La storia costituisce per la filosofia contemporanea un ambito di indagine costante e pervasivo: quasi tutta la filosofia dopo Hegel ha pensato il proprio oggetto, cioè l’uomo, la conoscenza, l’agire e l’essere stesso, come essenzialmente storico. Questa “svolta storica”, che ha preceduto e favorito la cosiddetta “svolta linguistica”, ha significato per buona parte della filosofia contemporanea l’adozione di un metodo in cui la storia di un concetto e delle sue incarnazioni storiche sono dive nu te rilevanti almeno quanto la definizione teorica di esso. Tuttavia, in questo diffuso storicismo, che attraversa la filosofia dall’hegelismo all’ermeneutica, si è in parte persa di vista la specificità del l’ambito di riflessione che si può chiamare filosofia della storia. La specifica interpretazione dell’agire storico suggerita dallo storicismo, come svolgimento di un «destino» dello spirito, ha infatti occultato gran parte della riflessione che la tradizione filosofica ha prodotto, nel corso dei secoli, sull’agire storico in quanto tale. Questa preminenza del paradigma storicista ha inoltre favorito la nascita delle tesi circa la cosiddetta «fine della storia»: una percezione che, dalle riflessioni di Spengler sul «tramonto del l’Occidente» alle provocazioni del postmoderno, ha finito per estendersi ad ampi settori della cultura contemporanea. Quest'ultima appare per questo in estremo disagio, oggi, nel progettare il futuro: pensando l’intero dell’essere come contenuto nella storia «fino al momento presente», la cultura odierna rifugge dai tentativi di prefigurare un fine della storia come compimento, soprattutto perché questo tentativo appare come intrinsecamente ideologico e, quindi, non più credibile. Si può quindi ancora pensare la storiaa venire? Mettere in discussione questa precomprensione storicista della storia è uno degli obiettivi di questo volume. La filosofia della storia è oggi un’area vasta di riflessioni sul senso dell’agire storico che non può essere affatto ridotta all’idea di un «destino» immanente dell’Occidente o del mondo. Anche una semplice e non pregiudiziale ricognizione di alcune concezioni filosofiche della storia che si rintracciano nella tradizione mostra come l’interpretazione di essa sia assai varia e più aperta alla possibilità di pensare il futuro in modo non ideologico e soprattutto aperto al cambiamento, pur senza che esso sia abbandonato alla completa anomia. In questo senso, il volume mira a riabilitare una disciplina che, a volte affrettatamente, si è considerata così intrinseca alla pratica filosofica da non esserne distinguibile come un ambito di studi specifico. Si tratta, innanzitutto, di contribuire a rimuovere l’identificazione della filosofia della storia con il racconto di un «destino» ineluttabile. Questa interpretazione è stata resa canonica anche attraverso la preziosa ricostruzione condotta da Karl Lòwith in Significato e fine della storia,1 un libro che è stato, di fatto, il più autorevole e pressoché unico manuale di filosofia della storia dalla fine degli anni quaranta, quando fu scritto, a oggi. Lòwith ha una tesi tanto affascinante quanto riduttiva sulla vicenda della filosofia della storia. Definita essenzialmente come secolarizzazione dell’escatologia cristiana, essa evidentemente può esistere solo in certe condizioni culturali: in sostanza, quelle che si sono date da Gioacchino da Fiore a Marx. Si tratta di una lunga epoca, che pensa il tempo interamente in rapporto a un fine che, al suo apparire finale, svela l’autentico significato di tutto il movimento storico. Prima di quel momento finale, il cui modello è 1° Apocalisse cristiana ma che nella modernità si traduce in varie forme di realizzazione di un programma filosofico o sociale, le vicende storiche mostrano il loro senso solo a colui che si è elevato al punto di vista della fine. Quest’ultima è dunque il criterio di valore grazie al quale si possono giudicare tutti i momenti della storia. A partire dai movimenti millenaristi, di cui Gioacchino da Fiore è interprete, quella fine è comunque posta all’interno del tempo, vuoi come apparire dell’ Alfa e Omega che apre e chiude la storia, vuoi come luogo di inizio di una nuova epoca, contraddistinta dalla conoscenza, dalla società senza classi, dalla libertà pienamente realizzate. Il negativo, l’orrendo e il tragico che affligge la storia presente è comunque destinato a sciogliersi in quella sintesi finale, che mentre svela il senso del passato apre un futuro di armonia e libertà. La potenza di questa immagine ha tenuto prigioniera più di un’epoca, eppure non è stata senza rivali, nemmeno nello stesso Occidente, il quale, pur pensandosi forse inconfessata men te come il luogo di quella realizzazione, ha saputo anche tenere aperte interpretazioni diverse dei corsi dellastoria. Nell’interpretazione di Lòwith, l’idea di “senso” della storia diviene sinonimo di ciò che la parola “fine” nomina nella tradizione ebraico-cristiana. La chiave di volta è la speranza, la promessa di un avvenire di salvezza o di vita piena. È questa speranza ad aprire il futuro, perché esso non sarà la ripetizione del già visto da sempre, come invece può solo essere in una concezione ciclica. La promessa, inoltre, non è determinata nei dettagli e apre su un oltre della storia: per questo è possibile progettare un futuro diverso dal presente. Al tempo stesso, il compimento della promessa è certo, atteso e desiderato, e questo anima le coscienze più efficacemente dell’idea della ripetizione di cicli sempre ritornanti. Questa concezione, dunque, rimanda a una profondissima responsabilità individuale, sociale e universale per l’uomo, giacché quella destinazione non si può compiere, ricordano queste filosofie della storia, senza la partecipazione attiva degli individui, senza l’impegno soprattutto di coloro la cui coscienza ha scorto quella fine all’orizzonte e per questo deve operare per realizzarla. Simili filosofie della storia sono dunque vere e proprie concezioni morali del mondo e del tempo, capaci di mobilitare le energie individuali e di costituire cause ideali di grandi rivoluzioni attese o annunciate. La previsione dell’avvento necessario dell’epoca finale è pensato come compatibile con il riconoscimento della piena libertà umana, ma questa ipotesi di conciliazione è fonte di tensioni irrisolte sul piano sia concettuale sia pratico: la necessità di un “destino” mal sopporta il riconoscimento di un’autentica libertà personale. Così, la concezione moderna della storia è tesa fra la ricerca di leggi storiche e il riconoscimento della responsabilità dell’uomo, basato sulla tesi irrinunciabile dell’autonomia del volere. Questa oscillazione è visibile in Tocqueville (La démocratie en Amérique è del 1835-1840; la democrazia come destino e come missione), in Spengler (Der Untergang des Abendlandes è del 1918-1923: Zivilisation come tramonto, come fato naturale e decisione storica), in Toynbee (A Study of History, 1934-1961: nascita e crollo delle civiltà, attesa di una nuova chiesa). Il destino è segnato ma è nelle nostre mani farlo accadere; come Lòwith riassume efficacemente in una domanda: «Lo storico classico si chiede: come si è giunti a ciò? Quello moderno si chiede: come andrà a finire?».2 Così la storia diviene universale: mentre il movimento che ha condotto alla costituzione di una specifica cultura, di un particolare modo di vita, si può ricostruire limitandosi a concentrare i fattori causali in formazioni peculiari, che contingentemente si sono intrecciati in un luogo e in un tempo, l’idea di una fine, specialmente di una ‘fine di tutte le cose”, non può che avere un respiro totalizzante, universale appunto, perché a esso contribuiscono tutti i fattori storici e culturali in grado di influenzare la storia. Si guarderà quindi non alla storia locale ma ai grandi movimenti storici, agli spostamenti di assi epocali, da Est a Ovest, da Nord a Sud (come è di moda fare ora), cercando di rintracciare la legge necessaria di questi spostamenti e, quindi, di rendere possibile una ‘futurologia”, una previsione scientifica del corso della libertà umana. Ora, i tentativi di ricostruire questi movimenti e le loro leggi sono apparsi a buona parte della cultura contemporanea come sostanzialmente fallimentari. Le utopie del futuro si sono spesso rivelate come ideologie politiche che, in nome del progresso, della società post-classista, del trionfo degli spiriti forti, hanno mobilitato le masse verso strutture politiche e forme del potere che hanno causato tragedie mondiali lungo tutto il XX secolo. La consapevolezza del pericolo che si cela dietro a una filosofia della storia ha così motivato molta parte della reazione contemporanea contro questo tipo di prospettive, fino a revocare in dubbio non solo la modernità, bensì l’intera storia come luogo dell’accadimento di eventi umani dotati di senso. Uno dei nomi di questa reazione è “postmoderno”, un movimento di pensiero che, fra molto altro, include la tesi secondo cui della storia non si deve anzitutto dare un’interpretazione complessiva, che anzi in tal senso non vi è affatto una “storia”, bensì una costellazione di eventi frammentaria e casuale: cercare di ordinarla tramite un significato è una forma di violenza, una contraddizione rispetto alla libertà che si pretende di veder realizzata proprio in quella necessità del movimento storico. La liberazione da questa immagine è uno degli obiettivi che l’arte, la filosofia e la letteratura postmoderna perseguono come un modo di riaprire il movimento storico alla creatività, alla possibilità e all’effettiva eguaglianza. In questo movimento non ci sono criteri di valore, secondo questa tesi non c’è una direzione e per questo non vi è un metro di giudizio: la storia è costituita da accadimenti che ci si rifiuta di valutare se non in un’ottica pragmatica o meramente descrittiva. Si può giudicare più o meno bella una data composizione dei fatti, ma nessuna di esse è né assolutamente reale né definitiva: ogni rotazione del tempo crea una nuova immagine. Tuttavia, si potrebbe avanzare la tesi secondo cui il postmoderno non sia in fondo altro che una patologia del moderno. Proprio il rifiuto di un senso della storia incluso nel tempo, e al tempo stesso la rinuncia a un criterio di giudizio sulla storia in nome della liberazione dalle filosofie ideologiche della storia, mostrano che l’ideale di libertà tipico della modernità, rinunciare al quale è per noi impossibile e ingiusto, è ancora l’anima del tempo presente. Si può piuttosto interpretare la reazione postmoderna più semplicemente come la fine dell’idealismo storicista, il quale è in sé un movimento profondamente anti- moderno: la pretesa di imbrigliare la storia nel movimento dell’idea o dello spirito assoluto è in fondo incompatibile tanto con la ricerca illuminista di un criterio di sviluppo cognitivo e morale che prevede espressamente la possibilità di progressi e regressi, quanto con la rivendicazione romantica di parametri di valore legati al genio, all’apparire improvviso del senso anche nel mezzo delle crisi più profonde e perfino con la coscienza cristiana di una dimensione trascendente del tempo, di un rapporto con l’eterno che non è la fine della storia bensì la sua dimensione ortogonale, l’asse su cui si colloca l’attesa dell’avvento ultimo, improvviso e non prevedibile tramite alcuna dialettica storica. Questa patologia è stata diagnosticata con chiarezza già da Nietzsche a partire dalla seconda Inattuale, ma con l’errore (che molti ripetono) di omologare idealismo e Illuminismo, di considerare l’idea di un progresso morale e sociale sullo stesso piano della postulazione di un incessante Auffeben, di un movimento necessario e prevedibile. In realtà, sotto questo profilo fra Kant e Hegel vi è un’assoluta discontinuità. L’unilateralità idealistica ha poi il suo contraltare nel positivismo estremo e nell’empirismo radicale e proprio nel rifiuto, in nome della libertà dal pregiudizio storicista, di ogni canone di valutazione degli eventi storici. La delegittimazione diviene così pratica universale, perché non si è distinto, a partire dall’idealismo, il portatore dal messaggio, l’agire dal significato che attraverso di esso gli individui cercano di realizzare limitatamente alle condizioni in cui si trovano e secondo le loro capacità. Per uscire da questa impasse occorre allargare la visuale sulle filosofie della storia. Contrariamente a quanto pensava Lòwith, pur con la sua grande capacità di sintesi, avere una filosofia della storia non comporta affatto leggere tutta la storia in base a un fine che le dia significato, soprattutto se questo fine è pensato come un punto preciso del corso del tempo che, giungendo alla fine, ne sveli l’intero senso. L’idea di un giudizio sugli eventi storici non richiede necessariamente che si pensi una “fine” e nemmeno uno “scopo”. Vi sono anzi state nella storia del pensiero numerose interpretazioni dello svolgersi del tempo come anzitutto regolato da proprie leggi, da ritmi ciclici o alternati e dinamiche di continuità e ripetizione che non presuppongono una fine nel tempo bensì magari solo, come nel caso del cristianesimo, del tempo. Non si tratta solo della concezione greca del tempo come di un ciclo incessante e non orientato a un fine (che qui non è trattata ma che è per altro ben nota), bensì anche di concezioni cristiane e moderne in cui, senza rinunciare a porre un criterio di giudizio sulla storia, si è però posto tale criterio non in un fine bensì in una dimensione per così dire verticale del tempo, che è coinvolta nel suo movimento orizzontale come paradigma del valore, del senso e della possibilità sempre presente di perdere il contatto con essi. Possono essere interpretate in questo senso, per esempio, la dicotomia fra città di Dio e dell’uomo in Agostino, il rapporto fra corsi e ricorsi da un lato e Provvidenza dall’altro in Vico, l'ideale regolativo della pace perpetua in Kant, la dialettica fra vita e storia in Nietzsche. Oltre alla lettura “lineare” del progresso bisogna dunque riconoscere — anche nel cuore della modernità — almeno anche una lettura “ondulatoria”, secondo cui il rapporto fra tempo e verità non si dipana lungo una direttiva ascendente ma conosce alti e bassi, vertici e abissi, il cui canone di riferimento è il rapporto con l’assoluto, con la pienezza vitale, con la promessa salvifica o con la realizzazione di una società armonica e pacificata. Riaprire la molteplicità degli sguardi sulla storia di cui l'Occidente è stato ed è capace è un’esigenza imprescindibile per il tempo presente: la capacità di progettare un futuro dipende esattamente, da un lato, dalla denuncia di concezioni chiuse della storia e, dall’altro, dalla ricerca di un criterio di valutazione reale, obiettivo sugli eventi storici, che non rinunci alla volontà di giudicare del tempo per animare l’azione di valore umano e soprattutto dell’impegno delle libertà personali verso qualcosa che mostri di meritare la nostra dedizione. Questo volume si presenta dunque un utile strumento per l’introduzione alla comprensione filosofica dell’agire storico e del tema della storicità dell’esistenza. Scritto pensando anzitutto a chiarire le concezioni della storia che emergono dai principali autori della tradizione filosofica, il volume non intende però dare un panorama completo ed esaustivo di tutta la disciplina, troppo vasta e dispersiva. La selezione dei temi ha seguito il criterio della rilevanza degli autori trattati, con una chiara inclinazione verso il moderno e il contemporaneo. Gli autori dei testi sono docenti universitari noti per la competenza sull’autore trattato e dottorandi del Corso di dottorato in Filosofia della storia (l’unico di questo genere in Italia) istituito congiuntamente dall’Istituto Italiano di Scienze Umane di Firenze e dalla Facoltà di Filosofia dell’Università VitaSalute San Raffaele di Milano. L’esperienza di collaborazione che ha portato a questo volume si è concentrata soprattutto nell’attività didattica e per questo ha ricevuto uno speciale contributo dalla discussione con gli studenti, ai quali molti dei testi qui raccolti sono stati presentati in una prima stesura. Anche questa genesi del testo ne spiega la vocazione e l’ambizione esplicita: quella di essere la porta di accesso a una disciplina che, nell’epoca di una presunta quanto fallace “fine della storia”, ha più che mai bisogno di rinascere. Note 1K. Léwith, Significato e fine della storia [1949], trad. it. di F. Tedeschi Negri, Einaudi, Torino 1989. 2Ivi, p. 38.
Tuesday, September 3, 2024
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