Grice e Labeone:
il diritto romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Ha larga cultura
filosofica uno dei maggiori giuristi dell'età d’OTTAVIANO. Si ignora se segue
un indirizzo determinato. Giunse fino alla pretura, ma rifiuta il
consolato offertogli d’Ottaviano perchè conseguito prima di lui da persona meno
anziana. Appartenne al partito repubblicano. Scruve CCCC saggi di cui
restano frammenti. Si ricordano fra gli altri: "De iure
pontificio" -- in almeno XV libri, diversi "Commentarii
giuridici", 7davd, "Responsae", in almeno XV libri, "Librì
posteriores", in almeno XL libri. S'interessò anche di studi
logico-grammaticali. Grice: “Logico-grammatical stuff is my thing, as was
Labeone’s. My example is “Fido is shaggy,” Labeone’s was not!” -- Marco
Antistio Labeone.
Grice e Labriola: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cassino). Filosofo italiano. Casino, Frossinone,
Lazio. Grice: “Labriola is good; he reminds me of pinko Oxford!” -- Essential
Italian philosopher -- Con particolari interessi nel campo del
marxismo. Nacque da Francesco Saverio, insegnante ginnasiale di lettere. Il
padre, oriundo di Brienza, e nipote diretto di PAGANO. Si iscrive alla
facoltà di filosofia di Napoli, città nella quale la famiglia si e trasferita.
Qui studia con VERA e SPAVENTA, il cui appoggio gli procura un posto di
applicato di pubblica sicurezza nella segreteria del prefetto. Scrive Una
risposta alla prolusione di Zeller, un saggio in cui osteggia il CRITICISMO contro
ogni ipotesi di un ritorno a Kant. Rivendica l'attualità dell'hegelismo. Consegue
il diploma di abilitazione e insegna nel ginnasio Principe Umberto di Napoli.
Il suo saggio, premiato dall'Napoli, sull'”Origine e natura delle passioni”: una
significativa presa di distanze dall'idealismo in favore del
materialismo. Scrive “La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone
ed Aristotele”, premiata dalla Reale
Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli. Consegue la libera docenza
in filosofia e si mette in aspettativa in attesa di ottenere un incarico nell'università.
Scrive la dissertazione “Esposizione critica della dottrina di VICO” e
collabora con il "Basler Nachrichten", al quale invia corrispondenze
politiche, al quotidiano napoletano "Il Piccolo", fondato e diretto
da Zerbi, futuro deputato e leader dell'Unione liberale, un gruppo politico al
quale L. aderisce. Entra anche nella redazione della "Gazzetta di
Napoli" e dell'Unità Nazionale, diretta da Bonghi, al Monitore di Bologna
e alla Nazione di Firenze, nella quale escono le sue X Lettere napoletane. Si
dichiara herbartiano in psicologia e in morale, pubblicando a Napoli i saggi
Della libertà morale, dedicata a Graf e Morale e religione. Trasferitosi a
Roma, supera il concorso alla cattedra
di filosofia a Roma. Pubblica il saggio Dell'insegnamento della storia.”
Divienne direttore del Museo di istruzione e di educazione. Sono anni in cui L.
mostra un particolare impegno verso il miglioramento del livello professionale
degli insegnanti e la diffusione dell'istruzione di base della popolazione,
inteso come primo passo per una maggiore democrazia del paese. A questo scopo
s'informa sug’ordinamenti scolastici dei paesi europei. Pubblica gli Appunti
sull'insegnamento secondario privato in altri stati e l'Ordinamento della
scuola popolare in diversi paesi. Contemporaneamente L. abbandona le
convinzioni politiche di moderato liberalismo per approdare a posizioni
radicali. Oltre alla lotta all'analfabetismo, auspica l'intervento dello stato
nell'economia, una politica sociale di assistenza ai poveri, il suffragio
universale che permetta anche a candidati operai l'ingresso al parlamento. Ottiene
la cattedra di filosofia a Roma e inizia un corso sul socialismo. A seguito di
notizie che danno imminente la stipula del concordato con il Vaticano, L. tiene
a Roma la conferenza Della Chiesa e dello stato a proposito della
conciliazione, considerando una minaccia per la libertà di pensiero ogni
accordo con la Chiesa, temendone l'ingerenza nella vita pubblica italiana. Il quotidiano romano La Tribuna pubblica una sua
lettera in cui, tra l'altro, scrive di essere teoricamente socialista ed
avversario esplicito delle dottrine cattoliche e nella conferenza Della scuola
popolare, auspica l'ABOLIZIONE DELL’INSEGNAMENTO RELIGIOSO. Sul giornale Il
Messaggero, depreca l'uso della forza pubblica contro le manifestazioni. Tiene
agl’operai di Terni un discorso su Le idee della democrazia e le presenti
condizioni dell'Italia, in cui afferma di impegnarsi personalmente in politica
e dichiara di desiderare un governo del popolo mediante il popolo stesso e la
formazione di un grande partito popolare. Scrive che i parlamenti, come forma
transitoria della vita democratica d'origine borghese, spariranno col trionfo
del proletario e tiene nel Circolo operaio romano di studi sociali il discorso
Del socialismo commemorando la comune di Parigi. L. saluta il congresso
della social-democrazia tedesca a Halle scrivendo che il proletariato militante
procede sicuro sulla via che mena diritto alla socializzazione dei mezzi di
produzione ed l'abolizione del presente sistema di salariato, fidando solo nei
suoi propri mezzi e nelle sue proprie forze. Entra in rapporto epistolare con
Engels, che conosce a Zurigo, e con i maggiori dirigenti socialisti europei,
Kautsky, Liebknecht, Bebel, Lafargue, mentre rimprove a TURATI, il più
prestigioso leader socialista italiano e direttore della rivista Critica
sociale, superficialità teorica e arrendevolezza nei confronti degl’avversari
politici. Vuole che il partito socialista, che deve nascere ufficialmente con
il congresso di Genova, sia un partito d’operai e non di intellettuali
positivisti borghesi. Vede nei fasci siciliani un concreto esempio di
socialismo popolare e rivoluzionario e lamenta che il marxismo non riesca a
essere compreso in Italia (cf. GRICE, MARXISMO ONTOLOGICO). Fa lezione
sul manifesto di Marx ed Engels e scrive a quest'ultimo, di star facendo un corso
sulla genesi del socialismo ma di non riuscire a risolversi a scriverne un
saggio per l'ignoranza su tanti fatti, persone, teorie, etc, che sono tante
fasi, tanti momenti né sentiti né conosciuti in Italia, come ribadisce a Adler
che il marxismo non piglia piede in Italia. Su sollecitazione di Sorel,
scrive In memoria del Manifesto dei comunisti, sulla concezione materialistica
della storia, che esce sulla rivista del Sorel, Le Devenir social; lo spedisce
a Engels, ricevendone le lodi. Anche CROCE che ne promuove la stampa in
Italiane è influenzato tanto da attraversare il suo pur breve periodo di
adesione al marxismo. Nei due anni successivi L. scrive altri due saggi, Del
materialismo storico, dilucidazione preliminare e Discorrendo di socialismo e
di FILOSOFIA. È sepolto presso il cimitero acattolico di
Roma. Schematicamente, possiamo suddividere il percorso filosofico e
politico di L. in tre diversi momenti: innanzitutto fu propugnatore
dell'idealismo hegeliano, influenzato da SPAVENTA, del quale e allievo a Napoli. Successivamente, possiamo
distinguere una fase contrassegnata dal rifiuto dell'idealismo in nome del
realismo herbartiano. Infine, il momento in cui aderisce pienamente al
marxismo. L'approccio di L. al marxismo è influenzato da Hegel e Herbart,
per cui è più aperto dell'approccio di marxisti ortodossi come Kautsky. Egli
vide il marxismo non come una schematizzazione ideologica ed autonoma dalla
storia, ma piuttosto come una filosofia auto-sufficiente per capire la
struttura economica della società e le conseguenti relazioni umane. E
necessario aderire alla realtà sociale del proprio tempo storico se il marxismo
vuole considerare la complessità dei processi sociali e la varietà di forze
operanti nella storia. Il marxismo dove essere inteso come una teoria critica,
nel senso che esso non asserisce verità eterne ed immutabili ed è pronto ad
interpretare le contraddizioni sociali secondo le diverse fasi storiche, avendo
al centro della sua analisi il lavoro e le condizioni dei lavoratori e dunque
la concreta e materiale prassi umana. La sua descrizione del marxismo come
filosofia della prassi e ripresa nei Quaderni dal carcere di GRAMSCI. In
pedagogia L. avvertì l'esigenza collettiva dei tempi nuovi, il bisogno di una
scuola popolare che servisse da reale tessuto connettivo dell'Italia
post-unitaria, una lotta dunque per la civiltà, mezzo e fine dell'evoluzione
morale e complessiva delle classi sub-alterne. Nella monografia Dell'insegnamento
della storia, dedicata alle più importanti questioni della pedagogia generale,
L. aveva asserito la centralità dell'educazione alla socialità. Il metodo
pedagogico dove essere quello della ricerca critica e di DIBATTITO e di
sperimentazione, unica via capace di condurre alla padronanza del pensiero
logico-razionale e in grado di formare personalità aperte alla ricerca e al
confronto (non a caso i primi studi di L. Sono stati rivolti a Socrate e al
metodo socratico. Traducendo in un linguaggio pedagogico moderno, per L. e
necessaria un'attenzione maggiore ai pre-requisiti logici piuttosto che alla
struttura interna disciplinare, che comunque va indagata attraverso quella che
egli chiama un'epi-genesi analitica. Celebre e una sua conferenza tenuta
nell'Aula Magna dell'Roma, discorso sollecitato dalla stessa Società degli
Insegnanti della capitale, che poi ne cura la pubblicazione in opuscolo. E
necessario dare concretezza a piani di istituzioni scolastiche entro le quali
le didattiche si sviluppassero non da una deduzione della teoria, ma come
risultato di lotte politiche, di ideali sociali, di tradizioni storiche, di
condizioni ambientali. Per L. proprio l'azione dell'ambiente storico sociale
sugli uomini e la loro reazione ad esso costituiscono il tema dell'educazione.
Per cui le idee non cascano dal cielo. Il metodo deve partire dalla prassi,
dalla pratica e non dalle idee, dai principi astratti. Il nucleo
essenziale della pedagogia della prassi sta nella percezione della connessione
dell'opera educativa con le condizioni dello sviluppo economico-sociale.
Trockij conosce con entusiasmo i saggi di Labriola, quando e detenuto nel
carcere di Odessa. Egli scrive nelle sue memorie che come pochi scrittori
latini, L. possede la dialettica materialistica, se non nella politica, dov'e
impacciato, certo nel campo della FILOSOFIA della storia. Sotto quel
dilettantismo brillante c'e vera profondità. L. liquida egregiamente la teoria
dei fattori molteplici che popolano l'olimpo della storia guidando di lassù i
nostri destini. Trockij aggiunge che dopo anni continua a rimanergli in mente
il ritornello Le idee non cascano dal cielo. Altri saggi: Una risposta alla
prolusione di Zeller, Origine e natura delle passioni secondo l’Etica di Spinoza,
La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele, Napoli,
Stamperia della Regia Università, Della
libertà morale, Napoli, Ferrante-Strada, Morale e religione, Napoli, Ferrante, Dell'insegnamento
della storia. Studio pedagogico, Roma, Loescher, L'ordinamento della scuola
popolare in diversi paesi. Note, Roma, Tip. eredi Botta, I problemi della filosofia della storia.
Prelezione letta nella Roma, Roma, Loescher, 1Della scuola popolare. Conferenza
tenuta nell'aula magna della Università, Roma, Fratelli Centenari, Al comitato
per la commemorazione di BRUNO in Pisa. Lettera, Roma, Aldina, Del socialismo. Conferenza,
Roma, Perino, Proletariato e radicali. Lettera a Socci a proposito del
Congresso democratico, Roma, La CO-OPERATIVA; Saggi intorno alla concezione
materialistica della storia I, In memoria del manifesto dei comunisti, Roma,
Loescher, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, Roma, Loescher, Discorrendo
di socialismo e di FILOSOFIA. Lettere a Sorel, Roma, Loescher, CROCE, Bari,
Laterza, Da un secolo all'altro.
Considerazioni retrospettive e presagi, Bologna, Cappelli, L'università e la
libertà della scienza, Napoli, Veraldi, A proposito della crisi del marxismo,
"Rivista italiana di sociologia", Scritti varii editi e inediti di
filosofia e politica, raccolti e pubblicati da Croce, Bari, Laterza, Socrate, Croce,
Bari, Laterza, La concezione materialistica della storia, con un'aggiunta di Croce
sulla critica del marxismo in Italia, Bari, Laterza, re prelezioni sulla storia
e il materialismo storico; In memoria del Manifesto dei comunisti, Brescia,
Studio Editoriale Vivi, Lettere a Engels, Roma, Rinascita, Democrazia e
socialismo in Italia, Milano, Cooperativa del libro popolare, Opere, Pane, I,
Scritti e appunti su Zeller e su Spinoza, Milano, Feltrinelli, La dottrina di
Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele, Milano, Feltrinelli, Ricerche
sul problema della libertà e altri scritti di filosofia, Milano, Feltrinelli, Scritti
di pedagogia e di politica scolastica, Bertoni Jovine, Roma, Riuniti, Saggi sul
materialismo storico, Gerratana e Guerra, Roma, Riuniti, introduzione e cura di
Santucci, Il materialismo storico, antologia sistematica Poni, Firenze, Le
Monnier, Pedagogia e società. Antologia degli scritti educativi, scelta e
introduzioni di Marchi, Firenze, La nuova Italia, Scritti politici. Gerratana,
Bari, Laterza, Opere, Sbarberi, Napoli, Rossi, Scritti filosofici e politici, Sbarberi,
Torino, Einaudi, Lettere a Croce. Napoli, Istituto italiano per gli studi
storici, Dal secolo XIX al secolo XX. Dall'era della concorrenza al monopolio.
Nascita e lotte del socialismo. IV saggio della concezione materialistica della
storia, Lecce, Milella, Scritti liberali, Bari, De Donato, Scritti pedagogici,
Siciliani De Cumis, Torino, POMBA, Epistolario Roma, Riuniti, Roma, Riuniti,
Roma, Riuniti, Lettere inedite. Roma,
Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, La politica
italiana Corrispondenze alle “Basler Nachrichten”, a cura e con introduzione di
Miccolis, Napoli, Bibliopolis, Del materialismo storico e altri scritti,
Milano, M&B Publishing, Del socialismo e altri scritti politici, Milano, UNICOPLI,
Bruno. Scritti editi e inediti Napoli, Bibliopolis, Fra Dolcino, Pisa, Edizioni
della Normale,. Tutti gli scritti
filosofici e di teoria dell'educazione, Milano, Bompiani Il pensiero occidentale,.
Edizione nazionale La casa editrice Bibliopolis ha in corso di pubblicazione
l'edizione nazionale delle opere di L., istituita con decreto del Ministero per
i Beni e le Attività Culturali, Tra Hegel e Spinoza. Scritti, Savorelli e Zanardo, Bibliopolis, I problemi della
filosofia della storia e recensioni Cacciatore e Martirano, Bibliopolis, Da un secolo
all'altro. Miccolis e Savorelli, Bibliopolis, archividifamiglia-sapienza.beniculturali.
Trotzkij, La mia vita, Fiorilli, L. Ricordi «Nuova Antologia», Berti, Per uno studio della
vita e del pensiero di L., Roma, Ernesto Ragionieri, Socialdemocrazia tedesca e
socialisti italiani: Milano, Luigi Cortesi, La costituzione del Partito socialista
italiano, Milano, Sergio Neri, Antonio Labriola educatore e pedagogista,
Modena, 1968. Luigi Dal Pane, Antonio Labriola, la vita e il pensiero, Bologna,
Demiro Marchi, La pedagogia di Antonio Labriola, Firenze, Luigi Dal Pane,
Antonio Labriola nella politica e nella cultura italiana, Torino, Stefano
Poggi, Antonio Labriola. Herbartismo e scienze dello spirito alle origini del marxismo
italiano, Milano, Giuseppe Trebisacce, Marxismo e educazione in Antonio
Labriola, Roma, Filippo Turati, Socialismo e riformismo nella storia d'Italia.
Scritti politici, Milano, 1979. Nicola Siciliani de Cumis, Scritti liberali,
Bari, Stefano Poggi, Introduzione a Labriola, Roma-Bari, Beatrice Centi,
Antonio Labriola. Dalla filosofia di Herbart al materialismo storico, Bari, Livorsi,
Turati. Cinquant'anni di socialismo italiano, Milano, Franco Sbarberi,
Ordinamento politico e società nel marxismo di Antonio Labriola, Milano, Antonio
Areddu, Sulle lettere di Antonio Labriola a Croce, Firenze, Renzo Martinelli,
Antonio Labriola, Roma, Antonio Areddu, A. Labriola e B. Croce nelle vicende
del marxismo teorico italiano, in “Behemoth”,Antonio Areddu, L. e B. Croce
nelle vicende del marxismo teorico italiano, in “Behemoth”, X, Luca Michelini,
"Antonio Labriola e la scienza economica. Marxismo e marginalismo",
in "Marginalismo e socialismo nell'Italia liberale M. Guidi e L. Michelini, Annali della
Fondazione Feltrinelli, Milano, Alberto Burgio, Antonio Labriola nella storia e
nella cultura della nuova Italia, Macerata, Antonio Areddu, Il pensiero di A.
Labriola, "Il Cronista", L. e la sua Università. Mostra documentaria
per i Settecento anni della “Sapienza” A cento anni dalla morte di Antonio
Labriola, Nicola Siciliani de Cumis, Roma, Nicola D'Antuono, Saggio
introduttivo e commento a A. Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia,
Bologna, Nicola Siciliani de Cumis, Antonio Labriola e «La Sapienza». Tra testi,
contesti, pretesti, con la collaborazione di A. Sanzo e D. Scalzo, Roma, 2007.
Stefano Miccolis, Antonio Labriola. Saggi per una biografia politica,
Alessandro Savorelli e Stefania Miccolis, Milano,. Nicola Siciliani de Cumis,
Labriola dopo Labriola. Tra nuove carte d'archivio, ricerche, didattica,
Postfazione di G. Mastroianni, Pisa,. Alessandro Sanzo, Studi su Antonio
Labriola e il Museo d'Istruzione e di educazione, Roma,, Alessandro Sanzo, L'opera pedagogico-museale
di Antonio Labriola. Carte d'archivio e prospettive euristiche, Roma, Pietro
Mandré. Antonio Labriola, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana,. Antonio Labriola, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Antonio Labriola, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Antonio Labriola, su Liber
Liber. Opere di L., su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Antonio Labriola,. Opere di Antonio Labriola,
su Progetto Gutenberg. L'Archivio
Antonio Labriola, su marxists.org. Alberto Burgio, Antonio Labriola, in Il
contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana,. Roma. La personalità storica di Socrate Socrate o gli Ateniesi.
Educazione e sviluppo della coscienza di Socrate. Carattere di Socrate. Osservazioni
su le fonti. Orizzonte delia coscienza socratica Posizione di Socrate nella storia della
religione. Elementi della coscienza di Socrate. Del valore filosofico di
Socrate. Formalismo logico. Determinazione del valore del formalismo logico. Limitazione
del sapere umano. Socrate e i Solisti. Pretesa soggettività di Socrate. Preteso
misticismo di Socrate. Del metodo di Socrate. Presupposti storici e psicologici.
Motivo e sviluppo del metodo socratico. Imprecisione formale del metodo
socratico. Della differenza fra rappresentazione e concetto, e del principio
d'identità. Dell' etica socratica in generale, e del concetto del bene. Conoscere
e volere. Equazione fra volere c sapere (ptù&i cautdv). Fondamento della
pedagogia socratica. Le forme concrete della vita elica È Socrale un
riformatore? L’individuo e le sue relazioni domC5tiche. L’ individuo e lo stato. Vili. Delle virtù. Generalità.
Il concetto delle virtù nell'orizzonte socratico. Identificazione della virtù e
del sapere. Ignoranza degli elementi naturali. Del bene, della felicità c del
sapere. Del bone. Della felicità. Del
sapere. Del divino e dell’anima umana nell’orizzonte socratico. Il Concetto del
divino. II concetto dell’ anima. Riepilogo e conclusione La personalità
storica di Socrate. Socrate e gli Ateniesi. Educazione e sviluppo della
coscienza di Socrate. Carattere di Socrate. Osservazioni su
le fonti. Orizzonte della coscienza socratica. Posizione di Socrate nella
storia della religione. Elementi della coscienza di Socrate. Del
valore filosofico di Socrate. Formalismo logico. Determinazione del valore del
forma- lismo logicoLimitazione del sapere umano. Socrate e i Sofisti. Pretesa
soggettività di Socrate. Preteso misticismo di Socrate. Del metodo di Socrate. Presupposti
storici e psicologici. Motivo e sviluppo del metodo socratico. Imprecisione
formale del metodo socratico. Della differenza fra rappresentazione
e concetto, p^^- e del principio d'identità. Dell'etica socratica i?i
generale, e del concetto del bene. Conoscere e volere. Equazione
fra volere e sapere (yvttjtì-t. aauxóv). Fondamento della pedagogia
socratica. Le forme concrete della vita etica . È Socrate un riformatore?
L'individuo e le sue relazioni domestiche L'individuo e lo Stato. Delle
viriti. Generalità. Il concetto delle virtù nell'orizzonte socratico. Identificazione
della virtù e del sapere. Ignoranza degli elementi naturali. Del bene,
della felicità e del sapere. Del bene. Della felicità. Del sapere. Del
divino e dell'anima umana nell'orizzonte socratico. Il Concetto del divino. Il
concetto dell'anima. Formalismo logico. Senofonte e Platone (') mettono in
bocca agl'interlocutori di Socrate questa notevole accusa, ch'egli solesse
ripeter sempre le me- desime cose, e sempre nel medesimo modo, interrompendo il
libero corso all'esposizione dell'avversario. Socrate in fatti non sapea
esprimere il suo pensiero in un discorso con- cepito in forma oratoria, alla
maniera di Gor- gia e di Protagora suoi interlocutori, né potea vagare in tutto
il campo dello scibile come Ippia il polistore, o adattarsi alla maniera
sdegnosa e virulenta di Callide e Trasimaco: una certa innata sobrietà di
spirito, ed una moderazione a tutta pruova, che era divenuta natura, lo
conteneano in certi limiti costanti, ai quali egli cercava ridurre i suoi
uditori. Questo fare era monotono, ed avea l'aria di pedanteria: tanto più, perchè
rinunziare al mezzo tanto potente della persuasione ora- (i) Sen. Meni. IV, 4,
6. Plat. Gorg. p. 490 E. Strùmpell fa rilevare molto vivamente la differenza
che correa fra i Sofisti e Socrate, nell'uso del ragionamento formale. toria
non potea non sembrar cosa strana in una democrazia, dove tutte le pubbliche
fac- cende dipendeano dall'arte della parola. Ma tornava forse Socrate di
continuo all'afferma- zione di questa o quella massima morale, per ripeterla
ogni istante, ed improntarla nell'ani- mo degli uditori ? (') Era egli forse un
mora- lista bello e compiuto, che catechizza e pre- dica; o tenea forse in
serbo uno schema logico, che andava applicando ad ogni sorta di qui- stioni ?
Nulla di tutto ciò. Il suo discorso ca- dea sopra oggetti disparatissimi, e
quali l'oc- casione prossima li venisse offrendo: nessuno studio nella scelta
degli argomenti potea di- sporre il suo animo alla ripetizione monotona delle
medesime cose, né dalla sua occupazione dialogica risultò mai un complesso di
pronun- ziati, che prendessero forma di massime e di precetti. Le condizioni
stesse della coltura etica ed artistica non consentiano, che a quel tempo si
potesse apprendere, come avvenne (i) Zeller ha molto bene criticata l'opinione
or- dinaria, che fa di Socrate un moralista popolare; ma noi non ci accordiamo
con lui nella determinazione del valore filosofico del dialogo socra- tico; la
qual cosa abbiamo voluto dire qui recisamente, per evitare ogni ulteriore
polemica. più tardi, le relazioni morali nell'astratta uni-
versalità della massima, o formulare netta- mente una esigenza logica; tanto è
vero, che i discepoli o seguaci che voglia dirsi di Socrate ebbero più a
sviluppare, ciascuno per proprio conto, i pfermi che avean raccolto dalle acci-
dentali conversazioni del maestro, che a di- scutere sul valore positivo di
questo o quel principio ('). Quella monotonia notata dagli avversari non
concerneva che l'esigenza della formale evidenza e certezza del discorso; ed
era quindi l'intenzionale ritorno ai medesimi presuppo- sti, nel lato formale
d'ogni quistione. Ma questo formalismo non apparisce ancora in Socrate come già
isolato, e distinto dall'og- getto della ricerca, e come presente alla co-
scienza del filosofo per sé ed obbiettivamente; perchè agisce solo come reale
esigenza di [Vedi su questo punto Hermann: Gescìiichte ecc.; e lo stesso autore
Prof. Ritler's Dar- stellung der sokratischeti Systeme, Heidelberg, Hegel è
stato uno dei primi a riconoscere l'importanza delle scuole socratiche per la
determinazione del prin- cipio filosofico di Socrate, e cfr. Biese: Die
Philosophie des Aristoicles, colui, che ragionando avverte per la prima volta,
che il ragionamento dev'essere conse- guente, fondato ed evidente. La maniera
corretta e cosciente del ragio- nare è nella nostra coltura filosofica cosa
troppo ovvia, e la nostra educazione ci for- nisce ben presto dello schema
logico della definizione, della pruova ecc., in guisa, che possiamo al tempo
stesso indurre, dedurre, ed argomentare perfettamente, ed aver co- scienza
della forma logica per sé stessa, e studiarla nei suoi caratteri e nel suo
valore : ma tutto ciò era allora impossibile. In So- crate l'esigenza del
sapere esatto e formal- mente corretto è ancora un semplice atto di personale energia,
un bisogno intrinseco di certezza e di acquiescenza alla normalità di una
opinione chiaramente concepita, un la- voro che si compie per la necessaria
coeffi- cienza dei vari elementi etici della coltura e della tradizione, e non
può ancora presen- tarsi allo spirito come un dato di estrinseca evidenza. Se
noi ci sforziamo per poco di rappre- sentarci il mondo, secondo l'immagine, che
la coscienza anche più colta dei contempo- ranei di Socrate ne avea espressa
nella storia, nella poesia, nelle leggende, nelle mas- sime e nei detti dei
sapienti; e se guardiamo poi quanta differenza corra da quella pienezza ed
inconsapevolezza d' intuizione, alle aporie della ricerca, solo allora
intendiamo quanta profondità filosofica fosse nelle ricerche di Socrate, e la
parsimonia stessa dei mezzi da lui adoperati diverrà più degna di ammira-
zione, perchè è pruova evidente della ener- gia, con la quale egli seppe
avvertire la ne- cessità di correggere ad una stregua costante tutte le
incertezze della conoscenza ordina- ria, e fermarsi poi ed insistere tutta la
vita nel criterio acquistato. I presupposti logici, ai quali tutte le qui-
stioni del dialogo socratico sono riducibili, consistono nella epagoge e nella
definizione; e noi cercheremo in séguito di esporre il modo, come queste due
funzioni si sono spie- gate in quell'orizzonte scientifico che Socrate s'era
tracciato. Per ora basterà aver notato, come questa è la prima volta che nello
spi- rito umano si sia fatto palese il bisogno, che prima di determinare la
natura, il fine, ed il valore degli oggetti, bisogna acquistare una coscienza
precisa ed inalterabile delle condi- zioni in cui deve trovarsi la conoscenza,
per- Labriola — Socrate. !Hl<^3 che possa dirsi certa ed evidente.
Tutto quello che la speculazione posteriore ha strettamente designato come
elemento logico del sapere, e che ha cercato successivamente di sceve- rare
dalla natura immediata e dalle condi- zioni incerte e fluttuanti del soggetto
pen- sante, apparisce nella sfera della ricerca so- cratica come qualcosa di
affatto connaturato con le esigenze pratiche di colui che ricer- cava; e senza
isolarsi dai motivi che l'aveano praticamente prodotto, acquistò un grado di
sufficiente evidenza nella coscienza, tanto da rimanere, non solo principio
efficace in So- crate, ma costante centro ed impulso di ogni posteriore
attività scientifica ('). (i) Indem die Philosophie des Sokrates kein Zuriick- ziehen aus dem
Dasein und der Gegenwart in die freien reinen Regionen des Gedankens, sondern
aus einem Stucke mit seineni I-eben ist, so schreitet sie nicht zu einem
Systeme fort etc. Hegel, op. cit.,
p. 51. Da questo e da altri luoghi può scorgersi, come Hegel avesse un concetto
più schietto della filosofia socratica, di quello che hanno formulato molti
scrittori posteriori, non escluso lo Zeller; il quale, sebbene dica di non
volerlo, parla sempre in una maniera troppo astratta del principio del sapere,
e ricade nell'errore di Schleier- macher e di Brandis. Determinazione del
valore del formalismo logico La caratteristica, che noi abbiamo data
dell'attività filosofica di Socrate in generale, pare risponda a quello che già
s'è detto da altri; e che non serva se non a rifermare un'opinione corrente,
secondo la quale So- crate sarebbe stato il primo che avesse avuta una chiara
coscienza del valore del sapere ('). Si è, infatti, detto più volte, che l'idea
del sapere sia la scoverta di Socrate, e che ces- sando per opera sua la
esclusiva ricerca del mondo naturale, la filosofia fosse divenuta la scienza
dell'idea, del soggetto, dello spirito e così via (^). Senza la pretensione
della novità, noi riteniamo per erronee una gran parte di quelle
caratteristiche; e perchè at- tribuiscono a Socrate una consapevolezza maggiore
di quella ch'egli s'avesse, e perchè devono poi fare molte congetture per
spiegare ed intendere la natura dell'etica socratica. Ba- Per es.
Schleiermacher. La forma più esagerata è quella del Ròtscher, il quale parla di
Socrate come d'un filosofo moderno, op. cit., passim. sterà notare solo
questo, che partendosi dalla supposizione, che Socrate avesse avuto co- scienza
del sapere preso per sé stesso, come forma o attività in generale, non solo si
cade nell'inconveniente di non poter trovare un solo luogo di Senofonte che
confermi questa opi- nione, ma si è poi obbligati a fare una qui- stione oziosa
su la natura empirica o a priori del sapere socratico, che non c'è motivo al
mondo per proporsela; e, in ultimo, si è poi costretti a ritenere, che Socrate
abbia in virtù di una scelta, e per certe ragioni teoretiche, limitato le sue
ricerche all'etica ('); mentre la repugnanza contro le indagini naturali deve
in lui ammettersi, non come un risultato dei criteri logici che applicava, ma
invece come una prima e semplice esigenza delle sue con- vinzioni religiose.
Abbiamo invero detto, che il valore filo- sofico di Socrate consiste nella
esigenza di un sapere normale e certo; ma la forma li- mitativa, con la quale
abbiamo espressa que- sta opinione, esclude di fatto tutte le caratte- ristiche
alle quali può in apparenza sembrare (i) Vedi specialmente il Bòhringer, op.
cit., p. 2 e seg. che ci avviciniamo. Che il sapere figuri allora per la
prima volta come una potenza deter- minata, e serva a correggere l'opinione e
la tradizione, ed a condurre come norma sicura la ricerca del filosofo in tutte
le complica- zioni e le incertezze del dialogo, ciò non vuol dire, che il
concetto del sapere abbia rag- giunta una tale importanza ed obbiettività, da
segnare esso stesso il termine e lo scopo della ricerca. E quando in fine, dal
confronto di Socrate coi precedenti tentativi filosofici si vuole arguire la
consapevolezza che egli ha potuto raggiungere della sua posizione storica ('),
si viene a confondere due ordini di criteri del tutto diversi perchè dal
giudizio che noi riportiamo su la importanza di una personalità storica, non
può indursi qual grado di consapevolezza quella persona stessa abbia raggiunto.
Il valore filosofico di Socrate sta in rela- zióne diretta con l'orizzonte
della sua co- (L'Alberti specialmente fa di Socrate un filosofo dotato di una
piena coscienza del proprio valore sto- rico; e non potea evitare un simile
errore, dal momento che s'era proposto di seguire il dialogo platonico come un
documento biografico; vedi op. cit., p, 13 e seg. scienza; nel quale noi abbiamo
rinvenuti mo- tivi di natura più immediata, più complessa, e più personale di
quelli che conducono esclu- sivamente alla conoscenza speculativa. Questa
determinazione intrinseca della sua attività ci fornisce ora di mezzi
sufficienti, per rifare indirettamente, e mediante la congettura, il processo
genetico della sua coscienza filoso- fica, che è stato impossibile d'intendere
su la semplice testimonianza delle fonti storiche. Socrate non occupa
immediatamente un posto nella storia della filosofia, mercè l'ac- cettazione o
la critica di una tradizione teo- retica; e per questa ragione stessa non
arrivò all'affermazione astratta del principio logico della certezza, come
regolativo della ricerca e correttivo del conoscere comune ed incon- sapevole.
Le condizioni speciali del suo ca- rattere lo aveano predisposto a sentire
prò-, fondamente il bisogno di una religione intima e depurata dalle
esteriorità della tradizione; e di una certezza etica che lo tenesse libero
dalle fluttuazioni dei momentanei interessi e delle opinioni correnti: e quella
naturale pre- disposizione toccò il suo soddisfacimento in un concetto della
divinità, che riconosceva insiememente la bellezza ed armonia del mondo, e
la libertà umana come predeter- minata al bene. La costanza, la fermezza
d'animo, il naturale sentimento del giusto, la morale certezza della
inalterabilità della legge, la perpetua acquiescenza al corso delle cose perchè
riconosciuto provvidenziale, — tutte queste tendenze sollecitarono la sua in-
telligenza, predisposta alla riflessione, a cer- care una norma costante dei
giudizi, e tro- vatala egli persistette ad applicarla come stregua alla
condotta morale sua propria, e dei suoi concittadini. E scorgendo egli, che il
materiale delle opinioni e dei giudizi etici, qual era raccolto nella lingua e
nella tradi- zione ed espresso nella coscienza politica dei contemporanei, se a
prima vista potea avere il suo fondamento nelle costanti con- dizioni della
natura umana, non corrispondeva sempre a quel grado di consapevolezza, che le
sue abitudini riflessive gli aveano reso connaturale, il bisogno di fare
entrare nel- l'animo altrui l'intimità e lo spirito di con- seguenza lo fece
divenire maestro di morale, ed educatore della gioventù. In questa nostra
maniera d'intendere l'at- tività filosofica di Socrate trovano un posto na-
turale alcune opinioni, che incontestabilmente gli appartengono, e che
altrimenti non sa- rebbero spiegabili ; ed, oltre a ciò, molte quistioni, che
si son sollevate su la dottrina socratica, rimansfono escluse di fatto. Tocche-
remo alcuni di questi punti. Nel concetto che Socrate s'era fatto dello
Stato apparisce, più vivamente che in qua- lunque altra delle sue definizioni,
il contrasto (i) Meni., II, 4, 6 e seg.; id., 6, 21-29. (2) Vedi il Jacobs, Vermischte
Schrifteii, voi. II, p. 251: Jene Sitte enthalt ebeti so, wie die Liebe zum
andern Geschlechte, alle Elèmente des Edelsten und des Nichtswiirdigsten, des
Lasters, des Besten und des Schlechtesten in sich. che
correa fra la novità delle sue filosofiche esiorenze e la naturale tendenza
alla conser- vazione delle sostanziali relazioni della vita etica, che in lui
era sussidiata dal convinci- mento religioso e da una profonda abnega- zione.
Il principio normativo della consape- volezza non gli consentiva di ammettere
che la potenza, o il dritto ereditario, o la scelta del popolo mediante i voti
potessero costi- tuire la capacità dell'individuo a trattare le faccende dello
Stato ('). Solo la piena coscienza della propria capacità e la speciale cono-
scenza delle faccende da trattare possono e devono invogliare l'individuo ad
una legit- tima ambizione politica (^); e questa diviene per sé stessa un
dovere, quando è sorretta dal fermo convincimento, che l'attitudine e la
specifica intelligenza dell'individuo rispondono alle normali esigenze della
vita politica. Al- l'attuazione pratica di questa massima solea Socrate
disporre i suoi uditori, sviluppando nel loro animo il bisogno di acquistare
una chiara e perfetta notizia degli obblighi spe- (i) Mem., e Plat. Apol. (2)
Mem., Ili, 6; e IV, 2, 6 e seg. SOCRATE ciali che spettano a questo
o a quello fra gli amministratori dello Stato, e riassumeva tutta la sua
politica nel principio che solo chi sa deve e può fare, ossia che il potere sta
nel sapere. L'importanza di questa massima in- novatrice ci fa apparire
l'attività socratica in una manifesta opposizione con tutti i concetti
tradizionali della politica greca, perchè, in virtù di essa, il dritto
ereditario della monar- chia e dell'aristocrazia, ed il concetto demo- cratico
della maoraioranza erano recisi nella loro radice e subordinati alla necessità
di una generale rettificazione di tutte le forme sociali dal punto di vista
della consapevo- lezza. Ma pur nondimeno la cosa non andava tant'oltre, e noi
non sappiamo scorgere in tutto questo l'esigenza o il presentimento di una
radicale riforma dello Stato, o, come altri ha detto, di una teoria sociale
fondata sul principio della conoscenza esatta. Il sa- pere, di cui parlava
Socrate, non era qualcosa di distinto dalla conoscenza empirica dei vari rami
della pubblica amministrazione, e non era costituito in un insieme di teorie
univer- sali e scientifiche. Egli non potea quindi, come più tardi fece
Platone, ideare la costituzione di uno Stato, in cui la coordinazione e
subordinazione delle sfere sociali fossero determi- nate dal concetto
psicologico della gradazione della conoscenza. Il suo concetto non ha co-
lorito e carattere esclusivo di una tendenza filosofica, che voglia imporsi
alle pratiche esi- genze della vita per regolarle a sua posta; ma rimane
subordinato alla varietà estrinseca delle sfere sociali, e non ne sconosce la
ori- ginalità per farla rientrare nei confini di uno schema astratto. Di qui
procede, che, mal- grado l'apparenza di una dichiarata riforma, Socrate
riconobbe l'ubbidienza alle leggi come impreteribile ('); e, fedele all'antico
principio ellenico della sostanzialità dello Stato, fece dipendere il bene
dell'individuo da quello della comunità. E considerando la sua attività
filosofica come parte integrale dei suoi doveri di cittadino morì nel rispetto
alle leggi, e nel convincimento, che la condanna pronun- ziata contro di lui
non fosse che una legittima manifestazione dell'attività dello Stato. L'opposizione
fra il vecchio e il nuovo, fra il concetto sostanziale e l'esigenza di una per-
[Mem., IV, 6, 6. (2) Mem., HI, 7, 9. (3) Mem., IV, 4, 4: Plat. Apol., 34 D e
seg.; e cfr. Phaed., 98 C e seg. sonale sodisfazione nello Stato,
si chiarì mag- giormente nelle scuole socratiche; e specialmente in Platone, il
cui ideale politico non deve essere inteso, né come ripristinazione dello Stato
dorico, né come un segno precursore del Cristianesimo (^), ma conviene sia
spiegato come un progresso teoretico del principio enunciato da Socrate, che il
potere deve consistere nel sapere. Che i concetti da noi più sopra esposti non
avessero una tendenza dichiaratamente riformatrice, apparisce ancora di più dal
modo del tutto pratico come Senofonte introduce il suo eroe a discutere con
questo o quello dell'esercizio speciale delle diverse arti, che conferiscono al
pubblico bene o al manteni- mento delle sociali relazioni. Una sola è l'idea
fondamentale di tutti quei dialoghi: rettificare mediante la definizione il
concetto del fine cui l'attività è rivolta, per far convergere tutti gli sforzi
dell' individuo all'acquisto di una norma costante, che ne regoli la pratica
senza (i) Come vuole Hermann. Come vuole Baur. Vedi su questa quistione lo
Zeller, Der Plato7iische Staat, in seiner Bedeutung fiìr die Folgezeit, nei
citati Vortràge ecc., pp. 62-82 incertezza e divagazioni. Sotto
questo riguardo il calzolaio e lo scultore, il pastore e l'arconte, il marinaio
ed il generale ecc., perquantovarie le loro occupazioni e diversi i finì cui
sono rivolti, devono tutti convenire nella norma dell'esercizio metodico delle
loro funzioni, e sostituire alla pratica istintiva, tradizionale ed incosciente
la norma del sapere. Senza entrare nella specializzata esposizione di questo o
quel dialogo, perchè in tutti gli svariati casi non rileveremmo che una sola
con- clusione, basterà qui dire che Socrate è stato il primo, che abbia
nettamente formulata l'esigenza di una tecnica speciale delle arti e ravvisata
la necessità, che a capo di ogni pratica occupazione deve esser collocata la riflessione
normativa: e, per le cose già espo- ste, non fa mestieri che chiariamo meglio
questo pensiero, perchè altri non creda, che egli intendesse conciliare la
pratica e la teo- ria, l'arte e la scienza. E qui cade in acconcio di osservare
che la meraviglia, con la quale molti hanno ri- guardato il dialogo che
Senofonte riferisce con la meretrice Teodota ('), non ha fonda- (i) Mem., Ili,
cap. ii, mento che nella natura delle nostre morali convinzioni. Quel
dialogo, che non deve essere addotto a provare che la principale preoccupazione
di Socrate fosse la ricerca dei concetti ('), né può essere inteso come
interamente derisorio, perchè l'ironia è un momento ofenerale della
conversazione socratica, mo- stra, a nostro parere, che il mestiere della
meretrice potesse anch'esso nei suoi elementi affettivi venir subordinato al
criterio socratico di un esercizio normale e riflesso. Quel- l'arte non destava
allora gli scrupoli esage- rati, che noi moderni siamo soliti di provare contro
ogni divagazione della natura dalla norma assoluta di una morale precettistica.
Anzi, per le speciali condizioni della famiglia greca, sviluppava soventi nelle
donne libere un grado di cultura superiore di gran lunga (i) Come fa Zeller. Questa
è l'opinione di Brandis: Enhvickelungen ecc., Vedi su questo argomento Hermann:
Privatalterthilmer, con tutte le autorità ivi addotte, e specialmente John :
The Hellenes, the history of the mannei's of the ancient Greeks, LE FORME
CONCRETE DELLA VITA ETICA a quello della donna legalmente ritenuta nelle
angustie del gineceo. E a terminare questo schizzo della coscienza politica e
sociale di Socrate osser- veremo, che egli, col rilevare l' importanza
dell'attività cosciente, nobilitò il concetto del lavoro, facendone uno degli
elementi costitutivi dello stato e della famiglia. Questa veduta era allora
qualcosa di nuovo, perchè diretta a reagire contro un pregiudizio, fon- dato
nella costituzione sociale dell'antica Gre- cia e già da gran tempo invalso,
che facea considerare come indegna dell'uomo libero la produzione ottenuta col
lavoro manuale. Se Socrate abbia o no superato il particolarismo ellenico, e se
ritenesse per giusta come vuole Senofonte, o per ingiusta come vuole Platone
p), l'offesa arrecata al nemico, nella grande incertezza dei criteri seguiti
dai vari espositori noi non sappiamo affermare. Ad ogni modo, l'autorità di
Senofonte ci par- [V. Jacobs, “Vertnischte Schriften”. Meni. Crit., e Rep.. Questa
è anche l'opinione dello Zeller.] rebbe da preferire, e la maniera arbitraria
come si è voluto da alcuni interpetrarla ci pare infondata e priva di ogni
verosomi- glianza ('). (i) Il Meiners: Geschichte der Wissenschaften, pone una
distinzione arbitraria fra il male arrecato sensibilmente all'inimico, e quello
che può toccare il suo benessere interno, negando che quest’ultimo sia incluso
nel xaxcòj iioistv di Senofonte. Né meno infondata è la supposizione del
Brandis, secondo la quale Senofonte non avrebbe espresso interamente il
pensiero di Socrate. Strumpell tenta supplire Senofonte col Gorgia. Antonio
Labriola. Labriola. Keywords: implicature, comunismo, socialismo, partito
socialista italiano, il vico di Labriola, il Bruno di Labriola, Labriola su
Herbart, Labriola su Zeller, comune, sociale, filosofia della storia,
dialettica socratica, fra dulcino, carteggio con Croce, all’origine del
socialismo comunismo materialista in Italia – l’avvento creative del comunismo
in Italia. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Labriola," “Grice e
il Vico di Labriola” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library,
Villa Speranza, Liguria, Italia.
Grice
e Lacida: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia basilicatese -- filosofia italiana
– Luigi Speranza
(Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. A Pythagorean, according
to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Grice
e Lacrate: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia basilicatese -- filosofia
italiana – Lugi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. A
Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Grice
e Lacrito: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia basilicatese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. A
Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Grice
e Lafeonte: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia basilicatese – scuola di
Metaponto -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto,
Basilicata. A Pythagorean, according to Giamblico di Calcide (“Vita di
Pitagora”).
Grice e Lagalla: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazoinale della teoria geocentrica – la terra al centro del universo –
filosofia campanese -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Padula). Filosofo italiano. Padula, Salerno,
Campania. Grice: “I love
Lagalla: the fact that he was an Aristotelian when everybody in Florence was a
Platonist!” Figlio di un alto funzionario della
burocrazia vice-reale. Studia filosofia. Perdette i genitori ed e affidato alla
tutela di uno zio paterno, che lo avvia agli studi di filosofia. Volle
trasferirsi a Napoli per proseguire nella sua formazione. Si iscrive ai corsi
di filosofia dello Studio ed ebbe come maestri Stillabota, Vivoli e Longo.
Affidato dal Collegio degli archiatri a Provenzale e Caro per un periodo di
tirocinio, sembra vi si fosse condotto con una tale competenza da meritare i
gradi accademici nulla pecuniarum solutione. Grazie a Longo, divenne
l'ufficiale sanitario di una squadra navale pontificia di stanza a Napoli, con
la quale si dirigge verso le coste laziali, per giungere poi a Roma. A Roma
consegue una laurea, in seguito alla
quale entra al servizio di Santori, per il cui interessamento ottenne da
Clemente VIII l'incarico di lettore di filosofia presso la Sapienza. Cura per
Facciottola stampa di un commento ad Aristotele, “De immortalitate animae ex
sententia Aristotelis VII”, manifestazione
di un interesse verso la questione dell'anima, intorno alla quale L. si
interrogò per buona parte della sua vita intellettuale e che contribuì ad
attirargli sospetti di eterodossia. Altre saggi: “La circuncisione di Cristo”. Al
problema dell'anima L. dedica corsi della lettura ordinaria di filosofia, che
tenne alla Sapienza. Queste lezioni sono raccolte in “De anima commentarii”. Allo stesso argomento
è dedicato un saggio dato alle stampe da L., il “De immortalitate animorum ex
Aristotelis sententia libri III” (Roma). L., pur riaffermando le posizioni
della tradizione d’AQUINO sulla questione dell'anima umana, secondo le quali
l'anima intellettiva è “forma informans” del corpo ed è molteplice, accetta
quelle di Alessandro di Afrodisia a proposito dell'animazione dei cieli,
ritenendo che non abbiano l'intelligenza come forma assistente che li muove
eternamente, ma piuttosto come forma informante. Morto Santori, s’avvicina ad Aldobrandini, entrando al suo
servizio. Conosce Cesi, al quale e legato da una cordiale amicizia. Se questa
non da luogo a un'ascrizione all'Accademia dei Lincei, malgrado una precisa
richiesta da parte di L., e solo a causa della sua marcata professione
aristotelica Cesi lo presenta comunque a GALILEI quando quest'ultimo si reca a
Roma per sottoporre il suo telescopio e le scoperte con esso realizzate al
giudizio degli autorevoli astronomi del collegio romano, nonché di influenti
membri della Curia pontificia e dello stesso Paolo V. Ne derivarono alcuni
incontri, durante i quali L., incuriosito dall'occhialino galileiano, lo
sperimenta ed e intrattenuto da Galilei con l'esibizione delle pietre lucifere
di Bologna. Da ciò che vide, trasse spunto per due saggi, pubblicati in De
phoenomenis in orbe Lunae novi telescopii usu a d. GALILEI nunc iterum
suscitatis physica disputatio nec non de luce et lumine altera disputatio (Venezia). Atteso con impazienza da Galilei, che e costantemente
informato da Cesi dei progressi nella composizione, il saggio delude l'ambiente
linceo. Nel primo dei due saggi, pur
difendendo la verità ottica di ciò che mostra il telescopio, cerca di spiegare
l'irregolare -- la scabrosità della superficie lunare, detta perfetta da
Aristotele -- come prodotto del regolare, attraverso una sorta di estensione di
un principio di regolarità -- invariabilità dei cieli e dei corpi e fenomeni
inclusi in essi -- cui risponde l'intera fisica celeste aristotelica. Le
asperità lunari dovevano dunque consistere in parti più dense d’etere, più
opache alla luce, e in parti meno dense, più chiare. Nel secondo saggio L.
racconta una discussione sulla natura della luce avuta con Galilei, Cesi, Misiani
e Clementi: dopo aver ribadito che la luce non è una sostanza, ma un accidente
o una qualità reale, tratta delle pietre lucifere e, contro l'interpretazione
di Galilei, osserva che la luminescenza delle pietre non è una proprietà del
minerale non trattato, ma una conseguenza del processo di calcificazione, che
rende la pietra porosa e in grado di assorbire una certa quantità di fuoco e di
luce, poi lentamente rilasciata. Con ciò esclude che possa essere il prodotto
della riflessione della luce solare sulla terra da parte della luna. A proposito del primo dei due saggi, Galilei
medita di fornire una risposta pubblica, sollecitata dallo stesso L., di cui le
note di lettura al volume in questione, sembrano essere il lavoro preparatorio.
Tale risposta non arriva, ma i rapporti tra i due divennero più stretti, forse
per effetto di un lento avvicinamento delle rispettive posizioni scientifiche.
In occasione dell'osservazione di una cometa, scrive il Tractatus “de metheoro
quod die nona novembris anni presentisin urbe apparuit sopra collem Pincium” e
poiché quest'opera pare, in alcuni punti, accogliere le posizioni di Galilei, e
attaccato di scarso aristotelismo. Si convence così a chiedere a Galilei e a
Cesi il sostegno per una lettura a Psa. Pur non mancando l'occasione (la morte
di Papazzoni aveva reso vacante un posto), non se ne fa niente, ma anche in
questo caso i rapporti tra i tre uomini rimasero saldi. Aumenta intanto la sua
insofferenza verso gl’ambienti romani che lo guardavano con crescente sospetto.
La sua “De coelo animato disputatio” e in Germania, per l'interessamento d’Allacci.
Non rinuncia a coltivare la speranza di ottenere un adeguato incarico al di
fuori della capitale pontificia, tanto da valutare con attenzione la proposta di
trasferirsi alla corte di Sigismondo III. Le compromesse condizioni di salute
(soffriva di una malattia urinaria, forse una ipertrofia prostatica con
complicanze) e il timore che l'inclemente clima polacco potesse peggiorarle lo
portarono a rifiutare. Continua a praticare
la filosofia, e segue il suo protettore Aldobrandini in diversi viaggi in vari
luoghi d'Italia. Gli è stato dedicato il cratere L. sulla Luna. Altre saggi: “De phaenomenis in orbe lunae novi telescopii
usu nunc iterum suscitatis” (Venezia); “De metheoro quod die nona novembris
anni presentisin urbe apparuit sopra collem Pincium”; “De luce et lumine altera
disputatio”; “De immortalitate animorum ex Aristotelis Sententia”(Roma); Biblioteca
apost. Vaticana, Barb. lat.; cfr. Kristeller; cfr. Edizione naz. delle opera, Firenze,
Biblioteca, Galil., Favaro, nell'ed. naz. delle opere di Galilei, X indica una
stampa apparentemente irreperibile, Roma; ma Heidelbergae. Dizionario biografico
degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Giano Nicio Eritreo
[Gian Vittorio Rossi], Pinacotheca imaginum illustrium doctrinae vel ingenii
laude virorum, I, Coloniae Agrippina, Leone Allacci, Vita, Parigi, T. Alfani,
Istoria degli anni santi” (Napoli); “Dizionario istorico” (Napoli); F. Colangelo, Storia dei filosofi e dei
matematici napolitani, Napoli Stefano Gradi, Leonis Allatii vita, in Novae
patrum bibliothecae, A. Mai, Romae, E. Wohlwill, V. Spampanato, “Bruno” (Messina);
G. Crescenzo, Dizionario storico-biografico degli illustri e benemeriti salernitani,
Salerno); “I maestri della Sapienza di Roma, E. Conte, Roma, ad ind.; M. Bucciantini,
Contro Galileo, Firenze, Italo Gallo, Figure e momenti della cultura
salernitana dall'umanesimo ad oggi, Salerno, Paul Oskar Kristeller, Iter Italicum, Lettere
del Lagalla, o di altri con notizie su di lui, si trovano nell'Edizione
nazionale delle opere diGalilei, a cura di A. Favaro, Firenze, ad indices, è
pubblicato il “De phoenomenis in orbe Lunae” con postille di Galilei); G.
Gabrieli, Carteggio linceo, Roma. CoMLOL, Grice: “The more I read secondary
bibliography about this one qualifying as ‘napoletano’ – la ‘filosofia
napoletana’ ‘il filosofo napoletano’ – the less I’m inclined to consider him
Italian!” -- Iulius Caesar Lagalla. Giulio Cesare Lagalla. “Un aristotelico che
dialogava con Galilei”. Lagalla. Keywords: implicatura, the earth is flat; la
terra e al centro dell’universo, la pietra di Bologna, la kryptonite, la luna,
l’immortalita dell’anima, animo, spirare, peripatetici, licei, sublunary,
lunary. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lagalla” – The Swimming-Pool Library. Lagalla.
Grice e Lamisco: la
ragione conversazionale e la diaspora di Crotone – Roma – filosofia pugliese –
scuola di Taranto – filosofia tarantina – scuola tarantina -- filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Taranto). Filosofo italiano. Taranto, Puglia. A Pythagorean and friend of
Archita di Taranto. When Plato runs
into trouble in Siracusa, Archita sent L. to rescue him – which takes him ‘two
weeks and a half.’
Grice e Lamanna: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale del risorgimento fiorentino filosofia basilicatese -- –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Matera). Filosofo italiano.
Matera, Basilicata. Grice: “I like Lamanna – a very systematic philosopher
especially interested in the longitudinal history of philosophy – he wrote on
economics during controversial times, too!” Linceo. Fa i primi studi in seminario e poi nel Liceo
classico della sua città. Si trasfere a Firenze, laureandosi con Sarlo. Insegna
a Messina e Firenze. Pubblica un commento alla dottrina. Autore di un fortunato
manuale di storia della filosofia. Membro dell'Accademia nazionale dei Lincei.
Diresse la "Collana di Filosofia" delle Edizioni Morano di Napoli. Stabilito,
per L., che la religiosità e un'esigenza naturale dello spirito umano, egli
rileva le contraddizioni percepite dalla coscienza fra l'”essere” (“is”) e il
dover essere (“ought”) -- fra l'esigenza di una realtà concepita come
razionalità e ordine, e la percezione di una realtà che appare irrazionale e
disordinata, così come fra la concezione dell'assolutezza dello spirito e la
concreta limitatezza della realtà umana. Da queste contraddizioni deduce la
necessità dell'esistenza di Dio. Analoga antinomia gli sembra esistere tra
morale e politica che a suo avviso può essere risolta trasportando
nell'attività pratica la riconosciuta razionalità dell'ordine trascendente e
divino, che è di per sé bene assoluto. In questo modo l'operare umano si fa
etico ossia, secondo L., realmente politico, realizzandosi concretamente
nell'ordinamento giuridico e, così come nell'operare razionale si concreta la
vita morale, da questa si raggiunge l'armonia in cui consiste la bellezza. Altri
saggi: “Lo spirito – l’ispirante” (Firenze), Kant, Milano, “La polizia di
Platone e gl’uomini”, Milano, “Filosofi italici d’eta antica” (Firenze); La
filosofia, Firenze); “Il bene per il bene” (Firenze); “Il regno di fini” (Firenze);
Scritti storici e pensieri sulla storia, Padova; Piovani (Torino); Piovani, Tra
etica e storia, Napoli); Martano, L'esperienza speculative, in «Filosofia», Calò,
Il pensiero, Napoli, Calò, Studi e testimonianze, Matera, Dizionario biografico
degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani. Grice: “Lamanna was concerned
about the idea of the state, which is not an easy thing. More specifically, the
concept of the ITALIAN state. In his history of philosophy for ‘i licei
classici’, he rewrote his Manuale di filosofia into a ‘Sommario’. – The history
goes smoothly up to Kant. The third volume is about MUSSOLINI. He is the only
philosopher he cares to capitalize. He also capitalizes fascism into FASCISMO,
which is odd seeing that his main source is Mussolini’s own entry for
‘fascismo’ in the Treccani which does not give it such a status. The third
volume is ITALO-CENTRIC, from VICO onwards, FARLINGIERI, and notably GENTILE to
end with MUSSOLINI. The idea is presented by L. as a ‘riconstruzione dello
stato’ – we are talking of the ‘stato moderno’ – il stato liberale borghese is
in ruins – and although he plays with the ‘socialist state’ he does not
consider it within the realm of the proper history of philosophy when he talks
of French illuminism. So his concern is wht the idea of the state in the
liberal party – the philosophy of the laissez-faire. It provides NEGATIVE
freedom. Freedom from the other. And there is competition. Also, as he notes,
liberalism lies in that the ‘condizioni iniziali’ are hardly ‘equal’ for every
member of society, so that liberalism only pays lip service to ‘liberale’. With
the socialist state, the problem is the opposite: the state becomes a gestore –
and there is this idea of an endless dialectic among the classes. So how does
Mussolini reconstruct all this. He calls it ‘stato fascista’ – Had L. continued
from Kant to Fichte and Hegel, the student would be more prepared! Mussolini’s
idea of the state is Hegel’s – it is the NAZIONE-STATO. While Mussolini speaks
of the ‘individui’ of this nazione, he means the Italians (not the Jews, etc.).
SO this NAZIONE however, is MORE than the sum of its individui. Individui come
and go – but the state remains. The state becomes governo. Mussolini’s prose is
machist and homosocial, and Lamanna has to lower down the rhetoric, but nothing
is said about Germany. It is ITALY which is seen as proposing this new or novel
idea of the state (after la rivoluzione fascista) with a Kantian approach. Since
L. has only read Kant seriously, he applies Kantian categories here:
Mussolini’s fascist state gives each individual POSITIVE freedom – to be a
slave to the CAPO or Duce who ‘knows’ how to command. L. quotes from CICERONE
to the effect that it is obeying the law that makes us free. The emphasis is
constantly on the azione or prassi, which is understandable since the pupils
are supposed to learn about philosophy. So where is the dotttina? Mussolini is
candid about this. When ‘I all started it’ I did not know where I was going. It
was the ANTI-PARTY movement --. L. provides the editorial. During the
ventennio, this action, which is the INSTINCTIVE FORCE OF THE SPIRIT OF THE
NATION, becomes legalistic, a party is formed, and indeed a government
(polizia, politeia) established. But Mussolini accepts castes in society. Even
the religion, a civil religion, is subdued and one can very well be allowed to
worthip the God of the Heroes. It is an ‘etica guerriera’ and it targets the male
– virtu, andreia. Being commanded by one know knows is a privilege. Ths is
interesting because this is conceived after the temporary successes in Africa –
Mussolini romano e africano – and before the problems of the second world war.
For the first time, Italians FEEL they are part of a NATION. The seeds are in
the Risorgimento, but this got stuck with a liberal kind of state, which only
provides negative freedom, anyway, and where the initial conditions are unequal. Lo stato fascista does not play with
parlamentarism, so Congress is closed, and the only party is the national
party. Jews are excluded from PUBLIC service -- even if some wrote panegirici
for fascism, like Mondolfo. The philosophical foundations are found in Hegel.
If Hegel concentrated all in the Kaiser of Prussia, Mussolini does so with
himself. GENTILE did not really help, although he was the official voice of
fascist philosophy --. The student of philosophy then is taught the lessons of
history (philosophy is IDENTIFIED with its history) and indoctrinated in the
final stages into a particular IDEOLOGY. The tone is catechistic, and there is
no idea of dissent. L. however emphasises that the stato fascista still
recognizes the indidivuality and the personality of each member – as the stato
comunista or socialista would not!” Eustachio
Paolo Lamanna. E[ustachio] P. Lamanna. E. Paolo Lamanna. E. P. Lamanna. Lamanna.
Keywords: il risorgimento fiorentino, Mussolini nella storia della filosofia. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Lamanna” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Lami: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale della ragione dei antichi romani – la tradizione
della polizia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Lami; he has written
interesting approaches to Plato and Aristotle.” Si laurea e insegna a Roma. Altri saggi: "La
ragione degli antichi” (Giuffrè, Roma); "La politica di Platone” (Rubettino,
Cosenza); "Tra utopia e utopismo" (Cerchio, Rimini) "Qui ed ora
-- per una filosofia dell'eterno presente" (Cerchio, Rimini); "Il
libro Manifesto – in difesa dell’oggettività" (Heliopolis, Pesaro); G. Sessa,
"Voegelin -- Ordine e Storia” (Angeli, Roma, Filosofia politica Filosofia
della storia nuova destra. Letteratura e Tradizione//miro renzaglia.org letteratura-tradizione-il-resoconto/
Scuola Romana di Filosofia Politica//centro studi la runa Fondazione Julius Evola.
E’ davvero difficile per me, ricordare L. In questi giorni, ho dovuto farlo più
volte, intervenendo a pubbliche commemorazioni della Sua memoria, a cominciare
da domenica quando, in un gelido pomeriggio invernale, improvvisa e
sorprendente, ci è giunta la notizia della Sua dipartita, durante la presentazione
di un libro, alla quale avrebbe dovuto essere presente, come relatore, anche
lui. Immediatamente, il pensiero è corso al nostro primo incontro, quando
io, giovane studente di filosofia, lo conobbi in qualità di assistente di Noce.
Fin da allora, non si trattò di un semplice rapporto professionale, in quanto
Lami seppe trasmettere a noi giovani che lo frequentavamo, l’amore per il
sapere autentico, quello che si tramuta in testimonianza, in vita. Mi coinvolse
immediatamente in un progetto ambizioso: quello di introdurre in un paese
dominato culturalmente dalla Sinistra, il filosofo della storia Voegelin,
allora praticamente sconosciuto. Il risultato di questa ricerca, alla quale
ebbi l’onore e il piacere di partecipare in prima persona, assieme a Borghi e
pochi altri, si concretizzò nella pubblicazione di una serie di antologie
voegeliniane (qui è bene rinviare a Voegelin: un interprete del totalitarismo,
Astra), che fecero ampiamente discutere. Il merito maggiore, conseguito da
Lami, in questo ambito di studi, fu di individuare nel filosofo
austro-americano, un diagnosta della crisi della modernità. In particolare,
attraverso l’analisi e la traduzione di Ordine e storia, opera monumentale,
Egli presentò l’esperienza classica della ragione, quale unica terapia
possibile delle devianze neo-gnostiche contemporanee (si veda, prefazione a VOEGELIN,
Israele e rivelazione, Aracne, ma anche L., Introduzione a Voegelin,
Giuffré). Fece propria, in modo critico e originale, l’eredità di Noce,
secondo modalità più profonde rispetto a chi, tra i suoi presunti discepoli,
scelse, come il Maestro, una via di fede. La cosa, è facilmente deducibile
dalla lettura dell’organica monografia che egli dedicò al filosofo cattolico
(Introduzione a Augusto Del Noce, Pellicani), da cui si evincono tanto la
gratitudine per il discepolato e per gli insegnamenti ricevuti, sostanziati da
un metodo rigoroso d’analisi quanto le differenze speculative essenziali,
dovute alla valorizzazione filosofica, propria di Lami, delle qualità virtuose
dei singoli, nell’ambito pratico-politico. A questa scelta, che peraltro
individua, nello specifico, il campo d’indagine della scuola romana di filosofia
politica, che a Lui faceva e fa, tuttora, riferimento, hanno fortemente
contribuito gli interessi per gli autori dimenticati del novecento. Tra essi, TILGHER
e EVOLA. Al primo dedica un volume significativo (TILGHER, un pensatore
liberale, Seam), nel quale evidenzia il tema della pluralità delle morali, come
caratterizzante il pensatore napoletano. Ciò, secondo L., lo avvicinava al
filosofo tradizionalista, poiché il suo pensiero, individua effettive vie
realizzative in grado di determinare le tipologie umane dell’eroe, del santo,
dell’asceta, del saggio e del dotto. Sul secondo da alle stampe la prima
monografia filosofica: Introduzione a Evola. Un passo per la vita e un passo
per il pensiero, Volpe. Inoltre, quale collaboratore della Fondazione Evola, cura
diversi volumi della “Biblioteca evoliana” nei quali, come pochi, è riuscito a
contestualizzare storicamente l’opera del filosofo romano e a coglierne il
valore, in un lavoro esegetico sempre aperto alla comparazione. E’
proprio Evola, l’autore attorno al quale si sono dipanate, nel corso degli
anni, le nostre discussioni. Mi pare, infatti, che Egli leggesse EVOLA,
tentando, almeno su certi aspetti, di andare, con gli strumenti della
tradizione platonico-aristotelica, oltre le posizioni consuete a quest’ultimo,
interpretando, al medesimo tempo, la consolidata lettura di matrice cristiana
del pensiero classico, alla luce dell’esegesi evoliana. Stigmatizza sempre
negativamente l’abbandono, dovuto all’irruzione della visione del mondo
ebraico-cristiana, della dimensione civico-virtuosa, sulla quale la civiltà
romana tanto insiste. La cosa, è particolarmente chiara nello studio dedicato a
questo specifico tema (Socrate Platone Aristotele, Rubbettino), nel quale tenta
di presentare il simbolo epocale del mondo antico, la “vita contemplativa”,
come realizzantesi pienamente nella dimensione della Città, a testimoniare
della contrapposizione tra tensione utopica tradizionale, e scacco utopistico,
tipicamente moderno. Tema questo, attorno al quale spese le sue energie
intellettuali nel recente volume Tra utopia e utopismo (Il Cerchio).
Corrispondere a quella che è stata la via da lui indicata, ad un tempo ideale
ed esistenziale, a quella che egli definiva una filosofia dei pochi, del divino
e dell’ordine, è compito complesso e gravoso, al quale comunque, chi come me,
gli è stato vicino, non può permettersi il lusso di sottrarsi. Sarà la memoria
della Sua luce interiore, che accendeva anche negli studenti della “Sapienza”,
o in chi lo ascoltava nelle innumerevoli occasioni culturali per le quali tanto
lavorava, dai Convegni alle presentazioni librarie, a sostenerci nella Sua
assenza. Ma, più in particolare, l’idea di una tradizione sempre viva e
presente, che si realizza, addirittura nella comunanza dei vivi e dei morti,
come Roma (ma non solo) ci ha insegnato, e che rappresenta il suo testamento
spirituale più prezioso (al riguardo si veda, Qui e ora. Per una filosofia
dell’eterno presente, Il Cerchio. L’università di Roma, con Lui ha perso una
delle ultime personalità carismatiche, in grado di fare Scuola. Personalmente,
non posso che ringraziarlo per avermi onorato, in questo mondo, della Sua
amicizia, rara e preziosa: quella di un Signore. Tratto da Area. Grice: “Lami
touches some crucial points. For one, he criticizes Jowett for mistranslating
Plato. What Plato wrote is fair and simple, ‘Police’ – Politeia --. Lami as a
Roman hates the Pope – who does he think he is? The Papal dynasty is take in
that they cannot reproduce. So we must go to the civil-political organization
of the Romans, as seen from the the heroic ‘eta’ of Romolo. La citta. La Civilta. La tradizione. La tradizione
una. Espressione varie e tradizione una.
With the birth of
Christ, Roman words acquired new implicatures, for bad. Pagan started to mean
‘heathen’, and ‘ethnicus’ (ennico) more or less the same. Of course the old
Romans were anything but PAGAN or heathen – they did almost EVERYTHING for
Marzio, to whom they dedicated the downtown gym! (Campo Marzio). Lami knows all
this – and more --. Gian Franco Lami. Lami.
Keywords: la ragione degl’antichi, Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Lami” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Lampria:
la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia
pugliese – scuola di Taranto – scuola tarantina – filosofia tarantina -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Taranto).
Filosofo italiano.
Taranto, Puglia. Tutor of Aristosseno di Taranto, although he seems to have
taught him music rather than philosophy.
Grice e Landi: la ragione conversazionale e la semiotica
economica – prinzipio di economia dello sforzo razionale – filosofia lombarda –
scuola milanese – scuola di Milano -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I would
call Landi a Griceian; but he’d call me a Landian!” Studioso della dottrina del ‘segno,’ vis-à-vis- scienze
umane e antropologia, apportato un notevole contributo agli sviluppi alla
semantica (senso) e la pragmatica (prassi, pratica – ragione pratica) -- crt,
cercando di unificare la dialettica romana e fiorentina con quella oxoniense. Diplomato al Regio
Liceo Ginnasio Alessandro Manzoni, si laurea a Milano. Studia a Pavia. Insegna
a Padova, Lecce. Riceve, e Trieste. La sua opera si può suddividere in tre
fasi. La prima riguarda studi su la prassi (ragione pratica), nonché l'analisi
dei processi di “segno.” La seconda fase propone una teoria della “produzione”
del segno intendendola come teoria del lavoro cui fondamento è l'omologia tra
la teoria del segno e so-miscalled aeco-nomia. (cf. Grice, P. E. R. E.). La
terza fase studia l'intricato rapporto tra il segno e la ideologia e teorizza l'”alienazione”
dell’usuario del segno (ego/alter/alien). Opere: Pratica communicativa (Bocca,
Milano); “Segno” (Manni, Lecce); “Significato, comunicazione e parlare comune,”
– cfr. Grice, “SignificARE, communicARE, impiegare, implicARE, -- ‘common’ is
Landi for Grice’s ‘ordinary’ as opposed to extra-ordinario. Marsilio, Padova. La
semiotica e “Segnare” come lavoro e mercato,
-- cf. Grice against an utilitarian and pro a Kantian account of the rational
effort – but remarks in the “Retrospective Epilogue” about his concern with
‘rationality’ as being co-operative. And Grice’s remarks about the independence
of the two thesis: semiosis as rational and semiosis as cooperatively rational.
Bompiani, Milano, Segno ed ideologia
(Bompiani, Milano), “Segnare” (Bompiani, Milano); “Ideologia” (Mondadori,
Milano); “Metodica filosofica e semiotica -- scienza dei segni, o teoria? – cf.
Grice on philosophical psychology,’ folk science of psychology – ceteris
paribus – ‘law’ of the science of psychology --. The laws of psychology – “That’s why we call them
‘psycho-logical’ concepts, or theoretical terms, -- psychological theory --. Theory Th. (Bompiani,
Milano). Cf. Grice on the boundaries of ‘mean,’ and the idea of ‘consequence,’
y is a consequence of x, x means y. Il corpo del testo tra riproduzione sociale
ed eccedenza, Scritti su G. Ryle e la filosofia analitica” (il Poligrafo,
Padova); “Semiotica Filosofia del linguaggio
su ferrucciorossilandi.c om. Grice: “Landi takes economics seriously, as did
Aristotle – unfortunately, those researching onto Landi hardly quote from
Aristotle!” “While the Italians think that Landi is being very Original, we at
Oxford don’t! Game theory, strategy theory, and efficiency theory are all basic
to ‘oeconomica’ in most pragmatic models of efficient communication – “Information
is like money!” – Cf. la teoria del valore e le formulae dell’egoismo,
l’altruismo o non-egoismo, Meinong. Teoria
formale del valore. I valori egoistici risultano espressi con le lettere T e e
te1 Hay Ja, Un Un,, Tv Uy. Gli valori altruistici sono espresso con le lettere:
i. I valori neutrali sono espresso colle lettere : Ym. Siccome non si propone
di dare una teoria compiuta dei fatti concomitanti di questo o quello valore,
ma solo di ANALIZZARE tal unicasi va
speciali, così, quando adopera i simboli senza l'indice soscritto,
intende significare il valore egoistico – con la lettere ‘e’ sottoittesa.
Questi simboli possono esprimere questo o quello BENE, ma anche questa o quella
volizione a questo o quello BENE riferentisi. Per indicare una volizione, si
adopera il stesso segno *fra parentesi quadratti*. Infine, si suppone, di
regola ceteris paribus,che la circostanza concomitante sia sempre una sola, la
quale, insieme alla volizione, formi ciò che chiamamo il “bi-nomio” della
volizione. Se le circostanze sono più, allora si forma un “poli-nomio” della
volizione. La precedenza di una lettera in un binomio o un polimonioindica il
valore principale, sia desiderato o sia attuato. In che modo i fatti
concomitanti del valore sono connessi collo scopo della volizione? Siccome ogni
scopo di volizione è anche un oggetto di valutazione, la domanda può formularsi
così. Come i valori possono entrare in connessione tra loro? Si noti però che
la connessione deve stabilirsi prima del cominciamento della volizione, giacchè
questa volizione deve tenerne conto. Le co-esistenze casuali restano
naturalmente escluse. Tra lo scopo dellla volizione e l'oggetto della
valutazione concomitante possono correre varie relazioni. C’e una relazione
d’identità. Ciò che il artista o un
politico come Mussolini crea non soddisfa lui SOL tanto, apparirà sempre in
qualche modo come un BENEFICATORE di tutta una sfera di uomini – la nazione
italiana. C’e una relazione di CO-ESISTENZA di più qualità di una stessa cosa,
o anche di più cose. Per esempio, un tale VUOL comprare un piano che ha (+) un
bel tono. Ma il piano ha anche (-) una cattiva meccanica. O un cane da guardia
molto vigile (+), il quale però morde (-). O una macchina automobile che lavora
bene (+), ma che fa rumore e fumo (-) ,ecc. C’e un nesso causale, nelle sue due
forme: a) lo scopo è CAUSA di conseguenze valutabili. Il politico chi, per
esempio, promuove il movimento e l' industria dei forestieri, mira ad
arricchire la sua nazione (+), ma anche la de-moralizz (-). b) lo scopo non si
può raggiungere che come EFFETO di dati valori morali. Per esempio: un
fabbricante per . Ora torniamo alla domanda principale. In che modo il
valore morale di una valutazione dipende dai valori concomitanti, e,in caso di
un simple bi-nomio della volunta, dal valore concomitante? Abbiamo distinto
quattro categorie di valori, “g”, “T”, “u”, e “u”, le quali si applicano anche
ai fatti concomitanti. Però il caso u si può omettere, perchè non accadrà mai,
CHE SI VOGLIA UN PROPRIO NON-VALORE PER sè stesso. Rimangono così tre
possibilità, le quali, liberamente combinate, dànno *dodici* casi che
costituiscono la tavola dei valori. Per l'esame di questi casi bisogna pensare
che ad un oggetto di volizione si aggiungano gli altri come fatti concomitanti,
e osservare le variazioni di valore che questo intervento produce. La VOLIZIONE
‘POSITIVAMENTE ALTRUISTICA’ (benevolenza e beneficenza) è data da una formula.
Il momento più importante è qui l'associazione della circostanza concomitante
u, IL PROPRIO DANNO. È evidente che l'aggiunta di questo secondo momento
accresce il valore di (i) e di tanto, quanto più grande sarà il sacrificio
proprio. Indicando il valore con “W” ,si avrà dunque: W(ru) > WV. Se invece
si aggiunge “u”, IL DANNO ALTRUI, sia dello stesso beneficato (quando il
beneficio produce pure un MALE al beneficato), sia di persone estranee al
rapporto (quando per beneficare uno si danneggia altri), allora il valore della
volizione con questa circostanza concomitante diventerà minore. E la formula
sarà: W(ru) < W(r). Se la circostanza concomitante è pure in favore del
beneficato, allora la formula sarà indubbiamente: guadagnare di più deve
migliorare la condizione materiale dei suoi operai. W (rr)> Wr.
glianze. Invece L’AGGIUNTA DEL VANTAGGIO PROPRIO AL BENE ALTRUI nè
diminuisce, nè aumenta il valore. La volizione egoistica è espressa dalla
formula, la modificazione più grave qui si ha, quando al caso si aggiunge la
circostanza del MALE ALTRUI. Allora si
avrà: W(gu)<W(9). Se la circostanza concomitante è invece “r”, il valore
della volizione egoistica si eleva: W(gr) > W(g). Che poi alla volizione
egoistica si aggiunga la circostanza secon aria di un ALTRO PROPRIO VANTAGGIO
(plusvalia) o anche di un proprio danno, non modifica il valore di (g). Si
avranno quindi le due egua W (99)= W (g)= 0 W(gu)= W(9)=0. Così pure si aumenta
il non-valore, se oltre al danno principale si aggiungono altri danni. Epperò:
W (UU)< W (U). Per quanto il caso sia inusitato, si può prevedere anche, che
al male altrui si associ una qualche conseguenza buona, indiretta, W
(rg)= Wr. La volizione altruistica negativa o anti-altruistica è espressa con
una formula. Se per attuare il danno altrui, si fa anche il danno proprio u,
questa circostanza aggrava il male e aumenta il non-valore: W (uu) < W
(u). W(UY) > W(u). Il fatto concomitante della propria utilità non
aggiunge nè toglie al valore della volizione principale anti-altruistica. Si
avrà quindi l'eguaglianza: W (ug)= W u. La somma dei risultati ottenuti si può
disporre in un Quadro. W(rr) > W(v)? W(gr )> W(g)? W(ur)> W (U)?
W(yg)=W(r) W(99)=W(g)=0 W(ug)=W(U) W(ru)<W(Y) W(gu)<W(g) W(UU)<WU)
W(ru)>W(V) W(gu)=W(g)=0 W(uu)<W(U). Da questo quadro si rileva che le
circostanze concomitanti con segno negativo non sono più feconde di effetti di
quelle con segno positivo. Di queste ultime, “g” non modifica nulla, e “r” non
dà risultati sicuri, come indica il punto interrogativo. L'influenza dei fatti
concomitanti si può dunque riassumere così. Agisce aumentando debolmente il
valore. ‘g’ non modifica nulla. ‘u’ diminuisce grandemente il valore. ‘u’ opera
secondo lo scopo della volizione -- ora aumentando, ora diminuendo e ora non-modificando
il valore. Si è già detto che sarebbe uni-laterale il voler giudicare del
valore morale di una volizione dallo scopo ;che però, in quanto lo scopo prende
parte alla determinazione del valore, l'altruismo positivo è buono, L’EGOISMO è
INDIFFERENTE. L’altruismo NEGATIVO (malevolenza e maleficenza) è cattivo. Ora è
importante constatare, che il senso in cui i tre momenti valutativi operano sui
fatti concomitanti è completamente lo stesso La validità della tavola dei
valori, dianzi tracciata, ma pure prevista. Allora il non-valore si
ridurrà, nel modo indicato dalla in-eguaglianza: subisce variazioni, se cambia
la qualità della volizione? Itendendo per qualità la differenza tra appetizione
e repulsione, che però non deve equipararsi a una contra-posizione logica tra
affermazione e negazione, i cui termini si escludano a vicenda, ma considerarsi
come una doppia possibilità psicologica, di cui l'una abbia altret tanta realtà
indipendente, quanto l'altra. Un'analisi della NOLIZIONE mostra, che esse si
comportano egualmente come la volizione, solo che si applicano di regola ai
valori “T”, “u” ed “u”, RITTENENDOSI ASSURDO (IRRAZIONALE) IL NON VOLVERE IL
PROPRIO VANTAGGIO ‘g’. Indicando le nolizioni con (T) (ū) (T) = (non- T) = (U)
(U = (non-- U) = ( ) (ū)=(non u) = (g). Lo stato subbiettivo di
rappresentazioni ed i predisposizioni anteriore alla volizione è indicato con
il concetto di “Progetto”. E siccome in questo stato abbiamo supposta anche la
cognizione delle circostanze concomitanti valutabili, così al binomio della
volizione o al polinomio della volizione corrisponde un binomio o un polinomio
del progetto. Per indicare questi stati si adopera gli stessi simboli *senza la
parentesi quadratti*. Osservando le volizioni in rapporto agli stati
predisposizionali, l'analisi delle valutazioni dei fatti concomitanti può
rendersi più esatta. (ū) si possono fare le seguenti sostituzioni, che
aiutano a trovare il corrispondente valore nella tavola relativa alle
volizioni. Si ponga, per esempio, un bi-nomio iniziale della volizione “uu”,
che esprima il mio desiderio di far male, al momento opportuno, a una persona,
ma che non mi sia possible evitare, ciò facendo, conseguenze dannose pe rme,u.
Se ildesiderio di non danneggiarmi prevale, allora non si avrà più il binomio
(uu), ma l'altro (ūr), il quale dice che la volizione è risultata nel senso di
non volere il male proprio, pur ammettendo che questa volizione abbia per
circostanza concomitante y, cioè il bene altrui. In forma positiva la volizione
finale sarà (gr). E così da una situazione iniziale negativa “vu” si riesce
nella opposta gr (1). Questi sono i co-ordinati fra loro due bi-nomi di
progetti, dai quali procedano due volizioni formalmente concordanti. Anche i
due bi-nomi di queste volizioni saranno coordinati fra loro. Essaminemo la
coppia dei due binomi yu-gu, dei binomi, cioè, che hanno la maggiore importanza
pratica. Il primo bi-nomio esprime l'altrui bene col proprio danno. Il secondo
bi-nomio esprime il bene proprio col danno altrui. Nel primo rientrano, nel
senso o grado *massimale*, tutte le occasioni in cui si può affermare la
grandezza morale di un uomo (magnanimita). Nel senso o grado minimale, i casi
della più comune fedeltà al proprio dovere (to do one’s duty). La sezione di
linea dei valori morali che comprende il MERITORIO e IL CORRETTO è tutta
espressa da questo bi-nomio del Progetto. Laddove la sezione che va dal punto
d'INDIFFERENZA al TOLLERABILE e al RIPROVEVOLE corrisponde alla negazione di
questo binomio del progretto. Nel binomio “gu” sono espressi tutti i casi che
vanno dal più SANO EGOISMO alle negazioni più delittuose dell'altruismo.
Reciprocamente, la rinunzia a siffatte volizioni va dal semplicemente dove ROSO
ALL’EROICO. Le volizioni che procedono da questi due bi-nomi comprendono adunque
tutte le quattro classi di valori, caratterizzati in principio. I due bi-nomi
anzidetti suppongono un CONFLITTO (non coooperazione) fra l'interesse proprio e
l'interesse altrui. È evidente che dalla grandezza di questi interessi, dalla
portata di “g” e di “Y”, dipende il valore morale della valutazione. I momenti
“u” e “u” s'intendono compresi nella negazione di “g” e “y”. Intanto è certo
che il VALORE EGOISTICO in cui “g” è congiunto con “u” , “W(gu)”, si trova
sempre al di sotto del zero della scala, ed ha segno negativo. Mentre il valore
altruistico in cui è congiunto con “u”, “W(ru)”, si trova al di sopra del zero
ed ha segno positivo. Ciò posto, la funzione valutativa tra i termini dei
due binomi dei pogretti si può scoprire agevolmente con una semplice
osservazione. Sacrificare un piccolo interesse proprio a un grande interesse
altrui ha un VALORE POSITIVO MINORE che il sacrificare a un piccolo interesse
altrui un grande interesse proprio. D'altra parte chi non pospone a un grande
interesse altrui un piccolo interesse proprio produce un non-valore morale più
basso, che non colui il quale per una utilità propria rilevante non tien conto
di utilità altrui tras curabili. Questo abbozzo di una LEGGE del valore si può
esprimere nelle formule, nelle quali “C” e “C'” indicano le costanti
proporzionali sconosciute, condizionate dalla qualità delle due unità “g” e
“r”. Nell'applicazione di queste due formule all'esperienza si rendono
necessarie talune modificazioni. Se poniamo I valori “r” o “g” eguali ai limiti
0 e 0 ,allora i calcoli diventano molto esatti. Per g per g. L’ESPERIENZA NON è
però SEMPRE D’ACCORDO CON QUESTE FORMULE. Ognuno ammetterà che l'adoperarsi
nell'interesse altrui si accosti l punto morale d’INDIFFERENZA, quanto più
grande è quest'inteesse; e che il trascurarlo divenga nella stessa misura
RIPROVEVOLE, “u” pposto costante e limitato l'interesse proprio da sacrificare.
È F , 1 W(ru) = Cg -0 Y Y g W (gu) = - C per r = 00 per r = 0 lim W (ru)
= 0, lim W(ru)= 0, lim W (ru)= 0 limW(ru)= 0, lim W (gu) = - 0 0 limW (gu)= 0
lim W (gu)= 0 lim W (gu)= – 00. pure evidente, che la trascuranza di un
interesse altrui diviene tanto più INDIFFERENTE quanto più IRRILEVANTE è questo
interesse. Epperò non si ammetterà da tutti, che il valore dell'altruismo di venga
allora infinito, come nella seconda formula. Osservando però bene, questi casi
non rientrano nel campo della morale. Si contrasterà pure che il valore del
sacrificio di un bene proprio per l'altrui, cresca colla grandezza del bene
sacrificato (formula terza). Ma l'esperienza prova che l'esitazione al
sacrificio si fa maggiore quanto più grande è il bene cui si sta per
rinunziare. Invece è da riconoscersi che non è esatta la quarta formula. Non si
può negare ogni valore al bene che si fa ad altri, solo perchè NON si determina
un CONFLITTO con un bene proprio. Le formule anzidette si debbono mitigare
nella loro assolutezza, perchè si accostino di più alla realtà. Per far ciò,
basta attenuare il valore di “g”, il che si può ottenere aggiungendo a “g” ogni
volta una costante “c” o “c '”. Queste
formule non modificano i limiti funzionali dianzi ottenuti, ponendo r = 00, T =
0 0 g = 00. Cambia bensì la formula del quarto limite. Se g= 0: lim W (ru) = C,
lim W(gu) = - ' Sin qui abbiamo considerato l'una variabile IN-DIPENDENTE
dall'altra. Che avverrà però, se le variazioni si compiranno in entrambe le
variabili congiuntamente, supponendo che “r” e “g” rimangano uguali fra loro
per grandezza di valore? Sostituendo a “g” il simbolo “r”, le formule
diverranno altri. Si avranno così le formule. Tr W (ru) = 0 9 + c g +di e Y W(gu)= W(gu)=-C' ito Y W(ru)= C y- to' .
Da questo risulta che il non-valore deve crescere e diminuire nello stesso
senso o grado limite di “r” e “g”, e il valore in senso o grado di limite contrario.
Consultando l'esperienza, si può riscontrare agevolmente che un oggetto, per
esempio un dono, abbia lo stesso valore per chi lo dà e per chi lo riceve. Ora
si domanda, regalare di più avrà un valore più alto o più basso del regalare di
meno? Senza dubbio più alto. E se si contrapponga vita a vita, CHI SACRIFICHI
LA PROPRIA VITA per conservare quella di un altro, suscita di fatto grande
ammirazione. QUESTO è però IL CONTRARIO DI ciò che quelle formule esprimono. O
“c” corre adunque correggere le formule e per far ciò introducemo un esponente
di “g”, più grande dell'unità, e lo indicamo colle lettere “k” e “k'”. Le due
formule diverranno così, rimettendo “y” al posto di “r”. Sicchè si avranno i
seguenti limiti. A questo punto, il concetto di limite non hanno più bisogno di
alcun'altra correzione. Per semplicità di espressione ponendo C= 1ek =2, la
formula del binomio divienne W(gu)= T. È questa una formula a discuttere. .
g2+1 ghto Y gkilt o W(gu)= W (ru)= C per r= 9 perr= g= 0 T g2+1 W (ru)= e Y e limW(ru)=00
lim W(gu) = 0 limW(ru)=0 limW(gv)=0. Preliminarmente non si ne ricava alcune
conseguenze. Ogni pr getto offre a colui, che dovrà reagire con una volizione,l
a doppia possibilità di fare o di tralasciare. Le due volizioni staranno,
secondo la formula principale or ora ricavata, in un rapporto di
RECIPROCITà negativa, per ciò che ri guarda il loro valore morale. In secondo
luogo, siccome una volizione di grande valore (positivo o negativo) o e
MERITORIA O RIPROVEVOLE. Quella volizione di piccolo valore o e CORRETTA o
TOLLERABILE, così potrà dirsi in generale che quanto PIù DISTANTI sono il
NUMERATORE E IL DE-NOMINATORE della formula in una scala ordinale (1, 2, 3, …
n), tanto più il valore della volizione e indicato dalle parti estreme
superiore o inferiore della linea dei valori. Quanto più vicini o meno distanti
sono invece quei numeri, tanto più l'indice del valore cadde verso il punto di
mezzo di detta linea. La formula si applica inoltre anche ai casi di una
volizione I cui scopo non siano accompagnati da circostanze concomitanti. Basta
ridurla. W(9)=0(1). UU. Mentre la prima coppia esprime il caso di CONFLITTO
D’INTERESSI, la caratteristica della seconda formula è la CONCOORDANZA O
INTERSEZZIONE O COOPERAZIONE O CONDIVIZIONE gl'interessi propri con gli altrui,
positive, o, come nella guerra o il duello, negativi. Se il progetto offre l'occasione di
congiungere con la mia utilità l'altrui, o se mi rappresenta un pericolo altrui
nel quale scorgo un pericolo mio, la volizione corrispondente e espressa con
(gr). V'è però anche la rappresentazione del desiderio di un male altrui, cui
si associa anche la previsione di un danno proprio. La corrispondente volizione
e espressa con “(uu)”. Il conflitto qui non esiste fra “g” e “y”, ma fra “g”
e”v”, cio è fra “g” e -Y Questa riflessione ci fa subito applicare al caso
attuale la formula principale del primo binomio. Così, go+1 Y. W(uu)= W (Y)=
>. Passamo ora ad esaminare un'altra
coppia di binomi: gr g+1 1 T (go+
1)r. Mantenendo anche in questo caso il principio della RECIPROCITà negativa
dei due binomi di progetto, l'altro binomio diverrà epperò la seconda formula
principale così ottenuta e (1): W(uu)= -(g2+ 1)r. Le costanze rilevate in
queste formule dimostrano sufficientemente che il valore morale è in relazione
tanto con lo scopo principale della volizione quanto con i fatti valutabili
concomitanti, com’era di sperare! Ferruccio Rossi-Landi. Landi. Keywords:
implicature. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Landi,” The Swimming-Pool Library,
Villa SPeranza, Luigi Speranza, “Grice e Rossi-Landi a Oxford.” Luigi Speranza, “Grice’s
principle of economy of rational effort and Rossi-Landi’s economical
semiotics.” Luigi Speranza, “Grice and Rossi-Landi: over-informativeness and
excess: the implicature” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Landino: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della sforziade degl’italiani – filosofia toscana – filosofia fiorentina
– scuola di Firenze – scuola fiorentina -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice: “I love
the way a philosopher can be judged by his fellow citizens and by furriners:
Landino’s “De Anima” fascinates the Germans, for example! While his poetry
fascinates the Americans, as I Tatti testifies!” Nacque da una famiglia originaria di Pratovecchio,
nel Casentino, e compì gli studi in materie letterarie e giuridiche a Volterra.
Gli venne affidata presso lo Studio fiorentino la cattedra di oratoria e
poetica che era stata del suo maestro Marsuppini: L., sostenuto dai Medici, e
stato avversato da non pochi personaggi in vista, come Rinuccini e Acciaiuoli.
Tra i suoi allievi ci furono Poliziano e FICINO (si veda). In quel periodo
ricopre anche incarichi pubblici, facendo parte della segreteria di Parte
guelfa e della prima Cancelleria. Tra i suoi viaggi, spicca quello a Roma.
La sua Xandra e una raccolta di componimenti dedicata inizialmente ad Alberti e
de' Medici. In campo filosofico scrisse III dialoghi: il De anima, le
Disputationes Camaldulenses e il De vera
nobilitate. La maggiore fama nei secoli di L. e però legata alla sua attività
di commentatore dei classici. Diede alle stampe il Comento sopra la Comedia di ALIGHIERI,
su ORAZIO e su VIRGILIO. Traduttore dal latino in fiorentino della Storia
natural di PLINIO e la Sforziade di Simonetta Il volgarizzamento pliniano e un
vero e proprio evento. Per la prima volta la plebe puo leggere la più
importante e vasta enciclopedia del mondo romano -- tra i suoi lettori Pulci,
Colombo e Vinci. Per i meriti acquisiti, la signoria fiorentina gli assegna una
torre nel Casentino e una pensione. Venne ritratto tra illustri
fiorentini a lui contemporanei da Ghirlandaio nella Cappella Tornabuoni di
Santa Maria Novella. Altri saggi: “Orazione alla Signoria fiorentina incipit
della Historia naturale tradocta di lingua latina in fiorentina”; Xandra, “De
anima”; “Disputationes Camaldulenses; “De vera nobilitated”; “Comento sopra la
Comedia di Dante”; “Commento a Orazio”; “Commento all’epopea eroica di Virgilio”;
“Historia naturale di Caio Plinio Secondo tradocta di lingua latina in
fiorentina al serenissimo Ferdinando re
di Napoli”; “Orazione alla Signoria fiorentina quando presenta il suo Commento
di Dante, Firenze, Niccolò di Lorenzo, Formulario di epistole, Firenze,
Bartolomeo de' Libri. Il testo si può leggere in edizione critica. Carmina
omnia ex codicibus manuscriptis primum edidit A. Perosa (Firenze); “Disputationes
Camaldulenses” Lohe (Firenze, Sansoni); C “De vera nobilitate, M. T. Liaci, (Firenze,
Olschki); R. Cardini, La critica del Landino” (Firenze, Sansoni). Dallo stesso studioso
è stata allestita la raccolta: C. Landino, Scritti critici e teorici, Cardini,
Roma, Bulzoni, Comento sopra la Comedia, I-IVProcaccioli, Roma, Salerno
editrice, Questo commento è stato solo parzialmente edito (la sezione relativa
all'Ars poetica): Cristoforo Landino, In Quinti Horatii Flacci Artem poeticam
ad Pisones interpretationes, G. Bugada, Firenze, Sismel, R. Fubini,
Quattrocento fiorentino. Politica, diplomazia, cultura, Pisa, R. M. Comanducci,
Nota sulla versione landiniana della Sforziade di Giovanni Simonetta,
«Interpres» Uno studio complessivo, sia filologico sia storico-culturale, dell'opera
in A. Antonazzo, Il volgarizzamento pliniano” (Messina, Centro di Studi
Umanistici). Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto
Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di
Storia della Scienza di Firenze, Orazio, “Artem poeticam ad Pisones
interpretationes. G. Bugada, Firenze, Sismel-Società internazionale per lo
studio del Medioevo latino, Galluzzo, Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia italiana Treccani, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, A. Antonazzo, Il volgarizzamento pliniano Messina,
di Studi Umanistici, Treccani Enciclopedie
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Lee Sorensen. ALCUIN,
Ratisbona. Liba secundus u aut Eandetn otionanft in anibus denrchedas. Ars
enim natnratn quoad ua Itt feropq imitatur. Sed nefeio quo pado cum de
eqmalo quod iti vita Kiriorio iMispa natura nucttigadum nobis
propofuannus:iam fecundo in naturam rela« bor.lta^ bacomifla ad illud
tademrueamusipcimunique omnibus PHILOSOPHIS omnibmi cbtifiianis audoribus non in
eo quod ab ad ione proueninfcdin fo» h ratione coUocemus. Non enim quid
fadum iinfed qua mente fadum animad uettunt. Quapropter quatuor ueluti
principia ponunt. Cum enim fe nobis ilu quid offert: mouctuc ea te fic
oblata uis quzdam animorum nofttorums ut illam cognoscat: tandem p
decernit aliud bonum efTc aliud contra maium. Quapto ptrrcumiam feferes
obtuleritrcum iam fecundo loco (it de ea iudicium fadumt adtamr tertio
loco uoluntast ut hoc quidem fequamur. Illud vero fugiamus. Qua quidem
uoluntate ita iubente motus poftremo in corpora infurgut : ut id
tncmbraezc quantur quod noiunusancea de creuerit.Ncffi igitur a duobus
illis ptimisprindpiisnetp ab boc poftremo uitiumfpedatur:led a voluntate
qua in ordine tertiam pofuimust. Non enim eo Verres pcccauit quod tabulz
ftgnac ac reliqua ftculorum preriofilTima fupeliez illi fefe of Ferreti Non
rurfus quia iudica ret forefibi ex ufu huiufccmodi ornatu abundaretfcd
quia rapere uoluit cu uf«p adeocz fola uoluntate res pendat: ut etiam ft
non rapuerit :tamen quia rapere uo luerit fitelus commifllim fitx Non
enim interfecerit ne an non interfecerit: fed uo lueiitne interficere in
culpa eft:Defueruntuires. P.CIodio quominus Annium Milonem oeddere pof Tetx.
Qua quidem in re fi naturz uitium quzras t pcccauit ea uis:quzmentis
propofitum non implcuit:fi uero ad morem teconuertas non aduscorpord
motus fed uoluntatis adus crimen concipit: Dicetur iure homi dda Clodius
quia Milonem uoluit ocddere: Fac autem ocddifte cum minime ta men
uoluerit exddere ftarim crimine abfoluetur. Qui enim non ex uoluntate:
fed uel ex infirmitate uirium quas modo pofiii vel ex insdiia rem quampiam
c6 mittunnii non modo culpa carent: uCTum etiam cdmiseratione fzpistime
digni putanmr. Quis enim cum illud de Cephalo in procrin legit etiam fi
fabulosum putetmon iolum illum crimine liberat: Sed fumma
infupercomifetatione profe quituRcum animadvertat hominem ex infdria dum
feram uulnerarc putat: ca tifiimam fibi coniugem percu Eiffeteuius morte in summum
moerorem acludu paulo postcafuruseifett Vides igitur auolutatisadu ueluti
a fua origine uitium in monbus flum: Verum cum iam conftet imbedllitatem
adionis prouenire ex infirmitate primi agentis rem hanc planius exponendam
cenfeo: Videamus ita in quo defidatuoluntas ante commifllim fadnus. Qui
quidem defedusfibi a natura non erinfemperenimadbzrct/ femp pcccaret:ne rurfus
eftcafu bc for luna:eflet enim extra nos. Est igitur uOluurius.S'ed ut
uideasundeifit error boc aedpe. Visdus rd quz agit ab eo agente
perficittu quod fupra fe eft: Donec enim id quod fecundo loco agit
perfeuerat in ordine primi agentis munus fuum abfo lute
peragit:Sinautemao illo declinet nullum iam remedium eflqn aut fiatim aut
paulo poftdefidattin gyrum uertitutdrculus qui manu humana torquef. Hic idem fi
nunu dedinet a mom ceflabit. Ergo igitur ut ad rem redeam nupa dicebam
duo cflic pdndpiarquae uoluntatcm aateire ntt Res quz fefe nobis oSu a :
k [ t Oerumniobonp nttitt K uii gucdam ilfas oblatu
fufdpiatt At cum qiiicgd bnhi!!»ttb£ A Ut moueri poffifaliguidhabeat
proprium a quo moucaturmoo omnis pcrap et di uis omnem appetitum mouebit.
Nim quz fmlibilia percipit cum dutaiatape petitum qui a renfibus e(i
mouere ualai Ratio autem proprie uoluntatem mouc biti Rurfuscum latio varia
bonorum genera percipere poiritcuiuilibetautcm & proprius finist Etit
uoluntatis quoque pprius nnis k primum quo moueatiu n5 bonum
quodlibetifed certum aliquod ac pncfizum.Siigit" mensnofira acuolo
tas perceptione eius rati6ismoueac7quz tedum bonorum malotu iudiciui B
teneat reda indeadio exorictur. Sinautem ab iis ezorit" quz falfo fenfuum
iudb do bona efle deaeta Tunticum minime flnt bona Ibtim peccat in uiu
6tmorib9 uoluntas. Peiueriio igit" ordinis qui est ad rationem et ad
proprium finem gignit peccatum in adione. Ad rationem quidem cum ad
fubium fec fiis perceptionem voluntas fertunin id quod fi rede pcrfpidas
bonum non efiifcd quia fuis ilicee brisrcnrusdemulfitia Dillis bonum iudicatat.
Efirurrus cum ratio ipfa minime decepta id bonum efle decemittquod uere
bonum dici potcft.Hcx tamen tepore aut hocmodo bonum efie negatur. Voluntas
tamen in id fertur nu llam ordinis tanonem babens.huiufccmodi igitut ordinis
per uerfio uoluntaria eih pptc reaqi uitio non carets Loquacior fortalTc fum q
par cfi in natura mali. Addam tamen ex iis argumentationibus quibus
demonftracum efimalum nullam efienda am eflesati ob eam tem per fe
fubfifierenon polle: facile animaduerti id aliquo in bono feroper efle
oportere: Verum idem hac quoip ratione probatur. Cum malum dicimus priuationem
dicimus:hoc enim iam conuicnPnuatio autem ipla K foima qua res priuatut
in eodem funt.ld autem quod formz fubiidtur huiuTce modi cil ut fua
natius facultate formam fufeipere ualeat. Hoc autem quis bona negabit cum
eodem in genere et ipsa sive facultas sive potentia Scadus qui inde cll
omnino confilhnt. Prxterea malum ta
folum ratione malum didiT quia nev cct. At non ncKct malo. ElTc enim
bonum fi malo pemitirm afiFcrrct. Nocet igitur bono. Nonautefi de rei
forma loquamur noceret nifi in eoelTet. Quzenimcz citas polyphcmo
nocebitinifi fit in polyphemo excitas. Verum cum uulum boa no opponatur quo
pado utn idem erit fubiedum.oppofiro 9 t enim altc/alte tum pellinhoc fi
dicas ita tibi refpondebo.Quicquid ens did poteft idem 8C boa num
dicitunNon autem abfurdum cll ut non ens in ente fit:quzlibct enim ptia
uatio in aliqua elTentia c(l:quz cll ens tamen non efi in ente fibi oppofito. Si enim czeitatem dico hoc non eos comune quide
minime eft ut uifum ubi^ tola lat:Ergo non ell in uifu uelud in fuo
fubicdo fcd in animaote. Q_ux quide om nia eo teduntiut non pofliit iu
fummum malum inueniri:ut inuenitur fummn bonum.Quod enim fummum malum
fututum fit id fine alicuius boni cofora tio elTc oportet. At nullum
malum a bono omnino feparatu efle inuehies. C^ua doquidem ut paulo ante
ofiendimus fuas in bono radices malu egit: & in eo luu ut Ita loquar
fundamentum iedt:Ptztctea fi mihi dabis aliquid fummum malis fututum effe
id ita fua eflentia malum futurum erit/ut fua eflenda fummum bo num clfc
uidemus. At malum eflentiam nullam babae iam demonfiratu efi. Ita quod
ptiouUD pdndpiii eft eus cflcpo^too cogn ellet pti IaP.Vitg«M.AIl^o.Liba
tettius cipranificflct caura iitidepcadcrettt Dafiautcaurambotiucfre
dirimus. A 4 de & boc^uTa enim qux per fe caufa diatunfcmpcr prior
eft illa quz per accidens caula dicitur. At malum non efi caufa niri per
accidens.Non igitur inuenimr (u Inum malum.Hatc funt quae de plurimis
longecp «ccllenrioribus quz Leo Baptista memoriter diluride ac copiose in
tantorum uirotum confriTu difputauit t mcminil Te ualui.ln quibus cum
abunde Laurentio fatilTadum efletxfol^ ia me* ridiemalccndi(ret:nos omnes
ita adbottante Mariotto hofpite libeta Mimo to» Kzimusiillumf fecuti ad
tefidenda corpora difi:ellimus. L. CAMALDVLENSLVM DISPVTATIONVM AD
ILLVSTREM FEDERICVM VRBINATVM PRINCIPEM IN P. VIRGILIO MARONIS ALLEGORIAS.
Um Satuissem cum fermonem illustrissime Federice litteris mandate quem
Leo BAPTISTA Albertus no sine summa oiumquia et erunt admirarione: at(^ftu
porede iis Homeris habuiflct inqbus.
VIRGILIO j fundiflimam illam fcietiam i occultatcqua fummu bois bonum
diuinitus defcribit et quU uia ad id Hcircamur mirificc exprimit: uercbar
ne in nonui 1 holum reprehcnlionem incidcrem:qui cunria ex fui ingenii
imbecillitate tnericntcs et Maronem ipfum nihil przter fabellas:quibus
ociofas auditoru au icsdcledaret cdmctum rae credant et nos pro arbitrio
nodro quz dicimus ottu uia finxilTe exifiimcnt. Qui quidetn fi quid poctz
fint: fi quam eorum origo ue tufia appareat fecum teputentifi q magna/q
uaria dodrina plurimi in eo artifii< rioflorucrint confidcTcnncogoofccnt profedoid
quod grauil Timorum PHILOSOPHORUM iudido comprobatum uidemus nullum efie
feriptorum genus : qui autmagnitudine cloquentiz.aut divinitate iapictiz
poetis pates fuerintr Qua quidem ce ARISTOTELE virum excellenti ingenio et
doctrina pofi PLATONE om nino singulari motum crediderimrut eofdem prifds
temporibus theologos poe tafi} fuine a£btmet;Et profedo fi poesis ipsa
quid sit diligentius inturamur: fad k erit nofle non cfle illam unam ex
iis artibusrquas noflri maiores quoniam reli quis excellentiores funt libctales
appcllarunnin quarum una altera ue fiqui 0 o lucrunttin maximo funt femper
pretio habiti:fed cfi res quzdam diuiniortquz universas illas compledcns
certis quibufdam nu meris aftridatcerris quibufdam pedibus
ptogrcdienstuariifi luminibus ac floribus diftinda quzcutp homines qjotnt
quaecn norint: quzeu contemplati fuerint: ea miris figmetis exoractr atip
in alias quasdam spedes traducattut cum aliud quippii multo
inferiusimul (09 humilius narrare uideantur:aut cum metas fabellas ad
ceflantium aures ob kftmdas ludere credantur:tum maxime cxcclla quzdatfic
in ipfo diuinitaris fbn tctecondita pTonunt: Quo quidem gratilTimo errore
tandem animaduerfo au ditoc non Colum in fummam rerum cognitionem
deucniat: fed mira eriam uolu ptatccz figmento pctfundatuc. Quam quidem
temdiuinam potius s humani f iii fn. cfle cu! potius f
Platoni credidcrimnilr rnim in lonr dicit pot ffm non arte yana tradi;f<d divino
furore npftras tnentesirrepne.ln co aurem qui phxdrua infcnbitur/cum tria
alia diuini furoris genera expliraflet/quaitum furoretn quc poeticum elfe
uult/huiurcemodi([ni fallor^fentcntia exprimir. Rcfeit enim da
ibcxleftibusredibusucr farcntur animi no(lri/ et cius harmonix
quxinxtema dei mente confiftitiK eius quxcxlorum motibus conficitur/illos
participes fuit fe. Verum cum deinde monalium rerum cupiditate degrauati propterca
ad ia feriora iam deuoluti corporibus incluti tint:tunc terrenis artubus
ac monbodia membris impeditos uix eos concentus qui humano artiHno
comparantur auribus padperc poflerqui et Ii a cxledi harmonia longe
abfintinihilominus quoni om ucluti fimulacra quxdam ac imagines illius
funt nos in tacitam quadam ex Icftium recordationem
inducuntiacardcntiifiroa cupiditate ad antiquam patrw am reuolandi
inflammanciut ueram ipfam muficam/cuius hxc adumbrata ima go lit pnofcamus.interim
uero quo ad pemiolcdilT mum corporis carcerem noa bis licet/bac noftra
illam imitari cdtedimus non uocum modulationibus ueluti uulgares quidi et
leviores mulici cofucueruntrquos aunu frufus demulcete posse no negauerimtquicq
aut prxterea prxihre posse no cocedor Sed grauiori quo« dam iudicio
diuinam harmonia imitati/ pfundos inrimof mentis fenfus elega ti arminc
exprimutsat divino furore concitati res frpe adeo mirabilesiadcoq fupra
humanas uires cofticutas gradi spiritu proferunt: ut cum paulo poft furoc
ille iam refedetitifeipfosadmirentVat obllupercant. Quapropter non folum
auribus adulant ifed fuaui nedarc et diuina ambrolia mentes demulcet hi
igic diuini uates funt/& faai mufarum facerdotesihi iure optimo
fandti ab Ennio ap E elbnt": his folum
diuiniiuscocefl'umeft/ut carmine modo iocude fuauiteripla entitmodo
grauiter alteq; furgetitmodo uchemeti impetu ruerirmodo in leda ti amnis
morem fluetiinonunq copiofe exundantiinonunq breuiicr atqt copref fef
gredicnti quocui uelint auditorem rapiat.quiobrcm quonia diuimor uche
metior^ in iilis spiritus infurgitiab huiufmodi ueheroeria uates appcllant. Grxa
dautipfos poetasdixeruntteo quod apud illos facere figniriut. At dices fonafle
none 8C reliqui feriptores fuo libto poetx id eft effedores iuie dici
poiTunt ( poflunt illi quide. Veru quoniam hi foii et dicedo limul &
intelligedo ni reliquos oes longe fuperant/nomen id quod oibus
feriptoribus comune etie opottuitsucluti fuum ac pprium fibi
uedicauerunt. Et piedo quicuqi uates boc noie digni fueriitiii fupra
humanamuim aliqd pofle uili funticuius rei teftimoe DIO elTe poflunt
prifei illi uiri:quos poetas fuifliecoflatinam apud hebrxos Moy fes uir
bello inuidus:qui 6C xgyptios ab xthiopibus SC ab xg 3 tptiis hebrxos
lib^; rauitmdne cius ucrlibusiuerlibus enim uolume cofalplitiocm
diuinitate cofai plitiocm diuinitate coplexus cft.uir adeo prifeus/u t
cum odoginta iam natus an nos iudxos e leruitute educeretrCecrops athrnis
r aret. Nam qux ea fint qux Idumxus lob fuiscanninibus madauit:ormine ex
iis chriflianis qui paulo dudi ores babet latere puto. At hic ut ex libro
fuo coiedari licet tertia xtate poli iftael tutPcftincc nuc {>fcqr
quata qliaue fint qux catminib^^Oauid regis:q d^iiJii Si Jonumis i qux
dcutctonomiuquc Ibix catico codnent" tEgregiu dno inudu cotitinuab
dekiceps ferie r<rfiiper rctetitum: ut iion modo poete: verum exteri 9uo(^
rcriptorcs quicutK remaliguam maiorem litteris mandarent: eam ua tiis Hgmentis/uariisfigurarum
integumentis obfcurarent: putabant enim fo teii negodumdifibcilius
ccdderent: ut fi: gux rciip(i{rent: maiorcmeflent dignitatem audoritatemc^
habitura: 8C 9U1 percepiffent: guoniam non fine la^ borc at(^ induftria
id afreguerenturtea pluris elTe faduros.maiorem inde uoluptatem
percepturos fi guz ipfi tenerent minime fibi cum indodis commu
ciaclfent.Hac igitur ratione a fandis facrifi^ rebus profanos arcebant
non inuidiamoti sed ut aliquod inter follertem at mentem diferimen
appareret: cum non idem ociofusguod studiosus affeguetetur: sic enim dC
premia guz dodis debentur folis illis proponebantur exteri ut iifdem
artibus quando leKguis noD prohccrent niterentur fummopere accendebantur.
Difficultate enim inopia rei mortalium ingenia acuuntur: uindt onmia la
bor impro bus: & du ris um ens in rebus egeftas 2 Quam guiiguam
feribendi ratione grxid guoi^lccutimntfguortim & Orpheum thracem:&
atheniefem museum et thebanum Linum antiguiflimos fuiffe accepimus: Verum
Lini Mufei^ uiz uciligia eztant: Orphd autem poemata in quibus multa deui
diuinainecpau ca dererumnatura continentur 2 ad eam quam diaimus formam
confcnptitaf fe/fadle efl cognofeere 2 de reliquis uero qui deinceps
doruerunt/nihil dicam: Fabularum enim figtUenta quibus aut deorum/aut
rerum naturam /aut ea gu» ad uitam & mores pertinent obfcuriusquidem
sed maxima cum dignitate exprimunt: rem manifeffam reddunt. Qua propter cui
mirum uideatur: fi otnnisxtas:omnesnationes. Omnesguialigua
ufguamdodrinacxcelluerint: poc tasfemper maximi fecerint.Nam ut reliquos
adprzfens omittamq multos q maximos in philofophia locos Aristotele tanms
uir poetarum tcflimonio cot roboranquibus quidem nifi tatu tribuifletmunqua
netpde poetis duosme^ de arte poetica tres libros accuratiffime
confaipfiflet. Quanti autem hoc bomi num genus PLATONE fadat: ipfe in
libro de re.p.fadle offendit: q uoniam n ihil uei jbementius mentis
intima penetrare/qua poefim affirma. At dicet aliquis no ne in libro de
legibus idem PLATONE poefim reiidendam ccnfctmufquam ille hoc. Sed eam
rdidenda dmonet: qux more tragico pturbatos animos imitatur;qux uee to
laudes canit deoru:patria inffituta defcribitimores edocet: probosuiros
extol ]it:iroprobos deprimit/aedpiendam iubet. Deni nonullis in lods
aliquod poe tarum genus uitupetari ab hoc philofopho inuenias. Poesim
autem ipfam qua donout diuina mex tollit quas quidem res cum diligentius
fecu reputauerint qui confilium noftrum damnantifentetiam illos fuam
immutaturos exiffimo: qui tamen si nos carpere uoluerint: potius
temeritatis arguantiquoniam ea qux fupranoftrasuires funt/aggreffi
fuerimus: qua aliquid quod Maro non uidc tit 2 nos uidif Te putent 2 Ego
autem quauis non tantum mihi arrogem: ut hu ius poetx diuinitatem fatis
pro dignitate explicare pofIim:non tamen inutile fii turum putauirH noff
ra indufiria quantulacunc ea fit/dodiores uicos ad tnaioif ra de ENEIDE
demonftranda exdtar 02 qui cum nos non omnia potuiffeintelli indigo oiK
no otn&mq ioiufta aduerfus nos induti utbca ca coi nim lutun erga
Iiuiurcemodi dodris» cupidos adtadiS errata Uoftra conS gant i ii qua
detint addant t Qua quide in re non modo emendari me xquo animo fctam: r<d
ultro iam nunc omnes qui hoc polTunt ut id faciant uebemc ter oro. dam m
maxi me propriu m hominis p utem» 8t quod jpfe. uiderit U> ter aliis
oftendet er & qu od ne^t fiudipie adijj^ercum in hoc fibi Ipii in il
lo reliquis profuturus iitu o 6c uitam inftitui s ut fic quicquid in me efi
iiberalif fime effundamtfl Canullo mortalium quz mihi delint/fumere
dedigner:ad que autem nofha hrc potius qualiacun<p imt fcribamiquam ad
te iUui^ime Fcde tice:qui & Maronis pra; terca KeTos & udiofiirimusrem
perfuetist & cum reliqui iulue principes in eo omnem indufiriam
ponannut quamaximos fibi tbc£uitos comparent i auri^ at^ argenti aceruus
magis magifi^ indies aefcatitu maxu mam tuarum opum partem in mularum
& eorum qui mulas colunt omsmen ta liberalissime effuns: ut iam
quemadmodum Homericus ille Agamenon coniidebat/fi decem aliifibi Nefimesadeircntiforeut
breui Troiam apturus eflett fienospro comperto habeamus fi Itali populi
non diam decem ut iliet fcd duos przteta Federicos haberent t brevi
futurum ut universa ITALIA alterz Athenz futun fitr feddeczteris alio locoi
Non enim in hunc fermonem hoc tempore uemmus t ut quequam arpamus t fcd
ut te fic dc litteratis hominibus meritum quamaiimispof Tumus laudibus
profequamuri qui quauisfolus ex omnibus qui in imperio confiituti funt has
parta tuearis : amen iu late patet tua in oes litteratos liberalitas. Ut
non pauciora ez a fiC poetae BC ontorat & om niuffl rerum feriptora
prouenturi fintsqua ii fuerint t quos olim Nicolaus lUe quintus pontifex
mazimus:quem omnes uidimus fuis pulcherrimis muneris bus/ac maximis
pretniisprouoauittqui quidem tuo beneficioad ftudia czdta ti:8t fibi
gloriam fua dodrina fua eloquentia ucndiabunt.6: te ulem roufape E
atronu etiam tuc cum multorum principum qui et nuc uiuunt/& olim
regna« ut fama fepulta iacebit in xtema femper^ recenti memoria uiuum
retinebut. Veru haec quoniam omni luce clariora fu Dt; longiusprofequenda
non cenfeot Praefertim cu ipfa iam ra postuletaut diuinum dodimmi uiti
Baptiftz Termone ego quantum memoria repetere poteto Tuo ordine
referam.Ille enim cum bci> ne mane ad confuctum locum ueniflemus : 8i
min audiendi cupiditate inflam mati ab eius ore Tummo cum filentio penderemus
huiufccmodi principio dil/ putationem exorfus cfi|£)um eius poctz mentem
tibi Laurenti aperiri cupias r qui uel ex omnibus re^onibusaquarum babiatorcshifioriacognofant
suci cxotnnibus lzculis squkadnofhamur memoriam acriptorum beneficio
per uenerintsfi non primus primo tamen par aequalif (^ exifiatsno poflfum
meo oea tionbingreflu tantzrei magnitudine non penitus pctturbaii. Ncmo
modome diocri fit dodrina imbutus hunc uirn ui ac copia dicendi ipfnn ut
ita loquar eloquentia fuperare unquam dubitauit.Nam cumtraindidionefiue
figurae rrnt sive charaderasin quotum uno fiquis excelluerit maximam fit
glot L - am adeptus. Quis non uidetnon folum in lingulis fuis uoluminibus
fiivmlos adimplet Verum paucis liepe uctfibtis ita omnacofudific aepennL:
fcuific/ut miro quodam temperamento u clotifidiucifcuoc Bcoocctu Mluaf^ t«a Z iotl dk\ M aia uFdi £ IIBD mu
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qSiQ 011 ipiB’ bSlfimu cottfiaabt incredibilefli auribus voluptate
pariat. Ex quatuor aut riie& di generibus ita opus contcxitiut ne ocio
copiame negocio brevitas defit. Vi dcbis quxdarua sic dtatc at<j
ariditate placerctquzdamuetoueluri flofculis ib lufhau at diftint Sa
deledare.Sunt deni^ eunda eo attifido confirudaiut un# deoiaadoe
elocutionis genus exempla potius qbincrumas/fcriptum DulIum invenias. Adde
ad haec cognitionem hifioriatai Adde quadili gentissimus and» quitaristt
oonmodonofliaturctuifed &grzcaru &omm nationu inuelliga#
torcxriterittqptil conjmuaborumobretuatiinmus fueritiq elegata quxdain
Boua ex fe fotmaucritiqua f pric omniu uim tenuerit. Prxterco ius duile:
omit loiuspontiridu nihil dicodeiurcauguratqus; oiaita tenuitaitnonab
aliis accepilTeifed ipfc conftituiOie uideatue. Hzc igitur & cotum limilia
fi a me tibi ex« pheanda pctaestac ut fifiguk» in eo poeta locos
diligeorius apetiiem contende tes: 8C operofum fimul & difiidle mihi
negociu imponetes. Quis enim illa pub chetrima cxcdlentiiliinaf/ac fummo
artifido tccondita non ludicct: fed funt ta nicri a multis iifdcm^
dodisuitis patefada. Quod aute petis id & multo diviiuuscftt Kmagisinobrcuro
UtetiKanullo quod ego quide rdam/badenus fua ferie patcfadum.quod ne
gtimaricus nc tbetot nouerit.fed fi ex intimis FILOSOFI arcanis eruendum.
Vis enim nolTe quid per fua illa enigmata de Ae ncaectrotibusidc dus
hominis in italia profei^one fibi Maro uoluerit.Q^ua qua (untnonulli/qui
di ea quae paulo ante dicebam promaximb admirentutt at^ in ipfis fuma
abfolutam^ poetx laudem contineri putent: nihil maius in eo uate fuicent.
Quos tamen fi roges quid fibi in ea te VIRGILIO perficere uolue riti Hometumimitandu
fibi propofum eafibtmabut: Addent^ ne^ ingeniu ne dodrinamtquo minus id
pilare pofTet fibi defuifreiQ^uod nobis cu dederint fuccubat penitus
necefle efl. Habemus enim ^ut gramaiicope iiinita pene tutba omitta multoseofde
grauifTimos PHILOSOPHOS tqu i Homerii ocm zgypriopi dodrina
haufilTctca^ more illote uariis hgmetis adubraffe cotcdat. Qua in fen
tcnria nili ARISTOTELE fuiiret nunqua homeriaru ambiguitatii libros fex scripfif
fet. Na quid Balilius Bi dodrinz magnitudie/K mo^ fanditate magnus coo
minatus de homine fentianfacileefi iudicare:qui tota Homeri pocfim laude/
uittutis continete dixit /fccutus ut puto Anaxagoram Claxomeniiitqui
quidem idem de hoc poeta a Sirmauit t Arcbefiias ucto mediz academiz
inudor tra OMERO tribuitiut nunqua fe iniedu tecepcritiquin prius aliquid ex eo
legerit: Sed & inlucem le ad amauum ite dicebatiquo hin dus legendi
maior copia daretur, yctum quid reliquos nunc colligamtcum unius PLATONE
testimonio nihil fit, quod probari non polTitlls igitur in eo uolumine
quod de summo bono scripsit omnes artes huc diuinz fiue humanz illz fint in
unum Homeri poema uciuti r in proprium receptaculum confluxifle afHrmat.
Quamobrem animaduettens Mato dodrinam huius hominis ex egyptiorum sacerdotum
fontibus bauftam fimillimamcum Platonicist quorum Qud iofifTimus fuit rauonem
babere eam uTadeo admiratus dl:ut idem in fuo ENEA efficere uolucrit :
quod ille antea in Vlyxc finxerat^ Q_uaproptet pulcherrimis poeticif:^
figmentis eum nobis unw i^oiinai qui pluri, a^ aux^nis u itiis pauwim
expiatusue dckeps 'ir»v I f •*/ .«MI inr ;
iRft. mitis uiituHbiu Illuftratus id quod fummahotmnibdliaeStquoiI^
tufi & pl ip6t/ tatnnlal^ equnec^ VcTdcu illud mrera
diuinanunfpcca msnullusafTequii latione conlidcre a PLATONE
didioirctylimul SC illud didicit co antbt minime perueniripofle/q animi
nofhiuirtutibns illissquz deuiu K moribus funtex piati penitus reddantur.
Cum SOCRATE i pfe puru impuioiittiogetc fas c$/cfle neget. Quapropcet non
folumflnes bonoru nobis miririceezpreiritt Verum etiam qua uia qua ue
ratione eo cuadere tandem homini liceat demonftrauitt Ne qua pars eius
philofophia; qui gtxd ethicen/nos de vita et moribus nomp namus: prxtermitteretur:in
ea enim nos nihil aliud quammus nili primum bo notum malorum^
iincstdeindeof Scia quibusueluti uia quadam ad eosdem ducamur. Laboriofum
omnino negodum/at^ omni difficultate plcnum: divinum tamen & quo uno foelix
limul atip fapiens homo effidaturtdeo^ iungaf Soli enim fapienti fas eft
ufi adeo deo c6iungi:ut nihil quod feparcr/intercink ce poflit. Deus enim
ueritas eft .Q^uis aut nefdat qui uerum mente non pettin gat/eum
lapientem efle minime poiTet^os autem cum quatuor lint qu 2 in feru
ptoris mente aperienda inue(tigemus in rem nolfram futurum puto: ut
certos ia terminos drcufaibamus: quos in poeta interpretando egredi non
liceat. ES igitur cum id quod geffum Iit quxrimus: quam
hilforiamappelbnt/ut cum le gimus apud Matonem haud ptocul inde dtx Meda
indiue^ qoadrigxdiSa lerant.C^uxrimus itidem non quid geSum litifed qua
ratione geSum nt:ut eS illud At tu didis albanemanetes. Nam eoloco
dcmonfhat propter eadifcerptu a quadrigis elTcalbanorum regem /quoniam
illein fide non manlilTet.hic gta&« dethimologiam dictuit. Quxrimus
et tertio in loco an ea qux dicantur pu^ gnantia inter fe lintr Alibi
enim didt ChriSus patrem fe maiorem efle:alibi ego &pater Idem fumus.
Quapropter cum ita interpteumur/ bxc ut minime intec fediiridereo ()endamus.
Analogiam sequimur. Interpretamur postremo aliquod per allegoriam quod
tunc sit cum non qux uaba SIGNIFICANT INTELLIGIMUS sed quiddam ALIUD SUB
FIGURA OBSCURATUM. Scribunt poetx Amphionis lyra motos m lapides ut fua
fponte in thebanorum moenium flruduram coirettper quod figmentu quid
aliud intelligimus:nili fapientillimi viri eloquentia esse dum eifer ut BOEZIO
populi qui hadenus ad omne rone ueluti lapides Supidi: K aduetfus oem
humanitate durilfimi czi(ferent:e fyluis ac luflris in duitatem
uenirentrac poSremo legibus qux ad comunem ufum latx cfTennultro fefe
rubiicerct. Nos igitur reliqua tria genera hoc tempore omittemus:at(^ in
ipfa fola allegoria uet fabimur:ut quid per Troia(n: quidpCTxneam:quid
per ITALIA reliqua^ huiu& modifibiuelituideamus. froixigit"
oritur ENEA rperquautberedeut puo to prima bois asutem intelligemus.in
qua cu ro adhuc ois cofopita (lufolus fen fusregnat: At ipli
mottales/quia ea xtate fapientia ne furpicaot' quide ea fola fibi
proponut qux philofophi prima naturx appellat. Ni cu oe aial (ibi a
natura comendatu (it:in primis feipfum diligit:deinde o^s corporis partes
ita integras: ualidafip hne cupit ut ufui (imul fit pulchritudini fibi
(int: maxime autem uohi ptatibus demulcetur flc quauis animum fefimul
corpur^efTe intelligattat Utru faluum
efb cupiautamen in iis qux in animo apetenda funt/ quoniam BOO dbm plane ilhcog Oolat minus
laboratsea autem quz corpori corporeilm uoiuptanBus conducunt/anxie
expetit. Sunt enimflbi abipfoortu iamnotissima. QuaptopteiT cum in hac
zutcnaturxui potius trahamur/g nofharum adionum domini efTeualeamusmel
minimum uc omnino nullum uirtuduw do^ locum relinguamus:cum que agimus
eanccuoiuntariaflnt: neccum de ledu aliquo fiant. Ita in puero virtutem
e(1'e nemo dicet. Verum ubi iam pro gtcflu ztatis rationis lumine aliquo
illufirari indpit mens noftra s tum demum tanm in nobis conlilii
apparet:uta prauisreda difcerncrcualeamus. Eft enim iam ad illud PITAGORICA
litterxbiuium pcrucntum/fic iatnuitzne Tciuseiton utcil apud P um. Deduxit
trepidas ramofa in compita mentes. Vnde cum di fceflciimus nccefle efitut
uel reda pergamus : uel in finifira deiledamus . Nam quz deinceps
agimus/quoniam ceru quadi ratione agimus/fi reda fuerint uit tutitfin
contra uitioadlcribuntur. Troiz igitur 8t Aeneas limul fit Parisa/un tur.
Verum alter quoniam Venerem Paladi ideft uirtuti f uoluptatem ante« poni
neceife efitut una cum Troia pereat. Alter autem ducematie Venere fe ab
omni incendio explicat. Quod quid aliud intelligamus/nifi cos/ qui magno amore
inflammati ad uen cognitionem impclluntur omnia facile confer qui pofle.
Qua propter Venerem diuinum amorem rede interpretabimur. Sed tu LAVRENTl
ncfdo quid iam diu uclle dicere uiderisiCupio quidem inquit LAVRENTIVS t
Ni uerear perpetuum tux disputationis filum intec nimpae.lmmo potius iflo
modo inquit BAPTISTA: Nam cum uniuerfus hiefermo non ad oflentandum
ingenium neq; ad gloriam comparandam a nobis infticutus fit : fed ut
honeflifiimx- uoluntati tux obtemperem: fit fi quid in me dodrinx efi/id
libenter cfiFundam : interroga : inter peilaiobiice: confuta pro arbitrio
tuo.Hac enim uia id quod quxrimus verum dilucidius apparebit. Vtar quod mihi
permittis arbitrio inquit LAVRENTIVS utrum id non tui confutandi sed mei
erudiendi caula . Miror igitur cur tu Venerem amorem interpreteris eum
prafertim amorem : qui non modo cadus verum etiam divinus fit. Ego enim Venerem
non folum apud poetas : fed etiam apud reliquos feriptoresita fumptam uideo:
ut per eam nonnifi maris foeminz^ coniundionem fignificarc uelinr.hinc
illud Terentianum, e Cerere fit Bac chouenaemfrigefceretEt ipfc in
bucolicis: Parta mez uenerifunt munera. Quapropter fi uenerem pro huiufce
modi'coniundioneponas:quxbadenua dixidi/ea omnia inter fe pugnate
uidebuntur . Sed eft fit aliud qu^ nifi tu mi< ili petfpicuum reddas
ego minime explicare ualeam. Qui enim fit ut cum duo fintuiri Aeneas at^
Paris: Alter quoniam Palladi Venerem prxponattnecefle fit ut una cum
Troia pereat : Alter ueto quoniam prxeipienti Veneri obtempe reriomne
periculum incolumis cuadat. Ego enim non uideo cur fi bona fit Ve nus
Paridi noccat:fi mala prqfit ENEA. Qux quidem dum cogito/in eorum potius
Icntenciam labor:qui rem omnem ad eam flellam qux hoc nomine ap
pellet'':flt ad ipfam bidoria referut: Putat enim qd* te no fugit/qua hora a
Troia ITALIA versus jificifcerct Aeneas:librz fignu qd* domiciliu ucnetis
6ad nfm hoc hcaifpcpu afiacdifli^lpfam Y^ete in medio czlo loui fuide
roniundam. Quibus oibus poftendebat" foelidtas illi tegtia^ per
muliere peruentufoioJo' uem enim regnU ptzeflc non ra odo OMERO
SIGNIFICAT qui reges ; id enim eS a loue nutritos rcribit. Sed &
mathematici ide ditant. Salutareenini omnino Itduse Qsquonia inter Saturni
frigus K Marcis ardorem colloatu opti moeemperamento Iit: 8i propterea
eundis euentibus profpcrum. Nam cum ui tam noftram praxipue sol et luna
gubernet: iccirco lupitet omnium nobis fa luberrimus eihquia foli per
omnes numeros/iunzautem per plurimos coniuo dus eft. Refecunr etiam in
initio mundanzfabricziouem in ariete dotniciiio tuncafcendcnte fui/Te.
Volunt illum inducere leges/caliicatem/mirericordiam in egenos K
calamitate opprelTos. Veridicos homines fadt/& vere amicos fine
fraude fine dolo: Saturni fzuitiam frangit fiCquzcun^ ille mala
infert:hicaut tollit aut minuit. Quapropterfcite Petii us Satutnumip
grauem nolito loue frihgimu s una: Oeni^ fi in alicuius ortu fe bene
habeaticum ille hominem for tunatumreddit.bfinimehzc dilpliccnt inquit
BAPTISTA. Sunt enim ex 15 ma dodtina eruta: 8C hifioriz uehementer
accommodata. Verum cum omnis nofira difputatio nullam hilloriz ratione
habeat i Sed eam qui totiens gtzco uabo allegoriam nomino/exprimete
conetut/non uideo cur ea qua adhibui in terpretatio iure amitti non
pofiit : Si enim iis omilTis quz de ENEA deqj cztctis troianis prifei
faiptores tradidere/pro arbitrio licuifiet poetz non modo finge te:fed SL
peruertere & addere & fubtrahere.Si deni^ nulla hifioriz ratione
liabi ta id folum tentaret quo pado per ENEA cum nobis uirum informaret:
qui ta dem fapiens beatufqj citet futurus/nonueneremfortafiefed cupidinem
aliud ue numen pofuiflet. Sed cum ita poeticum figmentum profequi
inSituifiet: ut tamen ab hilloria non difccderet:cum Aenez matrem fuilTe
& exilii ducem naviganti filio fc przQitilTe Vennem Icgil Tenfuit cx iis
quz aderant res perficiedat non autem nomina fingenda. Hoc enim plus
negocii poetz cll qua reliquis qui alio figmento rem obfcurateuolunc.
Illi enim ab omni hiftoria foluti pro arbitrio ea cominifcuntunquz magis
rei fuzjpromendz quadrent. Quodut ! )lanius teneas/unum de multis
excmplicaula proponendum cenfeo. Placuitil I primo huius fabulz audori
ollendcrc quz in tempore ex materia gignuntur: ea omnia in interitum
cadae quatuor dutaxat clementis exceptis: quz principia (unt oibus rebus
generadis Duos igitut comentus ell deos Saturnii at Opima & illum
temporis fjmbolu obtinere uoluittquod gtzcu nomen indicat. Chronos enim qui
Saturnus ell ab eo fubtrada harpitatioe deducifrquem ipfi chro non
appellant. At quis ntfdat tempus grzce chronon dici. Per Saturnum igitut
teropus: per Opim fiuerhcamterram intelligit. Addit deinde Saturnu pmnes
quos de thearufccpilTct filios uoralTe prztcr loue lunonc Neptunnu Plutonem. Qua
fabula exprimit omnia quz ex materia funt prartctipla quatuoc elementa
tempore conteri: at in interitum deduci. Quorfum igitur hzc ne reliquum
fabulz profequar : nempe utintelligas licuilTe huic homini pro arbitrio
quzeum^ uolebat fingere: ut quod de rerum procreatione sentiebat: commode
exprimeret : cum nihil aliud prztcr phyfices particulam fibi propofuiflc.
Maroni autcih longe alia rado cfi: qui cum ENEA res io laudem' I II Litxr
tertius AngulH ezoritatidas t ft librum iprum omnibus poeddsluminibasitluftrandum
fibi fumpfiflet t non iis qux ipfe uio ingenio digeret t (ed iis quz hiftoria
porrigit banc fuprcmam ingemi fui laudem comparat . Mirus profedo uir qui
non ex op tads fed ex datis ha opus intexat : ut cum hiftonam minime deferat
:pet eam rame illaedibili integumento humanam fcelicitatem
exprimatiHabcs^ut opinor^qua ratione uenaem pro diuino amore ponae coadus
iit. Quod ita tamen rede pro cedit < ut ni£ ab iniquis reprehendi non
poiTit. Videmus enim Platonem in eo fa mone quem phatdtum nominat :
Aphr^iten/quaic nos uenaem nuncupamus: oqn lafouololum sed & diuino
amori ptaxiTci Verum quam uenerem piatonie cua poeta Aenez matrem eife
uoluerit : faale intelligemus ii quzdam paulo altu uscx ipso PLATONE
repetamus. PauCmiasigiturin fympofio duas ueneres comme morat/aketam
czlcfiem vulgarem alraam . prinum autem czio natam refert: cui nulla
mater iit. Quod cum lingit eam intelligentiam iignihcat/quz in angeli me
te poiita amore ingenito ad dei pulchntudinem intelligendam rapirur/quam
quo numprocula bomnifflaterizcon fortiolitiinc matre prodiidam dicit.
Secudam uao uenaem mundi animz tribuitiita ut patre loue : matre uero
Dione eam na» tam feribat. Manat enim ab ea ui quz in anima mundi eft :
& uim creat quz infe« hora bzc omnia gignat & mundi fyluam
fubeat: Vtra igitur fibi ingenito amo ce rapitur czlefiia ilU ad dei
pulchritudinem intuendam : hzc uao ut eandem pul chritudinem e fylua
conforma. Sed hzc parum ad rem. Animus autem noda cum&ip Ge similes quafdamuires
habeat inteliigendi at y gignendi duas itidem ueiiera habaedicitur/quas
gemini comitentur cupidines. Cum enim corporea puichnmdo oculis nodtis
obiicitucrmcns noftra^quz piima uenus eft}eam non quia corporea litillcd
quia limulaaum divini decori admiratunar diligitiea quz ueluu uia quadam
ad czlos effenur: Gignendi aurem uis: quz fecunda uenus ell formam gignae
huic limilem concupifcir uapropter uterqi amor iure dicitur utaltcr
contemplandz altergignendz pulchficudinis defidcrium fit. Nemo igU tur
nifi totius rationis expas fit duos iflos amores damnare audebit t cum
uta qj humanz naturz neceflariusfit: Nerp enim diu efremortalium genus
finefo bolis propagatione t neij ruifus beneefte fmcueri inuefligatione
potait. Prza ttantiuri igimr illa ucnae duce in italiam perucnire potuit
zneasi Ac dices cui hzc fecunda fi bonacfl paridi nocuit: quia illa male
ufuscfl. Vir
enimgignen di autdior quam reda ratio didatfitin ea re plus quam oportet
occupatus /in Ibiis corporas uoluputibus meretur. Quo fit ut 6i primam
quz ad fummutn bonum dudt omninn deferat : & fecunda pcffime abutatur
: proptaearp in om nes animi petturbanones incidat: ueritater^ defpctata
mifaq^ efifedusin omne indignitatem dcfccndat Efi ut dixi diuious amor fi
Platoni credimus dcfideti« um redeundi a corporea pulchritudine ad
diuinam contemplandam: Non ta uencum diuinam defidetamus eam quz oculis
pcrcipitur/contemnimus.Nam qui aliquid appetit hunc illius quom rei :
quam appetit imagine delcdari ne« ceffe cfi. Verum funt quidam ita hebeti ingenio: ut mentem a
fcnfibus nullo modo feuocate poffint: hi ueiam pulchritudinem non norunt.
Huiufccmodi igitui amot adultctinus cfl / & a uao degenoans: quem
lafduia ac pcocadtas frtnpff cotnit3tnr:quem diffiniunt cupidinem
eius uoluptatist que e cotpdo rea Forma percipitur rrede qux dicunt cum
ardorem animi in fuo cotporetnot tui in alieno uiuenns i quod fecums
poeta quidam dixit J, I Plato ucio ait illum natum ab humanis
morbis follicitudineqi plenum . At quis non uideat illum nerp confilium in fe nc
modum ullum habere. InefTci^ in coiniurias/furpi# dones/ ac reliquas
illas omnes peftes : quas fidelis Feruus Terentiano phzdtix prudenter
oftcndit. Habes(urputn^dupliccm amorem verum illum fidiuino: de quo paulo
ante dicebam /& hunc falfum & adulterinum: & qui uetoamo ri
talis fit qualem aut amico adulatorem: aut medico coquum efifeuidemus:
cui quidem cum fe totum dedidiffet Paris uiia cum Troia periit. ENEA
autem cz lelii illo duce paulatim ex troiano incendio ideftex corporearum
uoluputum ardore fe expediens li non reda nauigatione id enim humanz
condidoni : aut nunquam aut raro conceditur: ut eodem rempore licfiulcitiam
exuat. &rapiens efficiatur: tamen poft multos errores in luliamad
ueram fapieutiam pcrucnit. Quam quidem nauigationem cumfudorislabonfi^
plcniliima fit/nemouna quam nili fummoillius amore inccnfus difficultatem
omnem perferre paratus fit penitus perficiet. Amor enim uerus/ut apud
eundem Platonem offendit Eriximachi oratio omnium naturalium rerum
creator effat feruator : eo emn fimilia omnia ad eaquz fibi fimilia funt
perhenni concordia ttahuntur.Effitt dem omnium maximorum artium magiffer.
Nemo enim aut artem inuenitiaut ab alio inurntam addifcit : nili
inueftigationis obiedatio/K difeendi cupido ia dtet uam quidem rem fi non
apette offendit : obfcudus tamen ut poeta rummos efl SIGNIFICAT noffer VIRGILIO.
Cum enim in georgicis fe uen cognidonem reliquis rebus prxponere dicat
difficultatem ipfamfumma amoris ui fu peraturum his ueibis demonffrat. Me uero pnmum dulces ante omnia mulas Quarum sacra
fero ingenti pnculfus amore Accipiant . Ingenti ergoamotela« boies
fummos:quiin factis mufarum/ id eff in rerum cognitione fubeuodi funt fe
laturum affirmat |0 uinus enim amor/nii aliud meditatur: nil molicurmui
Ia alia in re laborat t nihil tentat: nihil nititur /nili utiam corporex
pulcbritudinis afpedu concitus addiuinam nos pulchritudinem rapiat. Dum enim
cor/ porcis tenebris demetfi funt animi noffti diuin i non recognofeunt :
nifi umbris & simulacris quibuf damtqux fefenoffris lentibus obiidunt
. Q^uam quidem rem non folum exprefferunt prifei ex grzcia pbilofophi :
in quibus Pythagoram EMPEDOCLE DI GIRGENTI Heraclitum sed longe ante alios
Platonem enumerare poC fiim tSed Bi chrifhani ab eadem fententia minime
difcedunt: Nam & Paulus & qui Pauli auditor fuit Dionysius
areopagita cxleffuac diuina : qux in fetu fus non cadunt/pet ea qux
fenfibus percipiuntur /cerni uolunt. Inxc eff igu tur illa uera uenus:
qux mentem noffram ad diuina erigit: qua matre quisoc Idat natum xneam
nomen abeo quod effxneos id eff a laude dedudum. Vb rum enim ad omnia
magna dCexccIfa natum: quis non fummis laudibus proe fequaturf Verum &ipfea
uolunrate delinitusdrca Troiz defenfionem laborat Xioiamco impdiuatuturztin
quibus, voluptates corpotex plurimum uigent/ Liba totius
intoprctari licet : prima enim >tate’cum ipfa ratio non dum fe exdtare
: ft fuas ui CCS EXPLICARE poflit / etiam qui magni at^ admirandi uiri
futuri funt uoluptate de mulcentur: prima naturas ueluri fumma
admirantur: di quoniam diuina qux fint nem nouaunt : beatiflimam eam
uitam putant: per quam uoluptate frui lice at * Hi igitur quid fummurn
bemum rit: nondum compei tum habent: Veni cum illius acquirendi fummo
ardore inflammentunpaulatim bxc omnia qux dixi pri ma tiaturx aduca
momentaneai efle animaduertunt. Habet enim hanc irim ue tus amor : ut
paulo ante dixi ut mentem ucbementn
exacuat : magifterep illi re cum inuenieodarum paulatim fit t ut nibil
eam latae poflit. Qua propta egre ei llud qi £Ulete poifit atuanton :
Deinde cum nihil dfficik puta / modo re amata potiatur : omnes labores
tolaat: omnes difficultates fupetat . Hxc eff uenus illa non uulgaris ; qux
materix admixta utm haba gnendi/fed illa cxicflis ab omtii materia remota
: qux a mente noflra eft : ipfamq; mentem excitat;& Iu* cem illi
liiam nobis badenus incognita in node id enim efl in nofita infritia
oflen dit t fc^ deam &taurfeenim indicans fua diuinitatem demonftrat:
admonet non peme feruari Troiam id eft originem corporis qux necefle eft
ut pneat . Hxc eadem oftendit uoluptates cotporeas non Tolum ab ipa
lacena id eft a feipfts/ut in beftema difputatione diximus cotrumpi: sed
ab lunone a Pallade at a exteris di is: Nam deos Troiam populati quis ignoret
f Divina enim omnia uoluptatibus aduafantuc. Sed in primis Pallas . Hxc
enim sapientix symbolum obtinet. Sapientia autem non folum uoluptates
contemnit: verum eriam (fummopae exhore ret. eft quod de lunone quifquam
dubita : qux quamuis regnomm dea ha be Oiiriproptaca in hxc caduca ac
mottalia magis ptopenfa uideatur: tamen cumlidmmes imperandi aipiditate
nullum labotem pafetre recufent t omnibus uoluptatibus bellum indiaint:
modo eo perueniant unde poflint reliquis impe* ritare: Deos autem minime
uida ENEA dum pronoluptate pugnat . Nubium cni Biteilebtis cnnnis ei
ptorpedus eripitur . Sunt enim animi noftri ita a deo aea diutfuapte
natura facile omnem utritatem confequantur. Sed a materia corpo* ea quam
philofopfaifyluam appellant: omnia nobis mala proueniunt.llla enim tardat
heb^t at^ pemirbat mentes noftras:: at tenebris obfcutat. Sioiim ex in
fritia omnia uitia ptoueniunt: Quaproptcr & Chty lippus & reliqui
ftoici perturintiones omnes a fallis opinionibus oriri dicunt :(^uodtamai longe
ante feoferat MERCURIO ille: quem grxciob ingenii diuinitatem
Trimaxinnimappeihnt. Siigitur omnia uitia ex infritia ptoueniunt. Infrit ia
autem ex corpotea calu ginecft/ut PLATONE putat /erunt omnia uitia a
corpore. Quam caufam prxeipu* am fuH&idixerini / ut is quem paulo
ante nominaui Meteutius fyluam malignita temappella: fedderylua commodiordifputandi
locuspaulopoft dabitur. Pugnat igitur xneas pro uita uoluptuofa: illat demerfus
deos uidae nequit. Verum cuminhuiufcemodi miferia non delit amor neri
inueftigandi valet ipfe amot mentem excitare: ut feco Uigens tenebras
difaitiat:flt uideat quibus numinibus Trcria cuertatur. Ducetp eodem amore pa medias
flammas at^ hoftes ita tutum anipit. Et profedo uolenti ad tes arduas
profleifri / hinc mira quxdam'uoluptatum : qux defoendx funt cupiditas ucluti
flamma quxdam illinc laborum difiS* cultatutntp terror / qui aduerfus
honeftatem afliduo pugnet fefe opponfit. Quz omnia ducente Venere Araex
cedunt. Nam niii amor abfit : netp ram blandas oo
luptatescontcmnere>ne<^ tam duras difficultates fuperare pofTemus. Venit
igu tur domum ut familiam omnem componat : at^ inde ex urbe proficifatur.
Ridit enim in fe ipfum animus t omnef^ fuas uires : at<p uirtutcs gux uariz
funnad profcAionem / id enim eif ad ueri cognitionem quam Troix nunquam
afTeque^ retur: fuo ordine componit omnia^ (ibi ex uoto fuccederent: (1
pater filium fe qui uelit.Verum negat ANCHISE fe ex Troia difcefTurum»
Hoc ueroquid (ibi ue lit : (i me roges ego (ic puto. ENEA huiufcemodi
parentibus natus efi: ut Venus dea: ANCHISE mortalis (it : homo enim ex
animo qui immortalis diuinufip eftiK ex corporemortali Kcito in interitum
cafuroconftactMmsigitur originem fuam femperfufpicit: ad eamcp redire
cupiens Troiam auidiflime dcferit . Senfus au« tcm qui a corpore funt
corporea incorporeis pratponunt . Hinc igitur alTiduum atrox<^
certamen illud exoritur rpiritusaduerfus carnem ut noftti dicunt t cum
mens totum hominem ad diuina trahae conetur t BC fenfus in potefiatem tedige«
re / 8 C fibi obtemperantes reddere cupiat . Contra uao fenfus feculcnto
elementa rum potu ebrii / 8 C lahea obliuione grauati nihil nili caducum
& tenenum cupi» unr ANCHISE igitur id efi tenenus pata i 8 i ea qux a
chrilHanis uabo parum tri» tofcnfualitas appellatur 2 Troiam fedeferturum
negat .Mauult enim perire fen» fus / quam uoluptate priuari. Mox tamen
cum filium omnemq; domum t id eft totum hominem periturum audiat 2 cump
cxleftibus monihis meliora moneatur 2 mutat fententiam/ab ENEA^ fublatus
exportatur : molliltitna enim bxc at« ^ eneruata animi pars ad fummum
bonum nunquam fat t fed i pfa potius inficr» tur . Hxc de ancbife j ENEA
autem cum iam incendii 2 armorumcp pericula eua» ftlVct ; atep incolumis
urbem e(Tct egrelTus : ingentem comitum afduxilfc nouo# rum inuenit ad miransnumaumtqui
quidem undi^ conuenerant animis opi» buf^ parati in quafcunt^ uriit
pelago deducere tereas.t & rede quidem. Nani ca tandcmcferuitio incendioi
uoluptatum fumus liberatit e(f<^ iam animus redi uaiqtinueniendiauidus/tum
plunmx animorum uires 2 quxhadenus ignauia torprbant :ucbementa
excitantur2 8 C bene in(fitutammentcra quocunt uocae uerit / fequuntur. Quo
quidem tempore ne a redo itinere omnino aberraret xneas / Iam iugis fummx
Turgebat luciret idx t Ducebattp diem . Eff enim ludBtr uenerisfydust
quodurfolem lunamip omittam 2 omnium quinque fteliarum quas nolfri
aratiles grxei planctas uocitantt lucidiflimumlitizodiacum autem odo ac
quadraginta diebus fupra trecentos perficit / nunquam a fole longius fex
& quadraginta unius (igni partibus difcedens . Verum/quoniam modo
pcxcedit/ modo TubTequitur 2 folem non eandem (lellam fed duas eife
prifei crcdidcrunttpti mum autem Pytbagoram extitiffe ferunt :qui in eo
apud grxeos unum depreben derit .Cum igitur folem prxuenit lucifer
dicitur : uefperus autem cum fubfequi» tur . Rede autem lucifer prxuius
foli eff . Stella enim uennis/is enim amor efi ue ri inueniendi / ei
exoritur 2 qui iam uiram uoluptari obnoxiam deferir 2 dudt^ di em 2 nam
rationem excitat talis amor / cuius luce illuSrati uetum noffe ualeamus.
Apparet autem a idamonu id eft a pulchritudine.Idos eoimapudgntos formam
figaificat. Amor autem apud Platonem pulchittudioisdefideri um diffii
S , Quapropter in ipfo pudor nos a turpibus auoc^: cupiditas ucro
czcellen quztj boneiia rapit . Fertur
igitur ENEA duce m are exui in alt um incertus quo fata ferant ubi iiftae
detur . Q uz omnia non fine fumma fapientia a poeta ponuntur: facile enim
cognofeit Troiam relinquendam : & fummi boni princi' panun uoluptati
minime esse tradendum. In qua autem re fummum bonum coii tiatnondum cognofcit.lureigitur
exui appellatur. Nam ab eoquod
habuit cie dus eft : ne^ dum id quod ucluti proprium poflideat inuenit .
Mari autem fermt quia animi nofiri quocun^ moucantw nulla alia re niii
appetitu mouentur : qui quam fimilis mari iit paulo poft aperiam ii pauca
prius de appetitu dixeto^ft igi^ tur fenfus & uis quzdam in animis
nofiris t quam cogitandi nominant : cui bono tum malorum iudicium a natura
demandatum efi, Non nunquam autem ita iudicat buiufcemodi uis : ut nihil
prarter fenfus refpiciens : 8L ueluti illorum illc« cebris attrada &
uoiuptatis oblato ptzmio corrupta quod pecudis bonum eft i{v fa hominis
bonum decernat. Si autem eadem cogitandi uis falutari rationis lumi ne
illuftretur et eius norma dirigatur : non id bonum eife iudicat / quo fenfus
de mulcentur ; fed quod reda didat ratio: quod uemm (implexi^ bonum cui
iit ne« ^interire ne^ corrumpi pofiit. Cum igitur huiufcemodi uis bcx
bonum illud ucro malum elfedeacuerit excitatur in nobis alia quzdam uis
quz ad bonum afei Icendum / malum^ declinandum infurgat . Huncautem
appetitum omnes ap« pellant . Sed &, eum duplicem efle
oportetialtrtum qui ab eo iudicio quod folus fenlus fcdt femper pendeat :
nibil^ cum ratione expetat: alterum qui nihil omni no sequitur t niii
quod ratio prius pra^epent : primum illum libidinem : hunc fe eundum
uoluptatem nuncupamus. uaptopter erit appetitus quo animi honii num
ad bonum afdicendum maium declinandum
moucantur redus quU demiiaratione/contraii a fenfu.Quaptopter pulcherrimo
enygmate diuinus Elato cum animum noibum ueluti cunum pofuilTet : aurigam
ilii duofep equos adiungit . Nam ueluti equis currus trahitur : iic
animus ab appetitu duatur. Fe.<
mnt autem equi non fuo arbitrio : fed imperio aurigz a quo reguntur eodem
pa» do appetitus nihil ex fe agendum decernit . Sed quod iam ab aii a ui
deaetu m eli fequitur. Quarc autem equorum alterum album pulchettimum^ i
at^ hono« tis cupidum : Bi qui non minis ui<^ / sed cohortatione
ratione regatur. Alterum nigrum inglorium & contumacem hnzerit ex iis
quz paulo ante a me de duplici appetitu dicebantur perfpicuum eft.
ExprefVit enim per bonum rationalem : per B^um ucro irrationalem
appetitum quo animus fertur: at<^ hzc de appetitu : quem quidem mari
limillimumelTe quis negaueritr Videmus enim mareftnuL» lis uentis
uetbcretur fedatum tranquiliumtp perdurare. Sin autem diuerfistun datur
uentis: in geauiflimas turbulentiflimaftp tcmpeftates infurgir : Sed hzc
eadem in appetitu dcprzhendastFac illum uacarc a pcttutbationibust nihil
ni fi rede appetet : Fac rurfus iliis uehementer uezari : quos iam
ftudus quasuc procellas intuebere: Quapropter illud elegannflime
u^tio^ irarum 6)s d^t (ftu. Illud autem tibi fortalTc occurren/ quod non
bene iis quz diximus cohzrere uideatur : Nam fi radonali appethufertur
zneas : fi iam uitam uoluptu g iiofatn damnault t unde nunc illud
quod patnx liHota lachrimajupotfutnij^KliQ quit . Q_uod enim odifle iatn
coeperimus: id non lachrimantes : fed Izti fugcR fo letnus t Sed uoluic
Virgilius primum a uolupcatc ad uirtutem difcelTum demoo' I firare . In
quo cum temperati non dum fed continentes fimus : agimus illud qui> I
dem t fed cum diu uoluptati aifueti illius illecebris demulceamur t non nili
zgte , ab ea diuellimur : imitemur^ fenes tioianos: qui cum ELENA ut
grxconun tro> ianorumtp certamen fpedarct mcenia confcendilTet
admirabatur cum (hiporemu lieris pulchritudinem t ea^ uehementer
deledabantur : uetum tantorum maltv rum illam caufam eflie
animiduertentcs : abeat dicebant potius Helena: quamp pter illam pereat
Troia . Quod ut plaiuus intelligas. Qucmadmodnm tordnk do uirtus eft /
qua dura omnis ar^ afpera inuido animo ferimus : lic tempcran» tia
aduerfus uoluptates armamur : in qua quoniam iam habitum contraximus li
ne ulla difficultate aut moleffia negocium conficimus. Quod li habitus
nem dum contratSus Iit: Si tamen illud idem efficere tentamus t tandem^
effiamusfi nitimum quoddam 6C uiriuti proximum nancifeimur ut nondum
temperantes effedi tamen abftineamus quamuis xgre & non line luda: Quz
contmenna di citur in qua li diu exerceamur : paulatim temperantiam
acquirimus: htij uirtus id quod hadenus uirtus non erat : fed ingrelfus
ad virtutem. Hoc igitut intcrcft intcttempcrantiamfii contincntiam. Namquam
uisutrai^ idem przdet:conti« nens tamen eo detenor eft quia cum dolore
ablhnetmec ctt fatis Armus aduerfus uoluptates Tempuans uero bene uolens
Iztufk^ abffinet.quod li itidem de ineo Anente intemperantem inuelliges:
facile ell uidere quanto a temperantia condoe da fuperatur i tanto
incontinmte ipfum intemperantem pemitioliorem elfe: I na continens enim
quia non dum in uitii habitu ell rationem difeemit : prindpiui Knct:pugnatm
aduerfus malum: fed tadem magnitudine cupiditatis & fui animi
imbecillitate uidusucluticmtiuus in feruitutem rapitur . Vetum uc qua;
uctbts adumbro ea exemplo exprediora reddantur t dicimus continenum a
pruicipiofii ilTc DIDONE quz quamuis Acnez amore teneretur : tamen adeo
lunliter repua gnat/utmori malit :q pudorem uiolare. Incontinens autem
paulo polf redditui cum fororis oratione uida pudorem foluit . Prius enim
fortiufcula adhuc ita pua gnabat : ut uidrix cuaderet. Deinde eneruats
omnino pugnando fuccumbit.pua gnatenim incontinens/fedfupaatur.
Intemperans autem in habitu uitiiconftitutus omnem rationem amiDti ne pugnat
aduerfuscupiditates: quin illis uo» lens gaudmfqi obtemperat: quippe in
quo adeo deprauamm Iit iudidumtut qdf tnalum fit bonum rlTe dicat. Sed ut
iam ad inffitutum redeamus : non dum tem' perantia munitus erat zneas:
nuper enim ea ratio in homine uluxcrat: ut uolupts tum fordes intueri
poffet : nei^ rurfus tempeians : aut incontinensinon enim io de fe
expedilTet. Sed cum hincilleccbrx uoluptatum traherent : illinc honefti
uui pulchritudo ad omnia excclfa cum erigeret/demuiccbatur quidem a
uoluptate cam feolibusfuauilTtmam iudicabat : non potccatip non zgte ab
ea diuelli.51i da enim adulatrix voluptas efi.uehementcr fenlibus
applaudit: ut etiam gcQ’tolioiit animi qui funt illa capiantur .lu cnim fuauiter
nos irrepit aut totos pau lanm occupctt Smgjt igitm comn ucac ft guis
lachiimaiu taincta littcin
tioiaiu ti s h P U Ii 9 si Q lu ia K a» 10 k liu tic adi li] tu »1I» bi » m inii tta ip DOi tUU) aoi pqai V» 'Z tiO*iJuti idtai am i&:l» oap jiua riKil apoi at(p tdib ;iup» ib<# ico^ Jki» «0 lolf J0t 0 'Df> 0f Libettmiiu Klinquittquonii
c6tines. Quod H unam tcpnitii adcptua fuifTn no lacbrimSs fcd lema
reliquidet : po<ta enim non ipfum a principio sapientem fingit:£C una
uircure ornatum t (icd cum qui a perturbationibus animum uendica» K
cupiens fe paulatim a uitiis redimat t k poft uarios errores in italiam id
eft aducram fapicatiam pnumiat» Nam quznos de continentia dc^
incontinen eia diximusan quibus fenfus pugnat U ratioiuidiTim^ uincuntacuincunmr.
eadem de reliquis uitiis ac uirtunbusintelligas mtn quas mediae
funtaffcdio nes nullo adhuc habitu latis Hrmxifcdquz modo ad has modo ad
illaimpel lantiquisfortadeinuiu ciuiiiin qua quz ad bonum tendunt incohau
potius quam pctfcda lepenas non nulli uittutes nominarent . Sed profici
fcatur iam no &r Acncastuerum quo tandem exui pn altum feretur: Nempe
in thraciamre^ gionem patrue fininmam/fiC terram Matd confcaatamnnquanupn
Polynco ftoc holpitem fuum POLIDORO ut auro potiretur interemerati Erit
autem aua titia; fjtnbolum thtada.Nam ipfe paulo poft: Fuge littus auarum
. Vnum cum duplex auaritix genus fit. Eft enim auarus 8C iis qui inde
rapit unde minime con ucnitideis qui cui dandum eft ei minime dat.primum
illud genus perthraciam cxpdmimroi enim in illa Mars colitur -quisncldt
habendi cupi ditate plurima a mortalibus bella geri. Sed ne Polyneftor
borpitisintcrfedots6( Tuorum bo» Domm raptor quicquam expreftius quam
auaritiam rapinaft^ denoubit Cur igi tur prima inthraciam ENEA nauigatioeftrQ^uiacuma
uolupute difceftimus at<j non dum uerae uirtutis habitum contraximus
facile ex ilia in aliam cupidita« tcminadimusiinfurgitip habendi
libidoibeatilTimam enim uitam multi feade< ptos putantifi opibus
maximifip diuitiis reliquos mortales fupecet:Qua cupidi tace inflammati
non dubitant non modo nefaria: uerum etiam laboribus pericu lil^
refcitiftima bella fuTciper e. Ingens profedo ftultitia:6i ab coanimo
profeda: qui & fi uoluptates contempferitcnihil adhuc altum furapete
poiTit.Habet enim auaritia pccuniz ftudiumiquam nemo unquam fapiens
optauit. Nihil enim illa mobiliusinihil quod magis fottunz temeritati
fubiiciatar. Quapropter rede Sa luftius auahtiam ita malis uenenis
imbutam dixittut animum cotpufij uirilc cf< foemineuquando quidem Si
ad omnem humilitatem infimaTqi fordes dcTcende tccogic:& inomnem crudelita
temproreuili(Iimainfurgete.lpra enim perfidia am pctiuriumip edocet:cot
fraudibus: linguam mendaciis:manum uenenis/fer.» to in aliorum pemitiem
inftruit. Apud eam quid fandum efle poteft: cum ho.*tes quoip qu Polydori
exemplo docet poeta minime incolumes fint. Nemi nem tamen mirari oportet
fi Ancas fapientiz quidem cupidus minime tamen ad buc fapiens in
huiurcemodiuitiumprolapTus fit. plurima enim inuiu humana
Uidemusiquzquauis caduca momcntaneaip finntamen morulcs pro maximis admirantur:
quz quidem omnia cum ucnalia efteuideantipecuniz prz czte^ ris
ftudent.Q_uotus enim quifi^ repetitur: qui non putet quod genus ficfoc mm
regina pecunia donat t quis non totus commouetur : cum auditi Si b^ ne
numatum decorat fuadela Venus. Verum qui duce Venere fertur Si tna gnarum
rerum amore incenius cfi/pauladm errorem recognoliit. uitiumip abominans
Xfaradz auariflimutn lictas fugit, At^ cum iam fecundo deceptus i deinceps
turpi Timum mirerrimumep iudicet Apollinem: cuius oracula ue riiTima e(Te
audient confulendum iudicac: Retur enim (i ex illius dei ptxut pris uitam
inftituat futurum. ut mifet ciTe non pofTit. Qua proptei naviga donem in delum
fumit: per Apollinem autem qui fol cft: quid aliud quam lapientiam
intelligemusf^Nam ut id omittam quod ut fole eunda qux in lien fum cadunt
illuftrantur:(ic lapientia illuftiatus animus eunda profpicete ua. leat uideamus reliquam eius
plancta: naturam. Sed illud in primis. Nam cum Heraclitus fontem
caelefiis luds appellat. CICERONE ueto ducem carterorum lu« minum ea
ratione dixit: quoniam fui luminis maiellate praecedit: dixh itidem
ptindpem dixit moderatorem: Nam SC ita eminet/ ut ptopterea quod
buiut> modi folus appareat fol uodtetur : curfus reliquorum
recurfuf^ipre mode ramr. Nam certa fptii diffinitio eS ad quod cum
quaim erratica ftdia recc' deos a fole peruenerit tanquam ultedus
accedere prohioeatur agitur retro. Rurfus autem cum certam partem
recedendo attigerit : ad diredi curfuscon fueta reuocatur.Q^uapropter non
iniuria & mens mundi cor czliapri« fcisdidus ell:Quz omnianon ne
fapientiz quadrant Non ne fapien^ tia reliquas animi uires przcedit : non
ne illis moderatur C Quin etiam li uim huius fyderis diligentius aduertas
iurc datur fapientiz dicetur: Nam ut a Saturno ratiodnandi a loue agendi
uim : ut a Marte animorum uehe« mentiam at^ calorem aedpimus; uta Venere
deliderii motum fumimus: & quod loquimur atqi intcrptztamur a
Mercurio cft: ut deni^ a luna quod grz ci phyticon idcll gignendi
augendic^ uim habemus; (ic ipfe fol quod friamus: quod^ opinemur nobis
prxllat : Sed hzc de Apolline. Deli autem nomen S ipfumnon nihil ad rem
affert, grzce enim manifeflum flgnificat. Loca enim quibus fapientia
przfidet : clara femper manifefta^ fuat.Q_uod autem tot»> us infulz
Anius imperet: qui & rex hominuni & deorum facerdos iittnonca ret
ratione : Sapientia enim humanarum rerum cognitionem continet. Qua
ptopternihilnouum fapienti accidere poteft: quippe qui omnia iam
percepo> rit : quam quidem rem nomen regis oftendit. Anius enim didtut
quali id elf (inc nouo . Hic igitur hofpitio Aeneam fufdpit: SC
pio* fedoipfa fapientia animi nolfti aluntur . Veneratur autem templa :
at^ ea retn pia quz faxo uetullo conftuida fint.Nam quid obfecro te: aut
flabilius im* mobiliufi^ : aut antiquius ipfa fapientia deprehenditur :
quam fapientiflimus ille omnium bebrzorum S^omon ab initio Si ante fzcula
creatam fxcula aea ta effe uerilfime didt.Sed tu quid me o LAVRENTI
fubridens fpedas.Non polfum inquit LAVRENTIVS dodillimorum uirotum ingenia
non admirati lztuf(|:quz a principio de hifioiia decp allegoria dixilli
mecu repeto :Q_^uis enim non obfiupefcat huius poetz confilium .Q_uicum
apud Cioatiumueri umlegilTetinDelo aram elfc Apollinis genitoris: in qua
nullum animal facrifi atur: quam Pythagoram ueluti inuiolatam adorauiffe
fetunt : legiffct eti^ am Sc apud Epaphum : Delon ne antea nem pofiea
tettz motu uexatam: femper eodem manere luo legiifet: & apud
Thucydidem non mirum esse fi przlidio tebgionis tuta infula femper fit :
cum teucreruia locotumfibi acccficrit Liber tertius coBtltiuafax Ieiurdetn
firmitate: Cum igitur bacc legilTet itafcnblt/ ut eodem tempore ex
antiquitate hifioriam eruatiponit enim Aeneam Tolis przcibui deum
uenerari:K templa antiquo Taxo confirudaefTe/ficbxc cum ponit fimul ea
affert quz PER ALLEGORIAM Tapientiz conueniant. Dices quid in cacteris : hoc idem. Sed nefdoquo
pado hic me locus in quo hifioria non minus qua allegoria latet:mul to
magis mouinSed perge obTcaomolo enim mea interpellatione mihi ipfi audi
endi cupidiffimo moleftiam ex mora afferre. Datur igitur ab Apolline
oraculu inquit BAPTISTA z Dardanidx duri quz uos a fiirpe parentumzPrima
tulit tel^ Ius eadem uos ubere Izto Accipiet reduces:antiquam exquirite
matremz Hic do# mus znez eundis dominabitur oris:Et nati natorum 8C qui
nafeentur ab illis. Q_uo quidem oraculo quid diuinius excogitari poffit
non reperio:Q^uid enim faomini salutarius: quid conducibiliusefi: qu3
originem Tuam noffexin quam cu redire potuerit /tum demum fit futurus
beatiffimus: Dixit igitur pluribus/ne a poeta difcederet Maroxquod grzci
duobus tm uerbis expediutx qui omnium ora# culorum quz Apollini
tribuuntur maximum effeuolunt i«r</7>> V nofceteipfumx Verum
ut haxea nobis planius explicenturx Omnesquicuh^un# quam de fummo bono
ferip Terunt philofophi in eo fi non uerbis re Taltem con Ira Teruntxutbenebeate^
uiuere fit apte conuenienterq; naturz uiuere t Verum ubicoiamdeuenturn
efl/ut fit hominis natura diffinienda : tunc innumerabi# les
pemitiofilTimi^ errores emanant: cum animorum nofirorum ui ignorata
plufquampar efi corpori attribuatur. Nam cum ex animo corpore^ conflare
bomo dicatur . & alterum brutum/caducumt^ at(^ facile in interitum
pronuma Alter mcorrufmbiiis immortalis diuinuft fitxpaud omnino ita
mentem a fcnfi# busfeuocat: ut feanimi nobilitate imniortales cogoofcant:
corpufcp in nulla pene parte habendum cenTeant.praedpitur ergo Troianis
ut eo reuertantur de originem ducunt . Duplex autem illis origo efi.Nam
Teucer Scamandri cu# iufdam filius profedus ex creta infula in Phrygiam
uenit; 62 una cum Dardano Kgnau:t ; Dardanus autem prius SCipfe in
Phrygiam ueneratatnon ex creta: ut ille fed ex italia: nec mortali patre
natusxfed ex deo loue. Veniunt igitur am# bo in Phrygiam id efl in uitam:
& pnmam ztatem quam perTroiam fignificari di ximusxfed hic a czlo
ille a mortali. Ad huius enim animantis quem hominem dicimus
compofitionem animus a cziefii corpus a mortali patre prouenit.Qua propter cum
primam nofiram onginem inquirere nos Apollo iubeticuius ora# culum efl
Nqfce te ip Tum : non quid corpus fitxquid ue illi conducat inuefiiga# re
iubct.Sed quid animus fit 8C quo pado fecundum animi natutam uiuere fodi
ces effepoflimus inquirendum mandatxQ^uam quidem rem ut ezpreflius
fignifi caietannquam didtxEfi enim animus fi non tempore/ut Platonid
uolunt digni tate Tua at(^ excellentia prior: Optimum igitur oraculum:
Sed quid prodeft fi illud male interpretatur ANCHISE . Hic mortalis Aenez
parens omnia ad lenfns referens ibi (edes collocandas cenfet ubi prima
corporis origo fit. quafl prima naturz non animi fed corporis fpedanda
fint t Quaraobrem non ia Italiam fed in Cretam enauigandum proponit: qua
in infula multa mala Tubi# bui fint Ttoiani. Nam cum (ummum bonum non iis
quae animum: fed quaa In.P,Vtrg. M.AlIego. corpus fpcdcnt
natura noftra ignorata reponimus necefle eft/guoniaft illa pati> io
po(Hnpe(lem/ac demum in interitum cafuraiint/ut non bearirredmiferi fiu
turi (imus:TuIerunt ergo prxrium ob ftuitiriam Troiani:gui in italiam
nauiga» te iulTi actam ptticrint. Si enim in italiam.i.in originem animi
redeant Troiam percipiunt cognitionem rerum diuinarum in qua fola
flabiles & manfuras feda inueniuBt ; Hic enim domus Aenea; eundis
dominabitur oris:Et nati rutorum & qui nafeantur ab illis . In aeta
enim nullum e(l Aenex imperium. Na corpus ne^ fe nerp aliud mouet:fed
iners brutum: 8C line fenfu iacetrnec quicquara Ii ne animi auxilio
ualet.ln italia uero imperium latepatet.Corports enim domina tor & redor
eft animusrin nullam^ nin uolens fauitutem cadit . Cunda autem fue
cognitioni rabiiciu Se enim pafe uideticum autem deum cognofccie tem/
ptat fuz menris acie ad fuperiora erigimr. Colidaado oia fpedat: Rimatut
occulta. Videt abfeiitia:breuicp temporis momento uniuerTas mundi oras
anv bit:Defcendit ad interiora: Afcendit cxlum . Adxret deo: in quo efl
patria fua:Et ? uoniam imorulis eft hxc femper facit : Quapropta
eius imperiu eft aeterna: ixcaprincipioqua uisdiuiniscflentmomtiprxcepris
cognoicere no potuerat Troiani: Nunc uao calamitates eipaticognofamt. Epimetheo
quidem ferius: Sed uidete quxfo quam admirabili ingenio reliqua
profequaturt. Cum pefie labo rarent Troiani danmatfuam oraculi
interpretationem Anchifes.Nam poftqui diutius debaccliatus eft homo dum
fenfibus obtemperans omnem fpem in rebus caducis reponit/tandem ufu Si
experientia dodior redditus animadueftit no fua« fifle acta
Apollincm.i.nunqua pofleefte homines beatos ex iis qux mortalia
fntt Cenfaigimr alibi quxrendamfoelicitatenuVenmi non dum tanta metiris
arie ualenut qua inrcconliftat discernerc poiritr Na
humiproftratusanimus/St fieri gi nitatur tamen corpote'obrutus qu x
in/cxcclfo collocata funt non nili poft mui tum tempus difeemit: At dii
penates eadem dicent qux didurus efliet ApolIotPu tabantenim antiqui deos
penates elfe ex animisiuotummatoTumtqui clari ilhi^ ftref(^ multis
egregtiftp uirtutibus fuilTent quali deos domcfticos: Ergo Si hos animoru
noftro excellentiores uires intapretabimur:quales funt ratio intelle# dus
atqr intelligentia. Qux hadenus furentibus fenlibust Si omnia tumultu co
plentibus nihil fanuiudicare poterat: Nunc autcpoftquamfuograui damnoeu
pertus eft homo fenfuu iudicium falfum elfe illos a tribunali quod tumultuo &oc
cupaucrant deiicit:& luris dicundi potcftatem iisjuiribus quas paulo ante
nomii> nauipermittinillx autem cum iam fcnlibus parentioribus ut atuc:quippequipu
dorc confufi nihil amplius audeant/K cum eorum iudicium diuturnus iam
ufus at^ experientia confutauerinparaciam non amplius prxeipne
deaeucrintrfc a tumulm colligunt:at (pfeipfascxdtant:fumma ( contentioeruftitix
nebulis fua luce fugatis mentem ab iniquiffimo fenfuum iudido prouocauit
ita a aetenfi domicilio abfoluunt : ut tamen italicam profedionem fuo
dcacto 'edicant, ii dunt^ proptnea fux fententix ftandum: quoniam eadem iubeant
quxipfe Apollo a quo mittuntur didurus fit: Et profcdomcns nostra multatum
rerum usu iam dodior reddita multa, ex fe cognofdt: qux fapientia
ptxdpere con sueuitt Nec ucto quempiam moveatli deorum pcnatii oratione
pct fu ad catut
Andrifas I t ( II P nudfi D B B< P> h Jrj-B
SNitn ubi ndo pneualerc iitn crprrit : appetitus Hli rubiicitun MuItS iatn
profeoe nintdii pcnatess quiquz obfcunus Apollo SIGNIFICAT prrfpicue
enodaruntt docent«piniuIuadrcrum diuinarum cognitionem enauigandum rfle:
Beatus profedo ENEA (i decretis ftarett (i quod bonum efTe cognouit:id
ita mordicus arriperet ut nulla re inde po(Tet auclli:Non enim totiens a
redo curfu deiicere^ s Veru non is adhuc uir eft qui conftanti habitu in
hisobdurauerit:& per (uma t& perantiam a rerum moruliu
cupiditatibus sit penitus purgatustfed inter contine tia; at(^
incontinentiz uarios frudus uacillans fzpe cum ad aliquod Tparium fuo
uento procelTerit: nauisfubito a redo curfu deiicitur . Non enim is
gubernator clauum tenet qui fummo nauigandi artiBdo arperrimam etiam
tempeftatetn fupcrarcualeattfed Palinurus t qui poftquam ceruleus fupra
caputaftiiit imber nodem hyememt^fercns.poftquam inhorruit unda tenebris
: poftquam conti» nuouenti uoluiit maretmagna^ rurguntzquora:& quz
fequuntur.ipfe diem nodemt^ negat difcernereczios nec raeminifTeuiz:
Diximus a ptindpio foloap petitu moueri aniraumtdiximus itidem duplicem
e(Te appetitum alterum qui a fblis feniibus ex dtetutitationi^
aduerfeturidicatnttp libidotalterum qui ratione pareat:uoluntaf(^iure
nuncupetur. Qui quidem sinauiprzfuifTetiporerat ea am aduafantibus uentis
iter redum tenere, oed przFuit Palinurustis enim eft qui folisfeniibasob temperatiuirefij
aduerfus uentosinterprxtari poteft enimgrzce retro uentis didtur quali qui
in contrarium refetat. Hic igitur infurgcntibus
pertutbationibus/uehementioriburi^ cupiditatibus uelutitcncbiis animuminuoluetibuscum
ipfenulla rationis luce illuRracus (it dicsano dibus ideft ucrumafairodifcerncrenrgat.
Magna profedo hominum ioldtiatmazima^ fenruum perturbatio qui ita rationi
aduerfanturi ut quauisil la fzpe infarg.it t ut animum ab illorum nefaria
tyrannide feruituteq; eripiattipfa uclutiiulbirima regina ueramuelit
inducere libertatemitamen cum nondum uiresfuasrecupetaueritm Dpercp a
diuturno exilio reuerfa a paucis fuorum ciuin cognofeatur fzpe antea qua
dus regni quod (ibi iure dcbctur polfeinonem recu» peret ab lilis
repellitunquippe qui multos iam annos tyrannidum tenentes omni
largitionum genere appetitum corruperint : illum cp adeo demulfcrinttur
malit io feruitute uolaptuofc degere qua honorifice in libertate
laborare. uamob» temcum acbrainterillos przliac6mittantur:difcedic
fzpeuida ratio, lllicnim parere rccuCiDS Palinurus nihil sanum fentit :
Eiufcp ilultitiaatcptrmeiitate cd» mittirurtuc dedituto curfu t quem
penates dii prasceperantin (Itophadas infu» lasdeclinetur. Hunc autem
locum nos ni fallor auaritizuitium redeinterprzta bimur/non illud tamen
quo inde rapimus tunde minime conuenitiid enim nobis Thrada ddignauit.
Verum aliud quod tunc patratur: cum ex iis qux iam peperimus minime illis
(ubuenimus : quibus tus naturacp ac humanz fo detatis uinculum
fubueniendum poftulat . Oodus enim'iam
Fragilitate rerum buroanarum Aeneas ad diuina ratione id efflagitante ferebatur.
Sed appetitus aduerfus illam adhuc contumax ftaredeaetis non potuit. Verum ad
ea quae uulgus admiratur rurfus conuerfus diuitias cupit. At quoniam
multum de pti* fiuufcritateitniautufuctaUndui nc rapiaisilJafibicompatatecoBteodit:
fcd In.P.Vitg.M.AIIego. per (oBUS fordes plus qustn
psr eft parto pacens nullo libmlitatis munere fiigiei DC(p (ibi nc(^ Tuis
beneficus eft.Q_ux quidem cum facit fe parcum non auarutn
prsdicatiprzfert enim fpeciem boni uiri cum peflfimus Ar. Q_uaproptcrnon
io« iuna harpyz ipfz uirginea facie Angunturdimulanc enim
pudorcmimodtfHaou robrietatem^iomneri^ uirtutesprzfe ferunt. At earu
ucntris ptoluuies fcedifli< tna eft.Q_uisenim po(TetauaritizfordesexpIicare:quis
qui turpis hominis di uitis eiufdemtp tenacis uita fdt latis referrer Cum
furor bau d dubius s cum ftene As manifefta At egenus uiuereiut diues
moriaris. Quid miru igitur A earum fu des palidafcmperc fame &
macilenta AtiNarahuiulizmodi homines iure tanta • locomparamussqui inter
aquas.interi^ uaria poma confbtutus Ati tamen at^ fameconAdturiNam ut cumulus
diuitiarum acrcatiprcinterim ruum/utillete« . centianus Gcta defraudans
genium partis abfbnct ac timet uti: Quod autem ua ds Angantur manibus
ratione non aretiNihil enim remittunt quod femel ctpe> nntauarii Q_uinfunt
adeoperaino A auarinxundiut hominem ad dtuma qua dam natum ab alnlTimis
curis ad hzcinfenoratrahantifiC uelutide czioin terras K e lucidis
fjderibus in profudilTima tartara trudant. Auertit enim nos at^ feuo« cat
habendi cupiditas a cognitione carum reru quibus folis Axiiz animus ciTe
po( At. Sapienter igitur adiugit.TrilHus baudillis mdiltunec fzuior ulla
peAisidtjia deum ftygiis fefe extulit undis: Non autc Aulta rado poetas
impulittut ex Thau« inante patre: matre Helcdraoceani Alia natas harpyas
fabulentur.Thauroan« tem tede admiratione dicemus grzci enim admiran
dicunt. Cu cnimobfumma fiultitiam diuicias maxima bona putemus cum
aut bona non Antaut minima bonaiproptcreaq^ illas adrairamut:cuenit:utcx
ca admiratione cupiditas habendi nosinflamct.Ncmo enim cupit caquz
negligit:at(j contenv nit.Suntautem ex eamatrequzAt Oceani Aiia:Nam
liquis maieriam diuinarn diligentius conAderct:omnia mari Amillima in ea
uidebit.Vt enim mare in afli' duo motu cAicundac^ inco facilem ifcentunat^
pcnurbanturaAc diuitiis ai<jf opibus nihil Auxibilius inuenias:multiq)
tumultus ac fzui Aima bella inde ezota tur. Hz igitur c£.'n paflim
armenta gtegcfij pafcant : nihil inde Abi ad ncccAiu tem fumunt. nihil
aliis rumerepermittunqvcrumfiC ab hocquoq^ regenereaua tinz quando^
explicat uir fummi boni acquiredi cupidus. Relin querat olim uo
luptates.indderat in rapinasiquibusquo^ damnatis otacuium confuliti A quo
accipitnofceteipfum:in quo errat Ancbifcscum ea ad corpus refcrctrquz de
ani tno przcipiebanturicauturqi ruo damno fadus errorem cognofat: con Alium
inutat:rclida(^ creta tendit in lauum . Verum rurfus perturbationibus
uexatus animus ad diuicias rutfus refluit: non tamen ad eas quas rapinis
ut hadeoust fed quas nimis fordida pat Amonia comparet: Sed & boc
quo<^ uinum effc cognofccns / proptetea^ damnans < ad Helenum per
hoftcsproAafatui. bes igitur quare in harpyarum infulam delatum mixcrit
Aeneam y?^uod ue^ IO ab ip As uefd prohiberetur iam parariscpulis inde
efliqnia eam uim habet auarina/ ut qui etiam dinflimi Antfame
penrequamuci minimam acerui par« Aculam imminuae malint JAcmis tamen eas
pepulerunt Troiani: Nam di aua AAacxifflbcdllitateat^ builitate animi
tuliaf':qiiz ci cAiut&fctia & tnulict«' i-% « % % t ik tltl I- 1
II- 1- i j mii oa* iff Liber
toriiu <aIcgux'tninori animo runtauarioresTemp^e pncbeact/tunc Fadle
pellitur fi foitemgcn ercfum^ fumamus animum ^6Ilcedit e fitopbadibus
a;neas t fed non prius quam cnfle a ccleno oraculum aedpiat < mendax
omnino uates Bc in E s fubdola } & quz uctborum firepitu
honorem inde incutere uelit unde ni timendum : bed profedo hoc morbo
laborant auari i Nam fi quando ho« ncOa quzdam SC una ratio lilos ad divina
exploranda erigat < propterea^ huma na bzcfiC mortalia
negligendafuadeatrihtiminfuigit ex auaritia metus si rem noftram
familiarem negiigentius curemus fore ut (i fame pereundum x Sed ne«
fiauot fiuItilTimt homines quam paucis natura contenta (it i quam facile t
quam minimo fumptu eius diuitiz comparentur: Efi autem fames iis timenda
qui in anesqui infinitas cupiditates & quz ne^ neceifariz ne<^
naturales lint fibi exple das propofuaint quorum uotago um lata tam
profunda efi : ut nulla auri ui t nullo gemmatum iapillorumtp cumulo
repleri queat . Qui autem ita uitam ia* fiituerunt > ut fola fe
uirtute bntos putent : animum^ non corpus ditandum ^ ponant : his omnia
femper abunde adaunt t Q_uam quidem rcm:quo tibi pia* nius exprimam : at^
adeo potius oculis fubiiaam.ptopone tibi duos diuetlifii^ mz quidem
fottunz/fedeiufdem pene ztatis utros Alexadrum macedonumte gem/&
Cynicum Liogenem utrum ditiorem iuch'cabis:uide quid dicas. Maximi
Alexandro thc Ciuri erant plurimi tobu Riflimi^ exerdtus (ibi militabant :
Imperium latilTimum poflidebat. Innumerz pene nationes acpopuli ex Europa
A(ia* ^uedigales huic erant.Diogene autem quid potcftangu (liusexcogitari:
qui prz tet rimofum illud uas e figulo acceptum : quo l'e recipetet ut e
frigore calorctp tuf tuselletnetuguriolum quidem haberet : quem eodem
panno in utroi^ folftirio obfitum confpiccrcs : cuius auda olera etiam
nullo file alperfa beati (limorum re gum dapes fuperarent. Vttum igitur
horum ditiorem Laurenti iudicabisr Ego q dem inquit LAVRENTlVS h a
deptauatilTima confuetudine : quz altera pene in nobis natura cfl
dirce{l'eto/& rem totam fenfiiu iudicio exclufo rationi cogno»
lixndam tradam beablfimum Diogenem:miferrimum Alexandrum proferre no
dubitabo . Vehementer enim iis aifentior : qui in diuitiis penfiiandis non
quam tum tuii^ adiit : fed quam abunde id quod adeft fibi futurum (it
animaduerien» dum cenfent.Si emm is diues eft cuius cupiditanbus adeo
fatis fupercp fadum (it ut nihil pczterea defidcret quis Diogene ditior
:qui cum (lue pafiurem (iue arato rem quendam cauis manibus aquam e fonte
ad potum haurientem uidiifet : po culum quod ad eundem ufum hdile gerebat
ueluti fuperuacaneum abnaedum putiuu . Q^uis rutfus Alexandro pauperior :
qui podquam a Democrito ut p\i to PHILOSOPHO plureselfe mundos audiuaat :
lamentari non crilauit tanquam nulla ratione diues effici poffet nili
illos prius imperio fuo adiecilfcif Rede o Lau tenti de utro^fentis
inquit BAPTISTA. Q^uamobtem cum idem rex motus animi tranquilliute quam
in Cynico cognouerat ita pronuciaiTcticupcrem Diogenes e(Te nifi cifem
Alexander : magna ex parte fiultitiam fuam indicauit : cum in fummis
opibus zgere : quam in fumma inopia ditefeae mallet . Quamobte difeant
homines quam paucis natura contenta fic s quod cum didicennttoracu# ium a
Cclcno zditum &cile tldcbunt:quamuis ipla ut otadoni liiz fidem
faciat diat fe ca pronunciare guz Phabo pater otnnipoteos flbi Pbccbus Apollo pn« dixit . Natn rempn auari qui funt : uiriutn quo laborant
fallis uirtutum limula» cbtis tegere conantur. NatnquzmoEraauaritia
eftream patlimoniatn uocants & aut deorum t aut maximorum uirorum
audoritate famem timendam pctfua» dete conantur. Oolofa profedo cupiditas
et quz cos etiam quos prudendotes putamus fzpe decipiat . Aduerfus cuius
fraudes illud unicum remedium cft nof fe ea quz hominum ftultilfima
cupido ad uitam degendam neceffaria putabnoa modo nihil peodelTc i fed
omnium noftrorum malorum caulam exiiiae. Deferens igitur Harpyarum
infulam Aeneas ad Helenum enauigatrEll au» tem Helenus 8C uates K
conduis«|Q_uapropccr rede ilium dicemus ingeni» tam nobis rationem &
ueri lumen quod natura in nobis refulget,: quod nos fallis bonis decepti confulhnus
ut in redam uiam ab erroribus reducat» Ipfe autem uates uera przdicere
poteft : fed ditfidle eft ad illum petuenitei cum Iit itet pn medios
hoftes tenendum : Nam 8i fenfus omnes 8i apped» tus fenlibus obtempetans
uolentibus nobis in uetum iudidum delcendcrc (em» per aduerfantur:,At(p
adeo nobis confultantibus obfirepunt: ut uix radonem adire & uera
bona a fallis fecetnerc poflimus. Verum cum ad Helenum perucne rimus
iuuat cualilfe tot urbes argolicas medios fu^m ten uilfe pa hgges : Supe»
rads emm perturbationibus iratiquilla'quTdai^ r^nquitut mens: in qua
lecxd tans lux radonis nobis ucrum oftendit : Q^uo dodior fada mens
agnofeit itali» am t quam propinquam elfe putabat uia inuia longe diuidi:
multum^ matis ef fedreueundumi & ad inferos defeendendum antea quam
quietas in Italia fedu collocet : uz quidem omnia quanta ratione dicantur
; faulius cS mente coo pledi quam uerbis exprimeret poliquam enim animus
non dico profligatis /fed magna ex parte repreitis uitiis per medios / ut
diximus hoftes in lumen luz luca defeeudit Itum demum aduertitfummum
bonum: quod in propinquo coUo« catum habemus putabat
poculabclleioporterei^ nos amplo dreuitu Mariamo ftris obfelfa
peraauigare : Nam inter ipfam contemplationem: hanc quam ui uimus
uiuminteriacet is quem iam totiens appetitum nomino uelutiturbulcn liifimum
mare: quod fcyllacharibdifcp pernitiofiirima monlha infeftum red» dant:
Si tamen eft pei hzc loca enauigandum li IN ITALIAM VENIRE nolumus : Oi»
ximus enim a principio (i rede memini nulla alia ui nilT appetitu animum motuti
.Sed quoniam de duobus iis monftris dicitur a poeta : facile eft ex ipfis
fabulis quid fibi uelit coniedari. Nam cum eas foeminas rapaci fhmas
fuilfe memorizf proditum Iit : non ne per eas commode exprimi animi
nimias cupiditates dice» mus : quarum prindpes luxuriem at^ auaritiam
eife nemo dubitat . Scjlla e^o s glauco adamata ucneteasuoluptates
exprimet: quz maxime rebus nofttis fio» rcndbus uigent: Nam quod eius
uniunia pubes m canes latrantes conuerlafu/? uantum ad negodum faciat : fadle
eft cognofccre. Chanbdim ueroipli quof Icrculiboucs quondam
fubripereaufam quis non intelligat limulai tum nobis auandz refene : 8I qnoniam
ab ca non ita in rebus fxliatei fuccedenubus ut gemur quemadmodum a
libidine. Sed tunc potius cumnimi sanguftiis diuida nun terminis incluli
uidemur: ac ob eam oufam minime nobis noUxa placent
ii •p. a MI ia Bi itk iw “!f
lab ipoK imi». okib! abii
l{DKd biW uocA \^2Dli
.qmX (uitbi SUID* jniisi^uin®^ iCID# aajb crlb<
jola* OUfl^ 1^1^' amba* mfia eKccT^ eflcopinaiaut t
iccirco dextrum a fcylla : Icuum a cbarybdi latus obfi dcri Mato dixit
(quoniam altera in rebus quas aduetfas putamus t altaa in iis quibus
uebcmenter dele Aamur : nimis nos urget. Quz cum Baptifta dixiflct : at^
refumendi fpiritus caufa aliquantulum obdcuiflet. Admiror inquit Laurendus tam
magnx tam^ reconditx dodrinz diuinitatem . Verum quanto me iffa tnagis
deleant / tanto magis cupio : ne minima quidc m in tota re mibi dubita»
donem relinqui . (tai^ utar ea quam mihi conceiTi^ libertate uel licentia
potius : At^ ut iamioulligas quid illud (it (quod nili tibi aliter
uideamr/ planius heri cupio . Odenderas a principio ea ratione politum
ellc a Marone Troiam zneam cekquifle t quoniam lam uir ille corporeas
uoluptates contempriflet t per thraci» amuero at^ dropbadas utrun^
auaridx genus exprelTum cfTe uoluidi : Cur igi» tur (i buiufccmodi iam
uitia exuerat Aeneas ( rurfusnunc ut illa uitet ab Heleno monetur C
Dcle&at me tua interrogado o Laurend inquit BAPTISTA t Oden» dit
cnimmaion quodam iudicio quam idbxc xtas gerere foleat te ea qux dixi c6
fideralTe: Veium quo omnia tibi plane pateant: memineris non eum uinim a
Virglio [VIRGILIO] produci AENEAM Aeneam: in quo uirtutum habitus conoboratus
fit. fcdqui pro uirtuteaduetfus uida ita pugnet tut non (inemulta
difficultate per continen dam uincat : nonnunquam etiam uelud
incondnensuincatur.Q^ui ueroin Ita liam id enim ed ad diurnarum retum
inueibgarionem uentuius ed/ huic non fa dsed : ut continens fit . Nam
quamuis condnentia a cupiditatibus arceatitamen S uoniam in affiduo
certamine uerfatur:non przdat eam animis nodris tranquil
tatcm/quaadrestamexcclfascognofccndas opus ed Quimobrcm egenus ipfa
temperantia uirrute undi^abfoluta: & in ipfo pene cerdo uirtutum
ordine corroborata qua qui inlbudi fuirt/nonfolumonuies cupiditates Tupc Tantiue»
lum edam illatum penitus obiiuiftuntut . H oc autem habitu nemo mortalium
fe corroboratum in confidat : nili plurimis afliduif^ adionibus prius ad eum
co fequendum fe exercuerit : Q_^ux res line longioris temporis interuallo
effici nem poted . Huiufcemodi igitur temporis moram VIRGILIUS poetice
quidem fed opd me tamc exprelTic : cum dixit : Prxdat trinaaii moeras
ludrare pachtnni. Ceffan tem longos/ Sedteunfledere curfus. Quod autem
moneat ut eo quem dixi ha» bieurn fe con firmet xneas uerfus unus indicio
elTe pet^d . Adiungit enim quam fcmel informem uadouidilfefub antro
rcy1lam. Quamobrem icdiflime uni» uerfum locum concludemus neminem
poffeipram dminitatem attingere : nili perlongum prius intefuallumeuih:
quem dixi habitum ita contraxerit: ut non modo non rapiatur a fcjlla :
fed ne femel quidem ipfam uideat . uod quid ali nd fibi nuit : nili
ita obiiuifeatut cupiditatum omnlumtut nunquam illx in con ipedum
fuxmentisredeantrperpulchrc per^ commode omnia ida inquit LAVRENTIVS. Verum
quid tibi paulo ante explicare libuerit: triplici illo ordine oir tutnm
non plane intclIigo.Res inquit BAPTISTA huiufcemodi ed : qux &: Iz pe
alias maximo tibi ufui & prxfcnti fermoni apprime neceffaria futura
linOiui» nus enim Plato cum uirtutes de uita Sl motibus eafdem quas
exteri pofuilTet:ita sd podremum illas diueilis Gue ordinibus Gue
generibus didinguit :.ut alia qua dam ratione ab iis illas coli odendat :
qui ccetus ac duitates adamant t alia ab iia h ii i I
qui omnan mortalitatem dedifcnc cupimtes/ft humanatum rerum odio taoii •d
fula diurna rognofccnda eriguntur : alia poftrcmo ab iis qui ab omni iamc6«
tagionc expiati in folis diuinis ueriinturtprimas igitur ciuiles dixir/fecundas
pw gatorias/ac tertias animi iam puigati.Eft enim triplex hominum rcAe
& ex ratitv oe uiuenbum ordo.Horum trium inferior eft eoru qui io
fudali acciuili uita dt gentes rerum publicarum adminiftrationem fufcipiut.His
{iximi fed m ercdioti gradu confiituti ii funtiqui a publicis adionibus
ueluti tepcftuoflsiac procellolis Kin qbus fortuna; temeritas oino
dominet'' :fe in portum tranqllitatis trafferuot & a turba io odum fe
tecipietes/ quirta uitam degutinon ita tn ut no aliqd adhne tefictaduerfus
quod Iudadumlit. Supremo autIocoeoscerncsqui penitusa re« rum humanatu
concurfitionerac tumultu remoti nihil cuius panitcdum sit /c&
mittut.Eft autem oibus his ordinibus hoc c6munr/ut uirtute dure ciida ad boni
redi^ normam dirigati Verum qa in uita duili cupiditaribusiac
pturbationibus omnia tumultuant hifip non oiu xgre refifti^ rdicunt in ea
hoium genere uiitm tesi Dcohataspotiusqabfolutast Quaproptetidinill
bptadcntiac6tendit/utm bil agatuticuius non polTit ratio (^tem
probabilis reddi i Fortitudo uero animd fupra omne piculum at<p moetum
affett : & nihil nifi turpia timenda admonet. Tcm{watia autem oftedit
fola honefta appeicdainulla in re moderationis legnn excellcdamioea
cupiditates iugo ronisrubiidendasiluftitta; poftre moptesfuni: ut unicuimruumredd»’'
iutx quoiureoesuiuant .lnrccudoautilioh>iumgene tctqui ea it
ronea negodo in odum uendicat/ut liberius poflit rerum diuinaium
conicplationi incubcrcifunget munetefuoprudciiafifpretis oibus mortalibus
rebus &cxleflium collatione pro nihilo habitis omni cura omnim
cogitatione ad diuina copuertat" . Temperitia autem cum ea folum
nobis cdce(Utit/bne qui* busferuari uita non polTiticaitera omnia
fcueriffimoiudidocontenendarf^upeii datp pronuciabit. Sed necaberit
fortiiudo qu* afliduo pridpiatiut nullum meo moduminullumlaboreminullu
periculum horrefeamus/quo minus redo 8£w petuo^uti**' - j 1 n- ». tuo^ut
ita loquar)curfu ad cxlcftia & ad origine fuam icdat animus.Diccs q d
luIhtia.Hoc jifcdo minus libi imponctiut reliquarum uinutu cofenfum in hu iulcemodi
ppoAtum firdatilfti quo^utrupiarcsaduafuspturbationcspugnit fcd fadiius
fupcratsfei^ paulatim expi .tos reddunt. Quapropter uirtutes ipCrin illis
purgatoriz appellantur. Verum audi iam tertium illud eorum genus/quota
animi ab omni uitiorumlabe ^cul ab Ant. Hi igit' in eo prudentiam
exered/non ut deledu quodam habito diuma terrenb prxferantifed iit illa
fola nofcantifuU J ueluti nibil aliud At intueantur. Adhibent autem
temperantura non ut cupitates coberceatifed lilas penitus ignorent.Eadem ratio
erit fortitudinis.llla eni pernitbariones non uincicifed ignorati Quin
opubic dura at^ horreuda Abi of ferrirnon ut uidoriamaiTequacurired ut in
eorum obliuione perpetua riimiuts 'ifidiligentetinfpides/ fadiecognofcesidabhelenoadmo
petduret. Quxomniaf ^ neri xneam
non pofle illum fedes in Italia qetas ftabi colloare/niA priiis ad
boc tertium uirtutum genus peruenerit : (^uid ergo hadenus: nonne
Troiam deftrueiatjacthradam ftrophadefipteliquerat. Defenieiatquidemjred
nondum $mca uitia fugiflct illa dcdilutc poterat Jiunc autem non ut
Moliirnt^iP Liber tettiai «Birittaib^ deponatt^od tam
feceratered ita de tnte deleat: ita perpetue obK tuooi roaadntut nunquam
eorum memoria illum rubeat:Cu autem prz omni bus rcbua iterum at(p iterum
1 unonem pbcandam moneatsqua quidem adua •imte Italiam nunqua podturua
(itmdnc nobis documentum eftroaximum nui Ium ex innumeris uahif^ uitus
eflieta quo etiam ii qui ad quzip ezceifa eriguiu lur t scgriiu liberetur
quam ab bonorum imperii^ cupiditate.Fadle eft enim cd temnere uoluptatesa
qui iam maiora mente conccpit.Diuittasuero &li fpecie maximorum
bonorum a principio nobis oftendantipoftrcmo tamen ab excelle tianimo negiiguotur.Atucrohooorcsmagiftratus&
imperia quoniam exedi' lens quodda & eminens in fe cotinere
uidetuunfpecie decori at<p magnifici ztu* mum etiam excclfum
deripiuntiNamcum cupiat ille fefe qua proximii deo red deretanimaduertac
autem nulla alia te nos magis deo fimiles efle qua dandis bc ncficiisiNt^
hzc przftari ab hominibus pofle nifi in fumma reru poteftate coo
flinitifintiaocenduuruebcmenti quadam cupnditate ut reliquos antecedat:
Eft enim natura nobis iditu/utfcnm (upiores in rebus oibus euadere cupiamusi
Ce dcrcauteautfuccumbeieturpimmumputemus.Q_uz quidem naturalis
cupv» ditas nifi reda ronc temperer in ambitione ac pofttcmo in tyrannide
nos rapit: in qua muka aduerius humanitatem audelia tetra nefariaip
comitthnus : cu natura ipla nifi deprauata fuerit ad magnanimitatem
erigat nos ad fupetbiam ft dominatum omnia rapimus.Hinc fraudes:hinc
czdes : hinc reliqua imania fiagitiainfurgunt.Q^uibustcbusipfam
humanitatem exuri in truculcntilTima monfiu conueitimur.Non igitur fine
fiimma lapinia ad Cyclopum littora ht Dti dedudt diuinus poctatut ofiendat qui
magna quzdam & cxccifa petuntten nulla certaratio anima reganfefe
falli & pro animi magnitudine in imanitaicla bi.Scd hzcquocp loca
miferia ad fc fugientis uiri admonitus qua primu cifugit ENEA. Quid enim
aliud nobis cxprciTius cfiFmgerc:at^ipfis(^ucica loquar oculis fubuccrc potcfi ambitio
larofiC fumma efferitate deteflandam 1)^300103 uitam quam cyciops
Polipbemu$:qui procul ab omni hominum confortio hu manis carnibus
paicatur^^ inter luflra feraru fola uita agat . Nonne enim iure
Andropophagos tfic enim eos appellant grzci qui humanis arnibus
uefeun' nmilloscl Te dicemus: non qui carentia iam anima corpora id enim
multo ma gnto Uerandumefiiinfuas epulas conucTruntifed qui uiuentes
omnibus ctu» oatibuscrudelil Timc exeduntiqui ut aut tytannidem|fibi
comparentiaut iam cd paratamtut cnturioptimum queipuirum & iufhzqui
ac libertatis amatoicm lzuifiiimemteTficiuat. Q_ui utfcelerariirimi uori
compotcsc £ Ficiantut:aonmo do fingulos homines ttuddanttfed totam
urbem:ne^ folum totam urbemifed integras nationes ferroigni fameij
populantuncun^ libidini militari fubiid imttQ_ui nc^ agris cultoribus
fpoliaietne^ hominum pecudum^ przdas abi gete uomturiqui pueros tcncraf uirgines
ex parentum complexu aut ad mor tcmautad libidinemrapiunnqui caftarum
mationara pudicitiam expugnat: qui publica acpriuata faaa
ptofanacpzdificia funditus cuertunt:S qui modo in florcnrifiinu re
publica ampIifTimum dignitatis gradum fumma cu gloria ob tincbantitot
nunc oibux foituius lpoliatos mmiraritni feruttutc abducunu V'
I.4 In.P .Virg-M.AIIego. uos igitur cydo^quos leftrigonas cum
iftorum imani fcttida cofErcnaif Quimobrtm uir iummi boni cupidus qui
antea non bene infttcuta animi (oi magnitudine quacun^ uia ad honores
imperia^ nitebaturmunc demum tam nefariam crudelitatem quam primum eam
nouit deteftatunnouit autem a ma dlenta rqualenci<| achemenide forma
per quii lapiens poeU omnes calatnittla quz ex tyrannide generi humano
perueniunt s latenter (ignilicauiticum dues paulo ante omnibus
ampiifhmotum honorum gradibus honefiati/ ad rern ino piam cxtremai^
famem cdpellunturicum illudiis mortis moetu latere ct^un^t Rclida
enim ariffmu patna ignobililfimis obfcurilbmirip lods exulant: Qua:
quidem miferia edam li in graium hominem & Aenex hodem cadatitame non
poted ipfequi uit bonusauc fu aut elTe dudat ad fummul tyrannidis odium
no impelli*Q_udigitur Maronis fapiendam noniureadmiretun qui uirumm
ita liamuentutum maria at^adiaceda littora tam horrendis mondris obfefla
ita caute dreuire iubetiut illis omnibus euitads in Siciliam incolumis
perueniat un de breuidiffius curfus in italia dc.Fadle enim ed homni qui
fe ab omni ii auari» dxfpcde cxpediucntomnemip iniuditiaatipei Fentate exuedtiadreru
magnis rum cognitionem edgi iprxfctdm fi iam in Sidliam uenerit.Ed aut
Sidlia nue in(u Ia olim uero italix coiumdai Bt condnends parstfed uenit
medio in pontus K undis hefpenum (iculo latus abfddittarua^ Si utbes
littore didudas angudo interluit zdu.lta enim abimortali deoapnndpioaeataed
diuinitas animoti nodrorumiut una cademi^ dt pars infedot rdniside qua
paulo pod ent didin^ dius difputandum di parte rupertori.Scd quoniaipfa
,in agendis rebua uerfaf drea ea quz loco 6i tempore citcdfcnpta adiduam
mutadonem redpiunt euenit ut interucnientibus Uanis pettutbadonibusi quibus
prudenda decepta (xpe pto bonis mala cligitiratio ipfa inferior illis
uelun uehemcdlTimit fludibus alfiduO percu(riabitaliatandem diuellacur:6 (aruperiodradonead
appedtum defid> at Q_uz omnia quauis ita fint unde tamen breuiot
ciufusad italiam.i.ad eo»' teplatiunciquz m ipfa ratione fupedod polita
ediquaa ratione inferiod quz per Siciliam lignidcatur nihil repedes
przferdm humato patenteique nos mol bticm quanda eneruata homini a
fenfibus prouenienteinterpraetati fumus.NS quam enim ad ueram
contemplationem deuenicmusinifi pdus ipafut ebddia notum uerbo
utar)fenfualitasnon modo earinda uerii eria penitus fepulta in nobis
fuerit. Q_uapropterli rede animaduerds de Anchife mocte meminit poeta de
fepultura non meminittno enim in iuliam ed uenturus.ln quinto ueto libto
celebratur funusiut demu fepuito Anchife in italiam cotenderc lice
«.Apparatis itai^ rebus oibus Aeneas ex dciliafoluens paulo pod italix
pot/ tus fubite fperat.Ne(p fuilfet a fua fpe deceptus (i lunonem
aduerdiTimam . bi dea ex Heleni przcepto antea placauiffct.Odendimus
paulo ante lunonoa honopi impcriiij cupiditate expnmeredn qua quidc « fi
Aeneas ita fe geiatiut nihil iniude/nihil audeliter in reru adminidtadone
aduius fit.faocenima Po lyphemo fuga indicauit nihilominus cum in
confpedu Italix iam fiti& in li nunc pene fpeculandi conditurus:
Animadueitat^ non poife in rerum diuiu nuncognidonedcucnidsnifi humana
haec omnia cotenat/nidtut ille quidf Liber tettiiu rem
perficere . Std appetitus qui nou dum ratione fubiedus fit omnino ro>
pugaat: faKU 9 argumentationibus perfuadet noncireaurneg]igendoihono«
tes/autimpia relinquenda .Percomodeo tnqiUate inquit LAVRENTfVS tC ad rem
uehementer appofitx.Sed unum efl de quo SC fi fortafTe confentanea fu
fpicer > tamen fentendam tuam uehementer cupiam.Na quid fibi obfecro
uult ^fficilis ilia & apprime moiofa dea luno. Si enim manentibus
TroixTtoianis iiafcebaturscur deinceps iifdem illis in italiam
enauigatibus adeo boftili animo aductlatunan fortaiTequiautracp
uiuambltiofoK imperii cupido aduerfa Et. ifibne ipfum inquit BAPTISTA.
Atnbitiois enim dea olim Aenex irafeebatun quiuoluptatibus dclinitui
nihil honorificum quacreretmunc autem rurfus ira fdtnncum uideat illum ad
altiora quxdam eredum ea qux exteri mortales in admiratione
habentsotnnino contemnere. Omittens enim illa que primum gradum in uita
duili tenent non motulia amplius ifed immortalia quxrin mi rifice ictura
poeta.Vix e confpedu SicuIx telluris in altum Veb dabant Ixd j K fpumas
falis xre ruebant. Cum luno xtemum feruaru fub pedore uulnus: quae
deinceps fequuntur: Ratio enim uiuendiiqux honoribus inferuit cum
animadueitatfc ab Aenea deferiia quo olimquo^cu ille uoluptatemtociu
amaret negleda fuaatyuehementadolet.Cognofcit enim fi ROMANUM IMPERIUM ed fhtuutur
foreiut fua Carthago ruituta Et: Quisenimnon intelligat E ad
c6tcplationem:qui ptxftanti ingenio funt uiti accefferint/ illos ciuiles
actio.* nes ccdercrturos. Oolet igitur St pfeotiiniutia admonita
pteiitotutcminifdt. Manet enim alta mente repoEum ludicium
paridisfpretx^ iniuria formx. Et genus inuifum & RATTO GANIMEDE ONORE.
Qux quidem fabulx E diligentius conEderentur nihil aliud nobis prader de*
ditauoluptanbusuitam referct: Nam Paridis ludicium in quo lunonl Venus
prxferturiquid aliud cefeasniEuitx honorum cupide molle enetuata^ 8 (uo
luptatibusaddidam prxponi: Genus autc inuifum.i.louis Eledtxt^ adulteri'
um:acpoSremo RATTO GANIMEDE nemo modo mediocriter eruditus Et alia
traduccuHisigituraccenla luno naufragio Troianos perdere tentat. Verunx
ne noseaquxfubhuiufcemodi tempeftatis Egmento recondita funt ulla ex
pattelateant: neuequidluno: quidxolusiquid neptunnus Ebi uelit incogni'
tum relinquatur:pauca de animorum noEroruui at<^ natura repetenda
funt. Illud tamen pmonebo cuenireiut eadem ad multos locos enodandos
adhiben da Ent t Q_u« E fcmel a’me expteEa exteris deiceps in locis
ueluti ia cognita file tioptacanc luideo me qd* fumopete cupio breuitati
inferulturu.Sed rurfus cu eodieteprKc/E Ecagamus/duplextibionusipo Eturus
Emieritenim eode tpe 8C memoria qd alibi didum Et repetendum: K quod
interim perpetuo orationis filo contexif' : Ene ulla inteccapedine:percipiendum
malo loquacior etk/q oomittere ne ingeniu eodem mometuo in plura
diEradum:ucl minima difpu lationis paidcula incogmta ptaucrmlttcre
cogaturiCum igitur ad id quod pro Ia.P. VIRGILIO M^IIfgo* tPrn/f
<«•’<»' «*• 'v'»^ prium noSnim^ tft:quod(^ a noftrz
onginls diuimtate traximus t id eSsdt» tiocinandum/ad concemplandum/ad
intelligendum mgitDut:eam animi pai> tcmadhibcmus:quamgrzci nos mentem
nuncupamus. Verum hae mutiifed przcipuc Platonici chriffiani
FILOSOFI duplicem elTe uolueruntt 4 alteracu inrctiorem quam rationem
appcllant:diuiniorem alteram & fuperioro TIfct. qu- i
4eIIedumnuncupant.QU3propterfapienter Auicena animos noftroi ur t alterum
lanu duplici ore inllgnitos e(Te dizitiut hoc furfum uerTum ptia r .na
altilTima per (apientiam rufpiciamus.lllo uero res mortales & adioneshua
manas per prudentiam adminifhemus. Diuiditur igitur mens in duo rurfum in
tapientiara/deorfum in prudendamrquz Ht reda rerum agendarum ratio qua
iiinuirumfiC mulieremrutuirrupcnor iit ®at:Mulier inferior 8l
regatUR Quapropteregregiei!lud:^lioieiliniquitas uiriiqui mulier
bencfadensrnd ^ enim przponitur iniquitas uiriliszquitari muliebri: Sed
commode exprimitut I 'tedius eum agereiquideiideriorerumczieftium raptus
plurima corporis &fo cialis uitz commoda negligat: quz res
uideturiniquatquam eum : qui ut nuW Ium uitae ciuilis officium
deferat:czlcftium rerum curam omittit : (^uz cura ita (intiuideamus quz a
Marone dicuntur: Nrmpe zoium lunonis przdbus uentostquoslouis iulTu
regere debet/in mare cmififTeiqua tempeflate obrui poterant Troiani nili
illis aNeptunno rubuentumfuilTct. Quo in loco fi ui tz ciuilis cupiditas
(it luno commode zoium inferiorem: neptunum uerofu« periorem hominis
rationem interprztabimur. Non igitur mirum liabhono» rumae imperii
ardentilTima cupiditate ratio illa inferior (lediturrattp de fuo gradu
deiieiiur. Referunt fabulz zoium uentisprzpolitum aloueefleiut iuC>
TuAioillos BC intra carcerem cohiberet&indeemmcreceru quadam lege
ualc4 at. Quamobrem celfa fedet znius arce Seeprta unfDS mpHit^ apimos:
K teinperatiras:_8£,iilud N i faciat maria ac terra stcilumq: profundum. Quippc
fei^tfec^ rapidi : uertantep per auras. Et profrd Ot&infiituti funt
animi noflri ^etum omnium fumnioatcfiitcdotut cum Iit in nobis ea pars
quz ad tes afeifeendas fugiendaf^ inlurgit: przponatur libi ea rationis
particula : quz infenor cum(it:adres omnes agendas rede appetitum moueat.
Ratio auum - Iplis mortalibus indita non a corpore efttfcd
aloue.Hzciguurdumfuo co ditori obtemperat celfa arce fedet:quia nihil
humile cogitat: fed quztp aigre^ gia: attp excelfa meditatur : teneti^
fceptra.Nam totius uitzadminifttatianein habet: mollit^ animos /&
temperat itas: cum nimiis cupidiutibui appetii tum cohercet : at^ inna
modelliz fines continet : Sin autem ita lunonis blan>' ditiis demulceaturiut
fuz naturz propriz^ originis immemot rerum rettena rum cupiditatibus
irretiatur/ totum lilife przbet : eiult^ iuffu non autem lo uisuentos/hi
enim penuibationcsrunt/emittit.llli uao mare quem apped<> tum cflic
diximus paulo ante tranquillum ex diuafispartibus ferientes bor« tendas
tempeflatcs excitant: hebetant enim tadonis adem honorum cupidi tatesrquz
uelud nubibus obdudauerum bonum a falfo non difccrnitiip fumcp appedmm :
qui a fenfibus originem dudt: non modo non refhnguit ardaemractum ultro
inflamat: &gcntemiunonisinimicaseaautcft mens no / » Liba totius
Itlbullu Qanitn rnunicotit^tm:diuinatuin autftn cupida/mratiis
perturbati poibusobtuae nititur.Scd rcaeo ad lunonemillla enim cum
tecencitiiuriaanti / MUm (H)i uulnus refrkafictiira plena in zoiiatn
tendit. Kimbofum in patriam loca fceta furentibus auibis.
Cidlidaomnino dea guz regionem ad ea quzcupiebatpaHcienda fibi
deligat nott'ignotauic:Cum enim raum humanarum amor nos ad diuinarum cogniti
onem abfttabae nititurrin zoiiam patriam uento^rad enim eft in appeti tum
p tuibationibus expofitum ueniat necefle efi. Verum iouis iuflli hoc
regnum zoio commiffum cds Nam ri deo obtempaemus rationi fempa
obtemperabit appeti tU&Redifljme enim Platonicum illud bpnp uiro legem
deum ellr : malo autem bbidincm: Quaobrem huiulcemodi rarionemdeprauare
aggreditur Iuno:& ue iuriti qui caufz (iiz diflFiduntrfit fallis
rationibus perfuadae/& largitionibus cor tumpae iudices patanttita
ipla zolum adoriturteonaturep oftendere zquum elTc 4tillc gentem fibi INIMICAM
ITALIAM attingne prohibeat. Perfuade^ zolustfe^ cn da M iulTu lunonis
fadurum redpit:Q_uin quicqd imperii habet/id omne a iu BoUe
tecognofcit.Nam nili inflametur appetitus cupiditate rerum terrenaruiatrp
illp uduti mare ucntls turbet rminime uideretur indigere uita nofira impio
ratio tus.Hocigi^ padotromnia lunoni debere ratio fatetur ueluriquz(^nifi
pturba lioaesaflint^aibil habeat in quo fuum impium exerceatrac decepta
cupiditate ea tum raum quas magnas putatmentis habenas remittit/ac mare
perturbattquoni •tUturbulemimis cupiditatibus appetitum
codut.Quibuszneasqui ad cxle^ Bium rerum contcplarioncm tedit/adeo labo
paiculorut^ magnitudine infrio giturtuta jppolitodciiciat" :Et ^fedo
cum appetitus quo folo animus moueturr ftquonosad fummum bonum duci
oportet/aKonosrapiat/infurgit atrorilTima iUa tempeftasrin qua eripiunt
fubito nubes czlui^ diemt^ teucroru ex oculis . Na qui paulo ante
tranqllo appetitu adrpeculationemfaebant"tinfurgentibuspaturi Mtionibus
adeo illis oixzcant" :ut quicqd luminis a rdnepueniebat/peniti»
tollat tVnde fit ut nox atra ponto incubet. Appetitus enim qui hadenus luce
rationis illul habac nuc illa amilTa in tenebris uetfatur. Adeot^ zfi uat hoc
maretuc lii aqlone fetuntur/hzc enim elatio quzdam elliquz a rebus
fecundis profluit. Alii in fummo fludu pendentmam fupra fuas uires
difficilia ardua^ aggrediens tes amdi foliciti perpaua expedatione
pendet. Alii terram inter fludus tangens tcsabipfa fortuna dnedi
mifetiarum cumulo obruuntur.Sunt deniip qui in fas
alatcntiacontorqurantur. Nam multi cum impetu perturbationum ad huiuf^
cemodi cupiditates explendas ternae ferunturiin uariatp pericula fibi
improuifa inddunt. Sunt poftremo quos auaricia ueluri in fyrtes
ttahat.Nam quis non uis daefle aiam quorum nauis demergatur. Vnde utre
omnino apparent rari nan tes in gurgite uaftoiNam ex inumera mortalium
turbaiquos perturbationum p cclh]dcmagit: paud emagae ualentiFado enim
habitu pauci ad portum enare pofluntiprzfertim cum ipfe gubernator a
temone tcuulfus imo in przceptls deie dus in profundum ruitiCum enim ea
animi pars quz uitz regedz przpolita eft fuaiicde deiidtur/adum iam de
uniuafa te cite quis non putarHzc autem otns Iliacum lunonis zoli^ culpa
acddiftenttinterim Neptunnus commotus graui* i In. P.VIRGILIO M.
AIlego. tate t<tnpcfta^sf>Ia'd(]uin caput ex fumma unda
cxtuIk. N(ptaliutn mum macia deum cfTe finxerunt: Dico aut fummumiguia
alia quo^smaf^o» mina extann&ptofcdo plutea uires appetitui
prxfantimouet' enimilfe iudit» fcnfuumrmouct" tonis inferionsifummum
tamen impium fupioii ronirefenu tur. haec igif r^tio quam nuc neptrai
nomine (ignifiat poeta cum oibuspturba« tionibus rapi uexariip
uideat:caput e fumma unda ueiuti ex fpecula rifetttVnde ipfius appetitus
fludus jicellafip animaduertes aium illius furore in pram pinum rapi
cognofcitinei^ folum tcpe(htemfmtit:fed etiam ipfam lunonisdolisexdta tam
intucc :Nouit enim reda ratio aium ita afFedum:,ppterea in hasmiferiasitw
ddiffeiquonia falfa bonop: fpe decepta inferior ratio urntos no modo non
cohi> buerit: fed ultro emiferinC^uamobre utfubitn tato malo remedi
uni affecat cuje zephyrui^iac reliquos uctos ad feconuocas grauirer
increpariqui impio titanum fanguineorti/deo^i regnum
infeftareaudeanReferut enim fabuix uctos Aftrd filios fuilTei Aftreum aut
unum ex iis titanibus eifedicunquiimani impietate ad« uerfus deos
imortales temeratiu bellum fumere lint aufi.Hxcigi^ in fabulis rcr>
periesi Non aut CICERONEM reliquofip dodiflimos uirosaudiamusiquidoa ali
ud cum diis bellum gerere qnaturxnolhx repugnare interptabimur;Q_ua qui
dem re quid magis temeratiu rflepolTit non rcperio:nam queadmodutn cosUi
demum fapietes Bi dicimus Sc frntimus:qui naturam optimam ducem fequund
ita illos (hiltos temerariofep putabimus:qui ab ea oino dcfcifcut.lure igic'
uentM c titanibus ortos iinxeruuquonia ptuibjtioncs a temerario
fempi&nalurc repu gnante iudicio pueniunt. Audax igitur facinus
comittunt perturbationes i qux flultitia 6i temeritate humana gente appetitum
diuinitatis nolhx id eft tonis itm perio fubiedum turbare
audeant.Quaraobrcm iufte a neptuno obiurganifues ti:fu(lcc^ impium pelagi
fibi uedicat ncptunus/cum in bene inftituto animo hw iufcrmodi illud e(fc
oporteat ut folo mentis iudicio moueatur. Ad huiufccmodi igitur fentemiam
commode polfe ttanffcrri xolum/at^ neptunum putaui. Qod (1 qua in parte
fatis tibi fadum non e(l:aut li quid in mentem urnitiquod aptius IcKo
quadret:promas illud licet: Nihil enim c(l quod uereatis:aut pudore
impe< diaris:Nam neminem ex omnibus qui uiuuntiuucnics/qui aut xquiori
animo refutari patiatur:q ego fero/aut auidiusqucxlnefcicntaddifcat: Necp
eft etiam quod dicas huiufccmodi fenem ego adolefcens. Vidi enim multos
ex iis qui & ha bentur & funt dodiflimi nonnunq admonitu etiam indodilTimi
hominis in at rum rerum cognitionem ueni(Te:in quam fuo ingenio tam
diuturno nunquatD tempore hadenus uenerant.Ego inquit Laurentius quid
aliis euenerit ncfaoiiiu hi tamen nunq tantum arrogabo. Verum quia
accidere in tanta rerum copia at^ uirictatc dodilTimis quibufc^ folet/ut
cum plurima eodem tempore fefe med of ferant: nonnulla fint:qux fic fi
non explicent" :facile umen Sc reliquorum fimilitudine percipi
pofiint.Sint etiam & alia qux quamuis enucleate planecp ediflicrae
turihcbetiori tamen ingenio qui funt illa minime confequant":utar ea quam
mi hi pamittis licentia:& quoniam de confugio xoIi:at(^ deiopex nihil
a te didum cftipetam nifi id omnino inutile ducas:ut fi quid ea in
fabella fitiquod ad rcno< fisata confciat/nobis explices. At dices n unquid tibi m
mentem uenit i ac edam Liber tertiuf nthinu Horib^tne(!erat!ges« Vcnicqdetn.
Kamaiffi nKo adiuiDis ad humana abducenda cftinullum pene maius przmium
proponi pote(l:g pulchrum cafiu m coniugium:inde enim cupiditas ilia naturalis:quz
eft coniundionis maris SC fttminaeezpIetur. Lndefoboliseft |> pagatio:quxquidem
non fotum uoluptatiii tuul ac ufui nobis cd;uetuffl etiam pofteritati
confulit/ut etia morrui aliquo mo do ih illis uiuamus.Ulbucipfum inquit
BAPTI5TA nec modo |>po(itx quxlH oni rationem habcas quicq eft
prxterea defiderandum.Nam id hoc in loco aperi amiquod alio paulo pofi
foret aperiedum*Prifci igit" illi qui de deoni natura
fcii» pferunritria ibeologiz genera pofuerutiunum fabulofum/quod grzci
mithicon nomtnant:quo quidem populum ociofum in theatro oblec rent:
Alterum nata rale/idenimeft phy ficonrper quod comode
uimnaturxexprimuntiut cum per iatumumhlios omnes przter illos
quatuoruorantem tempus nebis denotant: itodii quatuor elementa
ezcipias:omniafua edacitate confumit.Tertium uero iccirco
ciuiJeappcllant:quia inde ad benebeareqj uiuendum przcepta promatur
Coofueuerc igitur poetx quibus nihil dodius reperias/hzc omnia ita
confundere:at<p m unum comifcereiut optimo quodam temperameto eodem tempore
& aures fummauoluptacedemulceant:& mentem recondita dodrina
alantiac nos adredum at^ honeftum & ad ipfum fummum bonum deducant:
Nos aur quo ciam A hzc omnia exadius in Marone ^fequi uoIuiiremus:nimis
operofum ne godum |poni uidebat" duobus primis generibus obmiiTis
intra ciuilis generis ca cellos difputationem noAram mcluAmus.Q_uapropter
illud paululumtqd mo* do de fabula decerpferas/noftro operi conducet: Nam
reliqua phy Acen fpedanr. Dicunt enim Pbccbi Aurorzi^ Alias.xiiii.fuiiTe
eafcp lunoni nymphas attributas exiliorum enim intcrptatione luno aer cA*
Aeri autem feptem quzdam attributa fuiit.Septem itidem in aere ignum''. Quz
omnia ipAus folis tunc maxime cum in noftro hcmifpcrio ueriat :opera
proucniunt.Sed ut de primis priori loco dica tur eft aeris ut leuisAt:ut
mobilis:utcalidus:ut humidus: utferenus: uttacitum P Utlpirabilisxbasigic
ueluti feptem nymphas finxerunt poctz:earutn autem quz in aere gignunt pi
imam ponunt quz Ins appellac'':Cui etiam attnbuut tres ueiu li minittras
pluuiam grandinem niuem.ln his enim contingit ut nubes fuli oppo Dat :fcd
eft id^ut ita loquar^nubiu corpus ut alia fui parte denfum/ut alia denii^
us/alu den Aflunum At.Q_^uapropter a prima fubrubeus/a fecuda ccruleus/a
ter<« tia niger color perucnitx Contra ucro partes quz in ca purz funt
croceumiquz ue ro puriores uindemxquz poftremo puriftimz album colorem
remittuntibzc igi tur piima ex alus feptem nympha eftxquam deinde fex
fequutur phy thon come.* ta fulmen ronitruumxcxhalatio ac
tcrremotustdeqbusfuo ordine difpacarc no grauereniuriniii ex tnbus illis
quz dixi generibus ciuile folum profequi conftitu il Temus: Vaum cum
uoies bzc probe & quid qua ratione gignantur:
faci* ]ccognofccs.Sunteniminiisquzmeteora appellanturab Ariftotele quidem
pr acute:ab Aiberto uero cui magno cognomen eft etiam aperte petferipta. Quod
autem dciopeam omnium pulcherrimam fe daturam pollicetur luno ratione no
carenEft enim ca in aere facies quz ferenitas didtur.(^uz res autein magis io
cu pidiutem tcruin humanarum trahere zolumpotetauqDamfctena czii facies ;
p 1 1 I'. Perplacent ifiainquic LAVRENTlVSs at ita
perplacentuit nihil in iis prxt» rea deiideretn:perplacent quo^ quz tu de
ratione appetitu^ diziftitfed uide at pugnantia
Ioquaris.Natn(ire^tnemini/tu paulo ante xoluminferioiemratu
netnelTcuoIuiditnuncncptunum fuperiorem ponis:redeutru^:Verumcn hic
impetiutn fibi non autrtn illi datum dicattnon uideo cur zolo quotp non
conoe datur:ut mare uel io mittendis uel coheteendis uentis:aut extollat
aut fcdett No co inficias inquit Baptifta pertinere ad hanc inferiorem
rationrmiut cum deage dis rebus iudicium habeat/ipfa appetitum & ad
raquz afeifeenda funtimpellati & ab iis quzfunt fugienda auocet.Vcrum
quemadmodum in bene inlhtutare publica fupremus quidam
magifiratuscreaturicuiusatbitrio £d ii omnia getan^t alii tamen aifunt
minores magiQratusiquibus fingulis fmgula committantunili totius uitz
imperium in mente confi(ht:ita tamen ut infenor ratio appetitui ea Ic ge
propolita (itsut nihil niii rede iudicet.Q_^uod ii illecebris rerum
humanatum decepta non rede fentiat:fcd iint eius iudteta falfa/adeft
fupremus ille magifha* tus ad quem prouocare liceat:Q_uapropter rede
faipcura eil zoium no niii clau fo carcere regnare: quoniam in uita hac
communi ac ciuili potius cohibetur appe titus ui quadam rationistquam
quietus tranquilluf^ tcddatur:non enim in bo nas
affcdionesconucrtuntur:red potius moderatione cohercenturjRatio autm
fuperior cum caput ex undis exculittemiiTamt^ a lunonc hiemem cognouitteun
da in tranquillitatem redigit. Emittit enim raput ex undis cum fe a corporea
mo letqua hadenus obruta opprimebatur ucndicans ipfa fe
excitaUat^afeniibus fe uocattquo tempore non folum cognofeit qua hieme
opprimatur zneasne in Ita liam tendat:uerum etiam tantorum malorum caufam
lunonem id eft rerum bu manarum cupiditatem ei1'einteliigit;(^uamobrem
uentos qprimumanutire* mouet : Nam uacuuspertutbationibus appetitus
rationi obtemperantior reddi tut lllofq) ut deterreat maiores poenas fibi
daturos minitatur: quam illi ab Aenea acceperint: nec iniuria . Nam
appetitus a perturbationibus inuafusad tempus uexatur « Intelligentia
autem illa fuprrma fi imperium fibi uendicae tit/ quoniam fummo lumine
animus illufiratus nunquam deinceps nec ded pitut:nec labitur : neccfle
eft ut perturbationes: quarum genitrix falfa opinio fuerat in nobis
penitus fepultz reddantur. Q_uapropter
non fimili pasnaco milTa uenti Neptuno luent. Sed undz quz fequantur .
Remotis uentis ou bes dirperfas in unum colligit Neptunnus: at«^ colledas
fugat: Efi enimboc intelligcntiz:ut a principio fingulas falfas opiniones
profequatur : in unum congerat : atq^ demum confutet: quibus confutatis
tum demum folis lUe ce: ea enim efi ueri cognitio eunda iiluftrantur. Q^uio
81 dmothoe & totos naues a fcopulis abducunt. Cimothoe per undas
currens fi gtzcum uerbum aduertas faale interpretatur. Triton autem
neptunni tubicen babetur. Iftaigi tur duo numina afcopulis cupiditatum naues
reducuntr quia cum tedum DOuerimus/uana relinquimus. Scientiam autem autnofiro ingenio
al Tequimun cum id fua uclodtatc pet eunda difeunat t aut dodtina aliunde
accepta pd«' IIs I a :v t Ii* :lil i i M d nit ai fli iib idi &bi m Ml ItM
IS it alti nbi lii» IStl' uti
«m 110 0» 1» ufl «I (i ‘i? iit tf tnumilludd
motlioesuelodtasciprimir hoc autem tnton signifiat. Mam ut Cubidaes fuo
przconio mandata prindpis manifcfti Qtidc dodrina quid ucriras
4ieIitaperit: quod autem prorpcrocurfu per pacatum mare utatur neptunus
fadleprobatur.Nam cum pacatus eftab omnibus perturbationibus appetitus
ita per eum labitur ratioiut nufquam ofFendat.Diximus de tempeftate.Nuc
ad reliqua pergamus: Neptuni beneficio ex tam manifefto peri culo erepti
Troiani cum fefu fradi(p Italiam utpote longinquam terram contingere
pofTe defperatent:extemporaneo ac^ minime przmeditato confiiio ad propinquum
carebam ginenfium littus uela dirigunt: puto uosmeminifTeitaliam
fpecu!ationis:cartha ginem adionis figuram habere. Quapropter id nunc
exprimit poeta quod in humana uita fxpe ufu ucnire uidemus sSunt enim
multi:qui cum ne in uoi luptatcne^ in diuitiisnet^ poftremo in honoribus
fummum bonum inueni^ ant ad ueri cognitionem fefe conferant; Verum cum fe
humana omnia Facile poircconcemncrci& reorfum ab hominum coctu
contemplationi incumbere cxiftimenniamtp rem aggrediantur uix illam
reliquerunt cum tantum relidam tum rerum defiderium infurgitiadeo ex
recordatione tantarum illecebrarum cffeminanrur: utrurfusin fumma spcrruibationes
incidant : qux quauts tan« dem fumma ratione fedentur:adeo tamen defefTi
defacigatit^ relinquuntur ant mi nodriteum non fine difficultate tam
horrendam tcmpdiatem euaferintiut latis fupert^egiffe putent fi
focietatem humanam incolentes qux immania 8i humano generi pernitiofa
funtuitia effugiant. Virtutes autem fi non exadas; ati^perfcdas/incohatas
tamen retineantifi: cum difficultate dus uitzqux in ucnfpeculatione pofitaefideccrreantut:animaduettantqux
hutufccmodi ui^ tz genus humanam pene imbecillitatem excedere cum
Arifioteles maius aliV quid quam hominem effe qui hzec poffir affirmet
fecum fic ratiocinantur.Non- parum erit uoluptatum incendia euafiffe :
Thracenfium rapinas euicaffe : hac harpyarum fordes & Cyclopum
immanitatem refugiffe . Nunc ucro fi id non. pofiumus: quod diuinitatis
potiusiquam humanitatis effe uidetunillud quis reprehendet ut in hominum
locierate ad quam colend >m tucndamiaugendam ^ nati fumustuerfati
prudenter iufte fortiter deniqi ac temperate uiuamus/ pa rati pro pania
ac parentibus nullum laboreminullum periculum deuicemus.. In omnes qui nobis
fangumeconiundifunt pietatem obferuemus: Ciuibus nofiris aut egenis
liberaliterfubucniamus: aut errantibus redam uiam demo- firemusiaut
iniuriaoppreffos confiiio opera gratia audontate noffra fub«'
leuemus.Speculationem ucro magnarum rerum in maturiorem zratem anp
inipfam fenedutem: quz a multis perturbationibus i quibus huiufcemodf
uita maxime impeditur liberior effefolcC reiiciamusiquamquidem fententt
am iis quz de Hyfach magni Abraz filio dicuntur : tueri fe poffe
confidunt: Nam quod de patriarcha lilo legitur egreffum effe ad
meditandum in agrum inclinata iam die ita interpretantur exiffc illum a
corporeis fenfibus adme ditandum in agrum quafi feorfum ab humana frequentia
inclinata iam die/ id enim efi circa fenedutem iam femore fanguinis
ceffante.Conanr prztereii Cuamcaufam grauiffimotu uiioium teffimonio
corroborareiqui ufutn potius lQ. P.Virg.M.AIIcgo< triqaam aufamunde bonum (it
confidcrantesadionem contemplationi aiw teponunt. Pcxfcrtim in uiridiori
aetate: in qua philofophum agere, dicere rem publicam adminiftrare
militare at^ imperare iubemtoftenduntip Platon ip tum uakdioribus annis K
nauigationes io (Iciliam : & (iudia in Dione exerciM retSencfccotem
autem in academia circa ueri inqai(itione quieuilTe: Xen ophi» tem quorp
adolefccntem in rebus agendis fummopere laudant:Srn:m ueto in
fpcculatione admirantur: & beatum propter odum putant: Q_ui n etiam
mub tos ut fapiendorex fierent plurimos populos paagrafle oftedunt :
Q^iuproptct K Homerus Vlyxem fapientem propterea dicit:quod multorum
hominum ut bes ac mores nouerit:Huiurcemodi igitur ac plura alia in unum
collig^es/qux tu fummo artificio ac prudentia nudius tertius cum hoc
genus uiucdi laudibus efferes enumerabas fpeculandi propofimm in feriorem
ztatem rdiciunt i at^ ad res ciuilcs agendas interim fe conuertunt:Q_uod
quidem uitx genus qui ui tuperabit/is profedo iuflam ut ab om nibus
uituperetur caufam prxbebit.Sunt enim fua (ibi qutxp muneraiSt plutima
quidem at^ przclaraiquibus (i rede fu gaturi&czteris utilitatem ficfibi
gloriam tranquillitaremip quoad imbedllitai bumana patitur (ine
controuer(ia pariet:Q_uapropter non (ine fumma ratione tutus
tranquillnfip portus in caithaginen(i littore defcribituricuius formam
li< tum^quzfo diligentius infpidte.Eftenim in fece(fu longo locus:quem
infula portum ef&datiMortalium enim uita continentem: ea enim terra
eft quz marU nis fludibus minus e(f expolita nufquam hibct.lnfulam autem
habet zfiuinti busafliduofurentibafip undis undu^perculVam.Sed quz tamen
ita fua mole beteat: ut aduerfus omnem uentorum undarumip impetu
immobilis fimpcr obduret : Nam cum hzc quz momentanea funt: & tamen
(f ultitia humana bo na putantur fortunz temeritad fubieda (inticut^
amore fui mentes humanas in Cendant conficerent profedo nos nili infula
in medio mari (imus : quz quauis unditp mari mndaturitamen uirtutibus
(fabilita non mergitur.Eif autem in 16 gofccefTuiNam animus uirtutibus
aduerfus fortunz impetus munitus procul a perturbationibus
feiunduscft.lllz enim obiedu laterum repelluntur. Cu hin: fortitudo
contra res aducrfasihinc temperantia aduerfus res fecundas opponar i
rede^ uafte rupes appellantur. Virtus enim in diffidli luco polita etf.Aode
qtf ita medium tenet:ut quocunt^ te inde araoueas:ad extrema peiuemi
ndutn liu unde tanquie piti rupe labatis gemini^ minamurinczlum fcopuli. Nam non folum noUra prudentia freti res magnas
aggredimur. Vei um multo magu
diuinoconfilioconfili.NcctemetedidumeQfubrcopulorumuettice zquota tuta
li(ere. Nam appetitus duplid lumine illuftratus ab omni feniper pemiiba
tione liba cfi.C^uod autem defupafczna corrufeis filuis6t atrum nemus
horrenti umbra imminettnon caret rationeiNullo enim in homine prudenti'
am inueniasiqut earum rerum quas fua temeritate fortuna uafat cuentus pem
tus przuideaticum tortam^ diuerfis caiibus cxponamuriut pcrfzpe Si quz
nocitura (int fummis uotis expaamusi6C ea quzfieuenircnt falutiufui ef
fcntiueluti noxia omni indufltna fugiamus tOeni^ in aduafa fronteaquz
dulces depizbcnduntur.Nam cum procul a uatiaium cupiditatum
fludilMis Liber totius botiSftifflunezur^ buiufcctnodi uita:quz (ioo
beata omntae e quieta tamen 'tcanquiUa^ (it.H uiufcemodi igitur pottum
Tubcunt: qui fuprema diu fedati ac poRrrmo difficultate deteriti fe in
uitam focialc contccucnin qua ciuilibus uirtutibua exculticuinuerrentuc
laudem non medioaem reportanti longe ta« en ab ea diuinitate qua quairimus
abfunt. Quod aute feptem nauibus huc iubicritiquodi^ reliquos c (copulo
profpiciens requirerenquod detnu focioru inopiam raritu uinoij
rublenaunic buc pertinent ut intclligamus eu qui rc pu«
bJicamadminiflrandam fumat oes labores omnia incdmodafubire oportera ut
illoru quz fuz fidei cdmifTi funt falutem incolumitatcmi^ conrcruet. Qua riptopter
fit Acate$(^ea enim principis cura efl^ igneexcitabit/ id eft dcfides ad
tes agendasaccendetiutquz ad uidumncceffana funt minime defintifit
fcopulos Buendens abrentes requiretiquos (i tutari non poterit iis qui
afTunt confulitiillo tnm^ inopiam cu fublcuauerit etiam oratione
confolabituc:optimif(^ pcepds ita in^oet/ut admoneat non effe huiufcemodi
hoc uitz genus ut m eo fedes & gere uelimusiSed effe omnes labores ac
difFiculutes fuperandas /ut in italia per ucniamusiubi demum fedes
quietas muenietiubi etiam Troia reforgetiNam cu uitauoluptuofaibiquzreretur
eaaderat uoluptas iquza fenfibusprofeda cor porca edet fit caduca: fit
qua (latim poenitentia fequebatur.In italia autem uolua ptasfuma
prouenictadiuinaturaum fpeculatione.quz uera fimplexcp fituo luptas quz
perpetuaiquae ztema qua nullus moeror fubfequac .Hzc enim opti tni
principis adminidratio eft:na cu u ideat ciuile adione humanz indigencizt
non aute ei quz io nobis efl diuinicati inferuiteiita in illa uerfabic :utcu
quz ad mottaliu inopiineceflaria funt uidetinfuotutame animos ad diuina etigatt
iubebit^ eos aduerfusfortunzcafus durare: fit fe rebus fecundisquas in
latio inucniet feruare.O diuinum ingeaiu.O uitu inter ratidimos uitos
omnino ex cellencemifit poetz nomine.uere dignumiqui non chridianus omnia
tamc chri dianopr ueridimz dodrinz fimi liima proKrat.lege apodolu Paulu.
libet enim unum hinc ex omnibus ucluti nodrz religionis caput
nominareiqui uitam hu manam ad huiufcemodi notmam dirigitiut ne^ corporis
necedatia fubtrahen da:flt uero inuedigando femper uacandu cenfeat.Q_uid
enim ille fufe late de Cmbinquod hic poeticis an gudiis non
coardetiMiraprofedo restut fingula pe ne uerba longidimas e
platonicaiaridotelicac^ re publica:fentetias ampledi ua IcantiSed nolo
quod quidem hadenusnur quainfeci:itaexade hunc IcKum profequi:ut reliqua
deinceps aut omittenda:aut ea celeritate przteruolanda fintiut idem nobis
eueniatiquod longam piduram in citatiiTimo curfu per« (piciennbus euenire
folet.Ii enim in puado teraporisicum id etiam magnope
tecontendanticolorcs notare uix poffuntiliniamenta autemifit corporu fimu
Iaera fit quam grzci fjmettiam nominant ne uix quidem. Q_uapropter relu
quaadtnaiusocium differantun^Oratio autem Venerisad iouemrurfuftp lo«
uisad Venerem meram textus (criem continere placet.lnferuiut enim omnia
poetico f)gmento:ita tamen:ut non nihil de mathematicis decerpat Maro:
fit unde luboyt familiam in primis autem AGUSTUM (OTTAVIANO) Augudu
laudet.Nam quz ad allegori am tcfcitc uoluffius iude folu accetfenda
cefeo unde duc^.fiu fpote fcquanf In. P. Virg.M. AIItgo.
Sin 3utc ui ingenii inuitamuntur/twtu de
grauitateruaamittunttatridtada pene reddaqtuttluc^ omittamus anxias
interprxtationes:ea(p folumaflim» tnus/quz non modo in abdico non
latentsfed ultro Tefe quxrehtibus offerant. Quod autem paulo ante ad
mathematica pertinere dixi pauds quidem fcd ,uc temporu anguSiz ferebat
no oino obfcurz in principio expolitu clTe puto.Ita^ teuertor ad Acnea^lc
enim per node plurima mete repeti ftatuit ut prima illa ccfceret loco^t
natura diUgctius exploraretSt hoics ne an ferz teneit inucdigarc. Q_uibus untibus qualem
oporteat eife rei publicz adminiftratorem egregie, a {timit. At^ in primis
illud bomericd approbat. Q_uis enim cui tot mortalium cura c6mi£Qi
Iit uu' uerfam nodem fomno impendet. Id aurem fumma (apientia didum
omnes fatebuntunEft cnim’optimi principis uel praecipuum munus cum loca
inculta uideaciut homines ne an ferz inhabitent iibi exquirendum
proponat. Na qui uitam ciuilem diligenter
intueturmaria hominum ingenia;uaria fiudia uario^ q motes inueniet. Sunt
enim qui redo honefto^ r(mperincubant:ciuili con cordiz
faueancsLibertatem (aluam eflecupiantmeroinc plufqua leges intepui blia
ualete uelint.Iniuria oppreflbs fubleuent. Superbiam fcditiolorumciuid
deiedam cupiant. Maieftatem publicam pro uiribus augeant.Religionem de«
ni^iac iufticia omnibus rebus przferat.Hi igitur iure hoics appellari
polTunt: quoniam humanz naturz officia non deferunt.Contra autem plurimos
repeti as/quotum pctulantifTima libido nihil fandum/nihil pudicum
relinquat: pluri mos qui fuma auaritia acccli/omnia uenalia habeat:&
aut ueluti uulpeculz do lisiinftdiif^p incautos decipiat:auc uiribus
fuperiores cum iTnt opibus quo fit honoribus eos anteite uelint:quibus
fapientia ac uirtute longe fintintetioress buiufccmodi igitur uitiis
deprauati homines quauis effigiem mebra:^ humana retineant/tamen quoniam
mores ferinos induerunt/no amplius hominesifed immaniffimz ferz putandi
funt.Q^uapropter in humanis coetibus longe plura funt illa;quz uitiorum
uepretis at<^ fenticetis unq inculu hortent: quam ea quz ingenuis
artibus prxclarifd^ uirtutibus exculta nitefeant: progreditur igif Aeneas
ut fingula diligenter exploretinon temere tamen:fed Acacem tidiffima
comitem fecum ducit:8( armis inffrudusincedit:Nam quis unquam rede re
publicam admini(lrauit:cuius animus aut cura ac diligentia uacuus fit:aut
for tiCudinecareat. Iliis enim quz agenda funt multo antea przuidemus.bac
au tem nequid ex iis quz magna ac przclara puidimus ob moetu infedu
relinqua turtcfiffimusiCum igitur rciedo in aliud tempus contemplationis
propoiito adeiuilem uitam digrediatur Aeneas:Sit^& in ea multum
elaboridd/opus eft ut & duce matre ad illam perueniat.Nifi enim amote
catum reru quz age dz funt calefcat animus aduerfustantos:tam^uarios
labores obtorpeatnc.> ceffe eft.Fit ergo illi obuiam mater no tamen
cofeffa dea/qualif(^ uideri czlieo lis & quanta foletiEam enim fe tuc
offendit cu filium a uoluptate eo cdtilio ab ducebat/ut ad fumu tenderct:Q_uo
tempore oportebat ed inflamari amote di uinaru rerutqui & ipfe
diuinus ab omni materia 8C corpore jicul abfit. Hic adt catum reru amote
incendit" : quz corpotez Bi magna ex parte mataiademafz Liber lotiui
li io “!• lA ab ife «pg bb aS sua tsb mt
s'4U *. utii at». ia? r i*f
a O liii ga< 'fb fihhQuapro{iter non deam
confcf Taafed humana fotma di RiffluTata
fefe filio offcit:ftin (yiuaotueiiatriziIIi appartt. Quem quidem locu
planius uobis nf primamati pauca omnino necniu ea qux nrcriTaria funt
prius de fylua rxpofur^io.Omnium tetum qux funt redum quendam ordinem eiiflere
: Trifmegiftus Homerus ac PLATONE oftenderunt: Atm ut quot fentirent
dilucidius exprimeret au ream cathenama naturx fonte ad innmam ufep Fecem
demitti finxeruntiqua fa> is gradibus eunda connedanturteuius origo
cifentia dei cum (it eo ordiue proce ditut ut fecundo in loco
potentiaztertio fap'entia:at<p quarto uoluntas collocet t bxc fequitur
fatum attp illud anima munditdeinceps funt cxieltes demonest (iit
xtbnriifunt aereisfunt bumedeitfunt deni^ terreni. VItima autem omnium by
le^quam nos fyluamdidmus^in infimo refideti Poifem fingula non fine
fum< mo ufu atip voluptate oratione mea profequi. Sed quoniam
difputatidi noftrx neceflarianon funt brcuitaticonfuIam. Quamobrem
exteris obmiffis deu prin apium lyluam extremum in catbena ponemus.Nihil
igitur deo fuperius . Nihil fjlua interius.nibil hocprxftantius.nihil
illa uilius . Media uero inferiora fupe« nntta fupetioribusuincuntur. Eft
igitur deus & fyluathxc autem niatetia efttex qua omnia corpora funt
. Vt enim lignarius faber materiam ex qua eunda fadat luam habet .
Continet enim illa rude adhuc lignum s K informe: Sed quo tamen innata fibi
facultate formas omnes redpere ualeatifaber autem in quafcun^ uult formas
illud tradudt tcadem ratione ad deum materia eft.Deus enim for
masomncsabxtcmitate complexuseft. Materia uero fi illius naturam
infpicias formam nullam certam expreffam habet. Verum innata fibi
recipiendi faculta te t & ut ita loquar confufe omnes continere
uidetur. Materiam uero quia matet fit didtur. Ceus autem pater: forma
uero prole$.Deus enim dat.fylua redpit. *fotma nafeitur . Q^uapropter rede Trifmegifhis
patrem matremtp xtemos: pro lem uero mortalem didt . Mater cfi materia
quia finum prxfiat. Deus gignit : 8C oeat : ac fua quidem ui . fila autem
ex alterius immiztione condpit .Condpit au teminfufione fpiritus
diuinitquam animam mundi nominat Tnfmegiffus t Q_ux res eum mouet: ut deo
ofiidum patris tribuat : quoniam infundit: SyU ux uero mattis t quia a
deo condpiat: Animam denicp mundi uim feminis hsb> bere dicit : quia a
deo ipfa infpiretur in fylux gremium. Prxtereo plurima nomi aatquibus
uariasfyluxproprietatesexprimit:Illaenim nihil ad hxcqux agi« mus: Sxpe
umen totam materiam appellat malignitatem :ne« iniuria.lpfa eni Iblacau Qefitutresmintentumcadant.
Namquod a materia feparatum efit id nunquam interit: Nunquam enim quod
fibi contrarium fit capiti fed illud fu« gitat femper at^ declinat: Quod
vero fylux gremio continetur: iccirco in la^ teritumiabitur: quoniam
fylua/cum ad omnes quas qualitates appellant xque
lebabeatcuenittutuelutialtera Helenaintra teda uocet Menelaum:ac limina
pandat. Num dum foimas illis quas hadenus receperat contrarias admittit:
fc« cile fit ut cxtemx irrumpentes domefticasextinguant.Q^uapropter quis
illam malignam non dixerit t qux familiares fotmas prodatiignotas
admittat: K uelu ti fufiepri iam in fuam fide m clientis caufam deferens
: aduerfariiqi fufcipies per timtnam perfidiam p eaoiaticeruf i Tardat
etiam & perturbat noftras mctesfyb k rn.P.Virg. M.AIIego «
Ui t omae ab ea uiHum nunat. Viaa enim mfcitia igaotatioa [«St
At ignorationem ipfam cz craflitudine caligine^ corporis prouenire &
Plato S plaeri^ cz iis qui grauiflimi habetur philofophi audorcs
funt.Huiurcemedi igi tur rationcmotus diuinus Maro cum rerum
humaiurum:8;qua; corpore no a rent:proptrrca^ in uariis erroribus
uerrenmr:amore inflametui is qui in re pu> blica princeps effe
cupittuenerem Tub mortali forma inducit Sc in tpia lylua:guo niam eunda
quz agimus in materia demerla funt illam ponit.Nec temere umv tricis
habitu ezomat : Eas enim feras de quibus paulo ante dizimus fibi infedai
das proponiuquifuis cibus rcdcconrulturuseO.Acneas tamen non nihil diuir
nitatisin ea etiam iic diiTimulante cognofcit.nam Si (i populorum
temperatocai circa humanas adiones uerfenturuamen quoniam honelhim redum^
tuentor eodem illo amoroquo hzc caduca appetimus / originem nollram
diuinam eflie fcntimus.cum enim reIigioncm:cum luditiam: cum animi
magnitudinem atb amamus : uerfantur hzc profedo circa adiones .Sed tamen
quis non uideat illa a diuinitate proiteifei C Eft tamen oratio uenetis
non ut dcz : fcd ut hominb: K tamen nefeio quam diuinitatem redolens :
Nam cum Carthaginem proficiid lii adeat:argumentationibusab humana
prudentia profedis utitur: Nam K quz de hilioria Didonis eruit : ea omnia
falutis fpem afferunt : Si cum aliquid funp rum przdicitmon ut deaifcd ut
augut ex cygnorum uolatu przdicit . Illud aute fumma fapientia
czcogitauit poeta : ut in orationis fine fe deam manifeftatet Ve nus :
Nam cum in uita ciuili quz reda Si honefta funt diu coluerimus ez illotn
pulchritudine ad diuina quotum hzc ueluti (imulaaa funt erigimur.His
igitur rationibus a matre perfuafus Carthaginem tendit oblitus tamen
tenebris : ne illi us conatus aliquis impediret . Et profedo fic fe res
habet . Nam qui magna pru< dentia przditi funt uiri cztnam
multitudinem quam adminiftrandam fufeipi unt ita ad redum honefl um^ trahunt :
ut fua conlilia fzpilTime tegant:quz q> dem fi palam facerent autzmulor
uminuidia: aut dulcorum infcicia impediti illa ad ezitum minime
perducerent: Vtenim prudentes medici zgrotos(^qucv tum libido nihil
falubre ezpetit])perrzpe fallunt : Sic optimi prinapes fimutan^ do aut
dilTimulando fua conlilia occulcant . Nam ut cztera obmittam nonne qui
leges tuleruntiquo maior ei audoritas inelfet/fua conlilia alicui deo
actnbu^ erunt fCunda enim ez Egerie nymphz przceptis Numa Pompilius
facere finiu labatilusciuile Spatthanorumez Apollinis fententia
faiplifife iinzit Licurgust Q uicquid Zautrades apud Atimafpos
conltituitid a bono numine accepilTedi cwt.Zamolzis autem quzcuis Scythis
tradiditiin Vedam reculitxNam q mul ta q difBdlia inter tumultus
militares rede ad ninidrauit.Q_. Sertorius cum fe ii la a Diana per
ceruam accepilfe diditarct tSed nimis multa dere przfertim ta tna nifeda:
Carthaginem ueto e loco fuperiore cernunt: quoniam ut nudius quo^ tertius
difputatum ed nuquam optimis indituris Si
legibus temperata erit res pub.nili qui illi przfunt eunda qu aut
przcipiunt aut prohibent ad eotu qax per rerum magnatum speculation emuideritu
regulam ac normam sapiennllb tne diligant. Cum autem Carthaginen lium
operam indudriam circa urbem difiandam dclaibit/nonnc pauciflimis ueifibug
onuiia colligit: quae^iia9 c*\Ili «f m ii m ta ai l
U U Kl ii M ib gia \tt\ th ‘S ipn iii^ F! jpb (f ob 09 0* xb s 3 ib <1 Liber'tertiui edam
(apfari( Cine de re pub. latprerut)t:noa ni/i pluribus libris exprimuntur tamum enim ea
parant ibiis aduarus ho(tiles impetus tuti (t nt: uibus V^^fe contra
czliiniurias priuatisx difidisfedefenduntiHzcenim duoprx^ fiant ut duitas
efle pofiit.Poft bzc uero ad iura & magilhatus fe conuertunt : ut
nonmodoe/Te fed quod proprium hominis e/l i cede bonefte^ e/Teualeant:
Quoniam autem ad magnificentiam & ad liberaliutem &ad uim propulfan^dam
publicz opes in primis utiles funtipottus optimi/efiiciundi ratio habetur
t Poftrcmo autem (icznz ac theatri cura non negligitunubi & corpora
ad ualitudi nem &robur exetceri:& animi publicis priuatifi^
negodis defatigatiihonefii/Ti* mis ludis relaxati pofiint: Qua autem mente
& quo confilio illos apibus com« paraucrit : quzfo diligentius
animaduertite t Si enim huius inferti naturam con fideretis nihil illo
aut induflria ac folertiaacuriusraut a/Tiduo labore indefe/Tius
(eperietis Ouccm in primis habent quem fequanturt cuius impenum nuquam
contemnannlabores inter fefumma zquitatediftribuuntiSummaconcordia 8C
opera fua fadunt & boftes arcent. Quicquid quzrituriid omne in comune
qux iituri Quz quidem omnia fi in rem pu.aliquam tranfferasiplatonicam
ciuitate cxmfiitues. Erat autem in media urbe templum lunoni facrumiut
ofiendatur ni bil oportere in re pub.antiquius religione eife • Et
quoniam primx in uita cluili przces funt/utimperium non folum
conferueturifcd etiam augeaturmo fuit ab re templum ipfum lunoniiqux
imperiorum dea habeturiomni cultu confcaare longior fim:at<p etiam
minutior/q tantz rei conueniat fi fingula quz in templo depida erantiquz
a regina adminiftrabantur : quz ab opificibus efiiciebanf idU
fiindiusrefetamiMultactiara in Ilionei at Didonis orationecontinentur:plu«
ra in congtefTu zneziplurima in conuiuio Si in coiimdione hofpitalitacis
deprz hendasiquibus uita fiatufi^ ciuilis expnmituriQ^uoniam uero nouerat
fapictif fimus uatrs primordia rerum pub.& imperiorum uirtutibus
niti: Veriiep effe Sa« lufiianum illud fi imperia iifdem artibus
retineientur/quibus acquirunturind ef fe tot mutationes habituras res
humanastiedreo primum regis reginzq; congref fum ateligione/a
bberalitate/St abomni genere uirtutum profidfci uult.Srd ita paulatim in
deterius labantur/ut quz pudidflima fuerat mulier/K in re pub.ad«
minifiranda uigiIantiiTima:turpi amore uida in odum lafciuiamip labat ui«
bus omnibus oftenditur q fadle rebus fecundis humanz mentis a labore in
libi« dinem declinent.Q_^uotiiam autem uirtutes tn uiu fodali potius
inchoatz q ab Iblutz funtiHic autem ita de uita duili agituriut uelit
exprimere quod paulo an te dicebam fundameta rerum.p.qux ex paruis
aefeunt/habere meliora initia / q exitus; iccirco reginam a prindpio in
omni re temperatam pofuit:paulo uero po fiea amote infutgente paulatim ex
temperantia in continentiam labitur: pofire» mouida amore incontinens iu
redditur:ut demum in fummam intemperaiui» aminddat, Moueturautemaprindpio
Dido/ut znramamet/non solum uittute quam urum in uita cotemplationi dedita
intuemur:Sed iis qux humanis cm tibus non folum bona uerum etiam fumma
bona babentunC^uis enim in ge« neris nobiliutemiquis formx dignitatemiat^
excellentiamrquis deni^ multo ornatu infignetn orationem inter fumma non
enumaetiCurn in foro/cum in fe t lo P. Virg.M. Allego oituhzc
BOB fapieBtum ftatcmfed populari trutina pondereBtarfX^uofliia utro ta
uica comuni pmulti hitcreii quibus cofulroribus utaris. Muiti cnitn aut
tnalo exrinplo motiiaut rorum quos caros habrnt non res fuationibus impui
n ad praua raoum^ snon fuit abfonum ut Didonrm fororis hortatu impudici
fadam inducat. Mifere enim amis mulier plurimu iam de eo animi robore rt*
mittens: quod inteperata hadenus apparueratcontinctem in primis uabis qux
ad fotorem facit fefe oftedit;Nam quis amore urgeaiT /atgre quidem fed tameilli
reftftitiSororis autem oratio ex uita comuni uniuerCi fumif i Non enim ex
philo fophia fumptis argumctationibusifrd aut uoluptate ppoiitasaut
ihcetu earu te* rum quxtantopeietimendxnon funtiniedoiaut fpc nec firma
necfolidapror pofita in fuam fentctiam adducere conaftut deniip fpem det
dubiz meri: foluat qi pudorem. Qua quidem re acciditi ut uidam in
incotinentiam probbertt:ln ea uero cum uerfaretunpaulatim impudica
confuetudine eo redada eftsut nulla amplius obflantr pudore furriuum
amorem minime mediteturifed impudenUi ma tffeda turpem libidinem honefto
nomine appellet: In qbus omnibus quid aliud teneat/quid conat' diuinius
poeta/nill ut Didonem grauifTimum nobis ex cmplar ^ponat/quatum
detrimetum iis qui fub imperio luiit j>ueniat/cum prin cipum mentes
pro induftria ac labore luxuria at<pignauiairrepai:lila enim qua:
paulo ante extetnos at<j peregrinos non nili breuiter ac demilTo uultu
alloqueba tut:Cuius religio fumma in deos/liberalitas in
hofpites/cofilium in urbis ex *dv ficmone/iuftitia in fuos ad czlum
ferebat ;qu* in publico nili aut diuiu* aut pu blicz rei caufa cofpici
nefariu facinus putabat. Cuius aius pudore munitus aboi pturbatione liber
pfcuerabatmuc eo furore agitat ut tota urbe ames uaget :aut li domi fine
amato fecorineat ucluti li fola fit/ar^ aboibusdeferta fummomaro*
letabefcat. Publica aut opa ita negligat/ut qu* badenus fua curatfuifip
fupnbust quz fuoyt ciuium labore ac (ludio fumma cum celeritate erigebant
iniicimperfe da interruptatp pendeat; Aeneas aut cuius cdfilium italiam
fibi propofuerat/ue* tum difficultate rerum defatigatus Canhaginem no ut
illic fcdes ponereufed ut claffem reficeret digtefliis fuerat illecebris
Didonis illedus fipofuum ^fiafcmdi abiiat:Nec deefl I uno.Qu ne res
tomanz oriantur/ Aenez Didonifi^ coniugi um Carthagine facicdum curet.
Verum cum id fine uenais opera pfia nonpop (et: Venus aut filium non
Carthagine uerfari:(ed in Italiam enauigare cupetihac deam dolis aggtedif
lunoiut quz Catthaginen fiom caula faceret: eaoia Aenez beneficio fieri
uiderent .Q_uz cum dicit Maro diuina pene lapientia uitam foa
alrmdepingitiinquacumita quidam excelfoanimoucrfenfiut humana cotem
nentes ex hoc primo uirtutum genere paulo pofl in eas uenturi fmtiquas purgatorias
appellatiat^ inde ad illas tandem quz funt animi purgati puenire
conten dantitn illecebris rerum terrenaru ita molliunt" lutczlefhum
quas fibi folasppo fuetant/peneobliuifcanf. Libido enim imperadi ENEA
Didoni coniugete: id aut eft uiru excellete regno przficere cupit:Sed rem
pficere non ualct nifi alfeotv atur eius amor: Amor autem aiaduertit
huiuiccmodi coniudione no Aenez/ftd Didoni cofuli /no enim animis hotum
ad maiota natistfed ipfi impio condodt» ptzfiat Dobisad uctam fapicmiatn
^ ficild/quam in adioni^ uciDwfcd - Liber tertius
cetum sdtnitiiftratioa (apientibusii deferatur adum iit de rebus
hutnatirs opor trtifta quauis falia e(recogoofcat:quae libido regnandi
perfuadet tjmen ailin titur;iiuc iam illa inetitusllt ifiueeorum quibus
confulendum cft mifaicordia motus sCcldiratur autem huiufcemodi
matamonium in venatione: de qua quid femiremptulo ante latis ut opinor
uobisdiludde explicaui: Quodaute in fpelunca loco fubtercaneo
conuenerint:quidnam aliud indicare crediderim/ nifi cos qui honores/qui
opes/qui imperia quzrunt intra corporeas caducafc^
tesanimuminclufumgerererCuicdnubio prarter tellurem &lunonem;prxtet
nemorum bibitarrices nymphas uides numen nullum afiFuilTe: Q^uz omnia iis
quz de fpelunca diceba apte quadrare uideotunirrentus igitur Didonis amo K
Aeneas abeundi propolitum abiidt:& hieme quam longa eft in fummo
lu<» zu conterere non pudet.Hoc uero quid libi aliud uult nili
egregios quo<^ uiros interdum a redo curfu ambitione aduerti:&
honorum imperii^ uoluptate de« linitos hiemis afperitatem& enauigandi
in italiam dilhculcatcm exhoirefcerc» Q^uapropter nili diuinitusfubuentum
Iit excellentilfimzatc^ immortales bo^ mmumuirtutes tam pemiriofapefte
pereunt; Id ingenii at<^ beneiiciiin Circe fuilTe fcruntxut Vlyxis
fodos in uana monllra tranlFormaret: Illam tamen ica in luam potclhtem
ttaduxifle Vlyxem audimusiut Forma priftina fociis fit relhtu*'
ta.Neccgoid admiratus fuerim.Excello enim animo qui funt corporeas
Iibidi^ ties fadle contcnunt; Quin & cos qui illis dediti funt rede
monendo a tanra fer uitute in libertatem uendicant. At lu Donemfuperare
ranOimi mortales potuco tunt:Nam qui imperandi cupiditate non
tangiturxeum omnem iam humanitas tem ruperalfe &ad dioinitatem
proxime accemfTe crediderim:Q_^uapropter ena quos in fumma admiratione
habemus: cos ita frangi huiufcemodi cupiditate ui
demusxutrelidauerauictuteinligniaulrtutisueJuti umbram fedentut: Fadle
enim ell Sardanapalli aut Heliogabali molliflimas delitiasacluxum
cotenere: At^ adeo odilTctCum uero nobisaut Alexandrum
macedonemtautlulmcz*' larem proponimus eorum res geftas:in quibus utrum a
uero cedo^ difcedcre fzpe uidemustra glonz cupiditate admiramur:ut illud
ex Euryde impium oma nmo& dignum eo rege a quo profertur interdum
approbare non dubitemus; putem uf^ homini conducere li regnandi caufa iu$
uiolet : Q_uz quide res una mouit poctas/ut Herculem quem fapiente
ferunt:&; rebus a fe przclanl Time ge ftisczlumafile daircuoluntpriusomniamonllradomaire/qua
lunouis fzuitu amfuperal Telingeceac.Illa enim non mater fed iniuftilTima
nouerca magnord uiioium rede dicitur* Non enim mortaliuroCut plzriq^
credunt } fed czleftiu rerum cupiditas eas uirtutes parit quibus ad
fummum bonum peruenire licet: (^uor^uide nili placata prius iunone id
autem intelligjmus aid fedara ambi dooeallcqui no potuit HercuIes:Q_,uis igitur
hoc Aenz non condonaueritxac potius quis illius no comifercanli Dondu in
italiaexillensxtis eoimeft fumaru uirtutu habitus.fcd in ipfo curriculo
ut illhuc^Edfcai:’' adhuc coftitutusiu luno nis dolis apiat"' :uc
matnmoniu cu Didone initu fedibus libi a fatis cocel&s ppch»
nat;& colilio abeudi abiedo arces Carchag^s fudaretac teda nouare iftituac
t pur^ puea^ SC ento lapillis aon^umtquasqu impetti Uignia funt gelbrc gaudeat: In. P.Virg.M.AlIego*Non
eft o LAVRENTI non inqui eft hutnan* itnbedllitatls.red cmol damfacul»ti «qua tamen condmo no Ora arduum-.tatntp
«xcelfum tetum culmen ‘U»**®* BAPTl ST Ai K (imul fuo ordine de reliqui*
difpuututui uidaetut Mani^ hofpes nofter fiuuilTimus tum ex diei fpatio
in iis qu* hai^u* dida effcni civ fum^oitum ex multitudine eorum qux
adhuc dicenda quum lucis effet in ea di fputatione abfuroptum in
colligens non pertmtam in 3uitruauifl'. miuiri:utcontrac6modumual. tudinem<jno
(bam^qu.b^^?uidiuapudmeeriris: mibiomnid.ligentu«nfuJ endi^!^ difputatio
longius ptoducaturi Atquiegoitidm. nqmtLAVK£NW^ idem cenfebaraifed
ne tanti uiti oratione moleftii« intapell«em/pudore i^ diebar prxfenim cu
te o Manotte tuas partes fuo tepore equide mquit MariottusiK fimul fua
lolita feftiuitate BAPTISTAM manuap prehendem/nos ad cellulas ubi menfx
paratx erant reduxu. R URISrOPHORI L. FLORENTINI CAMALDVLENSIa vM
niivTASvM laVSTREMFEDERlCVM
VRBINA- jKSrJbER ^IaRIVS 1N.P. VIRGILIO
MARONIS allegorias incipit feliciter, S Eruenerat iam
fuperior libet Inclyte ac Inuii Si^me Fedence in quotundaro hominum
manus 1 qui cum dofli linti dry aiffimi quocp & haberi 8£ dici
uolunti Qui quidem quauis 'de Maronis Aeneide antehac longe aliter dC
fenfiffent/8: pri* 'dicahenticouiai tamen ut puto iis argumentanonibus :
qux I nobis in probamio illius libri expofitx fuerantimulta in eo
F li rnnfcrinta elTe necate non audentiSed ea huiufcemodi el
fe Jowmduntiut non ad ethicen ut nos longa oratione difputauimus s fed a
J IhvSferendafint:ptoferunt 5 ad id qued defendere cupiunt
probandum fcriptoresqui paulo antenoararoxtatcm fueiut minime
illiiteratosiqui non J L/indel Mos« acute & doaeinmpretati naturam
tetum il is exponi conttn los inde locos K ac „fpondendum ctnfemus/ut
multa in eam qua diA SmriorisquoJdieifermonenosdixifl-ememiniyirgilm
nlura deorum genera inueniffet s confulto ita fcnpfifle fl£ A Fmmffeuteademilla
& aduitammottfip: 8 Caduimnaturas:Kad wriuruoluputtm f
eferantur.Verum cum confilium mettmij
tcstotafufceftacftnoircuolumusiidcenfco femper ipfo
hn«qu3nf.bie.ration. fcriptotpropomt: ^um fipttahuj omnuiniiri ludingttut»
ipfcqcquid narrat iqcqd tctninv 1 1 Ir £ I- 8- r K P B-t.-« .
Libet ii iuiatnr referat. Hoc oun ita fit quis non uideat ea quae
ille ttadiutamdegett» M damt& ad fununum bonum acquirendum
(^dantia fcripfit no iccirco fcripfiC' B Cuquo naturz uim ezprimeret.Sed
contra cum iugi:perpctua^ oratione ea pro (eqiutut m quibus & uitia
damnet<& uirtutis pulchritudinem eztoIlat.& ad ue I»
riinuefligationem perducat/ nonnullaadiunxifTe&omandi & deledandi
cao Ia b qua: fint ab ipfa phyfice repedta s Q_uz omnia cum non propter
fe t fed eoru li quae dixi caula confaipfetit equis non uidet id
fulcepti operis primum efle feu ^ malis ultimum dicere > quod nos hefiemo
fermone perpetuo quodam filo ita ia intezuimusrut
nibilineointerruptumquzn poiTis. Nam ad idquodaptinci Sh pio przpofituffi
cfl omnia deducuntur Si fcquentia iis quz antecmerunt/uebe menta
cobzTcnt:Q_uapropta quz ab iis quorum audoiitate nituntur/ad pby
fictnrclata funtminime damno. Nam quauisca ne multa fmtine^intafc haaliud
cz alio pendat > ut non potius membra quzdam diuulfaequam integrn
corpus uideantur t tamen non incommode traducuntur : ne<j fententiz
nofoz ccpognantiScd fac repugnare an plus apud me reda rado qua iliorum
audori^ tas ualebitrprzferdmcumfi audoriute certandum fit eos proferte
poifimus/ quorum fplendoteiiti uclud folis luce noduz hebetentur : Nam ut
omicta eos quos diligendilimus omnium grammadeorum Seruius fingulos
libros in fiogu los huius poctz locos commemorat: ut taceam quzaMacrobio
exceliend inta platonicos phiiofophotut nihil diam de iisquz&adiuo Hieronymo
& a di. uo Augufiino in hanc fententiam apud Maronem interpretantur :
nonne e noftris Oantbcm uirum omni dodnna excultum grauilTimum audorem
faabe« mus: qui eius idneris quo mundum omnem ab imis tartaris ad
fuprzmum ufi^ czhimpcragcatiine olibiillum ducem fingit/in quofummum
hominis bona paquitens/miro quodam ingenio uniam Aeneida imitandam
proponiciut cu paua omnino inde excerpae uideatur: nunquam tamen (i
diligentius infpicie . mus ab a difcedat : Nam nonne fiatim a principio
ea quz de medio ztatis tem ) 3ore:quz de fyluatquz de tribus
ferisrquz de montis fublimiiam folis radiis il uftntoconfa ipfit:binc
omnia funt. Mitto caetera: quz ita abdita in
Oantfais poemate funt:ut non nili a paucis iifdem^ dodiffimis dcptzhendi pofiint. przponit
igitur libi ducem Maronem in u re quz ad fummum bonum.non au
tcmadpbyiiccrpedetifeduideo me nimis cunofum in eo fuilfe : quod paruo
omnino nodo confutari poterat. Quapropter ego inilitutum repetam. Tu
autem indyte atip inuidilTime Fedence ut cztera fuperiora fic Si ilh quz
in ultima quaru diei duputationc continentur/diligentillime leges . Multa
enim illic inuenies propta quz te cum dTc : qui Si nunc es Si fempet
fuifti fummo» pae lactahacict^norcef^ ex deo confilium tuum fuilfe : quos
a primis annia bpientiz amore flagrans ita te bonarum artium
fludiisaddiafti: ut quanto ta dic tua ztas grauior fitttanto ardentius
illis incumbastnam quod reliqui prin» dpes apprime regium ducunt:ut aut
multo odo uanifip ludis mircelcit:aut au cupiis ucnarionibuf^ oe tempus
tcrant:tu ne libero quide homine nili relaxan dimtaduai aula dignu efle
duxiflitred oportac eum qui aliis imperaturus fit nWB omni dodrina
excultu itddaaquq no fibi folatfed & iis qui fuz fidei co} In. P.Virg.M.AIIegflu
mifll rantjK dum «fit agit «emplo: «dum fapienter inontt pncepto
maplo limum prodifft po(Tit. Qui rigis munus clTe ducat non alieno labore
ueluri fu cus inter apes alisfed pro aliorum falute laborare uiinnoaiosabiniuriupro
hibtrr/fceleftorura<j petulantiam compnmeretoibuafe «quum prxbere
curcts Hrc autem folaphilofophia nobis pracftat. A FILOSOFIA enim
habrmuatui pie uiuamus tui pietatem ocmabhominemuft« ab omni
fcelereabibneaniust b uapropter uere iliud ufurpabat Ariftoteles fe id a FILOSOFIA
afleculum efle/ Ut ea beneuolens/ cumuolupute
ficerettquzmaliuinlegumatufaccrectv I gunrurtbonis enimCut piato ait)lex
deus eatmalis autsm libido.huiufcctnodi Igitur fludia teita
exculturo/ita omni ex parte expolitum reddiderunt/ut cum a inultis quod
crimen fortunx eft imperiis finibus fupereristiis tamen uirtutibiisi
finequibus nemoun quamiedeimperauit/omnesexcedas.Sed cartera omoa quibus
ex mortali humuculo te immotulem ducem reddidifli ad prxfw omit to> Ptxcipuam
autem in mnfaium ac philofophix cultores benignitate tacinii prxterire
nullo modo polTumtium animaduertam te ea in reiure omnibus prx ferri
poffe.Scimus in tata admiratione apud antiquos fuifle Ptolomxu philadel
phum ut ptxclariffimorum faiptorum laudibus etiam poft tot fiecula
florentit fima fama celebretur.Et profedo fingulatis fuit in eo rege
iuftina mitabilifip cie mentia.In te autem militarimec uirtus illi/nec
fortuna unquam drfuinSed nb bil in fuis omnibus
aaionibusmagisextolliturtqua quod regnum fuM libera liffimu oibus
litteratis hofpitiu efle uoluerit . Tantu autem iis qui aliquid fcripfif
(ent debere putauittut Demetrio phalereo no folum philofopbo grauiflimotfed
oratori copiofilTimo negocium dcdentsut fibi ad quin^ faltem milia
librorum in fuam bibliothecam congerenda curaret. Q_ua quidem io re quos
furoptus fe cetitttunc optime conieiSati poterimustcum uidetimus quantu
in fola mofaya lege elaboraueriti ut illam interpretadam ac in grxeam
linguam conuenendam abhebrxisinterprctatetur. Primo enimoesiudzos
quifuperionbusbelliscapti in fuo regno fetuirent diligmter
inudligandosiat tingulos uicrnis drachmu redimendos/& in patriam
incolumes diraittedosmandauit: quorum numerus adeo ingens fuinut foluta
fint a rege fexcenta ulenu fupta fexaginta milia. Dtf inde legatos ad
Eleazatum iudxorum pontificem uitos sumx audori tatis mifit Arifteaside
quo paulo ante dixi & Andtea prxfcdumfuuiMifitptxterea men< hm
auteam/craterefej ac phialas donaria in hierofolymitano templo ponendi.
Mateiia uero hoium uaforum fuit auri quinquagintatargenti uetofeptuaginta
ulenuigemmatum autem atqj lapillotum quibus uafa omab dilUnctatp funt/ ad
quinm milia adhibuit/qui omnes mira elfentmagnitudine. Q_ux liberalit« adeo
accepta gratacp Eleazaro fuittut duos ac feptuaginu ftatim ad regem mi'
fent i non plxbeos illos quidem/fed ex principibus dodiflimis ita elrdos/ut
ex fingulis tribus fenos fumeret s qui legem dei in grxeam linguam
Ptolotnxo conuerterent. Q^uorfum igitur hxef Nempe ut intelligant qui
diligennus rem confiderauennt Magnificentiam tuam erga dodrinas noOra
tempelb' tt non minorem efle / quam oLm Ptolomxi fuerit s Hoc enim folis
luce cla/ liua apparebit ; Si Imperium Imperio 1 Si Sumptus
Sumptibus conferantur. Libtt guattui nfeaumnonfdl amutiiuerrz xgyptiopulentiitiimum
regnum poHidebat/un^ dcaurt argenti^ inaedibilisuis proue Diretired Tyriz
quo^ ac phcnictz tnaxi^ mam partem ucdigalem babcbat.Tuos autem bnes nemo
ignorat. Adde quod quo tempore Ptolomeus regnauit/plurimos A(ia at Europa
prineipes habuit • qui poetas t qui pbilofophos/qui oratores/qui hiftoricos
benore opibufi^ bone rent:ut & li fuo ingenito (hidio illa faceret
magna tamen cx parte emulatione quadam excitari uidereturme quos opibus
uinccoatxabiifdem huiufcemodi glo tix genere fuperaretur.Tua uero
benignitas in ea tempora ineidir/ur nili ardeUi* tilbmafittfacile czterorumprincipum
auaritia extinguaturxQ^uaproptcr nulla omnino eorum munerum quz in mulas
con fers/gratia noftro fzculo eft bahim' daxinquo neminem reperias ex iis
qui nunc imperat:cu*us exemplo excitari pof» lis.Sed quicqd estes autemres
omnino przcIarifTima/id omnetuo ingenio;'U3 innata humanitate cs.Nam ab aliorum
moribus procul dircedens/unieum te exemplar ofiFersrquem & ad fummam
liberaliutem czteraf<^ omnes redas adid aes/&ad ueri
inueftigarionem reliqui fcquantur.lta enim uirtuiem adamas: ut illam non
glona dudus/fed eius amore alledus ampledaris.Euenit rame ut qud admodum
umbra corpus (emper fequitur: etiam li id corpus non quzrarxHc < ua
pie iuHe/clementeti^/ac fortiter fada non adumbrata quzdam & inanisiTed
foli da cxprclTa^ gloria fcquatutx Scd res polhilatxutiam ad noftriim
heroa rrutrra^ murxin cuius adionibus tu mores tuos ac uitx inlliiutum
facile recognofces. Co ucneramus igitur eodem in loco bene mane quarta
huius difputationis dic. AN ^ cum miro deliderio BaptiHz fermonem
expetere uultu gcftucp fignificarcm^ illexurquz explicaturus eilet iis
quziamdida fuerant commodius annedrrrt: buiuiinodi difputatiotii fux
prindpium adhibuit. Vidimus badenus dodilTimi uiri qua piudmiia ac animi
magnitudine omnibus iis fotdibusxqux a corpore^ ueniunt fc explicauerit
zneasxNamne troiz periret: 8C corporeis uoluptanbus pe nitusobruerctucmon
dubitauit exui in altum ferri quis incertus quo fata ferret: pod hzc
thracenfes rapinas uc eas primum cognouit mira celeritate effugit. Ar« ^
mox in rebus dubiis a fapicnria conlilium coepir : deceptufi]^ Anchife
interprz tatione.Namquz a corpore funt facile corporea fequunuir.uitam
duilem in Oeta fibi propofuit * Sed nec piguit errore cognito uela uentis
iam tertio dare .Delatu!^ mlhropbadasaducrfusharpyarumauaritiam inuidus
pugnauit. Nec per medios hoftes ad Helenum enauigare foimidauit:
Prztereoqua prudentia qua animi przdantia iam ab hcleno dodior reddirus
immanitatem cyciopu de<< ciinauem : qua indudria ac celeritate
fcyllz charibdif^ mondra euirauenr : quo fiudio atramentis ardore defundo
iam in licilta parente nauigationem in lra.< liam rufeeperit. Verum cum
lunonis dolis :zoli<^ ac uentorumuiribus parcis fc non pollet:
celTicilIequidim conlilio ad ueri inucdigationemin aliud trm
pusreicdoinaphricam eo animo diuertit: ut quam primum per tnaris id
edap> petitus tempellarem liceret : in Italiam tenderet Verum in
ditione aduerlilTimz dezconditutus : & amore Didonis delinitus/Vide
quid pTolfit ambitio: quantu ^ ad mentes maximorum etiam uirorum
euertendas ual eat / regnandi i nquam cupiditate dclmitus is qui reliquos
iam perturbationes ac uirufupctauerant di<« In.P.
Virg.M.Allego. uinil Tifflumcoafiliatnio Italiam
enauigandiomiiTtttotum^rein eo dednatt ut regnum carthaginmfium
coSabiliret : perrcueraflctcp in errore ni(i acczpifb a Mercurio non
placere loui ur pulchram urbem uxorius extruat . Regni autem & rerum
Tuarum obliuifcatur : Prxcipitur enim homini a fumrno deo ut ad fu« am
originem rcuertiuelitrQ^ux praecepta nobis dodrina quam litteratilTmKv
rum uirorum uel Termonibus uel libris accipimus i facile tradit . Rede igitur
ar« guitur arncM/quod uxods urbis t ea enim eft uita in adione polita
adminifbatio nem TuTcepeiit . Suiautem regni 8c totius contemplationis
qua Tola mentes hu> manz regnant Iit oblitus : Maximei^ hoc urgetur/ut
Ii tantarum rerum gloria ip fum non mouet i Afcanio Taltem
tuerediTuccefloricp Tuo conTulat < cui regnum lulia; t ac romana
tellus debetur: quo in loco quidnam aliud ATcanium intelligcmus nili futuram
ztemami^ uitam: qua: huic breui Atmomentanea; Tuccedit. Nam li dum intra
bzccorpu Tculauer Tanturanimino lhitantisrerum terrenarii illecebris
demulcenturiut carleflium contemplationem de Terant/ memineriot 11 in
futuram uitam uitiotum labe inquinati & nulla dodrina exculti
migraaerint foce ut nulla unquam ueritatis luce illuftren tur: Q uapropter
regnabit Aiani< us:nuIIuT<^Tuoimpecioiiniseritnilieoapatre dmaudecur
i futura enim uita ab hac quam uiuimus ea rationeiquam oftendi iure gigni
dicitur : ab eadem^ li focdida 6i uitiis tenebriTcj inuoluta Iit: tanto
bono denaudatur. Sin contra manebit fcelix at^ a:tcma : Nam Hic domus xnez totis
dominabitur oris. Et nati natorum & qui nafcentur ab
illo: Q_uzquidem mandata cum acczpilTetzneas: quid mirum li
uehementercom< motus Iit : Erat enim in eo animus qui excclTa Temper TuTpiceret.
Ita^ Te tandem excitas cupit qptimum abire: & terras quamuis dulces
relinquere. Alluetusenim poteftatibus at^ imperio uirfi£ dulcedine captus
non line dificultate diTcedit. Sed cum ucrum bonum ab eo quod falTa
opinione bonum putat" diTcetneteptv tueritiillud tamen anteponit:
Cum uero poli diuturnam conTuItationem inla« lutata inTcia^ Didone
diTcederedecemat. Nouerat enim no efle pal Turam illum diTcedete fi
IdlTct/egregie admonet cum ab huiuTcemodi rebus animum abduce re uolumus
non efle molliores animi partes confulendas: Ted clam illis uela in Ita
Itam facienda: Talia enim bzc Tunttut quanto blandius ea appellemus :
quato^ familiarius Talutemus/tanto maiori contumacia aduerTcntur . Sentit
tamen d(v los regina :&iniquo animo fert uita ciuilis a uiro
excellenti deTeritpradcrtitn li non fit alius Tapiens/qui Icxro illius
Tuccedat.binc illz quzrelz nulla libizx znca robolcmfuperciTe. Quamobrem
ratio inferior quam mulierem appellari diximus huiuTcemodi argumentationibus
uirum egregium in uita ciuili retinereitt a speculandi propofito auertete
nititur i Primum enim ita urget ut quzrat quo modo eam deiicrete
Tublbncatia qua tam ardenter ametur. Amat
enim ucbementer virum excellentem vita duilis. lllius enim cunfiliis imperia
non modo paran tur/& parta con Teruanfuriuetum etiam augentur. Sed
nec illud retinet non Tet' uate illumlidcm quam dederat. Suavitare enim
imperandi iam totum Te adminiHtarioni dederat zneasi Quio di Te moritiuam Tidc Teipture
docet; Nccinub 1i I I I t t t P u 9 0 9 u n I» P“ ca nii da ttico: iKg da dd od R.! dia b&' ht loj on IBU' «nI 1« tii AV u tua 8“ liii Ml LlOfi Odi ns
ilii ntoi iU IIlBl' lO* loli
niii jA«< Dlli
tffll*' yb BD^ a<? J»!*Libo gimttu to alito
eucf UKloIcb Namdcflituta a uimite agendi facultas pereat necefle
cft: Dctcnetezdif&cukate hiemalis navigationis. (^uare (Tgnifiantut
labores ma^ jdmi t quos (i in Italiam uenite uolumus fubituri
fumus.pofiremo in hoc uche>< mentet mlifiit/li reuotetetur ad
Ttinam Bl ad uitam uoluptuol^ t non tamen illi efle concedendum: ut
honores relinqueret t multo autem minus cum loca fi bi incognita petat t
nondum enim nouerat Ipeculandi uitam. Dcmum ad
c6mi< fetarionemconuer{alachriinaseffundit.connubium, incoeptum ad
memoriam reducit . Q^uicquid fuaue oUm a fe acczpiflict exprobat:& ne
domum labent em dcioatobuftatur. Pofluntenim uchementercommoueri mitiora
ingcniaicuia parcntes/cum liberi aattiif (anguine coniundi/cum amici/cum
patM ne dcfci' ratrogantrne incoeptam fcxictatem relinquat przfertim cum
uer^umfitineim perium a bonis uiris defiitutum/aut Pigmaleonis
auaritiaiaut larbc tyram*de in« uadaf .Q^uodtunemagu ucnoemur cum alius
(apies qui (ibi fucceclat no telin quaf sQuz quidem omnia cum rerum
agedatum rado animis noSris obiidatr non pollumus non uebemeto
comoueriiSuccurnt enim platonicum illud quo quttum generi humano debramus
/grauifiimeadmonetiut humanitate eruere uideamur/fi humani
focietatedeferamusiucru cum aladuettatmagnus uir men tem fola eficiqua
boies fumus; ea no agendo fed cognoiicedo pcrhdrid^ louis
pcaneptucfieimotusmanetiat obnixus curas fub corde prraut.habet aut
quo|> pofitu opnme tueri poiTittNon enim inficiaf bene ^meriti ciTe
reginam. Quis enim no uideat magna humanx hnbecillitad adiumeta ab hcK
uitx genere fue* nirc:(^um BC polliceffe illius recordaturu dum fpintus
hos reget attus: Nam eu derua abfoludflimu appellabimus:qui iu in
fpecmadone dum uiuit uetfef : ut uicifliW cum ccs poftulat agat.Etgo no
fugit a uita agedi < fed inde recedit: qa cu ea no cotraxerat
matriffioniu.Non enim nati fumus ut drea mortalia uerfemur: illif{^
coniugamur.Sed neceiCtatis caufa efi illis in(iftcdum:ut tanta opere impd
damus:quantnad fodctatcconfcruandam fat fit:quaptopter (i Dido Carthagine
deledac :hoc autem efifi in adione inferior rado libenter uerfaf liceat: fit
fuperi^ ori Italia dclcdan poflem mulca ciufdcm otadonis ad eadem
fentendam trilTa^ ce. Sed fit aliquid ex mera hiftoda didumiRcIiqua ueto
qux ad plurimos uerfus dicunmt:eam uhn babet/ut libidinofum K corruptum
amorem detefienf :at^ tantxfceminx grauifiimocxcmplo nosadmooeat:ut tam
mrpem/tam pctnitio.« (am pefie fugiamus:comode aut eunda qux a PauEmia in
platonis fympofio de tutpi amore dida funtiad bde locum ttan(Feremus:ex
quibus pauca qux a nobis cum de Paride uerba fcdmus dida funt : memoria
(i repeteris intelligeris umSu mum effe Ptoperrianum illudi Durius in
terris nihil efi quod uiuat amate .Q^d* autem magno pedore curas
pcrCmfcrit xneas: fit tamen mens immota man ferit/ oftendic uirum qui
deorum prxeepris parete deacuerittiam ab inconrinenria in quam Didonis
illecebris ptol^fus fuerat/ad continendam redi(rc:tt quis amore
urgetetuntamen hone&umuoIuptariprxpofui(re.Oidonis ueto interitus
nobis pcrfpicue oflendit perire ncceffe c& eas res publicas qux a
fapientibua deferanf. Non tamen aberrabimus fi amandum at^ amentium
furorem cxtrcmainij de* f^aarionem huiulcemodi exde oilendi putemus.
Aeneas igitur deorum admi}« 1 ti In. P.Virg M. Allego»
nitu in Italiam enaiugat. Verum infurgente uentopt u! palinurus nauis
gubertia tor negat ea tcpeftate Italiam pe Q poiTc.anenticur zneasiut in
Sidliam in qua in fula extindus parens nondum debitis exequi is
oraatusiacebat/dcfledat. ^uo in loco quid fibi palinurusuelitline
ncgocioex iisquz de illo paulo fupra expt’ fi cogDolcerepotcttsicum enim
huiufcemodi appetitus facile pturbationib^ob tuar' inon modo a tedo cuifu
auertic' :fed znea( haec aut excelleris uiri mens eft} pctixpc infuam
femetiam trahiteut ad patre» hanc autem imbecillitatem quama corpore
cotrahit aius iam ciTe diximustbeet intelligere ad patrem inq/quis iam de
fundum redeat»(i uero ad memoriam ea teuocaueris qua: de ficilia lam
diximux non ab re cftipfistroianisiut in eam infulam redeaaundebreuifiima
(it in lulia nauigatio»Poeta tamen cuius cofiliumefi no folii ut
grauiffimas res j>ferat:fedil
Iaauatiaiocudiutciuafpergat:uttcdiumtrifiitia« pfundarum rerum comites
penitus amoueat/uaria ludopt genera interponit.Hzc igit' iu adminiriobantut
abznea ut paulo poft oibus ablolutisin Italiam elfct foluturus.luno
uerocui^in troianos o^um/nec ulla calamitas/ncc tpis diuturnitas explere
poterat : qa quo illosltaliz j>pinquiorcscerneret:eomagisaccenderet'
oblatam occafionem non 5 rztermittit:Cum enim feorfum a uiris
imbecille mulierum genus deliderio ta< em quiefcedi mcedius cofpicare^
pa irim illis ut naucs incedat pfuaden Q_uz qdem (ic accipiteirerum
terrenarum cupiditas no uiros/nam pars fupior rationis non facile his
rebus frangit':fed ipfam inferiotenr tonem a fupiori dUluudam p fuadetiut
rerum magnatum ^poficotcicdo tedium longioris nauigationisrefii
giaud^ubieficonfidcaCiMuUetcsigit quibus inglorium odumlongccarius (iu q
honelius labor prijtiio ambiguz miferuminter amorem pizfenris tertz fatifq|
uocatia regni malignis mare oculis ifpiciut.Namcum ratio tnfmocquzafupe*
tiocipfuaU illam ad quxqj xgregij Tequit' nuceaabfente paularimfenfuumiiiei
cebris cncruac' idoncc tadtm uidi fc iliupi potefiati pmittat.Naucs igi^
mulieres inwcn dioafrumei caduriunt. Hoccumdicicportauolutatcquz ad res
magnas, ferebatur incendiocupidiutum perire
o(lcdit:pen(rrtauttoticlanisnifi Eumci Ius piculum (fatim ad zn eam
reiuliffeciErat enim Eumelus uir ad mulierum cu fiodiam telidusiNam huic
parti inferioti metis acerrimus qdam cofeietiz remoc fus/cui bonaceda^
cuiz fimp funt ftmp adcfiiHzcgtzce fynderelis didturuis (.nobis ingenita
qua animus Sc ad bonefta crigiturtK a turpibus tefugit»Hacau lem nomen
ipfum uii i ajpertc demondrat; enim boni cura facir
leinterptabimr»Hicigit^Iapfaiam in facinus muKere
temaduitutefcrt:Q_uo nuncio percepto primus Afeanius ad iiaues eripiendas
aduolat: ASCANIO autem celer robuduli^ magno animo prxditus
Aen»iiliuscft:quemiuceiatetptc tari licet uigotem quendam ex ip(j mente
natum: Hic autem nullo tenore pto liibemr qum contra pericula pnmus
feratur: Sequuntur reliqui t fed io primis zncas: At mulieres uiris
cogitis incoepti poenicet t A uiro enim feiunda muli* er aduerfus
appetitum minime repugnat <Q_uod (i tutfus uiro coniungattirt iam
robufbor fada/ SC ueluti e tenebris erepta tum demum acata iam cetatt/Sl
a lunonedcIuCam e(fe dolet pudet^: Non tamen incendium facile tolli^a
Nam optusalunoaeappeunuiacop^cueut ut uoluntatcmsquae, nobis ad
(uo»; tti «di r S 5 1? S B jr 3 .te e Liber quarttu
inutn bonum euehit/omnino perdat: fir^ mifera in bomine diftradio t eu
atio ratio dutat:aIio appetitus rapiat i Q^uo in loco cum mms noRra fe
tanto cer« tamini imparem cognofcattnititur illa quidem fuis uinbus/fed
limul etiam di uinum auxilium implorat id autem impetrare meretur. Nam
qui ita deu prae atur/utiaterimipfe quoad ualeat libi non delinis adeo
minime derenc. Nam quodaSaluRiofcribiturnecprzcibusnec fuppliciis
mulieribus auxilia deo« cum pararitrededidumell. Non enim inerti ac
delidi/ K qui in fummam rr^ tum defperationem prolapfus nihil contra
pericula parat auxiliatur deus. At qui magno aduetfus difih^ltatea animo
infurgit:qui nihil inaufum: nihil in« tentatumrelinquitiquincc periculis
terreturmec laboribus torpelattis profo* do fe dignum f^tcuius S dii d
homines commirereantur. Q_uapropter fapi« enter Aeneas ciun nec uires
beroumtnec aquarum uis infufa prodelTrt: ad prx* cesconucrtiturtauxilio impetratotcum
iam quatuor naufsai Tumpraeeirentt teliquz ab incendio feruantun Cum
autem naurs ad totam turbam tranfuehen dam deeflimt terat fenis nautz
conliliumutimbeallior turba in Sicilia reiin' quctctursutbfm illis
habitanda conderctur:hoc confilium oraculum paternum louis enim iulfu
locutus cR patens/ex ancipiti ratum hrmumt^ rcddidit:Q_ue iocum nili uos
aliter cenrcatis/itaintcrpreubimoi. Ad diuinarum rerum fpecuo lationem
fola mens omni uirtutum robore iam fuffulta acceditiReliquzenim animi
uires quz imbecilliores funt naues/illz enim fune uoluntas/quibus illuc
ucbantur incendio amifcrc: Q_uaproptcrreuocanda cR mens a frafibusihocau
tem confilium ab. eo uiroprohcifciturtcuimagi Rra Pallas fueritteR enim a
fapi entu dodus: Approbatur autem ab Anchife fed iam fcpulto; Nam qui a
ra« bonetamfubadiruntfcnrus/facilein eius dicionem conccdunr/ przfemm
lo> ue iu iubencct conuertutur^ in rationem hoc ordinc/ut ratio ipfa
etiam fupeno remlocumarcendensaf Ficiacurintellcdus: llleautem£(iprein
altiorem gradu cuadens intclligcntia redditur. AR intelligentia in deum
comutatur . Hmuic&> modi igitur cofilio at^ oraculo utimrAenas.Non
tamen prius e lidlia foluict qua lacta pie tite faaatinorat enim qua
laboriofitquiip periculis plena lic h\u iuCccmodi nauigaboiNoueratquancz
molis erat romanam condere gentetSed nec Venus quicqui interea
remittitiquinuehementer pro faluce hlii anxia oia drcufpiciat.ln primis
autem Neptunum rogattac mare tranquillum reddauNa amor quo ad fummum
bonum rapimur fupiemam in bomine rationem horta tur/ut appetitum m fua
poteRate cemtineat: N epcun us om nia benign illima pol bcctuciNihii enim
denegat ipfa mens amori ad redum eam excitanti : Neqi ell ptocula
ratione/quod oRendat Venerema fuo regnoottamtlTetEReaim Ne« ptuncu regnum
marciquod quidem ducn ab illo regitur/ctanquillu eR. In hoc czii uitilia
lada dum agitanturifpumam gignunt ex qua oritur Venus . Supte« ma ergo
ratio appetitum intra fe continens in quem uiriliaczliiiccirco decide»,
re didmus/quia in appetit um a ratione adminiihatum uls quzdam cziitus ca
dittquz in eo agitata diuinarum rerum amorem proaeat t uod autem
oes prztcr unum Pahnuru incol umes in italiam peruenturos promittit i no
ne cz oxtdia^ut aiunt gtaxi^philofopbia erutu cR: Nam clalli in Italiam
tendenti In. P.Vtrg.M.AIl(go. flurimeaductbtut appetitus /qiii a folofenAi
profedustulul altum (iifpic^ Quapropter rquadiu claiG prxfuitinunquam
ttaliam tangere potuerunt Tnv unuSedundema Tomno opptcfTus mari
cztinguitur.Nam poftquam rado acarime ad contemplationem
conuettitur:& caducorum curam reliquit: Nt< hil ex iis qux fenTum petmuicere
pofltnt/appetiturt Vnde uniuetfus Uleappcdi» tuspaulatimiapituctac
fopmisezdnguitur: Cial Csautcmcnamline fuoguber tutore tuta fcrtuc
Neptuni promiiTis donec ad fyrenum fcopuJos deueniretrlbi autem fluitate
ciuncarpiiTet Aeneas temonem capiens nauem in undis noAur« nistezitiNam
animus nofler cum iam fibiitaliam propofucrit fccurus fertur/ donec in
uoluptatumfcopulos incidattTuncetum temonem capiat oportet ap pedtus
tationalis Tquiaduerfantibus uoluptatibuscaiitra obflfism Eztmdoigw cur
Palinuro Aeneas tandem poli diuturnos enores euboids allabitur oris
.In iuliam enim ucntumcll ad quam gubernatore Palinuro nunquam
perueiuflet 1 ingrefli funt Jn quo non idem curnit quod in
cartbagine Aeneasslam portum ingrefli funt :In quo non idem curnit
quod in cartbagine a portu euenifleoflcndit poeta. Ulic enimnaues'ficli
procul a rabiat fluduum in tranquillo efle uideremurmulla tamc nant
anchora alligatx. Quapropter qua quam non omnino ucxabantuRin aliquo
tamen erant motu.1^ autem anebo ra fundabat naucs: quo oflenditur eas
ueluti fundamento nhex lint flabiles hx« rcrcoportere.Summum enim illud
bonum:quod in negociola & duiliuita a philoiophis ponitur: 8t
flinbuiufcemodireceflupofltumflt/utprocuia fotttu nx procellis uirtutum
benefido abflc:non tamen ita conflabilitum cfltquin la« bcfadan
poflit:Q_ui autem oi.'':} vum rerum libi contemplationem finem lU timum
propofuit/bic iu in tuto ac folido rationes fuascollocauit:ut nulla ui di
tnouere poirit.Nam aduentusin italiam oflendit habitum uirtutum um con<<
tradumiu:utaptopoiitauitanonfit difcefliirus Aeneas/non tame earum uit
tutumtquxfuntanimiiampurgatit Namnihil fibi diffidle iam proponeretur/
fed earum quas dicunt purgatorias.Q^uod quidem propolitum iam conflabis
litum fortitudo fit animi robur non deferitinec ipfe ardor rd
aggrediendx. Q^uam quidem rem tunc ezpnmit cum ait luuenum manus emicat
ardens Lic tus in befpcrium: Manus enim indicat omnes animi uires
cocurreretqux e me« dio iam fublato Palinuro fefe menti ultro
fubieceranti quod autem ardens fit concurfus uehemcntiamindicatiNe^ ab te
efl quod fit manus iuucnum.Ofle dit enim animi bene affedi uires nnllo
fenio in quo tedium torpor^ ficigna«. uia efle (olet unquam
aflid:Q_uapropter non lento palTu rem agit/fed emican Verum quia dum in
corpore ezulat animus:quauis fe totum fpecuiatioai dc^ dati non potefl
tamen non curare neceflariat ea’ enumerat poeta quxnonuo luptatem fenfus:
fed incolumitatem uitx rcfpiciant. Nam quxnt parsfemi nafiamis ObfttuIainuenisfilicupatsdela
feratu Teda rapit filuasinucta^ flu mina moftratiinferiorcs igitur animi
uires bxcagut. ENEA aut quo nobis m& exprimit" i Arces quibus
altus Apollo prxfidctsHotridxip procul feaeta fybil» kc: Antru imane
petitt(^uod cu fadtad rea diutnas cdtcpladas erigit t Na qui aliquid figurarum
inuolucris fcribuntibuiufce modi rpeculatioes per excelfu loca aprimBt. yadc
illud e p(almoi(^uis afccdct ia mdee duif A et illud = b Sj K n n i»
la Ap OL ttl d bt ttn
lut % dt.QURI bii iO ni£ fid «w
Ots sed| iae N «I K Liber quartus Nam cum in ui^tum
in contemplatione pofitarum finis uerum fit/ quo fapi^ Clite
efficimurtreiSe omnino folem huic rpeculationi mopolicumeflediiitNa ut
nox tenebrz infcitiam arguunt :ita lucis dator fol ueriratcm fignificat: Cuius
exemplum fecutus ciuis noder Damhes cum ab ignorarione rerum ad ue- ri
cognitionem progrefiiim ponit fe ez node filua<]^egreflum montem cuius
iu ga foleilluilrata fint/afcendere reflatur. Addit pratterea antrum ibi
efle Sybii« be magnam cui mentem animum^ Delius infpitac uates aperitrp
futura. (^u£ quidem locum ut diluddius-ezpritnamus pauca prius de Sybilla
percurr^mt mox ad rem de qua agitur redibo. Conflat igimt Sybillasapud
grzcoseas mu» iieres urxitati folitas t qtiz furore diuinb afflatz futura
praedicerent t Eft autem Sybilla quafi id enim efl dei fentennatquoniam
dei conlilium fitn tuitura & enim aeoles deum dicunt : quem
reliqui graeci nomnantt Quanquam (iimtquiuelint fatidicam muiiaem apud Ociphos
bocno mine appellatamta qua demdereliquz futurorum confcia: cognommatz
linn faas exuariis regionibus' decem fuifle colligit. M. Vano :Q_uas ego
omnes fi quid ad rem pertinacatbitearertfuo ordine proiequi non
grauarenSed ut ui> ^.nihil ad hoc de quo nunc agitur iQ^uamobccm fatis
fuerit uidifle Sybil lam facile rerum diuinarumdoi^inam interprztari.hzc
autem nobis ca qux Apollini nota fumifine mendacio przdicitt Nam
fapientiam uericatcmtp ape» m.quodueto antium ponitiexprimic ucritatem m
obfcuto latete . Nrtpreme» tetriuiz lucos Apollini templo adiungit: luna
enim corpulenta uebementei cflifiC reliquis lyderibus inferior .
Q_uapropca rerum humanarum quz diuinis longe inferiores funt/figuram iutc
habdne : 1 lia enim lucis przpouitur: res au» tcmhumanzin fylua
obrutzfunt: non enim corpore carent:& utiuna afoie lumen recipit t
ita Si ipfz quiequid habent a diuinis habent . Collige ergo cu lapientia
non modo diuiturumterum/fcd etiam humanarum faentialit re» de Apollinis
templo Dianz lucum adiungi. Templum dtumatum rerum lo»cus efl. fylua
macenanotat.Templum laoius zdiheium deo (aaumiin quo res
fdlasdiuinasagimustab reliquis abftinemus t quoniam cum illud mgrcdi»
muria negoaisceflamustfiC foli contemplationi incumbimus.Trmplum aute a
Ozdalo conditum ponit t Q^uid igitui aliud efl zdilicare templum Apollini
nifi reddere fe idoneum ad fapientiam capiendam.Q_uod quidem tunc dcnii^
fadmusicum ab omni corporea labe purum animum ad contemplanda diuina
tranfferimus.hocautem Ozdalusuiromnibus optimisaitibusinflrudus fa»
cuepotefliin quo tantum ingenium fucriciut Si DzdaIaCitce& tellus
dzdala a poetis tunc maxime dicatuticum maximum ingenium
oflendercuolunt.Ve» tutantem non mariinontetrainec ad meridiem infimam
nobis mudi panemt fcd per fublimem acrem ad reptetrionemiNibil enim
humileinihil terrenum fit in camente/quz ad fpecuUtionem fertur I fed ad
fublimia czlefliai]p engaturt Efl autem primus fpeculandi ingteiTus a
uitiis. primam enim cogniuonem efie oportet circa mali naturam /ut
ualcamus ab eo abAinere. Nam nifi ex» piati a uitiis fuerimus i nunquam
diuina attingemus t Vt enim idem fiepu ut icfctam/ negat Dauid
quenquamalcendctepoflc in montem domini/nifi
Ia.P.Virg-M.AlIfgo. cum qui fit innoces ihanibus 8C mudo
corde:(^uapp in foribus per qmt etat in templum aditus homicidiu
Androgei: Adulterium Pafipbzs& Icari faftus i|>onic .Hzc ergo a
principio fpeculatur Aeneas.In uitiorutn autem cognitione 'non cft
diutius imoradu.Nam Si (latim ea noile oportet: & ftatim a noris
dilco dere.Rede igitur^ fjrbillaquaiamprarmilTus Acatesacceriieratadmonef
Acne asine in tali fpedaculo Idgius tepus cdterat:Nam excellentiores
quoep uiri uad is uoluptatu illecebris alledi labercnt :hi(i.eoru cura BC
Ihidio eam elTent adrpd dodrinamtqua monemur ut paululu illud uitae ac
temporis:quod humanz ra dcoDccfrum eft non nili magnis & excellis
rebus conterendii ducamus.Hocau tem inter egregiu uiru ac
ftuliumintere&.Nam alter li femel labatur/non facile furiet Altet
liquonia corpore uac animuspauluquandotpeuia deflexerit/ flattm adeft ab
Achate accerlita fjbillatquzad redudeducattledmira profedo poetz
ingeniu:qui fapientiamipGm Tua fapientia nos edocettprima ita<^ dodri
na ea efl ut purgati mundicp templum ingrediamur : Deinde oflenditquiuis
mens nollra quzdam Tua SC a fummo deo fibi indiU ui cognofeere
poflit:eogai tionem tamen diuinarum retum huiufcemodi eflexut nili diuino
lumine extu .tusillulVremur:illamcondperenonpoirimus:Hoccum fit/quis non
uidetprz cibus & ficrificus rem efle a deo petendam: Elegit autem
feptem hoftiastquonii Teptenarium numerum multi pnilofophorum
perfediflimum putauenmttpro ptereatp fapientiz attribuitur:8t uirgo ac
pallas appellatur: Sacrificat igitur fepte qmrapientiioptat: Ne(p temere
didum efl quo late ducut aditus cctu:hoftiace tum:per aditas enim
multiplicem uariamt^ dodrinam expim!t:quaad fapien riam
ducamuriHoQiiueroquz quidem uenientibus:refe opponunt non pat uam in re
difficultatem oflenduntiHateautem non ante patebut : quam id prz dbus ab
imo pedore fufls impetrauerimus.Sumo enim animi ardore & mente illi
penitus deuota fapientia acquiritur: Vt aute Gpientiam aflequamuri promit
tit le templu Pbcebo & Dianz fadurum:fed de templo paulo fupra dixi:huc
ue to quare illud de folido mamiote Fadurum fe pollicetur / breuibus
expediam: marmor res dura ell:ac mirus in eo 6i candor & fplrndor
apparet: Vnde ab eo quod gratei fplendere dicunt nomen fumpflt:
C^uz omnia in ea mente/quz ad Ipcculationem erigitur infint nrcefle
eft:Brit cn m folida ut quemadmodum inunis fludibus fua duririz ita
obfllHt feopu^ lusutipfe integer maneat/illi ucto
illidantur:difruprir<^/rclidant:ltcmens nui lis perturbation bus
frangaturifed illas frangat: dicimus przterea aliquid ez fo lido marmore
clTe.cumnon marmoreis cruftis externe exornatum fit ; fed tota cx
tnaimore conftet.O uapropter 8i buiurcemodi mentem efle oportetiut no
figna quzdam quibumpientiam exoptet przfeTat:rcd tota exardefcensilli
fetn per incumbanErit itidem fummo candore nitens: ut nulla fit corporea
labe polluta.Q_uo enim padofplendore carere poflit ea meos cum fapimtiam
na qua perceptura fit:nifi prius multis dodrinis illuflrec%Teplu uero
Pbcebo Dia nzip ponir:qa^ut mo diceba ^ & diuinayt & buanape reru
cognitio cft rapictia Dies aut fcftosfoli Apollini illituit:qauenis cultus foKs
diuinis debctur.polfi ctt & S jbilJz penetndia: in qbus fuz fortes 8C
arcana codanf : Na nifi alta totte I^bct giMrtus. rcpofita maneant ea qax per
dodnnam acquirimus 'ueluti rianai puelfa; alHduo labonbimus:ne<p
unquam pcrforarum uas adimplere uaI(bimus:Q_uapr(v pter 6C uiri ledi
fortibus przponendi funt t Nam excellentes funt uires animi ad bbendx :
quibusiqux didicerimus optime mandentur : Curadum autem in pri Inis ne
refponla frondibus (dipta tradantur: Sed ore pronuntient ur:Non enim
JibcUisfiCcommcnUrioIi SCT edmdafuntquzaddircimus: fed menti: Ne^
ruro (iuleuium flultilium^ rerum eQ quaerenda dodrina ueluti qui in
dialedicorum fuperfluis apdunculis/ac uanis amphibologiis/autlnanibus
fabellis omne pen e tempusterunt: Vereautem illud didumeftfybillam circa
principiuih nondum pbcebi padentem eflie : Ea enim principium nondum
pheebi patientem effe: Ea enim quz cognitu difficillima funt/fuidpete non
ualent noftra ingeniola donec Apollonis enim eff neritas nos componat :
ea enim inffrudis omnia Facilia redo •duntut : Sed audi quid dicat
Ijbilla . O tandem magnis pelagi defunde periclis: Sed toris grauiora
manent : Nihil grauius nihil uerius: Qui enim omiffa ciuili uitaad eam
peruenitiquz in contemplandis rebuspolitaeffiille relido pelago^ io
contipentem fefe recepit : Vita enim quz in adionibus uerfatur: fluduati
ma ti fimiliima eff : Videmus enim omnia quz in ea aguntur : fottunz
procellis ezo polita effe : Contemplatio autem cum ad ea uertatup : quz
eodem femper fe mo do habent: ne^ in intoitum cadunt in folido hzret: Magnis
itacp pelagi pericuo lisiadatus eft zneas prius quam longis erroribus
circumadus diuerfa horrendao ^ maris monffra uitare potuerit: Diffeile
enim fuit ut troianum incendium ino columis ruaderet : laborioTum ut
audelitate atep auaritia deterritus e tbracia abi ret : In commodum ut
ambiguitate oraculi deceptus in trinacenfem pedem incio deret .
Q_uisautem barpyarum foedam illuuiem non abhomineturrQ_uamuis iter ad
Helenum per medios hofies non formidet . Q_uh cyclopum immanitao
tenonconffematurrMariaautemlicula ita caute obire: utneue Ttyllam neue
•baiybdim conrpidati^^ tempeftati a lunone zolo^ ezeitatz ita refidere:ne
nau &agium faciat non hominis fed herois eff . prztereo quz in fodis
in africano Kt« tore paffus eff : quas ilh fraudes luno parauerit : quo
amoris uinculo Dido illiga •erit : prztereo quz in Sidlia ex incendio
nauium damna acczperit: uz om« nia gtauia ac tunc periculis plena
cum perpeffus fuerit: quo nammodoin Italia duriora paffurus eff : Non
tamen procul a uero aberat fybilla : Cum enim a com muniuitaac hominum
coetu te in folitudinem ucndicaueris : tunc acriores quaf dam uduti faces
carum rcrum/quas rcliquiffi memoria admouet : & illarum de Gdepo
acenimi infurgunt morius : At^ cum obliuioni iam eam mandaffe puta tnus :
tum maxime illuum ingeminant curz : rurfufip refurgens fzuit amor':ut
nili firmiffimaancbotaiuuesfundauerit/uideatur in Afncamrenaaigaturuve
Non enim 6C li firmum fit propofitum minime inde difccderc: tamen ceffat
ccr« tamen cum aliud illecebrzolimadzuitz aliud przfens confiliumfuadeat.
Ve» tutin Italiam Aeneas:uenim eo uimitumgcnerequipurgatoriz appellantur
a quibus antea quam penitus expiau fit mens necefle eff ut acerrimum
beliu quc« adsetidum nofftt aiunt fpiritus aduerfus carnem gerat : Nam
quanto magis hzc l^ta humanam imbedllitatem funt: tantnniainri
pcriculoaggtcdimUC.Hu<i tn la. P.Virg. M^Ahcg Of
inaHani enim rodctitemcum deferimus/aut in ferinam lutam per tninian
U atram bilem degeneramuc/aut heroico robore fupra hominem erigiimjt. Qua propter
intenogatus quidam qui in littore folusuagabaturquicum loquerctot
rcrpondi(Tet<p mecuni loquor* Atqui uide inquit ille ut cum bono homine
1» quaris/& rede quidem t Non enhn facile SCIPIONE inueniaaqui
nunquam mi nus folua elTet quam cum folui • propter huiufccraodi igitur
difficultates ah Sj> bilJa fore/ut cum in Italiam uenerint
dardanida;/ii enim uiri tegregii funt / nolA uenilTc.
Inuenientenimaliumin latio Achillem.inuenientK lunonemaquV bus non
mediocriter uezandi Hnt i Ambitio enim quz ut in lunone ita ia bello cofo
uiro etprimitur quemadmodum troia; & uoluptati aduerfabatui i fic &
fpc culationi quam fibi przfcrri egre patitur aduerfabitur : Eft autem ex
dea natui achillcs / quia diuiiu qux damgenerolitas in animis
noftnsiolita eft t qiuenctni ni parere i omnibus autem imperare uclit
> Hzc ft reda ratione excolatur/ueram fortitudinem parit i lin autem
contra rationem elata omnia in fuam libidinem coouertere
tenet/ambitionein creat t & regnandi cupiditatem t Q^uaproptet tt ft uehementer
degenerer a dea tamen id eft adiuina animi ui origiuem du.itsNd autem
eatolum t quz ucnturanntptzdicitSfbilla : uerum ftcaufain tantorum
malorum profert: Ait cnimuttroiamcuertuntnuptiz mulieris eatdnz: lic ft
in Italia lauinz coniugium bellum acerrimum concitabit t coniungitur
cztemz mulieri animus nofter cum omilla uirtute rebus caducis deledatur .
Q^uapio* pter uoluptas paridis troiam euertit . In Italia uero cum nondum
cupidiutem tc rum humanarum deponere ualeat animus bella excitantur
afpcta illa quidem / fed non in quibus ueluti apud troiam ruocumbatt fed
unde uidor triumphafiy parto regno redeat . Accommodate ut mihi uidentur
omnia hzc inquitAt illud quare didum fit : fed npn ueniiTc ualcnt non
intelligo.NI (i eum qui iam ad fpeculationem peruencrit firmo iam
propolito ce oportet cur illum peenitentia fequatur non uideo t Non enim
infiaot uirum etiam grauem in huiufermodi ftabili propoliro acri fzpe
morfu affici : non tamen ita magnoaf fici puto ut ad pmnitentiam
redigatur i nifi fortalTe hoc didum fu : ut multa per quandam hipctbolcm
t (icenim grzci rupcriationcin appellant / dici confueuere ut ex iis
unbis quibus peenitentia (ignificatur non peenitentiam fed fumma diC>
ficultatemoftcndcreti Ifthuc ipfum inquit BAPTi&TA : uerum uidramus
qd rerpondeat zneas : nempe id quod qui uera dodrina imbuti fuot femper
obfer^ uant : Ait enim fe ita ptzmeditaium uenifle : ut antea fecum animo
omnia euoi uerit . uz enim ante a nobis ptouifa funt ea id fpatium
przbenr/ut antea qui ucniant uel cuitari poflint uel faltem ne
tantum Izdant prouideri : Cum animus ipfefuasuires colligens
tobuftioraduerfus difficuitates reddatur: Nam queme admodum ii boftes
incautos ac nihil tale metuentes inuadamus quamuis 81 Itv co & numero
auperiores flnt facile illos fuperamus. Contra uero uel exiguz eo* piz ii
fpatium ad ea paranda affit: quz prziio conducant lulidii Timo ezcrcitiB
pares fzpe inueniunturific & nos finobifcum cogitauerimus/ quamuis
multa per corporis cogitationem accidere pofTint/ animos tamen czleM femine
oetoa atfi focotdi» ignauixy Ide dederint: aullis laboribus t nullis
difticultatibiill ul iJi M Stl eu P ffli «I IV.N a id ni ifi m M k d Pf Liber
quartus nuDa foitunz iniutia modo uelintimpediri pofle quo minus in
originem fuam redeant inui<3i ab omni perturbationum prxiio euademus .
Ha»; fecum cu iam diumcditatus effetarneasnonpetitnuncdemumiila doceri. Verum
in limine contemplandarum rerum poAtus ad inferos deduci orat. Quo in
loco quid G* bi ueiit amez ad infaos dcfcenfus conabor paucis abfoluere i
Si pnus quid infer bus fit : Si quot modis ad eum deficendatur breuiter
demonfhaueto : Infemiim igitur plurimis ante chriQianum nomen fzculis no
folumhebrziuerum etiam cgyptii pofuerunt . Q_uz autem poft chtiftum natu
noftra religio fine ulla dubitatione de inferis de^ peenis t quas apud inferos
nocentutn animz luunt / af> firmat ea omnia ab hebrzis ni fallor
accaqrimus.Q^uz uero zgyptiorum monu mentis mandata funt ea primus ad
grzcos tranftulit Orpheus . Hzc deinde fu« is figmentis auxerut plaui^ ez
grzcorum poetis / quorum principes Homerum H^odumtEurypidem t
Arifiophanemm e(Tc uidemus . Q_uos deinde fecuti e nofirisfuntptzter
Maronem / Ouidius mlmonenfis/ biex bifpania Statius Pa» piniusacLucanus :
&quem plzri^ florenrinum fuilfe putant Claudianus: At ii omnes inferomm
ledes fubterraneas elTe & ad cctrum ufip : qui locus in fpe ta
infimus efi portendi aedidetunt: Q_uapropter fpeluncas quafdam ac terrx
hiatus przfemm fi ignem fumum ue euomant ingrmum ad inferos n5 line mu
liercularum ac rotius uulgi fummo afTenfu fabulati funt . Nam & in laconica
re< gionc Tenanis mons eft circa finem malei promontorii / e cuius
profundiifimo antro quoniam fpiritu id agente fhepitus auditur: facile
fuit uulgo petfuadere inde ad inferos defcendi.Acberufia autem palus in
epiro no procul ab beraclea abargiuo ut fauntHerculedidafpccum habet per
quam cerberum tricipitem Plutonis canem ab Hercule edudum crediderit
antiquitas : Nam de auemo lz> cu nihil efi quod referam:
uulgataenimresefi&a pizrifi^ decantata. Ac de poe tishadmus . Plato
uero eadem difciplina : qua & Orpheus imbutus ita fingula
ptofequicur/ut nihil aliud inferorum locum animis noflris efle ueiit quam
cor» pus ipfiim quo ueluti carcere includuntur . Ipfe em'm animos a fummo
deo ae* atos ponit : Q^ui quidem fuapte natura dudi In deum parentem fuum
conuer tuntur. Nec mirum . Nihil enim eft quod in originem luam cum
pollit non re uetutur. Videmus enim(^ut loco exepli hoc ponam}ignem
huc^ut ita loquar^ tenenum/quia fuperiotis ui ac femine genitus efl fuz
naturz impulfu ad fuperi ora erigi . Conuerfi autem in deum animi eius
radiis ita illuflrantur ut ubi hade nus eorum efientia per fe ueluti
informis fuerat : nunc ilb fulgore conformet' : fit 9 miro quodam modo ut
intra animi eifentiam receptus fulgor no ueluti ez^ terna quzclam Si
aduentitia res in ea refideat : fed ad illius capacitatem tradus ob
foinor quidem reddatur : 8C a fe ipfe degeneret : mend autem proprius ac
nattis talis efiiciatur.Q^uaptopter hoc duce in fui ipfius at^ omnium quz
infra fe ezi ftunt: ea enim corpora funt: cognitionem animus uenit: Deum
uero Si aav> ra quz fupra fe apparent: hoc lumine non cernit. Qui enim
fi iamconnamra« le fibi fadum efl ea quz fupra naturam fuam funt/illo
continget : I d tamen men ti noftrz przfiat : Nam per primam hanc ueluti
fcintillam deo propinquior fz> da aliud accipit lumen & clarius
quidem/quo iam czlefiiumquo^ Si fuperna* m ii ~ f l Ia.
P. Virg.M. Allego. nim remm cognitionem accipiat . Sed hxc te
LAVRENTI latere mmitne puto: Sunt enim non folum dode ac diftinde/fcd
omnino dilucide a Marfilio noftro in iis dialogis explicata : quos ille
in Platonis rympolium confaiptos fub tuo no mine zdidit : Q^uos quidem
cum quia ad te funt t tum maxime quoniam pluri mis acfeledilTimis rebus
abundant familiariflimosribi elTe cupio t Sunt illi quidem inquit Verum
przcipue locus ifte menti noftrzhzretsin quo geminum in nobis lumen
elucere demofttat : naturale unum & ingenitum ut dicebas : diuinum
alterum & infufum/quibus limul iundis animi noftri uelu ti geminis
fulFulti alis/totum hunc ruperiorem mundum pcruoLue poiTunt: Ad dit^li
diuino illo femper utantur fore t ut frmpet diuinis bxreant. Infimus autem hic
tctrz locus animante in quo ratio fit canturus uideatur.Q_uod nefiat
efrediuinainflitutumprouidentiatutanimusfui omnino potens flt:ualeat<p
pro fiio arbitrio uel utro<p fimul lumine cum libuerit uti : uel altero
(bIo:propte rea<^ fieri ut natura duce ad natiuum lumen conuerfus fe s
uirefi^ fuas : quz ad fabricandum corpus fpedant/diuino lumine ad
przfensomiflblolum confide.' tet : illafcp in corpore conflruendo
exercere cupiat . Rede ac memoriter tenes inquit Baptifla s confifHt igitur in
czio ut Platoni quem poeta fequitur/placere ui.< demus animus noder
ipfius diuinz naturz contemplatione pcifiuens : Verum il la quam dicebas
cupiditate infedus & ipQi cogitationis mole degrauatus in infe» ra
defeendere indpit .Verum quoniam cum de inferni finibus ex fententia
Plato nisquzritur non fimpicx apud eius philofophi fedatores opinio
cdtnoscam boc tempote fequemur :quam & animorum rationi magis
congruam putamust & dodiotibus magis placere cernimus . Hi igitur
bipartitum mundum ponunt. Nam fupremum czium quod Aplanes uocitatur
dellis^ut cd apud poeta^ardetibus aptum fuperorum regionem ede uolu erunt
:eofq) campos elyfios ac beato Tum infulas nominarunt : Saturni uero
fpera ac fex reliquz quz fub illa funtrrut fufep quicquid fpatii inter
lunam terramc^interiacetripfami^ tenam inferis at^ tribuerunt : Altiffima
igitur pars illa qua uel fubdentatur diuina uel condant/ne dar uocatur i
di deorum potus ede ctedimr . Inferiorem uero Icthzum/ac horni num pomm
dicunt r in hunc enim cum a fupetiori czIo per cancrum ea enim ho minum
porta diciturrprolapfa fuerit anima in ipfius hyles quz elcmctorum ma^
terta ed tumultum incidit: quo in loco noui potus ebrietate degrauata&
ueluri temulenta effedadiuinorum obliuifcitur : terrenatum^ rerum
cupiditate ilie« da ita per fubiedas fperas dclabitur : ut ex lingulis
czlotum ordinibus aliquem cotum motuumtquibusufuradeincepsfitin
corporibus acquirat:Nam ab ea quam faturniamdellam nominant
ratioanandi& intelligendia loue agendi a marte audendi uim abducit :
fol uero ut fciat ut etiam opinetur illi cocedittMox a Venere excepta
defiderii motum mutuatur : Inde per mercurii ac lunz czlos de fcendens ab
illo pronunciandi interpretandii^ ab hac plantandi & augendi uires
acquirit : Ac podremo ad terram ueluti ad centrumtquo gtauia omnia
feruntur delata:6C corpus quafi carcerem uel potius fepulchmm ingreda
iurc apud inferos relegata didtur: Moritur enim in corpore anima uelut in
fepulchto demerfar non ita tamen t ut fauiufccmodi morte extinguatur :
licd ut ad tempus obtusturt Liber quartus quabdo quidem illius
diuinitarem noxia corpora tardatititertenishcbetaat artus moribunda^
metnbra.-habes^fed breuiter^quid Platonidinf^um pu tcnt:& quem
animatum ad ipfum defcenfum ponant» Nam^ de tartaris fabii^ lanturpoetzea
omnia animam in corpore pati manifeftum eft . In materiam enim protrada
nouam fyluz ebrietatem haurit cum illam ueluti flumine dema gaturtFIumen
autem ipfum non line exadarationeinquatuor flumina ac flj giam paludem
deducunt. Lethzu achaonta ftygem cocytum ac phegechotu> tenitMateriz
enim admixta anima eunda quz in czlis uidaat obliuifcitur. Quaproptaiure
lethzum nomen ab eo quod elt. ficenimobbuifei grzd dicunt potare
finxerunt. Ex hoc autem Achaon ma« nat: quzrcs gaudii priuationem
denotat: quafi Nam quod in dd contemplatione purus exiflens animus
gaudium aedpiebattidom ne ex obliuione amitdttquo quidem amiflbt flyx
quamfadletriflitiam intere pretaberis exonaturneccite
efttftygisdemumpoflrema zfluaria coitum e£fi.< dunb Quis enim ex
triftitia in ludum non cadat: te autem non fugit id grz cos dicere: quod
latini lugae interpretantur. Ex diu tumo autem ludu in furoris infaniz^
ardorem inddere roIemustquemphe. gethontem nominant. Ex hyle igitur unico
flumine mala hzcomnja eueniV unt: Quapropternon fine fummadodrina ex
letham reliqua fluenta deriua ci finxeruntrfed hzc in Phzdone a Soaate
latius explicantur : N obis autem de multis puea ad bunclocumtranffnenda
fuerunt :at(^ ea fola quibus defeen fus ad inferos ex Platonis fententia
perfpicuus redderetur: Noflri autem qui ita a deo animas aeari redifljme
fentiunt: ut eodem momento & creentur fi; fuis corporibus
infundanturrnon eas in hoc inferiori mundo uerfari uoluerut: ut commifla
purgarent: Quid enim fi ante corpus non fuerant : extra corpus peccare potuaunnfedutfuisrcdis
adionibus: quas omnino liberas habent cz« Io aliquando frui mererentur .
Conceflit enim nobis deus : ut noflro arbitrio Ii' bere utaemur:non ut
per nequitiam delinqueremus: fed ut per religionem fi; iuflitiam nobis
fummum bonum acquireremus: Verum cum perfummam fiultiriam illud
negligcntes corporeis tetrife^ uoluptatibus dciiniti maximis ua nilc
fceleribus coinquinemur oportuit efle locum ubi a corpore digreflx buiuf
cemodi animz fuorumfadnorumdebitiflimasposnaspcrderet.Himcautc lo cum
arca terrz centru maxime eflie uoluerut:Na cu fi; propheta eripuit deus
ani ma mea de iofernoinferiori dixerit fi; ipfc humani generis faluatorfe
triduo in corde terrxfuturuadmouerit facile couincitur centru
eflctNihilenim eflcctro infcrius:quin fi; ita in medio terrz confiflittut
in medio animante cor efle uide musiQ_ua in parte fi; tenebras
exteriores/quonia a luce remotiflimz fint:fi; de tiu flridorc quonia
nulla folis uis illuc defeendat efle nemo negauerit.Erit igitur in terrz
cerro infernus:fed ita erit ut etia ex iis quz fapietiflime a Gregorio
colli gunc ad aere uflp huc ex terrz fi; aquz caligine
cralTioreptcdat^.Acrp deiferno hadenus ad illu aut aias defcedere oe fere
hominu genus dixit. Sed tn aliud alii fentiut.Na przdpitatio illaaioru
afuptcmoczloin hzc corpora ad inferos de fccofuscdea Platone
acdicuitCbriflianiuaofczleflo^ animasc fuiscoipotL In.P.Vtrg.M.
Allego. busad inferos trahi admonent. Dicimus itidem uiuentes homines
cuminid tialabuntur/ad inferos rueret Sunt quoc^ qui credant magicis
artibus 6: cat minibus fieri uelutidefcenfus quidam/ut inde euocarianimx
poflint. Verum praeter bos quatuordefccfusqnrus quicftnonuideir
omittendus: Na £( ad in« feros tendimus/cum lumen rationis noftrx ac
induihiam in mali ac omnium oitiorum naturam fpeculandamdeiidmus. Ego
igitur libenter de te feifeitoro Laurenti cum haec omnia perceperis quid
putes hoc Aenezdetcenfu Virgilu um exprimere uoIuifleTlamdudum quid agas
uideo o Baprifta inquit Laurcntius/ac pro eo maximas tibi gratias habeo: Quis
enim non uideatuni. Uetfamhanc difpuutionem nonfolum meisptzabusdatam/uerum
etiam a me fratremij meum erudiendum elaboratam : 'Nam fiCli caeteri t
qui afTunt omnes mirifice tua otatione deledcnturt tamen eft eorum ztas
ac dodrina huiufcemodi t ut etiam fine duceipfi per fe hzc omnia
cognofeere ualeant. Hos igitur duos erudiendos cum fuiceperis :
propterea^ rede netan fecus quz hadenus difputafii teneamus / nofie
cupias fine ulla cundationequaxd. rogaueris / cerpondebo: fic enim &
errata facile emendare poteris : 8i fiqd rede teneo id tuoiudicio
confirmatum firmius hzrebit. Petit igitur afybilla quam tu iam dodrinam interprztatus es/ut ad
inferos K ad parentem dedo.> cat: Q_uod cum petit oftendit mentem
przmonfitante ipfa dodtina in fem fualitatem defcendece . Vult enim nitia
quz ab ea funt penitus cognofeere: fed uide quantum tibi ex hac
difputatione debeam : nam non folum effeciftt ut hzc a Marone
diuinitusdida tenerem: fed fimilitudine rerum admonitus ia quidfibi
nofierquoi^ Oanthesuoluerit facile coniedor. fed de hoc alias: Tu ueto fi
placet ad reliqua perge: Rede tu quidem inquit Baptifiainterprztaris; Me
autem tuum ifiud ingenium ac iudicium fummopere deledant: Verum
audiquidilli auaterefpondeatut.ln primis enim defcenfum ad infetosnul'.
lius negocii eiTc demon(lrat:cum nodes diefc^ datis ianua pateat : Q^uod
pro fedo nimis etiam q utilem uerum efi: Naracum procliues ut fenexquo<^Te
rentianus conquzritur a labore ad libidinem fimus / facile in uitium
labimur. RcdilTime^ illud ab Hefiodo Redifiime
quo^ 6i illud uel claufis oculis illuc defeendi: Nam fiue
delinquendo in uitia labimur ? [uoniam id per llultitiam fit:
llultitia autem rariflimi carent; quid obfccrote acilius inuenies :
fiue:fed t^iquos defcenfus nunc mifibs facio : quorum pro cliuitas
pcrfpicue apparet : Id autem de quo nunc agitur : quis non uidet . Mentem
ipfam ac rationem facile in cognitionem fcnfuum dcfcendcre.Ma ximum autem
fit periculum ne dum cicca lingulas corporis uoluptates uer.> famur /
ita illarum illecebris demulceamur / ut irretiti hzreamus : Facile
igi.> tur fenfus defeendit mens / non autem facile a fenfibus
rcuocatur.Id enim eftab inferis redite: pauci enim quos zquus amauit
lupiter: aut ardens euexitad ztheca uirtus diis geniti pomere : Tria ut
uides hominum gene<a ra ponit quibus liceat ad fuperos reuerti: Sed
nos prius de duobus pofirei> mis dicemus : cenfet Plato quod paulo
fupta explicatiur demonfirauimus animos nofitos rerum terrenarum
cupiditate degrauatos incorpora dcfixt> Liber giiaituf
Jcre : (Quapropter qui prius imbroda nedare<p ueTccbantunid enim eft
deo 'fiuebantur t atqi inde mirum gaudium Tumebat t nunc letheum rpoti in
re» lum omnium obliuione mnli Tunt.CQuod (i intra corpus conftitutus
ani^ musillius cogitatione ac fordibus inquineturttamdeoiis tenebris
obducitur/ utnulla deinceps fpes (it ad Tuperiorem lucem redeundi: Sin
autem TcipTuni infccoIKgms integre cafte^ degat: 6ecorporis quoad
potedeonfotrium de* clinet ipauladmcz illa obliuione qua ueluti
crapubuino(p opprtlTus obdor» tniTccbat Teexatansualet libi geminas illas
quas iam totiens nomino alascom patate. Illis autem fuffultus facile ex
inferis reiilit: &ad Tuperos rediens iii re gionemfuam reuolattper
duas igitur alas totidem uittutum genera intclligi mus /& eas quz
uitx adiones emendant: quas uno nomine iuftitiam nun» cupatt&eas
quibus in ueri cognitionem ducimur: quas iure optimo religio» nem
nominat. Illud igitur pauci quos ardens cuexit ad aethera uinus:alam
primam exprimit : & uittutes qux de uita & motibus Tunt intelligit: cumde
indeaddit diis geniti potuere SIGNIFICAT alam secundam :at<pipfam
rrligionem quamexuirtutious iisquxad uerum ducunt conftare uul: Placo :
Hxc itaip auntopbilofopho mutuatur Maro cuius quidem dodrinx non nihil ex
ma» thematicorum fcntentia ita addidit : ut nei^ ius Tuum ac libertatem
animis adi merctmeip cxleftia corpora fuaui priuaret:Nam li animis
nolitis uimnecef» Utatcmqi f/dera afferre dicamus/non modo id in
religione noflra impium eiitr fed 6t a Tummorum FILOSOFI dodrina
abhorrens : Verum ut intelli» gas ntip hoc a Platonico dogmate alienum
elfe / refert ille in Thimxo ratio» naiis animi effedionem nulli nili
deotribuendamiquoniam ipfe eiTentiam ac ^ rationem animorum
noftrorumcreat.Corpus autem ac exteras animi par» tcstuteaeffqux
concupifeit flC qux irafdCur nos ab animo mundi mutuarie Q_uapco{aer St
li mens ipTa nolha nullo fyderum imperio fubieda Iit : tamen quia nullam
adionrm ex iis unde uirtutes uitiam manant nili per fenTus ac ap» petitum
exercet: Illis autem quoniam a corpore funt uacias aut ad uirtutes affe»
dionesiauc in uitfa prcKliuitates inferunt fydera /permulti interelTe uidet ur
quo fydere nati fimus:Nr<^ folum ad bxcqux ad uicam & mores
pertinere diximusr ucrum d ad ea qux fpeculationem K ueri cognition cm
refpiciunn Nam li on» nes omnium animi eadem natura funtiunde nili a
corpore eritrquod alii inge» nioiudicio ac memoria excellentilTimir xillanttln
aliis hxcnulla appareanc: cu autem omnis nofira cognitio ab iis qux
efficiuntur ad cfficientiatn:& ab iis qux loco 8C tempore nrcufcribu Dtur
ad infinira initium fumatrmulta obiicinir dif» licultas animis noftristut
intelligentiamut feientiam ut fapientiam alTequanturt cumuircsillx:qux
paulo ante dicebama membrotum : quibus ueluti inftru» mentis utuntur
deprauatione bebercant : nei^ fe explicare poflint: cura igi» lurapud
Platonem ruumlegilfet Maro nili geminas illas alas recuperemus ad Superos
redite non poffe : Cum itidem illarum recuperationem a fyderibus caquam
oilendi ratione impediri aniroaduerterctiut a loue xquoamarrmur opus ciTe
ofiendit . Hoc autem nihil aliud eft / nili ut benignitate fydaun»ffcdionca ad
icdaa adiooa acdpctcmt^Natacum plancutum uuia uiafit ,1 In.P. Virg-
M. Allego. Videmus iouis natura hulufcemodt elTc: ut quos ille in
fuo ortu benigfle a(^e dt illi ad iuftitiam ac religionem proni
reddinturrita ut ad eas quas diximus alas recuperandas impelbtr colligamusigiturnetnincmabinferis
rcmeate/nili al^s recuperet : id autem non clTe fadlc nili iis qui
benignitateiiderum adfupera eti guntur . Sed quid tu.L.Marfilium intuens
clanculum rubmurmuraftit Nempe id Tolum refpondit.L.quod paucis ante
diebus cum T imxum Platonis in maoi bus babetet:mibi de anima mundi
dixerat Marlilius > Cautius inquit.B. mihi progrediendum elTe
uideorcum res nobis non modo cum dodo : V erum etiam cum mcmoriolo
litifed quod de mundi anima dicis/id 6L uerum huic lo> co
apprime quadrat : cenfet enim PLATONE rationis fementem a deo
fadamianitnof ^ nodros ab ipfo aeatos/ac deinde mundi animz ueltiendos
corpore traditos: ut £2 corpore uedircntur:& eius pedilTequis uiribus
informarentur: Aequum enim fuit:ut quoniam concupiTcibilis irafcibilifi^
appetitus (alutis corporis gra na func:ii ab eodem nobis darenturtqui nos
corporibus inclulilfct: Vetumquia faz partes lubricz funtipat fuit: ut
qui nobis illasin deterius facile labeutcs dedif fet idem ipfe aliqua ex
parte aberrotibustueretur: labenter<jfubdetatct.Q_u3' propter iuflit
illi fummus pater/ut quando ipfetccirco animis nodris caufaffl
obiiuionisptzditiir<t:quoniam luteo corpore circundederit hominibus
fulgo, rcmueriutis infunderet. Huiufcemodi ita^ przccpbs obtemperans
mundi animus eos omnes quibus zquus ell/aut fomniis oraculis &
portentis autio. terao quodam motu Si ad futuri prouirionrm:6t ad diuinz
legis cognido. nem perducit : ut eo duce alas
recupctcmus.Huncautemmundianimumue tetes theologia qui illos fccuti funt
Platoiuci fzpe louem appellant. Hinc pbcus lupitet inquit pnmogenitus
eft: Iupiter nouiflimus; lupiter capui:Iupb ter mediu.Vniuctfa autem e
loue nata funtihinchinc illud lupitet eft quodeo. uides quodeun^ moueris i
Q_uin Si ipfe Maro A ioue principium mufz io. uis omnia plena. Sunt enim
omnia plena animo munducum ijle ita totus in to to mundo fl£ in qualibet
parte totus : ubi uigeantutnoftrianimiin fuison. pufculis : Hic deniip
czlumueluti citharam continens harmoniam cfificit ex di uerforum czlorum
fanis: quas cum mufas appcllentiute louisiiliz dicuntur eiremufz:Q_uantam
igitur dodrinamMato tribus uerfibusincluferit/ facili, tis mente concipio
: quamuerbis exprimam. Rede igitur pauci
quos zquus amauitlupiter: aut ardens euexit adzthera uictus. RedefiC
illud tenent nia liluz: Ab hyle enim(^ ut fupra dcmolhauimus ) eS omnis
nodra duldtia & omnibus ahimisconugio: quibus impediantur ne ad fuperos
redeant. Ve tum de remeandi difficultatibus badenus: Deinceps nero eas
exponit rationa quibus ita tuto defeendamus ut pateat reditus: Aures
autem lamusfapientiam nobis indicat dne quanonedfpcculado eligendarum
agendarum^ rerum iu dex . Ne mireris aurum fapientiz fymbolum apud hunc
poetam obtinere cum plzii^ idem faiptotes fecerint: Vndeillud bpiens
aurum & multitudo gfmmarum Si uas pretiofum labia fdentiz: Aunim enim
eft fapientiz uigor at(j fulgor. Ndium cx metallis auro pretiofius eft. Nibl in
rebus entia pluris facieadum. Fulget maxime aunim. Nihil (apimciacll endi^ i (i 01 ik IXI BS XD u m uv mt Bd: od Nx m HC pn ioqi iHgg imcttdi di
dux BOC (jB) da. Bidi BUi liuBi
Btit imt « D! feuii Uni
OlC Wl D« Lib«r guartui £iu. Nulla eni^oe exeditur aurum:
Nulla rea imminuit fapietitiam t Nullis lordibu saurum coinquinatur t
Nullis maculis Tapicntia deturpatur t Sed latet arbore opaca: mulus cnim
ac uariisinfeitiz tenebris ita obruitur uerumft luco ca cnimcorpons^uc
ita ioquar^bebetudo eft ita tegitur t ut difficile omnino (it illud erueretScite
enim Si a Ocmocrito ufurpabatur natur^n in profundo ueri^ tatem
demer(i(fe : Non tamen prius in hanc contemplationem defeendere uaW mus :
quam aureum ramum deccrpfciimus . Proferpina
enim ad fe ire quempi^ am (ine huiuCcemodi munere uetat . Efi enim
profeipina ipfa animi pars quz ni bil przter lenfus contina : ad quam (i
(ine fapientia accederemus nullum przte»
rearemediumdarcturiquomuiusdenobisadum ei Tet.llla enim irretiti nulla
unquam effet fpes redeundi . Rede Si illud piimo^ auulfo non deficit alter
au« reus I fe ip(a enim alitur (apientu : at<p cuenit inueffigando/ut
aliud uerum ali< ud aperiat: nec quicquam percipiatur: quod ubi
perceptum (it ad aliud percipi* endum non diKat : Illud autem quis non
uideat de uero uenifime didum elTe . Nam alte inuefliganduse(l.diuina
enim &czleffia(^(i ueru inuenire uolumus^ non infima hzc at^ aduca
infpicienda funt : omnis enim dodrina a frientia ex iis efi: quz nullis
terminis circunictipta funt&in interitum non cadunt:lubet ptzterea
iam repertum rite a nobis carpi : & iure quidem ita iubet . Nam nili
cer* so quodam otdine pergamus/nibil unquam proficiemus; Addit enim
poffremu illum facile te fecututum i (i a fatis uoceris : fin autem non
uoceris : nec uiribus tunc nec duro ferro polfeconuelli.Virtutibus enim
quz mores corrigunt Si quz tedum zquumij relpiciunt ualct omnes ira
animum a fordibus purgareiut mu di e corporis migrent : Ad fupremam autem
illam rerum cognitione uenire pau ds ommno datur : at^ iis (blis qui a
facis uocantur . (Quapropter rede (i te fata uocant : Q^uod tamen ut
planius exprimam /uolunt Platonici deum poft fe ip* fum cognolcere .
Deinde omnes reliquas res : Tertio autem loco ea eunda effice lequz
cognouit : Poftrema ergo hzea fecunda : Secunda rurfus a prima depen* det
. Namomnes res ptodudt quia illas nouit : Nouit autem nulla alia ratione
: nili quia fe iplum in quo omnia funt contemplatur . Huiufcemodi itaip
ordine rria illa in deo ponunt iu ut pdmam fapientiam : Secundam
prouidentia : Ter* tium fatum nominent . Chnffiam autem cum haec eadem
(nt fallor^fentiant:Fa ti tamen nomen uiz ponere audent : non quia
Platoni irafcanturifed cum uidif fent clfe quafdam in pbilofophia
familias : quz eam fato necelTitatem imponat: ut nullam io adionibus
nobis decernendi libertatem relinquant fati nome odif fe uidentur. At nos
eum quem paulo ante dixi philofophum fecuti dicamus de* um retum caufas
id cft fe ipfum confiderare : Ddnde ortum ordinem : ac deni ^
gubematiunem rerum quas compleditur intueri t (Q uz ddneeps ita omnia
excquitut ut nullo mexio ualeat impediri i (Quam quidem rem fatum dicunt:
Q_uod fi ita eff uon abeiiant qui dicunt rationem ac ordinem rerum : quam
ita mente dd prouidentiam dicunt in rebus mobilibus ac loco Si tempore
dteuioi* pds fatum did.Te itaip fi f^ta concelTcriiu camus aureus uolens
fadiifcp feque^ c Datur igitur pauos Si id diuino quodam extra fortem
munere ab ipfa dei proui dendatcuiusconfilium ferutati nefas bomini
efirReduscoim dotdnus & reda Jn.P. Virg. M.AIIfgO*
confiliacius t fed qux mortali ingenio cotnprzhendi non poirint.Q_uis
rniffl adeo temerarius: ut noiTe contendat cur loanni: cur Pauioapoftolu
caapcruc« rit dominus : quz multis fandifrimisuirts& multa dodrina
illuftratis detegere coluerit : Q_uod exemplum late patet & ad omnes
qui in aliquo dodrinz gene te laborauerint ttanffetri poteft t ut cum
multa eodem (ludio dagrauerint t eatu dem^ operam ac laborem impenderint
alii fummum in eaatte attigerint: aliis autem uix in poftiemis confidere
licuerit . Habes quid aureus ramus meo iudb cio fibi uelit : Q^uod autrm
ad miferi funus pertinet (ic accipe . Mileri odiufa Ia us rede
interpietatur . Q^u ipropter erit eadem inanis quzdam gloria-Snt enim
fummo odio digm qui uiitutrm negligunt : unde folida exprrflai]^ manat
glo> tia . Honores ueto ac reliqua uirtutisiDfigniaredantur:Q_u 'm qui
in uita ct» Ulli res egregias adoriuntur in primis captare cunfueueiunt.
Hi cn<m non redi honedii^ amote : fed gloriz cupiditate laborant: quam
dum aSequi cupitmuS rem publicam fzpc perdunt x&infummumouium odium
incidunt: Egregie igitur luuenalis. Tanto maior famz (itis ed quam
uirtutts. Huiurccmodiigb' tur uiri animi excellentiam (iue a natura fibi
in litam/(iue indudna/atcp exetaca Cone comparatam penitus corrumpunt.
Non enim uirtutera ammt.^cd uita tutis infignia i qua; fzpius malis quam
bonis exhibentur . inanis igitur atip ad» umbrata gloria in rerum
publicarum adminidrationc exceliintioribus ferop ada hatret . Q_
uaproptet Hedoris quotj comitem mifernum fuille tingit . bi enim caritate
patriz magis quam cupidine gloriz moucretur huiufctmodi uiri beatifa
(Ima; omnino ciTent ciuitates : quibus illi przcfTcntiQ^ut igitur ad uitiorum
fpe culationrm ea gratia tendit: ut fe ab illis explicet : cum in primts
hu.ufcimodi gloriam abiiccre necciTe ed :Q_uaproptcr rede eo tempore
roifcrnus extinguitut quo zneas a fybilla prxeepta accipit . I nitium
enim ueri inuedigandi a onlctni m tcritu optime funiitiir : Ncc tamen
fatis fuerat illum extingui :nift etiam fepelu tur : ut nufq jam urdigium
illius appareat : nec unquam reuiuifcat : Q_^uud au tem illum tubicine
fuiiVc dicit : optime quadrat . Ed cnira huiufccmudi hutni« num : ut rrs
a fe gedas quam latilVimc diuulgmt : Si fuo przconio ommbus ofle dant : Ed
prztcrea zoii uentorum regis filius:Nam nibil uentoltus ed illi qui ne
gleda uirtute tc folida & cxprelfa adumbratam quandam & penitus inanem
glo riam aucupentur: unde & tumidi & inflati Si uentoli dicuntur
. Rede Si nlud quo non przdanrior alter aere ciere uiros martemtp
accendere cantu.Q_^uid eni aut Ninum aut Cyrum aut Xerfem ut hos folos de
innumeris aflaticis regibus te feram : quid qua;fo aliud impulit : ut non
contenti patriis Enibus multis popu/ lis ac nationibus beilum inferrent ;
Q_ uid apud grzcos fpartanos aut athenieo' fescxcitauit ut magnam Aftx
partem ruoimpetioadiungerent: QuidHvnni' bali ruafit ut bifpaousgalliift^
fubadisromam orbis caput peteret: i^uidapud njod(os.L. Syllam prius ac. C.Marium:
Deinde luIiuro Czfartm.CD.^PompC'' ium ac podrcmo Odauium K.M. Antonium
eo furore accendit ut ciuiltfaogui occunt^ replerentur nili infanz quzdam
famz cupiditas. Cum gloriam miis rebus quzrerent: quz dolidil Timum
uulgus dupefeere quidem cogant i fapicn Us autem ad iuihfumam
indignaiioncm fummum^ odium concuent t at Q C*1 Gi d DCt
BIB I» '1 ip» a» K*» , tUH cnu
cpi)iii 100 ad siil itd
id* ^1 afi \0 «? |lP< <« Liber
guartui mo tnodo ipfe malus non Ct huiufnmodi uiros bonos dixerit. Sed
quid (i o{v dtni que^ m hominum Ibcictatc uiti : ac pro re publica emoti
ptomptiilimi prz ter id quod patriz caritate in manifedifTimam mortem
ruebant igloriz quoq; cu piditate extremum cafum zquiore animo ferebant :
uis enim ftbi perfuadeat aut Thcmifiocicm athenicnrcm in nauali
prziio apud Salamina gcflu t aut Epa« minundamin ea uidoria qua de
Lacedzmoniis potitus efiraut Spartanum Leo eidam in tbctmopylisuirilitcr
pugnantem nihil de gloria cogitaffe. Ego enim oet^ Brutum lingulari
certamine aduerfus regis exulis filium concurrentem : ne a Sczuolam tanti
animi confiantia dexteram exurentem: ne<^ Decios illos in co jf^ifimos
hoftes iiruentes : ne^ innumerabiles alios qui patnz libertatem fuz nitz
prztulerunt famam quam de fe pofieritati teliduri elTent nihil unquam fe*
dlTe arbitror. Sed nos in re omnibus manifefla nimium fortaffe moramur.
Ita« ^ redeo ad mifemum qui cum tritonem deum prouocare audeat : iute
demens appellari pofTittQ^uid enim fiultius quam (i inanis hzc gloria a
caducis ac cito perituris tebus ptofeda audeat fe illi : quz uera eft
& a diuinis rebus proficifeitur E fumtnam temeritatem
zquiperare.Q^uapropter facile ab ea obruitur. Sed cad rem noftiamtReliqua
autem quz circa funusdeferibuntur hidoriz attp aurium uoluptati concedantur
. Geminas autem
columbas geminas illas alas qs d o fupra diximus intellige . Illas
enim ducibus ad contemplandas res tendit : t autem uoluaes ucnetis: quia
oportet illas elTe ab ardenti amore : Nec iniu tia matrem inuocat : Nam
tantam difficultatem nili rapiat amor facile fugiut ho mines < Illz
autem non femel aut uno impetu/fed paulatim uolando ad locu du eunt : Non
enim hominis ell omnia momento uidete : fed ratiocinando gtada«
timacognitisad incognita uenire:Seduidcquidfequatur:inde ubiuenere ad
fauces graue olentis aueroi. Tollunt fe celeres liquidum^ per aera
lapfz: Sedibus oputis geminz fuper arbore fidunt: Nam
quz ad cantarum raum cognitionem duces fe przbent/eas rerum terrena^ tum
contagionem id enim ell auerni teter odor celerrimo uolatu effugere opor«
tet. Duplex igitur uirtutum genus nos ad ueritatem ducit: quam fine mora
ra.> pit zneas / ut eius luce ea quz per infernum obrcutiffima funt
cernere pofTit.De ioiprio ucro auerni naturalem lod litu demonftrat. Ne efl quod faaa ab znea petada in feriem
noflrz fentenriz digerere laboremus . Inferuiens enim fuo ar.> gumento poeta eorum
lacrorum quz ad ncaomantiam adhibeant ueteres expli cat. Q_^um autem
zneas nudo enfe Iter aifumere lubeat 6C fi hoc in Ilfdem facris obferuare
confucuerint : tamen admonetur ipfe ut robuflo animo rem arduam acediatur
. Aeneas ita^ ducem haud timidis uadentem pafltbus zquat.Nam quis non
uideat : quod dodrina aliqua nobis oftendit id quam celerrime quam
oiligentillime effe arripiendum. Erat autem iter per obfcura : uel quia ut dixi
ue ritatem in obfcuto ab&rufit natura : uel quia uitiorum fedes
procul a luce funt: Q_ui enim rationis lumine illuflratut : is &
uerum cognofeit /dc rede agit: illam autem qui amiferint fua natura
ignorata in ultia Incidunt • Appellat przterea do plutonis uacuas &
inania regna . Q^uo quid ucrius dici poteftfEfi
enim u ii 1 1 I!’,! i;l I * i'i In. P.Vir
g.M, Allego. nudiuftertius manifeiHs rationibus ronuidum mala
uitiatp nihil omnino ef fe; quando quidem nihil afFcrant/fcd bonum
pellant. Hoc cum prudens ue hemenf^ uates Perfius intelligeTctrgrauilTime
in eam exclamationem proru/ pit/O curas hominum /O quantum eft in rebus
inane :Vt autem quale eflet ad uin'a initium expreflius poneret oftendit
in tantis tenebris non nihil tamen lucis apparuilTe.Nam 6C Amentis
carcitate in uitium labamur a tamen circa principia non omne penitus
lumen tollitur: Prius enim incontinentes cAicif mur quam intemperantiam
cadamns.Miro autem iudidoquz fequunturin inferorum ingreAii ponit: Si
enim exfententia eius quem fequitur Platonis deicenfum animorum in fua
corpora defaibit / manifcAum eA animum qui badenus omnium horum malorum
expers fuerat in ea nunc omnia corporis contagione incidere : Omnes enim
perturbationes inde fentit: Luduenimea riA^ angitur. Impendentia timet imotbos
laboreAp experitur : fame anp ege^ ftate urgetur : omnibus denitp quas
ille enumerat calamitatibus prxmitur : quas a corpore liber expertus
unquam fuerat. Sin autem prolapfum animor rum in uitia huiufcemodi defcenfu
interpretari uolumus non multum diuer fa ratio erit : Q_ua; enim res
tanta ucloatate commilTum facinus confequb tur quam fadi pernitentia .
Q_u.r autem pernitet is Ane ludu effe non po# teA . Adde quod confeientix
Aim ulis affiduo purgatur neceAe eA : Vrgent enim illum a Aidux curx :
qux ueluti ultrices furix poenas Aagiriorum feueriAune extinguunt: uod
quam dode quam eleganter quam expteAe pofuetit lu' urnalis quxfo
recordamini . Exemplo enim inquit ille quocunip malo cotn* mittitur ipA
difplicct autori prima hxc eA ultio: quod feiudicenemo nocens abfoluitur.
Ac paulo poA; Nam fcoclus intra fc quicun^ cogitat ullum fadt crimen
habet. cedo A conata peregi perpetua anxietas nec menfx tempore cef fat .
lure igitur ultrices curx funt in ucAibulo poAtx : Nec mirabimur A paU lentes
habitent morbi oim Aoicorum acutiflimas argumentationes intelli^^ mus.
Aiunt enim quemadmodum temperantia fedeat appetitiones: &cmcit ut
illx redx rationi pareant iconfcruat^ conAderata iudida mentis : Ac huic
inimicam intemperantiam eiTcieamcp omnem animi Aatum inflammare cd
turbare ac incitare : eoq; pado omnes ex ea perturbationes gigni . Nam
ue» luti cum fanguis in corpore corruptus eA: aut pituitabilis uere
redundat morbi xgrotationcr(p nafeuntur: Ac prauarum perturbationum
diAotunta animum fanitate fpoliat : uehementerep petturbat : ex
perturbationibus ue» ro morbi conAciuntur qux illi uocant : deinde
xgrotationes qux appellantur. Quapropter perturbatio quia
inconAanter turbide^ fe iadant opiniones in motu femper cA . Verum cum iam
huiufcemodi furor ac mentis concitatio inueterauerit : &tan quam in
uenis medullif^ infederit : tum exiAit motbus at^ xgrotatio.Na cum ex
falfa quadam opinione qux plus tribuat diuitiis quam tribuendum At
pecuniarum cupiditate inflammemur : nec adhibeatur continuo Socrati» a
quxdam medicina : qux cupiditatem extinguat manat illa in uenas efficit»
^ cum morbum at^ atgrotationem quam auaritiam nuncupamus. Rede to Liber
quartus ^detn demorbis ut mibi uideris inquit Laurentius &|ad
locum eiplicandum appoiitet Non enim philofophi folum / ut tu probe demondraui:
Sed & oratores BC poetx non corporis folum fed & animi fcpiflime
morbos di« eunt . Ergo ut morbos inquit Baptifta ad animum ita SC fene
Autem reAe refe ternus. Nam cum ipfe adcmrobur<p mentis ueluti
iuuentutem admireritt& ignauia ac torpore quodam ueluti fenio
tabefeit/ facile in uitia: ha;c autem motsanimotum eS/ eum adere uidemus
. Mala autem fuada fames quidnam aliud quaauaritiadefignat: qua homines
ad omne facinus impelluntur.' Q_ua; nam enim res alia nobis fuadet aut
iniuftilfimts bellis innoxios populos iacef (iere I aut caidesiK rapinas
exercere: aut inlatroaniis grafTati:aut uenena pa« rate: aut fidem
fallne: aut patriam at^ dues prodete:ni(i auri facta famesf Quod quidem
fi ita cft eodem quo<^ in loco erit ponenda turpis zgefias.Cii cnim
homines paupertatem: quam nemo fapiens turpem exifiimauit turpilTk mam
putent :eam^ ueluti fummum malum exhorreant /nihil repugnat: nui Ius
pudor obftat quin quo illam fugiant/ omnia uenalia habeant /nec abfunt
tembile suifuformzletum^ labof^: Namquialuccexulcsinhistcncbrisuer fiintur: nihil
praeter defidio fumooum quaerunt: Nec meminerunt homines adagendum ati^
fpeculandum natos nullum laborem/qui quidem honefta^ dadiunAusfitelfe
fugiendum: De lato ucto fic accipe. Philosophi qui dt« ca prudentis
acquifitioncmuerfanturanimaduettunt corpus fi fociumad rem agendam
afiumatut maximo fibi eflie impedimento: Sensus cnim qui a.cor< pore
funt nihil in feueritatis: nihil fincen/utrcAe dc his rebus iudiute uale«
ant in fe continent ; Ex quo fit ut animus fi illis ad inueftigandum
utatnrtfzpe dedpiatur:& illorum illecebris ebrius nihil ptofpiciat .
Q_uapropter mentem quam maxime pofliint a fenfibus: BC a corpore
feuocant. Aic cnim in eo qui phe don inferibitut Plato nos tum denii^
beatos futuros fi a corporeis abfirahamur: ac deo fimiles reddamur . Hoc
autem quid aliud qua mori effe dicemusrQ^ua propter fijhuiufcemodi uiri
dum uiuunt mori medicantur: uenientem nemor tem illos trepidaturos
cenftbis.''Stulti autem qui nihil przter corpus nouerut: iniquifiimo
animo illud difiblui patientur.ReAe igitur is quem totiens nomi* no Plato
[PLATONE] ut illos philosophos sic istos philosomatos appellat. Quz omnia
ca probe nofiet Maro non illas terribiles formas elfeifed uideri
terribiles dixit.Re fiquaueroquz enumerantur &fopor& mala mentis
gaudia ac poftremo bcU luni/funz BC difeordia ad eandem rationem quicun^
uel mediocri ingenio uir fuenc facile referet . Nam qui in uitio eft is
tanquun fomnolentus ad omnem honefiam rationem obtorpefeitrNe^ ullam
uoluptatem nifide rebus turpi.» bus capit . bellum autem ac difeordiam
non modo cum aliis : fed fecum geritt cum aliud libido aliud auatitia
fibi uelit.Oefidia illum ad odum : ambitio uero ad labores aduocet.Q_ua
animi difira Aide ueluti furiis exagitatur.in ultimi au tem deferiptione
idem quod BC paulo fupra ofienderac pulcherrimo nuc ac om nino poetico
figmeco depigit. Ipfa enim in medio polita magnu fpariu occupat:
fhiAaautnulluprzbctifedfola umbra nosdeleAattfic turpe facinus ea no«
bisonditiquz nihil folidi habcatifiCquzcu magna uideant /nihil finttut
phip Ia.P.Virg.M.Mlego. gii zfopi ncmplo telido
corpore umbram fedemur > Q^uod eo quo^ ezprcC> fius notat ciun
addat in Hngulis frondibus (Togula inlidere fomnia: at^ ea quidem uana:
Nihil leuius/nihil mutabilius eft frondibus: Ea autem in qui< bus
fummum bonum reponunt ftulti:& quorum gratia rapinas fraudesmul
taipalia flagitia patrant: ut honores diuitias ac reliqua alTequantur: in qua
fot tunastemeriute pofTta Ht/SCqua facile mutentur at^ defluant: nemo eft
qui ignoret: Q_uz etiamuanisfomniis uerilTime comparantur. Sunt eodem
in loco plurima monflra non temere polita: Nam (i ca monflra dicimus
qux przternaturx legem eueniunt/ eunda flagitia ueio nomine monflra
appellax buntur / cum pmer rationis legem qua lola homines fumus
exoriantur.Me fito autem Ixionis filii putantur centauri : nam ille
contempta iuftitia abm« pto^ humanitatis uinculo populos libetos iugo
tyrannidis oppre(Tu:Q_ua^ propter eius cogitationes apnneipio aliquid
humanitatis przferentes inim« manitatemat^ eficriutemquandam tandem
degenerant: Non infdte igitur Plutarchus dimonflrat / huiufcemodi homines
tanquam fimulachro uirtu» tis adhzrentes/ nihil ITncerum/nihil tedum/fed
mixta omnia at<p nota face* re: Cum fuam quif^ uoluptatem
fequatur/fummis petturbationibus ad fu* os impetus delatus: Prolixior
limqua rerum multitudo poflulat: 11 utran^ fcyllam profequar:in iift^
nimias cupiditates exprimi oftendam: nam Hy* dra ad dolos fraudefi^
referti facile potcft.Fuit enim Hydra Platone tcllefo* phiflaalidillimus:
nam cuueri inuelligandi duplex modus fitpetuetas alter alter pa
fophiftiasrationeshydracauillofasatq} deceptricesargumentationes ponimus:
Cuius uno capite czfo plura renafeantur . Nam una confutata r»> tione ille fuis
argutiis plurimos fubiungit. Hanc autem Hercules igne idefl ingenii
feruore extinguit.Nei^ eft quod & hoc inter monftra enumerandum
negesi Namut uera dialedica ab omnibus dodiflimisfummoperefemperap
probata eft t lic hanc captiofam grauilTimi femper uiti abhominati fuot : Chi
* meram aut ad iracundiam iGorgones ad uoluptatum illecebras/ quibus
ftul* d in faxum conuati iccirco dicuntur / quia nimis illas
obftupefcunt.Prudca tes uero & Palladis zgide 8i Mercurii gladio
facile interimunt refetn quis no uideat : Briarei autem ac reliquorum qui
aduetfus deos bella gelferunt / fabu lamrcdilfime interpretatur Cicero
/cum id nihil aliud lic qua bene monenti naturz repugnate : Gerion uero
11 grzcum nomen interpreteris / terrz litem exprimet . Lis autem zterna
eft terrz id eft corporis aduerfus fpiritum.Ecitita ^ Gerion pars
elfccminatior animi a fenfibus ptofeda : quz in homine uitio fo uniuerfz
animz imperat. Q_uaproptet quoniam funt ttes animz par** tes / tribus
illum infulis impcralfe fabulantur : cuius canis iccirco biceps cfit quia
cupidiute llmul & timore laborat . His igitur monftris pettenefa* dus
ENEA uim parabat. At Sybilla hominem cotnmouefadens ea omnia
fimulachrauanacfleoftendit: llIa^ non ui fupcranda/fed radone cognolizn
da: cognita^ fugienda iubet. Poft huiufcemodi monftra ad Acherontem Si
cocytum deuenitunde quibus fluminibus Si 11 paulo fupta didum llt:ea tame
alia quadi tone ptofequamut.A cdcupilcentia nfa uelud a fonte manat aqua: que
ttygnu palude cffidt.Ne a concupifeentia primu j>uenit
cogrtatio/drnide adioquapeccamus: Achcronpo(lhzccoDatatiorfluuiusc(l:nain
per cum tt* ptimirur motusad dagitiarhic autem poft cogitationem
excitatunNrqt prerer rationem cft quod illum ingenti tumultu ferri Seneca
dicat: Non entm poteft animus Itnefirepitu reludantis confeientiz in
facinus ferti:Q^uoniam autem fauiufccmodi peccandi deliberatione uoluntas
in uitium traniitsiccirco in hoc flumine nauiculamnautamipponunt.Poftuero
buiufcemodi tranlltum id au tem cft poli peccatum/fequitur mceror/quem
refert ipfa flyx.pollrrmo maior ludus qui eft cocytus . Vt igitur ponatur
ante oculos illa^ut ita loquar} grada^ tioiprimolocoeliconfcientiz
motustfecundo deliberatio fufapiendi flagitiit poft hanc maeror ac demum
maior ludus:primum ita^ ac tertium (lyx fignifi» cat/fecundum
Acherontquattum cocytus .Sumopere me hzc deled.<nc
inquit LAVRENTlVS.nerpme offendit quod eofdem fluuios nonaduna/fed
ad piares rationes ttanfFeras. Videmus enim & grauiflimosin nollra
theologia lo cosuariismodisadodilTimisuiris intcrprctari. Habes igiturdrfluminibus
in quitBAPTlSTA:Nunc quid libi Charon uelit/confiderandu
cenfeorNara portitor has horrendas aquas: & flumina feruat terribili
fqualote charonicui plunma mento Canicies inculta iacet.uerum ut res fuo
ordine progrediatur/ non nautam folum: fed £Cniuem limul
intcrprerabimurtSit igitur nauis uolu>
tas:licnautalibeteuoluntatisaibitriuni: Nauis lurfus cocoinfuum cu fumdi
ngitur.Hiceledionrm exprimittipra enim eiedionc libetum aibitrium uolun
tatem dirigit t Q_oin U per uela eziefles incliuadones non erit abfurdum
incel Iigere: Nam quo czii inclinant/id libenter eligimusmili illis fefe
ratio opponat: cuius tanta uisell/ut etiam fyderibusdominetur.Pergrata
hzc funt quz dicis inquit LAVREntius. Video enim te chrillianorum dogma
retinere: ut tamen mathematicos oinonoirrideasiScdfequereobrecrotSenex
cll chaio inquit bA PTlSTA tqmaiali no tepore ut Platonici:quosfequic
poeta/uolut dignitate faltem & origine prior cil corpore. Adde
qdzternacfl:zcemitate aut nthil ana tiquius:Q_uaproptcr Si, arbitnu
libetu in illis zternu:Sed auda deo uiridili^ fc ncdustqanuquamdeficit.Ellaut
terribili fqualore &ex humeris fordidustili amidusdepcndet.Q_uz omnia
ad corpus tediflime ni fallor referuncut : cor« pus enim ucluti
ueltimemum ellanimz: quod alfiduo mutatur ueterafeit: actz dem
tabefcit.Addit duplicem oculis flimmam:quia liberi cll arbitrii ad utmta
ucliiflcdi/dC ad rationis fulgotem/8t ad cupiditatum ardorem.non temere
au tcmncc tine exadilTima quadam ratione herebi nodifip flliusell Charon:
Ce£ Iffcnim nox in nobis quz nihil aliud ell nili ipiz ten(brz/quz
abinfeinapro iieniut/nulla erit cofultatioe opus:mens enim fumu bonu
perfpicue nofccrcta &in illud line ulla dubitatione ferret .nuquam
enim eligimus nccelTatia/ac fub lata dubitatide ois confultatio celTat
:Q_ uapropter qui iam in tertio uirtutu gea &erefunt:quas purgati
animi appellani/ii prudentia in repe deledu no utunc' t led przter ea quz
lut uera bona nihil nouetutiea^ fola mtuent . Herebus igi tur.quud uerbu
grzce ab obfcuritate originem ducit:ita lefc rationi opponit Utopuslit
cofuitatioci (^uoniauao Cutmdd Keba}acmodeacccllarii&cota la .P.Virg.M.AIlego»
fuUc:opottuit bancuim ea libertate donatam clTerut aut de plutibua
unum/aut de uno <tt ne agendum pro fuo arbitrio deccrtut. Hoc (i
itaefta gratia didtuc Charon«Nibil enim iibaius cft gratia cum fua
fponteproueniattnon autem a cuiufquam merito debcatur.Q_uaproptei cogi
nullo pado uultsat(^ ea de au« fa cum Aeneam pet tacitum nemus ucnite
uidetific prior alIoquitur:Q_uiiiquit cs armatus qui noiha ad iimina
tcdis/Fare age quid uenias idbinc & comprime grclTum>Nam cum etiam
rationem ad (c ucnire uideat liberum arbitri ums Non ante illam admiaere
uult-quam difcutiat diligentius quid fibi agendu fit.Q^ua» ptopter
addiuNcc uero aladcm me Tum laetatus euntem accepilte lacu > quu ne ad
uirtutem quidem trahi uult liberum arbitrium . Verum antea confultat i Et
pofi confultarionem deledum adhibet. Quam quidem rem animaduettensff
billa; (Luimrubiicin Nuilxbci Dndiznccuimtelaferunt;&: ut appareat
illum con cogi/fcd per confuitatiomm peifuaderi aureum ramum
oftcndittllleaute ad uifam fapientiam libenter conuetticur: fiC de natura
hadenus.Nauis uero a czruleo colore confiatilile autem ex albo nigrocp
conEcitur.Conteplator enim inter iofeitiam at^ cognitionem uerfatur.Non
enim mouetur quifpiam ad in» ueftigandum luli aliquid uideat: Rurfus cum
omnia in ea re uidcrit definit fpe culari. Eadem fere ranone futilis
hngitunperceptis enim percipienda adneditt Si autem futilis &,
timofa.Nam antea quam habeatur perfeda rerum cognitio/ non ctit ita
perpetua rerum fenes/ ut nullum intermedium relinquat: Animas uao quas ut
Aeneam recipiat e naui pellit:omnes animorum affedus qui ratio ni
aduerlantur interpretandas opinor. Sed uos fortafie nimis cutiofam
nimir(^ ineptam huiurccmodi interpretationem exifiimabitisicum ita minute
etiam tni nmiaptofcquar. An tute cutiofum aut ifia minuta appellas inquit
LAVRENTlVS: quxetiamli nimis ingeniofe elicienda el Tentidigna tamen funt io
qui» buscJaboresi Nuncuerocum fe ultro offerant/quis ea repudietr Q^uin
igitur ptofequetetfiC qyz difputationi noftrx quadrant ne przteri. At^ in
pnmis quid libi Cerberus uclit/nobis apeiiiNam &quod cymba
gemuetitifiCquodrimofa inultam paludem acceperit : ego nifi tu aliter
fentias fic accipio/ut in altero fpeca lationis diificultatemiin altero
terrenarum uolupratum illecebras : qux furtim dum uitia fpeculamut
interfluunt/exprimere uolueritiPromptum pa immortalem deum ingenium/^ ad omnia
uerfanle in te elTe uideo LA VTENTi in» quit bAPTlSTAtnei^ commodius ifia
meintapretari potuiflie fateor: Ad cer betu autem de quo audire cupis
/paulo poftucniam:Interim pauca qux omi(< fafunt/percutramus: Ad
nautam omnes confluunt animxtomant^ pnmx tranl Huuiumpottariitelt dunt^
manus tipz ulterioris amore: Hic iguur con» curfushocut puto
fignificatomnes natura fdre. cupimus: natura autem non omnes admittit:
quia liberum menns arbitrium non omnes ad.fpcculatiooe adtmttit : nam
quod in humatorum animx cenmm annos uagentutt de zgf* ptiorumconfuctudinc
tradum: 6c Seruius & Seneca affirmant i Q^uam rem deinde Orpheus^ad
inferos tranfiulit: Vehementer uero quadrat Palinurum a fybilla feuere
calbgari: nefas enim efi cum appetitum ad ueriinuefligatio» bem
ttaduccre/qui aducHiis rationem contumax fit r Sed redeo ad Aenca;^ at at 0
jlU, DI ii a a » 0 3 i i Liboguartuf
tat) jcm charon ad ahetam lipam iocolumetn traducit.Ipfd «tiim poft
diutumu catamen rationis Kappetttus in fpeculationtm tradudtur.Q_uo in
loroaio^ uutn adunfus fc bellum cxdtari Tentit, Cerberus enim ha;c ingens
latratu regna tnfaud petfoiutaduerforecubans immanis in antro.Scd
animaduerte qua par» 1)0 negodo omnia a Sybilla pacata reddanturrOffam
enim latranri cani porngit Qua uorata ille in fomnum inndit.Q_uaptoptet
occupat zneas aditum cufto« de (iepultotCerberum igitur ea fortalTe
ratione tridpitem poetae tradideruttguo* biam illum terram gux trifanam
diuiditur /interpretantur. dicuntcp grzce quali Omnia enim corpora
uoratterra:quado quidem io ea omnia reddunt.Si i^‘tut terra eft cerberus :
quis non uideat porta noflrum per cciberi latratus noftri corporis
indigentiam exprimere uoIuifTe . Cu enim ad rerum magnarum cognitionem
eriginiunhoc profedo agimustut men tem quoad dus fieri potefi a fenfibus
reucKemusremoritp dircamustnon tamen ex buiulcemodi mortis comentarione
intereat corpus neerfle putestred cft illius ratio babenda.Reclamat enim
ne fibi neceflaria fubnahastlnmrgit^ trifaud lar ttam.Tribus enim rebus
indiget dbo potu ac fomnotin quibus nifi fatis illi a no bis fiat adeo
obflrepct/ut nihil egregium meditari (inat. Cuamobrem nullo par
donegligenda e(l cura corporisrlimplicitcr tamen modelle ac omnino
fobrie/re fidendumtut cum laboribus ruperetTepoflit: nimio tamen luxu
contumax adr uerfus animum non reddaturtpaucis enim natura contenta eft :
at<p ea huiufcer modi funt/ut fine labore: fine fumptu facile
comparentur. Nam ne fortafte ad ea re me te reuocare ardas quibus Ginicus
cotctuscfti^oflincuicmdumolusnul 10 etiam lalecoditum fuauilTimas epulas
prxbere pofnttaudi ea quibus uolupta* tum patronus Epicurus acquiefdt
:Num ipfe minus uiliflimo panno:quam aut purpurea aut ccKdna ucfte a
frigore defendi rxiftimat.nu fitim nifi chio aut aete 11
uinoatinguitnum famem nifi exquiritiflimisregiin^ dapibus fedari pofte pu
tat: Epicurus inquam qui in corporis uoluptatefummum bonum ponit nullu
aliud pulmentum in coenaptzta famem ac fitim quzfiuit : quem etiam legimP
ad panem raro quicquam prztn cafeum addere folitum.Ficedulas autem ac par
Uoncsreliqua(| ilb flagitia quz & Maaobius in pontificalibus Tuorum
tempope ccenisdeteiiaturt&nosno ftratempeftatein romanorum przfulum
dipibus fir nefumma indignatione ac gemitu meminifte non poflumus ueluti
pemitiofilTi mamonftra exhorrebat: Qua quidem in te ego terni LAVRENTI
ficut inc zr teris temperantiz partibus iumma laude dignum puto;Nam przter
id quod plu timos iamannos utiunfiurarum articulorum dolores efFugias:uinum
non bi bis nonne pro miraculo haberi poteft/ut tu in tanta mum omnium
affluentia: in tanto urbis noftrz luxutin frequentibus
lautiflimir^proptaalTiduashofpita liutcs BC aebra fodalitia tuz domus
conuiuiis nihil intuum uidum nifi fimplex ac populare fumas: Q_uzdum
cogito redeunt mihi ad memoriam ea quo quzdeFederico Vrbinatumprindpcnon
folum audiui:fed etiam propter antir quumhofpitiumfl Cueteremamidtia
fzpiflimeuidi:Inquoduce & fiplurimz aliz^ ea magnitudine uirtutes
elucefcant/ut ueluti folis radiis minora fydera Oiancfcunt t ita hzc
illatum fplendote obruatuntamen quis non obftupefcat ta Id.P. Virg.M.AlIego;
tiu Meorinaum acrobrirtitf modicamincaftrisubiuJrtrolrt Wtn
f*t« inopia nullu inter fumtnfi duce ac extremos lyxas & alones d.(c^«
, elTe patn tfed domi quocj ac in aulatin qua cu ota ornamenta pana
fefe offerantmec uiq aut liberalitas/autmagnificeoa defideret s tamc
difcubent* illo nulli aut palalaSo aut nometano/fed Bi philofopho &
oraton ocw relin^ tur.lpfe enim a primis annis uini prciflT.mus
fuiticuius ufum paulatim inteitendo eo progtelTus eft/ut iam diu illud
omiferit/nemo eQ qm communioni epulis/nerao qui fimplidoribus
uefcatur/quibus dum corpons U.TO r fiaui(rimisinterimd Wu«o™“‘l'fP»°"J'l?“perfipefii
dum lingulis annis ualitudinis oaanduj raufa romanos
aumnmos Sfugiensadillum diuertor:uidearmihia Sardanapall.c«rn.sm AIano.conu.-
uium inddiffe/K ad aliquem foaaticum hofpitem deueniftim quo pnfc*
con. tinentix ueftigia tam uehementer me deledat/quamm notoojir hominum
qui rubris nigrifqj galeris:ac niueis riciniis totius fanditatis doannam
phtent luxm lafciuiam exaritat.Pudet enim pudet mi Uurenti pigetip
noftroju «orumm m totius rei publicx chriftianx curiam in qua integra
religione maximaij dodnia nonnullos optimos patres K tanto fenatu dignos
elTe non negaueom/iis homu nibus aditum quotidie patere uideamiquos ego
tunc demum fenatorium ordi. nem romx iure obtinere cenferem/li
Heliogabalus ib inferis redudus rurfusim peraret. Verum cu hxcme alio in
loco deploralTe meminenm agamus quod iltat. AtcB naturam noftram minimis
cotetam effe intelligamus.Q_uod cu expnmere cupet Maro Sybillam quxueradodhinaeft
inducit offam in qua & andu 8Cb^ mefcens fimul alimetum
fit/Cerbero porrigetem/qua faale & fihm? I*' det:& in fomnu
inddat.Aureu pfedo prxceptu.Nam qui aut Uutiflimis epulis corpori
indulgetiaut uaria uina exqrit ipfa crapula at(j ebrietate « c^us contu
max fibi reddit/8J animi aciem ita hcbetat/ut nihil altu fufpicere poflit .
Upt^ quidem funt ifta qux dids inqt LAVRENTlVS. Verum de Cerberonon
idem TOCtas omnes fentire uideoiMaro enim eum canem ita latratem
inducit/ut non egredi fed ingredi cupientibus aduerfet":cuius qdem
rei rationem optime a te ex Mfitam effe intelligo. Nam huiufcemodi corporis
indigentia non iis allatrat qui corpus curadum redeutifed iis qui illo
negUao ad ueri cognitione £0“«“^ ItacK ut dixi ego qd Maro fibiuelit
plane tenere uideot; Veru cum apud Heli» dum poetam ut te non fugit
nobiliflimum legerim Cerberum uenieti busauda auribufm blandiriiExire
ucro nemine patiiln infidiis enim delitefcesjqucmcua extra ianuam
offendatiftatim morfu laniat s no intelligo quo nam modo hxcoi no inter
fe diuctfa non fint nifi fortaffe alium ad inferos defccfum um Maro
exprimere uoluerit.Ingeniofe tu quidem inquit ® dit enim ad infaos
xneasiqa in uitiopr cognitione tcdit:Q_uod fi ita eu ingit™ enti
aduerfabic Cerberusrodit enim hxc corpusiFac aut aliu no ut imU nan^
cognofcat inferos petereifed in ipfa uitia labi auribus 8i cauda bladiet
Cnbe^ qppe qui illu ingredi cupiatiNam qd aliud moliunt' iquid aliud
conant perd» boies nifi ut tridpitisbelluac non folii indigeti*
fatiffadatifed oes uoluptates plcanuQ^uod fi ide ifti nonunq pdita uita
reliqua «id enim eft infaos egteoi* - >4^».Liba guam»
tcnctit tuc latrat tunr mordtt canis.Rrde igtt'’ addubitaftt.Rrdt us aut
dubitatio orm fuluifii.brd ut ad Maronis cci bttutn rrdcam facile ille
(imp KnlTtnis rpuHs arquieuits Acneasautnn celer ripam cuaditsNon enim
lente K cum fegritie bacc adtunda funcfcd omni contentione at<]t
ardore captiTcnda. Q_uc niam aut or* do in rebus huiufccmodi cft ut primo
uitia cognolcanf. Cognita deinde effuga» lunut pofirtmo illis purgati
rerum diuinatum in quibus fummumbrnum con fidit idonei contemplatores
eifiriamur/erat illi totius bumanz uitz curfus mrn< te repetendus/ut
peripicuc intelligeret no folum quato fe fcelere adnngit qui no biliore
fui parte neglcda in uno corpore:& in iis qux a corpore fum
uoluptatib? fpem omnem reponunt. Veium etiam quata miferia opptimanf. Earo
enim uir tutum armis quibus folis uidenes euadne potuilTi nt penitus
exuti nudelilTimis fortunzidibus nudos fefe obticiunt/& ut ca»era
aduerfa/qux innumera quoti« die aeddunt omittam /mortem ipfara qux
lingulis borarum momentis impedet uelub lummum omnium maloium rxlKHret.Q_ui
quidem matus enam Ii nui la alia ptutbanone adiaans ipfe unus nos nunq
refpirare linit.Q_uaprnpter hac iirpeipfosmfantesin pnmo uitz limine
petere oftedit.Hac & in fontibus p uim mferri edocet. Hac & libi
iplis eos afferre demonfiratiqui adeo imbecillo animo fimt/ut grauilTimis
quibufdam ptutbationibus fe pares gerere nequeat. Q^ux q dem omnia diUgenter
intuens xneas decernit tadem hoc in primis fapienti prx« fiandum elTe ut
culpa uacet/mortem autem ipfam inter naturx munera eoumc ret/cum cz ea no
folum nihil mali nobis id eft animis noftris eueni» / fed contra fummum
bonum/quonia a tam tetro carcercfoluti in noftram nanira rcdeam5’. Qua
qdem ratione faceti cogemur amice at<^ indulgentet cu illis efle adum
qui antea ad buUifcemodi miferiis erepti Itnt/quam in casinciderint diuind
omni nomunus illudincIcobim/ttbito Dcalunonecollatumtquipfofuma in
ipfam deam arqi in matrem pietate moetemcofecuti fint/Cxtenlt^ omnibus
natienb bus ac populis fapietiotescl Te traufosputabimus/ii enim populi
in thracia funt qui fuorum onum multis lachrimis ac lamentationibus
excipiunttquot mala il« hsin uica cucnmra line enumerares. Obitum uero
omni genere lattitix ^ fcquua tur.Cogitant enim quot erunisq uariisgrauibufip
fortunx cafibus morte libera ti fint.Huiufcetoodi igitur rationibus
paulanm xneas moetum mortis deponit: Q_uin fi aur fe aut quempiam bonum
uiium fupplicio morte ue per fummaiiv iuiiam peti uidcbit non duliilHme
ur Xanthippe illa de (bcrate falrc merenti hoc cucnitetdicet.Scd quod
uetumefferapientes norunt Ihilti uero negant a nrmi« ne nifi a fe ipfo
quenq Izdi polTc affirmabitmetp quicq quod turpitudine careac in malis
cuumerabiti^uin Kfoaatica argumentatione couincctquicuipiniue
fiecrudeliterip in aiiuiu «gerit non illum fed fcipfum iniuria alficere.Eos
autem omni odio infcdandosducct/qui animum immortalem fiuptr natura
itaro* bulium/ut humana omnia contencre polTit adeo fua ftulttria
enenuuerittadeo £ taua confuetudinc imbecillum reddittut famineo amore
incefus in eum pau» tim furorem ptolapfus fittut fibi ipfc manus
atruleritiK morte q fummum tC> fetnalum putabatiid quo urgebatur malum
effugere tentauerit . Q_ua quidem in te pnmum ignauiam ai<f incttiam
cotum damnat:quia fua culp in eum Lbt o ii
In.P.V;rg.MtAIkgo. dinofum atnortin inciderint quem Plato ab humani»
morbis natum affirmat: quoniam illi eofoli afficiant qui uentri ac fomno
dediti: et diuinitate fua quam aroris denlis tenebris obrui pemuferut
penitus obliti nihil praeter caduca : & aut morbo aut aetate cito
perituram corporis fortnaih reTpidunn Q^uamobrem bis pcccant.Nam 8C a
principio Tuo deiidioro ocio ac libidinofa lafduia effedum e(l ut in rem
follidtudine plenam inciderint. Deinde cum morbum fua culpa cotn dum
diutius pati ncqueant:fumma fc impietate afttingunt qui a fummo deo in
coipus ueluti in cuftodiam mifii in iuflu ipiius illud deferunt.Specula^ poii
bax extremam eorum hominum inlaniam/qui cum perfummam iuffitiam intrati/
quillo fccuro^ odo degere poflient/per fummara tame inturiam ac impietate
pa cem pcrturbare/ac omnia mifcere maluerut.Nam aut nulb iniuria affedi
ipfi ul tto auatitia ambitione ueimpulfi ferto igni fraude nihil tale
merentes laceiletut/ aut ipii lacelTiti nihil de iure quod hominis pprium
eft difeeptantes ad uim qux faamm ed fe contulerunt: Hinc genus humanum
cui pa edeordiam in fummo odo uiuere licuaat affiduo mifccri uidcmusiHinc
multarum regionum popula dones fiC infinito;: mortalium catdes oriri
aiaduertimusmt cum undi^ quzeu^ nobis calamitates eueniut
colligerimus:nulla homini q homo acerbior pedis in.> ueniat : Vides igit q exada
lapietia hasc oia poeticis ligmetis exponantur . quidem quoniam
huiufccmodi clVe animaduertit/ut & cum fcelae dant/ fit po£ fint etiam uido
carere/placuit ut una ac limplid cdmunit^ uia irecur.Cum autea Deipheebo
iam difccirum fuerit/quonia eam iam fefc contcplanda offerut / quz aut
penitus flagitiofa (int/aut pcul ab omni fcelae folam uittutem continet
du plicem iam efle uiam oportetrut altera in itnidram ad ui tia
defledaturcAltera uf to indutt^tnaduirmtesdcueniat^Hociglt inquit
LAVRENTIVS fitPytba goram illum exprimac uoluiife acdiderimtqui littaam
yadinuenit.Q_uod no latuit Perfiuspoeta/cuius cdillud.Et uitz nefeiusenor
C5eduxit trepidas ramola incompita mentes» Ifrhuc ipfum inquit
BAPTlSTA.Sed uideamus quzfequa/tur. Æneas fub rupe (inidra mcenia iata uidet
triplid circudata muto, fetifica p/ fcdu tartarotum defcriptio.Locus enim
exprimendus iam edin quo uarialole/ ta puniantut. Hzc grzci tartara ab eo
quod ed tarattiiid enim cd pettutbatetex p turbationibus enim uitia
oriunc .‘cademi^ paturbatam femper peccatoris meo» tem tencntilnduduntur
autem triplici muroiquia non una ac fimplid uia fcd tri plia
peccamus.ptimo enim quodam folo animi motu ab deprauata uoldtatc fce Ius
condpimus.Secundo deinceps loco accedit adus.Q_ui podtetno iteeum at/
iterum muItoticnf(^ repetitus habitum obdudt.Q^uamobrcmhzctria in tat
taris iure expreflit poaa quz procul a uiro beato edic tedatur laaoruffl
cartniiid uates.Ille enim fiatim a principio dc ordif. Beatus uir/qui non
abiit in condlio i piotum.Videsiammotum primumanimi adrcclus.Ocindc fit
in uia pacatora non dctit.Q__uid enim aliud uia cd nid ipfa adioreitquz
depius repaita nd am piius in motu ed:fed iam fedcmdbi ponit fit redda in
habitu iam coadabilito. Rcde igit fit in cathedra pedilentiz non fcdit.Q_uod
autem flammifluo phlege thontbis flumine tartara ambiant" :minimc
abfurde dixit . Odendit enim aidp/ cem itacundiz: fit arumotum zdus
quibus id hominum genus alGduo torretuta Tantum fnim tH uittoruu odium/ut
& qui illis delcdati lutif tandftn pcraitoi tiamdcdudi
uitaniprattcTitan]datnncnt:urhcinrntn(^ oderim i fibi uno ipfia aetnime
iraiiantur . Nam tu donum cblTes tranfifTc dies luretn palufttttn:Ca
ptiui tamen unico habitus dnnui inuiti trahuntur at(^ ira furore^
exeduntur. Q^uapfciptcr tapidus flammis ambit torrentibus omnis t
Tartareus phlegethon. Nulla cnun fomax/nulb fabrorum oflirina magis
exxfluat quam feeleratorum mens» Nam Taxa a flumine contorta oflendunt
quam graues quam molefli flnt buiufccmodi motus ati^ «agitationes. Addit
ad ba;c portam munitifilma fit foli do adamante columnas: quibus locum
ita munitum redditiut net^uirorumne ^ czluolarum ui efitingi poflit. Quid
ergo flbi uult dodiffimus uir: Nempe hoc ut puto uiros flagitiofos ac
permtos cum in tartara deuenerint. Id autem eft cutn longo habitu fcclaum
mancipia cfFcdi fint/nullis uirorum monitisi nullis diuinis ptxccptiss nulla
deniipfyderum clemmtiainde eripi pofleiQ^uaprcs' pter iute tales homines
fit larini perditos it grxd afotos appellant.Erit igitur in quit LAVRENTl
VS amifliim in illis liberum mentis arbitrium / ut fit fl uelint
aduirtutem redire nequeant. Video fit in hoc ingenii tui acumen inquit BAPTi
bTA . Nam breui interrogatiuncula illa omniaconcitafli : quz a grauiflimis
phr lofophis de uoluntario dem inuoluntario quzri folent . ua quidem in
re no folum ingenium laudo/ redconfilium quotp uehrmenter approbo
.Nam cum multa liefe tibi offerant tquzfloc cuiufquam auxilio ipfe tibi
foluere polTis/ea tamen ab alio dici mauis/ut fit raodeftizquod nihil
tibi arroges: fit igmiiquod prudenter interroges flmul laudem feras .
Verum facile ita huic loco occurretur li dicemus non uoluiife poetam ineuitabilem
neceflitatrm/red eam difficultate quz impoflibilitati proxima (it
demonflrare.Sed fac etiam(^(T placet)omnrtn ex cidendi facultatem adimere
. Non tamen dicemus flagitia quz committunt in^ uoluntariacffe.quando
illorum principium uoluntaiium ruit . Nouitenimin# continens peccate curo
adulterium committit: potefl^abflinerefi uult. Peccat igitur uolcDS
donecafliduishuiufcemodi deprauatis adionibiTs eo perueniat/ut contrada
iam intemperantia etiam fi uelit abfhnerc non poffit/non tamen inui.' tus
dicetur peccaffe/quamuis tunc nolit quoniam licuerat a principio/modo uo
luiffet in firmum illum intemperantiz habitum non deuenireK^ uaproprer no
magis inuituspeccaffe dicetur/q qui fua fponte in quempiam lapidem iaciat
de^ inde pOEnitcntiadudusteuocatetfipoffet lapidem : qui per aerem fertur
quoni amnoUer hominem ferire. Ferit igitur fi! bene uolens : quoniam
initium a fua uoluntatc fuit. Sed hzclatiusapud Ariflotelem in libro de
moribus difputata inuenies . Itatp
redeo ad zneam : qui ut uides urbem ipfam non ihgredit . Nam qui
uitiafpeculanmrnon uniantur interuitia .lllorumuerouimat^ naturam a
S)rbilla(^nam eunda edocet dodrina^penitus intelligit . Procul tamen in
limi ne Tyfiphonem uidet.ponit igitur furias in limine tartari/de
quib^plzra<]p quz a poetis finguntur uelutinotiffima omittam . Plane
aurem conflat placuiffe pri (as foiptonbus quicuni^ maiori
flagidofeobflrinxetint a furiis uexari t ut in Horcfhs Alcmconifi^
matricidio uidemus . Q^uo in loco quidnam aliud expri tount furiz : nifi
inquietudinem aepotius uexationem quandam turbulentif
In.P.Virg.M.AUego. Narorima hxttd uluo quod fe ludia
neroonoanaabfolmtur. VtminU cts/ut mdida/ ut d«d<cus/ ut infamiam
effugias ; nemo uident : nemo a^ienfc Q
uitcftisdtaripolTitadcfttamen Sp& confciennaiquxu “*8«* Sicium rapit .
|au.ff.mum tcftimonium dior i comnncjt ^am «jb cod*,; U^uenaled.fc^^
ilU flacellai hi fcrpentum moifus quibus fun* nos «agitant. Habes de tun t S
aurem Ufcelera. at, V «auilf.ma«iftunt a principio enumexat . Impietatem
in S in homincs.Nam & tianiam prolem flurni naulo ante
dicebam / confaentix cruciatum dodioreinterpretantu^ ?e enm ueluti
Ceuiffmus fcelcrum uindearqux flagitio obnoxujU^ i^ na affiduo nmarur :
& dum commilli in mentem dia corrodit /curafm afliduo excitat /nec
eefpirandi fpanum ueroK fxioncm tyrannidis exemplar effe uuir/quo*
Upfura cadenti imminet affimiUs: Nunquam enim fine pe^ione uiuunt . (^uod
& Dionyfius ille iyracufanus Uamodi tamilun L illum beanffimum putanti
probe oftendit / cum illam ita int« ^s epulas ac pretiofa unguenta
coliocaflct /ur umen metu fupta caput equina feta pendentis nulla
poffet uoluptate a la . mSlto rnelius\ofcunt h^ines quam detur modo
impeni acquirendi fa tasttuitate fciant.Ncc ueto diffiale eft intelligne quid
ftbi te ora paratx regifico luxu; cur furiatum maxima luxta
ptohil^t contmgae menfas ; Neq, emm uerius neq, «prelf.us Le
potuittqux in eam homines dementiam protrabit/ut cumpluniM^
geffeS/tum maxime fame per, re malint quam congefta fe &
pulchre Orarius Tantalo illos comptat / qui apud in miiima aquarum pomotumtp
copia fm fame^ torqueatur. Pulchre em am^ illud tCongefiis undiq,
Ciccis indormis inhians & tanq^uain SI coceti* j pidi» unquam
gaudete ubellis. Magna ptofedo nutn da qw non norunt harum rerum
poffelTioncm non propter fe ntef illatum ufum.6 uapropttrbonailia
nontede/uuliaautemtecteappmus. Sed nimis mulu quando multis iamin locis de
auanua diximus /i «deliqua uidcamu* : Saxum enim ingens ii uoluum i. Quotum
uiu per Itm mam mftriamin eo uerfaturiutCcmpcr ea prtantitamohn “ir
««/qux aut nativam aut fortunam suam confbtuu efficere nequeant i o^el^
eoii« conatus irtiti mefficacefij fint.Rourum uao udus dettndi pendere
nmw‘ Kdicuntur.quinibilranonefiiconfilM) ptzuidcnteiinihil P‘“^, deo
fe fortunx conimittilnt/ut eius cafibusuelun inter eutyp fludibus ucw
affiduo totentur.ne« uittutem ullam habent in quatn ueluu in tutum ttanq him potturo
W^tteapoepofli Bu Huiufcemodiigitutu Ut tactchqnaquxpItt r- Liber
guaitiu rimi uaria^ fuot edocet Aeneam Sybilla / dodum^ flattci ut feiUis
«pii> ct admonet : ut punis campos clyfios ingredi poflit . ms igitur
Matontm a Platonis dogmate difcedcrc diat. lllc enim cumfummum bonum in
di' uinarumtetum cognitione pofuiiretiproptetea^ ccnittctomniuuiuium
gr^ nete excellere cum opottae : qui cum Iit futurus beatus / tamen ab
iis in< dpiendum cITc oftcndit qua: Ant in uiu & moribus poliiz .
Cum enim dv uioa / quae puriflima 6i ab omni labe corporea impolluta lunt
impurus nr-< mo attingere ualeatt pcrhuiufccmodi uirtutes expiemur
neccire cU/ illis ctjita tL uitia cogDolicimust SC cognita abhominamunat
puiilliau ndiu i.xlo^ fiia ac immortalia egredi poAumusiHac igitur
ratione iinpuilus Maio cum ad tummum bonum perducae honunem uelitt ira
Acnram iiiflicuendum curati ut primo uitia omnia edoceat/ deinde illis
cum opiaium ad campos clyAos perducat. Cognita enim uitiorum turpitudine
totum odium Boa inepuiquz quidem prima omnino lapientia cft. Audirus cnim
ad il« km/cA,ut fiulritia careamus . Sed tu nefcioquid mirabundus tecum
animo ooluisiifibuc ipfnm inquit LAVRENT1VS. Stduide.quantum tibi
extua diTputationc debeam. Dum cnim mihi planum icddeie Maronem
ttnusi id^ efficis eodem tempore in noAri duis diuinum poema induds .
Nunc cnim demum pcrfpido quid Abi uclit Oanihcs / qui piimum ad inferos
de< (cendattat^ inde emergens, nullam aliam uiamniA pcrpurgato iialocaadca;
Ium inucniat : Made uiitutis adolcfccns inquit liAPTlSTAi qui non ea ib
lumquz dicam Si A diffidlia Ant facile acapias. Seu quadam Aaulitudiueou
dusinde ad alia accedas/ut cum ilk maximam laudem ex diiigcntiilin<a qua «
dam ingenii atrihd^ plena imitatione alVccutus At : tu quoqi
uuuciedio<> acm laudem mcrcaris.qui bzc omnia/quanquam uebemcutcr
dilliuiuJata lint in illo poeta rccognofcas. Ego uero inquit.L. quantum
cx huc merear ipfciu« dicabis tqtianquam ueriorne nimio in me amureiaplus
noAiutnlioc ingcnk um longe pluru facias/ qua oportet.iliud tamen Si A
alicnuni a ptopolito fcf<t mone uideatur/non omittam .Tu autem quod
dicam ea laiiunc amc dida aedas ueliin / non ut meum ueluti decretum in
tanta icponam / fed ut iudtci' iitntuum quod ego onmium reliquorum
ludicioaotcponomcu uerbis elici am • Ego a prima pene puetma cx uiaufqi
patentis m Aituio adeo famibate uni uctfum opusAorentim poecz mihi
reddidi / ut pauci omnino Ant in eu lod quos ego Aquando illi huiufecmudi
oblcdamcntt gciius rcquitcter.t/ non fa« cilc ad uubum exprimerem. Sed
quid poteram puer ex um dtumo uacc ptet maa uerba pcteipcre.Nunc autem
cum uniuetfum rci argurocniu mciice peu curro tumma admirauone cius uiii
ingenium ptofequor.Na oi lu upexe fuo te xendo pauca onuiino Ala de
uirgiliaiu teia mutuari uideac ttameii mde oia pe ne Ant.l uiobtcmnuncnd
demum inteiligo/quod nos cx Cict-roms peepto IzpenufflccoLidinus admonete
folct cc in aliquo imitadu diligctcm oino u* dooe adhibcnda.Nci^ enim id
agendum uri idem funus qui fuut miquos imi tamut.Scd cotum ita iimilcs :
ut ipla Amilitudo uix illa quidem neq oiA a do dia iatcUigauit.Sed tu A
uidetut ad inceptum tedi. Cum igitut inquit. & la.P
.Virg.M.Allcgo. omnibus iam uidis expiatum Aeneam ad eamm rerum
cognitionem Mato deduAurus elTettqua; in casiis funt noncxlum fed elyfios
ampos nominat. Miro profedo ingenio u3tes/& qui eodem tempore &
figmento fu o Kuerita tiin(eruiat:Nam& (i apud inferos poetarum more
heroas relcgalTct i tamen nt hzc omnia de czio ilium fentire
animaduertamus largiorem ztherem : ac fuum folem fua^ fydera illis
tribuit / ut cum a figmento nufquam difcedat philofophizumen ucritatem
profequatur . Nos autem (i quos uirosilleincz ios reponat diligentius
confiderabimusiea omnia quz primo difputationis die de utroi^uitz genere
a nobis erporiiafunt acubflime ilium elTe complexum animaduertemus / ut K
qui in rerum cognitione reIigiofe/8; qui in adionu bus ac uitaduiliiufte
uafati Hnt digni omnino exiftant: qui in czlumuelu« ti in originem fuam
redeant i Q_uapropter BC Orpheum Si Mufeum ac reli> quos qui cafti
fuerunt facerdotes : qui phoebo digna locuti uerum reliquis ape rite
potueruntsqui uaharum aitiu inuentioneuitam cxcultiorem reddiderunt
tanquam fpeculatores cotnmemorat. Nei^ tamen eosobmittit qui aut
piisar< mis aut confilio opera induftriaat^ audoritate rem publicam
dcfendcruntiK in duiliacfocialiuita ueifati funt.Huiufcemodi ita<^
animos ab omni cor« porea contagione expiatos cum fimplidlfimz 8C omnino
incorporez naturas fint : SC maximarum rerum capaces exiftant mullis
locorum anguftiis arcuferi ptos nullis regionum terminis inclufos eum
animaduettac / fcd liberrime per omnes mundi oras uagareuideat: ita
Mufeum loquentem indudt: ut often. dat nulli e(fe certam domum Quin &
cum ita fenoit quz gratia cunumiarmo rum^uiuis fuit quz cura nitentes
pafcere equus eadem fequitur tellure repo* flos, demonfkat non clTe
fcimroemoremeotu quz et divinus Plato t placo, nicus CICERONE de animis
noftrisfentit.Cenfent emm adminift ratores terum.p. cum in czium recepti
fuerint regendorum hominum curam non deponere. Net^folumii quiiuflepieqt
uixerunt eodem audore iifdcm (ludiis detinen. tur corpore exuti t quibus
dum uita manebat deledabantur: Verum llagttio. forum quotp animi quoniam
multum ex fordibus quibus intta corpora fe fadauerunt/ fecum inde trahunt
a prilhnis curis difcederc nequeunt. Vidt« ftis ni fallor longum quidem
iter ac difficultatibus erroribufi^ plenum: fed quo tandem uir uirtutis
amator finem diu concupitum attigent. Per
uari. 05 enimcafus pertot diferimina rerum initaliam tendam s OC in
quietas f&. des deuenit Aeneas. Quem quidem fi imitabimur nos
corporeis pedibus liberati / SC nitido uirtutum fonte irrigari eodem uitz
genere SC dum intra hzc corpora uerfabuntur animi nofiri gaudebimus
/& cum inde uoiucrint innoftram originem reuerfi zterno zuo fruemur. Q
uz cum ita a BAPTi.STA dida fuilTcnt : ut difputationi finem impofuiffe
uideretur/nihil polfutn inquit LAVRENTIVS in ram longo fetmone
defiderare.Nam a principio ad hunc uf^ locum ita perpetuo tenore
difputatio perduda edtut nihil aut inter* niptu/aut diuulfum/aut
ptzcipicatu t in quu inter mediu aliquod rclidn omif fum ue fit qri
poffu.Sut eni oia mirabili fetie colligata/& eo ordiecotextaiut ni
hil inde demi pofTintiquin quz tcliquutur manca fmt futuraiK nihil addi
qrf J M M S IJ i J i-S rg.§S l-l 1 t-i t 1 1^4"S fi-lltt
quidem 6 ab/it /multopere requlreudu uideat’. Ignoscens tamen nimiz
cupidi tari no(trz/ri td nunc rcquiram:quod cu uehementer mihi planum
reddi cupii idne^badcnusateez porituintclligisnc locuinquo deinceps
exponi poflit teKdu uidei:Ezpefiabam enim non modo fufpenfo uerum etiam
anxio animo quid tu de iis fenrircsrquz furpiciens Anchifes fuo ordine
pandit. T u ueto dum rcbqua inter dirputandum fuis quz^ lods
difiribuis/illa no ueluti familiaria io iufteeiedarfcdtanqua aliena rine
ulla iniuria czclufa procul a tua difputatione amouifti . Qua propter
incertus fum quid agam:Nam ne<^ audeo te longa ora rione defatigatum
quicquaprztercarogareme is quz fcire cupio zquo aiu^ mopoilu carere. Hic
arridens BAPTISTA meminiife inquit te oportet o Lau miri nos huiufcemodi
terminis aniuetram quzfiionem drcurcripiifre : ut quz ambagibus
quibufdam/atip allegoriz figmentis obfcurata effent aperienda pro
poncremusim autem ea tequins quz fuis uerbis fine ullo figmento enarramr.
Ego tamen non ita exada ratione tecum agam/utquodexpado debetur/id fo Ium
enumerem t Sed prauerid gratis aliquid in ea hbcraliiatc accedere uolo :
Id igitur quod Maro ut Principio czlum ac tenasicampofcp liquentes. Lucentenv
^globum lanzritania^a(ha:Spiritus intus alit : huiufcemodi eri utftoicora
de diis opinionem refetat:Longum effe fi nunc omnium antiquorum philofo«
photum de diis immortalibus fententias referam: Q^uz quidem tam diuetfx ta^
inter fe aduerfz funt/ut totidem pene reperiantur/quot funt eorum qui
feri pfciuntcapita: Nonenimfingulzfolumfamilizfingulas fmccrias
excogitari. Sed fzpe inter fe eiufdem fedz uiri uehementer de re ipfa
diffentiunt. Verum ut reliqua ad przfcnsmiffa faciam & ad ea quz
przfenti inquifitioni confentanca funt deucniam:plzri^ ffoicotum:fed
przfertim eorum princeps Zeno uniuer« fum mundi globum mentem &
ratione &fummafapientiaprzdita habere ae« didaunt /eam^ effe ignem
quendam purissimum ac tenuimmu . At ueluti ani mi noftri per fui corporis
particulas oes diffunduntur/ita illu per oia mundi me bta ueluti geniule
femen unde eunda procreantur penetrarciquippe qoi uigot fcmeni^ fit omniu
procreandorum. Virgilius igitur qua uis ui reliquis a Platone fuo nunqua
difcedat tamc cum uidiffet Chiylippu in eo quem de natura deope limpfic
libro Orphei mufd Hefiodi at^ Homeri fabellas ita interpretari ut ide
prifcosolim poetas fenliffeconeturoftendereiquod multis pofiea annis
(loici fenferuntifbtuithacinreneab iis poetis quorum fimilis effe
cupiebat diftiml> Iis putaretur ipse PORTICUM fulcire ac floicis
adhauere.Na Platonis longe alia fententia eff. Ponit enim deu penitus
incorporeum:at^ extia omnem materia omnem mundum inipfoczlidorfo exiflentem.
Qua propteeillu hypcrcof mlon appellatiquoniam eifentia sua supra cxli
uerricem mancaticum tamen ui ac providentia nufquam abfit.fed omnia
circufpiciens etiam minima curet.In phzdro enim ait. Magnus in czio
lupiter citans alatum curtum inccditJ^mua exoinanscunda.Eodem^ in libro
demonftrat locum illum neminem adhuc laudaiTe poetaiummec unquam pro
dignitate laudaturum.Q^uaroobrem cum Platonici deum eztta mundum
ponantiquibus etiam Ariflotelici alfentiuntutt Stoici aut illu per omne
ut dixi mundum diffundat, qs no uiderit Virgilium /i in. P. Virg.
W. AII fgo. cutn dcutn quctn in potticu uiderat dcfcriplii Tcnnimorip
noftros illius partica bs elfe a Chrjiippo acccpilTe.Cu autem
prouidcntiam dci multis in loas prafe quatutinufquara a Phtune
difcedit.Non enim idem omnes rendum.Quzras fottaUe quid de mundo sentiat PLATO
[PLATONE]. Ccufet quidem animam eu babcrc/a qua reliquorum animantium
animz (int. bominum autem animos abeo deo que paulo ante dixi creah:££
ratione exornari uultiCorpus autem atip cacterasoes vires quas praner ratione
mia bi seiTefamus bomiiaiabanimo mundi elTe (ai bit.EQ enim lile dei
uicatiusicuirjlua uniuetla ueluti fua prouinda denudata Imltai^ illi uita
moturai prxbet/non fuaui autfacultate ledquicquidagitid uelun dei
in(humentuagit.Oeclinat igitur paululum de uia Matotat a Pia/ tonefuo discedit.
Cum autem dei prouidentiaplunmis locis profcquicuri illi totus
adbzret.Non enim idem omnesfentiunt.Sunten:minfortunz qui calt bus omnia
ponantiK nullo credat mundum rectore moueti.Q^ua in sententia Leucippum
abdaitem/eiufe conduc Oemoctimm: Protagoram quo^S Theodorum ac Epicurum
repenasi^unt itidem qui Andotelem fecuti non ita odofum deu ponauut nibil
omnino curare dicant. Illius tamen prouidentia Iu nz orbem
dclcenderenoaeduntiSunt deni^K tettiiqui fitliuniucifumper tingere illam uelint
maxima tamen dutaxat curatr/mininu ucro omnino negli gere opinent. At
Piato ut eunda a deo fada putat/ ftc eunda illum curare exifti mau Atipbzcdedeo.Otbeucto
quo uiallim animos nodtos ab inferis ad coc pustat inde rurfus ad inferos
tranfirefaibit ab academia cftc non negamus: Verum si latius de re
buiufccmodi dilTcrendum propofuilTcmusiextant multo diuiniota quz a tato
philosopho de aiope corpore difcclTu pferre poiTimustSed difficile oino
eff um breui tempore res arduas longa diligende otadone explicandas
bisanguftiis includere ltaij quod roluminffat idagamus lnuenies igitur
apud Platonicos cu mille annos apud inferos fuciint animi bominn ad
corpora illosredireiatijinde uidffim ad inferos remeate.ldi^ totiens facere
do nec duodedm anno^ milia tranliednt. Hunc enim orbe perfedu
extChmat.Na eo fpado penitus purgari aios CTcduti^ptcrea^ poffe illos tu
demu purgatos/in fuam origine et adezicifes fedes reduc: Q_uod iiquis
fuerit qui pbilofophiz fe dcdacibuic ta fadiis purgado obumit:ut aceat ei
poft tria annopt milia ad fupe ros euolate: Adduc ena fiqs teligiofc oino
uixeritieu ante mille annos H purga/ ti/S purgatu (fatim in fua origine
redire: Eff prztcrea quemagnu annu appcl/ ]at:quc cuc finiri aedunt cum
fol una cu luna ac quin^ reliquis enatilibusffel lis ad eade zodiaci
parte rcdieiint. Exado igitur boc tpis circmtu:quc et si vatta sit dodoru
de illo uiro ru sententia rex tamen ac triginta millibus annoruconfi ci
plzrii^ acdidere.ccafec Plotinus omniu bominu animas ad eunde uitz babi
tu rcditutas.Hzcigif'& qualia (int/& quid facicnda/fadleexco libro
perapi cs/que nodu expolitu in manibus hic noffet Matfilius habet: nec
adhuc edidit. Vciu ego cum apud ipfum inbgbinenffdiueniffcm/cafuin cu
incides aperui locof quofdam fuma cum
uoluptate percurri. Res omnino magna
eff LA V/ tcd/fl( magnis ingcniuinbus ttadata Sprotfus digna in qua
labores. Poterit nitn no tolum maxima ac pulcherrima et homini fe ipfum
noffc cupiend per quartus
aeeelTariatedocercrcdmrummatn quo admirationem rapere. Scnbit enim
non phyticcCut plxri solent sed metaphyiicc de animoru noftroru immorta
litate/utplane poffit de ea re omnem dubitationem amouere. Quem librum cu
Icges/&ha;c quz deMaronereqiuris:&plzra^ alia quz nos paulo
antediuinif fima cfle non rumusmentiti/facilec^nofces. Qux quidem res facit ut in
iis quzpo (hilafiibre uiorquelles /forta(»fuerim.l^hil tamen eft quod
breuitad ^cenfeas. Nam cum ea requireres/quz nullis eius difputationis
quam pepige camus cancellis includerentur/poteram illa meo iurefilentio
przterire. Itacpid facile fi forte obiidatur diluam. Apud vos vero dodif Timi
viri quomodome purgem non invenio.Video enim dum pofiulanti LAVRENTIO
nihil d&> ncgo/duplids errati culpam inddifle.Nam quid me aut
loquadus fingi poteft/ qui quarto iam die ea eruditifiimis aunbus uefiris
inculcare non delinam : quae quadodrina efiis/uobisqua mihi notiora fint:
aut aud adusex cogitari quiim praemeditatus ad differendum de iis rebus accelferim
quzado dilfiinis iifdci diuprz meditads uids uix faris eleganter pro sua
dignitate explicari folcant. Im mo quid humanius/quid tua fadiitate
dignius refpondit Alamanus effid potu Itqua meanobisodofis dilferere quz
tamen magnis vehementer cp urgentia bus occupationibus przponere non
dubitaremus.Nos autem inquit Petrus ac daiolus uolo enim et pro fratre
meo refpondecc ne optare quidem id aulielfe tnuss quod ultro nobis arridens
fortuna attulitiut tu tali przditusfapientia at ELOQUENTIA VIR ea deduplid
quzftione primis duobus diebus breuiter per. Ipicueiabfoluteip in unum
congereresrquz non nili per fummum laborem: (i> mam indufiriamex
multis ac uariis fcnptoribus cruipolfunt . Nam Maro nis diligentifiima at^ multiplid
dodrina referta interpretatio in qua tertio ac quarto iam die uetfarisitum
quia pulcherrima tum quia inaudita accidit no mi nori Ihiporetqua
deledationc nos alfecit. Non polfut fatis pro fua dignitate lau
dariquzatedidafunt inquit Antonius: Sed utinam Baptifia quoniam reli quamztatem
Romzcon fumpfilb hanc tandem fenedutem patriz uel optao ticodonare uei
illa tanquaafuociue exigenti corpore uelisutfzpius te de magnis rebus
difputantem audientes ciues tui dodiores indies meliorefc reddantur. Verum has
ego huius Marci partes ee ducoiTe enim pro ea quz illi tecu intercedit nec clfitudine
modo nitat facile in sua sententia tradudurum confido. Quin ifihuc ia diu
ago inquit Marcusinec prius defina qua aut ronibus impc' travero aut praecibus
ezotnaueto aut defatigando extorfero. Sed ut confido muItum meineateiuuabit
LAVRENTll acluliani ingeniu acftudiu. NI cu inultu iam in litteris uter pfeccrit:
fitr multatu tetu addifceda^ ardentiffima cupiditasrcu cztera illis &
a natura 8C a fortuna adiumeta ad re perficiendam abunde aifintind
pariet'' ille diu adolescentibus quos cariflimos habet operam sua desiderari.
At q liceat md iqt BAPTIfta ego talib5’adolescentibus ounq deerot Sed
furgamus ii/SC qm primo mane uobis e in urbe redeudu.intellexifti cni pau
lo an uurcriu publicis Ifis accctfiri quod reliquu diei eft ualimdini
ipedamus. Quzftionu Canuldulefiu Cbrifiophori Landini [LANDINO] florentini
QuaitifiC ultimi libri Finis. Cum Priuilegio. -Z.sisqfc "Moibc
scof. Questo lavoro porta nuovi elementi allo studio delle complesse
vicende inerenti i RERVM GESTARVM FRANCISCI SPHORTIAE commentarii di Giovanni
Simonetta e il relativo volgarizzamento, la sforziada di Cristoforo LANDINO.
Nel saggio introduttivo si indagano gli aspetti biografici, storici e
filologici riguardanti le due opere, partendo proprio da SIMONETTA, attivo
nella cancelleria di SFORZA assieme al piú noto fratello Cicco Simonetta, e
ricostruendo la storia testuale dei Commentarii dalle loro origini agli
emendamenti eseguiti dall’umanista POZZO in vista dell’editio princeps, senza
trascurare le vicende editoriali e le prime reazioni all’opera. Punto di forza
dell’analisi è l’aver ritrovato e studiato nel dettaglio il manoscritto
originale, nonché esemplare di dedica, dei Commentarii, già noto a SORANZO il
secolo scorso quale codice Castelbarco. L’attenzione si sposta quindi da Milano
a Firenze, entrando nell’officina testuale di Cristoforo LANDINO per sondare la
sforziada dal punto di vista metodologico e contenutistico, con un conseguente
particolare riguardo per le vicende successive all’invio del manoscritto di
dedica (copiato da Tommaso Baldinotti) a Milano, dove il testo viene sottoposto
dal Simonetta a numerosi interventi visibili ancora oggi. Chiude la parte
introduttiva un capitolo che vuole delineare la storia dello sviluppo dei
commentarii come genere nel quadro storiografico dalle origini alla fine del
Quattrocento. A seguire il lettore troverà l’edizione critica della sforziada
in veste integrale, corredata di un approfondito apparato comprensivo degli
interventi che ne testimoniano la ricezione a Milano. Grice: “Perhaps more
interesting than the fact that he loved the Achilleid, and commented on the
Eneide, is that he sold the sforzeide – sull’eroe Milanese, l’invitto Francesco
Sforza! Howell in I Medici. Cristoforo Landino. Cristoforo Landino. Grice: “I
love Landino; for one he wrote the first Italian philosophical dialogue,
“Disputationes” – for another, I love
the setting!” Landino. Keywords: dialettica fiorentina
– implicatura fiorentina – la Sforziada di Simonetta. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Landino” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Landucci: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale -- i misteri del delitto Gentile e le bestie
senza stato di Vespucci – filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Sarzana). Filosofo italiano. Sarzana,
La Spezia, Liguria. Grice: “If I had in
Hardie a wonderful mentor to Aristotle, I missed Landucci’s mentoring me into
Kant!” – Si laurea a Pisa con Luporini. Insegna a Firenze. Altri saggi: “Cultura
e ideologia in Sanctis” (Milano, Feltrinelli); “I filosofi e i selvaggi” (Bari,
Laterza); “L’origine della scienza sociale” (Firenze, Sansoni); “La co-scienza
e la storia” (Firenze, Nuova Italia); “La contraddizione” (Firenze, Nuova
Italia); “Teodicea” (Napoli, Bibliopolis); “La Critica della ragion pratica”
(Roma, NIS), Sull'etica di Kant, Milano,
Guerini, La mente in Cartesio, Milano, F. Angeli, I filosofi e Dio, Roma-Bari, Laterza, La
doppia verità: conflitti di ragione e fede tra Medioevo e prima modernità, Milano,
Feltrinelli, A. Gnoli, Intervista, "Repubblica", Scheda biografica su
Einaudi. Sergio Landucci. Grice:
“Basically, Landucci covers all the topics of my interests, including that of
the alleged ambiguity in Kant’s idea of a ‘reason’!” UCCI, UCCI SENTO ODOR DI L. – I MISTERI DEL DELITTO
GENTILE, IL LEGAME CON LUPORINI, IL '68 IN CATTEDRA ("FUMMO INVASI DAGLI
ANALFABETI") IL GRANDE FILOSOFO SI RACCONTA: “MI PIACEREBBE SCRIVERE UN saggio
SULLA DEMENZA SENILE CHE STA ATTANAGLIANDO L' OCCIDENTE. RICORDO UNA FRASE CHE
DICE: "GRANDEZZA È CIÒ CHE NOI NON SIAMO". HO LA SENSAZIONE CHE
L'ABBIAMO DIMENTICATA…” Gnoli per Robinson-la Repubblica landucci
LANDUCCI Per molto tempo il suo nome è rimasto associato a un grande
libro che quando apparve nei primi anni Settanta fu come una meteora, tanto
sembrò strano nel panorama delle cose che allora si pubblicavano. Sto parlando
de I filosofi e i selvaggi (uscì allora per l' editore Laterza ed è stato
ripubblicato, e aggiornato, qualche mese fa da Einaudi). La sua lettura mi
colpì allora e mi rimanda all' oggi con i "selvaggi", sempre meno
variopinti ed esotici, spinti dalla disperazione ad abbandonare le loro terre
martoriate. Il paragone turba L.. Seduto nello studiolo mi guarda con la sua
faccia triste. Sono venuto a Firenze per incontrarlo. Si stupisce e quasi si
scusa per il fastidio che mi avrebbe arrecato: è un uomo timido, deluso,
gentile ma altresì con un retrogusto di indefinita rabbia. Landucci è
stato allievo di Luporini, ha insegnato all' università di Firenze, subendone,
dice, tutti i contraccolpi politici: «Divenni ordinario. Quasi immediatamente
percepii un generale clima di ostilità e rassegnazione. Con una rapidità
incredibile la facoltà di filosofia adottò una selezione alla rovescia: vennero
avanti a passo di carica gli analfabeti, i carichi didattici furono
alleggeriti, i ruoli stravolti. Ho vissuto tremendamente male gli anni dell'
insegnamento e decisi per la pensione anticipate. È stato così frustrante il
lavoro universitario? «Lo è stato certamente per uno come me. Mi
consideravo, come si diceva allora, un "cane sciolto". Mi stupì
constatare che la facoltà si era ridotta a una grande cellula del Pci, su cui
si incistò dopo il '68 la contestazione studentesca». I punti di
riferimento furono però due grandi personalità di sinistra: Garin e
Luporini. «Maestri indiscussi. Mi chiedo tuttavia quanto sia stata
acuta la loro vista politica. Garin fu il grande interprete di una filosofia
come sapere storico, il suo storicismo era totalmente in sintonia con le
posizioni culturali del Pci. Quanto a Luporini c' era un inquietudine ben
maggiore che lo portò a misurarsi e a simpatizzare con le ragioni degli
studenti. Non stigmatizzo il loro magistero, cui peraltro devo moltissimo,
sostengo semplicemente che furono anni in cui la politica prese il sopravvento.
Era lo spirito del tempo. Ne facevo parte anch' io, ma senza tessere o
bandiere. Del resto non sono mai stato iscritto a nulla. Giunsi all' Università
di Firenze nel 1960, come libero assistente, chiamato da Luporini. Quali
erano i vostri rapporti? E mio professore a Pisa e con lui mi laureai. Mi
affascinava quest' uomo che andò in Germania a occuparsi di esistenzialismo e
seguì i corsi di Heidegger». Credo sia stato uno dei pochi italiani a
frequentarne i seminari. C' è un episodio rivelatore del rapporto con HEIDEGGER
Quando il filosofo tedesco pronuncial il famigerato discorso con cui si
insediava da Rettore a Friburgo, Luporini restò sconcertato da quell' adesione
al regime. Qualche giorno dopo incontrandolo gli comunicò che lascia Friburgo
per Berlino. Heidegger gli chiese perché. Lui rispose che era interessato ai
corsi di Hartmann. Il maestro lo liquida con un ironico "tanti
auguri"».A proposito di filosofi si è spesso detto che il vecchio lupo,
così era soprannominato Luporini, fosse rimasto l' ultimo a sapere i dettagli
dell' omicidio Gentile. Lei è a conoscenza di qualche particolare? « C' è
innanzitutto da ribadire il legame che Luporini ebbe con Gentile, il quale lo
chiamò come lettore di tedesco a Pisa, in sostituzione di Oscar Kristeller,
ebreo che dovette riparare negli Stati Uniti dopo le leggi razziali. GENTILE aiuta
Kristeller, come pure tanti antifascisti che si rifugiarono alla Treccani e
all' Università, fornendogli soldi e assistenza. Poi chiama Luporini alle due
di notte dicendogli di decidere in fretta perché altrimenti sarebbe venuto
qualcuno dalla Germania, quasi certamente un insegnante di fede nazista».Questo
è lo sfondo. Poi cosa accadde? Quando la situazione precipita. Luporini va
a casa di Gentile e lo scongiura di non entrare nella Repubblica Sociale. Gli
dice. Professore c' è gente che non aspetta altro per ucciderla. GENTILE
aderisce alla Rsi e viene ucciso in un attentato. Si è detto che Luporini conosce
i mandanti e gl’esecutori dell' omicidio. Credo che il vecchio lupo non sa
nulla, o almeno nulla di diretto. Ci e una sua dichiarazione radiofonica in tal
senso, ma credo e il frutto di un fraintendimento. La frase di L. e
questa: Cose che forse non si possono ancora dire. Cosa le fa supporre che e
frutto di equivoco? Il fatto che accreditasse la versione offerta da
Mattei, che sull' argomento cambia più volte opinione. Fino a sostenere che
dietro quell' omicidio ci e BANDINELLI. Mai uno straccio di prova. Credo si sia
perfino inventata che fu lei a indicare al commando gappista la figura di GENTILE,
che non ha mai conosciuto. Poi c' è la testimonianza della moglie di LUPORINI
Maria Bianca Gallinaro, la quale mi disse sconsolata che la storia che Luporini
sapesse era solo una leggenda, del tutto infondata». Possibile che non ci
fosse un grano di verità? « La sola cosa che riesco a pensare è che LUPORINI
e emotivamente coinvolto. Dopo l' attentato, GENTILE e trasportato moribondo
all' ospedale. Il fratello della signora, medico al Careggi, chiama LUPORINI dicendogli
se vuole vedere per l' ultima volta GENTILE. E lui anda e vede il filosofo in
fin di vita. Non credo sia stato un bello spettacolo. Questo è tutto. Dopo
quella dichiarazione radiofonica mi permisi di consigliare Luporini a non
pronunciare più quella frase».E lui? « Non so se fu una mia impressione
ma gli lessi negli occhi un certo imbarazzo». Negli anni di Pisa chi
frequentava? «Tra le persone che hanno avuto un peso: CANTIMORI e TIMPANARO.
Di quest' ultimo divenni grande amico». So che Cantimori incuteva una
certa paura per il modo di fare lezione e interrogare. «A me, che non
sono stato suo scolaro, suscitava tenerezza». Cosa pensa della sua vita
ideologica piuttosto travagliata? « Se allude al passaggio dal fascismo
al comunismo non saprei cosa pensare. Come ad altri intellettuali gli è mancato
il pensiero liberale. Era dominato dai fatti e dall' idea che la storia sia
guidata dal potere. Usce dal Pci. Non solo per i noti episodi di Ungheria ma
perché non ne poteva più del partito. Era un sopravvissuto a se stesso. Cosa
intende? Deluso. Era convinto che io fossi una specie di longa manus del
Pci, non gli ho mai dato la soddisfazione di smentirlo. A volte con ironia
diceva: "Landucci, è vero che non basta dire viva la bandiera rossa per
essere intelligenti?". Gli ultimi anni della sua vita li passò a insegnare
a Firenze, in un ambiente che non lo amava. Prima di morire andò a Princeton
per un ciclo di lezioni e quando tornò gli dissi: "Le ha fatto bene stare
lontano da Firenze". Sì, rispose, ho evitato la noia». Poi c' è TIMPANARO.
«Era stato allievo di PASQUALI, ma invece di inseguire la carriera
universitaria, divenne un outsider della cultura. Motiva la sua scelta con una
certa difficoltà a parlare in pubblico. Ma io so che aveva orrore della
professione accademica. Ebbe rapporti difficili con il mondo e bellissimi con
le persone che amava. Per lungo tempo mi considerò tra queste. Solo negli
ultimi anni scese tra noi il silenzio. Non digerì, non accettò o forse non
seppe accogliere il fatto che mi fossi separato da mia moglie. Ma la vita va
dove deve andare e a volte non ci possiamo fare niente. Da lui ho appreso il
rigore filologico. Fu grandissimo nelle questioni leopardiane e in tutta la
riflessione sul materialismo. Ma anche sorprendentemente originale nella
lettura di Freud. È strano, ma ogni volta che penso alla vita di chiunque, mi
chiedo quanta parte vi avrà avuta il caso. Le coincidenze prese o mancate, per
lo più senza rendersene conto». Per lei il caso è stato così
incisivo? Direi che il caso domina fin dalla famiglia di origine: un
ambiente che non scegliamo, e nel quale ci troviamo gettati». La sua famiglia
com' era? « Papà avvocato, ma frustrato perché ricopriva un impiego
modesto. Mia madre maestra. Vivevamo a Sarzana. Ricordo un padre anziano e la
mamma che gli proibì di venire a prenderci a scuola, me e mio fratello, per
paura che lo scambiassero per il nonno. Lo vivevo come un uomo di altri tempi.
Anche nel lessico ricordava la belle époque. Invece di autista dice chauffeur,
vis à vis a posto di specchio e quando chiedeva l'asciugamano dice passami il
Amava il melodramma italiano. Invece, melodrammatica di suo e mia madre.
Risultato: ho sempre detestato la musica lirica! Forse perfino più di quanto
non abbia detestato che mi chiamassero Sergio». ROUSSEAU Dà l'
impressione di un uomo provato dalla vita. Sono molto amareggiato dalla
mia vita professionale e privata. Non ho né la forza né la voglia di entrare
nei dettagli, ma ho l' impressione di essere stato irriso e torturato dalla
vita. Il lavoro nelle biblioteche di mezza Europa e negli archivi è stata la
mia droga, la mia unica grazia. Non ho avuto nessun successo ma almeno mi ha
consentito di vivere». Non è vero, il suo libro sui "
Filosofi e i selvaggi" è un grande libro. «Non diciamo sciocchezze,
troppo carico di note, di troppe citazioni in originale e, in fondo, di inutile
erudizione. La sola cosa che ricordo è una stroncatura di Diaz. Scriverlo, fu
un' idea casuale. Un libro nato senza nessun presupposto. Diciamo che mi
appassionava Montaigne». È il primo ad accorgersi della figura del
selvaggio e a prenderne le difese. « Non è il primo, ma in qualche modo
rovescia la posizione di Amerigo Vespucci che presenta i selvaggi simili alle
bestie. Diversamente da Colombo che sposa la tesi antica del mito del buon
selvaggio. Montaigne dice che il selvaggio non ha Stato, non ha costrizioni,
non ha religione, non ha falsità, è privo cioè di tutti quei caratteri che
soffocano la civiltà occidentale».È la scena che prevarrà? «È solo una
tesi che a Montaigne serve per screditare la chiesa e gli stati. Gli eccidi, la
violenza, il terrore che scuotono l' Europa delle guerre di religione e che
culminano nella notte di San Bartolomeo, sono messi in contrapposizione con la
mitezza del selvaggio ». È una tesi che riprenderà Rousseau. «Fino a
un certo punto, anche perché il suo selvaggio è un uomo felice ma violento. Non
conosce la corruzione né è posseduto dalla brama di potere, ma è
sostanzialmente un individuo aggressivo. Chi porterà alle estreme conseguenze
questa impostazione è Hobbes che rovescia la costruzione di
Montaigne Hobbes parla di uno "stato di natura".
firenze FIRENZE Dove tutti si fanno la
guerra e dove la vita delle persone è permanentemente in pericolo. L' immagine
di questa condizione brutale Hobbes la ricava dalle descrizioni che vengono fatte
dei selvaggi di America. Si può dire che l' Occidente fin dall' antichità si
sia servito di questo mito con le peggiori intenzioni? « È passata l'
idea, con qualche eccezione, che fossero troppo diversi da noi per ogni
ipotetica assimilazione». Al punto che ancora oggi questa diversità è
vissuta come una minaccia di contagio e sostituzione? Qualcuno, come lei sa, ha
perfino parlato di "uomo bianco" in pericolo di estinzione.
«Nelle fasi di grave fibrillazione sociale, quando il discredito si abbatte su
ogni aspetto della vita politica, il delirio - come strumento patologico -
rischia di trionfare. Mi pare di poter dire che è quanto sta accadendo e che
contribuisce ahimè ai miei stati depressivi. Sono convinto che non ci sia
nessuna giustificazione al male né all' imbecillità. Ho scritto un libro contro
la teodicea, mi piacerebbe scriverne uno sulla demenza senile che sta
attanagliando l' Occidente. Ma non credo di averne più la forza. Mi
resta questa infelicità che è come un che sovrasta le mie parole che non so più
maneggiare con delicatezza. Ricordo una frase che Luporini aveva ripreso dal
vecchio Burckhardt, è bellissima. Dice: "Grandezza è ciò che noi non
siamo". Ho la sensazione che l' abbiamo troppo spesso ignorata o, peggio
ancora, dimenticata». Grice: “Landucci has aptly explored the concept of the ‘barbarian’. It
all starts with Montaigne, an anarchist – he assumes a fake philosophical
position just to justify his anarchisms: savages are fun, happy, and they have
no state! Vespucci moe or less thought the same, but for different reasons. Just
like an ape doesn’t have a state, Vespucci says, so a savage!” -- Landucci. Keywords: i misteri del delitto Gentile. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Landucci” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Lalla: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale nella selezione sessuale di Nerone, il musicista – filosofia
friuliana – scuola di Trieste -- filosofia triestina – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Trieste).
FIlosofo italiano. Trieste, Friulia Venezia Giulia -- Grice: “I have been
called a Darwinist, which offended de Lalla!” -- Figlio unico di Achille de
Lalla e Anna Millul. Il padre, nato a Napoli da famiglia
originaria di Tolve, aveva intrapreso la carrriera militare, giungendo a
ricoprire il grado di Tenente colonnello dell'esercito e congedandosi con il
grado di Generale dell'esercito. Prese parte alla Prima guerra mondiale nonché
alla Seconda guerra mondiale, dove rimase ferito alla spalla destra in Russia.
Fu in seguito Dirigente dell'Istituto per la Ricostruzione Industrial. Achille
de Lalla era figlio di Ludovico e di Maria Buonomo, figlia a sua volta di
Alfonso Buonomo, compositore e musicista napoletano di fama. La madre Anna Millul era nata a Roma in una
famiglia ebrea originaria di Livorno. Si laurea, allievo di Kalinowski di cui
traduce in italiano il saggio "Interpretazione giuridica e logica delle
proposizioni normative". Scappa a
Parigi, prendendo parte al Maggio. Tuttavia, fu tra i primi ad intuire che il
Partito Comunista francese non aveva alcuna seria intenzione politica di
sostenere la Contestazione e, in anticipo sul fallimento dell'iniziativa
giovanile, lascia la Francia rientrando in Italia deluso. Studioso di
Evoluzionismo e Politologia, e è proprio sulle sue teorie sull'Evoluzione umana
e sul pensiero di Darwin che scrive l'opera “La selezione sessuale”. Insegna a
Siena e Napoli. A testimonianza del grande successo che riscuotevano i suoi
corsi universitari, rimane la petizione indetta dagli studenti affinché il
Senato Accademico li prorogasse per un biennio.
Gl’ultimi anni Ritiratosi a vita privata, muore a Napoli nella tarda
serata del 25 settembre d'infarto mentre
attende alla redazione della sua ultima opera. Est Deus in nobis Contributo
alla Nuova Evangelizzazione e, nelle intenzioni dell'autore, avrebbe dovuto
costituire il completamento della trilogia iniziata con Evoluzione e proseguita
con La Comunità Democratica.Convinto assertore della superiorità del Diritto
pubblico rispetto a quello privato, si è sempre posto a tutela delle
prerogative statuali. Convinto assertore
dei rischi della dilagante esterofilia in campo politico e fondamentalmente
euroscettico negli ultimi anni di riavvicinamento al cattolicesimo, ideò un
progetto di edificazione di un nuovo partito politico che, nelle sue
teorizzazioni avrebbe assunto il nome di PARTITO CRISTIANO COMUNITARIO
(DEMOCRATICO) ITALIANO PCC(D)I. Saggi:
“Il concetto legislativo di azione penale” (Jovene, Napoli); “La scelta del
rito istruttorio” ( Jovene, Napoli); “Logica della prove penale” (Jovene
Napoli); “La pena militare” (Jovene, Napoli); “Topografia politica della
repubblica” (Scientifiche, Napoli); “Il completamento istruttorio del giudice
nelle indagini preliminari in "Riv. it. dir. e proc. pen.");
“Evoluzione,” “Darwin e la selezione sessuale” (Salerno, Roma); “ Selezione
sessuale” (Scientifiche, Napoli); “La comunità democratica: idee per una
politica nuova” (Guida, Napoli) – concetto di KRATOS --“Comunitarismo” (Guida,
Napoli); “Nerone, o Musica nella antica Roma”
(Guida, Napoli); “Composizioni musicali Per pianoforte Sonata n.° 1
Suite "italiana" Sonata n.° 2 Sonata n.° 3 "napoletana"
Musica da camera Sonata per violino e violoncello Sonata per violino e
pianoforte Sonata per violini, viola e violoncello Note de Lalla F., Una famiglia borghese, Ed.
Ibiskos de Lalla F., in "Il foro penale"
ilcambiamento,// ilcambiamento/ articoli/ evoluzione_2_ darwin_de_
lalla_millul. ateneapoli,// ateneapoli/news/ archivio-storico/
reintegro-del-prof-de-lalla-il-consiglio- di-facolta--si-esprime-
negativamente. petizioni.com/ petizione
_pro_prof_paolo de_lalla. Grice: “When I hear that a philosopher has written
yet another trattarello on the filosofia della musica, I always thought not of
Orpheus and his lute, but of NERO and his lyre!” -- Paolo de Lalla Millul. Paolo de Lalla. Lalla. Keywords: evolutionary, sexual
selection, Nerone, filosofia della musica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Lalla” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Latini: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- l’implicatura
rettorica di Publio e Cicerone -- implicatura – filosofia toscana – scuola di
firenze – filosofia fiorentina – scuola fiorentina -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice: “Latini reminds me of
Hardie; he was Aligheri’s mentor; Hardie mine!” -- Grice: “People say it all
starts with Alighieri; but the real ‘filosofo’ behind Alighieri surely is
Burnetto – he has chapters on ‘Platone,’ ‘Aristotele,’ and the rest of them.” «Poi si rivolse, e parve di coloro che
corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro quelli che
vince, non colui che perde» (Divina Commedia). Figlio di Buonaccorso e
nipote di Latino Latini, appartenente ad una nobile famiglia. Le fonti storiche
e una serie di documenti autografi testimoniano la sua attiva partecipazione
alla vita politica di Firenze. Come egli stesso narra nel Tesoretto, fu inviato
dai suoi concittadini alla corte di Alfonso X per richiedere il suo aiuto in
favore dei guelfi. Tuttavia, la notizia della vittoria dei ghibellini a
Montaperti lo costrinse all'esilio in
Francia. I cambiamenti politici conseguenti alla vittoria di Carlo I da Benevento
sconsentirono il suo ritorno in Italia.
Fu risarcito del torto subito, con il titolo di Segretario del Consiglio della
repubblica, stimato ed onorato dai suoi concittadini. La sua influenza
divenne tale che a partire si trova a malapena nella storia di Firenze un
avvenimento pubblico importante al quale non abbia preso parte. Contribuì
notevolmente alla riconciliazione temporanea tra guelfi e ghibellini detta
"pace di Latino". PPresiedette il congresso dei sindaci in cui
fu decisa la rovina di Pisa. Elevato alla dignità di Priore. Questi magistrati,
in numero di dodici, erano stati previsti nella costituzione. La sua parola si
fa frequentemente sentire nei Consigli generali della repubblica. Era uno degli
arringatori, od oratori, più frequentemente designati. Nel Canto XV
dell'Inferno Dante lo incontra tra i sodomiti, violenti contro Dio nella
natura. Siamo nel terzo girone del settimo cerchio; Dante e Virgilio camminano
su un piano rialzato rispetto alla landa desolata in cui i dannati procedono.
Alighieri, che era stato allievo di Latini, è profondamente scosso, e non
nasconde verso il maestro una persistente ammirazione. Latini è il primo nella
Commedia a toccare fisicamente Alighieri, tirandolo per la veste. Altre
opera:“Il Tesoretto,” poema (incompiuto o mutilo) scritto in volgare
fiorentino, in settenari a rima baciata, narrato in prima persona. L'autore definisce l'opera Tesoro, ma il nome “Tesoretto”
è presente già nei manoscritti più antichi,
presumibilmente per distinguerla dalle traduzioni italiane del “Tresor”.
Il protagonista, sconfortato dalla notizia della disfatta di Montaperti, si
perde in una "selva diversa". Nella sua peregrinazione si imbatte
nelle personificazioni della Natura e delle Virtù, che gli illustrano la
composizione del Mondo e i modelli di comportamento cortesi. Il “Tesoretto” si
interrompe nel momento in cui il protagonista incontra Tolomeo, che sta per
spiegargli i fondamenti dell'astronomia. Influenzato da un lato dal
romanzo cortese, dall'altro dai poemi allegorici, realizza un'opera che da una
parte della critica è ritenuta tra i precursori diretti della Commedia (Venezia,
Melchiorre Sessa il Vecchio); “Li livres dou Tresor” e la più celebre, scritta
durante l'esilio in Francia, in lingua vernaculare, perche "è la parlata
più dilettevole e più comune tra tutte le lingue.” Consta di tre libri e
risulta la prima enciclopedia volgare in senso proprio. Altri testimoni sono
stati segnalati in seguito da Squillacioti, Divizia e Giola. Il primo
libro tratta dell’origine di tutto. Tra gl’argomenti affrontati vi sono
un'ampia storia universale, dalle vicende dell'Antico e del Nuovo Testamento
alla battaglia di Montaperti, elementi di medicina, fisica, astronomia,
geografia, e architettura, e un bestiario. Si trova, in questo primo libro, una
delle menzioni più antiche che conosciamo di una bussola e l'indicazione della
sfericità della terra. Nel secondo libro si tratta dei vizi e delle virtù,
attingendo sostanzialmente dall'Etica Nicomachea. Il terzo libro riguarda
principalmente la retorica. Utilizza come fonti Platone, Aristotele, Senofane, il
romano Publio Vegezio e Cicerone. Altre opera: è inoltre autore di un
altro breve poemetto, “il Favolello”, di una “Rettorica” volgarizzamento e
commento del De inventione di Cicerone, nonché dei volgarizzamenti di tre
orazioni ciceroniane (Pro Ligario, Pro Marcello, Pro rege Deiòtaro). Jauss,
Alterità e modernità della letteratura medievale, Boringhieri S. Sarteschi, Dal
"Tesoretto" alla "Commedia": considerazioni su alcune
riprese dantesche dal testo di Latini, in "Rassegna di letteratura
italiana", B. Latini, Tresor; G. Beltrami Squillacioti Torri e S. Vatteroni”
(Torino, Einaudi); A. D'Agostino, Itinerari e forme della prosa, in Storia
della letteratura italiana” (Roma, Salerno); Tresor. Beltrami, Squillacioti,
Torri, Plinio, Torino). Aggiunte (e una sottrazione) al censimento dei codici
delle versioni italiane del "Tresor”, Medioevo romanzo, La tradizione dei volgarizzamenti toscani del
Tresor con un'edizione critica della redazione alfa. Verona. Edizione del
volgarizzamento toscano. La colonna
posta dove è stata riscoperta la sua tomba, Santa Maria Maggiore; “Livres dou
Tresor” (Vineggia, per Gioan Antonio & fratelli da Sabbio, ad instanza di N.
Garanta & Francesco da Salo); Dizionario biografico degli italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Tesoretto. In G. Contini, Poeti del
Duecento, Ricciardi, Milano. A scuola con ser Brunetto. Indagini sulla
ricezione dal Medioevo al Rinascimento. Atti del convegno di studi, Basilea, I.
Maffia Scariati, Firenze, Galluzzo, D'Arco Silvio Avalle, Ai luoghi di delizia
pieni, Ricciardi, Milano, A. Carrannante, "Implicazioni dantesche:
Brunetto Latini (Inf. XV)", "L'Alighieri", Enciclopedia
dantesca, ad vocem, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, P. Fornari,
Dante e Brunetto, Co-Op, Varese, Poi in: Pro Dantis virtute et honore, Co-Op
Varese, L. Frati, Brunetto Latini
speziale, "Il giornale dantesco", F. Maggini, La «Rettorica» Latini,
Firenze, Galletti e Cocci, U. Marchesini, Due studi biografici, Atti
dell'Istituto Veneto", "La posizione del Latini nel canto XV
dell'Inferno dantesco"). Merlo, E se Dante avesse collocato Brunetto
Latini tra gli uomini irreligiosi e non tra i sodomiti?, "La cultura",
Poi in: Saggi glottologici e letterari, Hoepli, Milano, Fausto Montanari, "Cultura
e scuola", Antonio Padula, Il Pataffio, Dante Alighieri, Milano, Roma e
Napoli, Manlio Pastore Stocchi, Delusione e giustizia nel canto XV
dell'Inferno, "Lettere italiane"(poi in: Letture classensi, Longo, Ravenna; "Representations", R.
Santangelo, "Tutti cherci e litterati grandi e di gran fama": "Il
sogno della farfalla. Rivista di psicoanalisi", M. Scherillo, Alcuni
capitoli della biografia di Dante, Loescher, Torino Thor Sundby, Della vita e
delle opera (Monnier, Firenze); Alighieri Storia di Firenze Divina Commedia, Il
Favolello Il Tesoretto. Treccan Enciclopedie
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, sRegesta Imperii, su opac.regesta-imperii.de. Portal,
su florin.ms. G. Orto, L.. Tommaso Giartosio, Dante e Brunetto Latini. Tratto
da: Perché non possiamo non dirci. Letteratura, omosessualità, mondo,
Feltrinelli, Milano, Concordanze del libro del Tesoretto, su classicis tranieri,
Li livres dou trésor, ed. par Polycarpe Chabaille, Paris M. Giacomelli. La
rettorica. Qui comincia lo 'usegnamento di rettorica, lo quale è
ritratto in vulgare de' libri di Tullio e di molti filosofi per ser
Burnetto Latino da Firenze. Là dove è la lettera grossa si è il testo di
Tullio, e la lettera sottile sono le parole de lo sponitore. Incomincia il
prologo. Sovente e molto ò io pensato in me medesimo se la copia del
DICERE e lo sommo studio dell’ELOQUENZA àe fatto più bene o più male agl’uomini
et alle città. Però che quando considero li dannaggii del nostro comune e
raccolgo nell' animo l’antiche aversitadi delle grandissime città, veggio
che non picciola parte di danni v’è messa per uomini molto parlanti sanza
sapienza. Qui parla lo sponitore. RETTORICA èe SCIENZA di due manière. Una
la quale insegna dire, e di questa tratta Tulio nel suo saggio. L’altra
insegna dittare, e di questa, perciò che esso non ne trattò cosi del tutto
apertamente, si nne tratterà lo sponitore nel processo del saggio, in suo
luogo e tempo come si converrà. Rettorica s' insegna in due modi, altressì
come l’altre scienzie, cioè di fuori e dentro.Verbigrazia: Di fuori
s'insegna dimostrando che è rettorica e di che generazione, e quale sua
materia e lo suo officio e le sue parti e lo suo propio strumento e la
fine e lo suo artifice. Ed in questo modo tratta BOEZIO nel quarto della
Topica. Dentro s'insegna questa arte quando si dimostra che sia da
fare sopra LA MATERIA DEL DIRE e del dittare, ciò viene a dire come
si debbia fare lo exordio e la narrazione e L’ALTRE PARTI DELLA DICIERIA o
della pistola, cioè d'una lettera dittata. Ed in ciascuno di questi due modi ne
tratta Tulio in questo suo saggio. Ma in perciò che Tulio non dimostra che
sia rettorica né quale è '1 suo artefice, sì vuole lo sponitore per
più chiarire l'opera dicere l'uno e l'altro. Ed èe rettorica una scienzia DI
BENE DIRE, ciò è rettorica quella scienzia per la quale noi saperne ORNATAMENTE
dire e dittare. Inn altra guisa è così diffinita. Rettorica è scienzia di
ben dire sopra la causa proposta, cioè per la quale noi sapemo ornatamente
dire sopra la quistione aposta. Anco àe una più piena difiìnizione in
questo modo. Rettorica è scienza d'usare piena e PERFETTA ELOQUENZA nelle
publiche cause e nelle private. Ciò viene a dire scienzia per la quale noi
sapemo parlare pienamente e perfettamente nelle publiche e nelle private
questioni. E certo quelli parla pienamente e perfettamente che nella sua
diceria mette parole adorne, piene di buone sentenzie.
Publiche questioni son quelle nelle quali si tratta il
convenentre d'alcuna città o comunanza di genti. Private sono
quelle nelle quali si tratta il convenentre d'alcuna spiciale persona. E
ttutta volta è lo 'ntendimento dello sponitore che queste parole sopra '1
dittare altressì come sopra '1 dire siano, advegna che tal puote sapere
bene dittare che non àe ardimento o scienzia di profiferere le sue parole
davanti alle genti; ma chi bene sa dire puote bene sapere dittare.
Avemo detto che è rettorica, or diremo chi è lo suo artifice. Dico che è
doppio, uno è rector e l'altro è orator. Verbigi-azia. Rector è quelli che
'nsegna questa scienzia SECONDO LE REGOLE e comandamenti dell'arte.
Orator è colui che poi che elli àe bene appresa l'arte, sì l’usa
in dire ed in dittare sopra le questione apposte, sì come sono li
buoni parlatori e dittatori, sì come fue maestro Piero dalle Vigne, il quale
perciò fue agozetto di Federigo II imperadore di Roma e tutto sire di lui e
dello 'mperio. Onde dice Vittorino che orator, cioè lo parlatore, è uomo
buono e bene insegnato di dire, lo quale usa piena e perfetta eloquenza nelle
cause publiche e private. Ora àe detto lo sponitore che è rettorica, e del
suo artifice, cioè di colui che la mette in opera, l'uno insegnando
l'altro dicendo. Ornai vuole dicere chi è l'autore, cioè il trovatore di
questo saggui, e che fue LA SUA INTENZIONE in questo saggio, e di che tratta, e
la cagione per che lo saggio è composto e che utilitade e che tittolo à
questo saggio. L' autore di questa opera è doppio. Uno che di tutti
i detti de' filosofi che fuoro davanti lui e dalla viva fonte del suo
ingegno fece suo libro di rettorica, ciò fue Marco Tulio Cicerone, il più
sapientissimo de' romani. Il secondo è Brunetto de’ Latini, cittadino di
Firenze, il quale mise tutto suo studio e suo intendimento ad isponere e
chiarire ciò che Tulio dice. Ed esso è quella persona cui questo saggio
appella sponitore, cioè ched ispone e fae intendere, per lo suo propio detto e
de' filosofi e maestri che sono passati, il saggio di Tulio, e tanto più quanto
all'arte bisogna di quel che fue intralasciato nel saggio di Tulio, sì
come il buono intenditore potràe intendere avanti. La sua intenzione
fue in questa opera dare insegnamento a colui per cui amore e' si mette a fare
questo trattato de parlare ornatamente sopra ciascuna questione
proposta. Et e' tratta secondo la forma del saggio di CICERONE di tutte
le parti generali di rettorica. Verbigrazia. L’invenzione, cioè, il trovamento
di ciò che bisogna sopradire alla materia proposta; e dell'altre iiij° secondo
che sono nel secondo saggio che CICERONE fa ad Erennio suo amico, sopra le
quali il conto dirà ciò che ssi converrà. La cagione per che questo saggio
è fatto si è cotale, che Latini, per cagione della guerra la quale
fue traile parti di Firenze, fue isbandito della terra quando la sua parte
guelfa, la quale si tenea col papa e colla chiesa di Roma, fue cacciata e
sbandita della terra. E poi si n'anda in Francia per procurare le sue
vicende, e là trova uno suo amico della sua città e della sua
parte, molto ricco d'avere, ben costumato e pieno de grande
senno, che Ili fece molto onore e grande utilitade, e perciò l'apella suo
porto, sì come in molte parti di questo saggio pare apertamente; et era
parlatore molto buono naturalmente, e molto disidera di sapere ciò che' savi
aveano detto intorno alla rettorica; e per lo suo amore Latini, lo quale
era l)uono intenditore di lettera et era molto intento allo studio di
rettorica, si mette a fare questo saggio, nella quale mette innanzi il
testo di Tulio per maggiore fermezza, e poi mette e giugne di sua
scienzia e dell'altrui quello che fa mistieri. L' utilitade di
questo saggio è grandissima, però che ciascuno che sa bene ciò che
comanda lo libro e l'arte, sì sa dire interamente sopra la questione
apposta. E in questo punto si parte elli da questa materia e ritorna al
propio intendimento del testo. In questa parte dice lo sponitore che
CICERONE, vogliendo che rettorica fosse amata e tenuta cara, la quale al
suo tempo e avuta per neente, mise davanti suo prolago in guisa di bene savi,
nel quale purga quelle cose che pareano a lui gravose. Che si come dice BOEZIO
nel commento sopra la Topica, chiunque scrive d'alcuna materia dee prima
purgare ciò che pare a lui che sia grave; e così fa CICERONE, che purga
tre cose gravose. Primieramente i mali che veniano per copia di dire. Apresso
la sentenza di Platone, e poi la sentenza d'Aristotele. La sentenza di Platone e
che rettorica non è arte, ma è NATURA per ciò che vede MOLTI BUONI
DICITORI PER NATURA e non per insegnamento d'arte. La sentenza
d'Aristotile fa cotale, che rettorica è ARTE, ma REA, per ciò che per eloquenza
parca che fosse a venuto più male che bene a' comuni e a' divisi. Onde CICERONE
purgando questi tre gravi articoli procede in questo modo. Che in prima
dice che sovente e molto ae pensato che effetto proviene d'eloquenza.
Nella seconda parte pruova lo bene e '1 male chende venia e qual più.
Nella terza parte dice tre cose. In prima , dice che pare a lui di
sapienzia; apresso dice che pare a lui d' eloquenzia. E poi dice che pare
a lui di sapienza ed eloquenzia congiunte insieme. Nella quarta parte sì
mette le pruove sopra questi tre articoli che sono detti, e conclude che
noi dovemo studiare in rettorica, recando a ciò molti argomenti, li quali
muovono d' onesto e d' utile e lo possibile e necessario. Nella quinta
parte mostra di che e come egli tratta in questo saggio. E poi che nel
suo cuminciamento dice come molte fiate e lungo tempo pensa del bene e
del male che fosse advenuto, immantenente dice del male
per accordarsi a' pensamenti delli uomini che si ricordano più d'uno
nuovo male che di molti beni antichi; e cosi Tulio, mostrando di non
ricordarsi delli antichi beni, s' infigne di biasraare questa scienzia per
potere più di sicuro lodare e difendere. E per le sue propie parole che
sono scritte nel testo di sopra potemo intendere apertamente che in
queste medesime parole ove dice che i mali che per eloquenza sono advenuti e
che non si possono celare, in quelle medesime la difende abassando e
menimando la malizia. Che là dove dice dannaggi si suona che siano lievi
danni de' quali poco cura la gente. E là dove dice del nostro comune
altressì abassa del male, acciò che più cura l'uomo del propio danno che del
comune; e dicendo NOSTRO comune intendo ROMA, però che Cicerone e cittadino di
Roma nuovo e di non grande altezza; ma per lo suo senno fue in sì
alto stato che TUTTA ROMA si tenea alla sua parola, e fue al tempo
di Catellina, di Pompeio e di Giulio Cesare, e per lo bene della terra fue al
tutto contrario a Catellina. Et poi nella guerra di Pompeio e di Giulio
Cesare si tenne con Pompeio, sicome tutti ' savi eh' amano lo stato
di Roma. E forse l'appella nostro comune però che ROMA èe capo del
mondo e comune d'ogne uomo. Et là dove dice l'antiche adversitadi
altressì abassa il male, acciò che delli antichi danni poco curiamo. Et
là dove dice grandissime cittadi altressì abassa '1 male, però che,
sì come dice il buono poeta LUCANO, non è conceduto alle grandissime
cose durare lungamente; e l'altro dice che le grandissime cose rovinano. E così
non pare che eloquenza sia la cagione (iel male che viene alle
grandissime città. E là dove dice che danni sono advenuti per nomini
molto parlanti 'sanza sapienza, manifestamente abassa '1 male e difende
rettorica, dicendo che '1 male è per cagione di molti parlanti ne'
quali non regna senno. E non dice che il male sia per eloquenza, che
dice Vittorino. Questa parola eloquenza suona bene. E del bene non puote male nascere.
Questo è bello colore rettorico, difendere quando mostra di biasmare ed accusax'e
quando pare che dica lode. E questo modo di parlare àe nome INSINUAZIONE, O
IMPLICATURA, del quale dice il saggio in suo luogo. Et qui si parte il
conto da quella prima parte del prologo nella quale CICERONE dice il suo
pensamento ed dice li mali avenuti, e ritorna alla seconda parte nella
quale dimostra de' beni che sono pervenuti per eloquenza. Sì come quando
ordino di ritrarre dell'anticiie scritte le cose che sono fatte lontane
dalla nostra ricordanza per loro antichezza, intendo che eloquenza
congiunta con ragione d'animo, cioè con sapienza, piìie agevolemente àe potuto
conquistare e mettere inn opera ad edifficare cittadi, a stutare molte
battaglie, fare fermissime compagnie et anovare santissime amicizie. Poi che Cicerone
divisa li mali che sono per eloquenza, sì divisa in questa parte li beni, e CONTA
PIU BENI CHE MALI perciò che più intende alle lode. E nota che dice son messe ordinatamente
acciò che prima si raunaro gli uomini in- sieme a vivere ad una ragione
et a buoni costumi et a multiplicare d' avere ; e poi che furo divenuti
ricchi montò tra lloro invidia e per la 'nvidia le guerre e le battaglie.
Poi li savi parladori astutaro le battaglie, et apresso gl’uomini fecero
compagnie usando e mercatando insieme; e di queste compagnie cuminciaro a
ffare ferme amicizie per eloquenzia e per sapienzia. 3. Ma ssi come dice
e signifficano queste parole, per più chiarire l'opera è bene convenevole
di dimostrare qui che è cittade e che è compagno e che è 15. amico
e che è sapienzia e che è eloquenzia, perciò che Ilo sponitore non vuole
lasciare un solo motto donde non dica tutto lo 'ntendimento. Che è
cittade. Cittade èe uno raunamento di gente fatto per vivere a ragione;
onde non sono detti cittadini 20. d'uno medesimo comune perchè
siano insieme accolti dentro ad uno muro, ma quelli che insieme sono acolti a
vivere ad una ragione. Che è compagno. Compagno è quelli che per
alcuno patto si congiugne con un altro ad alcuna cosa fare; e di questi
dice Vittorino che se sono fermi, per eloquenzia poi divegnono
fermissimi. Che è amico. Amico è quelli che per uso di simile vita
si congiugne con un altro per amore insto e fedele. Verbigrazia: Acciò che
alcuni siano amici conviene che siano d'una vita e d'una costumanza, e
però dice «per uso di simile vita » ; e dice « giusto amore » perchè non
sia a cagione di luxuria o d' altre laide opere ; e dice « fedele
i'-in compimento dell'altre parole ecc. Jf' cioè hediDcar .»/
aslroppiarc, m a storpiare caunano, corretto poi in raunarono — Af ad
avere una ragione, m "al avere una medesima ragione M l'uno, -If'
fuor {cfr. Tesor., vii, 54) — il' montò loro M-m parlando anno attutato -
le guerre — il.' M forme amicitio, »» forme d'amie— i^:mdichono— i^.- m
dimostrare quello — io.- Af' 7 che sapientla 7 che eloq. .»/' volle
intralasciare de genti — V-m raccolti - SI: m rachollì - 25: M son — S7 :
M-m che è coiiipannia — M' si i> — 28 : .V ad un altro — 3U' por- ciò
— 31 . .tf ' conduco insto am. fcerlo per scambio dell'abbreviatura di et con
quella di con) U ad altre amore » perchè non sia per gnadagneria o solo per
utilitade, ma sia per constante vertude. Et cosi pare manife- mente che
quella amistade eh' è per utilitade e per dilet- tamento nonn è verace,
ma partesi da che '1 diletto e l'uttilitade menoma. Che è sajoiemia.
Sapienzia è comprendere la verità delle cose si come elle sono. Che
è eloquenzia. Eloquenzia è sapere dire addome parole guernite di buone
sentenzie. 10. TnUio. Et così me lungamente pensante la ragione
stessa mi mena in questa fermissima sentenza, che sapienzia sanza
eloquenzia sia poco utile a le cittadi, et eloquenzia sanza sapienza è
spessamente molto dampnosa e nulla fiata utile. Per la qual cosa, se
alcuno in- l.ó. tralascia li dirittissimi et onestissimi studii di
ragione e d'officio e consuma tutta sua opera in usare sola parladura,
cert' elli èe citta- dino inutile al sé e periglioso alla sua cittade et
al paese. Ma quelli il quale s' arma sie d'eloquenzia che non possa
guerriere contra il bene del paese, ma possa per esso pugnare, questo mi
pare uomo e 20. cittadino utilissimo et amicissimo alle sue (>)
et alle publiche ragioni. Lo sponitore. Poi che CICERONE ha
dette le prime due parti del suo prologo, si comincia la III parte, nella
quale dice tre cose. Imprima dico che pare a llui di sapienzia, infino là
dove 25. dice : « Per la qual cosa ». Et quivi comincia la seconda,
nella quale dice che pare a llui d'eloquenzia, infino là ove dice : « Ma
quello il quale s' arma ». Et quivi comincia la terza, ne la quale dice
che pare a llui dell'una e dell'altra giunte insieme.
3: M' om. e — 4: M- pdesi — m diloclamento 7 l'util., .tf' l'utilitade 1
diloclo — 8-9: .»/ ad ongno parole, m ogni paroleM-m om. sia.... sapienza
— i-J : M' om. molto ^ i5: M-m lassa indireotissimi (m idireuissimi) —
IG: M-m sola la parlatura — 18: 3l-m sama — .)/ giuriare, m ingiuriare —
Ì9-20.- .1/ luiomo cittadino, »i mi pare cittadino — .V-»i a' suoi — .?3
• .1/ conincìa — S4 : M insini, .)/' inlìn là ove (cfr. Tcsnr.. xi, 1074) —
So: yr-ìii dice jiarla — M-m qui - 26: M insino — m là dove —M-m la (|ual
dice. (1) Questa lezione è oonfennata dal § 5 del coniuiento: «
utile a ssè et al suo paese. Onde dice Vittorino: Se noi volemo mettere
avac- ciamente in opera alcuna cosa nelle cittadi, sì ne conviene
avere sapienzia giunta con eloquenzia, però che sai)ienzia sempre è
tarda. Et questo appare manifestamente in alcuno V 5. savio che non sia
parlatore, dal quale se noi domandassimo uno consiglio certe noUo darebbe
tosto cosìe come se fosse bene parlante. Ma se fosse savio e parlante
inmantenente ne farebbe credibile di quel che volesse. 3. Et in ciò che
dice Tulio di coloro che 'ntralasciano li studii di ragione e d' officio,
intendo là dove dice « ragione » la sapienzia, e là dove dice « officio »
intendo le vertudi, ciò sono prodezza, giustizia e l'altre vertudi le
quali anno officio di mettere in opera che noi siamo discreti e giusti e
bene costumati. Et però chi ssi parte da sapienzia e da le vertudi e
studia 15. pure in dire le parole, di lui adviene cotale frutto
che, però che non sente quel medesimo che dice, conviene che di lui
avegna male e danno a ssè et al paese, però che non sa trattare le propie
utilitadi uè Ile (i) comuni in questo tempo e luogo et ordine che
conviene. 5. Adunque colui che ssi mette 1' arme d' eloquenzia è utile a
ssè et al suo paese. Per questa arme intendo la eloquenzia, e per
sapienzia intendo la forza; che sì come coli' arme ci difendiamo
da' nemici e colla forza sostenemo 1' arme, tutto altressì per eloquenzia
difendemo noi la nostra causa dall'aversario 2.5. e per sapienzia
ne sostenemo (2) di dire quello che a noi potesse tenere danno. Et in
questa parte è detta la terzia parte del prologo di Tulio. 6. Dunque vae
il conto alla quarta parte del prologo, per provare ciò eh' è detto
da- vanti et a conducere che noi dovemo studiare in rettorica
i : M Lande — M' avacciatamente, ma L avacciamente — S: m si cci
conv. — 0; m ODI. cosio, M e' noi darebb»; cos'i tosto M' credibile
quello, m di quello — .)/' disse — 10: .Vi om. il 2' & — 12: .»/' et
altro — 13: .»f' che non siano — i4.- .V-m dall'altre ver- tufli — 15:m
adiviene — 16 : jn a lini : solo L nelle
; (jli altri mss. e S nelli (.)/' nel!) -- 19: M Adunque che colui — 22:
M-m torma — M ne dil'ondono, m noi ci difendiamo — 23: il l'armi - 23-24:
Af difendo — m così altresì la eloquenzia difendo noi dal nostro
aversario la nostra cliausa — 25: m om. ne; S non sostenemo — 26: m a noi
potesse ave- jjire (li danno, .V che noi potessimo tenere danno — 28-29:
m dinanzi e; Jfi om. et. (1) Cos'i richiede il senso; la lezione
nelli ò nata certamente dall'aver preso l'aggettivo comuni per un
sostantivo. (2) Intendo ne sostenemo = « ci tratteniamo, ci
asteniamo », coni' è richiesto dal senso e secondo gli esempii citati dal
Vocabolario della Crusca. per avere eloquenzia e sapienzia: e sopra ciò
reca Tulio molti argomenti, li quali debbono e possono così essere,
e tali che conviene che sia pur così, e di tali eh' è onesta cosa
pur di cosi essere ; e sopra ciò ecco il testo di Tulio CICERONE in
lettera grossa, e poi seguisce la disposta in lettera sot- tile secondo
la forma del libro. Tullio CICERONE. Dunque se noi volemo considerare
il principio d'eloquenzia la quale sia pervenuta in uomo per arte o per
studio o per usanza lo. per forza dì natura, noi troveremo che sia
nato d'onestissime cagioni e che ssia mosso d'ottima ragione, (e. li)
Acciò che fue un tempo che in tutte parti isvagavano gli uomini per li
campi in guisa di bestie e conduceano lor vita in modo di fiere, e
facea ciascuno quasi tutte cose per forza di corpo e non per
ragione l.j. d'animo; et ancora in quello tempo la divina religione
né umano officio non erano avuti in reverenzia. Neuno uomo avea veduto
le- gittimo managio, nessuno avea connosciuti certi figliuoli, né
aveano pensato che utilitade fosse mantenere ragione et agguallianza. E
così per errore e per nescìtade la cieca e folle ardita signorìa
dell'animo, cioè la cupìditade, per mettere in opera sé medesima misusava
le forze del corpo con aiuto dì pessimi seguitatori. Lo
sponitore. In questa parte del prologo vogliendo Tulio CICERONE dimostrare
che ELOQUENZA nasce e muove jper cagione e 2.5. per ragione ottima
et onestissima, sì dice come in alcuno tempo erano gli uomini rozzi
e nessci come bestie; e del- 3: ìl-m tale — .1/' jdii' che
cosi sia - 4 : m pure ili dovere così essere-, .1/' de pur essere — .5 J/
' la spositione — 9-tO: .»/' o per l'orca di natura o per usanca — H: m
d'ottime chagioni 7 ragione — 12: il-m in tempo — 13: it^ lor vita per li
campi in modo de bestie 7 de fiere — 14: i/' om. e [non p. r.| —M
maritaggio — M iihylosofi, m lilo- safi — 18: M j gualianoa - 19: il^-L
ignoranza, m necessitade — .»A' la cieca la folle 7 ardita — 20: M-m per
mette — M-m (fuivi susavano, l. masusavano — 21:31' seguitori — 23: M-1U
nm. quarta — 24: m om. e per ragione — 26: il' nefa, m noscii. l'uomo
dicono li filosofi, e la santa scrittura il conferma, che egli è
fermamento di corpo e d' anima razionale, la quale anima per la ragione
eh' è in lei àe intero conoscimento delle cose. 2. Onde dice Vittorino:
Sì come menoma la forza 5. del vino per la propietade del vasello nel
quale è messo, cosie r anima muta la sua forza per la propietade di
quello corpo a cui ella si congiunge. Et però, se quel corpo è mal
di- sposto e compressionato di mali homori, la anima per gra- vezza
del corpo perde la conoscenza delle cose, sì che appena puote discernere
bene da male, sì come in tempo passato neir anime di molti le W quali
erano agravate de' pesi de' corpi, e però quelli uomini erano sì falsi
et indiscreti che non conosceano Dio né lloro medesimi. Onde
misusavano le forze del corpo uccidendo l'uno l'altro, tol- 15.
liendo le cose per forza e per furto, luxuriando malamente, non
connoscendo i loi'o proprii figliuoli né avendo legittime mogli. Ma tuttavolta
la natura, cioè la divina disposi- zione, non avea sparta quella
bestialitade in tutti gli uomini igualmente; ma fue alcuno savio e molto bello
dici- 20. tore il quale, vedendo che gli uomini erano acconci a
ragionare, usò di parlare a lloro per recarli a divina conno- scenza,
cioè ad amare Idio e '1 proximo, sì come lo sponi- tore dicerà per
innanzi in suo luogo; e perciò dice Tulio nel testo di sopra che
eloquenzia ebbe cominciamento per 25. onestissime cagioni e
dirittissime ragioni, cioè per amare Idio e '1 proximo, che sanza ciò l'
umana gente non arebbe durato. 4. Et là dove dice il testo che gli uomini
isvaga- vano per li campi intendo che non aveano case né luogo,
1: M' i figluoli (corretto poi lilosofi) — M' sucra — S : M' eh
ehi ì\ l'ormato — 3: in- tero è in M'-L; il lùlo (incerto?), m inerito —
4: M Ondee — 7 : m al (|uale — 8: M-m mali hiiomini — 9: m per la
gravezza — .«' de corpo iO: M bone dal mali', hi il bone dal male — il:
M'-L animo — .V-m i quali erano agravate, M'-L li quali orano aggravati — i2: W
del peso de corpi, L de' pesi del corpo V in lor medesimo — 14: lU-m Ivi
susavano — 18: M-m nonn ào — M bestilitade — 10: M' oiii. savio o — SI: W
tralloro — 23: M' qa\ dinanzi - S4: W e cornine, >S ha cornine. — 26-27: »l'
non averla durata, L non avrìa durato — i« K colà. (1) È
lezione congetìurale, ma l'unica possìbile : le quali si cambiò
facilmente in li quali (o i quali) per effetto del molti che precedeva, e
da li quali, natural- mente, venne in M'-L anche il maschile angraoati
invece di aggravate. Che si tratti solo delle animo risulta da tutto il
periodo, e in particolare dallo parole - la anima per gravezza del corpo
». ma andavano qua e là come bestie. 5. Et là dove dice che
viveano come fiere intendo che mangiavano carne cruda, erbe crude et
altri cibi come le fiere. 6. Et là dove dice « tutte cose quasi faceauo
per forza e non per ragione » 5. intendo che dice « quasi » che non
faceano però tutte cose per forza, ma alquante ne faceano per ragione e
per senno, cioè favellare, disidejare et altre cose che ssi muovono
dall' animo. Et là dove dice che divina religione non era reverita
intendo che non sapeano che Dio (D fosse. Et là dove dice dell' umano
ofiìcio intendo che non sa- peano vivere a buoni costumi e non conosceano
prudenzia né giustizia né l'altre virtudi. Et là dove dice che non
mauteneano ragione intendo « ragione » cioè giustizia, della quale dicono
i libri della legge che giustizia è perpetua e 15. ferma volontade
d'animo che dae a ciascuno sua ragione. Et là dove dice « aguaglianza »
intendo quella ragione che dae igual i)ena al grande et al piccolo sopra
li eguali fatti. Et là doye dice « cupiditade » intendo quel vizio
eh' è contrario di temperanza; e questo vizio ne -conduce 20. a
disidei-are alcuna cosa la quale noi non dovemo volere, et inforza nel
nostro animo un mal signoraggio, il quale noi permette rifrenare da' rei
movimenti. 12. Et là dove dice « nescitade » intendo eh' è nnone
connoscere utile et inutile; e però dice eh' è cupidità cieca per lo non
sapere, 25. e che non conosce il prode e '1 danno. 13. Et là dove
dice « folle ardita » intendo che folli arditi sono uomini matti e
ratti a ffare cose che non sono da ffare. 14. Et là dove dice « misusava
le forze del corpo » intendo misusare cioè i-2: M-m om. Et
là.... come licre — 3 : M erbi ciiiili, .1/' 7 erbe crude — 4-6: m l'a-
ceano quasi per forza; poi, saltando al 2° forza, continua: ma al([uanle ecc. —
7: .i/'-L dice quasi perciò ke ne faciano | tutte cose per forza 7 non
per ragione intendo Ice dice quasi, ma alquante ne faceano M' che muovono
— 9: M-m chi idio — 11: .1/' ne prudenza — 14: m' de legge — 14-15: m'
ferma 7 perpetua voluntà — /": .1/ egual — 18: M' mìsfacti — M
lae — .V quello e poi rasura su cui altra mano scrisse apetito, t quello
che contrario, S quello appetite V om. noi - 22: M-m non permette M-m
necessilade, .V ignoranza che non conosce il prode ol danno ~ m intendo
che non è — m dal danno — 27: .M-m e tratti, L orati — 2é?: J/ emusavano,
jiiemisusavano — .u misusere, .V' misure, L misusare — m che misusare è
usare. Cioè « che Dio esistesse ». Così mi par preferibile per il senso; e
la lezione di M-m è facilmente spiegabile da un che Mio diventato eh'
idio, chi dio; è vero però che le ragioni paleografiche varrebbero anche
per il caso inverso. usare in mala parte ; che dice Vittorino che forza
di corpo ci è data da Dio per usarla in fare cose utili et oneste,
ma coloro faceano tutto il contrario. Ora à detto lo sponi- tore
sopra '1 testo di Tulio le cagioni per le quali eloquenzia cominciò a parere.
Omai dicerae in che modo appario e come si trasse innanzi. Nel quale
tempo lue uno uomo grande e savio, il quale cognobbe che materia e quanto
aconciamento avea nelli animi delli uomini a grandissime cose chi Ili
potesse dirizzare e megliorare per comandamenti. Donde costrinse e raunò
in uno luogo quelli uomini che allora erano sparti per le campora e
partiti per le nascosaglie silvestre ; et inducendo loro a ssapere le cose
utili et oneste, tutto che alla prima paresse loro gravi per loro
disusanza, poi T udirò 15. studiosamente per la ragione e per bel
dire; e ssì Ili arecò umili e mansueti dalla fierezza e dalla crudeltà
che aveano. Lo sjaonitore. 1. In questa i)arte vuole
Tulio dimostrare da cui e come cominciò eloquenzia et in che cose ; et è
la tema cotale 20. In quel tempo che Ila gente vivea così
malamente, fue un uomo grande per eloquenzia e savio per sapienzia, il
quale cognobbe che materia, cioè la ragione che l' uomo àe in sé
naturalmente per la quale puote l' uomo intendere e ragio nare, e
l'acconciamento a fare grandissime cose, cioè a ttenere i)ace et amare
Idio e '1 proximo, a ffai-e cittadi, castella e magioni e bel costume, et
a ttenere iustitia et a vivere ordinatamente se fosse chi Ili potesse
dirizzare, cioè ritrarre da bestiale vita, e mellioi-are per
comanda- menti, cioè per insegnamenti e per leggi e statuti che Ili
2: M' om. ci — 3-4: M-iii Or o della la sposilione — 5: M-m
loninciò (hi coro). 7 pare — M' oggimai — 6: M-m apparve — 8: il' uno
buono — iO: 31' adrinure — 12: M-m per campora — 12-13: M-w le nascose
selve 13: M-m et facciendo loro as- sapere — 14: M' grave - L'i: M' si Hi
recò — 16: M' crudelilà — 23: M-m nm. l'uomo — 24 : M-m el lo
ncomincianiento, L el chominciamenlo — 25: M'el ad amare ~ 26: M'
7datener — 27: M' chi le polesse adrifrure - m om. potesse — 28: M' enirare da
b. v. afrenasse (1). 2. Et qui cade una quistione, che
potrebbe alcuno dicere: « Come si potieno melliorare, da che non
erano buoni? >. A cciò rispondo che naturalmente era la ragione
dell'anima buona; adunque si potea migliorare nel 5. modo eh' è detto. 3.
Donde questo savio costrinse - e dice che i « costrinse » però che non si
voleano raunare - e raunò - e dice « raunò » poi che elli vollero. Che '1
savio uomo fece tanto per senno e per eloquenzia, mostrando belle
ragioni, assegnando utilitade e metendo del suo in 10. dare
mangiare e belle cene e belli desinari et altri piaceri, che ssi raunaro
e patiero d'udire le sue parole. Et elli in- segnava loro le cose utili
dicendo: « State bene insieme, aiuti l'uno l'altro, e sarete sicuri e
forti; fate cittadi e ville *. Et insegnava loro le cose oneste dicendo :
« Il pic- 15. colo onori il grande, il figliuolo tema il suo padre
» etc. Et tutto che, dalla prima, a questi che viveano bestial-
mente paresser gravi amonimenti di vivere a ragione et ad ordine, acciò
eh' elli erano liberi e franchi naturalmente e non si voleano mettere a
signoraggio, poi, udendo il bel dire 20. del savio uomo e
considerando per ragione che larga e li- bera licenzia di mal fare
ritornava in lor gi"ave destruzione et in periglio de l'umana
generazione, udirò e miser cura a intendere lui. Et in questa maniera il
savio uomo li ri- trasse di loro fierezza e di loro crudeltade - e dice «
fierezza » perciò che viveano come fiere; e dice « crudeltade » perciò
che '1 padre e '1 figliuolo non si conosceano, anzi uccidea l'uno l'altro
- e feceli umili e mansueti, cioè vo- lontarosi di ragioni e di virtudi e
partitori (2) dal male. 1 : m rafrenasse, S affrenassono —
J/ " Et acade, L e ecci una (\. — 2 : il poneno (cerio per falsa
lettura di potieno; cfr. Wiese in Zeilsch. f. Rom. Pini., VII, 330, g i33), m
il' poteano — 4: m dunque — 6: it-iii om. che i — 9: W l'utilitade — i^l'
metendo '1 suo - 10: m mangiare cene e desinari 19: il sottomettere —
20-23: it-m om. e considerando.... il savio uomo — 23-24: m si ritrassono
— 24: il lore fier., M' lor fior, — me dalloro crud. — 24-25: H-m om. e
dice.... crudeltade — 26: il' e li figluoli (ma L el figliuolo) - 28: il'
partito, l. e'dipirtironsi, s partiti. (1) Parrebbe preferibile la
lezióne di &'; ma è significativo il fatto che tutti i mss. abbiano
il singolare. Invece di condannarlo come corruzione comune, basta pensare
che sostantivi astratti come « insegnamenti, leggi e statuti » siano con-
siderati formanti un complesso unico, sì da farli equivalere al singolare
(p.es. «ciò»); e quest'uso del verbo è attestato da un altro passo di
Brunetto, IO, 3, e dal Varchi, Ercolano, ediz. Bottari (Firenze Senza
ricorrere ai facili accomodamenti, conservo la lezione di M inten- dendo
« partitore » in senso riflessivo : « colui che si parte, che si allontana ».
Cfr. Manuzzi. Or à detto CICERONE chi cominciò eloquenzia et intra
cui e come; or dicerà per che ragione, eanza la quale non potea ciò
fare. Tullio. Per la qual cosa pare a me che Ha
sapienzia tacita e povera di parole non arebbe potuto fare tanto,
che così subitamente fossero quelli uomini dipartiti dall'antica e lunga
usanza et informati in diverse ragioni di vita. Lo
sponitore. In questa parte dice Tulio la ragione sanza la quale
non si potea fare ciò che fece '1 savio uomo; e dice sapienzia tacita quella
di coloro che non danno insegnamento per parole ma per opera, come fanno '
romiti. Et dice « povera di parole » per coloro che '1 lor senno
non sanno addornar di parole belle e piene di sentenze a ffar
credere ad altri il suo parere. Et per questo potemo intendere che picciola
forza è quella di sapienzia s'ella nonn è congiunta con eloquenzia, e
potemo connoscere che sopra tutte cose è grande sapienzia congiunta con
eloquenzia. Et là dove dice « così subitamente » intendo che quello
savio uomo arebbe bene potuto fare queste cose per sapien- zia, ma non
cosi avaccio né così subitamente come fece abiendo eloquenzia e
sapienzia. Et là dove dice « in di- verse ragioni di vita » intendo che
uno fece cavalieri, un 25. altro fece cherico, e così fece d'altri
mistieri. Tullio. 7. Et così, poi che Ile cittadi e le
ville fuoron fatte, impreser gli uomini aver fede, tener giustizia et
usarsi ad obedire l'uno l'altro per propia volontarie et a sofferire pena
et affanno non solamente 2 : M-m om. e come — sanza (luale —
5: M-m Per ((ualcosa - 7 : M' luioniiiii quelli — 13: M' i romiti, m li
romiti — 14: M-m alloro senno, L in loro senno — i7: M-m om. che — i9: M'
giunta — 22: Af' si avaccio — 23: M-m om. e sapienzia — 28: m ad avere
lede 7 tenere.... adusarsi — M l'uno a l'altro. A qualcuno e sapienzia
potrà sembrare un'aggiunta arbitraria; ma siccome non è inutile,
preferisco mantenerlo. per la comune utilitade, ma voler morire per essa
mantenere. La qual cosa non s'arebbe potuta fare d) se gli uomini non
avessor po- tuto dimostrare e fare credere per parole, cioè per
eloquenzia, ciò che trovavano e pensavano per sapienzia. 8. Et certo chi
avea forza e 5. podere sopra altri molti non averla patito divenire pare
di coloro ch'elli potea segnoreggiare, se non l'avesse mosso sennata e
soave parladura; tanto era loro allegra la primiera usanza, la quale
era tanto durata lungamente che parea et era in loro convertita in
natura. Donde pare a me che così anticamente e da prima nasceo e mosse eloquenzia,
e poi s'innalzò in altissime utilitadi delli uo- mini nelle vicende di
pace e di guerra. Lo sponitore. I. In questa parte dice
Tulio che cciò che sapienzia non avrebbe messo in compimento per sé sola,
ella fece 15. avendo in compagnia eloquenzia; e però la tema èe
cotale: Si come detto è davanti, fuoro gli uomini raunati et inse-
gnati di ben fare e d'amarsi insieme, e però fecero cittadi e ville; poi
che Ile cittadi fuor fatte impresero ad avere fede. Di questa parola
intendo che coloro anno fede che 20. non ingannano altrui e che non
vogliono che lite né di- scordia sia nelle cittadi, e se vi fosse sì la
mettono in pace. Et fede, sì come dice un savio, è Ila speranza della
cosa promessa; e dice la legge che fede è quella che promette l'uno
e l'altro l'attende. Ma Tulio medesimo dice in un altro libro delli offici
che fede è fondamento di giiistizia, veritade in parlare e fermezza delle
promesse; e questa ée quella virtude eh' é appellata lealtade. E così
sommata- mente loda Tulio eloquenzia con sapienzia congiunta, che
2: ilf'-£ potuto - M' om. non — 4: Jlf> Certo — 5: M-m vinavea
charebbono potuto divenire paii — 6: M-m chelli poteano, M^-L cui potea —
M-m santa — 7: M^-L allegrezza — 8-9 : M era converita la loro natura, m
era convertila in loro natura — 9 : m onde — 14-15: M^ il fece in
compagnia d'eloquentia.... si ò cotale —M-m detto oe dinanci 19: 3/'
fede, 7 di q. p. — PO : M^ om. e o discordia — 21-22: M-m in pace et in
fede — m om. è - 23: M^ quello, ma L quella — 26: M-m et intermezza — M'
de- lenpromesse — 27: M legheltade (?«a cfr. Texor., XVII, 15) — M
somatamente, m asommatam. congiunta con sapienzia. (1) Sarà
certo da legger così, e non sarebbe si sarebbe, poiché di quest'uso dell'
ausiliare avere presso gli antichi non mancano esempli sicuri : cfr. la
nota di M. Barbi nella sua ediz. della Vita Nuova, 2, e ciò che aggiunse
il Parodi in Bullett. della Soc. Bant., N. S., XXI, 67-68. Lo stesso si
dica per s'areb- hono del commento, sanza ciò le grandissime cose non
s'arebbono potute met- tere in compimento, e dice che poi àe molto de ben
fatto in guerra et in pace. Et per questa parola intendo che tutti
i convenenti de' comuni e delle speciali persone corrono per due stati o
di pace o di guerra, e nell' uno e nell'altro bi- sogna la nostra
rettorica sì al postutto, che sanza lei non si potrebbono
mantenere. Tullio. Ma poi che Ili uomini, malamente seguendo
la vìrtude sanza 10. ragione d'officio, apresero copia di parlare, usaro
et inforzaro tutto loro ingegno in malizia, per che convenne che ile
cittadi sine gua- stassero e li uomini si comprendessero di quella
ruggine, (e. Ili) Et poi che detto avemo la cumincianza del bene,
contiamo come cuminciò questo male. Poi che CICERONE avea detto
davanti i beni che sono advenuti per eloquenzia, in questa parte dice i
mali che sono advenuti per lei sola sanza sapienzia; ma perciò che
Ila sua intentione è più in laudarla, sì appone elli il male a coloro che
Ila misusano e non a Ilei. 2. Et sopra ciò la tema è cotale: Furono
uomini folli sanza discrezione, li quali, vegga ndo che alquanti erano in
grande onoranza e montati in alto stato per lo bell.o parlare ch'usavano
se- condo li comandamenti di questa arte, sì studiaroO solo
in parlare e tralasciare lo studio di sapienzia, e divennero sì
copiosi in dire che, per l'abondanza del molto parlare sanza condimento
di senno, che (2) cumìnciaro a mettere cioè — 2: M-in che
poi {ni, om. poi) a molli a Dio ben facto — -J: M om. duri stali — i 1 : M conviene,
M' conveiiia — IS: M-m om. e li uomini si compren- dessero — 13: M \a
cunincianza (e cluininciò)3/' il cuminciamento — 16: m ave... dinanzi
— 18: M^ dopo advenuti ripete per eloquenlia in quesUi parte (ma ri son
trticiie di etpun- zione) — 19: m om. elli — 20: M El perciii — 24: M' il
comandamento.... studiavano — 25 : ilf intralassai-o, m e lasciaro
- 20: M' de molto — m om. elio. (1) Invece di si studiavo credo
preferibile studiavo in senso assoluto, come già si è trovato, 3, § e
studia puro in dire le parole. Sintatticamente questo che ò pleonastico; ma ò
attestato da ambedue le famiglie di codici e non costituisce una rarità
per il nostro volgare antico (anzi, per Brunetto stesso, cfr. IO, 1:
avegna che ma tutta volta). sedizione e distruggi mento nelle
cittadi e ne' comuni et a corrompere la vita degli uomini; e questo
divenia però ch'ellino aveano sembianza e vista di sapienzia, della
quale erano tutti nudi e vani. 3. Et dice Vittorino che eloquenzia
5. sola èe appellata « la vista », perciò che ella fae parere che
sapienzia sia in coloro ne' quali ella non fae dimoro. Et queste sono
quelle persone che per avere li onori e F utti- litadi delle comunanze
parlano sanza sentimento di bene; così turbano le cittadi et usano la
gente a perversi costumi. Et poi dice Tulio: Da che noi avemo contato '1
principio del bene, cioè de' beni che avenuti erano per eloquenzia,
si è convenevole di mettere in conto la 'ncumincianza del male chende
seguitò. Et dice in questo modo nel testo: Tullio tratta della
comincianza del male 15. adveniito per eloquenzia. Et certo molto mi
pare verisimile: in alcuno tempo gli uomini che non erano parlatori et
uomini meno che savi non usa- vano tramettersi delle publiche vicende, e
che W gli uomini grandi e savi parlieri non si trametteano delle cause
private. E con ciò 20. fosse cosa che sovrani uomini regessero le
grandissime cose, io mi penso che furo altri uomini callidi e vezzati i
quali avennero a trattare le picciole controversie delle private persone;
nelle quali controversie adusandosi gli uomini spessamente a stare fermi
nella bugia incon- tra la verità, imperseveramento di parlare nutricò
arditanza 25. 11. Sì che per le 'ngiurie de' cittadini convenne per
necessitade che' maggiori si contraparassono agli arditi e che
ciascuno atoriasse le sue bisogne; e così, parendo molte fiate che quello
eh' avea impresa sola eloquenzia sanza sapienzia fosse pare o talora
più innanzi che quello che avea eloquenzia congiunta con sapienzia,
i-2: m nelle loro ciltadi — M' om. et a corr.... uomini — 2: m
avenia — 3 kelli aveano sombianca de giusta sap. — 4: m om. Et — 6: M' li
quali — 7: M' questi — 10: m om. Et — 11: M' bone kavenuto era - 12: 1/'
il cominciamento — i3: Jlf chende seguita, j/i che ne seguita - 16: M et
certo mo, la Certo modo M meno di savi, m ch'erano meno che savi — 17-18:
M-m non sapeano, L non osavano — M-m om. e — 19: Jlf sin- trametteano
dele cose — 21: M-m om. uomini — M verrali — 3f' vennero — 22: M' om.
delle pr.... controversie — 23: M-m om. spessamente — 24: M' il persev. - 26:
M' aiutasse m adornasse — 29: M' giunta. (1) Un costrutto più
regolare si avrebbe sopprimendo il che o inserendone un altro dopo
verisimile; appunto. per questo conservo' il che, non sembrando proba-
bile che un copista volesse complicare di suo. Questa maggiore libertà
sintattica non è nuova. aveni'a che, per giudicio di moltitudine di
gente e di sé medesimo paresse essere degno di reggiere le publiche
cose. E certo non ingiustamente, poi che' folli arditi impronti
pervennero ad avere reggimenti delle comunanze, grandissime e miserissime
tempestanze adveniano molto sovente; per la qual cosa cadde eloquenzia in
tanto odio et invidia che gli uomini d'altissimo ingegno, quasi per
scampare di torbida tempestade in sicuro porto, così fuggiendo la
discordiosa e tumultuosa vita si ritrassero ad al- cuno altro queto
studio. Per la qual cosa pare che per la loro posa li altri dritti et
onesti studii molto perseverati vennero in onore. Ma questo studio di
rettorica fue abandonato quasi da tutti loro, e perciò tornò a neente, in
tal tempo quando più inforzatamente si dovea mantenere e più
studiosamente crescere; perciò che quando più indegnamente la
presumptione e l'ardire de' folli impronti manimettea e guastava la cosa
onestissima e dirittissima con troppo gravoso danno dei comune, allora
era più degna cosa contrastare e consigliare la cosa publica. Della qual
cosa non fugìo il nostro Catone né Lelius né, al ver dire, il loro discepolo
Àffricano, né i Gracchi nepoti d' Àffricano, ne' quali uomini era sovrana
virtude et altoritade acresciuta per la loro sovrana virtude; sì che la
loro eloquenzia era grande adornamento di loro et aiuto e
mantenimento della comunanza. Lo sponitore. In questa
parte divisa Tulio come divennero quelli due mali, cioè turbare il buono
stato delle cittadi e corrompere la buona vita e costumanza delli uomini; et
avegna che '1 suo testo sia recato in sie piane parole che molto
fae da intendere tutti, ma tutta volta lo sponitore dirae alcune
parole per più chiarezza. 2. Et è la tema cotale: La elo- 1
: M-m avogiia — 2: M per essoi-o degno d'essere 7 di reggiere, M' paresse
degno de reggere — 3: M' poi ke fuor iaiditi in pronti, m enpronti — 4-5
: M' pervennero i reggìm. — 7 de miserissime tempeste — spessamente — 7 :
M' lempcstande — * : M-m la discordia (m echontumulosa) — 9 : Tutti i
mss. questo, S posato - M-m possa — i i : itf ' do tutto loro " i4:
M dì [olii — 18-19: M ne nelilio - M-m om. nò i G. n. d'AII'ricano — Jlf'
erano sovrane vertudi — 26: M' la vita 7 la buona costumanca - 27: M< suo
stato — m in se — 28: itf' om. tutti, ma — M' alcuna parola — S9: Af' Et
la tema 6 cotale. De la el. ecc. È possibile tanto la lezione di Af
quanto quella di m; ma proferisco questa perchè corrisponde alle parole
del commento, § 6: « pareano essere degni». Il testo latino ha studium
aliquod quieUtm. Lo scambio di queto por questo era facilissimo, e forse
risalo r.llo iirimo copio. quenzia mise in sì alto stato i parladori savi
e guerniti di senno, che per loro si reggeano le cittadi e le
comunanze e le cose publiche, avendo le signorie e li officii e li onori
e le grandi cose, e non si trametteano delle cause private, cioè 5.
delle vicende delli uomini speciali, né di fare lavoriere né altre picciole
cose. Ma erano altri uomini di due maniere: l'una che non erano
parlatori, l'autra che non aveano sa- pienzia, ma erano gridatori e
favellatori molto grandi; e questi non si trametteano delle cose publiche,
cioè delle signorie e delli officii e delle grandi cose del comune,
ma impigliavansi a trattare le picciole cose delle private per-
sone, cioè delli speciali uomini. 3. Intra' quali furono alcuni calidi e
vezzati - cioè per la fraude e per la malizia che in loro regnava parea
ch'avesse in loro sapienzia-; e questi s' ausarono tanto a parlare che,
per molta usanza di dire parole e di gridare sopra le vicende delle
speciali persone, montare in ardimento e presero audacia di favellare
in guisa d'eloquenzia tanto e sì malamente che teneano la menzogna
e la fallacia ferma contra la veritade. Onde, per li grandi mali che di
ciò adveniano, convenne che' grandi, ciò sono i savi parladori che
reggeano le grandi cose, venissero et abassassero a trattare le picciole
vicende di speciali persone, per difendere i loro amici e per
conta- stare a quelli arditi. Et nota che arditi sono di due ma-
25. niere : l' una che pigliano a fifare di grandi cose con prove-
dimento di ragione, e questi sono savi; li altri che pigliano a ffare le
grandi cose sanza provedenza di ragione, e questi sono folli arditi. 5.
Donde in questo contrastare i buoni e savi parlavano giustamente, ma i
folli arditi, che non aveano 30. studiato in sapienzia ma pure in
eloquenzia, gridavano e garriano a grandi boci e non si vergognavano di
mentire e di dire torto palese; sicché spessamente pareano pari di
senno e di parlare e talvolta migliori. Sì che per sentenza
4 : M' om. e non s. t. d. cause — 5: M-m ont.aò — 6: m odaltre p. o. —
7 M< parliei-i — iO: M' de
comuni dele piccole cose cioè che jier la lYaude ecc. parean (/^ parea)
cavassero sapienlia— lo.- 3f< pei' la molta — 17: M^ presero baldanza — 19:
M' con- tro alla verità — 20: A/' ohi. che d. e. adveniano — m avenia
savi e parladori — m le cittadi — 23: M' appilgliano a taro le g. e. —
26: M^ om. di ragione — L l'altra — 27: L provedimento — 31-32: Me
dire,moHi. mentire e di — 33:M' talocta m. visi che p.s Cosi leggo con M,
piuttosto che lavogarie di ilf' o lavorìi di m: oltre a lavareria, il
Manuzzi registra esempii di lavoriera. del popolo, la quale è
sentenzia vana perciò che non muove da ragione, e per sentenza di sé
medesimo, la quale è per neente, pareano essere degni di covernare le
publiche e le grandi cose, e così furo messi a reggere le cittadi et
alli 5. officii et onori delle comunanze. Et poi che cciò avenne,
non fue meraviglia se nelle cittadi veniano grandissime e miserissime
tempestadi. Et nota che dice « grandissime » per la quantità e che duraro
lungamente, e dice « mise- rissime » per la qualitade, ch'erano aspre e
perilliose chende 10. moriano le persone ; e dice « tempestanza »
per similitudine, che sì come la nave dimora in fortuna di mare e
talvolta crescono (i) in tanto che perisce, così dimora la cittade
per le discordie, et alla fiata montano sicché periscono in sé
medesime e patono distruzione. « Per la qual cosa eloquenzia cadde in tanto
odio et invidia »... Et nota che odio non é altro se nno ira invecchiata;
e così i buoni savi erano stati lungamente irosi, veggiendo i folli
arditi segnoreggiare le cittadi. Et invidia è aflizione che omo àe per
altrui bene; donde i buoni savi aveano molta aflizione per coloro
ch'erano segnori delle grandi cose et erano in onore. 8. Et perciò
li buoni d'altissimo ingegno si ritrassero di quelle cose ad altri
queti studii per scampare della tumultuosa vita in sicuro porto. Et nota:
là dove dice « altissimo ingegno » dimostra bene eh' arebboro potuto e
saputo contrastare a' folli arditi, e perciò che no '1 fecero furo bene da
riprendere. Et in ciò che dice « queti studi » intendo l' altre scienze
di filosofia, sì come trattare le nature delle divine cose e delle
terrene, e sì come l'etica, che tratta le virtudi e le costumanze; et
appellali « queti studii » che non trattano di parlare in comune, e perciò che
ssi stavano partiti dal remore delle genti. Et appella « vita tumultuosa
» che 2: Jl/i per ragione ~ 4: M furoro, M^ fuoro — 7 : M-m
ismisuratissime ~ 8: SI durano, m duravano quantitade.... s\ elione
moriano - 10: M' tempestade — 14: M' medesimo ~ 15: m om. Et — 16: m
buoni e savi — 18: m om. Et — m i'uomo... l'al- trui — SO: M> et in
lionore erano — m ad altre — M-m questi, M' certi —om. Et noia la dove — 25 :
M-m non fecero — 26 : Tutti i mss questi — 27 : M de trattare — 28: M-m
sicome dice che l. — 29: M^ appellasi, L appellansi — mss. questi Cosi hanno
tutti i codici; ma forse dopo crescono è andato perduto un sog- getto,
richiesto dal senso o dalla sintassi, come i venti o l'onde (abbiamo
anche altrove la prova che le due famiglie di codici risalgono a un
capostipite già corrotto). Pure non sarebbe impossibile sottintendere dal
precedente fortuna un soggetto le fortune. spessamente l'iiuo uomo
assaliva l'altro in cittade coll'arme e talvolta l'uccideva. 9. Et poi
che' savi intralassar lo studio d'eloquenzia, ella tornò ad neente e non
fue curata uè pre- giata. Ma l'altre scienzie di filosofia, nelle quali
studiaro, montaro in grande onore. Et ora riprende Tulio questi savi
e dice che fecior questo a quel tempo che eloquenzia avea più grande
bisogno per lo male che faceano i folli arditi nelle cittadi, e perchè
guastavano la cosa onestis- sima e dirittissima, cioè eloquenzia che ssi
pertiene alle cose oneste e diritte. U. Dalla qual cosa non fugio il
nostro Catone né quelli altri savi ch'amavano drittamente il co-
mune et aveano senno e parlatura; ma dimoraro fermi a consigliare et a
difendere il comune da'garritori folli ar- diti; e però montaro in onore
et in istato sì grande che le loro dicerie erano tenute sentenze, e perciò
dice che in loro era autoritade, che autoritade èe una dignitade
degna d' onore e di temenza. Ma da questo si muove il conto e
ritorna a conchiudere per ragioni utili et oneste e pos- sibili e
necessare che dovemo studiare in eloquenzia, lodala in molte guise. CICERONE
conclude che sia da studiare in rettorica. Per la qual cosa, al mio animo,
non perciò meno è da mettere studio in eloquenzia s' alquanti la misusano
in publiclie et in private cose; ma tanto più clie ' malvagi non abbiano
troppo di podere con grave danno de' buoni e con generale distruzione di
tutti. Maximamente cun ciò sia la verità che rettorica è una cosa la
quale molto s'appartiene a tutte cose, è publiche e private, e per essa
diviene la vita sicura, onesta, inlustre e iocunda; e per essa medesima
molte utilitadi avengono in comune se fia presta la modonatrice di
tutte cose, cioè sapienzia; e per lei medesima abonda a coloro che
H'acqui- stano lode, onore, dignitade; e per essa medesima anno li
amici certissimo e sicurissimo aiutorio. 1: M-m spesse
volte — 2: m tralassaro — 8: m le chose honestissime — 10: M (Iride, m
diritte — 3f' Dela q. e. — 11: M' dirittamente, m om. — 12: M' dimorato y
f.: M 7 folli arditi, £ e da f. a. — 14: M^ J montaro perciò — 18: m e
torna, M 7 condoura tornerà per ragioni, L e mosterrà per rag. — Jlf-;»
honesti ~ 19: M -m ne- cessarie— 20: m lodarla — ^3: M* misuna, corretto
poi misusa — 27: M' molto pertièno devegna — 28: M> y hon. 7 illustra
7 gioconia, m illustra — 29: M sia — 31: M^-m 7 honore 7 dignitade.
La tema di questo testo è cotale, (H che dice Tulio: Se alquanti di mala
maniera usano malamente eloquenzia, non rimane pertanto che 11' uomo non
debbia studiare in 5. eloquenzia, al mio animo (cioè per mia sentenza),
acciò che ' rei uomini non abbiano podere di malfare a' buoni né di
fare generale distruzione di tutti. Et nota che di- strutti sono coloro che
soleano essere in alto stato et in ricchezza e poi divennero in tanta
miseria che vanno men- 10. dicando. 2. Et poi dice le lode di
rettorica, come tocca al comune et al diviso, e come per lei diviene
l'uomo sicuro, cioè che sicuramente puote gire a trattare le cause, et ap-
pena troverai (2) chi '1 sappia contradiare ; e dice chende diviene la
vita « onesta », cioè laudato intra coloro che '1 15. cognoscono; e
dice «illustre», cioè laudato intra li strani; e dice « ioconda », cioè
vita piacevole, però che ' savi par- lieri molto piacciono ad sé et
altrui. 3. Et altressi molto bene n'aviene alle comunanze jier
eloquenzia, a questa con- dizione : se sapienzia sia presta, cioè se ella
sia adiunta con eloquenzia. Et dice che sapienzia è amodenatrice di
tutte cose però che ella sae antivedere e porre a tutte cose certo
modo e certo fine. 4. Et poi dice che questi che anno elo- quenzia giunta
con sapienzia sono laudati, temuti et amati; e dice che Ili amici loro
possono di loro avere aiutorio sicurissimo, però che appena fie chi Ili sappia contrastare,
poiché sanno parlare a compimento di senno. Et dice « cer- tissimo » però
che '1 buono e '1 savio uomo non si lascia M-m Lo testo èe cotale, M'-L
La tema de questo è cotale — 3: M' aliijuanti — 6: M' de fare male — 7: m
om. nota — 9: il' divegnono — 11: M huomo siguro — 13: M' troverà — 14:
M-m laudata.... che cognoscono — 15: M' illustra, L illustro — 17: A/' ad
altri — M-m nm. Et altressi e n— 19: Hin presta — M' giunta — 21 :M siae
ad intivedere, m a ad antivedere — 22: m om. Et — 23: M^ 7 temuti — 25: m Tia
chelli sappia, M' fie chelli il sappia — 37: M non so lascia. Anche
la lezione di ilf è possibile, ma forse nacque da un accomodamento
arbitrario del testo già corrotto. Invece quella di M' è spiegabilissima collomissione
della parola testo (la somiglianza con questo rese più facile l' errore) e
riceve conforma dal principio del capitolo seguente, con quell'uniformità
di espressione che è caratteristica di tutto il commento. (2)
Troverai è preferibile come « lectio difflcillor ». Del resto anche in M'
po- trebbe trattarsi non di troverà, ma troverà'. corrompere per
amore ne per prezzo né per altra simile cosa. Et qui si parte il conto e
fae nn' ultima conclusione in questo modo: Tullio conclude in
somma. Et però pare a me che gli uomini, i quali in molte cose
sono minori e più fievoli che Ile bestie, in questa una cosa l'avanzano,
che possono parlare ; e donque pare che colui conquista cosa nobile et
altissima il quale sormonta li altri uomini in quella me- desima cosa per
la quale gli uomini avanzano le bestie. La tema in questo testo è cotale :
La veritade è che gli uomini in molte cose sono minori che Ile bestie e
più fievoli, acciò che sanza fallo il leofante e molti altri animali sono
più grandi del corpo che nonn è l'uomo; e certo il leone e molte altre
bestie sono più forti della persona che ir uomo; e più ancora che in
tutti e cinque ' sensi sono certi animali che avanzano lo senso
dell'uomo. Che sanza fallo lo porco salvatico avanza l'uomo d'udire e '1
lupo cerviere del vedere e la scimmia del saporare, e l'avóltore
20. dell' anasare ad odorare, e '1 ragnol del toccare. Ma in questa
una cosa avanza 1' uomo tutte le bestie et animali, che elli sa parlare.
Donque quello uomo acquista bene la sovrana cosa di tutte le buone, che
di ben parlare soprastae alli altri uomini. 25. Tullio dice
di che elli tratterà- 16. Et questa altissima cosa, cioè
eloquenzia, non si acquista solamente per natura né solamente per usanza,
ma per insegnamento d'arte altressi. Donque non è disavenante di vedere
ciò che dicono coloro i quali sopra ciò ne lasciaro alquanti
comandamenti. Ma anzi S: il-m un'altra condictione — 7 : M'
costui — il-m conquesta — 8: M-m la quale; om. li — 9 : )» om. cosa e gli
uomini — 11: il' de questo t. M' molti huomini.... minori 7 più fievoli
chelle bestie — 15: U-m om. altre — 16: M' che tucti — 19-20: M-m 7
l'avóltore dell'odore, M']j lavoltoio delanasare adodorare, L del savorare e
odorare, S et l'avoltoio del nasare et d'odorare — M-M' 7 rangnol, m il
rangnolo (ohi. tulli gli e), L a ra- gnolo — M'-L ne! toccare — 22: M'
chelli sanno - 25: M dico che {ma cfr. ^ \) — 27 : M' per la natura — 2S:
M-m nm. d'arte — 29: m certi. che noi diciamo ciò che ssi comanda in
rettorica, pare che sia a trattare del genere d' essa arte e del suo
officio e della fine e della materia e delle sue parti; imperochè sapute
e cognosciute queste cose, più di legieri e più isbrigatamente potrà
l'animo di ciascuno 5. considerare la ragione e ia via dell'arte.
Lo sponitore. 1. Poi che Tulio avea lodata Rettorica et era
soprastato alle sue commendazioni in molte maniere, sì ricomincia
nel suo testo per dire di che cose elli tratterà nel suo libro. 10.
Ma prima dice alcuni belli dimostramenti, perchè l'animo di ciascuno sia
più intendente di quello che seguirà, e così pone fine al suo prolago e
viene al fatto in questo modo: Tullio ae fiìiito il prolago, e
comincia a dire di eloquenzia. Una ragione è delle cittadi la quale
richiede et è 15. di molte cose e di grandi, intra Ile quali è una grande
et ampia parte l' artificiosa eloquenzia, la quale è appellata Rettorica.
Che al ver dire né cci acordiamo con quelli che non credono che Ila
scienzia delle cittadi abbia bisogno d'eloquenzia, e molto ne discordiamo
da coloro che pensano ch'ella del tutto si tegna in forza et in arte
del 20. parladore. Per la qual cosa questa arte di rettorica porremo in
quel genere che noi diciamo ch'ella sia parte della civile scienzia, cioè
della scienzia delle cittadi. Lo sponitore. I. In
questa parte del testo procede Tulio a dimosti-are ordinatamente ciò che
elli avea promesso nella fine del pro- lago. Et primamente comincia a
dicere il genere di questa arte. Ma anzi che Ho sponitore vada innanzi sì
vuole fare intendere che è genere, perchè l' altre parole siano
meglio intese. Ogne cosa quasi o è generale, sicché comprende molte
altre cose, o è parte di quella generale. Onde questa 1-2: M'
(la tratto, poi corr. da trattar.; — 3: M-m generalmente della decta- arte
— 3: m però che - 4: M-m più diligente, M' nm. più — 8: M A rinconincia —
11 : M' (luelle, ma L quello — 14-13: M'-L richiede molte cose grandi —
16: M-m cai ver diro — 18: M-m abbiano — 30: M-m [lorromo quel genero —
SG: m quella — S8: M-m y perchè — 29: M ìì quasi generale, m è quasi geu.
— 30: M onde jvirte quella gen. parola, cioè « uomo », è generale,
per ciò che comprende molti, cioè Piero e Joanni etc, ma questa parola,
cioè « Piero, » è una parte- A questa somiglianza, per dire più in
volgare, si puote intendere genere cioè la schiatta; che 5. chi dice « i
Tosinghi » comprende tutti coloro di quella schiatta, ma chi dice «
Davizzo » non comprende se no una parte, cioè un uomo di quella schiatta.
3. Onde Tulio dice di rettorica sotto quale genere si comprende, per
meglio mostrare il fondamento e Ila natura sua. Et dice così che
Ila 10. ragione delle cittadi, cioè il reggimento e Ila vita del
co- mune e delle speciali persone, richiede molte e grandi cose, in
questo modo: che è in fatti e 'n detti. 4. In fatti è la ra- gione delle
cittadi sì come l'arte W de' fabbri, de' sartori, de' pannar! e l' altre
arti che si fanno con mani e con piedi. In detti è la rettorica e l'altre
scienze che sono in parlare. Adonque la scienza del governamento delle
cittadi è cosa generale sotto la quale si comprende rettorica, cioè
l'arte del bene parlare. Ma anzi che Ilo sponitore vada più innanzi,
pensando che Ha scienza delle cittadi è parte d' un altro generale che
muove di filosofia, sì vuole elli dire un poco che è filosofia, per
provare la nobilitade e l'altezza della scienzia di covernare le cittadi.
Et provedendo ciò ssi pruova l'altezza di rettorica. 6.
Filosofia è quella sovrana cosa la quale comprende sotto sé tutte le
scienze; et è questo uno nome composto di due nomi greci : il primo
nome si è phylos, e vale tanto a dire quanto « amore », il secondo
nome è sophya, e vale - tanto a dire quanto « sapienzia ». Onde FILOSOFIA
tanto vale a dire come « amore della sapienzia » ; per la qual cosa
neuno 30. puote essere filosofo se non ama la sapienzia tanto eh'
elli intralasci tutte altre cose e dia ogne studio et opera ad
avere intera sapienzia. Onde dice uno savio cotale difiì- / M-m
cioè che comprende — 2: Af' nm. o J cioè Piero — 5: M' ovi. chi —
4-6: m om. tutto il passo da che « quella schiatla — 8: m om. per — 9: M^
demostrare — 10: jU' i reggimenti — 12: M-m om. che b — 13: Af ' l'arti
(ma anche L l'arto) — m e de'pan- nali, .)/ 7 de sartori de panni — 16-17:
m o parte d'un altro generale — 1M' de ben p. — 20: M in podio — 22: m
om. della scienzia, 3/' niii. della scienzia l'al- tezza — 25: M sotto di
sé — 26: m fue fdos, .W filis — 27 : m om. nome — 29: M^ de la scienza —
31: M-m tuote l'altre — J/' 7 da ~ 32: M-m. ad amare —' M' Donde.
(1) Anche arte potrebbe essere qui un plurale, come in Tesar., X, 39-40;
però lo ronde poco probabile la forma arti che subito segue. La
lezione amare di M-m fu certo suggerita dai precedenti amore e ama, e
basterebbe a farla rifiutare la ripetizione di concetto a cui si
riduce. nizione di filosofia : ch'ella è inquisizione delle naturali
cose e connoscimento delle divine et umane cose, quanto a uomo è
possibile d' interpetrare. Un altro savio dice che filosofia è onestade
di vita, studio di ben vivere, rimembranza della morte e spregio del
secolo. Et sappie che diflfinizione d'una cosa è dicere ciò che quella
cosa è, per tali parole che non si convegnano ad un' altra cosa, e che se
tu le rivolvi tuttavia signiffichino quella cosa. Per bene chiarire
sia questo l'exemplo nella diffinizione dell'uomo, la quale 10. è
questa: « L'uomo è animale razionale mortale ». Certo queste parole si
convegnono sì all'uomo che non si puote intendere d'altro, né di bestia,
né d'uccello, né di pescie, però che in essi nonn à ragione; onde se tue
rivolvi le parole e di' cosi : « (/he è animale razionale e mortale ?
certo non si puote d' altro intendere se non dell' uomo. Or è vero che anticamente
per nescietà delli uomini furon mosse tre quistioni delle quali
dubitavano, e uon senza cagione, però che sopr'esse tre questioni si
girano tutte le scienzie. La p-rima quistione era che dovesse
l'uomo 20. fare e che lasciare. La seconda quistione era per che
ra- gione dovesse quel fare e quell'altro lasciare. La terza
quistione era di sapere le nature di tutte cose che sono. Et perciò che
le questioni fuoro tre, sì convenne che' savi filosofi (2) partissero
filosofia in tre scienzie, cioè Teorica, 25. Pratica e Logica, si
come dimostra questo arbore. i: M inquistione, m
inquestione, L inqulslione — 2: M^ quando — 3: M enpossib'ile — (5: Mss.
quella cosa 7 per t. p. — 8: if-M' le rivuoli, L le rivolgi — il' el per bene
— .9-/0: if' lo quale questo, L la i[ualo questo — 16: m necessità, M'
neccssiladc — 16-17: .¥' luiomini in esse (L messe) — 18: sospeso, cnrr.
sopresse — 19: .1/' liuomo — 20: m la seconda che lasciare — 20-21: lU-m
om. la 2" quistione — 22.: M-m om. quistione — M-iii la natura — m
tutte le oliose - 23: M-m Et però quelle quistioni furono tre — 23-24 : M
si convenne i savi phylosoi)hy che partissero — jf > si conviene -^ 23: M
mn. e. (1) Si potrebbe anche leggere (con una costruzione più
regolare ma con una coordinazione poco opportuna) ciò eh' è quella cosa,
e per tali parole ecc. (2) Questa lezione ò comune a codici di
ambedue le famiglie, e perciò la pre- ferisco a quella di M, che pure si
può difendere facendo transitivo conreìtne e intendendo i -savi filosofi
come complem. oggetto. Et la prima di queste scienze, cioè pratica, è
per dimostrare la prima questione, cioè che debbia uomo fare e che
lasciai'e. La seconda scienzia, cioè logica, è per di- mostrare la
seconda quistione, cioè per che ragione dovesse quel fare e quello altro
lasciare. 10. Et questa scienza, cioè logica, sì ae tre parti, cioè
dialetica, efidica, soffistica. La prima tratta di questionare e
disputare l'uno coli' altro, e questa è dialetica; la seconda insegna
provare il detto del- l' uno (1) dell' altro per veraci argomenti, e
questa èe efi- dica; la terza insegna provare il detto dell'uno e
dell'altro per argomenti frodosi o per infinte provanze, e questa è
sofistica. Et questa divisione pare in questo arbore. La tex'za scienzia,
cioè teorica, si è per dimostrare le nature di tutte cose che sono, le
quali nature sono tre; 15. e però conviene che questa una scienza, cioè
teorica, sia pai'tita in tre scienzie, ciò sono Teologia, Fisica e
Mate- matica, sì come dimostra questo arbore. 4: m
cioè la ragione — 6: m sollislicha, epidicha, M' eflidica (un'altra mano
aggiunse sotìslicha) — 7: i/' tractare.... contra l'altro - 9:m, ìt', l e
dell'altro — i 1 : if infinite — M' argomenti frodolenti 7 jier infinita
pruova — 12: m apare. (1) Conservo invece di e, comune a quasi
tutti i codici, appunto per la sua singolarità e perchè sembra indicare
una differenza tra l'efldica e la sofistica- la prima dimostra la verità
di una delle due parti, la seconda pretende dimo- strare l'una e l'altra
parte. Onde la prima di queste tre scienze, cioè teologia, la quale
è appellata divinitade, si tratta la natura delle cose incorporali le
quali non conversano in traile corpora, sì come Dio e le divine cose. La
seconda scienzia, cioè 5. fisica, sì tratta le nature delle cose
corporali, si come sono animali e He cose che anno corpo; e di questa
scienzia fue ritratta l'.arte di medicina, che, poi che fue connosciuta
la natura dell'uomo e delli animali e de' loro cibi e dell'erbe e delle
cose, assai bene poteano li savi argomentare la sa- io, nezza e curare la
malizia. La terza scienzia, cioè matematica, sì tratta le nature de le cose
incorporali le quali sono intorno le corpora; e queste nature sono
quattro, e perciò conviene che matematica sia partita in quattro scienze,
ciò sono arismetrica, musica, geometria et astronomia, sì come 15.
appare in questo arbore: La prima scienzia, cioè arismetrica, tratta de'
conti e de'nomeri, sì come l'abaco e più fondatamente. La seconda
scienza, cioè musica, tratta di concordare voci e suoni. La terza, cioè
geometria, tratta delle misure e delle proporzioni. La IV scienza, cioè
astronomia, tratta della disposizione del cielo e delle stelle. Or
si torna il conto dello sponitore di questo libro alla prima parte di
filosofia, della quale è lungamente ta- ciuto, e dicerà tanto d'essa
prima parte, cioè di pratica, 25. che pervegna a dire della
gloriosa Rettorica. E sì come fue detto già indietro, questa pratica è
quella scienza che dimostra che ssia da ffare e che da lasciare, e questo
è di 3:m traile corpora — 7: #' dela mudicina — 9: M' assai
poteo bone argomentare isani — 10-13 : M-m mltnno da matematica di l. 10
a l. 13 sia partita (m si e) — 16: m om. scien- 7.ia — 17: M' noveri —
18: M [a musica — SO: M astorlomia — M' tracta Io sponilore — 22: Af' si
ritorna (L ritorna), m Ora torna lo spoiiiloro alla prima p. — 33: m ae, Jtf'
oo — 24: m della prima parte — 25: m perverrà. tre
maniere: i>erciò conviene che di questa una siano tre scienze, cioè
sono Etica, Iconoiiiica e Politica, sì come mostra la figura di questo
arbore : La prima di queste, cioè etica, sì è insegnamento di 5.
bene vivere e costumatamente, e dà connoscimento delle cose oneste e
dell'utili e del lor contrario; e questo fa per assennamento di quatro
vertudi, ciò sono prndenzia, iusti- zia, fortitudo e temperanza, e per
divieto de' vizi, ciò sono superbia, invidia, ira, avarizia, gula e
luxuria; e così dimoio, stra etica clie sia da tenere e che da lasciai-e jier
vivere virtuosamente. 16. La seconda scienza, cioè iconomica, sì
'nsegna che ssia da ffare e che da lasciare per covernare e reggere il
propio avere e la propia famiglia. La terza scienza, cioè politica, sì
'nsegna fare e mantenere e reggere 15. le cittadi e le comunanze, e
questa, sì come davanti è pro- vato, è in due guise, cioè in fatti et in
detti, sì come si vede in questo arbore: 18. Quella
maniera eh' è in fatti sì sono l'arti e' magi- sterii che in cittadi si
fanno, (i) come fabbri e drappieri e li 1 : M-m però clic
convion(3 — 3.m am. la ligura — ;>: Af' accostumatamente M' om. ira — 10: M^
da necnto — 1 1: m virtmliosamonte — 13: m avere, la patria e la famiglia
— 14: m fare, mantenere 7 r. — 16: M-M' 7 in due guise — M' in detti. 18:
m om. tutto il g 18 — M' 7 mestieri — 19 : M che cittadini fanno
(lì Si rimane incerti fra le due lezioni, perchè il senso è il medesimo e
anclie paleograficamente la differenza è lieve: forse ì citladisi oxìgìno
(i) cittadini'! Adot- tiamo la lezione un po' più diffìcile.
altri artieri, sanza i quali la cittade non potrebbe durare. Quella
eh' è in detti è quella scien^ia che ss' adopera colla lingua solamente;
et in questa si contiene tre scienze, ciò sono Grramatica, Dialettica,
Rettorica, si come dimostra 5. questo altro albore: Et che ciò sia
la verità dice lo sponitore che gra- matica è intrata e fondamento di
tutte le liberali arti et insegna drittamente parlare e drittamente
scrivere, cioè per parole propie sanza barbarismo e sanza sologismo. Adunque
sanza gramatica non potrebbe alcuno bene dire né bene dittare. La seconda
scienza, cioè dialetica, sì pruova le sue parole per argomenti che danno
fede alle sue parole; e certo chi vuole bene dire e bene dittare conviene
che mo- stri ragioni per che, sicché le sue parole abbiano provanza
Ib. in tal guisa che Ili uditori le credano e diano fede a cciò che
dice. La terza S(!Ìenza ciò è Rettorica, la quale truova et adorna le
parole avenanti alla materia, per le quali l'udi- tore s'accheta e crede
e sta contento e muovesi a volere ciò eh' è detto. Adonque le tre scienze
sono bisogno a 20. parlare et al dittare, che sanza loro sarebbe
neente, acciò che '1 buono dicitore e dittatore de' sì dire e scrivere
a diritto e per sì propie parole che sia inteso, e questo fae gra-
matica; e dee le sue parole provare e mostrare ragioni (2),
1 : Af ' artefici sanza quali le cittadi non potrebbero durare — 3: M^ ]
questa si con- tiene — 6: m Et choncio sia la v., L Et cliome ciò sia —
7: M' l'arti liberali — 9: M- m om. e sanza sologismo; t-S silogismo — 10:
M' om. alcuno — I-i: M ragione si che le s. p. — pruova — i7 : M-m
advoncnti — 18-19 : M' per bisogno al parliere et al dicta- tore — S3:
M-m mostrare con ragiono, L mostrare por ragione Non credo necessario,
data l' impossibilità di distinguer la grafia dei copisti da quella dell'
autore, ristabilire la forma esatta solecismo; la stranezza della pa-
rola spiega pure l'omissione di M-m e lo sproposito di L-S. (2) Che
questa sia la giusta lezione è confermato dal § precedente, 1.16 («ra-
gioni per che ») ; e si noti che mostrare con ragione o per ragione
equivarrebbe a provare. e questo fae dialetica; e dee sì mettere et
addornare il suo dire che, i)oi che 11' uditore crede, che stia contento
e faccia quello eh' e' vuole, e questo fa Rettorica. Or dice lo sponitore
che Ha civile scienza, cioè la covernatrice delle cit- 5. tadi, la quale
èe in detti si divide in due: che ll'una è co llite e l'altra sanza lite.
Quella co llite si è quella che sisi fa do- mandando e rispondendo, si
come dialetica, rettoi'ica e lege; quella eh' è sanza lite si fa
domandando e rispondendo, ma non per lite, ma per dare alla gente
insegnamento e via di 10; ben fare, sì come sono i detti de' poeti
che anno messo inii iscritta l'antiche storie, le grandi battaglie e
l'altre vicende che muovono li animi a ben fare. Altressì quella
civile scienzia eh' è con lite è di due maniere, eh' è ll'una
artifi- ciosa, l'altra non artificiosa. Artificiosa è quella nella
quale il parliere che connosce bene la natura e Ilo stato della
materia, vi reca suso argomenti secondo che ssi conviene, e questo è in
dialetica et in rettorica. Quella che non è artificiale è quella nella
quale si recano argomenti pur per altoritade, si come legge, sopra la
quale non si reca neuna 2'^ pruova né ragione per che, se non tanto
l' altoritade dello 'mperadore che Ila fece. Et di questa che non è
artificiale dice BOEZIO nella Topica eh' è sanza arte e sanza parte
di ragione. Alla fine conclude Tulio e dice che Rettorica è parte
della civile scienzia. Ma Vittorino sponendo quella 25. parola dice
che rettorica è la maggiore parte della civile scienzia; e dice «
maggiore » per lo grande effetto di lei, che certo per rettorica potemo
noi muovere tutto '1 popolo, tutto '1 consiglio, il padre contra '1
figliuolo, l'amico centra l'amico, e poi li rega(i) in pace e a
benevoglienza. Or è detto 30. del genere; omai dicerà Tulio dello
oflfizio di rettorica e del fine. 1: M ordinare, m e
iliraeltero e ordinare lo siidire — 3: M^ cliolll stea — 5: M-m si vede
in due — 7: M' y reclorica — 9: M' a. lo genti — i 1 : m-M in iscripto — M'
7 le g. b. 7 altro vicende — IS : M-m alla (certo da ((Ila), M' (|UOSta
civ. — 13-14: mchS l'ima e art. 7 l'altro non art., 3f' l'unaarl. l'altra
none art. (X non art.) — 16: m su argomenti che crede ohe si chenvieno, S
secóndo la cosa — 19: M sopralla quale — 21 : J/' di que- sta non
artificiosa — S6: m e M' alFecto, ma L el'ctto — S8 : m M' contro al f. —
wchontro all'amico, M' contra amico. — 29: m li reca, Af' recalgli a pace
7 benev., L-S recarli a p. Q n h. — 80 : m M' oggimai. (1)
Con libertà non nuova alla nostra ling'.ia antica, si può sottintendere
il soggetto, « rettorica », dalle parole « per rettorica » che precedono.
La lezione ? ecarli, appunto perchè piii semplice e chiara, mi par da
scartare : non si vedrebbe CICERONE dice che è l'ufficio di questa
arte. 18. Officio di questa arte pare che sia dicere
appostatamente per fare credere, fine è far credere per lo dire. Intra
11' ufficio e Ila fine èe cotale divisamente : che nell'officio si
considera quello che 5. conviene alla fine e nella fine si considera
quello che conviene al- l'officio. Come noi dicemo l'ufficio del medico
curare apostatamente per sanare, il suo fine dicemo sanare per le
medicine, e così quello che noi dicemo officio di rettorica e quello che
noi dicemo fine in- tenderemo dicendo che officio sia quello che dee fare
il parliere, e dicendo che Ila fine sia quello per cui cagione eili
dice. In questa parte àe detto Tulio che è l'officio di que- sta
arte e che è lo suo fine; e perciò che '1 testo è molto aperto, sì sine
passerà lo spouitore brevemente. Et dice 15. cotale diffinizione :
officio è dicere appostatamente per fare credere. Et nota che dice «
appostatamente », cioè ornare parole di buone sentenze dette secondo che
comanda que- st'arte; e questo dice per divisare il parlare di questo
di- citore dal parlare de' gramatici, che non curanq d'ornare
20. parole. E dice « per far credere », cioè dicere sì composta-
mente che ir uditore creda ciò che ssi dice. Et questo dice per divisare
il detto de' poeti, che curano più di dire belle pai-ole che di fare
credere. 2. L' altra diffinizione è del fine. Et dice che fine è far
credere per lo dire. Et certo chi 25. considera la verità In questa
arte e' troverà che tutto lo 'ntendimento del parliere è di far credere
le sue parole all'uditore. Donque questo è la fine, cioè far credere;
che 2: M* om. ilk'Oi'O — 3: M-M' 7 lar — M-m per 1 udire -
3-4: M' om. Inlra 11' udicio e ripete è cotale ilivisumento che no
l'ollicio — M 7 è colalo — 0: m il' e curare — 9: t in- tenderemo cli6
olicio è quello ecc. — m om. e — JO: il ella, mi e la — i3 : .tf' et che
il lino — 15: il apostamonle — M-m saltano dal l'ai ^ apposlatanicnto. —
10: .tf-m-.l/' or- nate — 20: m diro si ornatamente et cliom))ost. — 21 :
M-m mn. Kl c|uesto dice - 23: M-m che farle credere - 24: M-m per 1 udire
— 23: M 7 troverà - 26: M' del parlare la ragione per cui fu mutata
negli altri codici, mentre ò facile ammettere che sia derivata da
recahjli di M '. Quoista poi, a sua volta, non è che una variante di ìi
reca, con una estensione del pronome enclitico a cui contraddice la cosiddetta
legge del Mussafla (cfr., anche per Dante, in Bull. d. Soc. Dani., N. S.,
XIV, 90-91) 'mmantenenle che l'uomo crede ciò eli' è detto si
rivolve (1) lo suo animo a volere et a ffare ciò che '1 dicitore
intende. 3. Ma dice Boezio nel quarto della Topica che '1 fine di
que- sta arte è doppio, uno nel parladore et un altro nell'uditore.
5. Il parladore sempre desidera questo fine in sé: che dica bene e che
sia tenuto d' aver bene detto. Neil' uditore è questo fine: che '1
dicitore a questo intende, che nell'udi- tore sia cotale fine che creda
quello che dice; e questo fine non desidera sempre IL PARLATORE sì come
quello di sopra. 10. 4. Et per mostrare bene che è l' officio e che
è il fine e che divisamento àe dall'uno all'altro, sì dice Tulio che
officio è quello che '1 parliere de' fare nel suo parlamento
secondo lo 'nsegnamento di questa arte. Ma fine è quello per cui
cagione il parlieri dice compostamente; e certo questa cagione e questo fine
nonn è altro se non fare credere ciò che dice. Et di ciò pone exemplo del
medico, e dice che Ilo officio del medico è medicare compostamente
per guerire r amalato; la fine del medico èe sanare lo 'nfermo per
lo suo medicare. Già è detto sofficientemente dell' officio e
della fine di rettorica; omai procederàe il conto a dire della
materia. Materia di questa arte dicemo che ssia quella nella quale
tutta l'arte e Ilo savere che dell'arte s'apprende dimora. Come se noi
dicemo che Ile malizie e le fedite sono materia del medico, perciò che
'ntorno quelle è ogne medicina, altressì dicemo che quelle cose sopra le
quali s'adopera questa arte et il savere eh' è appreso (2) dell'arte sono
materia di rettorica; le quali cose alcuni pensaro che 1 : M
sinvolve, m si involve, M^-L si muove — S : M' quello olio. — 9 : M-m
considera — 10: M' om. l)ene — 15: M-m non ae altro — m se none a
faro — 16: Af ' in ciò — 17-18 : M Olii, è medicare.... del medico — 19:
M-m Già ae d. s. (mi s. d.) — 20: M' del fine — ogimai procederà
Tulio a dire — S,4: m e tutta l'arte — Jlf ' e sapere — S3: M-m le
malizie, cioè le malattie (glossa) — 87: M e savere — tulli i inss,
apresso Questa è senza dubbio la lezione richiesta dal senso e
giustificabile con ragioni paleografiche: un siriuolue in cui ri è parso
un n ha originato il sinvolve di M; da questo, per correzione arbitraria,
è nato si muore di Mi L. Invece di si rivolve lo suo animo (soggetto) si può anche intendere « (l'uomo)
si rivolve lo suo animo », ma forse l'espressione riesce meno
naturale. (2) La correzione è suggerita dalle parole precedenti : «
lo savere che dell'arte s'apprende». Il testo latino ha facuUas
oratoria. fossero piusori et altri meno. Che GORGIA DI LEONZIO, che fue
quasi il più antichissimo rettorico, e in oppinione che IL PARLATORE puo
molto bene dire di tutte cose. Et questi pare che dea a questa arte
grandissima materia sanza fine. Ma Aristotile, il quale diede a questa 5.
arte molti aiuti et adornamenti, extimò che II' officio del PARLATORE sia sopra
tre generazioni di cose, ciò sono dimostrativo, diliberativo e
giudiciale. Lo sponitore. 1. In questa parte dice Tulio che
materia di rettorica 10. è quella cosa per cui cagione furo pensati
e trovati li co- mandamenti di questa arte, e per cui cagione
s'adoperala scienzia clie 11' uomo apprende per quelli
comandamenti. Così fuoro trovati li comandamenti di medicina e gli
ado- peramenti per le infertadi e per le ferute; et insomma
15. quella è Ila materia sopr' alla quale conviene dicere. Et sopra
ciò fue trovata questa arte per dare insegnamento di ben dire secondo che
Ila materia richiede e per fare che ir uditore creda. Et di questo è
stata diiferenzia tra' savi : che molti furo che diceano che materia
puote 20. essere ogne cosa sopr' alla quale convenisse parlare. Et
se questo fosse vero, donque sarebbe questa arte sanza fine, che
non puote essere; e di questi fue uno savio, GORGIA DI LEONZIO, antichissimo
rettorico; et in ciò che Tulio l'appella antichissimo sì dimostra che non sia
da credere. Ma Aristotile, a cui è molto da credere, perciò che
diede molti aiuti et adornamenti a questa arte in perciò che fece uno
libro d' invenzione et un altro della parladura, dice che rettorica èe
sopra tre maniere di cose, e catuua maniera èe genei'ale delle sue parti;
e queste sono dimo- 30. strativo, diliberativo e iudiciale, come in
questi cercoletti apiiare : 2: m cliel parlaro — 3:
M-m che (loggia (w dohbia) aiiiiistare — 6: M' generi — 7: M-m
giiulicalivo - IS: M-m et per (incili comamlamenti. Af' aiiiirondo per qua
com., S per qiialnni|ue com. (t bene) -- 13-14: M-m et por lo
adoperamenlo et por lo inf. — M' fedito — 15: m. M'-L sopra la quale —
19: M' dissero — ?0: m sopra la ipiale l'uomo chonviene parlare, M' sopra
la (pialo — SS: M-m di questo — S3-S4: M' 1 aix.'l- lava — S6: M-m (lice
molti aiuti — M' in ciò che, m però che — S7: Mdinvctione, hi d'in-
votione - S8: M-m materie — M' de cosa {ma L S di cose) — M^ ciasouna —
30-31: M-m om. come ecc. e la figura. Et a questa sentenzia
s'accorda Tulio, e sopra queste tre maniere è tutta l'arte di rettorica.
4. Ma ben puote essere oh' e' maestri in questo punto fanno divisamente
intra dire e dittare; che pare che Ila materia di dittare sia si
generale che quasi sopra ogne cosa si possa fare pistola, cioè man-
dare lettera. Ma dire non si puote per modo di rettorica se non delle
dette tre maniere, perciò che Tulio CICERONE reca tutta la rettorica in
quistione di parole. Et intendo che quistione è una diceria nella quale
àe molte parole sie impigliate che ssine puote sostenere l'una parte e
l'altra, cioè provare si e no' per atrebuti, cioè per propietadi del
fatto o della persona. Et ecco l' exemplo in questa diceria che fie
proposta in questo modo: È da sbandire in exilio Marco Tulio Cicero no,
che davanti (i) al popolo di ROMA fece anegare molti ROMANI a tempo che '1
comune era in dubbio? In questa proposta à due parti, una del sì et
un'altra del no. Quella del sì è cotale : « Cicero è da sbandire, perciò
che à fatta la cotale cosa *. Quella del no è cotale: « Non è da
sbandire, che ricordando pure lo nome signififica buona cosa 20. et
isbandire et exìlio (2) sìgnifBca mala cosa, e non è da cre- dere che
buono uomo faccia quello che ssia da sbandire degno né de exìlio ». 6.
Grià è detto che è la materia di quest'arte, et afferma Tulio la sentenza
d'Aristotile. Et però che elli l' àe confermata, sì dicerà di catuna dì
quelle 25. tre maniere sì compiutamente che per lui e per lo
sponì- 1 : m sachosta — 2: Mi tucta — 3:m tra dire od. —
4:mL del dittare ~ 5 : M' si puote — 6: M' lectoro — 7 : 3f ' se non le
docte — om. perciò — m tutta rettorica — 9: M' ov'a — il: M-m et por
atrebuti, M' per ai trebuti — m cioè i)roiiietadi — 12: M sie o fie, m
Ila, M'-L fu - 14: m om. Cicero — M^ Cicerone che davanti il p. — 15: M'
al tempo — 16: M imposta — 19: M' il suo nome ò buona cosa — 20: M' in
exilio — 21-22: m dongno da sb., M' dengno di sbandire in oxilio — 24:
J/' la conferma Non e' è dubbio
sul testo, in cui la tradizione manoscritta è concorde; quanto
all'interpretazione cfr. Maggini, La Rettorica italiana di B. L., ediz. cit.,
p. 34. Che et e non in sia la lezione originaria è comprovato dal
seguente né de exilio (cambiato da M< in exilio per analogia colla
prima alterazione). tore potrà quelli per cui è fatto questo libro
intendere la materia, lo movimento e la natura di rettorica. Ma ben
guardi d'intendere ciò che dice questo trattato e di Connoscere ciò che in esso
si contiene, che altrimenti non po- trebbe intendere quello che viene
innanzi; e dicerà prima del dimostrativo. Del dimostr amento. Dimostrativo
è quello che ssi reca in laude o in vituperio d'una certa personale. In
questa parte dice CICERONE che, con ciò sia cosa che Ile cause e Ile
quistioni sopr' alcuna vicenda indella quale l'uno afferma e l'altro
niega siano di tre maniere, sì inse- gna Tulio avanti quale causa è
dimostrativa. Ma lo sponi- 15. tore non lascerà intanto che non
dica la natura e Ila radice di tutte e tre, oltx'e che dice il testo di
Tulio; et in ciò dicerà chi è la persona del parliere che dice sopra la
causa, e dicerà che è il fatto della causa. La persona del par-
liere è quella che viene in causa per lo suo detto o per lo 20. suo
fatto: et intendo « suo detto » quello ch'elli disse o che ssi crede
ragionevolemente ch'elli abbia detto, avegna che detto noll'abbia;
altressì intendo «fatto» quello che fece o che ssi crede ragionevolemente
che elli abbia fatto, avegna che fatto non sia. 3. Il fatto della causa è
quel detto o quel fatto per lo quale alcuno viene in causa e questione; et
in ciò sia cotale exemplo: Dice Pompeio a Catellina: « Tu fai tra-
1: in poUà collii —è: M' c\ inovini. ~ 5: .W Jioooia, L ilice ora
— 6: i/del dimoslratio, m (Iella dimostrationo — 8: S si moslra — 13-14:
il' sia in ti-o maniero.... tulio avanti, m Tulio inprima — M-m cosa —
il' sia doni. — 13: m oni. e la radice - lS-19: il-m Persona del ]). 7
quella — 19-20: il' per lo suo facto o per lo suo dello, m per lo s. d. e per
lo s. f. intondo suo detto e latto (pielli (nni-he il (iiielli) - SS:
il-m e così intondo quello — S4 : il' ijucl detto — SS- il' et in
ipiest., m. ohi. — L siae -- 41 - dimento nel
comune di Roma». Et Catellina risponde: « Non fo ». In questo convenente
Pompeio e Catellina sono le persone de'parlieri; e la causa è questa: «Tu
fai tradi- mento » — « Non fo »; e chiamasi causa però che 11' uno
ap- 5. pone e dice parole contra l'altro e mettelo in lite. 4. Et
per maggiore chiarezza dicerà lo sponitore che èe dimostra- mento e
che deliberazione e che iudicamento, e così sopra che è ciascuna maniera
di rettorica. Dimostramento. Dimostramento è una maniera
di cause tale che per sua propietade il parliere dimostra ch'al-
cuna cosa sia onesta o disonèsta, e per questo mostra che è da laudare e
che da vituperare; e questa causa dimostrativa è doppia: una speciale et
un'altra che non si puote partire. La speciale dimostrativa è quella nella
quale i parlieri si sforzano di provare una cosa essere onesta o
disonesta, non nominando alcuna certa persona; et intendo certa
per- sona a dire delli uomini e delle cittadi e delle battaglie e
di cotali certe cose e determinate tra Ile genti, non intendo
dell'altezza del cielo né della grandezza del sole o della 20.
luna, che questa quistione non pertiene a rettorica. Et di questa causa
speciale dimostrativa sia cotale exemplo : « Il forte uomo è da laudare
Dice l'altro: Non è, anzi è da vituperare. E di questo nasce quistione,
se '1 forte è degno di lode o di vituperio, e perciò èe dimostrativa,
ma 25. non nomina certa persona, e perciò è speciale. 8. La
causa dimostrativa che non si puote partire è quella nella quale i
parlieri vogliono mostrare alcuna cosa sia onesta o diso- nesta nominando
certa persona, in questo modo. CICERONE è degno di lode. Dice l’altro. Non è. E
di questo nasce quistione, se sia da lodare o da vituperare. Et
questa quistione comprende due tempi : presente e pre- terito. Che al ver
dire di ciò che 11' uomo fae presentemente è lodato biasmato, et altressì
di ciò che fece ne' tempi pas- sati. 9. Et sopra ciò dicono 1' antiche
storie di Roma che 35. questa causa dimostrativa si solca trattare
in Campo Marzio, 5: 3/' perciò maggioro — 7 : ìlt' cheo...
cheo (ma L clie... che) - saprà che è — 10: M' per sue propietadi il
parladore — 14: M' i parladori — m spellale o dimostrativa — 16: M' nm.
et intendo certa persona, vi om. et — 17: M' et dele ciltadi — 18: m
cliase diterminate — 19: M-m et della gr. — 20: m non apartiene — ^i :?» om.
speciale — M-m dimostrata — M k cotale lessemplo - So: M-m om. è — 27: M'
alcuna persona essere M-m di tre
tempi — m pres., preter. e luturo — 32: M-m Et al ver dire — 33 : M-m om.
di - 42 - nel quale s'asemblava la comunanza a
llodare alcuna per- sona ch'era degna d'avere dignitade e signoria et a
bia- smare quella che non era degna. E già è ben detto della causa
dimostrativa; sì dicerà il maestro della causa deli- 5. berativa.
Del diliber amento. 21. Diiiberativo è quello il quale, messo
(^' a contendere et a dimandare tra' cittadini, riceve detto per
sentenzia. In questa parte dice Tulio che causa diliberativa è quella
eh' è messa e detta a' cittadini a contendere il lor pareri et a
domandare a lloro quello che nne sentono; e sopra ciò si dicono molte et
isvai'iate sentenze, perchè alla fine si possa prendere la migliore (2).
2. Et questo modo di 15. causare è quello che fanno tutto die i
signori e le podestà delle genti, che raunano li consillieri per
diliberare che ssia da fFare sopra alcuna vicenda e che da non fare;
e quasi ciascuno dice la sua sentenza, sicché alla fine si prende
quella che pare migliore. 3. Et in ciò sia questo 20. exemplo che
propone il senatore: « E da mandare oste in Macedonia? » Dice l'uno sì e
l'altro no. Et così diliberano qual sia lo meglio, e prendesi 1' una
sentenza. Et questa quistione si considera pure nel tempo futuro, che al
ver dire sopra le cose future prende l'uomo consiglio e dili-
25. bera che ssia da fare e che noe. 4. Et questa causa dilibe-
rativa è doppia: una speciale et un'altra che non si puote partire. 5.
Speciale è quella nella quale si considera d'ai cuna cosa s' ella è utile
o s' eli' è dannosa, non nominando 1-3: M alcuno cli'era
dengno — om. e signoria.... degna — 6: Tutti i mss. omesso, S è messo — H
: M-m che in essa - m M' i loro pareri, L illoro pareri — 12: M' da loro
- 13: M-m dicono — 14: M-m lo migliore — 15: M-m cassare (M 7 quello)
— 16: M-m raunavano — 17: M-m non daffare — 20: M' ressom])ro — M-m
che pone -22: M' il migliore — 24: m nel tempo futuro — ilf ' iirendo
huomo(»nn L S l'uomo) M-m Questa ì; causa, cioè cosa, diliberativa 7
doppia,. L e delib. e doppia — m una e spetiale — M-m om. che — 27: M-m
alcuna cosa — 28: M-m om. sellò (1) Il testo latino non lascia
alcun dubbio. La stessa corruzione, comune a tutti i codici, è nel
successivo § 22 (e posto), e il costrutto insolito la rendeva facile.
(2) Anche la lezione lo migliore è buona, ma preferisco quella di M'
perchè corrisponde esattamente alla fino del § 2.
alcuna certa persona. Et ecco l'essempio: Dice uno: “Pace è
da tenere intra cristiani.”. Dice l'altro: « Non è ». Et di ciò nasce
causa diliberativa speciale, se Ila pace è da tenere o no. L'altra che
non si può partire è quella nella quale 5. i dicitori studiano di provare
e' alcuna cosa sia utile o dan- nosa, nominando certe persone, in questo
modo: Dice l'uno: « Pace è da tenere intra Melanesi e Cremonesi. Dice
l'altro: «Non è». Et già è detto della causa diliberativa; omai dicerae
il maestro del iudiciale. Ma questo sia conto a ciascuno, che Ila
propietade della diliberazione èe mostrare che ssia utile e che dannoso in
alcuno convenentre. Et questa diliberativa si solca trattare nel senato,
e prima diliberavano li savi privatamente che era utile e che no e
poi si recava il loro consiglio in parlamento e quivi si fermava la loro
sentenza, e talvolta si ne prendea un'altra migliore. Judiciale è
quello il quale, posto In iudicio, à in sé accu- sazione e difensione o
petizione e recusazione. La natura di iudicamento si è una forma la quale
si conviene al parladore per cagione di mostrare la iustizia e la
'niustizia d'alcuna cosa, cioè per mostrare d'una cosa s' ella è insta o
centra iustizia, in cotal modo : che uno ac-cusa un altro e l’accusato si
difende elli medesimo o un altro per lui; overo che uno fa sua petizione
e domanda guidardone per alcuna cosa eh' elli abbia ben fatta, et
un altro recusa e dice che non è da guidardonare, e talvolta dice. Anzi
è degno di pena. Et questa causa si pone in iudicio, cioè in corte
davante a' indici, acciò eh' elli indichino tra Ile parti quale àe iustizia; e
questo si fae in corte palese in saputa delle genti, acciò che Ila pena
del S. in Iva — 3: M-m e so la p. — 4: M' L'altra la quale —
7 : Ai da melanesi, m tra mei. - Af ' e li crem. — M-m l'altro dice — *:
J/ E già detto — U-m cosa — 9 : M ' oggi- mai dicera del giudioiale - 10:
;»/' om. a ciascuno — m e damostrare — 12: m ohe prima 14: m om. e — m M'
in loro consiglio (ma L illoro cons.) — 14-15: A/' in loro sententia si
fermava — 18: Tuttiimss. e [tosto — i9: m accnsatione, difensione, pctitiono —
Tutta mas. recusatione {ma cfr. testo latino) — 24: m chontro a iust. — m
om. che — V e medesimo, L elli med. — 27: m fatta bene — 28: m om. e dice — 32:
m traile genti. malfattore dia exemplo di non malfare, e '1
guidardone de' benfattori sia exemplo agli altri di ben fare. Et
sopra questa materia dice uno savio: « I buoni si guardano di
peccare per amore della vertude, i malvagi si guardano 5. per paura della
pena ». 3. Et è questa causa iudiciale doppia: una speciale et un' altra che
non si puote partire. Speciale è quella nella quale il pai'lierc si
sforza di mostrare alcuna cosa che ssia insta o iniusta, non nominando
certa persona; in questo modo: « Il ladro èe da 'mpendere, 10.
perchè commette furto ». Dice l'altro: « Non è ». 4. Quella che non si
puote partire è quella nella quale il parliere si sforza di mostrare una
cosa essere iusta o no, nominando certa persona; in questo modo: « È da
impendere Guido eh' à fatto furto, o no? » Od « E da guidardonare GIULIO Cesare
eh' à conquistata Francia, o no? Et tutte que ste cause iudiciali si
considerano sopra'1 tempo preterito perciò che di ciò che l’uomo à fatto in
arrietro è guidardonato o punito. CICERONE dice la sua sentenzia della
materia di rettorica riprende quella d' Ermagoras. Et sì come porta la
nostra oppinione, l'arte del parliere (0 e la sua sctenzia è di questa
materia partita in tre. (cai). VI) Che certo non pare che Ermagoras
attenda quello che dice ne attenda C^) ciò che promette, acciò che
dovide la materia di questa arte in causa 25. et in
questione. 1 : VI exempro allo genti — -V far malo — M il
guidardone — S: M' tini benfacloro — m om. VA — 4: M' o li malvagi seno
guardano — 6: U' et una che — 7: il' il dicitore - 9: M-m om. modo — m è
da mpichare — 10: M' un altro — 12-15: M-m om. ila nominando alla fine
del paragrafo — i6: il-m om. si — i7: m per adietro — i8:m pulito SI :
M-m parlare, M' parladore, L parlatore —M Amagoras Che sia da
legger cosi dimostra non tanto la variante di M' quanto, specialmente, il
trovare nel § 1 del commento lo stesso errore di Mm di fronte a parliere
di M'. Conservo, coi codici, i due attenda, quantunque il tosto latino
abbia nel primo caso attendere e nel secondo intellUjere: qui ci
aspetteremmo dunque in- tenda, e l'alterazione, per analogia col primo
verbo, sarebbe spiegabilissima. Ma anello con attenda il senso va bene; e
forse una prova della somiglianza sostan- ziale per l'autore fra
attendere e intendere si ha nel § 7 del commento, dove, riferendosi a
questo passo, i due verbi sono invertiti di posto: «non pare che
Ermagoras intendesse quello che dicea, nò che considerasse (= attendesse)
quello che promettea. Poi elle Tulio àe detto davanti le tre partite
della materia di rettorica sì come fue oppiuione d'Aristotile, in
questa parte conferma Tulio la sentej^izia d'Aristotile; e 5. dice che
pare a llui quel medesimo, e riprende la sentenzia d'Ermagoras, il quale diceva
che Ila materia del par- liere è di due partite, cioè causa e quistione.
Ma certo e' dovea così riprendere coloro che giungeano alla materia
di quest'arte confortameuto e disconfortamento e consola- lo, mento; e
lui riprende Tulio nominatamente perciò ch'elli era più novello e però
dovea elli essere più sottile, e ri- prendelo ancora però che ssi traea
più innanzi dell'arte; e riprendendo lui pare che riprenda li altri. Ma
però che Tulio CICERONE non disfina (D lo riprendimento delli altri, si
vuole lo sponitore chiarire il loro fallimento, e dice così: 3. Vero
è che, si come mostrato è qua in adietro, l' officio del parliere si è parlare
appostatamente per fare credere, e questo far credere è sopra quelle cose
che sono in lite, e' ancora non sono pervenute all' anima ; ma chi vuole
considerai e il vero, e' troverà che confortameuto e
disconfortamento sono solamente sopra quelle cose che già sono
pervenute all' anima. Verbigrazia: Lo sponitore avea propensato di
fare questo libro, ma per negligenzia lo intralasciava; onde da questa
negligenzia il potea bene alcuno ritrattare per confortameuto, e questo
conforto viene sopra cosa la quale era già pervenuta all'anima, cioè la
negli- genzia.Et se alcuno disconforta un altro che avea pro- posto
di malfare, tanto che ssinde rimane, altressi viene lo sconforto in cosa
la quale era già pervenuta all' anima. Adunque è provato che conforto né
disconforto non pos- 1 : m dinanzi — 3: L dico e conferma —
4: M-m la sciencia — 6-7 : M-m parlaro — 10: M'-L non mattamente —li: M-m
om. elli — 14: m diffina (o anche disfina), ilf'-/y non examina delli
altri — m om. si — 16: M^ in qua dietro — m del parlare — 17: M-m om. si
— 18: M' et che ancora, m e anchora — SO: M' et trovare — 21: m om. già -
S3 : L pensato, S per pensato — 23: M lo tralassava, m lo lasciava — 24: M'
bene ritrarre alcuno, w lo potea alchuno ritrarre - 27 : vi sconforta —
30: M-m sconforto Manuzzi registra disfinire per « compiere » e anclie
por « dichiarare », che mi sembra qui il senso piìi adatto.
(2) Non mancano esempii (cfr. Manuzzi, s. v.) che permettono di
mantenm-e questa parola in senso di «ritrarre», come appunto sostituirono
gh altri mss. altì- sono essere materia di questa arte. 5. Ma consolamento
puote anzi essere materia del parliere, perciò che puote venire sopra
cosa e' ancora non sia pervenuta all' anima. Verbigrazia: Uno uomo ferma nel
suo cuore di menare dolorosa vita per la morte d' una persona cui
elli ama sopra tutte cose. Ma un savio lo consola, tanto elle
propone d'avere allegrezza, la quale non era ancora pervenuta all'anima.
Ma perciò che in questo consolamento non ha lite, perciò che '1 consolato
non si difende né non allega ragioni contra il consolatore, non puote essere
ma- teria di questa arte. 6. Or è ben vero che altri dissen che
dimostrazione non era materia di questa arte, anzi era materia di poete, però
eh' a' poete s' apartiene di lodare e di vituperare altrui. Et avegna che
CICERONE no Ili riprenda nominatamente, assai si puote intendere la riprensione
di loro in ciò eh' e' conferma la sentenza d'Aristotile che disse
che dimostrazione e deliberazione e iudicazione sono materia di
questa arte. Et sopra ciò nota che dimostrazione per- tiene a' poeti et
a' parlieri, ma in diversi modi : che ' poeti lodano e biasmano sanza
lite, che non è chi dica contra, e '1 parlieri loda e vitupera con lite,
che è chi dice contra il suo dire. Et perciò dice Tulio che non pare che
Erma- goras intendesse quello che dicea, né che considerasse quello
che prometea, dicendo che tutte cause e questioni 25. proverebbe
per rettorica. Or dicerà Tulio le rii)rensioni d' Ermagora sopra causa e
sopra questione. Tullio seguita Ermagoras della causa, etc. Causa
dice che ssìa quella cosa nella quale abbia contro- versia posta in
dicere con interposizione di certe persone; le quali 30. noi medesimo
dicemo che è materia dell' arte e, sì come detto avemo dinanzi, che sono
tre parti : iudiciale, dimostrativo e deliberativo. 2: M'
innanzi — del parlatore — 3: m non 6 jiervenuta — 5-6: M ellamava — 6-7 :
III lo chonsolò, M' il consola tutto sì clid iiropone — 8: M-m che questo cons.
— .9: in e non allega — i3: m di poota.... a poeti, M' de poeti... ali
poeti — M' o di vit. — i-i: M nelle, m non le, M' non gli — i6: M'
elicgli conferma — 17: m dim., dilib. et iiivochationo — 19: M' ali poeti
et ali pailadori— 5i : M II parlieri, »i 11 parlieri?, 3/« E! parladore —
m pero che è chi dicha chontro al suo dire — S-1: A/' chelgli prom. — 26:
m e questione, M' sopra questioni — 30: m nm. medesimo — itf' nm. o
Sponitore. 1. Poi che Tulio avea detto che Ei-magoras non
intese se stesso dicendo che causa e questione sono materia di
questa scienzia, sì dice in questa parte che Ermagoras 5. dicea che fosse
causa. 2. Et causa appella una cosa della quale molti sono in
controversia, perciò che 11' uno ne sente uno intendimento e l'altro ne
trae un'altra diversa intenzione; sicché sopr' a cciò contendono di
parole met- tendo e nominando alcuna certa persona, che non si
possa 10. partire e che propiamente e determinatamente si partenga
alle civili questioni. 3. Et di questo dice Tulio che ss' ac- corda co
llui, che ciò àe elli detto davanti per sé e per Aristotile; ma dicerà omai
com' elli errò in questione. Qtd rijivende Tullio Ermagoì
as- Questione apella quella che àe in se controversia posta
in dicere sanza interposizione di certe persone, a questo modo: Che
èe bene fuori d'onestade? Sono li senni (i) veri? Chente è la forma del
mondo? Chente è la grandezza del sole? Le quali questioni inten- demo
tutti leggiermente essere lontane dall'officio del parliere; 20.
che molto n' è grande mattezza e forseneria somettere al parliere in
guisa di picciole cose quelle nelle quali noi troviamo essere con- sumata
la somma dello 'ngegno de' filosofi con grandissima fatica.
Sponitore. 1. Ora dice Tulio che Ermagoras appellava
questione 25. quella cosa sopra la quale era controversia intra
molti, sicché contendeano di parole l'uno contra l'altro non
no- 5 M diceva - m ch'era chausa — 7: M^ e un altro ne trae
altra d. i., M na {sic) trae, m ne atrae — 8: M-m contendemo — 10: M'
nominatamente — m sautenga — 13: Jf' oggimai — 15: M' la quale ae —
16-17: M' che ben — M-iii li senni vari — M' om. h — M-m la l'ama — 19:
M-m del parlare — 20: M-m oiii. raaltozza, ilf ' om. e for- seneria —
JZ-w parlare, M' parladore — SI: l/Tiusta,//i in vista— 24 ^/-w appella-
lo: M' era questione — m tra molti — 26: M ne contendeano (1)
Traduce il latino sensus con una forma che ritorna anche nel commento; è
la stessa fusione, o confusione, cho troviamo nel francese. minando certa
persona la quale propiamente s'apartenesse alle civili questioni. 2. Et
in ciò pone cotale exemplo: «Che è bene fuori d'onestade?» Grande contraversia
fue intra' fi- losofi qual fosse il sovrano bene in vita: et erano
molti 5. che diceano d'onestade, e questi fuoro i parepatetici;
altri erano che diceano di volontade, e questi sono epicurii. 3.
Altressì fue questione se ' senni sono veri, perciò che alcuna fiata
s'ingannano, che se noi credemo che ricalco sia oro sanza fallo s'
inganna il nostro senno. Altressì fue questione della forma del mondo,
però eh' alcuni filosofi provavano che '1 mondo è tondo, altri dicono eh'
è lungo, o otangolo(l\ o quadrato. 5. Altressì era questione della
grandezza del sole, che alcuni dicono che’l sole è otto tanti che Ila
terra, altri più et altri meno. Et questa misura si sforzalo, vano di cogliere
i maestri di geometria misurando la terra, e per essa misura ritraeano
quella del sole. Et perciò mostra Tulio che Ermagora non intese quello
che dicea, ch'assai legiei'mente s'intende che queste cotali
questioni non toccano l'ufficio del parliere. Et nota che dice officio
però che ben potrebbe essere che '1 parliere fosse FILOSOFO, e così
toccherebbe bene a lini trattare di quelle questioni, ma ciò non arebbe
per officio di rettorica ma di FILOSOFIAf. Donque ben è fuori della mente e
vano di senno quelli che dice che'1 parliere possa o debbia trattare di
queste questioni, nelle quali tutto tempo si consumano et affaticano I
FILOSOFI. Or à provato Tulio che Ermagoras non intese quello che disse.
Ornai proverà come non attese quello che promise, in ciò che promettea di
trattare per rettorica ogne causa et ogne questione. 8. Et ciò fae a
guisa de' savi, i 1 : 3/' sì plenesse - 3: M-m fuori con
lioneslade, M'-l di l'iiuri 7 lioii. 4' ili l'uori d'hon. — .W grande
(juostione — mi traili lilosali — -I : m «m. et — 5 : .V diceano hon. —
M-m OHI. questi fuoro — il pai'ei)atoiici, .W parclieiialetici — 6: il' diceano
volontade (S ugg. cioè piacere) — 7: M-m se songni - 8: M' chel ricalco —
9: S il nostro senti- mento — iO: il perciò — id: il' diceano — IS: il
Hangolo ('/), "i troangholo, .W'-i triangolo, S otangolo — m quadro
— i3: il' cotanti che terra, i cotanti chella terj-a —16: m ritraevano la
misura d. s. — 17: il' che elgli diceva. Kt assai ecc. — S3: M' Dunque
ben — M' chi dice — 24: M' debbia parlare — 25: M' et faticano — S7: il-m
non inteso — 28: M-m perche (> rectorica — 29: M-m di savi (1)
La lezione di M ò incerta, ma sembra spiegata e confermata da quella di S
che risalo all'altra famiglia di codici ; un segno male interpretato come
abbre- viatura di ri può aver suggerito la lezione triangolo. Il commento
di Vittorino a questo passo non parla nò di triangolo né di
ottangolo. (2) Il latino Ila in ca. - 49 —
quali vogliendo mostrare la loro sapienzia sì 11' apongono ad
alcuna arte per la quale non si puote provare; come s' alcuno volesse
trattare d' una questione di dialetica et aponessela a gramatica, per la
quale non si pruova né ssi 5. potrebbe provare, e ciò mosterrebbe usando
per argomenti la sua sapienzia; e sopr'a cciò ecco '1 testo di
Tulio. Tullio dice in somma ciò ch'elli avea detto
davanti. Che se Ermagoras avesse in queste cose avuto gran savere
acquistato per istudio e per insegnamento, parrebbe ch'elli, usando la sua
scienzia, avesse ordinata una falsa cosa dell'arte del parliere, e non avesse
sposto quello che puote l'arte ma quello che potea elli. Ma ora è quella
forza nell'uomo ch'alcuno li tolga più tosto retto- rica che no-lli
concedesse filosofia. Ma perciò l' arte che fece non mi pare del tutto
malmendosa, ch'assai pare ch'elli abbia in essad) locate cose elette
ingegnosamente e diligentemente ritratte delle antiche arti, et alcuna
v'àe messo di nuovo; ma molto è piccola cosa dire del- l'arte sì come
fece elli, e molto è grandissima parlare per l'arte, la qual cosa noi
vedemo ch'esso non poteo fare. Per la qual cosa pare a noi che materia di
rettorica è quella che disse Aristotile, della 20. quale noi avemo
detto qua indietro. In questa parte dice CICERONE che se Ermagoras fosse
stato bene savio, sicché potesse trattare le quistioni e le cause,
parrebbe eh' avesse detto falso, cioè che avesse dato al parliere quello
officio che nonn é suo; e così non avrebbe mostrata la forza dell'arte,
ma averebbe mostrata la sua. Ma ora è quella forza nell'uomo, cioè tal
fue questo Ermagoras, che neuno che dicesse eh' e' non sappia rettorica
nolli concederae che sia FILOSOFO. Ma perciò l'arte 1 : 3f
siila pongono — 3: m trattare una q. — 4-5: M' per la quale non si porla
provare — M' om. per argomenti — 9: M^ o \)ev insegnamento parendo— 10: »i
ordinato — M-m del parlare — 11 : M-m non avesse posto (»m in et n.) — M'
([nello puote — 13: M' che fece nolli cono. — 14-15: M-m messe, A/' in
esse — M-m ^ locate le cose («4 nm. le cose) 7 lecte — 17: M dell'arti,
in delle urti — itf' grandissimo — 18: Jl/ potea, M' ]jotero — 19: ni sia
quella. M' qua in adietro — S4: M-m ciò — M' cavesse detto — 25: Af a
parliere — 28: M' ch'olii — 28-29: S che non lu veruno che dicesse
ch'elli non sappia retorica non dirà giù che egli sia philosopho
(1) Il testo latino ha in ea. che fece non pare in
tutto rea ». In questa parola il cuo- pre (1) Tulio e dimostra eh' elli
avrebbe bene ijotuto dire X^egio. Et dice « non è del tutto rea » perciò
eh' elli àe messo nel suo libro con molta diligenzia e con ingegno
li 5. comandamenti delli altri maestri di questa arte, et alcuna
cosa nuova v' agiunse. Et qui pare che Tulio lo lodi là ove il vitupera,
dicendo che fosse furo in perciò che delle scritte d' altri maestri fece
il suo libro. Ma molto è picciola cosa dire dell' arte, ciò viene a dire
eh' al parliere non s'apartiene dare insegnamenti dell'arte, sì come fece
Ermagora, ma apartiensi a llui in tutte guise parlare secondo li
'nsegnamenti e comandamenti dell" arte, la qual cosa non seppe fare
esso. 5. Adonque è da tenere la sentenzia d'Ari- stotile, che dice che
materia di questa arte è dimostrativo, deliberativo e iudiciale. Et ornai
è detto sofficientemente e diligentemente del genere, cioè generalmente,
dell' officio e della fine di rettorica; or sì dicerà il conto delle
sue parti, sì come Tulio promise nel suo testo qua indietro.Tullio CICERONE
dice le parti di rettorica. 20. 27. Le parti sono queste, sì come i
più dicono: Inventio, di- spositio, elocutio, memoria e
pronuntiatio. Lo sponitore. Cinque parti dice Tulio che
sono et assegna ragione per che, e quella ragione metterà lo
sponitore in suo luogo. 25. Ma prima dicerà le ragioni che nne
mostra BOEZIO nel quarto della Topica, che dice che se alcuna di
queste cin- 1-2: S scuopre — 4: M' con non molto.... ingegni
i com. — 6: J/' vi giiingnesse — i>f-»i la dove — 7:M* fosse ladro — m
poro che dello dette scritte - 8-9: M' delli altri — om. Ma... arte — m
cosa a dire — 10: M-m a dire — 12 : m egli noi seppe fare — 14 : m dice
materia — 15-17 : M' Et oggimai ae solTicientemento detto del genere, dell'
officio et del (ine dì rectorica. Si dicerà l'autore déle sue parti — M
sulficientemcnte dilig. — m ora dirà — 20;mLLQ parti di rettoriclia — M'
inveutione, dispositione, ccc — 24: S questa — M-m che dico se
alcuna Cioè «lo difonde». La lezione scuopre di S sarà nata da un
ilcuopre letto iscuopre; come senso si ridurrebbe a una ripetizione di
dimostra. que ijarti falla nella diceria, non è mai compiuta; e se queste
parti sono in una diceria o inn una lettera, certo l'arte di rettorica vi
fie altressì. 2. Un'altra ragione n'ase- giia BOEZIO: che però sono sue
parti perchè esse la 'INFORMANO E ORDINANO e la fanno tutta essere, altressì
come '1 fondamento, la i)ai'ete e '1 tetto sono parti d'una casa sì
che la fanno essere, e s' alcuna ne fallisse non sarebbe la casa
compiuta. Et dice Tulio che queste sono le parti di rettorica sì come i
più dicono, i)erò che furo alcuni che diceano che memoria non è parte di
rettorica perciò che non è scienzia, et altri diceano che dispositio non
è parte d' essa arte. Et così va oltre Cicerone e dicerà di
ciascuna parte perse, e primieramente dicerà della 'uvenzione, sì come di piti
degna; e veramente è più degna, però 15. ch'ella puote essere e stare
sanza l'altre, ma l'altre non possono essere sanza lei. Tullio dice
della invenzione. Inventio è apensamento a trovare cose vere o
verisimili le quali facciano la causa acconcia a provare. Dice CICERONE
che invenzione è quella scienzia per la quale noi sapemo trovare cose
vere, cioè argomenti necessarii - e nota « necessarii », cioè a dire che
conviene che pure cosi sia - e sapemo trovare cose VERISIMILI, cioè
argomenti ac- 25. conci a provare che così sia, per li quali
argomenti veri e verisimili si possa provare e fare credere il detto o
'1 fatto d'alcuna persona, la quale si difenda o che dica in-
contro ad un' altra. 2. E questo puote così intendere il porto dello
sponitore. Verbigrazia: Aviene una materia 30. sopra la quale
conviene dire parole, o difendendo 1' una i: .W manca — 3: m
vi (ia, M' vi l'u - 3-4: M' dice Boelius, che poroiù — 5: m fannola tutta
essere, Af' li fanno essere tutto alti-essi ecc. — 6: M' son parte — 8 : m om.
Et — 10: m non era ~ 11: M^ dispositlone — 12: M-m dell'arte — 13: m primamente
- 16: m essere o stare — 18: M' invontione (e coù semiire) — m pensamento
— il' overo simili — 19: il-m la cosa — S3: SI' om. a dire — 23-24: m
pure che cos'i sia. E sap- piano — M' nm. acconci ~ 26: M-m el facto -
27-28: m chontro ad un altra - 52 - parte o
dicendo centra l'altra; o per aventura sia materia sopra la quale si
conviene dittare in lettera. Non sia don- que la lingua pronta a parlare
né la mano presta alla penna, ma consideri che '1 savio mette alla
bilancia le sue parole 5. tutto avanti clie Ile metta in dire né inn
iscritta. 3. Con- sideri ancora che '1 buono difficiatore e maestro poi
che propone di fare una casa, primieramente et anzi che metta le
mani a farla, sì pensa nella sua mente il modo della casa e truova nel
suo extimare come la casa sia migliore; e poi 10. eh' elli àe tutto
questo trovato per lo suo pensamento, sì comincia lo suo lavorio. Tutto
altressi dee fare il buono rettorico: pensare diligentemente la natura
della sua ma- teria, e sopra essa trovare argomenti veri o verisimili
sì che possa provare e fare credere ciò che dice. 4. Et già
15. é detto quello che è inventio. Ora procederà il conto a dire
quello che è dispositio. Dice Tullio de dispositio. Dispositio
èe assettamento delle cose trovate per ordine. Perciò che trovare
argomenti per provare e FAR CREDERE il suo dire non vale neente chi no Ili sae
asettare per ordine, cioè mettere ciascuno argomento in quella parte
e luogo che ssi conviene, per più affermamento della sua parte, sì dice
Tulio che è dispositio. 2. E dice eh' è quella 25. scienzia per la
quale noi sapemo ordinare li argomenti trovati in luogo convenevole, cioè
i fermi argomenti nel principio, i deboli nel mezzo, i fermissimi, co'
quali non si possa contrastare lievemente, nella fine. Cosi fae il
difficatore della casa, che poi eh' elli àe trovato il modo
1 : m chontro all'altra - 2 .• M sopralla ([ualo - M' oiii. don(|uo - 3:
in o la mano alla penna - 5: m tutto prima, S tutto - m o in iscritta, M'
o in iscriptura — 6-S:.il diliciatore prima che metta lo mani a lare —
mr=.)/, ma o maestro - 9: m Poi - 10: M' U suo la- voro — i3: M-m si veri
che possa - 14-16: M E già liecto, mi Ora e detto - M' om- quello - M-m
Ora procederà il conto quello che è spositio, .«' Si procederà il conto a
dire che k dispositione - SO: m diro il suo criMloro - Sfì: M trovai -
,W-»i ohi. i, m om. argo- pienti — 27: M' ali (piali
nella sua mente, elli ordina il fondamento in quel luogo che ssi
conviene, e ila parete e '1 tetto, e poi 1' uscia e camere e caminate, et
a ciascuna dà il suo luogo. 4. Già è detto che è dispositio; or diceva il
conto che è elocutio. 5. Tullio dice della locuzione.
30. Elocutio è aconciamento di parole e di sentenzie avenanti alla
invenzione. Sponitore. I. Perciò che neente vale
trovare od ordinare chi non sae ornare lo suo dire e mettere parole
piacevoli e piene di buone sentenze secondo che ssi conviene alla materia
trovata, sì dice Tulio che è elocutio. Et dice che è quella scienzia per
la quale noi sapemo giungere ornamento di parole e di sentenze a quello
che noi avemo trovato et ordinato. E nota che ornamento di parole èe una
dignitade la quale proviene per alcuna delle parole della diceria, per la
quale tutta la diceria risplende. Verbigrazia. Il grande valore che in
voi regna mi dà grande SPERANZA del vostro aiuto. Certo questa parola,
cioè “regna”, fa tutte risplendere l'altre parole che ivi sono. Altressì
nota che ornamento di sentenze è una dignitade la quale proviene di
ciò che in una diceria si giugne una sentenza con un'altra con piacevole
dilettamente. Verbigrazia. In queste parole di Salamene. Melliori sono le
ferite dell'amico che frodosi basci del nemico. Et già è detto che è elocutio,
cioè apparecchiamento di parole e di sentenzie che facciano la diceria
piacevole et ordinata di parole e di sentenzie. Omai procederà il conto alla
quarta parte di rettorica, cioè memoria. i-2: m in quello
che si chonvienc et il luogo.... l'ascia, charaere3: M^ cam- minate,
ciascuna in suo luogo. Et già ecc. — 0-7: M-m avenonti alla ntentione
(anche S intenliono) — 9: M om. od — 10: M' sa adornare il suo dire — 15:
m om. E - 16: M dignità della quale, m M' dignità la quale pervieneSO: M'
vi sono — SI m ,»f' perviene — 22 .- M-m om. Ai — M un'altra seutenfa con
un altro, m in un'altra diceria si giungne un'altra sententia chon un
altro piacevole dil. — 23: M-m dice Salamene — 25: M' li frodolenli basci
— m om. Et — 26-27: M om. e di sentenzie, m om. piacevole el; M om.
che.... parole Ambedue le lezioni sono possibili; ma con quella di M si
spiega meglio una pretesa correzione in dice (chi avrebbe pensato,
invece, a cambiare dice indi?), mentre poi il verbo dice renderebbe
superflua l'espressione in queste parole. Dice Tulio della
memoria. Memoria è fermo ricevimento nell'animo delle cose e delle
parole e dell'ordinamento d'esse. Et perciò che neente vale trovare,
ordinare o acon- ciare le parole, se noi nolle ritenemo nella
memoria sicché ci'nde ricordi quando volemo dire o dittare, sì dice
Tulio che è memoria. Onde nota che memoria èe di due maniere: una
naturale et un'altra artificiale. La naturale è quella forza dell'anima per
la quale noi sapemo ritenere a memoria QUELLO CHE NO APRENDEMO PER ALCUNO SENNO
SEL CORPO. Artificiale è quella scienzia la quale s'acquista per insegnamenti
delli FILOSOFI, per li quali bene impresi noi possiamo ritenere a memoria le
cose che avemo udite o trovate o APRESE PER ALCUNO DE’ SENNI DEL CORPO e
di questa memoria artificiale dice Tulio eh' è parte di rettorica. Et
dice che memoria è quella scienzia per la quale noi
fermiamo nell'animo le cose e le parole eh' avemo trovate et
ordinate, sicché noi ci 'nde ricordiamo quando siemo a dire. Et già é detto
che è memoria; si dicerà il conto la quinta et ultima parte di rettorica,
cioè pronuntiatio. Dice CICERONE della pronunziagione. Pronuntiatio è
avenimento della persona e della voce secondo la dignitade delle cose e delle
parole. Et al ver dire poco vale trovare, ordinare, ornare parole et
avere memoria chi non sae profFerere e dicere le sue parole con
avenimento. Et perciò alla fine dice Tulio Però che niente — ot
acconciai-e — 7: w» cene, Af' cine — M volere — 9:mom, et — il: M' senso
— IS: M' quella memoria — i-i: J»/' udito — i5: 4f' sensi — 16-, m nnu Et
— i8 : m olle parole — i9: M' noi vegnamo a dire — SO- « ultra parte, hi
ora dirà il conto la quinta jiarte, .W" il maestro - S6 : m o ornare — 27:
in a chi non sae prollbrere o diro -òs- che è
pronuntiatio; e dice eh' è quella scienzia per la quale noi sapemo
profferere le nostre parole et amisurare et accordare la voce e '1 portamento
della persona e delle membra secondo la qualitade del fatto e secondo la
condizione della diceria. Che chi vuole considerare il vero,
altro modo vuole nelle voci e nel corpo parlando di dolore che di
letizia, et altro di pace che di guerra, ('he '1 parliere che vuole
somuovere il populo a guerra dee parlare ad alta voce per franche parole
e vittoriose, et avere argoglioso advenimento di persona e niquitosa ciera
contra ' nemici. Et se Ila condizione richiede che debbia parlamentare a
cavallo, si dee elli avere cavallo di grande rigoglio, sì che quando il
segnore parla il suo cavallo gridi et anatrisca e razzi la terra col piede e
levi la polvere e soffi per e nari e faccia tutta romire la piazza, sicché
paia che coninci lo stormo e sia nella battaglia. Et in questo
punto non pare che ssi disvegna a la fiata levare la mano o per
mostrare abondante animo o quasi per minaccia de' nemici. Tutto altrimenti dee
in fatto di pace avere umile advenimento del corpo, la ciera amorevole, LA VOCE
SOAVE, la parola paceffica, le mani chete; e’1 suo cavallo dee
essere chetissimo e pieno di tanta posa e' sì guernito di soavitade
che sopr'a llui NON SI UMOVA UN SOL PELO, ma elli medesimo paia factore
della pace. Et così in letizia de' 1 parlatore tenere LA TESTA LEVATA, il
viso allegro e tutte sue parole e viste SIGNIFICHINO allegrezza. Ma
parlando in dolore sia LA TESTA INCHINATA, il viso triste e li occhi pieni di
lagrime e tutte sue parole e viste dolorose, sicché ciascuno sembiante
per sé e ciascuno motto per sé muova l'animo dell’uditore a piangere et a
dolore. Et già é detto delle V parti sustanziali di rettorica interamente
secondo l'oppinione di Tulio, e sì come lo sponitore le puote fare
meglio intendere al suo porto; sì ritorna Tulio a scusare sé medesimo di ciò
che non àe mostrato ragione perché 2: m e misurare ~ 5: M' che
a chi vuole — 0: M' noia boce — 7 : M' parlare, m Il parliere — 8: m
smuovere — i/' om. il populo — 11 : M parlantare, m p-are — 12: m mn.
elli — 14-15: M' delle nari, vi sozzi le anari — 16: il' incominci — 17: M-m
om. per — 19-20: M' humili avenimenti — m nel chorpo — 21 : M' le parole
pacefiche — 22 : L di tanta jwssa — 24 : M' om. Et — mss. del parlatore —
25 : M-m levata in suso - il' le sue parole — 26: il-m e signilichino —
27: m chinata, il' inchina, L inchinata — 28 : M-m parole iuste e
dolorose — 29: il' muove — 30: m piangerò a dolore. Ora è detto — 31 :
il' sustanziali parti — 32: M' il puote — 56 —
quello sia genere et ofifìcio e fine di rettorica sì com' elli àe
fatto della materia e delle parti, e dice in questo modo. Tullio
dice che tratterà della materia e delle parti. Oramai dette brievemente
queste cose, atermineremo in 5 altro tempo le ragioni per le quali noi
potessimo dimostrare il genere e IPofficio e Ila fine di quest'arte, però
che bisognano di molte parole e non sono di tanta opera a mostrare la
propietade e Ile comandamenta dell'arte. Ma colui che scrive l'arte
rettorica pare a noi che 'I convenga scrivere dell'altre due, cioè della
maio teria e delle parti. E io perciò voglio trattare della materia e delle
parti congiuntamente. Adunque si dee considerare più intentivamente
chente in tutti generi delle cause debbia essere inventio, la quale è
principessa di tutte le parti. In questa parte dice Tulio che non vuole
ora provare perchè quello sia genere di rettorica che detto è davante, né
Ilo officio né Ila fine, però che vorrebbe lunglie parole e non sono di
molto frutto, e però l' atermina nel- r altro libro nel quale tratta
sopr' a cciò; et in questo presente libro tratta della materia, cioè
dimostrazione, deliberazione e iudicazione, et altressì tratta delle
pai'ti, cioè inventio, dispositio, elocutio, memoria e
pronuntiatio. Et di tutte queste tratterà insieme e comunemente. Ma
però che inventio è la più degna parte, sì dicerà CICERONE chente ella dee
essere in ciascuno genere di rettorica, cioè come noi dovemo trovare
quando la materia sia di causa dimostrativa, e quando sia deliberativa, e
quando sia iudiciale; e tratterà si comunemente che mosterrà come
sia da trovare in catuna di queste cause, e come 30. ordinare e come
ornare la diceria, e come tenere a me- moria e come profferere le sue
parole. 1 : M-m quella — 4 : M' Ogimai — 7 : M admostrare,
ni a dimostrare — M' le pro- picladi — 9: M-m che convenga - iO-H : M-m
om. K io.... congiuntamente — IS: M-m chente e — i3: Af' do tutte l'arti
— 16: M-m quella, M -L quel — M' detto davanti — 18: M' lo termina — 20:
M-m dimostrative — 23: M' congiuntamente; m om. e — 24: M-m om. SI dicerà
Tulio — i'S : M' om. sia — congiuntamente — S9: Af' come iu e. d. q. e.
sa da trovare — 30: iii nm. e come ornare Lo sponitore parla all' amico
suo. Perciò lo sponitore priega '1 suo porto, poi ch'elli àe impresa altezza
di tanta opera come questa èe, che a llui piaccia di si dare
l'animo a cciò eh' è detto davanti, spezialmente in connoscere il dimostrativo
e '1 deliberativo e '1 iudiciale che sono il fondamento di tutta l'arte, e poi
a quel che siegue per innanzi, eh' elli intenda tutto '1 libro di tal
guisa che, per lo buono aprendimento e per lo bel dire che farà secondo
lo 'nsegnamento dell' arte, il libro e lo sponitore ne riceve- JO. ranno
perpetua laude. Della constitnzione e delle quattro sue parti.
34. (e. Vili) Ogne cosa la quale àe alcuna controversia in diceria
o in questione contiene in se questione di fatto o di nome di genere o
d'azione; e noi quella questione delia quale nasce la causa apelliamo
constituzione. E constitnzione è quella eh' è prima pugna delle cause, la
quale muove dal contastamento della intenzione in questo modo. Facesti. Non
feci, o Feci per ragione. Poi che CICERONE àe detto di mostrare e
trattare della invenzione e della materia insieme, sì mostra lo
sponitore in che ordine trattò de l'inventio; ma per maggiore chiarezza
dicerà tutto avanti in che significazione si prendono queste parole, cioè
causa, controversia, constituzione e stato. Causa vale tanto a dire quanto
il detto o '1 fatto d' alcuno, per lo quale è messo in lite, ed è appellato
causa tutto '1 processo dell' una e dell' altra parte. Et appellasi
causa tutta la diceria e la contenzione cominciando al prolago e tìniendo
alla conclusione; donde dice uomo: 3: M-m di darli l'animo —
7-10: M^ chel baono — ben dire — per tua laude, M-m dello sponitore, M ne
rlcevemo, m ne riceva - 13: m o questione, ilf ' om. contiene in se
questione — 14 : M-m di quella — 15: M^ constitutione ò la prima pugna — 21 :
M' om. insieme — M' mosterra, ma L mostra — SS : M delinventia, m della
inventia, M^ della inventione — 23: m tutto innanzi — Af' mi. si prendono
— S7 : M' dell'una parte 7 del- l'altra — 28: M-m la 'nlentione — M' dal
prol. La mia causa è giusta, cioè, la mia parte è giusta. Controversia
vale a dire tanto come causa, e viene a dire “controversare” cioè usare
l'uno coli' altro di diverse ragioni e contrarie. Questione tant' è a
dire come '1primo detto di colui che comincia contra un altro e '1 secondo
detto di colui che ssi difende. Et appellasi quistione una diceria
nella quale àe due parti messe in guisa di dubitazione, et appellasi
questione per l'una e per l'altra parte della questione. Constituzione si
prende et intende in quelle medesime significazioni che sono dette davanti.
Stato è appellato il detto e '1 fatto'l) dell'aversario, però che'
parliere stanno a provare quel detto o quel fatto; e questo
medesimo è appellato constituzione perciò che '1 parliere
constituisce et ordina la sua ragione e la sua parte di quel detto o
di quel fatto. Et per ciò è appellato “CONTRO-VERSIA” che diversi
diversamente sentono di quel detto o di quel fatto. Qui dice lo sponitore
come Tullio tratterà della Invenzione. Et poi che Ilo sponitore àe dette
le significazioni di queste parole, dicerà in chente ordine Tulio tratta della
'nvenzione. Et certo primieramente insegna invenire e trovare quelle
questioni le quale trattano i parlieri, et appellale constituzioni e dice
la proprietade di constituzione e dividela in parti. Nel secondo luogo mostra
qual causa sia simpla, cioè di due divisioni, e qual sia composta, cioè
di quattro o di più. Nel terzo luogo mostra qual contraversia sia in
scritta e quale in dicere. Nel quarto luogo mostra quelle cose che
nascono di constituzione, cioè la diceria nella quale àe due divisioni e
ragioni, e Ila giudicazione e '1 fermamento. Nel quinto luogo mostra
in che guisa si debbono trattare le parti della diceria secondo
rettorica. Nel VI luogo mostra quante sono esse parti e quali e che sia
da ffare in ciascuna. Et disponesi cosi 2 : Af' vale quasi
tanto — 3: M' controversia — centra l'altro diverse ragioni — 4:M' k
tanto a dire — M-m come primo — 5: m e secondo — 7: M-m parti in essere — M
dn- bitatione sanfa dubitatione — 9: M' i s'intende — 10: m dinanzi — J8:
m om. VA- IO: M' sì dicerà oggimai — 20: L a trovare — 23: m In quattro
parti — M-m dimostra - M qual cosa, m ciualo luogho — 26 : M-m sia
scripta - 28 : M'-L e la ragiono el iu- dicamento el fermamente — 29: m
dimostra — 31: M luorao (tic) .— 32: M' ciascuno M Kt diponesi, m
('dispensi, M'-L Et dispone Ci aspetteremmo o 'l fatto, anche per
uniformità colle frasi seguenti ; ma la concordia dei codici per e lascia
incerti sulla conesiione, che non è neppure indispensabile per il
senso. — 59 — il testo di Tulio per fare
intendere onde procedono le qui- stioni che toccano al parliere di questa
ai'te. Ogne cosa la quale àe in sé CONTRO-VERSIA, cioè della quale i
diversi diversamente sentono sicché alcuna cosa dicono sopr' a cciò con
inquisizione, cioè per sapere se alcuna delle parti è vera o falsa, sì à'
in sé que- stione di fatto, cioè questione la quale muove di ciò che
alcun fatto è apposto altrui. Verbigrazia : Dice l'uno contra l'altro. Tu
mettesti fuoco nel Campidoglio. Et esso risponde. Non misi. Di questo
nasce una cotale questione, se elli fece questo fatto o no, et è appellata
questione di fatto per quello fatto che a llui è apposto, etc. Od è
questione di nome, cioè che l’una parte appone un nome a un fatto (D e
l'altra parte n'appone un altro. Verbigrazia: Alcuno à furato d'una chiesa
uno cavallo o altra cosa che non sia sagrata. Dice l’una parte contra lui.
Tu ài commesso sacrilegio. Dice l'altro. Non sacrilegio, ma furto. Et nota che
sacrilegio è molto peggiore che furto, perciò che colui commette
sacrilegio che fura cosa sacrata di luogo sacrato. Donde di questo nasce
una questione del nome di quel fatto, cioè se dee avere nome furto
sacrilegio, e però è appellata QUESTIONE DEL NOME. Od è questione del genere,
cioè della qualitade d'alcuno fatto, in ciò che l’una parte appone a quel
fatto una qualitade e l' altra un' altra. Verbigrazia : Dice F uno. Questi
uccise la madre iustamente perciò ch'ella avea morto il suo padre. Dice
l'altro. Non è vero, ma iniustamente l'à fatt; e di ciò nasce cotal
questione di questa qualitade. Se l'à fatto iustamente o iniustamente, e perciò
è appellata questione di genere, cioè della qualità d'un fatto e di
che maniera sia. Od è questione d'azione, cioè viene a dire che
contiene questione la quale procede di ciò, e' alcuna azione si muta d' un luogo ad altro
e d'un tempo ad altro. Verbigrazia : Dice uno contra un altro. Tu
m' ài M' diversi — 6: M' se l'una parte — 8: 3f' un facto — 8-9:
M' uno contra un altro — M' Elgli, mie— 12-13: m che 6 allui aposto, il/'
perche il facto che allui e e apposto da questione ecc. — M-m Onde
questione — i4 : M-m in nome o in facto, M' ialla dal 1° al 2° appone —
18: m M' oin. Et — M' peggio — 20: m Onde — 21: M' del nome del facto —
22: m di nome — 23: M-m Onde — m di genere — 25: M-m l'altro — 28: iW'
OHI. e — 29: M-m om. se l'à fatto — 30: M' o di che m. - 31 : M-m Onde —
mcioò che viene — 32-34: M' dico calcuna ad un altro — om. e.... ad altro — uno
a un altro È lezione congetturale,
ma sicura, come dimostra l'espressione analoga del § 16. furato un
cavallo »; et esso risponde: « Vero è, ma non tine rispondo in questo
tempo, perciò che ttu se' mio servo, o perciò eh' è tempo feriato, o
perciò eh' io non debbo rispon- derti in questa corte, ma in quella della
mia terra. Onde di questo procede una questione, la quale Tulio dice
che è d'azione, cioè se colui dee rispondere o no. Et dice Tulio
che tutte le quistioni che sono dette davanti sono appellate
constituzioni, cioè c'anno questo nome. Et dice che constituzione è la
prima pugna delle cause, cioè quello sopra che da prima contendono i
parlieri, cioè il detto dell'uno e '1 detto dell'altro, e questo sopra
che de prima contendono i parlieri si è il nascimento, cioè che
muove del contrastamento della intenzione, cioè del detto di colui che
ssi difende contra le parole dell'accusatore. Onde contastamento è
appellato el primo detto del difensore e intentione è appellata il primo detto
dello accusatore. Et pare che il nascimento della constituzione vegna
della difensione ch'è della accusa, non che nasca della difensione, ma perciò
che del detto del difenditore si puote cognoscere se Ila causa o Ila
questione è di fatto o di genere o di nome o d'azione, sì come appare nelli
exempli che sono messi davanti. Et
omai dicerà Tulio le nomora e Ile divisioni e Ile proprietadi e He cagioni
di tutte le dette questioni. Del fatto, et è detto congettìirale. Quando
la controversia è di fatto, perciò che Ila causa si ferma per congetture,
sì à nome constituzione congetturale. In questa parte dice Tulio che
quando la contenzione è per alcuno fatto che sia apposto ad altrui, sì come
davanti si dice, sì conviene eh' ella sia provata per con-
1 : M' 0(1 cigli, VI et e — 3: m e però ch'io — M' rispondere — 6 : M' se
quelli — m OHI. Et — 10: M i parliero, vi quello dello quale contendono
da prima — 14: M di- fontu — 15: m M' il primo — 16: M' appellato - 17:
M-m che nascimento — 19: M' owi. del — 23-24: M' om. e Ilo cagioni, mn
scrive le detto | cagioni I (piestioni — SS: Moni. è — 26-27: M-vi om. è
— per cometlere — 30: M' apposto altrui gettare, cioè per suspezioni e
per presunzioni. Verbigrazia: Dice uno contra un altro. Veramente tu
uccidesti Aiaces, ch'io ti trovai e VIDI TRAIERE IL COLTELLO DEL SUO
CORPO. Et questa è faticosa questione, ciò dice Vittorino, perciò 5. che
a provarla si faticano molto i parlieri, perciò ch'al- tressì ferme
ragioni si possono inducere per l’una parte come per 1' altra. E poi eh'
è detto della constituzione di fatto, sì dicerà Tulio di quella eh' è di
nome. Del nome, et è appellata ilifjìnitiva. Quando è la
controversia del nome, perciò che Ila forza della parola si
conviene diffinire per parole, sì è nominata diffi- nitiva. In
questa parte dice Tulio che quando la conten- 15 zione è del nome
del fatto, cioè come quel fatto eh' è apposto altrui abbia nome, quella
questione si è diffinitiva perciò che Ila forza, cioè la significazione
di quella parola e di quel nome si conviene diffinire, cioè aprire e
rispia- nare che viene a dire e che significa, non per exempli
ma per parole brevi e chiare et intendevole.Verbigrazia. Un uomo è
accusato che tolse uno calice d' uno luogo sacrato et è Ili apposto che sia
sacrilegio, et esso si difende dicendo che non è sacrilegio ma furto. Or
sopra questa controversia si è tutta la questione per lo nome di questo
fatto: è sacrilegio o furto? Onde per sapere la veritade si conviene
diffinire l'uno nome e l’altro, cioè dire la signifficazione e Ilo 'ntendimento
di ciascuno nome, e poi che fie chiarito per le parole quello che '1 nome
significa, assai bene si potrà intendere e provai e qual nome si XJonga
a 30. quel fatto. Et poi eh' è detto del nome, sì dicerà
Tulio del genere. 3: m e viJili trarre, M' ol ti vidi
trarre — 5-6: M'-L acciò che altress'i (L altre si) f. r. se ne possono —
7: in ora. E — *: m om. sì — W: M' la controversia è — ii: M'-L appellata
— 13: M-m om. è — 3f ' 7 ilei facto — 16: M' om sì — 17:M' che ella
airorca — M-m a quella parola - 21-22: M' del luogo sacro — 23: M' ma e
furto — 24-25: AT» se questo facto è sacrilegio furto — 26: m l'altro —
M-m dare - 28: M-m che nome — 30: m om. Ei e si Dice Tullio
del genere, et è appellato generale. Quando è quistione della cosa qual
sia, perciò clie Ila. controversia è della forza e del genere del fatto,
sì è vocata constituzione generale. In questa parte dice Tulio che quando
è questione della cosa quale ella sia, perciò che Ila controversia è
della forza del fatto, cioè della quantitade, e della comparazione
et altressì del genere, cioè della qualitade d'esso fatto, si è 10.
vocata constituzione generale. Verbigrazia. La quantitade del fatto si è cotale
questione : se uno à fatto tanto quanto un altro, si come fue questione SE
CICERONE AVEA TANTO SERVITO AL COMUNE ROMA QUANTO CATONE. La comparazione del
fatbo si è cotale: di due partiti qual sia migliore, si come fue questione
quando i ROMANI presono Cartagine QUAL ERA MEGLIO TRA DISFARLA O
LASCIARLA. Il genere del fatto si è questione della qualità del fatto sì
come davanti fue messo F exemplo, cioè se colui che fece il fatto
fece iustamente o iniustamente. Dice Tullio dell'azione, et è
appellata translativa. Ma quando la causa pende di ciò che non pare che
quella persona che ssi conviene muova la questione, o non la muove
contra cui si conviene, o non appo coloro che ssi conviene.d) o non in
tempo che ssi conviene, o non di quella lege o di quel peccato o di
quella pena che ssi conviene, quella constituzione à nome translativa,
però che ir azione bisogna d' avere translazione e tramutamento.
8: M-m o decta forfa — 9: M-m sia — M' aiiiiellala — H : M-m senno
- 14. m do fatto — i7: M-m qualità — 2'1: A/' l'accusa — 24: M convenne,
M-m nm. o non (1) La frase o non appo coloro che ssi conviene manca
in tutti i codici, ma si ricava dal latino aid non apud qiios e dal § 4
dol commento. In questa parte dice CICERONE della controversia
dell'azione, che quando sopr'acciò è Ila questione e' si conviene che l’azione
si tramuti in tutto o in parte, e perciò à nome translativa, cioè
trarautativa. Et questo è o puote essere Ijer sette maniere, le quali
sono nominate nel testo, cioè: 2. Quando non muove la questione quella
persona a cui la conviene di muovere. Verbigrazia: Dice uno scoiaio
contra ad un altro. Tu se' venuto troppo tardi a scuola. Et esso
dice. A te no'nde rispondo, che non ti si conviene muovermi questione di
ciò, ma conviensi al nostro maestro. O non muove la questione contra quella
persona che ssi conviene. Verbigrazia. Fue trovato che in ROMA si
trattava tradimento e fue alcuno che ll'aponea contra GIULIO Cesare, et
esso dicea. Contra me non si conviene muovere di ciò questione, ma contra
CATELLINA CATILLINA che l’ àe fatto e fa tutta fiata ». non muove la
questione appo coloro che ssi conviene, cioè davanti a quelle persone
che dee. Verbigrazia : Fue accusato il vescovo di simonia davanti al re di
Navarra. Il vescovo dice. Tu non m'accusi davante a giudice eh' io debbia
rispondere, ma io son bene tenuto di ciò e d'altro davante l'appostolico.
O non muove la quistione in quel tempo che ssi conviene. Verbigrazia. Uno
fue accusato il giorno di Pasqua. Esso dicea. Non rispondo ora di questo,
perciò che oggi non è tempo d' attendere a cotali convenenti» non
muove questione a quella lege che ssi conviene. Verbigrazia : Uno
cittadino di ROMA era in Parigi e volea piatire contra uno francesco
secondo la legge di Roma; ma quel francesco dice 3: Jtf -HI
7 si conviene, 3/' om. — 5: Af 7 puote, m e questo puole essere — M' in sette
m. — 7-8: m si conviene — M' in contro a un altro — 9-iO: M' Ed elgli, m
et elli — M-m om. ti — 12: M-m muovere, M' muove questione — i4: Af
alcuna —16: m questione di ciò, M' di ciò non si conv. m. q. — ' 17: m
tuttavia — M-m contra coloro — 18-19: M' che si dee.... Il vescovo fu
acc. — 21: M davante a giudici, m /> davanti a giudici, M' davanti
giudice - 24: m della Pasqua — egli — 25: M' non ti rispondo ora di ciò — 26: m
M' da rispondere — 29: M' la legge romana — m il Francesco
(1) Questa è la lezione miglioro per il senso, né si trova una valida
ragione per considerarla arbitraria, quantunque dalle due famiglie di
codici sembri risultare un da rispondere: sarà stato determinato dal rispondo
con cui comincia la frase che non dee rispondere a quella legge ma a quella
di Francia. O non muove la questione di quel peccato che ssi
conviene. Verbigrazia. Fue accusato uno, che non avea il membro
masculino, ch'avesse corrotta una vergine; esso dice. Io non risponderò di
questo peccato -- non muove questione di quella pena che ssi conviene.
Verbigrazia. Fue uno accusato ch'avea morto uno gallo et erali apposto
che perciò dovea perdere la testa; esso dicea: Non rispondo a questa
pena, perciò che non tocca a questo peccato. Donde tutte queste questioni sono
translative, cioè che ssi tramutano in altro fatto e stato, tal fiata
in tutto e tal fiata in parte, si come appare nelli exempli di
sopra. Dice Tullio se l'una delle dette quattro cose non fosse non
sarebbe causa. E così conviene che ssia l' una di queste inn ogne maniera
di cause, perciò che in qual causa no 'nde fosse alcuna, certo in quella
non porrebbe avere contraversia, e perciò conviene che non sia tenuta
causa. Poi che CICERONE àe divisate le parti della constituzione et
àe detto che e come è ciascuna di quelle parti e le loro nomerà, sì vuole
Tulio provare che quando l'una di queste questioni, che sono del fatto o
del nome o della qualità del tramutare l'azione, non è intra parlieri, certo
intra loro non puote essere controversia ; e poi che 'ntra loro non
à controversia, certo il fatto sopra il quale dicessero parole non
sarebbe causa, e così non sarebbe materia di questa arte, cioè che non
sarebbe dimostrativo né diliberativo né iudiciale. 2. Et provando questo sì
dimostra Tulio i: i non si dee — 4-5: m M' Klgli dico -- 7:
M' Fue accusalo uno — 8: M' nm_ perciò - m egli dice — M' non li lispondo
— 9: M' non tocclia (piosto peccato — ti: M' in altro slato, m om. e
stalo - J2:M' paro — 16: M' luna de ipicste sia - 17: M tn i|ualcosa, m
in quale chosa - SS : M-M^ 7 ciascuna - S3: m provare Tulio - S3-S6: M-m
om. ^ — m tralloro - 30: m quando ([U'-sto che Ile predette cose
in questa arte sono si congiunte in- sieme che qualuuiiue causa è
dimostrativa o deliberativa o iudiciale sì conviene che sia constituzione
o del fatto o del nome o della qualitade o dell' azione, et e converso
che 5. qualunque constituzione è del fatto o del nome o della
qualità o dell'azione sì conviene che sia dimostrativa o deliberativa o
iudiciale. Et omai perseverra Tulio sua ma- teria per dicere di ciascuna
parte per sé. Del fatto. La contraversia del fatto si puote
distribuire in tutti tempi: che ssi puote fare quistione che è essuto
fatto, in questo modo. Ulisse uccise Aiace o no ? Et puotesi fare questione che
ssi fa ora, in questo modo Sono i Fregelliani in buono animo verso
lo comune o no ? Et puotesi fare questione che ssi farà, in questo
15. modo : Se noi lasciamo Cartagine intera, everranne bene al
comune no? In questa pai'te dice CICERONE che Ila CONTRO-VERSIA la quale
è di fatto che ssia apposto ad altrui, la quale àe nome constituzione
congetturale sì come fue detto in adietro e messo in exempli, sì puote
essere in tutti tempi, cioè preterito, presente e futuro. Nel PRETERITO
pone Tulio r exemplo della MORTE D’AIACE, che fue cotale. Stando
l'assedio di Troia sì fue morto il buon Achille, et apresso la sua morte
fue grande questione delle sue armi intra Ulisse et Aiace. Et certo Ulisse
fue, secondo che contano le storie, il più savio uomo de' Greci e '1
milìor parliere, sicché per lo grande senno che i-llui regnava e
per lo bene dire niettea in compimento le grandi vicende, alle quali altre
non sapea pervenire, e perciò adoperò e' più di male contra' Troiani per
lo suo senno che non fecero M dimoslraliva — 3: M' constitutione
del facto — 4-6: M-m om. ot e conweiso.... dell'azione — 7 : M' Et
oggimai perseguita — 10: M' in dui tempi — 11: m clie exututo — 13: M* de
buono animo — 14: m om. che ssi farà — 15: M-m, L in terra — ikf' aver-
ranne, m e veramente bene — S3 : M' Tulio la morto — 24: M* a Troia — 26-27: M'
secondo che recitano le storie, fue M-m et niilior — 29: M* per .ben dire — 30:
Mie quali, m le quali oltre non sapeano — M adopio 7, m adoppio più, M'
adopero elgli M' in contro a — la non
fé, L non fece quasi tutta l'oste per arme, et alla fine si
parve uianifestameute, eh' elli fue trovatore del cavallo per lo quale
fue Troia perduta e tradita; ma veramente in guerra non si 5.
fatigava molto con arme e non era di gran prodezza, ma tuttavolta
dimandava che Ili fossono CONCEDUTTE L’ARMI D'ACHILLE, e dicea che nn'era degno
e ch'avea in quella guerra ben fatta l'opera perchè etc Et dall' altra
parte Aiaces era uno cavaliere franco e prode all'arme, di gran
guisa, ma non era pieno di grande senno e sanza molto** (D francamente
avea portate l'armi in quella guerra, e perciò domandava l'armi d'Achille
e dicea che non si conveniano ad ULISSE. Onde alla fine l'armi furono
concedute ad Ulisse, per la qual cosa montò tra lloro TANTA INVIDIA che divennero
nemici mortali ; et in questo mezzo tempo e morto Aiaces e fue della sua
morte ACCUSATO Ulixes, et esso si difendea e negava ; e di questo sì era
QUESTIONE DI FATTO in preterito, cioè che già era fatto in tempo
passato. Inol presente tempo mette Tulio l' exemplo de' Fragellani, che
furo una gente i quali fui'ono accusati in ROMA eh' elli aveano male animo
contra il comune. Et elli si difendeano e diceano che 11' aveano buono e dritto
; e di ciò si era QUESTIONE DI FATTO PRESENTE, cioè se sono ora
presentemente di buono animo o no. Nel FUTURO mette CICERONE l’exemplo di
CARTAGINE, la quale fue una delle più nobili cittadi e delle più poderose
del mondo, e tenne guerra contro a ROMA, sì eh' alla fine I ROMANI
vinsero e presero la terra ; e furo alcuni che voleano che Ila cittade si
disfacesse per lo bene di Roma, ET ALTRI CONSIGLIARO DEL NO perciò che '1
meglio ne potrebbe advenire s' ella rimanesse intera, e di ciò è QUESTIONE
DEL TEMPO FUTURO, cioè se bene o male n'averrà se Cartagine rimanesse
intera o s'ella si disfacesse. Ma poi che Tulio à detto della
controversia del fatto, sì dicerà di quella del nome in questo
modo. i: M' ne non era. — 6: M' ben dengno — 7 : M' ben
l'opera perchè, L bene adope- rato perchè — 9: m orti, e sanza molto —
10: M-m provale — 14: m iim. mezzo — 15 : m 7 dela sua morte fue aco. —
16-17 : M-m onde di questo era già (piestione... in perciò che già ecc.
(vi om. in perciò) — 18: M' Fregiani — 19: M' che fuoro accusati — SO:
SI' comune de Roma — 22 : m om. si — S6: M incontra — S7 : m om. e — M'
vollero (ma L voleano) — 28: m om. et — M' di no m pero che meglo ne potrebbe loro
intervenire M-m, L in terra — Af' e
questo nel tempo futuro — M-m che bene — 31: M, L'in terra (1) Così
hanno i mss. e perfino la stampa, ma evidentemente manca qualche parola
(anzi itf " dopo molto lascia uno spazio bianco), come dire o parlare.
Basti averlo notato, senza pretendere d' indovinare. Del nome. Controversia
del nome è quando lo fatto è conceduto, ma è questione di quello eh' è
fatto in che nome sia appellato; et in questo conviene che sia
controversia del nome, perciò che non s'accordano della cosa; non che del
fatto non sia bene certo, ma che quello ch'è fatto non pare all'uno
quello eh' all' altro, e perciò l'uno l'appella d'un nome e l'altro d'un
altro. Per la qual cosa in questa maniera la cosa dee essere diffinita
per parole e breve- mente discritta, come se alcuno à tolta una cosa
sacrata d'uno luogo privato, se dee essere giudicato furo o sacrilego,
che certo in essa questione conviene difinire l'uno e l'altro, che sia
furo e che sacrilego, e mostrare per sua discrezione che Ila cosa
conviene avere altro nome che quello che dicono li aversarii. In
questa parte dice CICERONE della controversia del nome ; e perciò
che di questo è molto detto davanti, sì siue trapassa lo sponitore
brevemente, dicendo solamente la tema del testo, sopra '1 quale il caso è
cotale: Roberto accusa Gualtieri ch'elli àe malamente tolta una cosa
sacrata, si come UNO CALICE o altra simile cosa la quale sia diputata a'
divini mistieri, e dice che Ila tolse d'uno luogo privato, cioè d'una
casa o d'altro luogo non sacrato. Viene l'accusato e confessa il fatto.
Dice l'accusatore. Tu ài fatto sacrilegio. Dice l'accusato. Non ò fatto
sacrilegio, ma furto. Et così sono in concordia del fatto, ma
non della cosa, cioè della proprietade per la quale si possa sapere che
nome abbia questo fatto, perciò eh' all' accusatore pare una, che dice
ch'è SACRILEGIO, et all'accusato pare un' altra, che dice eh' è FURTO.
Onde in questa maniera di CONTROVERSIA si conviene che '1 PARLIERE che
dice sopra questa materia dififinisca e faccia conto IN BREVI PAROLE
3 : it 7 (li questo — 9 : M-m distrecta —10: M- sacrato — M-m per
furto o per sacrilegio, L furto sacrilegio —11: M-m con l'altro — m furto — 12:
M-m che sacrilegio, A/' che sia sacrilego — il/' scriptione — 16:Mom.
detto — M' nm. si — 18: m sopralla quale - J/' Uberto : M' tolto — 19 : m
cosa simile — SI: M-m ad veruno mistieri (m mistiere) — 23-24: M il
l'atto. Et dice laccusato — m Non o, ma furto — 27-28: m però
chellachusatorc... una diosa — 2H-29: M-m om. sacrilegio.... cli'ò — 30:
jV' jjarladore — 3t: M' didinita - G8 - che cosa
è SACRILEGIO e che è FURTO; e così dee mostrare come questo fatto non à
quel nome che dice l'aversario. Ed è detto della CONTROVERSIA del nome;
omai dicerà Tulio CICERONE di quella del genere, in questo modo :
5. Del genere. ^Z. (e. IX) Controversia del genere è
quando il fatto è conceduto e sono certi del nome d' esso fatto, ma
è questione della quantitade del fatto o del modo o della
qualitade, in questo modo : giusto ingiusto - utile o inutile - e
tutte cose nelle quali è questione chente sia quel fatto. In questa parte
dice Tulio CICERONE della questione del genere, e di questa è tanto detto
dinanzi che 'n poche parole di- morerà lo sponitore ; e dice che quella
controversia è del genere nella quale Y accusato confessa il fatto et è in
con- cordia coir accusatore del nome d' esso fatto, ma sono in
discordia della quantitade del fatto, cioè se grande o pic- colo o molto
o poco. Verbigrazia. Un gran romano quando dovea cacciare i nemici del suo
comune si fuge. E accusato eh' ha fatto danno e male alla inaestà di Roma;
l'accusato confessa il fatto e '1 nome del facto. Dice l'accusatore. Questo
è grande DANNO. Dice l'accusato :
« Non è grande, ma PICCOLO. Ed è la discordia tra loro della quantità,
cioè se quel male è grande o piccolo. O sono in discordia del modo, cioè della
comparazione del fatto, sì come fue detto qua indietro nell'exemplo di
Cartagine, qual fosse la migliore parte tra disfare o lasciare. O sono in
discordia della qualitade del fatto, sì comepare in exemplo d'ORESTE che
uccide la sua madre, ed e accusato che l’ha morta ingiustamente. Ed ORESTE
si difende e dice che l'à morta giustamente, ma bene con-
OM, 8: M'in modo della qualitndo — 9: m o non giusto —
12: M' tracia — i3: M-m detto — VI di questo — M die poclie p. — m
dimora, Af' <limorra - 16-17: M' ohi. ma sono.... del fatto — 20: M-m
t>m. e male — S3: M-m nm. Ed — So: >/' Or sono, M-m OHI. - 26: M'
nm. si - 27 : M' o disfare - 2S : M-m quantitade - 29 : M' nelexemplo di
((uestl , M-vi dotesles — 30-.il : m nm. ot esso... GIUSTAMENTE giustamente, M'
nm. si - M-m cliellavea - 69 — fessa il fatto e
1 nome del fatto; ma sono in discordia della qualità, cioè se 11' àe
fatto GIUSTAMENTE O INGIUSTAMENTE. Ben è vero che Tulio CICERONE non
mette in exemplo della quàntitade nel testo, né della comparazione, se
non solamente della 5. qualitade ; e questo fae perciò che più sovente ne
vien tra Ile mani che non fanno l'altre, e perciò dice che tutte
cose nelle quali si confessa il fatto e '1 nome del fatto, ma è
questione della qualità d'esso fatto, sì è controversia del genere. E poi
che Tullio CICERONE à detto di questa questione del genere secondo il suo
parimento, sì procede immantenente a riprendere Ermagoras dell'errore suo in
questa controversia del genere. A questo genere Ermagoras sottopuose IV parti,
ciò sono DELIBERATIVO, DEMONSTRATIVO, IUDICIALE, E NEGOZIALE. Il quale
suo fallimento non mezanamente pare che ssia da riprendere, ma in
breve, perciò che sse noi ci ne passiamo così tacendo fosse pensato che
noi lo seguissimo sanza cagione; o se lungamente soprastessimo in ciò,
paia che noi facessimo dimoro et impedimento agli altri insegnamenti. Se
deliberamento e dimostramento sono generi delle cause, non possono essere
diritte parti d'alcuno genere di causa, perciò che una medesima cosa
puote bene essere genere d'una e parte d'un' altra, ma non puote essere
parte e genere d'una me- desima. Et certo deliberamento e dimostramento
sono genera delle cause. Ma o non è alcuno genere di cause, o è pur
iudiciale sola- mente, è iudiciale e dimostrativo e deliberativo. Dicere
che non sia alcun genere di cause, con ciò sia cosa eh' e' medesimo dice
che Ile cause sono molte e sopra esse dà insegnamento, è grande
forseneria. Un genere, cioè pur iudiciale solamente, non puote
essere, acciò che diliberamento e dimostramento non sono simili intra
lloro e molto si discordano dal genere iudiciale, e ciascuno à suo
fine al quale si dee ritornare. Adunque è certo che tutti e tre son
ge- neri delle cause, e così deliberamento e dimostramento non
possono 4: M> nel testo exemiilo - 5: M' in tra le mani —
iO: m om. secondo il suo pari- mente — M mantenente — 13: M-m II (juale
lue — i7 : 3/' nm. i)erciò — cene passas- simo — 18: m stessomo - 19: M'
dimora, m imped. 7 dimoro — 20: M-m dim. — 22 : m M' causa — M-m genere 7
parte d' una medesima - 23 : M' Ma none, vi Ma anno ale. — 26: M-m om. e
deliberativo — 27: M' ch'elli - 28: M' essi... inseffnamenti — 28-29 : M
7 grandi; fors (?), m 7 grande forma, M' 7 grandi mattezze. Genere ere. — .12
: M 7 certo — 3:i : M' de cause... dimost. 7 del. essere a
diritto tenute parti d'alcuno genere dì causa. Dunque ma- lamente disse
ch'elli fossero parte della constituzione del genere. 46. (e. X) Et
s'elle non possono essere tenute diritte parti della causa del genere,
molto meno fien tenute parti della diritta parte della causa; e parte
della causa è ogne constituzione; donde no la causa alla constituzione,
ma la constituzione s'acconcia alla causa. Ma dimostramento e
diliberamento non possono essere tenute diritte parti della causa del
genere, perciò che sono generi: donque molto meno debbono essere tenuti
parte di quello ch'esso dice. Appresso ciò, se Ila constituzione et essa e
ciascuna parte della con- stituzione è difensione contra quello eh' è
apposto, conviene che quella che no è difensione non sia constituzione ne
parte di constituzione. Et certo deliberamento e dimostramento non sono
constituzione. Dunque se constituzione et ella e la sua parte è
difensione contra quello eh' è apposto, il dimostramento e '1
diliberamento non è constituzione ne parte di constituzione. Ma piace a
Itui che ssia difensione. Dunque conviene che Ili piaccia che non sia
constituzione, né parte di constituzione. Et in altrettale isconvenevile
fie condotto, se esso dica che constituzione sia la prima confermazione
dell' accusatore o Ila prima preghiera del difenditore ; e così
seguiranno lui tutti questi sconvenevoli. Appresso ciò, la causa
congettu- rale, cioè di fatto, non puote d'una medesima parte inn un
medesimo genere essere congetturale e diffinitiva ; et altressì la
diffinitiva causa non puote essere d'una medesima parte inn uno
medesimo genere diffinitiva e translativa. Et al postutto neuna
constituzione ne parte di constituzione puote avere e tenere la sua forza
et altrui; perciò che ciascuna è considerata semplicemente per sua natura
; se l'altra si prende, il nomerò delle constituzioni si radoppia, non
si cresce la forza della constituzione. Veramente la causa
deliberativa insieme d'una medesima parte in un medesimo genere suole
avere la constituzione congetturale e generale e diffinitiva e
translativa, et alla fiata una e talvolta piusori. Adunque, essa non è
constituzione né parte di constituzione. Et questo medesimo suole
usatamente advenire della causa dimostrativa. Adunque sì come noi avemo
detto 3,5. davanti, questi, cioè deliberamento e dimostramento,
sono generi delle cause e non parti d'alcuna constituzione.
1 : M' a diricto essere tenute parte — 5: M-tn om. parto delln causa ì- —
vi om. no - 7: JV' tenuti — 9 : m tenute parti, il/' im. tenuti — M-m
cliossi dice — iO: M-m chella const. — 11: M-m ? difensione — M' (piella
- IS: M-m non sia la constitutione — 13: m om. Et — 14: M 1 dunque le
const., m Dunque la const. — 15: M' nm. e '1 dilibera- mento — 16-18: m
om. i due periodi — ^0 : m seguiteranno - l' 1 : M-m si convenevoli - 23:
M'^ diffinitiva, m chon dilf. — 25 : M-m om. e translativa - 26: M-m om. nk -
M' ne te- nere — 2S: m il novero — il/ sic radoppia — 31: m coniotturalc
generale — 32: i wim. illusori — (i Lo
sponitore. I. In questa parte dice Tulio che Ermagoras dicea che
Ila controversia del genere avea quattro parti sotto sé, ciò sono
deliberativo, demostrativo, iudiciale e negoziale; della 5. qual cosa
Tulio lo riprende in tutte guise, e mostra molte ragioni come Ermagoras
errava malamente, e questo pruova manifestamente per argomenti dialetici:
che dimostramento e deliberamento sono generi delle cause si che Ile
cause sono parti di loro; e poiché sono generi, cioè il tutto delle
10. cause, non possono essere parte delle cause, acciò ch'una cosa
non puote essere tutto d'una cosa e parte di quella medesima. 2. Et così
per molte ragioni o vuoli argomenti conclude Tulio che Ermagoras avea mal
detto, e poi se- guentemente dice la sua sentenza : quali sono le parti
della constituzione del genere, cioè della quantitade e del modo e
della qualitade del fatto, sì come qui dinanzi fue detto. Et in ciò
incomincia la sentenzia di Tullio in questo modo : Le parti
della constituzione generale. 20. ^S. (e. XI) Questa constituzione
del genere pare a noi ch'ab- bia due parti : Iudiciale e
negoziale. Lo sponitore. 1. Poi che Tullio àe ripresa
l' oppinione d' Ermagoras delle quattro parti, si dice la sua sentenza e
dice che sono 25. pur due parti, cioè quelle altre due che dicea
Ermagoras: iudiciale e negoziale ; et immantenente detta la sua
sen- tenza, la quale vince quella d' Ermagoras e d'ogn' altro, sì
dice e dimostra che è iudiciale e che è negoziale, in questo modo
4: M' dimostrativo, deliberativo ecc. — 6: M-m provava — 9: m genero —
10: M el acciò — 11 : M-m tiicta — 13:M^ conchiude Tulio Ermagoras avere
— 17 : il/' comincia — 23 : m ripreso — 28: M' che e iuridiciale {e cosi
sempre), M-m che iudiciale 7 che {ni om. che) negotiale ludiciale è
quella nella quale si questiona la natura dì dritto e d' iguaglianza e la
ragione di guiderdone o di pena. Sponitore. 5. 1. La
iudiciale coustituzioue è quella nella quale per diritto, cioè per
ragione provenuta per usanza e per igual- lianza, cioè per ragione
naturale o per ragione scritta, si questiona sopra la quantitade o sopra
la comparazione o sopra la qualitade d'un fatto, per sapere se quel fatto
è giusto o ingiusto o buono o reo. Altressì è iudiciale quella
nella quale è questione d'alcuno per sapere s'egli è degno di pena o di
merito. Verbigrazia. Alobroges è degno d'avere merito di ciò che
manifestò la congiurazione di Catenina? e questionasi del sì o del no. Et
anche questo exemplo. È Giraldo degno di pena di ciò che commise
furto ? e questionasi del si o del no. Et poi che à detto Tulio del
iudiciale, si dicerà dell'altra parte, cioè della
negoziale. Negoziale è quella nella quale si considera chente ragione
sìa per usanza civile o per equitade, sopra alla quale diligenzia sono
messi i savi di ragione. Dice CICERONE che quella constituzione è
appellata negoziale nella quale si considera per usanza civile, cioè per
quella ragione la quale i cittadini o paesani sono usati di
tenere i-lloro uso o in loi'o costuduti, o per equitade, cioè
per legi scritte, chente ragioni debbiano essere sopra quella
2: m quello nel (juale — 3: M'-L ella ragione di diritlo, S di
merito — 6: m perve- nuta — 8.me sopra la comp. — 9: m se questo giusto
—il: M^ si questiona d'alcuno selglie ecc. — 12-14: m o di morte — M-m o
alabroges di Catenina et questionisi del si et del no (m di si o di no),
L e questo exemplo —16: m quistionìsi... om. Et — A/ 7 del no — 16-17: M'
Tulio a detto dela giuridicialo — 20: M' Di negotiale — 26: M' om.
paesani — 27 : M' i loro costuduti m illoro chostuduli, M' in loro constituti —
M-m equalitade — S8 : M' cliente ragione debbia constituzione.
2. Et intra la iudiciale e la negoziale àe co- tale differenzia : che Ila
iudiciale tratta sopra le cose pas- sate et intorno le leggi scritte e
trovate ; ma la negoziale intende intorno le presenti e future (1) et
intorno le legi et 5. usanze che saranno scritte e trovate.Et questa è di
molta fatica, perciò che' parlieri s'affaticano di grande guisa a
provarla et a formare nuove ragioni et usanze allegando in ciò ragioni da
simile o da contrario. Et questa questione si tratta davante a' savi di
legge e di ragione, ma in provare la iudiciale basta dicere pur quello che Ila
ragione ne dice. 4. Et poi che Tulio à detto che è la iudiciale e
che è la negoziale, sì dicerà delle parti della iudiciale per meglio
dimostrare lo 'ntendimento di ciascuno capitolo dell' Arte. Di due
parti di Iudiciale. La iudiciale dividesi in due parti, ciò sono assoluta
et assuntiva. In questa parte dice Tulio che quella questione la quale
è iudiciale, sì come davanti è mostrato, sì à due parti. Una eh' è
appellata assoluta e l'altra la quale è appellata assuntiva ; e dicerà di
catuna per sé. 3 : M interno — 4: i mss. futuro — M' il
presente — 8 : m in se ragioni — 9 : M assaivi, m si tratta da savi — 10:
M pur di quello — 16: M' si divido — 21 : M' luna la quale è appellata -
M-m e assunptiva Per quanto la lezione di -Jf' (il presente e futuro)
sembri ottima, prefe- risco ricorrere alla lieve correzione di futuro in
future.: M* ha tendenza a cam- biare, e quindi non è improbabile che,
trovando già l'errato futuro, abbia voluto accordare con esso l'aggettivo
precedente, le presenti. Non saprei invece come spiegare un cambiamento
inutile in M-m. Assoluta è quella che in sé stessa contiene questione
o di ragione o d' ingiuria. Dice CICERONE che quella questione
iudiciale del genere èe appellata assoluta la quale in sé medesima
è disciolta e dilibera, sì che sanza niuna giunta di fuori contiene
in sé questione sopra la qualitade o sopra la quantitade o sopra la
comparazione del fatto, il qual fatto si cognosce s'egli é di ragione o
d'ingiuria, cioè se quel fatto é giusto o ingiusto o buono o' reo, sì
come in questo exemplo donde fue cotale questione. Verbigrazia : Fecero
quelli da Teba giusto o ingiusto quando per segnale della loro vittoria
fe- cero un trofeo di metallo? Et certo questo fatto, cioè fare un
trofeo di metallo per segnale di vittoria, piace per sé sanza neuna
giunta et in sé contiene forza della pruova, perciò ch'era cotale
usanza. Assuntiva è quella che per sé non dà alcuna ferma cosa a
difendere, ma di fuori prende alcuna difensione ; e le sue parti
sono quattro : concedere, rimuovere lo peccato, riferire lo peccato
e comparazione. S:M-m slesso — 7: M-m nm. ai — fi:
M-m «m. o sopra la (luantilude — 7 invece ili 0—9: M' in f|uel facto —
12: M-m Ino - »« di Teba — 14-13: m et cerio questo trofeo fatto faro per
sengnale della loro Victoria jiiuce per so medesimo — 16: M' la forfa — 1
9 : M-m ohi. olio per sé non dà alcuna CICERONE dice che quella
constituzione è appellata assuntiva della quale nasce questione, la quale in sé
non à fermezza per difendersi da quello peccato eli' è allui appo-
5. sto, ma d'un altro fatto di fuori da quello prende argomento da difendersi;
si come nella questione d'Orestes, che fue accusato eh' avea morta la sua
madre, et elli dicea che ll'avea morta giustamente. Et certo il suo dire
parca crudel fatto, sì che queste parole per sé non anno difensione
com'elli l'abbia fatto giustamente, ma prende sua difen- sione d'un altro
fatto di fuori e dice: « Io l'uccisi giusta- mente, perciò ch'ella uccise
il mio padre ». Et così pare che con questa giunta piaccia la sua
ragione. Efc questa co- tale questione assuntìva à quattro parti, delle
quali il testo 15. dicerà di catuna perfettamente per sé.
Concedere e concessione è quando l'accusato non difende quello eh'
è fatto ma addomanda che ssia perdonato ; e questa si divide in due
parti, ciò sono purgazione e preghiera. 20. Sponitore.
I. Poi che Tulio avea detto che è e quale la questione assuntìva e
com' ella si divide in quattro parti, sì vuole di- cere di ciascuna per
sé divisatamente perchè '1 convenentre sia più aperto. 2. Et
primieramente dice che é concedere, e dice che quella constituzione é
appellata concessione quando l'accusato concede il peccato e confessa
d'averlo fatto, ma domanda che ssia perdonato ; e questo puote es-
sere in due maniere: o per purgazione o jjer preghiera, e di ciascuna di
queste dirà Tulio partitamente, e prima 30. della purgazione.
3: M> non àe in se — 5: M' di quello — 7 : M' Pt elli rispondea
— 8-iO: M-m om. Kt certo.... giustamente — i4: M' nm. assuntìva — 15: M'
per se perfectamente — 17: M' o concessione - 18 : 3f ' domanda chelgli
sia p. — m. 7 questo — 21 : m che e quale, M' che 7 quale 6 — 23: m di
chatuna — 24: M-m concede — 26: m confessa il pechato d'averlo
facto Purgazione è quando il fatto si concede ma la colpa si ri-
muove, e questa sì à tre parti : imprudenzia, caso e necessitade. Dice CICERONE
che quella maniera di concedere la quale è per purgazione sì è et
aviene quando l'accusato confessa, ma lievasi la colpa e dice che quel
fatto non fue sua colpa ; e questo puote fare in tre maniere, delle quali
è prima Imprudenzia, cioè non sapere. 2. Verbigrazia : Mercatanti
10. fiorentini passavano in nave per andare oltramare. Sorvenne
loro crudel fortuna di tempo che Ili mise in pericolosa paura, per la
quale si botaro che s' elli scampassero e per- venissero a porto che elli
offerrebboro delle loro cose a quello deo che là fosse, et e' medesimi F
adorrebbero. Alla fine arrivaro ad uno porto nel quale era adorato
Malcometto ed era tenuto deo. Questi mercatanti l' adoraro come idio e
feciorli grande offerta. Or furono accusati ch'aveano fatto contra la
legge ; la qual cosa bene confessavano, ma allegavano imprudenzia, cioè
che non sapeano, e perciò 20. diceano che fosse perdonato. Et di
ciò era questione, se doveano essere puniti o no. 3. La seconda maniera è
caso, cioè impedimento eh' adiviene, sì che non si puote fare
quello che ssi dee fare. Verbigrazia : Un mercatante caur- sino avea
inprontato da uno francesco una quantità di pe- 25. cunia a pagare
in Parigi a certo termine et a certa pena. 6: M-m om. b — 7
: M-m imi. non — 8: M' Kl puotesi l'art! — o In prima — tO: M per mare
oltramare, di passavano per maro in nave — Jf sopravenne — li: mi miseli,
JV/' om. che — 14: M' edelgli medesimi — 15: M' Macliometlo, m Maometto — 17:
M' fecero grande oHerta. Fiioro ecc., m mii. Or — 19: M' noi sapeano —
21: m puliti — S4 : m inprontato moneta da uno franeesclio
Avenne che '1 debitore, portando la moneta, trovò il fiume di
Rodano si malamente cresciuto che non poteo passare né essere al termine
che era ordinato. Colui che dovea avere domandava la pena, l' altro
confessava bene eh' avea 5. fallito del termine, ma non per sua colpa, se
non che '1 caso era advenuto ch'avea impedimentitotU la sua venuta, e
però dicea che Ila pena non dovea pagare; e di ciò è questione, se
Ila dovea pagare o no. La III maniera è necessitade, cioè che conviene che
ssia così et altro non potea fare. Verbigrazia : Statuto era in
Costantinopoli che qualunque nave viniziana arrivasse nel porto loro, la
nave e ciò che entro vi fosse si publicasse al segnore. Avenne che
merca- tanti genovesi allogare una nave di Vinegia e passaro con
grande carico d'avere. Convenne che per impeto di tempo per forza di
venti, centra' quali non si poteano pa- rare, pervennero nel porto e fue
presa la nave e le cose per lo segnore. Ben confessavano li mercatanti
che Ila nave era veniziana, ma per necessitade erano venuti in esso
porto, e però diceano che non doveano perdere le cose ; e di ciò era
questione, se Ile doveano perdere o no. Tutto altressì i Veniziani, cui
fue la nave, raddomandavano la nave o la valenza; i mercatanti diceano
che l'amenda non dovea es- sere domandata, perciò che per necessitade e
non per volontade erano iti in quel porto. Et poi' che Tullio àe detto
della purgazione e delle sue parti, si dicerà della preghiera. Preghiera è
quando l'accusato confessa ch'elli àe commesso quel peccato e confessa
che 11' àe fatto pensatamente, ma sì domanda che Ili sia perdonato, la
qual cosa molte rade fiate puote advenire. 1 : M-m avieno —
S : M-m polea — 3: M' a. termine ordinato — 5 : M' al termine - 5-6: M
impedimento, M* ma nel caso era avennlo 7 avea impedimentita — il: M' nel
loro porto — 13: m una nave viniziana, 3/' una nave de Viniziani 7 passavano —
14-15: M per un tempo per impetto 7 per f., if ' per impedimento, m di
vento — 18: M^ in quel porlo — SO: M' ora la questione — m dovea — 22: M'
che por lamenda — 24 :m om. Et — 28-29: m domandasi — M' om. molto
(1) Questa lezione di w è confermata da impedimentita di Jf*, cioè
dall'altra fami- glia di codici. Lo scambio, avvenuto in M, con
impedimento era facilissimo e lo favoriva il fatto che il senso restava
quasi il medesimo : « la sua venuta avea avuto impedi- mento ^>.
Così leggo con w, poiché in if e ilf ' il passo è manifestamente guasto
(impedimento è correzione arbitraria), mentre l'espressione impeto di tempo,
ana- loga, a quella del § 2 fortuna di tempo, può bene corrispondere alla
magna tempestas di cui parla l'esempio ciceroniano {De Inv., II, 98) sul
quale è modellato il nostro CICERONE dimostra in questa picciola parte del
testo che cosa è appellata preghiera in questa arte. Et dice che
allotta è questione di preghiera quando l'accusato confessa 5. e dice che
fece quel peccato che gli è aposto e ricognosce che ir à fatto
pensatamente, ma tutta volta domanda per- dono. 2. Onde nota che questa
preghiera puote essere in due maniere, o aperta o ascosa. Verbigrazia :
In questo modo è la preghiera aperta : Dice l' accusato. Io
confesso bene ch'io feci questo fatto, ma prego vi per amore e per
reverenza di Dio che voi mi perdoniate ». La preghiera ascosa è in questo
modo : « Io confesso eh' io feci questo fatto e non domando che voi mi
perdoniate ; ma se voi ripensaste quanto bene e come grande onore i' òe
fatto al comune, ben sarebbe degna cosa che mi fosse perdonato ». 3.
Ma ssì dice Tullio che queste preghiere possono adve- nire rade volte,
(l) spezialmente davante a' giudici che sono giurati a lege sie che non
anno podere di perdonare. Ben puote alcuna fiata lo 'mperadore e '1
sanato avere prove- 20. denza in perdonare gravi misfatti, sì come
poteano li anziani del popolo di Firenze ch'aveano podere di gravare e di
disgravale secondo lo loro parimento. Et poi che Tullio àe detto della
prima parte della constituzione as- suntiva, cioè della concessione e che
cosa è concedere, et à delle due maniere di concedere detto, cioè di
purgazione e di preghiera, sì dicerà della seconda parte, cioè
rimuo- vere lo peccato. Rimuovere lo peccato è quando l'accusato si
sforza di rimuovere quel peccato da se e da sua colpa e metterlo sopra
un S : M' mostra — 5 : M' elicigli lece — 6' : M'
nppensatainentc — 8 : M' nascosa — 14: M' om. bene — 17 : M^ fiato (ma L
volte) — li ([uali sono — 18: M noniianno — 19: m prudenzia — SS: m
eclisgravare, M> 7 disgravare — ni lo loro parere, L illoro pa- rere,
S il loro piacimento — m om. Et — So: M' m e a detto delle duo maniere ecc.
- 30 : M' mettelo (ma L metterlo) (1) Conservo volte appunto
perchè questa parola in itf è meno frequente di fiate Q non si può
considerare correzione arbitraria; invece fiate sarà stato sosti- tuito
per uniformità col testo tradotto (v. pag. preced., 1. 29). altro per
forza e per podestà di lui ; la qual cosa si puote fare in due guise: o
mettere la colpa o mettere lo fatto sopr'altrui. Et certo la colpa e la
cagione si mette sopra altrui dicendo che quel sia fatto per sua forza e
per sua podestade. Il fatto si mette sopr'altrui 5. dicendo che dovea un
altro e potea fare quel fatto. In questo luogo dice CICERONE eh' è
rimuovere lo peccato e come si puote fare, et è cotale il caso : Uno è
accu- sato d'uno malificio, et elli vegnendo a sua defensione si
leva da ssè quel maleficio e mettelo sopra un altro, o dice bene che 11'
à fatto, ma un altro cli'avea in lui forza e si- gnoria il costrinse a
ffare quel male ; e questo rimovimento del peccato dice Tullio che ssi
puote fare in due guise : l'una si mette la colpa e la cagione sopra un
altro, l'altra 15. si mette il fatto sopra altrui. Et certo la
colpa e la cagione si mette sopì'' altrui quando l'accusato dice che elli
à fatto quel male per colpa d'alcuno il quale à sopra lui forza e
signoria. Verbigrazia. Il comune di Firenze elesse ambasciadori e fue
loro comandato che prendessero la paga 20. dal camarlingo per loro
dispensa et immantenente andas- sero alla presenzia di messer lo papa per
contradiare il passamento de' cavalieri che veniano di Cicilia in
Toscana contra Firenze. Questi ambasciadori domandare il paga-
mento e '1 signore no '1 fece dare, e'I camarlingo medesimo negò la
pecunia, sicché li ambasciadori non andaro e' ca- valieri vennero. Della
qual cosa questi ambasciadori fuorono accusati, ma elli si levaro la colpa e la
cagione e 3: m la chosa — 7: Af' die e rimuovere — 9: M' do
malilicio - i4 : m luna mette, M' l'una si e mettere — ^5: M' si e
mettere — m om. Kt - 20: Af inmanlenenente, it/' incontanente — 21 : m
cliontradire - 23: M-m domandano — 24: M m il segnore — m e il
chamarlengo — 25: m il nego di dare la pecliunia — 26:m li anbasciadori — 27
:M' si levano miseria sopra '1 signore e sopra '1 camarlingo, i
quali aveano la forza e la seguoria e non fecero lo pagamento. 3.
Mettere il fatto sopr' altrui è quando l'accusato dice ch'egli quel fatto
non fece e non ebbe colpa né cagione 5. del fare, ma dice che alcuno
altro l'à fatto et ebbevi colpa e cagione, mostrando che quell'altro
sopra cui elli il mette dovea e potea fare quel male. Verbigrazia :
Catone e Catenina andavano da ROMA a Kieti, et incontrarono uno parente
di Catone, a cui Catellina portava grande maialo, voglienza per cagione della
coniurazione di Roma, e perciò in mezzo della via l'uccise. Né Catone non
avea podere di difenderlo, perciò eh' era malato di suo corpo, ma
rimase intorno al morto per ordinare sua sopultura. Et Catellina si
n'andò inn altra parte molto avaccio e celatamente. In questo mezzo genti che
passavano [per la via] per lo camino trovaro il morto di novello, e Catone
intorno lui, sì PENSARO CERTAMENTE CHE CATONE AVESSE FATTO IL MALIFICIO, e
perciò fue esso ACCUSATO di quella morte; ond'elli in sua defensione
levava da ssè quel fatto dicendo che fatto noll'avea e che no'l dovea fare,
perciò ch'ERA SUO PARENTE, e dicea che noU'arebbe potuto fare, perciò eh'
elli era malato di sua persona. Et così recava il fatto e LA COLPA SOPRA
CATELLINA, perciò che '1 dovea fare come di suo nemico e poteal fare, eh'
era sano e forte e di reo animo. Et poi che Tulio àe insegnato rimuovere
lo peccato, sì insegnerà in questa altra partita riferire il
peccato. Ttillio dice che è riferire il peccato.
58. Riferire il peccato è quando si dice che ssia fatto per
ragione, in perciò che alcuno avea tutto avanti fatto a liuì 30.
ingiuria. i : m 7 al chamai-lingo — 4-ò: M om. ch'egli... ma
dice — m nel fare — 5 : Af ' che un altro — 9: VI om. grande — 12 : m di
suo corpo malato — 15: M^ gente — J/' m om. per la via - 16: m il novello
morto — 18 : M' tn fu elgli - 1!) : M' chelgli facto — 20-Sl : m avea nel
dovea fare — o?n. e dicea che — Jlf ' ohe noi potea fare ~ ohi. elli — 23:
m pero chelli dovea fare — 25: M-m om. si — M' insegna — 26: M' jxirte —
M-m refre- nare (sempre) — : vi pero che — da\anti (1) Le
parole per la via sono con tutta probabilità una glossa o una variante di
per lo camino; infatti mancano in codici delle due famiglie.
81 Lo sponitore. I. Dice Tullio che
riferire il peccato è allora quando l'accusato dice ch'elli àe fatto a
ragione quello di che elli é accusato, perciò e' a Uui fue prima fatta
tale ingiuria che dovea a rragione prendere tale vengianza, sì come
apare neir exemplo d' Orestes, che fue accusato della morte di sua
madre, et esso dicea che ll'avea morta a ragione, perciò che
primieramente avea ella fatta a llui ingiuria, cioè ch'avea morto il
padre d' Oreste; e di questo nasce cotale questione se Oreste fece quel fatto a
ragione o no. Et poi che Tullio àe insegnato riferire lo peccato, sì
insegnerà ornai che è comparazione. CICERONE dice che è comparazione.
Comparazione è quando alcuno altro fatto si contende cfie fue diritto et
utile, e dicesi che quello del quale è fatta la ripren- sione fue
commesso perchè quell'altro si potesse fare. In questo luogo dice CICERONE
che quella questione è appellata comparazione nella quale l'accusato dice ch'à
fatto quello eh' è a llui apposto, i^er cagione di poter fare un
altro fatto utile e diritto. Verbigrazia : Marco Tullio, stando nel
più alto officio di ROMA, sentìo che coniurazione si facea per lo male
del comune, ma non potea sapere chi né come. Alla fine diede dell'avere
del comune in grande quantitade 25. ad una donna la qiiale avea
nome Fulvia, et era amica per amore di Quinto Curio, il quale era
sapitore del tradimento ; e per lei trovò e seppe dinanzi tutte le cose
in tale ma- niera eh' elli difese la cittade e '1 comune della
molt'alta tradigione. Ma alla fine fue ripreso ch'elli avea troppo
ma- 2 : M' allocta — 4 : M' facla prima — 5 : M' prenderne
(ma L prendere) tale vendctla — pare — 6: M' dela sua madre — 8: m prima
— J/' facto, m aliai fatto - iO: m om. El — 14: M-m quanto un altro — 16:
M' per quell'altro - 18: JW in questa parte — 19: M-m che facto — 26: M^
ora parteDce — 28: M' dela mortalo lamente dispeso l'avere
di Roma. Et elli in defensione di sé dicea che quelle spese avea fatte
per fare un altro fatto utile e diritto, cioè per scampare la terra di
tanta distruzione, e quello scampamento non potea fare sanza 5. quella
dispesa; e cosi mostra che '1 fatto del quale elli è ripreso fue fatto
per bene. Et poi che Tullio àe detto delle quattro parti della
constituzione assùntiva, la quale è parte della iudiciale sì come pare
davanti nel trattato della con- stituzione del genere, sì ridicerà elli
brevemente sopra la questione traslativa, della quale fue assai detto in
adietro, per dire alcuna cosa che là fue intralasciata. Come
Ermagoras fue trovatore della questione translativa. Nella IV questione,
la quale noi appelliamo translativa, certo la controversia d'essa
questione è quando si tenciona a cui convegna fare la questione, o con cui
od in che modo, o davante a cui, per quale ragione, o in che tempo ; e
sanza fallo tuttora è controversia o per mutare o per indebolire
l'azione. Et credesi che Ermagoras fue trovatore di questa constituzione;
non che molti antichi parlieri non l' usassero spessamente, ma perciò che Ili
scrittori 20. dell'arte non pensaro che fosse delle capitane e non
la misero in conto delle constituzioni. Ma poi che da llui fue trovata,
molti l'anno biasimata, i quali noi pensamo e' anno fallito non pur in
pru- denzia;(i) che certo manifesta cosa è che sono impediti per
invidia e per maltrattamento. Questo testo di Tullio è assai aperto
in sé medesimo, e spezialmente perciò che della questione o
constituzione translativa è assai sufficientemente trattato indietro
in i : M' l'avere del comune — 3:3/' diiicto 7 utile - 4: M'
non si pelea fare — 7: M< om. assiintiva - 8: M' iuridiciale — //: M-m
che ella l'uo translassala — lS:M-m emargonis — 13: M Uela quarta q. (e
punto ilnpn translativa) — 15-1 (!: M' davanti cui — M-m sanfa follia —
19: M' parladori — 23: M' cambiano - S4 : M' per mal. (1) La
traduzione non è esatta, poicliè il testo latino dice: quos non tamim- prudentia
falli indamus (res enim perspìcua est) quam invidia atque óbtrectatione
quadam inipediri. Si potrebbe proporre per congettura non per imprudenzia ;
ma non sembra contraddirvi il 8 -3 del commento parlando di '' alquanti
che non erano bene savi ,, ? altra parte di questo libro, e
là sono divisati molti exempli per dimostrare come si tramuta 1' azione
quando non muove la questione quelli che dee, o centra cui dee, o
in- nanzi cui dee, o per la ragione che dee, o nel tempo che . 5.
dee. Z.Sicchè al postutto in(i) questa translativa conviene che sempre
sia : o per tramutare l' azione in tutto, come ap- pare indietro
nell'exemplo di colui che risponde all'aver- sario suo: « Io non ti
risponderò di questo fatto né ora né giamai »; e così in tutto tramuta
l'azione dell'aversario etc. O é per indebolire l'azione in parte ma non
del tutto, si come appare nell' exemplo di colui che risponde all'
aver- sario suo : « Io ti risponderò di questo fatto, ma non in
questo tempo» o «non davante a queste persone». Et dice Tullio che
Ermagora fue trovatore della translativa constituzione, cioè che Ha mise nel
conto delle quatro constituzioni sì come detto fue inn adietro. Et di ciò fue
ripreso da alquanti che non erano bene savi e che aveano invidia e
maltrattamento contra lui. Nota che invidia è dolore dell'altrui bene, e
maltrattamento è dicere male d'altrui. Tullio dice che davanti
diceva exempli in ciascuna maniera di constituzioni. Già avemo
disposte le constituzioni e le loro parti; ma li axempli di
ciascuna maniera parrà che noi possiamo meglio divisare quando noi
daremo copia di ciascuno de' loro argomenti; perciò 25. ch'allotta
sarà più chiara la ragione d'argomentare, quando l'exemplo si potrà
a mano a mano aconciare al genere della causa. Vogliendo Tullio passare al
processo del suo libro, brievemente ripete ciò eh' à detto avanti,
dicendo che dimo- 2: M-m si traclava — 3: M^ che dee conLra
cui dee ~ 6: M come pare — 8: M' non ti rispondo — iO: M-m Oo, M' Onde —
M imparte — m non in tutto — H : M' pare — 13 : Mi dinanzi a ([. — 14: M
translatore, m traslatotore — 15: M^ìa conto —17: 3f dal- quanti — 18 :
M-m male tractamento con altrui — 21: M-m construclioni — 22: M exposte
le e. 7 loro parti — 24: Mi di loro argomenti — 25: M' de l'argomentare — 26:m
della cosa — 29: M ke detto, m che detto — Jlf ' dinanzi (1)
L'essere attestato in da tutti i codici rende esitanti a toglierlo, come
la sintassi e il senso sembrano richiedere. Forse si può sottintendere
dal periodo pre- cedente la parola questione : " conviene che sia
questione in questa transla- tiva „ ecc. strato à che sono le
constituzioni e le loro parti, ma in altra parte porrà certi exempli in
ciascuno genere delle cause, cioè nel deliberativo e nel dimostrativo e
nel iudiciale, quando ti'atterà il libro di ciascuno in suo stato. E da
cciò si parte il conto e torna a trattare secondo che ssi con-
viene all' ordine del libro per insegnamento dell' arte. Qual cai/sa sia
simpla e quale congitmta. Poi eh' è trovata la constituzìone della causa,
ìmmantenente ne piace di considerare se Ila causa è simpla o congiunta.
Et s'ella è congiunta, si conviene considerare se ella è congiunta di
piusori questioni o d'alcuna comparazione. Apresso al trattato nel quale
Tullio àe insegnato tro- vare le constituzioni e le sue parti, si vuole
insegnare qual causa sia simpla, cioè pur d'uno fatto e qiiale sia con-
giunta, cioè di due o di più fatti, e quale sia congiunta d'alcuna
comparazione, e di ciascuna dice exemplo in questo modo :
Della causa simpla. Simpla è quella la quale contiene In sé una
questione assoluta in questo modo: « Stanzieremo noi battaglia
contra coloro di Corinto o non ? ». Dice CICERONE che quella causa è
simpla la quale è pur d'uno fatto e che non è se non d'una questione
solamente. Verbigrazia : La città di Corinto non stava ubidiente
a Roma, onde i consoli di Roma misero a consiglio se paresse
2 : M-m om. parte — m delle cose — 4-5 : J/' Et di ciò si diparte
l'autore, m 7 accio — 8: M mantenente, m inmantanento — 9: m simplice
(sempre cos'i) M' sedella — li: M-m compi^ratione — 13: M' il tractato —
15: M (|ualcosa, «i quale chosa — /*: M< l'exeni- plo — 21: M' m
(pielli — 25 : vi iliinn chosa — SO : M-m <m. stava — A/' ali Romani
loi-o di mandare oste a fai"e la battaglia centra loro, o no.
Et così vedi che causa simpla è pur d'una questione del sì o del
no. Della causa congiunta. 5. 64. Congiunta di piusori
questioni è quella nella quale sì dimanda di piusori cose in questo
modo: « È Cartagine da disfare da renderla a' Cartagiartesi, o è da
menare inn altra parte loro abitamento ? Poi che Tullio à detto della
causa simpla, sì dice della congiunta, dicendo che quella causa è
congiunta nella quale àe due o tre o quattro o più questioni. Verbigrazia
: I Romani vinsero a forza d'arme la città di CARTAGINE, et erano alcuni
che diceano che al postutto si disfacesse; altri diceano che Ila cittade
fosse renduta agli uomini della terra, altri diceano che Ila cittade si
dovesse mutare di quel luogo et abitare in altra parte. E così vedi che
questa causa è congiunta di tre questioni che sono dette. Della
causa congiunta di comparazione. Dì comparazione è quella nella quale
contendendo si que- stiona qual sia il meglio o qual sia finissimo,
in questo modo : « È da mandare oste in Macedonia contra Filippo inn
aiuto a' com- pagni, è da tenere in Italia per avere grandissima copia di
genti contra Anibal ? Poi che Tullio avea detto della causa la quale è
con- giunta di piusori questioni, sì dice di quella causa eh' è
congiunta di comparazione di due o di tre o di quattro o i :
M-m o fare — 2 : M^ om. Et — Jlf om. b — 5 : M' om. questioni — 6 : m di
più sore — 7 : M' da. rendere a Cartaginesi — 12 : m due tre o quattro
questioni — J3: m per forza — om. la cittade di — J4: M' elio a! postutto
diceano cliella si disfacesse — 17: M-m om. che — 18: m essere coniunta
di tre (luestioni dette — 21: 3/' o quale finis- simo — 22: M' incontro a
Filippo — 28: M-m di due, di tre — m om. o di quattro (1)
Certamente il traduttore ha frainteso il latino an eo colonia deducatur.
di più cose, nella quale si considera qual partito sia il mi-
gliore de' due o di tre o di più, e se tutti sono buoni e l'uno migliore
che 11' altro, per sape];e qual sia finissimo, cioè il sovrano di tutti.
Verbigrazia : I Romani aveano mandata oste in Macedonia contrà Filippo re
di quello paese, et in quello medesimo tempo attendeano alla guerra
d'Anibal, che venia contra loro ad oste. Onde alcuni savi di Roma diceano
che '1 migliore consiglio era mandare gente in Macedonia, per attare
l'altra loro oste la quale 10. era in questa contrada; altri diceano che
maggior senno era di ritenere la gente in Italia, per adunare
grandissima oste contra Anibal ; e così contendeano qual fosse il mi-
gliore o '1 finissimo partito : o tenere o mandare la gente. Della
contraversia inn iscritto et in ragionamento. 15. 66. Poi è da
pensare se Ila controversia è in scritta o è in ragionamento.
Lo sponitore. 1. Apresso ciò che Tulio à dimostrato qual
causa è sim- pla e quale è congiunta e quale di comf)arazione, sì
vuole 20. fare intendere quale contraversia nasce et aviene di
cose e di parole scritte, e qual nasce pur di ragionamento, cioè di
dire parole e di cose che non sono scritte ; e cosi vuole CICERONE
aj)ertamente insegnare per rettorica ciò e' altre de' dire a ciascun
ponto di tutte le cause che possano inter- 25, venire ; e perciò
dicerà della scritta per sé e del ragiona- mento per sé, e di ciascuno
partitamente in questo modo : Della contraversia che nasce di cose
scritte. 67. Contraversia inn iscritta è quella che nasce d'alcuna
qua- litade di scrittura Ce. XIII). Et certo le maniere di questa
che 30. sono partite delle constituzioni sono cinque : Che talvolta
pare che Ile i-2: m sia ihigloru ili lUie ecc. — il/' o Ire
o iiifi — •/: iV/' ohi. cion il sovrano — 5: M'-L (li i|iielli del
paoso, S di c|iielli paesi 7: m om. ad oste — * : hi elio mogio — iO: m
J/i in ipiella contrada — il : M' om. di — m a rilenore gente — 12 : M
contra nibal, i» contro ad Anibal — 15: M-m e scripla, If' e in scriplo o
in ragionamento — /*' : M-m i|ual cosa — 19: m quale e — 22: M-m om. dire
e che non sono scritte — 23: M' mo- strare - 24: m possono — 25: M'E cosi
— 29: M da. questa — 30:M' dale constilutioni parole medesimo iU siano
discordanti dalla sentenzia dello scrittore ; e talvolta pare che due
legi o più discordino intra sé stesse; e talvolta pare che quello eh' è
scritto signiffichi due cose o più ; e talvolta pare che di quello ch'è
scritto si truovi altro che non è 5. scritto ; e talvolta pare che ssi
questioni in che sia la forza della parola, quasi come in diffinitiva
constituzione. Per la qual cosa noi nominiamo la prima di queste maniere
di scritto e di sentenzia; il secondo appelliamo di legi contrarie, la
terza apelliamo dubiosa, la quarta appelliamo dì ragionevole, la quinta
apelliamo diffinitiva. Poi che CICERONE à dimostrato qual causa sia pur d' un
fatto o di più, immantenente vuole dimostrare qual con- traversia è in
scritta e quale in ragionamento; et in questo dice primieramente di
quella ch'è inn iscritto, cioè che 15. nasce d'alcuna scrittura. Et
questo puote essere in cinque modi. Il primo modo è appellato di scritto
e di sentenza, pei'ciò che Ile parole che sono scritte non pare che
suonino come fue lo 'ntendimento di colui che Ile scrisse. Verbi-
grazia: Una lege era nella cittade di Lucca, nella quale erano scritte
queste parole: « Chiunque aprirà la porta della cittade di notte, in
tempo di guerra, sia punito nella testa ». Avenne che uno cavaliere
l'aperse per mettere dentro cavalieri e genti che veniano inn aiuto a
Lucca, e perciò fue accusato che dovea perdere la testa secondo la
legge scritta. L'accusato si difendea dicendo che Ila sentenzia e lo
'ntendimento di colui che scrisse e fece la legge fue che chi aprisse la
porta per male fosse punito ; e cosi pare che Ile parole scritte non
siano accordanti alla sentenzia dello scrittore, e di ciò nasce
controversia intra loro, se si debbia tenere la scritta o la sentenza.
La seconda maniera è apiiellata di contrarie leggi, perciò che
1 : M' m medesime — m dalle sententie — 2: me téilora -- M' si
discordino — 3: M' significa — 4: M-m o talvolta — M' che nono che
scripto — 6: M-m nm. in — A/' mdilTì- nitiva ([uestione — 11: M-m qual
cosa — 13: M-m e Sbripta - m e in ragionamento — 14 : m primamente — 18 :
M om. fue — 20: M ai)iira, m apira — 21 : M-m om. in tempo di guerra — M'
si sia punito della testa — 23: M' si difende — 30: m se si dee — M' lo
scritto — 31 : M' om. maniera (1) Cfr. p. 46, 1. 30: nai
medesimo. — 88 - pare che due leggi o più
discordino intra sé stesse. Ver- bigrazia : Una legge era cotale, che
chiunque uccidesse il tiranno prendesse del senato cheunque merito volesse.
Et nota che tiranno è detto quelli che per forza di suo 5. corpo o
d'avere o di gente sottomette altrui al suo podere. Un'altra legge dice
che, morto il tiranno, dovessero essere uccisi cinque de' pili prossimani
parenti. Or avenne che una femina uccide il suo marito, il quale era
tiranno, e domanda al senato per guidardone e per nierito un
suo figlio. LA PRIMA LEGGE concede che ssia dato, l'altra comanda CHE SIA
MORTO. E così sono due leggi contrarie, e perciò nasce questione se alla
femina debbia essere renduto il suo figliuolo o se debbia essere morto. La
terza maniera è apellata DUBBIOSA, perciò che pare che quel eh'
è scritto SIGNIFICHI DUE COSE O PIU. Verbigrazia. Alessandro fa testamento
nel quale fa scrivere così. Io comando che colui eh' è mia reda dia a
Cassandro C vaselli d'oro e quali esso vorrà. Api^esso la morte d'Alessandro
venne Cassandro e domanda C vaselli al suo volere e che a llui
piacessero. Dice la reda. Io ti debbo dare que'ch'io vorrò. Et cosi di
quella parola scritta nel testamento, cioè, i quali esso vorrà, si è dubbiosa a intendere
del cui volere ALESSANDRO DICE; e di ciò nasce questione intra
loro. La quarta maniera è appellata RAGIONEVOLE, perciò che di quello eh'
è discritto si truova e se ne ritrae altro CHE NON E SCRITTO O DETTO. Verbigrazia
: Marcello entra nella chiesa di Santo Petro di Roma e ruppe il
crocifixo, e taglia le imagini di là entro. E accusato, ma non si
truova neuna legge scritta sopra così fatto malificio, né convenevole non
era che nne scampasse sanza pena. E perciò il suo adversario ritraeva
d'altre leggi scritte quella pena che ssi convenia a Marcello
ragionevolemente. La quinta maniera é appellata DIFFINITIVA, perciò che
pare che ssi questioni LA FORZA D’UNA PAROLA scritta, sicché conviene i
: M' si discordino - M stesso — m tralloro - 5 : M^ di genti - 6-7: m L
essere morti - Jl/' om. de' — 7 : M'-L una femina il suo marito....
uccise — 9 : m e merito — 10: M' che le sia dato, l'altra leggie — iS: m
nasce controversia — Mm sella femina — 13: m se dee — 14-15: M' che lo
scritto — i6: Jtf' cos'i scrivere — 1 7 : M-m om. coUii eh' è — 18: M' i
quali — 19: M' cento vaselli d'oro — 20: J/' la rede. [o ti voglio dare -
m om. dare - S3: M' 7 cosi - S5: M' che scripto - S6 : M-m Martello - S7 :
M' San Piero — 38 : M-m om. Fue accusato - /. trovava — 29-30 : m alcuna
legge.... colalo maliflcio, e convenevole non era che scampasse — 32 :M'
che si conviene — Mm Martello — 89 — che quella
parola sia diffinita e dicasi il proprio intendi- mento di quella parola.
Verbigrazia : Dice una legge. Se '1 signore della nave n'abandona per fortuna
di tempo ed un altro va a governarla e scampa la nave, sia sua. Avenne
che una nave di Pisa venne in Tunisi e presso al porto sorvenne sì forte
tempesta nel mare, che '1 signore usce della nave et entra inn una
picciola barca. Un altro ch'era malato rimase nella nave e tennesi tanto
là entro che '1 mare torna in bonaccia, e la nave campa in terra. E
perciò dicea che la nave e sua secondo la legge, perciò che '1 segnore
l'abandona et esso l'avea difesa. Il segnore dicea che perch'elli entra
nella picciola barca non abandona perciò la nave ; e cosi era questione
intra loro sopra questa PAROLA dell'ABBANDONO della nave ; e per
15. sapere LA FORZA d'essa parola conviene che ssi difinisca e
dicasi il proprio intendimento. 6. Già à detto Tullio di quella
contraversia la quale è in iscritta e delle sue cinque parti. Omai dicerà
di quella contraversia eh' è in ragio- namento. 20. Della
contraversia la quale nasce di ragionamento. 68. Ragionamento è
quando tutta la questione è inn alcuno argomento e non inn
ìscrittura. Quella è contraversia in ragionamento nella quale non si
considera alcuna cosa che ssia per scrittura, ma prendesi argomento e
pruova per parole FUORI DI SCRITTA a dimostrare che dee essere sopra quella
questione. Verbigrazia : Dice Anibaldo che Italia è migliore paese che
Frància. Dice Lodoigo che no. E di ciò era questione ti'a lloro, e perciò
conviene recare argomenti in ragionando per mostrare che nne dee essere,
e questo senza scritta acciò che sopra questo no è legge né
scrittura. 3: m om. della nave — M' labandona — S : M' de
Pisani — M-m di Tunisi — 6 : M sovenne, m venne, L sopravenne — M^ di
mare — 7-8 : M' usci di fuori — un altro corse a governare la nave — 9: m
campo intera —11: m et egli — 12: m pichola nave — 13: 3f' non avoa
abbandonata perciò 1. n., m non pero elli abandonava la grande — 14: M'
di questa parola, m sopra questo abandono — 15: M-m la forma — m ripete
conviene — 16: m dicha — 22: m e none — 24 : M' Qurlla controversia 6 in
rag. — 28: M' Anibal — 29 : m lodovico, M'-L loodico, S dice l'altro,
dico che no — 31 : m 7 questo e senza scritta Delle IV parti della
causa. Adunque, poi che considerato è il genere della causa e
cognosciuta la constituzione et inteso quale è simpla e quale è con-
giunta, e veduto quale contraversia è di scritto e di ragionamento, 5.
ornai fie da vedere quale è la quistione e quale è la ragione e quale è
il giudicamento e quale è il fermamento della causa ; le quali cose tutte
convengono muovere della constituzione. In questa parte dice CICERONE
che poi ch'elli à insa- lo, gnato che è lo genere delle cause, cioè dimostrativo
e diliberativo e giudiciale, et à fatto cognoscere che è la constituzione, cioè
e qual sia congetturale e quale diffinitiva e quale translativa e quale
negoziale, et à fatto intendere quale è simpla e quale congiunta, cioè
qual contiene in sé una questione o più, et à fatto vedere qual
contraversia è inn iscritto e quale in ragionamento, sì come tutti
questi insegnamenti paionsi adietro là dove lo sponitore l'à messo
inn iscritto e trattato di ciascuno sufficientemente, ornai vuole CICERONE
procedere e dimostrare apertamente qual sia 20. la questione e la ragione
e '1 giudicamento e '1 fermamento della causa ; le quali cose tutte
muovono e nascono della constituzione, ciò viene a dire che la
constituzione è il cominciamento di queste cose. Questione è quella
contraversia la quale s'ingenera del contastamento delle cause in
questo modo : « Non facesti a ragione - Io feci a ragione». Questo è
contastamento delle cause nella quaied) 2: m om. 6—3: m om.
cognosciuta — M intesto — Af' qual congiunta — 4: M-m quale conti'aversia
<ii scripto — m o di ragionamento — 5: A/' oggimai sarà — 5-6: M' ha
sulo il primn b — M-m il confermamento — 6-7: M-m 7 tucte i|UOSte cose le quali
conv. - 9: M chelle, m chebbe asengnato, M' che elgli 10: M'
diliberativo, ilimostrativo — i2: in cioè qual sia — 13: M-m a facto
cognoscere — 14: m quale simplice - 17: M' amaeslra- menti — M paio
sàdietro, Mi-L jiaiono in adiotro — 18: M 7 tracio — 22: M-m um. ciò V. a
d. e. la constituzione — 25 : M -L Di (|uistione — m si genera — 26-27 : M' de
cause — M-m om. a — M' il contrastamento ~ L nele quali, S nel
quale (1) Evidentemente dovrebbe dire nel quale; ma appunto per
questo non saprei spiegare come alterazione volontaria né come svista il
nella quale (dato tanto da M quanto da ikf'), e lo crederei piuttosto
dovuto a una distratta traduzione del latino Causarum haec est
conflictio, in qua constitiUio constai. è la constituzìone, e di questa
nasce contraversia la quale noi ap- pelliamo questione, in questo modo:
se fatto l'à a ragione o no. Lo sponitore. 1. Nel testo
il quale è detto davanti insegna Tullio 5. cognoscere e sapere che è la
questione; et in ciò dice che questione è quella che ssi conviene
considerare sopr' a cciò di che le parti tencionano, e così s'ingenera
del contasta- mento delle parti, cioè di quello che 11' uno appone e
l'altro difende. Verbigrazia : Dice la parte che appone all'altra .
10. « Tu non ài fatta i-agione, che tu prendesti il mio cavallo »;
e la parte che ssi difende risponde e dice : « Si, feci ra- gione Or è la
causa ordinata, cioè che ciascuna parte à detto, l'una accusando e
l'altra difendendo, e questa è ap- pellata constituzione. Sopra questo si
conviene sapere se 15. n'accusato à fatta ragione o no. Questo è
quello che Tullio appella questione. Dunque potemo intendere che
quando le parti anno detto e quando l'accusatore àe apposto in.
contra l'aversario suo e l'accusato àe risposto o negando o confessando,
sì è la causa cominciata et ordinata ; e però 20. infine a questo
punto èe appellata constituzione, cioè viene a dire che Ila causa è
cominciata et ordinata ; da quinci innanzi, se l'accusato niega e
diféndesi, si conviene che ssi connosca se Ila sua defensione è dritta o
no, cioè quando dice : « Io feci ragione » conviensi trovare s' elli à
fatto 25. ragione o no, e questa è appellata questione. 3. Et
perciò che la scusa dell'accusato, a dire pur così semplicemente: «
Io feci ragione », non vale neente se non ne mostra ra- gione per che e
come, insegnerà Tullio immantenente che ragione sia. 30. Di
ragione. 71. Ragione è quella che contiene la causa, la quale se
ne fosse tolta non rimarrebbe alcuna cosa in contraversia. In
questo modo mo sterremo, per cagione d'insegnare, un leggieri e
manifesto 4: M-m nel quale - 6: M' 6 quella — m sopra quello
— 10: M' facto ragione — i5: M dopo ragione ripete che tu prendesti il
mio cavallo — 13: m luna luna — M' {(uesto — 15: M^ m facto — 15-16: M'
Et questo.... comune questione — 17: M-m posto — 19: M S l'accusa - SO:
M' m ciò viene a dire — SS: M-m om. sì — S4: M' facta — S5: M' e facta
questione — S6: M-m om. Et - l'accusa — S7 : M' m se non mostra — S8 : M'
si insegnerà — 31 : m se non fosse — 3S : M' non vi rim. — 33: M-m d'insegnare
leg- gere manifesto exemplo exemplo. Se Orestres fosse
accusato di matricidio et elli non dicesse: « Io il feci a ragione,
perciò eli' ella avea morto il mio padre », non avrebbe difensione; e se
non l'avesse non sarebbe contraversia. Dunque la ragione dì questa causa
è eh' ella uccise Agamenon. 5. Lo sponitore. 1. Si come
appare nel testo di Tulio, ragione è quella clie sostiene la causa in tal
modo che, chi non assegna e mostra la ragione della sua causa, certo non
sarà contro- versia, cioè non à difensione; e cosi la causa
dell'aversario IO. rimane ferma e non à contastamento. 2.
Verbigrazia: Vero fue che Ila madre d'Orestres uccise Agamenon suo
marito e padre d'Orestres ; per la qual cosa Orestres, per movi-
mento di dolore, fece matricidio, cioè che uccise la madre. Fue accusato
di matricidio, et elli confessa, ma dice che '1 15. fece a ragione;
se non dice perchè e come, la sua difen- sione non vale neente, e se la
difensione non vale neente non è contraversia né questione. 3. Ma se dice
cosi : « Io lo feci a ragione perciò ch'ella uccise il mio padre »,
sì mantiene la sua causa e vale la sua difensa, mostrando la
20. ragione e la cagione perch'elli fece il matricidio. Et poi che CICERONE
à dimostrato che è questione e che ragione, sì dimosterrà che è
giudicamento. Giudicamento è quella contraversia la quale nasce de lo
'nde- 25. bolire e del confirmare la ragione. Et in ciò sia quel
medesimo exemplo della ragione che noi aven detta poco davanti : « Ella
avea morto il mio padre ». Dice il savio: « Sanza te figliuolo
convenia eh' essa madre fosse uccisa ; perciò che 'I suo fatto si potea
bene punire sanza tuo perverso adoperamento ». (e. XIV) Di questo
30. mostramento della ragione nasce quella somma controversia la quale
noi appelliamo giudicamento, la quale è cotale: se fosse diritta cosa che
Orestres uccidesse la madre, perciò ch'ella avea morto il suo padre.
i : m di martecidio — 2 : M-m om. ella — 4 : M-ni chelluccise a
ragione — 7-8 : M' mostra 7 assegna ragione — 10: M' m 0111. Vero — 13:
M' om. cioè.... di matricidio — 16: M-m om. e so la difensione non vale
neente (A/' ef))unge neente) —19: m difesa — 20: m om. El — 22: M-m
dimostra — 24: M' om. quella — M-m ohi. nasce — 25: M-m in ciò a quel
med. — 26: M' aveino dello — 27 : M' Dice l'avversario — 2S: M-m si potrà
— 29 : M' sanila il tuo p. — — 31 : M' se fu Cicerone dice e insegna
che è ragione; et perciò che della ragione nasce il giudicamento, sì
tratta egli del giudicamento per dimostrare come e quando et in che
5. luogo sia. Verbigrazia : L'accusato assegna ragione perchè fece quel
fatto e conferma la sua difensa per quella ra- gione. L'accusatore dice
contra questa difensa et indebo- lisce la ragione dell'accusato, linde di
ciò che conferma l'uno et inforza la sua difensione e l'altro la
infievolisce 10. e falla debole, sì ne nasce una questione la quale
è appel- lata giudicamento, perciò che quando ella è provata si
puote giudicare. 2. Et in ciò sia quel medesimo exemplo di sopra :
Orestres assegna la ragione per la quale elli uccise Clitemesta sua
madre: perciò ch'ella avea morto 15. Agamenon ; e così conferma la
sua defensione. Ma contra lui dice l'aversario. Tu non la dovei punire né
non con- venia ad te punirla di ciò, ma altre la dovea e potea pu-
nire sanza tua perversità, e sanza tua così crudele opera, come del
figliuolo uccidere sua madre ». Et così indebolia la ragione d' ORESTE e
mettealo in vituperoso abominio, e sopra questo, cioè sopra '1
confermamento e sopra lo 'nde- bolimento della ragione, nasce questione
la quale è appel- lata giudicamento perciò che ssi puote giudicare. 3. Et
omai à detto Tullio che è questione e che è ragione e che è
25. giudicamento ; sì dicerà che è fermamento. Del
fermamento. 73. Fermamento è il firmissimo et appostissimo
argomento al giudicamento, come se Orestres volesse dire che ll'animo il
quale la madre avea contra il suo padre, quel medesimo avea contra
lui 30. e contra le sue sorelle e contra il reame e contra l'alto
pregio della sua ingenerazione e della sua familia, sicché in tutte
guise doveano i suoi figliuoli prendere in lei la pena.
2: M-m om. è — 3-4: M-m che deliboragione nasce del iuilicamento por
dimostrare ecc. — 5: M' om. sia — M' assegno —7:3/' quella — 3/ difesa —
8-10: M' che rimo con- ferma 7 inforfa la sua ragione.... fa debole — M-m
isforca — m la indebolisce — IS : m a quello med. — 13: M' assegna
ragione — 16: M 7 non convenia, m e non si convenia — 17: m 7 convenia
punirla — 18-19: M' om. tua e del — m la sua madre — 21-22: M< sopra
confermamento dela ragione — 23: m om. Et — 24: M i ohe ragione, m nm. —
27: M-m om. è — 30: M' \n serocchie.... l'altro pregio Poi che
Tullio aè dimostrato che è questione e ra- gione e giudicamento, sì dice
in questa parte che è fer- mamento. E certo lo 'nsegnamento suo è molto
ordinata- 5. , mente : che primieramente è questione intra Ile
parti sopr'alcuna cosa la qual'è aposta ad uno e detto sopra lui
che non à fatto bene o ragione, et elli in sua difesa dice ch'à fatto
bene o ragione, e di questo nasce la questione, cioè se esso à fatto
ragione o no. Apresso dice l'accusato 10. la cagione per la quale elli
avea ragione di fare ciò, e questa è appellata ragione. Et quando
l'accusato à detta la ragione, il suo adversario dice contra quella
ragione et indebolisce quello dove l'accusato ferma la ragione, e
questa è appellata giudicamento. 15 Fermamento. Poi che Ila
questione del giudicamento è nata, si conviene che ll'accusato tragga
innanzi i fermissimi argo- menti bene apposti contra il giudicamento.
Verbigrazia : Orestres à detto che uccise la madre perciò ch'ella
avea morto il padre, e così assegna la ragione perch'elli l'uccise;
il suo adversario mettendolo in questione di giudicamento dice c'a llui
non si convenia ma ad altrui, e così indebo- lisce la sua ragione. 3. Or
conviene che Orestres dica ma- nifesti argomenti, e dice così. Tutto
altressì coni' ella 25. uccise il suo marito mio padre, così avea
ella conceputo d'uccidere me e le mie sorelle, cui ella avea
ingenerate di suo corpo, e mettere il nostro regno a distruzione et
abassare l'altezza del nostro sangue, e mettere in periglio la nostra
famiglia ». Ed in questi argomenti accoglie fermissima defensione della sua
ragione contra il giudicamento, e dice: « Perciò ch'ella fece così
disperato maleficio et 2: M-m ragione 7 ((iiestione (m nm.
7) — 3: M' s\ dicerà (mn S dico) — 5: M-m que- stioni — 6: M' sopralcuna
causa la qua'.e appella ad uno 7 detto contra lui — 8: Mhii om. ch'à
fatto bene ragione — 9: M' se elgli, m selli — M' a l'acto a ragione — H : M\
m* detto — i3;Jf fermava — i4: m questo e apellato - 17:,AV nelaccusalo
trarre — 18: M» appostati - i9: M' clielgli uccise.... chella uccise —
SI: A/ niente dolo - S3: M' om. sua — JW i fermissimi argomenti — 29: M 7
dinquesti, »i 7 in <juesti, 3/' 7 di questi La rubrica di M (clie di
regola seguo) ha qui ludicamento, certo per effetto della parola
precedente. avea pensato di fare cotanta crudelitade, sì fue al
postutto convenevole che Ili suoi propii figliuoli ne le dessero
pena e non altri >. Et questi sono fermissimi argomenti ne'
quali dice che '1 fatto della madre fue crudele, superbo e mali- 5.
zioso. 4. Et nota che quel fatto è appellato superbo il quale alcuno
adopera centra' maggiori, sì come quella fece ucci- dendo il re Agamenon.
Et quello è crudele fatto il quale alcuno adopera contra' suoi, sì come
quella fece contra la sua famiglia. Et quello è malizioso fatto il quale
è molto 10. fuori d'uso, sì com'è contra naturale usanza ch'alcuna
fe- mina uccida il suo marito e figliuoli e distrugga un alto
reame. 5. Onde questi fermissimi argomenti e' quali l'ac- cusato mette
davanti per confermare le sue ragioni et incontra lo 'ndebolimento che
facea l'aversario, sì è ap- 15. pellato fei'mamento. In
quale constiti izione non à gindicamento. Et certo neil'altre
constituzioni si truovano giudicamenti a questo medesimo modo ; ma nella
congetturale constituzione, perciò che in essa non s'asegna ragione
(acciò che '1 fatto non si concede) 20. non puote giudicamento nascere
per dimostranza di ragione; e però conviene che questione sia quel
medesimo che giudicamento: « fatto è, nonn è fatto, sé fatto o no ». Che
al vero dire, quante consti- tuzioni lor parti sono nella causa, conviene
che vi si truovino altrettante questioni, ragioni, giudicamenti e
fermamenti. 25. Lo sponitore. 1. In questa parte del
testo dice Tullio che, sì come per lui è stato detto davanti, così si
possono trovare giu- dicamenti inn ogne constituzione; salvo che nella
consti- tuzione congetturale, della quale è molto trattato inn 30.
adietro, perciò che in essa l'accusato nonn asegna (i) neuna 1 : Af' avea
pensala cotanta crudeltade — 2: M nelle, ÌU-L lene dessero — 3 : Mi lor-
lissimi argomenti — 5: m nel quale — 7 : M Tde agnzenò {sic), m i ro Agamenon —
m ohi. è — 8: M' luomo adopera — 9: m om. è ambedue le volte — il : A/ un
altro — IS-i^-.M' om. et, 7» e contro allo — i7 : M' ì giudicamenti — 22:
Mi se facto e. no ~ quante questioni — 26 : m om. che — 28 : vi nella
questione (1) Si potrebbe anche leggere non n' asegna; ma in M' è
scritto qui e qual- che riga più sotto non assegna, mentre la grafia col
doppio n 6 frequente in M (cfr. pag. seg., 1. 6, nonn abisogna).
ragione, anzi niega, al postutto non ne puote nascere giu-
dicamento. 2. Verbigrazia : Uno accusò Ulixes ch'elli avea morto Aiaces.
Dice Ulixes : « Non feci » et cosi nega quel fatto che gli è apposto. Et
perciò non conviene che sopra '1 5. suo negare assegni alcuna ragione. Et
poi che nonn asegna ragione, il suo adversario nonn abisogna d'
indebolire la ragione dell'accusato. Dunque nonde puote nascere
giudi- camento ; e perciò conviene che in queste constituzioni
congetturali la questione e lo giudicamento siano ad una 10. cosa: che là
ove dice l'accusatore « Tu uccidesti » et Ulixes dice « Non uccisi », la
questione e '1 giudicamento fie sopi-a questo, cioè se ll'uccise o no. 3,
Poi dice CICERONE che quante constituzioni à una causa, altrettante v'à
questioni e ra- gioni e giudicamenti e fermamenti. Dell'altre parti della
causa. 75. Trovate nella causa tutte queste cose, son poi da
consi- derare ciascuna parte della causa ; eh' al ver dire non si dee
pur pensare prima ciò che ssi dee dicere in prima ; perciò che se
le parole che sono da dire in prima tu vuoli inforzatamente
congiungere 20. et adunare colla causa, conviene che d'esse medesime
traghe quelle che sono da dire poi. Sponitore.
1. Or dice Tullio : Dacché '1 parliere connosce la causa et àe
inteso ciò eh' elli n' àe insegnato per tutto il libro 25. insine a
questo luogo, quando alcuna causa viene sopra la quale convegna che dica,
sì dee il buono parliere pensare con molta diligenzia e considerare nella
sua mente, anzi che cominci a dire, tutte le parti della sua causa
insieme e non divise. Che s'elli pensasse in prima pur quella che
4: m chelli fu aposto - 6: M' non a bisogno, m non a ragione — 8:
M-m om. e — 9: M-m la constituzione — i 1 : M' sie sopra q., m fla — i3:
M-m otn. v'à — 17: M-m e al ver dire — 18: M' in prima quello — M-m om.
dicere — S che è da dire inprlma — 19: M-m om. in prima — M' tu le
vuoigli — M isforcatamonte, m sforfatamenie congiun- gnerle — 20: M' i
raunaro — M-m elio esse medesime — S4: M'-L tutto il titolo, i' tutto il
telo (tic) — S8: i/' causa sua — S9: M' pur quello che sia da dire (Z. aggiunge
in prima) prima sia da dire e non pensasse ch'elli dovesse dire
poi, senza fallo il suo cominciamento si discorderebbe dal mezzo et
il mezzo dalla fine. 2. Ma chi accorda bene le sue parole colla natura
della causa et in innanzi pensa che ssi con- venga dire davanti e che
poi, certo la comincianza fie tale che nne nascerà ordinatamente il mezzo
e la fine. Tutto altressì fae il buono drappiere, che non pensa prima
pur della lana, ma considera tutto il drappo insieme anzi che Ilo
cominci, e de' aver (D la lana e '1 coloi*e e la grandezza del drappo, e
provedesi di tutte cose che sono mistieri, e poi comincia e fae il
drappo. Di VI parti della diceria. Per la qual cosa, quando il
giudicamento e quelli argo- menti che bisognano di trovare al
giudicamento saranno diligente- 15. mente trovati secondo l'arte e
trattati con cura e con cogitatione, ancora sono da ordinare l'altre
parti della diceria, le quali pare a nnoi ai tutto che siano sei :
Exordio, narrazione, partigione, confer- mamento, riprensione e
conclusione. Sjtoììitore. 20 _ I. Poi che Tullio
sufficientemente à dimostrato la chiarezza delle cause et àe comandato che '1
buono parliere innanzi pensi tutte le parti della causa per accordare
il mezzo e la fine colla comincianza del suo dire, si che sia l'una
parola nata dell'altra, sì dice esso medesimo che poi 25. che tutto
questo eh' è fatto,(3) e trovato il giudicamento della 1 :
M' che sia da dire poi —4: M' m om. in — 5 : M' la incomincianca, m il
comin- ciamento — 6: M' che nostera (corr. moslera), L mosterra, S mostra
— 7: if ' in prima — 9-10: M' anzi che cominci.... accio mestieri — m
sono mestiere — 11: M^ i\ suo drappo ordinatamente, L affare il s. d.
ordinatamente — 14 : M^ che si bisognano -17: M' che sono sei....
petitione invece di partigione — 20 : M^ a sofficientemente dem. — S3: M'
el Dne con la incomincianpa — M-m om. sì — 24: M om. nata — 25: M^-L
questo e facto (1) Tutti i codici hanno 7 daver 7 davere, che può
esser nato facilmente dall'aver preso il de' per la preposizione di.
Tanto il senso quanto la sintassi sa- rebbero poco chiari leggendo e d'aver.
(2) Preferisco la lezione di M perchè non è probabile che la parola
ordinata- mente, che si trovava in evidenza in fine al discorso, sia
sfuggita al copista. Forse l'aggiunta If' (L) fu determinata AaW
ordinatamente di poche righe prima. (3) Cioè " dopo che tutto
questo è fatto „ . Per il che pleonastico cfr. p. 20, n. 2, p. 21, n. 1 e
qui dopo p. 99, 1. 18. Le lezioni di M^ e di L si spiegano con quelle di
M-m, ma non viceversa. causa e ciò che vi bisogna secondo i comandamenti
di ret- torica (i quali si convengono trattare con molto studio e
con grande deliberazione) ; anco sopra tutto questo si con- vengojio
pensare l'altre parti della diceria, delle quali non 5. è detto neente, e
sono sei ; e di ciascuna per sé tratterà il libro interamente. Lo
sponitore chiarisce tutto ciò eh' è detto inn adietro. Et sopra questo
punto, anzi che '1 conto vada più innanzi, piace allo sponitore di
pregare il suo porto, per cui amere è composto il presente libro non sanza
grande afanno di spirito, che '1 suo intendimento sia chiaro e lo 'ngegno
aprenditore, e la memoria ritenente a intendere le parole che son dette
inn adietro e quelle che seguitano per innanzi, sì che sia, come
desidera, dittatore perfetto e 15. nobile parladore, della quale
scienzia questo libro è lu- miera e fontana. 3. Et avegna che '1 libro
tratti pur sopra controversie et insegni parlare sopra le cose che sono
in tendone, et insegna cognoscere le cause e Ile questioni, e per
mettere exempli dice sovente dell'accusato e dell' ac- 20.
cusatore, penserebbe per aventura un grosso intenditore che Tullio
parlasse delle piatora che sono in corte, e non d'altro. 4. Ma ben
conosce lo sponitore che '1 suo amico è guernito di tanto conoscimento
ch'elli intende e vede la propria intenzione del libro, e che Ile piatora
s'aparten- 25. gono a trattare ai segnori legisti ; e che rettorica
insegna dire appostatamente sopra la causa proposta, la qual causa
no è pur di piatora né pur tra accusato et accusatore, ma é sopra l'altre
vicende, sì coinè di sapere dire inn amba- sciarie et in consigli de'
signori e delle comunanze et in 30. sapere componere una lettera
bene dittata. 5. Et se Tullio dice che nelle dicerie intra le parti sono
le constituzioni e questioni e ragioni e giudicamento e fermamento, ben
si dee pensare un buono intenditore che tuttodie ragionano le
1: M' Olii, vi — S: vi làlluro — 3: M liberalione - M ancora, m
aiicir — 4 : m le IKirli — 5: M-m oiii. per sé — 8-9: Mi cliel
maestro.... più avanti — iO: m questo libro — i3: m mii. clie son — M'
seguiranno — i4: in per lo innanzi — i8: vi insegni — o»n. o dinanzi a
per — i9:m exenpro — 20: M-vi 7 penserebbe — .?;: if' trattasse — S2:m ha
bene — 24-2.^: Af si pertegnono - m 7 a singnorì — M-m le giustitio — 26- M'
ap- postamento — M' in sapere — 2M 7 nele comunanze, (L e dello), mi
delle co- munanze — 31 : m trailo parti - 32: M-m im. e ragioni, e
l'ermamento — m ohi. si — 99 - genti insieme di
diverse materie, nelle quali adiviene sovente che ir uno ne dice il suo parere
e dicelo in un suo modo e l'altro dice il contrario, sì che sono in
tencione ; e r uno appone e l'altro difende, e perciò quelli che
appone 5. contra l'alti-o è appellato accusatore e quelli che
difende èe appellato accusato, e quello sopra che contendono è ap-
pellata causa. Onde se l’uno appone e l'altro niega, al postutto di
questo non puote nascere questione se non di sapere se quella cosa che
niega elli l'à fatta o detta o no. Ma quando l'uno appone e l'altro
difende, sì è la causa incominciata et ordinata tra lloro. Et questo è la
constituzione della quale nasce la questione, cioè se Ila sua difesa è a
ragione o no; e poi ciascuno contende come pare a llui per confermare le
sue parole e per indebolire quelle del'altro, sì come appare per adietro nel
trattato della questione e della ragione e del giudicamento e del
fermamento. Onde non sia credenza d'alcuno che, sì come dicono li
exempli messi inn adietro, che ORESTE e accusato in corte della morte di
sua madre ; ma le genti ne contendeano intra loro, che 11' uno dicea che non
avea fatto né bene né ragione, e questo è appellato accusatore, un
altro dicea in defensione d'Orestes ch'elli avea fatto bene e ragione, e
questo è appellato nel libro accusato. De consiglieri. Così aviene
intra' consiglieiù de' signori e delle comunanze, che poi che sono aserablati
per consigliare sopra alcuna vicenda, cioè sopra alcuna causa la quale è
messa e proposta davanti loro, all'uno pare una cosa et all'altro
pare un'altra; e cosi è già fatta la constituzione della causa, 30.
cioè eh' è cominciata la tencione tra lloro, e di ciò nasce questione s'
elli à ben consigliato o no. Et questo è quello che Tullio appella
questione. 9. Et perciò l' uno, poi ch'elli àe detto e consigliato quello
che llui ne pare, immante- 2 : M ndicc — M' di.cela — m in
suo modo ~ 3 : M' in contentione ~ 4: M n lalti-o appone, m laltio appone
— M-m quel — 6: M quello che, m quello di che — 7-9: m om. al
postutto.... che nioga — M che quella cosa — M' selgli la facta — il : m
cominciata — M' intra loro 7 questa — 13: M-m è ragione - 16: M om. il
1" e 3° e, hì il 1" e S° - 20 : m tralloro — dicea chelli — 21
: m o ragione — 22: m ave fatto — 25: M' adiviene - mi tra cons. — 27:
M-m. e in essa — 28: m davanti a loro — M-m om. cosa et — 30: M'
lantentione — 31 : M-m selli alta consigliato —
m che allui nente assegna la ragione per la quale il suo
consiglio èe buono e diritto. Et questo è quello che Tullio appella
ragione. 10. Et poi ch'elli àe assegnata la cagione e la ra- gione per che,
si sforza di mostrare perchè s'alcuno consigliasse o facesse il contrario come
sarebbe male e non diritto ; e così infievolisce la partita che è contra
il suo consiglio; e questo è quello che CICERONE lappella GIUDICAMENTO. Et
poi ch'elli àe indebolita la contraria parte, sì raccoglie tutti i
fermissimi argomenti e le forti ragioni 10. che puote trovare per
più indebolire l'altra parte e per confermare la sua ragione ; e questo è
quello che Tullio appella fermamente. 12. Et certo queste quattro parti,
cioè questione, ragione, giudicamento e fermamento, possono essere
tutte nella diceria dell'uno de' parlatori, sì come appare in ciò eh' è
detto di sopra. Et puote bene essere la sua diceria pur dell'una, cioè
pur infine alla questione, dicendo il suo parere e non assegnando sopra
ciò altra ragione. Et puote bene essere pur di due, cioè dicendo il
suo parere et assegnando ragione per che. Et puote bene essere pur di tre,
cioè dicendo il suo parere et assegnando ragione per che et indebolendo la
contraria parte. Et puote essere di tutte e quattro sì come fue
dimostrato di sopra. 13. Quest' è la diceria del primo parliere. E poi
ch'elli à consigliato e posto fine al suo dire, immantenente si
leva 25. un altro consigliere e dice tutto il contrario che àe
detto colui davanti ; e così è fatta la constituzione, cioè la
causa ordinata, e cominciata la tenciouB ; e sopra i loro detti,
che sono varii e diversi, nasce questione, se colui avea bene consigliato
o no. Poi dimostra la ragione perchè il suo 30. consiglio è
migliore. Apresso indebolisce il detto e '1 con- siglio di colui ch'avea
detto dinanzi da llui ; e poi ricon- ferma il consiglio suo per tutti i
più fermi argomenti che può trovare. Adunque le predette quattro cose o
parti possono essere nel detto del primo parliere e nel detto
35. del secondo e di ciascuno parlamentare. 14. Cosie usata-
3-4: M' la ragione 7 la cagione.... clie s'olciin — 6: M' a diriclo — m
la parie — 8:m om Et - i5: M-m cagione, ragione ecc. — i4: 3f' d'uno —
y5:3f'pare— i 6 : 3f-m om. cioè pur — 17: m pero — M' altre ragioni —
18-19: M-m ohi. pur ~ M-m in suo parere as- sengnanJo perche — SO: M' il
suo pare — 21 : M^ la contraria partita - SS: m di tulli e q. — 25-26:
Jlf' tutto il contrario di colui ca detto davanti — 27 : M' lunlcntione —
m la tencionc sopra — S8: M' om. sono -- M 7 se colui — 31-32: in rilennu
— 3/' il suo consiglio — 33: M' ([uattro jiarti — 33: M' ciascuno che
vuole parlamentare mente adviene che due persone si tramettono lettere
l' uno all'altro o in latino o in proxa o in rima o in volgare o
inn altro, nelle quali contendono d'alcuna cosa, e così fanno tencione.
Altressi uno amante chiamando merzè alla sua donna dice parole e ragioni
molte, et ella si difende in suo dire et inforza le sue ragioni et
indebolisce quelle del pregatore. In questi et in molti altri exempli si
puote assai bene intendere che Ha rettorica di Tullio non è pure ad
insegnare piategiare alle corti di ragione, avegna che neuno possa buono
advocato essere né perfetto (2) se non favella secondo l'arte di
rettorica. 15. Et ben è vero ohe Ilo 'nsegnamento ch'è scritto
inn adietro pare che ssia molto intorno quelle vicende che sono in
tencione et in contraversia tra alcune persone, le 15. quali contendano
insieme 1' uno incontra l'altro; e potrebbe alcuno dicere che molte fiate
uno manda lettera ad altro nela quale non pare che tendoni centra lui
(altressi come uno ama per amore e fa canzoni e versi della sua
donna, nella quale non à tencione alcuna intra llui e la donna), é
di ciò riprenderebbe il libro e biasmerebbe Tullio e lo sponitore
medesimo di ciò che non dessero insegnamento sopra ciò, maximamente a
dittare lettere, le quali si co- stumano e bisognano più sovente et a più
genti, che non fanno l'aringhiere e parlare intra genti. 16. Ma chi
volesse bene considerare la propietà d'una lettera o d'una can-
zone, ben potrebbe apertamente vedere che colui che Ila fa o che Ila
manda intende ad alcuna cosa che vuole che 1: m adiviene - 3: M^
om. o inn altro ~ 6: m slorza — 7 : m i molti — 9: m in insegnare - M'
piatire — 10: M-m neuno buono advocato possa essere perfetto— 11: M della
rectorica — 13 : «i intorno a (pielle — 15 : m chontendono — M' conlra.... 7
parebbo — 16: Mi molte volte manda Inno lectere alaltro, m molto volte
uno manda lettere a un altro (ma ambedue nela (piale) — 17 : M che
contenda tencioni — 18: 1/' per amore, fa e, L uno che ama per amore fa
e. — 19: m tra lui — 23: M-m om. et — 24: m traile genti
(1) Le parole inn altro, che sembrano inutili, non possono essere
un'ag- giunta di copisti, ai quali invece doveva venir fatto di
ometterle, come in M* e in i.Dando a volgare il senso limitato di volgare
italico, si intende l'altro per gli altri linguaggi, specialmente il
provenzale e il francese. Brunetto vuol dire che la rettorica di CICERONE
non serve solo ai legisti, quantunque nessuno possa divenire valente
avvocato, e tanto meno perfetto, senza averla studiata. Questa è l'idea
espressa dalla lezione di ilf • ; con quella di M-m, più semplice a prima
vista, non si spiega la relazione fra buono e perfetto sia fatta per colui
a cui e' la manda. Et questo i)uote essere o pregando o domandando o
comandando o minac- ciando o confortando o consigliando ; e in ciascuno
di questi modi puote quelli a cui vae la lettera o la canzone 5. o
negare o difendersi per alcuna scusa. Ma quelli che manda la sua lettera
guernisce di parole ornate e piene di sentenzia e di fermi argomenti, sì
come crede poter muovere l'animo di colui a non negare, e, s'elli
avesse alcuna scusa, come la possa indebolire o instornare in tutto.
Dunque è una tendone tacita intra loro, e così sono quasi tutte le
lettere e canzoni d'amore in modo di ten- done o tacita o espressa ; e se
cosi no è, Tullio dice manifestamente, intorno '1 principio di questo libro,
che non sarebbe di rettorica. Ma tuttavolta, o tencione o no tencione che
sia, CICERONE medesimo, luogo innanzi, isforza i suoi insegnamenti in
parlare et in dittare secondo la rettorica ; e là dove Tullio sine
pasasse o paresse che dica pur insegnamenti sopra dire tencionando, lo
sponitore isforzerà lo suo poco ingegno in dire tanto e sì intende-
20. volemente che '1 suo amico potrà bene intendere l' una materia
e l'altra. 18. Et ecco Tullio che incomincia a dire di quelle partite
della diceria o d'una lettera dittata, delle quali non avea detto neente
in adietro: e queste parti sono sei, sì come apare in questo
arbore. I e. 2 ^'Olii' /^M/
25. Queste sono le sei parti che Tullio mostra certamente
che sono nella diceria o nella pistola, specialmente in
i: m per cholui che la manda — 2: M' essere pregando — 3: M-m o in — 6:
Jf' manda guernisce la sua lederà d'ornati^ parole — il : M tucto
lelcrre, m tutte lettere o clianzoni, M' o lo cannoni - iS: M-m o e
tacita (mi o e sjirexa) - 13: m inloruo al pr. - 14-15: M' o di tenciono
o di non tencione — da quello luogo innanci inforfa — 16: M' IH secondo
rothorica ~ 18: M^ insegnauiento - 19: M' islbiva - intendevole - 21: M'
m comincia — 22 : M' ohi. o duna lettera dittala - 23: M indietro - 24: il'
pare in ipiesto albero - Nello gchetna M' ha l" l>roomio, 3»
Divisione, ó" Uisjwnsionc - SO: M-m 7 nella pistola (ma c/r. l.
22) quelle che sono tencionando, sì come appare nel detto
dello sponitore qui adietro ; e, sì come detto fue in altra parte di
questo libro, Tullio reca tutta la rettorica alle cause le quali sono in
contraversia et in tencione. Et ben . dice tutto a certo che Ile parole
che non si dicono per tencione d'una parte incontra un'altra non sono per
forma né per arte di rettorica. 19. Ma perciò che Ila pistola, cioè
la lettera dettata, spessamente non è per modo di tencionare né di contendere,
anzi è uno presente che uno manda ad un altro, nel quale la mente favella
et é udito colui che tace e di lontana terra dimanda et acquista la
grazia, la grazia ne 'nforza e l'amore ne fiorisce, e molte cose
mette inn iscritta le quali si temerebbe e non saprebbe dire a lingua in
presenzia; sì dirae lo sponitore un poco dell'oppinione de' savi e della
sua medesima in quella parte di rettorica ch'apartene a dittare, si come
promise al co- minciamento di questo libro. 20. Et dice che dittare é
un dritto et ornato trattamento di ciascuna cosa, convene volemente
aconcio a quella cosa. Questa è la diffinizione del dittare, e perciò
conviene intendere ciascuna parola d'essa diffinizione. Unde nota che
dice « dritto trattamento » perciò che Ile parole che ssi mettono inn una
lettera dit- tata debbono essere messe a dritto, sicché s'accordi il
nome col verbo, e '1 MASCUNINO [sic MASCHILE -- MASCULINO] e '1 feminino,
e lo singulare e '1 plurale, e la prima persona e la seconda e la terza, e
l'altre cose che ssi 'nsegnano in gramatica, delle quali lo
sponitore dirà un poco in quella parte del libro che fie i)iù
avenente; e questo dritto trattamento si richiede in tutte le parti
di rettorica dicendo e dittando. 21. Et dice « ornato trat- 30.
tamento » perciò che tutta la pistola dee essere guernita di parole
avenanti e piacevoli e piene di buone sentenze; et anche questo ornato si
richiede in tutte le i)arti di ret- torica, sì come fue detto inn adietro
sopra '1 testo di Tullio. 22. Et dice « trattamento di ciascuna cosa »
perciò che, 35. si come dice Boezio, ogne cosa proposta a dire
puote 1:M' pare — 4:M oin. sono — m le quali e In contr. e
tencione. Et dico — 5-6: M' non sodono — m om. per te.ncione — a un altro
— 8 : M'de tencione — iO : M' 7 ae udito —il: M' om. la grazia — 12-13: M
la gra — M' sinlorca — m/ molte cose — M' m in iscriptura — Mi non, ma L
e non — 14: m lo sponitore dira uno pocho — 16: M' om. di relto- rica —
19: M-m aconcia a quella cosa, !/'-/> a quella cosa aconcia — 23: M-m
adietro, M' a diricto — 24-25: M' m el mascolino (m il maschulino)col
leminino — 3/' el plurale el singulare — M-m pulare — 27 : m fia M' in
tutte parti — 33 : M-m nel lesto — 34 : m om. Et — 35 : m si puote
essere materia del dittatore ; et in questo si divisa dalla
sentenzia di CICERONE, che dice che Ila materia del parliere non è se non
in tre cose, ciò sono dimostrativo, deliberativo e iudiciale. Et dice «
convenevolemente aconcio a quella cosa » perciò che conviene al dittatore
asettare le parole sue alla sua materia. Et ben potrebbe il dittatore
dicere parole diritte et ornate, ma non varrebbero neente s'elle
non fossero aconcie alla materia. 23. Così è divisato il dit- tatore da
cciò che dice Tullio; e perciò di queste due 10. materie, cioè del
dire e del dittare, e dello 'nsegnamento dell'uno e dell'altro potrà
l'amico dello sponitore prendere la dritta via. Et per questo divisamento
conviene che Ile parti della pistola si divisino da queste della diceria
che Tullio à detto che sono sei, ciò sono : exordio, narrazione,
partizione, conferm amento, riprensione e conclusione. 24. 1. E oppinione
di Tullio che exordio sia la prima parte della diceria, il quale
apparecchia l'animo dell' uditore a l'altre parole che rimagnono a dire,
e questo è appellato prologo della gente. //. Et dice che narrazione è
quella 20. parte della diceria nella quale si dicono le cose che
sono essute o che non sono essute, come se essute fossoro ; e
questo è quando uomo dice il fatto sopra '1 quale esso ferma la forma della
sua diceria. E dice che è partigione quando IL PARILERE à narrato e contato il
fatto et 25. e' si viene partiendo la sua, ragione e quella
dell'aversario e dice : « Questo fue cosi, e quest'altro così » ; et in
questo modo acoglie quelle partite che sono a lini più utili e pivi
contrarie all'aversario, et afficcale all'animo dell' uditore ; et allora
pare ch'ai tutto abbia detto tutto '1 fatto. IV. Et 30. dice che
confermamento è quella parte della diceria nella quale il parlieri reca
argomenti et assegna ragioni per le quali agiugne fede et altoritade alla
sua causa. F. Et dice che riprensione (1) è quella parte della diceria
nella quale il 5: Mi agoisare — 6: m om. Et — 7 : M' non
varrebbe — 8: M' j cosi e divisato da ciò — 10: Jf maniere — i3: M^ da
quelle — i6: M' Et oppinione di Tulio e, m Op- pinione di Tulio e — M
exordìa — 18: M rimagnono udite, m om. a dire — 21 : M is- sate — 22: M 1
quando — M^ m l'uomo — om. esso 23 M'
forma la sua diceria — 25 : M' edesso viene partendo, m e viene
ripetendo.... del chonpagno — 28 -. M7 nfììcale (?), m e ficliale, M' 7
afficcalle — 29: M' paro cabbia detto — m detto il fatto - 30 : M' con-
fermagione — 33: i mss. responsione — M-m 7 quella (1) Non esito a
scostarmi dai codici per la concorde lezione degli altri luoghi, che
corrisponde al latino reprehensio. Il passaggio da reprensione a responsione
è facilissimo attraverso un repensione. I)arliere reca
cagioni e ragioni et argomenti per li quali attuta e menoma et
indebolisce il confermamento dell'aver- sario. VI. Et dice che
conclusione è Ila fine e '1 termine di tutta la diceria. 25. Queste sono
le sei parti che dice 5. Tullio che sono e debbono essere nella diceria;
e di cia- scuna tratterà qua innanzi il libro sofficientemente. Ma
in questo eh' è detto puote uomo bene intendere che queste sei
medesime possono convenire inn una pistola, di tal ma- teria puote ella
essere. Ma tuttavolta, di qualunque materia 10. sia, nelle tre di
queste sei parti s'accorda bene la pistola colla diceria, cioè nello
exordio, narrazione e nella con- clusione; ma ll'altre tre, cioè
partigione, confermamento e reprensione, possono più lievemente rimanere
e non avere luogo nella pistola. Tutto altressì la pistola àe V parti,
delle quali l'una può bene rimanere e non avere luogo nella diceria, cioè
«salutatio»; l'autra, cioè «petitio», avegnachè Tulio no Ila nominasse in
tra Ile parti della diceria, sì vi puote e dee avere luogo in tal maniera
ch'ap- pena pare che diceria possa essere sanza petizione. Dunque
20. le parti della pistola sono cinque, ciò sono salutazione,
exordio, narrazione, petizione e conclusione, sì come ap- pare in questo
arbore : 26. Et se alcuno domandasse per qual cagione
Tullio in- tralasciò la salutazione e non ne trattò nel suo libro,
certo 25. lo sponitore ne renderà bene ragione in questo modo.
Certa cosa è che Tullio nel suo libro tratta delle dicerie che ssi
l-S: m ragioni 7 cagioni — Jlf' l'aiingatore — wn. cagioni e — per
li ifiiali allassa - M-m il fermamente — 3 : 3/' il line — 4-5 : m
Questo.... che Tulio dico che debbono essere — 6 : M' m illibro qua
innanzi — 7 : jn luomo -- Af ' om. bone — m che tutte 7 queste sei — 8-9
: M tal maniera — M-m da qualunque, M^ de ([ualunque — li : 3f' in exordio
— M' m 7 conclusione —12: M' om. tre e soitiiuisce di\hione rt partigione
M salta dal lo al 2" aver luogo — 22: M' pare 'in questo albero —
24: ilf intrallassò, m lasciò — 25: Af' ne renda, L ne rende - 26: M^
cliellibro di Tulio tracia — 106 - fanno in
presenzia, nelle quali non bisogna di contare'!) il nome del parlieri né
dell' uditore. Ma nella pistola bisogna di mettere le nomora del mandante
e del ricevente, c'altri- mente non si puote sapere a certo né l'uno né
l'altro. Apresso ciò, la salutazione pare che sia dell'exordio ;
che sanza fallo chi saluta altrui 'per lettera già pare che co-
minci suo exordio. Et Tullio trattòe dello exordio com- piutamente, non
curò di divisare della salutazione né distendere il suo conto intorno le
saluti, maximamente perciò che pare che rechi tutta la rettorica a parlare
et in controversia tencionando. Et in perciò furo alcuni che diceano che
Ila salutazione non era parte della pistolaj ma era un titolo fuor del
fatto. Et io dico che la salu- tazione è porta della pistola, la quale
ordinatamente chiarisce le nomora e' meriti delle persone e l'affezione
del mandante. Et nota che dice « porta, cioè entrata della pistola,
e che chiarisce le nomora, cioè del mandante e del ricevente; e dice i
meriti delle persone, cioè il grado e l'ordine suo, sì come a dire:
Innocenzio papa, Federigo Imperadore, Acchilles cavaliere, Oddofredi
Judice, e cosi dell'altre gradora. Et dice « ordinata- mente », cioè che
mette il nome e '1 grado di ciascuno come s'a viene; e dice «l'affezione
del mandante», cioè com'elli manda al ricevente salute o altra parola di
bene, o per 25. aventura di male, secondo la sua affezione, cioè
secondo la sua volontade. 28. Adunque pare manifestamente che Ila
salutazione è così parte della pistola come l' occhio del- l' uomo. Et se
l'occhio è nobile membro del corpo dell'uomo, dunque la salutazione é
nobile parte della pistola, c'altressi 30. allumina tutta la
lettera come l'occhio allumina l'uomo. Et al ver dire, la pistola nella
quale non à salutazione è altrettale come la casa che non à porta né
entrata e come '1 1 : M-m bisogna contare — S-3 : M' nome
del dicitore — M-m bisogna mettere - M 7 dell' uditore 7 del ricevente, m
om. 7 del ricevente — M-m 7 altrimente — 4: M' non si porrebbe — 7-9: M-m
om. dello exordio — non curo divisare salutalione 7 distemdere - ìli
intorno alle salutationi — 10: M' om. et — 11-12: M' Et jìerciò funro — ciie
saluta- lione — 15: m e mèli — 16: m om. Et -17: M-m om. 1° e, hi 01».
cioè — S3 : M' om. di — 24 : M' 7 altra — 2,5 : M eirectione — m om.
secondo la sua afTezione cioè — 26: M' parte (ma t espunto) — 28 : M 3/'
om. dell'uomo, m om. del corpo (A completo) — 29: iW' e la salutatione n.
p. — m e altres'i — 32 : il/' ne jiorta (1) La lezione bisogna
contare darebbe piuttosto il senso di « conviene dire », mentre qui si
richiede un «c'è bisogno di dire». - Itì7 -
corpo vivo che non à occhi. Et perciò falla chi dice che
salutazione è un titolo fuor del fatto; anzi si scrive e s' in- chiude W
e sugella dentro ; ma '1 titolo della pistola è la soprascritta di fuori,
la quale dice a cui sia data la lettera. Ben dico c'alcuna volta il
mandante non scrive la salu- tazione, o per celare le persone se Ila
lettera pervenisse ad altrui o per alcun' altra cosa o cagione. (2) Né
non dico che tutta fiata convenga salutare, ma o per desiderio
d'amore, o per solazzo, talora (3) si mandano altre parole che 10.
portano più incarnamento e giuoco che non fa a dire pur salute. Et a'
maggiori non dee uomo mandare salute, ma altre parole che significhino
reverenzia e devozione; e tal- volta no scrivemo a' nemici altro che Ile
nomora e tacemo la salute, o per aventura mettemo alcuna altra parola
che 15. significa indegnamento o conforto di ben fare o altra
cosa; sì come fa il papa che scrivendo a' giudei o ad altri uomini
che non sono della nostra catholica fede o a' nemici della Santa Chiesa
tace la salute, e talvolta mette in quel luogo spirito di più sano
consiglio o connoscere la via della veritade o ahundare inn opera di
pietade et altre simili cose. Adunque provedere dee il buono dittatore
che, si- milemente come saluta l'uno uomo l'antro trovandolo in
persona, così il dee salutare in lettera mettendo et ador- nando parole secondo
che la condizione del ricevente richiede. Che quando uomo va davante a messer
lo papa o davante ad imperadore o a alti-o segnore ecclesiastico o
seculare, certo elli va con molta reverenzia et inchina la testa, et alla
fiata si mette in terra ginocchioni per basciare 2-3: M'
anche — M-ìn si richiude — M' ma titolo — M 7 \a. s. — 5 •m iscrive salu-
tatione — 6-7: M' venisse ilata altrui per alcuna cagione — Mo per cagione
dalcunaltra cosa cagione ; m id., ma oiii. cagione — 8-9 : M^-L ma ora per
d. d'a. or (ina L 0) per s. si man- dano, M-m per solazzo di loro si
mandano — il: M' a maggiore — M-m non debbono - 12: M* che significanza
abbiano di revercntia 7 dev. — 13-14: M' a nomici non scrivemo — M-m 7
per aventura —16: M-m il papa scrivendo... om. altri —19: M-m di
chonnoscere — M' conoscere via de veritade— 20: M' opere (mai opera) —
om. altre — 21 il/' dee prevedere —
22 M' un huomo un altro— ^ó:ni
Quando luomo — 26:M' davanti imperadore od altro, >« davante a lom-
j)eradore — 27 : Jf certo e va - ^S: in M una macchia cunpre in — M'
ginocohione in terra (1) S'inchiude è più esatto di si
richiude. Lo scambio fra n e l'i occorre altre volte: cfr. p. 37, n.
1. (2) In 3f e' è qualcosa di troppo. Non importa dire che m ha
accomodato di suo, perchè la parola cagione come finale è confermata da
M'; forse 1' errore nacque dall'avere scritto subito pei- cagione e voler
poi rimediare. (3) Scrivo così per avere un senso, ma non presumo
davvero di avere indo- vinato; potrebbe anche mancare qualche
parola. il piede al papa o allo 'mperadore. Tutto altressì dee lo
dettatore nominare lo ricevente e la sua dignitade coij parole di sua
onoranza e metterlo dinanzi ; apresso dee nominare sé medesimo e la sua
dignitade, e poi dee scri- 5. vere la sua affezione, cioè quello che
desidera che venga a colui che riceve la lettera, sì come salute o altro
che sia avenante, tuttavolta guardando che questa affezione sia di
quella guisa e di quelle parole che ssi convegnono al man- dante et al ricevente.
31. Che quando noi scrivemo a' magio, giori di noi o di nostro paraggio o di
minore grado, noi dovemo mandare tali parole che ssiano accordanti
alle persone et allo stato loro. Et non pertanto eh' io abbia detto
che '1 nome del maggiore si de' mettere dinanzi e del pare altressì, io
oe ben veduto alcuna fiata che grandi 15. principi e signori scrivendo a
mercatanti o ad altri minori , mettono dinanzi il nome di colui a cui
mandano, e questo è contra l'arte ; ma fannolo per conseguire alcuna utilitade.
Perciò sia il dittatore accorto et adveduto in fare la saluta- zione
avenante e convenevole d'ogne canto, sicché in essa me- 20. desima
conquisti la grazia e la benivoglienza del ricevente, sì come noi
dimostramo avanti secondo la rettorica di CICERONE. Et bene è questa
materia sopr'alla quale lo sponitore po- trebbe lungamente dire e non
sanza grande utilitade. Ma considerando che Ila subtilitade perché '1
verbo non si mette 25. nella salutazione, e che "1 nome del mandante
si mette in terza persona per significamento di maggiore umilitade,
e che tal fiata si scrive pur la primiera lettera del nome, par che
tocchi più a' dittatori IN LATINO che’n VOLGARE, sene passex'à lo
sponitore brevemente e seguirà la materia di Tullio per dicere dell'altre
parti della diceria e di quelle della pistola, sì come porta l'ordine. Et
in questo luogo si parte il conto della salutazione, e dirà dell' exordio
in due guise. L’una secondo ciò che nne dice Tullio e che
i : M' y allomperudoi'o — S-3: M-m dignilailo corporale di — m aggiunge
di reve- renza 7 ^ 4: M^ nm. S" e — 3: M-m oirectione — ([nella — 7
: m tuttavia — M' guani ino clic l'airectione — 9-10: M' ali maggiori —
M-m ili nostro .grado — i2: M' alloro slato — M-m om. ch'io abbia dolio —
i3: in il nome — M' si debbia — 13-16: m sengnori — M-m scrivono -- m e
mellone — M' elgli mandano — 17: Af-w por sognile — 18: mom. et adveduto
— 19: M' dongiii jìarle — 20: M-mnm.ìa grazia e — 21-SS: il/' dimoslor-
remo, m dimostraiiio davanti — Af' m Et bene cpiesta — 24: JZ-m uhella
subtitade, A/' che sotti! itude — 23: M<- in salutalione 7 perche!
nome — 26: M-m utilitade — 27: M' 7 per- che.... pur una lederà — m la
prima — 28: m om. in Ialino — 31-32: L Et in questa parte — ilf' dala
salutalione — 33: M' om. ci6 — 109 - pare che
ss'apartegna a diceria, l'altra secondo che ssi con- viene ad una lettera
dittata et ad una medesima diceria, oltre quello che porta il testo di
Tullio. Exordio. 5. 77. Et perciò che exordio dee
essere principe di tutti, e noi primieramente daremo insegnamenti
in fare exordio. Vogliendo CICERONE trattare dell' exordio prima che
dell'altre parti della diceria, sì ll'apella principe dell'altre 10.
parti tutte ; e certo è de ragione (i) : l' una perciò che ssi mette e si
dice tuttora davanti a l'autre, l'altra perciò che nel exordio pare che
noi aconciamo et apparecchiamo r animo dell' uditore ad intendere tutto
ciò che noi vo- lemo dire di poi. 15. Dell' exordio.
78. (e. XV) Exordio è un detto el quale acquista convene- volemente
1' animo dell' uditore all' altre parole che sono a dire ; la qual cosa
averrà se farà l' uditore benivolo, intento e docile. Per la qual cosa
chi vorrà bene exordire la sua causa, ad lui 20. conviene diligentemente
procedere e conoscere davanti la qualitade della causa. Lo
sponitore. 1. Poi che Tullio avea contate le parti della
diceria, sì vuole in questa parte trattare di ciascuna per se
divi- 25. satamente, e prima dello exordio, del quale tratta in
questo 2 : Af' e la diceria medesima — 3: m oltre a quello —
5 : M-mom.e — 6: M' oxordii — iO: m nm. tutte — M-m certo e (m a)
ragione, L e certo eglie ragione — 10-li M' luna pei che, m luna che —
M-m 7 davanti si dice — 13-14 : m quello die noi poi volerne diro — M'
dire poi — 18: m dolce (cosi sempre in seguito) M' converrà — om. procedere e
— 24 : M' divisamente, ma L divisatamente Questa lezione è
quella che spiega meglio le altre: soppresso il de, nacque è ragione di
M, che m, colla pretesa di accomodare,' peggiorò in a ragione; la
variante di L deriva certo dal non aver inteso il significato di de ragione (=
se- condo ragione). - no - modo:
Primieramente dice che è exordio, mostrando che tre cose dovemo noi lare
nell'exordio, cioè fare che 11' udi- tore davanti cui noi dicemo sia
inver noi benivolente et intento e docile a cciò che noi volemo dire. Et
perciò ne 5. conviene connoscere la qualitade del convenente sopra
'1 quale noi dovemo dire o dittare. 2. Nel secondo luogo divide
l'exordio in due parti, cioè principio et « insinuatio », e mo- strane in
qual convenentre noi dovemo usare principio et in quale « insinuatio ».
3. Nel terzo luogo ne fa intendere 10. donde noi potemo trarre le
ragioni per acquistare beni- voglienza et intenzione e docilitade, e come
noi dovemo queste tre usare in quello exordio eh' è appellato
principio e come in quello eh' è appellato « insinuatio ». 4. Nel
quarto luogo pone le virtù e' vizi dell'exordio. Et perciò dice
15. che exordio è uno adornamento di parole le quali il par- lieri
e '1 dittatore propone davanti nel cominciamento del suo dire in maniera
di prolago, per lo quale si sforza di dire e di fare sì che l'uditore sia
benivolo verso lui, cioè che Ili piaccia esso e '1 suo parlamento, e
procacciasi di dire e di fare sì che l'uditore sia intento a llui et al
suo detto; similemente si studia di dire e di fai'e sì che l’uditore sia
docile, cioè che pi'enda et intenda la forza delle parole. 6. Et perciò
dico che immantenente che 11' uditore è docile sicché voglia intendere e
connoscere la natura 25. del fatto e la forza delle parole, sì è
elli intento ; ma perchè l' uditore sia intento a udire, puote bene
essere che non sia docile ad intendere. Et di ciascuno di questi tre dirà
il conto quando verrà il suo luogo. 7. Ma perciò che '1 par- liere
che non conosce dinanzi di che maniera e di cliente 30.
ingenerazione sia la sua causa non puote bene advenire alle tre cose che
sono dette inn adietro, cioè che 11' uditore sia benivolo, intento e
docile, si dicei'à Tullio quante e quali sono le generazioni delle cause,
in questo modo: 1 : m Prima — MM' nm. è — 2-3 : m liiditore
sia inverso noi benivolo intonlo 7 dolco a quello ecc. — 4-5: m ci
conviene — 7-8: m nm. et — e mostra — 9: M' nensegna, L insegna dove —
JO: M' potremo — ii: M' ,allenlione - 13: M nm. in — 15: m i parlieri, M'
il parladore —17: M' perla (piai cosa — 19: ni jiiaoci il suo p. —
procliac- cisi — 20 : M-m 7 fare sicché — m attento — 21 : M' 7 fare — 22
: il/' ciò che imprenda — «1 le parole — ^.5: hi nm. e la l'orza delle
i>arole - 26: m che non 0—27: M' ohi. tre — 28-29: M' vorrà suo luogo
— chel dicitore — 7 di che ìnjj. - Ili -
Qualitadi delle cause. 79. Le qualitadi delle cause sono
cinque: onesto, mirabile vile, dubitoso et oscuro.
Sponitore. 5. I. In questa picciola parte nomina Tullio le
qualitadi delle cause, cioè di quante generazioni sono le
dicerie. Et s' alcuno m' aponesse che Tullio dice contra ciò che
esso medesimo avea detto in adietro, cioè che le generazioni e le
qualitadi sono tre, deliberativo, dimostrativo e iudiciale, 10. et
or dice che sono cinque, cioè onesto, mirabile, vile, du- bitoso et
oscuro, io risponderei che Ile primiere tre sono qualitadi substanziali
sie incarnate alhi causa che non si possono variare. Onde quella causa
eh' è deliberativa non puote essere non deliberativa, e quella eh' è
dimostrativa 15. non puote essere non dimostrativa ; altressì dico
della iudi- ciale. 2. Ma quella causa eh' è onesta puote bene essere
non onesta, e quella eh' è mirabile puote essere non mirabile, e
così dico della vile e della dubbiosa e della oscura. Adunque sono queste
qualitadi accidentali che possono 20. essere e non essere; ma le
prime tre sono substanziali che non si possono mutare.
Dell'onesta. 80. Onesta qualitade di causa è quella la quale
incontanente, sanza nostro exordio, piace all'animo dell'uditore.
25. Lo sponitore. I. Quella causa è onesta sopr'alla quale
dicendo parole, immantenente, sanza fare prolago, l' animo dell' uditore
si muove a credere et a piacere le parole che '1 parliere dice
sopra '1 convenente ; et in questo non fa bisogno usare pa-
3: M' dubbioso — 7 : M' m cholgli medesimo — 8: M-m om. elio - M^ li
generi — 10: M' dubbioso — 1 1: m io rispondo che le prime tre — 13 -.M'
puole — 13-14: M-m ml- lann dal lo al S° deliberativa — 15 : M-m essere
dimostrativa — 17 : L bone essere bene non mir. — 19: M-m om. queste —
23: M incontenenlo — 27: M-m mantenente iole per acquistare
la benivoglienza dell'uditore, perciò che ll'onestade della causa l'à già
acquistata per sua di- gnitade, sì come nella causa di colui che accusa
il furo o che difende il padre o l'orfano o le vedove o le
chiese. Mirabile è quello dal quale è straniato l'animo di colui che
de' audìre. Quella causa è appellata mirabile la quale è di tale 10.
convenente che dispiace all'uditore, perciò eh' è di sozza e di crudele
operazione. Et perciò l'animo dell'uditore è centra noi et è straniato
dalla nostra parte; et in questo abisogna d'acquistare benivolenzia sì
che l'uditore intenda, sì come nella causa di colui c'avesse morto il suo
padre 15. o fatto furto o incendio. 2. Dunque potemo intendere che
una medesima causa puote essere onesta e mirabile : onesta dall'una parte,
cioè di colui che difende il suo padre, mi- rabile dall'altra parte, cioè
di colui medesimo che è coutra la sua madre propia. E di questo uno
exemplo si puote 20. intendere tutti i somiglianti. Vile è quello
del quale non cura l'uditore e non pare che sia da mettere grande opera a
intendere. Lo sponitore. 25. 1. Quella causa è
appellata vile la quale è di picciolo convenente, sì che non pare
che ne sia molto da curare e l'uditore non sine travaglia molto ad
intendere, sì come la causa d' una gallina o d'altra cosa che sia di poco
valere. Et in questa causa dovemo noi procacciare di fare sì che
30. ir uditore sia intento alle nostre parole. 1: M'
om. la — id: M' o l'uiiiino - i2: vi e straniato — i3: M' bisogna — 14:
M-m om. nella oanaa di colui c'avcsso morto — 15: M a facto, m a l'atto —
19: M\a sua iiropria madre — 26: M-m om. ne — 27 : M' non si maraviglia —
28: hi di jioclio valoro, Jt/' de piccolo valoro — 89: Mi nm. di l'are si
Dubitoso è quello nel quale o la sentenzia è dubia o la causa è In
parte onesta et In parte è sozza e disonesta, sicché Ingenera
benlvolenzla e offenslone. Quella causa è appellata dubitosa nella quale
l'uditore non è certo a che la cosa debbia pervenire o a che sentenzia
alla fine torni, sì come nella causa d'Orestes che dicea ch'avea morta la
sua madi e giustamente per due 10. ragioni : 1' una perciò ch'ella
avea morto il suo padre, l'altra perciò che '1 deo APOLLO glile comandò.
Onde l'uditore non è certo la quale di queste due cagioni cagia in
sentenzia. Altressì è dubitosa quella causa nella quale àe parte
d'onestade e perciò piace all'uditore, et àe parte di diso- 15
nestade e perciò dispiace all' uditore, si come nella causa de filio: O
d'un furo che fue accusato d'un furto e '1 suo figliuolo si sforzava (ii
difenderlo in tutte guise. Certo la causa era onesta quanto in difender
lo padre, ma era diso- nesta quanto in difendere lo furo. 20.
Dell'oscuro. 84. Oscuro è quello nel quale l' uditore è tardo, o
per aventura la causa è Iv^plgllata di convenentl troppo malagevoli a
conoscere. Dice CICERONE che quella causa è appellata oscura nella
25. quale l'uditore è tardo, cioè che non intende ciò che portano
le parole del dicitore sì bene ne sì tosto come si conviene,
perciò che non è forse ben savio o forse eh' è fatigato per
2: M-m eia sentenzia — 3: M' in parte socca — 4: M-m o offensione — 7-8:
M' o in clie sententia torni ala fino 10: m il suo marito — li: M chel
deo apellollil, m chello lio appello il, M^-L che dio appello glile
comando — 13: M' quella parte dove parte — 16: M do fili?, *i demi?, Mi-L
dun figluolo dun ladro - do furto, el figUiolo ~ 17 : m s\ sforza — 19:
M' lo furto — 24: ino oschura apellata — 23-26: 3f-»i portava — del
dicta- tore - M' om. nò, L e si tosto, m o si tosto ~ 27:M' om. il
1" forse — M-m 7 forse - faligata (1) L'abbreviatura insolita
ài M e m porta a supporre una formula giuridica latina, quantunque tale
abbreviatura non sembri equivalere proprio a un de filio (la lezione di
M'-L è certamente secondaria). forse nella sigla si nasconde qualche nome
proprio? li detti d'altri parlieri che aveano detto innanzi; o per
aventura la causa è impigliata di cose e di ragioni che sono oscure e
malagevoli ad intendere. Della divisione dell' exordio.
5. 85. Et perciò che Ile qualitadi delle cause sono tanto diverse,
sì convene che li exordii siano diversi e dispari e non simili in
ciascuna qualitade di cause; per la qua! cosa exordio si divide in due
parti, ciò sono principio et « insinuatio ». Lo sponitore.
10. I. Perciò - dice Tullio - che le generazioni e le quali-
tadi delle cause sono tanto diverse, cioè che sono in cinque modi
sì come detto è qui di sopra, e l'uno modo non è accordante all'altro, sì
conviene che in ciascuna qualità di cause et in catuno de' detti cinque
modi abbia suo modo 15. di fare exordio, tale che ssi convegna alla
qualitade so- pr'alla quale noi dovemo parlamentare o dittare. 2, Et
vogliendo Tullio insegnare ciò apertamente, sì dice che exordio è di due
maniere : una eh' è appellata principio et un'altra ch'jè appellata «
insinuatio » ; e di ciascuna dirà elli 20. interamente. E così
dovemo e potemo sapere che le cause sopra le quali dice alcuno parlieri o
sopra le quali scrive alcuno dittatore sono cinque, cioè sono: onesto,
mirabile, vile, dubitoso et oscuro, sì come apare in adietro. Et
sopra tutte qualitadi sono due modi de exordio e non più, cioè
25. principio et « insinuatio ». Principio è un detto il quale
apertamente et in poche parole fa l'uditore benivolo o docile o
intento. Quella maniera de exordio è appellata principio
quando il parlieri o '1 dittatore quasi incontanente alla
1 : M^ parladori — 3: M' mn. oscuro o — fi: m diversi, dispari — 7:m di
cose — 8:M' cioè principio 7 insiniiatione (sempre) — / i : m dolio cose
— M' dele qualitadi sono tante divei-se -- Melo che sono— 13: M'
coU'altro — i4-i5: M' si abbia s. m. in fare — A/' «hi.cìò — 18-19: m una
che apjinllala ins. 7 una che ajiiiollata pr., M' uno che sajiplla pr. 7 un
altro che apellnlo ins.,7 di ciascuno — 21 : vi .ilchimo parlinre dice —
M-m 7 sopra — M' dice alcuno dictalon» — 22: M-m honesta - 23: M* jiare —
31 : M' il dicitore ol dictatore — M-m incontenonte
comincianza del suo dire, sanza molte parole e sanza neuno
infingimento ma parlando tutto fuori et apertamente, fa l'animo
dell'uditore benvolente a llui et alla sua causa, o talora il fa docile o
intento, si come fece Pompeio par- 5. landò a' Romani sopra '1 convenente
della guerra con Julio Cesare, che fece tale exordio : « Perciò che noi
avemo il diritto dalla ifostra parte e combattemo per difendere la
nostra ragione e del nostro comune, si dovemo noi avere sicura spei'anza
che li dii saranno in nostro adiuto ». Dell' insinuatio. Insinuatio è un
detto il quale, con infingimento parlando dintorno, covertamente entra nell’animo
dell'uditore. CICERONE dice che quella maniera de exordio è apellata
« insinuatio » quando il parlieri o '1 dittatore fa dinanzi un lungo
prolago di parole coverte, infingendo di volere ciò che non vuole, o di
non volere quello che dee volere, e così va dintorno con molte parole per
sorprendere l'animo dell'uditore sì che sia benevolo o docile o intento;
sì come disse Sino parlando a coloro che riteneano la sua persona
in gravosi tormenti: « Insin a oi"a v'ò io pregato che mi traeste di
tante pene ; oimai non dimando se non la morte, ma grandissimi tesauri
avrei dato a chi m' avesse scam- pato ». Et in questo modo covertamente
s'infingea di non 25. volere quello che volea, per venire in animo
di loro che Ilo scampassero per avere, da che mercè non valea. 2. Et
cosie à divisato il conto che è principio e che è «insinuatio»;
omai dicerà quale di questi due modi de exordio dovemo usare in
ciascuno de' cinque modi delle cause, cioè nell'onesto, 30. nel
vile, nel mirabile, nel dubitoso e nell' oscuro. i: M'
alancomincianza — m sanza alcliuno - 2-- M' om. et — 3: M' benivolente, m
benivolo — M^ o ala sua causa : m come fé — 5-6: M' a Romani parlando del
convenente, — cotale — 9: M diede saranno — IS: m intorno — 15: M-m i
parlieri, M' il parliere — M o dictatore — 17 : m quello che non vuole —
iW' in (juello che vuole — 20-21 : L Sitio — m teneano... gravi tormenti
— 2S: M' oggimai non domando io — 23: M' dati — wi dato chi — 26: m merco
domandare — 27: M' a divisatoli maestro — 28 : M-m (|uali — M' noi dovemo
— 29: M' de cause, M in ciascuno di delle causo, m in ciascheduna delle
chause (1) Per tutte le citazioni di autori classici, che da questo
punto alla fine son molto frequenti, rimando al mio studio su La
«Rettorica» italiana di Brunetto Latini pp. 35-50; ivi son ricercate e
discusse le fonti di questi esempii, e così riesce anche piti facile
rendersi conto della costituzione del testo. Della mirabile.
88. Nella mirabile generazione di causa, se il'uditore non fosse al
tutto turbato contra noi, ben potemo acquistare benivoglienza per
principio. Ma s'ei troppo malamente fosse straniato ver noi, allora
5. ne conviene rifuggire a « insinuatio », in però che volere così
isbri- gatamente pace e benivoglienza dalle persone adirate non
solamente non si truova, ma cresce et infiamasi l'odio. Lo
sponitore. 1. Inn adietro è bene detto che quella causa è
appel- lo, lata mirabile la quale è di rea operazione, sicché pare
che dispiaccia all'uditore. Et perciò dice Tullio CICERONE che quando
la nostra causa è mirabile puote bene essere alcuna fiata che
Il'uditore non sia del tutto coruccioso contra noi. Et allora potemo noi
acquistare la sua benivolenza per quel modo 15. de exordio eh' è
appellato principio, cioè dicendo un breve prologo in parole aperte e
poche. 2. Ma se 11' uditore fosse adiroso e curicciato contra noi
malamente, certo in quel caso ne conviene ritornare ad altro modo de
exordio, cioè « insi- nuatio », e fare un bel prologo di parole infinte e
coverte, 20. sicché noi possiamo mitigare l' animo suo et acquistare
la sua benivolenza e ritornare in suo piacere. Ch'ai ver dire,
quando l' uditore èe adirato e curiccioso, chi volesse acqui- stare da
llui pace così subitamente per poche et aperte parole dicendo il fatto
tutto fuori, certo non la troverebbe, 25. ma crescerebbe l' ira et
infiamerebbe l' odio ; e perciò dee andare dintorno et entrarli sotto
covertamente. Della causa vile. 89. Nella causa la
quale è di vile convenente, per cagione di trarrela di vilanza e di dispetto,
ne conviene fare l'uditore intento. S : M-m Della mirabile — ?» e
solluditoro — 3 : M^ del tutto — 4 : 3/' se — m se troppo fosse crucciato
— 5: Mi fuggire — m ci conviene.... chosi di presente - 7: m crescesi —
9: M-m ubiamo detto — i2: M^ alcuna volta — 13: m crucciato — 14: M'
potremo (ma L lìotemo) — 15: M-m in breve — 17 : M' iroso 7 crucciato
verso noi, m adirato contra noi molto, — 18: m tornarne — M alaltro modo
—19: M-m nni. fare — converte — M iulì- nito — 20: M' otii. la — SS: M^
cruccioso, m crucciato — S3: in per i)Oclie )iaroIo 7 aperte — S6: M-m
darò dintorno — M entrali, M' intrarli, wi rilrarlo sottilmente sotto
coverta — S8 : M e diviene convenente m udiviene e. — S9 : M' trarla de
viltanca 7 de dispregio Quando la nostra causa ella è vile, cioè di
piccolo convenente sicché l' uditore poco cura d' intendere, allora
ne conviene usare principio et in esso fare che 11' uditore 5. sia
intento alle nostre parole; e questo potenio ben fare traendola di
viltanza e facciendola grande et innalzandola, sì come fece Virgilio
volendo trattare de l'api: «Io dicerò cose molto meravigliose e grandi
delle picciole api ». Della dubbiosa qualità. Nella dubbiosa
qualità di causa, se Ila sentenza è dubbia si conviene incominciare
l'exordio dalla sentenzia medesima. Ma se Ila causa è in parte onesta e
in parte disonesta si conviene acqui- stare benivolenzia, sicché paia che
tutta la causa ritorni in onesta qualitade. La causa dubitosa, si
come fue detto in adietro, èe in due maniere: 1' una che Ila sentenzia è
dubbia, sì come apare nelF exemplo d' Orestes, che per due ragioni e
cagioni dicea ch'avea ben fatto d'uccidere la madre. Et in quel
caso 20. dovea elli incuninciare il suo exordio da quella
ragione dalla quale (0 elli più ferma nel suo animo di voler pro-
vare, e per la quale crede avere la sentenzia inn aiuto. 2. Ma se '1
convenente è dubitoso perciò che sia in parte onesto et in parte
disonesto, in quello caso dee il buono parlieri neir exordio acquistare la benivolenzia dell'
uditore per principio, sicché tutta la causa paia che sia onesta. 2:
M' m om. ella — m cioè di vile convenente 7 di picciolo — ,9: 3f'
-Ldelontendere — 4-5 : M 7 mezzo, m e mezzo a fare... atento — 6: m
vilanza, >/' vllezza 7 inalr. et f. g. — 7 : m tràre — 8: M' om. molto
— iO: M' Dela dubitosa — li: m cominciare — i2 : M-in om. è in parte
onesta — M' parte lionesla 7 parlo dis. — i7 : M-m cliella causa — hi
dub- biosa — i8: M> om. apare — cagioni 7 ragioni — m om. 7 cagioni —
19-20 : m in questo dovea elli com. — 21 : M' la (juale — 22: M-m 7 per
qua! (?;i om. 7) — M' sigli crede davere — 23: m om. sia — M'-L
honesta.... disonesta — 25: M' acquistare nelexordio benivolenca
daluditore — M libenivolentia — 26 : M-m om. che sia (1) Cioè «
fondandof3i sulla quale egli si propone di dimostrare la sua causa. L'oscurità
della frase ha determinato la falsa correzione in ilf'. La causa
onesta. Quando la causa fie onesta, o potemo intralasciare lo prin-
cipio, 0, se ne pare convenevole, comincieremo alla narrazione o dalla
legge, o d' alcuna fermissima ragione della nostra diceria. 5. A\a se ne
piace usare principio, dovemo usare le parti di benivo- glienza per
accrescere quella che è. Quando il conveniente sopra '1 quale ne conviene
dire è onesto, certo per la natura del fatto propia avemo noi
la benivoglienza dell'uditore sanza altro adornamento di parole. Perciò
quando noi venimo a dire noi potemo bene intralasciare lo principio e non
fare neuno exordio né prolago di parole, e cominciare la nostra diceria
alla nar- razione, cioè pur dire lo fatto; e bene potemo cominciare
da quella legge che tocca alla nostra materia o da quella ragione che sia
più fermo argomento e più certo. Ma se nne piace usare ijrincipio e fare
alcuno prologo, certo noi lo potemo bene, non per acquistare benivolenza
ma per crescere quella che v' è. Et perciò in detto caso il nostro
20. principio dee essere in parole apropiate a benivolenza.
Della causa ohscura. (e.
XVI) Nella causa la quale è oscura conviene che nel nostro principio noi
facciamo che ir uditore sia docile. Lo sponitore. 25.
1. In adietro fue dimostrato qual causa e quando sia oscura. Et
perciò dice Tullio che nella causa la quale sia 2 : M' m tia
— 3 : i« / Se ci paro — -i : M-m o alla legge, J/' o data leggo — M o
alcuna, )/i adalcluina, Mi o dalcuna — 5: Miw paro, m non paro — 6 : il/i
om. che h - 9: M-m nm. certo - facto pro])io — iO: M-m sanja molto
ailorn. — i i : Mi j perciò — M noi doviamo a dire, m noi doviamo diro —
i2: m alchuno oxordio — 13-15: M-m no comin- ciare ~ M' 1 cominciare do
quella legge - M-m o a ([uolla ragione — 16: M' la (jualo sia — 18: M'
ben faro — 19: M-m il docto, M' in (juesto caso — 25: M' mostrato (|ualo
causa e 7 (juando sia (ma L ([uando sia) — 26: M' la quale e (Cioè
«quando cominciamo a parlare». L'accordo di Jlf e JVf ' ronde sicuro a
dire, e con questo si escludo la lezione, buona in apparenza, di m {doviamo
dire) come evidente accomodamento di M. oscura all' uditore a
intendere noi dovemo usare quella parte de exoi'dio la quale è appellata
principio, et in quello dovemo noi si dire che 11' uditore sia docile,
cioè ch'elli intenda e ch'elli senta la natura del fatto, in que-
5. sto modo: che noi diremo in poche parole sommatamente la sustanzia del
fatto dell' una parte e dell' altra. Et poi che noi vedremo che U'
uditore sia apparecchiato in via d' intendere (1) il fatto, noi andremo
innanzi a dire la nostra ragione sì come si conviene al fatto.
10. Le ragioni delle cose. 93. Et perciò che infìn ad ora noi
avemo detto che ssi con- viene fare nell' exordio, oimai rimane a
dimostrare per quali ra- gioni ciascuna cosa si possa fare.
Sponito7-e. Infino a questo luogo à insegnato Tullio tutto ciò
che ssi conviene dire o fare nello exordio; e perciò ch'elli
àe detto in quale exordio ed in qual causa ne conviene usare parole
per acquistare benivolenza, sì vuole elli da qui in- nanzi mostrare le
ragioni come si puote ciò fare ; e questo 20. insegnamento fa bene
di sapere. De' quattro luoghi della temperanza. 94.
Benivolenza s' acquista di quatro luogora : dalla nostra persona, da
quella de' nostri adversarii, da quella dell! giudici e dalla
causa. Lo sponitore. In questa parte insegna CICERONE acquistare
benivo- lenza, e perciò ch'ella non si puote avere se non per
quello che ss' apartiene alle persone et al fatto, sì dice che
quattro luogora sono dalle quali muove benivolenza. Il primo luogp
i: if-»» om. all'uditore a intendere — 2.M^As lexordio — 4: Af'
chela intenda et senta - 5: m dopo diremo r(pe(e in ([uesto modo — 6:m la
natura — om. Et — 7-8: 3f' apparecchiato
intendere, m-L appareccliiato a intendere — 12: m a mostrare — 15: M-m
In ipiosto luogo — om. tutto - 17: M-m 7 di qual causa, M' iu quale
causa, i e in quale causa — M-m luoghi, della nostra p. — 27-28: M' da
quello... alla persona (1) L' espressione certamente è ridondante
{in via sembra quasi una variante di apparecchiato), e perciò quasi tutti
i testi l' hanno ridotta alla forma pili sem- plice e comune. Il segno 7
di M' deriva da una errata lettura di a, che anche in quel codice ha una
forma simile alla nota tironiana. si è la nostra persona e di
coloro per cui noi dicemo. Il secondo luogo si è la persona de' nostri
adversarii e di coloro contra cui noi dicemo. Il terzo luogo si è la
persona de' giudici, cioè la persona (l) di coloro davanti da cui
noi 5. dicemo. Il quarto luogo si è la causa e '1 fatto e '1 conve-
nente sopra '1 quale noi dicemo. E di ciascuno di questi dicerà il conto
ordinatamente e sofficientemente. Tallio sopra lo lìvolago.
Dalla nostra persona se noi dicemo sanza superbia de' 10. nostri fatti e
de' nostri officii; e se noi ne leviamo le colpe che nne sono apposte e
le disoneste sospeccioni; e se noi contiamo i mali che nne sono advenuti
et li 'ncrescimenti che nne sono pre- senti; e se noi usiamo preghiera o
scongiuramento umile et inclino. Sponitore. 1.
Conquistare benivolenza dalla nostra persona si è dicere della
persona nostra, o di coloro per cui noi dicemo, quelle pertenenze perle
quali l' uditore sia benivolo verso noi. Et sappie che certe cose s'
apartengono alle persone e certe alla causa; e di queste pertinenze
tratterà il conto 20. sofficientemente, e fie molto bella et utile
materia ad impren- dere. Et qui pone Tullio quattro modi d'acquistare
benivo- lenza dalla nostra persona. 2. Il i)rimo modo si è se noi
di- cemo sanza soperbia, dolcemente e cortesemente, de' no- stri
fatti e de' nostri officii. Et intendi (2) che dice « fatti » 25
quelli che noi facemo non per distretta di leggo o per forza, ma per
movimento di natura. Et così dicendo Dido 1 : m Olii, si —
2: M-m om. luogo — m ohi. si — 5 : m om. si — J : M-in om. la jiersoiia — Afiia
coloro — m davanti a chui, il/' davanti cui — 5: M^ il facto — m om. ól
convonento — 6-7 : M' om. di questi — dioera lautore — m om. e
soBìcientemento — 9-10: M-m Alla nostra p. — di nostri faoti — Ai' lo
nostre colpo — 12: il/' che sono presenti —
M' i scongiura- mento — 16: M^ dola nostra persona 7 di coloro —
17: m aparlenentle — 20: m om. suflicientementc — M-mom. materia — 22: m
om. moiio — 2-i:M-m intende, L intendo — 25: m diciamo per distretta —
26: M-m dicendo didio (1) Le parole la persona sono superflue, e
perciò a prima vista si preferirebbe la lozione di M-m; ma è molto più
probabile l'omissione di parole inutili che la loro aggiunta in
Af'. (2) Scrivo cosi per analogia col § 4; ma anche la lezione di
Mm, intende, potrebbe conservarsi come una forma di 2" persona dell'
imperativo (per la desi- nenza e non mancano esempii). d' Eneas
acquistò la benivolenza degli uditori: « Io » dice ella, « accolsi e
ricevetti in sicura magione colui eh' era cacciato iu periglio di mare,
et quasi anzi eh' io udisse il nome suo li diedi il mio reame ». Et cosi
dice che ella 5. si mosse a pietade sopra Eneas quando elli fugia
dalla distruzione di Troia. 3. Et al ver dire noi avemo merzè e
pietade delle strane genti per natura, non per distretta. Ma offici sono
quelle cose le quali noi facemo per distretta, non per movimento di
natura. Onde dice Tullio che dell'uno 10. e dell'altro dovemo dire
temperatamente sanza superbia. 4. Il secondo modo si è se noi ne leviamo
da dosso a noi et a' nostri le colpe e le disoneste sospeccioni che cci
sono messe et apposte sopra; et intendi che colpe sono appellati
que' peccati che sono apposti altrui apertamente davanti al viso, sì come
fue apposto a Boezio eh' elli avea composte lettere del tradimento dello
'mperadore. Il quale pec- cato removeo elli per una pertenenza di sua
persona, cioè per sapienza, dicendo cosi. Delle lettere composte
falsamente che convien dire ? la froda delle quali sarebbe mani-
20. festamente paruta se noi fossimo essuti alla confessione dell'
accusatore ». 5. Le disoneste sospeccioni sono le colpe eh' altre pensa
in centra ad un altro, ma nolle pone davante al viso, sì come molti
pensavano che Boezio adorasse i do- moni per desiderio d'avere le
dignitadi; e questa sospeccione 25. si levò elli parlando alla
Filosofìa, che disse: « Mentirò che pensaro ch'io sozzasse la mia
coscienza per sacrilegio (o per parlamento de' mali spiriti). Ma tu,
filosofìa, commessa in me cacciavi del mio animo ogne desiderio delle
mortali cose ».• Et così parve che volesse dire: « Poi che in me avea
sapien- 30. zìa, non era da credere che in me fosse così laido
fallimento ». Tutto altressì Elena, voglìendosi levare la sospeccione
che '1 suo marito avea dì lei, disse: «Elli che ssi fida in me
della vita, dubita per la mia biltade; ma cui assicura pro- dezza non
dovrebbe impaurire l'altrui bellezza ». 6. Il terzo 1 : M'
deluditore — 2: S m sicuro porto — 4: M' il suo nomo — Mìi dica — m il
roame mio — 5: A/' dela — 7: m M' 7 non — 0: m L ^ non por m. — 13-14: m
ci sono aposto (om. sopra) — M' appellate.... apjioste — 16: M \e lectoro
— 17: M' elgli rimovca — ciò fu — 18: M' falsamente composte — 20-21 :
M-m jiartita ....stati.... dellaccusato — 22: m centra un altro — ^f'
appone — 25: m parlando olii — 25-27: M-m Mentita chi solcasse — om. per
sacrilegio.... spiriti — 28: cacciavi (il latino ha pellebas) è solo in
L; M-m chaccia, Jf' cacciava con un i aggiunto tra v e a, s caccia via —
29: M-m paro — 31 : m schusare 7 levare — 33: m della biltade mia
modo è se noi contiamo i mali elie sono advenuti e li 'ncre-
scimenti che sono presenti. Così Boezio, contando ciò ch'ave- nuto era,
acquistò la benivolenza dell'uditore dicendo: « Per guidardone della
verace vertude sofferò pene di falso incol- 5. pamento ». Et Dido,
dicendo i suoi mali dopo il dipartimento d'Eneas, acquistò la benivolenza
per la sua misa ventura, e disse : « Io sono cacciata et abandono il mio
paese e Ila casa del mio marito e vo fuggendo i)er gravosi cammini in
caccia de' nemici». Altressì Julio Cesare, vedendosi in perillio di
10. guerra, contò i mali c'a llui poteano advenire, per confortare
i suoi a battaglia, e disse: «Ponete mente alle pene di Ce- sare,
guardate le catene e pensate che questa testa è presta a' ferri e' membri
a spezzamento». Altro modo è se noi usiamo preghiera o scongiuramento
umile et inclino, 15. cioè devotamente e con reverenza chiamare
merzede con grande umilitade. Et intendi che preghiera è appellata
sanza congiuramento. Verbigrazia : Pompeio, vegiendosi alla pugna della
mortai guerra di Cesare, confortando i suoi di battaglia disse: «Io vi
priego de' miei ultimi fatti 20. e delli anni della mia fine,
perchè non mi convenga essere servo in vecchiezza, il quale sono usato di
segnoreggiare in giovane etade » (0. Et queste pi'eghiere talfiata
sono aperte, sì come quelle di Pompeio, talfiata sono ascose, sì
come quelle di Dido in queste parole ch'ella mandò ad 25. Eneas:
«Io » disse ella « non dico queste parole perch'io ti creda potere
muovere; ma poi ch'io ao perduto il buon 4 : M-m fossero
peno — 5 : M-m Et dicio dicondo — 6-7: m dicendo — M-m chaccialo — 8: M
el mio marito, m om. - 9: M Tullio Cosarn, m Tulio corr. in .Tulio — 12-13 : itf'
epresso — li membri — M 7 membri, m 7 i membri — La sprezzamento — 14:
M-m 7 scongiura- mento — Mi panclino, m e parlino, M'-L o incliino - 13:
m om. cioè — chiamando — 19: m abattagla — 20: M delli anni ilelli amici
lino, m delli anni /siche — 21: M servo in vilezza la (piale, m servo 7
in vilczza il quale — 22-23: M-m om. sono aperte, m anlhe il 2° talfiata
— 24: M di diedi — 26: M' o perduto, m chio perduto (l) Il testo di
Lucano (Fars., VII, 380), da cui è tradotto questo esempio, ha ultima
fata deprecar, tutti i codici della Eettorica portano ultimi fatti. Non
credo che si possa pensare a uno sbaglio dei copisti, perchè un latinismo
come fati (che del resto qui non sarebbe traduzione esatta) manca di ogni
probabilità in quel tempo; sarà dunque da risalire a un'alterazione
facilissima del latino, ultima facta, che certo riusciva più
intelligibile della frase poetica originale. Quanto al servo in
vecchiezza (che corrisponde a ne discam servire senex), se po- tesse
supporsi una forma vegliezza {eelUczza) si spiegherebbe meglio come sia nato
l'erroneo vilezza; ma è chiaro che la parola servo risvegliò l'idea di
«condizione vile, meschina». pregio e la castitade del corpo
e dell' animo, non è gran cosa a perdere le parole e le cose vili ». 8.
Ma scongiura- mento è quando noi preghiamo alcuna persona per Dio o
per anima o per avere o per parenti o per altro modo di 5. scongiurare,
sì come DIDONE fece ad Eneas: Io ti priego, dice ella, per tuo padre, per le
lance e per le saette de' tuoi fratelli e per li compagnoni che teco
fuggirò, per li dei o per l'altezza di Troia, etc. Or à detto il conto del primo luogo
donde muove la BENEVOLENZA, cioè 10. della nostra persona e di coloro che
sono a noi ; ornai dirà il secondo luogo, cioè della persona delli
adversarii e di coloro contra cui noi dicemo. Dalla persona delli
aversarìi se no! li mettemo inn odio 15. invidia o in dispetto.
Lo sponitore. 1. Acquistai'e benivolenza dalla persona de'
nostri ad- versarii si è dire delle loro persone quelle pertenenze per
le quali l' uditore sia a noi benivolo et contra 1' aversario 20.
malivolo; et a cciò fare pone Tulio tre modi: Il primo modo è dicere le
pertenenze delle loro persone per le quali siano inn odio dell'uditori;
il secondo che siano in loro invidia; il terzo che siano in loro
dispetto; e di cia- scuno di questi tre modi dirà il testo bene et
interamente. 25. Tullio. 97. Inn odio saranno messi
dicendo com' ellino anno fatta alcuna cosa isnaturatamente o
superbiamente o crudelmente o ma- liziosamente. M om. a — 711 lo chose
vili 7 le i»arole — 4: M' o per parenti por avere — m oin. rli
scongiurare — 6-7 : M' per lo tuo padre 7 per le 1. 7 [jor le s. de tuoi f.,
per li compagniper saette di tuoi I"., m per le saette de tuoi parianti 7
per li compagni - 8-0 : M' om. etc. — Et ora a detto il maestro — om. la
— Ì0:m dalla nostra parte — YS: 3i' odindispregio — 19: M-m om. a noi M'
deluditore.... in invidia. Et il ter^^o che sia — m loro in invidia....
loro in dispetto — 26-27: M' comelgli anno alcuna cosa facta — vi 0»». isnatur.
e o maliziosamente Noi potemo i nostri adversarii mettere
ina odio del- l' uditore se noi dicemo eh' elli anno alcuna cosa fatta
isna- turalmeute, contra l'ordine di natura, si come mangiare 5.
.calane umana et altre simili cose delle quali lo sponitore si tace
presentemente. O se noi dicemo eh' elli abian fatto superbiamente, cioè
non temendo né curando de' signori né de' maggiori, avendoli per neente.
O se noi dicemo ch'elli abbiano fatto crudelmente, cioè non avendo pietà
né mise- 10. ricordia de' suoi minori né di persone povere, inferme
o mi- sere. se noi dicemo ch'elli abbiano fatto maliziosamente,
cioè cosa falsa e rea, disleale, disusata e contra buono uso. 2. Et di
tutto questo avemo exemplo nelle parole che BOEZIO dice contra NERONE imperadore.
Ben sapemo quante ruine fece ARDENDO ROMA, tagliando i parenti et
uccidendo il fratello e sparando la madre. Altressì fue malizioso
fatto il qual racconta Euripide di Medea, che sta scapigliata tra'
monimenti e ricogliea ossa di morti. 3. Omai à detto lo sponitore sopra
'1 testo di Tullio come noi potemo met- 20. tere il nostro
adversario in odio et in malavoglienza del- l' uditore. Da quinci innanzi
dicerà come noi li potemo mettere in loro invidia.
Tullio. In invidia dicendo la loro forza, la potenza, le
ricchezze, 2.5. il parentado e le pecunie, e la loro fiera maniera da non
sofferire, e come più si confidano in queste cose che nella loro
causa. Sponitore. 1. Noi potemo conducere i nostri
adversarii in invidia et in disdegno dell' uditore se noi contiamo la
foi'za del 3-4: M' chaWi ahh'ia. {poi aggiunto no dalla
stessa maria) — isnaluratamente contra online M' tace ora presentemente — m al
])rosonte — M-m 7 se noi dicemo che labian — 7-8: M tenendo M^ 7 non
venerando de sig,... 7 avendoli, m curando.... do maggiori — M-m 3/' che-
labbiano — 9-10: m misericordia.... di persone M' 7 misero — M-m Et se
dicemo cliollabbiano — 12: Af' cosa rea falsa et disleale 7 disusata
contra b. u., m om. cosa — o disleale 7 contro a b. u. — 13: M' exemplo
avemo — lo : M' uccidendo i parenti, talgllaiido il fratello — M-m i
fratelli — 17 : S Euripide — M-m di medici — IS: M corresse moni- menti
in moUimenti — 20: m om. in odio et - Af' in malavoglienca — 21-22: M Da ipii
- 3f' diceremo.... li potremo mettere loro in invidia — 24 : M-m om. In
—26: M' si lidano — 28-29: Af' i nostri avorsari conducere
....degliuditori Cfr. Magoini, La ReUorica italiana di B. L., pp.
Bl-52. corpo e dell' animo loro ad arme e senza arme, et la
po- tenza, cioè le dignitadi e le signorie, e le ricchezze, cioè
servi, ancille e posessioni, e '1 parentado, cioè schiatta, lignaggio e
parenti e seguito di genti, e le pecunie, cioè 5. denari, auro et
argento, in cotal modo che noi diremo come ' nostri adversarii usano
queste cose malamente et increscevolemente con male e con superbia, tanto
che sof- ferire non si puote. 2. Cosi disse Salustio a' Romani : «
Ben dico che Catenina è estratto d'alto lignaggio et à grande
IO. forza di cuore e di corpo, ma tutto suo podere usa in tra-
dimenti e distruzioni di terre e di genti ». Così disse Ca- tenina centra
' Romani : « Appo loro sono li onori e le potenzie, ma a nnoi anno
lasciati i pericoli e le povertadi >. 3. Et ora è detto della invidia
contra i nostri adversarii; sì dicerà il conto come noi li potemo mettere
in dispetto. Tullio. In dispetto degli uditori saranno messi
dicendo che siano sanza arte, neghettosì, lenti, e clie studiano in cose
disusate e sono oziosi in iuxuria. 20. Sponitore.
I. Noi potemo mettere i nostri adversarii in dispetto degli
uditori, cioè farli tenei'e a vile et a neente, se noi diremo che sono
uomini nescii sanza arte e sanza senno, da neuno uopo e da neuna cosa; o
che sono neghettosì, 25. che tuttora si stanno e dormono e non sì
muovono se non come per sonno; o diremo che sono lenti e tardi a
tutte cose; o diremo che studiano in cose che non sono da neuno uso
né d'alcuna utilitade; o diremo che sono oziosi in Iu- xuria dando forza
et opera in troppo mangiare, in nebriare, 30. in meretrici, in
giuoco et in taverne. 2. Et ora à detto il 2-5: Af' om. e le
signorie, poi continua: E le pecunie, ciò sono i danari e seni 7 an-
celle 7 possessioni. ¥A parentado... di genti, in cotal modo ecc. — 6: M' come
i nostri aversarii — 11 : M^ in tradimento 7 distructione de terra 7
<le gente, m in tradimenti distructioni — 12: M-in a Romani — 13 : m
lasciato — 14: M iì detta — L'i : M' o»i noi — in dispregio (l. 17 idem)
17: M' om. degli uditori — 18: M disulate — 19: M octosi, m ottosi — 22:
M' om. degli uditori — 23: 3f' siano, m sieno — M' sanza sonno? sanza arte di
neuno huopo - 24: m om. da neuno uopo e — 25 : m si stanno, dormono - 26:
M' per sonno/ 7 diceremo, L per sogno — 27-28 : m alclumo uso — M ' 7
dicoremo — 29-30: M' de troppo mangiare .T ebriare. in puttane — m 7 in
bere — M in cliaverne M' a decto luditore come — )?t om. Et
- 126 — conto come noi potemo acqnistare la benivolienza
dell'udi- tore dalla persona de' nostri adversarii mettendoli inn
odio et in invidia et in dispetto, et à insegnato come si puote ciò
fare. Ornai tornerà alla materia per dire come s' acqui- 5. sta
benivolenzia dalla persona dell' uditore, e questo è il terzo
luogo. La benivolenza dell'uditore. lOO. Dalla persona
dell'uditori s'acquista benivolenza dicendo che tutte cose sono usati di
fare fortemente e saviamente e man- 10. suetamente, e dicendo quanto sia
di coloro onesta credenza e quanto sia attesa la sentenza e l'autoritade
loro. Lo sponitore, (i) ' 1. Noi potemo acquistare la
benivolenza delli uditori dicendo le buone pertenenze delle loro persone
e lodando 15. le loro opere per fortezza e per franchezza e per
prodezza, per senno e per mansuetudine, cioè per misurata
umilitade, é dicendo come la gente crede di loro tutto bene et one-
stade, e come la gente aspetta la loro sentenza sopra que- sto fatto,
credendo fermamente che fie si giusta e di tanta 20. autoritade che
in perpetuo si debbia così oservare nei si- mili convenenti. Di forte
fatto Tulio lodò Cesare dicendo: « Tu ài domate le genti barbare e vinte
molte terre e sot- toposti ricchi paesi per tua fortezza». 3. Di senno il
lodò e' medesimo parlando di Marco Marcello: «Tu nell'ira,
25. la quale è molto nemica di consellio, ti ritenesti a consel-
lio ». Di mansueto fatto il lodò Tulio dicendo: « Tu nella vittoria, la
quale naturalmente adduce superbia, ritenesti mansuetudine ». 5. D'
onesta credenza il lodò Tallio in 2-3: M' in odio
deluditore, M innodio 7 invidia, m in odio, in invidia — M-m om. si — 8:
Jf' m delludilore {ma il testo auditorum) ~ 9: M' sono usi — M-m 7
suavomento {m nm. 7) 10 : i mss., ambedue le volte, quando — M' di loro —
li: M-m intesa — 13: M-m om. delli uditori — M^ deluditore — 14: M'
dicendo che buone M-m om. e per
fran- chezza — M' 7 per senno — 17: m M' om. e — 19: Jtf' credendo che la
loro sententia sia si giusta — m che sia — SO: M-m ne in simili, M'-L ne
simili — 23-84: m e lodo, M' il lodano 7 medesimo parlano — m marche
metcllo M-m om. molto — Af tu ritenesti a consellio, m tu ritenesti
consiglio — 26: M ilio Tullio tu ecc., m di mansueto fatto /7 nella
vittoria — 27 : M adato, m adato, L odduce — 28: m om. credenza il lodò
Tullio (1) In tutti 1 codici l'interpunzione di questo passo è
variamente errata, né metterebbe conto darne notizia. questo
modo: Cesare volle alcuna fiata male a Tullio, ma tutta volta lo ritenne
in sua corte; e non pertanto Tullio CICERONE era sì turbato in sé medesimo
che non potea intendere a rettorica si come solea, insin a tanto che GIULIO
CESARE non li 5. rendeo sua grazia. Et in ciò disse Tullio. Tu ài
renduto a me et alla mia primiera vita l’usanza che tolta m' era,
ma in tutto ciò m'avevi lasciata alcuna insegna per bene sperare »; e
questo dicea perchè l'avea ritenuto in corte, sicché tuttora avea buona
credenza. 6. D' attendere la sua 10. buona sentenza lodò Tullio
Cesare parlando di Marco Mar- cello: «La sentenza eh' é ora attesa da te
sopra questo con- venente non tocca pure ad una cosa, ma à ad convenire
(D a tutte le somiglianti, perciò che quello che voi giudicarete di
lui atterranno tutti li altri per loro ». 7. Or é detto come 15.
s'acquista benivolenzia dalle persone delli uditori; sì dirà Tullio coni'
ella s'acquista dalle cose. La benivolenza delle cose. Da
esse cose se noi per lode innalzeremo la nostra causa, per dispetto
abasseretno quella delii adversarii. 20. Sponitore. 1.
Noi potemo avere la benivolenza dell'uditori da esse cose, cioè da quelle
sopra le quali sono le dicerie, dicendo le pertenenze di quelle cose in
loda della nostra parte et in dispetto et in abassamento dell' altra; sì
come disse 25. Pompeio confortando la sua gente alla guerra di Cesare
: « La nostra causa piena di diritto e di giustizia, perciò eh'
ella è migliore che quella de' nemici, ne dà ferma spe- 4 :
M' om. non — 6: M-m la causa dm t. — i a me la mia primiera vila e liisanza
— 7: tutti, eccetto L, m'avea — M-m la sua insegna — 8 : M' 7 in questo
(?«re i et ((uesto) — 9: M' buona speranna — 10: M-m lodo Cesare di
Tullio - IS: M-m ma ad {m a) con- venire, M-L ma dee convenire - 14: Mt
per lui — i5: 3f' dele persone — i8:M-mom. so — L sar|uista bonivoglienza
se noi ecc. (ma nel latino manca) —19: M' m 7 per disp. — 21 : M'
deluditofo, m delli uditori — 24 : m nm. in dispetto — M-m om. idi — 25: M
confer- mando la sua gente — 26: m M'-L e piena — Lo pero chella — 27 : m
forma speranza (1) Aggiungo un' a, che nella scrittura del
codice può considerarsi fusa (come avviene nella pronunzia) con quella
precedente di ma con quella seguente di ad. Bel resto basterebbe anche «
convenire, quasi come un futuro (« converrà ») scomposto nei suoi
elementi. - 128 — ranza d'avere Dio in nostro
adiuto(i)». 2, Et ornai à divisato il conto le quattro luogora delle
quali si coglie et acquista la benivoglienza, molto apertamente et a
compimento; sì ritornerà a dire come noi potemo fare l'uditore
intento. Di fare V uditore intento. 102. Intenti li faremo
dimostrando che in ciò che noi diremo siano cose grandi o nuove o non
credevoli, o che quelle cose toc- cano a tutti a coloro che 11' odono o
ad alquanti uomini illustri, ai dei immortali, a grandissimo stato del
comune, o se noi prof- 10. terremo di contare brevemente la nostra causa,
o se noi propor- remo la giudicazione, o le giudicazioni se sono
piusori. Avendo Tullio dato intero insegnamento d'acquistare la
benivolenza di quelle persone davante cui noi 15. proponemo le
nostre parole, sì che l' animo s' adirizzi et invìi in piacere di noi e
della nostra causa e che siano contrarii e malevoglienti a'nostri
adversarìi, sì vuole Tullio medesimo in questa parte del suo testo
insegnare come noi I)otemo del nostro exordio, cioè nel prologo e nel
cominciamento del nostro dire, fare intenti coloro che noi odono, sì che
vogliano achetare i loro animi e stare a udire la nostra diceria; e di
questo potemo noi fare in molti modi de' quali sono specificati nel testo
dinanti, et in altri simili casi. 2. Et posso ben dire manifestamente che
ciascuna per- 25. sona sarà intenta e starà ad intendere se io nel
mio comin- 1: m nm. Et — 3 : 3f' nm. la — hi odi. molto — 4: m alento —
8-9: A/' o aliquanlì.... o ali iilii imm. o a — M |)iQrRremo, vi
protreremo {lat. pollicebimur) — iO: M-m owi. bre- vemente — VI
proiroromo la giuil. — i3 •M-m Quamlo Tullio a dato — 14: — J/tlavento —
— 7/1 (lavante a cimi — 13-16: 3/' loro siiivii 7 dlrirvi — 17: vi malagevoli —
19: M' nel nostro exorilio — vi nm. nel coniiiiciamento — 21 : 3f' si che
noi vogliamo — 32-23: 3f ' Et questo.... i (jua'.i.... davanti — vi om.
el — 25: M-m sono noi mio com. (1) Cfr. Lucano, Phars., VII, 349:
" Causa iubet melior superos sperare secun- dos „. Solo la lezione
di M corrisponde anche per la forma sintattica. (2) Si rimano
alquanto in dubbio sulla lezione da preferire, perchè tra un Avendo e un
Quando la differenza grafica ò lieve, data la somiglianza di una forma di
A con Q. Ma il gerundio Avendo, con una costruzione meno comune, più
difficilmente può esser dovuto a un copista; d'altra parte il quando in
senso di " dopo che „ non è dell'uso di Brunetto, clie adopra
continuamente la formula " Poi che Tullio ha detto „ "ha
insegnato ,, (S'intende clie l'inserzione di a davanti a dato diveniva
necessaria leggendo Quando). -ciamento dico eli' io voglia trattare di
cose grandi e d'alta materia, sì come fece il buono autore recitando la
storia d'Alexandro, che disse nel suo cominciamento : « Io diviserò
e conterò così alto convenente come di colui che conquistò ó. il
mondo tutto e miselo in sua signoria ». 3. Altressì fie inteso s' io dico
eh' io voglia trattare di cose nuove e con- tare novelle e dire eh' è
avenuto o puote advenire per le novitadi che fatte sono, sì come disse
Catellina : « Poi che Ila forza del comune è divenuta alle mani della
minuta 10. gente et in podere del populo grasso, noi nobili, noi
(i) potenti a cui si convengono li onori, siemo divenuti vile
populo sanza onore e sanza grazia e sanza autoritade ». 4. Altressì fie
intento s' io dico eh' io voglia trattare di cose non credevoli, sì come
'1 santo che disse : « Il mio 15. dire sarà della benedetta donna
la quale ingenerò e par- turio figliuolo essendo tuttavolta intera
vergine davanti e poi »; la quale è cosa non credevole, i^erciò che pare
es- sere centra natura. Et si come diceano i Greci: « Non era cosa
da credere che Paris avesse tanto folle ardimento che 20. venisse
'n essa terra (2) a rapire Elena ». 5. Altressì fie intento s'io dico che
'1 convenente sopra '1 quale dee essere il mio parlamento a tutti tocca
od a coloro che 11' odono, sì come disse Gate parlando della
congiurazione di Catellina: « Con- giurato anno i nobilissimi cittadini
incendere e distruggere 1 : M traclai-e cose, m cliio voglia
di trattare chosa grande — 2 : M actoro, m attor.j — 4-5: M'
recontcro.... conquise.... 7 mise — 5-6: M' fia inlento sic dica.... 7
contrario no- velle - 7: M' 7 puote — 9: M storca — m e venuta.... gente
minuta — 10: m M'-L non potenti — iy : J>f' noi a cui — 13: M Altre si
— 14-15: M'-L sicome disse il santo che disse - i II mio dotto — 16: M'
partorie il figluplo — M^ -j di. poi — M-m om. la quale.... natura — 19:
M-m oni. folle — m om. che venisse — SO: M nessa terra, m in essa terra,
M'-L nela nostra terra — M arape — 22: M' tocclia a tutti coloro -- 24:
M' anno nob. citt. dincendore (1) Nonostante l'accordo di
tutti gli altri codici, mi attengo a M, la cui lezione è confermata dal
testo di Sallustio: " omnes, strenui, boni, nobiles atque igno-
biles „ ecc. Brunetto non traduce esattamente, ma vuol mettere in rilievo
la dignità delle persone, e perciò ripete il noi; forse questa parola in
qualcuno dei primi apografi fu scritta no (no') e quindi scambiata colla
negazione: non potenti. Favoriva l'errore anche il tono insolito della
frase " noi nobili, noi potenti ,., mentre le parole " in
podere del populo grasso „ inducevano a considerare " non potenti „
i nobili. (•2) Intendo in essa terra (come scrive m), cioè "
nella patria stessa „ , in ipsa terra. Leggendo con 21f » nella nostra
terra si avrebbe lo stesso senso in forma più chiara; ma non saprei
allora spiegare la variante di M-m. È possibile che, omesso il nostra, un
nella sia stato letto nessa, che a prima vista non dà senso ? Invece
nulla di più facile del caso inverso, e.ssendo l's di forma allungata cosi
simile a l.— iso- la patria nostra, e '1 lor capitano ne sta sopra capo.
Adun- que dovete compensare clie voi dovete sentenziare de' cru-
delissimi cittadini che sono presi dentro nella cittade » Altressì fie intento
s' io dico clie Ila mia diceria tocca 5. ad alquanti uomini illustri,
cioè uomini di grande pregio e d'alta nominanza in traile genti sì
come disse Pompeio parlando della battaglia civile: « Sappiate che l'arme
de' ne- mici sono appostate per abbattere l'alto e glorioso sanato
». Altressì fie inteso s'io dico che Ile mie parole toccano a'dei,
10. si come fue detto di Catellina poi ch'elli ebbe conceputo di
fare cotanta iniquità: «Ma elli gridava ch'appena i dei di sopra
potrebbero ornai trarre il populo delle sue mani » (2). Altressì fie
intento s' io dico nel principio di dire la mia causa brevemente et in
poche parole, sì come disse il poeta 15. per contare la storia di
Troia: «Io dirò la somma, come Elena fue rapita per solo inganno e come
Troia per solo inganno fue presa et abattuta ». 9. Altressì fie intento
s'io nel mio exordio propongo la giudicazione una o più, cioè
quella sopra che io voglio fondare il mio dire e fermerò 20. la mia
provanza, sì come fece Orestes dicendo: « Io pro- verò che giustamente
uccisi la mia madre, imperciò che dio Apollo il mi à comandato, perciò
che uccise il mio padre». IO. Et di tutti modi per fare l'uditore
intento potemo noi coUiere exempli in queste parole che disse Tullio
a Cesare parlando per Marco Marcello: « Tanta 1 : M-m 7 lor
— M' ne sopra capo — 2-3 : m dovete pensare, Mi pensale — M-m esmarn {m
esimare) de nobilissimi citi. — M' ohe sono dentro ala cittade (anche m dentro
alla) M fue, m (la — 5-6: M' cioè de gr. — M-m 7 da tale nominanca — 7 : M-m
che latine —M-m sano, M' senato M' fia intonto O-ll: M-m poi chelll
anno conceputo di faie tanti iniipii mali gridava (m om. gridava) M apena
ornai —3f' nel cominciamento — 14: Jf' o in jioclie parole M' om. Io dirò....
e come Troia, M om. Troia [spazio bianco) m diclio 7 propongo nel mio
exordio Mi sopra che infomliiro il mio dire e fondata — m sopralla quale —M-m
che io ajmllo il mio comandato, 3f' chol dio Appello lo ma com. (/.. lo
mavea), 7 perciò cliella m atento M' exemiilo M-m om. a — M' parlando a
lui Questo periodo è d'incerta lezione, male varianti registrate in
nota sono palesi accomodamenti, specialmente il pensate di Jtf ' per
evitare la ripetizione di dovete; co.si esmare esimare può esser nato da
una sigla di sentenziare (0 si tratterà di fmare, fermare?). Glie sia poi
da leggere crudelissimi cittadini ò con- fermato, oltre che dal senso,
dalla parola hostibiis che vi corrisponde i\el tosto di Sallustio ;
nobilissimi ò derivato dalla frase del periodo precedente. La lezione di M.,
che è tutta accettabile, dà ragione degli errori di Mm: il primo elli
parve plurale, e quindi si fece elli anno; il ma unito con Mi divenne
mali e portò con sé altri cambiamenti. Ma non giurerei che tutto sia
genuino" mansuetudine e cosi inaudita e non usata pietade e
cosi incredebile e quasi divina sapienzia in nessuno modo mi posso
io(l) tacere nò sofferire ch'io non dica». Et poi che Tullio à pienamente
insegnato come per le nostre parole 5. noi potemo fare intento l'uditore,
si dirà come noi il po- terne fare docile. Come l'uditore sia
docile. Docili faremo li uditori se noi proporremo apertamente
e brevemente la somma della causa, cioè in che sia la
contraversia. E certo quando tu il vuoti fare docile conviene che tu
insieme lo facci attento, in però che quelli è di grande guisa
docile il quale è intentissimamente apparecchiato
d'udire. Quelle persone davanti cui io debbo parlare posso io fare
docili, cioè intenditori, da tal fatto: se io nel mio exordio, alla
'ncviminciata della mia aringhiera, tocco un poco d^l fatto sopra '1
quale io dicerò, cioè brevemente et aper- tamente dicendo la somma della
causa, cioè quel punto nel quale è la forza della contenzione e della
controversia. Cosi fece Saiustio docile Tulio dicendo: « Con ciò sia cosa
ch'io in te non truovi modo né misura, brevemente risponderò, che
se tu ài presa alcuna volontade in mal dire, che tu la perda in mal udire
». 2. Questo et altri molti exempli potrei io mettere per fare l'uditore
docile, si come buono intenditore puote vedere e sapere in ciò eh' è detto
davanti. Et perciò che '1 conto à trattato inn adietro di due
maniere exordii, cioè di principio e d'insinuazione, et àe divisato
M consuetudine, m sollicituiline, L inmansuetudine —L nm. lo e cosi. M
man- dila. M-m mi possono, M-L io posso — m om. Et. M' luditore intento,
M nm. l'uditore. 8: M' Docile l'aremo luditore M-m proi)onemo — iO: Af' Et credo
quando tu vuoli. m nm. è attentissimamente. m davanti a chui docile cioè intenditori de tutto il
facto M-m sarò nel mio ex. M'
incomincianza. M arrincliiera, M' aringheria — m cominciamo 7 toccho Af' om.
dicendo nel quale e la contentione. M' om. cosa (ma non L). m o misura. M'
ti li- spondo M' om. Io. m om. e sapere. M' doxordio [È chiaro che
posso io fu dall'archetipo di M-m trasformato in possono perchè tutti i
sostantivi che precedono parvero soggetti e non complementi og- getti ; e
vi dovè contribuire una falsa lettura (cfr. un caso simile in 128, 23,
seno per se io). La lezione di M'-L è solo un facile accomodamento.
ciò che ssi conviene fare e dire nel principio per fare l'uditore
benivolo, docile et intento, sì dirà lo 'nsegnamento della INSINUAZIONE in
questo modo. Oramai pare che sia a dire come si conviene trattare
le insinuazioni. INSINUAZIONE è da usare quando la qualitade della causa
è mirabile, cioè, sì come detto avemo inn adietro, quando l'animo
dell'uditore è contrario a noi. E questo adiviene massimamente per tre cagioni:
o che nella causa è alcuna ladiezza, o coloro 10. e' anno detto davanti
pare ch'abbiano alcuna cosa fatta credere al- l'uditore, se in quel tempo
si dà luogo alle parole, perciò che quelli cui conviene udire sono già
udendo fatigati; acciò che di questa una cosa, non meno che per le due
primiere, sovente s'of- fende l'animo dell'uditore. In adietro è
detto sofficientemente come noi potemo acquistare la benivolenza
dell" uditore e farlo docile et in- tento in quella maniera de
exordio la quale è appellata principio. Oramai è convenevole d' insegnare
queste mede- 20. sime cose nell'autra maniera de exordio la quale è
appellata « insinuatio ». 2. Et ben è detto qua indietro che « insinuatio
» è uno modo di dicere parole coverte e infinte in luogo di
prologo. Et perciò dice Tullio che questo tal prologo in- daurato dovemo
noi usare quando la nostra causa è laida 25. e disonesta inn alcuna
guisa, la qual causa è appellata mi- rabile, sì come pare in adietro là
dove fue detto che sono cinque qualità U) di cause, cioè onesta,
mirabile, vile, du- biosa et oscura. 3. E buonamente nelle quattro ne
potemo noi passare per principio; ma in questa una, cioè mirabile,
1 : M cioè — M' om. fare e — S : M-m om. s\ — 6: 3f ' della
ìnsinualiono — 7: m ohi. s'i — 8 • M-m 7 di questo diviene — iS: L Kt di
questa — Iti: M-m a detto — 20: W nella maniera — 2i : m Bono dotto — S3:
M-m cai prologo (m prolago danrato), 3/' cotale prolagoS6: M-m nm. in
adiotro M modi ([ualità (hi qui è corroso, vin lo spazio fa supporre lo
slesso), M'-L qualitadi dolio cause M'
cioè nollamirabile Conservo la parola qualità attestata da ambedue
le tradizioni, tanto più Clio anche prima Brunetto usa lo stesso
vocabolo. In M abbiamo modi qualità. Probabilmente si tratta di una
sostituziono o variante, che venne poi introdotta nel testo (a mono clie
non si voglia supporre un modi o qualità). ne conviene usare INSINUAZIONE
[IMPLICATURA – “He hasn’t been to prison yet” – “He has beautiful handwriting”]
per sotrarre l’animo dell’uditore e tornare in piacere di lui ed in grazia quel
che pare essere in suo odio. Adunque ne conviene vedere in quanti e
quali casi la nostra causa puote essere mirabile, e poi vedere come noi
potemo contraparare a ciascuno. E sono tre casi. Primo caso si è quando
sie nella causa alcuna ladiezza per cagione di mala persona o di mala
cosa. Che al vero dire molto si turba l'animo dell'uditore contra il reo
uomo e per una malvagia cosa. Il secondo caso è quando il parlieri ch'à
detto davanti à sie et in tal guisa proposta la sua causa, eh' è INTRATA
NELL’ANIMO dell'uditore e pare già che Ha creda sì come cosa vera; per la
quale cosa r uditore, poi che comincia a credere alle parole che ir
una parte propone et extima che Ila sua causa sia vera, apena si puote
riducere a credere la causa dell'altra parte, anzi sine strana et allunga.
Il terzo caso è d'altra maniera che sovente aviene che quelle persone davanti
cui noi dovemo proporre la nostra causa e dire i nostri convenenti anno
lungamente udito e stati A INTENDERE ALTRI e' anno detto assai e molto, prima
di noi, DONDE L’ANIMO dell' uditore è fatigato sì che non vuole né agrada
lui d'intendere le nostre parole; e questa è una cagione che
offende l'animo dell'uditore non meno che 11' altre due Et perciò
conviene a buon parliere mettere rimedi di parole incontra ciascuno caso
contrario, secondo lo 'nsegnamento di Tulio. Della laidezza della
causa. Se la laidezza della causa mette l'offensione,
conviene mettere per colui da cui nasce l'offensione un altro uomo che
sia amato, o per la cosa nella quale s'offende un'altra cosa che
sia provata, o per la cosa uomo o per l'uomo cosa, sicché L'ANIMO dell'uditore
si ritragga da quello che 'nnodia in quello ch'elli ama. Et infingerti di non
difendere quello che pensano che tu voglie difendere, e così, poi che l’uditore
sie più allenito, entrare in difendere a poco a poco e dicere che quelle cose,
le quali indegnano L’AVERSARII, a noi medesimi paiono non degne. Et poi
che tu avrai allenito colui che ode, dei dimostrare che quelle cose non
pertiene atte neente, e negare che tu non dirai alcuna cosa dell'
aversarii, ne questo ne quello, sì eh' apertamente tu non danneggi coloro
che sono amati, ma oscuramente facciendolo allunghi quanto puoi da
lloro la volontade dell'uditore; e proferere la sentenzia d'altri in
somiglianti cose, o altoritade che sia degna d'essere seguita; et apresso
dimostrare che presentemente si tratta simile cosa, o maggiore minore. In
questa parte dice Tullio CICERONE che, SE l’uditore è turbato contra noi per
cagione della causa nostra che sia o che paia laida per cagione di mala
persona o di mala cosa, ALLORA DOVEMO NOI USARE INSINUAZIONE NELLE NOSTRE
PAROLE in tal maniera che in luogo della persona contra cui pare CORUCCIATO
L’ANIMO dell'uditore noi dovemo recare un'altra persona amata e piacevole
all'uditore, sì che per cagione e per coverta della persona amata e buona
noi appaghiamo L’ANIMO dell'uditore e ritraiallo del coruccio ch'avea contra la
persona che lui semblava rea. Si come fece AIACE nella causa della
tendone che fue intra lui et ULISSE per l'arme eh' erano state d'Achille.
Et tutto fosse AIACE un valente uomo dell'arme, non era molto amato dalla gente
né tenuto di buona maniera. Ma ULISSE, per lo grande senno che in lui
regna, e molto amato. Onde AIACE, volendosi contraparare, nel suo dicere
ricorda com' elli era NATO DI TELAMONE, il quale altra fiata prese Troia al
tempo del forte ERCOLE. E così mette la persona avanti amata e
graziosa in luogo di sé ed in suo aiuto, per piacerne alla gente e
per avere buona causa. E quando la causa è laida per cagione di mala
cosa, si dovemo noi recare NEL NOSTRO PARLAMENTO un’altra cosa buona e
piacevole. Si come fa CATILLINA scusandosi della congiurazione che fa in ROMA,
che mise una giusta cosa per coprire quella rea, dicendo. Elli è stata mia
usanza di prendere ad atare li miseri nelle loro cause. Brunetto Latini. Latini.
Keywords: rettorica, le fonte della retorica di Latini: Cicerone e Publio
Vegezio, insinuazione, parlari, parlatore, controversia, auditore, animo
dell’auditore, modo, essempio di Roma antica, Giulio Cesare – rettorica
oratoria togata – sacrilegio o furto --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Latini” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Laurino: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dei longobardi – filosofia campanese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Laurino). Filosofo italiano. Laurino,
Salerno, Campania. Duca di Aquara e di Laurino, appartenente alla nobile
famiglia napoletana degli Spinelli. Allievo di VICO, si forma al
Clementino a Roma e poi all'Accademia di Loreto. Ritornato a Napoli, divenne
amico di vari illuministi napoletani, quali FILANGIERI (si veda) e
Galiani. Autore di vari saggi di stampo illuministico. Le “Riflessioni filosfiche”
rappresenta un tentativo di metodo geometrico. Si oppone alle teorie di
Broggia. Fa attivamente parte della massoneria napoletana, all'epoca diretta
dal principe di Sansevero, Raimondo di Sangro. Cavalerie del Real Ordine
di San Gennaro. A Napoli, fa ristrutturare il palazzo di famiglia, il
palazzo Spinelli di Laurino, trasformandolo in una suggestiva realizzazione. Muore
a Napoli e venne sepolto nella cappella di famiglia nella chiesa di Santa
Caterina a Formiello. Altri saggi: “Degl’affetti degl’uomini”, Napoli, Muzio;
“Della moneta” (Napoli); “Cronologia dei re di Napoli,” Napoli, Bisogni; “Del
nobile”, Porsile; “Lettera nella quale si dimostra non esser nota di falsità,
che nel diploma di fondazione della chiesa di Bagnara si ritrovi l'anno 1085
segnato coll'indizione sesta correndo l'ottava del computo volgare; Treccani Enciclopedie,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. -- ria che forma la materia
del presente saggio: E metodo col quale questa siè composto. I tutte le città e
popoli dell'Italia ciascuno ha la sua particular forma di governo prima che sussestato
vinto da’ ROMANI. Ed anche dopo ciò, molte delle città medesime, quantunque al
popolo di ROMA veramente ubbedissero. Pure così fatti nomi, e tale forma aveano
di domestica polizia, che libere in certo modo facevanle apparire. Ma essendo
stata dalla legge giulia a ciascuna di quelle LA ROMANA CITTADINANZA conceduta che
non da tutte senza con Trans 1 AN 1x IN line ill SAGGIO TAVOLA CRONOLOGICA
compongono DI NAPOLI. Dalla venuta de LONGOBARDI in Italia fino che quelle terre
sono da NORMANNI della Puglia conquistate. PROΟEMIO trasto è accettata, e la quale
da Marco Aurelio ANTONINO Antonino Caracalla è all'intiero orbe romano distesa,
col vanto di esser parte del capo, a Roma, ed a coloro, che la ressero, sono
tutte senza alcuna dubitazione, anche nell'aspetto, sottoposte. [tem Civitati ante
ferret CICERONE pro Bal CICERONE PRO BALBAM, Edit.Ve. bon. Edit.Venet. L. inorbeff.
de Stat. hom. L., Roma. Sigon. de Antiquo Jur. Ital. Ad bomnib. Rutil. Numan. itinerar.
In quo magna contention Heracliensium, Aloja Ins: DE’ PRINCIPI E PIÙ RAGUARDEVO
LI UFFICIALI, che anno signoreggiato, e retto le PROVINCIE, ch’ora: Ι Mich. Fiaschino
Inven. e C.I. REGNO DI, Strabon. Geograph. Edit. Parifienf. Parsin Civitatibus fæderisfui
liberta e Neapolitanorum fuit, cum magna I LL ]. Transferita però la sede del ROMANO IMPERATORE in Costantinopoli, varie BARBARE
NAZIONI con più fortuna di quello, che aveano fattosotto LA ROMANA REPUBLICA, invadero
l'Italia molte volte, e distrusfero. Radagasio Re de’ GOTI con MM armati,
cagiona danni gravissimi all'Italia. Ma in Toscana da Stilicone resta con tutto
il suo esercito vinto e sconfitto. Alarico ed Ataulfo re di que' medesimi BARBARI
che ove Alarico dimora circa II anni, ed ove muore, avidamente sacchegiarono. Attila
re degl’UNNI in così fatta maniera quella parte dell'Italia av'egliera entrato,
devasta, che IL FLAGELLO DI DIO è nominato. Genserico re de’ vandali chiamato
dall'Africa d’Eudossia moglie di Valentiniano III imperatore, per vendicarsi di
Massimo, che avea costui ucciso, e lei ignara in prima dell'infame
assassinamento, sposata, ed occupato d’Occidente l'Impero; viene in Italia, ne
scorre molte provincie, DEVASTA LA NOSTRA CAMPANIA e molte città di essa avendo
distrutte, in Cartagine carico di preda se ne ritorna. E finalmente Odoacre co’suoi
Eruli, e Turcilingi, INVADE TUTTA L’ITALIA e Re de Goti, che nella PANNONIA,
ove egli no dimora, aveano cominciato a tumultuare, gli concede l'Italia,
acciocchè ne avesse Odoacre discacciato. Ovvero, come altri vogliono, lo stesso
TEODORICO senza la concessione dell'imperadore
in vase quella provincia, ne discaccia Odoacre, che poscia uccise, e re se ne fa
nominare -- Histor, Miscell. est cod. Ambrosiin. in Philostorg, hist. Ecclesiast. Ma Prosper. Aquitan. Chron.;
Augut. De Civit. Dei, Marcellin. Chron. In Sirmond. Philostorg. hist. Eccl. In Vauclid.
Chron. Idatius in Chron. Isidor. Chron. Goth. in rebo Got., Langobard. Jornand.
de reb. Get. Agnel. Pontific. Raven. in S. Joan . Evagr. Schol. hist., Valef
Ital. Murat, Cassiod. in Conf. Boet. Conf.] per essersi
fermati poi nell'Occidente si dillero VESTRO-GOTI. A modo di locuste Roma II
volte, ed una gran parte delle nostre Provincie -- Histor. Miscell. ex cod. Ambro. Olympiod. In Photii Biblioth.
Jian, in Murat. Rer. Ital., Sigebert. Chrona Jornand. de reb.Goth. Histor. Miscell. ex cod. Ambros. Axon.Valesian. Sigebert, Procop. De bella Gotb.
-- Re, e circa anni pacificamente la possiede. quista, se ne titola colle proprie
forze da quella l'imperatore Zenone vedendo di non poterlo Teodorico. Perchè
discacciare, evolendosi render benevolo bella parie del suo impero la con Regi non.
-- Chron. Histor. Miscell. Paul, Disc, de Gest. Langob. ex cod. Ambrosian., i
Reginou. Chron. Socrat. hist. Ecclesiasi., Jornand.de reb.Goth. de re- Anon.
Cuspiniana Eusippiusin vita S. Severini. znor. success. Anon Valesian. rer. Ital.
Munic. Marcellin. Chron. in Sirmond. L. de Tironib. C. Theodos. Z fimus Jornand. de reb. Goth. e Idat. Chron .in
Du-chesn. de regnur, success., Prosper. Aquitan. Chron. Procop.de belio Goth. Marcellin.
Coron. in Sirmonds. Casiodor. Chron. Edit. Spicil. Ravenn. histor.Ven., Isidor,
Chron. Goth. Aimon. de Gest. Francor. Sozomen. histor. Ecclesiast. Sigebert. Chron.in
an.Vales. la to Marii Aventic. Chron. in Duchesne, Evagr. Scholast. hist. Eccl.
Histor. Miscell. ex cod. Ambros. in Valef. Histor. Miscell. ex cod. Ambros. In rer.
Sigebert. Chron. Prosper. Aquit. Chron, in Du-Chefne Marii
Aventicenf. Chron.in Du-Chesne, pa I Anon. Cuspin. --. Ma dopo di avere e
codesto principe, ed alcuni suoi successori in tal regno per molti anni
signoreggiato; circa l'anno della salutifera divina incarnazione l'imperadore GIUSTINIANO
delibera di toglierlo a codėsti barbari, col pretesto, che Teodato re di essi
non avea vendicata la morte daia ad Amalasunta già loro Reina; perchè vi manda
Belisario, che in breve tempo occupa conquistato. n cosi fatia espedizione
furono in ajuto de' Greci i Longobardi nazione che nella Pannonia dimorava: i
quali dopo , che fu l'Italia pacificata , ivi, e d in casa degli Amici più
difordini commettevano, che contro gl'inimici farenon avrebbono potuto, perchè
Narsete caricandoli di doni, contenti nel loro paese oltre a ciòavea
discacciato dall'Italia i francesi, che sotto il lur Duca Bucelino tutta, o quasi
tutta, presa, e devasiata l'aveano; perchè egli era rimastoin nome
dell'Iinperadore, Supremo Governadore di quella Provincia , che avea all'
Impero restituita: quando perque'nembi, che da'più vili, e fecciəsiluoghi
alzandosi nelle Corri, oscurano gli astri più luminosi , e più chiari , ad
istanza de’ Romani fu datal Governo da Giustino che è succeduto a Giustiniano Imperatore,
rimosso: e dall'ingiuria unendo il disprezzo perchè egli era Eu. le se vissuto,
non avrebbe potuto distrigare. Ed alla minaccia segue l'effetto, dappoichè
ritiratosi in Napoli, stimola co’ [Melli Comorimurtom Marcellini Chronic. Aimon, de Gest. Francor. Joan. Diac. Chron. Jornand. de regnor. Success.
Landul. Sagac. additam. Ad Miscell. Procop. DE BELL. GOTH. De bell. Goth. Aimon.
de Gestis Franccr. Agath. de bell. Goth. Gregor. Mag. Dial. Excerpt. ex Agat.
hist. Aiuion. De Gesti Francor. Anast. Biblioth. Invita Joan.
III. Paul. Disco de Gest. Langobard.] eunuco
l'imperatrice Sofia gli scrive che fosse andato in Costantinopoli a dispensar
la lana alle fanciulle; alla qual cosa si dice, che Narfete sdegnato risposto
avesse, che tal tela egli lo avrebbe ordita, ch’ella mentre avesse vis i longobardi a conquistare l'Italia copiosa di
tutte le naturali ricchezze, la sterile Pannonia abbandonando. Il quale in vito
allegri que’ BARBARI sotto il loro re Albuino vennero abbracciando in Italia. Nello
spazio di VII anni la maggior parte colla [ut citm puellis in Gynaceo. Gregor. Turon. histor. lanarum faceret pensa dividere.
Anast. Biblioth. in Benedict. I. Landul. Sagac. additam.
ad Miscellap. Aimon. de Gest. Francor.] delle armi ne conquistarono. Forza è
fama Ed indi sì inanzi estesero leloro, che Autariuno de loro Re fino
conquiste, che in Regio fusse pervenuto, e che avendo e dindi parte dell'Italia,
éd iessa il rimanente dall'Eunuco Narsete, che a Belisario succede, dopo xvini,
anni di asprissima guerra è interamente [Aimon. de Gest. Francorum] la Sicilia
rimandolli. Avea Narsete vinto i Goti , ed eziandio gl’unni [Histor. Miscell. Aimon . de Gest. Francor. Isidor. Hispal.
Marius Aventic. Aimon. de Gestis Franc. Procop. de bell. Gotb. Paul. Diac. Paul.
Diac. Gregor. Turon. hist. Histor. Miscell. Paul. Diac. Joan. Diac. Chron.
excerpt. Cron. per Fredeg. Scholaft. Landul. Sagac. additam. ad Miscell. pa
hist. Miscell. Aimon.de Gest. Franc. Paul. Diac. Sigebertus,
alii. Joan. Diaz. Chron.] ivi ivi tra le onde del mare una colonna ritrovato
l'avesse collasta per cossa, ed avesse detto, fin qui saranno de’ Longobardi i
confini. Delle terre occupate da Longobardi in Italia se ne forma un Regno il
quale poscia ha alcuni re francesi, e dopo essi altri di diverse nazioni. È
l'Italia in tempo de’ Re Longobardi in II Principati solamente divisa, in
quello dei longobardi, ed in quello de Greci. Ma passato il Regno a Carlo Magno,
surse in quella bella parte del mondo il principato di Benevento, da cui non
molti anni dopo nacque quello di Salerno, e finalmente quello di Capua. Nel
tempo de’ quali Principati per le guerre, che arsero fra di loro furono in
trodotti nelle nostre parti i saraceni, i quali non però, comeche molte terre
avessero conquistate, a varii capitani ubbedirono, almeno pressodi noi non mai
e uno stato formarono. Ed i medesimi Principati di Benevento e di Salerno e di
Capua durarono finchè sono da Normanni che nella Puglia sonsi stabiliti,
interamente conquistati. Imperochè alcuni pellegrini di codesta nazione
ritornando dopo da terra Santa ov'erano andati per la fede a guerreggiare, ajutarono
il Principe di Salerno da’ saraceni assediato; e rimandati da costui a casa con
grandissimi doni, allettarono a venire nelle nostre Parti i Paesani loro, i
quali discesivi, ed ora al soldo del uno de’ nostri Principi, ora a quello dell'altro
rimanendo, alla fine s’istabilirono nel luogo che diceasi in Octaba, e la Città
d'Aversa ivi edificarono. Uno di loro, chiamato Rainolfo per capo, conte, o sia
console stabilendovi. Impresero i Greci in quel tempo di liberare la Sicilia da
saraceni che la tenea no per quasi II secoli sottoposta, ed è capo dell'esercito
greco Maniaco, il quale chiama a’ suoi soldi una parte de Normanni, che sono in
Aversa fermati, e costorovi andarono. Mi dopo qualche tempo disgustati della
sua avarizia, abbandonandolo se ne ritornarono a casa. La qual cosa avendo
conosciuto un certo Auduino a’ Gieci ribelle, propose a Rainulfo di mandare una
parte della sua gente in Puglia a torla al Greco Imperatore, che vi
signoreggiava ed a cosi fattari chiesta Rainulfo acconsentendo, un buon numero de’
suoi capitani e i mandovvi, i quali avendo di repente occupata Melfi città di
quella provincia, ed indi altre terre; fissarono in Melfi la sede loro e
diedero principi o ad un altro Principato, che continuoffi sotto i figliuoli di
Tancredi, Conte d’Altavilla, Gentil-uomo anche egli Normanno -- i quali in varii
tempi nelle no il suo Principato. Ma I Normanni, ch'eransi stabiliti in Melfiforto
i Figliuoli di Tancredi, di ben altre conquiste saziarono la loro ambizione.
Conquistarono tutte le terre, che i Greci aveano in quele nostre Parti. Tolsero
a’Saraceni la Sicilia ed a’ longobardi il Principato di Benevento e di Salerno,
e fino a'lo ro medesimi nazionali il Principato di Capua, siccome finalmente da
una gran parte del ducato di Spoleti i Re d'Italia discacciarono e di tutti
così fatti principati un regno essendosi formato in sul principio Regno di
Sicilia del Ducato di Puglia in didi Sicilia, e l'altro di Napoli è nominato.
Di tutte le cose qui sopra sommariamente esposte, la parte più intrigata ed
oscura è quella che vien compresa dalla SECONDA VENUTA de’ Longobardi in
ltalia, finchèle nostre Provincie da’ Normanni, stabiliti nella Puglia, inun
solcor po forono ridotte .xii )1 e stre parti poi vennero . In tanto I Successori
di Rainulfo aveano tolto a’Longobardi la Città di Capua, ed Puglia, e di
Calabria, e del Principato di Capua fi diske, ed in di in II Regni diviso, uno fu
detto di Trinacria alcuna volta ed pl , è detto, ed il quale per anni è de LONGOBARDI,
o fia d'Italia discese Carlo Signoreggiato. Ma verso da re di quella nazione il
re Desiderio ultimo re Longo in quella Provincia, ed avendo preso Magno, senza
mutarne la natura il Regno bardo, trasfere nella sua persona sopradetto che
Regno I va. [Paul. Diac. Paul Diacon. Supplem.
Longobar. varj Principati, i quali in così fatto spazio di tempo, siccome si è
veduto, te la natural forma diesse fide e a gran fatica, e molto dubbio sa
mente indovinare. De’ Principati che sursero nelle Provincie le quali ora
compongono il Regno di Napoli, in tempi così dubbiosi ed oscuri, io ho
deliberato di scrivere in una Tavola Cronologica i Principi , ed i più
ragguardevoli Officiali, gl’anni de loro Regni ed ufficii, e delle loro morti,
i loro matrimonii; e sommariamente i fatti, che quelli o sovrani od in alcuna maniera
dipendenti o tributarii posso dimostrare ei diritti delle loro signorie anno stabilito.
Ed oltre a 7 ciò dellistesi Principati una, per quanto io ho potuto esatta e particolare
Geografia. E nella Tavola Cronologica io hor accolto tutto ciò che da' varii
filosofi, o Sincroni, o quasi Sincroni, o molto antichi nella proposta materia
si legge scritto, e narrato, come che discordie gli no siano tra loro ramente
appariscano. Senza volerli corregere, ove avesli potuto, o concordare; di
esaminare ne’ loro cetti il vero, o a me medesimo in altro tempo, o a d’altrui,
che mi voglia in ciò precedere, riserbando. Contentandomi per orà di fornire
solamente secondi semi di un’esatta e diffusa storia delle nostra li cose me
Geografia non va ancora sotto il Torchio, in un foglio quella parte di essa
ch'è necessaria alla presente opera, esponere, e dimostrare ho voluto e dalla
Tavola dame scritta il titolo di SAGGIO ho apposto, conoscendo che in essa
moltissime altre cose essere potrebbono a diritta ragione, o d’altri, o da me
stesso pervenisse a' principi l'Impero in ciaseuno de' detti Principati; e
quale fuffe la natura degl’ufficii, a cui in essi il reggimento di Terre cra
affidato, presso il Popolo, o presso una parte di esso, o presso un solo uomo.
Dice Cicerone. “Respublica res est populi.” Cum bene, ac juste geritur, sive ab
uno rege. La seconda perchè suole essere degl’optimati: ARISTOCRAZIA. E
l'ultima si chiama “MONARCHIA,” osia REGNO, il qual nome non perde quantunque
eomi, due, o tre. Principi regnino in essa collegati, com'è avvenuta sovente
tra Romani Imperadori e quasi sempre tra Principi Longobardi, de quali noi descriviamo
la Serie; imperocchè una tal forma di stato essendo molto più distante dall'aristocrazia
che dalla monarchia dalla più vicina piuttosto che dalla più lontana, dee prender
esenza alcun fallo il suo nome. Ed oltre aciò quello ch'è stra-ordinario non dee
caggionar nell’arti divisione regolare. Nè codesti pochi principi costituiscono
un collegio legittimo, in cui ciascuno la sentenza della maggior parte dee seguitare.
Ma ognuno riguardo alla sua amministrazione libero senza alcun fallo rimane.
Scrive Ubero. Monarchiam esse Io note, e più oscure. Ed acciocchè il tutto con
chiarezza si abbia ad intendere, dappoichè la promessa. Quali siano le varie
forme di governo, ed i varj modi di acquistare i regni -- fursero in quella
felice parte del mondo, ora si aggrandirono, ora si diminuiropo, ora dalle potenze
maggiori furono interamente absorti, e quasi distrutti. Tal volta in essi si
viddero eliggersi i principi, tal volta si viddero in essi succedere a’ padri i
figliuoli nella signoria. Quei, che vi regnavano, furono soventi sia te uccisi,
ed i privati il loro luogo occupando, trasmisero a’ loro Posteri l'iniquamente acquistato
Impero. I BARBARI chiamati per difesa di alcuni sistabilirono per ruina di
tutti -- e desolazione. In fine la faccia dell'Italia divenne in que tempi assai
diversa da quello ch'è prima, e che è poi, e la sua Geografia non mai stabile osservossi,
e costante. Nè di tutti così varii, e moltiplici accidenti vi fu chi la storia
distintamente scrivesse. Ma da pochi e quali a frammenti quelli, e BARBARAMENTE
sono esposti, o piuttosto accennati. E le opere de’ filosofi di quei tempi da sin egli genti Copistifurono traseritte, che
spesse fia , > ) 9 > no . in un'altra Edizione, che sene facesse, aggiunte.
Ma prima di ogni altra cosa io ho reputato di far manifesto per quali ragioni di
codeste forme di regimenti con voci greche. La prima si dice “DEMO-CRAZIA”,
feve a paucis optimatibes, sive ab universo populo CICERONE, DE REPUBBLICA. Edit.
Venoye. Se unius imperium solo satis vocabuli argumento constat. Qicod tamen
ita præci Je captari nolim, rat quasi escumque plures in uno regno romini esostitere,
toties Reipublicæ formam mutaris tatuamus. Neque enim recte existimaturus videtur
qui in Romano imperia si quando plures OTTAVIANO fuere, PRINCIPATVM defiisse
contenderet. Cum enim longius ila societas imperantium ab ARISTO-CRATIA, quam a
monarchia distet, confentaneum est, ut ab ea specie, cui proxima est,
appellatio petatur. Ita Lacedemoniis II Reges fuerunt – DIA-ARCHIA --, id que
Regnum vocabatur nec non verum fuisset Regnum,fi potestas vere summa fuisset. Præter
quod extra ordinarius, atque ut ita loquar, accidentalis ile plurium concursus plerumque
habetur. Unde formas peculiares DYARCHIAS out TRI-ARCHIAS in Artem introducere nec congrueret,
neque expediret; tamet si fatendum monarchiæ vocabulum tunc elleminus commodum.
Accedit, quod isti Condomini, ut hivelbis similes a Germanis Jurisconfultis
appellantur, non constituant collegium, adeoque nec mus plurium sententiam
sequi compellatur. Nam ut hocjuris
fit, opus est. parto, Condomini autem Imperium Civitatis habent eodem jure, quo
plures eandem remi fine tractatus Societatis pro indiviso tenent. Quo casu notum est; quemque liberum Juc partis arbitrium, nec
reliqucrum consensui obnoxium, retinere la 28. ff. c o m m .divid. Altri poi vi
aggiungono IV altre forti d’imperi, cioè i III sopra-detti, quando sono corrotii,
ovvero ingiusti, ed il IV da’ due oda III già esposti insieme uniti. Ma
CICERONE stesso con diritta ragione afferma che ne’corrotti imperi la repubblica
non più esiste. Onde di ella non possono essere così fatti imperi. Cum vero in iustus
est Rex, quem tyrannum voca:aut injufti optimates, quorum consensus factio est.
Aut in justus ipse Populus cui nomen
usitatum mullum reperio nisi ut etiam ipsum “tyrannum” appellem. Non jam vitiosa, rola, dappoiche essa nulla alla mia intenzione può
giovare. Or, nella monarchia, o sia nel regno, abbia avuto egli il suo
principio dalla FORZA, o dal volere de cittadini, o dall'utile, o dalla paura stimolari,
abbiano questi la facoltà di stabilire solamente i regnanti, o di conferirle anche
l'impero. Aliter, dice Ubero, ediam etro instituunt, qui imperium immediate a deo
esse volunt. Hi negant, imperium ullo modo a voluntate populi perdere, nec a civibus
quicquam juris ad imperantes manare nec adeo causam monarchie, aut ullius in civitate
potestatis esse populum, quos inter Ziegle rus ad Grotium Ethidictum P. Apostoliano
bisali quoties adduetum, quod imperium sit humanæ creationis, interpretantur, quod
sit hominibus proprium, vel ratione cause instrumentalis, quia per homines
exercetur utuntur argumentis e sacris, de potestate solvendi ligandi sacramenta
administrandi, quce ministro ecclefice competit. Quem ad modum igirur populus
eligen dopaftorem non confert potestate millam nec conferre potest, quia non habet
eam ipse, nihil que agit, quamut personam eleectam potestatia deo immediati
proficiscenti applicet. Sic etiam
populu, quando eligit regem, non confert pote [Huber. de Jur. Civit. Gudling. De
Jur. Nat. ac Gent.] omnino nulla respublica est, quoniam non est res populi sed
cum tyrannus eam factiove capesat. Nec ipse populus iam opulus est, si sit in justus,
quoniam nonest multitude juris consensu et utilitatis communione sociata. E Bodino egregiamente dimostra che il composto di alcuno o di tutte le
suddette III forme d'impero non può una città, o sia republica che tale sia secondo
il fine che si è proposto, cio è la pace ed il giusto, costituire. Onde Gudlingio
ebbea dire. Talem rei publice speciem qui appellant “mixtam”, ferendi
quadantenus sunt. Si mixtum idem fonet atque irregulare, della qual cosa io non
faccio più pa. [Edit. Ven. C.
edit. Francf. an. Hobbes de CICERONE fragm. DE REPUBLICA. Bodino
de Republ.] fta Cive. Bodino de Republ. Hobbes de Civ. Huber. Edit. Francf.] statem
imperandi, sed personam electam producit eamque abhibet exercitio potestatis
illia deo immediate conferendse ego qualis, quanta in ordinee juse fe debeat. Necquo minus populus imperium retineat, si id expedire
judicet, deus intercesit. Multo minus quo parte mali quam imperii
reservaret, umquam prohibuit; quodde ministerio ecclesiæ institutoque
matrimonii nullo moda affirmare licet. Nel regno dico, a sia nella monarchia i principi
anno II sorti di diritti. L’una, che ne costituisce l'impero in mezzo a' Popoli
loro. L’altra, che determina il modo di averlo -- o sia per la quale il principe
regna, o l’impero pofliede che modo di acquistarlo si può anche direttamente
chiamare. Altera cautio est, dice Grozio, aliud efede requærere aliud ese modo
habendi, quod non in corporalibus tantum sed et in in corporalibus procedit (2)
Ed. Ubero:Poft Species Monarchie fequuntur modi,quibus. Regna acquiruntur. Hi
funt velordi narii, vel extra-ordinarii. Priores duo sunt electio, do successio
Extra-ordinarii per inde duo, matrimonium O jus belli. De jure belli o
matrimonio dié tum quod satis sit, in superioribus. De forte nihil quidem, sed
nec rarisime i nu fu est, aut pro electione fungitur; ut olim apud Per fasin
Dario H. Staspide. E Gudlingio. Id queri dignum, an per duret vita O anima civitatis
una, etiam fi vel electio obtineat, vel successio. Et putem id contingentibus ad numerandum que unitatem
nec efficient pror sus, nec tollunt. Scilicet electio et successio per Jonas tangit,
non autem modum regnandi definit, nec illum impedit imperanti dominica in subjectos,
tamquam in servos proprios potestas competit. Appellatur etiam
Dominatus. La qual forma di Regno se giudico, che mai si possa ritrovare fra gl’uonini,
salvo la teo-crazia, bene del suo popolo, e non già di lui, dee ordinare le cose.
Scrive Bodino. Rex est, qui summa potestate constitutus naturæ legibus non minus
obsequentem se præbet, quam sibi subditos, quorum libertatem, ac rerum domini ac
eque ac fucetuctur, fore confilit. Subditorum
libertatem, ac rerum dominationem. adjecimus -- ut Jus Soc., Gent. Huber. De Jur.
Civit. Gudling. de Jur. Nat. ac. Gent. Guiling, pergo Nat.
Ac Gent. c. vel collate. Nec sequitur, cedunt e populi elientis voluntate. Primeva
succedere videntur. Riguardando la prima di codeile II sorti di diritti ne
procedono III forme di reggimento, osiano: di monarchie una in cui il regnante
de’ Corpi, Beni de’ Cittadini dispoticamente dispone, e che perciò Erile o, o
lia “barbarica” vien nominata, scrivendo Ubero. Dominatus finitur, quod sit imperium,
quo princeps sibi subjectis ut pater familias servis imperat, omnium quetam
quod ad o civilium naturam maxime ab effectibus vesti mandammo, rerum moralium,
cuius limites excedere non licet imperii formam, et tenorem Si Deuscertam, electionem
persone fatemur ejus juris vim in fringerenon populis, præscripserit potest auferre
jus ligandi e Solvendi suispa pole, quam cætus fidelium invito adimere potest.
Sed hoc de magis uxor viro principatum domus storibus aut non legimus esse determinatum.
Hatenus quidem de imperio civitatis a deo, cui omnis anima debeat bere aliquem
ese ordinem imperandi, atque parendi ef ita ex cestise subiecto non tamen res quam
corpora dominus existens, actiones publicas ad suam præcipue utilitatem dirigit.
Ed Arrigo Koehlero: Imperium dominicum seu despoticum dicitur osia governo di dio.
E l’altra delle suddette forme di monarchia è quella, nella quale il Principe
pel [Grot. De Jur. bell. Ac pac. Huber.
de Jur. Civit.] tum promover. Imo successi opere nec mul
ab antecedente electione pendet. Unde qui luc o de' in quo nec sequitur, ita pergit
Zieglerus, homines ab initio Sponte adanéti in s ocietatem civilem coierunt ex hoc
ortum habet potestas civilis. Ergo talis potestas origine est humana. Sic enim per
indeliceret argumentari. Adam et Evas ponte adducticcierunt in matrimonium.
Ergo matrimonium institutione NON est divinum. Huber. De Jur. Civit. Heinr. Toebl. Jus Soc., ut Regis, ac Domini distinctionem
certam adhiberemus. Ed essa dicesi civile – leggendosi in Ubero. Nobis igitur plures monarchie species
non sunt considerande, quam hee duce, Regnum, & Dominatus, five Imperium, ut
ARISTOTELE DAL LIZIO loquitier, außacidendo, aut Baplaponèv. Regnum verum et
plenum est, ubi princeps habet summam, liberam potestatem faciendi in civitate quod
ere a petita., qui ed appresso. Ex his
tertia resultat differentia, a fine diverso ristabiliti, est utilitas regnantis.
Quae nec ipsa tamen absque commodo subjectorum potest custodiri. Ex his relique
differentie, inter dominum, &. Reczorem, servos ac cives, de quibus Claudius
ad Meherdatem apud Tacitum [TACITO (si veda) Annal. quæque similia per se
intelliguntur. Ed anche comune; Scrive Kochlero: Imperium civile est jus præscribendi
ea, quæ ad commune civitatis bonum promovendum faciunt. Eiusmodi imperium civile
dicitur commune ad amplificationem boni civitatis communis tendat. E la terza
delle II sopra-dette forme composta che mista vien detta. Scrivendo Grozio. Quisibi
singulos subjicere potest servitute personali, nihil mirum est f li i d o
universos sive ili Civitas fuerunt, sive Civitatis pars, subjicere sibi potest
subjectione sive mere civili, sive mere herili, suve MIXTA. Riguardando poi la
seconda forte degl’esposti diritti sorgono III altre forme di nellaquale il principe
regna per elezione del suo popolo forma dicesi ELETTIVA. La II, in cui il principe
riceve l’impero per legge generale dello stesso suo popolo o per CONSUETUDINE da
questo ricevuta, per trasmetterlo poi a colui, che dalla medesima legge, viene
stabilito; sia egli il primogenito del preterito regnante, o calui, che
glinacque nel regno. Sia egli il FIGLIUOLO LEGITTIMO del PRINCIPE; ossia, il
NATURALE, maschio, della stessa sua famiglia o dell'altrui; favorisca
finalmente quella legge ipiù vecchi della Prosapia , o la linea del primo nato,
la qual forma di regno da tutti sichia ma SUCCESSIVA, ed a molti una specie
della prima, cio è una diversa sorte d’ELEZIONE essere si crede. Dappoichè scrive
Ubero: Plane, origine cujufqueci vitatis inspecta, nullum non regnum ex voluntate
populiortum, fuit electivum. Sed diversitas est in Regno Civili ordinaliter
utilitas subjectorum. Quamquam illa fine commodo imperantium obtineri non potest.
In Dominatu originalis Scopus Impe una parte di esso ma pel tempo della sua vita
solamente. Venga co tale ELEZIONE, fatta o espressamente, o per via di sorte, o
di deputati. E codesta electionis et successionis deincep sorta est, cum quædam
ex imperiis ita funt delata principibus, ut identidem fedes vacua per electionem
repleretur. Quædam it aut successio secundum ordinem certum propinqui sanguinis
ab uno in alium devolveretur, ex prescripto Legis. Hanc quidem vocant electionis
speciem. Quo modo Althusius in Polit. qui negant, ullum dari imperiumjure
familie hereditarium, sed totum a populo dependens, quod G' in Anglia multi
opinantur. Si dicerent, successione mele nihil, quamele &tionis primevæ continuationem,
nihil errarent. Atfijus Imperiinum quam a populis alienari velint, resreditad STATUM
[STATO] disputationis supra aliquotie speractze. Qua per electionem, ipsum jus Imperii
independenter alienari posse probavimus, ad vitam, vel etiam pro heredi bus. Quie
tunc est successio, non amplius a primis eligentibus dependens, sed familie
propria, per actum alienationis. Gudlingio: Id quæri dignum, an perduret vita
in anima civitatis una, etiam sive lelečžic obtineat, vel successio. Bodin. De Republ. Grot. De jur. bell. ac. pac. Regni. La prima, 3 Huber. De jur. Civit., Koehler, de Jur. Soc. Gent.Spe-o sia
di princ: de jur. Nat. ac Gent. Huber. de jur. Civit. Gudlingio, communi videbitur, Salva tamen civium
libertate, proprietate rerum cim.V. de Imp. Civ. cum Et xvii et putem id
contingentibus ad numerandunt, quæ unitatem nec efficiunt prorsus, nectollunt. Scilicet
eleftin, o luccelio personas tangit non autem modum regnandi definit, nec illum
impedit, nec multum promovet ; imo fuccessio pene ab suo. Antecessore , ed ha l’arbitrio
di lasciarlo a chi più gli piaccia, come della sua eredità privata fare ei
potrebbe. E così fatti Regni diconfi EREDITARII. In tutte codeste cinque forme di
regni sono comprese, siccome sarebbe agevole il dimostrare, tutte le
differenze, che de' supremi Imperi delle monarchie si sogliono fare. Ele quali
Ubero per modo di quistioni propone: Junt qui ex alisquo querebus differentiam
fu m m e potestatis colligunt. Primo enim sotto posti. Ma quando vennero in Italia
vi fondarono il regno, che è detto de Longobardi, osia dell'ITALIA e dil quale,
e sotto i re loro, e sotto i re francesi, edi altre nazioni finchè dura è sempre ELETTIVO. Che EREDITARIO è il Principato
di Benevento. Che fimile a lui è il Principato di Salerno. Che non diverso da essi
in tal cosa il Principato di Capua esser si vidde. Ma da poichè il più delle volte
difficil cosa è il determinare daloro principii espo fie forme de sopradetti principati.
Quindi è, che ne conviene sovente immitare
i più saggi investigatori del vero nelle produzioni della natura : iquali non
potendo vedere le occulte caggioni di essa, da’ continui, e costanti effetti
loro, quando esterna violenza non li disturbi, sicuramente le deducono. Scrive Newton
tra quelli filosofi senza alcunfallo il più famoso. Ideo que EFFECTUUM NATURALIUM EIUSDEM GENERIS E
ÆDEM SUNT CAUSÆ. Uti respirationis in homine doo in bestia.
Descensus Lapidum in Europa in qualitates corporum, que intendi o remitti o
nequeunt, queque corporibus omnibres competunt , in quibus experimenta
instituere Ticet nun, a sibi semper consona. Extensio corporum non nisi per sensus
innotescit, nec in omnibus sentitur. Sed quia sensibilibus omnibus competit, de
universis affirmatur. Corpora plura dura este experimur; Oritur autem durities
totius a duritie par tium, et in de non horum tantum corporum quæ fentiuntur, sed
aliorum etiam omnium particulas indivisas es se duras merito concludimus.
Corpora omnia impe netrabilia es se non ratione; sed sensu colligimus. Que
tractamus impenetrabilia; Lucis in igne culinari do in sole; reflexionis lucis
in ter America ra in Planetis inveniuntur, in deo oncliedimus IMPENETRABILITATEM
efe proprietatem corporum universorum. Corpora omniam obilia efle et viribus quibusdam,
quas viresiner tiæ vocamus, perseverare inmotu, velquiete, ex hifce corporum visorum
proprietatibus colligimus. Extenso,
Durities, IMPENETRABILITAS, Mobilitas,& Vis [Gudling., de jur.Nat., ac Gent.;
Huber. De jur. Civit. antecedente electione pendet; unde
qui succedunt, e populi eligentis voluntatepri meva succedere videntur. E
finalmente la terza nella quale il principe possiede il regno per volere del
git [Or dichiarari nella maniera sopradetta l'esposte cose io dico che i lombardi
sono inprima nella Pannonia ad un Regno EREDITARIO vel plu , pro qualitatibus
corporum universorum habende sunt TES CORPORUM NONNISI. Nam QUALIT A PER
EXPERIMENT AINNOTESCUNT OQUE GENERALES STATUENDÆ, IDE MENTIS GENERALITER SUNT
QUOTQUOT CUMEXPERI. possunt QUADRANT. De quemimi non possunt auferri. Certe
contra experimentorum tenorem fomnia non funt , nec a Nature analogia
recedendum temere confingendo est, cum ea simplex esse soleato, qua forma
Reipublice Civitas gubernetur, Monarchia tant plurium dispoticum, an Civile regnum
Patrimorium imperio. Et in Monarchia , sit ne Populo volente an invitofit
conftitutum . Eligantur, niale, anquasi fructuarium, an perpetua sit potestas. Non
an successionegaudeant imperantes.Temporalis Imperii variarivi parvitate vel
magnitudine civitatum jus jummi nullis quoque Species hominum judicia sæpe
perstrin fum. Denique, nominum titulorumque interesse pu iner inertie totius,
oritur ab extensione , duritie , impenetrabilitate viribus inertice partium:
inde concludimus omnes omnium corporumpartes minimas extendi, et durasele, o
impenetrabiles et mobiles viribus inertice præditas. E nella festa maniera scrive
Ubero, che s'abbiada giudicare nelle cose morali, e civili. Sed ego ita existi morerum
moralinm, civilium NATURAM maxime ab effectibus cefti mandam. Perchè quando non
ne è conceduto di avere documento dell'istituzione delle repubbliche, osia de'Principati,
di cui ragioniamo. Da quello, che si è veduto sempre accadere in essi, quando
estraneecaggioni l'ordine naturale non abbiano sconvolto, l'istituzioni
suddette possiamo dirittamente argomentare. Egli è vero non però, che non di
leggieri gl' Imperi Ereditari da Successori con regola cosi fatta si possono
distinguere, imperocchè io alcuna forte di regni successivi all' ultimo
Regnante succedono i figliuoli, od i più stretti Congionti ; E lo stesso
avvienene Regni Ereditarjquandocoluisenza Testamento, o senza nomina real. cuno
Estraneo Erede lascia di vivere la vita. Più folto bujo quellume fidee prendere,
che si può, comechè picciolo, ed incerto egli e. Il Regno de’ Longobardi fu
prima Successivo, a Ereditario, ed che, usciti dalla Scandinavia, provincia detta
VAGINA GENTIUM, abitarono di qua dal Danubio ed I quali WINILI erano chiamati furono
poscia detti LOMBARDI, o dalle finte o dalle vere LUNGHE loro BARBE, ovvero ,
secondo scrive Guntero, che altri affermino da’ popoli della Sassonia detti
Bardi. Furono costoro inprimada Duchi eposcia da Refignoreggiati; ed il regno
loro finchè rimasero nel loro paese, e sempre ereditario, ovvero successivo. Newton, Philus. Natur.princ.Ma Gregor. Turon.
Excerp. Chron. ex Reg Fredeg. Schol. hist. Miscell. Paul. Diac.
de Gefie Langob.. Gunt. mobilitate, 9
appreso elettivo non potendosi che LA NATURALE INCHINAZIONE DEL SANGUE a
figliuoli ed a Cogionti, gli Estran gli abbia permesso diante porre. Scrivendo GROZIO:
Succeflio ab intefiato, de qua agimus, nihil aliud est, quam tacitum testamentum
ex voluntatis conjectura. Quintilianus pater in declamatione: Proximum locum a
testamentis habent propinqui: et ita, si intestatus qui sacfine liberis decefferit.
Non quoniam utique jufium fit, ad hos per venire bona de functorum. Sed quoniam
reliéta et velutin medio posita nulli propius videntur contingere. Quod de bonis noviter quæsitis diximusex NATURALITER
proximis deferri , idem locum habebit in bonis paternis avitisque, finecipsiaquibusvenerunt,
nec eorum liberi extent ita ut gratie Philuf. edit. Ami. Paulo Diac. De Gest. Langob.,
istelod. Huber., de jur. Civ., Reginon. Chron. inprinc. de RegnoWi., Grot. De jur.
bell. Ac pac. nilorum. Constant. Porphyrog. De Themat. Gregor.Turon.Excerp.Chron.exc
Otto Frifingens. De Geft. Friderici Impe credere De Popoli
Q. Agle relatiólocum noninveniat. Ondeda Equali essettinonsi possono argomentare diverse
cagioni. Ma nel. Grice: “This conceptual analysis of the noble is complicated –
noble is the male who merits recognition from his community.” Nono duca di Laurino. Troiano Spinelli, duca di Aquara e di Laurino.
Troiano Spinelli di Laurino. Spinelli di Laurino. Laurino. Keywords:
implicatura, analisi geometrico della’economia razionale, Broggio, lombardia,
lombarda, lunga barba. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Laurino” – The Swimming-Pool Library. Laurino.
Grice e Lazzarelli: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- ermetico-esoterica – filosofia marchese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (San
Severino Marche). Filosofo italiano.
San Severino Marche, Marche. Grice: “I would call Lazzarelli a Pythagorean;
most Italian philosophers are, as most English philosophers are Lockean!” -- Grice:
“I would call Lazzarelli what Italians call ‘un filosofo ermetico.’ He certainly flouts all my desiderata for
conversational clarity!” Il documento più importante per ricostruire la vita di
L. è “Vita L.” scritta da Filippo L. e indirizzato all'umanista Colocci. L. e
educato e vive a Campli, in Abruzzo, dove frequenta la biblioteca del Convento
di San Bernardino da Siena, che egli cita nella sua opera i Fasti Christianae
Religionis. Riceve da Sforza un premio per un poema sulla battaglia di San
Flaviano. Ha contatti con i più importanti filosofi dell'epoca ed e seguace
dell'ermetismo. Raccolse il Pimander di FICINO, l'Asclepio e tre trattati
sull'ermetismo realizzando una versione che amplia il corpus testi ermetici. Autore
di saggi a carattere ermetico come il “Crater Hermetis,” in sintonia con il
sincretismo religioso dei suoi tempi e in anticipo sulla filosofia di PICO (si
veda), con la fusione del cabalistico e il cristiano, ma anche di poemetti a
carattere allegorico come l'”Inno a Prometeo” o didascalico-allegorici come il “Bombyx”.
Altri saggi: “De apparatu Patavini hastiludii, Padova; “De gentilium deorum
imaginibus”, dedicato a Borso d'Este e a Federico da Montefeltro; “Fasti christianae
religionis” dedicato a Sisto IV, Ferdinando
I d'Aragona e Carlo VIII, Bertolini, Napoli; Epistola Enoch, Brini, in Testi
umanistici sull'ermetico”, Roma; “Diffinitiones Asclepii”; De bombyce, Lancellotti, Aesii; “Crater
Hermetis edito in Pimander Mercurii Trismegisti liber de sapientia et potestate
Dei; “Asclepius eiusdem Mercurii liber de voluntate divina”; “ Item Crater
Hermetis a Lazarelo Septempedano” (Parigi); Vademecum ( Brini, in Testi
umanistici sull'ermetico”, Roma); “Un carme per la morte della duchessa d'Atri,
Biblioteca del Seminario di Padova; “Carmen bucolicum” (Biblioteca
universitaria di Breslavia, Milich Collection); carmi di occasione -- tra cui i
versi che gli valsero l'incoronazione) (Biblioteca nazionale di Napoli);
epigrammi sullo Pseudo Dionigi l'Areopagita. Il testo dell'opera può essere
letto in M. Meloni ,"Lodovico Lazzarelli umanista settempedano e il “De
Gentilium deorum imaginibus”, in Studia picena, pubblicato in appendice a C.
Vasoli, Temi e fonti della tradizione ermetica in S. Champier, in Umanesimo e
esoterismo, l’esoterico E. Castelli, Padova, pG. Roellenbleck, Opusculum de
Bombyce, anche in edizione moderna integrale in C. Moreschini,
Dall'"Asclepius" al "Crater Hermetis" -- studi
sull'ermetismo latino tardo-antico e rinascimentale, Pisa, Dizionario Biografico
degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Filosofia ermetica, Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere, L.. rivista
Campli Nostra Notizie. L. Nacque di nobile famiglia di Campli. La tradizionale
data di nascita è stata recentemente corretta da Tenerelli sulla base di
un'annotazione manoscritta che si legge nella biografia del L. composta dal
fratello Filippo (meglio trascritta da Meloni) e della notizia d'archivio
riferita da Aleandri, secondo cui il padre risulta già morto. L. stesso ama definirsi
"Septempedanus", dal nome dell'antica colonia romana che sorgeva nei
pressi dell'odierna San Severino Marche. Alla morte del padre, L. si
trasfere a Campli, presso Teramo, dove riceve la prima educazione e - stando
alla citata biografia, non immune da toni agiografici, scritta subito dopo la
morte - egli dimostra precocemente inclinazioni filosofiche, tanto da comporre un
carme sulla battaglia di San Flaviano che gli merita le lodi di Sforza, signore
di Pesaro, oltre che l'appellativo di "antiquorum poetarum
simia". L'episodio è il primo di una serie di testimonianze che
permettono di ricostruire alcune tappe, peraltro dalla cronologia, della vita fitta
di spostamenti condotta dal L. E dapprima ad Atri, con l'ufficio di istitutore
del figlio del signore della città, Capuano, dove compose un carme esametrico
per la morte della duchessa Balzo, indirizzato con un'epistola accompagnatoria
al fratello Filippo, allora studente di diritto a Padova, che, nella sua
biografia, la define "sententiis quidem refertam quam optimis ultra eius
aetatem". E a Teramo presso Campano, "ut eiusdem Campani fratrem
amoenioribus artibus inficeret simulque ut ipse viri familiaritate doctior
fieret" (Lancellotti), dove si applica allo studio della filosofia. Il
fratello riferisce di essere stato testimone a Teramo di una sua disputa con un
tal Vitale ebreo, che nega la Trinità, e che sarebbe stato vinto anche grazie
all'allegazione da parte del L. di autorità talmudiche. Di qui passa a Venezia,
dove perfeziona lo studio del latino alla scuola di Merula. Il componimento
esametrico De apparatu Patavini hastiludii, scritto in occasione dei giochi e
nel quale i componenti dell'Accademia padovana dei giuristi sono comparati a
personaggi mitici, rivela una buona dimestichezza con l'ambiente accademico
patavino. Forse su suggerimento di Merula compose un Carmen bucolicum,
costituito da X egloghe dedicate ai principali misteri della vita di Cristo:
l'avvento preannunciato dai profeti, la natività della Vergine, l'incarnazione
del Verbo, la nascita, la passione e la morte, la discesa agli inferi, la
resurrezione, l'ascesa al cielo, la discesa dello Spirito Santo, l'assunzione
di Maria Vergine. Al soggiorno in Veneto è inoltre legato il più importante
riconoscimento pubblico dell'attività poetica del L., l'incoronazione per mano
dell'imperatore Federico III, nella chiesa di S. Marco a Pordenone.
Secondo il racconto del fratello, L. si reca presso l'imperatore, di passaggio
nel suo viaggio verso Roma, e, colta un'occasione propizia, gli avrebbe
declamato un suo carme esametrico, accolto con plauso dall'imperatore che
spontaneamente gli avrebbe conferito l'alloro poetico. L. stesso celebra poco
più tardi l'evento nell'egloga Laurea. Una serie di stampe, del tipo dei
tarocchi del Mantegna, acquistata in una bottega di Venezia, fornì al L. lo
stimolo per la composizione dei due libri De gentilium deorum imaginibus,
poemetto di carattere mitologico-astrologico. I più rilevanti testimoni
dell'opera sono due manoscritti della Biblioteca apostolica Vaticana (Urb.
lat., 716, 717), entrambi di elegante fattura e corredati da una serie di
sontuose miniature (che ricordano, appunto, la tipologia mantegnesca dei
tarocchi). I due codici sono dedicati a Federico di Montefeltro, ma la dedica
del ms. 716 è vergata in modo evidente su una dedica precedente abrasa, che
Augusto Campana è riuscito a leggere parzialmente, quanto basta però per
riconoscervi il nome di Borso d'Este. È così possibile datare il manufatto, e
quindi l'ultimazione dell'opera, al lasso di tempo dall’assunzione del titolo
ducale di Ferrara da parte di Borso alla sua morte. Anche all'interno del testo
il nome di Borso è sistematicamente sostituito con quello di Federico e i
passi relativi sono adattati al nuovo dedicatario. Il ms. è portatore di una
seconda redazione, fin dall'inizio dedicata a Federico già insignito del titolo
ducale di Urbino, quindi posteriore. Meloni ipotizza che si possa riconoscere
in quest'ultimo il codice originariamente pervenuto a Urbino e che il ms. 716
vi sia giunto più tardi, non solo riconfezionato come si è detto, ma anche
corredato di un ulteriore carme finale di congratulazioni per la guarigione di
Federico da una grave malattia, attribuibile alle conseguenze dell'incidente
occorso al duca nel novembre 1477. L'originaria dedica a Borso d'Este è
perfettamente congruente con la cultura astrologica praticata a Ferrara, ma non
estranea neppure alla corte urbinate. L'opera amplifica la consuetudine di
"appropriare", nel gioco praticato a corte, dei versi alle carte,
secondo il modello dei tarocchi boiardeschi. Ma iL. intende riscattare dall'uso
ludico le antiche immagini delle carte, diffuse anche presso il volgo, che
"triumphos / appellat tactu commaculatque rudi / priscorum formas et
simulachra deorum", per restituirle alla loro funzione astrologica e
sapienziale di rivelare il vero "obliquis figuris", poiché
"invenere suis corrispondentia rebus / signa olim vates et simulachra
deum, / quae nunc pro nihilo reputant, gens indiga sensus, / sacrilegi et ludis
asseruere suis.. Nel primo libro sono presentate e descritte, in successione,
le sfere celesti, dalla Prima causa alla Luna, con l'aggiunta di un carme
conclusivo dedicato alla Musica come prodotto delle sfere celesti. Dei pianeti,
identificati con gli dei antichi, sono descritte le immagini, indicate le
rispettive domus (i segni zodiacali), sinteticamente narrati i principali miti
che hanno come protagonista il dio eponimo, fornite essenziali notizie
astronomiche e illustrati gli influssi astrologici. Il secondo libro presenta
le immagini della Poesia, di Apollo e delle nove Muse, di Pallade, Giunone,
Nettuno, Plutone e, infine, della Vittoria (alla quale è dedicato un carme in
versi eroici, mentre tutti gli altri sono in distici elegiaci). Nei due codici
urbinati, come si è detto, la descrizione verbale trova riscontro e
integrazione nel ricco apparato iconografico che, a sua volta, può aver
ispirato elementi decorativi del palazzo ducale di Urbino. La vicenda
compositiva del poemetto probabilmente si compì durante il soggiorno di L. a
Camerino, dove era stato chiamato da Giulio Cesare da Varano per attendere
all'educazione del nipote Fabrizio. L. intraprese quindi la stesura di un nuovo
ambizioso poema, i Fasti Christianae religionis, che portò a compimento in una
prima redazione a Roma, dove si recò al seguito di Lorenzo Zane, patriarca di
Antiochia, presso il quale approfondì gli studi astronomici e astrologici.
La composizione del poema è dai biografi (e, in primis, dal fratello) addotta a
documento dell'ortodossia religiosa del L., contro i sospetti di esercitare
arti magiche: "Quidam, livore atque invidia perfusi, et palam et in
occulto Lodovicum criminari coeperunt, dicentes ipsum negromanticis magicisque
artibus, sive praecantationibus, operari" (Vita Lodovici, p. 7). L.
avrebbe, in effetti, compiuti alcuni esorcismi, vaticini e guarigioni, ma
sempre attraverso il segno della Croce e la mediazione dell'assistenza
divina. Bertolini ha ricostruito la complessa vicenda compositiva dei
Fasti sulla base delle testimonianze manoscritte superstiti (tra cui il ms.
Vat. lat., autografo, nel quale si depositano varie fasi redazionali) e delle
indicazioni cronologiche interne, che permettono di riconoscere tre redazioni:
una prima, dedicata al pontefice Sisto IV, compiuta entro il 1480; una seconda
dedicata al re di Napoli Ferdinando d'Aragona e a suo figlio Alfonso duca di
Calabria, compiuta immediatamente dopo, entro il 1482; una terza più tarda,
dedicata al re di Francia Carlo VIII, probabilmente abbandonata dopo il
fallimento dell'impresa italiana del sovrano. Si tratta di un vasto poema in
sedici libri, costruito secondo il modello del Fastiovidiani. Sono descritte e
celebrate le ricorrenze liturgiche cristiane secondo la loro successione nel
calendario; vengono inoltre introdotte osservazioni di carattere astronomico e
saltuarie indicazioni relative alle attività agricole. I primi tre libri
celebrano le feste mobili del calendario liturgico, i dodici successivi sono
dedicati ai singoli mesi, cominciando da marzo, l'ultimo tratta del Giudizio
finale. Il poema ricevette onorata accoglienza da parte
dell'ambiente romano, come dimostrano i due epigrammi del Platina e di Paolo
Marsi riferiti dal fratello Filippo e pubblicati dal Lancellotti, nei quali il
poeta è celebrato come una sorta di OVIDIO (si veda) reincarnato. Al Platina
sono anche indirizzati un paio di epigrammi del L., il secondo dei quali in
morte. Secondo Foà, al 1481 daterebbe la conoscenza con Correggio, alla
quale lo stesso L. attribuisce un ruolo fondamentale per la propria conversione
alle dottrine ermetiche. L'episodio più noto relativo al rapporto fra i due e
al quale il L. stesso fa emblematicamente riferimento risale però all'11 apr.
1484, domenica delle palme, sotto il pontificato di Sisto IV, quando assistette
all'apparizione romana di Giovanni da Correggio che, a cavallo e coronato di
spine, attraversò la città e, pur privo di qualsiasi istruzione grammaticale e
retorica, predicò al popolo compiendo atti e riti simbolici e manifestando una
sapienza teologica dovuta a una sorta di mistica ispirazione che gli valse
anche incontri con il pontefice e vari prelati. Gli studi di Kristeller
hanno infatti dimostrato l'appartenenza al L. dell'Epistola Enoch de admiranda
ac portendenti apparitione novi atque divini prophetae ad omne humanum genus,
dove è diffusamente narrato il viaggio romano di Giovanni da Correggio seguito
da una dichiarazione dell'autore di piena adesione e di conversione: "quod
novae ac tantae rei sacramentale mysterium ego attonitis aspiciens oculis,
mecumque ipse attente et ex totis animi viribus tunc revolvens, ne diuturnior
obesset mora, relictis Parnasi collibus ceterisque omnibus, ad montem Syon
primus eum sum protinus insequutus" (ed. Brini). Con lo stesso
pseudonimo di Enoch il L. firmò anche alcuni epigrammi dedicati agli scritti
dello Pseudo Dionigi l'Areopagita e, soprattutto, le prefazioni ai testi
contenuti nel ms. II.D.I.4 della Biblioteca comunale degli Ardenti di Viterbo,
una raccolta completa del corpus ermetico nella traduzione di Marsilio Ficino,
integrato dall'Asclepius attribuito ad Apuleio e dalle Definitiones Asclepii
(ignote a Ficino perché mancanti nel suo codice), tradotte per la prima volta
dallo stesso Lazzarelli. Nelle tre prefazioni, una delle quali in versi, il L.
indirizza la sua opera di raccoglitore e traduttore a Giovanni da Correggio,
nel tono solenne e sacrale dell'iniziato, affermando il sincretismo tra
teologia cristiana e teologia ermetica, sostenendo, contro Ficino, la maggiore
antichità di Ermete Trismegisto rispetto a Mosè e presentando la propria
conversione dalla poesia agli studi sacri come una vera e propria
rigenerazione: "quondam poeta nunc autem per novam regenerationem verae
sapientiae filius" (Kristeller). L. entra quindi in rapporto
con Colocci quando questi, avendo con sé
il nipote Angelo, si trovava nel Regno di Napoli come governatore di Ascoli
Satriano. Secondo Fanelli, i Colocci passarono nel Regno di Napoli: poco prima
andrebbero dunque collocate la composizione e la stampa del poemetto del L. De
bombyce, dedicato "ad Angelum Colotium honestae indolis
puerum". La datazione dell'opera è controversa e il più recente
editore, Roellenbleck, ne propone una molto più alta, che peraltro non si
concilia con la tematica ermetica del poemetto né con l'anno di nascita di
Colocci, che pare dovesse avere un'età idonea a essere prescelto come lettore
esemplare ("lege sollicito mea carmina visu"), vero e proprio filius
da rigenerare (l'appellativo di puer può avere un'estensione molto ampia). Il
Bombyx si presenta, infatti, come un poemetto didascalico dedicato
all'allevamento del baco da seta, ma teso a svelarne, sulla traccia di analogie
già suggerite da s. Basilio, la simbologia cristologica e a farne il simbolo di
una rigenerazione alla quale tutti gli esseri umani sono chiamati, compiuta la
quale potranno a loro volta generare una prole divina: "Surgite,
terrigenae, bombycum exempla sequuti. Linquite corporeos sensus, mens candida
regnet Sancta palingenesis vos complectatur et orti / rursus humo coelum
penitus penetrate relicta Gignite divinam repetito semine prolem. Quo pacto id
fieri possit, mox forte docebo, hic
gradus aethereo primus statuatur Olympo. L'ulteriore opera dedicata al tema
della generazione divina, annunciata in chiusura del Bombyx, può forse essere
riconosciuta nel De summa hominis dignitate dialogus qui inscribitur Crater
Hermetis. Si tratta di un dialogo nel quale sono inseriti alcuni componimenti
poetici, di vario metro, nei momenti di maggiore intensità d'ispirazione e di
proclamata esaltazione mistica. Gli interlocutori sono lo stesso L., che ha
ruolo di maestro, e il re di Napoli Ferdinando d'Aragona, dopo che, ormai
vecchio, ha ceduto il governo dello stato al primogenito Alfonso II. Queste
indicazioni permettono di collocare l'azione, e anche la composizione, tra il
1492 e la morte del re. Il recente editore, Moreschini, ha anche
riconosciuto due redazioni dell'opera, la più antica testimoniata dal ms. della
Biblioteca nazionale di Napoli, la seriore dalla stampa procurata da J. Lefèvre d'Étaples a Parigi. La
differenza più evidente tra le due redazioni consiste nella presenza, nella
prima, di un terzo interlocutore, PONTANO, con il ruolo, secondario ma non
indifferente, di affiancare il re, discepolo entusiasta e convinto, come poeta
desideroso di approfondire anche verità filosofiche e teologiche. L'origine del
titolo è in un passo del Corpus Hermeticum in cui si parla di un crater inviato
d’Ermete sulla terra affinché in esso gli uomini possano battezzarsi e ricevere
così l'intelletto che li rende capaci di partecipare alla gnosi. A conclusione
dell'opera il L. si autorappresenta come colto da una sublime ispirazione che
lo rende capace di rivelare il mistero della generazione di anime divine da
parte del vero uomo, che ha raggiunto la pienezza della conoscenza e che si
rende così simile a un dio. Moreschini osserva come nella seconda redazione il
L. eviti di rendere troppo espliciti i rapporti tra ermetismo e cristianesimo
(lo stesso titolo, nella prima redazione, recitava: … qui inscribitur via
Christi et crater Hermetis), attenuando, per esempio, le argomentazioni che
tendevano ad attribuire all'ermetismo priorità cronologica (e anche genetica)
nei confronti di ebraismo e cristianesimo. Lo scritto manifesta inoltre ampie
conoscenze cabalistiche e talmudiche, che tradizionalmente si ritenevano
patrimonio, in quegli anni, del solo Giovanni Pico della Mirandola.
Ultima opera del L. sembrano essere i De mathesi et astrologia libri, segnalati
da LANCELLOTTI, che invano ne cerca copia presso gl’eredi del filosofo. Brini
ne propone, ma senza indizi veramente probanti, l'identificazione con un
trattato di alchimia, conservato nel ms. 984 della Biblioteca Riccardiana di
Firenze: una raccolta di preparazioni alchimistiche tratte daLullo e da altri,
presentate da L. con un breve testo introduttivo che si apre con un epigramma
di sei distici. Il L. stesso, definendo questo suo libro vademecum, ne indica
il contenuto: "agemus in hoc libro Vade mecum […] de alchimia que est
naturalis magia et vocatur astrologia terrestris. In questa scienza dichiara di
essere stato istruito "a Joane Ricardi de Branchis de Belgica provincia
[…] qui in hoc fuit magister meus currente ab incarnatione verbi" (ed.
Brini). Nella sua biografia il fratello attribuisce al L. capacità
divinatorie attraverso il sogno -- habebat somnia, quae potius visiones, sive
oracula dici potuissent" (Vita Lodovici, p. 10) - e in sogno il L. avrebbe
anche antiveduta la propria morte, intervenuta a San Severino a pochi giorni di
distanza da quella del fratello Girolamo. Delle opere del L. sono a
stampa: De apparatu Patavini hastiludii, Patavii 1629; De gentilium deorum
imaginibus, a cura di W.J. O'Neal, Lewiston, NY; Fasti Christianae religionis,
a cura di M. Bertolini, Napoli 1991; Epistola Enoch, Venezia, cfr. Indice
generale degli incunaboli [IGI], VI, p. 225), ora a cura di M. Brini, in Testi
umanistici sull'ermetismo, Roma; la traduzione delle Diffinitiones Asclepii in
appendice a Vasoli, Temi e fonti della tradizione ermetica in uno scritto di
Symphorien Champier, in Umanesimo e esoterismo, a cura di E. Castelli, Padova;
le prefazioni del ms. II.D.I.4 della Biblioteca comunale degli Ardenti di
Viterbo in appendice a P.O. Kristeller, Marsilio Ficino e L.. Contributo alla
diffusione delle idee ermetiche nel Rinascimento, in Annali della R. Scuola
superiore di Pisa, quindi in Id., Studies in Renaissance thought and letters,
Roma; De bombyce [Roma, Eucharius Silber, s.d.] (IGI) quindi in Bombix.
Accesserunt ipsius aliorumque poetarum carmina, a cura di Lancellotti, Aesii, e
ora in G. Roellenbleck, Ludovico Lazzarelli Opusculum de Bombyce, in Literatur
und Spiritualität. Hans Sckommodau zum siebzigsten Geburtstag, a cura di Rheinfelder,
Christophorov, Müller-Bochat, München; Crater Hermetis nel corpus di testi
ermetici raccolti da J. Lefèvre d'Étaples: Pimander Mercurii Trismegisti liber
de sapientia et potestate Dei. Asclepius eiusdem Mercurii liber de voluntate
divina. Item Crater Hermetis a Lazarelo Septempedano, Parisiis, in officina
Henrici Stephani, quindi, in edizione moderna, parzialmente, a cura di Brini in
Testi umanistici sull'ermetismo, e, integralmente, in C. Moreschini, Il
"Crater Hermetis" di L., in Id., Dall'"Asclepius" al
"Crater Hermetis". Studi sull'ermetismo latino tardo-antico e
rinascimentale, Pisa, Vademecum, a cura di Brini, in Testi umanistici sull'ermetismo.
Ampie sillogi di scritti del L., frutto di compilazioni sette-sono contenute
nei mss. della Biblioteca comunale di San Severino Marche; il carme per la
morte della duchessa d'Atri è conservato nel ms. della Biblioteca del Seminario
di Padova (cfr. A. Tissoni Benvenuti, Uno sconosciuto testimone delle egloghe
di Calpurnio e Nemesiano, in ITALIA medioevale e umanistica. Il codice unico
del Carmenbucolicum si trova nella Biblioteca universitaria di Breslavia,
Milich Collection; una silloge di carmi di occasione (tra cui i versi che gli
valsero l'incoronazione) è nel ms. V. E. della Biblioteca nazionale di Napoli.
Gli epigrammi sullo Pseudo Dionigi l'Areopagita si leggono nel ms. W.344 della
Walters Art Gallery di Baltimora. Fonti e Bibl.: San Severino Marche,
Biblioteca comunale, Mss.; due copie di Lazzarelli, Vita L. Septempedani poetae
laureati per Philippum fratrem ad Angelum Colotium, da cui deriva in gran parte
la biografia premessa da G.F. Lancellotti al poemetto del L. Bombix…, cit.,
Aesii; Vecchietti - Moro, Biblioteca picena, V, Osimo, Lancetti, Memorie
intorno ai poeti laureati d'ogni tempo e d'ogni nazione, Milano, Aleandri, La
famiglia L. di Sanseverino (Marche), in Giorn. araldico genealogico diplomatico
italiano, Ohly, Ioannes "Mercurius" Corrigiensis, in Beiträge zur
Inkunabelkunde, Thorndike, A history of magic and experimental science, V, New
York, Donati, Le fonti iconografiche di alcuni manoscritti urbinati della
Biblioteca Vaticana, in La Bibliofilia, vi è riferita la lettura di Campana
della dedica del ms. Urb. lat. Kristeller, Lodovico L. e Giovanni da Correggio,
due ermetici del Quattrocento, e il manoscritto II.D.I.4 della Biblioteca
comunale degli Ardenti di Viterbo, in Biblioteca degli Ardenti della città di
Viterbo. Studi e ricerche, a cura di Pepponi, Viterbo, Delz, Ein unbekannter
Brief von Pomponius Laetus, in Italia medioevale e umanistica, Ubaldini, Vita
di mons. Angelo Colocci, a cura di V. Fanelli, Città del Vaticano, Moreschini,
Il "Crater Hermetis" di L., in Res publica litterarum, Sosti, Il
"Crater Hermetis" di L. L., in Quaderni dell'Istituto sul
Rinascimento meridionale, Tenerelli, L. ed il rinascimento filosofico italiano,
Bari, Saci, L. L. da Elicona a Sion, Roma; Foà, Giovanni da Correggio, in Diz.
biogr. degli Italiani, LV, Roma, Walker, Magia spirituale e magia demoniaca da
Ficino a Campanella, Torino, Meloni, L. L. umanista settempedano e il "De
gentilium deorum imaginibus", in Studia picena; Kristeller, Iter Italicum,
ad indices; Rep. fontium hist. Medii Aevi, VII, pp. 159-161.Luigi Lazzarelli.
Lodovico Lazzarelli. Ludovico Lazzarelli. Lazarelli. Keyword: implicatura
ermetica, mascolinita romana, religione officiale romana, campo marzio, marte,
dio della guerra, marte come pianeta, il simbolismo di marte nell’arte e la
filosofia, marte e apollo, marte e Nietzsche --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Lazzarelli” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Leanace: la
ragione conversazionale e la setta di Sibari -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Sibari). FIlosofo
italiano. Pythagorean. Giamblico.
Grice e Lecaldano: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della traspatia – l’impassibile di Cicerone – filosofia veneta –
scuola di Treviso -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Treviso). Filosofo italiano. Treviso, Veneto. Grice: “Lecaldano
is interested in altruism as the basis for morality; I’m interested in morality
as the basis for altruism; he ain’t Kantian; I am!” -- Grice: “I love
Lecaldano; perhaps because he is an Italian, he focused on Scots! His analyses
of Smith and Hume on ‘sympathy’ is ‘simpatico,’ as the Italians say.” Grice:
“Lecaldano engages in the kind of linguistic botanising I do when I reflect on
‘cooperation’ versus ‘benevolence’ versus ‘empathy’ versus ‘sympathy’ versus
‘compassion.’ Unlike Lecaldano, I end up with a rationality-based account of
cooperativeness – or rather a narrowing of ‘co-operation’ to ‘rational
co-operation’ – there are others!” Si
laurea a Roma, insegna a Siena e Roma. Fonda La Società Italiana di Filosofia
Analitica (“to keep us apart from non-analytics like Plato!”). Membro della
Società Filosofica Italiana. Le riflessioni di L. spaziano dalla storia della
filosofia morale sino alle discussioni contemporanee sulla bioetica.
Avvalendosi anche del rigore concettuale della filosofia analitica, indirizza
la sua ricerca alla ricostruzione storiografica della morale, con particolare riferimento
ai filosofi scozzesi (Hume, Smith). Ha inoltre indagato criticamente i problemi
della meta-etica. In bio-etica, L. si prefigge l'obiettivo di una
chiarificazione delle implicazioni morali legate alle bio-tecnologie, che
sfocia in una prospettiva laica per la pacifica gestione del conflitto morale che
le "tecnologie della vita" hanno prodotto. Saggi: “Le analisi del
linguaggio morale – “Buono" e "dovere" (Roma, Ateneo), “La
fallacia naturalista” (Roma, Laterza); “La lume della ragione, gl’iluminati””
(Torino, Loescher), “Lo scetticismo” (Roma, Laterza); “Etica, Torino, POMBA); “Bio-etica:
la scelta morale” (Roma, Laterza); “La morale” (Gaeta, Bibliotheca); “Dizionario
di bio-etica” (Roma, Laterza); “Un'etica secolare – senza Dio” (Roma, Laterza);
“Prima lezione di Filosofia Morale” (Roma, Laterza); “Simpatia, impassibile” (Milano,
Cortina); “Senza Dio – gl’atei romani” (Bologna, Mulino); -- la religione
officiale in Roma antica – “Sul senso della vita, Bologna, Mulino); “Bioetica
Comitato Nazionale per la Bioetica Biotecnologie); “La bioetica. Il punto di
vista morale di L. sulla nascita, la cura e la morte di Corchia. Riflessioni di
L. sul Senso della Vita In Riflessioni. I significati di simpatia tra
conversazione comune e letteratura “La molteplicità di usi di
simpatia” È possibile riconoscere diversi significati nel termine
simpatia che di solito è accompagnato da un significato positivo, anche
se in realtà è possibile estendere il suo significato fino a usarlo con connotazione
negativa. Nel dizionario troviamo distinte 13 accezioni del termine,
dall’attrazione sentimentale alla condivisione di un atteggiamento o
posizione politica. Come nota Hume, è molto difficile parlare delle operazioni
della nostra mente in termini del tutto esatti, perché il linguaggio
comune raramente fa delle sottili distinzioni. Il termine “simpatia” viene
compreso dalla gran parte delle persone, ma paga la sua ampia diffusione
con l'indeterminazione che ad esso si accompagna. E enorme l'utilizzazione
che ha avuto la simpatia, sia in forma implicita che esplicita. Hunt
suggerisce che la nozione di simpatia sia la prosecuzione di quella che nei
testi illuministi viene analizzata come simpatia; Hunt, poi, privilegia
la simpatia assimilata alla compassione. Già nel diciottesimo secolo
Rousseau, assimilando la simpatia e la compassione, la considerava una
forma di pietà suscitata solo da pene e dolori. Mentre Hume e Smith la
considerano come la capacità, più sviluppata negli uomini che negli animali, di
partecipare attivamente alle condizioni altrui, sia dolorose che gioiose.
E’ illuminante la tesi di Hunt secondo cui il rafforzarsi della simpatia
fra gli esseri umani nella cultura europea (reso possibile dai romanzi) portò
a riconoscere l'eguaglianza di molti esseri umani che fino a quel momento
erano stati emarginati. Molti romanzi in secoli successivi accesero le
emozioni e la partecipazione simpatetica del pubblico.Verosimilmente
anche molta della forza espressiva del cinema può essere identificata
nella capacità di quest'arte di rendere conto, con le sue tecniche, degli
stati d'animo e della trasformazione delle emozioni dei personaggi.
(discorso su Kundera) “Un percorso di approfondimento” Lo sforzo di
conoscere il funzionamento della simpatia si connette con la questione relativa
a quanto la simpatia si debba ritenere essenziale per la genesi della
pratica morale diffusa tra gli esseri umani. Cercheremo di capire se la
simpatia sia necessaria o meno per la moralità ed esporremo le
argomentazioni pro e contro questa tesi. Fermo restando che la simpatia può
essere considerata necessaria per la nostra vita etica, ma non
sufficiente. Simpatia può riferirsi a un'attitudine conoscitiva tramite
la quale riusciamo a cogliere le condizioni mentali altrui, oppure a una
reazione affettiva ed emotiva nei confronti dei sentimenti altrui.
Concordando con Stueber, andremo verso la simpatia intesa come
preoccupazione per le altre persone e le loro menti. Vi sono due criteri in
base ai quali individuare tipi diversi di simpatia: Da una parte
quello che considera la simpatia come un'operazione mentale semplice e
istintiva, un contagio emozionale automatico; 2. Dall'altra quello
che considera la simpatia come un processo psicologico più complicato e
che comporta un minimo di riflessione. L'impostazione adeguata è
quella che non confonde i due livelli di simpatia e non semplifica le
cose, presentando una concezione riduttiva. Insisteremo inoltre sulla connessione
tra simpatia e la pratica non solo della moralità, ma della giustizia,
della politica, così come sulla sua incidenza nelle forme di
civilizzazione. Prenderemo le distanze dall'esportazione della simpatia sul
piano normativo che vede in essa ciò che è necessario e sufficiente per
la costruzione di una moralità umana. La nozione di simpatia ha una lunga
tradizione nella storia della filosofia. La prima importante nozione di
simpatia è quella che le riconosce una forza cosmica che tiene insieme tutte le
cose del mondo. Nella cultura classica greca e latina, la simpatia
utilizzata per richiamare una connessione armonica che unisce fra loro
esseri umani e realtà naturali. Inoltre, la nozione di simpatia nella
filosofia antica viene usata per richiamare un processo che si sviluppa nel
mondo fisico e solo secondariamente in quello umano, infatti gli stoici
si riferiscono ad una simpatia universale per indicare l'affinità
oggettiva esistente fra tutte le cose. Gli stoici sono importanti per
l'influenza che ebbero sui moderni interessati alla simpatia come Hume e
Smith. In Plotino troviamo un'immagine che verrà ripresa da Hume. Questo
concetto naturalistico della simpatia è il fondamento della magia e verrà
ripreso dai maghi del Rinascimento. Nella cultura antica la simpatia ha
un'estensione prevalentemente cosmologica e ontologica, identificandosi con un fenomeno
universale e con la forza che tiene insieme tutte le cose in una relazione
automatica. Fin dall'antichità, quindi, la simpatia ha un'accezione
positiva. Prima del passaggio alla modernità c'è un'importante
innovazione nell'uso della simpatia ad opera di Assisi, che nel “Cantico
delle creature” chiama suoi fratelli e sorelle, animali, piante, ma anche il
sole, la luna, l'acqua e il fuoco. Questo atteggiamento è “empatia”
(oriente e Schopenhauer) “Una relazione attiva fra due poli” La
simpatia conquista il suo posto come forza dinamica della natura umana. Critica
a Hobbes che negava qualsiasi presenza di empatia nell'uomo, visto come
essenzialmente egoista. Significativi qui sono Shaftesbury e Hutchenson
che però, pur riconoscendo agli esseri umani un grado di apertura
affettiva l'uno verso l'altro non ne avevano realizzato quella
completa soggettivizzazione che troviamo in Hume e Smith. Shaftesbury,
infatti, con l'impostazione platonizzante tende a considerare la simpatia
come una trama che si estende al di là del mondo umano, creando armonia
fra vite umane ed ordine universale. Hutchenson, invece, preferisce il
termine simpatia quello di “senso pubblico”, facendo riferimento ad un contagio
emotivo. Hume contesterà ad Hutchenson una trattazione della simpatia erronea
perché incapace di cogliere il suo collegamento con l'immaginazione e la
riflessione. Ciò non toglie che le analisi di Hutchenson siano tornate
attuali. Troviamo la trattazione più approfondita dell'idea di simpatia e
si può individuare nelle analisi di Hume e Smith due diverse concezioni
che influenzeranno molti pensatori. Hume e Smith concordano nel
considerare la simpatia solo come un dato della natura della psicologia
umana e non una forza cosmica. Per Hume la simpatia è un principio psicologico
che permette la comunicazione e la partecipazione fra gli esseri umani;
per Smith è altresì un principio psicologico, ma tende a distinguere fra
ciò che possiamo approvare e ciò che dobbiamo disapprovare. Queste
diversità tra i due autori incidono sulla connessione fra simpatia e
moralità: Smith la concepisce come necessaria e sufficiente, Hume solo
necessaria ma non sufficiente. Hume dedica alla simpatia molte analisi nel
“Trattato sulla natura umana”, in cui troviamo una linea interpretativa
ben riconoscibile che sarà illuminante. La simpatia viene considerata da Hume
un principio costitutivo della vita umana ed egli fissa due punti
fondamentali. La simpatia non riguarda le relazioni fra cose o oggetti, ma solo
quelle fra esseri umani, nonostante coinvolga anche relazioni con gli
animali e tra loro stessi; Nella natura umana esiste una gran tendenza a
prestare agli oggetti esterni le stesse emozioni che osserviamo in noi
stessi -- tendenza che si manifesta nei bambini, nei poeti e nei filosofi. L'estensione
della simpatia anche al rapporto tra uomini e animali ed alla condotta di
questi ultimi, è evidente che la simpatia si manifesta anche negl’animali
suscitando le stesse emozioni provocate nella nostra specie. Hume distingue
due livelli di simpatia: quella istintiva e automatica presente fin dall'
infanzia, riscontrabile anche negli animali e quella che opera in modo
indiretto, ricorrendo all'immaginazione riflessiva e non immediata che
genera i sentimenti morali. A quest'ultima forma di simpatia può essere
ricondotto la trattazione della questione sul coincidere tra morale e
simpatia. Hume offre una lunga analisi per spiegare che la simpatia non è in
grado di rendere conto della distinzione che facciamo tra virtù e
vizio. Nella teoria dei sentimenti morali, Smith presenta una concezione
della simpatia alternativa a quella di Hume. Infatti, a Smith non
interessa la simpatia come contagio emozionale, ma anzi la identifica
come una specie di emozione che si prova quando si concorda con le emozioni e
passioni altrui. Provare simpatia per qualcuno significa provare piacere
su nel condividere emotivamente la risposta che l'altro dà alla
situazione. In Smith, approvare moralmente una condotta significa
simpatizzare con essa. Per Smith la simpatia si presenta come uno stato
complesso e articolato: vi è un primo stadio che è la capacità di
ricostruire la passione e condotta dell'altro, o spiacevole se comporta
sofferenza o piacevole se provoca gioia; un secondo stadio dato
dall'approvazione o disapprovazione che si dà della condotta altrui;
infine, uno stadio in cui si troverà un piacere simpatetico, se le nostre
approvazioni concordano e un dispiacere se discordano. Considerando la simpatia
come approvazione, Smith cattura una nozione più determinata di quella
generica analizzata da Hume, ma molto più aperta per ciò che riguarda il
ruolo che gioca in essa l'immaginazione. La simpatia come approvazione
morale in Smith si allarga ad includere in ogni relazione simpatetica
l'intervento di uno spettatore immaginario capace di far valere le
esigenze di una più completa ricerca delle informazioni rilevanti.
Concezione diversa la possiamo trovare in Rousseau, il quale si riferisce alla
simpatia col ter. Grice: “While his
research on sympathy is erudite, he shows little sympathy! As far as his
philosophy of laicity (an Italian obsession) is concerned, he forgets for
Romans religio WAS a matter of state – those who did not submit were thrown to
the lions!” – Grice: “Lecaldano fails to recognize, but then he would, being a
post-Lateran-pact traumatized Italian – that not only religion was for the
romans in the ‘eta antica’ a matter of state, but that the STATE was a matter
of religion. This was well perceived by that branch of fascism who culticated
the ‘paganismo’ which is a misnomer and only applies to the birth of Christ! I
would hardly say a Roman in ‘eta antica’ saw himself as ‘ethnic, ‘ethnicus,
ennico, a pagan, or heathen!” !LE
DISCIPLINE FILOSOFICHE o doo lerprene CUCA CO SC {y/ertse e Ul
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lo spazio N www.scribd.com/Filosofia_in_ Ita3 Eugenio
Lecaldano (Treviso, 1940), è ordinario di Storia delle dottrine morali
al- l'Università «La Sapienza» di Roma. I suoi lavori sulla filosofia
inglese dei secoli XVII e XVIII vanno dall’edizione italiana delle Opere
di David Hume (1971), all’edî- zione italiana delle Lettere a Serena di
Johni Roma. I suoi lavori sulla filosofia inglese dei secoli XVII e XVIII
vanno dall’edizione italiana delle Opere di David Hume (1971), all’edî-
zione italiana delle Lettere a Serena di JohnToland (1977), all’ampia antologia
L’ily- minismo inglese (1985), al volume Hume e la nascita dell'etica
contemporanea (1991). All’etica contemporanea ha dedicato, tra gli altri,
i volumi Le analisi del linguaggio morale (1970) e Introduzione a George
Edward Moore com/Filosofia_in_Ita3 Eugenio Lecaldano
ETICA STEAS www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
TEA - Tascabili degli Editori Associati S.p.A. Corso Italia 13 - Milano
© 1995 UTET, corso Raffaello 28, 10125 Torino Proprietà
letteraria riservata. Senza il permesso scritto dell'Editore, sono
vietati la riproduzione, la memorizzazione elettronica e l'adattamento
anche parziali, in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo (compresi
i microfilm e le copie fotoscatiche) Edizione su licenza della UTET
dal volume ITI della Fi/osoffa, diretta da Paolo Rossi Prima
edizione TEA settembre 19%6 Ristampe:1 2 3 4 5 6 7 8 9 1996
1997 1998 1999 2000 www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3
ETICA www.scribd.com/Filosofia_in Ita3 Sommario. - 1.
Introduzione. - 2. La natura dell'etica. 2.1. Meta-erica e meta-morale, 2.2. La
conce- zione dell'edonismo egoistico. 2.3. L'etica come insieme di
comandi divini. 2.4. L'etica come co- mando di una q ualche
autorità. 2.5. L'etica come legge naturale 0 razionale. 2.6. L'etica come
pre- scrizione universalizzabile, 2,7. La negazione dell'etica: libertà e
determinismo. - 3. Fondazione, giustificazione e spiegazione: l'epistemologia
dell'etica. 3.1. Dalla meta-etica all'epistemolegia. 3.2. La
conoscibilità della legge divina. 3.3. La fondazione dell'etica attraverso un
calcolo prudenziale. 3.4, La natura umana come fondamento dell'etica: la
via metafisica. 3.5. La natura umana come fondamento dell'etica: la via
empirica. 3.6, L'appello a una ragione universale come via per la fon-
dazione dell'etica. 3.7. LI ricorsa a una facoltà morale per la fondazione
dell'etica. 3.8. La giustifi- cazione procedurale delle opzioni etiche:
il contrattualismo, 3.9. Il non-cognitivisma e la giustifica. zione
logico-argomentativa del punto di vista etico. 3.10. Dalla giustificazione alla
spiegazione del- l'etica. 3.11. I problemi centrali per Ia fondazione
della morale; «legge di Hume» e possibilità di una «logica delle norme».
- 4. Le etiche normative: concezioni in contrasto. 4.1. Etiche conseguen-
zialiste e deontologiche: principi, mezzi è fini nell’etica. 4.2. Il valore
intrinseco nell'etica. 4.3. L'etica giusnaturalistica e la legge
naturale. 4.4. L'etica contratrualistica e le sue forme. 4.5. Un'etica
dei diritti. 4.6. L'etica kantiana e la persona umana. 4.7. Le etiche
utilitaristiche. 4.8, La scelta ra- zionale come criterio normativo, 4.9,
Pluralismo, tolleranza, relativismo, irrazionalismo etico. - 5.
Dall'etica teorica all'etica pratica. 5.1. Dall'etica teorica all'antropologia:
motivazione e obbliga. zione, 5.2. Il ruolo dell'identità personale
nell’etica. 5.3. Erica del carattere 0 dell'azione. 5.4. La svolta
normativa e l'irruzione dell'etica applicata. 5.5. I principali campi
dell'etica applicata. - 6. Le dimensioni dell'etica. 6.1. La morale e le
relazioni personali. 6.2. Il diritto e i sistemi codificati. 6.3. La
politica e i fini del governo. 1. Introduzione. Con
il termine etica ci si riferisce all'insieme di scritti e discorsi nei quali
si presentano riflessioni sui problemi che si pongono per gli esseri
umani quando agiscono e cercano regole e principi da seguire nelle
diverse dimen- sioni della loro vita pratica. Fa parte integrante di
questa ricerca la valuta- zione delle regole e dei principi già
disponibili o fatti valere da altre persone.
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 8 ETICA Affronteremo
più volte nel corso del saggio la questione di quanto l'etica as- sorba
in sé e si distingua dall'economia per fare valere in generale una pro-
spettiva tesa a tenere distinte concettualmente etica ed economia. In
questo senso ‘etica’ occupa lo spazio semantico che nella tradizione
dotta italiana si collega a ‘filosofia morale’. L'etica in questo senso
ampio comprende dunque tutta una serie di più determinate specificazioni
che riguardano di volta in volta i problemi morali, quelli di pertinenza
del diritto e della legge e quelli che più propriamente rientrano nel
campo della politica o dell’azione del go- verno. Usando un altro
linguaggio si può dire che l'etica riguarda l'universo dei valori e delle
norme complessivamente inteso e dunque in questo senso sia la morale, sia
il diritto e la politica. È chiaro che, invece, gli aspetti più tecnici e
specifici del diritto e della politica, quali, poniamo, la teoria
dell’ordina- mento giuridico o le varie tecniche da adottare per rendere
efficaci le san- zioni, o ancora le riflessioni sulle varie forme di
governo e i rapporti tra i vari poteri non sono di pertinenza dell'etica
come qui intesa. Verranno dunque brevemente trattate le questioni
relative al diritto e alla politica solo per indi- viduare con più precisione
gli ambiti specifici di problemi pratici in gioco in queste aree
dell'etica, La pretesa per quanto riguarda queste sezioni è di col.
locarle con chiarezza nel campo più generale dell'etica piuttosto che
affron- tare partitamente i loro problemi specifici. La scelta
concettuale fatta com- porta che si lasci completamente da parte la
pretesa di occuparci dell'etica 0 della morale in un senso più
sociologico, ovvero come insieme di costumi di un popolo, o in un senso
più psicologico, ovvero come stili di vita 0 inclina- zioni e abitudini a
determinati tipi di associazione mentali effettivamente rico- noscibili
nella biografia di esseri umani concretamente esistenti. L'etica nel
senso in cui ce ne occuperemo coinvolge piuttosto la riflessione e il
pensiero impegnati nella caratterizzazione, critica, difesa e revisione
del costume o delle pratiche effettive. La scrittura di
questo testo è stata orientata da due linee guida. Da una parte si è
cercato di fare valere l'ottica di chi scrive alla fine del secolo XX.
Anche se probabilmente una partizione che prenda troppo sul serio lo
stacco tra secoli va incontro a forzature, si muove, comunque, da una
prospettiva che è largamente influenzata dalla considerazione di quei
problemi morali che nel nostro secolo si sono dovuti affrontare, e si
stanno ancora affrontando, per la prima volta, quali ad esempio le
questioni della bioetica, o dell'etica am- bientale, del trattamento
degli animali ecc. (cfr. infra $$ 5.4 e 5.5). In secondo luogo chi scrive
assume la prospettiva fatta valere da Derek Parfit secondo la quale una
vera e propria etica nel senso moderno può essere vista nascere solo con
il XVII secolo. Ma un'etica che unisca insieme la consapevolezza della sua
autonomia e un certo impegno in senso professionale riguarda solo la se-
conda parte di questo secolo (Parfit, 1989: 574-575). Ed è dunque a
questa etica moderna e contemporanea più che a quella antica e medievale
che in questo scritto si farà principalmente riferimento per dare
spessore storico alle distinzioni e conclusioni che si avanzeranno.
Anche se l'etica si presenta come una disciplina già consolidata e con
una tradizione di sapere costituito, si può indicare una strada che
permette di ac- cedere ai problemi di cui si occupa muovendo
dall'esperienza comune e quo- tidiana. Infatti la pretesa dell'etica —
come del resto di quasi tutti i rami della riflessione filosofica — è
quella di occuparsi di problemi che tutti gli uomini affrontano e
incontrano nella loro vita. Nel caso dell'etica teorica è frequente —
anzi — trovare affermata la pretesa di essere più vicina e direttamente
ri- levante per la vita delle persone di quanto siano altri ambiti della
filosofia, quali poniamo la gnoseologia (con la sua elaborazione teorica
sulla conoscen- za), 0 l'epistemologia (con le sue riflessioni sulla
teoria della verità) ecc. Questa pretesa di una più stretta
vicinanza con la vita di tutti si accompa- gna spesso nelle elaborazioni
teoriche nel campo dell'etica con un'ulteriore pretesa per cui tali
elaborazioni vengono presentate come la parte più impor- tante delle
riflessioni filosofiche 0 comunque come quella che ha priorità e
centralità regolativa rispetto alle altre. Nella vita quotidiana si
presentano numerose situazioni problematiche che possono essere
considerate come punti di partenza per la riflessione etica. Suggeriamo
di classificare queste situazioni problematiche ricorrendo a due distinte
tipologie, quella dei conffitti e quella dei disaccordi. Casi di
conflitto — per così dire il versante privato o soggettivo dell'etica —
sono quelli in cui noi stessi non riusciamo a trovare una soluzione
valida a un problema etico 0 perché i nostri principi tradizionali
risultano inadeguati o perché non riu- sciamo a risolverci appunto tra
differenti principi egualmente rilevanti. Casi di disaccordo — per così
dire il versante oggettivo o pubblico dell'etica — sono quelli, molto
frequenti e diffusi nelle nostre società complesse, in cui petsone
diverse tendono a fare valere principi etici contrastanti per risolvere
la stessa situazione moralmente rilevante, î Il cammino verso
l'elaborazione di un'etica più riflessa sembra aprirsi non già quando le
regole e i principi tradizionali rispondono alle nostre esigenze, ma
piuttosto in una situazione in cui gli esseri umani incontrano difficoltà
nel campo delle loro scelte e decisioni pratiche. Se, infatti, la vita
pratica procede in modo del tutto ordinato all’interno di una routine
consolidata non vi è quella base necessaria per un'elaborazione critica,
Il presentarsi di una diffi. coltà nell'applicazione dei codici normativi
tradizionali è, in genere, il punto di partenza per l'elaborazione
dell’etica nel pensiero moderno e tale quadro problematico è diventato
costitutivo della teoria etica nel pensiero etico con- temporaneo.
La stretta connessione della riflessione etica con situazioni di
conflitto e di disaccordo sembra voler suggerire che proprio all'etica in
quanto tale spetta di proporre una soluzione e che quindi rientra negli
obiettivi specifici del- l'etica teorica prescrivere esplicitamente ciò
che è bene o giusto fare in situa- zioni particolari. Una pretesa che nel
corso della nostra ricostruzione delle varie posizioni riconoscibili
nell’etica moderna e contemporanea avremo l’oc- casione di valutare
criticamente. L'elaborazione etica di cui renderemo conto in modo
più sistematico in questo scritto si colloca in un quadro generale
individualistico. A monte in- fatti della nostra rivisitazione dell'etica
vi è l’assunzione filosofica che in gene- rale i problemi con cui si ha a
che fare riguardano individui ovvero persone umane. L'etica così intesa
si muove in un contesto — che può essere conside- rato come proprio del
pensiero moderno da Cartesio in avanti — in cui i pro- blemi di fronte ai
quali ci si trova sono problemi che nascono per esseri umani particolari
e finiti. Anche se nei primi secoli della ricerca moderna la rifles-
sione era volta a fissare il campo dell'etica tenendo conto della natura
umana complessivamente intesa, fin dal secolo XVII essa muoveva da
problemi pra- tici di individui ben determinati. Il lettore troverà dunque
privilegiata nel- l'esposizione seguente una tradizione empiristica e
naturalistica nella quale, tra il XVII e il XXX, si sono collocati tra
gli altri: Thomas Hobbes (1588- 1679), John Locke (1632-1704), David Hume
(1711-1776), Adam Smith (1723-1790), Jeremy Bentham (1748-1832), John
Stuart Mill (1806-1873), Henry Sidgwick (1838-1900). La riflessione sulla
morale di Immanuel Kant (1724-1804) malgrado non rientri in questa
tradizione sarà tenuta presente per la sua capacità di far valere
l'ottica di una responsabilità individuale auto- noma nella vita morale,
Esponenti del neoempirismo e della filosofia analitica hanno contribuito
nel corso del XX secolo a questo approccio più generale nei confronti
dell’etica — e il loro contributo sarà largamente presente nelle pagine
seguenti —, che è stato più recentemente caratterizzato esplicitamen- te
come «individualismo metodologico». Una linea di ricerca ampiamente
percorsa — anche se non senza differenze — in Italia, ad esempio, da
Er- minio Juvalta, Nicola Abbagnano, Giulio Preti, Uberto Scarpelli e
Norberto Bobbio. È vero che i casi in cui gli esseri umani
individuali e le persone si trovano effettivamente di fronte a problemi
etici quali quelli che rendono possibili laserie di riflessione di pertinenza
dell'etica sono probabilmente più rari di quanto in genere si ritenga. Ma
la rinascita dell'etica e il fiorire della rifles- sione pratica a cui
abbiamo assistito nella seconda metà del secolo XX (dai disaccordi
pubblici sulle questioni di giustizia distributiva e di discrimina. zione
che hanno caratter izzato gli anni Settanta, ai conflitti che negli anni
Ot- tanta ci hanno coinvolto tutti sui principi e le regole da far valere
di fronte alle nuove condizioni del nascere, morire e curarsi
degli esseri umani) mostrano l'ampio radicamento nella vita comune
di questa dimensione filosofica. Pro- babilmente riflessioni e decisioni
si svolgono in modo meno esplicito e più impersonale (attraverso la
meditazione della discussione pubblica intersogget- tiva) di quanto
risulterà dal taglio individualistico di questo saggio. Ma nelle pagine
seguenti, senza la pretesa di tutto abbracci are o risolvere,
renderemo conto in modo sistematico e critico delle diverse concezioni
elaborate per avere a che fare con quelle scelte individuali che sono
influenzate da ragioni etiche. 2. Lanatura dell'etica.
2.1. Meta-etica e meta-morale. — La riflessione sulla natura dell’etica
ha una priorità logica una volta assunta la prospettiva riflessiva e
critica alla cui genesi abbiamo fatto riferimento nel paragrafo 1. Si
tratta infatti, in primo luogo, di capire l'ordine di problemi intorno a
cui si riflette econseguente- mente di individuare quali siano i criteri
cui si può ricorrere per risolverli 0 mettere alla prova la validità
delle soluzioni alternative che ci si presentano. Un esempio
particolarmen te rappresentativo di questo percorso logico troviamo
delineato da George Edward Moore nei suoi Prircipis Ethica (1903). Moore
chiarisce che il problema centrale dell'etica — a suo parere, l’unico
problema dell'etica — è quello di fornire una definizione delle princi-
pali nozioni che ricorrono nei nostri discorsi morali, ovvero le nozioni
di buono, giusto, obbligatorio, dovere ecc. Moore sostiene poi che tutte
le no- zioni etiche sono riducibili, in modo più 0 meno diretto, a quella
fondamen- tale e primaria di «buono». Ecco quindi quanto scrive
Moore: Ciò che ‘buono’ significa è in effetti, a parte il suo
contrario «cattivo», il solo oggetto semplice di pensiero che appartenga
peculiatmente all'etica. La sua definizione, di con- seguenza, è il punto
essenziale nella definizione dell'etica; e inoltre un errore su questo
punto porta con sé un numero di giudizi errati di gran lunga più grande che
qualsiasi altro errore in materia. Se questa domanda preliminare non è
pienamente compresa è non se ne vede chiaramente la risposta, tutta il
resto dell’etica ha un valore praticamente nullo dal punto di vista della
conoscenza sistematica [...] in ogni caso, è impossibile che, finché non
si conosca la risposta, si possa sapere quale è la prova richiesta per un
giudizio etico qualsiasi. Ma il principale obiettivo dell'etica come
scienza sistematica è dì fornire ragioni corrette per pensare che una
cosa 0 un'altra è buona; e se non si risponde alla nostra domanda tali
ragioni non si possono dare (Moore, 1964: 48-49). Secondo
l’impostazione di Moore dunque — che faremo nostra — i me- todi di prova
e confutazione che hanno efficacia in etica potranno essere iden-
tificati solo dopo che avremo capito la natura dell'etica, ovvero il tipo di
pro- blemi di fronte ai quali ci troviamo laddove è in gioco la parte
morale della nostra esistenza. Cominciamo quindi con il
passare in rassegna criticamente le più impor- tanti concezioni sulla
natura dell'etica. In filosofia è corrente una nozione per riferirsi a
questa parte della ricerca e, specialmente in questo secolo, ci si è
molto dilungati sulle diverse meta-etiche o meta-morali (assumiamo qui
que- ste etichette in un senso generico e che le rende equivalenti senza
investire la distinzione tra etica e morale su cui invece ci soffermeremo
nel $ 6). Una de- terminata concezione meta-etica o meta-morale si
colloca sul piano conosci- tivo e logico. Essa si propone infatti, prima
di tutto, di farci capire qual è la natura dell'etica e quali sono i
metodi di prova e dimostrazione in essa in vi- gore. Tutto ciò è
preliminare e solo dopo si ritiene possibile passare a sotto- scrivere
una determinata soluzione. La riflessione meta-etica viene quindi non
solo concepita come preliminare o logicamente prioritaria, ma in genere
come del tutto neutra da un punto di vista normativo, Si tratterebbe
dunque, per usare formule che piacciono molto ai filosofi, di identificare
preliminarmente ciò che è comune a tutti i punti di vista etici in quanto
etici, per eventual- mente passare poi a sottoscrivere una determinata
etica a preferenza di altre. Naturalmente vi sono anche pensatori
che negano che una meta-etica neu- trale e del tutto priva di
implicazioni normative sia possibile. In questalinea troviamo un autore
di tendenze analitiche come Scarpelli che sottolinea la na- tura
prescrittiva di tutte le scelte a monte della costruzione di una
particolare meta-etica (Scarpelli, 1982: 102-112). Ma anche autori del
filone postanalitico come Hilary Putnam e Donald Davidson che negano la
validità dell'assun- zione che distingue tra forma e contenuto,
distinzione a monte della tesi della neutralità delle teorie meta-etiche
(H. Putnam, 1985; D. Davidson, 1992). Questa controversia riguarda però
più propriamente il modo di intendere il lavoro filosofico e il modo di
concepire le relazioni e connessioni tra analisi concettuali e logiche e
opzioni valutative e normative e dunque in questa sede laasciamo da
parte. Così come non affrontiamo esplicitamente la questione di quale si
debba considerare l'oggetto proprio delle analisi meta-etiche. Se cioè
esse debbano vertere esclusivamente sulle parole e il linguaggio morale —
come ha sostenuto una parte dei filosofi di questo secolo e specialmente
gli esponenti della filosofia del linguaggio ordinario come ad
esempio Charles Leslie Stevenson, Richard Mervyn Hare e Patrick Horace
Nowell-Smith (si veda C. L. Stevenson, 1962; R. M. Hare, 1968; P. H.
Nowell-Smith, 1974), o possano essere caratterizzate in modo meno
ristretto. Più recentemente, ad esempio, Bernard Williams ha suggerito di
considerare come oggetto proprio delle analisi sulla natura dell'etica —
in coerenza con una concezione più li- berale dell'analisi
filosofica — non solo i discorsi, ma anche esperienze, azioni, emozioni
ecc. (B. Williams, 1987). Tenendo conto del livello generale di questo
scritto potremo fare tesoro di questa proposta liberalizzatrice e con-
siderare come campo della meta-etica o della meta-morale l'insieme delle
di- verse dimensioni della vita etica degli uomini. 2.2. La
concezione dell'edonismo egoistico. — La via più ovvia per identi- ficare
la natura generale dei problemi che sorgono quando stiamo scegliendo o
decidendo tra differenti alternative che ci stanno di fronte è quella di
soste- nere che in realtà siamo esitanti solo perché non ci risulta
chiaro cosa ci con- viene fare di più. Ovvero — lasciando da parte la
questione di una differenza tra le più specifiche caratterizzazioni di
che cosa intendiamo con la formula «ciò che ci conviene di più» —-ciò su
cui stiamo deliberando è solo l'indivi- duazione del corso di azione che
farà maggiormente il nostro proprio inte- resse, 0 ci darà più piacere o
ci farà guadagnare di più ecc. Questa concezione meta-etica riconduce
quindi le azioni in gioco in questa dimensione della no- stra
vita pratica all'interno di un contesto che riguarda le azioni umane
in generale: tutte le azioni umane sono rivolte a ottenere il proprio
personale piacere e a evitare il dolore. Si tratta di una
concezione che riconduce l'etica all’interno di quel quadro
dell’edonismo egoistico che — con una certa ap- prossimazione
interpretativa — viene attribuito a pensatori come Epicuro e Hobbes.
Troviamo ad esempio che Hobbes negli Elements of Law Natural and Politic
(1640, Elementi di legge naturale e politica) sostiene: «Ogni uomo, dal
canto suo; chiama ciò che gli piace ed è per lui dilettevole, bene; e
male ciò che gli dispiace; cosicché, dato che ognuno differisce da un
altro nella co- stituzione fisica, così ci si differenzia l’uno dall’altro
anche riguardo alla co- mune distinzione di bene e male. Né esiste una
cosa come l’agaton aplos, vale a dire il bene assoluto» (Hobbes, 1985:
50-51). Questa concezione della natura dell'azione umana in
generale in realtà porta a negare che vi sia una dimensione etica nella
vita degli esseri umani. Infatti ci troviamo di fronte a una posizione
che propone di tradurre tutti gli enunciati 0 giudizi etici in questioni
che hanno a che fare esclusivamente con valutazioni, pro 0 contro una
certa linea di azione, sulla base di un criterio esclusivo che è quello
del proprio personale tornaconto. La natura dell'etica non viene certo
caratterizzata in questa direzione da tutti coloro che presen- tano delle
teorie meta-etiche o meta-morali. Infatti al di lì delle diversità da un
punto di vista epistemologico, gnoseologico, psicologico 0 genetico, tutte
le diverse concezioni concordano nel presentare, in termini contenutistici
e sostantivi, il campo dell'etica come quello che ha a che fare con
scelte e valu- tazioni che hanno come punto di riferimento degli
obiettivi che vanno al di là del solo interesse personale.
Naturalmente una caratterizzazione dell'etica che insiste sulla natura
non interessata, imparziale e generale del punto di vista che essa
coinvolge pone come questione preliminare quella più propriamente
empirica e psicologica della possibilità che gli uomini effettivamente
agiscano mossi da motivazioni non strettamente egoistiche. Vedremo più
volte nelle pagine seguenti (cfr. jn- fra $$ 3.3, 4.8 e 5.1) che una
delle grandi questioni intorno a cui sono conver- gentemente confluiti
gli sforzi di melti pensatori è proprio quella di riuscire a
salvaguardare nel comportamento umano uno spazio per le azioni mosse da
ragioni etiche e dunque non strettamente egoistiche. In questa sezione ci
limi- tiamo dunque a fissare in via del tutto preliminare il punto su cui
convergono le diverse concezioni sulla natura dell'etica e della morale
di cui renderemo conto in questo paragrafo. In modi diversi
le numerose concezioni meta-etiche cercano di rendere conto di un fatto
considerato più o meno acclarato ovvero che nella vita degli esseri umani
esiste una sfera di azioni, scelte, valutazioni che è di pertinenza
dell'etica e della morale. Questa sfera ha a che fare comunque con
valori, principi, criteri, norme, regole che riguardano la condotta degli
uomini ove la si veda come non esclusivamente indirizzata verso la
realizzazione di obiettivi strettamente egoistici ponendosi dal punto di
vista di ciascuno degli agenti. Vi è cioè secondo le diverse teorie
meta-etiche che ora passeremo in rassegna una dimensione sovraindividuale
e intersoggettiva (se non addirittura univer- sale) coinvolta nelle
azioni umane e che sarebbe appunto quella di pertinenza dell'etica. Sulla
base di questa premessa comune le meta-etiche si differen- ziano poi per
il modo di rendere conto di questa dimensione e conseguente- mente delle
vie per fondare e giustificare scelte e giudizi etici corretti.
2.3. L'etica come insieme di comandi divini. — Una delle teorie
meta-eti- che più antica e fortunata è quella che ritiene che al centro
dell’etica vi siano una serie di doveri e di obblighi che ricavano la
loro origine, validità e forza dal fatto di essere comandi di un’autorità
superiore. In genere poi all'interno di questa concezione meta-etica si
tende a identificare l'autorità i cui comandi vengono messi in pratica
nell'etica con una qualche divinità, si tratti del Dio di una delle
diverse religioni positive, o piuttosto l'Autore della Natura della
religione naturale, o ancora qualcuna delle divinità minori delle religioni
po- liteistiche. Nel mondo moderno una tale concezione
meta-etica è stata presentata nella forma più chiara dai teorici del
giusnaturalismo provvidenzialistico del XVII secolo e in particolare la
si trova difesa approfonditamente da Locke negli Essays on the Law of
Nature (1660-1664, Saggi sulla legge naturale). Si tratta di una
concezione meta-etica che proprio per il riferimento essenziale ai
comandi di una autorità sovrannaturale considera primarie e centrali per
ren- dere conto di questo campo della vita umana le nozioni di legge,
obbliga- zione, dovere e mette, dunque, in secondo piano altre nozioni quali
quelle di buono, giusto, diritti, virtù ecc. In questa prospettiva
l'etica è poi strettamente connessa con la religione. Infatti se
tutto ciò che è in gioco nelle nozioni eti- che è un qualche comando o
legge di un’autorità divina che rende obbligatori i suoi dettami
attraverso sanzioni a cui nessun essere umano può sfuggire al- lora
un'etica così intesa dipenderà fortemente dalla disponibilità di prove
del- l'esistenza dell'autorità divina presupposta e andrà incontro a
insormontabili difficoltà nel momento in cui entra in crisi la credenza
nell'esistenza di un essere che trascende la natura. I fautori della
concezione che vede nell’etica una serie di comandi o leggi o ordini di
una qualche autorità divina, giunti a questo punto o riterranno scomparsa
l'etica dall'orizzonte della vita degli uo- mini 0 dovranno indicare una
qualche autorità terrena da cui fare dipendere la validità dei principi
etici 0, infine, dovranno abbandonare del tutto la meta- etica che rende
conto dei principi morali come di comandi di una qualsiasi autorità. Una
trasformazione del genere fu al centro della riflessione di Hob- bes
portando inizialmente a una forma implicita di positivismo giuridico.
Ma più in generale guardando alla riflessione morale dal XVII secolo ad
oggi, con una qualche semplificazione, si può rendere conto dell'etica
moderna e con- temporanea come un processo di progressivo allontanamento
della meta-etica in termini di comandi di una qualche autorità distinta
dal soggetto che sceglie, decide o giudica eticamente.
Laddove si istituisce il collegamento tra l’etica e la legge divina si
aprono le due diverse possibilità dell’intellettualismo e del
volontarismo. Chi ritiene che l’etica non sia altro che un insieme di comandi
divini può infatti ritenere che Dio comandi ciò che è bene perché lo
riconosce come tale oppure — alla lucedi una concezione volontarista —
può concludere che ciò che è buono è tale proprio in quanto è Dio a
volerlo. Non ci soffermeremo sulle difficoltà presenti in queste due
distinte vie teoriche. In particolare l’intellettualismo sembra andare
incon tro alta difficoltà di rendere in qualche modo il bene pre-
cedente e superiore a Dio. Viceversa il volontarismo si scontra con la
teodicea ovvero con la questione dell’esistenza del male nel mondo e
dunque con la necessità di ammettere un qualche limite alla potenza di
Dio di fronte ad esso. Si può ipotizzare che proprio le difficoltà
incontrate — una narrazione di queste difficoltà si può trovare nei
volumi di S. Landucci (1986)e M. E. Scri- bano (1988 e 1994) — nel corso
del XVII secolo nel delineare in modo coe- rente e
accettabile queste diverse strategie per fare dipendere il bene
morale dalla legge divina, hanno segnato una delle cause del crollo della
concezione meta-etica che stiamo esponendo. Sulle macerie di questa
concezione si sono andate consolidando le meta-etiche che ritengono
costitutiva per una ricostru- zione adeguata di questo campo il pieno
riconoscimento dell'autonomia del- Petica. Cerchiamo di
delineare sia pure sommariamente le principali argomenta- zioni che
giustificavano questo sforzo di ricondurre l'etica alla legge divina.
Nella sezione successiva ricostruiamo invece il tentativo di connettere
comun- que l’etica ai comandi di un'autorità, non già però
sovrannaturale, ma solo terrena e positiva. Come si è detto
la biografia intellettuale di Locke è particolarmente signi- ficativa per
chi sia interessato a una riflessione critica sulle ragioni pro e con-
tro un’etica del comando divino. Lo sforzo di Locke era quello
di conciliare questa concezione meta-etica con ragioni che potessero
essere accettate an- che, al di fuori della metafisica innatistica del
pensiero medievale e cartesiano, da chi si muoveva accettando
un’epistemologia empiristica. Vi erano alcuni vantaggi a favore di una
concezione della morale e dell'etica come una legge divina presente nella
natura umana. Quest'impostazione permetteva di risol- vere in modo
semplice le complesse questioni della motivazione propria della condotta
etica e dell’universalità ed eternità dei principi morali. Locke mostra
con chiarezza che questa concezione meta-etica veniva abbracciata in
defini tiva proprio in quanto permetteva di rendere conto di un'etica in
cui i prin- cipi venivano appunto considerati come eterni e universali e
obbligatori per tutti gli esseri umani. Infatti come insistentemente ripete
Locke — e non solo negli Essays on the Law of Nature, ma anche in An:
Essay concerning Human Understanding (1690, Saggio sull'intelletto umano)
e negli scritti pubblicati dopo il 1690 — un'adeguata filosofia morale
deve riuscire a delineare le con- dizioni che rendono vincolante principi
e regole, ovvero la legge naturale, per tutti gli esseri umani in
qualsiasi epoca. Ma il punto decisivo è che l’obiettivo di una filosofia
morale non è solo mostrare che un certo principio è vincolante e
obbligante, ma anche che ciò che esso ci comanda va fatto perché noi
rico- posciamo che è giusto. Tutto ciò possiamo realizzarlo solo
concependo la legge naturale al centro dell'etica come un comando di Dio.
Solo questo in- fatti garantisce che il comando sarà giusto, direttamente
presente în tutti gli esseri umani e vincolante in modo efficace in
quanto tutti sanno che qualsiasi defezione alla legge sarà punita da Dio
senza scampo in una vita eterna. Locke nella sua presentazione
della natura dell'etica come una legge natu- rale non solo si sforzava di
insistere sulla natura obbligante di questa legge facendola derivare da
un comando divino, ma di rendere possibile la conosci- bilità di questa
da parte della coscienza umana senza doverla presupporre come innata o
ammettere un consenso universale non riscontrabile empirica- mente.
Proprio il fatto di fare derivare la conoscenza della legge naturale da
un processo che univa senso e ragione portava Locke a considerare tale
legge come costitutiva della natura umana. Locke finiva dunque con il
congiungere la concezione che vede l'etica come il campo dei comandi
divini con un’altra concezione che vede piuttosto l’etica come
l’esplicitazione di quelli che sono i caratteri necessari della natura
umana. Nelle sue analisi Locke non distin- gueva tra due strategie
radicalmente diverse, quella che concepisce la legge morale naturale come
un comando divino che ci viene direttamente comuni- cato da Dio o da un
suo interprete autorizzato e quella che invece vede la legge naturale
come qualcosa solo indirettamente scopribile ricostruendo le leggi morali
incorporate nella condotta umana. 2.4. L'etica come comando di una
qualche autorità. — L'insistenza sulla tesi che la natura propria
dell'etica può essere colta solo mettendo al suo cen- tro principi morali
che sono obbliganti e vincolanti in quanto comandati è presente anche in
un’altra linea di caratterizzazione meta-etica e meta-morale. Si tratta
di quella concezione che, negata la possibilità di riconoscere una au-
torità sovrannaturale e divina, mantiene pur tuttavia l'apparato
concettuale dell'etica religiosa per cercare di rendere conto in termini
mondanizzati della natura vincolante della morale. Questa strategia di
traduzione dell'etica del comando divino nella meta-etica che definisce
comunque le nozioni morali in termini di imperativi o comandi sia pure di
una autorità terrena e umana fu percorsa già nel corso del XVII secolo,
ad esempio secondo alcuni studiosi di etica da Hobbes. Ma
l'interpretazione di Hobbes in questo senso è contro- versa e dunque
risulta dubbia la possibilità di rendere conto della sua con- cezione
della legge etica o morale considerandola come una concezione che la
riduce al comando di un'autorità positiva riconosciuta. Né ritengo che, diversamente
da quanto pensano altri studiosi di storia dell’etica (ad esempio M. A.
Cattaneo, 1962), una concezione del genere si possa ritrovare nell'opera
del fondatore dell’utilitarismo Jeremy Bentham in quanto è chiaro da un
punto di vista concettuale che per un utilitarista il criterio decisivo
dell'etica non è il rinvio a qualcosa che è comandato — secondo
procedure ricono- sciute idonee — ma direttamente a ciò che è accettabile
in termini di utilità generale. Tale concezione può dunque essere più
correttamente attribuita ad autori come John Austin o, per venire al
secolo XX, ai sostenitori del positi- vismo giuridico come Hans Kelsen.
Si tratta di una concezione legalistica del- l'etica; ciò che ha una
validità etica può essere obbligante solo se vi è un’au- torità che è in
grado di fare rispettare, con opportune sanzioni, la legge o le
regole codificate. Tale impostazione non solo esige una qualche
codificazione dell'etica, ma richiede anche che vi sia una autorità in
grado di fare rispettare i suoi decreti. Numerose sono le
obiezioni che sono state mosse a questa concezione le- galistica
dell’etica e in generale a una concezione come quella che sarà svilup-
pata sistematicamente dal positivismo giuridico che tenta di ricondurre la
to- talità del valore etico ai comandi di un'autorità positiva in grado
di fare rispet- tare con l'uso della forza i suoi decreti. Già nel XVII
secolo viene messa a punto un’ampia batteria di critiche. Esse rendono
difficile accettare questa concezione come in grado di spiegare la natura
dell’etica in generale e fini- scono con il delimitarne la portata
esplicativa, eventualmente, al solo diritto positivo strettamente inteso
(cfr. infra, $ 6.2). Ricordiamo alcune di queste critiche. Il
punto decisivo sta nel fatto che ricondurre l'etica a un insieme di
comandi non permette di discriminare — come ha mostrato nel dettaglio ad
esempio F. Snare (Snare, 1992: 13-30) — tra tre situazioni che sono
concettualmente distinte. 1) Una posizione è quella di chi accetta un
comando in quanto teme l'eventuale sanzione di chi pro- mulga il comando,
ovvero quella di chi considera il comando obbligatorio e vincolante in
quanto prevede che chi lo ha emesso ricorrerà a una forza effi- cace
coercitiva per farlo rispettare. 2) Completamente diversa è poi la posi-
zione di chi accetta un comando in quanto riconosce un'autorità a chi
pro- mulga il comando. In questa posizione ricadono non solo i fautori —
di cui abbiamo già detto nella sezione precedente — di un legalismo
religioso alla Locke che vedono il comando divino come obbligante non
potendosi non avere «fiducia» nell’autore della natura che non può
regolarsi in modo di- verso da quello proprio di un padre buono. Vi
ricadono anche i fautori del positivismo giuridico (per una presentazione
ed una critica di questa posi- zione sono utili Bobbio, 1965; Scarpelli,
1965} che ritengono di non potere non obbedire alle leggi promulgate da
un'autorità che riconoscono come le- gittima in quanto rispetta le
procedure costituzionalmente previste per pro- mulgare leggi. 3) Infine
del tutto diversa è la posizione di coloro che accettano un comando in
quanto discriminano tra comandi giusti e comandi ingiusti e dunque
rispettano le leggi del loro paese fino a quando le considerano etica-
mente accettabili. Si tratta di tre situazioni ben distinte e una meta-etica
che non riesca a mantenere autonoma l'obbligatorietà della morale
dalla mera ac- cettazione di un comando legittimo o dal timore di una
qualche sanzione data da un potere che ha la forza di costringerci
risulta una meta-etica inadeguata. Le critiche alle concezioni
religiose o legalistiche della natura dell’etica sono una chiara via pet
giungere a cogliere l'autonomia dell'etica. L'autono- mia che così
viene in primo piano è quella di decisione di ciascun soggetto
individuale responsabile. L'etica ha a che fare con decisioni autonome di
in- dividui che non possono ritenere risolti i loro problemi meramente
facendo appello a una qualche autorità che comanda loro che cosa fare. In
realtà resta sempre aperta da un punto di vista etico la domanda che
conta ovvero se ob- bedire o meno al comando riconoscendolo giusto. Il
senso peculiarmente etico di tale domanda ci si rivela laddove
comprendiamo che con essa ci si chiede non tantose l'autorità che ci sta
di fronte sarà in grado di scoprirci o punirci ove non rispetteremo i
suoi comandi, quanto piuttosto se il comando è giusto o meno, ovvero se è
o no moralmente accettabile. Le concezioni legalistiche dell'etica
e il positivismo giuridico non riescono dunque a discriminare tra potere
giusto e ingiusto. Collocandosi al loro in- terno non trovano una
spiegazione tutte le situazioni — su cui ha molto insi- stito Ronald
Dworkin (Dworkin, 1990) nella sua critica al riduzionismo meta- etico del
positivismo giuridico — quali quelle in gioco quando ci si rifiuta di
obbedire a un comando ingiusto (le forme di totalitarismo del XX secolo
hanno di continuo fatto sorgere per gli esseri umani dilemmi del genere}.
Ma più in generale partendo da una concezione meta-etica del genere non
si rie- sce a spiegare proprio la genesi di istituzioni quali la
giustizia e il governo. Naturalmente intendiamo riferirci a una genesi
che cerchi sul piano logico- critico le ragioni della validità morale di
un certo governo e della giustizia, non già a una genesi che si contenti
di qualche risposta di ordine storico 0 fattuale. Le concezioni che
riconducono la validità dei principi morali a co- mandi vincolanti dati
da una qualche autorità tendono infatti a considerare che l'unico
problema in gioco laddove ci interroghiamo sulla genesi della va- lidità
del potere di un certo governo o di determinate regole di giustizia non è
altro che il mero interrogarsi sul fatto storico se questo governo esiste o
meno e se queste sono o meno le leggi che vigono nel nostro paese. Chi
riduce l'etica ai comandi di una qualche autorità non riesce più a rendere
conto del perché distinguiamo tra governi e leggi giuste e governi e
leggi ingiuste. In questo quadro legalistico non ha nemmeno molto senso
porsi il problema, che pure sembra centrale per l'etica moderna e
contemporanea, dello spiegare quali sono le basi per cui si debba
obbedire a una qualche norma anche quando si sa che non c’è nessuna
autorità in grado di osservare il nostro com- portamento e dunque
premiarci o punirci per la nostra fedeltà o la nostra de- fezione. Se
l'unica validità di una legge etica è data dalla forza che chi la co-
manda ha di farla rispettare, è evidente che non c’è nessuna ragione di
seguire una norma etica quando l’autorità non è in condizione di
raggiungerci con le sue sanzioni, Questa concezione meta-etica dunque non
solo non spiega il passaggio da una situazio ne priva di etica a una
in cui vi è un qualche princi- pio etico, ma finisce con il lasciare
sempre aperta — in definitiva come fisio- logica e legittima — la
possibilità di defezionare dai comandi dell'etica ove si sia in
condizione di sfuggire al controllo dell’autorità che li ha promulgati.
2.5. L'etica come legge naturale 0 razionale. — Un'altra concezione
sulla natura dell'etica che ha una lunga storia dietro di sé è quella che
identifica il bene e il giusto con ciò che è naturale per gli uomini
ovvero con ciò che è razionale per essi. Le derivazioni della morale in
termini di ragione umana e in termini di natura umana rappresentano
certamente due diverse concezioni meta-etiche se le si vede da un punto
di vista contenutistico; infatti è ben di- verso presentare come un
tratto definiente del bene e del giusto la natura o la ragione umana. Per
una lunga parte della storia dell’etica però le due vie sono state fatte
coincidere e fino al XVII secolo la natura umana è stata appunto
presentata principalmente come natura razionale. Solo nel XVIII secolo si
sono andate divaricando le due diverse strategie che hanno ricondotto
l’etica o ad aspetti della natura umana non strettamente razionali (i
sentimentalisti e Hume) o proprio alla parte razionale in quanto non
influenzata da desideri e passioni (Kant). Per quanto riguarda queste
concezioni che riconducono l'etica alla natura o alla ragione umana va
rilevato che diversamente da quanto accade nel caso dell'etica del
comando divino la definizione del campo pro- prio del bene e del giusto
non viene data rinviando a realtà al di sopra o al di là degli esseri
umani, quali sono appunto i comandi di un Essere Supremo. Ci troviamo
infatti di fronte a concezioni che ritengono di potere rendere conto del
campo della morale ricavandolo integralmente da ciò che è interno
all’uni- verso della vita umana. Si viene così a superare una concezione
eteronoma dell'etica nel senso di una concezione che rinvia a qualcosa
che è al di sopra o al di fuori della natura e ragione umana. Non tutte
però le concezioni che collegano l'etica alla natura o ragione umana — e
che potremmo caratteriz- zare in un senso molto generale come
naturalistiche o immanentistiche — ne riconoscono pienamente l'autonomia,
e non mancano fino al XVIII secolo concezioni riduzionistiche che tendono
ad assimilare l'etica a tratti generali della vita o della natura umana
niente affatto peculiari. Alle concezioni meta- etiche di Hume e Kant
possiamo fare risalire il pieno riconoscimento dell’au- tonomia dell’etica
pure nell’alveo di spiegazioni che fanno ricorso alla natura o alla
ragione umana. Nel senso più radicale di collegamento dell'autonomia
dell'etica con le scelte e le decisioni individuali dobbiamo invece guardare
a un processo che si è sviluppato solo nel XIX e XX secolo.
Cerchiamo di individuare i tratti distintivi di questa concezione
meta-etica o meta-morale rendendo brevemente conto delle tradizioni che
l'hanno mag- giormente sviluppata. In primo luogo la tradizione
naturalistica che ha guar- dato — e guarda tuttora — all'etica nei
termini metafisici e ontologici propri della filosofia di Aristotele con
le trasformazioni e manipolazioni più o meno profonde operate dalle
filosofie tomistiche e neotomistiche. In secondo luogo la tradizione
razionalistica che possiamo fare coincidere con il giusnaturali- smo
razionalistico del XVII secolo. Come si è detto vanno tenute distinte da
queste due strategie meta-etiche che potremmo caratterizzare come
riduzioni- stiche quelle che pur rinviando alle nozioni di natura o
ragione umana rico- noscono uno spazio del tutto autonomo per la morale o
l'etica. Così va consi- derata a parte la forma di naturalismo presente
nelle opere di Hume che rico- nosce nell’etica una dimensione del tutto
peculiare della vita umana della quale non si può rendere conto nei
termini di una generale ricostruzione on- tologica e metafisica della
natura umana complessivamente intesa. Va ugual- mente tenuta distinta
dalle concezioni riduzionistiche dell'etica la ricostru- zione che della
morale realizza Kant. Infatti questi, pur ammettendo lo stretto
collegamento tra razionalità ed etica, salvaguarda l'autonomia del campo
della morale distinguendo nettamente tra il piano della ragione pura
conoscitiva e quello della ragione pratica. Presenteremo
dunque quattro distinte caratterizzazioni dell'etica: nel senso di un
giusnaturalismo ontologizzante e metafisico; nel senso dell’estrin-
secazione di un'unica Ragione ontologicamente radicata; nel senso di un col-
legamento con una natura umana universalmente intesa al cui interno si
cer- cano però tratti che consentano di salvaguardare l'autonomia del
campo della morale; e infine nel senso dell'estrinsecazione di una
razionalità pur sempre sovrastorica e universale ma che viene connotata
in una dimensione specifica- mente pratica distinta da altre
dimensioni. In Aristotele troviamo chiaramente formulata la tesi
che la virtà e il bene consistono per gli uomini nel realizzare il
comportamento che è proprio della loro natura. L'essere umano è dunque
naturalmente etico (come del resto è naturalmente politico), e l'etica
nella sua realtà può essere derivata solo dalla conoscenza dell'essenza
stessa della natura umana. Una prospettiva che tra l’altro rende
praticamente impossibile distinguere il piano dell’analisi meta- etica da
quellodelle analisi normative: identificare lo spazio dell'etica coincide
con l’identificare il bene che gli esseri umani sono naturalmente inclini a
rico- noscere. Nell’Etica Nicomachea (Aristotele, 1979) Aristotele
presenta la più chiara formulazione di una concezione che ricava la
definizione dell'etica dalla definizione della natura umana. L'elenco
delle virtù umane e la loro ge- rarchia viene infatti derivata da una
preliminare conoscenza di quella che è la natura sostanziale dell'uomo.
Anche se in Aristotele si riconosce come propria della vita pratica una
dimensione di indeterminatezza e probabilità che la rende del tutto
diversa dal sapere teorico in cui si possono attingere sia la certezza,
sia la conoscenza dimostrata, poi non troviamo tale indeterminatezza
quando si passa a delineare i fondamenti dell'etica. Che per gli uomini
la virtù somma stia nella vita contemplativa e che la giustizia
rappresenti la virtù suprema della vita associata viene derivato
logicamente dalla definizione del- l'essenza dell’uomo come appunto
animale razionale propriamente adatto al sapere teorico e al vivere in società.
Vi è nell’etica aristotelica non solo una derivazione della definizione
dell’etica da quella che si ritiene la natura essen- ziale e sostanziale
dell'uomo, ma anche una particolare strategia teleologica per rendere
conto della vita etica in modo tale da salvaguardare l'impianto dinamico
e progressivo della vita pratica. In Aristotele infatti il bene per
l’uomo e quindi l'orizzonte di realizzazione dell'erica non rinvia a qualcosa
di già dato e posseduto, ma richiede piuttosto l'impegno dell'uomo a
realizzare quello che è lo scopo ad esso più proprio. Questo
impianto teleologico dell'ontologia aristotelica permette alla filo-
sofia di Aristotele di venire riproposta nel tomismo e nel neotomismo
come struttura portante della concezione mediante cui il cristianesimo
elabora il suo peculiare tentativo di ridurre l’etica alla natura umana
(si veda Maritain, 1971). Nella tradizione cristiana non è necessario
percorrere la strategia che riduce l’etica direttamente ai comandi
divini: si può infatti percorrere anche la strada che vede la natura
umana come di per se stessa fornita di caratteri etici imprescindibili.
L'Autore della Natura con la sua bontà e provvidenza ha creato la natura
umana in modo tale da fornirla intrinsecamente di quel par- ticolare
te/os che le permette di realizzarela felicità e i risultati migliori per
gli uomini. Realizzare i fini propri della natura umana diventa così un
comanda- mento anche per la religione cristiana in quanto appunto nella
n atura umana sono rintracciabili chiaramente i tratti distintivi
propri della vica etica. Ciò che è innaturale risulta negativo e malvagio
e nello stesso ordine naturale delle cose possiamo rintracciare la regola
di ciò che è buono e giusto. Ma questa via di ricondurre l'etica a
qualche tratto tipico della natura umana viene percorso nel pensiero
moderno e contemporaneo anche su basi diverse da quelle metafisiche e
ontologiche proprie dell'etica aristotelica. Se il carattere comune în
base al quale caratterizziamo una meta-etica come natu- ralistica è
quello di ricondurre i tratti distintivi dell'etica a qualcosa che è pe-
culiare della natura umana allora numerose meta-etiche naturalistiche
sono state presentate anche dal Seicento in avanti. Ma queste forme
moderne e contemporanee di naturalismo rifiutano poi di irrigidire la
natura umana alla luce di una concezione sostanzialistica e di
conseguenza non percorrono la strada che presenta l'etica come qualcosa
di ontologicamente o concettual- mente necessario per una definizione
della natura umana ed evitano anche di ricorrere alla strategia
finalistica 0, nella versione cristiana, provvidenzialistica, per fondare
il campo della morale. Presentiamo alcune di queste meta-etiche
naturalistiche delineate nella cultura moderna econtemporanea e alcune
cri- tiche ad esse mosse. Abbiamo un filone di meta-etiche
naturalistiche, inaugurato dalla filosofia di Anthony Ashley Cooper
Shaftesbury, che pone al centro dell'etica un qual- che istinto 0
sentimento originario e irriducibile ad altro: un «senso morale» proprio
di tutti gli esseri umani, Qui ci troviamo non solo di fronte a una
meta-etica chiaramente immanentistica, ma anche a una con cezione che
non deriva la definizione dell’etica da una caratterizzazione di tipo
essenzialistico della natura umana, ma da una ricognizione empirica degli
esseri umani. Re- sta poi vero che attraverso questa procedura empirica
si ritiene di potere in- dividuare qualcosa che è comune a tutti gli
uomini e quindi come tale proprio della natura umana e almeno nel caso di
Shaftesbury, e dopo di lui di Francis Hutcheson, anche qualcosa di
originario. Va sottolineato che l'etica viene qui collegata alla
disposizione da parte degli uomini a reagire alle cose del mondo sulla
base di qualche sentimento o senso piuttosto che in termini meramente
intellettuali o razionali. Ancora per tutto il secolo XVILI vi è stata una
meta- etica riconducibile a una forma di naturalismo sentimentalistico.
L'etica in- fatti ha a che fare con sentimenti e emozioni proprie di
tutti gli uomini anche, ad esempio, per Hume e Smith. Nel caso di Hume
tale caratterizzazione in termini naturalistici dell'etica risulta
temperata, sia dalla portata complessiva- mente ipotetica delle sue
spiegazioni filosofiche, sia dal presentare i senti- menti e le emozioni
proprie dell’etica come in larga parte non originarie, ma piuttosto come
il risultato di un processo artificiale di sviluppo della natura umana. Di
conseguenza da una parte l'etica si presenta come qualcosa che ha a che
fare con un risultato artificiale e non originario della vita umana,
ma dall'altra questo stesso artificio è presentato come del tutto
naturale per gli uomini nel senso che Hume ne ricostruisce la genesi
ricorrendo a cause natu- rali. Tale concezione naturalistica è stata così
vista — ad esempio da M. Ruse (1986) — come un precedente di quella
evoluzionistica elaborata da Charles Darwin e che si trova sviluppata poi
a un livello filosofico (non privo di incli- nazioni assolutistiche) in
Herbert Spencer. Nel naturalismo evoluzionistico l’etica viene
considerata come un insieme di istinti e abitudini cooperative ac-
quisite dagli uomini nel corso dell’evoluzione, ma una derivazione
evolutiva dell’etica non esclude che essa venga considerata —
specialmente laddove si insiste sulle sue radici biologiche — come
propria di tutta la specie umana. ‘Tutte queste diverse forme di
meta-etica naturalistica sono state sottoposte a critiche radicali lungo
due linee convergenti, tra la fine del XIX secolo e la prima metà del XX.
Da una parte si èobiettato, come ad esempio fa J. $. Mill nel primo dei
suoi Three Essays on Religion (1874, Tre saggi sulla religione) dedicato
alla natura (Mill, 1972: 13-52), mostrando la vaghezza e genericità
della nozione di natura che come tale è del tutto incapace di fornire un
qual- che criterio preciso per avere a che fare con i problemi etici,
dato che sta le azioni più crudeli sia quelle più generose rientrano
nella Natura latamente in- tesa. Dall'altra si è obiettato, come fa ad
esempio G. E. Moore nei Prircipia Ethica (Moore, 1964: 91-120) che da un
punto di vista logico econcettuale il naturalismo cade nella cosiddetta
«fallacia naturalistica» riducendo appunto a naturale ciò che non lo è
(cfr. oltre $$ 3.4 e 3.11). Malgrado queste critiche nel XX secolo
concezioni naturalistiche dell’etica sono state pur tuttavia riproposte,
sia in termini evoluzionistici (ad esempio nel caso della sociobiologia,
specialmente da E. Wilson, 1975), sia attraverso forme aggiornate di
neoaristotelismo (ad esempio P, Foot, 1978 e A. Mac. Intyre, 1988).
In contrasto con queste meta-etiche naturalistiche vanno viste quelle
con- cezioni che rendono conto dell’etica non tanto riconducendola alla
natura umana, in generale, quanto piuttosto collegandola
strettamen te, in modo più specifico, con la ragione umana. Tale
strategia è stata percorsa lungo due di. verse linee, Da una parte i
razionalisti etici del XVII secolo, quali ad esempio i giusnaturalisti
Ugo Grozio e Samuel Pufendorf, consideravano questa ra- gione umana come
una facoltà ontologicamente garantita in grado di cogliere l'essenza
stessa dell’uomo e dunque i suoi obiettivi più propri (Bobbio, 1963).
Questa concezione della ragione è rintracciabile anche alla base dei
numerosi tentativi nel corso del XVII secolo di dare vita a un'etica
dimostrata, un compito verso cui tendono pensatori per altri versi molto
differenti quali ad esem- pio Hobbes, Baruch Spinoza, Locke e Samuel
Clarke. L'idea era quella di presentare una morale che derivasse le leggi
del comportamento umano da principi o auto-evidenti, o assunti comevalidi
per definizione, o radicati nella struttura metafisica del mondo.
Il razionalismo etico è stato però successivamente elaborato anche al
d i fuori di questo quadro metafisico, essenzialistico o
dimostrativo. Questa è ad esempio la strategia percorsa nel modo più
rigoroso ed approfondito da Kant nella Kritik der praktischen
Vernunft (\788, Critica della ragion pratica), ma poi ampiamente
ricorrente nella storia dell'etica contemporanea. Nel caso di Kant l'etica
ha a che fare non più con la struttura essenziale del mondo, quanto
piuttosto con la forma pura della razionalità umana. Kant precisa anzi,
salvaguardando la sua meta-etica dalla critica di ridurre il dovere al
fatto, la morale alla scienza, che la ragione di cui egli tratta
nell'etica non è la ragione pura conoscitiva ma è la ragione pratica.
L'etica secondo Kant non ha un con- tenuto diverso dai principi
generali che presiedono alla possibilità stessa di una razionalità
pratica per gli uomini, ed è in questo senso che l'etica ha a che fare
con una dimensione trascendentale che riguarda la volontà umana in ge-
nerale. L'etica fissa e precisa le leggi che presiedono al funzionamento di
qual- sivoglia volontà umana che non si proponga questo o quell'obiettivo
partico- lare, ma piuttosto di conformarsi alla sua struttura generale.
L'etica rende così esplicita la struttura categoriale della razionalità
pratica umana. Vedremo nel paragrafo 4.6 quali sono i contenuti normativi
precisi a cui Kant giunge muo- vendo da questa concezione meta-morale;
qui ci limitiamo a sottolineare al- cuni tratti della meta-etica
kantiana. Nel caso della caratterizzazione della natura della
morale fornita da Kant risulta del tutto salvaguardata l'autonomia
dell'etica rispetto alle dimensioni della conoscenza empirica e della
fede religiosa (Landucci, 1993): la raziona- lità pratica umana è infatti
in grado da sola di fondare la validità della vita morale. Anzi nella
concezione kantiana gli stessi contenuti principali della re- ligione
sembrano presentarsi come risultati dell’azione della razionalità pra-
tica umana in quanto suoi postulati che garantiscono la validità della vita
mo- rale. Nell’approccio kantiano l’esigenza di non ridurre l'etica a qualche
altra cosa viene dunque salvaguardata sia attraverso l'affermazione della
netta di- stinzione tra ragionpura conoscitiva e ragion pura pratica, sia
con la nega- zione della riconducibilità dell'etica a sentimenti ed
emozioni naturali degli uomini. Rifiutando di assumere un qualsiasi
sentimento o emozione partico- lare degli uomini come in grado di rendere
conto della natura della morale, Kant ritiene anche di poter
giungere a garantire l'universalità della legge morale. Questa teoria
meta-etica ha come sua conseguenza un pregiudiziale ri- fiuto rigoristico
di considerare come bene una qualunque cosa che possa sod- disfare un
sentimento, un'emozione 0 un desiderio individuale. Malgrado l'impegno
con cui Kant si è sforzato di salvaguardare l’autono- mia dell’etica non
sono mancate nei confronti della sua meta-etica le critiche di coloro che
vi trovano una forma di riduzionismo non diversa da quella pre- sente
nell’etica naturalistica. Si insiste dunque che in Kant il dovere etico è
ridotto a quella che è la legge e la struttura della volontà. E ancora che
nei suoi scritti vi è la riduzione di tutte le ragioni pratiche dei
singoli esseri umani finiti a una razionalità universale e assoluta. Si rileva
poi che l’uso di una no- zione come quella di trascendentale è una
traccia del permanere di tentazioni di tipo ontologizzante ed
essenzialistico. Va segnalato che — come avremo modo di documentare
ulteriormente — l’impostazione kantiana ha avuto co- munque una grande
fortuna nel corso del XX secolo. Autori su posizioni filo- sofiche molto
diverse — quali ad esempio J. Rawls, H. Putnam, K. O. Apel — la
ripropongono in nuove vesti. La tendenza è quella di depurare l'imposta»
zione kantiana dalle tentazioni di ordine metafisico e considerare l'etica
come qualcosa che ha a che fare non tanto con la struttura di fondo della
razionalità pratica quanto con le condizioni stesse della comunicazione
umana in gene- rale o con le presupposizioni della vita civile.
Coloro che elaborano il modello della razionalità pratica kantiana
giungono così per quanto riguarda la natuta dell'etica a conclusioni non
molto diverse da quelle raggiunte da alcuni teorici del prescrittivismo
non cognitivistico di cui renderemo conto nella prossima sezione.
2.6. L'etica come prescrizione universalizzabile. — Nel corso del XX
se- colo il tipo di concezione dell'etica che ha avuto la prevalenza è
quella preoc- cupata principalmente di rendere conto della vita morale in
modo tale da se- gnarne una netta autonomia e differenziazione rispetto
al piano della cono- scenza empirica e scientifica; potendosi oramai
ritenere già del tutto acquisito, sul piano teorico, il processo che ha
portato a segnare il distacco dell’etica dalla religione. La distinzione
dell'etica rispetto al campo della scienza e della conoscenza empirica è
stata poi tracciata su basi molto diverse, rimanendo dunque costante la
tendenza a definire la natura dell'etica come campo del tutto
irriducibile e peculiare della cultura umana. Così proprio
all’inizio del XX secolo Moore consolida in modo definitivo la tendenza a
segnare una completa autonomia dell'etica rispetto alla cono- scenza
empirica 0 metafisica, anche se poi egli legava le principali nozioni
eti- che con una forma di conoscenza intuitiva del tutto peculiare.
Conclusione quest'ultima che verrà rifiutata da coloro che più
rigorosamente negheranno che l'etica abbia a che fare con una forma
qualsiasi di conoscenza, ovvero da quei teorici del non-cognitivismo
preoccupati piuttosto di salvaguardare la di- mensione prevalentemente
normativa o prescrittiva al centro della morale. Ma la soluzione di Moore
era quella di indicare nelle proprietà oggetto dell’intui- zione etica —
ovvero nel bene e nel dovere — delle proprietà del tutto uniche e irriducibili
ad altri tipi di proprietà naturali, presentandole quindi come pe-
culiari e indefinibili qualità non-naturali. Tutte le meta-etiche che non
ave- vano riconosciuto l’indefinibilità e l'irriducibilità delle
proprietà etiche se- condo Moore avevano compiuto, in generale, l'errore
logico da lui chiamato «fallacia naturalistica», errore consistente prima
di tutto nel ridurre ciò che non è naturale al naturale. Su
basi diverse all'analoga conclusione dell’affermazione di una netta di-
stinzione tra conoscenza empirica o scienza e ambito della morale
arriveranno anche quei neo-positivisti che —— come ad esempio Alfred
Jules Ayer in Lan- guage, Truth and Logic (1946, Linguaggio, verità e
logica) — allargavano la loro analisi verificazionista del discorso fino
a presentare conclusioni a propo- sito della natura dell'etica. La tesi
generale di Ayer era quella dell'impossibi- lità di rend ere conto
dei giudizi morali con le stesse concezioni esplicative che rendono conto
delle normali asserzioni empiriche e scientifiche. Ma Ayer non si
limitava a tracciare una distinzione tra l'ambito delle asserzioni empiriche
e l'etica. Egli infatti concludeva sulla base della generale teoria del
significato accettata dai neo-positivisti — secondo la quale solo le
proposizioni empirica- mente verificabili, sia pure in linea di
principio, hanno un significato — che l'autonomia dell’etica è data dal
fatto che i suoi enunciati, proprio per l’uso di nozioni quali buono,
giusto e dovere non sono verificabili in termini empirici e dunque sono
privi di senso. Ayer non si limitava però alla conclusione nega- tiva, ma
aggiungeva anche una caratterizzazione in positivo dell’etica. Ayer in-
fatti riconosceva alle proposizioni dell'etica un ruolo loro proprio: quello
di esprimere le emozioni di chi parla e di suscitare emozioni in chi
ascolta. Pro- prio sulla base di questa caratterizzazione emotivistica
della natura dell'etica Ayer finiva con il sostenere sul piano
epistemologico che non esistono modi razionali per cercare di superare il
disaccordo in morale (cfr. srfra, $ 3.9). Anche Stevenson
salvaguardava in Ethics and Language (1944, Etica e lin- guaggio)
l'autonomia dell'etica collegandola agli atteggiamenti, mentre le altre
specie di discorso hanno a che fare principalmente con le credenze. Gli
stru- menti teorici generali di Stevenson erano però quelli del
pragmatismo e non già quelli del neopositivismo, e proprio perciò
permettevano di delineare una ricostruzione meno rinunciataria e negativa
del discorso etico. Infatti secondo Stevenson l’etica è costituita da un
insieme di giudizi in cui chi parla espone appunto i propri atteggiamenti
e cerca di provocarne di analoghi anche negli altri. Rispetto all'analisi
riduttiva di Ayer, in quella dell’«ernotivismo mode- rato» di Stevenson
viene riconosciuto il ruolo peculiare del discorso etico come pienamente
significante sia pure collocandolo su dì un piano non cono- scitivo.
Rispetto al neopositivismo (ma anche all'intuizionismo di Moore) il punto
di svolta sta nel riconoscimento che non solo le conoscenze sono signi-
ficanti. Rispetto a quanto era stato fatto dalla riflessione meta-etica
precedente quello che per Stevenson e i non- cognitivisti diventa
centrale non è solo riu- scire a rendere conto di quanto l'etica sia
distinta dalla conoscenza, ma anche specialmente dello stretto
collegamento che essa ha con l'azione e la pratica effettiva. Su questo
piano diventa prioritario nella riflessione meta-etica la sal- vaguardia
della distinzione tra l'è di cui appunto si occupa la conoscenza e il
deve che è di pertinenza della morale. I fautori della meta-etica
non-cognitivistica si impegnano particolarmente lungo una linea analitica
rivolta a rendere esplicito il collegamento del discor- so etico con
l’azione fissando in termini di regole precise e non già di espres- sione
di emozioni questo ruolo del linguaggio umano. In questa direzione sono
stati elaborati numerosi tentativi di caratterizzazione. Tutta la
riflessio- ne europea sull'analisi del linguaggio morale nel periodo
successivo alla fine della seconda guerra mondiale è dedicata
principalmente a questo obiettivo. Rendiamo qui conto della più
fortunata tra le concezioni non-cognitivisti- che, quella di Richard
Mervyn Hare, già delineata fin dal 1952 con The Lan- guage of Morals (Il
linguaggio della morale) e poi ripresa e sviluppata, prima sul piano
epistemologico nel 1963 con Freedom and Reason (Libertà e ragione) € poi
su quello normativo nel 1981 con Mora! Thinking. Its Levels, Method and
Point (Il pensiero morale). Secondo Hare l’etica è caratterizzata
dalla presenza di nozioni la cui fun- zione è tale che non può trovare
realizzazione in nessuna altra parte del di- scorso umano: la funzione
propria del discorso etico è quella di dare voce a «prescrizioni
universalizzabili soverchianti». Tutti questi tratti dell'etica ven- gono
spiegati dettagliatamente da Hare nei suoi scritti. Le impostazioni filo-
sofiche generali di L. Wittgenstein e di J. L. Austin gli forniscono gli
stru- menti per dare corpo alla sua meta-etica. Con il sottolineare la
natura prescrit- tiva dell'etica Hare salvaguarda quello stretto
collegamento delle nozioni morali con le azioni effettive di chi esprime
una propria posizione e di chi ascolta. Si tratta di quel nucleo proprio
dell’etica per cui essa è necessaria- mente collegata con una qualche
motivazione ad agire, e per cui si imparenta con i comandi e con gli
imperativi e include il ricorso alle nozioni di dovere e obbligo. Si
tratta appunto di quel nucleo prescrittivo che veniva perso di vi- sta da
quelle concezioni meta-etiche — quali l'intuizionismo sostenuto da Moore
— che tendevano invece a rendere conto dell'autonomia e specificità della
morale in termini di una conoscenza peculiare. In realtà l'etica non è in
alcun modo una conoscenza di ciò che è, ma è un insieme di prescrizioni
ri- volte a ciò che deve essere. Un altro punto importante
della concezione meta-etica di Hare è quello che insiste sul farto che i
nostri discorsi morali non solo sono prescrittivi, ma in realtà
trasmettono prescrizioni universali, ovvero prescrizioni che si riten-
gono valide per tutti i casi simili. Il riconoscimento di una
universalizzabilità dei giudizi morali così come affermata dalla
meta-etica non-cognitivistica vuole rendere conto di un'esigenza
peculiare di coerenza e strutturazione pro- pria della vita morale, per
cui i giudizi dell'etica si distinguono dai giudizi di gusto 0 di preferenza
relativamente ai quali tale esigenza non viene abitual- mente fatta
valere. Una distinzione tra giudizi morali e giudizi di preferenza della
quale invece non riuscivano a rendere conto le meta-etiche emotivisti-
che. Attraverso questa via dell'universalizzabilità Hare e i non-cognitivisti
re- cuperano e includono nelle loro spiégazioni un tratto dell'etica che
è stato fortemente richiamato e sottolineato da Kant ed è centrale per
coloro che ne riprendono la concezione della morale. Non diversamente
come un tentativo di rendere conto di un'etica che ha molti dei tratti
della moralità così come già la presentava Kant, va visto l'ultimo
carattere che Hare riconosce come proprio dell’etica nel suo modello
non-cognitivistico: il fatto di essere sover- chiante. Ciò significa
riconoscere che l'etica è costituita non solo da prescri- zioni
universalizzabili, ma anche che in quanto «soverchianti» sono gerarchi-
camente preordinate rispetto ad altre prescrizioni. Il
non-cognitivismo di Hare è stato ampiamente discusso nella seconda metà
del secolo XX come tentativo fertile di cogliere la natura propria del-
l'etica, La concezione dell'etica come insieme di prescrizioni
universalizzabili soverchianti è stata fatta propria anche dai teorici
tedeschi dell'etica del di- scorso come K. O. Apel e J. Habermas (Apel,
1977; Habermas, 1985). Non sono mancate le critiche a questa concezione
che è stata considerata — ad esempio da B. Williams (1987) — non tanto
come una spiegazione o un’ana- lisi neutra di quella che è l'etica per
noi, quanto piuttosto come una posizione che cerca di imporre una ben
precisa concezione, rigida e superata, della moralità. Altre critiche
hanno rilevato come tale meta-etica sembri volere ne- gare, sul piano
logico, la possibilità — invece del tutto aperta a ogni essere umano — di
restare al di fuori di una vita etica così intesa. Hare ha cercato di
rispondere a questo ultimo tipo di critiche precisando che la sua tesi non
so- www.scribd.com/Filosofia_in Ita3 30 ETICA
stiene che non si può fare a meno di sottoscrivere nel corso della
propria vita prescrizioni universalizzabili soverchianti, quanto
piuttosto che non si può rendere conto in modo logicamente corretto della
natura dell'etica e della morale fuoriuscendo da questo quadro
esplicativo. Altri problemi aperti riguardano dimensioni ulteriori
della meta-etica non- cognitivistica e avremo occasione di fermarci su di
essi nei prossimi capitoli. Proprio in quanto la meta-etica
non-cognitivistica si presenta, secondo chi scrive, come quella più
adeguata e fertile si tratterà di completarne l'esame affrontandone anche
le altre implicazioni, relative alla genesi dell’etica (cfr. $ 3.10),
alle forme argomentative ad essa proprie fcfr. $$ 3.9 e 11) e ai suoi
eventuali suggerimenti normativi (cfr. $ 4.7). 2.7. La negazione
dell'etica: libertà e determinismo. — Nel rendere conto delle posizioni
che si sono occupate in generale della natura dell'etica dob- biamo
soffermarci su quelle concezioni che hanno negato che in realtà vi sia
uno spazio per le scelte etiche degli uomini. Per quanto riguarda queste
posi- zioni — molto differenziate e sempre più diffuse nel secolo XX —
distin- guiamo tra coloro che negano decisamente che gli uomini possano
mai agire realmente in modo libero e dunque essere imputabili di una
qualche respon. sabilità, e le posizioni che invece, pur ammettendo che
gli uomini possano agire liberamente, negano che possano essere
effettivamente motivati dalla ri- cerca di obiettivi non strettamente
personali. Le negazioni dell'etica dell'ul- timo tipo nascono da quelle
teorie psicologiche che non ammettono che gli esseri umani possano essere
mossi ad agire da prospettive imparziali o valori più o meno
universali. Le concezioni che negano qualsiasi spazio per una
libera scelta da parte dell'uomo sono chiamate abitualmente
deterministiche. Va subito precisato però che qui ciò che è in gioco non
è tanto la questione su cui sembrano con- trapporsi deterministi e non-
deterministi se vi possano mai essere per gli es- seri umani azioni del
tutto immotivate e dunque arbitrarie, quanto piuttosto la questione se
gli uomini possono scegliere liberamente di fare le azioni che vogliono
fare sulla base delle ragioni e motivazioni a cui sono più sensibili, comprese
le motivazioni e ragioni specificamente morali. Nella lettura che noi
proponiamo dunque la questione della libertà e della responsabilità etica
degli uomini non si colloca nel quadro di discussione sul determinismo e
indeter- minismo proprio della filosofia medievale, incline a
identificare la libertà degli uomini con un irrealizzabile libero
arbitrio, ovvero con una libertà di volere in assenza di qualsiasi
motivazione. In alternativa va invece accettata l’imposta- zione delle
analisi sulla questione libertà-necessità dell'agire umano fatte valere nella
linea empiristica da Thomas Hobbes, John Locke, David Hume. Secondo
questi pensatori è del tutto compatibile (0 se si vuole addirittura es-
senziale) con il riconoscimento di una libertà e responsabilità morale
nelle azioni umane, una posizione che considera le azioni umane sempre
determi- nate o motivate da una qualche causa o ragione (W. K. Frankena,
1981: 155- 162). Il punto decisivo nella diatriba non è dunque se le
azioni umane siano o no sempre motivate da ragioni o cause, ma se gli uomini
possano 0 meno sce- gliere liberamente di fare le azioni per le quali
hanno motivi o ragioni. In que- sto senso la libertà delle azioni umane
non si contrappone tanto all’esistenza di motivi o ragioni che
determinano la volontà, quanto al fatto che gli esseri umani sono
costretti a fare certe azioni da altri esseri wmani o che vi siano
comunque delle cause — che essi non possono in alcun modo controllare —
che li costringano a fare delle azioni che, ove fossero liberi, non farebbero.
Si è costretti a concludere che gli uomini non sono liberi € l'etica non
ha alcuna possibilità di sussistere laddove si ritenga non tanto che
tutte le azioni umane abbiano {o debbano avere) dei motivi, delle cause o
delle ragioni, ma si ri- tenga che tali cause e motivi agiscano
necessariamente anche laddove gli uo- mini credano di avere altri motivi
e ragioni per agire. Dunque non sussiste uno spazio per l'etica quando si
abbraccia una concezione che ci porta a rite- nere tutte le azioni umane
come effetto necessario di cause esterne ai diffe- renti individui umani
esistenti, cause sulle quali né ciascuno di questi esseri umani
singolarmente né in collegamento con gli altri può avere una qualche
influenza. Esistono numerose concezioni che specialmente nel corso
del XIX e XX secolo hanno insistito sulla completa assenza di spazio per
una libera scelta nelle azioni umane nel senso che abbiamo appena
definito. Non possiamo qui rendere conto di tutte le concezioni del
genere; ricordiamo solo quelle più importanti e certamente inquietanti
per chi crede a una qualche realtà ed ef- ficacia delle distinzioni
morali. Già Darwin, nei primi appunti stesi in collegamento con le
sue prime ri- flessioni tra il 1833 e il 1840 sulle sue scoperte intorno
alle trasformazioni delle specie viventi, suggeriva le implicazioni per
la morale di una concezione evoluzionistica (Desmond e Moore, 1992:
293-320). Tutto il processo evolu- tivo è dominato dal caso e dalla
sopravvivenza dei più adatti in termini mera- mente biologici e sessuali.
Come risulta chiaro poi la lotta per la vita in ter- mini evolutivi
riguarda non già i singoli individui, ma le specie nel loro com- plesso.
In questo quadro tutte le azioni umane si presentano come frutto di cause
che riguardano complessivamente la specie umana. Questa prospettiva
biologica sulla vita degli uomini è stata sviluppata e approfondita da
autori che hanno elaborato quella che è chiamata sociobiologia (Wilson,
1979). A) di là delle opzioni apparentemente libere che si presentano
alle scelte umane, in realtà tutte le azioni umane sono casuali e
soggette a condizionamenti in ter- mini di ciò che è vantaggioso per la
sopravvivenza della specie complessiva- mente intesa. Così se
identifichiamo l'etica con la presenza di una dimensione cooperativa
nelle azioni umane, tale dimensione non è altro che un effetto dell'evoluzione
biologica naturale e le azioni che ne conseguono sono del tutto istintive
e sottratte al nostro controllo. Del tutto illusoria è dunque la
prospettiva dell'etica che vi siano dei contlitti, disaccordi e scelte
drammati- che di fronte agli uomini e che essi possano responsabilmente e
liberamente dare ad esse una soluzione. La vita umana è sottoposta alle
leggi generali della vita e del tutto casualmente si realizzano processi
e trasformazioni, i quali tutti vanno dunque al di là di qualsiasi libera
scelta individuale. Un'altra concezione che sembra negare qualsiasi
spazio alle scelte libere e responsabili di cui tratta l'etica è quella
che viene considerata come una con- seguenza dell’accettazione
dell’impostazione psicanalitica di Sigmund Freud. È dubbio che una tale
schematica concezione sia presente in Freud, che, se leggiamo opere come
Das Unbebagen in der Kultur (1929, Il disagio della ci- viltà) sembra
piuttosto impegnato a rendere conto della genesi della coscienza morale
all’interno della sua generale teoria sulla dinamica psichica, senza vo-
lersi dunque impegnare su di un piano essenzialistico (Freud, 1978). Ma vi
è comunque una vulgata che considera una conseguenza dell’impostazione
psi- canalitica la tesi che le azioni umane individuali non possono
essere viste come frutto di scelte consapevoli, ma sono il risultato
piuttosto di motivazioni inconsce che sfuggono a qualsiasi controllo
individuale. Quando noi rite- niamo di avere di fronte determinate
alternative tra le quali scegliere razional- mente la migliore, in realtà
siamo spinti a percorrere una certa strada da pul- sioni profonde (amore-
odio ecc.) che sfuggono completamente al nostro con- trollo consapevole e
che dettano — anche tenendo conto della nostra storia psicologica personale
— i nostri comportamenti in modo necessario. Una analoga riduzione delle
motivazioni consapevoli ad altre più profonde cause si troverebbe nella
concezione di Carl Gustav Jung e in tutte quelle dottrine che elaborano
una qualche tipologia o caratteriologia. Rispetto a questi approcci
alle azioni umane che negano all’etica un qua- lunque ruolo va mossa una
critica preliminare. Queste tesi hanno un valore se sono presentate come
ipotesi scientifiche, ma se vengono presentate come tali la loro validità
non può essere estesa appunto al di là di quella propria di spiegazioni
empiriche per un campo ben determinato di comportamenti umani. Rendere
conto delle azioni umane secondo una spiegazione evoluzionistica non può essere
presentato — pena l'abbandono del piano scientifico di discorso — come
l’unica e necessaria spiegazione di qualsiasi azione umana, come una
sorta di caratterizzazione essenzialistica e sostanzialistica della na- tura
delle cose. Gli stessi teorici, metodologicamente più avvertiti,
dell’evolu- zionismo — come ad esempio Richard Dawkins (Dawkins, 1992) —
non hanno mancato di temperare in vari modi questa semplicistica
negazione del- l'etica. Da una parte hanno così insistito sull'incidenza
solo statistica e non necessaria delle cause evolutive. Dall'altra hanno
anche riconosciuto una ca- pacità degli esseri umani, non solo di essere
consapevoli dei processi evolutivi, ma di sottrarsi proprio sul piano
procreativo ai meccanismi dettati dall’evolu- zione, Infine si sono
impegnati ad elaborare spiegazioni che rendono conto della superiorità,
sul piano evolutivo, di quelle culture che realizzano al loro interno un
equilibrio selettivo stabile intorno ad abitudini cooperative, ri- spetto
alle culture dominate dal completo egoismo individuale. Una
estensione dunque su di un piano ontologico o metafisico dell’evolu-
zionismo risulta effettivamente incompatibile con qualsiasi altra spiegazione
o interpretazione delle azioni umane, ma in quanto tale rappresenta una
fuoriu- scita dal piano del discorso scientifico e la trasformazione
dell’evoluzionismo in una religione. Non diversamente si può ritenere
indebita la generalizza zione del modello esplicativo proprio della
psicanalisi a tutte le situazioni in cui gli uomini scelgono, decidono e
deliberano. La fertilità della psicanalisi è indubbia laddove è
presentata come una spiegazione di ben precise azioni e di situazioni
patologiche del comportamento umano. Ma non si può se non im-
propriamente estenderla in modo tale che essa pretenda di spiegare tutte
le azioni umane in qualsiasi situazione con le forze e pulsioni inconsce
su cui richiama l’attenzione, Un'altra strada è stata percorsa
sempre più insistentemente negli ultimi due secoli per negare qualsiasi
spazio all'etica. Si tratta qui di quella posizione che sostiene che gli
uomini sono in definitiva mossi solo da motivazioni del tutto personali
ed egoistiche e che dunque cercano sempre e solo la soddisfa- zione dei
loro interessi. È poi molto diffusa la tendenza a caratterizzare questi
interessi in termini strettamente economici. La negazione dell'etica in
questo senso deriva da una concezione essenzialistica dell'azione umana
che identi- fica come unico movente di tutte le scelte la realizzazione
del massimo vantag- gio da un punto di vista economico. Secondo alcuni —
ad esempio Louis Du- mont (Dumont, 1984) — è questo il tipo di prognosi
sulla civilizzazione umana nell'Occidente che troveremmo già in Bernard
de Mandeville (Mande- ville, 1987) e in Smith e che dovremmo
realisticamente fare nostra. La tesi generale è che la realizzazione e il
consolidarsi delle società dominate dalla logica del mercato rende
praticamente impossibile la ricerca da parte di cia- scun essere umano di
obiettivi non strettamenté autointeressati. Vi sarebbe quindi,
paralletamente al progressivo consolidarsi delle strutture delle società
di mercato, una vera e propria morte dell’etica. In luogo di una
spiegazione pluralistica — ancora legittima nel secolo XVII — dell’azione
umana che la riconduceva a ragioni etiche, economiche, di moda ecc. ora
saremmo dunque costretti a fare nostra una spiegazione monistica per la
quale le uniche ragioni delle scelte e decisioni sono economiche, e tra
l'altro quasi mai sotto il con- trollo dell'individuo. Secondo questa
filosofia della civilizzazione sono dun- que del tutto scomparse le
condizioni che permettono azioni mosse da ragioni etiche, altruistiche 0
universalistiche. Ancora una volta una spiegazione che può avere una sua
fertilità se tenuta su di un terreno del tutto limitato finisce poi con
il risultare inaccettabile una volta estesa su di un piano essenzialistico.
Tutte queste concezioni contestano la possibilità dell'etica sulla base
di una pretesa ingiustificata di caratterizzare in termini sostanziali ed
essenziali l'azione umana. La ricostruzione che dell'azione umana viene
offerta da chi ammette l'incidenza delle ragioni etiche è una delle
possibili spiegazioni che restano aperte nella nostra cultura. Certo non
l’unica, forse nemmeno quella più importante e significativa, ma di
sicuro una spiegazione fertile sul piano esplicativo e non priva di forza
prognostica. Se si cerca di rendere conto delle azioni umane sulla base
dell'assunzione che gli uomini sono mossi ad agire anche da ragioni
etiche si riesce — come ha recentemente in vari modi mo- strato Amartya
K. Sen (Sen, 1986, 1988, 1992, 1994) — a rendere conto di alcuni
comportamenti effettivi e a prevedere alcune situazioni future in modo
non diverso (e non meno esteso) di quanto accade con le altre
spiegazioni. 3. Fondazione, giustificazione e spiegazione:
l’epistemologia dell'etica. 3.1. Dalla meta-etica
all'epistemologia. — La ricerca rivolta a identificare la natura della
morale, il senso delle nozioni che operano nell'etica, rappre- senta un
passaggio preliminare prima di affrontare un altro genere di que- stioni
decisivo per l'etica, quello relativo alle vie disponibili per fondare,
giu- stificare, o eventualmente spiegare, le scelte e i giudizi
normativi. Sapere che tipo di domande ci poniamo quando siamo alla
ricerca di ciò che è bene © giusto fare in una data situazione è appunto
preliminare — da un punto di vista logico e concettuale — per arrivare a
individuare le procedure mediante le quali si può trovare la risposta
adeguata. Rendiamo dunque conto in questo paragrafo delle diverse
linee lungo le quali si è risposto al problema dei modi in cui si possono
conoscere, fondare 0 giustificare le norme e i valori con cui l'etica ha
a che fare. Nel corso del se- colo XX vi è stato, prima, uno spostamento
deciso dal problema di come sono conoscibili i valori etici, a quello di
come sono fondabili i nostri giudizi normativi e le nostre decisioni
pratiche. Successivamente l'elaborazione filo- sofica ha visto affermarsi
una prospettiva che in luogo della tesi della fonda- bilità delle
conclusioni etiche ha preferito limitarsi a sostenere la possibilità di
giustificarli o di argomentare pro o contro i valori in gioco. In questo
para- grafo renderemo anche conto di un altro approccio che si è andato
sempre più consolidando nella riflessione etica del secolo XX rivolto non
più a fon- dare o giustificare le conclusioni normative, quanto piuttosto
a spiegare la ge- nesi dell'etica e delle distinzioni che in essa vengono
istituite. Quest'ultimo approccio che abbandona le pretese di elaborare
criteri gnoseologici ed epi- stemologicì per passare ad un'analisi
propriamente esplicativa non coinvolge solo le posizioni (di cui abbiamo
reso conto nel $ 2.7) di coloro che negano la validità delle distinzioni
etiche. Un analogo approccio esplicativo troviamo in chi occupandosi
dell'etica filosofica si rifiuta di passare sul piano più diretta- mente
prescrittivo e normativo, fissando così i limiti dell'intervento
riflessivo nella determinazione della natura dell'etica, dei tipi di
procedure gnoseologi- che ed epistemologiche che essa coinvolge e dei
meccanismi genetici che l'hanno costituita. Nel rendere conto
dei diversi modelli gnoseologici ed epistemologici rico- noscibili
nell’etica moderna e contemporanea mescoleremo ancora la prospet- tiva
storica con quella critica e teorica. Per procedere con questo bilancia-
mento delle due prospettive le partizioni di questo paragrafo non
seguiranno l'ordine di quelle esposte nel precedente paragrafo, né
riprenderanno in modo esclusivo le distinzioni già fissate a livello di
meta-etica. Dal punto di vista gnoseologico ed epistemologico alcune
delle partizioni fatte valere sul piano meta-etico risultano infatti o
troppo strette o troppo larghe, nel senso che un approfondimento
analitico permette di riconoscere diverse procedure epi- stemologiche
alla base della stessa concezione meta-etica o procedure episte-
mologiche analoghe laddove siamo costretti a tracciare delle distinzioni sul
pia- no meta-etico. Il lettore si accorgerà che il quadro precedentemente
delineato di concezioni meta-etiche trova comunque un riscontro in questo
paragrafo. 3.2. La conoscibilità della legge divina. — Come si è
già avuto modo di sottolineare il secolo XVII rappresenta un punto di
riferimento essenziale per chi voglia rendere conto dello sviluppo
dell’etica teorica nel senso in cui ne stiamo trattando in questo
scritto. Numerosi pensatori riconoscono che le so- luzioni a proposito
dell'etica devono essere tali da poter essere accettate da esserti umani,
finiti razionali, che siano in grado di ripercorrere la strada che viene
ad essi indicata per superare coniflitti e disaccordi. Questa prospettiva
di ricerca sull’etica e sulle sue basi epistemologiche e gnoseologiche è
ad esem- pio del tutto operante in Cartesio, che però non la percorre
arrestandosi alla sua soglia. Infatti Cartesio non sottopone anche le
verità etiche all’analisi in termini di dubbio e di ricerca della
certezza a cui egli sottopone le altre verità, e proprio in quanto non
intraprende tale indagine si arresta a quella che lui stesso chiama una
«morale provvisoria». Una morale assunta acriticamente dalla tradizione e
che andrà confermata o sostituita dopo che si sarà percorsa
sisternaticamente la strada della ricerca critica sulle verità morali. Questa
ri- nuncia dichiarata a percorrere una strada fondazionale non esclude,
del resto, la presenza nell'opera di Cartesio di una vasta ricerca sulle
basi antropologi- che della vita morale e una rivisitazione, per molti versi
scettica, delle conce- zioni tradizionali di virtù e felicità (Canziani,
1980). Una ricerca sulle basi razionali dell'etica viene invece
esplicitamente av- viata, nel secolo XVII, da pensatori come Hobbes e
Locke. Negli scritti di Locke troviamo in realtà percorse diverse
strategie gnoseologiche ed episte- mologiche per l'etica e il suo
problema fondamentale fu proprio quello della conoscibilità della legge
morale e degli articoli della fede religiosa (Colman, 1983; Fagiani,
1983). Locke dunque affronta sistematicamente la questione di come sia
conoscibile la legge morale naturale in un contesto che assume che la
legge naturale è un comando divino. Dopo avere ricostruito analiticamente
diverse strategie alternative mediante le quali si potrebbe giungere a
cono- scere tale comando Locke finisce poi però con il dichiarare la loro
inadegua- tezza. Possiamo quindi ricavare dai suoi scritti sia una
indicazione delle di- verse procedure epistemologiche a cui può fare
appello chi accetta la tesi che l’etica sia in definitiva un insieme di
comandi divini, sia l'indicazione dei limiti propri di queste procedure e
dunque la difficoltà complessiva di dare una base razionale al tentativo
di derivare l’etica da tesi di ordine religioso. Una prima
strategia consiste nel legare la conoscibilità e autorevolezza della
legge morale quale comando divino ad alcuni testi in cui tale legge è
rivelata. Locke si mostra petò consapevole dei limiti presenti in questo
appello ai testi rivelati. Egli riconosce, ad esempio in The
Reasonableness of Christianity, as de- liver'd in the Scriptures (1695,
La ragionevolezza del Cristianesimo), che il ricorso ai testi sacri per
la tradizione cristiana può al massimo valere sul piano peda- gogico e retorico.
Argomenti analoghi possono essere fatti valere per tutte le religioni
positive. Il ricorso ai testi sacri e rivelati può rappresentare un aiuto
e una facilitazione per chi si preoccupi di convincere 0 persuadere
altri, ma non può però rappresentare una via adeguata per giustificare
una conclusione etica per tutti gli esseri umani, Il collegamento della
verità etica conoscibile con la lettura di qualche testo in cui la
divinità ha espresso i suoi comandi — oltre il problema della
molteplicità delle interpretazioni possibili della lettera del testo —
comporterebbe l’assurda conseguenza di considerare tutta quella parte
del- l'umanità che è vissuta prima, 0 vive al di fuori, della rivelazione
come del tutto priva di etica. Una ulteriore conseguenza assurda:
considerare del tutto privi di morale coloro che sono in disaccordo con
noi su alcuni dei punti caratterizzanti la religione rivelata che noi
accettiamo. Lo stesso Locke fa valere una obiezione più generale
nei confronti del ten- tativo di ricondurre la base di validità di una
tesi etica al fatto che si tratti del comando di una certa divinità. Si
tratta di una critica contro il volontatismo di quei teologi che
considerano invece questa strategia come in grado di fondare la moralità.
La critica generale presente negli scritti di Locke — già negli Es- says
(Saggi) del 1664 (Locke, 1973) — è che il fatto di trovare un certo co-
mando espresso in un testo che — più o meno fondatamente — crediamo
espressione della volontà divina è del tutto irrilevante sul piano etico; su
que- sto piano il problema che si pone non è tanto se ci si trova di
fronte ad un comando di qualcuno, quanto piuttosto se ciò che viene
comandato è giusto. I sostenitori dell’origine divina dell’etica hanno
sempre considerato come ne- cessaria e sufficiente la coincidenza tra
volontà divina e legge morale, ma la riflessione moderna e contemporanea
ha invece fatto valere sempre di più l'autonomia dell'etica. Questa
autonomia viene affermata già a livello concet- tuale distinguendo
nettamente le nozioni etiche dalle nozioni che fanno rife- rimento a ciò
che è comandato da qualcuno, sia pure l'Autore della Natura. Il
riconoscimento di tale autonomia ha poi un riflesso sul piano
epistemologico e gnoseologico e porta a fissare con precisione la
diversità delle procedure gnoseologiche con cui si conosce la volontà
divina rivelata nei testi sacri ri- spetto a quelle con cui si conosce la
legge morale valida. Prima di illustrare le vie percorse in
positivo da Locke per cercare di fon- dare razionalmente le conclusioni
etiche soffermiamoci invece su una strada da lui rifiutata. Si tratta di
quella concezione che indica in una particolare coscienza 0 facoltà
morale il modo più sicuro per arrivare a conoscere diret- tamente i
comandi mortali della divinità. Una strategia per fondare e cono- scere
l'etica tuttora molto frequentata e cara ai fautori di una riduzione del-
l'etica alla religione. Per quanto riguarda Locke nel I libro dell’Essay nega
che alla «coscienza» ci si possa appellare come a una prova valida in
morale e la nozione di coscienza viene fatta rientrare nell'armamentario
delle assunzioni innatistiche che non possono avere alcun riscontro sul
piano empirico (Locke, 1971; 92-93). La concezione che Dio stesso ci
comanda direttamente — senza per questo servirsi della rivelazione — la
legge morale, e che noi abbiamo una cognizione diretta di tale legge
attraverso la nostra coscienza, è stata svilup- pata, nel secolo XVII, da
alcuni neo- platonici di Cambridge, e in particolare da Herbert di
Cherbury con la sua dottrina delle notiones comsmunes. La stessa linea fu
poi riproposta nel secolo XVIII su basi nuove da intuizionisti e
sentimentalisti che conservavano un quadro provvidenzialistico. Così
Joseph Butler legava la conoscenza delle verità etiche all’attività
intuitiva di una pe- culiare «coscienza» capace di obbligare e fornita di
autorevolezza, e Hutche- son indicava nel «senso morale» la base di quel
particolare sentimento che ci fa cogliere la virtà in un mondo ordinato
dall’Autore della Natura. Contro la tesi che Dio ci rende noti
direttamente nella coscienza i suoi ordini morali vi sono alcune
argomentazioni già formulate da Locke. L'appello alla coscienza non può
essere certo un criterio definitivo in etica perché dovremmo disporre di
almeno altre due ulteriori specificazioni. In primo luogo un qualche
criterio che ci permettesse di discriminare quei dettami della nostra
coscienza che sono affidabili da quelli che sono errati. In secondo luogo
un qualche fonda- mento che ci autorizzasse a ritenere — laddove
sorgessero disaccordi — che ciò che ci fa conoscere la nostra coscienza è
veramente la legge morale per tutti gli uomini, anche per quelli che con
i loro discorsi e con le loro azioni testimoniano di non trovare nelle loro
coscienze principi analoghi ai nostri. Rifiutata la via della coscienza
Locke invece si impegna positivamente nel cercare di conciliare una
concezione che vede la morale come caratterizzata da comandi divini con
una strategia empiristica. L'accettazione di una episte- mologia e
gnoseologia empiristiche porta Locke ad elaborare una strada indi- retta
di fondazione e giustificazione della legge morale naturale come co-
rando divino. Secondo questa via di fondazione indiretta noi giungiamo ad
accettare il comando morale divino espresso nella legge naturale dopo
avere percorso un ragionamento che ci porta a risalire a Dio come
all'Autore della Natura buono che ha creato gli esseri umani in modo tale
che essi effettiva- mente siano in condizione di ottenere la loro
felicità. Ovviamente questa stra- tegia comporta l’assunzione che ciò che
Dio comanda non può che essere il bene per gli uomini, un passaggio verso
l'accettazione dell’intellettualismo etico che non vede più nella volontà
divina l'unico fondamento del bene e rende del tutto secondario il valore
dei testi rivelati. La strategia di giustifica- zione della validità
della legge naturale morale avanzata da Locke comprende diversi passaggi:
in primo luogo trovando un ordine o un disegno nel mondo si risale a un
autore della natura; poi si postula una natura divina buona e razionale
per cui l’autore della natura non può che volere la felicità degli es-
seri umani; ancora si crede che l’autore della natura non solo abbia
trasmesso agli esseri umani un insieme di leggi naturali, universali ed
eterne, per realiz- zare la loro felicità, ma anche che abbia messo gli
esseri umani in condizioni di conoscere tali leggi con certezza con il
ricorso alle loro facoltà naturali del senso e della ragione; infine si
assume che conoscere tali leggi naturali equi- vale a essere obbligati a
obbedire a ciò che ci richiedono. Le lacune e le cir. colarità presenti
in questi vari passaggi risultavano già evidenti allo stesso Locke che
nel corso di tutta la sua vita si affannò a cercare di ovviare ad esse.
In effetti la procedura di giustificazione lockiana della validità delle
leggi naturali come comandi divini comporta il continuo passaggio dal
piano empi- rico a quello sovrannaturale, dal piano dell'essere a quello
del dovere. Con l’aiuto di questa strategia si potrà al massimo disporre
di ragioni del tutto ipo- tetiche a favore di ciò che noi siamo già
giunti ad accettare come un comando divino del tutto indipendentemente e
prima del ricorso a queste procedure gnoseologiche ed epistemologiche.
Consapevole di ciò Locke presentava nel- l’ultima parte della sua vita il
suo tentativo di elaborare un'etica dimostrativa come una via per
confermare le opzioni morali trasmesse dalla tradizione cri- stiana. Una
volta che cadono le assunzioni che sorreggono l'argomento del disegno e
le pretese sulla bontà provvidenziale dell'Autore della Natura que- sta
strategia sembra crollare, Non c'è più nessuna divinità da cui far dipen-
dere la validità della legge morale, nulla garantisce che l’autore della
natura sia buono piuttosto che malvagio, nulla è più in grado comunque di
farci su- perare l'abisso tra l'eventuale conoscenza di una norma come
comando divino e il nostro accettarla come obbligante. Locke stesso cercò
di superare questo abisso, ma legando la validità e l'efficacia della
legge morale naturale non tanto al riconoscimento che si tratta di un
comando divino in sé giusto, quanto piuttosto al timore per la sanzione
che sarebbe derivata in un'altra vita in caso di infrazione verso di
essa. Ma questo tentativo di agganciare la vali- dità e l'obbligatorietà
di un principio etico a una qualche sanzione che segue una infrazione
verso di esso, è una strategia che non possiamo più percorrere —
indipendentemente dall’accettabilità o meno delle credenze sull’immorta-
lità dell'anima e sull'esistenza di uno stato futuro — ove riconosciamo
l’auto- nomia dell'etica. Fare appello a qualche sanzione ultraterrena infatti
al mas- simo riesce a giustificare o fondare che noi si faccia qualcosa
perché temiamo la sanzione o cerchiamo i premi che una certa autorità
lega a questi compor- tamenti, Ma percorrere questa strada impedisce di
vedere che il piano concet- tuale investito dall’etica è quello che
comporta fare ciò che è giusto o bene fare e non già quello che comporta
fare una certa cosa solo perché teniamo la sanzione di una qualche
autorità (per quanto illuminata} ove non dovessimo obbedire ai suoi
comandi. La fondazione dell'etica attraverso un calcolo prudenziale. —
Un'altra strada percorsa per fondare l'assunzione di un punto di vista
etico è quella che cerca di riconnettere la ricerca individuale del bene
personale con la con- siderazione pet il bene comune. Naturalmente non si
tratta di quelle conce- zioni che sulla base di considerazioni empiriche
e a posteriori concludono che la ricerca del bene personale risulta
essere l’unica via che consente di realiz- zare un incremento del bene
comune. Una concezione del genere è spesso alla base della difesa
dell'economia di mercato e viene attribuita a Smith ed è stata esposta in
modo approfondito da FÀ. von Hayek (Hayek, 1986). Affron- tiamo invece in
questa sezione la questione se si possa o meno fornire un fon- damento
razionale all'esigenza di essere morali: dove si considerano razionali
solo le argomentazioni che rinviano alla soddisfazione di propri interessi
o piaceri e con «morale» si intende il rispetto di qualche regola
generale o norma di cooperazione quali — ad esempio — mantenere le
promesse, rispet- tare i contratti e obbedire alle leggi del proprio
paese. Questa impostazione è presente in modo del tutto esplicito
nelle pagine di Hobbes. Così la risposta che Hobbes dà allo «sciocco
razionale» nel capitolo XV del Leviathan, or tbe Matter, Forme and Power
of a Common-wealth Eccle- siasticali and Civili (1651, Il leviatano;
Hobbes, 1976: 139-143) è rivolta a cer- care di mostrare che, calcolando
sulla base degli interessi in gioco, la salva- guardia di un minimo di
principi etici e cooperativi è vantaggiosa per i diversi individui.
Troviamo dunque nelle pagine di Hobbes il tentativo di elaborare una
giustificazione di ordine prudenziale a favore del riconoscimento dell'op-
portunità di rispettare i principi dell'etica. La razionalità in gioco nel
calcolo prudenziale è stata sistematicamente delineata — nei suoi assiomi
e nelle sue deduzioni — nel corso del XX secolo dalla «teoria della
scelta razionale 0 teoria delle decisioni» (Axelrod, 1985; Resnik, 1990).
Proprio tra i teorici della scelta razionale di questo secolo vediamo
ripresentarsi il problema di Hobbes formulato in un diverso modo (Kavka,
1986). Si tratta cioè di indivi- duare se e in che modo sia possibile
provare la razionalità dell’accettazione di un minimo di regole
cooperative anche quando quest’accettazione sembra es- sere in contrasto
con i nostri interessi più immediati e diretti e ci si trovi in una
situazione in cui un’eventuale nostra defezione unilaterale potrebbe
sfug- gire al controllo altrui. Già in Hobbes troviamo dunque
un tentativo di argomentare a favore dell'accettazione di regole ©
principi etici contro le pretese dello «sciocco razionale» di fare sempre
e comunque ciò che è per lui più vantaggioso e dunque di defezionare o
sospendere la propria fedeltà nei confronti della re- gola o del
principio etico quando ciò è per lui più conveniente o quando comunque può
sfuggire alla sanzione altrui. Torneremo su queste argomen- tazioni
quando — nel $ 4.8 — affronteremo i tentativi di presentare come una vera
e propria teoria etica normativa la teoria della scelta razionale. La
situa- zione dello «sciocco razionale» è molto simile a quella di cui si
occupano i teorici della scelta razionale quando affrontano i problemi
posti dal «dilemma del prigioniero», e si impegnano nell’analisi del
comportamento del free rider. Già Hobbes elaborava alcune argomentazioni
che insistevano sulla rischio- sità di un comportamento di defezione
unilaterale e sulla probabilità di rica- vare un danno nel momento in cui
gli altri — prima o poi — giungeranno a scoprirlo. Negli
ultimi decenni il paradigma hobbesiano è stato in vari modi inter-
pretato e sviluppato da diversi teorici dell'etica. Particolarmente stringente
è stato il modo in cui David Gauthier (Gauthier, 1986) ha cercato di
fondare la preferibilità di avere una morale in luogo di esserne privi
all'interno di quella posizione che ha caratterizzato come
«contrattualismo reale» per distinguerla dal «contrattualismo ideale» di
Rawls (Rawls, 1982). Secondo Gauthier il quadro concettuale di Rawls con
l'assunzione in partenza della validità del principio di equità implica
già l'accettazione di un piano etico e dunque dà per dimostrato quella
che vorrebbe giustificare. Gauthier cerca di elaborare invece una teoria
in cui l'accettazione dell’etica e del contratto sociale origina- rio che
garantisce la vita civile e la cooperazione non viene fatta dipendere da
condizioni ideali presupposte, ma piuttosto dal beneficio che ciascuno
dei contraenti ricava in termini di ragioni prudenziali o di utilità
personale. Il programma di Gauthier è quello di riuscire a mostrare
all’interno della teoria della scelta razionale come sia più conveniente
e vantaggioso essere un «massimizzatore vincolato» dall’accettazione di
qualche principio etico inter- personale, piuttosto che un «massimizzatore
diretto» che tende sempre e solo alla soddisfazione dei propri interessi
immediati. Gauthier elabora tutta una serie di argomenti che fanno
emergere l’ottimalità dei risultati raggiunti attra- verso la via della
massimizzazione vincolata, una volta messi a confronto con le
disponibilità di partenza o con i risultati raggiungibili attraverso la
massi- mizzazione diretta propria di chi procede come un free
rider, Gauthier sostiene che il modo in cui un agente delibera
influenza le op- portunità da lui attese. Così se guardiamo al modo di
deliberare proprio di un massimizzatore vincolato potremo aspettarci che
egli consenta volontaria- mente con i termini di un accordo precedente,
anche se questo comporta che egli così vincoli il diretto perseguimento
dei suoi interessi. Ma sulla base di tali aspettative il massimizzatore
sarà il benvenuto come partner în progetti cooperativi reciprocamente
benefici. Se invece consideriamo il modo di deliberare proprio di un
massimizzatore diretto, da costui non potremo aspettarci che consenta con
i termini dei suoi precedenti accordi a meno che ciò non contribuisca
direttamente a soddisfare i suoi interessi. Ma proprio sulla base di questa
aspettativa sul suo comportamento il massimizzatote diretto sarà
estromesso come partner nelle iniziative cooperative in quanto non si può
ge- muinamente avere fiducia in lui. La conclusione di Gauthier è dunque
che il massimizzatore vincolato può aspettarsi di godere di opportunità
che invece il massimizzatore diretto può solo prevedere che gli saranno
negate. Si tratta di una differenza che evidentemente opera a tutto
vantaggio del massimizzatore vincolato. Sulla base di questa
argomentazione Gauthier conclude che si può ritenere razionale
incorporare nelle proprie deliberazioni i vincoli con cui si è
razionalmente concordato come filtri tra possibili azioni tra cui scegliere, Ed
è chiaro che qui razionale significa un calcolo con un saldo positivo a
proposito della soddisfazione dei propri interessi. La teoria
di Gauthier si presenta come molto potente in quanto presume di potere
dimostrare la razionalità dell'assunzione di vincoli etici come mezzo per
realizzare un surplus di soddisfazione dei propri interessi. Ma
l'elabora- zione di Gauthier va incontro a una serie di difficoltà che
mostrano come sia ancora irrisolto il tentativo di fondare in termini
prudenziali la preferibilità di una vita etica. Infatti da una parte,
legando il saldo attivo che ricava il massi- mizzatore vincolato alla
fiducia di altri nei suoi confronti, Gauthier sembra dovere fornire un
criterio sicuro per discriminare tra situazioni in cui la fidu- cia è
bene riposta e casi in cui invece una tale fiducia è errata. Un criterio
del genere non viene offerto da Gauthier, ma si può ipotizzare che esso
non sia disponibile e che, nel caso in cui si tratti di fiducia da
concedere a un qualche partner, si debba oscillare tra una valutazione
diretta, caso per caso, 0 una assunzione di trasparenza delle motivazioni
del partner o una qualche circo- larità. L'altra difficoltà di ordine
generale dell’argomentazione di Gauthier (e più in generale di quelle
strategie che tentano di giustificare l’etica in termini prudenziali o di
salvaguardia dei propri interessi) sta nella pretesa di potere dimostrare
che il surplus di ottimalità conseguente all'assunzione di un vin- colo
etico riguardi tutti i possibili contraenti con qualsiasi interesse di
par- tenza. Gauthier si impegna ad elaborare una concezione non
riduzionistica di «interessi» (concerns) non definendoli in termini
strettamente economici, ma lastiandone indeterminato il contenuto
mediante un rinvio alle preferenze di ciascuno. La cooperazione e dunque
l'etica secondo Gauthier rende possibile soddisfare con esiti migliori i
propri interessi di partenza — di qualsiasi tipo essi siano — che vanno
quindi vincolati secondo le aspettative degli altri. Re- sta difficile da
capire come si possa mettere su uno stesso piano interessi che esigono
soddisfazioni molto differenziate e, ciò che più importa, vincoli ben
diversi. È difficile cioè riuscire a capire come si possa assemblare e
conside- rare vincolabili alla stessa stregua preferenze di partenza per
beni diversi (po- niamo, beni condivisibili e beni esclusivi). Difficile
capire come si possa co- struire in modo unitario il «massimizzatore
vincolato» tenuto conto che in genere gli interessi degli esseri umani —
si intende dello stesso essere umano in tempi diversi — sono molteplici e
probabilmente bisognosi di un qualche ordinamento interno. Ma la
difficoltà più generale riguarda la pretesa della teoria di Gauthier di
fornire la mossa vincente per convincere chiunque — solo sulla base di un
calcolo strettamente interessato — della convenienza a interiorizzare una
disposizione a rispettare gli accordi. Sembra opinabile che questa mossa
possa risultare efficace anche laddove per esempio non si avesse già una
disposizione a rispettare gli accordi o non vi fosse una qualche base
motivazionale, emotiva o psicologica, sulla quale fare leva per radicarla o
raf- forzarla. Vedremo poi in una sezione successiva (cfr. $
4.8) un'altra difficoltà intrin- seca all'approccio prudenziale o della
teoria della scelta razionale. Vedremo infatti che per restare coerenti
con questo approccio finiamo, in alcune situa- zioni, con il tendere a
risultati niente affatto ottimali. 3.4. La natura umana come
fondamento dell'etica: la via metafisica. — Vi sono però strategie per la
fondazione dell'etica molto più antiche di quelle che abbiamo appena
ricordato e ad esse si continua a ricorrere anche nel- l'etica moderna e
contemporanea. Ad esempio quelle strategie che ritengono che nella natura
umana siano rintracciabili dei caratteri e delle proprietà che fondano
una particolare considerazione e rispetto per gli esseri umani, conse-
guenza del riconoscimento di uno status privilegiato e unico dell’uomo
nel- l'universo. Abbiamo visto sopra ($ 2.5) che vi sono cacatterizzazioni
dell'etica che vedono al suo centro una legge naturale razionale e dunque
concepiscono il comportamento morale come realizzazione di alcuni tratti
propri delia na- tura umana. È costitutivo di questa strategia
argomentativa il tentativo di de- rivare ciò che si deve fare da quella
che è la natura umana in quanto tale. Due passaggi sono
caratteristici di questa strategia sul piano fondazionale. In primo luogo
questa strategia implica che si abbracci una forma di cogniti- vismo essenzialistico
e può essere percorsa solo da chi ritenga di disporre di una concezione
che coglie in modo assoluto e compiuto la natura umana. In effetti le
etiche che procedono lungo questa strada presentano come loro pre- messa
una qualche definizione sostanziale della natura umana e in genere ren-
dono conto del suo posto nell'universo in termini metafisici o ontologici. Troviamo
percorsa questa linea nella tradizione aristotelico-tomistica di cui Jac-
ques Maritain ha reso conto, nel XX secolo, in modo simpatetico
(Maritain, 1971). In questa strategia il contenuto dell'etica viene
derivato da una defini- zione dell’uomo concepito come persona con una
propria peculiare natura so- stanziale che ne garantisce la dignità. La
difficoltà per questa strategia sta nella discutibilità della
caratterizzazione della natura della persona, una na- tura della quale
linee di pensiero diverse hanno reso conto in termini dei tutto
alternativi e incompatibili (come argomentano Scarpelli, 1985: 181-203;
Preti, 1989: 63-95). Nell'elaborare la concezione della persona morale si
procede di solito o impoverendo l'essere umano di tutti gli elementi
concreti, o presen- tando l'individuo umano in vesti tanto astratte e
ideali che una tale rappresen- tazione finisce con il non avere alcuna
presa sul piano delle azioni concrete. Un'altra via che pone al centro
della morale una definizione della natura per- sonale dell’uomo è quella
che connota la persona con una serie di tratti che non sono altro che
l’ipostatizzazione di assunzioni di ordine ideologico o reli- gioso. Una
tale costruzione — e conseguente uso — della nozione della per- sona come
fondamento dell'etica è ad esempio presente nel XX secolo nei documenti
ufficiali su questioni morali della Chiesa Cattolica. Un altro
limite di questa impostazione sta nel commettere in modo evi- dente l'errore
logico di ridurre ciò che deve essere a ciò che è. Si tratta di quella
«fallacia naturalistica» ovvero di quella offesa alla cosiddetta «legge
di Hume» sulla quale ritorneremo più distesamente più avanti ($ 3.11).
Infatti le diverse caratterizzazioni della natura umana in termini
ontologici e sostanziali non fanno che richiamare ciò che è già proprio
di tutti gli esseri umani. Ma allora non si riesce a capire in che modo
da ciò che è già proprio dell’uomo in quanto tale si possa ricavare ciò
che l’uomo dovrebbe fare e che in quanto dovrebbe ancora realizzare non
può logicamente già essere. Proprio questa indebita riduzione del dovere
all'essere è stata al centro di una serie di conte- stazioni contro tutte
le forme di riduzionismo dal Settecento in avanti. Tali critiche sono
particolarmente decisive contro quelle forme di ragionamento che
presumono di potere conoscere quale sia il bene 0 il dovere per gli omini
ricorrendo a una definizione di quella che è la loro natura essenziale. In
gene- rale va quindi detto che chi procede per la strada di una
fondazione ontolo- gica dell’etica compie tutta una serie di errori
logici; il tentativo di ridurre i valori a fatti ovvero a realtà
empiriche o metafisiche; il non cogliere la pecu- liare funzione
prescrittiva e normativa che è propria di tutti i giudizi etici;
l'assimilare le procedure mediante cui si può giustificare o argomentare
in etica a quelle seguite dalle scienze empiriche o da presunte
discipline metafi- siche per descrivere o spiegare il mondo come è.
La natura umana come fondamento dell'etica: la via empirica. — Vi è stata
un'altra strategia che ha cercato di indicare come procedura propria
della fondazione della morale un esame della natura umana. In questa
linea non ci si propone di risalire a una qualche definizione metafisica
o ontologica della natura umana, ma di cercare di cogliere, attraverso
l’esperienza e l'osser- vazione, quale è per gli esseri umani il
comportamento più consono ed ade- guato. Anche questa via di fondazione
epistemologica dell'etica si presenta come destinata al fallimento. Da
una parte la ricerca empirica sulla natura de- gli uomini ben
difficilmente potrà ottenere dei risultati di ordine universale, ma
finirà sempre con l’identificare la natura umana con alcuni tratti propri
degli esseri umani in un determinato momento del tempo e in una ben
precisa cultura. Inoltre questa strategia non può sfuggire alla fallacia
tipica di tutte le forme di naturalismo che riducono ciò che deve essere
a ciò che è. Tra le concezioni che hanno cercato di sviluppare
sistematicamente il ten- tativo di provare attraverso un’indagine
empirica che cosa è bene o giusto si colloca certamente l'evoluzionismo
erede di Darwin, specialmente nella forma che esso ha preso con Herbert
Spencer. Berirand Russell agli inizi di questo secolo negli Elements of
Ethics (1910, Gli elementi dell'etica) criticava, in quanto
riduzionistica, la pretesa di ricavare indicazioni etiche da un presunta
linea dell'evoluzione umana empiticamente corroborata. Nella concezione
evoluzionistica, rilevava Russell, la strategia argomentativa procede
attraverso continui passaggi dal piano del riscontro empirico a quello
delle definizioni implicite. Così laddove si identifica ciò che è giusto
e ciò che è buono con la linea evolutiva che si ritiene avere scoperto
empiricamente in realtà si è intro- dotta una definizione etica per cui
ciò che è più evoluto è moralmente supe- riore, Proprio per queste
difficoltà generali a cui va incontro l’evoluzionismo etico dopo l’ubriacatura
dei sociobtologi, neo-evoluzionisti epistemologica- mente avvertiti come
R. Dawkins (Dawkins, 1992; cfr. $ 2.7) rifiutano di pre- sentare le loro
concezioni come una fondazione dell'etica. Tra l’altro non è certo
possibile percorrere questa strategia con un minimo di utilità pratica,
ovvero rintracciare in termini empirici la soluzione a un problema etico
con- nettendola con un corso di azioni migliore evolutivamente, ovvero
che favori- sce la sopravvivenza del genere umano o del gruppo di cui
facciamo parte biologicamente. Non vi sono procedure empiriche che
consentono di arrivare a confrontarsi con un’aliernativa secca tra ciò
che favorisce la sopravvivenza del genere umano e ciò che l’ostacola. Non
esistono di certo sicuri metodi empirici per decidere se una certa linea
di comportamento è più o meno in contrasto con i bisogni della specie
umana. Né può rappresentare una fuoriu- scita dalle difficoltà etiche con
cui ci confrontiamo, sostenere che però a posteriori può essere poi dimostrato
— ammesso che ciò sia possibile — che ciò che gli uomini fanno è quanto
rende possibile la loro sopravvivenza. Si tratta di procedure dubbie
perché finiscono con il razionalizzare catastrofi e guerre e comunque si
tratta di ricostruzioni che vengono date dopo che le azioni sono state
compiute e che poco dunque possono aiutarci sul piano delibera- tivo o
della costruzione di una qualche concezione etica. Difficoltà
insormontabili si presentano per tutti gli altri tentativi di ricon-
durre il bene e il giusto a delle proprietà del mondo che, non
diversamente dalla forza e dall’energia, possono essere verificate,
misurate e quantificate. Ma più in generale e su un piano meno materiale
sono destinati al fallimento tutti quei tentativi di ricondurre le
procedure di fondazione dell'etica a quelle in uso in scienze, quali la
psicologia e la sociologia, più direttamente rivolte allo studio degli
uomini. La via di ricondurre l'etica alla psicologia è stata più volte
percorsa nel corso del secolo XX. Così procedeva Moritz Schlick nei suoi
Fragen der Ethik (1930, Problemi di etica) quando indicava nel bene ciò
che è considerato più idoneo ai bisogni di un individuo che vuole
mantenere l'armonia con il gruppo sociale di cui fa parte. Una
definizione che, ammesso sia in grado di suggerire un qualche criterio di
valutazione, dà per scontata la preferibilità — sempre e comunque —
dell'armonia rispetto alla disarmonia, con ovvie implicazioni
conformistiche. Un più recente tentativo di ricondurre le procedure della
deliberazione etica a quelle in uso nella psicologia è stato fatto da
Richard Brandt in A Theory of the Good and Right (1979, Una teoria del
bene e del giusto). Brandt si è sforzato di mostrare come il processo
deli- berativo dell’etica sia assimilabile alla tecnica usata nella
terapia psicologica cognitiva per mettere alla prova i desideri e gli
obiettivi sulla base di una va- lutazione della loro razionalità. Brandt
sostiene che nell’etica come nella tera- pia cognitiva si tratta di
valutare razionalmente se i desideri che abbiamo sono o meno adeguati:
ovvero tali che li confermiamo avendo tutte le informazioni empiriche
necessarie, tali che ci propongono obiettivi per realizzare i quali
disponiamo dei mezzi necessari e infine tali che non comportano delle
conse- guenze inaccettabili. Questi sono certamente passaggi a cui si può
ricorrere quando è in corso una deliberazione etica, ma va aggiunto che
parte dell’etica sembra consistere nel valutare se noi riteniamo che
determinati desideri deb- bano essere accettati da tutti coloro che si
trovino in situazioni analoghe. I riscontri empirici ci dicono quali
desideri gli uomini hanno, ci presentano le distribuzioni statistiche di
questi desideri, ma nulla dicono su quali siano i desideri da
privilegiare e quelli da mortificare, quelli da rafforzare e quelli da
controllare ad ostacolare. Non mancano coloro che non si fanno
influenzare da questi dubbi sulla validità conclusiva in etica di un
metodo di deliberazione e giudizio che cerchi di controllare
empiricamente come stanno le cose per quanto riguarda gli uo- mini e le
situazioni in discussione. Fautori di un naturalismo ingenuo, sosten-
gono che noi di fatto già sappiamo che certe azioni sono negative e
malvagie (per esempio l'assassinio o il furto) e che certe istituzioni
(per esempio i con- tratti, il mantenimento delle promesse e la fedeltà
verso un certo governo) sono giuste. Si può ammettere che questa
strategia naturalistica aiuti a indivi- duare inclinazioni e tendenze ira
le più radicate negli esseri umani, ma il punto è che tali inclinazioni e
tendenze non possono essere giustificate con la mera argomentazione che
di esse già disponiamo di fatto, o che sono univer- salmente presenti tra
gli uomini (il che tra l'altro non si riesce a dimostrare). Ancora una
volta si fa appello a predisposizioni o inclinazioni così generiche e
indeterminate che il rinvio ad esse ci può essere di scarso aiuto nel risolvere
i concreti problemi etici di fronte ai quali ci troviamo. Così, ad
esempio, nes- suna indagine empirica sulla natura umana potrà riuscire a
risolvere la que- stione se vanno considerati o meno come omicidi alcuni
casi controversi (per esempio l'aborto nelle prime settimane dal
concepimento, o alcuni casi di eu- tanasia volontaria). Inoltre forse
egualmente naturali e per così dire universali si presentano inclinazioni
all’aggressività e predisposizioni all’odio, al risenti- mento, e alla
gelosia che non risultano certamente giustificate per la loro dif-
fusione e riscontrabilità empirica. 3.6. L'appello a una ragione
universale come via per la fondazione del- l'etica. — Un'altra concezione
epistemologica per l’etica è quella che fonda le sue conclusioni non
tanto genericamente sulla natura umana, quanto più specificamente sulla
ragione umana, ovvero su quello che è considerato il tratto più peculiare
degli uomini. Così larga parte del giusnaturalismo del XVII secolo si
presenta come un vero e proprio giusrazionalismo. Grozio e Pufendorf si
impegnarono, infatti, nel tentativo di edificare il diritto, e più in
generale l'etica come scienza razionale dimostrativa. Questo stesso tentativo
è presente anche — accanto ad altre vie — in Locke. La possibilità di
edificare la morale come scienza dimostrativa viene fatta dipendere da
Locke dalla na- tura del tutto artificiale delle principali nozioni
morali (come egli sostiene si tratta di «modi misti»), ciò che permette
dunque di stringere con un collega- mento logicamente necessario tutti i
giudizi in cui ricorrono nozioni morali (Locke, 1971: 632-636). Ma questo
rigore dell’etica, questa sua struttura di- mostrativa, e la sua completa
dipendenza dalla razionalità, è possibile solo in quanto si sono svuotate
di qualsiasi portata realistica le nozioni etiche ricavan- dole
integralmente da convenzioni linguistiche che permettono di dare vita a definizioni
essenziali di tipo arbitrario. In generale questa forma di razionali smo
etico si unisce con una qualche fondazione contrattualistica dei principi
dell'etica nel senso di un qualche accordo sulla definizione delle sue nozioni
centrali. Ma la procedura contrattualistica può fondare una validità
solamente convenzionale — ovvero limitata a coloro che accettano di
sottoscrivere il patto — e dunque le basi della conseguente scienza etica
dimostrativa risul- tano del tutto esili (cfr. $ 3.8). Il
razionalismo seicentesco ha presentato anche tentativi di dare una por-
tata realistica alle conclusioni etiche scoperte mediante la ragione. Così
ad esempio in autori come Samuel Clarke e William Wollaston la ragione si
pre- senta come la facoltà che permette di scoprire la verità in etica.
Questo è pos- sibile solo in quanto si ritiene che il bene e il male, il
giusto e l'ingiusto siano identificabili individuando quali sono le
relazioni adeguate alle cose in se stesse. Nel caso di Clarke il giusto
non è altro che una relazione di adegua- tezza tra l’azione e lo stato
delle cose; per Wollaston il giusto non è altro che un collegamento
veritativo tra l’azione e lo stato complessivo delle cose (così come
l’ingiusto è dichiarare, con la propria azione, il falso). Ma questa pro-
spettiva che riconduce il giusto e l’ingiusto a un giudizio di adeguatezza
o inadeguatezza tra le azioni e lo stato delle cose comporta due
assunzioni che saranno fortemente contestate nel pensiero successivo. Da
una parte la con- vinzione che gli esseri siano ordinati secondo una
gerarchia ben definita — la grande catena degli esseri — che distingue
nettamente tra livelli separati on- tologicamente e forniti di valore
diverso. Solo sulla base di questa assunzione si può ad esempio,
all’interno di questa prospettiva, considerare inadeguata quella azione
in cui l'animale sia preferito a un essere umano, o un essere umano
trattato in modo inadeguato al suo status ontologico. Questa tesi della
gerarchia tra gli esseri è contestata decisamente da tutta la ricerca
evoluzioni- stica del XIX e XX secolo, Non necessariamente la scala
evolutiva corri- sponde a una scala di valore; non mancano inoltre i casi
di confine difficil- mente decidibili; nulla vieta di riconoscere valore
anche agli esseri che si pre- sume siano al fondo della scala degli
esseri. La seconda assunzione dei razionalisti realisti è che dare un
giudizio sulla giustezza o meno di un atto {o di un evento) si possa
identificare con l’individuare una qualche relazione tra le cose. Questa
pretesa è criticata e dissolta da Hume che mostra con chia- rezza (Hume,
1987: I, 481-497) come un giudizio di relazione tra cose non possa in
alcun modo esaurire lo spazio di un giudizio morale. È infatti indub- bio
che relazioni dello stesso tipo di quelle in gioco nell’incesto sono
rintrac- ciabili tra animali, o che tra le piante ritroviamo collegamenti
analoghi a quelli che si hanno nel parricidio, eppure non possiamo certo
concludere con un giudizio morale sulle «azioni» degli animali e delle
piante. La pretesa di ri- durre i giudizi morali a formule matematiche o
a conclusioni razionali dimo- strative risulta del tutto fallace.
Un tentativo — ma in una forma del tutto diversa dalle precedenti —
di fondare l’etica sulla ragione è stato anche quello di Kant e di coloro
che ne riprendono il razionalismo etico. In questo caso si sostiene che è
la stessa ra- gione pratica o volontà pura, in quanto tale, che implica
certi principi morali che vanno rispettati se si vuole dare coerenza alle
nostre conclusioni etiche. Ciò che è bene e ciò che è giusto può essere
quindi individuato conformando la nostra scelta e decisione alle
presupposizioni che vincolano qualsiasi vo- lontà umana razionale. La
razionalità pratica in quanto tale implica certi prin- cipi formali che
sono rispettati solo da coloro che compiono le azioni effetti vamente
giuste o ingiuste (Kant, 1970a; Landucci, 1993). È questa la strategia fondazionale
seguita da Kant per ricavare le diverse formulazioni dell'impera- tivo
categorico (si veda $ 4.6) dalle regole trascendentali che presiedono
alla volontà umana. Critiche alla procedura epistemologica alla base
dell'etica kantiana vengono mosse su due piani. In primo luogo si obietta
che la pro- spettiva kantiana in realtà concepisce la volontà umana
in termini sostantivi e dunque inttoduce fin dall’inizio nelle sue
analisi apparentemente formali e neutrali del volere umano dei tratti che
non possono che portare a un ben preciso esito morale. In secondo luogo
viene obiettato che un mero appello alla coerenza formale è del tutto
inefficace in etica perché alla costrizione in gioco nell’appello alla
coerenza si può sempre sfuggire rifiutandosi di consi- derare come
effettivamente insostenibile uno stato di incoerenza. In questa
rivisitazione del razionalismo etico faccio dunque mia la pro- spettiva
critica che rileva che la ragione in quanto tale può solo permetterci di
trarre delle conclusioni che si esprimono in quelle che chiameremo
deduzioni o giudizi analitici. Ma se così stanno le cose ciò che è
eticamente rilevante o è già dato nelle premesse del nostro discorso — e
allora occorrerà spostare la discussione su come sono state costruite
queste premesse — o non potrà certo essere raggiunto ricorrendo al solo
aiuto della deduzione razionale. La razio- nalità e la ragione umana in
quanto tali non solo risultano eticamente vuote, ma se si guarda poi alla
ragione come facoltà intellettuale questa presenta l’in- sufficienza più
generale, dal punto di vista fondazionale, di portare a conclu- sioni ©
esiti che non risultano direttamente motivanti. Scoprire che vi è una
certa relazione tra le cose, o che date certe premesse se ne ricavano per
via analitica determinate conclusioni è cosa ben diversa dall'essere
mossi a fare ciò che è bene, giusto, doveroso fare. La ragione può dunque
solo aiutarci a identificare ulteriori situazioni a cui estendere i
nostri principi etici, una volta che noi già abbiamo — sulla base delle
nostre sensazioni, emozioni e pas- sioni — discriminato tra quello che
approviamo 0 disapproviamo, apprez- ziamo o svalutiamo. 3.7.
Il ricorso a una facoltà morale per la fondazione dell'etica. — Il col.
legamento con la ragione umana — concepita come la parte migliore e più
alta, quasi una patte divina, della natura umana — è spesso sembrata la
via maestra per garantire alle conclusioni dell'etica sia una strategia
peculiare sia una superiorità rispetto a tutto il resto. Ma nel pensiero
moderno e contem- poraneo la consapevolezza dell’autonomia della morale
ha portato ad abban- donare questa strada. Questa esigenza di riconoscere
l'autonomia dell'etica veniva già raccolta da Kant, sia pure in un quadro
generalmente razionali. stico, attraverso l'identificazione di una
peculiare razionalità pratica. Ma altri pensatori hanno preferito
incamminarsi sulla strada di una derivazione del- l'etica e delle
distinzioni in essa in gioco da una facoltà ad doc del tutto pecu- liare
ed irriducibile sia alla ragione o intelletto sia ai vari sensi che
contribui- scono a dare agli uomini il bagaglio delle loro
esperienze. La strada dell'individuazione di una vera e propria
facoltà ad hoc per la vita morale è stata percorsa in modo sistematico e
nel dettaglio da Hutcheson (Hutcheson, 1725). Nei suoi scritti infatti
egli presenta articolatamente uno specifico «senso morale» che permette
di cogliere direttamente le distinzioni morali e che non è riducibile né
alle operazioni dell'intelletto, né agli altri sensi. La ricostruzione
che Hutcheson fornisce del senso morale come facoltà del tutto peculiare
che permette di fondare oggettivamente le conclusioni eti- che sembra
giustificare l'attribuzione a questo pensatore di una concezione
intuizionistica (Norton, 1982). In definitiva il senso morale di Hutcheson è
in grado di cogliere direttamente delle vere e proprie qualità delle
azioni e situa- zioni naturali da giudicare, Hutcheson si impegna anche a
ricostruire il modo in cui proprietà e qualità etiche sono collegate
necessariamente con le altre proprietà oggettive e reali delle cose di
cui abbiamo esperienza. Dunque in Hutcheson possiamo trovare un quadro
intuizionistico che vedremo ripreso, al di fuori di alcune pretese
sensistiche, nel secolo XX. Infatti intuizionisti come Sidgwick e
Moore {o in parte H. Prichard, A. Ewing e D. W. Ross; si veda Hudson,
1980: 74-104) insisteranno nel tro- vare nel campo dell'etica la presenza
di peculiari proprietà non-naturali, ben distinte dalle qualità naturali
ordinarie, che solo una intuizione del tutto spe- ciale può cogliere. La
strategia di fondazione propria dell’intuizionismo etico viene criticata
in quanto perde di vista che al centro dell'etica non c'è tanto la
questione di riuscire a cogliere la presenza di questa o quella proprietà non-naturale
— sia poi questa proprietà considerata come sopravveniente o come una
accanto a quelle naturali —, quanto piuttosto di essere motivati o
sentirsi obbligati a fare certe cose considerate buone, giuste o
doverose. Natural- mente questa difficoltà può essere supetata sostenendo
che le proptietà non- naturali con cui l'intuizione etica ci mette
direttamente in contatto si presen- tano come costitutivamente motivanti
e obbliganti. Ma un aggiustamento del genere non sembra nulla di più che
uno stratagemma convenzionalistico. Per ovviare a questa difficoltà
è stata elaborata una strategia — già in parte riconoscibile secondo
alcuni interpreti negli scritti di Hutcheson — che con- cepisce la
facoltà in gioco nella conoscenza morale non tanto come uno stru- mento
intellettuale e conoscitivo di registrazione e individuazione, quanto
piuttosto come essa stessa emotiva o sentimentale e dunque motivante e
ca- rica di energia attiva. In questa linea si collocano tutte le analisi
sviluppate a proposito dell'etica dai sentimentalisti del Settecento come
ad esempio Shaf- tesbury, Hume e Smith. Ma in questa stessa direzione
vanno le analisi di co- loro che nel XX secolo sostengono (come è il caso
di David Wiggins, 1987 e John McDowell, 1981) sia rintracciabile
nell’etica una peculiare sensibilità che risponde appunto con una
qualificazione di valore a certe azioni o situazioni. La strategia
epistemologica del sentimentalismo sembra però fuoriuscire dal quadro
fondazionale e muoversi piuttosto in quell'orizzonte più moderata- mente
giustificativo 0 esplicativo di cui renderemo conto nelle successive se-
zioni di questo paragrafo. Infatti questa sensibilità peculiarmente
morale si presenta come qualcosa che va ricostruita e delineata nella sua
specificità attraverso un esame a poste- riori degli esseri umani.
L'appello poi a questa base di giustificazione non per- mette certo di
edificare giudizi etici forniti di quei caratteri di necessità e uni-
versalità definitiva a cui tendono invece coloro che si muovono in un
oriz- zonte fondazionale. 3.8. La giustificazione
procedurale delle opzioni etiche: il contrattualismo. — Rifiutando la
strada di una fondazione assoluta e aprioristica dell'etica vi sono
alcune concezioni che considerano le opzioni etiche come esiti a cui si
può arrivare dopo avere seguito una determinata procedura razionale.
Percor- rono questa strada quei pensatori che sul piano meta-etico
considerano l'etica € la morale come un universo di principi e norme
frutto di decisioni 0 scelte individuali e intersoggettive. Questa linea
di giustificazione è propria ad esem- pio del contrattualismo etico. Il
contrattualismo è stato inizialmente presen- tato — specialmente nel XVII
e XVIII secolo da pensatori come Hobbes, Locke, J. J. Rousseau e Kant —
come una teoria mediante la quale rendere conto della genesi della società
civile e delle istituzioni politiche (Gough, 1986). Ma il ricorso a
qualche forma di contratto è stato spesso presentato anche come una
procedura in grado di dirimere in generale i disaccordi pub- blici su
tutti.i tipi di distinzioni etiche. In particolare nel XX secolo il
contrat- tualismo è stato ripreso e sviluppato, ad esempio da Rawls e
Gauthier, come la teoria etica e la procedura di giustificazione di
regole e principi capaci di impostare meglio le questioni di giustizia
sociale. In questa sede ci limitiamo a presentare sinteticamente le
concezioni di Hobbes e di Rawls viste come due forme tipiche di tentativi
di derivare la giustificazione delle conclusioni etiche da procedure
contrattuali. In realtà il contrattualismo si lega strettamente alle
forme di giustificazione prudenziale di cui abbiamo dato conto nel
paragrafo 3.3. Le differenze che qui richiameremo non riguardano il tipo
di ragiona- mento — in genere appunto prudenziale — che porta ad
accettare il contratto come una procedura idonea per risolvere i
contrasti etici. Le differenze con- cemono piuttosto il contesto in cui
la procedura contrattuale interviene, le sue implicazioni e le
conseguenze che se ne ricavano per quanto riguarda il carattere
vincolante degli esiti. Nel caso di Hobbes il ricorso a una procedura
contrattuale in etica si svi- luppa dopo la presa d’atto
dell’impossibilità di trovare una fondazione del bene e del giusto in
termini di rinvio al piacere di ciascuno e ai desideri e alle « passioni
individuali. Fare riferimento ai piaceri e desideri individuali non per-
mette di superare quella condizione di guerra di tutti contro tutti che è
pro- pria dello stato di natura in cui ciascuno definisce bene, male, giusto
e ingiu- sto, appunto a suo modo. Se si vuole mantenere uno stato di pace
e conver- gere su qualche bene considerato comune (che certo comunque non
potrà essere trattato come un bene assoluto) bisognerà limitare la
completa discre- zionalità naturale concordando sull’accettazione di una
procedura che per- metta di realizzare patti condivisi. Secondo Hobbes,
dunque, solo un con- tratto è in grado di vincolare i singoli individui
all'accettazione di principi etici che non siano direttamente riconducibili
agli interessi egoistici di qual- cuno. Nel fare ricorso al contratto
come risolutivo Hobbes delineava tutta una serie di condizioni che
presiedono alla sua genesi e alla sua efficacia. Da una parte il
contratto incorporava tutta una serie di principi — secondo Hob- bes le
«leggi naturali» — che venivano considerati giustificati razionalmente,
in linea esclusivamente strumentale, come mezzi idonei alla conservazione
in vita dei contraenti e al mantenimento della pace tra loro. Dall'altra
parte la necessità di rendere vincolanti gli equilibri che vengono
identificati mediante la procedura di contrattazione porta a un completo
trasferimento della forza coercitiva a un potere che in nome della sua
funzione di garantire il rispetto del contratto non è sottoposto ad alcun
limite. Anche questa è una conse- guenza derivante dalle assunzioni
generali di Hobbes che vede appunto gli esseri umani come del tutto
egoisti e mossi da un irrefrenabile impulso pos- sessivo in una
condizione di scarsità di beni. Infine va rilevato che laddove in Hobbes
il potere non può avere limiti esterni, esso ha un ampio limite in-
terno. Ciò dipende dalla convinzione di Hobbes che leggi contrattualmente
definite possono valere solo per i corpi di coloro che stipulano il patto,
men- tre sentimenti, emozioni e pensieri sono al di fuori della portata
dell’applica- zione di principi e regole create con la procedura
condivisa. AI modello di contrattualismo hobbesiano sono state
mosse numerose cri- tiche. In particolare è la sua peculiare derivazione
artificialistica dei principi etici ad essere oggetto di diverse
obiezioni. La prima linea di obiezioni viene da coloro che ritengono
necessaria una fondazione assoluta dell'etica e che rilevano la parzialità
e la limitazione di una derivazione da un qualche con- tratto di regole e
principi etici. Le leggi concordate mediante il patto possono valere solo
quando si è sotto il controllo di un potere totale e completo come quello
appunto ipotizzato nel Leviafazo di Hobbes, ma non riusciamo così ad
escludere defezioni quando il potere è inefficace. Hobbes sembra tentare
una risposta a queste critiche quando ammette la validità delle leggi
naturali anche «in foro interno» {Hobbes, 1976: 150-154; ma si veda Warrender,
1974), ma risulta difficile capire qual è la base di obbligatorietà in
questo caso delle leggi naturali. Una seconda linea di obiezioni viene da
quei pensatori che — come ad esempio Hume — pur condividendo una
spiegazione artificiale della ge- nesi di principi e regole etiche,
prendono poi le distanze da Hobbes e dal suo contrattualismo per il
particolare tipo di artificialismo razionalistico in gioco. L’obiezione
in questo caso è che il «costruttivismo razionalistico» hobbesiano — il
considerate cioè i principi etici come il frutto di una scelta
consapevole di una serie di individui razionali — risulta del tutto
inadeguato quando si tratta di rendere conto della genesi di regole e
principi etici. Vedremo nelle ultime due sezioni di questo paragrafo în
che senso il convenzionalismo etico di Hume presentava un modello
artificialistico di spiegazione dell'etica del tutto alternativo rispetto
a quello di Hobbes. Un altro modello di giustificazione procedurale
dell'etica è quello presen- tato nel modo più sistematico ed argomentato
da Rawls (Rawls, 1982, 1994). Si tratta di un modello che viene ora
abitualmente chiamato «contrattualismo ideale» per distinguerlo da quello
di Hobbes e da quello detto «contrattuali- smo reale» sviluppato da
Gauthier (cfr. $ 3.3), Il modello epistemologico del
«contrattualismo ideale» sostiene pur sem- pre che i principi giusti
dell'etica possano essere individuati attraverso accordi, ma poi fa valere
tutta una serie di vincoli relativamente alla procedura considerata
idonea per realizzare accordi equi. Rawls delinea tale procedura come una
«posizione originaria» del tutto artificiale. In primo luogo, gli indi-
vidui che entrano nella posizione originaria da cui si scelgono i principi
di giustizia vanno considerati come individui rappresentativi e non già
come sin- goli individui concreti. In secondo luogo, gli individui
rappresentativi scel- gono tra le diverse opzioni a loro aperte in una
condizione caratterizzata da «un velo d’ignoranza», ovvero si immagina
che gli individui nella posizione originaria non debbano sapere quale
sarà la loro condizione effettiva e il loro status concreto nella
società. Infine Rawls ritiene che le scelte nella posizione originaria
debbano essere ispirate da un principio generale, che egli chiama del
maxinmin, secondo il quale si debba sempre preferire quell’alternativa
che permette di massimizzare le esigenze degli individui rappresentativi
dello stato peggiore. La linea argomentativa di Rawls in
realtà non si presenta come un tenta- tivo di giustificare o fondare il
nucleo centrale dell'etica, ma piuttosto come un tentativo di decisione o
risoluzione dei conflitti una volta assunta una de- terminata definizione
della morale. Troviamo che fin dalla delineazione della «posizione
originaria» sono presenti alcune opzioni morali sostantive che vengono
incorporate nella procedura prevista per l'individuazione dei prin- cipi
di giustizia. Ad esempio è fuori discussione fin dall’inizio che le
soluzioni da preferire saranno quelle più imparziali ed eque. Rawls non
spende nem- meno un’argomentazione a giustificare queste opzioni di fondo
che sono co- stitutive del suo contrattualismo. Ancora, in quanto Rawls
si preoccupa prin- cipalmente di questioni di giustizia sociale o di
distribuzione delle risorse, tro- viamo che egli fa valere il citato
criterio di waxiziz. Contro questo criterio numerosi studiosi di etica
(ad esempio Harsanyi, 1988: 109-136) hanno obiet- tato che esso ha delle
conseguenze controintuitive. Infatti il criterio del maxi- min ci
costringe a preferire sempre e comunque quel corso di azione che può
migliorare sia pure di pochissimo le condizioni di chi sta peggio senza
mini- mamente tenere conto di quanto questo corso d'azione peggiori le
condizioni di tutti gli altri o senza minimamente instaurare un confronto
tra i diversi corsi d'azione possibili ad esempio sulla base della probabilità
effettiva che si realizzi ciascuno di essi, Dunque la
procedura epistemologica a cui si richiama Rawls, ben lungi dal
giustificare le opzioni etiche, in realtà dà già per acquisita la natura
dell'etica e il suo ambito. Del resto questo è ampiamente ammesso dallo
stesso Rawls che ha riconosciuto che la sua ricostruzione della natura
dell’etica è adeguata a rendere conto delle intuizioni morali di un
cittadino di una società caratterizata, come quella statunitense, dalle
istituzioni liberal-democratiche. Spiega Rawls che la sua etica è tale da
non avere una portata metafisica, ma che si presenta come prevalentemente
rivolta a rendere conto di un ben preciso con- testo storico e dunque
politico (Rawls, 1994: 155-182). La procedura giustifi- cativa delineata
da Rawls può dunque operare solo presupponendo una serie di intuizioni o
credenze morali già date. La linea argomentativa del contrat- tualismo
ideale è rivolta ad ottenere un risultato che Rawls stesso presenta come
una sorta di «equilibrio riflessivo» tra le nostre intuizioni di partenza
e i risultati più equi e giusti raggiunti attraverso una correzione delle
distorsioni e parzialità di tali intuizioni. Caratteristico
di questo modello è la caduta della pretesa di una fonda- zione assoluta
e compiuta dei principi etici. Il contrattualismo ideale di Rawls in
definitiva riesce a generare accordi solo in quanto parte già da un accordo
dato in partenza tra tutti i membri della stessa società. Nulla può essere
fatto per convincere ad accettare l'etica da parte di coloro che non sono
già citta- dini della stessa società ideale che condivide il contratto.
Laddove la posi- zione hobbesiana sembrava incapace di generare accordi
se non presuppo- nendo il ricorso a uno strumento extra-teorico quale la
forza; la posizione di Rawls è sterile perché si limita a ricostruire il
modo in cui già di fatto si rea- lizzano accordi, nelle società liberal-democratiche,
tra coloro che accettano politiche progressiste e nulla dice per dirimere
i contrasti tra individui rappre- sentativi di società profondamente
diverse (quali, poniamo, quelle del mondo occidentale e quelle dei paesi
dell’Africa o dell'Asia). La procedura contrat- tualista di
giustificazione etica ha sicuramente un ampio spazio laddove con- trasti
e conflitti sorgano tra individui già vincolati a un certo patto e
all’accet- tazione di una certa procedura per dirimere i contrasti. Ma
poco o nulla può offrire laddove si affrontino le questioni più
sostanziali: da una parte di come giustificare la scelta di avere un
contratto da rispettare in luogo di non avere nessuna forma di contratto;
dall'altra di come giustificare l'opzione di conti- nuare a rispettare il
contratto, in luogo di defezionare, anche quando ciò dan- neggia i nostri
interessi personali. 3.9. Il non-cognitivismo e la giustificazione
logico-argomentativa del punto di vista etico. — Una teoria della
giustificazione © argomentazione etica è stata messa a punto anche dai
teorici del non-cognitivismo (cfr. $ 2.6). Laddove gli emotivisti
consideravano del tutto fallace la convinzione che si potesse avere una
reale discussione su questioni etiche, i teorici del non-co- Bnitivismo trovano
possibile indicare una serie di procedure come peculiari del ragionamento
etico. Vale la pena di fermarsi brevemente sulle differenze
www.scribd.com/Filosofia_in Ita3 56 ETICA sul piano
della giustificazione e dell’argomentazione, dunque sul piano episte-
mologico, tra le posizioni degli emotivisti e quelle dei non-cognitivisti.
Infatti lo sviluppo di questa differenza rappresenta una delle vicende
centrali del- l'etica del XX secolo che viene completamente trascurata da
quanti — come ad esempio A. MacIntyre (MacIntyre, 1988) — assimilano
rigidamente emo- tivismo e non-cognitivismo, Nel caso degli
emotivisti occorre distinguere tra le posizioni di Ayer e di Stevenson. È
appunto nelle pagine di Ayer (Ayer, 1961) che troviamo la posi- zione più
radicale che ritiene che l’unico punto di dibattito effettivo in una
discussione etica possa essere quello di una verifica fattuale sul come
sono andate le cose e, per il resto, sia da considerare comeeffettivo in
una discussione etica possa essere quello di una verifica fattuale sul
come sono andate le cose e, per il resto, sia da considerare
come del tutto illusoria la pretesa di aprire una qualche
discussione criticamente valutabile sulla rile- vanza etica di ciò che è
accaduto, In definitiva connotando eticamente qual- cosa ciascuno esprime
solo i propri gusti morali del tutto personali e, come è noto, sui gusti
non si può certo disputare. La posizione di Stevenson (Steven- son, 1962;
cfr. qudo eticamente qual- cosa ciascuno esprime solo i propri gusti
morali del tutto personali e, come è noto, sui gusti non si può certo
disputare. La posizione di Stevenson (Steven- son, 1962; cfr. qui sopra $
2.6) è meno riduttiva, ma finisce con il sostenere che tutto ciò che possiamo
fare da un punto di vista argomentativo o episte- mologico in morale è
divenire pienamente consapevoli del come usare nel modo appropriato, come
un potere causale, la forza emotiva presente nelle nozioni etiche, vuoi
per persuadere altri ad accettare i nostri standards, vuoi impedendo che
altri ci persuada con il mero ricorso a delle definizioni persua- sive,
Ma non resta nessuna possibilità pet discutere in una qualche forma ar-
gomentativa l'appropriatezza etica di un determinato giudizio morale. Lad-
dove consideriamo l’etica come un linguaggio emotivo — sia pure, come fa
Stevenson, come un linguaggio guidato da regole nel suo uso — tutto ciò
che possiamo fare sul piano epistemologico è richiamare l’attenzione
sulla pre- senza di tecniche di persuasione che possono essere utilizzate
sia da una per- sona che voglia fare passare dei valori giusti, sia da
chi invece voglia imporre dei valori ingiusti, L'argomentazione etica,
così come ce la presenta Stevenson con il suo emotivismo moderato, non ci
permette di discriminare tra questi valori, ma solo di sostenerli nel
modo migliore ed egli quindi riconosce in questo campo solo uno spazio
per procedure di tipo retorico o propagandi- stico. Nel caso
invece del non-cognitivismo, come sostenuto ad esempio da Hare (Hare,
1971 e 1989), troviamo l'impegno a elaborare un'epistemologia per l’etica
che fornisca criteri di discussione e critica anche per il nucleo
peculiare di valori che è in gioco nel discorso morale. Come si è già
spiegato (cfr. sopra, $ 2.6) secondo questa concezione meta-etica la
morale è costituita di prescri- zioni universalizzabili soverchianti.
Partendo da questa caratterizzazione della natura della morale un
non-cognitivista ha di fronte a sé due problemi di- stinti. Si tratta, in
primo luogo, di esaminare se vi sono vie argomentative per convincere
razionalmente a farsi guidare nelle proprie azioni da una morale così
intesa chi non la vuole fare propria preferendo un completo amoralismo.
In secondo luogo si tratta di delineare quali procedure argomentative
sono disponibili per sottoporre a controllo le diverse opzioni mortali
possibili al fine di individuare, per la situazione in cui ci troviamo,
quale è la migliore prescri- zione universalizzabile soverchiante.
Esponiamo qui di seguito le due diverse strategie argomentative così come
vengono delineate da Hare. Per quanto riguarda il livello di
discussione che si apre nei confronti di chi non intende in alcun modo
ispirarsi a regole morali, sul piano argomentativo non c'è molto da fare.
Non si può cioè costringere logicamente qualcuno a usare il linguaggio
della morale; si può solo, una volta che egli lo usi, mostrare che lo ha
usato in modo inadeguato rispetto alle regole che ne governano l'uso.
Hare dunque sembra voler fissare come limite invalicabile per l’argo-
mentazione morale il confine al di lì del quale si collocano tutti coloro
che non fanno in alcun modo uso del linguaggio morale. Nei confronti di
costoro si potrà fare qualcosa solo collocandosi da un punto di vista non
strettamente argomentativo. L'educazione e l’uso della forza sono due
diverse strategie cui si ricorre per far si che le persone facciano propria
la forma di vita che in- clude la morale. All’interno della
prospettiva non-cognitivista di Hare si può invece argo- mentare contro
chi pretende di formulare giudizi morali ed invece in realtà non rispetta
le condizioni logiche necessarie perché un proferimento faccia parte del
linguaggio etico. Come sappiamo un'espressione linguistica farà parte del
discorso morale solo in quanto si presenta come una prescrizione
universalizzabile soverchiante. Possiamo identificare con chiarezza coloro
che pretendono di dare una portata morale alle loro affermazioni, ma
compiono degli errori logici (oltre che morali}. Le analisi di Hare sono
rivolte a delineare il tipo di argomentazione che può essere sviluppata
contro il più comune errore nell'uso del linguaggio morale, quello
proptio dei fanatici morali. Le posizioni dei fanatici morali nascono in
quanto si prescrivono dei principi che non vengono fatti valere — come la
loro natura di principi morali esigereb- be — in modo analogo per tutte
le situazioni simili indipendentemente dal posto occupato da coloro che
sono coinvolti. Un tentativo, coerente con la concezione della morale
propria del non-cognitivismo, può essere fatto per contrastare il
fanatismo morale ad esempio nella forma più ricorrente che è quella del
razzista (Hare, 1971; ma Hare più recentemente ha trattato anche del caso
di un medico che in nome dei suoi doveri professionali fa proprio
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 58 ETICA
l’accanimento terapeutico: Hare, 1989). Si tratta di chiedere al fanatico di
im- maginarsi in una situazione in cui egli occupa il posto di colui nei
confronti del quale egli vuole fare valere in modo diseriminante i suoi
pretesi principi morali. Che cosa fa il razzista anti-semita quando una
nuova informazione for- nisce le prove che lui stesso è di origine
ebraica? Il non-cognitivista può con. siderare l'articolazione di un
esperimento mentale del genere come un’esten- sione epistemologica della
sua concezione meta-etica. Si badi infine che l’argomentazione
propria dell'etica che viene individuata muovendo dalla concezione della
natura dei giudizi morali avanzata da Hare non si limita — come nel caso
del formalismo kantiano — ad avanzare la ri- chiesta di una mera coerenza
formale, ma enuncia un requisito contenutistico. In linea del tutto
pregiudiziale un giudizio potrà essere incluso nell'universo dei giudizi
propri del discorso morale solo se prescrive un qualche principio che si
è pronti a far valere in modo analogo per tutti i casi simili indipenden-
temente dalla propria collocazione nelle situazioni investite. Lavorando
su questa condizione epistemologica della concezione che vede la morale
come insieme di prescrizioni universalizzabili soverchianti, più
recentemente Hare (1989) ha elaborato ulteriori passaggi critici a cui
sottoporre le prese di posi- zione etiche. Nello sviluppare queste
implicazioni epistemologiche si è incam- minato lungo una linea che
giunge a presentare come adeguate — su basi so- stantive — quelle
conclusioni che vengono ricavate dall’utilitarismo dell’atto. In quanto
ci troviamo di fronte ad un’argomentazione che ricava da una me- ta-etica
una ben precisa etica normativa, ce ne occuperemo in un prossimo
paragrafo (cfr. $ 4.7). 3.10. Dalla giustificazione allo
spiegazione dell'etica. — Proprio nel no- stro secolo la riflessione
filosofica sull'etica ha elaborato una serie di analisi conseguenti a un
radicale mutamento di approccio. L'effetto di questo cam- biamento è che
anche per quanto riguarda le procedure argomentative in uso in morale
l’obiettivo cui si tende è di ricostruirne il complesso delineando an-
che il contesto in cui si sono formate. Con questo approccio non ci si
propone dunque di fondare o giustificare aleunché 0 di modellare al
meglio strutture argomentative, quanto piuttosto di presentare
spiegazioni complessive rivolte a comprendere qual è il posto che l’etica
occupa nella nostra vita. In definitiva è la prospettiva che Hume aveva
sviluppato nella sua scienza della natura umana che viene recuperata,
tradotta nel linguaggio del nostro secolo e resa più rigorosa e
determinata. L'etica viene così considerata come un presuppo- sto della
nostra forma di vita che non tanto va giustificato o fondato quanto piuttosto
spiegato nella sua concretezza. Si tratta dunque di un programma esplicativo
che considera l'etica e le sue distinzioni come costitutive della nostra
esperienza del mondo, con un approccio in parte analogo a quello kantiano
impegnato a identificare le forme generali della nostra esperienza. Ma
questo approccio esplicativo non percorre poi la linea aprioristica kan-
tiana dell'analisi trascendentale, proponendosi piuttosto di avanzare
ipotesi empiriche sulla natura dell'etica e le forme di argomentazione in
essa correnti (Preti, 1986). ; Questo tipo di ricerca ha avuto
nel nostro secolo una notevole espansione parallelamente al tentativo
della filosofia di trasferirsi dal piano fondazionale a quello
esplicativo (cfr. Gargani, 1975 e Nozick, 1987). Una prima differenza
tracciabile in questa linea filosofica, come si è detto, è relativa al tipo di
spie- gazioni, ovvero alla natura logica delle presupposizioni a cui ci
si richiama, caratterizzate o in una direzione trascendentale oppure come
ipotesi empi- riche. Su basi kantiane un tentativo di
spiegare l'etica è presente nelle analisi di Putnam (Putnam, 1991). La
tendenza a esprimere giudizi morali è secondo Putnam un modo del tutto
aprioristico e comune al genere umano di catego- rizzare; in modo analogo
va spiegata la stessa predilezione sostantiva per certi contenuti
(benevolenza, giustizia ecc.). Invece sul piano empirico si trovano, tra
le altre, le seguenti spiegazioni della morale. Da una parte abbiamo una
concezione come quella di J. L. Mackie (Mackie, 1977) che ritiene che
l'etica sia una produzione artificiale della cultura umana con cui gli
vomini cercano di fare affermazioni su specifiche proprietà del mondo,
ovvero i valori o le qualità etiche; ma queste affermazioni sono tutte
false in quanto tali proprietà non sussistono realmente. Dall'altra
abbiamo le posizioni proiezioniste, quale ad esempio quella di S.
Blackburn (Blackburn, 1984), secondo le quali invece si guarda all’etica
come un prodotto della nostra cultura che ci consente di fare riferimento
a qualità o proprietà quasi reali (le proprietà morali) che noi abbiamo
proiettato sulle cose e sul mondo. Sono ancora da ricordare le analisi
sensiste di Wiggins {Wiggins, 1987) e McDowell (1981) i quali ritengono
vi- ceversa che si debba considerare l’etica come il campo che gli esseri
umani costituiscono in quanto forniti di un peculiare senso o sentimento
che li mette in grado di cogliere delle proprietà nel mondo (appunto ciò
che rende moral- mente rilevante una qualche situazione) che hanno poi su
di essi una forza motivante e vincolante. Infine in un contesto più
evoluzionistico A. Gibbard {Gibbard, 1990) indica nella morale un insieme
di norme che gli uomini anno elaborato nel corso di una loro
attività peculiare che li muove a discu- tere pubblicamente sul come
condurre le loro vite e come sentire a proposito delle scelte fatte nel
corso delle loro vite. Tutti questi diversi modelli esplicativi dell'etica e
della sua genesi come si può vedere ne rendono conto in ter. mini
universalistici; l'etica si presenta cioè come un'istituzione del genere
umano che include al suo interno il ricorso a procedure pubbliche pet
con- trollare la validità delle opzioni privilegiate. Larga parte di
queste concezioni esplicative sono rivolte a trovare una collocazione per
la credenza che il con- trollo fattuale giochi un ruolo importante nella
discussione etica. Una cre- denza del genere sussiste anche se i fatti
morali non esistono, 0 sono solo delle nostre proiezioni o tali che noi
li cogliamo perché forniti di una peculiare at- trezzatura
percettiva. 3.11. I problemi centrali per la fondazione della
morale: «legge di Hume» e possibilità di una «logica delle norme». — In
questo secolo un ampio dibat- tito si è sviluppato intorno a due nuclei
problematici centrali per chiunque si ponga l’obiettivo di una fondazione
o giustificazione di conclusioni etiche. In primo luogo hanno avuto
un’ampia diffusione le discussioni relative alla co- siddetta «legge di
Hume» che coinvolgono tutti i tentativi di fondare una conclusione etica
su basi scientifiche, osservative o empiriche. Il punto di par- tenza per
questa linea di riflessione viene indicato in un passo del Treazise di
Hume (Hume, 1987: I, 496-497), il cosiddetto «is-ought paragraph», in cui
si richiama l’attenzione sulla differenza tra proposizioni in cui è
presente la co- pula è {:5) e quelle in cui compare la nozione deve
(ough)). A questo passo si sono richiamati tutti coloro che hanno
criticato come logicamente inaccetta- bile la derivazione di una
conclusione normativa, e in generale etica, da pre- messe descrittive,
assertive o in generale non-etiche (cfr. Hudson, 1969; Car- caterra,
1969; Oppenheim, 1971; Scarpelli, 1982: 165-178; Celano, 1994). Sul piano
storico occorre precisare che è molto probabile che Hume non fosse
direttamente impegnato a formulare un vero e proprio principio logico
rela- tivo all’inderivabilità del dovere dall'essere, quanto piuttosto a
segnare con precisione la «grande divisione» concettuale tra conclusioni
con l'è e quelle con il deve. Importa però qui richiamare che nel XX
secolo invece si fa rile- vare che proprio da un punto di vista strettamente
logico-formale e sintattico si deve ritenere del tutto scorretto
qualsiasi ragionamento o argomentazione che pretenda di ricavare una
decisione, una scelta o un giudizio etico da con- siderazioni che
riguardano lo stato dei fatti o delle cose. Questa posizione è
stata ampiamente sostenuta nel corso del XX secolo con articolazioni
lievemente diverse. Così ad esempio Max Weber insisteva con decisione
sulla differenza di piani tra fatti e valori e dunque tra conclu- sioni
avalutative e scientifiche sulla natura e sulla società e decisioni o
assun- zioni di responsabilità intorno a ciò che si deve fare (Weber,
1958; Rossi, L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 61 1971: 249-315;
Hennis, 1991). Partendo dalla stessa tesi della inderivabilità dei valori
o doveri dai fatti si sono rifiutate numerose concezioni spesso accu-
sate di essere cadute nella «fallacia naturalistica» (Moore, 1964; cfr. $$
3.4 e 3.5). Così da una patte vengono denunciate come frutto di un errore
lo- gico tutte quelle posizioni riduzionistiche o conformistiche che
concludono che ciò che si deve fare è o ciò che è naturale per l'uomo o
ciò che è già indicato dai valori accettati più o meno diffusamente nella
società. Non diver- samente viene considerata fallace quella specie di
argomentazione etica pro- pria dell'approccio consequenzialista che
considera come completamente ri- solvibile un qualche problema morale
ricostruendo con precisione —— am- messo che tra l'altro questo sia
fattibile — quali sono le conseguenze delle diverse opzioni tra cui
dobbiamo scegliere. In realtà sapere con precisione quali sono le
conseguenze delle alternative che ci sono davanti non basta per ricavare
una conclusione su ciò che dobbiamo fare perché una tale previsione — se
attendibile — ci dirà solo ciò che ci sarà nel futuro, ma nulla ci dice
sul punto se certe conseguenze che ci saranno vanno poi preferite o meno
ad altre e dunque approvate o disapprovate. Tra l’altro era proprio
questa l’argomen- tazione che faceva valere Hume nella sua Exquiry
concerning the Principles of Morals (1751, Ricerca concernente i principi
della morale; Hume, 1987: II, 302) contro i tentativi di derivare le
distinzioni etiche dal principio di utilità. Contro l’uso di questa
critica come ghigliottina decisiva per numerose concezioni etiche si sono
schierati quei pensatori — particolarmente nume- rosi nell'ultirna parte
del XX secolo — che hanno negato che si potesse net- tamente distinguere
un piano di descrizioni neutrali del mondo da un piano di opzioni
valutative su di esso. Questo tentativo di superamento del quadro
concettuale che sorregge la cosiddetta «legge di Hume» è stato principal
mente rivolto a contestare la concezione della scienza dei neopositivisti
che sembra sorreggere una forte divaricazione tra fatti e valori, essere
e dovere. Questa divaricazione è stata criticata e giudicata superata da
numerosi pensa- tori pragmatisti, tra i quali in particolare Putnam
(Putnam, 1982 e 1985). In secondo luogo indubbiamente rilevante per
il problema della fonda- zione e della giustificazione dell’etica è tutto
il dibattito — specialmente vivo nella seconda metà del XX secolo —
relativo alla possibilità di costruire una logica delle norme.
Collocandosi dunque sul piano della ricerca di una sin- tassi di un
discorso etico che voglia fare valere al suo interno principi di coe-
renza e non-contraddizione è stata contestata la stessa possibilità di
enunciare una logica delle norme. Una posizione del genere è presente
nelle conclusioni a cui era giunto H. Kelsen nell'ultima parte della sua
vita (Kelsen, 1985). Ri- levando che le norme sono, dal punto di vista
del significato, dei comandi, e che dunque come tali non possono essere
valutati in termini di verità e falsità, Kelsen negava che si potesse
costruire un sillogismo logico in cui premesse e conclusioni fossero
degli asserti normativi. Le implicazioni della sintassi logica possono
valere solo in presenza di proposizioni empiriche o asserzioni scien-
rifiche, ovvero laddove premesse e conclusioni si collocano sul piano della
ve- rità e dunque da premesse vere (o false) si traggono conclusioni vere
(o false). Ma un enunciato normativo non è in alcun modo vero 0 falso e
dunque non può funzionare da premessa di nessuna conclusione logicamente
derivata, Così se presentiamo nella premessa maggiore un enunciato
normativo di ca- ratrere universale, laddove nella premessa minore
troviamo l'individuazione di una fattispecie rilevante sulla base della
norma generale enunciata nella premessa maggiore, secondo Kelsen non
siamo autorizzati a presentare come una conclusione logicamente
necessaria una qualche azione o omissione {con relativa sanzione). Coloro
che contestano la possibilità di una logica delle norme obiettano infatti
che comunque il linguaggio normativo esige sempre che ci sia un qualche
comando effettivo ripetuto subito prima del compi- mento di qualsiasi azione.
Sia le «legge di Hume» sia le obiezioni alla possibilità di elaborare
una «logica delle norme» risultano particolarmente rilevanti nei
confronti di chi si muove all’interno di un contesto fondazionale e
pretende dunque di dare una qualche fondazione assoluta o conclusiva
dell'etica. Ma se ci collochiamo sul piano dell’argomentazione o della
giustificazione (per non dire del piano della spiegazione delle procedure
effettivamente adottate) le cose risultano più complesse. Per quanto
riguarda, ad esempio, la cosiddetta «legge di Hume», sembra difficile non
ammettere l'efficacia di quelle critiche rivolte al tentativo di ricavare
le proprie conclusioni etiche semplicemente da una ricostruzione dei
fatti in gioco, o da una mera raccolta di informazioni, o dall’accumulo
di una congerie più o meno estesa di previsioni. Dovrà introdursi prima o
poi la nostra preferenza per un qualche principio da fare valere in modo
analogo in tutte le situazioni simili, una preferenza che sia radicata
nelle nostre emozioni e che siamo pronti a mettere in pratica quando
starà a noi agire facendola prevalere su nostre opzioni non strettamente
etiche. Questa ammissione di una qualche frattura, divisione o salto tra
il piano delle ricostruzioni empiri- che della situazione e quello di una
valutazione — e conseguente decisione — delle diverse opzioni che ci
stanno di fronte non deve essere spinto però fino ad esiti eccessivi.
Così risulterà insostenibile sul piano metodologico una rico- struzione
della natura dell’indagine empirica e scientifica che non tenga conto di
quanto le nostre osservazioni e le nostre esperienze siano dipendenti
dalle teorie, ipotesi e opzioni (anche valutative) da cui muoviamo. Né
sarà accettabile un divisionismo spinto fino all’estremo di non riconoscere la
rilevanza — in un certo senso come condizione necessaria anche se non
sufficiente di un’argomentazione etica — dell'impegno sia a verificare
come stanno real- mente le cose nella situazione in esame, sia a
immaginare quali conseguenze seguiranno una volta incamminatici lungo
l’uno o l’altro corso di azione. Non diversamente a proposito della
questione della possibilità di costruire una logica delle norme è
difficile negare la nostra capacità sia di squalificare certe prese di
posizione etiche perché in contraddizione con principi già as- sunti, sia
di estendere i nostri principi a situazioni nuove sulla base della tesi
logica che esse sono del tutto simili a quelle che abbiamo già giudicato.
È probabile che nel riconoscere questo ci muoviamo a un livello che non è
esat- tamente quello della sintassi logico-formale, ma piuttosto — come
ha sugge- rito Nowell-Smith (1974: 86-91) — delle implicazioni di una
logica pragma- tica che dà vita a una valutazione dei giudizi in gioco in
termini di «stranezza logica». Ma la rilevanza e la portata di strategie
di tipo sintattico o logico resta innegabile se si abbandona la pretesa
di muoversi sul piano di un'etica dimo- strata in modo assiomatico e
geometrico. Va, infine, sottolineato che — malgrado le obiezioni di
fondo dei puristi della logica — larga estensione hanno avuto nella
seconda metà del XX secolo i tentativi di elaborare simbolismi e formalismi
idonei al trattamento di norme. Ben al di là dei tentativi o delle
enunciazioni di principio si sono spinti tutti coloro — da Wright a Alchourron
e Bulygin — che si sono impegnati a elaborare la logica deontica e la
logica delle norme. I risultati raggiunti con tutta la loro complessa
articolazione mostrano la fertilità di un tentativo di dare vita a un
trattamento simbolico della sintassi delle norme e di inserire in un
contesto logico le relazioni tra obbligazioni eti- che. Difficile
peraltro che tali modelli di linguaggi perfetti o ideali per le norme o
le valutazioni etiche possano essere di aiuto per ciascuno di noi quando,
nella vita comune, siamo alle prese con i nostri problemi etici concreti.
Tali linguaggi invece illuminano certamente il lavoro di giuristi,
politici, scienziati sociali im- pegnati nel mettere a punto sistemi di
norme più o meno stabili, efficienti, chiari e comprensibili da tutti
coloro per cui tali norme debbono valere. 4. Le etiche normative:
concezioni in contrasto. 4.1. Eriche conseguenzialiste e
deontologiche: principi, mezzi e fini nel- l'etica. — Quando si tratta di
classificare le diverse concezioni etiche pos- siamo ricorrere a
differenti criteri formali che si intersecano. È quanto faremo n questo
paragrafo, esponendo le differenti concezioni normative esistenti usando
diverse strategie di classificazione. In primo luogo distingueremo le
etiche normative in generale sulla base di una loro struttura di fondo che
col. lega la valutazione etica 0 a un riferimento a principi 0 a una
considerazione delle conseguenze. Renderemo così conto della differenza
tra etiche deonto- logiche o tuotanti intorno a principi ed etiche
teleologiche o rivolte principal- mente alle conseguenze, e accenneremo
anche ad alcuni tentativi di elaborare etiche miste. Passeremo poi a
rendere conto delle diverse etiche normative classificandole sulla base
di un diverso criterio formale che ritiene essenziale la distinzione tra
etiche che fanno uso di una nozione di valore intrinseco, in quanto
contrapposta a quella di valore estrinseco, ed etiche che invece rifiu-
tano tale distinzione. Esamineremo, infine, alcune concezioni normative
che identifichiamo come le più diffuse e vitali nelle discussioni di
etica teorica nel secolo XX. Ovviamente di pari passo con l’esposizione
cercheremo sia di for- nire le ragioni delle inclusioni ed esclusioni
nella lista, sia della nostra prefe- renza critica per una di queste
etiche. Un modo ricorrente per distinguere tra le diverse
concezioni normative è dunque quello che contrappone l’etica che ruota
intorno a un appello ai prin- cipi a quella che tiene piuttosto conto
delle conseguenze dell’azione. Si tratta di una distinzione che è
centrale, ad esempio, nella riflessione di Max Weber, che però se ne è
valso non tanto per distinguere due tipi diversi di etica quanto
piuttosto per richiamare l'attenzione su due piani diversi della vita
etica: quello proprio del moralista che fa appunto appello alla rilevanza
dei principi e quello di chi — come il politico o chi sia comunque impegnato
in una dimensione tecnico-pratica — invece, muovendosi nel quadro di
un'etica della responsabilità, deve badare principalmente alle
conseguenze dei diversi corsi di azione in cui si impegna (Weber, 1966).
Dietro queste due diverse strategie possiamo anche ritrovare — come
subito vedremo — un diverso modo di considerare il rapporto mezzi-fini
nella vita pratica. Sono state presentate concezioni deontologiche
dell'etica diversamente strutturate. Avremo così diversi tipi di etiche
dei principi a seconda che pon- gano al loro centro uno o più principi, e
a seconda che concepiscano tali prin- cipi o come assoluti e aprioristici
o come ricavati dall'esperienza e in generale rivedibili. È così chiaro
che l'etica kantiana si presenta come un'etica deonto- logica che ruota
intorno a un solo principio di fondo, assoluto e a priori, dato
dall'imperativo categorico, e le diverse formulazioni offerte,
dell'imperativo categorico, non presentano in realtà principi diversi
(Kant, 1970a). Nel caso di alcune etiche del comando divino (come ad
esempio l’etica cristiana o car- tolica) vi è invece una tendenza a
presentare come costitutivi della vita morale diversi principi tutti
assoluti (i vari comandamenti divini o le norme che costituiscono la legge
naturale). Un'etica deontologica pluralista si trova di fronte al
problema (quasi mai invece affrontato esplicitamente in queste eti- che)
della necessità di disporre di un criterio chiaro per ordinare i diversi
principi e risolvere quei casi in cui più principi assoluti entrano tra di loro
in conflitto. Ma una concezione etica deontologica non è logicamente
costretta a considerare i principi al centro della vita morale come
assoluti, immutabili e di derivazione non empirica. Non mancano infatti
analisi della vita etica (ad esempio quella dell'evoluzionismo filosofico
di H. Spencer — H. Spencer, 1893 — o di certe forme contemporanee di
intuizionismo — si vedano ad esempio W. D. Ross, 1930 e A. C. Ewing,
1948) che pur ritenendo costitutivo della vita morale l’appello a
principi, non rendono conto del costituirsi di questi principi lungo
l’asse dell’impostazione kantiana o di quella religiosa. I principi
dell'etica vengono piuttosto considerati o come regole fissatesi nel
corso dell'esperienza quali abitudini o come assunzioni — più o meno con-
venzionali — preliminari, o anche come ipotesi più o meno rischiose da
avan- zare in situazioni risolvibili difficilmente con gli strumenti
ordinari. La questione centrale per una valutazione critica delle
etiche deontologi- che è quella di chiederci fino a che punto le si possa
seguire nella loro assun- zione che i principi e la coerenza sono il
criterio determinante della vita mo- rale senza che st debba tenere conto
delle conseguenze di un'applicazione di questi principi. Le etiche
deontologiche incontrano in realtà difficoltà insor- montabili in quanto
si presentano come la struttura di riferimento di tutte le forme di
fanatismo morale, ovvero di quelle concezioni che ritengono che l'unico
modo per elaborare decisioni e giudizi eticamente validi sia quello di
dedurre coerentemente le implicazioni suggerite da principi considerati
come indiscutibili e non modificabili. Il fanatismo nasce laddove si
spinge la fedeltà ai principi fino a non tenere in alcun conto le
eventuali conseguenze disa- strose di questa fedeltà. Le etiche
deontologiche partoriscono quindi spesso moralisti che riaffermano
continuamente vecchi principi che, in realtà, non sono più in consonanza
con la vita effettiva degli esseri umani, Paternalismo e rigidità
sembrano essere sul piano pragmatico alcune delle possibili implica-
zioni delle etiche deontologiche. Tali conseguenze sono evitate attraverso
l’im- pegno a formulare elaborate casistiche che prevedono un'ampia gamma
di condizioni in cui si può fare un'eccezione alle regole, Mentre sul
piano psico- logico non è infrequente che tali etiche generino forme più
0 meno estese di ipocrisia per cui regole e principi assoluti sono enunciati
solo verbalmente e in pubblico, ma non seguiti nelle scelte effettive e
in privato. Proprio come correttivo di questi eccessi formalistici
e rigoristici sono state presentate come più adeguate le teorie etiche
che mettono al centro della vita morale una considerazione delle
conseguenze delle azioni. Si tratta di eti- che in cui è centrale la
considerazione per la dimensione della responsabilità. In luogo di una
stretta fedeltà ai principi l'atteggiamento etico è quello di chi è
impegnato in una continua valutazione dei risultati. Si tratta di quelle
con- cezioni dell'etica che già nel mondo antico, ad esempio con gli
stoici, richia- mavano l’importanza della prudenza per rendere conto del
nucleo centrale della vita morale, Queste posizioni conseguenzialiste
hanno avuto un grande sviluppo dalla fine del secolo XIX in quanto sono
divenute la struttura por- tante delle etiche utilitaristiche. Sul piano
logico non è però corretta un’assi- milazione tra conseguenzialismo e
utilitarismo. Infatti l'utilitarismo è una delle varie forme che può
prendere il conseguenzialismo, quella che considera come criterio di
valutazione dei risultati la realizzazione del massimo bene per il
maggior numero. Altre forme di conseguenzialismo possono assumere, come
criteri di valutazione dei risultati, concezioni del bene o del valore da
realizzare del tutto alternative rispetto a quella felicifica
dell'utilitarismo. Però proprio la possibilità di distinguere tra
utilitarismo e conseguenziali- smo richiama quella che sembra essere la
difficoltà principale delle concezioni conseguenzialiste, ovvero la loro
incompletezza. Infatti una concezione che mette in primo piano per la
valutazione morale la considerazione delle conse- guenze delle nostre
azioni non sembra in grado di rendere conto pienamente del giudizio
etico, in quanto tale giudizio non può limitarsi a esaminare quali
saranno le conseguenze di certe scelte, ma dovrà anche valutarle sulla base
di ben precisi criteri di valore. Ci troviamo dunque di fronte alla
difficoltà che già richiamava Hume (Hume, 1987: II, 301-311), ovvero che
una considera- zione delle conseguenze può informarci solo relativamente
ai mezzi e resta poi da valutare del tutto indipendentemente
l'accettabilità dei fini. Ma per quanto possa essere incompleta, un'etica
conseguenzialista richiama su quello che è un passaggio necessario per le
nostre valutazioni e decisioni; la considerazione appunto di ciò che la
loro accettazione comporta. Anche se poi questo ap- proccio non può
esimerci da una valutazione dell’accettabilità o meno dei ri- sultati che
si raggiungeranno. La concezione conseguenzialista dell'etica riesce a
rendere conto delle nostre valutazioni su ciò che è giusto o ingiusto ed
esige di essere integrata con una teoria della bontà o del valore dei
risultati. Per quanto riguarda poi l’uso della distinzione tra
mezzi e fini in etica va anche detto che specialmente nell'ultimo secolo
varie forme di naturalismo etico si sono impegnate nell’approfondire e
render meno semplicistica una considerazione esclusiva dei mezzi come
passaggio obbligato verso i fini, riflu- tando così di considerare i
mezzi come una dimensione incompiuta della vita pratica. In questa linea
si collocano le analisi di John Dewey nella sua Theory of Valuation (1939,
La teoria della valutazione) che ha insistito nel richiamare l'attenzione
sul processo mediante il quale gli stessi mezzi possono trasfor- marsi in
fini e nel mettere quindi in crisi una concezione che vede i fini come un
risultato finale, per sostituirvi una prospettiva che nella condotta
umana trova un conzinuute di azioni che da mezzi si trasformano in fini
che a loro volta si trasformano in mezzi ecc. Dall'altra parte vi sono
stati teorici che hanno concepito il conseguenzialismo come
autosufficiente laddove non si considerino i fini come valori intrinseci
o valori in sé, ma piuttosto come va- lori estrinseci (cfr. $ 4.2).
42. Il valore intrinseco nell'etica. — Dal punto di vista normativo le
di- verse etiche possono essere differenziate anche sulla base del
ricorso o meno alla nozione di valore intrinseco. La nozione di valore
intrinseco trova un uso centrale nell’etica di Moore, ma anche ad esempio
sul versante fenomenolo- gico nell'opera di F. Brentano e poi di Max Scheler
(Scheler, 1944: 121-130). Nella seconda metà del XX secolo l’uso di tale
nozione nella teoria etica è stato più volte fatto oggetto di critiche in
particolare da pensatori pragmatisti {su questa discussione è da vedere
G. Pontara, 1974, che presenta anche una difesa dell’uso in etica di tale
nozione). Vi sono stati altresì tentativi di de- lineare una nuova
caratterizzazione della nozione ad esempio da parte di R. Nozick (Nozick,
1987). La nozione di valore intrinseco è legata al tentativo di dare
all’etica una dimensione oggettiva. Infatti in questo senso Moore (1964)
collegava la no- zione di valore intrinseco con quella di «unità
organica». Le cose fornite di valore sono uniche in quanto presentano una
unità organica che non è defini- bile riducendo l’intero alle sue parti.
In questo senso il valore intrinseco è la contropartita a livello
ontologico della tesi gnoseologica che riconosce nel bene una qualità del
tutto unica, semplice e indefinibile. D'altra parte il rife- rimento al
valore intrinseco fa sì che si consideri il bene come qualcosa che viene
conosciuto come presente nel mondo oggettivo e non già come un modo di
sentire soggettivo. In questo senso Moore riteneva che le proprietà
etiche avessero una loro realtà e sussistessero indipendentemente
dall'essere percepite, La tesi che vi sono degli interi
forniti di valore intrinseco (come ad esem- pio per Moore le relazioni
personali e le cose belle) permette di identificare il normativo e
l'etico con qualcosa che ha uno statuto peculiare e che dunque non può
essere ridotto a nessuna altra realtà. La posizione che ammette l’esi-
stenza del valore intrinseco nega che ogni azione possibile sia fornita solo
di valore estrinseco e strumentale e che possa essere sostituita da
qualsiasi altra azione. La concezione del valore intrinseco si accompagna
dunque all’elabo- razione di una teoria normativa che riconosce
l'autonomia dell’etica e ritiene anche che vi sia un modo compiuto e
definitivo per fondare le conclusioni dell'etica. Anche
Nozick (1987) usa la nozione di valore intrinseco come mezzo teo- rico
per arrivare a riconoscere alle realtà al centro dell'etica un'oggettività
e una forza vincolante indipendenti dalle motivazioni individuali. Nozick,
come Moore, collega la nozione di valore intrinseco con quella di unità
organica e anzi propone una gerarchia delle realtà sulla base del diverso
grado di valore intrinseco, nel senso che sarà fornito di maggiore valore
intrinseco quell’inte- ro che connette in modo più organico, ovvero più
stretto e unitario, un maggiore numero di parti differenti. In questo
senso la nozione di valore intrinseco secondo Nozick può essere
attribuita a un gran numero di esseri e permette misurazioni e
graduazioni. La moltiplicazione di esseri forniti di valore intrinseco
nella teoria etica di Nozick è confermata dalla tesi che questo valore
può essere creato o costituito (in quanto «valore contributivo» alla
totalità di valore intrinseco già esistente nel mondo). Nozick poi
delinea una precisa lista di realtà fornite di valori, suggerendo che in
particolare sono le persone e i sé ad avere una maggiore quantità di
valore intrinseco e a poterne creare di nuovo. Riprendendo la gerarchia
degli esseri della tradizio- ne aristotelico-tomistica Nozick indica
nella persona umana il vertice tra le realtà fornite di valore intrinseco
nel senso che i sé personali possono sceglie- re di costituire unità
organiche molto originali e strette, unificando l’insieme molto
differenziato di parti rappresentato dal fluire delle loro vite. Nozick
sembra dunque essersi impegnato a riproporre su una base laica e
empiristica la concezione religiosa e spiritualistica che indicava negli
esseri personali realtà fornite di un valore intrinseco e non
sottoponibili a una valutazione strumentale. Un'etica che
faccia uso della nozione di valore intrinseco va incontro alla difficoltà
di coinvolgere chi la sostiene in una serie di pretese metafisiche dif
ficilmente accettabili una volta sottoposte a controllo empirico. Così nel
caso di Moore la nozione di valore intrinseco in definitiva rinvia a una
struttura essenziale e sostanziale delle cose buone che può essere
direttamente cono- sciuta solo ricorrendo a una intuizione niente affatto
empirica. Nozick riesce in parte a depurare la sua utilizzazione della
nozione di valore intrinseco da queste implicazioni ontologizzanti e
metafisiche in quanto colloca tutta la sua teoria non già su di un piano
fondazionale, ma piuttosto su quello esplicativo, Ma procedendo per
questa strada non si capisce più perché sia strettamente necessario usare
in etica la nozione di valore intrinseco. Infatti se rale nozione viene
introdotta solo per spiegare alcune assunzioni e intuizioni che si dà per
scontato siano presenti nel nostro modo di vivere la dimensione etica,
po- tremmo rifiutarla negando di trovare in noi tali assunzioni e
intuizioni, oppure sottoponendo le assunzioni e intuizioni presupposte a
una critica che ne fac- cia risultare l’artificiosità e
l’inaccettabilità. La nozione di valore intrinseco può avere un suo
uso nel campo dell’este- tica quando si tratta di spiegare il valore di
cui una certa opera d’arte come un tutto è fornita, valore che non è
riconoscibile nelle diverse parti che la costituiscono. Ma sembra
difficile accettare come pacifica un'estensione di tale nozione alla vita
morale, In realtà affermando l'imprescindibilità dell'etica dalla nozione
di valore intrinseco si ripropone sotto una nuova forma l’obie- zione che
contro le concezioni conseguenzialiste muove — come abbiamo visto — chi
fa appello all’ineliminabilità dei principi. Il sostenitore dell'etica
dei principi rimarca che la considerazione delle conseguenze esige
comunque una loro valutazione ticorrendo a principi. In modo analogo chi
ritiene ineliminabile dall’etica l’uso della nozione di valore intrinseco
rimarca che una considerazione etica in termini di valore strumentale
rinvia sempre a qualcosa che è fornito invece di valore intrinseco 0
finale. Con questo lessico la critica al conseguenzialismo si carica di
allusioni ontologiche, metafisiche e oggettivistiche che è difficile possano
avere un riscontro sul piano dell’analisi empirica, 4.3.
L'etica giusnaturalistica e la legge naturale. — Passando al piano più
sostantivo un'etica normativa chiaramente identificabile è quella
giusnaturali- stica o della legge naturale. Abbiamo già avuto modo (cfr.
$ 3.4) di sostenere come il giusnaturalismo e la concezione della legge
naturale vadano incontro a profonde difficoltà epistemologiche, ma resta
fermo che anche nel corso del XX secolo — benché con minore fortuna che
nel passato — sono riconosci- bili dei sostenitori di un concezione
giusnaturalista o della legge naturale (ad esempio Finnis, 1983), Si
tratta di quella posizione etica che ritiene che gli uomini hanno per
natura determinati doveri e obblighi e che tali doveri e ob- blighi siano
determinabili prima e indipendentemente dal costituirsi di qual- siasi
istituzione giuridica o politica. La tradizione giusnaturalistica
ha avuto, dopo la presentazione da parte di Tommaso d’Aquino di un’etica
cristiana della legge naturale, una ripresa e una formulazione
sistematica nel corso del XVII secolo da parte di autori come Grozio e
Pufendorf. La concezione della legge naturale è stata poi varie volte
ripresentata nei secoli successivi e tuttora costituisce l'etica
prevalente nelle visioni cristiane e religiose. Le concezioni della legge
naturale ruotano intorno al riconoscimento di una serie di obblighi e di
doveri propri della na- tura umana. Proprio conseguentemente a questo
riconoscimento i teorici della legge naturale fanno ampio uso del
linguaggio dei diritti, anzi possiamo ritenere che la diffusione nell'età
moderna e contemporanea di tale linguaggio sia una ricaduta del
giusnaturalismo del XVII secolo. Va però sottolineato come sia del tutto
differente il ruolo che i diritti hanno nelle concezioni giu- snaturalistiche
rispetto a quello che essi hanno nelle teorie etiche dei diritti
propriamente dette. Infatti i diritti affermati da un'etica giusnaturalistica
non sono mai illimitati e assoluti, ma trovano una delimitazione
nell’obbligo o dovere che occorre comunque rispettare facendo valere il
proprio diritto. Le diverse classificazioni dei diritti rinviano quindi a
un contesto di leggi, doveri e obblighi che resta primario. I
teorici della legge naturale concordano nel ritenere che gli uomini in
quanto tali hanno tutta una serie di diritti e doveri paralleli: ad esempio,
l’esi- stenza di un diritto alla vita da parte di qualcuno sì accompagna
al dovere del rispetto della vita di costui da parte degli altri. Tra gli
obblighi più frequente- mente richiamati dai teorici della legge naturale
ricordiamo i doveri verso se stessi, i doveri verso gli altri
(distinguendo in questo ambito tra i doveri verso i propri familiari e i
doveri verso i propri concittadini) e i doveri verso Dio. I doveri verso
se stessi sono spesso identificati con tutta una serie di massime di tipo
prudenziale, sulla base di un più generale principio che considera la
vita umana — più specificamente la propria vita — come non disponibile.
All’in- terno del quadro delle etiche giusnaturalistiche infatti il
suicidio è general mente considerato inaccettabile. Per
quanto riguarda poi la dimensione dei doveri verso gli altri una prima
proposta è quella che distingue tra i doveri in senso più stretto nei
confronti dei propri familiari e i doveri in senso più generale verso i
propri simili. Un'altra distinzione ricorrente tra i teorici del
giusnaturalismo è quella tra doveri perfetti e imperfetti. Ci si trova di
fronte a doveri perfetti laddove a questi doveri non si può disattendere
in quanto sono legati a un corrispon- dente diritto da parte degli altri
e dunque con una qualche codificazione. Così in questa classe rientra il
dovere di non ledere gli altri o di ottemperare a una promessa o patto
sottoscritto. Nella nozione di lesione si fa spesso rientrare non solo il
danno fisico, ma anche il danno relativo ai beni ovvero alla proprietà.
Vi sono invece tutta una serie di doveri imperfetti: essi riguardano
azioni che non siamo sempre tenuti a realizzare perché gli altri non le
possono pretendere da noi come un loro diritto (ad esempio le azioni
mosse da generosità 0 beneficenza); oppure si tratta di doveri speciali
legati al partico. lare posto che si occupa, ovvero al ruolo
professionale, o al ruolo nella famiglia (padre, madre, figlio ecc.), o
alla carica che si ricopre nella società. Non mancano tentativi fatti dai
teorici della legge naturale specialmente nel XVII secolo con Grozio,
Pufendorf, Althusius e Thomasius (Bobbio, 1980) di esporre in forma
compiuta e sistematica tutto il codice di obblighi e doveri.
I teorici della legge naturale riconoscono uno statuto del tutto
peculiare al dovere nei confronti del governo o dello Stato, ovvero al
dovere di obbe- dienza 0 lealtà nei confronti delle leggi del proprio
paese. Ma proprio la rifles- sione intorno a questo dovere, alla sua
assolutezza o ai suoi limiti, segna nel corso del XVII secolo il processo
di crisi per l'etica della legge naturale. In- fatti Hobbes mette in luce
la difficoltà di conciliare all'interno di un'etica della legge naturale
due distinte esigenze entrambe considerate essenziali: da una parte il
dovere di obbedienza al governo e dall'altra un qualche diritto a
resistere al governo ingiusto. Hobbes indicava la soluzione nel rimettere
al governo attraverso il patto tutti i diritti e dunque complessivamente
anche il diritto di resistenza, lasciando però all'individuo la
possibilità di salvare con la fuga la propria vita quando in
pericolo. La concezione giusnaturalistica dunque è entrata in crisi
non solo sul piano epistemologico (cfr. $ 3.4), ma anche per la sua
incapacità di fornire soluzioni pratiche effettive ai problemi etici che
di volta in volta si sono pre- sentati agli uomini. Quanto più le
condizioni di vita degli esseri umani sono andate collocandosi in un
ambiente artificiale, tanto meno il richiamo alla na- tura è risultato
decisivo e chiaramente comprensibile. Non solo il dovere di resistenza
del cittadino nei confronti dei governi ingiusti o delle guetre ingiu-
ste è risultato inderivabile da una presunta legge naturale, ma molti dei
doveri a cui rinviava la legge naturale sono apparsi desueti o inutili o
lacunosi quando le condizioni di vita si sono andate trasformando
radicalmente nel corso di un processo di civilizzazione che ha segnato il
prevalere di condizioni artificiali di vita. Si pensi, ad esempio, alle
profonde trasformazioni che hanno subito le relazioni familiari. Da
queste trasformazioni deriva la vuotezza di quelle concezioni che pensano
di potere risolvere i conflitti facendo appello a ciò che è naturale. Le
questioni legate alle relazioni familiari o ai rapporti tra i sensi non
trovano certo più una soluzione ovvia e condivisa rinviando a una presunta
famiglia naturale ideale o a un comportamento appropriato e lode- vole
secondo un qualche modello naturale di padre, madre, figlio e dei rispet-
tivi doveri. Ancora, per cogliere le difficoltà a cui va incontro il
giusnaturali- smo si pensi come al suo interno sia arduo trovare risposte
per i problemi che nascono con le nuove professioni o le nuove
responsabilità etiche (pensiamo a chi si occupa di gestione o
trasmissione delle informazioni o delle immagini, o a chi si occupa di terapia
delle malattie mentali). L'etica della legge naturale pretende di trovare
nella natura umana da sempre e per l'eternità doveri e diritti relativi a
condizioni e situazioni che solo cinquant'anni fa erano inimmaginabili.
Né una riduzione a una presunta essenza della condi- zione umana può
risolvere queste difficoltà in quanto per questa via le norme ricavate
dalle leggi naturali si presentano con una formulazione tanto astratta e
generica da risultare del tutto inefficaci. Proprio perciò la tradizione
giusna- turalistica si è andata sempre più svuotando della sua forza
pratica e l'appello alla legge naturale è divenuto solo uno strumento
retorico e ideologico, unito alla reiterazione di regole (spesso del
tutto incapaci di guidarci) molto gene- rali quali «non uccidere», «non
rubare» ecc. 44. L'etica contrattualistica e le sue forme. — Il
contrattualismo come teoria etica fu elaborato inizialmente nel corso del
XVII secolo proprio come superamento del giusnaturalismo cristiano e
medievale. La possibilità di indi- care nella natura umana un fondamento
adeguato per l’etica veniva messa in crisi da Hobbes indicando la
completa assenza, nella natura originatia degli uomini, di tendenze che
rendessero possibili la pace, l'ordine e la coopera- zione sociale.
Proprio in quanto la natura umana immaginata in uno «stato di natura» è
incapace secondo Hobbes di dare fondamento alla distinzione tra il bene
il male, tra il giusto e l'ingiusto, queste distinzioni vanno collegate a
una procedura artificiale che coincide con il contratto. Il contratto fu
am- piamente usato nel corso del XVII secolo come criterio etico decisivo
da autori — molto diversi tra loro — come Hobbes, Pufendorf, Spinoza e
Locke {Gough, 1986). Un tratto tipico comune del
contrattualismo del XVII secolo sta nel fatto che il contratto è
presentato come un criterio che può riuscire a fondare solo una parte del
contenuto dell'etica — quello che ha a che fare con le leggi giuridiche e
con le istituzioni politiche —, ma non la totalità dell'etica e în
particolare non può rappresentare un criterio adeguato per fondare la
morale nel senso stretto in cui ne trattiamo in questo scritto. Proprio
perciò i teorici nel XVII secolo, al di lì dello spazio garantito dal
contratto, rinviano a una diversa base come fondazione per la morale
propriamente detta. Ad esempio nella teoria di Hobbes troviamo che o —
secondo la maggior parte dei suoi interpreti — vi è una completa assenza
di morale nello stato di natura e prima del patto che dà vita all’ordine
civile, oppure — ad esempio secondo H. War- render (1974) — la morale
viene fatta dipendere dagli ordini di Dio, o infine — ad esempio secondo
Bobbio (1989) — la si fa dipendere da un calcolo prudenziale. Pufendorf e
Locke invece ritengono che il contrattualismo per quanto riguarda
l'obbligo giuridico e politico possa (e debba) essere accom- pagnato
dall'accettazione del giusnaturalismo per quanto riguarda l’obbliga-
zione morale propriamente detta. Una prospettiva che restringe la portata
della procedura artificialistica del contratio è presente anche in un
autore come Jean-Jacques Rousseau che pure indica, nel contratto sociale
(Rousseau, 1966), l’unica via per correggere le distorsioni generate
dalla corruzione pro- dotta dallo sviluppo della società e ricostituire
così condizioni etiche più con- sone alla natura degli uomini (Rousseau,
1988). Solo con il XX secolo il contrattualismo si è presentato
come criterio etico generale non ristretto alle situazioni di pertinenza
del diritto e della politica. È infatti con Rawls e la sua «teoria della
giustizia» (Rawls, 1982) che la conce- zione contrattualista viene
proposta come strategia adeguata per individuare i principi etici in
generale. Va però rimarcato che il «contrattualismo ideale» di Rawls
riesce a funzionare da criterio generale per l’etica solo in quanto si
de- linea come una procedura che ha incorporato in sé un altro requisito
ritenuto caratteristico dell’etica: quello dell’imparzialità o
dell'assunzione di un punto di vista generale. Abbiamo già indicato (cfr.
$ 3.8) i limiti del contrattualismo di Rawls per quanto riguarda le
procedure epistemologiche a cui si richiama; sul piano normativo va
rilevato che tale criterio è in grado di indicare solu- zioni — ad
esempio nella distribuzione dei beni disponibili — solo in quanto tutti
coloro che sono coinvolti accettano già alcuni vincoli. Perché la proce-
dura contrattualistica possa risultare decisiva bisogna, dunque, ritenere che
ci sia già un qualche accordo nel considerarsi cittadini di una stessa
comunità; oppure, in alternativa, bisogna ritenere che ci sia un’armonia
prestabilita (un residuo del provvidenzialismo settecentesco) che
garantisce la confluenza de- gli interessi individuali nel bene generale.
Proprio come correttivo di queste limitazioni Gauthier ha presentato una
procedura delineata come una forma di «contrattualismo reale» (Gauthier,
1986). Questa strategia si sforza di mo- strare che un certo esito
identificato come un equilibrio di contrattazione ri- sulta per tutti
coloro che sono coinvolti più conveniente in termini di soddi- sfazioni
personali. Resta però da dire che in questo caso il criterio etico deci-
sivo sembra presentarsi — al di lì del contratto — in una sorta di «egoismo
razionale» che accetta i vincoli di una contrattazione come mezzo
migliore per l'ottimizzazione di risultati anche dovendo fare conto su
eventuali soste- gni o ostacoli da parte degli altri (cfr. $ 3.3).
In generale dunque il contrattualismo presenta un criterio normativo
che non è in grado di esaurire nella sua interezza lo spazio dell'etica,
ma che ha bisogno di rinviare a criteri aggiuntivi (imparzialità o
egoismo razionale) ove lo si voglia fare valere al di là del piano
giuridico e politico. Un'etica dei diritti. — Anche l'etica dei diritti si
è andata svilup- pando nella cultura moderna e contemporanea come un
correttivo della con- cezione giusnaturalistica. Una prima fase
dell'etica dei diritti nel corso del XVII secolo fu la via attraverso la
quale si cercò dì garantire la sfera di auto- nomia delle persone nei
confronti dell'intervento della legge e del potere po- litico. I diritti
che vengono fatti valere sul piano etico si presentano dunque prevalentemente
come diritti negativi e di libertà contro l’ingerenza di un po- tere
esterno. Così, da una parte, autori come Hobbes e Locke si fermarono a
lungo sui diritti negativi alla autoconsetvazione e alla proprietà dei beni
ed altri autori — come ad esempio Anthony Collins (1990) — e in generale
i free-tbinkers — cercarono di far valere il diritto alla libertà di
pensiero. Il pro- cesso teso a garantire i diritti negativi ebbe esito
sul piano storico con le varie Dichiarazioni dei diritti degli Stati Americani
(1776-1789) e con la Dichiara- zione dei diritti della Rivoluzione
francese (1789; cfr. Cassese, 1988). Nel corso del XIX secolo e
nella prima metà del XX vi è stata una conte- stazione della teoria etica
dei diritti, da una parte dagli utilitaristi sul piano epistemologico e,
dall'altra, dai marxisti sul piano di una critica storico-so- ciale. Ma —
come rileva Brenda Almond (Almond, 1991} — una ripresa del- l'etica dei
diritti si è avuta dopo la seconda guerra mondiale in particolare come
reazione alla soluzione finale e al penocidio voluto dai nazisti. Si è
così assistito a un progressivo ampliamento dell'etica dei diritti fino
al punto che Bobbio ha potuto indicare come adeguata per la nostra epoca
l’espressione di «età dei diritti» (Bobbio, 1990). Infatti più
recentemente hanno fatto ricorso al linguaggio dei diritti anche quelle
concezioni che in precedenza lo avevano criticato, come ad esempio
l’utilitarismo — che l'aveva riftutato come del tutto privo di sensatezza
— o l'etica cattolica — che l’aveva attaccato come espressione del
trionfo di una mentalità moderna anarchica e priva di eticità. Nella
seconda metà del secolo XX si è altresì assistito a una espansione della
sfera dei diritti affermati come degni di salvaguardia. Infatti la più recente
etica dei diritti non si limita più a rivendicare i tradizionali diritti
negativi ma ha esteso le pretese anche a tutta una serie di diritti
cosiddetti positivi (ad esempio alla salute, all'educazione, ad un lavoro
ecc.). Ma in questa sede non possiamo limitarci a prendere atto della
larga diffusione a livello di opinione pubblica del linguaggio dei
diritti; dobbiamo piuttosto impegnarci a identifi- care e valutare
criticamente le concezioni teoriche che hanno visto nell’affer- mazione
dei diritti il criterio etico fondamentale. Nel corso del secolo
XVII laddove i sostenitori della legge naturale prefe- rivano richiamare
sul piano etico il primato dei caratteri essenziali della na- tura umana
intesi in modo complessivo, o per così dire olistico, i sostenitori di un'etica
dei diritti — pur conservando la convinzione di una legge naturale o
divina che fonda in modo assoluto l’etica — facevano proprio — sia pure
in modo grezzo e schematico — il quadro teorico dell'individualismo
metodolo- gico. Muovendo da questa prospettiva, almeno per una parte
della storia del- l'etica dei diritti possiamo accettare il quadro
esplicativo proposto da autori come L. Strauss (1990) e C. B. Macpherson
(1973) che identificano questa sto- ria con quella della lotta di una
nuova classe in ascesa — la borghesia 0 ceto medio, ovvero il ceto di
produttori — per giungere a un ticonoscimento delle sue esigenze da parte
della legge o del potere politico. Dunque una prima fase
dell'affermazione dei diritti fu rivolta a far valere pretesi diritti naturali
degli uomini contro lo strapotere della legge e dello Stato. Si tratta di
quella fase che possiamo ritenere conclusa con le Rivoluzioni americana e
francese in cui si affermano i diritti negativi alla vita, alla libertà,
all'autonomia, alla resi- stenza, alla proprietà ecc. In questo quadro,
oltre ai teorici del liberalismo settecentesco, possiamo collocare anche
autori che, come Rousseau, sono im- pegnati a recuperare una serie di
esigenze naturali degli uomini contro le li- mitazioni progressivamente
delineatesi nella storia della corruzione umana. Nel corso del XX
secolo invece i fautori dell'etica dei diritti hanno cer- cato, sempre su
un piano morale o pregiuridico e prepolitico, di argomentare a favore del
riconoscimento di una serie di esigenze minime che gli esseri umani
avrebbero in quanto tali e che le collettività dovrebbero garantire con
le loro istituzioni e forme di vita organizzate. Tra questi diritti positivi
rien- trano ad esempio quelli alla salute, al lavoro, a una casa o più
genericamente alla liberazione dalla povertà o addirittura al benessere o
alla felicità. Laddove nella prima fase erano i diritti dell’individuo o
del cittadino che si cercava di considerare come criterio decisivo
dell'etica, nella fase più recente si pren- dono a guida piuttosto i
diritti della persona umana più ampiamente intesa. Va però rilevato che
ci si trova di fronte a una sorta di contrasto 0 incompa- tibilità tra
l'affermazione dei diritti negativi e quella dei diritti positivi. Come
ha più volte sottolineato Bobbio (1990) l'espansione dei programmi di
difesa dei diritti sociali o positivi (a parte le difficoltà di
concordare una lista precisa dei diritti da includere in questo programma
e di convergere su una loro ge- rarchia) non può che essere realizzata
dando al potere politico e giuridico una qualche autorità per limitare
eventualmente i diritti negativi individuali che, se illimitati, non
permettono il raggiungimento per tutti i membri di una so- cietà dei
diritti sociali. Dal punto di vista teorico nel nostro secolo
l'appello ai diritti è stato col- legato, sul piano fondazionale, non
solo con la legge naturale, ma anche con altre strategie etiche. Non è
mancato chi ha cercato di fondare i diritti in un quadro generalmente
contrattualistico (ad esempio Rawls, 1982), o di recupe- carne un qualche
riconoscimento anche in un quadro utilitaristico (ad esem- pio Hare,
1989), anche se in queste concezioni i diritti non hanno più una collocazione
primaria e originaria ma solo un ruolo sussidiario e derivato. Non sono
poi mancate profonde divaricazioni per quanto riguarda il tipo di
tradizione etico-politica al cui interno sono state calate le affermazioni dei
di- ritti. Da una parte si è fatto ricorso alla tradizione liberale che
ha piuttosto insistito sui diritti negativi degli individui nei confronti
della società civile e spesso contro lo Stato (così da I. Berlin, 1989,
fino alle posizioni anarchiche di R. Nozick, 1981). Dall'altra si colloca
la strategia — che ha trovato espres- sione nei movimenti democratici e
socialisti e in forma più totalitaria nei re- gimi comunisti — che in
nome della realizzazione dei diritti sociali dei citta- dini ha proposto
limitazioni più 0 meno estese delle libertà negative. Una storia
del progressivo espandersi e modificarsi delle rivendicazioni dei diritti
può essere una strada molto fertile per ripercorrere la storia della mo-
rale e del costume sociale nelle società occidentali, ma non permette di
arri. vare a identificare un preciso criterio etico. In questa direzione
già Bentham mostrava le fallacie e le insufficienze di una teoria etica
dei diritti che a suo parere non poteva che confluire in un'etica della
legge naturale e dunque in una forma di etica autoritaria o dell’ipse
dixit {Bentham, 1981). Un'alternativa alle concezioni giusnaturalistiche
che può essere percorsa dall’etica dei diritti è quella che, secondo
alcuni interpreti, sarebbe propria di Hobbes, il quale identifica i diritti
con le prerogative che ciascuno individuo si trova di fatto ad avere a
ragione delle sue condizioni storiche, del suo status sociale, delle sue
capacità, forza ecc. Una impostazione che però rende praticamente
impossi- bile un qualche bilanciamento dei titoli che qualsiasi individuo
può far valere come decisivi. Ovviamente si presentano qui come
insolubili pretese conflig- genti di diritti in una condizione come
quella umana nella quale per la scarsità delle risorse e i vincoli
emotivi degli esseri umani non sono contemporanea- mente soddisfacibili
tutte le esigenze di tutti. L'etica dei diritti manifesta la sua
maggiore inadeguatezza sul piano critico e teorico proprio nella seconda
metà del XX secolo, quando realizza il mag- giore successo dal punto di
vista della sua diffusione come forma di discorso prevalente
nell'opinione pubblica. Infatti proprio in questo periodo vi è stato un
fiorire di nuovi diritti ed un indubbio processo di democratizzazione
(ov- vero di allargamento della base di coloro che avanzano le pretese di
diritti), fenomeni che ben lungi dal risolvere problemi etici ne hanno
fatto sorgere di nuovi. Abbiamo assistito, proprio come conseguenza del
prevalere della forma di rivendicazione etica che fa appello ai diritti,
a un riacutizzarsi dei contrasti in campi quali quelli della nascita,
della morte, della cura, dell’am- biente, del trattamento degli animali,
della considerazione delle generazioni future ecc. Da un punto di vista
puramente descrittivo — e lasciando sospeso il giudizio di merito su
questi fenomeni — si può rilevare una crescita espo- nenziale di nuovi
soggetti di diritti e di diritti che ciascun soggetto avanza con la
pretesa che siano riconosciuti da tutti e salvaguardati dalle istituzioni poli-
tiche e giuridiche. Dietro questo diffondersi delle pretese ai diritti, invece,
da un punto di vista teorico e fondazionale restano valide le strategie
del passato con cui si era già cercato di giustificare il primato dei
diritti presentandoli, di volta in volta, come una pretesa di verità
(White, 1984), uno strumento emo- tivo particolarmente persuasivo
(Hagerstròm, 1953), una sorta di «asso di bri- scola» (Dworkin, 1982), un
titolo richiamato come valido (Nozick, 1981), Ma il tentativo di costruire
una qualche etica dei diritti come risolutiva va incon- tro a difficoltà
insuperabili quando si tratta di fornire criteri sicuri per deci- dere
quali nuovi diritti riconoscere effettivamente come meritevoli di codifi-
cazione giuridica o di tutela morale. Non diversamente, il contesto
teorico dell'etica dei diritti non è in grado, di fronte a casi concreti,
di offrire una strada argomentativa per superare contrasti e conflitti
proprio relativamente a diritti da riconoscere convergentemente. Per
questi suoi limiti epistemologici l’etica dei diritti si presenta, più
che come una teoria valida e coerente, come una retorica pubblica
largamente usata oggi nella nostra cultura. 4.6. L'etica kantiana
e la persona umana. — Un modello del tutto pecu- liare di etica normativa
è quello che si trova negli scritti di Kant. Come ha sottolineato
Frankena, nel caso di Kant ci troviamo di fronte a una ben pre- cisa
forma di «deontologismo della regola» {Frankena, 1981). L’universalità
richiamata dall’etica kantiana si collega, su un piano epistemologico, con
una forma di intuizionismo che attraverso la via del trascendentalismo
sfocia in un realismo etico che esclude la possibilità di conciliarlo con
una meta-etica non- cognitivistica. Va così rifiutato il tentativo di
Rawls {Rawls, 1980) di trovare in Kant un'etica sostanzialmente
costruttivistica e puramente procedurale. La legge etica di fondo
dell’etica kantiana — ovvero l'imperativo catego- rico «agisci in modo
che la massima della tua volontà possa valere nello stesso tempo come
principio di una legislazione universale» (Kant, 1970a: 167) — si
presenta come decisiva e capace di indicare le soluzioni dei diversi conflitti
e disaccordi etici. Ma è proprio questo universalismo dell’etica di Kant
che è stato più frequentemente criticato. L'etica kantiana si presenta
secondo i cri- tici come una mera etica della coerenza formale e propria
di una volontà che per rendersi il più universale possibile si
depotenzia, si svuota di contenuti e si rende del tutto incapace di
incidere in qualche modo sulle effettive opzioni presenti nelle
situazioni reali. La comprensione della proposta etica kantiana
passa attraverso una più precisa individuazione della natura
dell'imperativo categorico. In Kant si tratta di una massima che è
universalizzabile solo se può essere voluta senza contraddizione come
legge universale, cioè se e solo se qualcuno può volere, senza incoerenza
nella volontà, che ognuno adotti questa massima e agisca secondo essa.
L’universalizzabilità in questo senso «è la prova dell’accettabi- lità
morale di una massima dell’azione e conseguentemente della condotta»
(cfr. M. G. Singer, 1985: 55). Per Kant l’universalità è un principio morale
e come tale non ha molto a che fare con l’universalizzabilità che Hare
riconosce come carattere proprio dei giudizi morali, in quanto tale
carattere, almeno nelle prime affermazioni che ne fa Hare (cfr. $ 2.6),
si presenta come una tesi sulla logica del discorso morale.
Ma per rendere conto adeguatamente dell’etica normativa kantiana non
ci si può limitare alla componente universalistica. Vi sono altri tratti
che la ren- dono storicamente riconoscibile, e almeno altre due tesi ne
rappresentano il nucleo essenziale: il complessivo approccio rigoristico
a preferenze, desideri e passioni umane; l'affermazione della centralità
morale della persona. Nel caso dell’etica kantiana la legge morale
e gli imperativi categorici na- scono proprio negando — in nome della
libertà — interessi egoistici e desi- deri individuali e non già rendendo
possibile, con il fare valere punti di vista imparziali e generali, una
loro conciliazione. Uno degli aspetti caratteristici dell'etica normativa
kantiana sta nel riprendere il discorso delle etiche asceti- che
cristiane che indicavano un'incompatibilità tra la ricerca del proprio
be- nessere e il piano morale. In questa linea l’etica kantiana non si
spinge solo a fissare una distinzione tra il cosiddetto piano prudenziale
e il piano etico, ma procede fino a prescrivere la salvaguardia di un
piano morale che nega recisa- mente — contrapponendovisi — tutta
l'impostazione delle etiche eteronome che fanno del benessere il fine
delle azioni umane. Proprio in questo senso l'etica di Kant si presenta
come un'etica del dovere e della scelta responsabile e razionale della
legge universale, in contrasto con qualsiasi tendenza a consi- derare la
felicità individuale come obiettivo finale dell'etica. La posizione kan-
tiana si presenta, dunque, come del tutto alternativa rispetto a quella fatta
va- lere sempre più decisamente nella tradizione empiristica — da Hume
all’uti- litarismo, al prescrittivismo universale — secondo la quale solo
desideri, sentimenti e preferenze sono in grado di motivare le scelte
(etiche o non eti- che) e la ragione invece risulta inefficace su questo
piano, Non bisogna per dere di vista questa componente dell'etica
kantiana che rende del tutto eccentrici aleuni tentativi contemporanei — ad
esempio quelli di J. Rawls e R. M, Hare — di conciliare l’universalismo
kantiano con un bilanciamento dei desi- deri e delle preferenze effettive
di coloro che sono coinvolti. Kant rifiutava tutte quelle etiche
che facevano discendere la determina- zione della moralità da motivi
diversi da quelli propriamente etici. La sua teo- ria è del tutto in
linea con l'affermazione nella cultura moderna e contempo- ranea
dell'autonomia della morale. In particolare Kant rifiutava come etero-
nome tutte quelle etiche che assimilavano il bene morale a qualcosa che
dipendeva o dall'educazione (Montaigne), o dalle leggi civili (Mandeville),
o dal sentimento fisico (Epicuro), o dal senso morale (Hutcheson), o
dalla per- fezione oggettiva (Wolff e gli stoici), o dalla volontà di Dio
(Crusius e altri moralisti teologici; Kant, 1970a: 178). Secondo Kant
l’amore di sé, i senti- menti e le preferenze personali non sono in grado
di costituire il punto di vista morale: laddove l’azione è motivata da
questi scopi essa è chiaramente eteronorna e dunque non morale. Solo una
legge della ragione può motivare autonomamente. Nel primo caso si hanno
solo imperativi ipotetici e precetti prudenziali, mentre nel secondo caso
si giunge agli imperativi categorici mo- rali nella loro
peculiarità. La concezione etica kantiana infine riconosce un posto
centrale alla per- sona. Kant presenta una caratterizzazione della
persona umana in termini es- senzialistici e semplici ovvero come qualcosa
che ha una sua realtà sostanziale continua e inconfondibile {tra l'altro
che sopravvive alla stessa morte}, anche se questa realtà sfugge alia
nostra conoscenza e si presenta come collocata sul piano noumenico. Ecco
ad esempio una definizione dell’essere umano, non priva di implicazioni
assiologiche, offerta da Kant nella Axtoropologie in prag- matischer
Hinsicht abgefasst (1798, Antropologia dal punto di vista pragmati- co):
«Che l’uomo possa avere una rappresentazione del proprio io, lo innalza
infinitamente al di sopra di tutti gli altri esseri viventi sulla terra. Perciò
egli è una persona e, grazie all'unità della coscienza in tutti i
mutamenti che subisce, una sola e stessa persona» (Kant, 1970a: 547).
Malgrado alcune limitazioni epistemologiche nell’affermazione di un
personalismo essenzialistico Kant considera decisamente come tratto
definiente della persona umana — che è l'unico soggetto-oggetto
dell'universo morale — la sua razionalità. La centra- lità della nozione
di persona nell’etica kantiana risulta esplicita in una delle
formulazioni dell'imperativo categorico che suona: «agisci in modo di
trattare l'umanità nella tua persona come nella persona di ogni altro
sempre come fine e mai soltanto come mezzo» (Kant, 19704). Proprio sulla
base della persona è fondata la tavola dei doveri presentati in Die
Merapbysik der Sitten (1797, La metafisica dei costumzi). Kant riprendeva
le distinzioni avanzate dai giusnaturalisti (in particolare Pufendorf e
Thomasius) tra doveri positivi e negativi (che si intreccia con quella
tra doveri verso Dio, verso gli altri e verso se stessi), riformulandola
come una distinzione tra doveri perfetti {quelli verso se stessi
stabiliti da massime universali per le quali persare un'eccezione equivale a
una contraddizione) e doveri imperfetti (doveri verso gli altri in cui la
contraddi- zione si presenta laddove vogliazzo un'eccezione) (Kant,
1970b: 269-374). Le critiche alla concezione kantiana dell'etica
sono state mosse lungo di- verse linee. Ricordiamo quelle che ci sembrano
più decisive: la mera forma dell’universalità o è vuota 0 può essere
soddisfatta dalla coerenza e fedeltà verso qualsiasi valore anche negativo;
l’uso dell'autonomia dell’etica in chiave rigidamente rigoristica rende
del tutto astratta e ininfluente la norma kantiana che non potrà
includere nessuno dei desideri effettivi di esseri umani concreti.
Inoltre, l'ancoraggio dell'etica da parte di Kant alla persona razionale
com- porta per la sua prospettiva alcuni limiti: non può essere estesa a
rendere conto di situazioni etiche in cui siano presenti esseri non
razionali (animali, ambiente ecc.); resta pur sempre un residuo di
colorazione egoistica in una prospettiva che si muove esclusivamente in
un contesto di persone in qualche modo distinte e separate l'una
dall'altra. Quest'ultima critica è stata fatta va- lere in particolare da
Parfit (1989). La tesi è che solo un quadro concettuale che — come quello
elaborato da Parfit — dia una spiegazione riduzionistica e complessa per
quanto riguarda la natura dell'io e della persona potrà permet- tere di
non considerare le singole persone umane come unità di misura finale pes
l'etica. Dunque solo chi sappia liberare la morale dai confini ontologici
della persona umana potrà porre le basi per la costruzione di un'etica
effetti- vamente universalistica e altruistica. 4.7. Le
etiche utilitaristiche. — Una concezione etica molto diffusa e for-
tunata è quella utilitaristica. Si può trovare un appello generico
all’utilità come criterio di scelta etica in molti pensatori
dall’antichità ai giorni nostri. Ma prendendo in esame l’utilitarismo
propriamente detto facciamo riferi- mento a quelle concezioni che
riprendono da Bentham lo sforzo di svilup- pare, in termini precisi e
rigorosi, un criterio di scelta e valutazione morale con al centro
l'utilità, a sua volta definita ricorrendo a nozioni quali piacere-
dolore, felicità-infelicità, soddisfazione di preferenze ecc. La storia
dell’utilita- rismo, anche in questo senso più stretto e determinato, è
molto ampia e non si può qui ripercorrerla se non in modo sommario
limitandosi a delineare alcuni dei filoni principali in esso
riconoscibili. Nel rendere conto delle varie forme di utilitarismo
proviamo a differen- ziarle sulla base della diversa caratterizzazione
che viene offerta della nozione del bene che alla fine si deve ottenere.
La nozione di utilità è, infatti, sempre ricondotta ad una più
determinata nozione di bene che identifica con più precisione in che cosa
risiede l'utilità che va massimizzata. Un'altra linea di distinzione che
sviluppererno in questo paragrafo è quella tra le concezio- ni che
applicano il criterio utilitaristico alle singole azioni o agli atti
partico- lari e quelle che viceversa fanno valere tale criterio per le
regole o norme in generale. Occorre precisare preliminarmente
— una precisazione particolarmente necessaria in una cultura come quella
italiana in cui l’utilitarismo, ben lungi dall'essere studiato e
discusso, è aprioristicamente liquidato e stigmatizzato come una forma di
egoismo del tutto inconciliabile con la moralità (è ancora
l'atteggiamento avanzato da Alessandro Manzoni nelle sue Osservazioni
sulla morale cattolica nel 1819 a fare testo) — che l'etica
utilitaristica va tenuta net- tamente distinta dalle cosiddette
concezioni egoistiche. È tipico dei fautori dell'etica utilitarista fare
riferimento a un’utilità che non riguarda mai il sin- golo agente, ma che
riguarda — a seconda della formula privilegiata — la massima utilità
generale, l’utilità del maggior numero, l’utilità di tutti, l'utilità di
tutti coloro che sono coinvolti ecc. Si possono individuare diverse
conce- zioni dell’utilitarismo anche tenendo conto della prospettiva
sottoscritta per quanto riguarda l'universo dei soggetti da tenere presente
nel calcolo utilita- ristico. Vi è la tendenza a considerare la massima
utilità che va cercata come coinvolgente tutti coloro nei quali può
essere rintracciato il tipo di stato men- tale che va massimizzato, che
si tratti di piacere, dolore, preferenze, desideri o altro. Proprio in
questo senso è tipico dell'utilitarismo il presentarsi come una
concezione della morale che estende la sua portata anche al di là
dell’ambito delle persone umane, fino a coinvolgere tutti gli esseri
viventi in cui si trovi lo stato mentale (ad esempio la sofferenza o il
piacere) che il criterio deve mi- nimizzare o massimizzare con il corso
di azione prescelto. Già in Bentham {Bentham, 1970: 282-283) era presente
quell'apertura a una considerazione etica del mondo animale che troviamo
poi largamente sviluppata nell’utilita- rismo contemporaneo.
Per quanto riguarda la caratterizzazione del bene che va massimizzato
una differenza classica è quella tra concezione edonistica che distingue
tra i piaceri solo su basi quantitative e quella che riconosce differenze
qualitative. Così in Bentham troviamo sviluppata l’idea che la
misurazione quantitativa del pia- cere € del dolore è l'unico criterio in
grado di dare una base esterna, valida e pubblicamente discutibile, alle
prese di posizione etiche. Bentham quindi cri- tica tutte le etiche
alternative all’utilitarismo in quanto inclini a far valere un criterio
del rutto arbitrario in morale. La formulazione di un criterio di misurazione
della quantità del piacere, in gioco in corsi di azione che coinvolgono
più esseri senzienti, non è priva di difficoltà. Proprio sull’inadeguatezza,
ad esempio, del criterio offerto da Bentham si sono concentrate le
critiche degli avversari dell’utilitarismo. Si è rilevata tra l’altro
l'impossibilità di ridurre a una base unica piaceri diversi e
l'impraticabilità di quei confronti interperso- nali di piacere e dolore
che sarebbero necessari. Resta poi anche costante la critica che la
ricerca del solo obiettivo della massimizzazione dei risultati sem- bra
lasciare completamente da parte le esigenze di una distribuzione giusta
del bene massimizzato. Considereremo eticamente preferibile un corso di
azione che realizza un incremento della quantità di piacere, anche se
questo risultato si accompagna a una distribuzione del tutto iniqua di
tale piacere o benessere e addirittura accentua la distanza tra individui
che ottengono grandi quantità di piacere e individui che ne ottengono una
ridottissima. Dunque vi sarebbe un’opacità di fondo dell'utilitarismo
rispetto a questioni di giustizia distributiva, e più in generale a
questioni di diritti. Una diversa forma di utilitarismo fu
delineata da John Stuart Mill in Ut litarianism (1863) in parte già come
risposta a queste critiche e difficoltà del particolare edonismo di
Bentham (Mill, 1981b). Le variazioni più significative riguardano
l’introduzione di una distinzione qualitativa tra piaceri e un'insi-
stenza sul principio che ciascun individuo è sovrano nella determinazione
delle proprie gerarchie di piacere e che le sue opzioni — laddove non
procu- rino danno agli altri — vanno incorporate nel criterio
utilitaristico. Mill nei suoi scritti non si limita ad assumere come rilevante
la distinzione qualitativa tra piaceri più elevati e più bassi, ma
sviluppa anche una tecnica con l’aiuto della quale risolvere eventuali
contrasti, e ciò che più conta usa questa distin- zione per proporre
sostanziali innovazioni del costume morale a proposito del trattamento
delle donne, della questione dei lavoratori manuali, della povertà e
della scelta responsabile delle nascite. Per quanto riguarda i contrasti
relativi ai piaceri qualitativamente diversi coinvolti Mill ritiene che
essi possano essere risolti facendo appello all'opinione — che si esprime
nella discussione pub- blica con l'approvazione o la disapprovazione
morale — di coloro che cono- scono tutte le forme di piacere in gioco. La
posizione di Mill per quanto ri- guarda la distinzione qualitativa dei
piaceri è stata spesso criticata e denun- ciata come contraddittoria, in
quanto mescolerebbe due differenti criteri di valutazione (cfr.
Musacchio, 1981). Occorre ammettere che Mill presenta un’etica mista,
ovvero che unisce due diversi criteri di scelta e di decisione, ma non.va
data come ovvia e scontata l'inaccettabilità di una posizione nor- mativa
che cerchi di conciliare due distinti principi ad esempio facendoli
valere a diversi livelli etici. Ma la grande svolta nella storia
dell'utilitarismo è segnata da quel mo- mento in cui il criterio passa a
prendere in considerazione non tanto le com- ponenti del piacere e del
dolore, quanto, più genericamente, le preferenze di coloro che sono
coinvolti nelle situazioni in esame. L'utilitarismo delle prefe- renze
che si sviluppa in particolare nel secolo XX realizza uno spostamento
decisivo del criterio che non pretende più di fare riferimento a una unità
di misura comune e oggettiva quale il piacere, ma muove piuttosto
accettando come tutte di eguale valore le preferenze dei diversi soggetti
coinvolti e dun- que identificando come giusto quel corso di azione che
massimizza la soddi- sfazione delle preferenze quali che siano. Le preferenze
possono tendere verso oggetti completamente diversi e dunque
l’utilitarismo delle preferenze dispone di uno strumento di valutazione
etico più flessibile, recuperando e ampliando — in un senso ancora più
liberale e individualistico — quell’esi- genza di pluralismo fatta valere
da Mill contro il riduzionismo oggettivistico e paternalistico
dell’utilitarismo di Bentham (Harsanyi, 1988 e Hare, 1989).
L'utilitarismo delle preferenze è stato poi elaborato nel tentativo di
trovare una risposta per numerose questioni dell’etica teorica; in
particolare sono stati messi a punto criteri per distinguere preferenze
di ordine diverso, quali quelle antisociali di un sadico e quelle
benevole o altruiste. Così John Harsanyi (Har- sanyi, 1985: 75-126} ha
considerato rilevanti per l'etica solo le preferenze be- nevole
considerate imparzialmente, mentre Hare ha identificato come etica- mente
significative le preferenze universalizzabili (Hare, 1989). Infine non
sono mancati utilitaristi che hanno proposto complesse tecniche di
valuta- zione critica delle preferenze: ad esempio Brandt ha proposto di
accettare, dopo averle sottoposte a una sorta di vaglio terapeutico, le
sole preferenze razionali ovvero basate su desideri non egoistici e pienamente
informati (Brandt, 1979). Anche la storia dell’utilitarismo mostra dunque
come, a livello teorico, prevalga l’elaborazione di concezioni miste. Nel
caso specifico al cri- terio della massimizzazione si affianca quello
della selezione delle preferenze in base alla loro universalizzabilità
formale o imparzialità sostanziale. Malgrado questi tentativi di
evitare il riduzionismo, l'utilitarismo è stato insistentemente attaccato
(Smart e Williams, 1985; A. Sen e B. Williams, 1984) contestando la
legittimità di un approccio che considera come decisive le preferenze che
di fatto un certo individuo si trova ad avere. Procedendo in questo modo
l’utilitarista non terrebbe conto che le preferenze esistenti pos- sono
essere indotte dall'esterno o comunque niente affatto adeguate ai bisogni
reali degli individui che di fatto le rivelano. In particolare A. Sen (1986)
ha obiettato che la mera registrazione delle preferenze rivelate finisce
con il con- solidare le distribuzioni di beni inique di fatto già
istituzionalizzate. Gli utilitaristi hanno cercato di rispondere a queste
critiche indicando che l'esigenza della massimizzazione delle
soddisfazioni delle preferenze può essere ottimiz. zata solo laddove si
accetti l’esistenza di una soglia per ciascun individuo al di là della
quale un incremento della soddisfazione delle sue preferenze realizza
risultati meno validi di quelli realizzabili incrementando la soddisfazione
delle preferenze di individui che stanno peggio (Pontara, 1988).
Nella storia dell’utilitarismo, specialmente nel XX secolo, si è
proceduto anche su di un altro piano nel cercare un correttivo che
permettesse di fare valere nella massimizzazione una qualche regola o
principio distributivo. In questa linea si sono sviluppate ad esempio
varie forme di utilitarismo della norma © della regola. Sul piano storico
vi è stata una tendenza a considerare Bentham come un tipico esponente
dell’utilitarismo dell’atto e a trovare in- vece in Mill una posizione
che anticipa le esigenze dell’utilitarismo della re- gola o della norma
(J. Urmson, 1953). Il problema principale affrontato da questa parte
della riflessione teorica interna all’utilitarismo è stato quello della
possibilità o meno di ricondurre l’utilitarismo della regola all’utilitarismo
del- l’atto. Nel caso poi in cui si è concluso per la specificità
dell'utilitarismo della regola, la questione è stata se una teoria che fa
valere un qualche riferimento a regole, principi e norme non comporti una
fuoriuscita dal quadro conseguen- zialista proprio dell’utilitarismo
(Lyons, 1965). Nella riflessione sullassibi- lità di conciliare
l'accettazione primaria dell’utilitarismo dell’atto con un rico-
noscimento di un qualche ruolo nella vita etica a principi e norme,
partico larmente interessante risulta un tentativo come quello di Hare.
Hare ha presentato una teoria dei due livelli di pensiero etico: uno, più
intuitivo e di senso comune, all’interno del quale valgono le regole e le
norme, e l'altro — che si colloca invece sul piano della riflessione
critica — nel quale, vice- versa, si applica ditettamente alle singole
azioni il criterio utilitaristico della massimizzazione della
soddisfazione delle preferenze di tutti coloro che sono coinvolti (Hare,
1989). Più fertili sono da ritenere però quei tentativi di pre- sentare
un utilitarismo della norma e della regola come itriducibile — sul piano
normativo — all’utilitarismo dell'atto. Così ad esempio procede Brandt,
che ha più volte fatto valere la sua posizione come una forma di
utilitarismo della norma ideale. In questa teoria il criterio etico
decisivo è quello che iden- tifica le soluzioni rappresentandosi le norme
da accettare in una società idea- le rivolta a soddisfare massimamente i
desideri razionali dei suoi cittadini (Brandt, 1992). Nel
rendere conto delle varie specie di utilitarismo va infine ricordato
quell’utilitarismo che è sembrato preoccupato non tanto di realizzare un
saldo attivo di piaceri, quanto di minimizzare le sofferenze e i dolori
(R, N. Smart, www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 LE
ETICHE NORMATIVE 85 1958). Questo tipo di utilitarismo negativo è
stato spesso criticato — ad esem- pio da J. J. Smart (Smart, 1985) — come
paradossale in quanto implica che la soluzione migliore è quella che riduce
al massimo il numero di esseri sen- zienti esistenti, in quanto per
questa via si procede certamente a una ridu- zione della quantità delle
sofferenze. Ma se si va al di là del piano speculativo sul quale si muove
l’etica teorica sembra chiaro che proprio il criterio di una riduzione
delle sofferenze inutili ha avuto un ruolo decisivo nei dibattiti più
recenti sull’etica pratica. È stata questa la via principale mediante la quale
si è allargato l'ambito del discorso etico anche alle questioni del
trattamento degli animali ed ancora è questa la via mediante la quale —
riprendendo le critiche di Bentham nei confronti delle etiche ascetiche —
si continua a fare emergere l'inaccettabilità di quelle soluzioni
fittizie ricavate dall’imposizione di antro- pologie astratte.
4.8. La scelta razionale come criterio normativo. — Consideriamo
poi quella concezione normativa che sostiene che ciò che è bene o giusto
fare, in una qualsiasi situazione che ci presenta diverse alternative,
può essere deciso cercando ciò che è razionale o ragionevole fare, nel
senso di ciò che soddisfa massimamente i propri interessi e bisogni. Una
concezione etica della scelta razionale è riconoscibile in particolare
negli scritti di alcuni teorici che difen- dono l'economia di mercato,
sostenendo che proprio la ricerca da parte di ciascun individuo della
massima realizzazione delle proprie esigenze consente di ottenere i
risultati migliori per la società nel complesso (Arrow, 1977 e Buchanan,
1989). Naturalmente un punto decisivo per questa concezione normativa sta
nell'impegno a definire con maggiore precisione la natura di ciò che è
razionale massimizzare nella ricerca di una soddisfazione personale. In
questa luce si presentano come nettamente distinte: da una parte, una
posi- zione che tende a ritenere razionale qualsiasi scelta che ciascuno
consideri come massimizzante la propria utilità interpretata in termini
di benessere o vantaggio economico personale — una teoria etica che muove
dal riconosci- mento di una qualche sovranità del consumatore; dall’altra
una posizione che interpreta la scelta razionale come quella che
massimizza, ad esempio, i biso- gni più profondi ed elevati della persona
che sceglie. La teoria che ritiene eticamente preferibile come
criterio per le scelte pub- bliche il comportamento che tende a
massimizzare l’utilità attesa da ciascuno degli agenti negli ultimi
decenni è stata attaccata lungo due linee: una rivolta a mostrarne le
difficoltà interne laddove venga presentata come teoria norma- tiva da
adottare per identificare l'alternativa di azione ottimale; l’altra rivolta
a farne risaltare la scarsa portata analitica e esplicativa. Il
primo ordine di difficoltà si esprime specialmente osservando che, col.
locandoci all’interno della teoria della scelta razionale e regolandoci non
di- versamente da giocatori che cercano di vincere la partita contro
avversati egualmente razionali, finiamo con il trovarci di fronte al ben
noto dilerzizza del prigioniero (Axelrod, 1985 e Resnik, 1990). Se più
individui razionali in una situazione che li coinvolge in competizione si
fanno guidare per decidere la via da seguire dalla ricerca del migliore
risultato prevedibile — sulla base del. l'attribuzione di un calcolo
eguale agli altri individui — saranno costretti a privilegiare corsi di
azione che porteranno a un risultato niente affatto otti- male. Ll
risultato migliore a cui tenderà ciascuno cercando di garantirsi la mas-
sima utilità attesa, presupponendo anche da parte degli altri un analogo
com- portamento, non garantirà affatto quel buon esito che si potrebbe
realizzare solo introducendo l'accettazione di qualche vincolo
cooperativo da parte di tutti gli individui presenti nella scena.
L'altro tipo di critica — avanzato ad esempio da Sen (1986) — è rivolto
a mostrare i forti limiti esplicativi presenti nella teoria della scelta
razionale in quanto risulta del tutto incapace di rendere conto di tutte
le nostre scelte in situazioni che coinvolgono beni pubblici. Infatti se
pensiamo a scelte che ri- guardano la disponibilità di beni quali strade,
servizi ecc. ci rendiamo conto che ciò che di fatto facciamo laddove
privilegiamo una decisione che porti alla creazione o all'uso regolato di
uno qualunque dei beni pubblici — creazione e uso regolato che risultano
costitutive della nostra forma di vita — non può essere in alcun modo
spiegato come esito di una scelta ispirata dalla teoria della scelta
razionale. Infatti ispirandoci a tale criterio dovremmo sempre tutti
regolarci come free riders, ovvero come battitori liberi che si
preoccupano esclusivamente dei propri interessi, e ciò renderebbe impossibile
la conver- genza sulla creazione e l’uso regolato di un bene pubblico,
Tale teoria non riesce dunque a rendere conto dell’esistenza di una larga
fetta della nostra realtà sociale. Va però segnalato che i
teorici della scelta razionale sono tuttora impe- gnati a elaborare
modelli, coerenti con le loro assunzioni, con cui rispondere a tutte
queste obiezioni. In particolare si sono sforzati di mostrare come nel
quadro teorico della cosiddetta teoria della scelta razionale o dei giochi — ov-
vero in una situazione in cui sono presenti più agenti razionali con obiettivi
in competizione — è possibile spiegare l'insorgenza di norme e regole
coopera- tive che permettono di convergere sui risultati ottimali. In
questa linea si è mosso ad esempio R. Sugden {Sugden, 1986) che ha molto
lavorato nel cer- care di mostrare come una teoria della scelta razionale
che preveda scelte ri- petute, con la ricerca da parte degli agenti di un
aggiustamento reciproco in vista di un equilibrio più stabile, permette di
arrivare a rendere conto dell’ac- cetrazione sociale di norme con un
minimo di contenuto cooperativo. Questo modello cerca di rendere conto
dell'ordine sociale in generale sviluppando alcuni tratti della
ricostruzione della genesi delle istituzioni cooperative già presente in
Hume (Magri, 1994). Questi modelli esplicativi valgono solo in quanto a
posteriori rendono conto di quello che si è già realizzato, ma è dif-
ficile usarli come criteri normativi per scegliere comportamenti rivolti al
fu- turo. I modelli della scelta razionale sono stati adottati in modo
indubbia- mente fertile per rendere conto, all’interno di un generale
quadro evoluzioni- stico, di come tra gli animali superiori si rafforzano
abiti cooperativi in alternativa a quelli o del tutto egoistici o
assolutamente benevoli (Dawkins, 1992). Ma questa teoria nulla può dirci
quando si tratta di decidere quale, tra le differenti alternative di
comportamento che ci sono davanti, dobbiamo scegliere. 4.9.
Pluralismo, tolleranza, relativismo, irrazionalismo etico. — L'esistenza
di differenti concezioni etiche — il loro conflitto sempre risorgente —
non solo fa nascere la questione della disponibilità o meno di criteri
per affrontare razionalmente i contrasti, ma fa sorgere anche il problema
di come conciliare la presa d'atto di una pluralità di concezioni etiche
con il riconoscimento al- l'etica di una qualche validità. In
primo luogo il riconoscimento del pluralismo etico sembra essere ineli-
minabile nella società attuale. Non solo si tratta di una constatazione di
fatto, ma il pluralismo etico è considerato anche un valore. Viene cioè
considerata più apprezzabile una società pluralistica che una società che
in forme più o meno coercitive impone il prevalere di una sola etica.
Quest'ultima assun- zione valutativa non è però condivisa dalle
cosiddette concezioni comunitarie (Ferrara, 1992) che invece privilegiano
società in cui si realizzi una forte con- vergenza sui valori e anzi al
limite siano caratterizzate da un'unica morale {MacIntyre, 1988). Ma al
di là dei timori per un pluralismo etico eccessivo e delle tentazioni per
una società segnata da una forte uniformità, vi sono argo- mentazioni e
distinzioni che sorreggono una preferenza per situazioni caratte- rizzate
da una pluralità di etiche in competizione. Tutta la tradizione
liberale trova nella fioritura pluralistica una condi- zione che
favorisce lo sviluppo di tutte le differenti potenzialità creative
presenti nella natura umana. Tale posizione — presente ad esempio in
pensatori come W. von Humboldt (Humboldt, 1974) e J. S. Mill (Mill,
19814) — ritiene che solo un'effettiva libertà per gli esseri umani di
vivere Îl tipo di vita che essi ritengono giusta, libertà garantita anche
accentuando le differenze, permette che vi sia una piena realizzazione e
un progresso delle capacità umane. L’uniformità porterebbe invece a una
completa atro- fizzazione di queste capacità. Una posizione a
favore del pluralismo etico presuppone che si riescano a tenere ben
distinte due dimensioni dell'etica: da una parte, quella che ri- guarda
quel minimo comune denominatore di principi e regole cooperative che
sembrano essere una condizione necessaria perché vi sia una qualche sta-
bilità della vita associata; dall'altra parte invece quella che ha a che fare
coni modelli e gli ideali che ciascuno può assumere per quanto riguarda
lo stile di vita da preferire. Proprio sul piano che riguarda i valori e
gli ideali etici un confronto tra progetti anche alternativi può segnare
un arricchimento e uno sviluppo della cultura umana. Sul piano più
ristretto dell'etica minima in gioco laddove si tratta delle basi della
convivenza è invece difficile ritenere adeguato un pluralismo di fondo.
Ritorna qui dunque una distinzione già pre- sente nella tradizione
giusnaturalistica tra il piano dei diritti o doveri perfetti e quello dei
doveri imperfetti. Questa posizione di apprezzamento per un
contesto sociale e culturale segnato dal pluralismo etico o pluralismo
dei valori va tenuta però distinta da una concezione che sottoscriva un
completo relativismo. Va, infatti, tenuta chiaramente distinta una
posizione che, sul piano descrittivo, prenda atto che si confrontano
diverse concezioni etiche, dunque tutte relative e non assolute, da una
posizione che assuma da un punto di vista normativo le conclusioni del
relativismo. Il relativismo normativo infatti sostiene che non abbiamo
ragioni per ritenere che nelle questioni etiche sia preferibile una posizione
a un'altra. Il relativista dunque, in definitiva, non riconosce alcuna
validità alle distinzioni morali o etiche tra bene e male, giusto e
ingiusto. È invece carat- teristico del nostro tempo il fatto che si
riesca a sostenere con decisione e forza di convinzione la propria
soluzione etica ai problemi pur rispettando è tollerando quelle diverse
dalla nostra. Ma in questo caso l'ammissione di altre posizioni etiche
non equivale a ritenere che l’una vale l’alira. Come si è ben detto (in
particolare da parte di Berlin, 1989 e Rorty, 1989, ma a livello teorico
la posizione era stata già illustrata da Juvalta, 1945 ed è stata più
recentemente derivata da una meta-etica non-cognitivista, da Scarpelli,
1982) la situazione è — per paradossale che possa sembrare — quella di
chi si impegna con decisione a fornite ragioni a favore del proprio punto
di vista etico pur riconoscendo, ammettendo e rispettando un
interlocutore che fa valere un altro punto di vista e differenti ragioni.
La consapevolezza che il proprio punto di vista etico non è quello
assolutamente giusto e buono consente di tollerarne altri. Ciò non toglie
che, comunque, è il nostro punto di vista a valere di più — ad essere più
buono e più giusto — fin quando non ci verranno presentate ragioni o non
faremo esperienze che ci costringeranno ad abbandonarlo. Le
distinzioni che stiamo suggerendo partono dal presupposto che si sia
completamente abbandonata la pretesa di un'assolutezza dei valori in ge-
nerale e dunque anche del proprio punto di vista etico. Una condizione
propria del nostro tempo che M. Weber esprimeva con l’espressione «po-
liteismo dei valori» (Weber, 1958). Viceversa risulterà impossibile
conciliare pluralismo, relativismo empirico, tolleranza e impegno per il
proprio punto di vista se si muove dalla convinzione che l’etica deve
avere a che fare con qualcosa di assoluto. Ma quest’ultima prospettiva
nel XX secolo è larga- mente inattuale e perdente, in quanto certamente
non può essere conciliata con una meta-etica che pretenda di avere dalla
sua una qualche verità e capacità di rendere conto della nostra effettiva
esperienza morale. Proprio la persistenza di questa prospettiva
assolutistica dell'etica continua a gene- rare confusione e conflitti e
contrasti etici spinti fino a mettere in pericolo la coesistenza, in
quanto mossi da forme di fanatismo morale che non tollerano le
differenze. La trasformazione che stiamo vivendo con il pas- saggio da un
contesto etico caratterizzato dall’aspirazione all’assolutezza ad uno che
accetta la finitezza e mutevolezza dei punti di vista morali può essere
vissuta in due diversi modi. Da una parte ci sono i nostalgici che vivono
il tempo e la società presente come caratterizzati da una perdita e da un
regresso; sono coloro che identificano il passaggio da valori assoluti a
valori frutto delle scelte umane come l’atto di nascita di un completo
nichilismo e di una cultura del tutto irrazionalistica. Per costoro non vi
è alternativa tra un fondamento assoluto e la più completa irrazionalità
e mancanza di senso. Dall'altra — e chi scrive si riconosce in questa
seconda linea — vi sono coloro che vedono la nuova condizione come un
guadagno in quanto ci si è finalmente liberati di miti e illusioni. La
credenza in va- lori assoluti è stata, ed è tuttora, all'origine di
pericolosi e insanabili con- trasti. L'alternativa non è il nulla o la
perdita di senso della nostra esisten- za ma piuttosto un'etica che muove
da un piano più realistico e empirica. mente fondato. I valori derivano
quindi da scelte e decisioni che gli uomini assumono responsabilmente
tenendo conto delle loro emozioni, delle loro limitate capacità
intellettuali e delle loro condizioni effettive. Credere que- sto non
equivale ad avere perso qualcosa, ma viceversa ad avere puada- gnato una
prospettiva che permette agli esseri umani di muoversi, su un piano di
parità, verso soluzioni realizzabili e adeguate per i loro problemi
pratici. Dall’etica teorica all'etica pratica. 5.1.
Dall’etica teorica all’antropologia: motivazione e obbligazione. — La
storia dell'etica è ricca di pensatori che uniscono alle tesi normative,
specifi- che concezioni antropologiche relative alle motivazioni, i
bisogni, i desideri e gli interessi degli esseri umani. Potremmo anzi
sostenere che è comune che a un'etica teorica si accompagni un’etica
antropologica, ovvero una psicologia della morale che su basi più o meno
empiriche pretende di descrivere come gli uomini sono fatti e procedono
nelle loro scelte. Questa commistione tra piano normativo e piano
descrittivo ed empirico risulta largamente praticata specialmente dal
secolo XVII in avanti, dopo che è entrata in crisi Ja conce. zione
innatistica della legge naturale, che riteneva la legge morale natural-
mente obbligante in quanto presente originariamente nella coscienza di
tutti gli esseri umani. Il quadro filosofico del XVII secolo segna il
tramonto di que- sta soluzione innatistica nel collegamento tra legge
morale obbligatoria e base motivante negli esseri umani e dunque per
l’etica moderna e contemporanea diventa essenziale non solo la questione
di ciò che è bene o giusto, ma anche di ciò che rende effettivamente
obbligante per gli uomini il bene e il giusto (cfr. Fagiani, 1983). Si
avvia quindi una ricerca sistematica sulla motivazione e la base
psicologica che rende obbligatoria una condotta etica, Nel pensiero
moderno è ricorrente, per quanto riguarda la motivazione morale, una
concezione che nega che ciò che viene scoperta 0 trovato con l’aiuto
della sola ragione possa avere di per sé forza obbligante o motivante, Un
residuo di attribuzione di forza obbligante alla ragione in quanto tale
{cfr. $ 2.5) si può trovare nella concezione di giusnaturalisti come
Grozio (Grozio, 1625) o in quei pensatori che — come ad esempio Joseph
Butler (Butler, 1970) — nel corso del Settecento indicano nella coscienza
non solo un prin- cipio in grado di trasmettere la consapevolezza della
legge morale, ma anche di obbligare ad essa. Ma la via percorsa dai
teorici dell'etica è piuttosto quella alternativa di negare alla ragione
la capacità di motivare all’azione e dunque di negare forza obbligante
alle norme e leggi scoperte attraverso l’uso del solo intelletto.
Muovendo da questa premessa è dunque necessario procedere a uno studio
empirico della natura umana e in particolare della condotta per vedere
che cosa muove ad agire. Viene così ampiamente ripresa nel corso del XVII
secolo la tesi edonistica secondo la quale solo il piacere e il dolore
muo- vono all'azione (cfr. $ 2.2). Sia Hobbes che Locke, quando fanno
riferimento al piacere e dolore come cause motivanti guardano, in modo
del tutto esclu- sivo, alla persona che agisce. Proprio su questa base
tanto Hobbes quanto Locke sembrano appoggiare la forza obbligante della
legge naturale esclusivamente sul potere di sanzione. Nel caso di Hobbes il
potere sanzionatorio viene legato a un calcolo prudenziale relativo ai
benefici e ai danni che nel corso della vita terrena si ricevono
uniformandosi alle leggi naturali. Locke lega invece il potere
sanzionatorio della legge naturale, e dunque la sua forza obbligante,
alla considerazione del premio e delle pene che si potranno otte- nere in
un’altra vita (Locke, 1971). La concezione che lega la forza obbligante e
la capacità di motivare della morale e dell'etica in generale a qualche
san- zione viene spesso riproposta nel pensiero moderno e contemporaneo,
ad esempio rinviando alla forza sanzionatoria data da qualche piacere o
dolore fisico comunque in gioco. Erede di questa tradizione può essere
considerato Bentham con il suo tentativo di agganciare al potere
sanzionatorio del sovrano la forza della legge giuridica. Non
diversamente in questa linea va collocato il positivismo giuridico del
secolo XX. Proprio l’approfondimento della conoscenza della natura
empirica degli uomini porta tra la fine del XVII secolo e la metà del
XVIII a elaborare una concezione della forza obbligante dell’etica che,
pur non riconducendola a una capacità automotivante della ragione o delle
facoltà intellettuali, non la tiduce però al sanzionamento in termini di
piacere e dolore fisici, generica- mente intesi. Questa ricerca di una
base specifica di motivazione per la morale è già presente alla fine del
secolo XVII in Shaftesbury, che proprio dall'osser- vazione empirica
degli uomini fa derivare la scoperta di un peculiare «senso morale» che
non solo porta gli uomini ad approvare le azioni virtuose, ma anche a
sentirsi spinti a compiere tali azioni e ove tali azioni non sono com-
piute a provare emozioni di disagio e sradicamento da ciò che è più
proprio del genere umano, È dunque la struttura passionale degli uomini a
presentare un'inclinazione — in parte già colta dall’antropologia
aristotelica — a com- piere azioni in generale cooperative.
Questa stessa linea analitica verrà sviluppata ancora nel corso del
XVIII secolo da Hutcheson e Hume. Il nucleo distintivo di questa
ricostruzione della forza obbligante del comportamento etico sta nel
mostrare nella psico- logia degli esseri umani una base motivazionale del
tutto autonoma e specifica che spinge a fare azioni eticamente rilevanti.
Questi autori poi si differenzie- ranno tra loro in quanto presenteranno
o meno come motivazione universali- stica tale base psicologica. Così
mentre da una parte troveremo pensatori come Shaftesbury, Hutcheson e
Smith che rinviano a un altruismo o benevo- lenza più o meno universali,
dall’altra troveremo chi, come Hume, ricono- scetà come motivante solo
una benevolenza limitata che si estende piuttosto ai legami familiari.
L'idea di tutti questi autori è comunque comune. Il senso morale approva
determinate azioni perché esse risultano motivate non solo da un esclusivo
amore di sé, ma da una benevolenza più o meno estesa. La stessa
approvazione del senso morale costituisce poi una motivazione aggiuntiva
al comportamento virtuoso. Risulta dunque chiaro in questa
strategia analitica che la condotta etica trova una sua base
motivazionale in inclinazioni naturali degli uomini per una forma più o
meno estesa di altruismo e interessamento per gli altri. Un aspetto
teorico significativo per il quale questi autori si distingueranno sarà
il loro modo di rendere conto della naturalità della motivazione etica.
Accanto a coloro — come ad esempio Shaftesbury o Hutcheson — che
considereranno la motivazione a fare azioni cooperative come originaria
per la natura umana, vi saranno coloro che la presenteranno piuttosto
come risultato o prodotto di un processo evolutivo o di civilizzazione
piuttosto lungo. Nel corso del XVIII secolo la spiegazione delle basi
motivazionali del comportamento morale sarà inserita sempre di più in un
quadro artificialistico ed evolutivo, Una spiegazione genetica
evoluzionistica e artificialistica della motivazione alla condotta etica
è, ad esempio, già presente in Mandeville e viene svilup- pata
estesamente da Hume e poi — in una direzione ancora più ampia — da
pensatori come J. J. Rousseau, A. Smith e A. Ferguson. Questi ultimi sono
impegnati nel progetto, che sembra centrale per gli intellettuali del XVIII
se- colo, di ricostruire la storia della civilizzazione umana avvalendosi
della teoria stadiale, ovvero di quella concezione che scandisce in
quattro stadi diversi (della caccia e pesca, dell’allevamento,
dell’agricoltura, e del commercio) la storia dell'umanità (Meek, 1981).
La prospettiva impegnata a delineare il pro- cesso artificiale attraverso
il quale gli uomini giungono a disporre di una base psicologica e
motivazionale specifica per il comportamento etico (0 coopera tivo) viene
realizzata nel corso del XVIII secolo anche lungo una diversa linea
associazionistica. In questa chiave il costituirsi delle motivazioni propriamente
etiche viene spiegato come un risultato di ripetute associazioni.
Significativo — anche per un lettore del XX secolo — il contributo
analitico di David Hartley, il cui associazionismo è propriamente
fisiologico, e poi di alcuni esponenti dell'Illuminismo francese (ad
esempio Claude-Adrien Helvétius, Etienne Condillac, Paul Heinrich
Dietrich D'Holbach ecc.) e ancora di utili taristi come James Mill e J.
S. Mill. Nel XIX secolo la genesi delle motivazioni cooperative sarà
collocata in un quadro più esplicitamente evoluzionistico da Darwin e
Spencer (Ruse, 1986). Questa linea di spiegazione evoluzionistica — che
coinvolge il livello biologico — della genesi di una base motivazionale
ad hoc per il comportamento morale è stata ampiamente ripresa nel corso
del XX secolo. Abbiamo così chi, come E. Wilson (1975), ha presentato una
vera e proprio concezione socio-biologica, o chi, come K. Lorenz (1990),
si è piuttosto impegnato a mostrare analogie e differenze tra gli istinti
cooperativi pre- senti negli uomini e quelli rintracciabili negli
animali. La ricerca rivolta a individuare una base motivazionale
nella natura emo- tiva degli uomini a cui agganciare l'obbligazione etica
si estende ben al di là delle concezioni che abbiamo appena delineato.
Non sono mancati coloro che hanno indicato come carattere distintivo
della specie umana la capacità di es- sere motivati a compiere azioni
degne di apprezzamento per il solo gusto o senso del dovere da compiere,
e dunque per il solo essere richiamati da ciò che vale: una strategia che
risulta percorsa da Kant e da coloro che a lui si richiamano come ad
esempio K. O. Apel {Apel, 1977). Al polo opposto si colloca la strategia
di analisi, scettica e riduzionistica, che ha del tutto negato che negli
uomini sia rintracciabile una qualche capacità di auto-motivarsi o
scegliere liberamente, e dunque tanto meno una inclinazione a partecipare
ai piaceri e ai dolori degli altri esseri umani. Nel XX
secolo entra in crisi la pretesa di disporre di una antropologia uni-
versalistica che sia in grado di indicare con nettezza passioni e sentimenti
pre- senti in tutti gli uomini o viceversa di negare agli esseri umani
generalmente intesi una qualche motivazione. L'analisi antropologica,
piuttosto che rinviare a una base motivazionale comune, si impegna ad
elaborare più strategie me- diante le quali si può spiegare la forza
obbligante delle regole morali. Risulta pur sempre difficile riuscire
rendere conto del ruolo obbligante dell'etica lad- dove si ritiene che
gli esseri umani siano mossi dal più rigido egoismo; stanno a dimostrarlo
la crisi e le difficoltà a cui è andata incontro la teoria della scelta
razionale (cfr. $ 4.8). In positivo, dunque, risulta del tutto acquisito che —
per dirla con B. Williams (Williams, 1990: 302-322) — nessun discorso può
riu- scire a rendere motivante per un essere umano un principio etico
cooperativo se nella struttura emotiva di questo essere umano non è già
presente (proba- bilmente come frutto della sua formazione e iniziazione
alla cultura umana) un minimo di interessamento per i piaceri e i dolori
di un altro essere urnano. Da questa prospettiva come da altre il
contesto dell'etica coinvolge diretta- mente non solo la capacità di chi
agisce di presentarsi come essere fornito di una sua identità, ma anche
di riconoscere l'identità degli altri. Passiamo dun- que a rendere conto
della portata delle analisi sulla natura dell’identità perso- nale
nell’etica teorica. 5.2. Il ruolo dell'identità personale
nell’etica. — Nell’etica medievale il rinvio all'anima sostanziale
rappresentava un fondamento e un preciso criterio per risolvere le
questioni morali. Infatti, da una parte, proprio al fondo della sostanza
spitituale si presentavano le norme da applicare in etica e dall'altra l'individuazione
dell'universo di esseri forniti di sostanza spirituale metteva a
disposizione un chiaro criterio di applicazione ed estensione dell’ambito
mo. rale. Questa concezione semplice dell'etica che ruota intorno a una
sostanza che è la persona umana e che non è riducibile ad altro, nello
stesso tempo oggetto e soggetto esclusivo della vita morale, è entrata in
crisi tra il XVII e il XVIII secolo quando l’identità personale non è più
risultata riconducibile a una sostanza. Alla filosofia di
Locke prima e a quella di Hume poi si può far risalire il superamento
critico della concezione sostanzialistica della persona umana e
dell'identità personale e l'avvio di quell'approccio che concepisce tali
realtà come complesse e cerca di spiegarne la natura riconducendola a
qualcosa d'altro. Ma sulla strada dell’elaborazione delle concezioni
complesse e ridu zionistiche dell’identità personale si presenta la
difficoltà di riuscire a rendete conto del soggetto morale con quel
minimo di stabilità necessaria per dare una base a nozioni essenziali per
l'etica — quali responsabilità, merito, deme- rito ecc. Un altro problema
a cui vanno incontro le concezioni riduzionistiche e complesse
dell'identità personale sta nella difficoltà con cui riescono a ren- dere
conto del valore morale senza farlo dipendere esclusivamente da una
considerazione degli atti di per sé stessi, ma riuscendo a collegarlo anche
con una considerazione del carattere e dei motivi dell'agente. La connessione
tra la considerazione del carattere e dei motivi e i giudizi morali è al
centro, ad esempio, dell’analisi delle virtù e dei vizi delineata da Hume
e Smith e sembra tanto profondamente radicata nel senso comune morale da
non poter essere soppiantata da una qualche teoria che indica come
eticamente rilevanti le sole azioni. La riflessione di marca empiristica
e analitica sulla natura dell’identità personale si è dunque sempre più
impegnata dal Settecento a oggi nell’elabo- razione di una spiegazione
della continuità e stabilità dell’io che, senza dover ricorrere alla
nozione sostanzialistica e semplice di io, fosse conciliabile con l’uso
di categorie centrali del linguaggio etico-giuridico quali
responsabilità, merito, demerito, punizione, condotta virtuosa ecc.
Un’estensione dell'analisi complessa e riduzionistica dell'Io anche a
livello di ricostruzione della vita morale — oltre che sul piano
conoscitivo — viene avviata da Henry Sidgwick nel 1874 con i suoi Methods
of Ethics (I metodi dell'etica), ed è stata poi sistematicamente
realizzata nella seconda metà del secolo XX da pensatori come Nagel,
Parfit, Nozick ecc. Si può ipotizzare che questa recente fortuna di
un'analisi dell'etica che muove da una concezione complessa dell'identità
personale sia un riflesso, a livello filosofico, di quel fe- nomeno più
generale a cui si allude sinteticamente con l’espressione «perdita del
Soggetto». La rapidità delle trasformazioni nelle società occidentali, la grande
quantità di novità che quotidianamente ciascun essere umano deve
raccordare con l’esperienza passata e con i punti di equilibrio in essa
raggiunti hanno reso sempre più frammentaria la continuità della vita
interiore e diffi- coltosa l'operazione di recuperarne una qualche
stabilità. Va peraltro sottoli- neato che le concezioni complesse e
analitiche dell'identità personale più che essere impegnate in lamentele
e declamazioni sulla «Perdita del Soggetto» cercano di elaborare una
concezione dell’essere umano eticamente responsa- bile che sia adeguata
alle trasformazioni culturali degli ultimi secoli, trasfor- mazioni che
hanno reso il rinvio a un qualche Soggetto sostanziale solo un mito privo
di qualunque fondamento empirico. Le analisi di Parfit sfociate nel
volume del 1984 Reasons and Persons (Ra- gioni e persone) presentano lo
sforzo più approfondito di sviluppare gli spunti presenti nell'opera di
Sidgwick e di ridefinire, muovendo da una nuova con- cezione — appunto
riduzionistica e complessa — dell’identità personale no- zioni come
quelle di responsabilità morale, merito e demerito ecc. Se tuito ciò che
troviamo dietro la soggettività e l'identità di una persona umana è una
qualche continuità psicologica più o meno stretta, ne consegue che i
nostri giudizi morali © giuridici dovranno essere del tutto a posteriori
e investire in- terrogativi quali: «quanto la persona che ci sta di
fronte è la stessa di quella che ha compiuto l’azione? », «quanto l’azione
che la persona ha compiuto si inserisce nel flusso più continuo e stabile
delle sue abitudini e del suo carat- tere e quanto invece ne rappresenta
una rottura?» ecc. L'approccio empiri- stico all’identità personale
comporta dunque non già l’eliminazione delle no- zioni etiche
tradizionali dal nostro lessico morale, ma una loro ridefinizione in modo
tale da presupporre connessioni più deboli e meno definitive: tra le
azioni e la persona che le ha compiute; tra la persona come attualmente è e la
sua storia passata; tra il tipo di intervento che possiamo fare sulla
persona attuale e la sicurezza che, utilizzando determinati mezzi,
potremo ottenere certi risultati che coinvolgono il suo io futuro. In
generale ci si muove verso una concezione meno assolutistica e
necessitante dell'etica di quella che ac- cetta chi crede nella persona
come sostanza. Ed è ovvio che una prospettiva del genere risulta del
tutto in linea con l’epistemologia empiristica, ma — e si tratta di ciò
che più conta — anche forse, oggigiorno, fertile sul piano espli- cativo
e predittivo, L’approccio all'identità personale che la considera
come una successione di io che hanno tra di loro una connessione
psicologica più o meno stretta è ben lontano dall'essere diventato «senso
comune» e ranto meno sembra cor- rispondere intuitivamente a quella
concezione della persona che troviamo ra- dicata nella parte morale del
nostro «senso comune», una parte che tende a trasformarsi con più lentezza
e prudenza di quella intellettuale. Vanno però messe in luce le
implicazioni normative che accompagnano le analisi di tipo complesso e
riduzionistico dell'identità personale, anche se per ora occorre confinatne
la portata solo alle premesse intellettuali di un sistema morale che
pretenda di essere costruito su credenze vere. Un approccio
all'identità personale che metta in secondo piano una con- cezione
sostanzialista e semplice della persona umana favorisce anche un complessivo
riassetto normativo. In primo luogo questa linea epistemologica porta al
rifiuto di una concezione statica e sostanziale del bene morale, la presa
di distanza da un modo di intendere la responsabilità morale come le-
gata a colpe, peccati o meriti che solo un Essere Assoluto, in grado di
cono- scere la struttura sostanziale della persona e i più riposti
pensieri degli esseri umani, può giustamente distribuire. La
responsabilità morale in questa pro- spettiva ha invece a che fare non
già con riposte intenzioni, ma principal. mente con ciò che
effettivamente si compie in un campo di azioni pubblica- mente
osservabili. In secondo luogo poi tale approccio contribuisce anche
a scalzare le basi analitiche che sorreggono l’impianto normativo
dell’egoismo razionale. An- cora a Parfit si devono dettagliati argomenti
che mostrano, una volta assunta la prospettiva complessa e riduzionistica
dell'io, quanto risulti ingiustificata una preferenza per le parti future
della propria vita nei confronti delle vite attuali di altri esseri
umani. La ragionevolezza ed evidenza di una preoccupa- zione esclusiva —
su base egoistica e prudenziale — per i nostri io futuri non risulta
affatto giustificata una volta che si diventi consapevoli della comples-
sità di passaggi che muovendo dal nostro io attuale porta ai nostri io
futuri laddove non si postuli più la persistenza di una stessa sostanza
semplice. Tra il nostro io attuale e quello che saremo fra numerosi anni
vi sono connessioni più dubbie — e dunque relazioni più deboli — rispetto
a quelle che possiamo istituire oggi con i Sé degli altri esseri umani.
L'impegno nella costruzione di un'etica più imparziale e meno rigidamente
egocentrica sembra dunque avere tutto da guadagnare dalla revisione
dell'identità personale intrapresa dalla fi- losofia empiristica.
Infine risulta del tutto indebolito il ruolo della nozione di persona
come categoria essenziale per la determinazione dell'universo di esseri
per i quali valgono le nozioni etiche. Se ciò che conta in morale non è
più solo la pre- senza di qualche peculiare sostanza semplice di natura
spirituale, ma gli atti che si compiono più o meno responsabilmente,
nulla vieta che divengano eti- camente rilevanti anche atti che non coinvolgono
persone umane. Passando attraverso atti responsabilmente connessi con
dimensioni quali la sofferenza e il danno o il piacere e la soddisfazione
di bisogni e desideri, possono diven- tare rilevanti per l’etica gli
animali, o gli oggetti che costituiscono l’ambiente, o realtà — di certo
non personali nel senso di essere effettivamente presenti ora come
sostanze semplici con una loro propria individualità — quali, ad esempio,
i membri di generazioni future molto lontane. È questa dunque la via
epistemologica che porta ad abbandonare quella concezione ristretta del-
l'etica che si ha quando si è costretti a passare sempre attraverso la
cruna d'ago fornita dalla persona. In particolare sono le etiche
utilitaristiche e con- seguenzialiste che si sono impegnate in questo
sforzo di fornire indicazioni normative congruenti con le concezioni di
derivazione empiristica dell'iden- tità personale e dell’universo degli
esseri moralmente rilevanti. 5.3. Etica del carattere 0
dell’azione. — Come abbiamo visto le diverse concezioni etiche si
distinguono sulla questione di quale sia da considerare l'oggetto proprio
di una valutazione. Su questo piano la differenza più rile- vante è
quella tra chi ritiene che l’unico oggetto peculiare di valutazione etica
sono le azioni e le loro conseguenze e chi invece ritiene essenziale il
riferi mento al carattere 0 comunque a qualche qualità interna
(intenzione ecc.) di chi agisce. Le due diverse concezioni hanno entrambe
dei punti a loro favore. Si può anzi suggerire che la concezione più
adeguata sia quella che non ri- corra in modo esclusivo o all'uno a
all’altro approccio — o azione o tratti del carattere — ma piuttosto
sappia integrare entrambe le esigenze. A favore della concezione
che ritiene esclusiva l’attenzione per le azioni vi è l'esigenza — fatta
valere in modo decisivo non solo dall’utilitatismo, ma an- che dal
garantismo giuridico (Fetrajoli, 1989) — che ciascuno possa essere
ritenuto responsabile solo di quello che ha effettivamente compiuto e non
possa essere giudicato negativamente sulla sola base di presunte predisposi-
zioni 0 inclinazioni ad agire, che tra l’altro rinviano a una pretesa capacità
di cogliere l'essenza o vera natura di una persona. Il riftuto della
concezione so- stanzialistica della persona umana è tra l’altro
accompagnato dallo sforzo di ricollocare l'etica su un piano più esterno
e comportamentale. La considera- zione prevalente delle azioni
effettivamente compiute segna anche il tramonto di valutazioni che
investono i piani del peccato o della colpa. Considerando come
positivo il superamento di un approccio etico che pretenda di presentare
valutazioni assolute basate su di una presunta cono- scenza finale del
carattere o della natura di una persona, va però segnalato un limite di
questo approccio. Un'etica che pretenda di derivare in modo esclu- sivo le
sue valutazioni dalla considerazione dei comportamenti esterni degli
esseri umani sarà costtetta a omologare azioni criminose e incidenti colposi
e non sarà comunque in grado di discriminare tra azioni compiute in
contesti motivazionali e intenzionali differenti. La valutazione etica
non sembra potere prescindere dall'esame di quanto le azioni in gioco
siano responsabili e dun- que frutto di intenzioni e non del tutto
casuali o determinate da costrizioni al di là della portata di chi
agisce. Proprio la necessità che l'etica riesca a coinvolgere anche
la responsabilità delle azioni considerate rappresenta un argomento a
favore delle concezioni che pongono al centro della loro considerazione
il carattere di chi agisce. In questo si sono impegnate le cosiddette
etiche della virtà. Una tradizione che — diversamente da quanto è stato
recentemente sostenuto (MacIntyre, 1988) — non è certo confinata alla
cultura antica e medievale, ma ha trovato anche nella cultura moderna e
contemporanea dei sostenitori. La concezione dell'etica che ritiene
centrale la considerazione del carattere sembra salvaguardare alcune
esigenze essenziali per una adeguata teoria della valutazione morale.
Anche questo approccio ha però bisogno di correttivi, ÎNon solo risulta
dubbia un'attenzione per il carattere tanto esclusiva da giu- dicare una
persona condannabile per il solo fatto che ha determinate inten- zioni,
ma una considerazione etica esclusivamente attenta al carattere può
portare a considerare virtuoso anche chi si limiti a manifestare certi principi
o convinzioni etiche e poi di nascosto agisce in modo completamente
diver: gente. Un’etica dell’intenzione può anche portare a ritenere
giustificati atti gravemente dannosi rinviando a presunte intenzioni
benefiche di chi li com- pie. Un'etica dell'intenzione o del carattere
corre il pericolo di sottoscrivere posizioni morali esclusivamente predicatorie
o addirittura ipocrite, alle quali comunque non corrisponde alcun
effettivo comportamento. Nella conciliazione, tutt'altro che
semplice, delle due concezioni sull’og- getto della valutazione morale
sono impegnati in particolare i fautori dell’uti- litarismo della regola
o delle norme (cfr. $ 4,7). Nel senso di un'integrazione delle
considerazioni etiche sugli atti con quelle relative ai caratteri e alle
inten- zioni vanno anche molte delle discussioni di casi concreti nelle
quali si sono impegnati — specialmente nella seconda metà del secolo XX
(cfr. $ 5.4) gli esponenti dell'etica contemporanea. Ad
esempio, larga parte della discussione etica contemporanea su situa-
zioni concrete quali quelle legate alla nascita — e in particolare all'aborto —
€ alla morte — e in particolare all’eutanasia — è legata alla riflessione
sul ruolo più o meno decisivo delle intenzioni in gioco. Proprio la tesi
di un ruolo es- senziale delle intenzioni nelle valutazioni delle scelte
relative all'inizio e alla fine della vita umana ha portato ad elaborare
la dottrina del «doppio effetto» (Anscombe, 1958 e Foot, 1978). Con
questa dottrina si è ritenuto di potere distinguere tra diverse ricorrenze
della stessa azione, considerandola rispetti- vamente o come una
conseguenza diretta e voluta dell'intenzione di ottenere questo risultato
o viceversa come effetto secondario e non direttamente vo- luto
dell'intenzione rivolta a un risultato benefico. Laddove l'effetto
diretto della nostra intenzione è, ad esempio, garantire la nascita di un
bambino, solo un doppio effetto non voluto è la morte della madre; o —
all’altro confine della vita — laddove effetto diretto della nostra
intenzione è l’azione rivolta a un'attenuazione delle sofferenze di un
morente, è solo un effetto secondario non direttamente voluto la morte
della persona, quale conseguenza dell’uso di farmaci per attenuare il
dolore. Ma questa concezione va incontro a un’insor- montabile difficoltà
di ordine epistemologico, in quanto ovviamente non sono disponibili
procedure affidabili per discriminare tra una dichiarazione di in-
tenzione del tutto ritualistica o ipocrita e una dichiarazione veritiera. In
que- sto senso la prospettiva che ruota intorno alla centralità
dell’intenzione si pre- senta come il residuo di una fase in cui l’etica
teorica era impegnata a far va- lere per il giudizio sulle azioni umane
un punto di vista ideale o divino. Un'’etica fatta su misura per le
esigenze della specie umana, pur riconoscendo la rilevanza delle
motivazioni delle azioni, indebolisce però la portata delle intenzioni
considerandole come componente aggiuntiva e sussidiaria del giu- dizio
etico e non già come aspetto decisivo ed esclusivo. Fa parte della
riflessione sull’oggetto proprio delle valutazioni etiche an- che la
discussione sulla possibilità di distinguere nettamente da un punto di
vista assiologico tra azioni e omissioni. Questa distinzione viene
considerata sempre meno influente per l'etica (Glover, 1977; Singer,
1989) proprio da quelle concezioni che — come l’utilitarismo — hanno
messo al centro della valutazione le azioni e la considerazione delle conseguenze.
L’utilitarismo contemporaneo fa propria in realtà una nozione non
riduttiva di azione, data la quale risulta chiaro che il non fare
qualcosa quando si ha la possibilità di farlo è eticamente rilevante non
meno del compimento effettivo di un atto. Ciò che conta è la nostra
responsabilità — che si agisca o non si agisca — per conseguenze nella
situazione futura, in quanto esse dipendono comunque da nostre scelte e
decisioni. Si può avanzare l’ipotesi che nel corso degli ultimi
secoli della storia della cultura occidentale la struttura del nostro
discorso morale si sia trasformata nel senso di un'estensione della
portata del lessico legato primariamente alle azioni e di una correlativa
riduzione dell'incidenza di quella parte del lessico legato a emozioni,
sentimenti, stati d'animo, intenzioni, caratteri ecc. Da que- sta ipotesi
si ricava che per quanto forte possa ancora essere, al livello della
predicazione, la riaffermazione di un’etica di tipo agapistico o dell'amore universale
(un’etica cristiana genericamente intesa), tale etica risulta poi in se-
condo piano, quando ci si impegna in una riflessione critica rivolta a
indivi. duare regole e principi etici concreti a cui ispirarsi. L'appello
a sentimenti quali l’amore o una benevolenza universale sembra essere del
tutto irrilevante quando siamo impegnati a identificare il migliore
comportamento effettivo nelle situazioni eticamente rilevanti che ci sono
di fronte. Certamente tale ap- pello può continuare a mantenere un ruolo
decisivo laddove siano in gioco concezioni super-erogatorie e ideali sul
dovere (che coinvolgano ad esempio la santità e l’eroismo), che hanno
però un ruolo sempre più marginale nella morale di senso comune di
società altamente complesse e popolate come quelle nelle quali viviamo.
La nostra ricerca etica è piuttosto rivolta a regole più modeste e
limitate che incidano però effettivamente sulle azioni o omis- sioni
della nostra vita quotidiana, in modo tale che le conseguenze dei nostri
stili di vita siano benefiche — o quanto meno non disastrose € dannose —
per le generazioni future. 54. La svolta normativa e
l'irruzione dell'etica applicata. — Nel corso del XX secolo l'orizzonte
di riflessione che muove dai problemi pratici concreti degli esseri umani
è stato riafferrmato come primario e decisivo da una serie di pensatori
che hanno contestato l'utilità di una ricerca esclusivamente meta- etica
e astratta. Si è soliti fare riferimento a questa svolta, realizzatasi
nella riflessione sulla morale specialmente a partire dagli anni
Settanta, con l’espressione «l'irruzione dell'etica applicata» (De Marco
e Fox, 1986). Que- sto appello all'etica applicata è stato fatto valere,
successivamente, con due diversi obiettivi critici. In un primo periodo
l'appello era rivolto a fare sì che punto di partenza e punto di arrivo
della riflessione etica fosse considerato non già la conoscenza della
natura della morale e delle forme di ragionamen- to in essa valide, ma la
ricerca di soluzioni normative. In un secondo periodo — a partire dagli
anni Ottanta — si sono contestate le stesse risposte norma- tive offerte
dalle opere sistematiche degli anni Settanta e la richiesta avanzata è
stata che in luogo di criteri normativi generali validi per tutte le
questioni etiche la riflessione critica fosse rivolta a delineare
soluzioni più determinate e settoriali in grado di risultare rilevanti
per una delle diverse dimensioni pro- blematiche riconoscibili
all'interno dell'etica pratica. La prima esigenza fatta valere
negli anni Settanta è stata dunque quella di trasformare la teoria etica
in modo tale che in essa l’obiettivo principale fosse non già quello
logico-conoscitivo di mettere a punto una meta-etica e dunque una
conseguente epistemologia, quanto piuttosto lo sviluppo sistematico di un
risposta esplicitamente normativa. Il neo-contrattualismo di J. Rawls e Gautbier,
il neo-utilitarismo di }. Harsanyi e poi di R. M. Hare e R. Brandt, le
diverse teorie dei diritti di R. Nozick e di R. Dworkin ecc. — tutte
conce- zioni a cui abbiamo già fatto riferimento specialmente nel
paragrafo 4 — sono alcuni dei tentativi più influenti di elaborare teorie
etiche impegnate prevalen- temente sul piano normativo. Le
differenti teorie etiche normative presentate nel corso degli anni Set-
tanta sono, di volta in volta, la riproposta sotto una nuova veste di opzioni
già formulate a partire dal secolo XVIL Il neocontrattualismo di Rawls e
Gau- thier tiene largamente conto dell'elaborazione contrattualista
precedente da Hobbes a Kant. Il neo-utilitarismo ha largamente discusso e
riproposto le pre- cedenti impostazioni di J. Bentham e J.S. Mill. I
teorici dei diritti non hanno mancato di tenere conto delle analisi di
Locke ecc. Restano dunque in larga parte operanti le stesse concezioni
che nel corso dell'età moderna e contem- poranea sono state indentificate
come utilizzabili da chi fosse alla ricerca di un criterio generale per
risolvere i problemi pratici degli esseri umani. Al livello dei principi
o procedure più generali non sembra si possa segnalare la nascita di
nuove etiche, ma si assiste solo allo sviluppo e all'approfondimento
delle linee etiche normative già disponibili. La novità
principale nell’«etica teorica» {e qui si intende una teorizza- zione
etica con obiettivi esplicitamente normativi) del XX secolo sta dunque
nelle forme che prendono le diverse concezioni normative, una trasforma-
zione che in realtà era stata già anticipata da H, Sidgwick con i suoi
Methods of Ethics (Sidgwick, 1963). In primo luogo le diverse proposte
normative non fanno più parte di una ricerca filosofica generale. Chi si
occupa di etica e con- tribuisce ad essa non colloca la sua ricerca in
una più ampia prospettiva che ad esempio affronti questioni generali
sulla conoscenza umana, la natura umana ecc. Si parte dando per scontata
una sorta di specializzazione per cui chi si occupa di etica e di
problemi normativi guarda esclusivamente a questi. I teorici dell'etica
contemporanea sono dunque eredi dei professori di filoso- fia morale come
Hutcheson o Smith, più che di filosofi come Hobbes, Locke € Hume (per non
dire che nulla hanno a che fare con personalità quali quelle dei
fondatori di morali come Cristo, Budda o Gandhi}. Laddove Hobbes, Locke e
Hume — ma ovviamente anche Kant — collocavano la loro atten- zione per i
problemi etici in un contesto filosofico generale, i teorici dell'etica
contemporanea limitano invece le loro analisi ai soli problemi pratici.
Questo si accompagna non solo con la specializzazione che abbiamo
sottolineato, ma anche con un più limitato orizzonte critico che viene fatto
valere nelle pro- poste etiche contemporanee. Tutti i diversi teorici
dell'etica muovono nelle loro analisi assumendo la validità di tesi più
generali sulla conoscenza, la ragione ecc. In questo senso le diverse etiche
teoriche acquistano senso solo vi. ste sullo sfondo delle diverse
prospettive filosofiche generali elaborate dai pensatori — che abbiamo
più volte richiamato — del XVII e XVIII secolo, Questa più marcata
limitazione del contesto dell’etica teorica contempora- nea è in molti di
questi pensatori esplicitamente riconosciuta e programmati. camente
affermata anche per quanto riguarda il piano dei valori di riferi. mento.
Così molti dei teorici dell’etica contemporanea ammettono di muo- versi
in contesti storici e culturali ben definiti identificando lo sfondo che
dì validità alle loro teorie normative con quello delle credenze
etico-politiche condivise nelle società liberal-democratiche occidentali
(Rorty, 1989; Rawls, 1994). Emerge dunque in molti teorici contemporanei
la tesi che l’etica è una riflessione critica che non solo muove da
intuizioni 0 credenze morali di par tenza che sono già date, ma che in
realtà non può operare al di fuori di un qualche contesto di credenze
condivise. Questo orientamento segna di fatto non solo una
specializzazione dell’etica teorica, ma anche l'abbandono in essa del
quadro universalistico in cui si muovevano i filosofi del XVII e XVIII
secolo. Parallelamente con questo restringimento della base del
discorso dell’etica teorica troviamo viceversa — e specialmente nelle
opere sisternatiche elabo- rate negli anni Settanta — uno sforzo di
approfondimento analitico molto più marcato, con la pretesa di realizzare
un'elaborazione coerentemente sistema- tica e un’argomentazione
persuasiva di ampio respiro. Se ci volgiamo infatti alle opere principali
dell'etica teorica contemporanea vediamo che la loro. mole e complessità
rispetto agli scritti dell'etica tradizionale è fortemente cre. sciuta.
La base di partenza è più ristretta ma la pretesa di approfondimento
analitico è maggiore. Le nozioni che la tradizione etica precedente trovava
del tutto comprensibili vengono ora sottoposte ad analisi dettagliate. In
questa direzione contributi del tutto nuovi vengono offerti, ad esempio:
o con una dettagliata tassonomia — dovuta in particolare agli
utilitaristi — delle diverse forme di preferenze; o con una
classificazione — che troviamo principalmente negli scritti dei
neo-contrattualisti e dei teorici dei diritti — delle principali
differenze tra bisogni e interessi; o con lo scavo — e qui sono i teorici
della scelta razionale ad offrire il maggiore contributo — delle diverse
forme di ra- gionamento con cui possiamo valutare le linee di azione che
coinvolgono con- seguenze future più o meno lontane e più 0 meno sicure.
Ll terreno dell'etica teorica appare dunque certamente come più limitato
e ristretto — un campo che si cerca di tenere distinto da quelli
confinanti — ma esso viene scavato con una profondità maggiore che nel
passato in tutte le sue parti. La convin- zione che muove questo
approccio è che le radici delle questioni etiche possano essere raggiunte non
già derivandole da un altro campo di ricerca, ma andando sempre più a
fondo nello scavo dell’area dell’etica considerata come autonoma e
autosufficiente. Quello che lascia particolarmente insoddisfatti è che i tratti
generali del paradigma della ricerca si trovano messi in pratica e
ripresi acriticamente senza nessuna elaborata valutazione della loro
adegua- tezza. Né vi è una sensibilità per la questione — a mio parere
decisiva — di come la vicenda dell'etica teorica contemporanea possa
essere raccordata — acquistando con questi raccordi senso e rilevanza —
con i lasciti e i residui della passata elaborazione. Molto
più accentuata che nel passato è poi la pretesa di sistematicità e di
coerenza interna, così come della massima completezza possibile. In
questo senso l’etica teorica si muove prendendo a modello le teorie
scientifiche in generale. Proprio per questo tentativo di strutturarsi in
analogia con gli uni- versi scientifici prevale tra le diverse concezioni
normative una tendenza al monismo etico e nello stesso tempo assistiamo
ad un progressivo allargamento dell'ambito di casi e fenomeni investiti.
Una tendenza verso il monismo nor- mativo era presente anche nelle etiche
tradizionali che insistentemente anda- vano alla ricerca di un solo
principio fondamentale. Una volta caduto l’oriz- zonte fondazionale il
monismo etico si presenta come la ricerca di un unico criterio di
decisione per tutte le situazioni problematiche nella convinzione che la
presenza di più criteri non può che originare conflitti e disaccordi
insanabili. Nei sistemi normativi degli anni Settanta troviamo
infine approfondito lo sforzo di argomentare in modo persuasivo e
convincente a favore della posi- zione fatta valere. La dimensione per
così dire retorica e persuasiva diviene esplicita e diventa primario
l'impegno a fornire già all'interno di ciascuna teo- ria una risposta
alle critiche avanzate dalle concezioni alternative. Prevalgono quindi nell’etica
teorica contemporanea le esigenze di una discussione pub- blica. Le
diverse etiche si presentano infatti in primo luogo come discorsi si-
stematici e razionalmente giustificati nel modo più compiuto, sviluppati
per convincere gli interlocutori nella discussione pubblica a proposito
della pre- feribilità delle opzioni normative proposte. Questi tratti
spiegano nello stesso tempo, da una parte la maggiore concretezza delle
etiche teoriche contempo- ranee rispetto a quelle tradizionali e,
dall'altra, il loro minore respiro e la loro collocazione in un contesto
storicamente più limitato. 5.5. I principali campi dell'etica
applicata. — Ma come si è detto un’ulte- riore svolta ha segnato l'etica
teorica a partire dagli anni Ottanta. Vengono contestate ora le stesse
teorie impegnate nella presentazione di grandi sistemi normativi,
denunciando la loro astrattezza e la loro irrilevanza per i problemi
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 104 ETICA
pratici effettivi. L'impegno in una riflessione etica che abbandonasse il
piano delle concezioni astratte veniva a caratterizzare sempre di più gli
anni Ot- tanta. Anzi in questa direzione era la medicina a salvare
l'etica — come si esprimerà Toulmin {$. E. Toulmin, How Medicine saved
Etbics, in De Marco e Fox, 1986: 265-281) — nel senso che i nuovi
problemi etici generati dagli svi- luppi della medicina e della biologia
ponevano in modo urgente una richiesta di soluzioni che non poteva essere
soddisfatta dai grandi sistemi normativi classici o contemporanei.
Laddove infatti i sistemi normativi degli anni Set- tanta avevano al loro
centro i problemi della giustizia sociale e della cittadi- nanza, le
questioni della guerra giusta e delle relazioni internazionali, vice-
versa i nuovi problemi posti dalle mutate condizioni nella nascita, morte
e cura degli esseri umani coinvolgevano dimensioni etiche completamente
di- verse, Inizia così un processo di articolazione e
sviluppo di una miriade di settori nuovi nell’etica applicata che, in
parallelo con la tendenza della cultura ame- ricana alla specializzazione
e alla professionalizzazione, porta al consolidarsi e istituzionalizzarsi
di vari campi dell'etica pratica considerati come autosuffi- cienti.
Compare così la nuova figura professionale dell’eticista, ovvero del-
l'esperto dei problemi di un particolare settore. Certamente la riflessione
etica guadagna così in concretezza, ma una ricerca esclusivamente
impegnata nel- l’evidenziare i criteri ed i principi etici validi per
specifici e peculiari problemi applicativi va incontro ai limiti del
settorialismo e della iper-specializzazione. Dopo lo sforzo di
scomposizione e di indagine ravvicinata dei singoli campi problematici
che ha accompagnato il fiorire delle varie dimensioni dell'etica pratica
è ora auspicabile un lavoro di sintesi e di ricomposizione che identifi-
chi i principi e i criteri etici validi in generale e che sappia fornire
visioni d'in- sieme della vita etica. La maggior parte dei
diversi settori dell'etica applicata consolidatisi negli ultimi decenni
del secolo XX ha a che fare con i problemi pratici del tutto nuovi che
sono sorti con lo sviluppo della tecnologia e detta ricerca medico-
biologica. Tutta una serie di azioni e pratiche umane che risultavano neutre
da un punto di vista etico o che comunque erano affidate quasi
integralmente a processi naturali e biologici, e dunque considerate al di
là delle decisioni re- sponsabili, sono entrate a far parte dell’universo
di eventi influenzati dai di- versi criteri per discriminare tra scelte
giuste e ingiuste. In primo luogo si sono andate consolidando come
aree largamente indi- pendenti dell’etica applicata alcune dimensioni
problematiche già colte dalla riflessione del secolo scorso, Laddove nel
Settecento trovavamo solo degli ac- cenni in Bentham sulle sofferenze
degli animali, nella seconda metà del XX secolo si è assistito al fiorire
di una vera e propria etica impegnata nel realiz- zare la liberazione
degli animali (Singer, 1992). St sono sviluppate diverse con- cezioni
generali rivolte a giustificare un trattamento non discriminante per le
sofferenze degli animali: da posizioni mistiche o religiose, a quelle
utilitaristi- che a quelle che ruotano intorno all'elaborazione di una
teoria dei diritti an- che per gli animali (T. Regan, 1990). In questo
caso la presentazione di una risposta normativa alla questione del
trattamento degli animali va di pari passo con una ridescrizione della
loro condizione. I libri dei teorici della libe- razione animale sono
infatti insostituibili per la ricchezza di dati e esemplifi- cazioni che
forniscono sulle pratiche invalse — il più delle volte inutilmente
crudeli — per quanto riguarda l'uso degli animali nella ricerca medica e
far- maceutica, nell'industria cosmetica a dell’abbigliamento, nella
produzione in- dustriale di cibo ecc. (Singer, 1992). Una
grande fioritura, in quest'ultima parte del XX secolo, hanno avuto i
tentativi — già presenti ad esempio in uno scritto del 1869 di J. S. Mill su
The Subjection of Women (La soggezione delle donne) — di affrontare in
modo esplicito e sistematico i problemi etici legati al differente
trattamento — nelle istituzioni e nelle pratiche sociali — di persone di
sesso diverso. Il dibattito critico sulle discriminazioni legate alle
differenze sessuali ha assistito non solo a una ricerca rivolta a
ricavare soluzioni giuste dalle diverse concezioni nor- mative
disponibili, ma anche alla presentazione di tesi femministe che hanno
insistito sulla radicale inconciliabilità tra l’elaborazione di un'etica
delle donne e le concezioni tradizionali. Così da una paste si è discusso
sull’alterna- tiva tra l’universalismo che sarebbe proprio dell'etica
maschile e l'assunzione delle differenze di genere come orizzonte
decisivo che è proprio dell'etica femminile {Irigaray 1985). Dall'altra
si è insistito sulla tesi che il recupero del punto di vista femminile
farebbe emergere valori del tutto peculiari e in luogo di una centralità
del valore della giustizia tipicamente maschile segnerebbe l'affermazione
del valore della cura (Gilligan, 1982). Molti altri tradizionali
problemi etici sono stati rivisitati alla luce della si- tuazione
contemporanea e coloro che se ne sono occupati hanno dato vita a un'ampia
produzione specialistica. Tra i campi più significativi per la costitu- zione
di un'ideale «Enciclopedia Pratica» del nostro tempo ricordiamo le ri-
flessioni dedicate a: le guerre giuste e l'uso — lecito o no — della
violenza {Walzer, 1990); le particolari regole che governano le relazioni
internazionali tra stati (Bonanate, 1992); le questioni più strettamente
legate alle discrimina- zioni di tipo razziale e culturale (Walzer,
1987); i problemi del trattamento della povertà anche riconoscendone le
articolazioni geografiche (Sen, 1981); il tuolo della pena nel diritto
(Ferrajoli, 1989). Una ben precisa area di etica
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 106 ETICA degli
affari si è costituita per i problemi morali posti dall'attività economica
e produttiva, e qui i maggiori avanzamenti sono venuti dall’uso di una
tecnica del tutto nuova fornita dalla «teoria della scelta razionale»
(Sacconi, 1991). Infine un incremento notevole hanno avuto le
riflessioni morali — già pre- senti in Ar Essay on the Principles of
Population del 1798 di Thomas Robent Malthus (Saggio sul principio di
popolazione) e nei Principles of Political Eco- nomy del 1848 di J. S.
Mill (Prizcipi di economzia politica) — relative alla que- stione etica
di una procreazione responsabile. Tali riflessioni hanno forte mente
approfondito le questioni collegate al contesto di decisione costituito
dall’intreccio tra le previsioni sullo sviluppo demografico e quelle sulla
dispo- nibilità di risorse. Tutta questa tematica ha portato ad elaborare
una vera e propria etica delle generazioni future. Le questioni della
giustizia tra genera- zioni, della regolazione delle nascite in
previsione della presenza nel 2050 di oltre dieci miliardi di esseri
umani, dei rischi dello sviluppo tecnologico per gli esseri umani futuri
sono al centro di riflessioni che hanno anche contri- buito a modificare
il quadro complessivo delle etiche tradizionali (Parfit, 1989; Jonas,
1990). Del tutto nuovi sono invece due settori di etica applicata.
Da una parte abbiamo il consolidarsi e determinarsi della bioetica come
disciplina auto- noma che affronta sistematicamente i problemi etici
posti dallo sviluppo della medicina e della biologia. Non possiamo qui
fare altro che accennare ai prin- cipali tra questi problemi del tutto
nuovi che coinvolgono la nascita, la morte e la cura degli esseri umani:
la fecondazione artificiale ix vitro: l'uso nei re- parti di terapia
intensiva di strumenti vicarianti le funzioni essenziali della
respirazione, alimentazione e idratazione; il ricorso ai trapianti; la
diagnostica prenatale; la ricerca sul DINA e l’ingegneria genetica;
l’accresciuta conoscenza dello sviluppo embrionale e la possibilità di
realizzare in laboratorio le prime fasi di questo sviluppo con eventuali
conseguenti sperimentazioni ecc. Vita umana, persona umana, sanità,
malattia, benessere, diritti dei malati, dignità della morte, doveri dei
medici ece. sono solo alcune delle nozioni che ven- gono sottoposte a
riesame nella riflessione bioetica che si è concretizzata in una
sterminata letteratura e nella nascita di una ben precisa disciplina. Nel
corso di questa ricerca sono emerse tendenze a far valere alcuni nuclei
tema: tici specifici come nucleo della discussione (ad esempio la
contrapposizione tra un’etica che si impegna principalmente nel sostenere
la non disponibilità e sacralità della vita umana e un'altra che ritiene
invece centrale la preoccupa zione per una buona qualità della vita
umana; Kuhse, 1987), o a enucleare principi più specificamente rilevanti
per le problematiche della nascita, morte e cura degli esseri umani (in
questo senso è, ad esempio, frequente il richiamo a un principio di
beneficenza o ad un principio di autonomia: Engelhardt, 1991, ma anche
Gracia, 1993). Infine le conseguenze devastanti che sull'ambiente
hanno avuto gli svi- luppi scientifici e tecnologici e l'incremento
demografico a livello planetario hanno reso eticamente rilevante una
serie di azioni umane con effetti più o meno diretti, immediati o futuri
sulla natura. La riflessione di etica ambientale è stata caratterizzata
da una molteplicità di concezioni (Bartolommei, 1989): quella più religiosa
e sacrale rivolta a dare un valore intrinseco alla natura; quella
utilitaristica tesa a calcolare le differenti conseguenze (in termini di
danno e beneficio) sull'ambiente di differenti strategie operative; quella
che cerca di estendere il linguaggio dei diritti anche a oggetti naturali
ecc. Non abbiamo fatto altro che elencare le differenti dimensioni
dell'etica ap- plicata. Infatti dalla prospettiva complessiva da cui
muoviamo dobbiamo limi- tarci a rilevare la fertilità di questo recente dibattito,
sia nel senso di un arric- chimento delle nostre conoscenze sui problemi
pratici effettivi degli esseri umani, sia nel senso di un incremento del
processo di democratizzazione del- l'etica (al centro di tutti i diversi
settori dell'etica applicata troviamo individui umani che affrontano
autonomamente i loro problemi). Il pericolo che sta dietro questo
specializzarsi e professionalizzarsi dei vari campi dell'etica ap-
plicata è quello della frammentazione. Ciò che fa questione non è tanto il
fatto che ciascun individuo elabori da sé la propria etica, quanto
piuttosto quella confusione che nella vita pratica di ciascuno può
derivare dall’appello, in si- tuazioni diverse, a principi o criteri
etici differenti come risolutivi. Una fram- mentazione in questo senso
può spingersi fino a esigere dallo stesso individuo comportamenti
incompatibili. In contrasto con questa tendenza l’obiettivo di una
unificazione richiede un recupero di tutte le diverse dimensioni
dell'etica teorica di cui abbiamo reso conto nei paragrafi precedenti. Un
contesto uni- tario per le riflessioni etiche può infatti essere offerto
da teorie generali che — sul piano meta-etico, epistemologico e normativo
— identificano quel nucleo comune valido per qualsiasi approccio o
discorso che pretenda di farsi valere come etico. 6. Le
dimensioni dell'etica. 6.1. La morale e le relazioni personali. —
Nel corso dei paragrafi prece- denti abbiamo reso conto dei problemi
generali al centro dell'etica in modo unitario non tracciando distinzioni
al suo interno. Così finora in modo unita- rio si sono affrontate le
questioni di una caratterizzazione, definizione, giusti- ficazione o
fondazione, applicazione e formulazione sistematica dell’etica. Ma le
norme e i valori con cui ha a che fare l’etica complessivamente intesa
ven- gono in vari modi distinti in campi più o meno nettamente
differenziati nei nostri discorsi e nelle forme di vita. In questo
paragrafo renderemo conto bre- vemente della distinzione più comune e
consolidata che vede l'etica compren- dere i diversi piani della morale,
del diritto e della politica. Ricorrendo all'aiuto della storia
dell'etica possiamo rilevare che nell’età moderna e contemporanea vi è
una certa convergenza nel discriminare tra morale, diritto e politica,
mentre notevoli differenze vi sono per quanto riguar- da i criteri a cui
ci si è richiamati per tracciare queste differenze. I differenti criteri
risultano — come vedremo nelle pagine seguenti — in definitiva funzio-
nali alle diverse opzioni meta-etiche, epistemologiche e normative da cui
sono mossi coloro che hanno proposto una ricostruzione dei campi
dell'etica. Un primo modo per caratterizzare il campo dell'etica
che proponiamo di chiamare morale in senso stretto è quello di
considerarlo come quel settore in cui sono in gioco principi e norme che
guidano, 0 dovrebbero guidare, azioni che producono negli altri
conseguenze positive o negative diverse dal danno in gioco con le azioni
di rilevanza giuridica e dai benefici o danni provocati dalle azioni di
rilevanza politica. Proprio in quanto diverso è il raggio di in- fluenza
con cui ha a che fare la morale strettamente intesa essa ha anche a che
fare con una sanzione del tutto particolare che va tenuta distinta da quella
in gioco con la legge giuridica e con quella politica: una sanzione
semplicemente in termini di disapprovazione pubblica piuttosto che di
concrete pene 0 multe o di allontanamento dalla cittadinanza politica. Questa
caratterizzazione dei vari campi dell’etica è largamente corrente tra gli
utilitaristi ed è stata deli- neata già nel 1859 in On Liberty di J. S.
Mill (Saggio sulla libertà). La caratterizzazione così avanzata
della natura delle regole e dei principi specificamente morali —
ovviamente nel senso meta-etico di cui qui ci occu- piamo — è in realtà
pur sempre carica di normatività in quanto si presenta come una
ridefinizione stipulativa. Alcuni avvertiranno in questa caratterizza-
zione un limite dato dal fatto che essa esclude comunque una qualunque
rile- vanza etica per quelle regole e principi che riguardano stati
d'animo o azioni del tutto privati, ovvero tali che non hanno nessun tipo
di conseguenza — né benefica, né negativa — sugli altri. Possiamo offrire
un chiaro esempio di que- sto campo di azioni del tutto private e che non
sarebbero di pertinenza della morale così intesa rinviando ad atti di
auto-erotismo o al modo in cui impie- ghiamo il nostro tempo
libero. È così chiaro che stiamo proponendo una caratterizzazione
della morale più stretta rispetto a quella a cui giungono coloro che,
muovendosi all’interno di una tradizione spiritualistica e
giusnaturalistica, trovano l'etica complessivamente intesa come un insieme di
doveri verso Dio, se stessi e gli altri. An- che all'interno di questo
approccio all’etica, comunque, il livello della mora- lità per così dire
del tutto privato si presenta come diverso rispetto a quello della
moralità che coinvolge altri; nel complesso poi l’insieme della morale va
tenuto distinto dalle azioni con cui hanno a che fare il diritto e la politica.
Il piano delle regole morali del tutto private e personali può essere
considerato come campo di applicazione di principi e regole
super-erogatorie che hanno a che fare con una vita santa, eroica o
perfetta (Urmson, 1958): una forma di vita che solo cedendo al fanatismo
può essere prescritta universalmente. La morale super-erogatoria va dunque
tenuta distinta dalla morale che ha a che fare con azioni di benevolenza
o generosità che per quanto considerate dove- rose e obbligatorie non lo
sono certo nello stesso senso delle azioni che evi- tano il danno fisico
per gli altri. Vediamo così ricomparire una distinzione tra diversi piani
della vita etica, sia pure su basi differenti. Muovendoci
all’interno dell'approccio utilitaristico già delineato sugge- riamo però
di collocare al di fuori dell'etica generalmente intesa non solo le
azioni strettamente interessate a obiettivi economici, ma anche molte
azioni del tutto indifferenti moralmente che ciascuno di noi può compiere
nel modo che preferisce laddove queste non coinvolgano in alcun modo gli
altri. In que- sto senso questa concezione dell'etica si presenta come
fornita di limiti anche per quanto riguarda l'ambito della moralità
strettamente intesa (Williams, 1987). i Possiamo dunque
collocare l'ambito della morale nel campo delle azioni benevole e
generose che non siamo tenuti a compiere con la stessa coercività dei
nostri obblighi giuridici e politici. La morale cioè ha a che fare con un
universo di azioni — che saranno poi distinte in buone e cattive a seconda
dei diversi valori sottoscritti — che gli altri non si aspettano da noi
come soddi- sfacimento di loro diritti giuridicamente o politicamente
riconosciuti. Le no- zioni di obbligo, dovere, diritto possono avere un
uso nel contesto della mo- rale, ma con un significato che va tenuto
nettamente distinto da quello che tali nozioni hanno nel contesto
giuridico e politico. Molte confusioni e conflitti sociali nascono
dall’incapacità di tenere distinti questi diversi livelli dell'etica, In
un campo della morale così inteso le diverse concezioni dei valori potranno
confrontarsi presentando appunto diversi modelli e stili di vita virtuosa.
La vita virtuosa si distinguerà poi, da una parte, dalla vita santa o
eroica e dall'al- tra da quel tipo di vita che è richiesto a ciascuno di
noi dalle leggi del suo paese e dalle regole politiche della sua società.
: In un approccio del genere diventerà decisivo riuscire ad
individuare, e tenere ben distinto, un ambito di danno o offesa che è
coinvolto dalle azioni di pertinenza della morale strettamente intesa. Si
tratta di sviluppare l’idea — messa a punto dagli utilitaristi e più
recentemente da H. L. Han (Hart, 1963) e Joel Feinberg (Feinberg, 1985) —
che ci sono alcune aree delle nostre azioni interpersonali in cui non
sono in gioco danni di rilevanza giuridica, ma solo danni e offese
morali. Gli altri si aspettano da noi un certo comporta- mento anche se
questo comportamento non è sanzionabile mediante l’inter- vento della
legge. Il piano di questi obblighi morali coinvolge principalmente le
relazioni più strettamente personali ovvero quelle relazioni che riguardano
i rapporti familiari, i rapporti tra persone di sesso diverso, le
relazioni tra per- sone di diversa età, le relazioni collegate a diverse
responsabilità professionali o di status sociale ecc, Tutta un'area di
relazioni personali coinvolgono per ciascuno di noi obblighi relativi al
suo status (figlio, padre, marito, amico, me- dico, docente ecc.) che non
fanno riferimento a danni giuridici, ma a danni morali. Possiamo provare
a suggerire l'estensione e l’importanza di un ambito della morale così
determinato pensando al rilievo che nelle relazioni umane hanno le
promesse che non siano state codificate in un contratto, o alle aspet-
tative che ci legano con gli altri esseri umani con cui abbiamo istituito
più strette relazioni personali. Proprio quest'ambito della moralità è
quello che rende possibile la convivenza civile. Infatti laddove
cerchiamo di ancorare la permanenza di una qualche forma di società
civile o ordine sociale al ricono- scimento di obblighi e danni
esclusivamente legali non riusciamo a rendere conto di niente altro che
di uno stato di polizia. Senza basi morali la convi- venza può essere
garantita solo da uno Stato ossessivamente preoccupato che nessuna azione
dei suoi cittadini sfugga al controllo delle sue sanzioni. E si tratterà
comunque di uno stato di polizia la cui accettazione come legittimo da
parte di coloro che si riconoscono come suoi cittadini risulterà del
tutto incomprensibile a meno che — con un ragionamento circolare e
vizioso — non si voglia fare appello alla autorità derivata dalla sola
forza. 6.2. Il divitto e î sistemzi codificati. — Un ambito
dell'etica completamente diverso da quello in gioco nella morale è quello
in gioco nel diritto e nell'in- sieme delle norme giuridiche. Qui — come
peraltro con la politica — ci muo- viamo nel campo dell’etica pubblica,
laddove con la morale abbiamo a che fare con l’etica privata (Veca,
1989). Largamente condivisa è la tesi di una marcata differenza tra piano
delle regole morali e piano del sistema giuridico, nel senso che
quest’ultimo rinvia necessariamente a un momento di codifica- zione.
Anche i teorici del giusnaturalismo, che pur vedono la sfera giuridica
come strettamente correlata con la legge morale naturale, accettano Ja
distin- zione — sia pure cronologica 0 tecnica — tra il piano naturale
della morale € quello civile proprio delle procedure che caratterizzano
il diritto e la politica, Significativa in questa luce la posizione
espressa da Locke nel 1690 nei Two Treatises of Government {Due trattati
sul governo; Locke, 1960: 244-246). Locke vede già presente nello stato
di natura il diritto di punire come dirit- to di ognuno, ma individua nel
passaggio alla società civile la realizzazione di una completa delega di
questo diritto a un magistrato che potrà usare — unico autorizzato — la
forza e fare rispettare le sue decisioni, che non sa- ranno più
caratterizzate dagli inconvenienti che accompagnano nello stato di natura
l’uso del diritto di punizione da parte di ciascuno. Uno dei grandi
problemi al centro dell'etica è proprio quello delle connes- sioni tra
morale e diritto. La questione preliminare è quella di spiegare in che
senso le norme del sistema giuridico — ovvero le norme che si occupano
della giustizia penale e pubblica e che sono sanzionate con l’uso della
forza — sono collegate con le norme morali (ovvero pre-giuridiche o
non-giuridiche). La soluzione più semplice è quella del positivismo
giuridico che ritiene che di vero € proprio diritto non si possa parlare
se non dopo il costituirsi di un governo riconosciuto, legittimato e
autorizzato a promulgare norme giuridi- che. Queste norme saranno poi
valide giuridicamente laddove siano state pro- mulgate osservando le
procedure previste nello Stato — dalla Costituzione o dalle sue leggi
fondamentali — per l’amministrazione della giustizia (Scarpelli, 1965).
La posizione del positivismo giuridico non è priva di difficoltà in
quanto confonde due nozioni etiche concettualmente diverse, ovvero la
legge promulgata correttamente, e cioè nei modi previsti dalla
Costituzione, e la legge giusta (cfr. $$ 2.3 e 2.4). Norme del tutto in
regola dal punto di vista della validità formale richiesta dal
positivismo giuridico — come quelle pro- mulgate dal regime nazista —
possono risultare del tutto ingiuste e tali da esigere un obbligo di
resistenza da parte dei cittadini (Dworkin, 1982). Alcune posizioni
che si presentano come alternative al giusnaturalismo si distinguono dal
positivismo giuridico proprio in quanto riconoscono un col- legamento tra
morale e diritto. Questo è ad esempio vero per l'utilitarismo fin da
Bentham. Infatti Bentham riconosceva l’ineliminabilità di questa connes-
sione rappresentando la morale e la legge come due sfere concentriche,
l'una più ristretta costituita dal diritto e l’altra più ampia costituita
dalla morale. Questa immagine permette di capire sia in che senso la
morale condiziona la sfera giuridica, sia in che senso l'ambito del
diritto debba essere considerato più ristretto di quello proprio della
morale. Questa stessa linea di analisi è stata elaborata in modo compiuto
da J. $. Mill, I collegamenti tra queste due dimensioni dell'etica
— la morale e la legge giuridica — sono complessi e ineliminabili, Non
solo i limiti di applicazione della legge giuridica — ovvero la
distinzione tra l'ambito di pertinenza della sanzione giuridica e quello
in cui c'è completa libertà dalle sanzioni e in cui dunque vale la sola
critica che si manifesta nella discussione pubblica —, ma le stesse
procedure mediante le quali vanno accertate le azioni che sono rile-
vanti dal punto di vista della responsabilità giuridica e infine gli stessi
modi in cui va articolata la sanzione e la pena giusta esigono un rinvio
continuo a con- siderazioni di ordine morale (Ferrajoli, 1989). Il
riconoscimento di un’effer- tiva responsabilità giuridica rientra
anch'esso in un discorso che esige il ri- corso ad assunzioni di ordine
morale. Non diversamente assunzioni di ordine morale sono in gioco laddove
si discute la questione della pena adeguata o giusta o meritata pet un
determinato reato. Tutta la discussione sull’uso della tortura, della
pena di morte e dell’ergastolo da parte di sistemi penali sta lì a
mostrare questo intreccio. 6.3. La politica e i fini del governo.
— L'ambito dell’etica che invece pos- siamo denominare «politica» è
quello che rinvia ai principi e alle norme che all’interno di una società
riguardano non tanto i rapporti giuridici, quanto l’azione del governo e
il riconoscimento della sua legittimità. Una parte della dottrina etica
che coinvolge la politica riguarda dunque l'individuazione dei principi
che sono in grado di dare ai governanti l'autorità per governare, e
conseguentemente gli obblighi di lealtà dei cittadini nei confronti dei loro
go- vernanti (e di riflesso gli obblighi dei governanti nei confronti dei
loro citta- dini) e infine l’esistenza o meno (e in quali limiti) di un
diritto dei cittadini a resistere alle leggi dello Stato.
Basta volgersi alla riflessione di filosofia politica del secolo XVII per
ve- dere quanto già in quell'epoca fosse centrale la ricerca di una base
morale che desse validità alla pretesa dei governanti di avere
un'autorità sui loro cittadini, Il primo dei Tivo Treatises di Locke
rappresenta un chiaro tentativo di conte- stare la pretesa avanzata da
Filmer nel Patriarca che i sovrani potessero rica- vare il loro diritto
ad un'autorità assoluta sui loro sudditi da una investitura diretta da
parte di Dio ad Adamo che era poi stata trasmessa — secondo una linea
diretta, di successione — ai suoi eredi. La cultura filosofica del secolo
XVII presenta non solo l’attacco più radicale alla concezione assolutistica
del potere politico come di origine divina, ma anche i primi decisi
tentativi di ricavare da principi più mondani il potere dei governanti.
Così Hobbes e Locke percorrevano la strada del contratto come base del
potere politico, ma le due forme di contratto a cui si richiamavano erano
tali da condurre a due diversi tipi di potere politico, l’uno totalitario
ed illimitato e l'altro invece de- terminato e limitato dal rispetto di
una serie di diritti che comunque il cittadino deve salvaguardare. Perciò,
mentre Hobbes non sembra riconoscere un vero e proprio diritto di
resistenza, Locke lo accetta, come del resto dopo di lui faranno tutti i
teorici dello stato liberale. Quasi tutta la filosofia politica
contemporanea, da J. Rawls a R. Dworkin, da A. Downs a R. Dahl, si muove
elaborando le basi etiche di una teoria libe- ral-democratica (Brown,
1986). È oramai fuori discussione che solo l’investi- tura popolare
mediante votazioni democratiche può giustificare il potere po- litico.
Così come è largamente accettata la convinzione che il potere politico
deve limitarsi nelle sue leggi in modo tale da non toccare i cosiddetti
diritti negativi dei suoi cittadini. Non viene nemmeno posto in
discussione — spe- cialmente dopo l’esperienza dei regimi totalitari del
XX secolo quali il nazi- smo e lo stalinismo — il riconoscimento del
diritto dei cittadini di resistere ai comandi ingiusti dei loro
governanti, anzi addirittura viene riconosciuto il loro dovere di
boicottarli e di lottare contro di essi. Per quanto riguarda poi la
riflessione etica sugli scopi del governo essa ha subito a partire dal
XIX secolo una radicale trasformazione laddove si è con- siderato come
uno dei compiti primari dei governi garantire ai cittadini non solo la
pace sociale, la vita, la salvaguardia dei diritti di proprietà, ma anche
il benessere, la salute, la qualità della vita ecc. Quando sono entrati
in gioco quelli che si considerano più propriamente i diritti positivi
(cfr. sopra, $ 4.5) dei cittadini si è posto il problema di quanto si
dovesse ritenere autorizzato il potere di un governante che, ad esempio,
ponesse dei limiti ai diritti negativi dei suoi concittadini al fine di
far progredire i diritti positivi della maggioranza. Si tratta di
questioni etiche che la riflessione sul potere po- litico si è trovata
davanti in particolare all’interno della questione sociale e sulla base
delle lotte sostenute dalle classi operaie e dal movimento socia- lista
(Bobbio, 1990). Molte delle questioni etiche in gioco nella
politica coinvolgono diretta- mente le relazioni internazionali tra
Stati. È oramai del tutto superata la posi- zione considerata ovvia nel
XVII secolo per esempio da Hobbes, ma anche da Locke, che riteneva i
rapporti tra Stati come costitutivamente collocabili nella sfera di uno
«stato di natura». Nel corso dell'età moderna e contemporanea non solo è
cresciuta l’esigenza di una valutazione etica delle motivazioni che
ispirano le azioni internazionali dei governanti (Bonanate, 1992), ma si è
an- che affermata sempre più la spinta a far valere anche tra Stati una
serie di principi consensualmente accettati che garantissero, nei limiti
del possibile, la pace. È stato Kant {Kant, 1956: 283-336) che ha fatto
valere con decisione l'esigenza di estendere anche alle relazioni
internazionali quel requisito della pace che si riteneva necessario per i
rapporti all'interno della società civile. Le
www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 114 ETICA
riflessioni etiche sull'uso della forza nelle relazioni internazionali tra
Stati nel XX secolo hanno poi dovuto affrontare le questioni nuove
segnate dalla crea- zione di armi nucleari. Molto insistita è stata la
conclusione che l’uso di armi che, come quelle nucleari, mettono a
rischio l’esistenza della stessa umanità, non può essere giustificabile
al di lì della sola funzione deterrente (Kavka, 1987; Pantara,
1989). Anche sul piano delle relazioni internazionali si è poi
ripresentata in que- sto secolo una riflessione etica che non investe
solo quei fini dei governi esclu- sivamente rivolti a salvaguardare o
difendere i diritti negativi dei cittadini del mondo, ma ancor più i
cosiddetti diritti positivi. In particolare l'incremento della
popolazione mondiale, una differenza sempre più incolmabile tra qualità
della vita nei paesi ricchi e sviluppati dell'Occidente e povertà nei paesi
sot- tosviluppati dell’Africa, dell'Asia e dell'America del Sud hanno
posto come problema etico primario per la politica la questione di quanto
si debba rite- nere obbligatoria una qualche forma di giustizia sociale
internazionale (Pon. tara, 1988; Singer, 1989; Sen, 1994), Da
un punto di vista teorico generale, così come si è assistito a un
allarga- mento dello spazio per l’etica nel senso di una progressiva
democratizzazione delle responsabilità e decisioni che essa richiede in
modo paritario a tutti i cittadini del mondo, si assiste altresì a un
analogo allargamento di questo spa- zio nella direzione di un incremento
delle questioni che ad essa si demandano. L’ipotesi che avanziamo —
ovviamente carica di un’opzione normativa — è che ci si muova verso un
allargamento delle aree problematiche che vengono affidate alla
discussione pubblica e dunque a una regolamentazione pacifica- mente
concordata, sottraendole al terreno in cui si fa ricorso alla forza. Così
sul piano internazionale vediamo sempre più riconosciuta — almeno al
livello del dover essere — l'esigenza di un governo mondiale — democraticamente
costituito e rispettoso della libertà dei suoi membri — impegnato a
garantire pace e giustizia sociale a livello planetario. Oggigiorno
sembrano quindi pri- vilegiate quelle teorie etiche normative in grado di
rendere conto in modo adeguato delle nuove estensioni problematiche
presenti nella situazione sto- rica degli esseri umani, Una competizione
con le sole armi dell’argomenta- zione razionale e della conoscenza tra
concezioni normative può favorire l’in- dividuazione di soluzioni giuste
ed efficaci. In generale poi una richiesta di maggiore riflessione
sull’etica può trovare una sua giustificazione in quanto questa
riflessione — sia pure in modi più o meno indiretti — contribuisce a
rendere più realizzabili gli obiettivi della pace, della libertà e della
giustizia sociale per l'insieme dell'umanità senza dovere ricorre alla
forza delle armi 0 alla violenza. Filosofia_in_Ita3
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Creonte. Etica e politica nell'era atorzica, Roma, Editori Riuniti, Premi,
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contemporanea. Adamo Smith, Bari, Laterza, 1957. Ip., Sl problema
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filosofici inediti, ivi, H.
Purnan, Verità ed etica, Milano, Il Saggiatore, Io., Ragione, verità e
storta, ivi, 1985. In., La sfida del realismo, Milano, Garzanti, com/Filosofia_in_Ita3
NOTA BIBLIOGRAFICA J. Rawcs, Kantian Constructivisti in Moral
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Milano, Feltrinelli, 1982. In., Liberalismo politico, Milano,
Edizioni di Comunità, Regan, ! dinitti
degli animali, Milano, Garzanti, 1990, M. D. Resnix, Scelte.
Introduzione alla teoria delle decisioni, Padova. Muzzio Editore, 1990,
R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Milano, Bompiani,
1986. In., La filosofia dopo la filosofia, Roma-Bari, Laterza, Ross,
The Right and the Good, Oxford, Ar The Clarendon Press, Rossi, Lo storicismo
tedesco contemporaneo, Torino, Einaudi, 1971. M. Ruse, Tating
Darwin Seriousty, Oxford, Blackwell, 1986. B. Russett, Gli elementi
dell'etica, in Filosofia e scienza, Roma, Newton Compton, Sacconi, Etica degli
affari, Milano, Il Saggiatore, 1991. U. ScareetLi, Filosofie
analitica, nome e valori, Milano, Comunità, To., Che cosa è 11
positivisme giuridico, ivi, lo., L'esica senza verità, Bologna, Il
Mulino, Io., Contributo alla
semantica del linguaggio normativa, 2* ed., Milano, Giuffrè, ScHucx, Problemi
di etica e aforismi, Bologna, Patron, 1970, M. E. Scrisano, Nozura
umana e società competitiva. Studio su Mandeville, Milano, Feltrinelli, To.,
Da Descartes a Spinoza. Percorsi della teologia razionale nel Seicento, Milano,
Angeli, ID., L'esistenza di Dro. Storia della prova ontologica da
Descartes a Kant, Roma-Bari, Laterza, A. Sen, Poverty and Famsines; an Essay on
Entittement and Deprivation, Oxford, Oxford University Press, In.,
Scelta, benessere, equità, Bologna, Il Mulino, 1986. lo., Etica ed
economia, Roma-Bari, Laterza, Ip., Risorse, valori e sviluppo, Torino, Bollati
Boringhieri, In., La diseguaglionza. Un riesame critico, Bologna, Il
Mulino, A. Sen e B. WitLiaMs (a cura di), Utiliterismo e altre, Milano, Il
Saggiatore, 1984. M. G. Sincer,
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Universality. Essays on Etbical Universalizability, a
cura di T. N. Potter e M. Timmons, Dordrecht, Reidel, Sincea, Etica
pratica, Napoli, Liguori,, Io., Liberazione anitrale, 2* ed.,
Milano, Mondadori, Ssant e B. WicLias, Utilitarismo: un confronto, Napoli,
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Etica € linguaggio, Milano, Longanesi, Strauss, Diritto naturale e storia,
Genova, 1l Melangolo, SugneN, The Ecomortcs of Righis, Cooperation and Welfare,
Oxford, Blackwell, Ursson, The Interpreiation of the Moral Philosophy of J. S.
Mill, in «The Philosophical Quarterly», Ip., Saints and Eroes, in
Essays in Moral Philosophy, a cura di A. I. Melden, Washington,
University of Washington Press, Veca, Etica e politica, Milano, Garzanti,
com/Filosofia_in_Ita3 NOTA BIBLIOGRAFICA Viano,
Erica, Milano, Isedi, Waczen, Sfere di giustizia, Milano, Feltrinelli, In.,
Guerre giuste e ingiuste, Napoli, Liguori, WarreNDER, Il pensiero politico di
Hobbes, Roma-Bari, Laterza, Witt, Rig61s, Oxford, Oxford University Press, Wiagins,
Needi, Values, Trutb, Oxford, Blackwell, Wiuiams, L'erica e i limiti della
filosofia, Roma-Bari, Laterza, 1In.. Problems dell'io, Milano, Ll Saggiatore, Wirson,
Sociobiologia: le nuova sintesi, Bologna, Zanichelli, WarisHT, An Essay in
Deontic Logic and the General Theory of Action, Amsterdam, North Holland,
Filosofia_in_Ita3 INDICE DEI NOMI: I numeri in corsivo
rimandano alla Nota bibliografica Abbagnano N., 10. Cooper A.A., v. Shaftesbury. Alchourron Crusius Almond
Althusius Dahl Anscombe Darwin Apel Davidson LIZIO Dawkins Arrow De Marco Austin
Descartes Austin Desmond Axelrod Dewey Ayer D'Holbach Downs Baier Dumont Bartolommei
Dworkin Bentham Engelhardt Berlin Epicuro L’ORTO Blackburn Ewing (CITED BY
GRICE) Bobbio Bonanate Fagiani Brentano Feinberg Brown Ferguson Buchanan Ferrajoli
Buddha Ferrara Bulygin Filmer Butler Finnis Foot Canziani Fox Carcarerra Frankena
Cartesio, v. Descartes R. Freud Cassese Clarke Gandhi Collins Gargeni Colman Gauthier
Condillac (Etienne Bonnot de), 92. Gibbard om/Filosofia_in_Ita3 Gilligan
Glover Gough Gracia Grice, H. P., Grice (Welsh_ G. R. Grozio Habermas Hagerstròm
Hare Hart Hartley Hayek Helvétius Hennìs Herbert di Cherbury Hobbes Hudson Humboldt
Hume Hutcheson Irigaray Jonas Jonsen Jules Jung Juvalta Kant Kavka Kelsen Kuhse
Landucci Locke Lorenz Lyons Mackie Macpherson Magri Malthus Mandeville Manzoni Marirain
McDowell Melniyre Meek Mill Mill Montaigne Moore Moore Musacchio Nagel Norton
Nowell Smith Nozick Oppenheim Parfit Pontara Preti Prichard Pufendorf Putnam Rawls
Regan Resnik Rorty Rass Rossi Rousseau Ruse Sacconi Scarpelli Scheler Filosofia_in_Ita3
INDICE DEI NOMI Schlick Sen Shaftesbury Cooper Sidgwick Singer
Singer Smart Smart Smith Snare Spencer Spinoza Stevenson Strauss Sugden Thomasius
Aquino Toulmin Urmson Veca Viano Walzer Warrender Weber White Wiggins Williams Wittgenstein
Wolff C., Wiollaston Wright .com/Filosofia_in_Ita3 INDICE DEL
VOLUME . Introduzione . La natura dell'etica si
ci . Fondazione, giustificazione e spiegazione:
l’epistemologia dell'etica CRA ERA 4. Le etiche normative;
concezioni in contrasto ART: 5. Dall’etica teorica all’etica
pratica Di Le dimensioni dell'etica Nota bibliografica Indice dei nomi
.. poEugenio Lecaldano. Keywords: simpatia, simpatico, antipatico,
compassione, compassivo, empatia, impassibile, transpatia, patia, patico, il
patico, diapatia. Psi-transmission. Grice: “Scheler uses ‘transpathy,’ but then
he would use anything!” filosofi italiani della simpatia, croce,
l’intersoggetivo, simpatia ed amore, empatia, impassibile, im- negative, im-
enfatico – teorie della simpatia morale in Italia --. Lecaldano. Keywords:
illuminati e illuministi --. Refs.: transpatia, dia-pathia, trans-passione –
trans-passio. Luigi Speranza, “Grice e Lecaldano” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Lelio: la
ragione conversazionale al portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Ha fama
soprattutto per l’intima amicizia che lo lega all’Africano Minore. Conosce
i tre filosofi inviati a Roma, ma e attirato principalmente da Diogene, del
Portico. In seguito L. ha rapporto con Panezio e ne diffuse la dottrina
nell’aristocrazia romana.Come legato di Scipione, C. L. partecipa alla guerra
contro i punici e si distinge nell’assedio di Cartagine, ottenendo in premio la
pretura. Appartenne agl’auguri è diviene console. Nelle lotte civili
determinate dall'azione di Tiberio GRACCO (si veda), L. si schiera contro
questo e i suoi fautori. E ammirato, se non come oratore, come uomo
politico, e dove il soprannome di "sapiente" datogli
dall’aristocrazia, al suo atteggiamento politico più che ad altro. Console
della repubblica romana. Filosofo del portico, politico e militare
romano. E uno dei migliori amici e più stretti collaboratori di Publio
Cornelio SCIPIONE (si veda) Africano, che
segue durante la guerra punica come prefetto della flotta, legato e
questore. Si distingue particolarmente nella conquista di Cartagine e in
seguito, nella campagna contro Siface e nella decisiva battaglia di Zama. Dopo
un viaggio di XXXVII giorni, partito da Tarraco in Spagna, in seguito alla
presa di Carthago, raggiunse a Roma. Quando entra in città insieme ad una
grande schiera di prigionieri attira l'attenzione del popolo che si riversa
lungo le strade al suo passaggio. Il giorno seguente venne ricevuto in senato,
dove racconta che Cartagine e presa in una sol giorno. Oltre a questa notizia
rifere che sono state riprese alcune delle città che si sono ribellate ai romani,
mentre altre sono state accolte come nuove alleate. I prigionieri riferirono
cose analoghe a quelle comunicate in precedenza dalla lettera di Marco Valerio
Messalla, secondo il quale Asdrubale Barca si sta preparando per passare con un
grande esercito in Italia, tanto da destare preoccupazioni nei senatori, visto
che a stento si e riusciti a resistere ad Annibale ed al suo esercito. L. rifere
degli stessi argomenti anche all'assemblea del popolo. Alla fine il senato
decreta che venissero ordinate per un giorno pubbliche cerimonie di
ringraziamento a GIOVE CAPITOLINO per l'esito felice della guerra e ordina a
Lelio di far ritorno dal suo comandante SCIPIONE il prima possibile, con le
stesse navi con cui e venuto. Dopo la fine della guerra e edile plebeo, pretore
e console e fornisce importanti informazioni sulla vita dell'amico SCIPIONE Africano,
a Polibio. L. è il padre di L. SAPIENTE, console insieme a Quinto Servilio
Cepione. Smith, Dictionary
of greek and roman biography and mythology, The Ancient Library.Polibio, Livio.
Polibio. Appiano di Alessandria, Historia
Romana. Livio, Ab Urbe condita libri. Polibio, Storie, Strabone, Geografia.
Brizzi, Storia di Roma, dalle origini ad Azio, Bologna, Patron; Piganiol, Le
conquiste dei romani, Milano, Saggiatore; Scullard, Storia del mondo romano.
Dalla fondazione di Roma alla distruzione di Cartagine, Milano, BUR, L,, in
Who's Who in The Roman World, Londra, Routledge, Romanzi storici Posteguillo,
L'Africano, Casale Monferrato, Piemme; Posteguillo, Invicta Legio, Casale
Monferrato, Piemme, L., Enciclopedia Britannica. Predecessore Console romano Successore
Manio Acilio Glabrione e Publio Cornelio Scipione Nasica con Lucio Cornelio
Scipione Asiatico Gneo Manlio Vulsone e Marco Fulvio Nobiliore; guerra punica,
guerra romano-siriaca ("Guerra contro Antioco III") Antica
Roma Portale Biografie Categorie: Politici romani Militari romani Militari.
Consoli
repubblicani romani Laelii Persone della seconda guerra punica. A statesman and
orator who takes a keen interest in philosophy, becoming an acquaintance of
members of the Porch like Diogene and Panazio. He was given the nickname
‘sapiens’ (know it all). According to CICERONE, this was not because L. knew it
all, but because of his self control in matters of judicial sentencing. Cicerone
greatly admires him and featured him in a number of his philosophical works. Gaio Lelio. Lelio.
Grice e Leocide: la
ragione conversazionale e la diaspora di Crotone. Roma – filosofia basilicatese
– scuola di Metaponto -- filosofia italiana– Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean,
according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Grice e Leofronte:
la ragione cnversazionale e la setta di Crotone – Roma – filosofia calabrese –
scuola di Crotone -- filosofia italiana– Luigi Seranza (Crotone). Filosofo italiano. A Pythagorean,
according to the Vita di Pitagora by Giamblico di Calcide.
Grice e Leone: la
ragione conversazionale e la diaspora di Crotone – Roma – filosofia
basilicatese – scuola di Metaponto -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). FIlosofo italiano. A Pythagorean,
according to the Vita di Pitagora by Giamblico di Calcide. Alcmaeon di Crotone
dedicates a ‘saggio’ to him.
Grice e Leonzio: la
ragione conversazionale la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia pugliese –
scuola di Taranto -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean,
according to The Vita di Pitagora di Giamblico di Calcide.
Grice e Lettine: all’isola
– la diaspora di Crotona – Roma – filosofia siciliana – scuola di Siracusa -- filosofia
italiana – Luigi Spearnza (Siracusa).
Filosofo italiano. Siracusa, Sicilia. A Pythagorean, according to “Vita di
Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Grice e Libanio: la
ragione conversazionale e la setta di Giuliano -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Supports
Giuliano in his attempt to revive paganism (a charming letter survives) – “but
he is also a friend and teacher of many Christians, can you believe it?” –
Loeb.
Grice e Liberale:
la ragione conversazionale al portico romano -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Not to be
confused with Liberace, he is staying at Lyons (Lugdunum) at the time it was
destroyed by fire. A dear friend of Seneca. He follows the Porch. In his
eulogy, Seneca declaims: “While he is accustomed to dealing with everyday
difficulties, a catastrophe, unexpected, and of such magnitude, is more than he could handle.” Ebuzio Liberale.
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