanda sempre a una pluralità, il che può, soltanto per certi
rispetti, ripetersi anche per le categorie della quantità e della relazione 508
); finalmente vengono citate ancora cinque accezioni differenti del ter¬ mine
habere 507 ). [f) la controversia intorno al magis e al minus]. — Ma venuta poi
a una conchiusione questa disamina dei « prin¬ cipi » 508 ), fa ancor seguito
una trattazione speciale del proxime assistere , omnibus qiiidem aliis/ormis
suppositis. Posilio autem nihil aliati est. quatti naturalis ipsius subslantiae
ordinatio [1260]. S04 ) C. 7, f. 33, v. B: Habitus est corporum, et eorum quae
circa corpus suoi, adiacentia : secundum quam hoc quidem habere, illa vero
dicunlur halteri. Haec autem non secundum totum dicunlur, sed se¬ canti uni
particularem divisionem, ut armatum esse [1267], s01i ) f. 34, r. A: Suscipit
autem habitus magis et minus : armatior enim est eques pedite.... In quibusdam
autem non videtur, quoti rum magis et minuspraedicentur : ut vestitum esse, et
similia. IIabitui quoque nihil est conlrarium : elenim armatio calceationi non
est contraria [1267], 60 °) Ibid. : Proprium quidem habitus est, in pluribus
existere.... In paucis autem aliis principiis huiusmodi invenies : in
quantilate enim solum, et in his quae ad aliquid sunt, similia reperies.... Habitus autem omnis in
pluribus necessario existit, ut in corpore. et in his quae circa corpus sunl
[1267]. 507 ) Ibid. : Dicilur autem habere multis modis : habere enim dicitur
alterationem.... Dicilur etiam ras aliquid habere....
Habere quoque in membro dicimur,... Dicitui vir uxorem habere, et recipere uxor
virum.... Quare modi habendi, qui dici consueverunt, quinario numero terminan-
lur [1267-8], 50s ) Ibid. : Et quidem de principiis haec dieta sufficiant :
reliqua vero in eo, quod de Analylicis est. quaerantur volumine magis et minus
; e qui Gilberto taglia il nodo della contro¬ versia ricordata più sopra (nota
196), non potendo l’or- dine delle graduazioni risieder già nella sostanza
stessa, poiché questo urta contro il concetto di sostanza, ma d’altra parte
nemmeno negli accidenti, perchè allora il grado superiore, p. es., di
bianchezza dovrebbe consi¬ stere nell’ampiezza della superficie (!) : donde
consegue che il più o il meno neanche ha la propria sede nell’ima e negli altri
insieme, cioè nella sostanza e ne’ suoi acci¬ denti 509 ). Ma la soluzione
positiva, che dà ora Gilberto, ha questo fondamento, che cioè il magis vel
minus con¬ siste nel grado in cui lo stato di fatto reale sta più vicino o più
lontano dall’accezione del termine che designa la qualità, una graduazione
questa che non si manifesta, dove si tratta di sostanze, per la ragione che la
denomina¬ zione delle sostanze stesse rimane compresa entro saldi confini (in
terminis) : tuttavia a tal proposito viene a confes¬ sare egli stesso quali
assurdità sieno queste che presenta, quando deve aggiungere che una tale
saldezza si ritrova tut¬ tavia anche nella denominazione di talune qualità 51
°). In- 60 “) C. 8, f. 34, r. B: Non ergo secundum suscipicntium ipsorum
Crementum vel decremenlum, cum „magis vel minus “ aliqua dicuntur. Nulla cnim ratio
obviarel dicenti, hominem et animai et substantiam et caetcra consimilia cum
„magis et minus" dici.... Mons eliam alio monte maior dicitur , cum neuler
crescat vel decrescat.... Amplius autem ncque secundum ea, quae inficiunt. Si
enim, secundum magnitudinem albedinis vel alicuius caelerorum, dicitur aliquid
albius aliquo, vel, se¬ cundum parvitatem , minus album, vel quomodolihet
aliter, utique et magis albus equus vel homo, vel quodlibet aliud albius
margarita di- cetur : etenim maior albedinis quantitas equo accidit quam marga-
ritae.... f. 34, v. A: l’atet itaque, nihil secundum ,.magis et minus“
praedicari, ncque secundum suhiecti solum augmentum vel diminutio- nem, neque
secundum accidentis ; quare ncque secundum utrunaue [1268-9], ^ 61 °) 6 34, v. A:
Oportet igilur ab alio ea invenire, quae cum „magis et minus" dicantur.
Huiusmodi vero sunt ea, quae. sunt in voce eorum, quae adveniunt, et non
secundum subiecti vel mobilis cremenlum vel diminutionem, sed quoniam eorum,
quae sunt in voce, impositioni pro- pinquiora sunt, sive ab eadem remotiora
sunt : de his etenim cum „ magis" dicuntur, quae proximiora sunt ei, quae
in ipsa voce est , impositioni, cum „minus" autem de his, quae remotiora
consistunt.... Quanto igitur tìne la faccenda mette pur capo anche alla tesi
essenziale, che cioè nella pluralità della realtà materiale in gene¬ rale,
hanno loro proprio luogo il divenire e la relatività 511 ), e F illogico
realista assume poi a criterio per questo campo la espressione verbale, mentre,
per Forbita del vero es¬ sere, possiede nella parola solamente il ricalco di
una idea. Così lo scritto di Gilberto intorno alle categorie ci porge un
documento veramente miserevole, per provare come quell’epoca non fosse per
nulla meno goffa e inetta dei secoli precorsi, tostochè sol si tentasse mai,
senza le dande della tradizione, di muover un passo indipen¬ dente, anche senza
uscir dall’ambito delle cose più sem¬ plici. [§ 36. — Ottone da Freising,
seguace di Gilberto. Lo scritto pseudo—boeziano De imitate et uno]. — Ma quale
seguace di Gilberto, riguardo alla concezione degli universali, ci si presenta
Ottone da Frei- 8 i'n g (nato nel 1109 [rectius : nel 1114 o 1115], morto nel
1158), che alle sue opere storiche intreccia talvolta disgressioni formali di
contenuto filosofico, manifestando in esse, con i modi consueti di espressione,
il suo rispetto di teologo verso Platone, e in pari tempo il conto in cui ad
vocis impositionem accedens puriori inficitur alitarne, tanto et can- didior
assignabitur.... Dubitabit autcni aliquis, quarc haec quidem cum ..magis et
minus LL dicantur, substantiae vero minime : hoc autem con- tingit. quoniam
subslantiarum impositio quidem in termino est, ultra quem transgredi
impossibile est. Additur autem et de accidenlibus qui- busdam, quae sine
..magis et minus “ dicuntur : ut quadrangulus, et triangulus, et similia
[1269], 6U ) f. 34, v. B: In subiecto enim duo sunt. quorum haec quidem
estjorma secundum rationem, haec autem secundum materiam ; quando igitur in his
duobus est transmutatio, generatio et corruptio crii sim- pliciter secundum
veritatem.... Est autem materia maxime quidem subiec- lum gencrationis et
corruptionis proprie susccptibile.... Haec autem hoc aliquid significant et
substantiam, haec autem quale, haec autem quantum. Quaecunque igitur non
substantiam significant, non dicuntur simpliciter , sed secundum aliquid
generari tiene la logica aristotelica 512 ). Come Ottone occasional¬ mente
aderisce una volta alla tesi, che gli esseri concre¬ tamente esistenti formano
il contenuto e l’oggetto dei predicati dichiarativi, laddove i concetti di
specie e di genere vengono predicati, avuto riguardo alla causalità delle cose
che ha in essi fondamento 513 ), — così un’altra volta egli si pronunzia più
distesamente sopra questa relazione, in tutto e per tutto ripetendo la opinione
di Gilberto, con il quale si accorda anche nella espressione letterale (
nativum , natura , Jorma, con.jorm.is, coadunatio, — « omne esse ex Jorma est»
—) 514 ). Nello stesso senso, 612 ) Chron. II, 8, p. 27, cri. Urstis [MGH, XX,
p. 147]: Sacrale*.... educaviI Platonem et Aristotilem, quorum alter de
potentia. sapientia, bonilate creatoris ac genitura mundi creationevc hominis
tam luculenter, lam sapienter, tam vicine verilati disputai.... alter vero
dialecticae [li- bros] arti* vel primus edidisse, tei in melius correxisse,
aculissimeque ac disertissime iride disputasse invenilur [cfr. il testo della
ediz. Wil- mans (M G II), e ivi l’apparato critico], 61a ) De gest. Frid.
Prolog., p. 405, cd. Urstis [MGH, XX, p. 352]: Sicut enim iuxta quorundam in
logica nolorum positionem, cum non formarum, sed subsistentium proprium sii
praedicari seu declarari. ge¬ nera tamen et species praedicamento transsumpto
ad causam praedi¬ cari dicuntur. Vel, ut communiori utar exemplo, sicut albedo
clara, mors pullida, eo quod claritatis altera, palloris altera causa sit,
appel- latur, etc. (La espressione transsumptio, come pure lo stesso esempio
albedo clara, si trovano in Gilberto, p. 1142 [1270] : v. la nota 472). M4 ) De
gest. Frid. I, 5, p. 408 [354]: Nativum velut natimi aut gemtum, descendens a
genuino (v. la nota 464).... In nalivis igitur omnem naturata seu formam, quac
integrata esse subsistentis sii, vel adii et natura, vel natura sallem
conformem habere necesse est.... Partes aulem hic vaco eas formas (nota 468),
quae ad componendarn speciem aut in capite ponuntur, ut generales, aut
aggregante, ut differentiales, aut eas comitantur, ut accidentales.... [355]
Potei.... humanitatem So- cratis secundum omnes partes et omnimodum effectum
humanitali Plu¬ toni* conformem esse, ac secundum hoc Socratem et Platonem
eundem et unum in universali dici solere (nota 474),... Concretìo etiam in
naturaiibus non solum coadunatione formae et subsistentis. sed ex mol¬ titudine
accidentium, quae substanliale esse comilantur, consideravi po- test (note 464
e 471).... Sunl aliae formae subiectum integrum infor¬ mante*, quae naluram
tantum conformem habenl. Esse quippe soli*, etsi non aclu, natura conformem
habere noscitur. Quare, quamvis plu- res soles non sint, sine repugnanlia tamen
naturae plures esse possunt (nota 479).... (p. 410) Omne namque esse ex forma
est.... Tantum de co, quae a philosophis genitura, a nobis faclura seu creatura
dici solet, disputai inumi inslituimus. Sed notandum, quod compositio alia for-
ébìin altro luogo (con. intonazione polemica contro Gu¬ glielmo da Champeaux)
qualifica l’universale come« quasi in unum versale», e a ciò unisce una
giustificazione eti¬ mologica dei termini e dei concetti di dividuum e indivi-
diium 515 )', inoltre condivide con Gilberto l’ingenuo rac- costamento delle
cose e delle parole 516 ), come pure ri¬ corda altresì ima volta
quell’esercizio ginnastico, che vien fatto nello studio della logica,
sull’albero di cuccagna della Tabula logica 517 ). Appartiene allo stesso
gruppo anche uno scrittarello anonimo [oggi è riconosciuto esser opera di
Domenico Gundissalino] «De unitate et uno», che mani¬ festamente è una
produzione determinata dalle polemi¬ che di quel tempo intorno alla Trinità, ma
che, al pari di quella più antica opera De Trinitate [oggi, come ab¬ biamo
veduto, attribuita appunto a Boezio], fu ritenuta marum, alia est
subsistentium.formarum ex formis, subsistenlium ex sub- sistentibus..,. [356]
Formarum autem aliae compositae, aline simplices ; simplices, ut albedo,
compositae, ut humanitas.... Ulule Boetius in oclava rcgula libri llebdomade
„omni composito aliud est esse, aliud ipsum est“ (v. la noia 37). 61S ) Ibid.,
53, p. 437 [380] : Universalem..., dico, non ex eo, quod una in plurilius sii,
quod est impossibile (noia 105), sed ex Iwc, quod plura in similitudine vivendo
[rectius : uniendo] ab assimilamii unione univcrsalis. quasi in unum versalis
dicalur.... Ex quo palei . quare.... singularem, individualem vel parlicularem
dixerim proprietatem, eam nimirum, qttae suum subiectum non assimilai aliis. ut
humanitas, sed ab aliis dividii, discernit, partitur. ut ea, quam fido nomine
solemus dicere ,,Platonitas “, a dividendo individua, a parliendo particularis,
a dissimilando singularis dieta. Nec opponas, quod potius a dividendo dividuam,
quam individuam dici oporteat. Nam cum suum subiectum non solum ab aliis
dividat vel dissimilet. sed etiam in sua individua¬ litale et dissimilitudine
tam firmiter manere faciat, ut nec sii nec fuerit neo futurum sit aliud
subiectum, quod secundum eiusmodi proprieta- lem illi assimUari queat, melme
individuum privando, quam dividuum ponendo vocalur, eiusque oppositum, quod
dividendo pluribus com- munical, et communicando dividii, rectius dividuum dici
debet (noia 479). “ 1G ) Ibid., p. 438 [ifc.] : Cum enim omne esse ex forma
sii, quodlibet sub- sistens rem et nomea a sua capit forma (note 458, 174,
482). s17 ) Ibid.. 60, p. 444 [386] : iuxta logicorum enim regulam methodus a
genere ad destruendum, a specie valet ad aslruendum (nota 480). fattura di
Boezio (v. sopra la nota 35) «»). Domina nella questione della unità, che anche
Gilherto era stato tratto a discutere (note 477 s.), quello stesso realismo di
Gil¬ berto o di Ottone 519 ), e forse possiamo tutt’al più ri¬ cordare che qui
si trova una singolare enumerazione di accezioni varie del termine « unum» 520
). [§ 37. — Alberico (da Reims ?), a Parigi. Willi- RAM DA SoiSSONS. VARI ALTRI
AUTORI, MENZIONATI DA Walter Mapes]. — Ma nello stesso tempo, cioè press’a poco
tra il 1140 e il 1170, viene a cadere anche la com¬ parsa di alcuni altri
autori, dei quali conosciamo quasi esclusivamente i nomi, e a ogni passo della
nostra in- dagme torna a imporsi la considerazione, che cioè le fonti a noi
accessibili ci consentono pur sempre soltanto una conoscenza frammentaria. Si
dovrà anzi designare come casuale la notizia dataci da Giovanni da Salisbury,
quando, raccontando il corso de’ suoi studi, fa il nome di un certo Alberico,
che, morto Abelardo, insegnò aS.te Geneviève in Parigi, e imprese energicamente
la „ Q M^n. tampata °P cre di Boezio, ediz. di Basilea 1570, p. 1274
l'òleslpaTJTwTìMiT l * 3 bibli0thè 1 ue * *.s dipar,ements de . ’ 1 ungi 1841,
p. 169) trovo m un manoscritto di St -Michel Hd/nf t0 an0nmM p rh e T nd ° aUe
righe “ iziali d “ lui citate, c identico a questo Pseudo-Boezio. ".*>
p -.,. 1274 t PL ’ „ 63 - 1075]: Omne enim esse ex forma est , in unita* r f '
S> ' " ullum eSSC ex f° rma nini cum forma maleriae unita est. Esse
xgitur est nonnisi ex eoniunctione formae cum materia j.m autem forma matenae
unitur , ex eoniunctione utriusque necessario al,quid unum consti,ni,ur....
Uni,io autcm non fi, nisi un.tatZ Z- mam autcm non tene, uni,am cum materia
nisi unitasi ideo materia egei untiate ad umendum se.... et de natura sua habet
multiplicari Uni,as vero retine,, umt e, colligi,. Ac per hoc ne materia
divida,ur et spargami -, necesse est, ut ab unitale retineatur ecc. [testo cit.
se- 0nd ° a ed £- C r ™ (Beitràge del Baumker, I, 1, p. 3 - 5 )]. ) p. 12/6
fPL, 63, 1077-8]: Unum enim aliud est essentiae Simpl,Citate.... Ahud
simplicium eoniunctione.... Aliud.... continui- tate.... Ahud...
compositione.... Alia dicuntur unum aggrega,ione Alta.... proportione....
Alia.... accidente.... Alia.... numerai Alia ZZI'"' Al,a ":;. natura
. unum ’ ut participatione speciei plures hommes unus. Alia.... natwne....
Alia.... more [testo c. s„ p. 9-10]. STORIA DELLA LOCICA IN OCCIDENTE lotta
contro i nominalisti, nella quale pare lo abbia so¬ stenuto un considerevole
talento per le distinzioni 521 ). Riferisce inoltre Giovanni, ch’egli stesso ha
impartito 1’ in¬ segnamento della logica a tale W i 1 1 i r a m [Gugliel¬ mo ?]
da Soissons, il quale, da lui presentato poscia a Adamo dal Petit-Pont (note
440 ss.), ha ideato in seguito una speciale machina contro i seguaci della
vecchia logica (antiqui, logicae vetustas: v. sopra le note 55 ss.) 522 ).
Giovanni menziona poi un’altra volta, oltre 621 ) Jou. Saresb. Metal., II, 10,
p. 78 s. (ed. Giles [e Wcbbj): Contali me ad Peripateticum Palatinum qui. Iurte
in monte Sanctae Genoue/ae clarus doclor et admirabilis omnibus praesidebat.
Ibi ad pedes eius prima artis huius rudimento accepi.... Deinde post discessum
eius, qui michi praeproperus visus est, adhaesi magistro Alberico, qui inter ceteros
opinalissimus dialeclicus enitebal et erat revera norninalis sectae acerrimus
impugnator. Sic ferme tota biennio conversatus in monte, artis huius
praeceptoribus usus sum Alberico et magistro Rodberto Me- ludensi (v. sopra la
nota 453)....; quorum alter (cioè Alberico), ad omnia scrupulosus, locum
quaestionis inveniebal ubique, ut quamvis polita planilies ojjvndiculo non
carerei et, ut aiunl, ei [sjcirpus non esset enodis. Nam et ibi monstrahat quid
oporleal enodari ....Apud hos, toto exercilatus biennio, sic locis assignandis
assuevi et regulis et aliis rudimentorum elementis, quibus pueriles animi
imbitumar, et in qui- bus praejati doctores potentissimi crani et
expeditissimi, ut etc. [PL, 199, 867-8). Menzione di questo Alberico si trova
fatta da Giovanni anche nell’ Enthelicus, v. 55 s. : Iste loquax dicaxque parum
redolel Melidunum, Creditur Albrico doctior iste suo [PL, 199. 966). Ma di
quale Alberico si trattasse, fra i parecchi con questo nome, menzio¬ nati in
quell’epoca, non è possibile determinare con sicurezza; la indicazione
cronologica su riferita rende probabile che fosse Albe¬ rico da Reims,
soprannominato de Porta Veneris, il quale fece più tardi accoglienza ospitale a
Giovanni da Salibury e all’arcivescovo Tommaso [Becket], quando furon esuli in
Italia. V. Du Boulay, Hist. Univ. Par.. II, p. 724. e la Ilistoire littér. de
la France, XII, p. [72-6, e particolarmente] 75. 522 ) Ibid., p. 80 [81]: linde
ad magistrum Adam.... familiarilalem contraxi ulteriorem.... Interim Willelmiim
Suessionensem, qui ad expu- gnandam, ut aiunt sui, logicae vetustatem et
consequentias inopinabi- les construendas et antiquorum sentcntias diruendas
rnachinam post- modum fedi, prima logices docili dementa et tandem iam dieta
prae- ceplori appositi. Ibi forte didicit idem esse ex contradictione, cum Ari-
stotiles obloquatur, quia « idem cum sit et non sit, non necesse est idem esse
» (queste parole si trovano negli Anni, pr., II, 4, 57 b 3: v. la Sez. TV, nota
614), et item, cum aliquid sit, non necesse est idem esse et non esse. Nichil
enim ex contradictione [82] evenit et conlradictio- nem impossibile est ex
aliquo evenire. Unde nec amici machina im- a quel suo avversario, denominato da
lui Cornificio (v. subito appresso), il rappresentante di un altro indirizzo, a
quanto sembra, esagerato e astruso, nello studio della logica, e lo designa con
il nome imaginario di Serto- r i u s 523 ). Ma a ciò si aggiunge, oltre a
notizie mal verificate circa un tal Davide, a ITirschau, e un Giovanni Serio, a
A ork r ’ 24 ), un’altra informazione ancora, che dobbiamo a un autore della
fine del secolo XII», cioè a Walter M a p e s , il quale nelle sue poesie
occasio¬ nalmente dimostra conoscenza delle personalità e delle tendenze
dominanti nelle scuole; costui menziona (con la osservazione, che il maggior
numero di seguaci lo ha Abelardo), oltre a Bernardo da Chartres, Pietro da Poi-
tiers e Adamo dal Petit—Pont, anche un certo Regi¬ na I d o , uno straordinario
sbraitone, che criticava tutti pellente urgeri potili ut credam ex uno
impossibili omnia impossi- bitia provenire [PI,, 199, 868], Anche a prescindere
dalla questione di determinare in che cosa inai potesse consistere questa
misteriosa machina , tutto il passo, del quale può anche ben darsi che il testo
sia guasto, mi è rimasto assolutamente incomprensibile; tutto quel che risulta
da un altro passo (v. appresso la nota 624), è che si ten- tav f di riattaccare
a quelle parole di Aristotele i sillogismi ipotetici. ) Enthet.,\. 116 ss. |PL,
199, 967-8]: Si i/uis credatur logicus , hoc satis est ; Insanire putes potius.
quam philosophari , Seria sani etemm cuncta molesta nimis. Dulcescunt nugae,
vultum sapientis abhor- rent, lormenti geritts est saepe videre librum.
Ablactans nimium te- ncros Sertorius olim Discipulos Jerlur sic docuissc suos ;
Doctor mini juvrnum prelio compulsila et aere Pro magno docuit munere scire
nihil. tuo ), 1THKMI1 Ann ? liì Uirsaugienses , ann. 1137 (ediz. di S. Gallo.
1690, I, p. 403): David.... monachicum habitum suscepil.... Scripsil quaedam
non spernendae lectionis opuscolo.... de grammatica L. 1, in Perihermenias
Aristotelis libros duos. Che tuttavia le notizie di Tritemio abbiano scarso
valore, lo sanno tutt’ i competenti; d’al¬ tra parte è noto che le cose vanno
di gran lunga anche peggio per il 1 ITSEUS [John Pits, 1560-1616], il quale
spesso, quando non co¬ piava il Lei and [John Leland (Leyland, Laylonde),
antiquario in¬ glese m. 1552], inventava semplicemente menzogne, sicché forse
neanche vai la pena di ricordare quel ch’egli dice. De illustribus Anghae
scriptoribus. p. 223 s. (ad ann. 1160): Joannes Serio dictus magister Serio....
ex Eboracensi canonico Jactus est.... Fontanus Abbas.... Scripsit.... de
aequivocis diclionibus librum unum, de univocis dictio- nibus librum unum. e
appiccò Porfirio alla l'orca (laqueo suspendit), sicché potremmo forse
ravvisare in lui quel Comifìcio di cui parla Giovanni da Salisbury [e da altri
diversamente identificato; cfr. la nota del Webb alla p. 8 della sua ediz. del
Metalogicus] ; menziona inoltre, insieme con Ro- bertus Pullus, un Manerius,
estremamente sottile, mi arguto Bartolomeo e un Roberto Ami¬ ci a s 525 ). Si
può anche ricordare che la poesia finisce con la cacciata dei monaci dalle
scuole dei filosofi 528 ): e c’è del pari un’altra poesia, che appartiene
press’a poco alla stessa epoca, e rappresenta con molto spirito il con¬ trasto
fra il pretume, dedito ai piaceri del senso, e la fine cultura logica 527 ). 5
“) The latin poems commonty attributcd to Walter Mapes, col- lected and edited
by TnOMAS Wrigiit (Londra, 1841-4), dove uella Introduzione è anche esposto
quel che di più preciso risulta sul conto di Walter Mapes. In una delle poesie,
Metamorph. Goliae, v. 189 ss. (p. 28), si trova il passo seguente: Ibi doctor
cernitur ille Carnotensis, Cujus lingua vehemens truncat vclut ensis ; Et hic
praesul praesulum stai Pictaviensis , Prius et nubenlium [studenlium ?] miles
et castrensis (seguono i versi cit. più sopra, nota 442).... [v. 199 ss.)
....Celebrem theologum vidimus Lumbardum ; Cum Yvone, Helyam Petrum (entrambi
grammatici), el Bernardino [p. 29], Quo¬ rum opobalsamum , spiralo*, el
riardimi. Et professi plurimi sunt Abaie- lardimi. Reginaldus monachus dumose
contendit. Et obliqui s
singu- los verbi s comprehendit ; Hos et hos redarguii, nec in se descendit. Qui nostrum Porphyrium laqueo suspendit. Roberlus
theologus corde vivens mando Adest, el Manerius quem nullis secando ; Alto
loquens spiritii el ore profundo. Quo quidem subtilior nullus est in rnundo. Hinc et
Bartholomaeus faciem acutus. Retar, dialecticus. sermone astu- tus, Et Robertus
Amiclas simile secutus , Cum hiis quos praetereo , populus minutus. 5 -’) Ibid., v. 233 (p. 30): Quidquid tantae curiae
sanctione datur. Non ceda t in irritum, ratuni habealur ; Cucullatus igitur
grex vilE pendatur. Et a philosophicis scolis expellatur. — Amen. 5 “') De
presbytero et logico (parimente edito dal Wrigiit, op. cit., p. 251 ss.) in 216
versi, dove a dire il vero non si trova alcun con¬ tributo d’ informazione
storica per il nostro intento. Il contrasto degl indirizzi ha p. es. la sua
espressione nei versi 29 ss.: Logicus: «Fallis. fallis, presbvter, coelum
Christianum, Abusive loqueris. laedis Priscianum; Te probo falsidicum, te probo
vesanum»; ....Presbyter. « Tace, tace , logice ; tace , tir fallator; Tace ,
(lux insaniae, legis vanne lator ;....» Log. — « Peccasti, sed gravius adjicis
peccare. Le- gem hanc adjiciens vanam nominare; Sanum est, dissercre nel gram-
C. Prantl, »S 'torio, della logica in Occidente, H. [§ 38. — Il così detto Cornificio, oggetto
della polemica di Giov. da Salisbury]. — Ai già nominati si unisce finalmente
ancora tutto quell’ indirizzo, che Gio¬ vanni da Salisbury, volendo combattere
non contro la persona, ma esclusivamente contro la cosa, qualifica con il nome
simbolico di Cornificio 528 ). I numerosi passi dov’egli rammenta questo suo
avversario o i seguaci di lui, coincidono in un punto, che è questo: c’erano
cioè parecchi, i quali a priori respingevano come inutile ogni tecnica della
parola nudrita di pensiero (eloquentia o lo¬ gica), perchè tutto ha fondamento
nella disposizione na¬ turale, e pertanto, chi possieda questa, senza punta
tec¬ nica, tocca da se medesimo il segno, e invece chi non ha talento, non fa
progressi neanche in grazia della teo¬ ria 629 ). E quando si soggiunge che
questi « filosofi di mutilare, — Si insanum reputai, velim dicas quare». Prcsb.
— « Dco est udibile vestrum argumentum ; Ibi nulla veritas, toturn estfigmentum
;», o p. es. ai versi 129 ss.: Log. —« Audi, inter phialas quid philoso- pharis
; follus, non philosophus, bine esse probaris ; Stulto sunt si- milia singola
quac faris, [parte tua caream quarti ibi lucraris ]. Epi- cure lubrice, dux
ingluviei, Cujus Deus venter est, dum sic servis ei etc. ». 62S ) J OH. Saresb.
Metal., I, 2, p. 14 [ed. Webb, p. 8|: Utique par est sine derogatione personae
sententiam impugnari ; nichilque lurpius quam cum sententia displicet aut
opinio, rodere nomea auclo- ris.... [9] Celerum opinioni reluclor, quae multos
perdidit, eo quod populum qui sibi credat habet ; et licei antiquo novus
Cornificius inep- tior sii, ei tamen turba i nsipienlium adquiescit. — Polycr.,
I, Prol., p. 15 [16]: Aemulus non quiescit, quonium et ego meum Cornificium
habeo.... Quis ipse sit, nisi ab iniuriis temperet, dicam.... Procedat tamen et
publicet, arguat meum ralione vel auctoritate mendacium [PL, 199, 828 e 388],
Dal modo di esprimersi dello scrittore in questi due ultimi passi, risulta come
Giovanni non abbia fatto che traspor¬ tare simbolicamente il nome di
Cornificius da un personaggio del- 1 antichità al suo proprio nemico, e può
ammettersi con certezza che a ciò gli abbiano dato occasione le notizie di
Donato (Pila Vir- gilii, c. 17 s. : vedi le Opere di VIRGILIO, ed. Wagner, I,
p. XCIX s.), riguardo a un tale Cornificio, avversario di Virgilio « ob
perversam naturami> [cfr., nella ediz. Brummcr delle Vitae Vergilianae, il «
Ple- nus apparatus ad vitam Vergilii Donatianam», p. 31], 529 ) Ib., Metal., I,
1, p. 12 [ed. Webb, p. 6]: Miror ilaque.... quid sibi vull, qui eloquentiae negat
esse studendum.... p. 13 [8[: Cornifi¬ cius noster, studiorum eloquentiae
imperitus et improbus impugnalor. — C. 3, p. 15 [10]: Fabellis tamen et nugis
suos pascit interim audi- testa propria », avendo a disdegno F intiero trivio e
qua¬ drivio. si son gettati sopra forme di attività pratica e sovra profitti
pecuniari ;>3 °), sarebbe in ciò da riscontrare un indizio significativo, in
quanto si direbbe che tale corrente, non prendendo ispirazione da vedute
clericali o dommatiche bensì per effetto di un impulso pratico, si sarebbe
mostrata avversa al farraginoso viluppo della scienza scolastica, e avrebbe
richiamato l’attenzione so¬ pra il valore immediato del talento individuale.
Così po¬ tremmo intendere tali manifestazioni come un preludio di tendenze
svoltesi più tardi. Qualora ci fosse lecito riferire al così detto Cornificio
anche la notizia, che ta¬ luni rigettarono le Categorie e la Isagoge come
inutili libri elementari 531 ), potremmo forse ritenere che il già tores quos
sine artis beneficio, si vera sunt quae promittit , fa ci et elo- quentes et
tramite compendioso sine labore philosophos. — C. 5-6, p. 23 [20]: Neque erti
rii. ut Cornificius, meipsum docui.... Non est ergo ex eius sententia....
sludendum praeceplis eloquentiae ; quoniam eam cunctis natura ministrai aut
negai. Si ultra ministrai aut spante, opera superflua et diligentia ; si vero
negai, inefficax est et inanis. — C. 9, p. 29 [26]: Eo itaque opinionis vergit
intentio, ut non omnes mutos faciat. quod nec fieri potcst nec expedit, sed ut
de medio logicam tollal. — Ibid.. II, Praef., p. 62 [60]: Logica, quam. etsi
mutilus sit et amplius mutUandus, Cornificius, parielem solidum eccoti more
pal- pans, impudenter attemptat et impudenlius criminatur. — Ibid., IV, 25, p.
181 [192]: Sed Cornificius nosler, logicar criminator, phi- losophantium
scorra, non immerito contemnetur. — Enthel., v. 61 ss. « Quum sit ab ingenio
totum, non sit libi curae. Quid prius addiscas posteriusve legas ». Ilare
schola non curai, quid sit modus ordove quid sit. Quam teneant doctor
discipulusve viam [l’L, 199: 827, 828, 833 837, 857, 931, 966], 530) j \Jctal.
I, 4, p. 20 [15]: Alii autem Cornificio similes ad vulgi professiones easque
prophanas relapsi sunt; parum curantes quid phi- losophia doceat, quid
appetendum fugiendumve denuntiet ; dummodo rem faciant, si possunt, recte ; si
non, quocumque modo rem (Hor. Ep. 1, 1, 65[-6])....Evadebant illi repentini
philosophi et cum Corni¬ ficio non modo trivii nostri sed totius quadruvii
contemptores IPL, 199. 831], 531 ) Ibid., III, 3, p. 123 [128]: Sunt qui librum
islurn (cioè le Ca- tegoriae), quoniam elementarius est, inutilem fere dicunt,
et satis esse putant ad persuadendum se in diabetica disciplina et apodictica
esse perfectos, si contempserinl vel ignoraverint illa, quae in primo com¬
mento super Porphirium anlequam artis aliquid attingatur docel Boe- lius
praelegenda [PL nominato Reginaldo fosse per lo meno un rappresentante di
questa tendenza 532 ), se non apparisse inutile, con tante lacune nella
conoscenza delle fonti, presentare semplici congetture. Ma quale idea si fosse
fatta lo stesso Gio¬ vanni della origine di siffatta opposizione alla logica
sco¬ lastica, è stato già più sopra indicato, alle note 52 s. [§ 39. — Giovanni
da Salisbury: a) i suoi studi: il « Metalogicus»]. — Ma così è venuto il
momento di occuparci proprio di quello stesso autore, che già tante volte
abbiamo finora dovuto usare quale fonte, cioè di Giovanni da Salisbury 533 ).
Costui (morto nel 1180) aveva intrapreso lo studio della logica alla scuola di
Abelardo, lo aveva proseguito presso il già ricordato Alberico, Roberto da
Melun e Guglielmo da Conches, M2 ) È possibile che nella espressione sopra
citala « laquco su- spendi!» (nota 525) si celi anche un’altra volta un giuoco
di pa¬ role con Cornificius e carni/ex. V. upprcsso, nota 545, un altro giuoco
di parole con cornicari. 693 ) Approfondite ricerche sopra Giovanni da
Salisbury, dal punto di vista della storia letteraria, sono state presentate da
Cristiano I’ETERSEN nella sua edizione dell’Uref/ietieus (Amburgo, 1843). La
monografia, nella quale Ermanno Reuter (Johann von Salisbury : Zur Geschichte
der christlichen Wissenschaft im 12. Jnhrhundcrl [G. da S. : Per la storia
della scienza cristiana nel 12° Secolo], Berlino, 18 12) ha tentato di svolgere
la dottrina di Giovanni, generalmente si risente dell’orientamento proprio
dell’Autore, e che è tanto sbagliato quanto estremamente insufficiente. Una
ricca esposizione della dot¬ trina stessa la dobbiamo a C. ScHAARSCHMIDT, Joh.
Saresberiensis nach Leben und Studiai, Schriften und Philosophie [G. da S. ueda
vitu e negli studi, negli scritti e nella filosofia] (Lipsia, 1862): ma le
osserva¬ zioni ch’egli muove in questo suo libro (p. 303 ss.) contro il mio
modo di vedere, non in’ inducono per nulla a modificare la mia opinione, che
trova appoggio nelle fonti. — Le citazioni son fatte sulla base della edizione
complessiva di A. Giles (Oxford 1848, in 8°, 5 voli., dei quali il 3° e il 4°
comprendono il Policraticus, mentre il Metalo¬ gicus si trova nel 5°), sebbene
tale edizione non sia adatto compiuta con diligenza, e sia particolarmente da
rilevare conte essa, con la più assurda interpunzione, renda spesso difficile
l’intelligenza del testo (le necessarie modificazioni ce le introduco
tacitamente). [Qui sono aggiunti, per il Policraticus e per il Melalogicon, i
rinvii alle più recenti ediz., curate dal Webb. e seguite in massima nella
riprodu¬ zione dei testi]. poi entrò in relazioni scientifiche con Adamo' dal
Petit- Pont, ascoltò di nuovo lezioni di dialettica presso Gil- lierto de la
Porrée, di teologia presso Roberto Pulleyn [e Simon Pexiacensis], indi ritornò
agli Abelardiani, che nel corso di quei vent’anni nulla avevano appreso e nulla
dimenticato 534 ), e compose intorno al 1160 535 ) il suo Me- talogicus, dove
principalmente espose le sue vedute rela¬ tivamente alla logica. Giovanni ha
scritto, come dice egli medesimo, quest’opera sua soltanto a memoria, fretto¬
losamente e in breve tempo, dopo che da molti anni aveva interrotto i suoi studi
di logica, e fu suo intento non già di comporre un commento che servisse a
inse¬ gnare o a imparare, bensì essenzialmente di dimostrare la utilità della
logica, contro gli attacchi che le erano stati mossi, e così difenderla 636 ).
534 ) Metal., II, 10, dove al passo citato più sopra (n. 521) fa se¬ guito (p.
79) [79]: Deinde.... [80] me ad gramaticum de Concilia trans- tuli, ipsumque
triennio docentem audivi. Viene appresso il conte¬ nuto della precedente nota
522, e poi (p. 81) [82]: Reversus itaque.... repperi magistrum Gileberlum.
ipsumque audivi in logicis et divinis ; sed nimis cito subtractus est. Successa
Rodbertus Pullus, quem vita pariter et scienlia commendabanl. Deinde me excepit
Simon Pexia¬ censis [J’issiacensis. Pisciacensis, cioè da Poissy: è lecito
congettu¬ rare eon lo Wcbb che si tratti dello stesso Simone, di cui v. qui so¬
pra. nota 54].... Sed hos duos in solis theologicis habui praeceptores....
locundum itaque visum est veteres quos reliqueram et quos adhuc dia¬ betica
detinebat in monte recisero socios, conferve cum eis super ambi- guilatibus
pristinis, ut nostrum invicem ex collatione mutua commeli- remur profectum.
Inventi suiti qui fuerant et ubi ; neque enim ad pal- mam visi sunt
processisse. Ad quaesliones pristinas dirimendas neque propositiunculam unam
adiecerant. — Ibid., Ili, 3, p. 129 [134]: Habui enim hominem (cioè Adamo dal
Petit — Pont: v. la nota 441) familiarem assiduitate colloquii et
communicatione librorum et coti- diano fere exercitio super emergentibus
articulis conferendi ; sed nec una die discipulus eius fui. Et lamen Italico
gratias, quod eo docente plura cognovi, plura ipsius.... ipso arbitro reprobavi
[PL, 199, 868-9 e 899]. Cfr. inoltre la nota 54. 53ó) V. Petersen, loc. cit.,
p. VI e 73 ss. 63B ) Metal.. Prol., p. 8 [2]: Siquidem cum opera logicorum vehe- mentius tanquam
inulilis rideretur, et me indignanlem et renitenlem aemulus cotidianis fere
iurgiis provocare!, tandem litem excepi et ad.... cnlumnias.... studiti responderc.... [3] Placiti!
itaque sociis ut hoc ip- sum tumultuario sermone dictarem ; cum nec ad
sententias subtiliter . [b) punto di vista utilitaristico, alla maniera di
Cice¬ rone. La divisione del sapere ]. — Per lui il punto di vista decisivo è
quello della utilità, e per conseguenza dob¬ biamo già aspettarci di trovar in
lui un eclettico, che procede assolutamente senza scorta di principii 537 ).
Do¬ minato com’è anche lui dalla pratica tendenza utilitaria, si distingue dal
suo avversario Cornifichi, soltanto per¬ chè non rigetta, come costui, la dottrina
delle scuole, bensì vuole render pratica questa dottrina stessa; ma egli è
filosofo tanto poco quanto Cicerone, con il quale si trova in intimo accordo.
Anzi fa anche espressamente professione di aderire alla dottrina probabilistica
di quella setta degli Accademici, ch’era caldeggiata da Cicerone 63S ), e per
conseguenza trova nella utilità pratica il fine unico di ogni scienza 539 ). In
tal senso si esprime circa il pe- examinandas nec ad verbo expolienda studium
supcresset aut otium.... (p. 9) Nam ingenium hebes est et memoria infidelior
quarti ut anti¬ quorum (v. le note 55 ss.) subtilitates percipere aut quae
aliquando percepta sunt diutius valeam retinere.... Et quìa logicae suscepì
patro - cinium. Metalogicon inscriptus est liber. — Ibid., Ili, Praef. p. 113
[117]: Anni fere vigilili elapsi sunt ex quo me ah officiai» et palaestra eorum
qui logicam profitrntur rei jamiliaris avulsit angustia.... Unde me
excusaliorem habendum pillo in bis quae obtusius et incultius a me dieta leclor
internet.... (p. 115) [119] Ergo procedat oratio. et quae anliquatae occurrent
memoriae de adolescentiae sludiis, quoniam io- cunda aetas ad menlem reducilur
ctc. — III, 10, p. 156 [164]: ....prò- positura est ; scilicet, ut potius
aemulo occurratur, quarti ut in artes, quits omnes docenl aut discunt,
commentarli scribantur a nobis TP!, 199: 824, 889-90, 916], 1 ’ 537 ) Ermanno
Reuter s’inganna a partito, quando parla di un « superiore punto di vista
filosofico», che Giovanni avrebbe assunto, elevandosi al disopra degl’
indirizzi allora contrastanti. ) I olycr., I, Pro!., p. 15 [1. 17] :
[cum]....in phitosophicis academice disputane prò ralionis modulo quae
occurrebant probabilia sectatus sim. Nec Academicorum erubesco professionem.
qui in bis quae sunt dubilahilia sapienti, ab eorum vestigiis non recedo. Licei
enim seda haec tenebras rebus omnibus videalur inducere, nulla ventati exami-
nandae jidelior et, auctore Cicerone qui ad eam in senectute divertii, nulla
profectui familiarior est. — Metal., II, 20, p. 102 [106]: qui me in bis, quae
sunt dubitabilia sapienti, Academicum esse pridem pro/cssus sum [PL, 199: 388 e
882|. 63 ") Metal., Eroi., p. 9 [4]: De moribus vero nonnulla scienter
inserui ; ratus omnia quae legiintur aut scribunlur inutilia esse, nisi dantesco
verbalismo e la sottigliezza dei dialettici, fa¬ cendo uso di termini così
energici, che il più sistematico nemico della logica in generale, non potrebbe
pronun¬ ziarsi con maggiore veemenza 54 °); anzi persino in quelle
discettazioni sopra le Categorie, alle quali il suo maestro Gilberto s’era
dedicato, egli trova, pur essendo per molti lati d’accordo con lui (v. appresso
le note 582 ss., 593 ss. e 606 ss.), da criticare tuttavia qualche cosa, che
possa cioè scapitarne la conoscenza morale di noi stessi 5U ) : e trascinato
dal suo zelo per la teologia morale, qualifica la logica aristotelica, che pur
vuole difender contro chi l’attacchi, con il termine aslutiae, che siamo
abituati a veder usato dai nemici fanatici della filosofìa 542 ). quatenus
afferunl nliquod adminiculum vilae. Est enirn quaelibet pro¬ fessi
philosophandi inutili et falsa, quae se ipsam in cultu virlulis et vitae
exhibitione non aperit [PL, 199, 825]. MO) Polycr., VII, 9, p. 110 [II, 123]:
Suspice ad moderatores phi- losophoruni temporis nostri....; in regula una aut
duobus aut pauculis verbis invenies occupalos. aut ut mullum pauculas
quaesliones aplas iurgiis elegerunt, in quibus ingenium sutim exerceant et
consumatit aetatem. Eas tamen non sufficiunt etwdare, sed nodum et tolam ambi-
guitatem cum ititricntione sua per auditores suos transmittunt posteris
dissolvendum.... Latebras quacrunt, variant faciem, nerba distor- quenl,... si
in eo perstiteris, ut quocumque verbo defluant et volvan- tur. quid velit,
intelligas et quid sentiat [II, 124] in tanta varietale varborum, et tandem
vincietur sensu suo et capielur in verbo oris sui, si substantiam eorum quae
dicunlur attigeris firmiterque tenueris. — lbid., 12, p. 122 [II, 136]: Erranl
ulique et impudenler errant qui philosophiam in solis verbis consistere
opinantur ; erranl qui virtutem verbo putant.... Qui verbis inhaerent, malunt
videri quam esse sapien- tes.... [II, 137] quaestiuneulas movent, intricala
verbo ut suum et alie- num obducant sensum, paratiores ventilare quam examinare
si quid difficultalis emersit [PL, 199, 654 e 662]. Inoltre, la precedente nota
58. 511 ) Jbid., Ili, 2, p. 164 [I, 174]: Inde est forte quod illi, qui prima
totius philosophiae elemento posteris tradcre curaverunt, substantiam
singulorum arbitrati sunl intuendam, quantilatem, ad aliquid. quali- totem,
situai esse, ubi, quando, habere, facete, et pati , et suas in omnibus his
proprietates, ari intcnsionem admittant, et susceptibilia sint con- trariorum,
et ari eis ipsis aliquid invenialur adversum (queste ultime son tutte questioni
discusse appunto da Gilberto: v. le note 489-509 [507]). Provide quidem haec et
diligenter, etsi in eo negligentiores exsti- terint. quod sui ipsius notitiam
in tanta rerum luce non asseculi sunt etc. [PL, 199, 479]. 5! -) Jbid., IV, 3,
p. 227 [I, 243]: Astutias Aristolilis, Crisippi acu- Ma se cerchiamo quindi di
scoprire quale sia la posi¬ zione che Giovanni assegna alla logica, dal punto
di vista di un ordinamento sistematico, vediamo una volta, relativamente alla
divisione delle scienze, accennato da lui un tono fondamentale, che ci ricorda
molto da vi¬ cino Ugo da S. Vittore (note 45 s.), designandosi come forze
ancillari, sotto la sovranità della divina pagina, le discipline meccaniche,
teoriche e pratiche, e con esse la filosofia che erige il saldo baluardo 543 )
: e a tal propo¬ sito è degno di nota che anche da Ugo il compito della logica
è trasferito nel perfezionamento della espressione verbale. E quando un altra
volta, tenendosi attaccato, nella maniera più lampante, a Gilberto (nota 465),
Gio¬ vanni distingue ima triplice funzione della ratio, — in quanto che l’uso
concreto di questa (modus concretivus) è rivolto alla natura sensibilmente
percettibile, Tatti- vita astrattamente analitica ( resolvere ) conduce alla
mate¬ matica, e la comparazione riferente (conjerre et rejerre) è compito della
logica 544 ), — già da ciò desumiamo l’at¬ titudine di Giovanni ad afferrare a
capriccio opinioni varie di altri, e a metterle ancora, ecletticamente, una
accanto all’altra. mina, omniumque philosophorum lendiculas resurgens mortuus
con- futabat. - Metal., Ili, 8, p. 141 [147]: Pithagoras naluram exculit,
Socrates morurn praescribit normam, Plato de omnibus persuader , Ari¬ stotile*
argutias procurai [PL, 199. 518 e 906], Cfr. la nota 560. ,,J3 ) Enthet., v.
441 ss.: Ilaec scripturarum regina vocalur, eandem Divinam dicunt.... Haec
caput agnoscil Philosophia suum ; Huic omnes artes famulae ; medianica quaeque
Dogmala, quac variis usibus apio videi, Quae jus non reprobai, sed publicus
approbat usus, Iluic operas debent militiamque suam ; Practicus buie servii
servitque theoricus; arcem Imperli sacri Philosophia dedii [PL, 199, 971-5].
Riguardò a Ugo, cfr. più oltre la nota 555. 64 ‘) Ibid., v. 659 ss.: Res
triplici spedare modo ratio perhibetur, Nec quartum poluit meni reperire modani
; Concretivus hic est, alius concreta resolyit, Res rebus confert tertius atque
refert ; Naluram pri- mus, mathesim medius comilatur, Vindical extremum logica
sola sibi [c) punto di vista retorico ,
come in Cicerone. Gramma¬ tica e dialettica ]. — Ma invero per la logica il
punto di vista propriamente eclettico è il punto di vista retorico, perchè
questo si libera di tutte le difficoltà che si possono presentare nelle
questioni filosofiche fondamentali: e così anche Giovanni è esonerato dalla
fatica di decidersi per ima data concezione filosofica, a preferenza delle
altre. Senza determinare più precisamente il posto della logica nel campo delle
scienze, nè discutere in base a una qual¬ siasi veduta, pur che fosse una e ben
definita, la relazione del pensiero subbiettivo con la obbiettività o con la
for¬ ma della espressione verbale, egli può qui accontentarsi di opporre ai
nemici della logica, sfoggiando una ricca colorita varietà di frasario, e
traendo partito dalla so¬ lita tradizione scolastica, il concetto e il valore
della « eloquentia» 64S ). La maniera in cui il pensiero si atteggia rispetto
alla espressione verbale, è qualificata mercè un fioretto retorico, parlandosi
di un « dolce e fecondo con¬ nubio» della ragione e dell’eloquio 546 ), nè
diverso va¬ lore ha l’altra frase, che cioè le proprietà delle cose « ri¬
dondano» nelle parole: e data l’affinità che sussiste fra le cose e ciò che di
queste si dice [.sermones] (lo stesso 5Ji ) Melai.. I, 7, p. 24 [21]: Cornicatur
haec domus insulsa (suis tamen verbis ) et quarti constai totius eloquii
contempsisse praecepta.... [22] Ait cairn : Superflua sunl praecepta
eloquentia, quoniam ea na- turaliler adest aut abest (nota 529). Quid,
inquarti, falsius ? Est enim. eloquentia facullas dicendi commode quod sibi
cult animus expediri.... (p. 25) Ergo cui facilitas adest commode exprimendi
verbo quidem quod sentii, eloquens est. Et hoc faciendi jacultas rectissime
eloquentia no- minatur. Qua quid esse praeslantius possit ad usum,
compendiosius ad opes. fidelius ad gratinai, commodius ad gloriam , non facile
video [PL. 199. 834]. M6) lbid., I, 1, p. 13 [7]: Ratio, sciattine virlutumque
parens..., quae de verbo frequentius concipil et per verbum numerosius et
fructuo- sius parit, aut omtrino sterilis permanerei aut quidem infecunda, si
non conceptionis eius fructum, in lucem ederet usus eloquii; et invicem quod
sentii prudens agitano mentis hominibus publicaret. Haec autem est illa dulcis
et fructuosa coniugatio rationis et verbi, quae etc. [PL si legge in Abelardo —
cfr. la nota 308 —, e qual¬ che cosa di simile in Gilberto — cfr. la nota 457),
si tratterebbe semplicemente di possedere in mente una quantità di cose, e in
bocca una quantità di parole 547 ). Insomma per Giovanni il punto di vista più
essenziale è rappresentato dalla consistenza dei mezzi, che s’ab- biano una
volta a disposizione, appropriati per la manife¬ stazione del pensiero con il
discorso, e pertanto la « lo¬ gica nel significato più esteso» della parola, è
da lui defi¬ nita in termini ciceroniani come ratio loquendi vel disse- rendi,
onde è di sua competenza l’addestramento all’uso del discorso (magisterimn
sermonum): e qui essa, mentre da un lato rivela la propria utilità, dall’altro
lato tiene anche il primo posto fra le arti liberali, poiché in quella più
vasta accezione comprende anche la sfera della gram¬ matica 548 ). Ma mentre
con ciò si renderebbe tuttavia manife¬ sta la esigenza di una più rigorosa
determinazione, in ordine a questa estesa definizione, della relazione reci¬
proca tra grammatica e logica (cfr. subito appresso la ) Ibid., 16, p. 42 [39]:
Natura enìm copiosa est et ubertatis suae pratiam Immotine mdigentiae facit.
Inde ergo est, quod [401 prò- pnetas rerum redundat in voces, dum ratio offertat
sermone, rebus de quibus loquUur esse cognatos. — Polycr., VII, 12, p. 124 fll.
1391 - A telili cairn utilius, nichil ad gloriam aut rcs adquirendas com'modius
inventati quam eloquenza quae ex eo plurimum comparatile si rerum ln r re copia
sit ver,l ° rum fPL, 199, 845 e 6631. etuTrìJ , 1 ': 10 ’ P ‘ w 8 - [ 2 J ]:
Est ita ^ e lo * ica ' ). Ma poiché
ciascun’argomentazione o disputa consiste di espressioni verbali, si la ora la
distinzione — in maniera simile che in Abelardo (nota 271), e tenuto conto di
que¬ sta definizione più ristretta (cfr. invece la nota 548) — fra la
grammatica, che tratta soltanto della dictio, e la dialettica, che ha per
oggetto e contenuto i dieta : ma a tal proposito, con atteggiamento di puro
indifferenti¬ smo, si qualifica come irrilevante la questione se si tratti qui
del profferire, o di quello che vien profferito 556 ). E mentre Giovanni a ciò
novamente ricollega la parci- secundo super Porphirium asserii (p. 47 [PL, 64,
73; ed. Brandt, 140]), est orlus logicai disciplinae. Oporluit enim esse
scientiam quae veruni a falso discerncret. et doceret quae ratiocinatio veram
te- neat similari i disputarteli, quae verisimibm, et quae fida sit, et quae
debeat esse suspecta ; alioquin veritas per ratiocinantis operam non po¬ terai
diveniri. — I, 15, p. 41 [39]: Diabetica autem id dumtaxalac¬ centai. quoti
verum est aut verisimile , et quicquid ab his longius dissi- det ducil absurdum
[PL. 199: 857, 858 e 844]. 5M) ihid.. II, 3. p. 65 [64]: Profecta igitur hinc
est et sic perfecta scientia disserendi ; quae disputandi modos et rationes
probationiim aperit...; aliis philosophicis disciplinis posterior tempore, seti
ordine prima (parimente Ugo da S. Vittore, nota 46: e cfr. la nota 543). Inchoanlibus enim
philosophiam praelegenda est , eo quod vocum et intellectuum inlerpres est.
sine quibus nullus philosophiac articulus recte procedil in lucern [PL, 199,
859]. 5M ) lbid., 4. p. 67 [65] : Est autem
diabetica, ut Angustino placet (v. la Sez. XII, nota 30), bene disputandi
scientia.... Est autem dis¬ putare, aliquid eorum, quae dubia sunt aut in [66]
contradictione po¬ sila aut quae sic rei sic proponunlur catione supposita
probare rei irn- probare ; quod quidem quisquis ex arte probabiliter facit, ad
dialectici pertingil metani. Hoc autem ei nomea Aristotiles auctor suus
impostili, eo quod in ipsa et per ipsam de diclis disputatile : ut enim grama-
tica de diclionibus et in dictionibus. teste Ilemigio (Sez. precedente, nota
172), sic ista de dictis et in diclis est. Ilio verbo sensuum P rln ~ cipaliter
: sed linee examinat sensus verborum ; nani lecton [aev. .ov] graeco eloquio
(sicut ait Isidorus) (Sez. precedente, nota 27) dietum appellalur. Sire autem
dicatur a Graeco lexis [>.£''.;], quod locutio interpretalur.... site a
lecton [)£Xt6v], quod dietum nuncupatur. non multum refert ; cum ex aminare
loculionis vim et eius quod dicitur ve- ritalem et sensum. idem aut fere idem
sit ; vis enim verbi sensus est. — III, 5, p. 137 [142]: Est autem res de quo
aliquid, dicibile quod de aliquo, dictio quo dicitur hoc de ilio : e a ciò fan
seguito le parole sopra citate, alla nota 207 [PL. zione delia logica, venuta
in voga nella scuola, da Boe¬ zio in poi 537 ), la conoscenza ch’egli ha di
Aristotele, lo porta in pari tempo a distinguere tra apodittica e dia¬ lettica:
in tale distinzione tuttavia, neanche la prima delle due reca in se stessa una
propria interna finalità, bensì rimane pur sempre come cosa essenziale la
utilità della logica, così divisa, nella sua totalità 558 ). [d) conoscenza
compiuta . 66 [64]: Pro co namquc logica dieta est. quod rationalis, i. e.
rationum ministraloria et examinalrix est. Divisti eam Plato in dialeclicam et
rethoricam ; sed qui efficaci am eius altius me- tiuntur, et pitica attribuunt.
Siquidem ci demonstrativa. probabilis et sopii'stira subicmntur, ecc., in piena
conformità con Boezio (v. in Sez. XH, nota 82). Così pure 5, p. 68 [67]:
Demonstrativa. pro- babilis, et sophistica, omnes quidcm consistimi in
inventione et iudicio, et itidem dividentes, diffinientes, et colligentes,
domestici rationibus utuntur : v. ibid. la nota 76 [PL, 199, 859 e 861], yotq
Uiid.. II, 14, p. 85 [87]: Principia inique dialecticae proba- bilia sunt ;
sicut demonstralivae necessaria . — III, IO, p. 152 [160]: Sophisma est
sillogismus litigatorius ; philosofimn vero , demonstrativus ; argumentum
aulem. sillogismus dialecticus ; sed aporisma (v. la Scz. IV, nota 33),
sillogismus dialecticus contradictionis. Horum omnium necessaria estcognitio,
et in facultatibus singulis perutilis est exercilalio. — p. 154 [162]: Sic
simrum instrumentorum necessc est logicum expe- dilam habere faciillatem, ut
scilicet principia noverii. probabilibus habun- too et inducendi omnes ad manum
habeat rationcs [PL iiosce più gli scritti logici parzialmente, e soltanto per
sen¬ tito dire, è da lui qualificato come vero duce (campiduc- tor) di tutti
gli studiosi di logica, e in ogni caso, sebbene con le riserve dovute
all’autorità della fede cristiana e della teologia morale, come maestro
dell’arte di dispu¬ tare 559 ): al ciceroniano Giovanni, cioè, manca natural¬
mente il senso dell’ intimo valore filosofico della logica aristotelica, nella
quale scorge invece soltanto una tecnica estrinseca: e perciò è anche sua opinione
— questo ci fa ricordare la espressione su ricordata (nota 542) « astu- tiae» —
che Aristotele mostri maggior vigore nella po¬ lemica contro altri, che non
nella costruzione positiva della sua propria dottrina 58 °). Prese le mosse
dalla tesi che la logica, come tecnica dei discorsi ( sermones ), comprendendo
inventio e iudicium (Sez. XII, nota 76), è lo strumento di tutte le discipline,
per la quale ragione appunto Aristotele si è meritato di essere soprannominato
« il Filosofo » 581 ), Giovanni con- 559 ) Ihid., Ili, 10, p. 147 [154]: Rei
rationalis opifex et campi- doctor (Giles legge campi doctor [PrantJ,
campiductor ]) eorum qui lo- gicam profitentur. — IV, 1, p. 157 [165]:
Campidoctor (come sopru) itaque Peripateticae disciplinae, quae prae ceteris in
veritatis indaga- lione laboret, infelicem summam operis dedignatus, taluni
compqnil (allusione a Hor. Ars poet., v. 34); cerlus quoti cuiusque operis per-
fectio gloriam sui praeconalur aucloris. — IV, 23, p. 180 [190] : Sicul optimus
campidoctor (qui anche il Giles dà la lezione corretta [ campiductor ]) hunc ad
infcrendam pugnimi, illum inslruit ad cau- telam. — 27, p. 183 [193]: Nec tamen
Aristotilem ubique bene aut sensissc aut dixisse protestar, ut sacrosanctum sit
quicquid scripsit. Nam in pluribus [194], optinente ratione et auctoritatc
fidei, con- vincitur errasse . linde sic accipiendus est, ut ad promovendos iu-
vrnes ad gravioris philosophiae instituta doctor sit, non morum sed
disceptaiionum [PL, 199: 910, 915-6, 930, 932], 5 ““) Ibid., III, 8, p. 141
[147]: Aristotilem prue ceteris omnibus tam aliae disserendi ratiocinationes
quam diffiniendi titulus (cioè il contenuto del 6° Libro della Topica)
illustrarci, si tam patenter astrarrei propria quam potenter destruxil aliena
[PL, 199, 906], M1 ) Enlhel., v. 821 ss.: Magnus Arisloleles sermonum possidet
artes Et de virtutum culmine nomen habvt. Judicii libros componil et inve-
niendi Vera, facultales tres famulantur ei; Physicus est moresque docet, sed
logica servii Alidori semper officiosa suo ; Haec illi nomen proprium Jacit
esse, quod olim Donai amatori sacra Sophia suo ; Nam qui prae - sidera
l’intiero Organon in una maniera che perfetta¬ mente si accorda con il modo di
pensare di Abelardo (note 271 ss.); Aristotele cioè avrebbe ricevuto dalle mani
dei grammatici la semplice vox significativa, della quale avrebbe preso a
trattare nelle Categorie, in tal guisa che essa possa poi (De Interpretatione)
venire considerata come elemento della complessa struttura del giudizio, e a
ciò possa far seguito Io svolgimento di quanto si attiene alla inventio e al
iudicium ; la Isagoge compilata da Porfirio [per introdurre] alla prima di
queste parti principali, ap¬ partiene al tutto, proprio soltanto quale
introduzione, e non si deve, come si suole da molti (note 56 ss.), farne per
così dire la cosa principale 562 ). Così però si opera nell’Organon anche una
nuova di¬ visione in due gruppi principali, in quanto che la Isa¬ goge, le
Categorie e il De interpr. posson valere solamente da gradi preparatorii (praeparaticia
artis), essendo tali libri ad artem, piuttosto che de arte, laddove la tecnica
vera e propria, nella quale la inventio e il iudicium tro¬ vano la loro piena
esplicazione, si presenta nelle tre opere celiò, liluli communis honorem
Vindicat. — Metal., II, 16. p. 88 [90]: fìrnnes se Aristotilis adorare vestigio
gloriantur ; adeo quidem, ut communi' omnium philosophorum nomea praeminentia
quadam sihi proprium fecerit. Nam et antonomasice, i. e. excellenter. Philo-
sophus appellatile [PL, 199: 983 c 873], 562) jVf e (a/., II, 16. p. 89 [90]:
Ilic ergo (cioè Aristotele) proba- bilium rationes redegit in artem et, quasi
ab dementis incipiens, usque ad propositi perfectionem evexit. Hoc autem
pianura est his qui scru- tantur et diseutiunt opera cius. Voces enim primo
significativas. i. e. sermones incomplexos, de gramolici menu accipiens,
differentias et vires eorum diligenler exposuit, ut ad complexionem
enuntiationum et inveniendi iudicandique scientiam facilius qccedant. Sed quia
ad lume elementarem librum magis elementarem quodammodo scripsit Por- phirius,
eum ante Aristotilem esse credidii antiquitas praelegendum. Recte quidem, si
recte doceatur ; i, e. ut tenebras non inducal [91] eru- diendis nec consumai
aetatem,,.. linde quoniam ad aliu introduclo- rius est, nomine Ysagogarum
inscribitur. Itaque inscriptioni dero- gant qui sic versantur in hoc, ut locum
principalibus non relinquant [PL, principali: Topica, Analitici e Soph. Elenchi
563 ). Ma pro¬ prio per rispetto alla inventio e al iudicium, risulta di nuovo
un altro punto di vista da adottar quale princi¬ pio della partizione, in
quanto che la Topica, insieme con i libri precedenti, riguarda prevalentemente
e fon¬ damentalmente la inventio, laddove alla stessa maniera Analitici e Soph.
El. debbono servire al iudicium ; tut¬ tavia neanche si potrebbe daccapo
mantenere rigorosa¬ mente questa partizione (della quale poi non sappiamo
davvero perchè in generale sia stata assunta come fon¬ damentale), perchè alla
inventio contribuiscon pure gli Analitici e i Soph. El., e viceversa anche la
Topica giova al iudicium 564 ). D’altra parte, oltre a tutto ciò, troviamo che
Giovanni, per far intendere che cos’è l’Organon, uti- M3 ) Dopo che cioè nel
lib. Ili, cap. I, del Metal, si è trattato della Isagoge, nei cap. 2 e 3, delle
Categorie, c nel cap. 4, del De in- terpr., al principio del c. 5, p. 134 [139]
si legge: Artis praeparalitia praecesserunl, ad quam suus opifex et quasi
legislator rudem omnino tironem irreverenter el, ul dici- solet, illotis
manibus non censuit ad- mittendum.... Utilissima quidem sunt et, si non satis
proprie dican- tur esse de arte, satis vere dicuntur esse ad artem : parum
autem refert, si magis dicatur ari sic. Ipsum itaque quodammodo corpus artis,
de- ditctis praeparatiliis, principaliter consistit in tribus ; scilicet Topi-
corum. Analeticorum. Elenchorumquc notitia; his enim perfecte co- gnitis, et
habitu eorum per usum et exercilium roboratis, inventionis et iudicii copia
suffragabitur in omni facultate tam demonstratori quam dialectico et sophistae
[PL, 199, 902]. M4 ) Ibid., IV. 1, p. 157 [165]: Unde cum inventionis
instrumenta procurasset et usum. quasi in conflatorio setlens, examinatorium
quod- dam studuit cadere, quo diligentissima fieret examinatio rationum. Ilic
autem est Analeticorum liber, qui ad iudicium principaliter spe¬ cial, et
lanieri ad inventionem aliquatcnus proficit. Nani [166] disci- plinarum omnium
connexae sunt rationes, et qucelibel sui perfectio- nem ah aliis mutuatur. —
III. 5, p. 134 [139]: Scientia Topicorum. quae, etsi inventionem principaliter
instruat, iudiciis tamen non me- diocriler sujjragatur.... Siquidem sibi
invicem universa contribuunt. coque in [140] proposito facultate quisque
expeditior est, quo in vicina el cohaerente instructior fueril. Ergo et tam
Analetice quam Sophistica conferunt inventori, et Topice itidem conducit
indicanti ; facile tamen adquieverim singulas in suo proposito dominari et
accessorium esse beneficium cohaerentis. — IV, 8, p. 164 [173]: Licei ad
iudicium ma¬ xime dicatur hacc scientia (se. demonstrativa) pcrtinere,
invenlioni tamen plurimum conferì [PL izza una similitudine, e compiutamente la
svolge, fa¬ cendo corrispondere alle lettere dell’alfabeto le Categorie, e alle
sillabe il libro De interpr. 56S ); fa poi seguito la To¬ pica, che rappresenta
la parola (dictio) e v’incliiude la col- leclio degli elementi 566 ) : e ciò
anzi in tal guisa, che, pro¬ cedendo lo sviluppo nel senso di una costante
ascesa, a fondamento di tutta quanta la logica stia il primo libro della Topica
567 ), e cosi poi il libro ottavo corrisponda alla connessione della
proposizione ( constructio , espressione di Prisciano — cfr. la nota 273),
ond’è proprio questo il libro, in cui si dà la scalata al punto culminante
della logica, ed esso, al paragone di tutta la letteratura mo¬ derna (dei
moderni : v. le note 55 ss.), dev’essere quali¬ ficato come lo scritto di gran
lunga più utile 588 ). Gli Ana- 5C5) Jbid., Ili, 4, p. 130 [135]: Libcr
Pcriermeniarum, vel potius Periermenias (v. la Sez. precedente, nota 33),
ratione proporlionis sillabicus est, sicul Praedicamenlorum elementarius ; nam
dementa ralionum, quae singulatim tradii in sermonibus incomplexis. iste col-
ligil, et in modum sillabae comprehensa producit ad veri falsiquc si-
gnijlattionern. Tantae quidem subtilitatis est habitus ab antiquis, ut in
praeconium eius celebralum ferat Isidorus (v. ibid. la nota 34), quia
Aristotiles, quando Periermenias scriplilabat, calamum in mente tinguebat [PL,
199, 899]. _ 66r >) Ibid.. 6, p. 137 s. [143]: Sicul autem elementarius est
Praedi- camentorum, Pcriermeniarum vero sillabicus, ila et Topicorum liber
quodammodo dictionalis est. Licei enim in Periermeniis agatur de simplici
enunliatione , quae ulique veri falsine dictio est, nondum to¬ rnea ad vim
colligendi pertingit , nec illud assequilur. in quo dialecll- ces praecipua
opera versalur. Ilic vero prirnus
est in rationtbus ex pii- candis, doctrinamquc facit localium argumentationum,
et sequcntium complexionum pandit initia ]PL, 199, 904]. _ 567 ) Ibid., 5, p. 135 [140]: Odo quidem
voluminibus clauditur, fiuntquc semper novissima eius potiora prioribus. Primus
autem quasi materiam praeiacit omnium reliquorum [141] et lolius logicae quae-
dam conslituit fundamenta [PL, 199, 903]. 56S ) Ibid., 10, p. 147 [154]: Arma
lironum siiorum locami m arena, dum sermonum simplicium significationem
evolverei et ilem cnunlia- tionum locorumque naturam aperiret.... Ut autem
praemissae simili- tudinis sequamur proporlionem, quemadmodum Categoriarurn
clcmen- tarius, Pcriermeniarum syllabicus, proemiasi Topici dictwnnles libri
sunt ; sic Topicorum octavus constructorius est ralionum , quorum eie- menta
vel loca in praecedentibus monstrala sunt. Solus itaque versatur in praeceptis,
ex quibus ars compaginatur , et plus confort ad scientiam litici Primi, che si riattaccano a quel libro
stesso, ven¬ gono, con l’aggiunta di una barbarica interpretazione
[etimologica] del titolo (cfr. la nota 23 e la Sez. prece¬ dente, n. 288),
lodati bensì parimente per la loro utilità, ma nello stesso tempo criticati
tuttavia per la sterile loro forma, poiché non soltanto si trova lo stesso
contenuto svolto altrove (cioè evidentemente in Boezio, de syll. cat. e Introd.
ad syll. cat.) in forma molto più facile e pene¬ trante, ma ancora perchè
quell’opera, in generale, con il suo stile conjusus e inintelligibile, è poco
meno che inser¬ vibile per dare all’argomentazione il suo apparato este¬ riore
(ad phrasim instruendam) : e però ci si doveva limi¬ tare a imparar a memoria
le regole in essa contenute (dunque press’a poco alla stessa maniera che
troviamo in Boezio, loc. cit. [direi che si riferisca alla nota 77 della Sez.
XII, richiamata nella nota 569 — o, più precisa¬ mente, al seguito del testo
corrispondente, dove si parla di Boezio, come del primo autore di una logica,
indiriz¬ zata all’unico intento di far entrare un certo numero di regole nelle
teste dei più stupidi]), ma il rimanente si poteva lasciarlo da parte, come
loppa o foglie secche 589 ). disserendi, si memoriter habeatur in corde...
.quam omnes fere libri dialecticae, quos moderni patres nostri in scnlis legere
consueverant ; nani sine eo non disputatile arte., sed casu [PI,. 199, 910]. 60
°) Jbid.. IV, 2, p. 158 [166]: Analeticorum quidem perutilis est scienlia, et
sine qua quisquis logicam profitetur, ridiculus est. Ut vero ratio nominis
exponatur , quam Graeci Analeticen diclini , nos possumus Rcsolutoriam
appellare (questo è un pensiero che Giovanni ha preso da Boezio : v. la Sez.
XII, nota 77), familiarius tamen assi- gnabimus. si dixerimus aequam
locutionem; nam illi anu « acquale », lexim « locutionem » dicunl. Frequens
autem est, cum sermo parum est inlellectus, et eum in notiorem resolvi
desideremus aequivalenter ; unde et interpres meus (probabilmente uno o l’altro
di que’ due tradut¬ tori, che abbiamo trovati più sopra, note 32 s.), cum
verbum audi¬ rei ignotum, et maxime in compositi », dicebat « Analetiza hoc »
quod volebat aequivalenter exponi . Ceterum, licei necessaria sit dottrina,
liber non eatenus necessarius est ; quicquid enim continet, alibi faci - lius
et fidelius traditur, sed certe verius aut forlius nusquam. Siquidem et ab
invito fidem extorquel.... Porro exemplorum confusione et tra- iectione
litterarum quas tuoi de industria, tum causa brevilatis, tum E se è opinione di
Giovanni che questa incomprensibi¬ lità si manifesti per es. particolarmente
neU’ultimo ca¬ pitolo degli Analitici Primi (Sez. IV, note 649 s.) 57 °), lo
stesso biasimo è da lui rivolto anche contro tutti quanti gli Analitici
Secondi, soltanto con raggiunta, che una parte di colpa ce l’ha forse la
traduzione 571 ). Invece il ciceroniano Giovanni si trova ora di nuov o, da
buon retore, nel suo elemento, con i Soph. Elenchi, che pertanto, staccati
dalla Topica, egli colloca alla fine del- l’Organon; dice che nessun altro
libro è più utile di que¬ sto per la gioventù, e com’esso porge il più grande
ausilio per la retorica (ad phrasin), così va preferito anche ai due Analitici,
perchè promuove, in maniera più facil¬ mente intelligibile, la eloquentia ,
cioè la espressione del pensiero mediante la parola 572 ). Ma dalla Topica ne
falsitas alicubi cxemplorum argueretur, interseruit, coleo confusus est, ut cum
magno labore co perveniatur, quoti faciliime tradì potest. ■— 3, p. 159 [167] : Sicut
autem regulae utiles sunt et necessariae ad scientìam, sic liber fere inutilis
est ad frasim instruendam, quam nos verbi supellectilem possumus appellare....
Ergo scientia memoriter est firmando, et verbo pleraque excerpenda sunt ;
....quac alio commode transferunlur et quorum potest esse frequentior usus. Reliquae coae- quantur foliis sine fructu, et oh hoc
aut calcantur aul sua relinquuntur in arbore. (Qui fa seguito il passo citato
più sopra, nota 20). — Ibid., HI, 4, p. 132 [137]: Sunt autem pleraque quae, si
a suis avellas sedi- bus, aut nichil aul minimum sapiunt auditori; qualia fere
sunt omnia Analelicorum exempla, ubi litterae ponunlur prò terminisi quae,
sicut ad doclrinam profìciunt.. sic tracia alias inutilia sunt. Regulae quo¬
que ipsae, sicut plurimum vigorie habent a veritate doclrinae, sic in commercio
verbi minimum possunt [PL, 199, 916-7 e 900-11. 67 °) Ibid., IV, 5, p. 162
[170]: Postremo agii de cognitione natu- rarum. Grande quidem capitulum et
quod, licei aliqualenus propo¬ sito conferai , fidem tamen prom issi nequaquam
irnpìet. Unum scio, me huius capituli beneficio neminem in cognitione nalurarum
vidisse perfectum [PL, 199, 919], S71 ) Il passo è stato citato di già più
sopra (nota 27). E72 ) Metal., IV. 22, p. 178 s. [188]: Sophisticam esse dicium
est, quae falsa imagine tam dialecticam quam demonslralìvam acmulatur, et
speciem quam virtulem sapientiae magis affettai.... Opus quidem dignum
Aristotile et quo aliud magis expedire diventati non facile dixerim ....
Frustra sine hac se quisquam [189] gloriabitur esse philo- sophum; cum nequeat
cavere mendacium aut alium deprehendere men- lientem.... Unde et ad frasim
eoncilìandum et totius philosophiae in- [di Aristotele], che contiene proprio
il fondamento della logica, sono scaturiti i rispettivi scritti di Cicerone e
di Boezio, come pure il libro di quest’ultimo De divi¬ sione (su questo punto
non c’è dubbio che Giovanni ha perfettamente ragione), il quale tra le opere di
Boezio occupa un posto particolarmente eminente 573 ). [e) la « ratio
indijjerentiae » come indifferentismo scien¬ tifico]. — Con questo ci siamo ora
perfettamente orien¬ tati riguardo al punto di vista di Giovanni, e in esso
ravvisiamo certo con buon fondamento un’accentuazione di quella, che Abelardo
aveva chiamata (nota 267) elo- quentia Peripatetica ; e se nel rispetto
filosofico già in Abelardo aveva prevalso una conciliazione inorganica di
opinioni opposte, anche questo può ripetersi in più alto grado per Giovanni. È
in verità un atteggiamento coe¬ rente il suo, quand’egli, stando con l’attenzione
rivolta in modo esclusivo alla eloquenza dell’argomentazione, va in cerca
persino di una formula determinata, con cui elevarsi a tutta prima al disopra
di quante difficoltà po¬ trebbero esser riposte in una salda posizione
filosofica, che fosse assunta nel contrasto fra le tendenze. Questa formula è
la sua« ratio indijjerentiae », vale a dire il pro¬ cedimento del perfetto
indifferentismo. Egli cioè anzitutto, trattandosi della conoscenza delle cose
che posson essere oggetto dei discorsi (rerum praedicamenlalium : v. appresso
vesligationes sophisticae exercitatio plurimum prodest ; ita tamen ut veritas,
non verbositas, sit huitis excrcilii fructus. — 24, p. ] 81 [191]: In eo autem
michi videntur (se. Elenchi ) Analelicis praejerendi , quod non minus ad
exercitium conferunt et faciliori intellectu eloquenliam promovent [PL, 199,
929-30], 57a ) Ibid.. Ili, 9, p. 145 [152]: Qui vero librum hunc (cioè la To¬
pica aristotelica) diligentius perscrutatur, non modo Ciceronis et Boetii
Topieos ab his septem voluminibus (cioè dai primi sette libri) erulos
deprehendet. sed librum Divisionum, qui compendio verborum et eleganlia sensuum
inter opera Boetii , quae ad logicam spectant, singularcm gratiam nactus est
[PL, e dei discorsi stessi (sermonum), richiama l’attenzione sopra la
molteplicità di significato a cui i discorsi si prestano, e osserva che questi
all’epoca di Ari¬ stotele potevano avere un significato diverso, perchè in¬
vero, secondo la sentenza oraziana, le parole van via scor¬ rendo in continuo mutamento,
e solamente 1’ uso le fissa a questo o quel modo 574 ). E sebbene ora si
conceda che, a parità di significato, la terminologia degli antichi sia più
degna di reverenza, che non quella dei moderni 57S ), in linea di principio
tuttavia l’uso è più potente che non sia lo stesso Aristotele: e perciò, in
quanto venga in que¬ stione la verità di fatto nella sua obbiettività, e con
essa il senso reale delle parole, ben possono anche sacrificarsi l’espressioni
verbali, mentre d’altra parte, fin che la cosa sia soltanto ammissibile, si può
conservar insieme, del- 1 antica dottrina, e la lettera e l’intimo significato
576 ). S71 ) Ibid., 3,
p. 128 [133]: Profecto rerum praedicamentalium et sermonum pcrulilis est
notitia.... Et quia multiplicitas sermonum ple- rumque
inlelligentiam claudit, quoliens dicatur unumquodque docci (se. Aristotiles)
esse quaerendum.... Conlingit autem tractu temporis, et adquiescente utentium
voluntate, multipticitalem sermonum nasci itemque extingui.... (p. 129) [134:
Esse in aliquo] multiplicius dici- tur quam Aristotelis tempore diceretur ; et
quae lune verbo aliquam. nunc forte nullam habenl significalionem ; siquidem «
Multa rena- scentur quae iam recidere, cadentque Quae nunc sunt in honore voca-
buia, si volet usus, Quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi » (Hor.
Ars poet., v. 70 ss.) [PL, 199, 898-9J. “"') Ibid., 4, p. 131 [136]:
Praeterea reverentia exhibenda est verbis auctorum, cum culla et assiduitale
utendi ; tum quia quondam a ma - gnis nominibus antiquitatis praeferunt
maiestalem, tum quia dispen- diosius ignorantur, cum ad urgendum aut
resistendum potentissima sint.... Licei itaque modernorum et veterum sii sensus
idem, venera- bilior est velustas [PL, 199, 900]. 6,r ') Ibid., p. 133 [138]:
Patet itaque quod usus Aristotile poten- tior est in derogando verbis vel
abrogando verbo ; sed veritatem rerum. quoniam eam homo non statuii, nec
voluntas Humana convellit. [139] Itaque. si fieri polest, artium verba
teneantur et sensus. Sin autem mi- nus, dum sensus maneat, excidant verbo ;
quoniam artes scirc non est scriptorum verbo revolvero, sed nasse vini earum
atque senlentias. Enthel., v. 27 ss.: Qui sequitur sine mente sonum, qui verbo
capessit. Non sensum, judex integer esse nequit : Quum vim verborum dicendi
causa minislrel, Ilaec si nescilur, quid nisi ventus erunl? [PL Già di qua si
desume che tale principio deve condurre a una maniera estremamente comoda di
fare sparir tutte le difficoltà che vengono a galla, perchè in tutti questi
casi basterà dire che la espressione verbale nel corso del tempo è venuta ad
assumere un significato diverso, op¬ pure che in generale essa non ha
importanza. Cosi dice appunto Giovanni stesso (a proposito di una opinione di
Bernardo da Cliartres) che non è per lui di nessun mo¬ mento il prender una
parola alla lettera, e che non c’è punta necessità di metter in armonia con un
singolo passo, in tal senso, anche tutti gli altri passi 577 ). E di fatto a
questa maniera la ratio indijjerentiae, ch’egli ri¬ tiene il punto di vista
giusto anche ai fini del tradurre (nota 32), prende forma, dov’egli si richiama
a essa, di esplicito metodo di negazione dello spirito scientifico. Poi¬ ché
certamente è somma leggerezza non soltanto il con¬ siderare, com’egli fa, «
significare-» e « praedicare » quali perfetti sinonimi, mentre Abelardo si era
pure sforzato di arrivare a una rigorosa definizione (nota 318), — ma anche il
denotare, a tal proposito, come cosa assoluta- mente indifferente che p. es.
con gli aggettivi si voglia intendere la qualità, ovvero l’oggetto che n’è
qualificato; e rimettendosi egli su questo punto per ciascun singolo caso a una
benigna interpretatio, fa valere le Categorie come un fondamento essenziale ad
avvalorare il suo pro¬ cedimento, proprio perchè in esse si tratta, ora delle pa¬
role significanti, ora delle cose significate 578 ). Similmente 677 ) Metal.,
Ili, 2, p. 120 [125], dove al passo che abbiamo già citato qui sopra (nota 93)
fa seguito: Habet haec opinio sicut impu- gnatores, sic defensores suos. Michi
prò minimo est ad nomea in ta- libus disputare, cum intelligentiam dictorum
sumendam noverim ex causis dicendi. Nec sic memoratam Arislotilis aliorumve
auctoritates in- terprelandas arbitrar, ut trahalur istuc quicquid alicubi
dictum re- peritur [PL, 199, 893]. 57S ) Ibid., p. 122 [126]: Ex quo liquel
quoniam « significare », sicut et « praedicare », multipliciler dicitur ; sed
quis modus familia- rissimus sit, discernere palam est. Inde est, quod iustus
et similia si comporta Giovanni, a proposito di un passo aristote¬ lico, e
viene su questo punto, conforme alla sua indiffe- rentia o ratio licentiae, al
risultato, che 1’ individuo sin¬ golo, percettibile per mezzo dei sensi, può
essere tauto predicato quanto soggetto”»). E se nella trattazione di tali
questioni siamo con Giovanni al punto dove la lo¬ gica finisce, prima di esser
in generale neanche incomin¬ ciata, non può farci maraviglia che, presentandosi
difficoltà un poco più riposte, egli enunci subito con tutta disin- passim
apudauctores rame dicuntur iustum, nunc iustitiam signifi¬ care vel
predicare.... [127J Tale est iUud Aristntilis : Qualitalem si- gnificant, ut
album; quantilatem, ut bicubitum (Cai., 4: v. la Sez. IV. nota 303 [dove la
citaz. si arresta avanti le esemplifieaz. : Sinr/u Xsuxiv...]; in Boezio [ad Ar.
praed., I; PL, 64, 180], p. 127) .Sic ulique quia dantur a quahtale vel
quanlitate, ila et qualitalem praedi- cant, quam apposita demonstrant inesse
subieclis ; inlerdum dicuntur significare quatta, quomam apposilione sua
declarant quali,i sint su- biecta. Sed haec a se, si sit benignus inlerpres,
non multum distaili, etsi andito albusintelhgatur in quo albedo ; cum autem
albedo (licitar, non mteUigiturin quo talis color ; sed polius color jaciens
tale. Illud vero quod nudità voce concipit iniellectus, ipsius familiarissima
si- gnificalio est. 3, p. 122 s.: Quia ergo aut acquivoce aul univoco aut
denominative, ut sequmtur indifferentiae rationem, singula praedi- canlur,
ipsaque praedicatio quaedam ratiocinandi materia est. praedi- camenlorum
praemissa sunt instrumenta.... Rationem vero indifferen- tuie, LI—“J quarti
semper approbamus, liber iste commendai prue cetens ; etsi ubique dilìgenter
inspicienti manifesta sit. Agii enim nunc de sigmficantibus, nunc de
significati, aliorumque doctrinam J acU n nomuitbus aliorum [PL, 199, 894-5], «
Ih>d " 2 ;?‘ P'., 110 Mine forte est illud in Analeticis Aristomenes
intclligibihs semper est; Aristomenes autem non sem- per .'"\ >> (
Ar l al - pr .,, I, 33; in Boezio [cap. XXXV: PL, 64, 677], p. 445). Et hoc
quidem est singulariter individuum, quod salum qui¬ dam munì posse de al,quo
praedicari.... Ego quidem opinionem hanc vehementernec impugno, nec propugno;
nec enim multum referre arbitror, ob hoc quod illam amplector indifferentiam in
vicissitudine sermonum, sino qua non credo quempiam ad mentem auctorum fide-
hter pervenire . (p 111) [114],
Itaque hic. sicut et alibi, executus est quod decet libertdium artium
pracceptorem, ugens, ut dici solet. Minerva
pinguion [Cic. de Amie., V, 19] ut intelligeretur.... Quid ergo prohihcl ,uxta
hanc licentiae rationem ea quae sunt sensibilia vel praedicari vel subici? Nec
opinor auctores hanc vim imposuisse sermoni, ut alligatus sit ad imam in
iuncturis omnibus signìficatio- nem, sed doctnnaliter sic esse locutos, ut
ubique servianl inlelleclui Ino c ° n ‘™ n f!' !i '! mus est el Q upm ‘bi
haberi prue ceteris ratio exigit [PL. 149, 886-/]. V. inoltre appresso [il
seguito, nella] voltura il suo punto di vista, come p. es. quando, ri¬ guardo
al giudizio universale, prende per equivalenti la inerenza obbiettiva e la
predicazione subbiettiva, e tut- t’al più ravvisa qui ima modificazione di
terminologia, presentatasi nel corso del tempo 580 ). [f) la Isagoge.
Concezione deglia universalia in re»]. — Se dopo di ciò seguiamo nei loro particolari
l’espressioni di Giovanni relativamente alla sfera propria della logica,
tenendo dietro al filo della partizione da lui stesso as¬ sunta come
fondamentale per l'Organon, — incontriamo in lui anzitutto, come ben s’intende,
nell analisi della Isagoge, cioè nella questione degli universali, 1 estremo
sincretismo o eclettismo, cbe sfocia da ultimo in una con¬ cezione
stoico-ciceroniana. Non già al punto di vista di un filosofo cbe stia al
disopra della unilaterale contesa tra i contrastanti indirizzi, bensì a
mancanza di acume filosofico o a faciloneria da retore praticone, s’informa
l’atteggiamento di Giovanni, quando qualifica come in¬ fantile tutta la disputa
sui concetti di genere e di specie : e invero, a tal proposito, egli si limita
a tirarsi indietro, riferendosi a quella molteplicità di significati delle
parole, di cui più sopra (note 574 s.) abbiamo fatto cenno : im¬ perocché
genere e specie possono significare cosi il prin¬ cipio della generazione, cioè
la base ontologica delle cose, come anche il predicabile, cioè il valore logico
dei con¬ cetti universali 58 ^). E a quel modo cbe su questo punto m°) JHd„ IH,
4, p. 132 [137]: Quod dicitur „in loto esse allerum alteri “ vel .. 'in loto
non esse ", et „universaliler aliquid de aliquo prae - dicari '“ vel „ab
aliquo removeriidem est (cfr. la nota 16); frequens tamen usus est alterius
verbi , et alterius fere inlercidit, nisi quatenus ex condicto inlerdum
admittitur. Fuit /orlasse tempore Aristotilisutrius- que usus celebrior, sed
nunc prae altero viget alterum, quoniam ita vu lt usus. Sic et in co quod
dicitur contingens. aliquatenus derogatimi est ei quod apud Aristotilem
optinebat [PL, 199, 901] (cfr.la nota 216). 581 ) lbid., 1, p. 116 s. [120]:... sed ad puerilem de
genenbus et speciebus.... inclinavit
opinionem (s’intende Abelardo); malens in-
Giovanni si appoggia al commento boeziano della Isagoge di Porfirio,
così insomma è ancor una volta, come ve¬ dremo (nota 602), in un passo isolato
di Boezio che ci si offre concentrata la opinione di lui, sicché anche in lui
ritroviamo di nuovo un argomento per provare quanto strettamente tutto il
movimento degli studi di logica in quell’epoca si tenesse attaccato a sentenze
frammen¬ tarie degli autori tradizionalmente più autorevoli. Perfettamente
analogo all’atteggiamento di Abelardo, che si riattaccava a un solo unico passo
[della versione boeziana del De inlerpr.] per avvalorare la duplicità del suo
modo di vedere [nella questione degli universali] (nota 286), è l’atteggiamento
complessivo anche di Gio¬ vanni, in quanto ch’egli presta agli universali un
valore ontologico, e logico al tempo stesso; con la sola differenza, che in lui
la confusione dei punti di vista è non soltanto più complessa e stravagante, ma
anche ben più contraddit¬ toria che non in Abelardo. Giovanni, cioè, non
soltanto parla occasionalmente, quale teologo, intorno ai concetti di sostanza
e di essenza, alla stessa maniera che si tro¬ vano trattati questi argomenti
nel Pseudo-Boezio de Trin. e in Gilberto 582 ), ma anche in quello scritto ch’è
dedi- slruere et promovere suos in puerilibus quam in gravitate philosopho- rum
esse obscurwr.... Itaque sic Porphirius legendus est, ut sermonum de quibus
agitar, significatici teneatur, et ex ipsa superficie habeatur sensus
verborum.... Sufficiai ergo introducendo nosse quia nomen ge¬ neris multiplex
est et a prima instilutione significai generationis prìn- cipium.... Deinde
hinc translatum est ad significandum id, quod de differentibus specie in quid
pratdicatur (sopra questa terminologia ab¬ breviata, v. la nota 282). Item et species [121]
multipliciter dicilur ; nam ab instilutione formam significai.... Hin autem sumptum est ad significationem eius quod in
quid de differentibus numero praedicalur. (lutto ciò ha fondamento in Boezio
[ad Porph. a Vict tranci I 22: ed. Brandt, p. 66; PL, 64. 38], p. 22, e [od
Porph. a se fransi, lì, 2: ed. Brandt, p 171 ss.; PL, 64, 87-8] 57 s.).... Quid
ergo sibi volunt [Webb: voi in qui.... quicquid aliud exeogitari potest,
adiciunt ?.... Vo- cabulorum simpliciter aperiantur significai ioncs,
apprehendatur illa quae proposito congruit per descriptiones certissimas etc.
[PL, 199 091]. oS ") Epici. 169 (I, p. 270): Quicquid autem subsistit,
sine dubìo in genere vel in natura vel in substantia manet. Quum ergo essentiam
cato alla logica, espressamente manifesta il suo accordo con Platone e con il
suo realismo ontologico, secondo il quale il vero essere appartiene all’
intelligibile, mentre le cose concrete neanche son degne del verbo «esse» 083
). E com’egli all’erma quale base reale dell’essere la natura non peritura
della sostanza e la persistente efficienza della forma, attenendosi in ciò
pedissequamente al motto, tra¬ smesso per antica tradizione « singultire
sentitur, univer¬ sale intelligitur » 6M ), così a lui Gilberto è guida, anche
relativamente alla definizione della natura, e alla forza plastica- della
differenza specifica 686 ): Giovanni anzi si serve persino del termine « jorma
nativa » (cfr. la nota 467); nè parimente manca in lui, come non manca in alcuno
tra i realisti, il concetto di partecipazione 586 ) ; infine la dicimus
significare naturam, vel genus rei suhstantiam. intelligimus ejus rei, qua e in
his omnibus semper esse subsistat.... Quod si apud Graecos expressam habent
dififerenliam lutee, quae Ilio totics inculcata sunt, essendo, natura, genus,
substantia, cam expediri omnium arbitror interesse quamplurimum [PL, 199.
162-3]. i > 83 ) Metal., IV, 35, p. 193 [204]: Plato quoque eorurn quae vere
sunt et eorum quae non sunl sed esse videntur, dififerenliam docens,
intelligibilia vere esse asseruit.... Unde et eis post essenliam primam reale
competei esse; i. e. firmus certusque status, quem verbum, si proprie, ponilur,
[205] cxprirnil substantivum ; temporalia vero videntur quidem esse, co quod
intelligibilium praetendunt imaginem. Sed appel- latione verbi substanlivi non
satis digna sunt quae rum tempore trans- eunt, ut nunquam in eodem statu
permansavi, sed ut fumus evane - scant ; fugiunt enim, ut idem ail in Thimaeo
(p. 49 E), noe expeetant uppellutionem .... p. 195 [206]: Ideam vero.... sicut
aelernam audebat dicere, sic coaeternam esse negabal [PI., 199, 938-9]. 6M)
Enthet., v. 1013 s. : Nulla perire potasi substantia, formaque jormae Succedens
prohihet, quod movet, esse nihil. — v. 1233 s. : Solis corporeis sensus
carnalis inhaeret, Res incorporcae sub ratione jacent [PL. 199. 987 e 992]. m )
Metal., I, 8, p. 26 [23]: Est autem natura, ut quibusdam placet (evidente
allusione a Gilberto: v. la nota 461), ( licei eam sit dijfinire difiìcile,) vis
quaedam genitiva, rebus omnibus insita, ex qua /arare vel [24] pati pnssunt.
Genitiva autem dicitur, eo quod ipsam res quaeque controllai, a causa suae
generalionis, et ab eo quod cuique est princi- pium existendi.... (p. 27) Sed
et unamquamque rem injormans spe¬ cifica differenza, aut ab eo est, per quem
facta sunt omnia. aut omnino nichil est.... [25] Esto ergo ; sit potens et
ejficax vis illa genitiva, indita rebus originaliter [PL, 199, 835—6]. 686 )
Énthet.. v. 395 ss.: Est idea potens veri substantia, quae rem stessa
concezione della individualità assume una forma tale, che vi riconosciamo la
distinzione di Gilberto (nota 489) tra dividila e individua 587 ). [g)
grossolano eclettismo, nella questione degli univer¬ sali]. — Ma, dopo avere
udito Giovanni pronunziarsi in tal maniera, che non lascia adito a equivoco,
abbiamo ragione di maravigliarci che egli, per il fatto che l’in¬ telligibile
non può esser universale, ma può soltanto es¬ ser concepito universalmente,
dichiari che quella intorno agli universali è una disputa priva di oggetto,
nella quale si cerca di acchiappare la sostanzialità di un’ombra o di una nube
fuggevole 688 ). Vien ora anche, per quel che riguarda la logica, dato
formalmente congedo a Platone, oltre che ad Agostino e a tutt’ i Platonici, per
far posto ad Aristotele, sia pure con l’aggiunta, a mo’ di conso¬ lazione, che
la dottrina di quest’ultimo può ben darsi Quamlibet informat ut Jacit esse,
quod est ; Omne quoti est vcrum , con¬ vinci! forma vel actus, Necfalsum
clubites , si quid utroque caret. Forma suo generi quaevis addirla tcnelur Et
peragil semper, quicquid origo jubet; Ergo quod informa nativa constai agilve,
Quod natura mancns in ratione rnonet Esse sui generis, veruni quid dicilur
idque Indicai effectus aut sua forma probat. — Polycr.. Ili, 1, p. 162 [I,
172]: Ini- plet autem haecvita omnem creaturam, quia sine ea nulla est
substantia creaturae. Omne enim quod est, eius participatione est id quod est
[PL, 199: 973-4 e 478], S8 ‘) Metal., II, 20. p. 105 [109]: Ergo si genera et
species a Deo non sunt, omnino nichil sunt. Quod si unumquodque eorum ab ipso
est, unum piane et idem bonum est. Sì autem quid unum numero est , protinus et
singulare est. Nam quod quidam unum aliquid dicunt, non quod unum in se. sed
quod multa unial expressa plurium conformitate, articulo praesenti non
derogant.... Omnis namque substantia acciden - tium pluralitate numero subest.
Accidens autem omne et forma quae- libet itidem numero subiacet, sed non
accidentium aut formarum par- ticipatione, sed singularitate subiecti [PL, 199,
884], Polycr., VII, 12, p. 127 [II, 141]: Sicut in umbra cuiuslibel carpari,
frustra solidilatis substantia quaeritur, sic in his quae intelli- gibilia sunt
dumtaxat et universaliter concipi nec tamen univcrsaliler esse queunt,
solidioris existentiae substantia nequaquam invenitur. In his aetatem terere
nichil agentis et frustra laborantis est ; nebulae si- quidem sunt rerum
fugacium et, cum quaeruntur avidius, citius da¬ nese uni [PL che non sia per
nulla più vera, ma è comunque his di- sciplinis magis accommoda [tale (v. la
nota 589) è la espres¬ sione di Giovanni, resa dal Prantl con le parole « fiir
die logischen Partien passender »] sa9 ). Vengon ora per¬ tanto criticati tutti
coloro, che nella Isagoge voglion metterci dentro un modo di vedere ispirato al
platoni¬ smo, o che in altra maniera si scostano da Aristotele: e,
richiamandosi nel modo più risoluto alla sentenza ari¬ stotelica, che cioè gli
universali non hanno per se stessi esistenza separata, Giovanni respinge a priori
qualsiasi teoria che parli di un essere degli universali stessi 590 ),
combattendo così in particolare, da questo punto di vi¬ sta, anche la teoria
dello status 591 ). Ma se siamo ora effettivamente curiosi di vedere come si
risolva cjuesta contraddizione con le tesi prima enun¬ ciate, il nostro stupore
crescerà forse ancora di passo in passo. Giovanni cioè anzitutto mette pur in
prima linea P intellectus, in tal maniera che, accordandosi quasi 58 B )
Metal., II, 20, p. 112 [115]: Licei Plato cetum philosophorum grandetti et lam
Augustinum quatti alios plures nostrorum in statuen- dis ideis habeat
assertores, ipsius lanieri dogma in scrutinio univer- salium nequaquam sequimur
; eo quoti hic Peripateticorum principem Aristotilem dogmatis huius principem prafilemur....
[116] Ei qui Pe¬ ri palei ieorutn libros aggredilur, magis Aristotilis sentendo
sequenda est ; forte non quia verior, sed piane quia his disciplinis magis
accommoda 'est [PL, 199, 888], 60 °) Ihitl.. 19, p. 94 [97] : Quasi ab adverso
pectentes (cioè i commen¬ tatori della Isagoge), veniunt contro menlem auctoris
et, ut Aristo- liles planior sit, Platonis sententiam docent aut erroneam
opinionem, quae aequo errore deviai a sententia. Aristotilis et Platonis;
siquidem omnes Aristotilem profilentur. 20, p. 94: Porro hic genera et species
non esse, sed intelligi tantum asseruit (Anni, post., I, 22 e 11: v. la Sez.
Ili, nota 66, e la Sez. IV, nota 373) ....(p. 95) Ergo si Aristo- tiles verus
est. qui eis esse tollit. inanis est opera praecedentis inve- stigationis....
[98] Quare [oul] ab Aristotele recedendum est, concedendo ut universalia sint
[oul....] [PL, 199, 877], e via dicendo (v. la nota 70). B91 ) Ibid., 20, p.
102 s. [106]: Sed esto ut statimi aliquem generalem appellativa significent
,... status ille quid sit , in quo singola uniuntur, et nichil singulorum est,
etsi aliquo modo somniare possim ; lamen quotando sententiae Aristotilis
coaptetur. qui universalia non esse con- lendit, non perspicuum habeo [PL,
parola per parola con l’autore dello scritto De intellec- tibus, non soltanto
dà rilievo all’ intellectus coniungens et disiungens (v. la nota 427), e in
priino luogo principal¬ mente alla forza dell’astrazione ( intellectus
absirahens: v. la nota 432), — ma, respingendo anche la obiezione che 1
intellectus abstrahcus sia illegittimo ( cassus : v. la nota 429), rivendica
all’ intellectus la facoltà di conside¬ rar le cose, altrimenti da quel che
sono in concreto (v. le note 432 s.): e con ciò designa l’astrazione, quale
con¬ dizione fondamentale di tutta la tecnica dell’intelletto : a tal
proposito, mentre si trova d’accordo con Gilberto (abstractim attendere: v. la
nota 464), va facendo uso altresì di espressioni che abbiamo trovate adottate
dai rappresentanti della teoria della indifferenza ( generaliter intueri,
diverso modo attendere: v. [per una terminologia analoga] le note 133 e 13/), e
nello stesso tempo viene a trovarsi ancora d’accordo, nel concetto del
raccogliere le somiglianze (v. le note 162 s.), con l’autore dello scritto De
genenbus et speciebus: anzi, con la risèrva che si tratta qui soltanto della
facoltà intellettiva subbiettiva, e che obbiettivamente nella natura gli
universali non esistono, si serve persino di quello, ch’era il ter min e in-
valso nella teoria, da lui combattuta, dello status (v la nota 132) S92 ). ’*-)
limi., 20, p. 95 [98]: Nec verendum ut cassus sii intellectus, qui ea percepent
scorsimi a singularibus, cum lumen a singularibus seorsum esse non possint.
Intellectus enim quandoque rem simpliciter tntuetur, velut si hominem per se
intucatur...; quandoque gradalim suis inceda passibus, ut si hominem albore....
contemplelur. Et hic quidem dicitur esse compositus. Porro simplex rem interdum
inspicit ut est, ut si Platonem attendai, interdum alio modo ; nunc enim
componendo quae non sunt composita, nunc abstrahendo quae non possunt esse
distancta.... p. 96 [99] Ceterum componens, qui disiuncta coniungit (1 esempio
è hircocervus [oltre che centaurus]), inanis est ; abstra - hens vero fidelis,
et quasi quaedam officina omnium artium. Et qui- ocm rebus existendi unus est
modus, quem scilicel natura conlulil, sed easdem intelligendi aut significatali
non unus est modus. Licet enim esse nequeat homo qui non sit iste vel alias
homo, intelligi tamen potest et significari.... Ergo ad significationem
incomplexorum per abstra -Se così, in una variata scelta di motivi, ricavati
dalle opinioni di altri autori, si vedon convergere diversi fili, a formar la
concezione della operazione subbiettiva del- T intelletto, deve ora riuscirci
inaspettato che a ciò si ricolleghi da capo il realismo di Gilberto: la
dottrina, cioè, secondo la quale la incorporeità qualifica gli uni¬ versali
soltanto negativamente, — laddove, rispetto al loro fondamento positivo, questi
debbono, come in ge¬ nerale tutte le cose, esser messi in relazione di dipen¬
denza da Dio; ma Dio ha creato la materia formata, vale a dire che tutte quante
le forme, sicno sostanziali sieno accidentali (v. questo punto in Gilberto,
alle pre¬ cedenti note 461 s.), hanno da Dio il loro essere e la loro
efficienza, e così nell'atto onde sono state espresse le cose, ha predominato
un riguardo ai concetti delle spe¬ cie, concetti che pertanto il cultore della
logica non può tener separati da Dio, ma in virtù dei quali « le cose son
venute fuori [ma Prantl rende « prodierunt » con « eingiengen»] dapprima nella
loro propria essenza, e ap¬ presso nell’intelletto umano» 593 ). In seguito a
tale cau- hentem inteUectum genera concipianlur el species ; qaae tamen, si
quis in rerum natura dùigentius a sensibilibus remota quaerat, nichil aget et
frustra laborabil; nichil cnim tale natura peperit. Ratio autem ea deprehendil,
substantialem simililudinem rerum differentium perirne- tans apud se. —
Polycr., II, 18, p. 96 [I, 103]: InteUectus.... nunc quidem res ut sunt, nunc
aliter imudar, nunc simpliciter, nunc com¬ posite, mine disiuncta coniungit,
nunc coniuncta distroihil et disiun- gii.... p. 97 [104] Si abstrahentem
tuleris inteUectum, liberalium arliurn officina peribit.... Sic hominem intellectus
attingit, ut ad neminem hominem aspectus illius descendat, generaliter intuens,
quod non nisi singulariter esse potest.... Dum itaque rerum similitudines et
dissimi- litudines colligit, dum differentium convenientias el convenientium
dijfcrentias altius perscrutata,... [105] multos apud se rerum invenit status, alios
quidem universales, alias singulares [PL, 199, 877-8 c 437-8]. 5#3) Metal., II, 20, p. 103 [106]: Sed et nomina,
quae proemisi, ,.incorporeum“ et insensibile “, universalibus convenire,
privativa in eis dumtaxat sunt, nec proprietates aliquas, quibus natura
universa- lium discernatur, illis attribuunt ; siquidem nichil incorporeum aut
insensibile universale est.... Quid est autem incorporeum quod non sit
substantia creata a Deo vel ipsi concretum ?... Valeanl autem, immo salita
mistica di quella clic Gilberto aveva chiamata for¬ ma sostanziale, Giovanni
ora può dire che la sostanzia¬ lità degli universali è vera, soltanto riguardo
alla causa cognitionis, e in pari tempo riguardo al generarsi delle cose
(natura), perchè ciascun ente, secondo ch’è situato a un grado più basso nella
Tabula logica, ha bisogno, per il suo proprio essere ed essere pensato, di un
altro ente, che si trovi rispettivamente a un grado più alto; ma d’altra parte
gli universali non hanno un essere, nè come corpi, nè come spiriti, nè come
individui 591 ). Cosi dunque Giovanni, mentre segue Gilberto, crede di poter in
pari tempo essere un aristotelico, e come ritiene di sfuggire a quella non
necessaria duplicazione di sostanze (v. la Sez. Ili, nota 64), ch’è una
conseguenza della concezione platonica 5 95 ), cosi dice nella maniera
dispereant univcrsalia, si ei obnoxia non sunt. Omnia per ipsum farla sunl,
inique lam subiecta formarum quam formae subiectorum.... For- mae quoque, tam
substantiales quam accidentales, habenl ab ipso ut sinl et ut suos subiectis
operentur effectus. Quod itaque ei
obnoxium non est, omnino nichil [107] est (v. inoltre appresso la nota 613)_ p.
104: Ut enim ait Auguslinus, formatam creavit Deus materinm.... Eo spectat
illud fìoetii in primo de Trinitate ,.omne esse ex forma esl“ (nota 37)....
[108] CuiUbet ergo esse quod est, aul quale aut quan- tum est, a forma est....
p. 105:.... fundamenta iecit Deus; et in ipsa expressione rerum habita est mentio
specierum. Non illarum dico, quas logici fìngunt non obnoxias creatori ; sed
formarum in quibus res prò- dierunl primo in essentiam suam, et in liumanum
deinde intelleclum. Nam hoc ipsum quod aliquid coelum aut terra dicitur,
formae. effe¬ ctus est [PL, 199, 882-4], 6M ) ìbid., p. 97 [100]: Quod autern
univcrsalia dicuntur esse sub- stantialia singularibus, ad causam cognitionis
referendum est singu- lariumque naturam (analogamente lo Scoto Eriugcna aveva,
rife¬ rendosi agli universali, fatto uso dell’espressioni causaliter ed effec-
tualiler : Sez. XIII. nota 129); hoc enim in singulis patet. siquidem inferiora
sine superioribus nec esse nec intelligi possunt.... Quia ergo tale exigit
tale, et non exigitur a tali, tam ad essentiam quam ad noti- tiam, ideo hoc
illi substantiale dicitur esse. Idem est in individuis, quae exigunt species et
genera, sed nequaquam exiguntur ab eis.... Uni- versalia tamen et res dicuntur
esse, et plerumque simpliciter esse ; sed non ob hoc aut moles corporum aut
subtilitas spirituum aut singula- rium discreta essentia in eis attendendo est
[PL, 199, 878-9]. 695 ) Ibid., p.
98 [101]: Itaque detur ut sint univcrsalia, aut etiam ut res sint, si hoc
pertinacibus placet ; non tamen ob hoc rerum erit più esplicita che gli
universali — i quali stanno a fon¬ damento delle cose, non diversamente dal
modo in cui il piano detrazione, che è incorporeo, sta a fondamento delle
azioni, che sono invece sensibilmente percettibili, — li troviamo appunto,
esclusivamente, soltanto nelle cose singole, le quali ultime si presentano
visibilmente come ex empia, in cui gli stessi universali si fanno manifesti:
Giovanni cioè risolutamente rappresenta — e su questo punto è il primo, ad
assumere tale atteggiamento — la concezione degli « universalia in re», e
persino combatte la dottrina platonica degli « universalia ante rem », per¬ chè
fuori dal singolo non c’è universale 596 ). Ma poiché, in questa sua posizione,
gli sta sempre dinanzi il concetto che ha Gilberto della forma sostan¬ ziale, è
naturale che si attenga a quei passi di Aristotele, dove il concetto di genere
e il concetto di specie ven¬ gono designati come qualche cosa di qualitativo
597 ). rerum numerum aligeri vel minai prò eo, quoti iuta non sunl in nu¬ mero'
rerum [PL, 199, 879], C ' J6 ) Ihid. : Nirli il au tem universale est, nisi
quoti in singularibus invenitur.... Nec moveat quoti singularia et corporea
exempla sunl uni- versalium et incorporalium ; cttm omnis ratio gerendi...
incorporea sit et insensibile, illud tamen quoti geritur, et actus quo geritur,
plerum- qite sensibilis sit (anche ciò fa tornare a mente il significato che lo
Scolo Eriugena ripone nel termine ,,agcre“: v. la Sez. XIII, nota 131). — p.
108 [111]: Habita tamen ratione aequivocationis. qua ens vel esse distinguitur
prò diversilate subiectorum, species et genera utrum- qite non sine ratione
esse dicuntur. Persuadet enitn ratio ut ea dicantur esse, quorum exempla
conspiciuntur in singularibus, quae nullus am¬ bigli esse. Non autem sic
dicuntur genera et species exemplaria sitigli - lorttm, ut. iuxta Platonici
[112] dogmalis sensum, formae sint exem- plares, quae in mente divina
intelligibiliter constiterint, antequam pro- dirent in corporei (questo è il
passo di Prisciano. già cit. nella nota 263); sed quotiiam, si quis eius quod
communiter concipitur, audito hoc no¬ mine ..homo", aut quod dijjinitur,
cttm dicitur ..homo esse animai ra- tionale mortale l % quaerat exemplum,
slalim ei Plato aliusve hominum singulorum oslenditur. ut communiter
significantis aut dìffinientis ratio solidelur [l’L, 199, 879 e 885-6]. ia, )
Ihid.. p. 100 [103]: /lem Aristotiles : Genera, inquit, et species circa
substantiam qualitatem determinanl (Cai., 5: v. Sez. IV. nota 476).... Item in
Elenchis (c. 22: in Boezio [II, 3: PL, 64. 1032], p. 750, con una traduzione
che alquanto si scosta dal testo: v. so- In queste forme qualificanti scorge la
« mano [dell’Arte¬ fice] della natura», che ha dato alle cose la veste delle
forme, perchè l’uomo le possa più facilmente compren¬ dere: e perciò si presenta
ora con il più spiccato rilievo la prima substantia di Aristotele, cioè
l’individuo, mo¬ vendo dal quale l’intelletto da sè solo si eleva, in linea
ascendente — per mezzo della uguaglianza di forma che accomuna i singoli (
conjormitas : v. questo concetto in Gilberto, alla precedente nota 474) — sino
alla univer¬ salità dei concetti di specie e di genere 598 ): e come Gio¬ vanni
si ritrova su questo punto ancora in accordo con la teoria della indifferenza,
così adopera anche a tal ri¬ guardo persino la espressione» conjormis status»
599 ). A pra la nota 34): ,,/Jomo et omne commune non hoc aliquid, sed quale
quid, (rei) ad aliquid vel aliquo modo vel huiusmodi quid significai". Et
post paura : „Manifestum quoniam non dandum hoc aliquid esse quod communiter praedicalur
de omnibus , sed aut quale aut ad aliquid aut quantum aut talium quid
significare". Profecto [104] quod non est hoc aliquid, significatione
espressa non potest explanari quid sii [PL, 199, 880]. 69S ) Polycr., II, 18,
p. 98 [I, 105]: Et primo substantiam, quae omnibus subest , acutius intuetur
(se. intellectus), in qua manus naturae probalur artificis, dum cam variis
proprietatibus et formis quasi suis quibusdam vestibus induit et suis sensuum
perceplibilibus informat, quo possit aptius humano ingenio comprehendi. Quod
igitur sensus percipit, formisque subiectum est, singularis et prima substantia
est. Id vero sine quo illa nec esse nec inlclligi potest, ei substantiale est,
et plerumque secunda substantia nominatur.... Universale, si, licei non natura,
conformitate tamen sii commune multorum. Quod forte faci- lius in intellectu
quam in natura rerum poterit inveniri, in quo genera et species, dijferenlias,
propria et accidentia, quae universaliter dicun- tur, planum est invenire, cum
in actu rerum subsistentiam universa- lium quaerere exiguus fructus sii et
labor infinitus, in mente vero Mi¬ litar et faciliime reperiuntur. Si cnim
rerum solo numero differen'.ium substantialem similitudinem quis mente
pertractet, speciem tenel; si vero etiam specie differentium convenientia menti
occurrat, generis lalitudo mente diffunditur. Denique dum rerum, quas natura substan- lialiter vel
accidenlaliter assimilavit, conformitatem percipit intellectus, in universalium
comprehensionc movetur.... p. 99 [106] Numquid ab- strahens intellectus, dum
haec agit, otiosus est aut inutilis, per quem animus honestarum artium gradibus
ad thronum consummatae philo- sophiae consccndit? [PL, 199, 438-9]. 69e ) Enthet., v. 849 ss.: Est
individuum, quicquid natura creavit, Conformisque status est ralionis opus : Si
quis Arislotelem primum questo modo la uguaglianza delle cose tra loro,
riguardo alla forma, viene messa in connessione immediata con la inlellectus
communitas (communiter intelligi) 600 ), ma gli universali stessi vengono, come
tali, trasferiti pura¬ mente nel modus intelligendi (e ciò è in armonia anche
con la teoria della maneries : v. la nota 88), sì ch’essi vengono denominati
parole « figurali», e appartenenti esclusivamente alla « dottrina » (di figura
locutionis ave¬ vano parlato anche i nominalisti: v. la nota 81), o, in una
parola, « jigmenta », che, con le cose singole, si tro¬ vano nella relazione
scambievole di mostrare e di essere mostrati, e però han potuto da Aristotele
esser accon¬ ciamente denominati « monstra » (— monstrare —) 601 ). [h)
concetto indeterminato di notio]. — Ma questo modo di considerare gli
universali è ora in verità così elastico, che nel concetto di« figmentum»
Giovanni ci può tra¬ sportare anche l’apprendimento, per parte dell’ intelletto,
non censet liabendum, Non reddit merilis proemia digita sttis [PL, 199. 983],
6°°) Melai., II, 20, p. 98 [101]: Ergo quod mcns communiter in - teìligil et od
qingularia multa aeque perlinet, quod vox [102] commu- niter significai et
acque de mullis ve rum est, indubitanter universale est. — p. 107 [110]
Secundum intellectum illuni [111] deliberari pa¬ lesi de re subiecta, i. e.
actualiter exemplificari, ob inlellectus commu- nitatem ; res, quae sic
intelligi potest, etsi a nullo intclligalur, dicitur esse communis ; res enim
conjormes sibi sunt, ipsamque conjormi- latem deducta rerum cogitatione
perpendit inlellectus [PL, 199, 879 e 885], ® 01 ) Jhid., p. 107 [110]: Ergo
dumlaxat intelligunlur, secundum Aristotilem, universalia ; sed in actu rerum
nichil est quod sii uni¬ versale. A modo enim intelligendi figuralia haec,
licenter quidem et doctrinaliter. nomina indila sunt. p. 108 [111J : Ergo ex
sententia Ari- stotilis genera et spccies non omnino quid sunt sed quale quid
quodam- modo concipiuntur ; et quasi quaedam sunt figmenla rationis, seipsnm in
rerum inquisilione et doctrina suhtilius exercentis.... [112] Possunt et
monstra dici (si riferisce al noto passo antiplatonico di Aristotele: vedilo
qui più sopra, nota 31), quoniam invicem res singulas mon- .siranf, et
monstrantur ab eis. — III, 3, p. 127 [132]: Ea vero quae intelligunlur a
singularibus abstracta,.... animi figmenla sunt.... quae ex conformitale
singularium intellectu non casso concipiuntur [PL.. 199: 885-6 e 897]. 452
CARLO PRANTL dei modelli originari (exempiano), che misticamente eser¬ citano
il loro influsso, dalle cose (exempla), sopra l’anima: a tal proposito enuncia
con sufficiente chiarezza il suo sincretismo eclettico, qualificando, — oltre
che far uso di quell’espressioni d’intonazione nominalistica —, gli universali
come prodotti psicologici (phantasiae, termine che ricorda lo Scoto Eriugena:
v. appresso la nota 613 [per altre reminiscenze delle dottrine doU’Eriugena]),
ma a ciò collegando nel medesimo tempo la concezione stoico¬ ciceroniana,
secondo la quale gli universali stessi sono concetti subbiettivi (svvoiou,
notiones: v. il luogo ci¬ tato più sopra alla nota 64); e inoltre egli passa
ancora, in modo molto manifesto, rasente al platonismo, o per lo meno va
d’accordo con Gilberto, in quanto che anche da lui gli universali son tenuti in
conto d’ imagini di una originaria purezza ideale, tralucenti dalle somiglianze
delle cose singole: con ciò si trova infine ancora commisto l’aristotelismo,
poiché queste figurazioni fantastiche non possiedono già una esistenza separata
dalle cose singole, bensì, quando si volesse così afferrarle, si dileguano come
ombre o come imagini di sogno 602 ). Se ora sembra che non sia effettivamente
possibile accumulare, una sull’altra. 602) lbid.. II, 20, p. 96 [99]: Sunt
itaque genera et species nor. qui- dem res a singularibus aclu et naturaliter
alienae, sei! quaedam notti- ralium et aclualium phantasiae (anche questo
termine si trova pa¬ rimente — cfr. [per la concezione di Giovanni degli
universalia in re, nella sua relazione con quella dello Scoto Eriugena] le note
594 c 596 — nello Scoto.Eriugena: v. la Sez. XIII, nota 125) renitentes in
intellectum, de similitudine aclualium. tamquam in speculo, nativae puritatis
ipsius animar, quas Gracci ennoyas [evvoia;] sire yconay- fanas [elxovo22 )
Policr., VII, 7, p. 103 [II, 115]: Sic et geometrae primo peti- nones quasdam
quasi totius artis iaciunt fondamento, deinde comma- nes animi conceptiones
adiciunl et sic quasi acie ordinala ad ea quae stb, sunt demonstranda procedunt
[PL ch’è stata colmata dagli studiosi venuti più tardi (Sez. XII, nota 136), ma
anche riguardo ai sillogismi consistenti in combinazioni di giudizi categorici
con giudizi di ne¬ cessità e di possibilità (Sez. IV, note 558 ss.), dice che
essi non sono esposti da Aristotele in maniera esauriente: e pertanto rimane
qui ancora aperto ad altri il campo a un’attività, la quale tuttavia,
sussistendo il bisogno pratico di così fatte forme di ragionamento, dovrà for¬
nire. per sodisfarlo, mezzi che sieno, dal punto di vista pratico, più
convenienti 623 ) — e queste sono ehiaccbieie, per le quali, anche dal canto
suo, egli stesso sembra do¬ ver pretendere quella benigna interpretatio, di cui
s’è fatto cenno più sopra. Similmente Giovanni si pronunzia circa i sillogismi
ipotetici, da Aristotele lasciati forse intenzio¬ nalmente da parte, a causa
della loro difficoltà; tuttavia, oltre a un accenno a questi sillogismi, che si
trova già nella Topica, è stato in particolare un certo passo degli Ana¬ litici.
che ha determinato Boezio e altri a colmare la lacuna, sebbene neanche per
opera loro sia stata ancora raggiunta la vera compiutezza 624 ). Che Giovanni
anche 623) Metnl.. IV, 4, p. 160 [168]: Trium figurarum subnectil rationes (se.
Aristotiles) ..'■■et qui modi in singulis figuri* ex complexione extre- mitatum
provenirmi docci : data quidem semente rationis eorum quos, sicul Boetius
asserii (il passo è stato citato più sopra, Sez. V, nota 46), Theofrastus et
Eudcmus addiderunt. Deinde habita modalium ratione transil ad commixtiones quae
de necessario sunl aul contingenti cum his quae sunl de inesse.... A ec tamen
dico ipsum Aristotilem alicubi , quod legerim, nisi forte quod ad propositum,
de modalibus sujficienler egisse ; sed procedendi de omnibus fidelissimam
scientiam trudidit. Expo- silores vero divinae paghine rationem modorum
pernecessariam esse dicunt.... [169] Et prof celo licei nullus modos omnes,
unde modale s dicuntur, singulatim enumerare sufficiat. quod quidem ncc ars
exigit, tamen magistri scolarum inde commodissime disputali t. et, ut pace mul-
titudinis loquar, Aristotile ipso commodius [PL, 199, 918j. Cfr. la nota 220.
62') Jhid.. 21, p. 177 [187]: Dialecticam et apodicticam.... prue - cedentia
docent ; in his tamen de ipoteticis syllogismis nichil aut parum est actitatum,
Seminarium tamen datum est ab Aristotile, ut et istuc per industriam aliorum
possit esse processus. Cum cairn tam proba- bilium quam necessariorum loci
monstrati siili, ostensum est quid ex quo sequilur probabiliter aut necessario.
Quod quidem ad vpoteticarum negli Analitici avesse dinanzi agli ocelli soltanto
lo scopo pratico dell’argomentazione, è manifesto dove fa men¬ zione così della
pelino principii B2S ), come pure di alcuni altri momenti della tecnica, tra
cui il procedimento della controprova, per il quale sceglie il termine «
catasyllo- gismus » «»). Dagli Analitici secondi lia potuto attin¬ gere la
conoscenza dei così detti quattro principii ari¬ stotelici 6 “'), e aneli egli
è stato inoltre portato a entrare nelle questioni di teoria della conoscenza,
che tuttavia discute assai peggio che non l’autore dello scritto De
intellectibus (note 418 ss.), perchè a un esordio, d’into¬ nazione ancora
abbastanza aristotelica, concernente la percezione sensibile, la fantasia e la
opinione, fa se- imUcinm maxime special.... Praeterea Boetius (De syll.
hypothetico ( 1. IL, 01 . 836], p. 609) hoc prò seminio inveniendorum dicit
acceptum quod Aristotile$ ait in Analeticis (v. sopra la nota 522): ..Idem cum
su et non SI', non neresse est idem esse." Ergo ipse et olii (v. la Sez.
XII nota 139) aliquatenus suppleverunt imperfectum Aristotilis in line . parte;
seti quidem, ut michi visum est , imperjecte (sino a qual punto ‘,‘Zn r:r oss I
er ': azione sia v. Md., note 155 e imi [188],Sea forte ab Aristotile de
industria relictus est hic lahor. co quòd plus difficultatis quam utilUatis
videtur habere libcr illius qui dilLen- ttssime scnpsit. Prof ceto si hunc
Aristotiles more suo exequerelur, ve- nsimile est tantae difficultatis fare librum
ut praeter Sibillam inlelli- gat nomo. Nec tamen hic de ypotelicis satis
arbitrar expeditum, sud- P ien ^ nia vero scolorimi perutilia et necessaria
sunt [PI,. 199 928-01 nota 62BW 5 ' P | 161 t 1 . 7 ?] 1 , Adicit (-inai. pr..
II, 16: v. la Sez. IV\ nota 628) et regulampetitwnis principii, quae speculatio
tam demon- straton quam diabetico satis accommodata est ; licei hic
probabilitale gaiiaeat* tue verUatem aumtaxat amplectatur fPL 199 9191 e ) md.;
p. 162 [170]: Segui tur de causa falsae conclusioni, et catasillogismi (cosi è
anche intitolato effettivamente nella traduzione di Boezio, p. 516 [cap. XX „De
falsa ratiocinalione. catasyllogismo iZlZTu l Z l '° ne ì e l e ' en rt° : PL -
64 ’ 7 ° 51 ’ 11 ri8 P««ivo capitolo AnaL pr II, 19. v. la Sez. IV, nota 631)
et elenchi (ibid. ; nota 632) et de fallacia secundum opinionem (ibid. : nota
634 s.) et de conver sione medi! et extremerum (ibid., nota 636 s.), cuius
tamen tota utili tas longe commodius tradi potest [PL, 199, 919], w ') Enthct.,
v. 375 ss. [PL. 199, 973]: Quatuor ista solerei laudem praeslare creatis :
Subjectum, species, artificisque manus. Finis item cunclis qui nomina rebus
adaptat. Arist. Anal. post., II, 11: v la’ Sez. IV, nota 696. Era pertanto
affatto inutile che si mettesse in librila SS U " a COnOSCenZa ’ P"
ài Giovanni, dei guito subito il concetto ciceroniano di prudenza pratica, al
quale viene appresso la concezione platonica della ra¬ do i, per metter capo
infine alla sapientia, intesa in senso teologico, come ultima meta 628 ).
Parimente, come tratto dalla conoscenza dei Sopii. Elenchi, posti da Giovanni a
conchiusione dell’Organon aristotelico, potrebbe tutt’al più essere degno di
ricordo il termine « reluclatorius [eluctatorius : v. la nota] syllo- gismus »
629 ), e così pure, come ricavata dairàmbito degli scritti di Boezio, la
menzione delle quindici specie di definizione (v. la Sez. XII, nota 107); e qui
la lettura superficiale del libro di Boezio ha indotto Giovanni a ritenere che
Cicerone abbia composto anche lui uno scritto De definidone 63 °). 6as ) Melai., IV, 9, p. 165
[174]: Cum sensus secundum Aristo- tilem ( Anal. post., II, 19: Scz. IV, nota 51) sit naturalis potenlia indicativa rerum,
aut omnino non est aut vix est cognitio, deficiente sensu.... p. 166:
Aristotiles autem sensum potius vim animae asserii quarti corporis passioncm.
10, p. 167 [175]: Imaginatio itaque a ra¬ dice sensi!um per memoria’ fomitem
oritur. — 11, p. 168 [177] : Primum enim iudicium viget in sensu.... Secundum
vero imaginationis est; ut cum aliquid perceptorum. relenta imagine, tale vel
tale asserii, de fiu- turo iudicans vel remoto. Hoc autem alterutrius iudicium
opinio ap- pellalur (così in Boezio si trova tradotto il termine Só^a: v. sopra
la nota 19; invece per existimatio v. la nota 423). — 12, p. 169: Pru- dentia
autem pst, ut ait Cicero, virtus animae, quae in inquisitione et perspicientia
sollertiaque veri versatur. — 13, p. 169 [178] : Inde est quod maiores
prudentiam vel scientiam ad temporalium et sensibilium noti- liam retulerint :
ad spiritualium vero, intellectum vel sapienliam. Nam de humanis scientia, de
divinis sapienlia dici solet. — 16, p. 172 [181] : Ergo et potenlia et
potentine motus ratio appellatur. Ilunc autem mo- tum asserii Plato in Politia
vim esse deliberativam animae ctc. — 19, p. 175 [184]: Sapendo vero sequitur
intellectum, co quod divina de his rebus quas ratio discutit, intellectus
excerpsit, suavem habenl gu¬ sta ni et in amorem suum animas intelligentes
accendunt [PL, 199: 921-3, 925, 927], 629 ) Ibid., IV, 23, p. 180 [ed. Webb, p. 189]: Sicut enim
dialec- ticus elencho, quem nos eluctalorium dicimus sillogismum, eo quod con-
tradiclionis est,.... utitur ctc. [PL,
199, 930]. — Cfr. Polycr., II, 27, p. 145 [ed. Webb, I, p. 153; PL, 199, 467],
dove, sotto il nome [di syllogismus] „cornutus“, viene messo in opera un
dilemma. oso) Vietai., Ili, 8, p. 141 [147]: Sumpserunt hinc (cioè da Arist.,
Top. VI) doctrinae suae primardio Marius Victorinus et Boelius cum Cicerone,
qui singuli libros dififinitionum cdiderunt. Illi quidem difi- [§ 40. — Alano da Lilla], — Mostra qualche
affi¬ nità con Giovanni da Salisbury, nei riguardi della onto¬ logia teologica.
Alano da Lilla [ab Insulis], scrit¬ tore tanto scipito quanto affettato (morto
intorno al 1200 [circa nel 1203]), a entrambi servendo da comune punto di
partenza, circa tali questioni, la concezione di Gilbert de la Porrée. Alano
tuttavia non ba trovato che valesse la pena di prender in considerazione,
neanche a quella maniera che ci si fa manifesta in Gilberto o magari an¬ che in
Giovanni, il valore di questa ontologia dal punto di vista della logica,
dovendo, in ordine a quella, rima¬ nere riservato ai teologi il compito di
giudicare o apprez¬ zare: bensì ba assunto, nell’ampolloso suo poema « A/i-
ticlaiidianus », rispetto alla logica, il punto di vista della dottrina
scolastica piu volgarmente ordinaria, che an- cb egli ha in buon conto,
solamente come mezzo di ar¬ gomentazione per la battaglia contro gli eretici
631 ). Fa¬ cendo comparire, analogamente a Marciano Capella, le sette arti
quali figure simboliche, egli, dopo che per pri¬ ma è stata introdotta la
grammatica, rappresenta, in secondo luogo, la logica come una vergine
estremamente industriosa e solerte, nel cui volto scolorito si scorgono
solamente pelle e ossa, sicché vi si riconoscono le con¬ seguenze delle veglie
trascorse nell’applicazione allo stu¬ dio 63 -); enumera poi i suoi doni,
ch’essa reca con sé finicndi nomen usque ad quindecim species dilataverunl,
describcndi modns dijfinitionis vocabulo subponentes ; hiiic vero de
substanliali prae- cipue cura est fPL, 199, 906] (v. la fonte di questo errore
alla Sez. XII. note 103 c 106). ' 1 ) Anticlaud ., V II, 6 (Alani Opp., ed. C.
de Visch, Anversa 1654, fol., p. 394 [PL, 210, 554]): Succedit Logicae virlus
arguta,... Haec docet argutum JMartem ralionis mire , Adversae parti concludere
, fran¬ gere vires Oppositas , parlenupie su ani ratione Uteri : Eestigare
fugarti veri, falsumque fugare , Schismaticos logicce , falsosque retundere
fratres. Et pseudologicos et denudare sophislas [testo cit. secondo la ediz
Wright, 11, p. 391: Dist. VII, eap. VI, 1 ss.]. 6 ‘-) Ibid., III, 1, p. 345
[PL, 210, 509]: Latius inquirens, sollers, studiosa , laborans. Virgo secando
starlet, intrat penetralia mentis, Sol- licitatque manum, mentem manus excitat
, urget Ingenium.... Et decor nella battaglia per la verità, e tra essi
precisamente no¬ mina anzitutto la topica, con le sue maximae proposi- tiones,
a questa intrecciando la sillogistica, come pure la induzione e Vexemplum:
seguono poi la definizione, con inclusa la descrizione (cfr. la Sez. XII, nota
9), e la divisione del genere nelle specie, come pure del lutto nelle parti, e
inoltre il ricostituirsi della connessione tra i membri così differenziati:
tutte funzioni, queste, con le quali la logica agisce quale strumento o chiave
della verità, come pure quale arma per tutte le altre arti 633 ). Finalmente
Alano, enumerando gli scrittori di logica, esalta Porfirio come un secondo
Edipo, critica Aristo¬ tele, per la confusione di parole che ha introdotta,
onde la logica è stata novamente oscurata e velata : ma dopo di lui è venuto
Boezio a riportare nel tutto, luce e or¬ dine 634 ). e t species afilasset
virginia arlus, Sicul praesignis membrorum disseril orda. Ni facies quadam macie,
respersa iacerel. Vallai eam macies, macie vallata profunde Su lisi del. et
nudis culis ossibus arida nubit. Ilaec habitu . gesta, macie, pallore, figurai
Insomnes animi motus, vi- gilemque Minervam Praedicat, et secum vigiles
vigilasse lucernas [p. 310 : Dist. Ili, cap. I, 1 ss.]. 633 ) Ibid., p. 345 f.
[PL, 210, 509-10]: Monslrat elenchorum pugnas, logicaeque duellum : Qualiter
ancipiti gladii mucrone coruscans Vis lo- gicae veri facie tunicata recidit
Falsa, negane falsum veri latitare sub umbra.... Quid locus in logica dicalur
quidve localis Congruitas, quid causa loci, quid maxima, quid sitVis argumenli,
mattana a fonte locali, C.ur argumentum firmeI locus, armet elenchum Maxima,
quae vires proprias largitur elencho.... Cur ligel extremos medius mediator eorum Terminus, et
firmo confibulel omnia nexu...., Qualiter usurpans vires et robur elenchi
Singula percurrit inductio, colligit omne.... Qualiter excmplum de se paril.... Quomodo diffinit,
parlitur, colligit, unii Sin¬ gula, quaegremio complectitur illa capaci. Quomodo res pingens
descriptio claudit easdem, Nec sinit in varios descriptio currere vultus. Quid
genus in species divisum separai, aut quid Dividit in partes totum, rursusque
renodal, Quae sunt sparsa prius, divisaque cogil in unum. Qualiter urs logicae tanquam via, janua, clavis,
Ostendil, reserat, aperii secreta sophiae. Qualiter arma gerii, et in omni
militai arte.... [p. 311: c. s.. 34 ss.]. B34 ) Ibid., p. 347 [PL, 210, 511]:
Auctores logicae, quos donai fama perenni Vita,... recole.ns defu nctos
suscitai orbi. [Illic Porphyrius directo tramite pontem Dirigit, et monstrat
callem quo lector abyssum latrai Aristotilis, penetrane penetralia libri.]
Illic Porphyrius arcana Passaggio alla letteratura del se¬ colo XIII 0 ].
Eccoci giunti così al limite del XII 0 e del XIII° secolo, limite
caratterizzato anche dal fatto, che proprio in quel momento da varie parti è
stato recato al¬ l’Occidente latino materiale nuovo : la considerazione di
questo deve formare l'oggetto delle due prossime Sezioni, perchè sia poi
possibile distesamente illustrare i vasti ef¬ fetti di questo materiale nuovo
che ha da sopraggiungere. Per quanto si attiene al progresso della storia della
ci¬ viltà, è un fatto che la nostra ricerca, sino al punto a cui Pabbiamo
condotta, non ci ha davvero presentato punti di vista, i quali ci dian motivo a
rallegrarci. Ci siamo sì fatti passare dinanzi multa, ma certamente non multum.
Anzi, persino la conoscenza che un poco per volta si ridesta, delle principali
opere aristoteliche, non è stata feconda di frutti che meritino di essere
ricordati: e al posto di un modo veramente filosofico d’ intendere la logica,
quale avrebbe potuto essere determinato dallo studio di Aristotele, sembrò
infine volersi ancora far va¬ lere, più che mai di gusto, P impulso alla
retorica pratica. E anche le Sezioni che seguiranno più tardi, ci faranno, pure
in un’epoca in cui uno spirito nuovo spezza le catene della tradizione e
dell’autorità esteriore, assistere, nel campo della logica, solamente a una
ripe¬ tizione intensificata di questo giuoco della storia, onde la logica,
frammezzo a molte diverse concezioni, con¬ tinua sempre a esser di nuovo
cacciata via da una base intimamente filosofica. resolvit, ut alter Aedipodes
nostri solvens aenigmata sphingos, Verborum turbator adest, et turbine multos
Turbai Aristotiles noster gaudelque In¬ tere. Sic logica tractat, ut non
tractasse videtur ; Non quod oberret in hoc, scd quod velamine verbi Omnia sic
velai, Quod vix labor ista re- velet.... In lucem tenebrosa rejert, nova ducit
in usum, Exusalque 1 ra¬ po s, in normam schema reducit, Exerit ambiguum
Severinus ; quo duce linquens Natalem linguam nostri, peregrinai in usum
Sermonis logi¬ car virlus, ditatque Latinum [c. s., 107 ss.]. ELENCO DEI NOMI E
DELLE COSE PIO NOTEVOLI (i) Abbone da Orléans Abelardo abstractio Adalberone Adamo
dal Petit-Pont Adelardo da Balli udjticcnler, adjacentia aequi pollentia Alano
da Lilla Alberico Alberico da Monle Cassino Alcuino Anonimo, De gener. et
specieb. De intellectibus De interprete De unii, et uno San gali. De p<irt. Loicae
SangaU. De syllog., 115 Anselmo d’AOSTA (si veda) Anseimo il Peripatetico Anlepraedicamenta
antiqui antiqui e moderni Aristotele (nuove traduzioni di) Arnolfo da Laon Asino
(Prova dell’) Bartolomeo Berengario Questo Elenco è mantenuto ei eli'erano
stati segnati dai Franti (N. Bernardo da Chartres Bernardo da Chiaravalle Bernhard
da Hildesbeim, 93. Borgognone da PISA (si veda) calasyllogismus Categorie colligere
concepito conceptus communes conformilas consimilitudo contingens c possibile copida
Cornifieio Costantino Cartaginese [note] Damiani Davide da Hirsebau Definizione
Differenza, v. Porfirio Diritto (Scienza del), v. Giurisprudenza dividenlia dividuum
Drogone da Troyes eloquentiu eloquentia peripatetica Erico da Auxerre forma
subslantialis formae nativae Formularii ìtro gli stessi limiti, molto ristretti
(I. J'.) Francone da Liegi Fredegiso Fulberto da Charlrcs Gannendo Caunilone Gauslenus
da Soissons Genere (Concetto di), v. Universali Gerberto Giacomo da Venezia Gilbert
de la Porrée Giovanili da Gorze Giovanni da Saiisbury Giovanni Scoto Eriugena Giovanni
Serio Giselberto da Reims Giudizio Giurisprudenza Gualtiero Mapes, v. Mapes Gualtiero
da Mortagne Gualtiero da S. Vittore [nota] Gualtiero da Spira Guglielmo da
Champeaux Guglielmo da Conches Guglielmo da llirscliau Gunzone ITALO (si veda) Uraliano
Mauro identitas Jepa indifferentia Indifferenza (Dottrina della) individualiter
inesse informare Intellettualismo inlelleclus intellcclus conceptus intellectus
coniungens e dividens Josccllinus da Soissons, v. Gauslcnus Irnerio Isidoro da
Siviglia Lanfranco Logica, vecchia e nuova, v. antiqui c moderni maneries Manerius
Mapes malerialite.r imposila materialum modulis moderni moderni e antiqui, v.
antiqui e moderni monstra, Nominalismo Nominalismo e realismo nominaliter notio
Notker Labeone Oddone do Candirai Onorio da Autun Otloli da Ratisbona Ottone da
Cluny Ottone da Freising Papia Parte (Concetto di) perihermeniae Pietro LOMBARDO
(si veda) Pietro da Poitiers Plutonici Poppone Porfirio (Isagoge di) possibile
e conlingens, v. contingens e possibile postpraedicamenta praedicamentalis praedicari
praedicari in quid [nota] proprium, v. Universali Pscudo-Abclardo Pseudo-Boczio,
De Trin. Pseudo-Boezio, De unii, et uno Pseudo-Erico Pseudo-Hrabano Rainibcrto
da Lilla rntionale Realismo Realismo e nominalismo, v. Nominalismo e realismo Reginaldo
Reinhard da Wiirzburg Remigio da Auxerre res de re non praedicalur Rhahano
Mauro, v. Hrahano Roberto Amiclas Roberto da Melun Roberto da Parigi Roberto
Pulleyn Roscelino Salomone (Glossario di) S. Gallo Scoto Eriugcna, v. Giovanni
S. E. Sensismo aerino sermocinalis Sertoriu9 sex principia significatimi Sillogismi'
(Teoria dei) Sillogismi ipotetici Silvestro li, v. Gerberto Simeone speries, v.
Universali status sumplum syllogismi imperfccti syncalegoreumata Tendenze
contrastanti Teologia Topica Ugo di S. Vittore Ugucrione universale
intelligitur, singultire sentitur Universali (Disputa intorno agli), v.
Tendenze contrastanti Universali in re vcrbaliter, v. nominaliter vocalis voce»
signativae vocis flatus vocum impositìo Volfango da Ratisbona Williram da
Soissons Finito di stampare, in 1500 esemplari numerati, nella Tipografia
Fratelli Stianti in Sancasclano Fai di Pesa Esemplare N. * " IL PENSIERO
STORICO „ SOTTO GLI AUSPICI DELL’ENTE NAZIONALE DI CULTURA INDICE DELLE MATERIE
Avvertenza del Traduttore . Pag. v Prefazione dell’Autore alla seconda edizione
.... » xi Dal proemio dell’Autore alla prima edizione .... » xi Indice delle
materie . » xm Sezione XIII. CONOSCENZA INCOMPIUTA DELLA LOGICA LIZIO
Delimitazione dell’oggetto e dell’intento della presente ricerca . Si diffonde
nelle scuole lu logica della lorda latinità .La tradizione della logica
scolastica , nei riguardi delle traduzioni di Boezio, è limitata: e s’igno-
rutto le principali opere logiche di Aristotele. . » 6 § 4. - Atteggiamento
della ortodossiarispettoallalogica La « Isagoge » di Porfirio Miseria del
pensiero medievale. » 14 § 7. — La questione degli universali determina un con¬
trasto di tendenze nel campo della logica: pre¬ valenza di un realismo
platonico .Pensiero e linguaggio . Isidoro da Siviglia: а) Logica e Teologia Compendio
di dialettica nelle « Origine» » . . > 24 c) Altri spunti di teorie logiche
. > 27 S 1(1. - Alenino: sua compilazione di un compendio di dialettica INDICE
DELIE MATERIE Fredegiso da Tours . Pag. 35 Hrabuno Mauro: suoi scritti di
sicura autenticità. Il « De TrinUate » del Pseudo-Boezio .» 37 Giovanni Scoto
Eriugenu: a) Sua abilità nella logicu formale . » 40 b) Posizione dello Scoto,
rispetto alla dialettica » 46 c) Realismo teologico dello Scoto, il quale tut¬
tavia fu unche mollo conto della 84
Sterilità del secolo X : tenui tracce di studio della logica: Poppone a Fulda,
Reinhard a W'iirzburg, Giovanni da Garze, Canzone Italo ( prende co¬ sci
mitemente posizione nel contrasto delle ten¬ denze), Wol fungo a Ratisbona,
Abbone du Orléans, Bernward a llildesheim, Gualtiero da Spira. . . » 88
Gerberto, figura assolutamente insignificante: a) Materiale degli studi di
storia di logica altemposuo.»95 b) Lo scritto «De rationale et ratione uti » .
» 99 Adalberone di Laon . » 104 Fulberto di Chartres . » 106 Anonimo
rifacimento metrico della Isagoge e INDICE DELLE MATERIE XV delle Categorie,
del secolo XI: colorito nomina¬ listico .Intensa attività della scuola di Sun
Gallo. Notker Labeo: Un trattato insignificante Rifacimento delle Categorie . Rifacimento
del «De interpretatione Il «De partibus loicae»: nominalismo. Scritto anonimo «
De syllogismis », e sua im¬ portanza . » Conclusione . Altri documrnti relativi
allo studio della logica nel secolo XI: Francane u Liegi, Otloh a Rati- sbona,
Pier Damiani .Movimento più vivace, la scienza giuridica . » 124 5 29. -
l’apia. Anseimo il Peripatetico, Lanfranco, Irne- rio; i Formulari . » 125 §
30. - Movimento più vivace nella seconda metà del se¬ colo XI: 2) la teologia.
Nominalismo di Berengario nella questione della Santa Cena, e atteg¬
giamento 203 § 12. - Movimento più
intenso: grande estensione, e in pari tempo carattere imilaterale, della lette¬
ratura attinente alla logica. Le vicende dello studio della logica, nel rac¬
conto che ne fece Giovanni da Salisbury Contrasto caratteristico fra logica «vecchia» e
«nuova» . La polemica intorno agli tuiiversuli : si può di¬ mostrare che almeno
tredici erano le correnti. xvn nelle quali si dividevano le opinioni su questo
problema . § 16. - Nominalismo che rasenta il sensismo Grudi vari di questo
nominalismo (Garmondo) La teoria che gli universali sono « maneries »:
Uguccione / Platonici: . a) Bernardo da
Chartres . b) Guglielmo da Conches (e Costantino Cartaginese) .Il realismo di
Guglielmo da Champeaux .Le difficoltà e i gradi del realismo Controversie
intorno alla definizione e intorno al concetto di « parte La teoria dello
«status», come tentativo di conciliazione. Gualtiero da Mortagne . § 24. - La
teoria della « indifferenza Adelardo da Balli : intonazione platonica da lui
data alla teoria della « indifferenza Gauslenus o Joscellinus da Soissons: sua
idea del colligere. Lo scritto anonimo « de generibus et specie- bus »: punto
di vista del suo autore: а) Critiche ad altre soluzioni del problema de- gli
universali. б) Soluzione da lui stesso proposta . c) Dottrina del giudizio . d)
Propensione al platonismo . § 28. - Controversie sovra punti speciali. Sopra le
« Categorie Sopra la teoria del giudizio in generale Sopra cpiestioni
particolari, attinenti alla teoria del giudizio. d) Sopra difficoltà inerenti
alla teoria del sillo¬ gismo . e) Sopra questioni di Topica .Negli studi di
logica, la qualità continua a ri¬ maner molto al disotto della quantità Abelardo
: a) Suo ingegno: caratteristica generale .... » 294 b) Scritti di logica .
» c) Dialettica e teologia: intimo
dissidio della dottrina di Abelardo . I ag. 299 d) Abelardo aristotelico . »
302 e) Ma il « Peripatetieus Palalinus » è al tempo stesso anche platonico . »
304 j) Nè aristotelico, nè platonico, infine: bensì, retore . » 306 g) La «
Dialettica » è la principale tra le. opere logiche di Abelardo: disposizione
della ma¬ teria . » 308 h) Esposizione della « Isagoge » o « Anleprae-
dicamenta », quale risulta dalle « Glossae », e soprattutto dalle « Glossulae
», « super Por- phyrium»: atteggiamenti polemici sopra la questione degli
universali . » 312 i) Soluzione proposta da Ahelardo: il « sermo praedicabilis
» . » 318 l ) L’universale inteso come « quoti natum est de pluribus praedicari
»: uso di questo princi¬ pio, secondo lo spirito del platonismo ...» 325 m) Ma
dallo stesso principio Ahelardo trae in¬ sieme partito, secondo il punto di
vista ari¬ stotelico . » 331 n) Ispirazione aristotelica, nel maggior rilievo
dato al giudizio (« praedicari ») . » 334 o) Anche il preteso intellettuulismo
di Abelurdo deriva dal suo aristotelismo . » 338 p) Ma in Abelardo, vero
spirito aristotelico non c’è: il suo interesse centrale è volto, sotto
l’impulso di Boezio e dello stoicismo, alla teoria retorica dell’argomentazione
.... » 341 q) Continua l’analisi del contenuto della « Dia¬ lettica»: le «
Categorie » . » 344 r) l ) La topica . » 364 zi l sillogismi ipotetici.
Giudizio conclusivo so¬ pra l’opera di Ahelardo . » 3 XIX | 31. - Accentuazione
dell’ aspetto aristotelico della «Dialettica» di Abelardo: .l Ja B- 371 a) In
un commento anonimo del « De interpre- tatione » .. | 32. b ) Nell’acuto untore
dello scritto pseiulo-abelur- diano «De intelleclibus »: 1) Punto di vista
aristotelico . 2) Dottrina del « sermo » . § 33. - In Adamo dal Petit-Ponl
prevale la teoriu del giudizio . § 31. - Scetticismo logico di Roberto Pulleyn:
e rea¬ zione teologica di Pietro da Poitiers e di Ro¬ berto da Melun . » 373 »
377 » 383 » 388 § 35. - Gilberto de tu Porrée: .» a) Il commento al « De
Trinitate » del Pseudo- Boezio: posizione teoretica ingenua e con¬ traddittoria
. » b) Concetto di sostanza. Teoria delle « formae nativae ». * c) Realismo di
Gilberto .» d) I.o scritto « De sex principiis * : un’abborrac¬ ciatura . >
e) I sei « principii » : « actio, passio, quando, ubi, situs, habitus » » /) La
controversia intorno al « magi» » e al « minus ».» § 36. - Ottone da Freising,
seguuce di Gilberto. Lo scritto pseudo-boeziano « De unilate et uno » . » § 37.
- Alberico (da Reims?), a Parigi. WUliram de Soissons. Vari altri autori,
menzionati da Walter Mapes . » § 38. - Il cosi detto Cornijìcius, oggetto della
polemica di Giovanni da Salisbury . » 391 § 39. - Giovanni da Salisbury: a) I
suoi studi: il « Metalogicus » . » 420 b) Punto di vista utilitaristico, alla
muniera di Cicerone. La divisione del sapere. » 422 c) Punto di vista retorico,
come in Cicerone. Grammatica e dialettica. » 425 INDICE DELLE MATERIE d)
Conoscenza compilila dell « Organon ». Punti di contatto con Abelardo,
soprattutto nel modo di intendere e giudicare l’opera logica di Aristotele .
Pag. 430 e) La « ratio indifferentiae » come indifferenti¬ smo antiscientifico
. » 437 f) La « Isagoge ». Concezione degli « universalia in re » . » 441 g)
Grossolano eclettismo, nella questione degli universali .» h) Concetto
indeterminato di « notio »... » i) Le Categorie .» /) Teoria del. Giudizio . »
m ) Topica, sillogistica, teoria dei sofismi ...» | 40. — Uno scritto insignificante
di Alano da Lilla . . » § 41. - Passaggio al XIII secolo. » Elenco dei nomi e
delle cose più notevoli .... » LA LOGICA MEDIEVALE XIII Sezione. CONOSCENZA
INCOMPIUTA DELLA LOGICA ARISTOTELICA NEL PRIMO MEDIO EVO Delimitazione
dell’oggetto e dell’intento della presente ricerca]. Saggio su CARLO PRANTL,
STORIA DELLA LOGICA IN OCCIDENTE NELL’ETÀ MEDIEVALE. LA NUOVA ITALIA FIRENZE.
La « Geschichte der Logik ini Abendlande » di Prantl, curata da Fock a Lipsia,
è divisa in parti. La prima ha por oggetto lo svolgimento della Logica
nell’Antichità. Gli fecero sèguito una seconda parte dedicata alla Logica nel
Medio Evo. In una Collezione, che ha per suo programma di rendere largamente
accessibili ai filosofi italiani quello grande saggio di esplorazione e ricostruzione
della storia della filosofia, che sono imperitura gloria della cultura, doveva
esser fatto luogo a un classico trattato qual è questo del Prantl. Per ragioni
editoriali l’ordine di apparizione dei volumi della traduzione italiana non
corrisponde all’ordine di successione del saggio originale: e si è dovuto dare
la precedenza al Medio Evo, la quale forma un tutto unico e continuo, dotato di
una certa autonomia. Alla traduzione del primo volume che vedrà successivamente
la luce, diviso in due o tre tomi, sarà premesso un discorso introduttivo
intorno all’Autore, e alla importanza e. vitalità della sua opera: bastino qui
brevi cenni, a giustificare il lavoro e a render ragione dei criteri adot¬ tati
dal Traduttore. Il disegno di Storia della Logica Medievale presen¬ tato dal
Franti non è stato sostituito da opere più re¬ centi: il suo intento, di
risparmiare, almeno per lungo volger (Tanni, agli studiosi venturi, la immane
fatica di riprender ex novo l'argomento, rifacendosi diretta¬ mente dalle fonti,
è stato raggiunto: e il trattato è an¬ cor oggi cosa viva, sì che nessuno
studioso, mettendosi, con un suo particolare obbietta, a lavorar attorno a que¬
sta materia, può far a meno di ricorrere e di ricollegarsi a quello: è, a
giudizio di CROCE, il solo, tra i libri spe¬ cial, recanti il titolo di Storia
della Logica, che, fondato sopra lunghe ricerche, sia veramente insigne per
dot¬ trina e per lucida e animata esposizione. Animata, vor¬ rei soggiungere,
ancor più che lucida: non di rado, in venta, la espressione è negletta e
contorta, e la perspi¬ cuità e sacrificata alla rapidità e alla efficacia:
lettura dunque, non tutta agevole, ma tale da far desiderare una versione che,
se non sembri troppo ambizioso il propo¬ sito, elimini almeno in parte, pur attenendosi
con scru¬ polosa cura di fedeltà all'originale, quelle cause che non possono
non render ostica a noi Italiani la greve prosa * f-CXC SC Q, Dei progressi che
gli studi son venuti facendo in que¬ sti cinquant anni si doveva naturalmente
tener conto, ma senz alcuna intenzione di metter assieme un Prantl nuovo, in
luogo di ri presentare nella sua integrità il I rantl vecchio: e la questione
era soltanto del modo piu opportuno di far posto a quel pochissimo ch'è del
traduttore, nella poderosa costruzione innalzata dal- l Autore. i\on era dunque
il caso di contrapporre all'atteggia¬ mento che il Pronti assunse, con
icastiche espressioni di disprezzo, di fronte al pensiero medievale, un
giudizio valutativo diverso o per lo meno più temperato: anche se nessuno si
sentirebbe disposto a ripetere senza riserve che una filosofia medievale non
c'è stata, intensificandosi anzi da molte parti lo sforzo di rintracciare nel
Medio hyo anticipazioni e presagi del pensiero moderno, il giudizio del Prantl
va conservato in tutta la sua cru¬ dezza, per lo meno quale documento
significativo di un momento importante nella storia della cultura: d'altra
parte, in antitesi con la corrente che, sempre tenden¬ ziosamente talvolta
nostalgicamente, porterebbe ad abo- hre la differenza tra Medio Evo ed età
moderna, o a sopravvalutare quello, a tutto danno di questa, può avere virtù
correttiva, od operare come reazione salutare, la ricomparsa dell'opera di un
eminente ricercatore., il quale, proprio studiando lo sviluppo di quella disciplina
filosofica che fu più largamente e appassionatamente coltivata nella età di
mezzo, ne trasse occasiime a rive¬ lare lo spirito medievale nel suo aspetto
deteriore: quasi si direbbe ch’egli si fosse accinto all’ardua impresa di
esporre classificare giudicare i cultori illustri e oscuri della logica nel
Medio Evo, con la persuasione di ve¬ dersi dispiegare dinanzi agli occhi un
panorama tanto interessante quanto poco conosciuto, e tale comunque da
compensare il travaglio della indagine: e nei giudizi re¬ cisamente svalutativi
da lui pronuziati nei riguardi di quasi tutti gli autori che ha studiati,
diresti di sentire la eco di un’amara delusione o un movimento di di¬ spetto,
se non addirittura l’accento scorato di chi è tratto ad esclamare: «et oleum et
operata perdi di » ! Rimaneggiare l'opera ‘del Pronti, conservando immu¬ tate
quelle sole parti che han conservato oggi tutto il loro valore, e sostituendo
integrando rifacendo quelle che appaiono antiquate o inadeguate, sarebbe stato
in contrasto con l’indirizzo al quale, come s’è accennato, la Collezione si
attiene: il rispetto dovuto alle opere in essa incluse, ne esige la
riproduzione compiuta, senza modificazioni o mutilazioni, che han sempre l’aria
di manomissioni arbitrarie. Primo dovere era quello di rivedere l’ingente mate¬
riale accumulato nelle numerosissime note, che preval¬ gono per ampiezza sopra
il testo del Pronti: poderosa raccolta di testi accortamente scelti, della
quale ricono¬ scono l'incomparabile valore anche i meno disposti a seguire.
l’Autore ne’ suoi apprezzamenti e nelle sue in- terpetrazioni. Era il Pronti
uno studioso di esemplare diligenza, e fa veramente, maraviglia che, con lina
smi¬ surata mole di lavoro, egli sia soltanto eccezionalmente incorso in errori
di trascrizione, sviste nella correzione delle bozze, inesattezze nelle
citazioni e nei rimandi. Ma alcune mende s’è pur dovuto rilevare, che, com’era
ine¬ vitabile. sono state naturalmente travasate tutte quante nel « Manuldruck
» del 1927. In una traduzione, invece, bisognava procurare di eliminarle, e
riscontrar le cita¬ zioni, una per una, con i testi, per ottener la massima
possibile correttezza, evitando altresì che, come pure in alcuni luoghi è
accaduto all Autore, la trascrizione frammentaria possa alterare o non render
intiero il pensiero dello scrittore: si direbbe che il Franti qualche volta
prendesse frettolosamente le sue note dai testi da citare, e poi le
trascrivesse per la stampa, senza più darsi pen¬ siero di collazionarle con l
originale. Inoltre, era suo costume di servirsi a caso di una o al¬ tra
edizione che trovava, per ciascun autore, consert ata nelle Biblioteche di
Monaco, rendendo così a noi, molto spesso, difficile il riscontro delle sue
citazioni con i testi originali da lui usati: era dunque necessario non sola¬
mente emendare e aggiornare le citazioni, ricorrendo, ogni qual volta fosse
possibile, a edizioni moderne criti¬ camente condotte, ma inoltre sodisfare una
esigenza di uniformità e di unificazione, aggiungendo a ciascun passo il
riferimento al luogo corrispondente di un grande re¬ pertorio, largamente
diffuso e facilmente accessibile, qual è la Patrologia, Greca e Latina, del
Migne (desi¬ gnata nelle note, tra parentesi quadre, con la sigla PC o PL,
seguita in cifre arabiche dalla indicazione del vo¬ lume, poi della colonna o
delle colonne corrispondenti). Testi che il Franti aveva potuto conoscere
solamente di seconda mano, riferendoli secondo le parafrasi di benemeriti
studiosi francesi, son oggi editi, e dovevano naturalmente venir citati anche
nella forma originale, così rendendosi manifesti i progressirealizzatinella
conoscenza di scrittori, quali Adelardo e Abelardo. Successivamente alla
comparsa del secondo volume (seconda edizione) della Storia del Pronti, la
letteratura concernente gli Autori da lui studiati si è venuta accre¬ scendo in
misura molto rilevante: e non c’è forse un solo scrittore o argomento, per il
quale non si rendano necessarie allo studioso informazioni bibliografiche sup¬
plementari: ma si è voluto evitar di gonfiare la mole della traduzione,
introducendovi dati che ciascuno può facilmente trovare raccolti in opere di
uso comune, uni¬ versalmente apprezzale per ricchezza ed esattezza d’indi¬
cazioni, qual è, per citare la più nota, il Manuale del- V Ueberweg (voi. II),
nelle più recenti edizioni curate dal Paumgartner e dal Geyer. Questioni che si
giudicano definitivamente risolte, in senso contrario alle tesi soste¬ nute dal
Pronti — quelle, per esempio, che riguardano l’autenticità degli scritti
teologici di Boezio, o le rela¬ zioni tra le « Sumniulae » di Pietro Ispano e
la « Si¬ nossi » di Psello — non potevano venir qui dibattute: e al lettore
basterà veder accennato il presente stato delle questioni stesse. I volumi del
Pronti son tipici esemplari dell arte tipografica tedesca, intorno alla metà
del secolo scorso: pagine massicce, caratteri minuti, scarsità di capoversi:
tutto quelchecivuole,perdisvogliaredalla lettura, o per renderla più che mai
fastidiosa. Ben diverso è l’aspetto delle pagine della traduzione: la necessità
di conformarla al tipo prescelto per i. volumi precedenti della Collezione,
portava di necessità a un considerevole aumento di mole, in confronto con
l’originale: e s è dovuto ripartire in tre volumi la materia compresa dal
Pronti nel secondo e nel terzo volume: effettivamente le due ultime Sezioni del
secondo volume del testo, la XV a («Influsso dei Bizantini») e la XVI a
(«Influsso degli Arabi»), trovano il loro posto più adatto, meglio che nel
presente volume, in quello che gli farà sèguito: non servono di conchiusione.
alla Storia della Logica, ma d’introduzione alla Storia della Logica nel XIII 0
secolo: e formeranno dunque opportunamente, insieme con l’amplissima Sezione
XVIP, il contenuto del prossimo successivo volume. Ho avuto cura di render
sensibile al lettore come si compartisca e articoli la trattazione del Prantl,
moltiplicando i « da capo », e soprattutto dividendo e suddividendo in para¬
grafi le varie Sezioni, ciascuna delle quali forma nel testo un tutto compatto:
una modificazione, questa, che osiamo sperare sarà apprezzata segnatamente
dagli stu¬ diosi, quando ricorreranno al libro per consultazioni e ricerche
particolari. I titoli dei paragrafi e sottopara¬ grafi corrispondono
inpartealleindicazioni che il Prantl ha raccolte nell’ Indice delle Materie, e
anche riprodotte in capo alle pagine, in parte sono state ag¬ giunte dal
Traduttore, il quale ha cercato di tener di¬ stinta, compilando l’Indice
stesso, una dall’altra parte, mediante l’uso di tipi differenti. Di regola, e
nel corso dell’intiero lavoro, ha incluso tra parentesi quadre tutto ciò ch’è
aggiunta sua, dichiarativa o emendativa o inte¬ grativa, evitando tuttavia di
esporsi alla taccia di pedanteria con una frappo minuta registrazione delle va¬
rianti: solamente il raffronto fra i testi quali sono rife¬ riti nell'originale
e nella versione potrebbe, a chi volesse, fornire la misura della pazienza che
ha richiesta la revi¬ sione dell’estesissimo prezioso materiale. Il Traduttore
non s’illude di esser riuscito a evitare errori e sviste nel lavoro di
versione, trascrizione, retti¬ ficazione: ma ha coscienza di aver fatto tutto
quello che stava in lui, per ridurli al minimo: è grato a quanti gli hanno
agevolato le ricerche, condotte per lungo pe¬ riodo di tempo, presso Biblioteche
italiane e straniere: in particolare ringrazia l'insigne collega Mons. Geyer
della Università di Bonn, che gli ha liberalmente offerto ospitalità nella sede
dell’Albertus Magnus - Institut di Colonia. PREFAZIONE DELL’AUTORE ALLA SECONDA
EDIZIONENell’attendereaquestanuova edizione riveduta, era mio primo dovere,
come ben s*intende, di adeguarla alla presente condizione degli studi: e
sebbene non sieno stati molto nume¬ rosi i contributi, recati negli ultimi
ventiquattr’anni allu storia della logica medievale, bisognava certamente
trarne profitto con la massiina accuratezza. Ma la nostra conoscenza attuale
della letteratura logica di quell’epoca presentando pur sempre, sovra punti
particolari, varie lacune, sarei lieto di dare rinnovellato impulso alla pubblicazione
di testi supplementari, quali appaion desiderabili, tratti dai preziosi fondi
manoscritti delle Biblio¬ teche. Questo augurio vale ancor oggi segnatamente
nei riguardi della questione pselliana [sopra la quale son da vedere le Se¬
zioni XV e XVII, nel volume successivo di questa versione], clic io sono bensì
convinto di avere oramai risolta in linea di principio, ma che debbo tuttavia
qualificare come una questione aperta, in quanto che presentemente ci manca
tuttora la cono¬ scenza degli anelli intermedi, che si erano avuti antecedente-
mente su terreno bizantino. Pbantl. Monaco di Baviera. DAL PROEMIO DELL’AUTORE
ALLA PRIMA EDIZIONE Relativamente al Medio Evo si trattava ancora di studiare
criticamente tutto quanto il' materiale accessibile, come pure di rintracciare
la linea effettivamente seguita dal corso della storia. E, per quest’ultimo
rispetto, si rese subito manifesto che proprio la storia della logica può aver
il compito di correggere o di compiere la conoscenza della così detta filosofia
del Medio Evo. A quel modo cioè che, in ordine alla controversia intorno agli
universali, è venuta in luce una varietà di tendenze con¬ trastanti. della
quale finora non si aveva la idea, — così si .è potuto in compenso non soltanto
delimitare esattamente, in quale misura fosse, in quei secoli, conosciuta la
letteratura logica, ma anche fornire la dimostrazione incontestabile, che XII
DAL PROEMIO DELl’aUTUKK ALLA I* EDIZIONE nell’intiero Medio Evo, senza
eccezione di sorta, non c’è stato un solo autore che abbia cavalo fuori dalla
propria testa un pensiero che fosse suo: bensì la letteratura di quell’epoca
era tutta dipendente e condizionata dalla estensione di un mate¬ riale
preesistente, trasmesso per tradizione. Soltanto sobbarcan¬ domi alla fatica indicibile
di sollevare e di risolvere, quasi direi frase per frase, la questione della
fonte dalla quale la frase! fosse stata ricavata, sono riuscito a esporre in
maniera obbiettivamente esatta il corso della evoluzione; e anche quella sola
volta che (cioè a proposito di Escilo) non sono stalo più in grado di dar una
risposta a quella domanda « Di dove? », non è già che su questo punto resti da
ciò alterata la giustezza della mia tesi generale, ma in quel caso speciale
semplicemente manca alla ricerca il materiale necessario. Se del resto io per
principio mi sono limitata a quella produzione letteraria, che abbiamo a nostra
disposizione in pubblicazioni a stampa, sono tuttavia contento di ammettere la
possibilità che da varie Biblioteche, utilizzandosi materiale manoscritto,
vengano tratti alla luce elementi per rettificare o integrare la mia ricerca, e
anzi in più luoghi ho espressamente formulato l’augurio che ciò awengà.
Purtuttavia in un caso soltanto ho derogato a quel mio principio: da
manoscritti pari¬ gini, additati dall’ Hauréau, ho potuto cioè desumere con
gioia ch’era mio dovere addurre il materiale che ivi si trova; poiché n’è
derivata luce, non meno nuova che interessante, sopra la relazione di Psello
con Pietro Ispano, o piuttosto con i pre¬ decessori e contemporanei di
quest’ultimo: un risultato, al quale non si sarebbe mai potuti pervenire, con
la letteratura a stampa. | Il l J rantl allude qui munì lestamente a scritti
inediti di Gu¬ glielmo da Shyreswood e di Lamberto da Auxerre, dei quali tuttavia
egli si è giocato non per il 2”, ma per il 3" volume di questa sua Storia.
Si veda, nel volume successivo della pre¬ sente traduzione italiana, la Sezione
XVII J. Se i passi delle fonti, copiosamente riportati nelle Note, sembrano
spesso (particolarmente nella Sezione [la XVI': vedi il voi. successivo della
traduzione ] che tratta degli Arabi) con¬ tenere più ancora di quel che ho
esposto nel testo, il lettore vorrà scusarmene, considerando che io mi sono
sempre sforzalo di attenermi alla massima possibile brevità, e che pertanto mi
son provato a presentare nel testo non una semplice traduzione e neanche un
riassunto, bensì la intima essenza dei passi origi¬ nali. Al medesimo intento
di brevità servono anche i numerosi reciproci rinvii, nei quali il lettore
vorrà ravvisare non un ozioso abbellimento, o imbruttimento, ma un mezzo
compendioso di tener dinanzi agli occhi in molti casi una più ampia connes¬
sione. Monaco di Baviera
Luigi Speranza,
“Grice e Limentani”. Limentani.
Grice e Livi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale del consenso sociale – filosofia toscana -- filosofia italiana
– l’aporia: se cristiano, non filosofo. Luigi Speranza (Prato). Filosofo italiano. Prato,
Toscana. Grice: “Livi is one of the few Italian philosophers who have taken
Moore’s ‘common-sense’ seriously!” – Grice: “The way Livi justifies
common-sense, not unlike Moore, is via a principle of ‘coherence’” Allievo di Gilson,
collabora con Fabro, Noce edAgazzi. Inizia
la scuola filosofica del senso comune, rappresentata dalla Common-Sense
Association, che ha come organo ufficiale la rivista "SENSVS COMMVNIS” –
cf. Grice on Malcolm, Moore -- . Alethic Logic". Tra i suoi numerosi
discepoli o estimatori vi sono Renzi, autore di importanti saggi di Storia
della Metafisica, Bettetini, Arecchi, Spatola, Covino ed Arzillo. Fondatore di Vinci, membro associato della
Accademia d’AQUINO, decano e professore emerito della Facoltà di Filosofia
della Pontificia Università Lateranense. Firma con Giovanni Paolo II alcune
parti dell'enciclica Fides et ratio. «Senso comune» è il termine
utilizzato da Livi – apres Malcolm, Moore e Grice -- in chiave anti-cartesiana
per individuare le certezze naturali e incontrovertibili possedute da ogni
uomo. Non si tratta di una facoltà o di strutture cognitive a priori, ma di un
sistema organico di certezze universali e necessarie che derivano dall'esperienza
immediata e sono la condizione di possibilità di ogni ulteriore certezza. – cf.
Grice, “Common Sense” --. Grice, “Common Sense and Ordinary Language,” “Common Sense and
Scepticism” --. Ha per primo precisato quali siano queste
certezze e ha provato con il metodo della presupposizione che esse sono in
effetti il fondamento della conoscenza umana. Il senso comune comprende dunque
l'evidenza dell'esistenza del mondo come insieme di enti in movimento;
l'evidenza dell'io, come soggetto che si coglie nell'atto di conoscere il
mondo; l'evidenza di altri come propri simili; l'evidenza di una legge morale
che regola i rapporti di libertà e responsabilità tra i soggetti; l'evidenza di
Dio come fondamento razionale della realtà, prima causa e ultimo fine,
conosciuto nella sua esistenza indubitabile grazie a una inferenza immediata e
spontanea, la quale lascia però inattingibile il mistero della sua essenza, che
è la Trascendenza in senso proprio. Queste certezze sono a fondamento di un
sistema di logica aletica su base olistica. Tra gli studi recenti sul
sistema della logica aletica elaborato da lui vanno ricordati i saggi di AGAZZI,
"Valori e limiti del senso comune" (Angeli, Milano), Ottonello
("L.", in "Profili", Marsilio, Venezia ), Vassallo
("La riabilitazione del SENSO COMUNE", in "Memoria e
progresso", Fede & Cultura, Verona), di Arzillo, “Il fondamento del
giudizio -- una proposta teoretica a partire dalla filosofia del SENSO COMUNE (Vinci,
Roma ); Renzi, La logica aletica e la sua funzione critica -- analisi della
proposta di L. (Vinci, Roma). Hanno scritto su L. anche Andolfo, storico della filosofia
antica, Sacchi, Cottier, Fisichella, Galeazzi, Pangallo e Possenti. Da Gilson,
Fabro ed Agazzi ha appreso ad affrontare i problemi essenziali della
speculazione metafisica in dialogo con grandi filosofi antichi (Platone,
Aristotele, la Scesi, Agostino), del Medioevo (Anselmo, Aquino, Scoto) e
dell'età moderna (VICO, Kierkegaard, Rosmini-Serbati). Convinto assertore del
metodo realistico di interpretazione dell'esperienza, ne ha difeso le ragioni
utilizzando sistematicamente gli strumenti dialettici offerti dai filosofi
della scuola analitica. Suoi critici più intransigenti sono stati, da una parte,
l’idealista Severino, e dall'altra il caposcuola del pensiero debole, Vattimo. Altri
saggi: “Cistiano e filosofo -- il problema (L'Aquila: Japadre); “Cristiano e comunista” (Torre del
Benaco: Colibrì); “Filosofia del SENSO COMUNE -- Logica della scienza (Milano:
Ares); “IL SENSO COMUNE tra razionalismo e la scesi in VICO” (Milano: Massimo);
“Lessico filosofico latino” (Milano: Ares); “Il principio di coerenza – SENSO
COMUNE e logica epistemica” (Roma: Armando); “Aquino: filosofo” (Milano:
Mondadori); “La filosofia in eta antica” (Roma: Alighieri); “Dizionario storico
della filosofia, Roma: Alighieri); “La ricerca della verità” (Roma, Vinci, Verità
del pensiero (Fondamenti di logica aletica) Roma: Laterano); “Razionalità della
fede nella Rivelazione -- Un'analisi filosofica alla luce della logica aletica”
(Roma: Vinci); “La ricerca della verità -- Dal SENSO COMUNE alla dialettica” (Roma:
Vinci); L'epistemologia d’AQUINO e le sue fonti” (Napoli: Comunicazioni ); “SENSO
COMUNE e logica aletica” (Roma: Vinci); “Perché interessa la filosofia e perché
se ne studia la storia” (Roma: Vinci); “Storia sociale della filosofia in eta
antica: aspetti sociali”, La filosofia antica e medioevale; moderna;
contemporanea, L'Ottocento; Il Novecento, Roma: Alighieri); “Logica
della testimonianza - quando credere è ragionevole” (Roma: Lateran); “SENSO
COMUNE e metafisica -- sullo statuto epistemologico della filosofia prima” (Roma:
Vinci); “Nuovo Dizionario storico della filosofia” (Roma, Alighieri); “Premesse
razionali della fede. Filosofi e teologi a confronto sui praeambula fidei” (Roma:
Lateran); “Etica dell'imprenditore. Le decisioni aziendali, i criteri di
valutazione e la dottirna sociale della chiesa” (Roma: Vinci); Dizionario
critico della filosofia, Roma: Alighieri); “Teologia come braccio della
metafisica speziale” (Bologna: Edizioni Studio Domenicano); “IL SENSO COMUNE al
vaglio della critica” (Roma: Vinci); “Filosofia del SENSO COMUNE. Logica della
scienza e della fede” (Roma: Vinci); “Vera e falsa teologia. Come distinguere
l'autentica scienza della fede da un'equivoca "filosofia religiosa" (Roma:
Vinci); “L'istanza critica, Roma: Vinci); “La certezza della verità. Il sistema
della logica aletica e il procedimento della giustificazione epistemica” (Roma:
Vinci); “Dogma e pastorale. L'ermeneutica del Magistero, dal Vaticano II al
Sinodo sulla famiglia, Roma:Vinci,. Le leggi del pensiero. Come la verità viene
al soggetto” (Roma: Vinci,. Teologia e Magistero” (Roma: Vinci); “Vera e falsa
teologia. Come distinguere l'autentica scienza della fede da un'equivoca
"filosofia religiosa", su Gli
equivoci della teologia morale dopo l’amoris Laetitia” (Roma: Vinci); “Aquino filosofo” in Piolanti, AQUINO nella
storia della filosofia” (Roma: Vaticana); “La filosofia di Gilson",
in Piolanti, Gilson, filosofo, Roma: Vaticana,
"L'unità dell'ESPERIENZA nella
gnoseologia in AQUINO", in Piolanti "Noetica, critica e metafisica in
chiave tomistica", Roma: Vaticana); “SENSO COMUNE e unità delle
scienze"[cf. Grice, Einhiet Wissenschaft] in Martinez "Unità e autonomia del
sapere: il dibattito", Rome: Armando, Ledda, In memoriam: Corrispondenza
Romana, antoniolivi.Vinci, su editriceleonardo ISCA Commonsense Association ca-news; fidesetratio.
Ilgiudiziocattolico.
Antonio Livi. Keywords: ‘il senso commune in Vico” – Grice develops a sceptical
defence in his early “Common sense and scepticism,” “mainly motivated by what
he sees as a ‘cavalier attitude’ to the sceptic by, of all people, Malcolm.” –
Grice: “I’m not sure Livi would agree with my idea, but I think he would –
certainly Vico took the sceptic challenge possibly most seriously than anyone
and Livi is an expert on Vico. Vico’s line of defense lies on the connection,
conceptual he thinks, between ‘common sense’ and ‘consenso’: therefore, Malcolm
and I have to reach a consensus that we are going to use ‘know’ for things like
‘I know that s is p,’ say, there is cheese on the table, there is a mermaid on
the table. Etc. And that “if I’m not dreaming” may not always be a
conversationally appropriate defeater!” – Livi. Keywords: consenso sociale, amoris laetitia, Letizia
dell’amore -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Livi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Leonzi – (Leonzio) Georgia di Leonzi
Grice e Leoni: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – filosofia marchese – scuola di Ancona -- filosofia italiana –
il vincolo mi fa libero -- Luigi Speranza (Ancona). Filosofo italiano. Ancona, Marche. Grice: “I love
Bruno Leoni; my balance between the principle of conversational self-love and
the principle of conversational benevolence is what all his philosophy is
about!” – Grice: “Leoni has technical concepts here: his is an individualism,
i. e. subjectivisim, and he believes that the ‘scambio’ or ‘inter-subjective,’
inter-individual exchange’ is ‘spontaneous – he calls it ‘ordine spontaneo.’ He
doesn;’t see it necessarily as ethical or meta-ethical – but descriptive;
similarly I speak of conversational maxims as different from ‘moral’ maxims!” “La situazione paradossale del nostro tempo è che
siamo governati da uomini non, come pretenderebbe la classica teoria
aristotelica, perché non siamo governati dal diritto, ma esattamente perché lo
siamo. Vive a Torino, Pavia, e la Sardegna. Per la sua filosofia, viene
associato ad un modello liberale e anti-statalista della società. All'interno
della filosofia, si inserisce nella
tradizione del liberalismo classico. Allievo di SOLARI, di cui e pure
assistente volontario, e collega di Firpo, insegna a Pavia. Nel corso del
conflitto, fa parte di A Force, un'organizzazione segreta alleata incaricata di
recuperare prigionieri e salvare soldati. Insegna filosofia e ricoprendo
l'incarico di preside della facoltà di Scienze Politiche. Muore in circostanze
tragiche, ucciso. Un collaboratore del suo studio legale, Quero, di professione
tipografo ma che svolge amministrazioni di condomini e palazzi, ha perpetrato
truffe e sottrazioni di denaro. Quando se ne accorse e minaccia di denunciarlo,
Quero lo assassina colpendolo ripetutamente alla testa e nascose poi il corpo
in un garage, inscenando un sequestro di persona, ma venne subito scoperto. Negli
anni della ricostruzione postbellica, mentre in tutti i paesi europei si
affermavano politiche economiche di stampo statalista, anda contro-corrente
sostenendo il liberalismo, che ormai quasi più nessuno e pronto a difendere. L.
critica la logica dell'intervento pubblico mentre esalta la superiore
razionalità e legittimità degli ordini che emergono dal basso, per effetto del
concorso delle volontà dei singoli individui. Fondatore di Il Politico, svolge
ugualmente un'intensa attività pubblicistica, soprattutto scrivendo corsivi per
Il Sole 24 ORE. Membro della Societa Mont Pelerin di cui fu segretario e poi
presidente, il filosofo torinese e pure molto impegnato nel Centro di Studi
Metodologici della città piemontese e, in seguito, nel Centro di Ricerca e
Documentazione Einaudi. Filosofo poliedrico (giurista e filosofo, ma anche
appassionato cultore della scienza politica e della teoria economica, oltre che
della storia delle dottrine politiche), L. Promuove le idee liberali
all'interno della filosofia italiana: proponendo temi ed autori del liberalismo
contemporaneo, ma soprattutto aprendo prospettive ad una concezione della
società centrata sulla proprietà privata e il libero mercato. Per comprendere
quanto sia stata importante la sua azione tesa a favorire una migliore
conoscenza delle tesi più innovative, è sufficiente scorrere l'indice della
rivista da lui diretta, Il Politico, in cui da spazio ad autori spesso a quel
tempo poco noti, ma desti segnare le scienze economiche. Con i suoi saggi,
inoltre, L. apre la strada a molti orientamenti: dalla Teoria della scelta
pubblica all'Analisi economica del diritto -- filoni di ricerca che esaminano
la politica ed il diritto con gli strumenti dell'economia -- fino all'indagine
interdisciplinare di quelle istituzionitra cui il diritto che si sviluppano non
già sulla base di decisioni imposte dall'alto, ma grazie ad un'intrinseca
capacità di auto-generarsi ed evolvere dal basso. E stato quasi
dimenticato: soprattutto in Italia. Il suo saggio più conosciuta (frutto di lezioni
). L’ndividualismo integrale di L. risulta ben poco in sintonia con la cultura
del suo tempo. Il liberalismo dell'autore di Freedom and the Law è pervaso da
quella cultura che egli assimila in profondità grazie all'intensa
frequentazione di alcuni tra i maggiori filosofi di quell'universo
intellettuale. Inoltre, segue sempre con il massimo interesse i
protagonisti della scuola austriaca -- Mises e Hayek, soprattutto -- cheanche
se europei proprio in America hanno scritto alcuni dei loro maggiori contributi
e in quel contesto hanno trovato folte schiere di allievi. In questo senso,
bisogna rilevare che il percorso filosofico di L. e stato molto differente
senza la Societa Mont Pelerin, nei cui convegni egli ha l'opportunità di
entrare in contatto con filosofi e scuole di pensiero estranei al clima
dominante nell'Italia. In effetti, l'associazione fondata da Hayek ha
rappresentato un'occasione di scambi e approfondimenti per quanti cercano
interlocutori radicati nella cultura del liberalismo. Dimenticato o quasi
in Italia, la filosofia di L. continua a vivere fuori dei nostri confinigrazie
alle iniziative, ai saggi dei suoi amici e, oltre a loro, all'interesse che i
suoi saggi suscitano nelle nuove generazioni di studiosi liberali. La
situazione è cambiata sotto più punti di vista. Grazie soprattutto alla pubblicazione
de “La libertà e la legge,” filosofi di vario orientamento sono tor riflettere
sulle pagine del torinese, dando vita ad
una vera e propria riscoperta che sta producendo numerosi frutti e grazie alla
quale si va finalmente riconoscendo a L. la sua giusta posizione tra i maggiori
filosofi del liberalismo. Oggi. non è
più considerato semplicisticamente un epigono di Hayek o un semplice ripetitore
delle sue tesi. In questo senso, è interessante rilevare che perfino filosofi
lontani dalle posizioni liberali e libertarian di L. avvertano sempre più il
carattere innovativo della sua filosofia, che nell'ambito della filosofia del
diritto ha saputo offrire una prospettiva alternativa ai modelli kelseniani del
normativismo dominante e all'ispirazione social-democratica che ancora prevale
all'interno delle scienze sociali. In particolare, mentre il diritto è
stato ripetutamente identificato con la semplice volontà degli uomini al
potere, uno dei contributi maggiori di L. è quello di aver indicato un altro
modo di guardare alla norma giuridica, sforzandosi di cogliere ciò che vi è
oltre la volontà dei politici e ben oltre la stessa legislazione. Per questa
ragione, si guarda alla teoria di L. come ad una radicale alternativa rispetto al
normativismo formulato da Kelsen, più volte criticato da L.. Quella di L.,
per giunta, è ancora oggi una proposta teorica talmente liberale da indurre più
di uno studioso a parlare di “La liberta e la legge” come di un classico della
tradizione libertariana, al cui interno sono racchiuse idee e intuizioni che
restiamo ben lontani dall'aver compreso e sviluppato in tutte le loro
potenzialità. Al fine di tenere viva la lezione dell'autore è stato
fondato l'Istituto L., con sedi a Torino e a Milano, animato da Lottieri,
Mingardi e Stagnaro, che si propone di affermare, all'interno del dibattito filosofico,
i principii liberali difesi da L, stesso e di promuovere la conoscenza della
filosofia di L. e, in generale, delle teorie liberali e libertariana. Altri
saggi:“Lo stato” (Mannelli, Rubbettino); “Filosofia del diritto” (Mannelli,
Rubbettino); “La libertà e la legge, InMacerata, Liberilibri); “Scienza
politica e teoria del diritto” (Milano, Giuffrè); “Le pretese e i poteri: le
radici individuali del diritto e della politica” (Milano, Società Aperta); “La
sovranità del consumatore” (Roma, Ideazione);
“La libertà del lavoro” collana IBL “Diritto, Mercato, Libertà”,
Treviglio Mannelli, Facco Rubbettino, “Il
diritto come pretesa, A. Masala (Macerata, Liberi); Il pensiero politico
moderno e contemporaneo, Masala, Bassani, Macerata, Liberi libri, Istituto L.. L'idea di uno stato privo di co-ercizioni
nella filosofia del diritto; Un "austriaco" di adozione Articolo su l'Unità. Il Luogo dei Ricordi di
O. Quero, su in mia memoria. Tra i pochissimi, in Italia, che hanno continuato
a sviluppare le ricerche di L. è da ricordare Stoppino. Per merito di Cubeddu,
che ha anche dedicato molti saggi e articoli alla teoria leoniana. E necessario liberarelo dall'ombra di Hayek,
rendendo in tal modo possibile una più adeguata valutazione delle sue tesi e
del suo originalissimo contributo all'elaborazione di una filosofia coerente
con i principi del liberalismo e con i suoi stessi esiti libertari. Masala, Il
liberalismo (Mannelli, Rubbettino); saggio su L.. Masala La teoria politica (Mannelli, Rubbettino); Lottieri,
“Libertà e stato” in Masala, cur., La teoria politica; Mannelli, Rubbettino; Lottieri,
Le ragioni del diritto. Libertà e ordine giuridico”, Mannelli, Rubbettino; Approfondisce
il tema di un libertarismo non ancora compiutamente espresso in L., ma già
ampiamente riconoscibile nelle sue tesi fondamentali. Favaro, L..
Dell'irrazionalità della legge per la spontaneità dell'ordinamento, della
Collana “L'ircocervo. Saggi per una storia filosofica del pensiero giuridico e
politico italiano”, Napoli, ESI, Gulisano, Tra positivismo e gius-naturalismo.
Il diritto evolutivo, Foedrus. Gulisano, La teoria empirica di L. La centralità
dell'approccio metodologico, Biblioteca delle liberta. riscoprire.bruno.l.Bruno
Leoni. Leoni. Keywords: implicatura, freedom, il concetto di ‘freedom’ in Grice
e il liberalism italiano – il concetto di Freiheit in Kant e la tradizione
liberale, Croce, Enaudi, il partito liberale italiano, partito nazionale
fascista, protezionismo, fascismo, storia d’italia, storia del liberalismo
italiano, libero e vincolato, libero e fozato, libero e spontaneo -- Refs: Luigi Speranza, “Grice e Leoni” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Leoni: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – filosofia umbra – scuola di Spoleto – filosofia perugiana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Spoleto).
Filosofo italiano.
Spoleto, Perugia, Umbria. Grice: “In Italy, they like ‘renaissance men,’ but
there’s a peril in that: Leoni was a philosopher and a physician (to Medici) –
when he died, Medici did, Leoni was accused of malpractice (poisoning),
strangled to death, and thrown into a ditch. Categorie: philosophers in ditch – Thales, Leoni.” Di
famiglia aristocratica, studia a Roma. Insegna a Padova e Pisa. E qui che ha modo di entrare in contatto con
la cerchia di filosofi che gravitano attorno a Lorenzo de’ Medici, a Firenze. Ha
contatti e una fitta corrispondenza con Ficino e Pico. Venne considerato uno
dei più valenti filosofi. I più illustri personaggi e sovrani dell'epoca, come
il duca di Calabria, il re di Napoli, Ludovico il Moro, forse anche IInnocenzo
VIII, richiedeno le sue cure, tanto che divenne il medico personale dello
stesso Lorenzo de Medici. All'indomani
della morte di Lorenzo de Medici venne ingiustamente sospettato di essere stato
il responsabile del suo avvelenamento, e venne quindi strangolato e gettato in
un pozzo il giorno seguente. Diverse fonti dell'epoca sostengono che il mandante dell'uccisione di
L. e il figlio di Lorenzo, Piero il Fatuo. F. Bacchelli, Dizionario Biografico
degl’Italiani, riferimenti in. Dagli
Annali di Mugnoni da Trevi, trascriz. Pirri (Estratto dall'Archivio per la
Storia Ecclesiastica dell'Umbria. Era adpresso del dicto Lorenzo uno
excellentissimo et famosissimo medico de grandissima scientia in FILOSOFIA,
nominato magistro Pierleone de leonardo da Spolitj, reputato el più singulare
valente homo in dicte scientie che ogie dì viva. E questo uomo in tanto prezzo
adpresso del dicto Lorenzo che, senza quisto clarissimo doctore, non podiva
stare. E conducto ad Pisa ad legere, ha mille ducatj de provisione per anno:
poj e conducto ad Padova, ha mille et ducento ducatj per anno. Ad Pisa stecte annj
ad legere e similemente ad Padova. Dagli Annali di Mugnoni da Trevi, trascriz.
D.Pietro Pirri (Estratto dall'Archivio per la Storia Ecclesiastica dell'Umbria.
Lorenzo se amala, mandò per luj, e anda a Firenze. E questo mastro L. de tanta
scientia, che predisse la morte sua essere infra IV misi. E anda mal voluntierj
ad Firenze. Tandem jonto ad Firenze trova Lorenzo stare male: sono lì
clarissimj medicj et valentj et excellentj: poj ce venne el medico del duca de
Milano: et predice mastro L. la morte de Lorenzo. Ipso non presta mai et non se
mestecù in alcuna medicina ne potione sue. Il cronista forse vuol dire che L,
non s'ingerì affatto in ciò che riguarda l'assistenza sanitaria dell'infermo,
limitando l'opera sua alla pura DIAGNOSI della malattia ed a consultazioni
astrologiche. E con ciò vuole, forse, velatamente intendere che niente ha a che
vedere L. con quelle strane pozioni a base di gemme e perle triturate
somministrate da un altro medico, il Piacentino, le quali, attese le lesioni
viscerali che tormentano il paziente, servirono forse ad accelerarne il
tracollo -- ma solo ipso in consulendo et predicendo. Tandem venendo alla morte
Lorenzo, Perino, figliolo del dicto Lorenzo, homo de poca prudentia, reputato
homo bestiale e senza prudentia, ordina che el dicto mastro L. fosse morto.
Lorenzo e in villa ad uno suo casale, e lì tucto dì sta mastro L. Essendo morto
Lorenzo, et lì insino alla sera stando mastro L., volendo tornare luj allu
solito loco, e menato per uno Carlo o vero Alberto martellj ad uno suo casale,
et lì e strangulato dicto mastro L., et buctato in uno pozo. Poj e retracto e
portato in Firenze, e retenuto il suo corpo con guardia et veneratione assai.
Et de tanto tradimento et iniusta morte se ne dolse tucta la città, perché la
bona memoria de Lorenzo ama questo uomo più che uomo vivesse, et tucti li
secretj soj sapiva, savio, sapientissimo e pieno de verità, bontà et
integrità." Nella sua "Storia
della Letteratura Italiana" Tiraboschi, Firenze, Landi, riporta fonti
dell'epoca, fra cui Ammirato. Cavossi voce che egli vi si fosse gittato da se
medesimo ma si rinvenne esservi gittato da altri, secondo dice Cambi, da due
famigliari di Lorenzo. Lo stesso testo riporta le affermazioni di Sanazzaro, il
quale non nomina l'autore di questo misfatto. Ma è chiaro abbastanza ch'ei
parla di Pietro de Medici, figliuol di Lorenzo, e di Allegretti, storico senese
contemporaneo di L., che riporta. L. da Spoleto, che lo medica (si riferisce a
Lorenzo) e gittato in un pozzo, perché e detto, che l'avvelena, nientedimeno si
conclude per molti non esser vero. Dizionario Biografico degl’Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Corti: Sannazaro. Branca V: Dizionario critico
della letteratura italiana. POMBA, Torino, Cotta, Klien: I Medici in rete, Olschki,
Firenze, C. Dionisotti, “Appunti sulle rime del Sannazaro”, Giornale storico della
Letteratura italiana, Mauro, Opere volgari, Laterza, Bari; Montevecchi, Storie
fiorentine, Rizzoli, Milano; Nibby, Analisi storico-topografica-antiquaria
della carta de' dintorni di Roma, Belle Arti, Roma, Orio, Le iscrittioni poste
sotto le vere imagini de gli huomini famosi il lettere, Torrentino, Firenze, Pesenti,
Professori e promotori di medicina nello Studio di Padova, Repertorio bio-bibliografico, Radetti, Un'aggiunta
alla biblioteca di L. In.: Rinascimento: Rivista dell'Istituto Nazionale di
Studi sul Rinascimento, Firenze, Ranalli: Istorie Fiorentine con l'aggiunte di
Ammirato il giovane, Batelli, Firenze, Rotzoll M.: Pierleone da Spoleto: vita e
opere di un medico del Rinascimento. Olschki, Firenze. Sansi: Storia del comune
di Spoleto dal secolo XII al XVII: seguita da alcune memorie dei tempi posteriori. Pierleone Leoni, Piero Leoni, Pierleone, Pier
Leone. Leone. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Leoni” – The
Swimming-Pool Library. Leoni.
Grice e Leopardi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del favoloso – Leopardi
fascista – filosofia maceratese – filosofia marchese – scuola di Recanati -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Recanati). Filosofo italiano. Recanati, Macerata, Marche. Grice:
“Oddly, Leopardi’s philosophical semantics is negative; admittedly, he is
wedded to the Fido-‘Fido’ theory of meaning, so he thinks, pretty much like the
first Vitters, that language is a prison. Man has a need for ‘non-linguistic
thought,’ to think without naming – without conceptualizing! The oddest
philosophy of language for Italy’s greatest poet, one would first think!” -- Grice: “One could write a whole
dissertation on Leopardi’s implicata – not I My favourite expression would be
‘gli infiniti silenzi’” -- Grice: “While there is a philosophical griceianism,
seeing that my theories were stolen by non-philosophers, there is ‘leopardismo
filosofico,’ seeing that he wasn’t one!” -- essential Italian philosopher, and
founder of a whole movement, ‘leopardismo.’
Il conte Giacomo Leopardi, al battesimo
Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro Leopardi (Recanati), filosofo.
È ritenuto il maggior poeta
dell'Ottocento italiano e una delle più importanti figure della letteratura
mondiale, nonché una delle principali del romanticismo letterario; la
profondità della sua riflessione sull'esistenza e sulla condizione umanadi
ispirazione sensista e materialistane fa anche un filosofo di spessore. La
straordinaria qualità lirica della sua poesia lo ha reso un protagonista
centrale nel panorama letterario e culturale europeo e internazionale, con
ricadute che vanno molto oltre la sua epoca. Leopardi, intellettuale
dalla vastissima cultura, inizialmente sostenitore del classicismo, ispirato
alle opere dell'antichità greco-romana, ammirata tramite le letture e le
traduzioni di Mosco, Lucrezio, Epitteto, Luciano ed altri, approdò al
Romanticismo dopo la scoperta dei poeti romantici europei, quali Byron,
Shelley, Chateaubriand, Foscolo, divenendone un esponente principale, pur non
volendo mai definirsi romantico. Le sue posizioni materialistederivate
principalmente dall'Illuminismosi formarono invece sulla lettura di FILOSOFI come
il barone d'Holbach, VERRI e Condillac, a cui egli unisce però il proprio
pessimismo, originariamente probabile effetto di una grave patologia che lo
affliggeva ma sviluppatesi successivamente in un compiuto sistema filosofico. Muore
di edema polmonare o scompenso cardiaco, durante la grande epidemia di colera
di Napoli. Il dibattito sull'opera leopardiana, specialmente in relazione
al pensiero esistenzialista fra gli anni trenta e cinquanta, ha portato gli
esegeti ad approfondire l'analisi filosofica dei contenuti e significati dei
suoi testi. Per quanto resi specialmente nelle opere in prosa, essi trovano
precise corrispondenze a livello lirico in una linea unitaria di atteggiamento
esistenziale. Riflessione filosofica ed empito poetico fanno sì che Leopardi,
al pari di Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche e più tardi di Kafka, possa
essere visto come un esistenzialista o almeno un precursore
dell'Esistenzialismo. L. nacque a Recanati, nello Stato pontificio (oggi
in provincia di Macerata, nelle Marche), da una delle più nobili famiglie del
paese, primo di dieci figli. Quelli che arrivarono all'età adulta furono, oltre
a Giacomo, Carlo, Paolina, Luigi, e Pierfrancesco. I genitori erano cugini fra
di loro. Il padre, il conte Monaldo, figlio del conte Giacomo e della marchesa
Virginia Mosca di Pesaro, era uomo amante degli studi e d'idee reazionarie; la
madre, la marchesa Adelaide Antici, era una donna energica, molto religiosa
fino alla superstizione, legata alle convenzioni sociali e ad un concetto
profondo di dignità della famiglia, motivo di sofferenza per il giovane Giacomo
che non ricevette tutto l'affetto di cui sentiva il bisogno. In
conseguenza di alcune speculazioni azzardate fatte dal marito, la marchesa
prese in mano un patrimonio familiare fortemente indebitato, riuscendo a
rimetterlo in sesto solo grazie a una rigida economia domestica. La rigidità della
madre, contrastante con la tenerezza del padre, i sacrifici economici e i
pregiudizi nobiliari pesarono sul giovane Giacomo. Fino al termine
dell'infanzia Giacomo crebbe comunque allegro, giocando volentieri con i suoi
fratelli, soprattutto con Carlo e Paolina che erano più vicini a lui d'età e
che amava intrattenere con racconti ricchi di fervida fantasia. La
formazione giovanile La casa natale Ricevette la prima educazione, come
da tradizione familiare, da due precettori, Torres e Sanchini che influirono
sulla sua prima formazione con metodi improntati alla scuola gesuitica. Tali
metodi erano incentrati non solo sullo studio del latino, della teologia e
della filosofia, ma anche su una formazione scientifica di buon livello
contenutistico e metodologico. Nel Museo leopardiano a Recanati è conservato,
infatti, il frontespizio di un trattatello sulla chimica, composto insieme al
fratello Carlo. I momenti significativi delle sue attività di studio, che si
svolgono all'interno del nucleo familiare, sono da rintracciare nei saggi
finali, nei componimenti letterari da donare al padre in occasione delle feste
natalizie, la stesura di quaderni molto ordinati ed accurati e qualche
composizione di carattere religioso da recitare in occasione della riunione della
Congregazione dei nobili. Il ruolo avuto dai precettori non impedì,
comunque, al giovane Leopardi di intraprendere un suo personale percorso di
studi avvalendosi della biblioteca paterna molto fornita (oltre ventimila
volumi) e di altre biblioteche recanatesi, come quella degli Antici, dei
Roberti e probabilmente da quella di Vogel, esule in Italia in seguito alla
Rivoluzione francese e giunto a Recanati come membro onorario della cattedrale
della cittadina. Compone il sonetto intitolato La morte di Ettore che, come lui
stesso scrive nell'Indice delle produzioni di me L. è da considerarsi una composizione.
Da questi anni ha inizio la produzione di tutti quegli scritti chiamati
puerili. La produzione dei puerili Puerili e abbozzi vari Il corpus delle
opere cosiddette puerili dimostra come il giovane Leopardi sapesse scrivere in
latino fin dall'età di nove-dieci anni e padroneggiare i metodi di
versificazione italiana in voga nel Settecento, come la metrica barbara di
Fantoni, oltre ad avere una passione per le burle in versi dirette al precettore
e ai fratelli. Iniziò lo studio della filosofia e due anni dopo, come sintesi
della sua formazione giovanile, scrisse le Dissertazioni filosofiche che
riguardano argomenti di logica, filosofia, morale, fisica teorica e
sperimentale (astronomia, gravitazione, idrodinamica, teoria dell'elettricità,
eccetera). Tra queste è nota la Dissertazione sopra l'anima delle bestie. Con
la presentazione pubblica del suo saggio di studi che discusse davanti ad
esaminatori di vari ordini religiosi ed al vescovo, si può far concludere il
periodo della sua prima formazione che è soprattutto di tipo sei-settecentesco
ed evidenzia l'amore per l'erudizione oltre che uno spiccato gusto arcadico. Si
immerse totalmente in uno "studio matto e disperatissimo" espressione
da lui stesso coniata, che assorbì tutte le sue energie e che recò gravi danni
alla sua salute. Apprese perfettamente il latino (sebbene si considerasse
sempre "poco inclinato a tradurre" da questa lingua in italiano) e,
senza l'aiuto di maestri, il greco. Seppure in modo più sommario apprese anche
altre lingue: l'ebraico, il francese, l'inglese, lo spagnolo e il tedesco
(nello Zibaldone si trovano inoltre cenni ad altre lingue antiche, come il
sanscrito). Nel frattempo cessa la formazione dell'abate Sanchini, il quale
ritenne inutile continuare la formazione del giovane che ne sapeva ormai più di
lui. Risalgono a questi anni la Storia dell'astronomia, il Saggio sopra gli
errori popolari degli antichi, diversi discorsi su scrittori classici, alcune
traduzioni poetiche, alcuni versi e tre tragedie, mai rappresentate durante la
sua vita, La virtù indiana, Pompeo in Egitto e Maria Antonietta (rimasta
incompiuta). Per quanto riguarda la compilazione della Storia dell'astronomia
Leopardi si avvalse di numerose fonti: il testo di base fu sicuramente la
Storia dell’astronomia di Bailly, ridotta in compendio dal signor Francesco
Milizia, a partire dalle Histoires del celebre astronomo francese Jean Sylvain
Bailly. L'opera termina con la scoperta del pianeta Urano da parte di Herschel.
Invece il lavoro di Leopardi presenta ulteriori aggiornamenti, come ad esempio
la scoperta di Cerere, Pallade, Giunone e della cometa. Per l'elaborazione del
suo testo, L. fece uso, anche, dell’Abrégé d’astronomie di Jérôme Lalande
(presente nella biblioteca di casa L.), del Dictionnaire de Physique di
Aimé-Henri Paulian e delle storie di matematica inserite nel Tacquet e nel
Wolff. Inoltre Leopardi adoperò diverse opere generali come la Storia della
letteratura italiana di Tiraboschi, gli Scrittori d’Italia di Mazzuchelli e
varie raccolte biografiche di alcuni ordini religiosi: Wadding per i
francescani, Quétif e Échard per i domenicani e così via. L'elenco di questi
testi dimostra l’erudizione raggiunta dal giovane Leopardi. Nella Storia
dell'astronomia Leopardi lasciò anche trasparire i limiti del suo interesse per
la matematica. Nulla, probabilmente sapeva a proposito dei logaritmi (ai quali
invece il Bailly-Milizia aveva dedicato due pagine illustratrici), e
sull'argomento si limitò a scrivere che «Enrico Briggs avendo udita la
invenzione de’ logaritmi fatta da Neper» aveva pubblicato un’opera al riguardo.
Probabilmente infatti Leopardi non studiò mai i logaritmi, così come si arrestò
alla geometria cartesiana e al calcolo differenziale. Iniziò nello stesso periodo anche le prime
pubblicazioni e lavorò alle traduzioni dal latino e dal greco, dimostrando
sempre di più il suo interesse per l'attività filologica. Sono questi anche gli
anni dedicati alle traduzioni dal latino e dal greco, corredate di discorsi
introduttivi e di note, tra i quali gli Scherzi epigrammatici, tradotti dal
greco e pubblicati in occasione delle nozze Santacroce-Torre da Frattini di
Reca, la Batracomiomachia e pubblicata su «Lo Spettatore italiano», gli idilli
di Mosco, il Saggio di traduzioni dell'Odissea, la Traduzione del libro secondo
dell'Eneide, il Moretum (un poemetto pseudo-virgiliano), e la Titanomachia di
Esiodo, pubblicata su «Lo Spettatore italiano». La conversione letteraria:
dall'erudizione al bello Tra Si avverte in Leopardi un forte cambiamento,
frutto di una profonda crisi spirituale, che lo porterà ad abbandonare
l'erudizione per dedicarsi alla poesia. Egli si rivolge, pertanto, ai classici
non più come ad arido materiale adatto a considerazioni filologiche, ma come a
modelli di poesia da studiare. Seguiranno le letture di autori moderni come
Alfieri, Parini,Foscolo e Vincenzo Monti, che serviranno a maturare la sua
sensibilità romantica. Ben presto egli legge I dolori del giovane Werther di
Goethe, le opere di Chateaubriand, di Byron, di Madame de Staël. In questo modo
L. inizia a liberarsi dall'educazione paterna accademica e sterile, a rendersi
conto della ristrettezza della cultura recanatese ed a porre le basi per
liberarsi dai condizionamenti familiari. Appartengono a questo periodo alcune
poesie significative come Le Rimembranze, L'Appressamento della morte e l'Inno
a Nettuno, nonché la celebre e non pubblicata Lettera ai compilatori della Biblioteca
Italiana, indirizzata ai redattori della rivista milanese, in risposta alla
lettera Sulla maniera e utilità delle traduzioni di Madame de Staël, apparsa
sul primo numero, nel gennaio dello stesso anno. Destinato dal padre alla
carriera ecclesiastica per la sua fragile salute, rifiuterà di intraprendere
questa strada. Fu colpito da alcuni seri problemi fisici di tipo reumatico e
disagi psicologici che egli attribuì almeno in partecome la presunta
scoliosiall'eccessivo studio, isolamento ed immobilità in posizioni scomode
delle lunghe giornate passate nella biblioteca di Monaldo. La malattia esordì
con affezione polmonare e febbre e in seguito gli causò la deviazione della
spina dorsale (da cui la doppia "gobba"), con dolore e conseguenti
problemi cardiaci, circolatori, gastrointestinali (forse colite ulcerosa o
malattia di Crohn) e respiratori (asma e tosse), una crescita stentata,
problemi neurologici alle gambe (debolezza, parestesia con freddo intenso),
alle braccia ed alla vista, disturbi disparati e stanchezza continua. Era
convinto di essere sul punto di morire. Il marchese Filippo Solari di Loreto
scrive poco dopo a Monaldo L.i: «L'ho lasciato sano e dritto, lo trovo dopo
cinque anni consunto e scontorto, con avanti e dietro qualcosa di veramente orribile.»
Egli stesso si ispira a questi seri problemi di salute, di cui parlerà anche a
Giordani, per la lunga cantica L'appressamento della morte e, anni dopo, per Le
ricordanze, in cui ripensa a questo e definisce la sua malattia come un
"cieco malor", cioè un male di non chiara origine, che gli fa pensare
al suicidio assieme all'angusto ambiente: «Mi sedetti colà su la fontana /
Pensoso di cessar dentro quell'acque la speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
malor, condotto della vita in forse, piansi la bella giovanezza, e il fiore de'
miei poveri dì, che sì per tempo cadeva. L'ipotesi più accreditata per lungo tempo
(diffusa e sostenuta da medici di Recanati e da Citati) è che Leopardi
soffrisse della malattia di Pott (gli studiosi scartano la diagnosi dell'epoca,
più volte riproposta anche nel Novecento, di una normale scoliosi dell'età
evolutiva), cioè tubercolosi ossea o spondilite tubercolare, oppure dalla
spondilite anchilosante (secondo Sganzerla), una sindrome reumatica autoimmune
che porta a una progressiva ossificazione dei legamenti vertebrali con
deformazione e rigidità del rachide, uniti ad ampi disturbi infiammatori
sistemici, oculari e neurologici-compressivi in casi gravi, il tutto unitamente
a problemi nervosi. Alcune di queste sindromi hanno predisposizione genetica,
derivabile dal matrimonio tra consanguinei dei genitori. Tutti i fratelli L.
furono deboli di salute, con l'eccezione di Carlo, forse però sterile, e
Paolina, la quale presentava solo una leggera asimmetria del viso. Citati
afferma che avesse anche dei disturbi urinari e di probabile impotenza, e
sarebbero stati questi, più che l'aspetto fisico (a cui poteva ovviare essendo
un nobile benestante) la causa del suo rapporto difficile con le donne e la
sessualità. Nel decennio seguente l'apparire dei disturbi, alcuni medici
fiorentini, come altri medici consultati in gioventù, a parte la deformità
fisica asserirannoprobabilmente in maniera erroneache numerosi disturbi del
Leopardi erano dovuti a neurastenia di origine psicologica (sempre in questo
periodo comincia a soffrire di crisi depressive che taluni attribuiscono
all'impatto psicologico della malattia fisica), come lui stesso a tratti
sostenne, anche contro il parere di numerosi dottori. «Ma io non aveva
appena vent’anni, quando da quella infermità di nervi e di viscere, che
privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel mio solo bene
mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta, mi è stato
tolto del tutto, e credo oramai per sempre.» (Lettera dedicatoria dei Canti,
agli amici di Toscana) Secondo il neurologo Sganzerla, propositore della tesi
sulla spondilite al posto della tubercolosi, L. non mostrava invece alcun segno
di vera depressione psicotica, sfatando il mito sostenuto da Citati e dai
lombrosiani come Patrizi e Sergi. Queste patologie comunque, se non
condizionarono il suo pensiero in maniera diretta (come ribadito spesso da L.),
influenzarono comunque il suo pessimismo filosofico e lo spinsero a indagare le
cause della sofferenza umana e il significato della vita da una prospettiva
originale, divenendo, come affermato dal critico Sebastiano Timpanaro, "un
formidabile strumento conoscitivo". Dopo il primo passo verso il
distacco dall'ambiente giovanile e con la maturazione di una nuova ideologia e
sensibilità che lo portò a scoprire il bello in senso non arcaico, ma neoclassico,
si annuncia quel passaggio dalla poesia di immaginazione degli antichi alla
poesia sentimentale che il poeta definì l'unica ricca di riflessioni e
convincimenti filosofici. E per Leopardi, che giunto alle soglie dei diciannove
anni aveva avvertito, in tutta la sua intensità, il peso dei suoi mali e della
condizione infelice che ne derivava, un anno decisivo che determinò nel suo
animo profondi mutamenti. Consapevole ormai del suo desiderio di gloria ed
insofferente dell'angusto confine in cui, fino a quel momento, era stato
costretto a vivere, sentì l'urgente desiderio di uscire, in qualche modo,
dall'ambiente recanatese. Gli avvenimenti seguenti incideranno sulla sua vita e
sulla sua attività intellettuale in modo determinante. In questo periodo è
anche la prima formulazione della "teoria del piacere", una
concezione filosofica postulata da Leopardi nel corso della sua vita. La
maggior parte della teorizzazione di tale concezione è contenuta nello
Zibaldone, in cui il poeta cerca di esporre in modo organico la sua visione
delle passioni umane. Il lavoro di sviluppo del pensiero leopardiano in questi
termini avviene. Scrisve al classicista Giordani che aveva letto la traduzione
leopardiana del II libro dell'Eneide e, avendo compreso la grandezza del
giovane, lo aveva incoraggiato. Ebbero inizio così una fitta corrispondenza ed
un rapporto di amicizia che durerà nel tempo. In una delle prime lettere
scritte al nuovo amico, il giovane Leopardi sfogherà il suo malessere non con
atteggiamento remissivo, ma polemico ed aggressive. Mi ritengono un ragazzo, e
i più ci aggiungono i titoli di saccentuzzo, di filosofo, di eremita, e che so
io. Di maniera che s'io m'arrischio di confortare chicchessia a comprare un
libro, o mi risponde con una risata, o mi si mette in sul serio e mi dice che
non è più quel tempo. Unico divertimento in Recanati è lo studio: unico
divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia» Egli vuole
uscire da quel "centro dell'inciviltà e dell'ignoranza europea"
perché sa che al di fuori c'è quella vita alla quale egli si è preparato ad
inserirsi con impegno e con studio profondo. Fissa le prime osservazioni
all'interno di un diario di pensiero che prenderà poi il nome di Zibaldone, in
dicembre si innamorerà della cugina, provando per la prima volta il sentimento
d'amore. Pietro Giordani riconosce l'abilità di scrittura di Leopardi e lo
incita a dedicarsi alla scrittura; inoltre lo presenta all'ambiente del
periodico «Biblioteca Italiana» e lo fa partecipare al dibattito culturale tra
classicisti e romantici. L. difende la cultura classica e ringrazia Dio di aver
incontrato Giordani che reputa l'unica persona che riesce a comprenderlo. Il
primo amore «Oimè, se quest'è amor, com'ei travaglia!» (Il primo amore,
v.3) Geltrude Cassi Lazzari con i figli, illustrazione di Chiarini per la
Vita di Giacomo Leopardi. Inizia a compilare lo Zibaldone, nel quale registrerà
le sue riflessioni, le note filologiche e gli spunti di opere. Lesse la vita di
Alfieri e compilò il sonetto "Letta la vita scritta da esso" che
toccava i temi della gloria e della fama. Un altro avvenimento lo colpì
profondamente: l'incontro, nel dicembre dello stesso anno, con Geltrude Cassi
Lazzari, una cugina di Monaldo, che fu ospite presso la famiglia per alcuni
giorni e per la quale provò un amore inespresso. Scrisse in questa occasione il
"Diario del primo amore" e l'"Elegia I" che verrà in
seguito inclusa nei "Canti" con il titolo "Il primo amore".
La posizione di Leopardi verso il Romanticismo, che stava suscitando in quegli
anni forti polemiche ed aveva ispirato la pubblicazione del Conciliatore, va
maturando e se ne possono avvertire le tracce in numerosi passi dello Zibaldone
ed in due saggi, la Lettera ai Sigg. compilatori della "Biblioteca
italiana", in risposta a quella di Madama la baronessa di Staël, ed il
Discorso di un italiano attorno alla poesia romantica, scritto in risposta alle
Osservazioni di Di Breme sul Giaurro di Byron. Le due opere mostrano
l'avversione, sul piano più strettamente concettuale, al Romanticismo. La
posizione di Leopardi rimane fondamentalmente montiana e neoclassica. Tuttavia,
come si vedrà, quello che professava sulla pagina critica si rivelerà, poi,
profondamente diverso dai risultati ottenuti nella poesia dove i temi e lo
spirito saranno, invece, perfettamente in sintonia con la mentalità romantica. Aveva,
intanto, scritto le due canzoni ispirate a motivi patriottici All'Italia e
Sopra il monumento di Dante che stanno ad attestare il suo spirito liberale e
la sua adesione a quel tipo di letteratura di impegno civile che aveva appreso
dal Giordani. Il suo materialismo ateo si pone in contrapposizione al
Romanticismo cattolico predominante, dal quale lo separavano notevolmente anche
il suo rifiuto di ogni speranza di progresso nella conquista della libertà
politica e dell'unità nazionale, la sua mancanza di interesse per una visione
storicistica del passato e per le esigenze di popolarità e di realismo nei
contenuti e nella lingua. E il naufragar m'è dolce in questo mare.» (L.,
L'infinito. Si riacutizzarono i problemi agli occhi.Tra il luglio e l'agosto
progettò la fuga e cercò di procurarsi un passaporto per il Lombardo-Veneto, da
un amico di famiglia, il conte Ajano, ma il padre lo venne a sapere e il
progetto di fuga fallì. Fu nei mesi di depressione che seguirono che il L.
elaborò le prime basi della sua filosofia e, riflettendo sulla vanità delle
speranze e l'ineluttabilità del dolore, scoprì la nullità delle cose e del
dolore stesso. Iniziò intanto la composizione di quei canti che verranno in
seguito pubblicati con il titolo di Idilli e scrisse L'infinito, La sera del dì
di festa, Alla luna (originariamente, i titoli di queste ultime erano La sera
del giorno festivo e La ricordanza), La vita solitaria, Il sogno, Lo spavento
notturno. Sono i cosiddetti "primi idilli" o "piccoli
idilli". Qui confluirono i rimpianti per la giovinezza perduta e la presa
di coscienza dell'impossibilità di essere felici. Ottenne dai genitori il
permesso di recarsi a Roma, dove rimase dal novembre all'aprile dell'anno
successivo, ospite dello zio materno, Carlo Antici. A L. Roma apparve squallida
e modesta al confronto con l'immagine idealizzata che egli si era figurata
studiando i classici. Lo colpirono la corruzione della Curia e l'alto numero di
prostitute che gli fece abbandonare l'immagine idealizzata della donna, come
scrive in una lettera al fratello Carlo. Rimase invece entusiasta della tomba
di Torquato Tasso, al quale si sentiva accomunato dall'innata infelicità (verso
il Tasso, che renderà protagonista di una delle Operette morali, sarà debitore
a livello stilistico e nella scelta di alcuni nomi più famosi dei suoi
componimenti, come Nerina e Silvia, tratti dall'Aminta). Nell'ambiente
culturale romano Leopardi visse isolato e frequentò solamente studiosi
stranieri, tra cui i filologi Christian Bunsen (poi ministro del regno di
Prussia e fondatore dell'Istituto di Archeologia a Roma) e Niebuhr;
quest'ultimo si interessò per farlo entrare nella carriera dell'amministrazione
pontificia, ma L. rifiutò. Ritorna a Recanati dopo aver constatato che il mondo
al di fuori di esso non era quello sperato. Tornato a Recanati, L. si dedicò
alle canzoni di contenuto filosofico o dottrinale compose buona parte delle
Operette morali. Lontano da Recanati: Milano, Bologna, Firenze, Pisa. Il poeta,
invitato dall'editore Antonio Fortunato Stella, si recò a Milano con l'incarico
di dirigere l'edizione completa delle opere di Cicerone ed altre edizioni di
classici latini e italiani. A Milano, però, egli non rimase a lungo perché il
clima gli era dannoso alla salute e l'ambiente culturale, troppo polarizzato
intorno al Monti, gli recava noia. Ritratto di Leopardi a metà degli anni '30,
da alcuni indicato come una realistica proto-fotografia, probabilmente una
riproduzione in eliografia (o altri tipi) di un'incisione; in alternativa
realizzata con la tecnica della camera oscura da artista: tramite bulino oppure
immagine fissata secondo il metodo di Joseph Nicéphore Niépce (sali d'argento o
bitume e lunga esposizione). Recanati, casa L.. Decise, così, di trasferirsi a
Bologna dove visse (al numero 33 di via Santo Stefano), tranne una breve
permanenza a Reca mantenendosi con l'assegno mensile dello Stella e dando
lezioni private. Nell'ambiente bolognese Leopardi conobbe il conte Carlo
Pepoli, patriota e letterato, al quale dedicò un'epistola in versi intitolata
Al conte Carlo Pepoli che lesse nell'Accademia dei Felsinei. Nell'autunno
iniziò a compilare, per ordine di Stella, una "Crestomazia",
antologia di prosatori italiani dal Trecento al Settecento alla quale fece
seguito una "Crestomazia" poetica. A Bologna conobbe anche la
contessa Teresa Carniani Malvezzi, della quale si innamorò senza essere
corrisposto. Leopardi frequentò i Malvezzi per quasi un anno, ma poi la donna
lo allontanò spinta anche dal marito, mal tollerante del fatto che il poeta si
trattenesse con la moglie fino alla mezzanotte.Leopardi si sfoga in una lettera
ad un corrispondente, usando parole molto dure verso di lei. Uscivano intanto
presso Stella le sue Operette morali. Frequentò anche la casa del medico
Giacomo Tommasini e strinse amicizia con la moglie Antonietta, patriota, e la
figlia Adelaide (coniugata Maestri), sue ammiratrici,con la famiglia Brighenti
e la cantante modenese Rosa Simonazzi Padovani. Leopardi in un ritratto postumo
del 1845 (olio su tavola), commissionato da Antonio Ranieri al giovane pittore
Domenico Morelli sulla base della maschera mortuaria, del ritratto di L. sul
letto di morte di Angelini e delle descrizioni fisiche fatte da Ranieri, da
Paolina, sorella di quest'ultimo; Morelli vi lavorò per molto tempo, a causa
delle insistenze di Ranieri sui particolari, ma alla fine il quadro venne
ritenuto, dal Ranieri stesso e da altri testimoni, come il più fedele e
realistico dei ritratti di Leopardi, con l'aspetto che aveva verso la fine
della sua vita, soprattutto nei tratti del volto, oltre che il vestiario e
l'acconciatura che portava negli anni napoletani; i critici hanno però
argomentato che sia un ritratto comunque "idealizzato", in quanto Morelli
non vide mai Leopardi dal vivo, ma solo nella maschera mortuaria in gesso e nei
ritratti eseguiti da altri. Nel giugno dello stesso anno si trasferì a Firenze,
dove conobbe il gruppo di letterati appartenenti al circolo Vieusseux tra i
quali Capponi, Niccolini (amico e corrispondente di Foscolo allora esiliato a
Londra), Colletta, Tommaseo ed anche Manzoni, che si trovava a Firenze per
rivedere dal punto di vista linguistico i suoi Promessi Sposi. Divenne amico
particolarmente del Colletta, ma fu in buoni rapporti anche con Capponi e
Manzoni, sebbene quest'ultimo non condividesse le idee di L. Fu invece
conflittuale il rapporto col Tommaseo, cattolico liberale, ma fortemente
avverso al razionalismo ed al materialismo, il quale giunse a provare una forte
avversione per Leopardi, attaccandolo ripetutamente su vari giornali (anche se
riconosceva l'abilità stilistica nella prosa); Tommaseo arrivò a denigrare
Leopardi per il suo aspetto fisico (cosa che farà, però solo in lettere private
rivolte ad altri, anche il Capponi stesso irritato per la Palinodia). Leopardi
risponderà nel 1836 con un epigramma diretto contro Tommaseo, oltre che
nell'ottava strofa della detta Palinodia. Al marchese Gino Capponi. Si recò a
Pisa, dove rimase. Qui strinse un'affettuosa amicizia con la giovane cognata
del padrone del pensionato, Teresa Lucignani, a cui dedica una breve lirica
rimasta a lungo inedita. Grazie all'inverno mite, la sua salute migliorò e
Leopardi tornò alla poesia, che tace (con l'eccezione della poco riuscita
epistola in versi Al conte Carlo Pepoli e del Coro di lo studio di Ruysch
contenuto nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie delle Operette
morali); compose la canzonetta in strofe metastasiane Il Risorgimento e il
canto A Silvia (figura forse ispirata, secondo i critici che si basano su
appunti dello Zibaldone e dichiarazioni del fratello Carlo, alla figlia del
cocchiere di Monaldo, morta giovane, Fattorini), inaugurando il periodo
creativo detto dei Canti "pisano-recanatesi", chiamati anche
"grandi idilli", in cui il poeta si cimenta nella cosiddetta canzone
libera o leopardiana, il cui primo sperimentatore era stato Alessandro Guidi,
dalla cui lettura ne era venuto a conoscenza. Vaghe stelle dell'orsa, io non
credea tornare ancor per uso a contemplarvi» (Le ricordanze) Il periodo
di benessere era finito ed il poeta, colpito nuovamente dalle sofferenze e
dall'aggravarsi del disturbo agli occhi, fu costretto a sciogliere il contratto
con Stella e già durante l'estate del '28 si recò a Firenze nella speranza di
riuscire a vivere in modo indipendente. Chiese aiuto ad alcuni amici:
Tommasini,il più bello, gli propose una cattedra di Mineralogia e Zoologia a
Milano, ma il compenso era troppo basso e la materia poco consona alle
conoscenze di Leopardi; Bunsen gli offrì la possibilità di una cattedra a Bonn
o Berlino, ma il poeta dovette subito declinare l'invito, poiché il clima
tedesco era troppo rigido e freddo per la sua salute malferma. Leopardi allora
progettò di mantenersi con un lavoro qualsiasi, ma le sue condizioni di salute
non gli permisero nemmeno questo e fu quindi costretto a ritornare a Recanati,
dove rimase. In questi «sedici mesi di notte orribile. Si dedica nuovamente
alla poesia e scrisse alcune delle sue liriche più importanti, tra cui Le
ricordanze (la cui ultima parte è dedicata ad una giovane recanatese morta poco
prima, Maria Belardinelli, da L. chiamata Nerina), La quiete dopo la tempesta,
Il sabato del villaggio, Il passero solitario (forse su un abbozzo giovanile) e
il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Queste poesie, a lungo
denominate dai critici "grandi idilli" o anche "secondi
idilli", sono ora conosciute, insieme ad A Silvia anche come "canti
pisano-recanatesi". In questo
periodo l'insofferenza per la sua città natale, da lui definita "natio
borgo selvaggio", aumenta, proporzionalmente all'avversione per i
recanatesi (gente zotica, vil), che lo ritenevano un intellettuale superbo, tanto
che anche i ragazzini del paese, secondo testimonianze postume, cantavano in
sua presenza canzoncine denigranti del tipo: "Gobbus esto fammi un
canestro, fammelo cupo gobbo fottuto. A Firenze dal Perì l'inganno estremo,
ch'eterno io mi credei.» (A se stesso). Fanny Targioni Tozzetti Intanto, il
Colletta, al quale il poeta scriveva della sua vita infelice, gli offrì, grazie
ad una sottoscrizione degli "amici di Toscana", l'opportunità di
tornare a Firenze, dove fu eletto socio dell'Accademia della Crusca. Per
mantenersi accettò la sottoscrizione e progettò un giornale che avrebbe curato
quasi da solo, Lo spettatore fiorentino, ma che non realizzerà a causa della
burocrazia e del timore della censura. A Firenze cura un'edizione dei
"Canti", partecipò ai convegni dei liberali fiorentini e strinse
infine una salda amicizia col giovane esule napoletano Antonio Ranieri, futuro
senatore del Regno d'Italia, che durerà fino alla morte. Grazie alla fama di
personalità liberale, fu eletto deputato dell'assemblea del governo provvisorio
di Bologna (sorto dai moti), su designazione del Pubblico Consiglio di
Recanati, ma non fa in tempo ad accettare la nomina (peraltro mai richiesta)
che gli austriaci restaurano il governo pontificio. I genitori decidono infine
di concedergli un modesto assegno mensile che gli permette di sopravvivere;
Leopardi accetta ma, reputandolo umiliante, decide di non tornare mai più a
Recanati. Risale sempre a questo periodo la forte passione amorosa per Fanny
Targioni Tozzetti (terzo e ultimo amore secondo i biografi, dopo la Cassi
Lazzari e la Malvezzi), moglie del medico fiorentino Antonio Targioni Tozzetti
e forse amante di Ranieri, conclusasi in una delusione, che gli ispirò il
cosiddetto "ciclo di Aspasia", una raccolta di poesie che contiene:
Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo (in cui l'amore è visto ancora
positivamente), la drammatica e scarna A se stesso e Aspasia. In questa
raccolta si manifestò il Leopardi più disilluso e disperato, orfano anche di
quella tristezza nostalgica degli Idilli, nella perdita dell'ultima illusione
che gli era rimasta, quella dell'amore (l'inganno estremo).[108] Aspasia,
seppur piena di rancore e sarcasmo contro Fanny, è considerata l'unica poesia
d'amore (seppur per un amore ormai finito) scritta per una donna che egli
frequentò realmente e intimamente, anche se solo in maniera romantica e
intellettiva (per parte di lui; lei lo descrisse sempre come un amico e dopo la
morte come una persona "disgraziata" a cui non voleva dare alcuna
illusione); tuttavia nei primi versi, contenenti la descrizione fisica e
caratteriale della Targioni, presentata come una "donna fatale", si
nota anche una tensione erotica molto rara in Leopardi, il quale ribadisce
ripetutamente il fascino esteriore esercitato dalla nobildonna. L'identificazione
della donna con l'Aspasia poetica è data, più che dalle lettere di Leopardi,
dalle affermazioni di Ranieri nei Sette anni di sodalizio e da alcune lettere
tra lui e la Targioni Tozzetti. Tuttavia, se Aspasia accenna anche a toni
polemici e misogini, in cui Leopardi si dice felice di essersi perlomeno
liberato della dipendenza affettiva verso l'amica, che descrive quasi come un
servilismo morale di cui si vergogna, un giogo ormai spezzato, in una lettera a
Fanny dei primi tempi si scorgono invece le riflessioni sull'amore e la morte
del periodo, che trovano l'esatta corrispondenza con alcuni versi di Consalvo e
con Amore e morte: «E pure certamente l'amore e la morte sono le sole cose
belle che ha il mondo, e le sole solissime degne di essere desiderate.
Pensiamo, se l'amore fa l'uomo infelice, che faranno le altre cose che non sono
né belle né degne dell'uomo. Ranieri da Bologna mi aveva chiesto più volte le
vostre nuove: gli spedii la vostra letterina subito ierlaltro. Addio, bella e
graziosa Fanny. Appena ardisco pregarvi di comandarmi, sapendo che non posso
nulla. Ma se, come si dice, il desiderio e la volontà danno valore, potete
stimarmi attissimo ad ubbidirvi. Ricordatemi alle bambine, e credetemi sempre
vostro.» (Lettera da Roma) «Due cose belle ha il mondo: / amore e morte.
All'una il ciel mi guida / in sul fior dell'età; nell'altro, assai / fortunato
mi tengo.» (Consalvo) Lo spostamento del Consalvo nei Canti molto
precedenti al ciclo, avvenuto dall'edizione napoletana, ha fatto pensare che il
personaggio di Elvira sia ispirato anche a Teresa Carniani Malvezzi e non solo
a Fanny. Per circa 4 anni frequenta molto spesso casa Targioni, cercando di
avvicinarsi alla padrona di casa procurandole moltissimi autografi di scrittori
e personaggi famosi, che lei collezionava. In questo periodo Leopardi diviene
amico anche della contessa Carlotta Lenzoni de' Medici di Ottajano, affascinata
dalla grandezza intellettuale del poeta e conosciuta nel 1827, ma poi se ne
allontanò. Secondo un'opinione minoritaria, la donna descritta negativamente
come Aspasia sarebbe stata la Lenzoni. Si reca a Roma con Ranieri per ritornare
a Firenze e nel corso di questo anno scrisse i due ultimi dialoghi delle
"Operette", Il Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un
passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico. Continuò a corrispondere
epistolarmente per un periodo con la Targioni Tozzetti, seppure in maniera più
fredda e distaccata. Quando Ranieri tornò a Napoli, tra i due iniziò una fitta
corrispondenza che ha fatto a taluni ritenere che tra Leopardi e Ranieri vi
fosse un rapporto amoroso. Pietro Citati però precisa che si sarebbe trattato
di un semplice e intenso affetto "platonico" assai diffuso nel XIX
secolo, senza traccia di omosessualità, come quello rivolto a suo tempo al
Giordani. In una di queste lettere il poeta scrive a Ranieri: Antonio
Ranieri, tra gli anni '40 e '60 «Ranieri mio, tu non mi abbandonerai però mai,
né ti raffredderai nell'amarmi. Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi
desidero ardentemente che tu provvegga prima d'ogni cosa al tuo benessere; ma
qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo che noi viviamo l'uno
per l'altro, o almeno io per te, sola ed ultima mia speranza. Addio, anima mia.
Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sarà
eternamente tuo. Dopo aver ottenuto il modesto assegno dalla famiglia, partì
per Napoli con Ranieri sperando che il clima mite di quella città potesse
giovare alla sua salute. Sugli anni a Napoli, Ranieri dichiarò: «Quivi
Leopardi, mentre che io, lasciatone il mio antico letto, dormiva in una camera
non mia (cosa che, nelle consuetudini del paese, massime in quei tempi, toccava
quasi lo scandalo), per dormire accanto a lui, ebbe, una notte, la strana
allucinazione, che la signora di casa avesse fatto disegno sopra una sua
cassetta, nella quale egli non riponeva mai altro che non nettissimi arnesi da
ravviare i capelli, e le cesoie. Pare infatti che la padrona di casa volesse
cacciarli, per timore che Leopardi fosse portatore di tubercolosi polmonare
infettiva e lui stesso sosteneva, invece, che la donna volesse rubargli oggetti
di sua proprietà, mentre Ranieri credeva che soffrisse di paranoie, e non ci
faceva caso. Ricevette visita da August von Platen, che nel suo diario scrisse.
«Leopardi ist klein und bucklicht, sein Gesicht bleich und leidend er den Tag
zur Nacht macht und umgekehrt führt er allerdings ein trauriges Leben. Bei näherer Bekanntschaft verschwindet
jedoch alles die Feinheit seiner klassischen Bildung und das Gemütliche seines
Wesens nehmen für ihn ein. Leopardi
è piccolo e gobbo, il viso ha pallido e sofferente fa del giorno notte e
viceversa conduce una delle più miserevoli vite che si possano immaginare.
Tuttavia, conoscendolo più da vicino la finezza della sua educazione classica e
la cordialità del suo fare dispongon l'animo in suo favore. Busto del
poeta presente a Villa Doria d'Angri Intanto le Operette morali subirono una
nuova censura da parte delle autorità borboniche, a cui seguirà la messa
all'Indice dei libri proibiti dopo la censura pontificia, a causa delle idee
materialiste esposte in alcuni "dialoghi". Leopardi così ne parlava
in una lettera a Sinner: «La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e
qui e in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno
eternamente tutto». Durante gli anni trascorsi a Napoli si dedicò alla stesura
dei Pensieri, che raccolse probabilmente riprendendo molti appunti già scritti
nello Zibaldone, e riprese i Paralipomeni della Batracomiomachia che, iniziati
nel 1831, aveva interrotto. A quest'ultima opera lavorò, assistito dal Ranieri,
fino agli ultimi giorni di vita. Di quest'opera incompiuta, in ottave,
ampiamente influenzata sia dallo pseudo Omero della Batracomiomachia, (che già
Leopardi aveva tradotta in gioventù, e di cui continua la trama) che dal poema
Gli animali parlanti di Giovanni Battista Casti, rimane autografo il solo primo
canto. Ranieri affermò sempre che gli altri, di sua mano, furono scritti sotto
dettatura del Leopardi. Le ultime ottave sarebbero state dettate da Leopardi
morente poco dopo aver terminato l'ultima poesia, Il tramonto della luna.
Qualche dubbio può nascere, se si pensa che Ranieri investì soldi dopo la morte
del poeta per farli pubblicare come autentici, con poco successo finanziario. Quando
a Napoli scoppiò l'epidemia di colera, Leopardi si recò con Ranieri e la
sorella di questi, Paolina, nella Villa Ferrigni a Torre del Greco, dove rimase
dall'estate di quell'anno al febbraio del 1837 e dove scrisse La ginestra o il
fiore del deserto. Paolina Ranieri assisterà, personalmente e con profondo
affetto, Leopardi nei suoi ultimi anni, all'aggravamento delle sue condizioni
fisiche. Paolina e l'unica donna che lo amò, sebbene si trattasse di un amore
fraterno. A Napoli Leopardi lavora incessantemente, nonostante la salute in
peggioramento, componendo varie liriche e satire; non segue le raccomandazioni
dei medici, e conduce una vita abbastanza sregolata per una persona dalla
salute fragile come la sua: dorme di giorno, si alza al pomeriggio e sta
sveglio la notte, mangia molti dolci (particolarmente sorbetti e gelati),
talvolta frequenta la mensa pubblica (anche durante il periodo del colera) e beve
moltissimi caffè. La morte Leopardi sul letto di morte, ritratto a matita
di Tito Angelini, anch'esso simile alla maschera mortuaria e quindi molto
realistico e verosimile In Campania egli compose gli ultimi Canti La ginestra o
il fiore del deserto (il suo testamento poetico, nel quale si coglie
l'invocazione ad una fraterna solidarietà contro l'oppressione della natura) e
Il tramonto della luna (compiuto solo poche ore prima di morire). Progettava
anche di tornare a Recanati, per vedere il padre, o partire per la Francia. Leopardi
aveva infatti intenzione di riconciliarsi umanamente col padre di persona (il
tono delle lettere a Monaldo diventa molto affettuoso negli ultimi tempi, dal
formale e nobiliare "signor padre" e al voi delle lettere giovanili
passa all'incipit "carissimo papà" e al tu). In questo periodo
cominciò ad ignorare le prescrizioni, pensando che non potesse comunque
decidere il suo destino. In una lettera al conte Leopardi, una delle ultime di
Giacomo, il poeta avverte la morte come imminente e spera che avvenga, non sopportando
più i suoi mali. Ritorna a Napoli con Ranieri e la sorella, ma le sue
condizioni si aggravarono verso maggio, anche se non in modo tale da far
sospettare ai medici o a Ranieri il reale stato di salute. L. si sentì
male al termine di un pranzo (che abitualmente consumava all'inconsueto orario
delle 17); quel mattino, aveva mangiato circa un chilo e mezzo di confetti
cannellini comprati da Paolina Ranieri in occasione dell'onomastico di Antonio
e bevuto una cioccolata, poi una minestra calda e una limonata (o granita
fredda) verso sera. Fu colpito da malore
poco prima di partire per Villa Carafa d'Andria Ferrigni, come era stato
programmato, e nonostante l'intervento del medico l'asma peggiorò e poche ore
dopo il poeta morì. Secondo la testimonianza di Antonio Ranieri, Leopardi si
spense alle ore 21 fra le sue braccia. Le sue ultime parole furono "Addio,
Totonno, non veggo più luce". La morte fu dichiarata all'ufficio dello
stato civile il giorno successivo da Giuseppe e Lucio Ranieri, i quali fecero
registrare l'indirizzo del decesso (vico Pero 2, nel territorio della
parrocchia della SS. Annunziata a Fonseca) e indicarono che il fatto era avvenuto
"alle ore venti". Tre giorni dopo il decesso, Antonio Ranieri
pubblicò un necrologio sul giornale Il Progresso. La morte del poeta è stata
analizzata da studiosi di medicina già a partire dall'inizio del XX secolo.
Molte sono state le ipotesi, dalla più accreditata, pericardite acuta con
conseguente scompenso, oppure scompenso cardiorespiratorio dovuto a cuore polmonare
e cardiomiopatia, seguite a problemi polmonari e reumatici cronici, a quelle
più fantasiose[146], fino al colera stesso.Nessuna delle tesi alternative,
tuttavia, è riuscita a smentire il referto ufficiale, diffuso dall'amico Antonio
Ranieri: idropisia polmonare ("idropisia di cuore" o idropericardio),
il che è comunque verosimile, dati i suoi problemi respiratori, dovuti alla
deformazione della colonna vertebrale; è anche possibile che l'edema fosse una
delle conseguenze dei problemi cronici di cui soffriva, e che la causa
principale fosse un problema cardiaco, forse accelerata da una forma fulminante
di colera che avrebbe ucciso il debilitato Leopardi (che notoriamente soffriva
di disturbi cronici all'apparato gastrointestinale, i quali potevano mascherare
la gastroenterite colerosa) in poche ore. Leopardi era morto all'età di quasi
39 anni, in un periodo in cui il colera stava colpendo la città di Napoli.
Grazie ad Antonio Ranieri, che fece interessare della questione il ministro di
Polizia, le sue spogliequesta la versione accettata dalla maggioranza dei
biografinon furono gettate in una fossa comune, come le severe norme igieniche
richiedevano a causa dell'epidemia, ma inumate nella cripta e poi, dopo una
breve riesumazione alla presenza di Ranieri che volle anche aprire la cassa, nell'atrio
della chiesa di San Vitale Martire (oggi Chiesa del Buon Pastore), sulla via di
Pozzuoli presso Fuorigrotta. La lapide, spostata poi con la tomba, fu dettata
da Pietro Giordani: «Al conte Giacomo Leopardi recanatese filologo
ammirato fuori d'Italia scrittore di filosofia e di poesie altissimo da
paragonare solamente coi greci che finì di XXXIX anni la vita per continue
malattie miserissima fece Ranieri per sette anni fino all'estrema ora congiunto
all'amico adorato.” Il ministro avrebbe accettato la richiesta del Ranieri solo
dopo che un chirurgo, non il medico curante Mannella, ebbe eseguita una sorta
di sommaria autopsia per poter dichiarare che la morte non fu dovuta a colera.
In realtà fin dall'inizio il racconto di Ranieri era apparso pieno di
contraddizioni e molti furono i dubbi che avvolsero quanto egli aveva
dichiarato, anche perché le sue versioni furono molte e diverse a seconda
dell'interlocutore, facendo sospettare che il corpo del poeta fosse finito
nelle fosse comuni del cimitero delle Fontanelle, o in quello dei colerosi (o
nell'attiguo cimitero delle 366 Fosse), destinati in quel periodo ai morti per
colera o per altre cause, come attesta il registro delle sepolture della chiesa
della SS. Annunziata a Fonseca di Napoli (riportante la dicitura "cimitero
dei colerosi" e "sepolto id.") o addirittura occultate nella
casa di vico Pero, e che Ranieri avesse inscenato, per un motivo recondito, un
funerale a bara vuota, con la partecipazione dei suoi fratelli, del chirurgo e
di un parroco compiacente a cui avrebbe regalato dei pesci freschi.
La lapide originale, traslata nel parco Vergiliano Comunque, Ranieri
continuò ad affermare che le ossa erano nell'atrio della chiesa di S. Vitale e
che il certificato d'inumazione fosse un falso redatto dal parroco su richiesta
del ministro di Polizia, onde aggirare la legge sulle sepolture in tempo di
epidemia. Nel 1898 avvenne una prima ricognizione; secondo il senatore
Mariotti, smentito da altri, durante i lavori di restauro di alcuni anni prima,
un muratore ruppe inavvertitamente la cassa, danneggiata dalla troppa umidità,
frantumando le ossa e provocando la perdita di parte dei resti contenuti, forse
gettati nell'ossario comune o addirittura con i calcinacci, mescolando i resti
con altre ossa. La tomba di L. (Parco Vergiliano a Piedigrotta o Parco
della Tomba di Virgilio, Napoli). Alla presenza dei rappresentanti regi e del
comune di Napoli, venne effettuata la ricognizione ufficiale delle spoglie del
recanatese e nella cassa (in realtà un mobile adattato allo scopo clandestino
dai fratelli Ranieri), troppo piccola per contenere lo scheletro di un uomo con
doppia gibbosità, vennero rinvenuti soltanto frammenti d'ossa (tra cui residui
delle costole, delle vertebre recanti segni di deformità, e un femore sinistro
intero, forse troppo lungo per una persona di bassa statura, e un altro femore
a pezzi), una tavola di legno (con cui gli operai avevano tentato di riparare
il danno alla cassa), una scarpa col tacco e alcuni stracci, mentre nessuna
traccia vi era del cranio e del resto dello scheletro, per cui in seguito si
arrivò anche a formulare la teoria di un suo trafugamento da parte di studiosi
lombrosiani di frenologia amici del Ranieri. Nonostante i dubbi, la questione
venne ben presto chiusa; secondo l'incaricato professor Zuccarelli, era
plausibile che quelli fossero parte dei resti di Leopardi. Il medico parla
esplicitamente di aver rinvenuto una parte di rachide e una di sterno entrambe
deviate. Alcuni, pur pensando ad un'effettiva morte per colera, credettero
comunque che Ranieri fosse riuscito davvero nell'intento di salvare il corpo
dalla fossa comune corrompendo, se non il ministro, perlomeno dei funzionari
incaricati. La scarpa ritrovata, o quello che ne rimaneva, venne poi acquistata
dal tenore Beniamino Gigli, concittadino di Leopardi, e donata alla città di
Recanati. Dopo vari tentativi di traslare i presunti resti a Recanati o a
Firenze nella basilica di Santa Croce accanto a quelli di grandi italiani del
passato, la cassa, per volontà di Benito Mussolini che esaudì una richiesta
dell'Accademia d'Italia, venne con regio decreto di Vittorio Emanuele III che
ne stabiliva l'identificazione, riesumata di nuovo e spostata al Parco
Vergiliano a Piedigrotta (altrimenti detto Parco della tomba di Virgilio) nel
quartiere Mergellinail luogo fu dichiarato monumento nazionaledove tuttora
sorge appunto il secondo sepolcro del poeta, eretto quello stesso anno; nei
pressi venne traslata anche la lapide originale, mentre parte del monumento
venne portata a Recanati. Questa versione è quella sostenuta ufficialmente dal
Centro Nazionale Studi Leopardiani. Nel 2004 venne anche chiesta (da parte
dello studioso leonardiano Silvano Vinceti, che si è occupato anche della
riesumazione e identificazione dei resti di Caravaggio, Boiardo, Pico della
Mirandola e Monna Lisa) la terza riesumazione, onde verificare se quei pochi
resti fossero davvero di Leopardi tramite l'esame del DNA e del mtDNA,
comparato con quello degli attuali eredi dei conti L. (Vanni Leopardi e la
figlia Olimpia, discendenti diretti del fratello minore del poeta
Pierfrancesco) e dei marchesi Antici, ma la richiesta fu respinta, sia dalla
Soprintendenza sia dalla famiglia Leopardi (tramite la contessa Anna del
Pero-Leopardi, vedova del conte Pierfrancesco "Franco" Leopardi e
madre di Vanni). La posizione ufficiale della famiglia L. (esplicitata dal 1898
in poi) e della Fondazione Casa Leopardi da loro presieduta (presidente fino
al conte Vanni Leopardi) è invece che i
resti nel parco Vergiliano non siano comunque del poeta e Ranieri abbia
mentito, che il corpo si trovi alle Fontanelle e che quindi la riesumazione sia
inutile, occorrendo altresì rispettare la tomba-cenotafio lì situata. Un altro
membro della famiglia, chiamato anche lui Pierfrancesco, si è invece detto
disponibile. Tale esame non è stato finora autorizzato. «Cantare il dolore
fu per lui rimedio al dolore, cantare la disperazione salvezza dalla
disperazione, cantare l'infelicità fu per lui, e non per gioco di parole,
l'unica felicità. n quei canti veramente divini il Leopardi trasformò
l'angoscia in contemplativa dolcezza, il lamento in musica soave, il rimpianto
dei giorni morti in visioni di splendore.» (Papini, Felicità di Giacomo
Leopardi) Il pensiero di Leopardi è caratterizzato, attraverso le fasi del suo
pessimismo, dall'ambivalenza tra l'aspetto lirico-ascetico della sua poetica,
che lo spinge a credere nelle «illusioni» e lusinghe della natura, e la
razionalità speculativo-teorica presente nelle sue riflessioni filosofiche, che
invece considera vane quelle illusioni, negando ad esse qualunque contenuto
ontologico. La contraddizione tra anelito alla vita e disillusione, tra
sentimento e ragione, tra filosofia del sì e filosofia del no, era del resto ben presente allo stesso
Leopardi, il quale, secondo Karl Vossler, si adoperò costantemente per
ricomporle, non rassegnandosi mai allo scetticismo, convinto che la vera
filosofia dovesse in ogni caso mantenere i legami con l'immaginazione e la
poesia. Come ha rilevato De Sanctis. Leopardi non crede al progresso, e te lo
fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni
l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. È
scettico e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men triste
per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t'infiamma a
nobili fatti. Francesco De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi,Luoghi leopardiani
A Recanati Targa della piazzuola del Sabato del Villaggio Palazzo L.: è
la casa natale del poeta. Tuttora il palazzo è abitato dai discendenti e aperto
al pubblico. Esso venne ristrutturato nelle forme attuali dall'architetto Carlo
Orazio Leopardi verso la metà del XVIII secolo. L'ambiente più suggestivo è
senza dubbio la biblioteca, che custodisce oltre 20.000 volumi, tra cui
incunaboli ed antichi volumi, raccolti dal padre del poeta, Monaldo Leopardi.
Piazzuola del Sabato del Villaggio: sulla quale si affaccia Palazzo Leopardi.
Ivi si trova la casa di Silvia e la chiesa di Santa Maria in Montemorello, nel
cui fonte battesimale fu battezzato Giacomo Leopardi nel 1798. Colle
dell'Infinito: è la sommità del Monte Tabor da cui si domina un panorama
vastissimo verso le montagne e che ispirò l'omonima poesia composta dal poeta a
soli 21 anni. All'interno del parco si trova il Centro Mondiale della Poesia e
della Cultura, sede di convegni, seminari, conferenze e manifestazioni
culturali. Il Colle dell'Infinito è diventato un Bene del Fai aperto a
tutti. Palazzo Antici-Mattei: casa della
madre di Leopardi, Adelaide Antici Mattei, edificio dalle linee semplici ed
eleganti con iscrizioni in latino. Torre del Passero Solitario: nel cortile del
chiostro di Sant'Agostino è visibile la torre, decapitata da un fulmine e resa
celebre dalla poesia Il passero solitario. Chiesa di San Leopardo (XIX secolo):
venne fatta edificare dalla famiglia Leopardi insieme e nei pressi della villa
affidando la progettazione all'architetto Gaetano Koch. La cripta, a cui si
accede esternamente, è la tomba gentilizia della famiglia Leopardi. Chiesa di
Santa Maria di Varano (XV secolo): costruita nel 1450 per i Minori Osservanti
insieme al Convento annesso, dal 1873, cacciati i frati e abbattuti due lati
del convento, l'orto divenne quello che ancora è il civico cimitero di
Recanati. Vi si conserva ancora il pozzo di San Giacomo della Marca ed
affreschi nelle lunette del portico. All'interno è la tomba di famiglia dei
Leopardi ove sono sepolti Monaldo e Paolina, Altrove Spoleto, Albergo della
Posta (corso Garibaldi), Palazzo Antici
Mattei (Roma, via Michelangelo Caetani), dove fu ospite.Roma, tomba del Tasso
in Sant'Onofrio al Gianicolo, "uno dei posti più belli della terra, in
mezzo agli aranci e ai lecci". Bologna ("ospitalissima"),
convento di San Francesco (piazza Malpighi), primo soggiorno bolognese. Casa
dell'editore Anton Fortunato Stella, vicino al Teatro alla Scala a Milano
("veramente insociale") (Casa Badini, vicino al teatro del Corso
(oggi via Santo Stefano, 33) a Bologna ("tutto è bello, e niente
magnifico"). Locanda della Pace, via del Corso, a Bologna, Ravenna (qui si
vive quietissimi), ospite del marchese Antonio Cavalli. Firenze,
"sporchissima e fetidissima città", Locanda della Fonte, nei pressi
del mercato del grano e di Palazzo Vecchio Targa sull'ultimo domicilio di
Leopardi a Napoli Casa delle sorelle Busdraghi, via del Fosso (oggi via Verdi),
Firenze. Palazzo Buondelmonti, abitazione di Giovan Pietro Vieusseux, a
Firenze. Pisa ("una beatitudine"), via Fagiuoli (casa Soderini). Il
Lungarno pisano ("spettacolo così ampio, così magnifico, così gaio, così
ridente, che innamora"). "Una certa strada deliziosa" da lui
battezzata "Via delle Rimembranze", dove va a passeggiare a Pisa
(lettera a Paolina Leopardi). Levane, Camucia e Perugia, di passaggio. Roma (città
oziosa, dissipata, senza metodo), via dei Condotti 81 (spendo qui un abisso),
con Ranieri. Napoli, piazza Ferdinando; poi Strada nuova di Santa Maria
Ognibene (casa Cammarota); poi vico Pero (tre appartamenti affittati con
Ranieri e la sorella di lui Paolina). Villa Ferrigni, detta villa delle
Ginestre, a Torre del Greco, alle pendici dello "sterminator Vesevo".
Opere di Giacomo L.. Copertina della prima edizione dello Zibaldone di
pensieri. Epistolario Di Giacomo Leopardi ci sono rimaste oltre novecento
lettere, composte nell'arco di una vita e indirizzate a circa cento
destinatari, tra amici e familiari (soprattutto al padre e al fratello Carlo).
L'intero corpus epistolare di Leopardi è raccolto dall'Epistolario, che
malgrado le origini si può leggere come un'opera autonoma: questa raccolta di
prose private, infatti, costituisce un fondamentale documento non solo per
seguire le vicende biografiche del poeta, ma anche per comprendere l'evoluzione
del suo pensiero, dei suoi stati d'animo e delle sue riflessioni culturali. L.
prese parte all'acceso dibattito culturale innescato dalla pubblicazione del
saggio Sulla maniera e utilità delle traduzioni di Madame de Staël: questa
polemica vide schierarsi da una parte i difensori del classicismo, quali Pietro
Giordani, e dall'altra i sostenitori della nuova poetica romantica.
Leopardi, amico del Giordani, si allineò alle tesi classiciste, mettendo per
iscritto il proprio pensiero nella Lettera ai compositori della Biblioteca
italiana e nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, rimasti
entrambi inediti sino al 1906. Nella prima Leopardi, pur riconoscendo la bontà
dell'intervento dell'autrice ginevrina, assume una posizione contraria alle
istanze della lettera, nella quale si invitava il popolo italiano ad aprirsi
alle nuove letterature europee. Secondo il poeta di Recanati, infatti, si
tratta di un «vanissimo consiglio», essendo la letteratura italiana quella più
vicina alle uniche letterature universalmente valide, ovvero quella greca e
quella latina. Nel Discorso, invece, Leopardi approfondì la sua riflessione
poetica in merito al dibattito, introducendo temi che poi diverranno centrali
della poesia leopardiana, come l'opposizione tra i concetti di «natura» e civilizzazione.
Zibaldone Lo Zibaldone di pensieri è una raccolta di 4526 pagine autografe nelle
quali Leopardi depositò ragionamenti e brevi scritti sugli argomenti più vari.
Inizialmente l'opera non era dotata dell'organicità di un testo letterario,
essendo semplicemente il frutto di una scrittura immediata, di getto: Leopardi
iniziò a datare i singoli testi solo a partire dal 1820, così da orientarsi
agevolmente nel mare magnum di appunti (da lui definiti un «immenso
scartafaccio»), arrivando perfino a stilare due indici. Il Discorso sopra lo
stato presente dei costumi degl'italiani Il Discorso sopra lo stato presente
dei costumi degl'italiani, composto a Recanati e rimasto inedito, è un breve
trattato filosofico dove Leopardi analizza le peculiarità che
contraddistinguono la società italiana, e le compara con il carattere, la
mentalità e la moralità delle altre nazioni d'Europa. Alla fine dell'opera
Leopardi giunge all'amara conclusione che l'Italia, dilaniata da un esasperato
individualismo, è troppo poco civile per godere dei benefici del progresso
(come in Francia, Germania ed Inghilterra), ma troppo civile per godere dei
benefici dello «stato di natura», come accadeva nelle nazioni meno sviluppate,
quali Portogallo, Spagna e Russia. Secondo manoscritto autografo dell'Infinito
Le Operette morali, per usare le parole dello stesso poeta, sono un «libro di
sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici»: è ancora Leopardi a
descrivere la propria opera in una lettera indirizzata all'editore Stella,
sottolineando «quel tuono ironico che regna in esse» e specificando che
Timandro ed Eleandro sono una specie di prefazione, ed un’apologia dell’opera
contro i filosofi moderni». Le Operette, oggi considerate la più alta
espressione del pensiero leopardiano, racchiudono l'essenza del pessimismo del
poeta, trattando argomenti quali la condizione esistenziale dell'uomo, la
tristezza, la gloria, la morte e l'indifferenza della Natura. I Canti,
considerati il capolavoro di Leopardi, racchiudono trentasei liriche composte
da Leopardi. Tra i componimenti poetici inclusi nei Canti ricordiamo Sopra il
monumento di Dante, l'Ultimo canto di Saffo, Il passero solitario, La sera del
dì di festa, Alla luna, A Silvia, il Canto notturno di un pastore errante
dell'Asia, Il sabato del villaggio, La ginestra e infine L'infinito, uno dei
testi più rappresentativi della poetica leopardiana. Le ultime opere
Durante gli anni napoletani Leopardi scrisse due opere, i Paralipomeni della
Batracomiomachia e I nuovi credenti. Il primo è un poemetto in ottave con
protagonisti animali: «Paralipomeni», infatti, significa «continuazione» mentre
Batracomiomachia è battaglia dei topi e delle rane, ovvero un'opera
pseudoomerica che Leopardi aveva tradotto in gioventù. Dietro la finzione
comica Leopardi qui stigmatizza il fallimento dei moti rivoluzionari
napoletani. I topi infatti, simboleggiano i liberali, generosi ma velleitari,
mentre le rane sono i conservatori papalini, che non esitano a chiamare a sé i
granchi-austriaci, feroci e stupidi. nuovi credenti, invece, sono un capitolo
satirico in terza rima dove Leopardi esprime una spietata satira contro gli
esponenti dello spiritualismo napoletano, dei quali condanna la religiosità di
facciata e lo sciocco ottimismo. Parole d'autore A Giacomo Leopardi si devono
numerosi neologismi divenuti patrimonio diffuso (perlomeno in un linguaggio
colto e sorvegliato), come "erompere", "fratricida",
"improbo", "incombere",Al suo tempo, questa vena creativa
di Leopardi non fu apprezzata e fu oggetto degli strali di un atteggiamento
purista che opponeva resistenze all'adozione, e all'accoglimento nei lessici,
di neologismi d'uso forgiati in epoca successiva all'«aureo Trecento» In un
caso, un frutto della sua creatività, "procombere", gli guadagnò
accuse postume mossegli da Niccolò Tommaseo, coautore del Dizionario della
lingua italiana. Poesia e musica A sé stesso, romanza, versi di Giacomo
Leopardi, musica di Francesco Paolo Frontini, Milano, Edizioni Ricordi.Coro di
morti, versi di G. Leopardi (dal Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie,
Operette morali), musica di Goffredo Petrassi, per coro e strumenti. Tre
liriche di Goffredo Petrassi, per baritono e pianoforte, testi di Leopardi,
Foscolo e Montale. Epistolario di Giacomo Leopardi. Leopardi nell'immaginario
collettivo Il fatto che l'opera di Leopardi sia stata e sia ogni anno oggetto
dello studio di migliaia di studenti ha determinato (come per Dante) che molte
locuzioni delle sue opere siano divenute d'uso corrente. Fra le
principali: studio matto e disperatissimo (in: lettera a Pietro Giordani e Zibaldone di pensieri); passata è la
tempesta... (in: La quiete dopo la tempesta, 1829); che fai tu, luna, in ciel?
dimmi, che fai... (in: Canto notturno di un pastore errante dell'Asia); natio
borgo selvaggio... (in: Le ricordanze); la donzelletta vien dalla campagna...
(in: Il sabato del villaggio); godi, fanciullo mio; stato soave... (in: Il
sabato del villaggio);...e naufragar m'è dolce in questo mare (in: L'infinito).
Il pittore e scultore maceratese Valeriano Trubbiani realizzò una serie di 12
pirografie sul tema Viaggi e transiti, dedicata ai viaggi del poeta nelle varie
città della penisola: Recanati, Macerata, Roma, Bologna, Pisa, Firenze, Milano,
Napoli. Tali opere sono esposte nel CARTCentro permanente per la
Documentazione dell'Arte Contemporanea di Falconara Marittima, che conserva
anche altre opere di Trubbiani dedicate a Leopardi: 10 disegni originali
realizzati sul tema "Leopardi figurativo", 8 incisioni a colori, una
scultura del 1990 in rame, bronzo e argento con il Poeta pensoso in
osservazione di un gregge di pecore (“Move la greggia oltre pel campo e vede
greggi”, ispirata al Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, un'installazione
scultorea sulla Batracomiomachia ("battaglia dei topi e delle rane")
ispirata ai Paralipomeni della Batracomiomachia leopardiani. L'ispirazione
prodotta in Trubbiani dall'opera leopardiana è raccontata dall'artista nel
breve documentario "Le Marche di Leopardi", patrocinato dalla Regione
Marche. Leopardi nella musica pop italiana Leopardi è citato nella
Canzone per Piero di Guccini e in Stai
bene lì di Renato Zero; i suoi versi sono citati anche nei titoli di Canto notturno
(di un pastore errante dell'aria) e Il cielo capovolto (ultimo canto di Saffo),
entrambe di Roberto Vecchioni. Giorgio Gaber, nella canzone
"Benvenuto il luogo dove", contenuto nell'album "Gaber" del
1984, dedicata all'Italia, parla della penisola come il luogo "dove i
poeti sono nati tutti a Recanati. Opere cinematografiche su Leopardi Dialogo di
un venditore di almanacchi e di un passeggiere, cortometraggio di Ermanno Olmi.
Pisa, donne e Leopardi (), mediometraggio di Roberto Merlino. L. è interpretato
da Orazio Cioffi; Il giovane favoloso, film di Mario Martone. Leopardi è interpretato
da Germano. Vari brani del film sono presenti nel programma
televisivo"Leopardi, il rivoluzionario" di Mancini, puntata della rubrica
"Il tempo e la storia"; "Le Marche di Leopardi", breve
documentario diretto da Alessandro Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche.
Video in rete su Leopardi "Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo
Mancini, puntata della rubrica televisiva "Il tempo e la storia" con
Massimo Bernardini e lo storico Lucio Villari; "Giacomo Leopardi e
l`importanza di Recanati", per Rai Storia, vita e opere di Giacomo
Leopardi nel commento del critico teatrale Guido Davico Bonino. L’attore
Umberto Ceriani legge: L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, La vita
solitaria; "Ecco il vero Colle dell'Infinito descritto da L."]:
Guzzini del Centro Studi Leopardiani mostra l'itinerario che il Poeta compiva
per recarsi dalla propria abitazione al punto di osservazione del paesaggio che
gli ispirò L'infinito; "Marche, le scoprirai all'infinito", spot
turistico della Regione Marche con il noto attore statunitense Dustin Hoffman
che tenta di recitare in italiano L'infinito. Regia di Giampiero Solari;
"A casa di Giacomo Leopardi", intervista di Pippo Baudo alla contessa
Olimpia Leopardi all'interno del Palazzo Leopardi di Recanati; "Un
Leopardi inedito" raccontato da Novella Bellucci e Franco D'Intino nella
puntata di "Visionari" programma televisivo condotto da Corrado
Augias su Rai 3. "L'arte di essere fragilicome Leopardi può salvarti la
vita", intervista allo scrittore Alessandro D'Avenia sul suo omonimo libro
e spettacolo teatrale. Inoltre, sono pubblicate in rete numerose
letture/interpretazioni dei principali canti leopardiani da parte dei più
importanti attori italiani. Fra questi si possono ascoltare: Gassman:
L'infinito, A Silvia, La sera del dì di festa, Amore e Morte, La quiete dopo la
tempest, A se stesso; Carmelo Bene: L'infinito, Passero solitario, La ginestra
(o Il fiore del deserto) Alla luna, La
sera del dì di festa, Il sabato del villaggio, Le ricordanze, Canto notturno di
un pastore errante dell'Asia, Inno ad Arimane, Amore e Morte; Foà: L'infinito,
Passero solitario, A Silvia, Il sabato del villaggio, La sera del dì di festa, Canto
notturno di un pastore errante dell'Asia, Le ricordanze, La ginestra (o Il
fiore del deserto), Il tramonto della luna, All'Italia, Alla luna; Giorgio
Albertazzi: L'infinito; Nando Gazzolo: L'infinito; Gabriele Lavia:
L'infinito, Lavia dice Leopardi; Alberto
Lupo: Ultimo canto di Saffo; Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di
Mario Martone: L'infinito], parte de La ginestra (o Il fiore del deserto) la
prima parte de La sera del dì di festa, un brano di Amore e Morte, l'ultima
parte di Aspasia. Leopardi "testimonial" della Regione Marche La
Regione Marche, dopo aver più volte utilizzato l'immagine del poeta recanatese
per la promozione turistica del proprio territorio ed anche della propria
offerta enological commissionò una discussa campagna pubblicitaria attraverso
un video, per la regia di Solari, trasmesso sui principali canali televisivi
italiani ed anche esteri, con protagonista il noto attore statunitense Dustin
Hoffman[236], già conoscitore delle Marche per aver interpretato ad Ascoli
Piceno il film di Germi "Alfredo, Alfredo", assieme ad una giovane Sandrelli.
Questa la descrizione della sceneggiatura dello spot per la promozione della
stagione turistica: «Un uomo legge una delle poesie più note della
letteratura italiano, l’Infinito di Giacomo Leopardi, la cui emozionalità è
strettamente legata alle visioni, alle luci, ai colori della terra marchigiana.
L’uomo legge la poesia camminando, cerca di capire e pronunciare bene la lingua
non stando fermo, dietro una scrivania, ma immergendosi nella terra che ha
visto nascere questo capolavoro; legge, riprova, si arrabbia, vuole
assolutamente penetrare la lingua, il sentimento di questa poesia, l’anima di
questa terra e riprova e riprova. Nel sottofondo le note sublimi del Tancredi
di Rossini, che accompagnano il silenzio di questa meditazione nuova che l’uomo
cerca per sé: l’uomo cerca emozioni, vuole fare un’esperienza nuova, e leggere
l’Infinito nelle Marche che l’hanno generato è un’esperienza nuova,
formidabile, ma difficile e faticosa. Ma ne vale la pena. Provare e alla fine
sorridere, la poesia è mia, le Marche sono la mia meta faticosamente
conosciuta, capita e raggiunta.» (dal comunicato stampa della Regione Marche)
Nello spot Hoffman tenta di recitare i versi dell'Infinito in un italiano
"condito" dal suo marcato accento californiano. Un accento tanto
forte e straniante da suscitare numerose critiche all'operato della Regione.
Tra queste, quella di Mina[239], che nella sua rubrica sulle pagine de "La
Stampa", ebbe a scrivere: «Leopardi bisogna meritarselo. Sarebbe
andato benissimo anche Oliver Hardy. Al quale, paradossalmente, in questa
demoralizzante «performance», mi sembra che assomigli. Non so come l'avrebbe
fatta Ollio. Non peggio, credo... Sentire la nostra potente, meravigliosa
lingua strapazzata dal pur bravo divo americano mi ha rigettato giù nella
nostra condizione di sempiterna colonia... il mondo della pubblicità è un mondo
di matti. A volte geniale, ma più spesso volgare e irrispettoso. Dustin
Hoffman, from Los Angeles, sarà pure un nome che tira, ma non li avevamo noi
degli attori al suo livello? E che parlano l’italiano? E che conoscono la
musica dell’andamento di un’esposizione poetica?» (Mina Mazzini) Al
contrario, l'operazione promozionale fu elogiata da Rienzo, linguista e critico
letterario, da Francesco Sabatini e Francesco Erspamer, rispettivamente
presidente onorario e presidente emerito dell’Accademia della Crusca;
quest'ultimo commentò lo spot con queste parole: «Sprovincializza la lingua
italiana» Comunque sia, lo scopo perseguito fu raggiunto: anche grazie alle
polemiche, la versione non definitiva del video della Regione Marche, inserito
su YouTube, totalizzò quasi 21.200 visualizzazioni in tutto il mondo solo nella
prima settimana. Visto il successo del, Dustin Hoffman fu confermato per
la campagna promozionale della stagione turistica. Niente più lettura dei versi
leopardiani, ma, come sottolineò Grasso sul "Corriere della Sera",
nella nuova edizione «il volto del testimonial diventa più importante
dell’oggetto da reclamizzare. Attraverso gli scatti di Bryan Adams, si snoda un
racconto tutto personale: i cinque sensi di Dustin Hoffman dichiarano infinito
amore per le suggestioni concrete che la regione riesce a offrire: la
gastronomia, l’arte, la musica, i vini e i paesaggi. Nella campagna
promozionale del Dustin Hoffman fu
sostituito dall'attore marchigiano Neri Marcorè. Continuò comunque
l'utilizzo a scopi promozionali dell'immagine di Leopardi: sull'onda del
successo del film "Il giovane favoloso", diretto dal registra Mario
Martone e interpretato dall'attore Germano, la Regione mise in campo una serie
di iniziative per promuovere la visione del film e di conseguenza del
territorio marchigiano che ne aveva ospitato le location, tra cui un
"movie-tour", consentito gratuitamente a tutti gli spettatori muniti
del biglietto del cinema. La Regione ha patrocinato la realizzazione di un
breve documentario, "Le Marche di Leopardi", diretto da Alessandro
Scilitani, nel quale l'assessore alla cultura dell'epoca tratteggiava il
riepilogo delle iniziative regionali per valorizzare la figura del poeta
recanatese. Seguono una breve biografia di Leopardi, con le immagini di
Recanati, e gli interventi di vari operatori culturali marchigiani che,
rifacendosi a veri o presunti collegamenti con la vita ed il pensiero del
Poeta, introducono ad altri importanti personaggi nati o presenti nella Regione
(Gioacchino Rossini, Antonio Canova, Terenzio Mamiani, Valeriano Trubbiani,
Osvaldo Licini), il tutto "condito" dalle musiche di musicisti
marchigiani (Giovan Battista Pergolesi, Gaspare Spontini) e da squarci
paesaggistici di varie località della regione.Opere biografiche su Leopardi
Giacomo Leopardi, Puerili e abbozzi vari, Bari, G. Laterza & f.i,Antonio
Ranieri, Sette anni di sodalizio con Leopardi, Milano-Napoli: Ricciardi, 1920;
poi Milano: Garzanti, (con una nota di Alberto Arbasino); Milano: Mursia
(Raffaella Bertazzoli); Milano: SE, Mario Picchi, Storie di casa Leopardi,
Milano: Camunia; poi Milano: Rizzoli, 1990 Renato Minore, Leopardi. L'infanzia,
le città, gli amori, Milano: Bompiani, Rolando Damiani, Album Leopardi, Milano:
Mondadori «I Meridiani», Attilio Brilli, In viaggio con Leopardi, Bologna:
Il Mulino, Rolando Damiani, All'apparir del vero. Vita di Giacomo Leopardi,
Milano: Mondadori «Oscar Saggi» Marcello D'Orta, All'apparir del vero: il
mistero della conversione e della morte di L., Piemme,. Pietro Citati,
Leopardi, Milano, Mondadori,. Il Centro Nazionale di Studi Leopardiani nel
primo centenario della morte del poeta, fu istituito a Reca Centro Nazionale di
Studi Leopardiani. Esso ha come scopo la promozione di ricerche e studi
su Giacomo Leopardi in campo storico, biografico, critico, linguistico, filologico,
artistico, filosofico. Roberto Tanoni, L'aspetto di Giacomo Leopardi, Effettivamente
il titolo di conte con cui Leopardi veniva talvolta appellato, e che egli
stesso usava, in quanto primogenito dei conti Leopardi, era un "titolo di
cortesia", in quanto il vero titolo nobiliare era ancora in capo a
Monaldo, finché fu in vita. Uno
sconosciuto: l'ateo filantropo barone d'Holbach, su elapsus. ). Giulio Ferroni, La poesia del dolore: Giacomo
Leopardi, su emsf.rai). Forse la
malattia di Pott o la spondilite anchilosante. Erik Pietro Sganzerla,
Malattia e morte di L.. Osservazioni critiche e nuova interpretazione
diagnostica con documenti inediti, Booktime,: «Questo libretto rende giustizia
a un uomo che soffriva di numerosi problemi fisici, che ebbe una vita non
felice e una cartella clinica in cui sono posti in evidenza i sintomi e il loro
decorso temporale, l’età d’esordio della progressiva deformità spinale e dei
problemi visivi e gastrointestinali, l’influenza delle condizioni psichiche e
ambientali nell’accentuazione o remissione dei segnali. altamente probabile la
diagnosi di Spondilite Anchilopoietica Giovanile»; viene poi sostenuto che
Leopardi «affetto da una pneumopatia restrittiva con insufficienza respiratoria
cronica, aggravata da episodi infettivi intercorrenti, sia morto per uno
scompenso cardiorespiratorio terminale in paziente affetto da cuore polmonare e
possibile miocardiopatia. Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, Che
dell'esser mio frale, qualche bene o contento avrà fors'altri; a me la vita è
male» (L., Canto notturno di un pastore errante dell'Asia) Renato Minore, Leopardi. L'infanzia, le città,
gli amori, Milano, Lettera di G. Leopardi (Recanati) a Pietro Colletta
(Livorno), ed atteso ancora che il patrimonio di casa mia, benché sia de'
maggiori di queste parti, è sommerso nei debiti. Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, Storia
della letteratura italiana. Milano L'Ottocento Zibaldone «Il Chimico italiano. Rossella Lalli, Si
spegne la contessa Leopardi, erede e custode della memoria del poeta, newnotizie,Scritti
vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, Firenze, successori Le
Monnier, Maria Corti in «Giacomo Leopardi. Tutti gli scritti inediti, rari e
editi», Milano, Bompiani 1972
Citati20-25. Cecchi, Sapegno, oGiuseppe
BonghiBiografia di L., su classicitaliani. Lettera a Pietro Giordani a Milano,
Recanati,in Epistolario di Giacomo Leopardi con le iscrizioni greche triopee da
lui tradotte e lettere di Pietro Giordani e Pietro Colletta all'Autore,
raccolto e ordinato da Prospero Viani,
I, Napoli, Lettera all'Avv. Pietro Brighenti a Bologna, Recanati, in
Epistolario di L. con le iscrizioni ecc. Il padre Monaldo lo vide parlare, con
sorpresa, in questa lingua con un rabbino di Ancona, secondo quanto riportato
dallo storico Lucio Villari nella trasmissione RAI Il tempo e la storia di
Massimo Bernardini (puntata "Leopardi, il rivoluzionario", 15 ottobre,
RaiTre-RaiStoria) Sarà la lingua
utilizzata nelle lettere allo Jacopssen
Il programma delle celebrazioni leopardiane, su giornale. regione. marche.
Il sanscrito nella teoria linguistica di Giacomo Leopardi, in Leopardi e l'Oriente.
Atti del Convegno Internazionale, Recanati a c. di F. Mignini, Macerata, Provincia di
Macerata, M. T. Borgato, L. Pepe, Leopardi e le scienze matematiche, 5-8. Aimé-Henri
Paulian su data.bnf.fr. Un episodio
della sua vita farà da spunto a una delle Operette morali, Il Parini ovvero
della gloria Cecchi, Sapegno, Spesso
nell'epistolario afferma di soffrire il freddo e di coprirsi le gambe con una
coperta di lana. C 33 esegg. Giuseppe Bortone, Il "morire
giovane" in L.i, su moscati..: "frequenti mi occorrono febbri
maligne, catarri e sputi di sangue…" scrive nel testo Alessandro Livi, giacomo leopardi, le
malattie ed i misteri sulla morte e sepoltura, alessandrolivistudiomedico,
Paolo Signore, Giacomo Leopardi: il genio di Recanati favoloso e malato, su
Rotari Club Fermo, «Di contenti,
d'angosce e di desio, / Morte chiamai più volte, e lungamente / Mi sedetti colà
su la fontana / Pensoso di cessar dentro quell'acque / La speme e il dolor mio.
Poscia, per cieco Malor, condotto della vita in forse, / Piansi la bella
giovanezza, e il fiore / De' miei poveri dì, che sì per tempo Cadeva: e spesso
all'ore tarde, assiso / Sul conscio letto, dolorosamente / Alla fioca lucerna
poetando, / Lamentai co' silenzi e con la notte / Il fuggitivo spirto, ed a me
stesso / In sul languir cantai funereo canto» (Le ricordanze, L. torrese, su
torreomnia. Giuseppe Sergi e Giovanni Pascoli furono i primi a ipotizzare la
malattia, "diagnosi" ripresa poi da Pietro Citati e altri, e
considerata probabile causa della deformità fisica e dei problemi di salute di
Leopardi anche da una ricerca scientifica condotta nel 2005 da due medici
pediatri recanatesi, Edoardo Bartolotta e Sergio Beccacece. Es. sindrome della cauda equina Alcuni propongono altre diagnosi: diabete
giovanile con retinopatia e neuropatia, tracoma oculare con sindrome di
Scheuermann alla schiena e disturbo bipolare, sindrome di Ehlers-Danlos di tipo
cifoscoliotico, rachitismo e neuropatia periferica originate da celiachia o
malassorbimento, sifilide congenita con tabe dorsale (Ranieri, negli anni
napoletani, arrivò a pensaresalvo poi smentireaffermando che Leopardi morì
vergine (cosa dibattuta), a pag. 99 di Sette anni di sodalizio con Giacomo
Leopardi che avesse contratto la sifilide o che l'avesse ereditata dal padre.
cfr. R. Di Ferdinando, L'amarezza del lauro. Storia clinica di Giacomo
Leopardi, Cappelli, Bologna, Con un'analisi postuma molto contestata poiché
basata sulle teorie pseudoscientifiche dell'antropologia criminale e della
frenologia, Cesare Lombroso e i suoi allievi Patrizi e Giuseppe Sergi
affermarono che Leopardi aveva l'epilessia, e avesse disturbi ereditari come
tutta la sua famiglia. Cfr.: M_ L_Patrizi.
Prof. M. L. Patrizi, Saggio psico-antropologico su L. e la sua famiglia,
Torino, Fratelli Bocca Editori, M_L_Patrizi. G. Chiarini, Vita di G.
Leopardi453. E. Galavotti, Letterati
italiani Lettera di Paolina Leopardi a G.P. Vieusseux, G. Leopardi, Lettera ad
Adelaide Maestri, Lettera ad Antonietta Tommasini, G. Leopardi, Zibaldone,
autografo, Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, cUn'analisi
critica del Discorso, insieme a un saggio sui Paralipomeni alla
Batracomiomachia si trova in: Riccardo Bonavita, Leopardi: Descrizione di una
battaglia, Nino Aragno Ed., Torino, Aldo Giudice, Giovanni Bruni, Problemi e
scrittori della letteratura italiana, 3,
tomo 1, Paravia, Cfr. pag. 118 del ms. dello Zibaldone, con pensiero. Dove
privato dell'uso della vista, e della continua distrazione della lettura,
cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più
tenebroso. Cecchi, Sapegno Lasciando da parte lo spirito e la letteratura, di
cui vi parlerò altra volta (avendo già conosciuto non pochi letterati di Roma),
mi ristringerò solamente alle donne, e alla fortuna che voi forse credete che
sia facile di far con esse nelle città grandi. V'assicuro che è propriamente
tutto il contrario. Al passeggio, in Chiesa, andando per le strade, non trovate
una befana che vi guardi. Trattando, è così difficile il fermare una donna in
Roma come a Recanati, anzi molto più, a cagione dell'eccessiva frivolezza e
dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un
interesse al mondo, sono piene d'ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi
non si sa come, non (omissis) (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà
che si provano negli altri paesi. Il tutto si riduce alle donne pubbliche, le
quali trovo ora che sono molto più circospette d'una volta, e in ogni modo sono
così pericolose come sapete.» Il passo omesso dalla pubblicazione
dell'epistolario venne censurato alla prima edizione ed è stato ripristinato
solo in edizioni recenti, come quella dei Meridiani, poiché troppo esplicito
("non la danno"); cfr. Il senso di Leopardi per la donna di città. Pierluigi
Panza, La casa di Silvia (amata da Leopardi) restaurata e aperta, in Corriere
della Sera L'eliografia, metodo di riproduzione messo a punto da Joseph
Nicéphore Niépce fu da questi usato per la prima fotografia (precedente di 13
anni il dagherrotipo). Bonghi, Biografia
di Leopardi, su classicitaliani. La donna nelle parole di Leopardi, su
casatea.com. Paolo Ruffilli, Introduzione alle Operette morali, Garzanti Citati 226 e segg. Bortolo Martinelli, Leopardi oggi: incontri
per il bicentenario della nascita del poeta: Brescia, Salò, Orzinuovi, Vita e
Pensiero, Fotografia della maschera
(JPG), Centro Nazionale di Studi Leopardiani Recanati. 1º gennaio (archiviato il 1º gennaio ). Donatella Donati, Leopardi a Napoli, Centro
nazionale di studi leopardiani Centro mondiale della poesia e della cultura
"G.Leopardi"Recanati Città della poesia, Per lui scrisse la celebre
Palinodia al marchese Gino Capponi
Niccolini era già stato l'ispiratore del personaggio di Lorenzo Alderani
delle Ultime lettere di Jacopo Ortis
«Ora bisogna che io scriva a quel maledetto gobbo, che s'è messo in capo
di coglionarmi» (Lettera di Gino Capponi a Gian Pietro Vieusseux) Una stroncatura per L. Archiviato in.; mentre fu più meditato e indulgente il
giudizio dato dal Capponi stesso, in tarda età, sulla poesia e su Leopardi
stesso. Introduzione alla Palinodia L., Epigramma contro il Tommaseo, su fregnani.
Giuseppe Bonghi, Analisi di "A Silvia", su classicitaliani.Carlo
Leopardi così ricordava, su ilgiardinodigiacomo. wordpress.com. Cfr. lettera di
G. Leopardi (Recanati) a Colletta (Livorno), in cui dichiara di aver percepito
venti scudi romani (diciannove fiorentini) al mese. Lettera aColletta dcome citato in Marco
Moneta, L'officina delle aporie: Leopardi e la riflessione sul male negli anni
dello Zibaldone, FrancoAngeli, Milano, in CitaTO Luperini, Cataldi, Marchiani,
La scrittura e l'interpretazione, Palermo, Palumbo, Le ricordanze, v. 30. Gente che m'odia e fugge, per invidia non
già, che non mi tiene maggior di sé, ma perché tale estima ch'io mi tenga in
cor mio, in Le ricordanze, Camillo Antona-Traversi, I genitori di Giacomo
Leopardi: scaramucce e battaglie, Recanati, A. Simboli, Cecchi, Sapegno. L., in
Catalogo degli Accademici, Accademia della Crusca. CNote ad Aspasia, nei Canti, edizione
Garzanti Donne fatali 2: Giacomo
Leopardi e Aspasia"Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando...",
su sulromanzo. "Tu vivi / bella non
solo ancor, ma bella tanto, / al parer mio, che tutte l'altre
avanzi"Aspasia, G. Sarra, Dizionario Biografico degli Italiani,
riferimenti e link in. Giovanni Mèstica,
Gli amori di G. Leopardi, in Fanfulla della domenica, (Fonte DBI). Altri ritengono che il canto
alluda piuttosto alla sola Fanny Targioni Tozzetti, tra questi, Giovanni Iorio
nel commento ai Canti, edizione Signorelli, Roma. Leopardi: dama invaghita del
poeta non fu ricambiata ma evitata, su adnkronos.com. 1M. de Rubris, Confidenze
di Massimo d'Azeglio. Dal carteggio con Tozzetti, Milano, Arnoldo Mondadori, Paolo
Abbate, La vita erotica di L., C.I. Edizioni, Napoli. Orto, Sempre caro mi fu,
pubblicato in "Babilonia" Robert Aldrich e Garry Wotherspoon, Who's
who in gay and lesbian history, 1, ad
vocem Leopardi gay? Vietato dirlo, su ricerca.
repubblica. Simone D'Andrea, Normalmente diverso, su L.. Epistolario,
BrioschiLandi, Sansoni Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con L., Garzanti,
Milano. D'Orta12. Cfr. anche la lettera di Stanislao Gatteschi a Monaldo Leopardi
in L. Epistolario, Brioschi Landi, Sansoni È stravagantissimo nelle
abitudini del vivere. Si leva verso le due pomeridiane, mangia ad orari
irregolari, va a letto verso il fare del giorno. La sua vita non può esser
longeva per i complicati mali onde è gravato." e Antonio Ranieri, Sette anni
di sodalizio con L., Garzanti, 1 "Durante tutta la sua vita, egli fece,
appresso a poco, della notte giorno, e viceversa." Traduzione in Michele Scherillo, Vita di
Giacomo Leopardi, Greco Editori, Milano, Epistolario, lettera. Leopardi e le
donne una storia tormentata, su ricerca.repubblica. Moro, Ranieri Paola (Paolina),
su treccani. 2 D'Orta25. L. Il poeta
della sofferenza, su archivio storico. corriere. Teorie alternative sulla morte
del conte L. sono state trattate e documentate negli studi condotti da Cesaro
(cfr. Sfrondando gli allori della poesia)
Lettera di Antonio Ranieri a Fanny Targioni-Tozzetti, Napoli Confronta
anche Citati, Leopardi, Mondadori,, Milano, Secondo originale dell'atto di
morte di L., su dl.antenati.san.beniculturali.
Il Progresso delle Scienze, delle Lettere e delle Arti, Napoli dalla Tipografia
Plautina, cfr. anche Notizia della morte
del Conte Giacomo Leopardi Angelo Fregnani Ad esempio cibo avariato,
congestione, coma diabetico o indigestione
Cenni storiciFu un'indigestione a causare la morte di Leopardi?, su
spaghettitaliani.com. Napoli e Leopardi, su ildelsud.org. Ecco i confetti che
uccisero Leopardi. Al Suor Orsola la collezione Ruggiero, su corrieredelmezzogiorno.corriere.
in Lettera di Ranieri a Fanny Targioni-Tozzetti, Napoli, 1 idem in Lettera di
A. R. a Monaldo Leopardi, Napoli, in Opere inedite di Giacomo Leopardi, G.
Cugnoni, I, Halle, Max Niemeyer Editore,
Nuovi documenti intorno alla vita e agli scritti di Giacomo Leopardi, G.
Piergili, Firenze, Le Monnier, in.;
"Idrotorace" in Lettera di A. R. a De Sinner, Napoli, idropisia di
petto" dice Paolina L. in una lettera a Marianna Brighenti Biografia sulla Treccani, su treccani. are
LB, Matthay MA. Acute pulmonary edema. N Engl J Med Giovanni Bonsignore, Bellia
Vincenzo, Malattie dell'apparato respiratorio terza edizione, Milano,
McGraw-Hill, Picchi, Storie di casa Leopardi, BUR, Dalla foto pubblicata qui,
su rete.comuni-italiani. Cfr. anche Effemeridi scientifiche e letterarie per la
Sicilia, Palermo, dalla tipografia di Filippo Solli, Opere di Pietro
Giordani, Scritti editi e postumi di
Pietro Giordani, VI, pubblicati da
Antonio Gussalli, Milano presso Francesco Sanvito, Riproduzione, che presenta
lieve variazione di testo, sotto forma di disegno in Opere di Giacomo Leopardi,
edizione accresciuta, ordinata e corretta secondo l'ultimo intendimento dell'autore,
da Antonio Ranieri, Firenze, Successori
Le Monnier, 1889, fuori testo Archiviato il 10 ottobre in..
Pasquale Stanzione, Giacomo LeopardiUna tomba vuota a Fuorigrotta, su
pasqualestanzione. Foto del Registro (JPG), su pasquale stanzione. Ingrandimento
(JPG), su pasqualestanzione.Nuove scoperte su Leopardi? Occorre cautela in. da
Cronache maceratesi Garofano, Gruppioni, Vinceti Delitti e misteri del
passato: Sei casi da RIS dall'agguato a Giulio Cesare all'omicidio di Pier
Paolo Pasolini, Rizzoli PIER FRANCESCO L.: SONO DISPONIBILE ALLA PROVA DEL DNA,
MA I RECANATESI SONO D’ACCORDO? Loretta
Marcon, Un giallo a Napoli. La seconda morte di L., Guida,,Ida Palisi,
Leopardi, strane ipotesi su morte e sepoltura, “Il Mattino di Napoli”,
recensione a: Loretta Marcon, Un giallo a Napoli. La seconda morte di Giacomo
Leopardi, Guida, Picchi, Storie di casa L. Si riporta anche il verbale
ufficiale delle persone presenti. E' vuota la tomba di Leopardi. Guerra
sulla riesumazione dei resti, su ricerca.repubblica. La Vita L., sito gestito dal CNSL Si torna a parlare dei resti di L., nato
comitato per l'esumazione dal sacello del parco Virgiliano di Napoli, su ilcittadinodirecanati.
Il ritratto della pinacoteca di Recanati, su cdn.studenti.stbm. In Opera Omnia,
Milano, Mondadori, Cfr. in proposito
anche gli studi che il filosofo Gentile ha dedicato a L., in particolare:
Manzoni e L.: saggi critici (Milano, Treves, Poesia e filosofia di Giacomo Leopardi
(Firenze, Sansoni). Paolo Emilio
Castagnola, Osservazioni intorno ai Pensieri di Giacomo Leopardi, pag. 26, Tipografia
del Mediatore, Gino Tellini, Filologia e storiografia. Da Tasso al
Novecento, Roma, Ed. di Storia e
Letteratura, Sebastian Neumeister, Giacomo Leopardi e la percezione estetica
del mondo Peter Lang, In Saggi critici, Russo,
Bari, Laterza Chiese e Santuari Comune di Recanati, su comune.recanati.mc. Per L., su pergiacomo leopardi.altervista.org.
Tutte le indicazioni su luoghi e viaggi sono prese da Attilio Brilli, In
viaggio con Leopardi, Il Mulino, Bologna Tra virgolette le parole di Leopardi,
tratte da sue lettere. Marta Sambugar, Gabriella Sarà, Visibile parlare,
da Leopardi a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Marta Sambugar, Gabriella Sarà,
Visibile parlare, da Leopardi a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Operette morali,
su internetculturale. Sambugar, Sarà, Visibile parlare, da Leopardi a
Ungaretti, Milano, RCS Libri, Marri, Neologismi Enciclopedia dell'Italiano (),
Istituto dell'Enciclopedia italiana.
Catalogo della mostra "Viaggi e transiti opere leopardiane di
Valeriano Trubbiani" realizzata in occasione dell'inaugurazione del Centro
culturale "Pergoli" di Falconara Marittima Comune di Falconara
Marittima, Aniballi Grafiche, Ancona, Vedi la scheda dedicata al CARTCentro
permanente per la Documentazione dell'Arte Contemporanea di Falconara Marittima
nel sito "La memoria dei luoghi" del Sistema Museale della Provincia
di Ancona: CARTCentro permanente per la documentazione dell'Arte contemporanea,
su Associazione "Sistema Museale della Provincia di Ancona".
"Le Marche di Leopardi", breve documentario diretto da Alessandro
Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche: youtube.com /watch?v= Km1EK0MH6Sg ascolta la canzone nel sito della Fondazione
Giorgio Gaber:// Giorgio gaber/ discografia-album/ benvenuto-il- luogo-dove-testo
Archiviato il 6 settembre in. vedi il testo dell'Operetta morale in Operette
_morali /Dialogo _di_ un_ venditore_ d%27 almanacchi_ e_di_un_passeggere. Il
corto metraggio di Ermanno Olmi Dialogo di un venditore di almanacchi e di un
passeggiere: youtube. com/ watch? v=hiJOBK JZNaU Il cortometraggio di Ermanno Olmi Dialogo di
un venditore di almanacchi e di un passeggiere è inoltre visibile all'interno
del programma "Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini,
puntata della rubrica televisiva di Rai Storia "Il tempo e la storia"
con Massimo Bernardini e lo storico Villari://raistoria.rai/ articoli/leopardi-
il-rivoluzionario/default.aspx "Leopardi, il rivoluzionario" di
Giancarlo Mancini, puntata della rubrica "Il tempo e la storia" con
Bernardini e lo storico Lucio Villari://raistoria.rai/ articoli/ leopardi -il-rivoluzionario/
default.aspx in. Rai Storia,
"Giacomo Leopardi e l`importanza di
Recanati"://raiscuola.rai/articoli/ giacomo-leopardi-parte-prima/3205/default.aspx
Archiviato l'8 settembre in. Nel sito web de "La Stampa",
Guzzini del Centro Studi Leopardiani
mostra l'itinerario che il Poeta compiva per recarsi dalla propria abitazione
al punto di osservazione del paesaggio che gli ispirò L'infinito:// lastampa//07/16/
multimedia/ societa/ viaggi/ecco-il-vero- colle-dellinfinito- descritto-da-giacomo-leopardi-fncjkba7
fEJyVoUSrazy1H/ pagina.html. Lo spot turistico sulle Marche con Dustin Hoffman
con la regia di Giampiero Solari: youtube."A casa di Giacomo L.",
intervista di Pippo Baudo alla contessa Olimpia Leopardi all'interno del
Palazzo Leopardi di Recanati: youtube. com/watch?v=oNlkBu0E "Un Leopardi inedito" raccontato da
Novella Bellucci e Franco D'Intino nella puntata di "Visionari" del
15 giugno, programma televisivo condotto da Augias su Rai 3: youtube. com/watch?
v=KwFnKv0T BaI Intervista allo scrittore
Alessandro D'Avenia sul suo libro e spettacolo teatrale “L'arte di essere
fragilicome Leopardi può salvarti la vita” nel sito di RepubblicaTv (): youtube.com/watch?v=oX
Gh3g6lQsM Vittorio Gassman interpreta
L'infinito, su youtube.com. Gassman interpreta A Silvia: youtube. com/watch?v=7hEbvxBi2ZQ Archiviato il
29 marzo in. Vittorio Gassman interpreta La sera del dì di
festa: youtube. com/watch?v=TPpCs6tws_U Gassman interpreta Amore e Morte: youtube
Gassman interpreta La quiete dopo la tempesta: youtube.com/watch?v=- 8jasZDrV2U
Gassman interpreta A se stesso: youtube .com/watch?v=F0lhF2s_5s4 Bene interpreta L'infinito: youtube.co Bene interpreta Passero solitario: youtube. com/
watch?v=IZz Qbnzpaok Carmelo Bene
interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube. com /watch?v=ZqzVXF3Fx4Y C. Bene interpreta Alla luna:
youtube.com/watch?v= v9Iria UNWQk Bene interpreta La sera del dì di festa:
youtube.com/ watch?v= qydGUiV1wwI Bene
interpreta Il sabato del villaggio: youtube.
com/watch?v=vI9PJfCtWw4 Carmelo Bene
interpreta Le ricordanze: youtube. com/watch ?v=jyB0eM9AOoM Bene interpreta Canto notturno di un pastore
errante dell'Asia: youtube Carmelo Bene interpreta Inno ad Arimane:
youtube.com/ watch?v=f2-QAubKbLE vedi su
Inno ad Arimane: Canti_ (superiori )# Le_ posizioni_ contro _ l.27 ottimismo _progressista
Archiviato in. leggi il testo di Inno ad Arimane
init.wikisource.org/wiki/ Puerili_(Leopardi) /Ad_Arimane Archiviato il 15
settembre in. Bene interpreta Amore e Morte:
youtube.com/watch?v=epYU4-n2jGw Foà
interpreta L'infinito: youtube Arnoldo Foà interpreta Passero solitario:
youtube.com/watch?v= nOr3Qbceuhg Foà interpreta
A Silvia: youtube Arnoldo Foà interpreta Il sabato del villaggio: youtube. com/watch?v=kmk_gd-48XE Foà interpreta La sera del dì di festa:
youtube. com/watch?v=a WOJfMZeCVo Foà
interpreta Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: youtube Arnoldo Foà
interpreta Le ricordanze: youtube.com /watch?v= hL 855FC_juA Foà interpreta La
ginestra (o Il fiore del deserto): youtube.com/ watch?v= zB nDqu8X5fk Arnoldo Foà interpreta Il tramonto della
luna: youtube Arnoldo Foà interpreta All'Italia: youtube. com/watch?v=iN HqhHiIqok Arnoldo Foà interpreta Alla luna: youtube. Com
/watch?v=oxzCzwR05WE Albertazzi interpreta L'infinito: youtube. com/watch?v= BLmhOx6IuCw Archiviato il 1º giugno in. Gazzolo interpreta L'infinito: youtube. com/watch?v=Te8tyDDsh2A
Lavia interpreta L'infinito: youtube.com/ watch?v=oSV7eBa-_Ao Lavia discetta sull'opera di Leopardi, prima
della "dizione" delle opere di Leopardi: youtube Alberto Lupo
interpreta Ultimo canto di Saffo: youtube Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di
M. Martone, interpreta L'infinito: youtube.com/watch?v=jIvz Qvi75rQ Germano, nel film Il giovane favoloso di
Martone, interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube IGHm4 Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di
M.n Martone, interpreta la pri ma parte de La sera del dì di festa:
youtube.com/watch?v NgI8uekF6H4 Germano,
nel film Il giovane favoloso di Mario Martone, interpreta un brano di Amore e
Morte: youtube Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario Martone,
interpreta l'ultima parte di Aspasia: youtube nito», su corriere,/ turismo.marche/
Portals/1/Leopardi/ Leopardi%2 0nel%20mondo.pd Il backstage dello spot
promozionale della Regione Marche con Dustin Hoffman ed il regista Giampiero
Solari: youtube.com/ watch?v=zi- UJTIBatM
La stroncatura di Mina allo spot della Regione Marche: you tube.co riportato
in: "Il cittadino di Recanati", Anche Mina nella sua rubrica su
"La Stampa" affonda lo spot con L'infinito, su ilcittadinodirecanati,
"Il Resto del Carlino" Ancona, "Leopardi bisogna
meritarselo" Mina critica lo spot della Regione, su ilrestodelcarlino,"Il
Resto del Carlino" Ancona, Spot di Hoffman, su YouTube 21 mila
visualizzazioni, su il resto del carlino, Dustin Hoffman ancora sponsor delle
Marche. Ma sembra lo spot di se stesso, su blitzquotidiano. 6 settembre (archiviato il 6 settembre ). vedi la serie di spot "Le Marche non ti
abbandonano mai" interpretati dall'attore marchigiano Neri Marcorè, con la
regia di Rovero Impiglia e Giacomo Cagnelli: youtube Marco Minnucci, La regione
Marche rispedisce Dustin Hoffman in America e pone fine allo stupro di L., su
qelsi, su Giacomo Leopardi. Edizioni
delle opere Giacomo Leopardi, [Opere. Poesia], Bari, G. Laterza, Epistolario
Epistolario di Giacomo Leopardi, Francesco Moroncini, Firenze: Le Monnier, Lettere,
Sergio Solmi e Raffaella Solmi, Milano-Napoli: Ricciardi, poi Torino: Einaudi
«Classici Ricciardi» Il Monarca delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e
Monaldo L., Graziella Pulce, introduzione di Giorgio Manganelli, Milano:
Adelphi «Biblioteca» Franco Brioschi e Patrizia Landi, Torino: Bollati
Boringhieri, Damiani, Milano: Arnoldo Mondadori Editore «I Meridiani», Zibaldone
Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Giosuè Carducci e altri,
Firenze: Le Monnier, Pensieri di varia filosofia, Ferdinando Santoro, Lanciano:
Carabba, Attraverso lo Zibaldone, Piccoli, Torino: Pomba scelto e annotato con introduzione e indice
analitico Giuseppe De Robertis, Firenze: Le Monnier, Il testamento letterario,
pensieri scelti, annotati e ordinati in sei capitoli da «La Ronda», Roma: La
Ronda, con prefazione e note di Flavio Colutta, Milano: Sonzogno, Opere, volume
III: Zibaldone scelto, Giuseppe De Robertis, Milano: Rizzoli, Francesco Flora, Milano: Mondadori, in
Antologia leopardiana: Canti, Operette morali, Pensieri, Zibaldone ed
Epistolario, Giuseppe Morpurgo, Torino: Lattes, in Opere, Sergio Solmi e
Raffaella Solmi, Milano-Napoli: Ricciardi, poi parzialmente Torino: Einaudi,
«Classici di Ricciardi», in Tutte le opere, introduzione e cura di Walter
Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Firenze: Sansoni); Moroni,
saggi introduttivi di Sergio Solmi e Giuseppe De Robertis, Milano: Mondadori
«Oscar» (con uno scritto di Giuseppe Ungaretti) e edizione fotografica
dell'autografo con gli indici e lo schedario, Emilio Peruzzi, Pisa: Scuola
normale superiore, Il testamento letterario, pensieri dello Zibaldone scelti
annotati e ordinati da Vincenzo Cardarelli, con una premessa di P. Buscaroli,
Torino: Fogoli, Pensieri anarchici scelti Francesco Biondolillo, Napoli:
Procaccini, edizione critica e annotata Giuseppe Pacella, Milano: Garzanti «I
Libri della Spiga», Damiani, Milano: Mondadori, «I Meridiani», Teoria del
piacere, scelta di pensieri con note, introduzione e postfazione di Vincenzo
Gueglio, Milano: Greco e Greco, edizione tematica stabilita sugli indici leopardiani,
Fabiana Cacciapuoti, prefazione di Antonio Prete, Roma: Donzelli Editore, Lucio
Felici, premessa di Emanuele Trevi, indici filologici di Marco Dondero, indice
tematico e analitico di Dondero e Wanda Marra, Roma: Newton Compton, «Mammut», Tutto
e nulla, antologia Mario Andrea Rigoni, Milano: Rizzoli «BUR», edizione critica
Fiorenza Ceragioli e Monica Ballerini, Bologna: Zanichelli, Canti con note per
cura di Francesco Moroncini, Leopardi, Giacomo, Canti: commentati da lui
stesso, Palermo: R. Sandron, Gallo e Garboli, Torino: Einaudi, Poesie e prose.
Poesie, Mario A. Rigoni, Milano: Mondadori «I Meridiani», n Tutte le poesie e
tutte le prose, Lucio Felici, Roma: Newton Compton, «Mammut», Canti e poesie
disperse, ed. critica Franco Gavazzeni (con C. AnimosiItalia, M.M. Lombardi, F.
Lucchesini, R. Pestarino, S. Rosini), Firenze: Accademia della Crusca, Giacomo
Leopardi, Canti, Bari, G. Laterza e Figli, Operette Morali L. Operette morali;
edizione critica di Francesco Moroncini, Bologna: Cappelli, 1929 introduzione
cura di Antonio Prete, Milano: Feltrinelli «Universale economica classici»,
Milano: Mursia, in Poesie e prose. Prose, Rolando Damiani, Milano: Mondadori
«Meridiani», in Tutte le poesie e tutte le prose, Emanuele Trevi, Roma: Newton
Compton, «Mammut», poi da sole nella
collana «GTE», Giacomo Leopardi, Operette morali, Bari, Laterza, Pensieri
Giacomo Leopardi, Pensieri, Bari, G. Laterza e Figli Edit. Tip., introduzione
cura di Antonio Prete, Milano: Feltrinelli «UEF classici», 1994 Crestomazia italiana
Giulio Bollati e G. Savoca, Torino: Einaudi, «Nuova Universale Einaudi», Memorie
del primo amore Cesare Galimberti, Milano: Adelphi, Epistolario di Giacomo L.
Leopardi (famiglia) Opere Pensiero e poetica di L. TreccaniEnciclopedie on
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Inc. L., su The Encyclopedia of Science Fiction. Giacomo Leopardi, in Dizionario biografico
degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. accademicidellacrusca.org, Accademia della
Crusca. L., su BeWeb, Conferenza
Episcopale Italiana. Opere di Giacomo
Leopardi, su Liber Liber. Opere di L.,
su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Progetto Gutenberg. Audiolibri di L., su
LibriVox. L., su Goodreads. italiana di
L., su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com.
Spartiti o libretti di Giacomo Leopardi, su International Music Score Library
Project, Project Petrucci LLC. Centro
nazionale di studi leopardiani Recanati, su centro studileopardiani. Classici
Italiani e opere complete interbooks.eu
Lo Zibaldone, su rodoni.ch. I canti di L. dai manoscritti autografi della
Biblioteca Nazionale di Napoli, su bnnonline. Il Pessimismo in Leopardi e
Schopenhauer [collegamento interrotto], su gheminga. Opere integrali in più
volumi dalla collana digitalizzata "Scrittori d'Italia" Laterza Opere
di Giacomo Leopardi, testi con concordanze, lista delle parole e lista di
frequenza Leopardi: Dialogo di un Fisico e di un Metafisico. Arte di prolungare
la vita o arte della felicità?, su giornaledifilosofia.net. Concordanze delle
Lettere su classicistranieri.com. Autobiografia (Monaldo Leopardi)/Monaldo
Leopardi, la satira a servizio della fede, su totustuus.biz. Nietzsche e
Leopardi a confronto, su agenziaimpronta.net. Leopardi ottimista: un mito del
Novecento, su cle.ens-lyon.fr 10 gennaio ). Angelini, "Sereno in L.",
su cesareangelini. Buonofiglio, "L'inquietudine ritmica dell'in(de)finito",
su academia.edu. Il primo di questi scritti usci nella Rassegna bibliografica
della letteratura italiana d’Ancona,. Il secondo nella Critica. Il
terzo nella stessa Critica. Tutti e tre furono riprodotti nei Frammenti
di Estetica e Letteratura, Lanciano, Carabba, Si ha alle stampe un’
Esposizione del sistema filosofico di Giacomo Leopardi *. E una
dissertazione di laurea, e reca infatti l’impronta comune a tutti i
lavori giovanili. L’inesperienza apparisce nello stesso titolo del libro,
un po’ troppo prosaico, e incongruo col contenuto del libro, che
non vuol essere propriamente un’esposizione fatta dall’autore del sistema
filosofico del Leopardi; ma appunto questo sistema, portato innanzi al lettore
con le stesse parole del Leopardi; non volendo l’autore da parte
sua aggiungervi se non prefazione, note ed epilogo. Metodo anche questo
alquanto ingenuo e da scrittore che non vede ancora la necessità, chi
voglia rappresentare nella sua unità logica e nell’organismo delle sue
parti il pensiero d’un filosofo, d’appropriarsi questo pensiero, entrarvi
dentro, mettendosi allo stesso punto di vista del filosofo, e quindi in
grado di rielaborare il suo pensiero, chiarendolo con le attinenze
storiche a cui è legato, e con le dilucidazioni intrinseche di cui
logicamente è suscettibile, salvo a mostrarne, ove occorra, la
inconsistenza: in modo che l’esposizione riesca una vita nuova del
sistema filosofico nella mente dell’espositore. GATTI, Esposizione del
sistema filosofico di L., saggio sullo Zibaldone” (Firenze, Le Monnier). Lavoro
difficile, certo, e che non riesce felicemente se non agli scrittori
provetti; ma che nessuno ordinaria¬ mente crede di potere schivare, se
non limiti il proprio ufficio a quello di semplice editore; e tutti ne
escono alla meglio, esponendo i vari sistemi come ciascuno li ha
intesi. L’autore di questo libro, invece, ha voluto mettere
insieme i passi dello Zibaldone leopardiano, mostrando come fil filo un
pensiero si svolgesse dall’altro; e dove la connessione non appariva
evidente nelle parole del testo, ha supplito di suo i legamenti
opportuni, ma continuando a parlare, in prima persona, a nome del Leopardi:
proprio come se questi avesse riordinata e organizzata quella copiosa congerie
di riflessioni già via via segnate sulla carta a schiarimento del proprio
pensiero e a sfogo della sua malinconia. Né ha lontanamente sospettato il
rischio, e stavo per dire la responsabilità, a cui andava incontro, facendo
parlare per la sua bocca lui, il Leopardi. Ha creduto che nello Zibaldone
stesse, pezzo per pezzo, tutto un sistema; e non ha saputo resistere al
seducente disegno d’innalzare, con la semplice composizione degli stessi
materiali leopardiani, la statua del filosofo sul piedestallo finora
vuoto. Laddove è chiaro che, se anche nei pensieri inediti del L. fosse
implicito un sistema perfetto di filosofia, la via di ritro- varvelo e
dimostrarvelo non poteva essere questa scelta dall’autore. Ma
veniamo all’argomento. L’autore, come già altri, ha creduto che, se le
opere edite ci avevan dato il Leopardi poeta, questi inediti Pensieri di varia
filosofia e di bella letteratura venuti ultimamente in luce, ci
scopris¬ sero il Leopardi filosofo. Questa era anche la tesi dello
Zumbini nel suo studio Attraverso lo Zilbaldone, da cui il nuovo studioso
manifestamente prende le mosse, distinguendo due fasi principali della
filosofia pessimistica del Leopardi: nella prima delle quali il dolore
sarebbe conseguenza della civiltà; nella seconda, della stessa
natura; donde prima una concezione storica del pessi- niismo, e poi una
concezione cosmica. Ma lo Zumbini non insisteva sul valore sistematico di
questa filosofia leopardiana; e, d’altra parte, nel secondo volume
dei suoi Studi su L., esaminando le Operette morali, veniva in
realtà a mostrare come tutto il succo di quelle riflessioni dello
Zibaldone, le conclusioni di quel lungo soliloquio che Leopardi aveva
fatto seco stesso per iscritto, fossero appunto condensate nelle
Operette. Gatti, invece, ha esagerato fuor di misura la tesi dello
Zumbini, cominciando col cancellare quelle differenze cronologiche, che
lo Zumbini aveva badato bene a mantenere tra i vari Pensieri (datati, com’ è
noto, dal L.) : cancellarle a disegno, per poter adoperare i singoli
pensieri liberamente come parti integranti d’un sistema logico. Ora, lo
Zibaldone comprende centinaia e centinaia di pensieri annotati come si
formavano giorno per giorno nella mente del Leopardi attraverso ben (juindici
anni periodo lungo per ogni vita, lunghissimo per quella del Leopai'di,
che in 39 anni forse non visse meno che il Manzoni in 78. Esso è anzi il
diario degli anni in cui si svolse la vita morale del poeta, e
offre perciò, com’ è stato notato, un riscontro a tutti i sentimenti, a
tutti i pensieri già noti dai canti e dalle prose da lui stesso
pubblicate. Ed è chiaro che, se in questi sette volumi abbiamo, per dir
così, i segreti documenti di tutto il lavorìo intimo di quello spirito,
non potremo apprezzarli nel loro giusto valore, se prescindiamo
dalle loro rispettive date; perché a chi scrive ogni giorno le
proprie riflessioni, la verità è quasi la verità di quel giorno: e quel
lavoro di sistemazione e organizzazione, per cui di tutti i pensieri
slegati si possa fare un tutto coerente, manca. Gentile, ifa»
2 ont e Leopardi. Il Gatti protesta che non va imputato a sua «poca
accortezza qualche salto anacronico, a dir così, facile a rilevarsi, che
qua e là avvicinerà pensieri cronologicamente molto lontani fra loro ». E
la sua ragione sarebbe questa : «Tali salti, mentre da un lato ci
forniscono ancora una prova evidentissima e incontrastabile della
profonda ripugnanza.... provata dal Leopardi per una concezione cosmica
del dolore, rivelano nettamente, d’altronde, il proposito nell’Autore di
rifare spesso a ritroso coll’ im¬ maginazione la via già percorsa dal
pensiero allo scopo di viemmeglio assicurarsi che non battesse falsa
strada, e così riprendere, sempre jiiù sicuro di sé, il cammino,
allorché quella linea immaginaria d’orientamento non gli avrà mostrata
altra via da battere per giungere alla mèta prefìssa». Cioè, se ho capito
bene; a dilucidazione di pensieri anteriori il Gatti stima di poter addurre
pensieri di un tempo più avanzato, anche quando occorra ammettere
avvenuto nell’ intervallo un cambiamento sostanziale di pensiero, iierché
il Leopardi rifà talvolta con l’immaginazione la via già percorsa col
pensiero, e già superata. Ci sarebbero certi « pensieri di ritorno »,
o « ritorni immaginari », per cui, secondo il Gatti, non bisogna
credere che il L. contraddica al suo pensiero posteriormente acquisito, anzi lo
lasci intatto, ma, per certa ripugnanza sentimentale alle più accoranti
verità, per un bisogno del cuore ili certi temperamenti, torni per un
momento agli ameni inganni, o alla mezza filosofia d’una volta. Ma per
immaginario che sia, un ritorno siffatto nella mente del Leopardi, se noi
crediamo di poter fissare questa nella coerenza di certi pen¬ sieri
definitivi, è evidente che non può essere altro che una contraddizione.
Di che, qua e là, il Gatti è costretto, quasi suo malgrado, ad
accorgersi, e a cercarvi una sanatoria. Sanatoria inutile, se egli avesse
rinunziato a pretendere dal Leopardi, nelle sue stesse intime
confessioni, queU’unità sistematica che non era nella natura di tali
confessioni. E non era neppure nella natura dello spirito del
Leopardi, che fu un poeta, un grande, un divino poeta, ma non fu un vero
e proprio filosofo. Che fa che egli abbia tante volte protestato di
possedere una sua filosofia ? Allo stesso modo del Leopardi, più o meno,
chiunque si ritiene in grado di giudicare dei sistemi dei filosofi,
ossia di mettersi, non dico alla pari, ma al di sopra di costoro, e
insomma di affermare una filosofia propria che possa aver ragione di quei
sistemi. E dal proprio punto di vista chiunque, così facendo, ha ragione;
e aveva ragione il Leopardi ; perché in fondo a ogni mente umana,
sopra tutto in fondo a quella dei grandi poeti, è incontestabile l’esistenza di
una filosofia: e però è lecito parlare così di una filo.sofia del Leopardi,
come di una filo¬ sofia del Manzoni, dell’Ariosto, di Shakespeare, di
Omero. Ma questa filosofia dei poeti non è la filosofia dei
filosofi, e bisogna trattarla, per non snaturarla e non distruggerla, con
molta delicatezza. Una delle differenze più notabili tra la
filosofia dei poeti e quella dei filosofi è che il poeta può averne
una, se è capace di averla, in ogni singola poesia; laddove il
filosofo che dice e disdice, e muta sempre la sua dottrina, non ha nessuna
dottrina. Il L. è in pieno diritto, come poeta, di affrontare il problema
del dolore, sempre da capo, con nuovo animo, con considerazioni
nuove, da un nuovo aspetto, ora maledicendo alla virtù, ora inneggiando
all’amore onde l’umana compagnia deve stringersi contro il fato. Ogni
poesia, ogni prosa di L. è infatti una situazione d’animo nuova; quindi
una nuova vista dello stesso dolore che domina l’anima del poeta; un
nuovo concetto, una filosofia nuova, che solo trascurando le differenze
essenziali, che in una poesia e in una prosa del genere di quelle del
Leopardi son tutto, si può rappresentare come sempre identica.
Egli è che il poeta, checché si proponga e dica di aver fatto, non
espone propriamente una filosofia: ma esprime soltanto un suo stato d
animo, occupato, deter¬ minato e quasi colorito da certi pensieri
dominanti. Abbozza in se medesimo (e quindi in un diario intimo)
una filosofia provvisoriamente sufficiente ad appagare i bisogni della
propria ragione (che non sono poi grandi in uno spirito prevalentemente
poetico); e questa filosofia, in quanto profondamente sentita, in quanto
vita della propria anima, diventa materia di poesia. Di poesia
anche in prosa; perché, in sostanza la prosa leopardiana è anch’essa
poesia, cioè espressione piena di certi stati d’animo del Poeta, diversi
da quelU manifestati nei Canti per lo sforzo che nella prosa come nei
Paralipomeni il Leopardi fa di costringere il sentimento spontaneo
dentro r intenzione ironica, satirica, che gli fece appunto pre-
f0rire la prosa al verso. Ma in realtà, nelle Operette come nei Canti c’
è Leopardi con la sua filosofia tetra e col suo candore, col suo
disprezzo degli uomini e col suo grande amore per essi; con tutte quelle
contraddizioni, che altri ha studiosamente cercate in lui, e che sono il
vero segno caratteristico del suo spirito poetico e non filosofico. La
filosofia vera e propria non deve aver niente del¬ l’anima individuale di
chi la costruisce. Essa è una liberazione assoluta compiuta dal filosofo dai
limiti della soggettività; è una contemplazione, diciamo così,
d’una verità eterna, in cui il filosofo, come persona particolare,
si dimentica di se stesso, e dei suoi dolori, e di tutte le tendenze
affettive dell’animo suo. La filosofia di Spinoza, la cui \dta e il cui animo
han parecchi punti di somiglianza con quelli del Leopardi non presenta
nes- Cfr. Tocco, Biografia di Spinoza, nella Rivista d’ Italia,
asuna traccia, non offre nessuno indizio di sentimenti personali. K
veramente una visione del mondo sub specie aeternitatis, come egli
diceva, in cui la personalità del filosofo scompare. La filosofia dei
poeti, si potrebbe dire, scompare nell’animo dei poeti stessi; l’animo
dei filosofi. invece, scompare nella loro filosofia. Onde una volta noi
abbiamo innanzi una persona determinata, viva in tutto l’agitarsi
dell’animo suo; un’altra volta, un si¬ stema di concetti, in sé.
Certo, tra le due filosofie non c’ è un taglio netto, che divida i
filosofi dai poeti; ma il pessimismo leopar¬ diano è, come è stato tante
volte osservato, così imprgnato di elementi ottimistici, così logicamente
frammen¬ tario e contradittorio, e d’altra parte così poeticamente
coerente e vivo, che lo scambio non è possibile. Noi pos¬ siamo studiare,
dunque, la sua filosofia, ma come vita del suo spirito, materia della sua
poesia. Studio, ripeto, molto delicato; perché in esso non bisogna mai
lasciarsi sfuggire che la realtà vera, a cui bisogna aver l’occhio,
non è questa filosofia in se medesima, astratta materia della poesia, ma
la poesia appunto, in cui quella filosofia è per acquistare la vita che
uno spirito poetico è capace di comunicarle. La filosofia quindi va
studiata per inten¬ dere la poesia, e valutata in quanto poesia, per
quella vita poetica che riuscì a vivere nello spirito del Poeta.
La pubblicaizione dello Zibaldone ha fortemente contribuito a fare
smarrire questo criterio. Ci s’ è trovata innanzi la materia grezza della
poesia leopardiana, quella tal filosofia, che il Leopardi rimuginava
dentro se stesso, e che, per quanto confidata a uno Zibaldone, non
aveva pregato nessuno di mettere in pubblico: quella filosofia, che
egli destinava a far materia di espressione più per¬ fetta, cioè di opera
poetica; e che infatti divenne in parte materia di canti e di dialoghi
(com’ è stato osservato, ma merita di essere particolarmente studiato). E
dimenticando che pel L. tutti questi materiali non avevano valore per sé,
ma l’avrebbero acquistato soltanto quando egli li avrebbe trasformati,
qualcuno s’è detto : o eccoci finalmente innanzi la filosofia del L.!
No, questi sono i detriti della sua poesia: tutto ciò che la sua forza
poetica non avvivò, non tra¬ sfigurò, o rinnovò interamente, avvivandolo
e trasfigu¬ randolo nel suo canto e nella sua satira. E
produce davvero una strana impressione il proce¬ dimento seguito dal
dott. Gatti, che riferisce nel testo certe informi osservazioni dello
Zibaldone, e a sussidio di esse, in nota, luoghi delle Operette o versi
dei Canti, in cui gli stessi pensieri assursero a forma artistica.
Il perfetto fatto servire all’imperfetto; la poesia ridotta a
documento d’un suo documento! Ecco un esempio di filosofia
documentata con poesia. In un pensiero L. S’era domandato. Che vale
per noi questa «miracolosa e stupenda opera della natura, e l’immensa
egualmente che artificiosa macchina e mole dei mondi? A che serve,
dunque, questo infinito e misterioso spettacolo dell’esistenza e della
vita delle cose », se « né resistenza e vita nostra, né quella degli
altri esseri giova veramente nulla a noi, non valendoci punto ad esser
felici ? ed essendo per noi l’esistenza, così nostra come universale,
scompagnata dalla felicità, eh’ è la perfezione e il fine dell’esistenza,
anzi l’unica utilità che resistenza rechi a quello ch’esiste ?» Qui, in
verità c’ e tutta la Idosofia del Leopardi. Ma che significano queste sue
interrogazioni ? Esse non possono aver altro significato che questo, che,
non sapendo concepire il fine dell’esistenza umana [ Zibald., Queste giunture frapposte alle parole del
Leopardi sono del Gatti, che riassumo e in questo caso mi pare modifichi
leggermente il senso del testo. e mondiale se non come felicità, e
non vedendo, d’altronde, che tal fine sia o possa mai esser raggiunto,
egli, Giacomo Leopardi, finisce col non sapersi più spiegare quale
possa essere il fine di quest’universo, che pur nella sua artificiosa
costruzione e nella sua vasta armonia farebbe pensare a un’ intima
finalità. Qui non è affermata una verità obbiettiva; è bensì manifestata
la situazione personale del poeta: situazione, che sarà jierfettamente
espressa quando il Leopardi ci dirà tutta la risonanza che questo suo
ondeggiare tra il concetto di una finalità eudemonistica universale e il
dubbio suUa validità di tal concetto ha neU’animo suo; quando da questo
suo per¬ petuo ondeggiare (che non è filosofia, ma atteggiamento
filosofico, o filosofia soltanto iniziale e potenziale), egli sarà
ispirato al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia che il Gatti reca a
confronto e conforto di quelle note dello Zibaldone. Nel Canto notturno
Leopardi dice con l’energia della fantasia commossa quello che nelle note
fugaci del diario era sommariamente accennato, quasi appunto o traccia del
canto. E quando miro in cielo arder le stelle. Dico fra
me pensando: A che tante facelle ? Che fa l’aria
infinita, e quel profondo Infinito seren ? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono? Cosi meco ragiono: e della
stanza Smisurata e superba, E dell' innumerabile
famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti D’ogni celeste, ogni
terrena cosa. Girando senza posa. Per tornar sempre là
donde son mosse; Uso alcuno, alcun frutto Indovinar non so.
Qui veramente c’ è l’anima tormentata dal dubbio che non ci sia un
fine nel mondo; e non è il dubbio astratto di un filosofo, ma il dubbio
che irrompe neH’anima di un poeta, che mira in cielo arder le stelle,
quasi tante faci accese a illuminare il mondo; e sente l’infinità
dell’aria, il sereno profondo infinito (elementi di grande commozione,
com’ è noto, per Leopardi), e l’immensità della solitudine attorno alla
propria persona non dimen¬ ticata {ed io che sono P) né dimenticabUe
perché palpitante; ecc. Qui c’è, non più il germe d’una filosofia, ma
l’uomo Leopardi, intero, con l’ansia e il terrore che gh desta lo
spettacolo dell’ infinito misterioso, muto al dolore di lui che vi si
sente dentro smarrito. C’ è anche, innegabilmente, un dubbio filosofico :
semphce dubbio («qualche bene o contento avrà /o;'s’altri. Forse
s’avess’ io l’ale.... più febee sarei, o forse erra dal vero b mio
pensiero, Forse in qual forma.... è funesto a chi nasce il dì natale); ma
come elemento o momento della lirica grande. La pubblicazione
dello Zibaldone, badiamo bene, è stata, in fondo, una certa quale
indelicatezza, che nessun onesto avrebbe giustificato, vivo L., e che
non si permise infatti il Ranieri, intimo del Poeta e conscio deUe
sue intenzioni e del valore da lui attribuito al proprio diario. Ognuno che
scriva e stampi, pubblica soltanto queUo che gli par compiuto secondo il
fine a cui, più o meno consapevolmente, mira scrivendo. Un poeta
non beenzia al pubbbeo le tracce e gli abbozzi delle sue poesie.
Anzi, questi antecedenti naturali del suo prodotto artistico, ha un certo
schivo pudore di mostrarli al pubbbeo: sono il suo segreto. Sono infatti cosa sua
perso¬ nale; laddove quello che egli crede arte, gb par bene
appartenga, o possa appartenere, a tutti gb spiriti. Certo, r interesse
storico, il legittimo e nobile desiderio d’intendere le opere del genio,
mediante la conoscenza più larga che sia possibile della sua anima,
bastano a giu¬ stificare la pubblicazione di siffatti abbozzi, come
degb epistolari intimi, che svelano, senza riguardi, i più
gelosi segreti delle persone, le quali a un certo punto si finisce
col credere che appartengano agli altri più che a se stesse. Ma questa
giustificazione non deve farci dimenticare che gli abbozzi del poeta,
sono abbozzi delle sue poesie, come gli appunti provvisori del filosofo
sono antecedenti spesso superati e rifiutati della sua filosofia. Ad ogni
modo non si dovrà mai pretendere d’attribuire ad essi altro valore
che di sussidio a intendere quelle opere, che rappresen¬ tano la
conclusione definitiva del poeta e del filosofo. Tutto questo, si
potrebbe osservare, sarà un bel discorso; ma è troppo generale ed astratto.
Bisogna vedere al fatto, se il Leopardi, dopo gli studi di Gatti,
ci apparisca nello Zibaldone un vero filosofo. Potrei rispondere con un altro
discorso astratto, sostenendo che è ben difficile che uno stesso genio
possa essere insieme poeta e filosofo; richiedendosi alla poesia
un’attività, che la filosofia necessariamente combatte e mortifica.
Ma penso a Dante: unico, secondo me, e se non sempre, quasi
costantemente mirabilissimo esempio dell’energia, onde è capace lo
spirito umano, di individualizzare e stringere nella fantasia e nel
sentimento di un’anima singolarmente potente il sistema più
intellettuahsticamente universale ed astratto che la storia della
filosofia ci presenti: penso a quella fusione e unità quasi sempre
perfetta d’un sistema miracolosamente vario e armonico di fantasmi che
son pure astratti concetti: unità, che non si finisce e non si finirà mai
di studiare nella Divina Commedia ». E preferisco perciò una risposta
particolare e concreta, che è questa. Tutto il mio discorso
generale io r ho fatto appunto a proposito del Leopardi, dopo Alla
quale per questo rispetto non credo si possa paragonare, ma a distanza
grandissima, altro che il Faust: dove l’unità dell’opera, come arte e
come filosofia, rimase lungi dall’esser raggiunta. aver letto
attentamente il saggio di Gatti. Libro, che non ò certo inutile, perché
molti schiarimenti particolari a concetti del Leopardi da uno studio così
attento e minuzioso dei Pensieri si hanno; c molti istruttiva raffronti,
oltre quelli già fatti dal Losacco e dal Giani, vi sono opportunamente
istituiti tra pensieri del Leopardi e luoghi di Helvétius, di Rousseau,
di Maupertuis e degli altri autori del Poeta; ma insufficiente a
dimostrarci la tesi che il Gatti s’era proposta, che nella mente del
Leopardi si fosse organizzato un sistema filosofico; atto anzi a
dimostrare il contrario, per lo stesso esame accurato che ci dà dei
Pensieri leopardiani con l’intento di cavarne un sistema. 11 sistema non c’ è.
C’ è la travagliosa meditazione sui fantasmi del Poeta; ci sono le
accorate riflessioni, che gli suggerirono quei jiroblemi che furono
il tormento e la musa perpetua del suo spirito: ma non più di questo. Il
Leopardi lo ritroveremo sempre nel disperato lamento de’ suoi canti e nel
sorriso amaris¬ simo e pur soave delle prose. 11 materialismo
della sua metafisica, il sensismo della sua gnoseologia, lo scetticismo
finale della sua epistemologia, l’eudemonismo pessimistico della sua etica
sono nei pensieri inediti, come in tutti gli altri scritti già
noti, i motivi costanti del breve filosofare leoparebano : ma sono
spunti filosofici, anzi che principii d’un pensiero sistematico; sono
credenze d’uno spirito addolorato, anzi che veri teoremi di un organismo
speculativo. Le sue pretese dimostrazioni non vanno mai al di là
dell’osser¬ vazione empirica; e non servono ad altro che a dirci
come vedev^a le cose Giacomo Leopardi. In lui non trovi né anche
una critica della ragione, come in Montaigne o in Pascal, a cui per molti
riguardi somiglia. Ma un prendere di qua e di là proposizioni
contestabili, e accettarle come verità assiomatiche e principii di
deduzioni pessimistiche. Passione v^era per a speculazione il Leopardi non
ebbe mai. Non studiò nessun grande sistema filosofico: egli, conoscitore
e stu¬ dioso dei classici, non si sforzò mai d’intendere il pen¬
siero di Platone e di Aristotele. La sua storia della filo¬ sofia antica
ò tratta da Diogene Laerzio, da Plutarco o altri dossografi. Del Medio
Evo non studia nessuna filsofia. Di Cartesio, di Spinoza, di Hume non conosce
neppur nulla. Lesse Locke, ma come si leggeva. Di Leibniz sorrise come
Voltaire, non so¬ spettando in alcun modo la profondità del suo
pensiero Ebbe una vernice di cultura filosofica, come l’avevano
allora tutti i letterati; ed ebbe velleità di filosofo; ma la sua vera
indole, quella che noi dobbiamo guardare in lui, è r indole poetica,
convinti che fuori della sua poesia il suo pensiero, a considerarlo nel valore
filosofico, è molto mediocre. Non entrerò nei particolari della
esposizione di Gatti. Ma non voglio tacere che quella filosofia pratica
edilicatrice, che egli, conZumbini, giirstamente mette in rilievo di
contro alle conseguenze negative della sua filosofia teoretica, non ha
niente che vedere coll’odierna filosofia prammatistica, a cui egli
studiosamente la rac¬ costa, per dimostrare così la modernità del
pensiero leopardiano. Quella filosofia pratica è il retaggio dello
scetticismo da Pirrone in poi: il quale ha contrapposto sempre la vita
alla scienza, e salvata almeno quella dal naufragio di questa.
Salvataggio operato ora con la na¬ tura, ora col sentimento, ora con la
volontà, e in generale con un principio irrazionale, o concepito come tale,
che, appunto perciò, non contraddice aUo scetticismo fondamentale.
Leopardi ricorre all’ immaginazione e a un certo qual senso dell’animo,
che fan contrappeso agli argomenti dolorosi della ragione e bastano a
confortarci a vivere. Né anche questo principio, del resto, è sviluppato.
Certo, esso non giova a chi presuma di vedere nel Recanatese un precursore
del James e degli altri pram- matisti d’oggi, i quali non sono scettici,
benché in realtà abbiano una dottrina negativa del conoscere; non vedono
nell’attività pratica un surrogato dell’attività teoretica: ma unificano
le due attività, e immedesimano la verità con l’utile, in modo che quel
che giova credere, sia esso stesso il vero; laddove quel che gioverebbe
credere, secondo L., sarebbe né più né meno che un’ illu¬ sione. La
differenza tra Leopardi e James è la differenza profonda tra lo
scetticismo di tutti i tempi e il nuovo prammatismo, che si professa
dottrina essenzialmente dommatica e positiva. Gli studi del Gatti
furono ripresi da Giulio A. Levi *, uno degl’ ingegni più fini tra gh
studiosi di letteratura italiana, e dei più valenti e competenti
interpreti del pensiero leopardiano; ma con altro criterio e altro
intendimento. E io son lieto di leg¬ gere al principio del suo libro le
seguenti parole; «Fu tentato da Pasquale Gatti, e parzialmente dal
Cantella, di ordinare e comporre in un sistema filosofico i pensieri
dello Zibaldone leopardiano; con esito che non poteva essere altro che
infelice; quando si pensi che sono riflessioni scritte giorno per giorno, senza
disegno prestabilito, per lo spazio di circa quindici anni, da quando
prima il poeta adolescente cominciò a voler pensare col suo
cervello, fino aUa sua piena maturità. Che fu uno degli argomenti principali
che a suo tempo io opposi al tentativo di GATTI. E sono interamente d’accordo
con LEVI che lo Zibaldone, con gli ondeggiamenti e gli sforzi speculativi di
cui ci conserva i documenti, può esser materia alla storia (anzi, alla
preistoria) del pensiero del poeta, la cui forma definitiva va piuttosto
cercata nei prodotti più maturi, dove parve all’autore d’avere impressa
l’orma definitiva del suo spirito, nei Canti e nelle Operette. Questa è,
in sostanza, l’idea centrale del saggio del Levi, e conferma pienamente
il mio giudizio sul va¬ lore e sull’ interesse dello Zibaldone.
Questa idea bensì nel libro del Levi non apparisce netta e ferma
quanto si potrebbe desiderare, costretta com’ è dall’autore ad andare in
compagnia di certi prin- cipii direttivi, che oscurano, a mio avviso, la
visione esatta di taluni momenti dello sviluppo del pensiero leopardiano
e turbano il giudizio sulla sua forma ultima. Cosi, quando comincia a
notare che io ho ecceduto « negando a priori allo Zibaldone ogni interesse
speculativo, per la qualità stessa dell’autore; il quale sarebbe
bensì un osservatore acuto, ma troppo essenzialmente poeta,
dominato interamente dal sentimento, e perciò di pensiero incoerente, mutevole
e spesso contradittorio », egli, da una parte, esagera e àltera il mio
giudizio sullo Zibaldone e, in generale, su tutta l’opera del L.; e
dall’altra, accenna a un concetto (che non manca su¬ bito dopo di
dichiarare esplicitamente), il quale non gli può consentire una
ricostruzione storica non arbitra¬ riamente soggettiva, ma razionalmente
giustificabile del pensiero leopardiano. In primo luogo, non è
esatto che io abbia negato o voglia negare ogni interesse speculativo
allo Zibaldone e tanto meno alle poesie e alle Operette morali', anzi
sono disposto a riconoscere che tutta la poesia del Leopardi non
abbia altro contenuto, in tutte le sue forme e in tutti i suoi gradi, che
il problema speculativo, nei termini, s’intende, in cui egli poteva e
doveva porlo. Quel che ho negato e nego è; i) che nello Zibaldone ci sia
del pensiero del Leopardi qualche cosa di più che non fosse negli
scritti da lui pubblicati; qualche cosa che, dal punto di vista del L.,
fosse già pervenuto a quel punto di maturità spirituale, di verità, in
cui il Leopardi s’acquetò, a giudicare dalle opere con cui egli stesso
volle entrare nella nostra letteratura; qualche cosa che possa
nello Zibaldone farci vedere nulla di diverso {si parva licei componere
magnis) da quelle note, onde ognuno di noi si prepara ai suoi lavori, e
che, compiuti questi, quando ci pare d'averne spremuto bene tutto il
succo, si buttano al fuoco; e tanto più volentieri, quando dalle
note alla stesura dei nostri scritti le idee nostre si siano venute
correggendo e integrando in più logica compat¬ tezza ' ; 2) che si possa
adeguatamente valutare la grandezza del Leopardi, facendogli il conto del tanto
di verità speculativa che è nella sua poesia: poiché, a prescindere da ogni
dottrina sulla natura della poesia, basta considerare le critiche
profonde e ineluttabili, onde quella verità fu superata da uno spirito,
che ebbe inizialmente una profonda simpatia congeniale col L., il
Gioberti (specialmente nella Teorica del sovrannaturale. Levi scrive: «
Fii detto che la pubblicazione del Diario sia stata un'indelicatezza,
quando il Leopardi medesimo di questa pubblicazione non aveva pregato
nessuno. Oh si, sarebbe un indeli¬ catezza esporre quelle cose agli occhi
bene aperti d’un pubblico di pedanti, i cjuali spiegherebbero con trionfo
gli errori del grand'uomo che si viene formando. Ma chi ha già imparato
ad amarlo e a vene¬ rarlo, può accostarsi senza scrupoli a tutte quante
le sue reliquie... ». Se il Levi con le prime parole si riferisce a quel
che scrissi io nella Rass. bibl. tett. U., mi rincresce di dovergli rispondere che
egli non ha inteso lo spirito della mia affer¬ mazione. La quale mirava
soltanto a chiarire che dello Zibaldone non ci si può servire se non come
di documento della formazione del pensiero del L., la cui forma ultima dobbiamo
per altro cercare sempre nelle opere che da <iuegli abbozzi trasse
l'autore, e pubblicò egli stesso come sole degne di sé. nel Gesuita
e nella Protologia), in pagine che il Levi non anteporrebbe di certo né
pur a quelle dello Zibaldone. L vero che « nei sistemi filosofici
le parti più caduche sono spesso quelle dovute alle esigenze di sistema
». Ma ciò non dimostra che la filosofia non è sistema, anzi di¬
mostra che è: perché gli errori di questo genere non si scoiarono dal
critico se non come errori della costruzione del sistema, ossia come
divergenze dalla costruzione che, secondo lui, sarebbe più conforme alle
verità fondamen¬ tali intuite d<al filosofo. E se U critico non
rifacesse per suo conto la costruzione del sistema, non avrebbe
modo di discernere nel sistema criticato il vero dal falso, nato
dunque non dal sistema, ma dal falso sistema. Giacché un giudizio che
affermasse immediatamente : questo è vero, e questo è falso, senza
dimostrazione di sorta, non credo che pel Levi sarebbe un giudizio per
davvero. E vero, d’altra parte, che la coerenza del pensiero non è
privilegio dei filosofi, di contro ai yioeti; se per filosofi s’intende i
filosofi storicamente esistenti, Socrate, Platone, Aristotele ecc., e per poeti
quelli che sono realmente vissuti o vivranno. Omero, Dante, Shakespeare,
ecc. Per tutti costoro, non c’ è dubbio, secondo me, Iliacos intra
muros peccatur et extra. D’incoerenze, di maglie rotte nel sistema, ce n’
è state, e ce ne sarà sempre, da una parte e dall’altra. Ma noi non
possiamo parlare di Omero poeta e di Platone filosofo senza un
concetto del poeta e del filosofo, e cioè della poesia e della filosofia:
le quali, come funzioni dello spirito, trascendono la storia, che è la
concretezza stessa della realtà spirituale. E soltanto alla poesia e alla
filosofia come funzioni trascendentali dello spirito si possono assegnare
caratteri distinti, dei quali quello che è della poesia in quanto
tale non sarà della filosofia, e per converso. Nella storia tutte
le funzioni concorrono in un’unità concreta, in cui il poeta, essendo
anche filosofo, partecipa del carattere dello spirito che è filosofia; e
il filosofo, essendo pure poeta, partecipa del carattere dello
spirito che è poesia, sempre. E la rigida e salda distinzione delle
funzioni astratte cede il luogo alla plastica e mobile distinzione della
storia, che fa essa stessa la divisione dei grandi spiriti nelle due
schiere dei poeti e dei filosofi, secondo che negli uni prevale il momento
poetico e negli altri il momento filosofico; onde la distinzione e
però la categorizzazione del giudizio critico sono poi, ogni volta,
funzioni di giudizio storico, concreto. Perché il Leopardi va
considerato come poeta, e non come filosofo ? Perché, se conosco il
Leopardi storico, quale si formò e quale si espresse nel suo canto, io ci
vedo bensì dentro una filosofia; ma questa filosofia la vedo chiusa,
compressa, fusa e assorbita nella intuizione immediata che questo spirito ha
della sua personalità materiata di cosiffatta filosofia; per cui dico che
egli non rappresenta una filosofia, ma la sua anima; e poiché il suo
occhio è tutto intento alla risonanza tutta soggettiva, in cui vive per
lui un certo, oscuro, vago e frammentario concetto del mondo, la verità è
per lui, e dev’essere per me che lo giudico, non in questo concetto, ma
nella vita di esso, in quella tale risonanza, nella sua Urica. Beninteso
che, per quanto oscuro, vago e frammentario, quel concetto sarà pure un
concetto, che avrà una chiarezza e saldezza organica sufficiente
alla logicità dello spirito lirico, e quindi per lui assoluta. E non ci
sono principii astratti ed estrastorici che pos¬ sano segnare a priori i
limiti della filosoficità del concetto che vive neUa Urica del poeta. Ma
ciò non toglie che la distinzione non perda mai la sua ragion d’essere, e
che non si possa mai trascurare, volendo rilevare, a volta a volta,
il valore deUo spirito rispetto alle sue forme es- senziaU ed
assolute. Ma, dice Levi, «la grandezza in tutte le sue forme è in
fondo una sola, grandezza morale ed umana; e se è suprema esigenza etica
che la nostra vita sia azione, ed abbia un senso; non sarà fuor di luogo
nei poeti, di cui sentiamo la grandezza, sospettare qualche cosa di
più che la passività del sentimento, o l’attività dell’espressione: sospettare
e cercare un’attività etica con un suo senso determinato e costante ».
Ond’egli si propone di cercare negli scritti del Leopardi «per quah vie
egli giunse alla sua profonda intuizione, e potè prendere un atteg¬
giamento interiore costante e sicuro di fronte all’uni¬ verso Ebbene,
tutto questo è molto vago perché possa servire di criterio alla storia
del pensiero di un poeta. Se la grandezza in tutte le sue forme è una
sola soltanto « in fondo », bisogna pure che si rispettino le
differenze tra le varie forme, in cui unicamente è possibile che quello che è
in fondo venga su, e si manifesti, e assuma così una forma storica
determinata. E se è suprema esigenza etica che la nostra vita sia
azione, posto, com’ è necessario, che le suddette forme della I
grandezza, o, più modestamente, dello spirito, siano più d’una, oltre la
suprema esigenza etica, ci saranno (dato pure c non concesso che questa
sia la radice di tutte) altre esigenze supreme : come quella che la vita
sia poesia, e che la vita sia filosofia; le quah, se il Levi ci
riflette bene, s’avvedrà che non sono meno supreme, anche per la
sua posizione, in cui l’azione è fondamentalmente un ^ atteggiamento
dell’uomo di fronte all’universo : poiché ; quest’atteggiamento o è
un pensiero, o l’imphca; e questo pensiero, dovendo essere una
filosofia, non può non essere anche una poesia. In realtà, quel che cerca
il Levi nel poeta, non è la ! soddisfazione di una esigenza etica,
bensì una metafisica, I una rivelazione della ragione dell’esser nostro o
del regno soprannaturale dei fini: e con l’occhio a questa
mèta. Gentile, Manzoni e L.] pur accennando qua e là all’ identità del
valore poetico e del valore del contenuto filosofico della poesia,
egli non si propone nemmeno, in nessun punto del suo libro, il
problema dei rapporti tra arte e filosofia, e non mira quasi mai al
giudizio estetico dell’arte leopardiana; ma si restringe a tracciare la
linea di svolgimento del pensiero che c’ è dentro, e che egli crede abbia
assunto la sua forma finale in una specie di individualismo
romantico corrispondente alle tendenze dello stesso Levi. Dirò
bensì che la distinzione tra arte e filosofia accenna a svanire nel
pensiero dell’autore appunto pel concetto meramente estetico, più che
etico, di questa filosofia romantica a cui egli aderisce: quantunque pur
in questo concetto la differenza permanga e obblighi il Levi a far
violenza, qua e là, al pensiero del Leopardi per dargli queUa
sistematicità, che è necessaria anche a una filosofia individualistica.
Il risultato degli studi del Levi, in breve, è questo. Nel
pensiero del Leopardi si devono distinguere due periodi; uno come di
distruzione e dissoluzione dell’uomo, l’altro di affermazione e
ricostruzione dell’uomo stesso; il quale allora si contrappone aUa natura
pessimistici^- ! mente e agnosticamente concepita in cui termina il
primo periodo, e si aderge in tutta la sua grandezza, che è la j
sua stessa infeUcità, o piuttosto la coscienza della sua p infelicità. 11
primo periodo terminerebbe verso la fine | del 1823, e sarebbe
rappresentato, sostanzialmente, dallo 1 Zibaldone', il secondo
comincerebbe, presso a poco, nel J gennaio 1824, quando il Leopardi pose
mano alle Operette morali', a proposito delle quali il Levi scrive giusta-
# mente ; « Fa onore al buon gusto e al senso critico del 1
Leopardi l’aver lasciato da parte tutto quello ch’egU l sentiva
estremamente ipotetico nelle sue teorie inrorno jS alla storia dell’
incivilimento e agli intenti dcUa natura, ?. e l’aver esposto
definitivamente per il pubblico solo il nocciolo essenziale dei suoi pensieri
intorno alla virtù e alla felicità umana. Insomma, anche pel Levi, lo
Zibaldone è il periodo jelle indagini e dei tentativi (de’ suoi sette
volumi i primi sei giungono al 23 aprile 1824): il periodo, in cui
il Leopardi cerca tuttavia se stesso, e ancora non si ri¬ trova qual era
nella sua giovinezza e all’ inizio del suo speculare: «pieno d’ardore per
la virtù, e assetato di felicità, di bellezza e di grandezza ». La
riflessione, in questo periodo, che comincia intorno al ’20, si
stringe addosso a quest’ ideali, che erano la vita dello spirito
leopardiano; e non riesce a giustificarli, anzi h corrode e distrugge.
Che cosa è il bello ? e il bene ? e il vero ? e il talento ? Movendo dal
sensismo, che negava lo spi¬ rito e non vedeva altro che la natura, tutti
i valori dello spirito si dileguano facilmente dagli occhi del
giovane pensatore, poiché perdono tutti la loro assolutezza, la
loro apriorità. Ma da ultimo la vita stessa, che prende in lui il dolore
di questo dileguo di tutti gl’ ideah, si desta nell'esser suo di
coscienza, e prorompe in una espressione ingenua della verità disconosciuta:
espressione, che ferma giustamente l’attenzione del Levi; e giustamente
gli fa segnare questo momento come principio d’un nuovo periodo
dello svolgimento del Leopardi, ma comincia ad essere interpretata alla
stregua del difettoso concetto che egli ha delle attinenze della poesia
con la filosofia, e a far deviare quindi tutta la sua interpretazione
del secondo periodo. 11 Leopardi, il 27 novembre 1823,
scriveva nel suo Diario : « Bisogna accuratamente distinguere la
forza dciranima dalla forza del corpo. L’amor proprio risiede
neH’animo. L’uomo è tanto più infelice generalmente quanto è più forte e
viva in lui quella parte che si chiama Storia, anima. Che la parte
detta corporale sia più forte, ciò per se medesimo non fa ch’egli sia più
infelice, né accresce il suo amor proprio. Nel totale e sotto il più dei
rispetti [l’infelicità e l’amor proprio] sono in ragione inversa della
forza propriamente corporale.... La vita è il sentimento dell’esistenza. La
materia (cioè quella parte delle cose e dell’uomo che noi più
pecuharmente chiamiamo materia) non vive, e il materiale non può
esser vivo e non ha che far colla vita, ma solamente coll’esistenza, la
quale, considerata senza vita, non è capace di amor proprio, né d’
infelicità. Quello che in questo luogo il Leopardi chiama sen¬ timento
vitale, o vita», avverte esattamente il T.evi, « è manifestamente
la coscienza ». Ma continua : Di qui innanzi egli negherà ancora in
astratto la nozione metafisica dello spirito (al che egli ha avuto cura
di tenersi aperta la strada colle circonlocuzioni quella parte dell’uomo
che noi chiamiamo spirituale ’ e ' quella parte delle cose e dell’uomo
che noi più peculiarmente chiamiamo materia'). A questo lo movevano il
suo bisogno di concretezza, e l’avversione a tutto 1 accattato e il
falso ch’ei sentiva negli entusiasmi spiritualistici dei romantici. Ma,
praticamente, rispetto a sé e rispetto all’uomo in generale, egli ha
fermato con suffi¬ ciente sicurezza la nozione di ciò che in esso è
di natura spirituale e della sua dignità». Ora qui è il piincipio
del maggiore equivoco, in cui si dibatte poi il Levi in tutta la sua
interpretazione del Leopardi. Nel luogo citato del Diario c’ è la
coscienza della vita, ma non c è la coscienza (il concetto) di questa
coscienza; il Leopardi sente la pro¬ pria grandezza come uomo sugh animaU
e sugli esseri inferiori, e la propria grandezza come Leopardi
sugli uomini comuni, come potenza di essere infehce. ma non pone
mente che egli è grande, non perché infelice, ma perché conscio della sua
infelicità ; cioè non vede 1 esser cuo nella coscienza che si eleva al di
sopra del dolore, e lo impietra, nell’arte; e però non si può a niun
patto asserire che possegga la nozione della propria natura spirituale e
della propria dignità di contro alla natura. Infatti il possederla
praticamente (e soltanto praticamente) come vuole il Levi, che significa
se non che non la pos¬ siede come nozione, bensì con quella immediatezza
onde 10 spirito ha, qualunque sistema si professi, coscienza
di sé ? Che se egli ne raggiungesse la nozione, il suo pessimismo, che è il
contenuto della sua poesia (attualità reale del suo spirito), sarebbe
superato; poiché sarebbe risoluto nella poesia diventata essa stessa
contenuto od oggetto dello spirito consapevole della propria
vittoria sulla natura, come opposizione e limite dello spirito, e
quindi sorgente dell’ infelicità. Il pessimismo è assolutamente
inconciliabile col con¬ cetto del valore dello spirito; e questa è la
vera e pro¬ fonda ripugnanza che prova il L., pur quando intravvede
nella vivacità stessa della sua spiritualità l’essenza propria del reale,
che è sentimento, com’egli s’esprime, dell'esistenza ad affermare quella
realtà che non ha posto nella visione pessimistica del mondo in cui
si chiude e fissa l’anima sua; e però ricorre a quelle circonlocuzioni «
quella parte dell’uomo che noi chia¬ miamo spirituale » ecc. ; circonlocuzioni,
che sono la patente documentazione del fatto, che il Leopardi non si
solleva al concetto dell’essenza dello spirito. Che se questo concetto si
fosse rivelato comunque alla sua mente, con tutta la sua « avversione
all’accattato e al falso che ei sentiva negli entusiasmi spiritualistici
dei romantici », con tutto « il suo bisogno di concretezza », come
avrebbe potuto egh chiudere gli occhi alla luce, e non vedere che
11 sentimento dell’esistenza, non essendo materia..., non è
materia, e che la presunta concretezza della materia come tale non è
altro che un’astrazione, dal momento che essa non ci può esser nota altrimenti
che pel sentimento che ne ha il vivente ? Orbene questa
contraddizione intrinseca tra il sentimento, non elevato a concetto, dell’umana
grandezza, e il concetto (contenuto della poesia leopardiana) della
nullità dell’uomo di fronte alla natura e quindi della fatalità assoluta del
dolore, questa è la grande situazione poetica del Leopardi rappresentata
così splendidamente dal De Sanctis nel saggio su Schopenhauer: L. produce l’effetto contrario a quello che si
propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede
alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la
virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi
lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostartegli, che non
cerchi innanzi di raccoglierti e purilìcarti, perché non abbi ad arrossire al
suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre non crede possibile
un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo
amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha così basso concetto
dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e pura la onora e la nobilita
». Appunto, questo flagrante contrasto tra il suo concetto e la sua
anima è la forma e il valore speciale della sua poesia: ma non perviene
mai a distinta coscienza degli opposti motivi che vi concorrono senza
scoppiare dentro il contenuto (astrattamente considerato come filosofia)
in manifesta contraddizione logica, come avviene nella Ginestra:
con quanto vantaggio della poesia non so. Certo, la forma leopardiana si
regge sull’equilibrio di questi opposti motivi, che sono la personalità
del poeta e il suo mondo pessimistico: equilibrio che si mantiene
perfettamente, per esempio nell’ Ultimo canto di Saffo, ‘ Saggi
critici, à nel canto A Silvia, nel Canto notturno e,
in modo tipico, nei versi All' infinito, dove la personalità si dimentica
nel suo mondo, lo pervade e ne è la forma poetica : laddove, appena vi si
contrapponga, come parte di contenuto (che qui coscienza che il poeta ha
di se medesimo) accanto al¬ l'altra parte affatto ahena, tende
necessariamente a spezzare l’unità del fantasma, che è la logica del
pensiero poetico. Di tale contrasto il Levi, poeteggiando anche lui
per interpretare il Leopardi, non vedo abbia chiara coscienza; e
però scambia la forma col contenuto dell’arte leopar¬ diana, e vede una
filosofìa (quella con cui piace a lui d’interpretare l'anima umana) dov’
è soltanto l’anima, e cioè la poesia del Leopardi. Tralascio
i bei capitoli, che il Levi consacra alla storia della concezione storica
del pessimismo, quale si disegna già nella critica dello Stato e della
civiltà, della scienza e della filosofia e nella teoria delle illusioni
attraverso 10 stesso Zibaldone per trovare in fine la sua
espressione nei primi canti; Nelle nozze della sorella Paolina, A
un vincitore nel pallone. Bruto minore. Ultimo canto di Saffo, Alla
primavera e Inno ai Patriarchi. ’E vengo al secondo periodo. 11 Levi
studia gl’ indizi della coscienza che il Leopardi comincia ad acquistare
della propria grandezza dopo la dimora che fa in Roma: coscienza
culminante da ultimo, in questa nota del Diario: «Ninna cosa maggiormente dimostra
la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, che il poter l’uomo
conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua
piccolezza.... E veramente quanto gli esseri più son grandi, quale
sopra tutti gli esseri terrestri è l’uomo, tanto sono più capaci della
conoscenza, e del sentimento della propria piccolezza » ». Quindi
s’inizia il secondo periodo, il cui ' Zibald.] pensiero il Levi
vede maturarsi tutto nelle prose {Storia del genere umano, Dialogo della
Natura e di un'Anima, Dialogo della Natura e di un Islandese, Frammento
apocrifo di Stratone) e nelle note sincrone dello Zibaldone. In questo
secondo periodo dall’uomo il Leopardi ritrae la causa del dolore
universale nella natura; alla concezione storica del pessimismo sottentra
quella cosmica; ma di fronte alla natura ineso¬ rabile artefice del
nostro doloroso destino e imperscruta¬ bile prosecutricc di fini
divergenti dai fini dell’uomo s’accampa questo con la coscienza del
proprio valore: dell’uomo, secondo intende il Levi, in quanto
individuo, e pur creatore del suo valore nel virile disdegno d’ogni
illusione, nella magnanima sfida al Potere ascoso: nel¬ l’affermazione,
insomma, di sé come coscienza del dolore. Onde il Leopardi acquista una
serenità, una sicurezza ignota a quell’angoscioso piegarsi e stridere
dell’anima sotto il dolore, che è l’atteggiamento del primo
jieriodo. Questo mi pare, se ho bene inteso il cenno più che esposizione
del Levi, il suo modo d’intendere questa forma suprema dello spirito
leopardiano. Ma contro questa interpretazione vedo due
princijiali difficoltà, la prima delle quali confesso di proporre
con qualche esitazione, perché non sono sicuro di cogliere
interamente il pensiero del Levi. Ed è che non vedo i documenti dell’
interpretazione del Levi per ciò che riguarda l’individualità dell’uomo,
che in questo secondo periodo starebbe di contro alla natura.
Nell’allegoria dell’Amore, alla fine della Storia del genere umano, la
designazione dei « cuori più teneri e più gentiU, delle persone più generose e
magnanime », che vengono a provare « piuttosto verità che rassomiglianza
di beatitudine », comprende bensì il L., anzi rappresenta soltanto
il L.: ma non come individuo che crea se stesso, col suo valore. Non è
coscienza del dovere dell’ individuo. che può nello spirito
vincere l’avversa natura e toccare (juindi la beatitudine da questa
contesagli ; ma è l’im- niediata condizione spirituale del Poeta, la cui
serenità estetica si diffonde per tutta la Storia e ne placa il
dolore. 11 ragionamento dimostra la vanità delle illusioni, e di
ogni desiderio della felicità ignota e aliena alla natura dell’universo,
e l’amarezza dei frutti del sapere; ma della beatitudine che spira
intorno al nume, figliuolo di Venere celeste, non v’ è giustificazione,
né quindi concetto. « Dove egli si posa, dintorno a quello si aggirano,
invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate
dalla consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per questo
effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere vietato
dalla Verità, quantunque inimicissima a quei fantasmi. Qui dunque c’ è
l’anima che non s’arrende alla verità; ma non la verità, come
concetto dell’anima. E l’anima è appunto quella dolce serenità che si
diffonde per tutta la prosa: ossia la forma, la poe.sia, non il
contenuto, la filosofia, del pensiero leo¬ pardiano.
Altrettanto, mulatis mutandis, ' mi pare sia da osservare di quella
individualità che il Levi vede nelle varie prose al di sopra del
pessimismo cosmico, fino a Tristano che non si sottomette alla sua
infelicità, né piega il capo al destino, né viene seco a patti, come
fanno gli altri uomini. L'affermazione di Tristano è piuttosto
negazione: « E ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra
ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo
fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi. In altri
tempi ho invidiato.... quelli che hanno un gran concetto di se medesimi;
e volentieri mi sarei cambiato con alcuno di loro. Oggi non invidio
più né stolti né savi.... Invidio i morti, e solamente con loro mi
cambierei. In secondo luogo, di questo disdegnoso gusto, o come altrimenti
si manifesti la vittoria dell'uomo sulla natura, perché e come potrà
farsi una caratteristica del secondo periodo se nel primo periodo resta,
per esempio, il Bruto minore col « prode » di cedere inesperto, che
guerreggia teco Guerra mortale, eterna, o fato indegno;
e resta 1 ’ Ultimo canto di Saffo, in cui l’uomo si erge magnanimo
contro i numi e l’empia sorte, e, conscio della propria grandezza al di
sopra del « velo indegno », emenda il crudo fallo del cieco dispensator
dei casi ? Però credo che nell’esame dei canti del secondo
pe¬ riodo, cui è consacrato l’ultimo capitolo dell’acuto e
suggestivo studio del Levi, la poesia leopardiana sia più d’una volta
tormentata affinché risponda docilmente ai preconcetti filosofici
costruttivi dell'autore. Nel Risorgi¬ mento sarebbe celebrata « con
gioconda sicurezza la superiorità della vita affettiva sulla conoscenza e su
tutto, e la forza invitta con cui l’io profondo si afferma, non
ostante la contraddizione di tutto l’universo ». Ma, se il Leopardi
canta: Proprii mi diede i palpiti Natura, e i dolci
inganni; Sopire in me gli affanni L’ingenita virtù.
Non l’annullàr, non vinsela Il fato e la sventura; Non
con la vista impura L'infausta verità . . . Pur sento in me
rivivere Gl’ inganni aperti e noti; E de’ suoi proprii moti
Si maraviglia il sen. la chiave, l’intonazione della poesia è in
questo mera- vigharsi dell’animo di fronte al risorgimento dell’
ingenita virtù: a questo miraeoi novo, che, appunto perché tale.
j^on è menomamente sicura coscienza della superiorità della vita
affettiva sulla conoscenza. Data la sicurezza, perché meravigliarsi ? E
se togliete questa meraviglia, questo stupore innanzi al subito
rianimarsi del mondo al risorgere del vecchio cuore, la poesia è
svanita. Un altro esempio significativo. Nei versi .4 se
stesso, secondo il Levi, « ancora una volta si sfoga riaffermando,
disperatamente, ma pure ancora superbissimamente, l’as¬ soluta solitudine
della sua grandezza » ; e cita i versi ; Non vai cosa nessuna
I moti tuoi, né di .so.spiri è degna La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. Ma dov’ è qui
la solitudine della grandezza, se il Leo¬ pardi vi nega ogni finalità ai
moti stessi del cuore, se cioè non crede che il cuore possa aspirare a
nulla, e tutti i versi sono uno schiacciamento del cuore stanco
sotto r immane fatalità ? Infine : « La Ginestra », dice il
Levi, « è da taluni, non senza un po’ di retorica, esaltata per il suo
conte¬ nuto morale; da altri è trovata troppo arida e raziocinativa. A me
sembra una cosa grande, anche per quella maschia e dantesca sprezzatura,
onde il poeta non rifugge, per rispetto all’ intento morale, dall’
interrompere la sua melodiosa poesia colle pagine ossute di ragionamenti
in versi. Certo le parti più belle sono le meditazioni intorno all’
immensità dell’universo e alla piccolezza dell’uomo, eppoi la straordinaria
descrizione delle eruzioni vesu¬ viane. La bellezza di questa nasce da
cosa molto più alta che non sia l’eccellenza espressiva : e questa è
l’in¬ tensità tragica del pensiero universale simboleggiato, e la
potenza di una personalità, che si colloca di fronte alla natura, e ne
abbraccia e comprende la terribile grandezza senza lasciarsene opprimere ». Ma
io direi che la Ginestra non può esser cosa grande per la cosiddetta
sprezzatura dantesca d’interrompere la poesia con pagine di ragionamenti.
Se vi sono ragiona¬ menti che interrompono davvero la poesia, il
Leopardi, mi pare, sarebbe stato più grande non interrompendo la
sua poesia; dato che la grandezza della poesia non possa essere altro die
il carattere eccellente di una poesia, tanto più poetica, di certo,
quanto più ò fusa e una, e tutta poetica. Vero è che soltanto la retorica
può persua¬ dere ad esaltare la Ginestra per il suo contenuto
morale; poiché questa parte appunto (oltre che la polemica contro
la filosofia e contro Mamiani ROVERE (si veda)) è quella in cui è
compromesso l’equilibrio lirico della poesia; ma mi pare anche un errore
staccare la bellezza delle meditazioni sul contrasto tra la grandezza
sterminata dell’universo e la piccolezza deU’uomo, o ciucila della
descrizione dell’eruzione, dall’organismo, dalla vita di tutta la
])oesia, dove é la vera e sola bellezza, da cui le altre particolari sono
irradiate: e che è, credo, la bellezza della ginestra, del fior gentile,
immagine del Leo¬ pardi, che, mentre tutto intorno una mina involve,
al cielo Di dolcis.simo odor manda un profumo.
Che il deserto consola: l'espressione più delicata della
divina poesia leojìardiana. E dove il Levi afferma con intenzione, che la
bellezza non so se della descrizione delle eruzioni vesuviane o se
di tutta la Ginestra, « nasce da cosa molto più alta che non sia
l’eccellenza espressiva » alludendo a una dottrina estetica, che dice
altrove di non poter accettare, noterò che egli mostra di non aver forse
compreso che s’intende in questa dottrina per espressione : perché
l’intensità tragica che egli vi contrappone non è niente di diverso
dalla espressione, se di questa intensità tragica intende parlare
in quanto la vede nella Ginestra] poiché l’espres¬ sione va cercata
nell’atteggiamento individuale che lo spirito assume di fronte a una
certa materia, e questa, quindi, in lui. Ma c’ è poi quella
personalità, che si colloca di fronte alla natura.... senza lasciarsene
opprimere ? — Qui sa¬ rebbe il proprio della interpretazione del Levi. Né
supplicazioni codarde, né forsennato orgoglio. Ma la ginestra non
supplica semplicemente perché, più saggia dell’uomo, non crede sue stirpi
immortali, e sa pertanto che supph- cherebbe indarno al futuro
oppressore. Non c’ è, dunque, né pur qui, l’individuo che si contrappone
alla crudel possanza, ma la serenità pacata della coscienza della
sua inesorabihtà ; insensibiUtà di saggio antico, più che affermazione
romantica dell’umana personalità. In conchiusione, anche al nuovo
schema filosofico la poesia leopardiana si sottrae e repugna, per
richiudersi sempre ostinata nella naturai veste del suo pathos
lirico. ^l//o scritto precedente il prof. Levi rispose con
alcune osservazioni ingegnose ^ a cui fu replicato con la seguente
lettera : Egregio Professore, Mi par difficile
discutere delle interpretazioni parti¬ colari di questa o quella poesia o
altro documento del pensiero leopardiano senza rimettere in discussione
il concetto generale e quindi i canoni critici del Suo lavoro. Perché
le mie osservazioni singole non miravano a con¬ futare singole opinioni e
determinati giudizi, né a mo¬ strare piccole infedeltà ed inesattezze, sì
bene a far vedere in atto r illegittimità del criterio fondamentale con
cui aveva Ella ricostruito la sostanza dello spirito leo- [Si possono
leggere nella Critica,] pardiano. Così, nella risjiosta che Ella dà a talune
delle mie critiche particolari, mi pare si sia lasciato sfuggire r
intento generale e il significato complessivo del mio articolo. Per
esempio, perché, pur consentendo che nel luogo citato dello Zibaldone con
vita o sentimento dell’esistenza H L. intenda la coscienza,
10 negavo che si dimostrasse la coscienza, ossia il concetto, della
coscienza ? Perché questo concetto, in quanto tale, in quanto parte di
una generale intuizione del mondo, era ciò di cui Ella aveva bisogno per
cominciare a vedere nel Leopardi la filosofia individualistica, in cui
Ella intende riporre l’essenza della più alta poesia leopardiana. Con ciò
io non dovevo attribuire al L. soltanto 11 possesso immediato della
coscienza (com’Ella mi fa dire), che sarebbe stato invero troppo poco: ma
solo un senso vago o, se vuole, una nozione imperfetta, o magari un
concetto, che però non era un vero concetto, della coscienza. Il Leoparch
insomma vede lì la coscienza, ma non la pensa; sicché per lui pensatore
questa coscienza è come se non fosse ; e non può dirsi perciò, che «
praticamente, rispetto a sé e rispetto all’uomo in generale, egli ha
fermato con sufficiente sicurezza la nozione di ciò che in esso è di
natura spirituale e della sua dignità ». Il senso della spiritualità e
della dignità spirituale di sé e dell’uomo in generale sì; e questo
appunto io dicevo essere non il contenuto (la filosofia, il concetto)
della poesia leopardiana, ma la forma (la poesia, la lirica,
l’espressione della personalità del poeta, superiore alla sua
filosofia). Così, sarà verissimo che il Leopardi si creda
infelice perché grande, piuttosto che grande jierché infelice. Ma
questo non ha che vedere con la mia osservazione che, se egli avesse
avuto il concetto della coscienza, avrebbe veduto la propria grandezza in
un grado spiri¬ tuale che è al di sopra del dolore e della infelicità.
La coscienza per lui era la stessa sensibilità, non la coscienza
vera e propria, il superamento della sensibilità, la filosofia del
dolore, che, come filosofia e quindi oggettivazione e vi¬ sione sub
specie aeterni del dolore stesso, non può non liberare da esso il
soggetto. Nel Dialogo della Natura e di un Anima il Leopardi, phi che far
dipendere l’infe¬ licità dalla grandezza, identifica l’una con l’altra.
L’Anima domanda Ma, dimmi, eccellenza e infehcità straordi¬ naria
sono sostanzialmente una cosa stessa? o quando sieno due cose, non le
potresti tu scompagnare l’una dall’altra?» e la Natura risponde; Nelle
anime degli uomini, e proporzionatamente in quelle di tutti i
generi di animah, si può dire che l’una e l’altra cosa sieno quasi
il medesimo : perché l’eccellenza delle anime importa maggiore intensione
della loro vita; la qual cosa im¬ porta maggior sentimento dell’
infelicità propria ; che è come se io dicessi maggiore infelicità ». Dove
è chiaro che la infelicità maggiore è maggiore sensibilità, cioè
eccellenza, grandezza spirituale: perché l’infelicità è tale in quanto è
sentimento di essa, cioè quella vita, nella cui intensione consiste
l’eccellenza dell’animale. E però Leopardi deve ad ogni modo commisurare
la propria grandezza con la propria infelicità ; ciò che egli non
avrebbe fatto, se avesse fermato con sicurezza, sia pure praticamente, la
nozione della vera realtà spirituale, che in lui spontaneamente s’afferma
quando, come per esempio nella sua lettera del 15 febbraio 1828, tra i «
mag¬ giori frutti » che si proponeva e sperava da’ suoi versi
annoverava «il piacere che si jirova in gustare e apprezzare i propri! lavori,
e contemplare da sé, compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo
proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella
al mondo ; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui. Dove c’ è
quel dolore impietrato, di cui io parlavo come dell’unica forma possibile
del dolore in quanto contenuto della coscienza « ; ma di questa coscienza,
e quindi di quella vita del dolore che non è più dolore nella vita
dello spirito il Leopardi non ha coscienza. E però il contrasto
interiore che io vedo nella poesia del Leopardi è identico a quello che
ci vedeva il De Sanctis, anche se, nel passo citato da me, rappresentato
da un solo aspetto; il contrasto tra la ricchezza spirituale della
personalità del poeta e la povertà, per non dire negazione, di ogni
sostanzialità spirituale, propria del con¬ tenuto della sua poesia.
Del Dialogo di Tristano e di un amico non è esatto che il primo
periodo citato da me sia ; « E ardisco desiderare la morte ecc. ». Le parole
precedenti erano state pur da me riferite immediatamente prima fino
a Tristano che non si sottomette alla sua infelicità, né piega il
capo al destino, né viene seco a patti, come fanno gli altri uomini » Ma
queste parole non potevano impedirmi di vedere in quel che segue, e in cui
confluisce il pensiero di quelle stesse parole, e però in tutto il
Dia¬ logo, una negazione piuttosto che un’affermazione: e negazione non
soltanto, come Ella dice, della propria per¬ sona empirica; perché la
morte, pel Leopardi, non di¬ strugge soltanto la persona empirica, ma
tutto l’essere dell’ mdividuo. Mi piace ricordare la felice
osservazione di Sanctis {Studio sul Leopardi). Leopardi ha la forza di
sottoporrei il suo stato morale alla riflessione e analizzarlo e
generalizzarlo, e fab¬ bricarvi su uno stato conforme del genere umano.
Ed aveva anche la forza di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini
e melodie, e fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino il
.suicidio, e appunto perché può trasferirlo nella sua anima di artista e
immaginare] Bruto e Saffo, non c’ è pericolo che voglia imitarU. Anzi, se
ci sono stati momenti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più
felice del poeta o del filosofo nell'atto del lavoro ? — L’anima,
attirata nella contemplazione, esaltata dalla ispirazione, ride negli
occhi, illumina la faccia. Quanto alla differenza di disposizione
spirituale tra ;j pruto minore, per esempio, e il Dialogo tra Plotino
e Porfirio o VAmore e morte, dove si anela alla morte, ma la si
attende serenamente, deposto ogni disperato pen¬ siero di suicidio, non
occorre negarla per non vedere né anche nei componimenti più tardi quella
coscienza jel valore della propria individualità, che Ella ci vede.
^'el detto Dialogo non si cela, almeno io non riesco a scorgere, « quella
robusta fede nella grandezza umana, riconosciuta possibile sempre, perché
bastevole a se stessa ». Se l’essere dell’uomo è la sua vita, quivi si
dice che «la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in
quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di
lasciarla ». E, se non m’inganno, la nota fondamentale del dialogo è
nelle ragioni della tol¬ lerabilità della vita, per misera che sia: le
quali ragioni sono bensì la critica del pessimismo materialistico
del Leopardi, ma restano nella forma di sentimento, baste¬ vole a
conferire al dialogo quell’ intonazione affettuosa che gli è propria, e
sono veramente l’opposto di quella affermazione dell’ individualità dello
spirito, di cui si va in cerca : « Aver per nulla il dolore della
disgiunzione e della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni;
0 non essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di
sapiente, ma di barbaro. Non far ninna stima di addolorare colla
uccisione propria gli amici e i do¬ mestici; è di non curante d’altrui, e
di troppo curante di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se
stesso non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non
la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi
prossimi, e tutto il genere umano; tanto che in questa azione del
privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il
men bello e men liberale amore di se medesimo, che si trovi al
mondo». Se prendessimo atto di questa critica del suicidio — che.
risolvendosi in una serie di asserzioni, vale certo come effusione di
stati immediati deU’animo, ma non come filosofìa — che filosofia
diverrebbe questa del Poeta che ha ragionato sempresul presupposto che la
vita dell’uomo sia racchiusa nella sua sensibilità, e che tutto il
mondo all’uomo non si rappresenti se non nella breve sfera del
piacere e del dolore suo individuale ? Ma, d’altra parte, senza questa
contraddizione interna tra la filosofia dominante nel dialogo e il senso
affettuoso onde il poeta è avvinto ai suoi prossimi e a tutto il genere
umano (cfr. la Ginestra) e che pervade tutta la conversazione
intima di Plotino con Porfirio, dove se n’andrebbe la poesia del
commovente dialogo ? Nell’ intendere come ho inteso il Risorgimento
posso sbagliarmi; e la sicurezza con cui Ella crede si debba intendere
altrimenti, mi fa dubitare forte del mio giu¬ dizio. Ma la ragione che mi
oppone non mi riesce molto persuasiva; c’è, di sicuro, nella poesia una
risposta alle domande: «Chi dalla grave, immemore Quiete or mi
ridesta ? Che virtù nova è questa ?... Chi mi ridona il piangere Dopo
cotanto oblio ? » ecc. ; Da te, mio cor, quest’ultimo Spirto
e l’ardor natio. Ogni conforto mio Solo da te mi vien;
ed è vero che nella quartina precedente l’accento maggiore è nel terzo
verso. Ma è anche vero che questa risposta è la soluzione del problema, in cui consiste
la poesia : l’inaspettato, il miracoloso risorgimento del vec¬ chio
cuore. E quindi il sentimento che regge tutta la poesia mi pare la
meraviglia. Ragione, invece. Ella ha certamente nel correggere il
significato da me attribuito ‘ In un periodo ora non più ristampato
dello scritto precedente. agli ultimi versi del canto A se
siesso; ma pur dopo la correzione, il significato del canto non è punto
favorevole alla tesi dell’affermazione della propria grandezza, gi a
quella del grido della disperazione, comune a quasi tutta la poesia
leopardiana. E nella Ginestra chi negherà il motivo da Lei richia-
luato, della personahtà del Poeta che non si lascia opprimere dalla crudel
possanza della natura ? Ma bisogna vedere quanto questo motivo sia
attenuato qui dall’umile coscienza delle proprie sorti («che con franca
hngua. Confessa il mal che ci fu dato in sorte, E il basso stato e
frale...; ma non eretto Con forsennato orgoglio inver le stelle. Né sul
deserto.... » ecc.), e quasi rammoUito e sciolto nell’amore con cui
l’animo abbraccia tutti gli uomini fra sé confederati, e nella poesia
consolatrice che, commiserando i danni altrui, manda al cielo, come
la ginestra, un profumo di dolcissimo amore, che consola il
deserto. Anche la ginestra, che piegherà il suo capo innocente sotto il
fascio mortai, insino allora non piegherà indarno codardamente supplicando
innanzi al futuro oppressor; ma ciò non toglie nulla alla gentilezza del
fiore di tristi lochi e dal mondo abbandonati amante, né alla solenne
rassegnata pacatezza del vero sapiente cantata dal Leopardi.
Certamente, tutte queste cose meriterebbero di essere chiarite con
un’anahsi più accurata degli scritti leopar¬ diani; e io voglio sperare
che questa discussione possa invogliar Lei, che ha studiato tutte le cose
del nostro grande Poeta con tanto acume e con tanto amore, a non
staccarsene senza prima avervi gittate su la luce di nuove
ricerche. Maestro di vita Giacomo Leopardi ? Il prof. Bertacchi >
si è proposto appunto di « raccogliere dagli scritti di Giacomo Leopardi
e di comporre in multiforme unità gli elementi dell’opera sua nei quali
parlino più alto le feconde ragioni della vita»: «quanto di sereno o di
mcn ; triste ricorre neUe pagine del Nostro; quanto di attivo e di
energico, pur nello stesso dolore, risulta dal senti- j mento, e
dal pensiero di lui.... allo scopo di integrar, ^ se pos’sibUe, la figura
del grande Scrittore ». Per dire la ' cosa più semplicemente e
chiaramente, egli intende illu- | j strare tutti gli elementi ottimistici
propri della poesia .‘1 leopardiana. 1; Elementi che
non mancano certamente nella detta 'i poesia; e costituiscono la
singolare caratteristica del suo j pessimismo, come già osservava sessant’anm
fa il De San- ' ctis nel suo dialogo sullo Schopenhauer (dopo che
allo stesso concetto aveva accennato un ventennio prima *
Alessandro Poerio, in una sua lirica rimasta inedita); , e conferiscono
infatti agli scritti di questo dolente e de- I solato pessimista un’alta
virtù educativa e consolatrice. | E molti studi diligentissimi furono
fatti in questo senso i da Negri, nelle sue Divagazioni, che pare siano
t rimaste ignote al Bertacchi. Ma c’è ottimismo e ottimismo; e la ricerca
del Bertacchi mi pare avviata m una J direzione, che potrà condurre a
falsificare interamente il , carattere dello spirito leopardiano,
attribuendogli un ot- l timismo edonistico od estetico, che solo un
lettore di-A proposito del libro di Bertacchi, Un rft vita-. Sag^o
leopardiano, Il poeta e la natura, Bologna, /a nichelli, igi?-
stratto e superficiale può vedere in alcuni aspetti della sua
sublime poesia. Giacché l’ottimismo del Leopardi è la fede e
l’esaltazione della virtù, della grandezza e della lenza dello spirito,
di quelle necessarie illusioni, come egli le chiama, a cui non trova
posto nel mondo, guar¬ dato come cieco crudele meccanismo naturale; ma
che non perciò egli abbandona, anzi afferma sempre più
vigorosamente: di guisa che il suo mondo triste e doloroso viene da ultimo
purificato e rasserenato in questa intuizione schiettamente
spiritualistica. La quale, d’altra parte, non a\Tebbe il suo proprio
particolar significato, disgiunta dalla negazione pessimistica della vita
dei piaceri e delle gioie naturah, che ne è come la base o il contenuto.
In questa contraddizione intima tra la natura cattiva e lo spirito buono
che in sé accoglie la visione di cotesta natura, consiste proprio la
radice, da cui trae alimento tutta la poesia del Leopardi; per intender
la quale non bisogna lasciarsi sfuggire né l’uno né l’altro dei due
elementi contradittorii. 11 Bertacchi invece crede di poter quasi
cogliere in fallo il Poeta ogni volta che il vivo senso delle bel¬
lezze naturali (poiché in questa prima parte egli studia il Poeta in
rapporto con la natura) fa lampeggiare dentro ai suoi canti una
sensazione di letizia; per modo che, contro r intenzione del Poeta, la
sua poesia tratto tratto scoprirebbe nella stessa realtà naturale
ravvivata dal¬ l’anima dello stesso Poeta le ragioni della vita;
ossia una fonte di dolcezza, a cui il Poeta inconsapevole pur seppe
attingere. Poiché, per lui, « vita è sentire e far sentire il bello e il
sereno di natura; vita ravvisare e creare le fide corrispondenze con essa
», e poi « l’uscirle incontro così, con gli occhi luminosi di gioia o
impre¬ gnati di pianto, narrarle le anime nostre, consenta o
contrasti essa con noi, moltiplicarci, nel suo cospetto, di atteggiamenti
e di modi, circuirla di umani argomenti. ] dedurre dal suo stesso
sensibile le conchiusioni jiiù nostre e i significati inattesi » ecc., e
il Poeta studiato « ne’ suoi fedeli commerci con la natura esteriore »
apparirebbe maestro di vita «spirito vigile e attivo. ])ronto a
fecondarsi d’intorno e a moltiplicarsi le cose » che sdoppia e
ingrandisce e abbellisce con la sua fantasia. Insomma la vita di cui
sarebbe maestro il Leopardi è una vita di piacere | del piacere procurato
dalla intuizione estetica della natura. Tesi in parte ingenua
e oziosa, in parte falsa. Perché se si volesse dire soltanto che il
Leopardi insegna a guardare esteticamente la natura e in generale a dar
vita estetica al mondo sensibile, questo sarebbe verissimo, ma così
del Leopardi come, più o meno, di ogni grande poeta; e non c’ è nessun
bisogno di dimostrare questa tautologia, che un’opera d’arte, qualunque
essa sia, è rappresenta¬ zione estetica; e quel che può avere un
interesse e un significato, è dimostrare nel caso particolare in che modo
un artista rappresenti il suo mondo. Ma la tesi di Bertacchi ha in più la
pretesa d’indicare attraverso questo vagheggiamento fantastico della
bella natura una vita diversa da quella apparsa triste al Poeta: quasi
che questi ne avesse avuto innanzi due, una bella e luminosa e 1 altra
squaUida e buia, e gli occhi di lui, senza ch’egli se ne accorgesse,
fossero attratti più dalla prima, e la luce di questa s’effondesse
sull’altra. Che è una pretesa affatto erronea; e giustificabile soltanto
col criterio dal Bertacchi candidamente esposto fin dalla prima pagina
del suo libro, come norma fondamentale del suo metodo critico.
Quivi infatti dice essere «comunissima sentenza che l’opera d’uno
scrittore non valga solo per sé, ma anche per il modo diverso ond’essa,
quasi, si adatta a ciascuno di noi », poiché « spesso dalla parola d’un
autore, acco- r stata alle anime nostre, si svolgono sensi
ulteriori che l’autore non previde, ma che le affinità degli spiriti e
le somiglianze dei casi vi sanno naturalmente ritrovare.... Il
creatore è creato a sua volta, è rinnovato via via di significazioni e di
uffici ». Sicché il Leopardi maestro di vita è il L. dei sensi ulteriori
e non il L. storico; il Leopardi creato più che il creatore: creato,
s’intende, in questo caso, dal Bertacchi. 11 quale, una volta sul punto
di creare, non è più legato da nessuno dei vincoli onde ogni critico e
storico è legato alle opere che intende interpretare; e può scegliere tra
gli scritti leopardiani quelli soli o di alcuni di essi quelle
parti soltanto, in cui meglio può vedere adombrata l’imma- I gine
del maestro di vita che desidera raffigurare. Così comincerà con lo
scartare le prose ; perché « nella voluta terribile aridità » di queste,
« il pensatore sinistro svolge i suoi tristi argomenti, e noi non abbiamo
agio di aggiungervi nulla del nostro » (nessun senso tiUeriore !) ;
«egh non suscita in noi altro moto che non sia d’atten¬ zione a quella
sua logica amara ». E il Bertacchi vuol dire che lì c’ è il pensiero del
Leopardi, e non c’ è la na¬ tura nei suoi aspetti suscitatori d’immagini
belle: il che non è poi vero, se si considerano almeno la Storia
del genere umano, il Dialogo della Natura e di un Islandese, La
Scommessa di Prometeo e V Elogio degli Uccelli. Pel Bertacchi le Operette
morali sono filosofia e non poesia. — Da scartare poi le poesie in cui il
Poeta «trasferisce nel canto quella materia medesima», malgrado «la
maggior seduzione portata dall’onda del verso, dal periodar musicale,
dalle pur rare imagini che infiorano il discorso qua e là ». E con questi
caratteri il Bertacchi non si pe¬ rita di designare, oltre 1 ’ Epistola
al Pepoli, la Palinodia ed / miovi credenti, canti come II pensiero
dominante. Amore e morte, il Bassorilievo antico e il Ritratto di
bella donna ; definite « Uriche anch’esse di pensiero e infuse di
sentimento » ! — Scartate, almeno questa volta, le poesie in cui il
Leopardi parla bensì diretto al nostro cuore {Sogno, Consalvo, A se
stesso, Aspasia), ma can¬ tando se stesso non esce dall’ambito umano e
sdegna ogni elemento esteriore : giacché « chi legge, anche in tal
caso, è legato alla parola del poeta, e solo la rielabora in sé in quanto
essa gli desti nel cuore un moto di passioni consimili che il cuore abbia
provato esso stesso ». — Da escludersi infine i canti civili {AW Italia,
Monumento di ALIGHIERI, Ad .-l. Mai, Alla sorella Paolina, A un
vinci¬ tore nel pallone) ; sempre per lo stesso motivo, che « si
resta, sebbene con ampiezza maggiore
nell’ordine voluto dal poeta ». Restano le altre poesie, dove il
Leopardi « canta all’aperto » ed effonde il canto dell’anima al cospetto
della natura: «vive con la natura, o almeno, nella natura. E questa
natura, poi, è quasi sempre serena ». Qui il ])oeta Bertacchi, creatore
del creatore, può spaziare a suo agio nel vasto cielo dei sensi
ulteriori. Ecco; «1 paesaggi campestri, le scene umili o grandi in
cui si veniva a comporre l’anima del dolente poeta, sono sempre evocati
nei loro aspetti più belli ; soleg¬ giati sono i suoi giorni; le sue
notti sono stellate e inargentate di luna. La pioggia, che appar malinconica
in un dei giovanili b'ranintenti, e procellosa in un altro,
riappare in Vita solitaria con fresca dolcezza mattutina, attraversata
dal sole che entro vi trema sorgendo». E questa presenza della natura «
non è senza effetto per noi ». Creare qui si può. « Egli, il poeta, potrà
bene, contro ogni serena bellezza, accampar le sue tristi fortune,
o le innate sventure di tutto il genere umano, o l’arcano terribile
dell’esistenza; noi potremmo bene, com’ei vuole, seguirlo nei suoi tristi
argomenti, veder quella bella natura velarsi del dolore di lui, sentir
vivo il contrasto che si agita tra quel poeta e quel mondo: ma, poi,
non possiamo impedire che alcunché di quel bello, di quel sereno
che egli evoca, si apprenda alle anime nostre, e festi in noi quasi a sé,
quasi distinto dai sensi che il poeta vi associa, congiungendosi, anzi,
dentro di noi con quante visioni di giorni dorati e di pure notti
profonde vi si raccolsero negli anni ». Che sarà — anche, come si sarà
avver- t^ito, neh’ onda del verso — una poesia bertacchiana, un
senso ulteriore, che il Leopardi non ci mise (come il Dante della novella
sacchettiana), ma non ha più niente che vedere colla poesia del L. E dove
pare si accenni a un giudizio critico, non può essere altro che una
vaga e soggettiva impressione priva d’ogni valore. Così il
Bertacchi ci dirà che nel Sabato del villaggio e nella Quiete dopo la
tempesta « il poeta ha compromesso il filosofo versandoci con troppa
pienezza nel cuore tutta la poesia soave, tutta l’ondata di vita che
trabocca dalle ore descritteci » ». Che, come giudizio, è un errore,
perché tutta quella poesia traboccante è l’incar¬ nazione deU’ idea stessa
del filosofo, che nel Sabato non si esibisce già nella sentenza finale («
Questo di sette è il più gradito giorno, Pien di speme e di gioia;
Diman tristezza e noia Recheran l’ore »), ma vive in tutta la
rappresentazione precedente: dove tutta la gioia è la gioia d’una
speranza guardata coi mesti occhi della provata delusione: è la soavità della
fanciullezza ma non quale la sente il fanciullo, bensì come la rimpiange
l’uomo già esperto della vita, in cui ad una ad una si son dile¬
guate le speranze lusingatrici della prima età. E bisogna non vedere
questa pietosa malinconia, che prorompe da ultimo, ma s’annunzia già
dalla malinconica donzelletta tornante dalla fatica dei campi sul calar
del sole, cioè chiudere gli occhi su tutta la poesia, per parlare
d’un dualismo tra poeta e filosofo, e d’un poeta che prende la mano
al filosofo. O. c., p. IO. Altro esempio, o L'idillio A llu Lufiu e
1 altro La vtla, solitaria..., pur movendo da uno stato di tristezza,
la¬ sciano tanto agio alle malie naturali, da non permettere a
queUa di farsi vero dolore, la mantengono in una so¬ spensione
fluttuante, nella quale diresti che il poeta sia perplesso sul proprio
stato » >. Ora, il breve idiUio Alla \ luna non fluttua punto, ma
esprime nettissimamente il piacere deUa ricordanza sia pur nel noverare
l’età del proprio dolore; il grato «rimembrar delle passate cose,
ancor che triste, e che l’affanno duri». E la Vita solitaria fluttua
soltanto agli occhi di chi non vegga l’umtà e la sintesi che ne è tema
(neU’anima, s’intende, del poeta, e quindi in ogni parte della sua
poesia) tra la fresca c solenne beUezza della natura e il sospirante
solingo muto, che non trova in essa pietà (« E tu pur volgi Dai
miseri lo sguardo; e tu, sdegnando le sciagure e gh affanni,
alla reina FeUcità servi, o natura »). Ma in tutto il
volumetto non si trova una pagina in cui propriamente il Bertacchi affisi
la poesia del L. invece di vagare nei suoi cari sensi ulteriori.
Dei quali a volte sente come il bisogno di scusarsi, dicendo per
esempio delle Ricordanze che, dopo avere sentito col poe¬ ta, «poi è
naturale, è umano che noi, da parte nostra, riviviamo tutti quei sensi di
vita che, sia pure a cagione di rimpianto, quivi il poeta rievoca; che
essi nell’anima nostra, non afflitta da quelle cagioni, lascino pure
qualcosa della originaria dolcezza; è umano che le stelle dell Orsa
e le lucciole del giardino e il canto della rana remota e j viah odorati
e i cipressi e il chiaror delle nevi si aggiungano, come sorte da noi, alle
sensazioni già nostre, ai retaggi deU’essere nostro»». Umano,
troppo umano, certamente. Ma che lavoro sarà questo ? Sarà poesia
sulla poesia ? Dovrebbe essere. Ma la poesia, per dir la verità, non so
vederla nella prosa agghindata, saltellante e retoricamente sonante del
Ber- tacchi. « Ma il dono che L. fece a se stesso ed a noi, godendo
e mettendoci a parte di tante scene serene, non è il significato maggiore della
complessa sua opera, cede, per importanza, alla virtù ivi profusa
di vivere della natura e di comunicare con essa, quali ne siano gli
aspetti, quali ne siano gli effetti ». « Corrispondenza tra la natura e lui,
che era in se stessa, per lui, elemento e ahmento di vita ». « Quelle
mitologie che, sia pure fingendo e trasfigurando, ci definiscono innanzi
la visione delle cose, non le sgombrano forse di quell’aura
d’arcano e di vago che è tanto cara al poeta, conforme all’ inconscio e
aU’ ignoto onde è come infusa ed effusa la fanciullezza dei singoli, la
giovinezza dei popoli ». «Momenti e motivi reali, più che di pura idea,
sono que’ tocchi ed accenni di cui venimmo parlando; son temi di
canto, perché ci son dati da tale che tutto era uso ad avvolgere in aura
di poesia.... i temi son temi e temi che, comunque, ci attestano come la
stessa malia delle sensazioni infinite fosse cagione per lui a meglio
indugiar sulle cose ed a sorprenderle meglio ne’ loro attimi sacri »
». Né sarà poesia la ritmica prosa, in cui il Bertacchi ama
troppo spesso cullarsi per jiagine e pagine, dove forse i sensi ulteriori
gli soccorrono più lenti alla fan¬ tasia. Ecco, per un esempio, la chiusa
d’un capitolo. Come Saffo e Bruto, pur la Ginestra e il Pastor, le grandi
liriche sorelle nate dalle notti d’ Italia, aggiungono alle notti
medesime qualcosa che prima non c’era. Molti di noi certamente, in
qualche grande ora deU’anima, guardando i cieli notturni, sentirono ripioversi
in cuore un’eco di quei canti stellati, e ripensando al poeta
congiunto da quei canti a quei cieli, ridissero a se medesimi. Egli
è passato di là ». Squarci, dunque, di eloquenza, anzi di oratoria
ritmica ; alla quale potranno non mancare gli ammiratori; ma in cui non
direi che sia ricreato i] L.. Proprio il L. ! Meglio, molto meglio
che quest’oratoria si volgesse a qualche altro tema di risonanze
ulteriori: per esempio a un Cavallotti. Prolusione al Corso di letture
leopardiane che il Comitato della Dante Alighieri di Macerata istituì nel
1927 presso quella Università; nella cui Aula Magna questo discorso venne
pronunaiato il 13 feb¬ braio '27; quindi pubblicato nella Nuova Antologia.
A inaugurare oggi in Italia un corso perpetuo di letture leopardiane c’ è
da essere assaliti da un certo sgomento, per la responsabilità che si
assume. E ciò per un doppio motivo. L’uno, il più ovvio, è che il L. si
rajjpresenta generalmente come un maestro di pessimismo; ed alzare una
cattedra a illustrazione del suo pensiero e della sua poesia può parere
perciò tutt’altro che opportuno in un paese che ha bisogno di reagire
a vecchie e radicate tradizioni d’indifferentismo e scetti¬ cismo e
di allargare il petto ad energici sentimenti di fiducia nelle proprie
forze e ad alte convinzioni di fede nella vita che è chiamato a vivere.
Oggi sopra tutto, che il popolo italiano è raccolto nella coscienza di
grandi doveri da assolvere e nel senso della necessità di rifare
nella disciplina, nel lavoro, negli ordinamenti civili, nella educazione
della gioventù a maschi propositi e metodi di vita l’antica fibra del carattere
nazionale. E sarebbe questo il momento di diffondere nei giovani e nel
popolo gli ammaestramenti pessimistici del poeta, la cui poesia non
si gusta senza sentire con lui tutta la miseria di questa vita e
l’inanità d’ogni sforzo che si faccia per medicarla? Motivo grave
di esitazione e titubanza; ma che, lo confesso, non turba tanto l’animo
mio quanto l’altro che vi si aggiunge a far temere un pericolo nella
istitu¬ zione che oggi si inaugura. Giacché chi abbia anche una
elementare conoscenza della poesia leopardiana, sa bene che il suo
pessimismo non ha mai fiaccato, anzi ha rinvigorito gli animi; e lungi dallo
spegnere, ha infiam¬ mato nei cuori la fede nella vita, nella virtù e
negl’ ideali che fanno degna e feconda la vita umana degl individui
e dei popoh. Ma il più preoccupante sospetto è che L., come già altri poeti e
sopra tutto Dante, argo¬ mento di letture pel pubbhco, diventi anche lui
materia di quel malfamato genere letterario che troppo è stato
coltivato negh ultimi tempi dagl’ Italiani, e che dicesi delle «conferenze»;
genere che vorremmo avesse fatto il suo tempo, e potesse ormai relegarsi
tra le smesse abi¬ tudini dell’anteguerra. Giacché bisogna che gl’
Italiani si persuadano che, se si vuol far davvero, e stare tra le
grandi Potenze, ed essere un popolo vivo, serio, temibile, realmente
concorrente con gli altri popoli che sono alla testa della civiltà nel
dominio del mondo materiale e morale, bisogna romperla col passato. Dico
col jiassato dell’accademia e della «letteratura», dei sonetti e
delle cicalate, degli eleganti ozi e trattenimenti per dame e colti
signori in cerca di onesti passatempi, più o meno noiosi; in cui ogni
argomento era buono purché legger¬ mente, discretamente, spiritosamente
trattato, o agitato con oratoria adatta a mover gli affetti e
guadagnare gli applausi: ma in cui né dicitore mai, né ascoltatori
debbano sentirsi impegnati, pel solo fatto di parlare o di ascoltare, a
sentire seriamente, schiettamente, con tutta l’anima, e a pensare, a
trarre da quel che si dice o si apiilaudisce, conseguenze che siano norme
di con¬ dotta e quasi cambiali che prima o poi scadranno e si
dovranno scontare. La conferenza, si sa, non è un discorso da comizio, in cui
oratore e pubblico, in buona fede, e anche in mala fede, compiono
un’azione e si pre¬ parano a compierne altre; e non vuol essere una
predica, che debba edificare un uditorio di fedeli. L’ ideale è che
nessuno vi sbadigh ma neppure vi s interessi tropjio, nessuno vi si
riscaldi; e a trattenimento finito, ognuno Si ge ne
torni a casa con lo stesso animo — vuoto con è venuto alla
conferenza. Ideale vecchio per gl’ Italiani. Sorse e si
sviluppò durante il Rinascimento, quando dall’umanista venne fuori
il letterato, e nacquero, fungaia che si estese rapi¬ damente per tutto
il suolo del bel Paese, tutte quelle accademie dai nomi strani e
burleschi che attestavano es«i stessi la frivolezza dei propositi e la
spensieratezza jegli studiosi perditempo che \’i si riunivano; accademie,
che pullularono in tutte le città e borghi d’ Italia dalla nietà del
Cinquecento in poi, e di cui molte ancora resi¬ stono al sorriso, al
sarcasmo e al fastidio degli spiriti nioderni e alla storia, e
vivacchiano oscuramente sul margine dei bilanci dello Stato nelle
provincie e anche nelle maggiori città ricche di tradizioni letterarie, a
danno delie istituzioni più utili e più serie. All’ombra delle ac¬
cademie vegetò tutta la vecchia cultura italiana, esanime e priva d’un
profondo contenuto e interesse religioso, morale, filosofico, umano;
poesia senza ispirazione, filo¬ sofia alla moda, erudizione per
l’erudizione, scienza per la scienza, nessuna fiassione, né anche nella
letteratura politica, che legasse il pensiero alla persona e la
persona al suo pensiero. Una repubblica delle lettere, in cui
l’uomo non era cittadino della sua patria, né padre della sua
famiglia, né credente della sua religione, ma puro spirito innamorato di
astratte forme, senza attinenza con la pratica della vita e con la realtà
degl’ interessi personali. Cultura intellettualistica, di cervelli magari
pieni zeppi di notizie peregrine e di squisite nozioni e
raffinatezze di arte, ma senz’anima, senza cuore, senza né odi né
amori. Cultura estranea alla vita; che era poi vita senza cultura,
cioè senza riflessione e senza idealità ; la vita degli uomini proni alla
frivolità e agl’ interessi particolari, chiusi ad ogni alto e generoso
sentimento e ad ogni idea la cui attuazione richiedesse fatica e sforzo. Gentile,
MaiXrZoni e L.. Chi non conosce queste debolezze dello spirito
italiana nei secoli della decadenza ? Chi non sa che 1’ Italia ^
risorta tra le nazioni quando s’ è vergognata di quella cultura e di
quella letteratura, e con Parini ed Allieri ha cominciato a sentire che
il poeta dev’essere pur uoiuo e che poesia, come ogni altra forma
d’ingegno, vuoi dire pure volontà, carattere, umanità ? Chi non sa
che j)ur dopo la miracolosa risurrezione di quest’attesa fra le
genti, come fu delta 1’ Italia, si sentì che essa sarebbe stata una
creazione effimera ed insignificante senza gl; Italiani ? Cioè senza
Italiani che cominciassero a unire e a fondere insieme quel che avevan
sempre diviso, l’in. teUigenza e la volontà, la letteratura e la vita, la
scienza e gl’ interessi concreti e attuali deH’uomo, facendola
finita jier sempre con l’accademismo e con la rettorica e con tutta la
vecchia sapienza scettica dell’ « altro è il dire e altro è il fare »,
per cominciare a prender sul serio tutto, a lavorare tenacemente, a
sentire come proprio r interesse comune, a stringere la propria sorte a
quella della patria, a sentirla perciò questa patria come intima a
sé e tale da meritare che per lei si viva e che per lei si muoia ? Chi
non sa che la vecchia Italia rifatta di fuori si doveva pur rifare di
dentro? Questa almeno l’aspirazione del Risorgimento. Ma venuto meno
lo slancio morale di quell’età eroica, tale aspirazione si attenuò e fu
meno sentita; e nei riposati tempi di pace e di raccoglimento succeduti
al periodo agitato della rivoluzione e della formazione del Regno,
certi vecchi spiriti dell’anima italiana tornarono a galla; nel rifiorire
della cultura (che certamente molto s’avvantaggiò di quei decennii ultimi del secolo
scorso, in cui r Italia parve godersi le prospere condizioni
acquistate con l’unità) risorse con gioia l’antico gusto idillico c
arcadico della letteratura, della cultura intellettualistica ed elegante;
e da Firenze, centro di questa rifioritura letagraria, fecero epoca le conferenze
prima sulla vita italiana e ]50Ì sulla Divina Commedia. L’esem]no fu
imitato jn tutte le principali città, e i conferenzieri più
brillanti f celebrati viaggiavano da una tribuna all’altra recando
j„ giro le loro arguzie, i loro motti ed aneddoti, le loro pagine
patetiche e scintillanti, a gran diletto, si diceva, del lor^^ pubblico
di dilettanti di cultura a buon mercato. Perché a certe conferenze, con
certi nomi, di dire che l’ora é lunga a passare pochi hanno il
coraggio. L. non può esser materia di conferenze. Vi si
ribella la pudica delicatezza della sua anima sensibilissima, che cerca i
luoghi solinghi e i silenzi della notte dove il suo canto possa spandersi
in una religiosa elevazione di tutto il cuore verso l’eterno e l’infinito;
dove il pastore po.ssa interrogare la luna, e l’uomo stare a fronte
della natura, e ragionare tra sé e sé de’ più gelosi segreti del suo
cuore. Vi si ribella la religiosa austerità del suo spirito tormentato
dal mistero del dolore universale. Non amerebbe egli, schivo com’era e
orgoglioso della sua solitaria grandezza, mostrarsi al pubblico e
far suonare la sua voce esile e tremante di commozione in mezzo a
un numeroso uditorio distratto e proclive a mondani pensieri e a cure di
frivola oziosità o di vanità letteraria. No, quanti amano il
Poeta, non tollereranno che anche L. venga alle mani dei pedanti, dei
letterati, dei conferenzieri; e che ei diventi materia e pretesto
di vane esercitazioni onde gli animi si alienino dai problemi che
fanno yiensoso ogni uomo che viva e rifletta sulla sua vita con vigilante
coscienza morale. E io inizio questo corso formulando il voto e, per
cyuanto è da me, fermando il programma, che qui sia sempre vivo e
presente L. poeta, che è il L. degli
uomini, e non Leopardi dei letterati, degli accademici, dei curiosi, dei
pettegoli e dei perditempo. Giacché L. fu anche un erudito ap.
passionatissimo ; anzi, ricorderete, si rovinò la comples. sione e si
precluse la via a ogni godimento della vita per la furia con cui nella
età più giovanile si gettò sugli studi per puro amore di sapere. Per
molti anni aspirò, finché la perduta salute e la vista indebohta non gli
ebbero create difficoltà insormontabili, ad essere un filologo
consumato. Delle questioni letterarie, un tempo delizia degli accademici,
fu anche lui studiosissimo, ancorché ironicamente guardasse dall’alto,
per la coscienza che ebbe del suo più squisito gusto e della sua più
perfetta dottrina, le accademie italiane antiche e recenti. Ma la
sua anima non si chiuse né nella filologia, né nella letteratura. Se ne
servì come di strumenti a vedere e sentire più addentro nel proprio
animo, e di grado in grado elevarsi alla sua forma di poetare. Egli (e la
prova più manifesta è in quel suo diario dello Zibaldone) visse
sempre raccolto e concentrato in se stesso: osservando la vita, studiando
gli uomini, speculando sulla natura e sull’anima umana, indagando i
destini dei mortali e le forme onde l’uomo rifrange nel suo cuore e nel
suo iiensiero la luce di tutte le cose, da cui si vede attorniato. Il
suo pensiero è una continua, commossa meditazione su se stesso, in
forma che ora rimane un filosofema, ora assurge a fantasma, e vibra e rifulge
agli interni occhi trepidanti. Leopardi, con diversa temperie
spirituale e cultura diversissima, è dell’età stessa del Manzoni : figlio
di quella nuova Italia che guarda la vita religiosamente, e ne
sente il valore e la serietà; profondamente differente da quella
anteriore aH’Alfieri e al Farmi, quando i poeti italiani cominciarono ad
accorgersi che nella stessa poesia c’è il vuoto se non c’è tutto l’uomo;
l’uomo, che è legaio da intìniti vincoli e in tutti gl’ istanti
della sua vita a una divina realtà, governata da leggi che domano
e annientano ogni arbitraria velleità dei singoli; a una realtà, in
cui il singolo uomo viene a trovarsi nascendo da cui si diparte morendo,
ma in cui deve inserire e jnserisce, con 0 senza frutto e vantaggio, ogni
sua azione, ogni suo gesto, ogni sua parola, ogni suo pensiero o sentimento,
durante tutta la vita, dal dì della nascita a quello jella morte. Anche
Leopardi, razionalista e irrisore di superstizioni e di dommi, è uno
spirito profondamente religioso, sempre faccia a faccia del destino:
incapace di abbandonarsi a qualsiasi sorta di dilettantismo, e di
prendere alla leggiera i problemi della vita. Sul suo viso è sempre un
sorriso di austera, solenne mestizia, e si scorge il pacato accoramento
dell’uomo che non riesce a distrarsi in vani divertimenti, neppure nel
mondo subbiettivo del pensiero e dell’ imaginazione : tutto preso dalla
considerazione ine\'itabile del mondo, in cui l’uomo, ed egli in
particolare, si sforza di vincere il dolore. Per questa sua
costituzionale religiosità Leopardi non fu soltanto un poeta, ma fu anche
un filosofo, allo stesso titolo e per la stessa ragione di MANZONI. Bisogna
intendersi. Se domandate ai filosofi, diciam così, di professione, ai
filosofi cioè che tengono a distinguersi dal resto degli uomini, essi vi
risponderanno che Leopardi filosofo non fu, non ebbe un sistema; e le
idee speculative che si formò per la lettura dei filosofi recenti
più affini al suo modo di sentire, non ebbero da lui svolgimento e impronta
personale, perché non furono fecon¬ date da una sua speciale ispirazione.
Accettò, riecheggiò, Ria senza elaborare quel che accettò, senza
svilupparlo, ordinarlo e potenziarlo a nuova forma sua propria di verità.
In una storia della filosofia ei perciò non può trovar posto; quantunque
di lui non si possa non parlare di stesamente in un quadro della cultura
filosofica della prima metà del secolo passato. In questo senso,
d’accordo, Leopardi non fu un filosofo. Ma c' è un altro senso in
cui si deve parlare della filosofia; ed è quello poi per cui la stessa
filosofia dei filosofi è una cosa seria, va rispettata, e può
interessare tutti gli uomini, e non essere una malinconica
fantasti¬ cheria di gente che viva fuori del mondo. Ed è quello per
cui c’ è la filosofia di quelli che inventano nuovi sistemi filosofici; ma c’è
anche la filosofia di quelh che, senza inventarne, li cercano questi
sistemi nei libri dove sono esposti, e leggono questi libri, li studiano,
ne fanno prò, li gustano, han bisogno di farsene nutrimento e forza
dello spirito, in cerca di risposta a domande che sorgono spontanee dal
fondo della loro anima, insistenti, invincibili, e che essi perciò non
saprebbero reprimere e far tacere. Talvolta questi filosofi-lettori
sentono il pungolo dei problemi dei filosofi-autori, e fanno perciò ressa
intorno a costoro, jjer averne soddisfazione ai bisogni da cui sono senza
tregua assillati. Giacché, insomma, la filo¬ sofia, come la poesia, non è
privilegio né monopoho dei pochi quos aequus amavit luppiter] ma è in
fondo allo spirito umano, e quindi nell’animo di tutti. Soltanto,
c’ è chi si distrae e corre e si disperde per le cose e gl’ interessi
esteriori, senza mai per altro dissiparsi a tal punto nelle esteriorità
da non portare in tutto l’accento, per quanto leggiero, della sua
personalità; e c’ è chi si ripiega e raccoglie in sé, e dentro di sé
cerca, trova e coltiva il germe della sua vita e del suo mondo.
In questo senso più largo e fondamentale il Leopardi fu
squisitamente filosofo: e stette sempre anche lui con gli occhi intenti,
ansiosi, sopra il mistero della vita, quale ad ogni uomo che sente e che
pensa esso si presenta in jiìczzo a tutte le idee quotidiane, di tra il
confuso agitarsi passioni svariate che gli tumultuano incessantemente
pel cuore. Giacché ogni uomo che sente, non può vivere così spensierato e
abbandonato all’ istinto da non av¬ vertire che la sua vita non scorre
tranquilla com’acqua sopr^ un letto già scavato e terso. Sono sempre
ostacoli da superare, bisogni da soddisfare, desideri! non ancora
appagati e ondeggianti tra la speranza e il timore; e la gioia offuscata
sempre dal dolore, che, vinto, risorge in mezzo allo stesso ]ùacere; e
nell’alterna vicenda di vittorie e sconfitte, cadute e risorgimenti, speranze
e disinganni, giubilo e scoramento, in fondo, alla fine, uno
sparire totale di tutto, un disseccarsi e inaridirsi definitivo
della sorgente stessa, a cui l’uomo accosta ad ora ad ora le sue
labbra assetate; il nulla, la morte. La morte, che ci atterrisce prima di
colpirci, toghendoci per sempre e an¬ nientando intorno a noi tante delle
nostre persone care, con cui ci era comune la vita, in guisa che la morte
loro ci pare la morte di una parte di noi. E che è questa morte ? e
che questa vita che precipita fatalmente nella morte ? Che è questo
bisogno di cui viviamo, di non arrenderci a questo fato, che infrange ad
una ad una tutte le nostre speranze, disperde tutte le nostre
gioie, ci priva di tutti i nostri beni, ci chiude dentro mille ostacoli.
ci combatte, c’ insegue, ci sbarra la via, e non ci concede tregua finché
non ci abbatta per sempre ? Nascere è entrare in una lotta, che di giorno
in giorno richiede sempre nuove e maggiori forze, e una volontà
sempre più agguerrita, per vincere una battaglia sempre più aspra.
Svegliarsi ogni mattina è, presto o tardi, pronti 0 lenti, rispondere
all’appello delle cose, della natura, del destino, che ci attende, e ci
spinge a nuove fatiche per soddisfare i nuovi bisogni che riempiranno
tutta la nostra giornata. Per gli uni la vita sarà più facile, o men
difficile: ma per tutti è una scala, che bisogna salire; salire sempre;
da un gradino all’altro: sempre più senza fermarsi mai. Ma,
appena l’uomo che ha un cuore, sente quest affanno e scorge, anche da
lungi, la tragedia e la catastrofe” non può non interrogarsi e riflettere
se a questa lotta ché par destinata a una sconfitta assoluta egli abbia
forz. sufficienti, o se non sia un’ illusione questa jier cui egfi
confida a volta a volta di poter affrontare la lotta stessa per
conquistarsela la sua gioia, e farsi insomma una vita sua, quale ei la
vagheggia, filiera dai mali la cui minaccia mette in moto la sua
attività; e se egli non debba aprire gli occhi, e riconoscersi vittima
del giuoco inesorabile della natura, granello di polvere sperduto nel
turbine, o ruota di un ingranaggio universale, il cui combinato
movimento non s’arresterà né devierà mai, e dentro i] quale ogni sforzo
di volontà non può essere, esso mede¬ simo, al pari delle idee e dei
sentimenti che lo solleci¬ tano, se non un necessario effetto di una
causa necessaria predeterminato ab eterno in eterno. £ il mondo, in
cui si svolge la nostra vita, una realtà massiccia, tutta chiusa
neUa sua natura e nelle sue leggi, immodificabile, e noi dentro di esso,
tutt’uno con tutte le altre cose, anche noi mossi dalla forza
irresistibile del destino ? 0 siamo noi veramente capaci di metterci di
fronte a ciuesto mondo, modificarlo con la nostra opera, con la
nostra volontà, e al di sopra delle ferree leggi del meccanismo
naturale col nostro amore, con l’impeto dell’animo no¬ stro innamorato
dell’ ideale, instaurare una legge che sia la norma del bene e di un
mondo spirituale dotato di un valore assoluto ? E se non fosse possibile
questo mondo superiore, in cui il bene si distingue dal male, e c è
una verità che si oppone all’errore, come si potrebbe pensare lo stesso
mondo inferiore e quella natura spietata tutta chiusa nel suo meccanismo, la
cui affermazione implica che si ritenga vera? E se a questo
mondo superiore, alla cui esistenza occorre l’attività libera dello
spirito che sceglie il bene e si apprende alla verità resping^n*^ contrario, se
ne contrappone un altro che è la nepzione della hbertà, come si farà ad
ammettere che sia libera la natura umana, circondata e condizionata da
una natura che è l’opposto della hbertà ? Pensieri, che il filosofo
più esperto mette in formule stringenti, e scruta a fondo; ma che
confusamente, e non perciò meno tormentosamente, affiorano in ogni
umana coscienza, e ora vi gettano lo sgomento, ora v’ infondono la fede di cui
ogni uomo ha bisogno per non fermarsi e cadere. Giacché 1 uomo non dà un
passo senza credere di poterlo dare; senza pensare che c’è una mèta
innanzi a lui da raggiungere, e che quella è la via buona per giungervi.
E quando questa convinzione gli manchi, e gli manchi del tutto, allora
non gli resta che rifugiarsi nell’ Èrebo, come la misera Saffo. O la
fede, o la morte. Ci sono mezzi termini, ma per gh uomini che pensano e
sentono poco, e perciò si cUstraggono. Nessuno invece sentì mai cosi
acutamente come il nostro Leo¬ pardi. nessuno vi pensò mai con tanta
insistenza, e ne trasse espressioni di tanta umanità. Poiché il
Leopardi se fu un filosofo in largo senso, fu poi, viceversa, un
poeta in senso stretto. Il che vuol dire, che le sue convinzioni
filosofiche non gli rimasero nella testa; ma gli scesero al cuore, e \'i
si abbarbicarono, e furono la sua persona, lui stesso, la sua anima, 1
immediato sentimento, in cui \ibrò a volta a volta tutto il suo cuore. La
sua concezione della vita, come or ora vedremo, si chiuse in poche
idee, ma queste si fusero e colarono ardenti sulla stessa fiamma
della sua passione viva, e quindi fiammeggiarono in accenti e fantasmi di
poesia. La quale questo ha di proprio, a differenza della scienza ragionata e
del sapere speculativo; che in questi il pensiero si spersonahzza e
si stende in una tela universale, che ogni intelligenza può SÌ ritenere, e
far sua, e viverne anche, ma elevandosi sopra di sé e quasi uscendo da
sé, e mediandosi, cioè svolgendosi, e quasi aprendo e dilatando il nucleo
vivente della sua individualità, in guisa da parere che non senta
più né affetti, né passioni, né gioie, né dolori, assorta nella contemplazione
del suo oggetto. Laddove la poesia, lungi dall’alienare da sé il
soggetto, lo stringe a se stesso, e lo fa vedere immediatamente così come
esso è, dentro di se medesimo, chiuso nel suo sentire, fremente nel
brivido della sua subbiettiva interiorità, nel suo essere e nel suo
atteggiamento non ancora mediato, sviluppato, riflesso, ragionato e
disindividuato. Lo scienziato cerca e trova la verità che è di tutti,
astrattamente obbiettiva, in guisa che non par più né anche spettacolo di
occhi umani od oggetto conformato alla mente che lo pensa; e il
poeta in^’ece non cerca e non trova se non se stesso: l'amore o
qual’altra passione gli detta dentro le parole in cui egli si
esjirime. In questa immediatezza, spontaneità e quasi naturalità dello
spirito poetico è il segreto della miracolosa potenza della poesia,
raffigurata dagli antichi nella virtù incantatrice della lira di Orfeo,
che traeva a sé e trascinava non pure gli uomini che riflettono, ma le fiere
che solo sentono. Perciò la poesia, quantunque richieda anch’essa
cultura e finezza spirituale, risultato di studio e di educazione,
s’appiglia al cuore dei semplici e delle moltitudini, invade gli animi,
conquide e trae seco non per virtù di persuasivi e irresistibili
raziocinii, ma, appunto, d’un tratto, immediatamente, quasi per divino
miracolo. Perciò Tefficacia e la virtù diffusiva dell’arte è senza
paragone superiore a quella della filosofia. Perciò quella
filosofia, che fu nel Leopardi sentimento e diventò sublime poesia, ha una
potenza infinitamente maggiore di qualunque più sistematica filosofia; e
se si chiudesse nel gretto circolo di una concezione pessimistica della
vita, non sarebbe, a dir vero, prudente accorgimento di educatori del popolo
italiano erigere qui una cattedra a commento ed esaltazione di essa. I
filosofi, per raggiungere la loro verità, devono salire l’erta faticosa
del monte; e giunti alla cima, vi restano per solito in una solitudine
magnanima, anche a malgrado della moltitudine che dal basso sogguarda e
sogghigna. I poeti si traggono dietro il popolo, toccandone il cuore
anche lievemente, con quella loro arte che « tutto fa, nulla si
scopre ». Leopardi è tra essi; ma materia del suo canto è la sua
filosofia. E qual è dunque il contenuto di questa sua filosofia ?
Quello che abbiamo già detto dei problemi filosofici, che spontaneamente
sorgono dal fondo del pensiero umano, ci apre la via a chiarire le idee
che furono la vita intellettuale e sentimentale del nostro Poeta. 11 quale su
quei problemi martellò il suo pensiero; e di quei problemi
vagheggiò soluzioni, che scossero profondamente il suo animo. E sono i
problemi fondamentah o massimi della filosofia: che è pensiero umano
derivante dal bisogno di assicurare all’uomo la fede che gli è
indispensabile per vivere: la fede nella propria libertà; ossia nella possibilità
che egli ha, e deve avere, di esercitare un suo giudizio, di conoscere
una verità, di agire, e farsi un suo mondo, conforme cioè alle sue
aspirazioni e a’ suoi ideali e non dibattersi vanamente in una rete di
illusioni e di sforzi infecondi. Bisogno, rispetto al quale ogni
filo¬ sofia materiahstica, evidentemente, è una filosofia fallita;
la quale, logicamente, se l’uomo non si risolvesse da ultimo a non
lasciarsi più guidare dalla logica e ad abbandonarsi all’ istinto, dovrebbe
condurre l’uomo, come ho detto, al suicidio. Ora Giacomo L., ogni
volta che si trovò a fare di proposito una professione di fede, fu
esplicito nel manifestare la sua adesione alla filosofia sensualistica
e materialistica; e il Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco,
inserito nelle Operette morali, è una dichiarazione del suo proprio
pensiero, quale, per altro, si ripercuote in una buona metà de’ suoi
scritti in prosa e in verso. Poiché da per tutto egh si vede innanzi
quella natura simbolicamente rappresentata nel Dialogo della Natura e di
un Islandese', la quale non sa e non si cura dei desiderii né delle
sofferenze umane; natura grande, enorme, infinita, la quale racchiude
in sé tutto, e non conosce perciò l’uomo che pretende di
contrapporsele, di deviarla dal suo corso, piegarla alle proprie
tendenze, conformarla a quei fantasmi di una vita bella ideale, che egli
si finge e pretende di far valere in concorrenza della dura, quadrata
realtà che lo fronteggia. Questa perciò, conosciuta che sia, spezza ogni
umana velleità, e aggioga l’uomo al dominio universale delle leggi di
natura: dove non c’è bene né male, ma tutto è necessario, tutto accade
perché, data la causa che lo determina, non può non accadere; e la stessa
necessità ha ogni umano pensiero o volere, che non deriva da un principio
autonomo, che si faccia centro di una vita superiore e indipendente,
avente in sé la propria misura, ma è effetto del generale meccanismo, che
si abbatte sulla così detta anima umana attraverso le sensazioni e gh appetiti
che queste producono. Filosofia materialistica, dunque. Ma è questa,
in conclusione, la filosofia del Leopardi ? Io \’i invito a riflettere
che c’ è due modi di giungere a conclusioni ma¬ terialistiche : uno
proprio degh spiriti poco sensibih, che, raggiunte quelle conclusioni, vi
si rassegnano: le trovano inevitabili, e si fanno un dovere, il cui
adempimento non costa a loro grande fatica, di accettarle senza
reazione di sorta; e l’altro invece proprio di quegli altri, che se
non trovano la via di affrancarsene, e scoprirne l’errore e la
manchevolezza, ne soffrono, e vi reagiscono contro, e vi si ribellano con
tutta la forza del loro sentimento, che ò come dire della loro stessa
personalità. I secondi non riescono ad affisarsi tanto nella visione di
quella natura che è opposta alle esigenze morali proprie dell’uomo, da
restarvi come assorbiti, dimenticandosi af¬ fatto di queste esigenze, e
cioè della lor propria natura. Il loro tormento, la loro angoscia nasce
appunto da questo stridente contrasto, di cui essi infine vengono a
fare l’esperienza, e a vivere. La realtà finale, al cui cospetto
vengono a trovarsi, non è una sola, ma duplice: da una parte, la natura
disumana, in cui tutte le luci onde s’il¬ lumina la via dello spirito si
spengono; e dall’altra, questa realtà fiammeggiante e splendida, che arde
dentro di loro, e alla cui luce, infine, essi comunque guardano e vedono
la prima. Giacché anche questa è oggetto di una affermazione, in cui lo
spirito umano manifesta la fede che ha nelle proprie forze e nella
propria capacità di distinguere il vero dal falso, e di appigliarsi al
primo in quanto esso è opposto al secondo. La realtà che è lì di
fronte allo spirito, è sì quella realtà naturale, materiale, meccanica,
chiusa e impervia ad ogni idealità, inconciliabile con qualsiasi concetto di
libertà; ma il contrapporsi di essa allo spirito importa pure l’opporsi
dello spirito ad essa: dello spirito, che è una realtà dotata di
attributi contrari a quelli con cui vien pensata l’altra. E per ammettere
questa, bisogna ammettere prima quella ; senza la quale mancherebbe lo
stesso pensiero, a cui si chiede tale ammissione. E chi dice pensiero,
dice libertà. Dunque ? Siamo liberi ? Possiamo cioè col nostro
pensiero, con la nostra volontà, crearci il mondo che ci sorride
alle menti innamorate; il mondo della verità, delle cose belle e buone, a
cui il nostro cuore tende con irresistibile slancio ? E come spiegar
l’ali, onde noi vorremmo innalzarci nel libero cielo dell’ ideale, se esse
urtano sul muro di bronzo di questa materiale natura, che ci attornia e
stringe da tutte le parti, dalla nascita alla morte ? Ecco
l’esperienza del Leopardi, ecco la sua lìlosofìa, che è molto ]ùù
complessa del semjjlicismo materialistico; ed essa è il reale contenuto
della poesia leopardiana: quella filosofia fatta sentimento e persona,
che ho detto esser materia al canto del Poeta recanatese. 11 quale
non si rassegna alla pura affermazione materialistica, perché la
ricca e sensibilissima vita morale che gli riempie il cuore, è la
negazione del materialismo; e poi perché egli è un poeta, e come ogni
poeta crede nel suo mondo, lo prende sul serio; e questo suo mondo è la
])rova più luminosa della sua capacità creatrice e della sua
libertà. Si consideri che questo è uno dei caratteri principali
dell’arte : che laddove l’uomo pratico, lo scienziato, l’uomo religioso,
lo stesso filosofo può sentirsi legato a una realtà che prcesiste alla
sua azione, alla sua ricerca scientifica, alla sua preghiera o alla sua
speculazione, che è in sé quello che è, con le sue leggi, a cui l’uomo
deve arren¬ dersi e subordinarsi, l’artista crea il suo mondo e,
prescindendo nella sua fantasia dalla realtà preesistente, celebra la sua
assoluta libertà, arbitro della nuova realtà che egli si finge, e in cui
vive, e si aliena dal mondo naturale dell’uomo comune e della sua stessa vita
ordinaria: sì che il suo sogno diventa a lui cosa salda, e si slarga
a orizzonti infiniti, e gli fa sentire il gusto deH’cterno e del
divino. La poesia del Leopardi ribocca e freme di tre¬ pidante tenerezza
per le vaghe immagini figlie dell’arte sua: per quelle dolci parvenze che
un po’ gli sorridono e poi, a un tratto, lo abbandonano rapite via dalla
corrente di quella disumana realtà, che ignora il dolore che essa cagiona
ai cuori teneri e gentili. E insieme con le immagini belle, gli arridono
tutte quelle che una volta egli dice le « beate larve », familiari agli
uomini non ancora giunti alla conoscenza del tristo vero, ossia non
ancora spinti dalla malsana riflessione alla disperazione (ji quella
mezza filosofia, che è il materialismo: le beate lar\e, che allietano e
confortano la vita agli uomini, nelle antiche età, e nei primi anni della
fanciullezza e della gioventù quando non ancora si sono appressate
le labbra all’amaro calice della vita; e nelle prime ore del
mattino, (juando incomincia il giorno e Tuomo non ha riassaporato per
anco la realtà, e se ne foggia con 1’ immaginazione una che lo anima e alletta
alla nuova fatica. Le beate larve delle illusioni naturali e necessarie :
di tutte, cioè, le idee che formano il pregio della vita, e che
quella filosofia materialistica non potrà giustificare come dotate
di un legittimo fondamento, e pur non potrà sradicare dallo spirito
umano. Perche illusione la virtù ? Perché illusione ogni idea
onde ebbe pregio il mondo ? Perché la vita che noi cono¬ sciamo, risponde
il Leopardi, ne è la negazione. Ricordate il dialoghetto di un venditore
d’almanacchi e di un passeggere ? L’almanacco promette per l’anno nuovo
tante cose belle; ma il passeggere è scettico; «quella vita eh’ è
una cosa bella non è la vita che si conosce, ma (jueUa che non si conosce
; non la vita passata, ma la vita futura ». La quale però un giorno sarà
passata, e allora si conoscerà, e apparirà quale sarà aneli'essa, una volta
sperimentata; brutta, come tutta la vita passata. 11 futuro è il mondo
che vi finge lo spirito; il mondo, dice Leopardi, delle illusioni. Lì è la
virtù che vince il male e trionfa; lì è il sacrifizio dell'uomo per
l’uomo; lì è l’amore; lì è la fede e l’amicizia; lì è la gioia, ecc. Ma
quello non è il mondo reale. Infatti il futuro bisogna che avvenga,
e diventi passato. La realtà realizzata, quale noi possiamo averla
innanzi a noi, ed effettivamente conoscerla, quella ci disillude, e ci
dimostra che la virtù è un nome vano. e che tutte le più vaghe speranze e
gl’ ideali più cari finiscono nel nulla. Tant’ è che Tuomo
conchiuda o per condannare come semplici ombre fallaci tutte le
illusioni, e dire che la vita non si può governare se non in rapporto al
reale all’esistente, al mondo qual è (che è poi il passato); o per
risolversi animosamente a dir no a questo mondo reale (che è il passato
senza futuro) e a governarsi con l’occhio all’avvenire, dove lo trae la
sua natura di es¬ sere pensante, e perciò creatore di ideali e
vagheggiatore di una vita superiore a quella puramente naturale. E L.
dice questo no con tutta la forza del suo animo, con tutto r impeto della
sua possente poesia. Egli è tutto proteso verso il futuro, verso
l’ideale, e torce con coscienza prometeica lo sguardo dalla legge fatale
che incatena l’uomo come essere naturale alla ferrata necessità di morte.
Egli, di cedere inesperto, disprezza il brutto poter che ascoso a comun
danno impera e V infinita vanità del tutto. Per lui Nobil
natura è quella Ch’a sollevar s’ardisce Gli occhi mortali
incontra Al comun fato. E quanto a sé non cederà certo ; e alla
morte può dire: Erta la fronte, armato, E renitente al
fato. I.a man che flagellando si colora Nel mio sangue
innocente Non ricolmar di lode. Non benedir....
Solo aspettar sereno Quel dì eh’ io pieghi addormentato il
volto Nel tuo virgineo seno. Egli è conscio dell’ invitta
potenza dell’anima umana pur nell’estrema miseria. Vivi, dice la Natura
all’Anima jn uno de’ suoi dialoghi; vivi, e sii grande e infelice.
Infelice perché grande; perché sentire la infehcità è solo jelle anime
grandi, che con la loro gagharda natura si jnettono al di sopra del
mondo, che le fa soffrire, e regnano sovrane in quella superiore realtà che è
propria dello spirito. Leopardi sa che la grandezza del suo dolore
si commisura alla grandezza del suo pensiero che lo sente e analizza e ne
fa materia al suo altissimo canto; e che un’anima volgare e torpida non
saprebbe provare tutto il dolore del Poeta, che il volgo infatti non
intende e irride. Leopardi sa che la coscienza dell’umana miseria è
già segno di grandezza. Sa che ancor che tristo, ha suoi di¬ letti
il vero: che l'acerbo vero, a investigarlo, dà un amaro gusto che piace.
E poi quando l’anima, disillusa e stanca della vita che non mantiene mai
le sue promesse, si ri¬ duca infatti all’estremo della infelicità, che
non è la di¬ sperazione, ma la noia >, la morte ncUa vita, non
dolore né piacere, ma il sentimento della nullità, questo terri¬
bile privilegio degli uomini, a cui la natura non ha provveduto perché non ha
neppur sospettato che l’uomo vi potesse cadere; quella noia che, a
simiglianza dell’aria «la quale riempie tutti gl’intervalli degh altri
oggetti, e corre subito a stare là donde questi si partono, se
altri oggetti non gli rimpiazzino », « corre sempre e immedia¬
tamente a riempire tutti i vuoti che lasciano negli animi de’ viventi il
piacere e il dispiacere » ’ ; ebbene, anche allora l’anima non cade, non
è vinta. Giacché, secondo Leopardi, « la noia è in qualche modo il più
sublime dei sentimenti umani. Il non potere essere soddisfatto da ’
« La disperazione è molto, ma molto più piacevole della noia. La natura
ha provveduto, ha medicato tutti i nostri mali possibili, anche i più
crudeli ed estremi, anche la morte, a tutti ha misto del bene, a
tutti.... fuorché alla noia» (Zibald.). Zibald., Giuntile, Manzoni e
Leopardi. alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra
intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il nu¬
mero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e
piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi
infinito, e 1 universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio
nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre
accu- sg^re le cose d’insufficienza e di nullità, e patire manca¬
mento e vóto, e pero noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di
nobiltà, che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agh
uomini di nes¬ sun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali » Su
tutte le delusioni, su tutti i dolori, su tutte le miserie, al di sopra
della mole sterminata di quest’uni¬ verso, in cui s’infrangono tutte le
speranze e si spen¬ gono tutti gl’ideah, l’infinità dello spirito. Quindi
la hbertà, quindi la possibilità di crearsi una vita superiore
degna delle più nobili aspirazioni connaturate all’animo umano. Anche pel
Leopardi, poca scienza pregiudica e mortifica, ma molta scienza ravviva e
ringaghardisce la fede di cui l’uomo ha bisogno per vivere. E questa
natura, che la mezza filosofia del materialista ci rappresenta in
voley mutyignu, è pur quella natura che mette nel¬ l’animo nostro le
illusioni; e se non sopravvenga la riflessione e l’opera dcU’ irrequieto
ingegno dell’uomo non più contento delle condizioni naturali della vita
che egli dapprima vive istintivamente, conforta l’uomo con l’amore,
con la pietà, con tutti gli affetti gentili che riempiono il cuore di
dolci consolazioni e di magnanimi ardimenti. Pensieri, N. 68. Questa
natura che governa Tuomo, madre benigna e pia nell’età dei Patriarchi,
nei tempi oscuri e favolosi del genere umano, e risorge amorosa nella
prima età di ciascun uomo a infondergli con la virtù del caro imma¬
ginare la speranza nel futuro a cui egli va incontro; questa natura, che
nell’amore torna sempre a rinverdire le speranze, e che ci fa conoscere
una « verità piuttosto che rassomighanza di beatitudine»; essa torna da
capo, quando l’uomo ha tutto conosciuto il tristo vero e vuo¬ tato
il calice amaro, torna a confortare l’uomo, amica e consolatrice. La
natura del materialista è via; ma non è punto di partenza, né punto
d’arrivo. 11 savio torna fanciullo, e alla fine, come al principio,
l’uomo è alla presenza di un mondo il quale non è quello del meccanismo,
che tutto travolge e distrugge quanto a lui è più caro, ma quello del
pensiero, dello spirito umano, dell’amore, della virtù. Onde ai suggerimenti
egoistici della filosofia (nel Dialogo di Plotino e di Porfirio) che
indurrebbe il filosofo al suicidio, Plotino può rispondere :
<iPorgiamo orecchio piuttosto alla natura che alla ragione»'. alla
natura primitiva « madre nostra e dell’universo », la quale ci ha infuso
un certo senso dell’animo, che è amore degli altri e che ferma la mano al
suicida ricordandogli la famigha, gli amici e quanti si dorrebbero della
sua morte. Perciò a Porfirio, il filosofo che vorrebbe togliersi la vita,
il filosofo più savio, il maestro, Plotino dirà: Viviamo, e
confortiamoci a vicenda; non ricusiamo di portare quella parte che il destino
ci ha stabilita dei mali della nostra specie ! Sì bene attendiamo a
tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando e dando mano e
soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa
fatica della vita.E quando la morte verrà, allora non ci dorremo :
e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci
conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti,
cosi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora. Perciò
Sanctis paragonando Schopenhauer a Leopardi, notava questo grande divario
tra n filosofo tedesco e il poeta italiano: che questi quanto più
mette in luce il deserto desolante e disamabile della vita, tanto
più ce la fa amare; quanto più dichiara illusione la virtù, tanto più ce
ne accende vivo nel petto il desiderio e il bisogno. Perciò la lettura
del Leopardi non sarà mai pericolosa, anzi salutare e corroborante a chi
saprà leg- gergh nel fondo dell’anima. E di lui può dirsi che preso
per metà è il più nero dei pessimisti; preso tutto intero, è uno dei più
sani e vigorosi ottimisti che ci possano apprendere il segreto della vita
operosa e feconda. La morte, anche la morte, il simbolo della
fatalità avversa che opprime ogni sforzo umano, e che pare mi¬
nacci sempre da lungi e ammonisca della inanità d’ogni speranza e d’ogni
fatica, e della nullità della vita a cui ci sentiamo tutti legati, la
stessa morte al Poeta, nella maturità piena della sua poesia, quando il
suo animo ha più nettamente ravvisato e sentito nel profondo la sua
verità, e quasi toccato il fondo di se stesso, diventa germana di Amore,
che è pel L., come s’ è veduto, ciò che dà verità più che rassomiglianza
di beatitudine. Fratelli, a un tempo stesso. Amore e Morte
Ingenerò la sorte. Cose quaggiù si belle Altre il
mondo non ha, non han le stelle. Morte diviene una bellissima
fanciulla, dolce a vedere; e gode accompagnar sovente Amore: E
sorvolano insiem la via mortale. Primi conforti d’ogni saggio
core. Non vedo che abbia attirata l'attenzione della critica,
come merita, uno studio recente del prof. Cirillo Berardi, Ottimismo
leopardiano, Treviso, bongo e Zoppelli,
Il Poeta sente che Quando noveUamente Nasce nel cor
profondo Un amoroso affetto. Languido e stanco insiem con
esso in petto Un desiderio di morir si sente: Come, non so:
ma tale D’amor vero e possente è il primo effetto. Il
Poeta vuol rendersi ragione di questa coincidenza, e non vi riesce. Ma
ben sente che quando si ama, non ha più valore la vita naturale dell’
inditdduo chiuso nei suoi limiti, di là dai quah spazia quell’ infinita
natura che fiacca ogni umana possa. Che anzi l’individuo per
l’amore scopre che la sua vera vita è di là da questi hmiti; e che
bisogna ch’egli perciò muoia a se medesimo, e spezzi r involucro della
sua individuahtà naturale, centro di ogni egoismo, per attingere la vera
vita. Perciò la morte opti gran dolore, ogni gran male annulla. Perciò la
morte è liberatrice, affrancando lo spirito umano dai vincoli onde
ogni uomo è da natura incatenato a se medesimo, chiuso in sé, in mezzo
agli altri esseri e forze naturali, incapace di libertà e di virtù. Amare
è redimersi, en¬ trare nel mondo morale, che è il mondo della
libertà. Questo il concetto che il Poeta sentì e visse:
questa la materia del suo canto. Formiamo oggi l’augurio, che
attraverso il corso di queste letture, che inauguriamo, tale concetto
apparisca in luce sempre più chiara. Pubblicato la prima volta negli
Annali delle Università toscane (Pisa) e come proemio alla edizione con note
delle Operette morali di G. L., da me curata, Bologna, Zanichelli, Se si
volesse considerare le Operette morali come una raccolta delle varie
parti, in cui il libro è diviso, sarebbe tutt’altro che agevole
stabilirne la cronologia. Certo, non sarebbe consentito di starsene alle
indicazioni fornite con perentoria precisione dallo stesso autore innanzi
alla terza edizione iniziata a Napoli. Queste Operette », egli diceva, «
composte nel 1824, pubblicate la prima volta a Milano, ristampate in
Firenze coll’aggiunta del Dialogo di un Venditore di almanacchi e di
un Passeggere, e di quello di Tristano e di un Amico; tornano ora alla
luce ricorrette notabilmente, ed accresciute del Frammento apocrifo
di Stratone da Lampsaco, del Copernico e del Dialogo di Plotino e di
Porfirio. Intanto, non tutte le Operette
furono pub¬ blicate la prima volta a Milano; giacché tre di esse,
come « primo saggio », avevano visto la luce a Firenze nel gennaio 1826, nell’
Antologia e quell’anno stesso erano state riprodotte a Milano nel Nuovo
Ricoglitore. Ed è pur vero che tutte le Operette, ad eccezione di quelle
che nella notizia testé riferita sono assegnate dall’autore furori
composte; perché l’autografo originale, che è tra le carte leopardiane
della Biblioteca Nazionale di Napoli, ce ne Scritti letterari, ed.
Mestica, li, fa sicura testimonianza con
le date apposte alle operette singole, e tutte correnti dal 19 gennaio al
13 dicembre di quell’anno Ma si dovrebbe pure distinguere il tempo
in cui ciascuno scritto fu steso, da quello in cui prima fu concepito, o
ne cadde il motivo fondamentale e inspi¬ ratore nell’animo del Leopardi.
Giacché con qual fonda¬ mento si toglierebbe l’una o l’altra delle
Operette a docu¬ mento di quel periodo spirituale che si suole infatti
atribuire agli anni tra il canto Alla sua donna con i Frammenti dal greco di
Simonide (apparte¬ nenti probabilmente a quello stesso tempo), e
l’epistola Al Conte Pepoli o II Risorgimento, se quei pensieri che sono
caratteristici delle Operette risalgono ad epoca più remota ? Fu già
osservato j che negli Abbozzi e appunti per opere da comporre, che
sono fra le carte napoletane, «scritti in piccoli foglietti staccati
senza indicazione di tempo » 3 , è segnato un Ecco le singole date, già
in parte pubblicate dal Chiarini, Vita di G. Leopardi, Firenze, Barbèra,
e da me riscontrate tutte sul manoscritto autografo (che si conserva
tra le Carte della Biblioteca Nazionale di Napoli): Storia del genere
umano); Dialogo d' Ercole e di Atlante; Dialogo della Moda e della Morte;
Proposta di premi; Dialogo di un Lettore di umanità e di Sallustio;
Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo ; Dialogo di Malamhruno e di
Farfarello; Dialogo della Natura e di un’.dnima; Dialogo della Terra e della
Luna; La scommessa di Prometeo; Dialogo di un Fisico e di un Metafisico;
Dialogo della Natura e di un Islandese; Dialogo di Tasso e del suo
Genio familiare (i-io giugno); Dialogo di Timandro e di Eleandro; Il Parini,
ovvero della gloria; Dialogo di Ruysck e
delle sue Mummie; Detti me¬ morabili di Ottonieri. Dialogo di Colombo e
di Gutierrez); Elogio degli
Uccelli; Cantico del Gallo silvestre; Note, Da N. Serban, L. et la France, Paris,
Champion, I Avvertenza premessa agli Scritti vari ined. di G. L. dalle
carte napoletane, Firenze, Le Monnier, Dialogo della natura e dell’uomo,
sul proposito di quella parlata della natura, all’uomo, che Volney le
mette in bocca nelle Ruines sulla fine, o vero nel Catéchisme » dialogo,
che si trova nelle Operette col titolo di Dialogo della Natura e di
un'Anima) il quale, dunque, al tempo di quell’appunto non era scritto.
Pure nello stesso foglietto, segue un « TrattateUo degli errori popolari
degli antichi Greci e Romani » (che non può essere la stessa cosa
del Saggio), e quindi subito dopo: « Comento e ri¬ flessioni sopra
diversi luoghi di diversi autori, sull’andare di quelle ch’io fo in un
capitolo del F. Ottonieri»; ossia nel penultimo capitolo dei Detti
memorabili, che è delle ultime operette del '24. Ora, se questi appunti
sono per¬ tanto da ascrivere ad epoca posteriore a tale data, in
qual modo spiegarsi che del suo Dialogo della Natura e di un’Anima
l’autore parlasse come di opera da com¬ porre ? O egli non aveva neppur
composti i Detti me¬ morabili, e si riferiva ai materiali che vi avrebbe
messi a profitto, e che già, come vedremo, possedeva ?
Comunque, in altra serie di appunti, relativi, come par probabile,
a dialoghi tuttavia da scrivere, e tutti segnati nel medesimo foglietto,
s’incontrano, tra gli altri, i seguenti argomenti: Salto di Leucade)
Egesia pisitanato) Natura ed Anima) Tasso e Genio) Galan¬ tuomo e
mondo) Il sole e l’ora prima, o Copernico. Ed ecco, da capo, il Dialogo
della Natura e di un’Anima, ma ac¬ canto a un altro dialogo. Galantuomo e
mondo, che l’autore abbozza, per tornarvi sopra nel '24, senza con¬
durlo tuttavia a termine e la sua prima idea pertanto deve risalire. E
secondo lo stesso docu¬ mento, contemporanei sono i disegni primitivi di
altre [Vedi abbozzo negli Scritti vari, Il foglietto relativo,
riscontrato per me dall’amico prof. V. Spampanato, è nelle Carte leo¬
pardiane della Bibl. Nazionale di Napoli, nel pacchetto X, fase. 12.
quattro operette, due del '24 e due del '27. Giacché, oltre il
Dialogo del Tasso e del suo Genio e il Copernico, qui son pure facilmente
ravvisabili in Egesia pisitanato la prima idea del Dialogo di Plotino e
di Porfirio > ; e nel Salto di Leucade quella del Dialogo di
Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez e in Misénore e Filénore
quella del Dialogo di Timandro e Eleandro 3. E il documento
certamente dimostra che del Plotino e del Copernico, scritti entrambi,
come s’ è veduto, nel '27, non solo il concetto, ma anche la forma in cui
il concetto si ])re- sentò alla mente del Leopardi, non è posteriore
alle Operette. E c’ è altro. Stando alla cronologia dataci
dai docu¬ menti, r Ottonieri fu composto nell’ultimo mese d’estate
del 1824; ma un’anahsi molto accurata dei singoli Detti, riscontrati coi
Pensieri di varia filosofia e di bella lette¬ ratura, ha dimostrato, in
modo incontestabile, che in questo scritto « liberamente il Leopardi
raccolse dal suo Zibaldone gh appunti più singolari e umoristici;
certo intendendo a una vaga e libera somiglianza e rispecchiamento delle
proprie opinioni, ma più col fine di pubblicare qualche parte del
materiale accumulato giorno per giorno». Sicché s’è creduto poter
conchiudere che nell’ Ottonieri al Leopardi « venne fatto un centone, non
un’operetta come le altre organicamente intessuta » 4. Scegliamo infatti
un paio d’esempi, tra i tanti che si potrebbero riferire. Nel cap.
Ili dell’ Ottonieri si legge : > Egesia infatti è ricordato nel
Plotino. Cfr. quel che dice di questo Salto il Colombo e Pensieri. Questo dialogo infatti originariamente recava
il titolo di Dia¬ logo di Filénore e di Misénore. Luiso, Sui
Pensieri di L., nella Rassegna Nazionale. Dice che la negligenza e
l’inconsideratezza sono causa di commettere infinite cose crudeli o
malvage; e spessissimo hanno apparenza di malvagità o crudeltà; come, a
cagione di esempio, in uno che trattenendosi fuori di casa in qualche suo
passatempo, lascia i servi in luogo scoperto infracidare alla pioggia;
non per animo duro e spietato, ma non pensandovi, o non misurando
colla mente il loro disagio. E stimava che negli uomini l’incon¬
sideratezza sia molto più comune della malvagità, della inu¬ manità e
simili; e da quella abbia origine un numero assai mag¬ giore di cattive
opere; e che una grandissima parte delle azioni e dei portamenti degli
uomini che si attribuiscono a qualche pessima qualità morale, non sieno
veramente altro che incon¬ siderati. Idee che fin dall’ ii
settembre 1820 il Leopardi aveva sbozzate nello Zibaldone dei suoi
Pensieri, scrivendo: La negligenza e l’irriflessione spessissimo ha
l’apparenza e produce gh effetti della malvagità e brutaUtà. E merita di
esser considerata come una delle principali cagioni della tristizia
degli uomini e delle azioni. Passeggiando con un amico assai
filosofo c sensibile, vedemmo un giovinastro che con un gros.so
bastone, passando, sbadatamente e come per giuoco, menò un buon colpo
a un povero cane che se ne stava pe’ fatti suoi senza infastidir nessuno.
E parve segno all’amico di pessimo carattere in quel giovane. A me parve
segno di brutale irriflessione. Questa molte volte c’induce a far cose
dannosissime e penosissime altrui, senza che ce ne accorgiamo (parlo
anche della vita più ordinaria e giornaliera, come di un padrone che per
trascuraggine lasci pe¬ nare il suo servitore alla pioggia ecc.), e
avvedutici, ce ne duole; molte altre volte, come nel caso detto di sopra,
sappiamo bene quello che facciamo, ma non ci curiamo di considerarlo e lo
fac¬ ciamo cosi alla buona; considerandolo bene, noi non lo
faremmo. Così la trascuranza prende tutto l’aspetto e produce lo
stessis¬ simo effetto della malvagità e crudeltà, non ostante che
ogni volta che tu rifletti, fossi molto alieno dalla volontà di
produrre quel tale effetto, e che la malvagità e crudeltà non abbia
che fare col tuo carattere Pensieri di varia filosofia e di bella
letteratura, no Voltando appena pagina, nell’ Ottonieri si torna a
leggere; Ho udito anche riferire come sua, questa sentenza. Noi
siamo inclinati e soliti a presupporre, in quelli coi quali ci avviene
di conversare, molta acutezza e maestria per iscorgere i nostri
pregi veri, o che noi c’ immaginiamo, e per conoscere la bellezza o
qualunque altra virtù d’ogni nostro detto o fatto; come ancora molta
profondità, ed un abito grande di meditare, e molta me¬ moria, per
considerare esse virtù ed essi pregi, e tenerli poi sem¬ pre a mente:
eziandio che in rispetto ad ogni altra cosa, o non iscopriamo in coloro
queste tali parti, o non confessiamo tra noi di scoprirvele.
E anche questo pensiero, quantunque in forma com¬ pendiata a mo’ di
appunto, era già nello Zibaldone; Noi supponiamo sempre negli altri
una grande e straordi¬ naria penetrazione per rilevare i nostri pregi,
veri o immaginari che sieno, e profondità di riflessione per
considerarli, quando anche ricusiamo di riconoscere in loro queste
qualità rispetto a qualunque altra cosa. E il numero di
simili riscontri è tale che pochi sono i luoghi dell’ Ottonieri di cui
non si trovi la prima prova nei Pensieri degh anni anteriori. Non sarà
dunque da dire che nel ’24 l’autore abbia dato soltanto la forma
defini¬ tiva a questa operetta, facendone, come ad altri è sem¬
brato, un centone di sue osservazioni di tre e quattro anni prima ?
Né la domanda vale unicamente per l’ Ottonieri. Anche del Parini è
stato notato che la sostanza è già nei Pensieri [ b Caratteristico
questo luogo del cap. IX, dove l’autore fa dire al Parini; Come
città piccole mancano per lo più di mezzi e di sussidi onde altri venga
all’eccellenza nelle lettere e nelle dottrine; e V. tra gli altri
B. Zumbini, Studi sul L., Firenze, Barbèra, - 04, II, 42; e Losacco, in
Giorn. stor. letter. Hai., come tutto il raro e il pregevole concorre e si
aduna nelle città grandi; perciò le piccole.... sogliono tenere tanto
basso conto, non solo della dottrina e della sapienza, ma della stes.sa
fama che alcuno si ha procacciata con questi mezzi, che l’una e
l'altre in quei luoghi non sono pur materia d’invidia. E se per
caso qualche persona riguardevole o anche straordinaria d’ingegno e
di studi, si trova abitare in luogo piccolo. Tesservi al tutto unica, non
tanto non le accresce pregio, ma le nuoce in modo, che spesse volte,
quando anche famosa al di fuori, ella è, nella consuetudine di quegli
uomini, la più negletta e oscura persona del luogo.... E tanto egli è
lungi da potere essere onorato in simili luoghi, che bene spesso egli vi
è riputato maggiore che non è in fatti, né perciò tenuto in alcuna stima.
Al tempo che, giovanetto, io mi riduceva talvolta nel mio piccolo
Bosisio; conosciutosi per la terra eh’ io soleva attendere agli studi, e
mi esercitava alcun poco nello scrivere; i terrazzani mi riputavano
poeta, filosofo, fisico, matematico, medico, legista, teologo, e perito
di tutte le lingue del mondo; e m’interrogavano, senza fare una
menoma differenza, sopra qualunque punto di qual si sia disciplina o
fa¬ vella intervenisse per alcun accidente nel ragionare. E non per
questa loro opinione mi stimavano da molto; anzi mi credevano minore
assai di tutti gli uomini dotti degli altri luoghi. Ma se io li lasciava
venire in dubbio che la mia dottrina fosse pure un poco meno smisurata
che essi non pensavano, io scadeva ancora moltissimo nel loro concetto, e
all’ultimo si persuadevano che essa mia dottrina non si stendesse niente
più che la loro. Mirabile pagina, piena di verità. Ma essa trae
origine da riflessioni jiersonali e autobiografiche già dal
Leopardi segnate sulla carta fin dall’ottobre 1820;
Spessissimo quelli che sono incapaci di giudicare di un pregio, se
ne formeranno un concetto molto più grande che non dovrebbero, lo crederanno
maggiore assolutamente, e contuttociò la stima che ne faranno sarà
infinitamente minor del giusto, sicché relativamente considereranno quel
tal pregio come molto minore. Nella mia patria, dove sapevano eh’ io ero
dedito agli studi, credevano eh’ io possedessi tutte le lingue e
m’interrogavano indifferentemente sopra qualunque di esse. Mi stimavano
poeta, rettorico, fisico, matematico, politico, medico, teologo ecc.,
insomma enciclopedicissimo. E non perciò mi credevano una gran cosa, e
per T ignoranza, non sapendo che cosa sia un letterato. non mi credevano
paragonabile ai letterati forestieri, malgrado la detta opinione che
avevano di me. Anzi uno di coloro, volendo lodarmi, un giorno mi disse: A
voi non disconverrebbe di vivere qualche tempo in una buona città, perché
quasi quasi possiamo dire che siate un letterato. Ma, s’ io mostravo che
le mie cognizioni fossero un poco minori ch’essi non credevano, la loro
stima scemava ancora e non poco, e finalmente io passavo per uno
del loro grado Né soltanto la cronologia diventa un problema
di difficile soluzione, una volta sulla via di siffatti riscontri.
I quali però non sono possibili se non dove si consideri ciascun elemento
del pensiero del Leopardi astratto dalla forma che esso ha nelle Of
erette. Che se si guarda a questa, è facile scorgere, per esempio, la
superficialità del giudizio, che abbiamo ricordato, per cui l ’Ottonieri
non sarebbe nient’altro che un centone di luoghi dello Zibaldme. E si
badi, d’altra parte, a non prendere né anche questa forma in astratto,
quasi la forma speciale del tale passo delle Operette, il quale abbia un
antecedente più o meno prossimo nello Zibaldone (quantunque, pur
così intesa, essa sia sempre nei due casi profondamente diversa). Anche
questa è una forma astratta; perché la vera forma assunta in concreto da
ciascuna parte di un’opera è quella tal forma soltanto in relazione
con tutta l’opera, in conseguenza del motivo fondamentale, ossia di
quel certo atteggiamento spirituale, in cui l’autore si trovò
componendola. Sicché un centone si può certamente trovare anche in un’opera che
abbia una salda e vivente unità organica, ma solo pel fatto che si
pre¬ scinda da questa unità, e si cominci a indagarne il con¬
tenuto, decomposto meccanicamente nelle singole parti, Pensieri, dalla cui
somma a chi se ne lasci sfuggire lo spirito pare che l’opera risulti. Che
è quello che è stato fatto per le prose leopardiane da tutti i critici
che se ne sono oc¬ cupati, ora considerando e giudicando le singole
operette ad una ad una, ora sminuzzando Cuna o l’altra di esse in
una serie di frammenti facilmente rintracciabili in altri scritti, in
verso e in prosa, dello stesso L. (dando l’idea d’un Leopardi che ripeta
inutilmente se stesso), o in precedenti scrittori, massime francesi
del secolo XVIII (in confronto dei quali poi tutta l’originalità dello
scrittore svanirebbe). Il maggior critico che il L. abbia avuto, il De
Sanctis; se ha sdegnato ogni ricerca analitica e mortificante di fonti e
confronti, fermo nella dottrina, che è sua gloria, dell’
inseparabilità del contenuto dalla forma nell’opera d’arte, e perciò
della necessità di cercare il valore e la vita di quest’opera
nell’accento personale, nell’ impronta propria, onde ogni vero artista
trasfigura la sua materia; non s’è guardato tuttavia né pur lui, di
cercare la vita nelle parti, la cui serie forma il contenuto del libro,
anzi che nel tutto, nell unità, dove soltanto può essere l’anima e
l’origina¬ lità dello scrittore. E ha creduto di poter cercare, per
così dire, un Leopardi in ciascuna delle operette, presa a sé, invece di
cercare il Leopardi di tutte le operette, che sono un’opera sola.
In primo luogo, sta di fatto che, ad eccezione del Venditore di
almanacchi e del Tristano, con cui nel '32 l’autore volle tornare a
suggellare il pensiero delle Ope¬ rette, tutte le altre pullularono
dall’animo del Leopardi nello stesso tempo, da un medesimo germe d’idee e
di sentimenti, da una stessa vita. Abbiamo visto che il Copernico e
il Plotino erano già in mente al poeta quand’ei vagheggiava il suo Tasso,
il Colombo e fin lo stesso Ti- mandro; e meditava insomma quegli stessi
pensieri, che presero corpo nelle Operette del '24; con le quah
infatti, poiché nel '27 l’ebbe scritte, l’autore sentì che dovevano
accompagnarsi. 11 all’amico De Sinner, che gh chiedeva scritti inediti da
potersi pubblicare a Parigi, scriveva : « Ho bensì due dialoghi da essere
aggiunti alle Operette, l’uno di Plotino e Porfirio sopra il
suicidio, l’altro di Copernico sopra la nullità del genere umano.
Di queste due prose voi siete il padrone di chsporre a vostro piacere:
solo bisogna eh’ io abbia il tempo di farle copiare, e di rivedere la
copia. Esse non potrebbero facilmente pubbhcarsi in Italia » '. Ma
avvertiva subito, che da soU questi dialoghi non potevano andare; e
tornava a scrivere al De Sinner: «Dubito che le mie due prose inedite
abbiano un interesse sufficiente per comparir separate dal corpo delle
Operette morali, al quale erano destinate»*. Quanto al Frammento
apocrifo di Stratone da Lampsaco, esso è del ’25; cioè immediatamente
posteriore alle altre prose compagne; anteriore ad ogni tentativo fatto
dall’autore per pubbli¬ care le Operette. Alle quali, nelle edizioni
parziali e totali fattene a Firenze e a Milano, era ovvio che l’autore
non potesse pensare ad includerlo a causa del crudo mate¬ rialismo
che vi è professato, c che le Censure non avreb¬ bero lasciato
passare. Ma, lasciando per ora da parte queste cinque ope¬
rette [Stratone, Copernico, Plotino, Venditore d’almanacchi e Tristano)
che vennero successivamente ad aggiungersi alle prime venti, è certo che
queste venti, composte tutte di seguito in un anno di lavoro felice,
furono dall’autore scritte e considerate come parti d’un solo tutto. E
quando ebbe in ordine il suo manoscritto completo, escluse che le
singole operette potessero venire in luce alla spic¬ ciolata. Nel
novembre del ’25 sperò poterle pubblicare Epistolario, Firenze, Le
Monnier, * Epistolario, nella raccolta delle sue Opere, che un editore
amico vo¬ leva fare allora in Bologna; e, andato a monte quel di¬
segno, fece assegnamento sugli aiuti efficaci del Giordani, al quale
consegnò il manoscritto affinché gli trovasse un editore: con tanto
desiderio di vedere stampata la sua opera, che scrive impaziente a Papadopoli
: « I miei Dialoghi si stamperanno presto, perché se Giordani, che ha il
manoscritto a Firenze, non ci pensa punto, come credo, io me lo farò
rendere, e lo manderò a Milano » >. Ma da Firenze scrivevagh il
Vieus- seux il 1° marzo : « Giordani, usando della facoltà lasciatagli,
mi passò il bel manoscritto che gli avevate confidato, dal quale abbiamo
estratto alcuni dialoghi, che troverete riferiti nel n. 61 dell’Antologia,
ora pubbhcato, eh’ io ho il piacere di mandarvi. Graditelo come un pegno
del mio fervido desiderio di vedere il mio giornale spesso fregiato
del vostro nome; e più del nome ancora, dei vostri eccel¬ lenti scritti.
Sento che queste Operette morali verranno probabilmente pubbhcate costà,
e ne godo assai pel pubblico, e per voi, tanto più che sembrano meglio
fatte per comparire riunite in una raccolta, che spartite in un
giornale » ». Quella prima pubblicazione, dunque, non fu altro che un
saggio. Del quale L. scrive all’amico Puccinotti: «I miei Dialoghi
stampati ntW Antologia non avevano ad essere altro che un saggio, e
però furono così pochi e brevi ». E soggiungeva 1 « La scelta fu fatta
dal Giordani, che senza mia saputa mise l’ultimo per primo » 3 ;
affermando così che tra i dialoghi c’era un ordine, e ciascuno doveva
tenere il suo posto. Proponendo pertanto la stampa dell’opera
intera al¬ l’editore Stella di Milano, gli scriveva: « Ha ella
veduto [Lett. del 9 nov. al fratello Carlo, in Epist., II, 47. »
Nell' Epist. del L. 3 Epist., II, 142-43. il numero 6i dell’
An tologia, gennaio 1826 ? E pene¬ trato, ed ha avuto corso in cotesti
Stati ? Vi ha ella ve¬ duto il Saggio delle mie Operette morali ? Le
parlai già. in Milano di questo mio mano¬ scritto. Ne abbiamo
pubblicato questo saggio in Firenze per provare se il manoscritto
passerebbe in Lombardia. Giudica ella che faccia a proposito per lei ?...
Tutte le altre operette sono del genere del Saggio, se non che ve
ne ha parecchie di un tono più piacevole. Del resto, in quel manoscritto
consiste, si può dire, il frutto della mia vita finora passata, e io 1’
ho più caro de’ miei occhi » '. Questa lettera è del 12 marzo ’26. 11 22 di
quel mese lo Stella rispondeva : « Ho letto il Saggio ; ed ella ha
ben ragione d’amar cotanto quel suo manoscritto ». 11 fascicolo
dell’Antologia era stato ammesso dalla Censura, ma l’editore non credeva di
poterne tuttavia sperare altresì l’approvazione per la stampa Avrebbe
provato: intanto gli facesse sapere la mole del manoscritto. E il
Leopardi subito a riscrivergli, il 26 : « Confesso che mi sento molto
lusingato e superbo del voto favorevole che ella accorda alle predilette
mie Operette morali. 11 manoscritto è di 311 pagine, precisamente della forma
del ms. d’Isocrate che le ho spedito, scrittura egualmente fitta di
mio carattere. Sarei ben contento se ella volesse e potesse esserne
l’editore.... La prego a darmi una risposta concreta in questo proposito tosto
ch’ella potrà » i. Lo Stella, per saggiare le disposizioni della Censura
milanese, chiese licenza di ristampare nel suo Nuovo Ri¬ coglitore i
dialoghi usciti nell’ A ntologia ; « de’ quali », scriveva all’autore il
1° aprile, « poi formerò un opuscolo a parte che mi farà strada a
pubblicar tutte queste, da 0 . c., Lei chiamate Operette, che lo saranno
per la mole, non pel pregio certamente » «. Perciò il 7 il L.
affret- tavasi a mandargli la nota dei molti errori incorsi nella
stampa fiorentina, insistendo nel desiderio che lo Stella assumesse
Tedizione del libro intero ; che il 26 si disponeva a inviargli : « Debbo
però pregarla caldamente di una cosa. Mi dicono che costì la Censura non
restituisce i manoscritti che non passano. Mi contenterei assai più
di perder la testa che questo manoscritto, e però la supplico a non
avventurarlo formalmente alla Censura senza una assoluta certezza, o che
esso sia per passare, o che sarà restituito in ogni caso » ^ E il
prezioso manoscritto partì infatti sulla fine del mese per Milano 3, e lo
Stella j)oté informare l’autore
d’averlo ricevuto. poi gli scriveva; « Nei brevi ritagli di tempo che
mi restano, vo leggendo le Operette sue morali, le quali quanto mi
allettano.... altrettanto temo che trovar deb¬ bono degli ostacoli per la
Censura. Forse il rimedio potrebbe esser quello di darle prima nel Ricoglitore,
per poi stamparle a parte, e in fine fare una nuova edizione di
tutte in piccola forma » 4. Ancora uno smembramento delle care Operette ?
La proposta ferì al vivo l’animo del Leopardi, che, a volta di corriere,
il 31 rispose: «Se a far passare costì le Operette morali non v’ è altro
mezzo che stamparle nel Ricoglitore, assolutamente e istante- mente
la prego ad aver la bontà di rimandarmi il mano¬ scritto al più presto
possibile. O potrò pubblicarle altrove, o preferisco di tenerle sempre
inedite al dispiacer di vedere un’opera che mi costa fatiche infinite,
pubbli¬ cata a brani.... » 5. Furono infatti pubblicate in volume
l’anno seguente, come l’autore ardentemente desiderava,
conscio dell’organicità del corpo di tutte le venti ope¬ rette, nate come
venti capitoli di un’opera sola. All’unità della quale ei
certamente mirò nell’ordina¬ mento definitivo che fece delle singole
parti, quando le ebbe condotte a termine tutte. Abbiamo veduto come
tenesse a rilevare e attribuire al Giordani l’inversione avvenuta nei tre
dialoghi ceduti dlVAntologia. Il Ti- mandro doveva essere l’ultimo, egli
avA^erte. Infatti era stato scritto dopo il Tasso-, ma era stato pure
scritto prima del Colombo. Anzi nell’ordine cronologico • era
quattordicesimo, sui venti del 1824: ma evidentemente fin da principio
era destinato al ventesimo o, comunque, ultimo posto, che tenne nella
edizione milanese del '27. È invero un’apologià del libro; e l’apologià
non poteva essere se non la conclusione e il giudizio, che,
nell’atto di Ucenziare il libro, l’autore voleva se ne facesse. Ma,
nel passaggio dall’ordine cronologico a quello ideale che il Leopardi
ebbe da ultimo ragione di preferire, non soltanto il Timandro venne spostato.
Infatti tra il Dialogo di un Fisico e di un Metafisico e il Dialogo della
Natura e di un Islandese, scritti successivamente, con un solo
giorno di riposo tra l’uno e l’altro, parve opportuno frammettere il
Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, a cui il Leopardi
pose mano appena finito quello della Natura e di tm Islandese. È ovvio
che senza una ragione né anche quest’ordine sarebbe mutato; ed è
ovvio Mtresì che la ragione non potrà consistere se non negli scambievoh
rapporti da cui questi dialoghi eran legati, agli occhi di chi li
scrisse. Va da sé poi che i vari scritti devono per lo più esser nati già
con questi rap¬ porti, l’un dopo l’altro, secondo che il pensiero
germoghava via via nella sua spontaneità organica; ma dove Cfr. sopra, p.
io6, n. i. una ripresa di idee già non sufficientemente svolte, e
il risorgere di un’ ispirazione che era parsa esaurita, traeva
l’autore a tornéire su se stesso, è pur naturale che l’ordine cronologico
non corrispondesse più allo svolgimento e alla coerenza del pensiero.
Così il Tasso, scritto appena levata la mano dall’ Islandese, nasce come
un anello che salda questo dialogo a quello del Fisico col
Metafisico; e se l’autore scrive il Timandro, bisogna pensare che,
saldato così l’ Islandese agli antecedenti dell’opera, egli dovè per un momento
credere esaurito il suo tema; credere perciò di potersi arrestare a
quella fiera rappresentazione finale AtW Islandese: e quindi volgersi
indietro a giudicare e difendere il libro. Passarono infatti dodici
giorni senza che si sentisse riattirato verso il suo lavoro, ripreso il 6
luglio col Panni, e condotto innanzi a sbalzi fino alla fine dell’anno,
quando fu compiuto il Cantico del Gallo silvestre ; altre sei operette
in tutto, che s’ è condotti a pensare formino un gruppo distinto, nato da
questo risorgimento, seguito al Ti¬ mandro, del motivo ispiratore delle
operette. III. Ma tutto ciò, si può dire, non prova
nulla per l’organismo e unità dell’opera leopardiana, se questa unità non
si trova effettivamente nel suo intimo. Ed è vero. Com’ è pur vero che
quando tale unità fosse messa bene in luce con lo studio interno del
hbro, potrebbe anche apparire inutile tutto questo preambolo, indirizzato
ad argomentare che l’unità ci doveva essere. Ma è infine non meno
vero che non si trova quel che non si cerca; e che l’unità delle Operette
leopardiane, ritenute generalmente una semplice raccolta, aumentabile (con la
Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto, come tutti
fanno), o riducibile (come pure han creduto gli autori delle varie scelte
di prose leopardiane) non si è mai indagata, perché si sono ignorati o
trascurati tutti questi indizi di un disegno, che lo stesso autore
ritenne essenziale. Intanto, lo spostamento osservato del
Timandro epilogo, in origine, delle Operette, ci ha condotto a scorgere
un gruppo, che non è forse il solo tra questi singoli scritti, così come
vennero quasi rampollando Tuno dall’altro. Sottraendo, oltre il Timandro,
destinato ad epilogo, la Storia del genere umano, che, ])er il suo
distacco formale dal resto dell’opera (è la sola infatti che abbia
la forma di un mito), e la sua rajipresentazione complessiva, in iscorcio, di
tutto il destino del genere umano a parte a parte ritratto poscia nelle
varie prose, si può a ragione considerare come un prologo; le diciotto
operette intermedie, formanti il corpo del libro, si distribuiscono
naturalmente in tre gruppi, di sei ciascuno, come tre ritmi attraverso i
quali passa l’animo del Leopardi. Innanzi al terzo, nato, come s’ è
veduto, da una ripresa dell’ ispirazione originaria, si spiega il
secondo, che comincia col Dialogo della Natura e di un’Anima e si compie,
(]uasi ritornando al suo principio, con l’altro Dialogo della Natura e di
un Islandese. Precede, e inizia la tri¬ logia, un primo grujipo, aperto
dal Dialogo d’Ercole e di Atlante e conchiuso da un dialogo parallelo, in
cui all’eroe classico della potenza e della forza. Ercole, sot¬
tentra un eroe della potenza dello spirito immaginato dalle superstizioni
moderne, un mago, Malambruno, dialogante con un Atlante spirituale, un diavolo.
Farfarello. Disposizione simmetrica, sulla quale non giova certo
insistere troppo, ma che non può apparire arbitraria o fortuita quando si
osservino gl’ intimi rapporti spirituali onde sono insieme congiunte e
connesse, in tale ordina¬ mento, le diverse operette.
Ascoltiamo dalle parole stesse del Leopardi la nota fondamentale di
ciascuna operetta; e vediamo se le varie note degli scritti appartenenti
a ciascun gruppo non for¬ niino per avventura un solo ritmo. Cominciamo
dal primo gruppo. Ercole va a trovare Atlante per addossarsi
qualche Qja il peso della Terra, come aveva fatto già parecchi
secoli fa, tanto che Atlante pigli fiato e si riposi un poco. j(a la
Terra da allora è diventata leggerissima; e quando Ercole se la reca
sulla mano, scopre un’altra novità più nieravigliosa. L’altra volta che
l’aveva portata, gli « bat¬ teva forte sul dosso, come fa il cuore degh
animali; e metteva un rombo continuo, che pareva un vespaio. Ma ora
quanto al battere, si rassomiglia a un orinolo che abbia rotta la molla
»; e quanto al ronzare, Ercole non vi ode uno zitto. E già gran tempo,
dice Atlante, « che il mondo finì di fare ogni moto o ogni romore
sensibile; e io per me stetti con grandissimo sospetto che fosse
morto, aspettandomi di giorno in giorno che m’infettasse col puzzo; e
pensava come e in che luogo lo potessi sep¬ pellire, e l’epitaffio che
gli dovessi porre ». È lo stesso grido, come si vede, de La sera del dì
di festa'. Kcco è fuggito 11 dì festivo, ed al festivo
il giorno Volgar succede, e se ne porta il tempo Ogni umano
accidente. Or dov’ è il suono Di quei popoli antichi ? Or dov’ è il
grido De’ nostri avi famosi, e il grande impero Di quella Roma, e
l’armi, e il fragorio Che n’andò per la terra e l’oceano ?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa li mondo, e più di lor non si
ragiona. Perché questo silenzio e questa morte ? Ecco che la
Moda, sorella germana della Morte, vien a dirlo essa questo perché alla
Morte stessa: poiché i soh frivoli e accidiosi costumi dei nuovi tempi
possono spiegare i « lacci dell’antico sopor » che, pel Poeta, non
stringono soltanto «l’itale menti»; i costumi «di questo secol
morto, al quale incombe tanta nebbia di tedio », e pgj. cui il Poeta
domandava agli eroi già dimenticati e ri¬ scoperti dai filologi, « se in
tutto non siam periti » t La Moda spiega infatti aUa Morte: «A poco per
volta ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in
disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben
essere corporale, e introdottone o recato in pregio innumerabih che
abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho
messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa,
così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta che viva; tanto
che questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della
morte ». Morti gli uomini, spenta la forza dei corpi,
infranto il vigore degli animi. In compenso, si fabbricano mac¬
chine, e H secol morto può dirsi «l’età delle macchine». L’Accademia dei
SUlografi ne fa la satira nel suo bizzarro bando di concorso per
l’invenzione di tre macchine, che restituiscano al mondo quel che agli
occhi del Poeta costituisce il pregio maggiore della vita, anzi la vita
stessa, quale fu una volta: ramicizia, lo spirito delle opere virtuose e
magnanime, e la donna: quella donna, che fu r ideale degli spiriti gentili,
e fu pur ora cantata come la « sua donna » da esso il Leopardi :
Forse tu l’innocente Secol beasti che dall’oro ha nome.
Or leve intra la gente Anima voli ? o te la sorte avara
Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara? Viva mirarti ornai
Nulla spene m’avanza 3 . ' Sopra il monumento di Dante (rSrS), vv.
3-4. » Ad Angelo Mai 3 Alla sua donna. fbbene, una
macchina ne adempia gli uffici, essendo «espedientissimo che gh uomini si
rimuovano dai negozi jjeUa vita il più che si possa, e che a poco a poco
diano luogo, sottentrando le macchine in loro scambio ». Questa I
la morte dell’uomo ; la morte dell’amicizia e dell’amore, la morte degh
ideali che già fecero virtuoso e magna¬ nimo l’uomo antico, finito con
Bruto minore; il quale non può sopravvivere alla maledizione scaghata
alla stolta virtù, che ei respinge da sé nelle cave nebbie e nei
campi dell’ inquiete larve. Onde se un romano, e 5Ìa Catihna, può
credere, secondo Sallustio, d’infiam¬ mare i soci alla battaglia,
parlando ad essi non solo delle ricchezze, ma dell’onore, della gloria,
della libertà, della patria, affidate alle loro destre, un moderno
lettore d’uma¬ nità non può senza peccato d’ipocrisia vedere nel
testo di Sallustio quella gradazione ascendente che il luogo, a
norma di rettorica, richiederebbe. La patria ? Non si trova più se non
nel vocabolario. La libertà ? Guai a proferir questo nome. Di essa, dice
il Leopardi, che ne sa anche lui qualche cosa « non si ha da far conto
». La gloria ? Piacerebbe, se non costasse incomodo e fatica.
Insomma, la ricchezza è il solo vero bene: è quella cosa «che gh uomini
per ottenerla sono pronti a dare in ogni occasione la patria, la hbertà,
la gloria, l’onore ». Sicché il testo è da restituire, per travestirlo
alla moderna, fa¬ cendo dire a Catilina: Et quum proelinm inibitis,
memi- neritis, vos gloriam, decus, divitias, fraeterea spectacula,
epulas, scorta, animam denique vestram in dextris vestris portare. Animam
vestram, la vita: quella vita, che non hanno ! Quella \dta, che Sabazio,
l’eterno Dioniso, dio della vita [Ancona, nel Fanfulla della
domenica del 29 novembre *895: G. Carducci, Degli spiriti e delle forme
nella poesia di G. L., Bologna, Zanichelli, 1898, pp. 207-08. e
della morte, è in sospetto anche lui sia cessata da un pezzo in qua; e
però manda su dalle viscere della terra uno spiritello, uno Gnomo, ad
accertarsene. E uno spi rito dell’aria, un Folletto, può dirgli infatti
che «gjj uomini sono tutti morti e la razza è perduta ». Mancati
tutti: «parte guerreggiando tra loro, parte navigando parte mangiandosi
l’un l’altro, parte ammazzandosi nori pochi di propria mano, parte
infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte
gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine, studiando tutte le
vie di far contro la propria natura » ; studiandole tutte con queir
« irrequieto ingegno, demenza maggiore » che « (juel- l’antico error, di
cui « grido antico ragiona », onde fu negletta la mano dell’altrice
natura, come il Leopardi aveva appreso dal Rousseau. Oh contra il
nostro Scellerato ardimento inermi regni Della saggia natura !
Morto l’uomo; e «le altre cose.... ancora durano e procedono come prima
». E l’uomo che presumeva il mondo tutto fatto e mantenuto per lui solo !
Il Folletto invece crede fosse fatto e mantenuto per i folletti;
come lo Gnomo per gli gnomi ! La vanità umana pareggia essa la
nullità dell’uomo. Ecco, gli uomini « sono tutti spariti, la terra non
sente che le manchi nuUa, e i fiumi non sono stanchi di correre.... e le
stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare... ». La
saggia, l’altrice natura non si commuove allo sterminio di sé a cui
l'uomo è tratto dal suo ardimento. Fu certo, fu {né d’error
vano e d’ombra L’aonio canto e della fama il grido Pasce l’avida
plebe) amica un tempo » Inno ai Patriarchi. Al
sangue nostro e dilettosa e cara Questa misera piaggia, ed aurea
corse Nostra caduca età. Non che di latte Onda rigasse intemerata
il fianco Delle balze materne, o con le greggi Mista la tigre ai
consueti ovili Né guidasse per gioco i lupi al fonte Il pastorei;
ma di suo fato ignara E degli affanni suoi, vota d'affanno Visse
l’umana stirpe. Amica è la natura a chi sta contento della vita spontanea e
irrifiessa, qual’ è appunto la vita della natura. Lo svegliarsi dell’
intelligenza (scellerato ardimento !) è il principio della perdizione. E
invano l’uomo cercherà col pensiero di restaurare la sua vita e
riconquistare la dilettosa e cara piaggia d’un tempo! Faust lo sa*
*; Malambruno che mvoca gli spiriti d’abisso, che vengano con piena
potestà di usare tutte le forze d’inferno in suo servigio, lo riapprende
da Farfarello, impotente a farlo felice un momento di tempo. La felicità
è la vita che si V’iva sentendo che mette conto di viverla: è la vita
col suo valore. E il Leopardi pare la intenda come un diletto
infinito ; il cui bisogno nasce dall’ infinito amore che ogni uomo ha di
se stesso, ma non può esser soddisfatto mai, perché nessun diletto è
infinito, nessun piacere tale che appaghi il nostro desiderio naturale.
Onde il vivere sen¬ tendo la vita è infelicità; e questa non è interrotta
se non dal sonno, o da uno sfinimento o altro che sospenda l’uso
dei sensi: non mai cessa mentre sentiamo la nostra vita ; e se vivere è
sentire, « assolutamente parlando », il non vivere è meglio del
vivere. La vita non ha valore. È, a rigore, l’ultima conclu- [Malambruno
è Faust, non Manfredo, come mostra d' intendere il Losacco, Leopardiana,
in Giornale storico della letteratura italiana, sione di quella premessa,
che la felicità o valore della vita consista nel diletto; il quale non
può essere altro che limitato, e quindi mai mero diletto, senza
mistura di amarezza. Tale il concetto del primo gruppo delle
Operette, che pone l’animo del poeta in faccia alla morte e al
nulla: ossia al vuoto della vita, non più degna d'esser vissuta:
poiché degna sarebbe la vita inconscia, e la vita dell’uomo è senso,
coscienza. La vita nella felicità è la natura; e l’uomo se ne dilunga
ogni giorno più con la civiltà, con r irrequieto ingegno, che assottiglia
la vita, e la consuma. Ed ecco il problema e il tormento dell’anima
del Leopardi: l’uomo in faccia alla natura. La natura, che è quella
del dialogo dello Gnomo e del Folletto; e l’uomo, che è, non quella
ciurmaglia già spenta, da cui lo Gnomo avrebbe caro > che uno
risuscitasse per sapere quello che egli penserebbe della già sua vantata
grandezza: è anzi quest’uno, Malambruno, che pensa e vede tutti gli
uo¬ mini morti e la natura viva, muta, indifferente. Pro¬ blema
affrontato nel Dialogo della Natura e di un’Anima, il primo del nuovo
gruppo, dove la natura dice all’anima, dandole la vita: «Va’, figliuola
mia prediletta, che tale sarai tenuta e chiamata per lungo ordine di
secoli. Vivi, e sii grande e infelice ». Giacché, come poi le
spiegherà, « nelle anime degli uomini, e proporzionatamente in
quelle di tutti i generi di animali, si può dire che l’una e
l’altra cosa sieno quasi il medesimo: perché l’eccellenza delle
I « Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitas¬
sero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre co.se, ben¬
ché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima,
dove si credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro
soli » (Operette morali, ed. Gentile, Zanichelli, Bologna). jjiinie
importa maggior sentimento dell’ infelicità pro- ria; che è come se io
dicessi maggiore infelicità»; e l’uomo « ha maggior copia di vita, e
maggior sentimento, che niun altro animale; per essere di tutti i viventi
il niù perfetto »; e però è il più infelice. E il meglio è per
l’anima spogliarsi della propria umanità, o almeno delle (loti che
possono nobilitarla, e farsi « conforme al più stupido e insensato
spirito umano » che la natura abbia jjjai prodotto in alcun tempo.
Di guisa che quella morte dell’umanità, che nei dia¬ loghi del
primo gruppo poteva parere una colpa dei degeneri nepoti, ecco, apparisce il
destino dell’uomo : la cui storia non può avere altra conchiusione che la
rinunzia alla propria umanità. La quale, dice il poeta col suo amaro
sorriso, scacciata dalla Terra, non si rifugia e raccoglie nella Luna,
come immaginò l’Ariosto di tutto ciò che ciascun uomo va perdendo. La
Luna, a cui la Terra, nel dialogo che da esse s’intitola, ne
domanda, non solo la convince che l’immaginazione ariostesca è
semplice immaginazione, ma in tutto il dialogo dimostra che il linguaggio
umano e relativo allo stato degli uomini, che la Terra usa, non ha
significato fuori di questa: e che insomma non ha base in natura quello
che gli uomini considerano pregio della loro ^^ta, e che, non
trovandolo fondato in natura, riconoscono quindi mera illusione.
Ma il concetto più direttamente è trattato nella Scommessa di
Prometeo: scommessa perduta con Momo (che è lo stesso spirito satirico
pessimista con cui Leopardi guarda la
\'ita nella sua vanità).'Perduta, perché Prometeo deve confessare che
alla prova il suo genere umano, che avrebbe dovuto essere il più perfetto
genere dell’universo, « la migliore opera degl’ immortali », gli
era fallito, dimostrandosi, dallo stato selvaggio degli antro-
pofagi a quello più incivilito dei suicidi per tedio della vita, il più
sciagurato e imperfetto. Prometeo paga la scommessa senza volerne sapere più
oltre, quando a Londra vede gran moltitudine affollarsi innanzi a una
porta ed entra, e scorge «sopra un letto un uomo disteso su! pino,
che aveva nella ritta una pistola; ferito nel petto e morto; e accanto a
lui giacere due fanciullini, mede¬ simamente morti»: sciagurato padre,
che per dispera- zione ha ucciso prima i figliuoli e poi se stesso:
(juan- tunque fosse ricchissimo, e stimato, e non curante di amore,
e favorito in corte: ma caduto in disperazione «per tedio della vita,
secondo che ha lasciato scritto. Il tedio della vita ! Ecco la scoperta che si
è fatta andando in cerca di quella felicità, di cui si pose il problema
nel primo dialogo di questo secondo gruppo. E i due seguenti dialoghi
hanno questo argomento. Il Dialogo di un Fisico e di un Metafisico
dimostra la vita non essere bene da se medesima, e non esser vero che
ciascuno la desideri e l’ami naturalmente: ma la desidera ed ama
come « istrumento o subbietto » della felicità, che è ciò che veramente
vale. E questa, guardata più da vicino, consistere nell’efficacia e copia
delle sensazioni, nelle affezioni e passioni e operazioni, e insomma, non
nel puro essere, ma nella sensazione dell’essere e nel far essere
(come ben si può dire) l’essere stesso. Non l’inerzia e la vuota durata,
ma la mobilità, la vivacità, il gran numero e la gagliardia delle
impressioni, e cioè il tempo pieno, questo è l’oggetto dei nostri
desiderii: e la vita degli uomini « fu sempre non dirò felice, ma tanto
meno infelice, quanto più fortemente agitata, e in maggior parte
occupata, senza dolore né disagio ». La vita vacua, che è la vita «piena
d’ozio e di tedio», è morte; anzi peggio della morte, che è senza senso.
Infine, dice lo stesso Metafisico (che ha cominciato negando che la
felicità sia vivere), «la vita debb’esser viva»: cioè la vera
felicita, in fondo, è sì nella vita ; ma la vita (il Leopardi così
sente) non è vita; è la morte; quella morte di cui s’ è acquistata la
certezza nelle operette del primo gruppo; e che non è pura morte, ma la
morte sentita; la morte nella coscienza dell’uomo che non conosce altra
realtà che l’eterna natura, di là dall’opera sua, e non può sperare
perciò di far nulla che abbia valore. La morte è dolore perché è tedio:
quel \moto dove dovrebbe essere il pieno; la morte al posto della
vita. E questo tedio è la malattia, il segreto tormento del Tasso,
che ne ragiona col suo Genio: del Tasso già dal ’zo, quando fu scritta la
canzone Ad Angelo Mai, apparso al Leopardi come suo spirito gemello, al
par di lui « mi¬ serando esemplo di sciagura: O Torquato, o
Torquato, a noi l'eccelsa Tua niente allora, il pianto A te, non
altro, preparava il cielo. Oh misero Torquato ! il dolce
canto Non valse a consolarti o a sciorre il gelo Onde l’alma
t’avean, ch’era sì calda. Cinta l’odio e l’immondo
Livor privato e de’ tiranni. .Amore, Amor, di nostra vita
ultimo inganno. T’abbandonava. Ombra reale e salda Ti parve il
nulla, e il mondo Inabitata piaggia. Tasso medesimo, che non trova
nel mondo altro più che il nulla, e si rifugia nei sogni e nel vago
inunaginare, dal quale più duro bensì gli riesce il ritorno alla realtà;
questo Torquato parla nel Dialogo del Tasso e del suo Genio ', e non si
lagna già del dolore, ma della noia, che sola lo affligge e lo uccide. La
quale gli pare abbia la stessa natura dcU’aria: «riempie tutti gli
spazi interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani
contenuti in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro
non gh sottentra, quivi ella succede immediatamente. Così tutti gl’
intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono
occupati dalla noia. E però. come nel mondo materiale, secondo i
Peripatetici, non si dà vóto alcuno; così nella vita nostra non si dà
vóto»; e poiché piacere non si trova, la vita è composta parte di
dolore parte di noia. E la vita tutta uguale monotona del povero
prigioniero — immagine d’ogni uomo di fronte alla immutabile natura — si
viene via via votando cosi del piacere come del dolore, e riempiendo
tutta della tristezza soffocante del tedio. L’uomo
prigioniero della natura ritorna ncll’ultinio dialogo del gruppo, in cui
si presenta da capo la Natura a render conto di sé all’uomo: al povero
Islandese, che la vicn fuggendo per tutte le parti della terra, e se
la vede sempre innanzi, addosso, incubo schiacciante: e l’ha
innanzi, prima di morire, in effigie di donna, di forme smisurate, seduta
in terra, col busto ritto, ap¬ poggiato il dosso e il gomito a una
montagna; viva, di volto tra bello e terribile, occhi e capelli nerissimi,
con 10 sguardo fisso e intento. Perché, le chiede il povero
errante, tu sei « carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi
figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere », e « per
niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi ? Se io vi diletto
o vi benedico, io non lo so », risponde la Natura. La vita del¬
l’universo è un circolo perpetuo di produzione e distruzione. — Ma, riprende 1’
Islandese, poiché chi è distrutto patisce, e chi distrugge sarà
distrutto, « dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a
chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno
e con morte di tutte le cose che lo compongono ? E prima di aver la risposta 1’
Islandese è mangiato dai leoni, già così rifiniti e maceri dall’
inedia, che con quel pasto si tennero in vita ancora per quel
giorno, e non più. Questa Natura, che non sa il bene e il male dell’uomo,
è la Natura che al principio ha detto aU’anima: — Sii grande, e infelice.
La vita infatti È infelicità, in quanto è noia; e noia è, perché
vuota; e non può non esser vuota, se l’uomo è di fronte a questa
Matura terribile nel cui perpetuo giro esso rientra, molecola ignorata, e senza
valore, non appena con la sua coscienza si stacchi dalle cose, e vi si
contrapponga. L’uomo dunque è veramente infelice, come s’è detto
nel primo dialogo, perché con la sua attività (che è l’anima, il sentire)
non ha posto nella natura, che è poi tutto. Perciò l’anima è vuota, e la
vita è tedio. V. E qui potè parere al Leopardi, come
osservammo, di aver esaurito il proprio tema; e, prevedendo le
facili critiche, che non sarebbero mancate al piccolo e doloroso
libro, ritenne opportuno difenderlo col Timandro. Ma poi considerò
che la sua dimostrazione non era veramente perfetta. Il dolce canto non
era valso a consolare Torquato; ma potrebbe dunque il canto consolare
Panimo addolorato ? Gino Capponi, l’amico del Tommaseo, che fu giudice sempre
acerbo e ingiusto al grande Recanatese b scrisse una volta. L.comincia
uno de’ suoi Dialoghi, inducendo la natura che scara¬ venta nel mondo
un’anima con queste parole: — Vi\d e sii grande ed infelice. — Io per me
credo proprio il rovescio, e che le anime nostre non sieno infelici se
non in quanto sono esse piccole.... £ cosa facile esser grandi
uomini, se basti a ciò essere infehci, ed L. insegnò a molti la via della
infelicità; ma non l’aveva imparata egh quando produsse quelle canzoni
per cui Acerbo e ingiusto anche nel giudizio, che pur contiene
sensazioni profonde di alcuni aspetti dell'arte leopardiana, raccolto nel
volume La donna, Milano, .Agnelli, Vedi i miei Albori della nuova
Italia, Lanciano, Carabba, Scritti ed.
ed ined., Firenze, Barbèra,-- sta in alto il nome suo »>. E il De Sanctis
doveva osser\’are più tardi: «Quel suo nullismo nelle azioni e nei lini
della vita, che lo rendeva inetto al fare e al godere, era riem¬
piuto dalla colta e acuta intelligenza e dalla ricca im¬ maginazione, che
gli procuravano uno svago e gli fa, cevano materia di diletto quello
stesso soffrire. Egli aveva la forza di sottoporre il suo stato morale
alla riflessione e analizzarlo e generalizzarlo, e fabbricarvi su uno
stato conforme del genere umano. Ed aveva anche la forza di
poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie, e fondarvi su
una poesia nuova. Egli può poetizzare sino il suicidio, e appunto perché
può trasferirlo nella sua anima di artista e immaginare Bruto e Saffo,
non c’è pericolo che voglia imitarli. Anzi, se ci sono stati mo¬
menti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più felice del poeta o
del filosofo nell’atto del lavoro ? » >. Ma né il Capponi, né il De
Sanctis avvertivano cosa sfuggita al Leopardi. È suo questo pensiero vero
e pro¬ fondo ; « L’uomo si disannoia per lo stesso sentimento vivo
della noia universale e necessaria ». E suo è ciuesto altro che lo
precede ; « Hanno questo di proprio le opere di genio, che, quando anche
rappresentino al vivo la nul¬ lità delle cose, quando anche dimostrino
evidentemente e facciano sentire 1 inevitabile infelicità della vita,
quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad
un animo grande, che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento,
disinganno, nullità, noia e sco¬ raggiamento della vita o nelle più
acerbe e mortifere disgrazie.... servono sempre di consolazione,
raccendono l’entusiasmo; e non trattando né rappresentando altro
che la morte, gh rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva
perduta » I Studio su L.. Napoli, Morano, Pensieri. Cfr. lett. M avveggo
ora bene che, spente che sieno le passioni, non resta negli studi
aura Ebbene, sentire ripullular
questa vita, che il raziocinio aveva dimostrata morta, era pur sentire il
bisogno (ji riprendere la dimostrazione. L. non affronta nelle
Operette, né in altro dei suoi scritti, il problema di questa vita
incoercibile che risorge dalla sua più fiera negazione. Ma sente
oscuramente questa diificoltà, non superata nei primi due gruppi de’ suoi
dialoghi. Tutto l’argomentare della sua filosofia non genera la
convin¬ zione che ne dovrebbe deri\ are: la convinzione che arma la
mano di Bruto contro se stesso, e fa gittare dalla mi¬ sera Saffo « il
velo indegno », per rifuggirsi ignudo animo a Dite, e così emendare il
crudo fallo del destino. L’amor della vita non è vinto: la Natura ha
detto all’Anima che le infinite difficoltà e miserie, a cui vanno
incontro i grandi, « sono ricompensate abbondantemente dalla fama,
dalle lodi e dagli onori che frutta a questi egregi spiriti la loro
grandezza, e dalla durabilità della ricor¬ danza che essi lasciano di sé
ai loro posteri». Ebbene, questa gloria, che già non arride
all’anima, quando natura gliel’addita, questa gloria abbelliva pure
agli occhi del Leopardi questo mondo di morti, in cui gli sembrava di
vivere. Filippo Ottonieri, che è lui stesso, potrà esser « vissuto ozioso
e disutile, e morto senza fama », come dice il suo epitaffio, ma sentiva
bene d’esser « nato alle opere virtuose e alla gloria ». Questa
gloria, che è il premio della grandezza e la sublime consolazione dei
grandi infehci, che tanto più saran grandi quanto più sentiranno la loro
infehcità, e più quindi saranno infelici, è la lode che nell’animo degli
altri e pei secoli riecheggia la lode stessa che il grande tributa egli
alla loute e fondamento di piacere che una vana curiosità, la
soddisfazione della quale ha pur molta forza di dilettare: cosa che per
Taddietro, finché mi è rimasta nel cuore l'ultima scintilla, io non
potevo comprendere, Epist,,-- propria grandezza nella coscienza felice del suo
genio. La sua sostanza è veramente in questa lode interna e
soggettiva: la sua esteriorità è in quella eco che si ripercuote lontano, e
ferma, e pare consolidi il valore onde il genio vede illuminata la
propria opera. Leopardi, nudrito la mente dei concetti classici e delle
idee mate¬ rialistiche del sec. XVIII, cerca la realtà di questa
gloria, in cui lo spirito attinge la propria liberazione da tutte
le miserie, in quella eco esterna, in quel consenso che in fatto altri
verrà tributando alla nostra grandezza. E perciò si trova in faccia al
problema del valore tuttavia superstite della grandezza spirituale,
veduto in questa forma; l’anima grande e infelice è destinata essa
alla gloria ? o la speranza è fallace, come tutte quelle che ei
rimpiangerà dileguate nelle Ricordanze? ' Ed ecco il Farmi, che tante
difficoltà mostra opporsi all’acquisto di questa gloria, specialmente
nell’età moderna e nel mondo presente, da farla apparire mèta
inattingibile. Talché vien meno anche questa aspettazione, e al
grande non rimane che seguire il suo fato, dove che egli lo tragga,
con animo forte, adoprandosi nella virtù, perché la na¬ tura stessa lo fece
nascere alle lettere e alle dottrine. Dileguata quest’ultima
consolazione, la sola che si possa chiedere alla stessa eccellenza
dell’animo, quando altra realtà, e fonte eventuale di gioia, non si
vegga da quella che l’animo mira esterna a se stesso, qual porto rimane
allo stanco spirito umano ? Vivere infeUce ? Dovecanterà: O
speranze, speranze; ameni inganni Della mia prima età ! sempre,
parlando. Ritorno a voi; ché per andar di tempo. Per variar
d'alletti e di pensieri, Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo, Son
la gloria e l’onor; diletti e beni Mero desio; non ha la vita un
frutto. Inutile miseria. E sia; ma se non si può né anche
farsi un monumento della propria infelicità ? Sola nel mondo,
eterna, a cui si volve Ogni creata cosa. In te, morte, si
posa Nostra ignuda natura. Lieta no, ma
sicura Dall'antico dolor. La risposta viene dai morti, che si
sveghano per un quarto d’ora nello studio di Ruysch, e cantano, e
descrivono questa loro sicurezza dall’antico dolor, nella quale vivono
immortah; senza speme, ma non in desio, come le anime del limbo
dantesco: Profonda notte Nella confusa mente Il pensier
grave oscura; Alla speme, al desio, l’arido spirto Lena
mancar si sente: Così d’affanno e di temenza è sciolto,
E l’età vote e lente Senza tedio consuma. Vita vuota, dunque,
anche quella: ma senza senti¬ mento. Vero porto, in cui il povero
Islandese finalmente avrà pace, e in cui si può giungere in un languore
di sensi senza patimento, com’ è degli ultimi istanti della vita,
quando sopravvive solo un senso « non molto dissimile dal diletto che è
cagionato agli uomini dal languore del sonno, nel tempo che si vengono
addormentando ». Dolce morte hberatrice ! Ma prima che la morte ci
abbia sciolti dal tedio ? — Filosofare, come Filippo Ot- tonieri, il
socratico, che « spesso, come Socrate, s’intrat¬ teneva una buona parte
del giorno ragionando filosoficamente ora con uno ora con altro, e massime con
alcuni suoi familiari, sopra qualunque materia gli era sommini¬
strata dall’occasione ». E per tal modo filosofava sempre. non per farne
trattati (ché, al pari di Socrate, non credeva giovasse mettere la filosofìa in
iscritto e irrigidir]^ in formule che non risponderanno piti ai mutevoli
bisogni dell’animo), ma per intendere senza pregiudizi e senza illusioni
la vita, e adattarvisi da saggio, tralasciando ogni vana querimonia: come
aveva detto Spinoza: non ridere, non liigere, neque detestari, sed
intelligere. Questo r ideale dell’ Ottonieri, che vivrà ozioso e disutile
e morrà senza fama, ma « non ignaro della natura né della fortuna
sua »>. E con la sua pacata magnanimità e la sua bonaria ironia
rinnoverà l’immagine di Socrate anche in questa modesta, anzi umile
coscienza del sapere, e quindi, per lui, del potere umano. L’ Ottonieri
vuol essere quasi la filosofia delle Operette fatta vita e persona.
Ma, oltre la filosofia, non v’ è altro rimedio alla noia ? Sì : c’
è la rupe di Leucade. Ce lo insegna Colombo, in una bella notte vegliata
sull’oceano .sterminato e inesplorato col fido Gutierrez, confidando
all’amico che anche in lui vacilla la fede e che, in verità, « ha
posto la vita sua e de’ compagni sul fondamento d’una sem- phee
opinione speculativa » che può fallirgli. Ma, egli soggiunge, « quando
altro frutto non venga da questa navigazione, a me ]iare che ella ci sia
profittevolissima in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla
noia, ci fa cara la vita, ci fa prege\'oli molte cose che altrimenti
non avremmo in considerazione. Scrivono gli antichi, come avrai letto o
udito, che gli amanti infehei, gittan- dosi dal sasso di Santa Maura (che
allora si diceva di Leucade) giù nella marina, e scampandone,
restavano, per grazia di Apollo, liberi dalla passione amorosa. Io
non so se egli si. debba credere che ottenessero questo effetto; ma so
bene che, usciti di quel pericolo, avranno per un poco di tempo, anco
senza il favore di Apollo, avuta cara la vita, che prima avevano in odio;
o pure avuta più cara e più pregiata che innanzi. Ciascuna
pavigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla fxipe di Leucade. E
navigazione è ogni rischio della vita, ogni azione eroica. O filosofare,
dunque, come Ot- tonieri; o navigare come Colombo, e far guerra al
tedio, P riafferrarsi insomma alla vita, finché la morte non ce ne
liberi. E lo stesso giorno * che finiva di scrivere il
Dialogo a Colombo e Gutierrez
Leopardi, nel fervore dell’animo commosso da questa
coscienza del valore e quasi gusto della vita riconquistato mercé
l’attività, — di questa grandezza felice, — mette mano al bellissimo
Elogio degli uccelli: Urica stupenda, sgor- gatagU dal pieno petto, al
guizzo d’una immagine Ucta e ridente: di queste creature amiche delle
campagne verdi, delle vallette fertili e delle acque pure e
lucenti, del paese bello e dei soli splendidi, delle arie
cristalline e dolci e di tutto ciò che è ameno e leggiadro, e
rasserena e allegra gli animi; e che, col perpetuo movimento e col
canto che è un riso, sono simbolo di quella vita piena d’impressioni, che
non conosce tedio, anzi è tutta una gioia. E ci fanno amar la natura, che
ebbe un pensiero d’amore, assegnando a un medesimo genere d’animali
il canto e il volo ; « in guisa che quelli che avevano a ri¬ creare
gU altri viventi colla voce, fossero per l’ordinario in luogo alto ;
donde ella si spandesse all’ intorno per maggiore spazio, e pervenisse a
maggior numero di uditori ». Così viva è r intuizione della gioia gentile che
il poeta riceve da questa vaga immagine degU ucceUi, che è già
appagato il desiderio finale di questo Elogio: lo vorrei, per un poco di tempo,
essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia
della loro vita ». Non ha cantato qui anch’egU la gioia ? Cfr. Pens.
E un favoloso uccello, il Gallo
silvestre, di cui parlano alcuni scrittori ebrei, che sta sulla terra coi
piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo, con un altro cantico
vi¬ brante gli dirà Tultima parola di questa filosofia della vita,
attenuando bensì il tono della lirica precedente, c smorzando
l'entusiasmo, al quale mai come in questo caso s’era abbandonata l’anima
del poeta; e additandogli anzi lontano il pauroso nulla di tutte le cose,
e la morte a cui ogni parte deH’universo s’affretta infaticabilmente,
ma pur rasserenandogli l’animo con la fresca sensazione del puro e
frizzante aer mattutino, ravvivatore e rin- francatore. Sensazione già
nota al Poeta: La mattutina pioggia, allor che l'ale Battendo
esulta nella chiusa stanza La gallinella, ed al balcon s’affaccia
L’abitator de’ campi, e il sol che nasce I suoi tremuli rai fra le
cadenti Stille saetta, alla capanna mia Dolcemente picchiando, mi
risveglia; E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo Degli
augelli sussurro, e l’aura fresca, E le ridenti piagge
benedico. Canta il Gallo silvestre per destare i mortali dal sonno;
« Il dì rinasce : torna la verità in sulla terra, e parton- sene le
immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita : riducetevi dal
mondo falso nel vero ». La fiera soma! Meglio, meglio dormire, e non
destarsi; ma verrà la morte a liberar dalla vita. « Ad ogni modo », dice il
Gallo, la terribile voce che riempie di sé il mondo, c canta questa corsa
universale alla morte, « ad ogni modo, il primo tempo del giorno suol
essere ai viventi il più comportabile. Pochi in sullo svegliarsi
ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se
ne La Vita solitaria
producono e formano di presente; giacché gli animi in quell’ora eziandio
senza materia alcuna speciale e de¬ terminata, inclinano sopra tutto alla
giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei
mali. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovasi occupato
dalla disperazione; destandosi, accetta uovamente neU’anima la speranza,
quantunque ella in niun modo se gli convenga ». Ed ecco, dunque, la
spe¬ ranza risorgere ogni giorno, anche se la sera finì nella
disperazione ; e se il Gallo silvestre paragona la vita dell'universo al
giorno, che comincia col mattino ma va alla notte, e alla vita umana che
muove dalla heta gio¬ vinezza incontro alla vecchiaia e alla morte: e se
ter¬ mina annunziando che tempo verrà, che la stessa natura sarà
spenta, e « un silenzio nudo e una quiete altissima empieranno lo spazio
immenso »; il dolce gusto della spe¬ ranza mattutina e giovanile non è
distrutto: perché quel tempo è molto remoto e (secondo avvertì più
tardi l’autore in una nota della seconda edizione) non verrà mai: e
la vita mortale ritorna sempre dalla notte al mat¬ tino, e la speranza
risorge, e la vita rinasce di continuo. Le operette dunque del terzo
gruppo ricostruiscono, nella misura e nel modo che si può secondo L.,
quello che le prime dodici hanno abbattuto. Ricostrui¬ scono, movendo
dall’estrema mina in cui è caduta anche la speranza della gloria, nel
Parini. Il quale lega il terzo gruppo ai precedenti; e fu ritirato dopo
le prime due edizioni verso il principio, e attratto nell’orbita del
se¬ condo gruppo, poiché tra la Storia del genere umano e il
Timandro l’autore non voUe più il Sallustio] e lo ri¬ fiutò e gli
sostituì il Frammento di Stratone, collocato al diciannovesimo posto,
innanzi al Timandro. Allora il gruppo ricomprese il Dialogo della Natura e
di un'Anima e il secondo II Parini. E il Frammento, lì sulla fine
del- l’opera, innanzi all’epilogo apologetico, fu come l’interpretazione
metafisica che da ultimo il pensiero, ripie¬ gatosi su se medesimo, diede
della propria intuizione filosofica: concezione, sullo stile delle teorie
cosmolo¬ giche greche più antiche, di un universo go\'ernato da
pure leggi meccaniche, com’era quello che giaceva in fondo a ogni
concetto pessimistico del Leopardi; onde si tenta suggellare, nell’
intenzione del Poeta, l’immagine di quella Natura che eternamente passa,
e che negli ul¬ timi detti del Gallo silvestre è rimasta «arcano
mirabile e spaventoso ». Si noti che il Sallustio fu
conservato tra le venti ope¬ rette primitive anche nell’edizione di
Firenze del '34. quantunque in questa fossero aggiunti i due nuovi
dialoghi del Venditore d’Almanacchi e di Tristano] e si noti che in
questa edizione invece non potè entrare il Frammento di Stratone molto
probabilmente per le difficoltà già ac¬ cennate, derivanti dalla materia
di esso, poiché è il solo scritto crudamente materialistico, che sia tra
le Operette. 11 che, se si pensa pure al fatto che il Frammento fu
scritto verso il maggio del '25 • (quando il Leopardi aveva tut¬
tavia presso di sé il manoscritto delle Operette, e a\ rebbe già fin
d’aUora pensato ad incorporarvelo, se questa aggiunta non avesse
disordinato il disegno simmetrico del hbro), dimostra all’evidenza che i
dialoghi fiorentini della stampa del ’34, che sappiamo scritti a Firenze
due anni prima, formano un nuovo gruppo a sé, che si viene ad
aggiungere alle prhnitive operette, senza fondervisi: come avverrà del
Frammento, appena l’autore crederà potere e dover tralasciare il
Sallustio, e sostituirlo. Perché tralasciarlo ? « Forse », risponde
il Mestica I Cfr. Chi.\rini, O.C., Scritti letter. di G. L.,
perché gli parve troppo scolastico e di materia non [ abbastanza
originale, sebbene i pensieri in esso conte¬ nuti siano conformi al suo
filosofare ». « Il dialogo ha poco movimento e scarso valore artistico »,
osserva lo Zingafelli ' : « l’invenzione è misera, e sull’attrattiva
dello strano e del fantastico prevale nel lettore un senso d’incredulità.
Per queste ragioni l’autore dovette rifiutarlo, e forse anche per
rispetto a Sallustio medesimo. Forse anche col passar degli anni, il
Leopardi non credè più che tutta la grandezza antica perisse con Bruto e
per opera di Cesare e dei cesariani ». Più si è accostato al L vero
questa volta il Della Giovanna > : « Forse egli si sarà I pentito
delle parole crudissime che usa parlando della I libertà e della patria.
È ben vero che anche altrove egli f lamenta la mancanza d’amor
patrio e di libertà, ma in modo più vago ». Il Sallustio, in questo
cinico pessimismo, contraddice al motivo fondamentale delle Operette:
logico nell’ordine di pensieri da cui sorse, ma ripugnante a quei
sentimenti più profondi, onde la personahtà del poeta abbraccia in sé e
contiene, e tempera quindi e solleva a un suo particolar significato,
siffatti pensieri. I quali non sono qui un sistema filosofico astratto,
ma l’alimento segreto di un’anima che si riversa ed esprime in una
poesia di grande respiro, la quale in tutta la sua unità risuona
all’anima del lettore come una musica, secondo che osservò un amico del
poeta, il Montani i, appena I operette morali di L., ’
Le prose morali di L.Vedi la sua recensione ncWAntologia del gennaioche
incomincia; «Non vi è mai avvenuto una sera d’opera nuova, di entrare in
teatro a sinfonia cominciata, e imaginandovi un motivo musicale diverso
dal vero, trovar men bello e men significante ciò che poi dee sembrarvi
meraviglioso ? — Quando VAntologia, or son due anni, pubblicò un saggio
dell’operette del L. ancora inedite.... io non ne fui che leggermente
colpito; mi mancava il motivo della musica. Intesone il motivo, al
pubblicarsi delle operette insieme unite, mi parve d'aver acquistato
nuovo orecchio e nuovo sentimento. E ne scrissi al Giordani, ch’era a
Pisa, ov’oggi è il L., il quale allora stava potè leggere tutta la
collana delle Operette. Questo rrio tivo fondamentale facilmente si
riconosce nel preI^^]i^^ e nell’epilogo, onde è inquadrata nella sua
naturale cor nice la trilogia delle operette : ossia nella Storia del
genere umano e nel Timandro: due operette, che sono affatto
estranee a qucUo spirito, che si può dir proprio di tutte le altre, ad
eccezione dell’ Elogio degli uccelli, dove ji^re qua e là s’insinua a
frenare l’impeto Urico di gioia e d’entusiasmo; a quello spirito, che si
può definire con le parole stesse con cui il Leopardi ritrae se medesimo
in una lettera al Giordani (del
tempo in cui forse raggiunse nel Frammento di Stratone l’estremo
termine di questo suo stato d’animo) : « Quanto al ge¬ nere degli studi
che io fo, come sono mutato da quel che io fui, così gli studi sono
mutati. Ogni cosa che tenga di affettuoso e di eloquente mi annoia, mi sa
di scherzo e di fanciullaggine ridicola. Non cerco altro più fuorché
il vero, che ho già tanto odiato e detestato. Mi compiaccio di sempre
meglio scoprire e toccar con mano la miseria degli uomini e delle cose, e
di inorridire freddamente, speculando questo arcano infelice e terribile
della vita dell’universo ». Lo stesso animo, non altrettanto feli¬
cemente, ma con maggior abbandono, esprimerà tut¬ tavia, nel ’26, nell’
Epistola al Pepoli : Ben mille volte Fortunato colui che la
caduca Virtù del caro immaginar non perde Per volger d’anni; a cui
serbare eterna La gioventù del cor diedero i fati qui nel più quieto
degli alberghi (già ridotto d’allegra gente a’ di del Boccaccio),
dicendogli che dalla porta di questo alla camera del suo amico più non
salirei che a cappello cavato. Le operette del L. sono musica altamente
melanconica... ». La recensione contiene più d’una osservazione
notabile. SuU’amicizia del L. col
Montani, vedi G. Mestica, Studi leopardiani, Firenze, Le Mounier, (si ricordi il Cantico del Gallo
silvestre)] Della prima stagione i dolci inganni Mancar già
sento, e dileguar dagli occhi Le dilettoso immagini, che tanto
Amai, che sempre inlino all’ora estrema Mi fieno, a ricordar, bramate e
piante. Or quando al tutto irrigidito e freddo Questo petto
sarà, né degli aprichi Campi il sereno e solitario riso. Né
degli augelli mattutini il canto Di primavera, né per colli e
piagge Sotto limpido ciel tacita luna Commoverammi il cor; quando
mi fia Ogni bel tate o di natura o d’arte. Fatta inanime e
muta; ogni alto senso. Ogni tenero affetto, ignoto o strano;
Del mio solo conforto allor mendico. Altri studi men dolci, in eh’
io riponga L’ingrato avanzo della ferrea vita, Eleggerò.
L’acerbo vero, i ciechi Destini investigar delle mortaU E
dell’eteme cose.. In questo specolar gh ozi traendo Verrò: che
conosciuto, ancor che tristo. Ila suoi diletti il vero.
Questo era stato il suo ideale nelle Operette] speculare, scoprire,
frugare la miseria degli uomini e di tutto, e inorridire, ma con petto
irrigidito e freddo. Se non che nel '25, nel caldo ancora dell’opera,
poteva credere di aver raggiunto già questo stato d’animo; l’anno
dopo egli, più ingenuamente, o meglio con maggior consapevolezza, sente
che il suo petto sarà forse un giorno, non è ancora, al tutto irrigidito
e freddo; non è eterna la gioventù del cuore, né in lui, né in altri, ma
non è ancora del tutto tramontata. Così nelle Operette il freddo
inorridire e il disprezzo d’ogni cosa che tenga di affettuoso e di eloquente
è un desiderio, un programma, un propo sito; ma non è, né può essere il suo
stile, poiché né ogni bellezza ancora gli è inanime e muta, né ogni alto
senso ogni tenero affetto ignoto e strano. E questo sente liené e
proclama il Poeta nel dialogo di Timandro e di Eleandro; dove a Timandro che,
secondo la filosofia di moda fa alta stima dell’uomo e del progresso di
cui egli è capace' ed è insomma un ottimista, il pessimista, che sente
invece per l’uomo un’alta pietà, il futuro cantore della Ginestra
protesta di non essere un Timone (per quanto non abbia sdegnato la parte
di Momo di fronte a Prometeo) ; « Sono nato ad amare, ho amato, e forse
con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva Oggi, benché non
sono ancora, come vedete, in età naturalmente fredda, né forse anco
tepida » (aveva appena ventisei anni !) ; « non mi vergogno a dire che
non amo nessuno, fuorché me stesso, per necessità di natura, e il meno
che mi è pos¬ sibile ». Dove ognun vede che realmente certo invinciliile
pudore arresta Eleandro innanzi alla conseguenza delle sue dottrine; e si
ripigha subito infatti: « Contuttociò sono solito e pronto a eleggere di
patire piuttosto io, che esser cagione di patimento ad altri. E di
questo, per poca notizia che abbiate de’ miei costumi, credo mi
possiate essere testimonio ». L’amore degli altri si ribella alla negazione che
se n’ è voluto fare, e s’appella all’ intima e irreprimibile attestazione
del cuore. Altro che freddezza e petto irrigidito! E da ultimo
Eleandro conchiude; «Se ne’ miei scritti io ricordo alcune verità
dure e triste, o per isfogo deU’animo, o per consolarmene col riso, e non
per altro ; io non lascio tuttavia negli stessi libri di deplorare,
sconsigUare e riprendere lo studio di quel misero e freddo vero, la
cognizione del quale è fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di
bassezza d’animo, [Ed ecco perché, scritto il dialogo, sentì di non
doverlo più inti¬ tolare, come aveva pensato da principio, di Misinore e
Filénore : egli non era davvero quell’odiatore dell’uorao (ixio-TjVcop)
che poteva parere; né vero Filénore poteva dirsi l’ottimista.
iniquità e disonestà di azioni, e perversità di costumi: laddove, per lo
contrario, lodo ed esalto quelle opinioni, benché false, che generano
atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, \nrtuosi, e utili al bene
comune o privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane,
che danno pregio alla vdta; le illusioni naturali dell’animo; e in
line gli errori antichi, diversi assai dagh errori bar¬ bari; i quali,
solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà
moderna e della filosofia ». Dunque, ogni alto senso e tenero affetto,
destato da queste illusioni, non sarà spiegabile nel mondo a cui si
volgono gh occhi del Leopardi, il mondo di Stratone da Lampsaco, o la
natura dell’ Islandese, — come non è spiegabile nel mondo che solo esiste
per la scienza; ma non perciò è ignorato, o è divenuto estraneo al cuore
del Poeta. 11 quale non è Timandro, ma è bene Eleandro; e a dispetto di
quella natura, che è il vero, ama gli uomini e la virtù, dichiarandola
un’illusione, ma naturale, e quindi vera, quantunque contradittoria a
quell’altra na¬ tura, che non conosce né amore, né bene. Inorridire
fred¬ damente, sì; ma inorridire, ed elevarsi quindi al di sopra
della universale miseria, sentita come tale, e non assentirvi, non
semplicemente intelligere, come Spinoza avrebbe voluto. Così
nella Storia del genere umano, vero preludio alla sinfonia delle
Operette, quando l’uomo è pervenuto all’ uno fondo di cotesta miseria,
rappresentato dall’ap- parire in terra della Verità, spunta egualmente
una divina pietà al soccorso dell’ infelicità intollerabile dei
mortali : « La pietà, la quale negli animi dei celesti non è mai spenta,
commosse, non è gran tempo, la volontà di Giove sopra tanta infehcità; e
massime sopra quella di alcuni uomini singolari per finezza d’ intelletto,
con¬ giunta a nobiltà di costumi e integrità di vita; i quali egli
vedeva essere comunemente oppressi ed afflitti più IO.(‘tKSTli.y..
iicnz* ni r L'-'p ’rtìi. che alcun altro, dalla potenza e
dalla dura dominazione di quel genio»: ossia appunto, della Verità.
Giove, «compassionando alla nostra somma infelicità, propose agjj
immortali se alcuno di loro fosse per indurre l’animo a visitare, come
avevano usato in antico, e racconsolare in tanto travaglio questa loro
progenie, e particolarmente quelli che dimostravano essere, quanto a se,
indegni della sciagura universale». Tacciono tutti gli altri Dei¬
ma si offre Amore, figliuolo di Venere Celeste, «questo massimo iddio »,
che « non prima si volse a visitare i mortali, che eglino fossero
sottoposti all’ imperio della Verità ». Di rado egli scende, e poco si
ferma, e perché la gente umana ne è generalmente indegna, e perché
gli Dei molestissimamente sopportano la sua lontananza. EgU è dunque
premio, che l’uomo conquista con la sua grandezza. La quale perciò è
condannata sì all’ infelicità del vero; ma è pur redenta e beatificata da
Amore. « Quando viene in sulla terra, sceglie i cuori più teneri e
più gentih delle persone più generose e magnanime; e quivi siede per
breve spazio; diffondendovi sì pellegrina e mirabile soavità, ed
empiendoh di affetti sì nobili, e di tanta virtù e fortezza, che eglino
allora provano, cosa al tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità
che rassomiglianza di beatitudine. Rarissimamente congiunge due
cuori insieme, abbracciando l’uno e l’altro a un medesimo tempo, e inducendo
scambievole ardore e desiderio in ambedue; benché pregatone con
grandissima istanza da tutti coloro che egli occupa: ma Giove non
gli consente di compiacerli, trattone alcuni pochi; perché la felicità
che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo superata dalla
divina. A ogni modo, l’essere pieni del suo nume vince per se qualunque
più fortunata condizione fosse in alcun uomo ai migliori tempi. Ed
ecco perché il Poeta inorridisce, sia pur freddamente, allo spettacolo
del tristo vero. La sua anima è calda (iel divino beneficio di Amore. Né
può in lui la verità (quella mezza verità) contro le sacre illusioni, che
né egli può respingere, né altri egli ha consigliato mai a
respingere. « Dove egli si posa, dintorno a quello si ag¬ girano,
invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate dalla
consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per questo effetto in
sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere vietato dalla Verità,
quantunque inimicissima a quei fantasmi, e nell’animo grandemente
offesa del loro ritorno: ma non è dato alla natura dei geni di
contrastare agli Dei ». Non può, cioè, la nostra logica non render l’arme
all’arcano, che resta pel Poeta questa natura, la quale mette in cuore il
bisogno della virtfi, e la fa apparire poi stolta a Bruto. Infine,
quella stessa giovinezza e freschezza mattinale, arrisa e ringa¬
gliardita dalla speranza, ecco, risorge per x’irtù di questo Amore ; « E
siccome i fati lo dotarono di fanciullezza eterna, quindi esso, convenientemente
a questa sua natura, adempie per qualche modo quel primo voto degli
uomini, che fu di essere tornati alla condizione della puerizia. Perciocché
negli animi che egh si elegge ad abitare, suscita e rinverdisce, per
tutto il tempo che egh vi siede, l’infinita speranza e le belle e care
immaginazioni degli anni teneri. Molti mortah, inesjierti c incapaci de’
suoi diletti, lo scherniscono e mordono tutto giorno, sì lontano
come presente, con isfrenatissima audacia: ma esso non ode i costoro obbrobri;
e quando gli udisse, niun sup- phzio ne prenderebbe: tanto è da natura
magnanimo e mansueto ». Qui non c’ è satira, né riso, né
fredda anahsi; ma la più ferma fede e l’anima stessa del Poeta, che con
la pietà di Giove accenna già da lungi alla pietà di Elean- dro: e
raccoghe in questo suo magnanimo e mansueto amore tutta la infehcità
degli uomini e delle cose, e la purifica e sana nel gran mare tranquillo
del cuore, dove le illusioni rinverdiscono ad ora ad ora in una perpetua
giovinezza; e la vita vera non è quella dell’egoismo e della barbarie, ma
dell’affetto che lega le anime con nodi divini, e della bellezza, della
libertà, della patria, e di tutte le cose nobili e alte che fan grande
l’uomo. Questo amore, che dà piuttosto verità che rassomiglianza di
beatitudine, e ristaura tutta la vita umana, questo è il vero spirito
delle Operette morali. Pes¬ simista, sì, ma alla Pascal, che disse;
L’homme n’est qu’un roscau, le plus faible de la nature] mais c’est un
roseau pen- sant. Il ne faut pas que l’univers entier s’arme pour
l’écraser ; une vapeur, une gcmtte d'eau, suffit pour le tuer.
d/a/s, quand l’univers l’écraiserait, l' homme serait encore plus
noble que ce qui le tue, par ce qu’ il sait qu’ il meiirt, et l’avantage
que l’univers a sur lui] l’univers n’en sait rien\ sicché la grandeur de
l’homme est grande en ce qu’ il se connaU misérable E il Leopardi
nell’agosto del ’23, alla vigilia delle Operette, e quando il concetto di
esse era già maturo ; Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la
potenza dell’umano intelletto, ossia 1 altezza e no¬ biltà deH’uomo, che
il poter l’uomo conoscere e intera¬ mente comprendere e fortemente
sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità dei
mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo che è minima
parte degh infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa
considerazione stupisce della sua piccolezza e pro¬ fondamente sentendola
e intensamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi
se stesso nel pen¬ siero della immensità delle cose, e si trova come
smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con
que¬ sto atto e con questo pensiero egli dà la maggior piova della
sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la
quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere. I Pensées,
(Brunschvicg). è jiotuta pervenire a conoscere e intendere cose
tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e con¬ tener
col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose. Questa
coscienza dell’umana grandezza e sovranità sulla trista natura il
Leopardi non smarrì mai; ed è l’anima di tutta la sua poesia, in cui
queste Operette rientrano. E chi voglia intenderle, deve nel loro
insieme e in ogni singola parte che le costituisce, aver l’occhio a
questo punto centrale, da cui s’irradia la luce che tutte le investe e
compenetra. Tutte, ad eccezione del Sallustio, che è negazione fredda,
senza l’orrore, la ri- beUione dell’animo, il dolore, sia pur mascherato
da amaro sorriso, che si diffonde in tutte le altre. E questo parmi
il giusto motivo che indusse l’autore a sopprimerlo. Quando nel ’27 una
nuova ripresa della primitiva ispirazione diede il Copernico e il
Plotino, venutisi quindi ad aggiungere alle prime Operette già formanti
un orga¬ nismo, r ispirazione non era punto mutata. Giacché il
Copernico dimostra, secondo il detto dello stesso autore, la nullità del
genere umano; e la dimostra ripigliando un’ idea che contro i Timandri
medievali attardati aveano già nel Cinque e Seicento svolta Bruno nella
Cena delle ceneri e Galileo nei Massimi sistemi] donde la conclu¬ sione
necessaria che Porfirio ricava nell’altro dialogo (che sarebbe poi la
conclusione rigorosamente logica di tutta la parte negativa delle
Operette) : che sia ragionevole uccidersi. Ed egh vince a furia di
argomentare (movendo da premesse, che son quel che sono, ma a lui
paiono ben fondate) il suo stesso maestro, Plotino. Ma Pensieri, Plotino
può opporgli una sapienza assai più profonda più vera: «Sia ragionevole
l’uccidersi; sia contro ragion^ 1 accomodar l’animo alla vita :
certamente quello è u ^ atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né
vuoP elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostr^' che
secondo natura uomo. Perché contro natura e contro umanità il suicidio
ancorché conclusione di logica inesorabile? Porgiam’orecchio, dice Plotino,
«piuttosto aUa natura che alh ragione. E dico a quella natura primitiva,
a quella madre nostra e deU’universo; la quale se bene non ha
mostrato di amarci, e se bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci è
stata assai meno inimica e malefica, che non siamo stati noi coir
ingegno proprio, colla curiosità incessabile e smisu¬ rata, colle
speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle opinioni e dottrine misere: e particolarmente,
si è sforzata ella di medicare la nostra infelicità con occultarcene,
o con trasfigurarcene, la maggior parte. E quantunque sia grande 1
alterazione nostra, e diminuita in noi la jjo- tenza della natura; pur
questa non è ridotta a nulla né siamo noi mutati e innovati tanto, che
non resti in ciascuno gran parte dell’uomo antico. Il che, mal
grado che n’abbia la stoltezza nostra, mai non potrà essere
altrimenti. Ecco, questo che tu nomini error di computo; veramente errore, e
non meno grande che palpabile; pur si commette di continuo; e non dagli
stupidi solamente e dagl’idioti, ma dagl’ingegnosi, dai dotti, dai saggi;
e si commetterà in eterno, se la natura, che ha prodotto questo nostro
genere, essa medesima, e non già il raziocinio e la propria mano degli
uomini, non lo spegne. E credi a me, che non è fastidio della vita,
non disperazione, non senso della nulhtà delle cose, della vanità
deUe cure, della solitudine dell’uomo; non odio del mondo e di se
medesimo, che possa durare assai: benché queste disposizioni dell’animo
sieno ragionevolissime, e le lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò,
passato un poco di tempo, mutata leggermente la disposizion del corpo; a poco a
poco, e spesse volte in un subito, per cagioni menomissime, e appena
possibili a notare; rilassi il gusto della vita, nasce or questa or
quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella loro apparenza,
e mostransi non indegne di qualche cura; non veramente all’ intelletto,
ma sì, per modo di dire, al senso dell’animo » •. E infine, conclude
Plotino, questo senso, non 1 ’ intelletto, è quello che ci governa.
Sicché è evidente che non la filosofia negativa, che spazia dal
Dialogo d’ Ercole e di Atlante fino al Cantico del Gallo silvestre e al
Frammento di Stratone, e poi nel Copernico, opera di puro intelletto, è
la somma della sapienza leo¬ pardiana; ma questa stessa filosofia in
quanto dichiarata stoltezza dalla natura e da questo « senso dell’animo
». Senso dell'animo, che è sempre amore per L. Giacché non la sola
natura ci riattacca alla vita, sì anche un bisogno d’amore, che a noi
spetta di alimentare: « E perché », chiede Plotino, « anche non vorremo
noi avere alcuna considerazione degh amici; dei congiunti di
sangue; dei figliuoli, dei frateUi, dei genitori, della moglie; delle
persone familiari e domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran
tempo; che, morendo, bisogna lasciare per sempre : e non sentiremo in
cuor nostro dolore alcuno di questa separazione; né terremo conto di
quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara o consueta,
e per l’atrocità del caso ? ». E dice la parola, che si va cercando
attraverso tutte le Operette, ma di cui può dirsi quello stesso che
Tacito dell’ imma- Il solo, a mia notizia, che abbia rilevato
l’importanza che questo «senso dell'animo» ha nel sistema dello spirito
leopardiano, come principio di redenzione dal pessimismo, è stato il
prof. Giovanni Negri, nelle sue Divagazioni leopardiane (6 volumi, Pavia,
1894-99), passim, e specialmente voi. V, pp. lys-yy. 1gine di Bruto
mancante ai funerali della sorella: prae- fulgebat eo ipso gitoci non
visebatiir. « E in vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né
pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si
gitta per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il
genere umano: tanto che in questa azione del privarsi della vita,
apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men
liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo. Dunque quella
grandezza non è infelicità; perché l’uomo infelice dovrebbe darsi la
morte; e si ucciderebbe se vivesse per la felicità e si attenesse quindi
al calcolo dell’utile. Ma la vera vita è non sembianza, sì verità
di beatitudine se è amore, in cui l’uomo non distingue più sé dagli
altri, né agli altri antepone più se stesso. E questa è la A’irtù, la
magnanimità, di cui parla tanto spesso L., che non è più il dolore
incomportabile che ci fa invidiare i morti, ma questo amore che ci
stringe ai viventi, e ci ammonisce dal fondo del nostro cuore di
uomini, come Plotino con voce tremante di affetto dice al suo Porfirio:
«Viviamo, e confortiamoci a vicenda; non ricusiamo di portare quella
parte che il destino ci ha stabìhta, dei mali della nostra specie. Sì
bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l'altro; e andiamoci
incoraggiando e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel
miglior modo questa fatica della vita». Questo amore, che ci regge e
riempie la vita, ci conforta la morte e ci abbellisce l’idea di questo
mondo, da cui non spariremo senza sopravvivere. « E quando la morte
verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo momento gli amici e
i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che
saremo sjienti, così molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora
». Vili. Amore è la prima e l’ultima parola delle
Operette. Le quali ebbero ancora una ripresa nei due dialoghi fiorentini:
il Venditore d’Almanacchi e Tristano. Nel primo ritorna il motivo del Cantico
del Gallo silvestre. Il venditore d’almanacchi col suo grido festoso
annunzia l’anno nuovo, il tempo che ri¬ comincia, e risveglia le speranze
e promette. Ma il pas¬ seggero in cui s’incontra oppone la sua fredda
riflessione a quell’ impeto di vaghe e indefinite speranze, e lo conduce
a considerare che « quella vita eh’ è una cosa bella, non è la vita che
si conosce, ma quella che non si co¬ nosce ; non la vita passata, ma la
futura ». La vita che si conosce è la passata, mista di beni e di mali, e
a cagione di questi ultimi tale che nessuno vorrebbe riviverla:
vita brutta, dunque. La futura è quella che non si conosce, e che sarà
egualmente brutta quando sarà passata; e sarebbe perciò non meno brutta,
se noi ce la vedessimo venire incontro quale in effetti sarà. Dunque ? L.
non conchiude ; ma la conclusione è quella che viene dalle Operette:
sperare non è ragionevole, poiché, come cantava il Gallo silvestre, già
si corre alla morte; ma non sperare non si può; perché, è evidente, il
futuro sarà brutto quando sarà passato; ma bello è finché fu¬ turo;
né di questo futuro potrà mai tanto passarne che non ce ne sia sempre
dell’altro, in cui possa rifugiarsi la speranza, o innanzi a cui non
possa il Gallo intonare il suo canto consolatore. E la vita resta sempre
con queste due facce ; a vedersela innanzi, qual’ è, una mi¬ seria
disperante; a viverla, a \'iverci dentro col nostro cuore, i nostri
fantasmi, le nostre speculazioni e il no¬ stro amore, una beatitudine
divina. Fu per Giacomo l’anno della tragica prova della sua fede.
Dopo dieci anni tornò la misera Saffo a rivivere nel suo animo; non però
luminosa immagine della fantasia, come nell’ Ultimo canto, ma vita del
cuore stesso di Giacomo. Bello il tuo manto, o divo cielo, e
bella Sei tu, rorida terra. Airi di cotesta Infinita beltà parte
nessuna Alla misera Saffo i numi e l’empia Sorte non fenno. A’ tuoi
superbi regni Vile, o natura, e grave ospite addetta, E
dispregiata amante, alle vezzose Tue forme il core e le pupille
invano Supplichevole intendo Non meno supplichevole Giacomo
guarda ad Aspasia; onde ricorderà: Or ti vanta, che il puoi. Narra
che prima, E spero ultima certo, il ciglio mio Supplichevol
vedesti, a te dinanzi Me timido, tremante (ardo in ridirlo Di
sdegno e di rossor), me di me privo. Ogni tua voglia, ogni parola,
ogni atto Spiar sommessamente, a’ tuoi superbi Fastidi impallidir. E
cadde l’inganno, e la vita, orba d’affetto e del gentile errore, fu «
notte senza stelle a mezzo U verno ». Ma Saffo proruppe nel grido
disperato ; — Morremo ! -- e violenta cercò l’atra notte e la silente riva.
Leopardi scrisse invece Amore e morte] dove la morte non è più
l’orrido Dite di Saffo, anzi si palesa in tutta la sua gen¬ tilezza fino
alla donzeUa timidetta e schiva. È sorella d’Amore ; 1
Ultimo canto di Saffo. Aspasia. Bellissima fanciulla, Dolce a
veder, non quale La si dipinge la codarda gente. Gode il fanciullo
Amore Accompagnar sovente; E sorvolano insiem la via
mortale. Primi conforti d'ogni saggio core £ la morte
sospirata dall’amante, nel languido e stanco desiderio di morire, che si
sente Quando novellamente Nasce nel cor profondo Un
amoroso affetto, perché già a’ suoi occhi la vita diviene un
deserto: a se la terra Forse il mortale inabitabil fatta Vede
ornai senza quella Nova, sola, infinita Felicità che il suo pensier
figura; Ma per cagion di lei grave procella Presentendo in
suo cor, brama quiete. Brama raccorsi in porto Dinanzi al
fier disio. Che già. rugghiando, intorno intorno oscura.
E a questa morte consolatrice, che insieme con amore è quanto di
bello ha il mondo, a questa morte, senza armare la mano, anzi con umile e
mansueto animo, vol- gesi il Poeta con un sospiro di religiosa
preghiera: Bella morte, pietosa Tu sola al mondo dei
terreni affanni. Se celebrata mai F'osti da me, s’al
tuo divino stato L’onte del volgo ingrato Ricompensar tentai.
• Amore e morte -- Non tardar più, t’inchina A disusati
preghi. Chiudi alla luce ornai Questi occhi tristi, o
dell’età reina. Non già che amore e morte abbian potere di
cancellare la fatale infelicità: né che l’uomo e il Leopardi
abbiano mercé loro, a lodarsi del fato. Quando Morte spiegherà le
penne al suo pregare, lo troverà Erta la fronte, armato,
E renitente al fato. La man che flagellando si colora
Nel suo sangue innocente Non ricolmar di lode. Non benedir. La
morte è consolatrice e liberatrice da questo fato cru¬ dele: ma già
Leopardi aspetta sereno quel dì ch’ei pieghi addormentato il volto nel
vergineo seno di lei; e il fato è vinto nel suo animo gentile da questa
aspettazione: vinto nella stessa vita. E questo è Tanimo di
Tristano; il quale, dopo avere con amara ironia fatta la palinodia
del suo libro, conchiude che il meglio sarebbe di bru¬ ciarlo : « non lo
volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d’invenzioni e
di capricci malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicità
dell’autore»; perché, soggiunge al suo amico Tristano, con accento
che viene dal cuore e vibra di commozione, « perché in confidenza, mio
caro amico, io credo febee voi e felici tutti gli altri; ma io, quanto a
me, con licenza vostra e del secolo, sono infebeisshno: e tale mi credo;
e tutti i giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario
». Egb è flagellato dallo stesso fato di Amore e morte. «E di più
vi dico francamente eh’ io non mi sottometto alla mia infelicità, né
piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri
uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni altra
cosa.... Né vi parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l’ora,
il fatto non ismentirà le mie parole.... In altri tempi ho
invidiato gli sciocchi e gh stolti, e quelli che hanno un gran concetto
di se medesimi; e volentieri mi sarei cam¬ biato con qualcuno di loro.
Oggi non in\'idio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli
né potenti. In¬ vidio i morti»: i morti di Ruysch, già sicuri
àzH’antico dolori E quest'invidia, questo desiderio intenso della
morte, è fiducia confortata da una speranza che non falhrà, e che già
allieta di sé Tanimo sottratto per lei a quella vita che è dolore: a
quella cosa arcana e stupenda, che i morti di Ruysch possono ricordare
senza tema, poiché è un passato irrevocabile: «Ogni immaginazione
piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come accade nella mia
solitudine, e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte»: che è
un avvenire, adunque, quale il venditore di almanacchi lo prometteva.
In conclusione, ancora una volta, e sempre, l’amore trionfa del
dolore, anche nella morte, che ci libera infine da quella vita che la
natura e il fato danno all’uomo « di cedere inesperto ». Cederebbe il
suicida egoista, non il magnanimo che allarga la sua persona nell’amore,
e guarda sereno alla morte amica che lo sottrarrà, e lo sottrae,
alla miseria di Saffo e dell’ Islandese. Quanta differenza tra la morte
di cui Ercole ragiona con Atlante 0 quella che s’incontra nella Moda, al
principio delle Operette) e questa morte, a cui l’animo si volge
desioso alla fine delle Operette stesse ! Il filo aureo che
dall’una conduce all altra è già nella Storia del genere umano'.
Amore figlio di Venere celeste. Questo scritto fu pubblicato prima nel
Messaggero della domenica, poi nei Frammenti di estetica e letteratura, A
proposito del Leopardi toma sempre in campo la questione delia differenza
e del rapporto tra filosofia e poesia: poiché questo poeta voUe essere, e
per certi rispetti nessuno può negare sia stato infatti un filosofo; ma,
d’altra parte, egli stesso pare abbia voluto distin¬ guere una cosa
dall’altra, come res dissociabiles, e in un libro di prosa volle in forma
più sistematica e più ra¬ zionalmente convincente esporre quel suo
pensiero da cui traeva intanto ispirazione il suo canto nelle
poesie. E non importa se non ci sia una sola delle sue poesie in
cui il Leopardi non ragioni la sua fede e non si sforzi di dimostrare la
verità del concetto ch’egli s’era formato della vita, e che attraverso
una determinata situazione personale, un paesaggio, un ’immagine, si
sforza costantemente di mettere in piena luce. Non importa se nessuna
delle prose raccolte nelle Operette morali si presenti sotto la forma di
scolastica dimostrazione e scevra di quel sentimento, di quella viva
commozione, in cui \dbra la personalità del poeta così nelle Operette
come nei Canti. La distinzione pare tuttavia innegabile, poiché, non
po- tenilo altro, se ne fa una questione di quantità e di più e di
meno: affermando che l’elemento filosofico predomina nelle Operette, e
l’elemento hrico nei Canti. E si crede così di salvare la tesi generale,
che bisogna rinunziare alla filosofia per esser poeti, e viceversa:
giacché la loro natura è così diversa e ripugnante, che l’una non
può esser l’altra e una sempre deve essere sacrificata. Ma io
non voglio ora affrontare la questione, che potrà sembrare tanto
teoricamente difficile e dehcata li. — Gkntilk, Òfamoni e
Leopardi. quanto praticamente
inutile e oziosa. Nel caso del Leo¬ pardi la questione di principio è
priva d’ogni interesse, perché il Leopardi, anche nelle sue prose, è
indubbiamente poeta ; temperamento poetico sempre, che, canti o
ragioni, cioè si proponga Luna o l’altra cosa, in realtà non riesce
se non ad esprimere se stesso; a vivere di quella verità che gli invade
l’anima e non gli lascia modo di dubitare e di assoggettarla a quella più
alta razionalità, a quella critica oggettiva che s’inquadra in un
sistema, e in cui consiste propriamente una filosofia che non vuol
dire che non abbia anche lui la sua filosofìa; ma è una filosofìa fatta
vita e persona, fatta vibrazione e ritmo del suo stesso sentimento, incapace
come tale d’acquistare intera coscienza di sé, e perciò di superarsi. E,
cioè, un certo suo atteggiamento spirituale, che s’effonde nella
divina ingenuità della poesia, e che riesce perciò superiore a quella
dottrina che l’autore si sforza consapevolmente di formulare.
Superiore perché, — ormai è noto agh studiosi più attenti della sua
poesia — questa ha pel poeta un conte¬ nuto pessimistico, e per noi,
invece, ha un contenuto ottimistico. La vita infelice, necessariamente e
fatal¬ mente infelice, è ciò che il poeta aveva innanzi agli occhi,
vedeva e si proponeva di cantare. Ma poiché quella \nta che ogni poeta
canta non è quella che ha innanzi agli occhi, bensì quella che ha dentro
al cuore, e però ogni poeta canta non la vita quale egli la vede, ma il
cuore con cui egli la guarda; e poiché il cuore di Giacomo Leo¬
pardi era, come egli disse una volta, nato ad amare, ed aveva « amato, e
forse con tanto affetto quanto ]iuò mai cadere in anima vdva », così, in
realtà, tema del suo I Vedi ora il mio scritto Arte e religione,
nel Giorn. crii. d. filos- Hai., e
nel voi. Dante e Manzoni, Firenze, Vai- lecchi,-- canto non fu mai quella
brutta vita, che è piena di do¬ lore, ma quell’altra che egli più
profondamente sentiva, redenta dall’amore, la quale «dà piuttosto verità
che rassomiglianza di beatitudine. Poiché appunto qui è il divario tra
pessimismo e ottimismo: che il primo vede la vita quale apparisce nella
natura considerata dal punto di vista materialistico, brutale, sorda ai
bisogni e alle finalità dello spirito, chiusa in sé di contro alle
aspirazioni dell’anima umana biso¬ gnosa di amore e di consenso, ossia di
un mondo conforme alla sua vita e a lei consentaneo; e l’altro invece
crede nello spirito, nel valore de’ suoi ideali, e nell’energia
dell’amore che sola è capace di reahzzare un tale valore. 11 mondo del
pessimista è il mondo dell’egoismo, per cui il dovere e la \nrtù sono
mere illusioni, e il mondo del¬ l'ottimista è il mondo in cui la più
salda e vera realtà è quella che risponde alle esigenze dell’animo. E la
verità è questa: che il Leopardi, pessimista di filosofia, e ijuasi
alla superficie, fu invece ottimista di cuore, e nel profondo dell’animo: tanto
più acutamente pessimista, col progresso della riflessione, e tanto più
altamente e umanamente ottimista. Basta confrontare la canzone All’Italia con
La Ginestra. Di qui la sublime bellezza della sua poesia, dove la
bestemmia e lo strazio della disperazione si smorzano e dissolvono nella
commossa e tenera effusione di un’anima angosciosamente agitata da
un bisogno di amore universale e da un’ incoercibile fede nella
virtù e nella realtà dell’ ideale. Egli non ha la filosofia di questo superiore
ottimismo in cui rimane assor¬ bita la sua iniziale visione pessimistica;
e continua a dire che la sua è sempre la filosofia del Bruto Minore^-,
ma l’anima, che non perviene al concetto filosofico di quella
' storia del genere umano. - Lett. al De Sinner -- realtà
che è per lei la vera e suprema realtà, raggiungo bensì la forma poetica
della sua espressione in modo pieno e perfetto. Se cerchiamo
in lui il filosofo, avremo lo scettico, ironista, materialista piuttosto
mediocre nell’ invenzione, dove riesce facile scoprire quanto egli debba
ai libri che lesse, e come pronto fosse ad attingere dalle fonti
ph, disparate tutto ciò che comunque paresse giovare a con¬ ferma
delle sue idee: mediocre nell'esposizione od ela¬ borazione della
materia, per evidente inesperienza del metodo lìlosofìco e insufficiente
familiarità coi grandi pensatori di tutti i tempi. Ma chi legga il
Leopardi e si fermi a ciò che in lui è mediocre, non ha occhi né
anima per vedere che cosa c’ è propriamente in lui che è vivo ed
eterno e grande: ciò per cui anche a chi pedanteggi la sua poesia s’impone
e suscita un’eco solenne nell’animo. In questo senso bisogna pur dire che
in Leopardi non si deve cercare e non c’ è il filosofo: ma c è un anima,
che rifulge in tutto lo splendore della sua grandissima uma¬ nità.
C’ è insomma il poeta. Anche nelle sue Operette. Le quali io credo
di avere definitivamente dimostrato con argomenti esterni, at¬
testanti nella maniera più esplicita 1’ intenzione di esso L., e con
argomenti interni, desunti dallo svolgimento del pensiero e dagli evidenti
legami onde le singole operette sono congiunte tra loro per
graduali passaggi di atteggiamenti spirituali e di sentimenti dal
primo all’ultimo anello, che non sono una raccolta, ma un organismo, un
tutto unico, che si articola dentro di se stesso e si conchiude. Si
conchiude tra un preludio e un epilogo in una opera, che è un poema, e
non è un trattato: un libro di poesia, anch’esso, e non di conte¬
nuto didascalico e speculativo. Il quale si compone o ginariamente di venti
capitoli, scritti tutti in un anno di lavoro felice, ma con un intervallo
tra i primi quattordici e gli altri sei: in guisa da suggerire il
sospetto che la ripresa, da cui trasse origine Tultima parte, svolgendosi
in sei capitoli, potesse trovare riscontro nella prima serie: dalla quale
sottraendo il primo e l’ultimo capitolo, quello perché introduzione e
questo perché apologia e conchiusione di tutta la serie, si
ottengono infatti dodici capitoli, che naturalmente si dividono in
due gruppi di sei capitoli ciascuno; e ciascun gruppo è destinato a
svolgere un certo motivo, e quindi forma un ritmo a sé. Sospetto
confermato da alcuni spostamenti dall’autore introdotti nel primitivo
ordine cronologico, e poi costantemente mantenuti, salvo una
sostituzione che nella terza edizione del libro mise uno scritto, per
l’innanzi non potuto mai pubbhcare, al posto di un capitolo del primo
gruppo: capitolo abolito allora perché infatti non armonico né col
gruppo, né con tutta l’opera. La distribuzione, è ovvio, non
può avere se non una importanza relativa. £ ragionevole pensare che
fosse voluta e curata dall’autore. Il quale egualmente non volle
mai rispettare l’ordine cronologico nelle edizioni da lui curate dei
Canti, e diede loro un ordinamento ideale, che per lui aveva un \'alore,
e che per i lettori ed inter¬ preti non può essere perciò trascurabile.
Ma il fatto stesso che tutte e venti le operette furono scritte
successivamente, l’una dopo l’altra, nello stesso periodo di tempo, e
hanno tutte un prologo generale e un unico epilogo, dimostra
evidentemente che i loro singoli gruppi non si possono considerare
separatamente, quasi ognun d’essi formasse un tutto a sé. La
distribuzione del nucleo principale delle Operette in tre gruppi di sei
capitoli ciascuno, con a capo un capitolo introduttivo e in fondo un altro
capitolo conclusivo, può servire soltanto a renderci attenti per leggere
le varie parti del libro cercandovi tre motivi fondamentali che nel
pensiero deU’autore si fondo no in un solo ritmj complessivo, e
formano l’unità organica del libro; e in questo modo può servire quasi di
chiave a un libro, che fino a ieri si leggeva qua e là, scegliendo l’uno
o l’altro capitolo, come se ciascuno stesse da sé. E non occorre
dire che ci vuole discrezione, e non bisogna pretendere un taglio netto
tra un gruppo e l'altro, e una soluzione di continuità che non si sa
perché l’autore avrebbe do¬ vuto introdurre una prima e una seconda volta
nel corso della sua unica opera. Discrezione che non vedo,
per esempio, nel professor Faggi ', quando del Dialogo di Malambrmio e
Farfarello che resta collocato alla fine del primo gruppo e da ser¬
vire quindi come passaggio al secondo, mi domanda: « Ma non potrebbe
stare anche nel secondo, poiché è una affermazione chiara ed esplicita
dell’ infelicità assoluta dell’esistenza, onde si conchiude che,
assoluta- mente parlando, il non vivere è sempre meglio del vivere ? ».
Ma io non avevo eretto nessuna muraglia tra il primo gruppo concluso da
questo dialogo di Malambruno e Farfarello e il secondo aperto da quello
della Natura e di un’Anima: anzi, dopo aver mostrato il pensiero
dominante nel primo gruppo, additavo in Malambruno quell’anima che si
ritrova di fronte alla Natura al prin¬ cipio del nuovo ciclo; e tra i due
dialoghi successivi non un salto, anzi un passaggio naturale e come
insensibile ove non si osservi che quella che nel primo ciclo è una
constatazione, un'osservazione di fatto, diventa nel se¬ condo ciclo il
problema. Il Faggi, tratto forse in inganno da alcune parole [Una
nuova edizione delle fn Operette movali n di G. L., nel Mar¬ zocco -- da
me usate incidentalmente, mi fa dire che la diffe¬ renza tra primo e
secondo periodo in questa trilogia delle Operette consisterebbe, secondo
me, in ciò: che nel primo « r infelicità del genere umano si considera
particolarmente nell’età moderna come effetto più che altro della volontà
pervertita dell’uomo e della civiltà », e nel secondo invece, « questa
infelicità si considera come legge imprescindibile e ineluttabile
dell’umanità o del mondo in genere»; sicché «la Natura, che nella
prima ipotesi apparisce fonte in se ancora inesausta di vita e di
fehcità, apparisce invece nella seconda vero principio di ogni male e di
ogni dolore. Cotesta sarebbe la nota differenza osservata dallo Zumbini
tra la prima fase « storica » del pessimismo leopardiano, e la seconda
metafisica o cosmica. Ma non corrisponde per l’appunto alla distinzione
da me indi¬ cata, tra il concetto del primo e quello del secondo
gruppo delle Operette. Nel primo, io dissi, l’animo del poeta vien
posto in faccia alla morte e al nulla : « ossia al vuoto della vita, non
più degna d’essere vissuta; poiché degna sarebbe la vita inconscia, e la
vita dell’uomo è senso, coscienza. La vita nella fehcità è la natura; e
l’uomo se ne dilunga ogni giorno più con la civiltà, con l’irrequieto
ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma ». Qui il pessimismo
storico è già superato, e Malam- bruno può dire che « assolutamente
parlando » il non vivere è meglio del vivere. Lo può affermare, perché
la vita umana, fin da principio e per sua natura, è senso,
coscienza, e si è strappata a quell’ ingenuità istintiva e affatto
inconsapevole, che è pura animalità. « Può pa¬ rere », scrissi io, « che
la morte dell’umanità, la sua nul- htà o infelicità sia, nei dialoghi del
primo gruppo, una colpa dei degeneri nepoti » : poiché infatti civiltà è
au¬ mento progressivo di coscienza e di pensiero. Ma in realtà, fin
dalle origini, insieme col sapere, che fa uomo l’uomo. c’ è già il
dolore, ed il destino dell’uomo è fissato. Ma- lambruno perciò è
benissimo al suo luogo alla fine del primo ciclo. Il secondo
ciclo ricava la conseguenza pratica della verità scoperta nel primo. E si
apre infatti col Dialogo della Natura e di un’Anima, nel quale dalla
proporzione del dolore con la grandezza dell’uomo (il cui progresso
e perfezione consiste nell’acquisto di sempre maggior copia di sentimento
che gli fa sentire sempre più acuto il dolore dell’esistenza) deduce, che
dunque è meglio spogliarsi deU’umanità, o delle doti che la nobilitano,
e farsi « conforme al più stupido e insensato spirito umano che la natura
abbia mai prodotto in alcun tempo. Negare l’umanità, rinunziare a ciò che
fa il pregio della \ùta, rinunziare ad affiatarsi con la Natura indifferente,
che ci respinge da sé, ossia rinunziare alla vita: e rassegnarsi
alla vita vuota, al tedio, all’ inerzia. Laddove il primo ciclo addita
aU’uomo l’abisso che con la coscienza s’è aperto tra lui e la natura, il
secondo gli fa sentire il de¬ stino a cui gli conviene di rassegnarsi,
rinunziando a quella natura che non è per lui, e a quella vita che
sol¬ tanto nella natura potrebbe spiegarsi. Il primo ciclo è
una negazione, per così dire teoretica; il secondo è la negazione pratica, che
consegue dalla prima negazione. La conclusione dovrebbe essere
quella di Bruto minore e di Saffo, il suicidio; non ò però la conclusione
del Leopardi, il quale non finisce con r Ultimo canto di Saffo, ma con la
Ginestra. E perché quella di Bruto non sia la sua conclusione è detto
nel terzo ciclo delle Operette. Il quale svolge questo motivo: che
quella vita che certamente non ha valore, perché è dolore e perciò
negazione della vita che noi vorremmo vivere, ripullula rigogliosa e
incoercibile dalla sua stessa negazione. La \àta è abbarbicata
aH’anima umana; e questa, attraverso le attrattive e le lusinghe della
gloria, la stessa contemplazione della morte liberatrice, porto sicuro
da tutte le tempeste, come la cantano i morti di Ruysch, attraverso
una filosofia che sappia intendere e sorridere con la magnanimità bonaria
di un Ottonieri, attraverso gli stessi rischi in cui la vita si perde e
si riconquista col gusto di una cosa nuova, e in generale
attraverso l’attività, il movimento, la passione e la speranza che
non vien mai meno; ma sopra tutto, attraverso l’amore che ci fa ricercare
nell’uomo, neW’umana compagnia, quello che la natura ci nega anche nella
piena coscienza della propria infelicità fatale e immedicabile, vive e
sente la gioia d’una vita che trionfa del destino fatto all’uomo
dalla natura. Una soluzione dunque del problema della vita nei
tre cicU delle Operette morali c’ è. Ma è una filosofia ? È evidente che
no: perché la via che filosoficamente si do¬ vrebbe seguire per superare
il pessimismo radicale dei primi due cich è, senza dubbio, quella per cui
l’anima dello scrittore si avvia e spontaneamente e vigorosamente
procede nel terzo; ma questo non è una dottrina, bensì 10 slancio
naturale dello spirito che risorge con tutte le sue forze dalla negazione
pessimistica. E il pessimismo, in linea di teoria, rimane la verità
assoluta e insuperabile. Leopardi sente bensì e vive la verità superiore,
ma non riesce a darle forma riflessa e speculativa. Egli spe¬ rimenta
in sé ed attesta coi moti del suo animo la po¬ tenza dello spirito, che
anche nell’uomo che s’immagina scliiavo e vittima della natura, trionfa della
forza tirannica e feroce di questo brutto potere, e vive, e gusta
la gioia di questa sua vita in cui consiste la realtà dello spirito. E in
questo balsamo, che il suo animo sparge così su tutte le piaghe che ha
aperte e che ha fissate inorridito, in questa dolcezza che sana ogni
dolore, in quest’ idealità che sopravvive a ogni negazione, qui la
personalità, qui è la poesia del Leopardi. Così, ripeto nelle Operette,
come nei Canti. Si rilegga l’affettuosa parlata di Eleandro onde
si conchiuse da prima tutta la serie delle Operette-, o il di.
scorso di Plotino, con cui il libro tornò ad essere suggei. lato nelle
aggiunte posteriori; e si neghi, se è possibile, che il centro e
l’accento principale dello spirito leojiar- diano è in quel « senso
dell’animo », com’egli dice, che, agli occhi suoi, lega l’uomo all’uomo,
e con l’amore, vincolo soave insieme ed eroico, instaura un ordine morale
inespugnabile a ogni riflessione scettica, e superstite infatti (coni’ è
detto nella Storia del genere umano) a quella fuga di tutti i lieti
fantasmi che è prodotta dal sorgere della verità tra gli uomini. L’animo
del L., come quello di Porfirio, non si scioglie dalla vita, anzi
vi si stringe vieppiù, e la trova, malgrado tutto, degna d’esser vissuta,
per quel che dice appunto Plotino: «E perché non vorremo noi avere alcuna
considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli,
dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e
domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo: che morendo,
bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore di
questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, per
la perdita di persona cara e consueta, e per l’atrocità del caso ?
». Questo non è un argomento filosofico, ma un cuore che trema in ogni
parola; e ogni parola si sente come velata dal pianto dell’anima che il
dolore apre ed espande nell’amore. Ma è proprio vero, torna a
domandarmi il profes¬ sor Faggi, che amore sia la prima e l’ultima parola
delle Operette ? Ecco: che la Storia del genere umano faccia
consistere tutto il pregio, la bellezza e la felicità della vita
nell’amore, mi pare sia così chiaro dalle ultime pagine del mito, che nessuno
possa dubitarne. E non vedo che ne dubiti lo stesso Faggi. Il quale
dubita piuttosto che amore sia l’ultima parola del libro. Non gli pare
che sia nella prima forma di questo, quando finiva col Dialogo a
Timandro e di Eleandro\ né che sia nella forma definitiva, quando all’ultimo
posto fu collocato il Dialogo di Tristano e di un Amico. La compassione
di Eleandro, egli dice, « non è amore : tant’ è vero che questo dialogo
dovea dapprincipio intitolarsi Misénore e Filénore, e Mis nore, cioè
odiatore dell’uomo, doveva essere L. ». Ma il Faggi non ha badato che (come
avrebbe potuto vedere da tutte le varianti che io ho tratte dall’autografo)
cotesto titolo, poi mutato dall’autore nell’altro con cui pubblicò il dialogo,
non solo fu ideato quando ancora il dialogo era da scrivere, ma
mantenuto fino alla fine della composizione del dialogo stesso.
Sicché il concetto di Mist'nore è puntualmente quel medesimo che
vediamo incarnato in Eleandro: in chi cioè non si oppone propriamente
all’amatore degli uomini, ma si oppone soltanto a chi, anzi che Filénore,
merita d’esser detto Timandro, perché eccessivamente valuta, col
domma della perfettibilità progressiva, il potere umano di impa¬
dronirsi della feheità. L’uomo del Leopardi non è l’uomo vantato e
millantato dagl’ illuministi del secolo XVIII e dai progressisti del suo
secolo: l’uomo dalle magnifiche sorti e progressive del Mamiani: è l’uomo
vittima della natura e però degno di compassione. La
compassione non è amore; certo. Ma ne è la ra¬ dice. E perciò Giove,
mosso da pietà, nella Storia del genere umano, manda Amore fra gli
uomini. Perché solo l’amore lenisce i dolori, per cui si commisera
l’infelice; e se Eleandro, dopo aver protestato con un grido che
gli si sprigiona dal più profondo del cuore: «Sono nato ad amare, ho
amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva », soggiunge.
Oggi non mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché nie
stesso, per necessità di natura, e il meno possibile»- l’aggiunta è
un’asserzione voluta dalla coerenza del si' sterna pessimistico della
vita che Eleandro oppone al dommatico ottimismo di Timandro; ma si
smentisce subito continuando. Con tutto ciò sono solito e pronto a
eleggere di patire piuttosto io, che esser cagione di pa¬ timenti ad
altri ». E questa è compassione, che è pnrg una sorta di amore. Che
se Tristano non sa più pensare se non alla morte questa morte (come credo
di aver chiarito abbastanza col riscontro di quel dialogo con i canti
dell’amore fio¬ rentino, Aspasia e Amore e morte), non è la
disperazione della vita, cantata da Bruto minore e da Saffo, ma è
la bellissima fanciulla che Gode il fanciullo Amore
Accompagnar sovente; la bella morte, pietosa, sospirata in
quel languido e stanco desiderio di morire che sorge col nascere d’un
amoroso affetto. E r ironia, così nel Timandro come nel Tristano,
non è rivolta contro la vita confortata dall’amore, bensì contro quel
volgare ottimismo che parla il fatuo linguaggio di Timandro e deH’amico di
Tristano. Vero è che per leggere Leopardi non bisogna tanto
badare a quello che egli dice, ma al modo piuttosto in cui lo dice, al tono
delle sue parole, in cui propriamente consiste la sua anima, e quindi la
vita e il valore della sua prosa. Che io perciò desidero considerare più
come poesia che come argomentazione. E perciò non posso accettare
quel che il Faggi dice del Dialogo di Tasso e del suo Genio familiare e dell’
Elogio degli uccelli. Come mai, mi domanda del primo, «appartiene
al secondo gruppo e non al terzo ? Anche questo dialogo è senza
dubbio.... una ricostruzione; e, per questo lato. vale il Dialogo
di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez ». Infatti, egli osserva, «
non dee spaventare la differenza che c’ è fra un uomo chiuso nelle
quattro mura d’una prigione e un altro che corre a vele spiegate 1’
Oceano infinito. 11 Tasso prova nello spirituale colloquio col suo
Genio familiare press’a poco la stessa soddisfazione che il grande
Genovese nel suo fortunoso viaggio. Tutt’e due han trovato la maniera di
fuggire la noia, questa compagna indivisibile dell’esistenza. Quando altro
frutto non ci venga da questa navigazione, dice Cristoforo Colombo
a Pietro Gutierrez, a me pare che ella ci sia profittevolissima in quanto che
per lungo tempo essa ci tiene Uberi dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa
pregevoli molte cose che altrimenti non avremmo in considerazione.
E il povero Tasso ha ricevuto tale conforto dalla con¬ versazione col suo
Genio, che, si può ritenere, il consigUo da questo datogli di ricercarlo,
ov’ei lo voglia, in qualche Uquore generoso, non andrà perduto. Tutt’e
due, tra fantasticare o navigare, van consumando la vita: non con
altra utiUtà che di consumarla; che questo è l’unico frutto che al mondo
se ne può avere: e l’unico ‘intento che l’uomo deve proporsi ogni mattina
in sullo svegliarsi ’ ». Ora tutto ciò, se si guarda alla nota
fondamentale dei due dialoghi, non credo si possa sostenere. Lo
spunto del Colombo ci è indicato dallo stesso Leopardi, che, come
io ho mostrato, aveva prima concepito questo scritto col titolo di Salto
di Leucade\ e il senso o nucleo del dia¬ logo va quindi cercato nel passo
che segue alle parole citate dal Faggi, dove Colombo dice: « Scrivono gU
antichi, come avrai letto o udito, che gli amanti infelici, gittan-
dosi dal sasso di Santa Maura (che allora si diceva di Leucade) giù nella
marina, e scampandone, restavano per grazia di Apollo, liberi dalla
passione amorosa. Io non so se egli si debba credere che ottenessero
questo effetto; ma so bene che, usciti di quel pericolo, avranno
per un poco di tempo, anco senza il favore di Apollo avuta cara la vita,
che prima avevano in odio; o pm-g avuta più cara e più pregiata che
innanzi. Ciascuna na vigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla
rupe di Leucade; producendo le medesime utihtcà, ma pj(, durevoli
che quello non produrrebbe; al quale, per questo conto, ella è superiore
assai. Credesi comunemente che gli uomini di mare e di guerra, essendo a
ogni poco in pericolo di morire, facciano meno stima della vita
pro¬ pria, che non fanno gli altri della loro. Io per Io stesso
rispetto giudico che la vita si abbia da molto poche per¬ sone in tanto
amore e pregio come da’ navigatori e soldati ». Non il
consumai'e la vita è l'utilità del rischio, a cui Colombo espone sé e i
suoi marinai, ma la gioia di riaf¬ ferrarsi aUa vita che nell’oceano
sterminato si teme sfug¬ gita per sempre: il gusto che si prova per ogni
piccolo bene, appena ci paia di averlo perduto, se lo riacqui¬
stiamo. 11 Colombo è questa gioia del pericolo vinto, ma che bisogna
perciò affrontare per vincerlo. Il Tasso è tutt’altra cosa. Il
navigatore pregusta il piacere della vista di un cantuccio di terra: ma
il povero prigioniero non conosce né spera mutamento alla sua
sorte, e lasciando, com’egli dice, anche da parte i dolori, la noia solo
lo uccide. La noia, di cui egli può parlare perché ne ha esperienza; ma
che gh pare il destino universale degh uomini, quasi la sua prigione fosse
simbolo della natura, che circonda e chiude dentro di sé l’uomo: «
A me pare che la noia sia della natura dell’aria : la (juale riempie
tutti gli spazi interposti alle altre cose matcriah, e tutti i vani
contenuti in ciascuna di loro: e donde un corpo si parte, e l’altro non
gli sottentra, quivi ella succede immediatamente. Così tutti gl’
intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono
occupati dalla noia. E però, come nel mondo mate¬ riale, secondo i
Peripatetici, non si dà vóto alcuno; così nella vita nostra non si dà
vóto : se non quando la mente per qualsivoglia causa intermette l’uso del
pensiero. Per tutto il resto del tempo, l’animo, considerato anche
in se proprio e come disgiunto dal corpo, si trova con¬ tenere qualche
passione; come quello a cui l’essere vacuo da ogni piacere e dispiacere,
importa essere pieno di noia; la quale anco è passione, non altrimenti
che il dolore e il diletto. Che egli consumi pure un po’ di tempo nel
colloquio col suo Genio, è vero. Ma lo consuma senza dolcezza, ]ier
confermarsi nella convinzione della sua immedicabile tri¬ stezza: «Senti.
La tua conversazione mi riconforta pure assai. Non che ella interrompa la mia
tristezza, ma questa per la più parte del tempo è come una notte
oscurissima, senza luna né stelle ; mentre son teco, somiglia al bruno
dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto. Acciò da ora innanzi io ti
possa chiamare o trovare quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di
abitare. Il Genio risponderà con amara ironia che la sua abitazione è in
qualche liquore generoso. Ma il Faggi crede sul serio che ci sia qui un
consiglio da prendersi alla lettera ? « Cruda ironia », scrisse il Della
Giovanna, che ebbe pure la strana idea di cercare negh scritti del
Tasso l’eventuale fondamento storico di questo tratto. Il quale,
per chi legga la prosa leopardiana con animo sensibile all’angoscia
desolata che vi è sparsa dentro, non può significare altro che un
realistico strappo che 1 autore vuol dare alla stessa poetica illusione
consolatrice del- r infelice prigioniero. E porgendo
l’orecchio all’accento commosso dello scrittore io credetti di poter dire
1 Elogio degli uccelli lirica stupenda sgorgata al Leopardi dal pieno
petto al guizzo d’una immagine lieta e ridente, e come un canto di gioia.
No, oppone il Faggi, « è un elogio degli uccelli un’opera non
d’ispirazione, ma, in massima parte (jj riflessione; benché questa sia
ravvivata dal soffio della poesia inerente al soggetto. Il Leopardi non
intendeva di fare altro ». Piuttosto egli penserebbe al Passero no
litario) ma avverte subito da sé il carattere del tutto estrinseco del
ravvicinamento, e nota che « anche quello non è un canto di gioia ».
Anche nell’ Elogio, secondo il Faggi, il Leopardi è filosofo, e non è
poeta. « Non ha creduto di spogliare del tutto la giornea del
filosofo- che anzi egli parla per bocca di un Amelio, filosofo
soli¬ tario come egli dice, che si potrebbe credere il neoplatonico,
scolare di Plotino, se non lo cogliessimo a citare Dante e Tasso.
.Scrive, e ha davanti i suoi libri, soprattutto le opere del Buffon; si difende
in una lunga digres¬ sione sull’origine e la natura del riso,
suggeritagli dall’osservazione che il canto è, come a dire, un riso che
fa l’uccello ; e, intorbidando l’immaginazione lieta e serena in cui l’animo
suo volea riposarsi, si lascia attrarre a considerare il riso umano nello
scettico, nel pazzo e nell’ebbro; che non è più manifestazione sincera, o
spontanea dell’animo, e non ha jùù quindi relazione col canto degli
uccelli ». Donde s’avrebbe a concludere che il Leopardi abbia
voluto scrivere sul serio l’elogio degli uccelli, proponendosi una tesi
ritenuta da senno per vera, e industrian¬ dosi di dimostrarla nel miglior
modo per tale. No, per Dio, non mi prendete alla lettera — ci
ammonirebbe il poeta. Il quale ad altro proposito scriveva al padre scandalizzato
dalle forme pagane di Giacomo : « Io le giuro che l’intenzione mia fu di far
poesia in prosa, come s’usa oggi, e però seguire ora una mito¬
logia ed ora un’altra ad arbitrio; come si fa in versi, senza essere
perciò creduti pagani, maomettani, buddisti ecc. » Senza essere creduti
perciò zoologi o filosofi, possiamo aggiungere noi. E del resto a quella
conclu¬ sione io non credo che il Faggi abbia voluto andare incontro
intenzionalmente, poiché egli pure vede « l'ima¬ ginazione beta o serena
in cui l’animo del Leopardi volea riposarsi » ; e rispetto alla quale gli
uccelli non sono dav¬ vero gli uccelli dello zoologo; ancorché nella
tessitura dell’ Elogio l’autore si giovi spesso di reminiscenze
delle sue letture del Buffon (che è poi un poeta, anche lui, della
storia naturale) ; ma sono appunto un’ immagine, simbolo di quella vita
piena d’impressioni, che non conosce tedio, anzi è tutta una gioia. La cui
espansione e penetrazione nel cuore del poeta si vede bene dove a
questo si svegha nell’animo un senso di gratitudine verso quella
Provvidenza, che volle il dolce canto degli uccelli a conforto degli
uomini e d’ogni altro vivente. «Certo fu notabile prowedimento della
natura l’assegnare a un medesimo genere di animali il canto e il volo; in
guisa che quelli che avevano a ricreare gli altri viventi colla
voce, fossero per l’ordinario in luogo alto, donde ella si spandesse all’
intorno per maggiore spazio e pervenisse a maggior numero di uditori. E
in guisa che l’aria, la quale si è l’elemento destinato al suono, fosse
popolata di creature vocali e musiche. Veramente molto conforto e
diletto ci porge, e non meno, per mio parere, agli altri animali che agli
uomini, l’udire il canto degli uccelli ». La prosa tranquilla e
contenuta vuol essere nella sua forma esteriore l’eloquio didascalico di
un filosofo, ma tanto più perciò essa fa sentire la dolcezza gioiosa che
vi si agita dentro, con quella stessa mobilità irrequieta, che fa
dal poeta contrapporre all’ozio pigro e sonnolento degli uomini la
vispezza dei volatili. « Gli uccelli per lo con¬ trario, pochissimo
soprastanno in un medesimo luogo; van- I Episiol., lett. . — GENTILE,
Manzoni e Leopardi. no e vengono di continuo senza necessità veruna ;
usano T volare per sollazzo; e talvolta, andati a diporto più cen
tinaia di miglia dal paese dove sogliono praticare, i] medesimo in sul
vespro vi si riducono. Anche nel piccol tempo che soprasseggono in un
luogo, tu non h ved^ stare mai fermi della persona; sempre si volgono
cjua I là, sempre si aggirano, si piegano, si protendono, si croK
lano, si dimenano; con quella \ds]iezza, queU'agUità quella prestezza di
moti indicibile. E con la stessa intenzione del contrasto tra l’espo¬
sizione solenne e dotta del filosofo e il sentimento che ’ deve vibrare
dentro, si spiegano i ricordi anacreontd che il Faggi dice eruditi e
freddi, e che tali vogliono essere infatti, nella conclusione dell’ Elogio, nel
desiderio finale di Amelio: «.... Similmente io vorrei, per un poco
di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e
letizia della loro vita ». Ultime parole dell’ Elogio, che ne sono quasi
la chiave, e che reca me¬ raviglia non vedere intese esattamente nepjmr
dal Faggi Già il Della Giovanna, che, mi rincresce dirlo, troppo
pedanteggiò irriverentemente nel suo commento erudito ma offuscatore
assai più spesso che rischiaratore del ni¬ tido pensiero leopardiano,
postillò: n Per un poco di tempo. Meno male ! chè dopo la vantata
perfezione degli uccelli, c era da aspettarsi una conclusione meno
restrittiva ». E il Faggi rincara: «Fa quasi sospettare che Amelio non
sia riuscito a convincere pienamente se stesso, o il suo entusiasmo non
sia stato davvero troppo pro¬ fondo ». Come se si trattasse di
convincere! A me pare ci sia un modo più ragionevole d’inten¬
dere quell’inciso; ed è quello che verrà subito in mente ad ognuno, che
rifletta che se il filosofo avesse espresso il desiderio d’essere
convertito per sempre in uccello, avrebbe fatto ridere. Che diamine, il
poeta invidia degh uccelli la contentezza, la letizia; e ora essi non
sono altro per lui, ma né anche la contentezza e la letizia per lui
sono tutto, ed egli ama troppo la propria umanità per essere disposto a
barattarla con esse per sempre. Anche la morte potrebbe essere per lui,
come per Porfirio, la soluzione del problema dell’esistenza. Ma il «senso
del¬ l’animo» lo ammonisce colle parole di Plotino: «In vero, colui
che si uccide da se stesso non ha cura né pensiero alcuno degh altri; non
cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle
spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano; tanto che in questa
azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido,
o certo il men bello e men liberale amore di se mede¬ simo che si trovi
al mondo ». Commemorazione tenuta nell’Aula Magna del Palazzo
Comunale di Recanati; e pubblicata nel fascicolo giugno- luglio dello
stesso anno del periodico “Educazione fascista”. Il modo più degno di
commemorare un poeta è quello di entrare nella sua poesia, cioè nel suo
animo, nel mondo dei suoi fantasmi, come egli li vide e li sentì. Gli
elementi della sua biografia, tutti, dalla data di nascita a quella
di morte, i casi della sua vita, le persone e le cose in mezzo alle quali
questa vita si svolse, le idee stesse che egh accolse e che professò, le
correnti spirituali ante¬ cedenti o contemporanee di cui partecipò, sono
semplici generahtà, paragonabili alle note d’un passaporto; le
quah, ove non si accompagnino e precisino con una fo¬ tografia, rimangono
appunto generalità, riferibili a migliaia di persone. Ogni uomo è una
determinata personalità in quanto è un’anima. La quale, quando si conosca
da vicino e cioè per davvero, è singolare e inconfondibile: unica.
E la sua singolarità in fondo consiste non nella periferia del mondo di
cui l’uomo fu centro, ma in quello piuttosto che egli fu, al centro di
questo mondo, col suo modo di reagire a questo mondo che era il suo,
raccolto nel suo pensiero e nel suo sentimento. Due possono nascere
nello stesso anno e nello stesso giorno, vivere nello stesso luogo
e quasi cogli stessi spettacoli dinanzi agli occhi, tra gli stessi uomini
e quasi con le stesse voci negli orecchi; e ricevere la stessa educazione,
incorrere magari nelle stesse malattie, e insomma viv'ere tutta
material¬ mente la stessa vita e concorrere perfino nelle stesse
idee, ed essere come due anime gemelle. Eppure ciascuna di queste anime,
se vi provate ad entrare nel suo intern è se stessa, diversa,
assolutamente diversa dall’altra quel certo suo dèmone ascoso, che tratto
tratto si senr nel timbro della voce o lampeggia nelle pupille,
svelane!^ subitamente l’essere dell’indi\dduo : quell’essere eh”
ognuno di noi, nella vita, spia e riesce a scoprire atti e nelle parole
delle persone che frequenta. Quest dèmone interno, sorgente segreta da
cui scaturisce in verità tutta la vita effettiva dell’uomo non
soltanto quale essa è, ma quale è sentita e perciò nel valore che
ha, è quello che i filosofi dicono 1’ Io: il soggetto, che è la base
d’ogni individualità umana. Qualcosa d’inaf¬ ferrabile in se stesso,
perché infatti non si manifesta se non in quanto si realizza nelle
concrete determinazioni del carattere, nel complesso degh atti e delle
parole, che formano la trama della vita dell’ individuo. 11 centro
non è rappresentabile se non in rapporto alla sua circonferenza.
Ora questo demone segreto che si cela e si svela nella vita di
ciascun uomo, è la fonte viva dell’ispirazione del poeta. Il quale non si
distingue dagli altri uomini se non jierché riesce a stampare una più
profonda impronta di questa segreta potenza nelle espressioni del suo
essere. E pare che per lui innanzi agli occhi meravigliati della
moltitudine si levi e grandeggi in una solitudine infinita l’immagine di
un’anima divina, creatrice, che di sé fa il suo universo; e quelli che
per gli altri sono sogni e ombre, per la virtù sua onnipossente son corpi
saldi, viventi e luminosi, e riempiono tutta la immensa scena del mondo
che il poeta sostituisce a quello della comune esperienza. Nel poeta, in
quanto tale, tutto ciò che egli vede e tutto ciò che può dirci è la sua
anima, anzi questo dèmone che si cela nella sua anima. Nel caso di
L., quanto difficile cercarla e tro- v'arla questa scaturigine della sua
poesia: e quanto perciò s e girato e si gira tuttavia intorno al segreto
della sua grandezza ! Questa poesia da un secolo e più conquide
tutti i cuori, trova la via di tutte le anime, che sponta¬ neamente si
aprono alle soavi commozioni di essa. Ma studiata lungamente,
pertinacemente, ingegnosamente da mille ingegni, alla luce di mille
sistemi e sulla base di mille preconcetti, analizzata, tormentata dalla
preten¬ siosa volontà indagatrice della critica, impegnata per lo
più nella superba impresa di ricostruire l’arte dagli sparsi frammenti
esanimi ottenuti attraverso una fredda operazione anatomica, essa si è
sottratta e sfugge ancora alla intelligenza riflessa, che si sforza di
coglierne l’essenza e chiuderla in una definizione. Negli ultimi
tempi vi si son provati critici di grande levatura e dottrina; e si sono
avuti saggi, di cui non disconoscerò io il merito insigne. Questi scritti
giovano indubbiamente alla comprensione della poesia leopar¬ diana;
ma solo in quanto ne scoprono alcuni aspetti. 11 loro comune difetto è
quello di trascurare la verità, che io ritengo evidente e indiscutibile,
dalla quale ho creduto opportuno prender le mosse. Trascuranza il
cui effetto è questo: che il critico non sente la necessità di
risalire sino alla sorgente da cui la poesia leopardiana sgorga, e in cui
soltanto è possibile scorgere l’unità della sua ispirazione e rendersi
conto della varietà dei motivi in essa dominanti. Così accade che si
aprano i canti e le prose del Leopardi, e si dica. Nelle prose,
manco a dirlo, non c’ è poesia. C’ è una pretesa filosofia, che è
una filosofia per modo di dire. Lambiccatura di cervello che si sforza di
dimostrare sistematicamente uno stato d’animo personale; e perciò si
mette fuori di questo stato d’animo; e quindi riesce amaro, falso,
estraneo al vero e profondo sentire dello stesso scrittore, e perciò
freddo, sofistico. Né filosofia, né poesia. Nei canti, bisogna
distinguere: c’è poesia e non poesia. Vi sono strofe o versi in cui il
poeta trova se stesso e parla serio e commosso; e lì è il poeta; il poeta
le cui parole non si dimenticano e tornano da sé a risuonare nell’animo,
a commuoverci col calore e la passione della vita che ogni uomo vive
e sente. Ma ci sono negli stessi canti poesie giovanili rettoricamente
patriottiche; ci sono poesie filosofiche non meno fredde e artifiziate
delle prose: ci sono pezzi ora- torii, in cui il poeta cerca l’effetto e
pensa al lettore e non si dimentica nello schietto moto della sua
anima Manca qua e là negli stessi canti più felici il caldo di
queir ispirazione, che s’apprende immediatamente all’animo di ogni uomo.
Risorge il ragionatore a freddo che vede il mondo dall’angustissimo foro
che le sciagure fisiche e le tristi condizioni personali gli han
lasciato aperto sulla grande scena della vita, e vien meno il poeta
che accoglie beato nel suo petto la voce naturale del mondo e il vasto
respiro delle cose. — £ fortuna se alla prova di questa critica si salva
qualche frammento della poesia del Leopardi. Ma si salva
davvero ? Io vorrei invitare questi critici a ristampare Leopardi
purgandolo da tutte le scorie della sua poesia, per darcene il fiore,
un’antologia; con¬ tenente i soli pezzi ^'eramente poetici a cui si fa
grazia. Temo che al fatto questa antologia riescirebbe estrema-
mente difficile, se non impossibile: poiché non solo il significato di
ciascun verso risulta dal contesto a cui appartiene, e ogni strofa ha il
suo valore nel complesso del componimento; ma, si sa, ogni parola ha
sempre un accento, in cui è la sua anima e individuahtà; e quell’accento
non si può sentire se non nel ritmo dell’ insieme. Isolare una parola è
impresa vana ed assurda. E se si crede il contrario, ciò accade perché in
realtà quella parola che ci pare di isolare, noi la facciamo nostra e
la fondiamo in un nuovo nesso, in un ritmo da noi creato, in cui
non è più la parola di quel poeta, ma l’espressione del nostro animo. L.
non è soltanto il poeta degl’ idillii, dove il suo petto si allarga e
s’inebria del profumo della na¬ tura, e il suo cuore batte all’unisono
col grande cuore del mondo, commosso dal senso della vita che ride a
primavera nei campi, brilla a notte nel mite chiarore della luna,
imporpora il viso alle fanciulle innamorate, tuona tra le nubi nell’
infuriar della tempesta, e ridesta ad ora ad ora negli animi stanchi e
delusi la speranza e la dolcezza dell’amore. Il Leopardi è anche Tristano ed
Eleandro; ed è Copernico e Ottonieri; ed è Colombo e Tasso visitato nel
mesto carcere dal suo Genio familiare; ed è Stratone e Plotino; ed è 1’
Islandese al cospetto della Natura dal volto « mezzo tra bello e terribile »;
ed è il gallo silvestre che sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla
cresta e col becco il cielo, e riempie del suo canto l’universo e dice di
questo « arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale » che, «
innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi ». E insomma
il Leopardi pacato e placato nel sentimento solenne e religioso del
dolore e del mistero e della vanità dell’opera umana, e pur raccolto
nell’ intima soavità dell’amore, onde gh uomini vincono ogni travagho c
gustano una beatitudine divina, ancorché confusa a certo mistico senso
del proprio dissolvimento nella vita universale. Ed è anche il poeta che
come italiano vede le colonne e i simulacri e le ruine della grandezza antica,
ma non vede più la gloria e le armi dei padri; e non sa rivolgersi
indietro a (juella schiera infinita d’immortah, che onorarono già la
nostra terra, senza pianto e disdegno per la presente viltà; e sente in
cuore la disperazione di Bruto per l’impotenza della virtù
sconfitta dalla perversa fortuna e lo strazio della misera Saffo, spregiata
amante, vile e grave ospite nei superbi regni della natura bellissima. Ma
non sì che l’animo non gli si esalti nell’ idea della guerra mortale che
il prode di cedere inesperto, guerreggerà sempre contro l’indegno
fato, e in cui anche il virile animo di Saffo si sentirà sparso a terra
il velo indegno, di emendare il crudo fallo del cieco dispensator dei
casi. E anche l’uomo che si leva col pensiero al di sopra della ferrea
vita e sentendo che conosciuto, ancor che tristo, ha suoi diletti il
vero, si compiace d’investigar Yacerbo vero e i ciechi destini
delle mortali e delle eterne cose] e trae gli ozi in questo specu¬
lare. E in fine l’uomo che si rifugia con questo altissimo sentimento
della invitta potenza del pensiero umano nella rocca inespugnabile della
noia: di questo che egli dice « in qualche modo il più sublime dei
sentimenti umani », poiché « il non poter essere soddisfatto da
alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; consi¬
derare l’ampiezza inestimabile dello spazio, n numero e la mole
maravighosa dei mondi, e trovare che tutto è ])oco e piccino alla
capacità deU’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e
l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe
ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose
d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vóto, e però noia,
pare a me il maggior segno di gran¬ dezza e di nobiltà, che si vegga
della natura umana » >. E perciò anche il Leopardi, nel colmo della
sua delusione, può giungere a fermare in se stesso ogni desiderio e
ogni moto, a disprezzare perfino se stesso, come la natura, il
brutto Poter che, ascoso, a comun danno impera, E V infinita vanità del tutto:
e, pur caduto l’incanto che gli fece vedere e amare in una donna mortale
la Dea della sua mente, pur vedendo ormai nella propria vita una
notte senza stelle a mezzo il verno, può trovare al suo fato
Pensieri. mortale bastante conforto e vendetta nella coscienza di
se medesimo: su l’erba Qui neglùttoso immobile
giacendo, Il mar, la terra e il ciel miro, e sorrido.
Se noi rinunciamo a questi ed altrettali motivi della poesia
leopardiana, per restringerci al dolce gusto di quell’ idillico che è la
prima e immediata forma di questa poesia, noi avremo sì elementi di una
poesia squisita, ma perderemo la poesia propria del Leopardi. Nella
quale quella prima forma è solo uno degli elementi del dramma e del fiero
contrasto, nella cui superiore soluzione la poesia leopardiana per l’appunto
consiste. L’i dilli o è certo alla base del Leopardi poeta. Ne
risuona il motivo di continuo nell’ Epistolario, nello Zibaldone, nei
Canti, nelle Operette morali. Se volete rendervi conto della natura dell’
idillio, come il Leopardi r intese e lo sentì, rileggete l’ Infinito,
quei quindici versi che gittano la fantasia del Poeta al di là della
siepe in spazi interminati, sovrumani silenzi e profondissima
quiete: dove l’infinito silenzio e l’eterno assorbono in sé e annichilano
la voce del vento che stormisce tra le piante e il suono delle lotte e
delle fatiche umane: Così tra questa Immensità s’annega il
pensier mio E il naufragar m’ è dolce in questo mare. L’uomo
scioglie il suo pensiero, ond’egli riflettendo si distingue e si oppone
alla natura, e si confonde con essa. Ricordate il Canto notturno di un
pastore errante dell’Asia, che dice alla sua greggia: Quando tu
siedi all’ombra, sovra l’erbe. Tu .se’ quieta e contenta;
E gran parte dell’anno Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, E un fastidio
m’ingombra La mente, ed uno spron quasi mi punge Si che, sedendo,
più che mai son lunge Da trovar pace o loco. Nell’ Inno ai Patriarchi
il Poeta rammenta l'antico mito della colpa che sottopose Vuman seme alla
tiranna Possa de’ morbi e di sciagura ; e attribuisce all’
irrequieto ingegno dell’uomo la prima origine dei suoi dolori. La
noia, la sublime noia, è il privilegio del pensiero. Finché la
riflessione non è sorta, e il pastore errante non è an¬ cora in grado di
domandare alla luna il fine di tanti moti, e che sia Questo
viver terreno. Il patir nostro, il sospirar che sia;
Che sia questo morir, questo supremo Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno .‘Vd ogni usata, amante compagnia;
egh può esser queto e contento come la sua greggia. Pensare è
distinguersi dalla vita, opporvisi, sentirsene fuori, cercare e non
trovare, sentire la vanità di tutto: non aver più né contentezza né pace.
Il Leopardi intanto sa bene che senza pensiero non c’ è grandezza.
Perciò in uno de’ suoi dialoghi la Natura dice a un’Anima. Va’, figliuola
mia prediletta, che tale sarai tenuta e chiamata per lungo ordine di
secoli. Vivi, e sii grande e infelice. Perciò il Poeta dice ai « nuovi
credenti » che non credono al dolore: A voi non tocca
DeU’umana miseria alcuna parte, Ché misera non è la gente sciocca. Dico,
ch’a noia in voi, ch’a doglia alcuna Kon è dagli astri alcun poter
concesso. Non al dolor, perché alla vostra cuna Assiste, e
poi sull’asinina stampa 11 pie’ per ogni via pon la fortuna. E se
talor la vostra vita inciampa. Come ad alcun di voi, d’ogni
cordoglio Il non sentire e il non saper vi scampa. Noia non
puote in voi, ch’a questo scoglio Rompon l’alme ben nate. Ma se il
pensiero è la sorgente del dolore, bisogna pur distinguere tra pensiero e
pensiero. E anche questo è avvertito dal L.. C’ è un pensiero che è la
stessa natura deU’uomo ; deiruomo che sente e crede nell amore e
nella virtù ; che sente e crede nella bellezza della natura e della vita;
che spera e apre l’animo alla gioia delle il¬ lusioni, che tali si
dimostreranno al cimento della espe¬ rienza, ma che la natura stessa
risusciterà sempre dal fondo del cuore umano a rendere amabile o almen
sopportabile la vita. Questo è pensiero. Ma c’ è un altro pensiero, che
si sovrappone a questo primo e lo critica e lo demolisce e lo irride, e,
scoprendone tutte le debolezze e gli arbitrii, gitta lo sconforto nel cuore
umano e lo inonda d’immedicabile amarezza. Non occorre pertanto che
l’uomo si abbrutisca come il gregge per sottrarsi al dolore. Può essergli
simile, e al pari di esso rimaner congiunto con la natura e godere del
benefizio di essa, se si abbandona, per dir così, al pensiero
naturale, e vede la vita con quegli occhi che la natura gh ha dati.
Vive nel suo stesso pensiero la vita spontanea e istintiva che è propria
di tutti gli esseri naturali, senza che questa natura sia sconvolta o turbata
dal suo irrequieto ingegno. Così fa il fanciullo, così tutti gli spiriti
semplici e sani. Questa è la giovinezza sempre rinascente del
genere umano; dell’anima aperta alla speranza e fortificata dalla
fede: dell’anima quale ogni uomo la ritrova in se stesso al mattino sul
primo svegliarsi, all’ inizio d’ogni suo giorno, come d’ogni nuovo
periodo della sua vita « Il primo tempo del giorno », canta anche il
gallo silvestre « suol essere ai viventi il più comportabile. Pochi in
sullo svegliarsi ritrovano nella mente pensieri dilettosi o lieti-
ma quasi tutti se ne producono e formano di presente perocché gli animi
in quell’ora, eziandio senza materia alcuna speciale e determinata,
inclinano sopra tutto alla giocondità, o sono disposti più che negli
altri tempi alla pazienza dei mah. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto
dal sonno, trovavasi occupato daUa disperazione; destandosi, accetta
novamente nell’animo la speranza ciuantunque cUa in niun modo se gli
convenga. Molti infortuni e travagli propri, molte cause di timore o
di affanno, paiono in quel tempo minori assai, che non parvero la
sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del dì passato sono volte in
dispregio, e quasi per poco in riso, come effetto di errori e d’immaginazioni
vane. La sera è comparabile alla vecchiaia; per lo contrario, il
principio del mattino somiglia alla giovanezza. Cresce l’esperienza della vita,
sopraggiunge la rifles¬ sione, la speranza dilegua: sottentra il dolore e
la noia: tanto più acuto quello, tanto più grave questa, quanto più
viva fu la speranza e ardente la fede nella vita. Quindi la grande
importanza del momento idillico, o giovanile, spontaneo, naturale in una
poesia che, come quella del Leopardi, accentua poi il momento negativo
del distacco e della opposizione, che è il momento del dolore.
Questo dolore è materiato, si può dire, dalla stessa dolcezza dell’
idiUio. Odi et amo. La negazione non avrebbe mai il suo significato
lirico se non corrispondesse a un’affermazione vigorosa e potente. Appunto
perché la vita è così bella agli occhi del Poeta, ed egh ne sente sì
forte il fascino nel fondo del suo cuore, egli si duole tanto di non
possederla. Al disperato affetto di Saffo non arride spet- tacol molle:
ma questo spettacolo pur le è fitto negli occhi e nel petto;
Placida notte, e verecondo raggio Della cadente luna; e tu che
spunti Fra la tacita selva in su la rupe, Nunzio del giorno; oh
dilettoso e care Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato.
Sembianze agli occhi miei. Del resto questo molle spettacolo non fugge
da’ suoi occhi senza che questi si volgano desiosi ad altri spettacoli di
natura, meglio rispondenti al suo stato d’animo. Noi r insueto allor gaudio
ravviva Quando per l’etra liquido si voi ve E per li campi
trepidanti il flutto Polveroso de’ Noti, e quando il carro. Grave
carro di Giove a noi sul capo. Tonando, il tenebroso aere
divide. Noi per le balze e le profonde valli Natar giova tra’ nembi,
e noi la vasta Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto Fiume alla
dubbia sponda Il suono e la vittrice ira dell’onda. Saffo ha
l’animo popolato di ridenti immagini di questa natura di cui ella si vede
prole negletta: , Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
Sei tu, rorida terra. A me non ride L’aprico margo, e
dall’eterea porta Il mattutino albor; me non il canto De’ colorati
augelli, e non de’ faggi Il murmure saluta: e dove all’ombra Degl'
inchinati salici dispiega Candido rivo il puro seno, al mio Lubrico
pie’ le flessuose linfe Disdegnando sottragge, E preme in
fuga l’odorate spiagge. 13. — GkktIx<s, Manzoni e
heopardi. Bruto minore, fermo già di morire, percote l’aura
sonnolenta di feroci note. Ma tra queste note se ne odono di soavi,
affettuose, per quanto solenni, come queste: E tu dal mar cui
nostro sangue irriga. Candida luna, sorgi, E l’inquieta notte
e la funesta All’ausonio valor campagna esplori. Cognati
petti il vincitor calpesta, Fremono i poggi, dalle somme
vette Roma antica mina; Tu si placida sei ? Tu la
nascente Lavinia prole, e gli anni Lieti vedesti, e i
memorandi allori; E tu su l'alpe l'immutato raggio Tacita
verserai quando ne’ danni Del .servo italo nome. Sotto barbaro
piede Rintronerà quella solinga sede. Ecco tra nudi sassi o
in verde ramo E la fera e l’augello. Del consueto obblio
gravido il petto. L’alta mina ignora e le mutate Sorti del
mondo: e come prima il tetto Rosseggerà del villanello industre.
Al mattutino canto Quel desterà le valli, e per le
balze Quella r inferma plebe Agiterà delle minori
belve. D’altra parte, fin da quando il Poeta ascolta nel suo
profondo questa voce antica ed eternamente giovanile della santa natura e
del mondo, contro cui si volgerà sempre più risentito e dolorante,
egli sente nel petto Nell’ imo petto, grave, salda, immota
Come colonna adamantma, quella noia immortale, di cui parlerà
nell’epistola Al Conte Carlo Pepoli. E nello stesso Infinito, nella Sera
del dì di festa e negli altri piccoli e grandi idilli che altro, in¬
fine, si canta se non il dolore ? Dolce e chiara è la notte e senza
vento, E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti Posa la
luna, e di lontan rivela Serena ogni montagna. O donna mia.
Già tace ogni sentiero, e pei balconi Rara traluce la notturna
lampa: Tu dormi, che t’accolse agevol soimo Nelle tue chete stanze;
e non ti morde Cura nessuna; e già non sai né pensi Quanta piaga
m’apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che si
benigno Appare in vista, a salutar m’affaccio, E l’antica
natura onnipossente. Che mi fece all’affanno. A te la speme Nego, mi
disse, anche la speme; e d’altro Non brillin gli occhi tuoi se non di
pianto. La serenità, il dolce chiarore lunare dei primi versi e lo
stesso sonno tranquillo e scevro d’affanni de lla donna formano lo sfondo
del quadro, in cui risalta la personalità di quest’uomo, a cui la
speranza è negata e i cui occhi non brilleranno mai se non di lagrime.
L’amarezza di questa anima desolata nasce dal contrasto. La donna
sogna forse a quanti oggi piacque e quanti piacquero a lei. Fantasmi e
sentimenti pieni di dolcezza; ma sorgono alla mente del Poeta soltanto
per fargli sentire che egli ne è escluso: non io, non già eh’ io
speri, .à.1 pensier ti ricorro. Egli non dorme, non posa, non sogna.
Si getta per terra, grida, freme. E il suo pensiero si insinua
nella gioia altrui e vi soffia dentro il vento della riflessione
che l’inaridisce: Ahi, per la via Odo non lungo il solitario
canto Dell’artigian, che riede a tarda notte. Dopo i
sollazzi, al suo povero ostello; E fieramente mi si stringe il
core, A pensar come tutto al mondo passa, E quasi orma
non lascia. L’artigiano probabilmente non fa questa
malinconica riflessione. Probabilmente egli, come la donna,
rimembra i sollazzi del giorno, la cui memoria non è spenta e basta
tuttavia a riempirgli e consolargli l’animo. Ma su quel mondo festivo e
gorgogliante ancora di sensazioni dilet- tose il Poeta riversa l’angoscia
fredda del suo cuore de¬ solato. E altrettanto si i)uò
osservare di tutte queste sue poesie, che il Leopardi stesso definì
idillii, e in cui più forte risuona la corda dell’animo commosso e
vibrante della stessa vita del mondo. Citerò ancora il primo
periodo della Vita solitaria che comincia; La mattutina
pioggia, allor che l’ale Battendo esulta nella chiusa stanza La
gallinella, ed al balcon s’afìaccia L’abitator de’ campi, e il Sol che
nasce I suoi tremiili rai fra le cadenti Stille saetta, alla
capanna mia Dolcemente picchiando, mi risveglia; E sorgo, e i
lievi nugoletti, e il primo Degli augelli susurro, e l’aura fresca,
E le ridenti piagge benedico; per rivolgersi subito contro le
cittadine infauste mura, e per concludere; In cielo.
In terra amico agh infehci alcuno E rifugio non resta altro che il
ferro. Principio idillico, conclusione tragica. Tragica
quanto è idillico il principio. I due termini si corrispondono e si
congiungono insieme in un nesso inscindibile. Togliete a L. la commozione
e l’amore per la natura, per la vita, per la donna, ])er la bellezza, per
la forza ma¬ gnanima, per l’ardimento generoso, per la virtù, j>er
la patria, per i parenti, per gli amici, per tutto ciò che rende
amabile e santa la vita, e non intenderete più lo strazio delle sue
delusioni. Prescindete dal fermo con¬ vincimento, che la sua filosofìa
gli ha piantato nel petto, della arbitraria soggettività degli ideali in
cui l’uomo, non ancora caduto in preda al pensiero, crede
provvidenzialmente; chiudete gli occhi sull’amarissimo gusto con cui egli,
tornando sempre ad esaminare i suoi pensieri e la vita e il proprio essere e il
fato universale degli uomini, ribadisce sempre quel suo convincimento; e
non potrete più sentire il tumulto con cui il suo cuore s’attacca a
questa vita fallace e il tremito giovanile e sto per dire virgineo con
cui tutto il suo essere si stringe al mondo, che non può, malgrado tutto,
non amare. Leggete II pensiero dominante e V Aspasia, dove culmina l’arte
del Poeta. Quel pensiero, cagion diletta d' infiniti affanni, è
gioia ed è dolore. Quella donna, per cui egli ha vaneg¬ giato, ma il cui
incanto è caduto, risorge nella sua me¬ moria e nel suo cuore superba
visione, sua delizia ed erinni'. e l’angehca sua forma, sempre viva e
presente, torna sempre a imprimergli a forza nel fianco lo strale,
che già lo fece per tanto tempo ululare. L’atteggiamento negativo
ed ostile, quando non si scompagni dal suo contrario, che gli dà vigore e
signi¬ ficato, si può intendere e s’intende anche in quelle forme
di fredda ironia e di affettata irrisione, che assume in qualche raro
tratto dei Canti e in parecchie delle Ope¬ rette morali. Di cui si è
potuto parlar con sì distratta intelligenza da vedervi lampeggiare non so
che sorriso cattivo e sinistro: mentre chi legge ed ama Leopardi, sa
che nulla è più alieno dal suo spirito. Ma questi critici sono i critici
del frammento. Si fermano a una pagina delle Operette leopardiane, e non
curano di guardarne l’insieme; e così si lasciano sfuggire quella vivente
unità organica, da cui esse nacquero tutte ad una ad una, sotto la
stessa ispirazione, nel pensiero e nel sentimento dell’autore. Così
vedono Momo, i sillografi, Stratone; ma non vedono il principio e la fine
del libro. E si lasciano sfuggire il significato e l’accento del mito
iniziale, la Storia del genere umano, vaga immaginazione tutta per-
v'asa di una commozione contenuta e pudica di un amore gentilissimo; come
si lasciano sfuggire le meditazioni finali di Eleandro e di Plotino,
tutte umanità ed affetto. Non vedono perciò lo spirito complessivo e
centrale e quell’onda viva di universale e irresistibile simpatia,
che abbraccia uomini e cose, e in sé scioglie i sentimenti più duri, più
pungenti, più amari, onde l’animo del Poeta è colpito allo spettacolo del
freddo vero. L’incanto della jioesia è qui, in questa unità dei
due opposti motivi, che si fondono insieme e infondono nello
spirito del Leopardi l’impeto della sua lirica sublime. La quale nel
momento stesso che pare prostri gli animi nel più disperato dolore, li
solleva, conforta ed esalta, aspergendoli di non so che affettuosa soa\
ita. Idilho e dolore. L’uomo che vive lietamente e serenamente la
vita; e l’uomo che diffida di essa, e se ne apparta ed estrania; e
fattosene spettatore deluso e sconsolato, sente dentro di sé un vuoto
infinito. Due cuori diversi, ma non posti l’uno accanto all’altro, bensì
unificati in un cuore solo. Questa tragedia, che non è ottimismo, né
])cssi- mismo, ma il commosso e serio concetto della nobiltà, del
valore e della superiore letizia della vita, tremenda insieme e
adorabile, angosciosa e febee : questa è 1 es¬ senza della poesia
leopardiana. In verità, l’origine del dolore è nel pensiero. Ma L. sa, e
soprattutto sperimenta in se stesso, che quel pensiero che ferisce, sana
esso stesso le sue ferite. 11 pensiero che sfronda l’albero della vita di tutte
le sue illusioni, e specula e scopre l’infinita vanità di tutto, è lo
stesso pensiero dentro eh cui quell’albero ad ora ad ora rinverdisce di
nuove fronde. Non si può negare che esso faccia guerra continua alla
nativa confidenza deH’uomo nella natura; ed esso certamente spegne nei cuori la
fede e la speranza. Ecco, da una parte. Saffo supphchevole ; e
dall’altra, il ruscello che al piede della misera donna, la quale tenta
d’immergervisi e sentirne il refrigerio, sottrae disdegnoso le flessuose
acque, e fugge e s’affretta per le piagge odorate. Se non che
questo pensiero devastatore e distruttore della originaria unità
dell’uomo con la natura, è esso stesso una nuov'a natura: è la natura di
quell anima grande perché infelice, e infehee perché grande, onde
il Poeta insuperbisce sopra la turba degli sciocchi. E in verità
sempre che il pensiero non si guardi dal di fuori, ma si pensi, si attui,
si viva, esso non è più nulla di estraneo alla vita, ma è la vita stessa.
E in esso, ancorché rivolto ed affisso alle idee più dolorose e più
aride, rifluisce l’onda della vita e si risveglia il palpito della gioia.
Allora, ecco, il Leopardi acquista coscienza della felicità superiore in
cui si purifica e rinvigorisce il suo spirito attraverso al pensiero e al
canto; poiché (come egli dice) « ninna cosa maggiormente dimostra la
grandezza e la potenza dell’umano intelletto, ossia l’altezza e
nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente
comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. I Pens. di varia filos., Allora
egli sente che lo stesso intìnito, in cui gli è dolce naufragare, è
contenuto nel suo pensiero, che lo abbraccia spaziando più oltre. Allora
egli, piccolo ed esile fiore sull’arida schiena del Vesuvio sterminatore,
s’inebria del profumo della sua poesia, che consola il deserto.
Allora egh ritrova in sé, nel genio che nessuna forza maligna gli
può strappare, nel demone divino e onnipotente che fa insieme la sua
infelicità e la sua grandezza, la gioia e il fervore della vera vita; in
cui, a dispetto dei ragionamenti, risorgono le speranze e si riaccende
l’amcre con cui gli uomini, malgrado tutte le delusioni, si riat¬
taccano alla vita e han la forza di vivere e di morire. A Porfirio che a
conclusione d’un rigoroso ragionamento si vuol togliere la vita, Plotino
ammonisce che « non dee piacer più, né vuoisi elegger piuttosto di essere
secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo. Mostro chi non
cerca se non la utilità propria, e si gitta, per cosi dire, dietro alle
spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano. Uomo chi l’amore di se
medesimo pospone al¬ l’amore degli altri. Ma questa natura, che ci fa uomini,
è proprio contraria alla ragione che ci farebbe mostri ? O non ci sono,
per dir così, due ragioni: una, inferiore, che ci trarrebbe al suicidio
attraverso il più sordido amore di noi medesimi, e una superiore, che ci
libera dal giogo di questo amore, e ci fa amare la vita e gli uomini
che ci amano ? Si cliiami ragione o poesia, certo questa non è la
natura primitiva e inconsapevole, ma Tumanità che soffre ed ama e
canta. Quale in notte solinga Sovra campagne inargentate ed
acque. Là 've zefiro aleggia, E mille vaghi
aspetti E ingannevoli obbietti 1 Operette. Fingon l’ombre
lontane Infra Tonde tranquille E rami e siepi e
collinette e ville; Giunta al confin del cielo. Dietro
Apennino od Alpe, o del Tirreno Nell’ infinito seno Scende la
luna; e si scolora il mondo; Spariscon Tombre, ed una
Oscurità la valle e il monte imbruna; Orba la notte resta,
E cantando, con mesta melodia. L’estremo albor della fuggente
luce. Che dianzi gli fu duce. Saluta il carrettier
dalla sua via; Tal si dilegua, e tale Lascia l’età
mortale La giovinezza. La luna è tramontata, e il carrettiere
canta. La giovinezza si dilegua; ma l’uomo resta, e intona il suo canto.
In questo canto, nella sua mesta melodia, è il più alto segno dello
spirito del Poeta. Qui la sua poesia. Conunemorazione centenaria letta
alla R. Accademia Nazionale dei T .inr ei neUa seduta reale e pubbUcata,
oltre che ncgU Atti dell’Accademia, nella Nuova Antologia del i»
lugUo dello stesso anno. Ripubblicata in Poesia e filosofia di
Giacomo Leopardi (Firenze, Sansoni Tra pochi giorni sarà un secolo dalla
morte di L. Secolo, segnatamente per 1’ Italia, pieno di grandi eventi ;
storia mossa e agitata da fedi e interessi in massima parte estranei
all’animo del Leopardi, anzi osteggiati e a volte irrisi da lui. Altra
filosofia, altro uomo. E gli effetti sono stati così cospicui, così
impor¬ tanti, anche secondo il modo di vedere del L., da riuscire
un’aperta condanna delle sue convinzioni e de’ suoi giudizi storici.
Secolo, si può dire, anti-leopardiano, culminante in questa Italia, potente,
imperiale, creazione audace della stessa Italia che alla fantasia
giovanile del Leopardi apparve inerme, anzi di catene carche ambe le
braccia, seduta in terra, negletta e sconsolata, la faccia nascosta tra
le ginocchia, piangente. Eppure lungo questo secolo la fama del
Leopardi è venuta crescendo; s’è dilatata nel mondo, ma in Italia
ha messo radici sempre più profonde nei cuori. L’intelligenza della sua poesia,
della sua anima ha acquistato d’anno in anno, e quasi giorno per giorno,
di penetra¬ zione, di comprensione e di intima simpatia a mano a
mano che gl’ Italiani da prima si svegliavano e in una coscienza più
seria e positiva della vita e de propri doveri e delle proprie forze
risorgevano a dignità civile e politica. Scendevano quindi in campo
contro gli oppres¬ sori e li affrontavano nei congressi, e accordavano
rivoluzione e forze conservatrici dimostrando maturità di accorgimento e
di patriottismo da meravigliare 1 Europa ; e tra audacie e negoziati facevano
dell’ Italia archeologica, letteraria ed artistica una nazione viva,
operante e presente nella storia dell’ Europa e del mondo. Intanto
sentivano il bisogno di farsi un nuovo pensiero, una nuova scienza, una
nuova cultura, adeguata all’altezza dell’assunto politico; e creavano un
esercito nazionale; e sviluppavano, in una più attiva collaborazione alla
vita economica internazionale, le loro industrie e i loro traffici; e
creavano le scuole, organizzando tutto un sistema nuovo di pubblica
istruzione e portando via via la luce neUe menti delle plebi abbandonate
da secoli all’igno¬ ranza e alla superstizione ; e negli esperimenti di
un sistema politico aperto alle lotte e alle competizioni di tutte le
energie individuali si venivano educando al senso e alla tecnica dello
Stato; e infine, in una riscossa della coscienza nazionale che si era
venuta formando negli animi più giovanili in un fermento nuovo d’idee
religiose sociali c filosofiche, si trovavano pronti alla più grande
guerra della storia; combattevano con grande onore, e contribuivano più
d’ogni altra nazione alleata alla vittoria finale. E dopo questa prova
stupenda dell’antico valore, arditamente si accingevano con una pro¬
fonda rivoluzione politica e sociale a fare una nuova Itaha e una nuova
Roma. Quanto cammino! E quanta vita in quella moribonda Italia, di cui
parlava Leopardi! Eppure, dicevo, il miracoloso progresso di
quesb cento anni, lungi dall’allontanare 1’ Italia dal Leopardi, r
ha portata sempre più vicino a lui, a misurare la sua grandezza. La
bibliografia leopardiana è una delle più ricche tra quante se ne siano
formate intorno ai maggiori poeti e pensatori itaUani, da gareggiare con
la dantesca. Segno visibile del vasto interesse che ha suscitato e
su¬ scita la personalità del Leopardi con i suoi scritti e con i
casi della sua vita. Selva foltissima, di grandi alberi che soprastano
con le loro alte cime al vento, da De San- ctis a Carducci e a Pascoli,
per non citare viventi, e di fitta boscaglia pullulante per tutto, ai
piedi dei grossi tronchi. Intorno al L. non pure letterati, deside-
sori di esattamente conoscere tutti i particolari della biografia e dello
svolgimento graduale del genio, e di risol¬ vere tutti i problemi che lo
studio di tal materia fa na¬ scere; ma filosofi e storici della
filosofia, poiché il Leopardi ebbe il gusto degli alti concetti
speculativi, e nel suo stesso vocabolario riecheggiano detti e pensieri
di dottrine celebri a cui egli, a suo modo, aderì; e insieme
scienziati (antropologi e fisiologi) entrati a un tratto in
sospetto che certi limiti nell’orizzonte spirituale del Poeta deri¬
vino da non so qual limite somatico; sospetto nascente da improvvisate
teorie e appoggiato a improvvisate os¬ servazioni di fatto; ma fecondo
tuttavia di costruzioni e interpretazioni, se oggi cadute di moda, utili
tuttavia a chi voglia farsi un pieno concetto del lavoro compiuto
in questo secolo intorno al Leopardi. Fortunatamente, peraltro, se ci
sono state deviazioni ed eresie critiche e storture di metodi
materialistici suggeriti da pigrizia intellettuale di letterati ottusi, o
da presunzione pseudo¬ scientifica di cervelli rozzi e ignari dei rudimenti
di qual¬ siasi serio concetto intorno ai valori dello spirito, ci
sono stati pur saggi di quella critica magistrale che attraverso le
forme storiche e letterarie e i conseguenti atteggiamenti della
espressione artistica sa scoprire il principio profondo dell’ ispirazione,
che è l’anima del poeta e 1 essenza di quell’eterna poesia che lo fa
immortale. Critica che in Italia, in questo secolo, da Leopardi a noi, ha
avuto esempi da fare epoca, e che hanno infatti educato nel¬
l’universale la coscienza del solo metodo che ci sia per raggiungere il
poeta là dove egli e poeta. Così in questa selva della letteratura
leopardiana noi non abbiamo smarrito il Poeta. Anzi, a capo di
questo secolo anti-leopardiano si può dire che egli sia stato
prima scoperto, e poi veduto più e più giganteggiare come uno dei
più grandi spiriti della storia del mondo, e come il creatore della più
intensa poesia che si sia prodotta mai in Italia. Fu scoperto quando un
nostro grande critico, che lo aveva conosciuto di persona, gentile e
mansueto come era, e molto ne aveva studiato ed amato gh scritti, e
acutamente investigato lo spirito che ci vive dentro, non poteva
paragonarlo allo Schopenhauer senza sentire la infinita differenza tra il
pessimismo amaro del filosofo tedesco e il pessimismo sui generis del
poeta itahano. « Leopardi », diceva, « produce l’effetto contrario a
quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desi¬
derare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore,
la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E
non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostar tigli,
che non cerchi innanzi di raccogherti e purificarti, perché non
abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre
non crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta
in seno un vivo amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha
così basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e
pura l’onora e la nobilita. E se il destino gli avesse prolungata la vita
infino al Quarantotto, senti che te l’avresti trovato accanto,
confortatore e combattitore. Atteggiamento contradittorio ? Lo aveva
confessato il Leopardi medesimo, in quel libro in cui più
freddamente si provò ad abbattere le umane illusioni, che agli
occhi dell’uomo il quale si affidi allo istinto dell’anima senza
indagare il mistero dell’universo, fanno la vita bella e degna di esser
vissuta, ossia nelle Operette morali. Dove esce candidamente a dire « che
non è fastidio della vita, non disperazione, non senso della nuUità delle
cose, della vanità delle cure, della solitudine dell’uomo; non odio
del mondo e di se medesimo; che possa durare assai; benché queste
disposizioni dell’animo siano ragionevo¬ lissime e le lor contrarie
irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo, mutata
leggermente la dispo¬ sizione del corpo; a poco a poco, e spesse volte in
un subito, per cagioni menomissime e appena possibih a notare;
rilassi il gusto alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e
le cose umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne
di qualche cura; non veramente all’ intelletto, ma sì, per modo di dire,
al senso dell’animo ». Benedetto «senso deU’animo», che salva
l’uomo dal sapiente: l’uomo che non odia e non fugge l’uomo, poiché
sente di dover affermare, come fa L. Sono nato ad amare, ho amato, e
forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva », « sohto e
pronto a eleggere di patire piuttosto io, che essere cagione di pati¬
mento agli altri ». Questo senso dell’animo gh fa dire : <( Se ne’
miei scritti io ricordo alcune verità dure e triste, o jier isfogo
dell’animo, o per consolarmene col riso, e non per altro; io non lascio
tuttavia negli stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo
studio di (juel misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte
o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo, iniquità
e disonestà di azioni, o perversità di costumi; laddove, per Io
contrario, lodo ed esalto quelle opinioni, benché false, che generano
atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben
comune e privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane,
che dànno pregio alla vita; illusioni naturali dell’animo; e infine
gli errori antichi, diversi assai dagli errori barbari; i quali
solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà
moderna e della filosofia ». Così aveva pensato quando scriveva con
animo di credente il Saggio sopra gli errori popolari degli
antichi. Così continuava a pensare, da miscredente, sette anni dopo,
nella canzone Alla primavera, o delle favole antiche. Non si può
credere al Poeta, quando, raccogliendo il succo dell’amarissima esperienza
amorosa fiorentina e assaporandone il fiero gusto, rivolge .4 se stesso nel
'33 quegli accenti disperati ed empi; In noi di cari
inganni Non che la speme, il desiderio è spento. Amaro e
noia La vita, altro mai nulla ; e fango è il mondo. Al gener
nostro il fato Non donò che il morire. Ornai disprezza
Te, la natura, il br\itto Poter che, ascoso, a comun danno
impera, E r infinita vanità del tutto. Momento
satanico, ma un solo momento: voce sì dell’anima leopardiana, ma che il
lettore attento non può ascoltare se non commista in armonia profonda
a voci più alte che sgorgano da polle maggiori; e che lo stesso
Poeta ascolta dentro il suo petto come espressione più schietta della sua
propria natura. Alla quale egli non può rinunziare, convinto che sia da
fare « poco stima di quella poesia che, letta e meditata, non lascia al
let¬ tore nell’animo un tal sentimento nobile, che per mez¬ z’ora
gl’ impedisca di ammettere un pensier vile, e di fare un’azione indegna. Il
momento satanico ricorre spesso nel Leopardi. Ma esso è la prima e
fondamentale ribellione di questa forza incoercibile che egli sente
insorgere di dentro a se medesimo, di fronte e a dispetto della natura,
ossia di questo universal meccanismo che regge il mondo concepito,
come L. aveva appreso a concepirlo, in maniera rigorosamente
materialistica: quel mondo in cui non c’ è posto per la libertà, né
quindi per la virtù, né per l’immortalità; per nulla di ciò che forma
l’essenza umana dell’uomo, e gli conferisce la forza d’una fede,
e la fiducia nella sua forza di contrastare alla natura, di
dominarla e farne strumento di una vita spirituale sem¬ pre più
ricca. Lampeggia sì da lungi allo spirito del Poeta l’im¬ magine enorme
e tremenda di quella Natura disumana, che stritola e annienta l’uomo e
tutte le pretese del suo audace ingegno. Si vegga, p. e., come ella gli
si presenta nel Dialogo della Natura e di un Islandese: dove
all’uomo che aveva fuggito quasi tutto il tempo della sua vita per
cento parti la Natura e la fuggiva da ultimo nel- r interno dell’Africa,
sotto la hnca equinoziale, in un luogo non mai prima penetrato da uomo
alcuno, ecco che gli interviene qualche cosa di simile che a Vasco
di Gama nel passare il Capo di Buona Speranza; e s’imbatte nella stessa Natura
in petto e in persona: «Vide da lontano un busto grandissimo; che da
principio immaginò doveva essere di pietra, e a somiglianza degli ermi
colossali veduti da lui, molti anni prima neh’ isola di Pasqua. Ma
fattosi jiiù da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta
in terra, col busto ritto, appoggiato il dorso e il gomito a una
montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile,
di occhi e capelli nerissimi ; la quale guardavalo fissamente ». La
Natura è infatti qui nelle parti dove si dimostra più che altrove la sua
potenza. E alle molte parole con cui 1 ’ Islandese si lagna delle
tribolazioni che affliggono l’uomo in questa vita a cui non egli ha
chiesto di nascere, risponde breve che « la vita di quest’universo è un
perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé
di maniera, che ciascheduna serve con¬ tinuamente all’altra, ed alla
conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra
di loro, verrebbe parimente in dissoluzione ». Intanto sopraggiun¬ gono «
due leoni, così rifiniti e maceri dall’ inedia, che appena ebbero
forza di mangiarsi quell’ Islandese; come fecero; e presone un poco di
ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano
questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che
r Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gh edificò un superbissimo
mausoleo di sabbia; sotto il quale colui disseccato perfettamente, e
divenuto una bella mum¬ mia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e
collocato nel museo di non so quale città di Europa. Ma lo stesso tono
malinconicamente beffardo della prosa dimostra con qual animo il Poeta
accolga questa immagine deUa Natura. E spesso gli torna alle labbra
una dichiarazione esphcita: che cioè egli si compiace d’indagare questo mistero
enorme delbumverso non per addolorarsi del disperato destino deU’uomo,
anzi per riderne. L’ideale deUa sua personalità è Ottonieri, filosofo
socratico, che con occhi di lince scopre tutto il vano e il doloroso
della vita, ma ne ragiona con impcrturbabUe pacatezza di savio che sta al
di sopra e al di fuori della vita, e la ironizza. Insomma, l’uomo
Leopardi non fa la fine dell Islan¬ dese; non soggiace aUa natura, pasto
dei leoni o còlto improvvisamente dalla sabbia del deserto. Guarda
dal¬ l’alto e sorride, e sente la propria umanità superiore nell’
intelligenza vittoriosa e nello stesso potere di reagire al fato col
sentimento. £ BRUTO MINORE che dispregia n plebeo il quale, non valendo a
cessare gli oltraggi del destino, si consola con la necessità dei danni,
quasi fosse men duro un male senza riparo o non sentisse dolore chi
è privo di speranza. No, Guerra mortale, eterna, o fato indegno,
Teco il prode guerreggia. Di cedere inesperto. È
Saffo la misera Saffo, misera e magnanima, riso luta ad emendare il crudo
fallo del cieco dispensator de casi. A quel modo di emenda a cui
s’induce Saffo, Leopardi, a pensarci, non potrà consentire, come
sappiamo. Ma per lui resterà sempre, che al fato l’uomo non
devecedere. Resterà sempre la grandezza dell’animo che col pensiero
si leva al di sopra del fato, intende, comprende e sorride;
Che se d'affetti Orba la vita, e di gentili errori,
È notte senza stelle a mezzo il verno. Già del fato mortale a me
bastante E conforto e vendetta è che su l’erba. Qui
neghittoso immobile giacendo. Il mar, la terra e il cielo miro e
sorrido. Grandezza eroica, a cui il petto del Poeta si
allarga allo spegnersi del caldo raggio di amore di donna che fece
battere un momento il suo cuore di speranza e di felicità. Ma questa
eroica grandezza non basta; poco stante, nella piena maturità delle sue
esperienze morali, tornata la calma dopo la tempesta della patita
delusione e del sospettato scherno femminile, egli lascerà venir su
dal cuore la risposta più vera che si deve al cieco dispensator dei
casi. Quando, presso Portici, nel 1836, mirerà i campi cosparsi di ceneri
infeconde e ricoperti d’ impietrata lava, là dove erano state liete ville
e ricche messi e armenti e città famose, e ora tutto intorno una ruma
involve, il suo occhio poserà sul gentile fiore della ginestra,
che, quasi i danni altrui commiscrando, di dolcissimo odor manda un
profumo, che il deserto consola: simbolo della sua poesia, del suo animo,
che da questa spietata empia natura sa che c’ è un conforto e un riparo
nella umana compagnia e nell’amore che la stringe insieme incontro
al destino: Nobil natura è quella Che a sollevar
s'ardisce Gli occhi mortali incontra Al comun fato, e che con
franca lingua, Nulla al ver detraendo. Confessa il mal
che ci fu dato in sorte. E non si rivolge stoltamente contro gli uomini,
ma contro la natura che sola è rea: che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna. Costei chiama inimica;
e incontro a questa Congiunta esser pensando. Siccome è il
vero, ed ordinata in pria L'umana compagnia. Tutti fra sé confederati
estima Gh uomini, e tutti abbraccia Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita Negli alterni perigli e nelle
angosce Della guerra comune. Oh l’alta meraviglia del
Leopardi, dopo circa un lustro di sforzi fatti per affisarsi in quel
concetto desolato del mondo che le meditate dottrine gli mettevano
innanzi, e spogliarsi d’ogni personale sentire, e obliarsi nella
speculazione dell’acerbo vero (non più acerbo del resto a chi lo gusti,
poiché conosciuto, come dice lo stesso Poeta, ancor che tristo ha suoi
diletti il vero) ; dopo avere scritto le Operette che sono la filosofia
del Leopardi, ma sono pure un momento essenziale dello svolgimento della
sua poesia; dopo avere scritto il prosaico programma della sua vita
avvenire nell’epistola Al conte Carlo Pepoli; dopo aver preso quel freddo bagno
nella filologia italiana, che furono per lui le cure spese intorno
alle Rime del Petrarca e la compilazione della Crestomazia italiana.
oh l’alta meraviglia, quando si sentì rifluire in petto la vita ! Non che
risorgesse la speranza; non che la natura gli apparisse sott’altra luce;
non che si accorgesse comunque d’errore alcuno ne’ suoi filosofemi.
Ma insomma. Proprii mi diede i palpiti Natura, e i dolci
inganni. Sopirò in me gli affanni L’ingenita virtù ;
Non l'annullàr: non vinsela Il fato e la sventura; Non
con la vista impura L’ infausta verità. Dalle mie vaghe
immagini So ben ch’ella discorda; 50 che natura è
sorda. Che miserar non sa Il mondo, in ogni parte, è proprio qual
egli 1 ’ ha raffigurato nelle Operette: Pur sento in me rivivere
Gl’inganni aperti e noti; E de’ suoi propri moti maraviglia
il sen. Da te. mio cor, quest’ultimo Spirto, e l’ardor
natio. Ogni conforto mio Solo da te mi vien. Saffo ha
ragione quando afferma; Mancano, il sento, aH’anima Alta,
gentile e pura. La sorte, la natura. Il mondo e la
beltà. Saffo però ha dimenticato il suo cuore: Ma, se
tu vivi, o misero. Se non concedi al fato. Non chiamerò
spietato Chi lo spirar mi dà. Ecco, Tanima si calma, torna la
vita con le sue attrattive, con la sua gioia; risorge la poesia. Torna al
cuore del 2 i 6 Poeta Silvia, la giovinetta Silvia
splendente di bellezza negli occhi ridenti e fuggitivi, lieta e pensosa;
toma l’onda di beate speranze, di pensieri soavi che gli riempivano il
petto, al suon della sua voce; quando questa voce gli faceva lasciare gli
studi leggiadri per affacciarsi al balcone della casa paterna:
Mirava il ciel sereno. Le vie dorate e gli orti,
E quindi il mar da lungi, e quindi il monte. Lingua mortai
non dice Ouel eh’ io sentiva in seno. E pur lo aveva detto la
sua lingua, dieci anni prima, in quel capolavoro che è l’idillio scolpito
nei quindici versi de L’ infinito, quando, nel fondo dell’empia matrigna,
della spietata natura, aveva intravvista, sentita, amata un’altra Natura;
l’immensa Natura, verso la quale dal limite stesso della prossima siepe
l’anima è lanciata con un impeto di raccoglimento infuso di mistica
dolcezza: interminati Spazi di là da quella, e
sovrumani Silenzi, e profondissima quiete .... ove per
poco Il cor non si spaura. E come il vento Odo stormir tra queste
piante, io quello Infinito silenzio a questa voce Vo comparando; e
mi sovvien l’eterno, E le morte stagioni, e la presente E
viva, e il suon di lei. Cosi tra questa Immensità s’annega il pensier
mio; E il naufragar m’ è dolce in questo mare. Di
questo momento mistico del Leopardi poco s’è parlato; ed è momento di
grande valore per la compren¬ sione della sua anima, che in
quest’atteggiamento reli¬ gioso placa definitivamente il fiero contrasto
tra la sua indomita soggettività e la realtà onnipotente e
infinita, in cui quella par destinata ad infrangersi. Lo placa in
una situazione idillica che, riportando l’individuo alla natura madre,
infonde in lui la fiducia rinfrancatrice, di cui l’uomo ha bisogno per
vivere, abbandonarsi al¬ l’azione e sentire nel proprio petto il respiro
eterno e r infallibile sostegno divino del tutto. Negli idilli
perciò, com’egh stesso chiamò i primi, e quelli posteriori, i
grandi idilli che dal canto a Silvia vanno a quello del pastore
errante dell’Asia, scritti tra il ’zq e il ’30, anni della più potente
espansione e della lirica più piena e felice del Poeta, è la chiave di
vòlta di tutta la poesia leopardiana. Quando si legge la lettera al
Giordani : « Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra
della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e
sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si
svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto
nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando
misericordia alla Natura, la cui voce mi parve di udire dopo tanto tempo
»; non si può non essere com¬ mossi da questo prorompere di così alta
vena mistica la cui scaturigine evidentemente si cela nel centro
vivo più remoto della personalità leopardiana. E allora s’intende
l’invocazione ansiosa della canzone Alla primavera: Vivi tu, vivi,
o santa Natura ? Allora si ode quasi il lento respiro queto e
dolce e l’arcana soave mestizia della Vita solitaria: Talor m’assido in
solitaria parte, Sovra un rialto, al margine d’un lago Di
taciturne piante incoronato. Ivi, quando il meriggio in ciel si
volve. La sua tranquilla imago il sol dipinge. Ed erba
o foglia non si crolla al vento; E non onda incresparsi, e non
cicala Strider, né batter peima augello in ramo, Né farfalla
ronzar, né voce o moto Da presso né da lunge odi né vedi.
Tien quelle rive altissima quiete; Ond’ io quasi me stesso e
il mondo obblio Sedendo immoto; e già mi par che sciolte Giaccian
le membra mie, né spirto o senso Più le coramova, e lor quiete
antica Co' silenzi del loco si confonda. Allora, infine, si
scorge il tono vero del Canto del Pastore, così buio e pur così luminoso, così
accorato e pur così sereno, con i suoi perché disperati, e col suo
funereo sigillo (è funesto a chi nasce il dì natale) e la sua alata
poesia : Forse s'avess’ io l’ale Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una, O come il tuono errar di
giogo in giogo. Più felice sarei.... Poiché il pastore
vede che la sua greggia è beata, quasi libera d’affanno, e che, sopra
tutto, tedio non -prova, a differenza di lui, che non ha pace anche
sedendo sopra l’erba, all’ombra, poiché un fastidio gl’ ingombra la
mente e uno sprone lo punge di dentro e non gli lascia riposo. E ogni
animale giacendo, a bell’agio, ozioso, si appaga. Vede il pastore che nel
seno della natura è la felicità; e l’affanno nasce dall’opporsi a lei con
l’irre¬ quieto ingegno destinato ad avvolgersi in un insolubile
intrigo, in una fatica vana senza speranza. Tutta la poesia del
Leopardi attinge in quel punto mistico del ritorno alla gran madre la
pace e la gioia. Allora egli parla dei pensieri immensi e dolci sogni
che gli ispirò sempre, nello stesso modesto giardino della
casa paterna, « la vista di quel lontano mar, quei monti azzurri ». Per
lui, come pel jiassero solitario, non sollazzi, né riso, né amore: ma
cantare sì, come ruccellino che dalla vetta della torre antica va
cantando, alla campagna, finché non muore il giorno; ed erra l’armonia
per la valle, mentre Primavera d’intorno Brilla
nciraria, e per li campi esulta. Si ch’a mirarla intenerisce il
core. L'uccellino non si tormenta col pensiero della giovinezza che
passa e della morte che s’avvicina: poiché di natura è frutto ogni sua
vaghezza e in lei non è affanno : e da lei sgorga pure il suo canto; il
canto che aduna nel cuore la dolcezza della primavera che fa
brillare l’aria e esultare le campagne. Anche uomini di alto
intelletto, come Capponi, han voluto dar sulla voce al Leopardi per quel
suo con¬ cetto della infehcità che cresce negli uomini in propor¬
zione della loro grandezza: ossia del loro ingegno e sa¬ pere. Come se
questo stesso lamento non uscisse dalle Sacre Carte ! E gli han voluto
far osservare che felice era certo egh stesso mentre componeva i suoi
canti, e riusciva ad essere L.. Come se non fosse questo il
significato di tutta la poesia leopardiana, e la sorgente del suo
irresistibile incanto! L. lo sapeva bene, e sotto la data del 30 novembre
1828 ne’ suoi Pensieri annotava: «Felicità da me provata nel tempo del
comporre, il miglior tempo eh’ io abbia passato in mia vita, e nel quale
mi contenterei di durare finch’ io vivo ! Passar le giornate
senz’accorgermene e parermi le ore cortissime, e meravigliarmi sovente io
medesimo di tanta facilità di passarle ». E nell’agosto del '23 non
aveva egli scritto, tra gli stessi Pensieri, che « ninna cosa
maggiormente dimostra la grandezza e la potenza deU’umano intelletto....
che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente
sentire la sua piccolezza? Tale il suo canto; il più squisito frutto
dell’operare della natura santa e onnipossente, raccolta, per dir
così, a far la più alta prova del suo potere dentro il genio
dell’uomo. Il quale, pertanto, in se stesso, infine, trova se stesso,
scoperta che abbia la fonte della sua vita: quel divino, che ha in sé e
gli colora il mondo delle beate larve, e lo solleva da questa vicenda
perpetua di nascere e di morire, di fallaci promesse e di v'ane speranze,
al regno immortale della vita dello spirito. E quando scopre questa
sorgente, egh è veramente lui, il genio; e sente l’amore che abbellisce e
conforta, e crede nella potenza e nella grandezza dell’umana
intelligenza, e torna ad amare la vita nobilitata dall’ ideale. E pur con
le dolenti parole suggeritegli dallo spettacolo del mondo esteriore
in cui l’uomo rischia di smarrirsi, sente l’ineffabile gusto dello
spirito che si ritrae in se stesso e nel sentimento del proprio valore,
quale si svela al contatto di quella natura eterna, in cui è il suo
principio e con cui perciò deve immedesimarsi per trovare le radici del
suo proprio essere. E il naufragar m è dolce in questo mare.
Qui la grandezza del Poeta; qui l’incanto della sua poesia, che i
giovani amano per l’amore della giovinezza che vi spira dentro; che gh
uomini maturi ed esperti della vita amano non meno per il lucido specchio
che essa offre degli aspetti dolorosi dell’esistenza, attraverso i
quah si deve avere il coraggio di vivere, malgrado ogni disinganno; che
tutti gli uomini, piccoh e grandi, dotti o ignoranti, considerano come
uno dei doni più preziosi di Dio all’umanità. Piccolo libro, in cui un
gran cuore parla a tutti i cuori, e li unisce (poiché unirsi devono
per sedvarsi) in un sentimento acuto della miseria innegabile della vita e
della non meno innegabile azione dello spirito che affranca da ogni
miseria e infonde la fede per cui si ha la forza di vivere. Piccolo hbro,
sacro per gl’ Itahani e per tutti gli uomini, come tutti i libri in
cui grandi pensieri si sono fatti semplici e chiari e perciò faciU, com’
è al passero solitario il suo perpetuo canto : anima della sua anima.
Piccolo libro da leggere bensì non a brani e frammenti, ma intero,
affinché non sia frainteso, dimostri tutta la sua bellezza e spieghi
insieme la sua dolce virtù consolatrice e animatrice. Conferenza
tenuta al Lyceum di Firenze e pubblicata nel volume di letture Giacomo
Leopardi a cura di Blasi (Firenze. Sansoni). Ripubblicata in Poesia e filosofia
di Giacomo Leopardi (Firenze, Sansoni). A parlare della filosofia di un
poeta, e di un grande poeta, o, che è lo stesso, delle relazioni del
pensiero di questo poeta con la filosofia, un pover uomo, per
discreto che voglia essere, si espone al rischio di toccare un tasto
falso e di riuscire uggioso e molesto fin dalle prime parole. Ripugna
infatti al senso poetico di cui ogni spirito ben¬ nato è più o meno
riccamente dotato, questa ricerca che ha tutta l’aria d’una pretesa
pedantesca, illegittima e affatto arbitraria : questa ricerca di mettere
quel che pensa un poeta, sopra tutto, ripeto, se è un grande poeta,
e cioè un poeta vero, quel che egli riesce a dire, ossia quello che egli
sente, e sente profondamente, al paragone degh astratti schemi in cui
ogni filosofia va a finire. Non già che i poeti non abbiano anch’essi la
loro filosofia, un loro concetto della vita, una loro fede. Oh se 1’
hanno ! Non c’ è uomo che non ne abbia una. Anzi con la vivezza e
col vigore del suo sentire la sostanza della propria vita spirituale,
nessuno così fortemente come il poeta afferma la propria fede e la oppone
ad ogni più meditata dottrina che si esibisca da coloro che passano per
gh autorizzati interpreti della filosofia; nessuno più di lui è
convinto d’avere una sua filosofia capace di sbaraghare tutte le
altre. Ma le battaglie che il poeta combatte e vince, si svolgono dentro
al chiuso della sua fantasia. E gh pos¬ sono bensì procurare la gioia
della vittoria, ma una gioia tutta soggettiva come di chi in sogno viene
a capo del suo più arduo desiderio e coglie il fiore più bello del
giar¬ dino della vita. E nella storia — che giudica tutti gli individui e
le opere loro, perché con la ragione sovrana prima o poi valuta le
ragioni di ciascuno — di fronte al poeta rimane sempre il filosofo, che
scopre le contrad¬ dizioni del primo, il carattere dommatico e gratuito
delle sue asserzioni, l’immediatezza irrazionale della sua fede; e
insomma i difetti e le debolezze del suo pensiero ; e viene così a
trovarsi nella impossibilità di scorgere la grandezza della sua
personalità se a misurarla non adotti un metro diverso. E che cosa di più
irriverente e ottusamente inu¬ mano e brutale che accostarsi ai grandi
uomini per guar¬ darli da tutti i lati, anche da queUi che lasciano
scorgere i loro difetti, e non guardarli mai da quell’unico aspetto
in cui rifulge la loro grandezza ? Fu detto che non c’ è grande uomo per
il suo cameriere; e potrebbe parere che in fine il filosofo sia, per tale
rispetto, il cameriere del poeta; gli spazzola i vestiti, gli allaccia le
scarpe, ma non lo guarda mai in faccia. Oh la servitù
numerosa che sta intorno al poeta ! C’ è il filosofo; ma c’ è anche
l’antropologo e lo psicologo ; c’ è lo storico puro e c’ è il filologo ;
schiere e schiere di scienziati, servitori dalle più vistose livree; i
quah, per quel garbo e quella riservatezza che sono tra i requisiti più
elementari del mestiere che esercitano, non alzano mai gli occhi verso il
padrone, per entrargli nel¬ l’anima e scrutarne la passione, intenderla,
sentirla, parteciparvi. Certo non si permetterebbero mai tanta confidenza!
Nessuna mera^'iglia ]ioi se il poeta guarda dall’alto tutto questo
servitorame, e sta sulle sue, per non confondersi, per salvare se stesso e
\fivere la sua vita supe¬ riore, di cui è geloso come del suo tesoro.
Talora può concedere un sorriso di umana indulgenza o signorile
degnazione; ma il più spesso guarda con que’ suoi acuti occhi che
penetrano negh ascosi pensieri — così labo¬ riosi, così opachi, così
grevi; — e negh angoh della bocca il sorriso diventa ironia, sarcasmo. E
allora la povera filosofia, anche pel poeta, come per tutti gli uomini
che la filosofia assedia, assilla e infastidisce con le sue inces¬
santi inchieste e pretese, diventa materia di satira. Allora, il
Leopardi esce in un’osservazione di gusto volteriano, come questa che è
nello Zibaldone. L’apice del sapere umano e della filosofia consiste a
conoscere la di lei propria inutilità se l’uomo fosse ancora qual era da
principio; consiste a correggere i danni ch’essa medesima ha fatti, a
rimetter l’uomo in quella condizione in cui sarebbe sempre stato
s’ella non fosse mai nata. E perciò solo è utile la som¬ mità della
filosofia, perché ci libera e disinganna dalla filosofia ». Osservazione
che ama ripetere, dandola come un «suo principio»: «La sommità della
sapienza consiste nel conoscere la propria inutihtà, e come gli uomini
sarebbero già sapientissimi s’ella non fosse mai nata: e la sua maggiore
utilità, o almeno il suo primo e proprio scopo, nel ricondurre
l’intelletto umano (s’ è possibile) appresso a poco a quello stato
in cui era prima del di lei nascimento ». E in assai più nitida
forma tornerà a ribadirla infine come uno de’ capisaldi delle sue più
profonde convinzioni, nel ’zq, nel Dialogo di Timandro e di Eleandro:
«L’ultima conclusione che si ricava dalla filosofia vera e perfetta, si
è, che non bi¬ sogna filosofare ». Nei Paralipomeni degli
ultimi anni, anzi degli ultimi giorni della sua vita, più amaramente
dirà; Non è filosofia se non un'arte La qual di ciò che
l'uomo è risoluto Di creder circa a qualsivoglia parte. Come
meglio alla fin 1 ’ è conceduto. Le ragioni assegnando empie le
carte O le orecchie talor per instituto Con più d'ingegno o men,
giusta il potere Che il maestro o l'autor si trova avere.
Eppure, s’ingannerebbe sul vero pensiero del Leo¬ pardi chi si limitasse
a leggere questa sola ottava dei Paralipomeni, come chi si diverte a
ripetere col Petrarca. Povera e nuda vai filosofia, dimenticando o
ignorando che PETRARCA continua; Dice la turba al vii guadagno
intesa. Dopo l’ottava che ho letta, il Leopardi infatti si ripiglia nella
seguente, e precisa, compiendolo, il pen- sier suo in questo modo:
Quella filosofia dico che impera Nel secol nostro senza guerra
alcuna, E che con guerra più o men leggera Ebbe negli altri
non minor fortuna, Fuor nel prossimo a questo, ove, se intera
La mia mente oso dir, portò ciascuna Facoltà nostra a quelle cime il
passo Onde fosto inchinar 1 ’ è forza al basso. La filosofia,
dunque, che il Leopardi schernisce è quella teologica, come allora si
diceva, dommatica, spiritua¬ listica; la filosofia della Restaurazione e
del Romanticismo. La filosofia imperante al suo tempo: non ogni
filosofia. Anzi la filosofia imperante, tutta ottimistica, presuntuosa,
intollerabile alla mentalità leopardiana per¬ ché in contrasto coi fatti
e con le necessità di ogni li¬ bera mente, proveniente, come pur quivi si
dice, da quella Forma di ragionar diritta e sana
Ch’a priori in iscola ancor s'appella, Appo cui ciascun’altra oggi
par vana. La qual per certo alcun principio pone E tutto
l'altro poi a quel piega e compone; cotesta filosofia non è
satireggiata qui propriamente dalla poesia, ma dalla filosofia stessa, o,
se si vuole, da un’altra filosofia. Si tratta deUa filosofia falsa che è
combattuta e debellata dalla vera: ossia da quella che all’au¬ tore par
vera. Neanche si può dire quel che dice MANZONI degli avversari della filosofia
respinta in tutte le sue forme e in generale, quando osserva che
anch’essi, questi avversari della filosofia, senza saperlo, hanno una
loro filosofia, servitori senza livrea. Il Leopardi sa di avere la
sua filosofia; anzi, per cominciare ad intenderci, egli propriamente
professa di averne due. Dico cU più: senza r intelligenza di questa sua
duphce filosofia si rischia di fare, a proposito del Leopardi, di quella
esegesi filosofica, ov\’ero sia di quella filosofia, che s’ è soliti
fare, e che s’ è sempre fatta fin dal tempo del Leopardi; una
filosofia infarcita di luoghi comuni e di massiccia pedaneria: filosofia da
camerieri che allacciano le scarpe e non guardano in faccia. Con la
filosofia cosiffatta va a braccetto una critica che si chiama infatti
filosofica, presuntuosa non meno, tutta chiusa alla intelligenza
dell’anima del Poeta e però della sua poesia. La quale critica io mi
permetto di condannare per una ragione di metodo, che ritengo fonda-
mentale. Ed è questa: che l’essenza della poesia non è nel pensiero del
poeta, ma nel sentimento che il poeta ha del suo pensiero: non è nel
mondo che egh vede, ma negh occhi con cui lo vede e lo accoglie, lo fa
vibrare e vivere nel suo interno. Fuori del quale ogni realtà, sensibile
o ideale, è semphce astrattezza inafferrabile. Lì, nel trepido moto dell’
intimo sentire, in cui il mondo ha il suo centro di vita, è l’attuahtà di
quanto si vede o si pensa, o si può vedere e pensare; e lì è la
sorgente della poesia. Perciò una critica che innanzi alle Operette
morali si ferma allo «spirito angusto, retrivo e reazionario », cioè alle idee
negative che vi spaziano dentro, e per ciò non riesce a scorgere quanto
v’ è di umano e cioè di positivo ed eterno, è critica radicalmente
sbaghata, che scambia le ombre con i corpi saldi. Poiché le idee,
una volta astratte dall’atteggiamento che l’anima assume verso di esse,
ossia dal concreto atto vitale a cui esse partecipano e da cui
traggono il loro significato vivente, sono pallide ombre che il critico
si fingerà astrattamente, ma non {lotrà mai abbracciare al suo
petto. Nel caso del Leopardi poi c’ è di più; perché, come ho
accennato, se egli ha una filosofia tutta negativa, natu- rahstica e
materialistica, che gli sembra inoppugnabile e che fa materia di assiduo
pensare e ispirazione altresì del suo canto, egli ha la filosofia di
cotesta sua filosofia. E in questa filosofia superiore che è negazione
della negazione, e che afferma perciò, come abbiamo udito da Eleandro,
ultima conclusione della filosofia v'era e perfetta esser quella, che non
bisogna filosofare; in questa filosofia superiore è il senso serio e
profondo di quella che a primo aspetto ci è parsa condanna beffarda
della filosofia, giudicata inutile anzi dannosa. Lo stesso L.,
teorizzando questa filosofia superiore, in cui fa consistere la cima della
sapienza, la chiama, nello Zibaldone, «ultrafilosofia»: una
filosofia « che conoscendo l’intero e l’intimo delle cose, ci ravvicini
alla natura: filosofia naturale, spon¬ tanea, primitiva, barbara; più che
alle origini, si trova nella maturità della intelhgenza umana. Sentiamo
da capo Eleandro, che nel suo stesso nome vuol essere 1’interprete della
filosofia leopardiana contro la pretensiosa filosofia ottimistica alla
moda di Timandro: «S’ingannano grandemente », egli dice, « quelli che dicono e
predicano che la perfezione dell’uomo consiste nella conoscenza del vero, e
tutti i suoi mali provengono dalle opinioni false e dalla ignoranza, e
che il genere umano allora finalmente sarà febee, quando ciascuno o i
più degli uomini conosceranno il vero, e a norma di quello solo
comporranno e governeranno la loro vita. E queste cose le dicono poco
meno che tutti i filosofi antichi e moderni ». Timandro ha concesso ad
Eleandro che tutti sono infelici; gli ha concesso la necessità
della nostra miseria, e la vanità della vita, e l’imbecillità e
piccolezza della specie umana, e la naturale malvagità degli uomini; gli
ha concesso che in queste verità si assommi la sostanza di tutta la
filosofia; ma deplora egh che tali verità vengano divulgate col solo
frutto di spogliare gli uomini della stima di se medesimi («primo
fondamento della vita onesta, della utile, della gloriosa ») e
distorh dal procurare il loro bene. Ma dunque, ribatte Eleandro, quelle
verità che sono la sostanza di tutta la filosofia, si debbono occultare
alla maggior parte degli uomini; e credo che facilmente consentireste che
debbano essere ignorate o dimenticate da tutti: perché sapute, e ritenute
nell’animo, non possono altro che nuocere. 11 che è quanto dire che la
filosofia si debba estirpare dal mondo. Dunque, non bisogna filosofare,
come s’ è detto. Dunque, incalza Eleandro, « la filosofia
primieramente è inutile, perché a questo effetto di non filosofare
non fa di bisogno di essere filosofo; secondariamente è dannosissima,
perché cjuella ultima conclusione non vi s impara se non alle proprie spese, e
imparata che sia, non si può mettere in opera; non essendo in arbitrio
degli uomini dimenticare le verità conosciute, e dcponenclosi più
facilmente qualunque altro abito che quello di filosofare ». Non si
può mettere in opera. Il che significa che rultrafilosofia — che è la
conclusione perfetta e perciò la vera filosofia — non estirpa e distrugge
l’altra, falsa o insufficiente. La quale, buona o cattiva che sia, è
quella che è: e, una volta piantata nel cervello dell’uomo, vi
resta confitta incrollabilmente, anche suo malgrado, quantunque insieme
con essa e al disopra di essa ci sia una verità certamente più umana e
degna dell’uomo, diretta a ricostruire quel che la prima ha
demolito. Verità ? Se per verità s’intende solamente quel che si
conosce per mezzo deU’esperienza e di quello schietto ragionare che
s’appoggia sempre ai fatti osservati, questa della filosofia superiore
non è verità, ma esigenza dell’animo, e voce misteriosa della più profonda
natura, che la filosofia più tenace e più pervicace non riuscirà
mai a spegnere. Ma se verità è la mèta raggiunta filosofando, questa è la
verità assoluta, perché messaci innanzi dalla stessa filosofia quando sia
riuscita ad elevarsi fino alla sommità della sapienza. Dove, volendo pur
non contraddire alle verità via via accertate e sempre più
strettamente connesse e saldate insieme in irrepugnabile sistema,
bisognerà sì rassegnarsi a dire errori in sem¬ bianza di verità, illusioni,
fantasmi, tutte quelle altre verità che come tali si rappresentano
all’uomo il quale a quella sommità sia pervenuto; e quindi veda
rivivere il mondo nella pienezza rigogliosa della sua vita primitiva,
felice, ridente, soffusa di una divina aura di giovinezza ignara e fidente.
L’uomo L. non può non filosofare; non può non passare attraverso la prima
filosofia; ma non può né anche non giungere infine alla seconda e superiore.
Dove egli ritrova tutto quello che ha perduto. Lo ritrova,
s’intende, com’ è possibile soltanto dopo averlo perduto; poiché
dimenticare quel che ha saputo e sa, non potrà mai ; a quel modo che può
tornar fanciullo un uomo che ha vissuto e sofferto tutte le delusioni e
le amarezze del mondo, e può riacquistare il gusto della virtù chi
abbia una volta bevuto al calice del bene e del male. Chi
distingue nel pessimismo leopardiano due fasi o forme, la prima di un
pessimismo storico in cui tutto il male è frutto dell’ « irrequieto
ingegno e dello scellerato ardimento degli uomini contro gl’ inermi
regni della saggia natura (di cui si parla nell’ Inno ai
Patriarchi), e l’altra di un pessimismo cosmico che fa gli stessi
uomini vittime incolpevoli della immane natura, si lascia sfuggire
l’unità fondamentale dello spirito del Poeta, dov’ è, ripeto, il segreto
della sua poesia; di quella dolcezza che ci suona dentro alla lettura dei
canti dal primo all’ultimo, e in forma più palese e più sistematicamente
determinata, almeno nell’ intenzione dello scrittore, nelle Operette morali:
dolcezza che vince, per così dire, tutta l’amarezza che negli uni e nelle
altre si riversa nelle più varie forme dell’anima di quest’uomo, che fu
certamente tanto grande quanto infelice, e seppe accogliere nella vasta
onda della sua poesia tutto il dolore del mondo, ma non per avvol¬
gere il mondo stesso nella tenebra della disperazione, anzi per
illuminarlo coi raggi d’una indomata fede nella vita con i suoi ideali e
con i suoi entusiasmi. La verità è quella che ci viene apertamente
attestata nello stesso disegno delle Operette. Le quali cominciano
col mito delle origini della umanità governate dall’amore e finiscono
nella conclusione di Eleandro. Se ne’ miei scritti io ricordo alcune
verità dure e triste, o per isfogo dell’animo, o per consolarmene col
riso, e non per altro [e dunque egli ha sfogato, e s’è consolato e ora
può parlare con animo pacato e sereno], io non lascio tuttavia
negli stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo
studio di quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è
fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo, iniquità
e disonestà di azioni, e perversità di costumi: laddove, per lo
contrario, lodo ed esalto quelle opinioni, benché false, che generano
atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben
comune e privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che
dànno pregio alla vita; le illusioni naturali dell’animo; e in fine gli
errori antichi, diversi assai dagli errori barbari. i quali solamente, e
non quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà moderna e
della filosofia. E più tardi l’autore aggiungerà il Dialogo di Plotino e
di Porfirio, dove l’accento torna sull’amore come sovrana legge della
vita e rintuzza la volontà suicida dell’egoista giunto al fondo della
disperazione della sua vita senz’amore. Prima parola ed ultima, amore.
Quella stessa che risuona in fondo ai Canti, nella Ginestra. E
contraddice certamente al freddo vero dell’ Epistola al Popoli e dello Zibaldone,
e delle Operette e dei Pensieri e dei Paralipomeni e dei Nuovi credenti e
insomma a tutto il contenuto prosaico della poesia leopardiana; voglio
dire a tutto quel sistema di filosofia che era, nel vocabolario del
Leopardi, la verità in opposizione agli errori: a tutto il complesso degli
insegnamenti di quella filosofia che, per altro, negli stessi Paralipomeni,
dove più espressamente essa viene esaltata, non impedisce al L. di uscire
in quel famoso grido del cuore. Bella virtù, qualor di te s’awede. Come
per lieto avvenimento esulta Lo spirto mio. Cotesta filosofia, non
occorre esporla. Tutti la conoscono. E quella concezione del mondo, che
giustifica un empirismo assoluto. Lo spirito vuoto; e tutto quello
che in esso può mai trovarsi, un derivato meccanico dall’esterno
attraverso i sensi. Quindi lo stesso spirito, il quale da chi tenga fermo
al concetto delle sue esigenze imprescindibili, non può non raffigurarsi
dotato di liberta, e quindi appartenente a quel mondo dei valori per
cui è possibile un pensare logico che sia vero in opposizione al
falso, o un volere buono in contrasto col malvagio, e un’arte creatrice
di bellezza che si libri nel puro aere ideale e sovrasti alla miseria di
tutte le cose brutte; lo stesso spirito, dico, tratto a sentirsi, nel
vuoto assoluto che si trova dentro, nulla: assoluto nulla, in cui
libertà e verità e virtù e bellezza non possono essere, in fondo,
altro che vane larve e falsi miraggi di un’ immaginazione ingenua e
fanciullesca. E il tutto è natura: cioè questa realtà che si rappresenta
a un tratto tutta spiegata ncUo spazio e nel tempo, materiale, risultante
da infinite parti e particelle che si condizionano a vicenda in guisa
che ciascuna sia 0 si muova in conseguenza di tutte le altre; in un
meccanismo universale, dove tutto quel che accade, è fatale di una
necessità che schiaccia e stritola ogni vana pretesa dell’uomo che si
])rovi a mutare il corso del destino. Tutto. Anche il sentimento che sboccia
nel cuore degli uomini, e che soltanto l’irriflessione e l’ignoranza ci
possono far giudicare buono o cattivo; anche il giudizio con cui ci
s’illude di distinguere il vero dal falso. Anche la volontà che non
sceglie, come si favoleggia, tra bene o male, ma scoppia in un senso o nell’altro
con la stessa cieca necessità del fulmine nelle tempeste della
natura. La natura dunque è tutto, e l’uomo nulla. La natura,
perché meccanica, incomprensibile, opaca, ripugnante a ogni razionalità
(perché la ragione è discriminazione, scelta, libertà). Un mistero.
Così dice cotesta filosofia, come se tutto questo, che essa dice
con tanta sicurezza, fosse possibile; come se cioè fosse possibile un
mondo in cui, se non altro, la verità sia una parola vana, e ci sia nondimeno
posto per l’uomo che, in mezzo a questo universale meccanismo, nel
mistero di questa tenebra profonda e per definizione invincibile, abbia
pure il diritto di affermare che la verità sia proprio quella che egli
asserisce ! Come se fosse possi¬ bile salvare una verità qualsiasi dal
naufragio d’ogni verità. Filosofia dunque essenzialmente
contradditoria, che nei filosofi empiristi, naturalisti, materialisti,
tipo secolo XVIII, è ignara di questa sua immanente contrad¬ dizione, tra
la ragione che si nega e la ragione che per negarsi rivendica di fatto il
proprio potere e valore. Filosofia accettata dal Leopardi, ma con
un’anima che troppo sente le conseguenze dolorose di essa e troppo
è naturalmente dotata di quella forza con cui lo spirito reagisce
ai hmiti che si oppongono alla sua libertà, e quindi al dolore, per non
aver coscienza di tale contraddizione. E questa coscienza è in lui
acutissima. L’uomo, pertanto, che dovrebbe prostrarsi di fronte alla
natura nel senso angoscioso del proprio niente, non piega, invece,
non s’accascia, non rinunzia alle sue verità, anche se battezzate
fantasmi. Il dolore, attraverso la potente reazione di tutto il suo
spirito nel senso gagliardo e tenace con cui l’apprende e lo ferma nel
cristallo della sua divina fantasia, si trasfigura: non è più il limite
della sua forza e della sua libertà; è poesia, cioè umanità; è
grandezza umana, trionfo della potenza creatrice, che è Ubera e
infinita potenza. Qui l’anima di L., qui il fascino deUa sua
poesia. La quale non trae la sua ispirazione centrale dall’astratto
concetto di quel crudo materialismo, che annienta l’uomo e fiacca perciò
ogni velleità di vivere a proprio modo, a norma de’ propri ideaU, in un
mondo qual egU perciò lo vagheggi, liberamente, ma da questo senso
profondo, or cupo e straziante, or placato e sereno, che gli \aene dalla
sua « ultrafilosofia », dal bisogno di respingere come antiumana e
contradditoria alla incoer¬ cibile natura dell’uomo cotesta filosofia
negativa e sof¬ focante. Ora è Bruto minore, nudo di speranza, ma
prode, di cedere inesperti), neUa sua guerra mortale contro il fato
indegno, in atto di sfida magnanima contro il Destino, che egU vince, violento
irrompendo nel Tar¬ taro: e la tiranna Tua destra,
allor che vincitrice il grava. Indomito scrollando si
pompeggia. Quando nell’alto lato l’amaro ferro intride, e
maligno alle nere ombre sorride. Ora è la misera Saffo, grave
ospite di natura, estranea alla infinita beltà di questa, consapevole del
prode ingegno che pur le venne in sorte assegnato, delle proprie
virili imprese, del dotto canto, della virtù insomma che può
vantare; ed ecco, è risoluta di spargere a terra il velo indegno ricevuto
da natura, primo principio della sua infehcità; e morire, ed emendare
così «il crudo fallo del cieco dispensator de’ casi. Ora è il Poeta
stesso, che invoca la morte hberatrice. Ma certo troverai, qual si sia
l’ora che tu le penne al mio pregar dispieghi. Erta la fronte,
armato, E renitente al fato. La man che flagellando si
colora Nel mio sangue innocente Non ricolmar di lode. Non
benedir, com’usa Per antica viltà l’umana gente; Ogni
vana speranza onde consola Sé coi fanciulli il mondo. Ogni conforto
stolto Gittar da me. O che, stanco di sperare e disperare, sente in
sé spento anche il desiderio, e vuol acquetarsi nell’ultima
dispera¬ zione e cliiudersi in un superbo disdegno di se medesimo,
della natura e di questa infinita vanità del tutto. Nel disprezzo del brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera. Ora invece, il Poeta s’accosta a
questa Natura mi¬ steriosa, arcana, e si scioglie in un mistico
sentimento della sua vita infinita e divina. Giacché si sa che il
naturalismo è stretto parente della mistica, che ugualmente oppone la
realtà all’uomo al punto da non lasciargli più modo di distinguersene e
spingerlo perciò al desiderio d’immergersi e immedesimarsi col tutto
infinito che gli è davanti e lo attrae. E allora L. ricompone il suo
volto dal ghigno della ribellione, e scioglie il suo dolore, ossia quella
sua soggettività solitaria e disperata di uomo che, perduta la
giovinezza, vede intorno a sé il deserto e il buio della sera e
deH’orrida vecchiezza, nella languida consolazione degli Idilli: de l’infinito,
dove il poeta non canta più il suo dolore, ma il dolce gusto
dell’eterno: Così tra questa Immensità s’annega il
pensier mio; E il naufragar m’ è dolce in questo mare;
de La sera del dì di festa, dove il cuore si stringe A pensar
come tutto al mondo passa e quasi orma non lascia; e il suono
delle umane glorie e degl’ imperi più famosi cede come il canto
dell’artigiano che riede a tarda notte al suo povero ostello poiché la
festa è finita: Tutto è pace e silenzio, e tutto posa Il
mondo; e risvegha nella memoria del poeta una immagine accorante
insieme e viva divenutagli familiare: ed alla tarda notte Un
canto che s’udia per li . sentieri Lontanando morire a poco a poco;
de La vita solitaria, dove « l’altissima quiete » del meriggio presso
all’ immoto specchio del lago di taciturne piante incoronato gli fa
obliare se stesso e il mondo: e già mi par che sciolte Giaccian le
membra mie, né spirto o senso Più le commova, e lor quiete antica
Co’ silenzi del loco si confonda. Estasi; estasi mistica che fa
risalire dal petto il trepido grido dell’angoscia religiosa, che echeggia nel
canto Alla primavera, 0 delle favole antiche: Vivi tu, vivi,
o santa Natura ? e quello anche ])iù antico della stupenda
lettera al Giordani, che convien rileggere: «Poche sere addietro, prima
di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo
puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che
abbaiavano da lontano, mi si svegharono alcune immagini antiche, e
mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un
forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi parve di
udire dopo tanto tempo. A questa religione, da cui la filosofia inferiore
allontana, riconduce quella superiore, la ultrafilosofia. Quando L. annota
nello Zibaldone che « la filosofia.... s’ ha per capitai nemica della eeligione,
ed è vero, egli parla, com’ è evidente dal seguito della sua nota, della FILOSOFIA
inferiore. Egli stesso ha il pensiero a una diversa filosofia quando,
sotto la datasegna cjuesto pensiero profondo: «1 tedeschi si strisciano
sempre intorno e appiedi alla verità; di rado l’afferrano con mano
robusta: la seguono indefessamente per tutti gli andirivieni di questo
laberinto della natura, mentre l’uomo caldo di entusiasmo, di sen¬
timento, di fantasia, di genio, e fino di grandi illusioni, situato su di
una eminenza, scorge d’un’occhiata tutto il laberinto, e la verità che
sebben fuggente non se gli può nascondere ». La mano robusta dunque non si
contenta della ragione, ma vuole anche cuore, fede, natura o « senso
dell’animo », genio ; e cioè, non sa che farsi della piccola ragione,
poiché ha bisogno della grande. La quale non s’illude di aver spiegato
tutto quando ha spiegato la natura, e non ha spiegato e si mette in
condizioni di non poter più spiegare l’uomo, e deve rassegnarsi a
dire errori quelle verità che sono fondamento alla \'ita umana. L’uomo,
che è poi colui che si propone il pro¬ blema della natura, e senza del
quale {pertanto il problema stesso non sorgerebbe mai. L’uomo, che quella
mezza filosofia della ragione piccola rinserra e schiaccia nel meccanismo
della natura e condanna alla schiavitù del nulla, ma che risorge in tutta
la sua libertà e nel suo valore infinito appena la grande ragione gh faccia
sentire la sua grandezza nella sua stessa infehcità: « Niuna cosa »
infatti, come si legge nello Zibaldone « maggiormente dimostra la grandezza e
la potenza dell’umano intelletto.... che il poter l’uomo co¬ noscere e
interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza » ; e
provare la gioia del comporre, del cantare, del pensare, del sentire. L’infehcità,
essa stessa, poiché sentita, intesa, espressa, è grandezza, eccellenza. E
perciò l’uomo non soggiace alla natura, e può non temere la morte, e può,
come la ginestra, consolare il deserto col profumo del suo divino
alito spirituale. Perciò infine il poeta c’ insegna, in una forma
lapidaria che fa parere il suo detto quasi proverbio, che « nessun
maggior segno d’essere poco filosofo e poco savio, che voler savia e
filosofica tutta la vita. Verità infatti che merita di passare in
proverbio tra i filosofi. E pel Leopardi vuol dire che nella vita
non c’ è soltanto la filosofia : c’ è altro ancora, che è poi
sempre filosofia. La vera però, che afferra la verità con mano
robusta, non quella falsa che sola par vera all’angusto intelletto del
filosofo chiuso nel bozzolo del suo intel¬ lettualismo. La quale FILOSOFIA,
si ponga mente, una volta, come s’è veduto, il Poeta la chiama
ultrafilosofia; ma non è poi altro propriamente che la sua personalità,
il suo modo di vedere e di sentire la vita, quell’ingenita virtù
che prorompe nel Risorgimento, quando l’anima si risvegliò e rivide
meravigliata salire su dal profondo i palpiti naturali, i dolci inganni,
la speranza, e il sentimento della natura. Meco ritorna a vivere, La
piaggia, il bosco, il monte; Parla al mio core il fonte. Meco favella il
mar ») : quella ingenita virtù, che gli affanni poterono sopire;
Non l’annullàr: non vinsela Il fato e la sventura; Non
con la vista impura l’infausta verità. La virtù da cui sgorga la
poesia; e che è, io dico, la stessa poesia, depurata dalle forme in cui
il pensiero la determina e attua. Giacché io non vorrei che nelle
parole, nelle formule, nei concreti pensieri, come sistematica-
mente si possono comporre ad unità nelle esposizioni che l’autore non
fece delle sue idee, e che, sempre a fatica e non senza arbitrarie
glosse, continuano a imbandirci quei camerieri del Leopardi che sono i
suoi interpreti, pronti a sobbarcarsi a scriver loro sulla FILOSOFIA di L.
i volumi che questi non pensò mai di scrivere; non vorrei, dico, si
ricercasse una vera e formata FILOSOFIA come opera riflessa e logicamente
costruita su’ suoi fondamentali convincimenti e orientamenti Mi perdoni
la grande e austera ombra del Poeta questa parola cara oggi a certi
spiriti spigoUsti e vanitosi, che ogni giorno che il Padre manda in
terra, suonano a stormo per adunar gente e catechizzarla tra un sorriso
mellifluo e un ohibò di pelosa carità, e disporla a cercare con essi
l’orientamento che essi non riescono mai a trovare. Xtnnznni. No. LE
PAROLE, i pensieri più o meno frammentari e sparsi, le sentenze assai
spesso felicemente formulate non possono essere pel critico altro che
accenni, spie dell’anima del filosofo. La cui individualità è
caratterizzata e, propriamente, individuata da un certo atteggiamento, che è la
concreta FILOSOFIA dell'uomo: quella che, conferendo all’uomo un
carattere, non ci spiega tanto le sue parole, spesso espressioni di cose
pensate e non sentite, ma le azioni in cui l’uomo opera come sente
nel suo più intimo essere; là dove egli, arrivi o no ad averne coscienza
in un sistema chiaro e bene organato di idee, è quello che è : quello che
l’uomo nella sua singolare e inconfondibile individualità si mamfesta e si
fa conoscere non per quel che dice ma per il modo in cui lo dice,
non pel contenuto delle sue parole ma pel colore che esse hanno sulla sua
bocca, per l’accento con cui la sua anima vi suona dentro. Stile, essenza
della poesia d’ogni uomo. Sicché, infine, a parlare degnamente
della filosofia del Leopardi, non bisogna ridursi alla parte del
cameriere. Conviene guardare il Poeta negh occhi, dove la pupilla trema
della commozione segreta: ascoltare il suo canto, dove la sua filosofia è
la sua stessa poesia. Giacomo Leopardi. Leopardi.
Keywords: il favoloso. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e gli usi di Leopardi
nella filosofia italiana," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Grice e Leopardi: l’implicatura
conversazionale – 1150 – implicatura – filosofia italiana – filosofia maceratese
-- Luigi Speranza (Recanati).
Filosofo italiano. Recanati, Macerata, Marche. Grice: “We don’t have at Oxford a ‘chip off
the old block’ as they have in Recanati!” -- Importante
esponente del pensiero controrivoluzionario e padre di Leopardi. Leopardi,
targa commemorativa apposta sui portici di piazza Leopardi a Recanati Figlio
primogenito del conte Giacomo e di Virginia dei marchesi Mosca, nacque in una
delle famiglie più preminenti di Recanati. Rimasto a quattro anni orfano del
padre, crebbe con la madre (che non volle risposarsi per accudire i quattro
figli), gli zii paterni rimasti celibi e i fratelli. Educato in casa dal
precettore Giuseppe Torres, padre gesuita fuggito dalla Spagna a seguito della
cacciata dell'ordine dal regno, ricevette una formazione improntata agli ideali
cristiani, cui rimase fedele per tutto il resto della sua vita. Fu sottoposto
alla tutela di un prozio, non potendo amministrare direttamente il patrimonio
familiare per disposizione testamentaria. Ottenne tuttavia da papa Pio VI la
deroga alla disposizione paterna e, all'età di 18 anni, assunse
l'amministrazione della propria eredità. Dopo un primo progetto di nozze andato a
monte, sposa la marchesa Adelaide Antici, sua lontana parente. Il matrimonio fu
un matrimonio d'amore strenuamente osteggiato dalla famiglia di Monaldo, in
base ad antiche dispute tra casati e per questioni economiche (mancanza di una
dote adeguata), che per manifestare la propria contrarietà non partecipò al
matrimonio, che venne infatti celebrato nella sala detta "galleria"
di palazzo Antici a Recanati. Il patrimonio di famiglia, dalle mani di Monaldo,
passò in quelle della moglie, a causa dei debiti del prozio che il conte non
riusciva a ripianare. Frutto di questa unione tra opposti caratteri furono
numerosi figli: di questi, raggiunsero l'età adulta Giacomo, Carlo, Paolina,
Luigi, e Pierfrancesco. A causa della impossibilità di gestirli (dovuta alla
sua indole caritatevole verso i poveri, agli sperperi dei parenti e
all'invasione giacobina), l'amministrazione dei beni di famiglia passò nelle
mani della consorte, donna energica e severa; Monaldo poté così dedicarsi
totalmente alla sua passione, gli studi e le lettere. Tra i suoi molti meriti
vi è aver grandemente contribuito alla formazione del nucleo fondamentale della
biblioteca di famiglia dei L., nella quale il giovane Giacomo passò i suoi anni
di "studio matto e disperatissimo" (compresi i libri proibiti per i
quali il conte ottenne la dispensa della Santa Sede, per metterli a
disposizione dei figli) e che Monaldo donò all'intera cittadinanza recanatese,
come ricorda la lapide apposta nella cosiddetta "prima stanza".
L'impegno civico Angolo della biblioteca di palazzo L. con i ritratti di
L., Adelaide e Giacomo Il medico e naturalista britannico Jenner La sua
opera è rappresentativa del concetto di reazione (per es., la demolizione
dell'egualitarismo nel Catechismo sulle rivoluzioni), inoltre gli vanno
riconosciuti diversi meriti acquisiti durante lo svolgersi della sua vita
politica, indirizzata nei confronti di Recanati, città in cui visse.
Monaldo fu consigliere comunale a diciotto anni, governatore della città, amministratore
dell'annona. Fu tra coloro che si mantennero fedeli al papa Pio VI nel periodo
dell'occupazione francese. S'adopera per mantenere tranquilla la popolazione in
tumulto contro le forze dei rivoluzionari francesi e, in accordo con i suoi
principî morali e religiosi, rifiutò di assumere incarichi pubblici durante la
Repubblica Romana e il primo ed effimero Regno d'Italia. Fu gonfaloniere di
Recanati, la massima carica amministrativa, e si occupò della costruzione di
strade e di ospedali, dell'illuminazione notturna, del sostegno ai meno
abbienti, della riduzione delle tasse, del rilancio degli studi pubblici e
delle attività teatrali. Sebbene fosse preoccupato per le conseguenze
della meccanizzazione sull'occupazione, ritenne che le ferrovie e le macchine a
vapore fossero tutt'altro che inconciliabili con una società cristiana. Stimolò
inoltre il diboscamento del suolo, la messa a coltura dei prati, lo
stabilimento di case coloniche e l'applicazione di nuove colture, come il
cotone o la patata. Fu anche il primo a introdurre nello Stato Pontificio il
vaccino antivaioloso dell'inglese Edward Jenner e lo fece sperimentare sui
propri figli; poi, da gonfaloniere, rese obbligatoria la vaccinazione che
svolgeva personalmente (in ciò smentendo la raffigurazione caricaturale di
"retrogrado" che si attribuì ideologicamente alla sua figura da parte
della critica novecentesca). Sostenne anche un progetto per la fondazione di
un'università nella sua città natale, che però alla sua morte non ebbe
seguito. Infine, durante la carestia, fece erogare gratuitamente i
medicinali ai più bisognosi e creò occasioni di lavoro, sia maschile, con la
costruzione di strade, sia femminile, con la tessitura della canapa. Come
scrisse una volta, quelle attività riformatrici non erano in contrasto con le
sue idee controrivoluzionarie; infatti dichiarò: «Oggi si pretende di costruire
il mondo per una eternità e si soffoca ogni residuo e ogni speranza del bene
presente sotto il progetto mostruoso del perfezionamento universale» Morì
il celebre figlio Giacomo: nonostante tra i due i rapporti non fossero distesi,
la perdita gli causò grave dolore. Si spense nella città natale e fu sepolto
nella tomba di famiglia presso la chiesa di Santa Maria in Varano a
Recanati. Dei molti scritti religiosi, storici, letterari, eruditi e
filosofici di Leopardi, i più famosi sono i “Dialoghetti sulle materie
correnti” usciti con lo pseudonimo di "1150", MCL in cifre romane,
ovvero le iniziali di "Monaldo Conte Leopardi". Ebbero immediatamente
un grande successo, ben sei edizioni in cinque mesi, furono tradotti in più
lingue e divennero notissimi nelle corti europee. Il figlio Giacomo, da Roma,
ne informa il padre in una lettera dell'8 marzo: «I Dialoghetti, di cui
la ringrazio di cuore, continuano qui ad essere ricercatissimi. Io non ne ho
più in proprietà se non una copia, la quale però non so quando mi tornerà in
mano.» Per umiltà lasciò i molti guadagni allo stampatore, il Nobili. È
probabile che con quest'opera Monaldo volesse contrapporsi alle Operette morali
del figlio, che giudicava negativamente e riteneva contrarie alla fede
cristiana. In essi, infatti, esprimeva gli ideali della reazione (o anche
controrivoluzione). Tra le tesi sostenute, la necessità della restituzione
della città di Avignone al papato e del ducato di Parma ai Borbone, la critica
a Luigi XVIII di Francia per la concessione della costituzione (che violerebbe
il sacro principio dell'autorità dei re che "non viene dai popoli, ma
viene addirittura da Dio"), la proposta della suddivisione del territorio
francese fra Inghilterra, Spagna, Austria, Russia, Olanda, iera e Piemonte, la
difesa della dominazione turca sul popolo greco, in quegli anni impegnato nella
lotta per l'indipendenza. Risalgono alcune opere di satira politica:
Monaldo era infatti ottimo satirico e disseminava le sue opere di scherzi
letterari. Tra esse, il Viaggio di Pulcinella e le Prediche recitate al popolo
liberale da don Muso Duro, curato nel paese della Verità e nella contrada della
Poca Pazienza (versione digitalizzata). Fu inoltre autore di ricerche erudite,
ammonimenti ai fedeli cattolici e articoli su varie riviste, tra cui si segnalano
«La Voce della Verità» di Modena e «La Voce della Ragione» di Pesaro, che
Leopardi stesso diresse. La rivista ottenne un buon successo, come dimostrano i
2000 abbonamenti sottoscritti in tutta Italia, tuttavia fu soppressa d'autorità. Rimasero
inediti, invece, i suoi Annali recanatesi dalle origini della città ae la sua
Autobiografia: in quest'ultima la prosa di L. si arricchisce di leggerezza,
ironia e umorismo. Negli ultimi anni di vita Monaldo visse appartato (non
amava allontanarsi da Recanati: la sua più lunga assenza dalla casa paterna
consistette in 2 mesi a Roma), deluso dalle caute aperture liberali del governo
pontificio e degli esordi del regno di papa Pio VI. Collaborò al periodico
svizzero Il Cattolico, di Lugano, tornando poi, negli ultimi anni, agli studi
storici su Recanati, coltivati in gioventù. Opere digitalizzate Monaldo
Leopardi, La Santa Casa di Loreto. Discussioni storiche e critiche, Lugano,
presso Francesco Veladini e C. Monaldo Leopardi, Istoria evangelica scritta in
latino con le sole parole dei sacri Evangelisti, spiegata in italiano e
dilucidata con annotazioni, Pesaro, pei tipi di A. Nobili. Monaldo Leopardi,
Dialoghetti sulle materie correnti dell'anno, Leopardi, Prediche recitate al
popolo liberale da don Muso Duro, curato nel paese della verità e nella
contrada della poca pazienza. Rapporto con il figlio ritratto di Giacomo
Leopardi. Nonostante la vulgata dica il contrario, il rapporto con il figlio
illustre appare buono: senz'altro nei primi anni Monaldo dovette essere
orgoglioso della precocità del ragazzo, e nelle opere giovanili di Giacomo, ad
esempio il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, si avverte ancora
l'influenza delle idee del padre. Ben presto, però, i loro spiriti presero
strade diametralmente opposte: la crescente autonomia di pensiero di Giacomo
preoccupava Monaldo. La lettura del carteggio fra i due rivela una
relazione affettuosa, soprattutto negli ultimi anni. La lettera più sincera
scritta da Giacomo al padre è quella che quest'ultimo non lesse mai: si tratta
della missiva datata luglio 1819, quando il poeta progettava la fuga, e che non
fu mai spedita, perché egli dovette rinunciare ai suoi piani. «Mio Signor
Padre. Per quanto Ella possa aver cattiva opinione di quei pochi talenti che il
cielo mi ha conceduti, Ella non potrà negar fede intieramente a quanti uomini
stimabili e famosi mi hanno conosciuto, ed hanno portato di me quel giudizio
ch'Ella sa, e ch'io non debbo ripetere. Era cosa mirabile come ognuno che
avesse avuto anche momentanea cognizione di me, immancabilmente si
maravigliasse ch'io vivessi tuttavia in questa città, e com'Ella sola fra
tutti, fosse di contraria opinione, e persistesse in quella irremovibilmente. Io
so che la felicità dell'uomo consiste nell'esser contento, e però più
facilmente potrò esser felice mendicando, che in mezzo a quanti agi corporali
possa godere in questo luogo. Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e
rende incapaci d'ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono
tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz'altro
pensiero.» Finalmente, Giacomo lascia Recanati, per farvi ritorno solo
saltuariamente. Da lontano, il padre assiste alla crescita della sua fama nel
mondo intellettuale italiano, ma non riesce a comprendere la grandezza del
figlio: disapprova la pubblicazione delle Operette morali, scrivendogli in una
lettera (perduta) le "cose che non andavano bene", suggerimenti che
nella risposta Giacomo promette di prendere in considerazione, ma che di fatto
non sono mai accolti. La pubblicazione dei Dialoghetti di L. è causa di
attrito fra padre e figlio. Giacomo Leopardi si trovava a Firenze:
nell'ambiente iniziò a circolare la voce che fosse lui l'autore dell'opera,
espressione delle tesi reazionarie, cosa che egli fu costretto a smentire
seccamente sul giornale Antologia di Vieusseux. Si sfogò poi per lettera con
l'amico Melchiorri: «Non voglio più comparire con questa macchia sul viso.
D'aver fatto quell'infame, infamissimo, scelleratissimo libro. Quasi tutti lo
credono mio: perché Leopardi n'è l'autore, mio padre è sconosciutissimo, io
sono conosciuto, dunque l'autore sono io. Fino il governo m'è divenuto poco
amico per causa di quei sozzi, fanatici dialogacci. A Roma io non potevo più
nominarmi o essere nominato in nessun luogo, che non sentissi dire: ah,
l'autore dei dialoghetti.» In toni decisamente più miti ne scrive poi a
L. il 28: «Nell'ultimo numero dell'Antologia... nel Diario di Roma, e
forse in altri Giornali, Ella vedrà o avrà veduto una mia dichiarazione
portante ch'io non sono l'autore dei Dialoghetti. Ella deve sapere che attesa
l'identità del nome e della famiglia, e atteso l'esser io conosciuto
personalmente da molti, il sapersi che quel libro è di Leopardi l'ha fatto
assai generalmente attribuire a me. E dappertutto si parla di questa mia che
alcuni chiamano conversione, ed altri apostasia, ec. ec. Io ho esitato 4 mesi,
e infine mi son deciso a parlare, per due ragioni. L'una, che mi è parso
indegno l'usurpare in certo modo ciò ch'è dovuto ad altri, o massimamente a
Lei. Non son io l'uomo che sopporti di farsi bello degli altrui meriti. [
L'altra, ch'io non voglio né debbo soffrire di passare per convertito, né di
essere assomigliato al Monti, ec. ec. Io non sono stato mai né irreligioso, né
rivoluzionario di fatto né di massime. Se i miei principii non sono
precisamente quelli che si professano ne' Dialoghetti, e ch'io rispetto in Lei,
ed in chiunque li professa in buona fede, non sono stati però mai tali, ch'io
dovessi né debba né voglia disapprovarli.» Nelle ultime lettere Giacomo
esprime la volontà di rivedere il padre, passando dai toni formali a quelli
affettuosi ("carissimo papà" nell'ultima lettera). Monaldo
sopravvisse 10 anni al figlio. L'incompatibilità fra i due rimaneva però ancora
evidente otto anni dopo la morte di Giacomo, non accettando lui le idee
areligiose del poeta; la sorella di lui, Paolina, scriveva a Marianna
Brighenti: «Di Giacomo poi, della gloria nostra, abbiam dovuto tacere più
che mai tutto quello che di lui veniva fatto di sapere, come di quello che non
combinava punto col pensiero di papà e colle sue idee. Pertanto, non abbiamo
fatto mai parola con lui delle nuove edizioni delle sue opere, e quando le
abbiamo comprate le abbiamo tenute nascoste e le teniamo ancora, acciocché per
cagion nostra non si rinnovi più acerbo il dolore.» Su richiesta
dell'ultimo amico di Leopardi, Antonio Ranieri, pochi giorni dopo la morte del
figlio, Monaldo gli spedì un Memoriale con cenni biografici su Giacomo, con
aneddoti e curiosità, in cui si avverte il dolore per la rottura fra i due e
l'incapacità del padre di capire la direzione intrapresa dal figlio; il Memoriale
si interrompe: "Tutto ciò che riguarda il tratto successivo è più noto a
Lei che a me", scrive infatti. Nonostante ciò, Monaldo piangerà con dolore
la perdita di Giacomo, al punto che quando redigerà il proprio testamento, alla
settima volontà scrisse: «Voglio che ogni anno in perpetuo si facciano
celebrare dieci messe nel giorno anniversario della mia morte, altre dieci il
giorno 14 giugno in cui morì il mio diletto figlio Giacomo. Manetti, Giacomo L.
e la sua famiglia, Bietti, Milano. La famiglia Leopardi è protagonista del
romanzo fantastico di Michele Mari Io venìa pien d'angoscia a rimirarti. L., di
Sandro Petrucci Monaldo In viaggio per
Leopardi, Leopardi fu chiamato alla collaborazione a tale rivista dal suo
fondatore, il Principe di Canosa Antonio Capece Minutolo. Giacomo Leopardi, Carissimo Signor Padre.
Lettere a Monaldo, Venosa, Osanna ed., Giacomo Leopardi, Il monarca delle
Indie. Corrispondenza tra Giacomo e Monaldo Leopardi, Graziella Pulce,
introduzione di Giorgio Manganelli, Milano, Adelphi,Monaldo Leopardi. La
giustizia nei contratti e l'usura. Modena, Soliani, Monaldo Leopardi,
Autobiografia, con un saggio di Giulio Cattaneo, Roma, Dell'Altana ed., Antonio
Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Mursia ed., (L'ultimo amico del poeta narra di un suo
incontro con Monaldo mentre era di passaggio a Recanati). Monaldo Leopardi, Catechismo
filosofico e Catechismo sulle rivoluzioni, Fede & Cultura, L., Dialoghetti
sulle materie correnti e Il viaggio di Pulcinella, in, L'Europa giudicata da un
reazionario. Un confronto sui Dialoghetti di Monaldo Leopardi, Diabasis,
Raponi, Due centenari. A proposito dell'autobiografia di Monaldo Leopardi,
Quaderni del Bicentenario. Pubblicazione periodica per il bicentenario del
trattato di Tolentino, n. 4, Tolentino, Giuseppe
Manitta, L.. Percorsi critici e bibliografici, Il Convivio, Anna Maria Trepaoli,
Gubbio, i Leopardi, Recanati: un legame da riscoprire, Perugia, Fabrizio Fabbri
editore, Pasquale Tuscano, Monaldo Leopardi. Uomo, politico, scrittore,
Lanciano, Casa Editrice Rocco Carabba,, Giacomo Leopardi Leopardi (famiglia)
Pierfrancesco Leopardi. Monaldo
Leopardi, su Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Ferretti, Monaldo Leopardi, in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Corno, L. in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Monaldo Leopardi, su
siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le
Soprintendenze Archivistiche. Opere di
Monaldo Leopardi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Monaldo
Leopardi,.Dizionario del pensiero forte, IDISIstituto per la Dottrina e
l'Informazione Sociale, sito "alleanzacattoliga.org". Il conte
Monaldo Leopardi. Monaldo Leopardi, conte di San Leopardo. Cf. Il Leopardi
anti-italiano. che
dopo questa vila comincia un'altra vila, bisogna ripudiare lulli isofismi elutte
le menzogne della filosofia. Queste sono le norme del saggio , questi sono i
doveri del galantuomo, e queste sono le verità proposte, dimostrate e
raccomandate dalla Voce della Ragione. FILOSOFIA Ponam Civitatem hanc in
stur em etinsibilum. La Filosofia e il Cervello. La Filosofia.Già vihodelto chedo
potanti anni di fatiche e di pensieri per accomodare il mondo a mio modo,
questo veccbio con serva ancora certi suoi pregiudizi , e non trovo in esso una
sola cillà la quale sia in lutto e per tullo secondo le mie regole
e secondo il mio cuore. Perciò ho risolutodi fabbricarpe una nuova, e chi
sa che a poco a poco non diventi la capitale di un grande impero. Cer. Tutto
questo va bene, e polete fabbricare e fondare quanto volete, ma come ci entro
io con le vostre fabbriche e con le vostre fondazioni? Fil.Oh Diavolo! volete
che la filosofia vada avanli in una impresa similesenza cervello? LA
CITTÀ a DELLA Il Cervello. In somma, si può sapere cosa volele da me? Cer. Finora
avele sempre operalo senza di me, e potete seguitare a procedere da pazza. Cer.
Fin quì non dite male , ma alla fine dei conli che giudizio è questo vostro con
cui volete mandare sollosopra il mondo? Fil. Oh bella , ognuno ba i suoi gusti
, e de gustibus non est disputandum. Epoiiode sidero diguastare il mondo, perchè
voglio àca comodarne un altro meglio di questo. Cer. Vi darà poi l'animo di
fare un altro mondo migliore del primo? Fil. Proviamoci: cosa sarà? Non si
tratta poi di una gran cosa, e se non riesceci penserà chi vuole. Via
cervellaccio mio, ve nile con me e datemi una mano a fabbricare “Filosofopoli”.
Già adesso non avete altro da fa re, perchè nessuno vi vuole; e al mondo si fa
tutto senza di voi. Cer. Anche questo è vero, e giacchè non si trova più a
campare coi savi sarà meglio accomodarsi al servizio dei malti. Fil. Bravo,
bravissimo. Vedrele che bella città stabiliremo assieme. Ha da essere il regno
della età dell'oro, il paese della cuccagoa, e la vera meraviglia del mondo.
come in addietro, senza curarvi neppure adesso della mia compaggia. Fil. Chi lo
dice che ho operato da pazza e senza cervello? A buon conto io chevole. va
guastare il mondo l'ho mandato sotto sopra, e quelli che avevano obbligo é
desiderio di conservarlo lo hanno mandato e lo mandano soltosopra peggio di m
e. Chi vi pare dunque cbe abbia più cervello, chi guasta quello che vuol
guastare, o cbi guasta quello che vuol conservare? Fil. Oh per questo non
dubitale. Sono cent'anni che ho mandalo fuori gli editti e saccio mille smorfie
per chiamare la gente, co me fa la civella sul mazzuolo per uccellare i
merlolli ; sicchè gli abitatori di “Filosofopoli” non potranno mancare. Anzi
ecco qualchedu. no che si avvicina. Meltiamoci dunque sul sodo , e incominciamo
le nostre operazioni filosofiche e cervello liche. La Filosofia , il Cervello e
il Governo. La Filosofia. Chi siete e cosa volete? Gov. Quanto a questo farete
quello che vi pare, ed io starò nelle vostre mani a rice. vere quella forma che
vorrete darmi, come l'argilla in mano dello stovigliere. Già oggi Cer.
Chi verrà poi ad abitare in questa nuova città ? Il Governo. Io sono il
governo,e domando di essere ammesso nella vostra nuova città , perchè immagino
che non vorrete stabilirla senza governo. Fil. Sicuro che un poco di governo ce
lo vogliamo, almeno pour bien séance, e per servire alle apparenze,e alle
formalilà come l'apparatura nelle feste. Ma intendiamoci bene ; noi non
vogliamo un governo all'antica , il quale pretenda di governare davve ro , ma
bensì un governo filosofico; e vale a dire un ombra , un simulacro , un brodo
di ranocchie e niente di più. questa è una cosa da nulla, ed è più facile
preparare un governo che lavorare un boccale. Fil. E bene ; nella cillà e nel
regno di “Filosofopoli” la vostra forma sarà quella di una monarcbia. Cer.
Bravo! quesla scelta mi piace perchè il governo monarchico è il più naturale e
il più semplice , ed è ancora il più robusto di tullj . Fil. Oibd , oibù ; se
fosse questo non vor remmo saperneniente, e si vede bene che voi v'intendele
poco di filosofia, e non avele una giusta idea del mondo nuovo. Nel mondo
vecchio i monarchi erano certamente forti, rispettatietemuli, perchèsostenevano
diavere ricevuto il loro potere da Dio , e nessuno si azzardava di slendere la
mano contro una au lorità la quale si riputava stabilita per diritto divino. Ma
nel mondo nuovo i monarchi si contenlano di regnare per grazia e volere del
popolo,ricevonoilsalario esilasciano incar. tare dal popolo e conseguentemente
devono essere il trasiullo e lo scherno del popolo.Il governo monarchico
adunque,lavoralo secon do le regole della filosofia, riesce ilpiù comodo e il
più leggiero di tulli, e i filosofi si adallano a lasciarsi governare da un re
falto dal popolo, perchèchipuòfarepuò guastare, ed è più facile sbalzare dal
trono un monar. ca costituzionale, che licenziare dal servizio un gualtero di
cucina.Sentite dunque signor governo , e imparate bene cosa ha da essere il
governo monarchico nella cillà e nel regno della filosofia. Fil. Prima di
tutto, il re ha da essere un re di carta , o vogliamo dire che tulta la sua
autorilà deve consistere in un pezzo di carta , esso medesimo deve riconoscerla
tutta intiera dalla carta, e guai a lui se si allontana un capello da quella
carta. Fil. Inoltre non deve pretendere di dettar le leggi, ma deve riceverle
belle e fatte dalla nazione;e,se si tratti di farne delle nuove, gli è permesso
di mandare i suoi ministri a sfiatarsi e raccomandarsi nella camera dei d e
putati , ma alla fine deve sempre cedere alla voloplà della camera. Quando poi
la camera ha fatto una legge e il re l'ha soltoscritta per amore o per forza ,
e per una semplice for malità , sua maestà di carta deve subito pi gliare la
frusta e andare in piazza a menare le mani facendo eseguire idecreti del
popolo. Gov. Benissimo. Fil. Di più non deve impicciarsi nè bene nè male con la
giustizia,e deve lasciare che i giudici facciano di ogni erba un fascio senza
essere ripresi e molestati da nessuno.Anzi se l'istesso monarca cittadino riceverà
una coltellala ovvero una schioppeltata non potrà far altro che dare una
querela a quell'imper linenle,ese igiudici condanneranno coluia tre giorni di pane
e acqua, il re dovràam mirare e ringraziare la imparzialità e la se verità
della giustizia. Gov. Benissimo. Gov. Dile pure, che iosono qui a ricevere
i vostri comandi. Gov. Benissimo. Fil. Similmente il monarca filosofico
costi. tuzionale non avrà l'ardire d'imporre nessu na tassa , e di toccare un
quattrino senza il beneplacito e la licenza del popolo. Quando ci sarà bisogno
di denari per l'andamento del go verno anderà a domandarli come un pitocco alla
cainera dei deputali , e dopo ricevuli li spenderà bene o male,che questo
importa poco, e sulla revisione dei conti non si guarda tanto in sollile.Se però
la camera non vorrà darglieli ,lascerà che il governo cammini da per sè stesso,
e resterà colle mani incrociale sul petto come fa il cuoco, allorchè il pa
drone non gli dà iquattrini per fare la spesa. Fil. Per ultimo se qualche volta
il popolo vorrà divertirsi un poco con sua maestà, ac . compagnandolo con le
fischiate ovvero con le sassale, dovrà averci pazienza, e se anche in una
giornata gloriosa il popolo vorrà strac ciarelacarta,cambiare la dinastia,edi
scacciare il re con tutta la sua maestà e la Gov. Benissimo. Fil.Siccome
poi lacartaaccordaalmonar ca il diritto di far grazia, il re cittadino de ve
sapere che quel dirillo gli viene accordato per burla , e che egli pad usarne
soltanto a beneplacilo e a capriccio del popolo. Percið se itribunali
condanneranno giustamente uno scellerato il quale sia benveduto dal popolo, sua
maestà di carta lo dovrà liberare , e se condanneranno ingiustamente un
innocente malveduto dal popolo , sua maestà di carta dovrà farlo impiccare.
Gov. Benissimo. sua inviolabilità, il monarca cittadino dovrà andarsene col
bordone in mano , e avere di caro e grazia di salvare la pelle,perchè alla five
dei conti nell'impero della Filosofia la careta, il trono , il governo, tutto è
del popolo, e ilmonarca costituzionale è un bawboccio vestito dareper servire di
passatempo al popolo. Gov. Benissimo,benissimo,ameraviglia;e vado subito nella
cillà a preparare uo trono di cartone per Pulcinella l.monarca cittadino di “Filosofopoli”.
Fil.Cosa nedilecompare Cervello? Vi pare cbe abbiamo stabilito una monarchia
vera mente solida , dignitosa e utile al buon reg gimento dei popoli? Fil. Sappiatechecisivapensando,eforse
col progresso dell'incivilimento si troverà il modo di fare una macchina che
muova la le. sta e ci serva da re,senza bisogno di pagare un re cilladino , il
quale non è poi tanto a buon mercato quaplo si crede. Intanto però bisogna
contentarsi di un re costituzionale, fin. chè non si può averne un altro lutto
affallo di legno. Ma zillo che si accosta altra gente per veoire a populare
ilregno della Filosofia. Cer. Mi pare cbe quando i monarchi filo sofici
debbano essere lavorali sopra queslo m o dello , un re dipinlo ,ovvero un re di
paglia potrebbe servire nello stesso modo. La Filosofia. Chi siete, e cosa
volete? La Giustizia. Io sono la Giustizia e domando di essere ammessa nella
vostra nuova cillà. Fil. Cosa ne dite compare Cervello ? non si potrebbe fare a
meno di questa femmina? Fil. Alcuni litiganti , i quali hanno inolla pratica
dei tribunali,mi banno assicuratoche considerando bene certe giustizie
presenti, sa rebbe meglio cavare a sorte la vincita e la perdita delle
cause,ovvero giuocarsi alla morra il torto e la ragione. Così almeno si ri
sparmierebbero le spese. Cer. Con questo metodo pazzo e scellerato si confonderebbero
il giusto con l'ingiusto, l'innocente col reo,e il galanluomo con l'as sassino.
Giu . Parlate pura giacchè sono venula a p La Filosofia , il Cervello, a
la Giustizia.Cer. Come! vorreste stabilire una città ed un governo senza
tribunale e senza giustizia? Fil. Questo sarebbe poco male perchè ora mai lulle
queste cose sono tanto confuse che non se ne raceapezza più niente. Considero
però che se non ci fosse qualche cosa,chia mata giustizia , gli avvocati e i
procuratori resterebbero in camicia, e questo non si ac comoderebbe con le idee
filosofiche sulla dif fusione dei godimenti e dei beni.È d'uopo dunque per un
altro poco adattarsi al siste ma antico , e perciò venile avanli madonna
Giustizia e facciamo i nostri palli. posta per imparare cosa deve essere
la giu. stizia nel paese della filosofia. Fil. Prima di tutto lenetevi bene in
m e n te che i liberali tauto palesi come occulli non devono avere mai lorlo,e
la giustizia deve essere una vera cortigiana consacrata e ven. dula
sfacciatamente al servizio dei liberali. Giu.Benissimo,ed io mi venderò e mi
prostituiròin verecondamente per compiacere iliberali.Ma ditemi un poco:come ho
da fare per favorirli nelle cause, quando stan no evidentissimamente dalla
parte del torto ? Giu. Quei giudici però i quali procederan no con ingiustizia
manifesta potranno essere discacciati e puniti. 102 re che questo non è
proibilo ; e non manca il modo di stancare e assassinare un povero liligante
buttando la polvere sugli occhi al mondo, e sostenendo che si opera per la giustizia.Se
però qualcbe volta vi troverelealle strelle , rinunziale pure a qualunque pudo
re,invocate ilnome di Dio,egiudicatenel nome del diavolo,purchè la villoria sia
sem pre assicurala per i liberali. pu. Fil. Finchè potete conservare cerle appa
renze e salvare la capra e l'orto , falelo Fil.Non
dubitatediquesto,eigiudicinon temano di niente quando sono protetti dai
liberali. Primieramenle nel regno della filo sofia i giudicisono una potenza
assolutache non dipende da nessuno ; e poi i liberali si mellono per tutto , e
coperlamente , ovvero scopertamente comandano in lulli i dicasteri, sicchè alla
fine del conto lutto si fa a modo loro , e a chiunque la prende con
essi toc cano sempre la mazza e le corna. Giu.Ho capilo: e lasciatevi servire.Segui
tale pure la vostra lezione. Fil. Inoltre se s'incontrano a litigare un uomo
indifferenle e un inimico dei liberali, dale sempre ragione all'uomo indifferente
an corchè fosse uù ruffiano, ovvero un capo la dro , e date sempre lorlo
agl'inimici dei li. berali , acciocchè quesla capaglia impari a rispettare la
filosofia e la liberalilà. Fil. In questi casi potete consollare i vo stri
affelli privali, ovvero ilvostro interesse; potete farvi merito con qualche
Ciprigna ;e in somma fale pure quello che vi pare, che alla filosofia non
gliene importa niente.Cosa ne dile compare Cervello ? Fil.Questo sarebbe un
partito troppo gras. so per i galantuomini i quali giuocherebbero alla
pari,enelregno filosoficoiliberalihan. no da godere sempre qualche vantaggio. A
vete capito bene madonna Giustizia ? Giu. Ho capito anche questo e non mi al
lonlanerò dai vostri suggerimenti : ma come si dovrà procedere in parilà di
circostanze o sia quando s'incontrany a litigare due uo. mini indifferenti ,
ovvero due liberali ? Cer. Vedo bene che hanno ragione quelli iquali desiderano,
che ildirillo eiltorlo si estraggano allasorte oppure vengano giuo
catiallamorra.Difalliquando la Giustizia non ha da essere veramente giustizia è
m e glio ridurla al giuoco della bianca e della nera . Giu. Ho capito
benissimo,e fascialevi per servire. E nelle cause criminali come dovrò
regofarmi ? Fil. Generalmente parlando lenele sempre per la parte dei
malfaltori,e ricordalevi che nel regno della filosofia non si vuole la m a n
naia del boia , e piuttosto si gradisce ilcol tello degli assassini. Se la
giustizia dovesse essere quella di una volta non si trovereb bero le gloriose
giornate, e noi vogliamo sla re allegramente, e non vogliamo morire di
malinconia. Nei casi poi particolari regolate vi come vi bo già detto per la
giustizia ci vile. Se alcuno abballe una croce , Salegli grazia eseun altroguardatortolabaq
diera di tre colori, ammazzatelo.Se uno be stemmia ovvero calpesla il
Sacramento , te. neteloin prigione mezz'ora,quando pon pos siate faredimeoo; eseunaltrodicemez
za parola contro la carta, fatelo fucilare. Se laluno prende a calci un prete,
un frale, vescovo dite che non ci è luogo a procedere; e se i preli , i frali,
i vescovi negano la se poltura ecclesiastica a qualche scomunicato mandateli in
galera o fateli scorticare.Se il re viene accusato a dirillo,o a torlo di ave
re fatto una sconcordanza , caccialelo in esi. lio, ovvero tagliategli la
testa, e se ilpopolo prende a sassale il re e si ribella contro il re ,
distribuite le pensioni e le decorazioni ai capi dei sollevali. In somma
regolatevi in modo da far conoscere che nel regno del la fi'osofia tutto è
permesso fuorcbè toc care colla puola delle dila i liberali e la fi
Giu . H o capitotullo benissimo, e vado a stabilire i tribunali e a
portare in trionfo la giustizia nel regno della filosofia. Fil. Vedo bene
compare mio che i miei ordinamenti fondamentali non incontrano trop. po il
vostro genio; ma finchè sarele un cer vello all'anlica tullo pieno di
pregiudizi, nonvimetterele livellocoilumidelsecolo, c non potrele figurare nel
regno della filoso. fia. Speriamo però che a poco a poco ancho il cervello
perderà il cervello , e allora le dottrine e le pratiche della filosofia si
diran no regolale col cervello. Fraltanlo diamo u. dienza agli altri che
vengono per abitare nel. la nostra nuova cillà. L a Filosofia, il Cervello e la
Proprietà . La Filosofia. Certamente ebe nel inio regno ci hanno da essere i
proprielari,ma anche 105 1 losofia. Se poi talvolta doveste per rispetto
umano proferire qualchecondanna nou viaf fliggete per questo, perchè ire
dominati na. scostamente dai liberali faranno sempre la grazia , e non ci sarà
mai pericolo , che la scure del manigoldo ardisea di toccare il col lo di un
liberale. La Proprietà. Io sono la Proprietà e vengo a stabilirmi nel vostro
puovo impero,imma ginando che anche nel vostro regno ci do. vranno essere i
proprietari, e non vorrela che sia pieno lullo quanto di mascalzoni. Pro.
Mi pare cbe non ci sia gran cosa da rinnovare intorno alla proprietà , e lulle
le leggi devono consistere in questo, che ognu. no possa tenere e godere
tranquillamente ilsuo. Fil. Sopra cid ci sarebbe qualche cosa da dire , m a
siccome ancora non siamo arrivati al punto , basterà stabilire per adesso alcu
ne misure e alcuni miglioramenti preliminari. Cer. E che ! vorreste forse che
nei vostri paesi la proprietà non fosse più proprietà,e il proprietario non
fosse più il padrone delle proprie sostanze? Cosa pensereste di fare per
introdurre nel vostro nuovo impero anche questo sproposito ? Fil. Si potrebbe
benissimo stabilire una di visione generale dei beni ovvero una legge agrarja ,
intorno alla quale sono già tantise. coli che sospirano lutti i disperati e
tutli i falliti del mondo,ma per quanto la filosofia propenda per questo
partito definitivo , l'in civilimento ancora non è giunto al segno, e il mondo
non è ancora maluro per tanta fe licità. Basta dunque per ora che tutte le leg
gi , tutti i regolamenti e tutte le pratiche go. vernative tendano a procurare
lamaggiordif fusione de'beni. Pro. Cosa si avrà da fare perchè i beni si
diffondano e diventino come una nebbia di cui abbia ognuno la sua porzione
uguale ? 106 voi signora Proprietà dovrete adattarvi alle regole
fondamentali della Olosofia, Fil. Parlando in generale si deve sempre avere in
mira di spogliare iricchi,i signori e i benestanti; e di arricchire
i cialtroni , e a questo scopo salulare e filosofico devono essere sempre
diretle la politica e l'arte dei governanti. Parlandopoi inparticolare,a desso
vi dard alcuni precetti con l'osservanza dei quali si è fallogià ungrancammino,
e si arriverà quanto prima all'incivilimento completo del genere umano. Cer.
Stiamo a sentire queste altre filosofi cbe buscarale. Cer.E che bene verrà da
questo volontario dissipamento? Fil.Ne verranno due risultati filosofici di una
importanza incredibile. Primieramente il governo scialacquando il denaro dello
Sta to senza misuraesenzagiudizio,dovrà imporre tasse gravissime , e siccome
alla fi ne Fil.Prima di tuttosideve ingannareilgo verno per farlo spendere
come un matto e butlare iquattrini da tutte le parti, inducen dolo a fare tutti
gli spropositi possibili e a scegliere tuiti imodi di amministrazione più
rovinosi e più dispendiosi. dei conli le tasse si pagano sempre da chi ha,il
denaro delle tasse levato per forza a chi ba >, anderà naturalmente in mano
di chinonba, conchela diffusione dei beniver rà egregiamente
aiutata.Secondariamente poi con questo scialacquo del pubblico denaro, e con
questo scorticamento dei benestanti si dif fonderà immancabilmente il
malcontento nel popolo,e la filosofiaci avrà un gusto matto, perchè di un
popolo scontento si fa presto a faroe un popolo liberale e ribelle. Avele ca
pito,signora Proprietà? Pro. Ho capito a meraviglia, e passate ad
un altro precello. Fil. Il secondo precello filosofico consiste in questo , che
bisogna stabilire nello Sta. to un diluvio veramente spaventoso d'impie gati
ancorchè sieno inutili e non debbano far altro che grattarsi la pancia e
divorare la so stanza della nazione.Più ce ne sono e più bi sogna amniellerne;
e invece di pigliare a calci nelle natiche tulta quella canaglia che asse-, dia
le anticamere , perchè si oslina a voler vivere nell'ozio e nella opulenza a
spalle dei mincbioni , se gli impieghi non bastano per contentare lulli questi
parassiti bisogna crear ne degli altri.Fra i postulanli poi sidevono sempre
preferire i più indegni , i più asini e i più lemerari, e così si deve correre
ra pidissimamente verso la diffusione universale dei beni, e verso il perfezionamento
filoso fico della civillà. Cer. Quelli però che governano lo Stalo non si
contenteranno che venga così manomesso e saccheggiato . Fil. Messo in molo una
volta l'appelilo de. gli ingordi e dei poltroni , diffusa l'idea che tulli gli
sfaccendali e spiantali devono mantenersi a carico dello Stato , e rotto l'argi
ne al torrenle scandaloso delle raccoman . dazioni , igoverni e i ministri del
governo verranno strascinati da quella piena , e non potranno più impedire
l'assassinio di tutte le proprielà e ladiffusione dei beni.La più bella di
luttesarà poi,cbe quellistessi,iqualide clamano contro questo disordine e sono
vera 108 mente affezionati allo Stato, daranno mano al
l'assassinio economico dello Stato. Imperciocchè tutli i grandi hanno la loro affezioncella
pri vata,ed hanno qualcheduno che li mena pel paso sicchè in gražia della
affezioncella e del condottiere nasale, lulli metteranno avanti qualche loro
protello , tutti diranno che quella è la eccezione della regola , e
tulli"daranno mano perchè la pubblica finanza si dilapidi sempre di
più.Costui dovrà essere provvedulo perchè altempo delle rivoltenonsi è rivol
tato, e colui che si adoperò per fare una ri voluzione deve essere provveduto,
acciocchè non simaneggiper farneun'altra;questode ve essere impiegalo perchè
furono impiegali ilpadre,ilnonno eilbisnonno,e lasua fa miglia ha acquistato il
privilegio di vivere a spalle del pubblico, e quello devee ssere impiegato
perchè non ebbe mai niente , e non è dovere che nel giorno della cuccagna un
galantuomo rimangacoldenteasciulto.Ilme rito dell'individuo e il bisogno dello Stato
non dovranno contarsi per niente; le petizioni, i clamori e le raccomandazioni
assordiranno l'aria; il ministero non saprà più dove dare la testa,e le
sostanze di chi ha anderanno per amore o per forza , a depositarsi nella pan
cia di chi non ha. Pro. Vedo bene che questo sarà un ottimo metodo per operare
la diffusione dei beni , o sia per assassinare le proprietà del pabbli co e dei
privali;ma se mai la multiplicazione inutile degli impieghi non bastasse per sa
- tollare l'ingordigiadi tutti gli infingardi e sfacciali, non vi sarebbe
qualche altro modo da contentare questa povera gente ? Fil. Sicuramente che ci
è un altro modo ancora più efficace del primo, e questo con siste nell'acconsentire
senza riserva a tutte le invereconde domande delle pensioni e delle
giubilazioni. Appena un impiegato vuole ri tirarsi a casa per vivere da vero
poltrone, e produce l'altestato di un medico per provare che patisce di
pedignoni ; ovvero di raffred dori, non importa che quel pelulante abbia
prestato un servizio di pochi mesi,non im porla che sia un giovanotto, ovvero
un uomo sano e robuslo ; e non importa che lascian do un impiego per mentita
impotenza, assu ma poi sfacciatamente altri incarichi più la boriosi dei primi
, ma subito sideve m a n darlo a casa accordandogli la giubilazione ri chiesta,
con che si ottiene il doppio vantag gio di sprecare quella ginbilazione, e di
avere un posto vacante per provvedere un altro pro tello affamato.Le mogli
poidegli impiegati, i figli degli impiegati, le sorelle degli impie gali,le
mamme e le nonne degli impiegali, gli amici e le amiche dei grandi e dei con
dottieri nasali dei grandi , e sino le zitelle , le vedove e le vecchie ,
pericolate , perico lose, e pericolanti, tulli e tulle devono ave. re una
pensione veramente sprecata,e lulli devono vivere a spalle dello Stato.E avver
tite bene che secondo gli stabilimenti della fi losofia i salari degli impieghi
, e le pensio ni,e legiubilazioninondevono ridursiapic cole cose baslevoli
soltanto a mantenere la vila nella frugalilà,ma gl'impiegati,igiubilati, e
i pensionati devono sguazzare e scialare, d e vono andare in carrozza o almeno
in carret tella, e devono fare i fichi in faccia ai po veri contribuenti
annichiliti e distrulli per la diffusione filosofica dei beni e della
proprietà. Pro. Questi sono gli stabilimenti veramente grandiosi e giganteschi
, e ci voleva proprio un Ercole per immagioare un modo così pron lo per
sconquassare da capo a fondo la pro prielàe mandareperariauno stato.Suppon go
che basteranno queste pratiche e che non avrele altriprecelli da darmi per
operare la diffusione dei beni. Fil.Questi metodi sono senza dubbio effi
cacissimi;ma sitrovaancoraqualchealtra ricelta per arrivare più presto alla
dirama zione e livellazione filosofica dei beni,o sia al disfacimento generale
della proprietà.Una tas sa, per esempio, pazza e spropositata per le funzioni e
le competenze dei notarie dei pro curatori servirà a maraviglia per disossare a
poco apocoilitigantifacendo passareleloro sostanze nelle tasche dei difensori,
e ridurre isignori a piedi mandando incarrozzaino. tari,gli avvocali e i
coriali; e così di mano in mano vi anderd dando aliri non meno gio vevoli e
preziosi suggerimenti. Fraltanto vi raccomando di non perdere di occhio le
casse di risparmio, le quali oggi sembrano una cosa da niente, ma coll'andare
del tempo potrebbero essere di grande uso permettere il mon dosottosopra
mantenere il livellamento sociale. Fil. Sicuramente;equantunque l'artifi
zio sia un poco sollile,potevate sospellarne, vedendo tanto raccomandate queste
cose dai raccomandatori perpetui della filosofia. Udite. mi , siguor Cervello,
e imparate come pen sano quelli che hanno cervello.Idenariche si vanno
depositando dalla plebe nelle casse di risparmio non devono tenersi morti in
quelle casse , m a devono investirsi dandoli a frullo con le convenienti ipoteche
sopra le sostanze possedute dalla proprietà, perlochè ogni b a iocco depositato
nella cassa da un ciallrone diventa un debito della classe dei propriela rii
verso la classe dei cialtroni. Finchè sare mo nei principi gli effetti di
questa mano vra non saranno sensibili,ma quando lecasse di risparmio avranno un
capitale di più m i lioni, e saranno creditrici di tutti i proprie tari e
ancora dello stato , allora si manife steranno le forze di questa nuova occulta
p o tenza,allora si vedranno compenetrale in quel le casse tulle le proprielà ,
e allora si toc cherà con mano che la classe dei ciallroni è diventata la vera
padrona delloStato.Soccor. rere adunque i poveri con elemosine propor zionate,
stabilire imonti d'impreslito per aiu. larli nei loro bisogni,e ricoverarli
nell'ospe dale quando languiscono infermi, queste sono le opere della prudenza
e della carità ; ma dichiararsi i fattori e gli economi di talli i pezzenti ,
aprire un salvadenaro ovvero una Cer.Come!ancbe lecasse di risparmio so no
un mezzo filosofico per arrivare alla dif fusione dei beni ? a banca per
il moltiplico di tutti i mezzi ba iocchi risparmiali alla bellola ovvero rubati
nelle bolteghe, e aiutare la feccia della plebe, perchè monti a cavallo sul
collo delle clas si elevate e diventi formidabile agli stessi go. verni, questo
è propriamente secondo la dol trina della diffusione del potere e dei beni, ed
è la vera quintessenza della filosofica malignità. Cer. Confesso il vero che mi
avele sor preso , e non credeva cbe la filosofia la sa. pesse tanto lunga , e
pensasse di assassina re il mondo anche sotto pretesto di fare la carità ai
poverelli. Ma in conclusione quali saranno i vantaggi sociali che proveranno da
questa dilapidazione universale della proprie tào
vogliamodiredalladiffusionedeibeni? Fil. Compare mio,chiunque sitrovaco. modo
non cerca di mutar posto , 3 e così quelli che stanno bene ed hanno molto da
perdere non sono mai gli amici delle ri volte. Inoltre le ricchezze acquistate
onesla mente e stabiliteda più generazioni nelle fa miglie nobili e benestanti
, rendono per l'or dinario ereditarie in quelle famiglie la buo na educazione e
la buona morale , il deside rio dell'ordine, l'altaccamento al governo e la
considerazione del popolo; e perciò finchè quelle famiglie non sarannoavvilite
e degra date dalla miseria , sarà sempre difficile sol levare il popolo, sovvertire
l'ordine, distrug gere i governi e corrompere totalmente la moralee icostumi della
nazione. Quando però tutte le proprietà sarango livellate, o per meglio
dire quando lulli isignori saranno spiantati; quando le famiglie patrizie e le
classi superiori ridotle incamicia saranno diventate il ludibrio dei mascalzoni
; quan : do sarà scomparsa ogni idea di dignità e di rispello; quando tutti o
quasi tulli a. vranno da guadagnare nei torbidi e nei su surri e quando infine
tolta la barriera della ricchezza e della nobillà , o vogliamo dire tolta la
barriera della aristocrazia, le sassate della plebe potranno arrivarea diril
tura alla'cervice dei re, allora tulto il mondo sarà un perpétuo bordello, sarà
più faci le fare una rivoluzione che cambiarsi un v e stilo , e le gloriose
giornate saranno sempre a libera disposizione della filosofia. Questo e non
altro è quello che si cerca procurando la diffusione dei beni , o vogliamo dire
l'as sassinio di tutte le proprietà. Fil.Capisco quello che volele dire,
ma Cer. Certo che I vostri proponimenti no veramenti giudiziosi e benefici,ed
il ge nere umano vi deve essere sommamente ob bligato che lo abbiate acconciato
per le fesie ; ma in ogni modo levale le proprietà ai possessori presenti
passeranno in di altri; a poco a poco si formeranno altre ricchezze,sorgeranno
nuove famiglie, si costi tuiranno di nuovo le classi distinte e l'aristo
crazia,e ladiffusionedeibeni,ossial'assassi nio filosofico della socielà, non
potranno es sere permanenti e durevoli , perchè l'egua glianza delle proprietà
è in opposizionecon gli ordinamenti della natura. sfasciata da capo a
fondo una casa ci vuole il suo tempo per edificarla di nuovo , sì quando avremo
subissata ben beno la società , non si polrà riorganizzarla in un giorno ; e ci
saranno disordini e pianto per tutti quelli che vivono e per i figliuoli di
quelli che vivono. Sterminate le famiglie il lustri e potenti, degradate le
educazioni e i costumi, distrutte nelle menti del volgo le idee e le abiludini
del rispetto, tolte le proprie là agliattuali possessori per metterle nelle
mani degli usurai, degli ebreie deipidoc. cbiosi arriccbiti, e consegnato il
dominio del mondo all'arbitrio dei sanculotti, non baste ranno cent'anni per
ristabilire le cose, e la filosofia non avrà fatto poco se avrà polulo
assicurare il bordello , il susurro , e la m i seriadi un secolo.Quanto poi ai
secoli successivi, speriamo,che anch'essi avranno iloro filosofi, e non
mancherà chi pensi alla futura prosperità del mondo. Orsù dunque,madama
Proprietà , ci siamo iplesi. Entrate allegra mente nel mio paese, soltoponetevi
ai miei be nefici regolamenti , e ricordatevi che nel re gno
dellafilosofiasidevelavorare con lemani e coi piedi per la diffusione dei beni
e delle proprietà , o sia per assassinare tulle quante le proprielà. La
Filosofia , il Cervello , l'Insegnamento e l'Incivilimento. Fil. Ecco altre
persone che si avvanzano per venire a stabilirsi nella nostra cillà. Cer. Chi è
colui che finge di sludiare e tiene il libro a rovescio? E chi è quell'altro talto
smorfie e vezzisguaiati che rassembra un maestro di ballo? Fil. Questi sono
l'insegnamento e l'incivi limento ; sono fratelli carnali , e amici tan to
sviscerali che non vanno mai uno senza dell'altro. Cer. L'insegnamento
el'incivilimentouna volta erano persone di garbo e godevano buon nome, ma
bisogna dire che l'aria del paese della filosofia abbia la prerogativa di
corrom pere tulle le cose buone, perchè questi due cbe si avanzano hanno la
cera d'impostori e birbanti. Fil. Al contrario:questisonoilfiorede' galan l’uomini
e senza di essi non si potrebbe stabiliregiammaiil regno della Filosofia.Ve
nite avanti , signori, facciamo i nostri patti, e poi andale subito ad
ammaestrare ed inci vilire i Popoli della mia nuova cillà. L'Ins. Parlate
pure perchè noi siamo pron . fi ad eseguire tulli i vostri comandi. Fil. Prima
di tulio bisogna incomincia re dall'insegnamento, giacchè la diffusione de lumi
è quella appunto con cui si olliene Fil.Dibò,oibo.Tutti
vidico,tuttiquanti sonogliuomini, tüllidevonoessereammae strati e civili. Cer. Ma,echicifarà
poilescarpe, Fil.Oh bella! nel nostro paese come in tutti gli altri ci saranno
i calzolari, i cuochi, e i facchini. Cer. E pretendete che gliuominiinciviliti
e genlili si preslino volentieri agli uffizi bassi della società , e che anche
i guatleri , i cia vallini e i mozzi di stalla debbano essere fi. losofi ,
letlerati e dottori ? Fil. Tant'è; questo è il voto prediletto della filosofia,
e senza questo non si può archi scoperà le strade, e chi attenderà alla cucina?
la diffusione della civillà.Voi dunque , signor Josegnamento , dovete mettervi
in testa d'in segnare a tutti di rendere tulti eruditi , let terati e saccenti,
e di fare in modo che non ci resti un solo ignorante e sempliciano in talla la
nostra filosofica dominazione. Cer: Piano un poco, madonna Filosofia, Voi
vorrete dire che si ammaestrino e si coltivi no nelle scienze tutti quelli che
dalla natura, dallalorocondizionee. Dagli ordinamentiso. ciali sono destinati a
trarne vantaggio e di letto per se medesimi,e a rendersiutilicol
lorosapereallasocietà; ma quantoalleclassi del basso volgo che la natura e
lacondizione destino agli esercizi rustici e grossolani , que stinon vorrete
che apprendanoquelledottri ne le quali non servirebbero ad altro che a renderli
oziosi,indocili e scontenti diseme desimi , e gravosi e molesti agli
altri. rivare alla diffusione generale dei lumi,e al
l'incivilimento universale del mondo. Cer. Facciamoci a parlar chiaro. Qualora
si giungesse ad ottenere questo incivilmenlo universale tanto raccomandato dai
vostri scon siderati seguaci , qual utile ne verrebbe per un grandissimo numero
d'individui , e qual utile ne verrebbe per tulto il corpo sociale? Fil. A dirla
schiella per moltissimi indivi dui sarebbe meglio restare nella loro rusticità
e semplicità, giacchè una infarinatura di dot trina non può servire ad altro
che ad empir- ' gli la testa di errori e a renderli scontenti del loro basso
stalo,e così la società in generale sarebbe più tranquilla col suo popolo di
vil lapi ignoranti , e col suo popolo di artegiani contenti di sapere quanto
basta al rispellivo mestiere.Quello però che conviene agli indi vidui e alla
società non conviene alla filoso fia , la quale vuole il movimento e non vuole
la quiete , vuole il susurro e lo scandalo, e non l'ordine e la tranquillità.
Se predicando l'incivilimento e la collura tutti gli uomini p o lessero
giungere alla vera sapienza, che con siste nella cognizione della verità e nel
do. minio dellepassioni;ecosìsepotesserogiun gere alla vera civillà cbe
consiste nella m o rigeratezza dei costumi e nella custodia dei modi
convenevoli al proprio grado , la filoso fia non vorrebbe saperne niente e
prediche rebbe contro la diffusione dei lumi e della ci viltà. Siccome però è
certo che la grande plu ralità degli uomini non arriva alle perfezio ni , e che
ostacoli insormontabili naturali e civili si oppongono alla troppa
diffusione dei lumi e della civiltà, così è certa che la propagazione smodera la
dell'ammaestramento e dell'incivilimento empirà il mondo solamente di mezzi
dolli , di scioli , di sapulelli teme rari e presuntuosi, iqualiappunto ci
voglio no per secondare la grand'opera della filoso fia.L'uomo grossolano e di
buona fede crede più al curato che alle pappole dei liberali,e rispellando e temendo
il sovrano non pensa , neppure quando si trova ubriaco , di essere esso stesso
un sovrano.Chi non sa leggere o non presume un poco di letteratura e di ci
villà non legge le gazzelte e non modella il suo modo di pensare sui giornali e
sui liber coli della propaganda;e senza le gazzelle,senza i libercoli e senza
igiornali,come si rendereb bero fuoridimoda iprecettideldecalogo eil calecbismo
del Bellarinino ? e dove si trovereb bero gli uomini e le sassale per atlerrare
le croci,per abballereitroni,eper fareleglo riose giornate?Vedete
dunque,carocompare Cervello,che la filosofia non opera senza cer vello, e che
sa ben essa cosa vuole quando predica la diffusione dei lumi,e della
civillà. L'Inc. Orsù , non perdiamo
più tempo perchè io muoro di voglia d'incominciare la mia missione , e di
andare a diffondere i lumi e la sapienza del secolo. Ditemi piutlo sto quali
scienze vi piace che vengano inse goatea preferenza, equalilibricredeleme glio
adattati per affascinare la mente e cor rompere il cuore della gioventù. Fil. Quanto
allescienze, generalmentepar: L'ins. Ho capito bene quanto alle
scienze e lasciatevi pure servire;e quanto ai libri co me dovrò regolarmi? Fil.
Tutti i libri che mettono in ridicolo i preti , i frali, la chiesa e le
pratiche della chiesa;tulli quelli che parlano contro l'aulo rità del Papa e
dei principi; e lulti quelli che trattano scopertamente ovvero copertamen. te
di materie scandalose e lascive lusingando > > . 120 lando , potete
secondare il genio dei giovani, purchè avvertiate sempre di oscurargli la verità
e di allerare nel loro cuore igermi della virtù. Parlando poi specialmente, le
vostre lezioni più frequenti devono essere sulla m e tafisica e su i dirilli
dell'uomo , le quali scienzc adoperate dalla filosofia liberale riescono
benissimo adattate per diffondere le dollrine dell’empielà e per suscitare lospiritodellale.
merità.Sevoinon capilenientedimelafisica, importa poco; purchè viriesca d'imbrogliare
la testa dei vostri allievi,di farli dubitaredi fattoediridurlianonsapere,seilmondo
fu l'opera di un essere necessario, ovverouscì dai vorlicidelcaso, comeesconoilerniele
cinquine del lotto e se essi medesimi sono animali viventi , oppure ciolloli
del torrenle o ravanelli dell'orto. Così se di dirillo natu. rale e civile non
ne sapele un acca, queslo purenon importa niente, purchèivostridi scepoli
ubriacali coi vostri sofismi rimangano persuasi che la ragione delle genti
consiste nella libertà, nell'uguaglianza,nella sovrani tà del popolo e nel
diritto sacro d'insorgere contro i re e di fare le gloriose giornate.L'Ins. Ho
capito tutto a meraviglia, e vado subito a mettere in pratica le vostre
lezioni. Immagino poi che l'ammaestramento dovrà farsi sempre in lingua
volgare. Cer. Come ! Nelle scuole filosofiche non si dovrà più usare la lingua
latina? Fil. Signor no che non si deve usare, per chè questa lingua già morta è
stata abiurata e ripudiata dalla filosofia,e a poco a pocoè d'uopo sbandirla
affallo non solamente dalle scuole, madatutto il commercio letterario
sociale.Che ragioni avele voi,compare Cervello, per desiderare che venga
conservato l'uso della lingua latina? gli appelili e scatenando la furia
delle pas sioni, tutti questi libri generalmente grandi
epiccoli,inversieinprosa,anlichiemo derni, lulti sono altrettanti evangeli
della filosofia, e lulti vi serviranno meravigliosamente per diffondere i lumi,
per incivilire la società, o sia per ridurre iullo il genere umano una massa
abbominevole di corruzione.Per re golarvipoineicasi particolari voi dovete
scegliere un buon giornale letterarioilqualesia scrillo con erudizione e con
grazie per ac cappiare meglio imerlolli,ma ildicuivero fine sia la
rigenerazione filosofioa, o voglia mo direl'assassiniodel mondo. Alloraandate a
colpo sicuro e non polele sbagliare,perchè è quasi impossibile che un libro
lodato da quel giornale non abbia il suo veleno e non possa servirvi in qualche
modo a sollecitare il pervertimento degli uomini. Fil. Questo già s'intende
senza nemmen o parlarne . Cer. Le ragioni che raccomandano la con servazione e
l'esercizio della lingua latina sono mollissime, mavenericorderòdue princi
pali,le quali dovranno venire riconosciule da chiunque non abbia ripudialo
l'uso della ra gione. In primo luogo la lingua latina, essen do la lingua della
chiesa e delle scienze, vie pe inseguata e diffusa in lullo il mondo , serve a
legare tutle le nazioni del mondo coi vincoli religiosi e letterarî, civili,
commer ciali e sociali. Perciò sbandire l'uso di questa lingua universale e
comune sarebbe lostesso che rinnovare la confusione di Babele, e lo gliere alle
nazioni il modo d'iolendersi l'una con l'altra ut non audiat unusquisque vocem
proximi sui. In secondo luogo è necessario appunto l'uso di una lingua morta
per custo dire le tradizioni , i monumenti e le opere delle lingue viventi
,perchè quella si conser va sempre immutabile,passando direttamente dagli
scrilli dei nostri anlichi padri fino al l'intelligenza nostra e alle nostre
calledre, lad dove le lingue volgari regolate dalla moda, allerale dal
mescolamento di voci nuove 0 straniere , e logorate e guastale dall'uso ,
si mulano e s'invecchiano giornalmente,ebasta il corso di pochi secoli per
soltrarle all'intel ligenza comune.Di falli mentre tulli glisco lari intendono
il latino di Cicerone e le ope re scritte in latino dieci secoli addietro dagli
italiani , dai francesi , dai goli e dagli arabi , i libri scritti in ilaliano
e in francese sei o sette secoli addietro sono diventali arabici e golici , e
non si possono intendere senza distil ė Fil.Ma noncapitechelalingualatinac'in
comoda precisamente per questo , e che vo gliamo levarcela di altorno appunto ,
perchè è la lingua dei preli e della chiesa ? Finchè quel corpo gigantesco
della dottrina ecclesia stica resterà in piedi , vantando diciotto se. coli d’inalterata
antichità , i preti e i frati , i vescovi , i papi e i cristiani ce lo sbatte
ranno sempre sul viso ; le dottrine della filosofia saranno sempre
subissatedaquellamas sa; e gli eretici e i filosofi liberali verranno sempre
riconosciuti come apostati e disertori dalla dottrina dei padri e dalla luce
della ve. rilà e della ragione. Quando però la lingua latina non sarà
conosciuta più da nessuno, e quando la bibbia e l'evangelio, la collezione dei
concili e delle decretali, e la bibliotheca patrum avranno servilo per
accendere il fuoco e per involtare il salame, allora saremo tulli del paro; la
parola di un prele edi un papa varrà quanto quella di un filosofo liberale, e
allora si potrà liberamente rigenerare il mondo secondo il gusto della
filosofia. Cer. Non può negarsi che l'angelo della malizia non vi abbia dato un
suggerimento larsi il cervello è senza il soccorso malsicuro dei commenli.
E sevenissedisprezzatoequasi eli minato l'uso della lingua lalina,chi garanti
rebbe l'autenticità e l'intelligenza delle scrit ture divine ? e cosa
diventerebbero i canoni dei concili , i placiti dei pontefici, le opere dei
padri e dei dottori, e tutto il corpo a u gusto e maraviglioso della dottrina
del cristia nesimo ? giudizioso e veramente da suo pari , ma in primo luogo è
assicurato dall'alto che le po lenze alleale dell'inferno e della filosofia non
prevaleranno contro la chiesa e contro le dot trinedellachiesa, e in secondo
luogoi go verni conoscendo l'ulililà della lingua latina e sospettando sulle
trame della filosofia non permetteranno mai l'espressa o tacita abolizione di
quella lingua. Fil. Non sapete che i governi si lasciano menare per il naso, e
che con lutti gli edilti e con tuttele scomuniche il regime degli stati resta
sempre a disposizione dei liberali? An zi in questi ullimitempi on governo il
qua le più di tutti gli altri dovrebbe essere in leressato a sostenere la
lingua latina l'ha discacciata dai tribunali dove aveva regnalo pacificamente
per due dozzine di secoli ,e con ciò le ha dato un grande incamminamen lo verso
l'ultima sua rovina. Cer. Questo certamente è stato un passo falso
carpito dai clamori dei liberali e da quel maledetto giusto mezzo nazionale e
straniero, che presume di salvare la casa aprendo la porta ai ladri :e una tale
concessione rub bata dalla violenza e falta contro la volontà, è appunto una di
quelle riforme che bisogna guastare, se non si vuole che l'ardire della
filosofia e i danni religiosi e sociali diventi.
nosempremaggiori.Siateperòcertachepo co prima o poco dopo le ossa si rimelteran
no al loro poslo, la lingua lalina sarà rista bilita nei tribunali , e con
questo neppure i litiganti faranno nessuna perdita, essendo
indifferente per essi che gli alli giudiziali si facciano in volgare
ovvero in lalino. Fil. Credete forse che i liberali non lo co noscano e che
vogliano la lingua volgare nei tribunali per l'interesse e per ilcomodo dei
litiganti? I litiganti stannoin mano degli avvocati e dei procuratori come gli
ammalati stanno in mano dei medici e degli speziali ; e siccome per gl'infermi
è lull'uno che le ricelte sieno scritte in latino ovvero in vol gare ,
giacchèin qualunque modo bisogna che prendano il beverone sulla parola del dot
tore e sulla fede del farmacista , così litiganti è lo stesso che le citazioni
e le cause si scrivano nell'una ovvero nell'altra lin. gua , giacchè alla fine
dei conti devono sem . pre fidarsi dei loro difensori e dei loro cu riali.
Abbiamo però altre buone ragioni per desiderare sbandita la lingua latina dal
foro : Fil. La prima è quella ragione generale di cui già abbiamo parlato,giacchè
tollialla lingua latina i tribunali si toglie a questa lingua il cinquanta per cento
della sua importanza e della sua familiarità , si rende sempre più sconosciuta
e straniera,e si spin ge a gran passi verso il suo totale deperi mento. L'altra
poi è quella di dilataremag giormente l'incivilimento aprendo la carrie ra
forense, l'accessoai tribunali,a e tutti gli impieghi giudiziali a qualanque
sortadim a scalzoni. Imperciocchè dove gli alti giudi ziali si faranno sempre
in latino, dove ico. dici e i commentari saranno scrilti in la per i Cer.
E quali sono queste ragioni? tino, e dove il foro sarà chiuso per chi non ha
sludiato illatino,icursori,iprocuratori, i curiali , gli avvocati e i
giusdicenti nelle proporzioni rispettive avranno sempre un poco d'educazione e
di dottrina,saranno per sone bennale e non saranno ciallroni cavali dal fango,
e somari calzali e vestiti.Quando però sarà levato l'ostacolo insormontabile di
quella lingua , gl'impegni , le protezioni e la cabala faranno il resto; il
foro, i tribunali e le sedie del pretorio saranno aperte a tutti gli asini e a
lulli i facchini;e la piena del l'incivilimento correrà senza ritegno a diffon
dersi sopra tulla quanta la canaglia sociale. Vedo già, compare Cervello, che
le mie ra gioni vi hanno lasciato a bocca aperta,e per cið senza altre
chiacchiere, voi signor Jo segnamento, andate a prostituirvi in volgare nella
città della filosofia, e a diffondere spie tatamenteilumie la peste sopra
tutteleclassi del popolo; e voi signor Incivilimento, venite avanti a ricevere
la vostra lezione. L'Inc.Eccomi a ricevere le vostre istruzioni e i vostri
comandi. Fil. Prima di tutto dovete avvertire di non lasciarvi sedurre dal
vostro nome, persuaden dovi, che la civillà di adesso non deve essere come
quella di una volta, e che l'incivilimen. tonel regno della filosofia ha da essere
ilfra. tello carnale dell'insegnamento,regolato secon do i precetti della
filosofia. L'Inc.Spiegatevi pure chiaramenteenon mi allontanerò dai vostri
precetti. Fil. Una volta adunque la vera civiltà con. e L'Inc. Ho
capito benissimo,e non dubitate che sarele servila. Fil. Inoltre una volta la
decenza e la m a gnificenza del portamento e del vestiario era no
l'indizioelagaranzia dellaciviltà,ma oggi la decenza e la magnificenza non le
vogliamo più , e la civillà presente deve consistere nel ripudio della decenza
e della magnificenza. Per ciò accreditate pure la moda e lasciate pure
cheigiovaniconsuminoiltempoeildenaro, sludiando sul figurino e riformando il
vestito una volta per settimana,ma quando si viene alla conclusione, un'abito
d'arlecchino , una balla di pelo sul volto e un sigaro nella bocca sieno sempre
il vestito di gala e il gran co slume accreditato dalla civiltà. L'Inc. Ho capito
anche questo e non dubi tate che sarete servita. Fil. Per ultimo,una volta il
modello della civillà erano le corli e igran signori,e ipro.
sistevanell'onesláen el pudore;maoggique ste cose non servono , e al più si
deve con servare l'apparenza dell'onestà e l'affeltazione del pudore. Percið
scansate con qualche cura le inverecondie sfacciate e i discorsi d'oscenità
dichiarata e brutale , predicando per lutti gli angoli che queste riserve sono
il frutto della civiltà , m a rendele poi familiari negli scritti e nei
trattenimenti sociali le allusioni impu diche,ifrizzilascivi,ledanze
seducentiei sali e i motteggi dell'empietà, e queste allu sioni e
questifrizzi,questi motteggi e queste tresche siano per opera vostra il vanto e
il diletto delle più colle e delle più civili società. L'Inc. Hocapito
tullo,vadoaservirviin tutto,efrapocotuttoilmondodivenleràuna gran beltola per
opera della civiltà. Fil. Andate pure , e vi accompagnino cou
lelorobenedizionituttigliangeli custodidella filosofia. N Cervello, la Filosofiae
il Cullo. Fil. Cosane dite,compareCervello?Mi pa re che la nostra fondazione
vada riuscendo a meraviglia, e che la città di Filosofopoli non sarà scarsa di
abitatori. Cer. Credo bene, che coi privilegi accordati dalla filosofia, nel
suo paese non ci sarà scar sezza di cilladini;ma sospello che una selva gressi
dell'incivilimento spingevano ad imitare i modi e le costumanze dei grandi , ma
oggi la civiltà deve consistere nel giusto mezzo , e l'incilimento deve
esercitare il doppio uffizio di esaltare gli umili e di umiliare sempre i
superbi. Voi dunque , andando sempre contro natura,dovele mettere in
tuttiifacchini la vo. glia e la superbia d'imilare i signori , e d o vele
meltere in tutti i signori il prurilo e la viltà d'imitare i facchini , siccbè
queste due estremità sociali s'incontrino nei caffè e nei bordelli, passeggino
a bracciello nelle strade, e avvicinate e amalgamale2,per opera vostra
costituiscano una sola famiglia filosofica,o vo gliamodire,una sola canaglia
sociale.E que. sto è il risullato definitivo cui devono sempre mirare la
diffusione dei lumi e della civillà. abitata dagli orsi sarebbe meglio di
una città regolata con questi principi e conqueste leggi. Fil. Non lo conosco
neppur io,e dubilo che sia qualche mallo,ma adessoloconosceremo. Galantuomo
venite avanti, e dile chi siele e che desiderate. Fil. Cosa sono tutti quegli
imbrogli e tutte quelle vesti nelle quali siele imbacuccato ? Fil. Voi vi
ostinale apensare all'antica, mi la grandissima meraviglia che il n 1 0 vo
pensare del mondo ancora non vada d'ac cordo col cervello.Noi per altrofaremo
tan to e diremo tanlo finché a poco a poco an che il Cervello perderà le sue
abitudini di una volla,enon glidarà l'animodivederelecose con altri occhiali
che con quelli della filosofia. Jilanlo atlendiamo a quelli che seguitano a
presentarsi per entrare nel nostro regno. Cer. Cbi sarà mai costui ilquale
siavan za foggiato in tanti modi, e ammanlalo con lanta varielà di vestiti che
si prenderebbe per un buffone ovvero per una cortegiana? Culto. Io sono il
Culto e vengo a prendere servizio nella vostra nuova cillà. Fil. Veramente i
veri filosofi non sanno che farsi di voi,e quando il mondo sarà lullo il
luminato polrele cercarvi un alloggio nel di zionario della favola . Finlanlo
però che non si olliene una vittoria intiera contro i pregiudi zi volgari vi
terremo come un servitore pro visorio,eservireleper trastullareilpopolo e per
fare ridere le persone civilizzate. Culto.Giacchè oramai per me non sitrova di
meglio, bisognerà contentarsi di questo, e verrò provisoriamente al vostro
servizio. Cullo. Sono gli ordegni,e gli abili del mio mestiere, eliboportati
di diversesorteper adaliarmi a quel Culto che vorrelé stabilire nel vostro
paese. Fil. Quando è così avele falto bene a por tarvi una bottega di ordegni e
un guardaroba di paludamenti,perchè nella città della Filo sofia deve esserci
libertà amplissima per tutti i culti. Cer. Come! Nel vostro paese voleleammel
terci tolti i culii ? Cer. Perchè la veritàèunasola,emet terla del pari con l'errore
è lo stesso che ri pudiarla. Il Cullo consiste nel professare una religione
enell'osservarne iprecetti,lepra tiche e i riti; e siccome una sola religione
può esser vera e tutte le altre devono essere false , così un solo cullo può
essere sauto e gralo a Dio, e lulli gli altri devono essere allrellanle
imposture e mascherate , ridicole agli occhi degli uomini e oltraggiose alla
maestà di Dio. Fil. Per adesso non ho voglia di entrare in discussioni di
leologia e di scandalizzarvi con le doitrine filosoficheintornoalla religio.
ne.Di questoparleremo a suo tempo,ma in tanto dovele considerare che il
fondamento della filosofia liberale è la libertà, che la principale di tutte le
liberlà è quella della coscienza, e che una città dove non ci fosse la libertà
della coscienza e del culto non p o Fil.Giàsisa, olullio nessuno.Percbè
si dovrebbe usare parzialilà e sceglierne uno. facendo torto agli altri ?
trebbe essere la citla della Filosofia. Orsù dunque, signor Culto, entrate
pure nella mia residenza con tutti i vostri ordegni e con tutti i vostri
vestiti: credele quello che vi pare, operate come vi pare , e incensate quel
che vipare,che ditutto questo ame non im porla niente. Cul. Quando è cosi vengo
subito ad inca sarmi nel vostro slalo,e vi conduco tutto il mio seguito. Fil. Chi
è tutta questa gente dalla quale siele corteggiato? Cul. Sono tulte persone di
diverse religio pi,didiversiculti,lequalivengonoago dere i vostri favori,
accettando la tolleranza e la libertà. Falevi avanti signori un pochi per volta,
e venile a ringraziare la signora Filosofia e a dirle qualche parola sulle vo
stre rispettive dottrine. È giusto che essa sappia che venite a fare in casa
sua. Fil. Queslo veramente non è necessario , percbè nei paesi della filosofia
ci è il datur omnibus , e ciascheduno può fare di ogni er. ba un fascio.
Nulladimeno questa specie di rassegna ci servirà per ridere come le vedu te
della lanterna magica. Chi siele dunque voi cbe venite avanti di tutti ? Tur.
lo sono un turco , e la religione dei turchi è la più comoda di lulle. Pensiamo
a mangiare a bere e dormire, e per l'avveni resaràquelchesarà.Intantoviviamo vo
luttuosamente nei nostri serragli , come vi vono i galli nel pollaio e i becchi
nel peco rile, e la dollrina del padre Maometto ciassicura che troveremo
pollaie pecorili ancora nell'altro mondo , e che l'abbondanza delle galline e
delle pecore sarà il guiderdone del. la virtù. Fil. E pure, compare mio,questa
mi sem bra una religione più comoda e più giusta di tulle le altre. Anzi a
dirla schietta , questa , poco più poco meno , è la religione dei fi losofi
liberali, i quali non sanno capacitarsi, perchè non debba essere accordata alli
due sessi del genere umano quella libertà che si godono ibruti animali.
Esaminate pure e analizzate quanto volete le doltrine e i sofi. smi del secolo
illuminato , il libertinaggio animalesco libera è il compendio di lulti i voti
e lo scopo principale del liberalismo. Per questo mondo un pecorile o vogliamo
dire un serraglio , e per l'altro sarà quel che sarà: in quesso consiste tutto
l'evangelio della filosofia.Voi dunque,signor Turco mio caro, entratepurenellamia
nuova cillà , esercitatevi il vostro culto liberamente, e non dubitale che i
pollai , i pecorili e i porcili non saranno mai perseguitati dalla fi losofia.
E voi che venile appresso chi siete ? Dei. Io sono un Deisla e credo che ci sia
un Dio , ma siccome non so cosa vuole questo Iddio, non m'intrigo nè di culli,nèdi
religioni,nèdicomandamenli,emi vado regolando alla meglio secondo il mio giu
dizio. Cer. Basta non esser bestie per conoscere che questa è una
religioneeuna dottrinada bestie Fil. Anche questa dottrina non mi dispia. ce e
si può accordare molto bene con la fi losofia. Imperciocchè un Dio il quale
cred il mondo per passatempo e poi lo lascia anda re senza pensarci più , e non
gli volge mai nè uno sguardo , nè una parola ; questo Id dio è come se non ci
fosse , si può benissi mo riconoscerlosenzaempirsilatestadipre giudizi , e la
dottrina del Deismo non con trasta con quella del libertinaggio e del pe
corile.Perciò,signor Deista,siateilbeuve nuto con tulli i vostri compagni , ed
entrale pure a stabilirvi vei domini della filosofia. Avanti dunque un altro.
Chi siete? Aleo. lo sono un Ateo e non credo all'esi. stenza di Dio. Non so se
il mondo è elerno ovvero se incomincið casualmente per una combinazione
fortuita della materia ; non so se ha durare sempre questo mondo , ovvero se
col tempo prenderà qualche altra figu ra , e non so cosa sia l'uomo e se finirà
di essere quando finirà di muovere le gambe : ma so che chiudo gli occhi per
non vedere nell'esistenza degli esseri e negli ordini del la natura la mano di
Dio , e a dispetto di tutte l'evidenze e di tutti i raziocini , voglio dire che
non c'è Dio. Fil. Quanto a questo ognuno è libero di credere e di direquello
che gli pare; e inol tre se il Dio dei deisti ha da essere un Dio senza braccia
e senza lingua come se fosse di s'ucco, l'essere Ateo e l'essere Deisla è una m
e desima cosa . Sopra tutto quando la dottrina degli atei ci lascia il pecorile
, o il sarà quel che sarà , può accomodarsi benissimo con la dottrina della
filosofia. Entrate dunque voi pure a godere la tolleranza e la protezione filosofica,
e venga avanti chi siegue.Chi sie te voi? Ido. Io sono tutto al contrario di
quelli che mi hanno preceduto,giacchè insieme coi miei compagni riconosciamo un
diluvio di divini tà e facciamo professione d'idolatria. Noi a doriamo il sole
e la luna, gli animali, i sas si e le piante ; ci facciamo le divinità di le
gno e di cocco , e onoriamo con gli incensi į galli, i sorci e le lucerte , è
fino le cipolle e gli erbaggi dell'orto, Cer.Comare,questo è un branco dimatli,
e immagino che non vorrele riceverli nel vo. stro paese. Fil. E perchè no
? Questa povera gente non fa nè bene nè male, e se la idolatria non è secondo i
dellami della filosofia, almeno non riesce molesta alla filosofia. Anzi al Dio
M e r curio protettore dei ladri, nel regno dei filo sofi non mancheranno
adoratori ,e a quella cara Venere, deessa della voluttà si dovreb bero erigere
altari in luttiicantonidelmon do. Ditemi un poco galantuomo : suppongo che la
morale di tutti voi sarà abbastanza rilasciata , e che contro il libertinaggio
non ci avrete niente che dire ? Idol. Potete immaginare cosa debbano es sere la
morale e i costumi dove le divinità sono lavorate nelle botteghe dei falegnami
e degli sloviglieri. Nulla dimeno il fanalismo e l'imposlura si intrudono per
lullo sotto lea p Ris. Noi siamo riformati e protestanti, lu
terani, calvinisti, zuingliani,anglicani, quac queri, puritani, presbiteriani;
insomma fra di noi ci è di ogni sorta un poco, é venia mo
astabilireinostricollinellavostranuo. va città. Fil. Immagino che sarete tuiti
quanti per suasi di essere una gabbia di matli , e co noscerele che essendo una
sola la verità, la maggior parte almeno di voi altri deve esse re lontana dalla
verità. Rif. Certo che a parlare sul sodo la veri tà non può trovarsi fuorchè
in una sola dot trina, e lo stesso tollerarci che facciamo con indifferenza uno
con l'altro è una prova che siamo tulli quanti fuori di strada. Per que. sto se
ci mettiamo a predicare e fare i zelanli ridiamo di noi medesimi e conosciamo
di reci tare in commedia, ma l'interesse, il comodo parenze della pielà, e
anche noi abbiamo i nostri sacerdoti e le nostre vestali, e abbia mo i nostri
penitenti e i nostri continenti. Fil. Tanto peggio per essi ; e poi ognuno ha i
suoi gusti, e noi non dobbiamo inquie tarci se i Bonzi e i Dervis vogliono
digiuna re e scorlicarsi in onore delle loro divinità. Quelle credenze e quelle
pratiche religiose che non disturbano la società devono essere accolte e
protette nel regno della filosofia. Andale dunque tutti liberamente ; incensate
quanto vi pare sorci, gatti, porci e somari, e vivele si cuci della nostra
filosofica fraternità. Adesso venga avanti chi seguita.Che cos'ètutta que sta
turba di gente ? Rif. Per ultimo il nostro clero è disinvol. to e
sociale e non intende di rinunziare alle soddisfazioni della natura ;
perlocchè, abbia mo in abbondanza pretesse,curalesse e ve scovesse, e se fra
noi ci fossero il papa e i cardinali avremmo ancora le papesse e le
cardinalesse. Eb. Io sono un Ebreo, e insieme coi miei compagni vogliamo aprire
le nostre sinagoghe nei vostri domini. e l'impegno ci conservano nel
nostro rispet livo partilo, e quanlunque fra di noi venia mo spesso a capelli
siamo sempre d'accordo in quanto a mantenerci disertori dalla Chiesa romana.
Fil. Questo è benissimo fatto,perchèvo lendo godere i privilegi dell'errore , e
non volendo assoggettarsi alle seccature della ve. rità è d'uopo lenersi
lontani da quella dot tora che presame d'insegnare essa sola la verità. Rif.
Inoltre non abbiamo nè scomuniche, nè frati, nè confessionari, e conoscele bene
che questa è una grandissima comodità per la vila. Fil. Sicurissimamente; e
levato quel tram pino del confessionale, il libertinaggio non si contrasta più
da nessuno, Fil. Bravissimi, bravissimi , e questo si chiama essere cristiani a
buon mercato: pro priamente secondo il gusto della filosofia. Entrale dunque
anche voi col vostro mezzo evangelo , perchè lanto è mezzo quanto è niente, e
venga avanti chi resta. Fil. Senlite, figliuoli miei, nel regno della
filosofia ci deve essere senza dubbio il luogo per lulli,ma voi altri giudei
avevale tanti pregiudizi e tante pretensioni che non so se starele d'accordo
cogli altri, e non vorrei che mi melteste sussurri. Eb. Levatevi pure ogni
dubbio,perchè gli ebrei di adesso non sono più di quelli di pri m a , e anche
noi abbiamo ripudiato Mosè con tulli li patriarchi per arruolarci sollo le in
segne della Filosofia. Ci resta un poco di cir concisione, perchè ce la ficcano
quando non possiamo parlare, ma questa non si vede,e in tull'altro siamo una
vera canaglia , nata fatta per venire a figurare nei vostri paesi. Fil.Questo anderebbebene,
ma intanto puzzatecenlo miglia lontano, non vorrei che facesle venire il vomilo
a lulli i miei popoli. Eb. Neppur questo è vero,perchè oggi nei paesi meglio
civilizzati noi siamo il fiore della nobillà, veniamo ammessi nelle corti ,
portiamo titoli e decorazioni, trattiamo fami gliarmente coi signori,e se
volessimo degnar. cene faremmo ancora i nostri parentali coi gran signori.
Fil.Quando è così entrale pure anche voi, fate le vostre sinagogbe,
circoncidetevi a modo vostro,e non dubitale che non vimanche ranno libertà e
protezione nel regno della fi losofia. E voi che siete rimasto cbi siete ? Cat.
Io sono un cattolico , e insieme coi miei compagni desideriamo di professare
li 137 e per ultimo Cat. Eperchèmaiinunpaesedovesifa professione di
ammettere tutte le religioni e tulli icalli, la sola religione cattolica dovrà
essere esclusa ? Fil. Perchè voi altri cattolici siete intol leranti. Cat. Ciò
non è vero nel senso in cui voi lo intendele , e non polrete provare in nes sun
modo cbe noi siamo intolleranti. Fil. Non è forse vero che pretendete di es
sere i soli a credere e insegnare la verità , che fuori della vostra chiesa
lulli sono p o veri ciechi deviati dalla strada della salute ? Cat. Questo si
chiama essere conseguenti e non già essere intolleranli ; imperciocchè al di là
della verilà non può trovarsi niente al iro fuorcbè l'errore,e chiunque è
persuasodi trovarsi nella strada della verità deve essere ancora persuaso che
quelli i quali cammina no fuori di quella strada procedono nella via
dell'orrcre.Anzi perconvincersi cheiseguaci delle altre religioni sono lungi
dalla verilà basta solo considerare qualınente essi accor dano che anche fuori
delle loro dottrine si trova la verità. In conclusione poi noi non costringiamo
nessuno a farsicattolico perfor za,compiangiamo enon perseguitiamoquelli che
vivono in un'altra credenza , e neppure ci vendichiamo quando veniamo
oltraggiati e beramente nei paesi della filosofiala religio ne callolica.
Fil. Un cattolico! un cattolico!e avreste la presunzione di stabilire nel regno
dei filosofi la fede e il culto cattolico? e perseguitati ; perlocchè in
luogo di essere in tolleranti , noi fra tulti í credenli siamo i più mansueti e
i più tolleranli. Fil. Inoltre voi vorreste empire lo stato di monache , di
frati e di claustrali di tutti i colori,e queste associazionie corporazioni non
vanno a genio della filosofia. Cat. Ma , se è vero che nei paesi costituiti
filosoficamente, ognuno deve godere amplissi ma liberlà,perchèalcuni
uominiealcune donne unanimi nel pensiero , e animali dallo stesso desiderio ,
non potranno albergare in una medesima casa,vestire un medesimo abi to , vivere
come gli pare e godere anch'essi la loro libertà? esegiusta i principi della
vostra tolleranza non podresle escludere dal vostro regno i Bonzi dei Cinesi e
dei giappo nesi , e i Dervis dei maomettani , perchè lo vostre esclusioni
saranno riservate privaliva mente per i soli frati cristiani ? Fil. Tutta la
vostra capaglia di frati vuol vivere senza far niente e campare a spalle degli
altri. Cat. I preti e i frati callolici predicano la parola di Dio, istruiscono
la gioventù , so stengono il ministero del culto , assistono gli infermi ,
consolano i moribondi e tutto questo dovrebbe essere qualche cosa ancora agli
oc chi della filosofia ; e quanto al vivere a spe sedeglialtri, forseinostri
prelieinostri frati campano per forza , assassinando i pas saggieri in mezzo
alla strada ? forse i predi canlieisacerdotidellealtrereligioni rice vono il
villo e il vestito dalle nuvole e non 1 $ Fil. E non contate
per niente il celibato del vostro clero il quale naoce alla socielà col
l'impedire la molliplicazione del popolo?
Cat.Sarebbefacileildimostrarvichelapro sperità di uno Slalo non consiste
nell'eccessiva moltiplicazione degli abitanti, ma bensì nella giusta
proporzione fra le risorse nazionali e il numero della popolazione. Senza però
entrare in queste discussioni, e seguendo solamente i canoni della libertà ,
forse secondo le regole della filosofia sarà libero ai lurchi di avere cento
mogli, e non sarà libero ai preti callo. lici di vivere senza moglie? E forse
sarà li bero alle infami dicongregarsiaviverein un bordello, e non sarà libero
alle vergini cri sliane di chiudersi in un convento per prega re il Signoree vivere
lontane dal bordello? Fil. Dite pure quanto volele, ma quel vo stro culto è
troppo serio , troppo pubblico , troppo pomposo e solenne, e non può essere mai
gradito nel regno della filosofia. Cat. Nelle terre del paganesimo,e dovela
religione callolica èappena conosciuta, sappia mo contenlarci di esercitare il
nostro culto privatamente,ma inquelleterrecristianein cui la religione
cattolica è la dominante , ov. Vero è la religione dello stato, o al meno è la viene
ad essi somministrato dai rispettivi credenti? O forse ci sarà libertà di
donare ai conventi di Dervise di Bonzi, alle moschee, allepagode, allesinagoghe,
epoifarelaca rità alla chiesa e ai ministri della chiesa sa rà contrario alla
filosofia e ai dellami della natura? religione della maggior parte dei
nazionali, sarà giusto che si eserciti con pubblicilà o con solennità il culto
dominante, ovvero il culto dello stato, o almeno il culto della maggior parte
dei nazionali. E poi non avete voi proclamala la libertà dei culti, e non avele
dichiarato cbe quelle credenze e quelle pratiche religiose le quali non
disturbano la società, devono essere accolte e protette nel regno della
filosofia? Ebbene. Noi stiamo alle vostre parole e non vi domandiamo niente di
più. Fil. Dite pure esfiatatevi quanto volele; in ogni modo. Cer. Ma via,comare
mia ;questa vostra mi Fil. Perchè non vogliovo accordare il libertinaggio.
Tant'è : il libertinaggio è la con clusione di tutti gli argomenti e il
lapisphi. losophorum della filosofia;e chi non l'accorda il libertinaggio avrà
sempre ipimici i filosofi liberali e la filosofia.Voi dunque,signor cat.
tolico, avete inteso, e oramai sapete come vi dovele regolare. Se volete
accordarci que sla bagallella entrate pure nei nostri paesi con tutti i vostri
frati, col vostro cullo e col 1 pare una perfidia, e si vede che volele pro
priamente chiudere gli occhi alla ragione. Fil. Cosavoletefarci?Argomentate pure
e convincetemi di contraddizione quanto vi pare, i filosofi liberali non si
accordano mai coi cattolici , e non li possono vedere. Cer. E perchè tutto
quest'odio e tutto que slo controgenio? Fil. Volete saperlo veramente il
perchè? Cer. Dite pure e sentiamo. vostro evangelo , perchè accomodata quella
piccola differenza tulle queste cose cidaran no poco fastidio e serviranno per
ridere e stareallegramente;ma sevioslinateneivo stri pregiudizi e non volete
accordarci il bru tismo , le terre della filosofia non fanno per voi. Oramai è
venuto il tempo di par lar chiaro; e non c'è più bisogno di pallia menli, di
sutterfugi e di misteri. O libertini o niente. I frati dunque , i preti e i cat
tolici pensino ai casi loro; il mondo capisca una volta questa dottrina, e
inlanto Turchi, atei, deisti, idolatri, scismatici, giu dei e filosofi
liberali, entriamotutti allegra mente della città di FILOSOFOPOLI e por tiamo
in trionfo IL LIBERTINAGGIO, nel regno della filosofia. per si 1, Bert
mert doi efis scar cont dang rita fusi Si aprono le porte della nuova città , o
la sciati di fuori il Cervello e il Culto 'cattolico entra la filosofia
accompagnata da tutto il suo ministero liberale, e viene festeggiata con
allegrissimo Charivari all'usanza di quelli con cui il popolo sovrano accoglie
i suoi rappre sentanti, quando tornano dalla camera dei de putati.La sovranità popolare
in qualità di signora della festa offre lo spettacolo gratuito dellebarricate, distribuisce
un generosorinfre. sco di mattonelle, e dà segno per l'incomincia mento del
ballo. La Giustizia dopo quattro sal ti si lascia cadere le bilance,perde
l'equilibrio, sirompeleanche,evazoppicandoperlasa la appoggiatasulle stampelle.
La Proprietà bal lando ballando viene distribuendo i suoi vestiti con dare a
questo il cappello e a quell'altro la ca rive pres spec sce CAS
un miciuola, finchè restata in pennazza si ritira per non servire di
scandalo. L'Insegnamento fa un ballo equestre a cavallo sull'asino, epoi si
mette in disparte a compitare il libro di Bertoldo. L'incivilimento con un
corleggio n u meroso di guatteri e di facchini vestiti secon do il figurino, fa
la sua danza pippando , e fischiando, e poi corre ai bettolino a rinfrea
scarsicon un bocale.ICultiliberiballanouna contradanza, e poi si mettono a
ridere guara dandosi uno con l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare
il vallz, e con cið la dif fusione del potere, dei beni, dei lumi , e della
civiltà si rende asfatlo completa. Frattanto a r riva il Disinganno
accompagnato dal Cervello, prendono a calci la Filosofia, mandano all'o spedale
dei maiti i filosofi liberali, e così fini sce la comedia. Gli spettatori nel ritornare
a casa vanno dicendo:è stata troppo lunga. llanouna
contradanza, e poi si mettono a ridere guaradandosi uno con l'altro. Il
libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la diffusione del
potere, dei beni, dei lumi , e della civiltà si rende asfatlo completa.
Frattanto a r riva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a calci la
Filosofia, mandano all'o spedale dei maiti i filosofi liberali, e così finisce
la comedia. Gli spettatori nel ritornare acasa vanno dicendo:è stata troppo
lunga. llanouna contradanza, e poi si mettono a ridere guaradandosi uno con
l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la
diffusione del potere, dei beni, dei lumi , e della civiltà si rende asfatlo
completa. Frattanto arriva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a
calci la Filosofia, mandano all'ospedale dei maiti i filosofi liberali, e così
finisce la comedia. Gli spettatori nel ritornare a casa vannodicendo:è stata
troppo lunga. La Libertà. La Sovranità. La Costituzione. Il Governo. La
Rivoluzione. I Poleri. La Patria. Conclusione. La Città della Filosofia. La
Filosofia ed il Cervello. L'insegnamentoe l'incivilimento. La Filosofia. La
Civiltà. e la Giustizia. La Società. Lo stato il Governo. L'Uguaglianza. I Diritti
dell'uomo. La Leggiltimità. Le Opinioni. .La Indipendenza e la Proprietà. Il Cervello,
la Filosofia e il Cullo. DROSTE- della Pace fra laChiesa e gli Stati. Considerazioni
sulla rivoluzione. Sulla scomunica contro gl’usurpatori del dominio
ecclesiastico. E sul monopolio universitario. Parenti. Leopardi. Keywords: 1150. –
the coding of a name. The philosophical Leopardi. The Leopardi fascista – interpretazione fascista da
Gentile dell’ultra-filosofia di Leopardi – l’ultrafilosofia di Leopardi padre. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Leopardi” – The Swimming-Pool Library.
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