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Monday, September 23, 2024

GRICE ITALO A/Z L L1

 

Grice e Labeone: il diritto romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Ha larga cultura filosofica uno dei maggiori giuristi dell'età d’OTTAVIANO. Si ignora se segue un indirizzo determinato. Giunse fino alla pretura, ma rifiuta il consolato offertogli d’Ottaviano perchè conseguito prima di lui da persona meno anziana. Appartenne al partito repubblicano. Scruve CCCC saggi di cui restano frammenti. Si ricordano fra gli altri: "De iure pontificio" -- in almeno XV libri, diversi "Commentarii giuridici", 7davd, "Responsae", in almeno XV libri, "Librì posteriores", in almeno XL libri. S'interessò anche di studi logico-grammaticali. Grice: “Logico-grammatical stuff is my thing, as was Labeone’s. My example is “Fido is shaggy,” Labeone’s was not!” -- Marco Antistio Labeone.

 

Grice e Labriola: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cassino). Filosofo italiano. Casino, Frossinone, Lazio. Grice: “Labriola is good; he reminds me of pinko Oxford!” -- Essential Italian philosopher -- Con particolari interessi nel campo del marxismo. Nacque da Francesco Saverio, insegnante ginnasiale di lettere. Il padre, oriundo di Brienza, e nipote diretto di PAGANO.  Si iscrive alla facoltà di filosofia di Napoli, città nella quale la famiglia si e trasferita. Qui studia con VERA e SPAVENTA, il cui appoggio gli procura un posto di applicato di pubblica sicurezza nella segreteria del prefetto. Scrive Una risposta alla prolusione di Zeller, un saggio in cui osteggia il CRITICISMO contro ogni ipotesi di un ritorno a Kant. Rivendica l'attualità dell'hegelismo. Consegue il diploma di abilitazione e insegna nel ginnasio Principe Umberto di Napoli. Il suo saggio, premiato dall'Napoli, sull'”Origine e natura delle passioni”: una significativa presa di distanze dall'idealismo in favore del materialismo.  Scrive “La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele”,  premiata dalla Reale Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli. Consegue la libera docenza in filosofia e si mette in aspettativa in attesa di ottenere un incarico nell'università. Scrive la dissertazione “Esposizione critica della dottrina di VICO” e collabora con il "Basler Nachrichten", al quale invia corrispondenze politiche, al quotidiano napoletano "Il Piccolo", fondato e diretto da Zerbi, futuro deputato e leader dell'Unione liberale, un gruppo politico al quale L. aderisce. Entra anche nella redazione della "Gazzetta di Napoli" e dell'Unità Nazionale, diretta da Bonghi, al Monitore di Bologna e alla Nazione di Firenze, nella quale escono le sue X Lettere napoletane. Si dichiara herbartiano in psicologia e in morale, pubblicando a Napoli i saggi Della libertà morale, dedicata a Graf e Morale e religione.  Trasferitosi a Roma, supera  il concorso alla cattedra di filosofia a Roma. Pubblica il saggio Dell'insegnamento della storia.” Divienne direttore del Museo di istruzione e di educazione. Sono anni in cui L. mostra un particolare impegno verso il miglioramento del livello professionale degli insegnanti e la diffusione dell'istruzione di base della popolazione, inteso come primo passo per una maggiore democrazia del paese. A questo scopo s'informa sug’ordinamenti scolastici dei paesi europei. Pubblica gli Appunti sull'insegnamento secondario privato in altri stati e l'Ordinamento della scuola popolare in diversi paesi. Contemporaneamente L. abbandona le convinzioni politiche di moderato liberalismo per approdare a posizioni radicali. Oltre alla lotta all'analfabetismo, auspica l'intervento dello stato nell'economia, una politica sociale di assistenza ai poveri, il suffragio universale che permetta anche a candidati operai l'ingresso al parlamento. Ottiene la cattedra di filosofia a Roma e inizia un corso sul socialismo. A seguito di notizie che danno imminente la stipula del concordato con il Vaticano, L. tiene a Roma la conferenza Della Chiesa e dello stato a proposito della conciliazione, considerando una minaccia per la libertà di pensiero ogni accordo con la Chiesa, temendone l'ingerenza nella vita pubblica italiana. Il  quotidiano romano La Tribuna pubblica una sua lettera in cui, tra l'altro, scrive di essere teoricamente socialista ed avversario esplicito delle dottrine cattoliche e nella conferenza Della scuola popolare, auspica l'ABOLIZIONE DELL’INSEGNAMENTO RELIGIOSO. Sul giornale Il Messaggero, depreca l'uso della forza pubblica contro le manifestazioni. Tiene agl’operai di Terni un discorso su Le idee della democrazia e le presenti condizioni dell'Italia, in cui afferma di impegnarsi personalmente in politica e dichiara di desiderare un governo del popolo mediante il popolo stesso e la formazione di un grande partito popolare. Scrive che i parlamenti, come forma transitoria della vita democratica d'origine borghese, spariranno col trionfo del proletario e tiene nel Circolo operaio romano di studi sociali il discorso Del socialismo commemorando la comune di Parigi.  L. saluta il congresso della social-democrazia tedesca a Halle scrivendo che il proletariato militante procede sicuro sulla via che mena diritto alla socializzazione dei mezzi di produzione ed l'abolizione del presente sistema di salariato, fidando solo nei suoi propri mezzi e nelle sue proprie forze. Entra in rapporto epistolare con Engels, che conosce a Zurigo, e con i maggiori dirigenti socialisti europei, Kautsky, Liebknecht, Bebel, Lafargue, mentre rimprove a TURATI, il più prestigioso leader socialista italiano e direttore della rivista Critica sociale, superficialità teorica e arrendevolezza nei confronti degl’avversari politici. Vuole che il partito socialista, che deve nascere ufficialmente con il congresso di Genova, sia un partito d’operai e non di intellettuali positivisti borghesi. Vede nei fasci siciliani un concreto esempio di socialismo popolare e rivoluzionario e lamenta che il marxismo non riesca a essere compreso in Italia (cf. GRICE, MARXISMO ONTOLOGICO).  Fa lezione sul manifesto di Marx ed Engels e scrive a quest'ultimo, di star facendo un corso sulla genesi del socialismo ma di non riuscire a risolversi a scriverne un saggio per l'ignoranza su tanti fatti, persone, teorie, etc, che sono tante fasi, tanti momenti né sentiti né conosciuti in Italia, come ribadisce a Adler che il marxismo non piglia piede in Italia. Su sollecitazione di Sorel, scrive In memoria del Manifesto dei comunisti, sulla concezione materialistica della storia, che esce sulla rivista del Sorel, Le Devenir social; lo spedisce a Engels, ricevendone le lodi. Anche CROCE che ne promuove la stampa in Italiane è influenzato tanto da attraversare il suo pur breve periodo di adesione al marxismo. Nei due anni successivi L. scrive altri due saggi, Del materialismo storico, dilucidazione preliminare e Discorrendo di socialismo e di FILOSOFIA. È sepolto presso il cimitero acattolico di Roma. Schematicamente, possiamo suddividere il percorso filosofico e politico di L. in tre diversi momenti: innanzitutto fu propugnatore dell'idealismo hegeliano, influenzato da SPAVENTA, del quale  e allievo a Napoli. Successivamente, possiamo distinguere una fase contrassegnata dal rifiuto dell'idealismo in nome del realismo herbartiano. Infine, il momento in cui aderisce pienamente al marxismo. L'approccio di L. al marxismo è influenzato da Hegel e Herbart, per cui è più aperto dell'approccio di marxisti ortodossi come Kautsky. Egli vide il marxismo non come una schematizzazione ideologica ed autonoma dalla storia, ma piuttosto come una filosofia auto-sufficiente per capire la struttura economica della società e le conseguenti relazioni umane. E necessario aderire alla realtà sociale del proprio tempo storico se il marxismo vuole considerare la complessità dei processi sociali e la varietà di forze operanti nella storia. Il marxismo dove essere inteso come una teoria critica, nel senso che esso non asserisce verità eterne ed immutabili ed è pronto ad interpretare le contraddizioni sociali secondo le diverse fasi storiche, avendo al centro della sua analisi il lavoro e le condizioni dei lavoratori e dunque la concreta e materiale prassi umana. La sua descrizione del marxismo come filosofia della prassi e ripresa nei Quaderni dal carcere di GRAMSCI.  In pedagogia L. avvertì l'esigenza collettiva dei tempi nuovi, il bisogno di una scuola popolare che servisse da reale tessuto connettivo dell'Italia post-unitaria, una lotta dunque per la civiltà, mezzo e fine dell'evoluzione morale e complessiva delle classi sub-alterne.  Nella monografia Dell'insegnamento della storia, dedicata alle più importanti questioni della pedagogia generale, L. aveva asserito la centralità dell'educazione alla socialità. Il metodo pedagogico dove essere quello della ricerca critica e di DIBATTITO e di sperimentazione, unica via capace di condurre alla padronanza del pensiero logico-razionale e in grado di formare personalità aperte alla ricerca e al confronto (non a caso i primi studi di L. Sono stati rivolti a Socrate e al metodo socratico. Traducendo in un linguaggio pedagogico moderno, per L. e necessaria un'attenzione maggiore ai pre-requisiti logici piuttosto che alla struttura interna disciplinare, che comunque va indagata attraverso quella che egli chiama un'epi-genesi analitica.  Celebre e una sua conferenza tenuta nell'Aula Magna dell'Roma, discorso sollecitato dalla stessa Società degli Insegnanti della capitale, che poi ne cura la pubblicazione in opuscolo. E necessario dare concretezza a piani di istituzioni scolastiche entro le quali le didattiche si sviluppassero non da una deduzione della teoria, ma come risultato di lotte politiche, di ideali sociali, di tradizioni storiche, di condizioni ambientali. Per L. proprio l'azione dell'ambiente storico sociale sugli uomini e la loro reazione ad esso costituiscono il tema dell'educazione. Per cui le idee non cascano dal cielo. Il metodo deve partire dalla prassi, dalla pratica e non dalle idee, dai principi astratti.  Il nucleo essenziale della pedagogia della prassi sta nella percezione della connessione dell'opera educativa con le condizioni dello sviluppo economico-sociale.  Trockij conosce con entusiasmo i saggi di Labriola, quando e detenuto nel carcere di Odessa. Egli scrive nelle sue memorie che come pochi scrittori latini, L. possede la dialettica materialistica, se non nella politica, dov'e impacciato, certo nel campo della FILOSOFIA della storia. Sotto quel dilettantismo brillante c'e vera profondità. L. liquida egregiamente la teoria dei fattori molteplici che popolano l'olimpo della storia guidando di lassù i nostri destini. Trockij aggiunge che dopo anni continua a rimanergli in mente il ritornello Le idee non cascano dal cielo. Altri saggi: Una risposta alla prolusione di Zeller, Origine e natura delle passioni secondo l’Etica di Spinoza, La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele, Napoli, Stamperia della Regia Università,  Della libertà morale, Napoli, Ferrante-Strada, Morale e religione, Napoli, Ferrante, Dell'insegnamento della storia. Studio pedagogico, Roma, Loescher, L'ordinamento della scuola popolare in diversi paesi. Note, Roma, Tip. eredi Botta,  I problemi della filosofia della storia. Prelezione letta nella Roma, Roma, Loescher, 1Della scuola popolare. Conferenza tenuta nell'aula magna della Università, Roma, Fratelli Centenari, Al comitato per la commemorazione di BRUNO in Pisa. Lettera, Roma, Aldina, Del socialismo. Conferenza, Roma, Perino, Proletariato e radicali. Lettera a Socci a proposito del Congresso democratico, Roma, La CO-OPERATIVA; Saggi intorno alla concezione materialistica della storia I, In memoria del manifesto dei comunisti, Roma, Loescher, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, Roma, Loescher, Discorrendo di socialismo e di FILOSOFIA. Lettere a Sorel, Roma, Loescher, CROCE, Bari, Laterza,  Da un secolo all'altro. Considerazioni retrospettive e presagi, Bologna, Cappelli, L'università e la libertà della scienza, Napoli, Veraldi, A proposito della crisi del marxismo, "Rivista italiana di sociologia", Scritti varii editi e inediti di filosofia e politica, raccolti e pubblicati da Croce, Bari, Laterza, Socrate, Croce, Bari, Laterza, La concezione materialistica della storia, con un'aggiunta di Croce sulla critica del marxismo in Italia, Bari, Laterza, re prelezioni sulla storia e il materialismo storico; In memoria del Manifesto dei comunisti, Brescia, Studio Editoriale Vivi, Lettere a Engels, Roma, Rinascita, Democrazia e socialismo in Italia, Milano, Cooperativa del libro popolare, Opere, Pane, I, Scritti e appunti su Zeller e su Spinoza, Milano, Feltrinelli, La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele, Milano, Feltrinelli, Ricerche sul problema della libertà e altri scritti di filosofia, Milano, Feltrinelli, Scritti di pedagogia e di politica scolastica, Bertoni Jovine, Roma, Riuniti, Saggi sul materialismo storico, Gerratana e Guerra, Roma, Riuniti, introduzione e cura di Santucci, Il materialismo storico, antologia sistematica Poni, Firenze, Le Monnier, Pedagogia e società. Antologia degli scritti educativi, scelta e introduzioni di Marchi, Firenze, La nuova Italia, Scritti politici. Gerratana, Bari, Laterza, Opere, Sbarberi, Napoli, Rossi, Scritti filosofici e politici, Sbarberi, Torino, Einaudi, Lettere a Croce. Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, Dal secolo XIX al secolo XX. Dall'era della concorrenza al monopolio. Nascita e lotte del socialismo. IV saggio della concezione materialistica della storia, Lecce, Milella, Scritti liberali, Bari, De Donato, Scritti pedagogici, Siciliani De Cumis, Torino, POMBA, Epistolario Roma, Riuniti, Roma, Riuniti, Roma, Riuniti,  Lettere inedite. Roma, Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, La politica italiana Corrispondenze alle “Basler Nachrichten”, a cura e con introduzione di Miccolis, Napoli, Bibliopolis, Del materialismo storico e altri scritti, Milano, M&B Publishing, Del socialismo e altri scritti politici, Milano, UNICOPLI, Bruno. Scritti editi e inediti Napoli, Bibliopolis, Fra Dolcino, Pisa, Edizioni della Normale,.  Tutti gli scritti filosofici e di teoria dell'educazione, Milano, Bompiani Il pensiero occidentale,. Edizione nazionale La casa editrice Bibliopolis ha in corso di pubblicazione l'edizione nazionale delle opere di L., istituita con decreto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Tra Hegel e Spinoza. Scritti, Savorelli e  Zanardo, Bibliopolis, I problemi della filosofia della storia e recensioni Cacciatore e Martirano, Bibliopolis, Da un secolo all'altro. Miccolis e Savorelli, Bibliopolis, archividifamiglia-sapienza.beniculturali. Trotzkij, La mia vita, Fiorilli, L. Ricordi  «Nuova Antologia», Berti, Per uno studio della vita e del pensiero di L., Roma, Ernesto Ragionieri, Socialdemocrazia tedesca e socialisti italiani: Milano, Luigi Cortesi, La costituzione del Partito socialista italiano, Milano, Sergio Neri, Antonio Labriola educatore e pedagogista, Modena, 1968. Luigi Dal Pane, Antonio Labriola, la vita e il pensiero, Bologna, Demiro Marchi, La pedagogia di Antonio Labriola, Firenze, Luigi Dal Pane, Antonio Labriola nella politica e nella cultura italiana, Torino, Stefano Poggi, Antonio Labriola. Herbartismo e scienze dello spirito alle origini del marxismo italiano, Milano, Giuseppe Trebisacce, Marxismo e educazione in Antonio Labriola, Roma, Filippo Turati, Socialismo e riformismo nella storia d'Italia. Scritti politici, Milano, 1979. Nicola Siciliani de Cumis, Scritti liberali, Bari, Stefano Poggi, Introduzione a Labriola, Roma-Bari, Beatrice Centi, Antonio Labriola. Dalla filosofia di Herbart al materialismo storico, Bari, Livorsi, Turati. Cinquant'anni di socialismo italiano, Milano, Franco Sbarberi, Ordinamento politico e società nel marxismo di Antonio Labriola, Milano, Antonio Areddu, Sulle lettere di Antonio Labriola a Croce, Firenze, Renzo Martinelli, Antonio Labriola, Roma, Antonio Areddu, A. Labriola e B. Croce nelle vicende del marxismo teorico italiano, in “Behemoth”,Antonio Areddu, L. e B. Croce nelle vicende del marxismo teorico italiano, in “Behemoth”, X, Luca Michelini, "Antonio Labriola e la scienza economica. Marxismo e marginalismo", in "Marginalismo e socialismo nell'Italia liberale  M. Guidi e L. Michelini, Annali della Fondazione Feltrinelli, Milano, Alberto Burgio, Antonio Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia, Macerata, Antonio Areddu, Il pensiero di A. Labriola, "Il Cronista", L. e la sua Università. Mostra documentaria per i Settecento anni della “Sapienza” A cento anni dalla morte di Antonio Labriola, Nicola Siciliani de Cumis, Roma, Nicola D'Antuono, Saggio introduttivo e commento a A. Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia, Bologna, Nicola Siciliani de Cumis, Antonio Labriola e «La Sapienza». Tra testi, contesti, pretesti, con la collaborazione di A. Sanzo e D. Scalzo, Roma, 2007. Stefano Miccolis, Antonio Labriola. Saggi per una biografia politica, Alessandro Savorelli e Stefania Miccolis, Milano,. Nicola Siciliani de Cumis, Labriola dopo Labriola. Tra nuove carte d'archivio, ricerche, didattica, Postfazione di G. Mastroianni, Pisa,. Alessandro Sanzo, Studi su Antonio Labriola e il Museo d'Istruzione e di educazione, Roma,,  Alessandro Sanzo, L'opera pedagogico-museale di Antonio Labriola. Carte d'archivio e prospettive euristiche, Roma, Pietro Mandré. Antonio Labriola, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Antonio Labriola, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Antonio Labriola, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Antonio Labriola, su Liber Liber.  Opere di L., su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Antonio Labriola,. Opere di Antonio Labriola, su Progetto Gutenberg.  L'Archivio Antonio Labriola, su marxists.org. Alberto Burgio, Antonio Labriola, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Roma.  La personalità storica di Socrate Socrate o gli Ateniesi. Educazione e sviluppo della coscienza di Socrate. Carattere di Socrate. Osservazioni su le fonti. Orizzonte delia coscienza socratica  Posizione di Socrate nella storia della religione. Elementi della coscienza di Socrate. Del valore filosofico di Socrate. Formalismo logico. Determinazione del valore del formalismo logico. Limitazione del sapere umano. Socrate e i Solisti. Pretesa soggettività di Socrate. Preteso misticismo di Socrate. Del metodo di Socrate. Presupposti storici e psicologici. Motivo e sviluppo del metodo socratico. Imprecisione formale del metodo socratico. Della differenza fra rappresentazione e concetto, e del principio d'identità. Dell' etica socratica in generale, e del concetto del bene. Conoscere e volere. Equazione fra volere c sapere (ptù&i cautdv). Fondamento della pedagogia socratica. Le forme concrete della vita elica È Socrale un riformatore? L’individuo e le sue relazioni domC5tiche.  L’ individuo e lo stato. Vili. Delle virtù. Generalità. Il concetto delle virtù nell'orizzonte socratico. Identificazione della virtù e del sapere. Ignoranza degli elementi naturali. Del bene, della felicità c del sapere.  Del bone. Della felicità. Del sapere. Del divino e dell’anima umana nell’orizzonte socratico. Il Concetto del divino. II concetto dell’ anima. Riepilogo e conclusione La personalità storica di Socrate. Socrate e gli Ateniesi. Educazione e sviluppo della coscienza  di Socrate. Carattere di  Socrate. Osservazioni su le  fonti. Orizzonte della coscienza socratica. Posizione di Socrate nella storia della  religione. Elementi  della coscienza di Socrate. Del valore filosofico di Socrate. Formalismo logico. Determinazione del valore del forma-  lismo logicoLimitazione del sapere umano. Socrate e i Sofisti. Pretesa soggettività di Socrate. Preteso misticismo di Socrate. Del metodo di Socrate. Presupposti storici e psicologici. Motivo e sviluppo del  metodo socratico. Imprecisione formale del  metodo socratico. Della  differenza fra rappresentazione e concetto, p^^-  e del principio d'identità. Dell'etica socratica i?i generale, e del   concetto del bene. Conoscere e volere. Equazione fra volere e sapere (yvttjtì-t.  aauxóv). Fondamento  della pedagogia socratica. Le forme concrete della vita etica . È Socrate un riformatore? L'individuo e le sue relazioni domestiche L'individuo e  lo Stato. Delle viriti. Generalità. Il concetto  delle virtù nell'orizzonte socratico. Identificazione della virtù e  del sapere. Ignoranza degli elementi naturali. Del bene, della felicità e del  sapere. Del bene. Della  felicità. Del sapere. Del divino e dell'anima umana nell'orizzonte socratico. Il Concetto del divino. Il concetto dell'anima. Formalismo logico. Senofonte e Platone (') mettono in bocca agl'interlocutori di Socrate questa notevole accusa, ch'egli solesse ripeter sempre le me- desime cose, e sempre nel medesimo modo, interrompendo il libero corso all'esposizione dell'avversario. Socrate in fatti non sapea esprimere il suo pensiero in un discorso con- cepito in forma oratoria, alla maniera di Gor- gia e di Protagora suoi interlocutori, né potea vagare in tutto il campo dello scibile come Ippia il polistore, o adattarsi alla maniera sdegnosa e virulenta di Callide e Trasimaco: una certa innata sobrietà di spirito, ed una moderazione a tutta pruova, che era divenuta natura, lo conteneano in certi limiti costanti, ai quali egli cercava ridurre i suoi uditori. Questo fare era monotono, ed avea l'aria di pedanteria: tanto più, perchè rinunziare al mezzo tanto potente della persuasione ora- (i) Sen. Meni. IV, 4, 6. Plat. Gorg. p. 490 E. Strùmpell fa rilevare molto vivamente la differenza che correa fra i Sofisti e Socrate, nell'uso del ragionamento formale. toria non potea non sembrar cosa strana in una democrazia, dove tutte le pubbliche fac- cende dipendeano dall'arte della parola. Ma tornava forse Socrate di continuo all'afferma- zione di questa o quella massima morale, per ripeterla ogni istante, ed improntarla nell'ani- mo degli uditori ? (') Era egli forse un mora- lista bello e compiuto, che catechizza e pre- dica; o tenea forse in serbo uno schema logico, che andava applicando ad ogni sorta di qui- stioni ? Nulla di tutto ciò. Il suo discorso ca- dea sopra oggetti disparatissimi, e quali l'oc- casione prossima li venisse offrendo: nessuno studio nella scelta degli argomenti potea di- sporre il suo animo alla ripetizione monotona delle medesime cose, né dalla sua occupazione dialogica risultò mai un complesso di pronun- ziati, che prendessero forma di massime e di precetti. Le condizioni stesse della coltura etica ed artistica non consentiano, che a quel tempo si potesse apprendere, come avvenne (i) Zeller ha molto bene criticata l'opinione or- dinaria, che fa di Socrate un moralista popolare; ma noi non ci accordiamo con lui nella determinazione del valore filosofico del dialogo socra- tico; la qual cosa abbiamo voluto dire qui recisamente, per evitare ogni ulteriore polemica.   più tardi, le relazioni morali nell'astratta uni- versalità della massima, o formulare netta- mente una esigenza logica; tanto è vero, che i discepoli o seguaci che voglia dirsi di Socrate ebbero più a sviluppare, ciascuno per proprio conto, i pfermi che avean raccolto dalle acci- dentali conversazioni del maestro, che a di- scutere sul valore positivo di questo o quel principio ('). Quella monotonia notata dagli avversari non concerneva che l'esigenza della formale evidenza e certezza del discorso; ed era quindi l'intenzionale ritorno ai medesimi presuppo- sti, nel lato formale d'ogni quistione. Ma questo formalismo non apparisce ancora in Socrate come già isolato, e distinto dall'og- getto della ricerca, e come presente alla co- scienza del filosofo per sé ed obbiettivamente; perchè agisce solo come reale esigenza di [Vedi su questo punto Hermann: Gescìiichte ecc.; e lo stesso autore Prof. Ritler's Dar- stellung der sokratischeti Systeme, Heidelberg, Hegel è stato uno dei primi a riconoscere l'importanza delle scuole socratiche per la determinazione del prin- cipio filosofico di Socrate, e cfr. Biese: Die Philosophie des Aristoicles, colui, che ragionando avverte per la prima volta, che il ragionamento dev'essere conse- guente, fondato ed evidente. La maniera corretta e cosciente del ragio- nare è nella nostra coltura filosofica cosa troppo ovvia, e la nostra educazione ci for- nisce ben presto dello schema logico della definizione, della pruova ecc., in guisa, che possiamo al tempo stesso indurre, dedurre, ed argomentare perfettamente, ed aver co- scienza della forma logica per sé stessa, e studiarla nei suoi caratteri e nel suo valore : ma tutto ciò era allora impossibile. In So- crate l'esigenza del sapere esatto e formal- mente corretto è ancora un semplice atto di personale energia, un bisogno intrinseco di certezza e di acquiescenza alla normalità di una opinione chiaramente concepita, un la- voro che si compie per la necessaria coeffi- cienza dei vari elementi etici della coltura e della tradizione, e non può ancora presen- tarsi allo spirito come un dato di estrinseca evidenza. Se noi ci sforziamo per poco di rappre- sentarci il mondo, secondo l'immagine, che la coscienza anche più colta dei contempo- ranei di Socrate ne avea espressa nella storia, nella poesia, nelle leggende, nelle mas- sime e nei detti dei sapienti; e se guardiamo poi quanta differenza corra da quella pienezza ed inconsapevolezza d' intuizione, alle aporie della ricerca, solo allora intendiamo quanta profondità filosofica fosse nelle ricerche di Socrate, e la parsimonia stessa dei mezzi da lui adoperati diverrà più degna di ammira- zione, perchè è pruova evidente della ener- gia, con la quale egli seppe avvertire la ne- cessità di correggere ad una stregua costante tutte le incertezze della conoscenza ordina- ria, e fermarsi poi ed insistere tutta la vita nel criterio acquistato. I presupposti logici, ai quali tutte le qui- stioni del dialogo socratico sono riducibili, consistono nella epagoge e nella definizione; e noi cercheremo in séguito di esporre il modo, come queste due funzioni si sono spie- gate in quell'orizzonte scientifico che Socrate s'era tracciato. Per ora basterà aver notato, come questa è la prima volta che nello spi- rito umano si sia fatto palese il bisogno, che prima di determinare la natura, il fine, ed il valore degli oggetti, bisogna acquistare una coscienza precisa ed inalterabile delle condi- zioni in cui deve trovarsi la conoscenza, per- Labriola — Socrate. !Hl<^3 che possa dirsi certa ed evidente. Tutto quello che la speculazione posteriore ha strettamente designato come elemento logico del sapere, e che ha cercato successivamente di sceve- rare dalla natura immediata e dalle condi- zioni incerte e fluttuanti del soggetto pen- sante, apparisce nella sfera della ricerca so- cratica come qualcosa di affatto connaturato con le esigenze pratiche di colui che ricer- cava; e senza isolarsi dai motivi che l'aveano praticamente prodotto, acquistò un grado di sufficiente evidenza nella coscienza, tanto da rimanere, non solo principio efficace in So- crate, ma costante centro ed impulso di ogni posteriore attività scientifica ('). (i) Indem die Philosophie des Sokrates kein Zuriick- ziehen aus dem Dasein und der Gegenwart in die freien reinen Regionen des Gedankens, sondern aus einem Stucke mit seineni I-eben ist, so schreitet sie nicht zu einem Systeme fort etc. Hegel, op. cit., p. 51. Da questo e da altri luoghi può scorgersi, come Hegel avesse un concetto più schietto della filosofia socratica, di quello che hanno formulato molti scrittori posteriori, non escluso lo Zeller; il quale, sebbene dica di non volerlo, parla sempre in una maniera troppo astratta del principio del sapere, e ricade nell'errore di Schleier- macher e di Brandis.  Determinazione del valore del formalismo logico La caratteristica, che noi abbiamo data dell'attività filosofica di Socrate in generale, pare risponda a quello che già s'è detto da altri; e che non serva se non a rifermare un'opinione corrente, secondo la quale So- crate sarebbe stato il primo che avesse avuta una chiara coscienza del valore del sapere ('). Si è, infatti, detto più volte, che l'idea del sapere sia la scoverta di Socrate, e che ces- sando per opera sua la esclusiva ricerca del mondo naturale, la filosofia fosse divenuta la scienza dell'idea, del soggetto, dello spirito e così via (^). Senza la pretensione della novità, noi riteniamo per erronee una gran parte di quelle caratteristiche; e perchè at- tribuiscono a Socrate una consapevolezza maggiore di quella ch'egli s'avesse, e perchè devono poi fare molte congetture per spiegare ed intendere la natura dell'etica socratica. Ba- Per es. Schleiermacher. La forma più esagerata è quella del Ròtscher, il quale parla di Socrate come d'un filosofo moderno, op. cit., passim. sterà notare solo questo, che partendosi dalla supposizione, che Socrate avesse avuto co- scienza del sapere preso per sé stesso, come forma o attività in generale, non solo si cade nell'inconveniente di non poter trovare un solo luogo di Senofonte che confermi questa opi- nione, ma si è poi obbligati a fare una qui- stione oziosa su la natura empirica o a priori del sapere socratico, che non c'è motivo al mondo per proporsela; e, in ultimo, si è poi costretti a ritenere, che Socrate abbia in virtù di una scelta, e per certe ragioni teoretiche, limitato le sue ricerche all'etica ('); mentre la repugnanza contro le indagini naturali deve in lui ammettersi, non come un risultato dei criteri logici che applicava, ma invece come una prima e semplice esigenza delle sue con- vinzioni religiose. Abbiamo invero detto, che il valore filo- sofico di Socrate consiste nella esigenza di un sapere normale e certo; ma la forma li- mitativa, con la quale abbiamo espressa que- sta opinione, esclude di fatto tutte le caratte- ristiche alle quali può in apparenza sembrare (i) Vedi specialmente il Bòhringer, op. cit., p. 2 e seg. che ci avviciniamo. Che il sapere figuri allora per la prima volta come una potenza deter- minata, e serva a correggere l'opinione e la tradizione, ed a condurre come norma sicura la ricerca del filosofo in tutte le complica- zioni e le incertezze del dialogo, ciò non vuol dire, che il concetto del sapere abbia rag- giunta una tale importanza ed obbiettività, da segnare esso stesso il termine e lo scopo della ricerca. E quando in fine, dal confronto di Socrate coi precedenti tentativi filosofici si vuole arguire la consapevolezza che egli ha potuto raggiungere della sua posizione storica ('), si viene a confondere due ordini di criteri del tutto diversi perchè dal giudizio che noi riportiamo su la importanza di una personalità storica, non può indursi qual grado di consapevolezza quella persona stessa abbia raggiunto. Il valore filosofico di Socrate sta in rela- zióne diretta con l'orizzonte della sua co- (L'Alberti specialmente fa di Socrate un filosofo dotato di una piena coscienza del proprio valore sto- rico; e non potea evitare un simile errore, dal momento che s'era proposto di seguire il dialogo platonico come un documento biografico; vedi op. cit., p, 13 e seg. scienza; nel quale noi abbiamo rinvenuti mo- tivi di natura più immediata, più complessa, e più personale di quelli che conducono esclu- sivamente alla conoscenza speculativa. Questa determinazione intrinseca della sua attività ci fornisce ora di mezzi sufficienti, per rifare indirettamente, e mediante la congettura, il processo genetico della sua coscienza filoso- fica, che è stato impossibile d'intendere su la semplice testimonianza delle fonti storiche. Socrate non occupa immediatamente un posto nella storia della filosofia, mercè l'ac- cettazione o la critica di una tradizione teo- retica; e per questa ragione stessa non arrivò all'affermazione astratta del principio logico della certezza, come regolativo della ricerca e correttivo del conoscere comune ed incon- sapevole. Le condizioni speciali del suo ca- rattere lo aveano predisposto a sentire prò-, fondamente il bisogno di una religione intima e depurata dalle esteriorità della tradizione; e di una certezza etica che lo tenesse libero dalle fluttuazioni dei momentanei interessi e delle opinioni correnti: e quella naturale pre- disposizione toccò il suo soddisfacimento in un concetto della divinità, che riconosceva insiememente la bellezza ed armonia del mondo, e la libertà umana come predeter- minata al bene. La costanza, la fermezza d'animo, il naturale sentimento del giusto, la morale certezza della inalterabilità della legge, la perpetua acquiescenza al corso delle cose perchè riconosciuto provvidenziale, — tutte queste tendenze sollecitarono la sua in- telligenza, predisposta alla riflessione, a cer- care una norma costante dei giudizi, e tro- vatala egli persistette ad applicarla come stregua alla condotta morale sua propria, e dei suoi concittadini. E scorgendo egli, che il materiale delle opinioni e dei giudizi etici, qual era raccolto nella lingua e nella tradi- zione ed espresso nella coscienza politica dei contemporanei, se a prima vista potea avere il suo fondamento nelle costanti con- dizioni della natura umana, non corrispondeva sempre a quel grado di consapevolezza, che le sue abitudini riflessive gli aveano reso connaturale, il bisogno di fare entrare nel- l'animo altrui l'intimità e lo spirito di con- seguenza lo fece divenire maestro di morale, ed educatore della gioventù. In questa nostra maniera d'intendere l'at- tività filosofica di Socrate trovano un posto na- turale alcune opinioni, che incontestabilmente gli appartengono, e che altrimenti non sa- rebbero spiegabili ; ed, oltre a ciò, molte quistioni, che si son sollevate su la dottrina socratica, rimansfono escluse di fatto. Tocche- remo alcuni di questi punti. Nel concetto che Socrate s'era fatto dello Stato apparisce, più vivamente che in qua- lunque altra delle sue definizioni, il contrasto (i) Meni., II, 4, 6 e seg.; id., 6, 21-29. (2) Vedi il Jacobs, Vermischte Schrifteii, voi. II, p. 251: Jene Sitte enthalt ebeti so, wie die Liebe zum andern Geschlechte, alle Elèmente des Edelsten und des Nichtswiirdigsten, des Lasters, des Besten und des Schlechtesten in sich.   che correa fra la novità delle sue filosofiche esiorenze e la naturale tendenza alla conser- vazione delle sostanziali relazioni della vita etica, che in lui era sussidiata dal convinci- mento religioso e da una profonda abnega- zione. Il principio normativo della consape- volezza non gli consentiva di ammettere che la potenza, o il dritto ereditario, o la scelta del popolo mediante i voti potessero costi- tuire la capacità dell'individuo a trattare le faccende dello Stato ('). Solo la piena coscienza della propria capacità e la speciale cono- scenza delle faccende da trattare possono e devono invogliare l'individuo ad una legit- tima ambizione politica (^); e questa diviene per sé stessa un dovere, quando è sorretta dal fermo convincimento, che l'attitudine e la specifica intelligenza dell'individuo rispondono alle normali esigenze della vita politica. Al- l'attuazione pratica di questa massima solea Socrate disporre i suoi uditori, sviluppando nel loro animo il bisogno di acquistare una chiara e perfetta notizia degli obblighi spe- (i) Mem., e Plat. Apol. (2) Mem., Ili, 6; e IV, 2, 6 e seg.   SOCRATE ciali che spettano a questo o a quello fra gli amministratori dello Stato, e riassumeva tutta la sua politica nel principio che solo chi sa deve e può fare, ossia che il potere sta nel sapere. L'importanza di questa massima in- novatrice ci fa apparire l'attività socratica in una manifesta opposizione con tutti i concetti tradizionali della politica greca, perchè, in virtù di essa, il dritto ereditario della monar- chia e dell'aristocrazia, ed il concetto demo- cratico della maoraioranza erano recisi nella loro radice e subordinati alla necessità di una generale rettificazione di tutte le forme sociali dal punto di vista della consapevo- lezza. Ma pur nondimeno la cosa non andava tant'oltre, e noi non sappiamo scorgere in tutto questo l'esigenza o il presentimento di una radicale riforma dello Stato, o, come altri ha detto, di una teoria sociale fondata sul principio della conoscenza esatta. Il sa- pere, di cui parlava Socrate, non era qualcosa di distinto dalla conoscenza empirica dei vari rami della pubblica amministrazione, e non era costituito in un insieme di teorie univer- sali e scientifiche. Egli non potea quindi, come più tardi fece Platone, ideare la costituzione di uno Stato, in cui la coordinazione e subordinazione delle sfere sociali fossero determi- nate dal concetto psicologico della gradazione della conoscenza. Il suo concetto non ha co- lorito e carattere esclusivo di una tendenza filosofica, che voglia imporsi alle pratiche esi- genze della vita per regolarle a sua posta; ma rimane subordinato alla varietà estrinseca delle sfere sociali, e non ne sconosce la ori- ginalità per farla rientrare nei confini di uno schema astratto. Di qui procede, che, mal- grado l'apparenza di una dichiarata riforma, Socrate riconobbe l'ubbidienza alle leggi come impreteribile ('); e, fedele all'antico principio ellenico della sostanzialità dello Stato, fece dipendere il bene dell'individuo da quello della comunità. E considerando la sua attività filosofica come parte integrale dei suoi doveri di cittadino morì nel rispetto alle leggi, e nel convincimento, che la condanna pronun- ziata contro di lui non fosse che una legittima manifestazione dell'attività dello Stato. L'opposizione fra il vecchio e il nuovo, fra il concetto sostanziale e l'esigenza di una per- [Mem., IV, 6, 6. (2) Mem., HI, 7, 9. (3) Mem., IV, 4, 4: Plat. Apol., 34 D e seg.; e cfr. Phaed., 98 C e seg.   sonale sodisfazione nello Stato, si chiarì mag- giormente nelle scuole socratiche; e specialmente in Platone, il cui ideale politico non deve essere inteso, né come ripristinazione dello Stato dorico, né come un segno precursore del Cristianesimo (^), ma conviene sia spiegato come un progresso teoretico del principio enunciato da Socrate, che il potere deve consistere nel sapere. Che i concetti da noi più sopra esposti non avessero una tendenza dichiaratamente riformatrice, apparisce ancora di più dal modo del tutto pratico come Senofonte introduce il suo eroe a discutere con questo o quello dell'esercizio speciale delle diverse arti, che conferiscono al pubblico bene o al manteni- mento delle sociali relazioni. Una sola è l'idea fondamentale di tutti quei dialoghi: rettificare mediante la definizione il concetto del fine cui l'attività è rivolta, per far convergere tutti gli sforzi dell' individuo all'acquisto di una norma costante, che ne regoli la pratica senza (i) Come vuole Hermann. Come vuole Baur. Vedi su questa quistione lo Zeller, Der Plato7iische Staat, in seiner Bedeutung fiìr die Folgezeit, nei citati Vortràge ecc., pp. 62-82   incertezza e divagazioni. Sotto questo riguardo il calzolaio e lo scultore, il pastore e l'arconte, il marinaio ed il generale ecc., perquantovarie le loro occupazioni e diversi i finì cui sono rivolti, devono tutti convenire nella norma dell'esercizio metodico delle loro funzioni, e sostituire alla pratica istintiva, tradizionale ed incosciente la norma del sapere. Senza entrare nella specializzata esposizione di questo o quel dialogo, perchè in tutti gli svariati casi non rileveremmo che una sola con- clusione, basterà qui dire che Socrate è stato il primo, che abbia nettamente formulata l'esigenza di una tecnica speciale delle arti e ravvisata la necessità, che a capo di ogni pratica occupazione deve esser collocata la riflessione normativa: e, per le cose già espo- ste, non fa mestieri che chiariamo meglio questo pensiero, perchè altri non creda, che egli intendesse conciliare la pratica e la teo- ria, l'arte e la scienza. E qui cade in acconcio di osservare che la meraviglia, con la quale molti hanno ri- guardato il dialogo che Senofonte riferisce con la meretrice Teodota ('), non ha fonda- (i) Mem., Ili, cap. ii,  mento che nella natura delle nostre morali convinzioni. Quel dialogo, che non deve essere addotto a provare che la principale preoccupazione di Socrate fosse la ricerca dei concetti ('), né può essere inteso come interamente derisorio, perchè l'ironia è un momento ofenerale della conversazione socratica, mo- stra, a nostro parere, che il mestiere della meretrice potesse anch'esso nei suoi elementi affettivi venir subordinato al criterio socratico di un esercizio normale e riflesso. Quel- l'arte non destava allora gli scrupoli esage- rati, che noi moderni siamo soliti di provare contro ogni divagazione della natura dalla norma assoluta di una morale precettistica. Anzi, per le speciali condizioni della famiglia greca, sviluppava soventi nelle donne libere un grado di cultura superiore di gran lunga (i) Come fa Zeller. Questa è l'opinione di Brandis: Enhvickelungen ecc., Vedi su questo argomento Hermann: Privatalterthilmer, con tutte le autorità ivi addotte, e specialmente John : The Hellenes, the history of the mannei's of the ancient Greeks,  LE FORME CONCRETE DELLA VITA ETICA a quello della donna legalmente ritenuta nelle angustie del gineceo. E a terminare questo schizzo della coscienza politica e sociale di Socrate osser- veremo, che egli, col rilevare l' importanza dell'attività cosciente, nobilitò il concetto del lavoro, facendone uno degli elementi costitutivi dello stato e della famiglia. Questa veduta era allora qualcosa di nuovo, perchè diretta a reagire contro un pregiudizio, fon- dato nella costituzione sociale dell'antica Gre- cia e già da gran tempo invalso, che facea considerare come indegna dell'uomo libero la produzione ottenuta col lavoro manuale. Se Socrate abbia o no superato il particolarismo ellenico, e se ritenesse per giusta come vuole Senofonte, o per ingiusta come vuole Platone p), l'offesa arrecata al nemico, nella grande incertezza dei criteri seguiti dai vari espositori noi non sappiamo affermare. Ad ogni modo, l'autorità di Senofonte ci par- [V. Jacobs, “Vertnischte Schriften”. Meni. Crit., e Rep.. Questa è anche l'opinione dello Zeller.] rebbe da preferire, e la maniera arbitraria come si è voluto da alcuni interpetrarla ci pare infondata e priva di ogni verosomi- glianza ('). (i) Il Meiners: Geschichte der Wissenschaften, pone una distinzione arbitraria fra il male arrecato sensibilmente all'inimico, e quello che può toccare il suo benessere interno, negando che quest’ultimo sia incluso nel xaxcòj iioistv di Senofonte. Né meno infondata è la supposizione del Brandis, secondo la quale Senofonte non avrebbe espresso interamente il pensiero di Socrate. Strumpell tenta supplire Senofonte col Gorgia. Antonio Labriola. Labriola. Keywords: implicature, comunismo, socialismo, partito socialista italiano, il vico di Labriola, il Bruno di Labriola, Labriola su Herbart, Labriola su Zeller, comune, sociale, filosofia della storia, dialettica socratica, fra dulcino, carteggio con Croce, all’origine del socialismo comunismo materialista in Italia – l’avvento creative del comunismo in Italia.  Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Labriola," “Grice e il Vico di Labriola” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Grice e Lacida: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. A Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.

 

Grice e Lacrate: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Lugi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. A Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.

 

Grice e Lacrito: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. A Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.

 

Grice e Lafeonte: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia basilicatese – scuola di Metaponto -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. A Pythagorean, according to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”).

 

Grice e Lagalla: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazoinale della teoria geocentrica – la terra al centro del universo – filosofia campanese -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Padula). Filosofo italiano. Padula, Salerno, Campania. Grice: “I love Lagalla: the fact that he was an Aristotelian when everybody in Florence was a Platonist!” Figlio di un alto funzionario della burocrazia vice-reale. Studia filosofia. Perdette i genitori ed e affidato alla tutela di uno zio paterno, che lo avvia agli studi di filosofia. Volle trasferirsi a Napoli per proseguire nella sua formazione. Si iscrive ai corsi di filosofia dello Studio ed ebbe come maestri Stillabota, Vivoli e Longo. Affidato dal Collegio degli archiatri a Provenzale e Caro per un periodo di tirocinio, sembra vi si fosse condotto con una tale competenza da meritare i gradi accademici nulla pecuniarum solutione. Grazie a Longo, divenne l'ufficiale sanitario di una squadra navale pontificia di stanza a Napoli, con la quale si dirigge verso le coste laziali, per giungere poi a Roma. A Roma consegue una  laurea, in seguito alla quale entra al servizio di Santori, per il cui interessamento ottenne da Clemente VIII l'incarico di lettore di filosofia presso la Sapienza. Cura per Facciottola stampa di un commento ad Aristotele, “De immortalitate animae ex sententia Aristotelis VII”,  manifestazione di un interesse verso la questione dell'anima, intorno alla quale L. si interrogò per buona parte della sua vita intellettuale e che contribuì ad attirargli sospetti di eterodossia.  Altre saggi: “La circuncisione di Cristo”. Al problema dell'anima L. dedica corsi della lettura ordinaria di filosofia, che tenne alla Sapienza. Queste lezioni sono raccolte in  “De anima commentarii”. Allo stesso argomento è dedicato un saggio dato alle stampe da L., il “De immortalitate animorum ex Aristotelis sententia libri III” (Roma). L., pur riaffermando le posizioni della tradizione d’AQUINO sulla questione dell'anima umana, secondo le quali l'anima intellettiva è “forma informans” del corpo ed è molteplice, accetta quelle di Alessandro di Afrodisia a proposito dell'animazione dei cieli, ritenendo che non abbiano l'intelligenza come forma assistente che li muove eternamente, ma piuttosto come forma informante. Morto Santori,  s’avvicina ad Aldobrandini, entrando al suo servizio. Conosce Cesi, al quale e legato da una cordiale amicizia. Se questa non da luogo a un'ascrizione all'Accademia dei Lincei, malgrado una precisa richiesta da parte di L., e solo a causa della sua marcata professione aristotelica Cesi lo presenta comunque a GALILEI quando quest'ultimo si reca a Roma per sottoporre il suo telescopio e le scoperte con esso realizzate al giudizio degli autorevoli astronomi del collegio romano, nonché di influenti membri della Curia pontificia e dello stesso Paolo V. Ne derivarono alcuni incontri, durante i quali L., incuriosito dall'occhialino galileiano, lo sperimenta ed e intrattenuto da Galilei con l'esibizione delle pietre lucifere di Bologna. Da ciò che vide, trasse spunto per due saggi, pubblicati in De phoenomenis in orbe Lunae novi telescopii usu a d. GALILEI nunc iterum suscitatis physica disputatio nec non de luce et lumine altera disputatio (Venezia).  Atteso con impazienza da Galilei, che e costantemente informato da Cesi dei progressi nella composizione, il saggio delude l'ambiente linceo.  Nel primo dei due saggi, pur difendendo la verità ottica di ciò che mostra il telescopio, cerca di spiegare l'irregolare -- la scabrosità della superficie lunare, detta perfetta da Aristotele -- come prodotto del regolare, attraverso una sorta di estensione di un principio di regolarità -- invariabilità dei cieli e dei corpi e fenomeni inclusi in essi -- cui risponde l'intera fisica celeste aristotelica. Le asperità lunari dovevano dunque consistere in parti più dense d’etere, più opache alla luce, e in parti meno dense, più chiare. Nel secondo saggio L. racconta una discussione sulla natura della luce avuta con Galilei, Cesi, Misiani e Clementi: dopo aver ribadito che la luce non è una sostanza, ma un accidente o una qualità reale, tratta delle pietre lucifere e, contro l'interpretazione di Galilei, osserva che la luminescenza delle pietre non è una proprietà del minerale non trattato, ma una conseguenza del processo di calcificazione, che rende la pietra porosa e in grado di assorbire una certa quantità di fuoco e di luce, poi lentamente rilasciata. Con ciò esclude che possa essere il prodotto della riflessione della luce solare sulla terra da parte della luna.  A proposito del primo dei due saggi, Galilei medita di fornire una risposta pubblica, sollecitata dallo stesso L., di cui le note di lettura al volume in questione, sembrano essere il lavoro preparatorio. Tale risposta non arriva, ma i rapporti tra i due divennero più stretti, forse per effetto di un lento avvicinamento delle rispettive posizioni scientifiche. In occasione dell'osservazione di una cometa, scrive il Tractatus “de metheoro quod die nona novembris anni presentisin urbe apparuit sopra collem Pincium” e poiché quest'opera pare, in alcuni punti, accogliere le posizioni di Galilei, e attaccato di scarso aristotelismo. Si convence così a chiedere a Galilei e a Cesi il sostegno per una lettura a Psa. Pur non mancando l'occasione (la morte di Papazzoni aveva reso vacante un posto), non se ne fa niente, ma anche in questo caso i rapporti tra i tre uomini rimasero saldi. Aumenta intanto la sua insofferenza verso gl’ambienti romani che lo guardavano con crescente sospetto. La sua “De coelo animato disputatio” e in Germania, per l'interessamento d’Allacci. Non rinuncia a coltivare la speranza di ottenere un adeguato incarico al di fuori della capitale pontificia, tanto da valutare con attenzione la proposta di trasferirsi alla corte di Sigismondo III. Le compromesse condizioni di salute (soffriva di una malattia urinaria, forse una ipertrofia prostatica con complicanze) e il timore che l'inclemente clima polacco potesse peggiorarle lo portarono a rifiutare.  Continua a praticare la filosofia, e segue il suo protettore Aldobrandini in diversi viaggi in vari luoghi d'Italia. Gli è stato dedicato il cratere L. sulla Luna. Altre saggi:  “De phaenomenis in orbe lunae novi telescopii usu nunc iterum suscitatis” (Venezia); “De metheoro quod die nona novembris anni presentisin urbe apparuit sopra collem Pincium”; “De luce et lumine altera disputatio”; “De immortalitate animorum ex Aristotelis Sententia”(Roma); Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat.; cfr. Kristeller; cfr. Edizione naz. delle opera, Firenze, Biblioteca, Galil., Favaro, nell'ed. naz. delle opere di Galilei, X indica una stampa apparentemente irreperibile, Roma; ma Heidelbergae. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Giano Nicio Eritreo [Gian Vittorio Rossi], Pinacotheca imaginum illustrium doctrinae vel ingenii laude virorum, I, Coloniae Agrippina, Leone Allacci, Vita, Parigi, T. Alfani, Istoria degli anni santi” (Napoli); “Dizionario istorico” (Napoli); F.  Colangelo, Storia dei filosofi e dei matematici napolitani, Napoli Stefano Gradi, Leonis Allatii vita, in Novae patrum bibliothecae, A. Mai, Romae, E. Wohlwill, V. Spampanato, “Bruno” (Messina); G. Crescenzo, Dizionario storico-biografico degli illustri e benemeriti salernitani, Salerno); “I maestri della Sapienza di Roma, E. Conte, Roma, ad ind.; M. Bucciantini, Contro Galileo, Firenze, Italo Gallo, Figure e momenti della cultura salernitana dall'umanesimo ad oggi, Salerno,  Paul Oskar Kristeller, Iter Italicum, Lettere del Lagalla, o di altri con notizie su di lui, si trovano nell'Edizione nazionale delle opere diGalilei, a cura di A. Favaro, Firenze, ad indices, è pubblicato il “De phoenomenis in orbe Lunae” con postille di Galilei); G. Gabrieli, Carteggio linceo, Roma. CoMLOL, Grice: “The more I read secondary bibliography about this one qualifying as ‘napoletano’ – la ‘filosofia napoletana’ ‘il filosofo napoletano’ – the less I’m inclined to consider him Italian!” -- Iulius Caesar Lagalla. Giulio Cesare Lagalla. “Un aristotelico che dialogava con Galilei”. Lagalla. Keywords: implicatura, the earth is flat; la terra e al centro dell’universo, la pietra di Bologna, la kryptonite, la luna, l’immortalita dell’anima, animo, spirare, peripatetici, licei, sublunary, lunary. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lagalla” – The Swimming-Pool Library.  Lagalla.

 

Grice e Lamisco: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone – Roma – filosofia pugliese – scuola di Taranto – filosofia tarantina – scuola tarantina -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Taranto, Puglia. A Pythagorean and friend of Archita di Taranto. When Plato runs into trouble in Siracusa, Archita sent L. to rescue him – which takes him ‘two weeks and a half.’

 

Grice e Lamanna: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del risorgimento fiorentino filosofia basilicatese -- – filosofia italiana – Luigi Speranza (Matera). Filosofo italiano. Matera, Basilicata. Grice: “I like Lamanna – a very systematic philosopher especially interested in the longitudinal history of philosophy – he wrote on economics during controversial times, too!” Linceo. Fa i primi studi in seminario e poi nel Liceo classico della sua città. Si trasfere a Firenze, laureandosi con Sarlo. Insegna a Messina e Firenze. Pubblica un commento alla dottrina. Autore di un fortunato manuale di storia della filosofia. Membro dell'Accademia nazionale dei Lincei. Diresse la "Collana di Filosofia" delle Edizioni Morano di Napoli. Stabilito, per L., che la religiosità e un'esigenza naturale dello spirito umano, egli rileva le contraddizioni percepite dalla coscienza fra l'”essere” (“is”) e il dover essere (“ought”) -- fra l'esigenza di una realtà concepita come razionalità e ordine, e la percezione di una realtà che appare irrazionale e disordinata, così come fra la concezione dell'assolutezza dello spirito e la concreta limitatezza della realtà umana. Da queste contraddizioni deduce la necessità dell'esistenza di Dio. Analoga antinomia gli sembra esistere tra morale e politica che a suo avviso può essere risolta trasportando nell'attività pratica la riconosciuta razionalità dell'ordine trascendente e divino, che è di per sé bene assoluto. In questo modo l'operare umano si fa etico ossia, secondo L., realmente politico, realizzandosi concretamente nell'ordinamento giuridico e, così come nell'operare razionale si concreta la vita morale, da questa si raggiunge l'armonia in cui consiste la bellezza. Altri saggi: “Lo spirito – l’ispirante” (Firenze), Kant, Milano, “La polizia di Platone e gl’uomini”, Milano, “Filosofi italici d’eta antica” (Firenze); La filosofia, Firenze); “Il bene per il bene” (Firenze); “Il regno di fini” (Firenze); Scritti storici e pensieri sulla storia, Padova; Piovani (Torino); Piovani, Tra etica e storia, Napoli); Martano, L'esperienza speculative, in «Filosofia», Calò, Il pensiero, Napoli, Calò, Studi e testimonianze, Matera, Dizionario biografico degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani. Grice: “Lamanna was concerned about the idea of the state, which is not an easy thing. More specifically, the concept of the ITALIAN state. In his history of philosophy for ‘i licei classici’, he rewrote his Manuale di filosofia into a ‘Sommario’. – The history goes smoothly up to Kant. The third volume is about MUSSOLINI. He is the only philosopher he cares to capitalize. He also capitalizes fascism into FASCISMO, which is odd seeing that his main source is Mussolini’s own entry for ‘fascismo’ in the Treccani which does not give it such a status. The third volume is ITALO-CENTRIC, from VICO onwards, FARLINGIERI, and notably GENTILE to end with MUSSOLINI. The idea is presented by L. as a ‘riconstruzione dello stato’ – we are talking of the ‘stato moderno’ – il stato liberale borghese is in ruins – and although he plays with the ‘socialist state’ he does not consider it within the realm of the proper history of philosophy when he talks of French illuminism. So his concern is wht the idea of the state in the liberal party – the philosophy of the laissez-faire. It provides NEGATIVE freedom. Freedom from the other. And there is competition. Also, as he notes, liberalism lies in that the ‘condizioni iniziali’ are hardly ‘equal’ for every member of society, so that liberalism only pays lip service to ‘liberale’. With the socialist state, the problem is the opposite: the state becomes a gestore – and there is this idea of an endless dialectic among the classes. So how does Mussolini reconstruct all this. He calls it ‘stato fascista’ – Had L. continued from Kant to Fichte and Hegel, the student would be more prepared! Mussolini’s idea of the state is Hegel’s – it is the NAZIONE-STATO. While Mussolini speaks of the ‘individui’ of this nazione, he means the Italians (not the Jews, etc.). SO this NAZIONE however, is MORE than the sum of its individui. Individui come and go – but the state remains. The state becomes governo. Mussolini’s prose is machist and homosocial, and Lamanna has to lower down the rhetoric, but nothing is said about Germany. It is ITALY which is seen as proposing this new or novel idea of the state (after la rivoluzione fascista) with a Kantian approach. Since L. has only read Kant seriously, he applies Kantian categories here: Mussolini’s fascist state gives each individual POSITIVE freedom – to be a slave to the CAPO or Duce who ‘knows’ how to command. L. quotes from CICERONE to the effect that it is obeying the law that makes us free. The emphasis is constantly on the azione or prassi, which is understandable since the pupils are supposed to learn about philosophy. So where is the dotttina? Mussolini is candid about this. When ‘I all started it’ I did not know where I was going. It was the ANTI-PARTY movement --. L. provides the editorial. During the ventennio, this action, which is the INSTINCTIVE FORCE OF THE SPIRIT OF THE NATION, becomes legalistic, a party is formed, and indeed a government (polizia, politeia) established. But Mussolini accepts castes in society. Even the religion, a civil religion, is subdued and one can very well be allowed to worthip the God of the Heroes. It is an ‘etica guerriera’ and it targets the male – virtu, andreia. Being commanded by one know knows is a privilege. Ths is interesting because this is conceived after the temporary successes in Africa – Mussolini romano e africano – and before the problems of the second world war. For the first time, Italians FEEL they are part of a NATION. The seeds are in the Risorgimento, but this got stuck with a liberal kind of state, which only provides negative freedom, anyway, and where the initial conditions are  unequal. Lo stato fascista does not play with parlamentarism, so Congress is closed, and the only party is the national party. Jews are excluded from PUBLIC service -- even if some wrote panegirici for fascism, like Mondolfo. The philosophical foundations are found in Hegel. If Hegel concentrated all in the Kaiser of Prussia, Mussolini does so with himself. GENTILE did not really help, although he was the official voice of fascist philosophy --. The student of philosophy then is taught the lessons of history (philosophy is IDENTIFIED with its history) and indoctrinated in the final stages into a particular IDEOLOGY. The tone is catechistic, and there is no idea of dissent. L. however emphasises that the stato fascista still recognizes the indidivuality and the personality of each member – as the stato comunista or socialista would not!” Eustachio Paolo Lamanna. E[ustachio] P. Lamanna. E. Paolo Lamanna. E. P. Lamanna. Lamanna. Keywords: il risorgimento fiorentino, Mussolini nella storia della filosofia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lamanna” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lami: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della ragione dei antichi romani – la tradizione della polizia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Lami; he has written interesting approaches to Plato and Aristotle.” Si laurea e insegna a Roma. Altri saggi: "La ragione degli antichi” (Giuffrè, Roma); "La politica di Platone” (Rubettino, Cosenza); "Tra utopia e utopismo" (Cerchio, Rimini) "Qui ed ora -- per una filosofia dell'eterno presente" (Cerchio, Rimini); "Il libro Manifesto – in difesa dell’oggettività" (Heliopolis, Pesaro); G. Sessa, "Voegelin -- Ordine e Storia” (Angeli, Roma, Filosofia politica Filosofia della storia nuova destra. Letteratura e Tradizione//miro renzaglia.org letteratura-tradizione-il-resoconto/ Scuola Romana di Filosofia Politica//centro studi la runa Fondazione Julius Evola. E’ davvero difficile per me, ricordare L. In questi giorni, ho dovuto farlo più volte, intervenendo a pubbliche commemorazioni della Sua memoria, a cominciare da domenica quando, in un gelido pomeriggio invernale, improvvisa e sorprendente, ci è giunta la notizia della Sua dipartita, durante la presentazione di un libro, alla quale avrebbe dovuto essere presente, come relatore, anche lui.  Immediatamente, il pensiero è corso al nostro primo incontro, quando io, giovane studente di filosofia, lo conobbi in qualità di assistente di Noce. Fin da allora, non si trattò di un semplice rapporto professionale, in quanto Lami seppe trasmettere a noi giovani che lo frequentavamo, l’amore per il sapere autentico, quello che si tramuta in testimonianza, in vita. Mi coinvolse immediatamente in un progetto ambizioso: quello di introdurre in un paese dominato culturalmente dalla Sinistra, il filosofo della storia Voegelin, allora praticamente sconosciuto. Il risultato di questa ricerca, alla quale ebbi l’onore e il piacere di partecipare in prima persona, assieme a Borghi e pochi altri, si concretizzò nella pubblicazione di una serie di antologie voegeliniane (qui è bene rinviare a Voegelin: un interprete del totalitarismo, Astra), che fecero ampiamente discutere. Il merito maggiore, conseguito da Lami, in questo ambito di studi, fu di individuare nel filosofo austro-americano, un diagnosta della crisi della modernità. In particolare, attraverso l’analisi e la traduzione di Ordine e storia, opera monumentale, Egli presentò l’esperienza classica della ragione, quale unica terapia possibile delle devianze neo-gnostiche contemporanee (si veda, prefazione a VOEGELIN, Israele e rivelazione, Aracne, ma anche L., Introduzione a Voegelin, Giuffré).  Fece propria, in modo critico e originale, l’eredità di Noce, secondo modalità più profonde rispetto a chi, tra i suoi presunti discepoli, scelse, come il Maestro, una via di fede. La cosa, è facilmente deducibile dalla lettura dell’organica monografia che egli dedicò al filosofo cattolico (Introduzione a Augusto Del Noce, Pellicani), da cui si evincono tanto la gratitudine per il discepolato e per gli insegnamenti ricevuti, sostanziati da un metodo rigoroso d’analisi quanto le differenze speculative essenziali, dovute alla valorizzazione filosofica, propria di Lami, delle qualità virtuose dei singoli, nell’ambito pratico-politico. A questa scelta, che peraltro individua, nello specifico, il campo d’indagine della scuola romana di filosofia politica, che a Lui faceva e fa, tuttora, riferimento, hanno fortemente contribuito gli interessi per gli autori dimenticati del novecento. Tra essi, TILGHER e EVOLA. Al primo dedica un volume significativo (TILGHER, un pensatore liberale, Seam), nel quale evidenzia il tema della pluralità delle morali, come caratterizzante il pensatore napoletano. Ciò, secondo L., lo avvicinava al filosofo tradizionalista, poiché il suo pensiero, individua effettive vie realizzative in grado di determinare le tipologie umane dell’eroe, del santo, dell’asceta, del saggio e del dotto. Sul secondo da alle stampe la prima monografia filosofica: Introduzione a Evola. Un passo per la vita e un passo per il pensiero, Volpe. Inoltre, quale collaboratore della Fondazione Evola, cura diversi volumi della “Biblioteca evoliana” nei quali, come pochi, è riuscito a contestualizzare storicamente l’opera del filosofo romano e a coglierne il valore, in un lavoro esegetico sempre aperto alla comparazione.  E’ proprio Evola, l’autore attorno al quale si sono dipanate, nel corso degli anni, le nostre discussioni. Mi pare, infatti, che Egli leggesse EVOLA, tentando, almeno su certi aspetti, di andare, con gli strumenti della tradizione platonico-aristotelica, oltre le posizioni consuete a quest’ultimo, interpretando, al medesimo tempo, la consolidata lettura di matrice cristiana del pensiero classico, alla luce dell’esegesi evoliana. Stigmatizza sempre negativamente l’abbandono, dovuto all’irruzione della visione del mondo ebraico-cristiana, della dimensione civico-virtuosa, sulla quale la civiltà romana tanto insiste. La cosa, è particolarmente chiara nello studio dedicato a questo specifico tema (Socrate Platone Aristotele, Rubbettino), nel quale tenta di presentare il simbolo epocale del mondo antico, la “vita contemplativa”, come realizzantesi pienamente nella dimensione della Città, a testimoniare della contrapposizione tra tensione utopica tradizionale, e scacco utopistico, tipicamente moderno. Tema questo, attorno al quale spese le sue energie intellettuali nel recente volume Tra utopia e utopismo (Il Cerchio).  Corrispondere a quella che è stata la via da lui indicata, ad un tempo ideale ed esistenziale, a quella che egli definiva una filosofia dei pochi, del divino e dell’ordine, è compito complesso e gravoso, al quale comunque, chi come me, gli è stato vicino, non può permettersi il lusso di sottrarsi. Sarà la memoria della Sua luce interiore, che accendeva anche negli studenti della “Sapienza”, o in chi lo ascoltava nelle innumerevoli occasioni culturali per le quali tanto lavorava, dai Convegni alle presentazioni librarie, a sostenerci nella Sua assenza. Ma, più in particolare, l’idea di una tradizione sempre viva e presente, che si realizza, addirittura nella comunanza dei vivi e dei morti, come Roma (ma non solo) ci ha insegnato, e che rappresenta il suo testamento spirituale più prezioso (al riguardo si veda, Qui e ora. Per una filosofia dell’eterno presente, Il Cerchio.  L’università di Roma, con Lui ha perso una delle ultime personalità carismatiche, in grado di fare Scuola. Personalmente, non posso che ringraziarlo per avermi onorato, in questo mondo, della Sua amicizia, rara e preziosa: quella di un Signore. Tratto da Area. Grice: “Lami touches some crucial points. For one, he criticizes Jowett for mistranslating Plato. What Plato wrote is fair and simple, ‘Police’ – Politeia --. Lami as a Roman hates the Pope – who does he think he is? The Papal dynasty is take in that they cannot reproduce. So we must go to the civil-political organization of the Romans, as seen from the the heroic ‘eta’ of Romolo. La citta. La Civilta. La tradizione. La tradizione una. Espressione varie e tradizione una.  With the birth of Christ, Roman words acquired new implicatures, for bad. Pagan started to mean ‘heathen’, and ‘ethnicus’ (ennico) more or less the same. Of course the old Romans were anything but PAGAN or heathen – they did almost EVERYTHING for Marzio, to whom they dedicated the downtown gym! (Campo Marzio). Lami knows all this – and more --. Gian Franco Lami. Lami. Keywords: la ragione degl’antichi,  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lami” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lampria: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia pugliese – scuola di Taranto – scuola tarantina – filosofia tarantina -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Taranto, Puglia. Tutor of Aristosseno di Taranto, although he seems to have taught him music rather than philosophy.

 

Grice e Landi: la ragione conversazionale e la semiotica economica – prinzipio di economia dello sforzo razionale – filosofia lombarda – scuola milanese – scuola di Milano -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I would call Landi a Griceian; but he’d call me a Landian!” Studioso della dottrina del ‘segno,’ vis-à-vis- scienze umane e antropologia, apportato un notevole contributo agli sviluppi alla semantica (senso) e la pragmatica (prassi, pratica – ragione pratica) -- crt, cercando di unificare la dialettica romana e fiorentina  con quella oxoniense. Diplomato al Regio Liceo Ginnasio Alessandro Manzoni, si laurea a Milano. Studia a Pavia. Insegna a Padova, Lecce. Riceve, e Trieste. La sua opera si può suddividere in tre fasi. La prima riguarda studi su la prassi (ragione pratica), nonché l'analisi dei processi di “segno.” La seconda fase propone una teoria della “produzione” del segno intendendola come teoria del lavoro cui fondamento è l'omologia tra la teoria del segno e so-miscalled aeco-nomia. (cf. Grice, P. E. R. E.). La terza fase studia l'intricato rapporto tra il segno e la ideologia e teorizza l'”alienazione” dell’usuario del segno (ego/alter/alien). Opere: Pratica communicativa (Bocca, Milano); “Segno” (Manni, Lecce); “Significato, comunicazione e parlare comune,” – cfr. Grice, “SignificARE, communicARE, impiegare, implicARE, -- ‘common’ is Landi for Grice’s ‘ordinary’ as opposed to extra-ordinario. Marsilio, Padova. La semiotica e  “Segnare” come lavoro e mercato, -- cf. Grice against an utilitarian and pro a Kantian account of the rational effort – but remarks in the “Retrospective Epilogue” about his concern with ‘rationality’ as being co-operative. And Grice’s remarks about the independence of the two thesis: semiosis as rational and semiosis as cooperatively rational. Bompiani, Milano, Segno ed ideologia (Bompiani, Milano), “Segnare” (Bompiani, Milano); “Ideologia” (Mondadori, Milano); “Metodica filosofica e semiotica -- scienza dei segni, o teoria? – cf. Grice on philosophical psychology,’ folk science of psychology – ceteris paribus – ‘law’ of the science of psychology --. The laws of psychology – “That’s why we call them ‘psycho-logical’ concepts, or theoretical terms, -- psychological theory --. Theory Th.  (Bompiani, Milano). Cf. Grice on the boundaries of ‘mean,’ and the idea of ‘consequence,’ y is a consequence of x, x means y. Il corpo del testo tra riproduzione sociale ed eccedenza, Scritti su G. Ryle e la filosofia analitica” (il Poligrafo, Padova); “Semiotica Filosofia del linguaggio  su ferrucciorossilandi.c om. Grice: “Landi takes economics seriously, as did Aristotle – unfortunately, those researching onto Landi hardly quote from Aristotle!” “While the Italians think that Landi is being very Original, we at Oxford don’t! Game theory, strategy theory, and efficiency theory are all basic to ‘oeconomica’ in most pragmatic models of efficient communication – “Information is like money!” – Cf. la teoria del valore e le formulae dell’egoismo, l’altruismo o non-egoismo, Meinong. Teoria formale del valore. I valori egoistici risultano espressi con le lettere T e e te1 Hay Ja, Un Un,, Tv Uy. Gli valori altruistici sono espresso con le lettere: i. I valori neutrali sono espresso colle lettere : Ym. Siccome non si propone di dare una teoria compiuta dei fatti concomitanti di questo o quello valore, ma solo di ANALIZZARE tal unicasi va   speciali, così, quando adopera i simboli senza l'indice soscritto, intende significare il valore egoistico – con la lettere ‘e’ sottoittesa. Questi simboli possono esprimere questo o quello BENE, ma anche questa o quella volizione a questo o quello BENE riferentisi. Per indicare una volizione, si adopera il stesso segno *fra parentesi quadratti*. Infine, si suppone, di regola ceteris paribus,che la circostanza concomitante sia sempre una sola, la quale, insieme alla volizione, formi ciò che chiamamo il “bi-nomio” della volizione. Se le circostanze sono più, allora si forma un “poli-nomio” della volizione. La precedenza di una lettera in un binomio o un polimonioindica il valore principale, sia desiderato o sia attuato. In che modo i fatti concomitanti del valore sono connessi collo scopo della volizione? Siccome ogni scopo di volizione è anche un oggetto di valutazione, la domanda può formularsi così. Come i valori possono entrare in connessione tra loro? Si noti però che la connessione deve stabilirsi prima del cominciamento della volizione, giacchè questa volizione deve tenerne conto. Le co-esistenze casuali restano naturalmente escluse. Tra lo scopo dellla volizione e l'oggetto della valutazione concomitante possono correre varie relazioni. C’e una relazione d’identità. Ciò che il  artista o un politico come Mussolini crea non soddisfa lui SOL tanto, apparirà sempre in qualche modo come un BENEFICATORE di tutta una sfera di uomini – la nazione italiana. C’e una relazione di CO-ESISTENZA di più qualità di una stessa cosa, o anche di più cose. Per esempio, un tale VUOL comprare un piano che ha (+) un bel tono. Ma il piano ha anche (-) una cattiva meccanica. O un cane da guardia molto vigile (+), il quale però morde (-). O una macchina automobile che lavora bene (+), ma che fa rumore e fumo (-) ,ecc. C’e un nesso causale, nelle sue due forme: a) lo scopo è CAUSA di conseguenze valutabili. Il politico chi, per esempio, promuove il movimento e l' industria dei forestieri, mira ad arricchire la sua nazione (+), ma anche la de-moralizz (-). b) lo scopo non si può raggiungere che come EFFETO di dati valori morali. Per esempio: un fabbricante per  . Ora torniamo alla domanda principale. In che modo il valore morale di una valutazione dipende dai valori concomitanti, e,in caso di un simple bi-nomio della volunta, dal valore concomitante? Abbiamo distinto quattro categorie di valori, “g”, “T”, “u”, e “u”, le quali si applicano anche ai fatti concomitanti. Però il caso u si può omettere, perchè non accadrà mai, CHE SI VOGLIA UN PROPRIO NON-VALORE PER sè stesso. Rimangono così tre possibilità, le quali, liberamente combinate, dànno *dodici* casi che costituiscono la tavola dei valori. Per l'esame di questi casi bisogna pensare che ad un oggetto di volizione si aggiungano gli altri come fatti concomitanti, e osservare le variazioni di valore che questo intervento produce. La VOLIZIONE ‘POSITIVAMENTE ALTRUISTICA’ (benevolenza e beneficenza) è data da una formula. Il momento più importante è qui l'associazione della circostanza concomitante u, IL PROPRIO DANNO. È evidente che l'aggiunta di questo secondo momento accresce il valore di (i) e di tanto, quanto più grande sarà il sacrificio proprio. Indicando il valore con “W” ,si avrà dunque: W(ru) > WV. Se invece si aggiunge “u”, IL DANNO ALTRUI, sia dello stesso beneficato (quando il beneficio produce pure un MALE al beneficato), sia di persone estranee al rapporto (quando per beneficare uno si danneggia altri), allora il valore della volizione con questa circostanza concomitante diventerà minore. E la formula sarà: W(ru) < W(r). Se la circostanza concomitante è pure in favore del beneficato, allora la formula sarà indubbiamente: guadagnare di più deve migliorare la condizione materiale dei suoi operai. W (rr)> Wr.   glianze. Invece L’AGGIUNTA DEL VANTAGGIO PROPRIO AL BENE ALTRUI nè diminuisce, nè aumenta il valore. La volizione egoistica è espressa dalla formula, la modificazione più grave qui si ha, quando al caso si aggiunge la circostanza del  MALE ALTRUI. Allora si avrà: W(gu)<W(9). Se la circostanza concomitante è invece “r”, il valore della volizione egoistica si eleva: W(gr) > W(g). Che poi alla volizione egoistica si aggiunga la circostanza secon aria di un ALTRO PROPRIO VANTAGGIO (plusvalia) o anche di un proprio danno, non modifica il valore di (g). Si avranno quindi le due egua W (99)= W (g)= 0 W(gu)= W(9)=0. Così pure si aumenta il non-valore, se oltre al danno principale si aggiungono altri danni. Epperò: W (UU)< W (U). Per quanto il caso sia inusitato, si può prevedere anche, che al male altrui si associ una qualche conseguenza buona, indiretta,  W (rg)= Wr. La volizione altruistica negativa o anti-altruistica è espressa con una formula. Se per attuare il danno altrui, si fa anche il danno proprio u, questa circostanza aggrava il male e aumenta il non-valore: W (uu) < W (u). W(UY) > W(u). Il fatto concomitante della propria utilità non aggiunge nè toglie al valore della volizione principale anti-altruistica. Si avrà quindi l'eguaglianza: W (ug)= W u. La somma dei risultati ottenuti si può disporre in un Quadro. W(rr) > W(v)? W(gr )> W(g)? W(ur)> W (U)? W(yg)=W(r) W(99)=W(g)=0 W(ug)=W(U) W(ru)<W(Y) W(gu)<W(g) W(UU)<WU) W(ru)>W(V) W(gu)=W(g)=0 W(uu)<W(U). Da questo quadro si rileva che le circostanze concomitanti con segno negativo non sono più feconde di effetti di quelle con segno positivo. Di queste ultime, “g” non modifica nulla, e “r” non dà risultati sicuri, come indica il punto interrogativo. L'influenza dei fatti concomitanti si può dunque riassumere così. Agisce aumentando debolmente il valore. ‘g’ non modifica nulla. ‘u’ diminuisce grandemente il valore. ‘u’ opera secondo lo scopo della volizione -- ora aumentando, ora diminuendo e ora non-modificando il valore. Si è già detto che sarebbe uni-laterale il voler giudicare del valore morale di una volizione dallo scopo ;che però, in quanto lo scopo prende parte alla determinazione del valore, l'altruismo positivo è buono, L’EGOISMO è INDIFFERENTE. L’altruismo NEGATIVO (malevolenza e maleficenza) è cattivo. Ora è importante constatare, che il senso in cui i tre momenti valutativi operano sui fatti concomitanti è completamente lo stesso La validità della tavola dei valori, dianzi tracciata, ma pure prevista. Allora il non-valore si ridurrà, nel modo indicato dalla in-eguaglianza: subisce variazioni, se cambia la qualità della volizione? Itendendo per qualità la differenza tra appetizione e repulsione, che però non deve equipararsi a una contra-posizione logica tra affermazione e negazione, i cui termini si escludano a vicenda, ma considerarsi come una doppia possibilità psicologica, di cui l'una abbia altret tanta realtà indipendente, quanto l'altra. Un'analisi della NOLIZIONE mostra, che esse si comportano egualmente come la volizione, solo che si applicano di regola ai valori “T”, “u” ed “u”, RITTENENDOSI ASSURDO (IRRAZIONALE) IL NON VOLVERE IL PROPRIO VANTAGGIO ‘g’. Indicando le nolizioni con (T) (ū) (T) = (non- T) = (U) (U = (non-- U) = ( ) (ū)=(non u) = (g). Lo stato subbiettivo di rappresentazioni ed i predisposizioni anteriore alla volizione è indicato con il concetto di “Progetto”. E siccome in questo stato abbiamo supposta anche la cognizione delle circostanze concomitanti valutabili, così al binomio della volizione o al polinomio della volizione corrisponde un binomio o un polinomio del progetto. Per indicare questi stati si adopera gli stessi simboli *senza la parentesi quadratti*. Osservando le volizioni in rapporto agli stati predisposizionali, l'analisi delle valutazioni dei fatti concomitanti può rendersi più esatta.  (ū) si possono fare le seguenti sostituzioni, che aiutano a trovare il corrispondente valore nella tavola relativa alle volizioni. Si ponga, per esempio, un bi-nomio iniziale della volizione “uu”, che esprima il mio desiderio di far male, al momento opportuno, a una persona, ma che non mi sia possible evitare, ciò facendo, conseguenze dannose pe rme,u. Se ildesiderio di non danneggiarmi prevale, allora non si avrà più il binomio (uu), ma l'altro (ūr), il quale dice che la volizione è risultata nel senso di non volere il male proprio, pur ammettendo che questa volizione abbia per circostanza concomitante y, cioè il bene altrui. In forma positiva la volizione finale sarà (gr). E così da una situazione iniziale negativa “vu” si riesce nella opposta gr (1). Questi sono i co-ordinati fra loro due bi-nomi di progetti, dai quali procedano due volizioni formalmente concordanti. Anche i due bi-nomi di queste volizioni saranno coordinati fra loro. Essaminemo la coppia dei due binomi yu-gu, dei binomi, cioè, che hanno la maggiore importanza pratica. Il primo bi-nomio esprime l'altrui bene col proprio danno. Il secondo bi-nomio esprime il bene proprio col danno altrui. Nel primo rientrano, nel senso o grado *massimale*, tutte le occasioni in cui si può affermare la grandezza morale di un uomo (magnanimita). Nel senso o grado minimale, i casi della più comune fedeltà al proprio dovere (to do one’s duty). La sezione di linea dei valori morali che comprende il MERITORIO e IL CORRETTO è tutta espressa da questo bi-nomio del Progetto. Laddove la sezione che va dal punto d'INDIFFERENZA al TOLLERABILE e al RIPROVEVOLE corrisponde alla negazione di questo binomio del progretto. Nel binomio “gu” sono espressi tutti i casi che vanno dal più SANO EGOISMO alle negazioni più delittuose dell'altruismo. Reciprocamente, la rinunzia a siffatte volizioni va dal semplicemente dove ROSO ALL’EROICO. Le volizioni che procedono da questi due bi-nomi comprendono adunque tutte le quattro classi di valori, caratterizzati in principio. I due bi-nomi anzidetti suppongono un CONFLITTO (non coooperazione) fra l'interesse proprio e l'interesse altrui. È evidente che dalla grandezza di questi interessi, dalla portata di “g” e di “Y”, dipende il valore morale della valutazione. I momenti “u” e “u” s'intendono compresi nella negazione di “g” e “y”. Intanto è certo che il VALORE EGOISTICO in cui “g” è congiunto con “u” , “W(gu)”, si trova sempre al di sotto del zero della scala, ed ha segno negativo. Mentre il valore altruistico in cui è congiunto con “u”, “W(ru)”, si trova al di sopra del zero ed ha segno positivo. Ciò posto, la funzione valutativa tra i termini dei due binomi dei pogretti si può scoprire agevolmente con una semplice osservazione. Sacrificare un piccolo interesse proprio a un grande interesse altrui ha un VALORE POSITIVO MINORE che il sacrificare a un piccolo interesse altrui un grande interesse proprio. D'altra parte chi non pospone a un grande interesse altrui un piccolo interesse proprio produce un non-valore morale più basso, che non colui il quale per una utilità propria rilevante non tien conto di utilità altrui tras curabili. Questo abbozzo di una LEGGE del valore si può esprimere nelle formule, nelle quali “C” e “C'” indicano le costanti proporzionali sconosciute, condizionate dalla qualità delle due unità “g” e “r”. Nell'applicazione di queste due formule all'esperienza si rendono necessarie talune modificazioni. Se poniamo I valori “r” o “g” eguali ai limiti 0 e 0 ,allora i calcoli diventano molto esatti. Per g per g. L’ESPERIENZA NON è però SEMPRE D’ACCORDO CON QUESTE FORMULE. Ognuno ammetterà che l'adoperarsi nell'interesse altrui si accosti l punto morale d’INDIFFERENZA, quanto più grande è quest'inteesse; e che il trascurarlo divenga nella stessa misura RIPROVEVOLE, “u” pposto costante e limitato l'interesse proprio da sacrificare. È F ,  1 W(ru) = Cg -0 Y Y g W (gu) = - C per r = 00 per r = 0 lim W (ru) = 0, lim W(ru)= 0, lim W (ru)= 0 limW(ru)= 0, lim W (gu) = - 0 0 limW (gu)= 0 lim W (gu)= 0 lim W (gu)= – 00. pure evidente, che la trascuranza di un interesse altrui diviene tanto più INDIFFERENTE quanto più IRRILEVANTE è questo interesse. Epperò non si ammetterà da tutti, che il valore dell'altruismo di venga allora infinito, come nella seconda formula. Osservando però bene, questi casi non rientrano nel campo della morale. Si contrasterà pure che il valore del sacrificio di un bene proprio per l'altrui, cresca colla grandezza del bene sacrificato (formula terza). Ma l'esperienza prova che l'esitazione al sacrificio si fa maggiore quanto più grande è il bene cui si sta per rinunziare. Invece è da riconoscersi che non è esatta la quarta formula. Non si può negare ogni valore al bene che si fa ad altri, solo perchè NON si determina un CONFLITTO con un bene proprio. Le formule anzidette si debbono mitigare nella loro assolutezza, perchè si accostino di più alla realtà. Per far ciò, basta attenuare il valore di “g”, il che si può ottenere aggiungendo a “g” ogni volta una costante “c” o “c '”.  Queste formule non modificano i limiti funzionali dianzi ottenuti, ponendo r = 00, T = 0 0 g = 00. Cambia bensì la formula del quarto limite. Se g= 0: lim W (ru) = C, lim W(gu) = - ' Sin qui abbiamo considerato l'una variabile IN-DIPENDENTE dall'altra. Che avverrà però, se le variazioni si compiranno in entrambe le variabili congiuntamente, supponendo che “r” e “g” rimangano uguali fra loro per grandezza di valore? Sostituendo a “g” il simbolo “r”, le formule diverranno altri. Si avranno così le formule. Tr W (ru) = 0 9 + c g +di  e Y W(gu)= W(gu)=-C' ito Y W(ru)= C y- to' . Da questo risulta che il non-valore deve crescere e diminuire nello stesso senso o grado limite di “r” e “g”, e il valore in senso o grado di limite contrario. Consultando l'esperienza, si può riscontrare agevolmente che un oggetto, per esempio un dono, abbia lo stesso valore per chi lo dà e per chi lo riceve. Ora si domanda, regalare di più avrà un valore più alto o più basso del regalare di meno? Senza dubbio più alto. E se si contrapponga vita a vita, CHI SACRIFICHI LA PROPRIA VITA per conservare quella di un altro, suscita di fatto grande ammirazione. QUESTO è però IL CONTRARIO DI ciò che quelle formule esprimono. O “c” corre adunque correggere le formule e per far ciò introducemo un esponente di “g”, più grande dell'unità, e lo indicamo colle lettere “k” e “k'”. Le due formule diverranno così, rimettendo “y” al posto di “r”. Sicchè si avranno i seguenti limiti. A questo punto, il concetto di limite non hanno più bisogno di alcun'altra correzione. Per semplicità di espressione ponendo C= 1ek =2, la formula del binomio divienne W(gu)= T. È questa una formula a discuttere. . g2+1 ghto Y gkilt o W(gu)= W (ru)= C per r= 9 perr= g= 0 T g2+1 W (ru)= e Y e limW(ru)=00 lim W(gu) = 0 limW(ru)=0 limW(gv)=0. Preliminarmente non si ne ricava alcune conseguenze. Ogni pr getto offre a colui, che dovrà reagire con una volizione,l a doppia possibilità di fare o di tralasciare. Le due volizioni staranno, secondo la formula principale or ora  ricavata, in un rapporto di RECIPROCITà negativa, per ciò che ri guarda il loro valore morale. In secondo luogo, siccome una volizione di grande valore (positivo o negativo) o e MERITORIA O RIPROVEVOLE. Quella volizione di piccolo valore o e CORRETTA o TOLLERABILE, così potrà dirsi in generale che quanto PIù DISTANTI sono il NUMERATORE E IL DE-NOMINATORE della formula in una scala ordinale (1, 2, 3, … n), tanto più il valore della volizione e indicato dalle parti estreme superiore o inferiore della linea dei valori. Quanto più vicini o meno distanti sono invece quei numeri, tanto più l'indice del valore cadde verso il punto di mezzo di detta linea. La formula si applica inoltre anche ai casi di una volizione I cui scopo non siano accompagnati da circostanze concomitanti. Basta ridurla. W(9)=0(1). UU. Mentre la prima coppia esprime il caso di CONFLITTO D’INTERESSI, la caratteristica della seconda formula è la CONCOORDANZA O INTERSEZZIONE O COOPERAZIONE O CONDIVIZIONE gl'interessi propri con gli altrui, positive, o, come nella guerra o il duello, negativi.  Se il progetto offre l'occasione di congiungere con la mia utilità l'altrui, o se mi rappresenta un pericolo altrui nel quale scorgo un pericolo mio, la volizione corrispondente e espressa con (gr). V'è però anche la rappresentazione del desiderio di un male altrui, cui si associa anche la previsione di un danno proprio. La corrispondente volizione e espressa con “(uu)”. Il conflitto qui non esiste fra “g” e “y”, ma fra “g” e”v”, cio è fra “g” e -Y Questa riflessione ci fa subito applicare al caso attuale la formula principale del primo binomio. Così, go+1 Y. W(uu)= W (Y)= >.  Passamo ora ad esaminare un'altra coppia di binomi: gr g+1 1 T   (go+ 1)r. Mantenendo anche in questo caso il principio della RECIPROCITà negativa dei due binomi di progetto, l'altro binomio diverrà epperò la seconda formula principale così ottenuta e (1): W(uu)= -(g2+ 1)r. Le costanze rilevate in queste formule dimostrano sufficientemente che il valore morale è in relazione tanto con lo scopo principale della volizione quanto con i fatti valutabili concomitanti, com’era di sperare! Ferruccio Rossi-Landi. Landi. Keywords: implicature. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Landi,” The Swimming-Pool Library, Villa SPeranza, Luigi Speranza, “Grice e Rossi-Landi a Oxford.” Luigi Speranza, “Grice’s principle of economy of rational effort and Rossi-Landi’s economical semiotics.” Luigi Speranza, “Grice and Rossi-Landi: over-informativeness and excess: the implicature” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Landino: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della sforziade degl’italiani – filosofia toscana – filosofia fiorentina – scuola di Firenze – scuola fiorentina -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice: “I love the way a philosopher can be judged by his fellow citizens and by furriners: Landino’s “De Anima” fascinates the Germans, for example! While his poetry fascinates the Americans, as I Tatti testifies!” Nacque da una famiglia originaria di Pratovecchio, nel Casentino, e compì gli studi in materie letterarie e giuridiche a Volterra. Gli venne affidata presso lo Studio fiorentino la cattedra di oratoria e poetica che era stata del suo maestro Marsuppini: L., sostenuto dai Medici, e stato avversato da non pochi personaggi in vista, come Rinuccini e Acciaiuoli. Tra i suoi allievi ci furono Poliziano e FICINO (si veda). In quel periodo ricopre anche incarichi pubblici, facendo parte della segreteria di Parte guelfa e della prima Cancelleria. Tra i suoi viaggi, spicca quello a Roma. La sua Xandra e una raccolta di componimenti dedicata inizialmente ad Alberti e de' Medici. In campo filosofico scrisse III dialoghi: il De anima, le Disputationes Camaldulenses  e il De vera nobilitate. La maggiore fama nei secoli di L. e però legata alla sua attività di commentatore dei classici. Diede alle stampe il Comento sopra la Comedia di ALIGHIERI, su ORAZIO e su VIRGILIO. Traduttore dal latino in fiorentino della Storia natural di PLINIO e la Sforziade di Simonetta Il volgarizzamento pliniano e un vero e proprio evento. Per la prima volta la plebe puo leggere la più importante e vasta enciclopedia del mondo romano -- tra i suoi lettori Pulci, Colombo e Vinci. Per i meriti acquisiti, la signoria fiorentina gli assegna una torre nel Casentino e una pensione.  Venne ritratto tra illustri fiorentini a lui contemporanei da Ghirlandaio nella Cappella Tornabuoni di Santa Maria Novella. Altri saggi: “Orazione alla Signoria fiorentina incipit della Historia naturale tradocta di lingua latina in fiorentina”; Xandra, “De anima”; “Disputationes Camaldulenses; “De vera nobilitated”; “Comento sopra la Comedia di Dante”; “Commento a Orazio”; “Commento all’epopea eroica di Virgilio”; “Historia naturale di Caio Plinio Secondo tradocta di lingua latina in fiorentina  al serenissimo Ferdinando re di Napoli”; “Orazione alla Signoria fiorentina quando presenta il suo Commento di Dante, Firenze, Niccolò di Lorenzo, Formulario di epistole, Firenze, Bartolomeo de' Libri. Il testo si può leggere in edizione critica. Carmina omnia ex codicibus manuscriptis primum edidit A. Perosa (Firenze); “Disputationes Camaldulenses” Lohe (Firenze, Sansoni); C “De vera nobilitate, M. T. Liaci, (Firenze, Olschki); R. Cardini, La critica del Landino” (Firenze, Sansoni). Dallo stesso studioso è stata allestita la raccolta: C. Landino, Scritti critici e teorici, Cardini, Roma, Bulzoni, Comento sopra la Comedia, I-IVProcaccioli, Roma, Salerno editrice, Questo commento è stato solo parzialmente edito (la sezione relativa all'Ars poetica): Cristoforo Landino, In Quinti Horatii Flacci Artem poeticam ad Pisones interpretationes, G. Bugada, Firenze, Sismel, R. Fubini, Quattrocento fiorentino. Politica, diplomazia, cultura, Pisa, R. M. Comanducci, Nota sulla versione landiniana della Sforziade di Giovanni Simonetta, «Interpres» Uno studio complessivo, sia filologico sia storico-culturale, dell'opera in A. Antonazzo, Il volgarizzamento pliniano” (Messina, Centro di Studi Umanistici). Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di Storia della Scienza di Firenze, Orazio, “Artem poeticam ad Pisones interpretationes. G. Bugada, Firenze, Sismel-Società internazionale per lo studio del Medioevo latino, Galluzzo, Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, A. Antonazzo, Il volgarizzamento pliniano Messina,  di Studi Umanistici, Treccani Enciclopedie Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Lee Sorensen. ALCUIN, Ratisbona. Liba secundus u aut Eandetn otionanft in anibus denrchedas. Ars enim natnratn quoad ua  Itt feropq imitatur. Sed nefeio quo pado cum de eqmalo quod iti vita Kiriorio  iMispa natura nucttigadum nobis propofuannus:iam fecundo in naturam rela« bor.lta^ bacomifla ad illud tademrueamusipcimunique omnibus PHILOSOPHIS omnibmi cbtifiianis audoribus non in eo quod ab ad ione proueninfcdin fo»  h ratione coUocemus. Non enim quid fadum iinfed qua mente fadum animad  uettunt. Quapropter quatuor ueluti principia ponunt. Cum enim fe nobis ilu  quid offert: mouctuc ea te fic oblata uis quzdam animorum nofttorums ut illam  cognoscat: tandem p decernit aliud bonum efTc aliud contra maium. Quapto ptrrcumiam feferes obtuleritrcum iam fecundo loco (it de ea iudicium fadumt  adtamr tertio loco uoluntast ut hoc quidem fequamur. Illud vero fugiamus. Qua quidem uoluntate ita iubente motus poftremo in corpora infurgut : ut id  tncmbraezc quantur quod noiunusancea de creuerit.Ncffi igitur a duobus illis  ptimisprindpiisnetp ab boc poftremo uitiumfpedatur:led a voluntate qua in ordine tertiam pofuimust. Non enim eo Verres pcccauit quod tabulz ftgnac ac  reliqua ftculorum preriofilTima fupeliez illi fefe of Ferreti Non rurfus quia iudica  ret forefibi ex ufu huiufccmodi ornatu abundaretfcd quia rapere uoluit cu uf«p  adeocz fola uoluntate res pendat: ut etiam ft non rapuerit :tamen quia rapere uo  luerit fitelus commifllim fitx Non enim interfecerit ne an non interfecerit: fed uo  lueiitne interficere in culpa eft:Defueruntuires. P.CIodio quominus Annium Milonem oeddere pof Tetx. Qua quidem in re fi naturz uitium quzras t pcccauit  ea uis:quzmentis propofitum non implcuit:fi uero ad morem teconuertas non  aduscorpord motus fed uoluntatis adus crimen concipit: Dicetur iure homi  dda Clodius quia Milonem uoluit ocddere: Fac autem ocddifte cum minime ta  men uoluerit exddere ftarim crimine abfoluetur. Qui enim non ex uoluntate:  fed uel ex infirmitate uirium quas modo pofiii vel ex insdiia rem quampiam c6  mittunnii non modo culpa carent: uCTum etiam cdmiseratione fzpistime digni  putanmr. Quis enim cum illud de Cephalo in procrin legit etiam fi fabulosum  putetmon iolum illum crimine liberat: Sed fumma infupercomifetatione profe  quituRcum animadvertat hominem ex infdria dum feram uulnerarc putat: ca tifiimam fibi coniugem percu Eiffeteuius morte in summum moerorem acludu  paulo postcafuruseifett Vides igitur auolutatisadu ueluti a fua origine uitium  in monbus flum: Verum cum iam conftet imbedllitatem adionis prouenire ex  infirmitate primi agentis rem hanc planius exponendam cenfeo: Videamus ita in quo defidatuoluntas ante commifllim fadnus. Qui quidem defedusfibi a  natura non erinfemperenimadbzrct/ femp pcccaret:ne rurfus eftcafu bc for  luna:eflet enim extra nos. Est igitur uOluurius.S'ed ut uideasundeifit error boc  aedpe. Visdus rd quz agit ab eo agente perficittu quod fupra fe eft: Donec enim  id quod fecundo loco agit perfeuerat in ordine primi agentis munus fuum abfo  lute peragit:Sinautemao illo declinet nullum iam remedium eflqn aut fiatim  aut paulo poftdefidattin gyrum uertitutdrculus qui manu humana torquef. Hic idem fi nunu dedinet a mom ceflabit. Ergo igitur ut ad rem redeam nupa  dicebam duo cflic pdndpiarquae uoluntatcm aateire ntt Res quz fefe nobis oSu a : k [ t  Oerumniobonp nttitt K uii gucdam ilfas oblatu fufdpiatt At cum qiiicgd bnhi!!»ttb£ A Ut moueri poffifaliguidhabeat proprium a quo moucaturmoo omnis pcrap et  di uis omnem appetitum mouebit. Nim quz fmlibilia percipit cum dutaiatape  petitum qui a renfibus e(i mouere ualai Ratio autem proprie uoluntatem mouc  biti Rurfuscum latio varia bonorum genera percipere poiritcuiuilibetautcm &  proprius finist Etit uoluntatis quoque pprius nnis k primum quo moueatiu n5  bonum quodlibetifed certum aliquod ac pncfizum.Siigit" mensnofira acuolo  tas perceptione eius rati6ismoueac7quz tedum bonorum malotu iudiciui B  teneat reda indeadio exorictur. Sinautem ab iis ezorit" quz falfo fenfuum iudb  do bona efle deaeta Tunticum minime flnt bona Ibtim peccat in uiu 6tmorib9  uoluntas. Peiueriio igit" ordinis qui est ad rationem et ad proprium finem gignit  peccatum in adione. Ad rationem quidem cum ad fubium fec fiis perceptionem voluntas fertunin id quod fi rede pcrfpidas bonum non efiifcd quia fuis ilicee brisrcnrusdemulfitia Dillis bonum iudicatat. Efirurrus cum ratio ipfa minime  decepta id bonum efle decemittquod uere bonum dici potcft.Hcx tamen tepore aut hocmodo bonum efie negatur. Voluntas tamen in id fertur nu llam ordinis tanonem babens.huiufccmodi igitut ordinis per uerfio uoluntaria eih pptc reaqi uitio non carets Loquacior fortalTc fum q par cfi in natura mali. Addam tamen ex iis argumentationibus quibus demonftracum efimalum nullam efienda  am eflesati ob eam tem per fe fubfifierenon polle: facile animaduerti id aliquo  in bono feroper efle oportere: Verum idem hac quoip ratione probatur. Cum malum dicimus priuationem dicimus:hoc enim iam conuicnPnuatio autem ipla K  foima qua res priuatut in eodem funt.ld autem quod formz fubiidtur huiuTce  modi cil ut fua natius facultate formam fufeipere ualeat. Hoc autem quis bona  negabit cum eodem in genere et ipsa sive facultas sive potentia Scadus qui inde  cll omnino confilhnt. Prxterea malum ta folum ratione malum didiT quia nev  cct. At non ncKct malo. ElTc enim bonum fi malo pemitirm afiFcrrct. Nocet igitur  bono. Nonautefi de rei forma loquamur noceret nifi in eoelTet. Quzenimcz  citas polyphcmo nocebitinifi fit in polyphemo excitas. Verum cum uulum boa  no opponatur quo pado utn idem erit fubiedum.oppofiro 9 t enim altc/alte tum pellinhoc fi dicas ita tibi refpondebo.Quicquid ens did poteft idem 8C boa  num dicitunNon autem abfurdum cll ut non ens in ente fit:quzlibct enim ptia  uatio in aliqua elTentia c(l:quz cll ens tamen non efi in ente fibi oppofito. Si  enim czeitatem dico hoc non eos comune quide minime eft ut uifum ubi^ tola  lat:Ergo non ell in uifu uelud in fuo fubicdo fcd in animaote. Q_ux quide om  nia eo teduntiut non pofliit iu fummum malum inueniri:ut inuenitur fummn  bonum.Quod enim fummum malum fututum fit id fine alicuius boni cofora  tio elTc oportet. At nullum malum a bono omnino feparatu efle inuehies. C^ua  doquidem ut paulo ante ofiendimus fuas in bono radices malu egit: & in eo luu  ut Ita loquar fundamentum iedt:Ptztctea fi mihi dabis aliquid fummum malis  fututum effe id ita fua eflentia malum futurum erit/ut fua eflenda fummum bo  num clfc uidemus. At malum eflentiam nullam babae iam demonfiratu efi. Ita  quod ptiouUD pdndpiii eft eus cflcpo^too cogn ellet pti IaP.Vitg«M.AIl^o.Liba tettius   cipranificflct caura iitidepcadcrettt Dafiautcaurambotiucfre dirimus. A 4 de  & boc^uTa enim qux per fe caufa diatunfcmpcr prior eft illa quz per accidens  caula dicitur. At malum non efi caufa niri per accidens.Non igitur inuenimr (u  Inum malum.Hatc funt quae de plurimis longecp «ccllenrioribus quz Leo Baptista memoriter diluride ac copiose in tantorum uirotum confriTu difputauit t  mcminil Te ualui.ln quibus cum abunde Laurentio fatilTadum efletxfol^ ia me*  ridiemalccndi(ret:nos omnes ita adbottante Mariotto hofpite libeta Mimo to» Kzimusiillumf fecuti ad tefidenda corpora difi:ellimus. L. CAMALDVLENSLVM DISPVTATIONVM AD ILLVSTREM FEDERICVM VRBINATVM PRINCIPEM IN P. VIRGILIO MARONIS ALLEGORIAS. Um Satuissem cum fermonem illustrissime Federice litteris  mandate quem Leo BAPTISTA Albertus no sine summa  oiumquia et erunt admirarione: at(^ftu porede iis  Homeris  habuiflct inqbus. VIRGILIO j fundiflimam illam fcietiam  i occultatcqua fummu bois bonum diuinitus defcribit et quU  uia ad id Hcircamur mirificc exprimit: uercbar ne in nonui 1 holum reprehcnlionem incidcrem:qui cunria ex fui ingenii imbecillitate tnericntcs et Maronem ipfum nihil przter fabellas:quibus ociofas auditoru au  icsdcledaret cdmctum rae credant et nos pro arbitrio nodro quz dicimus ottu  uia finxilTe exifiimcnt. Qui quidetn fi quid poctz fint: fi quam eorum origo ue  tufia appareat fecum teputentifi q magna/q uaria dodrina plurimi in eo artifii< rioflorucrint confidcTcnncogoofccnt profedoid quod grauil Timorum PHILOSOPHORUM iudido comprobatum uidemus nullum efie feriptorum genus : qui  autmagnitudine cloquentiz.aut divinitate iapictiz poetis pates fuerintr Qua  quidem ce ARISTOTELE virum excellenti ingenio et doctrina pofi PLATONE om  nino singulari motum crediderimrut eofdem prifds temporibus theologos poe  tafi} fuine a£btmet;Et profedo fi poesis ipsa quid sit diligentius inturamur: fad  k erit nofle non cfle illam unam ex iis artibusrquas noflri maiores quoniam reli  quis excellentiores funt libctales appcllarunnin quarum una altera ue fiqui 0 o lucrunttin maximo funt femper pretio habiti:fed cfi res quzdam diuiniortquz universas illas compledcns certis quibufdam nu meris aftridatcerris quibufdam  pedibus ptogrcdienstuariifi luminibus ac floribus diftinda quzcutp homines  qjotnt quaecn norint: quzeu contemplati fuerint: ea miris figmetis exoractr  atip in alias quasdam spedes traducattut cum aliud quippii multo inferiusimul (09 humilius narrare uideantur:aut cum metas fabellas ad ceflantium aures ob  kftmdas ludere credantur:tum maxime cxcclla quzdatfic in ipfo diuinitaris fbn  tctecondita pTonunt: Quo quidem gratilTimo errore tandem animaduerfo au  ditoc non Colum in fummam rerum cognitionem deucniat: fed mira eriam uolu  ptatccz figmento pctfundatuc. Quam quidem temdiuinam potius s humani f iii fn.   cfle cu! potius f Platoni credidcrimnilr rnim in lonr dicit pot ffm non arte yana tradi;f<d divino furore npftras tnentesirrepne.ln co aurem qui phxdrua  infcnbitur/cum tria alia diuini furoris genera expliraflet/quaitum furoretn quc  poeticum elfe uult/huiurcemodi([ni fallor^fentcntia exprimir. Rcfeit enim da  ibcxleftibusredibusucr farcntur animi no(lri/ et cius harmonix quxinxtema dei mente confiftitiK eius quxcxlorum motibus conficitur/illos participes fuit  fe. Verum cum deinde monalium rerum cupiditate degrauati propterca ad ia  feriora iam deuoluti corporibus incluti tint:tunc terrenis artubus ac monbodia  membris impeditos uix eos concentus qui humano artiHno comparantur auribus padperc poflerqui et Ii a cxledi harmonia longe abfintinihilominus quoni  om ucluti fimulacra quxdam ac imagines illius funt nos in tacitam quadam ex Icftium recordationem inducuntiacardcntiifiroa cupiditate ad antiquam patrw  am reuolandi inflammanciut ueram ipfam muficam/cuius hxc adumbrata ima  go lit pnofcamus.interim uero quo ad pemiolcdilT mum corporis carcerem noa  bis licet/bac noftra illam imitari cdtedimus non uocum modulationibus ueluti  uulgares quidi et leviores mulici cofucueruntrquos aunu frufus demulcete posse no negauerimtquicq aut prxterea prxihre posse no cocedor Sed grauiori quo«  dam iudicio diuinam harmonia imitati/ pfundos inrimof mentis fenfus elega  ti arminc exprimutsat divino furore concitati res frpe adeo mirabilesiadcoq  fupra humanas uires cofticutas gradi spiritu proferunt: ut cum paulo poft furoc  ille iam refedetitifeipfosadmirentVat obllupercant. Quapropter non folum  auribus adulant ifed fuaui nedarc et diuina ambrolia mentes demulcet hi igic  diuini uates funt/& faai mufarum facerdotesihi iure optimo fandti ab Ennio ap   E elbnt": his folum diuiniiuscocefl'umeft/ut carmine modo iocude fuauiteripla  entitmodo grauiter alteq; furgetitmodo uchemeti impetu ruerirmodo in leda  ti amnis morem fluetiinonunq copiofe exundantiinonunq breuiicr atqt copref  fef gredicnti quocui uelint auditorem rapiat.quiobrcm quonia diuimor uche  metior^ in iilis spiritus infurgitiab huiufmodi ueheroeria uates appcllant. Grxa  dautipfos poetasdixeruntteo quod apud illos facere figniriut. At dices fonafle none 8C reliqui feriptores fuo libto poetx id eft effedores iuie dici  poiTunt ( poflunt illi quide. Veru quoniam hi foii et dicedo limul & intelligedo  ni reliquos oes longe fuperant/nomen id quod oibus feriptoribus comune etie  opottuitsucluti fuum ac pprium fibi uedicauerunt. Et piedo quicuqi uates boc  noie digni fueriitiii fupra humanamuim aliqd pofle uili funticuius rei teftimoe DIO elTe poflunt prifei illi uiri:quos poetas fuifliecoflatinam apud hebrxos Moy  fes uir bello inuidus:qui 6C xgyptios ab xthiopibus SC ab xg 3 tptiis hebrxos lib^;  rauitmdne cius ucrlibusiuerlibus enim uolume cofalplitiocm diuinitate cofai  plitiocm diuinitate coplexus cft.uir adeo prifeus/u t cum odoginta iam natus an  nos iudxos e leruitute educeretrCecrops athrnis r aret. Nam qux ea fint qux  Idumxus lob fuiscanninibus madauit:ormine ex iis chriflianis qui paulo dudi  ores babet latere puto. At hic ut ex libro fuo coiedari licet tertia xtate poli iftael  tutPcftincc nuc {>fcqr quata qliaue fint qux catminib^^Oauid regis:q d^iiJii Si  Jonumis i qux dcutctonomiuquc Ibix catico codnent" tEgregiu dno inudu cotitinuab dekiceps ferie r<rfiiper rctetitum: ut iion modo poete: verum exteri 9uo(^ rcriptorcs quicutK remaliguam maiorem litteris mandarent: eam ua tiis Hgmentis/uariisfigurarum integumentis obfcurarent: putabant enim fo  teii negodumdifibcilius ccdderent: ut fi: gux rciip(i{rent: maiorcmeflent dignitatem audoritatemc^ habitura: 8C 9U1 percepiffent: guoniam non fine la^  borc at(^ induftria id afreguerenturtea pluris elTe faduros.maiorem inde  uoluptatem percepturos fi guz ipfi tenerent minime fibi cum indodis commu  ciaclfent.Hac igitur ratione a fandis facrifi^ rebus profanos arcebant non  inuidiamoti sed ut aliquod inter follertem at mentem diferimen appareret:  cum non idem ociofusguod studiosus affeguetetur: sic enim dC premia guz dodis debentur folis illis proponebantur exteri ut iifdem artibus quando leKguis noD prohccrent niterentur fummopere accendebantur. Difficultate  enim inopia rei mortalium ingenia acuuntur: uindt onmia la bor impro  bus: & du ris um ens in rebus egeftas 2 Quam guiiguam feribendi ratione grxid guoi^lccutimntfguortim & Orpheum thracem:& atheniefem museum et  thebanum Linum antiguiflimos fuiffe accepimus: Verum Lini Mufei^ uiz  uciligia eztant: Orphd autem poemata in quibus multa deui diuinainecpau  ca dererumnatura continentur 2 ad eam quam diaimus formam confcnptitaf  fe/fadle efl cognofeere 2 de reliquis uero qui deinceps doruerunt/nihil dicam:  Fabularum enim figtUenta quibus aut deorum/aut rerum naturam /aut ea gu»  ad uitam & mores pertinent obfcuriusquidem sed maxima cum dignitate exprimunt: rem manifeffam reddunt. Qua propter cui mirum uideatur: fi otnnisxtas:omnesnationes. Omnesguialigua ufguamdodrinacxcelluerint: poc  tasfemper maximi fecerint.Nam ut reliquos adprzfens omittamq multos q  maximos in philofophia locos Aristotele tanms uir poetarum tcflimonio cot roboranquibus quidem nifi tatu tribuifletmunqua netpde poetis duosme^  de arte poetica tres libros accuratiffime confaipfiflet. Quanti autem hoc bomi  num genus PLATONE fadat: ipfe in libro de re.p.fadle offendit: q uoniam n ihil uei  jbementius mentis intima penetrare/qua poefim affirma. At dicet aliquis no ne  in libro de legibus idem PLATONE poefim reiidendam ccnfctmufquam ille hoc. Sed  eam rdidenda dmonet: qux more tragico pturbatos animos imitatur;qux uee  to laudes canit deoru:patria inffituta defcribitimores edocet: probosuiros extol  ]it:iroprobos deprimit/aedpiendam iubet. Deni nonullis in lods aliquod poe  tarum genus uitupetari ab hoc philofopho inuenias. Poesim autem ipfam qua  donout diuina mex tollit quas quidem res cum diligentius fecu reputauerint  qui confilium noftrum damnantifentetiam illos fuam immutaturos exiffimo:  qui tamen si nos carpere uoluerint: potius temeritatis arguantiquoniam ea qux  fupranoftrasuires funt/aggreffi fuerimus: qua aliquid quod Maro non uidc  tit 2 nos uidif Te putent 2 Ego autem quauis non tantum mihi arrogem: ut hu  ius poetx diuinitatem fatis pro dignitate explicare pofIim:non tamen inutile fii  turum putauirH noff ra indufiria quantulacunc ea fit/dodiores uicos ad tnaioif  ra de ENEIDE demonftranda exdtar 02 qui cum nos non omnia potuiffeintelli  indigo oiK no otn&mq ioiufta aduerfus nos induti utbca ca coi nim lutun erga Iiuiurcemodi dodris» cupidos adtadiS errata Uoftra conS  gant i ii qua detint addant t Qua quide in re non modo emendari me xquo  animo fctam: r<d ultro iam nunc omnes qui hoc polTunt ut id faciant uebemc  ter oro. dam m maxi me propriu m hominis p utem» 8t quod jpfe. uiderit U>  ter aliis oftendet er & qu od ne^t fiudipie adijj^ercum in hoc fibi Ipii in il  lo reliquis profuturus iitu o 6c uitam inftitui s ut fic quicquid in me efi iiberalif  fime effundamtfl Canullo mortalium quz mihi delint/fumere dedigner:ad que  autem nofha hrc potius qualiacun<p imt fcribamiquam ad te iUui^ime Fcde  tice:qui & Maronis pra; terca KeTos & udiofiirimusrem perfuetist & cum reliqui  iulue principes in eo omnem indufiriam ponannut quamaximos fibi tbc£uitos  comparent i auri^ at^ argenti aceruus magis magifi^ indies aefcatitu maxu  mam tuarum opum partem in mularum & eorum qui mulas colunt omsmen  ta liberalissime effuns: ut iam quemadmodum Homericus ille Agamenon  coniidebat/fi decem aliifibi Nefimesadeircntiforeut breui Troiam apturus  eflett fienospro comperto habeamus fi Itali populi non diam decem ut iliet  fcd duos przteta Federicos haberent t brevi futurum ut universa ITALIA alterz  Athenz futun fitr feddeczteris alio locoi Non enim in hunc fermonem hoc  tempore uemmus t ut quequam arpamus t fcd ut te fic dc litteratis hominibus  meritum quamaiimispof Tumus laudibus profequamuri qui quauisfolus ex  omnibus qui in imperio confiituti funt has parta tuearis : amen iu late patet  tua in oes litteratos liberalitas. Ut non pauciora ez a fiC poetae BC ontorat & om  niuffl rerum feriptora prouenturi fintsqua ii fuerint t quos olim Nicolaus lUe  quintus pontifex mazimus:quem omnes uidimus fuis pulcherrimis muneris  bus/ac maximis pretniisprouoauittqui quidem tuo beneficioad ftudia czdta  ti:8t fibi gloriam fua dodrina fua eloquentia ucndiabunt.6: te ulem roufape   E atronu etiam tuc cum multorum principum qui et nuc uiuunt/& olim regna«  ut fama fepulta iacebit in xtema femper^ recenti memoria uiuum retinebut. Veru haec quoniam omni luce clariora fu Dt; longiusprofequenda non cenfeot  Praefertim cu ipfa iam ra postuletaut diuinum dodimmi uiti Baptiftz Termone  ego quantum memoria repetere poteto Tuo ordine referam.Ille enim cum bci>  ne mane ad confuctum locum ueniflemus : 8i min audiendi cupiditate inflam  mati ab eius ore Tummo cum filentio penderemus huiufccmodi principio dil/  putationem exorfus cfi|£)um eius poctz mentem tibi Laurenti aperiri cupias r  qui uel ex omnibus re^onibusaquarum babiatorcshifioriacognofant suci  cxotnnibus lzculis squkadnofhamur memoriam acriptorum beneficio per  uenerintsfi non primus primo tamen par aequalif (^ exifiatsno poflfum meo oea  tionbingreflu tantzrei magnitudine non penitus pctturbaii. Ncmo modome  diocri fit dodrina imbutus hunc uirn ui ac copia dicendi ipfnn ut ita loquar eloquentia fuperare unquam dubitauit.Nam cumtraindidionefiue figurae  rrnt sive charaderasin quotum uno fiquis excelluerit maximam fit glot L - am adeptus. Quis non uidetnon folum in lingulis fuis uoluminibus fiivmlos adimplet Verum paucis liepe uctfibtis ita omnacofudific aepennL:  fcuific/ut miro quodam temperamento u clotifidiucifcuoc Bcoocctu Mluaf^ t«a Z iotl dk\ M aia uFdi £ IIBD mu DCMI mat vtik lia cnlK lioilfl olis a tpai KSoa 10 ik lOa B oulip icbui>  nft» none flbfr  qSiQ  011 ipiB’ bSlfimu cottfiaabt incredibilefli auribus voluptate pariat. Ex quatuor aut riie&  di generibus ita opus contcxitiut ne ocio copiame negocio brevitas defit. Vi  dcbis quxdarua sic dtatc at<j ariditate placerctquzdamuetoueluri flofculis ib  lufhau at diftint Sa deledare.Sunt deni^ eunda eo attifido confirudaiut un#  deoiaadoe elocutionis genus exempla potius qbincrumas/fcriptum DulIum invenias. Adde ad haec cognitionem hifioriatai Adde quadili gentissimus and»  quitaristt oonmodonofliaturctuifed &grzcaru &omm nationu inuelliga#  torcxriterittqptil conjmuaborumobretuatiinmus fueritiq elegata quxdain  Boua ex fe fotmaucritiqua f pric omniu uim tenuerit. Prxterco ius duile: omit  loiuspontiridu nihil dicodeiurcauguratqus; oiaita tenuitaitnonab aliis accepilTeifed ipfc conftituiOie uideatue. Hzc igitur & cotum limilia fi a me tibi ex«  pheanda pctaestac ut fifiguk» in eo poeta locos diligeorius apetiiem contende  tes: 8C operofum fimul & difiidle mihi negociu imponetes. Quis enim illa pub  chetrima cxcdlentiiliinaf/ac fummo artifido tccondita non ludicct: fed funt ta  nicri a multis iifdcm^ dodisuitis patefada. Quod aute petis id & multo diviiuuscftt Kmagisinobrcuro UtetiKanullo quod ego quide rdam/badenus  fua ferie patcfadum.quod ne gtimaricus nc tbetot nouerit.fed fi ex intimis  FILOSOFI arcanis eruendum. Vis enim nolTe quid per fua illa enigmata de Ae  ncaectrotibusidc dus hominis in italia profei^one fibi Maro uoluerit.Q^ua  qua (untnonulli/qui di ea quae paulo ante dicebam promaximb admirentutt  at^ in ipfis fuma abfolutam^ poetx laudem contineri putent: nihil maius in eo  uate fuicent. Quos tamen fi roges quid fibi in ea te VIRGILIO perficere uolue  riti Hometumimitandu fibi propofum eafibtmabut: Addent^ ne^ ingeniu ne dodrinamtquo minus id pilare pofTet fibi defuifreiQ^uod nobis cu dederint  fuccubat penitus necefle efl. Habemus enim ^ut gramaiicope iiinita pene tutba  omitta multoseofde grauifTimos PHILOSOPHOS tqu i Homerii ocm zgypriopi  dodrina haufilTctca^ more illote uariis hgmetis adubraffe cotcdat. Qua in fen  tcnria nili ARISTOTELE fuiiret nunqua homeriaru ambiguitatii libros fex scripfif  fet. Na quid Balilius Bi dodrinz magnitudie/K mo^ fanditate magnus coo  minatus de homine fentianfacileefi iudicare:qui tota Homeri pocfim laude/  uittutis continete dixit /fccutus ut puto Anaxagoram Claxomeniiitqui quidem  idem de hoc poeta a Sirmauit t Arcbefiias ucto mediz academiz inudor tra OMERO tribuitiut nunqua fe iniedu tecepcritiquin prius aliquid ex eo legerit: Sed  & inlucem le ad amauum ite dicebatiquo hin dus legendi maior copia daretur,  yctum quid reliquos nunc colligamtcum unius PLATONE testimonio nihil fit,  quod probari non polTitlls igitur in eo uolumine quod de summo bono scripsit omnes artes huc diuinz fiue humanz illz fint in unum Homeri poema uciuti r  in proprium receptaculum confluxifle afHrmat. Quamobrem animaduettens  Mato dodrinam huius hominis ex egyptiorum sacerdotum fontibus bauftam  fimillimamcum Platonicist quorum Qud iofifTimus fuit rauonem babere eam  uTadeo admiratus dl:ut idem in fuo ENEA efficere uolucrit : quod ille antea  in Vlyxc finxerat^ Q_uaproptet pulcherrimis poeticif:^ figmentis eum nobis  unw i^oiinai qui pluri, a^ aux^nis u itiis pauwim expiatusue dckeps 'ir»v I f  •*/ .«MI inr   ; iRft.    mitis uiituHbiu Illuftratus id quod fummahotmnibdliaeStquoiI^ tufi & pl  ip6t/ tatnnlal^ equnec^ VcTdcu illud mrera diuinanunfpcca msnullusafTequii latione conlidcre a PLATONE didioirctylimul SC illud didicit co antbt minime  perueniripofle/q animi nofhiuirtutibns illissquz deuiu K moribus funtex  piati penitus reddantur. Cum SOCRATE i pfe puru impuioiittiogetc fas c$/cfle  neget. Quapropcet non folumflnes bonoru nobis miririceezpreiritt Verum  etiam qua uia qua ue ratione eo cuadere tandem homini liceat demonftrauitt  Ne qua pars eius philofophia; qui gtxd ethicen/nos de vita et moribus nomp  namus: prxtermitteretur:in ea enim nos nihil aliud quammus nili primum bo  notum malorum^ iincstdeindeof Scia quibusueluti uia quadam ad eosdem  ducamur. Laboriofum omnino negodum/at^ omni difficultate plcnum: divinum tamen & quo uno foelix limul atip fapiens homo effidaturtdeo^ iungaf  Soli enim fapienti fas eft ufi adeo deo c6iungi:ut nihil quod feparcr/intercink  ce poflit. Deus enim ueritas eft .Q^uis aut nefdat qui uerum mente non pettin  gat/eum lapientem efle minime poiTet^os autem cum quatuor lint qu 2 in feru  ptoris mente aperienda inue(tigemus in rem nolfram futurum puto: ut certos  ia terminos drcufaibamus: quos in poeta interpretando egredi non liceat. ES  igitur cum id quod geffum Iit quxrimus: quam hilforiamappelbnt/ut cum le  gimus apud Matonem haud ptocul inde dtx Meda indiue^ qoadrigxdiSa  lerant.C^uxrimus itidem non quid geSum litifed qua ratione geSum nt:ut eS  illud At tu didis albanemanetes. Nam eoloco dcmonfhat propter eadifcerptu  a quadrigis elTcalbanorum regem /quoniam illein fide non manlilTet.hic gta&«  dethimologiam dictuit. Quxrimus et tertio in loco an ea qux dicantur pu^  gnantia inter fe lintr Alibi enim didt ChriSus patrem fe maiorem efle:alibi ego  &pater Idem fumus. Quapropter cum ita interpteumur/ bxc ut minime intec  fediiridereo ()endamus. Analogiam sequimur. Interpretamur postremo aliquod  per allegoriam quod tunc sit cum non qux uaba SIGNIFICANT INTELLIGIMUS sed  quiddam ALIUD SUB FIGURA OBSCURATUM. Scribunt poetx Amphionis lyra motos  m lapides ut fua fponte in thebanorum moenium flruduram coirettper quod  figmentu quid aliud intelligimus:nili fapientillimi viri eloquentia esse dum eifer  ut BOEZIO populi qui hadenus ad omne rone ueluti lapides Supidi: K aduetfus  oem humanitate durilfimi czi(ferent:e fyluis ac luflris in duitatem uenirentrac  poSremo legibus qux ad comunem ufum latx cfTennultro fefe rubiicerct. Nos  igitur reliqua tria genera hoc tempore omittemus:at(^ in ipfa fola allegoria uet  fabimur:ut quid per Troia(n: quidpCTxneam:quid per ITALIA reliqua^ huiu&  modifibiuelituideamus. froixigit" oritur ENEA rperquautberedeut puo  to prima bois asutem intelligemus.in qua cu ro adhuc ois cofopita (lufolus fen  fusregnat: At ipli mottales/quia ea xtate fapientia ne furpicaot' quide ea fola  fibi proponut qux philofophi prima naturx appellat. Ni cu oe aial (ibi a natura  comendatu (it:in primis feipfum diligit:deinde o^s corporis partes ita integras:  ualidafip hne cupit ut ufui (imul fit pulchritudini fibi (int: maxime autem uohi  ptatibus demulcetur flc quauis animum fefimul corpur^efTe intelligattat  Utru faluum efb cupiautamen in iis qux in animo apetenda funt/ quoniam   BOO dbm plane ilhcog Oolat minus laboratsea autem quz corpori corporeilm  uoiuptanBus conducunt/anxie expetit. Sunt enimflbi abipfoortu iamnotissima. QuaptopteiT cum in hac zutcnaturxui potius trahamur/g nofharum  adionum domini efTeualeamusmel minimum uc omnino nullum uirtuduw  do^ locum relinguamus:cum que agimus eanccuoiuntariaflnt: neccum de  ledu aliquo fiant. Ita in puero virtutem e(1'e nemo dicet. Verum ubi iam pro  gtcflu ztatis rationis lumine aliquo illufirari indpit mens noftra s tum demum  tanm in nobis conlilii apparet:uta prauisreda difcerncrcualeamus. Eft enim  iam ad illud PITAGORICA litterxbiuium pcrucntum/fic iatnuitzne Tciuseiton  utcil apud P um. Deduxit trepidas ramofa in compita mentes. Vnde cum di  fceflciimus nccefle efitut uel reda pergamus : uel in finifira deiledamus . Nam  quz deinceps agimus/quoniam ceru quadi ratione agimus/fi reda fuerint uit  tutitfin contra uitioadlcribuntur. Troiz igitur 8t Aeneas limul fit Parisa/un  tur. Verum alter quoniam Venerem Paladi ideft uirtuti f uoluptatem ante«  poni neceife efitut una cum Troia pereat. Alter autem ducematie Venere fe  ab omni incendio explicat. Quod quid aliud intelligamus/nifi cos/ qui magno amore inflammati ad uen cognitionem impclluntur omnia facile confer  qui pofle. Qua propter Venerem diuinum amorem rede interpretabimur.  Sed tu LAVRENTl ncfdo quid iam diu uclle dicere uiderisiCupio quidem  inquit LAVRENTIVS t Ni uerear perpetuum tux disputationis filum intec  nimpae.lmmo potius iflo modo inquit BAPTISTA: Nam cum uniuerfus  hiefermo non ad oflentandum ingenium neq; ad gloriam comparandam a  nobis infticutus fit : fed ut honeflifiimx- uoluntati tux obtemperem: fit fi quid  in me dodrinx efi/id libenter cfiFundam : interroga : inter peilaiobiice: confuta  pro arbitrio tuo.Hac enim uia id quod quxrimus verum dilucidius apparebit. Vtar quod mihi permittis arbitrio inquit LAVRENTIVS utrum id non  tui confutandi sed mei erudiendi caula . Miror igitur cur tu Venerem amorem interpreteris eum prafertim amorem : qui non modo cadus verum etiam divinus fit. Ego enim Venerem non folum apud poetas : fed etiam apud  reliquos feriptoresita fumptam uideo: ut per eam nonnifi maris foeminz^  coniundionem fignificarc uelinr.hinc illud Terentianum, e Cerere fit Bac  chouenaemfrigefceretEt ipfc in bucolicis: Parta mez uenerifunt munera.  Quapropter fi uenerem pro huiufce modi'coniundioneponas:quxbadenua  dixidi/ea omnia inter fe pugnate uidebuntur . Sed eft fit aliud qu^ nifi tu mi<  ili petfpicuum reddas ego minime explicare ualeam. Qui enim fit ut cum duo  fintuiri Aeneas at^ Paris: Alter quoniam Palladi Venerem prxponattnecefle  fit ut una cum Troia pereat : Alter ueto quoniam prxeipienti Veneri obtempe  reriomne periculum incolumis cuadat. Ego enim non uideo cur fi bona fit Ve  nus Paridi noccat:fi mala prqfit ENEA. Qux quidem dum cogito/in eorum  potius Icntenciam labor:qui rem omnem ad eam flellam qux hoc nomine ap  pellet'':flt ad ipfam bidoria referut: Putat enim qd* te no fugit/qua hora a Troia  ITALIA versus jificifcerct Aeneas:librz fignu qd* domiciliu ucnetis 6ad nfm hoc  hcaifpcpu afiacdifli^lpfam Y^ete in medio czlo loui fuide roniundam. Quibus oibus poftendebat" foelidtas illi tegtia^ per muliere peruentufoioJo'  uem enim regnU ptzeflc non ra odo OMERO SIGNIFICAT qui reges ; id enim eS a loue nutritos rcribit. Sed & mathematici ide ditant. Salutareenini  omnino Itduse Qsquonia inter Saturni frigus K Marcis ardorem colloatu opti  moeemperamento Iit: 8i propterea eundis euentibus profpcrum. Nam cum ui  tam noftram praxipue sol et luna gubernet: iccirco lupitet omnium nobis fa  luberrimus eihquia foli per omnes numeros/iunzautem per plurimos coniuo  dus eft. Refecunr etiam in initio mundanzfabricziouem in ariete dotniciiio  tuncafcendcnte fui/Te. Volunt illum inducere leges/caliicatem/mirericordiam  in egenos K calamitate opprelTos. Veridicos homines fadt/& vere amicos fine  fraude fine dolo: Saturni fzuitiam frangit fiCquzcun^ ille mala infert:hicaut  tollit aut minuit. Quapropterfcite Petii us Satutnumip grauem nolito loue  frihgimu s una: Oeni^ fi in alicuius ortu fe bene habeaticum ille hominem for  tunatumreddit.bfinimehzc dilpliccnt inquit BAPTISTA. Sunt enim ex 15  ma dodtina eruta: 8C hifioriz uehementer accommodata. Verum cum omnis  nofira difputatio nullam hilloriz ratione habeat i Sed eam qui totiens gtzco  uabo allegoriam nomino/exprimete conetut/non uideo cur ea qua adhibui in  terpretatio iure amitti non pofiit : Si enim iis omilTis quz de ENEA deqj cztctis  troianis prifei faiptores tradidere/pro arbitrio licuifiet poetz non modo finge  te:fed SL peruertere & addere & fubtrahere.Si deni^ nulla hifioriz ratione liabi  ta id folum tentaret quo pado per ENEA cum nobis uirum informaret: qui ta  dem fapiens beatufqj citet futurus/nonueneremfortafiefed cupidinem aliud  ue numen pofuiflet. Sed cum ita poeticum figmentum profequi inSituifiet: ut  tamen ab hilloria non difccderet:cum Aenez matrem fuilTe & exilii ducem naviganti filio fc przQitilTe Vennem Icgil Tenfuit cx iis quz aderant res perficiedat  non autem nomina fingenda. Hoc enim plus negocii poetz cll qua reliquis  qui alio figmento rem obfcurateuolunc. Illi enim ab omni hiftoria foluti pro  arbitrio ea cominifcuntunquz magis rei fuzjpromendz quadrent. Quodut ! )lanius teneas/unum de multis excmplicaula proponendum cenfeo. Placuitil  I primo huius fabulz audori ollendcrc quz in tempore ex materia gignuntur:  ea omnia in interitum cadae quatuor dutaxat clementis exceptis: quz principia  (unt oibus rebus generadis Duos igitut comentus ell deos Saturnii at Opima  & illum temporis fjmbolu obtinere uoluittquod gtzcu nomen indicat. Chronos enim qui Saturnus ell ab eo fubtrada harpitatioe deducifrquem ipfi chro  non appellant. At quis ntfdat tempus grzce chronon dici. Per Saturnum igitut  teropus: per Opim fiuerhcamterram intelligit. Addit deinde Saturnu pmnes  quos de thearufccpilTct filios uoralTe prztcr loue lunonc Neptunnu Plutonem. Qua fabula exprimit omnia quz ex materia funt prartctipla quatuoc  elementa tempore conteri: at in interitum deduci. Quorfum igitur hzc  ne reliquum fabulz profequar : nempe utintelligas licuilTe huic homini pro  arbitrio quzeum^ uolebat fingere: ut quod de rerum procreatione sentiebat: commode exprimeret : cum nihil aliud prztcr phyfices particulam fibi  propofuiflc. Maroni autcih longe alia rado cfi: qui cum ENEA res io laudem' I II Litxr tertius AngulH ezoritatidas t ft librum iprum omnibus poeddsluminibasitluftrandum  fibi fumpfiflet t non iis qux ipfe uio ingenio digeret t (ed iis quz hiftoria porrigit  banc fuprcmam ingemi fui laudem comparat . Mirus profedo uir qui non ex op  tads fed ex datis ha opus intexat : ut cum hiftonam minime deferat :pet eam rame  illaedibili integumento humanam fcelicitatem exprimatiHabcs^ut opinor^qua  ratione uenaem pro diuino amore ponae coadus iit. Quod ita tamen rede pro  cedit < ut ni£ ab iniquis reprehendi non poiTit. Videmus enim Platonem in eo fa  mone quem phatdtum nominat : Aphr^iten/quaic nos uenaem nuncupamus:  oqn lafouololum sed & diuino amori ptaxiTci Verum quam uenerem piatonie  cua poeta Aenez matrem eife uoluerit : faale intelligemus ii quzdam paulo altu  uscx ipso PLATONE repetamus. PauCmiasigiturin fympofio duas ueneres comme  morat/aketam czlcfiem vulgarem alraam . prinum autem czio natam refert: cui  nulla mater iit. Quod cum lingit eam intelligentiam iignihcat/quz in angeli me  te poiita amore ingenito ad dei pulchntudinem intelligendam rapirur/quam quo  numprocula bomnifflaterizcon fortiolitiinc matre prodiidam dicit. Secudam  uao uenaem mundi animz tribuitiita ut patre loue : matre uero Dione eam na»  tam feribat. Manat enim ab ea ui quz in anima mundi eft : & uim creat quz infe«  hora bzc omnia gignat & mundi fyluam fubeat: Vtra igitur fibi ingenito amo  ce rapitur czlefiia ilU ad dei pulchritudinem intuendam : hzc uao ut eandem pul  chritudinem e fylua conforma. Sed hzc parum ad rem. Animus autem noda  cum&ip Ge similes quafdamuires habeat inteliigendi at y gignendi duas itidem  ueiiera habaedicitur/quas gemini comitentur cupidines. Cum enim corporea  puichnmdo oculis nodtis obiicitucrmcns noftra^quz piima uenus eft}eam non  quia corporea litillcd quia limulaaum divini decori admiratunar diligitiea quz  ueluu uia quadam ad czlos effenur: Gignendi aurem uis: quz fecunda uenus ell  formam gignae huic limilem concupifcir uapropter uterqi amor iure dicitur   utaltcr contemplandz altergignendz pulchficudinis defidcrium fit. Nemo igU  tur nifi totius rationis expas fit duos iflos amores damnare audebit t cum uta  qj humanz naturz neceflariusfit: Nerp enim diu efremortalium genus finefo  bolis propagatione t neij ruifus beneefte fmcueri inuefligatione potait. Prza  ttantiuri igimr illa ucnae duce in italiam perucnire potuit zneasi Ac dices cui  hzc fecunda fi bonacfl paridi nocuit: quia illa male ufuscfl. Vir enimgignen  di autdior quam reda ratio didatfitin ea re plus quam oportet occupatus /in  Ibiis corporas uoluputibus meretur. Quo fit ut 6i primam quz ad fummutn  bonum dudt omninn deferat : & fecunda pcffime abutatur : proptaearp in om  nes animi petturbanones incidat: ueritater^ defpctata mifaq^ efifedusin omne  indignitatem dcfccndat Efi ut dixi diuious amor fi Platoni credimus dcfideti«  um redeundi a corporea pulchritudine ad diuinam contemplandam: Non ta uencum diuinam defidetamus eam quz oculis pcrcipitur/contemnimus.Nam  qui aliquid appetit hunc illius quom rei : quam appetit imagine delcdari ne«  ceffe cfi. Verum funt quidam ita hebeti ingenio: ut mentem a fcnfibus nullo  modo feuocate poffint: hi ueiam pulchritudinem non norunt. Huiufccmodi  igitui amot adultctinus cfl / & a uao degenoans: quem lafduia ac pcocadtas  frtnpff cotnit3tnr:quem diffiniunt cupidinem eius uoluptatist que e cotpdo  rea Forma percipitur rrede qux dicunt cum ardorem animi in fuo cotporetnot  tui in alieno uiuenns i quod fecums poeta quidam dixit J, I Plato ucio ait illum   natum ab humanis morbis follicitudineqi plenum . At quis non uideat illum  nerp confilium in fe nc modum ullum habere. InefTci^ in coiniurias/furpi#  dones/ ac reliquas illas omnes peftes : quas fidelis Feruus Terentiano phzdtix  prudenter oftcndit. Habes(urputn^dupliccm amorem verum illum fidiuino:  de quo paulo ante dicebam /& hunc falfum & adulterinum: & qui uetoamo  ri talis fit qualem aut amico adulatorem: aut medico coquum efifeuidemus: cui  quidem cum fe totum dedidiffet Paris uiia cum Troia periit. ENEA autem cz  lelii illo duce paulatim ex troiano incendio ideftex corporearum uoluputum  ardore fe expediens li non reda nauigatione id enim humanz condidoni : aut  nunquam aut raro conceditur: ut eodem rempore licfiulcitiam exuat. &rapiens  efficiatur: tamen poft multos errores in luliamad ueram fapieutiam pcrucnit.  Quam quidem nauigationem cumfudorislabonfi^ plcniliima fit/nemouna  quam nili fummoillius amore inccnfus difficultatem omnem perferre paratus  fit penitus perficiet. Amor enim uerus/ut apud eundem Platonem offendit  Eriximachi oratio omnium naturalium rerum creator effat feruator : eo emn  fimilia omnia ad eaquz fibi fimilia funt perhenni concordia ttahuntur.Effitt  dem omnium maximorum artium magiffer. Nemo enim aut artem inuenitiaut  ab alio inurntam addifcit : nili inueftigationis obiedatio/K difeendi cupido ia  dtet uam quidem rem fi non apette offendit : obfcudus tamen ut poeta  rummos efl SIGNIFICAT noffer VIRGILIO. Cum enim in georgicis fe uen cognidonem reliquis rebus prxponere dicat difficultatem ipfamfumma amoris ui fu  peraturum his ueibis demonffrat. Me uero pnmum dulces ante omnia mulas  Quarum sacra fero ingenti pnculfus amore Accipiant . Ingenti ergoamotela«  boies fummos:quiin factis mufarum/ id eff in rerum cognitione fubeuodi funt  fe laturum affirmat |0 uinus enim amor/nii aliud meditatur: nil molicurmui  Ia alia in re laborat t nihil tentat: nihil nititur /nili utiam corporex pulcbritudinis afpedu concitus addiuinam nos pulchritudinem rapiat. Dum enim cor/  porcis tenebris demetfi funt animi noffti diuin i non recognofeunt : nifi umbris  & simulacris quibuf damtqux fefenoffris lentibus obiidunt . Q^uam quidem  rem non folum exprefferunt prifei ex grzcia pbilofophi : in quibus Pythagoram EMPEDOCLE DI GIRGENTI Heraclitum sed longe ante alios Platonem enumerare poC  fiim tSed Bi chrifhani ab eadem fententia minime difcedunt: Nam & Paulus  & qui Pauli auditor fuit Dionysius areopagita cxleffuac diuina : qux in fetu  fus non cadunt/pet ea qux fenfibus percipiuntur /cerni uolunt. Inxc eff igu  tur illa uera uenus: qux mentem noffram ad diuina erigit: qua matre quisoc  Idat natum xneam nomen abeo quod effxneos id eff a laude dedudum. Vb  rum enim ad omnia magna dCexccIfa natum: quis non fummis laudibus proe  fequaturf Verum &ipfea uolunrate delinitusdrca Troiz defenfionem laborat  Xioiamco impdiuatuturztin quibus, voluptates corpotex plurimum uigent/  Liba totius   intoprctari licet : prima enim >tate’cum ipfa ratio non dum fe exdtare : ft fuas ui  CCS EXPLICARE poflit / etiam qui magni at^ admirandi uiri futuri funt uoluptate de  mulcentur: prima naturas ueluri fumma admirantur: di quoniam diuina qux  fint nem nouaunt : beatiflimam eam uitam putant: per quam uoluptate frui lice  at * Hi igitur quid fummurn bemum rit: nondum compei tum habent: Veni cum  illius acquirendi fummo ardore inflammentunpaulatim bxc omnia qux dixi pri  ma tiaturx aduca momentaneai efle animaduertunt. Habet enim hanc irim ue  tus amor : ut paulo ante dixi  ut mentem ucbementn exacuat : magifterep illi re  cum inuenieodarum paulatim fit t ut nibil eam latae poflit. Qua propta egre ei llud qi £Ulete poifit atuanton : Deinde cum nihil dfficik puta / modo re  amata potiatur : omnes labores tolaat: omnes difficultates fupetat . Hxc eff uenus illa non uulgaris ; qux materix admixta utm haba gnendi/fed illa cxicflis  ab omtii materia remota : qux a mente noflra eft : ipfamq; mentem excitat;& Iu*  cem illi liiam nobis badenus incognita in node id enim efl in nofita infritia oflen  dit t fc^ deam &taurfeenim indicans fua diuinitatem demonftrat: admonet  non peme feruari Troiam id eft originem corporis qux necefle eft ut pneat . Hxc  eadem oftendit uoluptates cotporeas non Tolum ab ipa lacena id eft a feipfts/ut in  beftema difputatione diximus cotrumpi: sed ab lunone a Pallade at a exteris di  is: Nam deos Troiam populati quis ignoret f Divina enim omnia uoluptatibus  aduafantuc. Sed in primis Pallas . Hxc enim sapientix symbolum obtinet. Sapientia autem non folum uoluptates contemnit: verum eriam (fummopae exhore  ret. eft quod de lunone quifquam dubita : qux quamuis regnomm dea ha  be Oiiriproptaca in hxc caduca ac mottalia magis ptopenfa uideatur: tamen  cumlidmmes imperandi aipiditate nullum labotem pafetre recufent t omnibus  uoluptatibus bellum indiaint: modo eo perueniant unde poflint reliquis impe*  ritare: Deos autem minime uida ENEA dum pronoluptate pugnat . Nubium  cni Biteilebtis cnnnis ei ptorpedus eripitur . Sunt enim animi noftri ita a deo aea  diutfuapte natura facile omnem utritatem confequantur. Sed a materia corpo* ea quam philofopfaifyluam appellant: omnia nobis mala proueniunt.llla enim  tardat heb^t at^ pemirbat mentes noftras:: at tenebris obfcutat. Sioiim ex in  fritia omnia uitia ptoueniunt: Quaproptcr & Chty lippus & reliqui ftoici perturintiones omnes a fallis opinionibus oriri dicunt :(^uodtamai longe ante  feoferat MERCURIO ille: quem grxciob ingenii diuinitatem Trimaxinnimappeihnt. Siigitur omnia uitia ex infritia ptoueniunt. Infrit ia autem ex corpotea calu  ginecft/ut PLATONE putat /erunt omnia uitia a corpore. Quam caufam prxeipu*  am fuH&idixerini / ut is quem paulo ante nominaui Meteutius fyluam malignita temappella: fedderylua commodiordifputandi locuspaulopoft dabitur. Pugnat igitur xneas pro uita uoluptuofa: illat demerfus deos uidae nequit. Verum  cuminhuiufcemodi miferia non delit amor neri inueftigandi valet ipfe amot  mentem excitare: ut feco Uigens tenebras difaitiat:flt uideat quibus numinibus  Trcria cuertatur. Ducetp eodem amore pa medias flammas at^ hoftes ita tutum  anipit. Et profedo uolenti ad tes arduas profleifri / hinc mira quxdam'uoluptatum : qux defoendx funt cupiditas ucluti flamma quxdam illinc laborum difiS* cultatutntp terror / qui aduerfus honeftatem afliduo pugnet fefe opponfit. Quz  omnia ducente Venere Araex cedunt. Nam niii amor abfit : netp ram blandas oo  luptatescontcmnere>ne<^ tam duras difficultates fuperare pofTemus. Venit igu  tur domum ut familiam omnem componat : at^ inde ex urbe proficifatur. Ridit enim in fe ipfum animus t omnef^ fuas uires : at<p uirtutcs gux uariz funnad  profcAionem / id enim eif ad ueri cognitionem quam Troix nunquam afTeque^  retur: fuo ordine componit omnia^ (ibi ex uoto fuccederent: (1 pater filium fe  qui uelit.Verum negat ANCHISE fe ex Troia difcefTurum» Hoc ueroquid (ibi ue  lit : (i me roges ego (ic puto. ENEA huiufcemodi parentibus natus efi: ut Venus  dea: ANCHISE mortalis (it : homo enim ex animo qui immortalis diuinufip eftiK  ex corporemortali Kcito in interitum cafuroconftactMmsigitur originem fuam  femperfufpicit: ad eamcp redire cupiens Troiam auidiflime dcferit . Senfus au«  tcm qui a corpore funt corporea incorporeis pratponunt . Hinc igitur alTiduum  atrox<^ certamen illud exoritur rpiritusaduerfus carnem ut noftti dicunt t cum  mens totum hominem ad diuina trahae conetur t BC fenfus in potefiatem tedige«  re / 8 C fibi obtemperantes reddere cupiat . Contra uao fenfus feculcnto elementa  rum potu ebrii / 8 C lahea obliuione grauati nihil nili caducum & tenenum cupi»  unr ANCHISE igitur id efi tenenus pata i 8 i ea qux a chrilHanis uabo parum tri»  tofcnfualitas appellatur 2 Troiam fedeferturum negat .Mauult enim perire fen»  fus / quam uoluptate priuari. Mox tamen cum filium omnemq; domum t id eft  totum hominem periturum audiat 2 cump cxleftibus monihis meliora moneatur 2 mutat fententiam/ab ENEA^ fublatus exportatur : molliltitna enim bxc at«  ^ eneruata animi pars ad fummum bonum nunquam fat t fed i pfa potius inficr»  tur . Hxc de ancbife j ENEA autem cum iam incendii 2 armorumcp pericula eua»  ftlVct ; atep incolumis urbem e(Tct egrelTus : ingentem comitum afduxilfc nouo#  rum inuenit ad miransnumaumtqui quidem undi^ conuenerant animis opi»  buf^ parati in quafcunt^ uriit pelago deducere tereas.t & rede quidem. Nani ca  tandcmcferuitio incendioi uoluptatum fumus liberatit e(f<^ iam animus redi  uaiqtinueniendiauidus/tum plunmx animorum uires 2 quxhadenus ignauia  torprbant :ucbementa excitantur2 8 C bene in(fitutammentcra quocunt uocae  uerit / fequuntur. Quo quidem tempore ne a redo itinere omnino aberraret  xneas / Iam iugis fummx Turgebat luciret idx t Ducebattp diem . Eff enim ludBtr  uenerisfydust quodurfolem lunamip omittam 2 omnium quinque fteliarum  quas nolfri aratiles grxei planctas uocitantt lucidiflimumlitizodiacum autem  odo ac quadraginta diebus fupra trecentos perficit / nunquam a fole longius fex  & quadraginta unius (igni partibus difcedens . Verum/quoniam modo pcxcedit/  modo TubTequitur 2 folem non eandem (lellam fed duas eife prifei crcdidcrunttpti  mum autem Pytbagoram extitiffe ferunt :qui in eo apud grxeos unum depreben  derit .Cum igitur folem prxuenit lucifer dicitur : uefperus autem cum fubfequi»  tur . Rede autem lucifer prxuius foli eff . Stella enim uennis/is enim amor efi ue  ri inueniendi / ei exoritur 2 qui iam uiram uoluptari obnoxiam deferir 2 dudt^ di  em 2 nam rationem excitat talis amor / cuius luce illuSrati uetum noffe ualeamus.  Apparet autem a idamonu id eft a pulchritudine.Idos eoimapudgntos formam figaificat. Amor autem apud Platonem pulchittudioisdefideri um diffii   S , Quapropter in ipfo pudor nos a turpibus auoc^: cupiditas ucro czcellen  quztj boneiia rapit . Fertur igitur ENEA duce m are exui in alt um incertus  quo fata ferant ubi iiftae detur . Q uz omnia non fine fumma fapientia a poeta  ponuntur: facile enim cognofeit Troiam relinquendam : & fummi boni princi'  panun uoluptati minime esse tradendum. In qua autem re fummum bonum coii  tiatnondum cognofcit.lureigitur exui appellatur. Nam ab eoquod habuit cie  dus eft : ne^ dum id quod ucluti proprium poflideat inuenit . Mari autem fermt  quia animi nofiri quocun^ moucantw nulla alia re niii appetitu mouentur : qui  quam fimilis mari iit paulo poft aperiam ii pauca prius de appetitu dixeto^ft igi^  tur fenfus & uis quzdam in animis nofiris t quam cogitandi nominant : cui bono  tum malorum iudicium a natura demandatum efi, Non nunquam autem ita  iudicat buiufcemodi uis : ut nihil prarter fenfus refpiciens : 8L ueluti illorum illc«  cebris attrada & uoiuptatis oblato ptzmio corrupta quod pecudis bonum eft i{v  fa hominis bonum decernat. Si autem eadem cogitandi uis falutari rationis lumi  ne illuftretur et eius norma dirigatur : non id bonum eife iudicat / quo fenfus de  mulcentur ; fed quod reda didat ratio: quod uemm (implexi^ bonum cui iit ne«  ^interire ne^ corrumpi pofiit. Cum igitur huiufcemodi uis bcx bonum illud  ucro malum elfedeacuerit excitatur in nobis alia quzdam uis quz ad bonum afei  Icendum / malum^ declinandum infurgat . Huncautem appetitum omnes ap«  pellant . Sed &, eum duplicem efle oportetialtrtum qui ab eo iudicio quod folus  fenlus fcdt femper pendeat : nibil^ cum ratione expetat: alterum qui nihil omni  no sequitur t niii quod ratio prius pra^epent : primum illum libidinem : hunc fe  eundum uoluptatem nuncupamus. uaptopter erit appetitus quo animi honii   num ad bonum afdicendum maium  declinandum moucantur redus quU  demiiaratione/contraii a fenfu.Quaptopter pulcherrimo enygmate diuinus  Elato cum animum noibum ueluti cunum pofuilTet : aurigam ilii duofep equos  adiungit . Nam ueluti equis currus trahitur : iic animus ab appetitu duatur. Fe.<  mnt autem equi non fuo arbitrio : fed imperio aurigz a quo reguntur eodem pa»  do appetitus nihil ex fe agendum decernit . Sed quod iam ab aii a ui deaetu m eli  fequitur. Quarc autem equorum alterum album pulchettimum^ i at^ hono«  tis cupidum : Bi qui non minis ui<^ / sed cohortatione ratione regatur. Alterum  nigrum inglorium & contumacem hnzerit ex iis quz paulo ante a me de duplici  appetitu dicebantur perfpicuum eft. ExprefVit enim per bonum rationalem : per  B^um ucro irrationalem appetitum quo animus fertur: at<^ hzc de appetitu :  quem quidem mari limillimumelTe quis negaueritr Videmus enim mareftnuL»  lis uentis uetbcretur fedatum tranquiliumtp perdurare. Sin autem diuerfistun  datur uentis: in geauiflimas turbulentiflimaftp tcmpeftates infurgir : Sed hzc  eadem in appetitu dcprzhendastFac illum uacarc a pcttutbationibust nihil ni  fi rede appetet : Fac rurfus iliis uehementer uezari : quos iam ftudus   quasuc procellas intuebere: Quapropter illud elegannflime u^tio^ irarum 6)s  d^t (ftu. Illud autem tibi fortalTc occurren/ quod non bene iis quz diximus  cohzrere uideatur : Nam fi radonali appethufertur zneas : fi iam uitam uoluptu   g iiofatn damnault t unde nunc illud quod patnx liHota lachrimajupotfutnij^KliQ  quit . Q_uod enim odifle iatn coeperimus: id non lachrimantes : fed Izti fugcR fo  letnus t Sed uoluic Virgilius primum a uolupcatc ad uirtutem difcelTum demoo'  I firare . In quo cum temperati non dum fed continentes fimus : agimus illud qui>  I dem t fed cum diu uoluptati aifueti illius illecebris demulceamur t non nili zgte  , ab ea diuellimur : imitemur^ fenes tioianos: qui cum ELENA ut grxconun tro>  ianorumtp certamen fpedarct mcenia confcendilTet admirabatur cum (hiporemu  lieris pulchritudinem t ea^ uehementer deledabantur : uetum tantorum maltv  rum illam caufam eflie animiduertentcs : abeat dicebant potius Helena: quamp  pter illam pereat Troia . Quod ut plaiuus intelligas. Qucmadmodnm tordnk  do uirtus eft / qua dura omnis ar^ afpera inuido animo ferimus : lic tempcran»  tia aduerfus uoluptates armamur : in qua quoniam iam habitum contraximus li  ne ulla difficultate aut moleffia negocium conficimus. Quod li habitus nem  dum contratSus Iit: Si tamen illud idem efficere tentamus t tandem^ effiamusfi  nitimum quoddam 6C uiriuti proximum nancifeimur ut nondum temperantes effedi tamen abftineamus quamuis xgre & non line luda: Quz contmenna di  citur in qua li diu exerceamur : paulatim temperantiam acquirimus: htij uirtus  id quod hadenus uirtus non erat : fed ingrelfus ad virtutem. Hoc igitut intcrcft  intcttempcrantiamfii contincntiam. Namquam uisutrai^ idem przdet:conti«  nens tamen eo detenor eft quia cum dolore ablhnetmec ctt fatis Armus aduerfus  uoluptates Tempuans uero bene uolens Iztufk^ abffinet.quod li itidem de ineo  Anente intemperantem inuelliges: facile ell uidere quanto a temperantia condoe  da fuperatur i tanto incontinmte ipfum intemperantem pemitioliorem elfe: I na  continens enim quia non dum in uitii habitu ell rationem difeemit : prindpiui Knct:pugnatm aduerfus malum: fed tadem magnitudine cupiditatis & fui animi  imbecillitate uidusucluticmtiuus in feruitutem rapitur . Vetum uc qua; uctbts  adumbro ea exemplo exprediora reddantur t dicimus continenum a pruicipiofii  ilTc DIDONE quz quamuis Acnez amore teneretur : tamen adeo lunliter repua  gnat/utmori malit :q pudorem uiolare. Incontinens autem paulo polf redditui  cum fororis oratione uida pudorem foluit . Prius enim fortiufcula adhuc ita pua  gnabat : ut uidrix cuaderet. Deinde eneruats omnino pugnando fuccumbit.pua  gnatenim incontinens/fedfupaatur. Intemperans autem in habitu uitiiconftitutus omnem rationem amiDti ne pugnat aduerfuscupiditates: quin illis uo»  lens gaudmfqi obtemperat: quippe in quo adeo deprauamm Iit iudidumtut qdf  tnalum fit bonum rlTe dicat. Sed ut iam ad inffitutum redeamus : non dum tem'  perantia munitus erat zneas: nuper enim ea ratio in homine uluxcrat: ut uolupts  tum fordes intueri poffet : nei^ rurfus tempeians : aut incontinensinon enim io  de fe expedilTet. Sed cum hincilleccbrx uoluptatum traherent : illinc honefti uui  pulchritudo ad omnia excclfa cum erigeret/demuiccbatur quidem a uoluptate  cam feolibusfuauilTtmam iudicabat : non potccatip non zgte ab ea diuelli.51i  da enim adulatrix voluptas efi.uehementcr fenlibus applaudit: ut etiam gcQ’tolioiit animi qui funt illa capiantur .lu cnim fuauiter nos irrepit aut totos pau lanm occupctt Smgjt igitm comn ucac ft guis lachiimaiu taincta littcin tioiaiu ti s h P U Ii 9 si Q lu ia K a» 10 k liu tic adi li] tu »1I» bi » m inii tta ip DOi tUU) aoi pqai V» 'Z tiO*iJuti idtai am i&:l» oap jiua riKil apoi at(p  tdib ;iup» ib<#  ico^ Jki» «0 lolf J0t 0 'Df> 0f Libettmiiu Klinquittquonii c6tines. Quod H unam tcpnitii adcptua fuifTn no lacbrimSs  fcd lema reliquidet : po<ta enim non ipfum a principio sapientem fingit:£C  una uircure ornatum t (icd cum qui a perturbationibus animum uendica»  K cupiens fe paulatim a uitiis redimat t k poft uarios errores in italiam id eft  aducram fapicatiam pnumiat» Nam quznos de continentia dc^ incontinen  eia diximusan quibus fenfus pugnat U ratioiuidiTim^ uincuntacuincunmr.  eadem de reliquis uitiis ac uirtunbusintelligas mtn quas mediae funtaffcdio  nes nullo adhuc habitu latis Hrmxifcdquz modo ad has modo ad illaimpel lantiquisfortadeinuiu ciuiiiin qua quz ad bonum tendunt incohau potius  quam pctfcda lepenas non nulli uittutes nominarent . Sed profici fcatur iam no  &r Acncastuerum quo tandem exui pn altum feretur: Nempe in thraciamre^  gionem patrue fininmam/fiC terram Matd confcaatamnnquanupn Polynco  ftoc holpitem fuum POLIDORO ut auro potiretur interemerati Erit autem aua  titia; fjtnbolum thtada.Nam ipfe paulo poft: Fuge littus auarum . Vnum cum  duplex auaritix genus fit. Eft enim auarus 8C iis qui inde rapit unde minime con  ucnitideis qui cui dandum eft ei minime dat.primum illud genus perthraciam  cxpdmimroi enim in illa Mars colitur -quisncldt habendi cupi ditate plurima a  mortalibus bella geri. Sed ne Polyneftor borpitisintcrfedots6( Tuorum bo»  Domm raptor quicquam expreftius quam auaritiam rapinaft^ denoubit Cur igi  tur prima inthraciam ENEA nauigatioeftrQ^uiacuma uolupute difceftimus  at<j non dum uerae uirtutis habitum contraximus facile ex ilia in aliam cupidita«  tcminadimusiinfurgitip habendi libidoibeatilTimam enim uitam multi feade<  ptos putantifi opibus maximifip diuitiis reliquos mortales fupecet:Qua cupidi  tace inflammati non dubitant non modo nefaria: uerum etiam laboribus pericu  lil^ refcitiftima bella fuTciper e. Ingens profedo ftultitia:6i ab coanimo profeda:  qui & fi uoluptates contempferitcnihil adhuc altum furapete poiTit.Habet enim  auaritia pccuniz ftudiumiquam nemo unquam fapiens optauit. Nihil enim illa  mobiliusinihil quod magis fottunz temeritati fubiiciatar. Quapropter rede Sa  luftius auahtiam ita malis uenenis imbutam dixittut animum cotpufij uirilc cf<  foemineuquando quidem Si ad omnem humilitatem infimaTqi fordes dcTcende  tccogic:& inomnem crudelita temproreuili(Iimainfurgete.lpra enim perfidia  am pctiuriumip edocet:cot fraudibus: linguam mendaciis:manum uenenis/fer.»  to in aliorum pemitiem inftruit. Apud eam quid fandum efle poteft: cum ho.*tes quoip qu Polydori exemplo docet poeta minime incolumes fint. Nemi  nem tamen mirari oportet fi Ancas fapientiz quidem cupidus minime tamen ad  buc fapiens in huiurcemodiuitiumprolapTus fit. plurima enim inuiu humana  Uidemusiquzquauis caduca momcntaneaip finntamen morulcs pro maximis  admirantur: quz quidem omnia cum ucnalia efteuideantipecuniz prz czte^  ris ftudent.Q_uotus enim quifi^ repetitur: qui non putet quod genus ficfoc  mm regina pecunia donat t quis non totus commouetur : cum auditi Si b^  ne numatum decorat fuadela Venus. Verum qui duce Venere fertur Si tna  gnarum rerum amore incenius cfi/pauladm errorem recognoliit. uitiumip  abominans Xfaradz auariflimutn lictas fugit, At^ cum iam fecundo deceptus i deinceps turpi Timum mirerrimumep iudicet Apollinem: cuius oracula ue  riiTima e(Te audient confulendum iudicac: Retur enim (i ex illius dei ptxut  pris uitam inftituat futurum. ut mifet ciTe non pofTit. Qua proptei naviga donem in delum fumit: per Apollinem autem qui fol cft: quid aliud quam  lapientiam intelligemusf^Nam ut id omittam quod ut fole eunda qux in lien  fum cadunt illuftrantur:(ic lapientia illuftiatus animus eunda profpicete ua.  leat uideamus reliquam eius plancta: naturam. Sed illud in primis. Nam cum  Heraclitus fontem caelefiis luds appellat. CICERONE ueto ducem carterorum lu«  minum ea ratione dixit: quoniam fui luminis maiellate praecedit: dixh itidem  ptindpem dixit moderatorem: Nam SC ita eminet/ ut ptopterea quod buiut>  modi folus appareat fol uodtetur : curfus reliquorum recurfuf^ipre mode   ramr. Nam certa fptii diffinitio eS ad quod cum quaim erratica ftdia recc'  deos a fole peruenerit tanquam ultedus accedere prohioeatur agitur retro.  Rurfus autem cum certam partem recedendo attigerit : ad diredi curfuscon  fueta reuocatur.Q^uapropter non iniuria & mens mundi cor czliapri«  fcisdidus ell:Quz omnianon ne fapientiz quadrant Non ne fapien^  tia reliquas animi uires przcedit : non ne illis moderatur C Quin etiam li  uim huius fyderis diligentius aduertas iurc datur fapientiz dicetur: Nam  ut a Saturno ratiodnandi a loue agendi uim : ut a Marte animorum uehe«  mentiam at^ calorem aedpimus; uta Venere deliderii motum fumimus: &  quod loquimur atqi intcrptztamur a Mercurio cft: ut deni^ a luna quod grz  ci phyticon idcll gignendi augendic^ uim habemus; (ic ipfe fol quod friamus:  quod^ opinemur nobis prxllat : Sed hzc de Apolline. Deli autem nomen S  ipfumnon nihil ad rem affert, grzce enim manifeflum flgnificat. Loca enim  quibus fapientia przfidet : clara femper manifefta^ fuat.Q_uod autem tot»>  us infulz Anius imperet: qui & rex hominuni & deorum facerdos iittnonca  ret ratione : Sapientia enim humanarum rerum cognitionem continet. Qua  ptopternihilnouum fapienti accidere poteft: quippe qui omnia iam percepo>  rit : quam quidem rem nomen regis oftendit. Anius enim didtut quali   id elf (inc nouo . Hic igitur hofpitio Aeneam fufdpit: SC pio*  fedoipfa fapientia animi nolfti aluntur . Veneratur autem templa : at^ ea retn  pia quz faxo uetullo conftuida fint.Nam quid obfecro te: aut flabilius im*  mobiliufi^ : aut antiquius ipfa fapientia deprehenditur : quam fapientiflimus  ille omnium bebrzorum S^omon ab initio Si ante fzcula creatam fxcula aea  ta effe uerilfime didt.Sed tu quid me o LAVRENTI fubridens fpedas.Non  polfum inquit LAVRENTIVS dodillimorum uirotum ingenia non admirati  lztuf(|:quz a principio de hifioiia decp allegoria dixilli mecu repeto :Q_^uis  enim non obfiupefcat huius poetz confilium .Q_uicum apud Cioatiumueri  umlegilTetinDelo aram elfc Apollinis genitoris: in qua nullum animal facrifi  atur: quam Pythagoram ueluti inuiolatam adorauiffe fetunt : legiffct eti^  am Sc apud Epaphum : Delon ne antea nem pofiea tettz motu uexatam:  femper eodem manere luo legiifet: & apud Thucydidem non mirum esse fi przlidio tebgionis tuta infula femper fit : cum teucreruia locotumfibi acccficrit Liber tertius coBtltiuafax Ieiurdetn firmitate: Cum igitur bacc legilTet itafcnblt/ ut eodem  tempore ex antiquitate hifioriam eruatiponit enim Aeneam Tolis przcibui deum  uenerari:K templa antiquo Taxo confirudaefTe/ficbxc cum ponit fimul ea affert  quz PER ALLEGORIAM Tapientiz conueniant. Dices quid in cacteris : hoc idem. Sed  nefdoquo pado hic me locus in quo hifioria non minus qua allegoria latet:mul  to magis mouinSed perge obTcaomolo enim mea interpellatione mihi ipfi audi  endi cupidiffimo moleftiam ex mora afferre. Datur igitur ab Apolline oraculu  inquit BAPTISTA z Dardanidx duri quz uos a fiirpe parentumzPrima tulit tel^  Ius eadem uos ubere Izto Accipiet reduces:antiquam exquirite matremz Hic do#  mus znez eundis dominabitur oris:Et nati natorum 8C qui nafeentur ab illis.  Q_uo quidem oraculo quid diuinius excogitari poffit non reperio:Q^uid enim  faomini salutarius: quid conducibiliusefi: qu3 originem Tuam noffexin quam cu  redire potuerit /tum demum fit futurus beatiffimus: Dixit igitur pluribus/ne a  poeta difcederet Maroxquod grzci duobus tm uerbis expediutx qui omnium ora#  culorum quz Apollini tribuuntur maximum effeuolunt i«r</7>> V   nofceteipfumx Verum ut haxea nobis planius explicenturx Omnesquicuh^un#  quam de fummo bono ferip Terunt philofophi in eo fi non uerbis re Taltem con Ira Teruntxutbenebeate^ uiuere fit apte conuenienterq; naturz uiuere t Verum  ubicoiamdeuenturn efl/ut fit hominis natura diffinienda : tunc innumerabi#  les pemitiofilTimi^ errores emanant: cum animorum nofirorum ui ignorata  plufquampar efi corpori attribuatur. Nam cum ex animo corpore^ conflare  bomo dicatur . & alterum brutum/caducumt^ at(^ facile in interitum pronuma  Alter mcorrufmbiiis immortalis diuinuft fitxpaud omnino ita mentem a fcnfi#  busfeuocat: ut feanimi nobilitate imniortales cogoofcant: corpufcp in nulla  pene parte habendum cenTeant.praedpitur ergo Troianis ut eo reuertantur  de originem ducunt . Duplex autem illis origo efi.Nam Teucer Scamandri cu#  iufdam filius profedus ex creta infula in Phrygiam uenit; 62 una cum Dardano  Kgnau:t ; Dardanus autem prius SCipfe in Phrygiam ueneratatnon ex creta:  ut ille fed ex italia: nec mortali patre natusxfed ex deo loue. Veniunt igitur am#  bo in Phrygiam id efl in uitam: & pnmam ztatem quam perTroiam fignificari di  ximusxfed hic a czlo ille a mortali. Ad huius enim animantis quem hominem  dicimus compofitionem animus a cziefii corpus a mortali patre prouenit.Qua propter cum primam nofiram onginem inquirere nos Apollo iubeticuius ora#  culum efl Nqfce te ip Tum : non quid corpus fitxquid ue illi conducat inuefiiga#  re iubct.Sed quid animus fit 8C quo pado fecundum animi natutam uiuere fodi  ces effepoflimus inquirendum mandatxQ^uam quidem rem ut ezpreflius fignifi  caietannquam didtxEfi enim animus fi non tempore/ut Platonid uolunt digni  tate Tua at(^ excellentia prior: Optimum igitur oraculum: Sed quid prodeft  fi illud male interpretatur ANCHISE . Hic mortalis Aenez parens omnia ad  lenfns referens ibi (edes collocandas cenfet ubi prima corporis origo fit. quafl  prima naturz non animi fed corporis fpedanda fint t Quaraobrem non ia  Italiam fed in Cretam enauigandum proponit: qua in infula multa mala Tubi#  bui fint Ttoiani. Nam cum (ummum bonum non iis quae animum: fed quaa    In.P,Vtrg. M.AlIego. corpus fpcdcnt natura noftra ignorata reponimus necefle eft/guoniaft illa pati>  io po(Hnpe(lem/ac demum in interitum cafuraiint/ut non bearirredmiferi fiu  turi (imus:TuIerunt ergo prxrium ob ftuitiriam Troiani:gui in italiam nauiga»  te iulTi actam ptticrint. Si enim in italiam.i.in originem animi redeant Troiam  percipiunt cognitionem rerum diuinarum in qua fola flabiles & manfuras feda  inueniuBt ; Hic enim domus Aenea; eundis dominabitur oris:Et nati rutorum  & qui nafeantur ab illis . In aeta enim nullum e(l Aenex imperium. Na corpus  ne^ fe nerp aliud mouet:fed iners brutum: 8C line fenfu iacetrnec quicquara Ii  ne animi auxilio ualet.ln italia uero imperium latepatet.Corports enim domina  tor & redor eft animusrin nullam^ nin uolens fauitutem cadit . Cunda autem  fue cognitioni rabiiciu Se enim pafe uideticum autem deum cognofccie tem/  ptat fuz menris acie ad fuperiora erigimr. Colidaado oia fpedat: Rimatut   occulta. Videt abfeiitia:breuicp temporis momento uniuerTas mundi oras anv  bit:Defcendit ad interiora: Afcendit cxlum . Adxret deo: in quo efl patria fua:Et   ? uoniam imorulis eft hxc femper facit : Quapropta eius imperiu eft aeterna:  ixcaprincipioqua uisdiuiniscflentmomtiprxcepris cognoicere no potuerat  Troiani: Nunc uao calamitates eipaticognofamt. Epimetheo quidem ferius:  Sed uidete quxfo quam admirabili ingenio reliqua profequaturt. Cum pefie labo  rarent Troiani danmatfuam oraculi interpretationem Anchifes.Nam poftqui  diutius debaccliatus eft homo dum fenfibus obtemperans omnem fpem in rebus  caducis reponit/tandem ufu Si experientia dodior redditus animadueftit no fua«  fifle acta Apollincm.i.nunqua pofleefte homines beatos ex iis qux mortalia fntt Cenfaigimr alibi quxrendamfoelicitatenuVenmi non dum tanta metiris arie  ualenut qua inrcconliftat discernerc poiritr Na humiproftratusanimus/St fieri  gi nitatur tamen corpote'obrutus qu x in/cxcclfo collocata funt non nili poft mui  tum tempus difeemit: At dii penates eadem dicent qux didurus efliet ApolIotPu  tabantenim antiqui deos penates elfe ex animisiuotummatoTumtqui clari ilhi^  ftref(^ multis egregtiftp uirtutibus fuilTent quali deos domcfticos: Ergo Si hos  animoru noftro excellentiores uires intapretabimur:quales funt ratio intelle#  dus atqr intelligentia. Qux hadenus furentibus fenlibust Si omnia tumultu co  plentibus nihil fanuiudicare poterat: Nunc autcpoftquamfuograui damnoeu  pertus eft homo fenfuu iudicium falfum elfe illos a tribunali quod tumultuo &oc  cupaucrant deiicit:& luris dicundi potcftatem iisjuiribus quas paulo ante nomii>  nauipermittinillx autem cum iam fcnlibus parentioribus ut atuc:quippequipu  dorc confufi nihil amplius audeant/K cum eorum iudicium diuturnus iam ufus  at^ experientia confutauerinparaciam non amplius prxeipne deaeucrintrfc a  tumulm colligunt:at (pfeipfascxdtant:fumma ( contentioeruftitix nebulis fua  luce fugatis mentem ab iniquiffimo fenfuum iudido prouocauit ita a aetenfi  domicilio abfoluunt : ut tamen italicam profedionem fuo dcacto 'edicant, ii dunt^ proptnea fux fententix ftandum: quoniam eadem iubeant quxipfe Apollo a quo mittuntur didurus fit: Et profcdomcns nostra multatum rerum usu  iam dodior reddita multa, ex fe cognofdt: qux fapientia ptxdpere con sueuitt Nec ucto quempiam moveatli deorum pcnatii oratione pct fu ad catut Andrifas I t ( II P nudfi D B B< P>  h Jrj-B SNitn ubi ndo pneualerc iitn crprrit : appetitus Hli rubiicitun MuItS iatn profeoe  nintdii pcnatess quiquz obfcunus Apollo SIGNIFICAT prrfpicue enodaruntt  docent«piniuIuadrcrum diuinarum cognitionem enauigandum rfle: Beatus  profedo ENEA (i decretis ftarett (i quod bonum efTe cognouit:id ita mordicus  arriperet ut nulla re inde po(Tet auclli:Non enim totiens a redo curfu deiicere^ s  Veru non is adhuc uir eft qui conftanti habitu in hisobdurauerit:& per (uma t&  perantiam a rerum moruliu cupiditatibus sit penitus purgatustfed inter contine  tia; at(^ incontinentiz uarios frudus uacillans fzpe cum ad aliquod Tparium fuo  uento procelTerit: nauisfubito a redo curfu deiicitur . Non enim is gubernator  clauum tenet qui fummo nauigandi artiBdo arperrimam etiam tempeftatetn  fupcrarcualeattfed Palinurus t qui poftquam ceruleus fupra caputaftiiit imber  nodem hyememt^fercns.poftquam inhorruit unda tenebris : poftquam conti»  nuouenti uoluiit maretmagna^ rurguntzquora:& quz fequuntur.ipfe diem  nodemt^ negat difcernereczios nec raeminifTeuiz: Diximus a ptindpio foloap  petitu moueri aniraumtdiximus itidem duplicem e(Te appetitum alterum qui a  fblis feniibus ex dtetutitationi^ aduerfeturidicatnttp libidotalterum qui ratione  pareat:uoluntaf(^iure nuncupetur. Qui quidem sinauiprzfuifTetiporerat ea  am aduafantibus uentis iter redum tenere, oed przFuit Palinurustis enim eft qui folisfeniibasob temperatiuirefij aduerfus uentosinterprxtari poteft enimgrzce retro uentis didtur quali qui in contrarium refetat. Hic igitur infurgcntibus pertutbationibus/uehementioriburi^ cupiditatibus  uelutitcncbiis animuminuoluetibuscum ipfenulla rationis luce illuRracus (it  dicsano dibus ideft ucrumafairodifcerncrenrgat. Magna profedo hominum  ioldtiatmazima^ fenruum perturbatio qui ita rationi aduerfanturi ut quauisil  la fzpe infarg.it t ut animum ab illorum nefaria tyrannide feruituteq; eripiattipfa  uclutiiulbirima regina ueramuelit inducere libertatemitamen cum nondum  uiresfuasrecupetaueritm Dpercp a diuturno exilio reuerfa a paucis fuorum ciuin  cognofeatur fzpe antea qua dus regni quod (ibi iure dcbctur polfeinonem recu»  peret ab lilis repellitunquippe qui multos iam annos tyrannidum tenentes omni  largitionum genere appetitum corruperint : illum cp adeo demulfcrinttur malit  io feruitute uolaptuofc degere qua honorifice in libertate laborare. uamob»  temcum acbrainterillos przliac6mittantur:difcedic fzpeuida ratio, lllicnim  parere rccuCiDS Palinurus nihil sanum fentit : Eiufcp ilultitiaatcptrmeiitate cd»  mittirurtuc dedituto curfu t quem penates dii prasceperantin (Itophadas infu»  lasdeclinetur. Hunc autem locum nos ni fallor auaritizuitium redeinterprzta  bimur/non illud tamen quo inde rapimus tunde minime conuenitiid enim  nobis Thrada ddignauit. Verum aliud quod tunc patratur: cum ex iis qux  iam peperimus minime illis (ubuenimus : quibus tus naturacp ac humanz fo  detatis uinculum fubueniendum poftulat . Oodus enim'iam Fragilitate rerum  buroanarum Aeneas ad diuina ratione id efflagitante ferebatur. Sed appetitus aduerfus illam adhuc contumax ftaredeaetis non potuit. Verum ad ea quae  uulgus admiratur rurfus conuerfus diuitias cupit. At quoniam multum de pti*  fiuufcritateitniautufuctaUndui nc rapiaisilJafibicompatatecoBteodit: fcd    In.P.Vitg.M.AIIego.   per (oBUS fordes plus qustn psr eft parto pacens nullo libmlitatis munere fiigiei  DC(p (ibi nc(^ Tuis beneficus eft.Q_ux quidem cum facit fe parcum non auarutn  prsdicatiprzfert enim fpeciem boni uiri cum peflfimus Ar. Q_uaproptcrnon io«  iuna harpyz ipfz uirginea facie Angunturdimulanc enim pudorcmimodtfHaou  robrietatem^iomneri^ uirtutesprzfe ferunt. At earu ucntris ptoluuies fcedifli<  tna eft.Q_uisenim po(TetauaritizfordesexpIicare:quis qui turpis hominis di  uitis eiufdemtp tenacis uita fdt latis referrer Cum furor bau d dubius s cum ftene  As manifefta At egenus uiuereiut diues moriaris. Quid miru igitur A earum fu  des palidafcmperc fame & macilenta AtiNarahuiulizmodi homines iure tanta • locomparamussqui inter aquas.interi^ uaria poma confbtutus Ati tamen at^  fameconAdturiNam ut cumulus diuitiarum acrcatiprcinterim ruum/utillete« .  centianus Gcta defraudans genium partis abfbnct ac timet uti: Quod autem ua  ds Angantur manibus ratione non aretiNihil enim remittunt quod femel ctpe>  nntauarii Q_uinfunt adeoperaino A auarinxundiut hominem ad dtuma qua  dam natum ab alnlTimis curis ad hzcinfenoratrahantifiC uelutide czioin terras  K e lucidis fjderibus in profudilTima tartara trudant. Auertit enim nos at^ feuo«  cat habendi cupiditas a cognitione carum reru quibus folis Axiiz animus ciTe po(  At. Sapienter igitur adiugit.TrilHus baudillis mdiltunec fzuior ulla peAisidtjia  deum ftygiis fefe extulit undis: Non autc Aulta rado poetas impulittut ex Thau«  inante patre: matre Helcdraoceani Alia natas harpyas fabulentur.Thauroan«  tem tede admiratione dicemus grzci enim admiran dicunt. Cu   cnimobfumma fiultitiam diuicias maxima bona putemus cum aut bona non  Antaut minima bonaiproptcreaq^ illas adrairamut:cuenit:utcx ca admiratione  cupiditas habendi nosinflamct.Ncmo enim cupit caquz negligit:at(j contenv  nit.Suntautem ex eamatrequzAt Oceani Aiia:Nam liquis maieriam diuinarn  diligentius conAderct:omnia mari Amillima in ea uidebit.Vt enim mare in afli'  duo motu cAicundac^ inco facilem ifcentunat^ pcnurbanturaAc diuitiis ai<jf  opibus nihil Auxibilius inuenias:multiq) tumultus ac fzui Aima bella inde ezota  tur. Hz igitur c£.'n paflim armenta gtegcfij pafcant : nihil inde Abi ad ncccAiu  tem fumunt. nihil aliis rumerepermittunqvcrumfiC ab hocquoq^ regenereaua  tinz quando^ explicat uir fummi boni acquiredi cupidus. Relin querat olim uo  luptates.indderat in rapinasiquibusquo^ damnatis otacuium confuliti A quo  accipitnofceteipfum:in quo errat Ancbifcscum ea ad corpus refcrctrquz de ani  tno przcipiebanturicauturqi ruo damno fadus errorem cognofat: con Alium  inutat:rclida(^ creta tendit in lauum . Verum rurfus perturbationibus uexatus  animus ad diuicias rutfus refluit: non tamen ad eas quas rapinis ut hadeoust  fed quas nimis fordida pat Amonia comparet: Sed & boc quo<^ uinum effc  cognofccns / proptetea^ damnans < ad Helenum per hoftcsproAafatui.  bes igitur quare in harpyarum infulam delatum mixcrit Aeneam y?^uod ue^  IO ab ip As uefd prohiberetur iam parariscpulis inde efliqnia eam uim habet  auarina/ ut qui etiam dinflimi Antfame penrequamuci minimam acerui par«  Aculam imminuae malint JAcmis tamen eas pepulerunt Troiani: Nam di aua  AAacxifflbcdllitateat^ builitate animi tuliaf':qiiz ci cAiut&fctia & tnulict«'  i-% « % % t ik tltl I- 1 II- 1- i j mii oa* iff  Liber toriiu <aIcgux'tninori animo runtauarioresTemp^e pncbeact/tunc Fadle pellitur  fi foitemgcn ercfum^ fumamus animum ^6Ilcedit e fitopbadibus a;neas t fed  non prius quam cnfle a ccleno oraculum aedpiat < mendax omnino uates Bc in   E s fubdola } & quz uctborum firepitu honorem inde incutere uelit unde ni  timendum : bed profedo hoc morbo laborant auari i Nam fi quando ho«  ncOa quzdam SC una ratio lilos ad divina exploranda erigat < propterea^ huma  na bzcfiC mortalia negligendafuadeatrihtiminfuigit ex auaritia metus si rem  noftram familiarem negiigentius curemus fore ut (i fame pereundum x Sed ne«  fiauot fiuItilTimt homines quam paucis natura contenta (it i quam facile t quam  minimo fumptu eius diuitiz comparentur: Efi autem fames iis timenda qui in  anesqui infinitas cupiditates & quz ne^ neceifariz ne<^ naturales lint fibi exple  das propofuaint quorum uotago um lata tam profunda efi : ut nulla auri ui t  nullo gemmatum iapillorumtp cumulo repleri queat . Qui autem ita uitam ia*  fiituerunt > ut fola fe uirtute bntos putent : animum^ non corpus ditandum ^  ponant : his omnia femper abunde adaunt t Q_uam quidem rcm:quo tibi pia*  nius exprimam : at^ adeo potius oculis fubiiaam.ptopone tibi duos diuetlifii^  mz quidem fottunz/fedeiufdem pene ztatis utros Alexadrum macedonumte  gem/& Cynicum Liogenem utrum ditiorem iuch'cabis:uide quid dicas. Maximi  Alexandro thc Ciuri erant plurimi tobu Riflimi^ exerdtus (ibi militabant : Imperium latilTimum poflidebat. Innumerz pene nationes acpopuli ex Europa A(ia*  ^uedigales huic erant.Diogene autem quid potcftangu (liusexcogitari: qui prz  tet rimofum illud uas e figulo acceptum : quo l'e recipetet ut e frigore calorctp tuf  tuselletnetuguriolum quidem haberet : quem eodem panno in utroi^ folftirio  obfitum confpiccrcs : cuius auda olera etiam nullo file alperfa beati (limorum re  gum dapes fuperarent. Vttum igitur horum ditiorem Laurenti iudicabisr Ego q  dem inquit LAVRENTlVS h a deptauatilTima confuetudine : quz altera pene  in nobis natura cfl dirce{l'eto/& rem totam fenfiiu iudicio exclufo rationi cogno»  lixndam tradam beablfimum Diogenem:miferrimum Alexandrum proferre no  dubitabo . Vehementer enim iis aifentior : qui in diuitiis penfiiandis non quam  tum tuii^ adiit : fed quam abunde id quod adeft fibi futurum (it animaduerien»  dum cenfent.Si emm is diues eft cuius cupiditanbus adeo fatis fupercp fadum (it  ut nihil pczterea defidcret quis Diogene ditior :qui cum (lue pafiurem (iue arato  rem quendam cauis manibus aquam e fonte ad potum haurientem uidiifet : po  culum quod ad eundem ufum hdile gerebat ueluti fuperuacaneum abnaedum  putiuu . Q^uis rutfus Alexandro pauperior : qui podquam a Democrito ut p\i  to PHILOSOPHO plureselfe mundos audiuaat : lamentari non crilauit tanquam  nulla ratione diues effici poffet nili illos prius imperio fuo adiecilfcif Rede o Lau  tenti de utro^fentis inquit BAPTISTA. Q^uamobtem cum idem rex motus  animi tranquilliute quam in Cynico cognouerat ita pronuciaiTcticupcrem Diogenes e(Te nifi cifem Alexander : magna ex parte fiultitiam fuam indicauit : cum  in fummis opibus zgere : quam in fumma inopia ditefeae mallet . Quamobte  difeant homines quam paucis natura contenta fic s quod cum didicennttoracu#  ium a Cclcno zditum &cile tldcbunt:quamuis ipla ut otadoni liiz fidem faciat diat fe ca pronunciare guz Phabo pater otnnipoteos flbi  Pbccbus Apollo pn«  dixit . Natn rempn auari qui funt : uiriutn quo laborant fallis uirtutum limula»  cbtis tegere conantur. NatnquzmoEraauaritia eftream patlimoniatn uocants  & aut deorum t aut maximorum uirorum audoritate famem timendam pctfua»  dete conantur. Oolofa profedo cupiditas et quz cos etiam quos prudendotes  putamus fzpe decipiat . Aduerfus cuius fraudes illud unicum remedium cft nof  fe ea quz hominum ftultilfima cupido ad uitam degendam neceffaria putabnoa  modo nihil peodelTc i fed omnium noftrorum malorum caulam exiiiae.  Deferens igitur Harpyarum infulam Aeneas ad Helenum enauigatrEll au»  tem Helenus 8C uates K conduis«|Q_uapropccr rede ilium dicemus ingeni»  tam nobis rationem & ueri lumen quod natura in nobis refulget,: quod  nos fallis bonis decepti confulhnus ut in redam uiam ab erroribus reducat»  Ipfe autem uates uera przdicere poteft : fed ditfidle eft ad illum petuenitei  cum Iit itet pn medios hoftes tenendum : Nam 8i fenfus omnes 8i apped»  tus fenlibus obtempetans uolentibus nobis in uetum iudidum delcendcrc (em»  per aduerfantur:,At(p adeo nobis confultantibus obfirepunt: ut uix radonem  adire & uera bona a fallis fecetnerc poflimus. Verum cum ad Helenum perucne  rimus iuuat cualilfe tot urbes argolicas medios fu^m ten uilfe pa hgges : Supe»  rads emm perturbationibus iratiquilla'quTdai^ r^nquitut mens: in qua lecxd  tans lux radonis nobis ucrum oftendit : Q^uo dodior fada mens agnofeit itali»  am t quam propinquam elfe putabat uia inuia longe diuidi: multum^ matis ef  fedreueundumi & ad inferos defeendendum antea quam quietas in Italia fedu  collocet : uz quidem omnia quanta ratione dicantur ; faulius cS mente coo pledi quam uerbis exprimeret poliquam enim animus non dico profligatis /fed  magna ex parte repreitis uitiis per medios / ut diximus hoftes in lumen luz luca  defeeudit Itum demum aduertitfummum bonum: quod in propinquo coUo«  catum habemus putabat poculabclleioporterei^ nos amplo dreuitu Mariamo  ftris obfelfa peraauigare : Nam inter ipfam contemplationem: hanc quam ui  uimus uiuminteriacet is quem iam totiens appetitum nomino uelutiturbulcn liifimum mare: quod fcyllacharibdifcp pernitiofiirima monlha infeftum red»  dant: Si tamen eft pei hzc loca enauigandum li IN ITALIAM VENIRE nolumus : Oi»  ximus enim a principio (i rede memini nulla alia ui nilT appetitu animum motuti .Sed quoniam de duobus iis monftris dicitur a poeta : facile eft ex ipfis fabulis  quid fibi uelit coniedari. Nam cum eas foeminas rapaci fhmas fuilfe memorizf  proditum Iit : non ne per eas commode exprimi animi nimias cupiditates dice»  mus : quarum prindpes luxuriem at^ auaritiam eife nemo dubitat . Scjlla e^o  s glauco adamata ucneteasuoluptates exprimet: quz maxime rebus nofttis fio»  rcndbus uigent: Nam quod eius uniunia pubes m canes latrantes conuerlafu/? uantum ad negodum faciat : fadle eft cognofccre. Chanbdim ueroipli quof  Icrculiboucs quondam fubripereaufam quis non intelligat limulai tum nobis auandz refene : 8I qnoniam ab ca non ita in rebus fxliatei fuccedenubus ut  gemur quemadmodum a libidine. Sed tunc potius cumnimi sanguftiis diuida  nun terminis incluli uidemur: ac ob eam oufam minime nobis noUxa placent ii •p. a MI ia Bi  itk iw “!f   lab ipoK   imi». okib!  abii   l{DKd   biW   uocA \^2Dli   .qmX (uitbi SUID* jniisi^uin®^ iCID# aajb crlb<   jola* OUfl^ 1^1^' amba* mfia eKccT^ eflcopinaiaut t iccirco dextrum a fcylla : Icuum a cbarybdi latus obfi  dcri Mato dixit (quoniam altera in rebus quas aduetfas putamus t altaa in iis  quibus uebcmenter dele Aamur : nimis nos urget. Quz cum Baptifta dixiflct :  at^ refumendi fpiritus caufa aliquantulum obdcuiflet. Admiror inquit Laurendus tam magnx tam^ reconditx dodrinz diuinitatem . Verum quanto me iffa  tnagis deleant / tanto magis cupio : ne minima quidc m in tota re mibi dubita»  donem relinqui . (tai^ utar ea quam mihi conceiTi^ libertate uel licentia potius :  At^ ut iamioulligas quid illud (it (quod nili tibi aliter uideamr/ planius heri  cupio . Odenderas a principio ea ratione politum ellc a Marone Troiam zneam  cekquifle t quoniam lam uir ille corporeas uoluptates contempriflet t per thraci»  amuero at^ dropbadas utrun^ auaridx genus exprelTum cfTe uoluidi : Cur igi»  tur (i buiufccmodi iam uitia exuerat Aeneas ( rurfusnunc ut illa uitet ab Heleno  monetur C Dcle&at me tua interrogado o Laurend inquit BAPTISTA t Oden»  dit cnimmaion quodam iudicio quam idbxc xtas gerere foleat te ea qux dixi c6  fideralTe: Veium quo omnia tibi plane pateant: memineris non eum uinim a  Virglio [VIRGILIO] produci AENEAM Aeneam: in quo uirtutum habitus conoboratus fit. fcdqui  pro uirtuteaduetfus uida ita pugnet tut non (inemulta difficultate per continen  dam uincat : nonnunquam etiam uelud incondnensuincatur.Q^ui ueroin Ita  liam id enim ed ad diurnarum retum inueibgarionem uentuius ed/ huic non fa  dsed : ut continens fit . Nam quamuis condnentia a cupiditatibus arceatitamen   S uoniam in affiduo certamine uerfatur:non przdat eam animis nodris tranquil  tatcm/quaadrestamexcclfascognofccndas opus ed Quimobrcm egenus  ipfa temperantia uirrute undi^abfoluta: & in ipfo pene cerdo uirtutum ordine  corroborata qua qui inlbudi fuirt/nonfolumonuies cupiditates Tupc Tantiue»  lum edam illatum penitus obiiuiftuntut . H oc autem habitu nemo mortalium  fe corroboratum in confidat : nili plurimis afliduif^ adionibus prius ad eum co  fequendum fe exercuerit : Q_^ux res line longioris temporis interuallo effici nem  poted . Huiufcemodi igitur temporis moram VIRGILIUS poetice quidem fed opd  me tamc exprelTic : cum dixit : Prxdat trinaaii moeras ludrare pachtnni. Ceffan  tem longos/ Sedteunfledere curfus. Quod autem moneat ut eo quem dixi ha»  bieurn fe con firmet xneas uerfus unus indicio elTe pet^d . Adiungit enim quam  fcmel informem uadouidilfefub antro rcy1lam. Quamobrem icdiflime uni»  uerfum locum concludemus neminem poffeipram dminitatem attingere : nili  perlongum prius intefuallumeuih: quem dixi habitum ita contraxerit: ut non  modo non rapiatur a fcjlla : fed ne femel quidem ipfam uideat . uod quid ali   nd fibi nuit : nili ita obiiuifeatut cupiditatum omnlumtut nunquam illx in con  ipedum fuxmentisredeantrperpulchrc per^ commode omnia ida inquit LAVRENTIVS. Verum quid tibi paulo ante explicare libuerit: triplici illo ordine oir  tutnm non plane intclIigo.Res inquit BAPTISTA huiufcemodi ed : qux &: Iz  pe alias maximo tibi ufui & prxfcnti fermoni apprime neceffaria futura linOiui»  nus enim Plato cum uirtutes de uita Sl motibus eafdem quas exteri pofuilTet:ita  sd podremum illas diueilis Gue ordinibus Gue generibus didinguit :.ut alia qua  dam ratione ab iis illas coli odendat : qui ccetus ac duitates adamant t alia ab iia   h ii i  I qui omnan mortalitatem dedifcnc cupimtes/ft humanatum rerum odio taoii  •d fula diurna rognofccnda eriguntur : alia poftrcmo ab iis qui ab omni iamc6«  tagionc expiati in folis diuinis ueriinturtprimas igitur ciuiles dixir/fecundas pw  gatorias/ac tertias animi iam puigati.Eft enim triplex hominum rcAe & ex ratitv  oe uiuenbum ordo.Horum trium inferior eft eoru qui io fudali acciuili uita dt  gentes rerum publicarum adminiftrationem fufcipiut.His {iximi fed m ercdioti  gradu confiituti ii funtiqui a publicis adionibus ueluti tepcftuoflsiac procellolis  Kin qbus fortuna; temeritas oino dominet'' :fe in portum tranqllitatis trafferuot  & a turba io odum fe tecipietes/ quirta uitam degutinon ita tn ut no aliqd adhne tefictaduerfus quod Iudadumlit. Supremo autIocoeoscerncsqui penitusa re«  rum humanatu concurfitionerac tumultu remoti nihil cuius panitcdum sit /c&  mittut.Eft autem oibus his ordinibus hoc c6munr/ut uirtute dure ciida ad boni  redi^ normam dirigati Verum qa in uita duili cupiditaribusiac pturbationibus  omnia tumultuant hifip non oiu xgre refifti^ rdicunt in ea hoium genere uiitm   tesi Dcohataspotiusqabfolutast Quaproptetidinill bptadcntiac6tendit/utm   bil agatuticuius non polTit ratio (^tem probabilis reddi i Fortitudo uero animd  fupra omne piculum at<p moetum affett : & nihil nifi turpia timenda admonet.  Tcm{watia autem oftedit fola honefta appeicdainulla in re moderationis legnn  excellcdamioea cupiditates iugo ronisrubiidendasiluftitta; poftre moptesfuni:   ut unicuimruumredd»’' iutx quoiureoesuiuant .lnrccudoautilioh>iumgene   tctqui ea it ronea negodo in odum uendicat/ut liberius poflit rerum diuinaium  conicplationi incubcrcifunget munetefuoprudciiafifpretis oibus mortalibus  rebus &cxleflium collatione pro nihilo habitis omni cura omnim cogitatione  ad diuina copuertat" . Temperitia autem cum ea folum nobis cdce(Utit/bne qui*  busferuari uita non polTiticaitera omnia fcueriffimoiudidocontenendarf^upeii  datp pronuciabit. Sed necaberit fortiiudo qu* afliduo pridpiatiut nullum meo  moduminullumlaboreminullu periculum horrefeamus/quo minus redo 8£w  petuo^uti**' - j 1 n- ». tuo^ut ita loquar)curfu ad cxlcftia & ad origine fuam icdat animus.Diccs q d  luIhtia.Hoc jifcdo minus libi imponctiut reliquarum uinutu cofenfum in hu iulcemodi ppoAtum firdatilfti quo^utrupiarcsaduafuspturbationcspugnit  fcd fadiius fupcratsfei^ paulatim expi .tos reddunt. Quapropter uirtutes ipCrin  illis purgatoriz appellantur. Verum audi iam tertium illud eorum genus/quota  animi ab omni uitiorumlabe ^cul ab Ant. Hi igit' in eo prudentiam exered/non  ut deledu quodam habito diuma terrenb prxferantifed iit illa fola nofcantifuU   J ueluti nibil aliud At intueantur. Adhibent autem temperantura non ut cupitates coberceatifed lilas penitus ignorent.Eadem ratio erit fortitudinis.llla eni  pernitbariones non uincicifed ignorati Quin opubic dura at^ horreuda Abi of ferrirnon ut uidoriamaiTequacurired ut in eorum obliuione perpetua riimiuts 'ifidiligentetinfpides/ fadiecognofcesidabhelenoadmo  petduret. Quxomniaf  ^ neri xneam non pofle illum fedes in Italia qetas ftabi colloare/niA priiis ad   boc tertium uirtutum genus peruenerit : (^uid ergo hadenus: nonne Troiam deftrueiatjacthradam ftrophadefipteliquerat. Defenieiatquidemjred nondum  $mca uitia fugiflct illa dcdilutc poterat Jiunc autem non ut Moliirnt^iP  Liber tettiai «Birittaib^ deponatt^od tam feceratered ita de tnte deleat: ita perpetue obK  tuooi roaadntut nunquam eorum memoria illum rubeat:Cu autem prz omni  bus rcbua iterum at(p iterum 1 unonem pbcandam moneatsqua quidem adua  •imte Italiam nunqua podturua (itmdnc nobis documentum eftroaximum nui  Ium ex innumeris uahif^ uitus eflieta quo etiam ii qui ad quzip ezceifa eriguiu  lur t scgriiu liberetur quam ab bonorum imperii^ cupiditate.Fadle eft enim cd  temnere uoluptatesa qui iam maiora mente conccpit.Diuittasuero &li fpecie  maximorum bonorum a principio nobis oftendantipoftrcmo tamen ab excelle  tianimo negiiguotur.Atucrohooorcsmagiftratus& imperia quoniam exedi'  lens quodda & eminens in fe cotinere uidetuunfpecie decori at<p magnifici ztu*  mum etiam excclfum deripiuntiNamcum cupiat ille fefe qua proximii deo red  deretanimaduertac autem nulla alia te nos magis deo fimiles efle qua dandis bc  ncficiisiNt^ hzc przftari ab hominibus pofle nifi in fumma reru poteftate coo  flinitifintiaocenduuruebcmenti quadam cupnditate ut reliquos antecedat: Eft  enim natura nobis iditu/utfcnm (upiores in rebus oibus euadere cupiamusi Ce  dcrcauteautfuccumbeieturpimmumputemus.Q_uz quidem naturalis cupv»  ditas nifi reda ronc temperer in ambitione ac pofttcmo in tyrannide nos rapit:  in qua muka aduerius humanitatem audelia tetra nefariaip comitthnus : cu   natura ipla nifi deprauata fuerit ad magnanimitatem erigat nos ad fupetbiam  ft dominatum omnia rapimus.Hinc fraudes:hinc czdes : hinc reliqua imania  fiagitiainfurgunt.Q^uibustcbusipfam humanitatem exuri in truculcntilTima  monfiu conueitimur.Non igitur fine fiimma lapinia ad Cyclopum littora ht Dti dedudt diuinus poctatut ofiendat qui magna quzdam & cxccifa petuntten  nulla certaratio anima reganfefe falli & pro animi magnitudine in imanitaicla  bi.Scd hzcquocp loca miferia ad fc fugientis uiri admonitus qua primu cifugit  ENEA. Quid enim aliud nobis cxprciTius cfiFmgerc:at^ipfis(^ucica loquar oculis fubuccrc potcfi ambitio larofiC fumma efferitate deteflandam 1)^300103  uitam quam cyciops Polipbemu$:qui procul ab omni hominum confortio hu  manis carnibus paicatur^^ inter luflra feraru fola uita agat . Nonne enim iure  Andropophagos tfic enim eos appellant grzci qui humanis arnibus uefeun' nmilloscl Te dicemus: non qui carentia iam anima corpora id enim multo ma  gnto Uerandumefiiinfuas epulas conucTruntifed qui uiuentes omnibus ctu»  oatibuscrudelil Timc exeduntiqui ut aut tytannidem|fibi comparentiaut iam cd  paratamtut cnturioptimum queipuirum & iufhzqui ac libertatis amatoicm lzuifiiimemteTficiuat. Q_ui utfcelerariirimi uori compotcsc £ Ficiantut:aonmo  do fingulos homines ttuddanttfed totam urbem:ne^ folum totam urbemifed  integras nationes ferroigni fameij populantuncun^ libidini militari fubiid  imttQ_ui nc^ agris cultoribus fpoliaietne^ hominum pecudum^ przdas abi  gete uomturiqui pueros tcncraf uirgines ex parentum complexu aut ad mor  tcmautad libidinemrapiunnqui caftarum mationara pudicitiam expugnat:  qui publica acpriuata faaa ptofanacpzdificia funditus cuertunt:S qui modo  in florcnrifiinu re publica ampIifTimum dignitatis gradum fumma cu gloria ob  tincbantitot nunc oibux foituius lpoliatos mmiraritni feruttutc abducunu  V' I.4 In.P .Virg-M.AIIego.   uos igitur cydo^quos leftrigonas cum iftorum imani fcttida cofErcnaif  Quimobrtm uir iummi boni cupidus qui antea non bene infttcuta animi (oi  magnitudine quacun^ uia ad honores imperia^ nitebaturmunc demum tam  nefariam crudelitatem quam primum eam nouit deteftatunnouit autem a ma  dlenta rqualenci<| achemenide forma per quii lapiens poeU omnes calatnittla  quz ex tyrannide generi humano perueniunt s latenter (ignilicauiticum dues  paulo ante omnibus ampiifhmotum honorum gradibus honefiati/ ad rern ino  piam cxtremai^ famem cdpellunturicum illudiis mortis moetu latere ct^un^t  Rclida enim ariffmu patna ignobililfimis obfcurilbmirip lods exulant: Qua:  quidem miferia edam li in graium hominem & Aenex hodem cadatitame non  poted ipfequi uit bonusauc fu aut elTe dudat ad fummul tyrannidis odium no impelli*Q_udigitur Maronis fapiendam noniureadmiretun qui uirumm ita  liamuentutum maria at^adiaceda littora tam horrendis mondris obfefla ita  caute dreuire iubetiut illis omnibus euitads in Siciliam incolumis perueniat un  de breuidiffius curfus in italia dc.Fadle enim ed homni qui fe ab omni ii auari» dxfpcde cxpediucntomnemip iniuditiaatipei Fentate exuedtiadreru magnis  rum cognitionem edgi iprxfctdm fi iam in Sidliam uenerit.Ed aut Sidlia nue  in(u Ia olim uero italix coiumdai Bt condnends parstfed uenit medio in pontus  K undis hefpenum (iculo latus abfddittarua^ Si utbes littore didudas angudo  interluit zdu.lta enim abimortali deoapnndpioaeataed diuinitas animoti  nodrorumiut una cademi^ dt pars infedot rdniside qua paulo pod ent didin^  dius difputandum di parte rupertori.Scd quoniaipfa ,in agendis rebua uerfaf  drea ea quz loco 6i tempore citcdfcnpta adiduam mutadonem redpiunt euenit  ut interucnientibus Uanis pettutbadonibusi quibus prudenda decepta (xpe pto bonis mala cligitiratio ipfa inferior illis uelun uehemcdlTimit fludibus alfiduO  percu(riabitaliatandem diuellacur:6 (aruperiodradonead appedtum defid>  at Q_uz omnia quauis ita fint unde tamen breuiot ciufusad italiam.i.ad eo»'  teplatiunciquz m ipfa ratione fupedod polita ediquaa ratione inferiod quz  per Siciliam lignidcatur nihil repedes przferdm humato patenteique nos mol  bticm quanda eneruata homini a fenfibus prouenienteinterpraetati fumus.NS  quam enim ad ueram contemplationem deuenicmusinifi pdus ipafut ebddia  notum uerbo utar)fenfualitasnon modo earinda uerii eria penitus fepulta in  nobis fuerit. Q_uapropterli rede animaduerds de Anchife mocte meminit  poeta de fepultura non meminittno enim in iuliam ed uenturus.ln quinto  ueto libto celebratur funusiut demu fepuito Anchife in italiam cotenderc lice  «.Apparatis itai^ rebus oibus Aeneas ex dciliafoluens paulo pod italix pot/  tus fubite fperat.Ne(p fuilfet a fua fpe deceptus (i lunonem aduerdiTimam  . bi dea ex Heleni przcepto antea placauiffct.Odendimus paulo ante lunonoa  honopi impcriiij cupiditate expnmeredn qua quidc « fi Aeneas ita fe geiatiut  nihil iniude/nihil audeliter in reru adminidtadone aduius fit.faocenima Po  lyphemo fuga indicauit nihilominus cum in confpedu Italix iam fiti& in li  nunc pene fpeculandi conditurus: Animadueitat^ non poife in rerum diuiu  nuncognidonedcucnidsnifi humana haec omnia cotenat/nidtut ille quidf Liber tettiiu    rem perficere . Std appetitus qui nou dum ratione fubiedus fit omnino ro>  pugaat: faKU 9 argumentationibus perfuadet noncireaurneg]igendoihono«  tes/autimpia relinquenda .Percomodeo tnqiUate inquit LAVRENTfVS tC  ad rem uehementer appofitx.Sed unum efl de quo SC fi fortafTe confentanea fu  fpicer > tamen fentendam tuam uehementer cupiam.Na quid fibi obfecro uult  ^fficilis ilia & apprime moiofa dea luno. Si enim manentibus TroixTtoianis  iiafcebaturscur deinceps iifdem illis in italiam enauigatibus adeo boftili animo  aductlatunan fortaiTequiautracp uiuambltiofoK imperii cupido aduerfa Et.  ifibne ipfum inquit BAPTISTA. Atnbitiois enim dea olim Aenex irafeebatun  quiuoluptatibus dclinitui nihil honorificum quacreretmunc autem rurfus ira  fdtnncum uideat illum ad altiora quxdam eredum ea qux exteri mortales in  admiratione habentsotnnino contemnere. Omittens enim illa que primum  gradum in uita duili tenent non motulia amplius ifed immortalia quxrin mi  rifice ictura poeta.Vix e confpedu SicuIx telluris in altum  Veb dabant Ixd j K fpumas falis xre ruebant. Cum luno xtemum feruaru fub pedore uulnus:  quae deinceps fequuntur: Ratio enim uiuendiiqux honoribus inferuit cum  animadueitatfc ab Aenea deferiia quo olimquo^cu ille uoluptatemtociu  amaret negleda fuaatyuehementadolet.Cognofcit enim fi ROMANUM IMPERIUM ed fhtuutur foreiut fua Carthago ruituta Et: Quisenimnon intelligat E  ad c6tcplationem:qui ptxftanti ingenio funt uiti accefferint/ illos ciuiles actio.*  nes ccdercrturos. Oolet igitur St pfeotiiniutia admonita pteiitotutcminifdt.  Manet enim alta mente repoEum  ludicium paridisfpretx^ iniuria formx. Et genus inuifum & RATTO GANIMEDE ONORE. Qux quidem fabulx E diligentius conEderentur nihil aliud nobis prader de*  ditauoluptanbusuitam referct: Nam Paridis ludicium in quo lunonl Venus  prxferturiquid aliud cefeasniEuitx honorum cupide molle enetuata^ 8 (uo  luptatibusaddidam prxponi: Genus autc inuifum.i.louis Eledtxt^ adulteri'  um:acpoSremo RATTO GANIMEDE nemo modo mediocriter eruditus Et alia  traduccuHisigituraccenla luno naufragio Troianos perdere tentat. Verunx  ne noseaquxfubhuiufcemodi tempeftatis Egmento recondita funt ulla ex  pattelateant: neuequidluno: quidxolusiquid neptunnus Ebi uelit incogni'  tum relinquatur:pauca de animorum noEroruui at<^ natura repetenda funt.  Illud tamen pmonebo cuenireiut eadem ad multos locos enodandos adhiben  da Ent t Q_u« E fcmel a’me expteEa exteris deiceps in locis ueluti ia cognita file  tioptacanc luideo me qd* fumopete cupio breuitati inferulturu.Sed rurfus cu  eodieteprKc/E Ecagamus/duplextibionusipo Eturus Emieritenim eode tpe  8C memoria qd alibi didum Et repetendum: K quod interim perpetuo orationis filo contexif' : Ene ulla inteccapedine:percipiendum malo loquacior etk/q  oomittere ne ingeniu eodem mometuo in plura diEradum:ucl minima difpu  lationis paidcula incogmta ptaucrmlttcre cogaturiCum igitur ad id quod pro Ia.P. VIRGILIO M^IIfgo* tPrn/f <«•’<»' «*•  'v'»^ prium noSnim^ tft:quod(^ a noftrz onginls diuimtate traximus t id eSsdt»  tiocinandum/ad concemplandum/ad intelligendum mgitDut:eam animi pai>  tcmadhibcmus:quamgrzci nos mentem nuncupamus. Verum hae   mutiifed przcipuc Platonici chriffiani FILOSOFI duplicem elTe uolueruntt 4 alteracu inrctiorem quam rationem appcllant:diuiniorem alteram & fuperioro   TIfct. qu- i 4eIIedumnuncupant.QU3propterfapienter Auicena animos noftroi  ur t alterum lanu duplici ore inllgnitos e(Te dizitiut hoc furfum uerTum ptia  r .na altilTima per (apientiam rufpiciamus.lllo uero res mortales & adioneshua  manas per prudentiam adminifhemus. Diuiditur igitur mens in duo rurfum in  tapientiara/deorfum in prudendamrquz Ht reda rerum agendarum ratio qua  iiinuirumfiC mulieremrutuirrupcnor iit &regat:Mulier inferior 8l regatUR Quapropteregregiei!lud:^lioieiliniquitas uiriiqui mulier bencfadensrnd  ^ enim przponitur iniquitas uiriliszquitari muliebri: Sed commode exprimitut  I 'tedius eum agereiquideiideriorerumczieftium raptus plurima corporis &fo  cialis uitz commoda negligat: quz res uideturiniquatquam eum : qui ut nuW  Ium uitae ciuilis officium deferat:czlcftium rerum curam omittit : (^uz cura  ita (intiuideamus quz a Marone dicuntur: Nrmpe zoium lunonis przdbus  uentostquoslouis iulTu regere debet/in mare cmififTeiqua tempeflate obrui  poterant Troiani nili illis aNeptunno rubuentumfuilTct. Quo in loco fi ui  tz ciuilis cupiditas (it luno commode zoium inferiorem: neptunum uerofu«  periorem hominis rationem interprztabimur. Non igitur mirum liabhono»  rumae imperii ardentilTima cupiditate ratio illa inferior (lediturrattp de fuo  gradu deiieiiur. Referunt fabulz zoium uentisprzpolitum aloueefleiut iuC> TuAioillos BC intra carcerem cohiberet&indeemmcreceru quadam lege ualc4 at. Quamobrem celfa fedet znius arce Seeprta unfDS mpHit^ apimos: K  teinperatiras:_8£,iilud N i faciat maria ac terra stcilumq: profundum. Quippc  fei^tfec^ rapidi : uertantep per auras. Et profrd Ot&infiituti funt animi  noflri ^etum omnium fumnioatcfiitcdotut cum Iit in nobis ea pars quz ad  tes afeifeendas fugiendaf^ inlurgit: przponatur libi ea rationis particula : quz  infenor cum(it:adres omnes agendas rede appetitum moueat. Ratio auum -  Iplis mortalibus indita non a corpore efttfcd aloue.Hzciguurdumfuo co  ditori obtemperat celfa arce fedet:quia nihil humile cogitat: fed quztp aigre^  gia: attp excelfa meditatur : teneti^ fceptra.Nam totius uitzadminifttatianein  habet: mollit^ animos /& temperat itas: cum nimiis cupidiutibui appetii  tum cohercet : at^ inna modelliz fines continet : Sin autem ita lunonis blan>'  ditiis demulceaturiut fuz naturz propriz^ originis immemot rerum rettena  rum cupiditatibus irretiatur/ totum lilife przbet : eiult^ iuffu non autem lo  uisuentos/hi enim penuibationcsrunt/emittit.llli uao mare quem apped<>  tum cflic diximus paulo ante tranquillum ex diuafispartibus ferientes bor«  tendas tempeflatcs excitant: hebetant enim tadonis adem honorum cupidi  tatesrquz uelud nubibus obdudauerum bonum a falfo non difccrnitiip  fumcp appedmm : qui a fenfibus originem dudt: non modo non refhnguit  ardaemractum ultro inflamat: &gcntemiunonisinimicaseaautcft mens no / » Liba totius   Itlbullu Qanitn rnunicotit^tm:diuinatuin autftn cupida/mratiis perturbati  poibusobtuae nititur.Scd rcaeo ad lunonemillla enim cum tecencitiiuriaanti  / MUm (H)i uulnus refrkafictiira plena in zoiiatn tendit.   Kimbofum in patriam loca fceta furentibus auibis.   Cidlidaomnino dea guz regionem ad ea quzcupiebatpaHcienda fibi deligat  nott'ignotauic:Cum enim raum humanarum amor nos ad diuinarum cogniti  onem abfttabae nititurrin zoiiam patriam uento^rad enim eft in appeti tum p  tuibationibus expofitum ueniat necefle efi. Verum iouis iuflli hoc regnum zoio  commiffum cds Nam ri deo obtempaemus rationi fempa obtemperabit appeti  tU&Redifljme enim Platonicum illud bpnp uiro legem deum ellr : malo autem  bbidincm: Quaobrem huiulcemodi rarionemdeprauare aggreditur Iuno:& ue  iuriti qui caufz (iiz diflFiduntrfit fallis rationibus perfuadae/& largitionibus cor  tumpae iudices patanttita ipla zolum adoriturteonaturep oftendere zquum elTc  4tillc gentem fibi INIMICAM ITALIAM attingne prohibeat. Perfuade^ zolustfe^ cn  da M iulTu lunonis fadurum redpit:Q_uin quicqd imperii habet/id omne a iu  BoUe tecognofcit.Nam nili inflametur appetitus cupiditate rerum terrenaruiatrp  illp uduti mare ucntls turbet rminime uideretur indigere uita nofira impio ratio  tus.Hocigi^ padotromnia lunoni debere ratio fatetur ueluriquz(^nifi pturba  lioaesaflint^aibil habeat in quo fuum impium exerceatrac decepta cupiditate ea  tum raum quas magnas putatmentis habenas remittit/ac mare perturbattquoni  •tUturbulemimis cupiditatibus appetitum codut.Quibuszneasqui ad cxle^  Bium rerum contcplarioncm tedit/adeo labo paiculorut^ magnitudine infrio  giturtuta jppolitodciiciat" :Et ^fedo cum appetitus quo folo animus moueturr  ftquonosad fummum bonum duci oportet/aKonosrapiat/infurgit atrorilTima  iUa tempeftasrin qua eripiunt fubito nubes czlui^ diemt^ teucroru ex oculis . Na  qui paulo ante tranqllo appetitu adrpeculationemfaebant"tinfurgentibuspaturi Mtionibus adeo illis oixzcant" :ut quicqd luminis a rdnepueniebat/peniti»  tollat tVnde fit ut nox atra ponto incubet. Appetitus enim qui hadenus luce rationis illul habac nuc illa amilTa in tenebris uetfatur. Adeot^ zfi uat hoc maretuc lii aqlone fetuntur/hzc enim elatio quzdam elliquz a rebus fecundis profluit.  Alii in fummo fludu pendentmam fupra fuas uires difficilia ardua^ aggrediens  tes amdi foliciti perpaua expedatione pendet. Alii terram inter fludus tangens  tcsabipfa fortuna dnedi mifetiarum cumulo obruuntur.Sunt deniip qui in fas  alatcntiacontorqurantur. Nam multi cum impetu perturbationum ad huiuf^  cemodi cupiditates explendas ternae ferunturiin uariatp pericula fibi improuifa  inddunt. Sunt poftremo quos auaricia ueluri in fyrtes ttahat.Nam quis non uis  daefle aiam quorum nauis demergatur. Vnde utre omnino apparent rari nan  tes in gurgite uaftoiNam ex inumera mortalium turbaiquos perturbationum p  cclh]dcmagit: paud emagae ualentiFado enim habitu pauci ad portum enare  pofluntiprzfertim cum ipfe gubernator a temone tcuulfus imo in przceptls deie  dus in profundum ruitiCum enim ea animi pars quz uitz regedz przpolita eft  fuaiicde deiidtur/adum iam de uniuafa te cite quis non putarHzc autem otns  Iliacum lunonis zoli^ culpa acddiftenttinterim Neptunnus commotus graui*   i In. P.VIRGILIO M. AIlego.   tate t<tnpcfta^sf>Ia'd(]uin caput ex fumma unda cxtuIk. N(ptaliutn  mum macia deum cfTe finxerunt: Dico aut fummumiguia alia quo^smaf^o»  mina extann&ptofcdo plutea uires appetitui prxfantimouet' enimilfe iudit»  fcnfuumrmouct" tonis inferionsifummum tamen impium fupioii ronirefenu  tur. haec igif r^tio quam nuc neptrai nomine (ignifiat poeta cum oibuspturba«  tionibus rapi uexariip uideat:caput e fumma unda ueiuti ex fpecula rifetttVnde  ipfius appetitus fludus jicellafip animaduertes aium illius furore in pram pinum  rapi cognofcitinei^ folum tcpe(htemfmtit:fed etiam ipfam lunonisdolisexdta  tam intucc :Nouit enim reda ratio aium ita afFedum:,ppterea in hasmiferiasitw  ddiffeiquonia falfa bonop: fpe decepta inferior ratio urntos no modo non cohi>  buerit: fed ultro emiferinC^uamobre utfubitn tato malo remedi uni affecat cuje  zephyrui^iac reliquos uctos ad feconuocas grauirer increpariqui impio titanum  fanguineorti/deo^i regnum infeftareaudeanReferut enim fabuix uctos Aftrd  filios fuilTei Aftreum aut unum ex iis titanibus eifedicunquiimani impietate ad«  uerfus deos imortales temeratiu bellum fumere lint aufi.Hxcigi^ in fabulis rcr>  periesi Non aut CICERONEM reliquofip dodiflimos uirosaudiamusiquidoa ali  ud cum diis bellum gerere qnaturxnolhx repugnare interptabimur;Q_ua qui  dem re quid magis temeratiu rflepolTit non rcperio:nam queadmodutn cosUi  demum fapietes Bi dicimus Sc frntimus:qui naturam optimam ducem fequund  ita illos (hiltos temerariofep putabimus:qui ab ea oino dcfcifcut.lure igic' uentM  c titanibus ortos iinxeruuquonia ptuibjtioncs a temerario fempi&nalurc repu  gnante iudicio pueniunt. Audax igitur facinus comittunt perturbationes i qux  flultitia 6i temeritate humana gente appetitum diuinitatis nolhx id eft tonis itm  perio fubiedum turbare audeant.Quaraobrcm iufte a neptuno obiurganifues  ti:fu(lcc^ impium pelagi fibi uedicat ncptunus/cum in bene inftituto animo hw  iufcrmodi illud e(fc oporteat ut folo mentis iudicio moueatur. Ad huiufccmodi  igitur fentemiam commode polfe ttanffcrri xolum/at^ neptunum putaui. Qod  (1 qua in parte fatis tibi fadum non e(l:aut li quid in mentem urnitiquod aptius  IcKo quadret:promas illud licet: Nihil enim c(l quod uereatis:aut pudore impe<  diaris:Nam neminem ex omnibus qui uiuuntiuucnics/qui aut xquiori animo  refutari patiatur:q ego fero/aut auidiusqucxlnefcicntaddifcat: Necp eft etiam  quod dicas huiufccmodi fenem ego adolefcens. Vidi enim multos ex iis qui & ha  bentur & funt dodiflimi nonnunq admonitu etiam indodilTimi hominis in at  rum rerum cognitionem ueni(Te:in quam fuo ingenio tam diuturno nunquatD  tempore hadenus uenerant.Ego inquit Laurentius quid aliis euenerit ncfaoiiiu  hi tamen nunq tantum arrogabo. Verum quia accidere in tanta rerum copia at^  uirictatc dodilTimis quibufc^ folet/ut cum plurima eodem tempore fefe med of  ferant: nonnulla fint:qux fic fi non explicent" :facile umen Sc reliquorum fimilitudine percipi pofiint.Sint etiam & alia qux quamuis enucleate planecp ediflicrae  turihcbetiori tamen ingenio qui funt illa minime confequant":utar ea quam mi  hi pamittis licentia:& quoniam de confugio xoIi:at(^ deiopex nihil a te didum  cftipetam nifi id omnino inutile ducas:ut fi quid ea in fabella fitiquod ad rcno<  fisata confciat/nobis explices. At dices n unquid tibi m mentem uenit i ac edam Liber tertiuf nthinu Horib^tne(!erat!ges« Vcnicqdetn. Kamaiffi nKo adiuiDis ad humana  abducenda cftinullum pene maius przmium proponi pote(l:g pulchrum cafiu m coniugium:inde enim cupiditas ilia naturalis:quz eft coniundionis maris SC  fttminaeezpIetur. Lndefoboliseft |> pagatio:quxquidem non fotum uoluptatiii  tuul ac ufui nobis cd;uetuffl etiam pofteritati confulit/ut etia morrui aliquo mo  do ih illis uiuamus.Ulbucipfum inquit BAPTI5TA nec modo |>po(itx quxlH  oni rationem habcas quicq eft prxterea defiderandum.Nam id hoc in loco aperi  amiquod alio paulo pofi foret aperiedum*Prifci igit" illi qui de deoni natura fcii» pferunritria ibeologiz genera pofuerutiunum fabulofum/quod grzci mithicon  nomtnant:quo quidem populum ociofum in theatro oblec rent: Alterum nata  rale/idenimeft phy ficonrper quod comode uimnaturxexprimuntiut cum per  iatumumhlios omnes przter illos quatuoruorantem tempus nebis denotant: itodii quatuor elementa ezcipias:omniafua edacitate confumit.Tertium uero  iccirco ciuiJeappcllant:quia inde ad benebeareqj uiuendum przcepta promatur  Coofueuerc igitur poetx quibus nihil dodius reperias/hzc omnia ita confundere:at<p m unum comifcereiut optimo quodam temperameto eodem tempore &  aures fummauoluptacedemulceant:& mentem recondita dodrina alantiac nos  adredum at^ honeftum & ad ipfum fummum bonum deducant: Nos aur quo ciam A hzc omnia exadius in Marone ^fequi uoIuiiremus:nimis operofum ne  godum |poni uidebat" duobus primis generibus obmiiTis intra ciuilis generis ca  cellos difputationem noAram mcluAmus.Q_uapropter illud paululumtqd mo*  do de fabula decerpferas/noftro operi conducet: Nam reliqua phy Acen fpedanr.  Dicunt enim Pbccbi Aurorzi^ Alias.xiiii.fuiiTe eafcp lunoni nymphas attributas  exiliorum enim intcrptatione luno aer cA* Aeri autem feptem quzdam attributa  fuiit.Septem itidem in aere ignum''. Quz omnia ipAus folis tunc maxime cum  in noftro hcmifpcrio ueriat :opera proucniunt.Sed ut de primis priori loco dica  tur eft aeris ut leuisAt:ut mobilis:utcalidus:ut humidus: utferenus: uttacitum P Utlpirabilisxbasigic ueluti feptem nymphas finxerunt poctz:earutn autem quz  in aere gignunt pi imam ponunt quz Ins appellac'':Cui etiam attnbuut tres ueiu  li minittras pluuiam grandinem niuem.ln his enim contingit ut nubes fuli oppo  Dat :fcd eft id^ut ita loquar^nubiu corpus ut alia fui parte denfum/ut alia denii^  us/alu den Aflunum At.Q_^uapropter a prima fubrubeus/a fecuda ccruleus/a ter<«  tia niger color perucnitx Contra ucro partes quz in ca purz funt croceumiquz ue  ro puriores uindemxquz poftremo puriftimz album colorem remittuntibzc igi  tur piima ex alus feptem nympha eftxquam deinde fex fequutur phy thon come.*  ta fulmen ronitruumxcxhalatio ac tcrremotustdeqbusfuo ordine difpacarc no  grauereniuriniii ex tnbus illis quz dixi generibus ciuile folum profequi conftitu  il Temus: Vaum cum uoies bzc probe & quid qua ratione gignantur: faci* ]ccognofccs.Sunteniminiisquzmeteora appellanturab Ariftotele quidem pr  acute:ab Aiberto uero cui magno cognomen eft etiam aperte petferipta. Quod  autem dciopeam omnium pulcherrimam fe daturam pollicetur luno ratione no  carenEft enim ca in aere facies quz ferenitas didtur.(^uz res autein magis io cu  pidiutem tcruin humanarum trahere zolumpotetauqDamfctena czii facies ; p  1 1 I'. Perplacent ifiainquic LAVRENTlVSs at ita perplacentuit nihil in iis prxt»  rea deiideretn:perplacent quo^ quz tu de ratione appetitu^ diziftitfed uide at  pugnantia Ioquaris.Natn(ire^tnemini/tu paulo ante xoluminferioiemratu  netnelTcuoIuiditnuncncptunum fuperiorem ponis:redeutru^:Verumcn hic  impetiutn fibi non autrtn illi datum dicattnon uideo cur zolo quotp non conoe  datur:ut mare uel io mittendis uel coheteendis uentis:aut extollat aut fcdett No  co inficias inquit Baptifta pertinere ad hanc inferiorem rationrmiut cum deage  dis rebus iudicium habeat/ipfa appetitum & ad raquz afeifeenda funtimpellati  & ab iis quzfunt fugienda auocet.Vcrum quemadmodum in bene inlhtutare  publica fupremus quidam magifiratuscreaturicuiusatbitrio £d ii omnia getan^t  alii tamen aifunt minores magiQratusiquibus fingulis fmgula committantunili  totius uitz imperium in mente confi(ht:ita tamen ut infenor ratio appetitui ea Ic  ge propolita (itsut nihil niii rede iudicet.Q_^uod ii illecebris rerum humanatum  decepta non rede fentiat:fcd iint eius iudteta falfa/adeft fupremus ille magifha*  tus ad quem prouocare liceat:Q_uapropter rede faipcura eil zoium no niii clau  fo carcere regnare: quoniam in uita hac communi ac ciuili potius cohibetur appe  titus ui quadam rationistquam quietus tranquilluf^ tcddatur:non enim in bo  nas affcdionesconucrtuntur:red potius moderatione cohercenturjRatio autm  fuperior cum caput ex undis exculittemiiTamt^ a lunonc hiemem cognouitteun  da in tranquillitatem redigit. Emittit enim raput ex undis cum fe a corporea mo  letqua hadenus obruta opprimebatur ucndicans ipfa fe excitaUat^afeniibus fe  uocattquo tempore non folum cognofeit qua hieme opprimatur zneasne in Ita  liam tendat:uerum etiam tantorum malorum caufam lunonem id eft rerum bu  manarum cupiditatem ei1'einteliigit;(^uamobrem uentos qprimumanutire*  mouet : Nam uacuuspertutbationibus appetitus rationi obtemperantior reddi  tut lllofq) ut deterreat maiores poenas fibi daturos minitatur: quam illi ab  Aenea acceperint: nec iniuria . Nam appetitus a perturbationibus inuafusad  tempus uexatur « Intelligentia autem illa fuprrma fi imperium fibi uendicae  tit/ quoniam fummo lumine animus illufiratus nunquam deinceps nec ded  pitut:nec labitur : neccfle eft ut perturbationes: quarum genitrix falfa opinio  fuerat in nobis penitus fepultz reddantur. Q_uapropter non fimili pasnaco  milTa uenti Neptuno luent. Sed undz quz fequantur . Remotis uentis ou bes dirperfas in unum colligit Neptunnus: at«^ colledas fugat: Efi enimboc  intelligcntiz:ut a principio fingulas falfas opiniones profequatur : in unum  congerat : atq^ demum confutet: quibus confutatis tum demum folis lUe  ce: ea enim efi ueri cognitio eunda iiluftrantur. Q^uio 81 dmothoe & totos  naues a fcopulis abducunt. Cimothoe per undas currens fi gtzcum uerbum  aduertas faale interpretatur. Triton autem neptunni tubicen babetur. Iftaigi  tur duo numina afcopulis cupiditatum naues reducuntr quia cum tedum DOuerimus/uana relinquimus. Scientiam autem autnofiro ingenio al Tequimun  cum id fua uclodtatc pet eunda difeunat t aut dodtina aliunde accepta pd«' IIs I a :v t Ii* :lil i i M d nit ai fli iib idi &bi m Ml  ItM IS it alti nbi lii» IStl' uti  «m 110 0» 1» ufl «I (i ‘i? iit tf tnumilludd motlioesuelodtasciprimir hoc autem tnton signifiat. Mam ut  Cubidaes fuo przconio mandata prindpis manifcfti Qtidc dodrina quid ucriras  4ieIitaperit: quod autem prorpcrocurfu per pacatum mare utatur neptunus  fadleprobatur.Nam cum pacatus eftab omnibus perturbationibus appetitus  ita per eum labitur ratioiut nufquam ofFendat.Diximus de tempeftate.Nuc ad  reliqua pergamus: Neptuni beneficio ex tam manifefto peri culo erepti Troiani  cum fefu fradi(p Italiam utpote longinquam terram contingere pofTe defperatent:extemporaneo ac^ minime przmeditato confiiio ad propinquum carebam  ginenfium littus uela dirigunt: puto uosmeminifTeitaliam fpecu!ationis:cartha  ginem adionis figuram habere. Quapropter id nunc exprimit poeta quod in  humana uita fxpe ufu ucnire uidemus sSunt enim multi:qui cum ne in uoi  luptatcne^ in diuitiisnet^ poftremo in honoribus fummum bonum inueni^  ant ad ueri cognitionem fefe conferant; Verum cum fe humana omnia Facile  poircconcemncrci& reorfum ab hominum coctu contemplationi incumbere  cxiftimenniamtp rem aggrediantur uix illam reliquerunt cum tantum relidam  tum rerum defiderium infurgitiadeo ex recordatione tantarum illecebrarum  cffeminanrur: utrurfusin fumma spcrruibationes incidant : qux quauts tan«  dem fumma ratione fedentur:adeo tamen defefTi defacigatit^ relinquuntur ant  mi nodriteum non fine difficultate tam horrendam tcmpdiatem euaferintiut  latis fupert^egiffe putent fi focietatem humanam incolentes qux immania 8i  humano generi pernitiofa funtuitia effugiant. Virtutes autem fi non exadas; ati^perfcdas/incohatas tamen retineantifi: cum difficultate dus uitzqux in  ucnfpeculatione pofitaefideccrreantut:animaduettantqux hutufccmodi ui^  tz genus humanam pene imbecillitatem excedere cum Arifioteles maius aliV  quid quam hominem effe qui hzec poffir affirmet fecum fic ratiocinantur.Non-  parum erit uoluptatum incendia euafiffe : Thracenfium rapinas euicaffe : hac  harpyarum fordes & Cyclopum immanitatem refugiffe . Nunc ucro fi id non.  pofiumus: quod diuinitatis potiusiquam humanitatis effe uidetunillud quis  reprehendet ut in hominum locierate ad quam colend >m tucndamiaugendam  ^ nati fumustuerfati prudenter iufte fortiter deniqi ac temperate uiuamus/ pa  rati pro pania ac parentibus nullum laboreminullum periculum deuicemus..  In omnes qui nobis fangumeconiundifunt pietatem obferuemus: Ciuibus  nofiris aut egenis liberaliterfubucniamus: aut errantibus redam uiam demo-  firemusiaut iniuriaoppreffos confiiio opera gratia audontate noffra fub«'  leuemus.Speculationem ucro magnarum rerum in maturiorem zratem anp  inipfam fenedutem: quz a multis perturbationibus i quibus huiufcemodf  uita maxime impeditur liberior effefolcC reiiciamusiquamquidem fententt  am iis quz de Hyfach magni Abraz filio dicuntur : tueri fe poffe confidunt:  Nam quod de patriarcha lilo legitur egreffum effe ad meditandum in agrum  inclinata iam die ita interpretantur exiffc illum a corporeis fenfibus adme ditandum in agrum quafi feorfum ab humana frequentia inclinata iam die/  id enim efi circa fenedutem iam femore fanguinis ceffante.Conanr prztereii  Cuamcaufam grauiffimotu uiioium teffimonio corroborareiqui ufutn potius lQ. P.Virg.M.AIIcgo< triqaam aufamunde bonum (it confidcrantesadionem contemplationi aiw  teponunt. Pcxfcrtim in uiridiori aetate: in qua philofophum agere, dicere rem  publicam adminiftrare militare at^ imperare iubemtoftenduntip Platon ip  tum uakdioribus annis K nauigationes io (Iciliam : & (iudia in Dione exerciM  retSencfccotem autem in academia circa ueri inqai(itione quieuilTe: Xen ophi»  tem quorp adolefccntem in rebus agendis fummopere laudant:Srn:m ueto in  fpcculatione admirantur: & beatum propter odum putant: Q_ui n etiam mub  tos ut fapiendorex fierent plurimos populos paagrafle oftedunt : Q^iuproptct  K Homerus Vlyxem fapientem propterea dicit:quod multorum hominum ut  bes ac mores nouerit:Huiurcemodi igitur ac plura alia in unum collig^es/qux  tu fummo artificio ac prudentia nudius tertius cum hoc genus uiucdi laudibus  efferes enumerabas fpeculandi propofimm in feriorem ztatem rdiciunt i at^  ad res ciuilcs agendas interim fe conuertunt:Q_uod quidem uitx genus qui ui  tuperabit/is profedo iuflam ut ab om nibus uituperetur caufam prxbebit.Sunt  enim fua (ibi qutxp muneraiSt plutima quidem at^ przclaraiquibus (i rede fu  gaturi&czteris utilitatem ficfibi gloriam tranquillitaremip quoad imbedllitai  bumana patitur (ine controuer(ia pariet:Q_uapropter non (ine fumma ratione  tutus tranquillnfip portus in caithaginen(i littore defcribituricuius formam li<  tum^quzfo diligentius infpidte.Eftenim in fece(fu longo locus:quem infula  portum ef&datiMortalium enim uita continentem: ea enim terra eft quz marU  nis fludibus minus e(f expolita nufquam hibct.lnfulam autem habet zfiuinti  busafliduofurentibafip undis undu^perculVam.Sed quz tamen ita fua mole  beteat: ut aduerfus omnem uentorum undarumip impetu immobilis fimpcr  obduret : Nam cum hzc quz momentanea funt: & tamen (f ultitia humana bo  na putantur fortunz temeritad fubieda (inticut^ amore fui mentes humanas in  Cendant conficerent profedo nos nili infula in medio mari (imus : quz quauis  unditp mari mndaturitamen uirtutibus (fabilita non mergitur.Eif autem in 16  gofccefTuiNam animus uirtutibus aduerfus fortunz impetus munitus procul a  perturbationibus feiunduscft.lllz enim obiedu laterum repelluntur. Cu hin:  fortitudo contra res aducrfasihinc temperantia aduerfus res fecundas opponar i  rede^ uafte rupes appellantur. Virtus enim in diffidli luco polita etf.Aode qtf  ita medium tenet:ut quocunt^ te inde araoueas:ad extrema peiuemi ndutn liu  unde tanquie piti rupe labatis gemini^ minamurinczlum fcopuli. Nam  non folum noUra prudentia freti res magnas aggredimur. Vei um multo magu  diuinoconfilioconfili.NcctemetedidumeQfubrcopulorumuettice zquota  tuta li(ere. Nam appetitus duplid lumine illuftratus ab omni feniper pemiiba  tione liba cfi.C^uod autem defupafczna corrufeis filuis6t atrum nemus  horrenti umbra imminettnon caret rationeiNullo enim in homine prudenti'  am inueniasiqut earum rerum quas fua temeritate fortuna uafat cuentus pem  tus przuideaticum tortam^ diuerfis caiibus cxponamuriut pcrfzpe Si quz  nocitura (int fummis uotis expaamusi6C ea quzfieuenircnt falutiufui ef  fcntiueluti noxia omni indufltna fugiamus tOeni^ in aduafa fronteaquz  dulces depizbcnduntur.Nam cum procul a uatiaium cupiditatum fludilMis Liber totius botiSftifflunezur^ buiufcctnodi uita:quz (ioo beata omntae e quieta tamen  'tcanquiUa^ (it.H uiufcemodi igitur pottum Tubcunt: qui fuprema diu fedati  ac poRrrmo difficultate deteriti fe in uitam focialc contccucnin qua ciuilibus  uirtutibua exculticuinuerrentuc laudem non medioaem reportanti longe ta« en ab ea diuinitate qua quairimus abfunt. Quod aute feptem nauibus huc  iubicritiquodi^ reliquos c (copulo profpiciens requirerenquod detnu focioru  inopiam raritu uinoij rublenaunic buc pertinent ut intclligamus eu qui rc pu«  bJicamadminiflrandam fumat oes labores omnia incdmodafubire oportera  ut illoru quz fuz fidei cdmifTi funt falutem incolumitatcmi^ conrcruet. Qua riptopter fit Acate$(^ea enim principis cura efl^ igneexcitabit/ id eft dcfides ad tes  agendasaccendetiutquz ad uidumncceffana funt minime defintifit fcopulos  Buendens abrentes requiretiquos (i tutari non poterit iis qui afTunt confulitiillo  tnm^ inopiam cu fublcuauerit etiam oratione confolabituc:optimif(^ pcepds  ita in^oet/ut admoneat non effe huiufcemodi hoc uitz genus ut m eo fedes &  gere uelimusiSed effe omnes labores ac difFiculutes fuperandas /ut in italia per  ucniamusiubi demum fedes quietas muenietiubi etiam Troia reforgetiNam cu  uitauoluptuofaibiquzreretur eaaderat uoluptas iquza fenfibusprofeda cor  porca edet fit caduca: fit qua (latim poenitentia fequebatur.In italia autem uolua  ptasfuma prouenictadiuinaturaum fpeculatione.quz uera fimplexcp fituo  luptas quz perpetuaiquae ztema qua nullus moeror fubfequac .Hzc enim opti  tni principis adminidratio eft:na cu u ideat ciuile adione humanz indigencizt  non aute ei quz io nobis efl diuinicati inferuiteiita in illa uerfabic :utcu quz ad  mottaliu inopiineceflaria funt uidetinfuotutame animos ad diuina etigatt  iubebit^ eos aduerfusfortunzcafus durare: fit fe rebus fecundisquas in latio  inucniet feruare.O diuinum ingeaiu.O uitu inter ratidimos uitos omnino ex  cellencemifit poetz nomine.uere dignumiqui non chridianus omnia tamc chri  dianopr ueridimz dodrinz fimi liima proKrat.lege apodolu Paulu. libet enim  unum hinc ex omnibus ucluti nodrz religionis caput nominareiqui uitam hu  manam ad huiufcemodi notmam dirigitiut ne^ corporis necedatia fubtrahen  da:flt uero inuedigando femper uacandu cenfeat.Q_uid enim ille fufe late de  Cmbinquod hic poeticis an gudiis non coardetiMiraprofedo restut fingula pe  ne uerba longidimas e platonicaiaridotelicac^ re publica:fentetias ampledi ua  IcantiSed nolo quod quidem hadenusnur quainfeci:itaexade hunc IcKum  profequi:ut reliqua deinceps aut omittenda:aut ea celeritate przteruolanda  fintiut idem nobis eueniatiquod longam piduram in citatiiTimo curfu per«  (piciennbus euenire folet.Ii enim in puado teraporisicum id etiam magnope  tecontendanticolorcs notare uix poffuntiliniamenta autemifit corporu fimu  Iaera fit quam grzci fjmettiam nominant ne uix quidem. Q_uapropter relu  quaadtnaiusocium differantun^Oratio autem Venerisad iouemrurfuftp lo«  uisad Venerem meram textus (criem continere placet.lnferuiut enim omnia  poetico f)gmento:ita tamen:ut non nihil de mathematicis decerpat Maro: fit  unde luboyt familiam in primis autem AGUSTUM (OTTAVIANO) Augudu laudet.Nam quz ad allegori  am tcfcitc uoluffius iude folu accetfenda cefeo unde duc^.fiu fpote fcquanf    In. P. Virg.M. AIItgo.   Sin 3utc ui ingenii inuitamuntur/twtu de grauitateruaamittunttatridtada  pene reddaqtuttluc^ omittamus anxias interprxtationes:ea(p folumaflim»  tnus/quz non modo in abdico non latentsfed ultro Tefe quxrehtibus offerant.  Quod autem paulo ante ad mathematica pertinere dixi pauds quidem fcd ,uc  temporu anguSiz ferebat no oino obfcurz in principio expolitu clTe puto.Ita^  teuertor ad Acnea^lc enim per node plurima mete repeti ftatuit ut prima illa  ccfceret loco^t natura diUgctius exploraretSt hoics ne an ferz teneit inucdigarc.  Q_uibus untibus qualem oporteat eife rei publicz adminiftratorem egregie, a {timit. At^ in primis illud bomericd approbat.   Q_uis enim cui tot mortalium cura c6mi£Qi Iit uu'  uerfam nodem fomno impendet. Id aurem fumma (apientia didum omnes  fatebuntunEft cnim’optimi principis uel praecipuum munus cum loca inculta  uideaciut homines ne an ferz inhabitent iibi exquirendum proponat. Na qui  uitam ciuilem diligenter intueturmaria hominum ingenia;uaria fiudia uario^  q motes inueniet. Sunt enim qui redo honefto^ r(mperincubant:ciuili con  cordiz faueancsLibertatem (aluam eflecupiantmeroinc plufqua leges intepui  blia ualete uelint.Iniuria oppreflbs fubleuent. Superbiam fcditiolorumciuid  deiedam cupiant. Maieftatem publicam pro uiribus augeant.Religionem de«  ni^iac iufticia omnibus rebus przferat.Hi igitur iure hoics appellari polTunt:  quoniam humanz naturz officia non deferunt.Contra autem plurimos repeti  as/quotum pctulantifTima libido nihil fandum/nihil pudicum relinquat: pluri  mos qui fuma auaritia acccli/omnia uenalia habeat:& aut ueluti uulpeculz do  lisiinftdiif^p incautos decipiat:auc uiribus fuperiores cum iTnt opibus quo fit  honoribus eos anteite uelint:quibus fapientia ac uirtute longe fintintetioress  buiufccmodi igitur uitiis deprauati homines quauis effigiem mebra:^ humana  retineant/tamen quoniam mores ferinos induerunt/no amplius hominesifed  immaniffimz ferz putandi funt.Q^uapropter in humanis coetibus longe plura funt illa;quz uitiorum uepretis at<^ fenticetis unq inculu hortent: quam ea  quz ingenuis artibus prxclarifd^ uirtutibus exculta nitefeant: progreditur igif  Aeneas ut fingula diligenter exploretinon temere tamen:fed Acacem tidiffima  comitem fecum ducit:8( armis inffrudusincedit:Nam quis unquam rede re  publicam admini(lrauit:cuius animus aut cura ac diligentia uacuus fit:aut for  tiCudinecareat. Iliis enim quz agenda funt multo antea przuidemus.bac au  tem nequid ex iis quz magna ac przclara puidimus ob moetu infedu relinqua  turtcfiffimusiCum igitur rciedo in aliud tempus contemplationis propoiito  adeiuilem uitam digrediatur Aeneas:Sit^& in ea multum elaboridd/opus  eft ut & duce matre ad illam perueniat.Nifi enim amote catum reru quz age  dz funt calefcat animus aduerfustantos:tam^uarios labores obtorpeatnc.>  ceffe eft.Fit ergo illi obuiam mater no tamen cofeffa dea/qualif(^ uideri czlieo  lis & quanta foletiEam enim fe tuc offendit cu filium a uoluptate eo cdtilio ab  ducebat/ut ad fumu tenderct:Q_uo tempore oportebat ed inflamari amote di  uinaru rerutqui & ipfe diuinus ab omni materia 8C corpore jicul abfit. Hic adt  catum reru amote incendit" : quz corpotez Bi magna ex parte mataiademafz Liber lotiui li io “!• lA ab ife «pg bb aS sua tsb mt   s'4U  *. utii at». ia? r   i*f   a O liii ga<  'fb fihhQuapro{iter non deam confcf Taafed humana fotma di  RiffluTata fefe filio  offcit:ftin (yiuaotueiiatriziIIi appartt. Quem quidem locu planius uobis nf  primamati pauca omnino necniu ea qux nrcriTaria funt prius de fylua rxpofur^io.Omnium tetum qux funt redum quendam ordinem eiiflere : Trifmegiftus  Homerus ac PLATONE oftenderunt: Atm ut quot fentirent dilucidius exprimeret au  ream cathenama naturx fonte ad innmam ufep Fecem demitti finxeruntiqua fa>  is gradibus eunda connedanturteuius origo cifentia dei cum (it eo ordiue proce  ditut ut fecundo in loco potentiaztertio fap'entia:at<p quarto uoluntas collocet t  bxc fequitur fatum attp illud anima munditdeinceps funt cxieltes demonest (iit  xtbnriifunt aereisfunt bumedeitfunt deni^ terreni. VItima autem omnium by  le^quam nos fyluamdidmus^in infimo refideti Poifem fingula non fine fum<  mo ufu atip voluptate oratione mea profequi. Sed quoniam difputatidi noftrx  neceflarianon funt brcuitaticonfuIam. Quamobrem exteris obmiffis deu prin  apium lyluam extremum in catbena ponemus.Nihil igitur deo fuperius . Nihil  fjlua interius.nibil hocprxftantius.nihil illa uilius . Media uero inferiora fupe«  nntta fupetioribusuincuntur. Eft igitur deus & fyluathxc autem niatetia efttex  qua omnia corpora funt . Vt enim lignarius faber materiam ex qua eunda fadat luam habet . Continet enim illa rude adhuc lignum s K informe: Sed quo tamen innata fibi facultate formas omnes redpere ualeatifaber autem in quafcun^ uult formas illud tradudt tcadem ratione ad deum materia eft.Deus enim for  masomncsabxtcmitate complexuseft. Materia uero fi illius naturam infpicias  formam nullam certam expreffam habet. Verum innata fibi recipiendi faculta  te t & ut ita loquar confufe omnes continere uidetur. Materiam uero quia matet  fit didtur. Ceus autem pater: forma uero prole$.Deus enim dat.fylua redpit. *fotma nafeitur . Q^uapropter rede Trifmegifhis patrem matremtp xtemos: pro  lem uero mortalem didt . Mater cfi materia quia finum prxfiat. Deus gignit : 8C  oeat : ac fua quidem ui . fila autem ex alterius immiztione condpit .Condpit au  teminfufione fpiritus diuinitquam animam mundi nominat Tnfmegiffus t  Q_ux res eum mouet: ut deo ofiidum patris tribuat : quoniam infundit: SyU  ux uero mattis t quia a deo condpiat: Animam denicp mundi uim feminis hsb>  bere dicit : quia a deo ipfa infpiretur in fylux gremium. Prxtereo plurima nomi  aatquibus uariasfyluxproprietatesexprimit:Illaenim nihil ad hxcqux agi«  mus: Sxpe umen totam materiam appellat malignitatem :ne« iniuria.lpfa eni  Iblacau Qefitutresmintentumcadant. Namquod a materia feparatum efit id  nunquam interit: Nunquam enim quod fibi contrarium fit capiti fed illud fu«  gitat femper at^ declinat: Quod vero fylux gremio continetur: iccirco in la^ teritumiabitur: quoniam fylua/cum ad omnes quas qualitates appellant xque  lebabeatcuenittutuelutialtera Helenaintra teda uocet Menelaum:ac limina  pandat. Num dum foimas illis quas hadenus receperat contrarias admittit: fc«  cile fit ut cxtemx irrumpentes domefticasextinguant.Q^uapropter quis illam  malignam non dixerit t qux familiares fotmas prodatiignotas admittat: K uelu  ti fufiepri iam in fuam fide m clientis caufam deferens : aduerfariiqi fufcipies per  timtnam perfidiam p eaoiaticeruf i Tardat etiam & perturbat noftras mctesfyb  k rn.P.Virg. M.AIIego «   Ui t omae ab ea uiHum nunat. Viaa enim mfcitia igaotatioa [«St   At ignorationem ipfam cz craflitudine caligine^ corporis prouenire & Plato S  plaeri^ cz iis qui grauiflimi habetur philofophi audorcs funt.Huiurcemedi igi  tur rationcmotus diuinus Maro cum rerum humaiurum:8;qua; corpore no a  rent:proptrrca^ in uariis erroribus uerrenmr:amore inflametui is qui in re pu>  blica princeps effe cupittuenerem Tub mortali forma inducit Sc in tpia lylua:guo  niam eunda quz agimus in materia demerla funt illam ponit.Nec temere umv  tricis habitu ezomat : Eas enim feras de quibus paulo ante dizimus fibi infedai  das proponiuquifuis cibus rcdcconrulturuseO.Acneas tamen non nihil diuir  nitatisin ea etiam iic diiTimulante cognofcit.nam Si (i populorum temperatocai  circa humanas adiones uerfenturuamen quoniam honelhim redum^ tuentor  eodem illo amoroquo hzc caduca appetimus / originem nollram diuinam eflie  fcntimus.cum enim reIigioncm:cum luditiam: cum animi magnitudinem atb  amamus : uerfantur hzc profedo circa adiones .Sed tamen quis non uideat illa  a diuinitate proiteifei C Eft tamen oratio uenetis non ut dcz : fcd ut hominb: K  tamen nefeio quam diuinitatem redolens : Nam cum Carthaginem proficiid lii  adeat:argumentationibusab humana prudentia profedis utitur: Nam K quz  de hilioria Didonis eruit : ea omnia falutis fpem afferunt : Si cum aliquid funp  rum przdicitmon ut deaifcd ut augut ex cygnorum uolatu przdicit . Illud aute  fumma fapientia czcogitauit poeta : ut in orationis fine fe deam manifeftatet Ve  nus : Nam cum in uita ciuili quz reda Si honefta funt diu coluerimus ez illotn  pulchritudine ad diuina quotum hzc ueluti (imulaaa funt erigimur.His igitur  rationibus a matre perfuafus Carthaginem tendit oblitus tamen tenebris : ne illi  us conatus aliquis impediret . Et profedo fic fe res habet . Nam qui magna pru<  dentia przditi funt uiri cztnam multitudinem quam adminiftrandam fufeipi unt ita ad redum honefl um^ trahunt : ut fua conlilia fzpilTime tegant:quz q>  dem fi palam facerent autzmulor uminuidia: aut dulcorum infcicia impediti  illa ad ezitum minime perducerent: Vtenim prudentes medici zgrotos(^qucv  tum libido nihil falubre ezpetit])perrzpe fallunt : Sic optimi prinapes fimutan^  do aut dilTimulando fua conlilia occulcant . Nam ut cztera obmittam nonne  qui leges tuleruntiquo maior ei audoritas inelfet/fua conlilia alicui deo actnbu^  erunt fCunda enim ez Egerie nymphz przceptis Numa Pompilius facere finiu  labatilusciuile Spatthanorumez Apollinis fententia faiplifife iinzit Licurgust  Q uicquid Zautrades apud Atimafpos conltituitid a bono numine accepilTedi  cwt.Zamolzis autem quzcuis Scythis tradiditiin Vedam reculitxNam q mul  ta q difBdlia inter tumultus militares rede ad ninidrauit.Q_. Sertorius cum fe ii  la a Diana per ceruam accepilfe diditarct tSed nimis multa dere przfertim ta tna  nifeda: Carthaginem ueto e loco fuperiore cernunt: quoniam ut nudius quo^ tertius difputatum ed nuquam optimis indituris  Si legibus temperata erit res  pub.nili qui illi przfunt eunda qu aut przcipiunt aut prohibent ad eotu qax  per rerum magnatum speculation emuideritu regulam ac normam sapiennllb tne diligant. Cum autem Carthaginen lium operam indudriam circa urbem difiandam dclaibit/nonnc pauciflimis ueifibug onuiia colligit: quae^iia9 c*\Ili «f m ii m ta ai l U U Kl ii M ib gia \tt\ th ‘S ipn iii^ F! jpb  (f ob 09 0* xb s 3 ib  <1 Liber'tertiui edam (apfari( Cine de re pub. latprerut)t:noa ni/i  pluribus libris exprimuntur tamum enim ea parant ibiis aduarus ho(tiles impetus tuti (t nt: uibus  V^^fe contra czliiniurias priuatisx difidisfedefenduntiHzcenim duoprx^  fiant ut duitas efle pofiit.Poft bzc uero ad iura & magilhatus fe conuertunt : ut  nonmodoe/Te fed quod proprium hominis e/l i cede bonefte^ e/Teualeant:  Quoniam autem ad magnificentiam & ad liberaliutem &ad uim propulfan^dam publicz opes in primis utiles funtipottus optimi/efiiciundi ratio habetur t  Poftrcmo autem (icznz ac theatri cura non negligitunubi & corpora ad ualitudi  nem &robur exetceri:& animi publicis priuatifi^ negodis defatigatiihonefii/Ti*  mis ludis relaxati pofiint: Qua autem mente & quo confilio illos apibus com«  paraucrit : quzfo diligentius animaduertite t Si enim huius inferti naturam con  fideretis nihil illo aut induflria ac folertiaacuriusraut a/Tiduo labore indefe/Tius  (eperietis Ouccm in primis habent quem fequanturt cuius impenum nuquam  contemnannlabores inter fefumma zquitatediftribuuntiSummaconcordia 8C  opera fua fadunt & boftes arcent. Quicquid quzrituriid omne in comune qux  iituri Quz quidem omnia fi in rem pu.aliquam tranfferasiplatonicam ciuitate  cxmfiitues. Erat autem in media urbe templum lunoni facrumiut ofiendatur ni  bil oportere in re pub.antiquius religione eife • Et quoniam primx in uita cluili  przces funt/utimperium non folum conferueturifcd etiam augeaturmo fuit ab  re templum ipfum lunoniiqux imperiorum dea habeturiomni cultu confcaare  longior fim:at<p etiam minutior/q tantz rei conueniat fi fingula quz in templo  depida erantiquz a regina adminiftrabantur : quz ab opificibus efiiciebanf idU  fiindiusrefetamiMultactiara in Ilionei at Didonis orationecontinentur:plu«  ra in congtefTu zneziplurima in conuiuio Si in coiimdione hofpitalitacis deprz  hendasiquibus uita fiatufi^ ciuilis expnmituriQ^uoniam uero nouerat fapictif  fimus uatrs primordia rerum pub.& imperiorum uirtutibus niti: Veriiep effe Sa«  lufiianum illud fi imperia iifdem artibus retineientur/quibus acquirunturind ef  fe tot mutationes habituras res humanastiedreo primum regis reginzq; congref  fum ateligione/a bberalitate/St abomni genere uirtutum profidfci uult.Srd ita  paulatim in deterius labantur/ut quz pudidflima fuerat mulier/K in re pub.ad«  minifiranda uigiIantiiTima:turpi amore uida in odum lafciuiamip labat ui«   bus omnibus oftenditur q fadle rebus fecundis humanz mentis a labore in libi«  dinem declinent.Q_^uotiiam autem uirtutes tn uiu fodali potius inchoatz q ab  Iblutz funtiHic autem ita de uita duili agituriut uelit exprimere quod paulo an  te dicebam fundameta rerum.p.qux ex paruis aefeunt/habere meliora initia / q  exitus; iccirco reginam a prindpio in omni re temperatam pofuit:paulo uero po  fiea amote infutgente paulatim ex temperantia in continentiam labitur: pofire»  mouida amore incontinens iu redditur:ut demum in fummam intemperaiui»  aminddat, Moueturautemaprindpio Dido/ut znramamet/non solum uittute quam urum in uita cotemplationi dedita intuemur:Sed iis qux humanis cm  tibus non folum bona uerum etiam fumma bona babentunC^uis enim in ge«  neris nobiliutemiquis formx dignitatemiat^ excellentiamrquis deni^ multo  ornatu infignetn orationem inter fumma non enumaetiCurn in foro/cum in fe  t lo P. Virg.M. Allego oituhzc BOB fapieBtum ftatcmfed populari trutina pondereBtarfX^uofliia  utro ta uica comuni pmulti hitcreii quibus cofulroribus utaris. Muiti cnitn aut  tnalo exrinplo motiiaut rorum quos caros habrnt non res fuationibus impui  n ad praua raoum^ snon fuit abfonum ut Didonrm fororis hortatu impudici  fadam inducat. Mifere enim amis mulier plurimu iam de eo animi robore rt*  mittens: quod inteperata hadenus apparueratcontinctem in primis uabis qux  ad fotorem facit fefe oftedit;Nam quis amore urgeaiT /atgre quidem fed tameilli  reftftitiSororis autem oratio ex uita comuni uniuerCi fumif i Non enim ex philo  fophia fumptis argumctationibusifrd aut uoluptate ppoiitasaut ihcetu earu te*  rum quxtantopeietimendxnon funtiniedoiaut fpc nec firma necfolidapror  pofita in fuam fentctiam adducere conaftut deniip fpem det dubiz meri: foluat  qi pudorem. Qua quidem re acciditi ut uidam in incotinentiam probbertt:ln  ea uero cum uerfaretunpaulatim impudica confuetudine eo redada eftsut nulla  amplius obflantr pudore furriuum amorem minime mediteturifed impudenUi  ma tffeda turpem libidinem honefto nomine appellet: In qbus omnibus quid  aliud teneat/quid conat' diuinius poeta/nill ut Didonem grauifTimum nobis ex  cmplar ^ponat/quatum detrimetum iis qui fub imperio luiit j>ueniat/cum prin  cipum mentes pro induftria ac labore luxuria at<pignauiairrepai:lila enim qua:  paulo ante extetnos at<j peregrinos non nili breuiter ac demilTo uultu alloqueba  tut:Cuius religio fumma in deos/liberalitas in hofpites/cofilium in urbis ex *dv  ficmone/iuftitia in fuos ad czlum ferebat ;qu* in publico nili aut diuiu* aut pu  blicz rei caufa cofpici nefariu facinus putabat. Cuius aius pudore munitus aboi  pturbatione liber pfcuerabatmuc eo furore agitat ut tota urbe ames uaget :aut li  domi fine amato fecorineat ucluti li fola fit/ar^ aboibusdeferta fummomaro*  letabefcat. Publica aut opa ita negligat/ut qu* badenus fua curatfuifip fupnbust  quz fuoyt ciuium labore ac (ludio fumma cum celeritate erigebant iniicimperfe  da interruptatp pendeat; Aeneas aut cuius cdfilium italiam fibi propofuerat/ue*  tum difficultate rerum defatigatus Canhaginem no ut illic fcdes ponereufed ut  claffem reficeret digtefliis fuerat illecebris Didonis illedus fipofuum ^fiafcmdi  abiiat:Nec deefl I uno.Qu ne res tomanz oriantur/ Aenez Didonifi^ coniugi  um Carthagine facicdum curet. Verum cum id fine uenais opera pfia nonpop  (et: Venus aut filium non Carthagine uerfari:(ed in Italiam enauigare cupetihac  deam dolis aggtedif lunoiut quz Catthaginen fiom caula faceret: eaoia Aenez  beneficio fieri uiderent .Q_uz cum dicit Maro diuina pene lapientia uitam foa  alrmdepingitiinquacumita quidam excelfoanimoucrfenfiut humana cotem  nentes ex hoc primo uirtutum genere paulo pofl in eas uenturi fmtiquas purgatorias appellatiat^ inde ad illas tandem quz funt animi purgati puenire conten dantitn illecebris rerum terrenaru ita molliunt" lutczlefhum quas fibi folasppo  fuetant/peneobliuifcanf. Libido enim imperadi ENEA Didoni coniugete: id  aut eft uiru excellete regno przficere cupit:Sed rem pficere non ualct nifi alfeotv  atur eius amor: Amor autem aiaduertit huiuiccmodi coniudione no Aenez/ftd  Didoni cofuli /no enim animis hotum ad maiota natistfed ipfi impio condodt»  ptzfiat Dobisad uctam fapicmiatn ^ ficild/quam in adioni^ uciDwfcd    - Liber tertius   cetum sdtnitiiftratioa (apientibusii deferatur adum iit de rebus hutnatirs opor  trtifta quauis falia e(recogoofcat:quae libido regnandi perfuadet tjmen ailin  titur;iiuc iam illa inetitusllt ifiueeorum quibus confulendum cft mifaicordia  motus sCcldiratur autem huiufcemodi matamonium in venatione: de qua quid femiremptulo ante latis ut opinor uobisdiludde explicaui: Quodaute  in fpelunca loco fubtercaneo conuenerint:quidnam aliud indicare crediderim/  nifi cos qui honores/qui opes/qui imperia quzrunt intra corporeas caducafc^  tesanimuminclufumgerererCuicdnubio prarter tellurem &lunonem;prxtet  nemorum bibitarrices nymphas uides numen nullum afiFuilTe: Q^uz omnia  iis quz de fpelunca diceba apte quadrare uideotunirrentus igitur Didonis amo  K Aeneas abeundi propolitum abiidt:& hieme quam longa eft in fummo lu<»  zu conterere non pudet.Hoc uero quid libi aliud uult nili egregios quo<^ uiros  interdum a redo curfu ambitione aduerti:& honorum imperii^ uoluptate de«  linitos hiemis afperitatem& enauigandi in italiam dilhculcatcm exhoirefcerc»  Q^uapropter nili diuinitusfubuentum Iit excellentilfimzatc^ immortales bo^  mmumuirtutes tam pemiriofapefte pereunt; Id ingenii at<^ beneiiciiin Circe  fuilTe fcruntxut Vlyxis fodos in uana monllra tranlFormaret: Illam tamen ica in  luam potclhtem ttaduxifle Vlyxem audimusiut Forma priftina fociis fit relhtu*'  ta.Neccgoid admiratus fuerim.Excello enim animo qui funt corporeas Iibidi^  ties fadle contcnunt; Quin & cos qui illis dediti funt rede monendo a tanra fer  uitute in libertatem uendicant. At lu Donemfuperare ranOimi mortales potuco  tunt:Nam qui imperandi cupiditate non tangiturxeum omnem iam humanitas  tem ruperalfe &ad dioinitatem proxime accemfTe crediderim:Q_^uapropter ena  quos in fumma admiratione habemus: cos ita frangi huiufcemodi cupiditate ui  demusxutrelidauerauictuteinligniaulrtutisueJuti umbram fedentut: Fadle  enim ell Sardanapalli aut Heliogabali molliflimas delitiasacluxum cotenere:  At^ adeo odilTctCum uero nobisaut Alexandrum macedonemtautlulmcz*'  larem proponimus eorum res geftas:in quibus utrum a uero cedo^ difcedcre  fzpe uidemustra glonz cupiditate admiramur:ut illud ex Euryde impium oma  nmo& dignum eo rege a quo profertur interdum approbare non dubitemus;  putem uf^ homini conducere li regnandi caufa iu$ uiolet : Q_uz quide res una  mouit poctas/ut Herculem quem fapiente ferunt:&; rebus a fe przclanl Time ge  ftisczlumafile daircuoluntpriusomniamonllradomaire/qua lunouis fzuitu  amfuperal Telingeceac.Illa enim non mater fed iniuftilTima nouerca magnord  uiioium rede dicitur* Non enim mortaliuroCut plzriq^ credunt } fed czleftiu  rerum cupiditas eas uirtutes parit quibus ad fummum bonum peruenire licet:  (^uor^uide nili placata prius iunone id autem intelligjmus aid fedara ambi dooeallcqui no potuit HercuIes:Q_,uis igitur hoc Aenz non condonaueritxac  potius quis illius no comifercanli Dondu in italiaexillensxtis eoimeft fumaru  uirtutu habitus.fcd in ipfo curriculo ut illhuc^Edfcai:’' adhuc coftitutusiu luno  nis dolis apiat"' :uc matnmoniu cu Didone initu fedibus libi a fatis cocel&s ppch»  nat;& colilio abeudi abiedo arces Carchag^s fudaretac teda nouare iftituac t pur^  puea^ SC ento lapillis aon^umtquasqu impetti  Uignia funt gelbrc gaudeat:  In. P.Virg.M.AlIego*Non eft o LAVRENTI non inqui eft hutnan* itnbedllitatls.red cmol damfacul»ti  «qua tamen condmo no Ora arduum-.tatntp «xcelfum tetum culmen ‘U»**®* BAPTl ST Ai K (imul fuo ordine de reliqui* difpuututui uidaetut Mani^  hofpes nofter fiuuilTimus tum ex diei fpatio in iis qu* hai^u* dida effcni civ  fum^oitum ex multitudine eorum qux adhuc dicenda  quum lucis effet in ea di fputatione abfuroptum in colligens non pertmtam in 3uitruauifl'. miuiri:utcontrac6modumual. tudinem<jno (bam^qu.b^^?uidiuapudmeeriris: mibiomnid.ligentu«nfuJ endi^!^ difputatio longius ptoducaturi Atquiegoitidm. nqmtLAVK£NW^   idem cenfebaraifed ne tanti uiti oratione moleftii« intapell«em/pudore i^  diebar prxfenim cu te o Manotte tuas partes fuo tepore  equide mquit MariottusiK fimul fua lolita feftiuitate BAPTISTAM manuap  prehendem/nos ad cellulas ubi menfx paratx erant reduxu. R URISrOPHORI L. FLORENTINI CAMALDVLENSIa vM niivTASvM  laVSTREMFEDERlCVM VRBINA-   jKSrJbER ^IaRIVS 1N.P. VIRGILIO MARONIS  allegorias incipit feliciter,   S Eruenerat iam fuperior libet Inclyte ac Inuii Si^me Fedence   in quotundaro hominum manus 1 qui cum dofli linti dry  aiffimi quocp & haberi 8£ dici uolunti Qui quidem quauis  'de Maronis Aeneide antehac longe aliter dC fenfiffent/8: pri*  'dicahenticouiai tamen ut puto iis argumentanonibus : qux  I nobis in probamio illius libri expofitx fuerantimulta in eo   F li rnnfcrinta elTe necate non audentiSed ea huiufcemodi el   fe Jowmduntiut non ad ethicen ut nos longa oratione difputauimus s fed a J   IhvSferendafint:ptoferunt 5 ad id qued defendere cupiunt probandum   fcriptoresqui paulo antenoararoxtatcm fueiut minime illiiteratosiqui non J L/indel Mos« acute & doaeinmpretati naturam tetum il is exponi conttn   los inde locos K ac „fpondendum ctnfemus/ut multa in eam qua diA SmriorisquoJdieifermonenosdixifl-ememiniyirgilm   nlura deorum genera inueniffet s confulto ita fcnpfifle fl£  A Fmmffeuteademilla & aduitammottfip: 8 Caduimnaturas:Kad   wriuruoluputtm f eferantur.Verum cum confilium mettmij   tcstotafufceftacftnoircuolumusiidcenfco femper   ipfo hn«qu3nf.bie.ration. fcriptotpropomt:  ^um fipttahuj omnuiniiri ludingttut» ipfcqcquid narrat iqcqd tctninv 1 1 Ir £ I- 8- r K P B-t.-« . Libet   ii iuiatnr referat. Hoc oun ita fit quis non uideat ea quae ille ttadiutamdegett»   M damt& ad fununum bonum acquirendum (^dantia fcripfit no iccirco fcripfiC'  B Cuquo naturz uim ezprimeret.Sed contra cum iugi:perpctua^ oratione ea pro (eqiutut m quibus & uitia damnet<& uirtutis pulchritudinem eztoIlat.& ad ue   I» riinuefligationem perducat/ nonnullaadiunxifTe&omandi & deledandi cao  Ia b qua: fint ab ipfa phyfice repedta s Q_uz omnia cum non propter fe t fed eoru   li quae dixi caula confaipfetit equis non uidet id fulcepti operis primum efle feu  ^ malis ultimum dicere > quod nos hefiemo fermone perpetuo quodam filo ita   ia intezuimusrut nibilineointerruptumquzn poiTis. Nam ad idquodaptinci  Sh pio przpofituffi cfl omnia deducuntur Si fcquentia iis quz antecmerunt/uebe  menta cobzTcnt:Q_uapropta quz ab iis quorum audoiitate nituntur/ad pby  fictnrclata funtminime damno. Nam quauisca ne multa fmtine^intafc  haaliud cz alio pendat > ut non potius membra quzdam diuulfaequam integrn  corpus uideantur t tamen non incommode traducuntur : ne<j fententiz nofoz  ccpognantiScd fac repugnare an plus apud me reda rado qua iliorum audori^  tas ualebitrprzferdmcumfi audoriute certandum fit eos proferte poifimus/  quorum fplendoteiiti uclud folis luce noduz hebetentur : Nam ut omicta eos  quos diligendilimus omnium grammadeorum Seruius fingulos libros in fiogu  los huius poctz locos commemorat: ut taceam quzaMacrobio exceliend inta  platonicos phiiofophotut nihil diam de iisquz&adiuo Hieronymo & a di.  uo Augufiino in hanc fententiam apud Maronem interpretantur : nonne e  noftris Oantbcm uirum omni dodnna excultum grauilTimum audorem faabe«  mus: qui eius idneris quo mundum omnem ab imis tartaris ad fuprzmum ufi^  czhimpcragcatiine olibiillum ducem fingit/in quofummum hominis bona  paquitens/miro quodam ingenio uniam Aeneida imitandam proponiciut cu  paua omnino inde excerpae uideatur: nunquam tamen (i diligentius infpicie  . mus ab a difcedat : Nam nonne fiatim a principio ea quz de medio ztatis tem   ) 3ore:quz de fyluatquz de tribus ferisrquz de montis fublimiiam folis radiis il  uftntoconfa ipfit:binc omnia funt. Mitto caetera: quz ita abdita in Oantfais  poemate funt:ut non nili a paucis iifdem^  dodiffimis dcptzhendi pofiint.  przponit igitur libi ducem Maronem in u re quz ad fummum bonum.non au  tcmadpbyiiccrpedetifeduideo me nimis cunofum in eo fuilfe : quod paruo  omnino nodo confutari poterat. Quapropter ego inilitutum repetam.  Tu autem indyte atip inuidilTime Fedence ut cztera fuperiora fic Si ilh quz in  ultima quaru diei duputationc continentur/diligentillime leges . Multa enim  illic inuenies propta quz te cum dTc : qui Si nunc es Si fempet fuifti fummo»  pae lactahacict^norcef^ ex deo confilium tuum fuilfe : quos a primis annia  bpientiz amore flagrans ita te bonarum artium fludiisaddiafti: ut quanto ta  dic tua ztas grauior fitttanto ardentius illis incumbastnam quod reliqui prin»  dpes apprime regium ducunt:ut aut multo odo uanifip ludis mircelcit:aut au  cupiis ucnarionibuf^ oe tempus tcrant:tu ne libero quide homine nili relaxan  dimtaduai aula dignu efle duxiflitred oportac eum qui aliis imperaturus fit  nWB omni dodrina excultu itddaaquq no fibi folatfed & iis qui fuz fidei co} In. P.Virg.M.AIIegflu   mifll rantjK dum «fit agit «emplo: «dum fapienter inontt pncepto maplo  limum prodifft po(Tit. Qui rigis munus clTe ducat non alieno labore ueluri fu   cus inter apes alisfed pro aliorum falute laborare uiinnoaiosabiniuriupro  hibtrr/fceleftorura<j petulantiam compnmeretoibuafe «quum prxbere curcts  Hrc autem folaphilofophia nobis pracftat. A FILOSOFIA enim habrmuatui  pie uiuamus tui pietatem ocmabhominemuft« ab omni fcelereabibneaniust  b uapropter uere iliud ufurpabat Ariftoteles fe id a FILOSOFIA afleculum efle/  Ut ea beneuolens/ cumuolupute ficerettquzmaliuinlegumatufaccrectv  I gunrurtbonis enimCut piato ait)lex deus eatmalis autsm libido.huiufcctnodi   Igitur fludia teita exculturo/ita omni ex parte expolitum reddiderunt/ut cum a inultis quod crimen fortunx eft imperiis finibus fupereristiis tamen uirtutibiisi  finequibus nemoun quamiedeimperauit/omnesexcedas.Sed cartera omoa  quibus ex mortali humuculo te immotulem ducem reddidifli ad prxfw omit  to> Ptxcipuam autem in mnfaium ac philofophix cultores benignitate tacinii  prxterire nullo modo polTumtium animaduertam te ea in reiure omnibus prx  ferri poffe.Scimus in tata admiratione apud antiquos fuifle Ptolomxu philadel  phum ut ptxclariffimorum faiptorum laudibus etiam poft tot fiecula florentit  fima fama celebretur.Et profedo fingulatis fuit in eo rege iuftina mitabilifip cie  mentia.In te autem militarimec uirtus illi/nec fortuna unquam drfuinSed nb  bil in fuis omnibus aaionibusmagisextolliturtqua quod regnum fuM libera  liffimu oibus litteratis hofpitiu efle uoluerit . Tantu autem iis qui aliquid fcripfif  (ent debere putauittut Demetrio phalereo no folum philofopbo grauiflimotfed  oratori copiofilTimo negocium dcdentsut fibi ad quin^ faltem milia librorum  in fuam bibliothecam congerenda curaret. Q_ua quidem io re quos furoptus fe  cetitttunc optime conieiSati poterimustcum uidetimus quantu in fola mofaya  lege elaboraueriti ut illam interpretadam ac in grxeam linguam conuenendam  abhebrxisinterprctatetur. Primo enimoesiudzos quifuperionbusbelliscapti  in fuo regno fetuirent diligmter inudligandosiat tingulos uicrnis drachmu  redimendos/& in patriam incolumes diraittedosmandauit: quorum numerus  adeo ingens fuinut foluta fint a rege fexcenta ulenu fupta fexaginta milia. Dtf  inde legatos ad Eleazatum iudxorum pontificem uitos sumx audori tatis mifit  Arifteaside quo paulo ante dixi & Andtea prxfcdumfuuiMifitptxterea men<  hm auteam/craterefej ac phialas donaria in hierofolymitano templo ponendi.  Mateiia uero hoium uaforum fuit auri quinquagintatargenti uetofeptuaginta  ulenuigemmatum autem atqj lapillotum quibus uafa omab dilUnctatp funt/  ad quinm milia adhibuit/qui omnes mira elfentmagnitudine. Q_ux liberalit« adeo accepta gratacp Eleazaro fuittut duos ac feptuaginu ftatim ad regem mi'  fent i non plxbeos illos quidem/fed ex principibus dodiflimis ita elrdos/ut ex  fingulis tribus fenos fumeret s qui legem dei in grxeam linguam Ptolotnxo  conuerterent. Q^uorfum igitur hxef Nempe ut intelligant qui diligennus  rem confiderauennt Magnificentiam tuam erga dodrinas noOra tempelb'  tt non minorem efle / quam oLm Ptolomxi fuerit s Hoc enim folis luce cla/   liua apparebit ; Si Imperium Imperio 1 Si Sumptus Sumptibus conferantur. Libtt guattui   nfeaumnonfdl amutiiuerrz xgyptiopulentiitiimum regnum poHidebat/un^  dcaurt argenti^ inaedibilisuis proue Diretired Tyriz quo^ ac phcnictz tnaxi^  mam partem ucdigalem babcbat.Tuos autem bnes nemo ignorat. Adde quod  quo tempore Ptolomeus regnauit/plurimos A(ia at Europa prineipes habuit •  qui poetas t qui pbilofophos/qui oratores/qui hiftoricos benore opibufi^ bone  rent:ut & li fuo ingenito (hidio illa faceret magna tamen cx parte emulatione  quadam excitari uidereturme quos opibus uinccoatxabiifdem huiufcemodi glo tix genere fuperaretur.Tua uero benignitas in ea tempora ineidir/ur nili ardeUi*  tilbmafittfacile czterorumprincipum auaritia extinguaturxQ^uaproptcr nulla  omnino eorum munerum quz in mulas con fers/gratia noftro fzculo eft bahim'  daxinquo neminem reperias ex iis qui nunc imperat:cu*us exemplo excitari pof»  lis.Sed quicqd estes autemres omnino przcIarifTima/id omnetuo ingenio;'U3 innata humanitate cs.Nam ab aliorum moribus procul dircedens/unieum te  exemplar ofiFersrquem & ad fummam liberaliutem czteraf<^ omnes redas adid  aes/&ad ueri inueftigarionem reliqui fcquantur.lta enim uirtuiem adamas: ut  illam non glona dudus/fed eius amore alledus ampledaris.Euenit rame ut qud  admodum umbra corpus (emper fequitur: etiam li id corpus non quzrarxHc < ua  pie iuHe/clementeti^/ac fortiter fada non adumbrata quzdam & inanisiTed foli  da cxprclTa^ gloria fcquatutx Scd res polhilatxutiam ad noftriim heroa rrutrra^  murxin cuius adionibus tu mores tuos ac uitx inlliiutum facile recognofces. Co  ucneramus igitur eodem in loco bene mane quarta huius difputationis dic. AN  ^ cum miro deliderio BaptiHz fermonem expetere uultu gcftucp fignificarcm^  illexurquz explicaturus eilet iis quziamdida fuerant commodius annedrrrt:  buiuiinodi difputatiotii fux prindpium adhibuit. Vidimus badenus dodilTimi  uiri qua piudmiia ac animi magnitudine omnibus iis fotdibusxqux a corpore^  ueniunt fc explicauerit zneasxNamne troiz periret: 8C corporeis uoluptanbus pe  nitusobruerctucmon dubitauit exui in altum ferri quis incertus quo fata ferret:  pod hzc thracenfes rapinas uc eas primum cognouit mira celeritate effugit. Ar«  ^ mox in rebus dubiis a fapicnria conlilium coepir : deceptufi]^ Anchife interprz  tatione.Namquz a corpore funt facile corporea fequunuir.uitam duilem in  Oeta fibi propofuit * Sed nec piguit errore cognito uela uentis iam tertio dare .Delatu!^ mlhropbadasaducrfusharpyarumauaritiam inuidus pugnauit. Nec  per medios hoftes ad Helenum enauigare foimidauit: Prztereoqua prudentia  qua animi przdantia iam ab hcleno dodior reddirus immanitatem cyciopu de<<  ciinauem : qua indudria ac celeritate fcyllz charibdif^ mondra euirauenr : quo  fiudio atramentis ardore defundo iam in licilta parente nauigationem in lra.< liam rufeeperit. Verum cum lunonis dolis :zoli<^ ac uentorumuiribus parcis  fc non pollet: celTicilIequidim conlilio ad ueri inucdigationemin aliud trm  pusreicdoinaphricam eo animo diuertit: ut quam primum per tnaris id edap>  petitus tempellarem liceret : in Italiam tenderet Verum in ditione aduerlilTimz  dezconditutus : & amore Didonis delinitus/Vide quid pTolfit ambitio: quantu  ^ ad mentes maximorum etiam uirorum euertendas ual eat / regnandi i nquam  cupiditate dclmitus is qui reliquos iam perturbationes ac uirufupctauerant di<« In.P. Virg.M.Allego. uinil Tifflumcoafiliatnio Italiam enauigandiomiiTtttotum^rein eo dednatt  ut regnum carthaginmfium coSabiliret : perrcueraflctcp in errore ni(i acczpifb  a Mercurio non placere loui ur pulchram urbem uxorius extruat . Regni autem  & rerum Tuarum obliuifcatur : Prxcipitur enim homini a fumrno deo ut ad fu«  am originem rcuertiuelitrQ^ux praecepta nobis dodrina quam litteratilTmKv  rum uirorum uel Termonibus uel libris accipimus i facile tradit . Rede igitur ar«  guitur arncM/quod uxods urbis t ea enim eft uita in adione polita adminifbatio  nem TuTcepeiit . Suiautem regni 8c totius contemplationis qua Tola mentes hu> manz regnant Iit oblitus : Maximei^ hoc urgetur/ut Ii tantarum rerum gloria ip  fum non mouet i Afcanio Taltem tuerediTuccefloricp Tuo conTulat < cui regnum  lulia; t ac romana tellus debetur: quo in loco quidnam aliud ATcanium intelligcmus nili futuram ztemami^ uitam: qua: huic breui Atmomentanea; Tuccedit.  Nam li dum intra bzccorpu Tculauer Tanturanimino lhitantisrerum terrenarii  illecebris demulcenturiut carleflium contemplationem de Terant/ memineriot 11 in futuram uitam uitiotum labe inquinati & nulla dodrina exculti migraaerint foce ut nulla unquam ueritatis luce illuftren tur: Q uapropter regnabit Aiani< us:nuIIuT<^Tuoimpecioiiniseritnilieoapatre dmaudecur i futura enim uita  ab hac quam uiuimus ea rationeiquam oftendi iure gigni dicitur : ab eadem^ li  focdida 6i uitiis tenebriTcj inuoluta Iit: tanto bono denaudatur.   Sin contra manebit fcelix at^ a:tcma : Nam  Hic domus xnez totis dominabitur oris.   Et nati natorum & qui nafcentur ab illo:  Q_uzquidem mandata cum acczpilTetzneas: quid mirum li uehementercom<  motus Iit : Erat enim in eo animus qui excclTa Temper TuTpiceret. Ita^ Te tandem  excitas cupit qptimum abire: & terras quamuis dulces relinquere. Alluetusenim  poteftatibus at^ imperio uirfi£ dulcedine captus non line dificultate diTcedit.  Sed cum ucrum bonum ab eo quod falTa opinione bonum putat" diTcetneteptv  tueritiillud tamen anteponit: Cum uero poli diuturnam conTuItationem inla«  lutata inTcia^ Didone diTcederedecemat. Nouerat enim no efle pal Turam illum  diTcedete fi IdlTct/egregie admonet cum ab huiuTcemodi rebus animum abduce  re uolumus non efle molliores animi partes confulendas: Ted clam illis uela in Ita  Itam facienda: Talia enim bzc Tunttut quanto blandius ea appellemus : quato^  familiarius Talutemus/tanto maiori contumacia aduerTcntur . Sentit tamen d(v  los regina :&iniquo animo fert uita ciuilis a uiro excellenti deTeritpradcrtitn li  non fit alius Tapiens/qui Icxro illius Tuccedat.binc illz quzrelz nulla libizx znca  robolcmfuperciTe. Quamobrem ratio inferior quam mulierem appellari diximus huiuTcemodi argumentationibus uirum egregium in uita ciuili retinereitt  a speculandi propofito auertete nititur i Primum enim ita urget ut quzrat quo  modo eam deiicrete Tublbncatia qua tam ardenter ametur. Amat enim ucbementer virum excellentem vita duilis. lllius enim cunfiliis imperia non modo paran  tur/& parta con Teruanfuriuetum etiam augentur. Sed nec illud retinet non Tet'  uate illumlidcm quam dederat. Suavitare enim imperandi iam totum Te adminiHtarioni dederat zneasi Quio di Te moritiuam Tidc Teipture docet; Nccinub 1i I I I t t t P u 9 0 9 u n I» P“ ca nii da ttico: iKg da dd od R.! dia b&' ht loj on IBU' «nI 1« tii AV u tua 8“ liii Ml LlOfi Odi ns ilii ntoi iU IIlBl' lO* loli   niii jA«< Dlli   tffll*' yb BD^ a<? J»!*Libo gimttu to alito eucf UKloIcb Namdcflituta a uimite agendi facultas pereat necefle cft: Dctcnetezdif&cukate hiemalis navigationis. (^uare (Tgnifiantut labores ma^  jdmi t quos (i in Italiam uenite uolumus fubituri fumus.pofiremo in hoc uche><  mentet mlifiit/li reuotetetur ad Ttinam Bl ad uitam uoluptuol^ t non tamen  illi efle concedendum: ut honores relinqueret t multo autem minus cum loca fi bi incognita petat t nondum enim nouerat Ipeculandi uitam. Dcmum ad c6mi< fetarionemconuer{alachriinaseffundit.connubium, incoeptum ad memoriam  reducit . Q^uicquid fuaue oUm a fe acczpiflict exprobat:& ne domum labent em  dcioatobuftatur. Pofluntenim uchementercommoueri mitiora ingcniaicuia  parcntes/cum liberi aattiif (anguine coniundi/cum amici/cum patM ne dcfci'  ratrogantrne incoeptam fcxictatem relinquat przfertim cum uer^umfitineim  perium a bonis uiris defiitutum/aut Pigmaleonis auaritiaiaut larbc tyram*de in«  uadaf .Q^uodtunemagu ucnoemur cum alius (apies qui (ibi fucceclat no telin  quaf sQuz quidem omnia cum rerum agedatum rado animis noSris obiidatr  non pollumus non uebemeto comoueriiSuccurnt enim platonicum illud quo  quttum generi humano debramus /grauifiimeadmonetiut humanitate eruere  uideamur/fi humani focietatedeferamusiucru cum aladuettatmagnus uir men  tem fola eficiqua boies fumus; ea no agendo fed cognoiicedo pcrhdrid^ louis  pcaneptucfieimotusmanetiat obnixus curas fub corde prraut.habet aut quo|>  pofitu opnme tueri poiTittNon enim inficiaf bene ^meriti ciTe reginam. Quis  enim no uideat magna humanx hnbecillitad adiumeta ab hcK uitx genere fue*  nirc:(^um BC polliceffe illius recordaturu dum fpintus hos reget attus: Nam eu  derua abfoludflimu appellabimus:qui iu in fpecmadone dum uiuit uetfef : ut  uicifliW cum ccs poftulat agat.Etgo no fugit a uita agedi < fed inde recedit: qa cu  ea no cotraxerat matriffioniu.Non enim nati fumus ut drea mortalia uerfemur:  illif{^ coniugamur.Sed neceiCtatis caufa efi illis in(iftcdum:ut tanta opere impd  damus:quantnad fodctatcconfcruandam fat fit:quaptopter (i Dido Carthagine  deledac :hoc autem efifi in adione inferior rado libenter uerfaf liceat: fit fuperi^  ori Italia dclcdan poflem mulca ciufdcm otadonis ad eadem fentendam trilTa^  ce. Sed fit aliquid ex mera hiftoda didumiRcIiqua ueto qux ad plurimos uerfus  dicunmt:eam uhn babet/ut libidinofum K corruptum amorem detefienf :at^  tantxfceminx grauifiimocxcmplo nosadmooeat:ut tam mrpem/tam pctnitio.«  (am pefie fugiamus:comode aut eunda qux a PauEmia in platonis fympofio de  tutpi amore dida funtiad bde locum ttan(Feremus:ex quibus pauca qux a nobis  cum de Paride uerba fcdmus dida funt : memoria (i repeteris intelligeris umSu  mum effe Ptoperrianum illudi Durius in terris nihil efi quod uiuat amate .Q^d*  autem magno pedore curas pcrCmfcrit xneas: fit tamen mens immota man ferit/  oftendic uirum qui deorum prxeepris parete deacuerittiam ab inconrinenria in  quam Didonis illecebris ptol^fus fuerat/ad continendam redi(rc:tt quis amore  urgetetuntamen hone&umuoIuptariprxpofui(re.Oidonis ueto interitus nobis  pcrfpicue oflendit perire ncceffe c& eas res publicas qux a fapientibua deferanf. Non tamen aberrabimus fi amandum at^ amentium furorem cxtrcmainij de*  f^aarionem huiulcemodi exde oilendi putemus. Aeneas igitur deorum admi}«  1 ti  In. P.Virg M. Allego»    nitu in Italiam enaiugat. Verum infurgente uentopt u! palinurus nauis gubertia  tor negat ea tcpeftate Italiam pe Q poiTc.anenticur zneasiut in Sidliam in qua in  fula extindus parens nondum debitis exequi is oraatusiacebat/dcfledat. ^uo  in loco quid fibi palinurusuelitline ncgocioex iisquz de illo paulo fupra expt’  fi cogDolcerepotcttsicum enim huiufcemodi appetitus facile pturbationib^ob  tuar' inon modo a tedo cuifu auertic' :fed znea( haec aut excelleris uiri mens eft}  pctixpc infuam femetiam trahiteut ad patre» hanc autem imbecillitatem quama  corpore cotrahit aius iam ciTe diximustbeet intelligere ad patrem inq/quis iam de  fundum redeat»(i uero ad memoriam ea teuocaueris qua: de ficilia lam diximux  non ab re cftipfistroianisiut in eam infulam redeaaundebreuifiima (it in lulia  nauigatio»Poeta tamen cuius cofiliumefi no folii ut grauiffimas res j>ferat:fedil  Iaauatiaiocudiutciuafpergat:uttcdiumtrifiitia« pfundarum rerum comites  penitus amoueat/uaria ludopt genera interponit.Hzc igit' iu adminiriobantut  abznea ut paulo poft oibus ablolutisin Italiam elfct foluturus.luno uerocui^in  troianos o^um/nec ulla calamitas/ncc tpis diuturnitas explere poterat : qa quo  illosltaliz j>pinquiorcscerneret:eomagisaccenderet' oblatam occafionem non   5 rztermittit:Cum enim feorfum a uiris imbecille mulierum genus deliderio ta<  em quiefcedi mcedius cofpicare^ pa irim illis ut naucs incedat pfuaden Q_uz  qdem (ic accipiteirerum terrenarum cupiditas no uiros/nam pars fupior rationis  non facile his rebus frangit':fed ipfam inferiotenr tonem a fupiori dUluudam p  fuadetiut rerum magnatum ^poficotcicdo tedium longioris nauigationisrefii  giaud^ubieficonfidcaCiMuUetcsigit quibus inglorium odumlongccarius (iu  q honelius labor prijtiio ambiguz miferuminter amorem pizfenris tertz fatifq|  uocatia regni malignis mare oculis ifpiciut.Namcum ratio tnfmocquzafupe*  tiocipfuaU illam ad quxqj xgregij Tequit' nuceaabfente paularimfenfuumiiiei  cebris cncruac' idoncc tadtm uidi fc iliupi potefiati pmittat.Naucs igi^ mulieres  inwcn dioafrumei caduriunt. Hoccumdicicportauolutatcquz ad res magnas,  ferebatur incendiocupidiutum perire o(lcdit:pen(rrtauttoticlanisnifi Eumci  Ius piculum (fatim ad zn eam reiuliffeciErat enim Eumelus uir ad mulierum cu  fiodiam telidusiNam huic parti inferioti metis acerrimus qdam cofeietiz remoc  fus/cui bonaceda^ cuiz fimp funt ftmp adcfiiHzcgtzce fynderelis didturuis  (.nobis ingenita qua animus Sc ad bonefta crigiturtK a turpibus tefugit»Hacau  lem nomen ipfum uii i ajpertc demondrat; enim boni cura facir   leinterptabimr»Hicigit^Iapfaiam in facinus muKere temaduitutefcrt:Q_uo  nuncio percepto primus Afeanius ad iiaues eripiendas aduolat: ASCANIO autem  celer robuduli^ magno animo prxditus Aen»iiliuscft:quemiuceiatetptc  tari licet uigotem quendam ex ip(j mente natum: Hic autem nullo tenore pto  liibemr qum contra pericula pnmus feratur: Sequuntur reliqui t fed io primis  zncas: At mulieres uiris cogitis incoepti poenicet t A uiro enim feiunda muli*  er aduerfus appetitum minime repugnat <Q_uod (i tutfus uiro coniungattirt  iam robufbor fada/ SC ueluti e tenebris erepta tum demum acata iam cetatt/Sl a  lunonedcIuCam e(fe dolet pudet^: Non tamen incendium facile tolli^a Nam  optusalunoaeappeunuiacop^cueut ut uoluntatcmsquae, nobis ad (uo»; tti «di  r S 5 1? S B jr 3 .te e Liber quarttu   inutn bonum euehit/omnino perdat: fir^ mifera in bomine diftradio t eu atio  ratio dutat:aIio appetitus rapiat i Q^uo in loco cum mms noRra fe tanto cer« tamini imparem cognofcattnititur illa quidem fuis uinbus/fed limul etiam di  uinum auxilium implorat id autem impetrare meretur. Nam qui ita deu prae  atur/utiaterimipfe quoad ualeat libi non delinis adeo minime derenc. Nam  quodaSaluRiofcribiturnecprzcibusnec fuppliciis mulieribus auxilia deo«  cum pararitrededidumell. Non enim inerti ac delidi/ K qui in fummam rr^  tum defperationem prolapfus nihil contra pericula parat auxiliatur deus. At  qui magno aduetfus difih^ltatea animo infurgit:qui nihil inaufum: nihil in«  tentatumrelinquitiquincc periculis terreturmec laboribus torpelattis profo*  do fe dignum f^tcuius S dii d homines commirereantur. Q_uapropter fapi«  enter Aeneas ciun nec uires beroumtnec aquarum uis infufa prodelTrt: ad prx*  cesconucrtiturtauxilio impetratotcum iam quatuor naufsai Tumpraeeirentt  teliquz ab incendio feruantun Cum autem naurs ad totam turbam tranfuehen  dam deeflimt terat fenis nautz conliliumutimbeallior turba in Sicilia reiin'  quctctursutbfm illis habitanda conderctur:hoc confilium oraculum paternum  louis enim iulfu locutus cR patens/ex ancipiti ratum hrmumt^ rcddidit:Q_ue  iocum nili uos aliter cenrcatis/itaintcrpreubimoi. Ad diuinarum rerum fpecuo  lationem fola mens omni uirtutum robore iam fuffulta acceditiReliquzenim  animi uires quz imbecilliores funt naues/illz enim fune uoluntas/quibus illuc  ucbantur incendio amifcrc: Q_uaproptcrreuocanda cR mens a frafibusihocau  tem confilium ab. eo uiroprohcifciturtcuimagi Rra Pallas fueritteR enim a fapi  entu dodus: Approbatur autem ab Anchife fed iam fcpulto; Nam qui a ra«  bonetamfubadiruntfcnrus/facilein eius dicionem conccdunr/ przfemm lo>  ue iu iubencct conuertutur^ in rationem hoc ordinc/ut ratio ipfa etiam fupeno  remlocumarcendensaf Ficiacurintellcdus: llleautem£(iprein altiorem gradu  cuadens intclligcntia redditur. AR intelligentia in deum comutatur . Hmuic&>  modi igitur cofilio at^ oraculo utimrAenas.Non tamen prius e lidlia foluict  qua lacta pie tite faaatinorat enim qua laboriofitquiip periculis plena lic h\u  iuCccmodi nauigaboiNoueratquancz molis erat romanam condere gentetSed  nec Venus quicqui interea remittitiquinuehementer pro faluce hlii anxia oia  drcufpiciat.ln primis autem Neptunum rogattac mare tranquillum reddauNa  amor quo ad fummum bonum rapimur fupiemam in bomine rationem horta  tur/ut appetitum m fua poteRate cemtineat: N epcun us om nia benign illima pol  bcctuciNihii enim denegat ipfa mens amori ad redum eam excitanti : Neqi ell  ptocula ratione/quod oRendat Venerema fuo regnoottamtlTetEReaim Ne«  ptuncu regnum marciquod quidem ducn ab illo regitur/ctanquillu eR. In hoc  czii uitilia lada dum agitanturifpumam gignunt ex qua oritur Venus . Supte«  ma ergo ratio appetitum intra fe continens in quem uiriliaczliiiccirco decide»,  re didmus/quia in appetit um a ratione adminiihatum uls quzdam cziitus ca  dittquz in eo agitata diuinarum rerum amorem proaeat t uod autem oes prztcr unum Pahnuru incol umes in italiam peruenturos promittit i no ne cz  oxtdia^ut aiunt gtaxi^philofopbia erutu cR: Nam clalli in Italiam tendenti In. P.Vtrg.M.AIl(go. flurimeaductbtut appetitus /qiii a folofenAi profedustulul altum (iifpic^  Quapropter rquadiu claiG prxfuitinunquam ttaliam tangere potuerunt Tnv  unuSedundema Tomno opptcfTus mari cztinguitur.Nam poftquam rado  acarime ad contemplationem conuettitur:& caducorum curam reliquit: Nt<  hil ex iis qux fenTum petmuicere pofltnt/appetiturt Vnde uniuetfus Uleappcdi»  tuspaulatimiapituctac fopmisezdnguitur: Cial Csautcmcnamline fuoguber  tutore tuta fcrtuc Neptuni promiiTis donec ad fyrenum fcopuJos deueniretrlbi  autem fluitate ciuncarpiiTet Aeneas temonem capiens nauem in undis noAur«  nistezitiNam animus nofler cum iam fibiitaliam propofucrit fccurus fertur/  donec in uoluptatumfcopulos incidattTuncetum temonem capiat oportet ap  pedtus tationalis Tquiaduerfantibus uoluptatibuscaiitra obflfism Eztmdoigw  cur Palinuro Aeneas tandem poli diuturnos enores euboids allabitur oris .In iuliam enim ucntumcll ad quam gubernatore Palinuro nunquam perueiuflet  1 ingrefli funt Jn quo non idem curnit quod in cartbagine    Aeneasslam portum ingrefli funt :In quo non idem curnit quod in cartbagine  a portu euenifleoflcndit poeta. Ulic enimnaues'ficli procul a rabiat fluduum in  tranquillo efle uideremurmulla tamc nant anchora alligatx. Quapropter qua  quam non omnino ucxabantuRin aliquo tamen erant motu.1^ autem anebo  ra fundabat naucs: quo oflenditur eas ueluti fundamento nhex lint flabiles hx«  rcrcoportere.Summum enim illud bonum:quod in negociola & duiliuita a  philoiophis ponitur: 8t flinbuiufcemodireceflupofltumflt/utprocuia fotttu  nx procellis uirtutum benefido abflc:non tamen ita conflabilitum cfltquin la«  bcfadan poflit:Q_ui autem oi.'':} vum rerum libi contemplationem finem lU  timum propofuit/bic iu in tuto ac folido rationes fuascollocauit:ut nulla ui di  tnouere poirit.Nam aduentusin italiam oflendit habitum uirtutum um con<<  tradumiu:utaptopoiitauitanonfit difcefliirus Aeneas/non tame earum uit  tutumtquxfuntanimiiampurgatit Namnihil fibi diffidle iam proponeretur/  fed earum quas dicunt purgatorias.Q^uod quidem propolitum iam conflabis  litum fortitudo fit animi robur non deferitinec ipfe ardor rd aggrediendx.  Q^uam quidem rem tunc ezpnmit cum ait luuenum manus emicat ardens Lic  tus in befpcrium: Manus enim indicat omnes animi uires cocurreretqux e me«  dio iam fublato Palinuro fefe menti ultro fubieceranti quod autem ardens fit  concurfus uehemcntiamindicatiNe^ ab te efl quod fit manus iuucnum.Ofle  dit enim animi bene affedi uires nnllo fenio in quo tedium torpor^ ficigna«. uia efle (olet unquam aflid:Q_uapropter non lento palTu rem agit/fed emican Verum quia dum in corpore ezulat animus:quauis fe totum fpecuiatioai dc^  dati non potefl tamen non curare neceflariat ea’ enumerat poeta quxnonuo  luptatem fenfus: fed incolumitatem uitx rcfpiciant. Nam quxnt parsfemi  nafiamis ObfttuIainuenisfilicupatsdela feratu Teda rapit filuasinucta^ flu  mina moftratiinferiorcs igitur animi uires bxcagut. ENEA aut quo nobis m&  exprimit" i Arces quibus altus Apollo prxfidctsHotridxip procul feaeta fybil»  kc: Antru imane petitt(^uod cu fadtad rea diutnas cdtcpladas erigit t Na qui aliquid figurarum inuolucris fcribuntibuiufce modi rpeculatioes per excelfu  loca aprimBt. yadc illud e p(almoi(^uis afccdct ia mdee duif A et illud = b Sj K n n  i»  la Ap OL ttl d bt ttn  lut % dt.QURI bii  iO  ni£ fid «w  Ots sed| iae N «I K Liber quartus   Nam cum in ui^tum in contemplatione pofitarum finis uerum fit/ quo fapi^ Clite efficimurtreiSe omnino folem huic rpeculationi mopolicumeflediiitNa  ut nox tenebrz infcitiam arguunt :ita lucis dator fol ueriratcm fignificat: Cuius exemplum fecutus ciuis noder Damhes cum ab ignorarione rerum ad ue-  ri cognitionem progrefiiim ponit fe ez node filua<]^egreflum montem cuius iu  ga foleilluilrata fint/afcendere reflatur. Addit pratterea antrum ibi efle Sybii«  be magnam cui mentem animum^ Delius infpitac uates aperitrp futura. (^u£  quidem locum ut diluddius-ezpritnamus pauca prius de Sybilla percurr^mt  mox ad rem de qua agitur redibo. Conflat igimt Sybillasapud grzcoseas mu»  iieres urxitati folitas t qtiz furore diuinb afflatz futura praedicerent t Eft autem  Sybilla quafi id enim efl dei fentennatquoniam dei conlilium fitn   tuitura & enim aeoles deum dicunt : quem reliqui graeci nomnantt Quanquam (iimtquiuelint fatidicam muiiaem apud Ociphos bocno  mine appellatamta qua demdereliquz futurorum confcia: cognommatz linn  faas exuariis regionibus' decem fuifle colligit. M. Vano :Q_uas ego omnes fi  quid ad rem pertinacatbitearertfuo ordine proiequi non grauarenSed ut ui>  ^.nihil ad hoc de quo nunc agitur iQ^uamobccm fatis fuerit uidifle Sybil  lam facile rerum diuinarumdoi^inam interprztari.hzc autem nobis ca qux  Apollini nota fumifine mendacio przdicitt Nam fapientiam uericatcmtp ape»  m.quodueto antium ponitiexprimic ucritatem m obfcuto latete . Nrtpreme»  tetriuiz lucos Apollini templo adiungit: luna enim corpulenta uebementei  cflifiC reliquis lyderibus inferior . Q_uapropca rerum humanarum quz diuinis  longe inferiores funt/figuram iutc habdne : 1 lia enim lucis przpouitur: res au»  tcmhumanzin fylua obrutzfunt: non enim corpore carent:& utiuna afoie  lumen recipit t ita Si ipfz quiequid habent a diuinis habent . Collige ergo cu  lapientia non modo diuiturumterum/fcd etiam humanarum faentialit re»  de Apollinis templo Dianz lucum adiungi. Templum dtumatum rerum lo»cus efl. fylua macenanotat.Templum laoius zdiheium deo (aaumiin quo  res fdlasdiuinasagimustab reliquis abftinemus t quoniam cum illud mgrcdi»  muria negoaisceflamustfiC foli contemplationi incumbimus.Trmplum aute  a Ozdalo conditum ponit t Q^uid igitui aliud efl zdilicare templum Apollini  nifi reddere fe idoneum ad fapientiam capiendam.Q_uod quidem tunc dcnii^  fadmusicum ab omni corporea labe purum animum ad contemplanda diuina  tranfferimus.hocautem Ozdalusuiromnibus optimisaitibusinflrudus fa»  cuepotefliin quo tantum ingenium fucriciut Si DzdaIaCitce& tellus dzdala  a poetis tunc maxime dicatuticum maximum ingenium oflendercuolunt.Ve»  tutantem non mariinontetrainec ad meridiem infimam nobis mudi panemt  fcd per fublimem acrem ad reptetrionemiNibil enim humileinihil terrenum fit  in camente/quz ad fpecuUtionem fertur I fed ad fublimia czlefliai]p engaturt  Efl autem primus fpeculandi ingteiTus a uitiis. primam enim cogniuonem  efie oportet circa mali naturam /ut ualcamus ab eo abAinere. Nam nifi ex»  piati a uitiis fuerimus i nunquam diuina attingemus t Vt enim idem fiepu  ut icfctam/ negat Dauid quenquamalcendctepoflc in montem domini/nifi    Ia.P.Virg-M.AlIfgo.   cum qui fit innoces ihanibus 8C mudo corde:(^uapp in foribus per qmt etat  in templum aditus homicidiu Androgei: Adulterium Pafipbzs& Icari faftus  i|>onic .Hzc ergo a principio fpeculatur Aeneas.In uitiorutn autem cognitione  'non cft diutius imoradu.Nam Si (latim ea noile oportet: & ftatim a noris dilco  dere.Rede igitur^ fjrbillaquaiamprarmilTus Acatesacceriieratadmonef Acne  asine in tali fpedaculo Idgius tepus cdterat:Nam excellentiores quoep uiri uad  is uoluptatu illecebris alledi labercnt :hi(i.eoru cura BC Ihidio eam elTent adrpd  dodrinamtqua monemur ut paululu illud uitae ac temporis:quod humanz ra  dcoDccfrum eft non nili magnis & excellis rebus conterendii ducamus.Hocau  tem inter egregiu uiru ac ftuliumintere&.Nam alter li femel labatur/non facile  furiet Altet liquonia corpore uac animuspauluquandotpeuia deflexerit/  flattm adeft ab Achate accerlita fjbillatquzad redudeducattledmira profedo  poetz ingeniu:qui fapientiamipGm Tua fapientia nos edocettprima ita<^ dodri  na ea efl ut purgati mundicp templum ingrediamur : Deinde oflenditquiuis  mens nollra quzdam Tua SC a fummo deo fibi indiU ui cognofeere poflit:eogai  tionem tamen diuinarum retum huiufcemodi eflexut nili diuino lumine extu  .tusillulVremur:illamcondperenonpoirimus:Hoccum fit/quis non uidetprz  cibus & ficrificus rem efle a deo petendam: Elegit autem feptem hoftiastquonii  Teptenarium numerum multi pnilofophorum perfediflimum putauenmttpro  ptereatp fapientiz attribuitur:8t uirgo ac pallas appellatur: Sacrificat igitur fepte  qmrapientiioptat: Ne(p temere didum efl quo late ducut aditus cctu:hoftiace  tum:per aditas enim multiplicem uariamt^ dodrinam expim!t:quaad fapien  riam ducamuriHoQiiueroquz quidem uenientibus:refe opponunt non pat  uam in re difficultatem oflenduntiHateautem non ante patebut : quam id prz  dbus ab imo pedore fufls impetrauerimus.Sumo enim animi ardore & mente  illi penitus deuota fapientia acquiritur: Vt aute Gpientiam aflequamuri promit  tit le templu Pbcebo & Dianz fadurum:fed de templo paulo fupra dixi:huc ue  to quare illud de folido mamiote Fadurum fe pollicetur / breuibus expediam:  marmor res dura ell:ac mirus in eo 6i candor & fplrndor apparet: Vnde ab eo  quod gratei fplendere dicunt nomen fumpflt:   C^uz omnia in ea mente/quz ad Ipcculationem erigitur infint nrcefle eft:Brit  cn m folida ut quemadmodum inunis fludibus fua duririz ita obfllHt feopu^  lusutipfe integer maneat/illi ucto illidantur:difruprir<^/rclidant:ltcmens nui  lis perturbation bus frangaturifed illas frangat: dicimus przterea aliquid ez fo  lido marmore clTe.cumnon marmoreis cruftis externe exornatum fit ; fed tota  cx tnaimore conftet.O uapropter 8i buiurcemodi mentem efle oportetiut no  figna quzdam quibumpientiam exoptet przfeTat:rcd tota exardefcensilli fetn  per incumbanErit itidem fummo candore nitens: ut nulla fit corporea labe  polluta.Q_uo enim padofplendore carere poflit ea meos cum fapimtiam na  qua perceptura fit:nifi prius multis dodrinis illuflrec%Teplu uero Pbcebo Dia  nzip ponir:qa^ut mo diceba ^ & diuinayt & buanape reru cognitio cft rapictia Dies aut fcftosfoli Apollini illituit:qauenis cultus foKs diuinis debctur.polfi  ctt & S jbilJz penetndia: in qbus fuz fortes 8C arcana codanf : Na nifi alta totte I^bct giMrtus. rcpofita maneant ea qax per dodnnam acquirimus 'ueluti rianai puelfa; alHduo  labonbimus:ne<p unquam pcrforarum uas adimplere uaI(bimus:Q_uapr(v  pter 6C uiri ledi fortibus przponendi funt t Nam excellentes funt uires animi ad  bbendx : quibusiqux didicerimus optime mandentur : Curadum autem in pri  Inis ne refponla frondibus (dipta tradantur: Sed ore pronuntient ur:Non enim  JibcUisfiCcommcnUrioIi SCT edmdafuntquzaddircimus: fed menti: Ne^ ruro (iuleuium flultilium^ rerum eQ quaerenda dodrina ueluti qui in dialedicorum  fuperfluis apdunculis/ac uanis amphibologiis/autlnanibus fabellis omne pen e  tempusterunt: Vereautem illud didumeftfybillam circa principiuih nondum  pbcebi padentem eflie : Ea enim principium nondum pheebi patientem effe: Ea  enim quz cognitu difficillima funt/fuidpete non ualent noftra ingeniola donec  Apollonis enim eff neritas nos componat : ea enim inffrudis omnia Facilia redo  •duntut : Sed audi quid dicat Ijbilla . O tandem magnis pelagi defunde periclis:  Sed toris grauiora manent : Nihil grauius nihil uerius: Qui enim omiffa ciuili  uitaad eam peruenitiquz in contemplandis rebuspolitaeffiille relido pelago^  io contipentem fefe recepit : Vita enim quz in adionibus uerfatur: fluduati ma  ti fimiliima eff : Videmus enim omnia quz in ea aguntur : fottunz procellis ezo  polita effe : Contemplatio autem cum ad ea uertatup : quz eodem femper fe mo  do habent: ne^ in intoitum cadunt in folido hzret: Magnis itacp pelagi pericuo  lisiadatus eft zneas prius quam longis erroribus circumadus diuerfa horrendao  ^ maris monffra uitare potuerit: Diffeile enim fuit ut troianum incendium ino  columis ruaderet : laborioTum ut audelitate atep auaritia deterritus e tbracia abi  ret : In commodum ut ambiguitate oraculi deceptus in trinacenfem pedem incio  deret . Q_uisautem barpyarum foedam illuuiem non abhomineturrQ_uamuis  iter ad Helenum per medios hofies non formidet . Q_uh cyclopum immanitao  tenonconffematurrMariaautemlicula ita caute obire: utneue Ttyllam neue  •baiybdim conrpidati^^ tempeftati a lunone zolo^ ezeitatz ita refidere:ne nau  &agium faciat non hominis fed herois eff . prztereo quz in fodis in africano Kt«  tore paffus eff : quas ilh fraudes luno parauerit : quo amoris uinculo Dido illiga  •erit : prztereo quz in Sidlia ex incendio nauium damna acczperit: uz om«   nia gtauia ac tunc periculis plena cum perpeffus fuerit: quo nammodoin Italia  duriora paffurus eff : Non tamen procul a uero aberat fybilla : Cum enim a com  muniuitaac hominum coetu te in folitudinem ucndicaueris : tunc acriores quaf  dam uduti faces carum rcrum/quas rcliquiffi memoria admouet : & illarum de  Gdepo acenimi infurgunt morius : At^ cum obliuioni iam eam mandaffe puta  tnus : tum maxime illuum ingeminant curz : rurfufip refurgens fzuit amor':ut  nili firmiffimaancbotaiuuesfundauerit/uideatur in Afncamrenaaigaturuve  Non enim 6C li firmum fit propofitum minime inde difccderc: tamen ceffat ccr«  tamen cum aliud illecebrzolimadzuitz aliud przfens confiliumfuadeat. Ve»  tutin Italiam Aeneas:uenim eo uimitumgcnerequipurgatoriz appellantur a  quibus antea quam penitus expiau fit mens necefle eff ut acerrimum beliu quc«  adsetidum nofftt aiunt fpiritus aduerfus carnem gerat : Nam quanto magis hzc  l^ta humanam imbedllitatem funt: tantnniainri pcriculoaggtcdimUC.Hu<i   tn la. P.Virg. M^Ahcg Of   inaHani enim rodctitemcum deferimus/aut in ferinam lutam per tninian U  atram bilem degeneramuc/aut heroico robore fupra hominem erigiimjt. Qua propter intenogatus quidam qui in littore folusuagabaturquicum loquerctot  rcrpondi(Tet<p mecuni loquor* Atqui uide inquit ille ut cum bono homine 1»  quaris/& rede quidem t Non enhn facile SCIPIONE inueniaaqui nunquam mi  nus folua elTet quam cum folui • propter huiufccraodi igitur difficultates ah Sj>  bilJa fore/ut cum in Italiam uenerint dardanida;/ii enim uiri tegregii funt / nolA  uenilTc. Inuenientenimaliumin latio Achillem.inuenientK lunonemaquV  bus non mediocriter uezandi Hnt i Ambitio enim quz ut in lunone ita ia bello  cofo uiro etprimitur quemadmodum troia; & uoluptati aduerfabatui i fic & fpc  culationi quam fibi przfcrri egre patitur aduerfabitur : Eft autem ex dea natui  achillcs / quia diuiiu qux damgenerolitas in animis noftnsiolita eft t qiuenctni  ni parere i omnibus autem imperare uclit > Hzc ft reda ratione excolatur/ueram  fortitudinem parit i lin autem contra rationem elata omnia in fuam libidinem  coouertere tenet/ambitionein creat t & regnandi cupiditatem t Q^uaproptet tt  ft uehementer degenerer a dea tamen id eft adiuina animi ui origiuem du.itsNd  autem eatolum t quz ucnturanntptzdicitSfbilla : uerum ftcaufain tantorum  malorum profert: Ait cnimuttroiamcuertuntnuptiz mulieris eatdnz: lic ft  in Italia lauinz coniugium bellum acerrimum concitabit t coniungitur cztemz  mulieri animus nofter cum omilla uirtute rebus caducis deledatur . Q^uapio*  pter uoluptas paridis troiam euertit . In Italia uero cum nondum cupidiutem tc  rum humanarum deponere ualeat animus bella excitantur afpcta illa quidem /  fed non in quibus ueluti apud troiam ruocumbatt fed unde uidor triumphafiy  parto regno redeat . Accommodate ut mihi uidentur omnia hzc inquitAt illud quare didum fit : fed npn ueniiTc ualcnt non intelligo.NI  (i eum qui iam ad fpeculationem peruencrit firmo iam propolito ce oportet cur  illum peenitentia fequatur non uideo t Non enim infiaot uirum etiam grauem  in huiufermodi ftabili propoliro acri fzpe morfu affici : non tamen ita magnoaf  fici puto ut ad pmnitentiam redigatur i nifi fortalTe hoc didum fu : ut multa per  quandam hipctbolcm t (icenim grzci rupcriationcin appellant / dici confueuere  ut ex iis unbis quibus peenitentia (ignificatur non peenitentiam fed fumma diC>  ficultatemoftcndcreti Ifthuc ipfum inquit BAPTi&TA : uerum uidramus qd  rerpondeat zneas : nempe id quod qui uera dodrina imbuti fuot femper obfer^  uant : Ait enim fe ita ptzmeditaium uenifle : ut antea fecum animo omnia euoi  uerit . uz enim ante a nobis ptouifa funt ea id fpatium przbenr/ut antea qui   ucniant uel cuitari poflint uel faltem ne tantum Izdant prouideri : Cum animus  ipfefuasuires colligens tobuftioraduerfus difficuitates reddatur: Nam queme  admodum ii boftes incautos ac nihil tale metuentes inuadamus quamuis 81 Itv  co & numero auperiores flnt facile illos fuperamus. Contra uero uel exiguz eo*  piz ii fpatium ad ea paranda affit: quz prziio conducant lulidii Timo ezcrcitiB  pares fzpe inueniunturific & nos finobifcum cogitauerimus/ quamuis multa  per corporis cogitationem accidere pofTint/ animos tamen czleM femine oetoa  atfi focotdi» ignauixy Ide dederint: aullis laboribus t nullis difticultatibiill ul iJi M Stl eu P ffli «I IV.N a id ni ifi m M k d Pf Liber quartus nuDa foitunz iniutia modo uelintimpediri pofle quo minus in originem fuam  redeant inui<3i ab omni perturbationum prxiio euademus . Ha»; fecum cu iam  diumcditatus effetarneasnonpetitnuncdemumiila doceri. Verum in limine  contemplandarum rerum poAtus ad inferos deduci orat. Quo in loco quid G*  bi ueiit amez ad infaos dcfcenfus conabor paucis abfoluere i Si pnus quid infer  bus fit : Si quot modis ad eum deficendatur breuiter demonfhaueto : Infemiim  igitur plurimis ante chriQianum nomen fzculis no folumhebrziuerum etiam  cgyptii pofuerunt . Q_uz autem poft chtiftum natu noftra religio fine ulla dubitatione de inferis de^ peenis t quas apud inferos nocentutn animz luunt / af>  firmat ea omnia ab hebrzis ni fallor accaqrimus.Q^uz uero zgyptiorum monu  mentis mandata funt ea primus ad grzcos tranftulit Orpheus . Hzc deinde fu«  is figmentis auxerut plaui^ ez grzcorum poetis / quorum principes Homerum  H^odumtEurypidem t Arifiophanemm e(Tc uidemus . Q_uos deinde fecuti e  nofirisfuntptzter Maronem / Ouidius mlmonenfis/ biex bifpania Statius Pa»  piniusacLucanus : &quem plzri^ florenrinum fuilfe putant Claudianus: At ii omnes inferomm ledes fubterraneas elTe & ad cctrum ufip : qui locus in fpe  ta infimus efi portendi aedidetunt: Q_uapropter fpeluncas quafdam ac terrx  hiatus przfemm fi ignem fumum ue euomant ingrmum ad inferos n5 line mu  liercularum ac rotius uulgi fummo afTenfu fabulati funt . Nam & in laconica re<  gionc Tenanis mons eft circa finem malei promontorii / e cuius profundiifimo  antro quoniam fpiritu id agente fhepitus auditur: facile fuit uulgo petfuadere  inde ad inferos defcendi.Acberufia autem palus in epiro no procul ab beraclea  abargiuo ut fauntHerculedidafpccum habet per quam cerberum tricipitem  Plutonis canem ab Hercule edudum crediderit antiquitas : Nam de auemo lz>  cu nihil efi quod referam: uulgataenimresefi&a pizrifi^ decantata. Ac de poe  tishadmus . Plato uero eadem difciplina : qua & Orpheus imbutus ita fingula  ptofequicur/ut nihil aliud inferorum locum animis noflris efle ueiit quam cor»  pus ipfiim quo ueluti carcere includuntur . Ipfe em'm animos a fummo deo ae*  atos ponit : Q^ui quidem fuapte natura dudi In deum parentem fuum conuer  tuntur. Nec mirum . Nihil enim eft quod in originem luam cum pollit non re  uetutur. Videmus enim(^ut loco exepli hoc ponam}ignem huc^ut ita loquar^  tenenum/quia fuperiotis ui ac femine genitus efl fuz naturz impulfu ad fuperi  ora erigi . Conuerfi autem in deum animi eius radiis ita illuflrantur ut ubi hade  nus eorum efientia per fe ueluti informis fuerat : nunc ilb fulgore conformet' :  fit 9 miro quodam modo ut intra animi eifentiam receptus fulgor no ueluti ez^  terna quzclam Si aduentitia res in ea refideat : fed ad illius capacitatem tradus ob  foinor quidem reddatur : 8C a fe ipfe degeneret : mend autem proprius ac nattis  talis efiiciatur.Q^uaptopter hoc duce in fui ipfius at^ omnium quz infra fe ezi  ftunt: ea enim corpora funt: cognitionem animus uenit: Deum uero Si aav>  ra quz fupra fe apparent: hoc lumine non cernit. Qui enim fi iamconnamra«  le fibi fadum efl ea quz fupra naturam fuam funt/illo continget : I d tamen men  ti noftrz przfiat : Nam per primam hanc ueluti fcintillam deo propinquior fz>  da aliud accipit lumen & clarius quidem/quo iam czlefiiumquo^ Si fuperna* m ii ~  f  l Ia. P. Virg.M. Allego.   nim remm cognitionem accipiat . Sed hxc te LAVRENTI latere mmitne puto:  Sunt enim non folum dode ac diftinde/fcd omnino dilucide a Marfilio noftro  in iis dialogis explicata : quos ille in Platonis rympolium confaiptos fub tuo no  mine zdidit : Q^uos quidem cum quia ad te funt t tum maxime quoniam pluri  mis acfeledilTimis rebus abundant familiariflimosribi elTe cupio t Sunt illi quidem inquit Verum przcipue locus ifte menti noftrzhzretsin  quo geminum in nobis lumen elucere demofttat : naturale unum & ingenitum  ut dicebas : diuinum alterum & infufum/quibus limul iundis animi noftri uelu  ti geminis fulFulti alis/totum hunc ruperiorem mundum pcruoLue poiTunt: Ad dit^li diuino illo femper utantur fore t ut frmpet diuinis bxreant. Infimus autem hic tctrz locus animante in quo ratio fit canturus uideatur.Q_uod nefiat  efrediuinainflitutumprouidentiatutanimusfui omnino potens flt:ualeat<p  pro fiio arbitrio uel utro<p fimul lumine cum libuerit uti : uel altero (bIo:propte  rea<^ fieri ut natura duce ad natiuum lumen conuerfus fe s uirefi^ fuas : quz ad  fabricandum corpus fpedant/diuino lumine ad przfensomiflblolum confide.'  tet : illafcp in corpore conflruendo exercere cupiat . Rede ac memoriter tenes inquit Baptifla s confifHt igitur in czio ut Platoni quem poeta fequitur/placere ui.<  demus animus noder ipfius diuinz naturz contemplatione pcifiuens : Verum il  la quam dicebas cupiditate infedus & ipQi cogitationis mole degrauatus in infe»  ra defeendere indpit .Verum quoniam cum de inferni finibus ex fententia Plato  nisquzritur non fimpicx apud eius philofophi fedatores opinio cdtnoscam  boc tempote fequemur :quam & animorum rationi magis congruam putamust  & dodiotibus magis placere cernimus . Hi igitur bipartitum mundum ponunt.  Nam fupremum czium quod Aplanes uocitatur dellis^ut cd apud poeta^ardetibus aptum fuperorum regionem ede uolu erunt :eofq) campos elyfios ac beato  Tum infulas nominarunt : Saturni uero fpera ac fex reliquz quz fub illa funtrrut  fufep quicquid fpatii inter lunam terramc^interiacetripfami^ tenam inferis at^  tribuerunt : Altiffima igitur pars illa qua uel fubdentatur diuina uel condant/ne  dar uocatur i di deorum potus ede ctedimr . Inferiorem uero Icthzum/ac horni  num pomm dicunt r in hunc enim cum a fupetiori czIo per cancrum ea enim ho  minum porta diciturrprolapfa fuerit anima in ipfius hyles quz elcmctorum ma^  terta ed tumultum incidit: quo in loco noui potus ebrietate degrauata& ueluri  temulenta effedadiuinorum obliuifcitur : terrenatum^ rerum cupiditate ilie«  da ita per fubiedas fperas dclabitur : ut ex lingulis czlotum ordinibus aliquem  cotum motuumtquibusufuradeincepsfitin corporibus acquirat:Nam ab ea  quam faturniamdellam nominant ratioanandi& intelligendia loue agendi a  marte audendi uim abducit : fol uero ut fciat ut etiam opinetur illi cocedittMox  a Venere excepta defiderii motum mutuatur : Inde per mercurii ac lunz czlos de  fcendens ab illo pronunciandi interpretandii^ ab hac plantandi & augendi uires  acquirit : Ac podremo ad terram ueluti ad centrumtquo gtauia omnia feruntur  delata:6C corpus quafi carcerem uel potius fepulchmm ingreda iurc apud inferos  relegata didtur: Moritur enim in corpore anima uelut in fepulchto demerfar  non ita tamen t ut fauiufccmodi morte extinguatur : licd ut ad tempus obtusturt Liber quartus quabdo quidem illius diuinitarem noxia corpora tardatititertenishcbetaat  artus moribunda^ metnbra.-habes^fed breuiter^quid Platonidinf^um pu  tcnt:& quem animatum ad ipfum defcenfum ponant» Nam^ de tartaris fabii^  lanturpoetzea omnia animam in corpore pati manifeftum eft . In materiam  enim protrada nouam fyluz ebrietatem haurit cum illam ueluti flumine dema  gaturtFIumen autem ipfum non line exadarationeinquatuor flumina ac flj  giam paludem deducunt. Lethzu achaonta ftygem cocytum ac phegechotu>  tenitMateriz enim admixta anima eunda quz in czlis uidaat obliuifcitur. Quaproptaiure lethzum nomen ab eo quod elt.  ficenimobbuifei grzd dicunt potare finxerunt. Ex hoc autem Achaon ma«  nat: quzrcs gaudii priuationem denotat: quafi Nam   quod in dd contemplatione purus exiflens animus gaudium aedpiebattidom  ne ex obliuione amitdttquo quidem amiflbt flyx quamfadletriflitiam intere  pretaberis exonaturneccite efttftygisdemumpoflrema zfluaria coitum e£fi.<  dunb Quis enim ex triftitia in ludum non cadat: te autem non fugit id grz  cos dicere: quod latini lugae interpretantur. Ex diu tumo autem ludu in furoris infaniz^ ardorem inddere roIemustquemphe. gethontem nominant. Ex hyle igitur unico flumine mala hzcomnja eueniV  unt: Quapropternon fine fummadodrina ex letham reliqua fluenta deriua  ci finxeruntrfed hzc in Phzdone a Soaate latius explicantur : N obis autem de  multis puea ad bunclocumtranffnenda fuerunt :at(^ ea fola quibus defeen  fus ad inferos ex Platonis fententia perfpicuus redderetur: Noflri autem qui  ita a deo animas aeari redifljme fentiunt: ut eodem momento & creentur fi;  fuis corporibus infundanturrnon eas in hoc inferiori mundo uerfari uoluerut:  ut commifla purgarent: Quid enim fi ante corpus non fuerant : extra corpus  peccare potuaunnfedutfuisrcdis adionibus: quas omnino liberas habent cz«  Io aliquando frui mererentur . Conceflit enim nobis deus : ut noflro arbitrio Ii'  bere utaemur:non ut per nequitiam delinqueremus: fed ut per religionem  fi; iuflitiam nobis fummum bonum acquireremus: Verum cum perfummam  fiultiriam illud negligcntes corporeis tetrife^ uoluptatibus dciiniti maximis ua  nilc fceleribus coinquinemur oportuit efle locum ubi a corpore digreflx buiuf  cemodi animz fuorumfadnorumdebitiflimasposnaspcrderet.Himcautc lo  cum arca terrz centru maxime eflie uoluerut:Na cu fi; propheta eripuit deus ani  ma mea de iofernoinferiori dixerit fi; ipfc humani generis faluatorfe triduo in  corde terrxfuturuadmouerit facile couincitur centru eflctNihilenim eflcctro  infcrius:quin fi; ita in medio terrz confiflittut in medio animante cor efle uide  musiQ_ua in parte fi; tenebras exteriores/quonia a luce remotiflimz fint:fi; de  tiu flridorc quonia nulla folis uis illuc defeendat efle nemo negauerit.Erit igitur  in terrz cerro infernus:fed ita erit ut etia ex iis quz fapietiflime a Gregorio colli  gunc ad aere uflp huc ex terrz fi; aquz caligine cralTioreptcdat^.Acrp deiferno  hadenus ad illu aut aias defcedere oe fere hominu genus dixit. Sed tn aliud alii  fentiut.Na przdpitatio illaaioru afuptcmoczloin hzc corpora ad inferos de  fccofuscdea Platone acdicuitCbriflianiuaofczleflo^ animasc fuiscoipotL In.P.Vtrg.M. Allego. busad inferos trahi admonent. Dicimus itidem uiuentes homines cuminid  tialabuntur/ad inferos rueret Sunt quoc^ qui credant magicis artibus 6: cat minibus fieri uelutidefcenfus quidam/ut inde euocarianimx poflint. Verum  praeter bos quatuordefccfusqnrus quicftnonuideir omittendus: Na £( ad in«  feros tendimus/cum lumen rationis noftrx ac induihiam in mali ac omnium  oitiorum naturam fpeculandamdeiidmus. Ego igitur libenter de te feifeitoro  Laurenti cum haec omnia perceperis quid putes hoc Aenezdetcenfu Virgilu  um exprimere uoIuifleTlamdudum quid agas uideo o Baprifta inquit Laurcntius/ac pro eo maximas tibi gratias habeo: Quis enim non uideatuni.  Uetfamhanc difpuutionem nonfolum meisptzabusdatam/uerum etiam a  me fratremij meum erudiendum elaboratam : 'Nam fiCli caeteri t qui afTunt  omnes mirifice tua otatione deledcnturt tamen eft eorum ztas ac dodrina  huiufcemodi t ut etiam fine duceipfi per fe hzc omnia cognofeere ualeant.  Hos igitur duos erudiendos cum fuiceperis : propterea^ rede netan fecus  quz hadenus difputafii teneamus / nofie cupias fine ulla cundationequaxd. rogaueris / cerpondebo: fic enim & errata facile emendare poteris : 8i fiqd  rede teneo id tuoiudicio confirmatum firmius hzrebit. Petit igitur afybilla  quam tu iam dodrinam interprztatus es/ut ad inferos K ad parentem dedo.>  cat: Q_uod cum petit oftendit mentem przmonfitante ipfa dodtina in fem  fualitatem defcendece . Vult enim nitia quz ab ea funt penitus cognofeere: fed  uide quantum tibi ex hac difputatione debeam : nam non folum effeciftt ut  hzc a Marone diuinitusdida tenerem: fed fimilitudine rerum admonitus ia  quidfibi nofierquoi^ Oanthesuoluerit facile coniedor. fed de hoc alias: Tu  ueto fi placet ad reliqua perge: Rede tu quidem inquit Baptifiainterprztaris; Me autem tuum ifiud ingenium ac iudicium fummopere deledant: Verum  audiquidilli auaterefpondeatut.ln primis enim defcenfum ad infetosnul'.  lius negocii eiTc demon(lrat:cum nodes diefc^ datis ianua pateat : Q^uod pro  fedo nimis etiam q utilem uerum efi: Naracum procliues ut fenexquo<^Te  rentianus conquzritur a labore ad libidinem fimus / facile in uitium labimur.  RcdilTime^ illud ab Hefiodo Redifiime quo^ 6i   illud uel claufis oculis illuc defeendi: Nam fiue delinquendo in uitia labimur   ? [uoniam id per llultitiam fit: llultitia autem rariflimi carent; quid obfccrote  acilius inuenies : fiue:fed t^iquos defcenfus nunc mifibs facio : quorum pro  cliuitas pcrfpicue apparet : Id autem de quo nunc agitur : quis non uidet .  Mentem ipfam ac rationem facile in cognitionem fcnfuum dcfcendcre.Ma  ximum autem fit periculum ne dum cicca lingulas corporis uoluptates uer.>  famur / ita illarum illecebris demulceamur / ut irretiti hzreamus : Facile igi.>  tur fenfus defeendit mens / non autem facile a fenfibus rcuocatur.Id enim  eftab inferis redite: pauci enim quos zquus amauit lupiter: aut ardens  euexitad ztheca uirtus diis geniti pomere : Tria ut uides hominum gene<a  ra ponit quibus liceat ad fuperos reuerti: Sed nos prius de duobus pofirei>  mis dicemus : cenfet Plato quod paulo fupta explicatiur demonfirauimus  animos nofitos rerum terrenarum cupiditate degrauatos incorpora dcfixt>  Liber giiaituf   Jcre : (Quapropter qui prius imbroda nedare<p ueTccbantunid enim eft deo  'fiuebantur t atqi inde mirum gaudium Tumebat t nunc letheum rpoti in re»  lum omnium obliuione mnli Tunt.CQuod (i intra corpus conftitutus ani^  musillius cogitatione ac fordibus inquineturttamdeoiis tenebris obducitur/  utnulla deinceps fpes (it ad Tuperiorem lucem redeundi: Sin autem TcipTuni  infccoIKgms integre cafte^ degat: 6ecorporis quoad potedeonfotrium de*  clinet ipauladmcz illa obliuione qua ueluti crapubuino(p opprtlTus obdor»  tniTccbat Teexatansualet libi geminas illas quas iam totiens nomino alascom  patate. Illis autem fuffultus facile ex inferis reiilit: &ad Tuperos rediens iii re  gionemfuam reuolattper duas igitur alas totidem uittutum genera intclligi  mus /& eas quz uitx adiones emendant: quas uno nomine iuftitiam nun»  cupatt&eas quibus in ueri cognitionem ducimur: quas iure optimo religio»  nem nominat. Illud igitur pauci quos ardens cuexit ad aethera uinus:alam  primam exprimit : & uittutes qux de uita & motibus Tunt intelligit: cumde  indeaddit diis geniti potuere SIGNIFICAT alam secundam :at<pipfam rrligionem  quamexuirtutious iisquxad uerum ducunt conftare uul: Placo : Hxc itaip  auntopbilofopho mutuatur Maro cuius quidem dodrinx non nihil ex ma»  thematicorum fcntentia ita addidit : ut nei^ ius Tuum ac libertatem animis adi  merctmeip cxleftia corpora fuaui priuaret:Nam li animis nolitis uimnecef»  Utatcmqi f/dera afferre dicamus/non modo id in religione noflra impium eiitr  fed 6t a Tummorum FILOSOFI dodrina abhorrens : Verum ut intelli»  gas ntip hoc a Platonico dogmate alienum elfe / refert ille in Thimxo ratio»  naiis animi effedionem nulli nili deotribuendamiquoniam ipfe eiTentiam ac  ^ rationem animorum noftrorumcreat.Corpus autem ac exteras animi par»  tcstuteaeffqux concupifeit flC qux irafdCur nos ab animo mundi mutuarie  Q_uapco{aer St li mens ipTa nolha nullo fyderum imperio fubieda Iit : tamen  quia nullam adionrm ex iis unde uirtutes uitiam manant nili per fenTus ac ap»  petitum exercet: Illis autem quoniam a corpore funt uacias aut ad uirtutes affe»  dionesiauc in uitfa prcKliuitates inferunt fydera /permulti interelTe uidet ur quo  fydere nati fimus:Nr<^ folum ad bxcqux ad uicam & mores pertinere diximusr  ucrum d ad ea qux fpeculationem K ueri cognition cm refpiciunn Nam li on»  nes omnium animi eadem natura funtiunde nili a corpore eritrquod alii inge»  nioiudicio ac memoria excellentilTimir xillanttln aliis hxcnulla appareanc: cu  autem omnis nofira cognitio ab iis qux efficiuntur ad cfficientiatn:& ab iis qux  loco 8C tempore nrcufcribu Dtur ad infinira initium fumatrmulta obiicinir dif»  licultas animis noftristut intelligentiamut feientiam ut fapientiam alTequanturt  cumuircsillx:qux paulo ante dicebama membrotum : quibus ueluti inftru»  mentis utuntur deprauatione bebercant : nei^ fe explicare poflint: cura igi»  lurapud Platonem ruumlegilfet Maro nili geminas illas alas recuperemus ad  Superos redite non poffe : Cum itidem illarum recuperationem a fyderibus  caquam oilendi ratione impediri aniroaduerterctiut a loue xquoamarrmur  opus ciTe ofiendit . Hoc autem nihil aliud eft / nili ut benignitate fydaun»ffcdionca ad icdaa adiooa acdpctcmt^Natacum plancutum uuia uiafit ,1  In.P. Virg- M. Allego.   Videmus iouis natura hulufcemodt elTc: ut quos ille in fuo ortu benigfle a(^e  dt illi ad iuftitiam ac religionem proni reddinturrita ut ad eas quas diximus alas  recuperandas impelbtr colligamusigiturnetnincmabinferis rcmeate/nili al^s  recuperet : id autem non clTe fadlc nili iis qui benignitateiiderum adfupera eti  guntur . Sed quid tu.L.Marfilium intuens clanculum rubmurmuraftit Nempe  id Tolum refpondit.L.quod paucis ante diebus cum T imxum Platonis in maoi  bus babetet:mibi de anima mundi dixerat Marlilius > Cautius inquit.B. mihi  progrediendum elTe uideorcum res nobis non modo cum dodo : V erum etiam  cum mcmoriolo litifed quod de mundi anima dicis/id 6L uerum huic lo>   co apprime quadrat : cenfet enim PLATONE rationis fementem a deo fadamianitnof  ^ nodros ab ipfo aeatos/ac deinde mundi animz ueltiendos corpore traditos:  ut £2 corpore uedircntur:& eius pedilTequis uiribus informarentur: Aequum  enim fuit:ut quoniam concupiTcibilis irafcibilifi^ appetitus (alutis corporis gra  na func:ii ab eodem nobis darenturtqui nos corporibus inclulilfct: Vetumquia  faz partes lubricz funtipat fuit: ut qui nobis illasin deterius facile labeutcs dedif  fet idem ipfe aliqua ex parte aberrotibustueretur: labenter<jfubdetatct.Q_u3'  propter iuflit illi fummus pater/ut quando ipfetccirco animis nodris caufaffl  obiiuionisptzditiir<t:quoniam luteo corpore circundederit hominibus fulgo,  rcmueriutis infunderet. Huiufcemodi ita^ przccpbs obtemperans mundi  animus eos omnes quibus zquus ell/aut fomniis oraculis & portentis autio.  terao quodam motu Si ad futuri prouirionrm:6t ad diuinz legis cognido.  nem perducit : ut eo duce alas recupctcmus.Huncautemmundianimumue  tetes theologia qui illos fccuti funt Platoiuci fzpe louem appellant. Hinc  pbcus lupitet inquit pnmogenitus eft: Iupiter nouiflimus; lupiter capui:Iupb  ter mediu.Vniuctfa autem e loue nata funtihinchinc illud lupitet eft quodeo. uides quodeun^ moueris i Q_uin Si ipfe Maro A ioue principium mufz io.  uis omnia plena. Sunt enim omnia plena animo munducum ijle ita totus in to  to mundo fl£ in qualibet parte totus : ubi uigeantutnoftrianimiin fuison.  pufculis : Hic deniip czlumueluti citharam continens harmoniam cfificit ex di  uerforum czlorum fanis: quas cum mufas appcllentiute louisiiliz dicuntur  eiremufz:Q_uantam igitur dodrinamMato tribus uerfibusincluferit/ facili,  tis mente concipio : quamuerbis exprimam. Rede igitur pauci quos zquus  amauitlupiter: aut ardens euexit adzthera uictus. RedefiC illud tenent  nia liluz: Ab hyle enim(^ ut fupra dcmolhauimus ) eS omnis nodra duldtia & omnibus ahimisconugio: quibus impediantur ne ad fuperos redeant. Ve  tum de remeandi difficultatibus badenus: Deinceps nero eas exponit rationa  quibus ita tuto defeendamus ut pateat reditus: Aures autem lamusfapientiam  nobis indicat dne quanonedfpcculado eligendarum agendarum^ rerum iu  dex . Ne mireris aurum fapientiz fymbolum apud hunc poetam obtinere  cum plzii^ idem faiptotes fecerint: Vndeillud bpiens aurum & multitudo  gfmmarum Si uas pretiofum labia fdentiz: Aunim enim eft fapientiz uigor at(j fulgor. Ndium cx metallis auro pretiofius eft. Nibl in rebus entia pluris facieadum. Fulget maxime aunim. Nihil (apimciacll endi^ i (i 01 ik IXI BS XD u m uv mt Bd: od Nx m HC pn ioqi iHgg imcttdi di dux BOC (jB) da. Bidi   BUi  liuBi   Btit   imt  « D!  feuii   Uni  OlC Wl  D« Lib«r guartui £iu. Nulla eni^oe exeditur aurum: Nulla rea imminuit fapietitiam t Nullis  lordibu saurum coinquinatur t Nullis maculis Tapicntia deturpatur t Sed latet  arbore opaca: mulus cnim ac uariisinfeitiz tenebris ita obruitur uerumft luco  ca cnimcorpons^uc ita ioquar^bebetudo eft ita tegitur t ut difficile omnino (it  illud erueretScite enim Si a Ocmocrito ufurpabatur natur^n in profundo ueri^  tatem demer(i(fe : Non tamen prius in hanc contemplationem defeendere uaW  mus : quam aureum ramum deccrpfciimus . Proferpina enim ad fe ire quempi^  am (ine huiuCcemodi munere uetat . Efi enim profeipina ipfa animi pars quz ni  bil przter lenfus contina : ad quam (i (ine fapientia accederemus nullum przte»  rearemediumdarcturiquomuiusdenobisadum ei Tet.llla enim irretiti nulla  unquam effet fpes redeundi . Rede Si illud piimo^ auulfo non deficit alter au«  reus I fe ip(a enim alitur (apientu : at<p cuenit inueffigando/ut aliud uerum ali<  ud aperiat: nec quicquam percipiatur: quod ubi perceptum (it ad aliud percipi*  endum non diKat : Illud autem quis non uideat de uero uenifime didum elTe .  Nam alte inuefliganduse(l.diuina enim &czleffia(^(i ueru inuenire uolumus^  non infima hzc at^ aduca infpicienda funt : omnis enim dodrina a frientia ex  iis efi: quz nullis terminis circunictipta funt&in interitum non cadunt:lubet  ptzterea iam repertum rite a nobis carpi : & iure quidem ita iubet . Nam nili cer*  so quodam otdine pergamus/nibil unquam proficiemus; Addit enim poffremu  illum facile te fecututum i (i a fatis uoceris : fin autem non uoceris : nec uiribus  tunc nec duro ferro polfeconuelli.Virtutibus enim quz mores corrigunt Si quz  tedum zquumij relpiciunt ualct omnes ira animum a fordibus purgareiut mu  di e corporis migrent : Ad fupremam autem illam rerum cognitione uenire pau  ds ommno datur : at^ iis (blis qui a facis uocantur . (Quapropter rede (i te fata  uocant : Q^uod tamen ut planius exprimam /uolunt Platonici deum poft fe ip*  fum cognolcere . Deinde omnes reliquas res : Tertio autem loco ea eunda effice  lequz cognouit : Poftrema ergo hzea fecunda : Secunda rurfus a prima depen*  det . Namomnes res ptodudt quia illas nouit : Nouit autem nulla alia ratione :  nili quia fe iplum in quo omnia funt contemplatur . Huiufcemodi itaip ordine  rria illa in deo ponunt iu ut pdmam fapientiam : Secundam prouidentia : Ter*  tium fatum nominent . Chnffiam autem cum haec eadem (nt fallor^fentiant:Fa  ti tamen nomen uiz ponere audent : non quia Platoni irafcanturifed cum uidif  fent clfe quafdam in pbilofophia familias : quz eam fato necelTitatem imponat:  ut nullam io adionibus nobis decernendi libertatem relinquant fati nome odif  fe uidentur. At nos eum quem paulo ante dixi philofophum fecuti dicamus de*  um retum caufas id cft fe ipfum confiderare : Ddnde ortum ordinem : ac deni  ^ gubematiunem rerum quas compleditur intueri t (Q uz ddneeps ita omnia  excquitut ut nullo mexio ualeat impediri i (Quam quidem rem fatum dicunt:  Q_uod fi ita eff uon abeiiant qui dicunt rationem ac ordinem rerum : quam ita  mente dd prouidentiam dicunt in rebus mobilibus ac loco Si tempore dteuioi*  pds fatum did.Te itaip fi f^ta concelTcriiu camus aureus uolens fadiifcp feque^ c  Datur igitur pauos Si id diuino quodam extra fortem munere ab ipfa dei proui  dendatcuiusconfilium ferutati nefas bomini efirReduscoim dotdnus & reda    Jn.P. Virg. M.AIIfgO*   confiliacius t fed qux mortali ingenio cotnprzhendi non poirint.Q_uis rniffl  adeo temerarius: ut noiTe contendat cur loanni: cur Pauioapoftolu caapcruc«  rit dominus : quz multis fandifrimisuirts& multa dodrina illuftratis detegere  coluerit : Q_uod exemplum late patet & ad omnes qui in aliquo dodrinz gene  te laborauerint ttanffetri poteft t ut cum multa eodem (ludio dagrauerint t eatu  dem^ operam ac laborem impenderint alii fummum in eaatte attigerint: aliis  autem uix in poftiemis confidere licuerit . Habes quid aureus ramus meo iudb  cio fibi uelit : Q^uod autrm ad miferi funus pertinet (ic accipe . Mileri odiufa Ia  us rede interpietatur . Q^u ipropter erit eadem inanis quzdam gloria-Snt enim  fummo odio digm qui uiitutrm negligunt : unde folida exprrflai]^ manat glo>  tia . Honores ueto ac reliqua uirtutisiDfigniaredantur:Q_u 'm qui in uita ct»  Ulli res egregias adoriuntur in primis captare cunfueueiunt. Hi cn<m non redi  honedii^ amote : fed gloriz cupiditate laborant: quam dum aSequi cupitmuS  rem publicam fzpc perdunt x&infummumouium odium incidunt: Egregie  igitur luuenalis. Tanto maior famz (itis ed quam uirtutts. Huiurccmodiigb'  tur uiri animi excellentiam (iue a natura fibi in litam/(iue indudna/atcp exetaca  Cone comparatam penitus corrumpunt. Non enim uirtutera ammt.^cd uita  tutis infignia i qua; fzpius malis quam bonis exhibentur . inanis igitur atip ad»  umbrata gloria in rerum publicarum adminidrationc exceliintioribus ferop ada  hatret . Q_ uaproptet Hedoris quotj comitem mifernum fuille tingit . bi enim  caritate patriz magis quam cupidine gloriz moucretur huiufctmodi uiri beatifa  (Ima; omnino ciTent ciuitates : quibus illi przcfTcntiQ^ut igitur ad uitiorum fpe  culationrm ea gratia tendit: ut fe ab illis explicet : cum in primts hu.ufcimodi  gloriam abiiccre necciTe ed :Q_uaproptcr rede eo tempore roifcrnus extinguitut  quo zneas a fybilla prxeepta accipit . I nitium enim ueri inuedigandi a onlctni m  tcritu optime funiitiir : Ncc tamen fatis fuerat illum extingui :nift etiam fepelu  tur : ut nufq jam urdigium illius appareat : nec unquam reuiuifcat : Q_^uud au  tem illum tubicine fuiiVc dicit : optime quadrat . Ed cnira huiufccmudi hutni«  num : ut rrs a fe gedas quam latilVimc diuulgmt : Si fuo przconio ommbus ofle  dant : Ed prztcrea zoii uentorum regis filius:Nam nibil uentoltus ed illi qui ne  gleda uirtute tc folida & cxprelfa adumbratam quandam & penitus inanem glo  riam aucupentur: unde & tumidi & inflati Si uentoli dicuntur . Rede Si nlud  quo non przdanrior alter aere ciere uiros martemtp accendere cantu.Q_^uid eni  aut Ninum aut Cyrum aut Xerfem ut hos folos de innumeris aflaticis regibus te  feram : quid qua;fo aliud impulit : ut non contenti patriis Enibus multis popu/  lis ac nationibus beilum inferrent ; Q_ uid apud grzcos fpartanos aut athenieo'  fescxcitauit ut magnam Aftx partem ruoimpetioadiungerent: QuidHvnni'  bali ruafit ut bifpaousgalliift^ fubadisromam orbis caput peteret: i^uidapud  njod(os.L. Syllam prius ac. C.Marium: Deinde luIiuro Czfartm.CD.^PompC''  ium ac podrcmo Odauium K.M. Antonium eo furore accendit ut ciuiltfaogui occunt^ replerentur nili infanz quzdam famz cupiditas. Cum gloriam miis  rebus quzrerent: quz dolidil Timum uulgus dupefeere quidem cogant i fapicn  Us autem ad iuihfumam indignaiioncm fummum^ odium concuent t at Q C*1 Gi  d DCt  BIB  I»  '1 ip» a» K*» , tUH cnu   cpi)iii   100 ad   siil  itd  id* ^1 afi \0 «? |lP< <« Liber guartui   mo tnodo ipfe malus non Ct huiufnmodi uiros bonos dixerit. Sed quid (i o{v dtni que^ m hominum Ibcictatc uiti : ac pro re publica emoti ptomptiilimi prz  ter id quod patriz caritate in manifedifTimam mortem ruebant igloriz quoq; cu  piditate extremum cafum zquiore animo ferebant : uis enim ftbi perfuadeat   aut Thcmifiocicm athenicnrcm in nauali prziio apud Salamina gcflu t aut Epa«  minundamin ea uidoria qua de Lacedzmoniis potitus efiraut Spartanum Leo  eidam in tbctmopylisuirilitcr pugnantem nihil de gloria cogitaffe. Ego enim  oet^ Brutum lingulari certamine aduerfus regis exulis filium concurrentem : ne  a Sczuolam tanti animi confiantia dexteram exurentem: ne<^ Decios illos in co  jf^ifimos hoftes iiruentes : ne^ innumerabiles alios qui patnz libertatem fuz  nitz prztulerunt famam quam de fe pofieritati teliduri elTent nihil unquam fe*  dlTe arbitror. Sed nos in re omnibus manifefla nimium fortaffe moramur. Ita«  ^ redeo ad mifemum qui cum tritonem deum prouocare audeat : iute demens  appellari pofTittQ^uid enim fiultius quam (i inanis hzc gloria a caducis ac cito  perituris tebus ptofeda audeat fe illi : quz uera eft & a diuinis rebus proficifeitur   E fumtnam temeritatem zquiperare.Q^uapropter facile ab ea obruitur. Sed  cad rem noftiamtReliqua autem quz circa funusdeferibuntur hidoriz attp  aurium uoluptati concedantur . Geminas autem columbas geminas illas alas qs   d o fupra diximus intellige . Illas enim ducibus ad contemplandas res tendit :  t autem uoluaes ucnetis: quia oportet illas elTe ab ardenti amore : Nec iniu  tia matrem inuocat : Nam tantam difficultatem nili rapiat amor facile fugiut ho  mines < Illz autem non femel aut uno impetu/fed paulatim uolando ad locu du  eunt : Non enim hominis ell omnia momento uidete : fed ratiocinando gtada«  timacognitisad incognita uenire:Seduidcquidfequatur:inde ubiuenere ad  fauces graue olentis aueroi.   Tollunt fe celeres liquidum^ per aera lapfz:   Sedibus oputis geminz fuper arbore fidunt:   Nam quz ad cantarum raum cognitionem duces fe przbent/eas rerum terrena^  tum contagionem id enim ell auerni teter odor celerrimo uolatu effugere opor«  tet. Duplex igitur uirtutum genus nos ad ueritatem ducit: quam fine mora ra.>  pit zneas / ut eius luce ea quz per infernum obrcutiffima funt cernere pofTit.De  ioiprio ucro auerni naturalem lod litu demonftrat. Ne efl quod faaa ab znea  petada in feriem noflrz fentenriz digerere laboremus . Inferuiens enim fuo ar.>  gumento poeta eorum lacrorum quz ad ncaomantiam adhibeant ueteres expli  cat. Q_^um autem zneas nudo enfe Iter aifumere lubeat 6C fi hoc in Ilfdem facris  obferuare confucuerint : tamen admonetur ipfe ut robuflo animo rem arduam  acediatur . Aeneas ita^ ducem haud timidis uadentem pafltbus zquat.Nam  quis non uideat : quod dodrina aliqua nobis oftendit id quam celerrime quam  oiligentillime effe arripiendum. Erat autem iter per obfcura : uel quia ut dixi ue  ritatem in obfcuto ab&rufit natura : uel quia uitiorum fedes procul a luce funt:  Q_ui enim rationis lumine illuflratut : is & uerum cognofeit /dc rede agit: illam  autem qui amiferint fua natura ignorata in ultia Incidunt • Appellat przterea do  plutonis uacuas & inania regna . Q^uo quid ucrius dici poteftfEfi enim   u ii 1 1  I!’,! i;l I * i'i  In. P.Vir g.M, Allego.   nudiuftertius manifeiHs rationibus ronuidum mala uitiatp nihil omnino ef  fe; quando quidem nihil afFcrant/fcd bonum pellant. Hoc cum prudens ue  hemenf^ uates Perfius intelligeTctrgrauilTime in eam exclamationem proru/  pit/O curas hominum /O quantum eft in rebus inane :Vt autem quale eflet  ad uin'a initium expreflius poneret oftendit in tantis tenebris non nihil tamen  lucis apparuilTe.Nam 6C Amentis carcitate in uitium labamur a tamen circa  principia non omne penitus lumen tollitur: Prius enim incontinentes cAicif  mur quam intemperantiam cadamns.Miro autem iudidoquz fequunturin  inferorum ingreAii ponit: Si enim exfententia eius quem fequitur Platonis  deicenfum animorum in fua corpora defaibit / manifcAum eA animum qui  badenus omnium horum malorum expers fuerat in ea nunc omnia corporis  contagione incidere : Omnes enim perturbationes inde fentit: Luduenimea  riA^ angitur. Impendentia timet imotbos laboreAp experitur : fame anp ege^  ftate urgetur : omnibus denitp quas ille enumerat calamitatibus prxmitur :  quas a corpore liber expertus unquam fuerat. Sin autem prolapfum animor  rum in uitia huiufcemodi defcenfu interpretari uolumus non multum diuer  fa ratio erit : Q_ua; enim res tanta ucloatate commilTum facinus confequb  tur quam fadi pernitentia . Q_u.r autem pernitet is Ane ludu effe non po#  teA . Adde quod confeientix Aim ulis affiduo purgatur neceAe eA : Vrgent enim  illum a Aidux curx : qux ueluti ultrices furix poenas Aagiriorum feueriAune  extinguunt: uod quam dode quam eleganter quam expteAe pofuetit lu'  urnalis quxfo recordamini . Exemplo enim inquit ille quocunip malo cotn*  mittitur ipA difplicct autori prima hxc eA ultio: quod feiudicenemo nocens  abfoluitur. Ac paulo poA; Nam fcoclus intra fc quicun^ cogitat ullum fadt  crimen habet. cedo A conata peregi perpetua anxietas nec menfx tempore cef  fat . lure igitur ultrices curx funt in ucAibulo poAtx : Nec mirabimur A paU  lentes habitent morbi oim Aoicorum acutiflimas argumentationes intelli^^  mus. Aiunt enim quemadmodum temperantia fedeat appetitiones: &cmcit  ut illx redx rationi pareant iconfcruat^ conAderata iudida mentis : Ac huic  inimicam intemperantiam eiTcieamcp omnem animi Aatum inflammare cd  turbare ac incitare : eoq; pado omnes ex ea perturbationes gigni . Nam ue»  luti cum fanguis in corpore corruptus eA: aut pituitabilis uere redundat  morbi xgrotationcr(p nafeuntur: Ac prauarum perturbationum diAotunta  animum fanitate fpoliat : uehementerep petturbat : ex perturbationibus ue»  ro morbi conAciuntur qux illi uocant : deinde xgrotationes   qux appellantur. Quapropter perturbatio quia inconAanter turbide^ fe iadant opiniones in motu femper cA . Verum cum iam huiufcemodi furor ac mentis concitatio inueterauerit : &tan  quam in uenis medullif^ infederit : tum exiAit motbus at^ xgrotatio.Na  cum ex falfa quadam opinione qux plus tribuat diuitiis quam tribuendum  At pecuniarum cupiditate inflammemur : nec adhibeatur continuo Socrati»  a quxdam medicina : qux cupiditatem extinguat manat illa in uenas efficit»  ^ cum morbum at^ atgrotationem quam auaritiam nuncupamus. Rede to Liber quartus   ^detn demorbis ut mibi uideris inquit Laurentius &|ad locum eiplicandum appoiitet Non enim philofophi folum / ut tu probe demondraui: Sed  & oratores BC poetx non corporis folum fed & animi fcpiflime morbos di«  eunt . Ergo ut morbos inquit Baptifta ad animum ita SC fene Autem reAe refe  ternus. Nam cum ipfe adcmrobur<p mentis ueluti iuuentutem admireritt&  ignauia ac torpore quodam ueluti fenio tabefeit/ facile in uitia: ha;c autem  motsanimotum eS/ eum adere uidemus . Mala autem fuada fames quidnam  aliud quaauaritiadefignat: qua homines ad omne facinus impelluntur.' Q_ua;  nam enim res alia nobis fuadet aut iniuftilfimts bellis innoxios populos iacef  (iere I aut caidesiK rapinas exercere: aut inlatroaniis grafTati:aut uenena pa«  rate: aut fidem fallne: aut patriam at^ dues prodete:ni(i auri facta famesf  Quod quidem fi ita cft eodem quo<^ in loco erit ponenda turpis zgefias.Cii  cnim homines paupertatem: quam nemo fapiens turpem exifiimauit turpilTk  mam putent :eam^ ueluti fummum malum exhorreant /nihil repugnat: nui  Ius pudor obftat quin quo illam fugiant/ omnia uenalia habeant /nec abfunt  tembile suifuformzletum^ labof^: Namquialuccexulcsinhistcncbrisuer fiintur: nihil praeter defidio fumooum quaerunt: Nec meminerunt homines  adagendum ati^ fpeculandum natos nullum laborem/qui quidem honefta^  dadiunAusfitelfe fugiendum: De lato ucto fic accipe. Philosophi qui dt«  ca prudentis acquifitioncmuerfanturanimaduettunt corpus fi fociumad rem  agendam afiumatut maximo fibi eflie impedimento: Sensus cnim qui a.cor<  pore funt nihil in feueritatis: nihil fincen/utrcAe dc his rebus iudiute uale«  ant in fe continent ; Ex quo fit ut animus fi illis ad inueftigandum utatnrtfzpe  dedpiatur:& illorum illecebris ebrius nihil ptofpiciat . Q_uapropter mentem  quam maxime pofliint a fenfibus: BC a corpore feuocant. Aic cnim in eo qui phe  don inferibitut Plato nos tum denii^ beatos futuros fi a corporeis abfirahamur:  ac deo fimiles reddamur . Hoc autem quid aliud qua mori effe dicemusrQ^ua  propter fijhuiufcemodi uiri dum uiuunt mori medicantur: uenientem nemor  tem illos trepidaturos cenftbis.''Stulti autem qui nihil przter corpus nouerut:  iniquifiimo animo illud difiblui patientur.ReAe igitur is quem totiens nomi*  no Plato [PLATONE] ut illos philosophos sic istos philosomatos appellat. Quz omnia ca  probe nofiet Maro non illas terribiles formas elfeifed uideri terribiles dixit.Re  fiquaueroquz enumerantur &fopor& mala mentis gaudia ac poftremo bcU luni/funz BC difeordia ad eandem rationem quicun^ uel mediocri ingenio uir  fuenc facile referet . Nam qui in uitio eft is tanquun fomnolentus ad omnem  honefiam rationem obtorpefeitrNe^ ullam uoluptatem nifide rebus turpi.»  bus capit . bellum autem ac difeordiam non modo cum aliis : fed fecum geritt  cum aliud libido aliud auatitia fibi uelit.Oefidia illum ad odum : ambitio uero  ad labores aduocet.Q_ua animi difira Aide ueluti furiis exagitatur.in ultimi au  tem deferiptione idem quod BC paulo fupra ofienderac pulcherrimo nuc ac om  nino poetico figmeco depigit. Ipfa enim in medio polita magnu fpariu occupat:  fhiAaautnulluprzbctifedfola umbra nosdeleAattfic turpe facinus ea no«  bisonditiquz nihil folidi habcatifiCquzcu magna uideant /nihil finttut phip    Ia.P.Virg.M.Mlego.   gii zfopi ncmplo telido corpore umbram fedemur > Q^uod eo quo^ ezprcC>  fius notat ciun addat in Hngulis frondibus (Togula inlidere fomnia: at^ ea  quidem uana: Nihil leuius/nihil mutabilius eft frondibus: Ea autem in qui<  bus fummum bonum reponunt ftulti:& quorum gratia rapinas fraudesmul  taipalia flagitia patrant: ut honores diuitias ac reliqua alTequantur: in qua fot  tunastemeriute pofTta Ht/SCqua facile mutentur at^ defluant: nemo eft qui  ignoret: Q_uz etiamuanisfomniis uerilTime comparantur. Sunt eodem in  loco plurima monflra non temere polita: Nam (i ca monflra dicimus qux  przternaturx legem eueniunt/ eunda flagitia ueio nomine monflra appellax  buntur / cum pmer rationis legem qua lola homines fumus exoriantur.Me  fito autem Ixionis filii putantur centauri : nam ille contempta iuftitia abm«  pto^ humanitatis uinculo populos libetos iugo tyrannidis oppre(Tu:Q_ua^  propter eius cogitationes apnneipio aliquid humanitatis przferentes inim«  manitatemat^ eficriutemquandam tandem degenerant: Non infdte igitur  Plutarchus dimonflrat / huiufcemodi homines tanquam fimulachro uirtu»  tis adhzrentes/ nihil ITncerum/nihil tedum/fed mixta omnia at<p nota face*  re: Cum fuam quif^ uoluptatem fequatur/fummis petturbationibus ad fu*  os impetus delatus: Prolixior limqua rerum multitudo poflulat: 11 utran^  fcyllam profequar:in iift^ nimias cupiditates exprimi oftendam: nam Hy*  dra ad dolos fraudefi^ referti facile potcft.Fuit enim Hydra Platone tcllefo*  phiflaalidillimus: nam cuueri inuelligandi duplex modus fitpetuetas alter  alter pa fophiftiasrationeshydracauillofasatq} deceptricesargumentationes  ponimus: Cuius uno capite czfo plura renafeantur . Nam una confutata r»>  tione ille fuis argutiis plurimos fubiungit. Hanc autem Hercules igne idefl  ingenii feruore extinguit.Nei^ eft quod & hoc inter monftra enumerandum  negesi Namut uera dialedica ab omnibus dodiflimisfummoperefemperap  probata eft t lic hanc captiofam grauilTimi femper uiti abhominati fuot : Chi *  meram aut ad iracundiam iGorgones ad uoluptatum illecebras/ quibus ftul*  d in faxum conuati iccirco dicuntur / quia nimis illas obftupefcunt.Prudca  tes uero & Palladis zgide 8i Mercurii gladio facile interimunt refetn quis no  uideat : Briarei autem ac reliquorum qui aduetfus deos bella gelferunt / fabu  lamrcdilfime interpretatur Cicero /cum id nihil aliud lic qua bene monenti  naturz repugnate : Gerion uero 11 grzcum nomen interpreteris / terrz litem  exprimet . Lis autem zterna eft terrz id eft corporis aduerfus fpiritum.Ecitita  ^ Gerion pars elfccminatior animi a fenfibus ptofeda : quz in homine uitio  fo uniuerfz animz imperat. Q_uaproptet quoniam funt ttes animz par**  tes / tribus illum infulis impcralfe fabulantur : cuius canis iccirco biceps cfit  quia cupidiute llmul & timore laborat . His igitur monftris pettenefa*  dus ENEA uim parabat. At Sybilla hominem cotnmouefadens ea omnia  fimulachrauanacfleoftendit: llIa^ non ui fupcranda/fed radone cognolizn  da: cognita^ fugienda iubet. Poft huiufcemodi monftra ad Acherontem Si  cocytum deuenitunde quibus fluminibus Si 11 paulo fupta didum llt:ea tame  alia quadi tone ptofequamut.A cdcupilcentia nfa uelud a fonte manat aqua:  que ttygnu palude cffidt.Ne a concupifeentia primu j>uenit cogrtatio/drnide  adioquapeccamus: Achcronpo(lhzccoDatatiorfluuiusc(l:nain per cum tt*  ptimirur motusad dagitiarhic autem poft cogitationem excitatunNrqt prerer  rationem cft quod illum ingenti tumultu ferri Seneca dicat: Non entm poteft  animus Itnefirepitu reludantis confeientiz in facinus ferti:Q^uoniam autem  fauiufccmodi peccandi deliberatione uoluntas in uitium traniitsiccirco in hoc  flumine nauiculamnautamipponunt.Poftuero buiufcemodi tranlltum id au  tem cft poli peccatum/fequitur mceror/quem refert ipfa flyx.pollrrmo maior  ludus qui eft cocytus . Vt igitur ponatur ante oculos illa^ut ita loquar} grada^  tioiprimolocoeliconfcientiz motustfecundo deliberatio fufapiendi flagitiit  poft hanc maeror ac demum maior ludus:primum ita^ ac tertium (lyx fignifi»  cat/fecundum Acherontquattum cocytus .Sumopere me hzc deled.<nc inquit LAVRENTlVS.nerpme offendit quod eofdem fluuios nonaduna/fed ad  piares rationes ttanfFeras. Videmus enim & grauiflimosin nollra theologia lo  cosuariismodisadodilTimisuiris intcrprctari. Habes igiturdrfluminibus in  quitBAPTlSTA:Nunc quid libi Charon uelit/confiderandu cenfeorNara  portitor has horrendas aquas: & flumina feruat terribili fqualote charonicui  plunma mento Canicies inculta iacet.uerum ut res fuo ordine progrediatur/  non nautam folum: fed £Cniuem limul intcrprerabimurtSit igitur nauis uolu>  tas:licnautalibeteuoluntatisaibitriuni: Nauis lurfus cocoinfuum cu fumdi  ngitur.Hiceledionrm exprimittipra enim eiedionc libetum aibitrium uolun  tatem dirigit t Q_oin U per uela eziefles incliuadones non erit abfurdum incel  Iigere: Nam quo czii inclinant/id libenter eligimusmili illis fefe ratio opponat:  cuius tanta uisell/ut etiam fyderibusdominetur.Pergrata hzc funt quz dicis  inquit LAVREntius. Video enim te chrillianorum dogma retinere: ut tamen  mathematicos oinonoirrideasiScdfequereobrecrotSenex cll chaio inquit bA  PTlSTA tqmaiali no tepore ut Platonici:quosfequic poeta/uolut dignitate  faltem & origine prior cil corpore. Adde qdzternacfl:zcemitate aut nthil ana  tiquius:Q_uaproptcr Si, arbitnu libetu in illis zternu:Sed auda deo uiridili^ fc  ncdustqanuquamdeficit.Ellaut terribili fqualore &ex humeris fordidustili  amidusdepcndet.Q_uz omnia ad corpus tediflime ni fallor referuncut : cor«  pus enim ucluti ueltimemum ellanimz: quod alfiduo mutatur ueterafeit: actz  dem tabefcit.Addit duplicem oculis flimmam:quia liberi cll arbitrii ad utmta  ucliiflcdi/dC ad rationis fulgotem/8t ad cupiditatum ardorem.non temere au  tcmncc tine exadilTima quadam ratione herebi nodifip flliusell Charon: Ce£  Iffcnim nox in nobis quz nihil aliud ell nili ipiz ten(brz/quz abinfeinapro  iieniut/nulla erit cofultatioe opus:mens enim fumu bonu perfpicue nofccrcta  &in illud line ulla dubitatione ferret .nuquam enim eligimus nccelTatia/ac fub  lata dubitatide ois confultatio celTat :Q_ uapropter qui iam in tertio uirtutu gea  &erefunt:quas purgati animi appellani/ii prudentia in repe deledu no utunc' t  led przter ea quz lut uera bona nihil nouetutiea^ fola mtuent . Herebus igi  tur.quud uerbu grzce ab obfcuritate originem ducit:ita lefc rationi opponit  Utopuslit cofuitatioci (^uoniauao Cutmdd Keba}acmodeacccllarii&cota la .P.Virg.M.AIlego»   fuUc:opottuit bancuim ea libertate donatam clTerut aut de plutibua unum/aut  de uno <tt ne agendum pro fuo arbitrio deccrtut. Hoc (i itaefta gratia didtuc Charon«Nibil enim iibaius cft gratia cum fua fponteproueniattnon autem a  cuiufquam merito debcatur.Q_uaproptei cogi nullo pado uultsat(^ ea de au«  fa cum Aeneam pet tacitum nemus ucnite uidetific prior alIoquitur:Q_uiiiquit  cs armatus qui noiha ad iimina tcdis/Fare age quid uenias idbinc & comprime  grclTum>Nam cum etiam rationem ad (c ucnire uideat liberum arbitri ums Non  ante illam admiaere uult-quam difcutiat diligentius quid fibi agendu fit.Q^ua»  ptopter addiuNcc uero aladcm me Tum laetatus euntem accepilte lacu > quu ne  ad uirtutem quidem trahi uult liberum arbitrium . Verum antea confultat i Et  pofi confultarionem deledum adhibet. Quam quidem rem animaduettensff  billa; (Luimrubiicin Nuilxbci Dndiznccuimtelaferunt;&: ut appareat illum  con cogi/fcd per confuitatiomm peifuaderi aureum ramum oftcndittllleaute  ad uifam fapientiam libenter conuetticur: fiC de natura hadenus.Nauis uero a  czruleo colore confiatilile autem ex albo nigrocp conEcitur.Conteplator enim  inter iofeitiam at^ cognitionem uerfatur.Non enim mouetur quifpiam ad in»  ueftigandum luli aliquid uideat: Rurfus cum omnia in ea re uidcrit definit fpe  culari. Eadem fere ranone futilis hngitunperceptis enim percipienda adneditt  Si autem futilis &, timofa.Nam antea quam habeatur perfeda rerum cognitio/  non ctit ita perpetua rerum fenes/ ut nullum intermedium relinquat: Animas  uao quas ut Aeneam recipiat e naui pellit:omnes animorum affedus qui ratio  ni aduerlantur interpretandas opinor. Sed uos fortafie nimis cutiofam nimir(^  ineptam huiurccmodi interpretationem exifiimabitisicum ita minute etiam tni  nmiaptofcquar. An tute cutiofum aut ifia minuta appellas inquit LAVRENTlVS: quxetiamli nimis ingeniofe elicienda el Tentidigna tamen funt io qui»  buscJaboresi Nuncuerocum fe ultro offerant/quis ea repudietr Q^uin igitur  ptofequetetfiC qyz difputationi noftrx quadrant ne przteri. At^ in pnmis quid  libi Cerberus uclit/nobis apeiiiNam &quod cymba gemuetitifiCquodrimofa  inultam paludem acceperit : ego nifi tu aliter fentias fic accipio/ut in altero fpeca  lationis diificultatemiin altero terrenarum uolupratum illecebras : qux furtim  dum uitia fpeculamut interfluunt/exprimere uolueritiPromptum pa immortalem deum ingenium/^ ad omnia uerfanle in te elTe uideo LA VTENTi in» quit bAPTlSTAtnei^ commodius ifia meintapretari potuiflie fateor: Ad cer  betu autem de quo audire cupis /paulo poftucniam:Interim pauca qux omi(<  fafunt/percutramus: Ad nautam omnes confluunt animxtomant^ pnmx  tranl Huuiumpottariitelt dunt^ manus tipz ulterioris amore: Hic iguur con»  curfushocut puto fignificatomnes natura fdre. cupimus: natura autem non  omnes admittit: quia liberum menns arbitrium non omnes ad.fpcculatiooe  adtmttit : nam quod in humatorum animx cenmm annos uagentutt de zgf*  ptiorumconfuctudinc tradum: 6c Seruius & Seneca affirmant i Q^uam rem  deinde Orpheus^ad inferos tranfiulit: Vehementer uero quadrat Palinurum  a fybilla feuere calbgari: nefas enim efi cum appetitum ad ueriinuefligatio»  bem ttaduccre/qui aducHiis rationem contumax fit r Sed redeo ad Aenca;^ at at 0  jlU, DI ii a a » 0 3 i i Liboguartuf   tat) jcm charon ad ahetam lipam iocolumetn traducit.Ipfd «tiim poft diutumu  catamen rationis Kappetttus in fpeculationtm tradudtur.Q_uo in loroaio^  uutn adunfus fc bellum cxdtari Tentit, Cerberus enim ha;c ingens latratu regna  tnfaud petfoiutaduerforecubans immanis in antro.Scd animaduerte qua par»  1)0 negodo omnia a Sybilla pacata reddanturrOffam enim latranri cani porngit  Qua uorata ille in fomnum inndit.Q_uaptoptet occupat zneas aditum cufto«  de (iepultotCerberum igitur ea fortalTe ratione tridpitem poetae tradideruttguo*  biam illum terram gux trifanam diuiditur /interpretantur. dicuntcp grzce  quali Omnia enim corpora uoratterra:quado quidem io ea omnia reddunt.Si i^‘tut terra eft cerberus : quis non uideat porta  noflrum per cciberi latratus noftri corporis indigentiam exprimere uoIuifTe . Cu  enim ad rerum magnarum cognitionem eriginiunhoc profedo agimustut men  tem quoad dus fieri potefi a fenfibus reucKemusremoritp dircamustnon tamen  ex buiulcemodi mortis comentarione intereat corpus neerfle putestred cft illius  ratio babenda.Reclamat enim ne fibi neceflaria fubnahastlnmrgit^ trifaud lar  ttam.Tribus enim rebus indiget dbo potu ac fomnotin quibus nifi fatis illi a no  bis fiat adeo obflrepct/ut nihil egregium meditari (inat. Cuamobrem nullo par  donegligenda e(l cura corporisrlimplicitcr tamen modelle ac omnino fobrie/re  fidendumtut cum laboribus ruperetTepoflit: nimio tamen luxu contumax adr  uerfus animum non reddaturtpaucis enim natura contenta eft : at<p ea huiufcer  modi funt/ut fine labore: fine fumptu facile comparentur. Nam ne fortafte ad ea  re me te reuocare ardas quibus Ginicus cotctuscfti^oflincuicmdumolusnul 10 etiam lalecoditum fuauilTimas epulas prxbere pofnttaudi ea quibus uolupta*  tum patronus Epicurus acquiefdt :Num ipfe minus uiliflimo panno:quam aut  purpurea aut ccKdna ucfte a frigore defendi rxiftimat.nu fitim nifi chio aut aete   11 uinoatinguitnum famem nifi exquiritiflimisregiin^ dapibus fedari pofte pu  tat: Epicurus inquam qui in corporis uoluptatefummum bonum ponit nullu  aliud pulmentum in coenaptzta famem ac fitim quzfiuit : quem etiam legimP  ad panem raro quicquam prztn cafeum addere folitum.Ficedulas autem ac par  Uoncsreliqua(| ilb flagitia quz & Maaobius in pontificalibus Tuorum tempope  ccenisdeteiiaturt&nosno ftratempeftatein romanorum przfulum dipibus fir  nefumma indignatione ac gemitu meminifte non poflumus ueluti pemitiofilTi  mamonftra exhorrebat: Qua quidem in te ego terni LAVRENTI ficut inc zr teris temperantiz partibus iumma laude dignum puto;Nam przter id quod plu  timos iamannos utiunfiurarum articulorum dolores efFugias:uinum non bi bis nonne pro miraculo haberi poteft/ut tu in tanta mum omnium affluentia: in tanto urbis noftrz luxutin frequentibus lautiflimir^proptaalTiduashofpita  liutcs BC aebra fodalitia tuz domus conuiuiis nihil intuum uidum nifi fimplex  ac populare fumas: Q_uzdum cogito redeunt mihi ad memoriam ea quo quzdeFederico Vrbinatumprindpcnon folum audiui:fed etiam propter antir  quumhofpitiumfl Cueteremamidtia fzpiflimeuidi:Inquoduce & fiplurimz  aliz^ ea magnitudine uirtutes elucefcant/ut ueluti folis radiis minora fydera  Oiancfcunt t ita hzc illatum fplendote obruatuntamen quis non obftupefcat ta    Id.P. Virg.M.AlIego;   tiu Meorinaum acrobrirtitf modicamincaftrisubiuJrtrolrt   Wtn f*t« inopia nullu inter fumtnfi duce ac extremos lyxas & alones d.(c^« ,  elTe patn tfed domi quocj ac in aulatin qua cu ota ornamenta pana  fefe offerantmec uiq aut liberalitas/autmagnificeoa defideret s tamc difcubent*  illo nulli aut palalaSo aut nometano/fed Bi philofopho & oraton ocw relin^  tur.lpfe enim a primis annis uini prciflT.mus fuiticuius ufum paulatim inteitendo eo progtelTus eft/ut iam diu illud omiferit/nemo eQ qm communioni   epulis/nerao qui fimplidoribus uefcatur/quibus dum corpons U.TO r  fiaui(rimisinterimd Wu«o™“‘l'fP»°"J'l?“perfipefii dum lingulis annis ualitudinis oaanduj raufa romanos aumnmos Sfugiensadillum diuertor:uidearmihia Sardanapall.c«rn.sm AIano.conu.-   uium inddiffe/K ad aliquem foaaticum hofpitem deueniftim quo pnfc* con.  tinentix ueftigia tam uehementer me deledat/quamm notoojir hominum qui  rubris nigrifqj galeris:ac niueis riciniis totius fanditatis doannam phtent luxm  lafciuiam exaritat.Pudet enim pudet mi Uurenti pigetip noftroju «orumm m  totius rei publicx chriftianx curiam in qua integra religione maximaij dodnia  nonnullos optimos patres K tanto fenatu dignos elTe non negaueom/iis homu  nibus aditum quotidie patere uideamiquos ego tunc demum fenatorium ordi.  nem romx iure obtinere cenferem/li Heliogabalus ib inferis redudus rurfusim  peraret. Verum cu hxcme alio in loco deploralTe meminenm agamus quod iltat.  AtcB naturam noftram minimis cotetam effe intelligamus.Q_uod cu expnmere   cupet Maro Sybillam quxueradodhinaeft inducit offam in qua & andu 8Cb^   mefcens fimul alimetum fit/Cerbero porrigetem/qua faale & fihm? I*'   det:& in fomnu inddat.Aureu pfedo prxceptu.Nam qui aut Uutiflimis epulis  corpori indulgetiaut uaria uina exqrit ipfa crapula at(j ebrietate « c^us contu  max fibi reddit/8J animi aciem ita hcbetat/ut nihil altu fufpicere poflit . Upt^  quidem funt ifta qux dids inqt LAVRENTlVS. Verum de Cerberonon idem  TOCtas omnes fentire uideoiMaro enim eum canem ita latratem inducit/ut non  egredi fed ingredi cupientibus aduerfet":cuius qdem rei rationem optime a te ex  Mfitam effe intelligo. Nam huiufcemodi corporis indigentia non iis allatrat qui  corpus curadum redeutifed iis qui illo negUao ad ueri cognitione £0“«“^  ItacK ut dixi ego qd Maro fibiuelit plane tenere uideot; Veru cum apud Heli»  dum poetam ut te non fugit nobiliflimum legerim Cerberum uenieti busauda  auribufm blandiriiExire ucro nemine patiiln infidiis enim delitefcesjqucmcua  extra ianuam offendatiftatim morfu laniat s no intelligo quo nam modo hxcoi  no inter fe diuctfa non fint nifi fortaffe alium ad inferos defccfum  um Maro exprimere uoluerit.Ingeniofe tu quidem inquit ®  dit enim ad infaos xneasiqa in uitiopr cognitione tcdit:Q_uod fi ita eu ingit™  enti aduerfabic Cerberusrodit enim hxc corpusiFac aut aliu no ut imU nan^  cognofcat inferos petereifed in ipfa uitia labi auribus 8i cauda bladiet Cnbe^  qppe qui illu ingredi cupiatiNam qd aliud moliunt' iquid aliud conant perd»  boies nifi ut tridpitisbelluac non folii indigeti* fatiffadatifed oes uoluptates  plcanuQ^uod fi ide ifti nonunq pdita uita reliqua «id enim eft infaos egteoi* - >4^».Liba guam»   tcnctit tuc latrat tunr mordtt canis.Rrde igtt'’ addubitaftt.Rrdt us aut dubitatio  orm fuluifii.brd ut ad Maronis cci bttutn rrdcam facile ille (imp KnlTtnis rpuHs  arquieuits Acneasautnn celer ripam cuaditsNon enim lente K cum fegritie bacc  adtunda funcfcd omni contentione at<]t ardore captiTcnda. Q_uc niam aut or*  do in rebus huiufccmodi cft ut primo uitia cognolcanf. Cognita deinde effuga»  lunut pofirtmo illis purgati rerum diuinatum in quibus fummumbrnum con  fidit idonei contemplatores eifiriamur/erat illi totius bumanz uitz curfus mrn<  te repetendus/ut peripicuc intelligeret no folum quato fe fcelere adnngit qui no  biliore fui parte neglcda in uno corpore:& in iis qux a corpore fum uoluptatib?  fpem omnem reponunt. Veium etiam quata miferia opptimanf. Earo enim uir  tutum armis quibus folis uidenes euadne potuilTi nt penitus exuti nudelilTimis  fortunzidibus nudos fefe obticiunt/& ut ca»era aduerfa/qux innumera quoti«  die aeddunt omittam /mortem ipfara qux lingulis borarum momentis impedet  uelub lummum omnium maloium rxlKHret.Q_ui quidem matus enam Ii nui  la alia ptutbanone adiaans ipfe unus nos nunq refpirare linit.Q_uaprnpter hac  iirpeipfosmfantesin pnmo uitz limine petere oftedit.Hac & in fontibus p uim  mferri edocet. Hac & libi iplis eos afferre demonfiratiqui adeo imbecillo animo  fimt/ut grauilTimis quibufdam ptutbationibus fe pares gerere nequeat. Q^ux q dem omnia diUgenter intuens xneas decernit tadem hoc in primis fapienti prx«  fiandum elTe ut culpa uacet/mortem autem ipfam inter naturx munera eoumc  ret/cum cz ea no folum nihil mali nobis id eft animis noftris eueni» / fed contra  fummum bonum/quonia a tam tetro carcercfoluti in noftram nanira rcdeam5’.  Qua qdem ratione faceti cogemur amice at<^ indulgentet cu illis efle adum qui  antea ad buUifcemodi miferiis erepti Itnt/quam in casinciderint diuind omni  nomunus illudincIcobim/ttbito Dcalunonecollatumtquipfofuma in ipfam  deam arqi in matrem pietate moetemcofecuti fint/Cxtenlt^ omnibus natienb  bus ac populis fapietiotescl Te traufosputabimus/ii enim populi in thracia funt  qui fuorum onum multis lachrimis ac lamentationibus excipiunttquot mala il«  hsin uica cucnmra line enumerares. Obitum uero omni genere lattitix ^ fcquua  tur.Cogitant enim quot erunisq uariisgrauibufip fortunx cafibus morte libera  ti fint.Huiufcetoodi igitur rationibus paulanm xneas moetum mortis deponit:  Q_uin fi aur fe aut quempiam bonum uiium fupplicio morte ue per fummaiiv  iuiiam peti uidcbit non duliilHme ur Xanthippe illa de (bcrate falrc merenti hoc  cucnitetdicet.Scd quod uetumefferapientes norunt Ihilti uero negant a nrmi«  ne nifi a fe ipfo quenq Izdi polTc affirmabitmetp quicq quod turpitudine careac  in malis cuumerabiti^uin Kfoaatica argumentatione couincctquicuipiniue  fiecrudeliterip in aiiuiu «gerit non illum fed fcipfum iniuria alficere.Eos autem  omni odio infcdandosducct/qui animum immortalem fiuptr natura itaro*  bulium/ut humana omnia contencre polTit adeo fua ftulttria enenuuerittadeo £ taua confuetudinc imbecillum reddittut famineo amore incefus in eum pau»  tim furorem ptolapfus fittut fibi ipfc manus atruleritiK morte q fummum tC>  fetnalum putabatiid quo urgebatur malum effugere tentauerit . Q_ua quidem  in te pnmum ignauiam ai<f incttiam cotum damnat:quia fua culp in eum Lbt   o ii    In.P.V;rg.MtAIkgo. dinofum atnortin inciderint quem Plato ab humani» morbis natum affirmat:  quoniam illi eofoli afficiant qui uentri ac fomno dediti: et diuinitate fua quam  aroris denlis tenebris obrui pemuferut penitus obliti nihil praeter caduca : & aut  morbo aut aetate cito perituram corporis fortnaih reTpidunn Q^uamobrem bis  pcccant.Nam 8C a principio Tuo deiidioro ocio ac libidinofa lafduia effedum e(l  ut in rem follidtudine plenam inciderint. Deinde cum morbum fua culpa cotn  dum diutius pati ncqueant:fumma fc impietate afttingunt qui a fummo deo in  coipus ueluti in cuftodiam mifii in iuflu ipiius illud deferunt.Specula^ poii bax  extremam eorum hominum inlaniam/qui cum perfummam iuffitiam intrati/  quillo fccuro^ odo degere poflient/per fummara tame inturiam ac impietate pa  cem pcrturbare/ac omnia mifcere maluerut.Nam aut nulb iniuria affedi ipfi ul  tto auatitia ambitione ueimpulfi ferto igni fraude nihil tale merentes laceiletut/  aut ipii lacelTiti nihil de iure quod hominis pprium eft difeeptantes ad uim qux  faamm ed fe contulerunt: Hinc genus humanum cui pa edeordiam in fummo  odo uiuere licuaat affiduo mifccri uidcmusiHinc multarum regionum popula  dones fiC infinito;: mortalium catdes oriri aiaduertimusmt cum undi^ quzeu^  nobis calamitates eueniut colligerimus:nulla homini q homo acerbior pedis in.>  ueniat : Vides igit q exada lapietia hasc oia poeticis ligmetis exponantur .  quidem quoniam huiufccmodi clVe animaduertit/ut & cum fcelae dant/ fit po£ fint etiam uido carere/placuit ut una ac limplid cdmunit^ uia irecur.Cum autea  Deipheebo iam difccirum fuerit/quonia eam iam fefc contcplanda offerut / quz  aut penitus flagitiofa (int/aut pcul ab omni fcelae folam uittutem continet du  plicem iam efle uiam oportetrut altera in itnidram ad ui tia defledaturcAltera uf  to indutt^tnaduirmtesdcueniat^Hociglt inquit LAVRENTIVS fitPytba  goram illum exprimac uoluiife acdiderimtqui littaam yadinuenit.Q_uod no  latuit Perfiuspoeta/cuius cdillud.Et uitz nefeiusenor C5eduxit trepidas ramola  incompita mentes» Ifrhuc ipfum inquit BAPTlSTA.Sed uideamus quzfequa/tur. Æneas fub rupe (inidra mcenia iata uidet triplid circudata muto, fetifica p/  fcdu tartarotum defcriptio.Locus enim exprimendus iam edin quo uarialole/  ta puniantut. Hzc grzci tartara ab eo quod ed tarattiiid enim cd pettutbatetex p  turbationibus enim uitia oriunc .‘cademi^ paturbatam femper peccatoris meo»  tem tencntilnduduntur autem triplici muroiquia non una ac fimplid uia fcd tri  plia peccamus.ptimo enim quodam folo animi motu ab deprauata uoldtatc fce  Ius condpimus.Secundo deinceps loco accedit adus.Q_ui podtetno iteeum at/  iterum muItoticnf(^ repetitus habitum obdudt.Q^uamobrcmhzctria in tat  taris iure expreflit poaa quz procul a uiro beato edic tedatur laaoruffl cartniiid  uates.Ille enim fiatim a principio dc ordif. Beatus uir/qui non abiit in condlio i  piotum.Videsiammotum primumanimi adrcclus.Ocindc fit in uia pacatora  non dctit.Q__uid enim aliud uia cd nid ipfa adioreitquz depius repaita nd am  piius in motu ed:fed iam fedcmdbi ponit fit redda in habitu iam coadabilito.  Rcde igit fit in cathedra pedilentiz non fcdit.Q_uod autem flammifluo phlege  thontbis flumine tartara ambiant" :minimc abfurde dixit . Odendit enim aidp/  cem itacundiz: fit arumotum zdus quibus id hominum genus alGduo torretuta Tantum fnim tH uittoruu odium/ut & qui illis delcdati lutif tandftn pcraitoi  tiamdcdudi uitaniprattcTitan]datnncnt:urhcinrntn(^ oderim i fibi uno ipfia  aetnime iraiiantur . Nam tu donum cblTes tranfifTc dies luretn palufttttn:Ca  ptiui tamen unico habitus dnnui inuiti trahuntur at(^ ira furore^ exeduntur.  Q^uapfciptcr tapidus flammis ambit torrentibus omnis t Tartareus phlegethon.  Nulla cnun fomax/nulb fabrorum oflirina magis exxfluat quam feeleratorum  mens» Nam Taxa a flumine contorta oflendunt quam graues quam molefli flnt  buiufccmodi motus ati^ «agitationes. Addit ad ba;c portam munitifilma fit foli  do adamante columnas: quibus locum ita munitum redditiut net^uirorumne  ^ czluolarum ui efitingi poflit. Quid ergo flbi uult dodiffimus uir: Nempe  hoc ut puto uiros flagitiofos ac permtos cum in tartara deuenerint. Id autem eft  cutn longo habitu fcclaum mancipia cfFcdi fint/nullis uirorum monitisi nullis diuinis ptxccptiss nulla deniipfyderum clemmtiainde eripi pofleiQ^uaprcs'  pter iute tales homines fit larini perditos it grxd afotos appellant.Erit igitur in  quit LAVRENTl VS amifliim in illis liberum mentis arbitrium / ut fit fl uelint  aduirtutem redire nequeant. Video fit in hoc ingenii tui acumen inquit BAPTi  bTA . Nam breui interrogatiuncula illa omniaconcitafli : quz a grauiflimis phr  lofophis de uoluntario dem inuoluntario quzri folent . ua quidem in re no   folum ingenium laudo/ redconfilium quotp uehrmenter approbo .Nam cum  multa liefe tibi offerant tquzfloc cuiufquam auxilio ipfe tibi foluere polTis/ea  tamen ab alio dici mauis/ut fit raodeftizquod nihil tibi arroges: fit igmiiquod  prudenter interroges flmul laudem feras . Verum facile ita huic loco occurretur  li dicemus non uoluiife poetam ineuitabilem neceflitatrm/red eam difficultate  quz impoflibilitati proxima (it demonflrare.Sed fac etiam(^(T placet)omnrtn ex  cidendi facultatem adimere . Non tamen dicemus flagitia quz committunt in^  uoluntariacffe.quando illorum principium uoluntaiium ruit . Nouitenimin#  continens peccate curo adulterium committit: potefl^abflinerefi uult. Peccat  igitur uolcDS donecafliduishuiufcemodi deprauatis adionibiTs eo perueniat/ut  contrada iam intemperantia etiam fi uelit abfhnerc non poffit/non tamen inui.'  tus dicetur peccaffe/quamuis tunc nolit quoniam licuerat a principio/modo uo  luiffet in firmum illum intemperantiz habitum non deuenireK^ uaproprer no  magis inuituspeccaffe dicetur/q qui fua fponte in quempiam lapidem iaciat de^  inde pOEnitcntiadudusteuocatetfipoffet lapidem : qui per aerem fertur quoni  amnoUer hominem ferire. Ferit igitur fi! bene uolens : quoniam initium a fua  uoluntatc fuit. Sed hzclatiusapud Ariflotelem in libro de moribus difputata  inuenies . Itatp redeo ad zneam : qui ut uides urbem ipfam non ihgredit . Nam  qui uitiafpeculanmrnon uniantur interuitia .lllorumuerouimat^ naturam  a S)rbilla(^nam eunda edocet dodrina^penitus intelligit . Procul tamen in limi  ne Tyfiphonem uidet.ponit igitur furias in limine tartari/de quib^plzra<]p quz  a poetis finguntur uelutinotiffima omittam . Plane aurem conflat placuiffe pri  (as foiptonbus quicuni^ maiori flagidofeobflrinxetint a furiis uexari t ut in  Horcfhs Alcmconifi^ matricidio uidemus . Q^uo in loco quidnam aliud expri  tount furiz : nifi inquietudinem aepotius uexationem quandam turbulentif    In.P.Virg.M.AUego.   Narorima hxttd uluo quod fe ludia neroonoanaabfolmtur. VtminU  cts/ut mdida/ ut d«d<cus/ ut infamiam effugias ; nemo uident : nemo a^ienfc   Q uitcftisdtaripolTitadcfttamen Sp& confciennaiquxu “*8«* Sicium rapit . |au.ff.mum tcftimonium dior i comnncjt ^am «jb   cod*,; U^uenaled.fc^^   ilU flacellai hi fcrpentum moifus quibus fun* nos «agitant. Habes de tun   t S aurem Ufcelera. at, V «auilf.ma«iftunt a principio enumexat . Impietatem in  S in homincs.Nam & tianiam prolem   flurni naulo ante dicebam / confaentix cruciatum dodioreinterpretantu^   ?e enm ueluti Ceuiffmus fcelcrum uindearqux flagitio obnoxujU^ i^  na affiduo nmarur : & dum commilli in mentem  dia corrodit /curafm afliduo excitat /nec eefpirandi fpanum  ueroK fxioncm tyrannidis exemplar effe uuir/quo*   Upfura cadenti imminet affimiUs: Nunquam enim fine pe^ione uiuunt . (^uod & Dionyfius ille iyracufanus Uamodi tamilun  L illum beanffimum putanti probe oftendit / cum illam ita int«   ^s epulas ac pretiofa unguenta coliocaflct /ur umen metu   fupta caput equina feta pendentis nulla poffet uoluptate a la .   mSlto rnelius\ofcunt h^ines quam detur modo impeni acquirendi fa tasttuitate fciant.Ncc ueto diffiale eft intelligne quid ftbi   te ora paratx regifico luxu; cur furiatum maxima luxta   ptohil^t contmgae menfas ; Neq, emm uerius neq, «prelf.us   Le potuittqux in eam homines dementiam protrabit/ut cumpluniM^   geffeS/tum maxime fame per, re malint quam congefta   fe & pulchre Orarius Tantalo illos comptat / qui apud in miiima aquarum pomotumtp copia fm fame^ torqueatur. Pulchre em   am^ illud tCongefiis undiq, Ciccis indormis inhians & tanq^uain   SI coceti* j pidi» unquam gaudete ubellis. Magna ptofedo nutn   da qw non norunt harum rerum poffelTioncm non propter fe   ntef illatum ufum.6 uapropttrbonailia nontede/uuliaautemtecteappmus. Sed nimis mulu quando multis iamin locis de auanua diximus /i  «deliqua uidcamu* : Saxum enim ingens ii uoluum i. Quotum uiu per Itm  mam mftriamin eo uerfaturiutCcmpcr ea prtantitamohn “ir ««/qux aut nativam aut fortunam suam confbtuu efficere nequeant i o^el^ eoii«  conatus irtiti mefficacefij fint.Rourum uao udus dettndi pendere nmw‘ Kdicuntur.quinibilranonefiiconfilM) ptzuidcnteiinihil P‘“^,  deo fe fortunx conimittilnt/ut eius cafibusuelun inter eutyp fludibus ucw  affiduo totentur.ne« uittutem ullam habent in quatn ueluu in tutum ttanq him potturo W^tteapoepofli Bu Huiufcemodiigitutu Ut tactchqnaquxpItt r- Liber guaitiu  rimi uaria^ fuot edocet Aeneam Sybilla / dodum^ flattci ut feiUis «pii>  ct admonet : ut punis campos clyfios ingredi poflit . ms igitur Matontm  a Platonis dogmate difcedcrc diat. lllc enim cumfummum bonum in di'  uinarumtetum cognitione pofuiiretiproptetea^ ccnittctomniuuiuium gr^  nete excellere cum opottae : qui cum Iit futurus beatus / tamen ab iis in<  dpiendum cITc oftcndit qua: Ant in uiu & moribus poliiz . Cum enim dv  uioa / quae puriflima 6i ab omni labe corporea impolluta lunt impurus nr-<  mo attingere ualeatt pcrhuiufccmodi uirtutes expiemur neccire cU/ illis ctjita  tL uitia cogDolicimust SC cognita abhominamunat puiilliau ndiu i.xlo^  fiia ac immortalia egredi poAumusiHac igitur ratione iinpuilus Maio cum  ad tummum bonum perducae honunem uelitt ira Acnram iiiflicuendum  curati ut primo uitia omnia edoceat/ deinde illis cum opiaium ad campos  clyAos perducat. Cognita enim uitiorum turpitudine totum odium  Boa inepuiquz quidem prima omnino lapientia cft. Audirus cnim ad il«  km/cA,ut fiulritia careamus . Sed tu nefcioquid mirabundus tecum animo  ooluisiifibuc ipfnm inquit LAVRENT1VS. Stduide.quantum tibi extua  diTputationc debeam. Dum cnim mihi planum icddeie Maronem ttnusi  id^ efficis eodem tempore in noAri duis diuinum poema induds . Nunc  cnim demum pcrfpido quid Abi uclit Oanihcs / qui piimum ad inferos de<  (cendattat^ inde emergens, nullam aliam uiamniA pcrpurgato iialocaadca;  Ium inucniat : Made uiitutis adolcfccns inquit liAPTlSTAi qui non ea ib  lumquz dicam Si A diffidlia Ant facile acapias. Seu quadam Aaulitudiueou  dusinde ad alia accedas/ut cum ilk maximam laudem ex diiigcntiilin<a qua «  dam ingenii atrihd^ plena imitatione alVccutus At : tu quoqi uuuciedio<>  acm laudem mcrcaris.qui bzc omnia/quanquam uebemcutcr dilliuiuJata lint  in illo poeta rccognofcas. Ego uero inquit.L. quantum cx huc merear ipfciu«  dicabis tqtianquam ueriorne nimio in me amureiaplus noAiutnlioc ingcnk  um longe pluru facias/ qua oportet.iliud tamen Si A alicnuni a ptopolito fcf<t  mone uideatur/non omittam .Tu autem quod dicam ea laiiunc amc dida  aedas ueliin / non ut meum ueluti decretum in tanta icponam / fed ut iudtci'  iitntuum quod ego onmium reliquorum ludicioaotcponomcu uerbis elici  am • Ego a prima pene puetma cx uiaufqi patentis m Aituio adeo famibate uni  uctfum opusAorentim poecz mihi reddidi / ut pauci omnino Ant in eu lod  quos ego Aquando illi huiufecmudi oblcdamcntt gciius rcquitcter.t/ non fa«  cilc ad uubum exprimerem. Sed quid poteram puer ex um dtumo uacc ptet  maa uerba pcteipcre.Nunc autem cum uniuetfum rci argurocniu mciice peu  curro tumma admirauone cius uiii ingenium ptofequor.Na oi lu upexe fuo te  xendo pauca onuiino Ala de uirgiliaiu teia mutuari uideac ttameii mde oia pe  ne Ant.l uiobtcmnuncnd demum inteiligo/quod nos cx Cict-roms peepto  IzpenufflccoLidinus admonete folct cc in aliquo imitadu diligctcm oino u*  dooe adhibcnda.Nci^ enim id agendum uri idem funus qui fuut miquos imi  tamut.Scd cotum ita iimilcs : ut ipla Amilitudo uix illa quidem neq oiA a do  dia iatcUigauit.Sed tu A uidetut ad inceptum tedi. Cum igitut inquit. &    la.P .Virg.M.Allcgo. omnibus iam uidis expiatum Aeneam ad eamm rerum cognitionem Mato  deduAurus elTettqua; in casiis funt noncxlum fed elyfios ampos nominat.  Miro profedo ingenio u3tes/& qui eodem tempore & figmento fu o Kuerita  tiin(eruiat:Nam& (i apud inferos poetarum more heroas relcgalTct i tamen  nt hzc omnia de czio ilium fentire animaduertamus largiorem ztherem : ac  fuum folem fua^ fydera illis tribuit / ut cum a figmento nufquam difcedat  philofophizumen ucritatem profequatur . Nos autem (i quos uirosilleincz  ios reponat diligentius confiderabimusiea omnia quz primo difputationis die  de utroi^uitz genere a nobis erporiiafunt acubflime ilium elTe complexum  animaduertemus / ut K qui in rerum cognitione reIigiofe/8; qui in adionu  bus ac uitaduiliiufte uafati Hnt digni omnino exiftant: qui in czlumuelu«  ti in originem fuam redeant i Q_uapropter BC Orpheum Si Mufeum ac reli>  quos qui cafti fuerunt facerdotes : qui phoebo digna locuti uerum reliquis ape  rite potueruntsqui uaharum aitiu inuentioneuitam cxcultiorem reddiderunt  tanquam fpeculatores cotnmemorat. Nei^ tamen eosobmittit qui aut piisar<  mis aut confilio opera induftriaat^ audoritate rem publicam dcfendcruntiK  in duiliacfocialiuita ueifati funt.Huiufcemodi ita<^ animos ab omni cor«  porea contagione expiatos cum fimplidlfimz 8C omnino incorporez naturas  fint : SC maximarum rerum capaces exiftant mullis locorum anguftiis arcuferi  ptos nullis regionum terminis inclufos eum animaduettac / fcd liberrime per  omnes mundi oras uagareuideat: ita Mufeum loquentem indudt: ut often.  dat nulli e(fe certam domum Quin & cum ita fenoit quz gratia cunumiarmo  rum^uiuis fuit quz cura nitentes pafcere equus eadem fequitur tellure repo*  flos, demonfkat non clTe fcimroemoremeotu quz et divinus Plato t placo,  nicus CICERONE de animis noftrisfentit.Cenfent emm adminift ratores terum.p. cum in czium recepti fuerint regendorum hominum curam non deponere.  Net^folumii quiiuflepieqt uixerunt eodem audore iifdcm (ludiis detinen.  tur corpore exuti t quibus dum uita manebat deledabantur: Verum llagttio.  forum quotp animi quoniam multum ex fordibus quibus intta corpora fe  fadauerunt/ fecum inde trahunt a prilhnis curis difcederc nequeunt. Vidt«  ftis ni fallor longum quidem iter ac difficultatibus erroribufi^ plenum: fed  quo tandem uir uirtutis amator finem diu concupitum attigent. Per uari.  05 enimcafus pertot diferimina rerum initaliam tendam s OC in quietas f&.  des deuenit Aeneas. Quem quidem fi imitabimur nos corporeis pedibus  liberati / SC nitido uirtutum fonte irrigari eodem uitz genere SC dum intra  hzc corpora uerfabuntur animi nofiri gaudebimus /& cum inde uoiucrint  innoftram originem reuerfi zterno zuo fruemur. Q uz cum ita a BAPTi.STA dida fuilTcnt : ut difputationi finem impofuiffe uideretur/nihil polfutn  inquit LAVRENTIVS in ram longo fetmone defiderare.Nam a principio ad  hunc uf^ locum ita perpetuo tenore difputatio perduda edtut nihil aut inter*  niptu/aut diuulfum/aut ptzcipicatu t in quu inter mediu aliquod rclidn omif  fum ue fit qri poffu.Sut eni oia mirabili fetie colligata/& eo ordiecotextaiut ni  hil inde demi pofTintiquin quz tcliquutur manca fmt futuraiK nihil addi qrf  J M M S IJ i J i-S rg.§S l-l 1 t-i t 1 1^4"S fi-lltt  quidem 6 ab/it /multopere requlreudu uideat’. Ignoscens tamen nimiz cupidi  tari no(trz/ri td nunc rcquiram:quod cu uehementer mihi planum reddi cupii  idne^badcnusateez porituintclligisnc locuinquo deinceps exponi poflit  teKdu uidei:Ezpefiabam enim non modo fufpenfo uerum etiam anxio animo  quid tu de iis fenrircsrquz furpiciens Anchifes fuo ordine pandit. T u ueto dum  rcbqua inter dirputandum fuis quz^ lods difiribuis/illa no ueluti familiaria io  iufteeiedarfcdtanqua aliena rine ulla iniuria czclufa procul a tua difputatione  amouifti . Qua propter incertus fum quid agam:Nam ne<^ audeo te longa ora  rione defatigatum quicquaprztercarogareme is quz fcire cupio zquo aiu^  mopoilu carere. Hic arridens BAPTISTA meminiife inquit te oportet o Lau  miri nos huiufcemodi terminis aniuetram quzfiionem drcurcripiifre : ut quz  ambagibus quibufdam/atip allegoriz figmentis obfcurata effent aperienda pro  poncremusim autem ea tequins quz fuis uerbis fine ullo figmento enarramr.  Ego tamen non ita exada ratione tecum agam/utquodexpado debetur/id fo  Ium enumerem t Sed prauerid gratis aliquid in ea hbcraliiatc accedere uolo : Id  igitur quod Maro ut Principio czlum ac tenasicampofcp liquentes. Lucentenv  ^globum lanzritania^a(ha:Spiritus intus alit : huiufcemodi eri utftoicora  de diis opinionem refetat:Longum effe fi nunc omnium antiquorum philofo«  photum de diis immortalibus fententias referam: Q^uz quidem tam diuetfx  ta^ inter fe aduerfz funt/ut totidem pene reperiantur/quot funt eorum qui feri  pfciuntcapita: Nonenimfingulzfolumfamilizfingulas fmccrias excogitari. Sed fzpe inter fe eiufdem fedz uiri uehementer de re ipfa diffentiunt. Verum ut  reliqua ad przfcnsmiffa faciam & ad ea quz przfenti inquifitioni confentanca  funt deucniam:plzri^ ffoicotum:fed przfertim eorum princeps Zeno uniuer«  fum mundi globum mentem & ratione &fummafapientiaprzdita habere ae«  didaunt /eam^ effe ignem quendam purissimum ac tenuimmu . At ueluti ani  mi noftri per fui corporis particulas oes diffunduntur/ita illu per oia mundi me  bta ueluti geniule femen unde eunda procreantur penetrarciquippe qoi uigot  fcmeni^ fit omniu procreandorum. Virgilius igitur qua uis ui reliquis a Platone  fuo nunqua difcedat tamc cum uidiffet Chiylippu in eo quem de natura deope limpfic libro Orphei mufd Hefiodi at^ Homeri fabellas ita interpretari ut ide  prifcosolim poetas fenliffeconeturoftendereiquod multis pofiea annis (loici  fenferuntifbtuithacinreneab iis poetis quorum fimilis effe cupiebat diftiml> Iis putaretur ipse PORTICUM fulcire ac floicis adhauere.Na Platonis longe alia  fententia eff. Ponit enim deu penitus incorporeum:at^ extia omnem materia  omnem mundum inipfoczlidorfo exiflentem. Qua propteeillu hypcrcof  mlon appellatiquoniam eifentia sua supra cxli uerricem mancaticum tamen ui ac providentia nufquam abfit.fed omnia circufpiciens etiam minima curet.In  phzdro enim ait. Magnus in czio lupiter citans alatum curtum inccditJ^mua  exoinanscunda.Eodem^ in libro demonftrat locum illum neminem adhuc  laudaiTe poetaiummec unquam pro dignitate laudaturum.Q^uaroobrem cum  Platonici deum eztta mundum ponantiquibus etiam Ariflotelici alfentiuntutt  Stoici aut illu per omne ut dixi mundum diffundat, qs no uiderit Virgilium /i    in. P. Virg. W. AII fgo.   cutn dcutn quctn in potticu uiderat dcfcriplii Tcnnimorip noftros illius partica  bs elfe a Chrjiippo acccpilTe.Cu autem prouidcntiam dci multis in loas prafe  quatutinufquara a Phtune difcedit.Non enim idem omnes rendum.Quzras  fottaUe quid de mundo sentiat PLATO [PLATONE]. Ccufet quidem animam eu babcrc/a qua  reliquorum animantium animz (int. bominum autem animos abeo deo que  paulo ante dixi creah:££ ratione exornari uultiCorpus autem atip cacterasoes vires quas praner ratione mia bi seiTefamus bomiiaiabanimo mundi elTe (ai  bit.EQ enim lile dei uicatiusicuirjlua uniuetla ueluti fua prouinda denudata  Imltai^ illi uita moturai prxbet/non fuaui autfacultate ledquicquidagitid  uelun dei in(humentuagit.Oeclinat igitur paululum de uia Matotat a Pia/  tonefuo discedit. Cum autem dei prouidentiaplunmis locis profcquicuri illi  totus adbzret.Non enim idem omnesfentiunt.Sunten:minfortunz qui calt  bus omnia ponantiK nullo credat mundum rectore moueti.Q^ua in sententia Leucippum abdaitem/eiufe conduc Oemoctimm: Protagoram quo^S  Theodorum ac Epicurum repenasi^unt itidem qui Andotelem fecuti non ita  odofum deu ponauut nibil omnino curare dicant. Illius tamen prouidentia Iu  nz orbem dclcenderenoaeduntiSunt deni^K tettiiqui fitliuniucifumper tingere illam uelint maxima tamen dutaxat curatr/mininu ucro omnino negli  gere opinent. At Piato ut eunda a deo fada putat/ ftc eunda illum curare exifti  mau Atipbzcdedeo.Otbeucto quo uiallim animos nodtos ab inferis ad coc pustat inde rurfus ad inferos tranfirefaibit ab academia cftc non negamus:  Verum si latius de re buiufccmodi dilTcrendum propofuilTcmusiextant multo  diuiniota quz a tato philosopho de aiope corpore difcclTu pferre poiTimustSed  difficile oino eff um breui tempore res arduas longa diligende otadone explicandas bisanguftiis includere ltaij quod roluminffat idagamus lnuenies igitur apud Platonicos cu mille annos apud inferos fuciint animi bominn ad  corpora illosredireiatijinde uidffim ad inferos remeate.ldi^ totiens facere do  nec duodedm anno^ milia tranliednt. Hunc enim orbe perfedu extChmat.Na  eo fpado penitus purgari aios CTcduti^ptcrea^ poffe illos tu demu purgatos/in  fuam origine et adezicifes fedes reduc: Q_uod iiquis fuerit qui pbilofophiz fe  dcdacibuic ta fadiis purgado obumit:ut aceat ei poft tria annopt milia ad fupe  ros euolate: Adduc ena fiqs teligiofc oino uixeritieu ante mille annos H purga/  ti/S purgatu (fatim in fua origine redire: Eff prztcrea quemagnu annu appcl/  ]at:quc cuc finiri aedunt cum fol una cu luna ac quin^ reliquis enatilibusffel  lis ad eade zodiaci parte rcdieiint. Exado igitur boc tpis circmtu:quc et si vatta sit dodoru de illo uiro ru sententia rex tamen ac triginta millibus annoruconfi  ci plzrii^ acdidere.ccafec Plotinus omniu bominu animas ad eunde uitz babi  tu rcditutas.Hzcigif'& qualia (int/& quid facicnda/fadleexco libro perapi  cs/que nodu expolitu in manibus hic noffet Matfilius habet: nec adhuc edidit.  Vciu ego cum apud ipfum inbgbinenffdiueniffcm/cafuin cu incides aperui locof  quofdam fuma cum uoluptate percurri. Res omnino magna eff LA V/  tcd/fl( magnis ingcniuinbus ttadata Sprotfus digna in qua labores. Poterit nitn no tolum maxima ac pulcherrima et homini fe ipfum noffc cupiend per    quartus   aeeelTariatedocercrcdmrummatn quo admirationem rapere. Scnbit enim  non phyticcCut plxri solent sed metaphyiicc de animoru noftroru immorta  litate/utplane poffit de ea re omnem dubitationem amouere. Quem librum cu  Icges/&ha;c quz deMaronereqiuris:&plzra^ alia quz nos paulo antediuinif  fima cfle non rumusmentiti/facilec^nofces. Qux quidem res facit ut in iis  quzpo (hilafiibre uiorquelles /forta(»fuerim.l^hil tamen eft quod breuitad ^cenfeas. Nam cum ea requireres/quz nullis eius difputationis quam pepige  camus cancellis includerentur/poteram illa meo iurefilentio przterire. Itacpid  facile fi forte obiidatur diluam. Apud vos vero dodif Timi viri quomodome  purgem non invenio.Video enim dum pofiulanti LAVRENTIO nihil d&>  ncgo/duplids errati culpam inddifle.Nam quid me aut loquadus fingi poteft/  qui quarto iam die ea eruditifiimis aunbus uefiris inculcare non delinam : quae  quadodrina efiis/uobisqua mihi notiora fint: aut aud adusex cogitari quiim  praemeditatus ad differendum de iis rebus accelferim quzado dilfiinis iifdci diuprz meditads uids uix faris eleganter pro sua dignitate explicari folcant. Im  mo quid humanius/quid tua fadiitate dignius refpondit Alamanus effid potu  Itqua meanobisodofis dilferere quz tamen magnis vehementer cp urgentia bus occupationibus przponere non dubitaremus.Nos autem inquit Petrus ac  daiolus uolo enim et pro fratre meo refpondecc ne optare quidem id aulielfe tnuss quod ultro nobis arridens fortuna attulitiut tu tali przditusfapientia at ELOQUENTIA VIR ea deduplid quzftione primis duobus diebus breuiter per. Ipicueiabfoluteip in unum congereresrquz non nili per fummum laborem: (i>  mam indufiriamex multis ac uariis fcnptoribus cruipolfunt . Nam Maro  nis diligentifiima at^ multiplid dodrina referta interpretatio in qua tertio ac quarto iam die uetfarisitum quia pulcherrima tum quia inaudita accidit no mi  nori Ihiporetqua deledationc nos alfecit. Non polfut fatis pro fua dignitate lau  dariquzatedidafunt inquit Antonius: Sed utinam Baptifia quoniam reli quamztatem Romzcon fumpfilb hanc tandem fenedutem patriz uel optao ticodonare uei illa tanquaafuociue exigenti corpore uelisutfzpius te de magnis rebus difputantem audientes ciues tui dodiores indies meliorefc reddantur. Verum has ego huius Marci partes ee ducoiTe enim pro ea quz illi tecu intercedit nec clfitudine modo nitat facile in sua sententia tradudurum confido. Quin ifihuc ia diu ago inquit Marcusinec prius defina qua aut ronibus impc' travero aut praecibus ezotnaueto aut defatigando extorfero. Sed ut confido  muItum meineateiuuabit LAVRENTll acluliani ingeniu acftudiu. NI cu  inultu iam in litteris uter pfeccrit: fitr multatu tetu addifceda^ ardentiffima  cupiditasrcu cztera illis & a natura 8C a fortuna adiumeta ad re perficiendam  abunde aifintind pariet'' ille diu adolescentibus quos cariflimos habet operam  sua desiderari. At q liceat md iqt BAPTIfta ego talib5’adolescentibus ounq deerot  Sed furgamus ii/SC qm primo mane uobis e in urbe redeudu.intellexifti cni pau  lo an uurcriu publicis Ifis accctfiri quod reliquu diei eft ualimdini ipedamus.  Quzftionu Canuldulefiu Cbrifiophori Landini [LANDINO] florentini  QuaitifiC ultimi libri Finis. Cum Priuilegio. -Z.sisqfc "Moibc scof.  Questo lavoro porta nuovi elementi allo studio delle complesse vicende inerenti i RERVM GESTARVM FRANCISCI SPHORTIAE commentarii di Giovanni Simonetta e il relativo volgarizzamento, la sforziada di Cristoforo LANDINO. Nel saggio introduttivo si indagano gli aspetti biografici, storici e filologici riguardanti le due opere, partendo proprio da SIMONETTA, attivo nella cancelleria di SFORZA assieme al piú noto fratello Cicco Simonetta, e ricostruendo la storia testuale dei Commentarii dalle loro origini agli emendamenti eseguiti dall’umanista POZZO in vista dell’editio princeps, senza trascurare le vicende editoriali e le prime reazioni all’opera. Punto di forza dell’analisi è l’aver ritrovato e studiato nel dettaglio il manoscritto originale, nonché esemplare di dedica, dei Commentarii, già noto a SORANZO il secolo scorso quale codice Castelbarco. L’attenzione si sposta quindi da Milano a Firenze, entrando nell’officina testuale di Cristoforo LANDINO per sondare la sforziada dal punto di vista metodologico e contenutistico, con un conseguente particolare riguardo per le vicende successive all’invio del manoscritto di dedica (copiato da Tommaso Baldinotti) a Milano, dove il testo viene sottoposto dal Simonetta a numerosi interventi visibili ancora oggi. Chiude la parte introduttiva un capitolo che vuole delineare la storia dello sviluppo dei commentarii come genere nel quadro storiografico dalle origini alla fine del Quattrocento. A seguire il lettore troverà l’edizione critica della sforziada in veste integrale, corredata di un approfondito apparato comprensivo degli interventi che ne testimoniano la ricezione a Milano. Grice: “Perhaps more interesting than the fact that he loved the Achilleid, and commented on the Eneide, is that he sold the sforzeide – sull’eroe Milanese, l’invitto Francesco Sforza! Howell in I Medici. Cristoforo Landino. Cristoforo Landino. Grice: “I love Landino; for one he wrote the first Italian philosophical dialogue, “Disputationes” – for  another, I love the setting!” Landino. Keywords: dialettica fiorentina – implicatura fiorentina – la Sforziada di Simonetta. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Landino” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Landucci: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- i misteri del delitto Gentile e le bestie senza stato di Vespucci – filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sarzana). Filosofo italiano. Sarzana, La Spezia, Liguria.  Grice: “If I had in Hardie a wonderful mentor to Aristotle, I missed Landucci’s mentoring me into Kant!” – Si laurea a Pisa con Luporini. Insegna a Firenze. Altri saggi: “Cultura e ideologia in Sanctis” (Milano, Feltrinelli); “I filosofi e i selvaggi” (Bari, Laterza); “L’origine della scienza sociale” (Firenze, Sansoni); “La co-scienza e la storia” (Firenze, Nuova Italia); “La contraddizione” (Firenze, Nuova Italia); “Teodicea” (Napoli, Bibliopolis); “La Critica della ragion pratica” (Roma, NIS),  Sull'etica di Kant, Milano, Guerini, La mente in Cartesio, Milano, F. Angeli,  I filosofi e Dio, Roma-Bari, Laterza, La doppia verità: conflitti di ragione e fede tra Medioevo e prima modernità, Milano, Feltrinelli, A. Gnoli, Intervista, "Repubblica", Scheda biografica su Einaudi. Sergio Landucci. Grice: “Basically, Landucci covers all the topics of my interests, including that of the alleged ambiguity in Kant’s idea of a ‘reason’!” UCCI, UCCI SENTO ODOR DI L. – I MISTERI DEL DELITTO GENTILE, IL LEGAME CON LUPORINI, IL '68 IN CATTEDRA ("FUMMO INVASI DAGLI ANALFABETI") IL GRANDE FILOSOFO SI RACCONTA: “MI PIACEREBBE SCRIVERE UN saggio SULLA DEMENZA SENILE CHE STA ATTANAGLIANDO L' OCCIDENTE. RICORDO UNA FRASE CHE DICE: "GRANDEZZA È CIÒ CHE NOI NON SIAMO". HO LA SENSAZIONE CHE L'ABBIAMO DIMENTICATA…” Gnoli per Robinson-la Repubblica  landucci LANDUCCI  Per molto tempo il suo nome è rimasto associato a un grande libro che quando apparve nei primi anni Settanta fu come una meteora, tanto sembrò strano nel panorama delle cose che allora si pubblicavano. Sto parlando de I filosofi e i selvaggi (uscì allora per l' editore Laterza ed è stato ripubblicato, e aggiornato, qualche mese fa da Einaudi). La sua lettura mi colpì allora e mi rimanda all' oggi con i "selvaggi", sempre meno variopinti ed esotici, spinti dalla disperazione ad abbandonare le loro terre martoriate. Il paragone turba L.. Seduto nello studiolo mi guarda con la sua faccia triste. Sono venuto a Firenze per incontrarlo. Si stupisce e quasi si scusa per il fastidio che mi avrebbe arrecato: è un uomo timido, deluso, gentile ma altresì con un retrogusto di indefinita rabbia. Landucci è stato allievo di Luporini, ha insegnato all' università di Firenze, subendone, dice, tutti i contraccolpi politici: «Divenni ordinario. Quasi immediatamente percepii un generale clima di ostilità e rassegnazione. Con una rapidità incredibile la facoltà di filosofia adottò una selezione alla rovescia: vennero avanti a passo di carica gli analfabeti, i carichi didattici furono alleggeriti, i ruoli stravolti. Ho vissuto tremendamente male gli anni dell' insegnamento e decisi per la pensione anticipate. È stato così frustrante il lavoro universitario?  «Lo è stato certamente per uno come me. Mi consideravo, come si diceva allora, un "cane sciolto". Mi stupì constatare che la facoltà si era ridotta a una grande cellula del Pci, su cui si incistò dopo il '68 la contestazione studentesca».  I punti di riferimento furono però due grandi personalità di sinistra: Garin e Luporini.   «Maestri indiscussi. Mi chiedo tuttavia quanto sia stata acuta la loro vista politica. Garin fu il grande interprete di una filosofia come sapere storico, il suo storicismo era totalmente in sintonia con le posizioni culturali del Pci. Quanto a Luporini c' era un inquietudine ben maggiore che lo portò a misurarsi e a simpatizzare con le ragioni degli studenti. Non stigmatizzo il loro magistero, cui peraltro devo moltissimo, sostengo semplicemente che furono anni in cui la politica prese il sopravvento. Era lo spirito del tempo. Ne facevo parte anch' io, ma senza tessere o bandiere. Del resto non sono mai stato iscritto a nulla. Giunsi all' Università di Firenze nel 1960, come libero assistente, chiamato da Luporini. Quali erano i vostri rapporti?  E mio professore a Pisa e con lui mi laureai. Mi affascinava quest' uomo che andò in Germania a occuparsi di esistenzialismo e seguì i corsi di Heidegger». Credo sia stato uno dei pochi italiani a frequentarne i seminari. C' è un episodio rivelatore del rapporto con HEIDEGGER Quando il filosofo tedesco pronuncial il famigerato discorso con cui si insediava da Rettore a Friburgo, Luporini restò sconcertato da quell' adesione al regime. Qualche giorno dopo incontrandolo gli comunicò che lascia Friburgo per Berlino. Heidegger gli chiese perché. Lui rispose che era interessato ai corsi di Hartmann. Il maestro lo liquida con un ironico "tanti auguri"».A proposito di filosofi si è spesso detto che il vecchio lupo, così era soprannominato Luporini, fosse rimasto l' ultimo a sapere i dettagli dell' omicidio Gentile. Lei è a conoscenza di qualche particolare?  « C' è innanzitutto da ribadire il legame che Luporini ebbe con Gentile, il quale lo chiamò come lettore di tedesco a Pisa, in sostituzione di Oscar Kristeller, ebreo che dovette riparare negli Stati Uniti dopo le leggi razziali. GENTILE aiuta Kristeller, come pure tanti antifascisti che si rifugiarono alla Treccani e all' Università, fornendogli soldi e assistenza. Poi chiama Luporini alle due di notte dicendogli di decidere in fretta perché altrimenti sarebbe venuto qualcuno dalla Germania, quasi certamente un insegnante di fede nazista».Questo è lo sfondo. Poi cosa accadde? Quando la situazione precipita. Luporini va a casa di Gentile e lo scongiura di non entrare nella Repubblica Sociale. Gli dice. Professore c' è gente che non aspetta altro per ucciderla. GENTILE aderisce alla Rsi e viene ucciso in un attentato. Si è detto che Luporini conosce i mandanti e gl’esecutori dell' omicidio. Credo che il vecchio lupo non sa nulla, o almeno nulla di diretto. Ci e una sua dichiarazione radiofonica in tal senso, ma credo e il frutto di un fraintendimento. La frase di L. e questa: Cose che forse non si possono ancora dire. Cosa le fa supporre che e frutto di equivoco? Il fatto che accreditasse la versione offerta da Mattei, che sull' argomento cambia più volte opinione. Fino a sostenere che dietro quell' omicidio ci e BANDINELLI. Mai uno straccio di prova. Credo si sia perfino inventata che fu lei a indicare al commando gappista la figura di GENTILE, che non ha mai conosciuto. Poi c' è la testimonianza della moglie di LUPORINI Maria Bianca Gallinaro, la quale mi disse sconsolata che la storia che Luporini sapesse era solo una leggenda, del tutto infondata». Possibile che non ci fosse un grano di verità?  « La sola cosa che riesco a pensare è che LUPORINI e emotivamente coinvolto. Dopo l' attentato, GENTILE e trasportato moribondo all' ospedale. Il fratello della signora, medico al Careggi, chiama LUPORINI dicendogli se vuole vedere per l' ultima volta GENTILE. E lui anda e vede il filosofo in fin di vita. Non credo sia stato un bello spettacolo. Questo è tutto. Dopo quella dichiarazione radiofonica mi permisi di consigliare Luporini a non pronunciare più quella frase».E lui?  « Non so se fu una mia impressione ma gli lessi negli occhi un certo imbarazzo». Negli anni di Pisa chi frequentava?  «Tra le persone che hanno avuto un peso: CANTIMORI e TIMPANARO.  Di quest' ultimo divenni grande amico». So che Cantimori incuteva una certa paura per il modo di fare lezione e interrogare.  «A me, che non sono stato suo scolaro, suscitava tenerezza». Cosa pensa della sua vita ideologica piuttosto travagliata?  « Se allude al passaggio dal fascismo al comunismo non saprei cosa pensare. Come ad altri intellettuali gli è mancato il pensiero liberale. Era dominato dai fatti e dall' idea che la storia sia guidata dal potere. Usce dal Pci. Non solo per i noti episodi di Ungheria ma perché non ne poteva più del partito. Era un sopravvissuto a se stesso. Cosa intende? Deluso. Era convinto che io fossi una specie di longa manus del Pci, non gli ho mai dato la soddisfazione di smentirlo. A volte con ironia diceva: "Landucci, è vero che non basta dire viva la bandiera rossa per essere intelligenti?". Gli ultimi anni della sua vita li passò a insegnare a Firenze, in un ambiente che non lo amava. Prima di morire andò a Princeton per un ciclo di lezioni e quando tornò gli dissi: "Le ha fatto bene stare lontano da Firenze". Sì, rispose, ho evitato la noia». Poi c' è TIMPANARO.  «Era stato allievo di PASQUALI, ma invece di inseguire la carriera universitaria, divenne un outsider della cultura. Motiva la sua scelta con una certa difficoltà a parlare in pubblico. Ma io so che aveva orrore della professione accademica. Ebbe rapporti difficili con il mondo e bellissimi con le persone che amava. Per lungo tempo mi considerò tra queste. Solo negli ultimi anni scese tra noi il silenzio. Non digerì, non accettò o forse non seppe accogliere il fatto che mi fossi separato da mia moglie. Ma la vita va dove deve andare e a volte non ci possiamo fare niente. Da lui ho appreso il rigore filologico. Fu grandissimo nelle questioni leopardiane e in tutta la riflessione sul materialismo. Ma anche sorprendentemente originale nella lettura di Freud. È strano, ma ogni volta che penso alla vita di chiunque, mi chiedo quanta parte vi avrà avuta il caso. Le coincidenze prese o mancate, per lo più senza rendersene conto». Per lei il caso è stato così incisivo? Direi che il caso domina fin dalla famiglia di origine: un ambiente che non scegliamo, e nel quale ci troviamo gettati». La sua famiglia com' era?  « Papà avvocato, ma frustrato perché ricopriva un impiego modesto. Mia madre maestra. Vivevamo a Sarzana. Ricordo un padre anziano e la mamma che gli proibì di venire a prenderci a scuola, me e mio fratello, per paura che lo scambiassero per il nonno. Lo vivevo come un uomo di altri tempi. Anche nel lessico ricordava la belle époque. Invece di autista dice chauffeur, vis à vis a posto di specchio e quando chiedeva l'asciugamano dice passami il Amava il melodramma italiano. Invece, melodrammatica di suo e mia madre. Risultato: ho sempre detestato la musica lirica! Forse perfino più di quanto non abbia detestato che mi chiamassero Sergio». ROUSSEAU  Dà l' impressione di un uomo provato dalla vita.  Sono molto amareggiato dalla mia vita professionale e privata. Non ho né la forza né la voglia di entrare nei dettagli, ma ho l' impressione di essere stato irriso e torturato dalla vita. Il lavoro nelle biblioteche di mezza Europa e negli archivi è stata la mia droga, la mia unica grazia. Non ho avuto nessun successo ma almeno mi ha consentito di vivere».     Non è vero, il suo libro sui " Filosofi e i selvaggi" è un grande libro.  «Non diciamo sciocchezze, troppo carico di note, di troppe citazioni in originale e, in fondo, di inutile erudizione. La sola cosa che ricordo è una stroncatura di Diaz. Scriverlo, fu un' idea casuale. Un libro nato senza nessun presupposto. Diciamo che mi appassionava Montaigne». È il primo ad accorgersi della figura del selvaggio e a prenderne le difese.  « Non è il primo, ma in qualche modo rovescia la posizione di Amerigo Vespucci che presenta i selvaggi simili alle bestie. Diversamente da Colombo che sposa la tesi antica del mito del buon selvaggio. Montaigne dice che il selvaggio non ha Stato, non ha costrizioni, non ha religione, non ha falsità, è privo cioè di tutti quei caratteri che soffocano la civiltà occidentale».È la scena che prevarrà?  «È solo una tesi che a Montaigne serve per screditare la chiesa e gli stati. Gli eccidi, la violenza, il terrore che scuotono l' Europa delle guerre di religione e che culminano nella notte di San Bartolomeo, sono messi in contrapposizione con la mitezza del selvaggio ». È una tesi che riprenderà Rousseau.  «Fino a un certo punto, anche perché il suo selvaggio è un uomo felice ma violento. Non conosce la corruzione né è posseduto dalla brama di potere, ma è sostanzialmente un individuo aggressivo. Chi porterà alle estreme conseguenze questa impostazione è Hobbes che rovescia la costruzione di Montaigne Hobbes parla di uno "stato di natura".  firenze  FIRENZE Dove tutti si fanno la guerra e dove la vita delle persone è permanentemente in pericolo. L' immagine di questa condizione brutale Hobbes la ricava dalle descrizioni che vengono fatte dei selvaggi di America. Si può dire che l' Occidente fin dall' antichità si sia servito di questo mito con le peggiori intenzioni?  « È passata l' idea, con qualche eccezione, che fossero troppo diversi da noi per ogni ipotetica assimilazione». Al punto che ancora oggi questa diversità è vissuta come una minaccia di contagio e sostituzione? Qualcuno, come lei sa, ha perfino parlato di "uomo bianco" in pericolo di estinzione.  «Nelle fasi di grave fibrillazione sociale, quando il discredito si abbatte su ogni aspetto della vita politica, il delirio - come strumento patologico - rischia di trionfare. Mi pare di poter dire che è quanto sta accadendo e che contribuisce ahimè ai miei stati depressivi. Sono convinto che non ci sia nessuna giustificazione al male né all' imbecillità. Ho scritto un libro contro la teodicea, mi piacerebbe scriverne uno sulla demenza senile che sta attanagliando l' Occidente.  Ma non credo di averne più la forza. Mi resta questa infelicità che è come un che sovrasta le mie parole che non so più maneggiare con delicatezza. Ricordo una frase che Luporini aveva ripreso dal vecchio Burckhardt, è bellissima. Dice: "Grandezza è ciò che noi non siamo". Ho la sensazione che l' abbiamo troppo spesso ignorata o, peggio ancora, dimenticata». Grice: “Landucci has aptly explored the concept of the ‘barbarian’. It all starts with Montaigne, an anarchist – he assumes a fake philosophical position just to justify his anarchisms: savages are fun, happy, and they have no state! Vespucci moe or less thought the same, but for different reasons. Just like an ape doesn’t have a state, Vespucci says, so a savage!” -- Landucci. Keywords: i misteri del delitto Gentile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Landucci” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lalla: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale nella selezione sessuale di Nerone, il musicista – filosofia friuliana – scuola di Trieste -- filosofia triestina – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste). FIlosofo italiano. Trieste, Friulia Venezia Giulia -- Grice: “I have been called a Darwinist, which offended de Lalla!” -- Figlio unico di Achille de Lalla  e Anna Millul.  Il padre, nato a Napoli da famiglia originaria di Tolve, aveva intrapreso la carrriera militare, giungendo a ricoprire il grado di Tenente colonnello dell'esercito e congedandosi con il grado di Generale dell'esercito. Prese parte alla Prima guerra mondiale nonché alla Seconda guerra mondiale, dove rimase ferito alla spalla destra in Russia. Fu in seguito Dirigente dell'Istituto per la Ricostruzione Industrial. Achille de Lalla era figlio di Ludovico e di Maria Buonomo, figlia a sua volta di Alfonso Buonomo, compositore e musicista napoletano di fama.  La madre Anna Millul era nata a Roma in una famiglia ebrea originaria di Livorno. Si laurea, allievo di Kalinowski di cui traduce in italiano il saggio "Interpretazione giuridica e logica delle proposizioni normative".  Scappa a Parigi, prendendo parte al Maggio. Tuttavia, fu tra i primi ad intuire che il Partito Comunista francese non aveva alcuna seria intenzione politica di sostenere la Contestazione e, in anticipo sul fallimento dell'iniziativa giovanile, lascia la Francia rientrando in Italia deluso. Studioso di Evoluzionismo e Politologia, e è proprio sulle sue teorie sull'Evoluzione umana e sul pensiero di Darwin che scrive l'opera “La selezione sessuale”. Insegna a Siena e Napoli. A testimonianza del grande successo che riscuotevano i suoi corsi universitari, rimane la petizione indetta dagli studenti affinché il Senato Accademico li prorogasse per un biennio.  Gl’ultimi anni Ritiratosi a vita privata, muore a Napoli nella tarda serata del 25 settembre  d'infarto mentre attende alla redazione della sua ultima opera. Est Deus in nobis Contributo alla Nuova Evangelizzazione e, nelle intenzioni dell'autore, avrebbe dovuto costituire il completamento della trilogia iniziata con Evoluzione e proseguita con La Comunità Democratica.Convinto assertore della superiorità del Diritto pubblico rispetto a quello privato, si è sempre posto a tutela delle prerogative statuali.  Convinto assertore dei rischi della dilagante esterofilia in campo politico e fondamentalmente euroscettico negli ultimi anni di riavvicinamento al cattolicesimo, ideò un progetto di edificazione di un nuovo partito politico che, nelle sue teorizzazioni avrebbe assunto il nome di PARTITO CRISTIANO COMUNITARIO (DEMOCRATICO) ITALIANO PCC(D)I.  Saggi: “Il concetto legislativo di azione penale” (Jovene, Napoli); “La scelta del rito istruttorio” ( Jovene, Napoli); “Logica della prove penale” (Jovene Napoli); “La pena militare” (Jovene, Napoli); “Topografia politica della repubblica” (Scientifiche, Napoli); “Il completamento istruttorio del giudice nelle indagini preliminari in "Riv. it. dir. e proc. pen."); “Evoluzione,” “Darwin e la selezione sessuale” (Salerno, Roma); “ Selezione sessuale” (Scientifiche, Napoli); “La comunità democratica: idee per una politica nuova” (Guida, Napoli) – concetto di KRATOS --“Comunitarismo” (Guida, Napoli); “Nerone, o Musica nella antica Roma”  (Guida, Napoli); “Composizioni musicali Per pianoforte Sonata n.° 1 Suite "italiana" Sonata n.° 2 Sonata n.° 3 "napoletana" Musica da camera Sonata per violino e violoncello Sonata per violino e pianoforte Sonata per violini, viola e violoncello Note  de Lalla F., Una famiglia borghese, Ed. Ibiskos   de Lalla F.,   in "Il foro penale" ilcambiamento,// ilcambiamento/ articoli/ evoluzione_2_ darwin_de_ lalla_millul. ateneapoli,// ateneapoli/news/ archivio-storico/ reintegro-del-prof-de-lalla-il-consiglio- di-facolta--si-esprime- negativamente.  petizioni.com/ petizione _pro_prof_paolo de_lalla. Grice: “When I hear that a philosopher has written yet another trattarello on the filosofia della musica, I always thought not of Orpheus and his lute, but of NERO and his lyre!” -- Paolo de Lalla Millul. Paolo de Lalla. Lalla. Keywords: evolutionary, sexual selection, Nerone, filosofia della musica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lalla” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Latini: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- l’implicatura rettorica di Publio e Cicerone -- implicatura – filosofia toscana – scuola di firenze – filosofia fiorentina – scuola fiorentina --  filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice: “Latini reminds me of Hardie; he was Aligheri’s mentor; Hardie mine!” -- Grice: “People say it all starts with Alighieri; but the real ‘filosofo’ behind Alighieri surely is Burnetto – he has chapters on ‘Platone,’ ‘Aristotele,’ and the rest of them.”  «Poi si rivolse, e parve di coloro che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro quelli che vince, non colui che perde»  (Divina Commedia). Figlio di Buonaccorso e nipote di Latino Latini, appartenente ad una nobile famiglia. Le fonti storiche e una serie di documenti autografi testimoniano la sua attiva partecipazione alla vita politica di Firenze. Come egli stesso narra nel Tesoretto, fu inviato dai suoi concittadini alla corte di Alfonso X per richiedere il suo aiuto in favore dei guelfi. Tuttavia, la notizia della vittoria dei ghibellini a Montaperti lo costrinse  all'esilio in Francia. I cambiamenti politici conseguenti alla vittoria di Carlo I da Benevento sconsentirono il  suo ritorno in Italia. Fu risarcito del torto subito, con il titolo di Segretario del Consiglio della repubblica, stimato ed onorato dai suoi concittadini.  La sua influenza divenne tale che a partire si trova a malapena nella storia di Firenze un avvenimento pubblico importante al quale non abbia preso parte. Contribuì notevolmente alla riconciliazione temporanea tra guelfi e ghibellini detta "pace di Latino".  PPresiedette il congresso dei sindaci in cui fu decisa la rovina di Pisa. Elevato alla dignità di Priore. Questi magistrati, in numero di dodici, erano stati previsti nella costituzione. La sua parola si fa frequentemente sentire nei Consigli generali della repubblica. Era uno degli arringatori, od oratori, più frequentemente designati. Nel Canto XV dell'Inferno Dante lo incontra tra i sodomiti, violenti contro Dio nella natura. Siamo nel terzo girone del settimo cerchio; Dante e Virgilio camminano su un piano rialzato rispetto alla landa desolata in cui i dannati procedono. Alighieri, che era stato allievo di Latini, è profondamente scosso, e non nasconde verso il maestro una persistente ammirazione. Latini è il primo nella Commedia a toccare fisicamente Alighieri, tirandolo per la veste. Altre opera:“Il Tesoretto,” poema (incompiuto o mutilo) scritto in volgare fiorentino, in settenari a rima baciata, narrato in prima persona.  L'autore definisce l'opera Tesoro, ma il nome “Tesoretto” è presente già nei manoscritti più antichi,  presumibilmente per distinguerla dalle traduzioni italiane del “Tresor”. Il protagonista, sconfortato dalla notizia della disfatta di Montaperti, si perde in una "selva diversa". Nella sua peregrinazione si imbatte nelle personificazioni della Natura e delle Virtù, che gli illustrano la composizione del Mondo e i modelli di comportamento cortesi. Il “Tesoretto” si interrompe nel momento in cui il protagonista incontra Tolomeo, che sta per spiegargli i fondamenti dell'astronomia. Influenzato da un lato dal romanzo cortese, dall'altro dai poemi allegorici, realizza un'opera che da una parte della critica è ritenuta tra i precursori diretti della Commedia (Venezia, Melchiorre Sessa il Vecchio); “Li livres dou Tresor” e la più celebre, scritta durante l'esilio in Francia, in lingua vernaculare, perche "è la parlata più dilettevole e più comune tra tutte le lingue.” Consta di tre libri e risulta la prima enciclopedia volgare in senso proprio. Altri testimoni sono stati segnalati in seguito da Squillacioti, Divizia e Giola.  Il primo libro tratta dell’origine di tutto. Tra gl’argomenti affrontati vi sono un'ampia storia universale, dalle vicende dell'Antico e del Nuovo Testamento alla battaglia di Montaperti, elementi di medicina, fisica, astronomia, geografia, e architettura, e un bestiario. Si trova, in questo primo libro, una delle menzioni più antiche che conosciamo di una bussola e l'indicazione della sfericità della terra. Nel secondo libro si tratta dei vizi e delle virtù, attingendo sostanzialmente dall'Etica Nicomachea. Il terzo libro riguarda principalmente la retorica. Utilizza come fonti Platone, Aristotele, Senofane, il romano Publio Vegezio e Cicerone.  Altre opera: è inoltre autore di un altro breve poemetto, “il Favolello”, di una “Rettorica” volgarizzamento e commento del De inventione di Cicerone, nonché dei volgarizzamenti di tre orazioni ciceroniane (Pro Ligario, Pro Marcello, Pro rege Deiòtaro). Jauss, Alterità e modernità della letteratura medievale, Boringhieri S. Sarteschi, Dal "Tesoretto" alla "Commedia": considerazioni su alcune riprese dantesche dal testo di Latini, in "Rassegna di letteratura italiana", B. Latini, Tresor; G. Beltrami Squillacioti Torri e S. Vatteroni” (Torino, Einaudi); A. D'Agostino, Itinerari e forme della prosa, in Storia della letteratura italiana” (Roma, Salerno); Tresor. Beltrami, Squillacioti, Torri, Plinio, Torino). Aggiunte (e una sottrazione) al censimento dei codici delle versioni italiane del "Tresor”, Medioevo romanzo,  La tradizione dei volgarizzamenti toscani del Tresor con un'edizione critica della redazione alfa. Verona. Edizione del volgarizzamento toscano.  La colonna posta dove è stata riscoperta la sua tomba, Santa Maria Maggiore; “Livres dou Tresor” (Vineggia, per Gioan Antonio & fratelli da Sabbio, ad instanza di N. Garanta & Francesco da Salo); Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Tesoretto. In G. Contini, Poeti del Duecento, Ricciardi, Milano. A scuola con ser Brunetto. Indagini sulla ricezione dal Medioevo al Rinascimento. Atti del convegno di studi, Basilea, I. Maffia Scariati, Firenze, Galluzzo, D'Arco Silvio Avalle, Ai luoghi di delizia pieni, Ricciardi, Milano, A. Carrannante, "Implicazioni dantesche: Brunetto Latini (Inf. XV)", "L'Alighieri", Enciclopedia dantesca, ad vocem, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, P. Fornari, Dante e Brunetto, Co-Op, Varese, Poi in: Pro Dantis virtute et honore, Co-Op Varese,  L. Frati, Brunetto Latini speziale, "Il giornale dantesco", F. Maggini, La «Rettorica» Latini, Firenze, Galletti e Cocci, U. Marchesini, Due studi biografici, Atti dell'Istituto Veneto", "La posizione del Latini nel canto XV dell'Inferno dantesco"). Merlo, E se Dante avesse collocato Brunetto Latini tra gli uomini irreligiosi e non tra i sodomiti?, "La cultura", Poi in: Saggi glottologici e letterari, Hoepli, Milano, Fausto Montanari, "Cultura e scuola", Antonio Padula, Il Pataffio, Dante Alighieri, Milano, Roma e Napoli, Manlio Pastore Stocchi, Delusione e giustizia nel canto XV dell'Inferno, "Lettere italiane"(poi in: Letture classensi,  Longo, Ravenna; "Representations", R. Santangelo, "Tutti cherci e litterati grandi e di gran fama": "Il sogno della farfalla. Rivista di psicoanalisi", M. Scherillo, Alcuni capitoli della biografia di Dante, Loescher, Torino Thor Sundby, Della vita e delle opera (Monnier, Firenze); Alighieri Storia di Firenze Divina Commedia, Il Favolello Il Tesoretto. Treccan Enciclopedie  Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, sRegesta Imperii, su opac.regesta-imperii.de. Portal, su florin.ms. G. Orto, L.. Tommaso Giartosio, Dante e Brunetto Latini. Tratto da: Perché non possiamo non dirci. Letteratura, omosessualità, mondo, Feltrinelli, Milano, Concordanze del libro del Tesoretto, su classicis tranieri, Li livres dou trésor, ed. par Polycarpe Chabaille, Paris M. Giacomelli. La rettorica. Qui comincia lo 'usegnamento di rettorica, lo quale è ritratto in vulgare de' libri di Tullio e di molti filosofi per ser Burnetto Latino da Firenze. Là dove è la lettera grossa si è il testo  di Tullio, e la lettera sottile sono le parole de lo sponitore. Incomincia il prologo. Sovente e molto ò io pensato in me medesimo se la copia  del DICERE e lo sommo studio dell’ELOQUENZA àe fatto più bene o più male agl’uomini et alle città. Però che quando considero li dannaggii del nostro comune e raccolgo nell' animo l’antiche aversitadi delle grandissime città, veggio che non picciola parte di danni v’è messa per uomini molto parlanti sanza sapienza. Qui parla lo sponitore. RETTORICA èe SCIENZA di due manière. Una la quale insegna dire, e di questa tratta Tulio nel suo saggio. L’altra  insegna dittare, e di questa, perciò che esso non ne trattò cosi del tutto apertamente, si nne tratterà lo sponitore nel  processo del saggio, in suo luogo e tempo come si converrà. Rettorica s' insegna in due modi, altressì come l’altre scienzie, cioè di fuori e dentro.Verbigrazia: Di fuori s'insegna dimostrando che è rettorica e di che generazione, e  quale sua materia e lo suo officio e le sue parti e lo suo propio strumento e la fine e lo suo artifice. Ed in questo  modo tratta BOEZIO nel quarto della Topica. Dentro s'insegna questa arte quando si dimostra che sia da fare sopra LA MATERIA DEL DIRE e del dittare, ciò viene a dire come si debbia fare lo exordio e la narrazione e L’ALTRE PARTI DELLA DICIERIA o della pistola, cioè d'una lettera dittata. Ed in ciascuno di questi due modi ne tratta Tulio in questo suo saggio. Ma in perciò che Tulio non dimostra che sia rettorica né quale è '1 suo artefice, sì vuole lo sponitore per più chiarire l'opera dicere l'uno e l'altro. Ed èe rettorica una scienzia DI BENE DIRE, ciò è rettorica quella scienzia per la quale noi saperne ORNATAMENTE dire e dittare. Inn altra guisa è così diffinita. Rettorica è  scienzia di ben dire sopra la causa proposta, cioè per la quale noi sapemo ornatamente dire sopra la quistione aposta. Anco àe una più piena difiìnizione in questo modo. Rettorica è scienza d'usare piena e PERFETTA ELOQUENZA nelle  publiche cause e nelle private. Ciò viene a dire scienzia per la quale noi sapemo parlare pienamente e perfettamente nelle publiche e nelle private questioni. E certo quelli parla pienamente e perfettamente che nella sua diceria mette parole adorne, piene di buone sentenzie. Publiche questioni son quelle nelle quali si tratta il convenentre d'alcuna città o comunanza di genti. Private sono quelle nelle quali si tratta il convenentre d'alcuna spiciale persona. E ttutta volta è lo 'ntendimento dello sponitore che  queste parole sopra '1 dittare altressì come sopra '1 dire siano, advegna che tal puote sapere bene dittare che non àe ardimento o scienzia di profiferere le sue parole davanti alle genti; ma chi bene sa dire puote bene sapere dittare.  Avemo detto che è rettorica, or diremo chi è lo suo  artifice. Dico che è doppio, uno è rector e l'altro è orator. Verbigi-azia. Rector è quelli che 'nsegna questa  scienzia SECONDO LE REGOLE e comandamenti dell'arte. Orator è colui che poi che elli àe bene appresa l'arte, sì l’usa in dire ed in dittare sopra le questione apposte, sì come sono li buoni parlatori e dittatori, sì come fue maestro Piero dalle Vigne, il quale perciò fue agozetto di Federigo II imperadore di Roma e tutto sire di lui e dello 'mperio. Onde dice Vittorino che orator, cioè lo parlatore, è uomo buono e bene insegnato di dire, lo quale usa piena e perfetta eloquenza nelle cause publiche e private. Ora àe detto lo sponitore che è rettorica, e del suo artifice, cioè di colui che la mette in opera, l'uno insegnando l'altro dicendo. Ornai vuole dicere chi è l'autore,  cioè il trovatore di questo saggui, e che fue LA SUA INTENZIONE in questo saggio, e di che tratta, e la cagione per che lo saggio è composto e che utilitade e che tittolo à questo saggio. L' autore di questa opera è doppio. Uno che di tutti i detti de' filosofi che fuoro davanti lui e dalla viva fonte del suo ingegno fece suo libro di rettorica, ciò fue Marco Tulio Cicerone, il più sapientissimo de' romani. Il secondo è Brunetto de’ Latini, cittadino di Firenze, il quale mise tutto  suo studio e suo intendimento ad isponere e chiarire ciò che Tulio dice. Ed esso è quella persona cui questo saggio appella sponitore, cioè ched ispone e fae intendere, per lo suo propio detto e de' filosofi e maestri che sono passati, il saggio di Tulio, e tanto più quanto all'arte bisogna di quel che fue intralasciato nel saggio di Tulio, sì come il  buono intenditore potràe intendere avanti. La sua intenzione fue in questa opera dare insegnamento a colui per cui amore e' si mette a fare questo  trattato de parlare ornatamente sopra ciascuna questione  proposta.  Et e' tratta secondo la forma del saggio di CICERONE di tutte le parti generali di rettorica. Verbigrazia. L’invenzione, cioè, il trovamento di ciò che bisogna sopradire alla materia proposta; e dell'altre iiij° secondo che sono nel secondo saggio che CICERONE fa ad Erennio suo amico, sopra le quali il conto dirà ciò che ssi converrà. La cagione per che questo saggio è fatto si è cotale, che Latini, per cagione della guerra la  quale fue traile parti di Firenze, fue isbandito della terra quando la sua parte guelfa, la quale si tenea col papa e  colla chiesa di Roma, fue cacciata e sbandita della terra. E poi si n'anda in Francia per procurare le sue vicende,  e là trova uno suo amico della sua città e della sua parte, molto ricco d'avere, ben costumato e pieno de grande senno, che Ili fece molto onore e grande utilitade, e perciò l'apella suo porto, sì come in molte parti di questo saggio pare apertamente; et era parlatore molto buono naturalmente, e molto disidera di sapere ciò che' savi aveano detto intorno alla rettorica; e per lo suo amore Latini, lo quale era l)uono intenditore di lettera  et era molto intento allo studio di rettorica, si mette a fare questo saggio, nella quale mette innanzi il testo di Tulio per maggiore fermezza, e poi mette e giugne di sua scienzia  e dell'altrui quello che fa mistieri. L' utilitade di questo saggio è grandissima, però che  ciascuno che sa bene ciò che comanda lo libro e l'arte,  sì sa dire interamente sopra la questione apposta. E in questo punto si parte elli  da questa materia e ritorna al propio intendimento del  testo. In questa parte dice lo sponitore che CICERONE, vogliendo che rettorica fosse amata e tenuta cara, la quale  al suo tempo e avuta per neente, mise davanti suo prolago in guisa di bene savi, nel quale purga quelle cose che pareano a lui gravose. Che si come dice BOEZIO nel commento sopra la Topica, chiunque scrive d'alcuna materia  dee prima purgare ciò che pare a lui che sia grave; e  così fa CICERONE, che purga tre cose gravose. Primieramente i mali che veniano per copia di dire. Apresso la sentenza di Platone, e poi la sentenza d'Aristotele. La sentenza di Platone e che rettorica non è arte, ma è NATURA per ciò che vede MOLTI BUONI DICITORI PER NATURA e non per insegnamento d'arte. La sentenza d'Aristotile fa cotale, che rettorica è ARTE, ma REA, per ciò che per eloquenza parca che fosse a venuto più male che bene a' comuni e a' divisi. Onde CICERONE purgando questi tre gravi  articoli procede in questo modo. Che in prima dice che sovente e molto ae pensato che effetto proviene d'eloquenza. Nella seconda parte pruova lo bene e '1 male chende venia e qual più. Nella terza parte dice tre cose. In prima , dice che pare a lui di sapienzia; apresso dice che pare a lui d' eloquenzia. E poi dice che pare a lui di sapienza ed eloquenzia congiunte insieme. Nella quarta parte sì mette  le pruove sopra questi tre articoli che sono detti, e conclude che noi dovemo studiare in rettorica, recando a ciò molti argomenti, li quali muovono d' onesto e d' utile e lo possibile e necessario. Nella quinta parte mostra di  che e come egli tratta in questo saggio. E poi che nel suo cuminciamento dice come molte fiate e lungo tempo pensa del bene e del  male che fosse advenuto, immantenente dice del male per accordarsi a' pensamenti delli uomini che si ricordano più d'uno nuovo male che di molti beni antichi; e cosi Tulio, mostrando di non ricordarsi delli antichi beni, s' infigne di biasraare questa scienzia per potere più di sicuro lodare e  difendere. E per le sue propie parole che sono scritte nel testo di sopra potemo intendere apertamente che in  queste medesime parole ove dice che i mali che per eloquenza sono advenuti e che non si possono celare, in quelle  medesime la difende abassando e menimando la malizia. Che là dove dice dannaggi si suona che siano lievi danni  de' quali poco cura la gente. E là dove dice del nostro comune altressì abassa del male, acciò che più cura l'uomo del propio danno che del comune; e dicendo NOSTRO comune intendo ROMA, però che Cicerone e cittadino di Roma nuovo e di non grande altezza; ma per lo suo senno fue in sì alto stato che TUTTA ROMA si tenea alla sua parola, e fue al  tempo di Catellina, di Pompeio e di Giulio Cesare, e per lo bene della terra fue al tutto contrario a Catellina. Et  poi nella guerra di Pompeio e di Giulio Cesare si tenne  con Pompeio, sicome tutti ' savi eh' amano lo stato di  Roma. E forse l'appella nostro comune però che ROMA èe capo del mondo e comune d'ogne uomo. Et là dove  dice l'antiche adversitadi altressì abassa il male, acciò  che delli antichi danni poco curiamo. Et là dove dice grandissime cittadi altressì abassa '1 male, però che, sì  come dice il buono poeta LUCANO, non è conceduto alle  grandissime cose durare lungamente; e l'altro dice che le grandissime cose rovinano. E così non pare che eloquenza sia la cagione (iel male  che viene alle grandissime città. E là dove dice che  danni sono advenuti per nomini molto parlanti 'sanza sapienza, manifestamente abassa '1 male e difende rettorica,  dicendo che '1 male è per cagione di molti parlanti ne' quali non regna senno. E non dice che il male sia per eloquenza,  che dice Vittorino. Questa parola eloquenza suona bene. E del bene non puote male nascere. Questo è bello colore rettorico, difendere quando mostra di biasmare ed accusax'e quando pare che dica lode. E questo modo di parlare àe nome INSINUAZIONE, O IMPLICATURA, del quale dice il saggio in suo luogo. Et qui si parte il conto da quella prima parte del prologo nella quale CICERONE dice il suo pensamento ed dice li mali avenuti, e ritorna alla seconda parte nella quale dimostra de' beni che sono pervenuti per eloquenza. Sì come quando ordino di ritrarre dell'anticiie scritte le cose che sono fatte lontane dalla nostra ricordanza per loro antichezza, intendo che eloquenza congiunta con ragione d'animo, cioè con sapienza, piìie agevolemente àe potuto conquistare e mettere inn opera ad edifficare cittadi, a stutare molte battaglie, fare fermissime compagnie et anovare santissime amicizie. Poi che Cicerone divisa li mali che sono per eloquenza, sì divisa in questa parte li beni, e CONTA PIU BENI CHE MALI perciò che più intende alle lode. E  nota che dice son messe ordinatamente acciò che prima si raunaro gli uomini in-  sieme a vivere ad una ragione et a buoni costumi et a  multiplicare d' avere ; e poi che furo divenuti ricchi montò  tra lloro invidia e per la 'nvidia le guerre e le battaglie.  Poi li savi parladori astutaro le battaglie, et apresso gl’uomini fecero compagnie usando e mercatando insieme; e  di queste compagnie cuminciaro a ffare ferme amicizie per  eloquenzia e per sapienzia. 3. Ma ssi come dice e signifficano  queste parole, per più chiarire l'opera è bene convenevole  di dimostrare qui che è cittade e che è compagno e che è   15. amico e che è sapienzia e che è eloquenzia, perciò che Ilo  sponitore non vuole lasciare un solo motto donde non dica  tutto lo 'ntendimento. Che è cittade. Cittade èe uno raunamento di gente  fatto per vivere a ragione; onde non sono detti cittadini   20. d'uno medesimo comune perchè siano insieme accolti dentro ad uno muro, ma quelli che insieme sono acolti a vivere  ad una ragione.  Che è compagno. Compagno è quelli che per alcuno  patto si congiugne con un altro ad alcuna cosa fare; e di questi dice Vittorino che se sono fermi, per eloquenzia poi  divegnono fermissimi. Che è amico. Amico è quelli che per uso di simile  vita si congiugne con un altro per amore insto e fedele. Verbigrazia: Acciò che alcuni siano amici conviene che siano d'una vita e d'una costumanza, e però dice «per uso  di simile vita » ; e dice « giusto amore » perchè non sia a  cagione di luxuria o d' altre laide opere ; e dice « fedele     i'-in compimento dell'altre parole ecc. Jf' cioè hediDcar .»/ aslroppiarc,  m a storpiare caunano, corretto poi in raunarono — Af ad avere una ragione, m  "al avere una medesima ragione M l'uno, -If' fuor {cfr. Tesor., vii, 54) — il' montò loro M-m parlando anno attutato - le guerre — il.' M forme amicitio, »» forme  d'amie— i^:mdichono— i^.- m dimostrare quello — io.- Af' 7 che sapientla 7 che eloq. .»/' volle intralasciare de genti — V-m raccolti - SI: m rachollì -  25: M son — S7 : M-m che è coiiipannia — M' si i> — 28 : .V ad un altro — 3U' por-  ciò — 31 . .tf ' conduco insto am. fcerlo per scambio dell'abbreviatura di et con quella di con) U ad altre amore » perchè non sia per gnadagneria o solo per utilitade, ma sia per constante vertude. Et cosi pare manife-  mente che quella amistade eh' è per utilitade e per dilet-  tamento nonn è verace, ma partesi da che '1 diletto e l'uttilitade menoma. Che è sajoiemia. Sapienzia è comprendere la verità  delle cose si come elle sono.  Che è eloquenzia. Eloquenzia è sapere dire addome  parole guernite di buone sentenzie. 10. TnUio. Et così me lungamente pensante la ragione stessa mi mena  in questa fermissima sentenza, che sapienzia sanza eloquenzia sia  poco utile a le cittadi, et eloquenzia sanza sapienza è spessamente  molto dampnosa e nulla fiata utile. Per la qual cosa, se alcuno in-   l.ó. tralascia li dirittissimi et onestissimi studii di ragione e d'officio e  consuma tutta sua opera in usare sola parladura, cert' elli èe citta-  dino inutile al sé e periglioso alla sua cittade et al paese. Ma quelli  il quale s' arma sie d'eloquenzia che non possa guerriere contra il  bene del paese, ma possa per esso pugnare, questo mi pare uomo e   20. cittadino utilissimo et amicissimo alle sue (>) et alle publiche ragioni.   Lo sponitore. Poi che CICERONE ha dette le prime due parti del suo  prologo, si comincia la III parte, nella quale dice tre cose.  Imprima dico che pare a llui di sapienzia, infino là dove  25. dice : « Per la qual cosa ». Et quivi comincia la seconda,  nella quale dice che pare a llui d'eloquenzia, infino là ove  dice : « Ma quello il quale s' arma ». Et quivi comincia la  terza, ne la quale dice che pare a llui dell'una e dell'altra  giunte insieme.     3: M' om. e — 4: M- pdesi — m diloclamento 7 l'util., .tf' l'utilitade 1 diloclo —  8-9: .»/ ad ongno parole, m ogni paroleM-m om. sia.... sapienza — i-J : M' om. molto ^  i5: M-m lassa indireotissimi (m idireuissimi) — IG: M-m sola la parlatura — 18: 3l-m  sama — .)/ giuriare, m ingiuriare — Ì9-20.- .1/ luiomo cittadino, »i mi pare cittadino — .V-»i  a' suoi — .?3 • .1/ conincìa — S4 : M insini, .)/' inlìn là ove (cfr. Tcsnr.. xi, 1074) — So:  yr-ìii dice jiarla — M-m qui - 26: M insino — m là dove —M-m la (|ual dice.   (1) Questa lezione è oonfennata dal § 5 del coniuiento: « utile a ssè et al  suo paese. Onde dice Vittorino: Se noi volemo mettere avac-  ciamente in opera alcuna cosa nelle cittadi, sì ne conviene  avere sapienzia giunta con eloquenzia, però che sai)ienzia  sempre è tarda. Et questo appare manifestamente in alcuno  V 5. savio che non sia parlatore, dal quale se noi domandassimo  uno consiglio certe noUo darebbe tosto cosìe come se fosse  bene parlante. Ma se fosse savio e parlante inmantenente  ne farebbe credibile di quel che volesse. 3. Et in ciò che  dice Tulio di coloro che 'ntralasciano li studii di ragione e d' officio, intendo là dove dice « ragione » la sapienzia, e  là dove dice « officio » intendo le vertudi, ciò sono prodezza,  giustizia e l'altre vertudi le quali anno officio di mettere  in opera che noi siamo discreti e giusti e bene costumati. Et però chi ssi parte da sapienzia e da le vertudi e studia   15. pure in dire le parole, di lui adviene cotale frutto che, però  che non sente quel medesimo che dice, conviene che di lui  avegna male e danno a ssè et al paese, però che non sa  trattare le propie utilitadi uè Ile (i) comuni in questo tempo  e luogo et ordine che conviene. 5. Adunque colui che ssi  mette 1' arme d' eloquenzia è utile a ssè et al suo paese.  Per questa arme intendo la eloquenzia, e per sapienzia  intendo la forza; che sì come coli' arme ci difendiamo  da' nemici e colla forza sostenemo 1' arme, tutto altressì  per eloquenzia difendemo noi la nostra causa dall'aversario   2.5. e per sapienzia ne sostenemo (2) di dire quello che a noi  potesse tenere danno. Et in questa parte è detta la terzia  parte del prologo di Tulio. 6. Dunque vae il conto alla  quarta parte del prologo, per provare ciò eh' è detto da-  vanti et a conducere che noi dovemo studiare in rettorica     i : M Lande — M' avacciatamente, ma L avacciamente — S: m si cci conv. — 0; m  ODI. cosio, M e' noi darebb»; cos'i tosto M' credibile quello, m di quello — .)/' disse  — 10: .Vi om. il 2' & — 12: .»/' et altro — 13: .»f' che non siano — i4.- .V-m dall'altre ver-  tufli — 15:m adiviene — 16 : jn a lini  : solo L nelle ; (jli altri mss. e S nelli (.)/' nel!) --  19: M Adunque che colui — 22: M-m torma — M ne dil'ondono, m noi ci difendiamo —  23: il l'armi - 23-24: Af difendo — m così altresì la eloquenzia difendo noi dal nostro  aversario la nostra cliausa — 25: m om. ne; S non sostenemo — 26: m a noi potesse ave-  jjire (li danno, .V che noi potessimo tenere danno — 28-29: m dinanzi e; Jfi om. et.   (1) Cos'i richiede il senso; la lezione nelli ò nata certamente dall'aver preso  l'aggettivo comuni per un sostantivo.   (2) Intendo ne sostenemo = « ci tratteniamo, ci asteniamo », coni' è richiesto  dal senso e secondo gli esempii citati dal Vocabolario della Crusca.  per avere eloquenzia e sapienzia: e sopra ciò reca Tulio  molti argomenti, li quali debbono e possono così essere, e  tali che conviene che sia pur così, e di tali eh' è onesta  cosa pur di cosi essere ; e sopra ciò ecco il testo di Tulio CICERONE in lettera grossa, e poi seguisce la disposta in lettera sot-  tile secondo la forma del libro. Tullio CICERONE. Dunque se noi volemo considerare il principio d'eloquenzia  la quale sia pervenuta in uomo per arte o per studio o per usanza   lo. per forza dì natura, noi troveremo che sia nato d'onestissime  cagioni e che ssia mosso d'ottima ragione, (e. li) Acciò che fue un  tempo che in tutte parti isvagavano gli uomini per li campi in  guisa di bestie e conduceano lor vita in modo di fiere, e facea  ciascuno quasi tutte cose per forza di corpo e non per ragione   l.j. d'animo; et ancora in quello tempo la divina religione né umano  officio non erano avuti in reverenzia. Neuno uomo avea veduto le-  gittimo managio, nessuno avea connosciuti certi figliuoli, né aveano  pensato che utilitade fosse mantenere ragione et agguallianza. E così  per errore e per nescìtade la cieca e folle ardita signorìa dell'animo, cioè la cupìditade, per mettere in opera sé medesima misusava le  forze del corpo con aiuto dì pessimi seguitatori. Lo sponitore. In questa parte del prologo vogliendo Tulio CICERONE dimostrare che ELOQUENZA nasce e muove jper cagione e   2.5. per ragione ottima et onestissima, sì dice come in alcuno   tempo erano gli uomini rozzi e nessci come bestie; e del-     3: ìl-m tale — .1/' jdii' che cosi sia - 4 : m pure ili dovere così essere-, .1/' de pur essere  — .5 J/ ' la spositione — 9-tO: .»/' o per l'orca di natura o per usanca — H: m d'ottime  chagioni 7 ragione — 12: il-m in tempo — 13: it^ lor vita per li campi in modo de  bestie 7 de fiere — 14: i/' om. e [non p. r.| —M maritaggio — M iihylosofi, m lilo-  safi — 18: M j gualianoa - 19: il^-L ignoranza, m necessitade — .»A' la cieca la folle 7  ardita — 20: M-m per mette — M-m (fuivi susavano, l. masusavano — 21:31' seguitori —  23: M-1U nm. quarta — 24: m om. e per ragione — 26: il' nefa, m noscii. l'uomo dicono li filosofi, e la santa scrittura il conferma,  che egli è fermamento di corpo e d' anima razionale, la  quale anima per la ragione eh' è in lei àe intero conoscimento  delle cose. 2. Onde dice Vittorino: Sì come menoma la forza  5. del vino per la propietade del vasello nel quale è messo, cosie  r anima muta la sua forza per la propietade di quello corpo  a cui ella si congiunge. Et però, se quel corpo è mal di-  sposto e compressionato di mali homori, la anima per gra-  vezza del corpo perde la conoscenza delle cose, sì che  appena puote discernere bene da male, sì come in tempo  passato neir anime di molti le W quali erano agravate  de' pesi de' corpi, e però quelli uomini erano sì falsi et  indiscreti che non conosceano Dio né lloro medesimi. Onde  misusavano le forze del corpo uccidendo l'uno l'altro, tol-   15. liendo le cose per forza e per furto, luxuriando malamente,  non connoscendo i loi'o proprii figliuoli né avendo legittime  mogli. Ma tuttavolta la natura, cioè la divina disposi-  zione, non avea sparta quella bestialitade in tutti gli uomini igualmente; ma fue alcuno savio e molto bello dici-   20. tore il quale, vedendo che gli uomini erano acconci a ragionare, usò di parlare a lloro per recarli a divina conno-  scenza, cioè ad amare Idio e '1 proximo, sì come lo sponi-  tore dicerà per innanzi in suo luogo; e perciò dice Tulio  nel testo di sopra che eloquenzia ebbe cominciamento per   25. onestissime cagioni e dirittissime ragioni, cioè per amare  Idio e '1 proximo, che sanza ciò l' umana gente non arebbe  durato. 4. Et là dove dice il testo che gli uomini isvaga-  vano per li campi intendo che non aveano case né luogo,     1: M' i figluoli (corretto poi lilosofi) — M' sucra — S : M' eh ehi ì\ l'ormato — 3: in-  tero è in M'-L; il lùlo (incerto?), m inerito — 4: M Ondee — 7 : m al (|uale — 8: M-m  mali hiiomini — 9: m per la gravezza — .«' de corpo iO: M bone dal mali', hi il bone  dal male — il: M'-L animo — .V-m i quali erano agravate, M'-L li quali orano aggravati — i2: W del peso de corpi, L de' pesi del corpo V in lor medesimo — 14:  lU-m Ivi susavano — 18: M-m nonn ào — M bestilitade — 10: M' oiii. savio o — SI: W  tralloro — 23: M' qa\ dinanzi - S4: W e cornine, >S ha cornine. — 26-27: »l' non averla  durata, L non avrìa durato — i« K colà.   (1) È lezione congetìurale, ma l'unica possìbile : le quali si cambiò facilmente  in li quali (o i quali) per effetto del molti che precedeva, e da li quali, natural-  mente, venne in M'-L anche il maschile angraoati invece di aggravate. Che si  tratti solo delle animo risulta da tutto il periodo, e in particolare dallo parole  - la anima per gravezza del corpo ».   ma andavano qua e là come bestie. 5. Et là dove dice che  viveano come fiere intendo che mangiavano carne cruda,  erbe crude et altri cibi come le fiere. 6. Et là dove dice  « tutte cose quasi faceauo per forza e non per ragione »  5. intendo che dice « quasi » che non faceano però tutte cose  per forza, ma alquante ne faceano per ragione e per senno,  cioè favellare, disidejare et altre cose che ssi muovono  dall' animo. Et là dove dice che divina religione non  era reverita intendo che non sapeano che Dio (D fosse. Et là dove dice dell' umano ofiìcio intendo che non sa-  peano vivere a buoni costumi e non conosceano prudenzia  né giustizia né l'altre virtudi. Et là dove dice che non  mauteneano ragione intendo « ragione » cioè giustizia, della  quale dicono i libri della legge che giustizia è perpetua e   15. ferma volontade d'animo che dae a ciascuno sua ragione. Et là dove dice « aguaglianza » intendo quella ragione  che dae igual i)ena al grande et al piccolo sopra li eguali  fatti. Et là doye dice « cupiditade » intendo quel vizio  eh' è contrario di temperanza; e questo vizio ne -conduce   20. a disidei-are alcuna cosa la quale noi non dovemo volere,  et inforza nel nostro animo un mal signoraggio, il quale  noi permette rifrenare da' rei movimenti. 12. Et là dove  dice « nescitade » intendo eh' è nnone connoscere utile et  inutile; e però dice eh' è cupidità cieca per lo non sapere,   25. e che non conosce il prode e '1 danno. 13. Et là dove dice  « folle ardita » intendo che folli arditi sono uomini matti  e ratti a ffare cose che non sono da ffare. 14. Et là dove  dice « misusava le forze del corpo » intendo misusare cioè     i-2: M-m om. Et là.... come licre — 3 : M erbi ciiiili, .1/' 7 erbe crude — 4-6: m l'a-  ceano quasi per forza; poi, saltando al 2° forza, continua: ma al([uanle ecc. — 7: .i/'-L  dice quasi perciò ke ne faciano | tutte cose per forza 7 non per ragione intendo Ice dice  quasi, ma alquante ne faceano M' che muovono — 9: M-m chi idio — 11: .1/' ne  prudenza — 14: m' de legge — 14-15: m' ferma 7 perpetua voluntà — /": .1/ egual   — 18: M' mìsfacti — M lae — .V quello e poi rasura su cui altra mano scrisse apetito,  t quello che contrario, S quello appetite V om. noi - 22: M-m non permette M-m necessilade, .V ignoranza che non conosce il prode ol danno ~ m intendo che  non è — m dal danno — 27: .M-m e tratti, L orati — 2é?: J/ emusavano, jiiemisusavano —  .u misusere, .V' misure, L misusare — m che misusare è usare. Cioè « che Dio esistesse ». Così mi par preferibile per il senso; e la lezione  di M-m è facilmente spiegabile da un che Mio diventato eh' idio, chi dio; è vero  però che le ragioni paleografiche varrebbero anche per il caso inverso.  usare in mala parte ; che dice Vittorino che forza di corpo  ci è data da Dio per usarla in fare cose utili et oneste, ma  coloro faceano tutto il contrario. Ora à detto lo sponi-  tore sopra '1 testo di Tulio le cagioni per le quali eloquenzia cominciò a parere. Omai dicerae in che modo  appario e come si trasse innanzi. Nel quale tempo lue uno uomo grande e savio, il quale  cognobbe che materia e quanto aconciamento avea nelli animi delli uomini a grandissime cose chi Ili potesse dirizzare e megliorare per  comandamenti. Donde costrinse e raunò in uno luogo quelli uomini  che allora erano sparti per le campora e partiti per le nascosaglie  silvestre ; et inducendo loro a ssapere le cose utili et oneste, tutto  che alla prima paresse loro gravi per loro disusanza, poi T udirò   15. studiosamente per la ragione e per bel dire; e ssì Ili arecò umili e  mansueti dalla fierezza e dalla crudeltà che aveano.   Lo sjaonitore.   1. In questa i)arte vuole Tulio dimostrare da cui e come  cominciò eloquenzia et in che cose ; et è la tema cotale   20. In quel tempo che Ila gente vivea così malamente, fue un  uomo grande per eloquenzia e savio per sapienzia, il quale  cognobbe che materia, cioè la ragione che l' uomo àe in sé  naturalmente per la quale puote l' uomo intendere e ragio  nare, e l'acconciamento a fare grandissime cose, cioè a ttenere i)ace et amare Idio e '1 proximo, a ffai-e cittadi,  castella e magioni e bel costume, et a ttenere iustitia et  a vivere ordinatamente se fosse chi Ili potesse dirizzare,  cioè ritrarre da bestiale vita, e mellioi-are per comanda-  menti, cioè per insegnamenti e per leggi e statuti che Ili     2: M' om. ci — 3-4: M-iii Or o della la sposilione — 5: M-m loninciò (hi coro).  7 pare — M' oggimai — 6: M-m apparve — 8: il' uno buono — iO: 31' adrinure —  12: M-m per campora — 12-13: M-w le nascose selve 13: M-m et facciendo loro as-  sapere — 14: M' grave - L'i: M' si Hi recò — 16: M' crudelilà — 23: M-m nm. l'uomo  — 24 : M-m el lo ncomincianiento, L el chominciamenlo — 25: M'el ad amare ~ 26: M'  7datener — 27: M' chi le polesse adrifrure - m om. potesse — 28: M' enirare da b. v.   afrenasse (1). 2. Et qui cade una quistione, che potrebbe  alcuno dicere: « Come si potieno melliorare, da che non  erano buoni? >. A cciò rispondo che naturalmente era la  ragione dell'anima buona; adunque si potea migliorare nel  5. modo eh' è detto. 3. Donde questo savio costrinse - e dice  che i « costrinse » però che non si voleano raunare - e  raunò - e dice « raunò » poi che elli vollero. Che '1 savio  uomo fece tanto per senno e per eloquenzia, mostrando  belle ragioni, assegnando utilitade e metendo del suo in   10. dare mangiare e belle cene e belli desinari et altri piaceri,  che ssi raunaro e patiero d'udire le sue parole. Et elli in-  segnava loro le cose utili dicendo: « State bene insieme,  aiuti l'uno l'altro, e sarete sicuri e forti; fate cittadi e  ville *. Et insegnava loro le cose oneste dicendo : « Il pic-   15. colo onori il grande, il figliuolo tema il suo padre » etc. Et tutto che, dalla prima, a questi che viveano bestial-  mente paresser gravi amonimenti di vivere a ragione et ad  ordine, acciò eh' elli erano liberi e franchi naturalmente e  non si voleano mettere a signoraggio, poi, udendo il bel dire   20. del savio uomo e considerando per ragione che larga e li-  bera licenzia di mal fare ritornava in lor gi"ave destruzione  et in periglio de l'umana generazione, udirò e miser cura  a intendere lui. Et in questa maniera il savio uomo li ri-  trasse di loro fierezza e di loro crudeltade - e dice « fierezza » perciò che viveano come fiere; e dice « crudeltade »  perciò che '1 padre e '1 figliuolo non si conosceano, anzi  uccidea l'uno l'altro - e feceli umili e mansueti, cioè vo-  lontarosi di ragioni e di virtudi e partitori (2) dal male.     1 : m rafrenasse, S affrenassono — J/ " Et acade, L e ecci una (\. — 2 : il poneno (cerio  per falsa lettura di potieno; cfr. Wiese in Zeilsch. f. Rom. Pini., VII, 330, g i33), m il'  poteano — 4: m dunque — 6: it-iii om. che i — 9: W l'utilitade — i^l' metendo '1 suo -  10: m mangiare cene e desinari 19: il sottomettere — 20-23: it-m om. e considerando....  il savio uomo — 23-24: m si ritrassono — 24: il lore fier., M' lor fior, — me dalloro  crud. — 24-25: H-m om. e dice.... crudeltade — 26: il' e li figluoli (ma L el figliuolo)  - 28: il' partito, l. e'dipirtironsi, s partiti.   (1) Parrebbe preferibile la lezióne di &'; ma è significativo il fatto che tutti  i mss. abbiano il singolare. Invece di condannarlo come corruzione comune, basta  pensare che sostantivi astratti come « insegnamenti, leggi e statuti » siano con-  siderati formanti un complesso unico, sì da farli equivalere al singolare (p.es. «ciò»);  e quest'uso del verbo è attestato da un altro passo di Brunetto, IO, 3, e dal Varchi,  Ercolano, ediz. Bottari (Firenze Senza ricorrere ai facili accomodamenti, conservo la lezione di M inten-  dendo « partitore » in senso riflessivo : « colui che si parte, che si allontana ». Cfr.  Manuzzi. Or à detto CICERONE chi cominciò eloquenzia et intra cui  e come; or dicerà per che ragione, eanza la quale non  potea ciò fare.   Tullio.    Per la qual cosa pare a me che Ha sapienzia tacita e povera   di parole non arebbe potuto fare tanto, che così subitamente fossero  quelli uomini dipartiti dall'antica e lunga usanza et informati in  diverse ragioni di vita. Lo sponitore. In questa parte dice Tulio la ragione sanza la quale   non si potea fare ciò che fece '1 savio uomo; e dice sapienzia tacita quella di coloro che non danno insegnamento per parole ma per opera, come fanno ' romiti. Et  dice « povera di parole » per coloro che '1 lor senno non sanno addornar di parole belle e piene di sentenze a ffar  credere ad altri il suo parere. Et per questo potemo intendere che picciola forza è quella di sapienzia s'ella nonn  è congiunta con eloquenzia, e potemo connoscere che sopra  tutte cose è grande sapienzia congiunta con eloquenzia.  Et là dove dice « così subitamente » intendo che quello  savio uomo arebbe bene potuto fare queste cose per sapien-  zia, ma non cosi avaccio né così subitamente come fece  abiendo eloquenzia e sapienzia. Et là dove dice « in di-  verse ragioni di vita » intendo che uno fece cavalieri, un   25. altro fece cherico, e così fece d'altri mistieri.   Tullio.   7. Et così, poi che Ile cittadi e le ville fuoron fatte, impreser  gli uomini aver fede, tener giustizia et usarsi ad obedire l'uno l'altro  per propia volontarie et a sofferire pena et affanno non solamente     2 : M-m om. e come — sanza (luale — 5: M-m Per ((ualcosa - 7 : M' luioniiiii quelli —  13: M' i romiti, m li romiti — 14: M-m alloro senno, L in loro senno — i7: M-m om.  che — i9: M' giunta — 22: Af' si avaccio — 23: M-m om. e sapienzia — 28: m ad avere  lede 7 tenere.... adusarsi — M l'uno a l'altro. A qualcuno e sapienzia potrà sembrare un'aggiunta arbitraria; ma siccome  non è inutile, preferisco mantenerlo.  per la comune utilitade, ma voler morire per essa mantenere. La  qual cosa non s'arebbe potuta fare d) se gli uomini non avessor po-  tuto dimostrare e fare credere per parole, cioè per eloquenzia, ciò che  trovavano e pensavano per sapienzia. 8. Et certo chi avea forza e  5. podere sopra altri molti non averla patito divenire pare di coloro  ch'elli potea segnoreggiare, se non l'avesse mosso sennata e soave  parladura; tanto era loro allegra la primiera usanza, la quale era  tanto durata lungamente che parea et era in loro convertita in  natura. Donde pare a me che così anticamente e da prima nasceo e mosse eloquenzia, e poi s'innalzò in altissime utilitadi delli uo-  mini nelle vicende di pace e di guerra.   Lo sponitore.   I. In questa parte dice Tulio che cciò che sapienzia  non avrebbe messo in compimento per sé sola, ella fece   15. avendo in compagnia eloquenzia; e però la tema èe cotale:  Si come detto è davanti, fuoro gli uomini raunati et inse-  gnati di ben fare e d'amarsi insieme, e però fecero cittadi  e ville; poi che Ile cittadi fuor fatte impresero ad avere  fede. Di questa parola intendo che coloro anno fede che   20. non ingannano altrui e che non vogliono che lite né di-  scordia sia nelle cittadi, e se vi fosse sì la mettono in pace.  Et fede, sì come dice un savio, è Ila speranza della cosa  promessa; e dice la legge che fede è quella che promette  l'uno e l'altro l'attende. Ma Tulio medesimo dice in un altro libro delli offici che fede è fondamento di giiistizia,  veritade in parlare e fermezza delle promesse; e questa ée  quella virtude eh' é appellata lealtade. E così sommata-  mente loda Tulio eloquenzia con sapienzia congiunta, che     2: ilf'-£ potuto - M' om. non — 4: Jlf> Certo — 5: M-m vinavea charebbono potuto  divenire paii — 6: M-m chelli poteano, M^-L cui potea — M-m santa — 7: M^-L allegrezza  — 8-9 : M era converita la loro natura, m era convertila in loro natura — 9 : m onde —  14-15: M^ il fece in compagnia d'eloquentia.... si ò cotale —M-m detto oe dinanci  19: 3/' fede, 7 di q. p. — PO : M^ om. e o discordia — 21-22: M-m in pace et  in fede — m om. è - 23: M^ quello, ma L quella — 26: M-m et intermezza — M' de-  lenpromesse — 27: M legheltade (?«a cfr. Texor., XVII, 15) — M somatamente, m asommatam.  congiunta con sapienzia.   (1) Sarà certo da legger così, e non sarebbe si sarebbe, poiché di quest'uso  dell' ausiliare avere presso gli antichi non mancano esempli sicuri : cfr. la nota  di M. Barbi nella sua ediz. della Vita Nuova, 2, e ciò che aggiunse il  Parodi in Bullett. della Soc. Bant., N. S., XXI, 67-68. Lo stesso si dica per s'areb-  hono del commento, sanza ciò le grandissime cose non s'arebbono potute met-  tere in compimento, e dice che poi àe molto de ben fatto  in guerra et in pace. Et per questa parola intendo che tutti  i convenenti de' comuni e delle speciali persone corrono per due stati o di pace o di guerra, e nell' uno e nell'altro bi-  sogna la nostra rettorica sì al postutto, che sanza lei non si  potrebbono mantenere.   Tullio.  Ma poi che Ili uomini, malamente seguendo la vìrtude sanza  10. ragione d'officio, apresero copia di parlare, usaro et inforzaro tutto  loro ingegno in malizia, per che convenne che ile cittadi sine gua-  stassero e li uomini si comprendessero di quella ruggine, (e. Ili)  Et poi che detto avemo la cumincianza del bene, contiamo come  cuminciò questo male. Poi che CICERONE avea detto davanti i beni che sono  advenuti per eloquenzia, in questa parte dice i mali che  sono advenuti per lei sola sanza sapienzia; ma perciò che  Ila sua intentione è più in laudarla, sì appone elli il male a coloro che Ila misusano e non a Ilei. 2. Et sopra ciò la  tema è cotale: Furono uomini folli sanza discrezione, li  quali, vegga ndo che alquanti erano in grande onoranza e  montati in alto stato per lo bell.o parlare ch'usavano se-  condo li comandamenti di questa arte, sì studiaroO solo in parlare e tralasciare lo studio di sapienzia, e divennero  sì copiosi in dire che, per l'abondanza del molto parlare  sanza condimento di senno, che (2) cumìnciaro a mettere     cioè — 2: M-in che poi {ni, om. poi) a molli a Dio ben facto — -J: M om. duri stali — i 1 : M conviene, M' conveiiia — IS: M-m om. e li uomini si compren-  dessero — 13: M \a cunincianza (e cluininciò)3/' il cuminciamento — 16: m ave... dinanzi   — 18: M^ dopo advenuti ripete per eloquenlia in quesUi parte (ma ri son trticiie di etpun-  zione) — 19: m om. elli — 20: M El perciii — 24: M' il comandamento.... studiavano   — 25 : ilf intralassai-o, m e lasciaro - 20: M' de molto — m om. elio.   (1) Invece di si studiavo credo preferibile studiavo in senso assoluto, come già  si è trovato, 3, § e studia puro in dire le parole. Sintatticamente questo che ò pleonastico; ma ò attestato da ambedue le  famiglie di codici e non costituisce una rarità per il nostro volgare antico (anzi,  per Brunetto stesso, cfr. IO, 1: avegna che ma tutta volta).   sedizione e distruggi mento nelle cittadi e ne' comuni et a  corrompere la vita degli uomini; e questo divenia però  ch'ellino aveano sembianza e vista di sapienzia, della quale  erano tutti nudi e vani. 3. Et dice Vittorino che eloquenzia  5. sola èe appellata « la vista », perciò che ella fae parere che  sapienzia sia in coloro ne' quali ella non fae dimoro. Et  queste sono quelle persone che per avere li onori e F utti-  litadi delle comunanze parlano sanza sentimento di bene;  così turbano le cittadi et usano la gente a perversi costumi. Et poi dice Tulio: Da che noi avemo contato '1 principio  del bene, cioè de' beni che avenuti erano per eloquenzia,  si è convenevole di mettere in conto la 'ncumincianza del  male chende seguitò. Et dice in questo modo nel testo:   Tullio tratta della comincianza del male  15. adveniito per eloquenzia. Et certo molto mi pare verisimile: in alcuno tempo gli  uomini che non erano parlatori et uomini meno che savi non usa-  vano tramettersi delle publiche vicende, e che W gli uomini grandi  e savi parlieri non si trametteano delle cause private. E con ciò   20. fosse cosa che sovrani uomini regessero le grandissime cose, io mi  penso che furo altri uomini callidi e vezzati i quali avennero a trattare  le picciole controversie delle private persone; nelle quali controversie  adusandosi gli uomini spessamente a stare fermi nella bugia incon-  tra la verità, imperseveramento di parlare nutricò arditanza   25. 11. Sì che per le 'ngiurie de' cittadini convenne per necessitade   che' maggiori si contraparassono agli arditi e che ciascuno atoriasse  le sue bisogne; e così, parendo molte fiate che quello eh' avea  impresa sola eloquenzia sanza sapienzia fosse pare o talora più  innanzi che quello che avea eloquenzia congiunta con sapienzia,     i-2: m nelle loro ciltadi — M' om. et a corr.... uomini — 2: m avenia — 3 kelli aveano  sombianca de giusta sap. — 4: m om. Et — 6: M' li quali — 7: M' questi — 10: m om.  Et — 11: M' bone kavenuto era - 12: 1/' il cominciamento — i3: Jlf chende seguita, j/i  che ne seguita - 16: M et certo mo, la Certo modo M meno di savi, m ch'erano  meno che savi — 17-18: M-m non sapeano, L non osavano — M-m om. e — 19: Jlf sin-  trametteano dele cose — 21: M-m om. uomini — M verrali — 3f' vennero — 22: M' om.  delle pr.... controversie — 23: M-m om. spessamente — 24: M' il persev. - 26: M' aiutasse  m adornasse — 29: M' giunta.   (1) Un costrutto più regolare si avrebbe sopprimendo il che o inserendone un  altro dopo verisimile; appunto. per questo conservo' il che, non sembrando proba-  bile che un copista volesse complicare di suo. Questa maggiore libertà sintattica  non è nuova.  aveni'a che, per giudicio di moltitudine di gente e di sé medesimo  paresse essere degno di reggiere le publiche cose.  E certo non ingiustamente, poi che' folli arditi impronti  pervennero ad avere reggimenti delle comunanze, grandissime e miserissime tempestanze adveniano molto sovente; per la qual cosa  cadde eloquenzia in tanto odio et invidia che gli uomini d'altissimo  ingegno, quasi per scampare di torbida tempestade in sicuro porto,  così fuggiendo la discordiosa e tumultuosa vita si ritrassero ad al-  cuno altro queto studio. Per la qual cosa pare che per la loro posa li altri dritti et onesti studii molto perseverati vennero in onore. Ma questo studio di rettorica fue abandonato quasi da tutti loro,  e perciò tornò a neente, in tal tempo quando più inforzatamente si  dovea mantenere e più studiosamente crescere; perciò che quando  più indegnamente la presumptione e l'ardire de' folli impronti manimettea e guastava la cosa onestissima e dirittissima con troppo  gravoso danno dei comune, allora era più degna cosa contrastare e  consigliare la cosa publica. Della qual cosa non fugìo il nostro  Catone né Lelius né, al ver dire, il loro discepolo Àffricano, né i  Gracchi nepoti d' Àffricano, ne' quali uomini era sovrana virtude et altoritade acresciuta per la loro sovrana virtude; sì che la loro  eloquenzia era grande adornamento di loro et aiuto e mantenimento  della comunanza.   Lo sponitore. In questa parte divisa Tulio come divennero quelli due mali, cioè turbare il buono stato delle cittadi e corrompere la buona vita e costumanza delli uomini; et avegna  che '1 suo testo sia recato in sie piane parole che molto fae  da intendere tutti, ma tutta volta lo sponitore dirae alcune  parole per più chiarezza. 2. Et è la tema cotale: La elo-     1 : M-m avogiia — 2: M per essoi-o degno d'essere 7 di reggiere, M' paresse degno  de reggere — 3: M' poi ke fuor iaiditi in pronti, m enpronti — 4-5 : M' pervennero i  reggìm. — 7 de miserissime tempeste — spessamente — 7 : M' lempcstande — * : M-m la  discordia (m echontumulosa) — 9 : Tutti i mss. questo, S posato - M-m possa — i i : itf ' do  tutto loro " i4: M dì [olii — 18-19: M ne nelilio - M-m om. nò i G. n. d'AII'ricano —  Jlf' erano sovrane vertudi — 26: M' la vita 7 la buona costumanca - 27: M< suo stato  — m in se — 28: itf' om. tutti, ma — M' alcuna parola — S9: Af' Et la tema 6 cotale.  De la el. ecc. È possibile tanto la lezione di Af quanto quella di m; ma proferisco questa  perchè corrisponde alle parole del commento, § 6: « pareano essere degni». Il testo latino ha studium aliquod quieUtm. Lo scambio di queto por questo  era facilissimo, e forse risalo r.llo iirimo copio.  quenzia mise in sì alto stato i parladori savi e guerniti di  senno, che per loro si reggeano le cittadi e le comunanze  e le cose publiche, avendo le signorie e li officii e li onori e  le grandi cose, e non si trametteano delle cause private, cioè  5. delle vicende delli uomini speciali, né di fare lavoriere né altre picciole cose. Ma erano altri uomini di due maniere:  l'una che non erano parlatori, l'autra che non aveano sa-  pienzia, ma erano gridatori e favellatori molto grandi; e  questi non si trametteano delle cose publiche, cioè delle signorie e delli officii e delle grandi cose del comune, ma  impigliavansi a trattare le picciole cose delle private per-  sone, cioè delli speciali uomini. 3. Intra' quali furono alcuni  calidi e vezzati - cioè per la fraude e per la malizia che in  loro regnava parea ch'avesse in loro sapienzia-; e questi s' ausarono tanto a parlare che, per molta usanza di dire  parole e di gridare sopra le vicende delle speciali persone,  montare in ardimento e presero audacia di favellare in  guisa d'eloquenzia tanto e sì malamente che teneano la  menzogna e la fallacia ferma contra la veritade. Onde, per li grandi mali che di ciò adveniano, convenne che'  grandi, ciò sono i savi parladori che reggeano le grandi  cose, venissero et abassassero a trattare le picciole vicende  di speciali persone, per difendere i loro amici e per conta-  stare a quelli arditi. Et nota che arditi sono di due ma-   25. niere : l' una che pigliano a fifare di grandi cose con prove-  dimento di ragione, e questi sono savi; li altri che pigliano  a ffare le grandi cose sanza provedenza di ragione, e questi  sono folli arditi. 5. Donde in questo contrastare i buoni e  savi parlavano giustamente, ma i folli arditi, che non aveano   30. studiato in sapienzia ma pure in eloquenzia, gridavano e  garriano a grandi boci e non si vergognavano di mentire  e di dire torto palese; sicché spessamente pareano pari di  senno e di parlare e talvolta migliori. Sì che per sentenza     4 : M' om. e non s. t. d. cause — 5: M-m ont.aò — 6: m odaltre p. o. — 7  M< parliei-i —  iO: M' de comuni dele piccole cose cioè che jier la lYaude ecc. parean  (/^ parea) cavassero sapienlia— lo.- 3f< pei' la molta — 17: M^ presero baldanza — 19: M' con-  tro alla verità — 20: A/' ohi. che d. e. adveniano — m avenia savi e parladori —  m le cittadi — 23: M' appilgliano a taro le g. e. — 26: M^ om. di ragione — L l'altra —  27: L provedimento — 31-32: Me dire,moHi. mentire e di — 33:M' talocta m. visi che p.s  Cosi leggo con M, piuttosto che lavogarie di ilf' o lavorìi di m: oltre a  lavareria, il Manuzzi registra esempii di lavoriera.    del popolo, la quale è sentenzia vana perciò che non muove  da ragione, e per sentenza di sé medesimo, la quale è per  neente, pareano essere degni di covernare le publiche e le  grandi cose, e così furo messi a reggere le cittadi et alli  5. officii et onori delle comunanze. Et poi che cciò avenne,  non fue meraviglia se nelle cittadi veniano grandissime e  miserissime tempestadi. Et nota che dice « grandissime »  per la quantità e che duraro lungamente, e dice « mise-  rissime » per la qualitade, ch'erano aspre e perilliose chende   10. moriano le persone ; e dice « tempestanza » per similitudine,  che sì come la nave dimora in fortuna di mare e talvolta  crescono (i) in tanto che perisce, così dimora la cittade per  le discordie, et alla fiata montano sicché periscono in sé  medesime e patono distruzione. « Per la qual cosa eloquenzia cadde in tanto odio et invidia »... Et nota che odio  non é altro se nno ira invecchiata; e così i buoni savi erano  stati lungamente irosi, veggiendo i folli arditi segnoreggiare  le cittadi. Et invidia è aflizione che omo àe per altrui bene;  donde i buoni savi aveano molta aflizione per coloro ch'erano segnori delle grandi cose et erano in onore. 8. Et perciò li  buoni d'altissimo ingegno si ritrassero di quelle cose ad  altri queti studii per scampare della tumultuosa vita in  sicuro porto. Et nota: là dove dice « altissimo ingegno »  dimostra bene eh' arebboro potuto e saputo contrastare a' folli arditi, e perciò che no '1 fecero furo bene da riprendere. Et in ciò che dice « queti studi » intendo l' altre  scienze di filosofia, sì come trattare le nature delle divine  cose e delle terrene, e sì come l'etica, che tratta le virtudi  e le costumanze; et appellali « queti studii » che non trattano di parlare in comune, e perciò che ssi stavano partiti  dal remore delle genti. Et appella « vita tumultuosa » che     2: Jl/i per ragione ~ 4: M furoro, M^ fuoro — 7 : M-m ismisuratissime ~ 8: SI durano,  m duravano quantitade.... s\ elione moriano - 10: M' tempestade — 14: M'  medesimo ~ 15: m om. Et — 16: m buoni e savi — 18: m om. Et — m i'uomo... l'al-  trui — SO: M> et in lionore erano — m ad altre — M-m questi, M' certi —om. Et noia la dove — 25 : M-m non fecero — 26 : Tutti i mss questi — 27 : M de  trattare — 28: M-m sicome dice che l. — 29: M^ appellasi, L appellansi — mss. questi Cosi hanno tutti i codici; ma forse dopo crescono è andato perduto un sog-  getto, richiesto dal senso o dalla sintassi, come i venti o l'onde (abbiamo anche  altrove la prova che le due famiglie di codici risalgono a un capostipite già corrotto).  Pure non sarebbe impossibile sottintendere dal precedente fortuna un soggetto le  fortune. spessamente l'iiuo uomo assaliva l'altro in cittade coll'arme  e talvolta l'uccideva. 9. Et poi che' savi intralassar lo studio  d'eloquenzia, ella tornò ad neente e non fue curata uè pre-  giata. Ma l'altre scienzie di filosofia, nelle quali studiaro, montaro in grande onore. Et ora riprende Tulio questi  savi e dice che fecior questo a quel tempo che eloquenzia  avea più grande bisogno per lo male che faceano i folli  arditi nelle cittadi, e perchè guastavano la cosa onestis-  sima e dirittissima, cioè eloquenzia che ssi pertiene alle cose oneste e diritte. U. Dalla qual cosa non fugio il nostro  Catone né quelli altri savi ch'amavano drittamente il co-  mune et aveano senno e parlatura; ma dimoraro fermi a  consigliare et a difendere il comune da'garritori folli ar-  diti; e però montaro in onore et in istato sì grande che le loro dicerie erano tenute sentenze, e perciò dice che in  loro era autoritade, che autoritade èe una dignitade degna  d' onore e di temenza. Ma da questo si muove il conto  e ritorna a conchiudere per ragioni utili et oneste e pos-  sibili e necessare che dovemo studiare in eloquenzia, lodala in molte guise.  CICERONE conclude che sia da studiare in rettorica. Per la qual cosa, al mio animo, non perciò meno è da  mettere studio in eloquenzia s' alquanti la misusano in publiclie et  in private cose; ma tanto più clie ' malvagi non abbiano troppo di podere con grave danno de' buoni e con generale distruzione di tutti.  Maximamente cun ciò sia la verità che rettorica è una cosa la quale  molto s'appartiene a tutte cose, è publiche e private, e per essa diviene  la vita sicura, onesta, inlustre e iocunda; e per essa medesima molte  utilitadi avengono in comune se fia presta la modonatrice di tutte  cose, cioè sapienzia; e per lei medesima abonda a coloro che H'acqui-  stano lode, onore, dignitade; e per essa medesima anno li amici  certissimo e sicurissimo aiutorio.     1: M-m spesse volte — 2: m tralassaro — 8: m le chose honestissime — 10: M  (Iride, m diritte — 3f' Dela q. e. — 11: M' dirittamente, m om. — 12: M' dimorato  y f.: M 7 folli arditi, £ e da f. a. — 14: M^ J montaro perciò — 18: m e torna,  M 7 condoura tornerà per ragioni, L e mosterrà per rag. — Jlf-;» honesti ~ 19: M -m ne-  cessarie— 20: m lodarla — ^3: M* misuna, corretto poi misusa — 27: M' molto pertièno  devegna — 28: M> y hon. 7 illustra 7 gioconia, m illustra — 29: M sia — 31: M^-m 7  honore 7 dignitade.  La tema di questo testo è cotale, (H che dice Tulio:  Se alquanti di mala maniera usano malamente eloquenzia,  non rimane pertanto che 11' uomo non debbia studiare in  5. eloquenzia, al mio animo (cioè per mia sentenza), acciò  che ' rei uomini non abbiano podere di malfare a' buoni  né di fare generale distruzione di tutti. Et nota che di-  strutti sono coloro che soleano essere in alto stato et in  ricchezza e poi divennero in tanta miseria che vanno men-   10. dicando. 2. Et poi dice le lode di rettorica, come tocca al  comune et al diviso, e come per lei diviene l'uomo sicuro,  cioè che sicuramente puote gire a trattare le cause, et ap-  pena troverai (2) chi '1 sappia contradiare ; e dice chende  diviene la vita « onesta », cioè laudato intra coloro che '1   15. cognoscono; e dice «illustre», cioè laudato intra li strani;  e dice « ioconda », cioè vita piacevole, però che ' savi par-  lieri molto piacciono ad sé et altrui. 3. Et altressi molto  bene n'aviene alle comunanze jier eloquenzia, a questa con-  dizione : se sapienzia sia presta, cioè se ella sia adiunta con eloquenzia. Et dice che sapienzia è amodenatrice di tutte  cose però che ella sae antivedere e porre a tutte cose certo  modo e certo fine. 4. Et poi dice che questi che anno elo-  quenzia giunta con sapienzia sono laudati, temuti et amati;  e dice che Ili amici loro possono di loro avere aiutorio sicurissimo, però che appena fie chi Ili sappia contrastare,  poiché sanno parlare a compimento di senno. Et dice « cer-  tissimo » però che '1 buono e '1 savio uomo non si lascia  M-m Lo testo èe cotale, M'-L La tema de questo è cotale — 3: M' aliijuanti —  6: M' de fare male — 7: m om. nota — 9: il' divegnono — 11: M huomo siguro —  13: M' troverà — 14: M-m laudata.... che cognoscono — 15: M' illustra, L illustro —  17: A/' ad altri — M-m nm. Et altressi e n— 19: Hin presta — M' giunta — 21 :M siae  ad intivedere, m a ad antivedere — 22: m om. Et — 23: M^ 7 temuti — 25: m Tia chelli  sappia, M' fie chelli il sappia — 37: M non so lascia.  Anche la lezione di ilf è possibile, ma forse nacque da un accomodamento  arbitrario del testo già corrotto. Invece quella di M' è spiegabilissima collomissione della parola testo (la somiglianza con questo rese più facile l' errore) e riceve  conforma dal principio del capitolo seguente, con quell'uniformità di espressione  che è caratteristica di tutto il commento.   (2) Troverai è preferibile come « lectio difflcillor ». Del resto anche in M' po-  trebbe trattarsi non di troverà, ma troverà'. corrompere per amore ne per prezzo né per altra simile  cosa. Et qui si parte il conto e fae nn' ultima conclusione  in questo modo: Tullio conclude in somma. Et però pare a me che gli uomini, i quali in molte cose   sono minori e più fievoli che Ile bestie, in questa una cosa l'avanzano, che possono parlare ; e donque pare che colui conquista cosa  nobile et altissima il quale sormonta li altri uomini in quella me-  desima cosa per la quale gli uomini avanzano le bestie. La tema in questo testo è cotale : La veritade è che  gli uomini in molte cose sono minori che Ile bestie e più  fievoli, acciò che sanza fallo il leofante e molti altri animali sono più grandi del corpo che nonn è l'uomo; e certo il leone e molte altre bestie sono più forti della persona  che ir uomo; e più ancora che in tutti e cinque ' sensi sono  certi animali che avanzano lo senso dell'uomo. Che sanza  fallo lo porco salvatico avanza l'uomo d'udire e '1 lupo  cerviere del vedere e la scimmia del saporare, e l'avóltore   20. dell' anasare ad odorare, e '1 ragnol del toccare. Ma in  questa una cosa avanza 1' uomo tutte le bestie et animali,  che elli sa parlare. Donque quello uomo acquista bene la  sovrana cosa di tutte le buone, che di ben parlare soprastae  alli altri uomini.   25. Tullio dice di che elli tratterà-   16. Et questa altissima cosa, cioè eloquenzia, non si acquista  solamente per natura né solamente per usanza, ma per insegnamento  d'arte altressi. Donque non è disavenante di vedere ciò che dicono  coloro i quali sopra ciò ne lasciaro alquanti comandamenti. Ma anzi     S: il-m un'altra condictione — 7 : M' costui — il-m conquesta — 8: M-m la quale;  om. li — 9 : )» om. cosa e gli uomini — 11: il' de questo t. M' molti huomini....  minori 7 più fievoli chelle bestie — 15: U-m om. altre — 16: M' che tucti — 19-20: M-m  7 l'avóltore dell'odore, M']j lavoltoio delanasare adodorare, L del savorare e odorare, S et  l'avoltoio del nasare et d'odorare — M-M' 7 rangnol, m il rangnolo (ohi. tulli gli e), L a ra-  gnolo — M'-L ne! toccare — 22: M' chelli sanno - 25: M dico che {ma cfr. ^ \) — 27 : M'  per la natura — 2S: M-m nm. d'arte — 29: m certi. che noi diciamo ciò che ssi comanda in rettorica, pare che sia a  trattare del genere d' essa arte e del suo officio e della fine e della  materia e delle sue parti; imperochè sapute e cognosciute queste  cose, più di legieri e più isbrigatamente potrà l'animo di ciascuno  5. considerare la ragione e ia via dell'arte.   Lo sponitore.   1. Poi che Tulio avea lodata Rettorica et era soprastato  alle sue commendazioni in molte maniere, sì ricomincia nel  suo testo per dire di che cose elli tratterà nel suo libro.  10. Ma prima dice alcuni belli dimostramenti, perchè l'animo  di ciascuno sia più intendente di quello che seguirà, e così  pone fine al suo prolago e viene al fatto in questo modo:   Tullio ae fiìiito il prolago, e comincia a dire di eloquenzia. Una ragione è delle cittadi la quale richiede et è  15. di molte cose e di grandi, intra Ile quali è una grande et ampia  parte l' artificiosa eloquenzia, la quale è appellata Rettorica. Che al  ver dire né cci acordiamo con quelli che non credono che Ila scienzia  delle cittadi abbia bisogno d'eloquenzia, e molto ne discordiamo da  coloro che pensano ch'ella del tutto si tegna in forza et in arte del  20. parladore. Per la qual cosa questa arte di rettorica porremo in quel  genere che noi diciamo ch'ella sia parte della civile scienzia, cioè  della scienzia delle cittadi.   Lo sponitore.   I. In questa parte del testo procede Tulio a dimosti-are ordinatamente ciò che elli avea promesso nella fine del pro-  lago. Et primamente comincia a dicere il genere di questa  arte. Ma anzi che Ho sponitore vada innanzi sì vuole fare  intendere che è genere, perchè l' altre parole siano meglio  intese. Ogne cosa quasi o è generale, sicché comprende  molte altre cose, o è parte di quella generale. Onde questa     1-2: M' (la tratto, poi corr. da trattar.; — 3: M-m generalmente della decta- arte —  3: m però che - 4: M-m più diligente, M' nm. più — 8: M A rinconincia — 11 : M'  (luelle, ma L quello — 14-13: M'-L richiede molte cose grandi — 16: M-m cai ver diro —  18: M-m abbiano — 30: M-m [lorromo quel genero — SG: m quella — S8: M-m y perchè  — 29: M ìì quasi generale, m è quasi geu. — 30: M onde jvirte quella gen.   parola, cioè « uomo », è generale, per ciò che comprende  molti, cioè Piero e Joanni etc, ma questa parola, cioè  « Piero, » è una parte- A questa somiglianza, per dire più  in volgare, si puote intendere genere cioè la schiatta; che  5. chi dice « i Tosinghi » comprende tutti coloro di quella  schiatta, ma chi dice « Davizzo » non comprende se no una  parte, cioè un uomo di quella schiatta. 3. Onde Tulio dice  di rettorica sotto quale genere si comprende, per meglio  mostrare il fondamento e Ila natura sua. Et dice così che Ila   10. ragione delle cittadi, cioè il reggimento e Ila vita del co-  mune e delle speciali persone, richiede molte e grandi cose,  in questo modo: che è in fatti e 'n detti. 4. In fatti è la ra-  gione delle cittadi sì come l'arte W de' fabbri, de' sartori, de'  pannar! e l' altre arti che si fanno con mani e con piedi. In  detti è la rettorica e l'altre scienze che sono in parlare.  Adonque la scienza del governamento delle cittadi è cosa  generale sotto la quale si comprende rettorica, cioè l'arte  del bene parlare. Ma anzi che Ilo sponitore vada più innanzi, pensando che Ha scienza delle cittadi è parte d' un altro generale che muove di filosofia, sì vuole elli dire un  poco che è filosofia, per provare la nobilitade e l'altezza  della scienzia di covernare le cittadi. Et provedendo ciò  ssi pruova l'altezza di rettorica.   6. Filosofia è quella sovrana cosa la quale comprende  sotto sé tutte le scienze; et è questo uno nome composto   di due nomi greci : il primo nome si è phylos, e vale tanto   a dire quanto « amore », il secondo nome è sophya, e vale   - tanto a dire quanto « sapienzia ». Onde FILOSOFIA tanto vale   a dire come « amore della sapienzia » ; per la qual cosa neuno   30. puote essere filosofo se non ama la sapienzia tanto eh' elli  intralasci tutte altre cose e dia ogne studio et opera ad  avere intera sapienzia. Onde dice uno savio cotale difiì-     / M-m cioè che comprende — 2: Af' nm. o J cioè Piero — 5: M' ovi. chi —   4-6: m om. tutto il passo da che « quella schiatla — 8: m om. per — 9: M^ demostrare —  10: jU' i reggimenti — 12: M-m om. che b — 13: Af ' l'arti (ma anche L l'arto) — m e de'pan-  nali, .)/ 7 de sartori de panni — 16-17: m o parte d'un altro generale — 1M' de  ben p. — 20: M in podio — 22: m om. della scienzia, 3/' niii. della scienzia l'al-  tezza — 25: M sotto di sé — 26: m fue fdos, .W filis — 27 : m om. nome — 29: M^ de  la scienza — 31: M-m tuote l'altre — J/' 7 da ~ 32: M-m. ad amare —' M' Donde.   (1) Anche arte potrebbe essere qui un plurale, come in Tesar., X, 39-40; però  lo ronde poco probabile la forma arti che subito segue. La lezione amare di M-m fu certo suggerita dai precedenti amore e ama,  e basterebbe a farla rifiutare la ripetizione di concetto a cui si riduce. nizione di filosofia : ch'ella è inquisizione delle naturali cose  e connoscimento delle divine et umane cose, quanto a uomo  è possibile d' interpetrare. Un altro savio dice che filosofia  è onestade di vita, studio di ben vivere, rimembranza della morte e spregio del secolo. Et sappie che diflfinizione  d'una cosa è dicere ciò che quella cosa è, per tali parole  che non si convegnano ad un' altra cosa, e che se tu le  rivolvi tuttavia signiffichino quella cosa. Per bene chiarire  sia questo l'exemplo nella diffinizione dell'uomo, la quale   10. è questa: « L'uomo è animale razionale mortale ». Certo  queste parole si convegnono sì all'uomo che non si puote  intendere d'altro, né di bestia, né d'uccello, né di pescie,  però che in essi nonn à ragione; onde se tue rivolvi le  parole e di' cosi : « (/he è animale razionale e mortale ? certo non si puote d' altro intendere se non dell' uomo. Or è vero che anticamente per nescietà delli uomini  furon mosse tre quistioni delle quali dubitavano, e uon  senza cagione, però che sopr'esse tre questioni si girano  tutte le scienzie. La p-rima quistione era che dovesse l'uomo   20. fare e che lasciare. La seconda quistione era per che ra-  gione dovesse quel fare e quell'altro lasciare. La terza  quistione era di sapere le nature di tutte cose che sono.  Et perciò che le questioni fuoro tre, sì convenne che' savi  filosofi (2) partissero filosofia in tre scienzie, cioè Teorica,   25. Pratica e Logica, si come dimostra questo arbore.      i: M inquistione, m inquestione, L inqulslione — 2: M^ quando — 3: M enpossib'ile  — (5: Mss. quella cosa 7 per t. p. — 8: if-M' le rivuoli, L le rivolgi — il' el per bene —  .9-/0: if' lo quale questo, L la i[ualo questo — 16: m necessità, M' neccssiladc — 16-17:  .¥' luiomini in esse (L messe) — 18: sospeso, cnrr. sopresse — 19: .1/' liuomo — 20: m  la seconda che lasciare — 20-21: lU-m om. la 2" quistione — 22.: M-m om. quistione —  M-iii la natura — m tutte le oliose - 23: M-m Et però quelle quistioni furono tre —  23-24 : M si convenne i savi phylosoi)hy che partissero — jf > si conviene -^ 23: M mn. e.   (1) Si potrebbe anche leggere (con una costruzione più regolare ma con una  coordinazione poco opportuna) ciò eh' è quella cosa, e per tali parole ecc.   (2) Questa lezione ò comune a codici di ambedue le famiglie, e perciò la pre-  ferisco a quella di M, che pure si può difendere facendo transitivo conreìtne e  intendendo i -savi filosofi come complem. oggetto. Et la prima di queste scienze, cioè pratica, è per  dimostrare la prima questione, cioè che debbia uomo fare  e che lasciai'e. La seconda scienzia, cioè logica, è per di-  mostrare la seconda quistione, cioè per che ragione dovesse  quel fare e quello altro lasciare. 10. Et questa scienza, cioè  logica, sì ae tre parti, cioè dialetica, efidica, soffistica. La  prima tratta di questionare e disputare l'uno coli' altro, e  questa è dialetica; la seconda insegna provare il detto del-  l' uno (1) dell' altro per veraci argomenti, e questa èe efi-  dica; la terza insegna provare il detto dell'uno e dell'altro  per argomenti frodosi o per infinte provanze, e questa è  sofistica. Et questa divisione pare in questo arbore. La tex'za scienzia, cioè teorica, si è per dimostrare  le nature di tutte cose che sono, le quali nature sono tre;  15. e però conviene che questa una scienza, cioè teorica, sia  pai'tita in tre scienzie, ciò sono Teologia, Fisica e Mate-  matica, sì come dimostra questo arbore.      4: m cioè la ragione — 6: m sollislicha, epidicha, M' eflidica (un'altra mano aggiunse  sotìslicha) — 7: i/' tractare.... contra l'altro - 9:m, ìt', l e dell'altro — i 1 : if infinite  — M' argomenti frodolenti 7 jier infinita pruova — 12: m apare.   (1) Conservo invece di e, comune a quasi tutti i codici, appunto per la sua  singolarità e perchè sembra indicare una differenza tra l'efldica e la sofistica-  la prima dimostra la verità di una delle due parti, la seconda pretende dimo-  strare l'una e l'altra parte.  Onde la prima di queste tre scienze, cioè teologia,  la quale è appellata divinitade, si tratta la natura delle  cose incorporali le quali non conversano in traile corpora,  sì come Dio e le divine cose. La seconda scienzia, cioè  5. fisica, sì tratta le nature delle cose corporali, si come sono  animali e He cose che anno corpo; e di questa scienzia fue  ritratta l'.arte di medicina, che, poi che fue connosciuta la  natura dell'uomo e delli animali e de' loro cibi e dell'erbe  e delle cose, assai bene poteano li savi argomentare la sa-  io, nezza e curare la malizia. La terza scienzia, cioè matematica, sì tratta le nature de le cose incorporali le quali sono  intorno le corpora; e queste nature sono quattro, e perciò  conviene che matematica sia partita in quattro scienze, ciò  sono arismetrica, musica, geometria et astronomia, sì come  15. appare in questo arbore:  La prima scienzia, cioè arismetrica, tratta de' conti  e de'nomeri, sì come l'abaco e più fondatamente. La seconda scienza, cioè musica, tratta di concordare voci e  suoni. La terza, cioè geometria, tratta delle misure e delle proporzioni. La IV scienza, cioè astronomia, tratta della  disposizione del cielo e delle stelle. Or si torna il conto dello sponitore di questo libro  alla prima parte di filosofia, della quale è lungamente ta-  ciuto, e dicerà tanto d'essa prima parte, cioè di pratica,   25. che pervegna a dire della gloriosa Rettorica. E sì come  fue detto già indietro, questa pratica è quella scienza che  dimostra che ssia da ffare e che da lasciare, e questo è di     3:m traile corpora — 7: #' dela mudicina — 9: M' assai poteo bone argomentare isani —  10-13 : M-m mltnno da matematica di l. 10 a l. 13 sia partita (m si e) — 16: m om. scien-  7.ia — 17: M' noveri — 18: M [a musica — SO: M astorlomia — M' tracta Io sponilore —  22: Af' si ritorna (L ritorna), m Ora torna lo spoiiiloro alla prima p. — 33: m ae, Jtf' oo —  24: m della prima parte — 25: m perverrà.     tre maniere: i>erciò conviene che di questa una siano tre  scienze, cioè sono Etica, Iconoiiiica e Politica, sì come  mostra la figura di questo arbore :  La prima di queste, cioè etica, sì è insegnamento di  5. bene vivere e costumatamente, e dà connoscimento delle  cose oneste e dell'utili e del lor contrario; e questo fa per  assennamento di quatro vertudi, ciò sono prndenzia, iusti-  zia, fortitudo e temperanza, e per divieto de' vizi, ciò sono  superbia, invidia, ira, avarizia, gula e luxuria; e così dimoio, stra etica clie sia da tenere e che da lasciai-e jier vivere  virtuosamente. 16. La seconda scienza, cioè iconomica, sì  'nsegna che ssia da ffare e che da lasciare per covernare  e reggere il propio avere e la propia famiglia. La terza  scienza, cioè politica, sì 'nsegna fare e mantenere e reggere  15. le cittadi e le comunanze, e questa, sì come davanti è pro-  vato, è in due guise, cioè in fatti et in detti, sì come si vede  in questo arbore:      18. Quella maniera eh' è in fatti sì sono l'arti e' magi-  sterii che in cittadi si fanno, (i) come fabbri e drappieri e li     1 : M-m però clic convion(3 — 3.m am. la ligura — ;>: Af' accostumatamente M' om. ira — 10: M^ da necnto — 1 1: m virtmliosamonte — 13: m avere, la patria e  la famiglia — 14: m fare, mantenere 7 r. — 16: M-M' 7 in due guise — M' in detti.  18: m om. tutto il g 18 — M' 7 mestieri — 19 : M che cittadini fanno   (lì Si rimane incerti fra le due lezioni, perchè il senso è il medesimo e anclie  paleograficamente la differenza è lieve: forse ì citladisi oxìgìno (i) cittadini'! Adot-  tiamo la lezione un po' più diffìcile.     altri artieri, sanza i quali la cittade non potrebbe durare.  Quella eh' è in detti è quella scien^ia che ss' adopera colla  lingua solamente; et in questa si contiene tre scienze, ciò  sono Grramatica, Dialettica, Rettorica, si come dimostra  5. questo altro albore:  Et che ciò sia la verità dice lo sponitore che gra-  matica è intrata e fondamento di tutte le liberali arti et  insegna drittamente parlare e drittamente scrivere, cioè  per parole propie sanza barbarismo e sanza sologismo. Adunque sanza gramatica non potrebbe alcuno bene dire  né bene dittare. La seconda scienza, cioè dialetica, sì pruova  le sue parole per argomenti che danno fede alle sue parole;  e certo chi vuole bene dire e bene dittare conviene che mo-  stri ragioni per che, sicché le sue parole abbiano provanza   Ib. in tal guisa che Ili uditori le credano e diano fede a cciò  che dice. La terza S(!Ìenza ciò è Rettorica, la quale truova  et adorna le parole avenanti alla materia, per le quali l'udi-  tore s'accheta e crede e sta contento e muovesi a volere  ciò eh' è detto. Adonque le tre scienze sono bisogno a   20. parlare et al dittare, che sanza loro sarebbe neente, acciò  che '1 buono dicitore e dittatore de' sì dire e scrivere a  diritto e per sì propie parole che sia inteso, e questo fae gra-  matica; e dee le sue parole provare e mostrare ragioni (2),     1 : Af ' artefici sanza quali le cittadi non potrebbero durare — 3: M^ ] questa si con-  tiene — 6: m Et choncio sia la v., L Et cliome ciò sia — 7: M' l'arti liberali — 9: M-  m om. e sanza sologismo; t-S silogismo — 10: M' om. alcuno — I-i: M ragione si che  le s. p. — pruova — i7 : M-m advoncnti — 18-19 : M' per bisogno al parliere et al dicta-  tore — S3: M-m mostrare con ragiono, L mostrare por ragione  Non credo necessario, data l' impossibilità di distinguer la grafia dei copisti  da quella dell' autore, ristabilire la forma esatta solecismo; la stranezza della pa-  rola spiega pure l'omissione di M-m e lo sproposito di L-S.   (2) Che questa sia la giusta lezione è confermato dal § precedente, 1.16 («ra-  gioni per che ») ; e si noti che mostrare con ragione o per ragione equivarrebbe a  provare.  e questo fae dialetica; e dee sì mettere et addornare il suo  dire che, i)oi che 11' uditore crede, che stia contento e faccia  quello eh' e' vuole, e questo fa Rettorica. Or dice lo sponitore che Ha civile scienza, cioè la covernatrice delle cit-  5. tadi, la quale èe in detti si divide in due: che ll'una è co llite  e l'altra sanza lite. Quella co llite si è quella che sisi fa do-  mandando e rispondendo, si come dialetica, rettoi'ica e lege;  quella eh' è sanza lite si fa domandando e rispondendo, ma  non per lite, ma per dare alla gente insegnamento e via di   10; ben fare, sì come sono i detti de' poeti che anno messo inii  iscritta l'antiche storie, le grandi battaglie e l'altre vicende  che muovono li animi a ben fare. Altressì quella civile  scienzia eh' è con lite è di due maniere, eh' è ll'una artifi-  ciosa, l'altra non artificiosa. Artificiosa è quella nella quale  il parliere che connosce bene la natura e Ilo stato della  materia, vi reca suso argomenti secondo che ssi conviene,  e questo è in dialetica et in rettorica. Quella che non è  artificiale è quella nella quale si recano argomenti pur per  altoritade, si come legge, sopra la quale non si reca neuna   2'^ pruova né ragione per che, se non tanto l' altoritade dello  'mperadore che Ila fece. Et di questa che non è artificiale  dice BOEZIO nella Topica eh' è sanza arte e sanza parte di  ragione. Alla fine conclude Tulio e dice che Rettorica  è parte della civile scienzia. Ma Vittorino sponendo quella   25. parola dice che rettorica è la maggiore parte della civile  scienzia; e dice « maggiore » per lo grande effetto di lei,  che certo per rettorica potemo noi muovere tutto '1 popolo,  tutto '1 consiglio, il padre contra '1 figliuolo, l'amico centra  l'amico, e poi li rega(i) in pace e a benevoglienza. Or è detto   30. del genere; omai dicerà Tulio dello oflfizio di rettorica e del  fine.     1: M ordinare, m e iliraeltero e ordinare lo siidire — 3: M^ cliolll stea — 5: M-m si  vede in due — 7: M' y reclorica — 9: M' a. lo genti — i 1 : m-M in iscripto — M' 7  le g. b. 7 altro vicende — IS : M-m alla (certo da ((Ila), M' (|UOSta civ. — 13-14: mchS l'ima  e art. 7 l'altro non art., 3f' l'unaarl. l'altra none art. (X non art.) — 16: m su argomenti  che crede ohe si chenvieno, S secóndo la cosa — 19: M sopralla quale — 21 : J/' di que-  sta non artificiosa — S6: m e M' alFecto, ma L el'ctto — S8 : m M' contro al f. — wchontro  all'amico, M' contra amico. — 29: m li reca, Af' recalgli a pace 7 benev., L-S recarli a p.  Q n h. — 80 : m M' oggimai.   (1) Con libertà non nuova alla nostra ling'.ia antica, si può sottintendere il  soggetto, « rettorica », dalle parole « per rettorica » che precedono. La lezione  ? ecarli, appunto perchè piii semplice e chiara, mi par da scartare : non si vedrebbe CICERONE dice che è l'ufficio di questa arte.   18. Officio di questa arte pare che sia dicere appostatamente  per fare credere, fine è far credere per lo dire. Intra 11' ufficio e Ila  fine èe cotale divisamente : che nell'officio si considera quello che  5. conviene alla fine e nella fine si considera quello che conviene al-  l'officio. Come noi dicemo l'ufficio del medico curare apostatamente  per sanare, il suo fine dicemo sanare per le medicine, e così quello  che noi dicemo officio di rettorica e quello che noi dicemo fine in-  tenderemo dicendo che officio sia quello che dee fare il parliere, e dicendo che Ila fine sia quello per cui cagione eili dice. In questa parte àe detto Tulio che è l'officio di que-  sta arte e che è lo suo fine; e perciò che '1 testo è molto  aperto, sì sine passerà lo spouitore brevemente. Et dice   15. cotale diffinizione : officio è dicere appostatamente per fare  credere. Et nota che dice « appostatamente », cioè ornare  parole di buone sentenze dette secondo che comanda que-  st'arte; e questo dice per divisare il parlare di questo di-  citore dal parlare de' gramatici, che non curanq d'ornare   20. parole. E dice « per far credere », cioè dicere sì composta-  mente che ir uditore creda ciò che ssi dice. Et questo dice  per divisare il detto de' poeti, che curano più di dire belle  pai-ole che di fare credere. 2. L' altra diffinizione è del fine.  Et dice che fine è far credere per lo dire. Et certo chi   25. considera la verità In questa arte e' troverà che tutto lo  'ntendimento del parliere è di far credere le sue parole  all'uditore. Donque questo è la fine, cioè far credere; che     2: M* om. ilk'Oi'O — 3: M-M' 7 lar — M-m per 1 udire - 3-4: M' om. Inlra 11' udicio  e ripete è cotale ilivisumento che no l'ollicio — M 7 è colalo — 0: m il' e curare — 9: t in-  tenderemo cli6 olicio è quello ecc. — m om. e — JO: il ella, mi e la — i3 : .tf' et che il  lino — 15: il apostamonle — M-m saltano dal l'ai ^ apposlatanicnto. — 10: .tf-m-.l/' or-  nate — 20: m diro si ornatamente et cliom))ost. — 21 : M-m mn. Kl c|uesto dice - 23: M-m  che farle credere - 24: M-m per 1 udire — 23: M 7 troverà - 26: M' del parlare   la ragione per cui fu mutata negli altri codici, mentre ò facile ammettere che sia  derivata da recahjli di M '. Quoista poi, a sua volta, non è che una variante di ìi  reca, con una estensione del pronome enclitico a cui contraddice la cosiddetta legge  del Mussafla (cfr., anche per Dante, in Bull. d. Soc. Dani., N. S., XIV, 90-91)    'mmantenenle che l'uomo crede ciò eli' è detto si rivolve (1)  lo suo animo a volere et a ffare ciò che '1 dicitore intende.  3. Ma dice Boezio nel quarto della Topica che '1 fine di que-  sta arte è doppio, uno nel parladore et un altro nell'uditore.  5. Il parladore sempre desidera questo fine in sé: che dica  bene e che sia tenuto d' aver bene detto. Neil' uditore è  questo fine: che '1 dicitore a questo intende, che nell'udi-  tore sia cotale fine che creda quello che dice; e questo fine  non desidera sempre IL PARLATORE sì come quello di sopra.   10. 4. Et per mostrare bene che è l' officio e che è il fine e che  divisamento àe dall'uno all'altro, sì dice Tulio che officio  è quello che '1 parliere de' fare nel suo parlamento secondo  lo 'nsegnamento di questa arte. Ma fine è quello per cui  cagione il parlieri dice compostamente; e certo questa cagione e questo fine nonn è altro se non fare credere ciò che  dice. Et di ciò pone exemplo del medico, e dice che Ilo   officio del medico è medicare compostamente per guerire   r amalato; la fine del medico èe sanare lo 'nfermo per lo   suo medicare. Già è detto sofficientemente dell' officio e della fine di rettorica; omai procederàe il conto a dire  della materia. Materia di questa arte dicemo che ssia quella nella quale  tutta l'arte e Ilo savere che dell'arte s'apprende dimora. Come se noi  dicemo che Ile malizie e le fedite sono materia del medico, perciò  che 'ntorno quelle è ogne medicina, altressì dicemo che quelle cose  sopra le quali s'adopera questa arte et il savere eh' è appreso (2)  dell'arte sono materia di rettorica; le quali cose alcuni pensaro che     1 : M sinvolve, m si involve, M^-L si muove — S : M' quello olio. — 9 : M-m considera   — 10: M' om. l)ene — 15: M-m non ae altro — m se none a faro — 16: Af ' in ciò —  17-18 : M Olii, è medicare.... del medico — 19: M-m Già ae d. s. (mi s. d.) — 20: M' del fine   — ogimai procederà Tulio a dire — S,4: m e tutta l'arte — Jlf ' e sapere — S3: M-m le  malizie, cioè le malattie (glossa) — 87: M e savere — tulli i inss, apresso  Questa è senza dubbio la lezione richiesta dal senso e giustificabile con  ragioni paleografiche: un siriuolue in cui ri è parso un n ha originato il sinvolve  di M; da questo, per correzione arbitraria, è nato si muore di Mi L. Invece di  si rivolve lo suo animo  (soggetto) si può anche intendere « (l'uomo) si rivolve  lo suo animo », ma forse l'espressione riesce meno naturale.   (2) La correzione è suggerita dalle parole precedenti : « lo savere che dell'arte  s'apprende». Il testo latino ha facuUas oratoria.  fossero piusori et altri meno. Che GORGIA DI LEONZIO, che fue quasi  il più antichissimo rettorico, e in oppinione che IL PARLATORE puo  molto bene dire di tutte cose. Et questi pare che dea a questa arte  grandissima materia sanza fine. Ma Aristotile, il quale diede a questa  5. arte molti aiuti et adornamenti, extimò che II' officio del PARLATORE sia sopra tre generazioni di cose, ciò sono dimostrativo, diliberativo  e giudiciale. Lo sponitore.   1. In questa parte dice Tulio che materia di rettorica   10. è quella cosa per cui cagione furo pensati e trovati li co-  mandamenti di questa arte, e per cui cagione s'adoperala  scienzia clie 11' uomo apprende per quelli comandamenti.  Così fuoro trovati li comandamenti di medicina e gli ado-  peramenti per le infertadi e per le ferute; et insomma   15. quella è Ila materia sopr' alla quale conviene dicere. Et  sopra ciò fue trovata questa arte per dare insegnamento di ben dire secondo che Ila materia richiede e per fare  che ir uditore creda. Et di questo è stata diiferenzia  tra' savi : che molti furo che diceano che materia puote   20. essere ogne cosa sopr' alla quale convenisse parlare. Et se  questo fosse vero, donque sarebbe questa arte sanza fine,  che non puote essere; e di questi fue uno savio, GORGIA DI LEONZIO, antichissimo rettorico; et in ciò che Tulio l'appella antichissimo sì dimostra che non sia da credere.  Ma Aristotile, a cui è molto da credere, perciò che  diede molti aiuti et adornamenti a questa arte in perciò  che fece uno libro d' invenzione et un altro della parladura,  dice che rettorica èe sopra tre maniere di cose, e catuua  maniera èe genei'ale delle sue parti; e queste sono dimo-   30. strativo, diliberativo e iudiciale, come in questi cercoletti  apiiare :     2: m cliel parlaro — 3: M-m che (loggia (w dohbia) aiiiiistare — 6: M' generi —  7: M-m giiulicalivo - IS: M-m et per (incili comamlamenti. Af' aiiiirondo per qua com.,  S per qiialnni|ue com. (t bene) -- 13-14: M-m et por lo adoperamenlo et por lo inf. —  M' fedito — 15: m. M'-L sopra la quale — 19: M' dissero — ?0: m sopra la ipiale  l'uomo chonviene parlare, M' sopra la (pialo — SS: M-m di questo — S3-S4: M' 1 aix.'l-  lava — S6: M-m (lice molti aiuti — M' in ciò che, m però che — S7: Mdinvctione, hi d'in-  votione - S8: M-m materie — M' de cosa {ma L S di cose) — M^ ciasouna — 30-31:  M-m om. come ecc. e la figura.  Et a questa sentenzia s'accorda Tulio, e sopra queste tre  maniere è tutta l'arte di rettorica. 4. Ma ben puote essere  oh' e' maestri in questo punto fanno divisamente intra dire  e dittare; che pare che Ila materia di dittare sia si generale che quasi sopra ogne cosa si possa fare pistola, cioè man-  dare lettera. Ma dire non si puote per modo di rettorica  se non delle dette tre maniere, perciò che Tulio CICERONE reca tutta  la rettorica in quistione di parole. Et intendo che quistione  è una diceria nella quale àe molte parole sie impigliate che ssine puote sostenere l'una parte e l'altra, cioè provare  si e no' per atrebuti, cioè per propietadi del fatto o della  persona. Et ecco l' exemplo in questa diceria che fie proposta in questo modo: È da sbandire in exilio Marco Tulio  Cicero no, che davanti (i) al popolo di ROMA fece anegare molti ROMANI a tempo che '1 comune era in dubbio? In  questa proposta à due parti, una del sì et un'altra del no.  Quella del sì è cotale : « Cicero è da sbandire, perciò che  à fatta la cotale cosa *. Quella del no è cotale: « Non è da  sbandire, che ricordando pure lo nome signififica buona cosa   20. et isbandire et exìlio (2) sìgnifBca mala cosa, e non è da cre-  dere che buono uomo faccia quello che ssia da sbandire  degno né de exìlio ». 6. Grià è detto che è la materia di  quest'arte, et afferma Tulio la sentenza d'Aristotile. Et  però che elli l' àe confermata, sì dicerà di catuna dì quelle   25. tre maniere sì compiutamente che per lui e per lo sponì-     1 : m sachosta — 2: Mi tucta — 3:m tra dire od. — 4:mL del dittare ~ 5 : M' si puote —  6: M' lectoro — 7 : 3f ' se non le docte — om. perciò — m tutta rettorica — 9: M' ov'a —  il: M-m et por atrebuti, M' per ai trebuti — m cioè i)roiiietadi — 12: M sie o fie, m Ila,  M'-L fu - 14: m om. Cicero — M^ Cicerone che davanti il p. — 15: M' al tempo —  16: M imposta — 19: M' il suo nome ò buona cosa — 20: M' in exilio — 21-22: m dongno  da sb., M' dengno di sbandire in oxilio — 24: J/' la conferma   Non e' è dubbio sul testo, in cui la tradizione manoscritta è concorde;  quanto all'interpretazione cfr. Maggini, La Rettorica italiana di B. L., ediz. cit., p. 34.   Che et e non in sia la lezione originaria è comprovato dal seguente né  de exilio (cambiato da M< in exilio per analogia colla prima alterazione).    tore potrà quelli per cui è fatto questo libro intendere la  materia, lo movimento e la natura di rettorica. Ma ben  guardi d'intendere ciò che dice questo trattato e di Connoscere ciò che in esso si contiene, che altrimenti non po-  trebbe intendere quello che viene innanzi; e dicerà prima  del dimostrativo. Del dimostr amento. Dimostrativo è quello che ssi reca in laude o in vituperio  d'una certa personale. In questa parte dice CICERONE che, con ciò sia cosa che  Ile cause e Ile quistioni sopr' alcuna vicenda indella quale  l'uno afferma e l'altro niega siano di tre maniere, sì inse-  gna Tulio avanti quale causa è dimostrativa. Ma lo sponi-   15. tore non lascerà intanto che non dica la natura e Ila radice  di tutte e tre, oltx'e che dice il testo di Tulio; et in ciò  dicerà chi è la persona del parliere che dice sopra la causa,  e dicerà che è il fatto della causa. La persona del par-  liere è quella che viene in causa per lo suo detto o per lo   20. suo fatto: et intendo « suo detto » quello ch'elli disse o che ssi  crede ragionevolemente ch'elli abbia detto, avegna che detto  noll'abbia; altressì intendo «fatto» quello che fece o che ssi  crede ragionevolemente che elli abbia fatto, avegna che fatto  non sia. 3. Il fatto della causa è quel detto o quel fatto per lo quale alcuno viene in causa e questione; et in ciò sia  cotale exemplo: Dice Pompeio a Catellina: « Tu fai tra-     1: in poUà collii —è: M' c\ inovini. ~ 5: .W Jioooia, L ilice ora — 6: i/del dimoslratio, m  (Iella dimostrationo — 8: S si moslra — 13-14: il' sia in ti-o maniero.... tulio avanti, m Tulio  inprima — M-m cosa — il' sia doni. — 13: m oni. e la radice - lS-19: il-m Persona  del ]). 7 quella — 19-20: il' per lo suo facto o per lo suo dello, m per lo s. d. e per lo s. f.  intondo suo detto e latto (pielli (nni-he il (iiielli) - SS: il-m e così intondo quello —  S4 : il' ijucl detto — SS- il' et in ipiest., m. ohi. — L siae     -- 41 -   dimento nel comune di Roma». Et Catellina risponde:  « Non fo ». In questo convenente Pompeio e Catellina sono  le persone de'parlieri; e la causa è questa: «Tu fai tradi-  mento » — « Non fo »; e chiamasi causa però che 11' uno ap-  5. pone e dice parole contra l'altro e mettelo in lite. 4. Et per  maggiore chiarezza dicerà lo sponitore che èe dimostra-  mento e che deliberazione e che iudicamento, e così sopra  che è ciascuna maniera di rettorica.   Dimostramento. Dimostramento è una maniera di cause tale che per sua propietade il parliere dimostra ch'al-  cuna cosa sia onesta o disonèsta, e per questo mostra che è  da laudare e che da vituperare; e questa causa dimostrativa  è doppia: una speciale et un'altra che non si puote partire. La speciale dimostrativa è quella nella quale i parlieri si sforzano di provare una cosa essere onesta o disonesta,  non nominando alcuna certa persona; et intendo certa per-  sona a dire delli uomini e delle cittadi e delle battaglie e  di cotali certe cose e determinate tra Ile genti, non intendo  dell'altezza del cielo né della grandezza del sole o della   20. luna, che questa quistione non pertiene a rettorica. Et  di questa causa speciale dimostrativa sia cotale exemplo :  « Il forte uomo è da laudare Dice l'altro: Non è, anzi è  da vituperare. E di questo nasce quistione, se '1 forte è  degno di lode o di vituperio, e perciò èe dimostrativa, ma   25. non nomina certa persona, e perciò è speciale. 8. La causa  dimostrativa che non si puote partire è quella nella quale  i parlieri vogliono mostrare alcuna cosa sia onesta o diso-  nesta nominando certa persona, in questo modo. CICERONE è degno di lode. Dice l’altro. Non è. E  di questo nasce quistione, se sia da lodare o da vituperare.  Et questa quistione comprende due tempi : presente e pre-  terito. Che al ver dire di ciò che 11' uomo fae presentemente  è lodato biasmato, et altressì di ciò che fece ne' tempi pas-  sati. 9. Et sopra ciò dicono 1' antiche storie di Roma che   35. questa causa dimostrativa si solca trattare in Campo Marzio,     5: 3/' perciò maggioro — 7 : ìlt' cheo... cheo (ma L clie... che) - saprà che è —  10: M' per sue propietadi il parladore — 14: M' i parladori — m spellale o dimostrativa  — 16: M' nm. et intendo certa persona, vi om. et — 17: M' et dele ciltadi — 18: m  cliase diterminate — 19: M-m et della gr. — 20: m non apartiene — ^i :?» om. speciale —  M-m dimostrata — M k cotale lessemplo - So: M-m om. è — 27: M' alcuna persona  essere  M-m di tre tempi — m pres., preter. e luturo — 32: M-m Et al ver dire —  33 : M-m om. di     - 42 -   nel quale s'asemblava la comunanza a llodare alcuna per-  sona ch'era degna d'avere dignitade e signoria et a bia-  smare quella che non era degna. E già è ben detto della  causa dimostrativa; sì dicerà il maestro della causa deli-  5. berativa.   Del diliber amento.   21. Diiiberativo è quello il quale, messo (^' a contendere et  a dimandare tra' cittadini, riceve detto per sentenzia. In questa parte dice Tulio che causa diliberativa è quella eh' è messa e detta a' cittadini a contendere il lor  pareri et a domandare a lloro quello che nne sentono; e  sopra ciò si dicono molte et isvai'iate sentenze, perchè alla  fine si possa prendere la migliore (2). 2. Et questo modo di   15. causare è quello che fanno tutto die i signori e le podestà  delle genti, che raunano li consillieri per diliberare che  ssia da fFare sopra alcuna vicenda e che da non fare; e  quasi ciascuno dice la sua sentenza, sicché alla fine si  prende quella che pare migliore. 3. Et in ciò sia questo   20. exemplo che propone il senatore: « E da mandare oste in  Macedonia? » Dice l'uno sì e l'altro no. Et così diliberano  qual sia lo meglio, e prendesi 1' una sentenza. Et questa  quistione si considera pure nel tempo futuro, che al ver  dire sopra le cose future prende l'uomo consiglio e dili-   25. bera che ssia da fare e che noe. 4. Et questa causa dilibe-  rativa è doppia: una speciale et un'altra che non si puote  partire. 5. Speciale è quella nella quale si considera d'ai  cuna cosa s' ella è utile o s' eli' è dannosa, non nominando     1-3: M alcuno cli'era dengno — om. e signoria.... degna — 6: Tutti i mss. omesso,  S è messo — H : M-m che in essa - m M' i loro pareri, L illoro pareri — 12: M' da  loro - 13: M-m dicono — 14: M-m lo migliore — 15: M-m cassare (M 7 quello)   — 16: M-m raunavano — 17: M-m non daffare — 20: M' ressom])ro — M-m che  pone -22: M' il migliore — 24: m nel tempo futuro — ilf ' iirendo huomo(»nn L S l'uomo)  M-m Questa ì; causa, cioè cosa, diliberativa 7 doppia,. L e delib. e doppia —  m una e spetiale — M-m om. che — 27: M-m alcuna cosa — 28: M-m om. sellò   (1) Il testo latino non lascia alcun dubbio. La stessa corruzione, comune a  tutti i codici, è nel successivo § 22 (e posto), e il costrutto insolito la rendeva facile.   (2) Anche la lezione lo migliore è buona, ma preferisco quella di M' perchè  corrisponde esattamente alla fino del § 2.    alcuna certa persona. Et ecco l'essempio: Dice uno: “Pace  è da tenere intra cristiani.”. Dice l'altro: « Non è ». Et di  ciò nasce causa diliberativa speciale, se Ila pace è da tenere  o no. L'altra che non si può partire è quella nella quale  5. i dicitori studiano di provare e' alcuna cosa sia utile o dan-  nosa, nominando certe persone, in questo modo: Dice l'uno:  « Pace è da tenere intra Melanesi e Cremonesi. Dice l'altro: «Non è». Et già è detto della causa diliberativa;  omai dicerae il maestro del iudiciale. Ma questo sia conto  a ciascuno, che Ila propietade della diliberazione èe mostrare che ssia utile e che dannoso in alcuno convenentre.  Et questa diliberativa si solca trattare nel senato, e prima  diliberavano li savi privatamente che era utile e che no  e poi si recava il loro consiglio in parlamento e quivi si fermava la loro sentenza, e talvolta si ne prendea un'altra  migliore.  Judiciale è quello il quale, posto In iudicio, à in sé accu-  sazione e difensione o petizione e recusazione. La natura di iudicamento si è una forma la quale si  conviene al parladore per cagione di mostrare la iustizia  e la 'niustizia d'alcuna cosa, cioè per mostrare d'una cosa  s' ella è insta o centra iustizia, in cotal modo : che uno ac-cusa un altro e l’accusato si difende elli medesimo o un  altro per lui; overo che uno fa sua petizione e domanda  guidardone per alcuna cosa eh' elli abbia ben fatta, et un  altro recusa e dice che non è da guidardonare, e talvolta  dice. Anzi è degno di pena. Et questa causa si pone  in iudicio, cioè in corte davante a' indici, acciò eh' elli indichino tra Ile parti quale àe iustizia; e questo si fae in  corte palese in saputa delle genti, acciò che Ila pena del     S. in Iva — 3: M-m e so la p. — 4: M' L'altra la quale — 7 : Ai da melanesi, m tra  mei. - Af ' e li crem. — M-m l'altro dice — *: J/ E già detto — U-m cosa — 9 : M ' oggi-  mai dicera del giudioiale - 10: ;»/' om. a ciascuno — m e damostrare — 12: m ohe prima  14: m om. e — m M' in loro consiglio (ma L illoro cons.) — 14-15: A/' in loro sententia  si fermava — 18: Tuttiimss. e [tosto — i9: m accnsatione, difensione, pctitiono — Tutta mas.  recusatione {ma cfr. testo latino) — 24: m chontro a iust. — m om. che — V e medesimo, L elli med. — 27: m fatta bene — 28: m om. e dice — 32: m traile genti.  malfattore dia exemplo di non malfare, e '1 guidardone  de' benfattori sia exemplo agli altri di ben fare. Et sopra  questa materia dice uno savio: « I buoni si guardano di  peccare per amore della vertude, i malvagi si guardano  5. per paura della pena ». 3. Et è questa causa iudiciale doppia: una speciale et un' altra che non si puote partire.  Speciale è quella nella quale il pai'lierc si sforza di mostrare alcuna cosa che ssia insta o iniusta, non nominando  certa persona; in questo modo: « Il ladro èe da 'mpendere,   10. perchè commette furto ». Dice l'altro: « Non è ». 4. Quella  che non si puote partire è quella nella quale il parliere si  sforza di mostrare una cosa essere iusta o no, nominando  certa persona; in questo modo: « È da impendere Guido  eh' à fatto furto, o no? » Od « E da guidardonare GIULIO Cesare eh' à conquistata Francia, o no? Et tutte que  ste cause iudiciali si considerano sopra'1 tempo preterito perciò che di ciò che l’uomo à fatto in arrietro è guidardonato o punito. CICERONE dice la sua sentenzia della materia di rettorica riprende quella d' Ermagoras. Et sì come porta la nostra oppinione, l'arte del parliere (0  e la sua sctenzia è di questa materia partita in tre. (cai). VI) Che   certo non pare che Ermagoras attenda quello che dice ne attenda C^)   ciò che promette, acciò che dovide la materia di questa arte in causa   25. et in questione.     1 : VI exempro allo genti — -V far malo — M il guidardone — S: M' tini benfacloro —  m om. VA — 4: M' o li malvagi seno guardano — 6: U' et una che — 7: il' il dicitore  - 9: M-m om. modo — m è da mpichare — 10: M' un altro — 12-15: M-m om. ila  nominando alla fine del paragrafo — i6: il-m om. si — i7: m per adietro — i8:m pulito  SI : M-m parlare, M' parladore, L parlatore —M Amagoras   Che sia da legger cosi dimostra non tanto la variante di M' quanto, specialmente, il trovare nel § 1 del commento lo stesso errore di Mm di fronte a  parliere di M'. Conservo, coi codici, i due attenda, quantunque il tosto latino abbia nel  primo caso attendere e nel secondo intellUjere: qui ci aspetteremmo dunque in-  tenda, e l'alterazione, per analogia col primo verbo, sarebbe spiegabilissima. Ma  anello con attenda il senso va bene; e forse una prova della somiglianza sostan-  ziale per l'autore fra attendere e intendere si ha nel § 7 del commento, dove,  riferendosi a questo passo, i due verbi sono invertiti di posto: «non pare che  Ermagoras intendesse quello che dicea, nò che considerasse (= attendesse) quello  che promettea. Poi elle Tulio àe detto davanti le tre partite della  materia di rettorica sì come fue oppiuione d'Aristotile, in  questa parte conferma Tulio la sentej^izia d'Aristotile; e  5. dice che pare a llui quel medesimo, e riprende la sentenzia d'Ermagoras, il quale diceva che Ila materia del par-  liere è di due partite, cioè causa e quistione. Ma certo  e' dovea così riprendere coloro che giungeano alla materia  di quest'arte confortameuto e disconfortamento e consola-  lo, mento; e lui riprende Tulio nominatamente perciò ch'elli  era più novello e però dovea elli essere più sottile, e ri-  prendelo ancora però che ssi traea più innanzi dell'arte;  e riprendendo lui pare che riprenda li altri. Ma però che  Tulio CICERONE non disfina (D lo riprendimento delli altri, si vuole lo sponitore chiarire il loro fallimento, e dice così: 3. Vero  è che, si come mostrato è qua in adietro, l' officio del parliere si è parlare appostatamente per fare credere, e questo  far credere è sopra quelle cose che sono in lite, e' ancora  non sono pervenute all' anima ; ma chi vuole considerai e  il vero, e' troverà che confortameuto e disconfortamento  sono solamente sopra quelle cose che già sono pervenute  all' anima. Verbigrazia: Lo sponitore avea propensato di  fare questo libro, ma per negligenzia lo intralasciava;  onde da questa negligenzia il potea bene alcuno ritrattare per confortameuto, e questo conforto viene sopra  cosa la quale era già pervenuta all'anima, cioè la negli-  genzia.Et se alcuno disconforta un altro che avea pro-  posto di malfare, tanto che ssinde rimane, altressi viene lo  sconforto in cosa la quale era già pervenuta all' anima. Adunque è provato che conforto né disconforto non pos-     1 : m dinanzi — 3: L dico e conferma — 4: M-m la sciencia — 6-7 : M-m parlaro — 10:  M'-L non mattamente —li: M-m om. elli — 14: m diffina (o anche disfina), ilf'-/y non  examina delli altri — m om. si — 16: M^ in qua dietro — m del parlare — 17: M-m  om. si — 18: M' et che ancora, m e anchora — SO: M' et trovare — 21: m om. già  - S3 : L pensato, S per pensato — 23: M lo tralassava, m lo lasciava — 24: M' bene  ritrarre alcuno, w lo potea alchuno ritrarre - 27 : vi sconforta — 30: M-m sconforto  Manuzzi registra disfinire per « compiere » e anclie por « dichiarare »,  che mi sembra qui il senso piìi adatto.   (2) Non mancano esempii (cfr. Manuzzi, s. v.) che permettono di mantenm-e  questa parola in senso di «ritrarre», come appunto sostituirono gh altri mss. altì-  sono essere materia di questa arte. 5. Ma consolamento  puote anzi essere materia del parliere, perciò che puote  venire sopra cosa e' ancora non sia pervenuta all' anima.  Verbigrazia: Uno uomo ferma nel suo cuore di  menare dolorosa vita per la morte d' una persona cui elli  ama sopra tutte cose. Ma un savio lo consola, tanto  elle propone d'avere allegrezza, la quale non era ancora  pervenuta all'anima. Ma perciò che in questo consolamento  non ha lite, perciò che '1 consolato non si difende né non allega ragioni contra il consolatore, non puote essere ma-  teria di questa arte. 6. Or è ben vero che altri dissen che  dimostrazione non era materia di questa arte, anzi era materia di poete, però eh' a' poete s' apartiene di lodare e di  vituperare altrui. Et avegna che CICERONE no Ili riprenda nominatamente, assai si puote intendere la riprensione di loro  in ciò eh' e' conferma la sentenza d'Aristotile che disse che  dimostrazione e deliberazione e iudicazione sono materia di  questa arte. Et sopra ciò nota che dimostrazione per-  tiene a' poeti et a' parlieri, ma in diversi modi : che ' poeti  lodano e biasmano sanza lite, che non è chi dica contra,  e '1 parlieri loda e vitupera con lite, che è chi dice contra  il suo dire. Et perciò dice Tulio che non pare che Erma-  goras intendesse quello che dicea, né che considerasse  quello che prometea, dicendo che tutte cause e questioni   25. proverebbe per rettorica. Or dicerà Tulio le rii)rensioni  d' Ermagora sopra causa e sopra questione. Tullio seguita Ermagoras della causa, etc.  Causa dice che ssìa quella cosa nella quale abbia contro-  versia posta in dicere con interposizione di certe persone; le quali  30. noi medesimo dicemo che è materia dell' arte e, sì come detto avemo  dinanzi, che sono tre parti : iudiciale, dimostrativo e deliberativo.     2: M' innanzi — del parlatore — 3: m non 6 jiervenuta — 5-6: M ellamava —  6-7 : III lo chonsolò, M' il consola tutto sì clid iiropone — 8: M-m che questo cons. —  .9: in e non allega — i3: m di poota.... a poeti, M' de poeti... ali poeti — M' o di vit. —  i-i: M nelle, m non le, M' non gli — i6: M' elicgli conferma — 17: m dim., dilib. et  iiivochationo — 19: M' ali poeti et ali pailadori— 5i : M II parlieri, »i 11 parlieri?, 3/«  E! parladore — m pero che è chi dicha chontro al suo dire — S-1: A/' chelgli prom. —  26: m e questione, M' sopra questioni — 30: m nm. medesimo — itf' nm. o    Sponitore.   1. Poi che Tulio avea detto che Ei-magoras non intese  se stesso dicendo che causa e questione sono materia di  questa scienzia, sì dice in questa parte che Ermagoras  5. dicea che fosse causa. 2. Et causa appella una cosa della  quale molti sono in controversia, perciò che 11' uno ne  sente uno intendimento e l'altro ne trae un'altra diversa  intenzione; sicché sopr' a cciò contendono di parole met-  tendo e nominando alcuna certa persona, che non si possa  10. partire e che propiamente e determinatamente si partenga  alle civili questioni. 3. Et di questo dice Tulio che ss' ac-  corda co llui, che ciò àe elli detto davanti per sé e per  Aristotile; ma dicerà omai com' elli errò in questione. Qtd rijivende Tullio Ermagoì     as-  Questione apella quella che àe in se controversia posta   in dicere sanza interposizione di certe persone, a questo modo: Che  èe bene fuori d'onestade? Sono li senni (i) veri? Chente è la forma del  mondo? Chente è la grandezza del sole? Le quali questioni inten-  demo tutti leggiermente essere lontane dall'officio del parliere;   20. che molto n' è grande mattezza e forseneria somettere al parliere  in guisa di picciole cose quelle nelle quali noi troviamo essere con-  sumata la somma dello 'ngegno de' filosofi con grandissima fatica.   Sponitore.   1. Ora dice Tulio che Ermagoras appellava questione   25. quella cosa sopra la quale era controversia intra molti,   sicché contendeano di parole l'uno contra l'altro non no-     5 M diceva - m ch'era chausa — 7: M^ e un altro ne trae altra d. i., M na {sic)  trae, m ne atrae — 8: M-m contendemo — 10: M' nominatamente — m sautenga —  13: Jf' oggimai — 15: M' la quale ae — 16-17: M' che ben — M-iii li senni vari —  M' om. h — M-m la l'ama — 19: M-m del parlare — 20: M-m oiii. raaltozza, ilf ' om. e for-  seneria — JZ-w parlare, M' parladore — SI: l/Tiusta,//i in vista— 24 ^/-w appella-  lo: M' era questione — m tra molti — 26: M ne contendeano   (1) Traduce il latino sensus con una forma che ritorna anche nel commento;  è la stessa fusione, o confusione, cho troviamo nel francese.  minando certa persona la quale propiamente s'apartenesse  alle civili questioni. 2. Et in ciò pone cotale exemplo: «Che  è bene fuori d'onestade?» Grande contraversia fue intra' fi-  losofi qual fosse il sovrano bene in vita: et erano molti  5. che diceano d'onestade, e questi fuoro i parepatetici; altri  erano che diceano di volontade, e questi sono epicurii.  3. Altressì fue questione se ' senni sono veri, perciò che  alcuna fiata s'ingannano, che se noi credemo che ricalco  sia oro sanza fallo s' inganna il nostro senno. Altressì fue questione della forma del mondo, però eh' alcuni filosofi  provavano che '1 mondo è tondo, altri dicono eh' è lungo, o  otangolo(l\ o quadrato. 5. Altressì era questione della grandezza del sole, che alcuni dicono che’l sole è otto tanti che  Ila terra, altri più et altri meno. Et questa misura si sforzalo, vano di cogliere i maestri di geometria misurando la terra,  e per essa misura ritraeano quella del sole. Et perciò  mostra Tulio che Ermagora non intese quello che dicea,  ch'assai legiei'mente s'intende che queste cotali questioni  non toccano l'ufficio del parliere. Et nota che dice officio però che ben potrebbe essere che '1 parliere fosse FILOSOFO,  e così toccherebbe bene a lini trattare di quelle questioni,  ma ciò non arebbe per officio di rettorica ma di FILOSOFIAf. Donque ben è fuori della mente e vano di senno quelli che  dice che'1 parliere possa o debbia trattare di queste questioni, nelle quali tutto tempo si consumano et affaticano  I FILOSOFI. Or à provato Tulio che Ermagoras non intese  quello che disse. Ornai proverà come non attese quello che  promise, in ciò che promettea di trattare per rettorica ogne  causa et ogne questione. 8. Et ciò fae a guisa de' savi, i     1 : 3/' sì plenesse - 3: M-m fuori con lioneslade, M'-l di l'iiuri 7 lioii. 4' ili l'uori  d'hon. — .W grande (juostione — mi traili lilosali — -I : m «m. et — 5 : .V diceano hon. —  M-m OHI. questi fuoro — il pai'ei)atoiici, .W parclieiialetici — 6: il' diceano volontade  (S ugg. cioè piacere) — 7: M-m se songni - 8: M' chel ricalco — 9: S il nostro senti-  mento — iO: il perciò — id: il' diceano — IS: il Hangolo ('/), "i troangholo, .W'-i  triangolo, S otangolo — m quadro — i3: il' cotanti che terra, i cotanti chella  terj-a —16: m ritraevano la misura d. s. — 17: il' che elgli diceva. Kt assai ecc. —  S3: M' Dunque ben — M' chi dice — 24: M' debbia parlare — 25: M' et faticano —  S7: il-m non inteso — 28: M-m perche (> rectorica — 29: M-m di savi   (1) La lezione di M ò incerta, ma sembra spiegata e confermata da quella di  S che risalo all'altra famiglia di codici ; un segno male interpretato come abbre-  viatura di ri può aver suggerito la lezione triangolo. Il commento di Vittorino a  questo passo non parla nò di triangolo né di ottangolo.   (2) Il latino Ila in ca.     - 49 —   quali vogliendo mostrare la loro sapienzia sì 11' apongono  ad alcuna arte per la quale non si puote provare; come  s' alcuno volesse trattare d' una questione di dialetica et  aponessela a gramatica, per la quale non si pruova né ssi  5. potrebbe provare, e ciò mosterrebbe usando per argomenti  la sua sapienzia; e sopr'a cciò ecco '1 testo di Tulio.   Tullio dice in somma ciò ch'elli avea detto davanti. Che se Ermagoras avesse in queste cose avuto gran savere  acquistato per istudio e per insegnamento, parrebbe ch'elli, usando la sua scienzia, avesse ordinata una falsa cosa dell'arte del parliere,  e non avesse sposto quello che puote l'arte ma quello che potea elli.  Ma ora è quella forza nell'uomo ch'alcuno li tolga più tosto retto-  rica che no-lli concedesse filosofia. Ma perciò l' arte che fece non mi  pare del tutto malmendosa, ch'assai pare ch'elli abbia in essad) locate cose elette ingegnosamente e diligentemente ritratte delle antiche arti,  et alcuna v'àe messo di nuovo; ma molto è piccola cosa dire del-  l'arte sì come fece elli, e molto è grandissima parlare per l'arte, la  qual cosa noi vedemo ch'esso non poteo fare. Per la qual cosa pare  a noi che materia di rettorica è quella che disse Aristotile, della   20. quale noi avemo detto qua indietro. In questa parte dice CICERONE che se Ermagoras fosse  stato bene savio, sicché potesse trattare le quistioni e le  cause, parrebbe eh' avesse detto falso, cioè che avesse dato al parliere quello officio che nonn é suo; e così non avrebbe  mostrata la forza dell'arte, ma averebbe mostrata la sua.  Ma ora è quella forza nell'uomo, cioè tal fue questo  Ermagoras, che neuno che dicesse eh' e' non sappia rettorica nolli concederae che sia FILOSOFO. Ma perciò l'arte     1 : 3f siila pongono — 3: m trattare una q. — 4-5: M' per la quale non si porla  provare — M' om. per argomenti — 9: M^ o \)ev insegnamento parendo— 10: »i ordinato  — M-m del parlare — 11 : M-m non avesse posto (»m in et n.) — M' ([nello puote —  13: M' che fece nolli cono. — 14-15: M-m messe, A/' in esse — M-m ^ locate le cose  («4 nm. le cose) 7 lecte — 17: M dell'arti, in delle urti — itf' grandissimo — 18: Jl/ potea,  M' ]jotero — 19: ni sia quella. M' qua in adietro — S4: M-m ciò — M' cavesse  detto — 25: Af a parliere — 28: M' ch'olii — 28-29: S che non lu veruno che dicesse  ch'elli non sappia retorica non dirà giù che egli sia philosopho   (1) Il testo latino ha in ea.     che fece non pare in tutto rea ». In questa parola il cuo-  pre (1) Tulio e dimostra eh' elli avrebbe bene ijotuto dire  X^egio. Et dice « non è del tutto rea » perciò eh' elli àe  messo nel suo libro con molta diligenzia e con ingegno li  5. comandamenti delli altri maestri di questa arte, et alcuna  cosa nuova v' agiunse. Et qui pare che Tulio lo lodi là ove  il vitupera, dicendo che fosse furo in perciò che delle scritte  d' altri maestri fece il suo libro. Ma molto è picciola  cosa dire dell' arte, ciò viene a dire eh' al parliere non s'apartiene dare insegnamenti dell'arte, sì come fece Ermagora, ma apartiensi a llui in tutte guise parlare secondo  li 'nsegnamenti e comandamenti dell" arte, la qual cosa non  seppe fare esso. 5. Adonque è da tenere la sentenzia d'Ari-  stotile, che dice che materia di questa arte è dimostrativo, deliberativo e iudiciale. Et ornai è detto sofficientemente e  diligentemente del genere, cioè generalmente, dell' officio  e della fine di rettorica; or sì dicerà il conto delle sue  parti, sì come Tulio promise nel suo testo qua indietro.Tullio CICERONE dice le parti di rettorica.   20. 27. Le parti sono queste, sì come i più dicono: Inventio, di-   spositio, elocutio, memoria e pronuntiatio.     Lo sponitore. Cinque parti dice Tulio che sono et assegna ragione   per che, e quella ragione metterà lo sponitore in suo luogo.   25. Ma prima dicerà le ragioni che nne mostra BOEZIO nel   quarto della Topica, che dice che se alcuna di queste cin-     1-2: S scuopre — 4: M' con non molto.... ingegni i com. — 6: J/' vi giiingnesse —  i>f-»i la dove — 7:M* fosse ladro — m poro che dello dette scritte - 8-9: M' delli altri —  om. Ma... arte — m cosa a dire — 10: M-m a dire — 12 : m egli noi seppe fare — 14 : m  dice materia — 15-17 : M' Et oggimai ae solTicientemento detto del genere, dell' officio et  del (ine dì rectorica. Si dicerà l'autore déle sue parti — M sulficientemcnte dilig. — m ora  dirà — 20;mLLQ parti di rettoriclia — M' inveutione, dispositione, ccc — 24: S questa  — M-m che dico se alcuna  Cioè «lo difonde». La lezione scuopre di S sarà nata da un ilcuopre letto  iscuopre; come senso si ridurrebbe a una ripetizione di dimostra.  que ijarti falla nella diceria, non è mai compiuta; e se  queste parti sono in una diceria o inn una lettera, certo  l'arte di rettorica vi fie altressì. 2. Un'altra ragione n'ase-  giia BOEZIO: che però sono sue parti perchè esse la 'INFORMANO E ORDINANO e la fanno tutta essere, altressì come '1  fondamento, la i)ai'ete e '1 tetto sono parti d'una casa sì  che la fanno essere, e s' alcuna ne fallisse non sarebbe la  casa compiuta. Et dice Tulio che queste sono le parti  di rettorica sì come i più dicono, i)erò che furo alcuni  che diceano che memoria non è parte di rettorica perciò che non è scienzia, et altri diceano che dispositio non è  parte d' essa arte. Et così va oltre Cicerone e dicerà di  ciascuna parte perse, e primieramente dicerà della 'uvenzione, sì come di piti degna; e veramente è più degna, però   15. ch'ella puote essere e stare sanza l'altre, ma l'altre non  possono essere sanza lei. Tullio dice della invenzione.  Inventio è apensamento a trovare cose vere o verisimili  le quali facciano la causa acconcia a provare. Dice CICERONE che invenzione è quella scienzia per la quale  noi sapemo trovare cose vere, cioè argomenti necessarii -  e nota « necessarii », cioè a dire che conviene che pure cosi  sia - e sapemo trovare cose VERISIMILI, cioè argomenti ac-   25. conci a provare che così sia, per li quali argomenti veri  e verisimili si possa provare e fare credere il detto o '1  fatto d'alcuna persona, la quale si difenda o che dica in-  contro ad un' altra. 2. E questo puote così intendere il  porto dello sponitore. Verbigrazia: Aviene una materia   30. sopra la quale conviene dire parole, o difendendo 1' una     i: .W manca — 3: m vi (ia, M' vi l'u - 3-4: M' dice Boelius, che poroiù — 5: m  fannola tutta essere, Af' li fanno essere tutto alti-essi ecc. — 6: M' son parte — 8 : m om.  Et — 10: m non era ~ 11: M^ dispositlone — 12: M-m dell'arte — 13: m primamente -  16: m essere o stare — 18: M' invontione (e coù semiire) — m pensamento — il' overo  simili — 19: il-m la cosa — S3: SI' om. a dire — 23-24: m pure che cos'i sia. E sap-  piano — M' nm. acconci ~ 26: M-m el facto - 27-28: m chontro ad un altra     - 52 -   parte o dicendo centra l'altra; o per aventura sia materia  sopra la quale si conviene dittare in lettera. Non sia don-  que la lingua pronta a parlare né la mano presta alla penna,  ma consideri che '1 savio mette alla bilancia le sue parole  5. tutto avanti clie Ile metta in dire né inn iscritta. 3. Con-  sideri ancora che '1 buono difficiatore e maestro poi che  propone di fare una casa, primieramente et anzi che metta  le mani a farla, sì pensa nella sua mente il modo della casa  e truova nel suo extimare come la casa sia migliore; e poi   10. eh' elli àe tutto questo trovato per lo suo pensamento, sì  comincia lo suo lavorio. Tutto altressi dee fare il buono  rettorico: pensare diligentemente la natura della sua ma-  teria, e sopra essa trovare argomenti veri o verisimili sì  che possa provare e fare credere ciò che dice. 4. Et già   15. é detto quello che è inventio. Ora procederà il conto a dire  quello che è dispositio.     Dice Tullio de dispositio. Dispositio èe assettamento delle cose trovate per ordine. Perciò che trovare argomenti per provare e FAR CREDERE il suo dire non vale neente chi no Ili sae asettare per ordine, cioè mettere ciascuno argomento in quella parte  e luogo che ssi conviene, per più affermamento della sua  parte, sì dice Tulio che è dispositio. 2. E dice eh' è quella   25. scienzia per la quale noi sapemo ordinare li argomenti  trovati in luogo convenevole, cioè i fermi argomenti nel  principio, i deboli nel mezzo, i fermissimi, co' quali non  si possa contrastare lievemente, nella fine. Cosi fae il  difficatore della casa, che poi eh' elli àe trovato il modo     1 : m chontro all'altra - 2 .• M sopralla ([ualo - M' oiii. don(|uo - 3: in o la mano alla  penna - 5: m tutto prima, S tutto - m o in iscritta, M' o in iscriptura — 6-S:.il diliciatore  prima che metta lo mani a lare — mr=.)/, ma o maestro - 9: m Poi - 10: M' U suo la-  voro — i3: M-m si veri che possa - 14-16: M E già liecto, mi Ora e detto - M' om-  quello - M-m Ora procederà il conto quello che è spositio, .«' Si procederà il conto a dire  che k dispositione - SO: m diro il suo criMloro - Sfì: M trovai - ,W-»i ohi. i, m om. argo-  pienti — 27: M' ali (piali     nella sua mente, elli ordina il fondamento in quel luogo  che ssi conviene, e ila parete e '1 tetto, e poi 1' uscia e  camere e caminate, et a ciascuna dà il suo luogo. 4. Già  è detto che è dispositio; or diceva il conto che è elocutio.     5. Tullio dice della locuzione.   30. Elocutio è aconciamento di parole e di sentenzie avenanti  alla invenzione.   Sponitore.   I. Perciò che neente vale trovare od ordinare chi non  sae ornare lo suo dire e mettere parole piacevoli e piene  di buone sentenze secondo che ssi conviene alla materia  trovata, sì dice Tulio che è elocutio. Et dice che è quella scienzia per la quale noi sapemo giungere ornamento di  parole e di sentenze a quello che noi avemo trovato et ordinato. E nota che ornamento di parole èe una dignitade la quale proviene per alcuna delle parole della diceria, per la quale tutta la diceria risplende. Verbigrazia. Il  grande valore che in voi regna mi dà grande SPERANZA del  vostro aiuto. Certo questa parola, cioè “regna”, fa tutte  risplendere l'altre parole che ivi sono. Altressì nota che  ornamento di sentenze è una dignitade la quale proviene  di ciò che in una diceria si giugne una sentenza con un'altra con piacevole dilettamente. Verbigrazia. In queste parole di Salamene. Melliori sono le ferite dell'amico che frodosi basci del nemico. Et già è detto che è elocutio, cioè  apparecchiamento di parole e di sentenzie che facciano la diceria piacevole et ordinata di parole e di sentenzie. Omai procederà il conto alla quarta parte di rettorica, cioè memoria.     i-2: m in quello che si chonvienc et il luogo.... l'ascia, charaere3: M^ cam-  minate, ciascuna in suo luogo. Et già ecc. — 0-7: M-m avenonti alla ntentione (anche  S intenliono) — 9: M om. od — 10: M' sa adornare il suo dire — 15: m om. E -  16: M dignità della quale, m M' dignità la quale pervieneSO: M' vi sono — SI m  ,»f' perviene — 22 .- M-m om. Ai — M un'altra seutenfa con un altro, m in un'altra diceria  si giungne un'altra sententia chon un altro piacevole dil. — 23: M-m dice Salamene —  25: M' li frodolenli basci — m om. Et — 26-27: M om. e di sentenzie, m om. piacevole  el; M om. che.... parole  Ambedue le lezioni sono possibili; ma con quella di M si spiega meglio una  pretesa correzione in dice (chi avrebbe pensato, invece, a cambiare dice indi?),  mentre poi il verbo dice renderebbe superflua l'espressione in queste parole.  Dice Tulio della memoria. Memoria è fermo ricevimento nell'animo delle cose e delle  parole e dell'ordinamento d'esse.  Et perciò che neente vale trovare, ordinare o acon-   ciare le parole, se noi nolle ritenemo nella memoria sicché  ci'nde ricordi quando volemo dire o dittare, sì dice Tulio  che è memoria. Onde nota che memoria èe di due maniere:  una naturale et un'altra artificiale. La naturale è quella forza dell'anima per la quale noi sapemo ritenere a memoria QUELLO CHE NO APRENDEMO PER ALCUNO SENNO SEL CORPO. Artificiale è quella scienzia la quale s'acquista per insegnamenti delli FILOSOFI, per li quali bene impresi noi possiamo ritenere a memoria le cose che avemo udite o trovate  o APRESE PER ALCUNO DE’ SENNI DEL CORPO e di questa memoria artificiale dice Tulio eh' è parte di rettorica. Et dice  che memoria è quella scienzia per la quale noi fermiamo nell'animo le cose e le parole eh' avemo trovate et ordinate,  sicché noi ci 'nde ricordiamo quando siemo a dire. Et già é detto che è memoria; si dicerà il conto la quinta et ultima  parte di rettorica, cioè pronuntiatio. Dice CICERONE della pronunziagione. Pronuntiatio è avenimento della persona e della voce secondo la dignitade delle cose e delle parole. Et al ver dire poco vale trovare, ordinare, ornare  parole et avere memoria chi non sae profFerere e dicere le  sue parole con avenimento. Et perciò alla fine dice Tulio Però che niente — ot acconciai-e — 7: w» cene, Af' cine — M volere — 9:mom,  et — il: M' senso — IS: M' quella memoria — i-i: J»/' udito — i5: 4f' sensi — 16-,  m nnu Et — i8 : m olle parole — i9: M' noi vegnamo a dire — SO- « ultra parte, hi  ora dirà il conto la quinta jiarte, .W" il maestro - S6 : m o ornare — 27: in a chi non sae  prollbrere o diro     -òs-  che è pronuntiatio; e dice eh' è quella scienzia per la quale  noi sapemo profferere le nostre parole et amisurare et accordare la voce e '1 portamento della persona e delle membra secondo la qualitade del fatto e secondo la condizione della diceria. Che chi vuole considerare il vero, altro modo vuole nelle voci e nel corpo parlando di dolore che  di letizia, et altro di pace che di guerra, ('he '1 parliere  che vuole somuovere il populo a guerra dee parlare ad  alta voce per franche parole e vittoriose, et avere argoglioso advenimento di persona e niquitosa ciera contra ' nemici. Et se Ila condizione richiede che debbia parlamentare a cavallo, si dee elli avere cavallo di grande rigoglio,  sì che quando il segnore parla il suo cavallo gridi et anatrisca e razzi la terra col piede e levi la polvere e soffi per e nari e faccia tutta romire la piazza, sicché paia che  coninci lo stormo e sia nella battaglia. Et in questo punto  non pare che ssi disvegna a la fiata levare la mano o per  mostrare abondante animo o quasi per minaccia de' nemici. Tutto altrimenti dee in fatto di pace avere umile advenimento del corpo, la ciera amorevole, LA VOCE SOAVE, la  parola paceffica, le mani chete; e’1 suo cavallo dee essere chetissimo e pieno di tanta posa e' sì guernito di soavitade  che sopr'a llui NON SI UMOVA UN SOL PELO, ma elli medesimo  paia factore della pace. Et così in letizia de' 1 parlatore  tenere LA TESTA LEVATA, il viso allegro e tutte sue parole e  viste SIGNIFICHINO allegrezza. Ma parlando in dolore sia LA TESTA INCHINATA, il viso triste e li occhi pieni di lagrime  e tutte sue parole e viste dolorose, sicché ciascuno sembiante per sé e ciascuno motto per sé muova l'animo dell’uditore a piangere et a dolore. Et già é detto delle  V parti sustanziali di rettorica interamente secondo  l'oppinione di Tulio, e sì come lo sponitore le puote  fare meglio intendere al suo porto; sì ritorna Tulio a scusare sé medesimo di ciò che non àe mostrato ragione perché     2: m e misurare ~ 5: M' che a chi vuole — 0: M' noia boce — 7 : M' parlare, m  Il parliere — 8: m smuovere — i/' om. il populo — 11 : M parlantare, m p-are — 12: m  mn. elli — 14-15: M' delle nari, vi sozzi le anari — 16: il' incominci — 17: M-m om.  per — 19-20: M' humili avenimenti — m nel chorpo — 21 : M' le parole pacefiche —  22 : L di tanta jwssa — 24 : M' om. Et — mss. del parlatore — 25 : M-m levata in suso -  il' le sue parole — 26: il-m e signilichino — 27: m chinata, il' inchina, L inchinata —  28 : M-m parole iuste e dolorose — 29: il' muove — 30: m piangerò a dolore. Ora è detto —  31 : il' sustanziali parti — 32: M' il puote     — 56 —   quello sia genere et ofifìcio e fine di rettorica sì com' elli  àe fatto della materia e delle parti, e dice in questo modo.   Tullio dice che tratterà della materia e delle parti. Oramai dette brievemente queste cose, atermineremo in  5 altro tempo le ragioni per le quali noi potessimo dimostrare il  genere e IPofficio e Ila fine di quest'arte, però che bisognano di  molte parole e non sono di tanta opera a mostrare la propietade  e Ile comandamenta dell'arte. Ma colui che scrive l'arte rettorica  pare a noi che 'I convenga scrivere dell'altre due, cioè della maio teria e delle parti. E io perciò voglio trattare della materia e delle  parti congiuntamente. Adunque si dee considerare più intentivamente  chente in tutti generi delle cause debbia essere inventio, la quale  è principessa di tutte le parti.  In questa parte dice Tulio che non vuole ora provare perchè quello sia genere di rettorica che detto è  davante, né Ilo officio né Ila fine, però che vorrebbe lunglie  parole e non sono di molto frutto, e però l' atermina nel-  r altro libro nel quale tratta sopr' a cciò; et in questo presente libro tratta della materia, cioè dimostrazione,  deliberazione e iudicazione, et altressì tratta delle pai'ti,  cioè inventio, dispositio, elocutio, memoria e pronuntiatio. Et di tutte queste tratterà insieme e comunemente. Ma  però che inventio è la più degna parte, sì dicerà CICERONE chente ella dee essere in ciascuno genere di rettorica,  cioè come noi dovemo trovare quando la materia sia di  causa dimostrativa, e quando sia deliberativa, e quando  sia iudiciale; e tratterà si comunemente che mosterrà  come sia da trovare in catuna di queste cause, e come   30. ordinare e come ornare la diceria, e come tenere a me-  moria e come profferere le sue parole.     1 : M-m quella — 4 : M' Ogimai — 7 : M admostrare, ni a dimostrare — M' le pro-  picladi — 9: M-m che convenga - iO-H : M-m om. K io.... congiuntamente — IS: M-m  chente e — i3: Af' do tutte l'arti — 16: M-m quella, M -L quel — M' detto davanti —  18: M' lo termina — 20: M-m dimostrative — 23: M' congiuntamente; m om. e — 24:  M-m om. SI dicerà Tulio — i'S : M' om. sia — congiuntamente — S9: Af' come iu e. d.  q. e. sa da trovare — 30: iii nm. e come ornare  Lo sponitore parla all' amico suo. Perciò lo sponitore priega '1 suo porto, poi ch'elli àe impresa altezza di  tanta opera come questa èe, che a llui piaccia di si dare  l'animo a cciò eh' è detto davanti, spezialmente in connoscere il dimostrativo e '1 deliberativo e '1 iudiciale che sono il fondamento di tutta l'arte, e poi a quel che siegue per  innanzi, eh' elli intenda tutto '1 libro di tal guisa che, per lo  buono aprendimento e per lo bel dire che farà secondo lo 'nsegnamento dell' arte, il libro e lo sponitore ne riceve-  JO. ranno perpetua laude. Della constitnzione e delle quattro sue parti.   34. (e. Vili) Ogne cosa la quale àe alcuna controversia in  diceria o in questione contiene in se questione di fatto o di nome  di genere o d'azione; e noi quella questione delia quale nasce la causa apelliamo constituzione. E constitnzione è quella eh' è  prima pugna delle cause, la quale muove dal contastamento della intenzione in questo modo. Facesti. Non feci, o Feci per  ragione. Poi che CICERONE àe detto di mostrare e trattare della   invenzione e della materia insieme, sì mostra lo sponitore  in che ordine trattò de l'inventio; ma per maggiore chiarezza dicerà tutto avanti in che significazione si prendono  queste parole, cioè causa, controversia, constituzione e stato. Causa vale tanto a dire quanto il detto o '1 fatto d' alcuno, per lo quale è messo in lite, ed è appellato causa  tutto '1 processo dell' una e dell' altra parte. Et appellasi  causa tutta la diceria e la contenzione cominciando al  prolago e tìniendo alla conclusione; donde dice uomo:     3: M-m di darli l'animo — 7-10: M^ chel baono — ben dire — per tua laude, M-m  dello sponitore, M ne rlcevemo, m ne riceva - 13: m o questione, ilf ' om. contiene in se  questione — 14 : M-m di quella — 15: M^ constitutione ò la prima pugna — 21 : M' om.  insieme — M' mosterra, ma L mostra — SS : M delinventia, m della inventia, M^ della  inventione — 23: m tutto innanzi — Af' mi. si prendono — S7 : M' dell'una parte 7 del-  l'altra — 28: M-m la 'nlentione — M' dal prol.   La mia causa è giusta, cioè, la mia parte è giusta. Controversia vale a dire tanto come causa, e viene a dire  “controversare” cioè usare l'uno coli' altro di diverse ragioni  e contrarie. Questione tant' è a dire come '1primo detto di colui che comincia contra un altro e '1 secondo detto  di colui che ssi difende. Et appellasi quistione una diceria  nella quale àe due parti messe in guisa di dubitazione, et  appellasi questione per l'una e per l'altra parte della questione. Constituzione si prende et intende in quelle medesime significazioni che sono dette davanti. Stato è appellato il detto e '1 fatto'l) dell'aversario, però che' parliere  stanno a provare quel detto o quel fatto; e questo medesimo  è appellato constituzione perciò che '1 parliere constituisce  et ordina la sua ragione e la sua parte di quel detto o di quel fatto. Et per ciò è appellato “CONTRO-VERSIA” che diversi  diversamente sentono di quel detto o di quel fatto. Qui dice lo sponitore come Tullio tratterà della Invenzione. Et poi che Ilo sponitore àe dette le significazioni di queste parole, dicerà in chente ordine Tulio tratta della 'nvenzione. Et certo primieramente insegna invenire e trovare  quelle questioni le quale trattano i parlieri, et appellale  constituzioni e dice la proprietade di constituzione e dividela in parti. Nel secondo luogo mostra qual causa sia  simpla, cioè di due divisioni, e qual sia composta, cioè di quattro o di più. Nel terzo luogo mostra qual contraversia sia in scritta e quale in dicere. Nel quarto luogo  mostra quelle cose che nascono di constituzione, cioè la  diceria nella quale àe due divisioni e ragioni, e Ila giudicazione e '1 fermamento. Nel quinto luogo mostra in che guisa si debbono trattare le parti della diceria secondo  rettorica. Nel VI luogo mostra quante sono esse parti  e quali e che sia da ffare in ciascuna. Et disponesi cosi     2 : Af' vale quasi tanto — 3: M' controversia — centra l'altro diverse ragioni — 4:M'  k tanto a dire — M-m come primo — 5: m e secondo — 7: M-m parti in essere — M dn-  bitatione sanfa dubitatione — 9: M' i s'intende — 10: m dinanzi — J8: m om. VA-  IO: M' sì dicerà oggimai — 20: L a trovare — 23: m In quattro parti — M-m dimostra  - M qual cosa, m ciualo luogho — 26 : M-m sia scripta - 28 : M'-L e la ragiono el iu-  dicamento el fermamente — 29: m dimostra — 31: M luorao (tic) .— 32: M' ciascuno  M Kt diponesi, m ('dispensi, M'-L Et dispone   Ci aspetteremmo o 'l fatto, anche per uniformità colle frasi seguenti ; ma  la concordia dei codici per e lascia incerti sulla conesiione, che non è neppure  indispensabile per il senso.     — 59 —   il testo di Tulio per fare intendere onde procedono le qui-  stioni che toccano al parliere di questa ai'te. Ogne cosa la quale àe in sé CONTRO-VERSIA,  cioè della quale i diversi diversamente sentono sicché alcuna cosa dicono sopr' a cciò con inquisizione, cioè per  sapere se alcuna delle parti è vera o falsa, sì à' in sé que-  stione di fatto, cioè questione la quale muove di ciò che  alcun fatto è apposto altrui. Verbigrazia : Dice l'uno contra l'altro. Tu mettesti fuoco nel Campidoglio. Et esso risponde. Non misi. Di questo nasce una cotale questione, se elli fece questo fatto o no, et è appellata questione di fatto per quello fatto che a llui è apposto, etc. Od è questione di nome, cioè che l’una parte appone  un nome a un fatto (D e l'altra parte n'appone un altro. Verbigrazia: Alcuno à furato d'una chiesa uno cavallo o  altra cosa che non sia sagrata. Dice l’una parte contra lui. Tu ài commesso sacrilegio. Dice l'altro. Non sacrilegio, ma furto. Et nota che sacrilegio è molto peggiore  che furto, perciò che colui commette sacrilegio che fura  cosa sacrata di luogo sacrato. Donde di questo nasce una  questione del nome di quel fatto, cioè se dee avere nome  furto sacrilegio, e però è appellata QUESTIONE DEL NOME. Od è questione del genere, cioè della qualitade d'alcuno  fatto, in ciò che l’una parte appone a quel fatto una qualitade e l' altra un' altra. Verbigrazia : Dice F uno. Questi  uccise la madre iustamente perciò ch'ella avea morto il suo  padre. Dice l'altro. Non è vero, ma iniustamente l'à  fatt; e di ciò nasce cotal questione di questa qualitade. Se l'à fatto iustamente o iniustamente, e perciò è appellata questione di genere, cioè della qualità d'un fatto e   di che maniera sia. Od è questione d'azione, cioè viene   a dire che contiene questione la quale procede di ciò,   e' alcuna azione si muta d' un luogo ad altro e d'un tempo   ad altro. Verbigrazia : Dice uno contra un altro. Tu m' ài    M' diversi — 6: M' se l'una parte — 8: 3f' un facto — 8-9: M' uno contra un  altro — M' Elgli, mie— 12-13: m che 6 allui aposto, il/' perche il facto che allui e  e apposto da questione ecc. — M-m Onde questione — i4 : M-m in nome o in facto, M'  ialla dal 1° al 2° appone — 18: m M' oin. Et — M' peggio — 20: m Onde — 21: M'  del nome del facto — 22: m di nome — 23: M-m Onde — m di genere — 25: M-m l'altro —  28: iW' OHI. e — 29: M-m om. se l'à fatto — 30: M' o di che m. - 31 : M-m Onde —  mcioò che viene — 32-34: M' dico calcuna ad un altro — om. e.... ad altro — uno a un altro   È lezione congetturale, ma sicura, come dimostra l'espressione analoga del § 16.  furato un cavallo »; et esso risponde: « Vero è, ma non tine  rispondo in questo tempo, perciò che ttu se' mio servo, o  perciò eh' è tempo feriato, o perciò eh' io non debbo rispon-  derti in questa corte, ma in quella della mia terra. Onde di questo procede una questione, la quale Tulio dice che  è d'azione, cioè se colui dee rispondere o no. Et dice  Tulio che tutte le quistioni che sono dette davanti sono  appellate constituzioni, cioè c'anno questo nome. Et dice  che constituzione è la prima pugna delle cause, cioè  quello sopra che da prima contendono i parlieri, cioè il  detto dell'uno e '1 detto dell'altro, e questo sopra che  de prima contendono i parlieri si è il nascimento, cioè che  muove del contrastamento della intenzione, cioè del detto  di colui che ssi difende contra le parole dell'accusatore. Onde contastamento è appellato el primo detto del difensore e intentione è appellata il primo detto dello accusatore. Et pare che il nascimento della constituzione vegna  della difensione ch'è della accusa, non che nasca della difensione, ma perciò che del detto del difenditore si puote cognoscere se Ila causa o Ila questione è di fatto o di genere o di nome o d'azione, sì come appare nelli exempli  che sono messi davanti.  Et omai dicerà Tulio le nomora  e Ile divisioni e Ile proprietadi e He cagioni di tutte le dette  questioni.  Del fatto, et è detto congettìirale. Quando la controversia è di fatto, perciò che Ila causa si  ferma per congetture, sì à nome constituzione congetturale. In questa parte dice Tulio che quando la contenzione è per alcuno fatto che sia apposto ad altrui, sì come   davanti si dice, sì conviene eh' ella sia provata per con-     1 : M' 0(1 cigli, VI et e — 3: m e però ch'io — M' rispondere — 6 : M' se quelli —  m OHI. Et — 10: M i parliero, vi quello dello quale contendono da prima — 14: M di-  fontu — 15: m M' il primo — 16: M' appellato - 17: M-m che nascimento — 19: M' owi.  del — 23-24: M' om. e Ilo cagioni, mn scrive le detto | cagioni I (piestioni — SS: Moni.  è — 26-27: M-vi om. è — per cometlere — 30: M' apposto altrui  gettare, cioè per suspezioni e per presunzioni. Verbigrazia:  Dice uno contra un altro. Veramente tu uccidesti Aiaces,  ch'io ti trovai e VIDI TRAIERE IL COLTELLO DEL SUO CORPO. Et questa è faticosa questione, ciò dice Vittorino, perciò  5. che a provarla si faticano molto i parlieri, perciò ch'al-  tressì ferme ragioni si possono inducere per l’una parte  come per 1' altra. E poi eh' è detto della constituzione di  fatto, sì dicerà Tulio di quella eh' è di nome.  Del nome, et è appellata ilifjìnitiva.  Quando è la controversia del nome, perciò che Ila forza   della parola si conviene diffinire per parole, sì è nominata diffi-  nitiva. In questa parte dice Tulio che quando la conten-   15 zione è del nome del fatto, cioè come quel fatto eh' è apposto altrui abbia nome, quella questione si è diffinitiva  perciò che Ila forza, cioè la significazione di quella parola  e di quel nome si conviene diffinire, cioè aprire e rispia-  nare che viene a dire e che significa, non per exempli ma per parole brevi e chiare et intendevole.Verbigrazia. Un uomo è accusato che tolse uno calice d' uno luogo sacrato et è Ili apposto che sia sacrilegio, et esso si difende  dicendo che non è sacrilegio ma furto. Or sopra questa controversia si è tutta la questione per lo nome di questo fatto: è sacrilegio o furto? Onde per sapere la veritade si conviene diffinire l'uno nome e l’altro, cioè dire la signifficazione e Ilo 'ntendimento di ciascuno nome, e poi che fie  chiarito per le parole quello che '1 nome significa, assai  bene si potrà intendere e provai e qual nome si XJonga a   30. quel fatto. Et poi eh' è detto del nome, sì dicerà Tulio  del genere.     3: m e viJili trarre, M' ol ti vidi trarre — 5-6: M'-L acciò che altress'i (L altre si) f.  r. se ne possono — 7: in ora. E — *: m om. sì — W: M' la controversia è — ii: M'-L  appellata — 13: M-m om. è — 3f ' 7 ilei facto — 16: M' om sì — 17:M' che ella airorca  — M-m a quella parola - 21-22: M' del luogo sacro — 23: M' ma e furto — 24-25:  AT» se questo facto è sacrilegio furto — 26: m l'altro — M-m dare - 28: M-m che  nome — 30: m om. Ei e si    Dice Tullio del genere, et è appellato generale.  Quando è quistione della cosa qual sia, perciò clie Ila.  controversia è della forza e del genere del fatto, sì è vocata constituzione generale. In questa parte dice Tulio che quando è questione  della cosa quale ella sia, perciò che Ila controversia è della  forza del fatto, cioè della quantitade, e della comparazione  et altressì del genere, cioè della qualitade d'esso fatto, si è   10. vocata constituzione generale. Verbigrazia. La quantitade del fatto si è cotale questione : se uno à fatto tanto  quanto un altro, si come fue questione SE CICERONE AVEA TANTO SERVITO AL COMUNE ROMA QUANTO CATONE. La comparazione del fatbo si è cotale: di due partiti qual sia migliore, si come fue questione quando i ROMANI presono Cartagine  QUAL ERA MEGLIO TRA DISFARLA O LASCIARLA. Il genere del  fatto si è questione della qualità del fatto sì come davanti  fue messo F exemplo, cioè se colui che fece il fatto fece  iustamente o iniustamente.  Dice Tullio dell'azione, et è appellata translativa.  Ma quando la causa pende di ciò che non pare che quella  persona che ssi conviene muova la questione, o non la muove contra  cui si conviene, o non appo coloro che ssi conviene.d) o non in tempo  che ssi conviene, o non di quella lege o di quel peccato o di quella  pena che ssi conviene, quella constituzione à nome translativa, però che  ir azione bisogna d' avere translazione e tramutamento.     8: M-m o decta forfa — 9: M-m sia — M' aiiiiellala — H : M-m senno - 14. m do  fatto — i7: M-m qualità — 2'1: A/' l'accusa — 24: M convenne, M-m nm. o non   (1) La frase o non appo coloro che ssi conviene manca in tutti i codici, ma si  ricava dal latino aid non apud qiios e dal § 4 dol commento.  In questa parte dice CICERONE della controversia dell'azione, che quando sopr'acciò è Ila questione e' si conviene  che l’azione si tramuti in tutto o in parte, e perciò à nome translativa, cioè trarautativa. Et questo è o puote essere  Ijer sette maniere, le quali sono nominate nel testo, cioè:  2. Quando non muove la questione quella persona a cui la  conviene di muovere. Verbigrazia: Dice uno scoiaio contra  ad un altro. Tu se' venuto troppo tardi a scuola. Et  esso dice. A te no'nde rispondo, che non ti si conviene  muovermi questione di ciò, ma conviensi al nostro maestro. O non muove la questione contra quella persona  che ssi conviene. Verbigrazia. Fue trovato che in ROMA  si trattava tradimento e fue alcuno che ll'aponea contra GIULIO Cesare, et esso dicea. Contra me non si conviene  muovere di ciò questione, ma contra CATELLINA CATILLINA che l’ àe  fatto e fa tutta fiata ». non muove la questione appo  coloro che ssi conviene, cioè davanti a quelle persone che  dee. Verbigrazia : Fue accusato il vescovo di simonia davanti al re di Navarra. Il vescovo dice. Tu non m'accusi  davante a giudice eh' io debbia rispondere, ma io son bene  tenuto di ciò e d'altro davante l'appostolico. O non  muove la quistione in quel tempo che ssi conviene. Verbigrazia. Uno fue accusato il giorno di Pasqua. Esso dicea. Non rispondo ora di questo, perciò che oggi non è  tempo d' attendere a cotali convenenti» non muove  questione a quella lege che ssi conviene. Verbigrazia : Uno  cittadino di ROMA era in Parigi e volea piatire contra uno  francesco secondo la legge di Roma; ma quel francesco dice     3: Jtf -HI 7 si conviene, 3/' om. — 5: Af 7 puote, m e questo puole essere — M' in sette m. —  7-8: m si conviene — M' in contro a un altro — 9-iO: M' Ed elgli, m et elli — M-m om.  ti — 12: M-m muovere, M' muove questione — i4: Af alcuna —16: m questione di ciò,  M' di ciò non si conv. m. q. — ' 17: m tuttavia — M-m contra coloro — 18-19: M' che  si dee.... Il vescovo fu acc. — 21: M davante a giudici, m /> davanti a giudici, M' davanti  giudice - 24: m della Pasqua — egli — 25: M' non ti rispondo ora di ciò — 26: m M'  da rispondere — 29: M' la legge romana — m il Francesco   (1) Questa è la lezione miglioro per il senso, né si trova una valida ragione  per considerarla arbitraria, quantunque dalle due famiglie di codici sembri risultare un da rispondere: sarà stato determinato dal rispondo con cui comincia la frase che non dee rispondere a quella legge ma a quella di  Francia. O non muove la questione di quel peccato che  ssi conviene. Verbigrazia. Fue accusato uno, che non avea  il membro masculino, ch'avesse corrotta una vergine; esso dice. Io non risponderò di questo peccato -- non  muove questione di quella pena che ssi conviene. Verbigrazia. Fue uno accusato ch'avea morto uno gallo et erali  apposto che perciò dovea perdere la testa; esso dicea: Non  rispondo a questa pena, perciò che non tocca a questo peccato. Donde tutte queste questioni sono translative,  cioè che ssi tramutano in altro fatto e stato, tal fiata in  tutto e tal fiata in parte, si come appare nelli exempli di  sopra.  Dice Tullio se l'una delle dette quattro cose non fosse non sarebbe causa. E così conviene che ssia l' una di queste inn ogne maniera di cause, perciò che in qual causa no 'nde fosse alcuna, certo  in quella non porrebbe avere contraversia, e perciò conviene che  non sia tenuta causa. Poi che CICERONE àe divisate le parti della constituzione  et àe detto che e come è ciascuna di quelle parti e le  loro nomerà, sì vuole Tulio provare che quando l'una di  queste questioni, che sono del fatto o del nome o della qualità del tramutare l'azione, non è intra parlieri, certo intra  loro non puote essere controversia ; e poi che 'ntra loro  non à controversia, certo il fatto sopra il quale dicessero  parole non sarebbe causa, e così non sarebbe materia di  questa arte, cioè che non sarebbe dimostrativo né diliberativo né iudiciale. 2. Et provando questo sì dimostra Tulio     i: i non si dee — 4-5: m M' Klgli dico -- 7: M' Fue accusalo uno — 8: M' nm_  perciò - m egli dice — M' non li lispondo — 9: M' non tocclia (piosto peccato — ti:  M' in altro slato, m om. e stalo - J2:M' paro — 16: M' luna de ipicste sia - 17: M tn  i|ualcosa, m in quale chosa - SS : M-M^ 7 ciascuna - S3: m provare Tulio - S3-S6: M-m  om. ^ — m tralloro - 30: m quando ([U'-sto    che Ile predette cose in questa arte sono si congiunte in-  sieme che qualuuiiue causa è dimostrativa o deliberativa  o iudiciale sì conviene che sia constituzione o del fatto o del  nome o della qualitade o dell' azione, et e converso che  5. qualunque constituzione è del fatto o del nome o della  qualità o dell'azione sì conviene che sia dimostrativa o  deliberativa o iudiciale. Et omai perseverra Tulio sua ma-  teria per dicere di ciascuna parte per sé.  Del fatto. La contraversia del fatto si puote distribuire in tutti tempi: che ssi puote fare quistione che è essuto fatto, in questo modo. Ulisse uccise Aiace o no ? Et puotesi fare questione che ssi fa  ora, in questo modo Sono i Fregelliani in buono animo verso lo  comune o no ? Et puotesi fare questione che ssi farà, in questo   15. modo : Se noi lasciamo Cartagine intera, everranne bene al comune  no? In questa pai'te dice CICERONE che Ila CONTRO-VERSIA la quale è di fatto che ssia apposto ad altrui, la quale àe nome constituzione congetturale sì come fue detto in  adietro e messo in exempli, sì puote essere in tutti tempi,  cioè preterito, presente e futuro. Nel PRETERITO pone  Tulio r exemplo della MORTE D’AIACE, che fue cotale.  Stando l'assedio di Troia sì fue morto il buon Achille,  et apresso la sua morte fue grande questione delle sue armi  intra Ulisse et Aiace. Et certo Ulisse fue, secondo che  contano le storie, il più savio uomo de' Greci e '1 milìor  parliere, sicché per lo grande senno che i-llui regnava e  per lo bene dire niettea in compimento le grandi vicende, alle quali altre non sapea pervenire, e perciò adoperò e' più  di male contra' Troiani per lo suo senno che non fecero   M dimoslraliva — 3: M' constitutione del facto — 4-6: M-m om. ot e conweiso....  dell'azione — 7 : M' Et oggimai perseguita — 10: M' in dui tempi — 11: m clie exututo —  13: M* de buono animo — 14: m om. che ssi farà — 15: M-m, L in terra — ikf' aver-  ranne, m e veramente bene — S3 : M' Tulio la morto — 24: M* a Troia — 26-27: M'  secondo che recitano le storie, fue M-m et niilior — 29: M* per .ben dire — 30: Mie  quali, m le quali oltre non sapeano — M adopio 7, m adoppio più, M' adopero elgli  M' in contro a — la non fé, L non fece     quasi tutta l'oste per arme, et alla fine si parve uianifestameute, eh' elli fue trovatore del cavallo per lo quale fue Troia perduta e tradita; ma veramente in guerra non si  5. fatigava molto con arme e non era di gran prodezza, ma  tuttavolta dimandava che Ili fossono CONCEDUTTE L’ARMI D'ACHILLE, e dicea che nn'era degno e ch'avea in quella  guerra ben fatta l'opera perchè etc Et dall' altra parte  Aiaces era uno cavaliere franco e prode all'arme, di gran  guisa, ma non era pieno di grande senno e sanza molto** (D  francamente avea portate l'armi in quella guerra, e perciò  domandava l'armi d'Achille e dicea che non si conveniano  ad ULISSE. Onde alla fine l'armi furono concedute ad  Ulisse, per la qual cosa montò tra lloro TANTA INVIDIA che divennero nemici mortali ; et in questo mezzo tempo e  morto Aiaces e fue della sua morte ACCUSATO Ulixes, et  esso si difendea e negava ; e di questo sì era QUESTIONE DI FATTO in preterito, cioè che già era fatto in tempo passato. Inol presente tempo mette Tulio l' exemplo de' Fragellani, che furo una gente i quali fui'ono accusati in ROMA eh' elli aveano male animo contra il comune. Et elli si difendeano e diceano che 11' aveano buono e dritto ; e di ciò  si era QUESTIONE DI FATTO PRESENTE, cioè se sono ora presentemente di buono animo o no. Nel FUTURO mette CICERONE l’exemplo di CARTAGINE, la quale fue una delle più nobili  cittadi e delle più poderose del mondo, e tenne guerra  contro a ROMA, sì eh' alla fine I ROMANI vinsero e presero  la terra ; e furo alcuni che voleano che Ila cittade si disfacesse per lo bene di Roma, ET ALTRI CONSIGLIARO DEL NO perciò che '1 meglio ne potrebbe advenire s' ella rimanesse  intera, e di ciò è QUESTIONE DEL TEMPO FUTURO, cioè se  bene o male n'averrà se Cartagine rimanesse intera o s'ella  si disfacesse. Ma poi che Tulio à detto della controversia  del fatto, sì dicerà di quella del nome in questo modo.     i: M' ne non era. — 6: M' ben dengno — 7 : M' ben l'opera perchè, L bene adope-  rato perchè — 9: m orti, e sanza molto — 10: M-m provale — 14: m iim. mezzo —  15 : m 7 dela sua morte fue aco. — 16-17 : M-m onde di questo era già (piestione... in perciò  che già ecc. (vi om. in perciò) — 18: M' Fregiani — 19: M' che fuoro accusati — SO: SI'  comune de Roma — 22 : m om. si — S6: M incontra — S7 : m om. e — M' vollero (ma L  voleano) — 28: m om. et — M' di no  m pero che meglo ne potrebbe loro intervenire  M-m, L in terra — Af' e questo nel tempo futuro — M-m che bene — 31: M, L'in terra   (1) Così hanno i mss. e perfino la stampa, ma evidentemente manca qualche  parola (anzi itf " dopo molto lascia uno spazio bianco), come dire o parlare. Basti  averlo notato, senza pretendere d' indovinare.  Del nome. Controversia del nome è quando lo fatto è conceduto, ma  è questione di quello eh' è fatto in che nome sia appellato; et in  questo conviene che sia controversia del nome, perciò che non  s'accordano della cosa; non che del fatto non sia bene certo, ma  che quello ch'è fatto non pare all'uno quello eh' all' altro, e perciò  l'uno l'appella d'un nome e l'altro d'un altro. Per la qual cosa  in questa maniera la cosa dee essere diffinita per parole e breve-  mente discritta, come se alcuno à tolta una cosa sacrata d'uno luogo  privato, se dee essere giudicato furo o sacrilego, che certo in  essa questione conviene difinire l'uno e l'altro, che sia furo e  che sacrilego, e mostrare per sua discrezione che Ila cosa conviene  avere altro nome che quello che dicono li aversarii. In questa parte dice CICERONE della controversia del   nome ; e perciò che di questo è molto detto davanti, sì siue  trapassa lo sponitore brevemente, dicendo solamente la  tema del testo, sopra '1 quale il caso è cotale: Roberto  accusa Gualtieri ch'elli àe malamente tolta una cosa sacrata, si come UNO CALICE o altra simile cosa la quale sia  diputata a' divini mistieri, e dice che Ila tolse d'uno luogo  privato, cioè d'una casa o d'altro luogo non sacrato. Viene  l'accusato e confessa il fatto. Dice l'accusatore. Tu ài  fatto sacrilegio. Dice l'accusato. Non ò fatto sacrilegio, ma furto. Et così sono in concordia del fatto, ma non della cosa, cioè della proprietade per la quale si possa sapere che nome abbia questo fatto, perciò eh' all' accusatore  pare una, che dice ch'è SACRILEGIO, et all'accusato pare  un' altra, che dice eh' è FURTO. Onde in questa maniera di CONTROVERSIA si conviene che '1 PARLIERE che dice sopra  questa materia dififinisca e faccia conto IN BREVI PAROLE     3 : it 7 (li questo — 9 : M-m distrecta —10: M- sacrato — M-m per furto o per sacrilegio, L furto sacrilegio —11: M-m con l'altro — m furto — 12: M-m che sacrilegio, A/' che  sia sacrilego — il/' scriptione — 16:Mom. detto — M' nm. si — 18: m sopralla quale - J/'  Uberto : M' tolto — 19 : m cosa simile — SI: M-m ad veruno mistieri (m mistiere) —  23-24: M il l'atto. Et dice laccusato — m Non o, ma furto — 27-28: m però chellachusatorc...  una diosa — 2H-29: M-m om. sacrilegio.... cli'ò — 30: jV' jjarladore — 3t: M' didinita     - G8 -   che cosa è SACRILEGIO e che è FURTO; e così dee mostrare  come questo fatto non à quel nome che dice l'aversario. Ed è detto della CONTROVERSIA del nome; omai dicerà Tulio CICERONE di quella del genere, in questo modo :     5. Del genere.   ^Z. (e. IX) Controversia del genere è quando il fatto è   conceduto e sono certi del nome d' esso fatto, ma è questione della   quantitade del fatto o del modo o della qualitade, in questo modo :   giusto ingiusto - utile o inutile - e tutte cose nelle quali è questione chente sia quel fatto.  In questa parte dice Tulio CICERONE della questione del genere,  e di questa è tanto detto dinanzi che 'n poche parole di-  morerà lo sponitore ; e dice che quella controversia è del genere nella quale Y accusato confessa il fatto et è in con-  cordia coir accusatore del nome d' esso fatto, ma sono in  discordia della quantitade del fatto, cioè se grande o pic-  colo o molto o poco. Verbigrazia. Un gran romano  quando dovea cacciare i nemici del suo comune si fuge. E accusato eh' ha fatto danno e male alla inaestà di Roma; l'accusato confessa il fatto e '1 nome del  facto. Dice l'accusatore. Questo è grande DANNO.  Dice  l'accusato : « Non è grande, ma PICCOLO. Ed è la discordia  tra loro della quantità, cioè se quel male è grande o piccolo. O sono in discordia del modo, cioè della comparazione del fatto, sì come fue detto qua indietro nell'exemplo  di Cartagine, qual fosse la migliore parte tra disfare o lasciare. O sono in discordia della qualitade del fatto, sì  comepare in exemplo d'ORESTE che uccide la sua madre, ed e accusato che l’ha morta ingiustamente. Ed ORESTE si  difende e dice che l'à morta giustamente, ma bene con-     OM,     8: M'in modo della qualitndo — 9: m o non giusto — 12: M' tracia — i3: M-m  detto — VI di questo — M die poclie p. — m dimora, Af' <limorra - 16-17: M' ohi. ma  sono.... del fatto — 20: M-m t>m. e male — S3: M-m nm. Ed — So: >/' Or sono, M-m  OHI. - 26: M' nm. si - 27 : M' o disfare - 2S : M-m quantitade - 29 : M' nelexemplo  di ((uestl , M-vi dotesles — 30-.il : m nm. ot esso... GIUSTAMENTE giustamente, M' nm. si - M-m cliellavea     - 69 —   fessa il fatto e 1 nome del fatto; ma sono in discordia della  qualità, cioè se 11' àe fatto GIUSTAMENTE O INGIUSTAMENTE. Ben  è vero che Tulio CICERONE non mette in exemplo della quàntitade  nel testo, né della comparazione, se non solamente della  5. qualitade ; e questo fae perciò che più sovente ne vien tra  Ile mani che non fanno l'altre, e perciò dice che tutte cose  nelle quali si confessa il fatto e '1 nome del fatto, ma è  questione della qualità d'esso fatto, sì è controversia del  genere. E poi che Tullio CICERONE à detto di questa questione del genere secondo il suo parimento, sì procede immantenente a riprendere Ermagoras dell'errore suo in questa  controversia del genere. A questo genere Ermagoras sottopuose IV parti, ciò sono DELIBERATIVO, DEMONSTRATIVO, IUDICIALE, E NEGOZIALE. Il quale suo  fallimento non mezanamente pare che ssia da riprendere, ma in  breve, perciò che sse noi ci ne passiamo così tacendo fosse pensato che noi lo seguissimo sanza cagione; o se lungamente soprastessimo  in ciò, paia che noi facessimo dimoro et impedimento agli altri insegnamenti. Se deliberamento e dimostramento sono generi  delle cause, non possono essere diritte parti d'alcuno genere di  causa, perciò che una medesima cosa puote bene essere genere d'una  e parte d'un' altra, ma non puote essere parte e genere d'una me-  desima. Et certo deliberamento e dimostramento sono genera delle cause. Ma o non è alcuno genere di cause, o è pur iudiciale sola-  mente, è iudiciale e dimostrativo e deliberativo. Dicere che non  sia alcun genere di cause, con ciò sia cosa eh' e' medesimo dice che  Ile cause sono molte e sopra esse dà insegnamento, è grande forseneria. Un genere, cioè pur iudiciale solamente, non puote essere, acciò che diliberamento e dimostramento non sono simili intra lloro  e molto si discordano dal genere iudiciale, e ciascuno à suo fine  al quale si dee ritornare. Adunque è certo che tutti e tre son ge-  neri delle cause, e così deliberamento e dimostramento non possono     4: M> nel testo exemiilo - 5: M' in tra le mani — iO: m om. secondo il suo pari-  mente — M mantenente — 13: M-m II (juale lue — i7 : 3/' nm. i)erciò — cene passas-  simo — 18: m stessomo - 19: M' dimora, m imped. 7 dimoro — 20: M-m dim. —  22 : m M' causa — M-m genere 7 parte d' una medesima - 23 : M' Ma none, vi Ma anno  ale. — 26: M-m om. e deliberativo — 27: M' ch'elli - 28: M' essi... inseffnamenti —  28-29 : M 7 grandi; fors (?), m 7 grande forma, M' 7 grandi mattezze. Genere ere. — .12 :  M 7 certo — 3:i : M' de cause... dimost. 7 del.    essere a diritto tenute parti d'alcuno genere dì causa. Dunque ma-  lamente disse ch'elli fossero parte della constituzione del genere.  46. (e. X) Et s'elle non possono essere tenute diritte parti della  causa del genere, molto meno fien tenute parti della diritta parte della causa; e parte della causa è ogne constituzione; donde no la  causa alla constituzione, ma la constituzione s'acconcia alla causa.  Ma dimostramento e diliberamento non possono essere tenute diritte  parti della causa del genere, perciò che sono generi: donque molto  meno debbono essere tenuti parte di quello ch'esso dice. Appresso ciò, se Ila constituzione et essa e ciascuna parte della con-  stituzione è difensione contra quello eh' è apposto, conviene che  quella che no è difensione non sia constituzione ne parte di constituzione. Et certo deliberamento e dimostramento non sono constituzione. Dunque se constituzione et ella e la sua parte è difensione contra quello eh' è apposto, il dimostramento e '1 diliberamento non  è constituzione ne parte di constituzione. Ma piace a Itui che ssia  difensione. Dunque conviene che Ili piaccia che non sia constituzione,  né parte di constituzione. Et in altrettale isconvenevile fie condotto,  se esso dica che constituzione sia la prima confermazione dell' accusatore o Ila prima preghiera del difenditore ; e così seguiranno  lui tutti questi sconvenevoli. Appresso ciò, la causa congettu-  rale, cioè di fatto, non puote d'una medesima parte inn un medesimo genere essere congetturale e diffinitiva ; et altressì la diffinitiva  causa non puote essere d'una medesima parte inn uno medesimo genere diffinitiva e translativa. Et al postutto neuna constituzione  ne parte di constituzione puote avere e tenere la sua forza et altrui;  perciò che ciascuna è considerata semplicemente per sua natura ; se  l'altra si prende, il nomerò delle constituzioni si radoppia, non si  cresce la forza della constituzione. Veramente la causa deliberativa insieme d'una medesima parte in un medesimo genere suole avere  la constituzione congetturale e generale e diffinitiva e translativa, et  alla fiata una e talvolta piusori. Adunque, essa non è constituzione  né parte di constituzione. Et questo medesimo suole usatamente  advenire della causa dimostrativa. Adunque sì come noi avemo detto   3,5. davanti, questi, cioè deliberamento e dimostramento, sono generi  delle cause e non parti d'alcuna constituzione.     1 : M' a diricto essere tenute parte — 5: M-tn om. parto delln causa ì- — vi om. no -  7: JV' tenuti — 9 : m tenute parti, il/' im. tenuti — M-m cliossi dice — iO: M-m chella  const. — 11: M-m ? difensione — M' (piella - IS: M-m non sia la constitutione — 13:  m om. Et — 14: M 1 dunque le const., m Dunque la const. — 15: M' nm. e '1 dilibera-  mento — 16-18: m om. i due periodi — ^0 : m seguiteranno - l' 1 : M-m si convenevoli -  23: M'^ diffinitiva, m chon dilf. — 25 : M-m om. e translativa - 26: M-m om. nk - M' ne te-  nere — 2S: m il novero — il/ sic radoppia — 31: m coniotturalc generale — 32: i wim. illusori     — (i     Lo sponitore.   I. In questa parte dice Tulio che Ermagoras dicea che  Ila controversia del genere avea quattro parti sotto sé, ciò  sono deliberativo, demostrativo, iudiciale e negoziale; della  5. qual cosa Tulio lo riprende in tutte guise, e mostra molte  ragioni come Ermagoras errava malamente, e questo pruova  manifestamente per argomenti dialetici: che dimostramento  e deliberamento sono generi delle cause si che Ile cause  sono parti di loro; e poiché sono generi, cioè il tutto delle   10. cause, non possono essere parte delle cause, acciò ch'una  cosa non puote essere tutto d'una cosa e parte di quella  medesima. 2. Et così per molte ragioni o vuoli argomenti  conclude Tulio che Ermagoras avea mal detto, e poi se-  guentemente dice la sua sentenza : quali sono le parti della constituzione del genere, cioè della quantitade e del modo  e della qualitade del fatto, sì come qui dinanzi fue detto.  Et in ciò incomincia la sentenzia di Tullio in questo  modo :   Le parti della constituzione generale.   20. ^S. (e. XI) Questa constituzione del genere pare a noi ch'ab-   bia due parti : Iudiciale e negoziale.   Lo sponitore.   1. Poi che Tullio àe ripresa l' oppinione d' Ermagoras  delle quattro parti, si dice la sua sentenza e dice che sono  25. pur due parti, cioè quelle altre due che dicea Ermagoras:  iudiciale e negoziale ; et immantenente detta la sua sen-  tenza, la quale vince quella d' Ermagoras e d'ogn' altro, sì  dice e dimostra che è iudiciale e che è negoziale, in questo  modo  4: M' dimostrativo, deliberativo ecc. — 6: M-m provava — 9: m genero — 10: M el  acciò — 11 : M-m tiicta — 13:M^ conchiude Tulio Ermagoras avere — 17 : il/' comincia —  23 : m ripreso — 28: M' che e iuridiciale {e cosi sempre), M-m che iudiciale 7 che {ni om.  che) negotiale ludiciale è quella nella quale si questiona la natura dì  dritto e d' iguaglianza e la ragione di guiderdone o di pena.   Sponitore.   5. 1. La iudiciale coustituzioue è quella nella quale per   diritto, cioè per ragione provenuta per usanza e per igual-  lianza, cioè per ragione naturale o per ragione scritta, si  questiona sopra la quantitade o sopra la comparazione o  sopra la qualitade d'un fatto, per sapere se quel fatto è  giusto o ingiusto o buono o reo. Altressì è iudiciale  quella nella quale è questione d'alcuno per sapere s'egli  è degno di pena o di merito. Verbigrazia. Alobroges è  degno d'avere merito di ciò che manifestò la congiurazione  di Catenina? e questionasi del sì o del no. Et anche questo exemplo. È Giraldo degno di pena di ciò che commise  furto ? e questionasi del si o del no. Et poi che à detto  Tulio del iudiciale, si dicerà dell'altra parte, cioè della  negoziale. Negoziale è quella nella quale si considera chente ragione  sìa per usanza civile o per equitade, sopra alla quale diligenzia  sono messi i savi di ragione. Dice CICERONE che quella constituzione è appellata negoziale nella quale si considera per usanza civile, cioè per   quella ragione la quale i cittadini o paesani sono usati di   tenere i-lloro uso o in loi'o costuduti, o per equitade, cioè   per legi scritte, chente ragioni debbiano essere sopra quella     2: m quello nel (juale — 3: M'-L ella ragione di diritlo, S di merito — 6: m perve-  nuta — 8.me sopra la comp. — 9: m se questo giusto —il: M^ si questiona d'alcuno  selglie ecc. — 12-14: m o di morte — M-m o alabroges di Catenina et questionisi del si  et del no (m di si o di no), L e questo exemplo —16: m quistionìsi... om. Et — A/ 7 del  no — 16-17: M' Tulio a detto dela giuridicialo — 20: M' Di negotiale — 26: M' om.  paesani — 27 : M' i loro costuduti m illoro chostuduli, M' in loro constituti — M-m  equalitade — S8 : M' cliente ragione debbia  constituzione. 2. Et intra la iudiciale e la negoziale àe co-  tale differenzia : che Ila iudiciale tratta sopra le cose pas-  sate et intorno le leggi scritte e trovate ; ma la negoziale  intende intorno le presenti e future (1) et intorno le legi et  5. usanze che saranno scritte e trovate.Et questa è di molta  fatica, perciò che' parlieri s'affaticano di grande guisa a  provarla et a formare nuove ragioni et usanze allegando  in ciò ragioni da simile o da contrario. Et questa questione  si tratta davante a' savi di legge e di ragione, ma in provare la iudiciale basta dicere pur quello che Ila ragione  ne dice. 4. Et poi che Tulio à detto che è la iudiciale e  che è la negoziale, sì dicerà delle parti della iudiciale per  meglio dimostrare lo 'ntendimento di ciascuno capitolo  dell' Arte.  Di due parti di Iudiciale.  La iudiciale dividesi in due parti, ciò sono assoluta et  assuntiva. In questa parte dice Tulio che quella questione la quale è iudiciale, sì come davanti è mostrato, sì à due  parti. Una eh' è appellata assoluta e l'altra la quale è appellata assuntiva ; e dicerà di catuna per sé.      3 : M interno — 4: i mss. futuro — M' il presente — 8 : m in se ragioni — 9 : M  assaivi, m si tratta da savi — 10: M pur di quello — 16: M' si divido — 21 : M' luna  la quale è appellata - M-m e assunptiva  Per quanto la lezione di -Jf' (il presente e futuro) sembri ottima, prefe-  risco ricorrere alla lieve correzione di futuro in future.: M* ha tendenza a cam-  biare, e quindi non è improbabile che, trovando già l'errato futuro, abbia voluto  accordare con esso l'aggettivo precedente, le presenti. Non saprei invece come  spiegare un cambiamento inutile in M-m.  Assoluta è quella che in sé stessa contiene questione o  di ragione o d' ingiuria. Dice CICERONE che quella questione iudiciale del genere   èe appellata assoluta la quale in sé medesima è disciolta  e dilibera, sì che sanza niuna giunta di fuori contiene in  sé questione sopra la qualitade o sopra la quantitade o  sopra la comparazione del fatto, il qual fatto si cognosce  s'egli é di ragione o d'ingiuria, cioè se quel fatto é giusto  o ingiusto o buono o' reo, sì come in questo exemplo donde  fue cotale questione. Verbigrazia : Fecero quelli da Teba  giusto o ingiusto quando per segnale della loro vittoria fe-  cero un trofeo di metallo? Et certo questo fatto, cioè fare un trofeo di metallo per segnale di vittoria, piace per sé  sanza neuna giunta et in sé contiene forza della pruova,  perciò ch'era cotale usanza. Assuntiva è quella che per sé non dà alcuna ferma cosa  a difendere, ma di fuori prende alcuna difensione ; e le sue parti   sono quattro : concedere, rimuovere lo peccato, riferire lo peccato e  comparazione.      S:M-m slesso — 7: M-m nm. ai — fi: M-m «m. o sopra la (luantilude — 7 invece ili  0—9: M' in f|uel facto — 12: M-m Ino - »« di Teba — 14-13: m et cerio questo trofeo  fatto faro per sengnale della loro Victoria jiiuce per so medesimo — 16: M' la forfa —  1 9 : M-m ohi. olio per sé non dà alcuna CICERONE dice che quella constituzione è appellata assuntiva della quale nasce questione, la quale in sé non à  fermezza per difendersi da quello peccato eli' è allui appo-  5. sto, ma d'un altro fatto di fuori da quello prende argomento da difendersi; si come nella questione d'Orestes, che  fue accusato eh' avea morta la sua madre, et elli dicea che  ll'avea morta giustamente. Et certo il suo dire parca crudel  fatto, sì che queste parole per sé non anno difensione  com'elli l'abbia fatto giustamente, ma prende sua difen-  sione d'un altro fatto di fuori e dice: « Io l'uccisi giusta-  mente, perciò ch'ella uccise il mio padre ». Et così pare che  con questa giunta piaccia la sua ragione. Efc questa co-  tale questione assuntìva à quattro parti, delle quali il testo   15. dicerà di catuna perfettamente per sé.   Concedere e concessione è quando l'accusato non difende  quello eh' è fatto ma addomanda che ssia perdonato ; e questa si  divide in due parti, ciò sono purgazione e preghiera.   20. Sponitore.   I. Poi che Tulio avea detto che è e quale la questione  assuntìva e com' ella si divide in quattro parti, sì vuole di-  cere di ciascuna per sé divisatamente perchè '1 convenentre  sia più aperto. 2. Et primieramente dice che é concedere, e dice che quella constituzione é appellata concessione  quando l'accusato concede il peccato e confessa d'averlo  fatto, ma domanda che ssia perdonato ; e questo puote es-  sere in due maniere: o per purgazione o jjer preghiera, e  di ciascuna di queste dirà Tulio partitamente, e prima   30. della purgazione.     3: M> non àe in se — 5: M' di quello — 7 : M' Pt elli rispondea — 8-iO: M-m om.  Kt certo.... giustamente — i4: M' nm. assuntìva — 15: M' per se perfectamente — 17: M'  o concessione - 18 : 3f ' domanda chelgli sia p. — m. 7 questo — 21 : m che e quale, M'  che 7 quale 6 — 23: m di chatuna — 24: M-m concede — 26: m confessa il pechato  d'averlo facto  Purgazione è quando il fatto si concede ma la colpa si ri-  muove, e questa sì à tre parti : imprudenzia, caso e necessitade. Dice CICERONE che quella maniera di concedere la quale   è per purgazione sì è et aviene quando l'accusato confessa,  ma lievasi la colpa e dice che quel fatto non fue sua colpa ;  e questo puote fare in tre maniere, delle quali è prima  Imprudenzia, cioè non sapere. 2. Verbigrazia : Mercatanti   10. fiorentini passavano in nave per andare oltramare. Sorvenne  loro crudel fortuna di tempo che Ili mise in pericolosa  paura, per la quale si botaro che s' elli scampassero e per-  venissero a porto che elli offerrebboro delle loro cose a  quello deo che là fosse, et e' medesimi F adorrebbero. Alla fine arrivaro ad uno porto nel quale era adorato Malcometto ed era tenuto deo. Questi mercatanti l' adoraro come  idio e feciorli grande offerta. Or furono accusati ch'aveano  fatto contra la legge ; la qual cosa bene confessavano, ma  allegavano imprudenzia, cioè che non sapeano, e perciò   20. diceano che fosse perdonato. Et di ciò era questione, se  doveano essere puniti o no. 3. La seconda maniera è caso,  cioè impedimento eh' adiviene, sì che non si puote fare  quello che ssi dee fare. Verbigrazia : Un mercatante caur-  sino avea inprontato da uno francesco una quantità di pe-   25. cunia a pagare in Parigi a certo termine et a certa pena.     6: M-m om. b — 7 : M-m imi. non — 8: M' Kl puotesi l'art! — o In prima — tO: M  per mare oltramare, di passavano per maro in nave — Jf sopravenne — li: mi miseli,  JV/' om. che — 14: M' edelgli medesimi — 15: M' Macliometlo, m Maometto — 17: M'  fecero grande oHerta. Fiioro ecc., m mii. Or — 19: M' noi sapeano — 21: m puliti —  S4 : m inprontato moneta da uno franeesclio     Avenne che '1 debitore, portando la moneta, trovò il fiume  di Rodano si malamente cresciuto che non poteo passare  né essere al termine che era ordinato. Colui che dovea  avere domandava la pena, l' altro confessava bene eh' avea  5. fallito del termine, ma non per sua colpa, se non che '1 caso  era advenuto ch'avea impedimentitotU la sua venuta, e però  dicea che Ila pena non dovea pagare; e di ciò è questione,  se Ila dovea pagare o no. La III maniera è necessitade, cioè che conviene che ssia così et altro non potea fare. Verbigrazia : Statuto era in Costantinopoli che qualunque  nave viniziana arrivasse nel porto loro, la nave e ciò che  entro vi fosse si publicasse al segnore. Avenne che merca-  tanti genovesi allogare una nave di Vinegia e passaro  con grande carico d'avere. Convenne che per impeto di tempo per forza di venti, centra' quali non si poteano pa-  rare, pervennero nel porto e fue presa la nave e le cose  per lo segnore. Ben confessavano li mercatanti che Ila nave  era veniziana, ma per necessitade erano venuti in esso porto,  e però diceano che non doveano perdere le cose ; e di ciò era questione, se Ile doveano perdere o no. Tutto altressì  i Veniziani, cui fue la nave, raddomandavano la nave o la  valenza; i mercatanti diceano che l'amenda non dovea es-  sere domandata, perciò che per necessitade e non per volontade erano iti in quel porto. Et poi' che Tullio àe detto  della purgazione e delle sue parti, si dicerà della preghiera. Preghiera è quando l'accusato confessa ch'elli àe commesso  quel peccato e confessa che 11' àe fatto pensatamente, ma sì domanda  che Ili sia perdonato, la qual cosa molte rade fiate puote advenire.     1 : M-m avieno — S : M-m polea — 3: M' a. termine ordinato — 5 : M' al termine -  5-6: M impedimento, M* ma nel caso era avennlo 7 avea impedimentita — il: M' nel  loro porto — 13: m una nave viniziana, 3/' una nave de Viniziani 7 passavano — 14-15:  M per un tempo per impetto 7 per f., if ' per impedimento, m di vento — 18: M^ in quel  porlo — SO: M' ora la questione — m dovea — 22: M' che por lamenda — 24 :m om.  Et — 28-29: m domandasi — M' om. molto   (1) Questa lezione di w è confermata da impedimentita di Jf*, cioè dall'altra fami-  glia di codici. Lo scambio, avvenuto in M, con impedimento era facilissimo e lo favoriva  il fatto che il senso restava quasi il medesimo : « la sua venuta avea avuto impedi-  mento ^>.  Così leggo con w, poiché in if e ilf ' il passo è manifestamente guasto  (impedimento è correzione arbitraria), mentre l'espressione impeto di tempo, ana-  loga, a quella del § 2 fortuna di tempo, può bene corrispondere alla magna tempestas  di cui parla l'esempio ciceroniano {De Inv., II, 98) sul quale è modellato il nostro CICERONE dimostra in questa picciola parte del testo  che cosa è appellata preghiera in questa arte. Et dice che  allotta è questione di preghiera quando l'accusato confessa  5. e dice che fece quel peccato che gli è aposto e ricognosce  che ir à fatto pensatamente, ma tutta volta domanda per-  dono. 2. Onde nota che questa preghiera puote essere in  due maniere, o aperta o ascosa. Verbigrazia : In questo  modo è la preghiera aperta : Dice l' accusato. Io confesso bene ch'io feci questo fatto, ma prego vi per amore e per  reverenza di Dio che voi mi perdoniate ». La preghiera  ascosa è in questo modo : « Io confesso eh' io feci questo  fatto e non domando che voi mi perdoniate ; ma se voi  ripensaste quanto bene e come grande onore i' òe fatto al comune, ben sarebbe degna cosa che mi fosse perdonato ».  3. Ma ssì dice Tullio che queste preghiere possono adve-  nire rade volte, (l) spezialmente davante a' giudici che sono  giurati a lege sie che non anno podere di perdonare. Ben  puote alcuna fiata lo 'mperadore e '1 sanato avere prove-   20. denza in perdonare gravi misfatti, sì come poteano li anziani del popolo di Firenze ch'aveano podere di gravare  e di disgravale secondo lo loro parimento. Et poi che  Tullio àe detto della prima parte della constituzione as-  suntiva, cioè della concessione e che cosa è concedere, et à  delle due maniere di concedere detto, cioè di purgazione  e di preghiera, sì dicerà della seconda parte, cioè rimuo-  vere lo peccato. Rimuovere lo peccato è quando l'accusato si sforza di  rimuovere quel peccato da se e da sua colpa e metterlo sopra un     S : M' mostra — 5 : M' elicigli lece — 6' : M' nppensatainentc — 8 : M' nascosa —  14: M' om. bene — 17 : M^ fiato (ma L volte) — li ([uali sono — 18: M noniianno —  19: m prudenzia — SS: m eclisgravare, M> 7 disgravare — ni lo loro parere, L illoro pa-  rere, S il loro piacimento — m om. Et — So: M' m e a detto delle duo maniere ecc. -  30 : M' mettelo (ma L metterlo)   (1) Conservo volte appunto perchè questa parola in itf è meno frequente di  fiate Q non si può considerare correzione arbitraria; invece fiate sarà stato sosti-  tuito per uniformità col testo tradotto (v. pag. preced., 1. 29). altro per forza e per podestà di lui ; la qual cosa si puote fare in  due guise: o mettere la colpa o mettere lo fatto sopr'altrui. Et certo  la colpa e la cagione si mette sopra altrui dicendo che quel sia  fatto per sua forza e per sua podestade. Il fatto si mette sopr'altrui  5. dicendo che dovea un altro e potea fare quel fatto. In questo luogo dice CICERONE eh' è rimuovere lo peccato e come si puote fare, et è cotale il caso : Uno è accu-  sato d'uno malificio, et elli vegnendo a sua defensione si  leva da ssè quel maleficio e mettelo sopra un altro, o dice  bene che 11' à fatto, ma un altro cli'avea in lui forza e si-  gnoria il costrinse a ffare quel male ; e questo rimovimento  del peccato dice Tullio che ssi puote fare in due guise :  l'una si mette la colpa e la cagione sopra un altro, l'altra   15. si mette il fatto sopra altrui. Et certo la colpa e la cagione si mette sopì'' altrui quando l'accusato dice che elli  à fatto quel male per colpa d'alcuno il quale à sopra lui  forza e signoria. Verbigrazia. Il comune di Firenze elesse  ambasciadori e fue loro comandato che prendessero la paga   20. dal camarlingo per loro dispensa et immantenente andas-  sero alla presenzia di messer lo papa per contradiare il  passamento de' cavalieri che veniano di Cicilia in Toscana  contra Firenze. Questi ambasciadori domandare il paga-  mento e '1 signore no '1 fece dare, e'I camarlingo medesimo negò la pecunia, sicché li ambasciadori non andaro e' ca-  valieri vennero. Della qual cosa questi ambasciadori fuorono accusati, ma elli si levaro la colpa e la cagione e     3: m la chosa — 7: Af' die e rimuovere — 9: M' do malilicio - i4 : m luna mette,  M' l'una si e mettere — ^5: M' si e mettere — m om. Kt - 20: Af inmanlenenente, it/'  incontanente — 21 : m cliontradire - 23: M-m domandano — 24: M m il segnore — m  e il chamarlengo — 25: m il nego di dare la pecliunia — 26:m li anbasciadori — 27 :M'  si levano miseria sopra '1 signore e sopra '1 camarlingo, i quali  aveano la forza e la seguoria e non fecero lo pagamento.  3. Mettere il fatto sopr' altrui è quando l'accusato dice  ch'egli quel fatto non fece e non ebbe colpa né cagione  5. del fare, ma dice che alcuno altro l'à fatto et ebbevi colpa  e cagione, mostrando che quell'altro sopra cui elli il mette  dovea e potea fare quel male. Verbigrazia : Catone e Catenina andavano da ROMA a Kieti, et incontrarono uno  parente di Catone, a cui Catellina portava grande maialo, voglienza per cagione della coniurazione di Roma, e perciò  in mezzo della via l'uccise. Né Catone non avea podere di  difenderlo, perciò eh' era malato di suo corpo, ma rimase  intorno al morto per ordinare sua sopultura. Et Catellina si  n'andò inn altra parte molto avaccio e celatamente. In questo mezzo genti che passavano [per la via] per lo camino trovaro il morto di novello, e Catone intorno lui, sì PENSARO CERTAMENTE CHE CATONE AVESSE FATTO IL MALIFICIO, e  perciò fue esso ACCUSATO di quella morte; ond'elli in sua  defensione levava da ssè quel fatto dicendo che fatto noll'avea e che no'l dovea fare, perciò ch'ERA SUO PARENTE, e  dicea che noU'arebbe potuto fare, perciò eh' elli era malato di sua persona. Et così recava il fatto e LA COLPA SOPRA CATELLINA, perciò che '1 dovea fare come di suo nemico  e poteal fare, eh' era sano e forte e di reo animo. Et poi che Tulio àe insegnato rimuovere lo peccato, sì insegnerà  in questa altra partita riferire il peccato.     Ttillio dice che è riferire il peccato.   58. Riferire il peccato è quando si dice che ssia fatto  per ragione, in perciò che alcuno avea tutto avanti fatto a liuì  30. ingiuria.     i : m 7 al chamai-lingo — 4-ò: M om. ch'egli... ma dice — m nel fare — 5 : Af ' che un  altro — 9: VI om. grande — 12 : m di suo corpo malato — 15: M^ gente — J/' m om. per  la via - 16: m il novello morto — 18 : M' tn fu elgli - 1!) : M' chelgli facto — 20-Sl :  m avea nel dovea fare — o?n. e dicea che — Jlf ' ohe noi potea fare ~ ohi. elli — 23: m  pero chelli dovea fare — 25: M-m om. si — M' insegna — 26: M' jxirte — M-m refre-  nare (sempre) — : vi pero che — da\anti   (1) Le parole per la via sono con tutta probabilità una glossa o una variante  di per lo camino; infatti mancano in codici delle due famiglie.     81     Lo sponitore.   I. Dice Tullio che riferire il peccato è allora quando  l'accusato dice ch'elli àe fatto a ragione quello di che elli  é accusato, perciò e' a Uui fue prima fatta tale ingiuria che dovea a rragione prendere tale vengianza, sì come apare  neir exemplo d' Orestes, che fue accusato della morte di sua  madre, et esso dicea che ll'avea morta a ragione, perciò che  primieramente avea ella fatta a llui ingiuria, cioè ch'avea  morto il padre d' Oreste; e di questo nasce cotale questione se Oreste fece quel fatto a ragione o no. Et poi che  Tullio àe insegnato riferire lo peccato, sì insegnerà ornai  che è comparazione. CICERONE dice che è comparazione. Comparazione è quando alcuno altro fatto si contende cfie fue diritto et utile, e dicesi che quello del quale è fatta la ripren-  sione fue commesso perchè quell'altro si potesse fare. In questo luogo dice CICERONE che quella questione è appellata comparazione nella quale l'accusato dice ch'à fatto quello eh' è a llui apposto, i^er cagione di poter fare un altro  fatto utile e diritto. Verbigrazia : Marco Tullio, stando nel  più alto officio di ROMA, sentìo che coniurazione si facea  per lo male del comune, ma non potea sapere chi né come.  Alla fine diede dell'avere del comune in grande quantitade   25. ad una donna la qiiale avea nome Fulvia, et era amica per  amore di Quinto Curio, il quale era sapitore del tradimento ;  e per lei trovò e seppe dinanzi tutte le cose in tale ma-  niera eh' elli difese la cittade e '1 comune della molt'alta  tradigione. Ma alla fine fue ripreso ch'elli avea troppo ma-     2 : M' allocta — 4 : M' facla prima — 5 : M' prenderne (ma L prendere) tale vendctla  — pare — 6: M' dela sua madre — 8: m prima — J/' facto, m aliai fatto - iO: m om.  El — 14: M-m quanto un altro — 16: M' per quell'altro - 18: JW in questa parte —  19: M-m che facto — 26: M^ ora parteDce — 28: M' dela mortalo     lamente dispeso l'avere di Roma. Et elli in defensione di  sé dicea che quelle spese avea fatte per fare un altro fatto  utile e diritto, cioè per scampare la terra di tanta distruzione, e quello scampamento non potea fare sanza  5. quella dispesa; e cosi mostra che '1 fatto del quale elli è  ripreso fue fatto per bene. Et poi che Tullio àe detto delle  quattro parti della constituzione assùntiva, la quale è parte  della iudiciale sì come pare davanti nel trattato della con-  stituzione del genere, sì ridicerà elli brevemente sopra la questione traslativa, della quale fue assai detto in adietro,  per dire alcuna cosa che là fue intralasciata. Come Ermagoras fue trovatore della questione translativa. Nella IV questione, la quale noi appelliamo translativa,  certo la controversia d'essa questione è quando si tenciona a cui convegna fare la questione, o con cui od in che modo, o davante  a cui, per quale ragione, o in che tempo ; e sanza fallo tuttora è  controversia o per mutare o per indebolire l'azione. Et credesi che  Ermagoras fue trovatore di questa constituzione; non che molti antichi parlieri non l' usassero spessamente, ma perciò che Ili scrittori   20. dell'arte non pensaro che fosse delle capitane e non la misero in  conto delle constituzioni. Ma poi che da llui fue trovata, molti l'anno  biasimata, i quali noi pensamo e' anno fallito non pur in pru-  denzia;(i) che certo manifesta cosa è che sono impediti per invidia  e per maltrattamento. Questo testo di Tullio è assai aperto in sé medesimo,  e spezialmente perciò che della questione o constituzione  translativa è assai sufficientemente trattato indietro in     i : M' l'avere del comune — 3:3/' diiicto 7 utile - 4: M' non si pelea fare —  7: M< om. assiintiva - 8: M' iuridiciale — //: M-m che ella l'uo translassala — lS:M-m  emargonis — 13: M Uela quarta q. (e punto ilnpn translativa) — 15-1 (!: M' davanti cui  — M-m sanfa follia — 19: M' parladori — 23: M' cambiano - S4 : M' per mal.   (1) La traduzione non è esatta, poicliè il testo latino dice: quos non tamim-  prudentia falli indamus (res enim perspìcua est) quam invidia atque óbtrectatione  quadam inipediri. Si potrebbe proporre per congettura non per imprudenzia ; ma  non sembra contraddirvi il 8 -3 del commento parlando di '' alquanti che non  erano bene savi ,, ?   altra parte di questo libro, e là sono divisati molti exempli  per dimostrare come si tramuta 1' azione quando non  muove la questione quelli che dee, o centra cui dee, o in-  nanzi cui dee, o per la ragione che dee, o nel tempo che .  5. dee. Z.Sicchè al postutto in(i) questa translativa conviene che  sempre sia : o per tramutare l' azione in tutto, come ap-  pare indietro nell'exemplo di colui che risponde all'aver-  sario suo: « Io non ti risponderò di questo fatto né ora né  giamai »; e così in tutto tramuta l'azione dell'aversario etc. O é per indebolire l'azione in parte ma non del tutto, si  come appare nell' exemplo di colui che risponde all' aver-  sario suo : « Io ti risponderò di questo fatto, ma non in  questo tempo» o «non davante a queste persone». Et dice  Tullio che Ermagora fue trovatore della translativa constituzione, cioè che Ha mise nel conto delle quatro constituzioni sì come detto fue inn adietro. Et di ciò fue ripreso  da alquanti che non erano bene savi e che aveano invidia  e maltrattamento contra lui. Nota che invidia è dolore  dell'altrui bene, e maltrattamento è dicere male d'altrui. Tullio dice che davanti diceva   exempli in ciascuna maniera di constituzioni. Già avemo disposte le constituzioni e le loro parti; ma li   axempli di ciascuna maniera parrà che noi possiamo meglio divisare   quando noi daremo copia di ciascuno de' loro argomenti; perciò   25. ch'allotta sarà più chiara la ragione d'argomentare, quando l'exemplo   si potrà a mano a mano aconciare al genere della causa. Vogliendo Tullio passare al processo del suo libro,  brievemente ripete ciò eh' à detto avanti, dicendo che dimo-     2: M-m si traclava — 3: M^ che dee conLra cui dee ~ 6: M come pare — 8: M'  non ti rispondo — iO: M-m Oo, M' Onde — M imparte — m non in tutto — H : M' pare —  13 : Mi dinanzi a ([. — 14: M translatore, m traslatotore — 15: M^ìa conto —17: 3f dal-  quanti — 18 : M-m male tractamento con altrui — 21: M-m construclioni — 22: M exposte  le e. 7 loro parti — 24: Mi di loro argomenti — 25: M' de l'argomentare — 26:m della cosa  — 29: M ke detto, m che detto — Jlf ' dinanzi   (1) L'essere attestato in da tutti i codici rende esitanti a toglierlo, come la  sintassi e il senso sembrano richiedere. Forse si può sottintendere dal periodo pre-  cedente la parola questione : " conviene che sia questione in questa transla-  tiva „ ecc.   strato à che sono le constituzioni e le loro parti, ma in altra  parte porrà certi exempli in ciascuno genere delle cause,  cioè nel deliberativo e nel dimostrativo e nel iudiciale,  quando ti'atterà il libro di ciascuno in suo stato. E da cciò  si parte il conto e torna a trattare secondo che ssi con-  viene all' ordine del libro per insegnamento dell' arte. Qual cai/sa sia simpla e quale congitmta. Poi eh' è trovata la constituzìone della causa, ìmmantenente  ne piace di considerare se Ila causa è simpla o congiunta. Et s'ella è congiunta, si conviene considerare se ella è congiunta di piusori  questioni o d'alcuna comparazione. Apresso al trattato nel quale Tullio àe insegnato tro-  vare le constituzioni e le sue parti, si vuole insegnare qual causa sia simpla, cioè pur d'uno fatto e qiiale sia con-  giunta, cioè di due o di più fatti, e quale sia congiunta  d'alcuna comparazione, e di ciascuna dice exemplo in  questo modo :   Della causa simpla. Simpla è quella la quale contiene In sé una questione   assoluta in questo modo: « Stanzieremo noi battaglia contra coloro  di Corinto o non ? ». Dice CICERONE che quella causa è simpla la quale è pur d'uno fatto e che non è se non d'una questione solamente.   Verbigrazia : La città di Corinto non stava ubidiente a   Roma, onde i consoli di Roma misero a consiglio se paresse     2 : M-m om. parte — m delle cose — 4-5 : J/' Et di ciò si diparte l'autore, m 7 accio —  8: M mantenente, m inmantanento — 9: m simplice (sempre cos'i) M' sedella — li: M-m  compi^ratione — 13: M' il tractato — 15: M (|ualcosa, «i quale chosa — /*: M< l'exeni-  plo — 21: M' m (pielli — 25 : vi iliinn chosa — SO : M-m <m. stava — A/' ali Romani   loi-o di mandare oste a fai"e la battaglia centra loro, o  no. Et così vedi che causa simpla è pur d'una questione del  sì o del no.   Della causa congiunta.   5. 64. Congiunta di piusori questioni è quella nella quale sì   dimanda di piusori cose in questo modo: « È Cartagine da disfare  da renderla a' Cartagiartesi, o è da menare inn altra parte loro  abitamento ? Poi che Tullio à detto della causa simpla, sì dice della   congiunta, dicendo che quella causa è congiunta nella quale  àe due o tre o quattro o più questioni. Verbigrazia : I Romani vinsero a forza d'arme la città di CARTAGINE, et  erano alcuni che diceano che al postutto si disfacesse; altri diceano che Ila cittade fosse renduta agli uomini della  terra, altri diceano che Ila cittade si dovesse mutare di quel  luogo et abitare in altra parte. E così vedi che questa causa  è congiunta di tre questioni che sono dette. Della causa congiunta di comparazione.  Dì comparazione è quella nella quale contendendo si que-   stiona qual sia il meglio o qual sia finissimo, in questo modo :  « È da mandare oste in Macedonia contra Filippo inn aiuto a' com-  pagni, è da tenere in Italia per avere grandissima copia di genti  contra Anibal ? Poi che Tullio avea detto della causa la quale è con-  giunta di piusori questioni, sì dice di quella causa eh' è  congiunta di comparazione di due o di tre o di quattro o     i : M-m o fare — 2 : M^ om. Et — Jlf om. b — 5 : M' om. questioni — 6 : m di più  sore — 7 : M' da. rendere a Cartaginesi — 12 : m due tre o quattro questioni — J3: m  per forza — om. la cittade di — J4: M' elio a! postutto diceano cliella si disfacesse —  17: M-m om. che — 18: m essere coniunta di tre (luestioni dette — 21: 3/' o quale finis-  simo — 22: M' incontro a Filippo — 28: M-m di due, di tre — m om. o di quattro   (1) Certamente il traduttore ha frainteso il latino an eo colonia deducatur.   di più cose, nella quale si considera qual partito sia il mi-  gliore de' due o di tre o di più, e se tutti sono buoni e  l'uno migliore che 11' altro, per sape];e qual sia finissimo,  cioè il sovrano di tutti. Verbigrazia : I Romani aveano mandata oste in Macedonia contrà Filippo re di quello  paese, et in quello medesimo tempo attendeano alla guerra  d'Anibal, che venia contra loro ad oste. Onde alcuni savi  di Roma diceano che '1 migliore consiglio era mandare  gente in Macedonia, per attare l'altra loro oste la quale  10. era in questa contrada; altri diceano che maggior senno  era di ritenere la gente in Italia, per adunare grandissima  oste contra Anibal ; e così contendeano qual fosse il mi-  gliore o '1 finissimo partito : o tenere o mandare la gente.   Della contraversia inn iscritto et in ragionamento.   15. 66. Poi è da pensare se Ila controversia è in scritta o è in   ragionamento.   Lo sponitore.   1. Apresso ciò che Tulio à dimostrato qual causa è sim-  pla e quale è congiunta e quale di comf)arazione, sì vuole   20. fare intendere quale contraversia nasce et aviene di cose  e di parole scritte, e qual nasce pur di ragionamento, cioè  di dire parole e di cose che non sono scritte ; e cosi vuole  CICERONE aj)ertamente insegnare per rettorica ciò e' altre  de' dire a ciascun ponto di tutte le cause che possano inter-   25, venire ; e perciò dicerà della scritta per sé e del ragiona-  mento per sé, e di ciascuno partitamente in questo modo :   Della contraversia che nasce di cose scritte.   67. Contraversia inn iscritta è quella che nasce d'alcuna qua-   litade di scrittura Ce. XIII). Et certo le maniere di questa che   30. sono partite delle constituzioni sono cinque : Che talvolta pare che Ile     i-2: m sia ihigloru ili lUie ecc. — il/' o Ire o iiifi — •/: iV/' ohi. cion il sovrano — 5: M'-L   (li i|iielli del paoso, S di c|iielli paesi 7: m om. ad oste — * : hi elio mogio — iO: m   J/i in ipiella contrada — il : M' om. di — m a rilenore gente — 12 : M contra nibal, i»  contro ad Anibal — 15: M-m e scripla, If' e in scriplo o in ragionamento — /*' : M-m  i|ual cosa — 19: m quale e — 22: M-m om. dire e che non sono scritte — 23: M' mo-  strare - 24: m possono — 25: M'E cosi — 29: M da. questa — 30:M' dale constilutioni parole medesimo iU siano discordanti dalla sentenzia dello scrittore ;  e talvolta pare che due legi o più discordino intra sé stesse; e  talvolta pare che quello eh' è scritto signiffichi due cose o più ;  e talvolta pare che di quello ch'è scritto si truovi altro che non è  5. scritto ; e talvolta pare che ssi questioni in che sia la forza della  parola, quasi come in diffinitiva constituzione. Per la qual cosa noi  nominiamo la prima di queste maniere di scritto e di sentenzia; il  secondo appelliamo di legi contrarie, la terza apelliamo dubiosa,  la quarta appelliamo dì ragionevole, la quinta apelliamo diffinitiva. Poi che CICERONE  à dimostrato qual causa sia pur d' un  fatto o di più, immantenente vuole dimostrare qual con-  traversia è in scritta e quale in ragionamento; et in questo  dice primieramente di quella ch'è inn iscritto, cioè che   15. nasce d'alcuna scrittura. Et questo puote essere in cinque  modi. Il primo modo è appellato di scritto e di sentenza,  pei'ciò che Ile parole che sono scritte non pare che suonino  come fue lo 'ntendimento di colui che Ile scrisse. Verbi-  grazia: Una lege era nella cittade di Lucca, nella quale erano scritte queste parole: « Chiunque aprirà la porta  della cittade di notte, in tempo di guerra, sia punito nella  testa ». Avenne che uno cavaliere l'aperse per mettere  dentro cavalieri e genti che veniano inn aiuto a Lucca,  e perciò fue accusato che dovea perdere la testa secondo la legge scritta. L'accusato si difendea dicendo che Ila  sentenzia e lo 'ntendimento di colui che scrisse e fece la  legge fue che chi aprisse la porta per male fosse punito ;  e cosi pare che Ile parole scritte non siano accordanti alla  sentenzia dello scrittore, e di ciò nasce controversia intra loro, se si debbia tenere la scritta o la sentenza. La  seconda maniera è apiiellata di contrarie leggi, perciò che     1 : M' m medesime — m dalle sententie — 2: me téilora -- M' si discordino — 3: M'  significa — 4: M-m o talvolta — M' che nono che scripto — 6: M-m nm. in — A/' mdilTì-  nitiva ([uestione — 11: M-m qual cosa — 13: M-m e Sbripta - m e in ragionamento —  14 : m primamente — 18 : M om. fue — 20: M ai)iira, m apira — 21 : M-m om. in tempo  di guerra — M' si sia punito della testa — 23: M' si difende — 30: m se si dee — M'  lo scritto — 31 : M' om. maniera   (1) Cfr. p. 46, 1. 30: nai medesimo.     — 88 -   pare che due leggi o più discordino intra sé stesse. Ver-  bigrazia : Una legge era cotale, che chiunque uccidesse il  tiranno prendesse del senato cheunque merito volesse.  Et nota che tiranno è detto quelli che per forza di suo  5. corpo o d'avere o di gente sottomette altrui al suo podere.  Un'altra legge dice che, morto il tiranno, dovessero essere  uccisi cinque de' pili prossimani parenti. Or avenne che  una femina uccide il suo marito, il quale era tiranno, e  domanda al senato per guidardone e per nierito un suo figlio. LA PRIMA LEGGE concede che ssia dato, l'altra comanda CHE SIA MORTO. E così sono due leggi contrarie, e  perciò nasce questione se alla femina debbia essere renduto il suo figliuolo o se debbia essere morto. La terza  maniera è apellata DUBBIOSA, perciò che pare che quel eh' è scritto SIGNIFICHI DUE COSE O PIU.  Verbigrazia. Alessandro  fa testamento nel quale fa scrivere così. Io comando  che colui eh' è mia reda dia a Cassandro C vaselli d'oro  e quali esso vorrà. Api^esso la morte d'Alessandro venne  Cassandro e domanda C vaselli al suo volere e che a llui piacessero. Dice la reda. Io ti debbo dare que'ch'io  vorrò. Et cosi di quella parola scritta nel testamento, cioè,  i quali esso vorrà, si è dubbiosa a intendere del cui  volere ALESSANDRO DICE; e di ciò nasce questione  intra loro. La quarta maniera è appellata RAGIONEVOLE,  perciò che di quello eh' è discritto si truova e se ne ritrae  altro CHE NON E SCRITTO O DETTO. Verbigrazia : Marcello entra nella  chiesa di Santo Petro di Roma e ruppe il crocifixo, e taglia  le imagini di là entro. E accusato, ma non si truova  neuna legge scritta sopra così fatto malificio, né convenevole non era che nne scampasse sanza pena. E perciò il  suo adversario ritraeva d'altre leggi scritte quella pena  che ssi convenia a Marcello ragionevolemente. La quinta  maniera é appellata DIFFINITIVA, perciò che pare che ssi  questioni LA FORZA D’UNA PAROLA  scritta, sicché conviene     i : M' si discordino - M stesso — m tralloro - 5 : M^ di genti - 6-7: m L essere  morti - Jl/' om. de' — 7 : M'-L una femina il suo marito.... uccise — 9 : m e merito —  10: M' che le sia dato, l'altra leggie — iS: m nasce controversia — Mm sella femina —  13: m se dee — 14-15: M' che lo scritto — i6: Jtf' cos'i scrivere — 1 7 : M-m om. coUii  eh' è — 18: M' i quali — 19: M' cento vaselli d'oro — 20: J/' la rede. [o ti voglio dare  - m om. dare - S3: M' 7 cosi - S5: M' che scripto - S6 : M-m Martello - S7 : M'  San Piero — 38 : M-m om. Fue accusato - /. trovava — 29-30 : m alcuna legge.... colalo  maliflcio, e convenevole non era che scampasse — 32 :M' che si conviene — Mm Martello     — 89 —   che quella parola sia diffinita e dicasi il proprio intendi-  mento di quella parola. Verbigrazia : Dice una legge. Se '1 signore della nave n'abandona per fortuna di tempo  ed un altro va a governarla e scampa la nave, sia sua. Avenne che una nave di Pisa venne in Tunisi e presso al  porto sorvenne sì forte tempesta nel mare, che '1 signore  usce della nave et entra inn una picciola barca. Un altro  ch'era malato rimase nella nave e tennesi tanto là entro  che '1 mare torna in bonaccia, e la nave campa in terra.  E perciò dicea che la nave e sua secondo la legge, perciò  che '1 segnore l'abandona et esso l'avea difesa. Il  segnore dicea che perch'elli entra nella picciola barca  non abandona perciò la nave ; e cosi era questione intra  loro sopra questa PAROLA dell'ABBANDONO della nave ; e per   15. sapere LA FORZA d'essa parola conviene che ssi difinisca e  dicasi il proprio intendimento. 6. Già à detto Tullio di  quella contraversia la quale è in iscritta e delle sue cinque  parti. Omai dicerà di quella contraversia eh' è in ragio-  namento.   20. Della contraversia la quale nasce di ragionamento.   68. Ragionamento è quando tutta la questione è inn alcuno argomento e non inn ìscrittura. Quella è contraversia in ragionamento nella quale non si considera alcuna cosa che ssia per scrittura, ma  prendesi argomento e pruova per parole FUORI DI SCRITTA a dimostrare che dee essere sopra quella questione. Verbigrazia : Dice Anibaldo che Italia è migliore paese che  Frància. Dice Lodoigo che no. E di ciò era questione ti'a  lloro, e perciò conviene recare argomenti in ragionando  per mostrare che nne dee essere, e questo senza scritta  acciò che sopra questo no è legge né scrittura.     3: m om. della nave — M' labandona — S : M' de Pisani — M-m di Tunisi — 6 : M  sovenne, m venne, L sopravenne — M^ di mare — 7-8 : M' usci di fuori — un altro corse  a governare la nave — 9: m campo intera —11: m et egli — 12: m pichola nave —  13: 3f' non avoa abbandonata perciò 1. n., m non pero elli abandonava la grande — 14: M'  di questa parola, m sopra questo abandono — 15: M-m la forma — m ripete conviene —  16: m dicha — 22: m e none — 24 : M' Qurlla controversia 6 in rag. — 28: M' Anibal —  29 : m lodovico, M'-L loodico, S dice l'altro, dico che no — 31 : m 7 questo e senza scritta    Delle IV parti della causa. Adunque, poi che considerato è il genere della causa e  cognosciuta la constituzione et inteso quale è simpla e quale è con-  giunta, e veduto quale contraversia è di scritto e di ragionamento,  5. ornai fie da vedere quale è la quistione e quale è la ragione e  quale è il giudicamento e quale è il fermamento della causa ; le  quali cose tutte convengono muovere della constituzione.   In questa parte dice CICERONE che poi ch'elli à insa-  lo, gnato che è lo genere delle cause, cioè dimostrativo e diliberativo e giudiciale, et à fatto cognoscere che è la constituzione, cioè e qual sia congetturale e quale diffinitiva e  quale translativa e quale negoziale, et à fatto intendere  quale è simpla e quale congiunta, cioè qual contiene in sé una questione o più, et à fatto vedere qual contraversia  è inn iscritto e quale in ragionamento, sì come tutti questi  insegnamenti paionsi adietro là dove lo sponitore l'à messo  inn iscritto e trattato di ciascuno sufficientemente, ornai  vuole CICERONE procedere e dimostrare apertamente qual sia  20. la questione e la ragione e '1 giudicamento e '1 fermamento  della causa ; le quali cose tutte muovono e nascono della  constituzione, ciò viene a dire che la constituzione è il  cominciamento di queste cose. Questione è quella contraversia la quale s'ingenera del   contastamento delle cause in questo modo : « Non facesti a ragione -  Io feci a ragione». Questo è contastamento delle cause nella quaied)     2: m om. 6—3: m om. cognosciuta — M intesto — Af' qual congiunta — 4: M-m  quale conti'aversia <ii scripto — m o di ragionamento — 5: A/' oggimai sarà — 5-6: M' ha  sulo il primn b — M-m il confermamento — 6-7: M-m 7 tucte i|UOSte cose le quali conv. -  9: M chelle, m chebbe asengnato, M' che elgli 10: M' diliberativo, ilimostrativo — i2: in  cioè qual sia — 13: M-m a facto cognoscere — 14: m quale simplice - 17: M' amaeslra-  menti — M paio sàdietro, Mi-L jiaiono in adiotro — 18: M 7 tracio — 22: M-m um. ciò  V. a d. e. la constituzione — 25 : M -L Di (|uistione — m si genera — 26-27 : M' de cause  — M-m om. a — M' il contrastamento ~ L nele quali, S nel quale   (1) Evidentemente dovrebbe dire nel quale; ma appunto per questo non saprei  spiegare come alterazione volontaria né come svista il nella quale (dato tanto da  M quanto da ikf'), e lo crederei piuttosto dovuto a una distratta traduzione del  latino Causarum haec est conflictio, in qua constitiUio constai.  è la constituzìone, e di questa nasce contraversia la quale noi ap-  pelliamo questione, in questo modo: se fatto l'à a ragione o no.   Lo sponitore.   1. Nel testo il quale è detto davanti insegna Tullio  5. cognoscere e sapere che è la questione; et in ciò dice che  questione è quella che ssi conviene considerare sopr' a cciò  di che le parti tencionano, e così s'ingenera del contasta-  mento delle parti, cioè di quello che 11' uno appone e l'altro  difende. Verbigrazia : Dice la parte che appone all'altra .   10. « Tu non ài fatta i-agione, che tu prendesti il mio cavallo »;  e la parte che ssi difende risponde e dice : « Si, feci ra-  gione Or è la causa ordinata, cioè che ciascuna parte à  detto, l'una accusando e l'altra difendendo, e questa è ap-  pellata constituzione. Sopra questo si conviene sapere se   15. n'accusato à fatta ragione o no. Questo è quello che Tullio  appella questione. Dunque potemo intendere che quando  le parti anno detto e quando l'accusatore àe apposto in.  contra l'aversario suo e l'accusato àe risposto o negando  o confessando, sì è la causa cominciata et ordinata ; e però   20. infine a questo punto èe appellata constituzione, cioè viene  a dire che Ila causa è cominciata et ordinata ; da quinci  innanzi, se l'accusato niega e diféndesi, si conviene che ssi  connosca se Ila sua defensione è dritta o no, cioè quando  dice : « Io feci ragione » conviensi trovare s' elli à fatto   25. ragione o no, e questa è appellata questione. 3. Et perciò  che la scusa dell'accusato, a dire pur così semplicemente:  « Io feci ragione », non vale neente se non ne mostra ra-  gione per che e come, insegnerà Tullio immantenente che  ragione sia.   30. Di ragione.   71. Ragione è quella che contiene la causa, la quale se ne  fosse tolta non rimarrebbe alcuna cosa in contraversia. In questo  modo mo sterremo, per cagione d'insegnare, un leggieri e manifesto     4: M-m nel quale - 6: M' 6 quella — m sopra quello — 10: M' facto ragione —  i5: M dopo ragione ripete che tu prendesti il mio cavallo — 13: m luna luna — M' {(uesto —  15: M^ m facto — 15-16: M' Et questo.... comune questione — 17: M-m posto — 19: M  S l'accusa - SO: M' m ciò viene a dire — SS: M-m om. sì — S4: M' facta — S5: M'  e facta questione — S6: M-m om. Et - l'accusa — S7 : M' m se non mostra — S8 : M'  si insegnerà — 31 : m se non fosse — 3S : M' non vi rim. — 33: M-m d'insegnare leg-  gere manifesto exemplo   exemplo. Se Orestres fosse accusato di matricidio et elli non dicesse:  « Io il feci a ragione, perciò eli' ella avea morto il mio padre »,  non avrebbe difensione; e se non l'avesse non sarebbe contraversia.  Dunque la ragione dì questa causa è eh' ella uccise Agamenon.   5. Lo sponitore.   1. Si come appare nel testo di Tulio, ragione è quella  clie sostiene la causa in tal modo che, chi non assegna e  mostra la ragione della sua causa, certo non sarà contro-  versia, cioè non à difensione; e cosi la causa dell'aversario   IO. rimane ferma e non à contastamento. 2. Verbigrazia: Vero  fue che Ila madre d'Orestres uccise Agamenon suo marito  e padre d'Orestres ; per la qual cosa Orestres, per movi-  mento di dolore, fece matricidio, cioè che uccise la madre.  Fue accusato di matricidio, et elli confessa, ma dice che '1   15. fece a ragione; se non dice perchè e come, la sua difen-  sione non vale neente, e se la difensione non vale neente  non è contraversia né questione. 3. Ma se dice cosi : « Io  lo feci a ragione perciò ch'ella uccise il mio padre », sì  mantiene la sua causa e vale la sua difensa, mostrando la   20. ragione e la cagione perch'elli fece il matricidio. Et poi  che CICERONE à dimostrato che è questione e che ragione, sì  dimosterrà che è giudicamento.  Giudicamento è quella contraversia la quale nasce de lo 'nde-  25. bolire e del confirmare la ragione. Et in ciò sia quel medesimo  exemplo della ragione che noi aven detta poco davanti : « Ella avea  morto il mio padre ». Dice il savio: « Sanza te figliuolo convenia  eh' essa madre fosse uccisa ; perciò che 'I suo fatto si potea bene  punire sanza tuo perverso adoperamento ». (e. XIV) Di questo  30. mostramento della ragione nasce quella somma controversia la quale  noi appelliamo giudicamento, la quale è cotale: se fosse diritta cosa  che Orestres uccidesse la madre, perciò ch'ella avea morto il suo padre.     i : m di martecidio — 2 : M-m om. ella — 4 : M-ni chelluccise a ragione — 7-8 : M'  mostra 7 assegna ragione — 10: M' m 0111. Vero — 13: M' om. cioè.... di matricidio —  16: M-m om. e so la difensione non vale neente (A/' ef))unge neente) —19: m difesa —  20: m om. El — 22: M-m dimostra — 24: M' om. quella — M-m ohi. nasce — 25: M-m  in ciò a quel med. — 26: M' aveino dello — 27 : M' Dice l'avversario — 2S: M-m si  potrà — 29 : M' sanila il tuo p. — — 31 : M' se fu    Cicerone dice e insegna che è ragione; et perciò  che della ragione nasce il giudicamento, sì tratta egli  del giudicamento per dimostrare come e quando et in che  5. luogo sia. Verbigrazia : L'accusato assegna ragione perchè  fece quel fatto e conferma la sua difensa per quella ra-  gione. L'accusatore dice contra questa difensa et indebo-  lisce la ragione dell'accusato, linde di ciò che conferma  l'uno et inforza la sua difensione e l'altro la infievolisce   10. e falla debole, sì ne nasce una questione la quale è appel-  lata giudicamento, perciò che quando ella è provata si  puote giudicare. 2. Et in ciò sia quel medesimo exemplo  di sopra : Orestres assegna la ragione per la quale elli  uccise Clitemesta sua madre: perciò ch'ella avea morto   15. Agamenon ; e così conferma la sua defensione. Ma contra  lui dice l'aversario. Tu non la dovei punire né non con-  venia ad te punirla di ciò, ma altre la dovea e potea pu-  nire sanza tua perversità, e sanza tua così crudele opera,  come del figliuolo uccidere sua madre ». Et così indebolia la ragione d' ORESTE e mettealo in vituperoso abominio,  e sopra questo, cioè sopra '1 confermamento e sopra lo 'nde-  bolimento della ragione, nasce questione la quale è appel-  lata giudicamento perciò che ssi puote giudicare. 3. Et omai  à detto Tullio che è questione e che è ragione e che è   25. giudicamento ; sì dicerà che è fermamento.   Del fermamento.   73. Fermamento è il firmissimo et appostissimo argomento  al giudicamento, come se Orestres volesse dire che ll'animo il quale  la madre avea contra il suo padre, quel medesimo avea contra lui  30. e contra le sue sorelle e contra il reame e contra l'alto pregio  della sua ingenerazione e della sua familia, sicché in tutte guise  doveano i suoi figliuoli prendere in lei la pena.     2: M-m om. è — 3-4: M-m che deliboragione nasce del iuilicamento por dimostrare  ecc. — 5: M' om. sia — M' assegno —7:3/' quella — 3/ difesa — 8-10: M' che rimo con-  ferma 7 inforfa la sua ragione.... fa debole — M-m isforca — m la indebolisce — IS : m a  quello med. — 13: M' assegna ragione — 16: M 7 non convenia, m e non si convenia —  17: m 7 convenia punirla — 18-19: M' om. tua e del — m la sua madre — 21-22: M<  sopra confermamento dela ragione — 23: m om. Et — 24: M i ohe ragione, m nm. —  27: M-m om. è — 30: M' \n serocchie.... l'altro pregio   Poi che Tullio aè dimostrato che è questione e ra-  gione e giudicamento, sì dice in questa parte che è fer-  mamento. E certo lo 'nsegnamento suo è molto ordinata-   5. , mente : che primieramente è questione intra Ile parti  sopr'alcuna cosa la qual'è aposta ad uno e detto sopra lui  che non à fatto bene o ragione, et elli in sua difesa dice  ch'à fatto bene o ragione, e di questo nasce la questione,  cioè se esso à fatto ragione o no. Apresso dice l'accusato  10. la cagione per la quale elli avea ragione di fare ciò, e  questa è appellata ragione. Et quando l'accusato à detta  la ragione, il suo adversario dice contra quella ragione et  indebolisce quello dove l'accusato ferma la ragione, e  questa è appellata giudicamento.   15 Fermamento. Poi che Ila questione del giudicamento è nata, si  conviene che ll'accusato tragga innanzi i fermissimi argo-  menti bene apposti contra il giudicamento. Verbigrazia :  Orestres à detto che uccise la madre perciò ch'ella avea  morto il padre, e così assegna la ragione perch'elli l'uccise;  il suo adversario mettendolo in questione di giudicamento  dice c'a llui non si convenia ma ad altrui, e così indebo-  lisce la sua ragione. 3. Or conviene che Orestres dica ma-  nifesti argomenti, e dice così. Tutto altressì coni' ella   25. uccise il suo marito mio padre, così avea ella conceputo  d'uccidere me e le mie sorelle, cui ella avea ingenerate  di suo corpo, e mettere il nostro regno a distruzione et  abassare l'altezza del nostro sangue, e mettere in periglio  la nostra famiglia ». Ed in questi argomenti accoglie fermissima defensione della sua ragione contra il giudicamento,  e dice: « Perciò ch'ella fece così disperato maleficio et     2: M-m ragione 7 ((iiestione (m nm. 7) — 3: M' s\ dicerà (mn S dico) — 5: M-m que-  stioni — 6: M' sopralcuna causa la qua'.e appella ad uno 7 detto contra lui — 8: Mhii om.  ch'à fatto bene ragione — 9: M' se elgli, m selli — M' a l'acto a ragione — H : M\ m*  detto — i3;Jf fermava — i4: m questo e apellato - 17:,AV nelaccusalo trarre —  18: M» appostati - i9: M' clielgli uccise.... chella uccise — SI: A/ niente dolo - S3: M'  om. sua — JW i fermissimi argomenti — 29: M 7 dinquesti, »i 7 in <juesti, 3/' 7 di questi La rubrica di M (clie di regola seguo) ha qui ludicamento, certo per effetto  della parola precedente.   avea pensato di fare cotanta crudelitade, sì fue al postutto  convenevole che Ili suoi propii figliuoli ne le dessero pena  e non altri >. Et questi sono fermissimi argomenti ne' quali  dice che '1 fatto della madre fue crudele, superbo e mali-  5. zioso. 4. Et nota che quel fatto è appellato superbo il quale  alcuno adopera centra' maggiori, sì come quella fece ucci-  dendo il re Agamenon. Et quello è crudele fatto il quale  alcuno adopera contra' suoi, sì come quella fece contra la  sua famiglia. Et quello è malizioso fatto il quale è molto   10. fuori d'uso, sì com'è contra naturale usanza ch'alcuna fe-  mina uccida il suo marito e figliuoli e distrugga un alto  reame. 5. Onde questi fermissimi argomenti e' quali l'ac-  cusato mette davanti per confermare le sue ragioni et  incontra lo 'ndebolimento che facea l'aversario, sì è ap-   15. pellato fei'mamento.   In quale constiti izione non à gindicamento. Et certo neil'altre constituzioni si truovano giudicamenti a  questo medesimo modo ; ma nella congetturale constituzione, perciò  che in essa non s'asegna ragione (acciò che '1 fatto non si concede)  20. non puote giudicamento nascere per dimostranza di ragione; e però  conviene che questione sia quel medesimo che giudicamento: « fatto  è, nonn è fatto, sé fatto o no ». Che al vero dire, quante consti-  tuzioni lor parti sono nella causa, conviene che vi si truovino  altrettante questioni, ragioni, giudicamenti e fermamenti.   25. Lo sponitore.   1. In questa parte del testo dice Tullio che, sì come  per lui è stato detto davanti, così si possono trovare giu-  dicamenti inn ogne constituzione; salvo che nella consti-  tuzione congetturale, della quale è molto trattato inn  30. adietro, perciò che in essa l'accusato nonn asegna (i) neuna  1 : Af' avea pensala cotanta crudeltade — 2: M nelle, ÌU-L lene dessero — 3 : Mi lor-  lissimi argomenti — 5: m nel quale — 7 : M Tde agnzenò {sic), m i ro Agamenon — m ohi. è —  8: M' luomo adopera — 9: m om. è ambedue le volte — il : A/ un altro — IS-i^-.M' om.  et, 7» e contro allo — i7 : M' ì giudicamenti — 22: Mi se facto e. no ~ quante questioni —  26 : m om. che — 28 : vi nella questione   (1) Si potrebbe anche leggere non n' asegna; ma in M' è scritto qui e qual-  che riga più sotto non assegna, mentre la grafia col doppio n 6 frequente in M  (cfr. pag. seg., 1. 6, nonn abisogna).    ragione, anzi niega, al postutto non ne puote nascere giu-  dicamento. 2. Verbigrazia : Uno accusò Ulixes ch'elli avea  morto Aiaces. Dice Ulixes : « Non feci » et cosi nega quel  fatto che gli è apposto. Et perciò non conviene che sopra '1  5. suo negare assegni alcuna ragione. Et poi che nonn asegna  ragione, il suo adversario nonn abisogna d' indebolire la  ragione dell'accusato. Dunque nonde puote nascere giudi-  camento ; e perciò conviene che in queste constituzioni  congetturali la questione e lo giudicamento siano ad una  10. cosa: che là ove dice l'accusatore « Tu uccidesti » et Ulixes  dice « Non uccisi », la questione e '1 giudicamento fie sopi-a  questo, cioè se ll'uccise o no. 3, Poi dice CICERONE che quante  constituzioni à una causa, altrettante v'à questioni e ra-  gioni e giudicamenti e fermamenti. Dell'altre parti della causa.   75. Trovate nella causa tutte queste cose, son poi da consi-  derare ciascuna parte della causa ; eh' al ver dire non si dee pur  pensare prima ciò che ssi dee dicere in prima ; perciò che se le  parole che sono da dire in prima tu vuoli inforzatamente congiungere  20. et adunare colla causa, conviene che d'esse medesime traghe quelle  che sono da dire poi.     Sponitore.   1. Or dice Tullio : Dacché '1 parliere connosce la causa  et àe inteso ciò eh' elli n' àe insegnato per tutto il libro  25. insine a questo luogo, quando alcuna causa viene sopra la  quale convegna che dica, sì dee il buono parliere pensare  con molta diligenzia e considerare nella sua mente, anzi  che cominci a dire, tutte le parti della sua causa insieme  e non divise. Che s'elli pensasse in prima pur quella che     4: m chelli fu aposto - 6: M' non a bisogno, m non a ragione — 8: M-m om. e —  9: M-m la constituzione — i 1 : M' sie sopra q., m fla — i3: M-m otn. v'à — 17: M-m  e al ver dire — 18: M' in prima quello — M-m om. dicere — S che è da dire inprlma —  19: M-m om. in prima — M' tu le vuoigli — M isforcatamonte, m sforfatamenie congiun-  gnerle — 20: M' i raunaro — M-m elio esse medesime — S4: M'-L tutto il titolo, i' tutto  il telo (tic) — S8: i/' causa sua — S9: M' pur quello che sia da dire (Z. aggiunge in  prima)  prima sia da dire e non pensasse ch'elli dovesse dire poi,  senza fallo il suo cominciamento si discorderebbe dal mezzo  et il mezzo dalla fine. 2. Ma chi accorda bene le sue parole  colla natura della causa et in innanzi pensa che ssi con-  venga dire davanti e che poi, certo la comincianza fie tale  che nne nascerà ordinatamente il mezzo e la fine. Tutto  altressì fae il buono drappiere, che non pensa prima pur  della lana, ma considera tutto il drappo insieme anzi che  Ilo cominci, e de' aver (D la lana e '1 coloi*e e la grandezza  del drappo, e provedesi di tutte cose che sono mistieri, e  poi comincia e fae il drappo. Di VI parti della diceria. Per la qual cosa, quando il giudicamento e quelli argo-  menti che bisognano di trovare al giudicamento saranno diligente-  15. mente trovati secondo l'arte e trattati con cura e con cogitatione,  ancora sono da ordinare l'altre parti della diceria, le quali pare a  nnoi ai tutto che siano sei : Exordio, narrazione, partigione, confer-  mamento, riprensione e conclusione.   Sjtoììitore.   20 _ I. Poi che Tullio sufficientemente à dimostrato la chiarezza delle cause et àe comandato che '1 buono parliere  innanzi pensi tutte le parti della causa per accordare il  mezzo e la fine colla comincianza del suo dire, si che sia  l'una parola nata dell'altra, sì dice esso medesimo che poi   25. che tutto questo eh' è fatto,(3) e trovato il giudicamento della     1 : M' che sia da dire poi —4: M' m om. in — 5 : M' la incomincianca, m il comin-  ciamento — 6: M' che nostera (corr. moslera), L mosterra, S mostra — 7: if ' in prima —  9-10: M' anzi che cominci.... accio mestieri — m sono mestiere — 11: M^ i\ suo drappo  ordinatamente, L affare il s. d. ordinatamente — 14 : M^ che si bisognano -17: M' che  sono sei.... petitione invece di partigione — 20 : M^ a sofficientemente dem. — S3: M' el  Dne con la incomincianpa — M-m om. sì — 24: M om. nata — 25: M^-L questo e facto   (1) Tutti i codici hanno 7 daver 7 davere, che può esser nato facilmente  dall'aver preso il de' per la preposizione di. Tanto il senso quanto la sintassi sa-  rebbero poco chiari leggendo e d'aver.   (2) Preferisco la lezione di M perchè non è probabile che la parola ordinata-  mente, che si trovava in evidenza in fine al discorso, sia sfuggita al copista. Forse  l'aggiunta If' (L) fu determinata AaW ordinatamente di poche righe prima.   (3) Cioè " dopo che tutto questo è fatto „ . Per il che pleonastico cfr. p. 20,  n. 2, p. 21, n. 1 e qui dopo p. 99, 1. 18. Le lezioni di M^ e di L si spiegano con  quelle di M-m, ma non viceversa. causa e ciò che vi bisogna secondo i comandamenti di ret-  torica (i quali si convengono trattare con molto studio e  con grande deliberazione) ; anco sopra tutto questo si con-  vengojio pensare l'altre parti della diceria, delle quali non  5. è detto neente, e sono sei ; e di ciascuna per sé tratterà  il libro interamente.   Lo sponitore chiarisce tutto ciò eh' è detto inn adietro. Et sopra questo punto, anzi che '1 conto vada più  innanzi, piace allo sponitore di pregare il suo porto, per cui amere è composto il presente libro non sanza grande  afanno di spirito, che '1 suo intendimento sia chiaro e lo  'ngegno aprenditore, e la memoria ritenente a intendere  le parole che son dette inn adietro e quelle che seguitano  per innanzi, sì che sia, come desidera, dittatore perfetto e   15. nobile parladore, della quale scienzia questo libro è lu-  miera e fontana. 3. Et avegna che '1 libro tratti pur sopra  controversie et insegni parlare sopra le cose che sono in  tendone, et insegna cognoscere le cause e Ile questioni, e  per mettere exempli dice sovente dell'accusato e dell' ac-   20. cusatore, penserebbe per aventura un grosso intenditore  che Tullio parlasse delle piatora che sono in corte, e non  d'altro. 4. Ma ben conosce lo sponitore che '1 suo amico  è guernito di tanto conoscimento ch'elli intende e vede la  propria intenzione del libro, e che Ile piatora s'aparten-   25. gono a trattare ai segnori legisti ; e che rettorica insegna  dire appostatamente sopra la causa proposta, la qual causa  no è pur di piatora né pur tra accusato et accusatore, ma  é sopra l'altre vicende, sì coinè di sapere dire inn amba-  sciarie et in consigli de' signori e delle comunanze et in   30. sapere componere una lettera bene dittata. 5. Et se Tullio  dice che nelle dicerie intra le parti sono le constituzioni e  questioni e ragioni e giudicamento e fermamento, ben si dee  pensare un buono intenditore che tuttodie ragionano le     1: M' Olii, vi — S: vi làlluro — 3: M liberalione - M ancora, m aiicir — 4 : m le  IKirli — 5: M-m oiii. per sé — 8-9: Mi cliel maestro.... più avanti — iO: m questo libro —  i3: m mii. clie son — M' seguiranno — i4: in per lo innanzi — i8: vi insegni — o»n. o  dinanzi a per — i9:m exenpro — 20: M-vi 7 penserebbe — .?;: if' trattasse — S2:m  ha bene — 24-2.^: Af si pertegnono - m 7 a singnorì — M-m le giustitio — 26- M' ap-  postamento — M' in sapere — 2M 7 nele comunanze, (L e dello), mi delle co-  munanze — 31 : m trailo parti - 32: M-m im. e ragioni, e l'ermamento — m ohi. si     — 99 -   genti insieme di diverse materie, nelle quali adiviene sovente che ir uno ne dice il suo parere e dicelo in un suo  modo e l'altro dice il contrario, sì che sono in tencione ;  e r uno appone e l'altro difende, e perciò quelli che appone  5. contra l'alti-o è appellato accusatore e quelli che difende  èe appellato accusato, e quello sopra che contendono è ap-  pellata causa. Onde se l’uno appone e l'altro niega, al  postutto di questo non puote nascere questione se non di  sapere se quella cosa che niega elli l'à fatta o detta o no.  Ma quando l'uno appone e l'altro difende, sì è la causa  incominciata et ordinata tra lloro. Et questo è la constituzione della quale nasce la questione, cioè se Ila sua difesa  è a ragione o no; e poi ciascuno contende come pare a llui  per confermare le sue parole e per indebolire quelle del'altro, sì come appare per adietro nel trattato della questione e della ragione e del giudicamento e del fermamento. Onde non sia credenza d'alcuno che, sì come dicono li  exempli messi inn adietro, che ORESTE e accusato in  corte della morte di sua madre ; ma le genti ne contendeano intra loro, che 11' uno dicea che non avea fatto né  bene né ragione, e questo è appellato accusatore, un altro  dicea in defensione d'Orestes ch'elli avea fatto bene e ragione, e questo è appellato nel libro accusato.  De consiglieri. Così aviene intra' consiglieiù de' signori e delle comunanze, che poi che sono aserablati per consigliare sopra  alcuna vicenda, cioè sopra alcuna causa la quale è messa  e proposta davanti loro, all'uno pare una cosa et all'altro  pare un'altra; e cosi è già fatta la constituzione della causa,   30. cioè eh' è cominciata la tencione tra lloro, e di ciò nasce  questione s' elli à ben consigliato o no. Et questo è quello  che Tullio appella questione. 9. Et perciò l' uno, poi ch'elli  àe detto e consigliato quello che llui ne pare, immante-     2 : M ndicc — M' di.cela — m in suo modo ~ 3 : M' in contentione ~ 4: M n lalti-o  appone, m laltio appone — M-m quel — 6: M quello che, m quello di che — 7-9: m om.  al postutto.... che nioga — M che quella cosa — M' selgli la facta — il : m cominciata —  M' intra loro 7 questa — 13: M-m è ragione - 16: M om. il 1" e 3° e, hì il 1" e S° -  20 : m tralloro — dicea chelli — 21 : m o ragione — 22: m ave fatto — 25: M' adiviene - mi  tra cons. — 27: M-m. e in essa — 28: m davanti a loro — M-m om. cosa et — 30: M'  lantentione — 31 : M-m selli alta consigliato —  m che allui   nente assegna la ragione per la quale il suo consiglio èe  buono e diritto. Et questo è quello che Tullio appella  ragione. 10. Et poi ch'elli àe assegnata la cagione e la ra-  gione per che, si sforza di mostrare perchè s'alcuno consigliasse o facesse il contrario come sarebbe male e non  diritto ; e così infievolisce la partita che è contra il suo  consiglio; e questo è quello che CICERONE lappella GIUDICAMENTO. Et poi ch'elli àe indebolita la contraria parte,  sì raccoglie tutti i fermissimi argomenti e le forti ragioni   10. che puote trovare per più indebolire l'altra parte e per  confermare la sua ragione ; e questo è quello che Tullio  appella fermamente. 12. Et certo queste quattro parti, cioè  questione, ragione, giudicamento e fermamento, possono  essere tutte nella diceria dell'uno de' parlatori, sì come appare in ciò eh' è detto di sopra. Et puote bene essere  la sua diceria pur dell'una, cioè pur infine alla questione,  dicendo il suo parere e non assegnando sopra ciò altra  ragione. Et puote bene essere pur di due, cioè dicendo il  suo parere et assegnando ragione per che. Et puote bene essere pur di tre, cioè dicendo il suo parere et assegnando  ragione per che et indebolendo la contraria parte. Et puote  essere di tutte e quattro sì come fue dimostrato di sopra.  13. Quest' è la diceria del primo parliere. E poi ch'elli à  consigliato e posto fine al suo dire, immantenente si leva   25. un altro consigliere e dice tutto il contrario che àe detto  colui davanti ; e così è fatta la constituzione, cioè la causa  ordinata, e cominciata la tenciouB ; e sopra i loro detti,  che sono varii e diversi, nasce questione, se colui avea bene  consigliato o no. Poi dimostra la ragione perchè il suo   30. consiglio è migliore. Apresso indebolisce il detto e '1 con-  siglio di colui ch'avea detto dinanzi da llui ; e poi ricon-  ferma il consiglio suo per tutti i più fermi argomenti che  può trovare. Adunque le predette quattro cose o parti  possono essere nel detto del primo parliere e nel detto   35. del secondo e di ciascuno parlamentare. 14. Cosie usata-     3-4: M' la ragione 7 la cagione.... clie s'olciin — 6: M' a diriclo — m la parie — 8:m om  Et - i5: M-m cagione, ragione ecc. — i4: 3f' d'uno — y5:3f'pare— i 6 : 3f-m om. cioè  pur — 17: m pero — M' altre ragioni — 18-19: M-m ohi. pur ~ M-m in suo parere as-  sengnanJo perche — SO: M' il suo pare — 21 : M^ la contraria partita - SS: m di tulli  e q. — 25-26: Jlf' tutto il contrario di colui ca detto davanti — 27 : M' lunlcntione — m  la tencionc sopra — S8: M' om. sono -- M 7 se colui — 31-32: in rilennu — 3/' il suo  consiglio — 33: M' ([uattro jiarti — 33: M' ciascuno che vuole parlamentare  mente adviene che due persone si tramettono lettere l' uno  all'altro o in latino o in proxa o in rima o in volgare o  inn altro, nelle quali contendono d'alcuna cosa, e così  fanno tencione. Altressi uno amante chiamando merzè alla  sua donna dice parole e ragioni molte, et ella si difende  in suo dire et inforza le sue ragioni et indebolisce quelle  del pregatore. In questi et in molti altri exempli si puote  assai bene intendere che Ha rettorica di Tullio non è pure  ad insegnare piategiare alle corti di ragione, avegna che  neuno possa buono advocato essere né perfetto (2) se non  favella secondo l'arte di rettorica.   15. Et ben è vero ohe Ilo 'nsegnamento ch'è scritto inn  adietro pare che ssia molto intorno quelle vicende che  sono in tencione et in contraversia tra alcune persone, le  15. quali contendano insieme 1' uno incontra l'altro; e potrebbe  alcuno dicere che molte fiate uno manda lettera ad altro  nela quale non pare che tendoni centra lui (altressi come  uno ama per amore e fa canzoni e versi della sua donna,  nella quale non à tencione alcuna intra llui e la donna),  é di ciò riprenderebbe il libro e biasmerebbe Tullio e lo  sponitore medesimo di ciò che non dessero insegnamento  sopra ciò, maximamente a dittare lettere, le quali si co-  stumano e bisognano più sovente et a più genti, che non  fanno l'aringhiere e parlare intra genti. 16. Ma chi volesse  bene considerare la propietà d'una lettera o d'una can-  zone, ben potrebbe apertamente vedere che colui che Ila  fa o che Ila manda intende ad alcuna cosa che vuole che   1: m adiviene - 3: M^ om. o inn altro ~ 6: m slorza — 7 : m i molti — 9: m in  insegnare - M' piatire — 10: M-m neuno buono advocato possa essere perfetto— 11: M  della rectorica — 13 : «i intorno a (pielle — 15 : m chontendono — M' conlra.... 7 parebbo —  16: Mi molte volte manda Inno lectere alaltro, m molto volte uno manda lettere a un altro  (ma ambedue nela (piale) — 17 : M che contenda tencioni — 18: 1/' per amore, fa  e, L uno che ama per amore fa e. — 19: m tra lui — 23: M-m om. et — 24: m  traile genti     (1) Le parole inn altro, che sembrano inutili, non possono essere un'ag-  giunta di copisti, ai quali invece doveva venir fatto di ometterle, come in M* e  in i.Dando a volgare il senso limitato di volgare italico, si intende l'altro  per gli altri linguaggi, specialmente il provenzale e il francese. Brunetto vuol dire che la rettorica di CICERONE non serve solo ai legisti, quantunque nessuno possa divenire valente avvocato, e tanto meno perfetto,  senza averla studiata. Questa è l'idea espressa dalla lezione di ilf • ; con quella  di M-m, più semplice a prima vista, non si spiega la relazione fra buono e perfetto sia fatta per colui a cui e' la manda. Et questo i)uote  essere o pregando o domandando o comandando o minac-  ciando o confortando o consigliando ; e in ciascuno di  questi modi puote quelli a cui vae la lettera o la canzone  5. o negare o difendersi per alcuna scusa. Ma quelli che  manda la sua lettera guernisce di parole ornate e piene  di sentenzia e di fermi argomenti, sì come crede poter  muovere l'animo di colui a non negare, e, s'elli avesse  alcuna scusa, come la possa indebolire o instornare in tutto. Dunque è una tendone tacita intra loro, e così sono  quasi tutte le lettere e canzoni d'amore in modo di ten-  done o tacita o espressa ; e se cosi no è, Tullio dice manifestamente, intorno '1 principio di questo libro, che non  sarebbe di rettorica. Ma tuttavolta, o tencione o no tencione che sia, CICERONE medesimo, luogo innanzi, isforza  i suoi insegnamenti in parlare et in dittare secondo la  rettorica ; e là dove Tullio sine pasasse o paresse che dica  pur insegnamenti sopra dire tencionando, lo sponitore  isforzerà lo suo poco ingegno in dire tanto e sì intende-   20. volemente che '1 suo amico potrà bene intendere l' una  materia e l'altra. 18. Et ecco Tullio che incomincia a dire  di quelle partite della diceria o d'una lettera dittata, delle  quali non avea detto neente in adietro: e queste parti sono  sei, sì come apare in questo arbore.    I e. 2   ^'Olii'     /^M/     25. Queste sono le sei parti che Tullio mostra certamente   che sono nella diceria o nella pistola, specialmente in     i: m per cholui che la manda — 2: M' essere pregando — 3: M-m o in — 6: Jf'  manda guernisce la sua lederà d'ornati^ parole — il : M tucto lelcrre, m tutte lettere o  clianzoni, M' o lo cannoni - iS: M-m o e tacita (mi o e sjirexa) - 13: m inloruo al pr. -  14-15: M' o di tenciono o di non tencione — da quello luogo innanci inforfa — 16: M'  IH secondo rothorica ~ 18: M^ insegnauiento - 19: M' islbiva - intendevole - 21: M'  m comincia — 22 : M' ohi. o duna lettera dittala - 23: M indietro - 24: il' pare in  ipiesto albero - Nello gchetna M' ha l" l>roomio, 3» Divisione, ó" Uisjwnsionc - SO: M-m 7  nella pistola (ma c/r. l. 22)    quelle che sono tencionando, sì come appare nel detto  dello sponitore qui adietro ; e, sì come detto fue in altra  parte di questo libro, Tullio reca tutta la rettorica alle  cause le quali sono in contraversia et in tencione. Et ben  . dice tutto a certo che Ile parole che non si dicono per  tencione d'una parte incontra un'altra non sono per forma  né per arte di rettorica. 19. Ma perciò che Ila pistola, cioè  la lettera dettata, spessamente non è per modo di tencionare né di contendere, anzi è uno presente che uno manda ad un altro, nel quale la mente favella et é udito colui  che tace e di lontana terra dimanda et acquista la grazia,  la grazia ne 'nforza e l'amore ne fiorisce, e molte cose  mette inn iscritta le quali si temerebbe e non saprebbe  dire a lingua in presenzia; sì dirae lo sponitore un poco dell'oppinione de' savi e della sua medesima in quella parte  di rettorica ch'apartene a dittare, si come promise al co-  minciamento di questo libro. 20. Et dice che dittare é un  dritto et ornato trattamento di ciascuna cosa, convene volemente aconcio a quella cosa. Questa è la diffinizione del dittare, e perciò conviene intendere ciascuna parola d'essa  diffinizione. Unde nota che dice « dritto trattamento »  perciò che Ile parole che ssi mettono inn una lettera dit-  tata debbono essere messe a dritto, sicché s'accordi il nome  col verbo, e '1 MASCUNINO [sic MASCHILE -- MASCULINO] e '1 feminino, e lo singulare e '1 plurale, e la prima persona e la seconda e la terza, e l'altre  cose che ssi 'nsegnano in gramatica, delle quali lo sponitore  dirà un poco in quella parte del libro che fie i)iù avenente;  e questo dritto trattamento si richiede in tutte le parti  di rettorica dicendo e dittando. 21. Et dice « ornato trat-   30. tamento » perciò che tutta la pistola dee essere guernita  di parole avenanti e piacevoli e piene di buone sentenze;  et anche questo ornato si richiede in tutte le i)arti di ret-  torica, sì come fue detto inn adietro sopra '1 testo di Tullio.  22. Et dice « trattamento di ciascuna cosa » perciò che,   35. si come dice Boezio, ogne cosa proposta a dire puote     1:M' pare — 4:M oin. sono — m le quali e In contr. e tencione. Et dico — 5-6: M' non  sodono — m om. per te.ncione — a un altro — 8 : M'de tencione — iO : M' 7 ae udito —il: M'  om. la grazia — 12-13: M la gra — M' sinlorca — m/ molte cose — M' m in iscriptura  — Mi non, ma L e non — 14: m lo sponitore dira uno pocho — 16: M' om. di relto-  rica — 19: M-m aconcia a quella cosa, !/'-/> a quella cosa aconcia — 23: M-m adietro,  M' a diricto — 24-25: M' m el mascolino (m il maschulino)col leminino — 3/' el plurale  el singulare — M-m pulare — 27 : m fia M' in tutte parti — 33 : M-m nel lesto —  34 : m om. Et — 35 : m si puote    essere materia del dittatore ; et in questo si divisa dalla  sentenzia di CICERONE, che dice che Ila materia del parliere  non è se non in tre cose, ciò sono dimostrativo, deliberativo  e iudiciale. Et dice « convenevolemente aconcio a quella cosa » perciò che conviene al dittatore asettare le parole  sue alla sua materia. Et ben potrebbe il dittatore dicere  parole diritte et ornate, ma non varrebbero neente s'elle  non fossero aconcie alla materia. 23. Così è divisato il dit-  tatore da cciò che dice Tullio; e perciò di queste due   10. materie, cioè del dire e del dittare, e dello 'nsegnamento  dell'uno e dell'altro potrà l'amico dello sponitore prendere  la dritta via. Et per questo divisamento conviene che Ile  parti della pistola si divisino da queste della diceria che  Tullio à detto che sono sei, ciò sono : exordio, narrazione, partizione, conferm amento, riprensione e conclusione.  24. 1. E oppinione di Tullio che exordio sia la prima parte  della diceria, il quale apparecchia l'animo dell' uditore a  l'altre parole che rimagnono a dire, e questo è appellato  prologo della gente. //. Et dice che narrazione è quella   20. parte della diceria nella quale si dicono le cose che sono  essute o che non sono essute, come se essute fossoro ; e  questo è quando uomo dice il fatto sopra '1 quale esso  ferma la forma della sua diceria. E dice che è partigione quando IL PARILERE à narrato e contato il fatto et   25. e' si viene partiendo la sua, ragione e quella dell'aversario  e dice : « Questo fue cosi, e quest'altro così » ; et in questo  modo acoglie quelle partite che sono a lini più utili e pivi  contrarie all'aversario, et afficcale all'animo dell' uditore ;  et allora pare ch'ai tutto abbia detto tutto '1 fatto. IV. Et   30. dice che confermamento è quella parte della diceria nella  quale il parlieri reca argomenti et assegna ragioni per le  quali agiugne fede et altoritade alla sua causa. F. Et dice  che riprensione (1) è quella parte della diceria nella quale il     5: Mi agoisare — 6: m om. Et — 7 : M' non varrebbe — 8: M' j cosi e divisato da  ciò — 10: Jf maniere — i3: M^ da quelle — i6: M' Et oppinione di Tulio e, m Op-  pinione di Tulio e — M exordìa — 18: M rimagnono udite, m om. a dire — 21 : M is-  sate — 22: M 1 quando — M^ m l'uomo — om. esso 23  M' forma la sua diceria —  25 : M' edesso viene partendo, m e viene ripetendo.... del chonpagno — 28 -. M7 nfììcale (?),  m e ficliale, M' 7 afficcalle — 29: M' paro cabbia detto — m detto il fatto - 30 : M' con-  fermagione — 33: i mss. responsione — M-m 7 quella   (1) Non esito a scostarmi dai codici per la concorde lezione degli altri luoghi,  che corrisponde al latino reprehensio. Il passaggio da reprensione a responsione è  facilissimo attraverso un repensione.     I)arliere reca cagioni e ragioni et argomenti per li quali  attuta e menoma et indebolisce il confermamento dell'aver-  sario. VI. Et dice che conclusione è Ila fine e '1 termine  di tutta la diceria. 25. Queste sono le sei parti che dice  5. Tullio che sono e debbono essere nella diceria; e di cia-  scuna tratterà qua innanzi il libro sofficientemente. Ma in  questo eh' è detto puote uomo bene intendere che queste  sei medesime possono convenire inn una pistola, di tal ma-  teria puote ella essere. Ma tuttavolta, di qualunque materia   10. sia, nelle tre di queste sei parti s'accorda bene la pistola  colla diceria, cioè nello exordio, narrazione e nella con-  clusione; ma ll'altre tre, cioè partigione, confermamento  e reprensione, possono più lievemente rimanere e non  avere luogo nella pistola. Tutto altressì la pistola àe V parti, delle quali l'una può bene rimanere e non avere  luogo nella diceria, cioè «salutatio»; l'autra, cioè «petitio»,  avegnachè Tulio no Ila nominasse in tra Ile parti della  diceria, sì vi puote e dee avere luogo in tal maniera ch'ap-  pena pare che diceria possa essere sanza petizione. Dunque   20. le parti della pistola sono cinque, ciò sono salutazione,  exordio, narrazione, petizione e conclusione, sì come ap-  pare in questo arbore :      26. Et se alcuno domandasse per qual cagione Tullio in-  tralasciò la salutazione e non ne trattò nel suo libro, certo  25. lo sponitore ne renderà bene ragione in questo modo. Certa  cosa è che Tullio nel suo libro tratta delle dicerie che ssi     l-S: m ragioni 7 cagioni — Jlf' l'aiingatore — wn. cagioni e — per li ifiiali allassa -  M-m il fermamente — 3 : 3/' il line — 4-5 : m Questo.... che Tulio dico che debbono essere —  6 : M' m illibro qua innanzi — 7 : jn luomo -- Af ' om. bone — m che tutte 7 queste  sei — 8-9 : M tal maniera — M-m da qualunque, M^ de ([ualunque — li : 3f' in exordio —  M' m 7 conclusione —12: M' om. tre e soitiiuisce di\hione rt partigione M salta  dal lo al 2" aver luogo — 22: M' pare 'in questo albero — 24: ilf intrallassò, m lasciò —  25: Af' ne renda, L ne rende - 26: M^ cliellibro di Tulio tracia     — 106 -   fanno in presenzia, nelle quali non bisogna di contare'!) il  nome del parlieri né dell' uditore. Ma nella pistola bisogna  di mettere le nomora del mandante e del ricevente, c'altri-  mente non si puote sapere a certo né l'uno né l'altro.  Apresso ciò, la salutazione pare che sia dell'exordio ; che  sanza fallo chi saluta altrui 'per lettera già pare che co-  minci suo exordio. Et Tullio trattòe dello exordio com-  piutamente, non curò di divisare della salutazione né distendere il suo conto intorno le saluti, maximamente perciò che pare che rechi tutta la rettorica a parlare et in controversia tencionando. Et in perciò furo alcuni che  diceano che Ila salutazione non era parte della pistolaj  ma era un titolo fuor del fatto. Et io dico che la salu-  tazione è porta della pistola, la quale ordinatamente chiarisce le nomora e' meriti delle persone e l'affezione del  mandante. Et nota che dice « porta, cioè entrata della  pistola, e che chiarisce le nomora, cioè del mandante e  del ricevente; e dice i meriti delle persone, cioè il grado  e l'ordine suo, sì come a dire: Innocenzio papa, Federigo Imperadore, Acchilles cavaliere, Oddofredi  Judice, e cosi dell'altre gradora. Et dice « ordinata-  mente », cioè che mette il nome e '1 grado di ciascuno  come s'a viene; e dice «l'affezione del mandante», cioè com'elli  manda al ricevente salute o altra parola di bene, o per   25. aventura di male, secondo la sua affezione, cioè secondo  la sua volontade. 28. Adunque pare manifestamente che  Ila salutazione è così parte della pistola come l' occhio del-  l' uomo. Et se l'occhio è nobile membro del corpo dell'uomo,  dunque la salutazione é nobile parte della pistola, c'altressi   30. allumina tutta la lettera come l'occhio allumina l'uomo.  Et al ver dire, la pistola nella quale non à salutazione è  altrettale come la casa che non à porta né entrata e come '1     1 : M-m bisogna contare — S-3 : M' nome del dicitore — M-m bisogna mettere -  M 7 dell' uditore 7 del ricevente, m om. 7 del ricevente — M-m 7 altrimente — 4: M' non  si porrebbe — 7-9: M-m om. dello exordio — non curo divisare salutalione 7 distemdere -  ìli intorno alle salutationi — 10: M' om. et — 11-12: M' Et jìerciò funro — ciie saluta-  lione — 15: m e mèli — 16: m om. Et -17: M-m om. 1° e, hi 01». cioè — S3 : M' om. di —  24 : M' 7 altra — 2,5 : M eirectione — m om. secondo la sua afTezione cioè — 26: M' parte  (ma t espunto) — 28 : M 3/' om. dell'uomo, m om. del corpo (A completo) — 29: iW' e la  salutatione n. p. — m e altres'i — 32 : il/' ne jiorta   (1) La lezione bisogna contare darebbe piuttosto il senso di « conviene dire »,  mentre qui si richiede un «c'è bisogno di dire».     - Itì7 -   corpo vivo che non à occhi. Et perciò falla chi dice che  salutazione è un titolo fuor del fatto; anzi si scrive e s' in-  chiude W e sugella dentro ; ma '1 titolo della pistola è la  soprascritta di fuori, la quale dice a cui sia data la lettera.  Ben dico c'alcuna volta il mandante non scrive la salu-  tazione, o per celare le persone se Ila lettera pervenisse  ad altrui o per alcun' altra cosa o cagione. (2) Né non  dico che tutta fiata convenga salutare, ma o per desiderio  d'amore, o per solazzo, talora (3) si mandano altre parole che   10. portano più incarnamento e giuoco che non fa a dire pur  salute. Et a' maggiori non dee uomo mandare salute, ma  altre parole che significhino reverenzia e devozione; e tal-  volta no scrivemo a' nemici altro che Ile nomora e tacemo  la salute, o per aventura mettemo alcuna altra parola che   15. significa indegnamento o conforto di ben fare o altra cosa;  sì come fa il papa che scrivendo a' giudei o ad altri uomini  che non sono della nostra catholica fede o a' nemici della  Santa Chiesa tace la salute, e talvolta mette in quel luogo  spirito di più sano consiglio o connoscere la via della veritade o ahundare inn opera di pietade et altre simili cose.  Adunque provedere dee il buono dittatore che, si-  milemente come saluta l'uno uomo l'antro trovandolo in  persona, così il dee salutare in lettera mettendo et ador-  nando parole secondo che la condizione del ricevente richiede. Che quando uomo va davante a messer lo papa o  davante ad imperadore o a alti-o segnore ecclesiastico o  seculare, certo elli va con molta reverenzia et inchina la  testa, et alla fiata si mette in terra ginocchioni per basciare     2-3: M' anche — M-ìn si richiude — M' ma titolo — M 7 \a. s. — 5 •m iscrive salu-  tatione — 6-7: M' venisse ilata altrui per alcuna cagione — Mo per cagione dalcunaltra cosa  cagione ; m id., ma oiii. cagione — 8-9 : M^-L ma ora per d. d'a. or (ina L 0) per s. si man-  dano, M-m per solazzo di loro si mandano — il: M' a maggiore — M-m non debbono - 12: M*  che significanza abbiano di revercntia 7 dev. — 13-14: M' a nomici non scrivemo — M-m 7 per  aventura —16: M-m il papa scrivendo... om. altri —19: M-m di chonnoscere — M' conoscere  via de veritade— 20: M' opere (mai opera) — om. altre — 21  il/' dee prevedere — 22  M' un  huomo un altro— ^ó:ni Quando luomo — 26:M' davanti imperadore od altro, >« davante a lom-  j)eradore — 27 : Jf certo e va - ^S: in M una macchia cunpre in — M' ginocohione in terra     (1) S'inchiude è più esatto di si richiude. Lo scambio fra n e l'i occorre altre  volte: cfr. p. 37, n. 1.   (2) In 3f e' è qualcosa di troppo. Non importa dire che m ha accomodato di suo,  perchè la parola cagione come finale è confermata da M'; forse 1' errore nacque  dall'avere scritto subito pei- cagione e voler poi rimediare.   (3) Scrivo così per avere un senso, ma non presumo davvero di avere indo-  vinato; potrebbe anche mancare qualche parola.  il piede al papa o allo 'mperadore. Tutto altressì dee lo  dettatore nominare lo ricevente e la sua dignitade coij  parole di sua onoranza e metterlo dinanzi ; apresso dee  nominare sé medesimo e la sua dignitade, e poi dee scri-  5. vere la sua affezione, cioè quello che desidera che venga  a colui che riceve la lettera, sì come salute o altro che sia  avenante, tuttavolta guardando che questa affezione sia di  quella guisa e di quelle parole che ssi convegnono al man-  dante et al ricevente. 31. Che quando noi scrivemo a' magio, giori di noi o di nostro paraggio o di minore grado, noi  dovemo mandare tali parole che ssiano accordanti alle  persone et allo stato loro. Et non pertanto eh' io abbia  detto che '1 nome del maggiore si de' mettere dinanzi e  del pare altressì, io oe ben veduto alcuna fiata che grandi  15. principi e signori scrivendo a mercatanti o ad altri minori  , mettono dinanzi il nome di colui a cui mandano, e questo  è contra l'arte ; ma fannolo per conseguire alcuna utilitade.  Perciò sia il dittatore accorto et adveduto in fare la saluta-  zione avenante e convenevole d'ogne canto, sicché in essa me-  20. desima conquisti la grazia e la benivoglienza del ricevente,  sì come noi dimostramo avanti secondo la rettorica di CICERONE. Et bene è questa materia sopr'alla quale lo sponitore po-  trebbe lungamente dire e non sanza grande utilitade. Ma  considerando che Ila subtilitade perché '1 verbo non si mette  25. nella salutazione, e che "1 nome del mandante si mette in  terza persona per significamento di maggiore umilitade, e  che tal fiata si scrive pur la primiera lettera del nome,  par che tocchi più a' dittatori IN LATINO che’n VOLGARE,  sene passex'à lo sponitore brevemente e seguirà la materia di Tullio per dicere dell'altre parti della diceria e di quelle  della pistola, sì come porta l'ordine. Et in questo luogo  si parte il conto della salutazione, e dirà dell' exordio in  due guise. L’una secondo ciò che nne dice Tullio e che     i : M' y allomperudoi'o — S-3: M-m dignilailo corporale di — m aggiunge di reve-  renza 7 ^ 4: M^ nm. S" e — 3: M-m oirectione — ([nella — 7 : m tuttavia — M' guani ino  clic l'airectione — 9-10: M' ali maggiori — M-m ili nostro .grado — i2: M' alloro slato —  M-m om. ch'io abbia dolio — i3: in il nome — M' si debbia — 13-16: m sengnori —  M-m scrivono -- m e mellone — M' elgli mandano — 17: Af-w por sognile — 18: mom.  et adveduto — 19: M' dongiii jìarle — 20: M-mnm.ìa grazia e — 21-SS: il/' dimoslor-  remo, m dimostraiiio davanti — Af' m Et bene cpiesta — 24: JZ-m uhella subtitade, A/' che  sotti! itude — 23: M<- in salutalione 7 perche! nome — 26: M-m utilitade — 27: M' 7 per-  che.... pur una lederà — m la prima — 28: m om. in Ialino — 31-32: L Et in questa  parte — ilf' dala salutalione — 33: M' om. ci6     — 109 -   pare che ss'apartegna a diceria, l'altra secondo che ssi con-  viene ad una lettera dittata et ad una medesima diceria,  oltre quello che porta il testo di Tullio.   Exordio.   5. 77. Et perciò che exordio dee essere principe di tutti, e noi   primieramente daremo insegnamenti in fare exordio. Vogliendo CICERONE trattare dell' exordio prima che  dell'altre parti della diceria, sì ll'apella principe dell'altre  10. parti tutte ; e certo è de ragione (i) : l' una perciò che ssi  mette e si dice tuttora davanti a l'autre, l'altra perciò che  nel exordio pare che noi aconciamo et apparecchiamo  r animo dell' uditore ad intendere tutto ciò che noi vo-  lemo dire di poi.   15. Dell' exordio.   78. (e. XV) Exordio è un detto el quale acquista convene-  volemente 1' animo dell' uditore all' altre parole che sono a dire ;  la qual cosa averrà se farà l' uditore benivolo, intento e docile.  Per la qual cosa chi vorrà bene exordire la sua causa, ad lui  20. conviene diligentemente procedere e conoscere davanti la qualitade  della causa.   Lo sponitore.   1. Poi che Tullio avea contate le parti della diceria,   sì vuole in questa parte trattare di ciascuna per se divi-   25. satamente, e prima dello exordio, del quale tratta in questo     2 : Af' e la diceria medesima — 3: m oltre a quello — 5 : M-mom.e — 6: M' oxordii —  iO: m nm. tutte — M-m certo e (m a) ragione, L e certo eglie ragione — 10-li M' luna  pei che, m luna che — M-m 7 davanti si dice — 13-14 : m quello die noi poi volerne diro —  M' dire poi — 18: m dolce (cosi sempre in seguito) M' converrà — om. procedere e —  24 : M' divisamente, ma L divisatamente   Questa lezione è quella che spiega meglio le altre: soppresso il de, nacque  è ragione di M, che m, colla pretesa di accomodare,' peggiorò in a ragione; la  variante di L deriva certo dal non aver inteso il significato di de ragione (= se-  condo ragione).     - no -   modo: Primieramente dice che è exordio, mostrando che  tre cose dovemo noi lare nell'exordio, cioè fare che 11' udi-  tore davanti cui noi dicemo sia inver noi benivolente et  intento e docile a cciò che noi volemo dire. Et perciò ne  5. conviene connoscere la qualitade del convenente sopra '1  quale noi dovemo dire o dittare. 2. Nel secondo luogo divide  l'exordio in due parti, cioè principio et « insinuatio », e mo-  strane in qual convenentre noi dovemo usare principio et  in quale « insinuatio ». 3. Nel terzo luogo ne fa intendere   10. donde noi potemo trarre le ragioni per acquistare beni-  voglienza et intenzione e docilitade, e come noi dovemo  queste tre usare in quello exordio eh' è appellato principio  e come in quello eh' è appellato « insinuatio ». 4. Nel quarto  luogo pone le virtù e' vizi dell'exordio. Et perciò dice   15. che exordio è uno adornamento di parole le quali il par-  lieri e '1 dittatore propone davanti nel cominciamento del  suo dire in maniera di prolago, per lo quale si sforza di  dire e di fare sì che l'uditore sia benivolo verso lui, cioè  che Ili piaccia esso e '1 suo parlamento, e procacciasi di dire e di fare sì che l'uditore sia intento a llui et al suo  detto; similemente si studia di dire e di fai'e sì che l’uditore sia docile, cioè che pi'enda et intenda la forza delle  parole. 6. Et perciò dico che immantenente che 11' uditore  è docile sicché voglia intendere e connoscere la natura   25. del fatto e la forza delle parole, sì è elli intento ; ma perchè  l' uditore sia intento a udire, puote bene essere che non sia  docile ad intendere. Et di ciascuno di questi tre dirà il  conto quando verrà il suo luogo. 7. Ma perciò che '1 par-  liere che non conosce dinanzi di che maniera e di cliente   30. ingenerazione sia la sua causa non puote bene advenire  alle tre cose che sono dette inn adietro, cioè che 11' uditore  sia benivolo, intento e docile, si dicei'à Tullio quante e  quali sono le generazioni delle cause, in questo modo:     1 : m Prima — MM' nm. è — 2-3 : m liiditore sia inverso noi benivolo intonlo 7 dolco  a quello ecc. — 4-5: m ci conviene — 7-8: m nm. et — e mostra — 9: M' nensegna,  L insegna dove — JO: M' potremo — ii: M' ,allenlione - 13: M nm. in — 15: m i  parlieri, M' il parladore —17: M' perla (piai cosa — 19: ni jiiaoci il suo p. — procliac-  cisi — 20 : M-m 7 fare sicché — m attento — 21 : M' 7 fare — 22 : il/' ciò che imprenda —  «1 le parole — ^.5: hi nm. e la l'orza delle i>arole - 26: m che non 0—27: M' ohi. tre —  28-29: M' vorrà suo luogo — chel dicitore — 7 di che ìnjj.     - Ili -   Qualitadi delle cause.   79. Le qualitadi delle cause sono cinque: onesto, mirabile  vile, dubitoso et oscuro.   Sponitore.   5. I. In questa picciola parte nomina Tullio le qualitadi   delle cause, cioè di quante generazioni sono le dicerie.  Et s' alcuno m' aponesse che Tullio dice contra ciò che esso  medesimo avea detto in adietro, cioè che le generazioni e  le qualitadi sono tre, deliberativo, dimostrativo e iudiciale,   10. et or dice che sono cinque, cioè onesto, mirabile, vile, du-  bitoso et oscuro, io risponderei che Ile primiere tre sono  qualitadi substanziali sie incarnate alhi causa che non si  possono variare. Onde quella causa eh' è deliberativa non  puote essere non deliberativa, e quella eh' è dimostrativa   15. non puote essere non dimostrativa ; altressì dico della iudi-  ciale. 2. Ma quella causa eh' è onesta puote bene essere non  onesta, e quella eh' è mirabile puote essere non mirabile,  e così dico della vile e della dubbiosa e della oscura.  Adunque sono queste qualitadi accidentali che possono   20. essere e non essere; ma le prime tre sono substanziali che  non si possono mutare.   Dell'onesta.   80. Onesta qualitade di causa è quella la quale incontanente,  sanza nostro exordio, piace all'animo dell'uditore.   25. Lo sponitore.   I. Quella causa è onesta sopr'alla quale dicendo parole,  immantenente, sanza fare prolago, l' animo dell' uditore si  muove a credere et a piacere le parole che '1 parliere dice  sopra '1 convenente ; et in questo non fa bisogno usare pa-     3: M' dubbioso — 7 : M' m cholgli medesimo — 8: M-m om. elio - M^ li generi —  10: M' dubbioso — 1 1: m io rispondo che le prime tre — 13 -.M' puole — 13-14: M-m ml-  lann dal lo al S° deliberativa — 15 : M-m essere dimostrativa — 17 : L bone essere bene non  mir. — 19: M-m om. queste — 23: M incontenenlo — 27: M-m mantenente     iole per acquistare la benivoglienza dell'uditore, perciò  che ll'onestade della causa l'à già acquistata per sua di-  gnitade, sì come nella causa di colui che accusa il furo o  che difende il padre o l'orfano o le vedove o le chiese. Mirabile è quello dal quale è straniato l'animo di colui  che de' audìre. Quella causa è appellata mirabile la quale è di tale  10. convenente che dispiace all'uditore, perciò eh' è di sozza  e di crudele operazione. Et perciò l'animo dell'uditore è  centra noi et è straniato dalla nostra parte; et in questo  abisogna d'acquistare benivolenzia sì che l'uditore intenda,  sì come nella causa di colui c'avesse morto il suo padre  15. o fatto furto o incendio. 2. Dunque potemo intendere che  una medesima causa puote essere onesta e mirabile : onesta  dall'una parte, cioè di colui che difende il suo padre, mi-  rabile dall'altra parte, cioè di colui medesimo che è coutra  la sua madre propia. E di questo uno exemplo si puote  20. intendere tutti i somiglianti. Vile è quello del quale non cura l'uditore e non pare che  sia da mettere grande opera a intendere.   Lo sponitore.   25. 1. Quella causa è appellata vile la quale è di picciolo   convenente, sì che non pare che ne sia molto da curare e  l'uditore non sine travaglia molto ad intendere, sì come  la causa d' una gallina o d'altra cosa che sia di poco valere.  Et in questa causa dovemo noi procacciare di fare sì che   30. ir uditore sia intento alle nostre parole.     1: M' om. la — id: M' o l'uiiiino - i2: vi e straniato — i3: M' bisogna — 14: M-m  om. nella oanaa di colui c'avcsso morto — 15: M a facto, m a l'atto — 19: M\a sua iiropria  madre — 26: M-m om. ne — 27 : M' non si maraviglia — 28: hi di jioclio valoro, Jt/' de  piccolo valoro — 89: Mi nm. di l'are si    Dubitoso è quello nel quale o la sentenzia è dubia o la  causa è In parte onesta et In parte è sozza e disonesta, sicché  Ingenera benlvolenzla e offenslone.  Quella causa è appellata dubitosa nella quale l'uditore non è certo a che la cosa debbia pervenire o a che  sentenzia alla fine torni, sì come nella causa d'Orestes  che dicea ch'avea morta la sua madi e giustamente per due   10. ragioni : 1' una perciò ch'ella avea morto il suo padre, l'altra  perciò che '1 deo APOLLO glile comandò. Onde l'uditore non  è certo la quale di queste due cagioni cagia in sentenzia.  Altressì è dubitosa quella causa nella quale àe parte  d'onestade e perciò piace all'uditore, et àe parte di diso-   15 nestade e perciò dispiace all' uditore, si come nella causa  de filio: O d'un furo che fue accusato d'un furto e '1 suo  figliuolo si sforzava (ii difenderlo in tutte guise. Certo la  causa era onesta quanto in difender lo padre, ma era diso-  nesta quanto in difendere lo furo.   20. Dell'oscuro.   84. Oscuro è quello nel quale l' uditore è tardo, o per aventura  la causa è Iv^plgllata di convenentl troppo malagevoli a conoscere.  Dice CICERONE che quella causa è appellata oscura nella   25. quale l'uditore è tardo, cioè che non intende ciò che portano   le parole del dicitore sì bene ne sì tosto come si conviene,   perciò che non è forse ben savio o forse eh' è fatigato per     2: M-m eia sentenzia — 3: M' in parte socca — 4: M-m o offensione — 7-8: M' o  in clie sententia torni ala fino 10: m il suo marito — li: M chel deo apellollil, m chello  lio appello il, M^-L che dio appello glile comando — 13: M' quella parte dove parte —  16: M do fili?, *i demi?, Mi-L dun figluolo dun ladro - do furto, el figUiolo ~ 17 : m s\  sforza — 19: M' lo furto — 24: ino oschura apellata — 23-26: 3f-»i portava — del dicta-  tore - M' om. nò, L e si tosto, m o si tosto ~ 27:M' om. il 1" forse — M-m 7 forse - faligata   (1) L'abbreviatura insolita ài M e m porta a supporre una formula giuridica  latina, quantunque tale abbreviatura non sembri equivalere proprio a un de filio  (la lezione di M'-L è certamente secondaria). forse nella sigla si nasconde  qualche nome proprio? li detti d'altri parlieri che aveano detto innanzi; o per  aventura la causa è impigliata di cose e di ragioni che  sono oscure e malagevoli ad intendere.   Della divisione dell' exordio.   5. 85. Et perciò che Ile qualitadi delle cause sono tanto diverse,   sì convene che li exordii siano diversi e dispari e non simili in  ciascuna qualitade di cause; per la qua! cosa exordio si divide in  due parti, ciò sono principio et « insinuatio ».   Lo sponitore.   10. I. Perciò - dice Tullio - che le generazioni e le quali-   tadi delle cause sono tanto diverse, cioè che sono in cinque  modi sì come detto è qui di sopra, e l'uno modo non è  accordante all'altro, sì conviene che in ciascuna qualità  di cause et in catuno de' detti cinque modi abbia suo modo   15. di fare exordio, tale che ssi convegna alla qualitade so-  pr'alla quale noi dovemo parlamentare o dittare. 2, Et  vogliendo Tullio insegnare ciò apertamente, sì dice che  exordio è di due maniere : una eh' è appellata principio et  un'altra ch'jè appellata « insinuatio » ; e di ciascuna dirà elli   20. interamente. E così dovemo e potemo sapere che le cause  sopra le quali dice alcuno parlieri o sopra le quali scrive  alcuno dittatore sono cinque, cioè sono: onesto, mirabile,  vile, dubitoso et oscuro, sì come apare in adietro. Et sopra  tutte qualitadi sono due modi de exordio e non più, cioè   25. principio et « insinuatio ». Principio è un detto il quale apertamente et in poche  parole fa l'uditore benivolo o docile o intento. Quella maniera de exordio è appellata principio   quando il parlieri o '1 dittatore quasi incontanente alla     1 : M^ parladori — 3: M' mn. oscuro o — fi: m diversi, dispari — 7:m di cose — 8:M' cioè  principio 7 insiniiatione (sempre) — / i : m dolio cose — M' dele qualitadi sono tante divei-se --  Melo che sono— 13: M' coU'altro — i4-i5: M' si abbia s. m. in fare — A/' «hi.cìò — 18-19:  m una che apjinllala ins. 7 una che ajiiiollata pr., M' uno che sajiplla pr. 7 un altro che apellnlo  ins.,7 di ciascuno — 21 : vi .ilchimo parlinre dice — M-m 7 sopra — M' dice alcuno dictalon» —  22: M-m honesta - 23: M* jiare — 31 : M' il dicitore ol dictatore — M-m incontenonte     comincianza del suo dire, sanza molte parole e sanza neuno  infingimento ma parlando tutto fuori et apertamente, fa  l'animo dell'uditore benvolente a llui et alla sua causa,  o talora il fa docile o intento, si come fece Pompeio par-  5. landò a' Romani sopra '1 convenente della guerra con Julio  Cesare, che fece tale exordio : « Perciò che noi avemo il  diritto dalla ifostra parte e combattemo per difendere la  nostra ragione e del nostro comune, si dovemo noi avere  sicura spei'anza che li dii saranno in nostro adiuto ». Dell' insinuatio. Insinuatio è un detto il quale, con infingimento parlando  dintorno, covertamente entra nell’animo dell'uditore. CICERONE dice che quella maniera de exordio è apellata  « insinuatio » quando il parlieri o '1 dittatore fa dinanzi  un lungo prolago di parole coverte, infingendo di volere  ciò che non vuole, o di non volere quello che dee volere,  e così va dintorno con molte parole per sorprendere l'animo  dell'uditore sì che sia benevolo o docile o intento; sì come  disse Sino parlando a coloro che riteneano la sua persona  in gravosi tormenti: « Insin a oi"a v'ò io pregato che mi  traeste di tante pene ; oimai non dimando se non la morte,  ma grandissimi tesauri avrei dato a chi m' avesse scam-  pato ». Et in questo modo covertamente s'infingea di non   25. volere quello che volea, per venire in animo di loro che Ilo  scampassero per avere, da che mercè non valea. 2. Et cosie  à divisato il conto che è principio e che è «insinuatio»; omai  dicerà quale di questi due modi de exordio dovemo usare  in ciascuno de' cinque modi delle cause, cioè nell'onesto,   30. nel vile, nel mirabile, nel dubitoso e nell' oscuro.     i: M' alancomincianza — m sanza alcliuno - 2-- M' om. et — 3: M' benivolente,  m benivolo — M^ o ala sua causa : m come fé — 5-6: M' a Romani parlando del  convenente, — cotale — 9: M diede saranno — IS: m intorno — 15: M-m i parlieri,  M' il parliere — M o dictatore — 17 : m quello che non vuole — iW' in (juello che vuole —  20-21 : L Sitio — m teneano... gravi tormenti — 2S: M' oggimai non domando io —  23: M' dati — wi dato chi — 26: m merco domandare — 27: M' a divisatoli maestro —  28 : M-m (|uali — M' noi dovemo — 29: M' de cause, M in ciascuno di delle causo, m in  ciascheduna delle chause   (1) Per tutte le citazioni di autori classici, che da questo punto alla fine son  molto frequenti, rimando al mio studio su La «Rettorica» italiana di Brunetto Latini  pp. 35-50; ivi son ricercate e discusse le fonti di questi esempii, e così riesce anche  piti facile rendersi conto della costituzione del testo.   Della mirabile.   88. Nella mirabile generazione di causa, se il'uditore non fosse  al tutto turbato contra noi, ben potemo acquistare benivoglienza per  principio. Ma s'ei troppo malamente fosse straniato ver noi, allora   5. ne conviene rifuggire a « insinuatio », in però che volere così isbri-  gatamente pace e benivoglienza dalle persone adirate non solamente  non si truova, ma cresce et infiamasi l'odio.   Lo sponitore.   1. Inn adietro è bene detto che quella causa è appel-  lo, lata mirabile la quale è di rea operazione, sicché pare che  dispiaccia all'uditore. Et perciò dice Tullio CICERONE che quando la  nostra causa è mirabile puote bene essere alcuna fiata che  Il'uditore non sia del tutto coruccioso contra noi. Et allora  potemo noi acquistare la sua benivolenza per quel modo  15. de exordio eh' è appellato principio, cioè dicendo un breve  prologo in parole aperte e poche. 2. Ma se 11' uditore fosse  adiroso e curicciato contra noi malamente, certo in quel caso  ne conviene ritornare ad altro modo de exordio, cioè « insi-  nuatio », e fare un bel prologo di parole infinte e coverte,  20. sicché noi possiamo mitigare l' animo suo et acquistare la  sua benivolenza e ritornare in suo piacere. Ch'ai ver dire,  quando l' uditore èe adirato e curiccioso, chi volesse acqui-  stare da llui pace così subitamente per poche et aperte  parole dicendo il fatto tutto fuori, certo non la troverebbe,  25. ma crescerebbe l' ira et infiamerebbe l' odio ; e perciò dee  andare dintorno et entrarli sotto covertamente.   Della causa vile.   89. Nella causa la quale è di vile convenente, per cagione di  trarrela di vilanza e di dispetto, ne conviene fare l'uditore intento. S : M-m Della mirabile — ?» e solluditoro — 3 : M^ del tutto — 4 : 3/' se — m se troppo  fosse crucciato — 5: Mi fuggire — m ci conviene.... chosi di presente - 7: m crescesi —  9: M-m ubiamo detto — i2: M^ alcuna volta — 13: m crucciato — 14: M' potremo  (ma L lìotemo) — 15: M-m in breve — 17 : M' iroso 7 crucciato verso noi, m adirato contra  noi molto, — 18: m tornarne — M alaltro modo —19: M-m nni. fare — converte — M iulì-  nito — 20: M' otii. la — SS: M^ cruccioso, m crucciato — S3: in per i)Oclie )iaroIo  7 aperte — S6: M-m darò dintorno — M entrali, M' intrarli, wi rilrarlo sottilmente sotto  coverta — S8 : M e diviene convenente m udiviene e. — S9 : M' trarla de viltanca 7 de  dispregio  Quando la nostra causa ella è vile, cioè di piccolo  convenente sicché l' uditore poco cura d' intendere, allora  ne conviene usare principio et in esso fare che 11' uditore  5. sia intento alle nostre parole; e questo potenio ben fare  traendola di viltanza e facciendola grande et innalzandola,  sì come fece Virgilio volendo trattare de l'api: «Io dicerò  cose molto meravigliose e grandi delle picciole api ».   Della dubbiosa qualità. Nella dubbiosa qualità di causa, se Ila sentenza è dubbia   si conviene incominciare l'exordio dalla sentenzia medesima. Ma se  Ila causa è in parte onesta e in parte disonesta si conviene acqui-  stare benivolenzia, sicché paia che tutta la causa ritorni in onesta  qualitade. La causa dubitosa, si come fue detto in adietro, èe  in due maniere: 1' una che Ila sentenzia è dubbia, sì come  apare nelF exemplo d' Orestes, che per due ragioni e cagioni  dicea ch'avea ben fatto d'uccidere la madre. Et in quel caso   20. dovea elli incuninciare il suo exordio da quella ragione  dalla quale (0 elli più ferma nel suo animo di voler pro-  vare, e per la quale crede avere la sentenzia inn aiuto. 2. Ma  se '1 convenente è dubitoso perciò che sia in parte onesto  et in parte disonesto, in quello caso dee il buono parlieri   neir exordio acquistare la benivolenzia dell' uditore per  principio, sicché tutta la causa paia che sia onesta. 2: M' m om. ella — m cioè di vile convenente 7 di picciolo — ,9: 3f' -Ldelontendere —  4-5 : M 7 mezzo, m e mezzo a fare... atento — 6: m vilanza, >/' vllezza 7 inalr. et f. g. —  7 : m tràre — 8: M' om. molto — iO: M' Dela dubitosa — li: m cominciare — i2 : M-in om.  è in parte onesta — M' parte lionesla 7 parlo dis. — i7 : M-m cliella causa — hi dub-  biosa — i8: M> om. apare — cagioni 7 ragioni — m om. 7 cagioni — 19-20 : m in questo  dovea elli com. — 21 : M' la (juale — 22: M-m 7 per qua! (?;i om. 7) — M' sigli crede  davere — 23: m om. sia — M'-L honesta.... disonesta — 25: M' acquistare nelexordio  benivolenca daluditore — M libenivolentia — 26 : M-m om. che sia   (1) Cioè « fondandof3i sulla quale egli si propone di dimostrare la sua causa. L'oscurità della frase ha determinato la falsa correzione in ilf'.   La causa onesta. Quando la causa fie onesta, o potemo intralasciare lo prin-  cipio, 0, se ne pare convenevole, comincieremo alla narrazione o  dalla legge, o d' alcuna fermissima ragione della nostra diceria.  5. A\a se ne piace usare principio, dovemo usare le parti di benivo-  glienza per accrescere quella che è. Quando il conveniente sopra '1 quale ne conviene dire  è onesto, certo per la natura del fatto propia avemo noi la benivoglienza dell'uditore sanza altro adornamento di parole. Perciò quando noi venimo a dire noi potemo bene  intralasciare lo principio e non fare neuno exordio né  prolago di parole, e cominciare la nostra diceria alla nar-  razione, cioè pur dire lo fatto; e bene potemo cominciare  da quella legge che tocca alla nostra materia o da quella  ragione che sia più fermo argomento e più certo. Ma se  nne piace usare ijrincipio e fare alcuno prologo, certo noi  lo potemo bene, non per acquistare benivolenza ma per  crescere quella che v' è. Et perciò in detto caso il nostro   20. principio dee essere in parole apropiate a benivolenza.   Della causa ohscura.   (e. XVI) Nella causa la quale è oscura conviene che nel  nostro principio noi facciamo che ir uditore sia docile.   Lo sponitore.   25. 1. In adietro fue dimostrato qual causa e quando sia   oscura. Et perciò dice Tullio che nella causa la quale sia     2 : M' m tia — 3 : i« / Se ci paro — -i : M-m o alla legge, J/' o data leggo — M o alcuna,  )/i adalcluina, Mi o dalcuna — 5: Miw paro, m non paro — 6 : il/i om. che h - 9: M-m  nm. certo - facto pro])io — iO: M-m sanja molto ailorn. — i i : Mi j perciò — M noi  doviamo a dire, m noi doviamo diro — i2: m alchuno oxordio — 13-15: M-m no comin-  ciare ~ M' 1 cominciare do quella legge - M-m o a ([uolla ragione — 16: M' la (jualo  sia — 18: M' ben faro — 19: M-m il docto, M' in (juesto caso — 25: M' mostrato (|ualo  causa e 7 (juando sia (ma L ([uando sia) — 26: M' la quale e   (Cioè «quando cominciamo a parlare». L'accordo di Jlf e JVf ' ronde sicuro  a dire, e con questo si escludo la lezione, buona in apparenza, di m {doviamo dire)  come evidente accomodamento di M.   oscura all' uditore a intendere noi dovemo usare quella  parte de exoi'dio la quale è appellata principio, et in  quello dovemo noi si dire che 11' uditore sia docile, cioè  ch'elli intenda e ch'elli senta la natura del fatto, in que-  5. sto modo: che noi diremo in poche parole sommatamente  la sustanzia del fatto dell' una parte e dell' altra. Et poi  che noi vedremo che U' uditore sia apparecchiato in via  d' intendere (1) il fatto, noi andremo innanzi a dire la nostra  ragione sì come si conviene al fatto.   10. Le ragioni delle cose.   93. Et perciò che infìn ad ora noi avemo detto che ssi con-  viene fare nell' exordio, oimai rimane a dimostrare per quali ra-  gioni ciascuna cosa si possa fare.   Sponito7-e.   Infino a questo luogo à insegnato Tullio tutto ciò che   ssi conviene dire o fare nello exordio; e perciò ch'elli àe  detto in quale exordio ed in qual causa ne conviene usare  parole per acquistare benivolenza, sì vuole elli da qui in-  nanzi mostrare le ragioni come si puote ciò fare ; e questo   20. insegnamento fa bene di sapere.   De' quattro luoghi della temperanza.   94. Benivolenza s' acquista di quatro luogora : dalla nostra  persona, da quella de' nostri adversarii, da quella dell! giudici e  dalla causa. Lo sponitore. In questa parte insegna CICERONE acquistare benivo-  lenza, e perciò ch'ella non si puote avere se non per quello  che ss' apartiene alle persone et al fatto, sì dice che quattro  luogora sono dalle quali muove benivolenza. Il primo luogp     i: if-»» om. all'uditore a intendere — 2.M^As lexordio — 4: Af' chela intenda et senta -  5: m dopo diremo r(pe(e in ([uesto modo — 6:m la natura — om. Et — 7-8: 3f' apparecchiato  intendere, m-L appareccliiato a intendere — 12: m a mostrare — 15: M-m In  ipiosto luogo — om. tutto - 17: M-m 7 di qual causa, M' iu quale causa, i e in quale  causa — M-m luoghi, della nostra p. — 27-28: M' da quello... alla persona   (1) L' espressione certamente è ridondante {in via sembra quasi una variante  di apparecchiato), e perciò quasi tutti i testi l' hanno ridotta alla forma pili sem-  plice e comune. Il segno 7 di M' deriva da una errata lettura di a, che anche  in quel codice ha una forma simile alla nota tironiana.    si è la nostra persona e di coloro per cui noi dicemo. Il  secondo luogo si è la persona de' nostri adversarii e di  coloro contra cui noi dicemo. Il terzo luogo si è la persona  de' giudici, cioè la persona (l) di coloro davanti da cui noi  5. dicemo. Il quarto luogo si è la causa e '1 fatto e '1 conve-  nente sopra '1 quale noi dicemo. E di ciascuno di questi  dicerà il conto ordinatamente e sofficientemente.   Tallio sopra lo lìvolago.  Dalla nostra persona se noi dicemo sanza superbia de'  10. nostri fatti e de' nostri officii; e se noi ne leviamo le colpe che  nne sono apposte e le disoneste sospeccioni; e se noi contiamo i  mali che nne sono advenuti et li 'ncrescimenti che nne sono pre-  senti; e se noi usiamo preghiera o scongiuramento umile et inclino.   Sponitore.    1. Conquistare benivolenza dalla nostra persona si è   dicere della persona nostra, o di coloro per cui noi dicemo,  quelle pertenenze perle quali l' uditore sia benivolo verso  noi. Et sappie che certe cose s' apartengono alle persone  e certe alla causa; e di queste pertinenze tratterà il conto   20. sofficientemente, e fie molto bella et utile materia ad impren-  dere. Et qui pone Tullio quattro modi d'acquistare benivo-  lenza dalla nostra persona. 2. Il i)rimo modo si è se noi di-  cemo sanza soperbia, dolcemente e cortesemente, de' no-  stri fatti e de' nostri officii. Et intendi (2) che dice « fatti »   25 quelli che noi facemo non per distretta di leggo o per  forza, ma per movimento di natura. Et così dicendo Dido     1 : m Olii, si — 2: M-m om. luogo — m ohi. si — 5 : m om. si — J : M-in om. la jiersoiia — Afiia  coloro — m davanti a chui, il/' davanti cui — 5: M^ il facto — m om. ól convonento — 6-7 :  M' om. di questi — dioera lautore — m om. e soBìcientemento — 9-10: M-m Alla nostra p. —  di nostri faoti — Ai' lo nostre colpo — 12: il/' che sono presenti —  M' i scongiura-  mento — 16: M^ dola nostra persona 7 di coloro — 17: m aparlenentle — 20: m om.  suflicientementc — M-mom. materia — 22: m om. moiio — 2-i:M-m intende, L intendo —  25: m diciamo per distretta — 26: M-m dicendo didio   (1) Le parole la persona sono superflue, e perciò a prima vista si preferirebbe  la lozione di M-m; ma è molto più probabile l'omissione di parole inutili che la  loro aggiunta in Af'.   (2) Scrivo cosi per analogia col § 4; ma anche la lezione di Mm, intende,  potrebbe conservarsi come una forma di 2" persona dell' imperativo (per la desi-  nenza e non mancano esempii). d' Eneas acquistò la benivolenza degli uditori: « Io » dice  ella, « accolsi e ricevetti in sicura magione colui eh' era  cacciato iu periglio di mare, et quasi anzi eh' io udisse  il nome suo li diedi il mio reame ». Et cosi dice che ella  5. si mosse a pietade sopra Eneas quando elli fugia dalla  distruzione di Troia. 3. Et al ver dire noi avemo merzè  e pietade delle strane genti per natura, non per distretta.  Ma offici sono quelle cose le quali noi facemo per distretta,  non per movimento di natura. Onde dice Tullio che dell'uno   10. e dell'altro dovemo dire temperatamente sanza superbia.  4. Il secondo modo si è se noi ne leviamo da dosso a noi  et a' nostri le colpe e le disoneste sospeccioni che cci sono  messe et apposte sopra; et intendi che colpe sono appellati  que' peccati che sono apposti altrui apertamente davanti al  viso, sì come fue apposto a Boezio eh' elli avea composte  lettere del tradimento dello 'mperadore. Il quale pec-  cato removeo elli per una pertenenza di sua persona, cioè  per sapienza, dicendo cosi. Delle lettere composte falsamente che convien dire ? la froda delle quali sarebbe mani-   20. festamente paruta se noi fossimo essuti alla confessione  dell' accusatore ». 5. Le disoneste sospeccioni sono le colpe  eh' altre pensa in centra ad un altro, ma nolle pone davante  al viso, sì come molti pensavano che Boezio adorasse i do-  moni per desiderio d'avere le dignitadi; e questa sospeccione   25. si levò elli parlando alla Filosofìa, che disse: « Mentirò che  pensaro ch'io sozzasse la mia coscienza per sacrilegio (o per  parlamento de' mali spiriti). Ma tu, filosofìa, commessa in me  cacciavi del mio animo ogne desiderio delle mortali cose ».•  Et così parve che volesse dire: « Poi che in me avea sapien-   30. zìa, non era da credere che in me fosse così laido fallimento ».  Tutto altressì Elena, voglìendosi levare la sospeccione che  '1 suo marito avea dì lei, disse: «Elli che ssi fida in me  della vita, dubita per la mia biltade; ma cui assicura pro-  dezza non dovrebbe impaurire l'altrui bellezza ». 6. Il terzo     1 : M' deluditore — 2: S m sicuro porto — 4: M' il suo nomo — Mìi dica — m il roame  mio — 5: A/' dela — 7: m M' 7 non — 0: m L ^ non por m. — 13-14: m ci sono aposto  (om. sopra) — M' appellate.... apjioste — 16: M \e lectoro — 17: M' elgli rimovca — ciò  fu — 18: M' falsamente composte — 20-21 : M-m jiartita ....stati.... dellaccusato —  22: m centra un altro — ^f' appone — 25: m parlando olii — 25-27: M-m Mentita chi  solcasse — om. per sacrilegio.... spiriti — 28: cacciavi (il latino ha pellebas) è solo in L;  M-m chaccia, Jf' cacciava con un i aggiunto tra v e a, s caccia via — 29: M-m paro —  31 : m schusare 7 levare — 33: m della biltade mia   modo è se noi contiamo i mali elie sono advenuti e li 'ncre-  scimenti che sono presenti. Così Boezio, contando ciò ch'ave-  nuto era, acquistò la benivolenza dell'uditore dicendo: « Per  guidardone della verace vertude sofferò pene di falso incol-  5. pamento ». Et Dido, dicendo i suoi mali dopo il dipartimento  d'Eneas, acquistò la benivolenza per la sua misa ventura, e  disse : « Io sono cacciata et abandono il mio paese e Ila casa  del mio marito e vo fuggendo i)er gravosi cammini in caccia  de' nemici». Altressì Julio Cesare, vedendosi in perillio di   10. guerra, contò i mali c'a llui poteano advenire, per confortare  i suoi a battaglia, e disse: «Ponete mente alle pene di Ce-  sare, guardate le catene e pensate che questa testa è presta  a' ferri e' membri a spezzamento». Altro modo è se  noi usiamo preghiera o scongiuramento umile et inclino,   15. cioè devotamente e con reverenza chiamare merzede con  grande umilitade. Et intendi che preghiera è appellata  sanza congiuramento. Verbigrazia : Pompeio, vegiendosi  alla pugna della mortai guerra di Cesare, confortando i  suoi di battaglia disse: «Io vi priego de' miei ultimi fatti   20. e delli anni della mia fine, perchè non mi convenga essere  servo in vecchiezza, il quale sono usato di segnoreggiare  in giovane etade » (0. Et queste pi'eghiere talfiata sono  aperte, sì come quelle di Pompeio, talfiata sono ascose, sì  come quelle di Dido in queste parole ch'ella mandò ad   25. Eneas: «Io » disse ella « non dico queste parole perch'io  ti creda potere muovere; ma poi ch'io ao perduto il buon     4 : M-m fossero peno — 5 : M-m Et dicio dicondo — 6-7: m dicendo — M-m chaccialo —  8: M el mio marito, m om. - 9: M Tullio Cosarn, m Tulio corr. in .Tulio — 12-13 : itf' epresso  — li membri — M 7 membri, m 7 i membri — La sprezzamento — 14: M-m 7 scongiura-  mento — Mi panclino, m e parlino, M'-L o incliino - 13: m om. cioè — chiamando —  19: m abattagla — 20: M delli anni ilelli amici lino, m delli anni /siche — 21: M servo  in vilezza la (piale, m servo 7 in vilczza il quale — 22-23: M-m om. sono aperte, m anlhe  il 2° talfiata — 24: M di diedi — 26: M' o perduto, m chio perduto   (l) Il testo di Lucano (Fars., VII, 380), da cui è tradotto questo esempio,  ha ultima fata deprecar, tutti i codici della Eettorica portano ultimi fatti. Non  credo che si possa pensare a uno sbaglio dei copisti, perchè un latinismo come  fati (che del resto qui non sarebbe traduzione esatta) manca di ogni probabilità  in quel tempo; sarà dunque da risalire a un'alterazione facilissima del latino,  ultima facta, che certo riusciva più intelligibile della frase poetica originale.  Quanto al servo in vecchiezza (che corrisponde a ne discam servire senex), se po-  tesse supporsi una forma vegliezza {eelUczza) si spiegherebbe meglio come sia nato  l'erroneo vilezza; ma è chiaro che la parola servo risvegliò l'idea di «condizione  vile, meschina».   pregio e la castitade del corpo e dell' animo, non è gran  cosa a perdere le parole e le cose vili ». 8. Ma scongiura-  mento è quando noi preghiamo alcuna persona per Dio o  per anima o per avere o per parenti o per altro modo di  5. scongiurare, sì come DIDONE fece ad Eneas: Io ti priego, dice ella, per tuo padre, per le lance e per le saette  de' tuoi fratelli e per li compagnoni che teco fuggirò,  per li dei o per l'altezza di Troia, etc.  Or à detto il  conto del primo luogo donde muove la BENEVOLENZA, cioè  10. della nostra persona e di coloro che sono a noi ; ornai  dirà il secondo luogo, cioè della persona delli adversarii  e di coloro contra cui noi dicemo. Dalla persona delli aversarìi se no! li mettemo inn odio  15. invidia o in dispetto.   Lo sponitore.   1. Acquistai'e benivolenza dalla persona de' nostri ad-  versarii si è dire delle loro persone quelle pertenenze per  le quali l' uditore sia a noi benivolo et contra 1' aversario  20. malivolo; et a cciò fare pone Tulio tre modi: Il primo  modo è dicere le pertenenze delle loro persone per le  quali siano inn odio dell'uditori; il secondo che siano in  loro invidia; il terzo che siano in loro dispetto; e di cia-  scuno di questi tre modi dirà il testo bene et interamente.   25. Tullio.   97. Inn odio saranno messi dicendo com' ellino anno fatta  alcuna cosa isnaturatamente o superbiamente o crudelmente o ma-  liziosamente.  M om. a — 711 lo chose vili 7 le i»arole — 4: M' o per parenti por avere — m oin.  rli scongiurare — 6-7 : M' per lo tuo padre 7 per le 1. 7 [jor le s. de tuoi f., per li compagniper saette di tuoi I"., m per le saette de tuoi parianti 7 per li compagni - 8-0 : M' om. etc. —  Et ora a detto il maestro — om. la — Ì0:m dalla nostra parte — YS: 3i' odindispregio —  19: M-m om. a noi M' deluditore.... in invidia. Et il ter^^o che sia — m loro in  invidia.... loro in dispetto — 26-27: M' comelgli anno alcuna cosa facta — vi 0»». isnatur.  e o maliziosamente     Noi potemo i nostri adversarii mettere ina odio del-  l' uditore se noi dicemo eh' elli anno alcuna cosa fatta isna-  turalmeute, contra l'ordine di natura, si come mangiare  5. .calane umana et altre simili cose delle quali lo sponitore  si tace presentemente. O se noi dicemo eh' elli abian fatto  superbiamente, cioè non temendo né curando de' signori né  de' maggiori, avendoli per neente. O se noi dicemo ch'elli  abbiano fatto crudelmente, cioè non avendo pietà né mise-   10. ricordia de' suoi minori né di persone povere, inferme o mi-  sere. se noi dicemo ch'elli abbiano fatto maliziosamente,  cioè cosa falsa e rea, disleale, disusata e contra buono uso.  2. Et di tutto questo avemo exemplo nelle parole che BOEZIO  dice contra NERONE imperadore. Ben sapemo quante ruine fece ARDENDO ROMA, tagliando i parenti et uccidendo il  fratello e sparando la madre. Altressì fue malizioso fatto  il qual racconta Euripide di Medea, che sta scapigliata  tra' monimenti e ricogliea ossa di morti. 3. Omai à detto  lo sponitore sopra '1 testo di Tullio come noi potemo met-   20. tere il nostro adversario in odio et in malavoglienza del-  l' uditore. Da quinci innanzi dicerà come noi li potemo  mettere in loro invidia.   Tullio.  In invidia dicendo la loro forza, la potenza, le ricchezze,  2.5. il parentado e le pecunie, e la loro fiera maniera da non sofferire,  e come più si confidano in queste cose che nella loro causa.   Sponitore.   1. Noi potemo conducere i nostri adversarii in invidia  et in disdegno dell' uditore se noi contiamo la foi'za del     3-4: M' chaWi ahh'ia. {poi aggiunto no dalla stessa maria) — isnaluratamente contra online M' tace ora presentemente — m al ])rosonte — M-m 7 se noi dicemo che labian — 7-8: M  tenendo M^ 7 non venerando de sig,... 7 avendoli, m curando.... do maggiori — M-m 3/' che-  labbiano — 9-10: m misericordia.... di persone M' 7 misero — M-m Et se dicemo  cliollabbiano — 12: Af' cosa rea falsa et disleale 7 disusata contra b. u., m om. cosa — o  disleale 7 contro a b. u. — 13: M' exemplo avemo — lo : M' uccidendo i parenti, talgllaiido  il fratello — M-m i fratelli — 17 : S Euripide — M-m di medici — IS: M corresse moni-  menti in moUimenti — 20: m om. in odio et - Af' in malavoglienca — 21-22: M Da ipii -  3f' diceremo.... li potremo mettere loro in invidia — 24 : M-m om. In —26: M' si lidano —  28-29: Af' i nostri avorsari conducere ....degliuditori   Cfr. Magoini, La ReUorica italiana di B. L., pp. Bl-52.   corpo e dell' animo loro ad arme e senza arme, et la po-  tenza, cioè le dignitadi e le signorie, e le ricchezze, cioè  servi, ancille e posessioni, e '1 parentado, cioè schiatta,  lignaggio e parenti e seguito di genti, e le pecunie, cioè  5. denari, auro et argento, in cotal modo che noi diremo  come ' nostri adversarii usano queste cose malamente et  increscevolemente con male e con superbia, tanto che sof-  ferire non si puote. 2. Cosi disse Salustio a' Romani : « Ben  dico che Catenina è estratto d'alto lignaggio et à grande   IO. forza di cuore e di corpo, ma tutto suo podere usa in tra-  dimenti e distruzioni di terre e di genti ». Così disse Ca-  tenina centra ' Romani : « Appo loro sono li onori e le  potenzie, ma a nnoi anno lasciati i pericoli e le povertadi >.  3. Et ora è detto della invidia contra i nostri adversarii;  sì dicerà il conto come noi li potemo mettere in dispetto.   Tullio.  In dispetto degli uditori saranno messi dicendo che siano  sanza arte, neghettosì, lenti, e clie studiano in cose disusate e sono  oziosi in iuxuria.   20. Sponitore.   I. Noi potemo mettere i nostri adversarii in dispetto  degli uditori, cioè farli tenei'e a vile et a neente, se noi  diremo che sono uomini nescii sanza arte e sanza senno,  da neuno uopo e da neuna cosa; o che sono neghettosì,   25. che tuttora si stanno e dormono e non sì muovono se non  come per sonno; o diremo che sono lenti e tardi a tutte  cose; o diremo che studiano in cose che non sono da neuno  uso né d'alcuna utilitade; o diremo che sono oziosi in Iu-  xuria dando forza et opera in troppo mangiare, in nebriare,   30. in meretrici, in giuoco et in taverne. 2. Et ora à detto il     2-5: Af' om. e le signorie, poi continua: E le pecunie, ciò sono i danari e seni 7 an-  celle 7 possessioni. ¥A parentado... di genti, in cotal modo ecc. — 6: M' come i nostri aversarii —  11 : M^ in tradimento 7 distructione de terra 7 <le gente, m in tradimenti distructioni —  12: M-in a Romani — 13 : m lasciato — 14: M iì detta — L'i : M' o»i noi — in dispregio  (l. 17 idem) 17: M' om. degli uditori — 18: M disulate — 19: M octosi, m ottosi —  22: M' om. degli uditori — 23: 3f' siano, m sieno — M' sanza sonno? sanza arte di neuno  huopo - 24: m om. da neuno uopo e — 25 : m si stanno, dormono - 26: M' per sonno/  7 diceremo, L per sogno — 27-28 : m alclumo uso — M ' 7 dicoremo — 29-30: M' de troppo  mangiare .T ebriare. in puttane — m 7 in bere — M in cliaverne M' a decto luditore come —  )?t om. Et     - 126 —   conto come noi potemo acqnistare la benivolienza dell'udi-  tore dalla persona de' nostri adversarii mettendoli inn odio  et in invidia et in dispetto, et à insegnato come si puote  ciò fare. Ornai tornerà alla materia per dire come s' acqui-  5. sta benivolenzia dalla persona dell' uditore, e questo è il  terzo luogo.   La benivolenza dell'uditore.   lOO. Dalla persona dell'uditori s'acquista benivolenza dicendo  che tutte cose sono usati di fare fortemente e saviamente e man-  10. suetamente, e dicendo quanto sia di coloro onesta credenza e quanto  sia attesa la sentenza e l'autoritade loro.   Lo sponitore, (i) '   1. Noi potemo acquistare la benivolenza delli uditori  dicendo le buone pertenenze delle loro persone e lodando   15. le loro opere per fortezza e per franchezza e per prodezza,  per senno e per mansuetudine, cioè per misurata umilitade,  é dicendo come la gente crede di loro tutto bene et one-  stade, e come la gente aspetta la loro sentenza sopra que-  sto fatto, credendo fermamente che fie si giusta e di tanta   20. autoritade che in perpetuo si debbia così oservare nei si-  mili convenenti. Di forte fatto Tulio lodò Cesare dicendo:  « Tu ài domate le genti barbare e vinte molte terre e sot-  toposti ricchi paesi per tua fortezza». 3. Di senno il lodò  e' medesimo parlando di Marco Marcello: «Tu nell'ira,   25. la quale è molto nemica di consellio, ti ritenesti a consel-  lio ». Di mansueto fatto il lodò Tulio dicendo: « Tu nella  vittoria, la quale naturalmente adduce superbia, ritenesti  mansuetudine ». 5. D' onesta credenza il lodò Tallio in     2-3: M' in odio deluditore, M innodio 7 invidia, m in odio, in invidia — M-m om. si —  8: Jf' m delludilore {ma il testo auditorum) ~ 9: M' sono usi — M-m 7 suavomento  {m nm. 7) 10 : i mss., ambedue le volte, quando — M' di loro — li: M-m intesa — 13: M-m  om. delli uditori — M^ deluditore — 14: M' dicendo che buone  M-m om. e per fran-  chezza — M' 7 per senno — 17: m M' om. e — 19: Jtf' credendo che la loro sententia  sia si giusta — m che sia — SO: M-m ne in simili, M'-L ne simili — 23-84: m e lodo,  M' il lodano 7 medesimo parlano — m marche metcllo M-m om. molto — Af tu  ritenesti a consellio, m tu ritenesti consiglio — 26: M ilio Tullio tu ecc., m di mansueto  fatto /7 nella vittoria — 27 : M adato, m adato, L odduce — 28: m om. credenza il lodò  Tullio   (1) In tutti 1 codici l'interpunzione di questo passo è variamente errata, né  metterebbe conto darne notizia.    questo modo: Cesare volle alcuna fiata male a Tullio, ma  tutta volta lo ritenne in sua corte; e non pertanto Tullio CICERONE era sì turbato in sé medesimo che non potea intendere a  rettorica si come solea, insin a tanto che GIULIO CESARE non li  5. rendeo sua grazia. Et in ciò disse Tullio. Tu ài renduto  a me et alla mia primiera vita l’usanza che tolta m' era,  ma in tutto ciò m'avevi lasciata alcuna insegna per bene  sperare »; e questo dicea perchè l'avea ritenuto in corte,  sicché tuttora avea buona credenza. 6. D' attendere la sua   10. buona sentenza lodò Tullio Cesare parlando di Marco Mar-  cello: «La sentenza eh' é ora attesa da te sopra questo con-  venente non tocca pure ad una cosa, ma à ad convenire (D  a tutte le somiglianti, perciò che quello che voi giudicarete  di lui atterranno tutti li altri per loro ». 7. Or é detto come   15. s'acquista benivolenzia dalle persone delli uditori; sì dirà  Tullio coni' ella s'acquista dalle cose.   La benivolenza delle cose.  Da esse cose se noi per lode innalzeremo la nostra causa,  per dispetto abasseretno quella delii adversarii.   20. Sponitore.   1. Noi potemo avere la benivolenza dell'uditori da esse  cose, cioè da quelle sopra le quali sono le dicerie, dicendo  le pertenenze di quelle cose in loda della nostra parte et  in dispetto et in abassamento dell' altra; sì come disse  25. Pompeio confortando la sua gente alla guerra di Cesare :  « La nostra causa piena di diritto e di giustizia, perciò  eh' ella è migliore che quella de' nemici, ne dà ferma spe-     4 : M' om. non — 6: M-m la causa dm t. — i a me la mia primiera vila e liisanza —  7: tutti, eccetto L, m'avea — M-m la sua insegna — 8 : M' 7 in questo (?«re i et ((uesto) —  9: M' buona speranna — 10: M-m lodo Cesare di Tullio - IS: M-m ma ad {m a) con-  venire, M-L ma dee convenire - 14: Mt per lui — i5: 3f' dele persone — i8:M-mom.  so — L sar|uista bonivoglienza se noi ecc. (ma nel latino manca) —19: M' m 7 per disp. —  21 : M' deluditofo, m delli uditori — 24 : m nm. in dispetto — M-m om. idi — 25: M confer-  mando la sua gente — 26: m M'-L e piena — Lo pero chella — 27 : m forma  speranza   (1) Aggiungo un' a, che nella scrittura del codice può considerarsi fusa (come  avviene nella pronunzia) con quella precedente di ma con quella seguente di ad.  Bel resto basterebbe anche « convenire, quasi come un futuro (« converrà »)  scomposto nei suoi elementi.     - 128 —   ranza d'avere Dio in nostro adiuto(i)». 2, Et ornai à divisato  il conto le quattro luogora delle quali si coglie et acquista  la benivoglienza, molto apertamente et a compimento; sì  ritornerà a dire come noi potemo fare l'uditore intento. Di fare V uditore intento.   102. Intenti li faremo dimostrando che in ciò che noi diremo  siano cose grandi o nuove o non credevoli, o che quelle cose toc-  cano a tutti a coloro che 11' odono o ad alquanti uomini illustri,  ai dei immortali, a grandissimo stato del comune, o se noi prof-  10. terremo di contare brevemente la nostra causa, o se noi propor-  remo la giudicazione, o le giudicazioni se sono piusori. Avendo Tullio dato intero insegnamento d'acquistare la benivolenza di quelle persone davante cui noi   15. proponemo le nostre parole, sì che l' animo s' adirizzi  et invìi in piacere di noi e della nostra causa e che siano  contrarii e malevoglienti a'nostri adversarìi, sì vuole Tullio  medesimo in questa parte del suo testo insegnare come noi  I)otemo del nostro exordio, cioè nel prologo e nel cominciamento del nostro dire, fare intenti coloro che noi odono,  sì che vogliano achetare i loro animi e stare a udire la  nostra diceria; e di questo potemo noi fare in molti modi  de' quali sono specificati nel testo dinanti, et in altri simili  casi. 2. Et posso ben dire manifestamente che ciascuna per-   25. sona sarà intenta e starà ad intendere se io nel mio comin-  1: m nm. Et — 3 : 3f' nm. la — hi odi. molto — 4: m alento — 8-9: A/' o aliquanlì....  o ali iilii imm. o a — M |)iQrRremo, vi protreremo {lat. pollicebimur) — iO: M-m owi. bre-  vemente — VI proiroromo la giuil. — i3 •M-m Quamlo Tullio a dato — 14: — J/tlavento —  — 7/1 (lavante a cimi — 13-16: 3/' loro siiivii 7 dlrirvi — 17: vi malagevoli — 19: M'  nel nostro exorilio — vi nm. nel coniiiiciamento — 21 : 3f' si che noi vogliamo — 32-23:  3f ' Et questo.... i (jua'.i.... davanti — vi om. el — 25: M-m sono noi mio com.   (1) Cfr. Lucano, Phars., VII, 349: " Causa iubet melior superos sperare secun-  dos „. Solo la lezione di M corrisponde anche per la forma sintattica.   (2) Si rimano alquanto in dubbio sulla lezione da preferire, perchè tra un Avendo  e un Quando la differenza grafica ò lieve, data la somiglianza di una forma di A  con Q. Ma il gerundio Avendo, con una costruzione meno comune, più difficilmente  può esser dovuto a un copista; d'altra parte il quando in senso di " dopo che „  non è dell'uso di Brunetto, clie adopra continuamente la formula " Poi che Tullio  ha detto „ "ha insegnato ,, (S'intende clie l'inserzione di a davanti a dato  diveniva necessaria leggendo Quando).  -ciamento dico eli' io voglia trattare di cose grandi e d'alta  materia, sì come fece il buono autore recitando la storia  d'Alexandro, che disse nel suo cominciamento : « Io diviserò  e conterò così alto convenente come di colui che conquistò   ó. il mondo tutto e miselo in sua signoria ». 3. Altressì fie  inteso s' io dico eh' io voglia trattare di cose nuove e con-  tare novelle e dire eh' è avenuto o puote advenire per le  novitadi che fatte sono, sì come disse Catellina : « Poi che  Ila forza del comune è divenuta alle mani della minuta   10. gente et in podere del populo grasso, noi nobili, noi (i)  potenti a cui si convengono li onori, siemo divenuti vile  populo sanza onore e sanza grazia e sanza autoritade ».  4. Altressì fie intento s' io dico eh' io voglia trattare di  cose non credevoli, sì come '1 santo che disse : « Il mio   15. dire sarà della benedetta donna la quale ingenerò e par-  turio figliuolo essendo tuttavolta intera vergine davanti  e poi »; la quale è cosa non credevole, i^erciò che pare es-  sere centra natura. Et si come diceano i Greci: « Non era  cosa da credere che Paris avesse tanto folle ardimento che   20. venisse 'n essa terra (2) a rapire Elena ». 5. Altressì fie intento  s'io dico che '1 convenente sopra '1 quale dee essere il mio  parlamento a tutti tocca od a coloro che 11' odono, sì come  disse Gate parlando della congiurazione di Catellina: « Con-  giurato anno i nobilissimi cittadini incendere e distruggere     1 : M traclai-e cose, m cliio voglia di trattare chosa grande — 2 : M actoro, m attor.j —  4-5: M' recontcro.... conquise.... 7 mise — 5-6: M' fia inlento sic dica.... 7 contrario no-  velle - 7: M' 7 puote — 9: M storca — m e venuta.... gente minuta — 10: m M'-L non  potenti — iy : J>f' noi a cui — 13: M Altre si — 14-15: M'-L sicome disse il santo  che disse - i II mio dotto — 16: M' partorie il figluplo — M^ -j di. poi — M-m om.  la quale.... natura — 19: M-m oni. folle — m om. che venisse — SO: M nessa terra, m in  essa terra, M'-L nela nostra terra — M arape — 22: M' tocclia a tutti coloro -- 24: M'  anno nob. citt. dincendore   (1) Nonostante l'accordo di tutti gli altri codici, mi attengo a M, la cui lezione  è confermata dal testo di Sallustio: " omnes, strenui, boni, nobiles atque igno-  biles „ ecc. Brunetto non traduce esattamente, ma vuol mettere in rilievo la  dignità delle persone, e perciò ripete il noi; forse questa parola in qualcuno dei  primi apografi fu scritta no (no') e quindi scambiata colla negazione: non potenti.  Favoriva l'errore anche il tono insolito della frase " noi nobili, noi potenti ,.,  mentre le parole " in podere del populo grasso „ inducevano a considerare " non  potenti „ i nobili.   (•2) Intendo in essa terra (come scrive m), cioè " nella patria stessa „ , in ipsa  terra. Leggendo con 21f » nella nostra terra si avrebbe lo stesso senso in forma più  chiara; ma non saprei allora spiegare la variante di M-m. È possibile che, omesso  il nostra, un nella sia stato letto nessa, che a prima vista non dà senso ? Invece  nulla di più facile del caso inverso, e.ssendo l's di forma allungata cosi simile a l.— iso-  la patria nostra, e '1 lor capitano ne sta sopra capo. Adun-  que dovete compensare clie voi dovete sentenziare de' cru-  delissimi cittadini che sono presi dentro nella cittade » Altressì fie intento s' io dico clie Ila mia diceria tocca  5. ad alquanti uomini illustri, cioè uomini di grande pregio   e d'alta nominanza in traile genti sì come disse Pompeio  parlando della battaglia civile: « Sappiate che l'arme de' ne-  mici sono appostate per abbattere l'alto e glorioso sanato ». Altressì fie inteso s'io dico che Ile mie parole toccano a'dei,  10. si come fue detto di Catellina poi ch'elli ebbe conceputo   di fare cotanta iniquità: «Ma elli gridava ch'appena i dei di  sopra potrebbero ornai trarre il populo delle sue mani » (2). Altressì fie intento s' io dico nel principio di dire la mia  causa brevemente et in poche parole, sì come disse il poeta   15. per contare la storia di Troia: «Io dirò la somma, come  Elena fue rapita per solo inganno e come Troia per solo  inganno fue presa et abattuta ». 9. Altressì fie intento s'io  nel mio exordio propongo la giudicazione una o più, cioè  quella sopra che io voglio fondare il mio dire e fermerò   20. la mia provanza, sì come fece Orestes dicendo: « Io pro-  verò che giustamente uccisi la mia madre, imperciò che  dio Apollo il mi à comandato, perciò che uccise il mio  padre». IO. Et di tutti modi per fare l'uditore intento  potemo noi coUiere exempli in queste parole che disse Tullio a Cesare parlando per Marco Marcello: « Tanta     1 : M-m 7 lor — M' ne sopra capo — 2-3 : m dovete pensare, Mi pensale — M-m esmarn  {m esimare) de nobilissimi citi. — M' ohe sono dentro ala cittade (anche m dentro alla) M fue, m (la — 5-6: M' cioè de gr. — M-m 7 da tale nominanca — 7 : M-m che  latine —M-m sano, M' senato M' fia intonto O-ll: M-m poi chelll anno  conceputo di faie tanti iniipii mali gridava (m om. gridava) M apena ornai —3f' nel cominciamento — 14: Jf' o in jioclie parole M' om. Io dirò.... e  come Troia, M om. Troia [spazio bianco) m diclio 7 propongo nel mio exordio Mi sopra che infomliiro il mio dire e fondata — m sopralla quale —M-m che io  ajmllo il mio comandato, 3f' chol dio Appello lo ma com. (/.. lo mavea), 7 perciò cliella m atento M' exemiilo M-m om. a — M' parlando a lui   Questo periodo è d'incerta lezione, male varianti registrate in nota sono  palesi accomodamenti, specialmente il pensate di Jtf ' per evitare la ripetizione  di dovete; co.si esmare esimare può esser nato da una sigla di sentenziare (0 si  tratterà di fmare, fermare?). Glie sia poi da leggere crudelissimi cittadini ò con-  fermato, oltre che dal senso, dalla parola hostibiis che vi corrisponde i\el tosto  di Sallustio ; nobilissimi ò derivato dalla frase del periodo precedente. La lezione di M., che è tutta accettabile, dà ragione degli errori di Mm:  il primo elli parve plurale, e quindi si fece elli anno; il ma unito con Mi divenne  mali e portò con sé altri cambiamenti. Ma non giurerei che tutto sia genuino"  mansuetudine e cosi inaudita e non usata pietade e cosi  incredebile e quasi divina sapienzia in nessuno modo mi  posso io(l) tacere nò sofferire ch'io non dica». Et poi che  Tullio à pienamente insegnato come per le nostre parole  5. noi potemo fare intento l'uditore, si dirà come noi il po-  terne fare docile.   Come l'uditore sia docile.  Docili faremo li uditori se noi proporremo apertamente   e brevemente la somma della causa, cioè in che sia la contraversia. E certo quando tu il vuoti fare docile conviene che tu insieme lo   facci attento, in però che quelli è di grande guisa docile il quale  è intentissimamente apparecchiato d'udire. Quelle persone davanti cui io debbo parlare posso io fare docili, cioè intenditori, da tal fatto: se io nel mio exordio, alla 'ncviminciata della mia aringhiera, tocco un poco  d^l fatto sopra '1 quale io dicerò, cioè brevemente et aper-  tamente dicendo la somma della causa, cioè quel punto nel  quale è la forza della contenzione e della controversia. Cosi  fece Saiustio docile Tulio dicendo: « Con ciò sia cosa ch'io  in te non truovi modo né misura, brevemente risponderò, che  se tu ài presa alcuna volontade in mal dire, che tu la perda  in mal udire ». 2. Questo et altri molti exempli potrei io  mettere per fare l'uditore docile, si come buono intenditore puote vedere e sapere in ciò eh' è detto davanti. Et  perciò che '1 conto à trattato inn adietro di due maniere  exordii, cioè di principio e d'insinuazione, et àe divisato  M consuetudine, m sollicituiline, L inmansuetudine —L nm. lo e cosi. M man-  dila. M-m mi possono, M-L io posso — m om. Et. M' luditore intento, M nm.  l'uditore. 8: M' Docile l'aremo luditore  M-m proi)onemo — iO: Af' Et credo quando  tu vuoli. m nm. è attentissimamente. m davanti a chui  docile  cioè intenditori de tutto il facto  M-m sarò nel mio ex. M' incomincianza. M arrincliiera, M' aringheria — m cominciamo 7 toccho Af' om. dicendo nel  quale e la contentione. M' om. cosa (ma non L). m o misura. M' ti li-  spondo M' om. Io. m om. e sapere. M' doxordio  [È chiaro che posso io fu dall'archetipo di M-m trasformato in possono  perchè tutti i sostantivi che precedono parvero soggetti e non complementi og-  getti ; e vi dovè contribuire una falsa lettura (cfr. un caso simile in 128, 23, seno  per se io). La lezione di M'-L è solo un facile accomodamento.  ciò che ssi conviene fare e dire nel principio per fare  l'uditore benivolo, docile et intento, sì dirà lo 'nsegnamento  della INSINUAZIONE in questo modo. Oramai pare che sia a dire come si conviene   trattare le insinuazioni. INSINUAZIONE è da usare quando la qualitade  della causa è mirabile, cioè, sì come detto avemo inn adietro, quando  l'animo dell'uditore è contrario a noi. E questo adiviene massimamente per tre cagioni: o che nella causa è alcuna ladiezza, o coloro  10. e' anno detto davanti pare ch'abbiano alcuna cosa fatta credere al-  l'uditore, se in quel tempo si dà luogo alle parole, perciò che  quelli cui conviene udire sono già udendo fatigati; acciò che di  questa una cosa, non meno che per le due primiere, sovente s'of-  fende l'animo dell'uditore. In adietro è detto sofficientemente come noi potemo  acquistare la benivolenza dell" uditore e farlo docile et in-  tento in quella maniera de exordio la quale è appellata  principio. Oramai è convenevole d' insegnare queste mede-   20. sime cose nell'autra maniera de exordio la quale è appellata  « insinuatio ». 2. Et ben è detto qua indietro che « insinuatio »  è uno modo di dicere parole coverte e infinte in luogo di  prologo. Et perciò dice Tullio che questo tal prologo in-  daurato dovemo noi usare quando la nostra causa è laida   25. e disonesta inn alcuna guisa, la qual causa è appellata mi-  rabile, sì come pare in adietro là dove fue detto che sono  cinque qualità U) di cause, cioè onesta, mirabile, vile, du-  biosa et oscura. 3. E buonamente nelle quattro ne potemo  noi passare per principio; ma in questa una, cioè mirabile,     1 : M cioè — M' om. fare e — S : M-m om. s\ — 6: 3f ' della ìnsinualiono — 7: m ohi.  s'i — 8 • M-m 7 di questo diviene — iS: L Kt di questa — Iti: M-m a detto — 20: W  nella maniera — 2i : m Bono dotto — S3: M-m cai prologo (m prolago danrato), 3/' cotale  prolagoS6: M-m nm. in adiotro M modi ([ualità (hi qui è corroso, vin lo spazio  fa supporre lo slesso), M'-L qualitadi dolio cause  M' cioè nollamirabile   Conservo la parola qualità attestata da ambedue le tradizioni, tanto più  Clio anche prima Brunetto usa lo stesso vocabolo. In M abbiamo modi qualità. Probabilmente si tratta di una sostituziono o variante, che venne  poi introdotta nel testo (a mono clie non si voglia supporre un modi o qualità). ne conviene usare INSINUAZIONE [IMPLICATURA – “He hasn’t been to prison yet” – “He has beautiful handwriting”] per sotrarre l’animo dell’uditore e tornare in piacere di lui ed in grazia quel che  pare essere in suo odio. Adunque ne conviene vedere in quanti e quali casi la nostra causa puote essere mirabile, e poi vedere come noi potemo contraparare a ciascuno. E  sono tre casi. Primo caso si è quando sie nella causa  alcuna ladiezza per cagione di mala persona o di mala cosa. Che al vero dire molto si turba l'animo dell'uditore contra  il reo uomo e per una malvagia cosa. Il secondo caso è quando il parlieri ch'à detto davanti à sie et in tal guisa proposta la sua causa, eh' è INTRATA NELL’ANIMO dell'uditore  e pare già che Ha creda sì come cosa vera; per la quale  cosa r uditore, poi che comincia a credere alle parole che  ir una parte propone et extima che Ila sua causa sia vera, apena si puote riducere a credere la causa dell'altra parte,  anzi sine strana et allunga. Il terzo caso è d'altra maniera che sovente aviene che quelle persone davanti cui noi dovemo proporre la nostra causa e dire i nostri convenenti anno lungamente udito e stati A INTENDERE ALTRI e' anno detto assai e molto, prima di noi, DONDE L’ANIMO dell' uditore è fatigato sì che non vuole né agrada lui  d'intendere le nostre parole; e questa è una cagione che  offende l'animo dell'uditore non meno che 11' altre due  Et perciò conviene a buon parliere mettere rimedi di parole incontra ciascuno caso contrario, secondo lo 'nsegnamento di Tulio. Della laidezza della causa. Se la laidezza della causa mette l'offensione, conviene mettere per colui da cui nasce l'offensione un altro uomo che sia amato, o per la cosa nella quale s'offende un'altra cosa che sia provata, o per la cosa uomo o per l'uomo cosa, sicché L'ANIMO dell'uditore si ritragga da quello che 'nnodia in quello ch'elli ama. Et infingerti di non difendere quello che pensano che tu voglie  difendere, e così, poi che l’uditore sie più allenito, entrare in difendere a poco a poco e dicere che quelle cose, le quali indegnano L’AVERSARII, a noi medesimi paiono non degne. Et poi che tu avrai  allenito colui che ode, dei dimostrare che quelle cose non pertiene  atte neente, e negare che tu non dirai alcuna cosa dell' aversarii, ne questo ne quello, sì eh' apertamente tu non danneggi coloro che sono amati, ma oscuramente facciendolo allunghi quanto puoi da  lloro la volontade dell'uditore; e proferere la sentenzia d'altri in  somiglianti cose, o altoritade che sia degna d'essere seguita; et  apresso dimostrare che presentemente si tratta simile cosa, o maggiore minore. In questa parte dice Tullio CICERONE che, SE l’uditore è turbato contra noi per cagione della causa nostra che sia o che paia laida per cagione di mala persona o di mala cosa, ALLORA DOVEMO NOI USARE INSINUAZIONE NELLE NOSTRE PAROLE in tal maniera che in luogo della persona contra cui pare CORUCCIATO L’ANIMO dell'uditore noi dovemo recare un'altra  persona amata e piacevole all'uditore, sì che per cagione  e per coverta della persona amata e buona noi appaghiamo L’ANIMO dell'uditore e ritraiallo del coruccio ch'avea contra la persona che lui semblava rea. Si come fece AIACE nella  causa della tendone che fue intra lui et ULISSE per l'arme  eh' erano state d'Achille. Et tutto fosse AIACE un valente uomo dell'arme, non era molto amato dalla gente né tenuto di buona maniera. Ma ULISSE, per lo grande senno che in lui regna, e molto amato. Onde AIACE, volendosi  contraparare, nel suo dicere ricorda com' elli era NATO DI TELAMONE, il quale altra fiata prese Troia al tempo del forte ERCOLE. E così mette la persona avanti amata e graziosa  in luogo di sé ed in suo aiuto, per piacerne alla gente e per avere buona causa. E quando la causa è laida per cagione di mala cosa, si dovemo noi recare NEL NOSTRO PARLAMENTO un’altra cosa buona e piacevole. Si come fa CATILLINA scusandosi della congiurazione che fa in ROMA, che mise una giusta cosa per coprire quella rea, dicendo. Elli è stata mia usanza di prendere ad atare li miseri  nelle loro cause. Brunetto Latini. Latini. Keywords: rettorica, le fonte della retorica di Latini: Cicerone e Publio Vegezio, insinuazione, parlari, parlatore, controversia, auditore, animo dell’auditore, modo, essempio di Roma antica, Giulio Cesare – rettorica oratoria togata – sacrilegio o furto --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Latini” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Laurino: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei longobardi – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Laurino). Filosofo italiano. Laurino, Salerno, Campania. Duca di Aquara e di Laurino, appartenente alla nobile famiglia napoletana degli Spinelli. Allievo di VICO, si forma al Clementino a Roma e poi all'Accademia di Loreto. Ritornato a Napoli, divenne amico di vari illuministi napoletani, quali FILANGIERI (si veda) e Galiani. Autore di vari saggi di stampo illuministico. Le “Riflessioni filosfiche” rappresenta un tentativo di metodo geometrico. Si oppone alle teorie di Broggia. Fa attivamente parte della massoneria napoletana, all'epoca diretta dal principe di Sansevero, Raimondo di Sangro. Cavalerie del Real Ordine di San Gennaro. A Napoli, fa ristrutturare il palazzo di famiglia, il palazzo Spinelli di Laurino, trasformandolo in una suggestiva realizzazione. Muore a Napoli e venne sepolto nella cappella di famiglia nella chiesa di Santa Caterina a Formiello. Altri saggi: “Degl’affetti degl’uomini”, Napoli, Muzio; “Della moneta” (Napoli); “Cronologia dei re di Napoli,” Napoli, Bisogni; “Del nobile”, Porsile; “Lettera nella quale si dimostra non esser nota di falsità, che nel diploma di fondazione della chiesa di Bagnara si ritrovi l'anno 1085 segnato coll'indizione sesta correndo l'ottava del computo volgare; Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   -- ria che forma la materia del presente saggio: E metodo col quale questa siè composto. I tutte le città e popoli dell'Italia ciascuno ha la sua particular forma di governo prima che sussestato vinto da’ ROMANI. Ed anche dopo ciò, molte delle città medesime, quantunque al popolo di ROMA veramente ubbedissero. Pure così fatti nomi, e tale forma aveano di domestica polizia, che libere in certo modo facevanle apparire. Ma essendo stata dalla legge giulia a ciascuna di quelle LA ROMANA CITTADINANZA conceduta che non da tutte senza con Trans 1 AN 1x IN line ill SAGGIO TAVOLA CRONOLOGICA compongono DI NAPOLI. Dalla venuta de LONGOBARDI in Italia fino che quelle terre sono da NORMANNI della Puglia conquistate. PROΟEMIO trasto è accettata, e la quale da Marco Aurelio ANTONINO Antonino Caracalla è all'intiero orbe romano distesa, col vanto di esser parte del capo, a Roma, ed a coloro, che la ressero, sono tutte senza alcuna dubitazione, anche nell'aspetto, sottoposte. [tem Civitati ante ferret CICERONE pro Bal CICERONE PRO BALBAM, Edit.Ve. bon. Edit.Venet. L. inorbeff. de Stat. hom. L., Roma. Sigon. de Antiquo Jur. Ital. Ad bomnib. Rutil. Numan. itinerar. In quo magna contention Heracliensium, Aloja Ins: DE’ PRINCIPI E PIÙ RAGUARDEVO LI UFFICIALI, che anno signoreggiato, e retto le PROVINCIE, ch’ora: Ι Mich. Fiaschino Inven. e C.I. REGNO DI, Strabon. Geograph. Edit. Parifienf. Parsin Civitatibus fæderisfui liberta e Neapolitanorum fuit, cum magna I LL ]. Transferita però la sede del  ROMANO IMPERATORE in Costantinopoli, varie BARBARE NAZIONI con più fortuna di quello, che aveano fattosotto LA ROMANA REPUBLICA, invadero l'Italia molte volte, e distrusfero. Radagasio Re de’ GOTI con MM armati, cagiona danni gravissimi all'Italia. Ma in Toscana da Stilicone resta con tutto il suo esercito vinto e sconfitto. Alarico ed Ataulfo re di que' medesimi BARBARI che ove Alarico dimora circa II anni, ed ove muore, avidamente sacchegiarono. Attila re degl’UNNI in così fatta maniera quella parte dell'Italia av'egliera entrato, devasta, che IL FLAGELLO DI DIO è nominato. Genserico re de’ vandali chiamato dall'Africa d’Eudossia moglie di Valentiniano III imperatore, per vendicarsi di Massimo, che avea costui ucciso, e lei ignara in prima dell'infame assassinamento, sposata, ed occupato d’Occidente l'Impero; viene in Italia, ne scorre molte provincie, DEVASTA LA NOSTRA CAMPANIA e molte città di essa avendo distrutte, in Cartagine carico di preda se ne ritorna. E finalmente Odoacre co’suoi Eruli, e Turcilingi, INVADE TUTTA L’ITALIA e Re de Goti, che nella PANNONIA, ove egli no dimora, aveano cominciato a tumultuare, gli concede l'Italia, acciocchè ne avesse Odoacre discacciato. Ovvero, come altri vogliono, lo stesso  TEODORICO senza la concessione dell'imperadore in vase quella provincia, ne discaccia Odoacre, che poscia uccise, e re se ne fa nominare -- Histor, Miscell. est cod. Ambrosiin. in Philostorg, hist. Ecclesiast. Ma Prosper. Aquitan. Chron.; Augut. De Civit. Dei, Marcellin. Chron. In Sirmond. Philostorg. hist. Eccl. In Vauclid. Chron. Idatius in Chron. Isidor. Chron. Goth. in rebo Got., Langobard. Jornand. de reb. Get. Agnel. Pontific. Raven. in S. Joan . Evagr. Schol. hist., Valef Ital. Murat, Cassiod. in Conf. Boet. Conf.] per essersi fermati poi nell'Occidente si dillero VESTRO-GOTI. A modo di locuste Roma II volte, ed una gran parte delle nostre Provincie -- Histor. Miscell. ex cod. Ambro. Olympiod. In Photii Biblioth. Jian, in Murat. Rer. Ital., Sigebert. Chrona Jornand. de reb.Goth. Histor. Miscell. ex cod. Ambros. Axon.Valesian. Sigebert, Procop. De bella Gotb. -- Re, e circa anni pacificamente la possiede. quista, se ne titola colle proprie forze da quella l'imperatore Zenone vedendo di non poterlo Teodorico. Perchè discacciare, evolendosi render benevolo bella parie del suo impero la con Regi non. -- Chron. Histor. Miscell. Paul, Disc, de Gest. Langob. ex cod. Ambrosian., i Reginou. Chron. Socrat. hist. Ecclesiasi., Jornand.de reb.Goth. de re- Anon. Cuspiniana Eusippiusin vita S. Severini. znor. success. Anon Valesian. rer. Ital. Munic. Marcellin. Chron. in Sirmond. L. de Tironib. C. Theodos. Z fimus Jornand. de reb. Goth. e Idat. Chron .in Du-chesn. de regnur, success., Prosper. Aquitan. Chron. Procop.de belio Goth. Marcellin. Coron. in Sirmonds. Casiodor. Chron. Edit. Spicil. Ravenn. histor.Ven., Isidor, Chron. Goth. Aimon. de Gest. Francor. Sozomen. histor. Ecclesiast. Sigebert. Chron.in an.Vales. la to Marii Aventic. Chron. in Duchesne, Evagr. Scholast. hist. Eccl. Histor. Miscell. ex cod. Ambros. in Valef. Histor. Miscell. ex cod. Ambros. In rer. Sigebert. Chron. Prosper. Aquit. Chron, in Du-Chefne Marii Aventicenf. Chron.in Du-Chesne, pa I Anon. Cuspin. --. Ma dopo di avere e codesto principe, ed alcuni suoi successori in tal regno per molti anni signoreggiato; circa l'anno della salutifera divina incarnazione l'imperadore GIUSTINIANO delibera di toglierlo a codėsti barbari, col pretesto, che Teodato re di essi non avea vendicata la morte daia ad Amalasunta già loro Reina; perchè vi manda Belisario, che in breve tempo occupa conquistato. n cosi fatia espedizione furono in ajuto de' Greci i Longobardi nazione che nella Pannonia dimorava: i quali dopo , che fu l'Italia pacificata , ivi, e d in casa degli Amici più difordini commettevano, che contro gl'inimici farenon avrebbono potuto, perchè Narsete caricandoli di doni, contenti nel loro paese oltre a ciòavea discacciato dall'Italia i francesi, che sotto il lur Duca Bucelino tutta, o quasi tutta, presa, e devasiata l'aveano; perchè egli era rimastoin nome dell'Iinperadore, Supremo Governadore di quella Provincia , che avea all' Impero restituita: quando perque'nembi, che da'più vili, e fecciəsiluoghi alzandosi nelle Corri, oscurano gli astri più luminosi , e più chiari , ad istanza de’ Romani fu datal Governo da Giustino che è succeduto a Giustiniano Imperatore, rimosso: e dall'ingiuria unendo il disprezzo perchè egli era Eu. le se vissuto, non avrebbe potuto distrigare. Ed alla minaccia segue l'effetto, dappoichè ritiratosi in Napoli, stimola co’ [Melli Comorimurtom Marcellini Chronic. Aimon, de Gest. Francor.  Joan. Diac. Chron. Jornand. de regnor. Success. Landul. Sagac. additam. Ad Miscell. Procop. DE BELL. GOTH. De bell. Goth. Aimon. de Gestis Franccr. Agath. de bell. Goth. Gregor. Mag. Dial. Excerpt. ex Agat. hist. Aiuion. De Gesti Francor. Anast. Biblioth. Invita Joan. III.  Paul. Disco de Gest. Langobard.] eunuco l'imperatrice Sofia gli scrive che fosse andato in Costantinopoli a dispensar la lana alle fanciulle; alla qual cosa si dice, che Narfete sdegnato risposto avesse, che tal tela egli lo avrebbe ordita, ch’ella mentre avesse vis i  longobardi a conquistare l'Italia copiosa di tutte le naturali ricchezze, la sterile Pannonia abbandonando. Il quale in vito allegri que’ BARBARI sotto il loro re Albuino vennero abbracciando in Italia. Nello spazio di VII anni la maggior parte colla [ut citm puellis in Gynaceo. Gregor. Turon. histor. lanarum faceret pensa dividere. Anast. Biblioth. in Benedict. I. Landul. Sagac. additam. ad Miscellap. Aimon. de Gest. Francor.] delle armi ne conquistarono. Forza è fama Ed indi sì inanzi estesero leloro, che Autariuno de loro Re fino conquiste, che in Regio fusse pervenuto, e che avendo e dindi parte dell'Italia, éd iessa il rimanente dall'Eunuco Narsete, che a Belisario succede, dopo xvini, anni di asprissima guerra è interamente [Aimon. de Gest. Francorum] la Sicilia rimandolli. Avea Narsete vinto i Goti , ed eziandio gl’unni [Histor. Miscell. Aimon . de Gest. Francor. Isidor. Hispal. Marius Aventic. Aimon. de Gestis Franc. Procop. de bell. Gotb. Paul. Diac. Paul. Diac. Gregor. Turon. hist. Histor. Miscell. Paul. Diac. Joan. Diac. Chron. excerpt. Cron. per Fredeg. Scholaft. Landul. Sagac. additam. ad Miscell. pa hist. Miscell. Aimon.de Gest. Franc. Paul. Diac. Sigebertus, alii. Joan. Diaz. Chron.] ivi ivi tra le onde del mare una colonna ritrovato l'avesse collasta per cossa, ed avesse detto, fin qui saranno de’ Longobardi i confini. Delle terre occupate da Longobardi in Italia se ne forma un Regno il quale poscia ha alcuni re francesi, e dopo essi altri di diverse nazioni. È l'Italia in tempo de’ Re Longobardi in II Principati solamente divisa, in quello dei longobardi, ed in quello de Greci. Ma passato il Regno a Carlo Magno, surse in quella bella parte del mondo il principato di Benevento, da cui non molti anni dopo nacque quello di Salerno, e finalmente quello di Capua. Nel tempo de’ quali Principati per le guerre, che arsero fra di loro furono in trodotti nelle nostre parti i saraceni, i quali non però, comeche molte terre avessero conquistate, a varii capitani ubbedirono, almeno pressodi noi non mai e uno stato formarono. Ed i medesimi Principati di Benevento e di Salerno e di Capua durarono finchè sono da Normanni che nella Puglia sonsi stabiliti, interamente conquistati. Imperochè alcuni pellegrini di codesta nazione ritornando dopo da terra Santa ov'erano andati per la fede a guerreggiare, ajutarono il Principe di Salerno da’ saraceni assediato; e rimandati da costui a casa con grandissimi doni, allettarono a venire nelle nostre Parti i Paesani loro, i quali discesivi, ed ora al soldo del uno de’ nostri Principi, ora a quello dell'altro rimanendo, alla fine s’istabilirono nel luogo che diceasi in Octaba, e la Città d'Aversa ivi edificarono. Uno di loro, chiamato Rainolfo per capo, conte, o sia console stabilendovi. Impresero i Greci in quel tempo di liberare la Sicilia da saraceni che la tenea no per quasi II secoli sottoposta, ed è capo dell'esercito greco Maniaco, il quale chiama a’ suoi soldi una parte de Normanni, che sono in Aversa fermati, e costorovi andarono. Mi dopo qualche tempo disgustati della sua avarizia, abbandonandolo se ne ritornarono a casa. La qual cosa avendo conosciuto un certo Auduino a’ Gieci ribelle, propose a Rainulfo di mandare una parte della sua gente in Puglia a torla al Greco Imperatore, che vi signoreggiava ed a cosi fattari chiesta Rainulfo acconsentendo, un buon numero de’ suoi capitani e i mandovvi, i quali avendo di repente occupata Melfi città di quella provincia, ed indi altre terre; fissarono in Melfi la sede loro e diedero principi o ad un altro Principato, che continuoffi sotto i figliuoli di Tancredi, Conte d’Altavilla, Gentil-uomo anche egli Normanno -- i quali in varii tempi nelle no il suo Principato. Ma I Normanni, ch'eransi stabiliti in Melfiforto i Figliuoli di Tancredi, di ben altre conquiste saziarono la loro ambizione. Conquistarono tutte le terre, che i Greci aveano in quele nostre Parti. Tolsero a’Saraceni la Sicilia ed a’ longobardi il Principato di Benevento e di Salerno, e fino a'lo ro medesimi nazionali il Principato di Capua, siccome finalmente da una gran parte del ducato di Spoleti i Re d'Italia discacciarono e di tutti così fatti principati un regno essendosi formato in sul principio Regno di Sicilia del Ducato di Puglia in didi Sicilia, e l'altro di Napoli è nominato. Di tutte le cose qui sopra sommariamente esposte, la parte più intrigata ed oscura è quella che vien compresa dalla SECONDA VENUTA de’ Longobardi in ltalia, finchèle nostre Provincie da’ Normanni, stabiliti nella Puglia, inun solcor po forono ridotte .xii )1 e stre parti poi vennero . In tanto I Successori di Rainulfo aveano tolto a’Longobardi la Città di Capua, ed Puglia, e di Calabria, e del Principato di Capua fi diske, ed in di in II Regni diviso, uno fu detto di Trinacria alcuna volta ed pl , è detto, ed il quale per anni è de LONGOBARDI, o fia d'Italia discese Carlo Signoreggiato. Ma verso da re di quella nazione il re Desiderio ultimo re Longo in quella Provincia, ed avendo preso Magno, senza mutarne la natura il Regno bardo, trasfere nella sua persona sopradetto che Regno I va. [Paul. Diac.  Paul Diacon. Supplem. Longobar. varj Principati, i quali in così fatto spazio di tempo, siccome si è veduto, te la natural forma diesse fide e a gran fatica, e molto dubbio sa mente indovinare. De’ Principati che sursero nelle Provincie le quali ora compongono il Regno di Napoli, in tempi così dubbiosi ed oscuri, io ho deliberato di scrivere in una Tavola Cronologica i Principi , ed i più ragguardevoli Officiali, gl’anni de loro Regni ed ufficii, e delle loro morti, i loro matrimonii; e sommariamente i fatti, che quelli o sovrani od in alcuna maniera dipendenti o tributarii posso dimostrare ei diritti delle loro signorie anno stabilito. Ed oltre a 7 ciò dellistesi Principati una, per quanto io ho potuto esatta e particolare Geografia. E nella Tavola Cronologica io hor accolto tutto ciò che da' varii filosofi, o Sincroni, o quasi Sincroni, o molto antichi nella proposta materia si legge scritto, e narrato, come che discordie gli no siano tra loro ramente appariscano. Senza volerli corregere, ove avesli potuto, o concordare; di esaminare ne’ loro cetti il vero, o a me medesimo in altro tempo, o a d’altrui, che mi voglia in ciò precedere, riserbando. Contentandomi per orà di fornire solamente secondi semi di un’esatta e diffusa storia delle nostra li cose me Geografia non va ancora sotto il Torchio, in un foglio quella parte di essa ch'è necessaria alla presente opera, esponere, e dimostrare ho voluto e dalla Tavola dame scritta il titolo di SAGGIO ho apposto, conoscendo che in essa moltissime altre cose essere potrebbono a diritta ragione, o d’altri, o da me stesso pervenisse a' principi l'Impero in ciaseuno de' detti Principati; e quale fuffe la natura degl’ufficii, a cui in essi il reggimento di Terre cra affidato, presso il Popolo, o presso una parte di esso, o presso un solo uomo. Dice Cicerone. “Respublica res est populi.” Cum bene, ac juste geritur, sive ab uno rege. La seconda perchè suole essere degl’optimati: ARISTOCRAZIA. E l'ultima si chiama “MONARCHIA,” osia REGNO, il qual nome non perde quantunque eomi, due, o tre. Principi regnino in essa collegati, com'è avvenuta sovente tra Romani Imperadori e quasi sempre tra Principi Longobardi, de quali noi descriviamo la Serie; imperocchè una tal forma di stato essendo molto più distante dall'aristocrazia che dalla monarchia dalla più vicina piuttosto che dalla più lontana, dee prender esenza alcun fallo il suo nome. Ed oltre aciò quello ch'è stra-ordinario non dee caggionar nell’arti divisione regolare. Nè codesti pochi principi costituiscono un collegio legittimo, in cui ciascuno la sentenza della maggior parte dee seguitare. Ma ognuno riguardo alla sua amministrazione libero senza alcun fallo rimane. Scrive Ubero. Monarchiam esse Io note, e più oscure. Ed acciocchè il tutto con chiarezza si abbia ad intendere, dappoichè la promessa. Quali siano le varie forme di governo, ed i varj modi di acquistare i regni -- fursero in quella felice parte del mondo, ora si aggrandirono, ora si diminuiropo, ora dalle potenze maggiori furono interamente absorti, e quasi distrutti. Tal volta in essi si viddero eliggersi i principi, tal volta si viddero in essi succedere a’ padri i figliuoli nella signoria. Quei, che vi regnavano, furono soventi sia te uccisi, ed i privati il loro luogo occupando, trasmisero a’ loro Posteri l'iniquamente acquistato Impero. I BARBARI chiamati per difesa di alcuni sistabilirono per ruina di tutti -- e desolazione. In fine la faccia dell'Italia divenne in que tempi assai diversa da quello ch'è prima, e che è poi, e la sua Geografia non mai stabile osservossi, e costante. Nè di tutti così varii, e moltiplici accidenti vi fu chi la storia distintamente scrivesse. Ma da pochi e quali a frammenti quelli, e BARBARAMENTE sono esposti, o piuttosto accennati. E le opere de’ filosofi di quei tempi  da sin egli genti Copistifurono traseritte, che spesse fia , > ) 9 > no . in un'altra Edizione, che sene facesse, aggiunte. Ma prima di ogni altra cosa io ho reputato di far manifesto per quali ragioni di codeste forme di regimenti con voci greche. La prima si dice “DEMO-CRAZIA”, feve a paucis optimatibes, sive ab universo populo CICERONE, DE REPUBBLICA. Edit. Venoye. Se unius imperium solo satis vocabuli argumento constat. Qicod tamen ita præci Je captari nolim, rat quasi escumque plures in uno regno romini esostitere, toties Reipublicæ formam mutaris tatuamus. Neque enim recte existimaturus videtur qui in Romano imperia si quando plures OTTAVIANO fuere, PRINCIPATVM defiisse contenderet. Cum enim longius ila societas imperantium ab ARISTO-CRATIA, quam a monarchia distet, confentaneum est, ut ab ea specie, cui proxima est, appellatio petatur. Ita Lacedemoniis II Reges fuerunt – DIA-ARCHIA --, id que Regnum vocabatur nec non verum fuisset Regnum,fi potestas vere summa fuisset. Præter quod extra ordinarius, atque ut ita loquar, accidentalis ile plurium concursus plerumque habetur. Unde formas peculiares DYARCHIAS  out TRI-ARCHIAS in Artem introducere nec congrueret, neque expediret; tamet si fatendum monarchiæ vocabulum tunc elleminus commodum. Accedit, quod isti Condomini, ut hivelbis similes a Germanis Jurisconfultis appellantur, non constituant collegium, adeoque nec mus plurium sententiam sequi compellatur. Nam ut hocjuris fit, opus est. parto, Condomini autem Imperium Civitatis habent eodem jure, quo plures eandem remi fine tractatus Societatis pro indiviso tenent. Quo casu notum est; quemque liberum Juc partis arbitrium, nec reliqucrum consensui obnoxium, retinere la 28. ff. c o m m .divid. Altri poi vi aggiungono IV altre forti d’imperi, cioè i III sopra-detti, quando sono corrotii, ovvero ingiusti, ed il IV da’ due oda III già esposti insieme uniti. Ma CICERONE stesso con diritta ragione afferma che ne’corrotti imperi la repubblica non più esiste. Onde di ella non possono essere così fatti imperi. Cum vero in iustus est Rex, quem tyrannum voca:aut injufti optimates, quorum consensus factio est. Aut in justus ipse Populus cui nomen usitatum mullum reperio nisi ut etiam ipsum “tyrannum” appellem. Non jam vitiosa, rola, dappoiche essa nulla alla mia intenzione può giovare. Or, nella monarchia, o sia nel regno, abbia avuto egli il suo principio dalla FORZA, o dal volere de cittadini, o dall'utile, o dalla paura stimolari, abbiano questi la facoltà di stabilire solamente i regnanti, o di conferirle anche l'impero. Aliter, dice Ubero, ediam etro instituunt, qui imperium immediate a deo esse volunt. Hi negant, imperium ullo modo a voluntate populi perdere, nec a civibus quicquam juris ad imperantes manare nec adeo causam monarchie, aut ullius in civitate potestatis esse populum, quos inter Ziegle rus ad Grotium Ethidictum P. Apostoliano bisali quoties adduetum, quod imperium sit humanæ creationis, interpretantur, quod sit hominibus proprium, vel ratione cause instrumentalis, quia per homines exercetur utuntur argumentis e sacris, de potestate solvendi ligandi sacramenta administrandi, quce ministro ecclefice competit. Quem ad modum igirur populus eligen dopaftorem non confert potestate millam nec conferre potest, quia non habet eam ipse, nihil que agit, quamut personam eleectam potestatia deo immediati proficiscenti applicet. Sic etiam populu, quando eligit regem, non confert pote [Huber. de Jur. Civit. Gudling. De Jur. Nat. ac Gent.] omnino nulla respublica est, quoniam non est res populi sed cum tyrannus eam factiove capesat. Nec ipse populus iam opulus est, si sit in justus, quoniam nonest multitude juris consensu et utilitatis communione sociata. E Bodino egregiamente dimostra che il composto di alcuno o di tutte le suddette III forme d'impero non può una città, o sia republica che tale sia secondo il fine che si è proposto, cio è la pace ed il giusto, costituire. Onde Gudlingio ebbea dire. Talem rei publice speciem qui appellant “mixtam”, ferendi quadantenus sunt. Si mixtum idem fonet atque irregulare, della qual cosa io non faccio più pa. [Edit. Ven. C. edit. Francf. an. Hobbes de CICERONE fragm. DE REPUBLICA. Bodino de Republ.] fta Cive. Bodino de Republ. Hobbes de Civ. Huber. Edit. Francf.] statem imperandi, sed personam electam producit eamque abhibet exercitio potestatis illia deo immediate conferendse ego qualis, quanta in ordinee juse fe debeat. Necquo minus populus imperium retineat, si id expedire judicet, deus intercesit. Multo minus quo parte mali quam imperii reservaret, umquam prohibuit; quodde ministerio ecclesiæ institutoque matrimonii nullo moda affirmare licet. Nel regno dico, a sia nella monarchia i principi anno II sorti di diritti. L’una, che ne costituisce l'impero in mezzo a' Popoli loro. L’altra, che determina il modo di averlo -- o sia per la quale il principe regna, o l’impero pofliede che modo di acquistarlo si può anche direttamente chiamare. Altera cautio est, dice Grozio, aliud efede requærere aliud ese modo habendi, quod non in corporalibus tantum sed et in in corporalibus procedit (2) Ed. Ubero:Poft Species Monarchie fequuntur modi,quibus. Regna acquiruntur. Hi funt velordi narii, vel extra-ordinarii. Priores duo sunt electio, do successio Extra-ordinarii per inde duo, matrimonium O jus belli. De jure belli o matrimonio dié tum quod satis sit, in superioribus. De forte nihil quidem, sed nec rarisime i nu fu est, aut pro electione fungitur; ut olim apud Per fasin Dario H. Staspide. E Gudlingio. Id queri dignum, an per duret vita O anima civitatis una, etiam fi vel electio obtineat, vel successio. Et putem id contingentibus ad numerandum que unitatem nec efficient pror sus, nec tollunt. Scilicet electio et successio per Jonas tangit, non autem modum regnandi definit, nec illum impedit imperanti dominica in subjectos, tamquam in servos proprios potestas competit. Appellatur etiam Dominatus. La qual forma di Regno se giudico, che mai si possa ritrovare fra gl’uonini, salvo la teo-crazia, bene del suo popolo, e non già di lui, dee ordinare le cose. Scrive Bodino. Rex est, qui summa potestate constitutus naturæ legibus non minus obsequentem se præbet, quam sibi subditos, quorum libertatem, ac rerum domini ac eque ac fucetuctur, fore confilit. Subditorum libertatem, ac rerum dominationem. adjecimus -- ut Jus Soc., Gent. Huber. De Jur. Civit. Gudling. de Jur. Nat. ac. Gent. Guiling, pergo Nat. Ac Gent. c. vel collate. Nec sequitur, cedunt e populi elientis voluntate. Primeva succedere videntur. Riguardando la prima di codeile II sorti di diritti ne procedono III forme di reggimento, osiano: di monarchie una in cui il regnante de’ Corpi, Beni de’ Cittadini dispoticamente dispone, e che perciò Erile o, o lia “barbarica” vien nominata, scrivendo Ubero. Dominatus finitur, quod sit imperium, quo princeps sibi subjectis ut pater familias servis imperat, omnium quetam quod ad o civilium naturam maxime ab effectibus vesti mandammo, rerum moralium, cuius limites excedere non licet imperii formam, et tenorem Si Deuscertam, electionem persone fatemur ejus juris vim in fringerenon populis, præscripserit potest auferre jus ligandi e Solvendi suispa pole, quam cætus fidelium invito adimere potest. Sed hoc de magis uxor viro principatum domus storibus aut non legimus esse determinatum. Hatenus quidem de imperio civitatis a deo, cui omnis anima debeat bere aliquem ese ordinem imperandi, atque parendi ef ita ex cestise subiecto non tamen res quam corpora dominus existens, actiones publicas ad suam præcipue utilitatem dirigit. Ed Arrigo Koehlero: Imperium dominicum seu despoticum dicitur osia governo di dio. E l’altra delle suddette forme di monarchia è quella, nella quale il Principe pel [Grot. De Jur. bell. Ac pac. Huber. de Jur. Civit.] tum promover. Imo successi opere nec mul ab antecedente electione pendet. Unde qui luc o de' in quo nec sequitur, ita pergit Zieglerus, homines ab initio Sponte adanéti in s ocietatem civilem coierunt ex hoc ortum habet potestas civilis. Ergo talis potestas origine est humana. Sic enim per indeliceret argumentari. Adam et Evas ponte adducticcierunt in matrimonium. Ergo matrimonium institutione NON est divinum. Huber. De Jur. Civit. Heinr. Toebl. Jus Soc., ut Regis, ac Domini distinctionem certam adhiberemus. Ed essa dicesi civile – leggendosi  in Ubero. Nobis igitur plures monarchie species non sunt considerande, quam hee duce, Regnum, & Dominatus, five Imperium, ut ARISTOTELE DAL LIZIO loquitier, außacidendo, aut Baplaponèv. Regnum verum et plenum est, ubi princeps habet summam, liberam potestatem faciendi in civitate quod ere  a petita., qui ed appresso. Ex his tertia resultat differentia, a fine diverso ristabiliti, est utilitas regnantis. Quae nec ipsa tamen absque commodo subjectorum potest custodiri. Ex his relique differentie, inter dominum, &. Reczorem, servos ac cives, de quibus Claudius ad Meherdatem apud Tacitum [TACITO (si veda) Annal. quæque similia per se intelliguntur. Ed anche comune; Scrive Kochlero: Imperium civile est jus præscribendi ea, quæ ad commune civitatis bonum promovendum faciunt. Eiusmodi imperium civile dicitur commune ad amplificationem boni civitatis communis tendat. E la terza delle II sopra-dette forme composta che mista vien detta. Scrivendo Grozio. Quisibi singulos subjicere potest servitute personali, nihil mirum est f li i d o universos sive ili Civitas fuerunt, sive Civitatis pars, subjicere sibi potest subjectione sive mere civili, sive mere herili, suve MIXTA. Riguardando poi la seconda forte degl’esposti diritti sorgono III altre forme di nellaquale il principe regna per elezione del suo popolo forma dicesi ELETTIVA. La II, in cui il principe riceve l’impero per legge generale dello stesso suo popolo o per CONSUETUDINE da questo ricevuta, per trasmetterlo poi a colui, che dalla medesima legge, viene stabilito; sia egli il primogenito del preterito regnante, o calui, che glinacque nel regno. Sia egli il FIGLIUOLO LEGITTIMO del PRINCIPE; ossia, il NATURALE, maschio, della stessa sua famiglia o dell'altrui; favorisca finalmente quella legge ipiù vecchi della Prosapia , o la linea del primo nato, la qual forma di regno da tutti sichia ma SUCCESSIVA, ed a molti una specie della prima, cio è una diversa sorte d’ELEZIONE essere si crede. Dappoichè scrive Ubero: Plane, origine cujufqueci vitatis inspecta, nullum non regnum ex voluntate populiortum, fuit electivum. Sed diversitas est in Regno Civili ordinaliter utilitas subjectorum. Quamquam illa fine commodo imperantium obtineri non potest. In Dominatu originalis Scopus Impe una parte di esso ma pel tempo della sua vita solamente. Venga co tale ELEZIONE, fatta o espressamente, o per via di sorte, o di deputati. E codesta electionis et successionis deincep sorta est, cum quædam ex imperiis ita funt delata principibus, ut identidem fedes vacua per electionem repleretur. Quædam it aut successio secundum ordinem certum propinqui sanguinis ab uno in alium devolveretur, ex prescripto Legis. Hanc quidem vocant electionis speciem. Quo modo Althusius in Polit. qui negant, ullum dari imperiumjure familie hereditarium, sed totum a populo dependens, quod G' in Anglia multi opinantur. Si dicerent, successione mele nihil, quamele &tionis primevæ continuationem, nihil errarent. Atfijus Imperiinum quam a populis alienari velint, resreditad STATUM [STATO] disputationis supra aliquotie speractze. Qua per electionem, ipsum jus Imperii independenter alienari posse probavimus, ad vitam, vel etiam pro heredi bus. Quie tunc est successio, non amplius a primis eligentibus dependens, sed familie propria, per actum alienationis.  Gudlingio: Id quæri dignum, an perduret vita in anima civitatis una, etiam sive lelečžic obtineat, vel successio. Bodin. De Republ.  Grot. De jur. bell. ac. pac. Regni. La prima, 3 Huber. De jur. Civit., Koehler, de Jur. Soc. Gent.Spe-o sia di princ: de jur. Nat. ac Gent. Huber. de jur. Civit.  Gudlingio, communi videbitur, Salva tamen civium libertate, proprietate rerum cim.V. de Imp. Civ. cum Et  xvii et putem id contingentibus ad numerandunt, quæ unitatem nec efficiunt prorsus, nectollunt. Scilicet eleftin, o luccelio personas tangit non autem modum regnandi definit, nec illum impedit, nec multum promovet ; imo fuccessio pene ab suo. Antecessore , ed ha l’arbitrio di lasciarlo a chi più gli piaccia, come della sua eredità privata fare ei potrebbe. E così fatti Regni diconfi EREDITARII. In tutte codeste cinque forme di regni sono comprese, siccome sarebbe agevole il dimostrare, tutte le differenze, che de' supremi Imperi delle monarchie si sogliono fare. Ele quali Ubero per modo di quistioni propone: Junt qui ex alisquo querebus differentiam fu m m e potestatis colligunt. Primo enim sotto posti. Ma quando vennero in Italia vi fondarono il regno, che è detto de Longobardi, osia dell'ITALIA e dil quale, e sotto i re loro, e sotto i re francesi, edi altre nazioni finchè dura  è sempre ELETTIVO. Che EREDITARIO è il Principato di Benevento. Che fimile a lui è il Principato di Salerno. Che non diverso da essi in tal cosa il Principato di Capua esser si vidde. Ma da poichè il più delle volte difficil cosa è il determinare daloro principii espo fie forme de sopradetti principati. Quindi è, che ne conviene  sovente immitare i più saggi investigatori del vero nelle produzioni della natura : iquali non potendo vedere le occulte caggioni di essa, da’ continui, e costanti effetti loro, quando esterna violenza non li disturbi, sicuramente le deducono. Scrive Newton tra quelli filosofi senza alcunfallo il più famoso. Ideo que EFFECTUUM NATURALIUM EIUSDEM GENERIS E ÆDEM SUNT CAUSÆ. Uti respirationis in homine doo in bestia. Descensus Lapidum in Europa in qualitates corporum, que intendi o remitti o nequeunt, queque corporibus omnibres competunt , in quibus experimenta instituere Ticet nun, a sibi semper consona. Extensio corporum non nisi per sensus innotescit, nec in omnibus sentitur. Sed quia sensibilibus omnibus competit, de universis affirmatur. Corpora plura dura este experimur; Oritur autem durities totius a duritie par tium, et in de non horum tantum corporum quæ fentiuntur, sed aliorum etiam omnium particulas indivisas es se duras merito concludimus. Corpora omnia impe netrabilia es se non ratione; sed sensu colligimus. Que tractamus impenetrabilia; Lucis in igne culinari do in sole; reflexionis lucis in ter America ra in Planetis inveniuntur, in deo oncliedimus IMPENETRABILITATEM efe proprietatem corporum universorum. Corpora omniam obilia efle et viribus quibusdam, quas viresiner tiæ vocamus, perseverare inmotu, velquiete, ex hifce corporum visorum proprietatibus colligimus. Extenso, Durities, IMPENETRABILITAS, Mobilitas,& Vis [Gudling., de jur.Nat., ac Gent.; Huber. De jur. Civit. antecedente electione pendet; unde qui succedunt, e populi eligentis voluntatepri meva succedere videntur. E finalmente la terza nella quale il principe possiede il regno per volere del git [Or dichiarari nella maniera sopradetta l'esposte cose io dico che i lombardi sono inprima nella Pannonia ad un Regno EREDITARIO vel plu , pro qualitatibus corporum universorum habende sunt TES CORPORUM NONNISI. Nam QUALIT A PER EXPERIMENT AINNOTESCUNT OQUE GENERALES STATUENDÆ, IDE MENTIS GENERALITER SUNT QUOTQUOT CUMEXPERI. possunt QUADRANT. De quemimi non possunt auferri. Certe contra experimentorum tenorem fomnia non funt , nec a Nature analogia recedendum temere confingendo est, cum ea simplex esse soleato, qua forma Reipublice Civitas gubernetur, Monarchia tant plurium dispoticum, an Civile regnum Patrimorium imperio. Et in Monarchia , sit ne Populo volente an invitofit conftitutum . Eligantur, niale, anquasi fructuarium, an perpetua sit potestas. Non an successionegaudeant imperantes.Temporalis Imperii variarivi parvitate vel magnitudine civitatum jus jummi nullis quoque Species hominum judicia sæpe perstrin fum. Denique, nominum titulorumque interesse pu iner inertie totius, oritur ab extensione , duritie , impenetrabilitate viribus inertice partium: inde concludimus omnes omnium corporumpartes minimas extendi, et durasele, o impenetrabiles et mobiles viribus inertice præditas. E nella festa maniera scrive Ubero, che s'abbiada giudicare nelle cose morali, e civili. Sed ego ita existi morerum moralinm, civilium NATURAM maxime ab effectibus cefti mandam. Perchè quando non ne è conceduto di avere documento dell'istituzione delle repubbliche, osia de'Principati, di cui ragioniamo. Da quello, che si è veduto sempre accadere in essi, quando estraneecaggioni l'ordine naturale non abbiano sconvolto, l'istituzioni suddette possiamo dirittamente argomentare. Egli è vero non però, che non di leggieri gl' Imperi Ereditari da Successori con regola cosi fatta si possono distinguere, imperocchè io alcuna forte di regni successivi all' ultimo Regnante succedono i figliuoli, od i più stretti Congionti ; E lo stesso avvienene Regni Ereditarjquandocoluisenza Testamento, o senza nomina real. cuno Estraneo Erede lascia di vivere la vita. Più folto bujo quellume fidee prendere, che si può, comechè picciolo, ed incerto egli e. Il Regno de’ Longobardi fu prima Successivo, a Ereditario, ed che, usciti dalla Scandinavia, provincia detta VAGINA GENTIUM, abitarono di qua dal Danubio ed I quali WINILI erano chiamati furono poscia detti LOMBARDI, o dalle finte o dalle vere LUNGHE loro BARBE, ovvero , secondo scrive Guntero, che altri affermino da’ popoli della Sassonia detti Bardi. Furono costoro inprimada Duchi eposcia da Refignoreggiati; ed il regno loro finchè rimasero nel loro paese, e sempre ereditario, ovvero successivo. Newton, Philus. Natur.princ.Ma Gregor. Turon. Excerp. Chron. ex Reg Fredeg. Schol. hist. Miscell. Paul. Diac. de Gefie Langob.. Gunt.  mobilitate, 9 appreso elettivo non potendosi che LA NATURALE INCHINAZIONE DEL SANGUE a figliuoli ed a Cogionti, gli Estran gli abbia permesso diante porre. Scrivendo GROZIO: Succeflio ab intefiato, de qua agimus, nihil aliud est, quam tacitum testamentum ex voluntatis conjectura. Quintilianus pater in declamatione: Proximum locum a testamentis habent propinqui: et ita, si intestatus qui sacfine liberis decefferit. Non quoniam utique jufium fit, ad hos per venire bona de functorum. Sed quoniam reliéta et velutin medio posita nulli propius videntur contingere. Quod de bonis noviter quæsitis diximusex NATURALITER proximis deferri , idem locum habebit in bonis paternis avitisque, finecipsiaquibusvenerunt, nec eorum liberi extent ita ut gratie Philuf. edit. Ami. Paulo Diac. De Gest. Langob., istelod. Huber., de jur. Civ., Reginon. Chron. inprinc. de RegnoWi., Grot. De jur. bell. Ac pac. nilorum. Constant. Porphyrog. De Themat. Gregor.Turon.Excerp.Chron.exc Otto Frifingens. De Geft. Friderici Impe credere De Popoli Q. Agle  relatiólocum noninveniat. Ondeda Equali essettinonsi possono argomentare diverse cagioni. Ma nel. Grice: “This conceptual analysis of the noble is complicated – noble is the male who merits recognition from his community.” Nono duca di Laurino. Troiano Spinelli, duca di Aquara e di Laurino. Troiano Spinelli di Laurino. Spinelli di Laurino. Laurino. Keywords: implicatura, analisi geometrico della’economia razionale, Broggio, lombardia, lombarda, lunga barba.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Laurino” – The Swimming-Pool Library. Laurino.

 

Grice e Lazzarelli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- ermetico-esoterica – filosofia marchese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (San Severino Marche). Filosofo italiano. San Severino Marche, Marche. Grice: “I would call Lazzarelli a Pythagorean; most Italian philosophers are, as most English philosophers are Lockean!” -- Grice: “I would call Lazzarelli what Italians call ‘un filosofo ermetico.’ He certainly flouts all my desiderata for conversational clarity!” Il documento più importante per ricostruire la vita di L. è “Vita L.” scritta da Filippo L. e indirizzato all'umanista Colocci. L. e educato e vive a Campli, in Abruzzo, dove frequenta la biblioteca del Convento di San Bernardino da Siena, che egli cita nella sua opera i Fasti Christianae Religionis. Riceve da Sforza un premio per un poema sulla battaglia di San Flaviano. Ha contatti con i più importanti filosofi dell'epoca ed e seguace dell'ermetismo. Raccolse il Pimander di FICINO, l'Asclepio e tre trattati sull'ermetismo realizzando una versione che amplia il corpus testi ermetici. Autore di saggi a carattere ermetico come il “Crater Hermetis,” in sintonia con il sincretismo religioso dei suoi tempi e in anticipo sulla filosofia di PICO (si veda), con la fusione del cabalistico e il cristiano, ma anche di poemetti a carattere allegorico come l'”Inno a Prometeo” o didascalico-allegorici come il “Bombyx”. Altri saggi: “De apparatu Patavini hastiludii, Padova; “De gentilium deorum imaginibus”, dedicato a Borso d'Este e a Federico da Montefeltro; “Fasti christianae religionis” dedicato a Sisto IV,  Ferdinando I d'Aragona e Carlo VIII, Bertolini, Napoli; Epistola Enoch, Brini, in Testi umanistici sull'ermetico”, Roma; “Diffinitiones Asclepii”;  De bombyce, Lancellotti, Aesii; “Crater Hermetis edito in Pimander Mercurii Trismegisti liber de sapientia et potestate Dei; “Asclepius eiusdem Mercurii liber de voluntate divina”; “ Item Crater Hermetis a Lazarelo Septempedano” (Parigi); Vademecum ( Brini, in Testi umanistici sull'ermetico”, Roma); “Un carme per la morte della duchessa d'Atri, Biblioteca del Seminario di Padova; “Carmen bucolicum” (Biblioteca universitaria di Breslavia, Milich Collection); carmi di occasione -- tra cui i versi che gli valsero l'incoronazione) (Biblioteca nazionale di Napoli); epigrammi sullo Pseudo Dionigi l'Areopagita. Il testo dell'opera può essere letto in M. Meloni ,"Lodovico Lazzarelli umanista settempedano e il “De Gentilium deorum imaginibus”, in Studia picena, pubblicato in appendice a C. Vasoli, Temi e fonti della tradizione ermetica in S. Champier, in Umanesimo e esoterismo, l’esoterico E. Castelli, Padova, pG. Roellenbleck, Opusculum de Bombyce, anche in edizione moderna integrale in C. Moreschini, Dall'"Asclepius" al "Crater Hermetis" -- studi sull'ermetismo latino tardo-antico e rinascimentale, Pisa, Dizionario Biografico degli Italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Filosofia ermetica, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere, L..  rivista Campli Nostra Notizie. L. Nacque di nobile famiglia di Campli. La tradizionale data di nascita è stata recentemente corretta da Tenerelli sulla base di un'annotazione manoscritta che si legge nella biografia del L. composta dal fratello Filippo (meglio trascritta da Meloni) e della notizia d'archivio riferita da Aleandri, secondo cui il padre risulta già morto. L. stesso ama definirsi "Septempedanus", dal nome dell'antica colonia romana che sorgeva nei pressi dell'odierna San Severino Marche.  Alla morte del padre, L. si trasfere a Campli, presso Teramo, dove riceve la prima educazione e - stando alla citata biografia, non immune da toni agiografici, scritta subito dopo la morte - egli dimostra precocemente inclinazioni filosofiche, tanto da comporre un carme sulla battaglia di San Flaviano che gli merita le lodi di Sforza, signore di Pesaro, oltre che l'appellativo di "antiquorum poetarum simia".  L'episodio è il primo di una serie di testimonianze che permettono di ricostruire alcune tappe, peraltro dalla cronologia, della vita fitta di spostamenti condotta dal L. E dapprima ad Atri, con l'ufficio di istitutore del figlio del signore della città, Capuano, dove compose un carme esametrico per la morte della duchessa Balzo, indirizzato con un'epistola accompagnatoria al fratello Filippo, allora studente di diritto a Padova, che, nella sua biografia, la define "sententiis quidem refertam quam optimis ultra eius aetatem". E a Teramo presso Campano, "ut eiusdem Campani fratrem amoenioribus artibus inficeret simulque ut ipse viri familiaritate doctior fieret" (Lancellotti), dove si applica allo studio della filosofia. Il fratello riferisce di essere stato testimone a Teramo di una sua disputa con un tal Vitale ebreo, che nega la Trinità, e che sarebbe stato vinto anche grazie all'allegazione da parte del L. di autorità talmudiche. Di qui passa a Venezia, dove perfeziona lo studio del latino alla scuola di Merula. Il componimento esametrico De apparatu Patavini hastiludii, scritto in occasione dei giochi e nel quale i componenti dell'Accademia padovana dei giuristi sono comparati a personaggi mitici, rivela una buona dimestichezza con l'ambiente accademico patavino. Forse su suggerimento di Merula compose un Carmen bucolicum, costituito da X egloghe dedicate ai principali misteri della vita di Cristo: l'avvento preannunciato dai profeti, la natività della Vergine, l'incarnazione del Verbo, la nascita, la passione e la morte, la discesa agli inferi, la resurrezione, l'ascesa al cielo, la discesa dello Spirito Santo, l'assunzione di Maria Vergine. Al soggiorno in Veneto è inoltre legato il più importante riconoscimento pubblico dell'attività poetica del L., l'incoronazione per mano dell'imperatore Federico III, nella chiesa di S. Marco a Pordenone.  Secondo il racconto del fratello, L. si reca presso l'imperatore, di passaggio nel suo viaggio verso Roma, e, colta un'occasione propizia, gli avrebbe declamato un suo carme esametrico, accolto con plauso dall'imperatore che spontaneamente gli avrebbe conferito l'alloro poetico. L. stesso celebra poco più tardi l'evento nell'egloga Laurea.  Una serie di stampe, del tipo dei tarocchi del Mantegna, acquistata in una bottega di Venezia, fornì al L. lo stimolo per la composizione dei due libri De gentilium deorum imaginibus, poemetto di carattere mitologico-astrologico. I più rilevanti testimoni dell'opera sono due manoscritti della Biblioteca apostolica Vaticana (Urb. lat., 716, 717), entrambi di elegante fattura e corredati da una serie di sontuose miniature (che ricordano, appunto, la tipologia mantegnesca dei tarocchi). I due codici sono dedicati a Federico di Montefeltro, ma la dedica del ms. 716 è vergata in modo evidente su una dedica precedente abrasa, che Augusto Campana è riuscito a leggere parzialmente, quanto basta però per riconoscervi il nome di Borso d'Este. È così possibile datare il manufatto, e quindi l'ultimazione dell'opera, al lasso di tempo dall’assunzione del titolo ducale di Ferrara da parte di Borso alla sua morte. Anche all'interno del testo il nome di Borso è sistematicamente sostituito con quello di Federico e i passi relativi sono adattati al nuovo dedicatario. Il ms. è portatore di una seconda redazione, fin dall'inizio dedicata a Federico già insignito del titolo ducale di Urbino, quindi posteriore. Meloni ipotizza che si possa riconoscere in quest'ultimo il codice originariamente pervenuto a Urbino e che il ms. 716 vi sia giunto più tardi, non solo riconfezionato come si è detto, ma anche corredato di un ulteriore carme finale di congratulazioni per la guarigione di Federico da una grave malattia, attribuibile alle conseguenze dell'incidente occorso al duca nel novembre 1477.  L'originaria dedica a Borso d'Este è perfettamente congruente con la cultura astrologica praticata a Ferrara, ma non estranea neppure alla corte urbinate. L'opera amplifica la consuetudine di "appropriare", nel gioco praticato a corte, dei versi alle carte, secondo il modello dei tarocchi boiardeschi. Ma iL. intende riscattare dall'uso ludico le antiche immagini delle carte, diffuse anche presso il volgo, che "triumphos / appellat tactu commaculatque rudi / priscorum formas et simulachra deorum", per restituirle alla loro funzione astrologica e sapienziale di rivelare il vero "obliquis figuris", poiché "invenere suis corrispondentia rebus / signa olim vates et simulachra deum, / quae nunc pro nihilo reputant, gens indiga sensus, / sacrilegi et ludis asseruere suis.. Nel primo libro sono presentate e descritte, in successione, le sfere celesti, dalla Prima causa alla Luna, con l'aggiunta di un carme conclusivo dedicato alla Musica come prodotto delle sfere celesti. Dei pianeti, identificati con gli dei antichi, sono descritte le immagini, indicate le rispettive domus (i segni zodiacali), sinteticamente narrati i principali miti che hanno come protagonista il dio eponimo, fornite essenziali notizie astronomiche e illustrati gli influssi astrologici. Il secondo libro presenta le immagini della Poesia, di Apollo e delle nove Muse, di Pallade, Giunone, Nettuno, Plutone e, infine, della Vittoria (alla quale è dedicato un carme in versi eroici, mentre tutti gli altri sono in distici elegiaci). Nei due codici urbinati, come si è detto, la descrizione verbale trova riscontro e integrazione nel ricco apparato iconografico che, a sua volta, può aver ispirato elementi decorativi del palazzo ducale di Urbino.  La vicenda compositiva del poemetto probabilmente si compì durante il soggiorno di L. a Camerino, dove era stato chiamato da Giulio Cesare da Varano per attendere all'educazione del nipote Fabrizio. L. intraprese quindi la stesura di un nuovo ambizioso poema, i Fasti Christianae religionis, che portò a compimento in una prima redazione a Roma, dove si recò al seguito di Lorenzo Zane, patriarca di Antiochia, presso il quale approfondì gli studi astronomici e astrologici.  La composizione del poema è dai biografi (e, in primis, dal fratello) addotta a documento dell'ortodossia religiosa del L., contro i sospetti di esercitare arti magiche: "Quidam, livore atque invidia perfusi, et palam et in occulto Lodovicum criminari coeperunt, dicentes ipsum negromanticis magicisque artibus, sive praecantationibus, operari" (Vita Lodovici, p. 7). L. avrebbe, in effetti, compiuti alcuni esorcismi, vaticini e guarigioni, ma sempre attraverso il segno della Croce e la mediazione dell'assistenza divina.  Bertolini ha ricostruito la complessa vicenda compositiva dei Fasti sulla base delle testimonianze manoscritte superstiti (tra cui il ms. Vat. lat., autografo, nel quale si depositano varie fasi redazionali) e delle indicazioni cronologiche interne, che permettono di riconoscere tre redazioni: una prima, dedicata al pontefice Sisto IV, compiuta entro il 1480; una seconda dedicata al re di Napoli Ferdinando d'Aragona e a suo figlio Alfonso duca di Calabria, compiuta immediatamente dopo, entro il 1482; una terza più tarda, dedicata al re di Francia Carlo VIII, probabilmente abbandonata dopo il fallimento dell'impresa italiana del sovrano. Si tratta di un vasto poema in sedici libri, costruito secondo il modello del Fastiovidiani. Sono descritte e celebrate le ricorrenze liturgiche cristiane secondo la loro successione nel calendario; vengono inoltre introdotte osservazioni di carattere astronomico e saltuarie indicazioni relative alle attività agricole. I primi tre libri celebrano le feste mobili del calendario liturgico, i dodici successivi sono dedicati ai singoli mesi, cominciando da marzo, l'ultimo tratta del Giudizio finale.   Il poema ricevette onorata accoglienza da parte dell'ambiente romano, come dimostrano i due epigrammi del Platina e di Paolo Marsi riferiti dal fratello Filippo e pubblicati dal Lancellotti, nei quali il poeta è celebrato come una sorta di OVIDIO (si veda) reincarnato. Al Platina sono anche indirizzati un paio di epigrammi del L., il secondo dei quali in morte.  Secondo Foà, al 1481 daterebbe la conoscenza con Correggio, alla quale lo stesso L. attribuisce un ruolo fondamentale per la propria conversione alle dottrine ermetiche. L'episodio più noto relativo al rapporto fra i due e al quale il L. stesso fa emblematicamente riferimento risale però all'11 apr. 1484, domenica delle palme, sotto il pontificato di Sisto IV, quando assistette all'apparizione romana di Giovanni da Correggio che, a cavallo e coronato di spine, attraversò la città e, pur privo di qualsiasi istruzione grammaticale e retorica, predicò al popolo compiendo atti e riti simbolici e manifestando una sapienza teologica dovuta a una sorta di mistica ispirazione che gli valse anche incontri con il pontefice e vari prelati.  Gli studi di Kristeller hanno infatti dimostrato l'appartenenza al L. dell'Epistola Enoch de admiranda ac portendenti apparitione novi atque divini prophetae ad omne humanum genus, dove è diffusamente narrato il viaggio romano di Giovanni da Correggio seguito da una dichiarazione dell'autore di piena adesione e di conversione: "quod novae ac tantae rei sacramentale mysterium ego attonitis aspiciens oculis, mecumque ipse attente et ex totis animi viribus tunc revolvens, ne diuturnior obesset mora, relictis Parnasi collibus ceterisque omnibus, ad montem Syon primus eum sum protinus insequutus" (ed. Brini).  Con lo stesso pseudonimo di Enoch il L. firmò anche alcuni epigrammi dedicati agli scritti dello Pseudo Dionigi l'Areopagita e, soprattutto, le prefazioni ai testi contenuti nel ms. II.D.I.4 della Biblioteca comunale degli Ardenti di Viterbo, una raccolta completa del corpus ermetico nella traduzione di Marsilio Ficino, integrato dall'Asclepius attribuito ad Apuleio e dalle Definitiones Asclepii (ignote a Ficino perché mancanti nel suo codice), tradotte per la prima volta dallo stesso Lazzarelli. Nelle tre prefazioni, una delle quali in versi, il L. indirizza la sua opera di raccoglitore e traduttore a Giovanni da Correggio, nel tono solenne e sacrale dell'iniziato, affermando il sincretismo tra teologia cristiana e teologia ermetica, sostenendo, contro Ficino, la maggiore antichità di Ermete Trismegisto rispetto a Mosè e presentando la propria conversione dalla poesia agli studi sacri come una vera e propria rigenerazione: "quondam poeta nunc autem per novam regenerationem verae sapientiae filius" (Kristeller).  L. entra quindi in rapporto con  Colocci quando questi, avendo con sé il nipote Angelo, si trovava nel Regno di Napoli come governatore di Ascoli Satriano. Secondo Fanelli, i Colocci passarono nel Regno di Napoli: poco prima andrebbero dunque collocate la composizione e la stampa del poemetto del L. De bombyce, dedicato "ad Angelum Colotium honestae indolis puerum".  La datazione dell'opera è controversa e il più recente editore, Roellenbleck, ne propone una molto più alta, che peraltro non si concilia con la tematica ermetica del poemetto né con l'anno di nascita di Colocci, che pare dovesse avere un'età idonea a essere prescelto come lettore esemplare ("lege sollicito mea carmina visu"), vero e proprio filius da rigenerare (l'appellativo di puer può avere un'estensione molto ampia). Il Bombyx si presenta, infatti, come un poemetto didascalico dedicato all'allevamento del baco da seta, ma teso a svelarne, sulla traccia di analogie già suggerite da s. Basilio, la simbologia cristologica e a farne il simbolo di una rigenerazione alla quale tutti gli esseri umani sono chiamati, compiuta la quale potranno a loro volta generare una prole divina: "Surgite, terrigenae, bombycum exempla sequuti. Linquite corporeos sensus, mens candida regnet Sancta palingenesis vos complectatur et orti / rursus humo coelum penitus penetrate relicta Gignite divinam repetito semine prolem. Quo pacto id fieri possit, mox forte docebo,  hic gradus aethereo primus statuatur Olympo. L'ulteriore opera dedicata al tema della generazione divina, annunciata in chiusura del Bombyx, può forse essere riconosciuta nel De summa hominis dignitate dialogus qui inscribitur Crater Hermetis. Si tratta di un dialogo nel quale sono inseriti alcuni componimenti poetici, di vario metro, nei momenti di maggiore intensità d'ispirazione e di proclamata esaltazione mistica. Gli interlocutori sono lo stesso L., che ha ruolo di maestro, e il re di Napoli Ferdinando d'Aragona, dopo che, ormai vecchio, ha ceduto il governo dello stato al primogenito Alfonso II. Queste indicazioni permettono di collocare l'azione, e anche la composizione, tra il 1492 e la morte del re. Il recente editore, Moreschini, ha anche riconosciuto due redazioni dell'opera, la più antica testimoniata dal ms. della Biblioteca nazionale di Napoli, la seriore dalla stampa procurata  da J. Lefèvre d'Étaples a Parigi. La differenza più evidente tra le due redazioni consiste nella presenza, nella prima, di un terzo interlocutore, PONTANO, con il ruolo, secondario ma non indifferente, di affiancare il re, discepolo entusiasta e convinto, come poeta desideroso di approfondire anche verità filosofiche e teologiche. L'origine del titolo è in un passo del Corpus Hermeticum in cui si parla di un crater inviato d’Ermete sulla terra affinché in esso gli uomini possano battezzarsi e ricevere così l'intelletto che li rende capaci di partecipare alla gnosi. A conclusione dell'opera il L. si autorappresenta come colto da una sublime ispirazione che lo rende capace di rivelare il mistero della generazione di anime divine da parte del vero uomo, che ha raggiunto la pienezza della conoscenza e che si rende così simile a un dio. Moreschini osserva come nella seconda redazione il L. eviti di rendere troppo espliciti i rapporti tra ermetismo e cristianesimo (lo stesso titolo, nella prima redazione, recitava: … qui inscribitur via Christi et crater Hermetis), attenuando, per esempio, le argomentazioni che tendevano ad attribuire all'ermetismo priorità cronologica (e anche genetica) nei confronti di ebraismo e cristianesimo. Lo scritto manifesta inoltre ampie conoscenze cabalistiche e talmudiche, che tradizionalmente si ritenevano patrimonio, in quegli anni, del solo Giovanni Pico della Mirandola.  Ultima opera del L. sembrano essere i De mathesi et astrologia libri, segnalati da LANCELLOTTI, che invano ne cerca copia presso gl’eredi del filosofo. Brini ne propone, ma senza indizi veramente probanti, l'identificazione con un trattato di alchimia, conservato nel ms. 984 della Biblioteca Riccardiana di Firenze: una raccolta di preparazioni alchimistiche tratte daLullo e da altri, presentate da L. con un breve testo introduttivo che si apre con un epigramma di sei distici. Il L. stesso, definendo questo suo libro vademecum, ne indica il contenuto: "agemus in hoc libro Vade mecum […] de alchimia que est naturalis magia et vocatur astrologia terrestris. In questa scienza dichiara di essere stato istruito "a Joane Ricardi de Branchis de Belgica provincia […] qui in hoc fuit magister meus currente ab incarnatione verbi" (ed. Brini).  Nella sua biografia il fratello attribuisce al L. capacità divinatorie attraverso il sogno -- habebat somnia, quae potius visiones, sive oracula dici potuissent" (Vita Lodovici, p. 10) - e in sogno il L. avrebbe anche antiveduta la propria morte, intervenuta a San Severino a pochi giorni di distanza da quella del fratello Girolamo. Delle opere del L. sono a stampa: De apparatu Patavini hastiludii, Patavii 1629; De gentilium deorum imaginibus, a cura di W.J. O'Neal, Lewiston, NY; Fasti Christianae religionis, a cura di M. Bertolini, Napoli 1991; Epistola Enoch, Venezia, cfr. Indice generale degli incunaboli [IGI], VI, p. 225), ora a cura di M. Brini, in Testi umanistici sull'ermetismo, Roma; la traduzione delle Diffinitiones Asclepii in appendice a Vasoli, Temi e fonti della tradizione ermetica in uno scritto di Symphorien Champier, in Umanesimo e esoterismo, a cura di E. Castelli, Padova; le prefazioni del ms. II.D.I.4 della Biblioteca comunale degli Ardenti di Viterbo in appendice a P.O. Kristeller, Marsilio Ficino e L.. Contributo alla diffusione delle idee ermetiche nel Rinascimento, in Annali della R. Scuola superiore di Pisa, quindi in Id., Studies in Renaissance thought and letters, Roma; De bombyce [Roma, Eucharius Silber, s.d.] (IGI) quindi in Bombix. Accesserunt ipsius aliorumque poetarum carmina, a cura di Lancellotti, Aesii, e ora in G. Roellenbleck, Ludovico Lazzarelli Opusculum de Bombyce, in Literatur und Spiritualität. Hans Sckommodau zum siebzigsten Geburtstag, a cura di Rheinfelder, Christophorov, Müller-Bochat, München; Crater Hermetis nel corpus di testi ermetici raccolti da J. Lefèvre d'Étaples: Pimander Mercurii Trismegisti liber de sapientia et potestate Dei. Asclepius eiusdem Mercurii liber de voluntate divina. Item Crater Hermetis a Lazarelo Septempedano, Parisiis, in officina Henrici Stephani, quindi, in edizione moderna, parzialmente, a cura di Brini in Testi umanistici sull'ermetismo, e, integralmente, in C. Moreschini, Il "Crater Hermetis" di L., in Id., Dall'"Asclepius" al "Crater Hermetis". Studi sull'ermetismo latino tardo-antico e rinascimentale, Pisa, Vademecum, a cura di Brini, in Testi umanistici sull'ermetismo. Ampie sillogi di scritti del L., frutto di compilazioni sette-sono contenute nei mss. della Biblioteca comunale di San Severino Marche; il carme per la morte della duchessa d'Atri è conservato nel ms. della Biblioteca del Seminario di Padova (cfr. A. Tissoni Benvenuti, Uno sconosciuto testimone delle egloghe di Calpurnio e Nemesiano, in ITALIA medioevale e umanistica. Il codice unico del Carmenbucolicum si trova nella Biblioteca universitaria di Breslavia, Milich Collection; una silloge di carmi di occasione (tra cui i versi che gli valsero l'incoronazione) è nel ms. V. E. della Biblioteca nazionale di Napoli. Gli epigrammi sullo Pseudo Dionigi l'Areopagita si leggono nel ms. W.344 della Walters Art Gallery di Baltimora.  Fonti e Bibl.: San Severino Marche, Biblioteca comunale, Mss.; due copie di Lazzarelli, Vita L. Septempedani poetae laureati per Philippum fratrem ad Angelum Colotium, da cui deriva in gran parte la biografia premessa da G.F. Lancellotti al poemetto del L. Bombix…, cit., Aesii; Vecchietti - Moro, Biblioteca picena, V, Osimo, Lancetti, Memorie intorno ai poeti laureati d'ogni tempo e d'ogni nazione, Milano, Aleandri, La famiglia L. di Sanseverino (Marche), in Giorn. araldico genealogico diplomatico italiano, Ohly, Ioannes "Mercurius" Corrigiensis, in Beiträge zur Inkunabelkunde, Thorndike, A history of magic and experimental science, V, New York, Donati, Le fonti iconografiche di alcuni manoscritti urbinati della Biblioteca Vaticana, in La Bibliofilia, vi è riferita la lettura di Campana della dedica del ms. Urb. lat. Kristeller, Lodovico L. e Giovanni da Correggio, due ermetici del Quattrocento, e il manoscritto II.D.I.4 della Biblioteca comunale degli Ardenti di Viterbo, in Biblioteca degli Ardenti della città di Viterbo. Studi e ricerche, a cura di Pepponi, Viterbo, Delz, Ein unbekannter Brief von Pomponius Laetus, in Italia medioevale e umanistica, Ubaldini, Vita di mons. Angelo Colocci, a cura di V. Fanelli, Città del Vaticano, Moreschini, Il "Crater Hermetis" di L., in Res publica litterarum, Sosti, Il "Crater Hermetis" di L. L., in Quaderni dell'Istituto sul Rinascimento meridionale, Tenerelli, L. ed il rinascimento filosofico italiano, Bari, Saci, L. L. da Elicona a Sion, Roma; Foà, Giovanni da Correggio, in Diz. biogr. degli Italiani, LV, Roma, Walker, Magia spirituale e magia demoniaca da Ficino a Campanella, Torino, Meloni, L. L. umanista settempedano e il "De gentilium deorum imaginibus", in Studia picena; Kristeller, Iter Italicum, ad indices; Rep. fontium hist. Medii Aevi, VII, pp. 159-161.Luigi Lazzarelli. Lodovico Lazzarelli. Ludovico Lazzarelli. Lazarelli. Keyword: implicatura ermetica, mascolinita romana, religione officiale romana, campo marzio, marte, dio della guerra, marte come pianeta, il simbolismo di marte nell’arte e la filosofia, marte e apollo, marte e Nietzsche --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lazzarelli” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Leanace: la ragione conversazionale e la setta di Sibari -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sibari). FIlosofo italiano. Pythagorean. Giamblico.

 

Grice e Lecaldano: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della traspatia – l’impassibile di Cicerone – filosofia veneta – scuola di Treviso -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Treviso). Filosofo italiano. Treviso, Veneto. Grice: “Lecaldano is interested in altruism as the basis for morality; I’m interested in morality as the basis for altruism; he ain’t Kantian; I am!” -- Grice: “I love Lecaldano; perhaps because he is an Italian, he focused on Scots! His analyses of Smith and Hume on ‘sympathy’ is ‘simpatico,’ as the Italians say.” Grice: “Lecaldano engages in the kind of linguistic botanising I do when I reflect on ‘cooperation’ versus ‘benevolence’ versus ‘empathy’ versus ‘sympathy’ versus ‘compassion.’ Unlike Lecaldano, I end up with a rationality-based account of cooperativeness – or rather a narrowing of ‘co-operation’ to ‘rational co-operation’ – there are others!” Si laurea a Roma, insegna a Siena e Roma. Fonda La Società Italiana di Filosofia Analitica (“to keep us apart from non-analytics like Plato!”). Membro della Società Filosofica Italiana. Le riflessioni di L. spaziano dalla storia della filosofia morale sino alle discussioni contemporanee sulla bioetica. Avvalendosi anche del rigore concettuale della filosofia analitica, indirizza la sua ricerca alla ricostruzione storiografica della morale, con particolare riferimento ai filosofi scozzesi (Hume, Smith). Ha inoltre indagato criticamente i problemi della meta-etica. In bio-etica, L. si prefigge l'obiettivo di una chiarificazione delle implicazioni morali legate alle bio-tecnologie, che sfocia in una prospettiva laica per la pacifica gestione del conflitto morale che le "tecnologie della vita" hanno prodotto. Saggi: “Le analisi del linguaggio morale – “Buono" e "dovere" (Roma, Ateneo), “La fallacia naturalista” (Roma, Laterza); “La lume della ragione, gl’iluminati”” (Torino, Loescher), “Lo scetticismo” (Roma, Laterza); “Etica, Torino, POMBA); “Bio-etica: la scelta morale” (Roma, Laterza); “La morale” (Gaeta, Bibliotheca); “Dizionario di bio-etica” (Roma, Laterza); “Un'etica secolare – senza Dio” (Roma, Laterza); “Prima lezione di Filosofia Morale” (Roma, Laterza); “Simpatia, impassibile” (Milano, Cortina); “Senza Dio – gl’atei romani” (Bologna, Mulino); -- la religione officiale in Roma antica – “Sul senso della vita, Bologna, Mulino); “Bioetica Comitato Nazionale per la Bioetica Biotecnologie); “La bioetica. Il punto di vista morale di L. sulla nascita, la cura e la morte di Corchia. Riflessioni di L. sul Senso della Vita In Riflessioni. I significati di simpatia tra conversazione comune e letteratura  “La molteplicità di usi di simpatia”  È possibile riconoscere diversi significati nel termine simpatia che di solito è accompagnato da un  significato positivo, anche se in realtà è possibile estendere il suo significato fino a usarlo con connotazione negativa. Nel dizionario troviamo distinte 13 accezioni del termine, dall’attrazione  sentimentale alla condivisione di un atteggiamento o posizione politica. Come nota Hume, è molto difficile parlare delle operazioni della nostra mente in termini del tutto esatti, perché  il linguaggio comune raramente fa delle sottili distinzioni. Il termine “simpatia” viene compreso dalla  gran parte delle persone, ma paga la sua ampia diffusione con l'indeterminazione che ad esso si  accompagna. E enorme l'utilizzazione che ha avuto la simpatia, sia in forma implicita che  esplicita. Hunt suggerisce che la nozione di simpatia sia la prosecuzione di quella che nei testi  illuministi viene analizzata come simpatia; Hunt, poi, privilegia la simpatia assimilata alla  compassione. Già nel diciottesimo secolo Rousseau, assimilando la simpatia e la compassione, la  considerava una forma di pietà suscitata solo da pene e dolori. Mentre Hume e Smith la  considerano come la capacità, più sviluppata negli uomini che negli animali, di partecipare  attivamente alle condizioni altrui, sia dolorose che gioiose. E’ illuminante la tesi di Hunt secondo cui  il rafforzarsi della simpatia fra gli esseri umani nella cultura europea (reso possibile  dai romanzi) portò a riconoscere l'eguaglianza di molti esseri umani che fino a quel momento erano  stati emarginati. Molti romanzi in secoli successivi accesero le emozioni e la partecipazione  simpatetica del pubblico.Verosimilmente anche molta della forza espressiva del cinema  può essere identificata nella capacità di quest'arte di rendere conto, con le sue tecniche, degli stati  d'animo e della trasformazione delle emozioni dei personaggi. (discorso su Kundera)  “Un percorso di approfondimento”  Lo sforzo di conoscere il funzionamento della simpatia si connette con la questione relativa a quanto  la simpatia si debba ritenere essenziale per la genesi della pratica morale diffusa tra gli esseri umani.  Cercheremo di capire se la simpatia sia necessaria o meno per la moralità ed esporremo le  argomentazioni pro e contro questa tesi. Fermo restando che la simpatia può essere considerata  necessaria per la nostra vita etica, ma non sufficiente. Simpatia può riferirsi a un'attitudine  conoscitiva tramite la quale riusciamo a cogliere le condizioni mentali altrui, oppure a una reazione  affettiva ed emotiva nei confronti dei sentimenti altrui. Concordando con Stueber, andremo verso la  simpatia intesa come preoccupazione per le altre persone e le loro menti. Vi sono due criteri in base  ai quali individuare tipi diversi di simpatia: Da una parte quello che considera la simpatia come un'operazione mentale semplice e istintiva,  un contagio emozionale automatico;  2. Dall'altra quello che considera la simpatia come un processo psicologico più complicato e che  comporta un minimo di riflessione.  L'impostazione adeguata è quella che non confonde i due livelli di simpatia e non semplifica le cose,  presentando una concezione riduttiva. Insisteremo inoltre sulla connessione tra simpatia e la pratica  non solo della moralità, ma della giustizia, della politica, così come sulla sua incidenza nelle forme di  civilizzazione. Prenderemo le distanze dall'esportazione della simpatia sul piano normativo che vede  in essa ciò che è necessario e sufficiente per la costruzione di una moralità umana. La nozione di simpatia ha una lunga tradizione nella storia della filosofia. La prima importante  nozione di simpatia è quella che le riconosce una forza cosmica che tiene insieme tutte le cose del  mondo. Nella cultura classica greca e latina, la simpatia utilizzata per richiamare una connessione  armonica che unisce fra loro esseri umani e realtà naturali. Inoltre, la nozione di simpatia nella  filosofia antica viene usata per richiamare un processo che si sviluppa nel mondo fisico e solo  secondariamente in quello umano, infatti gli stoici si riferiscono ad una simpatia universale per  indicare l'affinità oggettiva esistente fra tutte le cose. Gli stoici sono importanti per l'influenza che  ebbero sui moderni interessati alla simpatia come Hume e Smith. In Plotino troviamo un'immagine  che verrà ripresa da Hume. Questo concetto naturalistico della simpatia è il  fondamento della magia e verrà ripreso dai maghi del Rinascimento. Nella cultura antica la simpatia  ha un'estensione prevalentemente cosmologica e ontologica, identificandosi con un fenomeno  universale e con la forza che tiene insieme tutte le cose in una relazione automatica. Fin dall'antichità, quindi, la simpatia ha un'accezione positiva. Prima del passaggio alla modernità c'è  un'importante innovazione nell'uso della simpatia ad opera di Assisi, che nel “Cantico  delle creature” chiama suoi fratelli e sorelle, animali, piante, ma anche il sole, la luna, l'acqua e il  fuoco. Questo atteggiamento è “empatia” (oriente e Schopenhauer)  “Una relazione attiva fra due poli”  La simpatia conquista il suo posto come forza dinamica della natura umana. Critica a  Hobbes che negava qualsiasi presenza di empatia nell'uomo, visto come essenzialmente egoista. Significativi qui sono Shaftesbury e Hutchenson che però, pur riconoscendo agli esseri umani un  grado di apertura affettiva l'uno verso l'altro non ne avevano realizzato quella completa soggettivizzazione che troviamo in Hume e Smith. Shaftesbury, infatti, con l'impostazione platonizzante tende a considerare la simpatia come una trama che si estende al di là del mondo  umano, creando armonia fra vite umane ed ordine universale. Hutchenson, invece, preferisce il  termine simpatia quello di “senso pubblico”, facendo riferimento ad un contagio emotivo. Hume contesterà ad Hutchenson una trattazione della simpatia erronea perché incapace di  cogliere il suo collegamento con l'immaginazione e la riflessione. Ciò non toglie che le analisi di  Hutchenson siano tornate attuali. Troviamo la trattazione più approfondita dell'idea di simpatia e si può  individuare nelle analisi di Hume e Smith due diverse concezioni che influenzeranno molti pensatori. Hume e Smith concordano nel considerare la simpatia solo come un dato della natura della psicologia umana e non una forza cosmica. Per Hume la simpatia è un principio psicologico che permette la comunicazione e la partecipazione fra gli esseri umani; per Smith è altresì un principio psicologico, ma tende a distinguere fra ciò che possiamo approvare e ciò che dobbiamo  disapprovare. Queste diversità tra i due autori incidono sulla connessione fra simpatia e moralità: Smith la concepisce come necessaria e sufficiente, Hume solo necessaria ma non sufficiente. Hume dedica alla simpatia molte analisi nel “Trattato sulla natura umana”, in cui troviamo una linea  interpretativa ben riconoscibile che sarà illuminante. La simpatia viene considerata da Hume un  principio costitutivo della vita umana ed egli fissa due punti fondamentali. La simpatia non riguarda le relazioni fra cose o oggetti, ma solo quelle fra esseri umani,  nonostante coinvolga anche relazioni con gli animali e tra loro stessi;  Nella natura umana esiste una gran tendenza a prestare agli oggetti esterni le stesse emozioni che  osserviamo in noi stessi -- tendenza che si manifesta nei bambini, nei poeti e nei filosofi. L'estensione della simpatia anche al rapporto tra uomini e animali ed alla condotta di questi  ultimi, è evidente che la simpatia si manifesta anche negl’animali suscitando le stesse emozioni  provocate nella nostra specie. Hume distingue due livelli di simpatia: quella istintiva e automatica presente fin dall' infanzia, riscontrabile anche negli animali e quella che opera in modo indiretto, ricorrendo  all'immaginazione riflessiva e non immediata che genera i sentimenti morali. A quest'ultima  forma di simpatia può essere ricondotto la trattazione della questione sul coincidere tra morale e  simpatia. Hume offre una lunga analisi per spiegare che la simpatia non è in grado di rendere conto  della distinzione che facciamo tra virtù e vizio. Nella teoria dei sentimenti morali, Smith presenta una concezione della simpatia alternativa  a quella di Hume. Infatti, a Smith non interessa la simpatia come contagio emozionale, ma anzi la  identifica come una specie di emozione che si prova quando si concorda con le emozioni e passioni  altrui. Provare simpatia per qualcuno significa provare piacere su nel condividere emotivamente la  risposta che l'altro dà alla situazione. In Smith, approvare moralmente una condotta significa  simpatizzare con essa. Per Smith la simpatia si presenta come uno stato complesso e articolato: vi è un primo stadio che è  la capacità di ricostruire la passione e condotta dell'altro, o spiacevole se comporta sofferenza o  piacevole se provoca gioia; un secondo stadio dato dall'approvazione o disapprovazione che si dà  della condotta altrui; infine, uno stadio in cui si troverà un piacere simpatetico, se le nostre  approvazioni concordano e un dispiacere se discordano. Considerando la simpatia come  approvazione, Smith cattura una nozione più determinata di quella generica analizzata da Hume, ma  molto più aperta per ciò che riguarda il ruolo che gioca in essa l'immaginazione. La simpatia come  approvazione morale in Smith si allarga ad includere in ogni relazione simpatetica l'intervento di uno  spettatore immaginario capace di far valere le esigenze di una più completa ricerca delle  informazioni rilevanti. Concezione diversa la possiamo trovare in Rousseau, il quale si riferisce alla simpatia col ter. Grice: “While his research on sympathy is erudite, he shows little sympathy! As far as his philosophy of laicity (an Italian obsession) is concerned, he forgets for Romans religio WAS a matter of state – those who did not submit were thrown to the lions!” – Grice: “Lecaldano fails to recognize, but then he would, being a post-Lateran-pact traumatized Italian – that not only religion was for the romans in the ‘eta antica’ a matter of state, but that the STATE was a matter of religion. This was well perceived by that branch of fascism who culticated the ‘paganismo’ which is a misnomer and only applies to the birth of Christ! I would hardly say a Roman in ‘eta antica’ saw himself as ‘ethnic, ‘ethnicus, ennico, a pagan, or heathen!”   !LE DISCIPLINE FILOSOFICHE   o doo lerprene CUCA CO SC {y/ertse e Ul insonne do SAU  VOVASVARIZZZA quali Sé prese NARO 1 SSCONI SUL problemi  ‘ORGONO per gli CSSOLL UAN quando AYIscOno © cerci  ole è princi da Seguire nelle diverse dimensioni d  > Oa pratica. Sa parte integrante di questa ILCELC  “tazione delle regole TAN c0 pri «e giù disponibili Q/  we da altre pers one. Afrontereno WZZZ volte nel co  SAGGIO la questione di Guanto l'etica assorba i sé  4   AGUA dall'economia per fare valere 77) generale Pa  ‘va (esa a lenee distinte concettualmente CALO,    da. In questo senso ‘etica’ occuba lo spazio N    www.scribd.com/Filosofia_in_ Ita3    Eugenio Lecaldano (Treviso, 1940), è ordinario di Storia delle dottrine morali al-  l'Università «La Sapienza» di Roma. I suoi lavori sulla filosofia inglese dei secoli  XVII e XVIII vanno dall’edizione italiana delle Opere di David Hume (1971), all’edî-  zione italiana delle Lettere a Serena di Johni Roma. I suoi lavori sulla filosofia inglese dei secoli  XVII e XVIII vanno dall’edizione italiana delle Opere di David Hume (1971), all’edî-  zione italiana delle Lettere a Serena di JohnToland (1977), all’ampia antologia L’ily-  minismo inglese (1985), al volume Hume e la nascita dell'etica contemporanea (1991).  All’etica contemporanea ha dedicato, tra gli altri, i volumi Le analisi del linguaggio  morale (1970) e Introduzione a George Edward Moore com/Filosofia_in_Ita3    Eugenio Lecaldano    ETICA    STEAS    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    TEA - Tascabili degli Editori Associati S.p.A.  Corso Italia 13 - Milano    © 1995 UTET, corso Raffaello 28, 10125 Torino   Proprietà letteraria riservata. Senza il permesso scritto  dell'Editore, sono vietati la riproduzione, la memorizzazione  elettronica e l'adattamento anche parziali, in qualsiasi forma   e con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotoscatiche)  Edizione su licenza della UTET   dal volume ITI della Fi/osoffa, diretta da Paolo Rossi    Prima edizione TEA settembre 19%6    Ristampe:1 2 3 4 5 6 7 8 9  1996 1997 1998 1999 2000    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    ETICA    www.scribd.com/Filosofia_in Ita3    Sommario. - 1. Introduzione. - 2. La natura dell'etica. 2.1. Meta-erica e meta-morale, 2.2. La conce-  zione dell'edonismo egoistico. 2.3. L'etica come insieme di comandi divini. 2.4. L'etica come co-  mando di una q ualche autorità. 2.5. L'etica come legge naturale 0 razionale. 2.6. L'etica come pre-  scrizione universalizzabile, 2,7. La negazione dell'etica: libertà e determinismo. - 3. Fondazione,  giustificazione e spiegazione: l'epistemologia dell'etica. 3.1. Dalla meta-etica all'epistemolegia. 3.2.  La conoscibilità della legge divina. 3.3. La fondazione dell'etica attraverso un calcolo prudenziale.  3.4, La natura umana come fondamento dell'etica: la via metafisica. 3.5. La natura umana come  fondamento dell'etica: la via empirica. 3.6, L'appello a una ragione universale come via per la fon-  dazione dell'etica. 3.7. LI ricorsa a una facoltà morale per la fondazione dell'etica. 3.8. La giustifi-  cazione procedurale delle opzioni etiche: il contrattualismo, 3.9. Il non-cognitivisma e la giustifica.  zione logico-argomentativa del punto di vista etico. 3.10. Dalla giustificazione alla spiegazione del-  l'etica. 3.11. I problemi centrali per Ia fondazione della morale; «legge di Hume» e possibilità di  una «logica delle norme». - 4. Le etiche normative: concezioni in contrasto. 4.1. Etiche conseguen-  zialiste e deontologiche: principi, mezzi è fini nell’etica. 4.2. Il valore intrinseco nell'etica. 4.3.  L'etica giusnaturalistica e la legge naturale. 4.4. L'etica contratrualistica e le sue forme. 4.5. Un'etica  dei diritti. 4.6. L'etica kantiana e la persona umana. 4.7. Le etiche utilitaristiche. 4.8, La scelta ra-  zionale come criterio normativo, 4.9, Pluralismo, tolleranza, relativismo, irrazionalismo etico. - 5.  Dall'etica teorica all'etica pratica. 5.1. Dall'etica teorica all'antropologia: motivazione e obbliga.  zione, 5.2. Il ruolo dell'identità personale nell’etica. 5.3. Erica del carattere 0 dell'azione. 5.4. La  svolta normativa e l'irruzione dell'etica applicata. 5.5. I principali campi dell'etica applicata. - 6. Le  dimensioni dell'etica. 6.1. La morale e le relazioni personali. 6.2. Il diritto e i sistemi codificati. 6.3.  La politica e i fini del governo.    1. Introduzione.    Con il termine etica ci si riferisce all'insieme di scritti e discorsi nei quali si  presentano riflessioni sui problemi che si pongono per gli esseri umani  quando agiscono e cercano regole e principi da seguire nelle diverse dimen-  sioni della loro vita pratica. Fa parte integrante di questa ricerca la valuta-  zione delle regole e dei principi già disponibili o fatti valere da altre persone.    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    8 ETICA    Affronteremo più volte nel corso del saggio la questione di quanto l'etica as-  sorba in sé e si distingua dall'economia per fare valere in generale una pro-  spettiva tesa a tenere distinte concettualmente etica ed economia. In questo  senso ‘etica’ occupa lo spazio semantico che nella tradizione dotta italiana si  collega a ‘filosofia morale’. L'etica in questo senso ampio comprende dunque  tutta una serie di più determinate specificazioni che riguardano di volta in  volta i problemi morali, quelli di pertinenza del diritto e della legge e quelli  che più propriamente rientrano nel campo della politica o dell’azione del go-  verno. Usando un altro linguaggio si può dire che l'etica riguarda l'universo  dei valori e delle norme complessivamente inteso e dunque in questo senso sia  la morale, sia il diritto e la politica. È chiaro che, invece, gli aspetti più tecnici  e specifici del diritto e della politica, quali, poniamo, la teoria dell’ordina-  mento giuridico o le varie tecniche da adottare per rendere efficaci le san-  zioni, o ancora le riflessioni sulle varie forme di governo e i rapporti tra i vari  poteri non sono di pertinenza dell'etica come qui intesa. Verranno dunque  brevemente trattate le questioni relative al diritto e alla politica solo per indi-  viduare con più precisione gli ambiti specifici di problemi pratici in gioco in  queste aree dell'etica, La pretesa per quanto riguarda queste sezioni è di col.   locarle con chiarezza nel campo più generale dell'etica piuttosto che affron-  tare partitamente i loro problemi specifici. La scelta concettuale fatta com-  porta che si lasci completamente da parte la pretesa di occuparci dell'etica 0  della morale in un senso più sociologico, ovvero come insieme di costumi di  un popolo, o in un senso più psicologico, ovvero come stili di vita 0 inclina-  zioni e abitudini a determinati tipi di associazione mentali effettivamente rico-  noscibili nella biografia di esseri umani concretamente esistenti. L'etica nel  senso in cui ce ne occuperemo coinvolge piuttosto la riflessione e il pensiero  impegnati nella caratterizzazione, critica, difesa e revisione del costume o  delle pratiche effettive.   La scrittura di questo testo è stata orientata da due linee guida. Da una  parte si è cercato di fare valere l'ottica di chi scrive alla fine del secolo XX.  Anche se probabilmente una partizione che prenda troppo sul serio lo stacco  tra secoli va incontro a forzature, si muove, comunque, da una prospettiva  che è largamente influenzata dalla considerazione di quei problemi morali che  nel nostro secolo si sono dovuti affrontare, e si stanno ancora affrontando, per  la prima volta, quali ad esempio le questioni della bioetica, o dell'etica am-  bientale, del trattamento degli animali ecc. (cfr. infra $$ 5.4 e 5.5). In secondo  luogo chi scrive assume la prospettiva fatta valere da Derek Parfit secondo la  quale una vera e propria etica nel senso moderno può essere vista nascere solo  con il XVII secolo. Ma un'etica che unisca insieme la consapevolezza della sua autonomia e un certo impegno in senso professionale riguarda solo la se-  conda parte di questo secolo (Parfit, 1989: 574-575). Ed è dunque a questa  etica moderna e contemporanea più che a quella antica e medievale che in  questo scritto si farà principalmente riferimento per dare spessore storico alle  distinzioni e conclusioni che si avanzeranno.   Anche se l'etica si presenta come una disciplina già consolidata e con una  tradizione di sapere costituito, si può indicare una strada che permette di ac-  cedere ai problemi di cui si occupa muovendo dall'esperienza comune e quo-  tidiana. Infatti la pretesa dell'etica — come del resto di quasi tutti i rami della  riflessione filosofica — è quella di occuparsi di problemi che tutti gli uomini  affrontano e incontrano nella loro vita. Nel caso dell'etica teorica è frequente  — anzi — trovare affermata la pretesa di essere più vicina e direttamente ri-  levante per la vita delle persone di quanto siano altri ambiti della filosofia,  quali poniamo la gnoseologia (con la sua elaborazione teorica sulla conoscen-  za), 0 l'epistemologia (con le sue riflessioni sulla teoria della verità) ecc.   Questa pretesa di una più stretta vicinanza con la vita di tutti si accompa-  gna spesso nelle elaborazioni teoriche nel campo dell'etica con un'ulteriore  pretesa per cui tali elaborazioni vengono presentate come la parte più impor-  tante delle riflessioni filosofiche 0 comunque come quella che ha priorità e  centralità regolativa rispetto alle altre.   Nella vita quotidiana si presentano numerose situazioni problematiche che  possono essere considerate come punti di partenza per la riflessione etica.  Suggeriamo di classificare queste situazioni problematiche ricorrendo a due  distinte tipologie, quella dei conffitti e quella dei disaccordi. Casi di conflitto  — per così dire il versante privato o soggettivo dell'etica — sono quelli in cui  noi stessi non riusciamo a trovare una soluzione valida a un problema etico 0  perché i nostri principi tradizionali risultano inadeguati o perché non riu-  sciamo a risolverci appunto tra differenti principi egualmente rilevanti. Casi  di disaccordo — per così dire il versante oggettivo o pubblico dell'etica —  sono quelli, molto frequenti e diffusi nelle nostre società complesse, in cui  petsone diverse tendono a fare valere principi etici contrastanti per risolvere  la stessa situazione moralmente rilevante, î   Il cammino verso l'elaborazione di un'etica più riflessa sembra aprirsi non  già quando le regole e i principi tradizionali rispondono alle nostre esigenze,  ma piuttosto in una situazione in cui gli esseri umani incontrano difficoltà nel  campo delle loro scelte e decisioni pratiche. Se, infatti, la vita pratica procede  in modo del tutto ordinato all’interno di una routine consolidata non vi è  quella base necessaria per un'elaborazione critica, Il presentarsi di una diffi.  coltà nell'applicazione dei codici normativi tradizionali è, in genere, il punto di partenza per l'elaborazione dell’etica nel pensiero moderno e tale quadro  problematico è diventato costitutivo della teoria etica nel pensiero etico con-  temporaneo.   La stretta connessione della riflessione etica con situazioni di conflitto e di  disaccordo sembra voler suggerire che proprio all'etica in quanto tale spetta  di proporre una soluzione e che quindi rientra negli obiettivi specifici del-  l'etica teorica prescrivere esplicitamente ciò che è bene o giusto fare in situa-  zioni particolari. Una pretesa che nel corso della nostra ricostruzione delle  varie posizioni riconoscibili nell’etica moderna e contemporanea avremo l’oc-  casione di valutare criticamente.   L'elaborazione etica di cui renderemo conto in modo più sistematico in  questo scritto si colloca in un quadro generale individualistico. A monte in-  fatti della nostra rivisitazione dell'etica vi è l’assunzione filosofica che in gene-  rale i problemi con cui si ha a che fare riguardano individui ovvero persone  umane. L'etica così intesa si muove in un contesto — che può essere conside-  rato come proprio del pensiero moderno da Cartesio in avanti — in cui i pro-  blemi di fronte ai quali ci si trova sono problemi che nascono per esseri umani  particolari e finiti. Anche se nei primi secoli della ricerca moderna la rifles-  sione era volta a fissare il campo dell'etica tenendo conto della natura umana  complessivamente intesa, fin dal secolo XVII essa muoveva da problemi pra-  tici di individui ben determinati. Il lettore troverà dunque privilegiata nel-  l'esposizione seguente una tradizione empiristica e naturalistica nella quale,  tra il XVII e il XXX, si sono collocati tra gli altri: Thomas Hobbes (1588-  1679), John Locke (1632-1704), David Hume (1711-1776), Adam Smith  (1723-1790), Jeremy Bentham (1748-1832), John Stuart Mill (1806-1873),  Henry Sidgwick (1838-1900). La riflessione sulla morale di Immanuel Kant  (1724-1804) malgrado non rientri in questa tradizione sarà tenuta presente  per la sua capacità di far valere l'ottica di una responsabilità individuale auto-  noma nella vita morale, Esponenti del neoempirismo e della filosofia analitica  hanno contribuito nel corso del XX secolo a questo approccio più generale  nei confronti dell’etica — e il loro contributo sarà largamente presente nelle  pagine seguenti —, che è stato più recentemente caratterizzato esplicitamen-  te come «individualismo metodologico». Una linea di ricerca ampiamente  percorsa — anche se non senza differenze — in Italia, ad esempio, da Er-  minio Juvalta, Nicola Abbagnano, Giulio Preti, Uberto Scarpelli e Norberto  Bobbio.   È vero che i casi in cui gli esseri umani individuali e le persone si trovano  effettivamente di fronte a problemi etici quali quelli che rendono possibili laserie di riflessione di pertinenza dell'etica sono probabilmente più rari di quanto in genere si ritenga. Ma la rinascita dell'etica e il fiorire della rifles-  sione pratica a cui abbiamo assistito nella seconda metà del secolo XX (dai  disaccordi pubblici sulle questioni di giustizia distributiva e di discrimina.  zione che hanno caratter izzato gli anni Settanta, ai conflitti che negli anni Ot-  tanta ci hanno coinvolto tutti sui principi e le regole da far valere di fronte alle  nuove condizioni del nascere, morire e curarsi degli esseri umani) mostrano  l'ampio radicamento nella vita comune di questa dimensione filosofica. Pro-  babilmente riflessioni e decisioni si svolgono in modo meno esplicito e più  impersonale (attraverso la meditazione della discussione pubblica intersogget-  tiva) di quanto risulterà dal taglio individualistico di questo saggio. Ma nelle  pagine seguenti, senza la pretesa di tutto abbracci are o risolvere, renderemo  conto in modo sistematico e critico delle diverse concezioni elaborate per  avere a che fare con quelle scelte individuali che sono influenzate da ragioni  etiche.    2. Lanatura dell'etica.    2.1. Meta-etica e meta-morale. — La riflessione sulla natura dell’etica ha  una priorità logica una volta assunta la prospettiva riflessiva e critica alla cui  genesi abbiamo fatto riferimento nel paragrafo 1. Si tratta infatti, in primo  luogo, di capire l'ordine di problemi intorno a cui si riflette econseguente-  mente di individuare quali siano i criteri cui si può ricorrere per risolverli 0  mettere alla prova la validità delle soluzioni alternative che ci si presentano.   Un esempio particolarmen  te rappresentativo di questo percorso logico  troviamo delineato da George Edward Moore nei suoi Prircipis Ethica  (1903). Moore chiarisce che il problema centrale dell'etica — a suo parere,  l’unico problema dell'etica — è quello di fornire una definizione delle princi-  pali nozioni che ricorrono nei nostri discorsi morali, ovvero le nozioni di  buono, giusto, obbligatorio, dovere ecc. Moore sostiene poi che tutte le no-  zioni etiche sono riducibili, in modo più 0 meno diretto, a quella fondamen-  tale e primaria di «buono». Ecco quindi quanto scrive Moore:    Ciò che ‘buono’ significa è in effetti, a parte il suo contrario «cattivo», il solo oggetto  semplice di pensiero che appartenga peculiatmente all'etica. La sua definizione, di con-  seguenza, è il punto essenziale nella definizione dell'etica; e inoltre un errore su questo  punto porta con sé un numero di giudizi errati di gran lunga più grande che qualsiasi  altro errore in materia. Se questa domanda preliminare non è pienamente compresa è  non se ne vede chiaramente la risposta, tutta il resto dell’etica ha un valore praticamente  nullo dal punto di vista della conoscenza sistematica [...] in ogni caso, è impossibile che,  finché non si conosca la risposta, si possa sapere quale è la prova richiesta per un giudizio  etico qualsiasi. Ma il principale obiettivo dell'etica come scienza sistematica è dì fornire  ragioni corrette per pensare che una cosa 0 un'altra è buona; e se non si risponde alla  nostra domanda tali ragioni non si possono dare (Moore, 1964: 48-49).    Secondo l’impostazione di Moore dunque — che faremo nostra — i me-  todi di prova e confutazione che hanno efficacia in etica potranno essere iden-  tificati solo dopo che avremo capito la natura dell'etica, ovvero il tipo di pro-  blemi di fronte ai quali ci troviamo laddove è in gioco la parte morale della  nostra esistenza.   Cominciamo quindi con il passare in rassegna criticamente le più impor-  tanti concezioni sulla natura dell'etica. In filosofia è corrente una nozione per  riferirsi a questa parte della ricerca e, specialmente in questo secolo, ci si è  molto dilungati sulle diverse meta-etiche o meta-morali (assumiamo qui que-  ste etichette in un senso generico e che le rende equivalenti senza investire la  distinzione tra etica e morale su cui invece ci soffermeremo nel $ 6). Una de-  terminata concezione meta-etica o meta-morale si colloca sul piano conosci-  tivo e logico. Essa si propone infatti, prima di tutto, di farci capire qual è la  natura dell'etica e quali sono i metodi di prova e dimostrazione in essa in vi-  gore. Tutto ciò è preliminare e solo dopo si ritiene possibile passare a sotto-  scrivere una determinata soluzione. La riflessione meta-etica viene quindi non  solo concepita come preliminare o logicamente prioritaria, ma in genere come  del tutto neutra da un punto di vista normativo, Si tratterebbe dunque, per  usare formule che piacciono molto ai filosofi, di identificare preliminarmente  ciò che è comune a tutti i punti di vista etici in quanto etici, per eventual-  mente passare poi a sottoscrivere una determinata etica a preferenza di altre.   Naturalmente vi sono anche pensatori che negano che una meta-etica neu-  trale e del tutto priva di implicazioni normative sia possibile. In questalinea  troviamo un autore di tendenze analitiche come Scarpelli che sottolinea la na-  tura prescrittiva di tutte le scelte a monte della costruzione di una particolare  meta-etica (Scarpelli, 1982: 102-112). Ma anche autori del filone postanalitico  come Hilary Putnam e Donald Davidson che negano la validità dell'assun-   zione che distingue tra forma e contenuto, distinzione a monte della tesi della  neutralità delle teorie meta-etiche (H. Putnam, 1985; D. Davidson, 1992).  Questa controversia riguarda però più propriamente il modo di intendere il  lavoro filosofico e il modo di concepire le relazioni e connessioni tra analisi  concettuali e logiche e opzioni valutative e normative e dunque in questa sede  laasciamo da parte. Così come non affrontiamo esplicitamente la questione  di quale si debba considerare l'oggetto proprio delle analisi meta-etiche. Se  cioè esse debbano vertere esclusivamente sulle parole e il linguaggio morale  — come ha sostenuto una parte dei filosofi di questo secolo e specialmente gli  esponenti della  filosofia del linguaggio ordinario come ad esempio Charles  Leslie Stevenson, Richard Mervyn Hare e Patrick Horace Nowell-Smith (si  veda C. L. Stevenson, 1962; R. M. Hare, 1968; P. H. Nowell-Smith, 1974), o  possano essere caratterizzate in modo meno ristretto. Più recentemente, ad  esempio, Bernard Williams ha suggerito di considerare come oggetto proprio  delle analisi sulla natura dell'etica — in coerenza con una concezione più li-  berale dell'analisi filosofica — non solo i discorsi, ma anche esperienze,  azioni, emozioni ecc. (B. Williams, 1987). Tenendo conto del livello generale  di questo scritto potremo fare tesoro di questa proposta liberalizzatrice e con-  siderare come campo della meta-etica o della meta-morale l'insieme delle di-  verse dimensioni della vita etica degli uomini.    2.2. La concezione dell'edonismo egoistico. — La via più ovvia per identi-  ficare la natura generale dei problemi che sorgono quando stiamo scegliendo  o decidendo tra differenti alternative che ci stanno di fronte è quella di soste-  nere che in realtà siamo esitanti solo perché non ci risulta chiaro cosa ci con-  viene fare di più. Ovvero — lasciando da parte la questione di una differenza  tra le più specifiche caratterizzazioni di che cosa intendiamo con la formula  «ciò che ci conviene di più» —-ciò su cui stiamo deliberando è solo l'indivi-  duazione del corso di azione che farà maggiormente il nostro proprio inte-  resse, 0 ci darà più piacere o ci farà guadagnare di più ecc. Questa concezione  meta-etica riconduce quindi le azioni in gioco in questa dimensione della no-  stra vita pratica all'interno di un contesto che riguarda le azioni umane in  generale: tutte le azioni umane sono rivolte a ottenere il proprio personale  piacere e a evitare il dolore. Si tratta di una concezione che riconduce l'etica  all’interno di quel quadro dell’edonismo egoistico che — con una certa ap-  prossimazione interpretativa — viene attribuito a pensatori come Epicuro e  Hobbes. Troviamo ad esempio che Hobbes negli Elements of Law Natural  and Politic (1640, Elementi di legge naturale e politica) sostiene: «Ogni uomo,  dal canto suo; chiama ciò che gli piace ed è per lui dilettevole, bene; e male  ciò che gli dispiace; cosicché, dato che ognuno differisce da un altro nella co-  stituzione fisica, così ci si differenzia l’uno dall’altro anche riguardo alla co-  mune distinzione di bene e male. Né esiste una cosa come l’agaton aplos, vale  a dire il bene assoluto» (Hobbes, 1985: 50-51).   Questa concezione della natura dell'azione umana in generale in realtà  porta a negare che vi sia una dimensione etica nella vita degli esseri umani.  Infatti ci troviamo di fronte a una posizione che propone di tradurre tutti gli enunciati 0 giudizi etici in questioni che hanno a che fare esclusivamente con  valutazioni, pro 0 contro una certa linea di azione, sulla base di un criterio  esclusivo che è quello del proprio personale tornaconto. La natura dell'etica  non viene certo caratterizzata in questa direzione da tutti coloro che presen-  tano delle teorie meta-etiche o meta-morali. Infatti al di lì delle diversità da  un punto di vista epistemologico, gnoseologico, psicologico 0 genetico, tutte  le diverse concezioni concordano nel presentare, in termini contenutistici e  sostantivi, il campo dell'etica come quello che ha a che fare con scelte e valu-  tazioni che hanno come punto di riferimento degli obiettivi che vanno al di là  del solo interesse personale.   Naturalmente una caratterizzazione dell'etica che insiste sulla natura non  interessata, imparziale e generale del punto di vista che essa coinvolge pone  come questione preliminare quella più propriamente empirica e psicologica  della possibilità che gli uomini effettivamente agiscano mossi da motivazioni  non strettamente egoistiche. Vedremo più volte nelle pagine seguenti (cfr. jn-  fra $$ 3.3, 4.8 e 5.1) che una delle grandi questioni intorno a cui sono conver-  gentemente confluiti gli sforzi di melti pensatori è proprio quella di riuscire a  salvaguardare nel comportamento umano uno spazio per le azioni mosse da  ragioni etiche e dunque non strettamente egoistiche. In questa sezione ci limi-  tiamo dunque a fissare in via del tutto preliminare il punto su cui convergono  le diverse concezioni sulla natura dell'etica e della morale di cui renderemo  conto in questo paragrafo.   In modi diversi le numerose concezioni meta-etiche cercano di rendere  conto di un fatto considerato più o meno acclarato ovvero che nella vita degli  esseri umani esiste una sfera di azioni, scelte, valutazioni che è di pertinenza  dell'etica e della morale. Questa sfera ha a che fare comunque con valori,  principi, criteri, norme, regole che riguardano la condotta degli uomini ove la  si veda come non esclusivamente indirizzata verso la realizzazione di obiettivi  strettamente egoistici ponendosi dal punto di vista di ciascuno degli agenti. Vi  è cioè secondo le diverse teorie meta-etiche che ora passeremo in rassegna  una dimensione sovraindividuale e intersoggettiva (se non addirittura univer-  sale) coinvolta nelle azioni umane e che sarebbe appunto quella di pertinenza  dell'etica. Sulla base di questa premessa comune le meta-etiche si differen-  ziano poi per il modo di rendere conto di questa dimensione e conseguente-  mente delle vie per fondare e giustificare scelte e giudizi etici corretti.    2.3. L'etica come insieme di comandi divini. — Una delle teorie meta-eti-  che più antica e fortunata è quella che ritiene che al centro dell’etica vi siano  una serie di doveri e di obblighi che ricavano la loro origine, validità e forza dal fatto di essere comandi di un’autorità superiore. In genere poi all'interno  di questa concezione meta-etica si tende a identificare l'autorità i cui comandi  vengono messi in pratica nell'etica con una qualche divinità, si tratti del Dio  di una delle diverse religioni positive, o piuttosto l'Autore della Natura della  religione naturale, o ancora qualcuna delle divinità minori delle religioni po-  liteistiche.   Nel mondo moderno una tale concezione meta-etica è stata presentata  nella forma più chiara dai teorici del giusnaturalismo provvidenzialistico del  XVII secolo e in particolare la si trova difesa approfonditamente da Locke  negli Essays on the Law of Nature (1660-1664, Saggi sulla legge naturale). Si  tratta di una concezione meta-etica che proprio per il riferimento essenziale ai  comandi di una autorità sovrannaturale considera primarie e centrali per ren-  dere conto di questo campo della vita umana le nozioni di legge, obbliga-  zione, dovere e mette, dunque, in secondo piano altre nozioni quali quelle di  buono, giusto, diritti, virtù ecc. In questa prospettiva l'etica è poi strettamente  connessa con la religione. Infatti se tutto ciò che è in gioco nelle nozioni eti-  che è un qualche comando o legge di un’autorità divina che rende obbligatori  i suoi dettami attraverso sanzioni a cui nessun essere umano può sfuggire al-  lora un'etica così intesa dipenderà fortemente dalla disponibilità di prove del-  l'esistenza dell'autorità divina presupposta e andrà incontro a insormontabili  difficoltà nel momento in cui entra in crisi la credenza nell'esistenza di un  essere che trascende la natura. I fautori della concezione che vede nell’etica  una serie di comandi o leggi o ordini di una qualche autorità divina, giunti a  questo punto o riterranno scomparsa l'etica dall'orizzonte della vita degli uo-  mini 0 dovranno indicare una qualche autorità terrena da cui fare dipendere  la validità dei principi etici 0, infine, dovranno abbandonare del tutto la meta-  etica che rende conto dei principi morali come di comandi di una qualsiasi  autorità. Una trasformazione del genere fu al centro della riflessione di Hob-  bes portando inizialmente a una forma implicita di positivismo giuridico. Ma  più in generale guardando alla riflessione morale dal XVII secolo ad oggi, con  una qualche semplificazione, si può rendere conto dell'etica moderna e con-  temporanea come un processo di progressivo allontanamento della meta-etica  in termini di comandi di una qualche autorità distinta dal soggetto che sceglie,  decide o giudica eticamente.   Laddove si istituisce il collegamento tra l’etica e la legge divina si aprono  le due diverse possibilità dell’intellettualismo e del volontarismo. Chi ritiene  che l’etica non sia altro che un insieme di comandi divini può infatti ritenere  che Dio comandi ciò che è bene perché lo riconosce come tale oppure — alla  lucedi una concezione volontarista — può concludere che ciò che è buono è  tale proprio in quanto è Dio a volerlo. Non ci soffermeremo sulle difficoltà  presenti in queste due distinte vie teoriche. In particolare l’intellettualismo  sembra andare incon tro alta difficoltà di rendere in qualche modo il bene pre-  cedente e superiore a Dio. Viceversa il volontarismo si scontra con la teodicea  ovvero con la questione dell’esistenza del male nel mondo e dunque con la  necessità di ammettere un qualche limite alla potenza di Dio di fronte ad esso.  Si può ipotizzare che proprio le difficoltà incontrate — una narrazione di  queste difficoltà si può trovare nei volumi di S. Landucci (1986)e M. E. Scri-  bano (1988 e 1994) — nel corso del XVII secolo nel delineare in modo coe-  rente e accettabile queste diverse strategie per fare dipendere il bene morale  dalla legge divina, hanno segnato una delle cause del crollo della concezione  meta-etica che stiamo esponendo. Sulle macerie di questa concezione si sono  andate consolidando le meta-etiche che ritengono costitutiva per una ricostru-  zione adeguata di questo campo il pieno riconoscimento dell'autonomia del-  Petica.   Cerchiamo di delineare sia pure sommariamente le principali argomenta-  zioni che giustificavano questo sforzo di ricondurre l'etica alla legge divina.  Nella sezione successiva ricostruiamo invece il tentativo di connettere comun-  que l’etica ai comandi di un'autorità, non già però sovrannaturale, ma solo  terrena e positiva.   Come si è detto la biografia intellettuale di Locke è particolarmente signi-  ficativa per chi sia interessato a una riflessione critica sulle ragioni pro e con-  tro un’etica del comando divino. Lo sforzo di Locke era quello di conciliare  questa concezione meta-etica con ragioni che potessero essere accettate an-  che, al di fuori della metafisica innatistica del pensiero medievale e cartesiano,  da chi si muoveva accettando un’epistemologia empiristica. Vi erano alcuni  vantaggi a favore di una concezione della morale e dell'etica come una legge  divina presente nella natura umana. Quest'impostazione permetteva di risol-  vere in modo semplice le complesse questioni della motivazione propria della  condotta etica e dell’universalità ed eternità dei principi morali. Locke mostra  con chiarezza che questa concezione meta-etica veniva abbracciata in defini  tiva proprio in quanto permetteva di rendere conto di un'etica in cui i prin-  cipi venivano appunto considerati come eterni e universali e obbligatori per  tutti gli esseri umani. Infatti come insistentemente ripete Locke — e non solo  negli Essays on the Law of Nature, ma anche in An: Essay concerning Human  Understanding (1690, Saggio sull'intelletto umano) e negli scritti pubblicati  dopo il 1690 — un'adeguata filosofia morale deve riuscire a delineare le con-  dizioni che rendono vincolante principi e regole, ovvero la legge naturale, per  tutti gli esseri umani in qualsiasi epoca. Ma il punto decisivo è che l’obiettivo di una filosofia morale non è solo mostrare che un certo principio è vincolante  e obbligante, ma anche che ciò che esso ci comanda va fatto perché noi rico-  posciamo che è giusto. Tutto ciò possiamo realizzarlo solo concependo la  legge naturale al centro dell'etica come un comando di Dio. Solo questo in-  fatti garantisce che il comando sarà giusto, direttamente presente în tutti gli  esseri umani e vincolante in modo efficace in quanto tutti sanno che qualsiasi  defezione alla legge sarà punita da Dio senza scampo in una vita eterna.   Locke nella sua presentazione della natura dell'etica come una legge natu-  rale non solo si sforzava di insistere sulla natura obbligante di questa legge  facendola derivare da un comando divino, ma di rendere possibile la conosci-  bilità di questa da parte della coscienza umana senza doverla presupporre  come innata o ammettere un consenso universale non riscontrabile empirica-  mente. Proprio il fatto di fare derivare la conoscenza della legge naturale da  un processo che univa senso e ragione portava Locke a considerare tale legge  come costitutiva della natura umana. Locke finiva dunque con il congiungere  la concezione che vede l'etica come il campo dei comandi divini con un’altra  concezione che vede piuttosto l’etica come l’esplicitazione di quelli che sono i  caratteri necessari della natura umana. Nelle sue analisi Locke non distin-  gueva tra due strategie radicalmente diverse, quella che concepisce la legge  morale naturale come un comando divino che ci viene direttamente comuni-  cato da Dio o da un suo interprete autorizzato e quella che invece vede la  legge naturale come qualcosa solo indirettamente scopribile ricostruendo le  leggi morali incorporate nella condotta umana.    2.4. L'etica come comando di una qualche autorità. — L'insistenza sulla  tesi che la natura propria dell'etica può essere colta solo mettendo al suo cen-  tro principi morali che sono obbliganti e vincolanti in quanto comandati è  presente anche in un’altra linea di caratterizzazione meta-etica e meta-morale.  Si tratta di quella concezione che, negata la possibilità di riconoscere una au-  torità sovrannaturale e divina, mantiene pur tuttavia l'apparato concettuale  dell'etica religiosa per cercare di rendere conto in termini mondanizzati della  natura vincolante della morale. Questa strategia di traduzione dell'etica del  comando divino nella meta-etica che definisce comunque le nozioni morali in  termini di imperativi o comandi sia pure di una autorità terrena e umana fu  percorsa già nel corso del XVII secolo, ad esempio secondo alcuni studiosi di  etica da Hobbes. Ma l'interpretazione di Hobbes in questo senso è contro-  versa e dunque risulta dubbia la possibilità di rendere conto della sua con-  cezione della legge etica o morale considerandola come una concezione che  la riduce al comando di un'autorità positiva riconosciuta. Né ritengo che, diversamente da quanto pensano altri studiosi di storia dell’etica (ad esempio  M. A. Cattaneo, 1962), una concezione del genere si possa ritrovare nell'opera  del fondatore dell’utilitarismo Jeremy Bentham in quanto è chiaro da un  punto di vista concettuale che per un utilitarista il criterio decisivo dell'etica  non è il rinvio a qualcosa che è comandato — secondo procedure ricono-  sciute idonee — ma direttamente a ciò che è accettabile in termini di utilità  generale. Tale concezione può dunque essere più correttamente attribuita ad  autori come John Austin o, per venire al secolo XX, ai sostenitori del positi-  vismo giuridico come Hans Kelsen. Si tratta di una concezione legalistica del-  l'etica; ciò che ha una validità etica può essere obbligante solo se vi è un’au-  torità che è in grado di fare rispettare, con opportune sanzioni, la legge o le  regole codificate. Tale impostazione non solo esige una qualche codificazione  dell'etica, ma richiede anche che vi sia una autorità in grado di fare rispettare  i suoi decreti.   Numerose sono le obiezioni che sono state mosse a questa concezione le-  galistica dell’etica e in generale a una concezione come quella che sarà svilup-  pata sistematicamente dal positivismo giuridico che tenta di ricondurre la to-  talità del valore etico ai comandi di un'autorità positiva in grado di fare rispet-  tare con l'uso della forza i suoi decreti. Già nel XVII secolo viene messa a  punto un’ampia batteria di critiche. Esse rendono difficile accettare questa  concezione come in grado di spiegare la natura dell’etica in generale e fini-  scono con il delimitarne la portata esplicativa, eventualmente, al solo diritto  positivo strettamente inteso (cfr. infra, $ 6.2).   Ricordiamo alcune di queste critiche. Il punto decisivo sta nel fatto che  ricondurre l'etica a un insieme di comandi non permette di discriminare  — come ha mostrato nel dettaglio ad esempio F. Snare (Snare, 1992: 13-30) —  tra tre situazioni che sono concettualmente distinte. 1) Una posizione è quella  di chi accetta un comando in quanto teme l'eventuale sanzione di chi pro-  mulga il comando, ovvero quella di chi considera il comando obbligatorio e  vincolante in quanto prevede che chi lo ha emesso ricorrerà a una forza effi-  cace coercitiva per farlo rispettare. 2) Completamente diversa è poi la posi-  zione di chi accetta un comando in quanto riconosce un'autorità a chi pro-  mulga il comando. In questa posizione ricadono non solo i fautori — di cui  abbiamo già detto nella sezione precedente — di un legalismo religioso alla  Locke che vedono il comando divino come obbligante non potendosi non  avere «fiducia» nell’autore della natura che non può regolarsi in modo di-  verso da quello proprio di un padre buono. Vi ricadono anche i fautori del  positivismo giuridico (per una presentazione ed una critica di questa posi-  zione sono utili Bobbio, 1965; Scarpelli, 1965} che ritengono di non potere non obbedire alle leggi promulgate da un'autorità che riconoscono come le-  gittima in quanto rispetta le procedure costituzionalmente previste per pro-  mulgare leggi. 3) Infine del tutto diversa è la posizione di coloro che accettano  un comando in quanto discriminano tra comandi giusti e comandi ingiusti e  dunque rispettano le leggi del loro paese fino a quando le considerano etica-  mente accettabili. Si tratta di tre situazioni ben distinte e una meta-etica che  non riesca a mantenere autonoma l'obbligatorietà della morale dalla mera ac-  cettazione di un comando legittimo o dal timore di una qualche sanzione data  da un potere che ha la forza di costringerci risulta una meta-etica inadeguata.   Le critiche alle concezioni religiose o legalistiche della natura dell’etica  sono una chiara via pet giungere a cogliere l'autonomia dell'etica. L'autono-  mia che così viene in primo piano è quella di decisione di ciascun soggetto  individuale responsabile. L'etica ha a che fare con decisioni autonome di in-  dividui che non possono ritenere risolti i loro problemi meramente facendo  appello a una qualche autorità che comanda loro che cosa fare. In realtà resta  sempre aperta da un punto di vista etico la domanda che conta ovvero se ob-  bedire o meno al comando riconoscendolo giusto. Il senso peculiarmente  etico di tale domanda ci si rivela laddove comprendiamo che con essa ci si  chiede non tantose l'autorità che ci sta di fronte sarà in grado di scoprirci o  punirci ove non rispetteremo i suoi comandi, quanto piuttosto se il comando  è giusto o meno, ovvero se è o no moralmente accettabile.   Le concezioni legalistiche dell'etica e il positivismo giuridico non riescono  dunque a discriminare tra potere giusto e ingiusto. Collocandosi al loro in-  terno non trovano una spiegazione tutte le situazioni — su cui ha molto insi-  stito Ronald Dworkin (Dworkin, 1990) nella sua critica al riduzionismo meta-  etico del positivismo giuridico — quali quelle in gioco quando ci si rifiuta di  obbedire a un comando ingiusto (le forme di totalitarismo del XX secolo  hanno di continuo fatto sorgere per gli esseri umani dilemmi del genere}. Ma  più in generale partendo da una concezione meta-etica del genere non si rie-  sce a spiegare proprio la genesi di istituzioni quali la giustizia e il governo.  Naturalmente intendiamo riferirci a una genesi che cerchi sul piano logico-  critico le ragioni della validità morale di un certo governo e della giustizia,  non già a una genesi che si contenti di qualche risposta di ordine storico 0  fattuale. Le concezioni che riconducono la validità dei principi morali a co-  mandi vincolanti dati da una qualche autorità tendono infatti a considerare  che l'unico problema in gioco laddove ci interroghiamo sulla genesi della va-  lidità del potere di un certo governo o di determinate regole di giustizia non è  altro che il mero interrogarsi sul fatto storico se questo governo esiste o meno  e se queste sono o meno le leggi che vigono nel nostro paese. Chi riduce l'etica ai comandi di una qualche autorità non riesce più a rendere conto del  perché distinguiamo tra governi e leggi giuste e governi e leggi ingiuste. In  questo quadro legalistico non ha nemmeno molto senso porsi il problema, che  pure sembra centrale per l'etica moderna e contemporanea, dello spiegare  quali sono le basi per cui si debba obbedire a una qualche norma anche  quando si sa che non c’è nessuna autorità in grado di osservare il nostro com-  portamento e dunque premiarci o punirci per la nostra fedeltà o la nostra de-  fezione. Se l'unica validità di una legge etica è data dalla forza che chi la co-  manda ha di farla rispettare, è evidente che non c’è nessuna ragione di seguire  una norma etica quando l’autorità non è in condizione di raggiungerci con le  sue sanzioni, Questa concezione meta-etica dunque non solo non spiega il  passaggio da una situazio ne priva di etica a una in cui vi è un qualche princi-  pio etico, ma finisce con il lasciare sempre aperta — in definitiva come fisio-  logica e legittima — la possibilità di defezionare dai comandi dell'etica ove  si sia in condizione di sfuggire al controllo dell’autorità che li ha promulgati.    2.5. L'etica come legge naturale 0 razionale. — Un'altra concezione sulla  natura dell'etica che ha una lunga storia dietro di sé è quella che identifica il  bene e il giusto con ciò che è naturale per gli uomini ovvero con ciò che è  razionale per essi. Le derivazioni della morale in termini di ragione umana e  in termini di natura umana rappresentano certamente due diverse concezioni  meta-etiche se le si vede da un punto di vista contenutistico; infatti è ben di-  verso presentare come un tratto definiente del bene e del giusto la natura o la  ragione umana. Per una lunga parte della storia dell’etica però le due vie sono  state fatte coincidere e fino al XVII secolo la natura umana è stata appunto  presentata principalmente come natura razionale. Solo nel XVIII secolo si  sono andate divaricando le due diverse strategie che hanno ricondotto l’etica  o ad aspetti della natura umana non strettamente razionali (i sentimentalisti e  Hume) o proprio alla parte razionale in quanto non influenzata da desideri e  passioni (Kant). Per quanto riguarda queste concezioni che riconducono  l'etica alla natura o alla ragione umana va rilevato che diversamente da quanto  accade nel caso dell'etica del comando divino la definizione del campo pro-  prio del bene e del giusto non viene data rinviando a realtà al di sopra o al di  là degli esseri umani, quali sono appunto i comandi di un Essere Supremo. Ci  troviamo infatti di fronte a concezioni che ritengono di potere rendere conto  del campo della morale ricavandolo integralmente da ciò che è interno all’uni-  verso della vita umana. Si viene così a superare una concezione eteronoma  dell'etica nel senso di una concezione che rinvia a qualcosa che è al di sopra o  al di fuori della natura e ragione umana. Non tutte però le concezioni che collegano l'etica alla natura o ragione umana — e che potremmo caratteriz-  zare in un senso molto generale come naturalistiche o immanentistiche — ne  riconoscono pienamente l'autonomia, e non mancano fino al XVIII secolo  concezioni riduzionistiche che tendono ad assimilare l'etica a tratti generali  della vita o della natura umana niente affatto peculiari. Alle concezioni meta-  etiche di Hume e Kant possiamo fare risalire il pieno riconoscimento dell’au-  tonomia dell’etica pure nell’alveo di spiegazioni che fanno ricorso alla natura  o alla ragione umana. Nel senso più radicale di collegamento dell'autonomia  dell'etica con le scelte e le decisioni individuali dobbiamo invece guardare a  un processo che si è sviluppato solo nel XIX e XX secolo.   Cerchiamo di individuare i tratti distintivi di questa concezione meta-etica  o meta-morale rendendo brevemente conto delle tradizioni che l'hanno mag-  giormente sviluppata. In primo luogo la tradizione naturalistica che ha guar-  dato — e guarda tuttora — all'etica nei termini metafisici e ontologici propri  della filosofia di Aristotele con le trasformazioni e manipolazioni più o meno  profonde operate dalle filosofie tomistiche e neotomistiche. In secondo luogo  la tradizione razionalistica che possiamo fare coincidere con il giusnaturali-  smo razionalistico del XVII secolo. Come si è detto vanno tenute distinte da  queste due strategie meta-etiche che potremmo caratterizzare come riduzioni-  stiche quelle che pur rinviando alle nozioni di natura o ragione umana rico-  noscono uno spazio del tutto autonomo per la morale o l'etica. Così va consi-  derata a parte la forma di naturalismo presente nelle opere di Hume che rico-  nosce nell’etica una dimensione del tutto peculiare della vita umana della  quale non si può rendere conto nei termini di una generale ricostruzione on-  tologica e metafisica della natura umana complessivamente intesa. Va ugual-  mente tenuta distinta dalle concezioni riduzionistiche dell'etica la ricostru-  zione che della morale realizza Kant. Infatti questi, pur ammettendo lo stretto  collegamento tra razionalità ed etica, salvaguarda l'autonomia del campo della  morale distinguendo nettamente tra il piano della ragione pura conoscitiva e  quello della ragione pratica.   Presenteremo dunque quattro distinte caratterizzazioni dell'etica: nel  senso di un giusnaturalismo ontologizzante e metafisico; nel senso dell’estrin-  secazione di un'unica Ragione ontologicamente radicata; nel senso di un col-  legamento con una natura umana universalmente intesa al cui interno si cer-  cano però tratti che consentano di salvaguardare l'autonomia del campo della  morale; e infine nel senso dell'estrinsecazione di una razionalità pur sempre  sovrastorica e universale ma che viene connotata in una dimensione specifica-  mente pratica distinta da altre dimensioni.   In Aristotele troviamo chiaramente formulata la tesi che la virtà e il bene consistono per gli uomini nel realizzare il comportamento che è proprio della  loro natura. L'essere umano è dunque naturalmente etico (come del resto è  naturalmente politico), e l'etica nella sua realtà può essere derivata solo dalla  conoscenza dell'essenza stessa della natura umana. Una prospettiva che tra  l’altro rende praticamente impossibile distinguere il piano dell’analisi meta-  etica da quellodelle analisi normative: identificare lo spazio dell'etica coincide  con l’identificare il bene che gli esseri umani sono naturalmente inclini a rico-  noscere. Nell’Etica Nicomachea (Aristotele, 1979) Aristotele presenta la più  chiara formulazione di una concezione che ricava la definizione dell'etica  dalla definizione della natura umana. L'elenco delle virtù umane e la loro ge-  rarchia viene infatti derivata da una preliminare conoscenza di quella che è la  natura sostanziale dell'uomo. Anche se in Aristotele si riconosce come propria  della vita pratica una dimensione di indeterminatezza e probabilità che la  rende del tutto diversa dal sapere teorico in cui si possono attingere sia la  certezza, sia la conoscenza dimostrata, poi non troviamo tale indeterminatezza  quando si passa a delineare i fondamenti dell'etica. Che per gli uomini  la virtù  somma stia nella vita contemplativa e che la giustizia rappresenti la virtù  suprema della vita associata viene derivato logicamente dalla definizione del-  l'essenza dell’uomo come appunto animale razionale propriamente adatto al  sapere teorico e al vivere in società. Vi è nell’etica aristotelica non solo una  derivazione della definizione dell’etica da quella che si ritiene la natura essen-  ziale e sostanziale dell'uomo, ma anche una particolare strategia teleologica  per rendere conto della vita etica in modo tale da salvaguardare l'impianto  dinamico e progressivo della vita pratica. In Aristotele infatti il bene per  l’uomo e quindi l'orizzonte di realizzazione dell'erica non rinvia a qualcosa di  già dato e posseduto, ma richiede piuttosto l'impegno dell'uomo a realizzare  quello che è lo scopo ad esso più proprio.   Questo impianto teleologico dell'ontologia aristotelica permette alla filo-  sofia di Aristotele di venire riproposta nel tomismo e nel neotomismo come  struttura portante della concezione mediante cui il cristianesimo elabora il suo  peculiare tentativo di ridurre l’etica alla natura umana (si veda Maritain,  1971). Nella tradizione cristiana non è necessario percorrere la strategia che  riduce l’etica direttamente ai comandi divini: si può infatti percorrere anche la  strada che vede la natura umana come di per se stessa fornita di caratteri etici  imprescindibili. L'Autore della Natura con la sua bontà e provvidenza ha  creato la natura umana in modo tale da fornirla intrinsecamente di quel par-  ticolare te/os che le permette di realizzarela felicità e i risultati migliori per gli  uomini. Realizzare i fini propri della natura umana diventa così un comanda-  mento anche per la religione cristiana in quanto appunto nella n atura umana sono rintracciabili chiaramente i tratti distintivi propri della vica etica. Ciò che  è innaturale risulta negativo e malvagio e nello stesso ordine naturale delle  cose possiamo rintracciare la regola di ciò che è buono e giusto.   Ma questa via di ricondurre l'etica a qualche tratto tipico della natura  umana viene percorso nel pensiero moderno e contemporaneo anche su basi  diverse da quelle metafisiche e ontologiche proprie dell'etica aristotelica. Se il  carattere comune în base al quale caratterizziamo una meta-etica come natu-  ralistica è quello di ricondurre i tratti distintivi dell'etica a qualcosa che è pe-  culiare della natura umana allora numerose meta-etiche naturalistiche sono  state presentate anche dal Seicento in avanti. Ma queste forme moderne e  contemporanee di naturalismo rifiutano poi di irrigidire la natura umana alla  luce di una concezione sostanzialistica e di conseguenza non percorrono la  strada che presenta l'etica come qualcosa di ontologicamente o concettual-  mente necessario per una definizione della natura umana ed evitano anche di  ricorrere alla strategia finalistica 0, nella versione cristiana, provvidenzialistica,  per fondare il campo della morale. Presentiamo alcune di queste meta-etiche  naturalistiche delineate nella cultura moderna econtemporanea e alcune cri-  tiche ad esse mosse.   Abbiamo un filone di meta-etiche naturalistiche, inaugurato dalla filosofia  di Anthony Ashley Cooper Shaftesbury, che pone al centro dell'etica un qual-  che istinto 0 sentimento originario e irriducibile ad altro: un «senso morale»  proprio di tutti gli esseri umani, Qui ci troviamo non solo di fronte a una  meta-etica chiaramente immanentistica, ma anche a una con cezione che non  deriva la definizione dell’etica da una caratterizzazione di tipo essenzialistico  della natura umana, ma da una ricognizione empirica degli esseri umani. Re-  sta poi vero che attraverso questa procedura empirica si ritiene di potere in-  dividuare qualcosa che è comune a tutti gli uomini e quindi come tale proprio  della natura umana e almeno nel caso di Shaftesbury, e dopo di lui di Francis  Hutcheson, anche qualcosa di originario. Va sottolineato che l'etica viene qui  collegata alla disposizione da parte degli uomini a reagire alle cose del mondo  sulla base di qualche sentimento o senso piuttosto che in termini meramente  intellettuali o razionali. Ancora per tutto il secolo XVILI vi è stata una meta-  etica riconducibile a una forma di naturalismo sentimentalistico. L'etica in-  fatti ha a che fare con sentimenti e emozioni proprie di tutti gli uomini anche,  ad esempio, per Hume e Smith. Nel caso di Hume tale caratterizzazione in  termini naturalistici dell'etica risulta temperata, sia dalla portata complessiva-  mente ipotetica delle sue spiegazioni filosofiche, sia dal presentare i senti-  menti e le emozioni proprie dell’etica come in larga parte non originarie, ma  piuttosto come il risultato di un processo artificiale di sviluppo della natura umana. Di conseguenza da una parte l'etica si presenta come qualcosa che ha  a che fare con un risultato artificiale e non originario della vita umana, ma  dall'altra questo stesso artificio è presentato come del tutto naturale per gli  uomini nel senso che Hume ne ricostruisce la genesi ricorrendo a cause natu-  rali. Tale concezione naturalistica è stata così vista — ad esempio da M. Ruse  (1986) — come un precedente di quella evoluzionistica elaborata da Charles  Darwin e che si trova sviluppata poi a un livello filosofico (non privo di incli-  nazioni assolutistiche) in Herbert Spencer. Nel naturalismo evoluzionistico  l’etica viene considerata come un insieme di istinti e abitudini cooperative ac-  quisite dagli uomini nel corso dell’evoluzione, ma una derivazione evolutiva  dell’etica non esclude che essa venga considerata — specialmente laddove si  insiste sulle sue radici biologiche — come propria di tutta la specie umana.   ‘Tutte queste diverse forme di meta-etica naturalistica sono state sottoposte  a critiche radicali lungo due linee convergenti, tra la fine del XIX secolo e la  prima metà del XX. Da una parte si èobiettato, come ad esempio fa J. $. Mill  nel primo dei suoi Three Essays on Religion (1874, Tre saggi sulla religione)  dedicato alla natura (Mill, 1972: 13-52), mostrando la vaghezza e genericità  della nozione di natura che come tale è del tutto incapace di fornire un qual-  che criterio preciso per avere a che fare con i problemi etici, dato che sta le  azioni più crudeli sia quelle più generose rientrano nella Natura latamente in-  tesa. Dall'altra si è obiettato, come fa ad esempio G. E. Moore nei Prircipia  Ethica (Moore, 1964: 91-120) che da un punto di vista logico econcettuale il  naturalismo cade nella cosiddetta «fallacia naturalistica» riducendo appunto  a naturale ciò che non lo è (cfr. oltre $$ 3.4 e 3.11).   Malgrado queste critiche nel XX secolo concezioni naturalistiche dell’etica  sono state pur tuttavia riproposte, sia in termini evoluzionistici (ad esempio  nel caso della sociobiologia, specialmente da E. Wilson, 1975), sia attraverso  forme aggiornate di neoaristotelismo (ad esempio P, Foot, 1978 e A. Mac.  Intyre, 1988).   In contrasto con queste meta-etiche naturalistiche vanno viste quelle con-  cezioni che rendono conto dell’etica non tanto riconducendola alla natura  umana, in generale, quanto piuttosto collegandola strettamen te, in modo più  specifico, con la ragione umana. Tale strategia è stata percorsa lungo due di.  verse linee, Da una parte i razionalisti etici del XVII secolo, quali ad esempio  i giusnaturalisti Ugo Grozio e Samuel Pufendorf, consideravano questa ra-  gione umana come una facoltà ontologicamente garantita in grado di cogliere  l'essenza stessa dell’uomo e dunque i suoi obiettivi più propri (Bobbio, 1963).  Questa concezione della ragione è rintracciabile anche alla base dei numerosi  tentativi nel corso del XVII secolo di dare vita a un'etica dimostrata, un compito verso cui tendono pensatori per altri versi molto differenti quali ad esem-  pio Hobbes, Baruch Spinoza, Locke e Samuel Clarke. L'idea era quella di  presentare una morale che derivasse le leggi del comportamento umano da  principi o auto-evidenti, o assunti comevalidi per definizione, o radicati nella  struttura metafisica del mondo.   Il razionalismo etico è stato però successivamente elaborato anche al d  i  fuori di questo quadro metafisico, essenzialistico o dimostrativo. Questa è ad  esempio la strategia percorsa nel modo più rigoroso ed approfondito da Kant  nella Kritik der praktischen Vernunft (\788, Critica della ragion pratica), ma  poi ampiamente ricorrente nella storia dell'etica contemporanea. Nel caso di  Kant l'etica ha a che fare non più con la struttura essenziale del mondo,  quanto piuttosto con la forma pura della razionalità umana. Kant precisa anzi,  salvaguardando la sua meta-etica dalla critica di ridurre il dovere al fatto, la  morale alla scienza, che la ragione di cui egli tratta nell'etica non è la ragione  pura conoscitiva ma è la ragione pratica. L'etica secondo Kant non ha un con-  tenuto diverso dai principi generali che presiedono alla possibilità stessa di  una razionalità pratica per gli uomini, ed è in questo senso che l'etica ha a che  fare con una dimensione trascendentale che riguarda la volontà umana in ge-  nerale. L'etica fissa e precisa le leggi che presiedono al funzionamento di qual-  sivoglia volontà umana che non si proponga questo o quell'obiettivo partico-  lare, ma piuttosto di conformarsi alla sua struttura generale. L'etica rende così  esplicita la struttura categoriale della razionalità pratica umana. Vedremo nel  paragrafo 4.6 quali sono i contenuti normativi precisi a cui Kant giunge muo-  vendo da questa concezione meta-morale; qui ci limitiamo a sottolineare al-  cuni tratti della meta-etica kantiana.   Nel caso della caratterizzazione della natura della morale fornita da Kant  risulta del tutto salvaguardata l'autonomia dell'etica rispetto alle dimensioni  della conoscenza empirica e della fede religiosa (Landucci, 1993): la raziona-  lità pratica umana è infatti in grado da sola di fondare la validità della vita  morale. Anzi nella concezione kantiana gli stessi contenuti principali della re-  ligione sembrano presentarsi come risultati dell’azione della razionalità pra-  tica umana in quanto suoi postulati che garantiscono la validità della vita mo-  rale. Nell’approccio kantiano l’esigenza di non ridurre l'etica a qualche altra  cosa viene dunque salvaguardata sia attraverso l'affermazione della netta di-  stinzione tra ragionpura conoscitiva e ragion pura pratica, sia con la nega-  zione della riconducibilità dell'etica a sentimenti ed emozioni naturali degli  uomini. Rifiutando di assumere un qualsiasi sentimento o emozione partico-  lare degli uomini come in grado di rendere conto della natura della morale,  Kant ritiene anche di  poter giungere a garantire l'universalità della legge morale. Questa teoria meta-etica ha come sua conseguenza un pregiudiziale ri-  fiuto rigoristico di considerare come bene una qualunque cosa che possa sod-  disfare un sentimento, un'emozione 0 un desiderio individuale.   Malgrado l'impegno con cui Kant si è sforzato di salvaguardare l’autono-  mia dell’etica non sono mancate nei confronti della sua meta-etica le critiche  di coloro che vi trovano una forma di riduzionismo non diversa da quella pre-  sente nell’etica naturalistica. Si insiste dunque che in Kant il dovere etico è  ridotto a quella che è la legge e la struttura della volontà. E ancora che nei  suoi scritti vi è la riduzione di tutte le ragioni pratiche dei singoli esseri umani  finiti a una razionalità universale e assoluta. Si rileva poi che l’uso di una no-  zione come quella di trascendentale è una traccia del permanere di tentazioni  di tipo ontologizzante ed essenzialistico. Va segnalato che — come avremo  modo di documentare ulteriormente — l’impostazione kantiana ha avuto co-  munque una grande fortuna nel corso del XX secolo. Autori su posizioni filo-  sofiche molto diverse — quali ad esempio J. Rawls, H. Putnam, K. O. Apel —  la ripropongono in nuove vesti. La tendenza è quella di depurare l'imposta»  zione kantiana dalle tentazioni di ordine metafisico e considerare l'etica come  qualcosa che ha a che fare non tanto con la struttura di fondo della razionalità  pratica quanto con le condizioni stesse della comunicazione umana in gene-  rale o con le presupposizioni della vita civile. Coloro che elaborano il modello  della razionalità pratica kantiana giungono così per quanto riguarda la natuta  dell'etica a conclusioni non molto diverse da quelle raggiunte da alcuni teorici  del prescrittivismo non cognitivistico di cui renderemo conto nella prossima  sezione.    2.6. L'etica come prescrizione universalizzabile. — Nel corso del XX se-  colo il tipo di concezione dell'etica che ha avuto la prevalenza è quella preoc-  cupata principalmente di rendere conto della vita morale in modo tale da se-  gnarne una netta autonomia e differenziazione rispetto al piano della cono-  scenza empirica e scientifica; potendosi oramai ritenere già del tutto acquisito,  sul piano teorico, il processo che ha portato a segnare il distacco dell’etica  dalla religione. La distinzione dell'etica rispetto al campo della scienza e della  conoscenza empirica è stata poi tracciata su basi molto diverse, rimanendo  dunque costante la tendenza a definire la natura dell'etica come campo del  tutto irriducibile e peculiare della cultura umana.   Così proprio all’inizio del XX secolo Moore consolida in modo definitivo  la tendenza a segnare una completa autonomia dell'etica rispetto alla cono-  scenza empirica 0 metafisica, anche se poi egli legava le principali nozioni eti-  che con una forma di conoscenza intuitiva del tutto peculiare. Conclusione  quest'ultima che verrà rifiutata da coloro che più rigorosamente negheranno  che l'etica abbia a che fare con una forma qualsiasi di conoscenza, ovvero da  quei teorici del non-cognitivismo preoccupati piuttosto di salvaguardare la di-  mensione prevalentemente normativa o prescrittiva al centro della morale. Ma  la soluzione di Moore era quella di indicare nelle proprietà oggetto dell’intui-  zione etica — ovvero nel bene e nel dovere — delle proprietà del tutto uniche  e irriducibili ad altri tipi di proprietà naturali, presentandole quindi come pe-  culiari e indefinibili qualità non-naturali. Tutte le meta-etiche che non ave-  vano riconosciuto l’indefinibilità e l'irriducibilità delle proprietà etiche se-  condo Moore avevano compiuto, in generale, l'errore logico da lui chiamato  «fallacia naturalistica», errore consistente prima di tutto nel ridurre ciò che  non è naturale al naturale.   Su basi diverse all'analoga conclusione dell’affermazione di una netta di-  stinzione tra conoscenza empirica o scienza e ambito della morale arriveranno  anche quei neo-positivisti che —— come ad esempio Alfred Jules Ayer in Lan-  guage, Truth and Logic (1946, Linguaggio, verità e logica) — allargavano la  loro analisi verificazionista del discorso fino a presentare conclusioni a propo-  sito della natura dell'etica. La tesi generale di Ayer era quella dell'impossibi-  lità di rend ere conto dei giudizi morali con le stesse concezioni esplicative che  rendono conto delle normali asserzioni empiriche e scientifiche. Ma Ayer non  si limitava a tracciare una distinzione tra l'ambito delle asserzioni empiriche e  l'etica. Egli infatti concludeva sulla base della generale teoria del significato  accettata dai neo-positivisti — secondo la quale solo le proposizioni empirica-  mente verificabili, sia pure in linea di principio, hanno un significato — che  l'autonomia dell’etica è data dal fatto che i suoi enunciati, proprio per l’uso di  nozioni quali buono, giusto e dovere non sono verificabili in termini empirici  e dunque sono privi di senso. Ayer non si limitava però alla conclusione nega-  tiva, ma aggiungeva anche una caratterizzazione in positivo dell’etica. Ayer in-  fatti riconosceva alle proposizioni dell'etica un ruolo loro proprio: quello di  esprimere le emozioni di chi parla e di suscitare emozioni in chi ascolta. Pro-  prio sulla base di questa caratterizzazione emotivistica della natura dell'etica  Ayer finiva con il sostenere sul piano epistemologico che non esistono modi  razionali per cercare di superare il disaccordo in morale (cfr. srfra, $ 3.9).   Anche Stevenson salvaguardava in Ethics and Language (1944, Etica e lin-  guaggio) l'autonomia dell'etica collegandola agli atteggiamenti, mentre le altre  specie di discorso hanno a che fare principalmente con le credenze. Gli stru-  menti teorici generali di Stevenson erano però quelli del pragmatismo e non  già quelli del neopositivismo, e proprio perciò permettevano di delineare una  ricostruzione meno rinunciataria e negativa del discorso etico. Infatti secondo Stevenson l’etica è costituita da un insieme di giudizi in cui chi parla espone  appunto i propri atteggiamenti e cerca di provocarne di analoghi anche negli  altri. Rispetto all'analisi riduttiva di Ayer, in quella dell’«ernotivismo mode-  rato» di Stevenson viene riconosciuto il ruolo peculiare del discorso etico  come pienamente significante sia pure collocandolo su dì un piano non cono-  scitivo. Rispetto al neopositivismo (ma anche all'intuizionismo di Moore) il  punto di svolta sta nel riconoscimento che non solo le conoscenze sono signi-  ficanti. Rispetto a quanto era stato fatto dalla riflessione meta-etica precedente  quello che per Stevenson e i non- cognitivisti diventa centrale non è solo riu-  scire a rendere conto di quanto l'etica sia distinta dalla conoscenza, ma anche  specialmente dello stretto collegamento che essa ha con l'azione e la pratica  effettiva. Su questo piano diventa prioritario nella riflessione meta-etica la sal-  vaguardia della distinzione tra l'è di cui appunto si occupa la conoscenza e il  deve che è di pertinenza della morale.   I fautori della meta-etica non-cognitivistica si impegnano particolarmente  lungo una linea analitica rivolta a rendere esplicito il collegamento del discor-  so etico con l’azione fissando in termini di regole precise e non già di espres-  sione di emozioni questo ruolo del linguaggio umano. In questa direzione  sono stati elaborati numerosi tentativi di caratterizzazione. Tutta la riflessio-  ne europea sull'analisi del linguaggio morale nel periodo successivo alla fine  della seconda guerra mondiale è dedicata principalmente a questo obiettivo.   Rendiamo qui conto della più fortunata tra le concezioni non-cognitivisti-  che, quella di Richard Mervyn Hare, già delineata fin dal 1952 con The Lan-  guage of Morals (Il linguaggio della morale) e poi ripresa e sviluppata, prima  sul piano epistemologico nel 1963 con Freedom and Reason (Libertà e ragione)  € poi su quello normativo nel 1981 con Mora! Thinking. Its Levels, Method  and Point (Il pensiero morale).   Secondo Hare l’etica è caratterizzata dalla presenza di nozioni la cui fun-  zione è tale che non può trovare realizzazione in nessuna altra parte del di-  scorso umano: la funzione propria del discorso etico è quella di dare voce a  «prescrizioni universalizzabili soverchianti». Tutti questi tratti dell'etica ven-  gono spiegati dettagliatamente da Hare nei suoi scritti. Le impostazioni filo-  sofiche generali di L. Wittgenstein e di J. L. Austin gli forniscono gli stru-  menti per dare corpo alla sua meta-etica. Con il sottolineare la natura prescrit-  tiva dell'etica Hare salvaguarda quello stretto collegamento delle nozioni  morali con le azioni effettive di chi esprime una propria posizione e di chi  ascolta. Si tratta di quel nucleo proprio dell’etica per cui essa è necessaria-  mente collegata con una qualche motivazione ad agire, e per cui si imparenta  con i comandi e con gli imperativi e include il ricorso alle nozioni di dovere e obbligo. Si tratta appunto di quel nucleo prescrittivo che veniva perso di vi-  sta da quelle concezioni meta-etiche — quali l'intuizionismo sostenuto da  Moore — che tendevano invece a rendere conto dell'autonomia e specificità  della morale in termini di una conoscenza peculiare. In realtà l'etica non è in  alcun modo una conoscenza di ciò che è, ma è un insieme di prescrizioni ri-  volte a ciò che deve essere.   Un altro punto importante della concezione meta-etica di Hare è quello  che insiste sul farto che i nostri discorsi morali non solo sono prescrittivi, ma  in realtà trasmettono prescrizioni universali, ovvero prescrizioni che si riten-  gono valide per tutti i casi simili. Il riconoscimento di una universalizzabilità  dei giudizi morali così come affermata dalla meta-etica non-cognitivistica  vuole rendere conto di un'esigenza peculiare di coerenza e strutturazione pro-  pria della vita morale, per cui i giudizi dell'etica si distinguono dai giudizi di  gusto 0 di preferenza relativamente ai quali tale esigenza non viene abitual-  mente fatta valere. Una distinzione tra giudizi morali e giudizi di preferenza  della quale invece non riuscivano a rendere conto le meta-etiche emotivisti-  che. Attraverso questa via dell'universalizzabilità Hare e i non-cognitivisti re-  cuperano e includono nelle loro spiégazioni un tratto dell'etica che è stato  fortemente richiamato e sottolineato da Kant ed è centrale per coloro che ne  riprendono la concezione della morale. Non diversamente come un tentativo  di rendere conto di un'etica che ha molti dei tratti della moralità così come  già la presentava Kant, va visto l'ultimo carattere che Hare riconosce come  proprio dell’etica nel suo modello non-cognitivistico: il fatto di essere sover-  chiante. Ciò significa riconoscere che l'etica è costituita non solo da prescri-  zioni universalizzabili, ma anche che in quanto «soverchianti» sono gerarchi-  camente preordinate rispetto ad altre prescrizioni.   Il non-cognitivismo di Hare è stato ampiamente discusso nella seconda  metà del secolo XX come tentativo fertile di cogliere la natura propria del-  l'etica, La concezione dell'etica come insieme di prescrizioni universalizzabili  soverchianti è stata fatta propria anche dai teorici tedeschi dell'etica del di-  scorso come K. O. Apel e J. Habermas (Apel, 1977; Habermas, 1985). Non  sono mancate le critiche a questa concezione che è stata considerata — ad  esempio da B. Williams (1987) — non tanto come una spiegazione o un’ana-  lisi neutra di quella che è l'etica per noi, quanto piuttosto come una posizione  che cerca di imporre una ben precisa concezione, rigida e superata, della  moralità. Altre critiche hanno rilevato come tale meta-etica sembri volere ne-  gare, sul piano logico, la possibilità — invece del tutto aperta a ogni essere  umano — di restare al di fuori di una vita etica così intesa. Hare ha cercato di  rispondere a questo ultimo tipo di critiche precisando che la sua tesi non so-    www.scribd.com/Filosofia_in Ita3    30 ETICA    stiene che non si può fare a meno di sottoscrivere nel corso della propria vita  prescrizioni universalizzabili soverchianti, quanto piuttosto che non si può  rendere conto in modo logicamente corretto della natura dell'etica e della  morale fuoriuscendo da questo quadro esplicativo.   Altri problemi aperti riguardano dimensioni ulteriori della meta-etica non-  cognitivistica e avremo occasione di fermarci su di essi nei prossimi capitoli.  Proprio in quanto la meta-etica non-cognitivistica si presenta, secondo chi  scrive, come quella più adeguata e fertile si tratterà di completarne l'esame  affrontandone anche le altre implicazioni, relative alla genesi dell’etica (cfr.  $ 3.10), alle forme argomentative ad essa proprie fcfr. $$ 3.9 e 11) e ai suoi  eventuali suggerimenti normativi (cfr. $ 4.7).    2.7. La negazione dell'etica: libertà e determinismo. — Nel rendere conto  delle posizioni che si sono occupate in generale della natura dell'etica dob-  biamo soffermarci su quelle concezioni che hanno negato che in realtà vi sia  uno spazio per le scelte etiche degli uomini. Per quanto riguarda queste posi-  zioni — molto differenziate e sempre più diffuse nel secolo XX — distin-  guiamo tra coloro che negano decisamente che gli uomini possano mai agire  realmente in modo libero e dunque essere imputabili di una qualche respon.  sabilità, e le posizioni che invece, pur ammettendo che gli uomini possano  agire liberamente, negano che possano essere effettivamente motivati dalla ri-  cerca di obiettivi non strettamente personali. Le negazioni dell'etica dell'ul-  timo tipo nascono da quelle teorie psicologiche che non ammettono che gli  esseri umani possano essere mossi ad agire da prospettive imparziali o valori  più o meno universali.   Le concezioni che negano qualsiasi spazio per una libera scelta da parte  dell'uomo sono chiamate abitualmente deterministiche. Va subito precisato  però che qui ciò che è in gioco non è tanto la questione su cui sembrano con-  trapporsi deterministi e non- deterministi se vi possano mai essere per gli es-  seri umani azioni del tutto immotivate e dunque arbitrarie, quanto piuttosto  la questione se gli uomini possono scegliere liberamente di fare le azioni che  vogliono fare sulla base delle ragioni e motivazioni a cui sono più sensibili,  comprese le motivazioni e ragioni specificamente morali. Nella lettura che noi  proponiamo dunque la questione della libertà e della responsabilità etica degli  uomini non si colloca nel quadro di discussione sul determinismo e indeter-  minismo proprio della filosofia medievale, incline a identificare la libertà degli  uomini con un irrealizzabile libero arbitrio, ovvero con una libertà di volere in  assenza di qualsiasi motivazione. In alternativa va invece accettata l’imposta-  zione delle analisi sulla questione libertà-necessità dell'agire umano fatte valere nella linea empiristica da Thomas Hobbes, John Locke, David Hume.  Secondo questi pensatori è del tutto compatibile (0 se si vuole addirittura es-  senziale) con il riconoscimento di una libertà e responsabilità morale nelle  azioni umane, una posizione che considera le azioni umane sempre determi-  nate o motivate da una qualche causa o ragione (W. K. Frankena, 1981: 155-  162). Il punto decisivo nella diatriba non è dunque se le azioni umane siano o  no sempre motivate da ragioni o cause, ma se gli uomini possano 0 meno sce-  gliere liberamente di fare le azioni per le quali hanno motivi o ragioni. In que-  sto senso la libertà delle azioni umane non si contrappone tanto all’esistenza  di motivi o ragioni che determinano la volontà, quanto al fatto che gli esseri  umani sono costretti a fare certe azioni da altri esseri wmani o che vi siano  comunque delle cause — che essi non possono in alcun modo controllare —  che li costringano a fare delle azioni che, ove fossero liberi, non farebbero. Si  è costretti a concludere che gli uomini non sono liberi € l'etica non ha alcuna  possibilità di sussistere laddove si ritenga non tanto che tutte le azioni umane  abbiano {o debbano avere) dei motivi, delle cause o delle ragioni, ma si ri-  tenga che tali cause e motivi agiscano necessariamente anche laddove gli uo-  mini credano di avere altri motivi e ragioni per agire. Dunque non sussiste  uno spazio per l'etica quando si abbraccia una concezione che ci porta a rite-  nere tutte le azioni umane come effetto necessario di cause esterne ai diffe-  renti individui umani esistenti, cause sulle quali né ciascuno di questi esseri  umani singolarmente né in collegamento con gli altri può avere una qualche  influenza.   Esistono numerose concezioni che specialmente nel corso del XIX e XX  secolo hanno insistito sulla completa assenza di spazio per una libera scelta  nelle azioni umane nel senso che abbiamo appena definito. Non possiamo qui  rendere conto di tutte le concezioni del genere; ricordiamo solo quelle più  importanti e certamente inquietanti per chi crede a una qualche realtà ed ef-  ficacia delle distinzioni morali.   Già Darwin, nei primi appunti stesi in collegamento con le sue prime ri-  flessioni tra il 1833 e il 1840 sulle sue scoperte intorno alle trasformazioni  delle specie viventi, suggeriva le implicazioni per la morale di una concezione  evoluzionistica (Desmond e Moore, 1992: 293-320). Tutto il processo evolu-  tivo è dominato dal caso e dalla sopravvivenza dei più adatti in termini mera-  mente biologici e sessuali. Come risulta chiaro poi la lotta per la vita in ter-  mini evolutivi riguarda non già i singoli individui, ma le specie nel loro com-  plesso. In questo quadro tutte le azioni umane si presentano come frutto di  cause che riguardano complessivamente la specie umana. Questa prospettiva  biologica sulla vita degli uomini è stata sviluppata e approfondita da autori che hanno elaborato quella che è chiamata sociobiologia (Wilson, 1979). A) di  là delle opzioni apparentemente libere che si presentano alle scelte umane, in  realtà tutte le azioni umane sono casuali e soggette a condizionamenti in ter-  mini di ciò che è vantaggioso per la sopravvivenza della specie complessiva-  mente intesa. Così se identifichiamo l'etica con la presenza di una dimensione  cooperativa nelle azioni umane, tale dimensione non è altro che un effetto  dell'evoluzione biologica naturale e le azioni che ne conseguono sono del  tutto istintive e sottratte al nostro controllo. Del tutto illusoria è dunque la  prospettiva dell'etica che vi siano dei contlitti, disaccordi e scelte drammati-  che di fronte agli uomini e che essi possano responsabilmente e liberamente  dare ad esse una soluzione. La vita umana è sottoposta alle leggi generali della  vita e del tutto casualmente si realizzano processi e trasformazioni, i quali tutti  vanno dunque al di là di qualsiasi libera scelta individuale.   Un'altra concezione che sembra negare qualsiasi spazio alle scelte libere e  responsabili di cui tratta l'etica è quella che viene considerata come una con-  seguenza dell’accettazione dell’impostazione psicanalitica di Sigmund Freud.  È dubbio che una tale schematica concezione sia presente in Freud, che, se  leggiamo opere come Das Unbebagen in der Kultur (1929, Il disagio della ci-  viltà) sembra piuttosto impegnato a rendere conto della genesi della coscienza  morale all’interno della sua generale teoria sulla dinamica psichica, senza vo-  lersi dunque impegnare su di un piano essenzialistico (Freud, 1978). Ma vi è  comunque una vulgata che considera una conseguenza dell’impostazione psi-  canalitica la tesi che le azioni umane individuali non possono essere viste  come frutto di scelte consapevoli, ma sono il risultato piuttosto di motivazioni  inconsce che sfuggono a qualsiasi controllo individuale. Quando noi rite-  niamo di avere di fronte determinate alternative tra le quali scegliere razional-  mente la migliore, in realtà siamo spinti a percorrere una certa strada da pul-  sioni profonde (amore- odio ecc.) che sfuggono completamente al nostro con-  trollo consapevole e che dettano — anche tenendo conto della nostra storia  psicologica personale — i nostri comportamenti in modo necessario. Una  analoga riduzione delle motivazioni consapevoli ad altre più profonde cause si  troverebbe nella concezione di Carl Gustav Jung e in tutte quelle dottrine che  elaborano una qualche tipologia o caratteriologia.   Rispetto a questi approcci alle azioni umane che negano all’etica un qua-  lunque ruolo va mossa una critica preliminare. Queste tesi hanno un valore se  sono presentate come ipotesi scientifiche, ma se vengono presentate come tali  la loro validità non può essere estesa appunto al di là di quella propria di  spiegazioni empiriche per un campo ben determinato di comportamenti  umani. Rendere conto delle azioni umane secondo una spiegazione evoluzionistica non può essere presentato — pena l'abbandono del piano scientifico di  discorso — come l’unica e necessaria spiegazione di qualsiasi azione umana,  come una sorta di caratterizzazione essenzialistica e sostanzialistica della na-  tura delle cose. Gli stessi teorici, metodologicamente più avvertiti, dell’evolu-  zionismo — come ad esempio Richard Dawkins (Dawkins, 1992) — non  hanno mancato di temperare in vari modi questa semplicistica negazione del-  l'etica. Da una parte hanno così insistito sull'incidenza solo statistica e non  necessaria delle cause evolutive. Dall'altra hanno anche riconosciuto una ca-  pacità degli esseri umani, non solo di essere consapevoli dei processi evolutivi,  ma di sottrarsi proprio sul piano procreativo ai meccanismi dettati dall’evolu-  zione, Infine si sono impegnati ad elaborare spiegazioni che rendono conto  della superiorità, sul piano evolutivo, di quelle culture che realizzano al loro  interno un equilibrio selettivo stabile intorno ad abitudini cooperative, ri-  spetto alle culture dominate dal completo egoismo individuale.   Una estensione dunque su di un piano ontologico o metafisico dell’evolu-  zionismo risulta effettivamente incompatibile con qualsiasi altra spiegazione o  interpretazione delle azioni umane, ma in quanto tale rappresenta una fuoriu-  scita dal piano del discorso scientifico e la trasformazione dell’evoluzionismo  in una religione. Non diversamente si può ritenere indebita la generalizza  zione del modello esplicativo proprio della psicanalisi a tutte le situazioni in  cui gli uomini scelgono, decidono e deliberano. La fertilità della psicanalisi è  indubbia laddove è presentata come una spiegazione di ben precise azioni e di  situazioni patologiche del comportamento umano. Ma non si può se non im-  propriamente estenderla in modo tale che essa pretenda di spiegare tutte le  azioni umane in qualsiasi situazione con le forze e pulsioni inconsce su cui  richiama l’attenzione,   Un'altra strada è stata percorsa sempre più insistentemente negli ultimi  due secoli per negare qualsiasi spazio all'etica. Si tratta qui di quella posizione  che sostiene che gli uomini sono in definitiva mossi solo da motivazioni del  tutto personali ed egoistiche e che dunque cercano sempre e solo la soddisfa-  zione dei loro interessi. È poi molto diffusa la tendenza a caratterizzare questi  interessi in termini strettamente economici. La negazione dell'etica in questo  senso deriva da una concezione essenzialistica dell'azione umana che identi-  fica come unico movente di tutte le scelte la realizzazione del massimo vantag-  gio da un punto di vista economico. Secondo alcuni — ad esempio Louis Du-  mont (Dumont, 1984) — è questo il tipo di prognosi sulla civilizzazione  umana nell'Occidente che troveremmo già in Bernard de Mandeville (Mande-  ville, 1987) e in Smith e che dovremmo realisticamente fare nostra. La tesi  generale è che la realizzazione e il consolidarsi delle società dominate dalla logica del mercato rende praticamente impossibile la ricerca da parte di cia-  scun essere umano di obiettivi non strettamenté autointeressati. Vi sarebbe  quindi, paralletamente al progressivo consolidarsi delle strutture delle società  di mercato, una vera e propria morte dell’etica. In luogo di una spiegazione  pluralistica — ancora legittima nel secolo XVII — dell’azione umana che la  riconduceva a ragioni etiche, economiche, di moda ecc. ora saremmo dunque  costretti a fare nostra una spiegazione monistica per la quale le uniche ragioni  delle scelte e decisioni sono economiche, e tra l'altro quasi mai sotto il con-  trollo dell'individuo. Secondo questa filosofia della civilizzazione sono dun-  que del tutto scomparse le condizioni che permettono azioni mosse da ragioni  etiche, altruistiche 0 universalistiche. Ancora una volta una spiegazione che  può avere una sua fertilità se tenuta su di un terreno del tutto limitato finisce  poi con il risultare inaccettabile una volta estesa su di un piano essenzialistico.  Tutte queste concezioni contestano la possibilità dell'etica sulla base di  una pretesa ingiustificata di caratterizzare in termini sostanziali ed essenziali  l'azione umana. La ricostruzione che dell'azione umana viene offerta da chi  ammette l'incidenza delle ragioni etiche è una delle possibili spiegazioni che  restano aperte nella nostra cultura. Certo non l’unica, forse nemmeno quella  più importante e significativa, ma di sicuro una spiegazione fertile sul piano  esplicativo e non priva di forza prognostica. Se si cerca di rendere conto delle  azioni umane sulla base dell'assunzione che gli uomini sono mossi ad agire  anche da ragioni etiche si riesce — come ha recentemente in vari modi mo-  strato Amartya K. Sen (Sen, 1986, 1988, 1992, 1994) — a rendere conto di  alcuni comportamenti effettivi e a prevedere alcune situazioni future in modo  non diverso (e non meno esteso) di quanto accade con le altre spiegazioni.    3. Fondazione, giustificazione e spiegazione: l’epistemologia dell'etica.    3.1. Dalla meta-etica all'epistemologia. — La ricerca rivolta a identificare  la natura della morale, il senso delle nozioni che operano nell'etica, rappre-  senta un passaggio preliminare prima di affrontare un altro genere di que-  stioni decisivo per l'etica, quello relativo alle vie disponibili per fondare, giu-  stificare, o eventualmente spiegare, le scelte e i giudizi normativi. Sapere che  tipo di domande ci poniamo quando siamo alla ricerca di ciò che è bene ©  giusto fare in una data situazione è appunto preliminare — da un punto di  vista logico e concettuale — per arrivare a individuare le procedure mediante  le quali si può trovare la risposta adeguata.   Rendiamo dunque conto in questo paragrafo delle diverse linee lungo le  quali si è risposto al problema dei modi in cui si possono conoscere, fondare 0  giustificare le norme e i valori con cui l'etica ha a che fare. Nel corso del se-  colo XX vi è stato, prima, uno spostamento deciso dal problema di come  sono conoscibili i valori etici, a quello di come sono fondabili i nostri giudizi  normativi e le nostre decisioni pratiche. Successivamente l'elaborazione filo-  sofica ha visto affermarsi una prospettiva che in luogo della tesi della fonda-  bilità delle conclusioni etiche ha preferito limitarsi a sostenere la possibilità di  giustificarli o di argomentare pro o contro i valori in gioco. In questo para-  grafo renderemo anche conto di un altro approccio che si è andato sempre  più consolidando nella riflessione etica del secolo XX rivolto non più a fon-  dare o giustificare le conclusioni normative, quanto piuttosto a spiegare la ge-  nesi dell'etica e delle distinzioni che in essa vengono istituite. Quest'ultimo  approccio che abbandona le pretese di elaborare criteri gnoseologici ed epi-  stemologicì per passare ad un'analisi propriamente esplicativa non coinvolge  solo le posizioni (di cui abbiamo reso conto nel $ 2.7) di coloro che negano la  validità delle distinzioni etiche. Un analogo approccio esplicativo troviamo in  chi occupandosi dell'etica filosofica si rifiuta di passare sul piano più diretta-  mente prescrittivo e normativo, fissando così i limiti dell'intervento riflessivo  nella determinazione della natura dell'etica, dei tipi di procedure gnoseologi-  che ed epistemologiche che essa coinvolge e dei meccanismi genetici che  l'hanno costituita.   Nel rendere conto dei diversi modelli gnoseologici ed epistemologici rico-  noscibili nell’etica moderna e contemporanea mescoleremo ancora la prospet-  tiva storica con quella critica e teorica. Per procedere con questo bilancia-  mento delle due prospettive le partizioni di questo paragrafo non seguiranno  l'ordine di quelle esposte nel precedente paragrafo, né riprenderanno in  modo esclusivo le distinzioni già fissate a livello di meta-etica. Dal punto di  vista gnoseologico ed epistemologico alcune delle partizioni fatte valere sul  piano meta-etico risultano infatti o troppo strette o troppo larghe, nel senso che  un approfondimento analitico permette di riconoscere diverse procedure epi-  stemologiche alla base della stessa concezione meta-etica o procedure episte-  mologiche analoghe laddove siamo costretti a tracciare delle distinzioni sul pia-  no meta-etico. Il lettore si accorgerà che il quadro precedentemente delineato di  concezioni meta-etiche trova comunque un riscontro in questo paragrafo.    3.2. La conoscibilità della legge divina. — Come si è già avuto modo di  sottolineare il secolo XVII rappresenta un punto di riferimento essenziale per  chi voglia rendere conto dello sviluppo dell’etica teorica nel senso in cui ne  stiamo trattando in questo scritto. Numerosi pensatori riconoscono che le so-  luzioni a proposito dell'etica devono essere tali da poter essere accettate da  esserti umani, finiti razionali, che siano in grado di ripercorrere la strada che  viene ad essi indicata per superare coniflitti e disaccordi. Questa prospettiva di  ricerca sull’etica e sulle sue basi epistemologiche e gnoseologiche è ad esem-  pio del tutto operante in Cartesio, che però non la percorre arrestandosi alla  sua soglia. Infatti Cartesio non sottopone anche le verità etiche all’analisi in  termini di dubbio e di ricerca della certezza a cui egli sottopone le altre verità,  e proprio in quanto non intraprende tale indagine si arresta a quella che lui  stesso chiama una «morale provvisoria». Una morale assunta acriticamente  dalla tradizione e che andrà confermata o sostituita dopo che si sarà percorsa  sisternaticamente la strada della ricerca critica sulle verità morali. Questa ri-  nuncia dichiarata a percorrere una strada fondazionale non esclude, del resto,  la presenza nell'opera di Cartesio di una vasta ricerca sulle basi antropologi-  che della vita morale e una rivisitazione, per molti versi scettica, delle conce-  zioni tradizionali di virtù e felicità (Canziani, 1980).   Una ricerca sulle basi razionali dell'etica viene invece esplicitamente av-  viata, nel secolo XVII, da pensatori come Hobbes e Locke. Negli scritti di  Locke troviamo in realtà percorse diverse strategie gnoseologiche ed episte-  mologiche per l'etica e il suo problema fondamentale fu proprio quello della  conoscibilità della legge morale e degli articoli della fede religiosa (Colman,  1983; Fagiani, 1983). Locke dunque affronta sistematicamente la questione di  come sia conoscibile la legge morale naturale in un contesto che assume che la  legge naturale è un comando divino. Dopo avere ricostruito analiticamente  diverse strategie alternative mediante le quali si potrebbe giungere a cono-  scere tale comando Locke finisce poi però con il dichiarare la loro inadegua-  tezza. Possiamo quindi ricavare dai suoi scritti sia una indicazione delle di-  verse procedure epistemologiche a cui può fare appello chi accetta la tesi che  l’etica sia in definitiva un insieme di comandi divini, sia l'indicazione dei limiti  propri di queste procedure e dunque la difficoltà complessiva di dare una  base razionale al tentativo di derivare l’etica da tesi di ordine religioso.   Una prima strategia consiste nel legare la conoscibilità e autorevolezza della  legge morale quale comando divino ad alcuni testi in cui tale legge è rivelata.  Locke si mostra petò consapevole dei limiti presenti in questo appello ai testi  rivelati. Egli riconosce, ad esempio in The Reasonableness of Christianity, as de-  liver'd in the Scriptures (1695, La ragionevolezza del Cristianesimo), che il ricorso  ai testi sacri per la tradizione cristiana può al massimo valere sul piano peda-  gogico e retorico. Argomenti analoghi possono essere fatti valere per tutte le  religioni positive. Il ricorso ai testi sacri e rivelati può rappresentare un aiuto e  una facilitazione per chi si preoccupi di convincere 0 persuadere altri, ma non  può però rappresentare una via adeguata per giustificare una conclusione etica per tutti gli esseri umani, Il collegamento della verità etica conoscibile con la  lettura di qualche testo in cui la divinità ha espresso i suoi comandi — oltre il  problema della molteplicità delle interpretazioni possibili della lettera del testo  — comporterebbe l’assurda conseguenza di considerare tutta quella parte del-  l'umanità che è vissuta prima, 0 vive al di fuori, della rivelazione come del tutto  priva di etica. Una ulteriore conseguenza assurda: considerare del tutto privi di  morale coloro che sono in disaccordo con noi su alcuni dei punti caratterizzanti  la religione rivelata che noi accettiamo.   Lo stesso Locke fa valere una obiezione più generale nei confronti del ten-  tativo di ricondurre la base di validità di una tesi etica al fatto che si tratti del  comando di una certa divinità. Si tratta di una critica contro il volontatismo di  quei teologi che considerano invece questa strategia come in grado di fondare  la moralità. La critica generale presente negli scritti di Locke — già negli Es-  says (Saggi) del 1664 (Locke, 1973) — è che il fatto di trovare un certo co-  mando espresso in un testo che — più o meno fondatamente — crediamo  espressione della volontà divina è del tutto irrilevante sul piano etico; su que-  sto piano il problema che si pone non è tanto se ci si trova di fronte ad un  comando di qualcuno, quanto piuttosto se ciò che viene comandato è giusto. I  sostenitori dell’origine divina dell’etica hanno sempre considerato come ne-  cessaria e sufficiente la coincidenza tra volontà divina e legge morale, ma la  riflessione moderna e contemporanea ha invece fatto valere sempre di più  l'autonomia dell'etica. Questa autonomia viene affermata già a livello concet-  tuale distinguendo nettamente le nozioni etiche dalle nozioni che fanno rife-  rimento a ciò che è comandato da qualcuno, sia pure l'Autore della Natura. Il  riconoscimento di tale autonomia ha poi un riflesso sul piano epistemologico  e gnoseologico e porta a fissare con precisione la diversità delle procedure  gnoseologiche con cui si conosce la volontà divina rivelata nei testi sacri ri-  spetto a quelle con cui si conosce la legge morale valida.   Prima di illustrare le vie percorse in positivo da Locke per cercare di fon-  dare razionalmente le conclusioni etiche soffermiamoci invece su una strada  da lui rifiutata. Si tratta di quella concezione che indica in una particolare  coscienza 0 facoltà morale il modo più sicuro per arrivare a conoscere diret-  tamente i comandi mortali della divinità. Una strategia per fondare e cono-  scere l'etica tuttora molto frequentata e cara ai fautori di una riduzione del-  l'etica alla religione. Per quanto riguarda Locke nel I libro dell’Essay nega che  alla «coscienza» ci si possa appellare come a una prova valida in morale e la  nozione di coscienza viene fatta rientrare nell'armamentario delle assunzioni  innatistiche che non possono avere alcun riscontro sul piano empirico (Locke,  1971; 92-93). La concezione che Dio stesso ci comanda direttamente — senza  per questo servirsi della rivelazione — la legge morale, e che noi abbiamo una  cognizione diretta di tale legge attraverso la nostra coscienza, è stata svilup-  pata, nel secolo XVII, da alcuni neo- platonici di Cambridge, e in particolare  da Herbert di Cherbury con la sua dottrina delle notiones comsmunes. La  stessa linea fu poi riproposta nel secolo XVIII su basi nuove da intuizionisti e  sentimentalisti che conservavano un quadro provvidenzialistico. Così Joseph  Butler legava la conoscenza delle verità etiche all’attività intuitiva di una pe-  culiare «coscienza» capace di obbligare e fornita di autorevolezza, e Hutche-  son indicava nel «senso morale» la base di quel particolare sentimento che ci  fa cogliere la virtà in un mondo ordinato dall’Autore della Natura. Contro la  tesi che Dio ci rende noti direttamente nella coscienza i suoi ordini morali vi  sono alcune argomentazioni già formulate da Locke. L'appello alla coscienza  non può essere certo un criterio definitivo in etica perché dovremmo disporre  di almeno altre due ulteriori specificazioni. In primo luogo un qualche criterio  che ci permettesse di discriminare quei dettami della nostra coscienza che  sono affidabili da quelli che sono errati. In secondo luogo un qualche fonda-  mento che ci autorizzasse a ritenere — laddove sorgessero disaccordi — che  ciò che ci fa conoscere la nostra coscienza è veramente la legge morale per  tutti gli uomini, anche per quelli che con i loro discorsi e con le loro azioni  testimoniano di non trovare nelle loro coscienze principi analoghi ai nostri.  Rifiutata la via della coscienza Locke invece si impegna positivamente nel  cercare di conciliare una concezione che vede la morale come caratterizzata  da comandi divini con una strategia empiristica. L'accettazione di una episte-  mologia e gnoseologia empiristiche porta Locke ad elaborare una strada indi-  retta di fondazione e giustificazione della legge morale naturale come co-  rando divino. Secondo questa via di fondazione indiretta noi giungiamo ad  accettare il comando morale divino espresso nella legge naturale dopo avere  percorso un ragionamento che ci porta a risalire a Dio come all'Autore della  Natura buono che ha creato gli esseri umani in modo tale che essi effettiva-  mente siano in condizione di ottenere la loro felicità. Ovviamente questa stra-  tegia comporta l’assunzione che ciò che Dio comanda non può che essere il  bene per gli uomini, un passaggio verso l'accettazione dell’intellettualismo  etico che non vede più nella volontà divina l'unico fondamento del bene e  rende del tutto secondario il valore dei testi rivelati. La strategia di giustifica-  zione della validità della legge naturale morale avanzata da Locke comprende  diversi passaggi: in primo luogo trovando un ordine o un disegno nel mondo  si risale a un autore della natura; poi si postula una natura divina buona e  razionale per cui l’autore della natura non può che volere la felicità degli es-  seri umani; ancora si crede che l’autore della natura non solo abbia trasmesso agli esseri umani un insieme di leggi naturali, universali ed eterne, per realiz-  zare la loro felicità, ma anche che abbia messo gli esseri umani in condizioni  di conoscere tali leggi con certezza con il ricorso alle loro facoltà naturali del  senso e della ragione; infine si assume che conoscere tali leggi naturali equi-  vale a essere obbligati a obbedire a ciò che ci richiedono. Le lacune e le cir.  colarità presenti in questi vari passaggi risultavano già evidenti allo stesso  Locke che nel corso di tutta la sua vita si affannò a cercare di ovviare ad esse.   In effetti la procedura di giustificazione lockiana della validità delle leggi  naturali come comandi divini comporta il continuo passaggio dal piano empi-  rico a quello sovrannaturale, dal piano dell'essere a quello del dovere. Con  l’aiuto di questa strategia si potrà al massimo disporre di ragioni del tutto ipo-  tetiche a favore di ciò che noi siamo già giunti ad accettare come un comando  divino del tutto indipendentemente e prima del ricorso a queste procedure  gnoseologiche ed epistemologiche. Consapevole di ciò Locke presentava nel-  l’ultima parte della sua vita il suo tentativo di elaborare un'etica dimostrativa  come una via per confermare le opzioni morali trasmesse dalla tradizione cri-  stiana. Una volta che cadono le assunzioni che sorreggono l'argomento del  disegno e le pretese sulla bontà provvidenziale dell'Autore della Natura que-  sta strategia sembra crollare, Non c'è più nessuna divinità da cui far dipen-  dere la validità della legge morale, nulla garantisce che l’autore della natura  sia buono piuttosto che malvagio, nulla è più in grado comunque di farci su-  perare l'abisso tra l'eventuale conoscenza di una norma come comando divino  e il nostro accettarla come obbligante. Locke stesso cercò di superare questo  abisso, ma legando la validità e l'efficacia della legge morale naturale non  tanto al riconoscimento che si tratta di un comando divino in sé giusto,  quanto piuttosto al timore per la sanzione che sarebbe derivata in un'altra vita  in caso di infrazione verso di essa. Ma questo tentativo di agganciare la vali-  dità e l'obbligatorietà di un principio etico a una qualche sanzione che segue  una infrazione verso di esso, è una strategia che non possiamo più percorrere  — indipendentemente dall’accettabilità o meno delle credenze sull’immorta-  lità dell'anima e sull'esistenza di uno stato futuro — ove riconosciamo l’auto-  nomia dell'etica. Fare appello a qualche sanzione ultraterrena infatti al mas-  simo riesce a giustificare o fondare che noi si faccia qualcosa perché temiamo  la sanzione o cerchiamo i premi che una certa autorità lega a questi compor-  tamenti, Ma percorrere questa strada impedisce di vedere che il piano concet-  tuale investito dall’etica è quello che comporta fare ciò che è giusto o bene  fare e non già quello che comporta fare una certa cosa solo perché teniamo la  sanzione di una qualche autorità (per quanto illuminata} ove non dovessimo  obbedire ai suoi comandi.  La fondazione dell'etica attraverso un calcolo prudenziale. — Un'altra  strada percorsa per fondare l'assunzione di un punto di vista etico è quella  che cerca di riconnettere la ricerca individuale del bene personale con la con-  siderazione pet il bene comune. Naturalmente non si tratta di quelle conce-  zioni che sulla base di considerazioni empiriche e a posteriori concludono che  la ricerca del bene personale risulta essere l’unica via che consente di realiz-  zare un incremento del bene comune. Una concezione del genere è spesso alla  base della difesa dell'economia di mercato e viene attribuita a Smith ed è stata  esposta in modo approfondito da FÀ. von Hayek (Hayek, 1986). Affron-  tiamo invece in questa sezione la questione se si possa o meno fornire un fon-  damento razionale all'esigenza di essere morali: dove si considerano razionali  solo le argomentazioni che rinviano alla soddisfazione di propri interessi o  piaceri e con «morale» si intende il rispetto di qualche regola generale o  norma di cooperazione quali — ad esempio — mantenere le promesse, rispet-  tare i contratti e obbedire alle leggi del proprio paese.   Questa impostazione è presente in modo del tutto esplicito nelle pagine di  Hobbes. Così la risposta che Hobbes dà allo «sciocco razionale» nel capitolo  XV del Leviathan, or tbe Matter, Forme and Power of a Common-wealth Eccle-  siasticali and Civili (1651, Il leviatano; Hobbes, 1976: 139-143) è rivolta a cer-  care di mostrare che, calcolando sulla base degli interessi in gioco, la salva-  guardia di un minimo di principi etici e cooperativi è vantaggiosa per i diversi  individui. Troviamo dunque nelle pagine di Hobbes il tentativo di elaborare  una giustificazione di ordine prudenziale a favore del riconoscimento dell'op-  portunità di rispettare i principi dell'etica. La razionalità in gioco nel calcolo  prudenziale è stata sistematicamente delineata — nei suoi assiomi e nelle sue  deduzioni — nel corso del XX secolo dalla «teoria della scelta razionale 0  teoria delle decisioni» (Axelrod, 1985; Resnik, 1990). Proprio tra i teorici  della scelta razionale di questo secolo vediamo ripresentarsi il problema di  Hobbes formulato in un diverso modo (Kavka, 1986). Si tratta cioè di indivi-  duare se e in che modo sia possibile provare la razionalità dell’accettazione di  un minimo di regole cooperative anche quando quest’accettazione sembra es-  sere in contrasto con i nostri interessi più immediati e diretti e ci si trovi in  una situazione in cui un’eventuale nostra defezione unilaterale potrebbe sfug-  gire al controllo altrui.   Già in Hobbes troviamo dunque un tentativo di argomentare a favore  dell'accettazione di regole © principi etici contro le pretese dello «sciocco  razionale» di fare sempre e comunque ciò che è per lui più vantaggioso e  dunque di defezionare o sospendere la propria fedeltà nei confronti della re-  gola o del principio etico quando ciò è per lui più conveniente o quando comunque può sfuggire alla sanzione altrui. Torneremo su queste argomen-  tazioni quando — nel $ 4.8 — affronteremo i tentativi di presentare come una  vera e propria teoria etica normativa la teoria della scelta razionale. La situa-  zione dello «sciocco razionale» è molto simile a quella di cui si occupano i  teorici della scelta razionale quando affrontano i problemi posti dal «dilemma  del prigioniero», e si impegnano nell’analisi del comportamento del free rider.  Già Hobbes elaborava alcune argomentazioni che insistevano sulla rischio-  sità di un comportamento di defezione unilaterale e sulla probabilità di rica-  vare un danno nel momento in cui gli altri — prima o poi — giungeranno a  scoprirlo.   Negli ultimi decenni il paradigma hobbesiano è stato in vari modi inter-  pretato e sviluppato da diversi teorici dell'etica. Particolarmente stringente è  stato il modo in cui David Gauthier (Gauthier, 1986) ha cercato di fondare la  preferibilità di avere una morale in luogo di esserne privi all'interno di quella  posizione che ha caratterizzato come «contrattualismo reale» per distinguerla  dal «contrattualismo ideale» di Rawls (Rawls, 1982). Secondo Gauthier il  quadro concettuale di Rawls con l'assunzione in partenza della validità del  principio di equità implica già l'accettazione di un piano etico e dunque dà  per dimostrato quella che vorrebbe giustificare. Gauthier cerca di elaborare  invece una teoria in cui l'accettazione dell’etica e del contratto sociale origina-  rio che garantisce la vita civile e la cooperazione non viene fatta dipendere da  condizioni ideali presupposte, ma piuttosto dal beneficio che ciascuno dei  contraenti ricava in termini di ragioni prudenziali o di utilità personale.   Il programma di Gauthier è quello di riuscire a mostrare all’interno della  teoria della scelta razionale come sia più conveniente e vantaggioso essere un  «massimizzatore vincolato» dall’accettazione di qualche principio etico inter-  personale, piuttosto che un «massimizzatore diretto» che tende sempre e solo  alla soddisfazione dei propri interessi immediati. Gauthier elabora tutta una  serie di argomenti che fanno emergere l’ottimalità dei risultati raggiunti attra-  verso la via della massimizzazione vincolata, una volta messi a confronto con  le disponibilità di partenza o con i risultati raggiungibili attraverso la massi-  mizzazione diretta propria di chi procede come un free rider,   Gauthier sostiene che il modo in cui un agente delibera influenza le op-  portunità da lui attese. Così se guardiamo al modo di deliberare proprio di un  massimizzatore vincolato potremo aspettarci che egli consenta volontaria-  mente con i termini di un accordo precedente, anche se questo comporta che  egli così vincoli il diretto perseguimento dei suoi interessi. Ma sulla base di  tali aspettative il massimizzatore sarà il benvenuto come partner în progetti  cooperativi reciprocamente benefici. Se invece consideriamo il modo di deliberare proprio di un massimizzatore diretto, da costui non potremo aspettarci  che consenta con i termini dei suoi precedenti accordi a meno che ciò non  contribuisca direttamente a soddisfare i suoi interessi. Ma proprio sulla base  di questa aspettativa sul suo comportamento il massimizzatote diretto sarà  estromesso come partner nelle iniziative cooperative in quanto non si può ge-  muinamente avere fiducia in lui. La conclusione di Gauthier è dunque che il  massimizzatore vincolato può aspettarsi di godere di opportunità che invece il  massimizzatore diretto può solo prevedere che gli saranno negate. Si tratta di  una differenza che evidentemente opera a tutto vantaggio del massimizzatore  vincolato. Sulla base di questa argomentazione Gauthier conclude che si può  ritenere razionale incorporare nelle proprie deliberazioni i vincoli con cui si è  razionalmente concordato come filtri tra possibili azioni tra cui scegliere, Ed è  chiaro che qui razionale significa un calcolo con un saldo positivo a proposito  della soddisfazione dei propri interessi.   La teoria di Gauthier si presenta come molto potente in quanto presume  di potere dimostrare la razionalità dell'assunzione di vincoli etici come mezzo  per realizzare un surplus di soddisfazione dei propri interessi. Ma l'elabora-  zione di Gauthier va incontro a una serie di difficoltà che mostrano come sia  ancora irrisolto il tentativo di fondare in termini prudenziali la preferibilità di  una vita etica. Infatti da una parte, legando il saldo attivo che ricava il massi-  mizzatore vincolato alla fiducia di altri nei suoi confronti, Gauthier sembra  dovere fornire un criterio sicuro per discriminare tra situazioni in cui la fidu-  cia è bene riposta e casi in cui invece una tale fiducia è errata. Un criterio del  genere non viene offerto da Gauthier, ma si può ipotizzare che esso non sia  disponibile e che, nel caso in cui si tratti di fiducia da concedere a un qualche  partner, si debba oscillare tra una valutazione diretta, caso per caso, 0 una  assunzione di trasparenza delle motivazioni del partner o una qualche circo-  larità. L'altra difficoltà di ordine generale dell’argomentazione di Gauthier (e  più in generale di quelle strategie che tentano di giustificare l’etica in termini  prudenziali o di salvaguardia dei propri interessi) sta nella pretesa di potere  dimostrare che il surplus di ottimalità conseguente all'assunzione di un vin-  colo etico riguardi tutti i possibili contraenti con qualsiasi interesse di par-  tenza. Gauthier si impegna ad elaborare una concezione non riduzionistica di  «interessi» (concerns) non definendoli in termini strettamente economici, ma  lastiandone indeterminato il contenuto mediante un rinvio alle preferenze di  ciascuno. La cooperazione e dunque l'etica secondo Gauthier rende possibile  soddisfare con esiti migliori i propri interessi di partenza — di qualsiasi tipo  essi siano — che vanno quindi vincolati secondo le aspettative degli altri. Re-  sta difficile da capire come si possa mettere su uno stesso piano interessi che esigono soddisfazioni molto differenziate e, ciò che più importa, vincoli ben  diversi. È difficile cioè riuscire a capire come si possa assemblare e conside-  rare vincolabili alla stessa stregua preferenze di partenza per beni diversi (po-  niamo, beni condivisibili e beni esclusivi). Difficile capire come si possa co-  struire in modo unitario il «massimizzatore vincolato» tenuto conto che in  genere gli interessi degli esseri umani — si intende dello stesso essere umano  in tempi diversi — sono molteplici e probabilmente bisognosi di un qualche  ordinamento interno. Ma la difficoltà più generale riguarda la pretesa della  teoria di Gauthier di fornire la mossa vincente per convincere chiunque  — solo sulla base di un calcolo strettamente interessato — della convenienza  a interiorizzare una disposizione a rispettare gli accordi. Sembra opinabile che  questa mossa possa risultare efficace anche laddove per esempio non si avesse  già una disposizione a rispettare gli accordi o non vi fosse una qualche base  motivazionale, emotiva o psicologica, sulla quale fare leva per radicarla o raf-  forzarla.   Vedremo poi in una sezione successiva (cfr. $ 4.8) un'altra difficoltà intrin-  seca all'approccio prudenziale o della teoria della scelta razionale. Vedremo  infatti che per restare coerenti con questo approccio finiamo, in alcune situa-  zioni, con il tendere a risultati niente affatto ottimali.    3.4. La natura umana come fondamento dell'etica: la via metafisica. — Vi  sono però strategie per la fondazione dell'etica molto più antiche di quelle  che abbiamo appena ricordato e ad esse si continua a ricorrere anche nel-  l'etica moderna e contemporanea. Ad esempio quelle strategie che ritengono  che nella natura umana siano rintracciabili dei caratteri e delle proprietà che  fondano una particolare considerazione e rispetto per gli esseri umani, conse-  guenza del riconoscimento di uno status privilegiato e unico dell’uomo nel-  l'universo. Abbiamo visto sopra ($ 2.5) che vi sono cacatterizzazioni dell'etica  che vedono al suo centro una legge naturale razionale e dunque concepiscono  il comportamento morale come realizzazione di alcuni tratti propri delia na-  tura umana. È costitutivo di questa strategia argomentativa il tentativo di de-  rivare ciò che si deve fare da quella che è la natura umana in quanto tale.   Due passaggi sono caratteristici di questa strategia sul piano fondazionale.  In primo luogo questa strategia implica che si abbracci una forma di cogniti-  vismo essenzialistico e può essere percorsa solo da chi ritenga di disporre di  una concezione che coglie in modo assoluto e compiuto la natura umana. In  effetti le etiche che procedono lungo questa strada presentano come loro pre-  messa una qualche definizione sostanziale della natura umana e in genere ren-  dono conto del suo posto nell'universo in termini metafisici o ontologici. Troviamo percorsa questa linea nella tradizione aristotelico-tomistica di cui Jac-  ques Maritain ha reso conto, nel XX secolo, in modo simpatetico (Maritain,  1971). In questa strategia il contenuto dell'etica viene derivato da una defini-  zione dell’uomo concepito come persona con una propria peculiare natura so-  stanziale che ne garantisce la dignità. La difficoltà per questa strategia sta  nella discutibilità della caratterizzazione della natura della persona, una na-  tura della quale linee di pensiero diverse hanno reso conto in termini dei tutto  alternativi e incompatibili (come argomentano Scarpelli, 1985: 181-203; Preti,  1989: 63-95). Nell'elaborare la concezione della persona morale si procede di  solito o impoverendo l'essere umano di tutti gli elementi concreti, o presen-  tando l'individuo umano in vesti tanto astratte e ideali che una tale rappresen-  tazione finisce con il non avere alcuna presa sul piano delle azioni concrete.  Un'altra via che pone al centro della morale una definizione della natura per-  sonale dell’uomo è quella che connota la persona con una serie di tratti che  non sono altro che l’ipostatizzazione di assunzioni di ordine ideologico o reli-  gioso. Una tale costruzione — e conseguente uso — della nozione della per-  sona come fondamento dell'etica è ad esempio presente nel XX secolo nei  documenti ufficiali su questioni morali della Chiesa Cattolica.   Un altro limite di questa impostazione sta nel commettere in modo evi-  dente l'errore logico di ridurre ciò che deve essere a ciò che è. Si tratta di  quella «fallacia naturalistica» ovvero di quella offesa alla cosiddetta «legge di  Hume» sulla quale ritorneremo più distesamente più avanti ($ 3.11). Infatti le  diverse caratterizzazioni della natura umana in termini ontologici e sostanziali  non fanno che richiamare ciò che è già proprio di tutti gli esseri umani. Ma  allora non si riesce a capire in che modo da ciò che è già proprio dell’uomo in  quanto tale si possa ricavare ciò che l’uomo dovrebbe fare e che in quanto  dovrebbe ancora realizzare non può logicamente già essere. Proprio questa  indebita riduzione del dovere all'essere è stata al centro di una serie di conte-  stazioni contro tutte le forme di riduzionismo dal Settecento in avanti. Tali  critiche sono particolarmente decisive contro quelle forme di ragionamento  che presumono di potere conoscere quale sia il bene 0 il dovere per gli omini  ricorrendo a una definizione di quella che è la loro natura essenziale. In gene-  rale va quindi detto che chi procede per la strada di una fondazione ontolo-  gica dell’etica compie tutta una serie di errori logici; il tentativo di ridurre i  valori a fatti ovvero a realtà empiriche o metafisiche; il non cogliere la pecu-  liare funzione prescrittiva e normativa che è propria di tutti i giudizi etici;  l'assimilare le procedure mediante cui si può giustificare o argomentare in  etica a quelle seguite dalle scienze empiriche o da presunte discipline metafi-  siche per descrivere o spiegare il mondo come è.  La natura umana come fondamento dell'etica: la via empirica. — Vi è  stata un'altra strategia che ha cercato di indicare come procedura propria  della fondazione della morale un esame della natura umana. In questa linea  non ci si propone di risalire a una qualche definizione metafisica o ontologica  della natura umana, ma di cercare di cogliere, attraverso l’esperienza e l'osser-  vazione, quale è per gli esseri umani il comportamento più consono ed ade-  guato. Anche questa via di fondazione epistemologica dell'etica si presenta  come destinata al fallimento. Da una parte la ricerca empirica sulla natura de-  gli uomini ben difficilmente potrà ottenere dei risultati di ordine universale,  ma finirà sempre con l’identificare la natura umana con alcuni tratti propri  degli esseri umani in un determinato momento del tempo e in una ben precisa  cultura. Inoltre questa strategia non può sfuggire alla fallacia tipica di tutte le  forme di naturalismo che riducono ciò che deve essere a ciò che è.   Tra le concezioni che hanno cercato di sviluppare sistematicamente il ten-  tativo di provare attraverso un’indagine empirica che cosa è bene o giusto si  colloca certamente l'evoluzionismo erede di Darwin, specialmente nella forma  che esso ha preso con Herbert Spencer. Berirand Russell agli inizi di questo  secolo negli Elements of Ethics (1910, Gli elementi dell'etica) criticava, in  quanto riduzionistica, la pretesa di ricavare indicazioni etiche da un presunta  linea dell'evoluzione umana empiticamente corroborata. Nella concezione  evoluzionistica, rilevava Russell, la strategia argomentativa procede attraverso  continui passaggi dal piano del riscontro empirico a quello delle definizioni  implicite. Così laddove si identifica ciò che è giusto e ciò che è buono con la  linea evolutiva che si ritiene avere scoperto empiricamente in realtà si è intro-  dotta una definizione etica per cui ciò che è più evoluto è moralmente supe-  riore, Proprio per queste difficoltà generali a cui va incontro l’evoluzionismo  etico dopo l’ubriacatura dei sociobtologi, neo-evoluzionisti epistemologica-  mente avvertiti come R. Dawkins (Dawkins, 1992; cfr. $ 2.7) rifiutano di pre-  sentare le loro concezioni come una fondazione dell'etica. Tra l’altro non è  certo possibile percorrere questa strategia con un minimo di utilità pratica,  ovvero rintracciare in termini empirici la soluzione a un problema etico con-  nettendola con un corso di azioni migliore evolutivamente, ovvero che favori-  sce la sopravvivenza del genere umano o del gruppo di cui facciamo parte  biologicamente. Non vi sono procedure empiriche che consentono di arrivare  a confrontarsi con un’aliernativa secca tra ciò che favorisce la sopravvivenza  del genere umano e ciò che l’ostacola. Non esistono di certo sicuri metodi  empirici per decidere se una certa linea di comportamento è più o meno in  contrasto con i bisogni della specie umana. Né può rappresentare una fuoriu-  scita dalle difficoltà etiche con cui ci confrontiamo, sostenere che però a posteriori può essere poi dimostrato — ammesso che ciò sia possibile — che ciò  che gli uomini fanno è quanto rende possibile la loro sopravvivenza. Si tratta  di procedure dubbie perché finiscono con il razionalizzare catastrofi e guerre  e comunque si tratta di ricostruzioni che vengono date dopo che le azioni  sono state compiute e che poco dunque possono aiutarci sul piano delibera-  tivo o della costruzione di una qualche concezione etica.   Difficoltà insormontabili si presentano per tutti gli altri tentativi di ricon-  durre il bene e il giusto a delle proprietà del mondo che, non diversamente  dalla forza e dall’energia, possono essere verificate, misurate e quantificate.  Ma più in generale e su un piano meno materiale sono destinati al fallimento  tutti quei tentativi di ricondurre le procedure di fondazione dell'etica a quelle  in uso in scienze, quali la psicologia e la sociologia, più direttamente rivolte  allo studio degli uomini. La via di ricondurre l'etica alla psicologia è stata più  volte percorsa nel corso del secolo XX. Così procedeva Moritz Schlick nei  suoi Fragen der Ethik (1930, Problemi di etica) quando indicava nel bene ciò  che è considerato più idoneo ai bisogni di un individuo che vuole mantenere  l'armonia con il gruppo sociale di cui fa parte. Una definizione che, ammesso  sia in grado di suggerire un qualche criterio di valutazione, dà per scontata la  preferibilità — sempre e comunque — dell'armonia rispetto alla disarmonia,  con ovvie implicazioni conformistiche. Un più recente tentativo di ricondurre  le procedure della deliberazione etica a quelle in uso nella psicologia è stato  fatto da Richard Brandt in A Theory of the Good and Right (1979, Una teoria  del bene e del giusto). Brandt si è sforzato di mostrare come il processo deli-  berativo dell’etica sia assimilabile alla tecnica usata nella terapia psicologica  cognitiva per mettere alla prova i desideri e gli obiettivi sulla base di una va-  lutazione della loro razionalità. Brandt sostiene che nell’etica come nella tera-  pia cognitiva si tratta di valutare razionalmente se i desideri che abbiamo sono  o meno adeguati: ovvero tali che li confermiamo avendo tutte le informazioni  empiriche necessarie, tali che ci propongono obiettivi per realizzare i quali  disponiamo dei mezzi necessari e infine tali che non comportano delle conse-  guenze inaccettabili. Questi sono certamente passaggi a cui si può ricorrere  quando è in corso una deliberazione etica, ma va aggiunto che parte dell’etica  sembra consistere nel valutare se noi riteniamo che determinati desideri deb-  bano essere accettati da tutti coloro che si trovino in situazioni analoghe. I  riscontri empirici ci dicono quali desideri gli uomini hanno, ci presentano le  distribuzioni statistiche di questi desideri, ma nulla dicono su quali siano i  desideri da privilegiare e quelli da mortificare, quelli da rafforzare e quelli da  controllare ad ostacolare.   Non mancano coloro che non si fanno influenzare da questi dubbi sulla validità conclusiva in etica di un metodo di deliberazione e giudizio che cerchi  di controllare empiricamente come stanno le cose per quanto riguarda gli uo-  mini e le situazioni in discussione. Fautori di un naturalismo ingenuo, sosten-  gono che noi di fatto già sappiamo che certe azioni sono negative e malvagie  (per esempio l'assassinio o il furto) e che certe istituzioni (per esempio i con-  tratti, il mantenimento delle promesse e la fedeltà verso un certo governo)  sono giuste. Si può ammettere che questa strategia naturalistica aiuti a indivi-  duare inclinazioni e tendenze ira le più radicate negli esseri umani, ma il  punto è che tali inclinazioni e tendenze non possono essere giustificate con la  mera argomentazione che di esse già disponiamo di fatto, o che sono univer-  salmente presenti tra gli uomini (il che tra l'altro non si riesce a dimostrare).  Ancora una volta si fa appello a predisposizioni o inclinazioni così generiche e  indeterminate che il rinvio ad esse ci può essere di scarso aiuto nel risolvere i  concreti problemi etici di fronte ai quali ci troviamo. Così, ad esempio, nes-  suna indagine empirica sulla natura umana potrà riuscire a risolvere la que-  stione se vanno considerati o meno come omicidi alcuni casi controversi (per  esempio l'aborto nelle prime settimane dal concepimento, o alcuni casi di eu-  tanasia volontaria). Inoltre forse egualmente naturali e per così dire universali  si presentano inclinazioni all’aggressività e predisposizioni all’odio, al risenti-  mento, e alla gelosia che non risultano certamente giustificate per la loro dif-  fusione e riscontrabilità empirica.    3.6. L'appello a una ragione universale come via per la fondazione del-  l'etica. — Un'altra concezione epistemologica per l’etica è quella che fonda  le sue conclusioni non tanto genericamente sulla natura umana, quanto più  specificamente sulla ragione umana, ovvero su quello che è considerato il  tratto più peculiare degli uomini. Così larga parte del giusnaturalismo del  XVII secolo si presenta come un vero e proprio giusrazionalismo. Grozio e  Pufendorf si impegnarono, infatti, nel tentativo di edificare il diritto, e più in  generale l'etica come scienza razionale dimostrativa. Questo stesso tentativo è  presente anche — accanto ad altre vie — in Locke. La possibilità di edificare  la morale come scienza dimostrativa viene fatta dipendere da Locke dalla na-  tura del tutto artificiale delle principali nozioni morali (come egli sostiene si  tratta di «modi misti»), ciò che permette dunque di stringere con un collega-  mento logicamente necessario tutti i giudizi in cui ricorrono nozioni morali  (Locke, 1971: 632-636). Ma questo rigore dell’etica, questa sua struttura di-  mostrativa, e la sua completa dipendenza dalla razionalità, è possibile solo in  quanto si sono svuotate di qualsiasi portata realistica le nozioni etiche ricavan-  dole integralmente da convenzioni linguistiche che permettono di dare vita a definizioni essenziali di tipo arbitrario. In generale questa forma di razionali  smo etico si unisce con una qualche fondazione contrattualistica dei principi  dell'etica nel senso di un qualche accordo sulla definizione delle sue nozioni  centrali. Ma la procedura contrattualistica può fondare una validità solamente  convenzionale — ovvero limitata a coloro che accettano di sottoscrivere il  patto — e dunque le basi della conseguente scienza etica dimostrativa risul-  tano del tutto esili (cfr. $ 3.8).   Il razionalismo seicentesco ha presentato anche tentativi di dare una por-  tata realistica alle conclusioni etiche scoperte mediante la ragione. Così ad  esempio in autori come Samuel Clarke e William Wollaston la ragione si pre-  senta come la facoltà che permette di scoprire la verità in etica. Questo è pos-  sibile solo in quanto si ritiene che il bene e il male, il giusto e l'ingiusto siano  identificabili individuando quali sono le relazioni adeguate alle cose in se  stesse. Nel caso di Clarke il giusto non è altro che una relazione di adegua-  tezza tra l’azione e lo stato delle cose; per Wollaston il giusto non è altro che  un collegamento veritativo tra l’azione e lo stato complessivo delle cose (così  come l’ingiusto è dichiarare, con la propria azione, il falso). Ma questa pro-  spettiva che riconduce il giusto e l’ingiusto a un giudizio di adeguatezza o  inadeguatezza tra le azioni e lo stato delle cose comporta due assunzioni che  saranno fortemente contestate nel pensiero successivo. Da una parte la con-  vinzione che gli esseri siano ordinati secondo una gerarchia ben definita — la  grande catena degli esseri — che distingue nettamente tra livelli separati on-  tologicamente e forniti di valore diverso. Solo sulla base di questa assunzione  si può ad esempio, all’interno di questa prospettiva, considerare inadeguata  quella azione in cui l'animale sia preferito a un essere umano, o un essere  umano trattato in modo inadeguato al suo status ontologico. Questa tesi della  gerarchia tra gli esseri è contestata decisamente da tutta la ricerca evoluzioni-  stica del XIX e XX secolo, Non necessariamente la scala evolutiva corri-  sponde a una scala di valore; non mancano inoltre i casi di confine difficil-  mente decidibili; nulla vieta di riconoscere valore anche agli esseri che si pre-  sume siano al fondo della scala degli esseri. La seconda assunzione dei  razionalisti realisti è che dare un giudizio sulla giustezza o meno di un atto {o  di un evento) si possa identificare con l’individuare una qualche relazione tra  le cose. Questa pretesa è criticata e dissolta da Hume che mostra con chia-  rezza (Hume, 1987: I, 481-497) come un giudizio di relazione tra cose non  possa in alcun modo esaurire lo spazio di un giudizio morale. È infatti indub-  bio che relazioni dello stesso tipo di quelle in gioco nell’incesto sono rintrac-  ciabili tra animali, o che tra le piante ritroviamo collegamenti analoghi a quelli  che si hanno nel parricidio, eppure non possiamo certo concludere con un giudizio morale sulle «azioni» degli animali e delle piante. La pretesa di ri-  durre i giudizi morali a formule matematiche o a conclusioni razionali dimo-  strative risulta del tutto fallace.   Un tentativo — ma in una forma del tutto diversa dalle precedenti — di  fondare l’etica sulla ragione è stato anche quello di Kant e di coloro che ne  riprendono il razionalismo etico. In questo caso si sostiene che è la stessa ra-  gione pratica o volontà pura, in quanto tale, che implica certi principi morali  che vanno rispettati se si vuole dare coerenza alle nostre conclusioni etiche.  Ciò che è bene e ciò che è giusto può essere quindi individuato conformando  la nostra scelta e decisione alle presupposizioni che vincolano qualsiasi vo-  lontà umana razionale. La razionalità pratica in quanto tale implica certi prin-  cipi formali che sono rispettati solo da coloro che compiono le azioni effetti  vamente giuste o ingiuste (Kant, 1970a; Landucci, 1993). È questa la strategia  fondazionale seguita da Kant per ricavare le diverse formulazioni dell'impera-  tivo categorico (si veda $ 4.6) dalle regole trascendentali che presiedono alla  volontà umana. Critiche alla procedura epistemologica alla base dell'etica  kantiana vengono mosse su due piani. In primo luogo si obietta che la pro-  spettiva kantiana in realtà concepisce la volontà umana in termini sostantivi e  dunque inttoduce fin dall’inizio nelle sue analisi apparentemente formali e  neutrali del volere umano dei tratti che non possono che portare a un ben  preciso esito morale. In secondo luogo viene obiettato che un mero appello  alla coerenza formale è del tutto inefficace in etica perché alla costrizione in  gioco nell’appello alla coerenza si può sempre sfuggire rifiutandosi di consi-  derare come effettivamente insostenibile uno stato di incoerenza.   In questa rivisitazione del razionalismo etico faccio dunque mia la pro-  spettiva critica che rileva che la ragione in quanto tale può solo permetterci di  trarre delle conclusioni che si esprimono in quelle che chiameremo deduzioni  o giudizi analitici. Ma se così stanno le cose ciò che è eticamente rilevante o è  già dato nelle premesse del nostro discorso — e allora occorrerà spostare la  discussione su come sono state costruite queste premesse — o non potrà certo  essere raggiunto ricorrendo al solo aiuto della deduzione razionale. La razio-  nalità e la ragione umana in quanto tali non solo risultano eticamente vuote,  ma se si guarda poi alla ragione come facoltà intellettuale questa presenta l’in-  sufficienza più generale, dal punto di vista fondazionale, di portare a conclu-  sioni © esiti che non risultano direttamente motivanti. Scoprire che vi è una  certa relazione tra le cose, o che date certe premesse se ne ricavano per via  analitica determinate conclusioni è cosa ben diversa dall'essere mossi a fare  ciò che è bene, giusto, doveroso fare. La ragione può dunque solo aiutarci a  identificare ulteriori situazioni a cui estendere i nostri principi etici, una volta che noi già abbiamo — sulla base delle nostre sensazioni, emozioni e pas-  sioni — discriminato tra quello che approviamo 0 disapproviamo, apprez-  ziamo o svalutiamo.    3.7. Il ricorso a una facoltà morale per la fondazione dell'etica. — Il col.  legamento con la ragione umana — concepita come la parte migliore e più  alta, quasi una patte divina, della natura umana — è spesso sembrata la via  maestra per garantire alle conclusioni dell'etica sia una strategia peculiare sia  una superiorità rispetto a tutto il resto. Ma nel pensiero moderno e contem-  poraneo la consapevolezza dell’autonomia della morale ha portato ad abban-  donare questa strada. Questa esigenza di riconoscere l'autonomia dell'etica  veniva già raccolta da Kant, sia pure in un quadro generalmente razionali.  stico, attraverso l'identificazione di una peculiare razionalità pratica. Ma altri  pensatori hanno preferito incamminarsi sulla strada di una derivazione del-  l'etica e delle distinzioni in essa in gioco da una facoltà ad doc del tutto pecu-  liare ed irriducibile sia alla ragione o intelletto sia ai vari sensi che contribui-  scono a dare agli uomini il bagaglio delle loro esperienze.   La strada dell'individuazione di una vera e propria facoltà ad hoc per la  vita morale è stata percorsa in modo sistematico e nel dettaglio da Hutcheson  (Hutcheson, 1725). Nei suoi scritti infatti egli presenta articolatamente uno  specifico «senso morale» che permette di cogliere direttamente le distinzioni  morali e che non è riducibile né alle operazioni dell'intelletto, né agli altri  sensi. La ricostruzione che Hutcheson fornisce del senso morale come facoltà  del tutto peculiare che permette di fondare oggettivamente le conclusioni eti-  che sembra giustificare l'attribuzione a questo pensatore di una concezione  intuizionistica (Norton, 1982). In definitiva il senso morale di Hutcheson è in  grado di cogliere direttamente delle vere e proprie qualità delle azioni e situa-  zioni naturali da giudicare, Hutcheson si impegna anche a ricostruire il modo  in cui proprietà e qualità etiche sono collegate necessariamente con le altre  proprietà oggettive e reali delle cose di cui abbiamo esperienza. Dunque in  Hutcheson possiamo trovare un quadro intuizionistico che vedremo ripreso,  al di fuori di alcune pretese sensistiche, nel secolo XX.   Infatti intuizionisti come Sidgwick e Moore {o in parte H. Prichard,  A. Ewing e D. W. Ross; si veda Hudson, 1980: 74-104) insisteranno nel tro-  vare nel campo dell'etica la presenza di peculiari proprietà non-naturali, ben  distinte dalle qualità naturali ordinarie, che solo una intuizione del tutto spe-  ciale può cogliere. La strategia di fondazione propria dell’intuizionismo etico  viene criticata in quanto perde di vista che al centro dell'etica non c'è tanto la  questione di riuscire a cogliere la presenza di questa o quella proprietà non-naturale — sia poi questa proprietà considerata come sopravveniente o come  una accanto a quelle naturali —, quanto piuttosto di essere motivati o sentirsi  obbligati a fare certe cose considerate buone, giuste o doverose. Natural-  mente questa difficoltà può essere supetata sostenendo che le proptietà non-  naturali con cui l'intuizione etica ci mette direttamente in contatto si presen-  tano come costitutivamente motivanti e obbliganti. Ma un aggiustamento del  genere non sembra nulla di più che uno stratagemma convenzionalistico.   Per ovviare a questa difficoltà è stata elaborata una strategia — già in parte  riconoscibile secondo alcuni interpreti negli scritti di Hutcheson — che con-  cepisce la facoltà in gioco nella conoscenza morale non tanto come uno stru-  mento intellettuale e conoscitivo di registrazione e individuazione, quanto  piuttosto come essa stessa emotiva o sentimentale e dunque motivante e ca-  rica di energia attiva. In questa linea si collocano tutte le analisi sviluppate a  proposito dell'etica dai sentimentalisti del Settecento come ad esempio Shaf-  tesbury, Hume e Smith. Ma in questa stessa direzione vanno le analisi di co-  loro che nel XX secolo sostengono (come è il caso di David Wiggins, 1987 e  John McDowell, 1981) sia rintracciabile nell’etica una peculiare sensibilità che  risponde appunto con una qualificazione di valore a certe azioni o situazioni.  La strategia epistemologica del sentimentalismo sembra però fuoriuscire dal  quadro fondazionale e muoversi piuttosto in quell'orizzonte più moderata-  mente giustificativo 0 esplicativo di cui renderemo conto nelle successive se-  zioni di questo paragrafo.   Infatti questa sensibilità peculiarmente morale si presenta come qualcosa  che va ricostruita e delineata nella sua specificità attraverso un esame a poste-  riori degli esseri umani. L'appello poi a questa base di giustificazione non per-  mette certo di edificare giudizi etici forniti di quei caratteri di necessità e uni-  versalità definitiva a cui tendono invece coloro che si muovono in un oriz-  zonte fondazionale.    3.8. La giustificazione procedurale delle opzioni etiche: il contrattualismo.  — Rifiutando la strada di una fondazione assoluta e aprioristica dell'etica vi  sono alcune concezioni che considerano le opzioni etiche come esiti a cui si  può arrivare dopo avere seguito una determinata procedura razionale. Percor-  rono questa strada quei pensatori che sul piano meta-etico considerano l'etica  € la morale come un universo di principi e norme frutto di decisioni 0 scelte  individuali e intersoggettive. Questa linea di giustificazione è propria ad esem-  pio del contrattualismo etico. Il contrattualismo è stato inizialmente presen-  tato — specialmente nel XVII e XVIII secolo da pensatori come Hobbes,  Locke, J. J. Rousseau e Kant — come una teoria mediante la quale rendere conto della genesi della società civile e delle istituzioni politiche (Gough,  1986). Ma il ricorso a qualche forma di contratto è stato spesso presentato  anche come una procedura in grado di dirimere in generale i disaccordi pub-  blici su tutti.i tipi di distinzioni etiche. In particolare nel XX secolo il contrat-  tualismo è stato ripreso e sviluppato, ad esempio da Rawls e Gauthier, come  la teoria etica e la procedura di giustificazione di regole e principi capaci di  impostare meglio le questioni di giustizia sociale. In questa sede ci limitiamo a  presentare sinteticamente le concezioni di Hobbes e di Rawls viste come due  forme tipiche di tentativi di derivare la giustificazione delle conclusioni etiche  da procedure contrattuali. In realtà il contrattualismo si lega strettamente alle  forme di giustificazione prudenziale di cui abbiamo dato conto nel paragrafo  3.3. Le differenze che qui richiameremo non riguardano il tipo di ragiona-  mento — in genere appunto prudenziale — che porta ad accettare il contratto  come una procedura idonea per risolvere i contrasti etici. Le differenze con-  cemono piuttosto il contesto in cui la procedura contrattuale interviene, le  sue implicazioni e le conseguenze che se ne ricavano per quanto riguarda il  carattere vincolante degli esiti.  Nel caso di Hobbes il ricorso a una procedura contrattuale in etica si svi-  luppa dopo la presa d’atto dell’impossibilità di trovare una fondazione del  bene e del giusto in termini di rinvio al piacere di ciascuno e ai desideri e alle  « passioni individuali. Fare riferimento ai piaceri e desideri individuali non per-  mette di superare quella condizione di guerra di tutti contro tutti che è pro-  pria dello stato di natura in cui ciascuno definisce bene, male, giusto e ingiu-  sto, appunto a suo modo. Se si vuole mantenere uno stato di pace e conver-  gere su qualche bene considerato comune (che certo comunque non potrà  essere trattato come un bene assoluto) bisognerà limitare la completa discre-  zionalità naturale concordando sull’accettazione di una procedura che per-  metta di realizzare patti condivisi. Secondo Hobbes, dunque, solo un con-  tratto è in grado di vincolare i singoli individui all'accettazione di principi  etici che non siano direttamente riconducibili agli interessi egoistici di qual-  cuno. Nel fare ricorso al contratto come risolutivo Hobbes delineava tutta  una serie di condizioni che presiedono alla sua genesi e alla sua efficacia. Da  una parte il contratto incorporava tutta una serie di principi — secondo Hob-  bes le «leggi naturali» — che venivano considerati giustificati razionalmente,  in linea esclusivamente strumentale, come mezzi idonei alla conservazione in  vita dei contraenti e al mantenimento della pace tra loro. Dall'altra parte la  necessità di rendere vincolanti gli equilibri che vengono identificati mediante  la procedura di contrattazione porta a un completo trasferimento della forza  coercitiva a un potere che in nome della sua funzione di garantire il rispetto del contratto non è sottoposto ad alcun limite. Anche questa è una conse-  guenza derivante dalle assunzioni generali di Hobbes che vede appunto gli  esseri umani come del tutto egoisti e mossi da un irrefrenabile impulso pos-  sessivo in una condizione di scarsità di beni. Infine va rilevato che laddove in  Hobbes il potere non può avere limiti esterni, esso ha un ampio limite in-  terno. Ciò dipende dalla convinzione di Hobbes che leggi contrattualmente  definite possono valere solo per i corpi di coloro che stipulano il patto, men-  tre sentimenti, emozioni e pensieri sono al di fuori della portata dell’applica-  zione di principi e regole create con la procedura condivisa.   AI modello di contrattualismo hobbesiano sono state mosse numerose cri-  tiche. In particolare è la sua peculiare derivazione artificialistica dei principi  etici ad essere oggetto di diverse obiezioni. La prima linea di obiezioni viene  da coloro che ritengono necessaria una fondazione assoluta dell'etica e che  rilevano la parzialità e la limitazione di una derivazione da un qualche con-  tratto di regole e principi etici. Le leggi concordate mediante il patto possono  valere solo quando si è sotto il controllo di un potere totale e completo come  quello appunto ipotizzato nel Leviafazo di Hobbes, ma non riusciamo così ad  escludere defezioni quando il potere è inefficace. Hobbes sembra tentare una  risposta a queste critiche quando ammette la validità delle leggi naturali anche  «in foro interno» {Hobbes, 1976: 150-154; ma si veda Warrender, 1974), ma  risulta difficile capire qual è la base di obbligatorietà in questo caso delle leggi  naturali. Una seconda linea di obiezioni viene da quei pensatori che — come  ad esempio Hume — pur condividendo una spiegazione artificiale della ge-  nesi di principi e regole etiche, prendono poi le distanze da Hobbes e dal suo  contrattualismo per il particolare tipo di artificialismo razionalistico in gioco.  L’obiezione in questo caso è che il «costruttivismo razionalistico» hobbesiano  — il considerate cioè i principi etici come il frutto di una scelta consapevole  di una serie di individui razionali — risulta del tutto inadeguato quando si  tratta di rendere conto della genesi di regole e principi etici. Vedremo nelle  ultime due sezioni di questo paragrafo în che senso il convenzionalismo etico  di Hume presentava un modello artificialistico di spiegazione dell'etica del  tutto alternativo rispetto a quello di Hobbes.   Un altro modello di giustificazione procedurale dell'etica è quello presen-  tato nel modo più sistematico ed argomentato da Rawls (Rawls, 1982, 1994).  Si tratta di un modello che viene ora abitualmente chiamato «contrattualismo  ideale» per distinguerlo da quello di Hobbes e da quello detto «contrattuali-  smo reale» sviluppato da Gauthier (cfr. $ 3.3),   Il modello epistemologico del «contrattualismo ideale» sostiene pur sem-  pre che i principi giusti dell'etica possano essere individuati attraverso accordi, ma poi fa valere tutta una serie di vincoli relativamente alla procedura  considerata idonea per realizzare accordi equi. Rawls delinea tale procedura  come una «posizione originaria» del tutto artificiale. In primo luogo, gli indi-  vidui che entrano nella posizione originaria da cui si scelgono i principi di  giustizia vanno considerati come individui rappresentativi e non già come sin-  goli individui concreti. In secondo luogo, gli individui rappresentativi scel-  gono tra le diverse opzioni a loro aperte in una condizione caratterizzata da  «un velo d’ignoranza», ovvero si immagina che gli individui nella posizione  originaria non debbano sapere quale sarà la loro condizione effettiva e il loro  status concreto nella società. Infine Rawls ritiene che le scelte nella posizione  originaria debbano essere ispirate da un principio generale, che egli chiama  del maxinmin, secondo il quale si debba sempre preferire quell’alternativa che  permette di massimizzare le esigenze degli individui rappresentativi dello  stato peggiore.   La linea argomentativa di Rawls in realtà non si presenta come un tenta-  tivo di giustificare o fondare il nucleo centrale dell'etica, ma piuttosto come  un tentativo di decisione o risoluzione dei conflitti una volta assunta una de-  terminata definizione della morale. Troviamo che fin dalla delineazione della  «posizione originaria» sono presenti alcune opzioni morali sostantive che  vengono incorporate nella procedura prevista per l'individuazione dei prin-  cipi di giustizia. Ad esempio è fuori discussione fin dall’inizio che le soluzioni  da preferire saranno quelle più imparziali ed eque. Rawls non spende nem-  meno un’argomentazione a giustificare queste opzioni di fondo che sono co-  stitutive del suo contrattualismo. Ancora, in quanto Rawls si preoccupa prin-  cipalmente di questioni di giustizia sociale o di distribuzione delle risorse, tro-  viamo che egli fa valere il citato criterio di waxiziz. Contro questo criterio  numerosi studiosi di etica (ad esempio Harsanyi, 1988: 109-136) hanno obiet-  tato che esso ha delle conseguenze controintuitive. Infatti il criterio del maxi-  min ci costringe a preferire sempre e comunque quel corso di azione che può  migliorare sia pure di pochissimo le condizioni di chi sta peggio senza mini-  mamente tenere conto di quanto questo corso d'azione peggiori le condizioni  di tutti gli altri o senza minimamente instaurare un confronto tra i diversi  corsi d'azione possibili ad esempio sulla base della probabilità effettiva che si  realizzi ciascuno di essi,   Dunque la procedura epistemologica a cui si richiama Rawls, ben lungi dal  giustificare le opzioni etiche, in realtà dà già per acquisita la natura dell'etica e  il suo ambito. Del resto questo è ampiamente ammesso dallo stesso Rawls che  ha riconosciuto che la sua ricostruzione della natura dell’etica è adeguata a  rendere conto delle intuizioni morali di un cittadino di una società caratterizata, come quella statunitense, dalle istituzioni liberal-democratiche. Spiega  Rawls che la sua etica è tale da non avere una portata metafisica, ma che si  presenta come prevalentemente rivolta a rendere conto di un ben preciso con-  testo storico e dunque politico (Rawls, 1994: 155-182). La procedura giustifi-  cativa delineata da Rawls può dunque operare solo presupponendo una serie  di intuizioni o credenze morali già date. La linea argomentativa del contrat-  tualismo ideale è rivolta ad ottenere un risultato che Rawls stesso presenta  come una sorta di «equilibrio riflessivo» tra le nostre intuizioni di partenza e  i risultati più equi e giusti raggiunti attraverso una correzione delle distorsioni  e parzialità di tali intuizioni.   Caratteristico di questo modello è la caduta della pretesa di una fonda-  zione assoluta e compiuta dei principi etici. Il contrattualismo ideale di Rawls  in definitiva riesce a generare accordi solo in quanto parte già da un accordo  dato in partenza tra tutti i membri della stessa società. Nulla può essere fatto  per convincere ad accettare l'etica da parte di coloro che non sono già citta-  dini della stessa società ideale che condivide il contratto. Laddove la posi-  zione hobbesiana sembrava incapace di generare accordi se non presuppo-  nendo il ricorso a uno strumento extra-teorico quale la forza; la posizione di  Rawls è sterile perché si limita a ricostruire il modo in cui già di fatto si rea-  lizzano accordi, nelle società liberal-democratiche, tra coloro che accettano  politiche progressiste e nulla dice per dirimere i contrasti tra individui rappre-  sentativi di società profondamente diverse (quali, poniamo, quelle del mondo  occidentale e quelle dei paesi dell’Africa o dell'Asia). La procedura contrat-  tualista di giustificazione etica ha sicuramente un ampio spazio laddove con-  trasti e conflitti sorgano tra individui già vincolati a un certo patto e all’accet-  tazione di una certa procedura per dirimere i contrasti. Ma poco o nulla può  offrire laddove si affrontino le questioni più sostanziali: da una parte di come  giustificare la scelta di avere un contratto da rispettare in luogo di non avere  nessuna forma di contratto; dall'altra di come giustificare l'opzione di conti-  nuare a rispettare il contratto, in luogo di defezionare, anche quando ciò dan-  neggia i nostri interessi personali.    3.9. Il non-cognitivismo e la giustificazione logico-argomentativa del punto  di vista etico. — Una teoria della giustificazione © argomentazione etica è  stata messa a punto anche dai teorici del non-cognitivismo (cfr. $ 2.6).   Laddove gli emotivisti consideravano del tutto fallace la convinzione che si  potesse avere una reale discussione su questioni etiche, i teorici del non-co-  Bnitivismo trovano possibile indicare una serie di procedure come peculiari  del ragionamento etico. Vale la pena di fermarsi brevemente sulle differenze    www.scribd.com/Filosofia_in Ita3    56 ETICA    sul piano della giustificazione e dell’argomentazione, dunque sul piano episte-  mologico, tra le posizioni degli emotivisti e quelle dei non-cognitivisti. Infatti  lo sviluppo di questa differenza rappresenta una delle vicende centrali del-  l'etica del XX secolo che viene completamente trascurata da quanti — come  ad esempio A. MacIntyre (MacIntyre, 1988) — assimilano rigidamente emo-  tivismo e non-cognitivismo,   Nel caso degli emotivisti occorre distinguere tra le posizioni di Ayer e di  Stevenson. È appunto nelle pagine di Ayer (Ayer, 1961) che troviamo la posi-  zione più radicale che ritiene che l’unico punto di dibattito effettivo in una  discussione etica possa essere quello di una verifica fattuale sul come sono  andate le cose e, per il resto, sia da considerare comeeffettivo in una  discussione etica possa essere quello di una verifica fattuale sul come sono  andate le cose e, per il resto, sia da considerare come del tutto illusoria la  pretesa di aprire una qualche discussione criticamente valutabile sulla rile-  vanza etica di ciò che è accaduto, In definitiva connotando eticamente qual-  cosa ciascuno esprime solo i propri gusti morali del tutto personali e, come è  noto, sui gusti non si può certo disputare. La posizione di Stevenson (Steven-  son, 1962; cfr. qudo eticamente qual-  cosa ciascuno esprime solo i propri gusti morali del tutto personali e, come è  noto, sui gusti non si può certo disputare. La posizione di Stevenson (Steven-  son, 1962; cfr. qui sopra $ 2.6) è meno riduttiva, ma finisce con il sostenere  che tutto ciò che possiamo fare da un punto di vista argomentativo o episte-  mologico in morale è divenire pienamente consapevoli del come usare nel  modo appropriato, come un potere causale, la forza emotiva presente nelle  nozioni etiche, vuoi per persuadere altri ad accettare i nostri standards, vuoi  impedendo che altri ci persuada con il mero ricorso a delle definizioni persua-  sive, Ma non resta nessuna possibilità pet discutere in una qualche forma ar-  gomentativa l'appropriatezza etica di un determinato giudizio morale. Lad-  dove consideriamo l’etica come un linguaggio emotivo — sia pure, come fa  Stevenson, come un linguaggio guidato da regole nel suo uso — tutto ciò che  possiamo fare sul piano epistemologico è richiamare l’attenzione sulla pre-  senza di tecniche di persuasione che possono essere utilizzate sia da una per-  sona che voglia fare passare dei valori giusti, sia da chi invece voglia imporre  dei valori ingiusti, L'argomentazione etica, così come ce la presenta Stevenson  con il suo emotivismo moderato, non ci permette di discriminare tra questi  valori, ma solo di sostenerli nel modo migliore ed egli quindi riconosce in  questo campo solo uno spazio per procedure di tipo retorico o propagandi-  stico.   Nel caso invece del non-cognitivismo, come sostenuto ad esempio da Hare  (Hare, 1971 e 1989), troviamo l'impegno a elaborare un'epistemologia per  l’etica che fornisca criteri di discussione e critica anche per il nucleo peculiare  di valori che è in gioco nel discorso morale. Come si è già spiegato (cfr. sopra,  $ 2.6) secondo questa concezione meta-etica la morale è costituita di prescri-  zioni universalizzabili soverchianti. Partendo da questa caratterizzazione della natura della morale un non-cognitivista ha di fronte a sé due problemi di-  stinti. Si tratta, in primo luogo, di esaminare se vi sono vie argomentative per  convincere razionalmente a farsi guidare nelle proprie azioni da una morale  così intesa chi non la vuole fare propria preferendo un completo amoralismo.  In secondo luogo si tratta di delineare quali procedure argomentative sono  disponibili per sottoporre a controllo le diverse opzioni mortali possibili al fine  di individuare, per la situazione in cui ci troviamo, quale è la migliore prescri-  zione universalizzabile soverchiante. Esponiamo qui di seguito le due diverse  strategie argomentative così come vengono delineate da Hare.   Per quanto riguarda il livello di discussione che si apre nei confronti di chi  non intende in alcun modo ispirarsi a regole morali, sul piano argomentativo  non c'è molto da fare. Non si può cioè costringere logicamente qualcuno a  usare il linguaggio della morale; si può solo, una volta che egli lo usi, mostrare  che lo ha usato in modo inadeguato rispetto alle regole che ne governano  l'uso. Hare dunque sembra voler fissare come limite invalicabile per l’argo-  mentazione morale il confine al di lì del quale si collocano tutti coloro che  non fanno in alcun modo uso del linguaggio morale. Nei confronti di costoro  si potrà fare qualcosa solo collocandosi da un punto di vista non strettamente  argomentativo. L'educazione e l’uso della forza sono due diverse strategie cui  si ricorre per far si che le persone facciano propria la forma di vita che in-  clude la morale.   All’interno della prospettiva non-cognitivista di Hare si può invece argo-  mentare contro chi pretende di formulare giudizi morali ed invece in realtà  non rispetta le condizioni logiche necessarie perché un proferimento faccia  parte del linguaggio etico. Come sappiamo un'espressione linguistica farà  parte del discorso morale solo in quanto si presenta come una prescrizione  universalizzabile soverchiante. Possiamo identificare con chiarezza coloro che  pretendono di dare una portata morale alle loro affermazioni, ma compiono  degli errori logici (oltre che morali}. Le analisi di Hare sono rivolte a delineare  il tipo di argomentazione che può essere sviluppata contro il più comune  errore nell'uso del linguaggio morale, quello proptio dei fanatici morali. Le  posizioni dei fanatici morali nascono in quanto si prescrivono dei principi che  non vengono fatti valere — come la loro natura di principi morali esigereb-  be — in modo analogo per tutte le situazioni simili indipendentemente dal  posto occupato da coloro che sono coinvolti. Un tentativo, coerente con la  concezione della morale propria del non-cognitivismo, può essere fatto per  contrastare il fanatismo morale ad esempio nella forma più ricorrente che è  quella del razzista (Hare, 1971; ma Hare più recentemente ha trattato anche  del caso di un medico che in nome dei suoi doveri professionali fa proprio    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    58 ETICA    l’accanimento terapeutico: Hare, 1989). Si tratta di chiedere al fanatico di im-  maginarsi in una situazione in cui egli occupa il posto di colui nei confronti  del quale egli vuole fare valere in modo diseriminante i suoi pretesi principi  morali. Che cosa fa il razzista anti-semita quando una nuova informazione for-  nisce le prove che lui stesso è di origine ebraica? Il non-cognitivista può con.  siderare l'articolazione di un esperimento mentale del genere come un’esten-  sione epistemologica della sua concezione meta-etica.   Si badi infine che l’argomentazione propria dell'etica che viene individuata  muovendo dalla concezione della natura dei giudizi morali avanzata da Hare  non si limita — come nel caso del formalismo kantiano — ad avanzare la ri-  chiesta di una mera coerenza formale, ma enuncia un requisito contenutistico.  In linea del tutto pregiudiziale un giudizio potrà essere incluso nell'universo  dei giudizi propri del discorso morale solo se prescrive un qualche principio  che si è pronti a far valere in modo analogo per tutti i casi simili indipenden-  temente dalla propria collocazione nelle situazioni investite. Lavorando su  questa condizione epistemologica della concezione che vede la morale come  insieme di prescrizioni universalizzabili soverchianti, più recentemente Hare  (1989) ha elaborato ulteriori passaggi critici a cui sottoporre le prese di posi-  zione etiche. Nello sviluppare queste implicazioni epistemologiche si è incam-  minato lungo una linea che giunge a presentare come adeguate — su basi so-  stantive — quelle conclusioni che vengono ricavate dall’utilitarismo dell’atto.  In quanto ci troviamo di fronte ad un’argomentazione che ricava da una me-  ta-etica una ben precisa etica normativa, ce ne occuperemo in un prossimo    paragrafo (cfr. $ 4.7).    3.10. Dalla giustificazione allo spiegazione dell'etica. — Proprio nel no-  stro secolo la riflessione filosofica sull'etica ha elaborato una serie di analisi  conseguenti a un radicale mutamento di approccio. L'effetto di questo cam-  biamento è che anche per quanto riguarda le procedure argomentative in uso  in morale l’obiettivo cui si tende è di ricostruirne il complesso delineando an-  che il contesto in cui si sono formate. Con questo approccio non ci si propone  dunque di fondare o giustificare aleunché 0 di modellare al meglio strutture  argomentative, quanto piuttosto di presentare spiegazioni complessive rivolte  a comprendere qual è il posto che l’etica occupa nella nostra vita. In definitiva  è la prospettiva che Hume aveva sviluppato nella sua scienza della natura  umana che viene recuperata, tradotta nel linguaggio del nostro secolo e resa  più rigorosa e determinata. L'etica viene così considerata come un presuppo-  sto della nostra forma di vita che non tanto va giustificato o fondato quanto  piuttosto spiegato nella sua concretezza. Si tratta dunque di un programma esplicativo che considera l'etica e le sue distinzioni come costitutive della  nostra esperienza del mondo, con un approccio in parte analogo a quello  kantiano impegnato a identificare le forme generali della nostra esperienza.  Ma questo approccio esplicativo non percorre poi la linea aprioristica kan-  tiana dell'analisi trascendentale, proponendosi piuttosto di avanzare ipotesi  empiriche sulla natura dell'etica e le forme di argomentazione in essa correnti  (Preti, 1986). ;   Questo tipo di ricerca ha avuto nel nostro secolo una notevole espansione  parallelamente al tentativo della filosofia di trasferirsi dal piano fondazionale  a quello esplicativo (cfr. Gargani, 1975 e Nozick, 1987). Una prima differenza  tracciabile in questa linea filosofica, come si è detto, è relativa al tipo di spie-  gazioni, ovvero alla natura logica delle presupposizioni a cui ci si richiama,  caratterizzate o in una direzione trascendentale oppure come ipotesi empi-  riche.   Su basi kantiane un tentativo di spiegare l'etica è presente nelle analisi di  Putnam (Putnam, 1991). La tendenza a esprimere giudizi morali è secondo  Putnam un modo del tutto aprioristico e comune al genere umano di catego-  rizzare; in modo analogo va spiegata la stessa predilezione sostantiva per certi  contenuti (benevolenza, giustizia ecc.). Invece sul piano empirico si trovano,  tra le altre, le seguenti spiegazioni della morale. Da una parte abbiamo una  concezione come quella di J. L. Mackie (Mackie, 1977) che ritiene che l'etica  sia una produzione artificiale della cultura umana con cui gli vomini cercano  di fare affermazioni su specifiche proprietà del mondo, ovvero i valori o le  qualità etiche; ma queste affermazioni sono tutte false in quanto tali proprietà  non sussistono realmente. Dall'altra abbiamo le posizioni proiezioniste, quale  ad esempio quella di S. Blackburn (Blackburn, 1984), secondo le quali invece  si guarda all’etica come un prodotto della nostra cultura che ci consente di  fare riferimento a qualità o proprietà quasi reali (le proprietà morali) che noi  abbiamo proiettato sulle cose e sul mondo. Sono ancora da ricordare le analisi  sensiste di Wiggins {Wiggins, 1987) e McDowell (1981) i quali ritengono vi-  ceversa che si debba considerare l’etica come il campo che gli esseri umani  costituiscono in quanto forniti di un peculiare senso o sentimento che li mette  in grado di cogliere delle proprietà nel mondo (appunto ciò che rende moral-  mente rilevante una qualche situazione) che hanno poi su di essi una forza  motivante e vincolante. Infine in un contesto più evoluzionistico A. Gibbard  {Gibbard, 1990) indica nella morale un insieme di norme che gli uomini   anno elaborato nel corso di una loro attività peculiare che li muove a discu-  tere pubblicamente sul come condurre le loro vite e come sentire a proposito  delle scelte fatte nel corso delle loro vite. Tutti questi diversi modelli esplicativi dell'etica e della sua genesi come si può vedere ne rendono conto in ter.  mini universalistici; l'etica si presenta cioè come un'istituzione del genere  umano che include al suo interno il ricorso a procedure pubbliche pet con-  trollare la validità delle opzioni privilegiate. Larga parte di queste concezioni  esplicative sono rivolte a trovare una collocazione per la credenza che il con-  trollo fattuale giochi un ruolo importante nella discussione etica. Una cre-  denza del genere sussiste anche se i fatti morali non esistono, 0 sono solo delle  nostre proiezioni o tali che noi li cogliamo perché forniti di una peculiare at-  trezzatura percettiva.    3.11. I problemi centrali per la fondazione della morale: «legge di Hume» e  possibilità di una «logica delle norme». — In questo secolo un ampio dibat-  tito si è sviluppato intorno a due nuclei problematici centrali per chiunque si  ponga l’obiettivo di una fondazione o giustificazione di conclusioni etiche. In  primo luogo hanno avuto un’ampia diffusione le discussioni relative alla co-  siddetta «legge di Hume» che coinvolgono tutti i tentativi di fondare una  conclusione etica su basi scientifiche, osservative o empiriche. Il punto di par-  tenza per questa linea di riflessione viene indicato in un passo del Treazise di  Hume (Hume, 1987: I, 496-497), il cosiddetto «is-ought paragraph», in cui si  richiama l’attenzione sulla differenza tra proposizioni in cui è presente la co-  pula è {:5) e quelle in cui compare la nozione deve (ough)). A questo passo si  sono richiamati tutti coloro che hanno criticato come logicamente inaccetta-  bile la derivazione di una conclusione normativa, e in generale etica, da pre-  messe descrittive, assertive o in generale non-etiche (cfr. Hudson, 1969; Car-  caterra, 1969; Oppenheim, 1971; Scarpelli, 1982: 165-178; Celano, 1994). Sul  piano storico occorre precisare che è molto probabile che Hume non fosse  direttamente impegnato a formulare un vero e proprio principio logico rela-  tivo all’inderivabilità del dovere dall'essere, quanto piuttosto a segnare con  precisione la «grande divisione» concettuale tra conclusioni con l'è e quelle  con il deve. Importa però qui richiamare che nel XX secolo invece si fa rile-  vare che proprio da un punto di vista strettamente logico-formale e sintattico  si deve ritenere del tutto scorretto qualsiasi ragionamento o argomentazione  che pretenda di ricavare una decisione, una scelta o un giudizio etico da con-  siderazioni che riguardano lo stato dei fatti o delle cose.   Questa posizione è stata ampiamente sostenuta nel corso del XX secolo  con articolazioni lievemente diverse. Così ad esempio Max Weber insisteva  con decisione sulla differenza di piani tra fatti e valori e dunque tra conclu-  sioni avalutative e scientifiche sulla natura e sulla società e decisioni o assun-  zioni di responsabilità intorno a ciò che si deve fare (Weber, 1958; Rossi,  L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 61    1971: 249-315; Hennis, 1991). Partendo dalla stessa tesi della inderivabilità  dei valori o doveri dai fatti si sono rifiutate numerose concezioni spesso accu-  sate di essere cadute nella «fallacia naturalistica» (Moore, 1964; cfr. $$ 3.4  e 3.5). Così da una patte vengono denunciate come frutto di un errore lo-  gico tutte quelle posizioni riduzionistiche o conformistiche che concludono  che ciò che si deve fare è o ciò che è naturale per l'uomo o ciò che è già  indicato dai valori accettati più o meno diffusamente nella società. Non diver-  samente viene considerata fallace quella specie di argomentazione etica pro-  pria dell'approccio consequenzialista che considera come completamente ri-  solvibile un qualche problema morale ricostruendo con precisione —— am-  messo che tra l'altro questo sia fattibile — quali sono le conseguenze delle  diverse opzioni tra cui dobbiamo scegliere. In realtà sapere con precisione  quali sono le conseguenze delle alternative che ci sono davanti non basta per  ricavare una conclusione su ciò che dobbiamo fare perché una tale previsione  — se attendibile — ci dirà solo ciò che ci sarà nel futuro, ma nulla ci dice sul  punto se certe conseguenze che ci saranno vanno poi preferite o meno ad altre  e dunque approvate o disapprovate. Tra l’altro era proprio questa l’argomen-  tazione che faceva valere Hume nella sua Exquiry concerning the Principles of  Morals (1751, Ricerca concernente i principi della morale; Hume, 1987: II, 302)  contro i tentativi di derivare le distinzioni etiche dal principio di utilità.   Contro l’uso di questa critica come ghigliottina decisiva per numerose  concezioni etiche si sono schierati quei pensatori — particolarmente nume-  rosi nell'ultirna parte del XX secolo — che hanno negato che si potesse net-  tamente distinguere un piano di descrizioni neutrali del mondo da un piano  di opzioni valutative su di esso. Questo tentativo di superamento del quadro  concettuale che sorregge la cosiddetta «legge di Hume» è stato principal  mente rivolto a contestare la concezione della scienza dei neopositivisti che  sembra sorreggere una forte divaricazione tra fatti e valori, essere e dovere.  Questa divaricazione è stata criticata e giudicata superata da numerosi pensa-  tori pragmatisti, tra i quali in particolare Putnam (Putnam, 1982 e 1985).   In secondo luogo indubbiamente rilevante per il problema della fonda-  zione e della giustificazione dell’etica è tutto il dibattito — specialmente vivo  nella seconda metà del XX secolo — relativo alla possibilità di costruire una  logica delle norme. Collocandosi dunque sul piano della ricerca di una sin-  tassi di un discorso etico che voglia fare valere al suo interno principi di coe-  renza e non-contraddizione è stata contestata la stessa possibilità di enunciare  una logica delle norme. Una posizione del genere è presente nelle conclusioni  a cui era giunto H. Kelsen nell'ultima parte della sua vita (Kelsen, 1985). Ri-  levando che le norme sono, dal punto di vista del significato, dei comandi, e che dunque come tali non possono essere valutati in termini di verità e falsità,  Kelsen negava che si potesse costruire un sillogismo logico in cui premesse e  conclusioni fossero degli asserti normativi. Le implicazioni della sintassi logica  possono valere solo in presenza di proposizioni empiriche o asserzioni scien-  rifiche, ovvero laddove premesse e conclusioni si collocano sul piano della ve-  rità e dunque da premesse vere (o false) si traggono conclusioni vere (o false).  Ma un enunciato normativo non è in alcun modo vero 0 falso e dunque non  può funzionare da premessa di nessuna conclusione logicamente derivata,  Così se presentiamo nella premessa maggiore un enunciato normativo di ca-  ratrere universale, laddove nella premessa minore troviamo l'individuazione  di una fattispecie rilevante sulla base della norma generale enunciata nella  premessa maggiore, secondo Kelsen non siamo autorizzati a presentare come  una conclusione logicamente necessaria una qualche azione o omissione {con  relativa sanzione). Coloro che contestano la possibilità di una logica delle  norme obiettano infatti che comunque il linguaggio normativo esige sempre  che ci sia un qualche comando effettivo ripetuto subito prima del compi-  mento di qualsiasi azione.   Sia le «legge di Hume» sia le obiezioni alla possibilità di elaborare una  «logica delle norme» risultano particolarmente rilevanti nei confronti di chi si  muove all’interno di un contesto fondazionale e pretende dunque di dare una  qualche fondazione assoluta o conclusiva dell'etica. Ma se ci collochiamo sul  piano dell’argomentazione o della giustificazione (per non dire del piano della  spiegazione delle procedure effettivamente adottate) le cose risultano più  complesse. Per quanto riguarda, ad esempio, la cosiddetta «legge di Hume»,  sembra difficile non ammettere l'efficacia di quelle critiche rivolte al tentativo  di ricavare le proprie conclusioni etiche semplicemente da una ricostruzione  dei fatti in gioco, o da una mera raccolta di informazioni, o dall’accumulo di  una congerie più o meno estesa di previsioni. Dovrà introdursi prima o poi la  nostra preferenza per un qualche principio da fare valere in modo analogo in  tutte le situazioni simili, una preferenza che sia radicata nelle nostre emozioni  e che siamo pronti a mettere in pratica quando starà a noi agire facendola  prevalere su nostre opzioni non strettamente etiche. Questa ammissione di  una qualche frattura, divisione o salto tra il piano delle ricostruzioni empiri-  che della situazione e quello di una valutazione — e conseguente decisione —  delle diverse opzioni che ci stanno di fronte non deve essere spinto però fino  ad esiti eccessivi. Così risulterà insostenibile sul piano metodologico una rico-  struzione della natura dell’indagine empirica e scientifica che non tenga conto  di quanto le nostre osservazioni e le nostre esperienze siano dipendenti dalle  teorie, ipotesi e opzioni (anche valutative) da cui muoviamo. Né sarà accettabile un divisionismo spinto fino all’estremo di non riconoscere la rilevanza  — in un certo senso come condizione necessaria anche se non sufficiente di  un’argomentazione etica — dell'impegno sia a verificare come stanno real-  mente le cose nella situazione in esame, sia a immaginare quali conseguenze  seguiranno una volta incamminatici lungo l’uno o l’altro corso di azione.   Non diversamente a proposito della questione della possibilità di costruire  una logica delle norme è difficile negare la nostra capacità sia di squalificare  certe prese di posizione etiche perché in contraddizione con principi già as-  sunti, sia di estendere i nostri principi a situazioni nuove sulla base della tesi  logica che esse sono del tutto simili a quelle che abbiamo già giudicato. È  probabile che nel riconoscere questo ci muoviamo a un livello che non è esat-  tamente quello della sintassi logico-formale, ma piuttosto — come ha sugge-  rito Nowell-Smith (1974: 86-91) — delle implicazioni di una logica pragma-  tica che dà vita a una valutazione dei giudizi in gioco in termini di «stranezza  logica». Ma la rilevanza e la portata di strategie di tipo sintattico o logico resta  innegabile se si abbandona la pretesa di muoversi sul piano di un'etica dimo-  strata in modo assiomatico e geometrico.   Va, infine, sottolineato che — malgrado le obiezioni di fondo dei puristi  della logica — larga estensione hanno avuto nella seconda metà del XX secolo  i tentativi di elaborare simbolismi e formalismi idonei al trattamento di  norme. Ben al di là dei tentativi o delle enunciazioni di principio si sono spinti  tutti coloro — da Wright a Alchourron e Bulygin — che si sono impegnati a elaborare la logica deontica e la logica delle  norme. I risultati raggiunti con tutta la loro complessa articolazione mostrano  la fertilità di un tentativo di dare vita a un trattamento simbolico della sintassi  delle norme e di inserire in un contesto logico le relazioni tra obbligazioni eti-  che. Difficile peraltro che tali modelli di linguaggi perfetti o ideali per le norme  o le valutazioni etiche possano essere di aiuto per ciascuno di noi quando, nella  vita comune, siamo alle prese con i nostri problemi etici concreti. Tali linguaggi  invece illuminano certamente il lavoro di giuristi, politici, scienziati sociali im-  pegnati nel mettere a punto sistemi di norme più o meno stabili, efficienti, chiari  e comprensibili da tutti coloro per cui tali norme debbono valere.    4. Le etiche normative: concezioni in contrasto.    4.1. Eriche conseguenzialiste e deontologiche: principi, mezzi e fini nel-  l'etica. — Quando si tratta di classificare le diverse concezioni etiche pos-  siamo ricorrere a differenti criteri formali che si intersecano. È quanto faremo  n questo paragrafo, esponendo le differenti concezioni normative esistenti usando diverse strategie di classificazione. In primo luogo distingueremo le  etiche normative in generale sulla base di una loro struttura di fondo che col.  lega la valutazione etica 0 a un riferimento a principi 0 a una considerazione  delle conseguenze. Renderemo così conto della differenza tra etiche deonto-  logiche o tuotanti intorno a principi ed etiche teleologiche o rivolte principal-  mente alle conseguenze, e accenneremo anche ad alcuni tentativi di elaborare  etiche miste. Passeremo poi a rendere conto delle diverse etiche normative  classificandole sulla base di un diverso criterio formale che ritiene essenziale  la distinzione tra etiche che fanno uso di una nozione di valore intrinseco, in  quanto contrapposta a quella di valore estrinseco, ed etiche che invece rifiu-  tano tale distinzione. Esamineremo, infine, alcune concezioni normative che  identifichiamo come le più diffuse e vitali nelle discussioni di etica teorica nel  secolo XX. Ovviamente di pari passo con l’esposizione cercheremo sia di for-  nire le ragioni delle inclusioni ed esclusioni nella lista, sia della nostra prefe-  renza critica per una di queste etiche.   Un modo ricorrente per distinguere tra le diverse concezioni normative è  dunque quello che contrappone l’etica che ruota intorno a un appello ai prin-  cipi a quella che tiene piuttosto conto delle conseguenze dell’azione. Si tratta  di una distinzione che è centrale, ad esempio, nella riflessione di Max Weber,  che però se ne è valso non tanto per distinguere due tipi diversi di etica  quanto piuttosto per richiamare l'attenzione su due piani diversi della vita  etica: quello proprio del moralista che fa appunto appello alla rilevanza dei  principi e quello di chi — come il politico o chi sia comunque impegnato in  una dimensione tecnico-pratica — invece, muovendosi nel quadro di un'etica  della responsabilità, deve badare principalmente alle conseguenze dei diversi  corsi di azione in cui si impegna (Weber, 1966). Dietro queste due diverse  strategie possiamo anche ritrovare — come subito vedremo — un diverso  modo di considerare il rapporto mezzi-fini nella vita pratica.   Sono state presentate concezioni deontologiche dell'etica diversamente  strutturate. Avremo così diversi tipi di etiche dei principi a seconda che pon-  gano al loro centro uno o più principi, e a seconda che concepiscano tali prin-  cipi o come assoluti e aprioristici o come ricavati dall'esperienza e in generale  rivedibili. È così chiaro che l'etica kantiana si presenta come un'etica deonto-  logica che ruota intorno a un solo principio di fondo, assoluto e a priori, dato  dall'imperativo categorico, e le diverse formulazioni offerte, dell'imperativo  categorico, non presentano in realtà principi diversi (Kant, 1970a). Nel caso  di alcune etiche del comando divino (come ad esempio l’etica cristiana o car-  tolica) vi è invece una tendenza a presentare come costitutivi della vita morale  diversi principi tutti assoluti (i vari comandamenti divini o le norme che costituiscono la legge naturale). Un'etica deontologica pluralista si trova di  fronte al problema (quasi mai invece affrontato esplicitamente in queste eti-  che) della necessità di disporre di un criterio chiaro per ordinare i diversi  principi e risolvere quei casi in cui più principi assoluti entrano tra di loro in  conflitto. Ma una concezione etica deontologica non è logicamente costretta a  considerare i principi al centro della vita morale come assoluti, immutabili e  di derivazione non empirica. Non mancano infatti analisi della vita etica (ad  esempio quella dell'evoluzionismo filosofico di H. Spencer — H. Spencer,  1893 — o di certe forme contemporanee di intuizionismo — si vedano ad  esempio W. D. Ross, 1930 e A. C. Ewing, 1948) che pur ritenendo costitutivo  della vita morale l’appello a principi, non rendono conto del costituirsi di  questi principi lungo l’asse dell’impostazione kantiana o di quella religiosa. I  principi dell'etica vengono piuttosto considerati o come regole fissatesi nel  corso dell'esperienza quali abitudini o come assunzioni — più o meno con-  venzionali — preliminari, o anche come ipotesi più o meno rischiose da avan-  zare in situazioni risolvibili difficilmente con gli strumenti ordinari.   La questione centrale per una valutazione critica delle etiche deontologi-  che è quella di chiederci fino a che punto le si possa seguire nella loro assun-  zione che i principi e la coerenza sono il criterio determinante della vita mo-  rale senza che st debba tenere conto delle conseguenze di un'applicazione di  questi principi. Le etiche deontologiche incontrano in realtà difficoltà insor-  montabili in quanto si presentano come la struttura di riferimento di tutte le  forme di fanatismo morale, ovvero di quelle concezioni che ritengono che  l'unico modo per elaborare decisioni e giudizi eticamente validi sia quello di  dedurre coerentemente le implicazioni suggerite da principi considerati come  indiscutibili e non modificabili. Il fanatismo nasce laddove si spinge la fedeltà  ai principi fino a non tenere in alcun conto le eventuali conseguenze disa-  strose di questa fedeltà. Le etiche deontologiche partoriscono quindi spesso  moralisti che riaffermano continuamente vecchi principi che, in realtà, non  sono più in consonanza con la vita effettiva degli esseri umani, Paternalismo e  rigidità sembrano essere sul piano pragmatico alcune delle possibili implica-  zioni delle etiche deontologiche. Tali conseguenze sono evitate attraverso l’im-  pegno a formulare elaborate casistiche che prevedono un'ampia gamma di  condizioni in cui si può fare un'eccezione alle regole, Mentre sul piano psico-  logico non è infrequente che tali etiche generino forme più 0 meno estese di  ipocrisia per cui regole e principi assoluti sono enunciati solo verbalmente e  in pubblico, ma non seguiti nelle scelte effettive e in privato.   Proprio come correttivo di questi eccessi formalistici e rigoristici sono  state presentate come più adeguate le teorie etiche che mettono al centro della vita morale una considerazione delle conseguenze delle azioni. Si tratta di eti-  che in cui è centrale la considerazione per la dimensione della responsabilità.  In luogo di una stretta fedeltà ai principi l'atteggiamento etico è quello di chi  è impegnato in una continua valutazione dei risultati. Si tratta di quelle con-  cezioni dell'etica che già nel mondo antico, ad esempio con gli stoici, richia-  mavano l’importanza della prudenza per rendere conto del nucleo centrale  della vita morale, Queste posizioni conseguenzialiste hanno avuto un grande  sviluppo dalla fine del secolo XIX in quanto sono divenute la struttura por-  tante delle etiche utilitaristiche. Sul piano logico non è però corretta un’assi-  milazione tra conseguenzialismo e utilitarismo. Infatti l'utilitarismo è una  delle varie forme che può prendere il conseguenzialismo, quella che considera  come criterio di valutazione dei risultati la realizzazione del massimo bene per  il maggior numero. Altre forme di conseguenzialismo possono assumere,  come criteri di valutazione dei risultati, concezioni del bene o del valore da  realizzare del tutto alternative rispetto a quella felicifica dell'utilitarismo.   Però proprio la possibilità di distinguere tra utilitarismo e conseguenziali-  smo richiama quella che sembra essere la difficoltà principale delle concezioni  conseguenzialiste, ovvero la loro incompletezza. Infatti una concezione che  mette in primo piano per la valutazione morale la considerazione delle conse-  guenze delle nostre azioni non sembra in grado di rendere conto pienamente  del giudizio etico, in quanto tale giudizio non può limitarsi a esaminare quali  saranno le conseguenze di certe scelte, ma dovrà anche valutarle sulla base di  ben precisi criteri di valore. Ci troviamo dunque di fronte alla difficoltà che  già richiamava Hume (Hume, 1987: II, 301-311), ovvero che una considera-  zione delle conseguenze può informarci solo relativamente ai mezzi e resta poi  da valutare del tutto indipendentemente l'accettabilità dei fini. Ma per quanto  possa essere incompleta, un'etica conseguenzialista richiama su quello che è  un passaggio necessario per le nostre valutazioni e decisioni; la considerazione  appunto di ciò che la loro accettazione comporta. Anche se poi questo ap-  proccio non può esimerci da una valutazione dell’accettabilità o meno dei ri-  sultati che si raggiungeranno. La concezione conseguenzialista dell'etica riesce  a rendere conto delle nostre valutazioni su ciò che è giusto o ingiusto ed esige  di essere integrata con una teoria della bontà o del valore dei risultati.   Per quanto riguarda poi l’uso della distinzione tra mezzi e fini in etica va  anche detto che specialmente nell'ultimo secolo varie forme di naturalismo  etico si sono impegnate nell’approfondire e render meno semplicistica una  considerazione esclusiva dei mezzi come passaggio obbligato verso i fini, riflu-  tando così di considerare i mezzi come una dimensione incompiuta della vita  pratica. In questa linea si collocano le analisi di John Dewey nella sua Theory of Valuation (1939, La teoria della valutazione) che ha insistito nel richiamare  l'attenzione sul processo mediante il quale gli stessi mezzi possono trasfor-  marsi in fini e nel mettere quindi in crisi una concezione che vede i fini come  un risultato finale, per sostituirvi una prospettiva che nella condotta umana  trova un conzinuute di azioni che da mezzi si trasformano in fini che a loro  volta si trasformano in mezzi ecc. Dall'altra parte vi sono stati teorici che  hanno concepito il conseguenzialismo come autosufficiente laddove non si  considerino i fini come valori intrinseci o valori in sé, ma piuttosto come va-  lori estrinseci (cfr. $ 4.2).    42. Il valore intrinseco nell'etica. — Dal punto di vista normativo le di-  verse etiche possono essere differenziate anche sulla base del ricorso o meno  alla nozione di valore intrinseco. La nozione di valore intrinseco trova un uso  centrale nell’etica di Moore, ma anche ad esempio sul versante fenomenolo-  gico nell'opera di F. Brentano e poi di Max Scheler (Scheler, 1944: 121-130).  Nella seconda metà del XX secolo l’uso di tale nozione nella teoria etica è  stato più volte fatto oggetto di critiche in particolare da pensatori pragmatisti  {su questa discussione è da vedere G. Pontara, 1974, che presenta anche una  difesa dell’uso in etica di tale nozione). Vi sono stati altresì tentativi di de-  lineare una nuova caratterizzazione della nozione ad esempio da parte di  R. Nozick (Nozick, 1987).   La nozione di valore intrinseco è legata al tentativo di dare all’etica una  dimensione oggettiva. Infatti in questo senso Moore (1964) collegava la no-  zione di valore intrinseco con quella di «unità organica». Le cose fornite di  valore sono uniche in quanto presentano una unità organica che non è defini-  bile riducendo l’intero alle sue parti. In questo senso il valore intrinseco è la  contropartita a livello ontologico della tesi gnoseologica che riconosce nel  bene una qualità del tutto unica, semplice e indefinibile. D'altra parte il rife-  rimento al valore intrinseco fa sì che si consideri il bene come qualcosa che  viene conosciuto come presente nel mondo oggettivo e non già come un  modo di sentire soggettivo. In questo senso Moore riteneva che le proprietà  etiche avessero una loro realtà e sussistessero indipendentemente dall'essere  percepite,   La tesi che vi sono degli interi forniti di valore intrinseco (come ad esem-  pio per Moore le relazioni personali e le cose belle) permette di identificare il  normativo e l'etico con qualcosa che ha uno statuto peculiare e che dunque  non può essere ridotto a nessuna altra realtà. La posizione che ammette l’esi-  stenza del valore intrinseco nega che ogni azione possibile sia fornita solo di  valore estrinseco e strumentale e che possa essere sostituita da qualsiasi altra azione. La concezione del valore intrinseco si accompagna dunque all’elabo-  razione di una teoria normativa che riconosce l'autonomia dell’etica e ritiene  anche che vi sia un modo compiuto e definitivo per fondare le conclusioni  dell'etica.   Anche Nozick (1987) usa la nozione di valore intrinseco come mezzo teo-  rico per arrivare a riconoscere alle realtà al centro dell'etica un'oggettività e  una forza vincolante indipendenti dalle motivazioni individuali. Nozick, come  Moore, collega la nozione di valore intrinseco con quella di unità organica e  anzi propone una gerarchia delle realtà sulla base del diverso grado di valore  intrinseco, nel senso che sarà fornito di maggiore valore intrinseco quell’inte-  ro che connette in modo più organico, ovvero più stretto e unitario, un  maggiore numero di parti differenti. In questo senso la nozione di valore  intrinseco secondo Nozick può essere attribuita a un gran numero di esseri e  permette misurazioni e graduazioni. La moltiplicazione di esseri forniti di  valore intrinseco nella teoria etica di Nozick è confermata dalla tesi che  questo valore può essere creato o costituito (in quanto «valore contributivo»  alla totalità di valore intrinseco già esistente nel mondo). Nozick poi delinea  una precisa lista di realtà fornite di valori, suggerendo che in particolare sono  le persone e i sé ad avere una maggiore quantità di valore intrinseco e a  poterne creare di nuovo. Riprendendo la gerarchia degli esseri della tradizio-  ne aristotelico-tomistica Nozick indica nella persona umana il vertice tra le  realtà fornite di valore intrinseco nel senso che i sé personali possono sceglie-  re di costituire unità organiche molto originali e strette, unificando l’insieme  molto differenziato di parti rappresentato dal fluire delle loro vite. Nozick  sembra dunque essersi impegnato a riproporre su una base laica e empiristica  la concezione religiosa e spiritualistica che indicava negli esseri personali  realtà fornite di un valore intrinseco e non sottoponibili a una valutazione  strumentale.   Un'etica che faccia uso della nozione di valore intrinseco va incontro alla  difficoltà di coinvolgere chi la sostiene in una serie di pretese metafisiche dif  ficilmente accettabili una volta sottoposte a controllo empirico. Così nel caso  di Moore la nozione di valore intrinseco in definitiva rinvia a una struttura  essenziale e sostanziale delle cose buone che può essere direttamente cono-  sciuta solo ricorrendo a una intuizione niente affatto empirica. Nozick riesce  in parte a depurare la sua utilizzazione della nozione di valore intrinseco da  queste implicazioni ontologizzanti e metafisiche in quanto colloca tutta la sua  teoria non già su di un piano fondazionale, ma piuttosto su quello esplicativo,  Ma procedendo per questa strada non si capisce più perché sia strettamente  necessario usare in etica la nozione di valore intrinseco. Infatti se rale nozione viene introdotta solo per spiegare alcune assunzioni e intuizioni che si dà per  scontato siano presenti nel nostro modo di vivere la dimensione etica, po-  tremmo rifiutarla negando di trovare in noi tali assunzioni e intuizioni, oppure  sottoponendo le assunzioni e intuizioni presupposte a una critica che ne fac-  cia risultare l’artificiosità e l’inaccettabilità.   La nozione di valore intrinseco può avere un suo uso nel campo dell’este-  tica quando si tratta di spiegare il valore di cui una certa opera d’arte come un  tutto è fornita, valore che non è riconoscibile nelle diverse parti che la  costituiscono. Ma sembra difficile accettare come pacifica un'estensione di  tale nozione alla vita morale, In realtà affermando l'imprescindibilità dell'etica  dalla nozione di valore intrinseco si ripropone sotto una nuova forma l’obie-  zione che contro le concezioni conseguenzialiste muove — come abbiamo  visto — chi fa appello all’ineliminabilità dei principi. Il sostenitore dell'etica  dei principi rimarca che la considerazione delle conseguenze esige comunque  una loro valutazione ticorrendo a principi. In modo analogo chi ritiene  ineliminabile dall’etica l’uso della nozione di valore intrinseco rimarca che  una considerazione etica in termini di valore strumentale rinvia sempre a  qualcosa che è fornito invece di valore intrinseco 0 finale. Con questo lessico  la critica al conseguenzialismo si carica di allusioni ontologiche, metafisiche e  oggettivistiche che è difficile possano avere un riscontro sul piano dell’analisi  empirica,    4.3. L'etica giusnaturalistica e la legge naturale. — Passando al piano più  sostantivo un'etica normativa chiaramente identificabile è quella giusnaturali-  stica o della legge naturale. Abbiamo già avuto modo (cfr. $ 3.4) di sostenere  come il giusnaturalismo e la concezione della legge naturale vadano incontro a  profonde difficoltà epistemologiche, ma resta fermo che anche nel corso del  XX secolo — benché con minore fortuna che nel passato — sono riconosci-  bili dei sostenitori di un concezione giusnaturalista o della legge naturale (ad  esempio Finnis, 1983), Si tratta di quella posizione etica che ritiene che gli  uomini hanno per natura determinati doveri e obblighi e che tali doveri e ob-  blighi siano determinabili prima e indipendentemente dal costituirsi di qual-  siasi istituzione giuridica o politica.   La tradizione giusnaturalistica ha avuto, dopo la presentazione da parte di  Tommaso d’Aquino di un’etica cristiana della legge naturale, una ripresa e  una formulazione sistematica nel corso del XVII secolo da parte di autori  come Grozio e Pufendorf. La concezione della legge naturale è stata poi varie  volte ripresentata nei secoli successivi e tuttora costituisce l'etica prevalente  nelle visioni cristiane e religiose. Le concezioni della legge naturale ruotano intorno al riconoscimento di una serie di obblighi e di doveri propri della na-  tura umana. Proprio conseguentemente a questo riconoscimento i teorici  della legge naturale fanno ampio uso del linguaggio dei diritti, anzi possiamo  ritenere che la diffusione nell'età moderna e contemporanea di tale linguaggio  sia una ricaduta del giusnaturalismo del XVII secolo. Va però sottolineato  come sia del tutto differente il ruolo che i diritti hanno nelle concezioni giu-  snaturalistiche rispetto a quello che essi hanno nelle teorie etiche dei diritti  propriamente dette. Infatti i diritti affermati da un'etica giusnaturalistica non  sono mai illimitati e assoluti, ma trovano una delimitazione nell’obbligo o  dovere che occorre comunque rispettare facendo valere il proprio diritto. Le  diverse classificazioni dei diritti rinviano quindi a un contesto di leggi, doveri  e obblighi che resta primario.   I teorici della legge naturale concordano nel ritenere che gli uomini in  quanto tali hanno tutta una serie di diritti e doveri paralleli: ad esempio, l’esi-  stenza di un diritto alla vita da parte di qualcuno sì accompagna al dovere del  rispetto della vita di costui da parte degli altri. Tra gli obblighi più frequente-  mente richiamati dai teorici della legge naturale ricordiamo i doveri verso se  stessi, i doveri verso gli altri (distinguendo in questo ambito tra i doveri verso  i propri familiari e i doveri verso i propri concittadini) e i doveri verso Dio. I  doveri verso se stessi sono spesso identificati con tutta una serie di massime di  tipo prudenziale, sulla base di un più generale principio che considera la vita  umana — più specificamente la propria vita — come non disponibile. All’in-  terno del quadro delle etiche giusnaturalistiche infatti il suicidio è general  mente considerato inaccettabile.   Per quanto riguarda poi la dimensione dei doveri verso gli altri una prima  proposta è quella che distingue tra i doveri in senso più stretto nei confronti  dei propri familiari e i doveri in senso più generale verso i propri simili.  Un'altra distinzione ricorrente tra i teorici del giusnaturalismo è quella tra  doveri perfetti e imperfetti. Ci si trova di fronte a doveri perfetti laddove a  questi doveri non si può disattendere in quanto sono legati a un corrispon-  dente diritto da parte degli altri e dunque con una qualche codificazione. Così  in questa classe rientra il dovere di non ledere gli altri o di ottemperare a una  promessa o patto sottoscritto. Nella nozione di lesione si fa spesso rientrare  non solo il danno fisico, ma anche il danno relativo ai beni ovvero alla  proprietà. Vi sono invece tutta una serie di doveri imperfetti: essi riguardano  azioni che non siamo sempre tenuti a realizzare perché gli altri non le possono  pretendere da noi come un loro diritto (ad esempio le azioni mosse da  generosità 0 beneficenza); oppure si tratta di doveri speciali legati al partico.  lare posto che si occupa, ovvero al ruolo professionale, o al ruolo nella famiglia (padre, madre, figlio ecc.), o alla carica che si ricopre nella società.  Non mancano tentativi fatti dai teorici della legge naturale specialmente  nel XVII secolo con Grozio, Pufendorf, Althusius e Thomasius (Bobbio,  1980) di esporre in forma compiuta e sistematica tutto il codice di obblighi e  doveri.   I teorici della legge naturale riconoscono uno statuto del tutto peculiare al  dovere nei confronti del governo o dello Stato, ovvero al dovere di obbe-  dienza 0 lealtà nei confronti delle leggi del proprio paese. Ma proprio la rifles-  sione intorno a questo dovere, alla sua assolutezza o ai suoi limiti, segna nel  corso del XVII secolo il processo di crisi per l'etica della legge naturale. In-  fatti Hobbes mette in luce la difficoltà di conciliare all'interno di un'etica  della legge naturale due distinte esigenze entrambe considerate essenziali: da  una parte il dovere di obbedienza al governo e dall'altra un qualche diritto a  resistere al governo ingiusto. Hobbes indicava la soluzione nel rimettere al  governo attraverso il patto tutti i diritti e dunque complessivamente anche il  diritto di resistenza, lasciando però all'individuo la possibilità di salvare con la  fuga la propria vita quando in pericolo.   La concezione giusnaturalistica dunque è entrata in crisi non solo sul  piano epistemologico (cfr. $ 3.4), ma anche per la sua incapacità di fornire  soluzioni pratiche effettive ai problemi etici che di volta in volta si sono pre-  sentati agli uomini. Quanto più le condizioni di vita degli esseri umani sono  andate collocandosi in un ambiente artificiale, tanto meno il richiamo alla na-  tura è risultato decisivo e chiaramente comprensibile. Non solo il dovere di  resistenza del cittadino nei confronti dei governi ingiusti o delle guetre ingiu-  ste è risultato inderivabile da una presunta legge naturale, ma molti dei doveri  a cui rinviava la legge naturale sono apparsi desueti o inutili o lacunosi  quando le condizioni di vita si sono andate trasformando radicalmente nel  corso di un processo di civilizzazione che ha segnato il prevalere di condizioni  artificiali di vita. Si pensi, ad esempio, alle profonde trasformazioni che hanno  subito le relazioni familiari. Da queste trasformazioni deriva la vuotezza di  quelle concezioni che pensano di potere risolvere i conflitti facendo appello a  ciò che è naturale. Le questioni legate alle relazioni familiari o ai rapporti tra i  sensi non trovano certo più una soluzione ovvia e condivisa rinviando a una  presunta famiglia naturale ideale o a un comportamento appropriato e lode-  vole secondo un qualche modello naturale di padre, madre, figlio e dei rispet-  tivi doveri. Ancora, per cogliere le difficoltà a cui va incontro il giusnaturali-  smo si pensi come al suo interno sia arduo trovare risposte per i problemi che  nascono con le nuove professioni o le nuove responsabilità etiche (pensiamo a  chi si occupa di gestione o trasmissione delle informazioni o delle immagini, o a chi si occupa di terapia delle malattie mentali). L'etica della legge  naturale pretende di trovare nella natura umana da sempre e per l'eternità  doveri e diritti relativi a condizioni e situazioni che solo cinquant'anni fa  erano inimmaginabili. Né una riduzione a una presunta essenza della condi-  zione umana può risolvere queste difficoltà in quanto per questa via le norme  ricavate dalle leggi naturali si presentano con una formulazione tanto astratta  e generica da risultare del tutto inefficaci. Proprio perciò la tradizione giusna-  turalistica si è andata sempre più svuotando della sua forza pratica e l'appello  alla legge naturale è divenuto solo uno strumento retorico e ideologico, unito  alla reiterazione di regole (spesso del tutto incapaci di guidarci) molto gene-  rali quali «non uccidere», «non rubare» ecc.    44. L'etica contrattualistica e le sue forme. — Il contrattualismo come  teoria etica fu elaborato inizialmente nel corso del XVII secolo proprio come  superamento del giusnaturalismo cristiano e medievale. La possibilità di indi-  care nella natura umana un fondamento adeguato per l’etica veniva messa in  crisi da Hobbes indicando la completa assenza, nella natura originatia degli  uomini, di tendenze che rendessero possibili la pace, l'ordine e la coopera-  zione sociale. Proprio in quanto la natura umana immaginata in uno «stato  di natura» è incapace secondo Hobbes di dare fondamento alla distinzione  tra il bene il male, tra il giusto e l'ingiusto, queste distinzioni vanno collegate a  una procedura artificiale che coincide con il contratto. Il contratto fu am-  piamente usato nel corso del XVII secolo come criterio etico decisivo da  autori — molto diversi tra loro — come Hobbes, Pufendorf, Spinoza e Locke  {Gough, 1986).   Un tratto tipico comune del contrattualismo del XVII secolo sta nel fatto  che il contratto è presentato come un criterio che può riuscire a fondare solo  una parte del contenuto dell'etica — quello che ha a che fare con le leggi  giuridiche e con le istituzioni politiche —, ma non la totalità dell'etica e în  particolare non può rappresentare un criterio adeguato per fondare la morale  nel senso stretto in cui ne trattiamo in questo scritto. Proprio perciò i teorici  nel XVII secolo, al di lì dello spazio garantito dal contratto, rinviano a una  diversa base come fondazione per la morale propriamente detta. Ad esempio  nella teoria di Hobbes troviamo che o — secondo la maggior parte dei suoi  interpreti — vi è una completa assenza di morale nello stato di natura e prima  del patto che dà vita all’ordine civile, oppure — ad esempio secondo H. War-  render (1974) — la morale viene fatta dipendere dagli ordini di Dio, o infine  — ad esempio secondo Bobbio (1989) — la si fa dipendere da un calcolo  prudenziale. Pufendorf e Locke invece ritengono che il contrattualismo per quanto riguarda l'obbligo giuridico e politico possa (e debba) essere accom-  pagnato dall'accettazione del giusnaturalismo per quanto riguarda l’obbliga-  zione morale propriamente detta. Una prospettiva che restringe la portata  della procedura artificialistica del contratio è presente anche in un autore  come Jean-Jacques Rousseau che pure indica, nel contratto sociale (Rousseau,  1966), l’unica via per correggere le distorsioni generate dalla corruzione pro-  dotta dallo sviluppo della società e ricostituire così condizioni etiche più con-  sone alla natura degli uomini (Rousseau, 1988).   Solo con il XX secolo il contrattualismo si è presentato come criterio etico  generale non ristretto alle situazioni di pertinenza del diritto e della politica. È  infatti con Rawls e la sua «teoria della giustizia» (Rawls, 1982) che la conce-  zione contrattualista viene proposta come strategia adeguata per individuare i  principi etici in generale. Va però rimarcato che il «contrattualismo ideale» di  Rawls riesce a funzionare da criterio generale per l’etica solo in quanto si de-  linea come una procedura che ha incorporato in sé un altro requisito ritenuto  caratteristico dell’etica: quello dell’imparzialità o dell'assunzione di un punto  di vista generale. Abbiamo già indicato (cfr. $ 3.8) i limiti del contrattualismo  di Rawls per quanto riguarda le procedure epistemologiche a cui si richiama;  sul piano normativo va rilevato che tale criterio è in grado di indicare solu-  zioni — ad esempio nella distribuzione dei beni disponibili — solo in quanto  tutti coloro che sono coinvolti accettano già alcuni vincoli. Perché la proce-  dura contrattualistica possa risultare decisiva bisogna, dunque, ritenere che ci  sia già un qualche accordo nel considerarsi cittadini di una stessa comunità;  oppure, in alternativa, bisogna ritenere che ci sia un’armonia prestabilita (un  residuo del provvidenzialismo settecentesco) che garantisce la confluenza de-  gli interessi individuali nel bene generale. Proprio come correttivo di queste  limitazioni Gauthier ha presentato una procedura delineata come una forma  di «contrattualismo reale» (Gauthier, 1986). Questa strategia si sforza di mo-  strare che un certo esito identificato come un equilibrio di contrattazione ri-  sulta per tutti coloro che sono coinvolti più conveniente in termini di soddi-  sfazioni personali. Resta però da dire che in questo caso il criterio etico deci-  sivo sembra presentarsi — al di lì del contratto — in una sorta di «egoismo  razionale» che accetta i vincoli di una contrattazione come mezzo migliore  per l'ottimizzazione di risultati anche dovendo fare conto su eventuali soste-  gni o ostacoli da parte degli altri (cfr. $ 3.3).   In generale dunque il contrattualismo presenta un criterio normativo che  non è in grado di esaurire nella sua interezza lo spazio dell'etica, ma che ha  bisogno di rinviare a criteri aggiuntivi (imparzialità o egoismo razionale) ove  lo si voglia fare valere al di là del piano giuridico e politico. Un'etica dei diritti. — Anche l'etica dei diritti si è andata svilup-  pando nella cultura moderna e contemporanea come un correttivo della con-  cezione giusnaturalistica. Una prima fase dell'etica dei diritti nel corso del  XVII secolo fu la via attraverso la quale si cercò dì garantire la sfera di auto-  nomia delle persone nei confronti dell'intervento della legge e del potere po-  litico. I diritti che vengono fatti valere sul piano etico si presentano dunque  prevalentemente come diritti negativi e di libertà contro l’ingerenza di un po-  tere esterno. Così, da una parte, autori come Hobbes e Locke si fermarono a  lungo sui diritti negativi alla autoconsetvazione e alla proprietà dei beni ed  altri autori — come ad esempio Anthony Collins (1990) — e in generale i  free-tbinkers — cercarono di far valere il diritto alla libertà di pensiero. Il pro-  cesso teso a garantire i diritti negativi ebbe esito sul piano storico con le varie  Dichiarazioni dei diritti degli Stati Americani (1776-1789) e con la Dichiara-  zione dei diritti della Rivoluzione francese (1789; cfr. Cassese, 1988).   Nel corso del XIX secolo e nella prima metà del XX vi è stata una conte-  stazione della teoria etica dei diritti, da una parte dagli utilitaristi sul piano  epistemologico e, dall'altra, dai marxisti sul piano di una critica storico-so-  ciale. Ma — come rileva Brenda Almond (Almond, 1991} — una ripresa del-  l'etica dei diritti si è avuta dopo la seconda guerra mondiale in particolare  come reazione alla soluzione finale e al penocidio voluto dai nazisti. Si è così  assistito a un progressivo ampliamento dell'etica dei diritti fino al punto che  Bobbio ha potuto indicare come adeguata per la nostra epoca l’espressione di  «età dei diritti» (Bobbio, 1990). Infatti più recentemente hanno fatto ricorso  al linguaggio dei diritti anche quelle concezioni che in precedenza lo avevano  criticato, come ad esempio l’utilitarismo — che l'aveva riftutato come del  tutto privo di sensatezza — o l'etica cattolica — che l’aveva attaccato come  espressione del trionfo di una mentalità moderna anarchica e priva di eticità.  Nella seconda metà del secolo XX si è altresì assistito a una espansione della  sfera dei diritti affermati come degni di salvaguardia. Infatti la più recente  etica dei diritti non si limita più a rivendicare i tradizionali diritti negativi ma  ha esteso le pretese anche a tutta una serie di diritti cosiddetti positivi (ad  esempio alla salute, all'educazione, ad un lavoro ecc.). Ma in questa sede non  possiamo limitarci a prendere atto della larga diffusione a livello di opinione  pubblica del linguaggio dei diritti; dobbiamo piuttosto impegnarci a identifi-  care e valutare criticamente le concezioni teoriche che hanno visto nell’affer-  mazione dei diritti il criterio etico fondamentale.   Nel corso del secolo XVII laddove i sostenitori della legge naturale prefe-  rivano richiamare sul piano etico il primato dei caratteri essenziali della na-  tura umana intesi in modo complessivo, o per così dire olistico, i sostenitori di un'etica dei diritti — pur conservando la convinzione di una legge naturale o  divina che fonda in modo assoluto l’etica — facevano proprio — sia pure in  modo grezzo e schematico — il quadro teorico dell'individualismo metodolo-  gico. Muovendo da questa prospettiva, almeno per una parte della storia del-  l'etica dei diritti possiamo accettare il quadro esplicativo proposto da autori  come L. Strauss (1990) e C. B. Macpherson (1973) che identificano questa sto-  ria con quella della lotta di una nuova classe in ascesa — la borghesia 0 ceto  medio, ovvero il ceto di produttori — per giungere a un ticonoscimento delle  sue esigenze da parte della legge o del potere politico. Dunque una prima fase  dell'affermazione dei diritti fu rivolta a far valere pretesi diritti naturali degli  uomini contro lo strapotere della legge e dello Stato. Si tratta di quella fase  che possiamo ritenere conclusa con le Rivoluzioni americana e francese in cui  si affermano i diritti negativi alla vita, alla libertà, all'autonomia, alla resi-  stenza, alla proprietà ecc. In questo quadro, oltre ai teorici del liberalismo  settecentesco, possiamo collocare anche autori che, come Rousseau, sono im-  pegnati a recuperare una serie di esigenze naturali degli uomini contro le li-  mitazioni progressivamente delineatesi nella storia della corruzione umana.   Nel corso del XX secolo invece i fautori dell'etica dei diritti hanno cer-  cato, sempre su un piano morale o pregiuridico e prepolitico, di argomentare  a favore del riconoscimento di una serie di esigenze minime che gli esseri  umani avrebbero in quanto tali e che le collettività dovrebbero garantire con  le loro istituzioni e forme di vita organizzate. Tra questi diritti positivi rien-  trano ad esempio quelli alla salute, al lavoro, a una casa o più genericamente  alla liberazione dalla povertà o addirittura al benessere o alla felicità. Laddove  nella prima fase erano i diritti dell’individuo o del cittadino che si cercava di  considerare come criterio decisivo dell'etica, nella fase più recente si pren-  dono a guida piuttosto i diritti della persona umana più ampiamente intesa.  Va però rilevato che ci si trova di fronte a una sorta di contrasto 0 incompa-  tibilità tra l'affermazione dei diritti negativi e quella dei diritti positivi. Come  ha più volte sottolineato Bobbio (1990) l'espansione dei programmi di difesa  dei diritti sociali o positivi (a parte le difficoltà di concordare una lista precisa  dei diritti da includere in questo programma e di convergere su una loro ge-  rarchia) non può che essere realizzata dando al potere politico e giuridico una  qualche autorità per limitare eventualmente i diritti negativi individuali che,  se illimitati, non permettono il raggiungimento per tutti i membri di una so-  cietà dei diritti sociali.   Dal punto di vista teorico nel nostro secolo l'appello ai diritti è stato col-  legato, sul piano fondazionale, non solo con la legge naturale, ma anche con  altre strategie etiche. Non è mancato chi ha cercato di fondare i diritti in un quadro generalmente contrattualistico (ad esempio Rawls, 1982), o di recupe-  carne un qualche riconoscimento anche in un quadro utilitaristico (ad esem-  pio Hare, 1989), anche se in queste concezioni i diritti non hanno più una  collocazione primaria e originaria ma solo un ruolo sussidiario e derivato.  Non sono poi mancate profonde divaricazioni per quanto riguarda il tipo di  tradizione etico-politica al cui interno sono state calate le affermazioni dei di-  ritti. Da una parte si è fatto ricorso alla tradizione liberale che ha piuttosto  insistito sui diritti negativi degli individui nei confronti della società civile e  spesso contro lo Stato (così da I. Berlin, 1989, fino alle posizioni anarchiche di  R. Nozick, 1981). Dall'altra si colloca la strategia — che ha trovato espres-  sione nei movimenti democratici e socialisti e in forma più totalitaria nei re-  gimi comunisti — che in nome della realizzazione dei diritti sociali dei citta-  dini ha proposto limitazioni più 0 meno estese delle libertà negative.   Una storia del progressivo espandersi e modificarsi delle rivendicazioni dei  diritti può essere una strada molto fertile per ripercorrere la storia della mo-  rale e del costume sociale nelle società occidentali, ma non permette di arri.  vare a identificare un preciso criterio etico. In questa direzione già Bentham  mostrava le fallacie e le insufficienze di una teoria etica dei diritti che a suo  parere non poteva che confluire in un'etica della legge naturale e dunque in  una forma di etica autoritaria o dell’ipse dixit {Bentham, 1981). Un'alternativa  alle concezioni giusnaturalistiche che può essere percorsa dall’etica dei diritti  è quella che, secondo alcuni interpreti, sarebbe propria di Hobbes, il quale  identifica i diritti con le prerogative che ciascuno individuo si trova di fatto ad  avere a ragione delle sue condizioni storiche, del suo status sociale, delle sue  capacità, forza ecc. Una impostazione che però rende praticamente impossi-  bile un qualche bilanciamento dei titoli che qualsiasi individuo può far valere  come decisivi. Ovviamente si presentano qui come insolubili pretese conflig-  genti di diritti in una condizione come quella umana nella quale per la scarsità  delle risorse e i vincoli emotivi degli esseri umani non sono contemporanea-  mente soddisfacibili tutte le esigenze di tutti.   L'etica dei diritti manifesta la sua maggiore inadeguatezza sul piano critico  e teorico proprio nella seconda metà del XX secolo, quando realizza il mag-  giore successo dal punto di vista della sua diffusione come forma di discorso  prevalente nell'opinione pubblica. Infatti proprio in questo periodo vi è stato  un fiorire di nuovi diritti ed un indubbio processo di democratizzazione (ov-  vero di allargamento della base di coloro che avanzano le pretese di diritti),  fenomeni che ben lungi dal risolvere problemi etici ne hanno fatto sorgere di  nuovi. Abbiamo assistito, proprio come conseguenza del prevalere della  forma di rivendicazione etica che fa appello ai diritti, a un riacutizzarsi dei contrasti in campi quali quelli della nascita, della morte, della cura, dell’am-  biente, del trattamento degli animali, della considerazione delle generazioni  future ecc. Da un punto di vista puramente descrittivo — e lasciando sospeso  il giudizio di merito su questi fenomeni — si può rilevare una crescita espo-  nenziale di nuovi soggetti di diritti e di diritti che ciascun soggetto avanza con  la pretesa che siano riconosciuti da tutti e salvaguardati dalle istituzioni poli-  tiche e giuridiche. Dietro questo diffondersi delle pretese ai diritti, invece, da  un punto di vista teorico e fondazionale restano valide le strategie del passato  con cui si era già cercato di giustificare il primato dei diritti presentandoli, di  volta in volta, come una pretesa di verità (White, 1984), uno strumento emo-  tivo particolarmente persuasivo (Hagerstròm, 1953), una sorta di «asso di bri-  scola» (Dworkin, 1982), un titolo richiamato come valido (Nozick, 1981), Ma  il tentativo di costruire una qualche etica dei diritti come risolutiva va incon-  tro a difficoltà insuperabili quando si tratta di fornire criteri sicuri per deci-  dere quali nuovi diritti riconoscere effettivamente come meritevoli di codifi-  cazione giuridica o di tutela morale. Non diversamente, il contesto teorico  dell'etica dei diritti non è in grado, di fronte a casi concreti, di offrire una  strada argomentativa per superare contrasti e conflitti proprio relativamente a  diritti da riconoscere convergentemente. Per questi suoi limiti epistemologici  l’etica dei diritti si presenta, più che come una teoria valida e coerente, come  una retorica pubblica largamente usata oggi nella nostra cultura.    4.6. L'etica kantiana e la persona umana. — Un modello del tutto pecu-  liare di etica normativa è quello che si trova negli scritti di Kant. Come ha  sottolineato Frankena, nel caso di Kant ci troviamo di fronte a una ben pre-  cisa forma di «deontologismo della regola» {Frankena, 1981). L’universalità  richiamata dall’etica kantiana si collega, su un piano epistemologico, con una  forma di intuizionismo che attraverso la via del trascendentalismo sfocia in un  realismo etico che esclude la possibilità di conciliarlo con una meta-etica non-  cognitivistica. Va così rifiutato il tentativo di Rawls {Rawls, 1980) di trovare in  Kant un'etica sostanzialmente costruttivistica e puramente procedurale.   La legge etica di fondo dell’etica kantiana — ovvero l'imperativo catego-  rico «agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere nello stesso  tempo come principio di una legislazione universale» (Kant, 1970a: 167) — si  presenta come decisiva e capace di indicare le soluzioni dei diversi conflitti e  disaccordi etici. Ma è proprio questo universalismo dell’etica di Kant che è  stato più frequentemente criticato. L'etica kantiana si presenta secondo i cri-  tici come una mera etica della coerenza formale e propria di una volontà che  per rendersi il più universale possibile si depotenzia, si svuota di contenuti e si rende del tutto incapace di incidere in qualche modo sulle effettive opzioni  presenti nelle situazioni reali.   La comprensione della proposta etica kantiana passa attraverso una più  precisa individuazione della natura dell'imperativo categorico. In Kant si  tratta di una massima che è universalizzabile solo se può essere voluta senza  contraddizione come legge universale, cioè se e solo se qualcuno può volere,  senza incoerenza nella volontà, che ognuno adotti questa massima e agisca  secondo essa. L’universalizzabilità in questo senso «è la prova dell’accettabi-  lità morale di una massima dell’azione e conseguentemente della condotta»  (cfr. M. G. Singer, 1985: 55). Per Kant l’universalità è un principio morale e  come tale non ha molto a che fare con l’universalizzabilità che Hare riconosce  come carattere proprio dei giudizi morali, in quanto tale carattere, almeno  nelle prime affermazioni che ne fa Hare (cfr. $ 2.6), si presenta come una tesi  sulla logica del discorso morale.   Ma per rendere conto adeguatamente dell’etica normativa kantiana non ci  si può limitare alla componente universalistica. Vi sono altri tratti che la ren-  dono storicamente riconoscibile, e almeno altre due tesi ne rappresentano il  nucleo essenziale: il complessivo approccio rigoristico a preferenze, desideri e  passioni umane; l'affermazione della centralità morale della persona.   Nel caso dell’etica kantiana la legge morale e gli imperativi categorici na-  scono proprio negando — in nome della libertà — interessi egoistici e desi-  deri individuali e non già rendendo possibile, con il fare valere punti di vista  imparziali e generali, una loro conciliazione. Uno degli aspetti caratteristici  dell'etica normativa kantiana sta nel riprendere il discorso delle etiche asceti-  che cristiane che indicavano un'incompatibilità tra la ricerca del proprio be-  nessere e il piano morale. In questa linea l’etica kantiana non si spinge solo a  fissare una distinzione tra il cosiddetto piano prudenziale e il piano etico, ma  procede fino a prescrivere la salvaguardia di un piano morale che nega recisa-  mente — contrapponendovisi — tutta l'impostazione delle etiche eteronome  che fanno del benessere il fine delle azioni umane. Proprio in questo senso  l'etica di Kant si presenta come un'etica del dovere e della scelta responsabile  e razionale della legge universale, in contrasto con qualsiasi tendenza a consi-  derare la felicità individuale come obiettivo finale dell'etica. La posizione kan-  tiana si presenta, dunque, come del tutto alternativa rispetto a quella fatta va-  lere sempre più decisamente nella tradizione empiristica — da Hume all’uti-  litarismo, al prescrittivismo universale — secondo la quale solo desideri,  sentimenti e preferenze sono in grado di motivare le scelte (etiche o non eti-  che) e la ragione invece risulta inefficace su questo piano, Non bisogna per  dere di vista questa componente dell'etica kantiana che rende del tutto eccentrici aleuni tentativi contemporanei — ad esempio quelli di J. Rawls e R. M,  Hare — di conciliare l’universalismo kantiano con un bilanciamento dei desi-  deri e delle preferenze effettive di coloro che sono coinvolti.   Kant rifiutava tutte quelle etiche che facevano discendere la determina-  zione della moralità da motivi diversi da quelli propriamente etici. La sua teo-  ria è del tutto in linea con l'affermazione nella cultura moderna e contempo-  ranea dell'autonomia della morale. In particolare Kant rifiutava come etero-  nome tutte quelle etiche che assimilavano il bene morale a qualcosa che  dipendeva o dall'educazione (Montaigne), o dalle leggi civili (Mandeville), o  dal sentimento fisico (Epicuro), o dal senso morale (Hutcheson), o dalla per-  fezione oggettiva (Wolff e gli stoici), o dalla volontà di Dio (Crusius e altri  moralisti teologici; Kant, 1970a: 178). Secondo Kant l’amore di sé, i senti-  menti e le preferenze personali non sono in grado di costituire il punto di  vista morale: laddove l’azione è motivata da questi scopi essa è chiaramente  eteronorna e dunque non morale. Solo una legge della ragione può motivare  autonomamente. Nel primo caso si hanno solo imperativi ipotetici e precetti  prudenziali, mentre nel secondo caso si giunge agli imperativi categorici mo-  rali nella loro peculiarità.   La concezione etica kantiana infine riconosce un posto centrale alla per-  sona. Kant presenta una caratterizzazione della persona umana in termini es-  senzialistici e semplici ovvero come qualcosa che ha una sua realtà sostanziale  continua e inconfondibile {tra l'altro che sopravvive alla stessa morte}, anche  se questa realtà sfugge alia nostra conoscenza e si presenta come collocata sul  piano noumenico. Ecco ad esempio una definizione dell’essere umano, non  priva di implicazioni assiologiche, offerta da Kant nella Axtoropologie in prag-  matischer Hinsicht abgefasst (1798, Antropologia dal punto di vista pragmati-  co): «Che l’uomo possa avere una rappresentazione del proprio io, lo innalza  infinitamente al di sopra di tutti gli altri esseri viventi sulla terra. Perciò egli è  una persona e, grazie all'unità della coscienza in tutti i mutamenti che subisce,  una sola e stessa persona» (Kant, 1970a: 547). Malgrado alcune limitazioni  epistemologiche nell’affermazione di un personalismo essenzialistico Kant  considera decisamente come tratto definiente della persona umana — che è  l'unico soggetto-oggetto dell'universo morale — la sua razionalità. La centra-  lità della nozione di persona nell’etica kantiana risulta esplicita in una delle  formulazioni dell'imperativo categorico che suona: «agisci in modo di trattare  l'umanità nella tua persona come nella persona di ogni altro sempre come fine  e mai soltanto come mezzo» (Kant, 19704). Proprio sulla base della persona è  fondata la tavola dei doveri presentati in Die Merapbysik der Sitten (1797, La  metafisica dei costumzi). Kant riprendeva le distinzioni avanzate dai giusnaturalisti (in particolare Pufendorf e Thomasius) tra doveri positivi e negativi (che  si intreccia con quella tra doveri verso Dio, verso gli altri e verso se stessi),  riformulandola come una distinzione tra doveri perfetti {quelli verso se stessi  stabiliti da massime universali per le quali persare un'eccezione equivale a una  contraddizione) e doveri imperfetti (doveri verso gli altri in cui la contraddi-  zione si presenta laddove vogliazzo un'eccezione) (Kant, 1970b: 269-374).   Le critiche alla concezione kantiana dell'etica sono state mosse lungo di-  verse linee. Ricordiamo quelle che ci sembrano più decisive: la mera forma  dell’universalità o è vuota 0 può essere soddisfatta dalla coerenza e fedeltà  verso qualsiasi valore anche negativo; l’uso dell'autonomia dell’etica in chiave  rigidamente rigoristica rende del tutto astratta e ininfluente la norma kantiana  che non potrà includere nessuno dei desideri effettivi di esseri umani concreti.  Inoltre, l'ancoraggio dell'etica da parte di Kant alla persona razionale com-  porta per la sua prospettiva alcuni limiti: non può essere estesa a rendere  conto di situazioni etiche in cui siano presenti esseri non razionali (animali,  ambiente ecc.); resta pur sempre un residuo di colorazione egoistica in una  prospettiva che si muove esclusivamente in un contesto di persone in qualche  modo distinte e separate l'una dall'altra. Quest'ultima critica è stata fatta va-  lere in particolare da Parfit (1989). La tesi è che solo un quadro concettuale  che — come quello elaborato da Parfit — dia una spiegazione riduzionistica e  complessa per quanto riguarda la natura dell'io e della persona potrà permet-  tere di non considerare le singole persone umane come unità di misura finale  pes l'etica. Dunque solo chi sappia liberare la morale dai confini ontologici  della persona umana potrà porre le basi per la costruzione di un'etica effetti-  vamente universalistica e altruistica.    4.7. Le etiche utilitaristiche. — Una concezione etica molto diffusa e for-  tunata è quella utilitaristica. Si può trovare un appello generico all’utilità  come criterio di scelta etica in molti pensatori dall’antichità ai giorni nostri.  Ma prendendo in esame l’utilitarismo propriamente detto facciamo riferi-  mento a quelle concezioni che riprendono da Bentham lo sforzo di svilup-  pare, in termini precisi e rigorosi, un criterio di scelta e valutazione morale  con al centro l'utilità, a sua volta definita ricorrendo a nozioni quali piacere-  dolore, felicità-infelicità, soddisfazione di preferenze ecc. La storia dell’utilita-  rismo, anche in questo senso più stretto e determinato, è molto ampia e non si  può qui ripercorrerla se non in modo sommario limitandosi a delineare alcuni  dei filoni principali in esso riconoscibili.   Nel rendere conto delle varie forme di utilitarismo proviamo a differen-  ziarle sulla base della diversa caratterizzazione che viene offerta della nozione del bene che alla fine si deve ottenere. La nozione di utilità è, infatti, sempre  ricondotta ad una più determinata nozione di bene che identifica con più  precisione in che cosa risiede l'utilità che va massimizzata. Un'altra linea di  distinzione che sviluppererno in questo paragrafo è quella tra le concezio-  ni che applicano il criterio utilitaristico alle singole azioni o agli atti partico-  lari e quelle che viceversa fanno valere tale criterio per le regole o norme in  generale.   Occorre precisare preliminarmente — una precisazione particolarmente  necessaria in una cultura come quella italiana in cui l’utilitarismo, ben lungi  dall'essere studiato e discusso, è aprioristicamente liquidato e stigmatizzato  come una forma di egoismo del tutto inconciliabile con la moralità (è ancora  l'atteggiamento avanzato da Alessandro Manzoni nelle sue Osservazioni sulla  morale cattolica nel 1819 a fare testo) — che l'etica utilitaristica va tenuta net-  tamente distinta dalle cosiddette concezioni egoistiche. È tipico dei fautori  dell'etica utilitarista fare riferimento a un’utilità che non riguarda mai il sin-  golo agente, ma che riguarda — a seconda della formula privilegiata — la  massima utilità generale, l’utilità del maggior numero, l’utilità di tutti, l'utilità  di tutti coloro che sono coinvolti ecc. Si possono individuare diverse conce-  zioni dell’utilitarismo anche tenendo conto della prospettiva sottoscritta per  quanto riguarda l'universo dei soggetti da tenere presente nel calcolo utilita-  ristico. Vi è la tendenza a considerare la massima utilità che va cercata come  coinvolgente tutti coloro nei quali può essere rintracciato il tipo di stato men-  tale che va massimizzato, che si tratti di piacere, dolore, preferenze, desideri o  altro. Proprio in questo senso è tipico dell'utilitarismo il presentarsi come una  concezione della morale che estende la sua portata anche al di là dell’ambito  delle persone umane, fino a coinvolgere tutti gli esseri viventi in cui si trovi lo  stato mentale (ad esempio la sofferenza o il piacere) che il criterio deve mi-  nimizzare o massimizzare con il corso di azione prescelto. Già in Bentham  {Bentham, 1970: 282-283) era presente quell'apertura a una considerazione  etica del mondo animale che troviamo poi largamente sviluppata nell’utilita-  rismo contemporaneo.   Per quanto riguarda la caratterizzazione del bene che va massimizzato una  differenza classica è quella tra concezione edonistica che distingue tra i piaceri  solo su basi quantitative e quella che riconosce differenze qualitative. Così in  Bentham troviamo sviluppata l’idea che la misurazione quantitativa del pia-  cere € del dolore è l'unico criterio in grado di dare una base esterna, valida e  pubblicamente discutibile, alle prese di posizione etiche. Bentham quindi cri-  tica tutte le etiche alternative all’utilitarismo in quanto inclini a far valere un  criterio del rutto arbitrario in morale. La formulazione di un criterio di misurazione della quantità del piacere, in gioco in corsi di azione che coinvolgono  più esseri senzienti, non è priva di difficoltà. Proprio sull’inadeguatezza, ad  esempio, del criterio offerto da Bentham si sono concentrate le critiche degli  avversari dell’utilitarismo. Si è rilevata tra l’altro l'impossibilità di ridurre a  una base unica piaceri diversi e l'impraticabilità di quei confronti interperso-  nali di piacere e dolore che sarebbero necessari. Resta poi anche costante la  critica che la ricerca del solo obiettivo della massimizzazione dei risultati sem-  bra lasciare completamente da parte le esigenze di una distribuzione giusta  del bene massimizzato. Considereremo eticamente preferibile un corso di  azione che realizza un incremento della quantità di piacere, anche se questo  risultato si accompagna a una distribuzione del tutto iniqua di tale piacere o  benessere e addirittura accentua la distanza tra individui che ottengono  grandi quantità di piacere e individui che ne ottengono una ridottissima.  Dunque vi sarebbe un’opacità di fondo dell'utilitarismo rispetto a questioni di  giustizia distributiva, e più in generale a questioni di diritti.   Una diversa forma di utilitarismo fu delineata da John Stuart Mill in Ut  litarianism (1863) in parte già come risposta a queste critiche e difficoltà del  particolare edonismo di Bentham (Mill, 1981b). Le variazioni più significative  riguardano l’introduzione di una distinzione qualitativa tra piaceri e un'insi-  stenza sul principio che ciascun individuo è sovrano nella determinazione  delle proprie gerarchie di piacere e che le sue opzioni — laddove non procu-  rino danno agli altri — vanno incorporate nel criterio utilitaristico. Mill nei  suoi scritti non si limita ad assumere come rilevante la distinzione qualitativa  tra piaceri più elevati e più bassi, ma sviluppa anche una tecnica con l’aiuto  della quale risolvere eventuali contrasti, e ciò che più conta usa questa distin-  zione per proporre sostanziali innovazioni del costume morale a proposito del  trattamento delle donne, della questione dei lavoratori manuali, della povertà  e della scelta responsabile delle nascite. Per quanto riguarda i contrasti relativi  ai piaceri qualitativamente diversi coinvolti Mill ritiene che essi possano essere  risolti facendo appello all'opinione — che si esprime nella discussione pub-  blica con l'approvazione o la disapprovazione morale — di coloro che cono-  scono tutte le forme di piacere in gioco. La posizione di Mill per quanto ri-  guarda la distinzione qualitativa dei piaceri è stata spesso criticata e denun-  ciata come contraddittoria, in quanto mescolerebbe due differenti criteri di  valutazione (cfr. Musacchio, 1981). Occorre ammettere che Mill presenta  un’etica mista, ovvero che unisce due diversi criteri di scelta e di decisione,  ma non.va data come ovvia e scontata l'inaccettabilità di una posizione nor-  mativa che cerchi di conciliare due distinti principi ad esempio facendoli  valere a diversi livelli etici. Ma la grande svolta nella storia dell'utilitarismo è segnata da quel mo-  mento in cui il criterio passa a prendere in considerazione non tanto le com-  ponenti del piacere e del dolore, quanto, più genericamente, le preferenze di  coloro che sono coinvolti nelle situazioni in esame. L'utilitarismo delle prefe-  renze che si sviluppa in particolare nel secolo XX realizza uno spostamento  decisivo del criterio che non pretende più di fare riferimento a una unità di  misura comune e oggettiva quale il piacere, ma muove piuttosto accettando  come tutte di eguale valore le preferenze dei diversi soggetti coinvolti e dun-  que identificando come giusto quel corso di azione che massimizza la soddi-  sfazione delle preferenze quali che siano. Le preferenze possono tendere  verso oggetti completamente diversi e dunque l’utilitarismo delle preferenze  dispone di uno strumento di valutazione etico più flessibile, recuperando e  ampliando — in un senso ancora più liberale e individualistico — quell’esi-  genza di pluralismo fatta valere da Mill contro il riduzionismo oggettivistico e  paternalistico dell’utilitarismo di Bentham (Harsanyi, 1988 e Hare, 1989).   L'utilitarismo delle preferenze è stato poi elaborato nel tentativo di trovare  una risposta per numerose questioni dell’etica teorica; in particolare sono stati  messi a punto criteri per distinguere preferenze di ordine diverso, quali quelle  antisociali di un sadico e quelle benevole o altruiste. Così John Harsanyi (Har-  sanyi, 1985: 75-126} ha considerato rilevanti per l'etica solo le preferenze be-  nevole considerate imparzialmente, mentre Hare ha identificato come etica-  mente significative le preferenze universalizzabili (Hare, 1989). Infine non  sono mancati utilitaristi che hanno proposto complesse tecniche di valuta-  zione critica delle preferenze: ad esempio Brandt ha proposto di accettare,  dopo averle sottoposte a una sorta di vaglio terapeutico, le sole preferenze  razionali ovvero basate su desideri non egoistici e pienamente informati  (Brandt, 1979). Anche la storia dell’utilitarismo mostra dunque come, a livello  teorico, prevalga l’elaborazione di concezioni miste. Nel caso specifico al cri-  terio della massimizzazione si affianca quello della selezione delle preferenze  in base alla loro universalizzabilità formale o imparzialità sostanziale.   Malgrado questi tentativi di evitare il riduzionismo, l'utilitarismo è stato  insistentemente attaccato (Smart e Williams, 1985; A. Sen e B. Williams,  1984) contestando la legittimità di un approccio che considera come decisive  le preferenze che di fatto un certo individuo si trova ad avere. Procedendo in  questo modo l’utilitarista non terrebbe conto che le preferenze esistenti pos-  sono essere indotte dall'esterno o comunque niente affatto adeguate ai bisogni  reali degli individui che di fatto le rivelano. In particolare A. Sen (1986) ha  obiettato che la mera registrazione delle preferenze rivelate finisce con il con-  solidare le distribuzioni di beni inique di fatto già istituzionalizzate. Gli utilitaristi hanno cercato di rispondere a queste critiche indicando che l'esigenza  della massimizzazione delle soddisfazioni delle preferenze può essere ottimiz.  zata solo laddove si accetti l’esistenza di una soglia per ciascun individuo al di  là della quale un incremento della soddisfazione delle sue preferenze realizza  risultati meno validi di quelli realizzabili incrementando la soddisfazione delle  preferenze di individui che stanno peggio (Pontara, 1988).   Nella storia dell’utilitarismo, specialmente nel XX secolo, si è proceduto  anche su di un altro piano nel cercare un correttivo che permettesse di fare  valere nella massimizzazione una qualche regola o principio distributivo. In  questa linea si sono sviluppate ad esempio varie forme di utilitarismo della  norma © della regola. Sul piano storico vi è stata una tendenza a considerare  Bentham come un tipico esponente dell’utilitarismo dell’atto e a trovare in-  vece in Mill una posizione che anticipa le esigenze dell’utilitarismo della re-  gola o della norma (J. Urmson, 1953). Il problema principale affrontato da  questa parte della riflessione teorica interna all’utilitarismo è stato quello della  possibilità o meno di ricondurre l’utilitarismo della regola all’utilitarismo del-  l’atto. Nel caso poi in cui si è concluso per la specificità dell'utilitarismo della  regola, la questione è stata se una teoria che fa valere un qualche riferimento a  regole, principi e norme non comporti una fuoriuscita dal quadro conseguen-  zialista proprio dell’utilitarismo (Lyons, 1965). Nella riflessione sullassibi-  lità di conciliare l'accettazione primaria dell’utilitarismo dell’atto con un rico-  noscimento di un qualche ruolo nella vita etica a principi e norme, partico  larmente interessante risulta un tentativo come quello di Hare. Hare ha  presentato una teoria dei due livelli di pensiero etico: uno, più intuitivo e  di senso comune, all’interno del quale valgono le regole e le norme, e l'altro  — che si colloca invece sul piano della riflessione critica — nel quale, vice-  versa, si applica ditettamente alle singole azioni il criterio utilitaristico della  massimizzazione della soddisfazione delle preferenze di tutti coloro che sono  coinvolti (Hare, 1989). Più fertili sono da ritenere però quei tentativi di pre-  sentare un utilitarismo della norma e della regola come itriducibile — sul  piano normativo — all’utilitarismo dell'atto. Così ad esempio procede Brandt,  che ha più volte fatto valere la sua posizione come una forma di utilitarismo  della norma ideale. In questa teoria il criterio etico decisivo è quello che iden-  tifica le soluzioni rappresentandosi le norme da accettare in una società idea-  le rivolta a soddisfare massimamente i desideri razionali dei suoi cittadini  (Brandt, 1992).   Nel rendere conto delle varie specie di utilitarismo va infine ricordato  quell’utilitarismo che è sembrato preoccupato non tanto di realizzare un saldo  attivo di piaceri, quanto di minimizzare le sofferenze e i dolori (R, N. Smart,    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    LE ETICHE NORMATIVE 85    1958). Questo tipo di utilitarismo negativo è stato spesso criticato — ad esem-  pio da J. J. Smart (Smart, 1985) — come paradossale in quanto implica che  la soluzione migliore è quella che riduce al massimo il numero di esseri sen-  zienti esistenti, in quanto per questa via si procede certamente a una ridu-  zione della quantità delle sofferenze. Ma se si va al di là del piano speculativo  sul quale si muove l’etica teorica sembra chiaro che proprio il criterio di una  riduzione delle sofferenze inutili ha avuto un ruolo decisivo nei dibattiti più  recenti sull’etica pratica. È stata questa la via principale mediante la quale si è  allargato l'ambito del discorso etico anche alle questioni del trattamento degli  animali ed ancora è questa la via mediante la quale — riprendendo le critiche  di Bentham nei confronti delle etiche ascetiche — si continua a fare emergere  l'inaccettabilità di quelle soluzioni fittizie ricavate dall’imposizione di antro-  pologie astratte.    4.8. La scelta razionale come criterio normativo. — Consideriamo poi  quella concezione normativa che sostiene che ciò che è bene o giusto fare, in  una qualsiasi situazione che ci presenta diverse alternative, può essere deciso  cercando ciò che è razionale o ragionevole fare, nel senso di ciò che soddisfa  massimamente i propri interessi e bisogni. Una concezione etica della scelta  razionale è riconoscibile in particolare negli scritti di alcuni teorici che difen-  dono l'economia di mercato, sostenendo che proprio la ricerca da parte di  ciascun individuo della massima realizzazione delle proprie esigenze consente  di ottenere i risultati migliori per la società nel complesso (Arrow, 1977 e  Buchanan, 1989). Naturalmente un punto decisivo per questa concezione  normativa sta nell'impegno a definire con maggiore precisione la natura di ciò  che è razionale massimizzare nella ricerca di una soddisfazione personale. In  questa luce si presentano come nettamente distinte: da una parte, una posi-  zione che tende a ritenere razionale qualsiasi scelta che ciascuno consideri  come massimizzante la propria utilità interpretata in termini di benessere o  vantaggio economico personale — una teoria etica che muove dal riconosci-  mento di una qualche sovranità del consumatore; dall’altra una posizione che  interpreta la scelta razionale come quella che massimizza, ad esempio, i biso-  gni più profondi ed elevati della persona che sceglie.   La teoria che ritiene eticamente preferibile come criterio per le scelte pub-  bliche il comportamento che tende a massimizzare l’utilità attesa da ciascuno  degli agenti negli ultimi decenni è stata attaccata lungo due linee: una rivolta a  mostrarne le difficoltà interne laddove venga presentata come teoria norma-  tiva da adottare per identificare l'alternativa di azione ottimale; l’altra rivolta a  farne risaltare la scarsa portata analitica e esplicativa. Il primo ordine di difficoltà si esprime specialmente osservando che, col.  locandoci all’interno della teoria della scelta razionale e regolandoci non di-  versamente da giocatori che cercano di vincere la partita contro avversati  egualmente razionali, finiamo con il trovarci di fronte al ben noto dilerzizza del  prigioniero (Axelrod, 1985 e Resnik, 1990). Se più individui razionali in una  situazione che li coinvolge in competizione si fanno guidare per decidere la  via da seguire dalla ricerca del migliore risultato prevedibile — sulla base del.  l'attribuzione di un calcolo eguale agli altri individui — saranno costretti a  privilegiare corsi di azione che porteranno a un risultato niente affatto otti-  male. Ll risultato migliore a cui tenderà ciascuno cercando di garantirsi la mas-  sima utilità attesa, presupponendo anche da parte degli altri un analogo com-  portamento, non garantirà affatto quel buon esito che si potrebbe realizzare  solo introducendo l'accettazione di qualche vincolo cooperativo da parte di  tutti gli individui presenti nella scena.   L'altro tipo di critica — avanzato ad esempio da Sen (1986) — è rivolto a  mostrare i forti limiti esplicativi presenti nella teoria della scelta razionale in  quanto risulta del tutto incapace di rendere conto di tutte le nostre scelte in  situazioni che coinvolgono beni pubblici. Infatti se pensiamo a scelte che ri-  guardano la disponibilità di beni quali strade, servizi ecc. ci rendiamo conto  che ciò che di fatto facciamo laddove privilegiamo una decisione che porti alla  creazione o all'uso regolato di uno qualunque dei beni pubblici — creazione e  uso regolato che risultano costitutive della nostra forma di vita — non può  essere in alcun modo spiegato come esito di una scelta ispirata dalla teoria  della scelta razionale. Infatti ispirandoci a tale criterio dovremmo sempre tutti  regolarci come free riders, ovvero come battitori liberi che si preoccupano  esclusivamente dei propri interessi, e ciò renderebbe impossibile la conver-  genza sulla creazione e l’uso regolato di un bene pubblico, Tale teoria non  riesce dunque a rendere conto dell’esistenza di una larga fetta della nostra  realtà sociale.   Va però segnalato che i teorici della scelta razionale sono tuttora impe-  gnati a elaborare modelli, coerenti con le loro assunzioni, con cui rispondere a  tutte queste obiezioni. In particolare si sono sforzati di mostrare come nel  quadro teorico della cosiddetta teoria della scelta razionale o dei giochi — ov-  vero in una situazione in cui sono presenti più agenti razionali con obiettivi in  competizione — è possibile spiegare l'insorgenza di norme e regole coopera-  tive che permettono di convergere sui risultati ottimali. In questa linea si è  mosso ad esempio R. Sugden {Sugden, 1986) che ha molto lavorato nel cer-  care di mostrare come una teoria della scelta razionale che preveda scelte ri-  petute, con la ricerca da parte degli agenti di un aggiustamento reciproco in vista di un equilibrio più stabile, permette di arrivare a rendere conto dell’ac-  cetrazione sociale di norme con un minimo di contenuto cooperativo. Questo  modello cerca di rendere conto dell'ordine sociale in generale sviluppando  alcuni tratti della ricostruzione della genesi delle istituzioni cooperative già  presente in Hume (Magri, 1994). Questi modelli esplicativi valgono solo in  quanto a posteriori rendono conto di quello che si è già realizzato, ma è dif-  ficile usarli come criteri normativi per scegliere comportamenti rivolti al fu-  turo. I modelli della scelta razionale sono stati adottati in modo indubbia-  mente fertile per rendere conto, all’interno di un generale quadro evoluzioni-  stico, di come tra gli animali superiori si rafforzano abiti cooperativi in  alternativa a quelli o del tutto egoistici o assolutamente benevoli (Dawkins,  1992). Ma questa teoria nulla può dirci quando si tratta di decidere quale, tra  le differenti alternative di comportamento che ci sono davanti, dobbiamo  scegliere.    4.9. Pluralismo, tolleranza, relativismo, irrazionalismo etico. — L'esistenza  di differenti concezioni etiche — il loro conflitto sempre risorgente — non  solo fa nascere la questione della disponibilità o meno di criteri per affrontare  razionalmente i contrasti, ma fa sorgere anche il problema di come conciliare  la presa d'atto di una pluralità di concezioni etiche con il riconoscimento al-  l'etica di una qualche validità.   In primo luogo il riconoscimento del pluralismo etico sembra essere ineli-  minabile nella società attuale. Non solo si tratta di una constatazione di fatto,  ma il pluralismo etico è considerato anche un valore. Viene cioè considerata  più apprezzabile una società pluralistica che una società che in forme più o  meno coercitive impone il prevalere di una sola etica. Quest'ultima assun-  zione valutativa non è però condivisa dalle cosiddette concezioni comunitarie  (Ferrara, 1992) che invece privilegiano società in cui si realizzi una forte con-  vergenza sui valori e anzi al limite siano caratterizzate da un'unica morale  {MacIntyre, 1988). Ma al di là dei timori per un pluralismo etico eccessivo e  delle tentazioni per una società segnata da una forte uniformità, vi sono argo-  mentazioni e distinzioni che sorreggono una preferenza per situazioni caratte-  rizzate da una pluralità di etiche in competizione.   Tutta la tradizione liberale trova nella fioritura pluralistica una condi-  zione che favorisce lo sviluppo di tutte le differenti potenzialità creative  presenti nella natura umana. Tale posizione — presente ad esempio in  pensatori come W. von Humboldt (Humboldt, 1974) e J. S. Mill (Mill,  19814) — ritiene che solo un'effettiva libertà per gli esseri umani di vivere  Îl tipo di vita che essi ritengono giusta, libertà garantita anche accentuando le differenze, permette che vi sia una piena realizzazione e un progresso  delle capacità umane. L’uniformità porterebbe invece a una completa atro-  fizzazione di queste capacità.   Una posizione a favore del pluralismo etico presuppone che si riescano a  tenere ben distinte due dimensioni dell'etica: da una parte, quella che ri-  guarda quel minimo comune denominatore di principi e regole cooperative  che sembrano essere una condizione necessaria perché vi sia una qualche sta-  bilità della vita associata; dall'altra parte invece quella che ha a che fare coni  modelli e gli ideali che ciascuno può assumere per quanto riguarda lo stile di  vita da preferire. Proprio sul piano che riguarda i valori e gli ideali etici un  confronto tra progetti anche alternativi può segnare un arricchimento e uno  sviluppo della cultura umana. Sul piano più ristretto dell'etica minima in  gioco laddove si tratta delle basi della convivenza è invece difficile ritenere  adeguato un pluralismo di fondo. Ritorna qui dunque una distinzione già pre-  sente nella tradizione giusnaturalistica tra il piano dei diritti o doveri perfetti e  quello dei doveri imperfetti.   Questa posizione di apprezzamento per un contesto sociale e culturale  segnato dal pluralismo etico o pluralismo dei valori va tenuta però distinta da  una concezione che sottoscriva un completo relativismo. Va, infatti, tenuta  chiaramente distinta una posizione che, sul piano descrittivo, prenda atto che  si confrontano diverse concezioni etiche, dunque tutte relative e non assolute,  da una posizione che assuma da un punto di vista normativo le conclusioni  del relativismo. Il relativismo normativo infatti sostiene che non abbiamo  ragioni per ritenere che nelle questioni etiche sia preferibile una posizione a  un'altra. Il relativista dunque, in definitiva, non riconosce alcuna validità alle  distinzioni morali o etiche tra bene e male, giusto e ingiusto. È invece carat-  teristico del nostro tempo il fatto che si riesca a sostenere con decisione e  forza di convinzione la propria soluzione etica ai problemi pur rispettando è  tollerando quelle diverse dalla nostra. Ma in questo caso l'ammissione di altre  posizioni etiche non equivale a ritenere che l’una vale l’alira. Come si è ben  detto (in particolare da parte di Berlin, 1989 e Rorty, 1989, ma a livello  teorico la posizione era stata già illustrata da Juvalta, 1945 ed è stata più  recentemente derivata da una meta-etica non-cognitivista, da Scarpelli, 1982)  la situazione è — per paradossale che possa sembrare — quella di chi si  impegna con decisione a fornite ragioni a favore del proprio punto di vista  etico pur riconoscendo, ammettendo e rispettando un interlocutore che fa  valere un altro punto di vista e differenti ragioni. La consapevolezza che il  proprio punto di vista etico non è quello assolutamente giusto e buono  consente di tollerarne altri. Ciò non toglie che, comunque, è il nostro punto di  vista a valere di più — ad essere più buono e più giusto — fin quando non ci  verranno presentate ragioni o non faremo esperienze che ci costringeranno ad  abbandonarlo.   Le distinzioni che stiamo suggerendo partono dal presupposto che si sia  completamente abbandonata la pretesa di un'assolutezza dei valori in ge-  nerale e dunque anche del proprio punto di vista etico. Una condizione  propria del nostro tempo che M. Weber esprimeva con l’espressione «po-  liteismo dei valori» (Weber, 1958). Viceversa risulterà impossibile conciliare  pluralismo, relativismo empirico, tolleranza e impegno per il proprio punto  di vista se si muove dalla convinzione che l’etica deve avere a che fare con  qualcosa di assoluto. Ma quest’ultima prospettiva nel XX secolo è larga-  mente inattuale e perdente, in quanto certamente non può essere conciliata  con una meta-etica che pretenda di avere dalla sua una qualche verità e  capacità di rendere conto della nostra effettiva esperienza morale. Proprio  la persistenza di questa prospettiva assolutistica dell'etica continua a gene-  rare confusione e conflitti e contrasti etici spinti fino a mettere in pericolo  la coesistenza, in quanto mossi da forme di fanatismo morale che non  tollerano le differenze. La trasformazione che stiamo vivendo con il pas-  saggio da un contesto etico caratterizzato dall’aspirazione all’assolutezza ad  uno che accetta la finitezza e mutevolezza dei punti di vista morali può  essere vissuta in due diversi modi. Da una parte ci sono i nostalgici che  vivono il tempo e la società presente come caratterizzati da una perdita e  da un regresso; sono coloro che identificano il passaggio da valori assoluti  a valori frutto delle scelte umane come l’atto di nascita di un completo  nichilismo e di una cultura del tutto irrazionalistica. Per costoro non vi è  alternativa tra un fondamento assoluto e la più completa irrazionalità e  mancanza di senso. Dall'altra — e chi scrive si riconosce in questa seconda  linea — vi sono coloro che vedono la nuova condizione come un guadagno  in quanto ci si è finalmente liberati di miti e illusioni. La credenza in va-  lori assoluti è stata, ed è tuttora, all'origine di pericolosi e insanabili con-  trasti. L'alternativa non è il nulla o la perdita di senso della nostra esisten-  za ma piuttosto un'etica che muove da un piano più realistico e empirica.  mente fondato. I valori derivano quindi da scelte e decisioni che gli uomini  assumono responsabilmente tenendo conto delle loro emozioni, delle loro  limitate capacità intellettuali e delle loro condizioni effettive. Credere que-  sto non equivale ad avere perso qualcosa, ma viceversa ad avere puada-  gnato una prospettiva che permette agli esseri umani di muoversi, su un  piano di parità, verso soluzioni realizzabili e adeguate per i loro problemi  pratici.  Dall’etica teorica all'etica pratica.    5.1. Dall’etica teorica all’antropologia: motivazione e obbligazione. — La  storia dell'etica è ricca di pensatori che uniscono alle tesi normative, specifi-  che concezioni antropologiche relative alle motivazioni, i bisogni, i desideri e  gli interessi degli esseri umani. Potremmo anzi sostenere che è comune che a  un'etica teorica si accompagni un’etica antropologica, ovvero una psicologia  della morale che su basi più o meno empiriche pretende di descrivere come  gli uomini sono fatti e procedono nelle loro scelte. Questa commistione tra  piano normativo e piano descrittivo ed empirico risulta largamente praticata  specialmente dal secolo XVII in avanti, dopo che è entrata in crisi Ja conce.  zione innatistica della legge naturale, che riteneva la legge morale natural-  mente obbligante in quanto presente originariamente nella coscienza di tutti  gli esseri umani. Il quadro filosofico del XVII secolo segna il tramonto di que-  sta soluzione innatistica nel collegamento tra legge morale obbligatoria e base  motivante negli esseri umani e dunque per l’etica moderna e contemporanea  diventa essenziale non solo la questione di ciò che è bene o giusto, ma anche  di ciò che rende effettivamente obbligante per gli uomini il bene e il giusto  (cfr. Fagiani, 1983). Si avvia quindi una ricerca sistematica sulla motivazione e  la base psicologica che rende obbligatoria una condotta etica,   Nel pensiero moderno è ricorrente, per quanto riguarda la motivazione  morale, una concezione che nega che ciò che viene scoperta 0 trovato con  l’aiuto della sola ragione possa avere di per sé forza obbligante o motivante,  Un residuo di attribuzione di forza obbligante alla ragione in quanto tale {cfr.  $ 2.5) si può trovare nella concezione di giusnaturalisti come Grozio (Grozio,  1625) o in quei pensatori che — come ad esempio Joseph Butler (Butler,  1970) — nel corso del Settecento indicano nella coscienza non solo un prin-  cipio in grado di trasmettere la consapevolezza della legge morale, ma anche  di obbligare ad essa. Ma la via percorsa dai teorici dell'etica è piuttosto quella  alternativa di negare alla ragione la capacità di motivare all’azione e dunque di  negare forza obbligante alle norme e leggi scoperte attraverso l’uso del solo  intelletto. Muovendo da questa premessa è dunque necessario procedere a  uno studio empirico della natura umana e in particolare della condotta per  vedere che cosa muove ad agire. Viene così ampiamente ripresa nel corso del  XVII secolo la tesi edonistica secondo la quale solo il piacere e il dolore muo-  vono all'azione (cfr. $ 2.2). Sia Hobbes che Locke, quando fanno riferimento  al piacere e dolore come cause motivanti guardano, in modo del tutto esclu-  sivo, alla persona che agisce. Proprio su questa base tanto Hobbes quanto  Locke sembrano appoggiare la forza obbligante della legge naturale esclusivamente sul potere di sanzione. Nel caso di Hobbes il potere sanzionatorio  viene legato a un calcolo prudenziale relativo ai benefici e ai danni che nel  corso della vita terrena si ricevono uniformandosi alle leggi naturali. Locke  lega invece il potere sanzionatorio della legge naturale, e dunque la sua forza  obbligante, alla considerazione del premio e delle pene che si potranno otte-  nere in un’altra vita (Locke, 1971). La concezione che lega la forza obbligante  e la capacità di motivare della morale e dell'etica in generale a qualche san-  zione viene spesso riproposta nel pensiero moderno e contemporaneo, ad  esempio rinviando alla forza sanzionatoria data da qualche piacere o dolore  fisico comunque in gioco. Erede di questa tradizione può essere considerato  Bentham con il suo tentativo di agganciare al potere sanzionatorio del sovrano  la forza della legge giuridica. Non diversamente in questa linea va collocato il  positivismo giuridico del secolo XX.   Proprio l’approfondimento della conoscenza della natura empirica degli  uomini porta tra la fine del XVII secolo e la metà del XVIII a elaborare una  concezione della forza obbligante dell’etica che, pur non riconducendola a  una capacità automotivante della ragione o delle facoltà intellettuali, non la  tiduce però al sanzionamento in termini di piacere e dolore fisici, generica-  mente intesi. Questa ricerca di una base specifica di motivazione per la morale  è già presente alla fine del secolo XVII in Shaftesbury, che proprio dall'osser-  vazione empirica degli uomini fa derivare la scoperta di un peculiare «senso  morale» che non solo porta gli uomini ad approvare le azioni virtuose, ma  anche a sentirsi spinti a compiere tali azioni e ove tali azioni non sono com-  piute a provare emozioni di disagio e sradicamento da ciò che è più proprio  del genere umano, È dunque la struttura passionale degli uomini a presentare  un'inclinazione — in parte già colta dall’antropologia aristotelica — a com-  piere azioni in generale cooperative.   Questa stessa linea analitica verrà sviluppata ancora nel corso del XVIII  secolo da Hutcheson e Hume. Il nucleo distintivo di questa ricostruzione  della forza obbligante del comportamento etico sta nel mostrare nella psico-  logia degli esseri umani una base motivazionale del tutto autonoma e specifica  che spinge a fare azioni eticamente rilevanti. Questi autori poi si differenzie-  ranno tra loro in quanto presenteranno o meno come motivazione universali-  stica tale base psicologica. Così mentre da una parte troveremo pensatori  come Shaftesbury, Hutcheson e Smith che rinviano a un altruismo o benevo-  lenza più o meno universali, dall’altra troveremo chi, come Hume, ricono-  scetà come motivante solo una benevolenza limitata che si estende piuttosto  ai legami familiari. L'idea di tutti questi autori è comunque comune. Il senso  morale approva determinate azioni perché esse risultano motivate non solo da un esclusivo amore di sé, ma da una benevolenza più o meno estesa. La stessa  approvazione del senso morale costituisce poi una motivazione aggiuntiva al  comportamento virtuoso.   Risulta dunque chiaro in questa strategia analitica che la condotta etica  trova una sua base motivazionale in inclinazioni naturali degli uomini per una  forma più o meno estesa di altruismo e interessamento per gli altri. Un  aspetto teorico significativo per il quale questi autori si distingueranno sarà il  loro modo di rendere conto della naturalità della motivazione etica. Accanto a  coloro — come ad esempio Shaftesbury o Hutcheson — che considereranno  la motivazione a fare azioni cooperative come originaria per la natura umana,  vi saranno coloro che la presenteranno piuttosto come risultato o prodotto di  un processo evolutivo o di civilizzazione piuttosto lungo. Nel corso del XVIII  secolo la spiegazione delle basi motivazionali del comportamento morale sarà  inserita sempre di più in un quadro artificialistico ed evolutivo,   Una spiegazione genetica evoluzionistica e artificialistica della motivazione  alla condotta etica è, ad esempio, già presente in Mandeville e viene svilup-  pata estesamente da Hume e poi — in una direzione ancora più ampia — da  pensatori come J. J. Rousseau, A. Smith e A. Ferguson. Questi ultimi sono  impegnati nel progetto, che sembra centrale per gli intellettuali del XVIII se-  colo, di ricostruire la storia della civilizzazione umana avvalendosi della teoria  stadiale, ovvero di quella concezione che scandisce in quattro stadi diversi  (della caccia e pesca, dell’allevamento, dell’agricoltura, e del commercio) la  storia dell'umanità (Meek, 1981). La prospettiva impegnata a delineare il pro-  cesso artificiale attraverso il quale gli uomini giungono a disporre di una base  psicologica e motivazionale specifica per il comportamento etico (0 coopera  tivo) viene realizzata nel corso del XVIII secolo anche lungo una diversa linea  associazionistica. In questa chiave il costituirsi delle motivazioni propriamente  etiche viene spiegato come un risultato di ripetute associazioni. Significativo  — anche per un lettore del XX secolo — il contributo analitico di David  Hartley, il cui associazionismo è propriamente fisiologico, e poi di alcuni  esponenti dell'Illuminismo francese (ad esempio Claude-Adrien Helvétius,  Etienne Condillac, Paul Heinrich Dietrich D'Holbach ecc.) e ancora di utili  taristi come James Mill e J. S. Mill. Nel XIX secolo la genesi delle motivazioni  cooperative sarà collocata in un quadro più esplicitamente evoluzionistico  da Darwin e Spencer (Ruse, 1986). Questa linea di spiegazione evoluzionistica  — che coinvolge il livello biologico — della genesi di una base motivazionale  ad hoc per il comportamento morale è stata ampiamente ripresa nel corso del  XX secolo. Abbiamo così chi, come E. Wilson (1975), ha presentato una vera  e proprio concezione socio-biologica, o chi, come K. Lorenz (1990), si è piuttosto impegnato a mostrare analogie e differenze tra gli istinti cooperativi pre-  senti negli uomini e quelli rintracciabili negli animali.   La ricerca rivolta a individuare una base motivazionale nella natura emo-  tiva degli uomini a cui agganciare l'obbligazione etica si estende ben al di là  delle concezioni che abbiamo appena delineato. Non sono mancati coloro che  hanno indicato come carattere distintivo della specie umana la capacità di es-  sere motivati a compiere azioni degne di apprezzamento per il solo gusto o  senso del dovere da compiere, e dunque per il solo essere richiamati da ciò  che vale: una strategia che risulta percorsa da Kant e da coloro che a lui si  richiamano come ad esempio K. O. Apel {Apel, 1977). Al polo opposto si  colloca la strategia di analisi, scettica e riduzionistica, che ha del tutto negato  che negli uomini sia rintracciabile una qualche capacità di auto-motivarsi o  scegliere liberamente, e dunque tanto meno una inclinazione a partecipare ai  piaceri e ai dolori degli altri esseri umani.   Nel XX secolo entra in crisi la pretesa di disporre di una antropologia uni-  versalistica che sia in grado di indicare con nettezza passioni e sentimenti pre-  senti in tutti gli uomini o viceversa di negare agli esseri umani generalmente  intesi una qualche motivazione. L'analisi antropologica, piuttosto che rinviare  a una base motivazionale comune, si impegna ad elaborare più strategie me-  diante le quali si può spiegare la forza obbligante delle regole morali. Risulta  pur sempre difficile riuscire rendere conto del ruolo obbligante dell'etica lad-  dove si ritiene che gli esseri umani siano mossi dal più rigido egoismo; stanno  a dimostrarlo la crisi e le difficoltà a cui è andata incontro la teoria della scelta  razionale (cfr. $ 4.8). In positivo, dunque, risulta del tutto acquisito che — per  dirla con B. Williams (Williams, 1990: 302-322) — nessun discorso può riu-  scire a rendere motivante per un essere umano un principio etico cooperativo  se nella struttura emotiva di questo essere umano non è già presente (proba-  bilmente come frutto della sua formazione e iniziazione alla cultura umana)  un minimo di interessamento per i piaceri e i dolori di un altro essere urnano.  Da questa prospettiva come da altre il contesto dell'etica coinvolge diretta-  mente non solo la capacità di chi agisce di presentarsi come essere fornito di  una sua identità, ma anche di riconoscere l'identità degli altri. Passiamo dun-  que a rendere conto della portata delle analisi sulla natura dell’identità perso-  nale nell’etica teorica.    5.2. Il ruolo dell'identità personale nell’etica. — Nell’etica medievale il  rinvio all'anima sostanziale rappresentava un fondamento e un preciso criterio  per risolvere le questioni morali. Infatti, da una parte, proprio al fondo della  sostanza spitituale si presentavano le norme da applicare in etica e dall'altra l'individuazione dell'universo di esseri forniti di sostanza spirituale metteva a  disposizione un chiaro criterio di applicazione ed estensione dell’ambito mo.  rale. Questa concezione semplice dell'etica che ruota intorno a una sostanza  che è la persona umana e che non è riducibile ad altro, nello stesso tempo  oggetto e soggetto esclusivo della vita morale, è entrata in crisi tra il XVII e il  XVIII secolo quando l’identità personale non è più risultata riconducibile a  una sostanza.   Alla filosofia di Locke prima e a quella di Hume poi si può far risalire il  superamento critico della concezione sostanzialistica della persona umana e  dell'identità personale e l'avvio di quell'approccio che concepisce tali realtà  come complesse e cerca di spiegarne la natura riconducendola a qualcosa  d'altro. Ma sulla strada dell’elaborazione delle concezioni complesse e ridu  zionistiche dell’identità personale si presenta la difficoltà di riuscire a rendete  conto del soggetto morale con quel minimo di stabilità necessaria per dare  una base a nozioni essenziali per l'etica — quali responsabilità, merito, deme-  rito ecc. Un altro problema a cui vanno incontro le concezioni riduzionistiche  e complesse dell'identità personale sta nella difficoltà con cui riescono a ren-  dere conto del valore morale senza farlo dipendere esclusivamente da una  considerazione degli atti di per sé stessi, ma riuscendo a collegarlo anche con  una considerazione del carattere e dei motivi dell'agente. La connessione tra  la considerazione del carattere e dei motivi e i giudizi morali è al centro, ad  esempio, dell’analisi delle virtù e dei vizi delineata da Hume e Smith e sembra  tanto profondamente radicata nel senso comune morale da non poter essere  soppiantata da una qualche teoria che indica come eticamente rilevanti le sole  azioni. La riflessione di marca empiristica e analitica sulla natura dell’identità  personale si è dunque sempre più impegnata dal Settecento a oggi nell’elabo-  razione di una spiegazione della continuità e stabilità dell’io che, senza dover  ricorrere alla nozione sostanzialistica e semplice di io, fosse conciliabile con  l’uso di categorie centrali del linguaggio etico-giuridico quali responsabilità,  merito, demerito, punizione, condotta virtuosa ecc.   Un’estensione dell'analisi complessa e riduzionistica dell'Io anche a livello  di ricostruzione della vita morale — oltre che sul piano conoscitivo — viene  avviata da Henry Sidgwick nel 1874 con i suoi Methods of Ethics (I metodi  dell'etica), ed è stata poi sistematicamente realizzata nella seconda metà del  secolo XX da pensatori come Nagel, Parfit, Nozick ecc. Si può ipotizzare che  questa recente fortuna di un'analisi dell'etica che muove da una concezione  complessa dell'identità personale sia un riflesso, a livello filosofico, di quel fe-  nomeno più generale a cui si allude sinteticamente con l’espressione «perdita  del Soggetto». La rapidità delle trasformazioni nelle società occidentali, la grande quantità di novità che quotidianamente ciascun essere umano deve  raccordare con l’esperienza passata e con i punti di equilibrio in essa raggiunti  hanno reso sempre più frammentaria la continuità della vita interiore e diffi-  coltosa l'operazione di recuperarne una qualche stabilità. Va peraltro sottoli-  neato che le concezioni complesse e analitiche dell'identità personale più che  essere impegnate in lamentele e declamazioni sulla «Perdita del Soggetto»  cercano di elaborare una concezione dell’essere umano eticamente responsa-  bile che sia adeguata alle trasformazioni culturali degli ultimi secoli, trasfor-  mazioni che hanno reso il rinvio a un qualche Soggetto sostanziale solo un  mito privo di qualunque fondamento empirico.   Le analisi di Parfit sfociate nel volume del 1984 Reasons and Persons (Ra-  gioni e persone) presentano lo sforzo più approfondito di sviluppare gli spunti  presenti nell'opera di Sidgwick e di ridefinire, muovendo da una nuova con-  cezione — appunto riduzionistica e complessa — dell’identità personale no-  zioni come quelle di responsabilità morale, merito e demerito ecc. Se tuito ciò  che troviamo dietro la soggettività e l'identità di una persona umana è una  qualche continuità psicologica più o meno stretta, ne consegue che i nostri  giudizi morali © giuridici dovranno essere del tutto a posteriori e investire in-  terrogativi quali: «quanto la persona che ci sta di fronte è la stessa di quella  che ha compiuto l’azione? », «quanto l’azione che la persona ha compiuto si  inserisce nel flusso più continuo e stabile delle sue abitudini e del suo carat-  tere e quanto invece ne rappresenta una rottura?» ecc. L'approccio empiri-  stico all’identità personale comporta dunque non già l’eliminazione delle no-  zioni etiche tradizionali dal nostro lessico morale, ma una loro ridefinizione in  modo tale da presupporre connessioni più deboli e meno definitive: tra le  azioni e la persona che le ha compiute; tra la persona come attualmente è e la  sua storia passata; tra il tipo di intervento che possiamo fare sulla persona  attuale e la sicurezza che, utilizzando determinati mezzi, potremo ottenere  certi risultati che coinvolgono il suo io futuro. In generale ci si muove verso  una concezione meno assolutistica e necessitante dell'etica di quella che ac-  cetta chi crede nella persona come sostanza. Ed è ovvio che una prospettiva  del genere risulta del tutto in linea con l’epistemologia empiristica, ma — e si  tratta di ciò che più conta — anche forse, oggigiorno, fertile sul piano espli-  cativo e predittivo,   L’approccio all'identità personale che la considera come una successione  di io che hanno tra di loro una connessione psicologica più o meno stretta è  ben lontano dall'essere diventato «senso comune» e ranto meno sembra cor-  rispondere intuitivamente a quella concezione della persona che troviamo ra-  dicata nella parte morale del nostro «senso comune», una parte che tende a trasformarsi con più lentezza e prudenza di quella intellettuale. Vanno però  messe in luce le implicazioni normative che accompagnano le analisi di tipo  complesso e riduzionistico dell'identità personale, anche se per ora occorre  confinatne la portata solo alle premesse intellettuali di un sistema morale che  pretenda di essere costruito su credenze vere.   Un approccio all'identità personale che metta in secondo piano una con-  cezione sostanzialista e semplice della persona umana favorisce anche un  complessivo riassetto normativo. In primo luogo questa linea epistemologica  porta al rifiuto di una concezione statica e sostanziale del bene morale, la  presa di distanza da un modo di intendere la responsabilità morale come le-  gata a colpe, peccati o meriti che solo un Essere Assoluto, in grado di cono-  scere la struttura sostanziale della persona e i più riposti pensieri degli esseri  umani, può giustamente distribuire. La responsabilità morale in questa pro-  spettiva ha invece a che fare non già con riposte intenzioni, ma principal.  mente con ciò che effettivamente si compie in un campo di azioni pubblica-  mente osservabili.   In secondo luogo poi tale approccio contribuisce anche a scalzare le basi  analitiche che sorreggono l’impianto normativo dell’egoismo razionale. An-  cora a Parfit si devono dettagliati argomenti che mostrano, una volta assunta  la prospettiva complessa e riduzionistica dell'io, quanto risulti ingiustificata  una preferenza per le parti future della propria vita nei confronti delle vite  attuali di altri esseri umani. La ragionevolezza ed evidenza di una preoccupa-  zione esclusiva — su base egoistica e prudenziale — per i nostri io futuri non  risulta affatto giustificata una volta che si diventi consapevoli della comples-  sità di passaggi che muovendo dal nostro io attuale porta ai nostri io futuri  laddove non si postuli più la persistenza di una stessa sostanza semplice. Tra il  nostro io attuale e quello che saremo fra numerosi anni vi sono connessioni  più dubbie — e dunque relazioni più deboli — rispetto a quelle che possiamo  istituire oggi con i Sé degli altri esseri umani. L'impegno nella costruzione di  un'etica più imparziale e meno rigidamente egocentrica sembra dunque avere  tutto da guadagnare dalla revisione dell'identità personale intrapresa dalla fi-  losofia empiristica.   Infine risulta del tutto indebolito il ruolo della nozione di persona come  categoria essenziale per la determinazione dell'universo di esseri per i quali  valgono le nozioni etiche. Se ciò che conta in morale non è più solo la pre-  senza di qualche peculiare sostanza semplice di natura spirituale, ma gli atti  che si compiono più o meno responsabilmente, nulla vieta che divengano eti-  camente rilevanti anche atti che non coinvolgono persone umane. Passando  attraverso atti responsabilmente connessi con dimensioni quali la sofferenza e il danno o il piacere e la soddisfazione di bisogni e desideri, possono diven-  tare rilevanti per l’etica gli animali, o gli oggetti che costituiscono l’ambiente,  o realtà — di certo non personali nel senso di essere effettivamente presenti  ora come sostanze semplici con una loro propria individualità — quali, ad  esempio, i membri di generazioni future molto lontane. È questa dunque la  via epistemologica che porta ad abbandonare quella concezione ristretta del-  l'etica che si ha quando si è costretti a passare sempre attraverso la cruna  d'ago fornita dalla persona. In particolare sono le etiche utilitaristiche e con-  seguenzialiste che si sono impegnate in questo sforzo di fornire indicazioni  normative congruenti con le concezioni di derivazione empiristica dell'iden-  tità personale e dell’universo degli esseri moralmente rilevanti.    5.3. Etica del carattere 0 dell’azione. — Come abbiamo visto le diverse  concezioni etiche si distinguono sulla questione di quale sia da considerare  l'oggetto proprio di una valutazione. Su questo piano la differenza più rile-  vante è quella tra chi ritiene che l’unico oggetto peculiare di valutazione etica  sono le azioni e le loro conseguenze e chi invece ritiene essenziale il riferi  mento al carattere 0 comunque a qualche qualità interna (intenzione ecc.) di  chi agisce. Le due diverse concezioni hanno entrambe dei punti a loro favore.  Si può anzi suggerire che la concezione più adeguata sia quella che non ri-  corra in modo esclusivo o all'uno a all’altro approccio — o azione o tratti del  carattere — ma piuttosto sappia integrare entrambe le esigenze.   A favore della concezione che ritiene esclusiva l’attenzione per le azioni vi  è l'esigenza — fatta valere in modo decisivo non solo dall’utilitatismo, ma an-  che dal garantismo giuridico (Fetrajoli, 1989) — che ciascuno possa essere  ritenuto responsabile solo di quello che ha effettivamente compiuto e non  possa essere giudicato negativamente sulla sola base di presunte predisposi-  zioni 0 inclinazioni ad agire, che tra l’altro rinviano a una pretesa capacità di  cogliere l'essenza o vera natura di una persona. Il riftuto della concezione so-  stanzialistica della persona umana è tra l’altro accompagnato dallo sforzo di  ricollocare l'etica su un piano più esterno e comportamentale. La considera-  zione prevalente delle azioni effettivamente compiute segna anche il tramonto  di valutazioni che investono i piani del peccato o della colpa.   Considerando come positivo il superamento di un approccio etico che  pretenda di presentare valutazioni assolute basate su di una presunta cono-  scenza finale del carattere o della natura di una persona, va però segnalato un  limite di questo approccio. Un'etica che pretenda di derivare in modo esclu-  sivo le sue valutazioni dalla considerazione dei comportamenti esterni degli  esseri umani sarà costtetta a omologare azioni criminose e incidenti colposi e non sarà comunque in grado di discriminare tra azioni compiute in contesti  motivazionali e intenzionali differenti. La valutazione etica non sembra potere  prescindere dall'esame di quanto le azioni in gioco siano responsabili e dun-  que frutto di intenzioni e non del tutto casuali o determinate da costrizioni al  di là della portata di chi agisce.   Proprio la necessità che l'etica riesca a coinvolgere anche la responsabilità  delle azioni considerate rappresenta un argomento a favore delle concezioni  che pongono al centro della loro considerazione il carattere di chi agisce. In  questo si sono impegnate le cosiddette etiche della virtà. Una tradizione  che — diversamente da quanto è stato recentemente sostenuto (MacIntyre,  1988) — non è certo confinata alla cultura antica e medievale, ma ha trovato  anche nella cultura moderna e contemporanea dei sostenitori.   La concezione dell'etica che ritiene centrale la considerazione del carattere  sembra salvaguardare alcune esigenze essenziali per una adeguata teoria della  valutazione morale. Anche questo approccio ha però bisogno di correttivi,  ÎNon solo risulta dubbia un'attenzione per il carattere tanto esclusiva da giu-  dicare una persona condannabile per il solo fatto che ha determinate inten-  zioni, ma una considerazione etica esclusivamente attenta al carattere può  portare a considerare virtuoso anche chi si limiti a manifestare certi principi o  convinzioni etiche e poi di nascosto agisce in modo completamente diver:  gente. Un’etica dell’intenzione può anche portare a ritenere giustificati atti  gravemente dannosi rinviando a presunte intenzioni benefiche di chi li com-  pie. Un'etica dell'intenzione o del carattere corre il pericolo di sottoscrivere  posizioni morali esclusivamente predicatorie o addirittura ipocrite, alle quali  comunque non corrisponde alcun effettivo comportamento.   Nella conciliazione, tutt'altro che semplice, delle due concezioni sull’og-  getto della valutazione morale sono impegnati in particolare i fautori dell’uti-  litarismo della regola o delle norme (cfr. $ 4,7). Nel senso di un'integrazione  delle considerazioni etiche sugli atti con quelle relative ai caratteri e alle inten-  zioni vanno anche molte delle discussioni di casi concreti nelle quali si sono  impegnati — specialmente nella seconda metà del secolo XX (cfr. $ 5.4) gli  esponenti dell'etica contemporanea.   Ad esempio, larga parte della discussione etica contemporanea su situa-  zioni concrete quali quelle legate alla nascita — e in particolare all'aborto — €  alla morte — e in particolare all’eutanasia — è legata alla riflessione sul ruolo  più o meno decisivo delle intenzioni in gioco. Proprio la tesi di un ruolo es-  senziale delle intenzioni nelle valutazioni delle scelte relative all'inizio e alla  fine della vita umana ha portato ad elaborare la dottrina del «doppio effetto»  (Anscombe, 1958 e Foot, 1978). Con questa dottrina si è ritenuto di potere distinguere tra diverse ricorrenze della stessa azione, considerandola rispetti-  vamente o come una conseguenza diretta e voluta dell'intenzione di ottenere  questo risultato o viceversa come effetto secondario e non direttamente vo-  luto dell'intenzione rivolta a un risultato benefico. Laddove l'effetto diretto  della nostra intenzione è, ad esempio, garantire la nascita di un bambino, solo  un doppio effetto non voluto è la morte della madre; o — all’altro confine  della vita — laddove effetto diretto della nostra intenzione è l’azione rivolta a  un'attenuazione delle sofferenze di un morente, è solo un effetto secondario  non direttamente voluto la morte della persona, quale conseguenza dell’uso di  farmaci per attenuare il dolore. Ma questa concezione va incontro a un’insor-  montabile difficoltà di ordine epistemologico, in quanto ovviamente non sono  disponibili procedure affidabili per discriminare tra una dichiarazione di in-  tenzione del tutto ritualistica o ipocrita e una dichiarazione veritiera. In que-  sto senso la prospettiva che ruota intorno alla centralità dell’intenzione si pre-  senta come il residuo di una fase in cui l’etica teorica era impegnata a far va-  lere per il giudizio sulle azioni umane un punto di vista ideale o divino.  Un'’etica fatta su misura per le esigenze della specie umana, pur riconoscendo  la rilevanza delle motivazioni delle azioni, indebolisce però la portata delle  intenzioni considerandole come componente aggiuntiva e sussidiaria del giu-  dizio etico e non già come aspetto decisivo ed esclusivo.   Fa parte della riflessione sull’oggetto proprio delle valutazioni etiche an-  che la discussione sulla possibilità di distinguere nettamente da un punto di  vista assiologico tra azioni e omissioni. Questa distinzione viene considerata  sempre meno influente per l'etica (Glover, 1977; Singer, 1989) proprio da  quelle concezioni che — come l’utilitarismo — hanno messo al centro della  valutazione le azioni e la considerazione delle conseguenze. L’utilitarismo  contemporaneo fa propria in realtà una nozione non riduttiva di azione, data  la quale risulta chiaro che il non fare qualcosa quando si ha la possibilità di  farlo è eticamente rilevante non meno del compimento effettivo di un atto.  Ciò che conta è la nostra responsabilità — che si agisca o non si agisca — per  conseguenze nella situazione futura, in quanto esse dipendono comunque da  nostre scelte e decisioni.   Si può avanzare l’ipotesi che nel corso degli ultimi secoli della storia della  cultura occidentale la struttura del nostro discorso morale si sia trasformata  nel senso di un'estensione della portata del lessico legato primariamente alle  azioni e di una correlativa riduzione dell'incidenza di quella parte del lessico  legato a emozioni, sentimenti, stati d'animo, intenzioni, caratteri ecc. Da que-  sta ipotesi si ricava che per quanto forte possa ancora essere, al livello della  predicazione, la riaffermazione di un’etica di tipo agapistico o dell'amore universale (un’etica cristiana genericamente intesa), tale etica risulta poi in se-  condo piano, quando ci si impegna in una riflessione critica rivolta a indivi.  duare regole e principi etici concreti a cui ispirarsi. L'appello a sentimenti  quali l’amore o una benevolenza universale sembra essere del tutto irrilevante  quando siamo impegnati a identificare il migliore comportamento effettivo  nelle situazioni eticamente rilevanti che ci sono di fronte. Certamente tale ap-  pello può continuare a mantenere un ruolo decisivo laddove siano in gioco  concezioni super-erogatorie e ideali sul dovere (che coinvolgano ad esempio  la santità e l’eroismo), che hanno però un ruolo sempre più marginale nella  morale di senso comune di società altamente complesse e popolate come  quelle nelle quali viviamo. La nostra ricerca etica è piuttosto rivolta a regole  più modeste e limitate che incidano però effettivamente sulle azioni o omis-  sioni della nostra vita quotidiana, in modo tale che le conseguenze dei nostri  stili di vita siano benefiche — o quanto meno non disastrose € dannose — per  le generazioni future.    54. La svolta normativa e l'irruzione dell'etica applicata. — Nel corso del  XX secolo l'orizzonte di riflessione che muove dai problemi pratici concreti  degli esseri umani è stato riafferrmato come primario e decisivo da una serie di  pensatori che hanno contestato l'utilità di una ricerca esclusivamente meta-  etica e astratta. Si è soliti fare riferimento a questa svolta, realizzatasi nella  riflessione sulla morale specialmente a partire dagli anni Settanta, con  l’espressione «l'irruzione dell'etica applicata» (De Marco e Fox, 1986). Que-  sto appello all'etica applicata è stato fatto valere, successivamente, con due  diversi obiettivi critici. In un primo periodo l'appello era rivolto a fare sì che  punto di partenza e punto di arrivo della riflessione etica fosse considerato  non già la conoscenza della natura della morale e delle forme di ragionamen-  to in essa valide, ma la ricerca di soluzioni normative. In un secondo periodo  — a partire dagli anni Ottanta — si sono contestate le stesse risposte norma-  tive offerte dalle opere sistematiche degli anni Settanta e la richiesta avanzata  è stata che in luogo di criteri normativi generali validi per tutte le questioni  etiche la riflessione critica fosse rivolta a delineare soluzioni più determinate e  settoriali in grado di risultare rilevanti per una delle diverse dimensioni pro-  blematiche riconoscibili all'interno dell'etica pratica.   La prima esigenza fatta valere negli anni Settanta è stata dunque quella di  trasformare la teoria etica in modo tale che in essa l’obiettivo principale fosse  non già quello logico-conoscitivo di mettere a punto una meta-etica e dunque  una conseguente epistemologia, quanto piuttosto lo sviluppo sistematico di  un risposta esplicitamente normativa. Il neo-contrattualismo di J. Rawls e  Gautbier, il neo-utilitarismo di }. Harsanyi e poi di R. M. Hare e R. Brandt,  le diverse teorie dei diritti di R. Nozick e di R. Dworkin ecc. — tutte conce-  zioni a cui abbiamo già fatto riferimento specialmente nel paragrafo 4 — sono  alcuni dei tentativi più influenti di elaborare teorie etiche impegnate prevalen-  temente sul piano normativo.   Le differenti teorie etiche normative presentate nel corso degli anni Set-  tanta sono, di volta in volta, la riproposta sotto una nuova veste di opzioni già  formulate a partire dal secolo XVIL Il neocontrattualismo di Rawls e Gau-  thier tiene largamente conto dell'elaborazione contrattualista precedente da  Hobbes a Kant. Il neo-utilitarismo ha largamente discusso e riproposto le pre-  cedenti impostazioni di J. Bentham e J.S. Mill. I teorici dei diritti non hanno  mancato di tenere conto delle analisi di Locke ecc. Restano dunque in larga  parte operanti le stesse concezioni che nel corso dell'età moderna e contem-  poranea sono state indentificate come utilizzabili da chi fosse alla ricerca di un  criterio generale per risolvere i problemi pratici degli esseri umani. Al livello  dei principi o procedure più generali non sembra si possa segnalare la nascita  di nuove etiche, ma si assiste solo allo sviluppo e all'approfondimento delle  linee etiche normative già disponibili.   La novità principale nell’«etica teorica» {e qui si intende una teorizza-  zione etica con obiettivi esplicitamente normativi) del XX secolo sta dunque  nelle forme che prendono le diverse concezioni normative, una trasforma-  zione che in realtà era stata già anticipata da H, Sidgwick con i suoi Methods  of Ethics (Sidgwick, 1963). In primo luogo le diverse proposte normative non  fanno più parte di una ricerca filosofica generale. Chi si occupa di etica e con-  tribuisce ad essa non colloca la sua ricerca in una più ampia prospettiva che  ad esempio affronti questioni generali sulla conoscenza umana, la natura  umana ecc. Si parte dando per scontata una sorta di specializzazione per cui  chi si occupa di etica e di problemi normativi guarda esclusivamente a questi.  I teorici dell'etica contemporanea sono dunque eredi dei professori di filoso-  fia morale come Hutcheson o Smith, più che di filosofi come Hobbes, Locke  € Hume (per non dire che nulla hanno a che fare con personalità quali quelle  dei fondatori di morali come Cristo, Budda o Gandhi}. Laddove Hobbes,  Locke e Hume — ma ovviamente anche Kant — collocavano la loro atten-  zione per i problemi etici in un contesto filosofico generale, i teorici dell'etica  contemporanea limitano invece le loro analisi ai soli problemi pratici. Questo  si accompagna non solo con la specializzazione che abbiamo sottolineato, ma  anche con un più limitato orizzonte critico che viene fatto valere nelle pro-  poste etiche contemporanee. Tutti i diversi teorici dell'etica muovono nelle  loro analisi assumendo la validità di tesi più generali sulla conoscenza, la ragione ecc. In questo senso le diverse etiche teoriche acquistano senso solo vi.  ste sullo sfondo delle diverse prospettive filosofiche generali elaborate dai  pensatori — che abbiamo più volte richiamato — del XVII e XVIII secolo,   Questa più marcata limitazione del contesto dell’etica teorica contempora-  nea è in molti di questi pensatori esplicitamente riconosciuta e programmati.  camente affermata anche per quanto riguarda il piano dei valori di riferi.  mento. Così molti dei teorici dell’etica contemporanea ammettono di muo-  versi in contesti storici e culturali ben definiti identificando lo sfondo che dì  validità alle loro teorie normative con quello delle credenze etico-politiche  condivise nelle società liberal-democratiche occidentali (Rorty, 1989; Rawls,  1994). Emerge dunque in molti teorici contemporanei la tesi che l’etica è una  riflessione critica che non solo muove da intuizioni 0 credenze morali di par  tenza che sono già date, ma che in realtà non può operare al di fuori di un  qualche contesto di credenze condivise. Questo orientamento segna di fatto  non solo una specializzazione dell’etica teorica, ma anche l'abbandono in essa  del quadro universalistico in cui si muovevano i filosofi del XVII e XVIII  secolo.   Parallelamente con questo restringimento della base del discorso dell’etica  teorica troviamo viceversa — e specialmente nelle opere sisternatiche elabo-  rate negli anni Settanta — uno sforzo di approfondimento analitico molto più  marcato, con la pretesa di realizzare un'elaborazione coerentemente sistema-  tica e un’argomentazione persuasiva di ampio respiro. Se ci volgiamo infatti  alle opere principali dell'etica teorica contemporanea vediamo che la loro.  mole e complessità rispetto agli scritti dell'etica tradizionale è fortemente cre.  sciuta. La base di partenza è più ristretta ma la pretesa di approfondimento  analitico è maggiore. Le nozioni che la tradizione etica precedente trovava del  tutto comprensibili vengono ora sottoposte ad analisi dettagliate. In questa  direzione contributi del tutto nuovi vengono offerti, ad esempio: o con una  dettagliata tassonomia — dovuta in particolare agli utilitaristi — delle diverse  forme di preferenze; o con una classificazione — che troviamo principalmente  negli scritti dei neo-contrattualisti e dei teorici dei diritti — delle principali  differenze tra bisogni e interessi; o con lo scavo — e qui sono i teorici della  scelta razionale ad offrire il maggiore contributo — delle diverse forme di ra-  gionamento con cui possiamo valutare le linee di azione che coinvolgono con-  seguenze future più o meno lontane e più 0 meno sicure. Ll terreno dell'etica  teorica appare dunque certamente come più limitato e ristretto — un campo  che si cerca di tenere distinto da quelli confinanti — ma esso viene scavato  con una profondità maggiore che nel passato in tutte le sue parti. La convin-  zione che muove questo approccio è che le radici delle questioni etiche possano essere raggiunte non già derivandole da un altro campo di ricerca, ma  andando sempre più a fondo nello scavo dell’area dell’etica considerata come  autonoma e autosufficiente. Quello che lascia particolarmente insoddisfatti è  che i tratti generali del paradigma della ricerca si trovano messi in pratica e  ripresi acriticamente senza nessuna elaborata valutazione della loro adegua-  tezza. Né vi è una sensibilità per la questione — a mio parere decisiva — di  come la vicenda dell'etica teorica contemporanea possa essere raccordata  — acquistando con questi raccordi senso e rilevanza — con i lasciti e i residui  della passata elaborazione.   Molto più accentuata che nel passato è poi la pretesa di sistematicità e di  coerenza interna, così come della massima completezza possibile. In questo  senso l’etica teorica si muove prendendo a modello le teorie scientifiche in  generale. Proprio per questo tentativo di strutturarsi in analogia con gli uni-  versi scientifici prevale tra le diverse concezioni normative una tendenza al  monismo etico e nello stesso tempo assistiamo ad un progressivo allargamento  dell'ambito di casi e fenomeni investiti. Una tendenza verso il monismo nor-  mativo era presente anche nelle etiche tradizionali che insistentemente anda-  vano alla ricerca di un solo principio fondamentale. Una volta caduto l’oriz-  zonte fondazionale il monismo etico si presenta come la ricerca di un unico  criterio di decisione per tutte le situazioni problematiche nella convinzione che  la presenza di più criteri non può che originare conflitti e disaccordi insanabili.   Nei sistemi normativi degli anni Settanta troviamo infine approfondito lo  sforzo di argomentare in modo persuasivo e convincente a favore della posi-  zione fatta valere. La dimensione per così dire retorica e persuasiva diviene  esplicita e diventa primario l'impegno a fornire già all'interno di ciascuna teo-  ria una risposta alle critiche avanzate dalle concezioni alternative. Prevalgono  quindi nell’etica teorica contemporanea le esigenze di una discussione pub-  blica. Le diverse etiche si presentano infatti in primo luogo come discorsi si-  stematici e razionalmente giustificati nel modo più compiuto, sviluppati per  convincere gli interlocutori nella discussione pubblica a proposito della pre-  feribilità delle opzioni normative proposte. Questi tratti spiegano nello stesso  tempo, da una parte la maggiore concretezza delle etiche teoriche contempo-  ranee rispetto a quelle tradizionali e, dall'altra, il loro minore respiro e la loro  collocazione in un contesto storicamente più limitato.    5.5. I principali campi dell'etica applicata. — Ma come si è detto un’ulte-  riore svolta ha segnato l'etica teorica a partire dagli anni Ottanta. Vengono  contestate ora le stesse teorie impegnate nella presentazione di grandi sistemi  normativi, denunciando la loro astrattezza e la loro irrilevanza per i problemi    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    104 ETICA    pratici effettivi. L'impegno in una riflessione etica che abbandonasse il piano  delle concezioni astratte veniva a caratterizzare sempre di più gli anni Ot-  tanta. Anzi in questa direzione era la medicina a salvare l'etica — come si  esprimerà Toulmin {$. E. Toulmin, How Medicine saved Etbics, in De Marco e  Fox, 1986: 265-281) — nel senso che i nuovi problemi etici generati dagli svi-  luppi della medicina e della biologia ponevano in modo urgente una richiesta  di soluzioni che non poteva essere soddisfatta dai grandi sistemi normativi  classici o contemporanei. Laddove infatti i sistemi normativi degli anni Set-  tanta avevano al loro centro i problemi della giustizia sociale e della cittadi-  nanza, le questioni della guerra giusta e delle relazioni internazionali, vice-  versa i nuovi problemi posti dalle mutate condizioni nella nascita, morte e  cura degli esseri umani coinvolgevano dimensioni etiche completamente di-  verse,   Inizia così un processo di articolazione e sviluppo di una miriade di settori  nuovi nell’etica applicata che, in parallelo con la tendenza della cultura ame-  ricana alla specializzazione e alla professionalizzazione, porta al consolidarsi e  istituzionalizzarsi di vari campi dell'etica pratica considerati come autosuffi-  cienti. Compare così la nuova figura professionale dell’eticista, ovvero del-  l'esperto dei problemi di un particolare settore. Certamente la riflessione etica  guadagna così in concretezza, ma una ricerca esclusivamente impegnata nel-  l’evidenziare i criteri ed i principi etici validi per specifici e peculiari problemi  applicativi va incontro ai limiti del settorialismo e della iper-specializzazione.  Dopo lo sforzo di scomposizione e di indagine ravvicinata dei singoli campi  problematici che ha accompagnato il fiorire delle varie dimensioni dell'etica  pratica è ora auspicabile un lavoro di sintesi e di ricomposizione che identifi-  chi i principi e i criteri etici validi in generale e che sappia fornire visioni d'in-  sieme della vita etica.   La maggior parte dei diversi settori dell'etica applicata consolidatisi negli  ultimi decenni del secolo XX ha a che fare con i problemi pratici del tutto  nuovi che sono sorti con lo sviluppo della tecnologia e detta ricerca medico-  biologica. Tutta una serie di azioni e pratiche umane che risultavano neutre da  un punto di vista etico o che comunque erano affidate quasi integralmente a  processi naturali e biologici, e dunque considerate al di là delle decisioni re-  sponsabili, sono entrate a far parte dell’universo di eventi influenzati dai di-  versi criteri per discriminare tra scelte giuste e ingiuste.   In primo luogo si sono andate consolidando come aree largamente indi-  pendenti dell’etica applicata alcune dimensioni problematiche già colte dalla  riflessione del secolo scorso, Laddove nel Settecento trovavamo solo degli ac-  cenni in Bentham sulle sofferenze degli animali, nella seconda metà del XX  secolo si è assistito al fiorire di una vera e propria etica impegnata nel realiz-  zare la liberazione degli animali (Singer, 1992). St sono sviluppate diverse con-  cezioni generali rivolte a giustificare un trattamento non discriminante per le  sofferenze degli animali: da posizioni mistiche o religiose, a quelle utilitaristi-  che a quelle che ruotano intorno all'elaborazione di una teoria dei diritti an-  che per gli animali (T. Regan, 1990). In questo caso la presentazione di una  risposta normativa alla questione del trattamento degli animali va di pari  passo con una ridescrizione della loro condizione. I libri dei teorici della libe-  razione animale sono infatti insostituibili per la ricchezza di dati e esemplifi-  cazioni che forniscono sulle pratiche invalse — il più delle volte inutilmente  crudeli — per quanto riguarda l'uso degli animali nella ricerca medica e far-  maceutica, nell'industria cosmetica a dell’abbigliamento, nella produzione in-  dustriale di cibo ecc. (Singer, 1992).   Una grande fioritura, in quest'ultima parte del XX secolo, hanno avuto i  tentativi — già presenti ad esempio in uno scritto del 1869 di J. S. Mill su The  Subjection of Women (La soggezione delle donne) — di affrontare in modo  esplicito e sistematico i problemi etici legati al differente trattamento — nelle  istituzioni e nelle pratiche sociali — di persone di sesso diverso. Il dibattito  critico sulle discriminazioni legate alle differenze sessuali ha assistito non solo  a una ricerca rivolta a ricavare soluzioni giuste dalle diverse concezioni nor-  mative disponibili, ma anche alla presentazione di tesi femministe che hanno  insistito sulla radicale inconciliabilità tra l’elaborazione di un'etica delle  donne e le concezioni tradizionali. Così da una paste si è discusso sull’alterna-  tiva tra l’universalismo che sarebbe proprio dell'etica maschile e l'assunzione  delle differenze di genere come orizzonte decisivo che è proprio dell'etica  femminile {Irigaray 1985). Dall'altra si è insistito sulla tesi che il recupero del  punto di vista femminile farebbe emergere valori del tutto peculiari e in luogo  di una centralità del valore della giustizia tipicamente maschile segnerebbe  l'affermazione del valore della cura (Gilligan, 1982).   Molti altri tradizionali problemi etici sono stati rivisitati alla luce della si-  tuazione contemporanea e coloro che se ne sono occupati hanno dato vita a  un'ampia produzione specialistica. Tra i campi più significativi per la costitu-  zione di un'ideale «Enciclopedia Pratica» del nostro tempo ricordiamo le ri-  flessioni dedicate a: le guerre giuste e l'uso — lecito o no — della violenza  {Walzer, 1990); le particolari regole che governano le relazioni internazionali  tra stati (Bonanate, 1992); le questioni più strettamente legate alle discrimina-  zioni di tipo razziale e culturale (Walzer, 1987); i problemi del trattamento  della povertà anche riconoscendone le articolazioni geografiche (Sen, 1981); il  tuolo della pena nel diritto (Ferrajoli, 1989). Una ben precisa area di etica    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    106 ETICA    degli affari si è costituita per i problemi morali posti dall'attività economica e  produttiva, e qui i maggiori avanzamenti sono venuti dall’uso di una tecnica  del tutto nuova fornita dalla «teoria della scelta razionale» (Sacconi, 1991).   Infine un incremento notevole hanno avuto le riflessioni morali — già pre-  senti in Ar Essay on the Principles of Population del 1798 di Thomas Robent  Malthus (Saggio sul principio di popolazione) e nei Principles of Political Eco-  nomy del 1848 di J. S. Mill (Prizcipi di economzia politica) — relative alla que-  stione etica di una procreazione responsabile. Tali riflessioni hanno forte  mente approfondito le questioni collegate al contesto di decisione costituito  dall’intreccio tra le previsioni sullo sviluppo demografico e quelle sulla dispo-  nibilità di risorse. Tutta questa tematica ha portato ad elaborare una vera e  propria etica delle generazioni future. Le questioni della giustizia tra genera-  zioni, della regolazione delle nascite in previsione della presenza nel 2050 di  oltre dieci miliardi di esseri umani, dei rischi dello sviluppo tecnologico per  gli esseri umani futuri sono al centro di riflessioni che hanno anche contri-  buito a modificare il quadro complessivo delle etiche tradizionali (Parfit,  1989; Jonas, 1990).   Del tutto nuovi sono invece due settori di etica applicata. Da una parte  abbiamo il consolidarsi e determinarsi della bioetica come disciplina auto-  noma che affronta sistematicamente i problemi etici posti dallo sviluppo della  medicina e della biologia. Non possiamo qui fare altro che accennare ai prin-  cipali tra questi problemi del tutto nuovi che coinvolgono la nascita, la morte  e la cura degli esseri umani: la fecondazione artificiale ix vitro: l'uso nei re-  parti di terapia intensiva di strumenti vicarianti le funzioni essenziali della  respirazione, alimentazione e idratazione; il ricorso ai trapianti; la diagnostica  prenatale; la ricerca sul DINA e l’ingegneria genetica; l’accresciuta conoscenza  dello sviluppo embrionale e la possibilità di realizzare in laboratorio le prime  fasi di questo sviluppo con eventuali conseguenti sperimentazioni ecc. Vita  umana, persona umana, sanità, malattia, benessere, diritti dei malati, dignità  della morte, doveri dei medici ece. sono solo alcune delle nozioni che ven-  gono sottoposte a riesame nella riflessione bioetica che si è concretizzata in  una sterminata letteratura e nella nascita di una ben precisa disciplina. Nel  corso di questa ricerca sono emerse tendenze a far valere alcuni nuclei tema:  tici specifici come nucleo della discussione (ad esempio la contrapposizione  tra un’etica che si impegna principalmente nel sostenere la non disponibilità e  sacralità della vita umana e un'altra che ritiene invece centrale la preoccupa  zione per una buona qualità della vita umana; Kuhse, 1987), o a enucleare  principi più specificamente rilevanti per le problematiche della nascita, morte  e cura degli esseri umani (in questo senso è, ad esempio, frequente il richiamo a un principio di beneficenza o ad un principio di autonomia: Engelhardt,  1991, ma anche Gracia, 1993).   Infine le conseguenze devastanti che sull'ambiente hanno avuto gli svi-  luppi scientifici e tecnologici e l'incremento demografico a livello planetario  hanno reso eticamente rilevante una serie di azioni umane con effetti più o  meno diretti, immediati o futuri sulla natura. La riflessione di etica ambientale  è stata caratterizzata da una molteplicità di concezioni (Bartolommei, 1989):  quella più religiosa e sacrale rivolta a dare un valore intrinseco alla natura;  quella utilitaristica tesa a calcolare le differenti conseguenze (in termini di  danno e beneficio) sull'ambiente di differenti strategie operative; quella che  cerca di estendere il linguaggio dei diritti anche a oggetti naturali ecc.   Non abbiamo fatto altro che elencare le differenti dimensioni dell'etica ap-  plicata. Infatti dalla prospettiva complessiva da cui muoviamo dobbiamo limi-  tarci a rilevare la fertilità di questo recente dibattito, sia nel senso di un arric-  chimento delle nostre conoscenze sui problemi pratici effettivi degli esseri  umani, sia nel senso di un incremento del processo di democratizzazione del-  l'etica (al centro di tutti i diversi settori dell'etica applicata troviamo individui  umani che affrontano autonomamente i loro problemi). Il pericolo che sta  dietro questo specializzarsi e professionalizzarsi dei vari campi dell'etica ap-  plicata è quello della frammentazione. Ciò che fa questione non è tanto il fatto  che ciascun individuo elabori da sé la propria etica, quanto piuttosto quella  confusione che nella vita pratica di ciascuno può derivare dall’appello, in si-  tuazioni diverse, a principi o criteri etici differenti come risolutivi. Una fram-  mentazione in questo senso può spingersi fino a esigere dallo stesso individuo  comportamenti incompatibili. In contrasto con questa tendenza l’obiettivo di  una unificazione richiede un recupero di tutte le diverse dimensioni dell'etica  teorica di cui abbiamo reso conto nei paragrafi precedenti. Un contesto uni-  tario per le riflessioni etiche può infatti essere offerto da teorie generali che —  sul piano meta-etico, epistemologico e normativo — identificano quel nucleo  comune valido per qualsiasi approccio o discorso che pretenda di farsi valere  come etico.    6. Le dimensioni dell'etica.    6.1. La morale e le relazioni personali. — Nel corso dei paragrafi prece-  denti abbiamo reso conto dei problemi generali al centro dell'etica in modo  unitario non tracciando distinzioni al suo interno. Così finora in modo unita-  rio si sono affrontate le questioni di una caratterizzazione, definizione, giusti-  ficazione o fondazione, applicazione e formulazione sistematica dell’etica. Ma le norme e i valori con cui ha a che fare l’etica complessivamente intesa ven-  gono in vari modi distinti in campi più o meno nettamente differenziati nei  nostri discorsi e nelle forme di vita. In questo paragrafo renderemo conto bre-  vemente della distinzione più comune e consolidata che vede l'etica compren-  dere i diversi piani della morale, del diritto e della politica.   Ricorrendo all'aiuto della storia dell'etica possiamo rilevare che nell’età  moderna e contemporanea vi è una certa convergenza nel discriminare tra  morale, diritto e politica, mentre notevoli differenze vi sono per quanto riguar-  da i criteri a cui ci si è richiamati per tracciare queste differenze. I differenti  criteri risultano — come vedremo nelle pagine seguenti — in definitiva funzio-  nali alle diverse opzioni meta-etiche, epistemologiche e normative da cui sono  mossi coloro che hanno proposto una ricostruzione dei campi dell'etica.   Un primo modo per caratterizzare il campo dell'etica che proponiamo di  chiamare morale in senso stretto è quello di considerarlo come quel settore in  cui sono in gioco principi e norme che guidano, 0 dovrebbero guidare, azioni  che producono negli altri conseguenze positive o negative diverse dal danno  in gioco con le azioni di rilevanza giuridica e dai benefici o danni provocati  dalle azioni di rilevanza politica. Proprio in quanto diverso è il raggio di in-  fluenza con cui ha a che fare la morale strettamente intesa essa ha anche a che  fare con una sanzione del tutto particolare che va tenuta distinta da quella in  gioco con la legge giuridica e con quella politica: una sanzione semplicemente  in termini di disapprovazione pubblica piuttosto che di concrete pene 0 multe  o di allontanamento dalla cittadinanza politica. Questa caratterizzazione dei  vari campi dell’etica è largamente corrente tra gli utilitaristi ed è stata deli-  neata già nel 1859 in On Liberty di J. S. Mill (Saggio sulla libertà).   La caratterizzazione così avanzata della natura delle regole e dei principi  specificamente morali — ovviamente nel senso meta-etico di cui qui ci occu-  piamo — è in realtà pur sempre carica di normatività in quanto si presenta  come una ridefinizione stipulativa. Alcuni avvertiranno in questa caratterizza-  zione un limite dato dal fatto che essa esclude comunque una qualunque rile-  vanza etica per quelle regole e principi che riguardano stati d'animo o azioni  del tutto privati, ovvero tali che non hanno nessun tipo di conseguenza — né  benefica, né negativa — sugli altri. Possiamo offrire un chiaro esempio di que-  sto campo di azioni del tutto private e che non sarebbero di pertinenza della  morale così intesa rinviando ad atti di auto-erotismo o al modo in cui impie-  ghiamo il nostro tempo libero.   È così chiaro che stiamo proponendo una caratterizzazione della morale  più stretta rispetto a quella a cui giungono coloro che, muovendosi all’interno  di una tradizione spiritualistica e giusnaturalistica, trovano l'etica complessivamente intesa come un insieme di doveri verso Dio, se stessi e gli altri. An-  che all'interno di questo approccio all’etica, comunque, il livello della mora-  lità per così dire del tutto privato si presenta come diverso rispetto a quello  della moralità che coinvolge altri; nel complesso poi l’insieme della morale va  tenuto distinto dalle azioni con cui hanno a che fare il diritto e la politica. Il  piano delle regole morali del tutto private e personali può essere considerato  come campo di applicazione di principi e regole super-erogatorie che hanno a  che fare con una vita santa, eroica o perfetta (Urmson, 1958): una forma di  vita che solo cedendo al fanatismo può essere prescritta universalmente. La  morale super-erogatoria va dunque tenuta distinta dalla morale che ha a che  fare con azioni di benevolenza o generosità che per quanto considerate dove-  rose e obbligatorie non lo sono certo nello stesso senso delle azioni che evi-  tano il danno fisico per gli altri. Vediamo così ricomparire una distinzione tra  diversi piani della vita etica, sia pure su basi differenti.   Muovendoci all’interno dell'approccio utilitaristico già delineato sugge-  riamo però di collocare al di fuori dell'etica generalmente intesa non solo le  azioni strettamente interessate a obiettivi economici, ma anche molte azioni  del tutto indifferenti moralmente che ciascuno di noi può compiere nel modo  che preferisce laddove queste non coinvolgano in alcun modo gli altri. In que-  sto senso questa concezione dell'etica si presenta come fornita di limiti anche  per quanto riguarda l'ambito della moralità strettamente intesa (Williams,  1987). i   Possiamo dunque collocare l'ambito della morale nel campo delle azioni  benevole e generose che non siamo tenuti a compiere con la stessa coercività  dei nostri obblighi giuridici e politici. La morale cioè ha a che fare con un  universo di azioni — che saranno poi distinte in buone e cattive a seconda dei  diversi valori sottoscritti — che gli altri non si aspettano da noi come soddi-  sfacimento di loro diritti giuridicamente o politicamente riconosciuti. Le no-  zioni di obbligo, dovere, diritto possono avere un uso nel contesto della mo-  rale, ma con un significato che va tenuto nettamente distinto da quello che tali  nozioni hanno nel contesto giuridico e politico. Molte confusioni e conflitti  sociali nascono dall’incapacità di tenere distinti questi diversi livelli dell'etica,  In un campo della morale così inteso le diverse concezioni dei valori potranno  confrontarsi presentando appunto diversi modelli e stili di vita virtuosa. La  vita virtuosa si distinguerà poi, da una parte, dalla vita santa o eroica e dall'al-  tra da quel tipo di vita che è richiesto a ciascuno di noi dalle leggi del suo  paese e dalle regole politiche della sua società. :   In un approccio del genere diventerà decisivo riuscire ad individuare, e  tenere ben distinto, un ambito di danno o offesa che è coinvolto dalle azioni di pertinenza della morale strettamente intesa. Si tratta di sviluppare l’idea  — messa a punto dagli utilitaristi e più recentemente da H. L. Han (Hart,  1963) e Joel Feinberg (Feinberg, 1985) — che ci sono alcune aree delle nostre  azioni interpersonali in cui non sono in gioco danni di rilevanza giuridica, ma  solo danni e offese morali. Gli altri si aspettano da noi un certo comporta-  mento anche se questo comportamento non è sanzionabile mediante l’inter-  vento della legge. Il piano di questi obblighi morali coinvolge principalmente  le relazioni più strettamente personali ovvero quelle relazioni che riguardano i  rapporti familiari, i rapporti tra persone di sesso diverso, le relazioni tra per-  sone di diversa età, le relazioni collegate a diverse responsabilità professionali  o di status sociale ecc, Tutta un'area di relazioni personali coinvolgono per  ciascuno di noi obblighi relativi al suo status (figlio, padre, marito, amico, me-  dico, docente ecc.) che non fanno riferimento a danni giuridici, ma a danni  morali. Possiamo provare a suggerire l'estensione e l’importanza di un ambito  della morale così determinato pensando al rilievo che nelle relazioni umane  hanno le promesse che non siano state codificate in un contratto, o alle aspet-  tative che ci legano con gli altri esseri umani con cui abbiamo istituito più  strette relazioni personali. Proprio quest'ambito della moralità è quello che  rende possibile la convivenza civile. Infatti laddove cerchiamo di ancorare la  permanenza di una qualche forma di società civile o ordine sociale al ricono-  scimento di obblighi e danni esclusivamente legali non riusciamo a rendere  conto di niente altro che di uno stato di polizia. Senza basi morali la convi-  venza può essere garantita solo da uno Stato ossessivamente preoccupato che  nessuna azione dei suoi cittadini sfugga al controllo delle sue sanzioni. E si  tratterà comunque di uno stato di polizia la cui accettazione come legittimo  da parte di coloro che si riconoscono come suoi cittadini risulterà del tutto  incomprensibile a meno che — con un ragionamento circolare e vizioso —  non si voglia fare appello alla autorità derivata dalla sola forza.    6.2. Il divitto e î sistemzi codificati. — Un ambito dell'etica completamente  diverso da quello in gioco nella morale è quello in gioco nel diritto e nell'in-  sieme delle norme giuridiche. Qui — come peraltro con la politica — ci muo-  viamo nel campo dell’etica pubblica, laddove con la morale abbiamo a che  fare con l’etica privata (Veca, 1989). Largamente condivisa è la tesi di una  marcata differenza tra piano delle regole morali e piano del sistema giuridico,  nel senso che quest’ultimo rinvia necessariamente a un momento di codifica-  zione. Anche i teorici del giusnaturalismo, che pur vedono la sfera giuridica  come strettamente correlata con la legge morale naturale, accettano Ja distin-  zione — sia pure cronologica 0 tecnica — tra il piano naturale della morale €  quello civile proprio delle procedure che caratterizzano il diritto e la politica,  Significativa in questa luce la posizione espressa da Locke nel 1690 nei Two  Treatises of Government {Due trattati sul governo; Locke, 1960: 244-246).  Locke vede già presente nello stato di natura il diritto di punire come dirit-  to di ognuno, ma individua nel passaggio alla società civile la realizzazione  di una completa delega di questo diritto a un magistrato che potrà usare  — unico autorizzato — la forza e fare rispettare le sue decisioni, che non sa-  ranno più caratterizzate dagli inconvenienti che accompagnano nello stato di  natura l’uso del diritto di punizione da parte di ciascuno.   Uno dei grandi problemi al centro dell'etica è proprio quello delle connes-  sioni tra morale e diritto. La questione preliminare è quella di spiegare in che  senso le norme del sistema giuridico — ovvero le norme che si occupano della  giustizia penale e pubblica e che sono sanzionate con l’uso della forza — sono  collegate con le norme morali (ovvero pre-giuridiche o non-giuridiche). La  soluzione più semplice è quella del positivismo giuridico che ritiene che di  vero € proprio diritto non si possa parlare se non dopo il costituirsi di un  governo riconosciuto, legittimato e autorizzato a promulgare norme giuridi-  che. Queste norme saranno poi valide giuridicamente laddove siano state pro-  mulgate osservando le procedure previste nello Stato — dalla Costituzione o  dalle sue leggi fondamentali — per l’amministrazione della giustizia (Scarpelli,  1965). La posizione del positivismo giuridico non è priva di difficoltà in  quanto confonde due nozioni etiche concettualmente diverse, ovvero la legge  promulgata correttamente, e cioè nei modi previsti dalla Costituzione, e la  legge giusta (cfr. $$ 2.3 e 2.4). Norme del tutto in regola dal punto di vista  della validità formale richiesta dal positivismo giuridico — come quelle pro-  mulgate dal regime nazista — possono risultare del tutto ingiuste e tali da  esigere un obbligo di resistenza da parte dei cittadini (Dworkin, 1982).   Alcune posizioni che si presentano come alternative al giusnaturalismo si  distinguono dal positivismo giuridico proprio in quanto riconoscono un col-  legamento tra morale e diritto. Questo è ad esempio vero per l'utilitarismo fin  da Bentham. Infatti Bentham riconosceva l’ineliminabilità di questa connes-  sione rappresentando la morale e la legge come due sfere concentriche, l'una  più ristretta costituita dal diritto e l’altra più ampia costituita dalla morale.  Questa immagine permette di capire sia in che senso la morale condiziona la  sfera giuridica, sia in che senso l'ambito del diritto debba essere considerato  più ristretto di quello proprio della morale. Questa stessa linea di analisi è  stata elaborata in modo compiuto da J. $. Mill,   I collegamenti tra queste due dimensioni dell'etica — la morale e la legge  giuridica — sono complessi e ineliminabili, Non solo i limiti di applicazione della legge giuridica — ovvero la distinzione tra l'ambito di pertinenza della  sanzione giuridica e quello in cui c'è completa libertà dalle sanzioni e in cui  dunque vale la sola critica che si manifesta nella discussione pubblica —, ma  le stesse procedure mediante le quali vanno accertate le azioni che sono rile-  vanti dal punto di vista della responsabilità giuridica e infine gli stessi modi in  cui va articolata la sanzione e la pena giusta esigono un rinvio continuo a con-  siderazioni di ordine morale (Ferrajoli, 1989). Il riconoscimento di un’effer-  tiva responsabilità giuridica rientra anch'esso in un discorso che esige il ri-  corso ad assunzioni di ordine morale. Non diversamente assunzioni di ordine  morale sono in gioco laddove si discute la questione della pena adeguata o  giusta o meritata pet un determinato reato. Tutta la discussione sull’uso della  tortura, della pena di morte e dell’ergastolo da parte di sistemi penali sta lì a  mostrare questo intreccio.    6.3. La politica e i fini del governo. — L'ambito dell’etica che invece pos-  siamo denominare «politica» è quello che rinvia ai principi e alle norme che  all’interno di una società riguardano non tanto i rapporti giuridici, quanto  l’azione del governo e il riconoscimento della sua legittimità. Una parte della  dottrina etica che coinvolge la politica riguarda dunque l'individuazione dei  principi che sono in grado di dare ai governanti l'autorità per governare, e  conseguentemente gli obblighi di lealtà dei cittadini nei confronti dei loro go-  vernanti (e di riflesso gli obblighi dei governanti nei confronti dei loro citta-  dini) e infine l’esistenza o meno (e in quali limiti) di un diritto dei cittadini a  resistere alle leggi dello Stato.   Basta volgersi alla riflessione di filosofia politica del secolo XVII per ve-  dere quanto già in quell'epoca fosse centrale la ricerca di una base morale che  desse validità alla pretesa dei governanti di avere un'autorità sui loro cittadini,  Il primo dei Tivo Treatises di Locke rappresenta un chiaro tentativo di conte-  stare la pretesa avanzata da Filmer nel Patriarca che i sovrani potessero rica-  vare il loro diritto ad un'autorità assoluta sui loro sudditi da una investitura  diretta da parte di Dio ad Adamo che era poi stata trasmessa — secondo una  linea diretta, di successione — ai suoi eredi. La cultura filosofica del secolo  XVII presenta non solo l’attacco più radicale alla concezione assolutistica del  potere politico come di origine divina, ma anche i primi decisi tentativi di  ricavare da principi più mondani il potere dei governanti. Così Hobbes e  Locke percorrevano la strada del contratto come base del potere politico, ma  le due forme di contratto a cui si richiamavano erano tali da condurre a due  diversi tipi di potere politico, l’uno totalitario ed illimitato e l'altro invece de-  terminato e limitato dal rispetto di una serie di diritti che comunque il cittadino deve salvaguardare. Perciò, mentre Hobbes non sembra riconoscere un  vero e proprio diritto di resistenza, Locke lo accetta, come del resto dopo di  lui faranno tutti i teorici dello stato liberale.   Quasi tutta la filosofia politica contemporanea, da J. Rawls a R. Dworkin,  da A. Downs a R. Dahl, si muove elaborando le basi etiche di una teoria libe-  ral-democratica (Brown, 1986). È oramai fuori discussione che solo l’investi-  tura popolare mediante votazioni democratiche può giustificare il potere po-  litico. Così come è largamente accettata la convinzione che il potere politico  deve limitarsi nelle sue leggi in modo tale da non toccare i cosiddetti diritti  negativi dei suoi cittadini. Non viene nemmeno posto in discussione — spe-  cialmente dopo l’esperienza dei regimi totalitari del XX secolo quali il nazi-  smo e lo stalinismo — il riconoscimento del diritto dei cittadini di resistere ai  comandi ingiusti dei loro governanti, anzi addirittura viene riconosciuto il  loro dovere di boicottarli e di lottare contro di essi.   Per quanto riguarda poi la riflessione etica sugli scopi del governo essa ha  subito a partire dal XIX secolo una radicale trasformazione laddove si è con-  siderato come uno dei compiti primari dei governi garantire ai cittadini non  solo la pace sociale, la vita, la salvaguardia dei diritti di proprietà, ma anche il  benessere, la salute, la qualità della vita ecc. Quando sono entrati in gioco  quelli che si considerano più propriamente i diritti positivi (cfr. sopra, $ 4.5)  dei cittadini si è posto il problema di quanto si dovesse ritenere autorizzato  il potere di un governante che, ad esempio, ponesse dei limiti ai diritti  negativi dei suoi concittadini al fine di far progredire i diritti positivi della  maggioranza. Si tratta di questioni etiche che la riflessione sul potere po-  litico si è trovata davanti in particolare all’interno della questione sociale e  sulla base delle lotte sostenute dalle classi operaie e dal movimento socia-  lista (Bobbio, 1990).   Molte delle questioni etiche in gioco nella politica coinvolgono diretta-  mente le relazioni internazionali tra Stati. È oramai del tutto superata la posi-  zione considerata ovvia nel XVII secolo per esempio da Hobbes, ma anche da  Locke, che riteneva i rapporti tra Stati come costitutivamente collocabili nella  sfera di uno «stato di natura». Nel corso dell'età moderna e contemporanea  non solo è cresciuta l’esigenza di una valutazione etica delle motivazioni che  ispirano le azioni internazionali dei governanti (Bonanate, 1992), ma si è an-  che affermata sempre più la spinta a far valere anche tra Stati una serie di  principi consensualmente accettati che garantissero, nei limiti del possibile, la  pace. È stato Kant {Kant, 1956: 283-336) che ha fatto valere con decisione  l'esigenza di estendere anche alle relazioni internazionali quel requisito della  pace che si riteneva necessario per i rapporti all'interno della società civile. Le    www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3    114 ETICA    riflessioni etiche sull'uso della forza nelle relazioni internazionali tra Stati nel  XX secolo hanno poi dovuto affrontare le questioni nuove segnate dalla crea-  zione di armi nucleari. Molto insistita è stata la conclusione che l’uso di armi  che, come quelle nucleari, mettono a rischio l’esistenza della stessa umanità,  non può essere giustificabile al di lì della sola funzione deterrente (Kavka,  1987; Pantara, 1989).   Anche sul piano delle relazioni internazionali si è poi ripresentata in que-  sto secolo una riflessione etica che non investe solo quei fini dei governi esclu-  sivamente rivolti a salvaguardare o difendere i diritti negativi dei cittadini del  mondo, ma ancor più i cosiddetti diritti positivi. In particolare l'incremento  della popolazione mondiale, una differenza sempre più incolmabile tra qualità  della vita nei paesi ricchi e sviluppati dell'Occidente e povertà nei paesi sot-  tosviluppati dell’Africa, dell'Asia e dell'America del Sud hanno posto come  problema etico primario per la politica la questione di quanto si debba rite-  nere obbligatoria una qualche forma di giustizia sociale internazionale (Pon.  tara, 1988; Singer, 1989; Sen, 1994),   Da un punto di vista teorico generale, così come si è assistito a un allarga-  mento dello spazio per l’etica nel senso di una progressiva democratizzazione  delle responsabilità e decisioni che essa richiede in modo paritario a tutti i  cittadini del mondo, si assiste altresì a un analogo allargamento di questo spa-  zio nella direzione di un incremento delle questioni che ad essa si demandano.  L’ipotesi che avanziamo — ovviamente carica di un’opzione normativa — è  che ci si muova verso un allargamento delle aree problematiche che vengono  affidate alla discussione pubblica e dunque a una regolamentazione pacifica-  mente concordata, sottraendole al terreno in cui si fa ricorso alla forza. Così  sul piano internazionale vediamo sempre più riconosciuta — almeno al livello  del dover essere — l'esigenza di un governo mondiale — democraticamente  costituito e rispettoso della libertà dei suoi membri — impegnato a garantire  pace e giustizia sociale a livello planetario. Oggigiorno sembrano quindi pri-  vilegiate quelle teorie etiche normative in grado di rendere conto in modo  adeguato delle nuove estensioni problematiche presenti nella situazione sto-  rica degli esseri umani, Una competizione con le sole armi dell’argomenta-  zione razionale e della conoscenza tra concezioni normative può favorire l’in-  dividuazione di soluzioni giuste ed efficaci. In generale poi una richiesta di  maggiore riflessione sull’etica può trovare una sua giustificazione in quanto  questa riflessione — sia pure in modi più o meno indiretti — contribuisce a  rendere più realizzabili gli obiettivi della pace, della libertà e della giustizia  sociale per l'insieme dell'umanità senza dovere ricorre alla forza delle armi 0  alla violenza. Filosofia_in_Ita3    NOTA BIBLIOGRAFICA    Testi    ArisToTELE, Etica Nicomachea, a cura di C. Mazzarelli, Milano, Rusconi, 1979.   J. BentHam, An Introduction to the Principles of Moral: and Legislation, a cura di J. H. Burns e  H.L. A. Hart, London, Methuen, 1970.   In., If fibro dei sofismi, a cura di L. Formigari, Roma, Editori Riuniti, 1981,   J. BurLen, Analogia della religione, a cura di A. Babolin, Firenze, Sansoni, 1970.   A. Cottins, Discorso sul libero pensiero, Macerata, Liber Libri, 1990.   S. Faeuo, J/ disagio della civiltà, in Opere. 1924-1929, a cura di C. L. 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Melden, Washington, University  of Washington Press, Veca, Etica e politica, Milano, Garzanti, com/Filosofia_in_Ita3    NOTA BIBLIOGRAFICA    Viano, Erica, Milano, Isedi, Waczen, Sfere di giustizia, Milano, Feltrinelli, In., Guerre giuste e ingiuste, Napoli, Liguori, WarreNDER, Il pensiero politico di Hobbes, Roma-Bari, Laterza, Witt, Rig61s, Oxford, Oxford University Press, Wiagins, Needi, Values, Trutb, Oxford, Blackwell, Wiuiams, L'erica e i limiti della filosofia, Roma-Bari, Laterza, 1In.. Problems dell'io, Milano, Ll Saggiatore, Wirson, Sociobiologia: le nuova sintesi, Bologna, Zanichelli, WarisHT, An Essay in Deontic Logic and the General Theory of Action, Amsterdam,  North Holland, Filosofia_in_Ita3 INDICE DEI NOMI:    I numeri in corsivo rimandano alla Nota bibliografica  Abbagnano N., 10. Cooper A.A., v. Shaftesbury.  Alchourron Crusius Almond Althusius Dahl Anscombe Darwin Apel Davidson LIZIO Dawkins Arrow De Marco Austin Descartes Austin Desmond Axelrod Dewey Ayer D'Holbach Downs Baier Dumont Bartolommei Dworkin Bentham Engelhardt Berlin Epicuro L’ORTO Blackburn Ewing (CITED BY GRICE) Bobbio Bonanate Fagiani Brentano Feinberg Brown Ferguson Buchanan Ferrajoli Buddha Ferrara Bulygin Filmer Butler Finnis Foot Canziani Fox Carcarerra Frankena Cartesio, v. Descartes R. Freud Cassese Clarke Gandhi Collins Gargeni Colman Gauthier Condillac (Etienne Bonnot de), 92. Gibbard om/Filosofia_in_Ita3 Gilligan Glover Gough Gracia Grice, H. P., Grice (Welsh_ G. R. Grozio Habermas Hagerstròm Hare Hart Hartley Hayek Helvétius Hennìs Herbert di Cherbury Hobbes Hudson Humboldt Hume Hutcheson Irigaray Jonas Jonsen Jules Jung Juvalta Kant Kavka Kelsen Kuhse Landucci Locke Lorenz Lyons Mackie Macpherson Magri Malthus Mandeville Manzoni Marirain McDowell Melniyre Meek Mill Mill Montaigne Moore Moore Musacchio Nagel Norton Nowell Smith Nozick Oppenheim Parfit Pontara Preti Prichard Pufendorf Putnam Rawls Regan Resnik Rorty Rass Rossi Rousseau Ruse Sacconi Scarpelli Scheler Filosofia_in_Ita3    INDICE DEI NOMI    Schlick Sen Shaftesbury Cooper Sidgwick Singer Singer Smart Smart Smith Snare Spencer Spinoza Stevenson Strauss Sugden Thomasius Aquino Toulmin Urmson Veca Viano Walzer Warrender Weber White Wiggins Williams Wittgenstein Wolff C., Wiollaston Wright .com/Filosofia_in_Ita3    INDICE DEL VOLUME    . Introduzione   . La natura dell'etica si ci   . Fondazione, giustificazione e spiegazione:  l’epistemologia dell'etica CRA ERA   4. Le etiche normative; concezioni in contrasto ART:   5. Dall’etica teorica all’etica pratica Di Le dimensioni dell'etica Nota bibliografica Indice dei nomi ..  poEugenio Lecaldano. Keywords: simpatia, simpatico, antipatico, compassione, compassivo, empatia, impassibile, transpatia, patia, patico, il patico, diapatia. Psi-transmission. Grice: “Scheler uses ‘transpathy,’ but then he would use anything!” filosofi italiani della simpatia, croce, l’intersoggetivo, simpatia ed amore, empatia, impassibile, im- negative, im- enfatico – teorie della simpatia morale in Italia --. Lecaldano. Keywords: illuminati e illuministi --. Refs.: transpatia, dia-pathia, trans-passione – trans-passio. Luigi Speranza, “Grice e Lecaldano” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lelio: la ragione conversazionale al portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.  (Roma). Filosofo italiano. Ha fama soprattutto per l’intima amicizia che lo lega all’Africano Minore. Conosce i tre filosofi inviati a Roma, ma e attirato principalmente da Diogene, del Portico. In seguito L. ha rapporto con Panezio e ne diffuse la dottrina nell’aristocrazia romana.Come legato di Scipione, C. L. partecipa alla guerra contro i punici e si distinge nell’assedio di Cartagine, ottenendo in premio la pretura. Appartenne agl’auguri è diviene console. Nelle lotte civili determinate dall'azione di Tiberio GRACCO (si veda), L. si schiera contro questo e i suoi fautori. E  ammirato, se non come oratore, come uomo politico, e dove il soprannome di "sapiente" datogli dall’aristocrazia, al suo atteggiamento politico più che ad altro. Console della repubblica romana. Filosofo del portico, politico e militare romano. E uno dei migliori amici e più stretti collaboratori di Publio Cornelio SCIPIONE (si veda)  Africano, che segue durante la guerra punica come prefetto della flotta, legato e questore.  Si distingue particolarmente nella conquista di Cartagine e in seguito, nella campagna contro Siface e nella decisiva battaglia di Zama. Dopo un viaggio di XXXVII giorni, partito da Tarraco in Spagna, in seguito alla presa di Carthago, raggiunse a Roma. Quando entra in città insieme ad una grande schiera di prigionieri attira l'attenzione del popolo che si riversa lungo le strade al suo passaggio. Il giorno seguente venne ricevuto in senato, dove racconta che Cartagine e presa in una sol giorno. Oltre a questa notizia rifere che sono state riprese alcune delle città che si sono ribellate ai romani, mentre altre sono state accolte come nuove alleate. I prigionieri riferirono cose analoghe a quelle comunicate in precedenza dalla lettera di Marco Valerio Messalla, secondo il quale Asdrubale Barca si sta preparando per passare con un grande esercito in Italia, tanto da destare preoccupazioni nei senatori, visto che a stento si e riusciti a resistere ad Annibale ed al suo esercito. L. rifere degli stessi argomenti anche all'assemblea del popolo. Alla fine il senato decreta che venissero ordinate per un giorno pubbliche cerimonie di ringraziamento a GIOVE CAPITOLINO per l'esito felice della guerra e ordina a Lelio di far ritorno dal suo comandante SCIPIONE il prima possibile, con le stesse navi con cui e venuto. Dopo la fine della guerra e edile plebeo, pretore e console e fornisce importanti informazioni sulla vita dell'amico SCIPIONE Africano, a Polibio. L. è il padre di L. SAPIENTE, console insieme a Quinto Servilio Cepione.  Smith, Dictionary of greek and roman biography and mythology, The Ancient Library.Polibio, Livio. Polibio. Appiano di Alessandria, Historia Romana. Livio, Ab Urbe condita libri. Polibio, Storie, Strabone, Geografia. Brizzi, Storia di Roma, dalle origini ad Azio, Bologna, Patron; Piganiol, Le conquiste dei romani, Milano, Saggiatore; Scullard, Storia del mondo romano. Dalla fondazione di Roma alla distruzione di Cartagine, Milano, BUR, L,, in Who's Who in The Roman World, Londra, Routledge, Romanzi storici Posteguillo, L'Africano, Casale Monferrato, Piemme; Posteguillo, Invicta Legio, Casale Monferrato, Piemme, L., Enciclopedia Britannica. Predecessore Console romano Successore Manio Acilio Glabrione e Publio Cornelio Scipione Nasica con Lucio Cornelio Scipione Asiatico Gneo Manlio Vulsone e Marco Fulvio Nobiliore; guerra punica, guerra romano-siriaca ("Guerra contro Antioco III") Antica Roma Portale Biografie Categorie: Politici romani Militari romani Militari. Consoli repubblicani romani Laelii Persone della seconda guerra punica. A statesman and orator who takes a keen interest in philosophy, becoming an acquaintance of members of the Porch like Diogene and Panazio. He was given the nickname ‘sapiens’ (know it all). According to CICERONE, this was not because L. knew it all, but because of his self control in matters of judicial sentencing. Cicerone greatly admires him and featured him in a number of his philosophical works. Gaio Lelio. Lelio.

 

Grice e Leocide: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone. Roma – filosofia basilicatese – scuola di Metaponto -- filosofia italiana– Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.

 

Grice e Leofronte: la ragione cnversazionale e la setta di Crotone – Roma – filosofia calabrese – scuola di Crotone -- filosofia italiana– Luigi Seranza (Crotone). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to the Vita di Pitagora by Giamblico di Calcide.

 

Grice e Leone: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone – Roma – filosofia basilicatese – scuola di Metaponto -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). FIlosofo italiano. A Pythagorean, according to the Vita di Pitagora by Giamblico di Calcide. Alcmaeon di Crotone dedicates a ‘saggio’ to him.

 

Grice e Leonzio: la ragione conversazionale la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia pugliese – scuola di Taranto -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to The Vita di Pitagora di Giamblico di Calcide.

 

Grice e Lettine: all’isola – la diaspora di Crotona – Roma – filosofia siciliana – scuola di Siracusa -- filosofia italiana – Luigi Spearnza (Siracusa). Filosofo italiano. Siracusa, Sicilia. A Pythagorean, according to “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.

 

Grice e Libanio: la ragione conversazionale e la setta di Giuliano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Supports Giuliano in his attempt to revive paganism (a charming letter survives) – “but he is also a friend and teacher of many Christians, can you believe it?” – Loeb.

 

Grice e Liberale: la ragione conversazionale al portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Not to be confused with Liberace, he is staying at Lyons (Lugdunum) at the time it was destroyed by fire. A dear friend of Seneca. He follows the Porch. In his eulogy, Seneca declaims: “While he is accustomed to dealing with everyday difficulties, a catastrophe, unexpected, and of such magnitude,  is more than he could handle.” Ebuzio Liberale.

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