Grice e Messere: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – l’implicatura di
Sileno – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torre Santa Susanna). Filosofo italiano. Torre Santa
Sussana, Brindisi, Puglia. Ricevuti i primi rudimenti del sapere dai chierici
locali, i suoi genitori (Pietro Messere e Teodora Di Leo), sebbene non agiati,
decisero di fargli frequentare il seminario di Oria, assecondando così il suo
vivo desiderio di intraprendere la carriera ecclesiastica, qui dimostrò sin da
subito una profonda passione per lo studio. Ordinato sacerdote per poi
ritornare al paese natìo, dove divenne un maestro di grande dottrina. Da
autodidatta si applicò allo studio della filosofia, della matematica, della
storia ecclesiastica e civile, nonché anche alla musica e al canto. Incolpato
dell'omicidio di un giovane chierico, fu messo in prigione nelle carceri del
Vescovo di Oria, dove rimase rinchiuso per sette anni, tuttavia non si lasciò
mai abbattere dallo sconforto; anzi, procuratosi alcuni libri, M. si applicò
allo studio della lingua greca, per la quale già aveva dimostrato una forte
predisposizione. Dopo un lungo e dibattuto processo, la sentenza finale lo
dichiarò innocente e assolto da qualsiasi reato. Risentito con i suoi
concittadini per averlo ingiustamente ritenuto reo, dichiarò che il suo paese
mai più lo avrebbe rivisto. Fu così che M. partì per Napoli, dove rimase fino
alla morte. Nella città partenopea ebbe modo di affinare e approfondire la sua
cultura, divenendo un personaggio di rilievo nel mondo intellettuale napoletano
del tempo. La grande conoscenza della lingua greca gli conferì grande notorietà
nonché una cattedra di Lettura Greca, che mantenne fino all'anno della morte,
presso l'Università degli studi di Napoli. Tale cattedra era stata nuovamente istituita a spese di Giuseppe Valletta, filosofo,
letterato e giureconsulto dell'epoca ed amico di M.. Valletta aveva una
profonda stima per il Messere, il quale fu assiduo frequentatore della sua casa
non solo quale insegnante dei suoi figli e nipoti, ma anche perché divenuta
luogo di riunioni dei più eruditi intellettuali del tempo. Fra i suoi molti
allievi che assistevano alle sue lezioni, ne ebbe alcuni divenuti celebri, si
annoverano Andrea, Barra, Caloprese, Gravina, Valletta, Capasso, Cerreto,
Egizio, Donzelli ed altri. Vico, noto filosofo suo amico, gli dedicò un breve
madrigale dal titolo Ghirlanda di timo per Argeo Caraconasio.Il mondo culturale
napoletano fu caratterizzato da importanti innovazioni a livello filosofico,
scientifico, civile e politico. Tale fervore culturale aprì la strada alla
nascita di un numero notevole di accademie, che divennero luoghi di discussione
aperta e di diffusione di nuove idee filosofiche e scientifiche. A Napoli le
principali accademie del tempo furono soprattutto quella degli Investiganti e
quella di Medinaceli. Che sia stato memM. bro autorevole di entrambe le
accademie e frequentatore di circoli e salotti letterari napoletani è
testimoniato da non pochi documenti, tra cui manoscritti e altri a stampa
conservati nella Biblioteca Nazionale di Napoli; le sue lezioni ebbero un così
folto seguito di giovani tanto da far suscitare invidie fra i letterati
fanatici dell'erudizione i quali, a furia di schernirlo per la sua ellenofilia,
diffusero in Napoli addirittura la moda letteraria della macchietta dello
pseudogrecista, satireggiata pure da Vico nella terza Orazione inaugurale. Fu
anche tra i primi membri dell'Arcadia fondata dal Crescimbeni e dal Gravina,
ove gli fu attribuito il nome pastorale greco di “Argeo Coraconasio,” “dalle
campagne dell'isola Coraconaso”. E fondata a Napoli la Colonia “Sebezia” dell'Arcadia
e anche qui il Messere e tra i primi iscritti.
L'aver ripristinato l'insegnamento della lingua greca in Napoli valse al
M. non solo il titolo di “ristoratore della greca erudizione”, ma contribuì
alla ripresa dello studio di Omero, influenzandone il pensiero poetico e
filosofico del tempo. Notevole fu l'influenza che egli ebbe sulla formazione
del pensiero del Gravina. Essenziale nella vita culturale di Gregorio Messere
fu anche l'amicizia con Valletta, suo allievo. La conoscenza che M ha della
filosofia fu ugualmente vasta tanto che gli valse l'appellativo di “Socrate” e
quando si riferivano a lui veniva anche chiamato il “Socrate dei nostri
tempi”. Non fu solo un insigne grecista,
ma anche un poeta. Compose infatti varij componimenti, tra distici, tetrastici,
serenate, sonetti, madrigali ed epigrammi in italiano, utilizzando talvolta uno
stile che il Lombardo definisce “stile mezzano e semplice”, di carattere
pastorale. Un suo epigramma è contenuto in una lettera che Canale inviò al
Magliabechi. Non mancò di scrivere componimenti di carattere burlesco e
giocoso, in cui contrapponeva l'immediatezza della satira e del dialetto alla
ricercatezza esasperata della poesia del Seicento. Si esercitò soprattutto
nell'Accademia di Medinacoeli, dove era uso chiudere la seduta accademica con
la recitazione di componimenti poetici. Compose finanche versi che celebravano
importanti eventi del regno; tra i più salienti, si ricordano quelli contenuti
nel volume scritto in occasione della recuperata salute di Carlo II. Da ricordare
sono anche gl’emblemata contenuti nel volume scritto per i funerali di D.
Caterina d'Aragona, e a cui si ispirò Vico in occasione dei funerali di due
uomini illustri Tra le tante
collaborazioni con letterati del suo tempo, degna di nota è quella che ha con VICO
per la pubblicazione di un volume in occasione del genetliaco di Filippo V, tre
sono i componimenti contenuti in esso. Fu anche collaboratore di una
Miscellanea dal titolo Vari componimenti in lode dell'eccellentissimo Benavides
conte di S. Stefano. Fatta eccezione per alcuni componimenti inseriti in
Miscellanee poetico-celebrative, di M. non esistono opere a stampa. E a ciò ne
dà spiegazione il Lombardo quando afferma che egli fu uomo umile e schivo tutto
dedito all'educazione dei giovani più che ai propri interessi personali, anzi
la sua modestia fu tale che pensò bene di distruggere i propri scritti. Le lezioni accademiche di cui si dispone sono
quelle che tenne nell'Accademia
istituita a Palazzo Reale dal viceré duca di Medinaceli. I codici delle lezioni
sono conservati attualmente presso la Biblioteca di Napoli. Due di queste
lezioni trattano di poesia. Qui argomenta sulla funzione e natura della poesia,
dei suoi rapporti con la storia nonché sul problema delle origini della poesia
stessa. Tre altre lezioni sono di carattere storico, esattamente: due sulla
vita di NERVA e una sulla vita di DECIO. Il codice napoletano contiene anche un
Discorso vario in cui sono presenti motivi autobiografici e una lezione
sull'origine delle maschere. L'Accademia di Medinaceli non ebbe lunga vita e,
nonostante la sua chiusura avvenuta a causa di rivolgimento politico, continuò
ad essere personaggio illustre nel panorama intellettuale e culturale
napoletano, come dimostra il fatto di essere annoverato tra i primi membri
dell'Arcadia sotto la custodia Crescimbeni e successivamente della colonia
napoletana “Sebezia”. Storia della
litteratura italiana Biografia degli
uomini illustri del regno di Napoli Le
vite degli Arcadi illustri scritte da diversi autori, e pubblicate d'ordine
delle generale adunanza da Crescimbeni, pRoma,
(biografia scritta da Lombardo). Cantillo,
Filosofia, poesia e vita civile in M.: un contributo alla storia del pensiero
meridionale, Morano, Napoli, Prezzo, Storia delle origini di Torre Santa
Susanna, Tiemme, Manduria,. Imma Ascione, Seminarium doctrinarum: l'Napoli nei
documenti, Edizioni scientifiche
italiane, Napoli; Lomonaco, M., la poesia e l'impegno civile tra Gravina e VICO,
in "Diritto e Cultura", VLezioni dell'Accademia di Palazzo del duca di
Medinaceli: Napoli, Rak, Napoli,
Istituto italiano per gli studi filosofici. (regio esim liepiera preso Niccola
Gjervasi'altirante 1.os. re ( lessen Blusere Filologo Filosofo Namquein Tore diliuramnemlá
iTera d Ohrante nel mio Mori in Nlapoli. Ebbe per convincenti indizj, co di
Gregorio la sospizione Fu rinchiuso perciò nulla egli fosse reo. me che di, laddove
impreseda prigioni per sette anni nelle del greco linguaggio, stessolostndio
non conosceva neppur lo avanti , che inbreve con tanta sollecitudine però ,e sn
tranoi il maestro ne diyenne solenne restauratore della greca erudizione. onde
cadde sopra se del quale per le figure. Vi attese Lo studio delle greche
lettere era a quel tempo venuto tranoi insomma decadenza, l'erudizione esi
renduta goffa e grossolana ; onde egli adoperó ogni sua cura per richiamarla
alla sua dignità primitiva. La profonda sua scienza nella mentovata favella gli
seçe meritamente occupare. la catte be i
suoi natali in un mediocre luogo della Regione de' Salentini, oggi Terra
d'Otranto, detto la Torre di S. Susanna , discosta da Brindisi intorno a miglia
dodici.Suoi genitori furono Pietro Messere, e Dianora di Leo amendue di onesta
e civil condizione. M., comechè non proveduto nella sua primiera età di
sufficienti maestri, seppe col proprio suo ingegno , e colla sua mente ,
velocis sima e disposta a d apprendere le più difficili cose supplire a
somigliante difetto. Egli attese da se solo aiprofondissimi studj della
filosofia delle mattemati che in buona parte, della Teologia , della Storia
Ecclesiastica e Civile.Nè intralascio fra la severità di sì fatte discipline
l'onesto diletto della poesia e della musica , e tanto in questa ando avanti ,
che giunse a cantar con lode la parte di basso. M., tutto che si fosse dedicato
al Sacerdozio , gl'intervenne una disgrazia , la quale fieramente l o
travaglio. S'invaghi un compagno di luididonzellafigliuoladiricco,e
nobilpersonag-: gio,enefudipariamorericambiato. Il padre di lei , avutone
sentore, lo fece assalir da due sgherri , I quali si accompagnavano con M., ilquale
go dea il favore parimenti del mentovato Signore. Ilgio vine amatore ne rimase
trucidato I و Fu de'primi ad essere annoverato tra gli Arcadi col nome di Argeo
Caraconessin ,e la sua vita ritrovasi descritta fra quelle degl’Arcadi illustri
P. 1Scrive a richiesta degli amici sonetti, madrigali ed epigrammi nell'una e
nell'altra lingua, i quali componimenti riscossero a que'tempi non poca laude.
Mirate la dottrina che si asconde Sotto il velame degli versi strani. Queste
poesie furon da lui recitate nella dotta adunanza che CERDA, allora vice-rè di
Napoli, tenenel Regal Palazzo. E certamentefuscia gura , dra di greco
linguaggio nell'Università de'nostri Stu dj. Bentosto si vide la studiosa
gioventù correre a folla alle sue lezioni , e zione,che non solamente I giovanetti,ma
puranche crebbe talmente la sua riputa persone distinte per merito di
letteraria coltura , a n davano con maraviglia ad ascoltarlo. Allo studio della
greca sapienza congiungeva M. quello delle scienze più sublimi ; perciò i più
doiti scienziati che erano allora fra noi ed ancora stranieri contava egli fra
i suoi amici. Tra quelli si annoverano Lionardo di Capoa , Francesco d'Andrea ,
Buragna e tanti altri ;'e fra gli stranieri il P. 'Mabillon il quale par la di
lui con somina laude nella sua opera Iter Ita licum ;e moltissimi presso de'quali
e il suo nome in somma estimazione. Il suo verseggiar burlesco e maccaronico
era un dotto poetare , e sempre ridondante di greca e di la tina erudizione,
sicchè isuoi versi in questo genere tranne lamateria ridevole,erano molto colti
egenti li, sì che avrebbe poluto egli dire con ALIGHIERI: O voice avete gl’ntelletti
sani. Il suo modo di comporre era quello che da' maestri vien detto mezzano e
semplice, e varie poesie dettò in istile boschereccio e pastorale. Molto però
egli valse nel verseggiare giocoso , ed in quella spezie di poesia, già
inventata da Folengio, il quale si dice Coccai, che volgarmente maccheronica
vien chiamata . che dipartendosi quell'erudito e generoso Si gnore , seco
portate avesse , con le altre cose i c o m ponimenti di quella dotta brigata, e
che Gregorio non ne avesse gl’originali serbati, e non ne rima nesser che pochi
in mano di alcuno de'suoi amici, Ma egli, intento qual novello Socrate ad
istruire la gioventù e far rinascere fra di noi lo studio e la scienza della greca
favella, la quale è detto brac cio destro della buona letteratura, poco cura le
sue cose, e poco ambi di rendersi per le stampe famoso. Dilettavasi egli
infatti più della sostanza che dell و ,
e più d'istruire la gioventù S!11 renza della dottrina erudizione. diosa , che
di far pompa di lussureggiante арра Le virtù cristiane e socievoli di M. pareg giarono la sua erudizione e la sua
dottrina. Era el FILOSOFO e religioso al tempo stesso; ottimo Sacerdote, ed
affabile senza ombra di bassezza o di poca digni tà,sprezzatore
grandissimodellericchezze, tal che pel noto fallimento del banco
dell'Annunziata avendo perduto quelpiccolo avere che collesue ono rate fatiche
erasi acquistato , uimase in una fredda in differenza, motteggiando
giocosamente come se nulla gli fosse intervenuto. Nè minore fermezza d'animo egli
nella morte di tre nipoti per sorella Biagio, Giovan Batista e Capozzeli,
giovinetti di grandi speranze i due primi nella medicina,ed il terzo nella
legalfacoltà, da lui sommamente ama. ti, ed allevati alla gloria ed alle
lettere. Poco curante egli si fu dell'amicizia de'potenti, e di ogni fasto,
dimostrò e di ogni civile onore. Maravigliosa era in tutto la sua temperanza,
talche i suoi costumi pareano più l'ultimo fine siccome un necessario termine
dell'uomo, e narrasi , che es antichi che nostri.Riguardava sendo un giorno
aperto , per alcun bisogno di fabbri ca,l'avello di Giovanni Gioviano Pon'ano,
ritrovan dosi ogli con un amico , lo prese vaghezza di scen dervi.Di fatti
discesovi, sudettesi in una delle nicchie da riporvi i morti intorno alle
pareti , e narrasi che mosso da involontaria allegrezza,dicesse: E chi sase
questo è il luogo che dee a me toccare? Somme lodi son queste certamente per M.,
il quale nato essendo nel mezzo della magna Grecia, nell'antica patria degl’Architi,
degl’Aristosseni,degl’Ennj, de'Pacuvj, e intendentissimo non meno della grea,
della latina e della Italiana poesia, che della più saggia FILOSOFIA, la quale
insegna non pur colle parole , ma col sobrio onorato Con grandissimocordoglio di
tutti gliamatori delle buone lettere, preso di ac cidente apopletico passò a
miglior vita ,e fu sepellito nella detta Cappella del Pontano , siccome in vita
avea desideralo. La sua morte fu onorata dal pianto di afflitte vedove Ο Φερδινάνδος
ΣανΦελικιος ευγνώμων ακροανης DIAGISTRO DOCTRINAE PULAETIVNI. Ταυτην την
Ακαδημιαν ο ποιησαντι e virtuoso suo contegno di vita. Fu per Γρηγοειω Μεσσερε
Σαλεντινω Εν ελλαδι φανη εις ακρον ταις παιδειας εληλακοτι il Socrate de’suoi tempi,
e datuttiriguar chiamato . Tanta era e cosi dato con istima e con ammirazione
perfetta in lui la notizia delle lettere greche, che mosse invidia e stupore in
parecchi sapientissimi Greci na zionali,iquali,passando per Napoli,vollero
vederlo ed ascoliarlo. Siccome abbiamo accennato,aluisideve in buona parte il
risorgimento delle buore lettere della greca dottrina, per tanti ragguar
spezialmente che si formarono sotto la sua di. devolissimi letterati
sciplina,eperciòhaeglispeziale eprecipuaragio ne ai nostri elogj ed alla nostra
riconoscenza. Nel no vero de’suoi discepoli furono i Biscardi, Gennaro
d'Andrea, i Calopresi, i Gravina, i Majelli, i Cirilli, i Capassi , gl’Egizi, e
tanti altri lumi della n o stra letteratura iqua’i malagevole sarebbe qui no
minare . tal ragione e di miserevoli bisognosi, a quali questo uomo
incomparabile in ogni maniera di virtù distribuiya tutto ciò che al puro uopo
della sua vita soperchia. va. Intervennero ai suoi funerali tutti i professo ri
della R. U. non che ragguarde volissimi personaggi. Uno di costoro già suo
scolaredi nobilissimo tegnaggio , insigne per lettere e per la scienza della
pittura e dell'architettura,innalzò a tanto maestro la see guente iscrizione in
greco ed in latino. Τα Διδασκαλω Διδακτρον. SALENTINO IN GRAECA LINGVA AD
SVMMVM ERVDITIONIS PROGRESSVM DE ACADEMIA HAC OPTIME MERITO) FERDINANDVS
SANFELICIVS GRATVS AVDITOR ANDREA MAZZARELLĄ PA CERRETO. Quantunque non
abbiasi cosa alcuna alle stam IV. sti. pe di M. Torre di S. Susanna,
luogo della Terra d'Otranto, tuttavia egli ha buon diritto che di lui si parli
in Gregorio Messo nella ro edaltriGreci st'opera. La disgrazia avvenutagli que
di dover soffri re,sebbene innocente una lunga prigionia to di omicidio , lo
determinò Greca, e così felicemente venir riconosciuto qual ristauratore
dizione nel Regno di Napoli , e il Mabillon nel suo Iter Italicum parla con
somma lode del Gregorio . Occupò egli la Cattedra di questa lingua nellaUni
versità della Capitale, e la insegnò con tanto grido , che oltre la gioventù
contò fra lisuoi discepoli non poche persone per coltura e per sapere distinte
; e fra i più celebri alunni da lui istruiti si noverano Gennaro di Andrea , il
Caloprese Capassi ed altri molti.Benemerito , il Gravina , il perciò della
Greca Letteratura congiunse na del poetare, e conobbe le altre scienze con gran
vantaggio attenzione specialmente Religione all'epoca della sua morte accaduta
ordine di persone il compianse . ogni funerali i Professori ai suoi , ed , ed
ebbe onorata s e per sospet a studiare la lingua vi riuscì, che meritò di poi
anche alla erudizione lave dei giovani che con zelo ed istruiva ed educava alle
lettere ed alla insieme, perlocchè crate. La sua dottrina e le sue cristiane
virtù , m a specialmente una carità generosa giunsero a tale,che appellavasi
novello S o . Intervennero tutti della R. Università altri ragguardevoli
poltura nella cappella dove riposano le ceneri Pontano discepolo con iscrizione
Greca e Latina da un del suo composta (2). personaggi della Greca e r u Fu egli
ascritto fra i primi Arcadi sotto il nome di Argeo Caran conessio. Biografia
degli Uom. ill. del Regno di Napoli. Allorchè si aprì il concorso per la cattedra
di lingua greca. Grice: “When they
called Messere ‘Socrate’ I hope they don’t mean Alcibiades’s implicature, ‘my
dear Sileno!’” – Gregorio Messere. Messere.
Keywords: implicature, Sileno, Socrates, Socrate Sileno, Socrate, Silenus.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Messere”.
Grice e Messimeri: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Seminara). Filosofo italiano. Seminara, Reggio Calabria,
Calabria. Grice: “He was of a noble family – he was into the free market – so
his is a philosophical economy.” Domenico
Grimaldi (Seminara), filosofo. Esponente dell'illuminismo napoletano.
Francesco Mario Pagano. Nato in una famiglia aristocratica che faceva risalire
le proprie origini alla nota famiglia di Genova, ricevette la prima educazione
dal padre, il marchese Pio Grimaldi, un uomo colto che aveva cominciato a
introdurre criteri di conduzione innovativi nelle sue proprietà terriere,
peraltro non molto estese, di Seminara. Non essendo molto ricco, il padre lo
avviò agli studi giuridici, in previsione di una possibile professione forense,
all'Napoli. Nella capitale napoletana M. fu raggiunto dal fratello minore
Francescantonio, fece parte con il fratello dell'Accademia dell'Arboscello,
frequenta le lezioni di economia di Genovesi. Si trasferì a Genova, dove
ottenne la riammissione nel patriziato della Repubblica di Genova, ottenendo
così il permesso di esercitare alcune magistrature. In Liguria, tuttavia, M. ha
modo di approfondire gli aspetti tecnici, economici e sociali legati
all'agricoltura il cui studio lo spinse a viaggi in Francia, specie in
Provenza, in Piemonte e in Svizzera. Si interessò in particolare alla colture
dell'ulivo e del gelso per l'allevamento dei bachi da seta. Venne accolto fra
l'altro nell'Accademia dei Georgofili, che premiò una memoria, nella Società
economica di Berna, un centro di cultura fisiocratica, e nella Société royale
d'agriculture di Parigi. Saggio di economia campestre per la Calabria
Ultra François Quesnay, maggior rappresentante della fisiocrazia Frutto
delle sue ricerche fu il Saggio di economia campestre per la Calabria Ultra,
esposizione di un piano che, partendo dalle condizioni di arretratezza
dell'economia calabrese, secondo la dottrina fisiocratica, ne indica i mezzi
atti a la trasformare situazione economica della Calabria. All'epoca il settore
produttivo più importante era l'agricoltura in quanto i posti nell'industria
erano pochi, le alternative limitate all'edilizia, ai lavori pubblici e al
settore terziario; l'agricoltura era tuttavia quasi esclusivamente di
sussistenza, e lo scarso reddito determinava un esodo massivo dalle campagne.
Per Grimaldi l'ammodernamento dell'agricoltura e l'integrazione tra agricoltura
e allevamento erano le condizioni prime per avviare la produzione industriale e
il commercio. il successivo aumento del reddito agrario avrebbe dovuto essere
reinvestito nell'industria tessile e in quelle serica, lattiero-casearia e
olearia. La presenza di industrie avrebbe innescato un circolo virtuoso in
quanto avrebbe potuto richiamare un afflusso di capitali per la ristrutturazione
fondiaria e l'aumento delle dimensioni delle aziende agricole, con successiva
formazione e sviluppo di attività miste agricolo-manifatturiere, specialmente
alimentari, con impiego di mano d'opera
locale. L'imprenditore Vecchio frantojo ligure dismesso M. si impegna
a tradurre in pratica questi progetti, con l'aiuto finanziario del padre,
impegnandosi nel miglioramento della coltivazione degli olivi, chiamate dalla
Liguria maestranze e tecnici per creare a Seminara nuovi frantoi "alla
genovese"; rese poi pubblici i progetti e i risultati delle sue
innovazioni con un'opera edita con una
dedica a Beccadelli, marchese della Sambuca. Si dedicò più tardi alla
produzione della seta. M., che inizialmente intendeva assegnare
l'ammodernamento dell'agricoltura all'iniziativa privata, si rese conto che
l'approccio utilizzato per l'ammodernamento dell'industria olearia (in questo
caso, introduzione in Calabria della lavorazione della seta alla
"piemontese") non sarebbe stato sufficiente nella lavorazione della
seta per ostacoli di natura fiscale nel regno di Napoli, ossia del dazio sulla
seta calabrese. Diede pertanto inizio a vivace polemica nei confronti dei
controlli oppressivi doganali e dei monopoli statali nei settori delle manifatture
e del commercio. Il politico Sir John Acton La riflessione
sull'influenza dello stato nel mercato della seta, diede avvio al dibattito sul
problema della libertà nel commercio internazionale, in particolare nel
commercio del grano che aveva assunto una notevole importanza dopo la carestia.
Una delle proposte più importanti di M. fu la costituzione, nella Calabria
Ultra, di società economiche concepite come centri promotori il miglioramento
della tecnica agraria; ma la proposta non trovò il necessario sostegno né nei
proprietari terrieri né nel clero. In seguito allargò lo sguardo dalla Calabria
Ultra all'intero Regno, proponendo di svolgere un'attività conoscitiva sulla
struttura economica del Regno mediante la predisposizione di piani di visite
alle province napoletane affidati a ispettori di nomina regia, con proposte di
azione sulle "cause fisiche" dell'arretratezza, principalmente la
mancanza di strutture per l'irrigazione innanzitutto nelle Puglie, per le quali
suggeriva il ricorso anche al lavoro coatto. Filangieri Grazie alla
notorietà raggiunta con i suoi saggi M. fu nominato dal primo ministro Acton
assessore al neocostituito Supremo Consiglio delle Finanze assieme a
Filangieri, Palmieri, Delfico e Galanti. Il terremoto che causò gravi danni e
lutti alla famiglia Grimaldi. Grimaldi fu favorevole all'istituzione della
Cassa sacra, proponendo che ricostruzione fosse eseguita secondo un piano
pubblico che prevedesse iniziative strutturali per l'ammodernamento della
produzione agricola e industriale. Si adoperò per l'apertura a Reggio Calabria
di un istituto professionale nel quale si insegnasse "l'arte di tirar la
seta alla piemontese"; la scuola, diretta da M., ebbe un certo successo,
ma venne chiusa nel L'interruzione negli anni novanta dell'attività
riformatrice di Ferdinando IV di Napoli in seguito alla crisi collegata alla
rivoluzione francese comportò un atteggiamento di sospetto, da parte del
governo napoletano, nei confronti dell'intellettualità progressista. A Grimaldi
venne rifiutata la nomina, proposta dal Galanti, di presidente della
costituenda Società patriottica per la Calabria in quanto massone. Fu
addirittura arrestato, come gran parte dei massoni reggini (una cinquantina
circa) in seguito all'assassinio del governatore di Reggio, Pinelli e trasferito
nel carcere di Messina dove si trovava alla nascita della Repubblica
Napoletana. Suo figlio Francescantonio aderì alla Repubblica Napoletana. Saggi:
“Memoria ai gergofili sopra una specie di pianta pratense chiamata sulla”
(Firenze); “Economia campestre per la Calabria” (Napoli: Orsini); “La manifattura
dell'olio nella Calabria” (Napoli: Lanciano); “Manifattura e commercio delle
sete del Regno di Napoli alle sue finanze, scon alcune riflessioni critiche
sopra il bando delle sete” (Napoli: Porcelli); “La pubblica economia delle
provincie del Regno delle Due Sicilie” (Napoli: Porcelli); “Piano per impiegare
utilmente i forzati, e col loro travaglio assicurare ed accrescere le raccolte
del grano nella Puglia, e nelle altre provincie del Regno” (Napoli: Porcelli); “L’industria
olearia, e dell'agricoltura nelle Calabrie, ed altre provincie del Regno di
Napoli” (Napoli: Porcelli); “L’economia olearia antica sull'antico frantoio da
olio trovato negli scavamenti di Stabia” (Napoli: Stamperia Reale); “L’Ulteriore
Calabria con alcune osservazioni economiche relative a quella provincia”
(Napoli: Porcelli). Franco Venturi, Illuministi italiani, V: Riformatori napoletani, Napoli: Ricciardi,
Piromalli, La letteratura calabrese: Dalle origini al posivitismo, Cosenza:
LPE, Istruzioni sulla nuova manifattura
dell'olio introdotta nel Regno di Napoli da M. patrizio genovese, socio
ordinario, e corrispondente dell'Accademia de' Georgofili di Firenze, della
Società di Agricoltura di Parigi, e di Berna, In Napoli: presso Orsini, a spese
di Porcelli, Osservazioni economiche sopra la manifattura e commercio delle
sete del Regno di Napoli alle sue finanze, scritte dal marchese Domenico
Grimaldi, con alcune riflessioni critiche sopra del Bando delle Sete” (Napoli:
Porcelli); “Relazione d'un disimpegno fatto nella Ulteriore Calabria con alcune
osservazioni economiche relative a quella provincial” (Napoli: Porcelli);
“Piano di riforma per la pubblica economia delle provincie del Regno di Napoli,
e per l'agricoltura delle Due Sicilie, scritto da M., Napoli: Porcelli); Piano
per impiegare utilmente i forzati, e col loro travaglio assicurare ed
accrescere le raccolte del grano nella Puglia, e nelle altre provincie del
Regno scritto da M., patrizio genovese”
(Napoli: Porcelli); “Relazione d'una scuola da tirar la seta alla piemontese
stabilita in Reggio per ordine di Sua Maestà, sotto la direzione di M., e l'approvazione
del Vicario generale delle Calabrie don Francesco Pignatelli” (Messina per
Giuseppe di Stefano). L'opera apparve anonima ed è attribuita a M. da Melzi,
Note bibliografiche del fu Melzi, edite per cura di un bibliofilo milanese con
altre notizie, H-R, Milano: Bernardoni)
Galanti, Giornale di viaggio in Calabria; introduzione di Luca Addante, Soveria
Mannelli: Rubbettino, A. Ubbidiente, Il pensiero e l'opera di M. e
Francescantonio Grimaldi. Testi di Laurea. Università degli Studi di Salerno,
Facoltà di Magistero. Perna, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma:
Istituto dell'Enciclopedia, Basile, «Un illuminista calabrese: M. da Seminara,
in: Archivio Storico per la Calabria e la Lucania, Cingari, Giacobini e
Sanfedisti in Calabria, Reggio Cal., "Casa del libro", Morisani,
Massoni e Giacobini a Reggio Calabria,
Reggio Cal., Morello, Romeo,
Alcune precisazioni su M. un riformatore Calabrese, in "Historica",
Antonio Piromalli, L'attualità del pensiero e delle opere del marchese Domenico
Grimaldi, Cosenza: L. Pellegrini, Luciano, M. e la Calabria, Salerno, Carucci. M.
la voce nella Treccani L'Enciclopedia Italiana. Grice: “Isn’t ONE Sicily
enough?” -- -- Giovanni Antonio Summonte, storico vissuto a cavallo
tra il XVI e il XVII secolo, all'interno del secondo volume della sua Historia
della città e Regno di Napoli, inserisce un trattato dal titolo Dell'Isola di
Sicilia, e de' suoi Re; e perché il Regno di Napoli fu detto Sicilia. In questo
scritto l'origine della distinzione tra due «Sicilie» separate dal Faro di
Messina viene individuata nella bolla pontificia con cui papa Clemente IV
investì Carlo I d'Angiò del Regno di Napoli: «Papa Clemente IV, il quale
investì, e coronò Carlo d'Angiò di questi due Regni, chiamò quest'Isola, e il
Regno di Napoli con un sol nome, come si può vedere in quella Bolla, ove dice,
Carlo d'Angiò Re d'amendue le Sicilie, Citra, e Ultra il Faro: e questo
eziandio osservarono gli altri Pontefici, che a quello successero, e si
servirono degl'istessi nomi. Imperciocchè 7 altri Re, che al detto Carlo
successero che solo del Regno di Napoli, e non di Sicilia padroni furono,
chiamarono il Regno di Napoli, Sicilia di qua dal Faro. Il Re Alfonso poi,
ritrovandosi Re dell'Isola di Sicilia, per essere egli successo a Ferrante suo padre,
e avendo anco con gran fatica, e forza d'armi guadagnato il Regno di Napoli da
mano di Renato, si chiamò anch'egli con una sola voce, Re delle Due Sicilie,
Citra, e Ultra; E questo per dimostrare di non contravenire all'autorità de'
Pontefici. Ad Alfonso poi successero 4 altri Re i quali furono Signori solo del
Regno di Napoli, e si intitolarono, come gli altri, Re di Sicilia Citra. Ma
Ferdinando il Cattolico, Giovanna sua figlia, Carlo Vimperadore e Filippo
nostro re, e Signore, i quali anno sic avuto il dominio d'amendue i Regni, si
sono intitolati, e chiamati Re delle due Sicilie Citra, e Ultra: la verità
dunque è, che questi nomi vennero da' Pontefici romani, i quali cominciarono ad
introdurre, che 'l Regno di Napoli si chiamasse Sicilia.» La stessa tesi
è sostenuta da Giannone nella sua Istoria civile del Regno di Napoli, in cui si
citano vari stralci della bolla pontificia, con la quale Clemente IV concesse
l'investitura a Carlo d'Angiò «pro Regno Siciliae, ac Tota Terra, quae est
citra Pharum, usque ad confiniam Terrarum, excepta Civitate Beneventana». In un
altro passo la bolla proclamava: «Clemens IV infeudavit Regnum Siciliae citra,
et ultra Pharum». Secondo Giannone è dunque questa l'origine del titolo rex
utriusque Siciliae, che tuttavia Carlo d'Angiò non usò mai nei suoi atti
ufficiali, preferendo gli antichi titoli dei sovrani normanni e svevi. Marchese
Domenico Grimaldi. Grimaldi di Messimeri. Messimeri. Keywords: implicature,
economia olearia antica – antico frantoio da olio a Stabia -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Messimeri” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Metello: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – Roma – filosofia
lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A Roman general and
politician. A pupil of Carneade. Quinto Cecilio Metello Numidico. Metello.
Grice e Metopo:
la ragione conversazionale della diaspora di Crotone -- Roma – filosofia
basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. Cited by
Stobeo – He writes a treatise on virtue [VIRTUS, ANDREIA] which survives. Giamblico lists him as a Pythagorean.
Grice e Metrodoro:
la ragione conversazionale degl’ottimati di Crotone -- Roma – filosofia
calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. A Pythagorean
and son of Epicharmo, cited by Giamblico.
Grice e Metronace:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale nella scuola di
Napoli – Roma – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Napoli, Campania. Metronace.
Porch.A popular teacher of philosophy at Napoli, where Seneca attended some of
his lectures.
Grice e Micalori: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- Ganimede e l’implicatura sferica di Giove – filosofia lazia
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano.
Roma, Lazio. Grice: “I took my ideas on longitude and latitude from
Micalori” -- Grice: “By calling it ‘sfera,’ Micalori’s statement ENTAILS rather
than implicates that the Romans were wrong.” Professore a Urbino.
Opere: “Della sfera mondiale” In Urbino, Mazzantini, M., Antapocrisi, In
Roma, Francesco Roma Cavalli. Zeus features heavily in a lot of starlore, and the
Eagle constellation is no exception. The predominantly accepted mythos
for this constellation is the abduction of Ganymede. Zeus had facilitated the
kidnapping, fancying the beautiful mortal boy as his personal cup-bearer.
In the constellation, which is situated south of Cygnus on the equator, making
it visible from both the Northern and Southern hemispheres, poor Ganymede can
be seen hanging from the claws of the eagle as he is swiftly taken to the
heavens. The constellation appears alongside several other bird
constellations. The Eagle’s wings are spread, giving it the appearance of
gliding through the stars. As Hyginus states, the beak is separated from the
body by a milky circle. It was also said to set “at the rising of the Lion and
rises with Capricorn”. (Hyginus, Astronomy, 3.15) Greek astronomy
Humans have a natural urge to identify familiar things amongst the twinkling
stars of the mysterious abyss above us. These narratives came out of
astronomical observations and ancient time tracking. The study of the sky began
long before the earliest Greek sources that (sparsely) discuss them, Homer and
Hesiod. They likely developed during the transition from oral to written
transmission, but to what is extent is unknown. Even though the Greeks
were late to the constellation conversation, they received a lot of their
knowledge from their Eastern neighbors. The Greeks introduced the word
katasterismos, or catasterism, which refers to the process of being set in the
heavens. Constellations were used for navigation and an indication of seasonal
change; many extravagant mythic connections were added later. Today,
there are 88 constellations officially defined by the International Astronomical
Union, and many of them have been accepted since Ptolemy’s The Almagest.
Constellations created by the Mesopotamians between 1300-1000 BC originate in
older lands, but the Greek astral mythos canon was solidified by Eratosthenes,
in a work now lost to us. Zeus and his trusted companion The myth
of Ganymede is very ancient lore, being told in the tale of Troy by Homer
(Illiad) – albeit with no mention of an eagle escort. In the fifth Homeric Hymn
to Apollo, Ganymede was said to be whisked off to Olympus by a ‘heaven-sent
whirlwind’. The eagle was not connected to this tale until the 4th
century BC. The constellation was accepted as an eagle prior to this, so it is
presumed that this addition was made to make the story fit the stars, probably
because Ganymede is said to feature in his own nearby constellation, the
water-pourer (Aquarius). Micalori.
Keywords: implicatura sferica, planifesferio, Casali. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Micalori” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Miccoli: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale d’ANTONINO -- homo loqvens filosofia lazia – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Roma,
Lazio. Grice: “Miccoli is a great philosopher – and surgeon – My favourites are
his ‘Corpo dicibile,’ which trades on my idea of what it means to ‘say’
something; and his ‘Homo loquens,’ a play on Aristotle’s ‘zoon logikon,’ but
which Aristotle would find otiose: man is the ‘vivente’ that speaks, or the
‘animal’ that speaks. To say that it is the ‘homo’ that speaks relies on
Darwin’s classifications and phyla of homo sapiens sapiens and the rest!” La divertente commedia umana Incipit Chi si accinge
alla lettura dell' Elogio della follia di Erasmo farebbe bene a non dimenticare
taluni antecedenti biografici dell'autore che spiegano meglio l'ironia bonaria
dell'opuscolo. Li richiamiamo. Geertsz, latinizzato secondo il costume degli
umanisti in Desiderio Erasmo, nacque figlio di illegittimo coniugio. La
famiglia paterna, in auge nella borghesia di Gouda, come apprendiamo dallo
stesso Erasmo, si oppose alle nozze riparatrici del figlio, costringendolo, con
inganno, a far intraprendere la carriera ecclesiastica al malcapitato giovanotto. Citazioni Come umanista Erasmo si sente
apparentato alla società dalla duttile forza della parola che ne saggia
criticamente le valenze in termini di ironia, sarcasmo, gioco allusivo,
bonarietà lungimirante, tolleranza magnanima, moralismo contenuto. Fin dalla
dedica dell'opuscolo a Moro si arguisce che l'autore non vuol propinare
sapientia austera e compassata, ma buon senso brioso che permei di sé la vita
quotidiana della gente, fosse anche d’ANTONINO che sul letto di morte, lui
filosofo, esclama, a un certo momento: «Sentenzio me cacavi! La sapienza dei
dotti è tanto altezzosa quanto sterile, diversamente dal buon senso che cambia
in meglio l'esistenza non sofisticata. (Sotto la penna dell'insigne umanista
olandese si fronteggiano al femminile Sapientia e Stultitia: la prima, per
voler essere austera ad ogni costo, diventa stolta; la seconda, in quanto
«forza vitale irrazionale e creatrice», si palesa veramente saggia alla resa
dei conti. L' Elogio della follia conserva un fascino di imperitura attualità.
Lo si desume dall'analisi di Histoire de la Folie, dove Foucault evidenzia il
confine sfumato tra ragione e sragione in epoca di alta tecnologia, e altresì
dalle invettive di Nietzsche contro lo smunto bibliotecario, lo stitico
correttore di bozze, il pallido burocrate stipendiato, emblemi tutti del moderno
«uomo alessandrino». (Explicit Erasmo conosce e cita perfino pagine della
Bibbia a riprova della bontà dei doni che Follia concede ai mortali. Un modo
questo, di prendere in giro anzitempo la presunzione dispotica delle società
economicistiche che intendono mantenere sotto loro tutela il cittadino
«minorenne» sempre bisognoso di dande e mordacchie. Gli autori classici sono,
tra l'altro, spiriti lungimiranti. A tali società alienanti di oggi e di domani
Blake, con spirito erasmiano, potrebbe ripetere: «esuberanza è bellezza. La
divertente commedia umana, introduzione a Erasmo da Rotterdam, Elogio della
Follia, TEN, Introduzione a "Vita di Gesù" Incipit Il contesto
storico culturale della Vita di Gesù La recente edizione storico-critica delle
Opere complete di Hegel consente di far chiarezza sulle discussioni e
congetture che hanno tenuto a lungo il campo nella letteratura hegeliana a
proposito dei cosiddetti Scritti teologici giovanili, la cui indole cronologica
vengono ora sancite su base filologica e critica più accorta. Più che ai titoli
apposti da Nohl ai vari frammenti e più che alle congetture sulla data
probabile di tali scritti, è più fruttuoso rifarsi agli anni di formazione
filosofica e teologica di Hegel nello Stift di Tubinga e reperire nel
curriculum studiorum le ascendenze prossime che hanno influenzato maggiormente
l'autore in una speculiare lettura dei quattro Evangelisti, da cui desume Das
Leben Jesu. Citazioni Gli interessi culturali di Hegel, negli anni tubinghesi,
sono prevalentemente filosofici, incentivati dalla lettura di Rousseau, Jacobi,
Lessing, Kant, Fichte su temi sociopolitici ed etico-religiosi. (Hegel,
studioso di filosofia, si sente chiamato a lumeggiare «spiritualmente» la
situazione storica del suo tempo e a porre le premesse di carattere razionale
per l'avvento di un «ordine uguale di tutti gli spiriti». Il lettore del Leben
Jesu si accorge subito di trovarsi di fronte a una forma di scrittura audace,
che desacralizza e sdivinizza la persona di Gesù, riducendolo a maestro di
morale sublime. [Paolo Miccoli,
introduzione a Hegel, Vita di Gesù. TEN. “Filosofia della storia”, “Corpi
dicibili”, “Homo louqens”. Paolo Miccoli. Miccoli. Keywords: homo loquens,
corpo dicibile, corpi dicibili. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Miccoli” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Miccolis: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – BRVNO – filosofi italiani al rogo – filosofia pugliese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Corato).
Filosofo italiano.
Corato, Bari, Puglia. Grice: “Miccoli reminds me of G. Baker, who dedicated
most of his life to Witters! Miccolis
to Labriola.” Considerato uno dei massimi
studiosi di Labriola. Si trasferì a
Perugia per gli studi universitari, laureandosi in filosofia a pieni voti con
una tesi dal titolo «Il pensiero politico crociano e la genesi del
liberalismo». Abilitatosi cum laude all'insegnamento di storia e filosofia,
professore in vari licei della provincia, occupò una cattedra stabile presso
l'Istituto tecnico per geometri a Perugia, accostando l'insegnamento di
estetica all'Accademia di belle arti Vannucci. Divenne responsabile del settore
culturale del PCI per la regione Umbria; ma, preso dagli studî e
dall'insegnamento, lasciò l'incarico, comunque seguendo sempre le vicende
politiche con attenzione e passione. La sua è stata una formazione liberale:
considerava suoi padri spirituali Labriola, Croce, Gobetti. Dalla fine degli
anni Settanta la sua vita sarà rivolta allo studio del filosofo cassinese Labriola,
da Miccolis ritenuto «un buon punto per capire la storia d'Italia». Nascerà
quindi il Carteggio labrioliano, in cinque volumi, presentato da Cesa all'Accademia
dei Lincei, edito per gli auspici e con il contributo dell'Istituto italiano
per gli studi storici e dell'Università degli Studi di Napoli
"L'Orientale" e favorito dalla consultazione, nel frattempo divenuta
possibile, delle carte Labriola del Fondo Dal Pane, acquistato dalla Società
napoletana di storia patria. Su tale monumentale lavoro è stato scritto: «un
evento letterario, probabilmente l'acquisizione più importante tra le fonti
della cultura italiana postunitaria; e, di più, senza esagerazione, si presenta
come un capolavoro ecdotico, per accuratezza filologica ed esaustività del
commento. Miccolis era certo divenuto col tempo l'esperto più sicuro della
impervia grafia del suo autore, della quale conosceva ogni piega e ogni
anomalia, dei contesti politici e culturali in cui Labriola si muoveva della
spezzettata, dispersa e contorta
labrioliana, difficile da padroneggiare: si era anche impadronito, in
base a una sensibilità linguistica non comune, del "vocabolario"
dell'Autore in tutte le sue sfumature, ed era perciò in grado di respingere o
di dubitare di attribuzioni di testi, datazioni improbabili, letture sghembe».
Miccolis scrisse inoltre sistematicamente per varie riviste (Rivista di storia
della filosofia, il Giornale critico della filosofia italiana, Belfagor,
Critica storica, Nuovi studi politici, etc.); numerosi sono i suoi saggi e
notevoli gli ulteriori apporti documentari alla
labrioliana. Collabora intensamente con l'Istituto italiano per gli
studi storici e la Fondazione Biblioteca Croce: aveva il compito di revisionare
i carteggi crociani, e sotto il suo controllo passavano i volumi dell'Edizione
nazionale delle opere di Croce. È stato anche uno dei principali animatori
dell'Edizione nazionale delle opere di Labriola, per la quale aveva contribuito
a definire il piano editoriale, i criteri metodologici, e il problema del
rapporto tra l'opera edita di Labriola e il fondo manoscritto della Società
napoletana di storia patria. Adnkronos,
Filosofi, E' morto M., massimo studioso di Labriola, Bari, SAVORELLI, Rivista
di storia della filosofia, Opere: “ Il carteggio di Labriola conservato nel
Fondo Dal Pane” «Archivio storico per le provincie napoletane», «Con la Sua calligrafia che mi ricorda i
papiri greci...». La filologia, la guerra, la Crusca nel carteggio di Croce con
Pistelli e Lodi, a c. di M. e Savorelli, in Gli archivi della memoria, Firenze,
Biblioteca Medicea Laurenziana, (rist. in Gli archivi della memoria e il
Carteggio Salvemini-Pistelli, a c. di R. Pintaudi, Firenze, Biblioteca Medicea
Lauenziana, Polistampa, Labriola, La politica italiana Corrispondenze alle «
Basler Nachrichten », M., Napoli, Bibliopolis, Labriola, Carteggio, M., Napoli,
Bibliopolis, M., Labriola, Dizionario biografico degli italiani, A. Labriola,
L'università e la libertà della scienza, M., Torino, Aragno, Labriola, Bruno.
Scritti editi ed inediti M. e Savorelli, Napoli, Bibliopolis, M., Labriola.
Saggi per una biografia politica, A. Savorelli e M., Milano, UNICOPLI, M., Gli scritti politici di Labriola editi da
M., A. Savorelli e M., Napoli, Bibliopolis,
G. Bucci, M., il ricordo a un anno dalla morte, "Corato live",
W. Gianinazzi, M. Prat, In memoriam "Mil neuf cent", Savorelli, M.,
«Rivista di storia della filosofia», fa A. Meschiari, M. studioso di Labriola, Rivista di storia della filosofia.
Stefano Miccolis. Miccolis. Keywords: filosofi italiani al rogo. BRVNO. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Miccolis” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Michelstädter: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – il giovane divino -- l’implicatura persuasiva di Platone – filosofia
giudea – filosofia nel ventennio fascista – filosofia italiana -- Luigi
Speranza (Gorizia). Filosofo italiano. Grice: “It’s difficult to grasp
Michelsteadter’s implicature: his study on ‘persuasion’ is brilliant – he was a
close reader of Plato, and he uses figurative language, as ‘il giovane divino.’
My favourite is his account of the persuasive rhetoric of Cicero.” Grice:
“Michelsteadter plays with the etymology of persuasion, which is cognate with
‘suave,’ as it should – sweet talk, we should say – which I could make into a
maxim which would not be strictly ‘conversational’ unless under the category of
modus – ‘be sweet’ –But the sweetness applies in general to my framework: the
emissor aims to be sweet if he is going to try to influence the other, and will
be influenced by a sweeter co-emissor.” essential Italian philosopher. Ultimo di quattro figli,
da un'agiata famiglia. Il padre, Alberto, dirige l'ufficio goriziano delle
Assicurazioni Generali ed è presidente del Gabinetto di Lettura goriziano. È un
uomo colto, autore di scritti letterari e di conferenze, rispettoso delle
usanze tradizionali ma solo formalmente, per rispetto borghese -- è, anzi, un
laico, un tipico rappresentante della mentalità materialistica. Il semitismo
non sembra quindi incidere molto sulla sua formazione culturale, che scoprire
solo più tardi e con non poca meraviglia di avere un antenato cabalista. Iscritto
al severo Staatsgymnasium cittadino, fa propria la rigida Bildung asburgica.
Con le traduzioni dal greco e dal latino ha i primi approcci colla filosofia. A
iniziarlo sono Schubert-Soldern, solipsista gnoseologico, secondo il quale
tutto il sapere va ricondotto alla sfera del soggetto; e l'amico Mreule che gli
fa conoscere Il mondo come volontà e rappresentazione, di cui resta traccia
soprattutto ne La Persuasione e la Rettorica. Nella soffitta di Paternolli,
oltre a Schopenhauer, legge e discute, con gli amici Nino e Rico, i tragici e i
presocratici, Platone, il Vangelo e le Upanishad; e poi ancora Petrarca,
Leopardi, Tolstoj, e l'amatissimo Ibsen. Conclusde gli studi ginnasiali e
progetta di iscriversi a giurisprudenza; in seguito abbandona l'idea e si
iscrive alla facoltà di matematica a Vienna. Ma l'anima è giàper dirla con
Leopardi nel primo giovanil tumulto verso un altrove che non riesce a
riconoscere nella ferrea logica matematica. Si iscrive al corso di Lettere
dell'Istituto di Studi Superiori Fiorentino, città in cui vivrà per quasi
quattro anni e dove conoscerà, fra gli altri, Chiavacci, futuro curatore delle
sue Opere, ed Arangio-Ruiz, noto filosofo. Continua a ritrarre, fra tratto
espressionistico e schizzo caricaturale, la varia umanità in cui s'imbatte, sia
nei mesi di studio che nei periodi di vacanza al mare e in montagna. Scrive
moltissimo, in modo quasi ossessivo, dalle lettere ai familiari (in particolare
alla sorella Paula) alle recensioni di drammi teatrali. Un evento luttuoso
segna la sua vita: la morte, per suicidio, del fratello Gino. Due anni prima si
era suicidata anche una donna da lui amata, Nadia Baraden. Mreule parte per
l'Argentina. Questa partenza è segnata da un evento significativo, una sorta di
passaggio del testimone. Si fa consegnare da Rico la pistola che porta sempre
con sé. Completati gli esami, ritorna a Gorizia e inizia la stesura della
tesi di laurea, assegnatagli da Vitelli, concernente i concetti di persuasione
e di retorica in Platone e Aristotele. La sua attività è febrile. Oltre alla
Persuasione scrive anche la maggior parte delle Poesie e alcuni dialoghi, tra
cui spicca il Dialogo della salute. Il suo isolamento diventa pressoché totale,
mangia pochissimo e dorme per terra, come un asceta. Vede solo la sorella e il
cugino Emilio. Comunica al padre che dopo la tesi non avrebbe fatto il
professore, ma che appena laureato sarebbe andato al mare, forse a Pirano o a
Grado. Dopo un diverbio con la madre, impugna la pistola lasciatagli da Mreule
e si toglie la vita. Sul frontespizio della tesi aveva disegnato una fiorentina,
una lampada ad olio, e aggiunto in greco: apesbésthen, «io mi spensi».
Amici raccolsero i suoi saggi, ora alla Biblioteca di Gorizia. Sepolto nel
cimitero ebraico di Valdirose (Rožna Dolina), oggi nel comune sloveno di Nova
Gorica, a poche centinaia di metri dal confine con l'Italia. La breve vita di
Michelstaedter scorrecome risulta dall'Epistolarioall'insegna di una volontà di
vivere continuamente illuminata dal desiderio di un altrimenti e di un altrove
metafisico che fa di lui un impulsivo, un irrequieto esploratore di linguaggi e
di mezzi espressivi, capace di spaziare dalla pittura alla poesia passando per
le ripide vette della filosofia. Nell'apologo dell'aerostato incluso ne La
Persuasione e la Rettorica, l'essenza del pensiero occidentale, la rettorica,
viene fatta risalire da M. a un parricidio: quello di Aristotele nei confronti
di Platone. Questi, nella metafora costruita da M., escogita un mechánema, una
macchina volante per abbandonare il peso del mondo e giungere all'assoluto.
Maestro e discepoli riescono a librarsi negli alti spazi del cielo, ma restano
a metà strada, fra una mera contemplazione dell'essere e del tempo e la
nostalgia della terra e delle cure mondane. A riportarli sulla terra ci pensa
allora un discepolo più scaltro e intraprendente degli altri, Aristotele, il
quale, tradendo il maestro, fa scendere il mechánema restituendo così a tutti la
gioia d'aver la terra sicura sotto i piedi. Questa nostalgia del mondo
intelligibile platonico fa quindi di lui un discepolo di Schopenhauer, più che
di Nietzsche. La costituzione della metafisica è per lui una storia di
rettorici tradimenti, la vicenda di una verità dai grandi persuasi tanto
proclamata agli uomini quanto da questi disattesa e inascoltata. Quanto io dico
è stato detto tante volte e con tale forza che pare impossibile che il mondo
abbia ancor continuato ogni volta dopo che erano suonate quelle parole. Lo
dissero ai Greci Parmenide, Eraclito, Empedocle, ma Aristotele li trattò da
naturalisti inesperti; lo disse Socrate, ma ci fabbricarono su 4 sistemi... lo
disse Cristo, e ci fabbricarono su la Chiesa. La persuasione è la visione
propria di chi ha compreso la tragicità della finitezza e ad essa vuol tener
fermo, senza ricorrere a quegli «empiastri»i kallopísmata órphnes, gli
«ornamenti dell'oscurità»che possano lenire il dolore scatenato da tale consapevolezza.
L'essere è finitezza che si rivela solo nella dimensione tragica di una
presenza abbacinante, ma gli uomini rigettano questa tragica consapevolezza
ottundendosi, pascalianamente, nel divertissement. Persuaso è chi ha la vita in
sé, chi non la cerca alienandosi nelle cose o nei luoghi comuni della società
perdendo l'irrinunciabile hic et nunc del proprio esserci, ma riesce «a
consistere nell'ultimo presente», abbandonando quelle illusioni di sicurezza e
di conforto che avviluppano chi vive abbagliato dalle illusioni create dal
potere, dalla cultura, dalle dottrine filosofiche, politiche, sociali,
religiose. È questa «la via preparata» dalla quale a tutti fa comodo non
discostarsi troppo; è questo restare perennemente attaccati alla vitala
philopsychìaa far sì che la "rettorica" trionfi sempre. La vita, soffocata
dalla ricerca dei piaceri, della potenza, finanche dalla presunzione filosofica
di possedere la via e quindi la vita stessa, non vive, perché in ogni istante
ciascuno rimane avvolto dalle cure per ciò che non è ancora o dal rimpianto per
ciò che non è più, mancando sempre l'attimo decisivo, quello che i greci
chiamavano kairós, il tempo propizio. Perciò nella vita facciamo esperienza
della morte, di quella «morte nella vita» cantataquasi una danse macabrenel
Canto delle crisalidi: «Noi col filo / col filo della vita / nostra sorte /
filammo a questa morte». Il pensiero di M. procede di conseguenza, per
liberare il potenziale di tragicità dell'esistenza, attraverso violente
contrapposizioni concettuali (persuasione-rettorica, vita-morte,
piacere-dolore), senza alcun tentativo di mediazione dialettica. M. respinge,
con un gesto iniziatico, l'idea di costruire una dottrina sistematica della
persuasione e della salute, in quanto «la via della persuasione non è corsa da
'omnibus', non ha segni, indicazioni che si possano comunicare, studiare,
ripetere. Ma ognuno ha in sé il bisogno di trovarla e nel proprio dolore
l'indice, ognuno deve nuovamente aprirsi da sé la via, poiché ognuno è solo e
non può sperar aiuto che da sé: la via della persuasione non ha che questa indicazione:
non adattarti alla sufficienza di ciò che t'è dato». La salvezza individuale è
possibile solo in una singolarità irripetibile, irriducibile, concentrata in
sé. Il solipsismo di Michelstaedter è perciò radicale: non ci sono vie,
non ci sono cammini, c'è solo il viandante che nel deserto dell'esistenza è «il
primo e l'ultimo», crocefisso al legno della propria sufficienza e schiacciato
dalla croce di falsi bisogni. Poiché il mondo è negatività assoluta, al
pensiero non resta che negare questa stessa negatività rifiutando i dati
dell'immanenza: «Solo quando non chiederai più la conoscenza conoscerai, poiché
il tuo chiedere ottenebra la tua vita». Si tratta di una sentenza di sapore
quasi buddistico: non a caso Mreule enfatizzerà la figura dell'amico
descrivendolo come «il Buddha dell'occidente». Produzione artistica La
produzione poetica e quella pittorica di M. possono essere considerate un
prolungamento e un completamento di questo sentimento tragico e mistico. Come
nel verso poetico egli tenta di esprimere l'inesprimibile, di dire con parole
ciò che sfugge al sistema di segni codificato e perciò già da sempre istituito
retoricamente, così nel segno pittorico, nello schizzo rapido e scherzoso come
nel ritratto composto e meditato, traluce l'impossibilità di giungere a quella
che Parmenide chiamava la ben rotonda verità. Non siamo giocati solo dalle
parole, ma anche dalle immagini di una realtà fatta di colori e di forme che ci
sfuggono nella loro immediatezza e alterità, «come chi vuol veder sul muro l'ombra
del proprio profilo, in ciò appunto la distrugge». Anche l'arte e la poesia,
come la retorica filosofica, si rivelano infine per quello che sono: fragili
orpelli di cui si orna l'oscurità dell'essere e che ogni linguaggio escogitato
dall'uomo sarà sempre impotente a esprimere. Saggi: Saggi Chiavacci,
Sansoni, Firenze); “Scritti scolastici, Campailla, Gorizia, Opera grafica e
pittorica, S. Campailla, Gorizia, Il dialogo della salute e altri dialoghi, Campailla,
Adelphi, Milano Poesie, Campailla, Adelphi, Milano, La Persuasione e la
Rettorica, Arangio-Ruiz, Formiggini, Genova, edizione critica Campailla,
Adelphi, Milano poi, con le Appendici critiche, ivi,). Epistolario, S. Campailla,
Adelphi, Milano nuova edizione riveduta e ampliata, ivi, Parmenide ed Eraclito. Empedocle, SE, Milano,
L'anima ignuda nell'isola dei beati. Scritti su Platone, Micheletti, Diabasis,
Reggio Emilia, Dialogo della salute. E
altri scritti sul senso dell'esistenza, a cura e con un
saggio introduttivo di G. Brianese, Mimesis, Milano, La melodia del
giovane divino, S. Campailla, Adelphi,
Milano La persuasione e la rettorica,
edizione critica, A. Comincini, Joker. M.-Winteler, Appunti per una biografia
di M.. M. si riferisce, nell'Epistolario, al bonno Isacco Samuele Reggio, confondendolo
con il padre di questo, Abram Vita Reggio Campailla, Il segreto di Nadia B.,
Marsilio,. Da articoli di cronaca americani dell'epoca, si apprende che il
suicidio avvenne con un colpo di pistola alla tempia destra. La persuasione e la rettorica La persuasione e la rettorica Poesie La persuasione e la rettorica Magris,
Un altro mare Il dialogo della salute, Biografie e studi critici Acciani
Antonia, Il maestro del deserto. M., Progedit, Bari Arbo Alessandro, Carlo
Michelstaedter, Studio Tesi, Pordenone (Civiltà della memoria). Arbo
Alessandro, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana,. Arbo Alessandro, Il suono instabile. Saggi sulla
filosofia della musica nel Novecento, Neo Classica, Roma, Giuseppe Auteri,
Metafisica dell'inganno, Università degli Studi, Catania, Benevento, Scrittori
giuliani. M., Slataper, Stuparich, Otto/Novecento, Azzate, Brianese, L'arco e
il destino. Interpretazione di M., Abano Terme (PD), Francisci); Camerino, La
persuasione e i simboli. M. e Slataper, Liguori, Napoli Sergio Campailla,
Pensiero e poesia di M., Patron, Bologna. Sergio Campailla, A ferri corti con la
vita, Comune di Gorizia Sergio Campailla, Controcodice, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli Valerio Cappozzo, La passione, Les Cahiers d'Histoire de l'Art
nº2, Parigi Valerio Cappozzo, Il percorso universitario di dall'archivio dell'Istituto di Studi
Superiori, in Un'altra società. M. e la
cultura contemporanea, Campailla, Marsilio, Venezia, Un'introduzione, Perego,
Storace e Visone, AlboVersorio, Milano); L'Essere come Azione, Erasmo Silvio
Storace, AlboVersorio, Marco Cerruti, Carlo Michelstaedter, Mursia,
2Milano (Civiltà letteraria, Sez.
italiana). Cerruti, Ricordi, L'Essere come Azione", Erasmo Silvio Storace,
AlboVersorio, Milano; Cinquetti, M.. Il nulla e la folle speranza, Edizioni
Messaggero, Padova Tracce del sacro nella cultura contemporanea, Colotti, La
persuasione dell'impersuadibilità. Saggio su M., Ferv, Roma, Acunto, La parola
nuova. Momenti della riflessione filosofica sulla parola nel Novecento, Rubbettino,
Soveria Mannelli Martino Dalla Valle, Dal niente all'impensato. Saggio su M.,
Imprimitur, Padova Daniela De Leo, M. filosofo del frammento con Appunti di
filosofia di M., Milella, Lecce Daniela De Leo, Mistero e persuasione in M.
Passando da Parmenide ed Eraclito, Milella, Lecce Roberta De Monticelli, Il
richiamo della persuasione. Lettere, Marietti, Genova; Roberta De Monticelli,
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ragioni del nulla. Il pensiero tragico nella filosofia italiana tra Ottocento e
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biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Catalogo
Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza. LA PERSUASIONE
E LA RETTORICA Della Persuasione La persuasione L’illusione della
persuasione Via alla persuasione Della rettorica La rettoric Un esempio
storico La costituzione della rettorica La rettorica nella vita Il
singolo nella società Gli organi assimilatori. I modi della significazione
sufficiente. Note alla triste istoria che viene narrata a Abbandono della
vita socratica Il Macrocosmo Il riflesso del sole La decadenza Il discepolo Proiezione
della mente d’Aristotele sui modi della significazione Della composizione della
Rettorica d’Aristotele La Rettorica d’Aristotele c il Fedro di
Platone Della dialettica e della rettorica IL DIALOGO DELLA
SALUTE POESIE II canto delle crisalidi. Dicembre.
Nostalgia. Marzo. Aprile. Giugno
. Risveglio. Alla sorella Paula. Onda per
onda batte sullo scoglio. Ognuno vede quanto l’altro falla.
Aon è la patria — il comodo giaciglio. Per ora a bordo — non
è lavorare. I figli del mare. A Seni a - Le cose ch’io
vidi nel fondo del mare Da le lontano nelle notti insonni. Ili - Non
sorridente sotto il sole estivo .Dato ho la vela al vento e in mezzo
all’onde V - Se mi trovo fra gli uomini talvolta Ti son vicino e tu
mi sei lontana .... VI — Parlarti? e pria che tolta per la vita
All’Isonzo. EPISTOLARIO SCELTO Alla Famiglia . .
. Gorizia-Venezia Venezia Ferrara
Bologna-Firenze Firenze
Firenze Firenze Alla Famiglia Firenze Al Padre Firenze Alla
Famiglia Firenze Firenze Alla Paula Firenze Alla Madre Firenze
Alla Famiglia Firenze Firenze Firenze Firenze Alla
Paula.Firenze Alla Famiglia Firenze Firenze Alla Paula Firenze Alla
Famiglia Firenze Firenze Firenze Firenze Firenze
Firenze Firenze Al Padre Venezia Alla
Famiglia Firenze Firenze Firenze Al Padre Firenze Alla
Paula Firenze Alla Famiglia Firenze Al Padre
Firenze Grado A Chiavacci Gorizia Firenze Alla
Famiglia Firenze Firenze Firenze Alla Madre
Firenze Alla Famiglia Firenze Firenze Gorizia
A Chiavacci Gorizia Alla Famiglia Vicenza
Firenze Firenze Firenze Alla Madre Firenze Alla
Paula. » rie Firenze Alla Madre Firenze Alla Paula
Firenze A Chiavacci Firenze Gorizia Al Padre Firenze
Alla Famiglia. Firenze Al Padre Firenze Alla Famiglia Firenze A
Chiavacci Gorizia Gorizia Alla Madre Firenze Alla Paula Firenze Alla
Famiglia Firenze A Chiavacci. » Gorizia Gorizia A
Chiavacci Gorizia Firenze Alla Famiglia Firenze A
Mreule Bologna Alla Paula Firenze Alla Famiglia
Firenze A Patcrnolli Firenze Alla Paula Firenze
A Paternolli Firenze Alla Famiglia Firenze Alla
Paula .Firenze Alla Famiglia Firenze Alla Paula
.Firenze A Mreule Gorizia A Chiavacci S. Lucia
A Mreule S. Lucia A Marino Caliterna S. Lucia A
Mreule S. Lucia Allo zio Giovanni Luzzatto S. Lucia A
Marino Caliterna. igog Gorizia A Chiavacci
Gorizia A Paternolli .Gorizia Gorizia A Marino
Caliterna Gorizia A Mreule A Chiavacci .... Gorizia
Gorizia A un amico Gorizia A Mreule S. Valentin
Gorizia Gorizia A Paternolli Gorizia
igio Gorizia III. igio Gorizia igio
Gorizia igio Gorizia A Chiavacci Gorizia
A Paternolli Gorizia A MreuleGorizia Al Padre Gorizia A
Paternolli Vili, igio Pirano Pirano Gorizia
Gorizia A Paternolli A Emilio Alla Madre Al Sig. Gelati,
Segretario dell’Ist. Studi Sup. di Firenze SCRITTI VARI
A. APPUNTI - NOTE - CRITICHE LETTERARIE - DIALOGHI - BOZZETTI
Una messa. Da un notes. Da un notes. Commento
a un brano di Stirncr. Su Wenn wir Toten erwachen di
Ibsen Sull educazione del fanciullo (a proposito di una
conferenza di S. Sighele). 7 - Salvini c gli Spettri
.' Più che l'amore Tolstoi. La bora. Nota su Ortis Poesia
d’occasione. A Benedetto Croce. D* fuori la vita
rumoreggia. II (igog-io) Discorso al popolo. w
16 - H&r) xéxQnai ó v/J ~ Con cert’aria eroica. I utta la
natura non è che volontà dell’Uomo Bacio le mani ai rozzi
materialisti Voi vivete perché siete nati. Non sei né il
primo né l’ultimo »... L’individualità illusoria.
’ASiaipogla . Insulta novantanovc su cento. Aiace non dice a
Eurisace « tu non intendi » Quando si guasti il filo al mio coltello
Conoscere è dolce a chi conosce per vivere. La donna che ama.
Diritto di possesso. La rct lorica crede di fornir le chiavi
.Achille insensibile alle parlate. Sicurezza di fronte al freddo
Della vanità. L’individualità piccola vive con 1 ’insouciance
Anche le conoscenze credute speciali .... ! Huss a un
contadino. ’Evlxi](JE &iì/iòv éxdarov. Frammento
sull’amore. La ferma connessione dei tegoli ~ Tò gwóv
. La morte è detta solo in riguardo alla vita Prima forma della fine
del Dialogo della salute APPUNTI PER TRATTAZIONI SISTEMATICHE Ardan
va nella luna per un tratto di spirito. La catarsi
tragica. FI eoi aotpiaq xai evdaijuovlaq (In ogni punto della
vita...Aia tcov òia25 - Questione centrale. Aristotele vuol organizzare e
sistemare . Le virtù. La dialettica. Platone ha bisogno dello
Stato (negl dtxaioadvtjq Chi cerca il giusto. Giusto è chi
giudica sempre ogni cosa trasfe rendosi nella necessità causale di
questa. Chi è debole ha tutto lo stesso (xc.Montanara
ÒQfviii). Il prediletto punto d appoggio della dialettica
socratica. Premessa metodologica. .. vorrei comunicar la ribellione /
all'universo. Carlo Michelstaedter Carlo Michelstaedter è un pensatore che
disarma e, per usare un suo lemma, "coinvortica": disarma
l'interprete, nel senso che lo coglie alla sprovvista, immettendolo all'interno
di una teoria di riferimenti e di allusioni, così ben congegnata nel tessuto
connettivo della Persuasione, da scoraggiare ogni pretesa od ogni buon
proposito di "esatta" acribia filologica'. Allo stesso tempo,
addentrandosi nella lettura, l'interprete non solo rinuncia alla sua perizia di
glossatore, alla sua pazienza di risolutore di trame, ma si trova costretto a
tralasciare ogni impegno asettico, scientifico, oggettivo di compilazione.
Michelstaedter, infatti, impone di non essere neutrali, il suo pensiero è
soprattutto, e consapevolmente, provocazione: chi lo affronta, vi si scontra,
ed è chiamato direttamente in causa, ne viene ammonito innanzitutto come uomo.
Questa violenza (e leggendo il nostro lavoro s'intenderà tutto il peso di
questo termine usato qui), cui il Goriziano sottopone il suo lettore, e dunque
anche noi, può indurre due e solo due effetti: o suscita riluttanza e
irritazione, più o meno ironica, più o meno seria, oppure reclama una disperata
devozione**. Comunque, non permette accomodamenti o sufficienze o imparzialità.
Noi apparteniamo alla schiera dei devoti, e la nostra tesi ha in ciò molti dei
suoi innumerevoli difetti, ma anche - ce lo si lasci dire - tutti i suoi pregi.
Se ci è lecito, a questi ne aggiungiamo uno ulteriore, di natura metodologica,
per quanto la cosa possa sorprendere, vista la particolare curvatura che
prenderà la nostra impostazione: frequentando Michelstaedter, infatti, nelle
nostre assidue riletture, ci siamo alfine persuasi che il Goriziano richiede
una personalissima metodologia, ritagliata su misura, che egli stesso ci ha
suggerito. Michelstaedter aborre la filologia fine a se stessa, dichiara a
chiare lettere che non gl'interessa, che anzi lo infastidisce, e a chiare
lettere confessa piuttosto l'interesse per la viva espressione
dell'intelligenza e del pensiero, per opere da cui spremere "succo
vitale"?; com'egli stesso ammonisce (seppur di passaggio, in una nota), 1
Ci trova poenamente concordi la posizione del Piovani, secondo il quale «non
c'è scienza storica [e dunque anche filosofica] là dove il metodo filologico,
che è il metodo della storiografia, non è seguìto»: «onestà d'indagine, che è
pazienza e sacrificio, attenzione di analisi, che è amore dell'altro, dicono la
moralità della filologia, anzi dicono della filologia come moralità».
Puntualizza il filosofo, tuttavia, che quello filologico «ovviamente, è un metodo
che ogni ricercatore segue a suo modo, con maniere personali e personalissime».
Questa sottolineatura ci rinfranca e c'incoraggia in questa rostra nostra
difficile ermeneutica d'approccio a Carlo Michelstaedter, pensatore che - a
nostro giudizio - richiede, forse più che altri, una scepsi filologica ed un
taglio di ricerca molto peculiari, diremmo addirittura ad personam (ma cfr. nel
seguito della nostra analisi). [Le citazioni da Piovani sono tratte da P.
Piovani, Conoscenza storica e coscienza morale, ed. Morano, Napoli, 19722,
pagg. 48-51 passim]. 2 Espressione-concetto di Michelstaedter. Altre
espressioni tipiche del pensatore goriziano, riscontrabili in questa Premessa,
verranno asteriscate [*]. 3 Indicativo, a tal proposito, questo stralcio di una
lettera al padre Alberto, scritta da Firenze il 31maggio 1908: 1 chi si
avvicina al suo pensiero deve «far forza alla propria erudizione» [PR 14],
perché - aggiungiamo noi - la voce della Persuasione non è apofantica e, come
tale, è insofferente ad ogni approccio razionalizzato o erudito o
categorizzante o puramente storiografico. Michelstaedter, "profeta"
di Persuasione, non può essere soltanto letto, né può essere decisamente
soltanto "studiato", ma semplicemente accostato, in maniera
inesorabile, e condiviso o combattuto. Diventare, come lui, «povero pedone che
misura coi suoi passi il terreno» [PR 4], diventare compagno di viaggio, e con
lui - durante il cammino - conversare, come i discepoli amati e amanti amavano
fare con Socrate. Oppure, divenire intralcio al viaggio e cercare occasioni di
sosta forzata. Così, se s'intende per filologia la puntigliosa computazione del
dettato, la sua scolastica e la sua patristica, la mera analisi testuale, la
collazione, l'idolatria della parola e dei suoi rimandi eruditi, il gusto per
la citazione affine e raffinata, allora La persuasione e la rettorica non è
un'opera filologica. Se invece per filologia s'intende, com'era per Vico, il
rispetto e l'amore della parola come espressione del pensiero e della
sensibilità umana, come risonanza intellettuale ma soprattutto morale, come
pretesto per far filosofia "civile", allora essa è anche un'opera
filologica. Parimenti, se s'intende per ricerca la compilazione archivistica,
l'interesse esclusivo per l'inedito, la serietà sterile e compassata di chi
affronta un'opera coi ferri del mestiere, tacendo la propria umanità in favore
dell'esattezza scientifica, allora la tesi di laurea del Goriziano non è una
tesi di ricerca. Se invece per ricerca s'intende l'ascolto della voce interiore,
lo scandaglio dell'umano, l'elezione degli autori che si leggono come
istigazione dirompente a rimeditare la propria contemporaneità e la propria
condizione, se insomma è ricerca di se stessi attraverso il testo che ci è di
fronte, laddove la voce dell'autore, seppur muta nel foglio, ci parla nel
profondo prendendo a prestito le nostre parole, allora il suo lavoro è anche
ricerca, e ricerca sofferta. Se infine s'intende per critica l'individuazione e
la risoluzione di problemi testuali fini a se stessi, la ricognizione delle
contraddizioni dell'autore, la destrutturazione e la ricomposizione dell'opera
al fine di svelarne soltanto i punti deboli o quelli forti, nel raffronto con
la tradizione, ancora una volta l'opera di Michelstaedter non è critica; lo è
invece se la critica è un'operazione di pensiero, che non chiama in causa il
concetto, ma il giudizio, se porta ad un punto di discernimento e di crisi il
pensiero di entrambi (dell'interprete e dell'autore), laddove la crisi segna
non soltanto il vacillare delle «lo in queste 2 settimane ho lavorato. La prima
settimana in casa, la seconda in biblioteca dove stavo dalle 8 alla una o le 2
a far lo 'studioso' [virgolettato ironico di Michelstaedter] a uso e consumo
dei forestieri che venivano a visitare la meravigliosa sala della Laurenziana.
Il semplice studio d'analisi d'una traduzione di Brunetto Latini d'un'orazione
di Cicerone m'impigliò nella questione del testo che Br. Latini poteva aver
avuto sott'occhio; dovetti occuparmi della storia dei manoscritti di Cicerone,
ed esaminare quanti ho potuto trovare qui anteriori a Br. Lat. per confrontarli
colla sua trad.[uzione]. Poi studiai pure i manoscritti fiorentini della
traduzione per correggere in parte l'edizione. Non sono lavori fatti per me.
[...] L'unica cosa che mi interessò sono le osservazioni che ho potuto fare
sull'eloquenza e sulla "persuasione" in genere». [E 320-321]
convinzioni e delle convenzioni, ma anche un elemento di svolta, un nuovo
inizio di sensibilità e di riflessione. Queste distinzioni non cavillose ma
sostanziali, che abbiamo addotto per render ragione dell'atipicità del lavoro
accademico di Carlo Michelstaedter, possono comodamente adottarsi anche per ciò
che riguarda il nostro lavoro accademico, il cui intento, o pretesa, non è far
la pantomima o la fotocopia di quello: in Michelstaedter, abbiamo trovato
confermati convincimenti che, da sempre, sono stati radicati in noi. In realtà,
il Goriziano è un autore che - data la stratificazione complessa del suo
dettato e l'estrema eterogeneità dei suoi referenti speculativi e letterari -
si presta volentieri anche ad accostamenti arditi e più o meno raffinati: la
fantasia dell'interprete corre a briglia sciolta e viene incoraggiata nel far
aderire Michelstaedter ad una propria, personalissima Weltanschauung. Quasi
sempre, il risultato che se ne ricava è quello di un sostanziale tradimento
della parola genuina del Goriziano, che diventa il viatico - e spesso, il
"megafono" - di convinzioni e "persuasioni" esistenziali, speculative
e politiche che in realtà, nella maggior parte dei casi, appartengono
esclusivamente all'interprete: basti pensare (e speriamo che questi
esempi-limite esauriscano la portata della questione) a come il nome di
Michelstaedter ricorra, e sempre con pretesto corroborante alle proprie
posizioni, in opere tanto diverse quali possono essere quelle di un Massimo
Cacciari (dove il Goriziano diventa un'ulteriore epifania della Krisis), di un
Aldo Capitini (laddove la Persuasione diviene religiosità autentica e umana) e
addirittura di un Julius Evola (dove Michelstaedter vien chiamato a
testimonianza del valore metafisico della "purità")‘. Il nostro
accostamento, dunque, è stato progressivo, talora blando, talora, e più spesso,
esasperato: come dire, volentieri il gioco ci ha preso la mano e, rileggendo
quanto abbiamo scritto su Michelstaedter, ci accorgiamo d'aver spesso confuso,
anche noi, la nostra prospettiva con la sua, o meglio, d'aver reso trasparente
la nostra "persuasione" attraverso la sua, utilizzando anche noi il
suo dettato come viatico di una ricerca ed urgenza esistenziale che, in primo
luogo, ci appartiene. Un qualcosa di analogo accadde del resto anche al
Goriziano, tal che la sua tesi, nata come uno studio scientifico sui concetti
di persuasione e retorica in Platone ed Aristotele (il cui nucleo originario si
conserva nella sezione "maledetta", come qualcuno l'ha definita,
delle Appendici critiche), si tradusse ben presto in un'apologia della
Persuasione. La sua tesi scientifica si era risolta in una ipotesi
esistenziale, e Michelstaedter non ebbe scrupoli a ritenerla
"ufficiale", a "sottoporla in commissione di laurea",
perché se è vero che una tesi di laurea è 4 Per una motivazione che non ci
vergogniamo di confessare esclusivamente politica (una salutare posizione
antidemocratica, una tantum), abbiamo ignorato del tutto l'odiosa
interpretazione evoliana; quella di Cacciari la abbiamo assorbita nel corso
della nostra trattazione, senza palesarla più di tanto; riguardo a Capitini,
invece, cui va tutta la nostra simpatia, ci riserveremo di approfondirla nelle
nostre Conclusioni. un'opera di ricerca, è altrettanto vero che la vera ricerca
è quella umana, socratica, soprattutto se poi - e qui facciamo riferimento alla
nostra - è una tesi di filosofia morale. Nel suo scritto accademico,
Michelstaedter si disincagliò dalla "scientificità", per porsi in
diretta sintonia con la voce della Persuasione. Ma non fu assunzione di
sregolatezza o di a-criticismo, frutto esclusivo di un'operazione di gusto o di
genio; bensì, semplicemente, l'escussione di una strategia ermeneutica altra
(ogni strategia di scrittura comporta, del resto, una specifica strategia di
lettura), una tecnica d'interpretazione dialogica che collabora col testo e che
trova nel divino Platone * il suo teorico più convinto ed esemplare: leggere
non glossando, ma filosofando, e intender la filosofia non (soltanto) come
scienza del pensiero, ma come sapere a vantaggio dell'uomo’ [cfr. Eutidemo,
288e - 290d], e quindi etica e politica: pensiero che si svolge tra, e non
sugli, uomini, con le parole degli uomini, anche se il suo linguaggio è talora
più suggestivo che rigoroso. In tal senso, assumendo in pieno anche noi questo
profilo euristico, abbiamo tentato un "romanzo storico-filosofico"
della persuasione in Michelstaedter e abbiamo accompagnato l'autore nella
ricostruzione eccentrica, ma fedelissima (fedele alla sua eccentricità), del
suo pensiero. Proprio a questa oculata scelta metodologica rispondono sia
l'andamento narrativo della nostra esposizione, e qualche confidenza che ci
siam presi durante il suo corso, sia l'accostamento del pensiero del Goriziano
a pensieri "alternativi" (il Buddismo, ad esempio), laddove
l'accostamento non è arbitrario, ma confortato da effettivi riscontri
biografici e testuali; sia le forzature cui sottoponiamo i testi dell'antichità
classica filosofica e tragica (forzature, ancora, non nostre, ma dello stesso
Michelstaedter, filologo "patologicamente" originale: ci siamo
limitati a seguirlo e, in certi punti, ad assecondarlo), sia infine il
privilegiare testi ed autori in apparenza estranei alla storiografia filosofica
"ufficiale" (Ibsen e Tolstoj, sopra tutti), solo perché è quasi
esclusivamente su tali testi ed autori che si innesta e si forgia l'immaginario
persuaso di Michelstaedter. Di contro, abbiamo adottato anche noi un opportuno
(o per noi tale) armamentario euristico per avvicinare il Goriziano.
Innanzitutto, l'orizzonte - morale, ma appunto anche euristico - entro il quale
si muove la nostra tesi è quello delineato dalla ragion pratica kantiana, non
solo qui assunta come la prospettiva etica, per noi, più alta mai raggiunta dal
pensiero in assoluto, ma anche - nell'economia del nostro discorso - come
valido modello per indagare e segnare "i limiti e le possibilità"
della condizione persuasa in Michelstaedter. Il punto più importante di
contatto tra il cosiddetto imperativo iperbolico del goriziano e l'imperativo
categorico kantiano è da riscontrarsi, a nostro avviso, nella forte esigenza -
5 Definizione, questa, tra l'altro cara ad uno dei nostri maestri putativi,
Nicola Abbagnano. 6 In questo, è possibile accostarlo al Nietzsche de La
nascita della tragedia e de La filosofia nell'età tragica dei greci.
necessaria, ma non sufficiente - di autonomia, che le suddette posizioni presuppongono:
il regno della Rettorica viene, di contro, a palesarsi per antonomasia come
regno della eteronomia, in tutte le manifestazioni, dalle più subliminali alle
più sublimi, dalla sua componente prima e fisiologica (la deficienza *) alla
sua realizzazione più completa (la tecnica politica e panoptica del corpo,
tanto per esprimerci con una fraseologia foucaultiana). Alla luce di quanto
detto, cercheremo di assimilare il vir” persuaso alla volontà santa, così come
descritta da Kant. Quando, invece, la nostra analisi s'appunterà nella
de-costruzione del dispositivo rettorico, ci avvarremo proprio dell'aiuto di
quella lezione di "smascheramento" retorico (lezione profonda e
pervicace, intelligente ed irriverente), ch'è il grande lascito di Foucault,
inteso da noi come apice della cosiddetta "scuola del sospetto". La
difficoltà del concetto di Persuasione, difficoltà quindi prima di
concettualizzazione che di realizzazione, acquisterà - a nostro giudizio -
nuova chiarezza e nuovo valore in questo tentativo di approccio critico che, a
quanto ci consta, appare inedito nelle letteratura critica sul Goriziano. Gli
ulteriori elementi sinergici, di cui si terrà conto, sono quegli stessi retaggi
esistenziali che Michelstaedter rielabora ed "attualizza",
ritenendoli egli stesso le cifre più essenziali di una vita sana*, ovvero il
messaggio e la simbologia cristologica e (nella sua variante laica, se ci è
permesso di esprimerci così) il messaggio e la simbologia socratica. Secondo un
taglio, invece, chiaroscurale, si evidenzieranno distanze/vicinanze con i
mostri sacri della Rettorica, ovvero Hegel e ancor più Aristotele. A tal
proposito, si utilizzerà l'opera dello Stagirita - paradossalmente? - come una
delle chiavi più adatte per penetrare l'assunto michelstaedteriano, e da essa
si ricaverà la formula euristica di entelechia etica per designare appunto
l'atto autentico della Persuasione. Persuasione che acquisterà, per quanto
possibile, contorni ancor più definiti nel confronto con la fede (si tenterà
una correlazione tra il Persuaso e il "cavaliere della fede", figura
kierkegaardiana), tal che, ancora una volta, la Persuasione apparirà coi crismi
di una esperienza e di un esercizio l'è vero religioso, ma di una religiosità
"laica", che si slaccia dall'eteronomia del rapporto con Dio, per
vestirsi di una propria spiritualità umana tutta particolare, democratica e
libertaria, ovvero fondatrice di democrazia e di libertà (in questo contesto si
accennerà all'opera di Aldo Capitini, che proprio in tal senso intese il monito
michelstaedteriano). Insomma, l'approccio che tenteremo al "concetto"
di Persuasione mirerà anzitutto a far terra bruciata intorno ad esso:
giocoforza, l'avvio a tale approccio verrà inaugurato in 7 Utilizzeremo, d'ora
in poi, con preferenza questa dizione per indicare l' "essere
persuaso", sia per evidenti ragioni di brevità, sia innanzitutto a ragione
della forte valenza semantica- morale-storica che i latini assegnavano a questo
termine [cfr. almeno C. Nepote, De viris illustribus]; vi contrapporremo homo
per designare l' "uomo della Rettorica" legato alla terra [homo >
humus]; e soprattutto dominus, colui che detiene i fili del potere all'interno
della "comunella dei malvagi" [per il significato di quest'ultima
espressione, cfr. il prosieguo del nostro lavoro]. media re, ovvero con
riferimenti diretti agli scritti ultimi del giovane filosofo goriziano e con
iniziale preferenza per le lettere e le poesie, rispetto alla stessa tesi di
laurea, ch'è il suo lavoro più conosciuto: ciò nella convinzione, nostra
personale, che in quelli il concetto di Persuasione abbia acquistato una
dimensione, come dire, più consapevole e vitale, urbanizzata e
"politica" (insisteremo su questo punto), quanto mai avesse nello
scritto accademico, laddove ogni definizione a riguardo - soprattutto nelle
prime battute - si risolve volentieri in forme ermetiche e tautologiche, talora
francamente impenetrabili. Il tutto, nel tentativo - che è paritempo pretesa -
(autocitandoci) «di individuare il nocciolo etico di quel suo [di Michelstaedter]
stesso pensiero, e di finalizzario ad una sana eudemonia (quella che il
Goriziano assimila alla vera 'salute') a vantaggio del nostro tempo, cercando
d'intravedere - non potendone visualizzarne in modo corretto e 'coerente' la
consistenza e la realtà - la possibilità di quel porto di pace *, da lui stesso
vagheggiato», convinti che «la cifra autentica del suo pensiero sia riposta in
un'esigenza davvero semplice e umana: la ricerca, ch'è l'esigenza appunto,
della felicità possibile per l'uomo». In questa ricerca e in questa esigenza
convergono significativamente, per l'appunto, anche la prospettiva socratica,
quella cristiana e - non ultima - quella kantiana: e su una cattiva (in senso
proprio e lato) deflessione di tale ricerca e di tale esigenza si è fondato, e
si fonda tuttora, il mondo della Rettorica. Postille metodologiche. a) Nella
stesura del nostro lavoro, abbiamo preferito riprodurre la falsariga
michelstaedteriana: strutturare il discorso sulla Persuasione e sulla Rettorica
in due grandi blocchi, "monotematici", opportunamente articolati in
paragrafi atti a focalizzare i singoli progressi dell'analisi. Ovviamente, i
due capitoli non conducono esistenza autonoma, ma presuppongono una serie
indefinita di rimandi reciproci, evidenziati - nel nostro caso -
dall'Intermezzo (ma non solo), ponte di passaggio dall'uno all'altro e
frapposto ad essi. b) Sempre seguendo suggestioni michelstaedteriane,
accordiamo grande valore alle epigrafi: queste abbonderanno in riferimento a
paragrafi di estrema importanza e complessità. L'epigrafe, infatti, per
Michelstaedter riassume, e in certo modo "scolpisce", il senso e la
prospettiva di un discorso, e, allo stesso tempo, lo arricchiscono di
sottointesi atti a favorire una "complicità etico-ermeneutica" tra lo
scrittore e il lettore. c) Durante il nostro lavoro, indicheremo generalmente
(ovvero, a meno che non si avverta il bisogno di approfondire l'appunto) con le
seguenti sigle i testi di Michelstaedter più citati, facendole seguire dal numero
delle pagine cui le citazioni fanno riferimento, e apponendo il tutto, in
parentesi quadre, a fianco del brano citato: 8 Paradossalmene, perché
Michelstaedter individua proprio in Aristotele il suo nemico dichiarato [cfr.
oltre]. - Opere, a cura di G. Chiavacci, Firenze, Sansoni. 1958: 0; - La
persuasione e la rettorica, con Appendici critiche, a cura di S. Campailla,
Milano, Adelphi, 1995: PR; - Epistolario, a cura di S. Campailla, Milano,
Adelphi, 1983: E; - Poesie, a cura di S. Campailla, Milano, Piccola Biblioteca
Adelphi, 19945: PP; - Il dialogo della salute e altri dialoghi, a cura di S.
Campailla, Milano, Piccola Biblioteca Adelphi, 19952: D. Quest'espediente ha
una doppia utilità metodologica: 1) evitare un continuo e fastidioso
affastellarsi di note e di rimandi spiccioli a pie' di pagina, elemento di
distrazione durante la lettura; 2) (e più importante) mostrare la ferrata
logica di rimandi e di allusioni che informa tutta l'opera di Carlo
Michelstaedter, secondo l'intima consapevolezza, che è propria al filosofo goriziano,
del fatto che ciò che si sta comunicando è in fondo un unico, anche se
articolato, pensiero [cfr. nota 161]. d) Trascriveremo, con spaziatura e
formattazione di paragrafo e carattere diversi da quelli comunemente assunti
dalla nostra scrittura, periodi o espressioni di Michelstaedter o di altri
autori, o che comunque non ci appartengono. e) Riguardo espressioni e citazioni
in greco, fatta eccezione per talune ricorrenti nel dettato di Michelstaedter,
si preferirà la translitterazione latina (ad es. gui --- philia); le citazioni,
tratte da filosofi o scrittori non italiani, in linea generale si riporteranno
direttamente in traduzione. f) Infine, invitiamo - si licet - a non trascurare,
durante la lettura, le note a pie' di pagina, alcune particolarmente
strutturate e complesse: molte note, infatti, rappresentano vere e proprie
"appendici critiche" al paragrafo in questione, e articolano un
discorso tangenziale e approfondito di taluni aspetti del pensiero
michelstaedteriano che, di non minore importanza, tuttavia avrebbero
appesantito, in prolissità, il corpus del paragrafo stesso. Capitolo | La
persuasione more geometrico demonstrata. Persuadere: 1 - indurre qlc. in una
convinzione o spingerlo a compiere determinate azioni; 2 - ottenere
approvazione, ispirare fiducia. Definizioni (rettoriche) del dizionario
Garzanti [...] guardar in faccia la morte e sopportar con gli occhi aperti
l'oscurità e scender nell'abisso della propria insufficienza: venir a ferri
corti colla propria vita. "Definizione" di Michelstaedter, nel
Dialogo. 1. Introduzione metabiografica. Mi pardi non aver voce, così m'opprime
questo triste incubo d'inerzia faticosa dal quale non ho saputo ancora
riscuotermi. Quella voce che viene dalla libera vita, quella m'era necessaria
per fare il mio lavoro come io lo volevo; m'ero illuso di poterla avere: e mi
son trovato invece a desiderar solo di non parlare, a non aver nessun interesse
per ciò che pur m'ero proposto di dire quasi con entusiasmo. E d'altronde finir
la tesi era la necessità per me per uscir da questo abbominio, almeno per poter
sperar d'uscirne, per aver almeno una via. Ma scrivere senza convinzione parole
vuote tanto per poter presentar carta scritta, questo ancora m'era
impossibile... E in questo triste giro mi son dibattuto questi mesi malato
nell'anima e impigrito nel corpo, a volte giungendo a raccogliermi e a riaver
in me vive e concrete le cose che altrimenti mi danno solo un tormento oscuro;
altre volte e per lo più vinto dall'inerzia disperdendo le mie forze in questo
e in quello che sembrava distrarmi dalla noia e tanto più fortemente mi
stringeva nella brutta necessità [E 440-441], Queste parole - scritte da
Michelstaedter all'amico Enrico Mreule, quasi ad un anno dalla partenza di
quello per l'Argentina - rappresentano, nella loro disperata sincerità, come
un'epitome esistenziale dell'impasse (almeno per poter sperar d'uscime, per
aver almeno una via...) in cui grava il nostro giovane autore, a pochi giorni
oramai dalla sua morte. L'onere della tesi di laurea, questo «mostro informe
qui crescit eundo et quod crescit non it» [E 417], viene affrontato in ultimo
con la pedanteria (anzi, ci vien d'usare un ossimoro: con la dotta sciatteria°)
di chi è già consapevole dell'inutilità, travestita da illusione, di poter fare
«con le parole guerra alle parole» [PR 134]'°; di chi - forte di questa
consapevolezza - si presta tuttavia al gioco della Rettorica, fatto di scadenze
e note filologiche (fumo negli occhi per un "messaggio" che tanto i
professori non capiranno, ironizza altrove Michelstaedter)'', di vita
consegnata alla carta, e per questo non più vita. Una consapevolezza, infine,
affidata in forma definitiva e paritempo programmatica alla famosa prefazione
all'opera maggiore: «o lo so che parlo perché parlo, ma che non persuaderò 9
«L'interesse d'aver fatta una cosa non è l'interesse di farla» [E 441]. 10
Tratto dall'epigrafe alle Appendici critiche. 11 «Il mio lavoro procede a lenti
passi, anzi non c'è un progresso materialmente sensibile. Ma non me ne
impensierisco, perché ormai è questione di tempo e difficoltà grosse non ne
troverò più. - Tanto poi per quei professori è tutto buono; per loro è come
arabo, non hanno vie e criteri per dire se va bene o male; tutt'al più
potrebbero rifiutarlo e perciò è stato prudente aspettare fino a Ottobre, che
così potrò buttar loro negli occhi tutta la polvere necessaria e che andrò
raccogliendo in questo tempo. -» [E 392]. Antimo Negri, giustamente, fa notare
che «solo le Appendici, del resto esse stesse non fino in fondo, sembrano, vertendo
su autori classici, soprattutto Platone e Aristotele, obbedire alle regole del
gioco dello "studio scientifico" accademico» [A. Negri, Il Lavoro e
la città, Roma, Ed. Lavoro, 1996, pag. 45]. In un notevole passo della sua
tesi, Michelstaedter destruttura i "meccanismi di potere" sottesi
alla dinamica succitata: «"[...]Tu devi far uno studio su Platone o sul
vangelo" gli [al giovane studioso] diranno "è perché cosi ti fai un
nome, ma guardati bene dall'agire secondo il vangelo. Devi esser oggettivo,
guardare da chi Cristo ha preso quelle parole o se omnino Cristo le abbia dette
e se non meglio le abbiano prese gli Evangelisti o dagli Arabi o dagli Ebrei o
dagli Eschimesi, chi lo sa... Naturalmente parole che valevano in riguardo
all'epoca, adesso la scienza sa come stanno le cose, e tu non te ne devi
incaricare. Quando tu hai messo insieme il tuo libro sul vangelo - allora puoi
andar a giuocare". [...] Così si conforta il giovane a perseguire nel suo
studio scientifico senza che si chieda che senso abbia, dicendogli: "tu
cooperi all'immortale edificio della futura armonia delle scienze e sarà un po'
anche merito tuo se gli uomini quando saranno grandi, un giorno sapranno
"». [PR 131; corsivi di Michelstaedter]. Abbiamo preferito anticipare già
qui espressioni- conclusioni del Goriziano, al fine di proiettare da subito chi
legge nel vivo della polemica michelstaedteriana. nessuno: e questa è disonestà
- ma la retorica "mi costringe a forza a far ciò"? - o in altre
parole "è pur necessario che se uno ha addentato una perfida sorba la
risputi"» [PR 3]. Una citazione, questa, che è a la page, tra coloro che
affrontano il filosofo goriziano, anche se talora mal intesa o superficialmente
valutata. Tuttavia, a ben vedere, è già qui che si delinea, si dibatte, e
implode, il problema (l'aenigma) della persuasione e della rettorica. Ed è
questa (ci si perdoni quest'ulteriore incursione metodologica), anche, una
delle peculiarità che caratterizza il nostro Michelstaedter: ovvero, il fatto
che da qualunque prospettiva si prenda la sua opera, qualunque suo scritto si
abbia sottomano, ci si trova già subito e prepotentemente proiettati nel cuore
dello scontro millennario, umano e storico, tra persuasione e retorica appunto.
E' altresì anticipato, in forma lata ma altrettanto perentoria, un assunto che
informa e struttura e, in un certo modo, pregiudica ogni assoluto tentativo di
discorso su "che cosa sia" la Persuasione: la Persuasione è dopo
tutto l'indicibile, l'impensabile: una "condizione" senza pensiero,
che non possiamo visualizzare e nemmeno interpretare concettualmente, né
tantomeno comunicare, secondo le leggi della logica della cosiddetta
"ragione occidentale". Ogni "parola sulla", ogni
"pensiero sulla" Persuasione, già solo per essere concepito, deve
prima essere elaborato, sottoposto ad artificio, manipolato, interpretato, per
separarlo dalla sua primigenia e consustanziale assurdità: ogni pensiero sulla
Persuasione si profilerebbe, così, già di per se stesso come Rettorica. Appare
chiaro, inoltre, ma non è male ribadirlo da subito, che il progetto originario
- di trattare, nella sua tesi di laurea, | concetti di persuasione e rettorica
in Platone ed Aristotele - si allarga e sviluppa, inevitabilmente per
Michelstaedter, nella considerazione dell'intera vita umana, culturale e
sociale. Non solo. In effetti, l'applicazione di questi due principi o
categorie (per ora definiamoli in questo modo) investe una dimensione ancora
più ampia, assurgendo a cifra dell'intero esistente. Ovvero, tutto il mondo,
inteso sia come "totalità dei fatti" (tutto ciò che accade) sia come
"totalità delle cose" (tanto per parafrasare Wittgenstein), risulta
permeato, intriso, e quindi - dalla prospettiva del Nostro - rimeditato alla
luce di questi due principi. Questo è un punto nodale. La persuasione e la
rettorica, nell'accezione del giovane filosofo, subiscono così non soltanto uno
slittamento concettuale rispetto alla concezione che di questi due principi,
che di queste due parole, il "senso comune" ha. La rettorica - ad
esempio - non è più un'ars, una téchne, con una sua patente di nascita,
storicamente contestualizzata e con un'applicazione "pratica":
ovvero, non è larte del parlare e dello scrivere in modo da convincere, o
persuadere” un uditorio, non è una professione di eloquenza e non denota 12 in
greco nel testo 13 E' interessante come la denotazione povera di questi due
termini s'incontri in questa definizione, tratta dal dizionario Garzanti, quasi
a testimoniarne un significativo appiattimento. altresì, per estensione, un
atteggiamento o comportamento che mira solo all'effetto esteriore e non è
determinato da un'autentica esigenza spirituale (la retorica del bel gesto, ad
esempio). Tutti questi aspetti non sono altro che i "modi" e gli
"attributi" in cui si manifesta la Rettorica originaria: ne sono la
mera fenomenologia, e anche la più povera. Le parole-chiavi di questo pensiero,
dunque, sono da Michelstaedter essenzialmente intese «in un senso diverso da
quello corrente, che rivela influenze ebraiche, greche e proto-cristiane. Come
osserva Mario Perniola, persuadere si dice in greco peitho, e l'uso transitivo
del verbo, persuadere qualcuno, non appartiene al greco arcaico ma ne
rappresenta una successiva trasformazione. Dunque la prima accezione di
persuasione era essere persuasi, aver fiducia. Anche nella Bibbia dei Settanta
[...] la radice greca peith- traduce la radice ebraica bth-, usata nei libri
sapienziali dell'Antico Testamento per indicare la disposizione d'animo del
giusto: la fiducia. Mentre la fede, pistis, nel Nuovo Testamento implica il
rinvio al futuro, l'attesa di una salvezza a venire, la fiducia-persuasione è,
nell'Antico, qualcosa di presente, un possesso attuale. Il senso della
persuasione michelstaedteriana è molto simile»'*, come avremo modo di
approfondire. Giusticato appare, dunque, il nostro confessato imbarazzo
nell'approntare la presente tesi, e ci figuriamo l'espressione ironica di
Michelstaedter, se potesse leggere le nostre pagine, e le altrui, sulla sua
opera e sul suo pensiero. Ma ancora una volta, la rettorica ci spinge a far
ciò: un dispositivo machiavellico così diabolicamente ben congegnato da
riuscire a rendere la voce della verità la propria pubblicità, ammantandola
casomai di simbolismo o conferendole una sistemazione ch'essa, invece,
disdegna; e da riuscire a rendere, altresì, i contestatori del sistema i propri
martiri, o - alla men peggio - «naturalisti inesperti», o meri facitori di bei
versi, di bei drammi e di belle musiche. E Michelstaedter stesso un nichilista,
un mistico, un cristiano devoto, un ebreo autentico, un filosofo mancato,
soltanto uno scrittore, una promessa non mantenuta, un teorico dell'arte, un
teorizzatore del dominio, un filosofo del linguaggio, un imperfetto pessimista,
un filosofo col martello, un pensatore morale, un precursore
dell'esistenzialismo, un povero anonimo giovane goriziano suicida, l'ultimo
allievo di Socrate, uno spirito della vigilia; e l'elenco, credeteci, potrebbe
stendersi all'infinito, perché infiniti sono gli uomini ed, ergo, infiniti sono
i modi di porsi della rettorica. Il che vale a dire che il "sistema"
(ed è questo il suo raffinamento, come vedremo) è divenuto capace di tollerare,
al proprio interno, riassorbendole, anche le contraddizioni e le contestazioni
più sottili e acute, apparendo per molti aspetti davvero come un Moloch o un
Leviatano invincibile. 14 Cfr. Michelis Angela, Carlo Michelstaedter: il
coraggio dell'impossibile, Roma, ed. Città Nuova, 1997, pagg. 124-125 [la
stessa autrice rimanda a M. Perniola, La conquista del presente, in Mondo Operaio,
n. 4, aprile 1987, pagg. 108-109]. Questa che ci accingiamo a scrivere,
tuttavia, non vuole essere una riflessione su Michelstaedter e sulla sua opera
e il suo tempo, non pretende cioè di coltivare (soltanto) una critica
filologica e filosofica del suo pensiero. La sua pretesa è addirittura più
grande: ovvero, quella di individuare il nocciolo etico di quel suo stesso
pensiero, e di finalizzarlo ad una sana eudemonia (quella che il Goriziano
assimila alla vera «salute») a vantaggio del nostro tempo, cercando
d'intravedere - non potendone visualizzarne in modo corretto e
"coerente" la consistenza e la realtà - la possibilità di quel «porto
di pace», da lui stesso vagheggiato. Per quanto possa sembrare riduttivo,
soprattutto in confronto alle vertiginose elucubrazioni che si sono tessute
intorno all'opera del nostro giovane autore, siamo infatti convinti che il
tratto autentico del suo pensiero sia riposto in un'esigenza davvero semplice e
umana (esigenza che non è soltanto letteraria o speculativa, ma che nasce
soprattutto da un'amara esperienza di vita, così com'è esperita da un giovane
intelligente e molto, molto sensibile): la ricerca, ch'è insieme l'esigenza, di
una felicità possibile per l'uomo. «Gli uomini non sono infelici perché
muoiono; muoiono perché sono infelici», afferma Michelstaeater, e questa
antimetabole non vuol essere una frase ad effetto giocata sul capovolgimento di
un luogo comune, bensì in essa è compendiata la grande utopia etica (ma quanto
utopica, poi?) che il Nostro ci propone. Michelstaedter, redivivo Socrate, si
assume un difficile compito esistenziale prima che speculativo (condividendolo
col suo "maestro" e con tutta la temperie greca), e lo affronta con
tutta l'esuberanza e la fiducia della sua giovane età, esuberanza e fiducia
temprate tuttavia dal rigore della sua mente eletta: quel compito è insegnare
agli uomini ad essere veramente felici. Glissando per ora considerazioni che
approfondiremo durante tutto il nostro discorso, possiamo anticipare già qui,
dunque, la pregnanza socratica ed, insieme, evangelica (nonché, aggiungiamo
noi, kantiana) di suddetta utopia. Detto in parole molto semplici: se
l'infelicità è frutto di "ignoranza esistenziale" (come c'insegna
Socrate, appunto, e - in certo modo - tutta la schiera di Persuasi che
Michelstaedter annovera nella prefazione alla sua tesi), ebbene bisogna fugare
le tenebre di questa ignoranza (ovvero, di questa rettorica), bisogna «uscir
della tranquilla e serena minore età» [PR 131]'°, ed indagarla secondo una
prospettiva "archeologica" - ovvero, "eziologica" - che la
conduca appunto allo scoperto. Michelstaedter scoprirà (come già notava a suo
tempo il Piovani’) le radici di 15 Sono le parole con le quali,
significativamente, si conclude la tesi di laurea. Ma cfr. il seguito del
nostro lavoro. 16 Piovani Pietro, Michelstaedter: filosofia e persuasione, un
inedito di P. Piovani a cura di Fulvio Tessitore, Nuova Anologia, fasc. 2141,
vol. 548°, gennaio- marzo 1982, p. 214. Piovani, innanzitutto, ci avverte che
«(...) occorre molta prudenza critica nell'avvicinarsi a Michelstaedter con la
piena fiducia che il suo discorso abbia una tratteggiata autonomia di linee
ricostruibili al di là del loro frammentarismo sostanziale."; quindi, poco
dopo, quasi a proporci un possibile approccio metdologicamente corretto:
"A tal fine giova, secondo noi, individuare come determinante il tema
della deficienza». quella Rettorica nella stessa struttura - fisiologica, prima
che ontologica - dell'uomo, penalizzato da quel «deficere» ch'è l'alfa e
l'omega di ogni sofferenza, di ogni illusoria(«lusinghiera», «adulatrice»)
soddisfazione, e - insieme - di ogni possibilità di riscattoautentico. Quella
"deficienza" che la critica, unanimemente, ascrive ad un retaggio
schopenhaueriano del nostro autore, e che noi, invece, preferiamo assimilare al
concetto di privazione (steresis), contenuto nella Fisica di Aristotele. Il che
non vuol essere un cavillo ermeneutico, ma vuol rendere chiara - da subito,
senza indugi - quella ch'è la nostra prospettiva di approccio a Michelstaedter:
siamo convinti, infatti, che l'aenigma della Persuasione (e di tutte le ardue,
tautologiche "definizioni" che ad essa il Goriziano associa) si
risolva in quella che potremo chiamare, con una formula che diamo già qui per
definitiva, entelechia etica, laddove per entelechia intendiamo proprio ciò che
intendeva lo Stagirita'”, ovvero l'atto finale o perfetto, cioè la compiuta
realizzazione di una potenza. Ebbene, a nostro parere, il dilemma
Persuasione-Rettorica si gioca appunto sul trinomio privazione-potenza-atto (e
ci sentiamo autorizzati a ciò da alcune "tracce" che Michelstaedter
stesso lascia nei suoi scritti), tale che la Persuasione si evincerà come la
piena, perfetta attuazione, realizzazione dell'uomo, secondo la sua (vera) natura.
Si converrà che una tale impostazione ribalta, in modo deciso, ogni evenienza
critica - per quanto legittima, perché giustificata, in un certo senso, da
talune affermazioni "forti" dello stesso Goriziano - circa
l'impossibilità (per l'uomo) della Persuasione. In effetti, proprio
Michelstaedter, se non nell'opera maggiore, soprattutto nell'Epistolario e
nelle Poesie? sconfessa - e ci sentiamo di dire che lo fa con una certa gioia
che sa di liberazione - quella presunta impossibilità della Persuasione,
individuando nell'amico Mreule l'acme, cronologico ed etico, della Persuasione
realizzata: l'atto di coraggio del compagno Enrico dimostrò al giovane filosofo
(e dimostra a noi) che la Persuasione non ha soltanto una sua storia (né
tantomeno soltanto una sua storia letteraria e filosofica), ma anche una sua
attualità viva e concreta, che ci può essere accanto e ci può guidare '°, pur
nella consapevolezza che una cosa è conoscere la «via della Persuasione», altra
cosa è avere la forza e il coraggio di imboccarla. Volendo, il dramma del
suicidio del giovane goriziano si consuma tutto qui (ma lungi da noi ogni
riduzionismo e ogni retorica a tal proposito). 17 Cfr. almeno Metafisica, IX,
8, 1050a 23. 18 Nel confronto (soprattutto) con le ultime lettere e poesie
(intendiamo quelle del 1909-1910), ci azzardiamo a considerare la tesi di
laurea già "datata", per quanto concerne la dimensione persuasa
dell'uomo; o quantomeno, a considerare le suddette lettere e poesie l'
"urbanizzazione" più completa e più efficace del messaggio della
Persuasione stessa. Ragion per cui, ad esse va tutta la nostra predilezione. 19
Sul valore e sul senso di questa "guida" della Persuasione - che non
ne pregiudica l'assunto autonomo, cioè di esperienza che si realizza nello
spazio di autonoma sacralità di ogni uomo - si articola un difficile e
intricato equilibrio (tra autonomia ed eteronomia), sullo
"scioglimento" del quale s'impernia tutto il nostro lavoro. Già da
quanto detto finora, appare chiaro che Michelstaedter si presenta subito come
un autore "difficile": questa sua difficoltà deriva non solo (com'è
ovvio) dal carattere decisamente e consapevolmente anti-sistematico, se non
ermetico, del suo linguaggio e del suo "messaggio"? - per quanto
quello stesso messaggio contenga una sua certa "banalità" (la
"banalità del bene", per alcuni sintomo di "pensiero
adolescenziale" [sic]) paradossalmente non accolta, inascoltata™ o,
peggio, mal interpretata; non deriva soltanto dalla vastità (davvero
impressionante, per un giovane) dei suoi referenti culturali; né soltanto dalla
"irritabilità" cui può indurre chiunque ad esso si avvicini
(un'irritabilità che egli condivide appieno con la torpedine-Socrate); bensì
essa deriva, forse soprattutto, dalla collocazione "liminare" della
vita stessa e dello stesso pensiero del Goriziano: storicamente sospeso in
un'età per definizione di transizione e di decadenza (quella tra Ottocento e
Novecento), con tutte le inquietudini "millennaristiche" annesse e
connesse, ampiamente testimoniate, del resto, dalla cultura coeva’;
geograficamente (e dunque culturalmente, linguisticamente...) oscillante tra
Austria e Italia (e non solo; non si approfondirà mai abbastanza l'impronta
mitteleuropea di questo autore”), situazione - questa - complicata, e di molto,
dall'appartenenza ebraica dell'autore stesso (altro nodo abissale); attratto e
disperso in una molteplicità passionale di ispirazioni (il teatro, la musica,
la letteratura, la poesia, la pittura), sia per quanto concerne le
"fonti", sia per quanto concerne le sue stesse realizzazioni; calato
in una Weltanschauung tragica - filosofica e religiosa - di amplissimo respiro
storico-geografico, di cui si propone originalmente e appassionatamente di
riannodare le fila; dibattuto tra un lacerante bisogno di indipendenza (non
solo "culturale" e affettiva, ma anche economica) e un altrettanto
forte bisogno di rifugio nell'alcova della sua Gorizia e della sua famiglia. 20
Riguardo a ciò, solo per la chiarezza con cui è svolta l'argomentazione,
riportiamo l'equilibrata valutazione di G. Cavallero, nella prefazione alla sua
tesi di laurea, valutazione praticamente condivisa da tutta la critica: «Alla
filosofia del Michelstaedter (caso singolare nella storia dei pensiero) va
riconosciuta subito una dote rara: quella di non porsi mai come tale, almeno
nel significato ormai consacrato del termine. Di diritto essa rientra piuttosto
nella storia della cultura che, non propriamente, in quella della filosofia o
della letteratura occidentale. La sua peculiare forma espressiva è strutturata
in un originale amalgama linguistico, da cui affiorano, armonizzati su di un
antico ritmo greco, stilemi biblicoplatonici, modi di prosare
"vociano" oltre, naturalmente, ad una congerie varia di altri
influssi - tra i più disparati - della cultura contemporanea. Questo complesso
problema linguistico, lasciato tuttora irrisolto dai numerosi critici del
Michelstaedter ad oltre sessant'anni [la tesi di Cavallero è del 1972] dalla
morte, ha così indirettamente favorito le più arbitrarie interpretazioni della
Persuasione, nel tentativo di ricondurla, di volta in volta, al denominatore
delle più svariate ideologie del Novecento europeo». [G. Cavallero, Itinerario
di Michelstaedter, Tesi di laurea, Anno accademico 1971-1972, presso Biblioteca
di Gorizia, Fondo Carlo Michelstaedter, Prefazione p. VI. ] 21 «Eppure quanto
io dico è stato detto tante volte e con tale forza che pare impossibile che il
mondo abbia ancora continuato ogni volta dopo che erano suonate quelle parole»
[PR 3]. 22 Ma cfr., per quanto or ora diremo, il nostro profilo biografico, più
dettagliato, contenuto nel paragrafo 6 del Il capitolo (sulla Rettorica): Il
pretesto cronologico della proposta persuasa di Michelstaedter 23 Lo studio di
L. Furlan, L'essere straniero di un intellettuale moderno, ed. Lint- lavoro
dettagliato, composito, anche se discutibile per certe sue conclusioni - si
propone di adempiere appieno a questo gravoso compito. Tutto questo risulta poi
complicato da una tempra caratteriale certamente particolare, diremmo per certi
aspetti umorale, tanto da rasentare a volte manifestazioni depressive- reattive
(in specie, ad esempio, nelle ultime lettere), altre volte lampi di
vitalistico, ottimistico entusiasmo. Delicato, suo malgrado, come un fiore di
serra (psicologicamente, beninteso non fisicamente), sarebbe forse più
opportuno dire che la severità, o meglio il forte rigore morale, che egli usò
con se stesso dovette applicarlo anche agli altri uomini, ricavandone sovente
sonore smentite: da ciò, negli ultimi anni della sua vita, una sorta di involuzione
caratteriale: un animo, col tempo, sempre più appartato e deluso, che tuttavia
non perde la sua essenziale forza, energia e consapevolezza. Alla luce di tutto
ciò, se volessimo compendiare, in una sorta di prosopopea, il dramma
esistenziale del nostro giovane autore (che è, in definitiva, quello di un
"aspirante alla Persuasione" che si trova invischiato giocoforza
nello strame rettorico), proporremmo - in alternativa alla chiave di lettura
legata alla ben nota "coscienza infelice" hegeliana, avanzata dal
Garin% - la figura di Qohélet, il saggio ebreo autore di quell'operetta biblica
(tanto cara al Goriziano) che vien chiamata Ecclesiaste. Nel corso della sua
esistenza, Qohélet ha vissuto sulla propria pelle - giungendo ad una
consapevolezza tanto profonda quanto disincantata - la sconcertante (per quanto
"banale") verità che «tutto è vanità», come recita l'inizio [1,2] e
la fine [12,8] del libro biblico, a confermare che tutta la riflessione in esso
contenuta non è altro che un dipanare la trama e l'ordito di quell'assunto
unico, dominante e paradossale. Orbene, Qohélet - per quanto saggio, di una
saggezza che lo discrimina rispetto all'umanità intera - è tuttavia e comunque,
come tradisce l'etimologia stessa del suo nome, "l'uomo che partecipa
all'assemblea (degli uomini)". Proprio come Michelstaedter. Questo,
insomma, il complesso intrico di fattori che si trova costretto ad affrontare
chiunque si avvicini al filosofo. Lo stesso autore della Persuasione, quasi a
pregustare questa difficoltà, afferma che «ci sono degli uomini che sono dei
mostri, che si sono liberati del tutto dal loro tempo e dagli altri tempi e
fanno la disperazione degli storici» [O 810]. Difficoltà che, tuttavia, a 24
Ma, per dirlo in parole molto semplici, se il dramma della "coscienza
infelice" è quello di non poter identificarsi con Coscienza Immutabile,
ch'è Dio e l'Assoluto, l'infelicità di Michelstaedter ha un fondamento
quantomeno opposto: propri quello di essere costretto all'identificazione, con
qualsivoglia "struttura" o "identità". Michelstaedter
illustra questa inconciliabile dicotomia, ascrivendola anzi ad una delle più
pericolose e "lusingatrici" illusioni dell'uomo, di ascendenza
platonico-hegeliana, in un passo sotto questo punto di vista memorabile: «Egli
[l'uomo] vive di ciò che gli è dato, di cui non ha in sé la ragione, ma nella
sua conoscenza assoluta egli ha la Ragione; se il fine delle sue affermazioni
vitali è in ogni punto paura della morte, ma nel suo Assoluto egli ha il Fine;
se egli è in balia delle cose e non ha niente, e se pur questo niente difende
come valevole con ingiustizia verso tutte le altre cose, ma nell'Assoluto egli
ha la Libertà, il Possesso, la Giustizia. Così egli porta intorno l'Assoluto
per le vie della città. Egli non è più uno ma sono due: c'è un corpo, o una
materia, o un fenomeno o non so cosa, e c'è un'anima, o una forma, o un'idea. E
mentre il corpo vive nel basso mondo della materia, nel tempo, nello spazio,
nella necessità: schiavo; l'anima vive libera nell'assoluto». [PR 54-55] o ov
ben vedere, ci tocca fino ad un certo punto, se è vero - come ribadiamo - che
la presente tesi non vuol essere tanto un lavoro di critica e storiografia
filosofica, né vuol essere una meditazione su Michelstaedter, bensì riflessione
attraverso Michelstaedter, ovvero vuol rintracciare (vuol recuperare) in certo
modo l'attualità della sua ingiunzione morale, e non al fine di espungere «ciò
che è morto» e di decantare «ciò che è vivo» del nostro autore (operazione che,
per noi, nasconde sempre presunzione ed ingratitudine), bensì di riguadagnare
una voce autentica - che nasce da un'esperienza esistenziale altrettanto
autentica - che possa aiutarci nella difficoltà del tempo presente, diventando
nostra ingiunzione, al di là di ogni categoria storica e filosofica stabilita.
Del resto, coerente alla sua formazione eminentemente "letteraria", e
non specificamente filosofica (gli autori da lui citati, a rigore, sono più
"profeti" che filosofi, ed è indicativo: la verità non si esprime per
sistemi, ma si veicola nelle forme originali ed autentiche della creazione
umana); e, soprattutto, consapevole che la verità stessa è una «sorba amara e
perfida», «povera e nuda», che si vive e non si dice (com'egli afferma della
Persuasione), lo stesso Michelstaedter non intende pagare «l'entrata in nessuna
delle categorie stabilite» né fare da «precedente a nessuna nuova categoria»;
ma procede, a suo dire, nel rilevare il testimone della verità, «né con dignità
filosofica né con dignità artistica»?°. Il nostro filosofo si pone, dunque,
quale «povero pedone che misura coi suoi passi il terreno»? e da subito fa
professione di non-originalità””, laddove però questa non-originalità non è
pedissequa ripetizione scolastica di istanze e di imperativi morali, non è il
disdegno intellettuale (anch'esso "borghese") di chi rifiuta per
principio il mondo degli altri (sentenziando «pereat mundus sed fiat iustitia»)
e gli contrappone una realtà sua propria tanto edenica, quanto astratta e
utopica: è, invece, il rinnovellarsi e il ribadirsi di un appello all'esistenza
vera ed originale, vissuto veramente e profondamente sulla pelle di coloro che
l'hanno professato: Parmenide, Eraclito, Empedocle, Qohèlet, Cristo, Eschilo,
Sofocle, Simonide, Socrate, Petrarca su su fino a Leopardi, Ibsen e Beethoven.
Il carattere "viatorio" di queste espressioni ci rimanda a quella che
ci pare essere la chiave di volta della loro testimonianza: una testimonianza
che matura, si muove e soffre tra e con gli uomini, un'ingiunzione morale che
decade dal piedistallo del mal inteso imperativo categorico kantiano, divenendo
- in questa deformazione - astratto e universale (i due termini, da un punto di
vista esistenziale, si combinano), e rapprendendosi, In una lettera a Enrico,
in un contesto ironico, Michelstaedter butta giù, en passant, un «si duo idem
faciunt non est idem» [E 423; ma il modo di dire ricorre anche altrove: cfr, ad
es., PR 62]Questa notazione, evidentemente, meriterebbe molto di più che una
semplice nota. 25 Per quanto questo poi sia vero: si veda comunque come
appaiano scontate ed inopportune, alla luce di ciò, le accuse di coloro i quali
tacciano Michelstaedter di scarso rigore filosofico: Gentile fra i primi. 26Per
le espressioni citate in questo contesto, rimando - ancora una volta - alla
prefazione di C. Michelstaedter, La Persuasione..., op. cit. storicamente,
nell' "uomo e nello Stato hegeliano", avviluppato nella matassa del
dovere, della responsabilità e della sicurezza”; un'ingiunzione morale, infine,
che si fa veramente "urbana" e concreta, in una parola:
etico-politica. Ovvero, Michelstaedter cala - incarna - lo sforzo
etico-speculativo teso alla ricerca di soluzioni (scelte) esistenziali, volte
al vero vantaggio degli uomini? - o meglio, della sola autentica scelta esistenziale,
ch'è la Persuasione - nella magmatica, pragmatica ed altrettanto paradossale
quotidianità che ognuno vive. L'unica valida alternativa - rispetto alla nostra
decadenza - per una felicità possibile per gli uomini, per una xya9wv gui (il
corrispettivo speculare, persuaso, della rettorica xowwwx xxxwv?9) veramente
realizzabile. 27 Cfr. nota 21. 28 L'etica kantiana, nella sua interpretazione
distorta, va a rappresentare proprio la forma più moderna e palese e dinamica
di "etica borghese della sicurezza", ch'è il cavallo di battaglia
della Rettorica. 29 Preferiamo utilizzare sempre il plurale. 30 Per il senso di
queste espressioni, rinviamo al seguito del nostro lavoro. 2. Il demone Enrico.
In un noto passo dell'Apologia [31, D; ma cfr. anche Fedro 242 C, 551], il
persuaso Socrate afferma: «[...] questo che si manifesta in me fin da fanciullo
è come una voce che, allorché si manifesta, mi dissuade sempre dal fare quello
che sono sul punto di fare, e invece non mi incita mai a fare qualcosa»?!
[corsivo nostro]. Poco prima, Socrate aveva definito quella voce «alcunché di
divino». E' il famoso, controverso, "demone" socratico”, una delle
voci più antiche ed autentiche della Persuasione, la cui caratteristica
singolare è quella di essere, piuttosto, una voce della dissuasione”. Compendia
e glossa G. Bastide®*, considerando tutti i passi in cui questa
"figura" ritorna: «nnanzitutto Socrate spiega il suo comportamento
ricorrendo a un dio interiore, ad un avvertimento intimo, ad una voce demoniaca
che non l'abbandona mai. Poi, tranne una o due eccezioni, questa voce interiore
prende forma di divieto, quando si tratta di distogliere Socrate da questo o
quell'atto o da questo o quel coinvolgimento preciso. Infine, il dio è una
forza imperiosa che determina in modo totale la vocazione spirituale di Socrate
»”. In Teagete [129 E - 130 A], la potenza del demone socratico si
"politicizza": «[...]la potenza di questo demone è determinante,
anche nei rapporti con coloro che mi frequentano: a molti, infatti, è ostile ed
essi non traggono profitto alcuno dalla mia compagnia, tanto che anche a me non
è possibile stare con loro; a molti non impedisce di frequentarmi, ma, dalla
mia vicinanza, non ricevono vantaggio alcuno; quelli, invece, che la potenza
del demone assiste, perché godano della mia compagnia, sono coloro dei quali
anche tu [Teagete36] ti sei accorto; infatti ne ricevono un profitto immediato;
ma anche tra questi, alcuni godono di un 31 Le citazioni tratte dalle opere di
Platone, qui e altrove, sono riportate secondo la traduzione offerta in Platone,
Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Milano, Rusconi, 19912. 32 Cfr. la
diapositiva C [Demone] nel supporto iconografico. 33 Si tenga altresì presente
ciò che Nietzsche afferma nella Nascita della tragedia, sempre a proposito del
demone socratico: «Una chiave per comprendere la natura di Socrate ci viene
offerta da quel meraviglioso fenomeno che viene designato come "demone di
Socrate". In particolari situazioni in cui il suo portentoso intelletto
vacillava, egli ritrovava l'equilibrio in virtù di una voce divina, che si
faceva udire in tali momenti. Questa voce, quando viene, dissuade sempre. La
saggezza istintiva si mostra in questa natura interamente abnorme soltanto per
contrastare qua e là, ostacolandolo, il conoscere cosciente. Mentre in tutti
gli uomini produttivi l'istinto è proprio la forza creativo-affermativa, e la
coscienza si rivela critica e dissuadente, in Socrate l'istinto diventa
critico, la coscienza si trasforma in creatrice - una vera mostruosità per
defectum!" [Nietzsche, La Nascita della Tragedia; in Opere 1870/1881,
Roma, Newton, 1993, pag. 153]. L'acrimonia con cui Nietzsche offende e
offenderà Socrate è la stessa con cui Michelstaedter affronterà Aristotele; se
il motivo propulsore di questa acrimonia è, praticamente, identico (la critica
alla pretesa del sapere, nella fattispecie quello
teoretico-scientifico-tecnico), i differenti bersagli critici sono - a nostro
parere - non solo mera testimonianza di una dissimile "inclinazione di
gusto" dei nostri due autori, ma tradiscono - e profondamente - anche la
diversità delle alternative possibili e plausibili ch'essi propongono alla
decadenza (l'oltre-uomo e il persuaso), come vedremo in seguito. 34 G, Bastide,
Le moment historique de Socrate, Parigi 1939, pag. 236; riferimento contenuto
in J . Brun, Socrate, Milano, Xenia 1995, pag. 71 35 Ma si tenga anche
presente, anzi soprattutto presente, l'istruttivo capitolo IX [La dimensione
del religioso in Socrate] del lavoro di G. Reale, Socrate. Alla scoperta della
sapienza umana, Milano, BUR 2001, pagg. 265-294, capitolo sottinteso al nostro
discorso. 36 E' ovviamente Socrate che parla. vantaggio sicuro e duraturo,
molti, al contrario, fin tanto che stanno con me, progrediscono in modo
soddisfacente, ma, una volta lontani, ridiventano come tutti gli altri»
[corsivi nostri]. Orbene, crediamo che, in questo passo esemplare, sia
contenuta una chiara parafrasi delle differenti e possibili modalità di
relazione che il Persuaso intrattiene con gli altri uomini: Michelstaedter
"aggiorna" il topos affermando, in modo pregnante, che «ognuno deve
trovarsi la via da sé - e da sé batterla passo per passo - ché non ci sono né
carte né mezzi di trasporto; chi non sente di doverla, di saperla, di volerla
fare, non è buono a farla e invano spera l'aiuto altrui, invano altri vorrebbe
aiutarlo - la può batter colui che già è sano - e la salute è un dono di Dio.
-»° [D 93-94; corsivi nostri], che fa da eco a quella, più famosa, contenuta
nella tesi di laurea: «La via della persuasione non è corsa da "omnibus",
non ha segni, indicazioni che si possano comunicare, studiare, ripetere. Ma
ognuno ha in sé il bisogno di trovarla e nel proprio dolore l'indice, ognuno
deve nuovamente aprirsi da sé la via, poiché ognuno è solo e non può sperar
aiuto che da sé: la via della persuasione non ha che questa indicazione: non
adattarti alla sufficienza di ciò che t'è dato. | pochi che l'hanno percorsa
con onestà, si sono poi ritrovati allo stesso punto, e a chi li intende
appaiono per diverse vie sulla stessa via luminosa. La via della salute non si
vede che con gli occhi sani» [PR 62-63; corsivi nostri]. Ora, ritornando al
passo socratico del Teagete, approntiamone un'utile schematizzazione. Socrate
distingue: a) individui a cui il demone è ostile, e che non traggono vantaggio
dalla compagnia con Socrate; b) individui «che la potenza del demone assiste»
[parafrasi quasi Michelstaedter: «a salute è un dono di Dio»], e che traggono
vantaggio dalla compagnia con Socrate: b,) quelli - e son soltanto alcuni - che
«godono di un vantaggio sicuro e duraturo»; bə) quelli - e sono invece molti -
che [PR 169]?°. Nel penultimo passo, del
resto, affiora (anche) la differente posizione, sempre nella prospettiva
persuasa, che Michelstaedter ha consapevolezza di occupare rispetto all'amico:
mentre lo Mreule - agli occhi del Goriziano - ha raggiunto la Persuasione e vi
permane, egli invece è ancora sulla difficile e tormentata via che porta alla
Persuasione stessa. La «consistenza» di Enrico è indipendente, in senso
assoluto, come indipendente e assoluto è il monito persuasivo del suo esempio;
al contrario, Michelstaedter avverte la necessità - per la propria consistenza
- che il suo amico «ancora lo pensi e si curi di lui». E' più del bisogno di
una tangibile comunione fraterna, è più del desiderio di essere nei pensieri
dell'amico; è l'esigenza, bensì, di fondare la propria consistenza di uomo, di
legittimare - attraverso quasi il giudizio del demone-Enrico - la propria
aspirazione alla permanenza?*: 40 In base al nostro schema, è il rapporto delineato
in bi. 41 E «il coraggio non vuol la prudenza ma l'atto» [PR 63]. 42 Ma
riguardo la dialettica lontananza-vicinanza, cfr. la parte finale del presente
capitolo. 43 Ma - edè significativo - è lo stesso Michelstaedter a condannare
in modo risoluto - in alcuni passaggi fondamentale della sua tesi e del Dialogo
- questo illusorio "meccanismo di reciproca compiacenza": «[...]
ognuno, se racconta la sua «Quella voce che viene dalla libera vita [quella
voce che Enrico aveva accolta e fatta sua], quella m'era necessaria per fare il
mio lavoro [la tesi] come io lo volevo; m'ero illuso di poterla avere [...]>
[E 441]. Mentre Enrico ha affrontato il mare e «s'è conquistato il suo posto di
lotta e di lavoro» [E 435], Michelstaedter si trova ancora impelagato nelle
pastoie della Rettorica, sociale familiare culturale accademica. Il Nostro non
nasconde una punta di benevola invidia, e di dispetto per quegli oneri (alibi
facilmente smontabile, tuttavia) che lo costringono alla falsa permanenza, al
soggiorno "forzato" in Gorizia, al soggiorno forzato nella vita
retorica: «La lettera di Rico [...] mi mise il fuoco addosso per quanto penso a
noi, che, invidiandolo, siamo impediti nel volerlo raggiungere dalle cose
stesse che c'impedirono di partir con lui [... > [E 436; corsivo nostro]. E'
altresì interessante notare come, invece, dalla prospettiva stavolta di Enrico
(testimoniata da C. Magris, nella bella e suo malgrado dissacrante biografia
romanzata che gli dedica‘*), le posizioni risultino addirittura ribaltate: se
Enrico «tanto per cominciare, è andato via per non fare il militare» [Magris
15], di contro - per lui - è Michelstaedter ad essere «un santo» [ib. 83];
insieme con Buddha (vedremo successivamente il rilievo di questa affermazione),
che lo è per l'Oriente, Carlo per Enrico è il «grande risvegliato» [ib. 94]:
solo Carlo può essere sicuro [ib. 45]. Non si tratta soltanto, qui, di una
reciproca attestazione di stima profonda e sincera; è una testimonianza -
questa - che tradisce il fatto che la delineazione dell' "essere
persuasi" era ancora in fieri, chiara ed evidente, certo, nella intima
consapevolezza dei due, ma ancora insufficientemente attingibile nella
concretezza della vita reale o anche della pura elaborazione concettuale.
Riteniamo opportuno, allora, soffermarci sul gesto assoluto di Enrico Mreule.
Così, il 28 novembre 1909 - in gran segreto, la famiglia completamente ignara
di tutto - questa sorta di Neal Cassady carsico, giovane, bello, geniale,
disperato, "maledetto"* - s'imbarcava a Trieste per l'Argentina,
sulla Columbia; accanto a motivi di ordine eminentemente "pratico", a
spingerlo era la decisione di dare una possibilità di nuovo inizio alla propria
vita, di rescindere ogni legame con la passata, di fondare - non solo con le
parole, ma con i fatti - un proprio mondo autonomo e libero, una propria
«consistenza indipendente ». Perché (avrebbe detto non molti anni dopo un altro
giovane "maledetto", Paul Nizan‘9) «a libertà è un potere reale». Si
trattava di mettere in pratica, di esercitare vita sciagurata e i fatti
dolorosi di cui porta la colpa e le conseguenze, trova nella compiacenza dei
compagni integra almeno l'illusione della sua individualità. -», «[...] la
dolce illusione d'esser qualcuno»; in questo meccanismo, gli uomini retorici
«considerano i loro simili come specchi compiacenti, - che raddoppino la vita.
Ma il nulla che non si raddoppia...» [D 55-56] 44 C. Magris, Un altro mare,
Garzanti, 1998. 45 Cfr. la diapositiva B [Ritratto di Enrico Mreule (2)] nel
supporto iconografico. 46 Paul Nizan: Aden Arabia (con saggio-prefa zione di
J.P. Sartre), Mondadori, 1996. Sarebbe suggestivo mettere a confronto gli
esiti, nonché le motivazioni e le "ideologie" sottese alla
"compulsione del viaggio" che spinse questi due questo potere.
Dunque, un gesto improvviso, ma non improvvisato, evidentemente; azzardato, se
vogliamo, ma non gratuito; frutto concreto di una decisa e persuasa visione del
mondo e della propria esistenza; risultato coerente, ancora, dei discorsi e
degli "ammaestramenti", riguardo le proprie convinzioni, che il
giovane Mreule elargiva ai suoi altrettanto giovani amici. Un gesto che
acquista ancor più valore, e lo stesso Michelstaedter ne è consapevole, di
fronte al puro astratto gesto di ribellione e di fuga (se non
"fisica", almeno intellettuale) che il Goriziano insieme persegue e,
sotto sotto, paventa. L'inquietudine (complicata dalla giovane età),
l'infelicità, derivante dall'intuizione amara dell'impasse retorica, è la
stessa; ma Enrico è riuscito a rimettere in gioco se stesso e la propria
esistenza, è riuscito a passare dalla mera rivendicazione verbale all'atto,
dalla potenza all'entelechia. In Enrico Mreule, la parola persuasa - come
risuonava nei discorsi (nei simposi) "in soffitta" dei tre giovani -
si è tradotta, senza tradirsi, in attualità pura, assoluta, permanente, eterna;
la parola si è fatta carne e sangue, si è esposta al rischio
dell'imprevedibilità, alla possibilità aperta e pericolosa che ogni scelta
autentica implica e prepara. Alla stregua di Cristo, Enrico è il Verbo (della
Persuasione) Incarnato. E' in lui, cioè, che la Persuasione scende dal
piedistallo dell'astrattezza, dell'utopia, dell'atopia, della letterarietà e
del passato, per farsi vivo, concreto, persuaso presente. Perché la «salute»
non è soltanto un'idea, la sua sede non è l'iperuranio separato dal mondo della
vita sublunare: la salute - ancora "sostanza seconda" nelle stesse
pagine che Michelstaedter le dedica nel lavoro accademico - assurge a
"sostanza prima" - e quindi veramente reale - nel synolon dell'essere
persuaso, che è Enrico. Un esempio, quello dell'amico, infine, che disattende e
confuta, come detto, quelle affermazioni, frequenti ancora nella tesi, per le
quali la Persuasione era attestata come una possibilità... impossibile: lo
Mreule è l'esempio vivente, così, che la Persuasione non è un luogo ideale,
inattuale ed inattuabile; che non è una mera idea regolativa nella prospettiva
non solo etica, ma ontologica; che non è un "mito", (soltanto) una
stella polare che indichi e guidi il nostro cammino; che non appartiene,
ancora, soltanto ad eletti del mondo delle arti e del passato filosofico,
letterario ed artistico; che non è, infine, una condizione edenica,
improponibile nel mondo della Rettorica. Al contrario, nello Mreule, la
Persuasione irrompe come l'eternità nel tempo, squarcia la verbosità delle
concettualizzazioni, lega il passato e il futuro nella decisione (nella scelta)
dell'eterno presente, si indica come possibilità sempre aperta - per quanto
latente - all'uomo, ad ogni uomo che mostri il coraggio di accoglierla e di
farla sua. giovani intellettuali - Mreule e Nizan (divisi da poco più di un
ventennio) - a cercare in un lontano altrove scampo alla congerie rettorica. 47
La famosa soffitta del P aternolli, di cui abbiamo anche un bozzetto
autografato di Michelstaedter. Scrive Michelstaedter ad Enrico: «Col tuo atto e
con questo fatto già in parte avvenuto, quasi con argomenti sopportando solo la
mole degli argomenti teorici, coi quali tu nelle nostre conversazioni ci aprivi
la via alla giusta valutazione delle cose, hai compiuto per noi l'unico
beneficio che si possa fare da un amico agli amici» [E 421]; e ancor più
esplicitamente «[...] come le tue parole si son fatte azione! lo mi nutro
invece ancora di parole e mi faccio vergogna» [E 442; il corsivo è dello stesso
Michelstaedter, a sottolineare l'importanza dell'espressione]; fino a rendere
testimonianza e omaggio al vero persuaso Enrico, nella bellissima lettera
datata 29 giugno 1910: Ti vedo sempre cosi come t'ho visto l'ultima volta a
Trieste, determinato in tutte le tue possibilità, vivo così, che nessuna cosa
della vita, mi sembra, possa trovarti insufficiente, ma che anzi tutta
attraverso tutti i perigli debba volgersi a te spontaneamente. Perché tu non
chiedi niente. E come non t'accorgi del tempo perché nell'atto in ogni attimo
sei intero, così in ogni tua parola si ha l'imagine [sic] concreta della tua
vita [E 440; i corsivi sono nostri] In questo denso passo, affidato
significativamente ad una lettera (e dunque ad un testo privato), tuttavia la
Persuasione trova una delle sue espressioni più limpide e convincenti, in
assoluto. Visto il particolare andamento di questo capitolo, e alla luce di
quanto detto finora, riteniamo opportuno analizzare il succitato brano
abbastanza a fondo, allo scopo di rintracciare alcuni notevoli punti fermi che
ci consentano di anticipare, per maggiore chiarezza di visione, importanti
conclusioni riguardo l'idea che ci siam fatti dell' "essere
persuasi". Innanzitutto, ancora una volta ribadiamo questa considerazione:
Enrico Mreule è exemplum storico della salute: egli è «determinato in tutte le
[sue] possibilità». Soffermiamoci sull'attributo "determinato" e sul
sostantivo "possibilità", entrambi pregni di straordinarie
significanze etico-filosofiche. Qui, "possibilità" - a differenza di
quanto tanto "esistenzialismo negativo" ci ha insegnato (da
Kierkegaard, ad Heidegger a Jaspers a Sartre) - ha una forte valenza positiva:
se per i suddetti la possibilità esistenziale si risolve, in fondo (chi in più,
chi in meno), in impossibilità, nello scacco di quell'«essere che progetta di
essere Dio», nell'improponibilità della scelta esistenziale ed autentica, che
determina angoscia e disperazione; in Michelstaedter sta ad indicare, invece,
il dispiegarsi delle energie vigorose e positive, originarie ed originali,
autentiche ed incorrotte dell'uomo stesso. Qui, piuttosto, il termine e il
comprensivo "possibilità" trova il suo affine nella
"potenzialità", nella già richiamata dynamis, in tutta la sua portata
di «preformazione e predeterminazione [rispetto all'atto]», «modo d'essere
diminuito o preparatorio all'atto »*°: la possibilità esistenziale autentica
trova il suo telos nell'entelechia etica. Le parole di Enrico si son fatte
azione, la sua dynamis appunto si è dispiegata e realizzata, giungendo alla sua
"perfezione". Non può non emergere la forte componente 48 Ovviamente
utilizziamo come sinonimi Persuasione e Salute, sentendoci autorizzati a tale
uso dall'uso stesso che ne fa Michelstaedter.dinamica che permea tale
condizione esistenziale. Difatti, l' "essere persuaso" non è un
monòlito, per quanto il suo sia un permanere nella Persuasione; ma il permanere
- dice Michelstedter - non è uno stare: «non c'è sosta per chi porta un peso su
un'erta, ma quando lo deponga dovrà andarlo a riprender sotto ove sarà
ripiombato: ogni sosta è una perdita; tanto sosti e tanta strada devi rifare»
[PR 35; corsivo nostro]. E poco più avanti, raccoglie e ripropone il monito
contenuto nell'E/ettra di Sofocle (monito che, a nostro parere, è l'elemento
veramente drammatico della tragedia sofoclea e della vita stessa del
Goriziano): «non è più il caso di indugiare, ma di agire» [ib.; in greco nel
testo]. Ancora più avanti, le parole di Michelstaedter in proposito si fanno
adamantine, raccogliendo le estreme conseguenze di quanto finora affermato: «il
diritto di vivere non si paga con un lavoro finito, ma con un'infinita
attività» [PR 41; corsivo nostro]. E' svelato, così, l'alone misterioso che
avvolge la premessa del giovane studioso: «Nell'eBroc BoA potenza e l'atto sono
la stessa cosa!, poiché l'Atto trascendente, "l'eternità raccolta e
intera", la persuasione, nega il tempo e la volontà in ogni tempo
deficiente» [PR 12]. Come per quest'altro capoverso, che è forse la "definizione"
più completa - presente nella tesi -dell'essere persuaso, pur nella sua
sinteticità: «Colui che è per sé stesso (ever) non ha bisogno d'altra cosa che
sia per lui (evot «vtov) nel futuro, ma possiede tutto in sé» [PR 9]. La
determinazione che il vir mostra nella gestione delle proprie possibilità è -
insieme, dunque - risolutezza e consapevolezza. Il vir è "risoluto",
sciolto (come c'insegna l'etimologia) dai lacci della Rettorica, e in questo è
veramente libero e assoluto; è altresì consapevole delle sue potenzialità volte
alla realizzazione della vita vera. Per gli Stoici, la chiusura della mano nel
pugno rappresentava la "comprensione": immagine felice: il virha in
pugno tutte le proprie possibilità e comprende la possibilità di dispiegarle in
modo pieno e compiuto. Nel punto appena successivo del passo che stiamo
esaminando («[...]nessuna cosa della vita, mi sembra, possa trovarti
insufficiente, ma che anzi tutta attraverso tutti i perigli debba volgersi a te
spontaneamente [... ]}»), Michelstaedter ritorna su uno dei fulcri inossidabili
della sua posizione teoretica-etica-ontologica, cui abbiamo già accennato:
l'insufficienza; c'è da rilevare, qui, il ribaltamento, anzi la vera e propria
"rivoluzione copernicana" che viene ad operarsi tra il 49 cfr.
Aristotele, Metafisica, X, 8, 1049 b4 50 Vita che non è vita. Tuttavia, come
chiosa puntualmente Campailla, «non nel senso in genere dispregiativo che è
proprio dell'aggettivo greco, ma in quello di "vita che è fuori della
vita", "vita impossibile": la vita, insomma, della Persuasione»,
51 Qui, Michelstaedter sembra parafrasare proprio Aristotele. Troviamo,
altresì, molto interessante notare l'analogia, sotto questo punto di vista, tra
il Persuaso e il dio (sparse nel capitolo specifico sulla Persuasione, nel
lavoro accademico), che nella fattispecie - a nostro parere - corrisponde al
dio aristotelico, così come tratteggiato nei libri VIII e XII della Metafisica
(un'opera che Carlo tenne sicuramente presente, oggetto di studio e di
riflessione continui): il dio di Aristotele non ha in sé nulla in potenza, è
Atto e Forma puri, è un essere perfetto, il quale non manca di nulla, non ha
nulla da realizzare (se possiamo esprimerci così), e in esso tutto è pienamente
attuato; da qui, la sua "immobilità" e la sua eternità. Esso -
proprio come il Persuaso - non protende verso alcunché, avendo già in se stesso
la sua completezza e la sua perfezione. Questo dio è in pace con se stesso. vir
e il mondo delle cose: nessuna «cosa della vita» trova insufficiente il vir,
perché egli «non chiede niente », perché ha sciolto i lacci della dipendenza.
L' "autarchia" dell'essere persuaso è diretta espressione e
conseguenza della sua consapevolezza: egli non chiede niente perché è
consapevole che la vita, che la Rettorica niente può veramente dargli, e che
ogni elargizione che dal mondo retorico proviene è, parimenti, ottriata, falsa,
illusoria, inadeguata. Questa posizione, in tutta la sua profondità, è limpida
nella coscienza di Michelstaedter: «Ma chi vuole la vita veramente, rifiuta di vivere
in rapporto a quelle cose che fanno la vana gioia e il vano dolore degli altri
- e non accontentandosi d'alcun possesso illusorio chiede il vero possesso,
così che in lui prende forma e si rivela il muto e oscuro dolorare di tutte le
cose» [O 705]; «[...] se c'è via che possa in qualche modo liberarci dalla
nebbia, è quella che insegna a non chiedere ciò che non può esser dato» [D 73];
«...]- non c'è niente da aspettare, niente da temere - né dagli uomini né dalle
cose. Questa è la via. - » [D 81, ribadito pari pari in D 85; corsivo di
Michelstaedter] et similia. L'autarchia del vir non è tuttavia l'egoistico
ripiegamento su se stesso dell'Unico di Stirner”, frutto della disperazione del
nulla che si dispiega in violenta autoaffermazione di dominio solipsitico; essa
è piuttosto - se vogliamo - affine? (ma con i dovuti distinguo) all'ideale del
saggio stoico, affine quantomeno nella matrice etica che presuppone e prepara
quell'esito: ovvero, l'accettazione del dolore e della morte e l'indifferenza
rispetto ai più comuni beni della vita (salute, ricchezza, bellezza...) e ai
loro contrari”*. Secondo gli Stoici, "vivere secondo natura"
significa, da un lato, mantenersi in accordo con gli eventi, accettandone il
carattere di necessità-provvidenza; dall'altro, favorire la propria natura
realizzando e conservando il proprio essere razionale. Orbene, detergendo tale
prospettiva dalle connotazioni di necessità, provvidenza e razionalità (o
almeno non ritenendole esclusive), essa viene a convergere proprio con la dimensione
persuasa del vir. Di poi, il "bastare a se stesso" non si risolve in
una posizione ascetica (come da 52 «il triste filosofo dell'anarchia», lo
definisce Michelstaedter. 53 Un'affinità cui ci autorizza lo stesso
Michelstaedter; cfr. Dialogo tra Napoleone e Diogene, in D 101-110. 54 «Poiché
in quanto virtus essa è disposizione a una cosa (possibilità), in quanto tua
virtus è bisogno di questa cosa (anche in rapplorto] alle virtutes negative
degli stoici che sono neglative] inrigluardo] ai bisogni ma positive riguardo
alla vita, cioè esser felici senza quei bisogni: gli stoici avevano
d'accorgersi che esistevano anche senza quei bisogni, essi esistevano e
cred[evano] d'essere solo in quanto negavano l'una cosa e l'altra e affermavano
così in rapporto a queste cose della vita la loro individualità. Dunque gli
Stoici hanno possibilità di vivere senza bisogni ma bisogno di viver come tali.
- Si ergo virtus se ipsa contenta est - homo virtuosus plane adnihilatus est...
in quanto tua virtus - è bisogno d'esplicarla, di viverla nel tempo, tutta. E
come l'esplicarla non è mai in un punto, così tu non puoi possederti in nessun
punto» [ib. 107; è Diogene che parla a Napoleone; i corsivi sono di
Michelstaedter]. Invitiamo a leggere questo passo anche alla luce di quanto
detto sulla dinamica potenza-atto nell'ottica persuasa. 55 La virtù stoica,
ancora, così come la Persuasione è tale da non ammettere gradi intermedi (essa
è o non è), come descrive efficacemente Cicerone: «Come infatti chi è sommerso
nell'acqua, sebbene poco distante dalla superficie, sì da poterne quasi
emergere, non può respirare affatto più che se fosse nella profondità [...]
così chi si sia avanzato alquanto verso l'abito della virtù non è affatto meno
in miseria di chi non vi si sia avanzato per nulla» [De finibus, III, 48].
L'ideale di saggio stoico, quindi, anche qui si mostra come valido strumento
euristico per indagare il carattere peculiare della Persuasione: ma, come
visto, le differenze sono importanti almeno quanto le somiglianze. In effetti,
il tentativo chetaluni è stato rimproverato); tutt'altro: il vir non si
allontana sdegnosamente dal mondo, ma si fonda il mondo: l'entelechia etica è
un atto di fondazione, è la possibilità di un nuovo, autentico inizio, e in ciò
consiste la sua vera libertà. Libertà, dunque, che non è solo apatheia, non è
solo "libertà da", ma anche soprattutto "libertà di":
libertà di permanere nell'esistenza persuasa e di fondare il mondo della
propria autenticità: il vir «deve creare sé e il mondo, che prima di lui non
esiste » [PR 34]. Ci piace, allora, richiamare le parole del già citato Paul
Nizan, che descrive in modo prezioso e vibrante tale condizione: «La libertà è
un potere reale e una reale volontà di essere se stessi: è capacità di costruire,
inventare, agire, soddisfare tutte le possibilità umane il cui dispendio dà
gioia» [Nizan 82] (vedremo tra non molto questo peculiare legame tra attività e
gioia, che ritorna anche nel Goriziano). Poco più avanti, è lo stesso scrittore
francese che segna con nitidezza e con un certo sdegno i distinguo tra questa
reale libertà e saggezza da quella dei saggi "stoici"; la libertà che
egli auspica e pretende non è quella dei «...] saggi che paralizzano a una a
una le parti dell'umanità e chiamano saggezza questa mutilazione. E' certo il
tempo di non essere più stoici, non avrete più un cielo dove recuperare
iltempo» [ib. 83]. Nel concludere questo paragrafo, proponiamo un lungo brano,
tratto dal romanzo / cosacchi, di un (allora; siamo nel 1863-64) giovane autore
russo, Lev N. Tolstoj, un autore che il nostro Michelstaedter amò a dismisura,
traendone profitto e sostanza morale. Questo romanzo è, indubbiamente, un'opera
giovanile, eppure - pur nell'acerbità a suo modo perfetta - già contiene in
nuce lo slancio etico-esistenziale appassionato, ed i motivi ad esso connessi,
che informeranno tutta l'opera del grande scrittore, e che confluiranno nella
speculazione del Goriziano, assorbiti in modo originale, ma fedele. Il brano
che proponiamo è cruciale sia nell'economia del romanzo, sia nella vita del suo
protagonista, il giovane nobile Olenin, il quale - pieno di entusiasmo e
spinto, da un'oscura sensazione di estraneità al mondo a cui appartiene per
nascita, alla ricerca della felicità [Olenin- Michelstaedter-Mreule] - intraprende
un lungo viaggio che da Mosca lo porta in un lontano villaggio del Caucaso
(inutile dire che ogni tentativo di Olenin di adattarsi alla nuova realtà,
soprattutto per quanto riguarda i "rapporti umani", sarà destinato
allo scacco). Ebbene, questo brano contiene - in modo davvero disarmante, a
nostro parere - parecchi punti di contatto (non solo "ideologico", ma
addirittura espressivo) con talune pagine michelstaedteriane; esso, inoltre,
riassume in maniera opportuna tutto il discorso da noi fin qui tenuto e, in
maniera altrettanto opportuna, soprattutto nell'interrogativo che lo conclude,
ci offre il destro per proseguire questo nostro difficile cammino ermeneutico.
stiamo facendo - e in questo campo è giocoforza procedere per tentativi - è
quello di setacciare il concetto di Persuasione: circoscriverlo, per quanto
possibile, per meglio individuarne vigore e valore. «Egli [Olenin] si sentiva
fresco e a suo agio; non pensava a nulla, non desiderava nulla. E a un tratto
fu assalito da un così strano senso di felicità senza motivo e di amore per
ogni cosa che, seguendo una vecchia abitudine infantile, si mise a farsi il
segno della croce e a ringraziare non so chi. Gli venne a un tratto in mente
con particolare chiarezza che lui, Dmitri Olenin, un essere così diverso da
tutti gli altri, se ne stava ora disteso solo, Dio sa dove, in un luogo dove
viveva un cervo, un vecchio cervo e bello, che forse non aveva mai visto un
uomo, e in un posto dove nessun uomo mai s'era posto a sedere, né aveva avuto
quel suo pensiero. "Sono seduto, e attorno a me stanno degli alberi
giovani e vecchi, uno di essi è tutto avvolto dai tralci della vite selvatica;
vicino a me brulicano i fagiani, inseguendosi l'un l'altro, e fiutano forse i
loro fratelli uccisi". Egli tastò i suoi fagiani, li esaminò e asciugò la
mano lorda di sangue ancor tiepido nella sopravveste circassa. Forse li fiutano
anche gli sciacalli e coi musi scontenti vanno a cacciarsi altrove; vicino a
me, volando tra le foglie, che sembrano loro isole immense, stanno nell'aria e
ronzano le zanzare: una, due, tre, quattro, cento, mille, un milione di
zanzare, e tutte ronzano attorno a me per qualche ragione e dicono qualche
cosa, e ciascuna di esse è un Dmitri Olenin, distinto da tutti gli altri come
sono io stesso". E s'immaginò chiaramente quello che pensano e dicono
ronzando le zanzare. "Qui, qui, ragazzi! Ecco chi si può mangiare",
dicono ronzando e lo ricoprono tutto. E gli si fece evidente che egli non era
punto un nobile russo, un membro della società moscovita, amico e parente del
tale e del tal altro, ma semplicemente una zanzara, o un fagiano o un cervo,
come quelli che ora vivevano attorno a lui. "Come loro e come zio J
eroska, vivrò e morirò. Egli dice la verità: soltanto l'erba mi crescerà
sopra". "Ma che importa se l'erba mi crescerà sopra?",
continuava a pensare, bisogna tuttavia vivere, bisogna essere felici; perché io
una cosa sola desidero: la felicità. Qualunque cosa io sia: una bestia come
tutte, sulla quale crescerà poi l'erba, e niente più, o una cornice in cui si è
inserita una particella dell'unica Divinità, è pur tuttavia necessario vivere
nel modo migliore. Ma come dunque bisogna vivere per essere felice, e perché
prima non ero felice?", E prese a ricordare la sua vita passata; e gli
venne schifo di se stesso. Apparve a se medesimo come un esigente egoista,
mentre, in realtà, per sé non aveva bisogno di nulla. E continuava a guardare
attorno a sé: la verzura trasparente, il sole che declinava e il cielo sereno,
e si sentiva felice come dianzi. "Perché sono felice e a che scopo vivevo
prima?", pensò. Quanto ero esigente, quante cose escogitavo, e non mi son
procurato altro che vergogna e dolore! Ed ecco che non ho bisogno di nulla per
essere felice!" E a un tratto gli parve che gli si fosse dischiuso un
nuovo mondo. "La felicità, ecco quello che è", disse a se stesso: la
felicità consiste nel vivere per gli altri. E questo è chiaro. Nell'uomo è
stato posto il bisogno della felicità; esso quindi è legittimo. Appagandolo in
modo egoistico, cioè cercando per sé la ricchezza, la gloria, le comodità della
vita, l'amore, può accadere che le circostanze si combinino in modo che
appagare questi desideri sia impossibile. Di conseguenza, questi desideri sono
illegittimi, ma non è illegittimo il bisogno di felicità. Quali desideri però
possono essere sempre appagati indipendentemente dalle circostanze esteriori?
Quali? L'amore, l'abnegazione!". E tanto fu contento e tanto si agitò,
scoprendo questa verità, che a lui pareva nuova, che balzò in piedi e si mise
con impazienza a cercare per chi potesse al più presto sacrificarsi, a chi far
del bene, chi amare. "A me infatti non occorre nulla", seguitava a
pensare, "perché dunque non viver per gli altri? "»5°. 56 Tolstoj, |
cosacchi (a cura di G. Faccioli), BUR, 1952, pagg. 98-99-100. 3. Il porto della
pace. Essendo [Gesù] poi salito su una barca, i suoi discepoli lo seguirono. Ed
ecco scatenarsi nel mare una tempesta così violenta che la barca era ricoperta
dalle onde; ed egli dormiva. Allora, accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo:
"Salvaci, Signore, siamo perduti!". Ed egli disse loro: «Perché avete
paura, uomini di poca fede?». Quindi levatosi, sgridò i venti e il mare e si
fece una grande bonaccia. | presenti furono presi da stupore e dicevano:
"Chi è mai costui al quale i venti e il mare obbediscono? ". Questo
passo è tratto dal Vangelo secondo Matteo”, Vangelo - questo in particolare,
tra i quattro - che dovette colpire particolarmente Michelstaedter®, per la
forza e la nitidezza - e insomma per la "fisicità"°° - etiche e
storiche, con le quali viene delineata la figura del 57 Si tratta di Mt. 8,
23-27; ma cfr. anche Mc 4, 35-41 e Lc 8, 22-25. 58 In una lettera del maggio
1909 alla sorella Paula: «Se sapessi scriver note e se tu le comprendessi ti
scriverei il tema dell'andante della IX sinfonia; sarebbe più eloquente di me
per dire quello che voglio dire; oppure - non ridere! - leggi il Vangelo di S.
Matteo», [E 383]. Del resto, pochi giorni dopo, in una lettera allo Mreule,
Michelstaedter confessa che «in questo tempo, invece di far la tesi ho imparato
a conoscer Cristo e Beethoven - e le altre cose mi si sono impallidite» [E 398;
corsivo nostro]; nella lettura del Vangelo, egli «ci trova con gioia la
grandezza e la profondità che si aspettava - tanto superiore alle filosofie e
alla scienza moderne» [adattato da E 381] 59 Il Cristo di Michelstaedter
possiede connotati straordinariamente umani: è questo, infatti, «un Cristo
monofisita che possiede soltanto la natura umana [...]. Un Cristo monofisita e
pelagiano, che non conosce pertanto il peccato originale e il mistero del
Riscatto e vive in un cosmo tragico senza possibilità finali di composizione»
[cfr. S. Campailla, Carlo Michelstaedter tra esistenzialismo ateo e
esistenzialismo religioso, "Iniziativa Isontina", gennaio-aprile
1974, 60, Pag. 23]. E anche interessante notare come proprio il Cristo di S.
Matteo abbia influenzato (ma sarebbe meglio dire: inquietato) sensibilità che
poco o nulla hanno a che fare col cattolicesimo: ci riferiamo, tra gli altri,
oltre che a Michelstaedter, a Tolstoj [per cui vd. oltre], (perché no?) a
Nietzsche, nonché a Pasolini, che proprio sulla falsariga del Vangelo di Matteo
scrisse una delle sue sceneggiature più belle ed importanti, da cui ricavò un
film. Vale la pena riportare uno stralcio di una giovanile poesia pasoliniana -
La domenica uliva - dove lo scrittore-regista, tormentato come sempre,
liricizza questo suo particolare rapporto col Cristo: «Piove un fuoco scuro nel
mio petto: non è sole e non è luce. Giorni dolci è chiari volano via, io sono
di carne, carne di fanciullo. Se piove un fuoco scuro nel mio petto, Cristo mi
chiama, ma senza luce» [lirica contenuta in Pasolini, II Vangelo secondo Matteo
- Edipo Re - Medea, a cura di M. Morandini, Garzanti 19982, pagg. 280-286].
Sempre per meglio rifinire la suggestione cristologica in Michelstaedter,
riteniamo opportuno riportare anche questa critica, ma attenta, esatta
valutazione di Dilthey, che ben ci sembra enucleare la forza dirompente che
scaturisce dalla figura etica del Cristo di san Matteo: «Indubbiamente i logia
contenuti nel vangelo di Matteo sono quanto di più originario ci è pervenuto di
Cristo, e contengono solo una potente e illimitata profonda coscienza etica, in
cui il mondo trascendente si riflette, per così dire, come le stelle in un
fiume. Il nucleo di questa coscienza costituisce il vero e proprio legame del
sentimento etico attivo della vita, cioè della dottrina del regno di Dio, con
il riconoscimento che nella connessione di questa vita dolore, bassezza, sacrificio
producono tanto la perfezione quanto l'elevazione del Sé nello spiegamento
della forza» [W. Dilthey, Sistema di etica, a cura di G. Ciriello, Napoli,
Guida editori, 1993, pag. 126; corsivi nostri]. E' altrettanto interessante
quanto il filosofo tedesco aveva affermato poco prima, ascrivendo a Ibsen e
Tolstoj (tra gli altri) un tentativo «antiquato» [ib. pag. 122] di riferirsi al
messaggio cristiano, contribuendo - col loro «individualismo» [ib.], o anzi
«animalismo» [ib. pag. 121] - all' «inefficacia» [ib. pag. 122] contemporanea
del cristianesimo. Questo, in effetti, secondo Dilthey, «agisce su singole
anime semplici, che oppongono la loro esperienza interna alla tendenza della
scienza moderna. Non vi è ancora nessuno che abbia compreso la verità cristiana
in maniera così nuova e profonda, da permettere che essa possa determinare
seriamente l'epoca. Anche in questo campo vi sono soltanto tentativi e inizi»
[ib.; corsivi nostri]. Questo giudizio, equilibrato e corretto, per quanto
polemico, copre di riflesso anche Michelstaedter, se è vero che il Goriziano
privilegiò proprio Ibsen e Tolstoj come epifanie concrete di persuasione.
Tuttavia, Michelstaedter ci sembra comprendere e approfondire (e cercheremo di
dimostrarlo nel corso del nostro lavoro) in «maniera nuova e profonda» il
monito persuaso di Cristo e arrovellarsi nel tentativo di valorizzarlo come
un'euristica etica atta a «determinare seriamente l'epoca» in cui visse. Certo,
anche l'impresa michelstaedteriana appartiene alla congerie dei «tentativi ed inizi»,
e la sua ricerca esistenziale conobbe una cocente sconfitta. E' altrettanto
vero, però, che Carlo Cristo, uno dei Persuasi della storia dell'umanità, anzi
- per il Goriziano - il Persuaso per eccellenza. Ciò che ci colpisce del passo
evangelico è innanzitutto l'efficacissimo contrasto tra l'infuriare della
tempesta e la serenità (la "pace") del Cristo: mentre la barca è
pericolosamente sballottata dalle onde, rischiando di ribaltarsi, Gesù dorme.
In mezzo alla tempesta, Cristo è nel porto della pace, ha in sé (è) il porto
della pace. Quella serenità non Gli proviene dalla Verità di essere Figlio di
Dio, per il qual motivo niente di questo nostro mondo potrà toccarLo o
nuocerGli; non Gli proviene da un'indifferenza per le cose terrene (parlando
del Cristo, sarebbe davvero un controsenso); Gli proviene, bensì, dalla
consapevolezza di avere un destino da compiere (il sacrificio sulla Croce) e
che nulla può impedire il compiersi di questo destino. E' la pura
consapevolezza dell'essere persuasi, che permette di conquistare quel
"porto", quella «permanenza in un punto», anche nella furia del mare
(il miracolo che ne succederà, l'aver calmato le acque e i venti, appare
davvero accessorio, rispetto a quel riposo). L'infuriare della tempesta, di
contro, si riflette nel baratro di paura che infuria nell'intimo dei discepoli
che L'hanno accompagnato, e il loro tormento è un ulteriore, efficace scarto
contraddittorio se paragonato al riposo di Gesù. Gesù li aveva invitati a
passare all'altra riva®, all' "oltre" della riva, ad «imbarcarsi sul
mare di questo mondo »5': l'invito era piaciuto, ma tra l'invito e la meta
c'era un tragitto; la folla lasciata sulla riva non restò rassegnata a veder
partire la brigata: si inoltrò nel mare, turbò le onde, agitò una tempesta mortale,
e Gesù - quello stesso nocchiero che, rivolgendo loro l'invito aveva messo loro
in cuore il desiderio di partire - salito con essi sulla barca si addormenta,
ed essi sembriamo davvero abbandonati. Uno sconforto pesa sul cuore dei
discepoli e forse il pentimento di essersi incautamente affidati a uno che non
li soccorrerà nel bisogno, ad uno che non garantirà loro la sicurezza. Allora,
quando tutte le risorse dell'arte e tutte le speranze sembrano crollare di
fronte alle minacce della tempesta, quando l'uomo dispera di sé stesso, non
fidando più delle sue forze mortali, allora comincia a chiedere, sperando,
l'aiuto del Figlio di Dio e in virtù di tale speranza egli sveglia
imperiosamente il Signore che dorme: «Come, Tu dormi? non Ti importa niente che
moriamo ?». Non c'è giaculatoria più efficace Michelstaedter caldeggiò una
«posizione del tutto nuova dell'etica», un'etica che doveva «agire sui grandi
problemi della società [per lui, della Rettorica] a partire prevalentemente dai
suoi principi», qual è appunto l'auspicio di Dilthey [ib. 122]. Concludiamo
questa importante noi - importante innanzitutto perché contiene in nuce la
valenza della "strategia persuasa", così com'essa ci appare - con un
inciso: non abbiamo fatto riferimento alla Vita di Gesù di Hegel, perché essa
ci sembra più che altro forgiata sulla lezione evangelica giovannea, con tutte
le profondissime, e sottintese, differenze che questa diversa prospettiva
comporta. 60 Mt, 8, 18; ma anche Lc 8, 22 e 9, 57-60 61 Invitiamo, altresì, a
confrontare quest'apologo evangelico con l' "esempio storico"
dell'aerostato di Platone [PR 66-73]: entrambi tentativi di allontanarsi dalla
solida terra (l'uno attraverso il mare, l'altro attraverso il cielo), ma con
motivazioni, prospettive, significati, ma soprattutto esiti diversi. di questa
per scuotere Dio dal suo letargo e comandargli di venire in nostro soccorso:
abbiamo lasciato tutto e Ti abbiamo seguito, Tu sei nostro padre, nostro amico
e Maestro, non Ti importa nulla che noi moriamo? Perché ci hai messo in mare e
posti nella barca se i nostri piedi stavano più sicuri piantati sulla solida
riva? L'ammonimento che il Cristo - una volta ridestatosi - rivolge ai suoi
discepoli («Perché avete paura, uomini di poca fede?»)?° riecheggia, spogliato
ovviamente della sua componente "religiosa", in tutta l'opera di
Michelstaedter, rivolto agli uomini rettorici: potremmo anzi dire che
quell'opera rappresenta - nella sua interezza - il tentativo sofferto, ma a suo
modo compiuto, di offrire una risposta etica a quella lacerante domanda. Il
timore vanifica la Croce. Il monito ad aver fede - e a dipanare quel timore -
si traduce, nell'autore della Persuasione, nel monito che «[...] non fai
niente, non sai niente, non dici niente, fosse anche la via dove credi di
trovarti la via del più saggio uomo sulla terra. Che se a lui t'affidi e lo
incarichi di ciò che pesa a te, resti invalido sempre. [corsivi nostri] Le sue
parole in cui ti fingi un valore assoluto sono perte un arbitrio che tanto ne
comprendi quanto ne puoi prendere. - Non c'è cosa fatta, non c'è via preparata,
non c'è modo o lavoro finito pel quale tu possa giungere alla vita, non ci sono
parole che ti possano dare la vita: perché la vita è proprio nel crear tutto da
sé, nel non adattarsi a nessuna via: la lingua non c'è ma devi crearla, devi
crear il modo, devi crear ogni cosa: per aver tua la tua vita» [PR 61]. Quella
fede a cui Cristo richiama non è, dunque, per il giovane filosofo, un invito a
"credere in Lui", bensì piuttosto - detto con espressione semplice -
un invito ad "aver fede in noi", nelle nostre possibilità, nelle
nostre proprie responsabilità sulla via della Persuasione. Michelstaedter
infatti prosegue, proprio in riferimento al Cristo e ai suoi credenti: «- |
primi Cristiani facevano il segno del pesce e si credevano salvi; avessero
fatto più pesci e sarebbero stati salvi davvero, ché in ciò avrebbero
riconosciuto che Cristo ha salvato sé stesso poiché dalla sua vita mortale ha
saputo creare il dio: l'individuo; ma che nessuno è salvato da lui che non
segua la sua vita: ma seguire non è imitare, mettersi col 62 E' ancora
interessante, a questo proposito (anche al fine d'individuare
assonanze-dissonanze con la nostra lettura), riportare le considerazioni
"tropologiche" di S. Agostino (contenute nel suo Commento al Vangelo
di San Giovanni) su questo stesso episodio [cfr. omelia 49]: «Lo dice
l'Apostolo: Per mezzo della fede, Cristo abita nei vostri cuori (Ef 3, 17). La
presenza di Cristo nel tuo cuore è legata alla fede che tu hai in lui. Questo è
il significato del fatto che egli dormiva nella barca: essendo i discepoli in
pericolo, ormai sul punto di naufragare, gli si avvicinarono e lo svegliarono.
Cristo si levò, comandò ai venti e ai flutti, e si fece gran bonaccia (cf. Mt
8, 24-26). E' quello che avviene dentro di te: mentre navighi, mentre
attraversi il mare tempestoso e pericoloso di questa vita, i venti penetrano
dentro di te; soffiano i venti, si levano i flutti e agitano la barca. Quali
venti? Hai ricevuto un insulto e ti sei adirato; l'insulto è il vento, l'ira è
il flutto; sei in pericolo perché stai per reagire, stai per rendere ingiuria
per ingiuria e la barca sta per naufragare. Sveglia Cristo che dorme, E' per
questo che sei agitato e stai per ricambiare male per male, perché Cristo nella
barca dorme. Il sonno di Cristo nel tuo cuore vuol dire il torpore della fede.
Se svegli Cristo, se cioè la ua fede si riscuote, che ti dice Cristo che si è
svegliato nel tuo cuore? Ti dice: lo mi son sentito dire indemoniato (Gv 7,
20), e ho pregato per loro. Il Signore ascolta e tace; il servo ascolta e si
indigna? Ma, tu vuoi farti giustizia. E che, mi son forse fatto giustizia io?
Quando la fede ti parla così, è come se si impartissero comandi ai venti e ai
flutti: e viene la calma. Risvegliare Cristo che dorme nella barca è, dunque,
scuotere la fede; allo stesso modo Cristo frema nel cuore dell'uomo oppresso da
una grande mole e abitudine di peccato, nel cuore dell'uomo che trasgredisce
anche il santo Vangelo; Cristo frema, cioè l'uomo rimproveri se stesso. Ascolta
ancora: Cristo ha pianto, l'uomo pianga se stesso. Per qual motivo infatti
Cristo ha pianto se non perché l'uomo impari a piangere? Per qual motivo
fremette e da se medesimo si turbò se non perché la fede dell'uomo, giustamente
scontento di se stesso, impari a fremere condannando le proprie cattive azioni,
affinché la forza della penitenza vinca l'abitudine al peccato?». proprio
qualunque valore nei modi nelle parole della via della persuasione, colla
speranza d'aver in quello la verità. Si duo idem faciunt non estidem» [PR
61-62]. La condizione inautentica, eteronoma e dunque non libera (come spiega
Michelstaedter in un capoverso che sembra parafrasare proprio il senso del
brano evangelico proposto), è propria di coloro ai quali «fragili imbarcazioni
in mezzo all'uragano, la grande nave» appare ingannevolmente «come un porto
sicuro» [PR 42], mentre di converso «[...] ognuno è il primo e l'ultimo, e non
trova niente che sia fatto prima di lui, né gli giova confidar che sarà fatto
dopo di lui, egli deve prender su di sé la responsabilità della sua vita, come
l'abbia a vivere per giungere alla vita, che su altri non può ricadere [questi
ultimi due corsivi sono nostri]; deve aver egli stesso in sé la sicurezza della
sua vita, che altri non gli può dare; deve creare sé ed il mondo, che prima di
lui non esiste: deve esser padrone e non schiavo nella sua casa» [PR 36]. La
grande nave. Non può non venire in mente un passo del Fedone [85 C-D-E] -
divenuto
cruciale per i più attenti studiosi di Platone - in cui Simmia,
uno degli interlocutori privilegiati di Socrate nel dialogo, esprimendo le sue
perplessità a proposito di talune "dimostrazioni" socratiche
sull'immortalità e la reincarnazione delle anime, ci suggerisce un aut-aut che
è allo stesso tempo metodologico ed esistenziale: «attraversare con una zattera
[quella del ragionamento umano], a proprio rischio, il mare della vita» o «fare
il tragitto più sicuramente e meno pericolosamente su più solida barca, cioè
affidandosi a una divina rivelazione [logos theios}»®. Il dilemma - di cui
conosciamo la risposta socratica e, indirettamente, quella agostiniana - si
risolve in Michelstaedter, come abbiamo anticipato, in una posizione netta di
autonomia del vir, e ci rende conto anche della collocazione (estremamente
personale ed originale) che il giovane studioso assume nei confronti di quelli
che pur sono i principali riferimenti speculativi ed etici della sua
formazione: Cristo e Socrate si richiamano fin quasi a confondersi, superando
barriere storiche e religiose, nell'individuazione di un 63 Le espressioni che
utilizza Michelstaedter richiamano ancora, ma in via negativa e in modo davvero
singolare, analoghe considerazioni che riscontriamo di nuovo in Agostino,
sempre nel suo Commento al Vangelo di Giovanni [cfr. omelia 2]: «[i discepoli,
i.e. gli uomini] non vollero aggrapparsi all'umiltà di Cristo, cioè a quella
nave che poteva condurli sicuri al porto intravisto. La croce apparve ai loro
occhi spregevole. Devi attraversare il mare e disprezzi la nave? Superba
sapienza! Irridi al Cristo crocifisso, ed è lui che hai visto da lontano: In
principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio. Ma perché è stato
crocifisso? Perché ti era necessario il legno della sua umiltà. Infatti ti eri
gonfiato di superbia, ed eri stato cacciato lontano dalla patria; la via era
stata interrotta dai flutti di questo secolo, e non c'è altro modo di compiere
la traversata e raggiungere la patria che nel lasciarti portare dal legno. Ingrato!
Irridi a colui che è venuto per riportarti di là. Egli stesso si è fatto via,
una via attraverso il mare. E' per questo che ha voluto camminare sul mare (cf.
Mt 14, 25), per mostrarti che la via è attraverso il mare. Ma tu, che non puoi
camminare sul mare come lui, lasciati trasportare da questo vascello, lasciati
portare dal legno: credi nel Crocifisso e potrai arrivare». 64 Da notare,
ancora, il ricorso ad una terminologia peculiarmente evangelica. Ci si
perdonerà, tra l'altro, la riproposizione fedele di interi passi del Goriziano;
ci sentiamo, tuttavia, autorizzati a far ciò dall'importanza che essi assumono
nell'economia del nostro discorso e dal fatto che essi stessi rappresentano, a
nostro giudizio, passaggi fondamentali (anche per la loro chiarezza, che non
necessita scolii, caso quasi raro nella scrittura di Michelstaedter) nella
determinazione/enucleazione di quell'esigenza di autonomia che leggiamo come
cifra essenziale della Persuasione, e che ci offrirà l'aggancio per rivisitarla
sotto la prospettiva dell'etica kantiana, per una sinergia feconda di sviluppi.
65 Cfr. la diapositiva D [Barca] nel supporto iconografico.comune assunto
morale: /a forza autentica degli uomini come unica bussola nel paradossale
viaggio. Sullo sfondo, il mare. Dunque, il mare come luogo privilegiato del
vir. Ma perché proprio il mare? Qual è il senso di questa complessa simbologia
o presunta mitologia? Ed è davvero e soltanto una simbologia/mitologia atta a
rendere la condizione persuasa? Anticipiamo la nostra risposta negativa. Certo,
il topos del mare ha anche un fascino ed una suggestione prettamente letteraria
e filosofica. Non dimentichiamoci che le immagini del mare e dei flutti
ricorrono nelle opere di alcuni filosofi del primo e del secondo Ottocento, per
esprimere, metaforicamente, la natura reale, libera e vitale del mondo: con
tale immagine, questi filosofi segnalavano la propria opposizione alla
dimensione necessaria, ordinata e razionale, puramente teoretica del mondo
("il mare dell'essere") descritto da Hegel e richiamavano la
riflessione filosofica
alla realtà concreta, alla possibilità, alla libertà. Di contro,
l'immagine del mare è una significativa costante che lega, ad esempio,
direttamente o indirettamente, molte delle "eroine fuggitive" del
teatro ibseniano (altra componente di ispirazione prima per i nostri giovani
intellettuali della "soffitta del Paternolli", come sappiamo)
nell'aspirazione ad una svolta autentica della propria vita: la Dina dei
Pilastri della società, la Nora di Casa di bambola, la Bolette della Donna del
mare, la Asta del Piccolo Eyolf, la Frida di John Gabriel Borkman. Una
particolare suggestione, a tal proposito, emana proprio il dramma La donna del
mare, uno dei capolavori ibseniani più ermetici e, a suo modo, inquietanti,
dove l'ambientazione prevalentemente in luogo aperto e il «luminoso lirismo»
[M.P. Muscarello]?” che caratterizza molte scene e molti dialoghi stride con la
complessa simbologia sottesa a tutta l'opera: quel contrasto vive soprattutto
nella figura combattuta (tanto per usare un eufemismo) di Ellida, nell'enigmatica
presenza-assenza dello "straniero del mare", nell'attrazione
paritempo magica e terribile di cui è causa il mare stesso. Ellida soffre fino
in fondo l'ambiguità di questo torbido rapporto d'attrazione: da una parte si
reca spesso, durante le sue giornate, a contemplare quel mare e si bagna nelle
sue acque quasi per ritemprare la proprie forze vitali; dall'altra, avverte
tutta la potenza e la forza misteriosa ed ammaliatrice del suo richiamo, che si
incarna nello Straniero e nella promessa matrimoniale che, un giorno, li legò.
Quel legame ha ancora, per Ellida, nella sua vita tutta borghese, un sapore e
una speranza di autenticità e di vita: eppure, ella avverte una sua propria
incompiutezza, una condizione d'insofferente eteronomia in quel legame, che
allo 66 L.A. Feuerbach - solo per citare uno tra i tanti - nei suoi Principi
della filosofia dell'avvenire definisce l'uomo «come un ente reale, vivente,
che, in quanto tale, è calato nelle onde vivificanti e refrigeranti del gran
mare del mondo». 67 Utet, Dizionario dei Capolavori, 1987, vol. I, pag. 485.
stesso tempo ne falsa la portata vitale: ella non aveva potuto scegliere
liberamente, neanche allora, come confessa all'esterrefatto marito Wangler.
Ellida, dunque, si propone una condizione di assoluta autonomia di scelta:
dev'essere libera da ogni vincolo sociale ed affettivo, da ogni istigazione o
subordinazione emotiva, per poter valutare con neutralità (e quindi con
giustizia) le alternative’: divenire finalmente «sirena del mare» o «acclimatarsi»®°
alla vita di terra. La sorpresa - ammettiamolo, che un po' ci delude - è che
Ellida decide per la vita di terra: Ellida fon una scherzosa espressione di
gravità): «Vede, professore... Ricorda l'oggetto della nostra conversazione di
ieri? Una volta diventati creature terrestri... non si riesce a riprendere la
via del mare». Ballested: «Lo stesso è successo alla mia sirena! Con una
differenza però! La sirena può morire mentre gli uomini sanno acclo... accla...
acclimatarsi, signora Wangel!». Ellida: «Possono farlo se sono liberi». [Ibsen
64] Il dramma di Michelstaedter è che egli non riesce ad
"acclimatarsi" al mondo rettorico: nel suo anelare il mare c'è come
un respiro nostalgico, c'è quasi la volontà di un ritorno a casa: noi siamo
fondamentalmente esseri marini, e l'aver abitato la terra è un tradimento della
nostra condizione primigenia. E' ciò che afferma, tra il serio e il faceto,
proprio Ellida”° (che condivide col Nostro quella nostalgia), e lo si evince
ancor più chiaramente, e più a proposito, dall'epopea di Itti e Senia, le due
creature del mare che popolano l'ultima produzione poetica michelstaedteriana.
E' triste il destino di Itti e Senia, che nel doloroso risveglio si ritrovano a
vivere la morte dei mortali, provenienti - essi, invece - «dalla pace del mare
lontano», catapultati - ora, invece - nel mondo della «falsa permanenza», nel
gioco retorico della vita quotidiana, nelle sue espressioni più comuni, e anche
più apprezzate: il mondo della famiglia, le passioni, i sentimenti, il linguaggio
e, in ultimo, l'illusione in alto grado sublime, l'amore. 68 Ellida: «Voglio
essere libera quando gli sarò di fronte. Non voglio che pesi tra noi il fatto
che sono la moglie di un altro; non voglio trincerarmi dietro il pretesto che
non m'è possibile scegliere. Se così fosse, che valore avrebbe una mia
decisione?» [Ibsen, La donna del Mare, in Ibsen, Tutto il teatro, Newton, IV
vol. pag. 511. 69 E' la "battuta" ricorrente (ed emblematica) di un
altro personaggio, il sedicente pittore Ballested, alla quale vengono
consegnati il congedo e il compendio del dramma. 70 Bolette (con un sospiro):
«Noi dobbiamo contentarci della terra ferma». Amholm: «Dopo tutto, è la nostra
sede naturale». Ellida: «Non sono d'accordo. lo ritengo che se gli uomini si
fossero abituati a vivere sul mare, o addirittura nel mare, adesso saremmo più
perfetti di come siamo. Più buoni e più felici».Arnholm (scherzando): «Ora però
quel che è stato è stato. Abbiamo preso la decisione sbagliata e siamo animali
terrestri anziché felici creature marine, Mi sembra sia troppo tardi per poter
riparare quello sbaglio». Ellida: «Sta dicendo una crudele verità. lo penso che
tutta l'umanità lo intuisca e ne provi un segreto rammarico. Creda a me:
questo, proprio questo è il motivo più segreto della tristezza degli uomini».
Arnholm: «Per esser sinceri, cara signora, non m'era sembrato che gli uomini
fossero così tristi come dice lei. Direi, anzi, che prendono la vita sin troppo
alla leggera... a volte anche allegramente... ». Ellida: «Invece non è così, purtroppo!
La gioia di cui parla lei è la stessa che ci danno alcune serate estive, quando
si ha appena il presentimento della notte e del buio. E' questo presentimento
che appanna tutta la gioia dell'umanità, come una nuvola passeggera che lascia
la sua ombra in permanenza sul fiordo [...]» [Ibsen 36]. Ebbero padre ed ebbero
madre e fratelli ed amici e parenti e conobbero i dolci sentimenti la pietà e
gli affetti e il pudore e conobbero le pa role che conviene venerare Itti e
Senia i figli del mare E credettero d'amare. [PP 79-80] Michelstaedter - ebreo
che rinnega la "terra promessa", filosofo che rinnega il "regno
dell'aria" (l'aerostato platonico è la vana speculazione ebbra di sé, e
altrettanto vuota) - elegge a dimora persuasa un «terzo regno»”, quello appunto
del mare: egli si sente un «perduto figlio del mare» (è inevitabile
sottolineare l'iterazione davvero ossessiva con cui il significante
"mare" ricorre nelle ultime liriche, con tutte le implicazioni e le
sfumature di senso ch'esso assume in un contesto simile); eppure trova la forza
di consolare la sua Senia, in un intreccio di poesia, saggezza, speculazione,
amore, che prova disperatamente a scongiurare il pericolo (l'angoscia) della
morte e della vita ed esprime, nel finale, la speranza di «giungere al nostro
mare», di giungere a quel porto, che non è il porto della sicurezza degli
uomini, ma paradossalmente proprio «la furia del mare». Il ritorno al mare, col
suo richiamo, è infatti vicino: il mare si staglia in tutta la sua forza
vitale, il frutto di una conquista sofferta che alla fine conduce alla pace: si
staglia, oltre le sponde che lo serrano, oltre le «case ammucchiate/dalle
trepide cure avare», oltre il «commercio degli uomini» che il poeta-filosofo
disprezza e combatte”: Altra voce dal profondo ho sentito risonare altra luce e
più giocondo ho veduto un altro mare. Vedo il mar senza confini senza sponde
faticate' vedo l'onde illuminate che carena non varcò. Vedo il sole che non
cala lento e stanco a sera in mare ma la luce sfolgorare vedo sopra il vasto
mar. Senia, il porto non è la terra dove a ogni brivido del mare corre pavido a
riparare la stanca vita il pescator. Senia, il porto è la furia del mare, è la
furia del nembo più forte, quando libera ride la morte 71 cfr, S. Campailla: Il
terzo regno, introduzione alle PP. 72 Ovviamente, Michelstaedter non è un
misantropo. Il "commercio" ch'egli combatte è in modo esclusivo,
quello rettorico. a chi libero la sfidò» [PP 81-82] Ma il ritorno al mare non è
il risultato conseguente e gratuito di una scoperta: esso comporta una perdita
di innocenza e un duro esercizio di persuasione: "No, la morte non è
abbandono" disse Itti con voce più forte ma è il coraggio della morte onde
la luce sorgerà. Il coraggio di sopportare tutto il peso del dolore, il
coraggio di navigare verso il nostro libero mare, il coraggio di non sostare
nella cura dell'avvenire, il coraggio di non languire per godere le cose care.
Nel tuo occhio sotto la pena arde ancora la fiamma selvaggia, abbandona la
triste spiaggia e nel mare sarai la sirena. Se t'affidi senza timore ben più
forte saprò navigare, se non copri la faccia al dolore giungeremo al nostro
mare. Senia, il porto è la furia del mare, è la furia del nembo più forte,
quando libera ride la morte a chi libero la sfidò» [PP 83-84] Questo stralcio
di lirica, non a caso emblematica per tutta la critica michelstaedteriana, è il
luogo dove la dimensione persuasa si definisce in tutta la sua possibile
esattezza e si scioglie definitivamente da ogni difficoltà o ambiguità interpretativa:
l'assunto, consegnato a quello ch'è un vero e proprio "pentalogo", è
davvero chiarissimo: la persuasione è coraggio, il coraggio di una vita libera
ed autonoma, in una parola assoluta. Una vita che non fugge la vita, il suo
dolore e le sue contraddizioni insensate (l'insensatezza per eccellenza: la
morte), ma che vi s'immerge con un agonismo feroce e mai domo, perché, insieme,
consapevole e senza compromessi o deroghe. La Persuasione, infatti, come avremo
modo di vedere meglio in seguito, ma come può già qui apparire abbastanza
chiaro, non è una categoria astratta e monolitica, che si oppone alla Rettorica
n una mitica gigantomachia, così come il Bene al Male nell'immaginario comune e
religioso, o la Verità alla Menzogna nella speculazione filosofica e morale: la
Persuasione si puntualizza, si concretizza, in una rete di "rapporti di
forza" agonistici disseminati in un vasto orizzonte che va dalla famiglia
alle istituzioni, dall'interiorità dell'uomo alla sua esteriorità,
dall'esistenza privata alla vita pubblica, dalla solitudine al contatto con gli
altri: in una sola espressione, è interamente calata nella congerie politica e
quotidiana. E' un «Venire a ferri corti» con un avversario così apparentemente
invincibile (Davide contro Golia) e così vicino, che è possibile avvertirne il
fiato sul collo, una continua incombente minaccia, la forza di una presa
terribile che non molla mai. Di fronte alle istanze di dominio dell'apparato
(del dispositivo) rettorico, che avvolge gli uomini nelle lusinghiere maglie
della eteronomia, il vir oppone un'identica, strenua, determinazione di
autonomia, al costo del sacrificio di sé stesso, che è un sacrificio libero, e
non vincolato o ingannato, come quello che ci chiede la Persuasione Inadeguata.
Non bisogna credere, dunque, che la Rettorica sia un universale che subirebbe,
nel
tempo, una progressiva realizzazione o delle variazioni
quantitative o delle risultanze più o meno gravi, delle occultazioni più o meno
rilevanti, atte esse stesse al suo scopo di dominio. Essa, come sistema, non è
un universale che si specificherebbe nel tempo storico e nello spazio
geografico: non è insomma lo Spirito o l'idea hegeliana, bensì non è mai altro
che un rapporto attuale tra uomini, che si concreta in una tensione infinita,
dinamica e fisica di poteri, di «relazioni sufficienti». AI "campo"
dei poteri (laddove il campo è l'insieme di quelle dinamiche e di quelle forze)
si contrappone il campo delle possibilità: /a libertà è appunto lo spazio
aperto di tali possibilità, in cui l'esistenza si slancia nelle sue aspirazioni
e realizza i suoi progetti. La consapevolezza della Rettorica nel mondo,
infatti, non deve chiudere l'uomo nell'amarezza e nel disfattismo di una scepsi
e di una prassi nichilistiche, bensì deve richiamarlo alla sua responsabilità
di "potere" e di "essere", deve aprirgli e trasmettergli la
fiducia nelle proprie capacità umane, nella propria possibile apertura alla
Persuasione. E' questo il messaggio di Michelstaedter, che abbiamo fatto
nostro. Ebbene, non c'è immagine migliore che rappresentare poeticamente questa
lotta e questa conquista come la «furia del mare». A tal proposito, scrive
efficacemente P. Amato”: «Per rendere la persuasione un'alternativa vivibile
non solo nella scrittura, Michelstaedter indica all'uomo persuaso il suo luogo:
il mare. Nella catastrofe - nel pericolo dell'attimo irripetibile - dobbiamo
liberare l'a gire, rifiutando l'angoscia senza scampo del deserto. Il mare è lo
spazio del persuaso. Il mare è l'ou-topia, il suo mai luogo privo di confini
dove sempre si è stranieri, presenti solo a se stessi, è il luogo dove
sentirsi, ovunque - come mai - nella propria casa. Il mare - prima delle due
guerre mondiali - è la terra senza leggi, dove padroni non sono gli stati,
piuttosto i pirati, dove ogni individuo può affermarsi e non cedere, non più
osservato dalla violenza di un'organizzazione che lo trascende. È il territorio
del persuaso ormai libero dal se stesso sofferente, unico amministratore della
vita donatagli. Per lui ogni azione è la risolutiva, l'ultima, ogni gesto può
essere quello estremo. [...] Il mare è il luogo della libertà che
Michelstaedter sogna per la sua vita dispensata dall'agire soffocante che la
società pretende ». 73 cfr. P. Amato, L'attimo persuaso, filosofia e
letteratura in Carlo Michelstaedter, in Studi Goriziani n. 89-90, pag. 190. Appare
dunque chiaro che, con Michelstaedter, ci troviamo di fronte - più che ad una
simbologia - ad una vera e propria "fenomenologia esistenziale" del
mare”. AI di là del riferimento evangelico, un qualcosa di simile, forse,
possiamo riscontrarlo soltanto nella dottrina buddista. Ora, nel proporre i
passi che seguono (quasi nella loro interezza, datane l'importanza), non
intendiamo certo forzare l'ispirazione o l'influenza che la lettura buddista ha
esercitato sulla formazione del pensiero michelstaedteriano, specificamente in
riguardo al pensiero dell' "ultimo" Michelstaedter”°. Né vogliamo
assumerlo come dato acquisito. Del resto, in base alla documentazione in nostro
possesso (e dai pochissimi accenni che si riscontrano nelle opere del Nostro),
non saremmo in grado di sincerare se quella lettura (e quindi, quell'influenza)
fu diretta ovvero mutuata da fonti di seconda mano”. Resta il fatto, tuttavia,
che molte espressioni (e non solo nel loro senso meramente letterale, ci pare)
riscontrabili nei testi seguenti (e in special modo, quelle che abbiamo
evidenziato in corsivo), possono rinvenirsi - ovviamente riadattate
all'atmosfera della speculazione michelstaedteriana - quasi pari pari in
passaggi fondamentali dell'autore goriziano: invitiamo, anzi, ad un suggestivo
raffronto. Troviamo altresì significativa la continua serie di rimandi che
l'autore intreccia tra la "dottrina della Persuasione" e il mare
appunto, parallelismo ch'è lo stesso adottato dai due saggi buddisti. Dunque,
in un passo del Milindapahna”, il Reverendo Nagasena afferma che il Nirvana «ha
alcune qualità in comune con cose a noi note»: quattro ne ha in comune proprio
con il mare: «Come il mare si libera dai cadaveri, œsì il Nirvana si libera
dalle cose cattive. Come il mare è vasto, immenso, non colmato dai fiumi: così
il Nirvàna è vasto, immenso, non colmato dagli esseri. Come il mare è la sede
di esseri grandi e portentosi; così il Nirvana è la sede di esseri grandi e
portentosi, quali sono i santi, che hanno raggiunto l'estinzione. Come il mare
è, per così dire, tutto fiorito con i fiori delle sue onde, varie, possenti,
innumerevoli: cosi il Nirvana è tutto fiorito con i fiori della purità, della
conoscenza, della redenzione, varii, possenti, innumerevoli» [corsivo nostro].
Ma forse ancora più interessante quest'altro riferimento, tratto stavolta da
Anguttara”, e che s'intitola - manco a dirlo - La dottrina è come il mare: 74
Una riprova di ciò può fornirci la testimonianza della aspirazione ultima del
Goriziano - che può far anche sorridere, ma che è evidentemente frutto di una
forte esigenza personale e "filosofica" insieme - di fare il
marinaio, una volta terminata la tesi cui stava lavorando. 75 Cfr. la
diapositiva F [Autoritratto del 1908] nel supporto iconografico. 76 Sappiamo, ad
esempio, che Michelstaedter si avvicinò al Buddismo per intercessione di Enrico
Mreule. Ma cfr. il profilo biografico nel par. 6 del nostro capitolo sulla
Rettorica. 77 Parabole Buddhiste, a cura di Burlingame, Roma-Bari, Laterza,
1995, pag. 158. 78 Ib, pagg. 137-138. Così come il mare si abbassa
gradatamente, s'inclina gradatamente, si affonda gradatamente: così appunto la
Dottrina si apprende gradatamente, si comprende gradatamente, si pratica
gradatamente. Questa è la prima mirabile proprietà, che la Dottrina ha comune
col mare. Cosi come il mare è chiuso nel suo bacino, senza sorpassare i limiti:
così appunto i seguaci della Dottrina sono fermati dalle sue regole, senza
trasgredirne i limiti. Questa è la seconda proprietà. Cosi come il mare non
soffre un cadavere, ma lo respinge sulla spiaggia, sulla terra, cosi l'Ordine
della Dottrina non soffre un monaco, che venga meno ai suoi voti, e lo respinge
via da sé. Questa è la terza proprietà. Così come i grandi fiumi, la Ganga, la
Yamuna, I 'Aciravati , la Mahi, raggiungendo il mare, perdono il nome e la
forma e si fondono in esso: così appunto le quattro caste, i guerrieri, i
sacerdoti, i borghesi, i servi, quando rinunziano alla casa per la mendicità,
ed entrano nella Dottrina e nell'Ordine del Compiuto, perdono i loro nomi e le
loro distinzioni e diventano figli dell'asceta Sakya. Questa è la quarta
proprietà. Cosi come tutti | fiumi della terra fluiscono nel mare e le acque
dell'aria cadono in esso, senza che il mare aumenti o diminuisca: così appunto
molti asceti raggiungono nella Dottrina il Nirvana, senza che questo aumenti o
diminuisca. Questa è la quinta proprietà. Cosi come il mare ha un solo sapore,
il sapore del sale: così appunto la Dottrina ha un solo sapore, il sapore della
redenzione. Questa è la sesta proprietà. Così come il mare contiene molte
gemme: cosi appunto la Dottrina contiene molte gemme, quali le quattro
contemplazioni, le quattro esercitazioni, le quattro potenze, i cinque poteri,
i sette risvegli, il santo ottuplice sentiero. Questa è la settima proprietà.
Cosi come il mare è la sede di grandi esseri: cosi appunto la Dottrina è la
sede di grandi esseri, quali colui che è entrato nella corrente, colui che
raggiunge il frutto della conversione, colui che rinasce solo una volta ancora
e il santo che ha raggiunto la santità. Questa è l'ottava proprietà. Queste
sono le otto mirabili proprietà, che la Dottrina ha comuni col mare. [tutti i
corsivi sono nostri] La bellezza di quest'ultimo passo è coinvolgente, e le
stesse affermazioni di Michelstaedter ci sembrano acquistarne nuova luce,
soprattutto se spogliamo la metafora e le conferiamo concretezza umana: ci
sembra, anche, che aiuti a discriminare la proposta michelstaedteriana da
quelle varianti titanisiche e
vitalisiche che pericolosamente le si avvicinano, tradendone lo spirito
originario. Verrebbe la tentazione, ad esempio, di assimilare il tuffo di Itti
in A Senia ad un più celebre tuffo, quello di Esterina, in Falsetto”, di
Montale, poeta di cui certa critica, forse non a torto, si affanna a trovare
consonanze col Nostro. Esterina, minacciata dalla «grigiorosea nube» dei suoi
vent'anni e dalla «dubbia dimane», pur appare impavida, addirittura sorridente:
con «un crollar di spalle» liquida ogni minaccia, del tempo e della vita
(abbattendo addirittura i «fortilizi» del destino), e si tuffa nel mare, il suo
«divino amico» che l'accoglie come una sirena: Esterina è il simbolo della vita
che si realizza, della giovinezza che prorompe e tutto travolge, scrigno di una
forza tanto esuberante quanto spontanea e naturale, a cui naturalmente
sorridono quella vita e quella felicità tanto agognata da chi appartiene alla
«razza/ di chi rimane a terra»5°. Tornando alla felice battuta di Ballested,
Montale si sente consapevolmente, e colpevolmente, acclimatato: per lui,
l'alternativa alla Rettorica, al «male di vivere», sono la «statua», la 79
Montale, Falsetto, in Ossi di seppia, raccolta contenuta nell'ed. Mondadori
Grandi Classici (Milano, 1990) Tutte le poesie (a cura di G. Zampa), pagg.
14-15. 80 «Esterina è creatura che attinge una divina, pagana felicità
nell'immedesimazione stessa con la natura, nell'adesione totale e irriflessa
alla vita e alla realtà» [Guglielmino]. «nuvola» o il «falco»8', simboli di uno
stanco, inappagabile stoicismo, come appare nella sua lirica più famosa”. In
Falsetto, invece, si affaccia questa Esterina, alter-ego desiderato e perduto,
non attingibile nella sua freschezza, nella sua scorciatoia verso la felicità,
attraverso quella «maglia rotta nella rete» dell'esistenza ch'ella ha trovato,
ha anzi indovinato, e attraversato con una ingenuità spensierata, vigorosa e
disarmante. Ma quanto Esterina è diversa da tti! Rimanendo nella metafora
poetica, se ella con una scrollata di spalle si lascia tutto indietro, il mondo
e la vita, Itti - novello Atlante - si carica sulle spalle quel mondo e quella
vita. Non c'è traccia di spensieratezza in Itti, verrebbe da dire che quasi non
c'è traccia di giovinezza, tanto è consumata la sua adesione all'esistenza,
tanto è profonda la disperata consapevolezza che lo caratterizza: egli si tuffa
(anzi, si rituffa «con più forte lena») nel mare a dare or la patria all' esule
sirena, la patria a me stesso e all'uomo abbattuto svelare la via del suo regno
perduto,ché ogni uom manifeste le tenebre arcane conosca e vicine le cose
lontane. [PP 85] Di una siffatta dolorosa conoscenza («quel che già vidi nel
fondo del mare/ i baratri oscuri, le luci lontane e grovigli d'alghe e creature
strane»), Itti vuol far dono esclusivo alla sua sirena («Senia, a te sola lo voglio
narrare»). La gioia e la naturalezza di Esterina appaiono un miraggio: eppure
Itti rassicura: [...]se freddo e ruvido io ti sembri, ma tu lo sai: è per
vieppiù andare, è per nutrir più vivida la fiamma, perché un giorno risplenda
nella notte, perché possiamo un giorno fiammeggiar liberi e uniti al porto
della pace. [PP 86] 81 Facciamo notare che la figura del falco ritorna in
Michelstaedter (ma con tutta un'altra simbologia e significato) e, come osserva
giustamente Campailla, sempre più frequente: il critico chiama a testimone una
lettera di Carlo a Mreule (quella del 14 aprile 1909) e, ancor più, un
esplicito passo della tesi di laurea, dove il Goriziano asserisce che il vir,
come appunto il falco e a differenza delle cornacchie, «mantiene in ogni punto
l'equilibrio della sua persona». Per Campailla, l'immagine michelstedteriana
del falco sta a significare «la libera affermazione della volontà». [cfr. S.
Campailla, Pensiero e poesia di Carlo Michelstaedter, Patron, 1973, pagg.
68-69] 82 Alludiamo appunto al Male di vivere [in Ossi di Seppia, cit., pag.
35]. Commentano giustamente Barberi Squarotti - J acomuzzi: «AI male, alla
sofferenza senza ragione, cieca, presente sempre nella natura, alla condizione
negativa delle cose e dell'esistenza che si rivela nei fenomeni più usuali, non
si può opporre, per Montale, che una posizione stoica, di indifferenza, di
insensibilità, di rifiuto a lasciarsi coinvolgere nel lamento, nella pena,
nella partecipazione sentimentale: essere statua, pietra, roccia di fronte al
dolore o nuvola o falco alti nell'aria, del tutto staccati dalla terra e dal
suo male». [cfr. Barberi Squarotti - J acomuzzi, La poesia italiana
contemporanea, D'Anna, Messina-Firenze, 1963, pag. 257] 83 Cfr. la diapositiva
L [Carlo da vecchio] nel supporto iconografico. La senilità è scongiurata:
ritorna la gioia e il sogno propri della florida giovinezza, ritorna quella
naturalezza, ancor più vigorosa e sublime, perché non ingenuo e impavido punto
di partenza, ma coraggioso, consapevole, sofferto punto di approdo. La
naturalezza è recuperata, ma come termine di un faticoso lavoro di ricerca
esistenziale, che non disdegna di "sporcarsi" col mondo: giunti al
«porto della pace», la persuasione proseguirà ultro, e altrettanto
spontaneamente le cose si volgeranno al vir®*. Il porto della pace, ch'è la
furia stessa del mare, è il frutto dell'esperienza del dolore e della
consapevolezza, di una consapevolezza che si conquista attraverso - direbbe
l'autore della Bhagavadgita - lo «Yoga dell'azione»: «attraverso l'attività
verso la pace», è appunto il motto del Goriziano: la Persuasione conduce al
riposo, il riposo di Gesù sulla barca nel mare in tempesta. E proprio
ritornando, ad anello, all'episodio evangelico che ha introdotto questo
capitolo, vogliamo trarre le provvisorie conclusioni di quest'ulteriore tappa
del nostro lavoro, altro tassello di quell'intricato mosaico ch'è
Michelstaedter. Ci avvaloriamo, così, della notazione dell'ottimo Campailla, il
quale ci avverte che il riferimento al brano evangelico su riportato si
complica di un doppio registro di rimandi, non solo testuali: «l'ideale
michelstaedteriano del "persuaso" espresso nella conclusione di
"Onda per onda" con un'immagine giovannea ("di sé stessa in un
punto faccia fiamma") conferma nel lavoro poetico il suo spessore
religioso nelle due figure di Itti, il Pesce ( ’IySuc) e Senia (eva): il
rinnovato simbolo cristiano del "Salvatore di se stesso" in un'epoca
di diffuso quovadismo, e la "Straniera"»®®. Di queste considerazioni,
condividiamo tutto: suggeriamo, tuttavia, di non lasciarsi fuorviare dallo
«spessore religioso» che il Campailla finisce con l'attribuire al senso delle
parole di Michelstaedter; come lo stesso critico chiarisce altrove, e come si
evincerà nel seguito del nostro lavoro, questa non è un'attribuzione o
un'illazione ad un'eteronomia che 84 Abbiamo già trovato l'avverbio ultro in
una lettera scritta allo Mreule a proposito del "nuovo comportamento"
del Paternolli; l'avverbio ritorna altrove, nella sua dizione latina e nella
sua traduzione, con una cadenza se non frequente, però significativa: cfr. D 90
«[...] ma la via è nel nulla chiedere giusto per sé e tutto dare ultro [... J»;
in un'altra lettera, anch'essa già riportata, Michelstaedter scrive, riguardo
sempre Enrico, che «[...] nessuna cosa della vita, mi sembra, possa trovarti
insufficiente, ma che anzi tutta attraverso tutti i perigli debba volgersi a te
spontaneamente [... J». Sarà un caso, ma il termine ricorre ossessivamente
anche nella Donna del mare ibseniana: Wangel [allo Straniero che è giunto alla
loro casa per riscuotere il pegno d'amore di Ellida]: «E allora che vuole?
Pensa di portarmela via con la forza? Contro la sua volontà?» Lo Straniero:
«No, questo no. Non servirebbe a niente. Se vorrà venire con me, deve farlo spontaneamente».
Ellida (trasalendo): «Spontaneamente... » [sl Ellida (fra sé):
«Spontaneamente...» [[Ibsen, La donna del Mare, cit. pag. 39 e, per es., anche
pag. 40 e oltre] E questa eco accompagna la protagonista, in pratica, fino alla
fine del dramma. 85 cfr. S. Campailla: Il terzo regno, cit., pag. 22. 86
Campailla, aggiunge, in una nota istruttiva, che «per la situazione figurativa
si pensi ai meravigliosi mosaici della basilica paleocristiana di Aquileia,
sicuramente non ignota a Michelstaedter, dove in vaste allegorie Cristo è
rappresentato come il mare, e i cristiani come i figli del mare» [ib.].
pregiudicherebbe, anzi pregiudica in toto, la "purezza" dell'atto e
dell'essere persuaso, così come lo stiamo portando a definizione. Cristo è esempio
di salvezza, ma non è la salvezza: la salvezza è in noi, noi siamo la salvezza
a noi stessi. noi, attraverso la lotta, verso la pace, verso il riposo. Riposo
che non è un abbandonarsi al «riposo in Dio», come invece affiora, in modo
estasiato ed esasperato, in questa pur bella pagina di Edith Stein, che
assumiamo ad emblematica - in questo contesto - più come termine di
opposizione, che di confronto, con l'assunto del Goriziano, e che riportiamo in
larga parte, convinti che, alla luce di quanto detto, una lettura franca e
critica del passo possa valere più di qualsiasi commento: Esiste uno stato di
riposo in Dio, di totale sospensione di ogni attività della mente, nel quale
non si possono più tracciare piani, né prendere decisioni, e nemmeno far nulla,
ma in cui, consegnato tutto il proprio avvenire alla volontà divina, ci si
abbandona al proprio destino. Questo stato un poco io l'ho provato, in seguito
a un'esperienza che, oltrepassando le mie forze, consumò totalmente le mie
energie spirituali e mi tolse ogni possibilità di azione. Paragonato
all'arresto di attività per mancanza di slancio vitale, il riposo in Dio è
qualcosa di completamente nuovo e irriducibile. Prima, era il silenzio della
morte. Al suo posto subentra un senso di intima sicurezza, di liberazione da
tutto ciò che è preoccupazione, obbligo, responsabilità riguardo
all'agire. E mentre mi abbandono a questo sentimento, a poco a
poco una vita nuova comincia a colmarmi e - senza alcuna tensione della mia
volontà - a spingermi verso nuove realizzazioni. Questo afflusso vitale sembra
sgorgare da un'attività e da una forza che non è la mia e che, senza fare alla
mia alcuna violenza, diventa attiva in me. Il solo presupposto necessario a una
tale rinascita spirituale sembra essere quella capacità passiva di accoglienza
che si trova al fondo della struttura della persona [tutti i corsivi sono
nostri”. 87 Come ci scrive Fr. Egidio Ridolfo s.j. (curatore della rivista Il
Gesù Nuovo di Napoli), con cui siamo entrati in contatto e che ci ha fatto
conoscere ilbrano di cui sopra, esso «fa parte del saggio Causalità psichica,
che è stato pubblicato negli Annali di Edmund Husserl nel 1922, ma che è
anteriore alla conversione [della Stein]. Non abbiamo questo testo, quindi non
posso specificare la citazione delle pagine». 4. La Persuasione more geometrico
demonstrata. 4a) La felicità difficile. 4b) La differente prospettiva: la
premessa maggiore del sillogisma michelstaedteriano. 4c) L'uomo bandito da Dio
e il filo d'Arianna della Persuasione come Armonia: la lezione di Empedocle.
4d) La Persuasione "al bivio": l'incontro di Parmenide e Cristo. 4a)
La felicità difficile. "La morte non mi avrà vivo", diceva. E rideva,
lo scemo del paese, battendosi i pugni in viso. Giorgio Caproni Nell'approccio
che abbiamo tentato finora, la Persuasione ci si è rivelata in tutta la sua
portata reale: non tanto come una dottrina, un ammaestramento, quanto piuttosto
come un'esistenza, una testimonianza, che si conquista strenuamente il suo
diritto di parola e di realizzazione nel mondo degli uomini: persuasi lo si è
soltanto nel concreto esercizio della Persuasione, esercizio che ci costituisce
a sua volta come persuasi, in una tautologia non del pensiero, ma della vita, e
dunque non vana o eristica, ma veritiera e concreta. La «consistenza»
dell'essere persuasi, dunque, la sua "autarchia", si è dispiegata come
forte esigenza di autonomia, che non è ripiegamento autosufficiente, non è
esplosione (vitalistica, più che vitale) di forze "anarchiche",
violente - ovvero, spinte al dominio - e sedicenti superiori, ovvero volte alla
conquista di un non meglio precisato oltre dell'uomo (chi si dichiara al di
sopra degli uomini spesso vi si ritrova al di sotto...). La consistenza,
dunque, anche e soprattutto come coesistenza, come rivela l'etimologia identica
dei due termini. E il suo dispiegarsi (abbiamo accennato) dà gioia, una gioia
difficile da comprendersi secondo i comuni parametri del buon senso, che
confonde la felicità con l'appagamento del bisogno, la realizzazione con la
conquista di una dignitosa posizione sociale. Anche Kant provò a destreggiarsi
con questo concetto difficile di felicità (o concetto di felicità difficile),
nel tentativo di espungerne ogni pericolosa concessione all'istanza eteronoma,
ogni elemento spurio che ne contraddicesse o pregiudicasse l'autenticità.
Questo riferimento all'autore delle Critiche non è un rilievo marginale, ma si
incastona perfettamente - diremmo in modo conseguente - nel nostro tentativo di
un'esatta definizione del concetto felicità e di autonomia, all'interno
dell'ottica persuasa. Infatti, forse senza neanche che l'autore se ne rendesse
ben conto fino in fondo8*, quel concetto rappresenta - a nostro giudizio - il
movente segreto e il perno intorno al quale 88 In effetti, Kant sembra
affrontare malvolentieri, almeno nella suddetta critica (ma questa è
evidentemente solo una nostra impressione), un discorso sulla felicità,
condizione ch'egli ritiene sempre in certo modo "sospetta" di
eteronomia e che, di conseguenza, "subordina", se possiamo dir così,
al dovere, al rispetto, in una parola alla virtù (troviamo significativo,
altresì, che Kant consegni tale discorso praticamente soltanto alle pagine che
aprono il capitolo Il Della ruota tutta la sua Critica della Ragion Pratica. Il
filosofo tedesco parla, più precisamente, di «contentezza di sé» [Selbstzufriedenheit],
la quale «nel suo significato proprio, denota sempre soltanto un compiacimento
negativo della propria esistenza, per cui si è coscienti di non aver bisogno di
nulla»®®. Questa contentezza di sé è il "brivido" dell'intelletto di
fronte al mistero della libertà; prosegue, infatti, Kant: «a libertà, e la
coscienza di essa come di una capacità di seguire con intenzione preponderante
la legge morale, è indipendenza dalle inclinazioni, per lo meno in quanto
motivi determinanti (anche se non in quanto influenti) del nostro appetito; e,
avendone io coscienza nell'osservare le mie massime morali, essa è l'unica
fonte di una contentezza immutabile, ad essa necessariamente connessa, la quale
non riposa su alcun sentimento particolare. Tale contentezza si può chiamare
intellettuale ». Poco più avanti, la prospettiva kantiana si fa scoperta e
definitiva: «...] un compiacimento negativo per il proprio stato [...]è
contentezza della propria persona. In questa guisa (e cioè indirettamente) la
libertà stessa diviene capace di un godimento che non si può chiamare felicità,
perché non dipende dalla positiva presenza di un sentimento e neppure, parlando
esattamente, beatitudine Beligkeit], perché non implica una indipendenza
completa da inclinazioni e bisogni; ma che, tuttavia, è simile a quest'ultima,
in quanto, cioè, per lo meno la determinazione della propria volontà può
mantenersi libera dal loro influsso, e quindi, almeno per la sua origine, è
analoga all'autosufficienza che si può attribuire soltanto all'Essere supremo».
La vera felicità, dunque, sembra essere appannaggio esclusivo di Dio, o
comunque di una volontà santa: quella, per intenderci, in cui si realizza la
«perfetta adeguatezza [vollige Angemessenheit] dell'intenzione alla legge
morale». Nell'individuo santo, questa perfetta adeguatezza avviene per una
sorta di «nclinazione spontanea» (e si ricordi il valore che abbiamo accordato
al concetto di spontaneità in Michelstaedter) alla «totale purezza delle
intenzioni del volere»; di contro, «il gradino morale su cui si trova l'uomo» è
quello di una virtù ch'è piuttosto (bellissima espressione) «un'intenzione
morale in lotta» [moralische Gesinnung im Kampfe]. Appare ovvio, dunque, che,
per definizione, la santità è una condizione irrealizzabile nell'uomo: essa si
profila piuttosto come concetto-limite, o idea regolativa, e comunque esula dal
mondo fenomenico, dal mondo «dei costumi». dialettica della ragion pura nella
determinazione del concetto di sommo bene, dedicate in particolare alla
posizione ed alla risoluzione dell'antinomia della ragione pratica, vertente
sul sommo bene). Se, infatti, la virtù è «il meritar di essere felici»,
tuttavia essa virtù «come condizione, è sempre il bene supremo, non avendo
altre condizioni al di sopra di sé», mentre«la felicità è sempre qualcosa che,
a chi lo possiede, riesce gradito, però non è buono per sé solo assolutamente e
sotto tutti i rispetti, ma presuppone sempre, come condizione [una condizione
che Kant si ostina a sottolineare in modo continuo e vigoroso in tutto il corso
della trattazione], il comportamento morale conforme alla legge». Poco più
avanti, si spinge a dire, nella foga polemica contro l'eudemonia classica
(nelle forme dell'edonismo o dell'atarassia, soprattutto), che quelli di virtù
e felicità sono due concetti «radicalmente eterogenei». E' ovvio che
bisognerebbe, a questo punto, procedere con metodo analitico, e individuare e
correggere tutte le ambigue oscillazioni di senso che, nel discorso kantiano,
assume il termine felicità [Gluckseligkeit]. Per le presenti citazioni, e per
le altre contenute nel corpo del paragrafo, in riferimento a Kant e non
"annotate", rimandiamo a Kant, Critica della ragione pratica, (a cura
di V. Mathieu), Rusconi, 1993, pagg. 228-245, passim, ovvero - dell'opera - il
corrispondente a Parte |, Libro Il, Capitolo Il, Pargg. ill: Della dialettica
della ragion pura nella determinazione del concetto di sommo bene).E' lo stesso
destino di esilio cui sembra condannata la Persuasione, che ci si mostra
anch'essa come una condizione innanzitutto inafferrabile, quindi
irrealizzabile, per l'uomo. E quella stessa gioia, tratto distintivo della
condizione non-rettorica, appare sempre più come una chimera azzardata, come un
complicato esercizio della ragione, nella sua aspirazione di libertà. Non può
non colpire, di fatto (ed è questa la più ferrata, nonché la più scontata
smentita), come la Persuasione sia sempre destinata allo scacco, quasi fosse
perseguitata dalla malasorte. La schiera di Persuasi, che Michelstaedter
elegge; questa schiera di individui «eroico-cosmici» (per dirla con Hegel),
questa genealogia della Persuasione (per dirla con la Bibbia), questa
«ghirlanda di reincarnazioni», quasi, in cui si realizza BA Persuasione (per
dirla infine con Arya Sura, l'autore degli vataka), sembra portare con sé, insita
nei propri atti, il segno di una colpa che la condanna ad una sconfitta (la sua
voce non viene accolta o compresa), o peggio a una pulsione di morte, per
giunta autoinferta, col sacrificio o col suicidio. Questi individui hanno in sé
il demone, eppure sembrano lontani dalla felicità: il loro sembra non essere un
"demone propizio". Socrate accettò il verdetto di morte, in coerenza
col suo dettato; Cristo accettò la Croce, nel suo sacrificio di redenzione;
Enrico Mreule non riuscirà a sopportare l'enorme ingiunzione morale che gli
assegnò l'amico, e la sua vita si risolse infine in un fallimento”;
Michelstaedter stesso si uccise... Del resto, «gli uomini si stancano su questa
via [la via che conduce alla Persuasione], si sentono mancare nella solitudine:
la voce del dolore è troppo forte » [PR 53]. La piena attualità della propria
autentica natura, che abbiamo designato come entelechia etica, a conti fatti o
conduce all'annichilimento, oppure è esposta al forfait. è in gioco la
"sostenibilità" della Persuasione. Possibile che gli uomini si
stanchino della vera felicità e si accontentino della falsa felicità che la
Rettorica propina loro, come falsa sicurezza e falso appagamento? 90 Si tenga
presente l'etimologia di felicità, nell'accezione greca di "eudemonia",
ovvero - appunto - "eu" (bene) e "dàimon - onos"
("demone, sorte"), ovvero "che ha un demone propizio",
quindi "felice, fortunato". Per la questione del dèmone, nella
fattispecie in Socrate ed in Enrico Mreule, si ricordi quanto detto supra. 91
Claudio Magris, intervistato sul Corriere del Ticino, riguardo la stesura e il
significato del suo romanzo Un altro mare, così riassume - in modo davvero
efficace - la dialettica Carlo-Enrico sulla via della persuasione:
Intervistatore: «La personalità di Michelstaedter "bruciata" dal
suicidio rappresenta in un certo qual modo il fallimento esistenziale di
Enrico?», Magris: «Il suicidio di Michelstaedter è un problema fondamentale.
Certo, sul suicidio in sé non si può dire nulla mai, perché, per capire
veramente cosa è successo nel cuore e nella mente di uno che si uccide,
bisognerebbe averlo accompagnato fino al passo estremo. Si può dire che i due
amici, senza volerlo, si giocano uno scherzo terribile. Da una parte Carlo
mostra a Enrico un assoluto, senza il quale Enrico non potrà vivere ma che non
riuscirà a raggiungere. Così, in un certo modo, Carlo arricchisce ma anche
distrugge la vita di Enrico. Inoltre, forse, il suicidio di Carlo lo lascia
solo, toglie a Enrico il sole della sua esistenza. Dall'altra parte, Carlo
forse aveva capito che la persuasione che egli insegue, ossia il possesso vero
e presente della vita, non può essere teorizzata o predicata (come non si può
teorizzare la felicità), ma può essere solo vissuta, e per questo aveva visto
in qualche modo in Enrico il suo vero erede, una specie di san Giovanni, colui
che doveva realizzare nella vita la persuasione. Ed Enrico, col suo struggente
fallimento, dà un colpo mortale a tutto questo». [Sul Corriere del Ticino del 5
maggio 1998, pag. 49]. Questa impossibilità della persuasione è da noi
fortemente contestata. Kant aveva escluso la realizzazione di una volontà santa
tra gli uomini: Michelstaedter, di contro, individua i protagonisti di questa
volontà santa, che da "statica", noumenica, diviene storica e
politica: Socrate, Cristo e via dicendo sono la realizzazione terrena di quella
volontà, di quella Persuasione; essi rappresentano l'eccezione che smentisce la
regola: quel postulato che, appunto, sancirebbe il carattere esclusivamente
divino della santità. Eppure, la Persuasione, quand'anche realizzata, sembra
tingersi di toni lugubri, di una gioia "masochista", di una condotta
schizofrenica che la divide tra una gioia che è dolore e un dolore che è gioia:
scrive Michelstaedter, in un noto passo del Dialogo della salute che «finché la
morte togliendoci da questo gioco crudele, non so cosa ci tolga - se nulla
abbiamo. - Per noi la morte è come un ladro che spogli un uomo ignudo-» [D 39].
Eppure, sotto lo sguardo della Rettorica, il vir sembra davvero passare come do
scemo del paese» del frammento di Caproni: lo scemo che - ridendo e «battendosi
i pugni in viso» - gridava: «a morte non mi avrà vivo». 4b) La differente
prospettiva: la premessa maggiore. I... J foschia d'oro, l'occidente illumina
la finestra. L'assiduo manoscritto aspetta già carico di infinito. Qualcuno
costruisce Dio nella penombra. Un uomo genera Dio. E'un ebreo dai tristi occhi
e dalla pelle citrina; lo porta il tempo come porta il fiume una foglia
nell'acqua che declina. Non importa. Il mago insiste e scolpisce Dio con
geometria delicata; dalla sua malattia dal suo nulla, continua ad erigere Dio
con la parola. Il più prodigo amore gli fu concesso, l'amore che non aspetta di
essere amato.
[Borges, B.Spinoza Dalla raccolta La moneta de Hierro, 1976.)
Eppure, a dispetto della sua complessità, Michelstaedter sembra liquidare il
discorso sul concetto di Persuasione in quel breve capitolo, fatto davvero di
pochissime pagine”, che inaugura, dopo la prefazione, il suo lavoro e che si
intitola, appunto, in modo perentorio La persuasione. Una sorta di epitome,
dove ogni parola - in uno sforzo di sintesi che rasenta l'esoterico - assume un
peso ed una portata grandiosi. Tutto ciò che segue - l'affastellarsi di analisi
"scientifiche", "ontologiche" o personali sulla Rettorica,
l'annoverare gli equivoci ed i pericoli di una falsa Persuasione [«Persuasione
Inadeguata »], la critica al sistema in se stesso come «comunella di malvagi» sempre
e comunque... - sembra essere, di quel denso capitolo, uno scolio complesso. E'
un procedimento, e una capacità di (ardua) sintesi, che - forse, non a caso -
possiamo riscontrare in un altro ebreo eretico, che si cimentò in una
"geometria" dell'etica: Spinoza. 92 Nella citata edizione maior
adelphiana della tesi sono quattro: da pag. 7 a pag. 10, incluse. Avvisiamo che
sono queste le pagine da cui traiamo i "virgolettati" relativi alle
espressioni autoctone di Michelstaedter. Ci dispensiamo, così, dal riferirli
ogni volta. L'autore dell'Ethica esordisce, parlando di Dio: «Per causa di sé
intendo ciò la cui essenza implica l'esistenza, ossia ciò la cui natura non può
essere concepita se non come esistente»°°. Dio non ha bisogno di null'altro,
che non di sé stesso, per esistere: a suo modo, questa è un'ammissione -
permettendoci di renderla con termini michelstaedteriani - di una condizione
persuasa di Dio. E Michelstaedter, nella sua definizione di persuasione (la
"premessa maggiore" ch'egli ci fornisce) - definizione che spicca,
sottolineata dalla citazione petrarchesca - sembra rispondere con una eco:
«Colui che è per sé stesso (pever) non ha bisogno d'altra cosa che sia per lui
(evo vtov) nel futuro, ma possiede tutto in sé». Dunque, il vira suo modo è
egli stesso causa suit Nel presupposto, entrambi i pensatori, come dire, si
muovono nell'ambito dell'ortodossia: negli esiti, cadono entrambi in una comune
eresia fondamentalmente antiebraica: per Spinoza, si tratterà di sconfessarne
la Trascendenza: la causalità di Dio si dispiegherà in causalità immanente al
mondo, realizzandosi in quel noto "panteismo" che il pensatore di
Amsterdam svolgerà con grande rigore (anche "geometrico") e
consapevolezza durante tutta la sua vita; per Michelstaedter si tratterà di
sconfessarne non solo la trascendenza (l'uomo, come persuaso, è il dio), ma
soprattutto il monoteismo: sosterrà quello che potremmo chiamare un
"politeismo della Persuasione", essendo ogni vir dio a se stesso,
causa sui, singola (e singolare) natura naturata della Persuasione. Il
confronto tra i due pensatori potrebbe trovare sbocchi inauditi (ci siamo
limitati alle frasi iniziali delle loro opere); tuttavia ci troviamo costretti
a troncare di netto una simile tangenziale al nostro discorso, innanzitutto
perché potrebbe essere (data la vastità del raffronto) argomento di un'altra
tesi, e poi per non compromettere la fluidità del nostro ragionamento. Che
verte, ricordiamolo, sul concetto di Persuasione, così come affrontato da
Michelstaedter nel breve, fondamentale capitolo cui abbiamo accennato. Il
concetto di Persuasione: ben detto. Mai come qui, infatti, l'uso del termine
"concetto" non si presenta inadeguato. | viri sono scomparsi
dall'orizzonte, nella loro pluralità: la Persuasione perde la sua composizione
politica, si staglia come un' "entità" perfetta, come la
perfettissima sfera di Parmenide, come una monade che abbia chiuso porte e
finestre, come l'aleph del noto racconto di Borges. Il Persuaso si disincarna:
diviene simbolo senza antropologia o antropomorfismo, segno di una condizione
che accomuna l'uomo ad ogni altro essere del mondo sublunare: non a caso, quasi
un terzo dell'intero capitolo è occupato da un esempio tratto dall'osservazione
fisica: il peso, ch'è tale perché la forza di gravità lo spinge verso una ricerca
inappagata 93cf, Spinoza, Etica (a cura di E. Giancotti), Editori Riuniti,
1993, pag. 87. 9% Ci si permetta un rilievo passeggero: questo "bastare a
sé stesso" è una connotazione che, in modo singolare, attraversa - come
presupposto di estrema qualificazione - gli esiti più alti della speculazione
filosofica e religiosa umana di tutti i tempi e di tutti i popoli: il dio degli
Ebrei, il Buddha, il dio di Aristotele, il dio di Tommaso, la monade di
Leibniz, il dio di Spinoza, la volontà santa di Kante via dicendo sono tutte
"entità" che "bastano a se stesse". del suo "luogo
naturale" («la fame del più basso»), la cui vita corrisponde proprio in
quella discesa, perché - una volta raggiunto il punto della sua soddisfazione -
in quel punto la sua vita «cesserebbe d'esser vita», perché « in quel punto
esso non sarebbe più quello che è: un peso». Dunque: «Il peso non può mai esser
persuaso»®9. La Rettorica si rivela quale condizione condivisa da ogni ente
terreno, costretto dalla forza di gravità che lo lega necessariamente alla
terra; di contro, la Persuasione non è una aspirazione o prerogativa
esclusivamente umana: anche il peso vuol conquistarla. La forza di gravità si
delinea come la più patente espressione fisica della Rettorica, e ci testimonia
come la Rettorica stessa non sia soltanto una "costruzione" umana, ma
al contrario appartenga alla matrice bio-fisica o bio-fisiologica, prima che
ontologica, dell'intero universo. Nel capitolo che stiamo esaminando, dunque,
si può avvertire quel cambio di prospettiva che annunciammo nell'esordio della
nostra analisi: a differenza che nelle lettere e nelle poesie, dove si respira
il pullulare della vita persuasa, nel lavoro accademico il Goriziano è più
attento a quella che potremmo definire (con qualche concessione agli
heideggeriani) un' "ermeneutica esistenziale della Persuasione". O,
più esattamente, si propone di ricavare quell'apriori della Persuasione, che ne
fondi /a possibilità e i limiti di realizzazione nel mondo fenomenico. E' una
prospettiva più povera dal punto di vista esistenziale, rispetto a quella delle
lettere e delle poesie, perché più astratta, e dunque più aliena dai nostri
interessi, e da quelli dello stesso Michelstaedter, evidentemente. Eppure, una
prospettiva più imponente dal punto di vista speculativo, che s'impone nella
sua necessità di analisi, se è vero che ogni Weltanschauung, come visione o
"intuizione" del mondo, presuppone di necessità un fondamento
ontologico, un'immagine concettuale, in cui si rapprenda visivamente il senso
di quel mondo. Sotto questo rispetto, Michelstaedter appartiene ancora al
declino di quella "storia dell'essere" denunciato dal filosofo di
Baden. In Michelstaedter, nella sua tesi, l'Essere si pone come Persuasione, ed
è a partire da questa posizione che si sviluppa, nel corso del suo studio,
l'analitica esistenziale, ovvero la diagnostica e la prognostica,
apparentemente aliena qui da ogni considerazione 95 Ma cfr. anche la nostra
integrazione sul "peso che dipende" e la diapositiva G ĮI peso al
gancio] nel supporto iconografico. % Questo stralcio heideggeriano può sancire
ed illuminare il senso di questi nostri ultimi passaggi: «La comprensione
dell'essere, definita così, in pochi tratti, si mantiene sul piano senza scosse
e senza pericoli della più pura evidenza. E tuttavia, se la comprensione
dell'essere non avesse luogo, l'uomo non sarebbe mai in grado di essere l'ente
che è, anche qualora fosse dotato delle più straordinarie facoltà. L'uomo è un
ente che si trova in mezzo all'ente, e vi si trova in modo tale, per cui l'ente
che egli non è e l'ente che egli stesso è gli sono sempre già manifestati. A
questo modo d'essere dell'uomo diamo il nome di esistenza. L'esistenza è
possibile solo sul fondamento della comprensione dell'essere. Nel rapportarsi
all'ente che egli non è, l'uomo si trova già davanti l'ente come ciò che lo
sostiene, ciò cui si trova assegnato, ciò che, con tutta la sua cultura e la
sua tecnica, egli non potrà mai, in fondo, signoreggiare. Assegnato all'ente
diverso da lui, l'uomo non è in fondo, padrone nemmeno dell'ente che egli
stesso è» [M. Heidegger, Kant e il
problema della metafisica, introduzione di V. Verra, Laterza,
Bar-Roma, 1989, pagg. 195-196]. morale, della società umana, nei suoi singoli e
nel suo complesso, come condizione depotenziata di quello stato edenico
annunciato come proprio di «colui che è per sé stesso». Così, dell'energia
autentica del vir, in queste pagine, sopravvive solo un opaco barlume, nel
tentativo di concettualizzazione, nel titanico sforzo del pensiero, che si
districa nel novero di citazioni di cui il breve capitolo in esame è infarcito:
citazioni che - almeno nell'intenzione - non appesantiscono, ma che si
dispongono quali ausiliari "puntelli di persuasione", nello sforzo di
delucidare il senso del peve”. Essi tracciano un confine intorno alla
Persuasione stessa: ci muoviamo in un mondo i cui due poli sono rappresentati,
rispettivamente, dalla grecità (dalla Grecia di Empedocle e di Platone, e chi
fra essi) e la dimensione biblica (l'Ecclesiaste, S. Luca, S. Matteo): è dalla
sinergia di questi due poli che, evidentemente, si forgerà e si dovrà evincere
il concetto di Persuasione. 4c) L'uomo bandito da Dio e il filo d'Arianna della
Persuasione come Armonia: la lezione di Empedocle. Anch'io sono uno di questi,
esule dal dio e vagante per aver dato fiducia alla furente Contesa. Empedocle,
fr. 31 B 115, 13-1498 Ahimé, o infelice stirpe dei mortali, o sventurata, da
quali contese e gemiti nasceste. Empedocle, fr. B 124 Piansi e mi lamentai,
vedendo un luogo a cui non ero abituato. Empedocle, fr. B 118 Un'epigrafe
informa e precisa il senso e la direzione di tutta un'opera, riassume e
anticipa il pensiero dell'autore, dà limprimatur. La Persuasione e la Rettorica
si apre®° con una citazione di Empedocle, una citazione da rivalutare, anche in
riferimento alla sua amenità: Michelstaedter chiama subito in causa un
personaggio la cui vita e il cui pensiero sono avvolti da un'aura rarefatta di
leggenda, un filosofo che si muove in una dimensione di inappartenenza a
categorie ben definite (addirittura, più che gli stessi altri presocratici), in
un'apparente contraddizione tra il fisico e lo scienziato e il medico, e il
sacerdote e il poeta 97 Campailla fa notare che «Michelstaedter ricorre al
greco per sviluppare la contrapposizione tra la forma transitiva di pever
(aspettare qualcuno o qualcosa) e quella intransitiva (stare, permanere,
consistere)» [nota 7 alla Persuasione, PR 309] 98 La presente citazione, e le
altre che seguono nel paragrafo e nel prosieguo della nostra tesi, relative ad
Empedocle ed agli altri presocratici, sono adottate secondo la traduzione
presente in | Presocratici. Testimonianze e frammenti (a cura di G.
Giannantoni), 2 voll., ed. Laterza (4a), 1990. 99 La famosa Prefazione,
presente nelle stesura A della tesi (ovvero, quella primitiva, completamente
autografa), risulta poi omessa in quella che Campailla chiama redazione C,
quella destinata alla lettura del relatore e della commissione dei professori,
e che, dunque, «rappresenterebbe la volontà ultima dell'autore». [cfr. nota
introduttiva alla Persuasione, PR 304; in particolare, si rimanda proprio alle
pagg. 303-304 per un opportuno approfondimento della questione], e il profeta
taumaturgo e il dio. Evidentemente, il filosofo goriziano, con questa
personalità ibrida, ravvisa una certa affinità di atmosfere e di metodologia non
proprio ortodosse. Dunque, inoltriamoci nel sottobosco empedocleo che si dirama
in queste e altre pagine del nostro autore. Innanzitutto, una premessa
scontata, ma opportuna: Michelstaedter anche con Empedocle, come con tutti gli
autori ch'egli utilizza per supportare le proprie analisi, affila le armi di
una propria, personalissima filologia, di un'interpretazione che
"pecca" di estrema originalità °: ci troviamo al di fuori di una
certa canonica, e sbrigativa, storiografia filosofica (inaugurata da
Aristotele, che definì Empedocle, tra gli altri, un «naturalista inesperto
»'°'), storiografia che comodamente classifica l'agrigentino in posizione
intermedia e mediatrice tra l'essere parmenideo e il divenire eracliteo (al
contrario, come sappiamo, Michelstaedter assegna a pari merito, sia ad
Empedocle che a Parmenide ed Eraclito, la conquista della "palma"
della Persuasione). Ma analizziamo il frammento empedocleo: L'impeto dell'etere
invero li spinge nel mare il mare li rigetta sul suolo terrestre, la terra nei
raggi del sole infaticabile!92, che a sua volta li getta nei vortici
dell'etere: ogni elemento li accoglie da un altro, ma tutti li odiano. | versi
sono attestati da Plutarco! , Il quale commenta: «Empedocle dice che le anime
pagano la pena dei loro errori e dei loro peccati [segue il frammento], finché
così punite e purificate non raggiungono nuovamente il loro posto e il loro
ordine naturale»..'°4 Ci preme innanzitutto far notare (quand'anche fosse solo
una nostra impressione: la critica non ne fa parola) la sfumatura che
avvertiamo nella scelta fatta da Michelstaedter di questo frammento: nella
"diaspora" delle anime, che espiano una terribile hybris alla ricerca
inesausta del «loro posto e del loro ordine naturale», ci sembra adombrarsi
quell'ulissismo giudaico (che possiamo integrare a proposito delle nostre
analisi sul mare), ci sembra affiorare quell'inquietudine ancestrale di
colpa-espiazione, che appartiene alla 100 Emanuele Severino, ad es., che allo
studio di Parmenide ha dedicato tutta la sua vita, bolla l'interpretazione
michelstedteriana del filosofo eleate come un "colossale equivoco":
ma ravvisa proprio in quell'equivoco uno dei picchi di feconda originalità del
Nostro. Ci trova d'accordo. 101 Cfr. la già cit. Prefazione. Per il giudizio di
Aristotele, cfr. Fisica, 191a - 25: «[...] quelli che primamente filosofarono,
indagando sulla verità e sulla natura degli enti, furono tratti, per così dire,
verso una via sbagliata, spinti dalla loro inesperienza» [tad. A. Russo, in
Aristotele, Fisica, 3° vol. delle Opere, a cura di G. Giannantoni, Laterza,
2001 (VI ed.), pag. 21]. 102 Sono i vv. 9-12 del frammento B 115 [i versi della
nostra epigrafe sono immediatamente successivi]. Come nota anche il Campailla,
nell'edizione del Diels si legge waedovtoc (splendente), anziché axauavtoc
(infaticabile). Abbiamo utilizzato la traduzione contenuta in | P resocratici,
cit., pag. 411 [cfr. la nostra nota 9], sostituendo però opportunamente i due
termini, 103 De Iside, 361 c matrice profondamente ebraica di Michelstaedter,
per quanto egli stesso cercasse con forza di separarsene'. Il popolo ebreo,
nella sua tormentata storia, questo condivide con le anime di Empedocle: «ogni
elemento li accoglie da un altro, ma tutti li odiano». Ma ovviamente, questa
condizione di esilio eterno, così specifico per l' "ebreo errante",
si amplifica subito a cifra dell'intera condizione umana: lo nota a suo tempo
già Plutarco, il quale in un'altra sua opera afferma: «Empedocle [...] mostra
che non soltanto egli stesso ma tutti noi siamo qui come emigrati, stranieri ed
esuli... Va in esilio [scil. l'anima] ed è errabonda spinta dal volere e dalle
leggi degli dei».'°9 Eppure, queste anime espiano un delitto di cui non hanno
in fondo colpa, essendo vittime addirittura innocenti di un polemos che le
trascende: quello, universale e perenne, tra l'Amicizia [Phila] e la Contesa
[Neikos], le due forze divine che, a questo punto, data la curvatura della
nostra interpretazione, ci arrischiamo d'assimilare alla Persuasione e alla
Rettorica, così come delineate - nella loro impersonalità e quasi-trascendenza
- nella tesi 104 contenuto in | Presocratici, cit., pag. 440 105 In più passi
di lettere, Michelstaedter mostra insofferenza nei confronti della coeva
gioventù ebraica, che pullulava a Gorizia (città da tempo immemorabile, data la
sua vocazione commerciale, sede di una nutrita comunità ebrea [ma, per ciò,
cfr., tra gli altri, A. Arbo, Carlo Michelstaedter, ed. EST, pagg. 4-5 e
oltre): anzi, i coetanei ebrei diventano bersaglio di feroce ironia, quella
medesima ironia che il giovane filosofo ostenta nei confronti dello stesso
apparato religioso ebraico, soprattutto nelle sue forme più esteriori, retrive
e "teopompe". Si prenda ad es. la lettera del 29 febbraio 1908 alla
famiglia: «Molto piacere mi fece il furto delle corone - era un principio di
dissolvimento quale si doveva alla memoria di zio Samuel [probabilmente,
Samuele Luzzato]. Rabbia mi fa la reazione degli altri che fanno subito la
sottoscrizione - porci - neocattolici! - faranno di nuovo Hanukà [la
"festa dei Tabernacoli", nella religione ebraica, appunto] per
purificar i tempio? E se la prendono con te questi imbecilli perché non dai il
sacro obolo; ma che cosa pretendono? -». [E 295; le esplicazioni in parentesi
quadre, riportate all'interno del brano, anche del seguente, appartengono al
Campailla, leggermente ritoccate da noi] AI contrario, il Goriziano si mostra
interessato al misticismo cabalistico (si legga con attenzione il passo che
riportiamo, dato che, tra i tanti importantissimi rilievi, in esso si scorgerà
anche l'embrione della filogenesi speculativa del Nostro): «A proposito di
misticismo ho in mente una cosa graziosa. Tu sai [Michelstaedter si sta
rivolgendo a "Gaetanino" Chiavacci] che la ragione dell'antisemitismo
filosofico (Schopenhauer e Nietzsche) è il razionalismo della religione ebraica
(pensa al Pentateuco e a Spinoza!!!) e la mancanza dell'elemento mistico nelle
menti ebraiche (Nietzsche dice ‘elemento dionisiaco'; quello che è distrutto da
Socrate; osserva le parallele: da Socrate attraverso Platone al misticismo
neo-platonico - da l'ebraismo a Cristo). - Ora io sono convinto [...] che
l'appunto è giusto [...]; tanto più mi meraviglia l'esistenza di un'intera
letteratura cabbalistica [sic, anche oltre], e una diadoché di taumaturghi che
finisce [...] col mio bisnonno, il rabbino Reggio, detto il Santo [è Isacco
Samuele Reggio, uno dei fondatori del Collegio Rabbinico Italiano; nota di
Campailla]. lo voglio sapere qualcosa di più preciso su quella letteratura
cabbalistica, specialmente sulle sue origini, poi voglio farmi consegnare
dall'archivio i resoconti protocollati di tutte le sedute in cui quel mio
bisnonno compì atti solenni di purificazione con mezzi cabbalistici [... ];
peccato siano scritti in ebraico, ci dovrò faticare per capirli bene [... |»
[lettera al Chiavacci, del 22 dicembre 1907, E 267-268; le parentesi tonde e i
corsivi all'interno del brano sono di Michelstaedter]. Notiamo, en passant, che
Michelstedter (parafrasando Canetti) dell'ebraismo non ha "salvato"
la lingua («... peccato siano scritti in ebraico...»); che l'accusa di
"razionalismo" ch'egli rivolge al Pentateuco e a Spinoza noi l'abbiam
fatta ricadere anche su lui medesimo; e infine il significativo accenno all'
«elemento dionisiaco» nicciano, su cui avremo modo di tornare largamente nelle
integrazioni sulle varianti deboli della Persuasione. Per tutto questo, ci
rammarica aver relegato in una nota un aspetto così importante e complesso
della formazione michelstaedteriana, spinti da una certa selezione
argomentativa (se si volessero approfondire tutti gli aspetti di quella
formazione si stilerebbe una tesi mastodontica). Un'ultima cosa: per la
cronaca, la famiglia di Carlo apparteneva al ceppo occidentale prevalente nella
comunità goriziana, quello ashkenazita [cfr. A. Arbo, Carlo Michelstaedter,
cit. pag. 5]. 106 Plutarch. de exil. 17 pag. 607, come recita l'edizione | P
resocratici, cit., pag. 410, in cui è contenuto il riferimento. accademica del
Goriziano [cfr. supra]. E, sotto questo rispetto, le analogie sono davvero
sorprendenti ed istruttive. Vediamole. | due princìpi empedoclei si contendono
il mondo, in una lotta infinita che si realizza in una successione alterna di
fasi diverse, col ritorno periodico di ciascuna: quando predomina la Philìa,
tutte le cose (anzi, le loro radici: il fuoco, la terra, l'aria e l'acqua; in
se stesse immutabili, l'una inconfondibile con l'altra, irriducibile all'altra)
sono ricondotte all'unità, allo Sfero, l'universo omogeneo, il dio [cfr. fr. B
31]: «d'ogni parte» uguale a se stesso. [fr. B 29; da notare l'affinità di
linguaggio col Goriziano] [... ]nei compatti recessi di Armonia sta saldo lo
Sfero circolare, che gode della solitudine che tutto l'avvolge. [fr. B 27]
Quando invece predomina l'Odio, si ha la disgregazione assoluta, la disarmonia
e il conflitto, il «vortice». «Nell'Odio [tutte le cose, le loro radici] sono
tutte diverse di forma e separate» [B 21, v.7]: all'inizio del prevalere della
Contesa sull'Armonia, «alla terra spuntarono molte tempie senza collo, e prive
di braccia erravano braccia nude, e occhi solitari vagavano senza fronte».
Questa "anarchia" delle membra, che suscitò parecchie ilarità anche
tra i contemporanei di Empedocle, vien quasi riprodotta da Michelstaedter, in
forma aneddotica, nel bizzarro dialogo tra l'io e il piede [PR 160-163]. Ma
altre simili situazioni si riscontrano in pagine, altrettanto importanti, del
lavoro accademico [almeno PR 16] e del Dialogo della salute. In particolare in
quest'ultimo: Rico: Ora la bocca non lavora più per il corpo ma lavora per sé,
l'occhio non considera più le cose vicine e distanti a difesa del corpo ma si
dà alla pazza gioia per il proprio gusto, così l'orecchio, così il tatto, le
membra a lor volta rifiutano la fatica, e ognuna per quanto sa e può ricerca e
moltiplica quelle cose che le facevano piacere prima nel servizio del corpo -
ora che hanno fatto sciopero - e ognuna le ricerca per sé. - [D 49]. Nella
situazione contemporanea, caratterizzata dal predominio assoluto della
Rettorica/Contesa, «la mala cupidine della vita [...] ha fatto perdere ogni
consistenza» a quel «nucleo di disposizioni organizzate» ch'è il nostro corpo:
«il corpo se consiste per la coesione delle molecole, perduta la solidità si
versa liquido sulla superficie del suolo e fitra in ogni fessura [...]. Noi
diciamo del gaudente che è un uomo senza solidità; i nostri padri dicevano che
liquescit voluptate » [D 50-51; corsivi di Michelstaedter]. In questa
condizione, «la fame insaziata perdura pur sempre: e la sua legge è il
godimento: e ancora le singole parti si disgregano nei loro elementi chimici
più piccoli più piccoli [sic]: che ognuno vuol vivere per sé. L'individualità
si dissolve infinitamente: e infinitamente fugge il piacere. -» [ib.]. «Ma
avviene uno strano fatto: quella dolcezza che c'era prima non c'è più poiché
apparteneva al corpo e alla sua continuazione: ognuna delle parti prova delle
amare delusioni che minacciano di guastarle la festa » [ib.]; e «chi ha perduto
il sapore delle cose è malato » [D 46]. Eppure, in questa confusione
disordinata, il «dio pudico» del piacere assicura una certa consistenza: Rico:
lo credo che egli [il dio] abbia a mano ogni disposizione del corpo e tutta la
varietà delle cose. E benevolo al corpo, egli metta nelle cose che gli sono utili
una luce, e la faccia brillare fin quando la cosa è utile - e poi la spenga
così che la cosa resti oscura all'animale che ne è sazio. [D 42-43] Questo «dio
sapiente spegne la luce quando l'abuso toglierebbe l'uso», assicura una sorta
di omeostasi all'organismo, ne scongiura la dispersione, lo fa continuare a
vivere come individualità: da questo principio di equilibrio (accenno di
Armonia), che ci assicura una consistenza per quanto falsa ed illusoria, si
spiega il filo d'Arianna che può condurci alla vera consistenza, quella della
Persuasione, Armonia eccellente. Il meccanismo sarà, almeno nelle modalità, il
medesimo: «togliere l'uso» delle cose attraverso il piacere, vanificare la
forza rettorica del desiderio, perché «più il vano chiede e più bisognoso si
rende» [D 58]. AI contrario, il vero piacere giungerà al Persuaso «dalla
sicurezza interna della pace» [D 66], quando le cose più non «ci avranno» [cfr.
D 38-39]. Questo filo di Arianna, che abbiamo ipotizzato nel Dialogo, si fa
decisamente manifesto nelle parole di Michelstaedter nel suo piccolo ma
densissimo saggio sul Prediletto punto d'appoggio della dialettica socratica
del 1910, anno della sua morte, e dunque espressione ultima del suo pensiero.”
Riportiamo per intero il passo, data la sua estrema importanza, a questo punto:
L'unica via di chi permane è la sua forza. La sua forza di non esser schiavo
nel futuro, di tener raccolta nel presente la propria vita. Socrate non può che
appellarsi a quello che ognuno può aver sperimentato della propria forza, o che
almeno conosce indubitatamente necessario, della quale a ognuno son noti gli
effetti, e della cui mancanza a ognuno noti i danni. Ed è quella che in
rapporto al giro finito dei bisogni elementari, concreti e vicini al nostro
corpo, si manifesta cminarli e tenerli nascosti, ognuno col criterio della
salute del tutto. La forza colla quale uno insegna alla sua bocca a starsi
contenta a quello che è conveniente al bisogno del corpo, e a non correre nel
tempo sempre nuove cose mangiando, perciò che la gola ribelle le finga l'ultima
felicità sempre via nel prossimo boccone. Per questa forza che la maggioranza
degli uomini ha, il loro corpo è un corpo. E quello e questo vicini a ognuno!®,
«'Enucleando' il senso e i modi di questa vita elementare, Socrate ha modo di
portar vicina la vita lontana [...}>: «egli dà valore alla salute dei
bisogni elementari solo come analogia del bisogno della persuasione »'°9
[significativo corsivo di Michelstaedter]. Alla luce di quanto detto, troviamo
incredibile come anche la critica più attenta - alludiamo soprattutto al
Campailla e alla Raschini - non abbia sviluppato a sufficienza questa
"dritta" che il filosofo goriziano ci consegna in questo importante
scritto; noi siamo invece d'altro107 La redazione cui si fa riferimento nella
nostra analisi e nelle nostre citazioni è quella contenuta nell'edizione curata
da Gian Andrea Franchi, per i tipi dell'Agalev, 1988; ovvero, le pagg. 95-100.
108 Ib. pag. 97, come quella appena successiva. 109 Ib, pagg. 97-98-99 passim.
avviso, e cerchiamo di trarne coerente sviluppo, approfondendo ancora il
parallelismo con Empedocle. Dunque, c'è analogia tra il bisogno elementare e il
bisogno della Persuasione: è come se, in tempi magri, un'immagine sbiadita
della Persuasione sopravvivesse nella forza che sottende all'equilibrio
omeostatico (chimico-fisiologico) del nostro corpo. Ancora Plutarco, che si sta
rivelando anche agli esegeti moderni come uno dei più validi interpreti di
Empedocle, ammette che i due principi cosmici dell'Armonia e della Contesa si
riflettono in certo modo, secondo il filosofo agrigentino, in ciascuno di noi:
«ciascuno di noi, nascendo, è preso e guidato da due destini e demoni [... ]10:
cosicché, accogliendo la nostra nascita i semi di ciascuna di queste affezioni
e per ciò stesso avendo molteplici anomalie l'uomo assennato si augura bensì le
cose migliori, ma si aspetta le altre, e di entrambe si serve evitando
l'eccesso»!!!. Certo, evitando l'eccesso. Perché un eccesso di Armonia è
foriera di morte almeno quanto un eccesso di Contesa. Nota Aristotele: «...] la
Contesa è causa della corruzione non meno che della realtà delle cose;
similmente neppure l'Amicizia è la causa della realtà delle altre cose, poiché
le distrugge raccogliendole nell'uno»'!7. L'Armonia porta vita, attraverso un
processo prima di "distinzione", quindi di "ri-
compattazione" degli elementi dalla dispersione discorde; ma porta morte,
perché un suo eccesso fa ricadere a sua volta gli elementi in un'omogeneità
letale''° ch'è propria dello Sfero (proseguendo nel parallelismo, la
Persuasione conduce alla vera consistenza, alla vera vita; ma, a sua volta,
raggiunto il suo apogeo, il suo appagamento, coincide con la morte, perché - in
quel punto - la vita perde "il suo esser vita", che coincide proprio
col conatus, con la deficienza). Di contro, la Contesa conduce alla morte,
perché distrugge la consistenza assicurata dall'Armonia; ma porta anche vita,
dato che promuove la distinzione degli elementi (delle radici)
dall'indistinzione dello Sfero, del dio (la Rettorica, al suo apogeo, per
Michelstaedter fa /iquefare il nostro corpo, nella dispersione puntuale del
piacere; eppure essa assicura la vita, che consiste nel retto conatus verso la
Persuasione: come detto, c'è analogia tra il bisogno elementare e il bisogno
della Persuasione). 10 "{...]la dea Ctonia e la dea Solare dall'acuto
sguardo a Discorde sanguinosa e l'Armoniosa dal grave sguardo, a Bella, la
Brutta, la Veloce e la Lenta a Vera Amabile e l'Oscura dai neri capelli"
[fr. 122] 11 Plutarch. de trang. an. 15 pag. 474 B, come recita l'edizione |
Presocratici, cit., pag. 413, in cui è contenuto il riferimento. 12 L'appunto è
volto criticamente all' "incoerenza" di Empedocle, ma non per questo
motivo c'interessa. Inoltre, perché a nostro parere più consona all'atmosfera
del nostro discorso, preferiamo questa traduzione di Metafisica B 4 1000b 10
sgg., contenuta in | Presocratici, cit, pag. 344, alla corrispondente
traduzione di G. Reale, nell'edizione della Metafisica da lui curata per i tipi
della Rusconi [1993, pag. 113], che è pure l'edizione che teniamo presente
nella nostra tesi. 113 Letale, perché compromette il principium
individuationis. Quindi, sia per il filosofo goriziano che per quello
agrigentino Duplice è la genesi dei mortali, duplice è la morte: l'una è
generata e distrutta dalle unioni di tutte le cose, l'altra, prodottasi, si
dissipa quando di nuovo esse si separano. [fr. B 17, vv. 3-5] Entrambi, quando
parlano di vita e di morte, si rendono ben conto che « è giusto chiamarle
[così], ma anche io parlo secondo il costume» [fr. 9, v. 5]. Per entrambi si
tratta di definire esattamente il senso opportuno delle parole, e di adagiarsi
solo per comodità sul loro senso comune. Per entrambi, ancora, si tratta di
tracciare un difficile equilibrio (l'equilibrio del falco) tra le due facce
bifronti dell'Armonia e della Contesa, della Persuasione e della Rettorica: per
entrambi, nel «retto discorso» [fr. 131, v. 4] sono unificate e armonizzate
nell'unità, ad opera dell'Amicizia, le cose divise dalla Contesa." Il
difficile equilibrio si gioca tra Phila e Neikos, ed in questo equilibrio
consiste il principium individuationis che concretizza la sostanza informe
nell'attualità dell'individuo, altrimenti irrealizzabile nell'incongruenza
discorde o nell'omogeneità armonica «avvolta dalla solitudine». Empedocle,
tuttavia, avverte per quest'ultima condizione una sorta di nostalgia (e si
rammenti la nostalgia di Itti per il mare): come visto, l'uomo per lui è come
un esule cacciato da un mondo perfettamente armonico ed omogeneo (alla stregua
di un'età dell'oro), e deve perciò rassegnarsi a vivere nella realtà dei
fenomeni che nascono e muoiono: similmente, nell'individuo rettorico (anch'esso
«bandito da dio») sopravvive una non ben definita aspirazione per una condizione
edenica di completezza, che non si rassegna, ma che si svia in un desiderio
inautentico di appagamento, sbiadito ricordo di quella completezza, come
l'amore è sbiadito ricordo della condizione androgina nel noto dialogo
platonico. Empedocle, inoltre, condivide con Eraclito e Parmenide (e
Michelstaedter con tutt'e tre) la polemica contro il sapere comune e
superficiale, che disdegna la verità dello Sero, si accontenta delle multiformi
apparenze delle cose e non perviene ai fondamenti dell'Autentico: gli uomini
(che si mettono in «posizione conoscitiva», direbbe il Goriziano) sono come
bambini cui sfugge il significato ultimo delle cose. Ed una delle espressioni
più alte di questo Autentico è la consapevolezza, che dovrebbe essere una delle
fondamentali conquiste umane, di una consustanzialità che attraversa, senza
soluzione di continuità, tutti gli enti: proprio l'identità delle cause che
regolano le trasformazioni naturali fa dell'universo un'unica comunità dove
tutti gli enti, viventi e no, coesistono allo stesso titolo, e dove tutti gli
enti partecipano sia degli aspetti divini o eterni (le radici, Amicizia e
Contesa) sia degli aspetti (apparentemente) transeunti (i fenomeni): 114 Cfr.
Ippolito, ref. VII 31 pag. 261, come recita l'edizione | P resocratici, cit,
pag. 415, in cui è contenuto il riferimento. similmente, nella prospettiva che
abbiamo adottato, Michelstaedter - nella sua tesi - allarga la sua dicotomia
Persuasione-Rettorica a tutto il mondo delle cose che esistono: il sasso,
l'idrogeno e il cloro'', etc., vivono in una condizione rettorica ed aspirano
ad una condizione persuasa non meno che l'uomo. Ora, avviandoci alla
conclusione di questo complesso confronto, assicuriamo che, ovviamente, non c'è
in noi l'intenzione di adagiare la prospettiva michelstaedteriana su una
matrice di ingenuo "naturalismo dinamico": tuttavia, ribadiamo che
questa è altresì una sfaccettatura non secondaria, per quanto interpolata,
della sua Weltanschauung, almeno stando al suo lavoro accademico (già meno nel
Dialogo, praticamente assente nelle Poesie e nelle lettere). E con Empedocle
egli ha più che punti di contatto: ha punti di incontro. Nei presupposti: il
filosofo d'Agrigento, al pari del Goriziano, è ben conscio che le cose che si
appresta a dire «non sono vedute né udite dagli uomini né abbracciate con la
mente» [fr. 1, vv. 6-8; si tenga a mente l'esordio della Persuasione]. E punti
d'incontro non meno, anzi soprattutto, nell'aspirazione finale: ch'è quella, in
Empedocle, di uomini che tra gli immortali abitando e mangiando delle angosce
umane non [saranno] più partecipi, [bensì] indistruttibili [fr. 147]; di uomini
«digiuni di colpa » [fr. 144], che aborriranno infine «l'intollerabile Ananke»
[cfr. fr. 116] e che infine abiteranno di nuovo un mondo in cui: [... ]erano
tutti mansueti e benigni nei confronti degli uomini fiere ed uccelli, e la
benevolenza brillava [fr. 130] Ovvero, tradotto in linguaggio
michelstaedteriano, di uomini che abbiano raggiunto la vera consistenza, assisi
allo stesso banchetto al pari degli immortali [gli uomini che si danno da sé la
salvezza = gli dèi], in un mondo in cui il rapporto tra gli enti sia quello di
un reciproco donarsi, spontaneamente (e si ricordi il valore dell'u/tro).
Volendo davvero concludere, un appunto che giunge /ast but not least è
singolare come, a fronte di tutto questo, in Empedocle sia individuata, già dai
suoi contemporanei, la nascita, anche se non ufficiale, della téchne retorica:
suo allievo sarebbe stato addirittura uno dei sofisti più ferrati e temuti, Gorgia.
Allo stesso modo, nota già da subito Michelstaedter, la lezione persuasa di
Socrate produrrà cattivi discepoli: Platone e soprattutto Aristotele. Ma la
questione del "cattivo apostolato" - strano e triste destino della
Persuasione - sarà affrontata in modo più opportuno e approfondito nel
paragrafo dedicato all' «educazione corruttrice» nella nostra analisi del
sistema rettorico. 4d) La Persuasione "al bivio": l'incontro di
Parmenide e Cristo. La dottrina assomiglia a due strade. Una attraversa un
grande fuoco, l'altra attraversa un grande gelo. Come comportarsi? Si scelga la
via di mezzo se si vuole sopravvivere. Proverbio cinese. La Persuasione, negli
uomini''5, è una verità, una testimonianza trasversale: attraversa la storia
dell'umanità, rapprendendosi in individui non incasellabili in specifiche
categorie storiografiche, la cui discriminante non è il tempo, la collocazione
geografica o il credo religioso e filosofico e politico. La Persuasione, pur
nella sua saldezza e nell'espressione cristallina e insieme inafferrabile del
suo contenuto, pur nell'attimo ineffabile che la "17 Il vir è sostanzia,
percorre il tempo e il mondo degli uomini, ad esso "si adatta Qohelet:
vive, o sopravvive, nella comunità rettorica in un drammatico (ma il dramma è
l'agire, c'insegna l'etimologia greca) stato di emulsione!', mentre aspira alla
comunità vera, alla agathon philia. Quest'ultima si realizza con la rottura dei
labili, ovvero falsamente saldi e sicuri, legami della Rettorica, nella
costruzione di legami nuovi, più profondi ed autentici: il vir è venuto infatti
a «separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera»
[Matteo 10, 35]!!°. Il suo "adattamento", dunque, non è compromesso:
la Persuasione è intransigente, severa, anche se talora più con se stessa, che
con gli altri uomini. Essa dice al suo vir (il vir dice a se stesso): «Chi non
è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde» [Matteo 12, 30].
Non ammette repliche, non ammette cedimenti o dialettiche. Non concede appelli
o ripensamenti. Il Persuaso non tentenna: è forte come la roccia, risoluto come
un dio. La sua forza non è violenza, il suo coraggio non è temerarietà: il suo
messaggio è di amore, ma il suo amore non è rassegnazione o condiscendenza al
male; il suo amore conosce lo sdegno, è capace di ira, perché è sentimento
dirompente, è un sentimento che spezza: il 115 Cfr. PR 13-14; l'idrogeno e il
cloro "si suicidano" nell'acido cloridrico, scorgendo nella valenza
l'immagine (inautentica) della loro reciproca persuasione. 116 La
specificazione, a questo punto, è d'obbligo: infatti finora, nel capitolo,
abbiamo inteso la Persuasione (e la Rettorica) come matrice strutturale
dell'intero universo: in questo paragrafo, il discorso s'incentra nuovamente
sugli uomini, ovvero, sul problema dell'uomo, nella misura in cui l'uomo è (o
quantomeno, dovrebbe essere) quell'ente che - dato il suo orizzonte di
consapevolezza e comprensione - si "apre" già sempre (o meglio,
dovrebbe guadagnarsi già sempre), per una via privilegiata, l'accesso all'
"essere persuaso". 17 Ma sul senso di questo adattamento, che non
consente malleabilità ma che invoca la "durezza", cfr. la nostra
integrazione sulla "variante flessibile" (leopardiana) della Persuasione.
18 Un termine "tecnico", mutuato dall'ambito chimico-fisico, ci aiuta
a rendere più chiaro il concetto: come è noto, ‘emulsione indica la mescolanza
di due liquidi non solubili tra loro, uno dei quali è disperso nell'altro
sottoforma di minutissime gocce [definizione del diz. Garzanti] 19 Nel'affrontare
questo punto, assumiamo ad esempio assoluto di Persuasione il Cristo, il vir
per antonomasia, secondo le conclusioni dello stesso Michelstaedter. Per le
citazioni che seguono, privilegiamo la fonte del Vangelo di Matteo, data
l'importanza che tale Vangelo assunse, come visto, nell' "îÎmmaginario
persuaso" del Goriziano. vir scaccia i mercanti dal tempio, perché il
tempio è divenuto una «spelonca di ladri» [Matteo 21,13]. Egli dimostra zelo
per il tempio, per la propria casa: quello zelo lo divora [Giovanni 2,17]. «Ma
egli parlava del tempio del suo corpo» [Giovanni 2,21]. Il vir si mantiene puro
per il sacrificio di se stesso, perché il sacrificio acquisti più forza e
significato. Fino a quel momento, la sua è «un'intenzione morale in lotta».
Infatti, il suo grido, seppur non di vendetta, è tuttavia un appello alla
lotta, a non cedere: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla
terra; non sono venuto a portare la pace, ma una spada» [Matteo 10, 34], dice
il vir. Il Cristo - il Persuaso'” - dunque, ci pone dinanzi ad una perentoria
dicotomia esistenziale: una ed una sola è la via della Persuasione; tutto il
resto appartiene alla Rettorica. Tertium non datur. La soluzione che ci
suggerisce il proverbio cinese di cui sopra (di «Scegliere la via di mezzo se
si vuole sopravvivere») non è messa in minimo conto: è valutata come situazione
di compromesso, di malafede. C'è una sorta di ostinata coerenza che accompagna
la Persuasione, dall'inizio alla fine della sua testimonianza. Ora, è proprio
su questa comune terra di confine che Michelstaedter allestisce l'originale
incontro di Cristo con Parmenide: in modo significativo, il vertice (o uno dei
vertici) della genuina speculazione greca si sposa col vertice della più grande
testimonianza della Persuasione in assoluto, nella comune forza e perentorietà
del loro autaut'’’. E' solo il caso di accennare che, anche qui, come sempre,
siamo in presenza di una "lettura forzata" condotta dal Goriziano sul
filosofo di Elea: per la sua comprensione, noi siamo costretti a seguire questa
eterodossia. L'impressione che ne ricaviamo è che Michelstaedter
"corregga" (se ci è lecito esprimerci così) l'assunto parmenideo in
direzione cristiana, anzi cristologica, ovvero etico-esistenziale; e che,
viceversa, corrobori l'ipostasi cristologica con apporti del "metodo"
parmenideo, ovvero assicurando a quell'ipostasi una "piattaforma"
logico-ontologica. Il testo parmenideo (dunque particolarmente caro a
Michelstaedter, come testimoniano le citazioni che ne trae, non solo numerose,
ma anche cruciali) esordisce con la narrazione di un viaggio compiuto
attraverso la «via del dio»: ogni contorno fisico sfuma però subito
nell'allegoria: l'Eleate è scortato dalle figlie del Sole e condotto al
cospetto della dea Giustizia, l'Immutabile Legge del cosmo, la verità che si
svela. E' proprio la Giustizia che, «benevolmente », rivolge la parola a
Parmenide: O giovane, [...] 120 Cfr. la diapositiva E [Volto di Cristo e
Schizzi di alberi] nel supporto iconografico. 121 Per una sorta di automatismo
mentale, si tende ad associare l'aut-aut michelstaedteriano all'omologo conio
kierkegaardiano: ma è solo una questione, come dire, "sinonimica":
l'aut-aut del filosofo danese non è indicativo di una scelta (essendo la vera
scelta quella della fede), non è neanche, a ben vedere, un "o-o": a
rigore è un "né-né": né vita estetica, né vita etica. In Kierkegaard,
tertium datur. Il terzo termine è, appunto, la vita nella fede. salute a te!
Non è un potere maligno quello che ti ha condotto per questa via (perché in
verità è fuori del cammino degli uomini) ma un divino comando e la giustizia.
Bisogni che tu impari a conoscere ogni cosa sia l'animo inconcusso della ben
rotonda Verità [alethéie] sia le opinioni [dóxai] dei mortali, nelle quali non
risiede legittima credibilità. [B 1 v 24 e vv. 26-30]. Dunque, in modo
rigoroso, ci sono due e solo due "vie", ovvero possibilità, aperte
all'esistenza e al pensiero; il filosofo "venerando e terribile" le
presenta come rivelazione di una dea, da ritenersi quindi espressione
adamantina e necessaria della verità: l'una consistente nel pensare ciò «che è
[estin] e che non è possibile che non sia», l'altra consistente nel pensare ciò
«che non è [ouk estin] e che è necessario che non sia»; e appena dopo aggiunge,
sempre per bocca della dea, che la prima via è quella conforme a verità, della
quale dunque si deve essere persuasi [«è il sentiero della Persuasione»],
mentre la seconda è impercorribile, perché «il non essere» [to me eon] non può
essere né pensato né detto [cfr. frammento B 2 passim]. Quest'ultima è
«impensabile e inesprimibile (infatti non è la via vera)», «l'altra invece
esiste ed è la via reale» [cfr. frammento B 8 vv. 21-22]. Ora, quello che
c'interessa non è tanto indagare l'ontologia rigorosa che segue simili affermazioni:
ovvero, le caratteristiche del "ciò che è" (l'eternità, la finitezza
come perfezione, l'omogeneità, il vincolo cui è costretto dalla Necessità...)
sussunte nella nota immagine della Sfera; anche se sarebbe istruttivo
individuare - ma non è neanche molto difficile farlo - certune ispirazioni che
il filosofo goriziano mutua dall'essere parmenideo per la definizione del suo
"solido" peve’. Quel che ci interessa, piuttosto, è vedere il legame
che viene ad intrecciarsi tra Persuasione e Verità, nel senso genuinamente
greco del termine, tradito nella traduzione posteriore (ad esempio, già in
Cicerone). Heidegger (e forse prima di lui Ortega y Gasset nelle Meditaciones
del Quijote) ci ha insegnato che, in proposito, bisogna far ricorso ancora una
volta all'etimologia per giungere al cuore della questione: infatti, il termine
greco sembra derivare da /anthano che vuol dire "coprire". Da
/anthano proviene Lete, che è il fiume della dimenticanza, il fiume che copre.
Alètheia, con l'alpha privativo, è il contrario di ciò che si copre: il
"non-nascondimento", il "dis-velamento"'8. Ma in cosa
consiste quel "velamento", che cos'è quell'oblio? Per Michelstaedter
- ed è qui il senso della lettura forzata ch'egli fa di Parmenide - esso
coincide col mondo della Rettorica. La seconda parte della sua tesi di laurea -
la pars destruens - è interamente dedicata appunto alla
"de-costruzione" dell'inganno rettorico, allo smascheramento del suo
dispositivo: la Persuasione si porrà, in quelle pagine, innanzitutto come
"dissuasione" 122 Da confrontare, ad esempio, le affinità tra
espressioni che connotano il dio-Persuaso di Michelstaedter e i sémata
dell'Essere di Parmenide nel frammento B 7 vv. 7-10 soprattutto. 123 In questo
senso, è anche possibile che, ad un orecchio greco, oltre che al
"nascondimento", la verità si opponesse all' "oblio": così,
si spiegherebbe il legame della Verità con il carattere rivelativo della
memoria Imnemosyne], tipico del pensiero arcaico greco, faro principe d'illuminazione
per il Nostro. (il valore dell'alpha privativo), come verità negativa, o
meglio, che si evince dalla negazione dialettica e puntuale della Rettorica,
negazione giocata nel concreto della vita e del mondo‘. Eppure,
l'interpretazione michelstaedteriana di Parmenide non è, poi, del tutto
gratuita o fuori luogo: a ben vedere, lo stesso Eleate autorizza lo slittamento
del discorso in prospettiva etica: in lui, l'opposizione tra "essere"
e "non essere" (ovvero tra ragione e sensibilità) è così radicale che
su di essa egli fonda la distinzione tra due tipi di uomini - appunto, quelli
che seguono la ragione e quelli che si fermano ai sensi: il frammento B 6 ne è
prova palese; gli uomini rettorici - ci dice Michelstaedter - assomigliano
molto da vicino alla «gente dalla doppia testa» stigmatizzata da Parmenide:
uomini che [... ] vengono trascinati insieme sordi e ciechi, istupiditi, gente
che non sa decidersi, da cui l'essere e il non essere sono ritenuti identici e
non identici, per cui di tutte le cose reversibile è il cammino. [B 6, vv. 7-10
J15. Lo slittamento di cui sopra viene sostanziato con l'opportuno innesto
della lezione evangelica: la dicotomia essere/non-essere si svincola dalla
strettoia ontologica per ampliarsi nell'apertura etica, secondo la
testimonianza del Cristo: le due vie annunciate da Parmenide divengono
esclusivamente, o prima di tutto, alternative esistenziali: l'accesso ad esse
si avrà attraverso le due porte indicate dal vir: 124 Questo aspetto è stato
colto solo in parte da buona parte della critica, e qualora lo sia stato, è
stato a nostro parere non esattamente interpretato: Maria Adelaide Raschini,
che rappresenta l'approccio della critica cattolica al Nostro, ne desume ad
esempio una sorta di «antropologia teologica negativa» (o addirittura «teologia
antropologica», per cui vd. oltre) bic, in M. A. Michelstaedter, La disperata
devozione, ed. Cappelli, 1988, pag. 138], facendo del Goriziano un redivivo
Pseudo-Dionigi. L'appunto, dicevamo, per noi non è corretto: Michelstaedter,
come stiamo tentando di dimostrare nella nostra analisi, non appronta una
"definizione" per viam negationis della Persuasione: tutt'altro, ed è
qui proprio la sua (e la nostra) difficoltà. E' altrettanto vero, comunque, che
la "monadologia persuasa" del filosofo goriziano acquista più senso e
più nitidezza nello scontro, nell'agonismo con la Rettorica, perché si cala dal
piano astratto a quello esistenziale. E' bene ribadire, anche se in nota,
questa nostra posizione, e proprio in contrasto con le conclusioni della studiosa
su citata: la Raschini, infatti, coerentemente alla sua impostazione, compendia
e sottolinea che «l'uomo della persuasione si afferma del tutto negativamente,
attraverso la pura negazione di tutto ciò che è finito. Rifiutato il mondo,
nessuna categoria mondana gli vale più, vuole per sé la dimensione teologica;
tuttavia, avendo respinto, di questa, il contenuto di verità, la dimensione
teologica si trasforma per lui nell'atto assoluto del negare: teologia
antropologica costruita per negazioni, nella quale l'esigenza mistico-panteistica
viene soddisfatta dal puro e assoluto atto del negare». [ib. pag. 125; corsivi
dell'autrice]. Come si può vedere, ci troviamo agli antipodi: per noi, il
momento della negazione in Michelstaedter non è assoluto, ma funzionale
(ovvero, condizione mediatrice, e non conclusiva) all'affermazione positiva
dell'ipostasi persuasa; un'ipostasi che non nega, pregiudizialmente, ogni
"finito", ogni "categoria mondana" in toto, ma solo quelle
attinenti alla falsità ed al dominio rettorici: in questo non c'è alcuna
aspirazione teologica, ultramondana, o peggio anti-mondana, come sembra
trasparire dai giudizi della studiosa cattolica; tutt'altro: se il vir nega il
mondo rettorico (la precisazione è sempre d'obbligo), lo fa in funzione di
un'apocatastasi del mondo umano stesso in una società "globale"
(diremmo oggi) persuasa, di cui l'amore e l'armonia riusciranno ad essere le
sole leggi. E' questa la potenza, e l'utopia positiva e
"programmatica", del messaggio michelstaedteriano, come stiamo
affermando - sempre, e con insistenza - nel corso del nostro lavoro. 125 Versi
importanti che il Goriziano, non a caso, pone ad epigrafe del Il capitolo del
suo lavoro accademico: L'illusione della Persuasione [PR 11]. Chi cerca trova e
a chi bussa sarà aperto... Entrate per la porta stretta, perché larga è la
porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che
entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce
alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano [Gesù, nel Vangelo di
Matteo 7,1-14]. L'inclusione degli uomini nella agathon philia, nella ekklesìa
persuasa, avverrà attraverso l'accesso non privilegiato della «porta stretta»,
il che vuol dire che comporterà una tempra ed un sacrificio "sovraumani",
cioè al limite delle possibilità dell'uomo: l'uomo nuovo dovrà rinunciare alla
sua condizione sicura, dovrà rimettere in discussione ed esporre al rischio la
propria "stabilità" quotidiana, per aprirsi alla dimensione
autentica, all' "attimo carismatico" della Persuasione. Come vir,
l'uomo nuovo vive la sua vita in profonda relazione con la Persuasione, già
immerso nell’eternità che trascende il tempo nell'attimo della «vita che non si
nega», eppure accetta contemporaneamente di indugiare nel tempo del mondo, nella
storia, nella carne, per condividere la vita degli uomini, per soffrire e
"risorgere" con loro, per essere testimonianza. Nel momento in cui il
Persuaso si emancipa dalla sua condizione umana (rettorica), egli realizza la
sua condizione umana autentica, la sua entelechia come uomo: la Persuasione è,
a dispetto di quanto si sia disposti a credere, la condizione totale dell'uomo,
la realizzazione completa e assoluta delle sue possibilità in atto. «Non ti
meravigliare se t'ho detto: dovete nascere di nuovo. Il vento soffia dove vuole
e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è
nato dallo Spirito» [Gv 3,7-8]. Il fatto paradossale è che per conquistare
questa sua autenticità in atto, espressione piena ed estrema delle proprie potenzialità,
l'uomo deve attraversare il golgota che conduce sulla, o che coincide nella,
via della Persuasione '?9. Già solo da questo punto di vista, dunque, già solo
nel suo accostamento a Parmenide, la proposta di Michelstaedter dovrebbe essere
costantemente ammirata come esempio di un pensiero così rigoroso e coraggioso
da non fermarsi neanche di fronte alle affermazioni più "assurde" e
contrarie all'esperienza, neanche di fronte al confronto con i
"grandi". In effetti, l'apporto parmenideo, nella prospettiva del
Nostro, non si fermerà alla considerazione di una possibilità esistenziale
vera, e non filistea, o rettorica; le intuizioni del filosofo di Elea, svolte
con lucida logica deduttiva a partire dal paradosso dell'Essere che soltanto ha
diritto di essere, coinvolgeranno anche la componente linguistica e
"scientifica" che pregiudica un corretto accesso alla Verità: per
Parmenide il linguaggio e la scienza (entrambi strumenti della doxa) degli
uomini «dalla doppia testa» ne 126 L'eccessivo ricorso al dettato
neotestamentario e il tono "ispirato" di certe nostre espressioni
rischierebbero di denunciare un appiattimento della Persuasione sull'esperienza
cristiana: per scongiurare un simile equivoco, e per ristabilire un certo
equilibrio, riteniamo opportuno ricordare che per Michelstaedter il vir
mantiene una sua forte, assoluta valenza autonoma, non riconducibile affatto
alla testimonianza del Cristo come figlio di Dio: certo, utilizzare la vita e
la parola di Gesù, ci aiuta - a mo' di scorciatoia e secondo indicazioni dello
stesso filosofo - a diradare la complessità della dimensione persuasa; ma si
tenga sempre a mente il ribaltamento di prospettiva (laica, o - azzardiamo -
ebraica) con cui egli si pone di fronte alla sua preferita prosopopea del vir:
per dirla in parole davvero semplici, il Cristo - quel Cristo
"monofisita" che ricordava Campailla - è soltanto uno della schiera
dei Persuasi. E, non per nulla, condivide la sua condizione con un Parmenide o
un Empedocle, giusto per accennare ai filosofi appena trattati.rappresentano la
via artefatta e deleteria, «il sentiero della notte», la scorciatoia che
pretende di assegnare valore alle cose e agli uomini con la vana sostanza dei
nomi, delle convenzionali parole poste dagli uomini stessi, immagini di concetti,
e dunque copia di copia. La scorciatoia che prende in prestito la genuina
aspirazione della Persuasione: quella di vedere le cose, benché lontane, [...]
col pensiero saldamente presenti [cfr. fr. B 4, v.1] e la vanifica, perché la
risolve in un presente che non è l'attimo del vir, ma l'hic et nunc della
storia, dove le cose - sottratte con la violenza al loro "luogo
naturale", alla loro condizione persuasa - sopravvivono nelle ipostasi
rettoriche di ma falsa consistenza, nelle maglie di relazioni logiche e
linguistiche che garantiscono solo una corrotta permanenza, un'illusione di
permanenza e autonomia. Le cose, e gli stessi uomini, divengono - direbbe
Heidegger - semplice-presenza, oggetti a portata di mano [vorhanden]. Una
situazione di hybris, determinata da una sacrilega immissione della temporalità
e della alterità nella perfezione sferica dell'Essere, hybris per la quale
l'essere [è distaccato] dalla sua connessione con l'essere [cfr. fr. B 4, v. 2]
che per Parmenide è peggio di una bestemmia. Michelstaedter svilupperà con
fedeltà e coerenza queste indicazioni dell'Eleate: anche per lui il linguaggio
e la scienza (col suo braccio armato, la tecnica) rappresenteranno le estreme
conseguenze del feticismo rettorico per la falsa permanenza della "cosa"
e del "fatto", in un'oggettività che esercita violenza, perché
strumentale e appunto "tecnica". La loro [i.e. degli uomini
rettorici] memoria è fatta di [...] cumuli di disposizioni che aspettano le
forme consuete per riconoscerle; ed essi riferendovisi con parole non le
comunicano, non le esprimono ma le significano agli altri così da bastare agli
usi della vita. Come uno muove una leva o preme un bottone d'un meccanismo per
aver date reazioni, che le conosce per le loro manifestazioni, per ciò che d'indispensabile
gli offrono, ma non sa come procedono, ma non le sa creare - egli vi si
riferisce soltanto con quel segno convenuto. Così fa l'uomo nella società: il
segno convenuto egli lo trova nella tastiera preparata come una nota sul piano.
E i segni convenuti si congiungono in modi convenuti, in complessi fatti. Sul
piano egli suona non la sua melodia - ma le frasi prescritte dagli altri. - [PR
112; corsivi di Michelstaedter] Ma la vera funzione organica della società è
l'officina dei valori assoluti, la fornitrice dei 'luoghi speciali' e ‘comuni’:
la scienza. Che con l' 'oggettività' che implica la rinuncia totale
dell'individualità, prende i valori dei sensi, o i dati statistici dei bisogni
materiali come ultimi valori, e fornisce alla società col suggello della
saggezza assoluta ciò che per la sua vita le è utile: macchine, e teorie d'ogni
genere e per ogni uso - d'acciaio, di carta, di parole. [PR 125; corsivi di
Michelstaedter] Ma approfondiremo la questione a tempo debito, nel capitolo
dedicato alla Rettorica. Qui, quel che ci preme evidenziare è che è proprio il
suddetto nesso vicinanza-lontananza [quello del frammento B 4] a contessere la
trama e l'ordito del lavoro accademico del Goriziano: quel nesso sembra davvero
assurgere a pietra limite del corretto rapporto delvir con se stesso e con il
mondo e il filosofo individua in esso il perno intorno al quale ruota tutta la
sua visione persuasa. L'homo, infatti, sfalsa la giusta prospettiva tra
vicinanza e lontananza del/dal vero, alla stregua di un binocolo rovesciato:
ritiene di allontanare la morte, che sempre gli è vicina; ritiene di avvicinare
le cose, di averle a portata di mano, dando loro una valenza, una strumentalità
che invece è lontana dal loro giusto valore. La prospettiva distorta dell'ilusoria
persuasione ci crea un presente che è un gigante coi piedi di argilla, dato che
si frantuma sotto l'incessante, sempre incombente premere della deficienza, la
quale ci differisce puntualmente il riposo della (falsa) persuasione, finta
nell'appagamento del desiderio di continuare la vita. Perché non possediamo mai
la nostra vita, l'aspettiamo dal futuro, la cerchiamo dalle cose che ci sono
care perché ‘contengono per noi il futuro', per essere anche in futuro vuoti in
ogni presente e volgerci ancora avidamente alle cose care per soddisfar la fame
insaziabile e mancare sempre di tutto. [D 39] L'uomo rettorico, così facendo,
ovvero [...] mancando di sé stesso nel presente egli si vuole nel futuro -
questo egli non può che per la via delle singole determinazioni organizzate a
farlo continuar a voler così anche nel futuro. Egli si gira per la via dei
singoli bisogni e sfugge sempre a sé stesso. Egli non può possedere sé stesso,
aver la ragione di sé, quanto è necessitato ad attribuir valore alla propria
persona determinata nelle cose, e alle cose delle quali abbisogna per
continuare. Ché da queste è via via distratto nel tempo. - Il suo avvenire alla
vita mortale: il suo nascere è nella altrui volontà; il pernio [sic]intorno cui
si gira gli è dato, e date gli sono le cose ch'ei dice sue. [PR 20] Questa
condizione differita il dominus se la fa scivolare addosso, mentre essa coglie
drammaticamente di sorpresa l'homo. La tecnica retorica preferita dal dominus è
la preterizione, perché egli simula una persuasione che non ha, una lontananza
che non ha attinto: in questo, egli dimostra di avere una «previsione più
organizzata a una più vasta vita», ed è in ciò la sua forza; la debolezza
dell'homo è invece nella sua disperata, vulnerabile, contingente "inesperienza"
esistenziale. Ragion per cui, l'homo si adatterà a strumento passivo di
violenza, mentre il dominus si arrogherà il ruolo di strumento attivo. L'homo,
l'«uomo ammaestrato », «è ridotto a non uscir dal punto colla sua realtà, il
suo modo diretto è il segno d'una data vicina relazione: simile all'uomo che
sogna [...] s'avvicina alle cose lontane per vedere» [PR 113]. Ma egli viene a
trovarsi «come il tiratore inesperto accanto al cacciatore [nella metafora, il
dominus]»: [...] è il debole che vuole affermarsi là dove il forte s'afferma.
Ché questi ha la vicinanza dell'animale lontano nella sua mano e nel suo occhio
sicuro; quello vede l'animale in una lontananza che come non è finita pel suo
occhio è xrtopocperla sua mano: egli ha negli occhi un'incertezza di punti,
nella mano... l'arma. Nella coscienza più vasta la stessa cosa è più reale,
poiché riflette quella vita più vasta. Questa lha di più poiché nella sua
affermazione ci sono i modi della previsione più organizzata a una più vasta
vita, sufficiente a eliminare maggior vastità di contingenze, che ha certa,
finita, vicina nell'attimo una maggior lontananza. [PR 20-21] La stessa
filosofia, o ideologia (nell'accezione davvero larga del termine), sembra
offrire il destro al dominus, escogitare il pretesto di dominio, lo autorizza
sostanziandolo di sapere. La filosofia è la versione umanistica della scienza,
è la sua giustificazione "ideale": questa ci avvicina (falsamente) le
cose attraverso l'esperimento, ci fornisce l'illusione di possederle entro i
dettami razionali della formula; quella ci avvicina (altrettanto falsamente) le
cose "sublimandone" il valore in concetto, il concetto in idea,
l'idea in parola. In questo senso, per Michelstaedter, Platone (il Platone
oramai sganciato da Socrate, il Platone del Fedro, della Repubblica e delle
Leggi) è davvero il padre di tutti i domini, per giunta scalzato da uno ancor
più forte, Aristotele. Quanto il Goriziano scrive a proposito ha una sua
innegabile forza di contestazione e di "smascheramento": Ma la
necessità per gli uomini è appunto il muoversi: non bianco, non nero [come
suggerisce l'aut-aut parmenideo della Persuasione], ma grigio: sono e non sono,
conoscono e non conoscono: il pensiero diviene [la temporalità e la differenza
irrompono e trasgrediscono l'omousia dell'essere]. | dati per sé non sono
niente, dicono gli uomini: noi dobbiamo ora prenderli, considerarli sub specie
aeterni, contemplarli, e pensando andare verso la conoscenza. Il valore, la
realtà è la via: la macchina che muove i concetti: l'attività filosofica [PR
60-61]. Nella Appendici critiche, l'attacco diviene ad personam, ovvero
condotto - volendo continuare l'espressione del Goriziano - contro il deus ex
machina dell'attività filosofica: Ma Platone ha bisogno d'aver dagli altri il
segno della propria persona, vuol esser per loro il sapiente sufficiente a ogni
cosa, e, se non può dare vicine le cose lontane, ma le cose vicine dice e le
chiama lontane - perché esse pur siano accette alla corta vista del comune
degli uomini, e insieme conservino il nome di cose lontane: di sapienza
assoluta. E perciò i nomi che questa sapienza costituiscono, e che rifulsero di
tutta la loro luce nella bocca del vero Socrate e del vero Parmenide, devono
ora per la loro stessa bocca scendere nel fango a dar bella apparenza
all'oscurità [PR 176]. 1277 commesso da Platone. Sarà il vira Sarà il vir a
riscattare il «parricidio» di Parmenide ristabilire il giusto equilibrio con le
cose, a "riaggiustare" la prospettiva dialettica di
vicinanza-lontananza, a reintegrare l'omousia, operando quella che già
definimmo la sua personalissima "rivoluzione copernicana" nei
rapporti con le «altrui vite» delle cose e degli uomini. Le cose saranno
davvero vicine al vir, vicina la stessa morte, nella loro accezione autentica,
nel loro valore in atto: il Persuaso ridona valore al mondo, sospende la
«relazione sufficiente» con le cose e le sostituisce un rapporto di comunione
in atto, che si realizzerà in un reciproco donarsi ultro: le cose, potremmo
dire, si "ammansiscono"; avendo riconquistato il luogo naturale che
loro compete, acquisteranno nuovo, vero "sapore". Esse «non ci
avranno» più, noi non c'illuderemo più di averle, l'avere stesso sarà bandito,
perché espressione di coartazione: gli uomini e le cose coopereranno al senso
persuaso del nuovo mondo, e la legge sarà quella che gli uomini, anche oggi,
chiamano 127 Cfr. Sofista, 241 d3. C. Mazzarelli - curatore del dialogo in
Platone, tutte le opere, cit. - fa notare che «la ferita mortale al
Parmenidismo è inferta dallo straniero di Elea, uno dei figli spirituali di
Parmenide». Notiamo noi che Platone si è riservato il pudore di non metterla in
bocca a se stesso o a Socrate. («illudendosi d'averli») amore, o armonia. E
così l'essere, per riprendere le espressioni di Parmenide e di Empedocle, si
«ricucirà» all'essere, «il simile col simile», «con legami d'amore
connettendoli Afrodite » [Empedocle, fr. 87]'”. Scrive Michelstaedter: Ma
(ancora una volta e mille volte!) soltanto se questa vastità di vita viva tutta
attualmente, saranno vicine le cose lontane. Soltanto se essa chieda nel
presente la persuasione, essa potrà reagire in ogni presente con una sapienza
così squisita, ed enunciando il sapore che le cose hanno per lei, costituire la
presenza d'un mondo che poi gli uomini dicano sapere o arte o sogno o profezia
o pazzia a piacer loro [PR 169]. Così, «l'uomo libero gode dell'altrui vita -
poiché tutte [le cose, le vite] egli vede e conosce e ama non per quanto gli
siano utili ma per loro stesse» [D 90]. Il Persuaso avrà «la gioia dell'esistenza
in mezzo a 128 Non a caso abbiamo indugiato sull'analisi di Empedocle e
Parmenide, secondo l'ottica del filosofo goriziano (ci dispenseremo
dall'accordare analoga attenzione ad Eraclito, dato che egli sostanzialmente
condivide con gli altri due, da questo punto di vista, il senso fondamentale
del suo messaggio, che Michelstaedter fa proprio). Molta critica, infatti, si
ostina a semplificare l'assunto del giovane tesista su posizioni
schopenhaueriane o leopardiane: le pagine di Michelstaedter si presenterebbero
come una parafrasi, per quanto originale, di motivi analoghi riscontrabili
nell'autore del Mondo come volontà e rappresentazione e del poeta-filosofo
recanatese (soprattutto per quanto riguarda i Pensieri e lo Zibaldone). Ora,
non vogliamo certamente negare l'evidente influenza di queste due ispirazioni
(Michelstaedter lesse di sicuro Schopenhauer e rilesse e annotò più volte i
Canti di Leopardi), come non vogliamo negare il ripetersi dei motivi conduttori
tra i tre autori: la deficienza con la Volontà (a partire dall'esempio del peso
che troverebbe un esempio "siamese" nel Mondo); la polemica
antirettorica con la polemica antilluministica e antiborghese di Leopardi nelle
Operette o nella Ginestra, tanto per far citazioni ovvie; le medesime
riflessioni sulla natura illusoria de piacere, così tipicamente umana; la
conseguente (analoga) concezione della vita come «pendolo che oscilla tra
dolore e noia»; una certa, affine, disperazione esistenziale in concreto
(soprattutto col giovane Leopardi); e via dicendo. E' de tutto palese che
Michelstaedter provi "simpatia" per questi due filosofi; altrettanto
palesi ne sono i motivi. Tuttavia, per noi, la questione è più complessa.
Cerchiamo di spiegarci: l'orizzonte entro il quale si muove la riflessione di
Michelstaedter è innanzitutto l'orizzonte greco: la sua riflessione nasce dalla
lettura e dalla intensa meditazione degli autori tragici e presocratici, e
anche di Platone e di Aristotele. Michelstaedter non solo scrive, ma pensa
grecamente. | punto di partenza è la grecità: in Leopardi e Schopenhauer (nel
loro "pessimismo") egli avrebbe trovato piuttosto un confortante e
corroborante riscontro contemporaneo di una verità che appartiene agli albori
della civiltà tragica, verità consegnata già alle beffarde e ammutolenti parole
del Sileno: «Stirpe misera e caduca, figlia del caso e della pena, perché mi
costringi a dirti ciò che è per te il meno profittevole a udire? Ciò che è per
te la cosa migliore di tutte, ti è affatto irraggiungibile: non essere nato,
non essere, essere niente. Ma, dopo questa, la cosa migliore per te è morir
subito». Ora, il senso del nostro appunto è il seguente: Michelstaedter non
parte dalle riflessioni di Schopenhauer e di Leopardi, ma arriva ad esse
attraverso la sua consapevolezza greca (ovvero, tragica), si riscopre in esse -
si incontra con esse - sul comune terreno della grecità. E la grecità, nel
nostro autore, come nel Nietzsche della Nascita della tragedia, non è un
referente culturale e storiografico, non è un passato lontano e irrecuperabile:
è un modus vivendi sempre attuale e sempre attingibile. Il Greco, come il
Cristo, è l'Uomo par eccellence, il vir; il popolo greco non è (soltanto) il
progenitore, ma l'auspicabile rendez-vous dell'umanità occidentale,
dell'umanità tutta: Nietzsche conclude il suo capolavoro giovanile con parole
di straordinaria bellezza: « Beato popolo degli Elleni! Come deve essere grande
tra voi Dioniso, se il Dio di Delo reputa necessari tali incantesimi per
guarirvi dalla vostra follia ditirambica!' [...] - Ma un vecchio ateniese,
guardando col sublime occhio di Eschilo colui che così parlasse, potrebbe
ribattere: 'Aggiungi però anche questo tu, singolare straniero: quanto dovette
soffrire questo popolo per diventar così bello! Ora però seguimi alla tragedia
e sacrifica con me nel tempio delle due divinità' » [Nietzsche, Nascita della
Tragedia, in Opere, cit., pag. 187]. L'occhio di Eschilo diviene lo sguardo di
Michelstaedter: attraverso quello sguardo il Goriziano valutò il mondo, ed
accolse chiunque lo accompagnasse sulla via della Persuasione. Anche Leopardi e
Schopenhauer. 129 Facciamo notare che, secondo Michelstaedterr, il
ristabilimento della corretta prospettiva lontananza-vicinanza è a suo modo
anticipata, ma solo in modo molto vago e inguenuo (come dire: solo per
analogia), nell'esperienza artistica: «Una facoltà potente di sogno è quella
dell'artista che vede le cose lontane come levicine, e perciò le può dare così
ch'esse tutte le cose. Gli sono care non solo le cose vicine e come possano soddisfare
un bisogno ma tutte - egli sa godere della luce del sole» [D 89-90]. Se l'uomo
rettorico è «malato », perché «ha perduto il sapore d'ogni cosa» [D 46], la
salus del vir - la sua salute, la sua... salvezza - al contrario, consisterà
nel riassaporare una nuova dolcezza. Perché la Persuasione, come rivela la sua
variante etimologica latina, la più bella e forse la più vera, è uno stato di
dolcezza. Tuttavia, quella dolcezza appare (apparve a Cristo, apparve a
Michelstaedter, appare ad ogni vir) un miraggio, essa stessa una condizione
differita. Oggi la Rettorica domina, e il suo dominio è sempre più forte e
serrato, è sempre più nascosto e plausibile. Siamo ancora in un periodo di
esodo. La "pasqua" della liberazione è rimandata. Il mio tempo non è
ancora venuto; il vostro tempo invece è sempre pronto. Il mondo non può odiare
voi, ma odia me perché io testimonio di lui, che le sue opere sono malvagie.
Salite voi a questa festa, io non vi salgo ancora, perché il mio tempo non è
ancora compiuto. [Giov. 7, 6-8] Nel capitolo sulla Rettorica, analizzeremo le
radici di questo odio e l'incompiutezza di questo nostro tempo, così come
apparvero allo "sguardo eschileo"'*' del Goriziano. appaiono nella
loro reciproca relazione di vicine e di lontane» [PR 113]. Ma, appunto, quello
artistico è un sogno non meno illusorio e fallace del "sogno"
rettorico. 130 Persuasione > per + suav(itattem: condurre (attra)verso la
dolcezza. Già Aristotele, però, intese quella dolcezza come escamotage retorico,
come dolcezza di parole, per attrarre a sé l'uditorio, per lusingarlo, ed
assicurare una posizione vincente all'oratore. Siamo nel cuore della Retorica
aristotelica, per l'analisi della quale rimandiamo al seguito del nostro
lavoro. 131 Cfr. quanto da noi detto supra, in nota 120. Intermezzo. Notò che
essi collegavano le questioni scientifiche con quelle che riguardavano l'anima,
e a momenti pareva che toccassero il punto essenziale, cioè quello che a lui
pareva tale, ma subito se ne allontanavano e s'immergevano nel campo delle distinzioni
sottili, delle riserve, delle allusioni, delle citazioni, dei richiami alle
autorità, e allora gli riusciva a stento di capire il senso del loro discorso.
Considerazioni di Levin, in Anna Karenina La Persuasione non soggiace ad alcun
atto apprensivo, sfugge ad ogni concettualizzazione: è alla disperata ricerca
di una propria, peculiare, semantica, di un «linguaggio rappresentativo»
[Piovani] che ne dipani il velo di Maia. Condividiamo con Michelstaedter questa
difficoltà, e con Michelstaedter siamo giocoforza spinti ad una serie di
riferimenti prismatici ed aleatori, che chiamano in causa autori e dottrine,
espressioni artistiche e risonanze filosofiche, anche "alternative",
che corrono il pericolo di franare in pastiche, o quantomeno di mostrarsi quali
fili sospesi ed equivoci, difficilmente riassettabili in un nodo stretto e
sicuro. La cosa sconcertante è che questa situazione di stallo ha insita una
sua ineluttabilità. Socrate medesimo, uno dei vertici assoluti della
Persuasione, in fondo, non trovava risposta al suo ti estì, sciogliendola in
un'aporia esistenziale che trovava esclusivamente nella sacra finitudine
dell'uomo la propria soluzione. Allo stesso modo che per Socrate, tentare
d'evincere dalla scrittura magmatica di Michelstaedter la definizione
"esatta" della valenza del suo essere persuasi varrebbe press'a poco
quanto chiedere ad un credente di rendere ragione della propria fede. Montale
avrebbe risposto: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l'animo
nostro informe, e a lettere di fuoco / lo dichiari e risplenda come un croco /
perduto in mezzo a un polveroso prato ». Eppure, proprio il riferimento alla
fede (riferimento da assumere però con molta cautela, ché può dar adito a
pericolosi equivoci) può contribuire a sostenere, almeno un poco, e seppure in
un chiaroscuro di affinità e divergenze, lo scandaglio ermeneutico che stiamo
tentando; sotto questo rispetto, ci appelliamo alla testimonianza di uno dei
cristiani veramente onesti che siano mai vissuti, Soren Kierkegaard!'*?. In
effetti, non sarebbe difficile riscontrare suggestivi punti di contatto tra il
«cavaliere della fede» e il vir innanzitutto, i due filosofi condividono la
polemica contro l'«individuo sognato da 132 E' assodato che Michelstaedter non
conobbe l'opera di Kierkegaard, anche in virtù della tardiva diffusione e
fortuna che essa ebbe in Italia (e non solo), data la difficoltà della lingua.
Non è improbabile, tuttavia, che il giovane studioso abbia assimilat elementi o
atmosfere kierkegaardiane attraverso la mediazione e il filtro dell'opera
teatrale di Ibsen. [Ma cfr. anche S. Campailla, Pensiero e poesia..., cit.,
pagg. 30-31] Inoltre, si noterà, nel seguito della nostra trattazione, in
particolare nel capitlo riguardante la Rettorica come specifiche "categorie"
kierkegaardiane - l'angoscia, la disperazione, la scelta, il salto e via
dicendo - risulteranno efficaci strumenti euristici nell'affrontare il
complesso discorso della Rettorica connaturata all'uomo. 133. imbastita in un
noto Hegel» - tanto per intenderci, quello della gustosa scenetta a tavola
passaggio della Persuasione [PR 89-91]: borghese che (notiamo en passant),
forte della sua logica ferrea della sicurezza e dello stato («la botte di
ferro», dice il Goriziano), riesce a controbattere punto per punto, da
consumato sofista, le obiezioni, che Michelstaedter gli propina cercando invano
di farne vacillare la speciosa logica rettorica (invincibile se affrontata sul
suo stesso campo d'azione). Ora, è risaputo l'astio del filosofo danese contro
il sistema hegeliano, tanto che non è opportuno neanche soffermarcisi;
analogamente, Michelstaedter diagnostica la «copertura ideologico-teoretica»'°*
della società rettorico-borghese proprio nella hegeliana dottrina dello Stato
etico, che trova il suo corrispondente nella copertura ideologico-giuridica,
rappresentata dal Codice austriaco'*. Contro la pretesa razionale, necessaria e
totalizzante di Hegel, che risolveva l'individuo nei vari momenti dello spirito
oggettivo (l'eticità, la vita politica, lo Stato), Kierkegaard fa valere la
dialettica (che non è dialettica) del paradosso, del singolo, dell'autaut che
sfocia nello scandalo della fede; similmente, all'«individuo cacanico»'°,
Michelstaedter oppone le ragioni del vir, altrettanto "scandalose", agli
occhi della comune ragione. Entrambi - il cavaliere della fede e il vir -
cercano la gioia della propria realizzazione esistenziale, gioia che, ancora
entrambi, sperimentano come paradosso, perché l'assurdo è che «a felicità
eterna di un uomo sia commensurabile con una decisione presa nel tempo», come
scrive Kierkegaard in un bel passaggio del suo Diario. Costui, analogamente a
Michelstaedter,ascrive la possibilità di attingere quella gioia ad un atto di
coraggio, anche se per lui - ed è qui il discrimine essenziale - quel coraggio
è piuttosto il «coraggio della fede»: «Occorre [...] un coraggio umile e
paradossale per poter ora affermare tutta la realtà temporale in virtù
dell'assurdo e questo è il coraggio della fede», come asserisce in Timore e
tremore. Frase sottoscrivibile da Michelstaedter, anche se l'accenno pregnante
alla fede si mutuerebbe, senza ombra di dubbio, nell'asserzione di autonomia
persuasa, creando un piano parallelo e inconciliabile di valutazione
dell'esistenza umana, seppur accomunato dalla forte esigenza
"realizzativa" del singolo o del vir che sia. 133 Cfr. la diapositiva
N [La botte di ferro] nel supporto iconografico. 134 Cfr. A. Negri, Il
lavoro... , cit, pag. 26 135 In pagine importanti della sua tesi di laurea,
nella sezione dedicata alla Rettorica nella vita, il giovane filosofo fa
esplicito riferimento, in nota, alla Philosophie der Geschichte di Hegel, di
cui - ci avvisa - non tradurrà le citazioni, poiché dispera «di poter
riprodurre in italiano il loro ineffabile callopismatismo » [PR 92-93]; poche
pagine più avanti [cfr. 99], un altro riferimento esplicito, stavolta al codice
austriaco, che sancisce/garantisce (ma il condizionale sarebbe d'obbligo) che
«ogni uomo ha per natura diritti già da sé stessi evidenti alla ragione». Il riferimento
è, ovviamente, polemico, di una polemica che si sostanzia anche e soprattutto
nel richiamo reciproco, e non nascosto, tra il codice e i passi hegeliani
appunto citati nelle pagine appena precedenti. [ma per un'analisi più
approfondita, cfr. il nostro capitolo sulla Rettorica] 136 Cfr. A. Negri, Il
lavoro... , cit., pag. 16. 68 Ancora, il cavaliere della fede (Abramo) soffre
l'incomprensione della massa, perché vive un rapporto speciale con l'Assoluto:
appare come un assassino, mentre invece - a suo dire - egli compie soltanto un
sacrificio che gli viene richiesto da Dio. Il suo è, dunque, un dramma di
incomunicabilità, che condivide - ma solo apparentemente - col vir: infatti,
per entrambi, l'istanza realizzativa si risolve in una ricerca solitaria, l'uno
di Dio, l'altro della condizione persuasa. Tuttavia: analogia di presupposti,
ma differenza totale di esiti: al dialogo "monogamico" che apre il
singolo a Dio (gli fa dare a Dio del "Tu") ma che gli preclude
l'orizzonte "politico" («il segreto della vita è che ciascuno deve
cucire la sua propria camicia», recita una massima kierkegaardiana),
l'individuo persuaso - all'apice del suo percorso difficile sulla via della
Persuasione, ch'è l'entelechia etica - preferisce la relazione plurale. Il che
è come dire che lorizzonte etico e politico, la cui liceità vien prima messa in
discussione e quindi definitivamente annichilita dall'atto di fede, è invece il
presupposto essenziale dell'agire persuaso: l'eteronomia dell'assurdo comando
divino di uccidere Isacco viene condannato dal vir sia in quanto eteronomo, sia
in quanto (e soprattutto) lesivo della dignità, prima che della persona,
dell'altro. Certo, quando Kierkegaard scrive "morale" vuol far
intendere l'universale (il Generale) hegeliano: eppure, il sacrificio
dell'altro non ha attenuanti, per quanto l'amore che ci lega a quell'altro
possa superare noi stessi, e quindi valorizzare in maniera estrema quel
sacrificio. Insomma, a fronte della visione "veterotestamentaria" che
ancora avvolge l'assunto kierkegaardiano, e che lega il credente ad un
Dio-che-mette-alla-prova e pretende assoluta dedizione (il sacrificio di
Isacco) in un rapporto di insostenibile disperazione, Michelstaedter aggiorna
la propria prospettiva - rendendola ancora più personale - in direzione
neotestamentaria, di un (Dio)Cristo incarnato che non chiede l'altrui
sacrificio, ma sacrifica se stesso, in un progetto di redenzione e perdono. Lo
stato di grazia divina raggiunta da Abramo, allora, perde di senso a confronto
dello stato di "grazia umana" di cui il vir è scrigno e portavoce. O,
quantomeno, si pone su un altro livello di senso: di qui la cautela annunciata.
Incomunicabilità, dunque. E' questa vicendevole «impenetrabilità degli
spiriti», come la chiamava Croce, questa impossibilità di completa osmosi o
"simpatia" razionale ed emotiva che sembra compromettere ogni
possibile ricerca (in senso ampio) condivisa, ogni comunicazione autentica ed
integrale con gli altri a riguardo delle proprie esperienze fondanti:
un'impenetrabilità che potrebbe facilmente degenerare in un'anarchia pericolosa
del pensiero e delle verità, ma che allo stesso tempo ci protegge, non ci rende
completamente esposti all'altro, e dunque vulnerabili. Una comoda corazza
rettorica, così avvolgente, così sicura, così esclusivamente nostra. Il
Persuaso avverte il bisogno di svincolarsi da quell'ingannevole egida, di
tentare un punto di incontro, di recuperare un orizzonte condivisibile, di
senso e di esistenza, perchsolo nella comunione con gli altri si realizza la
vera felicità, e non nelle zone di franchigia della Rettorica. La posta in
gioco è immensa: la scommessa è la trasposizione "urbana" e umana
della scommessa di Pascal, e addirittura più avvincente, perché più pericolosa,
essendo in gioco non la felicità in un'altra vita, presunta o vera che sia,
bensì la felicità nel mondo che abitiamo e nell'esistenza che conduciamo, ché
solo essa, qui e ora, ci appartiene '?”. La schiera dei Persuasi è tale perché
ha attinto questa verità: la loro forza è nell'aver mosso il primo passo verso
quell'incontro con gli altri, fondando quel loro atto nel sacrificio di sé, che
è più un donarsi che un sacrificarsi, un atto gratuito - presupposto
ineludibile - che non pretende di essere contraccambiato, perché conosce e
perdona la debolezza e la miseria degli uomini, e pur accorda loro la fiducia,
la persuasione appunto: «l'attività che non chiede è il beneficio, che fa non
per avere, ma facendo dà» [PR 42]. Scrive bene Eugenio Garin", a questo
proposito: «Il consistere [ovvero, la Persuasione] è veramente il salto oltre
il mondo della violenza, dell'asservimento, verso la vita vissuta non contro,
ma con gli altri e con le cose». 137 Forse questa allusione, velatamente
critica, al pari non rende giustizia alla portata autentica del tentativo di P
ascal: che è proprio quello di conquistare profondità e felicità all'esistenza
umana, nel mondo, seppur fondandola nell' "azzardo" trascendente
(cfr. il famoso pensiero 377, su quell'essere "nobile" ch'è l'uomo,
"canna che pensa" [P ascal, Pensieri a cura di P. Serini, Mondadori
1969, pagg. 216 e 217], e lo si integri appunto con l'argomento della
"scelta di Dio" [cfr. pensiero 164 "Infinito, nulla", ib.
pagg. 123 - 129]). «170. Obiezione. Coloro che sperano nella loro salvezza sono
per quest'aspetto felici, ma, in cambio, soffrono per la paura dell'inferno.
Risposta. Chi ha maggior motivo di temere l'inferno: chi ignora se ci sia un
inferno e vive nella certezza della
dannazione, se c'è, oppure chi vive nella sicura convinzione che
c'è un inferno e, se questo esiste, nella speranza di salvarsi? » [ib. pagg.
130-131] Diversamente, la Rettorica della fede (nelle posizioni e nelle
istituzioni che ha assunto) ha sempre e volentieri strumentalizzato l'argomento
della "scommessa" come alibi di una promessa o di una dannazione
eterna; alibi volto - in questo gioco angoscioso - a svalutare la componente
"terrena" ed autonoma del credente, e funzionale ad una migliore
"gestibilità" dello stesso, in coerenza con la propria logica di
dominio delle coscienze e soprattutto dei corpi. 138 E, Garin, Intellettuali
italiani del XX secolo, Roma, Ed. Riuniti, 1974, pag. 98. 139 Due spettri si
aggirano nella critica michelstaedteriana, e rispondono ai nomi di Giorgio
Brianese ed Emanue Severino; quest'ultimo elogia la tesi del primo come «lo
studio migliore oggi esistente in Italia sulla filosofia di Carl
Michelstaedter». Brianese, in un passaggio tanto preliminare quanto fondamentale
della sua tesi, scrive: «Michelstaedter pensa una sola cosa: l'autenticità
dell'esistenza, che egli connota come esistenza "persuasa"; oltre la
quale è la "rettorica", la valenza inautentica dell'esistere, la
quale va smascherata come una situazione che bisogna oltrepassare.
Nell'oltrepassamento della rettorica va rintracciato l'unico dovere al quale
l'uomo è indubbiamente chiamato. E tuttavia Michelstaedter resta, suo malgrado,
prigioniero di quella che egli crede sia l'inoltrepassabile polarità di
persuasione e rettorica. Prigionia che discende, primariamente, dal permanere
tanto della persuasione come della rettorica all'interno della logica del
dominio e della violenza. Con l'unica differenza che la rettorica è inesa da
Michelstaedter come quella modalità depotenziata della volontà che non sa
conseguire quello che vuole (sì che il suo possesso è, dal punto di vista della
persuasione, una mera illusione di possesso), mentre la persuasione è
quell'atto della volontà che mette in opera il massimo del dominio concreto
(anche se va chiarito sin d'ora che, nell'atto stesso in cui tenta questa
realizzazione, la persuasione attua pure l'annientamento dell'esistenza). Anche
se, esplicitamente, la persuasione intende porsi come toglimento radicale della
rettorica, tuttavia l'atto decisivo del persuaso non esce dalla logica
volontaristica che caratterizza la rettorica (perché è l'atto con il quale il
persuaso vuole il dominio più vasto); e dunque anche la sopraffazione non può
che ripresentarsi come figura del dominio, della separazione, della violenza,
la sua differenza con la rettorica consistendo unicamente in questo: che essa
ottiene ciò che quella meramente si illude di o D La morte di Cristo e di
Socrate vale, così, più di mille risposte all'interrogativo "che cos'è"
il bene. Itti, l'ipostasi autobiografica di Michelstaedter'‘°, che si rituffa
nel mare, è lo schiavo platonico che torna nella caverna, sapendo di rischiare
il linciaggio, eppure desideroso, più di ogni altra cosa, di comunicare la
verità ai suoi sfortunati compagni e condividere con loro la gioia di quella
conquista, foriera di liberazione. Il dramma, allora, della fiducia disattesa?
Nient'affatto: la sofferenza è nel cammino di rinuncia di sé che porta all'atto
del donarsi, non nell'atto stesso, o ad esso posteriore: il Persuaso, giunto
all'apogeo della sua consapevolezza, non si aspetta alcuna risposta dagli
uomini, non si attende adesioni, né apprezzamento: è una possibilità che non
pone neanche in conto. La sua gioia non è conseguente al sacrificio, è nel
sacrificio: una gioia paradossale e insensata ad uno spettatore retorico, pago
e cinico, e che invece, nell'ottica persuasa, rappresenta la discesa
dall'Iperuranio di quell'idea di bene, vero e bello che si fa carne e sangue,
consiste, permane in eterno presente, in un attimo che trascende il tempo,
nelle persone che la vivono fino in fondo. Gli dei, e le idee, finalmente,
scendono e vivono tra gli uomini. Attraverso l'attività verso la pace.
L'«acerbità» di Michelstaedter, dunque, non è la mancata refrattarietà
filosofica che lamenta il Piovani''; se proprio di acerbità della Persuasione
si deve parlare nel ottenere. Il persuaso, non meno del rettorico (ed anzi:
molto di più di lui) permane saldamente nell'ambito della volontà di potenza,
proprio perché "persuaso" è colui che si propone la messa in atto
della maggior violenza al fine di ottenere il massimo del dominio: il dominio
della totalità. Ed è tuttavia, il persuaso, un trionfatore che non si avvede
dell'essenziale incongruenza esistente tra ciò che ci si propone di ottenere
(il dominio del tutto) e i mezzi messi in opera per il conseguimento del voluto
(il raggiungimento di una unità-identità del tutto che blocca definitivamente
la pretesa stessa del dominio). Donde l'inevitabile dello scacco e il suicidio».
[G. Brianese, L'arco e il destino. Interpretazione di Michelstaedter., Abano
Terme, Fravisci editore, 1985, pagg. 10-11; | corsivi sono dell'autore del
brano, che ce li ha assecondati] Il nostro dissenso, rispetto tali conclusioni,
è totale: il critico e il suo mentore, evidentemente, confondono il vir col
superuomo nicciano, e addirittura nell'accezione più becera, quella della
vulgata nazionalsocialista. Per una lettura opposta, e a questo punto salutare,
del messaggio michelstaedteriano consigliamo il bellissimo testo di Aldo
Capitini, Elementi di un'esperienza religiosa (ora disponibile nell'ed.
Cappelli, 1990). Ma consigliamo anche di cfr. il nostro appunto sulla
"variante" nicciana e le conclusioni alla nostra tesi. 140 cfr, S, Campailla,
Pensiero e poesia..., cit., pag. 85. 141 «Il fatto è che il ‘caso
Michelstaedter', nella dimensione in cui è veramente tale, non riguarda tanto
la cronaca di una vita interrotta o di una fortuna critica mancata, quanto una
storia da cui ogni storiografia rifugge: la storia dell'acerbo come tale. Per
ogni storia, l'acerbo è il momento germinale di una maturazione che si annuncia
e si attua. Di fronte a vite eccezionali, che si realizzano nell'acerbità
scegliendola o accettandola come unico spazio temporale, bruciando nella
brevità l'interezza vitale, la storia è disorientata. Da un lato deve
registrare una maturità precoce, dall'altro deve costatare i limiti
insuperabili, biologici, psicologici, intellettuali, di quell'acerbità
culturale e biografica. La filosofia di Michelstaedter è stata poco
‘storicizzata' proprio per questo: la storia dell'acerbo è poco storicizzabile.
[...] Ma non bisogna farsi troppe illusioni: l'acerbità rimarrà un ostacolo
spesso invincibile alla coerente storicizzazione e continuerà ad invitare, con
seduzione tentatrice, a un'esegesi che trovi sistematica coerenza unitaria
anche dove essa non può esserci» [P. Piovani, Michelstaedter: filosofia e
persuasione, cit., pp. 212-213]. L'autorevole giudizio del Piovani,
condivisibile o meno nella sua sostanza, ma che ammette concessioni anche a
dispetto della matrice filosofica che lo fonda, si riflette purtroppo
(ovviamente volgarizzato) nella cattiva "Storia della fortuna"
michelstaedteriana. Volendo, solo a facile riprova, dare una scorsa ai famigerati
manuali scolastici, si potrebbe notare come il giovane goriziano risulti
malamente emarginato sia dalla storia ufficiale della filosofia - evidentemente
perché ritenuto "acerbo" come filosofo, e come tale delegato ai
colleghi di lettere - sia dalla storia ufficiale della letteratura - Goriziano,
essa consiste piuttosto nel fatto che egli si lascia prendere dallo sconforto,
da un'amara perplessità che lo combatte e lo sfianca'*: il Persuaso, di contro,
non si sconforta, anzi conforta (il verbo da riflessivo si traduce in
transitivo), oltre e dopo tutto, sempre e comunque. Quell'equilibrio di falco
[PR 68], che è una delle immagini più belle e ardite del vir, Michelstaedter lo
presentì, lo intravvide, talora gli fu tanto vicino da sfiorarlo, ma alla fine
non seppe attingerlo, o almeno non seppe assumerlo fino in fondo, in tutte le
sue lancinanti e complicate conseguenze! . Quell'equilibrio di falco, ancora,
che è possibile rendere - anche noi un escamotage matematico, come per il
giovane tesista - con un'immagine tratta dalla chimica fisica: quella di
equilibrio dinamico, un equilibrio che si realizza nel trapassare nascosto (non
evidente all'occhio umano), ma reale, di una sostanza entro i confini
dell'altra, e viceversa. E' l'impercettibile, ma costante, trapassare della
vita nella morte e della morte nella vita, come recita il celebre Canto delle
crisalidi [PP 54-55], un'amena litania dai labili contorni orfici'‘*, quasi a
richiamare quell'identico equilibrio dinamico, e perciò tragico nel suo evidentemente
perché ritenuto "acerbo" come scrittore, e come tale delegato ai
colleghi di filosofia. Un rimbalzo di competenze davvero esilarante. 142 Un
esempio per tutti: Michelstaedter immagina (auspica?) un ritorno di Gesù tra
gli uomini: eppure, si dimostra convinto che, al punto in cui è giunta la
Rettorica, «se Cristo tornasse oggi, non troverebbe la croce ma il ben peggiore
calvario d'un'indifferenza inerte e curiosa da parte della folla ora tutta
sufficiente e borghese e sapiente - e avrebbe la soddisfazione di essere un bel
caso pei frenologi e un gradito ospite dei manicomi -» [PR 126, in nota]. 143
Ci siamo già ripromessi di non esprimere, per una sorta di rispetto e di
affetto, e per una palese difficoltà oggettiva, alcuna valutazione sul suicidio
di Michelstaedter. Campailla fa altrettanto; ma come lui, se proprio dobbiamo
cedere alla tentazione di esprimere un giudizio, al di là delle interpretazioni
psicoanalitiche o metafisiche che di quel suicidio si sono date, e che ne
impoveriscono sicuramente la portata, ci sentiamo di condividere le conclusioni
del Ranke, il quale ascriveva quell'atto «"non ad un compimento, ma ad un
cedimento" rispetto alla sua [di Michelstaedter] posizione teorica, ormai
vittoriosa di quell'estrema "rettorica della morte" riconosciuta nel
suicidio» [cfr. S. Campailla, Pensiero e poesia..., cit, pagg. 136-137], Detto
per inciso, «l'avvincene lettura dello studioso tedesco, innestando con energia
la meditazione di Michelstaedter sul ceppo comune della filosofia
dell'esistenza [...], traeva forza singolare per procurare alla figura del
Goriziano quella cittadinanza internazionale il cui tributo tarda ancora e che
tuttavia sembra spettargli di diritto». [ib.; la lettura cui fa riferimento
Campailla è contenuta in J. Ranke, Il pensiero di Carlo Michelstaedter. Un
contributo allo studio dell'esistenzialismo italiano, in Giornale critico della
filosofia italiana, XLI, 1962, IV, pagg. 518-519] 144 Piero Pieri appronta una
bella e dotta analisi di questo testo cruciale nel capitolo "Il canto
delle crisalidi: il ‘pensiero poetante' e le crucialità dell'ipertesto"
[cfr. P. Pieri La scienza del tragico. Saggio su Carlo Michelstaedter.
Cappelli, Bologna 1989]. L'approccio del critico, che condividiamo appieno,
«intende sottolineare la posizione tematica del testo, rispetto alle prove del
pensiero maturo (La Persuasione e il Dialogo della salute) e rispetto ad una
lirica del 1910 (Risveglio)»: nella lirica, «'la morte nella vita' e 'la vita
nella morte' indicano uno stadio binario dell'esserci dentro il quale l'uomo
vive una preagonica condizione, irrisolta e malinconicamente rassegnata; uno
'stadio binario' che "mostra i segni di una condizione generale
spossessata di una identità sicura che non sia quella arida ed elementare della
vita depressa dalla inerte polarizzazione della morte che filtra nella vita, ma
non l'affranca, e della vita che si avvolge nel manto della morte senza che ciò
porti al martirio o alla illuminazione » [come invece, aggiungiamo, avverrà
nelle opere e nella vita dell' "ultimo" Michelstaedter]. «Nel testo
appare invece preponderante il concetto indeterminato della vita il cui palpito
di morte non produce tuttavia istanze liberatorie», continua Pieri, tale che
«[...] l'uomo-crisalide indica lo stadio bilicato dell'esistenza non più larva,
ma neppure farfalla di persuasione ». E conclude richiamando l'immagine
"speculare" dell' "uomo-insetto" ontenuta in Risveglio [PP
69-70] e istituendo una suggestiva comparazione con testi similari di
D'Annunzio, Tennyson, Coleridge, dai quali - presumibilmente - il sintagma
"la morte nella vita" ha avuto la genitura agonismo, che sussiste tra
apollineo e dionisiaco nella visione nicciana della Nascita della Tragedia. Ma
la crisalide nicciana eromperà in una metamorfosi dell' "uomo nuovo",
l'oltreuomo, figlio di una «superfetazione» del dionisiaco; tentativo di
recuperare quel dionisiaco inutilmente perseguito, perché oramai
irrimediabilmente contaminato e dunque privo della forza e della genuinità
(della "bontà') originarie“. Di contro, l'individuo persuaso romperà il
bozzolo della Rettorica, in un'effusione di vita autentica che, a quelle
analoghe, ma deliranti, tessute dal filosofo tedesco, assomiglia evidentemente
(e neanche troppo) solo per la terminologia. Se l'oltreuomo nicciano si brucia
nella rottura di un equilibrio, trtasbordando nel polo dionisiaco, il vir
aspira - come sua completezza - al restaurarsi di un nuovo equilibrio, tra sé e
il mondo. Detto questo, si tratta ora di contemperare una certa sregolatezza
espositiva con una sana iniezione di metodo, in un'amena oscillazione tra i due
livelli che condividiamo volentieri col nostro autore. Due conclusioni
provvisorie: gli esiti possibili del Persuaso autarchico e del vir politico. Il
momento di passaggio tra le due ipostasi. Cominciamo allora col tirare dei
bilanci, anche se provvisori, e cerchiamo d'approntare delle definizioni
icastiche di Persuasione. L'operazione, che può apparire azzardata e che in
certo modo sconfessa quanto pronunciato finora riguardo l'ineffabilità della
Persuasione stessa, ci permetterà di uscire dal vizioso e irritante diallele
persuaso: e le conclusioni stesse si prestano a nuove aperture. Abbiamo marcato
stretto, durante la nostra indagine, il vir, abbiamo preferito accostare la
condizione persuasa partendo dagli esiti ultimi della sua fenomenologia:
nell'epistolario e nelle poesie di Michelstaedter abbiamo, dapprima, scoperto
la Persuasione nella sua già ri-stabilita armonia con il mondo, nella sua
realizzazione "politica" in Enrico Mreule; una realizzazione, come ci
è parso, non del tutto pacifica, non senza rischio, eppure compiuta: la monade
persuasa che vive la relazione con le "altrui vite" (degli uomini e
delle cose), e viceversa - in un reciproco, spontaneo, donarsi. Con un passo
indietro, poi, abbiamo cercato d'individuare l'apriori di tale condizione:
considerando le prime pagine de La Persuasione e la Rettorica, abbiamo
concentrato la nostra attenzione piuttosto sulla Persuasione prima della sua
Incarnazione, more ispiratrice. Ci piace soprattutto il riferimento a La
ballata del vecchio marinaio di Coleridge, laddove l'ossimoro morte-vita si
innesta sul motivo del mare. 145 Rivolgiamo, contro Nietzsche, ribaltandola,
l'accusa ch'egli stesso rivolge a Socrate, l' «individuo specificamente non
mistico, in cui la natura logica, per una superfetazione, è sviluppata così
eccessivamente quanto lo è la sapienza istintiva del mistico» [cfr. Nietzsche,
La nascita della tragedia, in Opere Complete, vol. I, ed. Newton, a cura di F.
J esi, pag. 153]. Per un approfondimento della questione, rimandiamo - ancora
una volta - all'integrazione sulla variante nicciana della Persuasione.
geometrico demonstrata. Ovvero, potremmo dire che abbiamo tracciato dapprima un
"nuovo testamento" della Persuasione (il vir come Cristo) e quindi un
"vecchio testamento": il Persuaso come nel tetragramma YHVH, «lo Sono
colui che E'» - nella ‘consistenza’ - o meglio «lo Sono Colui che fa essere»,
«lo Sarò colui che Sarò»!#9. Abbiamo visto, altresì, che alla scandalosa
domanda della Rettorica - «Che cos'è la Persuasione?» - la Persuasione risponde
come Dio alla domanda di Mosè: «Eiè asher Eiè». L'Identità, la tautologia della
Persuasione. Il Nome della Persuasione. Il Nome, l'Identità: il nome è
identità: nell'ebraismo il nome identifica tutte le caratteristiche di un
individuo o di un oggetto: la storia dell'uomo nella Bibbia comincia con Adamo
che dà i nomi a tutte le cose che lo circondano. Ma l'identità deve uscire
dalla sua solitudine, deve calarsi nell'esistenza degli uomini: deve legarsi,
in un certo modo, alla libertà. Il vir nuovo Adamo, darà nuovi nomi alle cose,
ovvero reciderà i legami della «valenza» (il falso valore che le cose e gli
uomini detengono nel falso, reciproco legame dell'eteronomia) e riscoprirà -
per sé e per esse - un nuovo "valore", una nuova dolcezza: le
valuterà per ciò che esse stesse veramente sono, le rispetterà ricollocandole
nel loro luogo naturale: un'armonia di rispetto e comunione si ristabilisce nel
mondo, durante e per mezzo di questo rinominare le cose. L'esodo può condurre
ad una festa. Non a caso, ci sembra a questo punto, il libro della Torah, che
si occupa della "identità" legata alla libertà, non si chiama Esodo,
ma appunto Shemot, Nomi. a) Il Persuaso come «id, in quo plenitudo inhabitat
corporaliter» (risvolto autarchico: la Persuasione acerba). Chi vede J ehovah,
muore! Agnes, nel Brand, citando le Scritture Scrive Michelstaedter che la
Persuasione non può essere vissuta: essa è «impossibile», è l'Impossibile (c'è
chi direbbe il Mistico), di un'impossibilità che l'uomo condivide con «la vita
inorganica delle cose». Solo il dio è persuaso («ev ouvveyeg il persuaso: il
dio»). E, di contro, «se non è il dio, è il sasso», ovvero l'alternativa
esclusiva alla Persuasione è nient'altro che la Rettorica, e nella prospettiva
"inadeguata" c'è consustanzialità tra sasso e uomo, entrambi
«infinitesimale coscienza della relazione infinitesimale ». Già in questi
accenni fugaci, precedentemente riferiti, Michelstaedter scolpisce un assunto
che abbiamo ritenuto assiomatico nell'economia della nostra linea
interpretativa: il regno della Rettorica coincide con tutto il regno del reale,
del sublunare: esso coincide col manifestarsi di ogni realtà, e pertiene ad
ogni realtà, animata ed inanimata, consapevole 146 | Maestri ci fanno notare
che in ebraico non esiste il presente del verbo 'essere' perché solo Dio è nel
presente. Per Michelstaedter il vero, unico presente è quello della
Persuasione: gli uomini rettorici vivono sfilacciandosi nel futuro, o nel
passato. ed inconsapevole, razionale ed irrazionale (con la differenza - come
vedremo - che nell'uomo la Rettorica si complica e si rinvigorisce, diviene
"sapida" col "sale della ragione"). In modo identico, ogni
ente sublunare aspira alla Persuasione. La Persuasione, dal canto suo, è
possesso presente e stabile e assoluto della propria vita; ma «se si possedesse
ora qui tutta e di niente mancasse, se niente l'aspettasse nel futuro, non si
continuerebbe: cesserebbe d'esser vita»: «la vita sarebbe una, immobile,
informe, se potesse consistere in un punto». La vita stessa della Persuasione
sarebbe, dunque, non-vita, «xfioc Biog», vita che non è vita. Se la vita è
mancanza («deficienza») e insieme volontà di compensare tale mancanza; se
questa volontà «è in ogni punto volontà di cose determinate», e come tale si
proietta nel tempo (nel futuro), poiché «la soddisfazione della determinata
deficienza dà modo al complesso delle determinazioni di deficere ancora»; se la
vita è tutto questo, appare chiaro come la Persuasione («una, immobile, informe
») in questo senso non è vita. Alla luce di tutto ciò, proponiamo di definire
la Persuasione, o meglio il "Persuaso", come «id, in quo plenitudo
inhabitat corporaliter». Adottiamo questa circonlocuzione latina, mutuandola, e
opportunamente flettendola, da Rabano Mauro a proposito del «caelum caeli»:
«Caelum autem iuxta allegoriam aliquando ipsum Dominum salvatorem significat,
ut est illud Caelum caeli domino (Ps. 113, 16), quia Sanctus sanctorum et Deus
deorum; ita et iam caelum caeli recte ipse dicitur, in quo plenitudo
divinitatis inhabitat»; e soprattutto, da Agostino: «Videte, ne quis vos
decipiat per philosophiam et inanum seductionem secundum traditionem hominum,
secundum elementa huius mundi et non secundum Christum, quia in ipso inhabitat
omnis plenitudo divinitatis corporaliter», [Confessioni 111, 4]; e Ambrogio e
altri. Da notare che gli autori suddetti utilizzano tale espressione per
tentare una perifrasi di Cristo (e per Michelstaedter, per l'appunto, Cristo è
un Persuaso). Analizziamo il senso dell'espressione: - id, in quo: preferiamo
utilizzare il neutro, perché, secondo la nostra ipotesi di lavoro, la
Persuasione "non è maschile né femminile" [neu+uter, nessuno dei
due], ovvero non è prerogativa esclusiva dell'essere umano, ma appartiene ad
ogni ente sublunare; - plenitudo: il termine oscilla tra "pienezza" e
(nel senso della Vulgata) "perfezione" [temporis, potestatis vel
divinitatis: temporis atque potestatis, la "plenitudo" secondo le
coordinate del tempo e dello spazio, vel divinitatis]; - inhabitat. intensivo
di "habito", a sua volta frequentativo di "habeo": rende
bene, a nostro avviso, la "permanenza pregnante", l' "eterno
presente" che è nel (che è il) Persuaso, tutt'altro che il semplice
presente, ch'è l'attimo esistentivo del nunc. Ora, il risvolto politico (che
poi risvolto politico non è) del Persuaso autarchico ci sembra essere
costituito dall'ibseniano Brand, la traduzione drammaturgica del
"cavaliere della fede" kierkegaardiano (di cui sopra). Ibsen descrive
la vita del suo personaggio come un inferno, seppur la sua aspirazione è la
salvezza. In ciò ci appare chiara la posizione polemica dello scrittore
norvegese di fronte a questo esito estremo (alla turris eburnea) della
Persuasione "autarchica", anche se - in fondo - egli ricopre la sua
creatura di un'aura di sacro, perplesso rispetto (come non associargli, in
questo senso, un'altra figura emblematica, l'insigne sinologo Peter Kien,
dell'Auto da fè di Canetti?). Brand significa "incendio", e «far di
se stesso fiamma» è, per Michelstaedter, l'imperativo poetico dell'agire
persuaso. Il fuoco della predicazione, ma anche il senso di un destino (il nome
e l'identità). Brand è un pastore di anime, una persona che intende riformare
l'umanità attraverso un rigore religioso totale e una volontà inflessibile, che
applica a se stesso e agli altri; è un uomo di fede estrema, di una religiosità
tutta sua, in cui la compassione e il perdono cedono il passo per raggiungere
una meta prefissata: redimere il mondo alla luce del monito manicheo «o tutto o
nulla» (è il monito della Persuasione): «La vittoria suprema sta nel perdere
ogni cosa. La sconfitta, la perdita di tutto, è la vera grande vittoria. Solo
ciò che si perde, si possederà in etemo»'*; o ancora: «Quanto durerà la lotta,
volete sapere? Ebbene: tutta la vita! Fin quando avrete sacrificato tutto, fin
tanto che avrete rotto ogni compromesso... E quanto costa la lotta? Tutto:
tutti quanti i beni della festa, del dì di festa... E i vantaggi? Purezza di
spirito, fermezza di fede, un'anima sublime! Una corona di spine sulla vostra
fronte: questo è il vostro premio!» [B 76]. Brand è pronto a sacrificare allo
spietato Dio biblico che si è raffigurato tutto ciò che ha di più caro, anche i
sentimenti più semplici e più naturali: il suo unico figlio (quasi a ripetere
l'orrendo sacrificio di Isacco), la moglie, la madre. Il pastore sa a cosa va
incontro, ne è consapevole: ma è altresì convinto che mancare la propria
missione significherebbe una
viltà o un atto di diserzione davanti al proprio, irrinunciabile
dovere. Per lui tutto, tutto il resto non è che feticismo ed idolatria. Dopo la
morte della moglie, Brand decide di innalzare un nuovo tempio, più grande e più
degno, a Dio. Ma quando infine la chiesa è stata costruita e sta per essere
consacrata, egli getta via la chiave, perché sente che quella non è la vera
casa di Dio e che lui stesso non può accettare il compromesso di sottomettersi
all'autorità della Chiesa di Stato. Alla guida di tutto il popolo, il pastore
allora si avvia verso la montagna e verso la Chiesa di Ghiaccio situata tra le
nevi eterne, promettendo, a chi vorrà seguirlo, di condurlo sulla vera via del
cielo. La folla dapprima lo segue, con entusiasmo ed esaltazione; poi, spaventata
dai disagi cui va incontro, lo abbandona e lo lapida quale falso profeta. Egli
rimane così, solo ed indomito, impassibile anche di fronte alla visione celeste
della moglie che lo invita a recedere dalla sua durezza e ad accettare la più
umana via del compromesso. Nell'ultima scena, tuttavia, di ambigua
interpretazione e piena di chiaroscuri, prima di essere travolto da una
valanga, il pastore si chiede, riuscendo finalmente a piangere dopo tanta
rigidezza, se non abbia sbagliato tutto. E una voce, che sovrasta il fragore
della valanga, inneggia al Deus Charitatis e denuncia il fallimento della sua
vita. Il fallimento della Persuasione autarchica. Ora, a nostro parere, la
Persuasione e la Rettorica deve moltissimo al Brand: del resto, la sorella di Michelstaedter,
Paula, insiste sull'enorme impressione che il dramma fece sul nostro autore’.
147 Cfr. Ibsen, Brand, in Ibsen, Tutto il teatro, cit., IV vol. pag 61. Le
citazioni tratte dall'opera saranno segnalate, nel corpo del testo, con la
notazione B cui segue il numero di pagina relativa. 148 E' quanto ci rivela
Paula Michelstaedter Winteler in un passo importante dei suoi Appunti per una
biografia di Carlo Michelstaedter, contenuti in appendice al volume di
Campailla Pensiero e poesia..., cit, ovvero alle pagg. 147-164. Riteniamo
opportuno riportare per intero lo stralcio in questione [pagg. 161-162, corsivi
dell'autrice], anche per rendere un'idea di quanto "brandiano" stesse
rischiando di diventare lo stesso Goriziano: «Non leggeva più molto [la
Winteler sta parlando dell'ultima fase della vita del fratello]: rilesse in
quell'anno Ibsen che conosceva già e di cui era sempre più appassionato. Di
tutti i drammi quello che l'aveva fatto più pensare era Brand e nel suo volume
ci sono nel margine delle pagine molti commenti. A poco a poco, come
semplificava il suo genere di vita, il suo modo di sentire, [Carlo] si limitava
nei bisogni, nel nutrimento che era diventato sempre più sobrio, così si
liberava da tutta l'inverniciatura venuta dal di fuori, da tutta la scienza
infusa, da tutte le influenze ataviche, era come se si stesse riformando da sé
un'altra volta. Così pure andava man mano eliminando dal suo repertorio gli
autori riducendoli a pochi scelti. In una delle sue carte che si trovò sul suo
tavolo fra gli appunti della tesi c'era scritto a matita: Bibliografia oppure:
Dio ama gli analfabeti: 'Invece di leggere suonate o fatevi suonare della
musica di Beethoven, perché gli orecchi non vi potrebbero far altro miglior
servizio. - Gli occhi non sono fatti per legger libri. Ma se li volete ad ogni
costo abbassare a questo servizio, leggete: Parmenide, Eraclito, Empedocle,
Simonide, Socrate (nei primi dialoghi di Platone), Eschilo e Sofocle. -
L'Ecclesiaste, e i Vangeli di Matteo, Marco e Luca - Lucrezio - De rerum natura
-, i Trionfi del Petrarca e i Canti di Leopardi, Le avventure di Pinocchio del
Collodi - i drammi di Enrico Ibsen. E non leggete mai altro, soprattutto nessun
Tedesco, se avete cara la vostra salute, ché quelli sono contagiosi in vista
(come i giornali, le riviste, i libri di scienze)”. Questo passo è importante,
tra le altre cose, perché ci indica (insieme con la prefazione alla tesi) la
"bibliografia ideale" con cui è possibile tentare l'accosto a
Michelstaedter (interessante il riferimento al Finocchio di Collodi). E perché
ci testimonia, in certo modo, il disfattismo che pare attanagliare l'
"ultimo" Michlestaedter, che pare far sue le parole del suo amato
Brand: «Sono stanco: si combatte, si combatte, e sempre senza speranza» [B 67].
A parte questo, Michelstaedter stesso esprime, più volte e a chiare lettere, il
suo enorme debito di riconoscenza nei confronti di Ibsen: in una lettera alla
madre, dell'aprile 1908, ad esempio scrive: «[...] ho letto quasi tutto Ibsen.
Quello è un uomo, perdio! m'ha fatto pensare e mi fa pensare ancora. Certo dopo
Sofocle, è l'artista che più m'è penetrato e m'ha assorbito. E' un grand'uomo
[... J»; altrove scrive che il Norvegese lo «fa fremere e vibrare come una
corda al minimo soffio». Infine, in un importante articolo per Il corriere
friulano [contenuto in O pagg. 652-654 passim], scritto per celebrare
l'ottantesimo compleanno di Tolstoj, Michelstaedter costruisce un intenso ed
originale parallelo tra Ibsen e lo scrittore russo: «Ibsen vuole dall'uomo che egli
sappia rompere la cerchia di menzogna che lo stringe, che sappia volere la sua
verità,che sappia farla trionfare; egli deve combattere la menzogna che è in
lui ed educare la volontà alla lotta. Il processo psicologico può isolversi
così con pochi individui rappresentativi o simbolici quali li vediamo negli
ultimi drammi ibseniani. Tolstoi non chiede all'uomo la lotta, ma la devozione;
egli deve saper resistere alle seduzioni della società che egli giudica basata
sul falso e sulla prepotenza; egli deve uscirne e abbandonarne del tutto il
sistema di vita; la sua maggiore attività egli non la deve spendere a preparare
se stesso a far trionfare sugli altri le proprie idee e a trasformare la
macchina sociale, ma deve devolverla a riparare i mali che la società produce
sulle classi povere facendo del bene, aiutando, consigliando. - E' quindi
necessaria la rappresentazione viva della società nel suo complesso». Questi
due autori «non s'accontentarono di esprimere le sensazioni superficiali della
loro anima, ma ne scrutarono le profondità per cavarne la nota più alta. -
Entrambi presero pel petto questa società soffocata dalle menzogne e le
Infatti, le parole di Brand risuonano con tutta la loro forza nelle parole di
Michelstaedter: pur non intendendo istruire parallelismi "alla
lettera", ci sembra opportuno, a tal proposito, richiamare alla memoria
talune affermazioni "forti" di Brand: «Il mio canto festivo tace;
bisogna scender dal cavallo alato; ma io vedo una meta più alta, che non sia
una giostra di cavalieri, - un duro lavoro quotidiano, il dovere di una vita
attiva, verrà nobilitata con un'opera santa» [B 30]. Oppure: «Dove non c'è
forza non c'è missione. [...] Se non puoi essere ciò che devi, sii almeno ciò
che puoi [...}» [B 24]; «se darai tutto, tranne la vita, sappi che non avrai
dato nulla» [B 23]. O ancora: «Quali sono i peggiori, i più ribelli? Chi si
svia più lontano dalla pace?.. Lo spirito leggero incoronato di fronde che
danza sull'orlo del precipizio... lo spirito fiacco che segue la strana monotona
perché così vuole l'usanza... lo spirito selvaggio che possiede tanto vigore da
far apparire bello ciò che ha tutte le apparenze del male? Lottiamo, lottiamo
senza tregua contro questi tre nemici tra loro alleati. lo vedo con chiarezza
la mia missione; brilla come un raggio di sole attraverso uno spiraglio
socchiuso» [B 17]; o infine: «No, sono sano e forte, come il pino e il ginepro
dei monti; ma è la razza malata di questi tempi che ha bisogno di essere
curata. Voi volete amoreggiare, scherzare, ridere, volete credere un poco, ma
non vedete... volete caricare tutto il peso del fardello su di uno, che vi è
detto sia venuto per prendere su di sé la grande espiazione. Per voi prese la
corona di spine, e perciò vi è permesso danzare... danzate... ma dove la danza
conduca è un'altra cosa, amico mio!»; «abbiamo perduto ogni traccia del nostro
sentiero»; «E' la ‘volontà' che conta! La volontà o redime o uccide, la
volontà, intera, disseminata dappertutto, nella vita facile e nella vita dura»
[B 13, 8, 30]. Già nel dramma di Ibsen, dunque, Michelstaedter trovava
tracciata la linea discriminante tra il Persuaso e il Rettorico, e -
soprattutto- ritrovava la rigorosa e paradossale etica che segnava quella
discriminante (anche, ad esempio, nelle antitetiche figure del falco e
dell'avvoltoio, che presenziano già in Ibsen all'autentico e
all'inautentico!'‘). Ma se anche Brand parla di amore, di sacrificio, si tratta
tuttavia di un amore e di un sacrificio eteronomi, perché vincolati alla
terribile ingiunzione di Dio, destinati ad esiti altrettanto terribili:
nell'attuare il suo personale piano di redenzione, il pastore di anime
sacrifica i suoi cari, attraverso la parvenza del sacrificio di se stesso.
Brand non rispetta la gridarono in faccia: verità! verità!» [e, secondo Michelstaedter,
ciò in modo diametralmente opposto di quanto facessero invece i maestri del
Decadentismo, Oscar Wilde e D'Annunzio, sopra tutti]. 149 Cfr. ad esempio:
Gerd: «[...] l'avvoltoio non entra là dentro [scil. nella chiesa]; si posa sul
Picco Nero e là sta, la brutta bestia, come una banderuola... [... |» [B17];
vita delle persone che gli sono accanto. Le sue intenzioni, invero, sono
sincere, coerenti alla sua fede: egli lotta sinceramente per la salvezza. Ma la
sincerità e la coerenza si volgono in distruzione e fallimento, perché il suo
amore non è l'amore caritatevole, come gli rivela la voce di Dio, nel finale:
il suo amore è severo, esclude e castiga. Il vero amore è perdono e
conciliazione; vuole casomai il sacrificio di se stessi, non mai dell'altro
uomo. Il Persuaso deve aprirsi agli altri, non può vivere nell'esclusività
della sua Persuasione, tanto "masochista", quanto "sadica".
II suo consistere dev'essere un coesistere. Nello stesso dramma ibseniano, in
una delle scene più intense ed enigmatiche (siamo nell'Atto II), l' "Uomo
delle Apparizioni" si rivolge a Brand con parole come di rimprovero, volte
a richiamarlo alla comunità: L'Uomo: «Mille parole non valgono la traccia
dell'azione. Noi ti cerchiamo in nome della comunità; lo vediamo, ci manca
proprio un uomo». Brand (agitato): «Cosa volete da me?» L'Uomo: «Sii il nostro
prete» [B 23]. L'Uomo delle Apparizioni è la persuasione matura che parla alla
persuasione acerba, il demone che chiama alla "conversione politica"
e alla realizzazione del Verbo nella comunione con le altrui vite, che è la
vera Persuasione. L'acerbità della persuasione permea il lavoro accademico di
Michelstaedter. Egli stesso ne fu a suo modo consapevole, come visto. Chi ha
ingoiato una sorba amara convien che la risputi, scrive, sin dall'inizio. Il
giovane filosofo non vide l'ora di terminare la sua tesi (l'ultimo compito
rettorico che gli era rimasto), per far le sue parole azione, per donarsi
definitivamente al mare. b) La Persuasione come francescanesimo laico (risvolto
politico: la Persuasione matura). Il loco della Persuasione, «il qualunque
punto dove uno è, purché vi permanga», diviene alfine il luogo politico del
mondo, rappresenta il risultato di una vera e propria rivoluzione copernicana
del rapporto dell'uomo con le altrui vite. Se prima l'homo gravitava,
necessariamente, intorno alle cose, laddove quella necessità era dettata dalla
(strutturale) deficienza, incompletezza fin già (se non soprattutto) del suo
stesso organismo; ora invece, sono le cose, è il mondo a gravitare intorno al
vir, al Persuaso, a donarsi a lui ultro, senza che quello «nulla chieda secondo
la voce del suo bisogno». Tutto questo l'abbiamo già ripetuto più volte. Ora,
il vir domina il mondo. Ma questo suo dominio non implica in sé violenza, non
vuol essere sopraffazione. E' il dominio, per renderlo con un'immagine, dello
Brand: «[...] Vedere, Iddio vuol trarvi dal fango; un popolo che vive [...]
attinge dalle avversità forza e potenza; l'occhio smorto acquista vista di
falco, e vede lontano e vede bene, la fiacca volontà si riscuote e vede certa
la vittoria dopo la lotta [...]» [B 19]. sguardo che dalla vetta domina la
vallata, e si compiace e gode dello spettacolo, sentendosi esso stesso parte di
quel miracolo, di quel tutto. E lo protegge ™. Dopo la rottura delle catene del
"peccato" rettorico, nel vir si eventualizza il ristabilimento della
condizione edenica, descritta nei primi passi della Genesi: il mondo è creato
per
l'uomo e a lui offerto, come dono: Adamo dà nome alle cose,
ostentando la sua fraterna supremazia, ridonando alle cose ed agli animali il
loro giusto valore: e quelli a lui si sottomettono, ultro, secondo il comando
del Signore, secondo lo scopo per il quale essi furono creati. Il vir si
riappropria del mondo, scioglie i vincoli dell'alienazione, riconferma il suo
primato e il mandato "divino" della Persuasione, scacciando per
sempre il dio luciferino della puopuyix, giungendo altresì al vero Piacere,
ch'è la Pace. L'uomo finalmente libero - dal bisogno, dalla deficienza, dalle
cose; l'uomo che é riuscito nella dolorosa e faticosa pratica - ch'è la via
alla Persuasione - a ribaltare a proprio favore il rapporto di dipendenza con
il mondo; ebbene, quest'uomo - ricordando il già citato passo del Dialogo della
Salute - «ha la gioia dell'esistenza in mezzo a tutte le cose. Gli sono care
non solo le cose vicine e come possano soddisfare un bisogno, ma tutte - egli
sa godere della luce del sole». Anche la morte gli è cara, il «[...]il coraggio
della morte / onde la luce risorgerà».. Non può non tornare in mente, a questo
proposito, il meraviglioso Cantico delle creature di San Francesco, il suo
lodare il Signore per tutte le creature della terra, e anche «per sora nostra
morte corporale»'!. Per quanto la distanza tra la posizione michelstaedteriana
e quella francescana sia
dettata dalla diversa prospettiva esistenziale (quella di uno
strano ebraismo laico, per l'uno; quella di una prisca religiosità cristiana,
per l'altro), il messaggio ci pare aprirsi un senso d'identica, intima
convinzione: la comunione col mondo, l'accettazione - non rassegnata, ma
coraggiosa, e in questo suo coraggio, serena - della nostra condizione umana,
nella sua perfezione assoluta, per l'uno intesa nell'adeguamento (solitario,
intimo, drammatico, ma alla fine gioioso) al pentalogo della Persuasione, per
l'altro intesa 150 Lo spunto per quanto or ora affermato ci viene da una
lettera ad Enrico Mreule dell'aprile 1909 [E 359-360]. Michelstaedter sta
raccontando all'amico di aver intrapreso la lettura della Metafisica di
Aristotele, con «la pazienza d'andargli a corpo, di seguirlo di citazione in
citazione » fin che non giunse «al capitolo I° e 2° del Ill libro, dove
assistetti al mirabile capitombolo della povera bestia». Rispetto ad
Aristotele, Michelstaedter confessa di sentirsi come «[...] un falco che
difendesse la purezza dei sassi e dell'aria sulla cima del S. Valentin contro
un volo di cornacchie [aristoteliche, evidentemente)». 151 La suggestione
"francescana" dovette provenire a Michelstaedter da Tolstoj,
soprattutto a riguardo - come vedremo - delle ultime opere dello scrittore
russo, ovvero La sonata a Kreutzer [che leggiamo nell'ed. BUR, 2000, a cura di
E. Bazzarelli] e Resurrezione [ed. Newton, 1995, a cura di E. Affinati]. Come
si ricorderà, ipotizzammo anche un'ispirazione da | cosacchi. Similmente a
Tolstoj, Michelstaedter "riscrive" il Vangelo (sulla falsariga di
quello di Matteo) censurandovi tutti i dati sovrannaturali, sopprimendovi
l'avvenimento ontologico della redenzione, e specialmente eliminando la realtà
della divinità trascendente d Cristo e della sua resurrezione. Per il
Goriziano, come detto, Cristo è il vir. E proprio questa riscrittura permise al
nostro giovane filosofo d'individuare il nucleo etico-laico del messaggio
evangelico: farsi salvatori dinell'adeguamento (anche qui solitario, intimo,
drammatico, ma alla fine gioioso) alla volontà di Dio. E la dicotomia fra gli
empi e i giusti (ai quali «la morte secunda no'I farrà male»), che si delinea
nella seconda parte del Cantico, si ripropone pari nella laica dicotomia, altrettanto
insanabile, fra gli homines rettorici e i viri persuasi: per entrambi i casi,
la discriminante in fondo è la stessa, e coincide sostanzialmente - con la
trasgressione dell'ordine universale, di una cattiva prospettiva di
vicinanza-lontananza con le cose e con gli altri 5°. Francesco (come rivela
anche il suo nome: ancora: nome e identità), come il vir, è "franco",
libero, assoluto: si è liberato dai lacci mondani, si è sottomesso di buon
cuore al giogo della croce: tuttavia rimane per lui il vincolo più potente,
quello del Dominus divino, che si riflette nel «messor lo frate sole» e che
permea tutta la vita e la speranza del santo, in una fede forte, vincente,
quanto semplice (cfr. l'ultima parte del cantico, quella più drammatica e
"manichea"). In questo senso, la condizione di Francesco è
decisamente eteronoma, e solo per un'analogia topica (di condizioni, e non di
esiti estremi) può essere avvicinata a quella del vir. Eppure, la "vita
nuova", il senso di comunione fraterna col mondo, la presenza di una
dimensione esistenziale votata alla consapevolezza della verità, dell'armonia e
dell'amore - seppur nelle due diverse prospettive - ci suggeriscono, ci
costringono quasi, a pensare la dimensione persuasa quale quella di un /aico
francescanesimo. Il momento del passaggio: la forma retorica
dell'anti-Rettorica: tecnica persuasa della retorica, ovvero tattica persuasa.
L'atipicità della tesi di laurea di Carlo Michelstaedter traspare già da una
semplice lettura del testo. Ma qual è il vero senso, la vera ragione di questa
atipicità? In cosa essa consiste? Soltanto nella "stravaganza"
filosofico-narrativa del suo autore? O forse nell'enorme ingiunzione morale
ch'egli affida ad un mero scritto accademico? La questione si presenta
complessa e feconda, soprattutto se analizziamo la dispositio e l'actio che il
Goriziano adotta nel prometeico tentativo di un'esaustiva esposizione del
proprio pensiero.se stessi, «eliminare la violenza alle radici», aprire il
mondo ad una rinnovata armonia. In questi senso, la linea ideale, che
tracceremo, è per l'appunto Tolsto-Michelstaedter-Capitini. 152 E' indicativo
quanto ci tramandano gli apologhi popolari dei Fioretti: Francesco parlava alla
natura, riuscì ad ammansire e a convertire il ferocissimo lupo. Come spesso
avviene, l'ingenuità popolare anche qui coglie nel segno, disperando di
sciogliere nella semplicità del racconto la profondità della verità
francescana: ovvero, la comunione con quanto ci circonda e la possibilità di
rivolgerci alle cose con un linguaggio che non è più il tecnicismo retorico del
dominio, bensì una persuasione che conduce alla mansuetudine, all'armonia, alla
dolcezza, che non ha bisogno per esprimersi, a ben vedere, neanche più delle
parole. «La parola eloquente è il premio di chi cerca la persuasione, di chi ha
il coraggio del dolore per non averla - chi nella parola finge già finita la
persuasione e del cercar parole si fa una persona per chiedere i premi delle
vie degli uomini - obbedisce alla sua prAopuvyta: è un vile o un retore a
piacere», scrive Michelstaedter. Si pone dunque la necessità di un'aerea
digressione sugli aspetti "formali" della sua opera: ciò non esula
dalla sostanza morale del nostroapproccio, poiché l'etica non si realizza
soltanto nell'atto, ma anche nel linguaggio, preparazione all'atto, esso stesso
atto, atto linguistico. L'indagine non è inappropriata, e il suo risultato ne
varrà da riprova. Il valore persuasivo della parola, dunque. La ricerca di
Aristotele ci ha insegnato che la scienza e la filosofia coincidono nella
"formalizzazione" del loro linguaggio, nella sua struttura
sillogistica, razionale. Il linguaggio riproduce, per lo Stagirita, la
razionalità dell'Essere: l'essere, l'è vero, si dice in molti modi, ma i suoi
modi sono sempre razionali. Che vuol dire, ciò? Che cos'è la razionalità per
Aristotele? Problema inaudito '®. La nostra ipotesi di lavoro, semplice e
funzionale, asseconda quella di Carlo Michelstaedter: secondo il Goriziano, la
razionalità aristotelica coincideva con ciò che Aristotele vedeva, la sua
theoria trovava senso compiuto nella vista, anzi nella pura visione: Ma il
punto teoretico è l'atto del mio guardare, e può girare dove anche io voglia
fra la varietà delle cose: sempre sarà in lui l'entelecheia delle cose
guardate, poiché il mio guardare è attribuzione di fine: la stessa permanenza
del movimento nel tempo, poiché il mio guardare commosso con le cose è
attribuzione di stabilità; altro fine, altra natura, altra forma, altra
ragione, e in altro riguardo supposta la materia inconoscibile [PR 208]. Il
retore si muove su punti controversi non per tutti, ma per quelli ai quali
parla. Il vero è detto per Aristotele secondo l'attualità fenomenica [c.n.], e
l'attualità fenomenica nel campo del retore più vicina, così che il più delle
volte è noto a tutti che il retore dimostra contro questa stessa attualità. Ma
non per questo egli è disprezzato e con nuovo nome quasi a insulto chiamato, ma
anzi tenuto in gran stima e col nome di retore ad onore significato appunto in
quanto egli lo sappia fare né per alcuno scrupolo si trattenga dal farlo [PR
268]. La conclusione errata di un sillogismo, dunque, sarebbe tale non per un
principio logico, ma per un errore, come dire, di prospettiva ottica; lo
sguardo razionale è l'occhio dello scienziato Aristotele o di Aristotele
scienziato: lo sforzo del pensiero è di riprodurre nella vista intellettuale,
nella sua "intelligenza", l'atto del vedere garantito dall'organo di
senso (l'attualità visiva - fenomenica - coincide con quella intellettiva -
noumenica), purificandolo. Il sogno del filosofo Aristotele (che coincideva con
quello del suo maestro, Platone) era poter scorgere l'Essere nella sua
"nudità" ontologica (l'idea come vista nuda, pura, dell'Essere). Il
sogno dell'Aristotele scienziato era quello di compilare l'enciclopedia delle
153 Quanto ci apprestiamo a dire si propone, consapevolmente, su un livello di
lettura e d'interpretazione dell'opera
aristotelica - nella fattispecie la Metafisica [che abbiamo letta
nell'ed. Rusconi, 1993, a cura di G. Reale], l'Etica Nicomachea [Rusconi, 1993,
a cura di C. Mazzarelli], la Retorica [Mondadori, 1996, a cura di M. Donati] e
la Politica [Laterza, 1993, a cura di R, Laurenti) - "viziato" dalla
prospettiva michelstaedteriana. Tuttavia chiediamo di accettare quanto segue
almeno in vista della sua funzionalità all'analisi che stiamo conducendo. Per
tal motivo, non surroghiamo il nostro discorso con pedisseque corrispondenze
"alla lettera" degli p 4v pe,
> Commenta Michelstaedter, in calce alla sua figura: «Questo [qualcosa è -
qualcosa è per me - mi è possibile la speranza - sono sufficiente] è il cerchio
senza uscita? dell'individualità illusoria, che afferma una persona, un fine,
una ragione: la persuasione inadeguata, in ciò ch'è adeguata solo al mondo
ch'essa si finge» [PR 19]. Le parole del Goriziano, in apparenza involute,
trovano comunque ampia "dimostrazione" nel corso della sua tesi.
Anzi, non è difficile ricavare il filo di un argomentare lineare e lucido, che
palesa una logica ferrea di concatenazioni assiomatiche, che possiamo definire
decisamente spinoziana, senza timore di sbagliarci: se la Persuasione, la
Salute, è il «possesso presente della [propria] vita» [36]!9', ossia (in forma
negativa) se essa «non vive in chi non vive solo di sé stesso» [9], l'uomo al
contrario si rivela, già nella sua conformazione fisiologica, come segnato
dalla deficienza. Questa è senza dubbio il corrispettivo del Wille schopenhaueriano:
la vita è a tutti gli effetti volontà di vivere e la volontà «è in ogni punto
volontà di cose determinate» [12]: ne consegue che l'uomo è «schiavo della
contingenza di questa correlazione» [31]. In questo senso, la correlazione
tradisce una sua "puntualità", perché «noi isoliamo una sola
determinazione della volontà [per volta» [13] e ogni determinazione è
«attribuzione [puntuale] di valore: coscienza » [12]. 60 Aggiungiamo noi: anche
senza fine e senza inizio: Nietzsche, grecamente, avrebbe detto l'«eterno
ritorno». 61 Nei periodi che seguiranno, accompagniamo Michelstaedter nella sua
dimostrazione: preferiamo aderire molto al testo, per non pregiudicare
l'amenità delle sue espressioni, anche se ricomponiamo l'argomentare in una
successione più, come dire, didascalica, ricostruendo la logica che in
apparenza smarrisce nell'enfasi della scrittura. | numeri assoluti, in
parentesi quadre, si riferiscono alle pagine della Persuasione da cui sono
tratte le citazioni. Il riferimento alle altre opere seguirà l'espediente
utilizzato nel resto del nostro lavoro. Espediente che, mai come ora, rivelerà
anche la sua importanza metodologica, lasciando trasparire come l'opera del
Goriziano si strutturi tutta secondo una stretta logica di rimandi interni,
fatta di ripetizioni e richiami di concetti, che non è il mero saltabeccare
della retorica della metabasi che punta all'attenzione del lettore, ma risponde
all'intima consapevolezza del fatto che ciò che si sta comunicando è in fondo
un unico, anche se articolato, pensiero. E' altresì vero, tuttavia, che «...]la
volontà non sopporta la noia, e da questa attesa inerte della vicinanza si
muove, allargandosi la coscienza dalla determinazione puntuale attraverso
l'infinita varietà delle forme: le determinazioni si collegano così a
complessi, da procurarsi previdenti ogni volta la vicinanza per la quale via
via ogni determinazione s'affermi e non resti morta, ma per la forza del
complesso si continui per poter altra volta affermarsi. [...] [Così] la
soddisfazione della determinata deficienza dà modo al complesso delle
determinazioni di deficere ancora [...]: nel complesso di quella determinazione
c'è come criterio la previsione delle altre: il complesso delle determinazioni
non è un caos ma un organismo» [16]. Detto in altre parole, «Ia [...] volontà
di essere è così volta a continuare, in ciò che nell'affermarsi presente essa
crea la prossima vicinanza per l'affermarsi d'un'altra determinazione: in
ognuna c'è la previsione delle altre». [17]. Da una parte, dunque, l'organismo
umano si profila come un «complesso delle determinazioni» [16]; dall'altra, in
modo speculare, «i valore [del] mondo [appare come] il correlativo della sua
valenza» [20] - ossia «la stessa cosa è il mio vivere e il mondo che io vivo»
[20], dato che «nessuna cosa è per sé, ma in riguardo a una coscienza» [13]: e,
amplificando questo dato, la stessa «vita [si rivela quale] un'infinita
correlatività di coscienze». Questa correlatività - che abbiamo scoperto
puntuale nella sua manifestazione più immediata, complessa in quella mediata -
si delinea «sempre ugualmente intera e infinita nell'attualità che corre nel
tempo; il passato e il futuro sono in lei, l'avvenire e il non avvenire sono
indifferenti» [14-15]. E' proprio in seno a questa correlatività che si
struttura, poi, la piopuyix, «amore alla vita, viltà» [17], owero la Rettorica,
la «determinazione» della vita, la «persuasione inadeguata » [19]. Se infatti
la persuasione è l' agathon (postulato socratico-platonico), il bene, la
Salute, e gli uomini ad essa naturalmente tendono (anch'esso postulato
socratico-platonico, formalizzato da Aristotele'9) - è il nostro stesso
deficere che aspira alla sua più completa soddisfazione - è altrettanto vero
che, dati i presupposti "volontaristici", essa risulta inattingibile,
poiché, qualora fosse conquistata, la vita «cesserebbe d'esser vita» [8], cioè
la volontà cesserebbe d'esser volontà, il che è già una contraddizionein
termini: infatti, la persuasione implica il possesso presente, attuale, mentre
la volontà è «volontà di se stesso nel futuro» [20], è «distratta nel tempo »
(e così l'uomo). La vita nega, in modo paradossale, se stessa: l'uomo sembra,
senza soluzione, essere votato al dolore ed alla sofferenza e la sua condizione
risulta insostenibile: «il principio della deficienza [viene a costituirsi]
come principio sostanziale» [146]. E' proprio in questo punto, dunque, che
s'inserisce l'azione quotidiana, ostinata, del «dio pudico»'9° della popuyia,
che in modo nascosto (in ciò è la sua pudicizia), ma efficace (in 162 cfr.
Etica nicomachea |, 1, 1094, a3 163 È il piacere un dio pudico, fugge da chi
l'invocò; ai piaceri egli è nemico, fugge da chi lo cercò. ciò sta la sua
divinità), tesse la trama di una consistenza altrimenti compromessa. Il dio
della priopuyia è un lare (un «dio famigliare» [21]) che ci è accanto come un
malefico angelo luciferino («la luce è il piacere» [17]), che ci accompagna in
ogni nostra attività, la veicola, la custodisce. Il lare crea il "velo di
Maya" attraverso l'adulazione del «tu sei» [18]: presiede all'integrità
del nostro organismo (ovvero, scongiura l'anarchia delle membra, strutturando
ogni puntuale determinazione in una rete di correlazioni organiche, spegnendo
da luce quando l'abuso toglierebbe l'uso»'** [16]) e spaccia la mera continuità
dell'organismo stesso per la permanenza persuasa: «il saggio dio lo [l'uomo,
l'animale] conduce attraverso l'oscurità delle cose con la sua scia luminosa
perché egli possa continuare e non esser persuaso mai» [16-17]. L'uomo, in questo
abbaglio, in questo "stordimento", irretito nel gioco del dio [21],
si finge un mondo posticcio [19], credendo che le «sue cose che lo attorniano e
aspettano il suo futuro, sono l'unica realtà assoluta indiscutibile» [18],
ossia per lui «a realtà è [...] le cose che attendono il suo futuro»; e, ciò
facendo, scambia la Persuasione per l'«attualità della sua affermazione» [18].
L'illusione raggiunge il suo ultimo scopo: «ciò che vive si persuade esser vita
la qualunque vita che vive» [19], «l'esser vivi si fa un'abitudine » [28],
l'uomo «si dice contento e sufficiente e soddisfatto di sé» [24-25]: «d'uomo si
gira sul pernio che dal dio gli è dato [...] e cura la propria continuazione
senza preoccuparsene, perché il piacere preoccupa il futuro per lui» [18]. La
voce del dolore - il «sordo continuo misurato dolore che stilla sotto a tutte
le cose» [23], la voce «che dice: tu non sei» [27] - è apparentemente messa a
tacere. L'uomo si bea della nuova, insperata sicurezza, guidato dal piacere
[17]: «nel sapore [della momentanea, puntuale affermazione si risolve] la
presenza di tutta la sua persona. Questo sapore accompagna ogni atto della sua
vita organica [e, come vedremo, sociale]» [18]. L'uomo insomma «non vede
[integriamo noi: non vuole vedere] l'opera che il dio ha fatto» [17]. Tuttavia
l'illusione della permanenza - ch'è la Persuasione inadeguata - non tarda a
rivelarsi per quella che appunto è: illusione. "«[...] L'uomo, pur mentre
gioisce dell'affermazione, sente che questa persona non è sua, ch'egli non la
possiede» [21], sospetta che «la sua potenza nelle cose in ogni punto è [sempre
e comunque] limitata alla limitata previsione». «[...] AI disotto della
superficialità del suo sapere egli sente il fluire di ciò che è fuori della sua
potenza e che trascende la sua coscienza »: così, ilÈ il piacere l'Iddio pudico
ch'ama quello che non lo sa: se lo cerchi se' già mendico, t'ha già vinto
l'oscurità. - Sono la prima e l'ultima delle quattro quartine del famoso peana,
che Michelstaedter intona al dio della grAdopuyia in D 43. 164 Cfr. il
paragrafo 4c del | capitolo. «suo piacere è contaminato» [21] irrimediabilmente
e suo malgrado, perché da sorda voce dell'oscuro dolore non però tace, e più
volte essa domina sola e terribile nel pavido cuore degli uomini» [22]. Nella
prospettiva della persuasione inadeguata, la voce del Tragico si rivela (si fa
fenomenologia) attraverso la paura della morte: difatti, se «il senso delle
cose, il sapore del mondo è solo pel continuare», se «esser nati non è che
voler continuare », ciò allora vuol dire che «gli uomini vivono per vivere: per
non morire. La loro persuasione è la paura della morte, esser nati non è che
temere la morte » [32]. La voce del dolore, dunque, fa breccia nella trama
dell'illusione: «quando per ragioni che non stanno in loro, il lembo della
trama si solleva, anche gli uomini conoscono le spaventevoli soste» [23],
ovvero «quando la trama dell'illusione s'affina, si disorganizza, si squarcia,
gli uomini, fatti impotenti, si sentono in balìa di ciò che è fuori della loro
potenza, di ciò che non sanno [...]; si trovano a voler fuggire la morte senza
aver più la via consueta che finge cose finite da fuggire, cose finite
cercando». [22] La persuasione inadeguata ha un colpo di coda: se nei bambini
il dolore esistenziale è più forte - perché ancora incontaminati dalla finzione
del dio luciferino - e se in loro la rivelazione del Tragico prende la forma
dei piccoli terrori e delle piccole superstizioni da esorcizzare (la paura del
baubau, ad esempio) [22-23], negli uomini esso fa capolino nelle forme delle
nevrosi e dei grandi dispiaceri della quotidianità: il Tragico ha le sue
manifestazioni "esistentive" (existenziell, direbbe Heidegger) nel
rimorso, nella malinconia, nella noia, nell'ira, nel dolore, nella paura, nella
«gioia "troppo" forte» [25-26]: in questi sentimenti, l' [A.
Piromalli, in Sotto il segno di Michelstaedter, ed Periferia, Cosenza, 1994,
pag. 22; ci appoggiamo all'analisi e alle parole di Piromalli anche per quanto
stiamo per dire]. La retorica di Aristotele rappresenta, così, l'apice estremo
della degenerazione cui Platone conduce l'originaria, autentica, dialettica
socratica. Socrate si chiedeva, ad esempio, se la giustizia fosse un bene,
Platone che cosa fosse la giustizia. Entrambi (dunque, tutto sommato, anche
Platone) conservano una relazione col «valore individuale» dell'oggetto.
L'approccio di Aristotele diviene invece «una raccolta di fenomeni», «delle
questioni particolari giudiziarie o politiche e la ricerca dei trucchi
rettorici» conduce Aristotele a perdere di vista il vero ed a «teorizzare sui
discorsi che dimostrano» in modo che «lo scopo e la potenza di chi analizza e
teorizza i discorsi è sovrapposta allo scopo e la potenza dell'oratore».
«Questo - scrive ancora Michelstaedter - è l'errore di ogni metodistica, che
caratterizza utta la filosofia aristotelica, o meglio ogni forma aristotelica
della filosofia sotto qualunque nome, in qualsiasi tempo o paese, ed è di
fronte alla Persuasione la Rettorica» [per le citazioni virgolettate di questo
periodo cfr. Appendici critiche, PR 151- 263-278-282]. Di conseguenza, arguisce
Michelstaedter, la Rettorica non è per Aristotele - proprio in quanto
«metodica», «metodologismo classificatorio» - solo una téchne specifica, ma una
sorta di criterio che informa tutte le scienze e tutta la conoscenza. Potremmo
azzardare che essa, come la virtù, diviene un habitus. —_ La valenza politica
della retorica aristotelica viene evidenziata molto bene da Roland Barthes: il
quale - in un volumetto esemplare sulla Retorica antica (trad. it. Bompiani,
1998) - trova molto «allettante mettere in rapporto questa retorica di massa
[quella appunto aristotelica, di massa poiché verte su un
"verisimile" che nient'altro è, secondo lo studioso, se non «quel che
il pubblico crede possibile»] con la politica di Aristotele; era, com'è noto,
una politica del giusto mezzo, favorevole ad una democrazia equilibrata,
incentrata sulle classi medie e incaricata di ridurre gli antagonismi tra i
ricchi ed i poveri, tra la maggioranza e la minoranza; donde una retorica del
buon senso, volontariamente sottomessa alla 'psicologia' del pubblico» [pagg.
21-22; corsivo nostro], -------- Tutto questo non è in contraddizione con
quanto abbiamo affermato nel corso del nostro lavoro: è vero, la "costituzione
della Rettorica" - almeno nella sua accezione comune e quotidiana - ha un
inizio storico, e ha un autore storico; eppure Aristotele non ha
"inventato" la Rettorica; le ha dato soltanto una patente di
legittimità, se vogliamo dirla così, ontologica e (soprattutto) pratica. 184
Etica Nicomachea 1103b 1-5 passim. microcosmo umano: come nell'anima la
condizione ottima è quella d'un equilibrio tra la parte appetitiva
(epithymetikon), irascibile (thymoeidés) e razionale (/loghistikon), nello
Stato ideale (lo Stato giusto) - laddove i tre aspetti dell'anima si incarnano
nelle tre classi sociali dei "produttori", dei "guardiani"
e dei "governanti-filosofi" - il singolo svolge la sua funzione
nell'armonia del tutto, "temperando" il proprio egoismo privato. La
virtù civile per eccellenza sarà proprio la sophrosyne, ovvero quella saggezza
che permette di stare "entro i limiti", cioè di lasciarsi guidare
docilmente dai sapienti'®. Lo Stato - nato dalla necessità che gli uomini hanno
di soddisfare i propri bisogni vitali - diviene insomma la condizione (insieme
etica e logica) dell'individuo, «secondo una relazione di reciprocità in cui
individuo e Stato, virtù e legge, anima e classi sociali vengono a coincidere»
[Francesco Adorno]. Per quanto Platone allegorizzi il destino di appartenenza
dell'individuo ad una determinata "classe sociale" attraverso il
famoso mito di Er - secondo il quale quel destino è in effetti frutto di una
scelta libera e responsabile dell'anima prima dell'incarnazione '°8; per quanto
- almeno nei presupposti e negli intenti - la superiorità di una classe
rispetto alle altre non significhi supremazia ed oppressione, ma risponde
semplicemente alle esigenze di una suddivisione di compiti e di funzioni
necessaria in ogni vita organizzata (nella quale gl'interessi dell'individuo
debbono essere subordinati ai superiori interessi della collettività);
nonostante tutto ciò, Platone - in apparente contraddizione, ma in effetti
seguendo un'estrema logica di coerenza - struttura la sua utopia politica
secondo le linee di un rigoroso, oculato, analitico progetto educativo '®.
Dalla moltiplicazione dei bisogni nasce dunque la differenziazione dei ruoli,
secondo le attitudini di ciascuno: l'educazione confermerà (nel senso del
confirmare latino) quell'attitudine. Ma Michelstaedter, come suo solito, adotta
il suo drastico smascheramento e individua proprio nella formazione dello Stato
platonico il paradigma ontogenetico di qualsivoglia sistema sociale rettorico:
[... ] accettato come base della città della giustizia il fatto della
convenzione dei violenti che è a base d'ogni città - [è nostro compito] fingere
nuovamente con presunzione di giustizia tutte le forme della vita che gli
uomini chiedono a chi voglia far loro da maestro. Accettata come vita libera
quella che è fatta dei bisogni elementari, fondiamo nella città la libertà
d'esser schiavi; accettato come giusto il principio della violenza che afferma
la necessità del continuare, è giusta a ogni bisogno la sua affermazione. E se
troviamo [un qualche espediente]perché ogni bisogno giunga alla sua 185 Cfr. il
II libro della Repubblica e anche 441c-445e (IV libro), dove la questione viene
ricapitolata in modo sintetico e definitivo; sono questi, più o meno, anche i
passaggi del testo (e altri affini nella sostanza) che tiene docchio
Michelstaedter nella sua analisi davvero spietata dello Stato platonico, cui
dedica l'intera, complessa, splendida Appendice II, quasi un'opera a sé stante.
186 cfr. id. libro X 614a ss. . La divinità è fuori causa: Aitia eloménou,
theos anaîtios. 187 cfr. id. libro Ill 386a - 417b; IV 419a - 427b 105 giusta
affermazione senza scapito della giusta affermazione degli altrui bisogni,
abbiamo fondato la città giusta. Che gli uomini siano ognuno schiavo della
propria miseria e per questa sottomesso ai modi a lui oscuri della comune
convenienza, ognuno inteso al proprio utile e per sua natura nemico e ingiusto
a ogni utile altrui, ognuno nell'oscurità del suo travaglio ignaro di tutto
nella vita fuorché del suo bisogno, non importa; egli sarà saggio e giusto e
libero, avrà la persona della libertà, della giustizia, della saggezza, poiché
egli sarà detto secondo la città libera e giusta e saggia. - La città isola le
singole necessità [... e] così costituisce la produzione della vita elementare:
l'agricoltura, le arti, i mestieri, il trasporto; costituisce gli organi dello
scambio: il piccoloegrandecommercio; costituisce tutte le altre forme della
vita; costituisce la necessità della guerra; e del difender la giustizia di
quelle necessità con la violenza finge persona sufficiente ai puAxxec [sono
appunto i "guardiani" platonici]; dell'affermare, sorvegliare,
correggere la giusta affermazione di quelle necessità finge persona sufficiente
ai capi dello stato [PR 147] !88. Se l'educazione di Socrate era dunque
«creatrice di uomini» [PR 150], il suo discepolo infedele si mostra piuttosto
attento a formare cittadini: [...] Platone non ha da fare uomini, egli ha da
fare agricoltori, calzolai, fabbri, mercanti, banchieri, guerrieri, politici,
che compiano ognuno la sua funzione necessaria ai singoli bisogni della città,
perché questa pur si continui. Platone ha bisogno che ognuno s'adatti alla
sufficienza di quell'astrazione di vita che egli a ognunoha macchinato [PR
151]. La "giustizia" platonica si rivela, dunque, per quella che è:
"Ma intanto la città è costituita, e colla città sono costituite la
giustizia, la saggezza, il coraggio, la padronanza di sé. La città è saggia per
la saggezza dei suoi moderatori. La città è coraggiosa pel coraggio dei suoi puiarnec.
E i guàxxes sono coraggiosi se vestono la persona della legge così che, la
salvezza di quella come la loro essendo, da nessuna cosa possano esser
trattenuti che non la difendano fino alla morte. - [...] E se ognuno di loro si
sappia costringere a quel determinato ufficio e all'obbedienza alle leggi
costituite, ognuno sarà padrone (!!) di sé stesso, e la città anch'essa sarà
padrona di sé, in cui l'idea del bene, per consiglio dei saggi moderatori e per
virtù dei difensori e per l'ossequio del popolo, si imporrà alle necessità
della vita così ch'esse abbiano armoniosamente a cospirare alla continuazione
del tutto [PR 156-157; corsivi ed esclamativi di Michelstaedter]. Nel far ciò,
completa Michelstaedter, Platone - diversamente da quanto ci tramandi la storiografia
filosofica e da quanto Platone stesso affermi - non si discosta molto
dall'orizzonte di dominio e di violenza perpetrato dai sofisti, anzi: «Altro
che i sofisti! Se i sofisti erano ladruncoli, ma Platone - absit iniuria verbo
- è il ladro in guanti gialli, che ha il suo sistema per rubare non più, come
quelli facevano, questo o quello a caso, dicendo a ognuno: 'io sono un ladro';
ma con metodo e seriamente, per poter rubare tutto, e dicendo agli uomini: 'io
son quello che ti salva per sempre dai ladri. Infatti è il modo più sicuro.
Infatti, legittimando i compromessi dell'umana debolezza, egli toglie [...]
all'uomo ogni possibilità di sentirsi in quella insufficiente, ogni bisogno
d'affrancarsi da quella -» [PR 190; corsivi di Michelstaedter]. 188 || periodo
è preso della sezione II (Il Macrocosmo) della Il Appendice critica, dedicata
nello specifico a Platone, in qualità di «note alla triste istoria»
dell'aerostato; come appare chiaro, ci stiamo appoggiando alle polemiche
citazioni di Michelstaedter (sottintendendole), tratte appunto dalla
Repubblica, per puntellare anche il nostro discorso. Queste parole, che si
impongono per lucidità e forza al lettore, bastano a se stesse'®. Rimane solo
da rilevare che la ri-proposizione di una simile istanza totalitaria di dominio
e di violenza (stavolta sublimata nella rete necessaria e compiacente -
«callopismatica» dice 189 In effetti, La critica di Michelstaedter può, ad
orecchio, richiamare Popper. Il primo volume del capolavoro di quest'ultimo, La
società aperta e i suoi nemici [che noi leggiamo nella traduzione proposta
dall'ed. Armando, 1973], infatti, è in pratica interamente dedicato a una
critica acerrima contro il platonismo politico (il titolo la dice lunga:
Platone totalitario). Volendo davvero ridurre all'osso l'argomentazione
popperiana, possiamo dire che tutto il pensiero politico di Platone, secondo il
filosofo austriaco, può essere ricondotto a un progetto totalitario di
restaurazione della società chiusa (ovvero, della società tribale, che interpreta
se stessa come naturale, sacra e immutabile, ed è collettivista, gerarchica,
organica, fondata sulle relazioni faccia a faccia). A questo scopo, Platone si
varrebbe di strumenti euristici,concettuali e politici, che s'innestano l'uno
con l'altro e che riassumiamo così: essenzialismo metodologico (la teoria delle
idee); collettivismo (come visto, gli individui hanno valore solo come parti
della totalità più ampia ch'è lo stato); teoria organica o biologica dello
stato (cfr. quanto detto sopra); tecnocrazia (il governo va affidato ai
competenti); "storicismo" (sotto questo termine Popper accomuna tutte
le dottrine che s'illudono di enunciare le leggi dello sviluppo storico nel suo
insieme). [Com'è noto, a Platone Popper contrappone la propria prospettiva -
che definisce "umanitaria" - di "società aperta",
modellata/articolata secondo i criteri degli Stati di diritto e delle
democrazie dei paesi occidentali, le cui istituzioni sarebbero (preferiamo
utilizzare il condizionale) modificabili/riformabili secondo il metodo della
libera discussione]. Ma più che alle risapute affermazioni di Popper, siamo
interessati ad una pagina, lasciata nella forma di intuizione, di Althusser;
pagina evidentemente meno conosciuta, ma che si avvicina più di Popper al
discorso di Michelstaedter. Althusser inserisce quest'appunto su Platone in un
discorso generale sull'ideologia e ovviamente legge la Repubblica (e ne smonta
il progetto educativo) alla luce del "sapere scientifico liberatore"
- ovvero "rivoluzionario" - marxista-leninista, com'egli stesso
confessa. E questo segna la sua profonda differenza col Goriziano. Eppure,
quanto scrive Althusser converge in modo indiscutibile e impressionante con le
valutazioni di Michelstaedter (anche se, come detto, l'accostamento è soltanto
"topico"): entrambi individuano nell'educazione il
nocciolo/presupposto rettorico della struttura statale. Scrive il filosofo
francese, col suo caratteristico stile senza reticenze: «Questo [ovvero che
«gli individui concreti 'agiscono', e che è l'ideologia che li fa agire'»],
Platone lo sapeva già. Egli aveva previsto che occorrevano dei poliziotti (i
'Guardiani') per sorvegliare e reprimere gli schiavi e gli 'artigiani. Ma
sapeva che non si può mai mettere un 'poliz iotto' nella testa di ogni schiavo
o artigiano, e nemmeno mettere un poliziotto personale al culo di ogni
individuo (altrimenti occorrerebbe anche un secondo poliziotto per sorvegliare
il primo e così di seguito... e alla fine non ci sarebbero altri che poliziotti
nella società, senza nessun produttore, e di che cosa vivrebbero allora gli
stessi poliziotti?). Platone sapeva che occorreva insegnare al ‘popolo",
sin dall'infanzia, le 'belle menzogne' che lo ‘fanno agire' da solo, e
insegnare al ‘popolo' queste Belle Menzogne in maniera che esso ci creda, al
fine di ‘agire’. [l'insistere di Althusser sulle 'belle menzogne! ordite
dall'educazione platonica è il punto di maggiore convergenza con le
riflessionidel Goriziano, ma cfr. la citazione in seguito]. Platone non era
certo un ‘rivoluzionario’, benché intellettuale... egli era un sacrosanto
reazionario. Ma aveva abbastanza esperienza politica per non raccontare storie
e credere che, in una società di classe, la semplice repressione può assicurare
da sola la riproduzione dei rapporti di produzione. Egli sapeva già (senza
averne il concetto) che sono le Belle Menzogne, cioè l'ideologia, che assicura
per eccellenza la riproduzione dei rapporti di produzione. | nostri moderni
‘dirigenti’ ‘anarchici rivoluzionari" non lo sanno. Essi farebbero bene a
leggere Platone, senza lasciarsi intimidire dall' ‘autorità del sapere' che vi
troveranno, poiché, benché puramente ideologici, possono trovarvi, diciamo,
'insegnamenti' di base sul funzionamento di una società di classe» [L.
Althusser, Lo stato e i suoi apparati, trad. it. Editori Riuniti, 1997, pag.
182], Michelstaedter, più di mezzo secolo prima, aveva scritto (e si tenga
presente quanto or ora citeremo, dato che proprio qui si trova il perno
dell'argomentazione critica-filosofica del Goriziano, non solo in riferimento a
Platone, bensì a tutto l'apparato rettorico): «[Nello Stato platonico] la
violenza cacciata per la porta è già rientrata per ogni fessura [..., infatti]
perché ogni singolo a uno di questi scopi bcil. gli scopi sufficienti alla
vita, astrazioni dei bisogni materiali] di indirizzar la sua vita e pei begli
occhi della felicità e della giustizia astratta accetti di tenervela sempre
diritta - bisogna che ognuno al suo posto sia colla violenza ammaestrato»
[corsivo nostro].Michelstaedter - dello Spirito) il Goriziano la riscontrò, a
distanza di millenni, nella Filosofia dello Spirito di Hegel'°° [PR 92-93].
L'ou-topia platonica, trovava purtroppo - attraverso Hegel - la sua
reificazione concreta e storica nel codice morale-penale austriaco [cfr.
soprattutto PR 99-101]. Col filosofo tedesco l'umanità realizzata (ovvero,
l'umanità politica) consisteva - proprio come insegnava Platone - nella
spontanea consonanza fra quel che vuole l'individuo e quel ch'è richiesto dalla
famiglia, dalla società civile e dallo stato. Per Hegel, questo è lo stato
normale - fisiologico - della vita pratica, che può riscontrarsi nei periodi di
equilibrio e di "sanità" dei popoli (Hegel credeva d'individuarlo,
realizzato in tutta la sua pienezza e fulgore, nella grecità classica:
basterebbe, in questo senso, analizzare il diverso rapporto del Tedesco e del
Goriziano proprio nei confronti della grecità per scorgere l'enorme divario che
li allontana). Il «momento etico», nella dialettica dello Spirito Oggettivo, supera
l'astrattismo morale, che si arrovellava nell'antagonismo fra intenzione
individuale e legge. Lo spirito oggettivo - in cui 190 In particolare,
aggiungiamo noi, nei Lineamenti di filosofia del diritto. In effetti,
Michelstaedter trae le sue citazioni dalla Enciclopedia delle scienze
filosofiche, dalle pagine in cui Hegel parla dello Spirito Oggettivo, il moment
della realizzazione della volontà dello spirito libero, nella fattispecie il
momento del concreto attuarsi della storicità sociale attraverso la famiglia, la
società civile e lo stato. Come si sa, Hegel approfondì e delucidò tali
presupposti nei Lineamenti; riteniamo allora opportuno richiamarne almeno
alcuni paragrafi (tra l'altro famosi) per integrare le polemiche citazioni
michelstaedteriane con i luoghi dove più evidente si mostra la cosiddetta
"statolatria" del filosofo di Stoccarda: $ 257. Lo stato è la realtà
dell'idea etica, - lo spirito etico, inteso come la volontà sostanziale,
manifesta, evidente a se stessa, che pensa e sa sé e porta a compimento ciò che
sa e in quanto lo sa. Nel costume lo stato ha la sua esistenza immediata, e
nell'autocoscienza dell'individuo, nel sapere e nell'attività del medesimo, la
sua esistenza mediata, casi come l'autocoscienza attraverso la disposizione
d'animo ha nello stato, come in sua essenza, in fine e prodotto della sua
attività, la sua libertà sostanziale. [...] § 258. Lo stato inteso come la
realtà della volontà sostanziale, realtà ch'esso ha nell'autocoscienza
particolare innalzata alla sua universalità, è il razionale in sé e per
sé.Questa unità sostanziale è assoluto immobile fine in se stesso, nel quale la
libertà perviene al suo supremo diritto, così come questo scopo finale ha il
supremo diritto di fronte agli individui, il cui supremo dovere è d'esser membri
dello stato. [...] $ 260. Lo stato è la realtà della libertà concreta; ma la
libertà concreta consiste nel fatto che l'individualità personale e i di lei
particolari interessi tanto hanno il loro completo sviluppo e il riconoscimento
del loro diritto per sé (nel sistema della famiglia e della società civile),
quanto che essi, o trapassano per se stessi nell'interesse dell'universale, o
con sapere e volontà riconoscono il medesimo e anzi come loro proprio spirito
sostanziale e sono attivi per il medesimo come per loro scopo finale, così che
né l'universale valga e venga portato a compimento senza il particolare
interesse, sapere e volere, né gli individui vivano come persone private
meramente per l'ultimo, e non in pari tempo vogliano nell'universale e per l'universale
e abbiano un'attività cosciente di questo fine. Il principio degli stati
moderni ha questa enorme forza e profondità, di lasciare il principio della
soggettività compiersi fino all'estremo autonomo della particolarità personale,
e in pari tempo di ricondurre esso nell'unità sostanziale e così di mantener
questa in esso medesimo. $ 261. Di fronte alle sfere del diritto privato e del
benessere privato, della famiglia e della società civile, lo stato è da un lato
una necessità esteriore e la loro superiore potenza, alla cui natura le loro
leggi, così come i loro interessi sono subordinati e da cui sono dipendenti; ma
dall'altro lato esso è il loro fine immanente ed ha la sua forza nell'unità del
suo universale fine ultimo e del particolare interesse degli individui, nel
fatto ch'essi in tanto hanno doveri di fronte ad esso, in quanto hanno in pari
tempo diritti [...] § 265. Queste istituzioni costituiscono la costituzione,
cioè la razionalità sviluppata e realizzata, nell'ambito del particolare, e sono
perciò la base stabile dello stato, casi come della fiducia e della
disposizione d'animo degli individui per il medesimo, e i pilastri della
libertà pubblica, poiché in esse la libertà particolare è realizzata e
razionale, quindi in esse stesse sussiste in sé l'unione della libertà e della
necessità. [Siamo nella parte terza - L'eticità; Terza sezione - Lo stato; le
citazioni sono desunte dalla trad. it. dei Lineamenti peri tipi della Laterza,
2000, a cura di G. Marini, e corrispondono, rispettivamente, alle pagg. 195,
201 e 204; i corsivi sono di Hegel]. finalità individuale e finalità collettiva
coincidono - si realizza pienamente nello Stato, «a sostanza etica consapevole
di sé». La sua essenza è costituita da quello stesso amore che sta a fondamento
della famiglia, innalzato però a «universalità saputa», a consapevolezza cioè
del proprio valore universale. In questo senso, lo Stato non conosce altri
poteri al di sopra di sé. Ovvero, tradotto il tutto in termini
michelstaedteriani, i rapporti sufficienti che l'uomo intrattiene con la
propria vita) e con le altrui vite assurgono all'ordito - ovvero si camuffano -
di rapporti razionali e dunque razionalmente necessari, e la Rettorica sociale
(statale) prende vita, e acquista diritto e giustificazione del proprio
esistere, nella forma pudica e "benevola" dell'Astuzia della Ragione
[List der Vernunft], la parca che tesse nel segreto le ragioni e le finalità
degli uomini. 4. La Rettorica come tecnica della violenza e violenza della
tecnica. Non c'è maggior potenza di quella che si fa una forza della propria
debolezza. Carlo Michelstaedter La Rettorica, dunque, è es-propriazione: in ciò
consiste la sua violenza. L'unico modo per sconfiggere la Rettorica sarebbe -
afferma Michelstaedter, nelle ultime, sconcertanti pagine della sua tesi -
scongiurare appunto ogni educazione: questa, in sintesi, la pretesa davvero
rivoluzionaria (e quanto veramente rivoluzionaria rispetto a tante altre
sedicenti tali) del Goriziano: «togliere la violenza dalle radici» è il suo motto,
nella forma del conosci te stesso: Reagisci al bisogno d'affermare
l'individualità illusoria, abbi l'onestà di negare la tua stessa violenza, il
coraggio di vivere tutto il dolore della tua insufficienza in ogni punto [PR
45-46]. Utopia, è vero. Perché la Rettorica si impone, è onnipresente, è tutto
ciò che accade: e lo è in modo irrimediabile. Perché, oltre che una sua forza,
ha una sua intelligenza (conosce paure e debolezze degli uomini, degli esseri,
e le sfrutta), una sua estrema capacità di adattamento. La sua storia
universale è anzi la storia del suo adattamento: il dispositivo rettorico -
quasi entità a sé stante, quasi entità pensante - ha inteso la grande forza del
"segreto", la strategia vincente della "dissimulazione": ha
inteso che «sarebbe povero nelle sue risorse, economo nei suoi procedimenti,
monotono nelle tattiche che usa, incapace d'invenzione ed in un certo senso
condannato a ripetersi sempre» * '°": avendo nient'altro «che la potenza
del 'no', del divieto, dell'ingiunzione, della coartazione, esso «sarebbe
essenzialmente anti-energia» *: «tutti i modi di dominio, di sottomissione, di
assoggettamento si ridurrebbero in fin dei conti all'effetto di obbedienza » *
«C'è una ragione generale e tattica che sembra autoevidente: il potere [nella
nostra prospettiva: il dispositivo rettorico, ma nel taglio ermeneutico che
stiamo dando è lo stesso] è tollerabile a condizione di dissimulare una parte
importante di sé. La sua riuscita è proporzionale alla quantità di meccanismi
che riesce a nascondere. Il potere sarebbe accettato se fosse interamente
cinico? Il segreto non è per lui un abuso; è indispensabile al suo
funzionamento » *. Il sistema della violenza, alle proprie manifestazioni
esterne, ai risultati di azioni cogenti di istituzioni deputate al
"sorvegliare e punire" (che tuttavia sopravvivono, propaganda della
ventilata sicurezza), al suo porsi come "stato di diritto",
preferisce le forme dell'interiorità (le forme della morale farisaica che si
oggettivano, nei codicilli del diritto morale-penale), preferisce assumere le
ammalianti sembianze di giustizia sociale e di razionalità sociale: si è fatto
carne e sangue forgiando i tipi del "soggetto" in filosofia, dello
"scienziato" nella conoscenza e in ultimo - figura in cui le prime
due si compendiano - del "cittadino 191 Cfr. la nostra nota 167.
modello" nella società cosiddetta civile, come denuncia il Goriziano, in
pagine davvero forti e risentite. Sono queste le forme, insomma, in cui -
secondo Michelstaedter - la violenza rettorica si è sublimata (nel senso
davvero freudiano del termine), sono questi i meccanismi attraverso i quali
l'ideologia si è fatta idealità, e il Leviatano si è fatto società ideale e
addirittura vagheggiata. Ironia del dispositivo rettorico: «ci fa credere che
ne va della nostra liberazione » *. Ma seguiamo più da vicino il dettato del
nostro giovane filosofo, riprendendo
opportunamente la dimostrazione del
"teorema-Michelstaedter" là dove l'abbiamo interrotta nel paragrafo
precedente, amplificandola qui proprio al contesto sociale'””. Abbiamo lasciato
l'uomo nella condizione sospesa tra l'illusione della permanenza e la
consapevolezza, che nella trama dell'illusione s'insinua, della effettiva
condizione tragica della propria esistenza: l'uomo «sente d'esser già morto da
tempo e pur vive e teme di morire» [24]: perché «chi teme la morte è già morto»
[33]. A questa condizione insostenibile, il dio luciferino della yopoyw trova -
o pretende di trovare - un più collaudato ed efficace «schermo [o empiastro] al
dolore» [34 e 58]: il dispositivo sociale, appunto. L'uomo chiede «ad altri
appoggio alla sua vita» [34], «dà e chiede, entra nel giro delle relazioni»
[43]. Se prima il compromesso della consistenza si consumava, come dire, nella
percezione "onanista" del proprio corpo, ora gli uomini - con maggior
insistenza - «chiedono di esser per qualcuno e per qualcosa persona sufficiente
con la loro qualunque attività, perché la relazione si possa ripetere nel
futuro; perché il correlato sia per loro sicuro nel futuro» [53]: «egli
[l'uomo] si vuol ‘costruire una persona' con l'affermazione della persona
assoluta che egli non ha: è l'inadeguata affermazioned'individualità: la
rettorica» [57]. Ma nel volgersi «a ricercare quelle posizioni dove il senso
attuale della sua persona lo aveva altra volta adulato colla voce del piacere:
' tu sei' [ovvero, appunto, nella rettorica sociale], [..., egli] già è fuori
del giro sano della sua potenza» [64], in modo definitivo e irrimediabile.
Insomma, gli uomini decidono di «adattarsi ragionevolmente» [89] l'uno
all'altro: cosa davvero singolare, ammette Michelstaedter, la contraddizione
che si viene a creare: nella società «tutti hanno ragione» quando invece
«nessuno ha la ragione» [39, ma anche 54] della propria esistenza. Difatti, e
qui le parole del nostro filosofo sono chiarissime, nello stipulare la
«cambiale della società » [102] gli uomini si comportano «non però, come ci
aspetteremmo, vittime della loro debolezza - in balia del caso, ma
'sufficienti' e sicuri come divinità » [95]. E' dunque il punto più alto
dell'illusione del dio del piacere, il punto in cui la sua "arte
tessile" assurge a livelli di "regale" maestria'”. 192 Cfr. nota
161. 193 Le nostre espressioni vengono ispirate da un passo del Politico di
Platone, che ci restituisce la valenza della sua rettorica politica in forma
pressoché conclusiva. La nostra citazione, dunque, si allinea a quelle (davvero
numerose) di Michelstadter, e inende compendiarle, condividendone il contesto
polemico:Nella stipulazione del "contratto sociale" gli uomini «si
son fatti una forza della loro debolezza,
poiché in questa comune debolezza speculando hanno creato una
sicurezza fatta di reciproca convenzione» [95, ma anche D 66]: essi, cioè,
hanno trovato definitivamente «il modo di poter continuare con sicurezza ad
aver fame in tutto il futuro» [94]. Così, da una parte, la società «largisce
loro sine cura tutto quanto gli è necessario» [adattato da 96]; dall'altra,
essi fingono di ignorare che «a loro degenerazione è detta educazione civile,
la loro fame è attività di progresso, la loro paura è la morale, la loro
violenza, il loro odio egoistico - la spada della giustizia» [95]. Questo
perché, in effetti, la sicurezza - per quanto graditi siano i suoi servigi e
privilegi - si paga comunque con un grandissimo scotto: essa «è facile ma è
tanto più dura: la società ha modi ben determinati, essa lega, limita,
minaccia: la sua forza diffusa è concreta in quel capolavoro di persuasione che
è il codice penale. La cura di questa sicurezza asservisce l'uomo in ogni atto
» [100-101]. E dunque, l'uomo da un lato si trova costretto ad accettare la
propria «libertà d'esser schiavo » («cercando la sicurezza nell'adattamento a
un codice di diritti e doveri») [94], e così pratica violenza contro se stesso;
dall'altro, «impone al resto della materia [alle cose] la stessa forma» [96]
che a lui risulta utile («violenza sulla natura: lavoro» [97]) e, cosa ancor
più grave, «subordina il suo simile alla propria sicurezza » [97] («violenza
verso l'uomo: proprietà » [97]). Questo meccanismo, leggermente complicato
nell'esposizione ma semplice nel suo funzionamento, ha la forza di un
potentissimo abbrivo: date queste premesse, la Rettorica ha facile gioco nel
«coinvorticare» («come la corrente d'un fiume ingrossato ») [59] tutta la
congerie umana e tutti gli aspetti dell'esistenza del singolo individuo,
riuscendo a contaminare ogni sana e onesta persuasione in
"disonestà". Il procedimento si reduplica e si estende, possiamo
dire, per inerzia di moto e per sineddoche di comportamento (la Rettorica, come
la Fama virgiliana, eundo crescit), seguendo una parabola che Michelstaedter
spiega e sintetizza, mirabilmente, nel suo Dialogo: [...] la preoccupazione
della vita spingerà pur sempre gli uomini a curare e a cercare le posizioni
dove videro vivere altrui, dove forse anche parve a loro stessi per qualche
tempo vivere. Nasce per questa preoccupazione, dalla vita sana del corpo, la
degenerazione sensuale e la rettorica dei piaceri; dalla diritta attività d'un
uomo che ha una sua missione da compiere, l'ambizione della potenza - e la
rettorica dell'autorità; dall'opera d'un uomo che aveva qualche cosa da dire -
la posa dei creatori e la rettorica artistica; dalle parole degli uomini che
mostrarono agli altri la retta via - la presunzione dei pensatori - e la
rettorica filosofica con la sua sorella minore: la rettorica scientifica [D
64]. La prima cambiale per l'uomo è il suo corpo, poi viene la camicia con la
quale è nato - e la camicia è contesta di posizione, diritti acquisiti, affetti
acquisiti come i diritti, non solo, ma anche di ciò che il socialmente povero
«Ecco tutta la funzione regale di tessitura: non lasciare mai che entri in
azione una separazione fra il carattere temperato e il carattere energico, che
devono invece essere orditi insieme, in una comunità di intenti e di opinioni,
in una condivisione di onori e di gloria, e in una sorta di giuramento comune,
per farne un tessuto armonioso e, come si dice, ben serrato, e confidare a
questi due elementi le magistrature della città [...] Ecco pronta la buona
stoffa prodotta dall'ordito dell'azione politica, allorché, partendo dai
caratteri umani di energia e di temperanza, la scienza regale assembla e unisce
le loro due vie per mezzo della concordia e dell'amicizia, e realizzando così
il più magnifico e il più eccellente di tutti i tessuti, vi avvolge, in
ciascuna città, tutto il popolo, schiavi e uomini liberi, serrandoli insieme
nella sua trama e assicurando alla città, senza pericolo di insuccesso, tutta
la prosperità di cui può godere quando è ben governata» (Politico, 310e -
311c).trova già nell'atmosfera: le vie, i modi, tutto il lavoro accumulato dai
secoli e di cui i posteri godono i frutti nella vicendevole sicurezza e nella
sicurezza di fronte alla natura [D 67-68]. Questa sicurezza dissimula e copre
con un velo di «prudente ipocrisia» [D 68] una reale situazione di conflitto,
quella sociale, dove in realtà l'homo è homini lupus, dato che «invidia
ambiziosa, prepotenza e timor degli uomini» («le virtù consacrate» della
rettorica sociale) [D 68] la fanno da padrona. Tuttavia, come nella singola
individualità la voce del dolore si fenomenologizza nelle nevrosi quotidiane o
esplode nelle situazioni-limite della perplessità esistenziale, nel contesto
sociale essa prende fiato attraverso la rabbia dei popoli: «la rabbia è il
Leitmotiv della vita sociale», il «cigolio continuo della macchina sociale»;
attraverso di essi, gli uomini sfogano la loro «impazienza e l'insopportabile
senso della dipendenza » [D 69, ma anche PR 120-121]. Ma quali sono gli
strumenti attraverso i quali la Rettorica assicura la «sicurezza fatta di
reciproca convenzione», ovvero, quali sono le reificazioni del /avorio di
(falsa) persuasione ch'è proprio della Rettorica? Possiamo utilmente
schematizzare le indicazioni del Goriziano (del resto, ne abbiamo parlato a
sufficienza nel paragrafo su Parmenide): a) il denaro, «concentrato di
lavoro»'*, destinato a diventare «del tutto nominale, un'astrazione, quando le
ruote saranno così ben congegnate che ognuna entrerà nei denti dell'altra senza
bisogno di trasmissione» [118]'®; 194 In questa definizione del denaro si può
scorgere, netta, l'influenza della lettura di testi di Marx, a Michelstaedter
non alieni. Un importante appunto autografo, riportato dal Cerruti [cfr. in
appendice alla sua monografia cit. alle pagg. 167- 168], mostra ad esempio che
Michelstaedter lesse, annotò e schematizzò, in brevi linee e concetti-chiave,
Il capitale. Questo non deve far pensare, secondo noi, a velleità
rivoluzionarie-proletarie (nel senso marxiano del termine) nel nostro giovane
filosofo - che comunque pur scrisse, in gioventù, un Discorso al popolo -; o
addirittura ad un inserimento della sua Persuasione "contestatrice"
all'interno di una temperie marxista, come da alcuni pur è stato tentato. In
realtà, Michelstaedter ci si mostra lontano da ogni engagement politico, e
questa sua posizione la valutiamo più che come sintomo di un'
"ignoranza" o indifferenza politica, come conseguenza di una ben
ponderata presa di posizione. Evidentemente, il gioco politico (nella fattispecie,
quello dei partiti) dovette apparire al Goriziano come una delle forme più
lampanti e più "scanzonate" del compromesso rettorico: all'interno
della "comunella di malvagi" esiste solo un apparente fronteggiarsi,
su posizioni solo in apparenza contrarie, che mirano esclusivamente al potere
(oggi si chiamerebbe partitocrazia). La politica del tempo gli si doveva
rivelare come conferma di ciò; vale la pena, allora, riportare l'unico appunto
politico (nel senso gretto del termine) che abbiamo ris contrato nella nostra
lettura dei suoi testi, anche a testimonianza della lucidità della sua analisi
in proposito: «[...] Il socialismo [Michelstaedter sta parlando delle
manipolazioni che la Rettorica ha prodotto a scapito dei "sinceri"
moniti della Persuasione] - mantenendo le forme, il nome, gli schemi delle
argomentazioni, tutto il frasario di Marx - ha ridotta la sua negazione della
società borghese a un elemento di riforma nella società borghese, volto a scopi
più o meno particolari e materiali: più o meno mite, a seconda che più o meno i
capi del partito avevano bisogno della società borghese e, approfittando della
forza che loro concedeva il partito, ambivano a un posto in quella. Così che in
Francia il socialismo è giunto al governo, in Germania ha creato una classe
benestante più borghese dei borghesi, in Itali... dell'Italia è pietoso tacere.
-» [PR 124-125 in nota; corsivi dell'autore], Possiamo con comodità riassumere
la questione, e segnare i distinguo, dicendo che, a differenza di Marx,
Michelstaedter non approntò una critica/analisi della Rettorica a partire da
strutture economiche, bensì a partire da strutture ontologiche (la deficienza).
b) il linguaggio, che «arriverà al limite della persuasività » [118], tale che
«gli uomini si suoneranno vicendevolmente come tastiera» [119] "°° e il
linguaggio giungerà alla sua «cristallizzazione» [112] definitiva”; niente
paura, tuttavia: seppure un giorno «gli uomini non riusciranno ad intendersi
certo giungeranno [comunque...] ad intendersela » [88]/®8; c) la scienza,
esasperazione della pretesa conoscitiva, «officina dei valori assoluti» [125],
il baluardo dell'oggettività, che ri-formula a suo arbitrio la consistenza
dell'esistere ricavando «dalla contemporaneità o dal susseguirsi d'una data
serie di relazioni una presunzione di causalità» [84; corsivo nostro]; in
questo rivelandosi lo strumento preferito della yiaopuyia [84]. 95 Si pensi
alle transazioni "virtuali" che oggi avvengono mediante bancomat e
carte di credito, o anche attraverso internet. %6 Si pensi alle... tastiere dei
nostri PC che permettono di chattare (come si dice in gergo) attraverso
internet. 97 «[...] Date parole sulle quali gli uomini senza conoscerle
s'appoggiano per gli usi della vita e senza conoscerle come ricevute le danno»
[87, corsivi di Michelstaedter]. 98 Come visto più volte, per Michelstaedter lo
strumento del linguaggio nasce innanzitutto da un bisogno di
"consistenza"; vale a dire che la "solidità" della parola,
e soprattutto dei luoghi comuni e dei "te cnicismi", serve da una
parte a creare sostanza (illusoria) alla propria deficienza attraverso il
rapporto con gli altri (nel circuito linguistico) [La utilità, quella
originaria], dall'altra ad economizzare la transazione rettorica, se possiamo
esprimerci così [2a utilità, quella definitivamente artefatta]. Questa
situazione di "stordimento" (in riferimento soprattutto alla prima
utilità), il vano tentativo di stornare la voce del dolore/deficere attraverso
il frinire "innaturale" del linguaggio, denunciata più volte da
Michelstaedter, e con insistenza, viene allegorizzata in questa breve,
bellissima favola di Rilke, che ci piace riportare, convinti che se il
Goriziano l'avesse letta l'avrebbe di sicuro, a sua volta, citata (si leggano
con attenzione soprattutto gli ultimi capoversi):«C'erano due creature, un uomo
e una donna, che si amavano. Amarsi vuol dire non accettare nulla, da nessuna
parte, dimenticare tutto e volere ricevere tutto da una sola persona, quello
che già si possedeva ed il resto: e questo è quanto desideravano reciprocamente
le due creature. Ma nel tempo, nei giorni, nel flusso di tutto quello che va e
viene, spesso, prima ancora di avere stabilito un rapporto, un simile modo di
amare non può essere mandato ad effetto: gli avvenimenti incalzano da ogni lato
ed il caso apre loro ogni porta. Per questo i due risolsero di passare dal
tempo alla solitudine lontano dal suono delle ore e dai rumori della città. Si
costruirono dunque una casa dentro un giardino; e la casa aveva due porte, una
sul lato destro e una sul lato sinistro. La porta di destra era la porta
dell'uomo, e di qui doveva entrare tutto quanto era dell'uomo. Ma quella di
sinistra era la porta della donna; e sotto questo arco doveva passare tutto
quello che apparteneva alla donna. Così avvenne. Chi primo si destava il
mattino scendeva ad aprire la sua porta, e fino a tarda ora della notte
entravano molte cose, anche se la casa non era posta lungo una strada. Per chi
sappia come riceverli, arrivano fino in casa paesaggio luce e una brezza dalle
spalle cariche di odore e molte altre cose ancora. Ma anche giorni trascorsi,
figure, destini, entravano per quelle due porte, e a tutti era riservata la
stessa accoglienza, tanto semplice che ognuno credeva di avere sempre abitato
in quella casa solitaria. Così procedettero le cose per un lungo periodo di
tempo, e le due creature erano molto felici. La porta di sinistra veniva aperta
un poco più spesso, ma per quella di destra entravano ospiti più vari. Dinanzi
a questa, un mattino era ad attendere la Morte. L'uomo, non appena la ebbe
veduta, chiuse in fretta la porta e la tenne ben serrata per tutto il giorno.
Poco dopo la Morte apparve dinanzi all'ingresso di sinistra. La donna chiuse
tremando la porta elasbarrò con un robusto chiavis tello. Essi non si dissero
nulla dell'accaduto; ma aprirono più di rado le due porte e cercarono di
accomodarsi con quanto avevano in casa. La loro vita divenne così molto più
povera di prima. Le loro riserve si fecero scarse, sorsero le prime
preoccupazioni. Cominciarono a dormire male; e durante una di quelle lunghe
notti insonni, entrambi udirono improvvisamente uno strano rumore, quasi uno
scalpicciare e un picchiare insieme. Veniva di là dal muro di casa, a eguale
distanza dalle due porte, ed era come se qualcuno cominciasse a scalzare pietre
per aprire una nuova porta al centro di quel muro. Nel terrore improvviso che
li colse, i due si comportarono come se non udissero nulla di strano;
cominciarono a parlare, a ridere in modo innaturale; e quando si furono
stancati, il rumore alla parete era cessato. Da quella notte in avanti le due
porte rimangono definitivamente chiuse. | due vivono come prigionieri; sono
malati, soffrono di strane fantasie. Il rumore si ripete di tempo in tempo.
Allora essi ridono con le labbra, ma i loro cuori sono sul punto di mancare dallo
spavento. Ed entrambi sanno che il rumore diventa sempre più forte e distinto,
e debbono parlare e ridere sempre più forte con le loro voci sempre più
fioche». [cfr. R. M. Rilke, Le storie del buon Dio, trad. it., Milano, Rizzoli,
1978, pp. 119-122].La società, soprattutto attraverso la scienza, non soltanto
assicura "oggettività esistenziale" ma scongiura agli uomini ogni
«tovog - ogni pericolo che esiga tutta la fatica intelligente e tenace per
esser superato » [105] (ma, in effetti, i due "pregi"
s'identificano). Nel far questo, essa si autopromuove, come si dice oggi, a
"scienza con fini operativi", ovvero a tecnica. La vita si
tecnicizza, il che wol dire, secondo Michelstaedter (il quale non fa differenza
fra tecnica e tecnologia), che la vita si de-potenzia'’. La tecnica, cioè,
viene a 199 La critica di ispirazione heideggeriana può, a buon ragione,
individuare soprattutto in questo punto uno dei più espliciti
"precorrimenti" di Michelstaedter rispetto al filosofo tedesco.
Tuttavia, a prescindere da una certa, effettiva consonanza di diagnosi che pare
accomunarli, ribadiamo quello che, a nostro parere, è l'irriducibile
"cavillo" che li contraddistingue e che rende vana, per noi, ogni
operazione di accostamento: per Heidegger, l'oblio dell'Essere e il richiamo
all'esistenza autentica (come riappropriazione dell'orizzonte ontologico del
Dasein) si giocano sul piano appunto dell'ontologia; per Michelstaedter la
Rettorica ha una natalità fisiologica, se possiamo esprimerci così, e il
richiamo all'esistenza autentica si consuma sul piano del socratismo, ovvero di
una forte istanza etica (etica che, come si sa,Heidegger ci tenne ad escludere
dalla sua "analitica esistenziale"). E' comunque indicativo come,
seppur partendo da differenti presupposti, i due filosofi si fanno interpreti
di una comune "perplessità" del pensiero di fronte ai risvolti
"violenti", neanche tanto nascosti, che la tecnica porta con sé.
Evidentemente, la traduzione politica del dominio tecnico veniva presentita
come pericolo in un'età incerta per eccellenza, che - volendo - Michelstaedter
apre e Heidegger chiuderà, con gli esiti contraddittorii che tutti conosciamo.
E' altrettanto ovvio che Michelstaedter non fu il primo ad individuare, e a
denunciare, l'essenza tecnica, diciamo il "tecnocratismo", del suo
tempo: a partire dalla rivoluzione industriale, almeno, la polemica -
moralistica e/o scientifica (intendiamo, per quest'ultimo punto, marxista) -
contro la riduzione dell'uomo a ingranaggio era addirittura un fatto alla moda.
E prima di Michelstaedter, già un Carlyle, ad esempio, ci dava un ottimo
resoconto di prospettiva: «Se ci si chiedesse di caratterizzare questa età, che
è la nostra, con qualche epiteto unico, saremmo tentati di chiamarla non Età
Eroica, Religiosa, Filosofica o Morale, ma l'Età Meccanica, sopra ogni altra.
E' l'Età del Macchinismo in tutti i significati della parola, esterno e
interno; l'Età che con tutto il suo potere indiviso, fa progredire, insegna e
pratica la grande arte di adattare i mezzi allo scopo. Nulla si fa ora
direttamente, o a mano; tutto colla regola e colla combinazione calcolata.
[...] Da ogni parte l'artigiano vivente è cacciato dalla sua officina per
lasciare il posto ad un altro più rapido ed inanimato. La spola sfugge alle
dita del tessitore e cade in dita di ferro che la maneggiano con maggiore
velocità. [...] Per tutti gli scopi terrestri e per alcuni scopi non terrestri
ci sono macchine e aiuti meccanici; per tritare i nostri cavoli, per immergerci
in un sonno magnetico. [...] Che meravigliosi incrementi furono cosi portati e
sono ancora apportati alla potenza fisica dell'umanità; quanto meglio nutriti,
vestiti, alloggiati, e sotto i rapporti esteriori, quanto meglio accomodati
sono ora, o potrebbero essere, gli uomini con una certa misura di fatica; ecco
una riflessione piacevole che si impone ad ognuno. Quali cambiamenti, inoltre
stia apportando nel sistema sociale questo accrescimento di potenza; come sia
sempre più cresciuta la ricchezza e nello stesso tempo si sia sempre più
accumulata in masse, alterando stranamente le vecchie relazioni e aumentando la
distanza fra il ricco e il povero, sarà un problema per gli economisti
politici. [...] Ma lasciando per ora queste materie, osserviamo come il genio
meccanico del nostro empo si sia esteso in campi affatto estranei. Non è
soltanto l'esteriore e il fisico che sono retti dal meccanismo, ma anche
l'interiore e lo spirituale. Anche qui nulla segue il suo corso spontaneo,
nulla è lasciato in balia degli antichi metodi naturali [...}». A tal proposito,
troviamo interessante riscontrare anche un'indiscutibile analogia descrittiva
all'interno della comune polemica (di Carlyle e di Michelstaedter) contro l'età
del Macchinismo: entrambi fanno riferimento a esempi concreti, minimi,
'tecnici"; entrambi denunciano una meccanizzazione non solo dell'aspetto
"esteriore e fisico", ma anche dell' "interiore e
spirituale". E'anche interessante valutare l'alternativa che Carlyle
propone all'età della tecnica; poco dopo il passo citato, egli scrive:«Il
Filosofo di quest'epoca non è un Socrate, un Platone, [...] che inculca agli
uomini la necessità e il valore infinito della bontà morale, e questa grande
verità, che la nostra felicità dipende dallo spirito che è in noi e non dalle
circostanze che sono fuori di noi; ma uno Smith, [...] un Bentham, che
inculcano precisamente il contrario, - cioè che la nostra felicità dipende
intieramente dalle circostanze esteriori; e che anche la forza e la dignità
dello spirito che è in noi sono esse pure la creazione e la conseguenza di
quelle circostanze. Se le leggi e il governo fossero bene ordinati, tutto
andrebbe bene per noi; il resto si accomoderebbe a suo piacere!», Un resoconto
che Michelstaedter avrebbe controfirmato (a meno che da esso non sia stab anche
ispirato, ma sinceramente non ce la sentiamo di avanzare l'ipotesi).
Quest'ultima citazione da Carlyle non vuole certo appiattire l'originalità
della proposta persuasa di Michelstaedter, né il suo riferimento alla lezione
genuina del socratismo come sostanza etica della Persuasione (ci mancherebbe
altro); vuol soltanto far intendere come la ricerca esistenziale dicoincidere
con la razionalizzazione estrema della relazione sufficiente poiché essa, in
sostanza, s'impegna - potremmo dire, in base al nostro assunto interpretativo -
a sufficere homines [cfr. supra], meccanizzandone quella che la Arendt
chiamava, in senso pregnante, vita activa. In base a questa diagnosi, che
Michelstaedter snocciola non tanto a livello teoretico 200, il Goriziano
conclude che «ogni quanto piuttosto indugiando su esempi di vita concreta
progresso della tecnica istupidice per quella parte [ch'essa intende sufficere]
il corpo dell'uomo» [104]: «le vesti, la casa, la produzione artificiale del
calore rendono inutile la facoltà di reazione dell'organismo», tale che
«l'individuo per sé non è più una forza pericolosa in mezzo agli animali».
Siamo convinti che queste affermazioni di Michelstaedter, che corrono il
rischio di esser lette come un grossolano parossismo anti-tecnologico, trovino
il motivo della loro esagerazione soprattutto in una velata polemica
"ideologica" individuabile tra le righe: esse, cioè, ci appaiono non
solo come ammissioni, ma anche come contestazioni, se si tien conto (e
invitiamo a farlo) delle contemporanee tecno-apologie del futurismo,
altrettanto parossistiche?°'. Inoltre, le conclusioni del Goriziano confortano
anche la nostra linea interpretativa, che legge "foucaultianamente"
la Rettorica, nella sua espressione più pura, come tecnica politica del corpo:
difatti, proprio attraverso la tecnica, secondo Michelstaedter essa sollecita
un processo (diremmo, danwiniano) di atrofia progressiva delle potenzialità
organiche dell'individuo, condizione sufficiente all'asservimento totale (e in
questo contesto, invitiamo anche a tener conto delle "ragioni" della
servitù secondo Aristotele, nelle prime pagine della Politica). Michelstaedter,
oltre che essere frutto di un impegno, di una esigenza e di una sofferenza
personali, evidentemente s'inseriva anche all'interno di una temperie culturale
- che accomunava le voci più alte non solo del socialismo e del radicalismo, ma
anche del liberalismo, dell'anarchismo e addirittura del fronte reazionario -
che auspicava all'unisono un ritorno dell'uomo alle autentiche radici della sua
umanità. [Per le citazioni dei passi di T. Carlyle, cfr. dell'autore: Segni dei
tempi, contenuto in Ideologie nella rivoluzione industriale,a cura di F. Papi,
Zanichelli, 1976, pagg. 121-124 passim] 200 O meglio, lascia al lettore la
facoltà di evincere il livello teoretico dai riferimenti "empirici".
Per gli esempi polemici adottati da Michelstaedter cfr. ib. pagg. 106-107. Ma
cfr. anche la nostra nota precedente. 201 Anzi, la posizione di Michelstaedter
(tecnologia come atrofia dell'organo per delega della funzione, se possiamo dir
così) pare offrirsi come il ribaltamento speculare di quella futurista
(tecnologia come potenziamento dell'organo per ausilio nella funzione). E, in
questo senso, c'è forse anche un intento ironico nel sottolineare l'effetto d'
"evirazione" che la tecnica produce. L'esaltazione del meccanismo e
della velocità, già esplicita nel Manifesto del 1909 (l'anno in cui
Michelstaedter cominciò a scrivere la sua tesi), diviene in Marinetti
addirittura utopia di un nuovo uomo meccanico e "moltiplicato": «Il
giorno in cui sarà possibile all'uomo di esteriorizzare la sua volontà in modo
che essa si prolunghi fuori di lui come un immenso braccio invisibile il Sogno
e il Desiderio, che oggi sono vane parole, regneranno sovrani sullo Spazio e
sul tempo domati. Il tipo non umano e meccanico, costruito per una velocità
onnipresente, sarà naturalmente crudele, onnisciente e combattivo. Sarà dotato
di organi inaspettati: organi adattati alle esigenze di un ambiente fattodiurti
continui. Possiamo prevedere fin d'ora uno sviluppo a guisa di prua della
sporgenza esterna dello sterno, che sarà tanto più considerevole, inquantoché
l'uomo futuro diventerà un sempre migliore aviatore».La tecnica dunque è il
punto più alto e più subdolo della violenza verso l'uomo e verso la natura
[97-98], poiché l'organizzazione tecnica della vita - ossia l'orizzonte tecnico
di dominio - presuppone e valuta tutti gli enti del mondo sublunare alla
stregua di risorse- corpi a disposizione, momenti-corpi di un ingranaggio,
materiali-corpi impiegati/impiegabili secondo piani prestabiliti?°?, Il danaro,
il linguaggio, la scienza, e la sua escrescenza tecnica, rappresentano così la
cementazione dell'intreccio delle relazioni sufficienti, e - garantendosi
fondamenta così salde - la Rettorica ha facile gioco nell'edificare il suo
sistema sociale, la sua geniale architettura di dominio. «Questa camicia di
forza o camicia rettorica - scrive Michelstaedter - è contesta di tutte le cose
nate dalla vita sociale: 1°, i mestieri; 2°, il commercio; 3°, il diritto; 4°,
la morale; 5°, la convenienza; 6°, la scienza; 7°, la storia» [120]. Ed ha per
giunta una sua deontologia, un suo pentalogo”° a uso e consumo della sua
violenza: 1 non impegnarti con tutta la tua persona 2 distingui tra teoria e
pratica 3 prendi la persona della sufficienza che t'è data 4 misura i doveri
coi diritti 5 informati a ciò che è convenuto [108] In definitiva, la genialità
della Rettorica è nel far calzare ai propri "sudditi", coi modi della
lusinga, una convenienza che più che un abito sociale è divenuta una vera e
propria nuova pelle [156; vedremo più avanti come ci riesca]; tal che essi,
beati per l'azione dell'oppiaceo rettorico, «galleggiano alla superficie della
società come un ago asciutto alla superficie dell'acqua per l'equilibrio delle
forze delle forze molecolari» [120; corsivo di Michelstaedter], senza sforzo e,
soprattutto, cosa più grave, senza responsabilità [108]. Gli uomini si adattano
volentieri ad essere partes materiales dell'organismo sociale [148, ma anche
114], scambiano la Salute per la felicità e | benessere, che la Rettorica
propina loro nelle sembianze dell'«armoniosa soddisfazione delle singole
necessità» [154] e dell'«ottimismo sociale» [117]. La Rettorica sociale è il
paese dei balocchi” e l'uomo, come Pinocchio, «non è un E così via. E' altresì
interessante notare che Marinetti, pochi capoversi prima, aveva dileggiato i
Lavoratori del Mare di Victor Hugo come opera emblema di «un leitmotiv
dominante tedioso e sciupato [quello della «divina Bellezza- Donna»]», opera invece
adorata da Michelstaedter. [per le citazioni da Marinetti, cfr. dell'autore
L'uomo moltiplicato e il Regno della Macchina, contenuto in Filippo Tommaso
Marinetti e il Futurismo, Oscar Mondadori, 2000, a cura di Luciano de Maria,
pagg. 38-42]. 202 Per Heidegger, l'essenza della tecnica - il punto estremo
dell' "oblio dell'Essere" - si rivela come Gestell,
"impianto", ossia unione di tutti i modi dell'impiegare. Gli
heideggeriani, giocando sull'etimologia, fanno notare che Gestell vuol dire
anche "scaffale", dove il Ge (che traduce il cum latino), sta per il
modo della raccolta. E che il Ge lo ritroviamo nel Gefahr , nel
"pericolo" della tecnica come orizzonte planetario in cui il
"pensiero calcolante" oblitera definitivamente l'essenza dell'Essere.
203 Si confronti col già citato Pentalogo della persuasione; per cui cfr. anche
oltre, in relazione ad un altro pentalogo, quello tolstoiano. Mittwisser,
ovverdwc, conscius, ma complice in buona fede» [108] del lucignolo dio della
popoya, nel disporre e nel gioire del suo "svago" e delle sue
comodità. 204 Leggiamo in questo senso la simpatia di Michelstaedter per
l'opera di Collodi (come ricordato in precedenza, secondo la testimonianza
della sorella Paula) e abbiamo inserito apposta qui il riferimento, anche per
esigenze di variatio. 118 5. L'insoluto scontro universale di Rettorica e
Persuasione. Le proposte di Michelstaedter per un definitivo affermarsi della
Persuasione. Lo scontro coni fatti. Di fronte alla Rettorica, in un assetto
dunque non monolitico, ma dinamico, plurale, sta la forza della Persuasione, la
forza della resistenza, l'autonomia "politica" (autonomia, ma
politica) del vir: quest'ultimo, come dicemmo, vive in uno stato di emulsione.
«Questi punti di resistenza sono presenti dappertutto nella trama del potere.
Non c'è [...] rispetto al potere un luogo del grande Rifiuto - anima della
rivolta, focolaio di tutte le ribellioni, legge pura del rivoluzionario. Ma
delle resistenze che sono degli esempi di specie: possibili, necessarie,
improbabili, spontanee, selvagge, solitarie, concertate, striscianti, violente,
irriducibili, pronte al compromesso, interessate o sacrificali»* “°°. La forza
del vir sta nel distinguersi in questo coacervo di opposizioni più o meno
consapevoli, più o meno sincere, più o meno innervate nella (o esposte alla)
malafede: l'opposizione alla Rettorica rischia a sua volta di farsi rettorica,
talora è lo stesso dispositivo che maschera se stesso nelle forme della sua
opposizione”. 205 Cfr. nostra nota 167. 206 Troviamo interessante, a tal
proposito, il tentativo già di Quintiliano di confutare questo carattere
ancipite della retorica: ovviamente, lo scrittore latino fa riferimento alla
retorica intesa nella sua fenomenologia più povera, ovvero come "arte del
dire"; eppure, già qui, Quintiliano si mostra consapevole della potenza
del dispositivo, tale da riuscire a rovesciare una posizione nel suo contrario;
si mostra altresì persuaso che una retorica che rinnega se stessa è piuttosto
un'eristica; e che, di converso, il vero retore segue una morale (quella del
credibile, del verosimile) che non può essere confutata, perché mira al bene
della comunità. C'è una lunga tradizione latina dietro alle parole del
pedagogista, che risale almeno a Catone: l'oratore è il vir bonus dicendi peritus.
Tuttavia, l'autore del brano, verso la fine, quasi sconfessa se stesso: la
retorica si scopre come mero strumento di dominio (seppure volto al bene della
comunità), strumento eminentemente politico che, in un certo momento, si
dissocia volentieri da quella stessa moralità che dovrebbe invece permearla e
che lo scrittore appassionatamente pur le ascrive. E' altresì interessante,
secondo noi, valutare le arti "gemelle" che Quintiliano associa alla
retorica nel corso della sua confutazione: la scherma, il pilotaggio, la
strategia condividono - con la stessa "arte del dire" - il medesimo
sfondo polemico, la medesima finalità di sconfiggere l'avversario. Ovvero, il
meccanismo retorico ad un certo punto si astrae dal suo luogo di origine e
diviene elemento strutturale e caratterizzante di tutto l'agire umano. Dunque,
anche la confutazione di Quintiliano finisce col ritorcersi contro se stessa.
[Del testo, abbiamo evidenziato in corsivo i passaggi che riteniamo cruciali].
«Assai spesso si fa quest'altra cavillosa accusa alla retorica, che la
discussione abbia luogo da una parte e dall'altra; ne segue che, mentre
nessun'arte è opposta a sé stessa, per la retorica avviene il contrario; mentre
nessun'arte distrugge quello che ha fatto, ciò tocca alla retorica; parimenti,
essa insegna o quanto è da dire o quanto non è da dire, quindi essa non è arte
o in quanto insegna quel che non si deve dire o in quanto, dopo aver insegnato
quel che si deve dire, insegna pure il contrario. Evidentemente queste
considerazioni riguardano solo quella retorica che è aliena dalla moralità
dell'oratore e dal concetto stesso di virtù: del resto, dove la causa è
ingiusta, ivi non ha luogo la retorica, per cui è quasi inverosimile che sia un
buon oratore, cioè un uomo onesto, a difendere l'una e l'altra parte in causa.
Tuttavia, essendo nell'ordine naturale delle cose che due giuste cause dividano
in campi opposti due saggi, dal momento che essi pensano di dover venire a
scontrarsi tra loro, se la ragione cosi comanderà, risponderò a tali argomenti
e certamente in modo da dimostrare che tali idee sono state vanamente
escogitate anche contro quanti concedono il titolo di oratore pure alle persone
dai cattivi costumi. Intanto la retorica non è in contrasto con se stessa:
perché si mette a confronto una causa con un'altra causa, non la retorica con
sestessa. E se tra loro contendono due oratori che hanno imparato la stessa
cosa, sarà sempre arte quella che è stata insegnata sia all'uno che all'altro;
d'altro canto, ciò si verifica nella scherma, perché sovente gladiatori
allenati dallo stesso maestro vengono messi l'uno di fronte all'altro; nel
pilotaggio, perché nelle battaglie navali un pilota fronteggia l'altro; nella
strategia, perché un generale combatte contro l'altro. Allo stesso modo la retorica
non sovverte quel che ha creato. Infatti, l'oratore non distrugge le
argomentazioni da lui proposte e neppure fa questo la retorica, perché tra
quanti pongono come finalità di quest'arte il persuadere o tra due galantuomini
che, come ho detto, qualche caso abbia posto di fronte, oggetto della ricerca è
ciò che più si avvicina alla verità: e se una cosa è più attendibile di
un'altra, essa non sarà opposta a quella che pure apparve attendibile. In
sostanza, come non c'è Di contro, la Persuasione deve trovare una sua coerenza,
una sua consapevolezza, una sua "bontà gratuita", che la distolga
dalla tentazione di invischiarsi anch'essa nella trama di potere, o di essere
inglobata (e dunque di divenire inoffensiva) in una delle tante "sacche di
tolleranza" che la Rettorica ha a sua disposizione. La voce della
Persuasione (soprattutto attraverso l'insegnamento socratico, che ne
rappresenta la trasposizione umana più fedele)
[... ]risveglia nell'uomo la richiesta del bene attuale e lo
affranca dal pericolo di dar valori a nomi così da esser per questi tratto a
adattarsi all'irrazionalità di una qualsiasi vita sufficiente; lo libera dalla
vana attesa d'un futuro che porti ciò di cui nel presente non abbia in sé la
potenza, lo libera dalla soggezione dell'ambiente in ciò che gli nega il
possesso di quanto dalle cose e dagli uomini gli possa esser dato diverso da
lui, additandogli come unico possesso da seguire la propria anima [PR 150].
Ecco perché, a nostro parere, la forza rivoluzionaria di Michelstaedter non può
essere assimilata alla contestazione, filosofica e politica, della scuola di
Francoforte (strascico dell'istanza marxista), come pure qualche critico"
ha proposto. Certo, vien quasi naturale conchiudere l'analisi
michelstaedteriana sul dispositivo rettorico nelle parole programmatiche che un
Marcuse appone al suo capolavoro: «Una confortevole, levigata, ragionevole,
democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata »°°8,
Altrettanto spontaneo nascerebbe l'accostamento tra gli uomini rettorici e i
«salauds» di Sartre (o i «fieri benpensanti», ma per il Francese è lo stesso),
«quelli che passeggiano in riva al mare nei loro abiti primaverili», credendo
(o fingendo di credere) a quell'edificio ordinato di valori, diritti, abitudini
che si sono costruiti per dare un ruolo, un senso a sé e alle cose, occultando
l'abisso della gratuità e assurdità del mondo e dell'esistenza?°’. opposizione
tra ciò che è bianco e ciò che è più bianco, tra ciò che è dolce e ciò che è
più dolce, così opposizione non c'è tra quanto è credibile e quanto è più
credibile. La retorica non insegna mai quello che non dev'essere detto, né il
contrario di quello che dev'essere detto, ma quel che in ciascun processo
dev'essere detto. E non sempre, anche se molto spesso, la verità va difesa a
tutti i costi, perché in certi casi l'interesse generale impone la difesa di
ciò che è falso» [Quintiliano, Institutio oratoria, II, 17, 30-36, trad. P. Pecchiura].
207 Ad esempio, il Cerruti: ma l'opinione è divenuta oramai quasi un luogo
comune. Il critico, comunque, fa un rilievo che possiamo accettare, e preporre
anche alla nostra analisi: Michelstaedter quando attacca il "sistema
rettorico" - o la Rettorica fatta sistema, com'egli dice - rivolge invero
le sue critiche ad un paradigma assoluto di "comunella di malvagi"
(ogni comunella è, sempre e dovunque, malvagia); tuttavia la sua spietata
disanima ha buon gioco nel prender di mira l'epifania storica di quella
comunella a lui contemporanea, cioè la società borghese di fine ottocento -
inizio novecento, come risultante ultima, almeno in ordine di tempo, della
degenerazione "politica" dell'uomo (e ciò, nota il Cerruti, si
esplicita soprattutto nel Discorso al popolo; ma cfr. la sua
monografia su Carlo Michelstaedter, Mursia - Civiltà Letteraria del Novecento,
1987 2ed, pag. 48] 208 Cfr. Marcuse, L'uomo a una dimensione, Einaudi, 1999,
pag. 15. 209 Cfr. J .P.Sartre, La Nausea, Einaudi, 1989 nella fattispecie le
pagg. 165-178. L'ipocrita rettorica dei salauds trova il proprio corrispettivo,
amabile e ingenuo, nell'ostinazione di Anny nel creare «momenti perftti»,
sforzi tanto minuziosi quanto vani per ricomporre il mondo intorno a lei. Per
Sartre, l'esistenza che si svela (la vera esistenza) è appunto la Nausea, una
pozza tiepida di terribile consapevolezza del putridume che intride l'aria, la
luce, i gesti della gente. Se Michelstaedter avesse potuto leggere Sartre,
avrebbe chiamato certamente anch'egli Nausea la disgustosa "condizione
onirica" che attanaglia l'uomo nelle situazioni limite della propria
esistenza [per cui cfr. supra]. Ma nondimeno l'avrebbe combattuta. Eppure, la
distanza tra le due posizioni - quella di Michelstaedter e quella
francofortese- sartriana - non è solo di prospettiva storica, ma innanzitutto
di prospettiva etica’: un Adorno, un Marcuse, un Horkheimer, un Sartre (il loro
stesso progenitore: Marx) si muovono ancora nella rete dei poteri, traggono ancora
ispirazione dalla spirale di violenza: la trasformazione ch'essi prospettano,
la contestazione di cui essi si fanno portavoci mira, l'è vero, ad essere
destabilizzante, a minare dalle fondamenta le forme costituite della Rettorica
(ovvero, com'essi la chiamano, dell'amministrazione”'') ; eppure la loro
contestazione alla violenza avviene attraverso la violenza per l'instaurazione
di una nuova violenza, ch'è la stessa Rettorica con nome solo mutato: i
giacobini della rivoluzione si affannano a riscrivere una nuova
"enciclopedia" della mappa del potere, contraddittoria ma non
contraria a quella che già esiste. Se proprio vogliamo trovare un riferimento,
più o meno attuale, alla soluzione michelstaedteriana, potremmo casomai
chiamare in causa l'utopia di un Bloch. Ma anche qui il paragone non tiene.
Perché Michelstaedter si pone su un piano decisamente "altro": la sua
Persuasione non consiste in una riorganizzazione del potere, neanche nelle
parvenze di una sua "castrazione". La Persuasione del Goriziano mira
piuttosto a scardinare ogni sufficiente relazione, ovvero - lo ripetiamo ancora
una volta - a svellere la violenza dalle sue radici, in maniera definitiva.
L'atto di accusa contro le "scuse" della Rettorica è in lui totale,
esasperato, e in questo potrebbe dirsi utopico: eppure contiene una sincerità
che non ci sentiamo di attribuire ai teorici della violenza contro la violenza.
Il nostro giovane filosofo avviò una disperata ricerca di "punti di
appoggio" a questa sua proposta di Persuasione, e - come visto - la
individuò in un /eitmotiv che legava esperienze storiche e culturali
eterogenee, da Sofocle, Socrate, Cristo, Buddha, a Ibsen a Beethoven e
Leopardi: voci - quasi confuse (intendiamo: eccentriche, molto diverse tra
loro) - che il tesista riassettò, compilando una propria, personalissima storia
dell'umanità persuasa decisamente alternativa ad ogni ufficiale, pacifica,
compassata storia della razionalità occidentale (che è poi la storia del potere
occidentale). Quei punti di appoggio dovevano corroborare una sua intima
persuasione, ovvero dovevano garantirle (anche) una dignitosa piattaforma
speculativa, che ne scongiurasse il pericolo di essere mal intesa (come ancor
oggi purtroppo avviene) quale mera, epidermica, gratuita pulsione eversiva e
contestatrice rispetto a quanto la circondava. 210 Come giustamente lamenta il
Campailla. Scrive molto bene lo studioso: «[da un simile accostamento] vien
fuori un travisamento del pensiero di Michelstaedter; il quale ha lottato non
per avviare una rivoluzione sociale, ma per ricostruire il valore etico
dell'esistere sul non senso dell'essere» [cfr. Campailla, Pensiero e Poesia...,
cit, pagg. 142-143; corsivi nostri]. 211 Facciamo notare che Michelstaedter
vede negli «impiegati [... ] le anime 'implicate' per eccellenza» [PR 110],Una
storia della Persuasione, infine, che sembra scandirsi, anzi che effettivamente
s'identifica, con una storia del Tragico. La Persuasione, dallo scontro «a
ferri corti con la vita», esce perdente. Certo, è così, ribadisce
Michelstaedter: è un fatto innegabile, un esito che "le accade"
comunque, suo malgrado. Come è ‘anche vero che la Rettorica ha assorbito,
metabolizzato le testimonianze persuase e le ha fatte diventare le proprie
testimonianze, esplicito ribaltamento effettuato con malafede: la Rettorica
«mangia e beve e prolifica in nome di Buddha, in nome di Cristo» [adattato da
PR 123]; ripetiamo: «Ironia del dispositivo: ci fa credere che ne va della
nostra liberazione». Eppure la voce della Persuasione, seppur agonizzante,
resiste con tenacia, sorvola anche ogni sua strumentalizzazione, s'insinua
nelle falle del "divertimento" rettorico, approfitta dei suoi
cedimenti (ogni pletorica ha i suoi punti deboli, per quanto minimi): la sua
voce di disincanto, per taluni irritabile, "sgomita" insomma per
arrivare fino a noi, ad inquietarci. E a volte ci riesce, neanche questo si può
negare. E' la "profezia" di Socrate, l'anatema del Persuaso rivolto
contro i suoi accusatori ed assassini: [... ]lo dico, o cittadini che mi avete
ucciso, che una vendetta ricadrà su di voi, subito dopo la mia morte, assai più
grave di quella onde vi siete vendicati di me uccidendomi. Oggi voi avete fatto
questo nella speranza che vi sareste pur liberati dal dover rendere conto della
vostra vita; e invece vi succederà tutto il contrario: io ve lo predìco. Non
più io solo, ma molti saranno a domandarvene conto: tutti coloro che fino ad
oggi trattenevo io, e voi non ve ne accorgevate. E saranno tanto più ostinati
quanto più sono giovani; e tanto più voi ve ne sdegnerete. Ché se pensate,
uccidendo uomini, di impedire a qualcuno che vi faccia onta del vostro vivere
non retto, voi non pensate bene. No, non è questo il modo di liberarsi da
costoro; e non è affatto possibile né bello; bensì c'è un altro modo bellissimo
e facilissimo, non togliere altrui la parola, ma piuttosto adoperarsi per
essere sempre più virtuosi e migliori?!?.6 Il pretesto cronologico della
proposta persuasa di Michelstaedter. La violenza a lui contemporanea. Se tento
di trovare una formula comoda per definire quel tempo che precedette la prima
guerra mondiale, il tempo in cui son cresciuto, credo di essere il più conciso
possibile dicendo: fu l'età d'oro della sicurezza. Nella nostra monarchia
austriaca quasi millenaria tutto pareva duraturo e lo Stato medesimo appariva
il garante supremo di tale continuità. | diritti da lui concessi ai cittadini
erano garantiti dal parlamento, dalla rappresentanza del popolo liberamente
eletta, e ogni dovere aveva i suoi precisi limiti. La nostra moneta, la corona
austriaca, circolava in pezzi d'oro e garantiva così la sua stabilità. Ognuno
sapeva quanto possedeva o quanto gli era dovuto, quel che era permesso e quel
che era proibito: tutto aveva una sua norma, un peso e una misura precisi. Chi
possedeva un capitale era in grado di calcolare con esattezza il reddito annuo
corrispondente; il funzionario, l'ufficiale potevano con certezza cercare nel
calendario l'anno dell'avanzamento o quello della pensione. Ogni famiglia aveva
un bilancio preciso, sapeva quanto potesse spendere per l'affitto e il vitto,
per le vacanze o per gli obblighi sociali, e vi era anche sempre una piccola
riserva per gli imprevisti, per le malattie e il medico. Chi possedeva una casa
la considerava asilo sicuro dei figli e dei nipoti; fattorie e aziende
passavano per eredità di generazione in generazione; appena un neonato era in
culla, si metteva nel salvadanaio o si deponeva alla cassa di risparmio il
primo obolo per il suo avvenire, una piccola riserva per il suo cammino. Tutto
nel vasto impero appariva saldo e inamovibile e al posto più alto stava il
sovrano vegliardo, ma in caso di sua morte si sapeva (o si credeva di sapere)
che un altro gli sarebbe succeduto senza che nulla si mutasse nell'ordine
prestabilito. Nessuno credeva a guerre, a rivoluzioni e sconvolgimenti. Ogni
atto radicale, ogni violenza apparivano ormai impossibili nell'età della
ragione. Questo senso di sicurezza era il possesso più ambito, l'ideale comune
di milioni e milioni. La vita pareva degna di esser vissuta soltanto con tale
sicurezza e si faceva sempre più ampia la cerchia dei desiderosi di partecipare
a quel bene prezioso. Dapprima furon solo i possidenti a compiacersi del
privilegio, ma a poco a poco accorsero le masse; il secolo della sicurezza
divenne anche l'età d'oro per tutte le forme di assicurazione. Si assicurava la
casa contro l'incendio e il furto, la campagna contro la grandine e i
temporali, il proprio corpo contro gli infortuni e le malattie, si acquistavano
pensioni per la vecchiaia e si offriva alle neonate una polizza per la dote
futura. Alla fine si organizzarono anche gli operai, conquistandosi paghe
regolate e le casse malattia, mentre i domestici si preparavano coi risparmi
un'assicurazione sulla vecchiaia e pagavano in anticipo un obolo per i propri
funerali. Solo chi poteva guardare l'avvenire senza preoccupazioni, godeva il
presente in tutta tranquillità. In questa commovente fiducia, di poter chiudere
anche l'ultima falla all'irrompere della sorte, c'era, malgrado l'apparente
austerità e modestia nel concepire la vita, una presunzione pericolosa.
L'Ottocento, col suo idealismo liberale, era convinto di trovarsi sulla via
diritta ed infallibile verso 'il migliore dei mondi possibili' Guardava con
dispregio le epoche anteriori con le loro guerre, carestie, rivoluzioni, come
fossero state tempi in cui l'umanità era ancora minorenne e insufficientemente
illuminata. Ora invece non era più che un problema di decenni, poi le ultime
violenze del male sarebbero state del tutto superate. Tale fede in un 'progresso'
ininterrotto ed incoercibile ebbe per quell'età la forza di una religione; si
credeva in quel progresso già più che nella Bibbia ed il suo vangelo sembrava
inoppugnabilmente dimostrato dai sempre nuovi miracoli della scienza e della
tecnica. In realtà, sulla fine di questo secolo di pace l'ascesa generale si
fece sempre più rapida e molteplice. Nelle strade splendevano di notte al posto
delle tremolanti lanterne le lampade elettriche, i negozi portavano dalle vie
centrali sino alla periferia il loro splendore seducente; già in grazia del
telefono si poteva comunicare da lontano, già si poteva correre nei carri senza
cavalli con velocità impensate, già l'uomo si lanciava nell'aria attuando il
sogno di Icaro. Le comodità della vita passarono dalle dimore signorili a
quelle borghesi; non si dovette più attingere l'acqua dal pozzo o dal
ballatoio, non più accendere con pena il fornello. Si diffondeva l'igiene,
spariva la sporcizia. Gli uomini diventavano più belli, più sani, più forti da
quando lo sport ne irrobustiva il corpo e sempre più raramente si vedevano
deformi, gozzuti, mutilati: tutti questi miracoli erano stati compiuti dalla
scienza, arcangelo del progresso. Anche nel campo sociale si andava avanti; di
anno in anno venivano concessi nuovi diritti all'individuo, la giustizia veniva
amministrata con maggiore senso umanitario e persino il problema dei problemi,
la povertà delle masse, non appariva più insuperabile. Il diritto di voto venne
concesso ad una cerchia sempre più vasta e con ciò anche la possibilità di
difendere legalmente i propri interessi; sociologi e professori andavano a gara
nello sforzo di rendere più sana e persino più felice l'esistenza del
proletariato... Come stupirsi che il secolo si compiacesse dell'opera propria e
vedesse in ogni nuovo decennio solo un gradino verso un decennio migliore? Non
si 212 Apologia 39 c-d [qui nella bella traduzione di G. Reale].temevano
ricadute barbariche come le guerre tra popoli europei, così come non si credeva
più alle streghe e ai fantasmi; i nostri padri erano tenacemente compenetrati
dalla fede nella irresistibile forza conciliatrice della tolleranza. Lealmente
credevano che i confini e le divergenze esistenti fra le nazioni o le
confessioni religiose avrebbero finito per sciogliersi in un comune senso di
umanità, concedendo così a tutti la pace e la sicurezza, i beni supremi.
[...]?!3. Abbiamo trascritto per intero le pagine con cui Stephan Zweig apre la
sua splendida autobiografia (ma il termine le va stretto), perché sono un
ritratto fedele e commosso - una riconoscente biografia - dell'Austria Felix
che rappresentò l'humus vitale, politico, culturale, sociale in cui visse il
celebre scrittore ebreo, e in cui visse anche il nostro Goriziano. Gorizia,
infatti, al tempo di Michelstaedter, era ancora austriaca (passò all'Italia,
come si sa, solo alla fine del primo conflitto mondiale): rappresentava, del
mastodontico impero, una delle estreme propaggini (la sua provincia) e di
quello stesso impero, come per ogni provincia avviene, riproduceva - nel suo
piccolo benessere?'* - lo splendore, ma anche le contraddizioni, complicate
dalla sua collocazione liminare. "Città giardino", "Nizza
d'Austria", luogo privilegiato per le vacanze della nobiltà asburgica,
attratta dal clima mite (l'Adriatico dista non molti chilometri), dalla dolce
vita cittadina, dagli ottimi vini già allora rinomati, da un'architettonica
aristocratica e gradevole che ancora oggi la caratterizza. Questa sua geografia
di confine inevitabilmente si rifletteva (e ancor oggi si riflette) in una
multiforme, in sempre fermento, geografia culturale: un ibridismo, eclettico e
non meramente sincretico, che si giovava delle fecondanti suggestioni
d'incontro tra la cultura italiana, slava e germanica, e che da esse ricavava
una sua pur autonoma, originale risultante. A buon diritto, Gorizia acquisiva
dignitosa posizione tra le compagini di quel multiforme mondo per cui è stato
coniato il termine Mitteleuropa, termine che da geografico è giocoforza
slittato ad indicare una particolare connotazione, appartenenza culturale, anzi
addirittura una categoria esistenziale. I Michelstaedter erano una delle
famiglie più stimate della piccolo-media borghesia benestante della città: e un
ulteriore elemento esasperava la loro posizione sociale: erano ebrei. Alberto
Michelstaedter, il padre di Carlo, era in effetti il ritratto vivente
dell'ebreo assimilato: cercava quasi di velare quella sua discendenza, dandosi
da fare alacremente per ottenere il consenso e il decoro sociale. Era un
instancabile lavoratore: aveva messo su un negozio di cambiavalute, che si era
da subito rivelato redditizio; nei ritagli di tempo, si dedicava alla
letteratura: «Fu un autodidatta - ricorda la figlia Paula, nei già citati
Appuntf "° - Era quasi un bibliomane. Comperava libri, soprattutto
d'occasione, e presto si formò una grande biblioteca di 213 S, Zweig, Il mondo
di ieri, Oscar Mondadori, 1994, pagg. 9-11 214 | volti soddisfatti di una
borghesia in ascesa ci sono tramandati dai ritratti del pittore autoctono
Giuseppe Tominz. opere eterogenee che a noi bambini quasi incuteva rispetto.
[...] La nostra casa fu il centro di riunioni intellettuali e anche di allegri
convegni famigliari». Di animo buono e pronto allo spirito, tuttavia «era
conservativo per le usanze tradizionali ebraiche, ma non era osservante dei
riti né possedeva uno spirito religioso. Anzi era il tipico rappresentante
della mentalità materialistica dell'Ottocento». Politicamente è un liberale,
attivo sostenitore della causa irredentista. Raggiunta una certa sicurezza economica,
Alberto può "permettersi" anche un quarto figlio: il nostro Carlo
Raimondo Michelstaedter (il doppio nome è già un compromesso di italianità ed
ebraicità, così tipico del padre) nasce il 3 giugno 1887. Abbiamo indugiato sul
ritratto della figura paterna del filosofo goriziano non per incoraggiare una
lettura psicoanalitica, ma perché - semplicemente - Alberto Michelstaedter,
com'era di sua natura, insistette sempre nel veicolare la formazione del figlio
(forse più che per gli altri tre, nell'ordine Gino, Elda e Paola: Carlo era
quartogenito): una presenza costante, schiva ma opprimente, che alla
dimostrazione diretta dell'affetto e del consiglio preferiva la stesura di veri
e propri sermoni scritti: il più famoso tra essi è quello che appunto si ricorda
come Sermone paterno, consegnato a Carlo all'atto della sua partenza per
Firenze”'°. Alberto riponeva nell'ultimo figlio quella speranza disattesa dal
primo, Gino, partito a cercar fortuna in America (dove invece troverà la
morte), non in grado di soddisfare le paterne velleità culturali. Il nostro
Carlo, da parte sua, vide il padre sempre come una figura, seppur lontana nel
senso "fisico" dell'affetto, comunque degna di ogni rispetto, elogio,
e soprattutto riconoscenza: una figura enigmatica (in un bozzetto lo 215 Sono
gli Appunti per una biografia di Carlo Michelstaedter, contenuti in appendice
al volume di Campailla Pensiero e poesia..., cit, alle pagine 147-164. Gli
stralci che riprendiamo dalla biografia, nel corso del nostro discorso,
s'intendano passim. 216 Vale la pena riportare alcuni passaggi nodali del
Sermone, per render conto della pressione cui la "rettorica
familiare" sottoponeva il nostro giovane e per fornire testimonianza
indiretta della patina moralistica (impregnata di "senso del dovere")
che doveva aver informato tutta la sua educazione in famiglia. Invitiamo anche
il lettore ad un raffronto col Sentir e meditar (presente nel Carme in morte di
Carlo Imbonati, vv. 207-215) di manzoniana memoria, che a nostro parere
presenta considerevoli punti di contatto con quanto segue. «Mio caro Carlo
questo ritratto non ti dà l'imagine del papà "bello" e scherzoso, è
il papà serio, | 'hai detto tu; del resto il papà è serio anche quando scherza
ed è poi giusto che oggi io mi ti presenti con fisonomia pensosa, perché vengo
a farti gli ammonimenti della vigilia della partenza. [...] Hai fatto qui i
tuoi studi con onore ed ora vai in un ambiente gajo ed artistico a nutrirti la
mente di discipline piacevoli e utili. Ma spero che la tua coscienza t'avvertirà
sempre che non vai a godere soltanto, che hai doveri da compiere. - La
coscienza deve aver sempre la parola e dev'essere sempre ascoltata in ogni
nostro passo - ogni nostra azione dev'essere retta dal criterio che prima
d'ogni altra cosa dobbiamo compiere il nostro dovere. - Il dovere è il faro
[...] Guardati Carlo da ogni eccesso, ricordati che nella misura sta il segreto
d'ogni benessere, d'ogni buona riuscita.- Misura nei godimenti e nello studio,
negli attaccamenti e nelle predilezione oggettive e soggettive.- Il senso della
misura rende tutto efficace, spreme da tutto il giusto diletto e l'utilità,
l'eccesso sforma e guasta tutto, ritorce a male le cose migliori.- [...] Pensa
sempre, Carlo, specialmente nei momenti di perplessità nella tua condotta al
papà e alla mamma: Cosa mi direbbero essi? interrogati e tu conosci il nostro
cuore e i nostri principi troverai il giusto responso. [...] Pensa sempre che
una tua mancanza all'onore anche inorpellata da sociali mitiganti, sarebbe la
condanna di morte di tuo padre che non ammette scuse per quelle prevaricazioni,
che ha fatto base della propria esistenza l'onore, sua legge suprema l'onesto
lavoro, sua religione il dovere». [il testo del Sermone paterno è contenuto nei
Dialoghi intorno a Michelstaedter, Gorizia, Biblioteca Statale Isontina, 1988,
pagg. 10-13; le nostre citazioni sono passim], raffigura alla stregua di una
Sfinge!) , cui voler bene, perché - Michelstaedter ne era consapevole -
anch'egli evidentemente nascondeva una sua certa, sincera Persuasione che non
riusciva però a palesare. Col tempo, il sermone paterno dovette apparire al
giovane filosofo una delle espressioni più eclatanti della Rettorica familiare,
ma egli non ne fece mai parola al padre, per non ferirlo: per lo stesso motivo,
lodava le mediocri prove letterarie di quello con affettuosa, filiale
ipocrisia. Ma, tutto sommato, l'infanzia del nostro filosofo trascorre in
maniera più che serena: l'armonia e il benessere che regna in famiglia è il
riflesso fedele dell'«elogio della sicurezza felice» di Zweig. Carlo - ci
rivela ancora Paula Michelstaedter - «nei primi anni [tra i quattro figli] era
il più mite, dolce, ubbidiente. Si ribellava [...] soltanto ad una sola cosa: a
chieder scusa di una disubbidienza o di un fallo commesso, anche se sapeva di
aver avuto torto [...}». Da piccolo, piuttosto pauroso e introverso e
"speculativo" (a tre anni, a commento di un fatto luttuoso, dice alla
sorella «Ma sai, anche tu, anche io, tutti un giorno dovremo morire»), riuscì
col tempo a superare quegl' "inceppi": fonda, allora, con la sorella
un Periculum club, la sua esuberanza Ad esse ben presto si associa la sua
passione assoluta: i ballo. Divenuto davvero estroverso, è l'idolo di coetanei
e colleghi: considera tutti i suoi amici con lo stesso affetto e
considerazione, non privilegia nessuno: si perdonano volentieri a vicenda ogni
tipo di monellerie, le più e le meno gravi. Pieno anche di sana autoironia,
porta ovunque vada una fresca ventata di gioia e giovinezza (ad una festa si
traveste da donna, facendo furore): gli piace corteggiare le ragazze, ma non è
importuno o maleducato, anzi le tratta tutte con grande rispetto. Gli piace
vestir bene, ma non è oltremisura vezzoso, o affettato. Comincia altresì a
disegnare (anzi, si scopre un vero genio nella ritrattistica caricaturale?'*) e
ad interessarsi di musica. Il suo si rivela un carattere buono, comprensivo,
portato alla pietà: è celebre l'episodio con un cane randagio (episodio che
Carlo avrebbe in seguito raccontato in greco e lo Mreule tradotto in latino),
sfamato e curato dal giovane: alle lamentele dei genitori, per quell'estranea
presenza in casa, Michelstaedter risponde con una notte "randagia"
passata all'addiaccio. A scuola, e la cosa può un po' stupirci, tutto procede
senza infamia e senza lode: studia volentieri, ma non con esagerata diligenza
(le sue materie preferite sono, manco a dirlo, disegno, italiano e matematica)
e si segnala piuttosto per motivi disciplinari (dannazione dei professori le
schermaglie col compagno di banco Ruggero Bressan)"®; quindi, 217 Cfr. la
diapositiva | [Ritratto del padre-sfinge] nel supporto iconografico. 218 Cfr.
Michelstaedter caricaturista, nelle nostre Integrazioni. 219 E' d'uopo, a
questo punto, a compendio di quanto finora detto, riportare la testimonianza di
un collega ginnasiale più giovane, nientepopodimeno che il futuro poeta Biagio
Marin. L'episodio ricordato dal Marin [che noi leggiamo riprodotto in Cerruti,
Carlo Michelstaedter, cit., pagg. 7-8] è piuttosto famoso nella cerchia degli
estimatori del Goriziano e ci testimonia di come già allora un ancor
giovanissimo Carlo apparisse ai suoi colleghi, come dire, circonfuso di un
alone di soprattutto per assecondare le aspirazioni paterne, si mostra propenso
ad iscriversi alla severa università di Vienna. Effettivamente vi si iscrisse,
alla facoltà di matematica e fisica, «ma poi spinto dal suo amore per l'arte [e
per l'ambiente italiano e la lingua] pregò il babbo di lasciarlo andare almeno
un anno a Firenze, che non conosceva, ma poi vi rimase per tutto il corso degli
studi». Come si immaginerà, per Alberto Michelstaedter fu una mezza delusione,
che non mancherà di far pesare al figlio. Ma che cosa era successo, nel
frattempo? Come mai, forse la prima volta (eccezion fatta per poche,
irrilevanti schermaglie), il giovane goriziano si assunse, tutt'ad un tratto,
il rischio di una scelta così decisiva, definitiva, così... autonoma?
L'inflessibile mente del padre non poteva comprenderla fino in fondo (seppur
comunque la rispettasse): più disponibile e comprensiva & madre Emma, come
sempre. Che cosa era successo, quindi? In effetti, Michelstaedter già da tempo
conduceva - in parallelo alla canonica educazione scolastica - una propria
Bildung culturale e umana: ad esempio, «s'interessò moltissimo per la letteratura
ussa e lesse quasi sempre in traduzioni tedesche Tolstoi, Puskin, DostojJewsky,
ecc...». Ma soprattutto un evento doveva aver scosso il giovane, un incontro
evidentemente non occasionale, ma fatale - diremmo "congiunturale" -
nella storia della Persuasione: l'incontro appunto con Enrico Mreule, con il
dèmone Enrico. «Si avvicinarono, mi pare - scrive ancora Paula Michelstaedter -
nell'ultimo anno di scuola. Mreule era una natura chiusa, aveva avuto
un'infanzia triste, si trovava male in famiglia, s'era isolato e aveva già da
giovinetto tendenze filosofiche precoci. Fu lui a far conoscere a Carlo
Schopenhauer e a iniziarlo alla ricerca dei valori della vita. Con Mreule e con
un altro compagno, Nino Paternolli, si trovava spesso in una grande soffitta in
casa di quest'ultimo, dovepassavano delle lunghe sere a discutere problemi
seri». L'incontro cruciale con Enrico, dunque, rivela a Michelstaedter
un'impressione che già lui stesso, per profondità e riflessione innate, fiutava
nell'aria («sotto la cenere ardeva il fuoco», sana Persuasione, E' quasi
superfluo dire che dalle parole del poeta (non poteva essere diversamente) ci
viene consegnato uno dei più bei ritratti del giovane Michelstaedter. «Ero in
quarta ginnasiale quando lui era in ottava. Tutti lo conoscevano. Come avviene
sempre, noi più giovani guardavamo a quelli degli ultimi corsi con rispetto.
Non parliamo poi di quelli dell'ottava. Tra essi il più notato, per la sua
bellezza, per la sua eleganza, e soprattutto per un cappello grigio che portava
tondo alla spagnola, a tese pari, era Carlo Michelstaedter. Era uno dei
"bravi" un "erninentista" come si diceva allora. Accanto a
lui, i suoi amici Rico Mreule e Nino Paternolli, e uno, che poi non ho più
visto, bello alto, che credo si chiamasse Simsig. Un giorno, deve essere stato
di maggio, perché faceva già caldo, ero alla fontana nel cortile di tramontana,
durante la pausa delle dieci. Ed ecco, sopravviene il gruppo degli splendidi
amici. lo, che avevo appena accostata la bocca alla cannella, mi ritirai per
far posto ai signori dell' "ottava". E Carlo, che era il primo,
vedendo nei miei occhi e nel mio gesto quel rispetto che mi aveva fatto
dimenticare la mia sete, mi sorrise con quel suo sorriso bianchissimo tra le
belle labbra violacee, e mi disse: "bevi". Ma io non volli bere sotto
i suoi occhi così vivi e neri, quasi fossi preso da pudore, e, "bevi prima
tu", gli dissi. Allora si tolse il cappello grigio orlato, che era il
tocco in lui più originale e me lo porse dicendomi: "allora tienmi per
favore il cappello". E si mise sotto la cannella con la bocca ridente e i
capelli, che aveva lunghi e neri e riccioluti, gli fecero nimbo intorno
pallido, nobilissimo. Vedendomi, come aveva smesso di bere, allocchito, mi
diede un buffetto e mi disse: "ora tocca a te, bevi"»ammonisce
Paula): l'età della sicurezza celava, al di sotto della sua patina dorata,
un'oscura, sottile malattia: una decadenza. Questa lancinante consapevolezza,
questa verità presentita ma fin allora "rimossa", squarcia in modo
così violento al giovane l'alcova che premurosamente la famiglia gli aveva
costruito intorno, che a un certo punto Michelstaedter comincia addirittura a
somatizzare il morbo del suo tempo. Il suo corpo si rivela più debole e
cedevole di quanto mai avesse sospettato: soffre continui mal di stomaco, ogni
volta che cerca di ripetere le sfuriate della prima giovinezza, incappa in una
slogatura, in una frattura, in una rovinosa caduta. Il celebre passo di una
lettera, scritta alla sorella in un momento diparticolare sconforto, può darci
conto dell'angoscia del nostro filosofo: [... ] soffro perché mi sento vile,
debole, perché vedo che non so dominar le cose e le persone come non so dominar
le idee che m'attraversano il capo vaghe indistinte, come non so dominar le mie
passioni; che mi manca l'equilibrio morale, e non ho quindi quell'impulso
poderoso che fa andar qualcuno sicuro a testa alta attraverso la vita, che mi
manca l'equilibrio intellettuale, per cui il pensiero va diritto al suo scopo;
perché m'accorgo di vivere quasi n un sogno dove tutto è incompleto ed oscuro,
e quando voglio rendermi conto, fissare ciò che mi aleggia intorno, tutto
sfugge dalle mani, e provo la pena come quando nei sogni si prova il senso
dell'impotenza di tutti gli organi, e mi sembra che ci sia sempre un fitto velo
fra me e la realtà; e mi convinco sempre più che non sono che un degenerato. Lo
so che tu griderai all'esagerazione, forse anche m'accuserai d'affettazione, e
di posa e che so io. Ma t'assicuro, non poso e sono con tutti sempre allegro, e
nemmeno ciò per partito preso ma perché naturalmente al contatto con gli altri
quella superficie di infantilità che ho sempre avuto e che avrò sempre si
vivifica, e assorbe, o sembra assorbire tutto il resto. E non esagero,
purtroppo. Un po' è individuale, un po' è la malattia dell'epoca per quanto
riguarda l'equilibrio morale, perché ci troviamo appunto in un'epoca di
transazione della società. Quando tutti i legami sembrano sciogliersi, e
l'ingranaggio degli interessi si disperde, e le vie dell'esistenza non sono più
nettamente tracciate in ogni ambiente verso un punto culminante, ma tutte si
confondono, e scompaiono, e sta all'iniziativa individuale crearsi fra il chaos
universale la via luminosa [...][E 158; corsivi nostri]. | sudditi sereni e
sicuri dell'Austria Felix, gli uomini "cacanici", si rivelavano, alla
men peggio, «uomini senza qualità», come avrebbe scritto Musil di lì a poco: la
stessa paternalistica egida dell'impero presentava una doppia faccia da Sileno
rovesciato, nascondendo la più potente, ma anche la più decrepita (allora),
macchina della Rettorica statale. Ovviamente, si trattava del male di tutto
un'epoca, che s'illudeva di vivere un periodo di pace, che anzi si imponeva
un'estemporanea garanzia di pace bellica tessendo un accomodante ordito di
sicurezza, legittimata dalle "rassicurazioni" dell'idealismo
hegeliano. Gli spiriti più attenti erano all'erta. Gli scrittori russi, con
leggero anticipo, avevano già vissuto e denunciato una situazione molto simile:
la Rettorica zarista era da tempo sull'orlo del baratro, e stava cedendo il
passo ad una nuova, non ancora precisata, Rettorica. In questo manifesto
(apparente) vuoto di potere, l'inquietudine segnava profonde ferite.
Dostoevskij, col caratteristico cipiglio polemico, parlava dal suo personalissimo
"sottosuolo", descriveva le più alte aspirazioni umane come
"umiliate e offese" fino all' "idiozia",
esasperava/semplificava la strategia del potere nella dialettica
"delitto-castigo"; Tolstoi conduceva (soprattutto) la sua soggettiva
polemica contro la menzogna e il sopruso che si maschera da ipocrisia, e
cercava risposte positive in unnuovo "umanesimo evangelico"; Goncarov
tacciava lo spirito russo di "oblomovismo", senza riuscire del tutto
ad evitarne il fascino; Saltykov-Scedrin accompagnava la nobiltà russa al più
basso livello di cupo, allucinante disfacimento, economico ma soprattutto
morale-esistenziale, come l'antesignano Gogol. Checov si adoperava nell'elevare
i motivi contingenti del ristagno spirituale a emblemi universali. Ma anche nella
"nostra" Europa, già si erano preannunciati i sintomi della malattia
post- hegeliana: Stirner già da tempo aveva ripudiato tutto e tutti;
Schopenhauer aveva trovato rifugio nel suo narcotico Nirvana; il
"folle" Nietzsche profetizzava la palingenesi universale e indicava
la sua Germania come la possibilità di una nuova Grecia, di un nuovo inizio,
drammaticamente esaudito. Il "veggente" Rimbaud, e con lui la schiera
dei "maledetti", sanciva nei suoi versi disturbanti e conturbanti
tutto il proprio livore per l'Europa. Freud proponeva interpretazioni oniriche
al disagio della civiltà, che dispiegava nella dicotomia cosmico-umana di Amore
e Morte, e invitava la malattia a confessarsi. Confessioni tormentate di Gide,
che accusava se stesso della malattia di tutta un'età. Oscar Wilde, da parte
sua, pareva avvoltolarsi compiaciuto tra le lenzuola della decadenza,
causticamente stigmatizzata - ma anche qui, non senza una certa compiacenza -
da Huysmans. D'Annunzio si faceva araldo di una rivolta tanto magniloquente
quanto effimera e povera di contenuti, tradendo senza pudore l'insegnamento
giacobino del suo mentore, Carduccf?°, divenuto anch'egli, nel frattempo,
accomodante. Pascoli (tanto per restare in Italia) trovava conforto nel suo ego
e auspicava l'avvento di un socialismo altrettanto "fanciullesco".
Una voce considerata purtroppo minore, Federigo Tozzi, suggeriva di chiudere
gli occhi. Gl' "idealisti" Croce e Gentile, ognuno a suo modo,
invitavano al contrario a tenerli ben aperti, ma a correggerne la miopia e la
presbiopia attraverso la lente (astigmatica) dello Spirito. Ma ci vorrebbero
pagine e pagine ad elencare tutti, e non è il caso: ci siamo limitati a libere
associazioni che si sono generate nella nostra mente. Fatto sta, che la voce
della denuncia e casomai della rivolta (il disincanto) non riesce a coagularsi,
suo malgrado non riesce neanche a chiarificarsi, disperdendosi nei mille rivoli
delle avanguardie e delle sperimentazioni (letterarie, ma anche pittoriche e
musicali: già, non dimentichiamoci almeno della pittura cruda e filosofica di
Klimt, Kokoschka, Schiele”: e della musica rivoluzionaria di Schoenberg) o
nelle voci isolate delle riviste (soprattutto in Italia)”. 220 Ammiratissimo da
Michelstaedter. 221 Ma si tenga conto anche dei riferimenti fatti dal Monai,
nell'integrazione su Michelstaedter caricaturista. 222 Vien da chiedersi come
si ponesse Michelstaedter di fronte a tale fermento, tenendo conto a maggior
ragione dei suoi studi proprio a Firenze, ch'era, allora, davvero la capitale culturale
d'Italia. In linea generale, la critica letteraria tende ad inserire il
Goriziano all'interno dell'area (a dir la verità, molto sfumata) del
frammentismo vociano. Ma in effetti - come puntualizza Pierandrea Amato, nel
suo bel saggio che già abbiamo avuto modo di citare - «Michelstaedter è
'spontaneamente' escluso da Firenze; [...] la [sua] solitudine [...] è
incondizionata"; ciò a differenza di In modo speculare, rispetto a quanto
detto sopra, la filosofia filo-hegeliana e la scienza positivistica-darwiniana
"pompavano" - anche se su opposti versanti - continue, quotidiane
iniezioni di fiducia ad una borghesia che cavalcava il miracolo economico
dell'industria al suo massimo rigoglio: una borghesia che si dilettava tanto in
dettagliate analisi economiche quanto nella lettura dei romanzi di Verne; tanto
in cervellotiche soluzioni politiche di compromesso (l' "Italietta"
giolittiana ne è il più fulgido esempio) quanto nei salotti a lodare il cuore
di De Amicis, a biasmare l'impertinenza di Mann coi suoi Buddenbrook o a
commentare lo strano suicidio di un giovane maledetto, tale Otto Weininger;
tanto in spericolati investimenti quanto in oculati dietrofront assicurativi
(ironia della sorte: l'epoca della sicurezza vede il pullulare delle
Assicurazioni Generali, quasi inconsapevole presentimento dell'imminente
catastrofe). Una borghesia, ancora (stavolta generalmente medio-piccola), che
si dava da fare nell'arginare certe velleità socialiste- comuniste,
collaborando alla creazione dei preziosi alleati sindacali, oppure - laddove
non riusciva - sfrenando la propria piccineria in violenze gratuite e
pseudo-intellettualistiche (leggi: futurismo, ad esempio). Una cordata
borghese-imprenditoriale, infine, che trovava nei governi avallo, protezione,
incitamento. quanto avviene per "altri giovani intellettuali (Ara e Magris
parlano di una vera e propria ‘pattuglia triestina' che nei primi anni del
secolo studia a Firenze: Slataper, Carlo e Giani Stuparich, Spaini, Devescovi,
Marin e altri) [che] trovano a Firenze e nelle sue 'imprese' una seconda
patria». Il critico sottolinea anche l'estraneità di Michelstaedter nei
confronti dei coevi, roboanti e battaglieri, programmi delle Riviste (nella
fattispecie, fa riferimento al Leonardo) e azzarda che «tutta l'opera michelstaedteriana
potrebbe essere letta [...] anche come il rifiuto dell'impegno violento» che
promettevano appunto quelle riviste. Il critico riporta infine l'episodio
(apparentemente periferico) di un'estemporanea relazione epistolare tra il
Goriziano e Benedetto Croce, che allora già era nel pieno della sua carismatica
egemonia culturale. L'episodio - testimonianza lampante dell' «inserimento
frustrato di Michelstaedter nella cultura italiana» - si riferisce alla
proposta («irriverente, probabilmente solo ingenua») del nostro giovane
filosofo di attendere alla traduzione del capolavoro di Schopenhauer per i tipi
della Laterza, la cui sezione di filosofia moderna era diretta proprio da
Croce. Quest'ultimo «mi rispose subito - scrive Michelstaedter alla famiglia -
che Schop[enhauer] pel momento non rientrava nei suoi progetti- ma che prendeva
nota del mio nome e ‘avrebbe occasione di scrivermi in seguito per traduzioni
dal tedesco'» [l'episodio infatti viene ricordato in E 262-263; le citazioni da
Pierandrea Amato fanno riferimento alle pagg. 168-169-170 passim del suo Attimo
persuaso, cit.]. L'ingenuità di Michelstaedter stava proprio nel porgere una
simile proposta di collaborazione all'araldo dell'hegelismo italiano. Col
tempo, dovette rendersi conto che le parole in apparenza "attendiste"
del Croce nascondevano in realtà un netto rifiuto. Anche in seguito a questa
presa di coscienza, nonché evidentemente in seguito ad una lettura più attenta
e critica dell'opera crociana, Michelstaedter, in un appunto famoso, riversò
tutto il suo sarcastico livore e segnò in maniera netta tutta la sua sdegnosa
distanza dal modo di "far filosofia" del pensatore italiano.
Riteniamo utile riportare il breve appunto nella sua interezza, anche perché,
indirettamente, ci rende testimonianza della consapevole
"asistematicità" del nostro filosofo goriziano e, insieme, del suo
porsi polemico nei confront della filosofia "ufficiale" del suo
tempo: «A B. C. [Benedetto Croce, e così anche per il seguito] non per
insultarlo e non per combatterlo, ma per dirgli la mia ammirazione. Ammirazione
per ogni onesta fatica. 'Ho un'ammirazione per questo giovane - diceva un
vecchio commerciante, di un giovane poeta - ho un ‘ammirazione per lui: ché se
io fossi come lui cretino e ignorante non saprei né leggere né scrivere, e lui
fa tragedie'. Così io che sono un vecchio uomo incallito nel lavoro ho
un'ammirazione per Benedetto Croce, ché se io avessi come lui una mente acuta e
astratta, di filosofia non me ne sarei mai curato e avrei fatto il giureconsulto
- lui fa sistemi [corsivi nostri]. Ma i sistemi non si fanno, e B. C. dopo aver
assorbito tutti i libri di filosofia si spreme e dice: Vedete quest'acqua di
indicibile colore è il prodotto di tutte le altre acque, se ne mancasse una non
potrebbe essere quale è; di qui di mio c'è soltanto l'aggiunta del mio proprio
umore, e la mia angoscia è la sete degli umori che mancano e che ci verranno
soltanto dagli stracci del futuro. Così io mi spremo disperatamente perché è
dovere di ogni straccio di filosofo di spremersi fino all 'ultima goccia
dell'acqua propria e altrui, perché altri poi assorba e risprema con l'aggiunta
del suo umore, e altri ancora assorba e sprema, e riassorbendone rispremendo
vivrà l'umanità E' questo, grosso modo, il quadro - storico, politico,
culturale, morale - in cui viene ad inserirsi la singolare, a suo modo
astorica, "intempestiva", valutazione e proposta di Michelstaedter.
AI Goriziano bastò guardarsi intorno con occhi nuovi per valutare sempre più e
più a fondo lo scheletro rettorico che sosteneva la polpa dell'«esistenza
soddisfatta di sé», e per intuire che la ventilata sicurezza non era altro che
una «gaia apocalisse», per dirla con Broch: ovviamente, a cadere per prime -
sotto gli strali del disincanto - furono le costruzioni rettoriche ch'egli
toccava con mano, quelle nelle quali era immediatamente inserito, le strutture
che lui stesso viveva: la famiglia, la vita cittadina (e solo per riflesso
quella nazionale), l'istituzione accademica. Nelle letture che nel frattempo
conduceva trovava casomai un riscontro di quanto già avvertisse "a
pelle". Scrive la preziosa Paula: «Presto [... ] l'ambiente di cui si era
fatto tante illusioni lo deluse, specialmente quello universitario. Meno alcuni
professori ai quali era affezionato, fra cui Villari e Vitelli, gli altri lo
urtavano per la loro rettorica e la loro vanità [testimonianze esplicite, al
limite del blasfemo, fioccano in molte lettere di quegli anni]. Gli davano ai
nervi quelle aule zeppe di uditori del bel mondo di Firenze che assistevano
alle lezioni per posa, per darsi delle arie». Parziale conforto a queste amare
disillusioni sono le nuove amicizie che stringe tuttavia in quell'ambiente: il
Chiavacci (che poi curerà la sua opera postuma), Arangio-Ruiz e Giannotto
Bastianelli, musicista "wagneriano" (anch'egli tormentato e destinato
al suicidio), che Michelstaedter riuscirà a convertire a Beethoven, in serate
per lui indimenticabili di "musica persuasa". Ma totale conferma
delle stesse amare disillusioni Michelstaedter doveva trovare (appunto) non
solo nella lettura rivelatrice di Ibsen, ma anche in quella
"compulsiva" di Tolstoj. Molti si sono meravigliati del fatto che il
Goriziano di costui ammirasse soprattutto La sonata a Kreutzer o Resurrezione,
macchinosi e quasi pedanti rispetto ai più appassionati, e appassionanti, Anna
Karenina o Guerra e pace. La ragione, per noi, invece è semplice e istruttiva:
Michelstaedter dovette apprezzare la "geometria" che la polarità
Persuasione-Rettorica acquistava nei due ultimi capolavori dello scrittore
russo: lì l'ingiunzione e la critica di Tolstoj alla Rettorica si faceva
scoperta, analitica, "scientifica", e in uno stile risentito, scarno
e didascalico (così lontano da quello avvolgente del più giovane Tolstoj) che
sacrificava del tutto l'intreccio romanzato, lo rendeva addirittura
pretestuoso: anche Tolstoj pervenne, a suo modo, ad una chiarezza di
Persuasione more geometrico demonstrata. Basterebbe dare una rapida scorsa alle
parole di quel folle, ma lucido, uxoricida che è Pozdnysev: parole che, dietro
la parvenza della più meschina misoginia, palesano una nei secoli all'infinito,
il prodotto non sarà mai quello, ma sarà sempre perfetto e non risciacquatura
come dicono i maligni ma quasi - spirito assoluto» [O 661-662]. valutazione
attenta e perspicace della Rettorica dell'amore. O basterebbe fermarsi già alla
prima pagina di Resurrezione: Allegri erano tutti: piante, e uccelli, e
insetti, e bambini. Ma gli uomini - gli uomini grandi, gli uomini adulti °° non
smettevano d'ingannare e di tormentare se stessi e gli altri. Credevano, gli
uomini, che la cosa più sacra e più importante non fosse quella mattinata di
primavera, non fosse quella bellezza del mondo, concessa per il bene di tutte
le creature, giacché era una bellezza che disponeva alla pace, all'accordo e
all'amore: ma fosse, la cosa più sacra e più importante, ciò che essi stessi
avevano escogitato per poter dominare gli uni sugli altri per poter leggere in
pratica la seconda parte della tesi di laurea del Goriziano anche (saremmo tentati
di dire: soprattutto) come uno scolio (complesso, filosofico) a questa
profonda, sincera intuizione "francescana" del mondo. O infine,
basterebbe accompagnare il principe Nechljudov attraverso i contorti meandri
della Rettorica della giustizia, fino al ribaltamento (persuaso) di essa in
vera e propria pratica della violenza e dell'ingiustizia; ovvero, accompagnarlo
nella ri-scoperta della genuina lezione evangelica (Nechljudov-Tolstoj, alla
fine del romanzo, ri-legge e ri- compone - alla luce della propria esperienza -
la morale persuasa di S. Matteo); basterebbe ciò, dicevamo, per capire l'enorme
portata dell'anti-dispositivo che Michelstaedter riceveva dalle mani dello
scrittore russo”. 223 Questa sottolineatura tolstojana della differenza tra
l'individuo bambino e l'individuo adulto non è una semplice sfumatura, come può
apparire ad una lettura superficiale: ci sembra che Michelstaedter colga in
pieno l'allusione: nel corso della sua tesi di laurea (volendo limitarci a
questa) egli dimostra a chiare lettere la sua preferenza per l'animo femminile
e per i bambini. Da una parte, «le donne sono senza rettorica», afferma,
tendendo in evidente conto non solo le figure femminili che si stagliano nei
drammi di Sofocle e Ibsen o di Tolstoj appunto, ma soprattutto le donne ch'ebbe
modo di conoscere durante la sua vita: in primis la madre Emma e la sorella
Paula, quindi la sfortunata Nadia Baraden - donna russa che riceveva da Carlo
lezioni di italiano e che si uccise prima che quel "rapporto professionale"
sbocciasse in amore; la scrittrice Iolanda de Blasi - che visse un intenso,
quanto effimero, rapporto d'amore col Nostro, ostacolato, manco a dirlo, dalla
famiglia; e Argia Cassini, l'ultima, avvolgente fiamma di Michlestaedter:
Argia, traslitterato in greco, era per Carlo l'incarnazione fisica del
vagheggiato «porto della pace»). Dall'altra parte, il Goriziano si schiera a
difesa della fanciullezza: i bambini, «quasi vite in provvisorio», come lui li
chiama. Anzi, le ultimissime pagine della tesi michelstaedteriana - e il loro
progetto educativo [ma vd. quanto diremo oltre] - sono dedicate proprio ai
bambini, ovvero al tentativo di scongiurarne l'entrata nella congerie
rettorica, che ne mina - in modo definitivo e irrimediabile - l'innocenza e ne
frustra, altrettanto, il dono di ingenua, sincera persuasione, ch'essi hanno
per loro stessa natura. 224 In Tolstoj, Michelstaedter doveva trovare
comprovata anche la Rettorica sociale della morte, ad esempio nella Morte di
Ivan Il'ic, una delle opere più allucinanti e "cattive" dello
scrittore russo. Di quelle pagine, pur nella sincera espressione del profondo
dolore per la scomparsa (suicidio?) del fratello Gino, molto vediamo trapelare
in una lettera che il Goriziano scrive all'amico Chiavacci, in cui annuncia la
luttuosa notizia e dà una amara e dettagliata descrizione della condizione
"esposta", indifesa della propria famiglia agli attacchi della
ipocrita retorica sociale della "condoglianza": «Noi non ricordiamo
di lui [Gino] né un gesto ingeneroso né una sola malattia. Era fatto per la
vita e la viveva con gioia. Mai il sarcasmo della vita non mi s'è fatto sentire
materialmente, in un caso concreto, con maggior forza. - Tiriamo innanzi. Qui
intanto siamo soffocati dalla marea della condoglianza volgare delle infinite persone
che conosciamo, e che in iscritto e a voce si credono in dovere di debitarci le
stesse convenzionalità. In casa una corrente continua di visite, e il gridio
ininterrotto delle stesse frasi. - E i miei ogni giorno come cavalli stanchi
riprendono il cammino, e parlano e si ripetono e si commuovono. lo soffro anche
per questo. Sento l'umiliazione della nostra famiglia mutilata come d'una piaga
aperta - e penso che mentre le piaghe si fa sciano, il 'lutto' non serve che a
étaler il dolore a tutto il mondo. Penso alla nostra casa chiusa per solito
agli indifferenti, raccolta, gelosa della sua intimità - e invasa ora da tutta
la volgarità perché una forza indipendente da noi ha aperto la porta. E tutti i
corvi vengono all'odore della morte; tutti si precipitano Come Tolstoj,
attraverso Tolstoj, Michelstaedter preferì da subito il Vangelo
"monofisita" di Matteo, come uno dei più autentici luoghi di
Persuasione. Come Resurrezione, anche La Persuasione e la Rettorica termina con
un progetto educativo. E il "pentalogo" stilato (rielaborato) da
Nechljudov-Tolstoj trova infine esatta corrispondenza in quello della
Persuasione michelstaedteriana?°°. perché siamo colpiti, indeboliti; il nostro
dolore, la parte più intima di noi esposta in strada, profanata dagli occhi
curiosi e dalla simpatia della sensiblerie dei deboli. - Ed io non posso
addolorare di più i miei, non posso voler liberarmi - e di tante altre cose non
posso liberarmi ora meno che mai [... J» [E 353]. Questo stralcio di lettera ha
una sua importanza non soltanto contingente. Essa ci testimonia, innanzitutto,
del rovinoso velocizzarsi della sfortuna che perseguita il nostro autore: gli
eventi precipitano: alle disillusioni che emergono per l'estrema sensibilità
del suo animo, ai dispiaceri che hanno puntualmente costellato la sua vita (non
ultima la partenza di Enrico, per quanto salutata con orgoglio), si associa
l'evento ferale, per lui più drammatico di quanto Michelstaedter stesso non
voglia manifestare, e il definitivo crollo dell'alcova familiare, già da tempo
vacillante. Il «sarcasmo della vita» è davvero spietato, e coglie
all'improvviso i suoi elementi più validi e più forti, inspiegabilmente. Questa
constatazione fa nascere nel giovane filosofo collera e indignazione, che
riversa acidamente, ancora una volta, sull'istituto retorico. Qui viene
enunciato, in forma "ufficiosa", anche l'anatema definitivo rivolto
contro la macchina sociale, la cui doppia faccia viene smascherata anche nelle
sue manifestazioni di compassione e di solidarietà al dolore, e dunque, in
apparenza, più fraterne e "umane". Qui si avverte il punto di crisi
di quella "paranoia rettorica" che, secondo noi, attanagliò
Michelstaedter già dal momento della "scoperta persuasa" e che si
esacerbò soprattutto nei suoi ultimi mesi di vita. Una Rettorica qui definita
forza oramai «indipendente», cioè totalmente svincolata dallo stesso controllo
umano, e vestita di abiti corvini che sfoggia (ironia della sorte) soprattutto
in occasioni di dolore. Una Rettorica sanguisuga, famelica, dotata di occhi che
profanano, che approfitta dei punti deboli dell'uomo, allettata dall'odore
della morte, che è il suo stesso odore, simile col simile. Michelstaedter, per
ora, non «può volersi liberare» e deve accettare il gioco del dolore e del
dovere (la stesura della tesi) per non aggravare l'atmosfera pesante ed
affranta della famiglia. Accetta quest'ultima retorica per amore. Ma non vi
leggiamo (non vogliamo leggervi) rassegnazione. Certo, c'è la consapevolezza di
un doppio dolore, di una infelicità reduplicata dalla stessa consapevolezza
della Persuasione: «Noi viviamo oscuri, mal delineati, confusi, doppiamente
infelici; gli altri vivono una vita luminosa anche nel dolore, e non hanno mai
il senso ch'essi personalmente sono nel mondo cosi sportivamente, o lo hanno
soltanto quando anche tutto il mondo è ormai per loro una cosa sportiva» scrive
Carlo al Chiavacci, in una delle lettere successive [E 401], e non può non
leggersi l'aspirazione stanca ad una felicità che, per un triste destino,
sfugge sempre di mano: la Persuasione pare quasi una maledizione che si tira
addosso solo malanni: dov'è quella gioia che essa prometteva? Non sono più
felici coloro che vivono «sportivamente» la propria vita, luminosi anche nel
dolore? Ma è solo il nero che riflette, e alla vita che nasconde la morte
bisogna opporre un'esistenza che tende alla vera vita. E allora, ad un anno
esatto dalla morte del fratello, Michelstaedter gli rende l'ultimo omaggio
disegnando di sua mano la pietra tombale e realizzando «con le mie mani quello
che gli altri dicevano di non saper fare»: «Per tre giorni lavorai da un fabbro
per scolpire due maniglie di ferro, che fuse in ghisa sarebbero state deboli. E
allora mentre il lavoro procedeva bene, e mi gettavo stanco alla sera sul mio
letto, mi pareva d'esser ricco di non so che ricchezza, mi pareva di fare
qualcosa, di lavorare per mio fratello come se dovessi vincer la morte».
«Vincer la morte» diviene l'imperativo esistenziale che traduce l'aspirazione
di «togliere la violenza dalle radici»: bisogna fare [il corsivo sopra è dello
stesso Goriziano] qualcosa, re-agire; Michelstaedter riscopre il piacere del
contatto con le cose, come Serafino Gubbio nel noto romanzo di Pirandello; il
piacere della fatica, dell'impegno, della poiesi bistrattata sin dai tempi di
Platone e Aristotele. Fare è anche poesia, e la Persuasione è anche fare. Pur
se non è possibile eliminare l'atroce dubbio che, sempre e comunque, ci si
trova ad aver «lavorato per la morte», sensazione di sconforto che riduce ad
uno stato di «vuoto, miseria e impotenza». [per queste ultime citazioni, da noi
adattate, cfr. la lettera di Michelstaedter ad Enrico Mreule, 14 febbraio 1910,
E 432] 225 La perfetta consonanza (addirittura numerica!) dei
"comandamenti" tolstojani e michelstaedteriani è un rilievo che è
sfuggito purtroppo alla critica (o almeno, nei contributi critici che abbiamo
visionato non se ne fa parola). La lettura di Tolstoj è, a nostro parere, un
inestimabile supporto ermeneutico per tentare di "capire" Michelstaedter,
e ci teniamo a sponsorizzarla. Ora, per dar sostanza al nostro discorso,
iportiamo di seguito il pentalogo di Tolstoj e riproponiamo quello della
Persuasione per poter apprezzare, in modo sinottico, quanto della lezione di
Tolstoj fosse trapelato nel dettato ultimo del filosofo goriziano e trasposto
sul piano "filosofico" (questo senza voler porre in minimo dubbio
l'originalità del Nostro). Ancora, la prospettiva tolstojana (come si ricaverà
dalla lettura), il suo insistere sugli uomini, conferma in modo definitivo, seppure
ce ne fosse a questo punto bisogno, la correttezza della nostra valutazione
"politica" della proposta persuasa. «Con la speranza di trovare lì
nel Vangelo una conferma a questo suo pensiero, Nechljudov si mise a leggerlo
dal principio. Leggendo il discorso della montagna, che sempre lo aveva
commosso, adesso per la prima volta vi scorse non già dei be semplici, chiari
precetti ben eseguibili ne lissimi pensieri astratti, che in massima parte
esprimessero esigenze eccessive e impossibili da eseguire, ma a pratica,
precetti che, se fossero stati eseguiti, come era pienamente possibile,
avrebbero dato una sistemazione assolutamente nuova alla società umana, tale
che in questa non solo si sarebbe d istrutta da sé tutta quella violenza che
aveva tanto indignato Nechljudov, bene accessibile all'uomo: il regno di Dio
sulla terra [corsivi nostri]. Tali precetti erano cinque. primo precetto
(Matteo, v, 21-26) l'uomo non solo non deve uccidere, ma non adirarsi contro il
fratello, non a, un raca, e, se viene a lite con qualcuno, deve rappacificarsi
con lui prima Secondo i deve cons di fare l'off Secondo i piacere de Secondo i
Secondo i colpiscono iderare nessuno un essere da nu erta all'altare, cioè
prima di pregare. secondo precetto (Matteo, v, 27-32), l'uomo non solo non deve
cedere al nessuno rifiutare ciò che si possa volere da lui. Secondo i amare,
aiu quinto precetto (Matteo, v, 43-48), l'uomo non solo non deve odiare i suo
tare, servire. ma si sarebbe raggiunto il più alto a sensualità, ma deve
rifuggire dal la bellezza della donna, e deve - una volta che s'è unito con una
donna - non tradirla mai. terzo precetto (Matteo, v, 33-37), l'uomo non deve
promettere nulla con giuramento. quarto precetto (Matteo, v, 38-42), l'uomo non
solo non deve vendicarsi su una guancia, deve presentare l'altra, deve
perdonare le offese e sopportarle con rassegnazione, e a occhio per occhio, ma
quando lo i nemici, né combatterli, ma li deve Nechljudov aveva fissato lo
sguardo sulla luce della lampada, e così rimaneva assorto. A contrasto di tutto
il mostruoso disordine della nostra vita, che aveva ben presente, si prospettò
con chiarezza che cosa questa vita avrebbe potuto essere, se gli uomini fossero
stati educati secondo quei principi [corsivi nostri]: e un'esultanza come da gran
tempo non provava gl ‘invase l'anima». Michelstaedter fa da contrappunto e
munisce i precetti tolstojani di una salda connessione filosofico-esistenziale:
"No, la mo rte non è abbandono" disse Itti con voce più forte [1] ma
è il coraggio della morte onde la luce sorgerà. [2] Il corag gio di sopportare
tutto il peso del dolore, [3] il corag gio di navigare verso il nostro libero
mare, [4] il corag nella cura [5] il corag gio di non sostare dell'avvenire,
gio di non languireper godere le cose care. La persuasione poetica si cesella,
puntualmente, nelle "definizioni" assolute che troviamo nella tesi di
laurea: [1] Il dolore parla. [PR 46] [2] Il dolore è gioia [49] [3] Dare non è
per aver dato ma per dare (Souvax !) [42] [4] Non può fare chi non è, non può dare
chi non ha, non può beneficare chi non sa il bene [42] [5] Dare è fare
l'impossibile: dare è avere. [43] 7. Come la violenza perpetua se stessa (I).
Dall'atomo alla molecola sociale. Regalasi gattini in cerca di padrone.
Annuncio esposto nella bacheca degli studenti della facoltà di filosofia,
Università Federico II, Napoli Come abbiamo visto in abbondanza, l'organismo
"atomico", il «complesso delle determinazioni», si esprime e si
realizza anzitutto come appetito (volontà determinata, o conatus, se vogliamo
utilizzare il termine spinoziano), cioè nel desiderio di possedere la natura,
ovvero di fare del mondo un polo di sfruttamento esistentivo: il mondo è
insomma il ricettacolo in cui l'organismo atomico reperisce gli elementi atti
alla soddisfazione dei propri bisogni, elementari e/o complessi (questa, in
soldoni, la «violenza contro la natura»). L'appetito segna una diversificazione
tra i vari organismi appetenti: tra gli individui, alcuni si conquistano una
posizione di dominio, altri accettano giocoforza la subordinazione, in un
meccanismo in cui ciascuno comunque pretende di essere riconosciuto dall'altro
come a lui superiore, come unico, assoluto usufruttuario del mondo.
Nell'impossibilità dell'assolutezza, gli uni e gli altri depongono volentieri
le armi e si adagiano su una comoda convivenza. Questo rapporto (chiamiamolo
per ora "dialettico", ma cfr. oltre), che lega le "coscienze
empiriche" nel conflitto per la supremazia, presenta indiscutibili
affinità con la «otta per il riconoscimento», così come viene
postulata/descritta nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel (la famosa
dialettica servo-padrone). Questo rilievo, avanzato con intelligenza dal Garin,
è stato applaudito da tutta la critica. Ora, noi non vogliamo certo metterlo in
discussione, come non vogliamo mettere in dubbio le letture hegeliane che
Michelstaedter fece. Tuttavia, ci sia concesso almeno d non esserne del tutto
convinti: siamo invece convinti che le analisi di Michelstaedter partano
piuttosto, ancora una volta, dalle pagine di Aristotele, in particolare dalle
prime pagine della Politica. Lo Stagirita scrive: [per la formazione della
società o dello Stato] è necessario in primo luogo che si uniscano gli esseri
che non sono in grado di esistere separati l'uno dall'altro, per es. la femmina
e il maschio in vista della riproduzione [..]e chi per natura comanda e chi è
comandato al fine della conservazione. In realtà, l'essere che può prevedere
con l'intelligenza è capo per natura, mentre quello che può col corpo faticare,
è soggetto e quindi per natura schiavo: perciò padrone e schiavo hanno gli
stessi interessi.226 Proprio come per Aristotele, per Michelstaedter colui che,
in tale lotta, non teme di perdere la propria vita, si impone su colui che,
invece, ha paura della morte”: di conseguenza il primo diviene dominus e il
secondo servo (homo, secondo il nostro [i corsivi sono dello stesso
Michelstaedter: abbiamo altresì ribaltato consapevolmente la disposizione dei
precetti del Goriziano, che nell'ordine appaiono 3-4-5-1-2, per dar più filo al
nostro discorso] 226 Aristotele, Politica, 1252a 25-30 [che noi leggiamo nella
trad. it. dell'ed. Laterza, 2000]; i corsivi sono nostri, funzionali a quanto
ci apprestiamo a dire. 227 Ma cfr. quanto noi detto nella parte finale del
paragrafo 4d del nostro | capitolo, paragrafo che s'intitola La Persuasione al
bivio. pediente ermeneutico). La temerarietà del padrone non è il coraggio
esistenziale del Persuaso, non è fine consapevole ed adeguato, che sfocia
nell'autentica epoché della morte, frutto della consapevolezza della malattia
mortale: il dominus ha una superiorità che potremmo a buon ragione cefinire,
anche qui, darwiniana: a comandare sono gli individui più adatti, ovvero più
forti e più risoluti e più intelligenti, come dice Aristotele gli «esseri che
possono prevedere con l'intelligenza» o - come parafrasa Michelstaedter - gli
esseri che possiedono una «previsione più organizzata a una più vasta vita »
[PR 29]7”. Il padrone non lavora la terra, non è artifex, ma costringe il servo
a lavorare in sua vece e per il suo guadagno: «Il padrone si serve dello
schiavo attraverso la di lui forma: attraverso la potenza di lavoro», scrive il
Goriziano. Di contro, lo schiavo accetta le «catene dure ma sicure» del
padrone. Il padrone ha delegato allo schiavo il «violentamento della natura»,
tenendo per sé - anzi utilizzando per sé - il «violentamento dell'uomo». Di per
sé, così, la condizione servile dello schiavo «non è assoluta, ma relativa al
suo bisogno di vivere». Tra servo e padrone, dunque, s'instaura un vero e
proprio, benché primitivo (atomico), patto sociale, fondato - e non si perda di
vista questo fondamento - su un principio biologico simbiotico e
"compensativo" (lo chiamiamo principio di economia sociale): entrambi
violenti, entrambi "carenti", entrambi ansiosi di «conquistarsi il
futuro» (ovvero, entrambi rettorici), essi pongono una convenienza simbiotica
che - in definitiva, come in una perfetta equazione matematica - annulla
(semplifica) le relative "potenze" e "debolezze", tende a
superare la primitiva diseguaglianza fisiologica, pervenendo ad uno status quo
per il quale «uniti: sono entrambi sicuri - staccati: muoiono entrambi».
Suddetta simbiosi si fonda, in definitiva, e si struttura, sulla malafede e sul
ricatto, perpetrati da entrambi, ma da entrambi edulcorati nella reciproca
convenienza: se tu non lavori - dice il padrone - non ti do «il mezzo di
vivere»: così morirai; se non mi assicuri «I mezzo di vivere» - replica lo
schiavo - io non lavoro, e non ricaverò per te «la sicurezza di fronte alla
natura»: così morirai. In tutto questo, ci sembra che Michelstaedter parafrasi
ancora Aristotele, che a sua volta scrive: Il padrone non è tale in quanto
acquista gli schiavi, ma in quanto si serve degli schiavi. Tale conoscenza non
ha niente di grande né di straordinario: quel che lo schiavo deve [per natura]
saper fare, lui [sempre per natura]deve saperlo comandare. [...] Agli uni giova
l'esser schiavi, agli altri l'esser padroni e gli uni devono obbedire, gli
altri esercitare quella forma di autorità a cui da natura sono stati disposti e
quindi essere effettivamente padroni.[... ] Per ciò esiste un interesse,
un'amicizia reciproca tra schiavo e padrone nel caso che hanno meritato di
essere tali da natura ?°° 228 Le citazioni che seguono nel nostro discorso,
tratte dal Goriziano, sono ricavate dalle pagine della sua tesi che appunto
indugiano sulla dialettica servo-padrone, ovvero le pagg. 96-105 soprattutto;
ragion per cui, in nostri richiami s'intendano proprio da lì ricavati passim,
salvo diverse indicazioni. 229 Aristotele, Politica, cit, 1255b passim; i
corsivi sono nostri; abbiamo altresì invertito taluni passaggi per render più
didascalica l'esposizione. Tuttavia questa dialettica, negativa ancorché
conciliata (ma che non è la conciliazione hegeliana nello Spirito), del servo e
del padrone "supera" il suo fondamento negativo nella stipulazione
del patto sociale molecolare?°°: l'entalpia”', che tale dialettica assicura, e
che 230 Le analisi di Michelstaedter sulle motivazioni che inducono gli uomini
a fondare la società nascono in un contesto politico che potremmo, a questo
punto, senza sbagliarci, definire "contrattualistico" (ma trovano
importanti agganci - come stiamo or ora dimostrando - anche nella Politica
aristotelica): a differenza dei teorici del contrattualismo, tuttavia -
decisamente più "pragmatici" - il filosofo goriziano adduce, come
visto, una causa "ontologica" al fatto che gli uomini stringano il
"patto sociale" (o, come lui la definisce, la «cambiale sociale»): il
deficere troverebbe cioè una sua compensazione nella creazione di relazioni
sufficienti tra gli uomini, in un principio di realizzazione/permanenza sociale
che surrogherebbe l'innata impermanenza dell'individuo. L'individuo sociale
insomma, nello stringere il patto, si vede garantite quella sicurezza e quel
benessere - quella stabilità - che l'individuo "naturale" non
possiede. Ovviamente, Michelstaedter - se del contrattualismo mostra
indirettamente di accettare le analisi di filogenesi sociale (il meccanismo
praticamente è lo stesso: compensare il deficere) - tuttavia non aderisce alle
sue conclusioni, soprattutto nella sua curvatura liberale (Locke o Stuart Mill,
ad esempio): il Goriziano, come dire, per principio valuta l'organismo sociale
- qualunque forma esso assuma, e per qualunque motivazione esso la assuma -
come regno dell'eteronomia e della violenza. Anzi, leggendo tra le righe,
mostra di attaccare con maggior virulenza proprio le società sedicenti liberali
o liberal-democratiche, perché esse (a differenza di un regime dispotico
conclamato) occultano la matrice profondamente antilibertaria che le connota,
aggiungendo al danno la beffa dell'ipocrisia e del paternalismo. Pur
consapevoli dell'eterogeneità delle proposte contrattualistiche (sia nelle
prospettive di analisi che nelle individuazioni o giustificazioni degli esiti,
a seconda dei periodi storici o delle appartenenze geografiche e politiche che
le hanno fomentate), tuttavia riportiamo alcune righe di due
"classici", per renderci conto - mediante un raffronto anche veloce -
di dove la critica di Michelstaedter effettivamente attecchisca. Con questo,
ovviamente, non vogliamo dire che il filosofo goriziano avesse costruito la sua
critica sociale a partire dalla meditazione dei testi che proponiamo, anche se
mostra di aver letto il Saggio sulla libertà di Stuart Mill [PR 93]; la critica
di Michelstaedter nasce infatti essenzialmente da una diagnosi dello status quo
- valutato attraverso lo "spettro" della Persuasione - status quo che
però era anche, appunto, la risultante della lunga tradizione liberale, che
assume nei brani che seguono la forma più esplicita e, in pratica, conclusiva.
«Se l'uomo nello stato di natura è [...] libero [...]- scrive Locke - se è
padrone assoluto della propria persona e dei propri beni, pari al più grande
fra tutti e a nessuno soggetto, perché mai rinuncia alla sua libertà? Perché
cede il suo imperio e si assoggetta al dominio e al controllo d'un altro
potere? La risposta ovvia è che, per quanto nello stato di natura egli possieda
il diritto connesso con quello stato, la fruizione di esso è assai incerta e
continuamente esposta alle altrui interferenze. Infatti, tutti essendo re alla
stessa stregua di lui, tutti essendo suoi pari, ed essendo per lo più poco
rispettosi dell'equità e della giustizia, il godimento della proprietà in
questo stato è per lui assai incerto, molto insicuro. Ciò lo induce a
desiderare di abbandonare una condizione che, per quanto libera, è piena di
rischi e di continui pericoli: e non è senza ragione ch'egli desidera e ambisce
unirsi a una società che già altri abbiano costituito o abbiano in mente di
costituire per la reciproca salvaguardia della loro vita, libertà e beni, cioè
con quello che definisco con il termine generale di proprietà. [...] Al primo potere
- quello cioè di fare tutto ciò che ritiene opportuno per la conservazione di
sé e di tutto il resto dell'umanità - egli abdica lasciando che sia regolato da
leggi fatte dalla società, secondo che lo richieda la conservazione sua e degli
altri membri di quella società: leggi dellasocietà che in molte cose limitano
la libertà ch'egli possiede per legge di natura. Inoltre egli abdica
completamente al potere punitivo [il secondo potere, per Locke] e consacra la
sua forza naturale (che in precedenza poteva usare nell'esecuzione della legge
di natura, per autorità propria, come gli sembrava opportuno) al potere
esecutivo della società, a seconda che lo esiga la legge di questa. Trovandosi
ora in un nuovo stato, in cui gode di molti vantaggi provenienti dal lavoro,
dall'assistenza e dalla società degli altri membri della comunità, oltre che
della protezione che gli deriva dalla forza complessiva della comunità stessa,
egli deve rinunciare anche alla propria naturale libertà di provvedere a se
stesso, nella misura in cui lo richiedono il bene, la prosperità e la sicurezza
della società. E questo non è solo necessario, ma anche giusto, perché gli
altri membri della società fanno altrettanto.[corsivo nostro] Entrando in
società gli uomini rinunciano all'eguaglianza, alla libertà e al potere
esecutivo di cui godevano nello stato di natura, affidandolo alla società
perché il legislativo ne disponga come richiede il bene della società stessa.
Ma poiché ciascuno fa questo con l'intenzione di meglio salvaguardare la propria
libertà e proprietà (ché non è mai pensabile che una creatura razionale muti
condizione nell'intento di star peggio), è lecito aspettarsi che il potere
della società, o il legislativo costituito, non oltrepassi mai i limiti del
bene comune, ma sia tenuto ad assicurare la proprietà di ciascuno prendendo
misure contro i tre difetti sopra menzionati, che avevano reso lo stato di
natura tanto incerto e difficile. [... ] E è la condizione necessaria e
sufficiente per la sicurezza reciproca, si istituzionalizza nel fenomeno
sociale (lo chiamiamo principio di entalpia sociale). Tale
istituzionalizzazione è un escamotage funzionale: è il banale, ma evidentemente
valido, motivo che recita un adagio: l'unione rende forti. Dice Michelstaedter:
«La piccola volontà non può difendere quello che ha preso colla sua violenza -
e ne affida la difesa alla violenza sociale». Ora, la piccola volontà [potremmo
anche dire: l'io empirico] è sia quella del padrone che quella del servo.
Entrambi accettano «la cambiale dela società», sopportando anche una
spersonalizzazione/atrofia del proprio potere («egli è sotto tutela - non ha
voce») e un (apparente) livellamento "democratico", nel nome della
«sicurezza comune». Per raggiungere altresì questo obbiettivo, è necessario che
la violenza contro la natura e contro l'uomo sublimi nella "violenza
sociale". Dunque, la cifra esistenziale della Rettorica rimane sempre e
comunque la violenza. In questo senso, ci sentiamo di dire che l'appunto del
Garin - il suo riferimento alla famosa figura hegeliana - più che illuminante
rischia di rivelarsi addirittura fuorviante. Hegel parladi autocoscienze”””,
Michelstaedter - più modestamente - di organismi. tutto ciò non dev'essere
ispirato ad altro fine che la pace, la sicurezza e il pubblico bene del popolo»
[J ohn Locke, Due trattati sul governo, Torino, Utet, 1948 (volume II,
$8123-131 passim)]. «Il diritto di una persona - scrive invece Mill - è la
tutela che questa può pretendere dalla società o in forza della legge, o in
forza dell'educazione e dell'opinione [corsivi nostri]. Se essa possiede ciò
che consideriamo una ragione sufficiente per avere, per un qualsiasi motivo,
una garanzia da parte della società, vi ha diritto: se vogliamo dimostrare che
qualcosa non le appartiene per diritto, pensiamo che ciò sia fatto non appena
si ammette che la società dovrebbe abbandonarla alla sua sorte o ai suoi soli
sforzi, senza prendere alcuna misura per proteggerla. [...] Avere un diritto
significa, allora, avere qualcosa il cui possesso va difeso dalla società. Se
mi chiedessero, poi, perché la società dovrebbe difendere questo interesse, non
potrei addurre nessun altro motivo se non quello della utilità generale. Se
questa espressione non sembra convogliare un sentimento adeguato della forza
dell'obbligazione né spiegare la peculiare energia di tale sentimento, è perché
nella composizione del sentimento entra non solo un elemento razionale, ma
anche uno animale, la sete della vendetta; la quale deriva la sua intensità,
come pure la sua giustificazione morale, da quel tipo di utilità
straordinariamente importante e incisiva che è in gioco. L'interesse coinvolto
è quello della sicurezza che è, per ogni individuo, di vitale importanza. Tutti
gli altri benefici terreni possono essere necessari a una persona e non a
un'altra. A molti di essi, si può allegramente rinunciare o sostituirli con
qualcos'altro. Ma della sicurezza nessun essere umano può fare a meno; da essa
dipende la nostra immunità dal male e l'intero valore di ogni bene, al di là
delle contingenze. [corsivi nostri] [...] Questa necessità [...] non può essere
soddisfatta a meno che lo strumento per provvedervi non sia mantenuto in
continuo esercizio» [J ohn Stuart Mill, Utilitarismo, Cappelli, 1981, capitolo
V passim]. Leggendo questi passi e mettendoli a confronto con quanto abbiamo
riferito riguardo la critica sociale approntata da Michelstaedter, si potrà
evincere senza difficoltà il carattere decisamente antiliberale che quella
critica viene ad assumere, volendo valutarla secondo "normali"
parametri politici di riferimento. 231 L'entalpia è una funzione di stato di un
sistema ed esprime la quantità di energia che esso può scambiare con
l'ambiente. Ad esempio, in una reazione chimica, l'entalpia scambiata dal
sistema consiste nel calore assorbito o rilasciato nel corso della reazione.
Nella nostra metafora, servo e padrone si scambiano, a vicenda,
"energia" esistenziale. 232 Nota Michelstaedter che «quasi per ironia
l'impulso a questo movimento del principio della debolezza [tal che esso assurge
alla cambiale sociale] è dato dai più forti; [...] l'iniziativa è sempre del
più forte: e la "lega dei deboli' s'è fatta proprio a spese dei più forti:
che per sola volontà di sominio o per amore ebbero sempre per campo naturale
alla loro sovrabbondanza di vita, per dominarli o per amarli [nota
l'accostamento, fatto con apparente sufficienza, di dominio e amore], i loro
simili» [PR 122]. Per il filosofo goriziano non c'è alcun sviluppo dello
Spirito da giustificare e la diversificazione dominus-homo ha piuttosto una
connotazione, come afferma Aristotele, già stabilita per natura [cfr. supra];
inoltre, tra le due "posizioni" non si verifica alcun vero conflitto,
ma l'una e l'altra preferiscono vivere (sopravvivere) nella consapevolezza
della propria condizione di reciproca dipendenza (usata come tacito ricatto),
cercando di trarne la condizione più vantaggiosa possibile in un'oculata e
compiacente simbiosi. Infine, il superamento (se di superamento si può parlare)
dell'empirica condizione signorile-servile - quando quel ricatto comincia a
vacillare - non avviene per processo dialettico, ma come dire, per processo
"sinottico", cioè attraverso una mera amplificazione a livello
sociale (molecolare) del rapporto puntuale (atomico) di dipendenza. La
costruzione sociale è anch'essa, dunque, non frutto di un conflitto, ma
risultato di un compromesso nel quale le due figure immediatamente si
rifugiano, quando la loro condizione da stabile rischia di divenire precaria; e
questo superamento non segna un progresso nella storia della coscienza di
entrambi: tutt'altro: segna anzi un vero e proprio regresso, nel senso che
nello stipulare la cambiale sociale la deficienza non si svelle, ma si innesta
in una profondità ancor più radicata e più ignorata, ch'è appunto la Rettorica
sociale. A questo punto, per Michelstaedter, la società diviene davvero il
Leviatano: essa padrona, gli uomini (quelli che prima eran servi e padroni)
novelli servi («gli uomini hanno trovato nella società un padrone migliore dei
singoli padroni»): e tra i due nuovi poli si instaura una dialettica
altrettanto nuova e altrettanto irrisolta, che mantiene tutte le deviate
caratteristiche della prima, la sua malafede e la sua convenienza simbiotica:
se tu rispetti le mie leggi - 233 Come sappiamo, la storia di queste
autocoscienze, così come scandita da Hegel nella Fenomenologia, non è un
processo pacifico e lineare, ma affronta una sofferta e faticosa maieutica
pratica che trova nel conflitto tra il sé e l'altro- da-sé la molla dialettica
che, passaggio dopo passaggio, assurge alla pienezza onnicomprensiva @llo
Spirito. L'autocoscienza sorge nell'avvertimento del limite e si manifesta e
sviluppa anzitutto nel desiderio soggettivo di superare l'ostacolo che le si
pone incontro. Ma quest'ostacolo non è soltanto il mondo delle cose: è
soprattutto l'altra autocoscienza, che limita e minaccia e lotta a sua volta
per la propria sopravvivenza. E' qui che s'inserisce la dialettica
servo-signore Herr und Knecht), come momento "storico" di esordio del
conflitto delle autocoscienze diverse e indipendenti: conflitto che si delinea
come mortale, ma che si risolve col subordinarsi dell'una autocoscienza
all'altra: infatti, chi riesce a sopraffare l'altro, ostentando di non temere
la morte, lo rende schiavo e lo piega al proprio progetto di affermazione. Ma,
a sua volta, nel lavorare per l'altro, per il dominus, il servo vive un
rapporto più autentico con la realtà, acquistando progressiva consapevolezza
del proprio potere condizionante e quindi (arguirebbe Marx) una capacità
maggiore di emancipazione. Così, il rapporto finisce col capovolgersi (la
libertà e la potenza del signore si scopre mediata dall'operare del servo, che
a sua volta scopre la potenza "immediata" del proprio lavoro) e
attraverso questa lotta tra l'autonomia e la dipendenza s'ottiene un risultato
concreto nello sviluppo dello S pirito: il sorgere cioè del sentimento della
libertà nell'autoriconoscersi (l'autocoscienza nasce infatti proprio quando il
soggetto riconosce - erkennt - qualcosa di sé nell'oggetto, o comunque
nell'altro-da-sé). «[Il servo è] per il signore l'oggetto costituente la verità
della certezza di se stesso. E chiaro però che tale oggetto non corrisponde al
suo concetto; è anzi chiaro che proprio là dove il signore ha trovato il suo
compimento, gli è divenuta tutt'altra cosa che una coscienza indipendente; non
una tale coscienza è per lui, ma piuttosto una coscienza dipendente; egli non è
dunque certo dell'esser per sé come verità, anzi, la sua verità è piuttosto la
coscienza inessenziale e l'inessenziale operare di essa medesima. La verità
della coscienza indipendente è di conseguenza la coscienza servile. Questa
dapprima appare bensì fuori di sé e non come la verità dell'autocoscienza. Ma
come la signoria mostrava che la propria essenza è l'inverso di ciò che la
signoria stessa vuol essere, così la servitù nel proprio compimento diventerà
piuttosto il contrario di ciò che essa è immediatamente; essa andrà in se
stessa come coscienza riconcentrata in sé e si poggerà nell'indipendenza vera»
[Hegel, Fenomenologia dello Spirito, La Nuova Italia, 1967, vol. I, pag. 161].
ingiunge il Leviatano - io ti assicuro la vita: altrimenti morirai; se non ci
assicuri la vita - replicano i servi - noi non rispetteremo le tue leggi: e tu
morirai. La società come necessità e "banalità" della sicurezza: ma
se «a sicurezza è facile», essa - lo abbiamo visto - «è tanto più dura». E
allora, nella violenza istituzionalizzata, «nella società organizzata ognuno
violenta l'altro attraverso l'onnipotenza dell'organizzazione, ognuno è materia
e forma, schiavo e padrone ad un tempo per ciò che la comune convenienza a
tutti comuni diritti conceda ed imponga comuni doveri» [tutti i corsivi sono
nostri]. Insomma, padroni e schiavi finiscono con l'essere entrambi vittime di un
dominio che si congegna in sistema o in "amministrazione"
tacitamente, doverosamente accettati; strutture che - seppur fabbricate dalle
mani stesse dell'uomo - ora lo superano e si svincolano dal suo controllo: anzi
- di converso - sono le dette costruzioni ad esercitare stavolta il controllo
diretto. Ciò vuol dire che ciascuno (padrone o servo, non conta), all'interno
del sistema stesso, si trova preconfezionato il proprio ruolo, il proprio
destino: a lui non resta che la scelta del modo di viverlo; ma questa stessa scelta
- individuale o sociale - obbedisce a sua volta alla logica del potere e del
dominio e quindi, in definitiva, alla logica della violenza. 8 Come la violenza
perpetua se stessa (II). L'educazione corruttrice secondo Michelstaedter. Il
ribaltamento operato dalla Persuasione. Ora: quali sono gli strumenti
attraverso i quali la Rettorica indottrina gli uomini all' "accettazione
felice" della scelta fasulla ed inadeguata?°*? Quali meccanismi
mefistofelici essa pone in atto? In che modo riesce ad inculcare il senso del
dovere, garanzia necessaria e sufficiente alla sopravvivenza della società
rettorica ed ipocritamente "giusta"? In che modo, insomma, essa
riesce a farsi (come si dice oggi) egemonia? O, infine, volendo usare le stesse
parole del Nostro, «per qual via la natura ha tessuto e tesse contro a sé tale
trama? E come si tiene questa e si riafferma sempre via in ogni figlio
dell'uomo che, forte o debole nasca e di quella difesa bisognoso, pur sempre
nasce ignaro del suo artifizio?» [121]; ovvero, ancor più chiaramente: in che
modo si costituisce [122] e si diffonde [127] l'«adulazione» (xoXaxew) sociale?
Come sostiene giustamente il Campailla, nell'introduzione all'edizione minor?
della Persuasione e la Rettorica, «il mito della Persuasione [e noi aggiungiamo:
il problema della Rettorica], coerentemente, culmina in un problema
pedagogico». E proprio qui si apre la sezione più interessante ed
"inattuale" della tesi del Goriziano . La risposta al complesso di
interrogativi appena posti è a questo punto semplice e consequenziale: è
l'«educazione corruttrice» (Svoradaywyia) [127] lo strumento raffinato
attraverso il quale la società, la comunella dei malvagi, si arroga e si
assicura la sopravvivenza”. Ma in realtà, alla luce di quanto detto, e leggendo
attentamente le 234 Qui viene presa in esame la sezione conclusiva della tesi
di laurea di Michelstaedter - corrispondente alle pagg. 121- 131 incluse, in
particolare da pag. 127 in poi - che s'intitola Gli organi assimilatori: per un
accenno introduttivo alla questione, cfr. anche il nostro paragrafo Il momento
del passaggio, contenuto nell'Intermezzo. 235 || concetto - fa notare Campailla
- è platonico, e invita a cfr. Gorgia, 463 b, c e passim. 236 Edizione curata
nella Piccola Biblioteca Adelphi, 1994 6a. Il riferimento che riportiamo è a
pag. 25; il corsivo è nostro. 237 Possiamo dire che, dal punto di vista
ideologico, l'asse Platone-Hegel è il riferimento più immediato della polemica
pedagogica michelstaedteriana. Come abbiamo visto, le analisi di Michelstaedter
sul problema educativo avevano luogo d'origine nella riflessione sulla
pedagogia platonica, funzionale alla "statolatria" della Repubblica.
Ancora una volta, la prospettiva platonica si "aggiornava" in Hegel,
il quale scriveva ad esempio nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia (e
la citazione vuol essere riassuntiva della posizione hegeliana): «[...] Solo
nello Stato l'uomo ha esistenza razionale. Ogni educazione tende a che
l'individuo non rimanga qualcosa di soggettivo, ma divent oggettivo a se stesso
nello Stato. [...] Tutto ciò che l'uomo è egli lo deve allo Stato: solo in esso
egli ha la sua essenza». [Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia , trad.
it, La Nuova Italia, Firenze, 1975, vol. I, pag. 105] In coerenza con le linee
guida del suo panlogismo dialettico e storicistico, Hegel dunque vedeva nella
formazione [Bildung] dell'uomo il "movimento consapevole, il divenire del
suo essere per sé», e, cioè, «l'estraneazione del proprio immediato se stesso»
istintivo e irrazionale mediante il quale il singolo - ripercorrendo le tappe
dello sviluppo storico dell'umanità - si libera da ciò che ha in sé di
individuale per oggettivarsi, com'è noto, nelle istituzioni etiche della
famiglia, pagine che Michelstaedter dedica alla questione”, appare chiaro come
l'espressione «educazione corruttrice» sia, per lui, a tutti gli effetti,
tautol/ogica. Ogni modalità e pretesa educativa, infatti, in ogni luogo e in
ogni tempo, presenta la stessa "radice" viziata e corrotta: come
abbiamo visto, l'ex-ducere, per il Goriziano, esprime sempre un atto di
forzatura, anzi propriamente di violenza: un "trarre fuori" delegato
ad un agente esterno (i maestri, i pedagoghi...°°°) , un trarre fuori che è
soprattutto un sottrarre l'uomo a sé stesso al fine di uno scopo supposto
ultimo e massimamente utile, qual è quello della conformazione al cosiddetto
benessere sociale (quella che il Nostro chiama «eciproca convenienza »
sociale). Nel far ciò, arriva a scrivere il giovane filosofo, la società rende
alle sue giovani "promesse" un servizio ch'è analogo a quello che
«l'uomo fa ai vitelli, agli agnelli, ai polli, ai puledri, per farsene più
buone macchine da lavoro o più buoni produttori di came» [128, in nota; corsivo
nostro]. E i risultati di tale operazione sono, sempre e comunque, quelli di
produrre «un degno braccio irresponsabile della società» [130; corsivo nostro]:
un giudice, un maestro o, addirittura, un boia [130; il significativo
accostamento michelstaedteriano delle tre figure sociali, senza soluzione di continuità,
è violentemente polemico]. In questo senso, l'educazione si manifesta come la
traduzione più coerente e più funzionale della tecnica [per cui cfr. supra], lo
strumento più opportuno ed efficace per oliare gl'ingranaggi del
meccanismo/dispositivo rettorico. In ultima analisi, leggiamo tra le righe, la
diagnosi critica di Michelstaedter non prende di mira solo o esclusivamente il
sistema educativo borghese a lui coevo (e, nello specifico, la scuola borghese,
deputata principe a quell'educazione): quello stesso sistema educativo e quella
stessa scuola non sono altro che le forme e le formule perfette e ultime (ma
solo nell'ordine del tempo) in cui l'organizzazione "conformatrice"
della Rettorica stessa si è strutturata, in vista e a garanzia del suo
perpetuarsi. Il problema non è neanche di puntare il dito verso un tipo di
educazione o di organizzazione scolastica errata o quantomeno della società e
appunto dello Stato; anzi lo stesso Stato «non esiste per i cittadini: si
potrebbe dire che esso è il fine e quelli sono i suoi strumenti» [ibidem],
Sostanzialmente, la posizione hegeliana avrebbe trovato un originale sviluppo
in Gentile [cfr. almeno il suo Sommario di pedagogia (1913-14)], che tra
l'altro fu ministro fascista dell'educazione e autore della riforma scolastica
del 1923. Facciamo quest'appunto, perché Gentile - come scrive Campailla -
"nel gioco delle parti, rappresentava idealmente il megapresidente di
quella commissioni di professori" che doveva esaminare la tesi di laurea
del Nostro; e proprio a Gentile toccò, nel 1922, "sulla ‘Critica’, il
compito di formulare il giudizio ufficiale di una cultura" riguardo
Michelstaedter [cfr. l'introduzione di Campailla alla Persuasione..., cit.,
pag. XI]. 238 Pagine in cui la sua critica si fa davvero profonda, serrata e
piena di feroce e amara ironia; ben poche pagine, verrebbe da notare, rispetto
all'importanza ed alla complessità del problema, che investe le radici stesse
del perpetuarsi della Rettorica, come sua prerogativa necessaria e sufficiente;
ma, d'altronde, lo stesso Michelstaedter avvisa che ciò che "fa
l'educazione disonesta della società coi giovani uomini, è vicino, credo, e
manifesto ad ogni occhio" [128-129, in nota]; tal che, il nocciolo è
sempre lo stesso: è l'occhio che si rifiuta di vedere... 239 | più importanti
rappresentanti-chiave (i latini direbbero i principes) del consorzio umano.
perfezionabile: vogliamo dire che non è questione se l'educazione sia affidata
ad un cattivo o ad un buon maestro, ad una cattiva o ad una buona scuola, ad un
cattivo o ad un buon metodo: si rammentino gli "insuccessi" di
Socrate e di Cristo, a tal proposito, se li si vogliano intendere come meri
precursori di una scuola o di un'istituzione. Non è questione, dunque, di
proporre un modello educativo alternativo e più pertinente. Questo perché la
Persuasione non può avere maestri, scuole e proseliti: qualora li avesse, essa
stessa giocoforza si mutuerebbe in Rettorica. Attraverso la Svoreidaywyta,
l'individuo vien de-responsabilizzato””” e condotto, motu proprio, ad abdicare
alla propria umanità autentica. L'educazione ha il fine di preparare il singolo
alle esigenze della vita sociale, in modo che egli sappia inserirsi e vivere
nel meccanismo rettorico, senza traumi e senza velleità di contestazione:
formare coscienze, consapevoli di tutte le idealità familiari e sociali, capaci
di perpetuare lo svolgimento e di garantire la sicurezza stabile del
dispositivo, la sua cultura e le sue tradizioni, seppur talora sotto le mentite
spoglie del progressismo. Con un'espressione riassuntiva, potremmo dire che la
società rettorica garantisce e protegge sé stessa attraverso le forme e le
formule della Rettorica sociale. Appare chiaro, sotto questa prospettiva, che è
errata in assoluto ogni pretesa vicinanza o anche una semplice analogia topica
(vista la distanza temporale e geografica) tra le riflessioni di Michelstaedter
e gli assunti di quella che vien detta "pedagogia del dissenso",
" 241, Nella "della liberazione", o le posizioni dei movimenti
cosiddetti di "descolarizzazione pratica, l'è vero, le linee dell'analisi
e delle critiche sembrano convergere, sotto certi rispetti (inerenti, comunque,
soltanto alla pars destruens del discorso): entrambi le posizioni (quella
michelstaedteriana e quella rivoluzionaria) ritengono che scopo dell'educazione
- come comunemente s'intende - non sia quello di far evolvere un individuo
verso la propria realizzazione al fine di renderlo felice, ma purtroppo far sì
che l'individuo si adatti a quel tanto di infelicità che gli è imposto da un sistema
dato e considerato immutabile (0, come dice Marcuse, l'educazione tenderebbe a
fare in modo che l’uomo viva liberamente la propria mancanza di libertà).
Tuttavia, le posizioni di fondo sono divergenti, anzi si pongono su due piani
decisamente diversi. 240 Si ricordi che, per Michelstaedter, la condizione
"naturale" dell'individuo sociale è quella in cui l'individuo risulta
privato del suo «senso di responsabilità» [108, corsivo del Goriziano; ma cfr.
anche quanto detto a tal proposito nel nostro paragrafo sulla Rettorica come
tecnica della violenza e violenza della tecnica]. 241 Intendiamo quella
pedagogia "rivoluzionaria" o "radicale" rappresentata negli
USA da Ivan Illich e da Paulo Freire (mentre in Italia è stata rappresentata da
Marcello Bernardi), che elegge a suoi padri putativi Godwin (in Inghilterra),
Francisco Ferrer (in Spagna) e, guarda caso, il nostro Tolstoj e che prende le
mosse, o comunque viene allo scoperto, durante i movimenti sessantottini di
protesta studentesca. «Descolarizzare la società» è il celeberrimo motto di
Illich. Quelle "nuove" pedagogie, si muovono, infatti, comunque
nell'ambito della necessità di un'educazione, prendendo di mira soltanto le
modalità, i modelli ed i metodi di quell'educazione. Il loro problema reale è:
l'educando deve adattarsi e conformarsi all'identità sociale, rappresentata ad
esempio dal maestro, o invece, come persona viva deve essere educato ad
adoperare, un giorno, la sua originale vitalità per migliorare la società (ci
immaginiamo come avrebbe reagito Michelstaedter)? Quelle nuove pedagogie,
insomma, appuntano la loro critica solo su di un dato, effettivo, sistema
educativo (quello borghese e sedicente "liberale"), perché lo
ritengono "statico" e quindi nocivo alla società stessa, cui
l'educazione rimane sempre e comunque "funzionale". Per questo, si
affaticano nell'approntare un metodo educativo che elimini ogni costrizione o
dipendenza apparente (prescrizioni, regolamenti, orari), che ridefinisca
quell'insieme di atteggiamenti e di comportamenti che aiutano un individuo ad
essere se stesso, a realizzare pienamente la propria personalità, a 'progredire
secondo le proprie linee evolutive", come si suol dire. Per dirla in
breve, quelle pedagogie non eliminano l'eteronomia, ovvero non obliterano la figura
dell'educatore (ritenuta sempre necessaria), ma si limitano ad evidenziare la
difficoltà e la delicatezza del rapporto interpersonale educatore-educando, lo
riformulano e lo re-inquadrano assimilandolo sostanzialmente all'amore della
famiglia e/o della città; rischiando, così, di pervenire, e in effetti
pervenendo - nell'ottica del Goriziano, non esplicita in questo senso, ma
consequenziale, a questo punto - ad un'operazione ancora più subdola e
pericolosa: propinare e formare il "culto della comunità" attraverso
la maschera del paternalismo più becero. Questa autorità (quella del genitore,
quella del maestro, quella della Rettorica) rimane sempre tale, anzi si
rinforza, perché si mimetizza sotto le mentite spoglie dell'amore e della cura
dell'altro («il verxog avrà preso l'apparenza della puua» [118]): essa non
s'impone più dall'esterno o dall'alto, ma conduce il discepolo (anzi, meglio,
il bambino, o il giovane) ad attuare se stesso secondo (presunta) verità;
comanda come se consigliasse o supplicasse; influisce e penetra nelle anime
senza apparentemente lederne l'autonomia... Come si vede, nell'ottica del
disincanto che la lettura di Michelstaedter ci suggerisce, la violenza permane
tal qual è, anzi addirittura si amplifica e diviene più efficace, perché si fa
subliminale e si edulcora, e in questo suo edulcorarsi riesce a rendersi
perfino ben accetta. Alla luce di tutto ciò, appare allora cristallino quanto
il Goriziano scrive (e vale davvero la pena trascriverlo): La peggior violenza
si esercita così sui bambini sotto la maschera dell'affetto e dell'educazione
civile. Poiché con la promessa di premi e la minaccia di castighi che speculano
sulla loro debolezza, e con le carezze e i timori che alla loro debolezza danno
vita, lontani dalla libera vita del corpo, si stringono alle forme necessarie
in una famiglia civile: le quali come nemiche alla loro natura si devono
appunto imporre con la violenza e con la corruzione. Più ancora, la stessa
fede, la stessa volontà del bene è sfruttata per l'utile della società. La
grande aspettazione d'un valore è via via adulata con la finzione d'un valore
nella persona sociale, che gli si tien sempre davanti agli occhi come quella
che egli debba, imitando, in se stesso educare. Tu sarai un bravo ragazzo, come
quelli che vedi là andare alla scuola, sarai come un grande'. Gli si forma il
mito di questo raro scolaro grande, e ogni cosa appartenente allo studio, alla
scuola acquista un dolce sapore: l'andare a scuola, la borsa per i libri ecc. E
si forma la gerarchia dei valori in rapporto alla superiorità della classe: 'Se
sarai bravo, il prossimo anno, non scriverai più sulla lavagna, ma su un
quaderno! e con l'inchiostro". Tutti approfittano di quest'anima in
provvisorio che sogna 'il tempo quando sarà grande', per violentarla, 'incamiciarla',
ammanettarla, metterla in via assieme agli altri a occupare quel dato posto e
respirar quella data aria sulla gran via polverosa della civiltà. [129] E in
modo ancor più esplicito e sarcastico: Fin dai primi doveri che gli si
impongono, tutto lo sforzo tende a renderlo indifferente a quello che fa,
perché pur lo faccia secondo le regole, con tutta oggettività. 'Da una parte il
dovere, dall'altra il piacere'. 'Se studierai bene, poi ti darò un dolce;
altrimenti non ti permetterò di giuocare' .E il bambino è costretto a mettersi
in capo quei dati segni della scrittura, quelle date notizie della storia, per
poi avere il premio dolce al suo corpo. - 'Hai studiato: adesso puoi
giuocare!". E il bambino s'abitua a considerar lo studio come un lavoro
necessario per viver contenti, se anche in sé sia del tutto indifferente alla
sua vita: ai dolci, al giuoco ecc. Così gli si impongono le determinate parole,
i determinati luoghi comuni, i determinati giudizi, tutti i kallwpismata della
convenienza e della scienza, che per lui saranno sempre privi di significato in
sé ed avranno sempre soltanto tutti quel costante senso: è necessario per poter
avere il dolce, per poter giuocare in pace: la sufficienza e il calcolo. Quando
al dolce e al gioco si sostituisca il guadagno, "la possibilità di
vivere" - "la carriera", "la via fatta", "le
professioni" - lo studio o la qualsiasi occupazione conserveranno il senso
che il primo dovere aveva: indifferente, oscuro, ma necessario per poter
giocare poi, cioè per poter vivere ai miei gusti, per mangiare, bere e dormire
e prolificare [130; in queste ultime righe, tutto il corsivo è nostro]. Tutto
l'apparato rettorico viene spazzato via con un colpo di spugna, viene anzi
ridicolizzato (s'immiserisce in caricatura) da queste considerazioni sprezzanti
che non concedono alcun appello. La demolizione dell'illusoria permanenza, da
semplice breccia che era, assume dimensioni a dir poco apocalittiche,
coinvolgendo tutti gli aspetti della nostra gratuita, artefatta esistenza, dalle
espressioni più banali e quotidiane a quelle più meschine e smaliziate. Lo
smascheramento si è mutato in condanna esplicita, perentoria, battagliera,
irriverente, colpendo nel cuore il dio della prAopuyix, braccandolo negli
anfratti più reconditi, smitizzandone l'ostentata onnipotenza. Ad un orecchio
distratto, le parole di Michelstaedter potrebbero suonare come l'ennesima,
stancante riproposizione di un impertinente nichilismo. Tutt'altro, ci pare. Il
nichilismo è il travestimento carnascialesco della Rettorica, il tiro mancino
più azzeccato e beffardo e più a la page. La forza di Michelstaedter non è
soltanto nel disincanto: il disincanto è un momento di passaggio, obbligato, ma
di passaggio; la forza della Persuasione risiede soprattutto nella speranza di
un nuovo inizio: lo spegnersi dell'illusione luciferina del piacere non ci
immerge nelle tenebre ma ci apre lo spiraglio di una nuova luce, di una
recuperabile Salute. Per quanto tutto ciò che ci attornia sembri comprovare una
resa incondizionata, forse non è ancora tutto compromesso, ci suggerisce il
nostro filosofo. Abbiamo ancora una possibilità di riscatto, un perno autentico
intorno al quale tentare di ricostruire ciò che abbiamo perduto. E'
dall'insegnamento socratico che bisogna ricominciare, è il nosce te ipsum -
secondo il Goriziano - il punto di riferimento di ogni corretta ri-valutazione
dell'umano, il «prediletto punto di appoggio», il veicolo autentico e genuino
della Persuasione, la garanzia pertinace dell'autonomia del vir : Questa
educazione (ed è l'unica) [la precisazione parentetica ha valore risolutorio]
dà all'uomo le gambe per camminare, e gli occhi per vedere: non gli dà vie
fatte, non gli fa veder date cose. - questa fa l'uomo sicuro e indipendente da
qualunque offrirsi di cose e non può temere che l'una o l'altra vita
sufficiente lo vinca [PR 150; corsivi di Michelstaedter]. Solo attraverso la
voce di Socrate” si formerà il vero uomo, il vir persuaso, l'eroe tragico,
l'uomo d'azione, che ha fatto del dolore il punto di partenza della propria
gioia, e che ha aperto quella gioia al mondo, creando i presupposti di un nuovo
rispetto tra gli enti e di un nuovo principio di responsabilità e di amore. Le
parole di Michelstaedter sono, ancora una volta, devastanti nella loro
bellezza, definitive pur nella loro programmaticità (le sottolineamo tutte in
corsivo, visto che esse compendiano e confermano il senso della nostra
interpretazione): L'uomo d'azione, l'eroe è come uno zampillo d'acque che
erompe dalla terra, s'innalza verso il cielo, riscende a ristorare il suolo.
(...) L'eroe è uno slancio della volontà verso l'essere, la libertà, 'dio"
nelle cose, con le cose, per le cose; nella vita e non fuori della vita;
bisogna esser nella vita per uscirne - e l'unica via è l'universalizzazione della
vita, lo slancio verso il principio della vita in un amore eguale per tutte le
cose viventi: libertà e amore: quanto più l'uomo è libero tanto più sente sé
identico all'universo: nell'amore verso l'intima ragione accomuna sé e
l'universo; sente sé (nel proprio divenire verso l'essenza) la ragione
dell'universo, ama sé in tutte le cose e tutte le cose in sé; in quanto ama e
cerca quell'unica universale essenza. L'eroe vive in questa ultima fede e
afferma se stesso trascinando il mondo verso la vera vita: il regno dei cieli è
in te. (...) L'eroe presuppone negli uomini la medesima essenza, la stessa
volontà che è in lui, rispetta sé negli altri. Cioè suppone negli altri la
‘direzione verso l'assoluto, verso dio": nega e afferma per sé e per gli
altri in nome di questa smisurata speranza. Respinge la vita terrestre, ma
vive, nel pensiero de 'la vita'24, Sta dunque a noi - che, seppur
"storditi", avvertiamo comunque il riflusso della voce socratica -
farne «attività infinita» o destinarla al bivacco dell'utopia, ostinandoci a
bazzicare nelle rilassate menzogne della nostra «tranquilla e serena minore
età» °, perché - direbbe Kant - in fondo «è così comodo essere minorenni!» °°,
242 L'eristica potrebbe obiettare che l'eteronomia, cacciata dalla porta, è
rientrata per la finestra: in fin dei conti, anche Michelstaedter elegge un suo
educatore, in Socrate. Ma l'appunto è inesatto. L'educazione socratica,
infatti, ha il suo valore proprio nel negare... il proprio valore (ilsapere di
non sapere, tanto per usare un comodo luogo comune), ovvero nell'indicare
all'individuo la strada della propria autonomia, disattendendo ad ogni sua
stessa pretesa educativa (e qui è il fulcro del paradossale
"messaggio" di Socrate, che si riflette nella paradossalità della
Persuasione). In questo senso, nel richiamare l'individuo alla
"reminiscenza" dell'autentico "demoniaco", più che
un'educazione, quella socratica è una provocazione. 243 La figura dell'eroe
tragico, come qui è tratteggiata, appare negli Scritti vari, cit, n. 110, pagg.
798-799. 244 Sono le parole con cui si conclude la versione
"ufficiale" (prescindendo dalle Appendici critiche) de La persuasione
e la rettorica. Confessiamo che sono state proprio queste parole, che
suggellano il messaggio di persuasione michelstaedteriano, ad incoraggiare il
nostro approccio ermeneutico attraverso la prospettiva dell'etica kantiana,
casomai non esplicita, ma sempre presente durante la stesura del nostro lavoro.
Perché «uscire dalla minore età» è l'augurio e il monito programmatico (a tutto
il suo pensiero) che Kant pone a principio di uno dei saggi che riteniamo tra i
più belli e sardonici: Risposta alla domanda: che cos'è l'iluminismo? [cfr.
anche nota successiva]. E la coincidenza non c'è sembrata solo una contingente
questione d'assonanza. 245 Cfr. Kant, : Risposta alla domanda: che cos'è
l'illuminismo?, contenuto in Scritti politici e filosofia della storia e del
diritto, UTET, 1965, pag. 141. Capitolo integrativo. A - Le varianti deboli
della Persuasione. A1- La variante nichilistica di Schopenhauer. A2- La
variante Nietzsche, il "terzo Dioniso". A3 - Leopardi: la variante
"flessibile" alla Persuasione. A4 - Kierkegaard: la variante
"relazionale" della Persuasione. B - Variazioni sul tema
michelstaedteriano del "peso che di-pende". C - La critica alla
Rettorica come caricatura della Rettorica. A - Le varianti deboli della
Persuasione. Intendiamo quali "varianti deboli" della Persuasione
taluni esiti filosofici che hanno conosciuto, rispetto alla proposta
michelstaedteriana, maggior fortuna nella storia del pensiero occidentale, pur
condividendo, con quella proposta, presupposti e finalità, ovvero - per dirla
con estrema sintesi - la mechané tragica per sopravvivere al Tragico (in questo
senso le diciamo varianti). Esiti (l'egoismo di Stirner, il titanismo di
Foscolo e Leopardi, il dionisismo di Nietzsche, il volontarismo di
Schopenhauer, il "cristianesimo" di Kierkegaard e via dicendo) cui
molto spesso la critica si è appoggiata nel tentativo di risolvere la
complicata sciarada della Persuasione, incasellandola nel rapporto a soluzioni
già note e definite, ma in questo modo giocoforza equivocando e/o svalutando la
pregnanza e l'originalità profonde della sua portata. Soluzioni, ancora, che
Michelstaedter effettivamente tenne in conto, e che anzi costituirono (quale
più quale meno) l'humus fertile della sua formazione culturale e soprattutto
umana: ma esiti, infine, che Michelstaedter stesso ad un certo punto superò
(nell'accezione, ci vien da dire, hegeliana), ritenendoli parziali o comunque
non sufficientemente "persuasi" (e in questo senso le varianti le
diciamo debolì). Non sufficientemente persuasi significa, come oramai si
capirà, non garanti di quella autonomia e di quell'orizzonte politico che
invece costituiscono per noi i tratti distintivi e forti della Persuasione
michelstaedteriana. Focalizzeremo la nostra analisi soprattutto sulle varianti
schopenhaueriana, nicciana, leopardiana e kierkegaardiana, dato che - vista la
loro portata - esse si impongono su altre satellitari, nel senso che ad esse
possono comodamente riferirsi. In realtà, riguardo Kierkegaard, la questione è
già stata ampiamente trattata nel corso del nostro lavoro, anche se per via
indiretta, soprattutto nell'accostamento al Brand, trasposizione drammaturgica
(come dicemmo) del cavaliere della fede; riguardo Leopardi, uno dei Persuasi
per eccellenza secondo Michelstaedter, ci soffermeremo soltanto sulla lieve (ma
in ordine di quantità e non di qualità) "sfumatura" che a nostro
parere li distingue nelle soluzioni della mechané; per quanto concerne
Schopenhauer, invece, ci limiteremo a sottolineare le affinità-differenze del
Wille con la deficienza e il valore della Persuasione anche come decisa
risposta alternativa al Nirvana, o comunque all'ideale ascetico; infine, la
nostra analisi indugerà piuttosto su Nietzsche, dato che l'ermeneutica
filonicciana rappresenta, secondo il nostro giudizio, l'equivoco più
problematico e pericoloso della Persuasione, anche se, purtroppo, il più
accreditato. Nel tracciare la sinossi di questi autori con Michelstaedter,
ovviamente si procederà con andamento sintetico piuttosto che analitico, ovvero
sorvolando elementi critici oramai 149 assodati e casomai soffermandoci su
spunti che, in apparenza tangenziali o cavillosi, possono rivelarsi cruciali nell'economia
del nostro discorso. Questa nostra metodologia "antagonista", infine,
vuol far emergere, nel raffronto chiaroscurale, una evidenza della Persuasione
chiara e distinta, chiara perché appunto distinta. E vuol ribadire il fatto che
la riflessione di Michelstaedter, seppur originalissima, fermentò comunque
nella sinergia di riflessioni affini alla sua°*°: il Goriziano, cioè, cercò
continue conferme alla sua ipotesi di Persuasione (e di riflesso, alla sua
analisi sulla Rettorica), spaziando tra le esperienze più complesse e
"alternative", volte a garantirle anche un saldo impiantito
speculativo. Apparirà chiaro, dunque, come tra Michelstaedter e i quattro
pensatori di cui sopra si venga a stabilire un vincolo che può apparire di
filiazione, ma che in effetti è di "assonanza" (si respira, come
dire, aria di famiglia): ossia apparirà sintomatico come la
"consapevolezza del disincanto" acquisti, a certi livelli, una quasi
perfetta corrispettività di intenti e di diagnosi e di espressioni talora anche
(addirittura) terminologica. Laddove, però, le differenze si rivelano
importanti almeno quanto le somiglianze. Questo, a nostro parere, getta luce
definitiva sul rapporto che il giovane filosofo instaura con i "suoi"
autori: è come se da essi - volendo usare una perifrasi aritmetica - traesse il
"minimo comune multiplo" o il "massimo comun divisore", e
lo rielaborasse nel saldo tessuto connettivo della sua Persuasione. Persuasione
che, in un balzo, oltrepassa anche gli esiti dei suoi riferimenti privilegiati,
e ciò davvero senza la pur minima ossequiosità; Persuasione che, infine, e non
solo per l'ameno che la contraddistingue, può a buon diritto figurare accanto a
quelli nel firmamento della storia della filosofia persuasa di tutti i tempi,
seppur figlia "soltanto" dell'ibrida provincia italo-austriaca. 246
Sullo sfondo, non dimentichiamolo, l'orizzonte greco, presupposto di tale
sinergia, già ampiamente trattato.A1- La variante nichilistica di Schopenhauer.
Come accennato più volte, alla lettura di Schopenhauer - all'unanimità
riconosciuto come uno dei vertici speculativi di ispirazione per Michelstaedter
- il nostro giovane filosofo fu introdotto dall'amico Enrico Mreule”", e
presumibilmente attraverso Schopenhauer (si pensi alle suggestioni nirvaniche
di intere pagine del Mondo) si avvicinò anche alla riflessione, se non proprio
alla pratica, del Buddismo”. Eppure, il "filosofo della volontà" è il
grande assente dagli scritti michelstedteriani: gli accenni che lo riguardano
in modo diretto sono davvero scarsi, ammontano a quattro o cinque - egualmente
distribuiti tra la tesi, l'epistolario e due saggi raccolti nelle Opere
complete - e, nella maggior parte dei casi, ci sentiamo di dire, davvero di
poco conto, accessorii?”. 247 Cfr. almeno il nostro capitolo II, nella
fattispecie il paragrafo sul Pretesto cronologico della proposta persuasa di
Michelstaedter. 248 Cfr. il nostro capitolo |, nella fattispecie il paragrafo
sul Porto della pace. 249 Schopenhauer aveva individuato nella Volontà [Wille]
il nome proprio del noumeno kantiano, vale a dire la radice strutturale di ogni
realtà: un impulso cieco, inarrestabile, irrazionale, che non ha altro fine se
non perpetuare sé stesso e che, in questo autoprodursi, informa il mondo (si
"oggettiva" nel mondo) segnandolo di dolore e male. Essa è «la
sostanza intima, il nocciolo di ogni cosa particolare e del tutto» (cfr. almeno
Mondo I, $ 21). «Il fenomeno, l'oggettità dell'unica volontà di vivere è il
mondo, in tutta la molteplicità delle sue parti e figure. L'essere, e il modo
dell'essere, nel tutto come in ciascuna parte, è costituito solo dalla Volontà.
Essa è libera, essa è onnipotente. In ogni cosa appare la Volontà, quale essa
medesima in sé e fuori del tempo si determina. Il mondo non è che lo specchio
di questo volere; ed ogni limitazione, ogni male, ogni tormento, che il mondo
contiene, appartengono all'espressione di ciò che la volontà vuole: sono quali
sono, perché essa così vuole» [ib. § 631. Secondo il "filosofo del
pessimismo", la Volontà stessa trova nell'uomo un insperato, inconsapevole
alleato: essa, sempre più chiaramente oggettivandosi, agisce, prima come forza
meramente impulsiva, poi come forza istintiva, infine, proprio nell'uomo, come
conoscenza. Nell'uomo, nella conoscenza, la Volontà diviene forma organizzata,
assume la falsa consistenza del "quadruplice principio di ragione
sufficiente" (necessità logica, fisica, matematica, morale). Ora, ad
avviso di Schopenhauer, ci si può liberare dal dolore e dalla noia e sottrarsi
alla catena infinita dei bisogni - tutte manifestazioni in cui appunto la
Volontà si oggettiva nell'uomo - attraverso l'arte e l'ascesi. Un grado
"intermedio" di liberazione è la compassione, che nasce quando l'uomo
ha saputo superare ogni distinzione fra la propria e l'altrui persona,
considerando il destino dell'altro uomo come uguale al proprio e sentendo come
proprio l'altrui dolore. La morale ha come virtù la giustizia (che è un freno
all'egoismo e quindi è una virtù negativa: "non fare il male") e la
carità (virtù positiva: "allevia il male"). Tuttavia, se con la pietà
si vince l'egoismo, comunque non ci si libera totalmente della vita e dunque
della volontà. Difatti, per Schopenhauer il comportamento che nega in modo
assoluto l'individualità e la volontà dell'uomo è piuttosto quello ascetico.
Nell'ascesi la Volontà cancella ogni affermazione di sé negando tutte le forme
"positive" di vita e trasformandosi in quella che il filosofo chiama
appunto la nolontà (ossia il riflesso speculare - ma opposto, negativo - della
Volontà). L'ascesi si profila come un insieme di pratiche che mortificano la
volontà, che fanno capire come essa sia causa reale di sofferenza e sia essenza
stessa del mondo: la noluntas è la perfetta castità, la povertà volontaria, la
rassegnazione ed il sacrificio [cfr. almeno $$ 70-71]. Quello ascetico si
configura come lo stato di chi ha annullato in se medesimo ogni pulsione
vitale, di chi si è distaccato dall'ordine degli eventi mondani e dai piaceri
della vita e accetta serenamente la morte come liberazione dai lacci della
volontà e delle sue illusioni. La completa soppressione dell'impulso vitale
produce, per Schopenhauer, l'annullamento totale del mondo: pervenuto alla
perfezione della noluntas, l'uomo scopre che il traguardo della propria
autonegazione gli dona la contemplazione del nulla (cfr. almeno ib. $ 71, ma
vd. anche nel prosieguo del confronto). Ma è proprio nella formazione di questo
"nulla mortificante" artefatto che, secondo noi, Michelstaedter
costruisce la propria critica e segna il suo distacco da Schopenhauer. [le
citazioni qui riportate da Il mondo come volontà e rappresentazione, e quelle
che si riscontreranno nel corso del confronto, sono tratte dalla trad. it.
proposta dall'ed. Laterza, 1968, a cura di C. Vasoli. Delle citazioni ci siamo
limitati a riportare i paragrafi da cui esse son prese]. 250 Alle citazioni che
incontreremo nel corpo del confronto, si aggiungano queste altre tre, e il
quadro è completo: Schopenhauer, del resto, non rientra nell'eletta schiera dei
persuasi: non è inserito neanche nell'elenco dei «perfetti pessimisti» (che
coincide in pratica con quello dei persuasi), nel noto frammento contenuto
negli Scritti Vari. Questo silenzio e queste assenze sono a dir poco
imbarazzanti, e molta critica tende a sua volta a sottacerli, dato che,
diversamente, crediamo noi, verrebbe a cadere uno dei più importanti pretesti
per incasellare Michelstaedter all'interno di una tradizione di riferimenti già
stabilita. E' altrettanto vero, comunque, che da molte pagine della tesi di
laurea e del Dialogo trapela netta la voce del Wille, soprattutto quando il
Goriziano svolge la sua analisi sul deficere fisiologico-ontologico che
struttura il mondo sublunare”; com'è vero che, «con buona probabilità, [ritrae
il volto di] Schopenhauer un disegno di Michelstaedter pubblicato da VI.
Arangio-Ruiz252, [al di sotto del quale disegno] è significativamente riportata
la formula 'AT ENEPIEIAX® EX APTIAN' [dall'attività verso la pace] in cui il
Goriziano ha più volte sintetizzato i compiti della [sua] ricerca filosofica»“°°.
E, ancora, è forse proprio lo stesso ritratto che s'intravvede sullo sfondo,
tra i libri sulle scaffalature, nel famoso autografo Disegno della soffitta di
casa Paternolli (il «ritratto della mia vita», com'egli lo chiama allegandolo
ad una lettera al Chiavacci), la soffitta dove Michelstaedter letteralmente si
segregò per ultimare la tesi, trascorrendo (come scrive) una «vita che non è
vita», ma con la consapevolezza, comunque, che lì nasceva «una grande opera».
Quasi che l'immagine del filosofo tedesco, come l'icona di un santo, vegliasse
e "supervisionasse" il lavoro del Goriziano, dunque. Del resto,
Schopenhauer suggerisce a Michelstaedter anche il luogo privilegiato attraverso
il quale, come filo d'Arianna, individuare la possibilità di un'armonia
persuasa da estendere alla totalità delle cose viventi: il filosofo tedesco
aveva visto, cioè, proprio nel corpo - che pur ad una considerazione
superficiale si dà come mera rappresentazione tra le rappresentazioni -
l'espressione più adamantina e perfetta dell'oggettivazione del Wille, e quindi
la condizione della conoscenza della Volontà stessa, lo strumento euristico che
permette di oltrepassare il "velo di Maia" interposto tra noi e la
vera essenza del «E' scritto in qualche parte (credo in Schopenhauer) che chi
potesse guardare internamente in un vaso di terra non vi vedrebbe che un oscuro
tendere al basso e un'oscura forza di coesione» [PR 162]; «Tu sai che la
ragione dell'antisemitismo filosofico (Schopenhauer e Nietzsche) è il razionalismo
della religione e della letteratura ebraica (pensa al Pentateuco e a Spinoza!)
e la mancanza dell'elemento mistico nelle menti ebraiche [...]» (la già citata
lettera al Chiavacci, del 22 dicembre 1907, E 267, che richiameremo anche in
riferimento a Nietzsche); «Schopenhauer dice che ogni dialettica è in fondo
un'eristica. Quella dialettica non è un'eristica dove l'uomo si comporta verso
l'altro come verso di sé - dov'è presupposta in tutti e due un'eguale realtà,
sicché tutti e due arrivano a purgare singoli concetti dalla relatività,
giungendo ad affermare così l'assolutezza della loro comune fede» [O 711-712].
251 Ma riguardo a ciò, ovvero alla re-interpretazione del Wille, cfr. quanto
diremo oltre. 252 In Convegno, luglio 1922, pag. 357. 253 Sono le parole di S.
C ampailla, in Pensiero e poesia..., cit., pag. 25, in nota. 254 La lettera cui
il disegno e le parole citate fanno riferimento è quella del 25 aprile 1910.
mondo. Similmente, Michelstaedter individua un'analogia tra il bisogno
elementare del nostro corpo e il bisogno della Persuasione: come ricorderete,
dicemmo che «è come se [...] un'immagine sbiadita della Persuasione
sopravvivesse nella forza che sottende all'equilibrio omeostatico (chimico e
soprattutto fisiologico) del nostro corpo» °°. Ciò nonostante, il silenzio del
Goriziano riguardo Schopenhauer è, secondo noi, non privo d'importanza, è anzi
indicativo della curvatura autonoma che ben presto prese la sua ricerca
esistenziale. A tal proposito, ci sembra utile riportare l'unico passaggio che
abbiamo designato come significativo: (Schopenhauer, in fin dei conti] non si
occupa di far vedere la necessità dell'errore stesso implicito nel principio
generale della vita che fece vivere chi aveva negato ogni ragione di vivere.
Infatti così accadde proprio a lui che visse tutta una lunga vita a fare
professione di pessimismo. Tanto che poi le sue negazioni gli divennero sistema
e che morì accarezzando anche lui [s'intende, tra le righe, (soprattutto) come
Hegel] una certa forma di 'assoluto' [O 839-840]. Come appare chiaro,
Michelstaedter denuncia che nella pratica della vita il filosofo tedesco arrivò
a sconfessare se stesso, o che comunque fece assurgere il suo pessimismo a
sistema, la qual cosa è una contraddizione in termini. Appare altrettanto
chiaro che, in questo senso, Schopenhauer diviene addirittura l'avversario
privilegiato, seppur indiretto, di molte pagine michelstaedteriane incentrate
sulla critica dell'«imperfetto pessimismo», cioè di quel pessimismo che viene
infine a coincidere con «un punto alto dell'ottimismo vitale»"99. Il
meccanismo, che in effetti ricorre in più passaggi della sua opera, viene
descritto con limpidezza in un capoverso del Dialogo: Il suo non è pessimismo,
cioè conoscenza del non-valore, e conseguente indifferenza, ma ottimismo. Cioè
fede in un valore (la felicità nella morte) sconosciuto, per solo stimolo del
suo bisogno presente [D 78]. Qui, in verità, Michelstaedter sta fustigando
coloro i quali, "forti" del loro pessimismo, credono di realizzarne
con coerenza i presupposti nichilisti uccidendosi. Mentre invece Schopenhauer,
come sappiamo, considerò il suicidio come «un atto di forte affermazione della
volontà stessa» in quanto il suicida «vuole la vita ed è solo malcontento delle
condizioni che gli sono toccate» (Mondo, $ 69), per cui anziché negare
veramente la volontà egli nega piuttosto la vita; e in questo Michelstaedter lo
segue fedelmente (ed è importante, e deve far riflettere, una simile presa di
posizione da parte di un suicida?”). 255 Cfr. ci sia concessa questa autocitazione
dal paragrafo su Empedocle, nel nostro Capitolo V, per rendere più scorrevole
il discorso. 256 in Scritti Vari, cit., pag. 825. 251 Cfr. le analisi contenute
ad esempio in D 75-78. Tuttavia, pur se non morte, cos'altro è la noluntas se
non una forma di "mortificazione", di consapevole eutanasia? La pace
del Nirvana? si propone come esperienza del nulla, un nulla relativo al mondo,
cioè, in definitiva, una negazione del mondo. Certo, anche la Persuasione
presuppone una spoliazione progressiva delle "valenze inadeguate" che
il vir intrattiene col mondo: ma il risultato non è un divorzio del Persuaso da
ciò che lo circonda, non è una sua mortificazione, bensì - e lo abbiamo più
volte ripetuto - un recupero del mondo nell'apprezzamento di una rinnovata
dolcezza. Per semplificare la questione, possiamo ammettere che talune
affermazioni del Goriziano tradiscono, in effetti, già nell'argomentazione, una
discendenza molto chiara dal dettato schopenhaueriano (ad es., passaggi
importanti come il seguente: «Vita è volontà di vita, volontà è deficienza,
deficienza è dolore, ogni vita è dolore»°°°): e proprio seguendo la falsariga
del Tedesco (e con profonde affinità anche con Leopardi) per Michelstaedter la
vita - e non solo quella rettorica - oscilla decisamente tra dolore, piacere
effimero e noia. L'argomentazione è addirittura sillogistica, come sappiamo:
ogni essere vivente, oggettivazione puntuale/empirica del Wille/deficere, è
afflitto dal bisogno e dal desiderio, da una brama che pone in lotta le forme viventi
tra loro. Unica alternativa, dopo i brevi e occasionali istanti
dell'appagamento (natura negativa del piacere), è la noia. 258 «Davanti a noi -
scrive Schopenhauer - non resta invero che il nulla. Ma quel che si ribella
contro codesto dissolvimento nel nulla, la nostra natura, è anch'essa
nient'altro che la volontà di vivere. Volontà di vivere siamo noi stessi,
volontà di vivere è il nostro mondo. L'aver noi tanto orrore del nulla, non è
se non un'altra manifestazione del come avidamente vogliamo la vita, e niente
siamo se non questa volontà, e niente conosciamo se non lei. Ma rivolgiamo
lo sguardo dalla nostra personale miseria e dal chiuso orizzonte
verso coloro, che superarono il mondo; coloro, in cui la volontà, giunta alla
piena conoscenza di sé, se medesima ritrovò in tutte le cose e quindi
liberamente si rinnegò; coloro, che attendono di vedere svanire ancor solamente
l'ultima traccia della volontà col corpo, cui ella dà vita. Allora, in luogo
dell'ncessante, agitato impulso; in luogo del perenne passar dal desiderio al
timore e dalla gioia al dolore; in luogo della speranza mai appagata e mai
spenta, ond'è formato il sogno di vita d'ogni uomo ancor volente: ci appare
quella pace che sta più in alto di tutta la ragione, quell'assoluta quiete
dell'animo pari alla calma del mare, quel profondo riposo, incrollabile fiducia
e letizia [...] La conoscenza sola è rimasta, la volontà è svanita. E noi
guardiamo con profonda e dolorosa nostalgia a quello stato, vicino al quale
apparisce in piena luce, per contrasto, la miseria e la perdizione del nostro.
Eppur quella vista è la sola, che ci possa durevolmente consolare, quando noi
da un lato abbiam riconosciuto essere insanabile dolore ed infinito affanno
inerenti al fenomeno della volontà, al mondo; e dall'altro vediamo con la
soppressione della volontà dissolversi il mondo, e soltanto il vacuo nulla
rimanere innanzi a noi. In tal guisa adunque, considerando la vita e la
condotta dei santi [...] dobbiamo discacciare la sinistra impressione di quel
nulla, che ondeggia come ultimo termine in fondo a ogni virtù santità e di cui
noi abbiamo paura, come della tenebra i bambini. Discacciarla,
quell'impressione, invece d'ammantare il nulla, come fanno gl'Indiani, in miti
e in parole prive di senso, come sarebbero l'assorbimento in Brahma o il
Nirvana dei Buddhisti. Noi vogliamo piuttosto liberamente dichiarare: quel che
rimane dopo la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro
che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per gli altri, in
cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo
tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è il nulla » [Mondo $
71 passim]. 259 In Scritti Vari, cit, pag. 705. 260 «Qualsiasi soddisfacimento
- scrive Schopenhaurer - o ciò che in genere suol chiamarsi felicità, è
propriamente e sostanzialmente sempre negativo, e mai positivo. Non è una
sensazione di gioia spontanea, e di per sé entrata in noi, ma sempre bisogna
che sia l'appagamento d'un desiderio. Imperocché desiderio, ossia mancanza, è
la condizione preliminare d'ogni piacere. Ma con l'appagamento cessa il
desiderio, e quindi anche il piacere. Quindi l'appagamento o la gioia non può
essere altro se non la liberazione da un dolore, da un bisogno: e con ciò
s'intende non solo ogni vero,
Dolore, piacere e noia sono le passioni, potremmo dire con
Cartesio, «semplici e primitive», da cui si diramano passioni più particolari;
di queste, il Goriziano fornisce una vera e propria casistica eziologica ed
ontologica, che può ricordare altre simili presenti, ad esempio, nell'Ethica di
Spinoza: l'impotenza, il rimorso, la malinconia, la paura, l'ira, la «gioia
'troppo' forte»™®' . Ontologica perché esse tutte, primitive e derivate, in
effetti poggiano sulla passione fondamentale, quella esistenziale per
eccellenza, quella insomma che gli esistenzialisti (ma già Kierkegaard)
chiameranno Angoscia [Angs{ ovvero, secondo il giovane tesista, la condizione
per la quale l'uomo «sente d'esser già morto da tempo e pur vive e teme di
morire»”®?: l'angoscia testimonia «dappertutto lo stesso dolore della vita che
non si sazia e crede di saziarsi, reso perspicuo per la qualunque contingenza
dell'una coscienza col fluire delle altre coscienze». E' l'angoscia, la
malattia mortale, la passione "motrice" che, nella pratica, induce
gli uomini a stringere la "cambiale" della società, per una sorta
dicompensazione/conservazione del proprio impulso vitale, altrimenti
annichilito. Tuttavia, se tale analisi ha una radice palesemente
schopenhaueriana, il nostro filosofo già da subito reinterpreta/sussume il
Wille all'interno di un'originalissima «ontologia della privazione che
concepisce la vita secondo i termini di una deficienza originaria »?9°, ovvero
«la volontà per Michelstaedter non è un oscuro impulso fondato in se stesso
[come appunto in Schopenhauer], ma una ‘deficienza’, una mancanza, la maniera
d'essere dell'esistenza finita, della falsamente infinita ‘vita» 9. E i nostri
approfondimenti in proposito dovrebbero rendere questa differenza oramai
scontata. La Persuasione, di contro, non sarà un riparo egoistico nella turris
eburnea dell'autosufficienza nichilista (così come appare nella noluntas), ma
una consapevolezza viva e politica del Tragico, volta a creare una nuova
solidarietà tra tutti gli enti del mondo sublunare, al di là di ogni
pregiudiziale cesura metafisica?®. Il Persuaso, infine, è il vero pessimista
perché sa farsi ragione della «brutalità della vita», e ciò facendo - scrive
Michelstaedter - «vive con la chiara coscienza dei valori e delle possibilità:
non spera dalle cose più di quanto possano dare, non teme più di quanto sia da
temere». Ancora una volta, il pessimismo persuaso coincide con la
consapevolezza del Persuaso, ovvero con la consapevolezza aperto soffrire, ma
anche ogni desiderio, la cui importunità disturbi la nostra calma, e perfino la
mortale noia, che a noi rende un peso l'esistenza». [cfr. Mondo, § 58] 261 Per
l'analisi delle quali, cfr. - del nostro Il capitolo - il paragrafo sul Cerchio
della violenza. 262 Per queste considerazioni, e quelle che seguono
immediatamente, cfr. ibidem. 263 Cfr. G. Pulina, L'imperfetto pessimista -
Saggio sul pensiero di Carlo Michelstaedter, ed. Lalli, pag. 61. 264 Cfr. A.
Michelis, Carlo Michelstaedter, cit., pag. 71. 265 P er i riferimenti e le
citazioni che seguono immediatamente, cfr. almeno, del nostro capitolo II, il
paragrafo sulle Radici della violenza. In effetti, che tra l'uomo e gli altri
enti non ci fosse alcuna cesura metafisica è un lascito anch'esso
schopenhaueriano (tutto è Volontà). dell'impermanenza esistenziale” , e quindi
con la gioia che da questa consapevolezza scaturisce. Ne vien fuori una figura
di eroe tragico che nulla ha a che vedere con l'asceta schopenhaeuriano, o col
superuomo nicciano (che più che tragico, apparirà grottesco?9”). Un eroe
tragico che, come abbiamo concluso”, è uomo d'azione, uno zampillo d'acqueche
erompe dalla terra, s'innalza verso il cielo, ma riscende a ristorare il suolo:
vive in uno slancio che è nella vita e non fuori della vita: lo slancio verso
il principio della vita in un amore eguale per tutte le cose viventi. L'eroe
vive in questa ultima fede e afferma se stesso trascinando il mondo verso la
vera vita; e poiché presuppone negli uomini la medesima essenza, la stessa
volontà che è in lui, rispetta sé negli altri, creando un vincolo di libertà e
di amore??? 266 Come la chiamerebbero anche i maestri orientali; e la
coincidenza terminologica che non può essere soltanto un caso. 267 Ma cfr.
quanto diremo fa poco in proposito della variante Nietzsche, 268 || riferimento
è alla parte conclusiva del nostro capitolo Il. Di quelle conclusioni
riprendiamo, in parafrasi, nelle parole che appena seguono, i punti salienti
della descrizione dell'eroe tragico così come tratteggiata dal Goriziano, come
detto, negli Scritti vari, cit, n. 110, pagg. 798-799. 269 In questo modo,
Michelstaedter recupera e rivaluta anche l'orizzonte importante della
compassione, che Schopenhauer aveva inteso soltanto come uno dei momenti -
inadeguato e transitorio - per assurgere alla contemplazione nullificante del
Nirvana [per cui cfr. supra]. A2- La variante Nietzsche, il "terzo
Dioniso". C'è un pessimismo della forza? Nietzsche, Tentativo di
autocritica Confessiamo che affrontare la variante nicciana della Persuasione
ci mette un po' a disagio. Nietzsche è un autore che attrae inevitabilmente nel
vortice del suo pensiero e della sua "follia" ogni tentativo di
accostamento; anche il nostro, per quanto contingente e irrisorio, cioè votato
a tracciare esclusivamente eventuali affinità o meno col dettato
michelstaedteriano. Proprio il fatto che quest'accostamento nostro malgrado
"ci si imponga" pur parlando di Michelstaedter (che è per noi, negli
esiti, un altro mondo rispetto al filosofo tedesco) testimonia, nel suo
piccolo, di come la potenza e il fascino "ambiguo" di Nietzsche
faccia valere tutta la sua autorità; ossia di come si sia iniettato a livello
genetico nell'orizzonte pensante della sua posterità al punto che, a tutt'oggi,
ogni nuova ricerca filosofica, ogni nuova proposta etica, insomma ogni
"progresso" della speculazione deve fare innanzitutto i conti col suo
nichilismo, eletto all'unanimità a spartiacque, e deve innanzitutto difendersi
dall'accusa terribile di essere un valore, la più immediata che le viene
rivolta contro, al pari di un'offesa. Ribaltando la prospettiva (ma il senso
permane identico), ogni affermazione di forza genuina, ogni progetto di nuova
umanità, ogni rinnovato accenno "persuasivo" viene inteso come
partorito, per germinazione più o meno consapevole, in seno alla
transvalutazione, come se nella debacle di cui siamo gli omertosi testimoni
Nietzsche fosse l'unico garante di sincerità, l'unico punto di riferimento,
l'unico abbrivo di pensiero che prometta onestà. Così, anche la Persuasione
michelstaedteriana è passata al vaglio del "pensiero danzante", e a
tal proposito il travaglio ermeneutico dei suoi esegeti filonicciani è stato
alacre: si è visto, cioè, nel vir un figlioccio o un fratellastro minore
dell'Ubermensch, nella sua aspirazione "autarchica" (ovvero,
autonoma) una volontà di potenza più ingenua ma non meno violenta: una sorta di
carbonio impoverito. Michelstaedter sarebbe la traduzione provinciale del
nichilismo cosmico-europeo: egli starebbe a Nietzsche come il grimaldello al
martello. Ci viene voglia di liquidare il discorso con due battute: [1] la
Persuasione è effettivamente e fieramente un valore; [2] definire nicciano
Michelstaedter sarebbe come chiamare nicciano Socrate (è Socrate, infatti, il
riferimento dichiarato del Goriziano), il che paleserebbe la vanità e la
risibilità dell'accostamento. Tuttavia, per non prestare il fianco ad
inevitabili contrappelli, preferiamo - come sempre - parlare di Michelstaedter
(e qui della sua presunta filiazione da Nietzsche) attraverso le sue stesse
parole. Innanzitutto, è da dire che chi cercasse riferimenti espliciti al
filosofo tedesco nelle opere del Goriziano, come nel caso di Schopenhauer,
rimarrebbe deluso. Si contano a stento sulle dita di una mano, e Nietzsche
risulta praticamente ignorato ne La persuasione e lrettorica. Difatti,
Michelstaedter menziona Nietzsche cinque o sei volte - in maniera incidentale e
mai in un contesto "pacifico" - solo nelle lettere e in qualche
appunto "minore" contenuto nelle Opere complete a cura del Chiavacci.
Ma procediamo con ordine, partendo da un elemento in apparenza occasionale. Una
sera del gennaio 1907, Michelstaedter va a teatro (una delle sue attività
preferite) ad assistere ad una pièce allora in voga: Più che l'amore, di
Gabriele D'Annunzio. Il Goriziano, com'era solito fare, in una lettera alla
famiglia descrive puntualmente le impressioni che ne ricavò [E 167-168]: Questa
sera andai a sentire Più che l'Amore. - Il concetto è prettamente Dannunziano,
o meglio Nietzschiano: L'uomo superiore nel suo immediato congiungimento d'amore,
d'entusiasmo con la natura, con le forze vive della vita, al di fuori della
società, al di fuori quindi da tutti i suoi concetti morali, ha diritto di
schiacciare senza riguardo a questi concetti, tutte le barriere che la società
gli mette fra il suo amore e il conseguimento del suo ideale. - A me pare che
non solo si esplichi ciò (come i giornali dissero sempre) nell'uccisione del
baro ma anche e più, nel calpestare che Corrado Brando [il protagonista del
dramma] fa e dell'amore di Maria e dell'amicizia di Virginio. Anzi unicamente
in questo consiste l'azione, nell'altro soltanto l'antefatto e il mezzo per
poter esprimere tutti i concetti che l'autore magnificamente fa esporre
continuamente a Corrado, e ci spiegano l'azione la quale azione invece è di
fatto soltanto, non di parole. Più che l'amore agita Corrado la passione per la
natura africana, in nome di questa egli spezza il cuore di Virginio e di Maria.
Non èvero dunque che il lavoro manchi d'azione. Anzi è azione psicologica
serrata continua. La forza individuale di Corrado non cozza meschinamente
contro l'impossibilità di aver 3000 o 4000 lire ma contro i legami sociali,
contro i legami della coscienza, sopratutto contro i legami del cuore che dalla
società nascono, quei legami che sono i più forti di tutti. Quindi la
situazione è corrispondente esattamente a quelle del D'Annunzio stesso di
fronte alla sua famiglia nelle Laudi quando prende quasi commiato da lei,
corrispondente a tutta l'Attività sua poetica e pratica, corrispondente alla situazione
attuale della società (come si diceva quella sera). - Ma perché questa azione
spicchi è necessario drammaticamente l'ambiente sociale con tutte le sue leggi,
i suoi affetti, i suoi pregiudizi, o un suo rappresentante convinto
inesorabile, che non possa nemmeno intendere altre idee, oppure infine un resto
di questo mondo nell'animo dell'eroe, a produrre la lotta, la crisi, la
catastrofe. Invece l'autore piega tutti i presenti sotto il fascino di Corrado:
Virginio malintende e tentenna, Maria lo segue con entusiasmo, il servo negro
si farebbe in pezzi per lui. Quindi l'azione resta avviluppata, affidata quasi
all'immaginazione del pubblico, che, se sente, deve intendere lo schianto
dell'animo dei due altri, deve capire come la società calerà la sua mano
pesante sul capo di Corrado: il fato. E l'autore per aiutar l'immaginazione
appoggia tutta l'azione al fatto dell'uccisione che produce la catastrofe
dell'intervento della polizia. - In conclusione credo che abbia tutti gli
elementi ma che non sia affatto un dramma. E però un gioiello, una cosa
splendida per concetto ed immagini. - Questo stralcio, che può leggersi anche
come un piccolo e acuto saggio di critica teatrale, c'introduce proprio nel
cuore della nostra questione. Cerchiamo di de-costruirlo. E' nota la
deformazione dannunziana del mito del superuomo, reinterpretato in chiave
estetizzante e decadente: l'intuizione nicciana si volgarizzava, in tutti i
sensi, nell'ambigua figura di Andrea Sperelli, il protagonista del Piacere,
alter ego dello stesso D'Annunzio, personaggio insieme raffinato e gelido,
aristocratico e spregiatore di quel «grigio diluvio democratico moderno che
tante belle cose e rare sommerge miseramente» (l'ispirazione nicciana doveva
intensificarsi nei cosiddetti romanzi del giglio, fiore simbolo appunto del
superuomo, della passione che si purifica). Fu soprattutto attraverso questa
distorta prospettiva (sin dai primi anni novanta dell'Ottocento, quindi) che il
pensiero di Nietzsche 158 fece il suo ingresso e la sua fortuna in Italia, andando
ad affascinare una gioventù ancora scapigliata e destando voluttuoso, e dunque
ipocrita, scandalonella borghesia giolittiana. L'intelligente Michelstaedter,
tuttavia, mostra di non leggere Nietzsche attraverso D'Annunzio (qual era
l'abbaglio del suo tempo e a quanto presumono i critici michelstaedteriani di
oggi), bensì D'Annunzio attraverso Nietzsche: «il concetto è prettamente
Dannunziano, o meglio Nietzschiano», dice, e confessa indirettamente, in questo
rilievo correttivo, di aver avuto tra le mani le opere del filosofo tedesco e
di poter valutare criticamente i distinguo. Distinguo che, in questa sede, non
interessano: interessa piuttosto individuare in cosa consistesse quel «concetto
prettamente nietzschiano» che Michelstaedter menziona. Ovvero, qual era
l'impressione ch'egli aveva desunto dalla lettura di Nietzsche? Le parole del
Goriziano sono chiare: «L'uomo superiore nel suo Immediato congiungimento
d'amore, d'entusiasmo con la natura, con le forze vive della vita [la «fedeltà
alla terra», il «SÌ alla vita», dice Zarathustra], al di fuori della società,
al di fuori quindi da tutti i suoi concetti morali, ha diritto di schiacciare
senza riguardo a questi concetti, tutte le barriere che la società gli mette
fra il suo amore e il conseguimento del suo ideale». L'impressione si
metallizza in una serie di nette opposizioni: individuo (uomo superiore) -
società; aspirazione alla realizzazione/autenticità (forze vive della vita) -
sua castrazione/inautenticità (concetti morali, barriere); dinamismo (forze
vive della vita) - stabilità sociale. In effetti, sembra già enuclearsi la
dicotomia Persuasione-Rettorica?”°. Ma prestiamo attenzione a un punto
essenziale: in che modo si realizzano le aspirazioni dell'uomo superiore, ossia
in che modo esso reagisce all'impasse sociale e riesce a «conseguire il suo
ideale»? Il suo aderire alla natura, alle forze della vita è «immediato»,
«entusiastico»: c'è una sorta di processo di accumulazione energetica in questa
immediatezza, un'integrazione di "vitamine esistenziali": si
galvanizzano forze pericolose per il labile equilibrio salutare (l'armonia
vitale). Questa continua tensione, scrive Nietzsche, «sarebbe fatale per nature
troppo delicate [ma] fa parte degli stimolanti della grande salute». In un
appunto tralasciato, relativo alla Volontà di potenza, il 270 Come s'evince
dall'indiretta accusa di estetismo "psicologizzante" che
Michelstaedter rivolge a D'Annunzio. L'appunt è anche qui in apparenza
estemporaneo, cioè si offre come un mero rilievo di critica teatrale (la vera
"azione", il ver "dramma" della pièce), mentre a ben vedere
Michelstaedter mostra già di presentire quelle che sarebbero state le ragio
motrici dello scontro Persuasione-Rettorica nella sua visione matura. Perché
l'azione drammatica decolli, dice Goriziano, «è necessario
drammaticamentel'ambientesocialecon tutte le sue leggi, i suoi affetti, i suoi
pregiudizi, o u suo rappresentante convinto inesorabile, che non possa nemmeno
intendere altre idee, oppure infine un resto di quest mondo nell'animo dell'eroe,
a produrre la lotta, la crisi, la catastrofe». Spostando, per analogia, il
rillevo nel "teatro del vita", il gioco è fatto. Di contro,
D'Annunzio «piega tutti i presenti sotto il fascino di Corrado»: questo sposta,
ed elude, consapevolezza dello scontro effettivo e del suo effetto tragico, che
dovrebbe corrispondere allo smacco sociale. E' una critica embrionale, qui
ancora inconsapevole, anche ai presumibili risvolti sociali e politici di
un'operazione simile: chiunque indugi a effondere il carisma dell'uomo
superiore falsa la portata tragica del conflitto impersonale-universale,
rischiando di risolverlo (e dunque di ridimensionarlo) a livello esclusivamente
personale-individuale. Giocando col riferimento di Michelstaedter a Corrado,
possiamo dire che Nietzsche, in questo senso, «piega tutti i presenti sotto il
fascino di Zarathustra», ossia di se stesso. o 5-29 6 DD 15filosofo affina il
suo concetto: «Salute e malattia: si vada cauti nel giudicare! Pietra di
paragone resta l'efflorescenza del corpo, l'elasticità, il coraggio e la
giocondità dello spirito; ma, naturalmente, anche quanto di malato esso può
prendere su di sé e superare - rendere sano» [il corsivo è di Nietzsche]. La
grande salute è, possiamo dire, una questione di "entropia"?! del
superuomo. Come si sa, l'aspetto forse più importante dell'entropia è quello
per cui noi, studiando appunto le variazioni entropiche di un dato sistema (nel
nostro caso, del superuomo), possiamo "predirne il futuro", siamo in
grado cioè di capire quali sono gli stati verso cui il sistema può evolvere e
quali sono invece quelli che gli sono preclusi. La fisica, infatti, ci insegna
che l'energia si conserva, è costante, ma altresì che essa evolve, assumendo
forme non tutte ugualmente pregiate: l'energia può infatti dissiparsi (e la
trasformazione è irreversibile) oppure essere opportunamente imbrigliata, e
realizzarsi in lavoro (energia utile, trasformazione almeno parzialmente
reversibile). Come evolve allora l'energia del superuomo, qui incarnato in
Corrado Brando? Il superuomo - scrive Michelstaedter - «ha diritto di
schiacciare senza riguardo». La sua energia, cioè, esplode in violenza.
Sottolinea il Goriziano: «A me pare che non solo si esplichi ciò [...]
nell'uccisione del baro ma anche e più, nel calpestare che Corrado Brando fa e
dell'amore di Maria e dell'amicizia di Virginio». E' questo un tratto
tipicamente michelstaedteriano: la violenza (del superuomo) non si esplica solo
nel "fatto" brutale (qui, dell'omicidio), ma ancor più nel rescindere,
nel tradire, nel calpestare i sentimenti umani più veri e più belli: l'amore e
l'amicizia; ovvero, la violenza non è soltanto sopraffazione: è anche -
soprattutto - contraffazione, mancanza di rispetto per la dignità dell'uomo che
ci è accanto, preclusione dell'orizzonte politico del confronto e della
relazione umana nell'imposizione rutilante della propria "egoità",
attraverso un progressivo, disonesto avvelenamento (Rettorica, appunto, avrebbe
detto pochissimi anni dopo Michelstaedter). La Rettorica nasce dunque da una
dissipazione di energia esistenziale, e si profila, conseguentemente, come un
processo irreversibile. Lasciamo per ora in sospeso questo punto; teniamolo
tuttavia bene a mente. E così, Michelstaedter lesse Nietzsche. Il Cerruti,
convinto di una parabola evolutiva del pensiero michelstaedteriano, appronta
una schematizzazione utile, per quanto giocoforza farraginosa, fotografando i
«momenti dell'esperienza ideologico-esistenziale» del nostro giovane filosofo:
in essa, portando a testimonianza soprattutto la primissima parte
dell'Epistolario (laddove effettivamente il tono espressivo e la sensibilità
emotiva rasentano posizioni dannunziane e nicciane), il critico dimostra che
Michelstaedter, almeno nella sua prima giovinezza, aderì al culto del superuomo
e alla sua "morale eroica". Nel suo schema, questo periodo di eroico
furore corrisponderebbe agli anni immediatamente precedenti il 1906 (dunque,
1905 incluso), anni in cui «oltre i diversi stimoli di una cultura eclettica e
ancora in certa misura scolastica, [il Goriziano si collocherebbe appunto]
entro una temperie logico-sentimentale di ascendenza nietzschiana, o meglio
[...] nietzsche-dannunziana». L'analisi del Cerruti, puntuale ed argomentata,
alla fine riesce anche convincente: evidentemente, pensiamo noi, Michelstaedter
dovette ritrovare in quei due autori, a quel tempo, gli unici o almeno i
massimi punti di riferimento per una germinale polemica anti-rettorica che già
agitava la sua intelligenza e la sua sensibilità.””? Questa sinergia si può arricchire,
secondo noi, di un ulteriore innesto””?: se si tiene a mente l'analisi
demolitrice dell'apparato rettorico fornita da Michelstaedter, si può scoprire
che, almeno nelle linee essenziali, essa deve in realtà molto al giovane
Nietzsche, che scriveva, non molti anni prima del Nostro, cose altrettanto
"inaudite" nel libello Su verità e menzogna in senso extramorale’”.
In esso, il filosofo tedesco indagava col medesimo cipiglio le costruzioni del
filisteismo intellettuale e sociale e, soprattutto, traeva conclusioni analoghe
di disincanto: rispetto al male, al dionisiaco, all'assurdo della vita (non
solo umana, ma universale) l'intelletto - «strumento ausiliario alle più
infelici, alle più fragili, alle più transitorie delle creature» - «come mezzo
per la conservazione dell'individuo, sviluppa le sue forze più importanti nella
simulazione». La "patetica" (nel senso del pathos in Nietzsche)
verità dell'uomo non è, piuttosto, nient'altro che «un esercito mobile di
metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane,
che sono state sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, e
che per lunga consuetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti:
le verità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che appunto non sono che
illusioni, metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza ». 271
L'entropia, in fisica, è la misura del grado di casualità e di disordine di un
sistema, ovvero della sua energia. 2712 Riferimenti che Michelstaedter
abbandonerà altrettanto presto, come visto. Lo stesso Cerruti, nella sua
schematizzazione, alle convinzioni del 1905 fa subentrare due anni di «ricerca
e crisi» (il 1906-1907), anni che non a caso preluderanno alla scoperta di
Ibsen e Tolstoj da parte del Nostro (nel 1908). In questo periodo di travaglio
intellettuale, Michelstedter si presenta «secondo una prospettiva interiore se
non contraddittoria, certo complessa. Nietzsche-dannunziano per un verso,
inteso a superare inquietudini e dubbi in un incontro profondo e rigenerante
con le forze vive della natura; ma preoccupato al tempo stesso di risolvere
quei dubbi e quelle inquietudini sulla base di un rigoroso esercizio
intellettuale, di un'analisi disincantata e penetrante della propria
condizione; tutt'altro che chiuso infine sia pure ancora entro certi limiti,
nei riguardi del mondo contemporaneo, anzi già consapevole di talune obiettive
difficoltà di quest'ultimo». Nel 1908, infine, «l'incontro con Ibsen e Tolstoi»
segnerà «il superamento della morale eroica». [Per queste analisi del Cerruti,
che abbiamo riassunte, rimandiamo alle pagg. 7-56 della sua monografia Carl
Michelstaedter, Mursia (Civiltà Letteraria del Novecento), 1987 2ed.; in
particolare, le nostre citazioni sono tratte dal pagg. 12-24-33] 273 Innesto
ch'è una nostra supposizione, non avvalorata, ma neanche smentita, da effettivi
riscontri testuali. Tuttavia, data la profonda affinità che dimostreremo,
crediamo che l'innesto sia semplicemente sottaciuto. (©) 274 Sia detto per
inciso, è questo uno scritto che noi consideriamo già cruciale (ovvero, frutto
di un pensiero già compiuto) e rispetto al quale, a nostro parere, tutta la
riflessione successiva del Tedesco si pone come complessa e sofferta postilla,
da quella più immediata e "ponderata" della Nascita della tragedia e
della Filosofia nell'età tragica dei greci su su fino alle forme più esasperate
dello Zarathustra e della Volontà di potenza. Leggiamo lo scritto nicciano
nella traduzione dell'ed. Newton, Nietzsche, Opere, cit., pagg. 93-101 (a cura
di S. Givone). Le nostre citazioni si intendano passim. Ma perché gli uomini si
ostinano «attraverso questa incoscienza»? "semplicemente" perché -
spiega Nietzsche - «l'uomo vuole anche esistere, sia per bisogno sia per noia,
socialmente e come in gregge», e per far ciò «stipula un patto di pace e si
adopera per cancellare dal suo mondo almeno il più brutale bellum omnium contra
omnes. Questo patto di pace porta qualcosa con sé, che è come il primo passo
verso il raggiungimento di quell'enigmatico impulso alla verità. A questo punto
cioè viene fissato ciò che da allora in poi dovrà essere la 'verità', il che
significa che si è trovata una connotazione vincolante e uniformemente valida
delle cose e che la norma linguistica istituisce anche le prime regole della
verità ». L'assoluta aderenza - ci sentiamo di dire - delle parole nicciane col
dettato "maturo" michelstaedteriano è a dir poco imbarazzante: anche
per Michelstaedter la ratio umana è relatio, e si risolve in una «costruzione
di ragnatele, così leggera da lasciarsi trasportare dalle onde e così salda da
non essere soffiata via dal vento» [corsivo nostro], come scrive Nietzsche
(l'immagine della ragnatela ritorna significativamente anche in Schopenhauer e
Leopardi). Anzi, Michelstaedter è addirittura più drastico: come detto, la
relatio per lui non è soltanto conoscitiva, ma strutturale, coinvolge cioè
tutti i rapporti di interazione con le altrui vitespressione di violenza,
perché termine ultimo di quel "moto violento" cui l'uomo sottopone il
mondo [cfr quanto affermato sul luogo naturale e sul moto violento nel nostro
cap. I]. Ancora, similmente che in Nietzsche, la relatio trova la sua
espressione più palese e nello stesso tempo la sua giustificazione e
realizzazione più completa nella comunità sociale: alibi "politico"
della menzogna comune per l'uno, comunella di malvagi per l'altro; per
entrambi, sovrastruttura di un bisogno di tutela, di sicurezza reciproca, che
si concreta in un patto di pace come dice ironicamente Nietzsche o - in modo
più forte Michelstaedter - nella stipulazione di una cambiale (assicurativa)
sociale. Per entrambi, inoltre, la (presunta) "verità" si costruisce
un saldo impiantito (sottile come una ragnatela, l'è vero, ma «resistente al
vento», tant'è intricata e ben tessuta) nel linguaggio, nella scienza-tecnica e
nella filosofia: a tal proposito, come visto, le analisi del filosofo goriziano
arrivano ad eguagliare, per acrimonia e per forza di
"smascheramento", quelle del filosofo tedesco. Per entrambi, infine -
ma era presentimento anche di Schopenhauer e di Leopardi -, la Rettorica si
manifesta, soprattutto negli uomini, così come inganno, ma come inganno a ben
vedere indifferente, e in certo senso addirittura involontario, vale a dire
necessitato dalla stessa matrice bio-fisiologia, prima che ontologica, della
Rettorica stessa: l'insensato procedere della natura (non più madre, ma neanche
matrigna, direbbe Leopardi), del Wille, del dionisiaco, della Rettorica,
appunto perché insensato, nella sua forma più nuda e cruda, è... «extramorale».
Ma torniamo alle conclusioni della critica professionale. Campailla dà in
pratica per assodato che Michelstaedter lesse, tra le altre opere (di sicuro
almeno lo Zarathustra””°) anche La nascita della tragedia”: la cosa a questo
punto non ci stupisce, anzi ci appare ovvio che il capolavoro di un allora
giovane geniale originale filologo quale fu Nietzsche capitasse tra le mani di
un altrettanto geniale ed eterodosso ermeneuta della grecità, qual era
Michelstaedter?”. Anzi, se c'è davvero un importante punto d'incontro tra i due
pensatori, noi presumiamo che esso si consumi soprattutto qui, nel loro amore
per il mondo greco, nella riscoperta di un equilibrio, di un'armonia che si
realizzò nella tragedia classica, breve ma intenso bagliore di autenticità agli
albori della nostra storia occidentale, che poi andò incontro al declino che
tutti conosciamo. Corollario di quell'incontro (ma non secondo per importanza)
la considerazionedellafigura di Cristo: per Michelstaedter Cristo è il vir per
Nietzsche l'unico vero, onesto cristiano morì sulla croce: voleva dire, secondo
noi, l'unico vero uomo?”?. Come dicemmo”?, i due pensatori aspirarono a
riprodurre, ognuno a suo modo, quell'armonia, ritenendola foriera di
autenticità: per il giovane Nietzsche era l'equilibrio dinamico di Apollo e
Dioniso, l'elemento "letargico" che "gioca" con l'
"impulso 275 Campailla fa notare che, a chiosa di un passo centrale della
Hedda Gabler di Ibsen, Michelstaedter scrisse queste parole: «Stirb zur rechten
Zeit», una chiosa che altro non è che una citazione testuale dal paragrafo
Della libera morte dello Zarathustra. Il critico utilizza il rilievo a prova
del sostrato nicciano che sottende alla lirica | figli del mare (che abbiamo
già analizzato), il cui refrain a suo parere riproduce l'esaltazione della
morte fatta da Zarathustra nel succitato paragrafo, e addirittura chiama quel
riferimento a testimoniare «la componente nietzschiana della prima formazione
culturale di Michelstaedter, sulla cui concretezza storica critici di valore
hanno espresso la loro perplessità » [l'analisi e il giudizio dello studioso,
che abbiamo semplicemente parafrasati, si trovano a pag. 23 dell'Introduzione
alle PP], 276 Cfr. Campailla, Due lettere inedite di VI. Arangio-Ruiz a
Michelstaedter, in Giornale critico della filosofia italiana, anno
LIV, gennaio-marzo 1975. 277 Un punto a favore del Goriziano è il
fatto che praticasse correntemente, tra le altre, la lingua tedesca, potendo
così rezzare in immediato il testo, senza alcun filtro di traslitterazione. 218
Cfr. Nietzsche, L'Anticristo (in Opere complete, cit.), 39, pag. 795. Per
Nietzsche, Gesù fu un «santo anarchico», un «lieto messaggero», che decise, in
prima persona, di «contraddire l'ordine dominante». Tutto questo «lo portò
sulla croce»: Egli dunque «morì per colpa sua» e non «per colpa altrui»: Cristo
[e si noti l'affinità con la posizione michelstaedteriana] «morì come visse,
come aveva insegnato - non per 'redimere gli uomini', ma per indicare come si
deve vivere. La pratica della vita è ciò che egli ha lasciato in eredità agli
uomini: il suo contegno dinanzi ai giudici, agli sgherri, agli accusatori e a
ogni specie di calunnia e di scherno - il suo contegno sulla croce». «Le parole
rivolte al ladrone sulla croce» racchiudono il senso dell'intero Vangelo (che è
per Nietzsche «non difendersi, non andare in collera, non attribuire
responsabilità», amare perfino il malvagio) [ib., 27 e soprattutto 35, pagg.
792-793 passim; tutti i corsivi sono del filosofo]. Ora, il riscontro di
affinità (come ad esempio queste appena accennate, e quelle che seguiranno) tra
i due nostri filosofi non contraddice il nostro assunto di fondo di una totale
disparità di esiti: ripetiamo: non vogliamo mettere in dubbio influenze e
suggestioni che certamente Michelstaedter trasse dalla lettura delle opere del
pensatore tedesco (soprattutto in relazione allo smascheramento rettorico);
quel che ci preme piuttosto sottolineare è come non si debba concepire la
Persuasione sulla falsariga della "nuova umanità" nicciana, rispetto
alla quale Michelstaedter stesso prende posizioni anche dirette di distacco [ma
cfr. oltre]. E' bene dunque ribadire che la matrice profonda e unica della
Persuasione non è il superomismo, bensì il socratismo. 279 Cfr. il nostro
Intermezzo. 163 n280 primaverile e che si realizzava nelle forme perfette
dell'arte e nelle compite costumanze dell'umanità greca; per Michelstaedter il
trasfondersi di vita e morte nella crisalide umana”. Entrambi i pensatori
attraversarono il Tragico, e tradussero la loro sincera, sofferta testimonianza
nella formulazione di un progetto etico. Abbiamo altresì già segnato gli esiti
di tali progetti: in Nietzsche, dicemmo, l'equilibrio era destinato a bruciarsi nell'esasperazione, nella
"superfetazione" della volontà dionisiaca (si dovrebbe citare a
questo punto tutto lo Zarathustra e tutta la Volontà di potenza, almeno); nel
pensatore 280 Ricordiamo che nella già citata lettera al Chiavacci del 22
dicembre 1907, Michelstaedter fa riferimento esplicito all'«elementodionisiaco»
[sic], assimilandolo all'«elemento mistico» che - per il Goriziano -
mancherebbe nella «razionalistica» religione ebraica: proprio questa assenza,
dice Michelstaedter, spiegherebbe «la ragione dell'antisemitismo filosofico»
(Schopenhauer e Nietzsche, annota in parentesi). E' forse l'unico caso in cui Michelstaedter
cita il Tedesco per nome, e per ben due volte nel giro di poche righe, in un
contesto - e questo è indicativo - aspramente polemico. In effetti, la
datazione della lettera la fa cadere proprio nel mezzo degli anni di «ricerca e
crisi», come li chiama il Cerruti [riguardo a ciò, cfr. supra]. 281 Com'è noto,
la dialettica apollineo-dionisiaco intesse tutta La nascita della tragedia, in
modo ampio e poetico; tuttavia, ha il suo luogo natale in uno scritto
giovanile, La visione dionisiaca del mondo, uno di quei saggi che poi andranno
a confluire nel capolavoro. Privilegiamo, in questa sede, proprio quel saggio,
perché in esso - anche in virtù della sua brevità - la suddetta dialettica ci
appare più focalizzata e meno ridondante [lo leggiamo nella traduzione
contenuta in Nietzsche, Opere, cit., pagg. 60-73; segnaliamo con numeri in
parentesi quadre eventuali riferimenti delle citazioni]. La visione dionisiaca
del mondo contiene l'intuizione che accompagnerà il filosofo in tutta la sua
speculazione: Nietzsche, cioè, scopre nel principio di equilibrio dinamico tra
Apollo e Dioniso la cifra che spiegherebbe la "possibile vita" dei
Greci, altrimenti compromessa dalla dolorosa consapevolezza del Tragico,
l'inquietante verità del Sileno. «Qui - dice Nietzsche - si tocca il limite più
pericoloso che la volontà ellenica con il suo principio fondamentale apollineo-
ottimistico abbia concesso di toccare. Qui essa operò con la sua naturale forza
guaritrice, per piegare nuovamente quella disposizione negativa: suo strumento
è l'opera d'arte tragica e la concezione tragica. La sua intenzione non poteva
in alcun modo essere quella di temperare o di reprimere lo stato dionisiaco:
soggiogarlo direttamente era impossibile, e anche se non lo fosse stato,
restava pur sempre una cosa pericolosa, dal momento che se quell'elemento fosse
stato trattenuto nella sua espansione si sarebbe aperto altrove una via e
sarebbe penetrato in tutti i vasi sanguigni della vita. Per prima cosa si
trattava di trasformare quei pensieri di disgusto sull'assurdo e l'orrore
dell'esistenza in rappresentazioni con le quali convivere: esse sono il sublime
in quanto imprigionamento artistico dell'orrore e il comico in quanto
liberazione artistica dalla nausea dell'assurdo. Questi due elementi intrecciati
insieme si riuniscono in un'opera d'arte che imita l'ebbrezza e gioca con essa»
[67, i corsivi sono nostri]. Dunque, Nietzsche individua nel gioco l'unica
ipotesi euristica plausibile per esprimere la relazione tra le due divinità:
entrambi potenti - potenze contrarie che si equivalgono e si annullano -
preferiscono alla insidia reciproca (che mai porterebbe frutto e vittoria
definitiva) una “ludica convivenza" che spinge addirittura
all'identificazione, laddove Dioniso viene a porsi come il lato oscuro,
terribile e segreto di Apollo, ed Apollo (per usare un tecnicismo informatico)
come l'interfaccia di Dioniso. Per dirla con le stesse parole di Nietzsche, fra
le due divinità viene a crearsi un "vincolo di fratellanza"
(realizzato concretamente nella tragedia), tale he «Dioniso parla la lingua di
Apollo, ma infine Apollo parla la lingua di Dioniso» [cfr. La nascita della
tragedia, in Opere, cit., pag. 178; corsivo nostro]. Michelstaedter, da parte
sua, riproduce un simile equilibrio nel già citato Canto delle crisalidi,
attraverso la tensione esistenziale di vita e morte che intride l'essere
dell'uomo: un oscuro peana che siamo tentati di decifrare proprio ricorrendo
alle "categorie" nicciane di apollineo e dionisiaco, con tutti i più
profondi significati ch'esse coprono. Ma, a parte questo, è l'elemento del
gioco che ci interessa, perché in Nietzsche si rivelerà fondante: la componente
ludica è forse il tratto più caratteristico del suo pensiero, ed anche il più
terribile: perché l'equilibrio del gioco (per quanto questo sia
"nobile" e "difficile") è per definizione precario, e
perché il gioco non è solo capacità della coscienza dell'homo ludens di darsi
delle regole e vivere in esse (nel suo "spazio sacro"), il che sarebbe
la situazione ottimale, ma più volentieri - e l'accezione comune del termine lo
conferma - è un'attività in cui "non ci si prende sul serio". Apollo
e Dioniso giocano nell'orizzonte tragico greco, segnando appunto lo spazio del
sacro; nell'orizzonte tragico nicciano, invece, Dioniso rinuncerà al suo
"compagno di giochi", le sue regole diventeranno di esclusione, e
pretenderà di poter giocare da solo, ossia, fuor di metafora, di poter
sostenere da solo il peso dell'assurdo. E' questo ciò che noi intendiamo per "superfetazione"
del dionisiaco [ma cfr. quanto diremo tra poco]. tedesco l'equilibrio collassa
e si esaspera nell'opposizione senza continuità: al male estremo della
Rettorica (superfetazione dell'elemento apollineo, il "socratismo",
la menzogna, il "cristianesimo", l'Europa, si oppone l'estremo
rimedio del pensiero negatore, del dionisiaco travolgente e beffeggiante, che
assume su di sé anche il passato e dice: non così fu, ma così volli che fosse,
anzi «così voglio! così vorrò». Ma c'è un'infinita tristezza che cova sotto
l'ilarità paradossale del profeta del nulla, una coscienza infelice che
caldeggia la scissione, il superamento, il ribaltamento ma che soffre, al tempo
stesso, la frattura, il distacco che quella negazione comporta; e che si
lenisce la ferita ripetendosi che tutto, dall'avvicendarsi dei mondi e degli
universi ai singoli gesti dei singoli uomini, non è altro che il gioco di un
fanciullo eracliteo che è dis-umano e sconveniente fingere di ignorare™®. Su
opposto versante, Michelstaedter avrebbe trovato l'espediente per preservare
l'equilibrio del vir col mondo e con le altrui vite nel tornio della
Persuasione: un equilibrio difficile, ma saldo, faticato ma gioioso, perché
riscopre il mondo nella sua bellezza, l'umanità nella sua dolcezza persuasa,
l'esistenza non come un "gioco innocente" che necessita (amor fati) e
che quindi de-responsabilizza”*, ma come un'attività infinita e impegnata, che
si realizza con e tra gli uomini. Da un lato, Nietzsche stringe il mondo in un
abbraccio troppo forte: è come un amante goffo e patologicamente premuroso che
finisce per soffocare la sua compagna per un eccesso di amore, e ne viene
lasciato; l'amore intenso, allora, nell'abbandono, ci vuol poco a mutarsi in
gelosa e passionale violenza, come la fede intensa in fanatismo. L' "ultimo"
Nietzsche stilla il suo odio e il suo disprezzo, anche se parla di amore,
proprio 282 Dice Zarathustra: «In verità, amici miei, io vado tra gli uomini
come tra frammenti e membra di uomini! Questo è spaventoso per il mio occhio:
trovare gli uomini spezzettati e sparsi come su un campo di battaglia o in un
macello. E se il mio occhio fugge dall'oggi a un tempo trova sempre lo stesso:
frammenti e membra e atroci casi, ma niente uomini!». [cfr. il capitolo Della
redenzione di Così parlò Zarathustra (in Opere complete, cit.), pag. 305. Si
ricordi, a questo proposito, come Michelstaedter abbia descritto la Rettorica,
nella sua accezione estrema, come un' "anarchia delle membra", anche
su suggerimento di Empedocle [cfr. il nostro paragrafo corrispondente, nel | capitolo].
L'Armonia empedoclea, la Persuasione michelstaedteriana, la volontà
affermatrice (la "felicità del circolo") di Nietzsche si offrono come
tre proposte diverse, anche se in certo modo affini, per far fronte alla
dis-integrazione dell'umano: affermazioni di vita che si realizzano nello
strenuo tentativo di conferire senso a tutto ciò che altrimenti si
presenterebbe come frammentario ed enigmatico. 283 Cfr. ancora il capitolo
Della redenzione di Così parlò Zarathustra, stavolta soprattutto pag. 306. 284
«[... ] l'Uomo non può essere considerato responsabile per nulla, né per il suo
essere né per i suoi motivi né per le sue azioni né per i suoi effetti. Si è
con ciò arrivati a riconoscere che la storia dei sentimenti morali è la storia
di un errore, dell'errore della responsabilità - che, come tale, poggia su
quello della libertà del volere. [...] Giudicare equivale ad essere ingiusti».
[Nietzsche, Umano, troppo umano (in Opere complete, cit.), II, 39, pag. 541]
«Che nessuno sia reso più responsabile, che non sia consentito ricondurre a una
causa prima la natura dell'essere, che il mondo non sia un'unità né come
sensorium né come 'spirito': solo questa è la grande liberazione - solo così si
ripristina l'innocenza del divenire» [Nietzsche, Crepuscolo degli idoli (in
Opere complete, cit.), | quattro grandi errori, 8, pag. 727; i corsivi sono del
filosofo]. Sull'intuizione dell'eterno ritorno, propinata all'uomo da un dèmone
beffardo, cfr. il famoso aforisma 341 della Gaia scienza. come farebbe un
amante rifiutato: io sono un uomo-fanciullo ed è il Mondo degli uomini a non
apprezzare la mia bellezza: per ciò, merita il mio disprezzo, o anche solo il
mio disinteresse, e la mia gioia è nella mia autarchia e nella mia creazione di
nuova bellezza?®®. L'Ubermensch, una volta privato della memoria di sé e della
permanenza dell'essere, appare come l'eterno fanciullo che cerca l'ebbrezza
adolescente dell'Io sono nella propria autoaffermazione, dentro l'istante che
gli restituirebbe l'eterno del destino, e dunque (direbbe Michelstaedter) la
permanenza: l'uomo nuovo è tale perché vive (o crede di vivere) senza
risentimento, bensì sospeso tragicamente all'assenza di significato del tutto
ed imprigionato in una libertà che, in fondo, gli permetterebbe soltanto di
accettare il proprio destino di nulla; egli dunque dovrebbe essere un eroe
tragico, la cui unica "dignità" risiederebbe nell'accettazione del
flusso degli eventi, misurati da un atto di disperata fedeltà alla terra?89, Un
destino che egli, con un testa-coda, pur si ostina a non subire e ad intendere
piuttosto come istituzione di nuovi valori: e allora se l'uomo è colui che
misura, dice Nietzsche con Protagora, egli è tale perché è innanzitutto un
creatore, e in questo agisce come volontà di potenza. Nel far ciò, direbbe
ancora Michelstaedter?®, egli si finge una persuasione che non ha, tesse
relazioni sufficienti, in cui irretisce le altrui vite in un atto di creazione,
ch'è poi un atto di ri-organizzazione intorno al perno della propria falsa
consistenza; ovvero, integriamo noi, dà libero sfogo al suo urgente bisogno di
liturgie rassicuranti, ma anche escludenti (secondo la nostra interpretazione,
una comunità di "eterni fanciulli" sarebbe un sistema energetico di
punti di forza, laddove "cariche dello stesso segno" si porrebbero
alla massima distanza possibile). Il Dioniso dell'armonia panica si muta in un
«terzo Dioniso» la cui parola d'ordine (o di disordine) è il dominio?88, 285
Cfr. il pensiero Per l'anno nuovo [276] nel IV libro della Gaia scienza (in
Opere complete, cit.), pag. 145. «[...] Oggi chiunque si permette di esprimere
il suo desiderio e il suo pensiero più caro: orbene, anch'io voglio dire ciò
che oggi desidero da me stesso e qual è stato il primo pensiero che,
quest'anno, mi ha sfiorato il cuore; quale pensiero sarà motivo, pegno e
dolcezza della mia vita a venire! Voglio imparare sempre più a vedere la
bellezza nella necessità delle cose: così diverrò uno di coloro che rendono
belle le cose. Amor fati: questo sia, d'ora innanzi, il mio amore! Non voglio
condurre nessuna guerra contro il brutto. Non voglio accusare, non voglio
accusare neppure gli accusatori. La mia unica negazione sia distogliere lo
sguardo! E, complessivamente e grossolanamente: voglio arrivare ad essere uno
che dice soltanto di sì! » [corsivi di Nietzsche]. 286 Tale posizione della
volontà di potenza si sostituisce nelle intenzioni di Nietzsche - alla figura
della perfezione, incarnata nel saggio filosofo o nel santo cristiano. 287
Stiamo utilizzando la terminologia michelstaedteriana per "smontare"
il superuomo, espediente per far apparire al lettore questo
"smontaggio" (operazione che ovviamente Michelstaedter non fece) alla
luce della posizione persuasa. 288 L'espressione ci viene ispirata da quanto
Nietzsche stesso asserisce nella Nascita della tragedia, uno dei suoi scritti
che preferiamo. Richiamare quei passaggi del testo non solo significherà
rendere dovuto omaggio al "primo" Nietzsche, lì vero poeta e vero
filosofo, ma ci aiuterà anche a discernere la parabola involutiva cui, a nosto
giudizio, il pensatore andò incontro. Nel Dioniso dei cori bacchici greci,
Nietzsche vide l'incarnazione del «vangelo dell'universale armonia»
[espressione di Nietzsche, ma corsivo nostro; cfr. quanto detto sopra in
considerazione della "nuova armonia" vagheggiata dal filosofo Di
contro, come abbiamo più volte visto, il Goriziano ristabilisce la misura
dell'amore tra gli esseri nella gratuità del reciproco donarsi: l'equilibrio
dell'armonia che la Persuasione forgia e protegge non è i compromesso della
"compravendita" morale (do ut des, do ut facias, facio ut des, facio
ut facias), ma non è neanche la sdegnosa, "egregia" solitudine
zarathustriana, pur mascherata da amore panico per la "terrestrità":
l'equilibrio persuaso è piuttosto un rapporto di fiducia e gratitudine senza
pretesa di risposta, che fonda la comunità autentica, la philia (do quia do,
scilicet relinquo: ci viene in mente la parola evangelica: «Pacem relinquo
vobis, pacem meam do vobis: non quomodo mundus dat ego do vobis. Non turbetur cor
vestrum neque formidet» [Giovanni 14, 27, nella Vulgata]). tedesco], dove
«ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso con il suo prossimo, ma
una sola cosa con esso, come se il velo di Maia fosse stato strappato e
soltanto brandelli sventolassero ancora di fronte alla misteriosa unità
originaria». Infatti, «con l'incanto del dionisiaco non solo si rinsalda il
legame fra uomo e uomo: anche la natura estraniata, nemica o soggiogata,
celebra nuovamente la sua festa di conciliazione con il proprio figlio perduto,
l'uomo. Liberamente offre la terra i suoi doni e pacificamente si avvicinano i
feroci animali delle rocce e dei deserti. Con fiori e ghirlande è coperto il
carro di Dioniso: sotto il suo giogo avanzano la pantera e la tigre. Si
trasformi l'inno alla ‘gioia' di Beethoven [il preferito anche da
Michelstaedter] in un quadro e non ci si attardi nell'immaginazione quando a
milioni si prosterneranno rabbrividendo nella polvere: così ci si potrà
avvicinare al dionisiaco. Ora lo schiavo è libero, ora si infrangono tutte le
rigide, maligne delimitazioni che la necessità, l'arbitrio o la ‘moda
sfacciata' hanno posto fra gli uomini. [...] Cantando e danzando, l'uomo si
mostra come membro di una superiore comunità: ha disimparato il camminare e il
parlare ed è sulla via di volarsene in cielo danzando. Nei suoi gesti parla
l'incantesimo. Come ora gli animali parlano e la terra dà latte e miele, così
anche in lui risuona qualcosa di soprannaturale: egli si sente come dio e
cammina così estasiato e sollevato, come insogno vide camminare gli dèi. L'uomo
non è più un artista, è divenuto opera d'arte: la potenza artistica dell'intera
natura, con il massimo appagamento estatico dell'unità originaria, si rivela
qui fra i brividi dell'ebbrezza». Nietzsche parla di armonia, di
riconciliazione, di liberazione, di incantesimo vitale che lega l'uomo alla
terra, a tutti gli esseri che la vivono, in una nuova solidarietà, e rende
l'uomo simile a un dio. E' questo il grande dono di Dioniso. Poche pagine dopo,
tuttavia, Nietzsche smaschera l'ebbrezza di Dioniso (operazione, del resto,
ampiamente preparata) e scopre, con perplessità ma anche con profondità
tragica, che quell'ebbrezza "equilibrava" una persuasione di morte, e
nel far ciò - ovvero nel garantire la propria stessa sopravvivenza -
abbisognava dell' "apporto" di Apollo, del principium
individuationis: «l'unico Dioniso veramente reale - scrive il filosofo - appare
in una molteplicità di figure, nella maschera di un eroe che lotta, preso, per
così dire, nella rete della volontà individuale. Così ora il dio che appare nel
parlare ed agire assomiglia ad un individuo che erra, lotta e soffre: e che
egli appaia in generale con questa epica determinatezza e chiarezza è effetto
dell'interprete di sogni Apollo[...]». Ma se l'individuazione "salva"
Dioniso, tuttavia gli è fonte di dolore, perché ne tarpa l'impulso vitale: «In
verità però quell'eroe è il Dioniso sofferente dei misteri, quel dio che prova
su di sé i dolori dell'individuazione, e di cui meravigliosi miti narrano come
da fanciullo fosse fatto a pezzi dai Titani e come poi, in questo stato, fosse
venerato come Zagreus: con ciò è significato che questo smembramento, la vera e
propria sofferenza dionisiaca, sia come una trasformazione in aria, acqua,
terra e fuoco, e che dunque dobbiamo considerare lo stato d'individuazione come
la fonte e la causa prima di ogni soffrire, come qualcosa in sé riprovevole».
Dioniso appare dunque come una divinità smembrata, scissa in due: «Dal sorriso
di questo Dioniso sono nati gli dèi olimpici, dalle sue lacrime gli uomini. In
quell'esistenza, come dio smembrato, Dioniso ha la doppia natura di un demone
crudele e selvaggio e di un dominatore mite e clemente. La speranza degli
epopti andava però ad un una rinascita di Dioniso, che ora noi pieni di
presentimento dobbiamo intendere come la fine dell'individuazione: per la
venuta di questo terzo Dioniso risuonava l'ardente canto di giubilo degli
epopti». Queste considerazioni autografe sono per noi di capitale importanza
non solo nell'economia di una corretta valutazione della Nascita della
tragedia, ma anche dell'intero pensiero nicciano: sono parole inconfutabilmente
programmatiche: Nietzsche assume su di sé il compito di preparare «la venuta di
questo terzo Dioniso», che nell'intenzione doveva risanare lo
"smembramento": ma l'epopta diviene egli stesso il dio. Un nuovo dio,
un terzo dio, che ricorda le trasformazioni dei personaggi di Tolkien quando
calzano il famoso anello: pèrdono, cioè, per rimanere alle parole del filosofo tedesco,
la "mitezza" e la "clemenza", per rendersi solo ed
esclusivamente "dominatori". L'involuzione di Nietzsche consiste, per
noi, proprio in questo: aver prefigurato l'avvento di un nuovo Dioniso che sta
al suo progenitore (e alla sua intenzione) come un'escrescenza tumorale sta ad
un sano tessuto epidermico. Viene da chiedersi quali fossero i motivi di questa
"metastasi", ma una simile analisi non può essere svolta in questa
sede. [per le citazioni, che si intendano passim, cfr. Nietzsche, Nascita della
tragedia (in Opere complete, cit.), vol. |, soprattutto pagg. 121 e 143]. La
critica agiografica si affatica a scagionare Nietzsche da ogni responsabilità
storica, asserendo che «Quanto all'idea del superuomo, inteso come il giusto
trionfatore di una massa di deboli o schiavi, va senza dubbio corretta:
Nietzsche non fu l'estensore d'un vangelo della violenza, ma intese porre le
condizioni di sviluppo d'una civiltà e di un'idea dell'uomo radicalmente
rinnovate!» Del resto, chi si azzardasse a giudicare (detto in senso spregiativo)
il pensiero del Tedesco, incapperebbe facilmente nella sua trappola dei valori
un pensiero che si autoproclama «al di là del bene e del male» si sottrae
consapevolmente e sdegnosamente (e con astuzia) ad ogni valutazione. Ma ci sarà
pure un motivo per il quale la «grande salute » si sia tradotta in "sanità
razziale", oppure (e ci si perdoni l'accostamento) per il quale l'est-
etica del disincanto abbia trovato la sua trasposizione più consequenziale in
una pièce teatrale dannunziana in cui si respira solo aria di morte.
L'esperienza c'insegna che il retaggio di un pensiero (di uno qualsiasi, non
solo de/ Pensiero) non è consegnato soltanto alle parole che lo sottendono, ma
anche alla storia della sua fortuna (o sfortuna), per quanto ci si industri in
edizioni critiche o si contestino palesi deformazioni”. Le ipotesi allora sono
due: o, come si dice volgarmente, in quel pensiero c'è "nascosto del
marcio", oppure la malafede dei fruitori è così radicata da riuscire a
rovesciare e render funzionali al proprio usufrutto anche le proposte migliori
e più sincere. Michelstaedter, del resto, ci ha rivelato questa eccezionale
capacità di "assorbimento" della Rettorica: in tal senso, il
Nietzsche nazionalsocialista condividerebbe la "sfortuna" di Cristo e
di Socrate e, volendo, dello stesso Michelstaedter. Ancora due ipotesi, allora,
ma in pratica equivalenti alle prime: o la voce della Persuasione è viziata da
una sua intrinseca impossibilità fondativa di "fedele" realizzazione
(è troppo complessa per essere compresa, l'equilibrio dell'autonomia si svolge
sul filo di un rasoio et cetera) o è altrettanto viziata da un'ambiguità che
non riesce a scrollarsi di dosso, tal che la sua ingiunzione perentoria di
autenticità finisce con l'esprimersi soltanto attraverso l'imposizione e
l'equivoco della forza. E qui l'interrogativo, data la sua natura complessa, è
destinato a rimanere tale. Ma barattare le accuse è un'attività futile: ciò che
conta ed inquieta è il dominio presente della Rettorica, e in quest'ottica si deve
meditare non solo sul perché del suo dominio, ma anche, se non soprattutto, sul
poiché dei suoi effetti. Dunque, pur non volendo inficiare la sincerità
nicciana con l'ingratitudine del sospetto, ciò nondimeno non possiamo tacere
che, proprio in Nietzsche, quell'ambiguità s'evince più solida che in altri: la
danza di Zarathustra, che voleva farsi simbolo di un'armonia alternativa al
caos mascherato del filisteismo, si scopriva "tarantolata" già nel
suo stesso autore, precursore di un nuovo caos, i cui sbiaditi epigoni (per
fortuna sbiaditi) scorrazzano tuttora nelle aule dove si pensa, forti della
"debolezza" del loro pensiero. A tal proposito, c'è da ammettere che
l'estrema sensibilità e intelligenza fecero davvero di Michelstaedter uno straordinario
sismografo di ciò che era già in fermento e che sarebbe maturato, in un futuro
a lui non lontanissimo, sulla scena ideologica e politica europea; ossia, lo
resero acuto e (purtroppo) facile profeta?’ quando scrisse di «n germanico
Zarathustra, che fu anche bestialmente fulvo», fautore di un pensiero «mistico
filosoficamente e disonesto artisticamente», padre putativo di tutte quelle
«bestie più o meno fulve che da allora cominciarono a infestare il mondo» [O
665]. Ma, come si sa, la voce della Persuasione condivide la maledizione di
Cassandra. 289 La spietata eristica potrebbe ribaltarci contro, e forse non a
torto, questa nostra obiezione: anche la Persuasione michelstaedteriana è
andata ad "incrementare"... la purità di Evola. 290 Acuto profeta
anche Nietzsche, la cui lungimiranza a questo punto ci si rivela però in tutta
la sua portata beffarda: «L'aspetto dell'attuale Europeo mi dà molte speranze:
va formandosi un'audace razza dominatrice [...] Le stesse condizioni che
favoriscono l'animale gregario provocano anche la formazione
dell'animale-capo». A3 - Leopardi: la variante "flessibile" alla
Persuasione. Portare a radura il sottobosco leopardiano in Michelstaedter
sarebbe tentativo improbo anche per uno scoliaste armato di tutta la perizia e
la pazienza possibili” . Il Leopardi poeta, e soprattutto il Leopardi pensatore
(il pensatore attraverso il poeta), è, per il Goriziano, come una seconda
pelle. Compulsarne le opere alla ricerca di rimandi al Recanatese sarebbe un
po' come riscrivere la Persuasione e i Pensieri, ad esempio. E a differenza che
per altri riferimenti (Nietzsche, lo stesso Schopenhauer), non si può
individuare un momento in cui Michelstaedter fu "leopardiano" stricto
sensu: la voce del poeta attraversò sempre l'esistenza del nostro giovane filosofo,
e i Canti, come mostra l'edizione ritrovata tra i libri posseduti dal
Goriziano, erano una delle sue ri-letture più frequenti e più gradite. E più
annotate e meditate. In effetti, si andrebbe incontro a molte sorprese, ne
siamo convinti, se si leggessero La Persuasione e la Rettorica, le Poesie, o il
Dialogo della Salute alla luce delle meditazioni del Recanatese: si potrebbe
scoprire, ad esempio, come la tesi di laurea fosse anche un vero e proprio
commento "aggiornato" della Ginestra (così almeno essa ci appare), o
come l'aspirazione alla condizione persuasa dovesse molto alla
"vaghezza" dell'Infinito, o di come l'ispirazione poetica (al di là
della forma) fosse fedelmente leopardiana nel farsi veicolo di "vaga"
meditazione, casomai in Michelstaedter solo un po' più trasparente. Ci vien da
dire che, in Leopardi, Michelstaedter trovava innanzitutto la variante
parallela, poetica (ma altrettanto rigorosa) della certezza
"cartesiana" del dolore e dell'inganno, che aveva assimilato in forma
di salda filosofia dai Greci e Schopenhauer; ma riconosceva anche un coetaneo
che, come lui, s'era arrovellato nello sviscerare l'assurdo della vita e nello
scarnificare se stesso, alla ricerca di un'alternativa possibile al Tragico:
l'affinità di una giovinezza eroica e titanica che vorrebbe «comunicar la
ribellione / all'universo» [PP 35], senza alcun compiacimento estetizzante.
Dunque, non ci trova per nulla d'accordo certa critica che, puntando su
un'acribia spropositata, conclude che, nei fatti, il gesto persuaso si affermi
negando «sostanzialmente» il gesto poetico leopardiano”°?. Tutt'altro.
Bisognerebbe innanzitutto ridiscutere il valore di poesia, e non soltanto nei
nostri due autori (ma comunque, non ne è questa la sede); o più semplicemente
saper leggere oltre le parole. Del resto, sbirciando le poesie di
Michelstaedter, non è raro che si aprano squarci leopardiani: 291 Operazione,
tuttavia, egregiamente tentata da S. Campailla, in Postille leopardiane in
Michelstaedter, contenute in Scrittori Giuliani, Pàtron Editore, Bologna 1980.
Lettura, questa, obbligata, nel nostro contesto, e non solo perché riporta con
precisione la presenza dei prelievi leopardiani nel nostro filosofo. 292 Cfr.
ad es. Davide Rondoni, "Neutralizzare" Leopardi. Intorno ai rapporti
tra Michelstaedter e il poeta del Canto
notturno, in Testo, rivista di "studi di teoria e storia
della letteratura e della critica", XIII, 23 (gennaio-giugno 1992), pagg.
26-39. "mi parve dolce cosa naufragare nel seno ondoso che col ciel
confina, né temuta ho la morte... "293 solo per fare un riferimento ovvio.
Di contro, se si leggesse, ad esempio, questo pensiero che si trova nello
Zibaldone: Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa
esista è male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l'esistenza è un male e
ordinata al male; il fine dell'universo è il male; l'ordine e lo stato, le
leggi, l'andamento naturale dell'universo non sono altro che male, né diretti
ad altro che al male. Non v'è altro bene che il non essere... non gli uomini
solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il
genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti
gli altri esseri al loro modo. Non gl'individui, ma le specie, i generi, i
regni, i globi, i sistemi, i mondi [nn. 4174-4177]. e si provasse, alla stregua
di un semplice gioco enigmistico, a sostituire il termine "male"
dell'appunto col termine "Rettorica", già si scoprirebbe la punta
dell'iceberg. Lo stesso Dialogo della salute, prima di essere un'etica
peripatetica, è - con tutta evidenza - un'operetta morale. Con una citazione
tratta dalla Palinodia al marchese Gino Capponi si apre poi l'ultima parte
della Persuasione (La Rettorica nella vita), ch'è la più spietata e definitiva
nel bacchettare una Rettorica altrettanto «superba e scocca» quale quella presa
di mira a suo tempo dal Leopardi. «Tutti i progressi della civiltà sono
regressi dell'individuo», vi asserisce - tra l'altro - Michelstaedter, e questa
«è una frase che potrebbe essere del Leopardi»?* (eppoi, non si dimentichi che
quest'ultimo occupa un posto di tutto rispetto nella schiera dei Persuasi).
Eppure... eppure, a nostro giudizio, l'accordo comune su una considerazione del
mondo come dominato dalla Rettorica (o dal male, ch'è lo stesso) non è il vero
- o il solo - punto di contatto tra i due poeti-filosofi. Sarebbe piuttosto
semplicistico ridurne la portata a questo rilievo. Del resto, il pessimismo ha
parole e pensiero comuni in tutti i pessimisti di tutti i tempi, dai più ai
meno raffinati. Tralasciamo, allora, eventuali "omografie", e
partiamo, piuttosto, da una giusta osservazione del Campailla, che fa
autorevole resoconto della questione, e dà il "la" al nostro
escamotage interpretativo. Scrive lo studioso: "[L'influenza del Leopardi]
va considerata come la più ricca di sollecitazioni nella produzione poetica del
Nostro. Infatti, è difficile scoprire reminiscenze dai Canti leopardiani, si
deve subito riconoscere che esse non hanno un valore di per sé, sono disciolte
in un'atmosfera sentimentale diversa, divengono le voci di un dramma
irriducibile ad altri che a se stesso. C'è da dire, se mai, che il Leopardi
assimilato da Michelstaedter non è il poeta idillico che riesce a trasformare
il dolore in bellezza nella contemplazione del mistero dell'universo o
nell'operazione magica del ricordo delle proprie deluse speranze; è invece il
giovane che si affaccia alla vita imperioso e reclama un rendiconto. E, per
energia sentimentale, per costruzione sintattica, 293 Versi di A Senia, in C.
Michelstaedter, Poesie, cit. pag. 89. 2945, Campailla, Pensiero e poesia...,
cit., pag. 143; per ritmo della frase, il Leopardi eroico e agonistico
dell'ultimo periodo. Ma di là da ogni possibile richiamo testuale, l'eredità
che Michelstaedter ha raccolto dal Leopardi va considerata in un senso più alto:
nel drammatico intendimento della poesia come sfogo e liberazione delle proprie
pene interiori, presa di coscienza dello stato esistenziale, determinazione
sovrumana a non barare con le cose. Il Michelstaedter ha sentito nel Leopardi
una lezione di vita, un impegno con la vita. Nella nostra tradizione letteraria
che così spesso si è rifatta e si rifà al Leopardi per ricavarne un magistero
formale, quello di Michelstaedter si rivela uno dei tentativi più
incondizionati di riprendere e di svolgere la parola del grande Recanatese
nello spirito in cui essa è stata pronunciata. Ma nella tensione ad essere se
stesso Michelstaedter si è trovato naturalmente oltre Leopardi: si avverte in
lui una eccedenza di volontà, una originaria disposizione tragica che è la zona
più inaccessibile della sua poesia [e non solo della sua poesia, aggiungiamo
noi}. Permettendoci d'integrare b correttissima valutazione del critico,
diremmo che più che «un'eccedenza di volontà» noi riscontriamo, in
Michelstaedter, un'eccedenza di determinazione (anche se difficile da
mantenere). Sciogliamo la complessità di ciò che vogliamo dire in un semplice
riscontro testuale (è questo il senso del nostro escamotage interpretativo),
risparmiandoci una riscrittura di cosa sia la Persuasione in Michelstaedter e
di cosa essa sia in Leopardi e lasciando implicite le conseguenze. Così
Leopardi conclude la sua Ginestra [vv. 297-317]: E tu, lenta ginestra, che di
selve odorate queste campagne dispogliate adorni, anche tu presto alla crudel
possanza soccomberai del sotteraneo foco, che ritornando al loco già noto,
stenderà l'avaro lembo su tue molli foreste. E piegherai sotto il fascio mortal
non renitente il tuo capo innocente: ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi al futuro oppressor; ma non eretto con
forsennato orgoglio inver le stelle, nè sul deserto, dove e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti; ma più saggia, ma tanto meno inferma
dell'uom, quanto le frali tue stirpi non credesti o dal fato o da te fatte
immortali. Da parte sua, nella lettera datata 25 aprile 1910, Michelstaedter
così scrive a Gaetano Chiavacci, rassicurandolo: Di che ti preoccupi? di che
temi? Nessuno ci potrà mai togliere niente. La vita non vale che noi ce ne
affliggiamo. Ma andiamo sempre avanti, e cerchiamo noi d'esser sufficienti a
tutto; non c'è cosa che sia troppo grave, non c'è posizione che sia
insostenibile. Dove gli altri gemono, e transigono, noi godremo e resteremo
duri e sempre uguali così da poterci sempre stringer la mano come io ora te la
stringo [E 438. Il significativo corsivo è di Michelstaedter]. 295 S,
Campailla, Pensiero e poesia..., cit., pagg. 53-54-55 [corsivi nostri]. La
consapevolezza dell'ineluttabilità è ovviamente comune a entrambi: la necessità
cieca, il non-senso dell'esistenza, l'innocenza tragica degli uomini... cose
note. Ma Leopardi, in quello che vien considerato da tutti il suo
"testamento poetico ed esistenziale", addita alfine nella ginestra un
ideale di "stoicismo" che non è rassegnazione né presunzione, ma
comunque una "flessibilità" al Tragico, seppur eroica. La Ginestra è
/enta, si piega - come si dice - ma non si spezza. Michelstaedter, invece,
invoca la durezza: il Persuaso è duro, preferisce spezzarsi piuttosto che anche
solo piegarsi. Il fiore del deserto accoglie la morte, china sotto il fascio
mortale il suo capo innocente e non renitente, si copre di eroica umiltà, «al
cielo / di dolcissimo odor [mandando] un profumo / che il deserto consola» [vv.
35-37]. Il Persuaso, libero, sfida la morte nella «furia del nembo più forte /
quando libera ride la morte / a chi libero la sfidò» [Sono i versi conclusivi
(ma in realtà è un refrain) de | figli del mare, PP 84]. La ribellione alla
vita, o meglio la ribellione della vita, per Michelstaedter è ancora possibile.
A4 - Kierkegaard: la variante "relazionale" della Persuasione. AI
pensatore danese abbiamo largamente accennato, e sottinteso, nel corso del
nostro lavoro. Abbiamo cioè detto che, per ragioni fossero solo puramente
storiografiche, Michelstaedter non ebbe la possibilità di avere sottomano i
testi kierkegaardiani, inaccessibili per la lingua (il che rese tardiva una
loro traduzione e diffusione in italiano o in tedesco), oltreché ostacolati
dall'ancora imperante hegelismo. Ma sottolineammo che, seppur per via
indiretta, Michelstaedter respirò comunque la temperie kierkegaardiana
desumendola dalla lettura dei capolavori di Ibsen (la nostra analisi si
concentrò soprattutto sul Brand, un'opera tra le preferite dal Goriziano): del
resto, proprio attraverso Ibsen, si consumò virtualmente anche l'incontro - mai
storicamente avvenuto (cosa strana, visto che studiarono entrambi a Firenze e
che entrambi provenivano dalle regioni carsiche) - con Scipio Slataper, il cui
/bsen è certamente l'opera più bella e profonda dopo quella autobiografica’.
Alludemmo, infine, al crescente "brandismo" di Michelstaedter, che
trascorse i suoi ultimi giorni in un ritiro praticamente ascetico, o comunque
di intenso e raccolto lavoro interiore; brandismo, nei fatti, che contraddirebbe
la nostra interpretazione politica del vir persuaso: ma altresì sappiamo di
quanto Michelstaedter fosse in attesa di "prendere il largo" (tanto
per riesumare l'allegoria marina) nell'infinita vita, e allora leggiamo quel
ritiro non tanto come una condizione definitiva e rassegnata, quanto come un
momento necessario per raccogliere le forze, temprarle e padroneggiarle, in
vista del progetto di persuasione. Sul versante più prettamente speculativo,
invece, abbiamo individuato nel cavaliere della fede la "figura"
ultima e preferita in cui l'autore di Timore e Tremore compendiò il suo
pensiero e la sua sincera persuasione religiosa. E abbiamo visto come
quest'ultima fosse la pietra di paragone più opportuna per rendere,
nell'immaginario comune, una dimensione così "astrusa" quale quella
di Persuasione. Abbiamo allora suggerito come l'utilizzo di
"categorie" e terminologie di ascendenza kierkegaardiana (alto,
scacco, singolo, paradosso, malattia mortale, angoscia e così via) ritornassero
utili - anche alla luce del loro recupero esistenzialista - per cercare di
rapprendere concettualmente taluni aspetti in apparenza frammentari della
Persuasione. Abbiamo, infine, creato un parallelo tra il cavaliere della fede e
il vir persuaso, focalizzando elementi di tangenza (la "dialettica"
del paradosso, svolta nella fattispecie in senso antihegeliano; il coraggio
dell'atto esistenziale; la solitudine a cui quell'atto sembra destinarli e il
sacrificio che imponeva ad entrambi), ma anche marcando differenze altrettanto
sostanziali (e allora il paradosso del vir ci è parso funzionale alla sua
liberazione persuasa, mentre quello del cavaliere ci si è rivelato come la
condizione 296 Detto per inciso, l'affinità tra Michelstaedter e Slataper, che
qui assurge a cifra del "mitteleuropeismo" del Goriziano, si può
leggere anche attraverso l'affinità di approccio ch'essi usarono nei confronti
del drammaturgo norvegese. 174 definitiva del rapporto con Dio; coerentemente,
abbiamo rilevato il recupero della dimensione politica della persuasione,
assente nella pratica esistenziale della fede, che si risolve in un rapporto
"monogamico" con l'Eterno; infine, abbiamo considerato il vir nel
sacrificio di se stesso in senso immediato e il sacrificio di Abramo come
sacrificio di se stesso attraverso l'altro, e dunque mediato). Sintetizzammo il
tutto ammettendo che la persuasione kierkegaardiana si muoveva ancora in un
orizzonte veterotestamentario, mentre quella michelstaedteriana riviveva la
suggestione neotestamentaria(correggendola in senso "monofisita")
eleggendo il Cristo di S. Matteo ad emblema assoluto della "virilità"
persuasa. Infine, alla luce di tutto questo, già lasciammo trapelare - e
proprio nell'analisi del Brand - le nostre conclusioni, individuando l'elemento
che, a nostro giudizio, scongiurava in assoluto ogni plausibile accostamento,
pur nella fugace affinità: in una parola, cioè, l'uomo di fede ci apparve come
implicato, in modo irreparabile, in un rapporto di dipendenza, in
un'eteronomia, che non è certo quella della dimensione mondana, ma che comunque
- modo fiero e consapevole, tra l'altro - è una relazione sufficiente, e dunque
l'esatto contrario dell'aspirazione persuasa. Insistiamo su questo punto, e ci
limitiamo ad integrarlo servendoci delle stesse parole di Kierkegaard, il quale
- spogliatosi dei suoi pseudonimi romanzati per calzare quello rigoroso ed
edificante dell'Anti-Climacus, e abbandonata la veste poetica cui affidava la
sua riflessione - così lo affronta e lo delucida nel suo breve scritto La
malattia mortale?”, in periodi di densissima risonanza concettuale: La
disperazione è una malattia nello spirito, nell'io, e così può essere triplice:
disperatamente non essere consapevole di avere un io (disperazione in senso
improprio); disperatamente non voler essere se stesso; disperatamente voler
essere se stesso. - l - L'uomo è spirito. Ma che cos'è lo spirito? Lo spirito è
l'io. Ma che cos'è l'io? E un rapporto che si mette in rapporto con se stesso
oppure è, nel rapporto, il fatto che il rapporto si metta in rapporto con se
stesso; l'io non è il rapporto, ma il fatto che il rapporto si mette in
rapporto con se stesso. L'uomo è una sintesi dell'infinito e del finito, del
temporale e dell'eterno, di possibilità e necessità, insomma, una sintesi. Una
sintesi è un rapporto fra due elementi. Visto così l'uomo non è ancora un io.
Nel rapporto fra due elementi, il rapporto è il terzo come unità negativa; cioè
i due si mettono in rapporto col rapporto; e nel rapporto sono loro che si
mettono in rapporto col rapporto; un rapporto, in questo senso, è, sotto la
determinazione dell'anima, il rapporto fra anima e corpo. Se invece il rapporto
si mette in rapporto con se stesso, allora questo rapporto è il terzo positivo,
e questo è l'io. Un tale rapporto che si mette in rapporto con se stesso, un
io, o deve esser posto da sé o dev'esser stato posto da un altro. Se il
rapporto che si mette in rapporto con se stesso è stato posto da un altro, il
rapporto è certamente il terzo, ma questo rapporto, il terzo, è poi a sua volta
un rapporto che si mette in rapporto con ciò che ha posto il rapporto intero.
Un tale rapporto derivato, posto, è l'io dell'uomo, rapporto che si mette in
rapporto con se stesso e, mettendosi in rapporto con se stesso, si mette in
rapporto con un altro. Da ciò risulta che possono nascere due forme di
disperazione in senso proprio. Se l'io dell'uomo si fosse posto da sé, si
potrebbe parlare soltanto di una forma, quella di non voler essere se stesso,
di volersi liberare da se stesso, ma non si potrebbe parlare 297 La nostra
citazione fa riferimento alla trad. it. dello scritto proposta dall'ed. Newton,
1995, a cura di Remo Cantoni, pagg. 20-21; abbiamo sottolineato in corsivo i
passaggi per noi più significativi. della disperazione di voler essere se
stesso. Questa formula è infatti l'espressione del fatto che l'io, da sé, non
può giungere all'equilibrio e alla quiete, né rimanere in tale stato, ma
soltanto se, mettendosi in rapporto con se stesso, si mette in rapporto con ciò
che ha posto il rapporto intero [questa impossibilità sancita da Kierkegaard
viene invece sconfessata da Michelstaedter: il vir, da sé, può giungere
all'equilibrio e alla quiete senza porre il proprio rapporto con se stesso nel
rapporto con l'altro: l'autonomia]. Anzi, quella seconda forma di disperazione
(disperatamente voler essere se stesso) non significa affatto soltanto un
genere speciale di disperazione, ma al contrario, ogni forma di disperazione
può, in ultima analisi, risolversi in essa o esserne derivata. Se un uomo in
disperazione osserva come egli pensa la sua disperazione, senza parlarne
insensatamente come di qualcosa che gli capita [...] e ora a tutta forza cerca
di togliere di mezzo la disperazione da se stesso e soltanto a se stesso:
allora è ancora dentro alla disperazione, e con tutti i suoi sforzi presunti
non riesce che ad inoltrarsi di più in una disperazione più profonda. Il
rapporto falso della disperazione non è un semplice rapporto falso, ma un
rapporto falso in un rapporto che si mette in rapporto con se stesso, essendo
stato posto da un altro; quindi il rapporto falso in quel rapporto che è per se
stesso, si riflette nello stesso tempo infinitamente nel rapporto con la
potenza che l'ha posto. Infatti, la formula che descrive lo stato dell'io
quando la disperazione è completamente estirpata è questa: mettendosi in
rapporto con se stesso, volendo essere se stesso, l'io si fonda, trasparente,
nella potenza che l'ha posto [ed è questa, appunto, la Persuasione di
Kierkegaard]. AI di là dell'ostentata cavillosità del dettato kierkegaardiano,
il concetto è semplice: la disperazione - la malattia mortale - nasce quando
l'individuo sfasa la prospettiva del rapporto, obliterando la radice che lo
autentica («la potenza che lo ha posto», ovvero Dio) e pretendendo di
autofondarlo nel circuito della propria esistenza (la hybris): ovvero, l'uomo
sostanzia di se stesso la carenza relazionale - il Goriziano la direbbe
deficienza - che lo fonda in Dio. La disperazione è una malattia mortale perché
provoca la morte spirituale dell'uomo e la malattia mortale è disperazione
perché l'uomo non potrà mai sperare di liberarsi da essa, vista l'eternità del
suo essere spirituale. Rispetto a Michelstaedter, ci troviamo in una posizione
antagonista che possiamo così risolvere: per costui, rapportarsi ad una
"potenza altra" significa tradire l'autonomia della Persuasione; per
Kierkegaard, pretendere di fondare in se stessi un'autonomia che non possediamo
significa tradire l'autenticità del rapporto esistenziale che ci vincola a Dio.
Come si vede, le due posizioni - da un punto di vista puramente razionale - si
pongono come inattaccabili, e solo la persuasione del singolo può dar credito,
e verità, all'una o all'altra. In questo senso, entrambe le persuasioni si
danno come possibilità esistenziali: il fatto che questa possibilità esista non
è per il filosofo danese espressione di libertà, bensì di arbitrio, ed espone
l'uomo alla tragica evenienza del peccato, sempre presente, il che è appunto la
malattia mortale. L'unica libertà (e si noti il paradosso) è quella che ci /ega
a Dio. Per Michelstaedter, invece, ogni relazione sufficiente, per quanto alti
siano i suoi "agganci", è comunque una violazione del uevet, nel
quale, al contrario, «consiste» la vera libertà. B - Variazioni sul tema
michelstaedteriano del "peso che di-pende". La gravità va
essenzialmente distinta dall'attrazione. L'attrazione è, in generale, soltanto
la rimozione dell'esteriorità reciproca e dà luogo a mera continuità. La
gravità, per contro, è la riduzione della particolarità, tanto scomposta quanto
continua, all'unità come relazione a sé negativa, cioè alla singolarità, a
un'unica soggettività (soggettività, tuttavia, ancora del tutto astratta).
Hegel, Enciclopedia. Lui è il pittore stesso, che volteggia nell'aria; in una
torsione impossibile, volge le labbra alla sua donna, per baciarla e
ringraziarla del dono dei fiori che lei sta per fargli, perché è il suo
compleanno; la donna accetta il bacio con uno sguardo mezzo sorpreso (l'occhio
leggermente sbarrato), ma le labbra accennano ad un sorriso, o stanno
semplicemente per aderire a quelle dello sposo. Anche la donna sembra esser lì
lì per spiccare il volo; il suo piede destro (o il sinistro?) appare puntato a
terra, come per darsi la spinta di uno slancio, mentre l'altro è già
leggermente sollevato, come fotografato nell'atto di una piccola corsa. Il
pittore, nell'assenza di gravità, sembra a sua agio: il suo corpo è agile,
allungato: la colonna vertebrale deve essere particolarmente elastica, vista la
torsione: il suo corpo si è felicemente adattato alla nuova condizione: le
braccia aderiscono con forza ai fianchi, vi si confondono, anzi forse sono
addirittura assenti. Il lembo del bavero pare una piccola ala che spunta,
potremmo giurarci. L'artista deve sentirsi libero, nella sua fluttuazione, non
deve avere impacci. Tutt'intorno una prospettiva piatta, senza volume,
destrutturata, schiacciata dalla gravità alle pareti ed al pavimento,
riscattata soltanto dalla gradevolezza riposante dei colori: l'unico volume è
dato dalla torsione del bacio. La visione è particolarmente estatica. Stiamo
parlando del quadro II compleanno di Chagall, del 1919°°: Chagall, un artista
ossessionato dalla legge di gravità, che ci vincola alla terra; al suo
tentativo di liberazione, in questo quadro e in molti altri, egli sacrifica
volentieri tutti i dati dell'anatomia e i principi della logica quotidiana:
nelle sue tele la testa di un personaggio si stacca dalle spalle, e fluttua
libera finalmente del corpo; un passante, che si staglia sullo sfondo di un
paesaggio, occupa più posto degli alberi e delle case d'intorno; un asino suona
il violino; se necessario, questo strumento e la pendola saranno provvisti di
ali; si cammina sui tetti... Chagall, un ebreo che ha sfidato la legge di
gravità, un ebreo che si è ribellato ai vincoli della Terra Promessa. Un
eretico. La critica rettorica ha inglobato il dissenso ed ha etichettato il
tentativo di Chagall come "leggerezza surrealista" (che condivide con
Masson, Mirò, Picasso e Calder), come per Ibsen aveva parlato di "simbolismo".
Più o meno dieci anni prima, un altro ebreo eterodosso, proprio il nostro
Michelstaedter, così descrive la condizione "sospesa",
"aporetica", del suo amato Socrate: 298 Cfr. la diapositiva P nel
supporto iconografico. Nel suo amore per la libertà, Socrate si sdegnava
d'esser soggetto alla legge della gravità. E pensava che il bene stesse
nell'indipendenza dalla gravità. Poiché è questa - pensava - che ci impedisce
dal sollevarci fino al sole. - Essere indipendenti dalla gravità vuol dire non
aver peso: e Socrate non si concedette riposo finché non ebbe eliminato da sé
ogni peso. - Ma consunta insieme la speranza della libertà e la schiavitù - lo
spirito indipendente e la gravità - la necessità della terra e la volontà del
sole - né volò al sole - né restò sulla terra; - E né schiavo; né felice né
misero; - ma di lui con le mie parole non ho più che dire [PR Socrate sdegna la
gravità: il suo discepolo più diretto, agli occhi del filosofo goriziano, tenta
invano di far suo quello sdegno, di conservarne la lezione genuina, costruendo
una macchina volante” che gli permetterà di sganciarsi dal suolo. Ma Platone
scimmiotta Socrate. «La 'leggerezza'» prese a dire Platone contemplando il
mirabile spettacolo delle cose, che al suo sguardo più forte erano chiare come
se fossero state vicine «la 'leggerezza' contiene tutte le cose; non come sono
col loro peso nel mondo basso, ma senza peso; e come il peso appartiene al
corpo, alla leggerezza appartiene, ‘lincorporeo'; e se al corpo appartiene
l'estensione, la forma, il colore, tutto ciò in cui gli uomini in terra sono
implicati, alla leggerezza appartiene l'inestenso [sic], l'informe, l'incolore,
lo spirituale. Colla sola contemplazione della leggerezza, noi che abbiamo la
leggerezza, vediamo e possediamo tutte le cose non come appariscono [sic] in
terra ma come sono nel regno del sole» [PR 68]. Una macchina per sfidare la
gravità: l'uomo perde fiducia nelle proprie forze di Persuasione, e si affida
alla scienza, ammantandola di filosofia. Giusto cinquant'anni dopo le pagine
del nostro scrittore-filosofo, e più di duemila anni dopo il finto esempio
storico, Hannah Arendt apre uno dei suoi capolavori - Vita Activa (è del 1959)
- commentando un fatto astronomico stavolta realmente accaduto: «nel 1957 un
oggetto fabbricato dall'uomo fu lanciato nell'universo, e per qualche settimana
girò intorno alla terra seguendo le stesse leggi di gravitazione che
determinano il movimento dei corpi celesti - del sole, della luna e delle
stelle»? La posizione della Arendt - non davanti all'evento in sé (salutato,
volendo, anche con orgoglio, perché ulteriore conquista dell'intelligenza
umana), bensì davanti alle reazioni dell'opinione pubblica - trasuda
perplessità: Questo avvenimento, che non era inferiore per importanza a nessun
altro, nemmeno alla scissione dell'atomo, sarebbe stato salutato con assoluta
gioia se non si fosse verificato in circostanze militari e politiche
particolarmente spiacevoli. Ma, per un fenomeno piuttosto curioso, la gioia non
fu il sentimento dominante, né fu l'orgoglio o la consapevolezza della tremenda
dimensione della potenza e della sovranità umana a colmare il cuore degli
uomini che ormai, sollevando lo sguardo dalla terra verso i cieli, potevano
scorgervi una loro creatura. La reazione immediata, espressa sotto l'impulso
del momento, fu di sollievo per 'il primo passo verso la liberazione degli
uomini dalla prigione terrestre'. E questa strana affermazione, lungi
dall'essere la trovata accidentale di qualche reporter americano,
involontariamente riecheggiava la 299 È l'incipit del famoso "esempio
storico" michelstaedteriano. 300 Si tratta, ovviamente, di un apologo
inventato da Michelstaedter, com'egli stesso del resto giustifica nelle Note
alla triste storia, contenute nella seconda delle Appendici critiche [PR 143
sgg.]. 301 cfr. il Prologo di Vita Activa, La condizione umana, Tascabili
Bompiani, 2000 (VIII ed), pagg. 1-6; questo, e gli altri riferimenti della
Arendt, sono tratti tutti dal prologo, e dunque s'intendano passim.
straordinaria epigrafe che, più di vent'anni prima, era stata scolpita sul
monumento funebre di un grande scienziato russo: "l'umanità non rimarrà
per sempre legata alla terra". La Arendt commenta: La banalità
dell'affermazione [quella riportata dai giornali; cfr. supra] non dovrebbe
farci trascurare il suo carattere straordinario; infatti benché i cristiani
abbiano parlato della terra come di una valle di lacrime e i filosofi abbiano
considerato il corpo come prigione della mente o dell'anima, nessuno nella
storia dell'umanità ha mai concepito la terra come una prigione per i corpi
degli uomini, o manifestato realmente la brama di andare letteralmente fin
sulla luna. Sarebbe questo l'esito dell'emancipazione e della secolarizzazione
dell'età moderna, iniziate con l'abbandono, non necessariamente di Dio, ma di
un dio che era il Padre celeste: il ripudio sempre più fatidico di una Terra
che era la Madre di tutte le creature viventi sotto il cielo? La risposta, per
banalizzare, è: spero di no, ma credo purtroppo di sì. Ora, se la Arendt avesse
potuto leggere Michelstaedter, e Socrate-Platone (e anche Ibsen) attraverso gli
occhi di Michelstaedter, se avesse tenuto conto delle "estasi" di
Chagall, avrebbe certamente corretto la prima parte del suo intervento («[...
nessuno nella storia dell'umanità ha mai concepito la terra come una prigione
per i corpi degli uomini [...}»). Eppure, siamo convinti, la sua posizione di
fondo non sarebbe per nulla mutata. Il fatto è che, rispetto alle posizioni
forti e polemiche di Michelstaedter e di Chagall, l'autrice di Vita Activa
occupa una posizione, come dire, "ingenua" (ma può darsi benissimo il
contrario): anch'ella ebrea, mostra piuttosto fedeltà alla terra, «a vera
quintessenza della condizione umana»: «la natura terrestre, per quanto ne sappiamo,
è l'unica nell'universo che possa provvedere gli esseri umani di un habitat in
cui muoversi e respirare senza sforzo e senza artificio». Questa gratitudine
nei confronti della Terra (la Terra "naturale", beninteso, e non
quella "artificiale" della scienza e della tecnica) è anzi il
presupposto della sua grande ipotesi d'apocatastasi politica, che conosciamo.
Per la Arendt, il mondo della Rettorica (della "cattiva" politica,
del male) avviene solo nella comunità degli uomini: per Michelstaedter (e per Chagall),
invece, la Rettorica innerva la struttura stessa del reale fisico, prima che
politico, e l'attrazione gravitazionale ne è la forma più lampante. L'assunto
del nostro giovane filosofo è drastico: la forza di gravità è il segno
esplicito di una dipendenza (il peso che "di-pende"), e ogni
di-pendenza, nella sua ottica, viene associata automaticamente a violazione
della libertà (per lui assoluta), a violenza. L'autarchia del Persuaso non può
tollerare che la prima, e più forte, dipendenza (e dunque la più evidente
violazione della propria libertà) sia insita addirittura, e in modo
ineluttabile, nel suo stesso organismo: il Persuaso deve liberarsi di tutto,
anche della gravità: il liberarsi, per lui, è innanzitutto un /ibrarsi La
predilezione, come sappiamo, è per il terzo regno, quello del mare, dove ogni
gravità pare assente, dove la forza delle onde può essere anche sconfitta dalla
potenza delle proprie braccia: mentre neanche il salto del più ardito pensiero
può superare il "gancio" della gravità terrena. La Arendt, al
contrario, ha superato questa "pregiudiziale naturalistica" presente
nell'autore della Persuasione: a suo modo, anche Michelstaedter supererà se
stesso (il se stesso della tesi) nella sua opera ultima, laddove - anche per lui
- la Persuasione e la Rettorica se la giocheranno ad armi pari sul terreno
della politica, nel senso che già abbiamo più volte ripetuto. Tutto sommato,
dunque, nonostante questa diversità, le proposte di Michelstaedter e della
Arendt si muovono entrambe sul terreno della Persuasione. Bisognerebbe valutare
la "sostenibilità" di entrambe, ma non è questo che ora ci interessa:
l'esistenza è un impegno quotidiano che solo fino a un certo punto ha bisogno
di un appiglio o di un'ispirazione eteronoma, per quanto "persuasivamente"
fondata (è questa, ricordiamolo, l'opinione dello stesso Michelstaedter). Ora,
anche nel rispetto dell'economia del nostro discorso, c'interessa piuttosto
valutare la barricata rettorica di fronte a simili proposte, di fronte alla
pericolosa insorgenza umana di liberarsi dalle maglie della gravità. Lo faremo
in modo "stravagante", ma pilotato. Partiamo da un annuncio
pubblicitario: Il è il metodo creato dalla dr. X per migliorare l'allineamento
del corpo umano nello spazio e in relazione alla forza di gravità. Si attua in
un ciclo di 10 sedute di manipolazione del tessuto connettivo e di educazione a
un movimento fluido e corretto. Questo efficace lavoro permette di sentirsi più
elastici, sciolti e leggeri in breve tempo. Gli effetti sono durevoli. Chiunque
vuole "sentire" di più il proprio corpo, viverne meglio le emozioni,
o ritardarne i processi di invecchiamento [... ] può trarre grande giovamento
da questa tecnica. L'ideatore del metodo *** si propone di migliorare
l'allineamento del corpo umano nello spazio e in relazione alla forza di
gravità: Ballested saluterebbe volentieri questo invito ad un felice e comodo
"acclimatarsi"°°, Il metodo per giunta promette effetti durevoli.
Ora, al di là della facezia, invitiamo a concentrare tutta la serietà e
l'attenzione su almeno due passaggi-chiave del messaggio promozionale: la cura
«si attua in un ciclo di 10 sedute di manipolazione del tessuto connettivo e di
educazione a un movimento fluido e corretto. Questo efficace lavoro permette di
sentirsi più elastici, sciolti e leggeri in breve tempo». Entra in gioco la
Rettorica allo stato puro, secondo la curvatura foucaultiana che le stiamo
conferendo: il dominio del corpo, nella sua "fisicità", attraverso la
"manipolazione" (termine davvero infelice, anche per uno spot) e l'
"educazione al movimento"; dunque, una considerazione sportiva del
corpo®°, volta al suo miglioramento: la Rettorica abbisogna di corpi sani; la
sua salus non è Salute ovvero Salvezza (come l'intende il vir), ma valetudo,
benessere". Una congerie di corpi robusti e sani, per giunta controllati,
è infatti il presupposto sufficiente di una sana e forte comunità rettorica.
Secondo punto: subentra il cavallo di battaglia della Rettorica: la paura della
morte, ovvero, qui, della sua fase immediatamente precedente: l'invecchiamento.
Il pubblicitario 302 Ballested è il già citab personaggio della Donna del mare
di Ibsen; cfr. il nostro paragrafo Il porto della pace., nel capitolo |. 303
«Lo sport è la rettorica della vita fisica», scrive Michelstaedter in una nota,
PR 107. 304 Sull'oscillazione ambigua del termine nella traduzione s'impernia
tutto il Dialogo della salute. adesca il consumatore giocando sulla promessa
speciosa che la cura è in grado di ritardare i processi di invecchiamento.
Michelstaedter, nella sua tesi, e non solo, scrisse pagine e pagine per
spiegarci che l' "equivoco" sulla morte è la ragione decisiva che
spinge gli homines, ma anche i domini, a sottomettersi vicendevolmente al
Dominus per eccellenza, il Leviatano sociale. L'analisi del filosofo goriziano
è tutta volta a scongiurare quell'equivoco, a tratteggiare il concetto di una
morte che può essere sfidata dal vire addirittura accettata, come accadimento
che non annichila, bensì potenzia, in prospettiva, la nostra dynamis. Quello
che abbiamo or ora fornito è un esempio molto particolare, esasperato, di
«Rettorica applicata alla vita», come la chiamava il Nostro. Ad esso ne
aggiungiamo un altro, tratto stavolta da un articolo scientifico?°° dei nostri
giorni, che tratta - manco a dirlo - di un'ipotetica vita in un ipotetico mondo
a gravità zero (= assenza di gravità), ad esempio un altro pianeta. L'autore
dell'articolo argomenta che, in simili condizioni, la specie umana, potrebbe
orientarsi, attraverso graduali aggiustamenti «secondo le leggi naturali
dell'evoluzione verso un nuovo tipo di uomo, l'Uomo Cosmico». Tutte variazioni
ipotizzabili, naturalmente: dalla statura (maggiore del comune, perché in
assenza di gravità la colonna vertebrale perde le sue curvature fisiologiche
diventando rettilinea), al torace (più corto, poiché il diaframma si solleverà
in seguito all'alleggerimento dei visceri addominali), dal cuore (più piccolo
per ipotrofia muscolare) agli arti inferiori (più sottili, proprio per la
dislocazione dei liquidi verso le parti superiori del corpo) e al cervello che,
fortunatamente, secondo le ipotetiche previsioni, «verosimilmente continuerà ad
aumentare di volume, come è avvenuto nell'evoluzione del genere umano,
stimolato dalla necessità di un'informazione mentale sempre più copiosa e
intelligente e da una maggiore irrorazione, e quindi nutrizione, in assenza di
gravità». Ora, al di là della vaghezza mondana che l'articolo si ripromette, e
al di là del sempre esplicito riferimento alla corporeità, vi si potrebbe
riscontrare un altro noto (e qui ben nascosto) dispositivo retorico, quello che
i sofisti chiamavano anfibologia. L'articolo, dietro il pretesto di suscitare
curiosità, ci fornisce un quadro del nuovo "Uomo Cosmico" che finisce
con lo scoraggiare il lettore: la vita in gravità zero sarebbe possibile, ma
solo a condizione che la nostra struttura umana, la nostra bellezza umana,
venisse "storpiata": sarebbe un luogo popolato da mostri (e si
confronti, invece, questo ipotetico storpiamento scientifico con l'armonia
raggiunta da Chagall nelle sue "figure fluttuanti"). E' quella che
Michelstaedter chiama la «falsa adulazione», qui rovesciata: l'articolo, cioè,
invita indirettamente i lettori a mantenere le loro belle sembianze umane,
garantite e protette dalla legge di gravità. La Rettorica richiama gli uomini
al vincolo della gravità, necessaria alla perpetuazione del dominio (l'Uomo
Cosmico rischierebbe di essere pericolosamente 305 Purtroppo ne abbiamo perso
la fonte, ma il nostro appunto, a suo tempo, fu abbastanza fedele. forte, e la
sua vita oltremodo allungata: rischi che la Rettorica non può permettersi di
correre: forza e longevità sì, ma sempre "manipolabile"). Ora,
abbiamo volutamente presentato esempi al limite della "fantascieza",
e volutamente abbiamo condotto un'analisi altamente prevenuta, ostentando un
metodo d'approccio viziato oltremisura dal "sospetto": una sorta di
eccesso di zelo dell'ottica persuasa, che rischia di degenerare in una vera e
propria mania di vittimismo di una persecuzione, sempre operante, perpetrata
dalla Rettorica. Ora, siamo convinti che una simile "paranoia
rettorica" dovette aggredire Michelstaedter nei suoi ultimi giorni di
vita, attecchendo per giunta su un fisico stremato dai dolori personali e
stressato dal lavoro di compilazione della tesi. Con questo, non vogliamo
alludere a nulla, riguardo al suicidio del giovane goriziano (benché lo stesso
Campailla sembra sbilanciarsi, ma solo appena, in proposito). Lo assumiamo
semplicemente come un fatto. Concludiamo questo paragrafo richiamando alla
memoria, come all'inizio, un altro quadro celebre: nei suoi Orologi mollf°®,
Salvator Dalì sembra denunciare (o sublimare?), in modo bizzarro ma efficace,
il risultato vincente della Rettorica, come forza di gravità? (l'opera è del
1931; anni bui): gli orologi, attratti da una vigorosa forza centripeta, cedono
mollemente verso il suolo: una mosca (retorica?) insozza quello in primo piano;
una comunità (persuasa?) di formiche sembra preservare/proteggere quello in
primissimo piano. Il messaggio appare chiaro: anche il tempo si curva dinanzi
alla forza di gravità, vi si sottomette e vi si allea, a meno che.... Sembra
un'amenità. Eppure era ciò che, grosso modo, il genio ebraico di Einstein aveva
postulato, pochi anni prima, nella sua ipotesi di curvatura dello spazio-tempo.
306 Ovvero, La persistenza della memoria, detto anche Il tempo che si scioglie.
Cfr. la diapositiva Q nel supporto iconografico. 307 La nostra interpretazione
è del tutto funzionale al discorso e, del resto, le opere di Dalì si prestano
agli azzardi più innominabili. Anche se, per la cronaca, il pittore, proprio
riguardo a questo quadro, fu estremamente chiaro: il soggetto gli proveniva
dall'ossessione per tutto ciò che è molle.C - La critica alla Rettorica come
caricatura della Rettorica. A partire da un'intuizione che ha avuto già a suo
tempo il Campailla, e che noi condividiamo in pieno (ovvero che non si può
leggere l'opera di Michelstaedter scrittore- filosofo separatamente da quella
di Michelstaedter "ritrattista"), la critica specializzata nel
settore si è adoperata per trovare punti di riferimento "europei"
all'opera del Goriziano. Il bilancio di tale lavoro (volto comunque a reclamare
anche una decisa originalità michelstaedteriana rispetto alla contemporaneità o
alla più prossima posterità) è stato egregiamente redatto da Fulvio Monai (a
nostro parere, il non plus ultra in questo contesto), di cui riportiamo alcune
valutazioni essenziali, cercando anche noi - in questo modo - di caldeggiare un
simile approccio. Nell'ambito figurativo i pittori dell'angoscia come Munch,
Van Gogh, Ensor, Gauguin avevano creato le premesse per la nascita
dell'Espressionismo che a una prima realizzazione formale giunse tuttavia
soltanto con il gruppo della Brücke (Il Ponte), fondato nel 1905 a Dresda da
Kirchner, Heckel e SchmidtRottluff, e avviato, sulla spinta di un programma di
spontaneismo e di immediatezza espressiva, a estrinsecare per immagini, al di
là di ogni schema preordinato, le inquietudini interiori. Ebbene, in quel
momento, Michelstaedter, che dall'angolo visuale fiorentino non aveva potuto
nemmeno supporre i prodromi della nuova esperienza artistica, anche se nutrito
di cultura tedesca, aveva già fissato sulla carta i segni di un'umanità
demitizzata, i cui connotati volevano corrispondere a una realtà interna più
che alle apparenze sensibili. [...] Quando Michelstaedter schizzava a lapis la
Processione d'ombre nel 1903, a sedici anni (anticipando largamente i disegni
di Klee eseguiti nel 1911), nulla poteva sapere dei fermenti che avrebbero
portato alla figurazione espressionista. Non poteva nemmeno aver conosciuto,
quando l'informazione sull'arte a Gorizia era ancora precaria se non assente,
né la tipologia umana di Tolouse Lautrec, né la visione precorritrice degli
artisti che avevano fatto tesoro della lezione di Cezanne e Van Gogh. Non ci
sono comunque prove [...] che possano documentare un qualsiasi contatto, del
resto cronologicamente insostenibile, con il mondo figurativo che si agitava
nell'Europa centrale osteggiato dalla cultura officiale [...] Indubbiamente
Processione di ombre è una testimonianza stupefacente di un espressionismo
ante-litteram: una sfilata di personaggi tratte ggiati sommariamente, figure
emblematiche la cui deformità impietosa riflette le ipocrisie e le storture
della società conformista. La matita che delinea realisticamente il profilo del
Castello di Gorizia, simbolo del potere, non indugia sui dettagli delle figure
umane ma, guidata da un'intuizione psicologica sorprendente per un sedicenne,
si limita a suggerirne le forme controluce. Processione d'ombre resta dunque
opera di un giovanissimo che, per virtù di un'acuta intelligenza, stava
respirando un'aria comune a tutti gli ingegni più vivi senza ancora rendersene
conto, con le percezioni discendenti da una sofferta coscienza del male del
tempo, in inconsapevole sintonia con artisti che egli non aveva mai conosciuto.
Dopo questa prova [... ], altri disegni confermeranno negli anni successivi la
sua ricerca dell'uomo, il suo bisogno di agire direttamente sulla persona,
interpretandone le contraddizioni, le debolezze, il ridicolo, con segno che non
è caricaturale nel senso corrente della parola, inteso cioè a cogliere gli
aspetti più scoperti del soggetto per metterne a nudo l'immagine apparente o i
sentimenti più manifesti. La sua matita scava e blocca il volto nell'attimo in
cui la mente ne fissa i connotati che meglio corrispondono alla realtà più
intima e tramuta la figura in maschera che sollecita pena e amarezza più che
ilarità. [...] Solitario come filosofo e come pittore, Michelstaedter avrebbe
comunque continuato ad alimentare la segreta vocazione fino a quando, con il
disegno di una lampada dalle fiammelle ormai spente, avrebbe riassunto sul
primo foglio della Persuasione e la rettorica il senso della propria parabola
terrena. [Si può altresì rilevare] la sua estraneità a qualsiasi movimento
intellettuale e filosofico. Si può affermare analogamente che non appartenne
consapevolmente ad alcun movimento artistico del suo tempol... ] Come pittore
Michelstaedter rientra dunque nella sfera dell'espressionismo, di cui
preavverte le tensioni. Ed espressionista rimane fino in fondo, anche
dipingendo, prima di morire, l'olio dedicato alla madre e intitolato nel retro
E sotto avverso ciel luce più chiara. In questo senso è stata concordemente
valutata nefgli] ultim[i] decenni] l'opera grafica e pittorica di
Michelstaedter, e si è convenuto che essa non può essere ignorata, costituendo
uno degli aspetti fondamentali per capire la genesi della Persuasione e la
rettorica, e l'autore stesso, come uomo, nella sua totalità. [...] [Dunque], un
rapporto molto stretto lega la ricerca grafica di Michelstaedter alla sua
filosofia... Lo schizzo, il disegno immediato, l'aforisma figurativo si può
considerare una traduzione visiva della via alla persuasione... La linea,
secondo una grammatica preespressionista, si spezza in segmenti, si anima in
curve ed evoluzioni, si condensa con insistenze e ripetizioni in alcuni
passaggi per poi sfumarsi e annullarsi in altri. Esiste una concordanza di
giudizi sul fatto che soltanto un'esigenza interiore indusse Michelstaedter a
farsi testimone di situazioni umane con l'immediatezza di chi ha in animo non
di edulcorare la realtà o di darne una versione umoristica ma di penetrame i
significati, uscendo dalla sfera della rappresentazione per entrare in quella
cruda e disincantata dell'osservazione dei fatti, al di là di qualsiasi calcolo
e senza il desiderio, comune ai protagonisti dell'arte, di farsi portatore di
nuovi linguaggi. Insistere nella ricerca di modelli, di influenze precise per
giustificare formalmente il mondo grafico e pittorico di Michelstaedter
equivarrebbe a sminuire - pur considerando i rarefatti indici di un'attività
non dominante - la portata del suo messaggio, la sua originalità. Più giusto è
constatare che quanto possediamo è sufficiente a dichiarare le sue innate doti
di disegnatore estraneo alla cultura figurativa imperante nei primi anni del
Novecento in Italia, e a rivelare nello stesso tempo con incisiva evidenza le
spinte che, sempre più incalzanti, determinarono la sua ricerca
esistenziale®°8, A tutto ciò, aggiungiamo soltanto due nostre vaghe
considerazioni: innanzitutto, in Michelstaedter ci sembra davvero riproporsi
quella che Nietzsche connotava come capacità «pentatletica» dell'artista
"persuaso" (che lo rendeva davvero «omo integrale»), nella
fattispecie con riferimento agli autori tragici della classicità (ma anche al
loro "pubblico"), come il filosofo tedesco aveva scritto in un
passaggio fondamentale della sua prima conferenza pubblica sulla tragedia
[quella sul dramma musicale greco]: Nietzsche auspicava (e credeva di
intravvederne i prodromi nell'opera wagneriana) una ri- proposizione di tale
"integrità" nella nuova gioventù tedesca’. Anche sotto questo
rispetto, dunque, Michelstaedter ci sembra pare fedele all'orizzonte greco che
struttura lasua speculazione e, perché no?, anche tutta la sua vita. Seconda
considerazione (che approfondisce quanto già profilato dal Monai): è
significativo, per noi, che Michelstaedter s'impegnasse soprattutto
nell'affinmare la sua pratica di "caricaturista": com'è noto, il
pregio della caricatura è quello di scarnificare il soggetto che ad essa si
presta, esagerandone (e distorcendone) i tratti caratteristici: l'effetto che
si vuol provocare è di natura comica o grottesca. Il pittore-filosofo
goriziano, evidentemente, intuì la profonda valenza dissacrante che un simile
strumento gli metteva a disposizione: poter meglio individuare o evidenziare i
"difetti" della Rettorica e utilizzare il pretesto umoristico per
porli, in modo impietoso, all'attenzione di tutti: riconosco qualcosa come
"caratteristico" e lo "carico" distinguendolo dal resto
(che rimane meno percepibile). 308 Estratto dal saggio Michelstaedter
anticipatore in arte dell'espressionismo, di Fulvio Monai (pubblicato in
Dialoghi intorno a Michelstaedter, a cura di Sergio Campailla, Gorizia,
Biblioteca Statale Isontina, 1987), che qui riportiamo per gentile
autorizzazione concessaci dalla redazione di www.michelstaedter.it e del Comune
di Gorizia. 309 Cfr. almeno le sue Cinque prefazioni per cinque libri non
scritti, in particolare le Riflessioni sul futuro delle nostre scuole. 310 In
questo senso, la caricatura, sotto la forma soprattutto della satira
(letteraria) politica e sociale, ha una lunga tradizione nell' "aceto
italico", almeno a partire da Lucilio. A parallele, analoghe e
praticamente contemporanee conclusioni - il suo saggio sull'Umorismo è del 1908
- era giunto anche Pirandello: nel saggio, lo scrittore agrigentino segnalava
nella pratica umoristica uno degli strumenti privilegiati che consentivano di
introdurre nell'arte, e dunque attraverso l'arte, la problematica
dell'esistenza e la critica sociale: l'umorismo si serve del comico -
avvertimento del contrario - per assurgere a riflessione, al sentimento del
contrario, ovvero, associando le immagini in contrasto*'', sottolinea
espressionisticamente gli aspetti disarmonici, deformanti e paradossali
dell'esistenza, come lo scrittore effettivamente fece nei romanzi e (soprattutto)
nelle novelle8"?, Per fortuna, l'interesse per l'opera grafico-pittorica
di Michelstaedter è venuta crescendo col tempo (anche se fatica ad oltrepassare
l'orizzonte della provincia goriziana e triestina), come testimoniano le sempre
più numerose esposizioni del suo catalogo. 311 cfr. L. Pirandello, Saggi,
Poesie e scritti varii, Mondadori, 1977, pag. 127 soprattutto 312 Non a caso,
alcuni critici (il Salinari e il Piromalli, sopra tutti) hanno letto l'opera di
Michelstaedter anche attraverso il confronto con la produzione e la
"filosofia" di Pirandello, entrambi massimi rappresentanti della
crisi spirituale apertasi all'inizio del secolo scorso. Auctoritas, non veritas
facit legem. Thomas Hobbes Parte migliore è quella che cerca il meglio; cercare
con persuasione il meglio è l'unico primato; e quando si vorrebbe ostacolare
ciò, si fa, sotto tanti aspetti, del materialismo, e, prima o poi, si è
sconfitti dalla forza dell'anima. Capitini «Mi manca una concezione salda e
universale della vita [...] Oggi io non vedo alcuna possibilità di trovare un
nuovo principio, né di rispettare i vecchi principi. Cerco dunque questa idea,
da cui dipende tutto il resto, senza poterla trovare», scriveva Flaubert
all'amico George Sand, poco più di un secolo e mezzo fa. Questa urgenza di
verità e di valori la facciamo nostra, in un'epoca in cui - e lo affermiamo al
di là di ogni moralismo enfatico ed infame da parvenu - il rapporto degli
uomini col mondo e con i propri simili ci appare quanto mai irrisolto e
problematico, e sembrano venir meno l'orientamento, i motivi, le ragioni stesse
delle scelte etiche. La nostra tesi, benché sia strano, è nata ed è stata
scritta in tempo di guerra, e ciò non ha potuto non influire sulla veemenza e
sulla perentorietà di certe nostre affermazioni, convinzioni, presupposti. Il
fascino che il pensiero michelstaedteriano, misconosciuto, ha esercitato su di
noi si spiega, allora, soprattutto nella sua premura etica, nel suo
"massimalismo etico": solo un'etica forte come quella di Michelstaedter
- per quanto, per i più, "ingenua" - può misurarsi oggi con la
potenza devastatrice del male. La straordinaria energia che ogni uomo nasconde
conosce le espressioni più sublimi e divine, ma anche le degenerazioni più
abiette e nefaste: si tratta di convogliare quell'energia a vantaggio
dell'uomo, ovvero sulla via della Persuasione. Questa è l'epitome del monito
persuaso. La voce della Persuasione è la voce socratica, la voce che coinvolge,
la voce per eccellenza. La voce che invita alla «infinita vita», che chiama
all'autonomia ed all'autenticità del nostro essere uomini, che non si presta
alla risonanza disinteressata o scolastica o intellettuale, ma che ingiunge un
impegno militante ad ogni animo sensibile. Qui, ovviamente, entra in gioco e in
crisi il significato stesso di filosofia, e quindi di esistenza, e il
coinvolgimento personale e responsabile di ogni posizione. La
"lezione" di Michelstaedter è, infatti, un invito alla responsabilità
pura, e dev'essere accolto come tale in un'epoca in cui il totalitarismo non è
esplicito, ma sornione, non punisce, ma sorveglia, 313 Nel contesto di queste
Conclusioni, utilizzeremo una specifica bibliografia minima: 1 - Aldo Capitini,
Elementi di un'esperienza religiosa, con prefazione di Norberto Bobbio,
Biblioteca Cappelli (ristampa anastatica della seconda edizione, pubblicata nel
1947 dall'E ditore Laterza, Bari), 1990; 2 - Martin Buber, La regalità di Dio,
Marietti, 1989; 3 - E. Lévinas, L'aldilà del versetto, a cura di G. Lissa,
Saggi Guida, 1986; 4 - Antimo Negri. Il lavoro e la città. Un saggio su Carlo
Michelstaedter. Roma, Lavoro, 1996. (I grandi piccoli 11). Le citazioni dal
testo di Capitini saranno segnalate da una C con numero di pagina cui si
riferiscono [C ...]; quelle da Buber da una B [B ...]; quelle da Lévinas da una
L [L ...]; quelle da Negri da una N [N ...], non opera soltanto attraverso
l'aperta coartazione, ma s'innesta a presupposto tacito comune, servendosi di
una sopraffina ikebana di prevenzione, volta a scongiurare quello che gli
agenti assicurativi chiamano, come per un gioco di ironia, moral
hazard?"*. In un'epoca in cui il totalitarismo, a volte, addirittura
soffre il proprio mascheramento, ed esplode (stricto sensu) nelle tensioni
belliche del "nuovo ordine mondiale". La sua violenza, oggi, è un
"mal sottile" che avvelena. La Rettorica è un processo di
avvelenamento, scrive Michelstaedter, il che vuol dire non soltanto che è un
veleno, ma che è una continua somministrazione di veleno. Il pensiero di Carlo
Michelstaedter, con tutta la sua giovanile esuberanza, si pone allora come
antagonista, come disinfestazione: si arroga un effetto depurante, si
autopromuove ad antidoto al veleno, e (forse) in questo pecca di presunzione e
corre il rischio, anch'esso, di prestarsi a traduzioni violente ed autoritarie.
Ma ci si mostra come faro quando addita nell'autonomia e nella politica
(termini solo in apparenza contraddittori, termini da assumere piuttosto nella
loro straordinaria bellezza) l'unica istanza regolatrice di ogni persuasione
concreta, «a ferri corti con la vita», l'unica alternativa all'acclimatamento
rettorico, al compromesso eteronomo, all'abulia o alla disperata (per alcuni,
vile) risoluzione del suicidio. Di una persuasione, infine, che non si pone
come compito quello di passare «dalla teoria alla pratica» (uno dei più
ostentati imperativi sociali), ma di far le proprie parole azione, di
sollecitare la propria dynamis umana all'entelechia che, in modo autentico, la
realizza. Come scrisse Aldo Capitini, «dobbiamo essere musica e non statua.
Questo sembra un sogno, un qualche cosa di poetico; e credo invece che sia
prova di realismo. Vi sono forze potenti da fronteggiare, e solo un'opposizione
dal profondo e appassionata può vincerle»3'° [C 31]. 314 Lett. "rischio
morale". Maggior rischio che un evento assicurato si verifichi per effetto
della minore attenzione posta nel prevenirlo da parte di chi ha stipulato
l'assicurazione [def. dizionario Garzanti. Chi ha letto quanto da noi
argomentato in precedenza, apprezzerà la puntualità di questa definizione. 315
Come scrive Norberto Bobbio, compagno e grande estimatore di Capitini,
«chiunque abbia una certa familiarità con gli scritti di Capitini sa che uno
dei termini-chiave del suo linguaggio personalissimo è "persuasione",
che sta per "credenza" o per "fede" (il bel capitolo
autobiografico con cui ha inizio il libro Religione aperta è intitolato La mia
persuasione religiosa), onde "persuaso", parola da lui usatissima
equivale a "credente". Egli stesso ne riconosce la derivazione da
Michelstaedter: «... del quale mettevo in rilievo, anche in una conferenza che
tenni a Firenze, la "persuasione" (un termine che ho assunto,
preferendo "persuaso" a "credente", persuaso nel senso di "autopersuaso",
quasi di "pervaso"), l'antiretorica, quel tipo di esistenzialismo,
che poteva divenire supremo impegno pratico [...]: insomma mi pareva esatto
considerarlo come la premessa di una tensione etico-religiosa». [Bobbio trae
questa citazione dall'opera di Capitini Antifascismo tra | giovani; la
testimonianza di Bobbio su Capitini la si trova in N. Bobbio, Maestri e
compagni, Firenze, Passigli, 1984, nel capitolo a lui dedicato], Dunque, lo
sfondo di Capitini è religioso, la sua è una credenza e una fede; tuttavia la
sua religiosità, "antiistituzionale", ci pare non identificarsi
esclusivamente con la dimensione divina, ma coincidere piuttosto con la sacra
umanità (il sacro dell'umanità) che ogni individuo porta dentro di sé: dunque,
se «la religione è consapevolezza della liberazione spirituale, del superamento
della finitezza mediante la vita spirituale» [C 110], anche noi ci sentiamo di
condividere questa religiosità. Michelstaedter ripropone la visione antica del
mondo nel momento di più intensa crisi della sua visione moderna, e chiama in
causa soprattutto due testimonianze inattuali di Persuasione, nella Persuasione
"confondendole": Socrate e Cristo. Il Socrate di Michelstaedter - ma
oramai è chiaro - non ha alcuna paternità del /ogos, se per logos s'intende una
facoltà, ch'è pretesa, di ordinare il nostro rapporto "scientifico"
con la realtà e di promuoverne un'arbitraria fondazione di valori. In
un'espressione, un atteggiamento di dominio che non riesca a pensare il mondo
se non come rapporto di forze e come fruizione senza mistero. In senso analogo,
la verità cristiana viene apprezzata non come pura verità filosofica o
settaria, ma rivissuta quale verità di esistenza e di salvezza assolute. Nella
dimensione persuasa, cui queste due rinnovate prospettive collaborano, il vero,
il giusto e il bello condividono un rapporto sponsale (l'agathon di socratica e
platonica memoria), al cui interno è un non senso l'imposizione. Un assunto,
questo, che Michelstaedter tende disperatamente a dissuggellare dall'ambito
della propria coscienza individuale, cercando di puntare su di esso non solo
per un impegno morale singolo, ma per una "rivoluzione" sociale ch'è
innanzitutto una rivoluzione etica collettiva. Il vir è completamente titolare
dell’azione etica, e in questo è scrigno d'infinito, perché infinite sono le possibilità
di realizzare il bene: la sua esistenza è un "grande miracolo", che
riflette in sé tutta l'ineffabile portata della Persuasione, una dignità e una
libertà di sapore, diremmo, rinascimentale. L'Europa (il mondo) deve guardare
alla Bibbia ed alla grecità, dunque. Una persuasione di Lévinas, che anche
Michelstaedter avrebbe sottoscritto. Anzi, come visto, la speculazione del
Goriziano oscilla proprio, ed in maniera consapevole e in certo modo
sistematica, tra questi due poli. Tuttavia, nella riconsiderazione ch'egli fece
del pensiero biblico, si segna, secondo noi, una nuova possibilità del pensiero
ebraico, che mantiene dell'ebraismo la valenza etica, la tenacia e la
determinazione che quello ha mostrato nella sua storia millennaria, ma altresì
le rinnova, senza cadere, a nostro giudizio, nell'apostasia dei conversos o dei
marranos. Da una parte, infatti, l'identità ebraica di Michelstaedter - per
quanto inconsapevole, sottaciuta o addirittura rimossa dallo stesso - è fuori
discussione: l'appartenenza ebraica è una questione cromosomica, volendo
parafrasare Martin Buber. Dall'altra, Michelstaedter, ebreo, dell'Antico
Testamento predilesse soprattutto l'Ecclesiaste, e pur vide in Cristo
l'eccellenza del vir persuaso, ritagliandone una figura terrena e sofferta che nulla
ha a che vedere col Cristo figlio di Dio: Michelstaedter, ebreo, pure accettò
il messaggio di In effetti, Capitini appare quale uno dei nichelstaedteriani
più "coerenti", e il fatto che il suo capolavoro, gli Elementi, fosse
uno dei luoghi di spiritualità intorno al quale si condensò molto antifascismo,
è una delle prove più evidenti e più belle di una Persuasione che passa dalla
parola all'atto, che si fa storia ed opposizione anti-rettorica. liberazione
terrena del Cristo, «la circoncisione del cuore, in ispirito, non in lettera»
[S. Paolo, Rom. 2,29], il «battesimo del fuoco» [Lc. 3,16] nella
Persuasione?"9. Il pensiero michelstaedteriano, insomma, è anche un
pensiero ebraico, semplicemente perché Michelstaedter fu un ebreo. E, per
quanto detto, fu un pensiero ebraico sui generis, rivoluzionario, inaudito, e
purtroppo dimenticato. Il pensiero ebraico si pone, per principio, come
inattuale, come Talmud, interpretazione incessante ed appassionata della Torah,
della Legge, la «salvaguardia più sicura e la memoria più fedele dell'etica di
Israele» [L 77]. L'ermeneutica della Torah si assume il compito di individuare
e proteggere l'<«energia misteriosa che scaturisce da [gesti] antiquati» [L
77], e d'imbrigliarla in direzione etica. Questa etica è accoglienza di una
«incitazione divina» [L 102]: «anche Dio incita, anche Dio seduce, come se
anche Dio avesse la sua retorica». L'ascolto, dunque, la pedagogia dell'ascolto
come essenza dell'ebraismo: vi si forgia un'etica che scaturisce da
un'interazione responsabile di uomini: una redenzione, un «faccia-a-faccia
degli uomini [...] che mostrano il loro volto e cercano il volto del loro
prossimo» [L 93], in una «tensione del santo verso il più santo» [L 91], in una
«permanenza dell'umano [...] assicurata dalla solidarietà che si costituisce
intorno a un'opera comune; dallo stesso compito svolto senza che i
collaboratori si conoscano o si incontrino» [L 93], perché «Ia totalità del
vero è realizzata dall'apporto di molteplici persone» [L 218]. Un'etica,
inoltre, che non teme, e anzi accoglie, il confronto con le culture altre,
perché «Malgrado tutte le critiche rivolte contro l'assimilazione, noi
usufruiamo dei lumi che essa ci ha apportato, affascinati dai vasti orizzonti
che questi ci hanno aperto » [L 288]. Tuttavia, «a dialettica del regno che
educò il popolo di Israele» - scrive Buber - coincide con la «storia del
dialogo fra la divinità che domanda e l'umanità che nega la risposta ma che
tenta anche di rispondere, il dialogo che ha per oggetto un eschaton». [B 56].
La risposta dell'essere umano, a questo domandare che s'impone più che altro
come un comandare, non può essere se non l'obbedienza. Buber non lo nasconde,
anzi fonda proprio su questa impari dialettica la radice dell'istanza etica e
ogni possibile dignità dell'uomo, «costituita dalla originaria possibilità di
questo comandamento e dall' 'obbedienza' intesa come risposta umana ad esso:
una risposta balbettante, riluttante, risorgente, ma pur sempre la risposta del
fragile essere umano» [B 136]. «Nel 'monoteismo' - scrive ancora Buber -
l'unicità non è [...] quella di un 'esemplare’, bensì quella del Tu nella
relazione io- 316 Ancora una volta, è importante - in questo contesto -
ricordare l'interesse esclusivo di Michelstaedter per il vangelo di Matteo.
Questo vangelo è il «più completo, ordinato e dottrinale dei primi tre e
rispecchia più e meglio degli altri la primitiva catechesi apostolica, motivo
per cui fu il più utilizzato nei primi tempi della Chiesa, per l'istruzione sia
dei catecumeni che degli adulti. Esso fu scritto per gli Ebrei, per provare ad
essi che Gesù Cristo è il Messia promesso. Infatti fin - dal principio, con la
genealogia, così importante per gli Ebrei, Mt intende dare non soltanto la
realtà ebraica e davidica di Gesù, ma inserire lui, la sua storia e la sua
opera nel complesso della storia della salvezza, che forma l'ossatura di tutto
l'AT. Così, nel discorso posto come a base del nuovo Regno fondato da Gesù,
egli è proposto come il nuovo Mosè che sul monte promulga la nuova legge; e in
tutto il corso del Vangelo è dato il massimo valore all'AT, considerato come
profetico e pedagogo al nuovo Regno» [F. Pasquero, Introduzione al vangelo di
S. Matteo, ed. Paoline, Milano, 1987]. tu, che non conosca sospensioni
nell'ambito della vita vissuta» [B 123]. Il Tu divino è una continua presenza
nel rapporto io-tu, sia nel rapporto stesso che nella singolarità dei
contraenti: «la fede in Dio di Israele è contraddistinta in definitiva dal
fatto che il rapporto di fede esige per essenza di valere per tutta la vita e
di agire in tutta la vita» [ma cfr. l'intero capitolo JHWH il melekh, pagg.
106- 120]. E' qui che Michelstaedter segna il suo distacco e il suo
superamento: egli, ebreo, combatte in assoluto ogni adescamento eteronomo, e
intuisce che l'etica è Persuasione, ovvero - e in modo esclusivo - autonomia
responsabile e responsabilità autonoma, conquista che avviene nell'immediato
dell'uomo senza alcun tramite, se non la considerazione dell'altro come
specchio di sofferenza, come omousia del Tragico, e non come riflesso del volto
di Dio o comunque di entità superiori e costituite. Michelstaedter conclude la
prima Appendice critica alla sua tesi di laurea con un enfatico «Evviva
l'imperativo» [PR 142]. Quest'appendice, apparentemente svolta su questioni di
linguistica logico-formale (i modi verbali), s'impernia su un assunto
etico-filosofico che compendia le convinzioni michelstaedteriane su un
linguaggio, quello degli uomini, ch'è la traduzione più concreta ed esaustiva
dei «modi di relazione sufficiente» [PR 135]: infatti, «ogni parola detta è la
voce della sufficienza - quando uno parla, afferma la propria individualità
illusoria come assoluta», ovvero «ogni cosa detta ha un Soggetto che si finge
assoluto» [id., corsivo di Michelstaedter; in base alle analisi approntate nel
corso del nostro lavoro, il significato di queste affermazioni dovrebb'essere
oramai pacifico]. Alla luce di questo assioma, Michelstaedter de-struttura i
modi del linguaggio: quello diretto, quello congiunto e infine quello correlativo.
Fino a che giunge al modo imperativo, «che non è modo» [PR 141]. Perché quello
imperativo non è un modo? E perché il giovane filosofo lo predilige? Perché
esso non sottende una "relazione sufficiente", «non è realtà intesa,
ma vita; è l'intenzione che vive essa stessa attualmente, e non finge attualità
in ogni modo finita e sufficiente» [PR 141, c. Mich.]: insomma, il Soggetto
«non fa parole, ma vive» [PR 142, c. Mich.]. Ma in che modo il Persuaso vive?
Innanzitutto, si parta da questa importante sfumatura: per Michelstaedter,
l'imperativo non è il modo dell'ingiunzione, del comando, della coercizione,
non è neanche «imperativo di Dio» [B 58]°'”, ma quello della libertà, della
realizzazione concreta della libertà, ovvero è un atto di liberazione. Il
Soggetto, innanzitutto, si libera da se stesso, dalla falsa consistenza che lo
intride. Ma l'imperativo non è neanche un modo impersonale: esso è piuttosto un
modo che coinvolge, che chiama in causa una relazione, una responsabilità, che
evidenzia la sostanza di un tu cui esso si rivolge. Delucidando il senso e
l'abisso di tale responsabilità, si giunge nel cuore dell'essenza persuasa. E'
la Persuasione che mette in gioco la responsabilità, e non viceversa. Non è Dio
che ci destina in un orizzonte responsabile, non è YHWH che c'ingiunge o ci
dona il senso di responsabilità, che ci forma alla responsabilità. Per Lévinas,
ad esempio, la responsabilità umana è «una responsabilità che precede la
libertà, una responsabilità che precede l'intenzionalità» [L 210]: poche righe
dopo, il filosofo ebreo- francese esplicita il senso delle sue parole: «si deve
comprendere piuttosto questa anteriorità della responsabilità rispetto alla
libertà come l'autorità stessa dell'Assoluto [c. n.], ‘troppo grande' per la
misura o la finitezza della presenza, della manifestazione, dell'ordine e
dell'essere» [L 210]; «l'uomo esercita la sua padronanza e la sua
responsabilità come mediatore tra Elohim e i mondi, assicurando la presenza o
l'assenza di Elohim dal concatenamento degli esseri» [L 246-247].
Nell'orizzonte della Persuasione, al contrario, la responsabilità non è la
premessa teologica al rapporto io-tu, non è il vincolo condizionante preparato
da qualsivoglia Torah, Assoluto o «ileità» [L 211], ma la messa-in-atto di
questo rapporto nel momento in cui esso avviene, sul terreno dell'autonomia
senza presupposti, nella condizione di una consistenza che trova 318. Ovvero
nel fondamento esclusivamente nella propria finitezza, nella propria solitudine
momento in cui la consapevolezza del Tragico assurge alla sua espressione
massima, e si converte da consapevolezza in attualità poietica. La stessa
«responsabilità della responsabilità» [L 158-159] non è una delega etica che un
essere superiore affida agli uomini, lasciandoli liberi o meno di rispondere
(la presenza o l'assenza di Elohim), ma un atto di autofondazione di libertà,
in cui libertà e responsabilità vengono a coincidere; non riflesso di una
Legge, ma essa stessa legge di se stessa. Il vir attraversa la morte, convive
con la malattia mortale ed estende la mortalità a termine di confronto con le
altrui vite: ristabilendo un corretto rapporto con l'essere-per-la-morte
dell'uomo, correggendo la prospettiva lontananza-vicinanza dalla morte, la
Persuasione rende manifesto l'essere-nella-morte dell'homo (la vita che vuole
se stessa e crede d'esser vita, l'horror vacui che diviene propellente del
conatus essendi, il deficere preso a pretesto del proprio sufficere) e nobilita
l'essere-con-la-morte del Persuaso. Di fronte al Tragico, e non di fronte a
YHWH, si fonda la solidarietà e la democrazia di un destino, per il quale tutti
sono miei pari nella morte. Vedendo nell'altro se stesso come mortale, il vir
elegge l'altro in un orizzonte di compassione, e quindi di rispetto: in questo
specchiarsi nell'innocenza tragica dell'altro, il Persuaso abdica alla propria
consistenza, avvertendo già la sua stessa affermazione individuale come
violenza "attuale" agìta ai danni dell'altro. 317 «[...] né la storia
biblica ha altro senso se non quello per cui l'imperativo della natura può
cedere all'imperativo di Dio e così elevarsi, la pura passione alla santità
pura, la creazione al regno» [B 58]. 318 Nella dimensione persuasa, dunque,
espressioni quali «dipendenza senza eteronomia» [L 162], «trascendenza che si
fa etica» [L 208], «decisione umana che interviene in un dominio che oltrepassa
l'uomo» [L 181], o ancora «timore libero: riconoscenza sotto forma
d'obbedienza, ma obbedienza senza servitù etc. etc.» [L 173], o infine la summa
- «idea di un potere senza abuso di potere» [L 266], non hanno alcun senso.La
persuasione, dunque, si pone come eccesso d'amore, come olocausto d'amore, che
sacrifica l'io attuale al tu, e fa del tu non soltanto il termine privilegiato
del rapporto, ma il luogo in cui «brucia come fiamma» il rapporto stesso. Il
sacrificio è l'annullamento del sé per la salvaguardia del tu: l'agire del
Persuaso (Sovva!) è l'accollarsi di un surplus di responsabilità verso il tu.
Per recuperare l'umanità del tu c'è bisogno di un'eccedenza d'umanità nel
Persuaso, tal che il Persuaso - alla stregua dell'Essere plotiniano - trabocchi
di essere e doni, sacrifichi la sua eccedenza in vista della Persuasione del
tu, ch'egli non prepara o sollecita, ma salvaguarda e protegge. In questo atto
di amore puro e assoluto della Persuasione, l'unico rimprovero che le si può
muovere contro è l'essersi arrogata una pretesa di salvazione che nessuno le ha
chiesto. Ma cosa è l'amore, il donare, se non dare anche quando nessuno chiede? Uno, tra i motivi occasionali che ci hanno
spinto a scrivere una tesi su Carlo Michelstaedter, è stato la lettura di un
libello (in senso proprio e lato), che porta la firma di Antimo Negri, dal
titolo accattivante: // lavoro e la città. Il piccolo studio si propone come
«un saggio su Carlo Michelstaedter» (così recita il sottotitolo) e, in effetti,
la prima metà di esso sorvola l'opera del Goriziano, fissandone punti
fondamentali e azzeccando spunti intelligenti. Ad un certo punto, però - e
siamo al capitolo E' veramente ‘vita che non è vita', quella civile? -
l'analisi del critico prende una svolta inaspettata di sferzante polemica.
Partendo dalla convinzione (del resto per noi condivisibile e sensata) che
«nella società, è giocoforza responsabilizzarsi come uomini civili e lavoratori
divisi» [N 74], per il Negri prospettare ai lavoratori "distinti" e
agli uomini "civili" una vita altra da quella ch'essi conducono è
soltanto grossolana retorica, una presa in giro, una «promessa del diavolo» [N
75], pericolosa e assolutizzante, metafisica e irriguardosa. L'avversario da
ardere al rogo, nel contesto del saggio, è proprio Michelstaedter: [...] se gli
'autori' hanno veramente detto ciò che egli 'ripete' [il riferimento è alla
prefazione della tesi di laurea], Michelstaedter non fa altro che accomunarli
nel destino del fallimento del loro messaggio ‘persuasivo'. La ragione di
questo fallimento? Sta nel fatto che gli uomini, la maggioranza degli uomini,
nonostante ogni 'riduzione' della loro individualità, nonostante il loro
risolversi in persone sociali", nel mondo della sicurezza' borghese, nel
mondo del lavoro diviso o nel 'regno della rettorica', finiscono col credere
più a Platone che a Socrate, più a Hegel che a Schopenhauer, eccetera. Solo
perché disponibili a farsi 'giusti' per naturale desiderio di sicurezza? Solo
perché hanno paura della morte? Forse, anche perché hanno il coraggio di
vivere, lungo le 'sanguinate vie della storia', la ‘piccola vita' delle
‘individualità ridotte', in obbedienza alle ragioni della civiltà del lavoro e
della tecnica. Anche il pescatore stanco de | figli del mare ha questo
coraggio; e gli si deve rispetto, perché è anche un uomo ‘temprato
all'oggettività' nel senso hegeliano, un uomo 'giusto' nel senso platonico.
Rispetto non gli porta di fatto, Michelstaedter. In realtà, la lettura del
filosofo del lavoro è altamente prevenuta, e questo gli obnubila il senso della
Persuasione michelstaedteriana. Ne è prova quanto scrive in seguito,
indirizzando le sue frecciate a «quanti filosofeggiando si atteggiano a flebili
‘pastori dell'essere» [N 192 61], ossia «agli scopritori e ai riscopritori più
o meno nichilisteggianti di Michelstaedter» [N 71] (e anche qui ci trova
concordi). Ma per lui, già in partenza, quello di Michelstaedter è «il
desiderio di un libero volo oltre il mondo in cui vivono le 'anime implicate»
[N 70], e, in quanto tale, «è desiderio di morte»: «Michelstaedter tende a
'persuadere' ad un 'in-curia' o ‘non-curanza' della stessa società» [adattato
da N 81], ed egli, in questo, si rivelerebbe davvero «maestro di Svoradayoyia»
[N 81], ma un maestro così malefico, sottile e coerente da giungere persino ad
uccidersi per far valere tutta la cattiveria delle sue proposte; tal che il suo
suicidio fa] è un «gesto necessario della sua ‘pedagogia', che preferisce l'
‘essere’ al 'vivere', la ‘vita autentica' alla ‘vita inautentica' [[]» e visto
che [b] «c'è pure un egoismo nel darsi volontariamente la morte [!], senza
curarsi di quanto si può fare per gli altri anche o soprattutto come
‘individualità ridotte*». Ciò di cui il Negri priva i suoi lavoratori distinti
e i suoi soggetti civili è quello che Ernst Bloch chiamava principio speranza:
il che sarebbe anche la cosa meno grave. Infatti, egli dimentica altresì che
dietro tali figure sociali, inserite negli ingranaggi della città giusta, ci
sono degli uomini, e che le conquiste - e la dignità che ne deriva - sono
innanzitutto conquiste di consapevolezza umana, prima che acquisizioni
prettamente sociali o giuridiche o politiche. Egli scrive: Il nostro posto è
nella città, nel mondo del lavoro. Non c'è ideologia 'antilavoristica' che
tenga: il nostro compito resta quello di fare più giusta la città, più umano il
mondo del lavoro, non di uscirne fuori, di abbandonarlo [N 81-82]. Parole che
rivelano un grande, e giustificato, "pragmatismo", e ciò detto senza
alcuna allusione spregiativa. Il fatto è che Michelstaedter, scrivendo della
Persuasione, si pone su uno scalino indietro (o avanti, dipende dai punti di
vista) quando appunta il suo interesse piuttosto sulla dimensione dell'umano
che precede la sovrastruttura della giustizia cittadina e della socialità del
lavoro. Sinceramente, non vediamo in ciò alcuna «ideologia antilavoristica», né
una presa di posizione, come dire, gratuita e tignosa contro la "vita
empirica" degli uomini. Il merito di Michelstaedter è stato quello d'aver
individuato, al di là o al di sotto dell'alacrità sociale, un peccato umano tra
i più puniti anche da Dante: l'accidia spirituale. Di contro, il più grande
demerito dell'invincibile illusione sociale della rettorica - propinata
attraverso lo strumento ipnagogico della Svoradaywyix - è quello di obliterare
l'umanità degli uomini e d'incoraggiarne appunto l'accidia: tal che quando
Michelstaedter parla di «possesso presente della propria vita» non intende un
allontanarsi dalla congerie sociale, o semplicemente un disdegnarla (il che
sarebbe, oltre tutto, impossibile, vista la politicità che contraddistingue gli
uomini), ma un vivere la nostra esistenza, anche sociale, alla luce di una
nuova consapevolezza, di tipo socratico, che precede la stessa "coscienza
civile": ovvero, nella consapevolezza che in ogni uomo c'è un fondo di
Persuasione - un «centro religioso», direbbe Capitini - che dev'essere
recuperato e 193 salvaguardato, una plenitudo ed un'aeternitas che non è
astorica o ultramondana o antimondana, ma che rivela una dignità che
chiameremmo ontologica, se non avessimo timore di equivocare adottando un
termine abusato. La vita degli uomini, prima di essere vita di relazione in cui
ognuno dà e ognuno chiede (il cosiddetto mutualismo), è una interminabili vitae
tota simul et perfecta possessio?”9, tanto per prendere in prestito le parole
di S. Tommaso, e in questo l'uomo è assimilabile addirittura a Dio. In suddetta
convinzione michelstaedteriana - che è una bestemmia in bocca ad un ebreo, e
che forse segna il traguardo di presunzione di un pensiero che, al di là della
religiosità che lo sottende, si pone, per via di principio, come pensiero
"laico" - si palesa tutto l'amore e il rispetto di cui il Goriziano
investe gli uomini, il mondo e la vita stessa. Il Persuaso non vuol essere un
"persuasor di morte", un apolide o un paria, e se lo è, è l'ingiusta
conseguenza cui l'emarginazione rettorica lo destina; ed anche allora, il vir
non è un asceta che si rinchiude, beato, nella sua sdegnosa autosufficienza, o
un moralista che, da uno scranno, discetta sull'inettitudine o sulla
"senilità" degli uomini che, ignari del loro non- essere, si
affaccendano nel mondo. Il vir è Qohelet, partecipa comunque all'assemblea
degli uomini, «àncora la [sua] vita nella concreta molteplicità del prossimo»
[C 66]. La sua «anima ignuda» [PR 10] non è un abito di santità ch'egli indossa
per distinguere la propria nobiltà di spirito, ma il risultato di una
spoliazione dei travestimenti rettorici entro cui siamo «incamiciati», un
raggiungere la nudità del nostro essere sfrondando gli orpelli del sufficere, e
non un'angelolatria; e, ancora, l'«isola dei beati» [PR 10] non è un mondo
marziano o iperuranico, ma la città veramente giusta, la Gerusalemme dei
liberati, la agathon philia: «Paradiso non è l'assenza della finitezza, ma il
vincerla, con impeto di spirito sereno» [C 64]. Infine, l'esperienza della
Persuasione non è un'esperienza elitaria od escludente, visto che non ci sono libri,
ricettari o raccomandazioni che ci facilitano sulla via della Persuasione:
essa, per principio, si pone come democratica, e l'unica condizione ch'essa
ingiunge (se si può dir così) è che sta ad ogni singolo individuo assumersi la
responsabilità di imboccarla, prendere su di sé il compito della propria
realizzazione, avere il coraggio di costruire la propria dignità di uomo: e
quale migliore artifex di colui il quale è l'artefice unico della propria
umanità? «La persuasione religiosa suscita un sentimento e un'iniziativa
assoluta, e un fermento da rinnovare perennemente, e proprio movendo da sé
stessi, anche se soli» [C 113]: «libertà deve essere continuamente liberazione
» [C 108]. La consapevolezza del Tragico, in cui "consiste" la
Persuasione e la sua libertà, dunque, non mortifica l'attività degli uomini, ma
le conferisce un senso e una dignità addirittura sovraumane, perché non accetta
la vita così com'è, o come ci è data, ma testimonia la "caparbietà"
degli uomini, la loro eccedenza di vita, anche nella consapevolezza di esseri-
319 Tommaso, Summae Theologiae, prima pars quaestio X, De Dei aeternitate in
sex articulos divisa, articulus |. per-la-morte: e la stessa relazione
dare-chiedere ne viene promossa a donare, in un orizzonte di rispetto e di amore
che coinvolge tutti gli enti mondani, senza alcuna cesura metafisica o etica. E
allora, non si incorra nell'equivoco di scambiare la Persuasione per semplice
determinazione, per mera disposizione di volontà, per arbitrio di proprie
convinzioni imposte alla comunità degli uomini, per malevola, pertinace
coerenza d'intenzioni eccentriche o malsane: diversamente, si potrebbero a buon
ragione dire persuasi un Hitler o un Callicle. La dimensione persuasa non è una
dimensione anarchica, dove ognuno dice o fa ciò che vuole, convinto di
realizzare una propria, singolare, gretta persuasione: essa ha l'unico suo
limite e l'unica sua legge (che non è sintomo di eteronomia, perché autonoma
assunzione di responsabilità) nel confine segnato dalla libertà e dal diritto
dell'altra persona: la Persuasione «è stretta sulla base della non menzogna che
è il riconoscimento in altri della stessa volontà operante vicino alla mia
finitezza, superamento della separazione, atto di fede che attua la vicinanza,
la trasparenza» [C 111]. La Persuasione è trasparenza etica. Che un simile
"programma" di umanità sia destinato al fallimento - o sia guardato
con ironia, o sia tacciato di melliflua retorica, che condisce una
"adolescenziale" illusione - non è una prova schiacciante da
ribaltare sardonicamente contro il suo autore, ma un ulteriore elemento di
meditazione sulle dilaganti potenzialità oniriche e violente - ovvero di una
violenza occulta o scoperta, a seconda dei casi - del dispositivo e
dell'armamentario
rettorico, che da sempre ci affligge. Carlo Raimondo
Michelstaedter. Carlo Michelstaedter. Michelstaedter. Keywords: l’implicatura
di Platone. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e
Michelstaedter: retorica e persuasione," per il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Michelstaedter” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Mieli: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’uccello del paradiso; ovvero, la lingua perduta del
desiderio – la Paradisaeidae di Swinton – filosofia lombarda -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Milano).
Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “Speranza has studied this; he
calls it ‘Dorothea Oxoniensis,’ and indeed it is a joint endeavour with C. R.
Stevenson – who *knows*!” -- «Spero che la lettura di questo libro favorisca la
liberazione del desiderio gay presso coloro che lo reprimono e aiuti quegli
omosessuali manifesti, che sono ancora schiavi del sentimento di colpevolezza
indotto dalla persecuzione sociale, a liberarsi della falsa colpa»
(Elementi di critica omosessuale. M Attivista e scrittore italiano, teorico
degli studi di genere. È considerato uno dei fondatori del movimento
omosessuale italiano, nonché uno tra i massimi teorici del pensiero
nell'attivismo omosessuale italiano. Legato al marxismo rivoluzionario, è noto
soprattutto come eponimo del Circolo di cultura omosessuale M. e per il suo
saggio Elementi di critica omosessuale pubblicato nella sua prima edizione da
Einaudi nel 1977. M. penultimo dei sette figli di Walter Mieli e di
Liderica Salina. Il padre, ebreo e originario di Alessandria d'Egitto, vive a
Milano dalla metà degli anni venti e aveva fondato con successo un'azienda di
filati, divenuta in seguito una delle più importanti nella torcitura e nella
lavorazione della seta. La madre, milanese, era insegnante di lingue.
Sposati, durante la seconda guerra mondiale i coniugi M. erano sfollati a Lora,
frazione di Como. Mario crebbe in questa cittadina, pur mantenendo forti legami
con Milano dove il padre continuava a lavorare e a risiedere. Il giovane
Mario si stabilì definitivamente nel capoluogo lombardo quando si iscrisse al
liceo classico Giuseppe Parini, raggiunto due anni dopo dalla sorella minore
Paola, alla quale fu sempre molto legato. Già in questi anni diede
dimostrazione della sua viva intelligenza e dichiarò la propria omosessualità.
Secondo quanto testimoniato dal compagno Milo De Angelis, nfondò un circolo di
poesia che divenne anche un luogo di incontro per omosessuali. Fu pienamente
coinvolto nella contestazione ed evocò questo periodo nel suo romanzo
autobiografico Il risveglio dei faraoni. A causa della sua miopia fu
esonerato dal servizio militare alla fine del liceo, si trasferì a Londra per
perfezionare l'inglese, come già avevano fatto altri suoi familiari. Qui
frequentò il "Gay Liberation Front" venendo a contatto con
l'attivismo omosessuale nella sua fase più intensa, subito dopo i moti di
Stonewall. Tornato in Italia, fu, insieme ad Angelo Pezzana, tra i soci
fondatori del celebre Fuori! a Torino, prima associazione italiana del
movimento di liberazione omosessuale italiano. Convinto assertore di una
rivoluzione gay in chiave marxista, si allontanò dal Fuori! insieme a tutta la
cellula milanese dell'associazione quando questa si legò al Partito
Radicale. Nello stesso anno fondò a Milano i Collettivi Omosessuali
Milanesi e i Collettivi parteciparono al Festival del proletariato giovanile di
Parco Lambro, dove Mieli lanciò dal palco lo slogan Lotta dura, Contronatura!.
Si laureò in filosofia morale con una tesi, poi pubblicata con modifiche, da
Einaudi con il titolo di Elementi di critica omosessuale e che divenne un
fondamento delle teorie di genere in Italia e, in misura minore, all'estero,
venendo tradotto e pubblicato in inglese nel 1980 con il titolo Homosexuality
and liberation: elements of a gay critique ed in spagnolo con il titolo
Elementos de crítica homosexual dall'editrice Anagrama. Elementi fu uno dei
testi base dei collettivi autonomi gay. M. fu uno dei primi a contestare
apertamente le categorie di genere vestendosi quasi sempre con abiti femminili.
Nel frattempo si dedicava al teatro, destando scandalo nella mentalità
dell'epoca con opere come lo spettacolo La Traviata Norma. Ovvero: Vaffanculo...
ebbene sì! Dava volutamente scandalo anche per il modo in cui si presentava,
utilizzò anche immagini e ruoli per portare avanti la propria battaglia dei
diritti individuali inalienabili. Nel corso della sua esistenza, cercò di
superare i limiti, fece uso di droghe e si dette a pratiche sempre più estreme,
inclusa la coprofagia. Durante un viaggio a Londra, Mieli, vicino già
all'antipsichiatria, iniziò a interessarsi di psicoanalisi; fu nuovamente
arrestato, quando, semi-nudo e in preda a una crisi psichica, fu fermato
nell'aeroporto di Heathrow, in cerca di un poliziotto con cui avere un rapporto
sessuale. Prima venne incarcerato, poi messo nella sezione psichiatrica del
Marlborough Day hospital, assistito dai familiari venuti dall'Italia in attesa
del processo. Venne ricondotto a Milano, dopo la condanna a pagare una
multa, e ricoverato in una clinica psichiatrica per un mese. Una volta dimesso,
su consiglio del suo psicoanalista Zapparoli, i genitori gli diedero un
appartamento autonomo. L'anno seguente viaggiò ad Amsterdam e di nuovo a Londra
e si laurea con lode in filosofia. Poco dopo lasciò l'appartamento che gli
avevano trovato e interruppe la terapia psichiatrica. Al V congresso del
Fuori!, che sancì la sua rottura col movimento e con Pezzana, M. prese la
parola, si dichiarò transessuale e parlò della sua esperienza di malattia
mentale («sono stato definito uno schizofrenico paranoide, sono stato in
ospedale, in manicomio per questo motivo») e di omosessualità. Dopo questo
periodo si dedicò alla stesura degli Elementi di critica omosessuale.
Negli ultimi anni di vita si dedicò all'esoterismo e all'alchimia, abbastanza
isolato dal resto del movimento omosessuale, e lavorando al romanzo Il
risveglio dei faraoni. Morì suicida infilando la testa nel forno della sua
abitazione di Milano dopo un lungo periodo di depressione. Tra i motivi del suo
gesto estremo fu l'ostruzionismo che il padre, influente industriale milanese,
aveva fatto per impedire la pubblicazione della sua ultima opera, Il risveglio
dei faraoni, ritenendolo troppo autobiografico e lesivo dell'onore famigliare.
A lui è intitolato il Circolo di cultura omosessuale M. sorto a Roma nello stesso
anno della morte. Il pensiero Il transessualismo universale Il pensiero
di M. consiste nel ritenere che ogni persona è potenzialmente transessuale se
non fosse condizionata, fin dall'infanzia, da un certo tipo di società che,
attraverso quella che Mieli chiamava "educastrazione", costringe a
considerare l'eterosessualità come normalità e tutto il resto come perversione.
Per transessualità, non intende quello che si intende oggi nella comune
accezione del termine, ma l'innata tendenza polimorfa e "perversa"
dell'uomo, caratterizzata da una pluralità delle tendenze dell'Eros e da
l'ermafroditismo originario e profondo di ogni individuo. La liberazione
omosessuale in chiave marxista fu tra i primi studiosi ed attivisti del
Movimento di Liberazione Omosessuale Italiano, accanto a Castellano,Consoli,
Modugno e Pezzana. Tutti partivano dalla
certezza che la liberazione dall'ancestrale omofobia dovesse fondarsi sulla
consapevolezza della propria identità, censurata fin dalla nascita dalla
cultura dominante, da loro ritenuta antropologicamente sessuofoba e
pervicacemente omofoba. Da queste basi partivano per abbattere la
discriminazione pluri-secolare nei confronti di chi non si identificava nella
sessualità assiomaticamente definita come naturale e normale. Abbracciò
immediatamente il marxismo, cercando di rimodularlo sulle istanze della lotta
di liberazione ed emancipazione omosessuale e ritenendo la società capitalista
intrinsecamente omofoba. Rilettura della psicanalisi Negli Elementi di
critica omosessuale, volle rielaborare alcuni degli spunti teorici della teoria
della sessualità di Freud, attraverso la lettura che, tra gli anni Cinquanta e
Sessanta, ne aveva fatto Marcuse.
Marcuse, infatti, in opere come “Eros e civiltà e L'uomo a una dimensione aveva
voluto fondere marxismo e psicanalisi. Fu proprio Freud, infatti, a sostenere
che l'orientamento sessuale poteva prendere qualsiasi "direzione",
riconducendo eterosessualità e "omosessualità a semplici varianti della
sessualità umana in senso lato. Una non escluderebbe l'altra, e anzi, in
potenza, tutti saremmo pluri-sessuali, "polimorfi" o, più
semplicemente, bi-sessuali. In base a questa riflessione, riteneva che si
dovesse denunciare come assurda e inconsistente l'opposizione ideologica
"eterosessuale" vs "omosessuale", essendo viziato il
principio stesso di "mono-sessualità". A questa prospettiva
unilaterale, che riteneva incapace di cogliere la natura ambivalente e dinamica
della dimensione sessuale, M. ha preferito opporre un principio di eros libero,
molteplice e polimorfo. Per Mieli era tragicamente ridicola «la stragrande
maggioranza delle persone, nelle loro divise mostruose da maschio o da
"donna.” Se il travestito appare ridicolo a chi lo incontra, tristemente
ridicolissima è per il travestito la nudità di chi gli rida in
faccia». Dean, psicoanalista dell'Buffalo, che redasse l'appendice
dell'edizione Feltrinelli di Elementi di critica omosessuale, afferma: «Nel
processo politico di ristrutturazione della società, M. non esita a includere
nel suo elenco di esperienze redentive la pedofilia, la necrofilia e la
coprofagia» e «ridefinisce drasticamente il comunismo descrivendolo come
riscoperta dei corpi. In questa comunicazione alla Bataille di forme materiali,
la corporeità umana entra liberamente in relazioni egualitarie multiple con
tutti gli esseri della terra, inclusi "i bambini e i nuovi arrivati di
ogni tipo, corpi defunti, animali, piante, cose" annullando
"democraticamente" ogni differenza non solo tra gli esseri umani ma
anche tra le specie». A questa rivoluzione sociale sono di ostacolo
determinati elementi, ritenuti da Mieli come «pregiudizi di certa canaglia
reazionaria» che, trasmessi con l'educazione, hanno la colpa di «trasformare
troppo precocemente il bambino in adulto eterosessuale». Il tema della
pedofilia Da provocatore dei "benpensanti", quale è stato tutta la
breve vita, facendo esplicitamente riferimento a Freud, M. affrontò a modo suo
anche il tema della sessualità infantile, per questo andando incontro a forti
critiche. I bambini, secondo il pensiero di Mieli, potevano
"liberarsi" dai pregiudizi sociali e trovare la realizzazione della
loro "perversità poliforme" grazie ad adulti consapevoli di quanto
sopra asserito: «Noi checche rivoluzionarie sappiamo vedere nel bambino non
tanto l'Edipo, o il futuro Edipo, bensì l'essere umano potenzialmente libero.
Noi, sì, possiamo amare i bambini. Possiamo desiderarli eroticamente
rispondendo alla loro voglia di Eros, possiamo cogliere a viso e a braccia
aperte la sensualità inebriante che profondono, possiamo fare l'amore con loro.
Per questo la pederastia è tanto duramente condannata. Essa rivolge messaggi
amorosi al bambino che la società invece, tramite la famiglia, traumatizza,
educastra, nega, calando sul suo erotismo la griglia edipica. La società
repressiva eterosessuale costringe il bambino al periodo di latenza; ma il
periodo di latenza non è che l’introduzione mortifera all’ergastolo di una
«vita» latente. La pederastia, invece, «è una freccia di libidine scagliata
verso il feto» (Francesco Ascoli)» (Elementi di critica omosessuale).
Nella nota 88 si legge: «Per pederastia intendo il desiderio erotico
degli adulti per i bambini (di entrambi i sessi) e i rapporti sessuali tra
adulti e bambini. Pederastia (in senso proprio) e pedofilia vengono comunemente
usati come sinonimi» (Elementi di critica omosessuale). Il tema
dell'alterazione psichica, della follia Mieli faceva uso di sostanze
stupefacenti, attraverso le quali mirava a superare lo stato di normalità in
cui riteneva le persone intrappolate. Riteneva che nevrosi, follia, paranoia,
delirio e, soprattutto, la schizofrenia, al pari dell'omosessualità fossero
caratteristiche latenti in tutti gli esseri umani e, con riferimento a Jung,
che tali condizioni permettessero «la (ri)scoperta di quella parte di noi che
Jung definirebbe “Anima” oppure “Animus”». In riferimento all'omosessualità,
considerava che potesse essere una porta verso il lato inesplorato della
personalità, in analogia con la follia: “La paura dell’omosessualità che distingue
l’homo normalis è anche terrore della “follia” (terrore di se stesso, del
proprio profondo). Così, la liberazione omosessuale si pone davvero come ponte
verso una dimensione decisamente altra: i francesi, che chiamano folles le
checche, non esagerano». Opere: “Comune futura,” “Elementi di critica
omosessuale, Einaudi, Torino, Elementi di critica omosessuale, Barilli e M.,
Feltrinelli, Milano, Elementi di critica
omosessuale, G. Barilli e Paola Mieli, Feltrinelli, Milano, “Il risveglio dei
faraoni,” preservato da Marc de' Pasquali e Umberto Pasti, Cooperativa Colibri,
Milano, “Il risveglio dei faraoni,” Alfonso Sarrio Solidago, dR, Milano, “Oro, eros e armonia,” G. Silvestri e A.Veneziani,
Edizioni Croce, Oro, eros e armonia, Gianpaolo Silvestri e Antonio Veneziani,
Edizioni Croce, “E adesso,” S. Laude,
Clichy, Teatro La Traviata Norma.
Ovvero: Vaffanculo... ebbene sì!, Film “Gli anni amari, regia di A. Adriatico..
T. Giartosio, Perché non possiamo non
dirci: letteratura, omosessualità, mondo, Feltrinelli, Barilli, Il movimento gay in Italia,
Feltrinelli, L. Schettini, M. in Dizionario biografico degli italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Ideologia. Progetto omosessuale
rivoluzionario, in Elementi di critica omosessuale, Dizionario Biografico degli
Italiani, in Treccani, Trascrizione del suo intervento in congresso nazionale
del “Fuori!”, in Fuori! rancobuffoni/ files/pdf/gp_leonardi_mieli.pdf M., artista contro la violenza, in La
Stampa, Elementi di critica omosessuale,
Einaudi, M. Elementi di critica omosessuale. Milano, Einaudi, Estremo e
dimenticato. Storia di un intellettuale provocatore., in Treccani Il tascabile,
M., Mieli, Paola. e Rossi Barilli, Gianni., Elementi di critica omosessuale Il
risveglio dei Faraoni, in A. Solidago, PRIDE, Milano, dR Edizioni, Silvestri,
L'ultimo M.: Oro Eros Armonia: contributi di Ivan Cattaneo e A. Veneziani, 2
ed. riveduta e corretta, Libreria Croce, De Laude, Silvia,, Mario Mieli: e
adesso, A. Pezzana. La politica del
corpo. Roma, Savelli, E. Modugno. La mistificazione eterosessuale. Milano,
Kaos. S. Casi. L'omosessualità e il suo doppio: il teatro di M. Rivista di
sessuologia (numero speciale L'omosessualità fra identità e desiderio,Francesco
Gnerre. L'eroe negato. Milano, Baldini e Castoldi, M. Philopat, Lumi di punk:
la scena italiana raccontata dai protagonisti, Milano, Agenzia, Concetta
D'Angeli, Teatro Talento Tenacia... Mario Mi"Atti&Sipari" Circolo
di cultura omosessuale Mario Mieli Fuori! Marc de' Pasquali Movimento di
liberazione omosessuale Omosessualità Queer Storia dell'omosessualità in Italia
Studi di genere Teoria queer Transessualismo. Biografia, in italiano, su
culturagay. Chi era M. (articolo sul
gay.tv), su gay.tv Circolo di cultura omosessuale "Mario
Mieli", su mariomieli.org. Mario Mieli. Mieli. Keywords: l’uccello del
paradiso; overo, la lingua perduta del desiderio. Refs. Luigi Speranza, “Grice
e Mieli” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Miglio: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale -- implicatura ligure – la
LIGVRIA e la PADANIA -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Como). Filosofo
italiano. Como, Lombardia. Grice:
“Berlin, who thought was a philosopher, ended up lecturing on the history of
ideas, i..e. ideology – M. defines ideology so simply that would put Berlin to
shame: an ideology is what politicians propagate to reach or buy consensus!”
-- essential Italian philosopher. Sostenitore della trasformazione dello Stato italiano
in senso federale o, addirittura, confederale, fra gli anni ottanta e i
novanta è considerato l'ideologo della Lega Lombarda, in rappresentanza della
quale fu anche senatore, prima di "rompere" con Umberto Bossi dando
vita alla breve stagione del Partito Federalista. Polo scolastico
"M." ad Adro. Costituzionalista e scienziato della politica, fu
senatore della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. Ha
insegnato presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ove fu
preside della Facoltà di Scienze politiche. È stato allievo d’Entrèves e
Pallieri, sotto la cui docenza si è formato sui classici del pensiero giuridico
e politologico. Colpito da ictusnon si riprese e morì ottantatreenne
nella sua stessa città natale, Como, circa un anno dopo. Il funerale si tenne a
Domaso, sul Lago di Como, comune d'origine del padre e sede di una villa nella
quale il professore si rifugiava spesso; in seguito M. è stato tumulato nel
locale cimitero, a fianco dei membri della sua famiglia. Laureatosi in
Giurisprudenza all'Università Cattolica con la tesi, “Origini e i primi
sviluppi delle dottrine giuridiche internazionali pubbliche nell'età moderna”, evitò
l'arruolamento per la Seconda guerra mondiale a causa di un difetto uditivo
congenito, e poté divenire assistente volontario alla cattedra di Storia delle
dottrine politiche, che d'Entreves tenne sino alla fine degli anni quaranta
nella medesima università. Libero docente, si dedicò negli anni cinquanta
allo studio delle opere di storici e giuristi, soprattutto tedeschi: dai
quattro volumi del Deutsche Genossenschaftsrecht di Gierke, ai saggi di storia
amministrativa di Otto Hintze, alcuni dei quali, negli anni seguenti, vennero
tradotti in italiano dal suo allievo e ferrato germanista Schiera (O. Hintze, Stato e società,
Zanichelli). Fu di quegli anni l'incontro di M. con l'immensa produzione
scientifica di Weber: il professore comasco fu uno dei primi ad aver studiato a
fondo “Economia e Società”, l'opera più importante del sociologo tedesco che
era stata completamente trascurata in Italia. Sviluppo del lavoro
scientifico Miglio storico dell'amministrazione Alla fine degli anni cinquanta,
M. fonda con il giurista Benvenuti l'ISAP Milano (Istituto per la Scienza
dell'Amministrazione Pubblica), ente pubblico partecipato da Comune e Provincia
di Milano, di cui ricopri per alcuni anni la carica di vicedirettore. In un
saggio memorabile intitolato Le origini della scienza dell'amministrazione, il
professore comasco descriveva con elegante chiarezza le radici storiche della
disciplina. L'interesse per il campo dell'amministrazione era dovuto in quegli
anni alle politiche pianificatrici che gli stati andavano conducendo per
l'incremento della crescita economica. La Fondazione italiana per la
storia amministrativa Ben presto M. sente tuttavia l'esigenza di studiare in
modo più sistematico la storia dei poteri pubblici europei e, negli anni
sessanta, costituì la Fondazione italiana per la storia amministrativa: un
istituto le cui ricerche vennero condotte con rigoroso metodo scientifico. A
tal proposito, il professore aveva appositamente preparato per i collaboratori
della fondazione uno schema di istruzioni divenuto famoso per chiarezza e
organicità. In realtà, fondando la F.I.S.A. M. si era posto l'ambizioso
obiettivo di scrivere una storia costituzionale che prendesse in esame le
amministrazioni pubbliche esistite in luoghi e tempi diversi: in tal modo egli
sarebbe riuscito a tracciare una vera e propria tipologia delle istituzioni dal
medioevo all'età contemporanea, al cui interno sarebbero stati indicati i
tratti distintivi o, viceversa, gli elementi comuni di ogni potere pubblico. Ma
v'era un'altra ragione che aveva indotto M. a studiare i poteri pubblici in
un'ottica, come scriveva lui stesso, analogico-comparativa. Servendosi di
un metodo scientifico che Hintze aveva parzialmente seguito nella prima metà
del Novecento, il professore comasco intendeva definire l'evoluzione storica
dello stato moderno, storicizzando in tal modo le stesse istituzioni contemporanee.
La fondazione pubblica tre collezioni: gli Acta italica, l'Archivio (diviso in
due collane: la prima riguardante ricerche e opere strumentali, la seconda
dedicata alle opere dei maggiori storici dell'amministrazione) e gli Annali.
Tra i più autorevoli lavori storici pubblicati nell'Archivio, si ricordano il
volume sui comuni italiani di Goetz e il famoso saggio di Vaccari sulla
territorialità del contado medievale. Nella prima serie alcuni giovani studiosi
poterono invece pubblicare le loro ricerche di storia delle istituzioni:
Rossetti, allieva dello storico Violante, vi diede alle stampe un approfondito
studio sulla società e sulle istituzioni nella Cologno Monzese dell'Alto
Medioevo; Petracchi pubblicò la prima parte di un'interessante ricerca sullo
sviluppo storico dell'istituto dell'intendente nella Francia dell'ancien
régime; occorre inoltre ricordare il poderoso volume di Pierangelo Schiera sul
cameralismo tedesco e sull'assolutismo nei maggiori stati germanici. Su
tutt'altro piano si poneva invece la collezione della F.I.S.A. denominata Acta
italica: al suo interno dovevano essere pubblicati i documenti relativi
all'amministrazione pubblica degli stati italiani preunitari: è probabile che
l'ispirazione per quest'ultima serie fosse venuta a M. dallo studio delle
opere di Hintze: lo storico tedesco aveva infatti scritto alcuni saggi
sull'amministrazione prussiana pubblicandoli negli Acta borussica,
un'autorevole collana che raccoglieva le fonti storiche dello stato degli
Hohenzollern. L'edizione dei lavori della commissione Giulini Tra i
volumi degli Acta italica, occorre ricordare l'edizione dei lavori della
Commissione Giulini curata da Raponi uno studio cui M. tenne molto e di cui si
servì, molti anni dopo, per la stesura del celebre saggio su “Vocazione e
destino dei lombardi” (in La Lombardia
moderna, Electa, ripubblicato in Miglio, Io, Bossi e la Lega, Mondadori). La
commissionei cui lavori avevano avuto luogo a Torino sotto la presidenza del
nobile milanese Cesare Giulini della Portaaveva il compito di elaborare
progetti di legge che sarebbero entrati in vigore in Lombardia nel periodo
immediatamente successivo alla guerra. Cavour, che in quegli anni ricopriva la
carica di primo ministro, voleva che il governo, nel sancire l'annessione dei
nuovi territori al Piemonte di Vittorio Emanuele, mantenesse separati gli
ordinamenti amministrativi delle due regioni, lasciando che in Lombardia
continuassero a sussistere una parte delle istituzioni austriache
esistenti. Il saggio Le contraddizioni dello stato unitario Nel saggio
magistrale Le contraddizioni dello stato unitario scritto in occasione del
convegno per il centenario delle leggi di unificazione, M. prese in esame gli
effetti devastanti che l'accentramento amministrativo aveva provocato nel
sistema politico italiano. La classe politica italiana non fu capace di
elaborare un ordinamento amministrativo che consentisse allo stato di governare
adeguatamente un territorio esteso dalle Alpi alla Sicilia. Ricorrendo a una
felice similitudine, il professore scrisse che la scelta di estendere le norme
piemontesi a tutta Italia fu come "far indossare a un gigante il vestito
di un nano". Secondo M., i nostri "padri della patria",
spaventati dalle annessioni a cascata e dalle circostanze fortunose in cui era
avvenuta l'unificazione, preferirono conservare ottusamente gli istituti
piemontesi, costringendo la stragrande maggioranza degli italiani ad essere
governati da istituzioni che, oltre ad essere percepite come
"straniere", si rivelarono palesemente inefficienti. Nel
saggio, M. ha però messo in luce un altro dato fondamentale; il professore
scrisse che il paese, quantunque fosse stato formalmente unito dalle norme piemontesi,
continuò nei fatti a restare diviso ancora per molti anni: le leggi, che il
Parlamento emanava dalle Alpi alla Sicilia, venivano infatti interpretate in
cento modi diversi nelle regioni storiche in cui il Paese continuava,
nonostante tutto, ad essere naturalmente articolato. Era il federalismo che,
negato alla radice dalla classe politica liberal-nazionale in nome dell'unità,
si prendeva ora la rivincita traducendosi in forme evidenti di
"criptofederalismo".[senza fonte] Sono inoltre fondamentali,
nella sua formazione i saggi di Brunner. Di Brunner fa tradurre svariati saggi,
Per una nuova storia costituzionale e sociale (Vita e Pensiero), ma promosse
anche la pubblicazione dell'opera monumentale Land und Herrschaft: in questo
lavorouscito per la prima volta Brunner aveva preso in esame la costituzione
materiale degli ordinamenti medievali, ponendo in evidenza i numerosi elementi
di diversità tra la civiltà dell'età di mezzo e quella moderna, soprattutto nel
modo di concepire il diritto. La traduzione di Land und Herrschaft,
affidata inizialmente alle cure di Emilio Bussi, sarebbe dovuta comparire
nell'elegante collana della F.I.S.A. già negli anni sessanta. Interrotto negli
anni seguenti, il lavoro venne invece portato a compimento solo nei primi anni
ottanta dagli allievi Schiera e Nobili. Pubblicato da Giuffré con il titolo di
"Terra e potere", il capolavoro di Brunner apparve negli Arcana
imperii, la collana di scienza della politica di cui M. era divenuto direttore.
Il professore comasco si occupò inoltre dei contributi recati alla scienza
dell'amministrazione da parte di altri due storici e giuristi tedeschi: Stein e
Gneist. La chiusura della FISA Negli anni Settanta la F.I.S.A. dovette
chiudere i battenti per mancanza di fondi. Il professor M., ricordando a
distanza di tempo la fine di quell'autorevole collana di storia delle
istituzioni, ne espose le ragioni con un breve commento: "Malgrado la sua
efficienza, la F.I.S.A. ebbe vita breve: gli enti che provvedevano al suo
finanziamento, non scorgendo l'utilità politica immediata della sua attività,
strinsero i cordoni della borsa. M. scienziato della politica e
costituzionalista Negli anni ottanta, il degenerarsi del clima politico in
Italia indusse il professor M. ad occuparsi di riforme istituzionali; egli
intendeva contribuire in tal modo alla modernizzazione del paese. Fu così che, raggruppando
un gruppo di esperti di diritto costituzionale e amministrativo stese un
organico progetto di riforma limitato alla seconda parte della costituzione. Ne
uscirono due volumi che, pubblicati nella collana Arcana imperii, vennero
completamente trascurati dalla classe politica democristiana e socialista. Tra
le proposte più interessanti avanzate dal "Gruppo di Milano"così
venne definito il pool di professori coordinati da M. v'era il rafforzamento
del governo guidato da un primo ministro dotato di maggiori poteri, la fine del
bicameralismo perfetto con l'istituzione di un senato delle regioni sul modello
del Bundesrat tedesco, ed infine l'elezione diretta del primo ministro da
tenersi contemporaneamente a quella per la camera dei deputati. Secondo
il gruppo di Milano, queste e numerose altre riforme avrebbero garantito
all'Italia una maggiore stabilità politica, cancellando lo strapotere dei
partiti e salvaguardando la separazione dei poteri propria di uno stato di
diritto. Diversamente dalla F.I.S.A., la collana Arcana imperii era incentrata
esclusivamente sullo studio scientifico dei comportamenti politici. Il citato
volume di Brunner costituì pertanto un'eccezione perché, come si è avuto
modo di accennare, esso doveva essere pubblicato negli eleganti volumi della
F.I.S.A. All'interno della collana Arcana imperii vennero invece inseriti saggi
e contributi di psicologia politica, di etologia, di teoria politica, di
economia, di sociologia e di storia. Intende costituire un vero e proprio
laboratorio dove lo scienziato della politica, servendosi dei risultati portati
alla disciplina dalle diverse scienze sperimentali, e in grado di conseguire
una formazione che si ponesse all'avanguardia. Vi vennero pubblicati più di
trenta saggi. Si ricordano, tra gli altri: il saggio di Ornaghi sulla dottrina
della corporazione nel ventennio fascista, l'edizione degli scritti schmittiani
su Hobbes, la pubblicazione interrotta di alcune opere di Stein, il trattato di
diritto costituzionale di Smend. Degni di nota anche i saggi di Mises e Hayek.
I saggi di squisita fattura, non poterono tuttavia eguagliare l'elegante veste
tipografica di quelli pubblicati dalla F.I.S.A., ed un identico destino parve
accomunare le due collane: anche in questo caso, e infatti costretto a
sospendere le pubblicazioni. Alla sua formazione contribuirono i saggi di
Stein e Schmitt sulle categorie del politico. In ogni comunità sono presenti
due realtà irriducibili: lo “stato” e la “società”. La società è il terreno
della libera iniziativa, ove gli uomini forti vincono sui deboli e tentano di
stabilizzare le loro posizioni attraverso l'ordinamento giuridico. Lo stato è
invece il luogo ove regna il principio di uguaglianza. Lo stato italiano o non
può che identificarsi con la monarchia. Il re d’Italia è infatti l'unica
autorità in grado di intervenire a sostegno dei più deboli. Un monarca, attraverso
il potere di ordinanza, e in grado di modificare la costituzioni giuridiche
cetuali all'interno del suo territorio, una politica che il re d’Italia puo condurre
in porto non senza grosse difficoltà, a vantaggio del BENE COMUNE. Questo e
accaduto nel granducato di Toscana e in Lombardia. Quando si sostene che il
ruolo dello stato italiano dove contro-bilanciare quello della società, si ha in
mente il riformismo illuminato. Ma la sua filosofia si pone all'interno di uno
“stato liberale” e parte dal presupposto che la monarchia, lungi dall'essere un
potere assoluto, dove comunque fare i conti con il potere della “società”
attestato nel parlamento. La omunità prospera solo quando stato e società sono
in equilibrio, ugualmente vitali ed operanti. Una comunità e dominata da due
realtà irriducibili. Lo stato italiano è una realtà storica inserita nel tempo
e, come tutte le creature e specie viventi, destinata a decadere, a scomparire
ed essere sostituita da altre forme di aggregazione politica. La società non e
solo economico-giuridica. E senza dubbio decisivo l'incontro con Schmitt, i cui
saggi sono trascurate dagli intellettuali italiani. L'aiuto che Schmitt presta
al regime hitleriano, in particolare nel sostenere la legalità delle leggi
razziali in un sistema di diritto internazionale, sono più che sufficienti per
oscurare in Italia la sua imponente produzione. I rapporti di Schmitt con il
nazismo sono di breve durata. Prende definitivamente le distanze da Hitler. Di
Schmitt apprezza i saggi di scienza politica e di diritto internazionale. Cura
assieme a Schiera l'edizione italiana di alcuni saggi pubblicati dal Mulino con
il titolo Le categorie del politico. Nella prefazione, si sofferma sui decisivi
contributi portati da Schmitt alla scienza politologica. L'antologia desta
scalpore nel mondo accademico. Bobbio sostenne che destabilizza la sinistra
italiana. È dall'incontro con la produzione di Schmitt che riusce quindi a fabbricarsi
gli strumenti per costruire una parte importante del suo modello sociologico.
L’essenza del politico è fondata sul conflitto tra amico e nemico. E uno
scontro all'ultimo sangue perché la guerra politica porta normalmente
all'eliminazione fisica dell'avversario. L’esempio più emblematico di scontro
politico fosse la guerra civile nella storia dell aroma antica -- tra fazioni
partigiane. Qui il tasso di conflittualità tra amico (Catone) e nemico (Giulio
Cesare) è sempre stato altissimo. Chi ha lo stesso amico non può che avere lo
stessi nemico del proprio compagno di lotta. Si crea la solidarietà tra due
membri (un gruppo) che è decisivo nella guerra contro l’altro gruppo di nemici.
Il rapporto politico è sempre esclusivo. Marca l'identità del gruppo in
opposizione a quella degli altri. L’avvento dello stato italiano portato a
due risultati di eccezionale portata storica. Primo: la fine della guerre
civile all'interno del territorio (le faide e le guerre confessionali) con
l'annientamento del ruolo politico detenuto sino a quel momento dalle fazioni
in lotta (dai partiti confessionali ai ceti). Da quel momento il sovrano e il
supremo garante dell'ordine all'interno dello stato, territorio sempre più
esteso ch'esso governa servendosi di un apparato amministrativo regolato dal
diritto. Il secondo grande risultato e per certi versi una conseguenza del
primo: l'avvento dello stato porta all'erezione di un sistema di diritto
pubblico europeo (ius publicum europeum) assolutamente vincolante per i paesi
che vi aderirono. Anche in questo caso, il tasso di politicità (cioè
l'aggressività delle parti in lotta, gli stati) venne fortemente limitato. La
guerra legittima, intraprese solo dagli stati, vennero condotte da quel momento
in base alle regole dello ius publicum europaeum. Si tratta quindi di un
conflitto a basso tasso di politicità, non foss'altro perché la vittoria di una
delle parti in lotta non puo portare in alcun modo all'annientamento
dell'avversario, il cui diritto di esistenza era tutelato dal diritto e
accettato da tutti gli stati. La crisi dello ius publicum europaeum,
divenuta palese alla fine della Grande Guerrae acuitasi ulteriormente con lo
scoppio delle guerre partigiane nei decenni successivi, resero palese a lui la
fine della regle de droit su cui si e fondato l'universo giuridico occidentale
nei rapporti internazionali tra stati sovrani. La guerra civile e, in modo
particolare, l'estrema politicizzazione avvenuta durante le guerre mondiali con
la criminalizzazione degli avversari lo persuasero che la fine dello ius
publicum europaeum era ormai compiuta. In questo, vide soprattutto il
fallimento della civiltà giuridica occidentale nel suo supremo tentativo di
fondare i rapporti umani unicamente sulle basi del diritto. Prende atto
della fine dello ius publicum europaeum ma non crede che tale processo segna la
fine del diritto e la vittoria definitiva delle leggi aggressive della
politica. Fondando il suo originale modello sociologico, sostenne che la
comunità e sempre rette su due tipi di rapporti: l'obbligazione politica e il
contratto-scambio. Lo stato e un autentico capolavoro perché, apportando un
contributo decisivo alla sua costituzione, il giurista e riuscioi a regolare la
politica inserendola in una norma fondata sulla RAZIONALITA del diritto,
sull'IM-PERSONALINTA del comando e sui concetti di CON-TRATTO e rappresentanza
-- elementi appartenenti alla sfera del contratto/scambio. Il crollo dello
ius publicum europeum ha però messo in crisi la stessa impalcatura su cui si
regge lo stato, che ora dimostra tutta la sua storicità. Non rimane legato
all'idea dell'organizzazione statale. La civiltà occidentale, stesse
attraversando una fase di transizione al termine della quale lo stato e probabilmente
sostituito da altre forme di comunità ove obbligazione politica e
contratto/scambio si reggeranno in un nuovo equilibrio. Lo stato e e giunto al
capolinea. Il progresso tecnologico e, in modo particolare, il più alto livello
di ricchezza cui erano giunti i paesi occidentali lo convinsero che negli anni
successivi sono avvenuti cambiamenti di portata radicale, tali da coinvolgere
anche la costituzione degli ordinamenti politici. Lo stato ha difficoltà nel
garantire servizi efficienti alla popolazione. Ciascun cittadino, vedendo
accresciuto il proprio tenore di vita in forza dell'economia di mercato,
sarà infatti portato ad avere sempre meno fiducia nei lenti meccanismi della
burocrazia pubblica, ch'egli riterrà inadeguata a soddisfare i suoi standard di
vita. L'elevata produttività dei paesi avanzati e la vittoria definitiva
dell'economia di mercato su quella pubblica porterà in altri termini a nuove
forme di aggregazione politica al cui interno i cittadini saranno desti contare
in misura molto maggiore rispetto a quanto non lo siano oggi nei vasti stati in
cui si trovano inseriti. Secondo il professore gli stati democratici, ancora
fondati su istituti rappresentativi risalenti all'Ottocento, non riusciranno
più a provvedere agli interessi della civiltà tecnologica. Con il crollo del
muro di Berlino e la fine della guerra fredda, si creano in altri termini le
premesse perché la politica cessi di ricoprire un ruolo primario nelle comunità
umane e venga invece subordinata agli interessi concreti dei cittadini, legati
alla logica di mercato. La fine degli stati moderni porterà secondo
Miglio alla costituzione di comunità neofederali dominate non più dal rapporto
politico di comando-obbedienza, bensì da quello mercantile del contratto e
della mediazione continua tra centri di potere diversi: sono i nuovi gruppi in
cui sarà articolato il mondo di domani, corporazioni dotate di potere politico
ed economico al cui interno saranno inseriti gruppi di cittadini accomunati
dagli stessi interessi. Secondo il professore, il mondo sarà costituito da una
società pluricentrica, ove le associazioni territoriali e categoriali vedranno
riconosciuto giuridicamente il loro peso politico non diversamente da quanto
avveniva nel medioevo. Di qui l'appello a riscoprire i sistemi politici
anteriori allo stato, a riscoprire quel variegato mosaico medievale costituito
dai diritti dei ceti, delle corporazioni e, in particolar modo, delle libere
città germaniche. Il professore studiò a fondo gli antichi sistemi
federali esistiti tra il medioevo e l'età moderna: le repubbliche urbane
dell'Europa germanica, gli ordinamenti elvetici d'antico regime, la Repubblica
delle Province Unite e, da ultimo, gli Stati Uniti. Ai suoi occhi, il punto di
forza risiedeva precisamente nel ruolo che quei poteri pubblici avevano saputo
riconoscere alla società nelle sue articolazioni corporative e territoriali. M.
si dedica allo studio approfondito di questi temi, progettando di scrivere un
volume intitolato l'Europa degli Stati contro l'Europa delle città. Il libro è
rimasto incompiuto per la morte del professore. L'impegno politico
diretto e il federalism. S iscrisse alla neonata Democrazia Cristiana, che
lascia quando divenne preside della Facoltà di Scienze politiche
dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. M. rimase comunque legato culturalmente alla DC
fnell'immediato domani della Liberazione, fu tra i fondatori, a Como, del
movimento federalista Il Cisalpino, con altri docenti dell'Università Cattolica
di Milano. Ispirato alle idee di Cattaneo, il programma del “Cisalpino”
prevedeva la suddivisione del territorio italiano su base cantonale, secondo il
modello svizzero, con la costituzione di tre grandi macro-regioni (“nord”, “sud”
e “centro”). Il suo nome e proposto per il conferimento del titolo di
Commendatore dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana, ma una volta
informato del fatto rifiuta di accettare l'onorificenza, che venne annullata
con un successivo decreto presidenziale. Si avvicina alla Lega Nord. Eletto al
Senato della Repubblica come indipendente nelle liste della “lega nord” “lega lombarda”
(da allora a lui fu attribuito l'appellativo lombardo di Profesùr) lavora per
il partito con l'intento di farne un'autentica forza di cambiamento. Elabora
un progetto di riforma federale fondato sul ruolo costituzionale assegnato
all'autorità federale e a quella delle tre macro-regioni o cantoni (del Nord o,
“Padania”, del Centro o Etruria, del Sud o Mediterranea, oltre alle cinque
regioni a statuto speciale). Questa architettura costituzionale prevedeva
l'elezione di un governo direttoriale composto dai governatori delle tre
macroregioni, da un rappresentante delle cinque regioni a statuto speciale e
dal presidente federale. Quest'ultimo, eletto da tutti i cittadini in due
tornate elettorali, avrebbe rappresentato l'unità del paese. I puntisalienti
del progetto, esposti nel decalogo di Assago vennero fatti propri dalla Lega
Nord solo marginalmente: il segretario federale, Bossi, preferì infatti
seguire una politica di contrattazione con lo stato centrale che mirasse
al rafforzamento delle autonomie regionali. Il dissenso di Miglio, iniziato al
congresso leghista di Assago, si acuì dopo le elezioni politiche, dove fu
rieletto al Senato, quando il professore si disse non d'accordo sia ad allearsi
con Forza Italia, sia a entrare nel primo governo Berlusconi. Soprattutto M.
non gradì che per il ruolo di ministro delle Riforme istituzionali fosse stato
scelto Francesco Speroni al suo posto. Bossi reagì spiegando: «Capisco
che Miglio sia rimasto un po' irritato perché non è diventato ministro, ma non
si può dire che non abbiamo difeso la sua candidatura. Il punto è che era molto
difficile sostenerla, perché c'era la pregiudiziale di Berlusconi e di Fini
contro di lui. Di fatto, il ministero per le Riforme istituzionali a lui non lo
davano. (Se M. vorrà lasciare la strada della Lega, libero di farlo. Ma vorrei
ricordargli che è arrivato alla Lega e che, a quell'epoca, il movimento aveva
già raggranellato un sacco di consiglieri regionali». In conclusione per Bossi,
M. «pare che ponga solo un problema di poltrone e la difesa del federalismo non
è questione di poltrone. In aperto dissidio con Bossi, lascia la Lega Nord
dicendo di Bossi. Spero proprio di non rivederlo più. Per Bossi il federalismo
è stato strumentale alla conquista e al mantenimento del potere. L'ultimo suo
exploit è stato di essere riuscito a strappare a Berlusconi cinque ministri.
Tornerò solo nel giorno in cui Bossi non sarà più segretario. Nonostante
ciò, moltissimi militanti e sostenitori leghisti continuarono a provare grande
simpatia e ammirazione per il professore e per le sue teorie. Alcuni dirigenti
della Lega tennero comunque vivo il dialogo con Miglio, in particolar modo
Pagliarini, Francesco Speroni e il presidente della Libera compagnia padana
Oneto, al quale il professore era particolarmente legato. In particolare M. fu
in stretti rapporti con l'ex deputato leghista Negri, col quale fonda il Partito
Federalista. Eletto ancora una volta al Senato, nel collegio di Como per il
Polo per le Libertà, iscrivendosi al gruppo misto. Negli anni in cui la
Lega si spostò su posizioni indipendentiste, il professore si riavvicinò alla
linea del partito, sostenendo a più riprese la piena legittimità del diritto di
secessione della Padania dall'Italia come sottospecie del più antico diritto di
resistenza medievale. Nella sua originale riflessione sul contrasto tra i
regimi giuridici freddi e caldi M. sostenne la necessità di sviluppare,
all'interno delle diverse società e culture, ordini giuridici in grado di
rispondere alle specifiche esigenze. In maniera provocatoria, egli giunse a
dichiararsi favorevole al «mantenimento anche della mafia e della 'ndrangheta.
Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando. Che
cos'è la mafia? Potere personale, spinto fino al delitto. Io non voglio ridurre
il Meridione al modello europeo, sarebbe un'assurdità. C'è anche un
clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire
dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere
costituzionalizzate». La sua riflessione puntava a cogliere quali fossero le
ragioni profonde alla base di mafia, camorra e 'ndrangheta (insieme a ciò che
genera il consenso attorno a queste organizzazioni criminali), perché solo
istituzioni che sono in sintonia con la comunitànel caso specifico, che non
dimentichino la centralità del rapporto personale piuttosto che impersonale
nella società meridionalepossono creare una vera alternativa al
presente. Altre saggi: “La controversia sui limiti del commercio neutrale:
ricerche sulla genesi dell'indirizzo positivo nella scienza del diritto delle
genti,” Milano, Ispi, La crisi dell'universalismo politico medioevale e la
formazione ideologica del particolarismo statuale moderno, Pubbl. Fac.
giurispr. Univ. Padova, La struttura ideologica della monarchia greca arcaica
ed il concetto patrimoniale dello stato nell'eta antica, Jus. Rivista di
scienze giuridiche, Le origini della scienza dell'amministrazione, Milano,
Giuffrè, L'unità fondamentale di
svolgimento dell'esperienza politica occidentale, in: "Rivista
internazionale di scienze sociali", “I cattolici di fronte all'unità
d'Italia, Vita e pensiero, “L'amministrazione nella dinamica storica, in:
Istituto per la Scienza dell'Amministrazione Pubblica, Storia Amministrazione
Costituzione, Bologna, Mulino, Le trasformazioni dell'attuale regime politico,
in: "Jus. Rivista di scienze giuridiche", “ Il ruolo del partito
nella trasformazione del tipo di ordinamento politico vigente. Il punto di
vista della scienza della politica, Milano, La nuova Europa editrice,
L'unificazione amministrativa e i suoi protagonisti, Vicenza, Neri Pozza, La
trasformazione delle università e l'iniziativa privata, in: Atti del I Convegno
su: Università: problemi e proposte, promosso dal Rotary Club di Milano, Centro
Una Costituzione in corto circuito, Prospettive nel mondo", Ricominciare
dalla montagna. Tre rapporti sul governo dell'area alpina nell'avanzata eta
industriale, Milano, Giuffrè, La
Valtellina. Un modello possibile di integrazione economica e sociale, Sondrio,
Banca Piccolo Credito Valtellinese, Utopia e realtà della Costituzione, in
"Prospettive del mondo", Posizione del problema. Ciclo storico e
innovazione scientifico-tecnologica. Il caso della tarda antichità, in
Tecnologia, economia e società nel mondo romano. Atti del Convegno di Como,
Como, Genesi e trasformazioni del termine-concetto Stato, in Stato e senso
dello Stato oggi in Italia. Atti del Corso di aggiornamento culturale
dell'Università cattolica, Pescara, Milano, Vita e pensiero, Guerra, pace,
diritto. Una ipotesi generale sulle regolarità del ciclo politico, in Curi,
Della guerra, Venezia, Arsenale, Una repubblica migliore per gli italiani.
Verso una nuova costituzione, Milano, Giuffrè, Le contraddizioni interne del
sistema parlamentare integrale, Rivista italiana di Scienza Politica,
Considerazioni sulle responsabilità, Synesis, periodico dell'Associazione
italiana centri culturali", Le regolarità della politica. Scritti scelti
raccolti e pubblicati dagli allievi, Milano, Giuffrè, Il nerbo e le briglie del potere. Scritti
brevi di critica politica, Milano, Edizioni del Sole 24 ore, Una Costituzione
per i prossimi trent'anni. Intervista sulla terza Repubblica, Roma-Bari,
Laterza, Per un'Italia federale, Milano, Il Sole 24 ore, Come cambiare. Le mie
riforme, Milano, Mondadori, Italia. Così è andata a finire, con "Il Gruppo
del lunedì", Collezione Frecce, Milano, Mondadori, ed. Oscar Saggi,
Disobbedienza civile, Milano, Mondadori,
Io, Bossi e la Lega. Diario segreto dei miei IV anni sul Carroccio, Milano,
Mondadori, Come cambiare. Le mie riforme per la nuova Italia, Milano,
Mondadori, Modello di Costituzione Federale per gli italiani, Milano,
Fondazione per un'Italia Federale, Federalismi falsi e degenerati, Milano,
Sperling e Kupfer, Federalismo e secessione. Un dialogo, con Barbera, Milano,
Mondadori, Padania, Italia. Lo stato nazionale è soltanto in crisi o non è mai
esistito?, con M. Veneziani, Firenze, Le Lettere, Le barche a remi del Lario.
Da trasporto, da guerra, da pesca, e da diporto, con Gozzi e Zanoletti, Milano,
Leonardo arte, L'Asino di Buridano. Gli
italiani alle prese con l'ultima occasione di cambiare il loro destino,
Vicenza, Pozza, L'Asino di Buridano. Gli italiani alle prese con l'ultima
occasione di cambiare il loro destino. Nuova edizione, pref. Di Formigoni,
postf. di Romano, Varese, Lativa, M.: un uomo libero, coll. Quaderni Padani, La
Libera Compagnia Padana, Novara, Un M. alla libertà, audiolibro, coll. Laissez
Parler, Treviglio, La Libera Compagnia Padana Facco Editore); li articoli, coll.
Quaderni Padani, La Libera Compagnia Padana, Novara, Gianfranco le interviste,
coll. Quaderni Padani, La Libera Compagnia Padana, Novara, L'Asino di Buridano. Gli italiani alle prese
con l'ultima occasione di cambiare il loro destino, pref. di Formigoni, coll. I
libri di Libero M., Firenze, Libero); “Padania, Italia. Lo stato nazionale è
soltanto in crisi o non è mai esistito? Firenze, Libero; Federalismo e
secessione. Un dialogo, con Barbera, coll. I libri di Libero M. Firenze,
Editoriale Libero, Disobbedienza civile, coll. I libri di Libero; Firenze,
Libero, La controversia sui limiti del commercio neutrale fra Lampredi e
Ferdinando Galiani, pref. di Ornaghi, Torino, Aragno, M.: scritti brevi,
interviste, coll. Quaderni Padani, La Libera Compagnia Padana, Novara, Lezioni
di politica. Storia delle dottrine politiche. Scienza della politica Bologna,
Il Mulino; Bianchi e Vitale, Bologna, Mulino,Discorsi parlamentari, con un saggio
di Bonvecchio, Senato della Repubblica, Archivio storico, Bologna, Mulino, L'Asino di Buridano. Gli italiani alle prese
con l'ultima occasione di cambiare il loro destino -- Opere scelte” (Milano,
Guerini); Considerazioni retrospettive e altri scritti, coll. Opere scelte, Milano,
Guerini e Associati, Lo scienziato della
politica, coll. Opere scelte di M., a cura di Galli, Milano, Guerini, Guerra,
pace, diritto, La Nuova Guerra, S.l. Milano, La Scuola, 1 Scritti politici,
Bassani, coll. I libri del Federalismo, Roma, Pagine, Modello di Costituzione
Federale per gli italiani Torino, Giappichelli; “La Padania e le grandi regioni,
L'unità economico-sociale della Padania Fano, Associazione Oneto); “Il Cerchio,
Schmitt. Saggi, Palano, Brescia, Scholé
Morcelliana); “Le origini e i primi sviluppi delle dottrine giuridiche
internazionali pubbliche Torino, Aragno; “Vocazione e destino dei Lombardi” (S.l.Milano);
“Regione Lombardia, Prefazioni Oneto, Bandiere di libertà: Simboli e vessilli
dei Popoli dell'Italia settentrionale. In appendice le bandiere dei popoli
europei in lotta per l'autonomia, Effedieffe, Milano, Morra, Breve storia del
pensiero federalista Milano, Mondadori; Governo della Padania, Manuale di
resistenza fiscale” (Gallarate, Oneto, “Croci draghi aquile e leoni. Simboli e
bandiere dei popoli padano-alpini; Roberto Chiaramonte EditoreLa Libera
Compagnia Padana, Collegno; Sensini, Prima o seconda Repubblica? A colloquio
con Bozzi e M., Napoli, Edizioni scientifiche italiane, Ornaghi e Vitale,
Multiformità e unità della politica. Atti del Convegno tenuto in occasione del compleanno,
Milano, Giuffrè, Ferrari, “Storia di un giacobino nordista Milano, Liber internazionale);
Bevilacqua, Insidia mito e follia nel razzismo; Il rinnovamento, Campi, “Figure
e temi del realismo politico europeo, Firenze, Akropolis La Roccia di Erec, Capua,
Scienziato impolitico Soveria Mannelli Catanzaro Rubbettino, Vitale, La
costituzione e il cambiamento internazionale. Il mito della costituente,
l'obsolescenza della costituzione e la lezione dimenticata, Torino, CIDAS, Luca
Romano, Il pensiero federalista una lezione da ricordare. Atti del Convegno di
studi, Venezia, Sala del Piovego di Palazzo Ducale, Venezia, Consiglio
regionale del Veneto-Caselle di Sommacampagna, Cierre, Lanchester, M.
costituzionalista, Rivista di politica: trimestrale di studi, analisi e
commenti, Soveria Mannelli Catanzaro,
Rubbettino. Damiano Palano, Il cristallo dell'obbligazione politica in ID.,
Geometrie del potere. Materiali per la storia della scienza politica italiana,
Milano, Vita e Pensiero. Maroni: voglio riprendere l'eredità di M. M. Verde, su
miglio verde. eu. Bossi a sorpresa al convegno su M. a Domaso:"Un
grande"Ciao Como, su Ciao Como, la Repubblica/politica: È morto su
repubblica. Ticino COMO: Lunedì a Domaso i funerali. Riletture. Arianna. il
ricordo. Terre di Lombardia, su terredilombardia. Alessandro, Cristianesimo e
cultura politica: l'eredità di otto illustri testimoni, Paoline, Morra, La vita
e le opere, La Voce di Romagna Il silenzio di M. fa paura alla Lega Bossi: Pensa solo alla poltrona. "Con
Bossi è un amore finito" Miglio
torna nell'arena: è l'occasione buona M.,
Una repubblica mediterranea?, in
Un'altra Repubblica? Perché, come, quando, Laterza, Roma-Bari, U. Rosso,
M. l'antropologo. 'Diverso l'uomo del Sud', in la Repubblica, Non mi fecero
ministro perché avrei distrutto la Repubblica Treccani Istituto dell'Enciclopedia.
Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario
biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. su senato,
Senato della Repubblica. Associazione Openpolis. Istituto per la scienza dell'amministrazione
pubblica, su isapistituto. Interviste Intervista sulla Secessione della
Padania, su prov-varese. Lega nord. Commemorazione di M. nell’anniversario
della scomparsa di Campi, su giovani padani. lega nord. Non mi fecero
ministro perché avrei distrutto la Repubblica, Il Giornale, su new rassegna.camera.
Interviste a M. sui "Quaderni della Libera Compagnia Padana" su la libera
compagnia. Documenti politici Sezione di approfondimento sul pensiero di M., dal
sito ufficiale della Lega Nord. Gianfranco Miglio. Miglio. Keywords:
implicatura ligure. Refs.: Luigi Speranza,
"Grice e Miglio,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library,
Villa Grice, Liguria, Italia. Speranza “Saturdays and Mondays” – The
Swimming-Pool Library.
Grice
e Millia: la ragione conversazionale della setta dell’ottimati a Crotone -- Roma
– filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo
italiano. Pythagorean according to Giamblico. He is said to have been one of a
group of Pythagoreans who were ambushed but found their escape route blocked by
a field of beans. Being prohibited by Pythagoreans precepts from even touching
beans, he preferred death to betraying his principles. Millia.
Grice e Milone: la
ragione conversazionale e la setta d’ottimati di Crotone – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According
to Giamblico, a Pythagorean. He studied with Pythagoras himself. He died when
an anti-Pythagorean mob burnt his house down when he was inside it.
Grice e Minicio: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Adriano nel diritto
romano e Plinio minore-- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Rescritto di Adriano a
Gaio M. Fundano. L'imperatore Adriano, autore del rescritto a Gaio M. Fundano.
Il rescritto di Adriano a Gaio Minucio Fundano è un rescritto imperiale inviato
dall'imperatore romano Adriano a Gaio Minucio Fundano, proconsole d'Asia. Il
documento giuridico, scritto originariamente in latino, fu tradotto e tràdito
in greco ellenistico da Eusebio di Cesarea che si rifaceva a Giustino. Il
testo è noto agli storici e agli studiosi di Storia del Cristianesimo per
essere uno dei più antichi scritti pagani sul cristianesimo. Il documento
di Adriano, pur indirizzato a Minucio Fundano, rispondeva in realtà a
un'istanza sollecitata da Quinto Licinio Silvano Graniano, predecessore del
destinatario: Graniano aveva chiesto lumi sul comportamento da tenere nei
confronti dei cristiani e delle accuse che venivano loro rivolte. Adriano
rispose al proconsole di procedere nei loro confronti solo in presenza di
eventi circostanziati, emergenti da un procedimento giudiziario e non sulla
base di accuse generiche, petizioni o calunnie: veniva stabilito così il
principio dell'onere della prova a carico dei promotori delle accuse. Eventuali
azioni promosse a scopo di calunnia dovevano, al contrario, essere duramente
perseguite e punite, affinché non fosse permesso ai calunniatori di procurare
del male. Il rescritto, che è una delle prime fonti pagane sul cristianesimo, è
anche di somma importanza per la comprensione della politica tenuta da Adriano
e dal suo predecessore Traiano nei confronti dei cristiani: Adriano, infatti,
si mosse su un piano analogo, e anche più garantista, rispetto a quello del suo
predecessore che si era espresso sull'argomento in un precedente rescritto
sollecitato da una specifica richiesta di Plinio il Giovane che era a quel
tempo legatus Augusti pro praetore in Bitinia e Ponto. Giustino sostenne
l'interpretazione più favorevole del rescritto, accettata da una parte della
storiografia moderna. Dubbi esegetici Il significato esatto del rescritto
adrianeo, pur confrontato con quello di Traiano, rimane per alcuni studiosi
controverso. Se è assodata, infatti, l'affermazione del principio dell'onere
della prova da cui, in definitiva, far dipendere la perseguibilità dei
cristiani che avessero agito «contro la legge», non è per tutti chiaro, invece,
fino a qual punto dovesse spingersi l'assolvimento di quell'onere, se fosse
cioè sufficiente provare la sola fattispecie della professione di fede (quello
che Plinio, nella sua epistola a Traiano, chiama il nomen ipsum) o si rendesse
invece necessario circostanziare anche la contemporanea presenza di reati
ascrivibili all'essere cristiani (flagitia cohaerentia nomini), la distinta
fattispecie che Plinio già individuava e intendeva suggerire all'imperatore
nell'indirizzargli la sua richiesta. Tesi di Marta Sordi Marta Sordi,
storica dell'antichità greco-romana e del cristianesimo delle origini,
propendeva per l'interpretazione più favorevole ai cristiani, una posizione
esegetica a cui peraltro già aderiva l'apologetica cristiana, da Giustino in
poi. Secondo la Sordi, Adriano, in linea con la politica del suo predecessore
Traiano, avrebbe non solo confermato il divieto di perseguibilità d'ufficio[8]
ma vi avrebbe anche aggiunto, di suo, due nuovi elementi: Il primo di
essi la Sordi lo individua in quel passo in cui Adriano afferma la necessità di
dover giudicare «secondo la gravità della colpa» (sempre nel caso - beninteso -
di una denuncia sorretta da prove). Il riferimento a una graduabilità della
colpa escluderebbe, secondo Marta Sordi, che quest'ultima potesse ridursi al
solo 'essere cristiani', una fattispecie che poteva rivelarsi vera o falsa, ma
che non poteva ammettere graduazioni: seguendo questa interpretazione, bisogna
quindi ritenere necessaria l'associazione a un diverso reato, ascrivibile allo
status religioso ma non coincidente semplicemente con questo. Questa
interpretazione, inoltre, sempre secondo la studiosa, sarebbe in sintonia con
il tono generale della prosa dell'imperatore, da cui trapela, infine, persino
insofferenza nei confronti di possibili derive intolleranti. L'espressione di
questa insofferenza, sottolineata anche da un'interiezione, è contenuta nella
frase «ma, per Ercole, se qualcuno accampa pretesti per calunniare, tu,
stabilitane la gravità, devi senza indugio punirlo». E proprio in questa frase
si rinviene, secondo Sordi, il secondo elemento di novità rispetto
all'atteggiamento del predecessore: la necessità che le conseguenze di
azioni prive di prova, e pertanto temerarie e calunniose, dovessero ritorcersi
contro gli stessi proponenti. Gianluigi Bastia, Lettera di Adriano, Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica,
Giustino Martire, Apologia Il testo
greco, in Giustino, è riportato in calce (v. Apologia. Rescritto di Adriano a
Caio M. Fundano, proconsole d'Asia (o su
Giustino, Apologia Plinio il Giovane, Epistulae Plinio il Giovane, Epistulae.
CIL Sordi, I Cristiani e l'impero romano, Jaca Book, Milano. Sordi, I Cristiani
e l'impero romano, Jaca, Milano, Bastia, Lettera di Adriano. Eusebio di
Cesarea, Storia Ecclesiastica, Giustino
Martire, Apologi, Plinio il Giovane, Epistulae, CIL, M. Fundano, Gaio, in
Treccani Enciclopedie on line, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Voci
correlate Rescritto di Traiano a Plinio il Giovane Fonti storiche non cristiane
sul cristianesimo Gesù storico Storiografia su Gesù Ricerca del Gesù storico
Storicità di Gesù Onere della prova Ius puniendi Portale Antica
Roma Portale Cristianesimo Portale Diritto Portale Gesù
Categorie: Fonti del diritto romanoStoria antica del cristianesimo Adriano [altre]
Military diploma (CIL) attesting his consulship suffect consul. In office Nationality: Roman;
Occupation: politician. A Roman senator who holds several offices in the
Emperor's service, and is an acquaintance of PLINIO MINORE. He is suffect
consul with Tito Vettenio Severo as his colleague. He is best known as being
the recipient of an edict from ADRIANO (si veda) about conducting trials of
Christians in his province. This is known from an inscription recovered at Baloie
in Bosnia. The first office listed is military tribune with Legio XII
Fulminata. Next is quaestor, and, upon completion of this traditional
Republican magistracy, he would be enrolled in the Senate. Two more of the
traditional Republican magistracies follow: plebeian tribune and praetor. The
last appointment, before the inscription breaks off, is his commission as
legatus legionis or commander of Legio XV Apollinaris. Other sources attest
that he was governor of Achaea. The terminus post quem his governorship is when
Gaio Caristanio Giuliano is known to have governed. The terminus ante quem he
leaves his post is the year of his consulate, although the letters he receives
from PLINIO MINORE (si veda) indicate he is no longer in Achaea. The
inscription from Baloie mentions he has been admitted to the Septem-viri
epulonum, one of the four most prestigious ancient Roman priesthoods. Because
this inscription does not mention his consulate, it can be assumed his entrance
precedes that office. Most, if not all,
of the letters PLINIO MINORE (si veda) writes to M. fall before is suffect
consul. In the first letter of his collection, PLINIO declares that living on
his rural estate is preferable to living in Rome, where he is subject to
constant pleas for assistance. The second letter petitions him to appoint the
son of Plinio’s friend ASINIO RUFO as M’s quaestor for M.’s upcoming consulate;
The last letter is another petition to M., canvassing him on behalf of GIULIO
NASONE, who is running for an unnamed office. While all of these letters
demonstrate M. And PLINIO MINORE are acquainted, they fail to show the warmth
of a friendship. Following his
consulate, during the reign of TRAIANO, M. is governor of Dalmatia. It is through a rescript the historian EUSEBIO
preserves at length in his Ecclesiae Historia that we know M. is proconsul of
Asia. M.' predecessor, QUINTO LICINIO SILAVNO GRANIANO, asks ADRIANO how to
handle legal cases where some inhabitants are accusing their neighbours of not
following the Roman cult through informers or mere clamour. ADRIANO’s reply is to
state that any such accusations had to be through a law court, where the matter
may be properly investigated, and if they are guilty of any illegality, thou M.,
must pronounce sentence according to the seriousness of the offence. This
rescript is important as an independent witness to the existence of one or more
non-Roman sects in this part of Anatolia. The only other contemporaneous
evidence we have for these communities is the list of the VII churches of Asia
in the book of Revelation. M.’s wife is
the daughter of a MARCO STATORIO. We know her name from a funerary inscription,
which suggests that she died before M.’s consulship. The name of their
daughter, Minicia Marcella, comes from two independent sources. Minicia dies young.
Her funerary vase has been identified, which states her age at death as XII
years, XI months, and VII days. PLINIO MINORE also attests to her existence,
revealing information about the girl that shows that he and M. are better
friends than the surviving letters he writes to M. suggest. In the letter,
addressed to one EFULANO MARCELLINO, Pliny notes that, although she was not yet
XIV years old, she was betrothed. Pliny describes the preparations for her
wedding, with which M. was busy; and he asks Marcellinus to send M. a letter
consoling him for his loss. It is not known if M. has any other children. Smallwood, Principates of Nerva, Trajan and
Hadrian, Cambridge, CIL, ILJug., Talbert, The Senate of Imperial Rome, Princeton;
Wheeler, "Legio XV Apollinaris: From Carnuntum to Satala—and beyond",
in Bohec and Wolff, eds. Les Légions de Rome sous le Haut-Empire, Paris; Eck,
"Jahres- und Provinzialfasten der senatorischen Statthalter”, Chiron; Pliny,
Epistulae, I.9 Syme, Tacitus, Clarendon;
Eusebius, Ecclesiae Historia; Williamson, Eusebius: The History of the Church, Harmondsworth:
Penguin; Political offices Preceded by Acilius Rufus, and Quintus Sosius
Senecio II Consul of the Roman Empire with Titus Vettennius Severus Succeeded
by Gaius Julius Longinus, and Gaius Valerius Paullinus Categories: Roman
governors of AchaiaSuffect consuls of Imperial RomeRoman governors of
DalmatiaRoman governors of Asia Epulones of the Roman Empire Minicii. Keywords: Roman law, Adriano a Minicio -- Gaio
Minicio Fundano. Minicio.
Grice e
Minnomaco: la ragione conversazionale della diaspora di Crotone -- Roma – filosofia
pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Taranto, Puglia. A Pythagorean
according to Giamblico. Grice: “Cicerone argues: Minnomaco speaks Greek;
therefore he is no Roman!” Minnomaco.
Grice e Minucio: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’eulogio ad Ottavio
da Frontone -- Roma – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He writes “Ottavio” – draws on a
speech by Frontone. La gente: Minucia
Marco Minucio Felice Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Marco M. Felice
(in latino; Marcus M. Felix; Cirta, filosofo, scrittore e avvocato romano. Non è noto
con certezza quando visse. Il suo Octavius è simile all'Apologeticum di Quinto
Settimio Fiorente Tertulliano, e la datazione della vita di Felice dipende dal
rapporto tra la sua opera e quella dello scrittore africano morto nel 230.
Nelle citazioni degli autori antichi (Seneca, VARRONE, CICERONE) è considerato
più preciso di Tertulliano e questo concorderebbe col suo essere anteriore ad
esso, come afferma anche Lattanzio;[1] Girolamo lo vuole, invece, posteriore a
Tertulliano, sebbene si contraddica dicendolo posteriore a Tascio Cecilio
Cipriano in una lettera e anteriore in un'opera Per quanto riguarda gli estremi
della sua esistenza, Felice menziona Marco Cornelio Frontone; il trattato Quod
idola dii non sint è basato sull'Octavius; dunque se quello è di Cipriano, M.
Felice non fu attivo oltre il 260, altrimenti il termine ante quem è
Lattanzio. Anche la zona d'origine di M. è sconosciuta. Lo si ritiene
talvolta di origine africana, sia per la sua dipendenza da Tertulliano, sia per
i riferimenti alla realtà africana: la prima ragione, però, non è indicativa,
in quanto dovuta al fatto che all'epoca i principali autori di lingua latina
erano africani, e dunque il loro era lo stile cui ispirarsi; la seconda,
inoltre, potrebbe dipendere esclusivamente dal fatto che il personaggio pagano
dell'Octavius, Cecilio Natale, era africano, come attestato da alcune
iscrizioni. Cionondimeno, è significativo che entrambi i personaggi
dell'Octavius abbiano nomi citati in iscrizioni africane, e che lo stesso valga
per il nome M. Felice.Octavius L'Octavius è un dialogo che ha per
protagonisti lo stesso scrittore, Cecilio e Ottavio e che si svolge sulla
spiaggia di Ostia. L'opera si è conservata per errore dopo i sette libri
dell'Adversus nationes di Arnobio come (liber) octavus. Mentre i tre
passeggiano sul litorale, Cecilio, di origine pagana, compie un atto di omaggio
nei confronti della statua di Serapide. Da ciò nasce una discussione in cui
Cecilio attacca la religione cristiana ed esalta la funzione civile della
religione tradizionale, mentre Ottavio, cristiano, attacca i culti idolatrici
pagani ed esalta la tendenza dei cristiani alla carità e all'amore per il
prossimo. Alla fine del dialogo Cecilio si dichiara vinto e si converte
al Cristianesimo, mentre Minucio, che funge da arbitro, assegna ovviamente la
vittoria ad Ottavio. Il Cristianesimo di M. è lo stesso dei ceti
dirigenti, che non vogliono che il cambiamento di religione sia accompagnato da
sommovimenti sociali e sono convinti che debbano, comunque, sopravvivere la
finezza e l'equilibrio costruiti da secoli di civiltà greco-latina. Del resto,
di questo ceto sono i personaggi dell'Octavius, tutti e tre avvocatiː il
pagano, Cecilio Natale, era nativo di Cirta (dove l'omonimo registrato dalle
iscrizioni aveva ricoperto cariche sacerdotali) e viveva a Roma, come Minucio,
di cui seguiva l'attività forense; Ottavio, invece, è appena arrivato nella
capitale all'epoca in cui è ambientata l'opera, e ha lasciato la propria
famiglia nella provincia d'origine. Girolamo gli attribuisce una seconda
opera, De fato, di cui però non vi sono tracce. Divinae Institutiones, De
viris illustribus, Ottavio Ianuario a Saldae, CIL, e Cecilio a Cirta. A Tébessa e Cartagine. Bracci, Il linguaggio di M.
Felice. Fra dialogo filosofico e disputa religiosa, in Controversie: dispute
letterarie, storiche, religiose dall'Antichità al Rinascimento, a cura di G.
Larini, Padova, Libreriauniversitaria Vecchiotti, La filosofia politica di M.
Felice. Un altro colpo di sonda nella storia del cristianesimo primitivo,
Urbino, Università degli Studi, De viris illustribus L'Ottavio di Marco M.
Felice in italiano: play. google. com/ books/ reader?id=xj GOJAAAAEAJ& pg=GBS.PA0
Paul Lejay, «Minucius Felix», in Catholic EncyclopediaBracci, Il linguaggio di
Minucio Felice. Fra dialogo filosofico e disputa religiosa, in Controversie:
dispute letterarie, storiche, religiose dall'Antichità al Rinascimento, a cura
di G. Larini, Padova, Libreriauniversitaria.it, M. Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Marco M. Felice, su Internet Encyclopedia of Philosophy. Marco M.
Felice, Cyclopædia of Biblical, Theological, and Ecclesiastical Literature,
Harper. Opere di Marco M. Felice, su MLOL,
Horizons Unlimited. Modifica su Wikidata (EN) Audiolibri di Marco M. Felice
Marco M. Felice (altra versione), su LibriVox. Marco M. Felice, Catholic Encyclopedia, Robert
Appleton, Higgins, Felix, M., Encyclopedia of Philosophy. Opera Omnia dal Migne, Patrologia Latina, con indici
analitici, su documenta catholica omnia. eu.. V D M Padri e dottori della
Chiesa cattolica Portale Antica Roma Portale Biografie Portale
Cristianesimo Portale Letteratura Categorie: Scrittori romaniAvvocati
romaniScrittori Scrittori Romani Romani Nati a Cirta Apologeti Padri della
Chiesa Scrittori africani di lingua latina Scrittori cristiani antichi [altre]
M. – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. CONGRESSO
DI SCIENZE STORICHE, Roma. Sezione Storia della Filosofìa Storia delle
Religioni. L’APOLOGETICO DI TERTULLIANO E L’OTTAVIO DI M. COMUNICAZIONE di
RAMORINO ROMA LINCEI SALVIUCCI. Ancora non è stata risolta in
modo definitivo la questione dei rapporti che intercedono tra il discorso di
Tertulliano in difesa de’ Cristiani e il dialogo di M. Felice, dove alle accuse
formolate in un discorso d' ispirazione pagana messo in bocca a Cecilio
Natale, op- ponesi una eloquente difesa del Cristianesimo per bocca di
Ottavio dal quale il dialogo prende nome. Ancora non sono state date
sufficienti ragioni per stabilire se Tertulliano abbia avuto sott’ occhio
M., o se invece questi abbia tratto da quello come da sua fonte, e quindi
quale dei due abbia da considerarsi come cronologicamente anteriore. La
questione ha un vero interesse per la storia del Cristianesimo in
Occidente perchè trattasi delle prime scritture latine d' ispirazione
cristiana, e dipende di qui il sapere chi primo abbia divulgato fra le
genti di parlata latina le ragioni addotte dagli Apostoli del Cristianesimo,
già da più decenni diffuse tra i Greci. Tale questione sorge dal fatto che
tra le due opere corrono tali e tante analogie di pensiero e di frase, da
dover senz’altro ritenere che l’un dei due abbia avuto sott’occhio
l’altro. Si può ben congetturare anche, e s’ è in fatto congetturato, abbiano
entrambi attinto a una fonte comune, che per noi sarebbe perduta. Primo
propose quest’ ipotesi l’ Hartel, poi cercò sostenerla in apposita
monografia il Wilhelm. Più tardi De Lagarde pensa a dirittura a
un’apologià scritta da papa Vittore I da cui Tertulliano e M. avrebbero
copiato a man salva; infine l’Agahd in una sua ricerca di cose Varroniane, voi.
supp. dei Jahrbiicher di Fleckeisen, ammettendo anche egli un’apologià
cristiana latina anteriore a Tertulliano e M., ne investigò le fonti in VARRONE
e in qualche altro libro dell’età alessandrina. Ma noi vedremo che i riscontri
verbali tra l’Apologetico e l’Ottavio sono tanti e tali da escludere
l’ipotesi d'una terza fonte co- mune, se non forse per uno speciale punto
di dottrina derivato dalla scuola di Euemero. Tra quelli che
rinunziando all’ipotesi di una terza fonte comune, riducono la questione
ai soli Tertulliano e M., gli uni credono anteriore M., gli altri
Tertulliano, e le due schiere sono egual- mente notevoli per numero e
autorità di aderenti. I fautori della prio- rità di M., come si fan forti
di una espressione di Lattanzio, così vantano l’adesione di uomini quali
Eber, Baehrens, Norden, ecc. Gli altri si rifanno dall’attestazione di
Gerolamo, e hanno compagni uomini di incontestato valore come Schultze,
Neumann, Harnack, nome che vai da solo per molti. Ultimamente si schierò
da questa parte anche il francese Monceaux che con tanto studio e dottrina s’ è
occupato della letteratura affricana. Non è qui il luogo di
ripetere le ragioni addotte da tutti questi studiosi, nè di discuterle.
Intendo qui di istituire un confronto, il più completo possibile, di
luoghi Minuciani e Tertullianei, presentandoli in modo che ne riesca
chiaro il contenuto e sia facile ai lettori di trarne le debite
conclusioni. Prendo per base il discorso di Tertulliano, seguendone
l’argomento come filo conduttore, e additando via via i luoghi paralleli
di M. Nei primi tre capitoli del suo Apologetico, mira Tertulliano a far
vedere, come fosse iniquo l’odio che si aveva contro i Cristiani. Vol-
gendo nell’esordio la parola ai reggitori del Romano Impero, dice che, se
non era loro lecito fare una pubblica inchiesta intorno alla causa dei
Cristiani, se a questo solo fattispecie o temevano o arrossivano di
volgere l’attenzione pubblicamente, e se le troppe condanne private
avevano compromesso la difesa della setta cristiana, doveva pur essere
lecito a lui cercar di giungere alle loro orecchie per la via letteraria;
la verità cristiana ben sapere di essere peregrina sulla terra e di
trovar facilmente nemici tra gli estranei, ma non voler essere
condannata senza essere conosciuta. Condannarla inascoltata essere una
iniquità, e far nascere il sospetto che i governanti non vogliano
ascoltare ciò che non potrebbero più condannare conoscendolo. La scusa
dell’ignoranza non essere che apparente, anzi aggravare il carico
dell’iniquità; perchè qual più trista cosa che l’odiare quel che si
ignora, anche se la cosa meriti effettivamente odio? Se poi si viene a
sapere che la cosa non meritava odio, chi era solo colpevole d’ignoranza,
cessata questa, cessa anche di odiare; come fanno appunto i convertiti al
Cristianesimo, i quali cominciano a odiare quel che erano e a professare
quel che prima odiavano. Invece, dice Tertulliano, gli avversari nostri
segnalano bensì il fatto delle molte conversioni, ma, anziché arguire che
ci sia sotto qualche gran bene, seguitano a ignorare e a odiare. Si dirà
che le molte conversioni non vogliono dir nulla, perchè ci si volge anche
al male. Ma il male, avvertasi, per natura o si teme o se ne ha vergogna;
ed è perciò che i malvagi voglion rimanere nascosti; sorpresi
trepidano, accusati negano, anche tormentati non sempre confessano, e
condannati poi n’han dolore. I Cristiani non si vergognano, non si
pentono; si gloriano d’ esser notati ; accusati non si difendono ;
interrogati confessano ; anzi confessano spontaneamente, e condannati
ringraziano. Non è dunque questo un male se non ha le circostanze
connaturate al male, il timore, il rossore! il pentimento, il rimpianto. Anche
la procedura che si segue con noi Cristiani, continua Tertulliano, è
iniqua. Non ci si concede libertà di difesa, e si vuol da noi soltanto la
con- fessione del nome, senza poi esaminare il crimine. E mentre per
un omicida, per un incestuoso, per un nemico pubblico si indagano le
cir- costanze dei fatti, il numero, il luogo, il tempo, i complici dei
delitti, per noi non si procede così ; anzi un famoso editto di Traiano
ha proi- bito che si inizino processi contro noi, mentre poi ha disposto
che data una denunzia, ci si deva punire ; disposizione contradittoria
ed ingiusta. Si viene così ad applicare per noi un’assurda procedura,
quella di torturarci, non per farci confessare come gli altri, sì perchè
neghiamo, mentre se si trattasse di male, noi staremmo sulla negativa, e
la tor- tura ci si applicherebbe per farci confessare. È evidente che non
un delitto è in causa nel caso nostro, ma solo il nome. Si arriva al
punto di biasimare uno che si riconosce come un galantuomo, solo
perchè è cristiano; si cacciano via dalle case, anche contro ogni
interesse, le mogli pudiche e i buoni servi, solo perchè cristiani; è
tutto in odio al nome. Ma che cos’ ha di male questo nome che significa «
unti » o, se si piglia la forma « Crestiani » usata talvolta per errore,
ha a connettersi con « buono » ? Odiasi forse ia setta per il nome
del suo autore ? Ma anche le sette dei filosofi sono denominate dai
loro autori, e niuno se n’offende. Prima di odiare il nome, conveniva
indagare e riconoscere dalle qualità della setta l’autore o da quelle
dell’autore la setta ; invece non si è fatto e non si fa nulla di questo,
e si seguita a far ingiusta guerra al nome. Fin qui l’
introduzione dell’Apologetico Tertullianeo. Con le idee qui espresse si
ha qualche riscontro nell’Ottavio, a metà circa del discorso in difesa
della nuova dottrina. Accenna Ottavio all’opera dei cattivi spiriti che
insinuano l’odio contro i Cristiani anche prima che siano conosciuti. Il
capitolo seguente tocca la procedura usata coi Cristiani, e Ottavio
ricorda che anche egli prima, credendo alle solite calunnie, usava le
stesse arti diaboliche contro i Cristiani. I demonii appunto ispirano
quelle dicerie sciocche le quali, se mai, hanno un fondo di verità per i
pagani non per i Cristiani. La confu- tazione di tali calunnie si estende.
Si chiude con l’ affermazione delle virtù cri- stiane, la pudicizia, la
temperanza, la serietà. L’aumentare del nostro numero, dice, non è accusa
di errore, ma testimonio di lode, e non è meraviglia se noi ci
riconosciamo al segno dell’ innocenza e della modestia, e se ci amiamo a
vicenda chiamandoci fratelli. Ecco alcuni riscontri verbali: Min.:
nec in angulis garruli sumus si audire nos publice aut erubesciti s
aut timetis » (intendi: non è vero che noi facciamo pettego- lezzi
di nascosto, se invece siete voi che pubblicamente rifiutate di darci
ascolto o perchè arrossite o perchè temete di farlo. : ic occupant
animos (im- puri spiritus) ... ut ante nos incipiant homines odisse
quam nosse, ne cognitos, aut imitari possint, aut damnare non
possint. Anche noi, prima della conversione, credevamo alle
calunniose voci sparse contro i Cristiani, e non ci accorgevamo che
eran tutte dicerie sen- za fondamento ; « malum autem adeo non
esse, ut Cliristianus reus nec eru- besceret nec timeret , et unum
solum- modo quod non ante fuerit paeniteret. Tertull. Apolog. I princ.: .si
ad hanc solam speciem auctoritas vestra de iustitiae diligentia in
publico aut timet aut erubescit inquirere inauditam si damnent,
praeter invidiam iniquitatis etiam suspicionem merebuntur alicuius
conscientiae, noleutes audire quod auditum dan- nare non possint. Quod
vere malum est, ne ipsi quidem quos rapit defendere prò bono
audent. Omne malum aut timore aut pudore natura perfudit. Denique
malefici gestiunt latere, devitant appa- rere, trepidant deprehensi,
negant accu- sati, ne torti quidem facile aut semper continentur,
certe damnati maerent. Dinumerant in semetipsos mentis malae impetus, vel
fato vel astris imputant, nolunt enim suum esse quia malum
agnoscunt. Christianus vero quid simile? Neminem pudet , neminem paenitet nisi
piane retro non fuisse. Si denotata gloriata, si accusata non
defendit, interrogatns vel ultro confi- tetur, damnatus gratias agit.
Quid hoc mali est quod naturalia mali non habet, fimorem, pudorem,
tergiversationem, paenitentiam, deplorationem? Quid? hoc malum est
cuius reus gaudet? cuius .accusatio votum est et poena felicitas ? Qui si
osservi come a un cenno fuggevole di Minucio rispetto al non essere un
male il cristianesimo, corrisponde in Tertulliano tutta una spiegazione
psicologica della natura del male e del contegno dei malvagi col quale si
confronta quello dei Cristiani. Apolog. c. IL Si critica la procedura
usata coi Cristiani. Tra l’altro, si dice. Ceteris negantibus
tormenta udhibetis ad confitendum, solis Chri- stianis ad negandum.
Quo perversine cum praesumatis de sceleribus no stris ex nominis
confessione, cogitis tormentis de confessione decedere, ut negantes nomen
pariter utique negemus et scelera... Sed, opinor non vultis noe
perire, quos pessimos creditis. Si non ita agitis circa nos nocentes ergo
nos innocentissimos iudicatis cum quasi innocentissimos non vultis in ea
confessione perseverare, quam necessitate non iustitia damnandam sciatis.
Vociferata homo: Christianus sum. Quod est dicit; tu vis audire quod non
est. Veritatis extorquendae praesides de nobis solis mendacinm elaboratis
audire. Oct.: Noi prima della conversione, mentre assumevamo la difesa di
sacrilegi e incestuosi e anche di parricidi, hos i Cristiani nec
audiendos in toto putabamus, nonnunquam etiam miserantes eorum crudelius
saeviebamus, ut torqueremus confitentes ad negandum, videlicet ne
perir ent, exercentes in his, perversam quaesti onem nòn quae verum
erueret sed quae mendacium cogeret . Et si qui infìrmior malo pressus
et victus Christianum se negasset, favebamus ei quasi, eierato nomine,
iam omnia facta sua illa negatione pur- gata ». Dopo avere
nell’Apologetico confutato il pregiudizio che il Cristianesimo non fosse
permesso dalle leggi romane, facendo vedere come le leggi potessero
essere benissimo pattate, e mu- tate furono tante volte attraverso ai
secoli, Tertulliano passa a confutare le calunnie lanciate contro i Cristiani,
d’ infanticidio e di cene incestuose. Queste cose si dicono sempre, ma
nessuno mai si cura d’ indagare so sono vere. La verità è odiata, e ha nemici
da tutte le parti. Chi ha mai visto a spargere sangue di bambini, e
abbandonarsi, dopa il pranzo e dopo fatti spegnere i lumi da cani lenone
s tenebrarum, a orgie incestuose? Se i nostri ritrovi son segreti, chi
può rivelare quel che vi si fa? non gli iniziati che hanno interesse a
non si tradire; non gli estranei, appunto perchè non penetrarono mai. È
dunque tutto opera' della fama. E qui Tertulliano ha una bella pagina
sulla natura della fama o si dice. È antico il motto : fama malum quo
non aliud velocius ullum Virgilio. Perchè è un male la fama? perchè
veloce? o non anzi perchè essa è per lo più menzognera? anche quando ha
del vero, non è mai senza bugia, togliendo, aggiungendo, mutande dal
vero. Ed è di tal natura che non persiste a essere se non in quanto
mentisce, e vive solo fin quando non si arriva alla prova dei fatto vero.
Quando si ha il fatto, cessa ogni « si dice » , e rimane la notizia del
fatto. La fama, nomen incerti > non ha più luogo dov’ è la certezza.
Ora alla fama uom savio non deve credere. Si sa come na- scono le
dicerie. Hanno principio da qualcuno che è mosso o da ge- losia o da
dispetto o da mania di dir bugie; e poi passate di bocca in orecchio, e
via ripetute, nascondono sempre più la verità. Meno male, che il tempo
poi rivela ogni cosa, per felice disposizione della natura- per cui il
vero si fa strada. Le accuse sono nient’ altro che dicerie, ma non hanno
fondamento di verità. Si soggiunge che noi promettiamo la vita eterna a
chi uccide bambini e commette incesti. Ma anche se tu credi a questo,
dice Tertulliano, io chiedo se tu stimeresti tanto questa eternità da
arrivarci con simili infamie. Tu nè vorresti farle queste cose, nè
potresti ; dunque perchè crederai che vogliano e possano farle i
Cristiani, che sono uomini come te ? Si dirà che sono iniziati a tali
cerimonie quando non ne sanno ancor nulla; ma in tal caso, una volta
conosciute tali infamie, non continuerebbero a parteciparvi, per la
stessa avversione che avrebbe impedito loro d’ iniziarsi nel caso che ne
fossero informati. Tale il contenuto dell’Apologetico. Vi
corrispondono il M., ove con le accuse d’ infanticidio e di cene incestuose si
confutano anche quelle di adorazione d’una testa d’asino, o dei genitali
di sacerdoti, o di un uomo crocifisso, o della croce stessa. E siccome di
queste accuse si parla anche dove Cecilio Natale le espone facendo eco
alla voce comune, così è da tener conto anche di questo capo per taluni
riscontri verbali: Apolog.: quod eversofes luminum canes, lenones
scilicet tenebrarum, libidinum impiarum inverecundiam procurent candelabra et
lucernae et canes aliqui et offulae quae illos ad eversionem
luminum extendant. Veni, demerge ferruin in infantem, nullius
inimicum, nullius reum, omnium filium, vel tu modo adsiste morienti
komini antequam vixit... excipe rudem sanguinem, eo panerai tnum satia, vescere
libenter Nego te velie ; etiamsi volueris, nego te posse. Cur
ergo alii possint si vos non potestis?... qui ista credis de homine
potes et tacere. Quis talia facinora cum invenisset celavit?... Si semper
latemus quando proditum est quod admittimus? immo a quibus prodi
potuit? Natura famae omnibus nota est (v. il riassunto
precedente)... quae ne tunc quidem cum aliquid veri offerti sine
mendacii vitio est Tam- diu vivit quam diu non probat, siquidem ubi
probavit cessat esse et quasi officio nunciandi functa rem tradit
et exinde res tenetur, res nominatur. Nec quisquam dicit verbi
gratia: 'hoc Romae aiunt factum 1 aut : ‘ fama est illuni provinciam sortitum
sed: sortitus est ille provinciam ’ , et : hoc fa- ctum est Romae \ Fama,
nomen incerti, locum non habet ubi certum est. Min. Oct.: canis qui
cande- labro nexus est, iactu offulae ultra spatium lineae qua vinctus
est, ad impetum et saltum provocatur. Sic everso et exstincto conscio
lumine impuden- tibus tenebris etc. Illuni velim convenire, qui
initiari nos dicit aut credit de caede infantis et sanguine. Putas posse
fieri, ut tam molle corpus, tam parvulum corpus fata vulnerum
capiat? ut quis- quam illum rudem sanguinem novelli et vixdum
hominis caedat f fundat , exhauriat? nemo hoc potest credere nisi
qui possit audere nec tanto tempore aliquem existere qui proderet nec tamen
mirum, cum omnium (quoniam, Vahlen) fama quae semper insparsis
mendaciis alitur, ostensa ventate consumitur. Anche qui si noti che il
modo di esprimersi di Minucio intorno alla fama non solo è conciso, ma
chi legge quell’ostessa ventate consu- mitur non lo intende se non quando
lo confronta con la pagina di Ter- tulliano, la quale può servire assai
bene di commento. I Cristiani non si contentavano di scagionarsi dalle
accuse calun- niose mosse loro, ma le ritorcevano contro gli avversari,
facendo ve- dere come essi, all’ombra della religione, molti infanticidi
e incesti davvero commettevano. Di ciò tratta l’Apologetico, da
confrontarsi con alcuni passi dell’Ottavio. Ricordano entrambi i
sacrifizi di bambini fatti in Africa in onor di Saturno, divoratore dei
propri figli: Apolog.: cum propriis filiis Saturnus non pepercit,
extran eis utique non parcendo perseverabat, quos quidem ipsi parentes
sui offerebant et libenter respondebant, et infantibus blan -
diebantur, ne lacrimante s immolarenturi. Oct.: Saturnus fìlios suos
non exposuit sed voravit ; merito ei in nonnullis Africae partibus a
parentibus infantes immolabantur y blanditile et osculo comprimente
vagitum, ne flebilis hostia immolar etur. Ma Tertulliano ha maggiori
informazioni su questi sacrifizi d’infanti in Affrica, durati
ufficialmente fino al proconsolato di TIBERIO, poi vietati ma seguitati a
praticare occultamente: et nunc in occulto per - severotur hoc sacrum
facinuSj perchè nessuna costumanza delittuosa si può sradicare per
sempre, nè gli Dei mutano costume. Oltre questo poi altri sacrifizi
umani vanno imputati alla religione antica. Entrambi i nostri scrittori
ricordano i sacrifizi umani fatti in Gallia in onor di Mercurio, e nella
Taurica (M. aggiunge anche, da CICERONE. Rep., e da LIVIO (si veda), il
ricordo di Busiride Egi- ziano e di antichi riti romani), e l’uso ancor
vigente di sacrificare con- dannati a morte nelle feste di Giove Laziale.
E all* infuori della religione, rinfacciano entrambi agli avversari
l’abitudine di esporre i bambini ap- pena nati o ucciderli, o quello più
tristo di spegnere la vita appena iniziata nell’utero materno.
b) Apolog . IX: « conceptum utero dum adhuc s angui s in hominem
deli- batur, dissolvere non licet. Homicidii festinatio est
prohibere nasci ; nec refert ratam quis erìpiat animam an nascentem
disturbet. Quanto poi al bevere uman sangue, Tertulliano ricorda da
Erodoto (est apud Herodotum, opinor) alleanze strettesi fra alcuni popoli
col ferirsi a sangue le braccia e bevere gli uni il sangue degli altri;
(ISO) Oct.: u snnt quae in ipsis vi- sceribus
medicaminibus epotis originem futuri hominis extinguant et
parricidium faciant antequam pariant ricorda poi Catilina, e alcune genti
Scitiche divoratrici dei proprii morti, e il rito dei sacerdoti di
Bellona consistente nel ferirsi la coscia, rac- cogliere il sangue nel
cavo della mano e darlo a bere. M., più conciso, non menziona che la congiura
di CATILINA e Bellona con brevi cenni. L’uno e V altro poi fanno menzione
dell’uso di dare a bere sangue umano agli epilettici, ma Tertulliano solo
adduce il particolare, che ai raccoglieva a tal fine il sangue scorrente
dalle ferite dei delinquenti .sgozzati nell’arena. In tutto
ciò è strano il modo come Minucio mette questi ricordi in relazione con
la menzione fatta avanti delle cerimonie in onor di Giove Laziale: ipsum
credo docuisse san - guinis foedere coniurare Catilinam et Bellonam
sacrum suum J ecc.; quasi che proprio Giove Laziale abbia insegnato a
Catilina e ai Bellonari i lor sanguinosi usi ; il che è del tutto fuor di
proposito. Infine, sempre intorno alle bibite di sangue, entrambi
gli apologeti ricordano l’avidità con che solevano alcuni acquistare, per
cibarsene, la carne delle bestie uccise nell’arena, dopo che quéste s’
erano empite le viscere di membra umane. Ma Tertulliano è più ricco di
particolari, come è più immaginoso ed energico nell’espressione.
Confrontisi: Tertull.: Item illi qui de harena Min. : non dissimiles ei
qui de haferinis obsoniis cenant, qui de apro qui rena feras devorant inlitas
et infectas se est quandoque memoriara dissipari, et simili error
impegerit, exinde iam tradux proficiet incesti serpente genere cum
scelere. Tunc deinde quocumque in loco, domi, peregre, trans freta
Comes et libido, cuius ubique sal- tus facile possunt alicubi ignaris
filios pangere vel ex aliqua seminis portione, ut ita sparsum genus
per commercia humana concurrat in memorias suas, neque eas caecus
incesti sauguinis agnoscat. Min.: etiam nescientes, miseri, potestis in
inlicita proruere, dum Venerem promisce spargitis, dum passim liber os seritis,
dum etiam dorai natos alienae misericordiae frequenter exponitis, necesse
est in vestros recurrere t in filios inerrare. Nella diversa
disposizione dei pensieri, pur si riconosce l’affinità dei due scrittori,
dei quali Tertulliano è più ricco e compiuto, aggiun- gendo qui tra le
ragioni di figliuoli dispersi anche l’adozione. Alla corruttela
pagana poi opponesi la continenza cristiana la quale o si contenta di
legittimo matrimonio, o aspira anche alla verginità. Tertull.: quidam
multo secu- Min : plerique inviolati corporia riores totam vim
huius erroris virgine virginitate perpetua fruuntur potiua continentia
depellunt, senes pueri. quam gloriantur. Dove non isfugga l’esagerazione
del plerique minuciano di fronte all’espressione tertullianea più conforme al
vero. Gli Dei pagani erano in origine uomini. Nell’ Apologetico, passa
Tertulliano a ragionare di un’altra recriminazione fatta ai Cristiani, quella
che non venerassero gli Dei e non sacrificassero per gli imperatori ;
onde erano fatti rei di sacrilegio e di lesa maestà. Ora egli dice che i
Cristiani cessarono dal prestar culto agli Dei pagani dacché conobbero
che tali Dei non esistevano; e non esser giusto il punirli se non quando
tale esistenza fosse dimostrata. E questa convinzione soggiunge che i
Cristiani ricavavano dalle stesse testimonianze pagane, concordi nel
lasciar chiaramente vedere che i pretesi Dei non erano altro che uomini
di- vinizzati. Infatti se ne adducevano i luoghi di nascita, le regioni
ove avevano vissuto e lasciato tracce dell’opera loro, e si mostravano
anche i loro sepolcri. Serva d’esempio per tutti Saturno, cui gli
scrittori come Diodoro e Tallo fra i Greci, Cassio e Nepote fra i Latini
attestarono essere stato uomo. La qual cosa è comprovata anche da prove
di fatto, verificatesi sopratutto in Italia, ove egli fu accolto da
Giano, ove il monte che abitò fu chiamato Saturnio, la città che fondò
ebbe pari- mente nome Saturnia, e anzi tutta l’Italia dopo il nome di
Enotria ricevette quello di Saturnia. Da lui l’origine delle legali
scritture e del conio monetario, onde la sua presidenza dell’erario.
Dunque era uomo, è nato da uomini, non dal cielo e dalla terra.
Ignorandosene la pa- rentela, fu detto esser figlio di quelli onde tutti
possiamo esser figli, chiamandosi per venerazione il Cielo e la Terra
padre e madre, e figli della terrà denominando il volgo quelli la cui
parentela è incerta. Sa- turno dunque era uomo; e lo stesso si può dir di
Giove e di tutto l’altro sciame di divinità pagane. Si dice che furono
tutti divinizzati dopo morte. Da chi? Bisogna vi fosse un altro Dio più
sublime, ca- pace di regalare la divinità, giacché da sé questi uomini
non si po- tevan certo crear Dei. Ma perchè il Dio Magno avrebbe donato
la divinità ad altri esseri? Forse per esserne aiutato nel grande còmpito
di dirigere l’universo? Ma che bisogno vi poteva essere di ciò, se il
mondo o era ab aeterno , come volle Pitagora, o venne fatto da un essere
ragionevole, come disse Platone? Del resto questi uomini si lo- dano per
aver trovato le cose utili alla vita, ma non le hanno create, perchè già
c’erano. Si dirà egli che la divinizzazione fu un premio alle loro virtù?
Ma, a dir vero, anziché virtuosi, erano costoro pieni di vizi e piuttosto
da cacciar giù nel Tartaro che accogliere nel Cielo. Ma mettiamo anche
fossero buoni, o perchè allora non s’ è dato lo stesso premio a uomini
lodatissimi come Socrate, Aristide, Temistocle, ecc.P Di tutta
questa dimostrazione ragionata a fil di logica, Minucio non ha
nell’Ottavio che un punto solo, l’affermazione che i pretesi Dei erano
uomini. E questa si contiene nel cap. 21 del dialogo, il quale fa seguito
alla parte fisolofica del discorso di Ottavio e alla sentenza che le
favole mitologiche erano tutte finzioni poetiche, da spiegarsi seconde la
teoria di Evemero, della quale cita altri rappresentanti antichi come
Prodico, Perseo, lo stesso Alessandro il Macedone. Connettesi con tale
ordine di idee il ricordo di Saturno già uomo. E qui diversi riscontri:
Tertull. Apol.: Saturnum ita- que, si quantum litterae docent, neque
Diodorus Graecus aut Thallus neque Cassius Severus aut Comelius
Nepos neque ullus commentator eiusmodi anti - quitatem aliud quam
hominem promul- gaverunt. Min.
Oct.: Saturnum enim omnes scriptores vetustatis Graeci Ro- manique
hominem prodiderunt. Scit hoc Nepos et Cassius in historia ; et Thallus
et Diodorus hoc loquuntur. È questo il passo che
all’Ebert e a’ suoi seguaci parve e pare dimostrativo della priorità di
Minucio, per la ragione che il Cassius Severus di Tertulliano in luogo
del semplice Cassius (ossia Hemina) è un errore, e per la presunzione che
chi sbaglia copii. Se tale indu- zione sia giusta, vedremo in seguito.
Per ora notiamo solo che Ter- tulliano aveva fatto lo stesso sbaglio in
Ad Nationes: Legimus apud Cassium Severum, apud Cornelios Nepolem et
Ta- citurna ecc. Tertull. ibid.: in qua Italia Saturnus post
multas expeditiones postque Attica hospitia consedit, exceptus a Iano vel
lane ut Salii volunt. Mons quem incoluerat Saturnius
dictus, civitas quam depalaverat Saturnia usque nunc est, tota denique
Italia post Oe- notriam Saturnia cognominabatur. Ab
ipso primum tabulae et imagine signa- tus nummus et inde aerarlo
praesidet. Si homo Saturnus utique ex homine, et quia ab homine, non
utique de caelo et terra. Sed cuius parentes ignoti erant facile
erat eorum fìlium dici quorum et omnes possumus videri. Quis enim
non caelum ac terrai matrem ac Min.: Saturnus Creta profugus Italiana metu
filii saevientis accesserat et Iani susceptus hospitio rudes illos
homines et agrestes multa docuit ut Graeculus et politus, litteras
imprimere, nummos signare , instrumenta conficere. Itaque latebram
suam, quod tuto latuisset, vocari maluit Latium, et ur.bem Saturniam idem
de suo nomine ut laniculum Ianus ad memoriam uterque posteritatis reliquerunt.
Homo igitur utique qui fugit, homo utique qui latuit, et pater ho-
minis et natus ex homine. Terrae enim vel caeli filius (se. est dictus)
quod apud Italos esset ignotis parentibus proditus, ut in hodiernum
inopinato visos patrem venerationis et honoris grati a appellet? vel
ex consuetudine humana, qua ignoti vel ex inopinato adparentes de
caelo supervenisse dicuntur. Proinde Saturno repentino utique caelitem
contigit dici; nam et terrae filios vulgus vocat quorum genus incertum
est. Etiam Iovera ostendemus tam hominem quam ex homine, et
deinceps totum generis examen tam mortale quam seminis sui par. Nunc
ego per singulosdecurram? Otiosum est etiam titulos persequi totum generis
examen caelo missos, ignobiles et ignotos terrae filios nominamus. Eius
fìlius Iuppiter Cretae excluso parente regnavit, illic obiit, illic
filios habuit; adhuc antrum Iovis visitur et sepulcrum eius
ostenditur et ipsis sa- cris suis humanitatis arguitur. Otiosum est ire per singulos. Saturnum principem huius
generis et examinis. Per la divinizzazione dopo
morte, M. ha considerazioni diverse dai ragionamenti di Tertulliano. Ricorda
Romolo fatto Dio per lo spergiuro di Procolo, e il re Giuba per il
consenso dei Mauri ; furono consacrati Dei come si consacrano gli altri re, non
per attestare la divinità loro, ma per onorare la potestà che hanno
esercitato in terra. Queste stesse persone che si divinizzano, dice, non
ne vorrebbero sapere, e sebbene già vecchi declinano quell’onore. Rileva
poi l’assurdo di far Dei esseri già morti o nati destinati a morire. E
perchè non nascono ora più Dei? Porse s’ è fatto vecchio Giove o s’ è
esaurita Giunone? 0 non è da dire anzi che è cessata questa generazione
perchè nessuno ci crede più ? E del resto se si creassero nuovi Dei, i
quali di poi non potreb- bero morire, s’avrebbero più Dei che uomini, da
non poter essere più contenuti nè in cielo, nè nell’aria, nè sulla
terra. Tutte queste riflessioni di Minucio sono differenti da quelle
che fa Tertulliano ; sicché in questo punto non vi possono essere
riscontri. Però confronta: Ad Nationes: qui deum Caesarem dicitis et
deridetis dicendo quod non est, et maledicitis quia non vult esse quod
dicitis. Mavult enim vivere quam deus
fieri. Min.: Invitis his hoc nom.en adscribitur: optant in homine
perseverare, fieri se deos metuunt, etsi iam senes nolunt. Tertulliano
passa a considerare che cosa sieno effettivamente i supposti Dei pagani.
E prima parla dei loro simulacri, i quali son fatti di materia identica a
quella dei vasi e strumenti comuni, o forse dai vasi medesimi artisticamente
elaborati. Son dunque Dei foggiati per mezzo di battiture, di
raschiature, di arroventature; proprio il trattamento che si fa ai
Cristiani, di che questi possono avere qualche conforto. Se non che
questi Dei non sentono i maltrat- tamenti della loro fabbricazione, come
non sentono gli ossequi dei loro fedeli. Tali statue di morti, cui
intendono solo gli uccelli e i topi e i ragni, non è egli giusto non
adorare? Come sembrerà che offendiamo tali esseri, mentre siam certi che
non esistono affatto? Riflessioni analoghe fa M.. Detto delle
favole mitologiche irriverenti e corrompitrici, nota che le immagini di tali
Dei adora il volgo, più abbagliato dal fulgore dell’oro e dell’argento
che ispirato da fede vera; e richiama l’attenzione sul fatto che tali
simulacri sono formati dalla mano d’un artista, e se di legno, forse
reliquia di un rogo o di una forca; sono sospesi e lavo- rati con
l’accetta e la pialla, se d’oro o d’argento, magari tolto da vaso
immondo, sono pesti, liquefatti, contusi tra il martello e l’ incudine,
ecc. Ecco riscontri: Tertull. Apoi.: reprehendo... materias
sorores esse vasculorum instrumentorumque communium vel ex isdem
vasculis et instrumentis quasi fatum consecratione mutantes. Min.:
deus aereus vel argenteus de immundo vasculo, ut accicipimus factum Aegyptio
regi (Amasi, Erodoto) conflatur, tunditur malleis et incudibus
figuratur nisi forte nondum deus saxum est vel lignum vel argentum.
Quando igitur hic nascitur? ecce funditur, fa- bricatur, sculpitur,
nondum deus est; ecce plumbatur construitur, erigitur, nec adhuc
deus est; ecce ornatur consecratur oratur, tunc postremo deus est, cum
homo illum voluit et dedicavit. Piane non sentiunt has iniurias nec sentit
lapideus deus suae et contumelias fabricationis suae dei
nativitatis iniuriam ita ut nec postea, vestri sicut nec obsequia ». de
vestra veneratione culturam. Statuas milvi et mures et Quam acute de diis
vestris attinane ae intellegunt. malia muta naturali ter iudicant !
mures, hirurrdines, milvi non sentire eos sci uni; rodunt
inculcant insident, ae, nisi abigatis, in ipso dei vestii ore nidificant;
araneae vero faciem eius intexunt et de ipso capite sua fila suspendunt. Vos tergetis mundatis eraditis et illos
qoos facitis, protegitis et timetis. Si noti
qui la maggior quantità di particolari in M., il che come deva spiegarsi
diremo in seguito. Tertulliano invece è poi solo nel notare che i pagani
stessi prendono a gioco illudunt e offendono le loro divività, non riconoscendo
tutti le stesse, e trat- tando alcuni Dei come i Lari domestici con
compre- vendite, pignora- menti, incanti, tal quale s’usa per le case cui
sono annessi, altre volte tsasformando, poniamo, un Saturno in una
pentola e una Minerva in un mestolo. Di nuovo entrambi
ricordano, di passata, le strane cerimonie del culto pagano (Tertull.
in., Min. e rilevano le invereconde leggende dai poeti ripetute intorno
agli Dei, auspice Omero, e l’aver gli Dei combattuto o pei Greci o pei
Troiani, e Venere ferita, e Marte incarcerato, e Giove liberato per opera
di Briareo, ecc., ecc. Tertull.: Quanta inverno ludi- Min.: hic enim
Homerus bria! deos inter se propter Troianos et praécipuus bello Troico
deos vestros, Achivos ut gladiatorum paria congres - etsi ludos
facit, tamen in hominum resos depugnasse, Venererà humana sa- bus et actibus
miscuit, hic eorum pagitta sauciatam , quod filium suum Ae- ria composuit ,
sauciavit Venererà , Mar - nean paene interfectum ab eodem Dio- .
tem vinooit vulneravit fugavit. Iovem mede rapere vellet, Martem tredecim
narrat Briareo liberatum, ne a diis cemensiìms in vinculis paene consumptum,
teris ligaretur, et Sarpedonem filium, Iovem ne eandem vim a
ceteris caeli- quoniam morti non poterat eripere, tibus
experiretur, opera cuiusdam moncruentis imbribus flevisse , et loro Ver
stri liberatum, et nunc flentem Sarpe - neris inlectum flagrantius quam
in aduldonis casum, nunc foede subantem in teras soleat cum Iunone uxore
consororem sub commemoratione non ita cumbere. dilectarum iampridem
amicarum. L’esempio d’Omero indusse altri poeti a irriverenti
invenzioni: Quis non poeta ex auctoritate Alibi Hercules stercora
egerit, principis sui dedecorator invenitur Dee- et Apollo Admeto
pecus pascit. Laorum ? Hic Apollinem Admeto regi pa- medonti vero muros
Neptunus instituit scendis pecoribus addicit, ille Neptuni (forse:
construit) nec mercedem operis structorias operas Laomedonti locat.
Est infelix structor accipit. Illic (Vulcanus, et ille de lyricis
(Pindarum dico) qui aggiunge TUrsinus) Iovis fulmen cum Aesculapium canit
avaritiae merito, quia Aeneae armis in ineude fabricatur, cum avaritiam
nocenter exercebat, fulmine caelum et fulmina et fulgura longe ante
iudicatum. Malus Iuppiter si fulmen il- fuerint quam Iuppiter in Creta
nasce- lius est, impius in nepotem, invidus in retur artifìcem.
Dal contesto di Tertulliano apparirebbe ch’egli attribuisse le
leggende di Apollo pastore presso Admeto e di Posidone operaio al soldo
di Laomedonte ad altri poeti che ad Omero, mentre è noto che già in
Omero vi è un cenno di queste leggende. Ma forse Tertulliano aveva
in mente ulteriori elaborazioni di dette leggende forse in drammi (ad
es., per Apollo pastore, l’Alcestide d’ Euripide), come dopo fa espressa
menzione di Pindaro. In Minucio invece tutte le ri- cordate leggende par
si attribuiscano ancora ad Omero, il che viene a essere inesatto per il
racconto di Ercole che scopa le stalle d’Augia, in Omero non menzionato,
e per il ricordo delle armi di ENEA opera di Vulcano, tolto da VIRGILIO
(si veda) non da Omero. In connessione col precedente argomento,
Tertulliano ricorda an- cora le irriverenze contro gli Dei scritte dai
filosofi, specie dai cinici (tra cui pone Varrone, che chiama il Cinico
Romano e a cui rimprovera l’aver
introdotto ter centos foves sive Jupitros sine capitibus), e quelle
peggiori contenute nei mimi e nella letteratura istrionica, aggravati
dalla circostanza che gli istrioni spesso rappresentano essi stessi la
divinità, e, dice: vidimus aliquando castratura Attin , Mura Deum ex
Pessinunte, et qui vivus ardebat Eerculem in - dueraL Di tutto ciò nulla
in M.. Invece di nuovo vanno di con- serva nel rinfacciare al paganesimo
i sacerdoti corrotti e corruttori. Apoi.: in templis adul - Oct.: dopo
ricordati i molti teria componi , inter aras lenocinia incesti
delle Vestali, continua: «ubi tractari , in ipsis plerumque
aedituo- autem magis a sacerdotibus quam inter rum et sacerdotum
tabernaculis sub aras et delubra condicuntur stupra, isdem vittis
et apicibus et purpuris tractantur lenocinia , adulterio medithure flagrante
libidinem expungi. tantur? frequentius denique in aedituorum cellulis quam in
ipsis lupana- ribus flagrans libido defungitur. Si avverta
nel latino di Minucio il meditantur usato passivamente con una
ripetizione inutile di concetto dopo il condicuntur stupra ; si noti
[Salvo se V alibi di M. voglia interpretarsi: «presso altri autori.
Ma tale interpretazione ripugna al contesto, perchè poco di poi, ricordato
ancora Tadulterio di Marte e Venere, e i rapporti di Giove e Ganimede,
soggiunge : quae omnia in hoc (scil. Homero) prodita ut vitiis hominum
quaedam auctoritas pararetur. pure l’esagerazione del frequentius quam inipsìs
lupanaribus che guasta il concetto espresso dal plerumque di Tertulliano
; in terzo luogo si avverta l’epiteto flagrans attribuito alla libido ,
in luogo del thure fla- grante così significativo di Tertulliano. Infine
quel defmgitur , usato assolutamente, e con soggetto di cosa in senso di
« si sfoga » o in quello passivo di viene saziata è tanto poco
giustificato da altri esempi di scrittori latini (*), che fa pensare a un
errore del testo. Forse in luogo di defmgitur , va letto: expungitur
. Tertulliano dopo le cose dette, si dispone a venire alla parte po-
sitiva della sua Apologia, ma prima confuta ancora le dicerie sparse sul
conto de’ Cristiani, che essi adorassero una testa d’asino e avessero in
venerazione la Croce. Quanto alla prima, ne attribuisce l’origine a
Tacito, che avendo narrato nel quinto delle Storie l’esodo degli Ebrei
dall’Egitto, e la sete patita nel deserto, e il fatto che una fontana era
stata indicata da alcuni asini selvatici, aveva soggiunto che gli Ebrei
grati a queste bestie del beneficio ricevuto avevano preso a venerarle.
Di poi la stessa cosa sarebbe stata attribuita ai Cristiani come setta
affine ai Giudei. Eppure, dice Tertulliano, lo stesso Tacito narra bene
che quando Pompeo presa Gerusalemme entrò nel tempio, non vi trovò alcun
simulacro. Piuttosto ai pagani possono i Cristiani rinfacciare che i
giumenti e gli asini intieri venerano insieme colla dea Epona.
Quest’ultimo punto, e solo questo, trovasi anche in Minucio onde può
riscontrarsi: Tertull. Apoi.:Tostameli Min.: vos et totos asinos
non negabitis et iumenta omnia et totos in stabulis curri vestra \jveT}
Epona concantherios curri sua Epona coli a vobis secratis, et eosdem asinos cum
Iside (cfr. ad Nationes: sane vos totos religiose decoratis.
asinos colitis et cum sua Epona et omnia iumenta et pecora et
bestias quae perinde cum suis praesepibus consecratis. Impersonalmente
trovasi usato defungor in Tee. Adelph.: utinam hic sit modo defunctum,
purché la finisca qui » ; e con soggetto di cosa pub ricordarsi il
barbiton defunctum bello di Orazio, la lira ha finito le sue battaglie
d’amore ». Abbastanza frequente è il defungor usato assolutamente ma con
soggetto personale come in Ter. Phorm.: cupio misera in hac re iam de-
funger e in Ovid. Am.: me quoque qui toties merui sub amore puellae,
defunctum placide vivere tempus erat . Sempre defungi ha senso di « finire
la parte sua, esaurire il proprio mandato. Il ricordo degli asini nel
culto d’ Iside è solo minuciano, e si aggiuuge ancora menzione di altri
culti strani, come quello del bue Api e di altre bestie venerate dagli
Egiziani (forse dal De Nat. Deor. di CICERONE. Quanto al
culto della Croce, osserva Tertulliano che anche i pa- gani adorano i
loro idoli di legno ; sarà dunque question di linee, ma la materia è la
stessa, sarà question di forma, ma è sempre il corpo del creduto Dio. Del
resto, dice, le immagini in forma di semplice palo della Pallade Attica e
della Cerere Paria, che gran differenza hanno dal legno della croce?
poiché ogni palo piantato verticalmente è una parte della croce. Poi gli
statuari, quando fabbricano un Dio, si ser- vono d’uno scheletro ligneo a
croce, tale in fondo essendo la figura del corpo umano ; e un sopporto di
legno della stessa foggia usasi pure nei trofei e nelle insegne militari.
M. parla di ciò. Ecco alcuni riscontri: Tertull.: Qui crucis nos
reli- giosos putat, consecraneus (correligionario) erit noster. Cum
lignum aliquod propitiatur, viderit habitus dura materiae qualitas cadera
sit, viderit for- ma dum id ipsum Dei corpus sit. Diximus originem deorum
vestrorum a plastis de cruce induci » (allusione a Ad Nationes dove
la fabbricazione degli idoli con uno scheletro ligneo a forma di
croce è ampiamente descritta. Sed et
Victorias adoratis cum in tropaeis cruces intestina sint
tropaeorum. Religio Romanorum tota castrensis signa veneratur... Omnes
illi imaginum suggestus in signis monilia crucum sunt; sipbara illa
vexillorum et cantabrorum stolae crucum sunt. Laudo dili- gentiam.
Noluistis incultas et nudas cruces consecrare. Ad Nationes: Si
statueris hominem manibus expansis, imaginem crucis feceris. Tertulliano
poi parla ancora della venerazione del Sole attribuita da alcuni ai
Cristiani per l’uso loro di pregare rivolti ad Oriente Ma anche questo,
dice, non è rimprovero che si possa fare ai Cristiani, Min.: Cruces... nec
colimus nec optamus. Yos sane qui
ligneos deos consecratis cruces ligneas ut deorum vestrorum partes
forsitan adorates. Nani et signa et cantabra et ve - xilla castrorum quid
aliunt quam inauratae cruces sunt et ornatae? tropaea vestra victricia
non tantum simplicis crucis faciem verum et adfixi hominis
imitantur. Signum sane crucis naturaliter visimus in navi cum velis
tumentibus vehitur, cum expansis palmulis labitur; et, cum erigitur
iugum, crucis signum est,* et cum homo porrectis manibus deum pura
mente veneratur. praticando anche i pagani la
preghiera al levar del sole. E se i Cri- stiani fanno festa il giorno del
sole (la domenica), fanno ciò per ben altra causa che la religione del
sole : pure i pagani nel dì di Saturno (il sabato) si davano all’ozio e
al mangiare, scimiottando, a sproposito, i Giudei. Di ciò nulla in M..
Infine nell’Apologetico ricordasi la pittura da un miserabile mu-
lattiere messa in pubblico, a Roma, rappresentante una figura umana con
orecchie d’asino, e l’un dei due piedi ungulato, vestito di toga e con un
libro in mano, appostavi la iscrizione: Deus Christianorum òvoxoirjtrjQ.
Era un Giudeo l’autore di questo indecente scherzo (ad Nat.); e la gente
ci credette e per tutta la città scorreva sulle bocche quell’ Onocoetes.
Ma di tali mostri, soggiunge, veneransi più fra i pagani che tra
cristiani; chè essi hanno accolto tra i loro Dei esseri con testa di cane
e di leone, e corna di capri e d’ariete, e coda di serpenti, alati le
spalle o i piedi. Un fuggevole ricordo di tali mostri è anche in M., che
del resto si tace: d) Tertull. : « Illi debebant adorare
statim biforme numen, quia et canino et leonino capite commixtos , et de
ca- pro et de ariete cornutos, et a lumbis hircos et a cruribus
serpentes et pianta vel tergo alites deos receperunt. Solo è invece
M. a scagionare i Cristiani dell’accusa di adorare sacerdoti virilia; alla
quale occasione ritorce contro gli avversari la taccia di impudicizia,
ricordando le licenze sessuali onde quei cinedi si
disonoravano. Min.: item bonra capita et capita vervecum et
immolatis et colitis, de capro etiam et de homine mixtos Deos et
leonum et canum vultn deos dedicatis. Ma venendo ornai alla parte
positiva della dottrina, Tertulliano celebra il Dio unico, creatore del
cosmo, invisibile sebben si veda, incomprensibile sebbene in via di
grazia divenga presente, inestimabile sebbene coll’umano sentimento si stimi.
E in quanto si vede, si comprende, si stima, Egli è minore dei nostri
occhi, delle nostre mani, dei nostri sensi; ma in quanto immenso, a sè solo è
noto. Così la sua stessa grandezza lo rende noto e ignoto insieme a noi.
Ecco appunto il gran delitto, consistente nel non voler riconoscere Dio,
mentre non si può ignorare. Non lo attestano le sue opere? non lo attesta la
stessa anima? la quale sebbene incarcerata nel corpo, svigorita dalla
concupiscenza, fatta ancella di falsi Dei, pure quando rientra in sè e
sente la sua sanità naturale, esce fuori in esclamazioni, quali: Dio
buono e grande!, e: ci sia propizio Iddio!, e : Dio vede, e : a Dio ti
raccomando e simili; e queste cose, esclama, non rivolta al Campidoglio,
ma al Cielo, sede naturale del Dio vivo. In Minucio la parte positiva del
discorso, per quel che riguarda la filosofia o teologia razionale,
precede la parte polemica o negativa. Del Dio unico parla Ottavio in
principio del suo discorso, e trovansi diversi luoghi paralleli a passi
di Tertulliano. Eccoli: Tertull.: deus ... totam molem istam
verbo quo iussit, ratione qua disposuit, virtute qua potuit de
nihilo expressit. Per il dispensare in confronto col
disponere, vedi CICERONE. Orai.: inventa non solum ordine sed edam
momento quodam atque iudicio dispensare atque disponere . Invisibilis est incomprehensibilis... inaestimabilis. quod
immensum est, soli sibi notus est. Anima cum sanitatem suam
patitur, deum nominat. Deus bonus et magnus et quod Deus dederit 1
omnium vox est. Iudicem quoque contestato illum ‘ Deus videt ’ et Deo commendo, et Deus mihi reddet \ 0 testimonium animae
naturaliter Christianae! Denique pronuntians haec non ad Capitolium sed
ad caelum respicit». Su questo tema dell’anima naturalmente
cristiana è noto che Tertulliano scrisse più tardi un opuscoletto a parte
intitolato appunto De testimonio animae , dove le stesse idee sono
esposte con maggiore ampiezza ed efficacia. Min.: Qui Deus
universa quaecumque sunt verbo iubet, ratione dispensai , virtute consummat hic
non videri potest... nec comprendi potest nec aestimari. Immensus et
soli sibi tantus quan- tus est notus ». « Audio vulgus; cum
ad caelum ma* nus tendunt, nihil aliud quam * o Deus ’ dicunt et
‘Deus magnus est’ et * Deus verus est’ et ‘ si Deus dederit’. Yulgi
iste natoalis sermo est an Christiani confidente oratio ? L’Apologetico e
importante per le indicazioni delle fonti letterarie della dottrina
cristiana. Ricordati i primi storici ispirati dall’Ebraismo e i profeti e
i libri ebraici tradotti in greco dai Settandue per suggerimento di
Demetrio Falereo al tempo <ìi Tolomeo Filadelfo, ricordata
l’antichità dei primi scrittori ebraici molto maggiore di qualsiasi
memoria greca, e fatto anche un cenno di altre fonti storiche greche,
egiziane, caldee, fenicie fino a Giuseppe Ebreo, notata la concordia e
completezza delle profezie che pronunziarono gli avvenimenti secondo verità,
e hanno acquistata autorità sicura anche per le cose ancora da
venire, Tertulliano espone la dottrina di Cristo uomo e Dio. La
teoria della Trinità divina in unità di sostanza è qui già chiara- mente
formolata, e confermasi l’idea del Àóyog, o parola o ragion divina
artefice dell’universo, con testimonianze di antichi filosofi. Poi si
riassume la storia di Gesù e ricordasi la divulgazione della dottrina di lui
fatta dagli Apostoli, fino alla persecuzione neroniana. Ecco dunque,
conchiude, qual’ è la nostra fede, che noi sosteniamo anche fra i
tormenti : Deum colimus per Christum . Cristo è uomo ma in lui e per lui
Dio vuol essere riconosciuto e adorato. Di questa, che è la sostanza del
Cristianesimo, Minucio tace affatto; non nomina neppur Cristo, pur
parlando a ogni piè sospinto de’ Cristiani. È questo il lato debole dell’
Ottavio. Solo in un punto uvvi una non chiara allusione alle dottrine
dell’uomo-Dio, uve per iscagionare i correligionari dall’accusa di venerare un
delin- quente dice : « molto siete lungi dal vero, se ritenete si creda
da noi deum aut meridie ìioxium aut potuisse terrenum , che un Dio o
si rendesse colpevole da meritar supplizio o potesse come cosa
terrena subirlo; parole non abbastanza chiare nel testo latino, e che
diedero luogo a ben disparate interpretazioni. Minucio in questo luogo è
rimasto inferiore a sè stesso, nè s’avvide come questa dottrina
fondamentale meritava più ampio svolgimento in una difesa del resto
eloquente e sentita della nuova religione. Continuando Tertulliano la
esposizione sua, parla dell’esistenza di sostanze spirituali, esistenza ammessa
già dai filosofi e poeti antichi come dal volgo; e, ricordata la caduta
di alcuni angeli e l’origine dei demoni, parla dell’opera di costoro
tutta rivolta a dannar l’uomo; son essi che eccitano le più strane
passioni u pazzi capricci e corruttele dell’anima; son essi che
ingenerano la fede negli Dei falsi e bugiardi, e, colla loro rapidità di
movimenti e parziale notizia del vero anche futuro, ispirano oracoli e vati,
e in tutto contribuiscono a ingenerare inganni e deviar la mente dal vero
Dio. I miracoli dei maghi son da loro ; da loro spesso i sogni e ogni
specie di divinazione. La più bella prova di ciò, dice Tertulliano, è
questa che se uno invaso da un demone si trovi in faccia a un Cristiano,
e questi dia ordine al demone di parlare, quegli senz’altro si
confesserà, quel che è ; e così pure quelli che son creduti invasi da un
Dio, in presenza d’un cristiano confessano di essere nient’ altro che demoni.
Il nome di Cristo basta ad atterrire questi esseri ; una prova di più
cho il nostro è l’unico Dio e vero, e che non esistono gli Dei pagani.
Sicché si vede quanto poca regga l’accusa di lesa religione romana,
mentre di vera irreligiosità si macchiano gli avversari coll’ adorare i
falsi Dei, e diversi nelle diverse regioni, e altresì coll’ impedire a
noi il culto del vero Dio. Tali pensieri trovansi su per giù anche
in M.. Ottavio discorre degli spiriti mali, degradati dalla loro primiera
innocenza e tutti intenti a perdere anche gli altri. Tale discorso
continua r offrendo vari luoghi paralleli a Tertulliano. Tertull. Apolog,:Sciunt daeraones philosophi,
Socrate ipso ad daemonii arbitrium exspectante. Quidni?
cum et ipsi daemonium a pueritia adhaesisse dicatur, dehortatorium piane a
bono. Omnes sciunt poetaen. Min.: eos
spiritus daemones- esse poetae sciunt , philosophi disserunt,
Socrates novit, qui ad nutum et arbitrium adsidentis sibi daemonis vel deeli
nabat negotia vel petebat. Il demonio socratico è da
Tertulliano giustamente detto debortatorium a borio; meno esattamente
Minucio gli attribuisce efficacia e positiva e negativa contro la nota
verità storica. Quid ergo de ceteris ingeniis vel etiam viribus
fallaciae spiritalis edisseram? phantasmata Castorum, et aquam cribro
gestatara, et navem cingalo promotam f et barbam tactu inrufatam, ut numina
lapides crederentur et deus verus non quaereretur ? Min.: de ipsis
daemonibus etiam illa quae paullo ante tibi dieta sunt, ut Iuppiter ludos
repeteret ex somnio, ut cum equis Castores viderentur, ut cingulum
matronae navicula sequeretur. Tali esempi di miracoli erano conosciuti
volgarmente dai libri relativi all’arte divinatoria, e in riassunti
dottrinali non fa meraviglia di veder citati or gli uni or gli
altri. Tertull.: « Iussus aquolibet chrifitiano loqui spiritus ille tam
se daerannem confitebitur de vero quam alibi dominum de falso. Aeque
producatur aliquis ex his qui de deo pati existiraantur Ista ipsa
Virgo caelestis pluviarum pollicitatrix, ipse iste Aesculapius
medicina- Tum demonstrator nisi se daemones confessi fuerint
Christiano mentiri non audentes etc. vobis praesentibus erubescentes.
Credite illis, cura verum de se lo- quuntur, qui mentientibus creditis.
Nemo ad suum dedecus mentitur, quin potius ad honorem de corporibus
nostro imperio «xcedunt inviti et dolentes sciunt pleraque pars vestrum
ipsos daemonas de se met ipsis confiteri, quotiens a nobis
tormentis verborura et oratìonis incendiis de corporibus
exiguntur. Ipse Saturnus et Serapis et Iuppiter... vieti dolore quod sunt
eloquuntur. nec utique in turpitudinem sui, nonnullis praesertim
vestrum adsisten- tibus mentiuntur . Ipsis testibiis esse eos
daemonas credite fassis adiurati per deum verum et solum inviti miseri
corporibus inhorre- scunt et... exsiliunt. Un altro riscontro ancora
notasi volgendo rocchio a Tertulliano ove si riprende il discorso degli angeli
e dei demoni. Licet subiecta sit nobis tota vis daemonum et eiusmodi
spirituum, ut nequam tamen servi metu nonnunquam contumaciam
miscent, et laedere gestiunt quos alias verentur. Odium enim etiam timor
spirat. Inserti mentibus imperitorum odium nostri serunt occulte per
timorem ; naturale enim est et odisse quem timeas et quem oderis infestare
si possis. In Tertulliano sono i demoni che temendo i Cristiani, appunto
per ciò qercano di offenderli, perchè il timore partorisce odio. In
Minucio si fa che i demoni insinuino nei pagani Todio contro i Cristiani
per mezzo del timore. Ma ciò, si noti, è meno naturale, perchè i pagani
non avevano nessuna ragione di temere i Cristiani. Li odiavano invece
senza conoscere la loro dottrina ; ma ciò non ha a che fare col timore.
Non a proposito dunque Minucio fece sua quest’osservazione psicologica
dell’odio figlio del timore. Infine a riguardo della varietà
politeistica, Tertulliano ricorda le bestie venerate in Egitto ; e qui è da
fare un raffronto con M. Tertull.: Aegyptiis permissa est tam vanae
superstitionis po- testas avibus et bestiis consecrandis et capite
damnandis qui aliquem huiusmodi deum occiderint. Min.: nec eorum
(Aegyptiorum) sacra damnatis instituta serpentibus, crocodilis,
belluis ceteris et avibus et piscibus, quorum aliquem deum si quis
occiderit etiam capite punitur. Una delle ragioni che i pagani opponevano più
frequentemente alle censure dei loro Dei fatte dai seguaci del Cristo,
era questa che a buon conto Roma doveva la sua grandezza alla religiosità
tradizio* naie e al rispetto degli Dei e delle cerimonie istituite in
loro onore. Di questa idea appunto si fa interprete Cecilio Natale presso
M. nel suo discorso in difesa del paganesimo. I Cristiani dovettero
ribattere queste ragioni, mostrando che Roma se era grande non doveva
nulla ai falsi Dei. Tertulliano svolge questo punto nell’Apologetico. Con
ironia comincia a chiedere se Dei quali Stercolo e Mutuno e Larentina
hanno potuto promuovere l’imperio ; poiché, dice, non è da supporre che Dei
forestieri, come la Gran Madre, favorissero Roma, a detrimento dei loro
fedeli indigeni. Del resto, soggiunge, molti Dei romani furono prima re ;
da chi ebbero la podestà regia? Forse da qualche Stercolo. E il potere di
Roma già era, molto prima che si costituisse il culto ufficiale, e che di
idoli greci ed etruschi fosse inondata la città. Ma poi tutta la storia
romana è prova di irreligiosità piuttostochè di religiosità. Guerre e
conquiste di città come si fanno senza ingiuria agli Dei, senza distruzione di
templi e stragi di cittadini e di sacerdoti, e rapine di ricchezze sacre e
profane? E come può essere che gli Dei delle città vinte tollerino poi
d’essere adorati dai conquistatori ? Non possono dunque essersi fatti
grandi per merito della religione quelli che crebbero coll’offenderla o
crescendo l’offesero. Anche Ottavio in M., svolge questi pensieri,
ricordando le scelleratezze compiute da Romolo in poi, e mostrando la
improbabilità che i Romani siano stati aiutati dai loro Dei vernacoli
come Quirino, Pico, Tiberino, Conso, Pilunno, Volunno, Cloacina, il
Pavor e il Pallor , la Febbre, Acca Laurenzia e Flora; tanto meno li
aiuta- rono gli Dei forestieri come Marte Tracio, Giove Cretese, Giunone
o Argiva o Samia o Punica che dir si voglia, Diana Taurica, la
madre Idea, o le non divinità ma mostruosità egiziane, (ricordi attinti a
CICERONE e Seneca, v. ediz. Waltzing. Ecco qualche riscontra con
Tertulliano: Tertull.: Tot igitur sacrilegia Min.: totiens ergo
Romania Romanorum quot tropaea, tot de deis impiatum est quotiens
triumphatum, quot de gentibus triumphi, tot manu- tot de diis spolia
quot de gentibus et biae quot manent adhuc simulacra capti-
tropaea. vorum Deorum. Omne regntim vel imperium bellis quaeritur
et victoriis propagata. Porro bella et victoriae captis et eversis
plurimum urbibus Constant. Id negotium sine
deorum ini uria non est. Eadem strages moenium et templorum pares
caedes civium et sacerdotum , nec dissimiles rapinae sacrarum divitiarum
et profanarum. Tertull.: Videte igitur ne ille
regna dispenset cuius est et orbis qui regnata et homo ipse qui
regnat... Regnaverunt et Babylonii ante ponti - fices et Medi ante
XVriros et Aegyptii ante Salios et Assyrii ante Lupercus, et
Amazones ante Virgines V est ale s. civitates proximas evertere cum
templis et altaribus disciplina com- raunis est Ita quicquid Romani
tenent colunt possident, audaciae praeda est: tempia omnia de
manubiis, i. e. de ruinis urbium, de spoliis deorum, de caedibus
sacerdotum. Hoc insultare et inludere est.... adorare quae manu ceperis,
sacrilegium est consecrare non numina. Min.: ante Romanos deo
dispensante diu regna tenuerunt Assyrii, Medi, Persae, Graeci etiam
et Aegyptii, cum pontifices et arvales et salios et vestales et
augures non haberent nec pullos caveas reclusos quorum cibo vel fastidio reip.
summa regeretur. Per non volere i Cristiani sacrificare agli idoli, erano
tacciati sì di irreligiosità, ma non potevano essere processati per
questo, essendo ciascuno libero di avere, come gli piaccia, favorevoli o
sfavorevoli gli Dei. Formale accusa invece si moveva loro per non volere
sacrificare in onore dell’ imperatore divinizzato, e chiamavan questo
lesa maestà. Di ciò parla Tertulliano. La cosa si capisce, die egli
; voi avete più paura e usate furbescamente più riguardi a Cesare
che a Giove stesso in Cielo. In fondo avete ragione; perchè un vivo
vai più dun morto. Ma commettete voi in questo colpa
d’irreligiosità, dando la preferenza a una dominazione umana; e più
presto si sper- giura da voi per tutti gli Dei che per il solo genio di
Cesare. A questo punto è a notare una lieve somiglianza col discorso
di Ottavio presso Minucio, là dove rimprovera i pagani del prestar
culto divino ad un uomo, e dell’ invocare un nume che non c’ è ; pure,
dice, è per loro più sicuro spergiurare per il genio di Giove che per
quello del re. Tertull.:
citius de- Min.: et est eis tutine per nique apud vos per
omnes Deos quam Ioyìs genium peierare quam regis. per unum genium
Caesaris peieratur. Segue in Tertulliano un gruppo di capitoli bellissimi in
cui con calorosa eloquenza si fa vedere quanto più onesti ed efficaci
voti facessero i Cristiani pregando per la salute dell’imperatore il Dio uno e
vero, e a cbi solo può dare chiedendo per lui lunga vita, securo imperio,
casa tranquilla, forte esercito, senato fedele, popolo probo, mondo
quieto; e ciò non con apparati di culto esterno, ma con sincerità d’anima
e innocenza di vita. I Cristiani, dice, hanno imparato dal loro Maestro a
pregare anche per i nemici e i persecutori; e nel far voti per la
diutur- nità dell' impero, sanno di ritardare quel cataclisma che
minaccia all’orbe universo la fine. Ma non possono chiamare Dio l’
imperatore senza derisione di lui e ingiuria al vero Dio. Perchè dunque saranno
qualificati come nemici pubblici? Forse perchè si astengono dalle
licenziose feste pubbliche celebrate a solennizzare qualche lieto
avvenimento della casa imperiale? A buon conto, non dai Cristiani, ma dal
novero dei Komani escono e i Cassii e i Nigri e gli Albini, cioè i
ribelli all’autorità imperiale; i quali pure avevan preso manifesta parte
alla feste pubbliche e ai pubblici voti per la salvezza dell’ imperatore.
La vera sudditanza e fede dovuta all’autorità sta nei buoni costumi e nei
rapporti d’onestà quali noi Cristiani serbiamo con tutti. Amando noi
i nostri nemici, chi possiamo ancora odiare? Inibita a noi la
vendetta, chi possiamo offendere? Quando mai i Cristiani pensarono a
vendi- carsi neppure del volgo che li malmenava, non rispettando
nemmeno i morti? Eppur quanto facimente avrebber potuto preparare le
loro vendette in segreto, o anche dichiarare aperta guerra, tanto
numerosi essi già sono in tutte le città, nelle isole, nei municipi, nei
campi militari, nel senato stesso e a corte ! Potevano anche senz’armi
pugnare, ritirandosi in qualche angolo remoto del mondo e lasciando
dietro sè una spaventosa solitudine. Eppure ci avete chiamati nemici del
genere umano, anziché « dell’errore umano. Che ragion vi era di non considerare
la nostra setta come una factio licita, dal momento che non facciamo nulla
che turbi la società, e produca divisioni, attriti, violenze? Una
repubblica sola noi riconosciamo, il mondo. Ai vostri spettacoli
rinunziamo, perchè ne conosciamo l’origine dalla falsa religione. In che
v’offendiamo, se abbiamo altri gusti e piaceri? L’unità della fede e
della speranza ci unisce e ci affratella. Ci aduniamo a pregare e a
leggere i libri santi; ivi ci esortiamo a far bene, e ci rimproreriamo se
manchiamo ai nostri doveri. Si contribuisce un tanto al mese per
alimentare i poveri e so- stenere le spese delle sepolture e dei
derelitti. Il nostro mutuo amore 4, dà noia agli avversari, perchè essi
si odiano, noi siamo pronti a morire l’un per l’altro, quelli ad uccidersi l’un
l’altro. Ci riconosciamo fratelli, perchè abbiamo lo stesso padre Iddio,,
e come si mescolano le nostre anime, così mettiamo in comune le sostanze.
Tutto è da noi accomunato, salvo le mogli. Le nostre cene sono parche e
denominate con parola significante amore, e lì si prega prima di mangiare
come dopo, e si canta, chi sa farlo, in onor di Dio. Che male c’ è, o a
chi torna di danno tutto ciò, da parlare di factìo illicita? A questo
punto, il dialogo di M. offre qualche possibilità di riscontro con
l’Apologetico. Giacché, dopo confutata l’accusa di cene incestuose,
Ottavio nel suo discorso prende subito a celebrare l’ inno- cenza dei
costumi cristiani, e qua e là il suo pensiero corre parallelo a quel di
Tertulliano. a ) Tertull. c. XXXIX, fin.: « haec Min.: nec factiosi
(così coitio Christianorum merito damnanda THerald; il cod. ha:
‘fastidiosi 1 ) su- I si quis de ea queritur eo titillo quo de mus,
si omnes unum bonura sapimus factionibus querela est. In cuius
perni- eadem congregati quiete qua singuli. ciem aliquando convenimus?
Hoc su- mus congregati quod et dispersi, hoc universi quod et
singuli , neminem lae- dentes, neminem contristantes. Sed eiusmodi vel
maxime dile- sic mutuo, quod doletis amore ctionis operatio notam
nobis inurit pediligimus, quoniam odisse non novimus, nes quosdam.
Vide, inquiunt, ut in vicem sic nos, quod invidetis, frati es vocamus, se
diligant; ipsi enim invicem oderunt; ut unius dei parentis homines, ut
con- et ut prò alterutro mori sint parati; sortes fidei, ut spei
coheredes. Yos enim ipsi enim ad occidendum alterutrum pa- nec
invicem adgnoscitis, et in mutua ratiores erunt. Sed et quod
fratres nos odia saevitis, nèc fratres vos nisi sane vocamus, non
alias opinor, insaniunt ad parricidium recognoscitis. quam quod apud ipsos
omne sanguinis nomen de affectione simulatum est. Fra- y tres autem
etiam vestri sumus at quanto dignius fratres et dicuntur et
habentur qui unum patrem Deum agnoverunt, qui unum spiritum biberunt
sanctitatis, qui de uno utero ignorantiae eiusdem ad unam lucem
exspiraverunt Veritatis. Tertull.: Deo offero opimam et maiorem
hostiam... orationem de carne pudica, de anima innocenti, de spiritu sancto
profectam. Tertull.: Aeque spectaculis vestris in
tantum renuntiamus in quantum originibus eorum, quas scimus de
superstitione conceptas, cupi et ipsis rebus de quibus transiguntur
praetersumus. Nihil est nobis dictu, visu, auditu cum insania circi, cum
impudi- citia theatri, cum atrocitate arenae, cum xysti
vanitate. Min.: qui innocentiam colit Deo supplicat, qui iustitiam
Deo libat... qui hominem periculo subripit, opimam (il cod. ha
optimam) vidimavi caedit: a nos. . merito malis voluptatibus et pompis et
spedaculis ve- stris abstinemus, quorum et de sacris originem
novimus , et noxia blandimenta damnamus. Nam in ludis circensibus
(così leggo io, il cod. ha: currulibus) quis non horreat populi in se
rixantis insaniam ? in gladiatoriis homicidii di- sciplinami? in
scenicis etiam non minor furor et turpitudo prolixior ; nunc enira
mimus yel exponit adulteria vel monstrat, nunc enervis histrio amorem dum
fingit infigit I capitoli XL e XLI dell’Apologetico contengono la
confutazione dell’accusa che delle pubbliche calamità fossero causa i
Cristiani, come 8’ andava già fin d’allora vociferando, e si seguitò a
dire per molte ge- nerazioni. Tertulliano ricorda molti cataclismi, isole
scomparse, terre- moti e maremoti, e il diluvio, e l’ incendio di Sodoma
e Gomorra, di- sastri avvenuti tutti avanti al Cristianesimo. E col
distruggersi delle città, dice, si distruggevano anche i templi degli
Dei; prova che non veniva da loro ciò che anche a loro accadeva. Bensì il
Dio unico e vero non poteva essere propizio a chi ne disconosceva i
favori. Del resto, i mali ora sono minori di prima, e ciò è dovuto alle
preghiere dei Cristiani che disarmano l’ira divina. Che se il nostro Dio
per- mette i disastri anche a danno de' suoi cultori, ciò non ci stupisce
nè sgomenta, aspirando noi a vita più alta e migliore. Di tutto questo
in Minucio non v’ è parola. Altro titolo d’ ingiurie contro i
Cristiani era il ritenerli alieni dagli affari e disutili al commercio
locale. Tertulliano dedica a questo argomento i capitoli XLII e XL1II,
dove fa vedere l' insussistenza di questo rimprovero. Vivevano bene i
Cristiani come gli altri, serven- dosi e dei mercati e delle botteghe e
delle officine e dei bagni pubblici. Che se si astenevano da certi usi, se non
si coronavano di fiori la testa, se non intervenivano agli spettacoli, se
non sovvenivano i templi pagani coi loro contributi, avevano bene ragione
di farlo. E del pari certo quattrini non ricevevano da loro nè i lenoni,
nè.i sicari, nè i magi, nè gli aruspici, nè altri tali ; ma in compenso i
Cristiani eran tutte persone innocue da non dar ombra a nessuno.
Qui, rispetto alluso di portar corone di fiori in capo, si può con-
frontare : Tertull.: non amo capiti coronam. Quid tua
interest, em- ptÌ8 nihilominus floribus quomodo utar ? Puto gratius
esse liberis et solutis et undique vagis. Sed etsi in coronam
coactis, nos coronam nariòus novimus, viderint qui per capillum
odorantur. Min. c. 38, 2 : « quis autem ille
qui dubitat vernis indulgere nos floribus, cum capiamus et rosam
veris et lilium et quicquid aliud in floribus blandi co- loris et
odoris est? his enim et sparsis utimur, mollibus ac solutis, et
sertis colla complectimur. Sane quod caput non
coronamus, ignoscite; auram bo- nam floris nariòus ducere non
occipitio capillisve solemus haurire. 1 due capitoli che seguono in
Tertulliano, il XLIV e il XLY, sono rivolti a segnalare l’ innocenza dei
Cristiani, proveniente dal se- guire essi una legge non umana ma divina,
e dal considerarsi come in presenza di Dio sempre, di Dio scrutatore,
giudice e vindice. b) Terlull. Tot a vobis nocentes variis
criminum elogiis recen- sentur; quis illic sicarius, quis manti-
cularius, quis sacrilegus aut corruptor aut lavantium praedo, quis ex
illis etiam Christianus adscribitur? aut cum Chri- stiani suo
titulo offeruntur, quis ex illis etiam talis qttales tot nocentes?
De vestris semper aestuat career , de vestris semper metalla
suspirant, de vestris semper bestiae saginantur, de vestris semper
munerarii noxiorum greges pascunt. Nemo illic Christianus nisi piane
tantum Christianus , aut si et aliud iam non Christianus ».
c) : quid perfectius, prò- hibere adulterium, an etiam ab oculorum
solitaria concupiscentia arcere ? : u Christianus uxori suae soli
masculus nascitur. Min.: de vestro numero career exaestuat ,
Christianus ibi nullus nisi aut reus suae religionis aut'profugus: vos
enim adulteria pròhibetis et facitis, nos uxoribus nostris solummodo viri
nascimur. Pur vinti da tanta copia di fatti e bontà di ragioni, non si
arrendevano gli avversari de’ Cristiani, e, a corto d’altri argomenti, finivano
con dire che in sostanza le massime cristiane non erano cosa nuova, ma
erano già state professate e praticate dai filosofi. Di ciò Tertulliano
nel capitolo XLYI, dove istituisce un eloquente confronto tra le massime
e la vita pagana da una parte e i precetti e costumi cristiani dall’
altra, per dimostrare la superiorità dei secondi. Qui un riscontro con M.:
Tertull. c. XLVI: a ... licet Plato Min. c. 19, 14: u Platoni... in
Ti- adfirmet factitatorem universitatis ne- maeo deus est ipso suo
nomine mundi que inveniri facile et inventum enar- parens, artifex
animae, caelestium ter- rari in omnes difficile. Cfr. Plat. Tim.
renorumque fabricator, quem et inve-: « Tòv fxhv noirjrijy xai nire difficile
praenimia et incredibili naréga tovóe tot) navròg eògeìv re eg-
potestate (cfr. Plato qui inve- lo!', xai etigóvia elg ndvrag àóvvarov
nire Deum negotium credidit, et Xéyeivn. cum inveneris in publicum
praedicere impossibile praefatur. Non può negarsi, riconosce
Tertulliano, che i filosofi antichi hanno espresso molte cose vere, ma
queste son derivate dalla fonte dei nostri profeti. E queste stesse
verità sono involute e com- mescolate a ipotesi e opinioni
disparatissime, sicché poi questi filosofi sono in completo disaccordo
gli uni cogli altri. Tale varietà d’opinioni pur troppo venne anche introdotta
nella setta cristiana, sicché bisognò prescrivere ai nostri adulteri,
quella essere regola di verità la quale venga a noi trasmessa da Cristo
per mezzo de’ suoi compagni. Per queste adulterazioni della verità,
insinuate dagli spiriti dell’errore, certi prin- cipii già si trovano tra
i pagani, come il giudizio finale delle anime, le pene dell’inferno e il
soggiorno delizioso degli Elisi, ma tali prin- cipii in quanto hanno del
vero, sono di origine nostra. Tertull.: quis poetarum, quis Min.:
animadvertis philososophistarum,qui non omnino de prò- pbos eadem disputare
quae dicimus, pbetarum fonte potaverit? non quod nos simus eorum
vestigia u Unde baec ... nonnisi de nostris sasubsecuti, sed quod
illi de divinis praecramentis? Si de nostris sacramentis, dictionibus
profetarum umbram inter- ut de prioribus, ergo fideliora sunt no-
polatae veritatis imitati sint ». stra magisque credenda, quorum imagines
quoque fìdem inveniunt. Una delle credenze cristiane più combattute e derise
dagli avversarli, era quella della resurrezione finale dei corpi e del ritorno
delle anime in que’ corpi che già avvivarono. A questo dogma dedica
Ter- tulliano il cap. XLYIII, adducendo la ragione della divina
onnipo- tenza, che come ha dal nulla creato il mondo, così può far
risuscitare i corpi morti. Non è quotidianamente sotto gli occhi nostri
il segno della resurrezione nell’alternativa della luce e delle tenebre,
nel tramontare e rinascere delle stelle, nel rifarsi delle stagioni e dei
prodotti della natura? Se a Dio fosse piaciuta altresì l’alternativa
della morte e della resurrezione, chi l’avrebbe impedito? Volle invece
che alla condizione presente di vita passeggera, si contrapponesse
un’altra vita eterna, e a questa passassero tutti risorgendo coi corpi,
per vivere un’eternità di premio o di pena secondo i meriti di ciascuno.
E il fuoco eterno che aspetta i dannati, è di natura ben diversa dal
nostro; come altro è il fuoco che serve agli usi umani, altro quello che
apparisce nei fulmini del cielo o nelle eruzioni dei vulcani, perchè
questo non consuma quello che brucia, e mentre disfa, ripara. Tali
principii se sono professati da filosofi e da poeti, si tollerano e si
lodano; perchè noi Cristiani dobbiamo esserne derisi e anche puniti?
Infine queste credenze sono utili, perchè allontanano dal mal fare colla
paura dei divini castighi, e, alla peggio, non fan male a nessuno. Anche
M. mette in bocca al suo Ottavio alcune considera- zioni sulla fine del
mondo e la risurrezione dei morti, dedicandovi tutto il capo 34 e parte
del 35. Sulla fine del mondo ricorda le opinioni degli Stoici e degli
Epicurei e anche di Platone circa la conflagrazione finale dell’universo,
e giustifica così la credenza cristiana. Per la risurrezione pure cita Pitagora
e Platone, ma solo per dimostrare che i saggi pagani in questo vanno in
qualche modo d'accordo coi Cristiani. Ricorre anch’egli all’argomento
dell’onnipotenza divina e alla possibi- lità che rinasca dal nulla quello
che dal nulla ebbe origine, come accenna pure ai segni di risurrezione
dati dalla natura, e alle condizioni del fuoco eterno. Qui alcuni
riscontri: Tertull.: sed quomodo, inquis, dissoluta materia exhiberi
potest? Considera temetipsum, o homo, et fidem rei invenies. Kecogita
quid fueris antequam esses. Utique nihil; Min.: quis tam
stultus aut brutus est, ut audeat repugnare, hominem a Deo ut
primum potuisse fingi, ita posse denuo reformari? Sicut de nihilo
nasci licuit, ita de nihilo limeminisses enim si quid fuisses. Qui cere
reparari? porro difficilius est id ergo nihil fueras priusquam
esses, idem quod non sit incipere, quam id quod nihil factus cum
esse desieris, cur non fuerit iterare. Tu perire et Deo credis
possis rursus esse de nihilo eiusdem si quid oculis nostris hebetibus
subipsius auctoris voluntate qui te voluit trahitur ? » esse de
nihilo ? Quid novi tibi eveniet ? Qui non eras factus es; cum iterum
non eris fies. Et tamen facilius utique fies quod fuisti aliquando,
quia aeque non difficile factus es quod nunquam fuisti aliquando. Lux
coti die interfecta Min. ib. 11: «in solacium nostri resplendet et
tenebrae pari vice dece- resurrectionem futuram natura omnis dendo
succedunt, sidera defuncta vive- meditatur. Sol demergit et nascitur,
scunt, tempora ubi finiuntur incipiunt, astra labuntur et redeunt ,
flores occi- fructus consummantur et redeunt , certe dunt et
revirescunt, post senium ar- semina non nisi corrupta et dissoluta
busta frondescunt, semina nonnisi cor - fecundius surgunt, omnia pereundo
ser- rupta revirescunt». vantar omnia de interitu reformantur. Tertull.
ibid.: « Noverunt et phi- : Illic sapiens ignis losophi
diversitatem arcani et publici membra urit et reficit , carpit et nutrit.
ignis. Ita longe alius est qui usui hu- Sicut ignes fulminum corpora
tangunt mano, alius qui iudicio Dei apparet, nec absumunt, sicut ignes
Aetnaei monsive de caelo fulmina stringens, sive de tis et Vesuvi montis et
ardentium ubi- terra per vertices montium eructans: que terranno
flagrant nec erogantur, non enim absumit quod exurit , sed dum ita poenale
illud incendium non damnis erogat reparat. Adeo manent montes sem-
ardentium pascitur, sed inexesa corpo- per ardentes, et qui de
caelo tangitur, rum laceratione uutritur. salvus est, ut nullo iam
igni decinerescat. Et hoc erit testimonium ignis aeterni, hoc exemplum
iugis iudicii poenam nutrientis. Montes uruntur et durant. Quid nocentes et Dei
hostes? Eccoci all’ultimo capitolo dell’Apologetica, dove il grande scrittore
africano giustifica l’atteggiamento dei Cristiani, esultanti di essere
perseguitati e di soffrire anche la morte per la confessione di Cristo. Tale
atteggiamento era oggetto di vive censure; eran considerati i Cristiani
come gente disperata e perduta. Pure gli antichi avevano celebrato invece come
eroi gloriosi alcuni uomini che avevano patito, senza scomporsi, i più
atroci dolori, quali un Mucio Scevola, un Attilio Regolo, ecc. Perchè han
da stimarsi pazzi i Cristiani che fan lo stesso? Del resto, conchiude
Tertulliano, fate pure, o buoni governanti, contentate la plebe tormentandoci,
condannandoci, uccidendoci; codesta crudeltà non servirà che ad aumentare
il nostro numero; il nostro sangue è seme; il nostro esempio e
l’ostinazione che ci rinfacciate, fa scuola ; perchè chi ci vede e
ammira, sente di dover ricercare che cosa ci sia sotto, e conosciuto vi
si converte, e convertito desidera patire alla sua volta per redimere la
sua vita anteriore e ottenere Feterno premio. Di analogo argomento,
della resistenza dei Cristiani al dolore e della lotta loro contro le
minaccie e i tormenti dei carnefici, discorre pure Ottavio in Minucio.
Anche per lui il soffrire non è castigo, è milizia, e non è vero che Dio
abbandoni chi soffre, anzi lo assiste e a sè trae. Che bello spettacolo
per Dio quando il cristiano scende in lizza col dolore e le minacce e le
torture, e contro re e principi difende a testa alta la libertà della sua
fede, non cedendo che a Dio, vincitore anche di chi lo condanna e uccide.
Glo- rioso ritiensi colui che tormenti ha sostenuto con costanza; ma
altret- tali e peggiori soffrono col sorriso sulle labbra i fanciulli e
le donnicciuole cristiane, evidentemente perchè li aiuta Iddio. In
manifesta affinità di pensieri, non mancheranno riscontri di
parole: Tertull. c. L: « ...Victoria est... prò quo certaveris
obtinere. Haec desperatio et perditio penes vos in causa gloriae et famae
vexillum virtutis extollunt. Mucius dexteram suam libens in ara
reliquit: o sublimitas animi ! Empedocles totum sese Catanensium
Aetnaeis incendiis do- navit : o vigor mentis! Aliqua Cartaginis
conditrix rogo se secundum matrimonium dedit : o praeconium castitatis! Regulus ne unus prò multis hostibus viveret,
toto corpore cruces patitur: o virum fortem et in captivitate victorem!
etc. Min.: vicit qui quod contendi obtinuit. vos ipsos
calamitosos vi- ros fertis ad coelum, Mucium Scaevolam, qui cum errasset
in regem perisset in hostibus nisi dexteram perdidisset. Et quot ex
notfris non dextram solum sed totum corpus uri, cremari, sine ullis
eialatibus,pertulerunt,cum dimitti prae- sertim haberent in sua
potestate! Viros cum Mucio aut cum Aquilio aut Regulo Comparo? pueri et
mulierculae nostrae cruces et tormenta, feras et omnes suppliciorum
terriculas inspirata patientia doloris inludunt. Messoci sott’occhio
ordinatamente e nel modo più compiuto possibile il materiale di raffronto fra
Tertulliano e M., possiamo risolvere il problema, quale dei due abbia
avuto sott’occhio l’opera dell’altro. A questo fine chi ci ha
seguito fin qui voglia con noi fare due osservazioni. La prima è che in
molti luoghi si trova la stessa materia trattata con ampiezza e originalità di
vedute da Tertulliano, e accennata brevemente da Minucio; ad es. al § 1
c, come già s’è osservato, a tutta una teoria tertullianea sulla natura del
male morale e sull’atteggiamento del malvagio, teoria addotta per
mostrare che non era un male Tesser cristiano, corrisponde in Minucio un
cenno fuggevole della stessa sentenza; così al § 2 d, la natura della
fama o diceria è rilevata con minuziosa analisi da Tertulliano, ed è, in
frase inci- dente, come per transenna, e con parole per sè sole non
chiare, toccata da Minucio; lo stesso dicasi al § 6 i, sullo scheletro
ligneo a forma di croce adoperato nel fabbricare gli idoli; e ‘al § 13 b,
sull’essere i delinquenti in massima parte pagani e d’altri brani ancora.
In tutti questi casi si ha egli a pensare che Tertulliano, visto il breve
cenno minuciano, n’ abbia preso occasione per ampliare e a volte
costruire una teoria intiera basata sull’osservazione psicologica? o non
si presenta anzi spontanea l’ipotesi che M. abbia conosciute e fatte sue
le spiegazioni tertullianee, riassumendole dov’ e’ credeva opportuno? A
chi non parrà questo secondo processo ben più naturale del primo? Non è
questo il modo comune di lavorare in opere letterarie, quando non si
tratta di amplificazioni rettoriche e luoghi comuni? Chi potrà credere il
rapporto inverso, se tenga conto dell’ ingegno vigoroso, del ragionamento
serrato e a fil di logica di Tertulliano, in comparazione dei discorsi
alquanto rettorici da M. messi in bocca agli inter-locutori del suo
dialogo? La seconda osservazione che noi vogliamo si faccia, ci
conferma nell’ ipotesi della priorità di Tertulliano; e questa riguarda i
passi dove Minucio presenta lo stesso pensiero e la frase tertullianea, ma
o in luogo meno opportuno per la concatenazione delle idee, o con
aggiunta od uso di parole che alterano il concetto esagerandolo. Fin dal
prime riscontro segnalato al § 1 a, il cenno del non volere i pagani
udire pubblicamente i Cristiani desiderosi di difendersi, vien fuori poco
opportunamente come argomento del non essere essi Cristiani in angulis
garruli Così al § 3, già s’è notata la stranezza del derivare dalle
cerimonie di Giove Laziale gli usi sanguinarii di Catilina e di Bellona.
Nello stesso § 3, il riscontro f ci dà un esempio di esagerata espressione in
quel plerique sostituito al quidam di Tertulliano; come al § 4 g, è fuor
di squadra il frequentius. Inesattezze pure riscontrammo al § 5 f, dove è
attribuita ad Omero una leggenda che non gli appartiene, e ove del demonio
socratico si parla men corretene)] tamente che in Tertulliano. Ma il passo più
significativo è al § 9 g, ove poco a proposito, come già s’ è rilevato,
Minucio fece sua l’osser- yazione psicologica del timore che partorisce
odio. Tali difetti dell’esposizione minuciana sono una evidente conferma della
priorità ter- tullianea ; è nella natura delle cose che l’ imitatore non
afferrando con precisione i concetti dello scrittore che gli serve di
modello, alteri i rapporti delle idee e le renda in modo difettoso ;
mentre è ben più raro, se non impossibile, che un imitatore, prendendo le
mosse da un lavoro altrui, ne emendi tutti i difetti, raggiungendo una
precisa coe- renza e spontaneità, quale spicca in Tertulliano. Vi
sono però due luoghi che paiono far contro la nostra tesi. Uno è al § 5,
b e d, ove a una semplice parola o proposizione tertullianea: consecratione; d:
statuas . . . milvi et mures et araneae in - ielligunt) corrisponde in Minucio
una descrizione più ampia e ricca di particolari. Ma, se ben si guardi,
ciò non vuol dir nulla contro la tesi che sosteniamo. Già prima si può
pensare che Minucio, come per altre parti del suo dialogo prese da
Cicerone e da Seneca, così per questa abbia attinto ad altra fonte oltre
l’Apologetico, desumendone sia la descrizione dell’ idolo che finché vien
lavorato non è Dio e lo diventa appena è consacrato dall’uomo, sia quella
dei topi, delle rondini, dei ragni che rodono e fanno il nido e le ragnatele
nelle statue dei templi. Ma può anche darsi che qui s’abbia a fare con
una semplice amplificazione del pensiero suggerito dall’espressione di
Tertulliano, amplificazione non contenente altro che osservazioni
semplicissime e di dominio comune. Tanto più è probabile che tale lavoro
si deva attribuire a M., quanto che la caratteristica del suo stile,
cioè l’uso degli asindeti trimembri con omeoteleuto, si trova qui più
volte: funditur fabricatur sculpitur; plumbatur conslruilur erigitur;
ornatur eonsecratur oratur; rodunt inculcant insident; tergetis mundaiis
eraditis, ecc. L’altro punto che deve qui discutersi riguarda il fatto già
segnalato, a , pel quale Ebert e molti altri conchiusero senz’altro per
la priorità di M., vale a dire l’errore commesso da Tertulliano completando in
Cassius Severus il nome dello storico Cassius così letto da lui nelle sue
fonti. Pur riconoscendo che Tertulliano ha qui commesso un errore, era
proprio necessario di supporre che l’indicazione di quelle fonti storiche,
Diodoro e Tallo Greci, Cassio e Cornelio Romani, egli l’avesse presa da M.? Si
noti che il discorso si aggira intorno alla spiegazione euemeristica
degli Dei pagani, e si ricercano le vicende di Saturno e di Giove per
conchiuderne che costoro in origine erano nomini. Ora questa tesi non era solo
degli apologeti cristiani, ma da secoli era di dominio comune in molte
scuole filosofiche. Può dunque ben darsi che in qualche libro euemeristico
del primo o del secondo secolo dell’era volgare già si citassero
Diodoro Siculo e Tallo, Cassio e Cornelio Nipote, e anche Varrone, a
conferma della dottrina ; può essere che la citazione di quei nomi fosse
diventata come un luogo comune; tant’ è vero che un secolo dopo
Tertulliano, ancor la ripete con poche varianti Lattanzio. Questo è
l’unico punto in cui ritengo vera l’ipotesi di una fonte comune anteriore
a Tertulliano e M.. Il che se si ammette, l’errore di Tertulliano non
dice più nulla a favore della priorità di Minucio e contro la tesi inversa
da noi propugnata. Da questa stessa fonte euemeristica potrebbero supporsi
derivati i particolari minuciani che sopra avvertimmo non trovarsi in
Tertulliano, come pure ne derivarono le tradizioni simili a quella che si
legge nel De origine gentis Romanae e nei breviari storici concernenti le
origini di Eoma. Sia dunque lecito di conchiudere che l’ Ottavio di M. è
posteriore all’Apologetico; di non molto forse, se al tempo della sua
comparizione era ancora sì viva la memoria dell’oratore Frontone da
ricordarlo nel modo che fanno i due interlocutori del dialogo: Girtensis noster
, : Pronto tuus. Non andarono forse errati quelli che supposero composto
il dialogo nel primo o al più nel secondo decennio del terzo secolo, come certo
l’Apologetico è degli ultimi anni del secondo. Insù . : omnes ergo
non tantum poetae sed historiarum quoque ac rerum antiquarum scriptores
hominem fuisse consentiunt Saturnum. Qui res eius in Italia gestas
prodiderunt , Graeci Diodorus et Thallus t Latini Nepos et Gassius et Varrò. V.
il Minucio del Waltzing. Marco Minucio Felice – He wrote “Ottavio” – draws on a
speech by Frontone. – cf. Marco Minucio Felice.
Grice e Miraglia: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale di CICERONE – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Reggio). Filosofo italiano. Reggio, Emilia. Grice: “Miraglia is
the type of philosopher beloved by the Oxford hegelians; but then he is a
Neapolitan Hegelian!” Grice: “I always found Kant easier, but there’s nothing
like a ‘filosofia del diritto’ in Kant! And Hegel’s ethics itself, compared to
Kant’s is mighty more complex – that’s why I taught Kant!” Si laurea a Napoli, dopodiché insegna filosofia del
diritto nella stessa università, ed economia politica alla scuola superiore di
agricoltura di Portici. Segue una
corrente di pensiero eclettica, ad esso contemporanea, che mira
all'integrazione di pratiche giuridiche ed ispirazioni filosofiche. Sindaco di
Napoli. Tra le più famose si ricordano: “Condizioni storiche e scientifiche del
diritto di preda (Napoli); “Un sistema etico-giuridico” (Napoli); “Filosofia
del diritto” (Napoli). Nella sua biografia ufficiale per la Treccani è nato a
Reggio nell'Emilia, mentre nella sua scheda storico-professionale sul sito del
Senato si riporta a Reggio di Calabria. Giuseppe Erminio. Enciclopedia
Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, (latinista) Sindaci di
Napoli Senatori della legislatura del Regno d'Italia Luigi Miraglia, su Treccani Enciclopedie,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Opere su open MLOL, Horizons Unlimited srl. su Senatori d'Italia, Senato della
Repubblica. I sistemi filosofici ed i principi del diritto. La speculazione greca
e LA DOTTRINA ROMANA. Fichte. Spedalierie Romagnosi. Gli scrittori della
reazione. La scuola storica e la scuola filosofica. Schelling e Scleiermacher. Hegel
Rosmini. Herbart, Trendelenburg e Krause.Le varie fasi della filosofia di
Schelling. Sthal e Schopenhauer Il materialismo, il positivismo ed il
criticismo. L'idea della filosofia del diritto. La Filosofia e le scienze. Il carattere
della Filosofia mo. L'idea del Diritto
ed i metodi logici. L'induzione e la deduzione. L'induzione, l'osservazione e
l'esperimento. L'idea del Diritto naturale e quella del buono civile di AMARI
ricavate dall'induzione. L'importanza del metodo storico-comparativo secon do VICO
Amari , Post e Sumner-Maine. Parallelo fra lo sviluppo della lingua e lo
sviluppo del Diritto. L'induzione statistica. Il compito della deduzione.
L'universale astratto e l'universale concreto come principi. Moderna divinato
da VICO. La Filosofia del Diritto come parte della Filosofia. L'idea umana del
Diritto se condo la dottrina di VICO, e le definizioni di Kant, di Hegel, di Trendelenburg,
di ROMAGNOSI e di SERBATI. La teoria sociale e la teoria giuridica. Il Diritto
e la Filosofia positiva. L'idea induttiva del Diritto. Lo studio della
coscienza etico-giuridica dei vari popoli. Il contributo della razza ariana e
della razza semi tica nella storia della civiltà. L'idea del diritto come
misura in LA RAZZA ARIANA. La misura riposta nel l'ordine fisico, nella legge
positiva e nella ragione. Il principio della personalità. Gl’elementi organici
e spi rituali della persona e la loro corrispondenza. La spiegazione del
materialismo. La teorica dell'evoluzione. La critica dell'evoluzionismo
meccanico La teorica dell'evoluzione e la Psicologia. Il sentimento
fondamentale e le sensazioni. La coscienza e la sua origine. Le
rappresentazioni sensibili e le rappresentazioni coscienti. Il pensare e le categorie. La cognizione secondo
l'empirismo oggettivo. La critica di questa teoria. I presupposti pratici
dell'idea deduttiva del Diritto. Sviluppo e partizione. L'istinto, il desiderio
e la volontà. L'arbitrio e la libertà morale. La costanza degl’atti umani
rivelata dalla Statistica. Il fine dell'uomo ed il bene. Il bene umano ed il
Diritto. La forma imperativa, proibi. I presupposti teoretici dell'idea
deduttiva del Diritto. Seguito dei presupposti teoretici. tiva e permissiva del
Diritto. Il Diritto come principio di co-azione , di coesistenza e di armonia.
La tri-partizione razionale del Diritto. La divisione di Gaio. Analisi critica
delle principali definizioni del Diritto. Le dottrine che riguardano a preferenza
il contenuto sensibile del diritto: Hobbes, Spinoza, Roussean, Mill e Spencer.
Le dottrine che considerano il diritto come astratta forma razionale: Kant, Fichte
ed Herbart. Le definizioni di Krause e di Trendelenburg. Ciò che vi è di vero
nelle dottrine esaminate. Il Diritto, la Morale e la Scienza sociale. Il
Diritto come disciplina etica. I rapporti fra Morale e Diritto nella storia.
Critica della confusione e della separazione dei due termini. Il fondamento
comune e la differenza reale. L'Etica e la vita sociale.VICO, Süssmilch ed i
fisiocrati precursori della Scienza sociale. La Sociologia di Comte ed i vari
indirizzi. La Sociologia di Spencer. La Sociologia come Filosofia delle scienze
sociali. Le analogie tra la società e l'organismo. Le relazioni fra il Diritto
e la Scienza sociale. Il Diritto, l'Economia sociale e la Politica.
L'ordinamento sociale-economico ed i filosofi del Diritto antichi e moderni.
L'Etica, la Sociologia fondata sulla Biologia, la Politica e la Storia come
presupposti dell'Economia. Il carattere del fatto economico. I rapporti tra il Diritto
e l'Economia. Il concetto della Politica. La Politica , la Scienza sociale,
l'Etica ed il Diritto. L'idea compiuta dello Stato. Il Diritto razionale ed il
Diritto positivo. Fonti ed applicazioni. La distinzione del Diritto razionale
dal Diritto positivo in sé e nella storia. La consuetudine ed il costume
primitivo. La giurisprudenza ed i suoi uffici. La legislazione ed i codici.
L'efficacia della legge nello spazio.L'efficacia della legge nel tempo. Esame
delle diverse teorie sulla retroattività . Diritto Privato. La persona. I
diritti essenziali o innati ed i diritti accidentali o acquisiti. Il principio
dei diritti. Il diritto alla vita fisica e morale. Il diritto alla libertà. I diritti
all'eguaglianza, alla sociabilità ed all'assistenza. Il diritto di lavoro . Il
concetto storico dei diritti innati. I diritti dell'uomo nello stato di
natura.Lo stato di na. tura dei filosofi del secolo decimottavo in rapporto. La
persona ed i suoi diritti. Le persone incorporali. Lo scopo delle persone
incorporali. La teoria della fin. La proprietà e i modi di acquisto. La
proprietà e dil suo fondamento razionale. Dottrine in torno a questo
fondamento. Le limitazioni ed i temperamenti della proprietà. I modi originari
e deri vativi di acquisto La storia della proprietà e dei modi di acquisto.
L'attività procacciatrice dell'animale e dell'uomo. La storia della proprietà e
la storia della persona. La proprietà collettiva. La comunità di famiglia. Il Cristianesimo
ed il valore della persona individua. Il feudo. La riforma ed il diritto
naturale.La com piuta individuazione ed itemperamenti della proprie tà privata.
I modi di acquisto primitivi. Le distin zioni dei beni. L'usucapione, l'equità
e la procedura civile.. ! all'ordine di natura dei giureconsulti romani e dei
filosofi greci.La teorica della conoscenza ed ilmodo di concepire i diritti
essenziali della persona. I diritti innati e la Filosofia moderna. Il regime
dello status e del contratto . zione e dell'equiparazione. La teoria che
riguarda la persona incorporale come veicolo. La teoria del patrimonio sui
juris. Le idee dei pubblicisti tedeschi.Il soggetto reale nella corporazione e
nella fon dazione. I diritti delle persone incorporali ed il jus confirmandi
dello Stato. La teoria di Giorgi. La proprietá prediale. Il collettivismo
territoriale. La teoria di Wagner sulla proprietà dei fabbricati. La teoria di
Spencer sulla proprietà del suolo. La proprietà privata del suolo e la rendita.
Le dottrine di George e di Loria sul la terra La proprietà forestale e
mineraria. Le funzioni dei boschi. La libertà del taglio. Il vincolo e le sue
ragioni. La proprietà mineraria e le fasi della industria. La critica degli
argomenti in favo re del proprietario del suolo. La dottrina che attribuisce la
miniera allo scopritore . La merce lavoro ed il suo prezzo. Il lavoro come pro
prietà. La coalizione e lo sciopero. La giuria industriale.La proprietà del
capitale ed il profitto. Il collettivismo ed il mutualismo. La teoria di Marx.
La critica del collettivismo e della teoria di Marx. Le coalizioni
degl'intraprenditori. La proprietà commerciale, il diritto di autore e di
scopritore. Il concetto della proprietà commerciale. La libertà dello scambio.
La concorrenza. La nozione primitiva del commercio. Il diritto di autore prima
e dopo l'in La propriatà industriale. La classificazione dei diritti
sulla cosa altrui. Le servitù gimento dell'istituto nelle legislazioni.
Esposizione critica delle varie dottrine assolute e relative. Il fon damento
razionale. La critica della teoria di Ihering sulla volontà di possedere. Le
obbligazioni. zioni. Le loro varie specie e modalità. I differenti modi di
estinzione . Il contratto e le sue forme. L'indole del possesso. La sua
origine storica. Lo svol L'obbligazione. La sua origine. Le fonti delle obbliga
La nozione del contratto. Le sue fasi ed il suo fonda. mento. I requisiti
essenziali. I vizî del consenso ed alcune recenti teorie. L'interpretazione dei
contratti. Le loro classificazione e le dottrine di Kant e di Trendelenburg. venzione
della stampa. Il suo fondamento ed il suo carattere. La garentia del diritto
dello scopritore I diritti reali particolari. e le loro specie. In quali modi
le servitù nascono, si esercitano e si estinguono. L'enfiteusi. La superficie.
Il pegno e l'ipoteca. Il carattere del diritto di ritenzione Il possesso. La
libertà di contrarre ed il contratto di lavoro. La libertà di contrarre, i suoi
limiti e la sua guarentigia.. L'interesse e la sua limitazione. La libertà
dell'interesse. L'usura ed i suoi procedimenti. L'usura come forma
dell'ingiusto civile ed i modi di combatterla. L'usura come delitto. Critica
della teoria di Stein. La figura specialedeldelittodiusura.La leggeela vita. La
società, la cambiale, il trasporto e alcuni contratti aleatori. Il contratto di
società e le sue forme. La società e la. Il prestito usurario. persona
incorporale. Il regime dell'autorizzazione e della vigilanza. La cambiale
antica e la moderna. L'indole del contratto di trasporto. L'assicurazione e le
nuove teorie. Il giuoco. La missione sociale del diritto privato. L'eguaglianza
delle parti nella locazione di opera. I sistemi che regolano la responsabilità
dell'intraprenditore negli infortuni del lavoro. La famiglia primitiva. L
accoppiamento e l'istinto di riproduzione fra gli animali. Le teoriedi LUCREZIO
e di VICO. Le unioni pri mitive. La famiglia femminile. L'erogamia ed il ratto.
Gl'inizi e lo sviluppo della famiglia patriar . matrimonio. Le sue
condizioni.Il matrimonio civile. La precedenza del matrimonio civile. I
rapporti fra i coniugi. L'autorizzazione maritale. Il libro di Bebel e le idee
di Spencer. I sistemi con cui si regolano i beni nel matrimonio.
L'indissolubilitá matrimoniale ed il divorzio. L'ideale dell'indissolubilità.
Le esigenze concrete della vita.La quistione del divorzio in rapporto ai
diritti individuali ed alle ragioni sociali e storiche. Il divorzio e la
Chiesa. Le cause di divorzio.Le cautele. La tendenza a rivivere in altri. Il
fondamento e le fasi della patria potestà. La tutela,le sue specie e la cura. L'adozione.
I figli nati fuori del matrimonio. La ricerca della paternità. La
legittimazione . Idea, storia e fondamento della successione. Il concetto
dell'eredità. La successione legittima e la te. stamentaria nella storia. La
successione ed il culto degli antenati. Le dottrine intorno al fondamento
cale. La progressiva individuazione della parentela. Il processo di
specificazione e la fine della famiglia. L'amore come fondamento del
matrimonio. L'idea del La societá coniugale.. La società parentale. della
successione. Il condominio domestico ed il diritto di proprietà come basi della
successione. La successione legittima e la testamentaria. La prossimità della
parentela e del grado. La capacità
di succedere. Le classi degli eredi. La rappresentazione. La capacità di
testare e di ricevere per testamento. Le specie di testamenti, La legittima. Il
diritto di rappresentazione e la successione testamentaria. L'errore nella
causa finale ed impulsiva, e le condizioni.Il diritto di accrescere. La
sostituzione e la fiducia. I principi comuni ad ogni specie di
successione. Il mondo romano è il mondo del volere, e quindi del diritto e
della politica. Il volere in siffatto mondo da un lato continua a mostrarsi
negli ordini superiori ed inflessibili dello stato, e dall'altro comincia a
svolgersi in forma di diritto individuale. Con il principio del volere, di sua
natura soggettivo, il diritto privato non può non sorgere, e lo stato non può
più per lunghissimo tempo conservare le rozze sembianze d'una organica
oggettività naturale. In Roma, il diritto privato ė nei suoi primi momenti
stretto, ferreo ed arcano. Poi è ampliato, oltre al divenire palese, giovato,
supplito e corretto dall'equità, ch'è lo stesso diritto in opposizione ad una
legge, la quale non ha saputo attuarlo. Alla fine è diritto umano, e per
conseguenza proclama il principio, che la schiavitù, istituto delle genti e contronatura,
non riguarda l'anima, echegliuomi ni innanzi al diritto naturale sono liberi ed
eguali. CICERONE, il filosofo più alto del mondo romano, non avendo
coscienza scientifica della manifestazione del diritto soggettivo, come atto
dell'astratta potenza del volere, ė inferiore alla stessa realtà romana. CICERONE
non è autore di una filosofia propria, e segue d’ecclettico gli scrittori greci.
CICERONE professa il dubbio, non crede che la mente possa Il vuoto
soggetto, rappresentato dall’accademici come oggetto, riceve ora tutta la sua
concretezza, ed è in seno del Cristianesimo determinato quale Verbo o mente
assoluta. La filosofia quinci innanzi s'informa al principio soggettivo.
L'uomo, immagine di Dio ed in carnazione del verbo, si riabilita; e lo stato
antico, perdendo il suo alto significato, è costretto a rimpiccolirsi. La parte
più intima dell'individuo non è più sottoposta alla potestà politica , sibbene
alle nuove credenze, che in origine si mantengono in quell'ambiente ce leste in
cui sono nate, e si oppongono al mondo ancora pagano. L'Apostolo scorge una
contraddizione tra gli stimoli della carne e gl’impulsi dello spirito. LATTANZIO
crede che la vera giustizia sia nel culto di un divino unico, ignoto ai
gentili. AGOSTINO parla di una città celeste, sede di verità e di giustizia, in
antitesi alla città terre stre, fondazione di fratricidi e prodotto del peccato
pri 6 essere assolutamente certa, é pago della semplice verosimiglianza. Nell'etica
elimina il dubbio per leconseguenze dannose, e fa appello alla coscienza
immediata, in cui si ritrovano i germi della virtù, ed al consenso del genere
umano, per definire l'onesto e per stabilire alcuni pre supposti speculativi di
esso. Preferisce il principio etico del PORTICO, che tempera da uomo pratico. Trae
il diritto non dalle leggi di le XII tavole o dall'editto, ma dalla natura
umana. Riproduce la teoria aristotelica del lo stato, e si attiene alla forma
mista, propria degl’ordinamenti politici di Roma. Luigi Miraglia. Miraglia.
Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Miraglia” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Misefari: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- implicatura anarchica
– filosofia calabrese – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Palizzi). Filosofo italiano. Palizzi, Reggio
Calabria, Calabria. ‘Io non sono
italiano; io sono calabrese!” Fratello di Enzo (politico calabrese del P.C.I.,
storico e poeta), di Ottavio (calciatore reggino tra i più conosciuti nei primi
anni del secolo; giocò nella Reggina e nel Messina) e di Florindo (biologo,
attivista della Lega Sovversiva Studentesca e del gruppo "Bruno
Filippi"). Dopo aver frequentato la scuola elementare del piccolo
paese di nascita in provincia di Reggio Calabria, a undici anni si trasferì con
lo zio proprio a Reggio Calabria. Già da adolescente, influenzato dalle
frequentazioni di socialisti e anarchici in casa dello zio, partecipò
attivamente alla fondazione e allo sviluppo di un circolo giovanile socialista
(intitolato ad A. Babel, rivoluzionario tedesco dell'Ottocento). Iniziò a
collaborare al giornale Il Lavoratore, organo della Camera del Lavoro di Reggio
Calabria, firmando gli articoli come "Lo studente". Collaborò nello
stesso periodo a Il Riscatto, periodico socialista-anarchico stampato a
Messina; e con Il Libertario, stampato a La Spezia e diretto da Binazzi. A causa
della sua attività anti-militarista esercitata all'interno del Circolo contro
la Guerra italo-turca, fu arrestato e condannato a due mesi e mezzo di carcere
per «istigazione alla pubblica disobbedienza». Fu nei due anni successivi
che M. si convertì dal socialismo all'anarchia. Ciò avvenne soprattutto con la
frequentazione da parte di Berti, suo
professore di fisica presso l'"Istituto Tecnico Raffaele
Piria". Si trasferì a Napoli e si iscrisse al Politecnico, dopo
avere studiato fisica e matematica alle superiori, e anche per non dispiacere
al padre, proseguì tali studi. Pesò inoltre su questa decisione il fatto che in
quegli anni, dopo la tragica distruzione della città di Reggio Calabria a causa
del terremoto del 1908, il lavoro che garantiva le maggiori certezze era
proprio quello dell'ingegnere. Nondimeno continuò per proprio conto gli studi a
lui prediletti: politica, filosofia, letteratura, come aveva fatto fino ad
allora. A Napoli si fece subito avanti nell'ambiente anarchico. Il movimento a
Napoli contava allora di un centinaio di aderenti. Si rifiuta di
partecipare al corso allievi ufficiali a Benevento e fu condannato a quattro
mesi di carcere militare. Diserterà una seconda volta, trovando rifugio nella
campagna del beneventano in casa di un contadino. Tornato a Reggio Calabria,
interruppe una manifestazione interventista nella centrale Piazza Garibaldi,
salendo sul palco e pronunciando un discorso antimilitarista. Venne per questo
motivo arrestato e condotto presso il carcere militare di Acireale; sette mesi
dopo venne trasferito presso quello di Benevento. Da lì riuscì ad evadere
grazie alla complicità di un amico secondino. Fu tuttavia intercettato alla
frontiera del confine svizzero; ancora incarcerato, riuscì nuovamente nella
fuga. Tocca il territorio svizzero, ma i gendarmi lo condussero al carcere di
Lugano. Giunte dalla Calabria le informazioni su di lui, essendo un uomo
politico, dopo quindici giorni fu lasciato libero con la facoltà di scegliere
il luogo di residenza. Indicò subito Zurigo, dove sapeva di potere rintracciare
Misiano, suo caro amico e noto esponente politico socialista, anche lui
accusato di diserzione. A Zurigo trovò ospitalità presso la famiglia Zanolli,
dove si innamorò della giovane Pia, che diventerà sua compagna di vita.
Durante il periodo di esilio in Svizzera, Bruno svolgeva attività politica
tenendo i contatti con Luigi Bertoni e con altri gruppi anarchici elvetici,
collaborando anche al giornale: Il Risveglio Comunista Anarchico. Svolse una
serie di conferenze in varie città della Svizzera. M. si autoannunciava con un
suo pseudonimo anagrammatico Furio Sbarnemi. A Zurigo frequenta la Cooperativa
socialista di Militaerstrasse 36 e la libreria internazionale di Zwinglistrasse
gestita dai disertori Monnanni, Ghezzi e Arrigoni; in questi ambienti conosce
anche Angelica Balabanoff. Venne arrestato per un complotto inventato
dalla polizia. Fu incolpato innocentemente con l'accusa di avere fomentato una
rivolta nella città e di «aver fabbricato bombe a scopo rivoluzionario». Con
lui furono arrestati diversi attivisti politici, tra i quali lo stesso
Francesco Misiano (che fu poi rilasciato perché socialista e non anarchico).
Rimase in carcere per sette mesi, e venne poi espulso dalla Svizzera. Grazie ad
un regolare passaporto per la Germania, ottenuto per ragioni di studio, si recò
a Stoccarda.Lì entrò in contatto con Zetkin (che gli rilascia una lunga
intervista sul movimento rivoluzionario in Germania) e Vincenzo Ferrer. Poté
rientrare in patria, in seguito all'amnistia promulgata dal governo Nitti. -- è
a Napoli e poi a Reggio Calabria. E un periodo intenso per la sua vita
militante di M. A Napoli partecipò come oratore a molte manifestazioni, si
prodigò a favore dei suoi compagni colpiti dalla repressione, denunciò le
provocazioni della polizia; tenne numerose conferenze e comizi. Con il dentista
anarchico Giuseppe Imondi, stampò alcuni numeri del giornale: L'Anarchia. In
autunno fu chiamato a Taranto a svolgere il compito di segretario propagandista
presso la locale Camera del Lavoro Sindacale. Ha stretti contatti con
Malatesta, Berneri, Binazzi, Borghi, Vittorio e altri esponenti dell'anarchismo
e del sovversivismo italiano. Si impegnò su più fronti per la campagna a favore
degli anarchici Sacco e Vanzetti. Nello stesso periodo e corrispondente di:
Umanità Nova, settimanale anarchico diretto da Malatesta e collaborò al
periodico: L'Avvenire Anarchico di Pisa. Continuò i suoi studi a Napoli
con qualche salto a Reggio Calabria con la sua compagna Zanolli, che sposò. Si laureò a Napoli. Successivamente
si iscrisse anche alla facoltà di filosofia. Nonostante l'avvento del
fascismo, fondò un giornale libertario, “L'Amico del popolo,” che però dopo il
quarto numero fu soppresso dalle autorità. Nel primo numero del
giornale,scrisse un editoriale dal titolo “Chi sono e cosa vogliono gli
anarchici.” Lo scritto è l'espressione del suo pensiero libertario:
«L'anarchismo è una tendenza naturale, che si trova nella critica delle
organizzazioni gerarchiche e delle concezioni autoritarie, e nel movimento
progressivo dell'umanità e perciò non può essere una utopia.» Da esperto
di geologia, progettò per primo in Calabria l'industria del vetro e fondò a
Villa S.Giovanni, la prima vetreria in Calabria (Società Vetraria Calabrese).
In quegli stessi anni subì però persecuzioni continue da parte del regime. E cancellato
dall'Albo di categoria e non poté più firmare progetti. Gli venne mossa
l'accusa di avere «attentato ai poteri dello Stato, per il proposito di
uccidere il re e Mussolini». Fu prosciolto dopo venticinque giorni di carcere.
La polizia ravvisò in un discorso di commemorazione durante il funerale di un
amico (tra l'altro un industriale fascista, Zagarella) un'ispirazione anarchica
e pertanto lo propose per l'assegnazione al confino. Fu arrestato, in carcere
si sposa con Pia Zanolli, fu inviato per il confino, prigioniero a Ponza.
Tuttavia sembra che tale provvedimento fosse stato determinato da altri motivi.
M., che era ingegnere minerario, si era attivamente impegnato nello
sfruttamento su larga scala di giacimenti di quarzo, materia prima per
l'industria vetraria, che fino a quell'epoca dipendeva, in gran parte, dai
silicati stranieri. Assunto come direttore tecnico della Società Vetraria
Calabrese (di cui era stato finanziatore e Presidente il succitato Zagarella)
egli si era dovuto ben presto scontrare con l'assenteismo e l'inettitudine del
consiglio di amministrazione che si schierò contro di lui con l'intenzione di
eliminarlo in qualsiasi modo, ricorrendo anche ad espedienti politici. Giustizia
e Libertà, in un articolo anonimo ddal titolo «Politica e affarismo. Il caso di
un ingegnere libertario», attribuisce la causa del confino alle manovre dei
suoi ex soci. Durante il confino stringe amicizia con Torrigiani, Gran Maestro
del Grande Oriente d'Italia, il quale lo affilia alla Massoneria.
L'amnistia del decennale del fascismo lo liberò dal confino dopo due anni.
Ma tornato in Calabria vide il vuoto intorno a sé; scrive infatti a sua moglie:
"Amnistiato sì, però a quale prezzo: la salute sconquassata, senza un
soldo, senza prospettive per l'avvenire". Gli viene diagnosticata
l'esistenza di un tumore alla testa. Va e viene con la moglie da Zurigo a
Reggio Calabria. Riesce a trovare il capitale necessario per l'impianto di uno
stabilimento per lo sfruttamento della silice a Davoli (in provincia di
Catanzaro). Le sue condizioni di salute peggiorano a causa del tumore.
Perde conoscenza, viene ricoverato in stato gravissimo nella clinica romana del
Senatore Giuseppe Bastianelli, e lì si spense la sera stessa. Ancora
ragazzo, studente, cominciò a ribellarsi contro l'ingiustizia del mondo che lo
circondava: Palizzi Superiore, un paese tra i monti dove il castello feudale
dei signori locali dominava la valle, dove si ammucchiavano piccole e povere case
desolate di contadini. E si ribellò a quel mondo, costruito secondo
quell'immagine topografica che portava impresso nella memoria: sopra, chi
comanda e non lavora, sotto, chi subisce e lavora. E ancora ragazzo cominciò a
sognare un mondo in cui quella gerarchia fosse sovvertita prima, distrutta poi.
Poteva scegliere di ispirarsi al socialismo marxistico o al socialismo
libertario. Del primo apprezzava l'analisi dell'antagonismo tra le classi, ma
mostrava perplessità circa i mezzi proposti dalla diagnosi marxistica per
fronteggiare il pericolo di una rivincita dell'avversario di classe. Inclinò
perciò verso il socialismo libertario. «Nel comunismo libertario io sarò
ancora anarchico? Certo. Ma non di meno sono oggi un amante del comunismo.
L'anarchismo è la tendenza alla perfetta felicità umana. esso dunque è, e sarà
sempre, ideale di rivolta, individuale o collettivo, oggi come domani. M., Taccuino
personale. La scelta della diserzione fu coerente con il suo obiettivo di
combattere non la guerra degli stati, ma a fianco degli oppressi di tutto il
mondo contro il loro nemico, tenendo alta la bandiera dell'internazionalismo.
Pur sottoposto senza tregua alla persecuzione della polizia e all'inquisizione
della magistratura, fu sempre al suo posto accanto a coloro che lavoravano e
soffrivano. Come ogni rivoluzionario sincero e coerente, pagò col carcere e col
confino la sua fede in un ideale. Chi sono gli anarchici. Secondo M.,
essere anarchici voleva dire per prima cosa proclamare, contro ogni violenza,
l'inviolabilità della vita umana. Inoltre significava lottare per l'abolizione
della proprietà privata e a favore della socializzazione dei mezzi di
produzione e di scambio. Proprio per questo gli anarchici sono, di fondo, dei
socialisti. A questo esperimento di vita sociale andava affiancata la lotta
contro lo Stato, che ne impediva la realizzazione. E la lotta contro lo Stato
non poteva essere vittoriosa se non con la rivoluzione. Dunque gli anarchici
sono socialisti, antistatali e rivoluzionari. Elemento fondamentale della
lotta, secondo Misefari, era l'allargamento di essa alla sfera internazionale.
È comunque una lotta che non si fa violenta. M. è fortemente pacifista,
contrario all'uso della forza e della violenza armata. L'anarchico è inoltre
antireligioso: la religione infatti è considerata "fattore di abbrutimento
per l'umanità". Antimilitarismo Per M. la guerra è pura barbarie,
speculazione capitalistica consumata in nome dello Stato. «L'esistenza
del militarismo è la dimostrazione migliore del grado di ignoranza, di servile
sottomissione, di crudeltà, di barbarie a cui è arrivata la società umana.
Quando della gente può fare l'apoteosi del militarismo e della guerra senza che
la collera popolare si rovesci su di essa, si può affermare con certezza
assoluta che la società è sull'orlo della decadenza e perciò sulla soglia della
barbarie, o è una accolita di belve in veste umana.» Religione La
religione è considerata come un anestetico delle facoltà critiche della mente
umana. Sarebbe proprio la religione a imprigionare le energie morali dell'uomo,
a inebetire lo spirito critico e di riflessione. Perciò i popoli più religiosi
sarebbero i meno progrediti e i più afflitti dalla tirannia, mentre, laddove la
religione sparisce, lì è florida la libertà e il benessere. «È il più
solido puntello del capitalismo e dello Stato, i due tiranni del popolo. Ed è
anche il più temibile alleato dell'ignoranza e del male.» È forte nel
pensiero di M. la volontà di sottolineare l'uguaglianza sociale tra uomo e
donna. In anni difficili e lontani dalle battaglie del femminismo di metà
Novecento, egli afferma che la donna nobilita e abbellisce la condizione di
vita umana. È dovere della donna lottare per risollevarsi da una condizione di
inferiorità, che è tale in virtù di un "delitto sociale" e non dovuta
a leggi di natura. «Donne, in voi e per voi è la vita del mondo: sorgete,
noi siamo uguali!» M. vive di sogni, di ideali. Nella sua concezione non
esiste un artista, che sia poeta, filosofo, persino scienziato, che si sia mai
messo al servizio della menzogna. Se tutti potevano essere vili, un artista non
poteva. «Un poeta o uno scrittore, che non abbia per scopo la ribellione,
che lavori per conservare lo status quo della società, non è un artista: è un
morto che parla in poesia o in prosa. L'arte deve rinnovare la vita e i popoli,
perciò deve essere eminentemente rivoluzionaria. Poesia composta da M.:
FALCO RIBELLE. Un giovane falco che drizza il libero volo Ne l'alto, ove sono i
fulgori di soli immortali Un giovane falco ribelle o piccoli, io sono. Mi
spinge ne' campi ignorati, un acre desio Di sante ideali battaglie, di luce e
di gloria. Mi splende nell'occhio la speme di certe vittoria, Mi parla nel core
la voce sinfonica, dolce D'un caro sublime Pensiero, ch'è Bene ed Amore. Ho
giovini l'ale e robuste, o venti, o cicloni, O fulmini immani feroci, vi lancio
la sfida. Voi soli potete pugnare col giovine falco, Chè Luce, chè Forza, chè
Vita multanime siete. Ma voi, piccoli, no. Coi vermi guazzate nel fango, Dal
fango mirate del falco il libero volo.» Frammenti «Prima di pensare di
rivoluzionare le masse, bisogna essere sicuri di aver rivoluzionato noi
stessi» «Ogni uomo è figlio dell'educazione e della istruzione che riceve
da fanciullo. Gli Anarchici non seguono le leggi fatte dagli uominiquelle non
li riguardanoseguono invece le leggi della natura» «Prima l'educazione
del cuore, poi l'educazione della mente» «Socialismo vuol dire
uguaglianza, vuol dire libertà. Ma l'uguaglianza non può essere senza libertà;
come la libertà non può essere senza l'uguaglianza: dunque socialismo e
anarchia sono due termini dello stesso binomio, sono i due inseparabili fattori
della redenzione proletaria.» «Quando la giustizia non sarà la durda
infame delle tirannidi, quando l'amore non sarà deriso, quando il ferro non
sarà legge e l'oro non sarà dio, quando la libertà sarà religione e sola
nobiltà il lavoro, allora, solo allora, il mio rifiuto della guerra sarà
benedetto.» «M'è questa notte eterna assai men grave del dì che mi mostrò
viltà dei forti e pecorilità di plebi schiave. Lungi da quì il pianto: sto ben
coi morti! (epitaffio) Opere complete M.,
Schiaffi e carezze, Roma, Morara, M., Diario di un disertore, La Nuova Italia,
Entrambi i testi sono stati pubblicati postumi sotto lo pseudonimo Furio
Sbarnemi. Le schede biografiche di alcuni esponenti anarchici calabresi,
A/Rivista Anarchica, Antonioli, Antonioli, E. Misefari. Antonioli, Pia Zanolli era nata a Belluno. Dopo il
matrimonio con Misefari, fu iscritta nell'albo dei sovversivi pericolosi,
venendo poi arrestata col marito a Domodossola (cfr.: A/Rivista Anarchica) Chi sono e cosa vogliono gli anarchici, ed.
settembre. Antonioli, Pia Zanolli, L'Anarchico di Calabria, Roma, La
Nuova Italia, Utopia? No, Pia Zanolli, Roma, ALBA Centro Stampa, E. Misefari,
biografia di un fratello, Milano, Zero in condotta, M. Antonioli, Gianpietro
Berti, Santi Fedele, Pasquale Luso, Dizionario biografico degli anarchici
italianiVolume 2, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, Bruno Misefari, Schiaffi,
Carezze e altro, Pino Vermiglio, Laureana di Borrello, Ogginoi, Furio Sbarnemi,
Diario di un disertore, Camerano (AN), Gwynplaine, Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Horizons Unlimited srl. Bruno
Misefari presso l'International Institute of Social History di Amsterdam, su
iisg.amsterdam, Fondo M. presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso di Roma, su
fondazione basso. Gli anarchici contro il fascismo, celebre articolo di Giorgio
Sacchetti. Bruno Misefari. Misefari. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Misefari” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Moderato:
la ragione conversazionale -- da Crotone a Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza. (Roma).
Filosofo italiano. Scuole Pitagoriche. Attivo in epoca neroniana. Scrisse
Lezioni pitagoriche, un'opera articolata in dieci libri, in cui l'autore,
rappresentante di quella scuola di pensiero che assommava nel sincretismo
ellenistico temi platonici, pitagorici, greci e orientali, pone in antitesi la
«Triade» spirituale, rappresentata dall'Uno, l'Intelletto, l'Anima, alla
«Diade» rappresentata dalla materia. Di tale opera ci restano solo alcuni
frammenti tramandatici da Stobeo. Sembra che le sue Lezioni ebbero una certa
influenza sul Neoplatonismo. Calle, Un pitágorico en Gades (Philostr.,
VA). Uso, abuso y comentario de una tradición, Gallaecia. Collegamenti esterni
Moderato di Gades, su Treccani.it – Enciclopedie Istituto dell'Enciclopedia Calogero,
M, Enciclopedia; M. Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia M., su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Categorie: Filosofi
romani Persone legate a Cadice Neopitagorici. Moderato.
Grice e Modio: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale del disonore sessuale -- la filosofia del Tevere – filosofia
calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Santa Severina). Filosofo italiano. Santa Severina, Crotone, Calabria. Grice: “Only in Italy a philosopher writes a
treatise on a river – although the Isis would not be out of place for some
Magdalenite!” – Grice: “His convito is a jewel!” – Seguace di Neri. Originario di Santa Severina, borgo collinare della
Calabria Ulteriore, fu avviato agli studi di filosofia presso l'Archiginnasio
di Napoli; in seguito passò a Roma, dove si avviò agli studi in medicina
divenendo allievo di Fusconi. Modio
frequenta gli ambienti accademici, dove entrò in contatto con alcuni dei
maggiori esponenti di spicco di quell'epoca come Molza e Tolomei. Pubblica la sua prima opera letteraria più
famosa dal titolo I”l convito; overo, del peso della moglie: un dialogo
diegetico” (Roma, Bressani) -- ambientato a Roma durante il carnevale della
città capitolina, in cui viene trattato il tema delle corna durante un convivio
presieduto dall'allora vescovo di Piacenza Trivulzio e a cui parteciparono
anche Gambara, Marmitta, Benci, Selvago, Raineri e Cesario. E altresì grande
estimatore degli saggi di Piccolomini.
Durante la stesura in lingua volgare di un Operetta de’ Sogni, si ammala
di febbre altissima. Si spense dopo qualche giorno a Roma, nella tenuta di
palazzo Ricci in via Giulia. Altri
saggi: “Il Tevere, dove si ragiona in generale della natura di tutte le acque,
et in particolare di quella del fiume di Roma” (Roma, Luchini) “Origine del
proverbio che si suol dire "anzi corna che croci" (Roma, A. degli
Antonii,” Jacopone da Todi, I Cantici del beato Iacopone da Todi, con diligenza
ristampati, con la gionta di alcuni discorsi sopra di essi e con la vita sua
nuovamente posta in luce” (Roma, Salviano). Prospetto autore, su edit16.iccu..
Modio, Il Tevere, cit., c. 45r Anno di
pubblicazione della medesima opera. G. Cassiani, Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Sex, Gender
and Sexuality in Renaissance Italy explores the new directions being taken in
the study of sex and gender in Italy from 1300 to 1700 and highlights the
impact that recent scholarship has had in revealing innovative ways of
approaching this subject.In this interdisciplinary volume, twelve scholars of
history, literature, art history, and philosophy use a variety of both textual
and visual sources to examine themes such as gender identities and dynamics,
sexual transgression and sexual identities in leading Renaissance cities. It is
divided into three sections, which work together to provide an overview of the
influence of sex and gender in all aspects of Renaissance society from politics
and religion to literature and art. Part I: Sex, Order, and Disorder deals with
issues of law, religion, and violence in marital relationships; Part II: Sense
and Sensuality in Sex and Gender considers gender in relation to the senses and
emotions; and Part III: Visualizing Sexuality in Word and Image investigates
gender, sexuality, and erotica in art and literature.Bringing to life this
increasingly prominent area of historical study, Sex, Gender and Sexuality in
Renaissance Italy is ideal for students of Renaissance Italy and early modern
gender and sexuality. Sex, Gender and Sexuality in Renaissance Italy
explores the new directions being taken in the study of sex and gender in Italy
from 1300 to 1700 and highlights the impact that recent scholarship has had in
revealing innovative ways of approaching this subject. In this
interdisciplinary volume, twelve scholars of history, literature, art history,
and philosophy use a variety of both textual and visual sources to examine
themes such as gender identities and dynamics, sexual transgression and sexual
identities in leading Renaissance cities. It is divided into three sections,
which work together to provide an overview of the inf luence of sex and gender
in all aspects of Renaissance society from politics and religion to literature
and art. Part I: Sex, Order, and Disorder deals with issues of law, religion,
and violence in marital relationships; Part II: Sense and Sensuality in Sex and
Gender considers gender in relation to the senses and emotions; and Part III:
Visualizing Sexuality in Word and Image investigates gender, sexuality, and
erotica in art and literature. Bringing to life this increasingly prominent
area of historical study, Sex, Gender and Sexuality in Renaissance Italy is
ideal for students of Renaissance Italy and early modern gender and sexuality.
Dedication This collection is dedicated to Konrad Eisenbichler, a true
Renaissance man who produces bold and prodigious scholarship in multiple
research areas with grace, ease, and erudition. For Konrad, sociability is
correlated with scholarship. He has spent his career creating communities and
networks of scholars around the world. These networks have been brought
together through his tireless work for learned societies, publication series,
and journals. Konrad not only produces scholarship but is also heavily invested
in disseminating the scholarship of others. Scholarly interests often have
unusual and serendipitous origins. In a certain sense, this collection began
with a codpiece. Konrad’s first scholarly contribution to the field of sex,
gender, and sexuality in Renaissance Italy developed out of a casual
conversation with a colleague who provided enthusiastic encouragement. What
resulted was a presentation playfully entitled “The Dynastic Codpiece” to the
Canadian Society for Renaissance Studies in 1987. He revised and published it
as “Agnolo Bronzino’s Portrait of Guidobaldo II della Rovere” (Renaissance and
Reformation, 1988), an article still cited thirty years later. In this truly
groundbreaking interdisciplinary piece, Konrad examined the overly large
codpieces worn by Renaissance men for the social and familial messages they
conveyed, showing how the messages passed between the generations in competing
dynastic portraits. The article established Konrad as a new and powerful voice
in the study of sex, gender, and sexuality in the Italian Renaissance. It also
illustrated beautifully how his scholarship is inherently interdisciplinary,
bridging and incorporating history and literature with artistic
representations. Konrad greets friends, colleagues, and students with warmth,
good humor, and generosity. A significant manifestation of his academic
hospitality is revealed in the multitude of conferences he has organized: forty
between 1983 and 2018. These are special events, international in nature, and
ref lecting the hostorganizer’s generosity. They are venues conducive to the
exchange of ideas and the formation of friendships. It is most appropriate that
the most recent of these focused on “Early Modern Cultures of Hospitality.” The
themes generally ref lect Konrad’s sense of the discipline and where it is
going; these conferences most often culminate in a significant collection of
essays, including Desire and Discipline: Sex and Sexuality in the Premodern
West (1996; co-edited with Jacqueline Murray) which helped to promote the study
of sex, gender, and sexuality in the Middle Ages and Renaissance. Konrad has
made myriad contributions to individuals and institutions. His contributions to
Renaissance scholarship span social history, women’s history, religious
history, and literature. He publishes equally in Italian and English,moving
easily between scholarly cultures. A scholar with a global reach, he interacts
with colleagues spread across North America, to Italy and Europe more broadly,
as well as Australia and South Africa. The heart of his many contributions to
the study of Italian Renaissance society lies in his research on sex, gender,
and sexuality. In recognition of that, some of his friends and colleagues
joined to celebrate Konrad’s creativity, scholarship, and friendship with
essays that demonstrate the creative developments in the field since that
fateful codpiece three decades ago. We are honored to dedicate this volume to
Konrad Eisenbichler in recognition of his extraordinary contribution to
Renaissance society and culture. Sex, gender, and sexuality in Renaissance
Italy: themes and approaches in recent scholarship Jacqueline Murray and
Nicholas Terpstraix xi xii1PART ISex, order, and disorder192 The lord who
rejected love, or the Griselda story (X, 10) reconsidered yet again Guido
Ruggiero213 Sexual violence in the Sienese state before and after the fall of
the republic Elena Brizio354 In the neighborhood: residence, community, and the
sex trade in early modern Bologna Vanessa McCarthy and Nicholas Terpstra535
Though popes said don’t, some people did: adulteresses in Catholic Reformation
Rome Elizabeth S. Cohen Sense and sensuality in sex and gender 6 “Bodily
things” and brides of Christ: the case of the early seventeenth-century
“lesbian nun” Benedetta Carlini Patricia Simons 7 In bed with Ludovico Santa
Croce Thomas V. Cohen 8 Aesthetics, dress, and militant masculinity in
Castiglione’s Courtier Gerry Milligan9 The sausage wars: or how the sausage and
carne battled for gastronomic and social prestige in Renaissance literature and
culture Laura Giannetti Visualizing sexuality in word and image Gianantonio
Bazzi, called “Il Sodoma”: homosexuality in art, life, and history James M.
Saslow18311 Vagina dialogues: Piccolomini’s Raffaella and Aretino’s
Ragionamenti Ian Frederick Moulton21112 Giovan Battista della Porta’s
erotomanic art of recollection Sergius Kodera22713 “O mie arti fallaci”:
Tasso’s saintly women in the Liberata and Conquistata Jane Tylus247Bibliography
of Konrad Eisenbichler’s publications on sex and gender The editors would like to thank Vanessa
McCarthy who donned two hats for this project, that of an author and that of
editorial associate. Her scholarly knowledge and administrative expertise
contributed significantly to the preparation of this volume, and we’re grateful
for her dedication and expertise. We would like to thank the editorial team at
Routledge for their support and guidance over the course of this project. Laura
Pilsworth guided it through its inception and commissioning, while Lydia de
Cruz shepherded it through the final stages of preparation and production,
assisted by Morwenna Scott. The University of Guelph and the University of Toronto
provide generous support for the research activities of Jacqueline Murray and
Nicholas Terpstra respectively. Thanks as well to the congenial group of
scholars whose work is collected here. While editing collections is sometimes
likened to herding cats, these colleagues were responsive, generous, and
patient. Above all, they were enthusiastic about the opportunity to contribute
to a collection which could serve as a gift to a friend and colleague, Konrad
Eisenbichler, who has himself been the soul of generosity. We are honored to
have worked with you all. Themes and approaches in recent scholarship. From the
mid-nineteenth through the mid-twentieth centuries, the Italian Renaissance was
approached almost exclusively as a period of learning, elegance, and manners as
ref lected by the arts and letters of the time. In The Book of the Courtier
Castiglione’s perfect courtier embodied virtù and sprezzatura, the two
qualities that epitomized Renaissance masculinity. Elite men were celebrated
for their bravado, skill, and insouciant nonchalance, whether these were
exercised on the fields of battle, the production of art or poetry, or the
seduction of women. Castiglione also details the qualities of the ideal court
lady, a woman valued for her beauty and affability along with her manners,
intellect, and ability to please men. These qualities were appreciated equally
in another group of notable women, the courtesans whose beauty and literary
accomplishments were acclaimed by poets and artists alike. Thanks in part to
the enduring inf luence of Jackob Burckhardt’s Civilisation of the Renaissance
in Italy (1860; English translation 1878), this idealized portrayal of
sixteenth-century Italian men and women dominated twentieth-century
historiography and shaped how a number of generations understood sex, gender,
and sexuality in the Renaissance. The idealized creations of Castiglione and
Burckhardt, their princes and poets, court ladies and courtesans, appeared as
the bright stars in the Renaissance firmament, and contributed to the lure of
the field. Yet all along they were chimeras, stereotypes created by Renaissance
elites and perpetuated by modern scholars of Renaissance culture. Even when
individuals appeared to embody these ideal qualities, they were the exceptions,
standing apart from thousands of their contemporaries, urban and rural, rich
and poor, educated and illiterate, respectable and disreputable. The idealized
courtier, court lady, and courtesan obscure everyday life in Renaissance Italy.
In the 1970s, scholars began to ask new questions that ultimately led to a
recalibration of research on the history of sex, gender, and sexuality in
the2Jacqueline Murray and Nicholas TerpstraRenaissance. One of the earliest
collections was Human Sexuality in the Middle Ages and Renaissance (edited by
Douglas Radcliff-Umstead, 1978), which includes topics that are wide ranging
and represent a variety of disciplinary perspectives. They include sexuality
within marriage, sexual sins and eroticism, celibacy, hermaphrodites, homosexuality,
and how the human body was understood. These essays from the 1970s foreground
important questions about sex, gender, and sexuality in the past. Yet their
scope and insights are constrained. Most essays are based on close, summative
readings of literary texts from Dante and Chaucer to Shakespeare and other
imaginative authors, but these close readings of texts lack the
contextualization or critical perspective to enhance their insights. While the
occasional essay engages with multiple sources and genres, the absence of
critical theoretical and interdisciplinary analysis inhibits the development of
a more comprehensive picture of how issues of human sexuality were actually
addressed at this time. Significantly, however, the authors did identify emerging
themes that would become central to the study of sex, gender, and sexuality.
This collection opened the way to the study of topics such as the nature of the
sexed human body, the complexities of celibacy as a sexuality, and the f
luidity of sexualities and genders. While prescient in research subjects, the
authors did not employ the theoretical and methodological tools that developed
soon after publication, tools that were necessary for deeper and more complex
analyses of sex, gender, and sexuality. These tools were being forged with the
new theories and methodologies of the 1970s that were opening new research
subjects and that led to innovations and new definitions of the individual and
the self. A series of studies in that decade revolutionized scholarship and
have continued to have a transformative inf luence on the understanding of the
history of sex, gender, and sexuality into the twenty-first century. The most
inf luential authors behind this work perceived the Renaissance to be more
complex both in the quotidian aspects of daily life and also in extraordinary
behaviors. In 1978, the first volume of Michel Foucault’s The History of
Sexuality occasioned both excitement and consternation among historians of sex.
Foucault, a philosopher and leading post-structuralist scholar, wrote
extensively on social construction and social control in European society,
including studies of prisons, madness, and surveillance. These perspectives
informed his ref lections about the construction and control of sexuality in the
European past. Indeed, Foucault’s intervention challenged scholars to reexamine
their approaches to sex and sexuality. Another major contribution to the
recalibrating of historical studies of sex, gender, and sexuality was John
Boswell’s Christianity, Social Tolerance, and Homosexuality (1980). Boswell
demonstrated that in the premodern world there were men who engaged in
homosocial and/or homosexual relationships, although traditional history had
obscured them behind the ecclesiastical rhetoric of homophobia. Boswell argued
that there were gay men throughout premodern Europe but his methodology and
conclusions were criticized as essentialist and lacking the appropriate
consideration of context and cultural inf luences such as Foucault had urged.
Nevertheless, despite criticismsSex, gender, and sexuality in Renaissance Italy
3about essentialism, Boswell did uncover homosexual (sodomitical) and
homoaffective men across society, integrated into both clerical and secular
societies. In this way, Boswell forged a path for scholars to search for and
analyze multiple sexualities that had been overlooked by traditional history or
were obscured by the absence of explicit evidence. One of the most telling
criticisms levelled at both Foucault and Boswell was their neglect of gender as
a category of historical analysis. Arguably, men and women experience the world
differently according to how society evaluates and constructs women. This
applies equally in the realm of sex and sexuality, which is neither natural nor
essential. Foucault paid scarce attention to women’s alternative experience of
social construction and surveillance of sex and sexuality. Similarly, while
lauded for opening the past for research on homosexuality, Boswell was
criticized for eliding lesbians and other non-normative women under the
category “gay,” thus perpetuating their invisibility. A more refined and
incisive analytical framework emerged out of these debates. What began as
women’s history in the 1970s, with the goal of recuperating women in the past,
transformed into the critical lens of feminist studies, which analyzed the
institutions and structures that restricted or shaped their lives, or
contributed to their invisibility in historical scholarship. The other
significant theoretical contribution to the new study of sex, gender, and
sexuality falls under the rubric of cultural studies. This is a multifaceted
approach emerging from literary studies, postmodernism, discourse analysis, and
other theoretical perspectives that provided scholars with new linguistic and
analytical tools. This versatile and complex perspective also encouraged
explicitly interdisciplinary research which suits the intricate nature of sex,
gender, and sexuality. As a result, there is a richer sense of the
possibilities that were available for the lived reality of sex, gender, and
sexuality and an expanded ability to study and evaluate the values, beliefs,
and experiences of people in the past. These innovations emerged at a time when
the traditional Burckhardtian narratives were being widely criticized by
political, social, and intellectual historians, and by the mid-1980s new
scholarship was appearing that brought new insights to sex and gender in the
Italian Renaissance. They applied methodologies that bridged differences in
social and economic status, sex, sexuality, and gender, geography, and
religion. While the traditional sources of high culture—art and literature in
particular—continued to provide a valuable foundation for understanding the
rich cultural life and artefacts of the Renaissance, new analytical approaches
yielded new insights. Diverse sources of evidence—court records, letters,
chronicles, and Inquisitorial documents, among others—provided access to new
populations including servants and prostitutes and the inhabitants of the
streets and taverns of myriad Italian towns and cities. These new critical
studies were a prelude to the research that would appear in the next two
decades. Guido Ruggiero’s The Boundaries of Eros: Sex Crime and Sexuality in
Renaissance Venice (1985) early on demonstrated how new methodologies and new
sources were able to reveal hitherto unexplored worlds of Renaissance sex,
gender, and4Jacqueline Murray and Nicholas Terpstrasexuality. Ruggiero examines
the wide variety of sex crimes that were committed in Venice and he analyzes
the various courts and disciplinary councils which enforced the laws, including
those pertaining to sexual transgressions. The records reveal an intricate and
contradictory approach to regulating sexuality that extended from conventional
acts such as adultery and fornication to more egregious behaviors including
rape and sodomy. Ruggiero’s essays meet the challenges and opportunities posed
by Foucault and Boswell, by feminist history and gender studies. His interdisciplinary
reading of the evidence, ranging from the many cases discussed by the criminal
courts, along with careful analysis of individual testimony, widened the scope
of enquiry. Ruggiero’s discussion reveals the rich detail about individuals, as
they negotiated the social norms of sexuality and gender. He brings readers to
an understanding of the social context and how individuals were integrated into
their local communities and that of wider Venetian society. The movement
towards more sophisticated, nuanced, and focused considerations is also ref
lected in Forbidden Friendships: Homosexuality and Male Culture in Renaissance
Florence by Rocke. In many ways, Rocke took on the challenge presented by John
Boswell to identify men who had sex with men in their social contexts. Rather
than othering them or pulling these men out of their community, Rocke engages
with homosexuality as an integral part of Florentine society and culture. He
examines seventy years of documentation from the “Office of the Night,” which
was established to oversee denunciations of homosexual (sodomitical) activity.
This allowed Rocke to trace the nature of relationships between men, how they
were treated by society, how and why they were denounced to the court, and the
penalties levied. His scholarship reveals that, despite the harsh evaluation of
sodomy in ecclesiastical law and in various secular jurisdictions, Florence
displayed remarkable tolerance. Where Boswell’s research had scanned 1000 years
of European history, seeking to identify men who were possibly homosexual,
Rocke analyzes deep and focused sources to identify a specific group of men,
applying sophisticated theoretical and methodological tools to reveal new
understandings of non-normative sexuality in the Italian Renaissance. Judith
Brown’s Immodest Acts: The Life of a Lesbian Nun in Renaissance Italy (1986)
similarly contributed to the new approaches to sexuality and identity. She
focused on non-normative sexuality, although in a unique context. Here the
background is not the streets, homes, and markets of the large, cosmopolitan
cities of Renaissance Italy. Rather, Brown’s subjects lived within the walls of
a convent, separated from the worldly temptations of secular life. Yet, even in
a community of women vowed to chastity, Brown finds convoluted self-identities
and a sexual relationship between two women that was transgressive and
multivalent. The case of the “lesbian nun” Benedetta Carlini was instantly
controversial. Could two nuns possibly have a conscious lesbian sexual
identity, given the social norms and religious context in which they lived?
This is the same criticism that greeted John Boswell’s assertions about “gay”
men in premodern Europe.Sex, gender, and sexuality in Renaissance Italy 5There
was widespread agreement that categories such as gay or lesbian were products
of late twentieth-century Western society and to impose them back in time was
anachronistic and misleading. Moreover, in this case, the individuals evoked
far more questions than those of sexual identity or sexual activity, with a
relationship complicated by angelic possession and mystical visions. The debate
surrounding Carlini’s activities and identities continues, as Patricia Simon’s
essay in this collection demonstrates. Yet one of the most enduring
contributions of Brown’s study, for the history of sexuality and gender, is her
ability to cross 600 years and engage intimately with individuals of the past.
This is a history of two nuns, in an out-of-the-way convent, who experienced
rich and problematic inner lives, beyond what might be expected. Whether the
women can be categorized as “lesbians” does not dispel the impact of
recuperating lost women and a lost past, the meaning and implications of which
continue to attract scholarly analysis. The profound transformation that
occurred between 1978 and 1996 in the study of sex, gender, and sexuality in
premodern Europe began with the recognition of new topics and moved to a more
rigorous application of the intervening theoretical and methodological insights
of Foucault and Boswell, of feminism and cultural studies. If the former
approach is exemplified by essays collected in Human Sexuality in the Middle
Ages and Renaissance (1978), the latter is evident in the essays in Desire and
Discipline: Sex and Sexuality in the Premodern West (edited by Jacqueline
Murray and Konrad Eisenbichler, 1996). This volume stresses that human behavior
manifests both continuities and transitions that can be independently evaluated
and separated from arbitrary and obsolete periodization. Many essays integrate
traditional periods moving seamlessly into a premodern world. Some essays rely
on traditional Renaissance evidence but deploy law, art, and literature to
examine new research questions. Rona Goffen examines Titian’s frescoes to
explore misogyny. Other authors address innovative, even bold or cheeky themes.
Feminism and critical theory are deployed throughout the collection. The
usefulness of interdisciplinarity to reveal new aspects of society and cultural
experience is equally evident. Dyan Elliott’s reexamination of the reciprocity
of the conjugal debt, the notion that a husband and wife have equal call on
their spouse for sexual access jostles the foundations of premodern marriage.
Rather than accepting the idea that a married couple’s sex life was balanced
and equitable, Elliott concludes that wives were subordinate even in bed and
had no right to refuse sexual intercourse. Ivana Elbl examines the doubly
transgressive sexual liaisons among Portuguese sailors to Africa. Sailors, who
were often already married with families in Europe, frequently formed enduring
relationships with African “wives,” transgressing both Christian monogamy and
establishing irregular relationships with non-Christian women. Significantly,
in Africa these unions were ignored or tolerated by Portuguese leaders,
ecclesiastical as much as secular. More theoretically adventuresome is Nancy
Partner’s exploration of the psychological dimensions of sexuality. She applies
contemporary psychological theory, in particular Freud, to assess the sexual
dimensions6Jacqueline Murray and Nicholas Terpstraof mystics and their ecstatic
visions. Even the realm of masturbatory pornography is probed through Andrew
Taylor’s critical reading of marginalia and other physical marks and stains on
manuscript pages which could ref lect the sexual responses of readers to the
texts. The essays in Desire and Discipline reveal the richness, diversity, and
intellectually invigorating research that in just two decades had made the new
field of sex, gender, and sexuality one of the most exciting areas in
Renaissance studies. While ref lecting new research areas, the roots of which
can be found in the theoretical and methodological innovations in the late
twentieth century, the essays in Desire and Discipline build upon traditional
topics and themes and frequently employ conventional Renaissance sources, to
stimulate a metamorphosis of old research perspectives into new and innovative
ones. Thus, the ideal courtier has become a man subject to gender-based
analysis while the lens of feminist analysis reveals the court lady to be not
so much an equal but rather a pale, subordinate shadow to the courtier.
Similarly, freed from her artificial manners and learning, the courtesan is
revealed as a masculine fiction sanitized from the precarious and harsh life of
Renaissance prostitutes. The last quarter of the twentieth century, then, was a
watershed for the historiography of sex, gender, and sexuality. Pioneering
scholarship foreshadowed issues that would preoccupy later scholars and set the
trajectory for subsequent research. This scaffolding of new research questions,
theories, and methodologies has resulted in creative approaches that are
rapidly transforming the field. While monographs have been, and continue to be,
written about sex, gender, and sexuality in the Renaissance, it seems that
these topics, at this point in the evolution of scholarship, lend themselves
more readily to the genres of essays or journal articles. The essay form allows
scholars to analyze focused bodies of evidence and arrive at conclusions that
are precise and demonstrable. Presumably, at some point these focused studies
will coalesce into broader discussions leading to more generalized conclusions.
For the moment, however, the essay collection remains the most significant
means for the dissemination of research. Two essay collections in particular
demonstrate the very promising new approaches to research into sex, gender, and
sexuality in the twenty-first century. In A Cultural History of the Human Body
in the Renaissance (2010), Katherine Crawford provides a chapter that offers
redirection from the perspectives of Foucault. She points back to the important
role of classical literature, mediated by Christian values, in the formation of
beliefs about sexuality and marriage, and classical medical literature which
defined the sexed body. In A Cultural History of Sexuality edited by Bette
Talvacchia, some essays address a wide variety of questions about Renaissance
sexuality as they emerge from diverse sources. Essays focus on the troubled
categories of heterosexuality and homosexuality, and sex with respect to
religion, medicine, popular beliefs, prostitution, and erotica. Collectively,
this collection opens wide the possibilities in the study of sex, gender, and
sexuality.Sex, gender, and sexuality in Renaissance Italy 7In order best to
demonstrate how recent work has reshaped and advanced the field of sex, gender,
and sexuality in Renaissance Italy, we have organized the essays of this
collection into three sections. The first, “Sex, Order, and Disorder,” deals
primarily with issues relating to legal and political themes, and particularly
with efforts by authorities both political and ecclesiastical to channel or
control sexuality. The second section, “Sense and Sensuality in Sex and
Gender,” highlights recent work that has taken some of the turns that are
rewriting historical narratives generally, above all histories of the senses,
of the emotions, and of food. The third section, “Visualizing Sexuality in Word
and Image,” considers how we work with early modern f luidity around identities
and boundaries, and whether we might now be more restrictive than they were in
categories that we bring to our analysis.Sex, Order, and Disorder One of the
most obvious sites of sex and disorder in Renaissance Italy surely lies with
the buying and selling of women’s bodies. Burckhardt’s perspective that
courtesans were elegant, intellectual companions, surviving more on sexual
titillation than selling their bodies, has endured, despite the inf luence of
feminist research. In particular, Veronica Franco was seen as an elegant,
ideal, and appropriate companion for Renaissance princes.1 Much research on
courtesans has focused on Franco and her courtesan sisters. It highlights the
courtesan’s learning, ability to write poetry and sing pleasing songs, and,
most importantly, to entertain men while avoiding becoming common sexual property
and losing their allure and their living. Tessa Storey adheres to the older
view, assessing the social status of courtesans, suggesting that they were
linked to “elite manhood and male honor,” idealizing the relationships between
clients and courtesans who were certain that proximity to powerful men would
protect them.2 However, the other side of courtesan life was a precarious one
of dependence and fear of falling into common prostitution. Social and criminal
vulnerability highlights the lives of all prostitutes, include high status
courtesans. Even Franco was called before the courts to account for her
behavior. More vulnerable courtesans and prostitutes lived precariously, prey
to men of all sorts, accosted in the streets, and struggling to support
themselves and maintain their dignity. The records of their appearances before
the courts reveals they often managed without protectors or financial security.
3 Early on Elizabeth Cohen examined the rough and ready life of prostitutes on
the streets of Rome, revealing a form of sociability and social integration.4
Diane Yvonne Ghirardo brings an innovative approach to the role and experience
of urban prostitutes. She examines urban planning in Ferrara, revealing the
city’s ongoing attempts over decades to maintain prostitutes in the same
locales. Focusing on the economics of prostitution in Venice, Paula Clarke
finds that regulation of prostitution became less rigorous over time, with
women experiencing more freedom and the concomitant growth of the sex trade.68Jacqueline
Murray and Nicholas TerpstraGuido Ruggiero opens the section “Sex, Order, and
Disorder” in this collection with a broader approach to order and disorder in
sexuality. He offers a rereading of Boccaccio’s often-studied story from the
Decameron of Griselda, a woman who patiently endures the series of humiliations
that her husband Gualtieri devises in order to test her faithfulness. The
critics and creative artists who have puzzled over the tale and its meaning for
centuries have focused mainly on Griselda and on issues of class and gender.
Ruggiero moves a step further to ask how those who heard it in the fourteenth
century might have received it as a political message. Gualtieri is not only a
cruel husband. His willingness to be cruel and unjust to his spouse Griselda
highlights the dangers that all may encounter when societies fall under the
control of rulers who are narcissistic, vain, and insecure. Florentines could
look around to other cities where lords treated citizens as Gualtieri treated
Griselda; sexual and political violence were interchangeable and marriages were
contracted for money rather than love. There was no reason to suppose that
Florence would be exempted from that kind of cruelty and exploitation. The
Griselda story offered the lessons of a Mirror for Princes, but it was also a
Mirror for Merchants, warning them of what would happen when love did not
animate their closest personal relationships. What Boccaccio warned the
Florentines about in the fourteenth century was precisely what the Sienese were
experiencing in the sixteenth. Elena Brizio observes that sexual violence
remained common across Italy. Men used it as a tool to control girls, boys,
married women, and widows. In the context of the wars of the 1550s, when Florence
annexed Siena, its political “use” expanded greatly. Sexual violence was a
means of imposing or confirming power over subordinates, and men across the
political, ecclesiastical, mercantile, and professional spheres considered
sexual violence a legitimate mode of operating in their social sphere, and so
exercised it freely. In contrast to what Boccaccio described, the absolute
ruler who came to dominate mid-sixteenth-century Siena positioned himself on
the opposite side of the dynamic. Duke Cosimo I de’ Medici proclaimed strict
punishments for sexual violence against both men and women in a law of 1558,
threatening either death or galley servitude for those convicted. Brizio
describes this setting and moves from metaphor to practice as she reviews
archival sources, judicial records, and public reports to see how sexual
violence was perceived before and after the law issued in 1558. Duke Cosimo I
was dealing with more than just a different political milieu, and Brizio also
explores whether the changes in the normative codes brought about by the
Council of Trent had an impact on social attitudes to sexual violence in Siena
and its locale. Normative codes were becoming more explicit and restrictive
across Italy in the sixteenth century, but did they have much actual effect?
Like Cohen, Ghirardo, and Clarke, Vanessa McCarthy and Nicholas Terpstra
document and analyze the sex trade in a particular city. Their focus is on
working-poor prostitutes’ residential patterns in early modern Bologna, and
they find that on the whole these women were integrated into, rather than
pushed to the margins of, their local neighborhoods and the wider city.
Bologna’s activist and ambitiousSex, gender, and sexuality in Renaissance Italy
9archbishop Gabriele Paleotti was rebuffed when he attempted to impose
Tridentine norms for public sexuality. The Bolognese instead approached
regulation as a matter of market rather than morals, allowing those prostitutes
registered with a civic magistracy to practice prostitution almost anywhere
within the city walls. While about half of the 300–400 women registered
clustered in specific, unofficial red-light neighborhoods, the other half lived
on streets with only one or two other registered prostitutes, where their
neighbors were more often workingpoor men and women. In spite of the strict
normative codes that continued to be preached and publicly posted by
ecclesiastical authorities, prostitutes were seldom actually shunned or
marginalized because of their sex work. They were more often incorporated into
the working-poor neighborhoods and the larger social fabric of early modern
Bologna. These tensions between norms and practice certainly intensified as
Tridentine rules became more specific, and as ecclesiastical and public regimes
worked to determine whether and how to implement them. In Rome, these
authorities came together in particularly complicated ways. Elizabeth Cohen
explores how they attempted to address and adjudicate the various forms of
sexual impropriety that their normative codes were describing in ever more
precise detail. Sexual misconduct came under the jurisdiction of ecclesiastical
courts, but the records of these courts do not survive in Rome. Criminal court
records do survive, however, and since these took charge of some sex offenses we
can see how people responded to the new rules. Cohen looks in particular at
cases of adultery, which was often defined by the married status of the woman
and which, like sodomy, could actually cover a broader range of actions than
might be grouped today under the term. Reviewing some trials of real or
imagined adulterous relationships, Cohen finds that it is impossible to
determine how effective the “reforms” actually were. There was simply more
driving these relationships forward than any narrow definition allows: romance,
exploitation, assault, and sheer comedy all shape the court testimonies, and
show that the parties in many so-called adulterous relationships were thinking
less often of sex—or the pope—than authorities thought.Sense and Sensuality in
Sex and Gender The possibilities for research on sense and sensuality in the
Italian Renaissance are myriad. The richness and abundance of voices, producing
or employing sensual outcomes, and the voices of desire and of sex and of
pleasure combine into a garden of delights. Here again, recent essay
collections prove particularly valuable for the variety of forms, voices, and
experiences that they are able to convey. In The Erotic Cultures of Renaissance
Italy Matthews-Grieco gathers eight essays that ref lect upon the various ways
in which visions of sensuality could circulate, including on painted furniture,
decorated bedroom ceilings, or musical instruments, erotic language, or
pornographic engravings. So, too, cultural practices are explored such as sensuality
within marriage, music in domesticcontexts, and sexual innuendos in writing or
in doodles in a book. This collection, then, reveals how creative Renaissance
people could be in demonstrating desire and articulating their sensual
pleasures. Sexual orientation and sexual desire have also come under scrutiny.
A significant collection of essays edited by Melanie L. Marshall, Linda L.
Carroll, and Katherine A. McIver, Sexualities, Textualities, Art and Music in
Early Modern Italy, brings together nine essays that explore sexual desire and
sexual orientation through multilayered and intersecting interpretations of
art, music, and texts. The result is an intriguing collection of scholarship
that maximizes opportunities for interdisciplinary, collaborative research
across the disciplines, as an outgrowth of work on critical theory and
intertextuality. In a more literary context, marriage orations have revealed
some writers not only praised marriage in conventional terms for political
ends, social expediency, and the delights of family. Alongside extolling the
pleasures of the marriage bed for a husband, some extend that vision of
sensuality and sexual pleasure to the wife as well, challenging conventional
notions that only prostitutes took pleasure in sex, and not respectable
matrons.7 The sensual possibilities of homosexual activities, especially
related to male prostitution, were part of Michael Rocke’s study Forbidden
Friendships. He argues that male prostitution was harshly condemned, especially
anal penetration, as something no adult man should permit. Nevertheless, an
examination of some contemporary writers reveals an appreciation of homosexual
sensuality along with defenses of sodomy and male prostitution which harkened
back to the superior evaluation of homosexuality in classical literature.8 The
role of pedagogical pederasty and its celebration within Renaissance mentoring
systems has equally been explored in literary sources by Ian Moulton who
demonstrates the currency of such studies to both a popular and educated
audience.9 These studies show that while male sexuality has been visualized,
both in the Renaissance, and by scholars of the Renaissance, as virile and
active, it was also vulnerable and contingent. For example, castration was
always a possibility in war, for medical reasons, as a consequence of vendetta,
or for social or aesthetic reasons.10 Impotence also was part of male
sexuality, with extensive social, economic, and political ramifications. Some
of these issues are explored in Sara F. Matthews-Grieco’s edited volume
Cuckoldry, Impotence and Adultery in Europe (15th–17th century) Impotence could
be implicated in social unrest among urban dwellers or occasion political
turmoil among the elites. It could be physiological, subject to medical intervention,
or magical leading towards the Inquisition and the Renaissance’s fear of
witchcraft. Six essays focus on various aspects of the social, cultural,
political, medicinal, and literary discussions of impotence in Italian courts
and cities, together providing an integrated and provocative view of male
sexuality and sensuality. The essays in this collection’s second section,
“Sense and Sensuality in Sex and Gender,” traverse back and forth between
literature and the lives of men and women. Our literary accounts span what was
formerly cast as the division ofhigh and low, including both Castiglione’s
serious prescriptions on when a sleeve is more than just a sleeve, and also
some more comic accounts by lesser-known poets of when a sausage is more than a
sausage. We pair these with two microhistorical accounts of sexual pairings,
one grown notorious in recent decades by the controversies that erupted when it
was first published, and the other more obscurely quotidian. We aim in bringing
them together to revisit what scholars may bring to such accounts, and how that
shapes our readings in ways we may want now to rethink. In the first of these
microhistorical studies, Patricia Simons re-examines the case of Benedetta
Carlini, the early seventeenth-century nun and abbess described above and made
famous in Judith Brown’s Immodest Acts (1986). When Brown identified Carlini as
a lesbian, on the basis of documents that showed her as having regular orgasmic
sex with a younger nun under her supervision, her work stirred controversy.
Historians like Rudolph Bell firmly rejected the description of Carlini as
“lesbian” on the basis that sexual activities did not imply sexual identities.
Simons takes the discussion a step further, arguing that the question of
identity is less important now than one related to sense and emotion. Did
they—and should we—see their sex as mainly physical? Or were there registers of
erotic mysticism that would have led both Benedetta and Mea to frame their
contact together as expressions of a spiritual relationship? While some of
their contemporaries, like some of ours, may see their religious language as
pretext, what happens when we take it seriously and take them sincerely? As the
example of their congregation’s patron saint St. Catherine of Siena showed,
medieval mysticism provided enough of a language and model for the erotic
potential of religious imagery. Thomas V. Cohen then explores another example
of when we need to ask whether a transgression is always a transgression, by
looking at the case of Ludovico Santa Croce, and the gang he gathered around
him to prowl the streets of Rome. The life lived well needed witnesses for
validation, and Ludovico’s ego amplified his other drives as he led a group of
young conversi to visit the statuesque courtesan Betta la Magra. They shared
food, drink, and more, and Ludovico’s boundary crossing brought him to court.
But what were his transgressions? Was it just proper and improper sexual
practices, was it individual intimacy moving to group sex, was it about
commoners and nobles, or about Christians and those who, despite having been
“made Christian” were still considered in some way ebrei ? If transgression
lies in in the eyes or voices of the witness, we have here a complicated
intersection of identities and codes, values and practices. The questions here,
as in Benedetta Carlini’s convent, lie with what those in the bed and those
around it thought about norms and deviances. Gerry Milligan brings us to what
many consider the uber code of the early modern male, Baldassare Castiglione’s
Book of the Courtier, the canonical text that we noted at the beginning of this
essay. Milligan looks in particular at the relation Castiglione draws between
clothing and masculinity. Clothing was fundamental to Renaissance discourses of
gender and sexuality. While it wascommon to read that what men wore was
critical to discussions of violence, military preparedness, and virtue, it’s
not at all clear just how clothing was supposed to do what it did. Was it cause
or effect, or sign and symbol of masculinity or effeminacy? Castiglione saw
clothing choice as potentially one of life or death, and that not just for
reputation alone. As Italy suffered through the invasions of French, Spanish,
and Germans, it was common, albeit perhaps too easy, to correlate a soldier’s
effectiveness to what he had worn. As Milligan asks, might a focus on clothing
show us how aesthetics and militarism functioned in Renaissance projects of
social control? Laura Giannetti then takes us from dead seriousness to dietary
satire with approaches to a question that Freud might well have faced: is it
ever the case that a sausage is just a sausage? Italians valued word play as
much as sexual play, and found the convergence of the two absolutely
compelling. Carne was meat, f lesh, and inevitably the male organ, and while
mendicant preachers may have condemned all of them together, most Italians
appreciated them individually for each of their meanings. Religious authorities
never managed to expand the imaginative forms of their dismay at the gluttony
and carnality that sausages represented; the most they could do was draw on
Galen’s counsel of moderation to reinforce their message of self-denial. Yet
Gianetti shows that authors and artists who were more aesthetically than
ascetically driven began to explore the imaginative potential of sausages as
symbols of vitality, fertility, and prowess. Their poems and stories
disseminated messages of a humble meat that grew into a powerful cultural
symbol.Visualizing sexuality in word and image As early as 1978, Thomas G.
Benedek’s article “Beliefs about Human Sexual Function” examined ideas about
the sexed body, noting in particular the persistence of the one-sex theory that
women and men had parallel sex organs, with the male organs externalized and
female organs internalized. Moreover, the balance of the humors—hot, cold,
moist, dry—also impacted the nature of any individual’s sexual makeup. Thomas
Laqueur, like previous scholars, based much of his argument on medical texts. It
was not only the words, but also the images that seemed to portray inverted
genitals. Laqueur’s analysis went further, however, to the conclusion that the
one-sex body and the humors meant that both women and men needed to ejaculate
semen for conception to occur.11 Laqueur’s suggestion that Renaissance doctors
and others believed in the two-seed theory was controversial and stimulated a
great deal of scholarship on both science and medicine and gender and the body.
Interest in the sexed body and the physicality of sex and sexuality has
continued to expand, embedding medical perspectives of the sexed body into a
cultural context. In her study The Sex of Men (2011), Patricia Simons extended
the critical study of men’s history to focus on the physiological construction
of men. Her analysis is based upon exhaustive, interdisciplinary research
includingtheoretical, textual, and visual evidence. Simons re-focuses attention
on the centrality of semen to masculinity and fertility, thus rebalancing the
dominant phallocentric evaluation of premodern gender. Sexual acts and sexual
pleasure have embraced topics and methodologies that would have been
unthinkable by earlier scholars. The collection Sex Acts in Early Modern Italy
(2010), edited by Allison Levy, includes an amazing array of topics that
illuminate sexual activities in new detail. Renaissance images and objects
portray an imaginative array of sexual positions in sources, both textual and
physical, ranging from Aretino’s writing on sexual positions to their portrayal
on medicinal drug jars. Patricia Simons pushes the cultural history of sex and
sexuality further in her essay about the dildo. An analysis of the physical
objects is set against descriptions of their imagined use. Renaissance books
were sufficiently explicit, however, that the need for visualization was
unnecessary. In Machiavelli in Love (2007), Guido Ruggiero challenges some of
the fundamental ideas about the history of sex and sexuality proposed by
Foucault and which have subsequently dominated research. Rejecting Foucault’s
assertion that sex and sexual identity were modern inventions, Ruggiero
demonstrates that in fact there was Renaissance sex and Renaissance sexual
identity, dismissing earlier theoretical obstructions. Using a combination of court
documents and imaginative literature, he highlights the complexities of mind,
body, and desire, and the formation of masculine identity. In many ways, this
book moves the historical study of premodern sexuality onto a new and more
sophisticated plane, one that reveals individuals in their uniqueness. In The
Manly Masquerade, Finucci presents one of the earliest analyses of Renaissance
men as an inf lected category deploying not only feminist theory but also
psychoanalytic theory to understand the constructions of masculinity from both
a psychological and cultural perspective. One of the most violent and sexually
problematic figures of Renaissance Italy was the brilliant goldsmith/artist
Benvenuto Cellini. Margaret Gallucci presents a new twist to traditional
biography by integrating a multidisciplinary analysis of Cellini, his artistic
brilliance, his penchant for violence and disorderliness, and his transgressive
homosexuality that was sufficiently public to result in criminal proceedings
and house arrest. Following new literary criticism and sexuality and gender
studies, Gallucci tries to move beyond simplistic evaluations of homosexuality
and misogyny to make sense of Cellini’s complex artistic life and disorderly
behaviors.12 The third section of this collection, “Visualizing Sexuality in
Word and Image,” takes up these questions of sex acts, the body, and identity
by focusing on four cases of creative artists who employ sexuality and gender
in ways that challenge social norms and expectations, and that raise questions
both then and now about identity and voice. James M. Saslow returns to the
questions around sexual acts and sexual identities that emerged in disputes
around the “lesbian” nun Benedetta Carlini, and to which Castiglione’s
sartorial strictures allude. He argues that the case of Italian painter Bazzi
contributes to the larger ongoing controversy in queer studies over whether we
can locate an embryonic homosexual self-consciousness in Renaissance culture.
Bazzi’s fondness for young men gave him the nickname “Il Sodoma” and he never
shied away from making this a central part of a very public persona. We have
little documentary evidence for his private feelings, yet his art embodied and
transmitted homosexual desires, and it is clear from the series of commissions
that he attracted an audience which read and sympathized with those clues.
Saslow reviews Sodoma’s artworks, patrons, and reputation over a few centuries
and ref lects on what the larger stakes are both methodologically and
ideologically as we weigh whether these do indeed provide sufficient evidence
for a homosexual self-consciousness. Sexual agency and identity are complex
enough when we are aiming to interpret what an individual says in a court room
or inquisitorial investigation, or conveys in a painting or poem. What do we do
when men pretend to adopt the voice of women and project desire, intent, and
agency? Ian Frederick Moulton compares two such works, Pietro Aretino’s
Ragionamenti and Alessandro Piccolomini’s La Raffaella, both of them written in
the 1530s, and both featuring an experienced woman mentoring a younger woman on
the finer points of sex and sexuality. In both, the older woman assures her
younger companion that her desires are legitimate and should be acted on to the
fullest, even when transgressive. In both these desires are essentially
projections of male fantasies. Moulton explores what we learn from male
projections of female speech, identity, agency, and particularly how male
visualization and ventriloquizing exposes larger issues around the place of
women and the articulation of sex and gender in early modern society. While we
often emphasize the transformative effects of printing, early modern culture
continued to value the oral and visual, and it brought these together in the
art of memory. Sergius Kodera reaches back to classical texts that recommended
erotic images as particularly memorable, and to the early modern author Giovan
Battista della Porta’s L’arte del ricordare (1566) which specifically advised
stories of sex between humans and animals as aides memoires. Myths of Leda,
Europe, Ganymede, and others were all drawn into this work, though more overtly
in the vernacular than the Latin version. Kodera follows this visualization of
intercourse between humans and animals beyond the arts of memory and on to
texts on cross-breeding and to the paintings of Raphael, Michelangelo, and
Titian, seeing all of these as examples of a distinctively early modern embrace
of variety, engagement, and hybridity in sexuality. In the final essay, Jane
Tylus traces how Torquato Tasso depicted women in both the Gerusalemme liberata
(1581) and the Gerusalemme conquistata (1593). While he felt that his powers as
an epic poet were expanding, the later work reduces the role and influence of
female characters. The shift underscores how the Liberata was more radical in
its conception and execution. As he aimed to style himself more
self-consciously as an epic poet in the classical tradition, Tasso moved from
Virgil to Homer as his model, a move at once stylistic and also insome sense
moralistic – he saw this as an answer to criticism of his language and of what
he called the “fallacious artistries” that had marked the earlier poem. Gender
become critical to his conception of what is true in art, though with
ambivalent results – the woman who intervened with power was superseded by the
woman who intervened with tears. These essays explore themes that were only
emerging two decades ago. Their authors’ commitment to taking both an
interdisciplinary and intersectional approach allows re-evaluation of
interpretations which were in danger of becoming too rigid and which may have
imposed too much on what the voices in stories, trials, letters, and
images were aiming to express. Contradiction, ambivalence, and ambiguity
abound. Recent work in all three areas that we have singled out has explored
just how widely the gaps between prescription and reality yawn in the period,
in part because of ambivalence on the part of those promoting normative regimes.
Yet gaps more often emerged because these regimes aimed too far beyond what
people expected and were willing to live with in their neighborhoods, their
relationships, and expectations. As we move forward undoubtedly there will be
new insights gleaned about the lives and loves of Renaissance people. The
intellectual and evidential foundation outlined here in letters, court records,
poems, pamphlets, and artworks will continue to support a rich and diverse
research culture. And there are new questions on the horizon. The literary,
philosophical, artistic, and existential implications of transgender are only
in a nascent stage of investigation, despite the initial and hesitant foray
made in Human Sexuality. Some topics and themes will percolate until new sources
and new perspectives allow new insights and conclusions. As the study of sex,
gender, and sexuality moves forward, the dialogue between past and present will
continue, animated by sharp disagreements, punctuated by moments of clarity,
and moving steadily towards a deeper understanding of lives lived in a period
of creative foment. The voices gathered here, and the creative exchange they
offer, advance that discourse on the lives of those who made the Renaissance a
fascinating period of critical change.Rosenthal, The Honest Courtesan. Storey,
“Courtesan Culture.” Cohen and Cohen, Words and Deeds in Renaissance Rome.
Cohen, “Seen and Known.” Ghirardo, “The Topography of Prostitution in
Renaissance Ferrara.” Clarke, “The Business of Prostitution in Early Renaissance
Venice.” D’Elia, “Marriage, Sexual Pleasure, and Learned Brides in the Wedding
Orations of Fifteenth-Century Italy.” Rocke, “‘Whoorish boyes.’” Moulton,
“Homoeroticism in La cazzaria (1525).” See Finucci, The Manly Masquerade.
Laqueur, Making Sex. Gallucci, Benvenuto Cellini.Bibliography Benedek, Thomas
G. “Beliefs about Human Sexual Function in the Middle Ages and Renaissance.” In
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Radcliff-Umstead, 97–119. Pittsburgh: Center for Medieval and Renaissance
Studies, 1978. Boswell, John. Christianity, Social Tolerance, and
Homosexuality: Gay People in Western Europe from the Beginning of the Christian
Era to the Fourteenth Century. Chicago: University of Chicago Press, 1980.
Brown, Judith C. Immodest Acts: The Life of a Lesbian Nun in Renaissance Italy.
Oxford: Oxford University Press, 1986. Burckhardt, Jackob. The Civilisation of
the Renaissance in Italy. Translated by S.G.C. Middlemore. Old Saybrook, CT:
Konecky & Konecky, 2003. Castiglione, Baldassarre. The Book of the
Courtier. Translated by Charles S. Singleton. Garden City, NY: Anchor Books,
1959. Clarke, Paula. “The Business of Prostitution in Early Renaissance
Venice.” Renaissance Quarterly 68, no. 2 (2015): 419–64. Cohen, Elizabeth S.
“Seen and Known: Prostitutes in the Cityscape of Late-SixteenthCentury Rome.”
Renaissance Studies Cohen, Thomas V. and Elizabeth S. Cohen. Words and Deeds in
Renaissance Rome: Trials Before the Papal Magistrates. Toronto: University of
Toronto Press, 1993. D’Elia, Anthony F. “Marriage, Sexual Pleasure, and Learned
Brides in the Wedding Orations of Fifteenth-Century Italy.” Renaissance
Quarterly Finucci, Valeria. The Manly Masquerade: Masculinity, Paternity, and
Castration in the Italian Renaissance. Durham, NC: Duke University Press, 2003.
Foucault, Michel. The History of Sexuality. Volume 1: An Introduction.
Translated by Robert Hurley. New York: Vintage Books, 1978. Gallucci, Margaret
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“The Topography of Prostitution in Renaissance Ferrara.” Journal of the Society
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Katherine A. McIver, eds. Sexualities, Textualities, Art and Music in Early
Modern Italy: Playing with Boundaries. Burlington, VT: Ashgate, 2014.
Matthews-Grieco, Sara F., ed. Cuckoldry, Impotence, and Adultery in Europe
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cazzaria The Gay & Lesbian Review Worldwide Murray, Jacqueline and Konrad
Eisenbichler, eds. Desire and Discipline: Sex and Sexuality in the Premodern
West. Toronto: University of Toronto Press, 1996. Radcliff-Umstead, Douglas,
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Renaissance Studies. Pittsburgh, PA: University of Pittsburgh, Rocke, Michael.
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Modern Italy and the Spurious ‘second part’ of Antonio Vignali’s La cazzaria.”
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Richard C. Trexler. Edited by Peter Arnade and Michael Rocke, 113–33. Toronto:
Centre for Reformation and Renaissance Studies, 2008. Rosenthal, Margaret F.
The Honest Courtesan: Veronica Franco, Citizen and Writer in Sixteenth-Century
Venice. Chicago: University of Chicago Press, 1992. Ruggiero, Guido. The
Boundaries of Eros: Sex Crime and Sexuality in Renaissance Venice. Oxford:
Oxford University Press, Machiavelli in Love: Sex, Self, and Society in the
Italian Renaissance. Baltimore, MD: Johns Hopkins University Press, 2007.
Simons, Patricia. The Sex of Men in Premodern Europe: A Cultural History.
Cambridge: Cambridge University Press, 2011. Storey, Tessa. “Courtesan Culture:
Manhood, Honour, and Sociability.” In The Erotic Cultures of Renaissance Italy.
Edited by Sara F. Matthews Grieco, 247–73. Farnham: Ashgate, 2010. Talvacchia,
Bette, ed. A Cultural History of Sexuality in the Renaissance. Oxford: Berg,
2011.PART ISex, Order, and Disorder. One of the last works that Francesco
Petrarch wrote was a short story in Latin which he claimed to have translated
from the Italian of the final tale of Boccaccio’s Decameron —the novella of the
patient Griselda, who accepted every cruel test her husband, Gualtieri, tried
her with to assure her worthiness as a wife. In Petrarch’s version Griselda was
a humble peasant and Gualtieri the esteemed Marquis of Saluzzo, a prince loved
by all for his wise rule. Tellingly, he claimed that he was translating the
tale because it was so very useful as a lesson on how to treat a wife that it
needed to be in Latin to gain the wider circulation that the universal language
of learned men merited. And, in fact, Boccaccio’s original version has been
long read in that light, almost as if Petrarch’s Latin retelling determined its
meaning for future generations. Recently, moreover, with more sophisticated
discussions of gender, his perspective has garnered even greater purchase, with
Boccaccio’s tale being criticized for its misogynistic vision of matrimony and
support for a husband’s absolute power over a wife. In turn, this perspective
has even colored the way some read the Decameron itself, discovering behind its
laughing stories and powerful, clever women a conservative defense of
traditional patriarchy. But in this essay, I want to suggest with a historian’s
eye that the story of Griselda’s ideal wifely qualities and her husband’s
wisdom is in reality not there in the Decameron (X, 10). For while that tale
has been often read as an account of Griselda, and her virtually biblical
acceptance of her husband’s will, it may well have read at the time as a story
much more about the many negative qualities of Gualtieri.1 For he is presented
throughout as a dangerous tyrant moved by a misguided sense of honor and a
rejection of the emotion of love, which meant that he was incapable of being
either a good husband or a good ruler from the perspective of
fourteenth-century Florentine readers. Thus, this tale is not just concerned
with love and marriage, but also crucially with rule and the rule of princes,
in this casenegatively portrayed as tyrants. In a way, then, I want to argue
that it is Boccaccio’s “The Prince” a century and a half before Machiavelli.
Even the language of the day nicely sets up this theme: for the term signore
(lord) had multiple meanings that could span the gamut of power relationships
from the everyday husband as signore/lord over his wife and household, to the
local signore/lord/noble with power over those below him, on to the
signore/lord/ ruler (either a prince or a tyrant depending on one’s
perspective), and, of course, finally on to the ultimate signore, the Signore/God.
As we shall see, all these meanings are at play in Boccaccio’s version of this
tale. The teller of this story of multiple signori, the irrepressible Dioneo,
suggests its negative tone right from the start, immediately warning that he
finds Gualtieri’s behavior in general and towards his wife “beastly.”2 He
states f latly, “I want to speak about a Marquis, not all that magnificent, but
actually an idiotic beast. . . . In fact, I would not suggest that
anyone follow his example. This, obviously, is hardly the wise prince Petrarch
created in his supposed translation of the tale. Dioneo then more subtly
attacks him as a ruler (signore), remarking that he was a young man who spent
all his time “in hawking and hunting and in nothing else.”4 Here we have echoes
of an earlier tale in the Decameron, the third tale of day two, about
spendthrift Florentine youths who threw away the riches left them by their
aristocratic father by living the thoughtless life of young nobles hunting,
hawking, and living like signori.5 Significantly, those Florentine youths,
after they lost their inherited fortune, regained it by going to England and
loaning money at interest to the apparently even more foolish signori there,
the English nobility, like many Florentine bankers.6 Yet quickly they
squandered their riches again, because, as the story stresses, they returned to
living like signori, eschewing the virtù that made their Florentine
merchant/banker contemporaries so successful. What, one might well ask, was
this virtù that had allowed them to remake their fortune and that repeatedly
brings success to the denizens of Boccaccio’s tales? At one level the answer is
simple. For Boccaccio’s contemporaries virtù was a term that identified the
range of behaviors that allowed one to succeed and made one person superior to
another. Simply put, it marked out the best. But the simplicity of that
definition quickly dissolves before the fact that largely because it was such a
telling term its meaning was highly contested and f luid, in fact changing
considerably over time, place, and across social divides. Speaking very
broadly, in an earlier warrior society many saw virtù in aggression, direct
action, often violent; and in physical strength, blood line, and blood itself,
even as at the same time moralists and philosophers often saw it in more
Christian behavior that rejected violence and aggression. In the cities of
northern Italy in the fourteenth century this traditional vision of virtù was
first expanded, then increasingly overshadowed by a vision more suited to the
urban life of the day and newer merchant/banker elites. For many at the time,
virtù required the control of passions—in contrast to an earlier vision that
privileged their moredirect expression—and included a strong lean towards
peaceful, mannered conduct that required reasonable, calculating (at times
sliding into cunning) behavior that controlled the present and significantly
the future as well.7 In sum, virtù, even as it was contested and changed over
time, was a word of power that helped to define an urban male citizen and a
truly good man. In the end, however, these youths were saved from their
un-virtù -ous behavior by a virtù -ous nephew, Alessandro, who first
re-established their fortunes via once again astute money-lending, and then
with his virtù won a bride who turned out to be the daughter of the king of
England, effectively overcoming all their foolish misdeeds. From this
perspective, it is clear that the signore Gualtieri, much like Alessandro’s
uncles, was not a virtù -ous or good prince, ruling as he should. Rather, by
not attending to anything but his own youthful pleasures, he was acting in a
way that Florentines would have easily associated with their fears about
contemporary signori/tyrants; for such rulers were seen by them as ruling all
too often merely to serve their own whims and selfish pleasures at the expense
of their subjects. And, in fact, proudly republican Florence had recently in
1342 experienced a brush with a signore/tyrant of its own, Walter of Brienne.
He had been appointed to a one-year term as ruler of the city in the hope that
he would be able to overcome an economic crisis caused by the failure of the
major banking houses of the city. But, as was often the case, he quickly
attempted to take power permanently as a signore and was just as quickly thrown
out after only ten months of unpopular rule. Almost immediately afterwards, a
popular government returned to power, and it remained wary of signori of any
type.8 Significantly, however, most Anglophone critics have failed to note that
the Italian for Walter is Gualtieri and thus that Florence had thrown out a
tyrannical Gualtieri of their own just a decade before Boccaccio completed the
Decameron. Tellingly the negative behaviors often associated with contemporary
tyrants are immediately linked to the tale’s Gualtieri and his marriage by
Dioneo, who notes that not only did he not pay attention to anything else but
his own selfish pleasures, he “had no interest in either taking a wife or
having children. This, then, had created problems with his subjects. As they,
like all good subjects, wanted him to take on the responsibilities of a mature
male and ruler by marrying; for marriage was seen at the time as perhaps the
most important sign of reaching full maturity and taking on the sober
responsibilities of an adult male.10 Moreover, with marriage, a prince began to
produce the heirs that would secure an ordered passage of power at his death,
something that for his subjects was crucial. With Gualtieri’s rejection of
this, in essence Dioneo had presented his readers with a questionable
signore/lord/ruler who refused to give up his youthful and irresponsible ways
to rule as an adult prince with virtù.11 In the end, then, although he
reluctantly gave in to his subjects’ demands, he decided to do so by taking a
bride without consulting with anyone. And once again this would have troubled
contemporaries. Arranged marriages were the norm in fourteenth-century
Florence and more widely and crucially theywere negotiated by parents or
relatives to secure broader family goals or, in the case of rulers, meaningful
alliances. The immature Gualtieri instead took his marriage personally in hand
to secure his selfish desires with no concern for his family, his subjects, or
even love. Moreover, his lack of love in selecting his bride also evoked the
negative presentation in Decameron stories of many unhappy marriages where the
lack of love had led to bad matches, especially for women. Repeatedly the tales
advocated avoiding this ill-fated situation by marrying for true love, exactly
what Gualtieri rejected. From his perspective marrying for love and loving his
wife would have endangered his un-virtù -ous life, focused on his own personal
pleasures. And at the same time, it would have also signaled the end of his
freedom from his responsibilities as a ruler and declare that he had acquiesced
in becoming the signore/prince that his subjects desired and that Petrarch had
rewritten him as being in his misleading supposed Latin translation of the
tale.12 Making his disgruntlement clear, Gualtieri finally did knuckle under to
his subjects’ demands, but warned them that whoever he might chose, they must
honor her as their lady or feel his anger.13 The reality behind that warning was
soon dramatically revealed.14 For Gualtieri had for some time been observing a
pretty, well-mannered peasant girl who lived nearby. Yet crucially what made
her most attractive to Gualtieri was the fact that as a humble peasant he was
confident that he could dominate her so that she did not interfere with his
youthful lordly pleasures, the selfish key to his marital strategy again.15
Following Gualtieri’s misplaced desires, we are drawn ever deeper into the dark
morass of unhappy marriages in the Decameron. Having selected his bride without
disclosing her identity to anyone and without her even being aware of it, he
insisted that his subjects come with him to celebrate the matrimony. And so it
was that one day they followed him to an unlikely nearby village where the
peasant girl, Griselda, lived in poverty with her father. The scene is nicely
set by the narrator of the tale Dioneo, as he describes how the richly attired
relatives of Gualtieri and his most important subjects arrived on horseback
before Griselda’s humble hut. When she, dressed in rags, rushed onto the scene,
anxious to see who their lord’s new bride would be, to everyone’s surprise
Gualtieri called down to her by name to ask to speak with her father. She
replied modestly that he was inside and accompanied him in to the peasant hut
to talk with her father, Giannucole.16 Even her father’s name reeked of
Griselda’s humble status, for Giannucole is the diminutive for Giovanni. Using
the diminutive for an adult male, and a pater familias at that, essentially
denied him any status or honor. Gualtieri underlined the point when he did not
waste any time with niceties on a person who, given that lack of status, did
not warrant them from his perspective. Thus, he did not ask Griselda’s father
for her hand as simple politeness required; rather he announced that he had
come to marry her. Then, continuing in his high-handed ways, he turned to her
and demanded that if he took her for his wife, “will you always be committed to
pleasing me and never do or say anything that would upset me.”17 Once again the
absenceof love in Gualtieri’s approach to his future bride is stunning,
especially for the tales of the Decameron; and moreover, his lack of regard for
her father, and for her is deeply troubling. Turning to Florentine history and
traditions once more it seemed almost as if his way of treating Griselda and
her father echoed what the citizens of Florence most disliked in the
high-handed ways of local nobles/lords that they had rejected in the 1290s when
they passed their revered Ordinances of Justice. These laws were ostensibly
designed to punish local nobles and their ilk (labeled magnates) for just such
high-handed behavior and mistreatment of common folk. And these Ordinances had
become a symbolic keystone of Florentine republican government and its civic
vision and would remain so across the Rinascimento. In fact, one of the few
times that the Ordinances were questioned was when they were cancelled almost
immediately after Walter of Brienne, the other Gualtieri and would-be Signore
of Florence, was driven out. After he was expelled in 1343, the Ordinances were
momentarily cancelled by a short lived aristocratic government and then almost
immediately reinstated by the popular government that replaced both Gualtieri
and that unpopular aristocratic moment, as a strong reminder that the city
would not allow signori of any type to mistreat Florentines. And although
Gualtieri did not himself revoke the Ordinances, the black legends that grew up
around his rule often made him responsible for their momentary elimination and
an attack on popular republic government.18 All that this implies is underlined
by the famous marriage scene that follows, for Gualtieri, with his demands met,
takes Griselda by the hand and leads her from her home. There in front of the
whole group of his elegantly dressed subjects to their surprise and dismay he
ordered her stripped naked. He then had her re-dressed with the aristocratic
clothing and the rich accoutrements that made up a noble’s wardrobe and only
then consented to marry her. As often noted, this dramatic scene in its
undressing and re-dressing of his bride essentially symbolized and perhaps
contributed to the rebirth that Gualtieri believed he was engineering,
transforming Griselda from a humble peasant to a noble wife, using clothing as
both a symbol and a tool. And indeed, the tale goes on to point out how quickly
and successfully she impressed the gathering, appearing to take up easily the
manner and bearing of a princess in her new noble clothing. That impression was
confirmed in the days following, when, as Gualtieri’s wife, she displayed to
all impressive manners and wifely virtues. In sum, once redressed she was
capable of being transformed from a humble peasant to a noble princess—the very
stuff of fairy tales and popular fantasy. But it is also the very stuff of
Florentine beliefs at the time—the elite of the city had shifted from old noble
families to a newer merchant/banker group who dominated Florence both
economically and socially. Thus, a humble peasant who gained the opportunity
and the dress to move at the highest social levels was an attractive conceit,
demonstrating that anyone with virtù could behave as well as the old nobility.
From that perspective Griselda had that delicious quality of fulfilling
contemporary fantasies, even if many rich Florentines would havebeen comforted
perhaps by the fact that such a leap for someone of her status was highly
unlikely. Yet there is a way in which the dramatic stripping of Griselda—a theme
that would have great popularity in the future in literature and art—has masked
a deeper honor dynamic involved in this troubling marriage. In fact, the tale’s
Florentine audience would have been aware from the first that marriages were
virtually always moments when issues of honor were central. That was why
fathers usually played such a significant role in such affairs: they had, in
theory at least, the mature judgment to evaluate the complex calculus of family
honor involved in a marriage alliance between two families without letting
youthful emotions interfere. Unfortunately, from this perspective the young,
selfish, self-centered Gualtieri fell far short of this ideal, as the tale made
abundantly clear. Nonetheless, Gualtieri was aware of the honor dimensions of
his marriage and was anxious to resolve them in his own high-handed way.
Anticipating the resistance of his subjects to his marriage of a peasant and
its implications for the honor of all involved—a marriage that he saw as
serving his interests and not theirs—from the first he insisted that they
accept his choice and “honor” it and him as their ruler. And, of course, as
long as his misguided honor was a driving force replacing love in his approach
to marrying Griselda, it crippled the relationship and his ability to be a good
husband and suggested a similar situation vis-à-vis his subjects as a ruler
where love for his subjects was also lacking. Crucially in this way of seeing
things, his behavior evoked strong echoes of other husbands and princes in the
tales of the Decameron whose lives were destroyed by their misguided sense of
honor. In turn, such behavior echoed Florentine fears about the dangers of a
central/northern Italian world where it appeared—in many ways correctly—that
the days of republics like theirs were a thing of the past. They were being
rapidly replaced by the one-man rule of signori who claimed to be princes, but
more often than not seemed to Florentines to be self-serving tyrants like
Gualtieri, more concerned with their misguided honor and selfish pleasures than
just rule. Yet in the short term things seemed to be looking up for Gualtieri’s
honor and his marriage. Not only did Griselda win over his subjects, she soon
became pregnant and produced a daughter. But not long after the happy birth,
the f laws in his personality and his treatment of his wife began to reveal a
deeper, darker truth. Almost as if he feared to succumb to the success of his
marriage, he decided to test his wife to assure himself that she was ready to
honor all his lordly wishes, no matter how cruel and tyrannical they might be.
Significantly, however, he defended these tests to Griselda as a concern for
his honor, complaining that his subjects were murmuring about her lowly peasant
origins and the similar baseness of her daughter. In fact, his claim was
presented as false by Dioneo. Gualtieri’s honor was never questioned by his
subjects in this context; actually, they are portrayed as quite happy with his
bride, even as they were surprised by her success as a lady. Griselda, however,
accepted his false claims, and, as a result, unhappily understood the worries
about his honor thatwere supposedly tormenting Gualtieri. Thus, she replied
obediently as a subject to such a lord must: “My lord (Signor mio), do with me
what you will as whatever is best for your honor or contentment I will accept. Once
again one wonders how this would have played for Florentine republican readers,
who saw in such one-man rule and unjust claims of honor the essence of
tyranny—the greatest danger to their own republican values and way of life. And
in the context of an unloving, unhappy marriage, we are faced with a man and a
relationship definitely gone wrong and a poor wife whose suffering Florentines
could feel.21 Things quickly go from bad to worse. Evermore the tyrant,
Gualtieri deceitfully uses his honor to excuse his most outrageous demands on
his wife/subject. First, he has a servant take her daughter away. And making it
clear that he is acting on the lord’s orders, the servant implies that he has
been instructed to kill the child. With great sadness Griselda hands over her
baby. Although Gualtieri is impressed by her obedience and strength in the face
of his horrible demand, nonetheless he allows her and his subjects to believe
that the child has been killed, while he secretly sends it off to relatives in
Bologna to be raised. Continuing his testing of her, when she gives birth to a
male child and heir, he once more claims the child’s life, using again the
excuse of fearing for his honor and his rule. Woman, because you have made this
male child, I cannot find any peace with my subjects as they complain
insistently that a grandson of Giannucole will after me become their Signore,
so I have decided that if I do not want to be overthrown, I must do with him
what I did to the other [child]. Moreover, given all this [I must sooner or
later] leave you and take another wife.22 Dioneo, however, makes it clear to
his listeners that once again this claim is false, noting that Gualtieri’s subjects
were not complaining about the boy’s humble background or the loss of honor it
implied. In fact, he points out that in the face of the apparent murder of both
children, his subjects “strongly damned him and held him to be a cruel man,
while having great compassion for Griselda.”23 Hardly the response of those
anxious to see an unsuitable heir or wife eliminated or those enthusiastic
about their exemplary prince, as Petrarch misleadingly portrayed him. Still, as
her lord and their tyrant, both she and they had no option but to bow down
before his cruel will, yet another lesson about the dangerous honor of lords
and their potential for heavy-handed tyranny that would not have been lost on
republican Florence. So, the second child joined the first in apparent
death—while Griselda lived on sadly under the shadow of her husband’s warning
that eventually he would end the whole problem of her humble birth besmirching
his honor and threatening his rule by putting her aside to take an honorable bride. And finally,
after twelve years Gualtieri decided that his daughter had grown old enough to
pass as his new bride; and it was time for the last tests of his wife. Thus, he
acted onhis earlier promise, informing her that he was ready to dissolve their
marriage in order to take a more suitable wife. Claiming that he had secured a
dispensation from the pope to put her aside, he gathered his subjects together
to make the announcement that he was sending her back to her father and her
humble life as a peasant. Evidently, he was not content to continue his cruel
testing of his wife in private; rather his cruel deeds had to be displayed
before his subjects. The power to rule and the honor it required were at play
and perhaps also a desire to warn his subjects that he was their signore as
well and capable of similar deeds to defend his honor and assert his control
over them. But considering what fourteenth-century Florentines would have made
of this new outrage is again suggestive; for almost certainly they would have
seen in this a cruel lord acting as a tyrant, mistreating his most loyal
subject in a way that no right-thinking republican Florentine would ever
accept—in sum Gualtieri was the model anti-prince. Gualtieri announced, then,
before his troubled subjects and the abject Griselda, that he was renouncing
her as his wife because in the past my ancestors were great nobles and lords of
these lands, where your ancestors were always laborers (lavoratori ), I wish
that you will no longer be my wife, but rather that you return to the house of
Giannucole . . . and I will take another wife that I have found that
pleases me and is befitting [to my status].24 In sum, his ancestors were nobles
and rulers and Griselda’s were humble laborers; therefore, their marriage was
unsuitable and he was literally suffering the dishonor of being a lord badly
married. The term “lavoratori ” used to describe her ancestors, while it could
be used as a synonym for a peasant, may well have suggested something more
troubling yet. The more normal terminology for Griselda’s ancestors would have
been contadini or villani,25 but by contrasting his nobility with her status as
descended from lavoratori, Gualtieri once again was asserting status claims
that would have ruff led Florentine feathers. For the people of Florence, who
had fought so hard across the thirteenth century to drive out high-handed
nobles like Gualtieri, had done so in the name of protecting the laborers of
the city from just such high-handed behavior. In fact, the Ordinances of
Justice labeled such behavior as typical of the nobility. And the Ordinances
were celebrated as wise legislation designed to discipline and punish the
nobility and protect lavoratori from their high-handed ways. Once again, the
recent attempt to eliminate the Ordinances in 1342 and the threat that posed to
the laborers of the city would have added weight to the negative valence of
Gualtieri’s speech.26 All this cruel testing of Griselda calls up echoes of
another person often associated with her and this tale, who had also suffered
greatly under his lord, the biblical Job. In fact, commentators have often
pointed to the parallels betweenGriselda’s patient suffering at the hands of
her signore/lord/husband and Job’s suffering at the hands of his
Signore/Lord/God as a reason for seeing her as an exemplary wife and loyal
subject accepting her husband’s rightful dominance, just as Petrarch later
recreated her.27 There is an immediate problem with this parallel, however, for
Job’s Lord did not actually deal out the setbacks that deeply wounded him. He
merely withdrew his protection and left the door open for Satan to attempt to
destroy Job’s faith, ultimately without success. From that perspective
Gualtieri seems more to parallel Satan than God. Despite that often-overlooked
theological nicety, however, the God (Signore) of the Old Testament who allowed
the testing of Job might seem to vaguely parallel at a higher level her lord
(signore), Gualtieri’s, testing of Griselda. But tellingly in the Trinitarian
view of time being preached aggressively in Florence when the Decameron was
being written and as war loomed with the papacy, that Old Testament God and His
troubling relationship with humanity following the original sin of Adam and
Eve—often portrayed as dishonoring that Signore —was seen by many as no longer
the order of the day. Christ’s love and his sacrificing of his honor to die as
a common criminal to save humanity was seen as inaugurating a new order and
dispensation, a view especially stressed by a powerful group of local preachers
at the time. And the Godliness of that new age, Boccaccio’s present, was
totally alien to Gualtieri and totally alien to his relationship with his wife
and his subjects—for crucially, he explicitly rejected love in favor of
jealously protecting his honor, much like the vengeful Lord of the Old
Testament and nothing like the God of Love of the New. In a work that over and
over again stresses the importance of love, love in marriage and in the best
relationships between men and women, Gualtieri becomes the cruel husband, the
anti-prince, the tyrant par excellence, and a ref lection of a relationship
with the wrathful God of the Old Testament that no longer obtained. And, of
course, this last tale of the Decameron is told by Dioneo—literally “Dio Neo,”
the “new god” of love—who makes it clear that he finds Gualtieri unsuitable as
a husband, ruler, and most certainly as any kind of a lover. But this was
merely the prelude to his last cruel testing of poor Griselda. For Gualtieri
then demanded that she return to prepare and oversee his wedding to his new
bride. Once again Griselda accepted this command. But significantly Dioneo
insists on making a critical clarification: Griselda accepted his cruel command
not as a patient ex-wife or as a loyal subject, but out of love for Gualtieri.
He explains that she accepted only because “she had not been able to put aside
the love she felt for him.”28 Thus she returned to the palace as a servant, to
prepare the new wedding for her beloved. Dioneo relates a number of humiliating
moments in the preparations and underlines once again their injustice by noting
the deeply troubled reactions of Gualtieri’s subjects to her abuse and their
repeated calls for a more just treatment of her. The humiliation comes to a
head when Gualtieri has his new bride brought to his palace for the wedding.
Presenting her to Griselda, he cruellytwists the knife of her humiliation in
public again, asking her opinion of his new lady. She answered, My lord
. . . she seems to me very good and if she is as intelligent as she
is beautiful, as I believe, I am certain that you ought to live with her as the
most content signore in the world. But still I would pray that those wounds
that you gave before to the earlier one [wife], you spare this one; because I
doubt that she could resist them, for she has been raised with great
gentleness, whereas the other was used to hardships from her childhood.29 Yes,
Griselda has suffered and finally even she has complained. Subtly, and without
ever referring to herself by name, she has pointed out finally the unjust
nature of his rule over her and by implication over his subjects. It would be
satisfying to claim that Griselda’s final faint demonstration of defiance
caused Gualtieri to change his ways, but Dioneo has already informed us that
Gualtieri was ready to act even before she spoke. Thus ignoring her comments,
he declares: Griselda it is time that you finally hear the fruit of your long
patience and that those who have held me to be cruel and unjust and bestial
learn that it was all according to plan, wishing to teach you how to be a wife
and teach others how to pick and keep a wife and [finally] to guarantee my
peace as long as we would live together.30 In the end, then, even Gualtieri
admits that his lordly ways have been cruel, unjust, and bestial, but he
justifies them by claiming that he has taught Griselda how to be a good wife.
And many commentators, following Petrarch, have taken this claim at face value,
arguing that Gualtieri is the demanding but just hero of the tale and Griselda
the ideal wife fashioned by his treatment of her. Yet, in fact, as the story
makes clear over and over again, his cruelty did not teach her anything. She
came to him, as she has just pointed out, already accustomed to suffering and
accepting the hardships that life brought her as a peasant. She was born into
hardship and suffering and she adapted quickly to her lord and his mistreatment
because of her own inherent peasant ability to suffer and lack of a sense of
honor. Indeed, one would be hard put to find a place where the tale or Dioneo
suggest that she learned anything from Gualtieri. And while the
fourteenth-century Florentine readers of this tale were more usually urban
dwellers than peasants and thus theoretically not as inured to hardship and
suffering, they were proudly not nobles either, and it is hard to imagine them
accepting from local nobles the treatment that Gualtieri dished out. Moreover,
it is hard to imagine that they would have felt sympathy for Gualtieri’s defense
of his cruel ways, as they too would have been unlikely to feel any need for
such lessons from nobles or signori to learn the patience necessary to survive
as subjects (as they had recently demonstrated throwing out their own
Gualtieri) or for that matter even to survive as wives.Actually, it might seem
strange that finally after retaking Griselda as his wife and explaining his
whole plan to his subjects and her, the couple are portrayed by Dioneo as
living happily ever after. But providing an explanation for that improbable
happy ending is a startling and significant admission by Gualtieri: for, as
unlikely as it might seem, all his cruel tests have led him finally to a
crucial transformation— the decisive often overlooked climax of the tale. He
has finally discovered the emotion of love and has fallen in love with his
victim, Griselda. He confesses at the last: “I am your husband who loves you
more than anything and believe me when I say that there is no man more content
than I in his wife.”31 Crucially with that admission, and Griselda’s ongoing
love that survived his every cruelty, no longer is their marriage simply an
unhappy mismatch with a wife subject to her lord/husband defending his
misguided honor and selfish noble pleasures. Rather, now it is exactly the kind
of marriage that the Decameron advocates over and over again. With love as its
emotional base, the happy ending that the story, and the Decameron itself,
requires is possible and Gualtieri, his wife, and perhaps even his subjects can
live happily ever after—not a divine comedy perhaps but a human one. For in the
end Griselda survived a cruel lord, and with her willingness to suffer and
peasant patience, she, not he, for a moment at least became the true teacher,
teaching a tyrant who rejected love to love and to become a true prince—in this
she was perhaps more Christ-like than Job-like. Let me suggest that by
contemporary Florentine standards or those of the imagined and real women
listeners of Dioneo’s tale, Gualtieri’s mistreatment of his wife was anything
but a model of an ideal marriage until everything changed with love at its
conclusion, despite Petrarch’s claim to the contrary. In the end, then, she was
a victim, but in ways that many critics have had trouble seeing. First, of
course, at the hands of her cruel lord/husband. But also at the hands of the
would-be aristocrat and anti-republican Petrarch. For despite his claims about
what he saw as an ideal of marriage, he also retold her tale in Latin to
celebrate the honor of the often cruel signori—tyrants and lords—that he
cultivated for patronage and support far from the republican Florence that
claimed him at times with difficulty as an honored son. Still, in the end she
and love won out, a fitting conclusion to the new god of love, Dioneo, and his
tale, as well as to Boccaccio’s Decameron.Notes 1 I have used for this tale and
all citations from the Decameron the classic edition edited by Vittorio Branca:
Boccaccio, Decameron. In this reading that looks more closely at the Marquis of
Saluzzo, I am following the path breaking lead of Barolini in her article “The
Marquis of Saluzzo.” But I emphasize more a Florentine perspective on the tale
than Barolini and am less inclined to follow her strategy of using game theory
to explain what she labels as the Marquis’ beffa. I discovered after I wrote an
early draft of this essay Barsella’s excellent article “Tyranny and Obedience.”
My account stresses more the marital as well as the political side of the tale
and looks more closely at the Florentine political and social world of the day,
while she offers a more complete analysis of the ancient and medieval
theoretical literature on tyranny; but we both agree that the tale is more
about Gualtieri as a tyrant than about Griselda as a model wife.2 Decameron,
1233. “Beastly” often seems to serve as code word or signal that the male so
labelled has sexual appetites that are “unnatural” by Boccaccio’s standards and
hence like those of a beast. If beastly is being used in that sense here, it
would add another dimension to the Marquis’ rejection of marriage and the love
of women, one that Boccaccio regularly paints in a negative light. Barolini
provides an interesting discussion of the term drawing similar conclusions but
emphasizes its echoes of Dante’s usage of the term, along with its classical
and Aristotelian dimension—a perspective that would undoubtedly have had its
weight for learned readers and listeners, but perhaps less for a broader
audience at the time. Barolini, “Marquis of Saluzzo,” 25–26. 3 Ibid., 1233;
italics mine. 4 Ibid., 1234. 5 The three are described as the young sons of a
noble knight named Tebaldo from either the Lamberti or the Agolanti
families—both Ghibelline families exiled from Florence in the late Middle Ages
and thus suspect already in fourteenth-century Florence with its strong Guelf
tradition. 6 Although it should be noted that the prospects of profits from
loaning money to the English had become less appetizing after the recent
failure of Florentine banks in 1342, in part caused by the King of England’s
reneging on his debts to them. Actually, recent scholarship has argued that
local bad loans in Tuscany and debts built up in the ongoing wars in the region
were more responsible for the bank failures, but contemporary accounts tended
to place a heavy emphasis on the King of England’s actions—perhaps as a way to
divert attention from the more local issues involved. Barsella notes also this
connection in “Tyranny and Obedience,” 74–75. 7 Ruggiero, Machiavelli, 163–211.
This vision of virtù and its development across the Rinascimento in Italy is
one of the central themes of my effort to reinterpret the period in my book The
Renaissance in Italy. From this perspective, Boccaccio’s Decameron with its
stress on virtù is a work that fits more in the world of fourteenth-century
Italy than as a work of medieval literature as it is often characterized. Of
course, many of his tales have medieval sources and echoes, but significantly
they are rewritten with a very different set of values more characteristic of
fourteenth-century Florence and the city-states of central and northern Italy.
8 Walter (Gualtieri) of Brienne actually makes an appearance in the Decameron
in his own right as one of the nine “lovers” of the Sultan of Babylon’s daughter,
and a quite bloody “lover” at that (II, 7). Boccaccio also wrote a quite
uncomplimentary account of his life in his De Casibus Virorum Illustrium, Lib.
IX, cap. 24. 9 Decameron, 1234. Dioneo, however, does follow this comment with
what appears to be a compliment for this lack of desire to marry, “for which he
was to be seen as very wise” (1234). Yet what follows undercuts the force of
this apparently very traditional negative vision of marriage. And throughout
the Decameron Boccaccio seems to provide an unusual number of tales that see
well-matched marriages as positive and at least potentially happy. 10 For this
see the discussion in Ruggiero, Machiavelli, 24–6, 172–73 and Giannetti,
Lelia’s Kiss. While the character Gualtieri had the same name as the recent
Florentine would-be tyrant, this is not to argue that he was the only tyrant
being referred to in the tale. In actuality Florence was surrounded by
dangerous and aggressive tyrants who were capable of instilling fear in the
city even if they were not named Gualtieri. As often noted, the fourteenth
century, following in the footsteps of the thirteenth, was a period where
republics were losing out to tyrants everywhere and Florence found themselves
surrounded by aggressive signori on virtually all sides. 12 This lack of love
also played a significant role in his lack of a positive relationship with his
subjects, once again the micro-level of life, in this case marriage, reflecting
the macro-level of life, in this case Gualtieri’s rule. Both lacked love and
that stood literally at the heart of his negative consensus reality for his
subjects and for the Florentine readers of his tale. 13 Clearly with the
repetition of “insisting” and Gualtieri’s will, the tale is playing on will as
a dangerous source of sin when misplaced as it is in this case. Of course, will
from a1415 16 17 181920 2133theological perspective is the basis of all sin,
which in the end is merely willing to turn away from the good and ultimately
God. In this case Gualtieri might be seen as willfully turning away from love,
the good and God much like Satan turned away from love, the good and God in the
greatest rejection of all. At this moment in the tale with his willing misdeed,
it might be argued Gualtieri confirms his fallen state. Barolini suggests that
in these demands Gualtieri, unhappy with his subjects’ calls for his marriage,
is setting up a beffa at their expense—a very typical form of Florentine joke
that in this case punishes them for forcing him to marry against his will—and
the key to the beffa is forcing them in turn to accept the peasant wife that he
will pick unbeknownst to them. Although there is a logic to this perspective,
it seems more likely that contemporaries would have assumed the driving force
in his decision to take a peasant as a wife was his belief that she would have
to be totally subservient to him, something that Barolini stresses as well.
Decameron, 1235. Although the text is clear that Gualtieri entered the house
alone, the discussion between Gualtieri, the father, and Griselda requires that
she had entered as well. Perhaps it is significant that she is so humble that
her entering the house with Gualtieri does not require mention. Ibid., 1237.
The Ordinances of Justice were first passed in Florence on January 18, 1293 and
while their meaning at the time has been much debated, they became with time a
kind of civic monument to the ideal of Florence as a republic ruled by the
popolo without the interference of the traditional Tuscan rural nobility,
labeled magnates, who had once dominated the city. For the debate and the more
complex reality of the Ordinances and the magnates themselves see my
Renaissance, 77–82 and 94–97 and the overview of Najemy in A History of
Florence, 81–89, 92–95, 135–38, and for a more detailed study see Lansing, The
Florentine Magnates. Suggestively, Petrarch in his rather different retelling
of the tale, softens this act of prepotency and male power that once again here
strongly underlines Gualtieri’s cruelty and lack of required manners. He adds
the telling detail that Gualtieri had Griselda surrounded by women of honor
before she was stripped. Here we see how the tale could be changed to make it a
hymn to a wise and careful husband anxious to arrange the right kind of
marriage that would assure a matrimony that functioned as it should with the
husband in command and the woman subservient and obedient. But Dioneo’s careful
scripting of Gualtieri’s boorish and self-centered behavior in line with his
high-handed ways that evoke the psychological violence of the old nobility,
strongly suggest a very different vision of Gualtieri and his marriage—a
negative vision in line with many of the tales about the injustices of arranged
marriages in the Decameron. Decameron, 1239. One might note here that although
Griselda is clearly a victim, she is hardly a heroine as often claimed by
critics. There are in fact any number of actual female heroines in the
Decameron whose tales were constructed to show their virtù and ability to
control their own lives and virtually always their goal of winning a meaningful
love in life and often in marriage. Perhaps the best example of this, and a
virtual anti-Griselda tale, that gives the lie to Petrarch’s and later critics’
vision of Griselda as a model wife is the tale of Gilette of Narbonne (III, 9),
who empowered by love cures the king of France and overcoming a series of
seemingly impossible trials (typical of medieval lover’s tales and more
normally male knights) in the end thanks to her virtù wins the love of the man
she loves, her husband, Bertrand of Roussillon. In this tale he is also
portrayed as a cruel lord, but Gilette is anything but passive and takes her
life in her own hands to win out in the end—a model of what a woman can
accomplish with real virtù in the name of love. It is suggestive also that
Gilette is an upper-class non-noble from an urban setting not unlike the
Florentine readers of the Decameron and much more easily accepted as active and
aggressive than the humble peasant Griselda. Similar virtù overcoming a husband
both cruel and foolish is presented also in tale (II, 9) where a Genoese woman,
who takes the name Sigurano da Finale, passes as a male and flourishes in a
series of adventures thanks to her virtù and in the end recovers the love of
the husband she loves despite his murderous misdeeds.Guido RuggieroDecameron,In
fact, this is the only use of the term in the tale, usually she and her father
are referred to as poor and it is noted that he is a swineherd not a laborer.
The title of the tale refers to her as “una figliuola d’un villano” and later
when referring to her unexpected virtù, her dress and by inference her status
is referred to as “villesco”: “l’alta vertù di costei nascosa sotto i poveri
panni e sotto l’abito villesco.” For this see Brucker, Florentine Politics,
114; Najemy, Florence, 135–37. On the Ordinances see note 18 above. Branca
actually points out the textual parallels noting that in the story of Job I:20
he states “Nudus egressus sum . . . nudus revertar” in reference to
Griselda’s “ignuda m’aveste . . . Io me n’andrò ignuda
. . .” In the New Oxford Annotated Bible, the famous lament of Job is
rendered “Naked I came from my mother’s womb, and naked I shall return; the
Lord gave, and the Lord has taken away; blessed be the name of the Lord” (Job
I:20 [614]). Decameron, Critics have from time to time referred to the
Decameron as “The Human Comedy” playing on an apparent contrast with Dante’s
Divine Comedy, but I would suggest that Boccaccio’s comedy was more divine than
it might at first seem and Dante’s more human.Bibliography Barolini,
Teodolinda. “The Marquis of Saluzzo, or the Griselda Story Before It Was
Hijacked: Calculating Matrimonial Odds in the Decameron 10:10.” Mediaevalia
Barsella, Susanna. “Tyranny and Obedience: A Political Reading of the Tale of
Gualtieri (Dec., X, 10).” Italianistica
Boccaccio, Giovanni. Decameron. Edited by Vittorio Branca. Turin: Einaudi,
1992. Brucker, Gene.
Florentine Politics and Society Princeton, NJ: Princeton University Press,
1962. Giannetti, Laura. Lelia’s Kiss: Imagining Gender, Sex, and Marriage in
Italian Renaissance Comedy. Toronto: University of Toronto Press, 2009.
Lansing, Carol. The Florentine Magnates: Lineage and Faction in a Medieval
Commune. Princeton, NJ: Princeton University Press, 1991. Najemy, John. A
History of Florence,Oxford: Blackwell, 2006. Ruggiero, Guido. Machiavelli in
Love: Sex, Self, and Society in the Italian Renaissance. Baltimore, MD: Johns
Hopkins The Renaissance in Italy: A Social and Cultural History of the Rinascimento.
New York: Cambridg. Sexual violence in Renaissance and early modern Siena was
widespread, barely manageable, and apparently accepted, though not always
legitimized, especially when it applied to particular social classes. Both the
nobility and the clergy considered it their “right” to engage in behavior that
underscored their social superiority.1 This included not only the use of
weapons, but also brawls, thievery, private vendettas, and sexual violence.
Such behavior did not, however, pertain only to them: commoners also forcefully
imposed their brutality, sexuality, and violence on less powerful victims who
happened to be in the wrong place at the wrong time, or whose only fault was
their vulnerability. But not all victims, whether male or female, endured
violence passively. For everyone whose voice was not heard, there were many
others who, in spite of their age or sex, protested the violence they had
endured and described it in detail. Unlike other Italian cities, medieval Siena
did not have a single government office charged with the social control of the
population and the suppression of behavior deemed to be unacceptable.2 This
changed in 1460 when the government established the office of the Otto di
custodia (Eight in charge of Protection) to oversee behavior and public
health.3 After several changes to its name and tasks, the office was abolished
in 1541 by the Spanish protectorate, and then reestablished in 1554 as the
Ufficiali sopra la pace (Officers in charge of the Peace) in order to settle
citizen disputes and prosecute both blasphemy and violence. Yet this
incarnation was also short-lived, and the office was abolished at the fall of
the Republic in 1555.4 The administration of justice was entrusted first to the
Captain of the People (Capitano del popolo), and then to the Captain of Justice
(Capitano di giustizia), before being abolished in 1481. Some of its tasks were
entrusted to the Rota court in 1503, but in the event the 1481 suppression was
not definitive, and the Captain of Justice seems to have recovered some
functions in the first half ofthe sixteenth century. The office of the Captain
of Justice was formally revived when Duke Cosimo I de’ Medici issued an edict
on the “Reformation of the Government of the City and State of Siena.” in 1561,
and it acquired criminal jurisdiction over the city and the podesterie (the
administrative structures into which the countryside was organized).5 The
Captain of Justice also gained those tasks previously entrusted to the Criminal
Judge (Giudice dei malefizi ),6 and functioned under the supervision of the
Governor (Governatore). The Governor was now the top official in the new
administration. He enjoyed “broad political and administrative functions,
supervised the public order, issued regulatory actions and had the control of
all sentences of tribunals.”8 All other magistrates lost their jurisdiction
over criminal lawsuits.9 These frequent changes to judicial offices in Siena
help us understand why documentation on crime is scattered throughout many different
archival collections and series. It is also incomplete, because much material
has been lost. As a result, it is not possible to analyze the Sienese records
in as thorough a social or statistical way as it has been done for Florence.10
The preliminary analysis presented in this essay—which uses Sienese documents
for the years just before and after the fall of the Republic (1555)—will serve
to illustrate at least some cases of violence at a time in Sienese history
that, from the perspective of the history of crime, still awaits detailed
analysis. A preliminary analysis reveals just the tip of the iceberg. One of
the questions that arises from a first glance at the documentation is why so
much of the surviving documentation refers to violence in the countryside and
not in the city. Perhaps extra-judicial agreements between the parties, reached
in order to avoid denunciation, were more common or widespread in the city. Or,
perhaps, much of the documentation for urban violence has not survived to the
present day. In Siena, and especially in the Sienese countryside already
devastated by war, famine, and other problems, Medicean legislation over
criminal activities took a long time to be applied and become the norm. One of
the reasons for this was that the countryside suffered from a very slow
reconstruction process. It took not only time, but a lot of effort, to erode
and limit local authorities and personal powers that, for decades after the
fall of the republic, continued to impose a social code that penalized those on
the lower levels of the social scale.What the law said The rubric on sexual
violence in the last republican Sienese statute (1545) followed medieval
precedent and listed only adultery, rape, and abduction, in that order, as
crimes of violence.11 Sexual intercourse with a married woman of whatever
social rank or with an unmarried virgin was punishable by the imposition of a
financial penalty; abduction for the purpose of sexual violence, on the other
hand, was punishable by death. The definition of sexual violence required that
the abductor (raptor) marry the victim, if the father or the senior male
members of her family deemed it appropriate, or alternatively that he provide
her withSexual violence in the Sienese state 37a dowry. If sexual violence was
perpetrated against someone’s wife or daughter, it damaged the honor of the
husband and the family, so the culprit had to, somehow, adequately restore that
damaged honor.12 Sexual violence by men on men, described in the statute as “a
dreadful kind of violence that is used against nature on men,” demanded that
the rapist be jailed and pay a fine, but if the rapist was over forty years
old, he was to be burned at the stake.13 The regulation in the Duchy of
Florence was similar: in 1542 Duke Cosimo I revised the law against “the
nefarious, detestable, and abominable vice of sodomy” and not only increased
the fines but also imposed physical punishments and even the death penalty on
repeat offenders.14 Once Siena had been ceded by King Philip II of Spain to the
Medici in 1557 and incorporated into the duchy of Tuscany, the 1558 revision of
the Florentine law on sexual violence also applied to the city. This revised
law removed the fines and imposed only physical punishments for “those who will
use force and violence to women and men to satisfy their sexual desire.”15 If
the violence did not lead to an effusion of blood, the culprit was to be sent
to the galleys for a certain number of years to serve as a chained rower; if,
on the other hand, there had been an effusion of blood the culprit was to be
executed. The only exception allowed, and this only for Florentine and Sienese
citizens, was commuting the sentence to the galleys into a jail term, but this
only at the discretion of Duke Cosimo I. Such discretion generally depended on
the social rank, personal reputation, and family honor of the culprit.The rape
of women and young girls The new law was tested almost immediately. “Since this
case was of such manifest enormity, and the first since the publication of Your
Excellency’s last pronouncement against violence on men and women”:16 so begins
a letter by Orazio Camaiani (or Camaini),17 a diligent official and Captain of
Justice in the “New State” (Stato Nuovo) of Siena, to Duke Cosimo I de’ Medici
in the winter of 1559. Camaiani went on to relate a case of attempted sexual
violence against “a poor widow of Belforte” who, on resisting her attacker, was
hit by him so hard that she bled.18 Camaiani’s information came not from
first-hand observation, but from letters he had received from the vicar of
Belforte (fol. 13r), a small mountain-top hamlet about 45 km west of Siena. It
included all the necessary negative requirements—night, loneliness, violence.
The “poor widow,” who is never named in the letter,19 had been assaulted during
the night in her own home by two men who entered on purpose in order to rape
her; she resisted the attack, screamed loudly, and was wounded in the head and
face. Her attackers ran away without succeeding in their intent. The widow did,
however, recognize one of her attackers, “a certain Terenzio Usinini, Sienese”
(fol. 13r) and reported him. The Captain of Justice thus knew for whom to look.
The information was sent to Duke Cosimo I, but what has survived is scattered
and incomplete. It does, however, point to the many cases of violence in a
territory that was still sufferingfrom the aftermath of the raids and
devastations brought about by the recent Florentine conquest of Siena and the
republic’s difficult process of submission to its new Florentine lord. We know
very little about Terenzio Usinini. There is no record of his having been
baptized in Siena,20 so we can assume that he was born and baptized in the
countryside. He also does not appear among the very few Usinini who held
secondary appointments in Sienese offices.21 His family pedigree or that fact
that the family belonged to one of the major political groups in Siena, the
Monte of the Riformatori, were of no help to him—in referring to Terenzio, the
Captain of Justice noted that “a worst name against a person cannot be heard in
the entire town.”22 In fact, Terenzio did not have a good reputation—after
hearing that he had been accused of attempted rape, other women in town went to
the Captain of Justice to report that he had raped them, too, or had attempted
to do so. Terenzio managed to escape arrest on this occasion, but his
accomplice, a priest, was not as fortunate—he was captured thanks to a peasant
who tricked him with the help of a woman who was priest’s former lover. The incomplete
records do not tell us what happened to either Terenzio or the priest. We can,
however, determine that Terenzio seems to have been a violent highborn
individual who behaved as if he were above the law and thought he could force
his sexual desires upon subordinate women. This may, in fact, be to a certain
extent true because Terenzio seems to have managed somehow to escape justice.
While highborn locals might have been able to get away with sexual violence and
escape justice, the sexual misbehavior of state officials, who were to uphold
the legal system, was more problematic, especially when such officials used
their power to abuse women and girls. Already in 1378, Pietro Averani from
Asti, a district judge was dismissed because he had used the power of his
office (sub pretextu offitii ) to rape a young virgin girl living in Siena.23
In a case from 1554, a community in the countryside asked the government in
Siena to “immediately” send another commissioner to replace the current one
whose violence against some local women was such that it was about to cause
serious disorders. One “young, respectable, and good” local woman even went to
Siena herself and, in tears, described to the magistrates how the said
commissioner had come into her house at night on the excuse of seeing how the
soldiers had been billeted and had started to lay his hands on her, at which
point she had begun to scream and he stopped.24 Though problematic, the sexual
misbehavior of this representative of the legal system seems to have elicited
little more than a request for removal from the post or relocation, and no
actual physical punishment meted out on the guilty party. We do not know
whether this was the limit of what plaintiffs could expect. In a different
case, blasphemy was added to the charge of attempted violence. This rendered
the accusation much more dangerous because blasphemy was considered an “open
crime,” that is, clear and public. Angela reported that Bastiano, the servant
of the Bargello (that is, of the chief of police), “on many occasions requested
her honor from her.”25 After beating her several times because sherefused, he
entered her house while her husband was away and tried to rape her, at which
point she started screaming. After threatening her, “he pointed the dagger at
her throat saying ‘whore of God, if you scream I will slaughter you,’” but she
continued to scream and so he left. The examples given so far point to a
somewhat spontaneous, even impulsive attempt on the part of the men to engage
in sex with an unwilling woman. There are also cases of carefully planned
attempts. Agnoletto the Corsican, for example, not knowing how other to seduce
a young woman, did so by impersonating a priest; “because he did not know how
else to rape a young girl, he took the clothes the archpriest wore during Lent
and, dressed like him, started confessing her in church.” This particular
record continues by pointing out that Agnoletto “raped many women and did other
impudent things.”26 We have further examples of premeditated rape. A notary
reports that Pompeo di Giovanni from Monticello, a 45-year-old man, married and
with two daughters, had engaged in “robberies, rapes and, in general, all other
sorts of abuses done and committed” including “raping, together with other men,
Iacoma the daughter of Filippo, his relative,” and of “having prided himself
for having entered through the roof into Antonia di Censio’s house only to have
sex with her and perhaps he did so, and because there was no point in screaming
she, for the sake of her honor, kept quiet about it.” The notary continues his
report with the comment that he “will remain silent on what Pompeo did to
certain poor young women who were walking by” and then concludes by recording
that Pompeo was eventually found guilty of a long list of robberies and
sentenced to the gallows.27 After the Council of Trent (1545–63), a new detail
enters into notarial descriptions of sexual violence: some defendants now tried
to justify themselves by explaining that they had been tempted by the devil. In
1571, Sandro was accused of raping five-year-old Santina in a wheat field and
causing her to bleed from her vagina.28 In his defense, Sandro told the Captain
of Justice that when he went in the field to “shout at some children doing some
damage,” Santina and Elisabetta came by. Sandro was then tempted by the devil
to sit down and grab the said Santina and put her on his lap, and having pulled
out his tail [i.e. penis] through the opening of his trousers, he inserted the
second finger of his right hand into Santina’s nature [i.e., vagina] and,
having seen that it could enter easily, took out his finger and started
pointing his tail towards her nature and, in so doing, he could have hurt her
and she shouted one or two times. Hearing the little girl scream, her uncle
Domenico rushed to help her and found her crying and “totally wrecked and
bloody.” He hit Sandro with a bow he had in his hands and moved him away from
the girl. Sandro later confessed that since he could not put his member inside
Santina’s nature, he was about to finish [i.e. ejaculate] between her thighs or
in some other way as best hecould because the devil grabbed him by the hair and
he [Sandro] could not stop himself, but the said Domenico stopped him. Sandro’s
deposition claims that when he was raping the girl he was not his own self, but
was under the control of the devil to the point that he was not physically able
to do otherwise until an external force, Domenico, interrupted him and stopped
the devil’s control. Referring directly to the 1558 law mentioned above, the
Captain of Justice pointed out that, in cases of violence with effusion of
blood, the accused must incur the death penalty. Perhaps to elicit a more
merciful sentence, the Captain of Justice described Sandro as “a bachelor, and
more a fool than a scoundrel.” The plea was successful—Sandro was spared his
life and received the lighter sentence of “two or three years in the galleys.”A
matter of honor, but whose honor? In a letter of March 1524 to the government
in Siena, Bartolomeo di Camillo, at that time podestà (chief magistrate) of
Sarteano, reported a disturbing case of rape: A certain local man, Agnolo di
Ipolito, entered into the house of a certain Giovanni Baptista Tucci, a citizen
of Siena, and found a daughter whose name is Iuditta, who is around
fourteen-years-old and not yet married, and violently took her and because she
did not consent, he started hitting her and eventually he raped her by force so
that he broke her nature. 29 Podestà Petrucci then went on to say that: It
seemed to me that, since I am in this town, for the honor of your Excellencies
first and for my own honor secondly, I had to bring this shameful case to your
attention so that it will not go unpunished. Petrucci explained how he sent
soldiers to Agnolo’s house to arrest him, but the accused was defended by one
of his brothers and other relatives, as well as by the town’s priors. Because
the victim’s father, Giovanni Baptista Tucci, was a Sienese citizen, Sienese
statutes applied and overrode Sarteano’s local customs and statute (capitoli ).
Petrucci thus assumed that he had the authority, as podestà of Sarteano, to
deal with the case, so “In a friendly way, I let the Priori know that I did not
want to bypass their local customs, but I wanted [to uphold] my honor.” The
situation quickly deteriorated and one of Agnolo’s relatives fired “two rif le
shots together with offensive words” against the podestà. Another relative,
Petrucci reports, “told me, answering back, that if I would have gone to his
house, he would have punched not only me, but Christ himself.”Two days later,
Petrucci reported that news of the rape had reached one of the subordinate
judges in his podestarial team, and that this judge, together with some
soldiers, went once again at Agnolo’s house to arrest him. Agnolo’s uncle, Ser
Giovanni di Gabriello, threatened them, saying that if the judge tried to get
in, he would throw bricks or stones at him. In his report to Siena, Petrucci
underlines the fact that “Your Excellencies know that these actions are done
against you, that in this place I am your delegate, and that in order to
preserve your honor I am ready to give my life.” Two days after this, Cardinal
Giovanni Piccolomini, archbishop of Siena, wrote from Rome to the Sienese
Concistoro (the lords and main officers) in support of Ser Giovanni; perhaps as
a way to show that Ser Giovanni enjoyed important connections and patronage, or
perhaps as an attempt to limit more severe outcomes. “Because they had some
other enmities [in town]” cardinal Piccolomini informed the Concistoro, Ser
Giovanni di Gabriello and his relatives did not recognize, in the darkness of
the night, the podestà ’s soldiers and so they defended themselves. He added
that Ser Giovanni “in a good-natured and simple way used some inappropriate
words” without realizing that he was speaking to the podestà and his soldiers.
Cardinal Piccolomini continued that he was certain that the lords of Siena
would recognize “the good faith of this country town and in particular of the
family and household of said Ser Giovanni who have always been good servants of
our city” and suggested that the lords “might show all possible leniency.” A
month later, podestà Petrucci happily wrote: Magnificent, excellent and
powerful lords [. . .] in order to carry out what your Excellencies
have ordered [. . .] I sent for Giovan Baptista Tucci, his wife, and
his daughter on the matter of what Agnolo di Ipolito had done, and about the
marriage that has to be contracted between them.30 Clearly, the legal solution
reached in this case of rape was for the rapist to marry his victim. The
records do not indicate what Iuditta, the victim, might have thought of such a
solution, or even what she felt about the entire case. There is no trace of her
in the reports or the letters. What is ever-present, instead, is the matter of
honor—the honor of Siena, of its magistrates, and their delegate, of the town
of Sarteano and its priors and local statutes; of Agnolo’s family; of Tucci’s
family; and of Iuditta’s own self, which would now be restored through marriage
with her assailant. In all of this, the discourse is male while the female
voice of Iuditta is completely absent.The rape of young boys Rocco from
Campiglia confessed under torture that, while he was at home eating, a certain
Curtio, a little boy around eight years old, entered his house and asked him
for something to eat; the said Rocco grabbed him and laid him over a table and,
having lifted his clothes, put his tail [penis] between the boy’s butt cheeks
with the intention of knowing him carnally.The boy’s screams stopped Rocco from
proceeding any further in the attempted rape. Under questioning, Rocco admitted
that “he did put [his penis] between the boy’s thighs but then finished the job
with his hands.”31 In light of the accusation and confession, the Captain of
Justice in 1571 asked not only that the usual fine for such sodomitical
activities to be levied on Rocco, but also that he be given jail time on
account of “the young age of the boy.” The request for jail time may point to
the Captain of Justice’s understanding of the aggravating factor in the case
(the boy’s tender age) and, perhaps, to his personal feelings about it, but the
bureaucratic language of the report does not allow us to delve further into the
case nor to understand more fully how Rocco himself might have justified his
aggression of Curtio. It does, however, point to the risks and dangers that
came with child poverty (Curtio entered the house to ask for food) and the
opportunistic behavior of men in the grip of sexual impulses. The charges
levelled a few years earlier in 1567 against Giovanni, a man from Sinalunga,
“strong and well-shaped,” were many and varied.32 The records tell that that he
was “in jail, indicted for having carnally known a she-ass and also for having
used the nefarious sin [sic] vice of sodomy.” He was also accused of having
sodomized Salvatore, a boy of “around four or five years of age and of having
broken his ass [sic] sex.” Salvatore was not the only boy Giovanni had attempted
to sodomize; he had done the same to “another little boy [also named Giovanni]
of the same age [as Salvatore] or a little more”, but this boy managed to run
away crying. Under “rather rigorous torture,” Giovanni explained that he had
found a she-ass along the way, moved her off the public road and into a scrub
where, he felt the need to mount her and so, approaching her from the back, he
put his member into her nature, but because she did not stop moving and
grazing, after having kept it there for a little while, he pulled it out and
climaxed as he did so. Giovanni also confessed to having taken little Salvatore
to a vineyard where, having lifted his clothes, he directed his natural member
into the boy’s ass [sic] sex, but because the boy was small he could not insert
it more than two fingers, and because this was hurting the little boy, the boy
started to struggle and scream so Giovanni let him go and climaxed outside, and
he did not notice that he had broken the boy’s sex or caused an effusion of
blood. An aunt of the little boy declared, instead, that when little Salvatore
came home “the blood was running down his thighs and his ass [sic] sex was
chapped.” Giovanni justified himself saying that when they were in a barn he
told the child “if you come here, I will fuck you” and then added that “it is
not true that he wanted to sodomize him.” The records conclude that “in line
with the statutesof this city, it does not look as if Giovanni is subject to
capital punishment,” even though blood had been spilled, “but we could condemn
him to the galleys, with the approval” of the Governor. Aside from the various
crimes listed in this deposition (bestiality, sodomy, child abuse, physical
violence causing bleeding), there is an interesting idiosyncrasy in the records.
The notary seems to have had second thoughts about some of the words he was
using and seems to have felt compelled to attenuate the language; he did so by
striking out some words and substituting them with more neutral, though still
very precise, terms. As a result, “ass” became “sex” and “sin” became “vice.”
While the first correction suggests an attempt to use terminology that is less
vulgar or vernacular in favor of a more technical term, the second suggests the
presence of a moral consideration whereby the Christian concept of “sin” is
replaced by the more secular concept of “vice.” All the previous cases deal
with sexual violence in the countryside or smaller towns in the region. The
only case of sexual violence I have found in the city of Siena itself involved
a young apprentice working in a slaughterhouse in the district of
Fontebranda.33 Ascanio accused the butcher Lando, an associate of his employer
Orlando, of having sodomized him in the slaughterhouse and having beaten him
for resisting. Ascanio explained that it happened “in the workshop when we were
going to stretch the tallow in the workshop dais” (fol. 169v). When Ascanio
turned down Lando’s sexual request, Lando “took me by the arms, tore the lace
off my leggings and lowered them. Then he lowered my head, came into me from
behind, and did his wicked things [ poltronerie] to me, and once he had done
them, he punched me twice in the back.” Ascanio told the court that he informed
his employer Orlando, who in turn informed the shop boys working with Lando as
well as other people. Ascanio’s accusation was, however, undermined by his own
admission that he had already, on several occasions, been the passive partner
in same-sex intercourse with soldiers in Montalcino and with a soldier in Siena
in the service of Cornelio Bentivoglio (fol. 170v). In other words, Ascanio had
previously been sexually active with other men. Perhaps for this reason Lando
did not suspect at first that he had been arrested for having sodomized
Ascanio, but thought, instead, that he had been arrested for having beaten him
(fol. 171r). Questioned on the details of what happened in the slaughterhouse,
Lando reported that perhaps Ascanio had misinterpreted his joking words “what
do you think, come here I want to fuck you.” This led the judge to interrogate
Ascanio once again, this time with his hands tied. The youth once again
declared that “Lando started beating me and wanted to force me and he bent me
over and sodomized me” (fol. 172r), but this time Ascanio added that he did not
resent his having been beaten. Ascanio was then questioned a third time, this
time in front of Lando, who maintained his defensive line saying: “I told him
jokingly ‘come here, I want to fuck you’ because he did not want to come.”
Interrogated again, Lando confirmed “I ordered him to bring the tallow and to
stretch it up, but I did not do anything with him nor with anyone else” (fol.
172v). Ascanio, too, continued to affirm his own version of events pointingout
that this happened not only at Lando’s slaughterhouse, but once also at
Fontebranda (where Ascanio refused to go along with the attempted sodomy). When
Lando kept saying that the accusation was levelled at him because of the
beating he had given Ascanio, the latter asked the judge call other witnesses
saying, “let the shop boys come here and they will tell you what I told you”
(fol. 173r). In the end, Ascanio’s situation became quite complicated as he
paradoxically changed from being the accuser to being the accused. He was
jailed (allegedly on charges of sodomy), but on 25 December, in celebration of
the Nativity, he was pardoned and released “by decree of the lords” (fol.
173r).34 Several factors worked against Ascanio. His position as an apprentice
was perhaps too weak to sustain the charges he levelled against a master
butcher such as Lando, or to raise doubts about the truth of Lando’s
deposition. In a situation such as this, the court seems to have given credence
to the more senior and more socially respectable individual. Similarly, the
fact that Ascanio’s employer failed to support him in his case must have raised
suspicions. Lastly, Ascanio’s admission of having previously engaged in
same-sex intercourse with soldiers both in Siena and in Montalcino worked
against him. Although Ascanio had the courage to denounce a superior for a
sexual crime that was not uncommon, his social status and his previous sexual
encounters with men not only placed his testimony in doubt, but actually served
to find him guilty and put him in jail.The clergy and violence After Siena fell
to Florentine forces the Sienese government and part of the Sienese population
moved to Montalcino, a small town about 40 km due south of Siena, in a last
attempt to resist the conquest and preserve the centuriesold republic. Among
the volumes of deliberations that have survived from the “Republic of Siena
retired in Montalcino” (Repubblica di Siena ritirata in Montalcino) there is
the denunciation deposited by Mona Antilia di Andrea, a woman living in
Castelnuovo dell’Abate, in which she asks for justice for her eight-yearold son
who, she reports, has been “damaged” ( guasto) by the French friar Carlo who
worked at the ospedale (hospital or hospice) attached to the Olivetan abbey of
Sant’Antimo, in the plains just below Castelnuovo.35 The Sienese authorities
summoned the friar to appear in court within three days to defend himself
against the accusation that “he had had sodomitical intercourse with the said
young boy and had broken his ass” (“di havere fatto culifragio”). Because the
friar was French, the court decided to inform the French Marshal Blaise de
Lasseran-Massencome, seigneur de Monluc, who had commanded the French troops
during the defense of Siena and had then moved to Montalcino with the Sienese
government and exiles. A week later, Monluc was informed that the friar had
been arrested in Piancastagnaio where the podestà was told to keep the
Frenchman in jail and under close surveillance until further notice. About a
month later, the friar was transferred to the Franciscan convent in
Montalcinowhere the friars were advised of his alleged crime, told to guard him
well, and await further orders. At this point, the documents fall silent and we
do not know what further ensued with Friar Carlo. We are thus left with no
information on what he might have said in his defense, what further evidence
the mother and the boy might have brought into consideration against
him, or what the final verdict might have been. What we do have, however,
is the record of a mother asking for justice against a foreign clergyman who
was the subject of, and possibly defended by, a powerful foreign military
figure in the region, this during a difficult moment in a war that had
devastated the countryside and brought about the near-total collapse of the
government and the republic. Civic and moral regulations were still in effect,
but the silence of the incomplete records and the transfer of the accused friar
to another convent, rather than to a city jail, seem to imply that such
regulations had not been strictly applied and that the friar probably escaped
justice. The Sienese government, whether in exile or not, was not the only
jurisdiction to deal with sexual violence by the clergy. Ecclesiastical courts
also dealt with sexual crimes, as we can see from the records in the fonds of
Cause criminali housed at the Archiepiscopal Archive in Siena.36 The collection
includes the precepts, that is the summons to appear in court, and some of the
trial records, but once again many of the files are incomplete. In fact, in the
majority of documents and final sentences issued by the archbishop’s vicar are
missing, so this case can only be known in its general outlines.Menica and the
priest Ser Mauro Criti One case for which we do have a complete set of
documents deals with the charges levelled against the priest Ser Mauro Criti,
rector of Campriano di Murlo, a hamlet 17 km south of Siena.37 According to the
charges brought forth by the victim’s father, the priest used an excuse to
enter the accuser’s house and, finding the man’s twelve- or thirteen-year-old
daughter Menica alone at home, tried to sweet-talk her by asking her if she
wanted him to buy her a pair of shoes. Aware of the priest’s intentions, Menica
responded with “I want God to give you a misfortune.” Ser Mauro “then reached
out for her neck and kissed her and tried to do something else, but she
yelled.” Menica’s shouts were heard by Laura Pasquinetti, a nine-year-old girl
who arrived just in time to see the priest leave. He pretended to throw some
snow against the window, and said to Menica: “Be quiet, you little beast, I’ll
buy you a pair of shoes.” Menica’s father asked that the priest be justly
punished, having damaged both his and his daughter’s honor, even though he had
to admit that “he could not prove the fact, except as he had told it, because
when it happened there was no one else at home.” Although the evidence came
from two under-age girls, Menica and Laura, the court was nonetheless obliged
to pursue the case. A note signed by FilippoAndreoli, secretary of the Governor
of Siena, Federico Barbolano di Montauto, laid out the guidelines the vicar was
to follow: The very reverend vicar of the most reverend lord archbishop of
Siena will make sure that in the states of His Highness [Duke Cosimo I de’
Medici] crimes committed by priests will not go unpunished and he will not fail
to ensure that both public honesty and private interest are upheld. With this
note, Andreoli was referring to the 1558 Florentine law on sexual violence and
Cosimo’s determination that it be applied evenly and universally. The trial,
which lasted almost a year, gathered testimonies not only from the two girls
who had been ocular witnesses, but also from many other people, and brought to
light the fact that the priest was no saint. At first, the interrogation of Ser
Mauro revolved around what he did that day. His responses claimed that his
conduct had not been socially improper—he said that when he called at the house
and realized that no adult was present he simply went away (fol. 4v). He stubbornly
denied having thrown snow at the window, but admitted to having thrown snow
elsewhere that day, as confirmed by other witnesses. Brought in for questioning
once again, this time with Menica in the room, Ser Mauro reacted with surprise
and fear at seeing the girl (fol. 13r), who accused him without fear. From the
examination of other witnesses, the vicar learned that Ser Mauro had also been
physically and sexually violent with Caterina, a young girl about fourteen
years old, unmarried, who had been brought up by a certain Bernardino.
According to testimony, Ser Mauro had “misled and kidnaped Caterina
[. . .] brought her to his house, where he kept her for several
weeks, raping her and using her contrary to the law [contra forma iuris]” (fol.
23v). He also sought to take advantage of Hieronima, the servant of a priest
who had previously been stationed in Campriano. Ser Mauro asked her to wash his
clothes in exchange for his giving lessons to one of her sons and then added
that he would “give her more affection than the other priest”, and this
contrary to the law [contra forma iuris] (fol. 23v). Other witnesses reported
that the priest was a confirmed card player and always had with him a deck of
cards “that he says is a present from a beautiful girl” (fol. 30v). Ser Mauro
denied everything, even under torture, but was found guilty nonetheless and
fined 100 lire, removed from his church in Campriano, and confined in Siena for
two years.Filippo and the presbyter Ser Cristofano Another case heard by the
bishop’s court in Grosseto deals with a mother who brought charges against a
priest who had raped her son. Monna Caterina, a thirty-year-old widow living in
Campagnatico, in the outskirts of Grosseto, reported that the presbyter Ser
Cristofano “has raped my little son Filippo.”38 The narrative she provides
illustrates a mother’s care and a young victim’s shame. “For the past year I
have sent my Filippo to his [Ser Cristofano’s] school andone evening when he
came back one I noticed he was unhappy and very sad.” Caterina asked what was
going on, but Filippo refused to answer. Later that evening, when she was
“undressing him to put him in bed, I saw his shirt very bloody and I asked him
what blood was this.” Filippo confessed that on that day, the priest had called
him in his bedroom and had given him a book and he had approached him and while
he pretended to teach him, he did that horrible thing on the back, and because
the little boy yelled, he hit him few times. Ser Cristofano threatened the boy
not to reveal anything to me nor to someone else and so, “looking carefully at
the boy, I saw that he had hurt him and had broken his ass and so I decided he
would not attend school anymore.” In her testimony, Caterina also reported that
she heard that Ser Cristofano had raped “Monna Lena, a widow at that time” and
that rumor went around the entire countryside that “he torn her behind.” But
what troubled Caterina more was that she and Ser Cristofano were cousins39
—presumably, she did not understand the reason behind his “bad behavior”
against his twelve-year-old nephew Filippo. When the bishop’s vicar
interrogated young Filippo, the story matched closely with what his mother had
reported. Both accounts pointed to a familiar closeness and confidence that the
presbyter had showered on Filippo in order to sodomize him. Filippo recounted:
I know Ser Cristofano of Ventura, the priest in Campagnatico and my kin, and I
attended his school for a year or perhaps more and one evening, after the other
pupils had left, I remained there to serve him at dinner and after he had dined
he stood up and he went to sit on a chair in his bedroom and he called me.
After I made the bed, we went back and he sat again on the same chair. Then he
gave me an illustrated book and he put me between his legs: he untied my pants
and lifted up my shirt and put his thing into my ass and caused me pain. I
started to scream and asked him to let me go, but he was holding me and he was
thrashing and kept telling me “be quiet, be quiet” and he closed my mouth so I
could not scream and he put his thing into my ass and then he let me go. I went
home and, along the way, I could not walk because he hurt me in the ass and I
was bleeding and I went to bed and my mother saw my shirt and I think she
believed it was scabies because at that time I had it, and then I told her: and
she did not want me to go to school again and I did not go anymore. In response
to a direct question, Filippo answered, “I never saw nor do I know whether Ser
Cristofano did something like this to any other student.”40 Family relation was
the justification Ser Cristofano used to keep Filippo back, have him serve
dinner, and make the bed. Once there, he used the “illustrated book” to entice
the boy enough to sodomize him, counting on the fact that Caterina, as a widow,
did not have a husband to defend the family or take action against the
presbyter, whose social and cultural position in town served, in part, to
protect him.Reading the document with modern eyes, we note Caterina’s maternal
sensitivity: she immediately realized that Filippo was unhappy and hiding
something. Her understanding of her son and her emotional connection with him
were strong and deep. She also had aspirations for her son, enough to send him
to be educated by a learned relative who might open doors in life for the boy.
In spite of this, Caterina was not about to accept her cousin’s violence
against her son and reacted quickly and with determination: “I did not want him
to go to his school anymore” she told the vicar’s notary, and then, perhaps to
temper her rage, added “I consider him [Ser Cristofano] wicked man [tristo]41 because he raped my
little boy Filippo.” Although Filippo was about twelve years old at the time,
Caterina referred to him as a citto (little boy), using a typically vague term
for a child that could be adapted to the legal necessities of the moment—in her
eyes, Filippo was an innocent child and not a possibly compliant youth. In
fact, the records do point to Filippo’s physical weakness and to his inability
to deal forcefully enough with the situation to avoid the rape—caught by
surprise, he reacted strongly and screamed, but to no avail because the
priest’s adult strength, his shutting Filippo’s mouth to prevent the boy from
screaming, and his repeated command to the boy to “be quiet” while he raped him
all contributed to overpower and subdue Filippo. The consequences of the
priest’s violence were not only physical—lacerations, bleeding, pain—but also
psychological—the boy’s depression and silence on his return home. While in
cases of anal rape in Venice, the authorities, already in the fifteenth
century, sought the help of surgeons and barbers to examine and report on the
lesions and physical damage done to the victim’s body,42 this was not the case
in Siena. There is no trace of such provisions in the surviving statutes of the
Sienese barber surgeons’ guild.43 The only reference I have found to an
obligation to report on wounded persons is a decree signed Governor Ferdinando
Barbolani di Montauto, which refers to wounds in a general way, and not to
wounds specifically caused by sexual violence or sodomy.44 In a case of some
years later, a certain Arcangelo charged the chaplain Ser Andrea with having
sodomized his eight-year-old son Sabbatino, who had been a boarding student in
the chaplain’s school, and with having threatened him (Arcangelo) with a
weapon.45 Arcangelo reported that “one night, while sleeping in bed with
Sabbatino, Ser Andrea sodomized him forcibly and against Sabbatino’s will, so
that he broke his ass and then abandoned him.” As he was being raped, the young
boy screamed and was heard by a neighbor. The physical damage done to Sabbatino
was such that he could not walk. Archangelo heard of this from a local miller
who presumably heard the news through the small talk of the neighbors, and went
to the chaplain’s house to get his son and take him home. A few days later,
Arcangelo went to pick Sabbatino’s things, but the chaplain refused to return
them. In front of other people, the chaplain threatened Arcangelo with a
hatchet while “another man who is in his house took an harquebus.” Ser Andrea’s
violent behavior was not limited to Sabbatino:Arcangelo reported that “he has
sodomized four more little boys,” among them two of the miller’s
sons.Conclusion The case studies presented in this essay point to a much larger
corpus of documents dealing with legal cases against perpetrators of crimes of
sexual violence. A first observation we might draw from the evidence presented
is that, ten years after the publication and implementation of the 1558
Florentine law against sexual violence, cases were still being handled with
leniency towards the accused—at least in Sienese territory. In spite of
mounting evidence that included precise and detailed information from the victims,
supporting evidence from eye-witnesses and other people, and in spite of the
use of torture (in a few cases) to extract further information or confirm
previously given information, alleged culprits seem generally to have received
lenient sentences that spared their life. What is also striking is that all
defendants denied the allegations raised against them, even under torture. In
their defense, the accused used standard diversion tactics in order to have the
case dismissed or the penalty reduced. This included suggesting that the
children’s allegations were reliable because of their young age, or the fact
that the children may have been prompted by others to say things that were not
true, or that they had been instructed on what to say in order to build a case
against the accused. Was this sexual violence against minors “normal” at the
time? To modern eyes, the cases and evidence presented here may seem extreme
and even unbelievable, and some contemporaries probably felt the same way. Yet,
as Ottavia Niccoli reminds us, we must not imagine a constant in “human nature”
that might allow us to apply our criteria, our sensibility, our perceptions to
people who lived five or six hundred years ago, except in very general terms.
The mental frame of our ancestors was, in fact, and at least under some
aspects, very different from ours.46 We can observe that those mothers,
fathers, and relatives who sought justice for their victimized children did so
without fear of the court, or public opinion, or the bureaucratic lengths of
time the process would entail. We can also note how local communities were not
sympathetic towards people in positions of authority who behaved in improper
ways towards the young people they were supposed to educate, defend, and
protect. The Sienese evidence suggest that these cases, unlike those in
Florence or Venice, were not about voluntary choices.47 These were not cases of
same-sex consensual sodomy or prostitution for profit. These were violent acts
perpetrated by men in power over young people who could not defend themselves.
As Patricia Labalme aptly said, “although there is herein much to pity and much
toprotest, this is a story without a moral.”48 The evidence from the Sienese
records points to the same conclusion.Notes 1 Di Simplicio, “La criminalità.” For the later period, Di Simplicio, Peccato penitenza
perdono. 2 For the case of violent behavior in Bologna see Niccoli, Il seme
della violenza. 3 Archivio di Stato di Siena (hereafter ASSi), Guida
Inventario, 105, 119–23. 4 Ibid., 105. 5 Cantini, Legislazione Toscana, vol.
IV, 120. 6 ASSi, Guida Inventario, 121. 7 Cantini, Legislazione Toscana, vol. IV, 120. 8 ASSi, Guida
Inventario, 123. 9 Cantini, Legislazione Toscana, vol. IV, 117. 10 For social
aspects, see Rocke, Forbidden Friendships. For statistical aspects, see Zorzi,
“The Judicial System.” 11 Ascheri, ed.,
L’ultimo statuto, III. 76 “De poena adulterii, stupri et raptus,” 315. 12
Brackett, Criminal Justice, 111. 13 Ascheri, ed., L’ultimo statuto, III. 79 “De
poena sogdomitarum,” 316. 14 Cantini, Legislazione Toscana, Archivio di Stato
di Firenze (hereafter ASFi), Mediceo del Principato (hereafter MdP) 1869, fol.
13r (February 16, 1559). 17 Giansante,
“Camaiani Onofrio.” 18 ASFi, MdP 1869, fol. 27r. 19 It may be possible that she
is “domina Francisca relicta quondam Michelagnoli Iacobi de Belforte” with whom
Terenzio had disagreements for some quantities of wheat, ASSi, Curia del
Placito 750, not foliated. He does not appear in ASSi, Ms A 33, fol. 305r
(battezzati), a compilation of baptismal records from church registers in the
Baptistery and civic records in the office of the Biccherna. 21 ASSi, Ms A 39, fol. 203r (riseduti). 22 ASFi, MdP
1869, fol. 21bisr. 23 ASSi, Notarile ante cosimiano 99, not foliated. Pietro
was also legum doctor. 24 ASSi, Concistoro 2453 ad datam (April 18, 1554). 25
ASSi, Capitano di giustizia 645, fols. 17r–19r (August 1570). 26 ASSi,
Repubblica di Siena ritirata in Montalcino 63, passim (1557). 27 ASSi,
Biccherna 1127, fol. 24v (1544); ASSi, Capitano di giustizia 645, fol. 94r–v
(July 1571). 28 ASSi, Governatore 436, fol. 86r–v (June 28, 1571). 29 ASSi,
Concistoro 2081, not foliated (March 20–24 1524). 30 ASSi, Concistoro 2080, not
foliated (April 26, 1524). 31 ASSi, Capitano di giustizia 645, fol. 78r–v (May
29, 1571). 32 ASSi, Capitano di giustizia 611, fols. 138v–139r (April 8, 1567).
33 ASSi, Capitano di giustizia 150, fols. 169v–173r (November 2, 1555). 34 It was common custom
to free some prisoners during the most important religious celebrations. 35 ASSi, Repubblica di Siena ritirata in Montalcino
5, not numbered Archivio Arcivescovile di Siena (hereafter AASi), L’Archivio
Arcivescovile di Siena, ed. G. Catoni and S. Fineschi (Rome: 1970). 37 AASi, Cause criminali 5509,
insert 3 (January 23–December 6, 1569). 38 AASi, Cause criminali 5502, insert 4
(May 5–September 1, 1552). 39 “To me he is a cousin brother” (“a me è fratello
consobrino”), that is, a cousin born to a sister of Caterina’s mother.40 “For a
similar case, see Marcello, “Società maschile e sodomia.” 41 The Treccani
Italian vocabulary defines as tristo a person who has a bad attitude. 42 In
1467 the Council of Ten issued a law that obliged doctors to report “anyone
treated for damages resulting from anal intercourse”; see Ruggiero, The
Boundaries of Eros, 117. 43
ASSi, Arti 37 (1593–1776). 44 ASSi, Statuti di Siena 64, fol. 72r. 45 AASi,
Cause criminali 5504, insert 4 (February 19–March 5, 1559). 46 “Non dobbiamo
immaginare una costanza della ‘natura umana’ che ci consenta di applicare i
nostri criteri, la nostra sensibilità, la nostra attitudine percettiva a chi è
vissuto cinque o seicento annifa, se non in termini generalissimi.
L’attrezzatura mentale di quei nostri antenati era infatti, almeno sotto alcuni
aspetti, molto differente dalla nostra.” Niccoli, Vedere, vii. 47 For Florence, see Rocke, “Il
fanciullo” and Rocke, Forbidden Friendships. For Venice and the Veneto see
Ruggiero, The Boundaries of Eros. 48 Labalme, “Sodomy,” 217.Bibliography
Archival sources Archivio Arcivescovile di Siena (AASi) Cause criminali 5502
and 5509 L’Archivio Arcivescovile di Siena. Edited by G. Catoni and S. Fineschi. Rome: 1970.
Archivio di Stato di Firenze (ASFi) Mediceo del Principato (MdP) 1869 Archivio
di Stato di Siena (ASSi) Arti 37 Biccherna 1127 Capitano di giustizia 150, 611,
and 645 Cause criminali 5504 Concistoro 2080, 2081, and 2453 Curia del Placito
750 Governatore 436 Guida Inventario. Rome: 1994. Manuscript A 33 and 39
Notarile ante cosimiano 99 Repubblica di Siena ritirata in Montalcino 5 and 63
Statuti di Siena 64Published sources Ascheri, Mario, ed. L’ultimo statuto della
Repubblica di Siena (1545). Siena: Accademia senese degli Intronati, 1993. Brackett, John K. Criminal
Justice and Crime in Late Renaissance Florence, 1537–1609. Cambridge: Cambridge University Press, 1992. Cantini,
Lorenzo. Legislazione Toscana. Volume 1, 3, and 4. Florence: nella stamperia
Albizziniana, 1800. Di Simplicio, Oscar. “La criminalità a Siena (1561–1808):
Problemi di ricerca.” Quaderni Storici Peccato penitenza perdono, Siena
1575–1800: La formazione della coscienza nell’Italia moderna. Milan: Franco
Angeli, 1994.Giansante, Mirella. “Camaiani Onofrio.” In Dizionario Biografico
degli Italiani 17, 1974. Labalme, Patricia. “Sodomy and Venetian Justice in the
Renaissance.” Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis Marcello, Luciano. “Società maschile e
sodomia: Dal declino della ‘polis’ al Principato.” Archivio Storico Italiano
150 (1992), 115–38. Niccoli, Ottavia. Il seme della violenza: Putti, fanciulli
e mammoli nell’Italia tra Cinque e Seicento. Rome-Bari: Laterza, 1995. ———.
Vedere con gli occhi del cuore: Alle origini del potere delle immagini. Rome-Bari: Laterza, 2011. Rocke,
Michael. Forbidden Friendships: Homosexuality and Male Culture in Renaissance
Florence. New York: Oxford University Press, 1996.
———. “Il fanciullo e il sodomita: pederastia, cultura maschile e vita civile
nella Firenze del Quattrocento.” In Infanzie: Funzioni di un gruppo liminale
dal mondo classico all’Età moderna. Edited by Ottavia Niccoli, 210–30.
Florence: Ponte alle Grazie, 1993. Ruggiero, Guido. The Boundaries of Eros: Sex
Crimes and Sexuality in Renaissance Venice. Oxford: Oxford University Press,
1985. Zorzi, Andrea. “The Judicial System in Florence in the Fourteenth and
Fifteenth Centuries.” In Crime, Society and the Law in Renaissance Italy.
Edited by Trevor Dean and K.J.P. Lowe, 40–58. Cambridge: Cambridge University
Press. Residence, community, and the sex trade in early modern Bologna Vanessa
McCarthy and Nicholas TerpstraEarly seventeenth-century Bologna was unique for
its relatively tolerant legislation on female prostitution. Rome, Florence, and
Venice required meretrici (prostitutes) and donne inhoneste (dishonest women)
to inhabit designated areas and streets. Romans settled on the large area of
Campo Marzio for their residence, Venetians ordered women to reside in the old
medieval civic brothel known as the Castelletto near the city’s commercial
center, the Rialto, and Florentines designated a few streets located in the
poorest areas of each city quarter.1 Segregation was motivated by concerns
about morality as well as the more pragmatic issues of civic disorder, noise,
an policing. Containment protected
sacred spaces and pious inhabitants from the immorality and disruption of
prostitutes and their clients and made it easier for authorities to locate and
arrest violators, thereby increasing order as well as the fees and fines
collected.2 By contrast, Bologna permitted registered prostitutes to live
across the city, and the records of its prostitution magistracy demonstrates
that they did. The extant annual registers provide a rare opportunity to map
where hundreds of registered prostitutes lived in the city, and to trace
individual women’s movements. Only about half lived on streets with ten or more
prostitutes, and very few dwelt on streets with twenty or more. Consequently,
most Bolognese could count prostitutes and dishonest women as near neighbors,
and for many laboring-poor, prostitution and prostitutes per se were not a
serious problem.3 Regulation and enforcement in Bologna show that secular and
religious civic authorities and the general populace approached prostitution
primarily as an issue of economics and public order, and only secondarily as an
issue of morality and public decorum. Due to the city’s economic reliance on
university students, civic authorities had long regulated prostitution as a
commercial issue and prostitutes as fee- and fine-paying workers governed by a
civic magistracy known as the Ufficio delle Bollette (Office of Receipts).
Established in 1376, theBollette registered “Foreigners, Jews, and Whores”
(Forestiere, Hebrei, et Meretrici ). After having tried civic brothels and
sumptuary regulations in the fourteenth and fifteenth centuries, and
residential zones in 1514 and 1525, Bolognese civic authorities of the later
sixteenth century bucked prevailing trends with comparatively relaxed
legislation that underscored the connections between prostitutes, Jews, and
foreigners as coherent communities living and working in the local body social
while remaining legally outside the body politic.4 The Bollette’s officials and
functionaries negotiated between legislation, their own interests, and the
needs of individual prostitutes when enforcing regulation. The hundreds of
women who registered annually as prostitutes were integrated into local
communities through residence and through familial, work, and affective relationships,
and had greater opportunities for agency than broader cultural, religious, and
social ideals would lead us to expect. There were bumps on the road to this
more relaxed regime. In the late 1560s, the Tridentine reforming Bishop
Gabriele Paleotti attempted to separate prostitutes and other dishonest women
from most of Bolognese society through residential confinement. Citing the
desire “to restrain their wickedness and uncontrolled freedoms of life” and to
stop them from polluting others with their “filth,” Paleotti and the papal
legate published three decrees that ordered all prostitutes, courtesans, and
female procurers to live in a handful of specific city streets. Yet Paleotti
was overstepping his jurisdiction. His ambitious reforms failed within eighteen
months, and by 1571 the civic government had regained exclusive control over
regulation.5 It returned to the more tolerant strategy employed before the
bishop’s intervention: all prostitutes and dishonest women were required to
register and purchase moderately priced licenses from the Bollette, but they
were neither required to wear distinguishing signs nor to live in assigned
streets or areas. They were free to live throughout the city. Scholars of
Roman, Venetian, Milanese, and Florentine prostitution have tracked the
contrasts between strict legislation and lax prosecution. Prostitutes regularly
lived outside of designated streets and areas, sometimes thanks to exemptions
sold by the magistrates.6 Yet these cities kept their stricter legal regimes on
the books. What was distinct about a city that largely abandoned that regime?
This essay examines the residential and social integration of prostitutes in
Bologna’s neighborhoods. It first maps their distribution across the city in
order to examine how far residential “freedom” extended in practice. While
about half of registered prostitutes clustered on sixteen specific streets, the
other half lived on eighty-five other streets with ten or fewer other
prostitutes. It then reviews registrants’ sometimes complex and contested
relationships with family, clients, lovers, friends, and neighbors using
evidence recorded in the annual registers and testimonies given to the
Bollette’s officials. Most were integrated into local networks through the
familial, affective, and working relationships they had with other local men
and women, and they gave and received support and companionship. Finally, it
examines late sixteenth- and early seventeenth-century proclamations forbidding
prostitutes from residing in specific city streets. Thesedecrees ref lect the
civic government’s pragmatism: they were issued in response to the specific
complaints of powerful convents, churches, and schools located in areas with
large prostitute populations. Trial records, cultural sources, and recent
scholarship on gossip and visibility shows that most neighbors were aware of
what these women did and that they were not troubled by it. What they did find
troubling were the displays of wealth by individual women, the noise and
disorder that some brought to their neighborhoods, and instances where
neighbors lost control over their communities. The Bollette provided a vehicle
for handling these complaints without criminalizing the prostitutes. Taken
together, the residential and legal evidence demonstrates that prostitutes
lived in most workingpoor neighborhoods of early modern Bologna and that they
were largely tolerated as a fact of life.The geography of early modern
Bolognese prostitution The majority of registered prostitutes lived in the area
between the second and third sets of city walls (see Figure 4.1), the “inner
suburbs” where the urban poor typically clustered in Italian cities.7 Only a
handful of prostitutes lived near the city center, usually on short alleys
hidden behind larger publicFIGURE 4.1Agostino Carracci, Bononia docet mater
studiorum, 1581.56buildings that had been licensed for prostitution in earlier
centuries.8 The civic brothel noted in the 1462 Bollette regulations had been
immediately south-west of the Piazza Maggiore and civic basilica of San
Petronio, and some prostitutes worked by particular gates and markets, but from
the sixteenth century Bolognese meretrici moved to houses across the low-rent
inner suburbs.9 Table 4.1 charts the number and percentage of registrants
who lived in each quarter. The quarters differed in size and population as
Figure 4.1 shows, and the larger quarters of Porta Procola and Porta Piera
housed more prostitutes. Few lived by the north-western city wall in Porta
Stiera, which appear on Agostino Carracci’s 1581 map (reproduced here) as
dominated by fields.10 The sharp rise and fall in the number of women
registering demonstrate the inconsistencies of early modern bureaucracy, with
total numbers increasing by 327 from 1584 and 1604 (from 284 to 611) and then
plummeting by 466 between 1604 and 1624 (from 611 to 165). Lucia Ferrante has
argued that in 1604 the Bollette was operating with unusual efficiency, and
perhaps even over-zealously.11 The f luctuations tell us more about where the
Bollette concentrated its work than about where all the prostitutes and
dishonest women actually lived. Charting residence by quarter demonstrates that
prostitutes spread themselves fairly evenly throughout the outskirts of the
city, and across each quarter. In 1604, registrants lived on at least 102
streets, yet only eight streets had twenty or more women, and only eight were
home to ten to nineteen women (see Table 4.2). A few streets housed larger
numbers, like Borgo Nuovo di San Felice, in the western quarter of Stiera by
the city wall, and Campo di Bovi, located by the eastern city wall in the
quarter of Porta Piera.12 Women also clustered in the ghetto after the Jews
were expelled from the Papal States for a final time in 1592.TABLE 4.1
Residence of registered prostitutes in Bologna’s quarters1584Porta Piera Porta
Procola Porta Ravennate Porta Stiera Total16041624Number of resident
prostitutesPercent of total registrantsNumber of resident prostitutesPercent of
total registrantsNumber of resident prostitutesPercent of total registrants. This
table includes only those women with identifiable addresses. In 1584, this was
88% of all registrants (250 of 284 total registrants), in 1604 it was 91.8%
(561 of 611), and in 1624 it was 92.7% (153 of 165). Sources: Campione delle
Meretrici 1584, 1604, 1624.The sex trade in early modern Bologna 57 TABLE 4.2
Streets with ten or more resident prostitutes in 1604, by quarterQuarter of
Porta PieraQuarter of Porta ProcolaQuarter of Porta StieraCampo di Bovi:
36Senzanome: 36Jewish Ghetto: 21Frassinago: 21Borgo Nuovo di Fondazza: 29 San
Felice: 47 San Felice by the Broccaindosso: 10 gate: 13 Avesella: 10Borgo di S.
Giacomo: 20 Borgo di Santa Caterina di Saragozza: 21 Torleone: 18 Borgo degli
Arienti: 14 Borgo di San Marino: 17 Bràina di stra San Donato: 13 Gattamarza:
13Quarter of Porta RavennateSource: Campione delle Meretrici 1604.This was an
ironic reversal of the situation in Florence, where the ghetto was deliberately
located within the old brothel precinct in 1571.13 In 1604, twentyone women
lived in this area. Most streets in Bologna’s inner suburbs numbered only a few
prostitutes. In 1604, 84 percent (86 of 102) of the streets on which they
registered housed nine or fewer prostitutes, and these women accounted for
almost half of all registrants that year (44 percent). Further, 66 percent (68
of the 102 streets) housed five or fewer. Consequently, many of these women
lived on streets that were not dominated by prostitutes. A typical example of
this is the south-western corner of the city (see Figure 4.2). In 1604, three
of the area’s streets were heavily populated by prostitutes: Senzanome housed
36, Frassinago housed 21, and Borgo di Santa Caterina di Saragozza housed
twenty-one. However, the majority of the neighborhood’s streets had five or
fewer resident prostitutes and dishonest women: five women lived on Altaseda,
four on Nosadella, and three on Capramozza. The surrounding streets of Bocca di
lupo, Belvedere di Saragozza, Borgo Riccio, and Malpertuso had two or fewer. On
these streets prostitutes mixed with day-laborers, artisans, and merchants.
They rented rooms from pork butchers and shoemakers, lived in inns, and resided
next to potters.14 These were their immediate neighbors, separated only by the
porous boundaries of walls, stairways, doorways, and windows where they had
frequent day-to-day interactions.15 Like other working-poor women, they were
not confined to the streets that they lived on, but could and did move through
the surrounding area buying food, engaging in chores, finding work, visiting
friends, and going to the Bollette to buy their licenses.16 As Elizabeth S.
Cohen writes, prostitutes were both “seen and known” in their
neighborhoods.FIGURE 4.2Agostino Carracci, Bononia docet mater studiorum,
1581.Networks, neighborhoods, and communities The Bollette’s records reveal
prostitutes’ affective social and familial circles. Some women were registered
as living in their mother’s, sister’s, and (more rarely) cousin’s homes, while
other women’s female kin, housemates, lovers, and servants bought their
licenses. Notaries did not consistently record such details, making
quantitative analysis difficult.17 While men regularly appear in the registers
paying for licenses, the specifics of their relationships with the women were almost
never recorded. The Bollette’s records, particularly testimonies in cases of
debt against clients and long-term partners, provide rich information aboutThe
sex trade in early modern Bologna 59women’s familial, social, and work
relationships. However, the tribunal devoted more effort to investigating
unregistered women suspected of prostitution, than to the hundreds of women who
had bought licenses. The Bolognese evidence can be placed in the context of
evidence from other northern Italian cities demonstrating how prostitutes were
surrounded by family, housemates, and allies. In early seventeenth century
Venice, three-quarters of 213 prostitutes noted in a census lived with other
people. Most headed their own households, but some were boarders or lived with
their mothers. The majority of those who headed households sheltered dependent
female kin, children, and a variety of unmarried women, including servants and
other prostitutes. A few heads of households (6 percent) lived with men, who
were either their intimates or boarders.18 Roman parish censuses from 1600 to
1621 show similar cohabitation patterns: 47 percent of prostitutes lived with
at least one family member, mostly children but also siblings, nieces and
nephews, and widowed mothers.19 Everyone within the household economy
benefitted from the income and goods earned by these women. Bologna’s registers
give examples of sisters as registered prostitutes, like Dorotea di Savi,
called “Saltamingroppa” (literally “Jump on my behind”) and her sister Benedetta,
who lived together with their servant Gentile on Broccaindosso.20 Similarly,
Margareta and Francesca Trevisana, both nicknamed “La Solfanella” (“The
Matchstick”), lived together on Borgo di Santa Caterina di Saragozza for eight
years. While Francesca registered annually, Margareta did so only in 1602,
1604, and 1605.21 Before registering, Margareta likely enjoyed the income that
her sister earned through prostitution and may have assisted in preparing for
and entertaining clients. The Bollette suspected that she had, and so launched
an investigation against her when she became pregnant in 1601.22 Mothers and
daughters also lived and worked together, like Lucia di Spoloni and her
daughter Francesca, who lived on San Mamolo by the old civic brothel area, and
Anna Spisana and her mother Lucia, who lived together on Borgo degli Arienti.23
In 1604, Domenica di Loli bought licenses for her daughters Francesca and
Margareta, and all three lived just south of the church and monastery of San
Domenico on Borgo degli Arienti. Francesca had lived on the street since at
least 1600, and while she was no longer registering in 1609, her sister still
was. Margareta continued to live on Borgo degli Arienti until 1614, perhaps
with her mother and sister.24 Prostitutes often lived together in rented rooms,
small apartments, and inns. Residential clustering was not uncommon for
unmarried women, who shared the costs of running a household through lace
making, street-peddling, prostitution, and laundering.25 The largest could
count as brothels, though there were relatively few of them. In 1583,
twenty-one dishonest women lived in the house of Gradello on Bologna’s heavily
populated Borgo Nuovo di San Felice, by the eastern wall. Yet while
registrations climbed in the 1580s, the group at Gradello’s shrank to fourteen
women in 1584, and eleven in 1588.26 Moreover no other large houses appeared
through this period. In 1604, the street with mostregistrations was Borgo Nuovo
di San Felice, with forty-seven women, and the largest single group was
thirteen who gathered in the house of Lucrezia Basilia, while the rest had five
or fewer.27 On the second and third most populated streets, Campo di Bovi and
Senzanome, no house had more than six registered prostitutes living in it.28
These larger clusters were often inns, where prostitutes benefitted from the
presence of other women and the protection of innkeepers. Inns popular with
prostitutes included those of Matteo the innkeeper (“osto”) on Frassinago and
of Angelo Senso on Pratello. Seven registered women lived at Matteo’s inn in
1589, and ten lived in Angelo’s inn in 1597.29 Few women stayed at inns for
more than a year and most registered without surnames, but instead with
reference to a town, city, or region, like Flaminia from Ancona (“Anconitana”),
Francesca from Fano (“da Fano”), and Ludovica from Modena (“Modenesa”) who
lived at Matteo’s place in 1598. These could have been recent migrants or women
identifying by parents’ origins or using pseudonyms. The inns and brothels
helped them build social networks as they secured places of their own. Yet, it
was more common for women to live with one or two other prostitutes in rented
rooms and small apartments. In 1597, Lucia Colieva lived with Elisabetta di
Negri on Borgo di San Martino, and the following year she joined another
registered prostitute, Vittoria Fiorentina, on Senzanome.30 Similarly, in 1601
Isabella Rosetti, Giulia Bignardina, and Cassandra di Campi all lived together
in Isabella’s home on Frassinago. A year later Giulia had died and Cassandra
was no longer registered.31 For just under ten years, Madonna Ginevra Caretta,
who was unregistered, managed a small apartment where six to eight registered
prostitutes lived.32 Unlike Bologna’s inns and taverns, Ginevra’s household was
mobile, moving across town and back again over the years it operated. In 1588
it was located on Saragozza, in the south-western corner of the city, and the
next year it moved to San Colombano in the northwest quarter of Stiera. At
least one woman, Lena Fiorentina, followed Ginevra to the new street, where she
remained for almost a decade before moving to Paglia.33 A few of the
prostitutes lived with Ginevra for years, like Pelegrina di Tarozzi, who stayed
for four years, and Chiara Mantuana, for three.34 Domenica Cavedagna,
registered for thirteen years (1597–1609), ran a house on Centotrecento and
then on Bràina di stra San Donato.35 Seven other prostitutes lived with her in
1604, and a year later three had left but six new women had moved in. A few stayed
with her for four or five years.36 The Bollette’s registers explain why some of
the women moved out of the homes run by women like Ginevra Caretta and Domenica
Cavedagna. Some entered service (either domestic, sexual, or both) while others
moved to different streets or left Bologna entirely to try their luck
elsewhere.37 While living with other prostitutes could bring economic,
professional, and even personal security, it could also bring personal rifts or
increased attention from the police (sbirri ), who saw these homes as easy
targets for making arrests. Men interacted with registered prostitutes as
occasional clients, long-term amici, absentee husbands, jealous lovers, and as
acquaintances, if not friends.Single women, whether unmarried or widowed, were
financially and socially vulnerable, subject to sexual slander, to charges of
magic and sorcery, and to general suspicion by neighbors and authorities
alike.38 Relationships with men afforded them a degree of protection from the
financial and social marginalization they experienced because of their gender,
economic status, and work, and so women turned to them not just for income and
companionship but also for a measure of protection. The civic government had
always prohibited married women from prostituting themselves, since by doing so
they committed adultery. The 1462 statutes ordered whipping and expulsion for
the women, and fines of 100 lire for officials who looked the other way.39
Women living with husbands could not register with the Bollette, though
abandoned wives sometimes could. Francesca di Galianti claimed that her husband
Bartolomeo di Grandi went to war three or four years previously, leaving her
with a three-year-old daughter to feed. She had since given birth to a daughter
with a cloth worker Giovanni, with whom she had been living for about a year
“to make the expenses.”40 For the Bollette, the question of whether abandoned
women like Francesca could and should register was a practical one since women
who registered were women who paid fees. These women appealed to the sympathy
of Bollette officials by claiming that they were married but had not seen their
husbands in many years, leaving unanswered the question of whether their
husbands were alive or dead. This ambiguity about the ultimate fate of their
husbands would have freed them from charges of adultery at the archbishop’s
tribunal (if the husband was alive) while at the same time freeing them from
registration with the Bollette (if he were dead). Francesca did not state
whether she thought her husband was dead or alive, and ultimately a kinsmen
Vincenzo Dainesi swore that he would ensure she left her “wicked life” (“mala
vita”) and take her into his home to live with him and his wife.41 The
officials were satisfied with this, and so Francesca remained unfined and
unregistered. In 1586, Vice Legate Domenico Toschi authorized police to seize
“all married women who do not live with their husbands” caught at night in bed
with their lovers (amatiis).42 Archbishop Gabriele Paleotti believed such women
were clearly committing adultery, and Pope Sixtus V’s bull Ad compascendum
(1586) ordered that any married person whose spouse was alive and had sex with
another person—even if they had a separation from an ecclesiastical court
—should be sentenced to death.43 Toschi’s decree was reconfirmed ten years
later by the new vice legate, Annibale Rucellai, and a third time in 1614.44 If
a woman returned to her husband, she was to be immediately deregistered and
could not be allowed to practice prostitution. If she continued, she was no
longer under the Bollette’s jurisdiction, but rather that of the archbishop.
Stable relationships with men, referred to in Bologna as amici, “lovers,” or as
amici fermi, “firm friends,” offered a measure of economic security for
prostitutes by providing money, clothing, and food in varying amounts depending
on the men’s own status.45 When Arsilia Zanetti sued Andrea di Pasulini, notary
of thearchbishop’s tribunal, for compensation for their three-year sexual
relationship (“amicitia carnale”), she noted he had given her three pairs of
shoes, a pair of low-heeled dress slippers, and a few coins (a ducatone, half a
scudo, and a piastra, a Spanish coin).46 Buying the woman’s licenses could also
be part of the arrangement, as Pasulini had also done for Arsilia.47 Even
though Bologna’s monthly rate of five soldi, and annual rate of three lire, was
extraordinarily low—only onefifth of what Florentine prostitutes paid—this was
another expense that women did not have to worry about and suggested commitment
on the part of the men.48 Lovers and friends helped women in their interactions
with the law. The cavalier Aloisio di Rossi had a three-year sexual
relationship with Pantaselia Donina, alias di Salani, and when her landlord
complained to the Bollette that she had not paid the rent, di Rossi acted as
her procurator and ultimately paid the landlord.49 Other prostitutes maintained
relationships with local, low-level arresting officers (sbirri); Elizabeth S.
Cohen has uncovered many relationships between prostitutes and such men, noting
that “the two disparaged professions often struck up alliances in which the
women traded sex, companionship, and information for protection and money.”50
Such partnerships were not unusual in Bologna. In May 1583, the sbirro Pompilio
registered Francesca Fiorentina as his “woman” (“femina”) and got her a
six-month license for free.51 In 1624 three women registered as living in the
“casa” of the Bollette’s esecutore, Pietro Benazzi, on Borgo di San Martino.52
Pietro registered Caterina Furlana on January 11, 1624 and paid for her
one-month license. She was subsequently de-registered because “she went to stay
in order to serve Pietro Benazzi.” When Caterina di Rossi moved out of her
place on Borgo degli Arienti and into Pietro’s house, she paid for one month
and never again.53 Though these Bollette functionaries could not keep these
women’s names out of the registers, they could keep them from paying for
licenses, even when they were most likely still living by prostitution, and may
have protected them from harassment by other court officials. Male friends
could also be rallied for support, particularly by women who had lived in one
street or area for a substantial period of time, building reputations and
financial and social ties with their neighbors. When Margareta Trevisana “The
Matchstick” (Solfanella) was investigated by the Bollette in 1601, she had been
living on Borgo di Santa Caterina di Strada Maggiore with her sister for at
least eight years. She confessed that three years earlier she had given birth
to the child of Messer Antonio Simio, a married man.54 The Bollette had
investigated her then, allowing her to remain unregistered on the promise that
she would reform her life and go to live with an honorable woman. She was
pregnant with the child of another man and was living with her sister
Francesca, a registered prostitute.55 Margareta produced statements signed by
two male neighbors who described her as a good woman (“donna de bene”) the
whole time they had known her, while her parish curate confirmed that she had
confessed and taken communion the previous Easter.56 On further questioning by
the Bollette, the priest claimed that he had known Margareta for about ten or
twelve years, having first met herwhen he lived in the same house as she and
her sister. He claimed not to know what kind of life Margareta led, but
admitted that she appeared pregnant, and was, as far as he knew, not married.
The priest’s testimony cleared her of charges of adultery, but could not save
her from registration, a three-lire fine, and probation.57 In May 1602,
Margareta produced statements about her “honest life and reputation” provided
by two different neighbors and another curate at Santa Caterina di Saragozza,
and her name was removed from the register.58 Margareta lived on the same
street for ten or twelve years, had relationships with neighbors and
housemates, had a sister with whom she lived, and was able to rally four male
neighbors and two parish priests to support her. She and others moved amongst
family, friends, long-term lovers, and occasional clients, building
relationships on reciprocal, if uneven, bonds of financial, emotional, and
legal support and protection. They were not just physically a part of Bologna’s
working-poor neighborhoods, but also socially and affectively integrated into
their communities.Bad neighbors While Bolognese civic law tolerated
prostitution and permitted prostitutes to reside throughout the city, public
disorder was always a concern. Decrees published by the Bolognese legate, at
the request of convents, churches, confraternities, and schools, frequently
lamented the dishonest words and daily and nightly reveling by prostitutes and
other disreputable people.59 Men socialized in prostitutes’ homes, eating,
making music, and talking.60 While some parties remained relatively quiet,
others filled the neighborhood with winefueled singing, laughing, and the
sounds of dancing and of fights over games of chance. The noise was intrusive,
disruptive, and alarming: blasphemous words, violent acts, and sexual slander
carried through windows, over walls, and into streets, squares, and other
residences. Broadsheets illustrating prostitutes’ lifecycles usually included
knife fights by men who discovered that “their” woman had another lover.61
Barking dogs, brawling men, and screaming women heard through f limsy walls and
open windows added to the noise of crowded squares, laneways, and streets.62
Men also fought in doorways and on streets in full sight and hearing of
neighbors. To reduce these disturbances, Papal Legate Bendedetto Giustiniani
forbade prostitutes from throwing parties ( festini ) or “making merry” (trebbi
) in the homes of honest people, or even from eating or drinking in taverns and
inns. Other decrees forbade games of chance and betting, like dice and cards.63
Lawmakers recognized that it was less the prostitutes than the men with them
who were the problem. In 1602 prostitutes were forbidden from travelling
through the city at night with more than three men, under fine of 100 scudi for
the men and whipping for the women.64 Eight years later, Legate Giustiniani
forbade prostitutes from going through the city at night with any men, under
penalty of whipping for both the men and the prostitutes.65Enclosed communities
of male and female religious frequently complained about the noise of
prostitution. Bolognese authorities attempted general exclusionary zones around
convents in the 1560s without success and so moved to proclamations expelling
prostitutes and other disreputable people from specific streets; this was
similar to Florence, where the streets designated for prostitution were de
facto exclusionary zones around most convents.66 Between 1571 and 1630, at
least fifty proclamations cleared twenty-five distinct streets in Bologna,
about one-quarter of all the streets inhabited by prostitutes in 1604. Most
proclamations concerned eight specific convents on the city’s outskirts, though
a few male enclosures were also protected.67 All either had elite connections
or were newly built, and most were near streets heavily populated by
prostitutes. In 1603 Vice Legate Marsilio Landriani forbade all prostitutes,
procurers, and other dishonest women from living on a cluster of streets
bordering the Poor Clares’ house of Corpus Domini, established in 1456 by S.
Caterina de’ Vigri, and the Dominican convent of Sant’Agnese (est. 1223), one
of the city’s richest and most prestigious convents with over 100 nuns.68
Landriani’s proclamation stated that the nuns were greatly disturbed and
scandalized by the daily and nightly reveling of prostitutes, procurers, and
other disreputable people, the “dishonest” words that they spoke, and the
wicked examples they posed.69 Prostitutes had just over a month to move out,
and those found there after the deadline would be publicly whipped, while their
landlords would be fined fifty gold scudi and lose their outstanding rents.70
Yet few prostitutes were actually registered on these streets.71 While
registrations generally dropped dramatically in the 1610s and 1620s, these
streets declined the most, with only two prostitutes remaining by 1614.72 In
1622, the expulsion was repeated almost verbatim with the addition of two
neighboring streets that housed a handful of prostitutes; none remain. Concerns
about pollution continued, particularly around shrines. The confraternal shrine
of the Madonna della Neve was built in 1479 to shelter a miraculous image of
the Virgin on the street Senzanome at the south-western corner of the city.74
Senzanome had twenty-three registered prostitutes in 1594, thirty-six in 1604,
and thirty-five in 1609. Yelling, singing, mocking, and jesting disturbed the
peace, interrupted the Mass and other divine offices, and forced young,
unmarried girls and respectable residents to hide in their houses. Confraternal
brothers repeatedly complained to the legate about the noise of Senzanome’s
prostitutes and other “people who have little fear of God and his most holy
mother.” 75 Between 1587 and 1621 four proclamations expelled dishonest people
and prostitutes from Senzanome and around Santa Maria della Neve.76 One of 1608
threatened women caught residing or lingering in the street with a fine of ten
scudi the first time, and expulsion the second time.77 Men could be fined ten
scudi the first time, and another ten scudi and three lashes the second time.
This proclamation even named three specific women, Giulia da Gesso, Doralice
Moroni, and Ludovica Giudi, “as well as every other meretrice.” 78 A year later
all three of these women were still living on Senzanome, with Doralice Moroni
registeredin the house of the priest Campanino and Giulia da Gesso in the house
of a priest of San Niccolo.79 Moreover, they shared the street with thirty-five
other registered prostitutes. Yet the prostitutes gradually did move away, and
in 1614 and 1624, only two women registered on Senzanome.80 The Legate’s 1621
decree ordered dishonorable people living on Senzanome to move to Frassinago,
to Borgo Novo, or to “another street appointed to similar people” where there
were no convents, churches, or oratories.81 Neighbors had direct, day-to-day
contact with prostitutes and knew details about their lives. Gossip—the sharing
of local and extra local information— typified neighborhoods and formed the basis
of community self-regulation.82 People constantly watched and listened to their
neighbors from the streets, in doorways, through windows, on balconies, and
through f limsy walls.83 Early modern prostitution was public and visible.
Michel de Montaigne remarked that prostitutes sat at their widows and leaned
out of them, while others observed that the women promenaded proudly through
the streets.84 In his Piazza universale di tutte le professioni del mondo
(1616), Tommaso Garzoni described how prostitutes worked to catch men’s eyes
while sitting at their widows, gesturing and bantering with them.85 Some called
attention to themselves by wearing brightly colored gowns with ostentatious
decorations and jewels on their fingers and at their necks.86 Contemporary
Italian broadsheets depict women sitting at their widows and in their doorways
while older women act as go-betweens.87 Bollette testimonies show that
Bolognese knew a great deal about the prostitutes who were their neighbors.
Witnesses often claimed that they had seen women going through the streets or
into buildings and apartments with men. In 1601, Caterina Marema told that when
she lived in the same casa as Lucrezia Buonacasa, she frequently saw the tailor
Gian Domenico Sesto come to stay and sleep with her.88 Others saw more intimate
behavior, like Bartolomea, daughter of Antonio di Miani, who claimed that she
knew her neighbors Margareta and Cornelia were “meretrici” because she saw them
laughing, dancing, embracing, and kissing men. She also heard that they went to
register with the Bollette.89 Still others testified more simply that “everyone
in the neighborhood considers her to be a whore,” or, “everyone says that she
is his whore.” Finally, some men talked with each other about their sexual relationships
with women. Silvio, son of Rodrigo di Manedini, claimed that over the previous
three years his friend Tarquino, a sbirro, told him repeatedly that he was
“screwing” (chiavava) Lucrezia Buonacasa.90 In this case, Silvio claimed also
to have first-hand knowledge of their relationship: he said that he had seen
the two in bed together at Lucrezia’s house on via Paradiso and at the watch
house of the sbirri. In a close knit, intensely local world like this,
prostitutes and dishonest women would have been hard-pressed to keep their
relationships and work a secret. In pragmatic terms, some women may not have
wanted to keep their work a secret: gossip and visibility acted as
advertisement and could attract better clients. Local knowledge of women’s
attachments to men might also earn them a measure of respect, even if only
while the relationship continued, especially ifthe man was honored locally
because of his wealth or status. These relationships could bring a sort of
social protection. Whether or not women or their clients and lovers made
spectacles of themselves, prostitution was both seen and known. Most
working-poor people were not overly scandalized by the fact that their
neighbors lived by prostitution, or perhaps they had resigned themselves to
living amongst them. No evidence has come to light that working-poor women and
men made a concerted effort to drive prostitutes and dishonest women as a group
out of their neighborhoods. Most streets on which registered prostitutes lived
housed ten or fewer such women, and prostitutes may have been quieter and less
given to overt public display, since they did not have to compete with each
other for the attention of the men and youths who came in search of their
services. With fewer women there was less of the serenading, violence, and
harassment by rowdy students and drunken men that offended neighbors, and less
attention from patrolling officers looking to fill their purses with rewards
for arrests.91 Tessa Storey has argued that as long as Roman prostitutes maintained
local order and the appearance of respectability, neighbors did not see them as
an exceptional problem. A few written complaints requesting the eviction of
specific prostitutes from their streets identified only the most scandalous and
the loudest, on grounds that they posed bad examples by “touching men’s
shameful parts and doing other extremely dishonest acts” in the streets.92
Those who were well behaved—and these were actually listed by name—were welcome
to stay provided that they continued to behave. Working-poor neighbors who
found the women’s work immoral or offensive or their noise and disorder
overwhelming could move to one of the 100 or so other city streets that were
not heavily populated by prostitutes. Even in 1604, the year when the highest
number of prostitutes and dishonest women registered with the Bollette, only
sixteen streets had ten or more registrants living on them, and only eight had
more than twenty. At least half of all Bolognese prostitutes were more widely
dispersed through the city, and this may explain why we see no concerted
efforts to dispel them as a group. Beyond this, it became increasingly
difficult to successfully prosecute violations like adultery or the lack of
license. A 1586 order from the vice legate to the Bollette’s officials
suggested that small-scale rivalries were behind too many frivolous
denunciations. Henceforth, unless a woman was found in flagrante with a man,
the testimonies of two neighbors of good repute and the local parish priest
would be required in order to find her guilty.93Conclusion For many
working-poor Bolognese men and women, living amongst prostitutes was a fact of
life. Whether they respected these neighbors or not, they learned to live with
them. Prostitutes and dishonest women had their places in the local kinship,
social, and economic networks of their neighborhoodsand the larger city. This
is not to say that they were not mocked, or that those who treated them with
courtesy fully respected them. Yet while some prostitutes annoyed, overwhelmed,
and frightened some neighbors with their noise, scandal, and violence, they
were also the sisters, mothers, lovers, and friends of many others. Elizabeth
S. Cohen has argued that “[prostitute’s] presence corresponded to an intricate
engagement in the social networks of daily life. In practice, if not in theory,
the prostitutes occupied an ambiguous centrality.”94 Tessa Storey suggests that
restrictive legislation, especially residential confinement, elicited sympathy
from Romans, who were not overly concerned about the immorality of
prostitution. This was also true in Bologna, where prostitutes were far more
widely distributed across the entire city. Religious authorities like Gabriele
Paleotti found them immoral and disruptive, posing bad examples and needing to
be separated and marginalized. Yet civic authorities and most lay people appear
to have held more nuanced attitudes, engaging prostitutes in the body social
and using bureaucratic registration to mediate their place in the body politic.
The sources generated by the Ufficio delle Bollette in the later sixteenth and
early seventeenth centuries reveal these women operating within networks of
sociability, work, and family. They demonstrate women who fit within their
communities, more uneasily at sometimes than others, and who both gave and
received the resources of support, companionship, and security that
characterized the community-centered world of early modern Italy.Notes 1 Cohen,
“Seen and Known,” 402. Hacke, Women, Sex, and Marriage, 179. Brackett, “The
Florentine Onestà,” 291–92 and 296. Terpstra, “Locating the Sex Trade,” 108–24.
2 Brackett, “The Florentine Onestà,” 290–91 and 295; Cohen, “Seen and Known,”
404– 05; Storey, Carnal Commerce, 70–94; Ruggiero, Binding Passions, 48–49. 3
For expanded analysis and archival documentation, see: McCarthy,
“Prostitution.” 4 Biblioteca Universitaria Bologna (hereafter BUB), ms. 373, n.
3C, 151v–152v. Terpstra, Cultures of Charity, 205–06, 329. McCarthy,
“Prostitution, Community, and Civic Regulation,” 40, 54–61. 5 Archivio di Stato di Bologna (hereafter ASB),
Boschi, b. 541, fol. 170v, “Bando sopra le meretrici et riforma de gli altri
bandi sopra a cio fatti” (January 31 and February 1, 1568). For more on this episode and
the gendered politics of social welfare reform in sixteenthcentury Bologna:
Terpstra, Cultures of Charity, 19–54, 206–07. For the comparatively loose
regime in the Convertite: Monson, Habitual Offenders. 6 Cohen, “Seen and Known,”
403 and 405–08; Ruggiero, Binding Passions, 49; Brackett, “The Florentine
Onestà,” 292. Terpstra, “Locating the Sex Trade,” 116-21. 7 Miller, Renaissance
Bologna, 16–17. Terpstra, “Sex and the Sacred.” 8 For example, Isotta
Boninsegna and Giovanna di Martini. In 1604 Polonia, daughter or widow of
Domenico Galina of Modena lived on Simia, while in 1614 Maria Roversi did, and
Borgonzona lived there. ASB, Ufficio delle Bollette 1549– 1796, Campione delle
Meretrici (hereafter C de M) 1584, [np] “I” and “G” sections; 1604, [np] “P”
section; 1614, 190; 1630, [np] “D” section. 9 This street was called variously
the “via stufa della Scimmia,” the “postribolo,” or “lupanare Nuovo,” as well
as the Corte dei Bulgari. Fanti,
Le vie, vol. 2, 516–17. McCarthy, “Prostitution,” 20–67.10 Biblioteca Comunale
di Bologna (hereafter BCB), Gabinetto disegni e stampe, “Raccolta piante e
vedute della città di Bologna,” port. 1, n. 14. mappe/14/library.html 11
Ferrante, “‘Pro mercede carnale,’” 48. 12 Borgo Nuovo di San Felice was one of
the streets that Bishop Gabriele Paleotti had ordered prostitutes to live in. ASB, Boschi, b. 541, fols. 170r–171v, “Bando sopra le
meretrici” (January 31 and February 1, 1568). Zanti, Nomi, 16. 13 Muzzarelli,
“Ebrei a Bologna,” 862–70. 14 Francesca Ballerina rented from Giacomo the pork
butcher (lardarolo) on Frassinago. Giacoma di Ferrari da Reggio, Ursina de
Bertini, and Lucrezia di Grandi all lived in the house of Giovanni Pietro the
shoemaker (calzolario) on Senzanome. Lucia Tagliarini lived on Frassinago in
the inn of Zanino. Giovanna Querzola, alias Stuarola, lived on Nosadella
between the potter (pignataro) and the shoemaker (calzolaro). C de M 1604, [np] “F”, “I”,
“V”, “L”, “T”, and “G” sections, respectively. 15 Cohen and Cohen, “Open and
Shut,” especially 64 and 68–69. 16 Chojnacka, Working Women; Cohen, “To Pray.”
17 For instance, in 1604, 611 women registered and only eleven mothers and four
sisters were recorded as purchasing licenses for their kin. McCarthy,
“Prostitution,” 220–21. 18 Of the 213 prostitutes who appeared in the censuses,
one-third had children. Chojnacka, Working Women, 22–24. 19 Storey, Carnal
Commerce, 128–29. On widowed mothers, 114. 20 Benedetta was listed as “sorella
di Saltamingroppa.” C de M 1604, [np] “B” and “D” sections. 21 C de M 1605,
175. For Francesca, see C de M 1598, 56; 1599, 49; 1600, 68; 1601, 60; 1602,
72; 1603, 72; 1604, [np] “F” section; 1605, 86. For Margareta, see C de M 1602,
201; 1604, [np] “F” section; 1605, 175. In 1605, Margareta was deregistered
when she began working as a wet nurse for the Ercolani, a senatorial family. As the register reads: “Sta per balia del 40
Hercolani.” 22 C de M 1601, 140. ASB, Ufficio delle Bollette 1549–1796,
Inventionum 1601, [np] fol. 19v (June 28, 1601). 23 C de M 1584, [np] “L”
section. Both were
registered under Lucia’s name. C de M 1624, [np] “A” and “L” sections. 24 C de
M 1600, 73; 1604, [np] “F” and “M” sections; 1609, 171; 1614, 172. Domenica was
not registered. 25 Hufton, “Women without Men.” Chojnacka, Working Women,
18–19. Cohen, “Seen and Known,” 406. 26 C de M 1584 and 1588. 27 Of those who
registered, almost all gave their street and residence (44 of 47). For names of
co-habitants: McCarthy, “Prostitution, Community, and Civic Regulation,”
224–25. 28 A total of twenty-seven (75 percent) of the thirty-six women who
lived on Campo di Bovi identified their homes: five lived in the “casa” of
Messer Filippo Scranaro, and the rest lived with two or fewer other
prostitutes. A total of thirty (87 percent) of the thirtyfive women who
registered on Senzanome identified their homes: six lived in the “casa” of
Giulia di Sarti, called l’Orba (the Blind), who was not registered, and four
lived in the “casa” of Giovanni Pietro the shoemaker. Otherwise, all the rest
lived with two or fewer other prostitutes. C de M 1604. 29 C de M 1589 and
1597. 30 C de M 1597, 61 and 86 respectively; C de M 1598, 95 and 142
respectively. 31 C de M 1601, 99, 78, and 176 respectively. 32 This was between
1588 and 1597. Ginevra registered once, in January 1588, when she paid for a
one-month license. C de M 1588, [np] “G” section. In 1588, six registered
prostitutes lived with her, in 1589 seven did, and in 1594 and 1597 eight did.
C de M 1588; 1589; 1594; 1597. 33 C d M 1589, [np] “L” section; 1594, [np] “L”
section. C de M 1599, 28. Ginevra was still there in 1601, when Margareta
Tinarolla lived in her home. See C de M 1601, 130.34 C de M 1594, [np] “P”
section; 1597, [np] “P” section. C de M 1597, [np] “C” section; C de M 1599,
28. 35 For her first registration, see C de M 1597, [np] “D” section. 36 Eg., Gentile di Sarti, C de M 1601, 79; 1605, 100,
and Domenica Fioresa, C de M 1604, [np] “E” section; 1609, 66–67. 37 Lucia Fiorentina left
Ginevra’s to serve in the house of a local scholar (“Signor Dottore”). C de M
1589, [np] “L” section. Diana di Sacchi Romana lived in Ginevra’s casa in
January 1594, but moved twice more that year, to Borgo Polese and then to Altaseda.
C de M 1594, [np] “D” section. C de M 1594, [np] “L” section, Lucia Fiorentina.
It is unclear but possible that this was the same Lucia who entered service in
1589. 38 Chojnacka, “Early Modern Venice,”
especially 217 and 225. McCarthy, “Prostitution,” 253–314. 39 See ASB, Ufficio
delle Bollette e Presentazioni dei Forestieri, Scritture Diverse, busta 1,
“Statuti,” [np] fol. 8r. 40 ASB, Ufficio delle Bollette 1549-1796, Filza 1604,
[np] “Die 21 May 1604,” fol. 1r. 41 Vincenzo is described as Francesca’s “cognatus.”
Ibid., fol. 1r–v. 42 This permission was copied into the 1586 register and the
1462 illuminated statutes: C de M 1586, [np] “Z” section (28 June 1586); ASB,
Ufficio delle Bollette e Presentazioni dei Forestieri, Statuti, sec. XV, codici
miniati, ms. 64, 28. 43 For Paleotti’s reaction, see BUB, ms. 89, fasc. 2, Constitutiones conclilii provincialis Bonon. 1586,
fol. 95v, cited in Ferrante, “La sessualità,” 993. 44 ASB, Ufficio delle
Bollette 1549–1796, Filza 1601, [np] “Decreto d[e]lle bolette” (November 20,
1596); Filza 1614, [np] “Dalla letura delli statuti si cava che le Donne di
vita inhonesta si possono descrivere nel campione in 4 modi” (undated). 45 John Florio defines
“amico” as “a friend, also a lover.” Florio, Queen Anna’s, 24. See also Cohen,
“Camilla la Magra.” 46 The suit was brought to the Bollette. ASB, Ufficio delle
Bollette 1549–1796, Filza 1601, [np] “Arsilia Zanetti” (November 12, 1601). For
a detailed study of Bolognese registered prostitutes who took clients to the
Bollette’s tribunal for debt, see Ferrante, “‘Pro mercede carnale.’” 47
Pasulini bought her two six-month licenses in July 1598 and January 1601. Arsilia’s
son, Giovanni Battista, paid for the other months. C de M 1598, 48; 1599, 3;
1600, 4; 1601, 4. 48 Archivio di Stato di Firenze
(hereafter ASF), Onestà, ms 1, ff. 27r–31v. Terpstra, “Sex and the Sacred,” 77. 49 Ludovico
Pizzoli, the Bollette’s esecutore, claimed that for three years Rossi had
purchased her licenses because he was having a continuous sexual relationship
with her even while she was having sex with other men: ASB, Ufficio delle
Bollette, Filza 1606, “Cont[ra] Pantaselia Donina[m] al[ia]s de Salanis”
(August 19, 1605), fol. 1r. John Florio defines “amicítia” as “amity,
freindship [sic], good will.” Florio, Queen Anna’s¸ 24. The Bollette’s 1602
register confirms that Rossi paid for her licenses in person as well as giving
money to Pizzoli to pay on his behalf. C
de M 1601, 160; 1602, 154; 1603, 170. ASB, Ufficio delle Bollette 1549–1796,
Filza 1601, “Molto Ill[ust]re et Ecc[ellen]te Sig[no] re” (May 14, 1601). 50 Cohen, “Balk Talk,” 101.
51 The record in the register does not say why it was given for free, only that
Pomilio “solvet nihil.” C de M 1583, [np] “F” section. 52 These were Angelica
Bellini, Caterina Furlana, and Caterina di Rossi. C de M, 1624, [np] “A” and
“C” sections. 53 Both in Ibid., [np] “C” section. 54 This was according to the
curate of her parish church. ASB,
Ufficio delle Bollette 1549– 1796, Inventionum 1601, [np] fols. 20v–21v (June
20, 1601; July 2, 1601). For her sister Francesca’s registrations: C de M 1598,
56; 1599, 49; 1600, 68; 1601, 60. 55 ASB, Ufficio delle Bollette 1549–1796,
Inventionum 1601, [np] fol. 19v (June 28, 1601) and fol. 20r–v (June 30,
1601).56 ASB, Ufficio delle Bollette 1549–1796, Filza 1601, [np] “Malg[are]ta
Sulfanela” (June 27, 1601). 57 ASB, Ufficio delle Bollette 1549–1796,
Inventionum 1601, [np] fols. 20v–21v (July 2, 1601). 58 ASB, Ufficio delle
Bollette 1549–1796, Filza 1603, [np] (26 June 1602). C de M 1602, 21. The Convertite confirmed this
removal: ASB, Ufficio delle Bollette 1549–1796, Filza 1603, [np] untitled
(October 12, 1602). 59 See, for
instance, BCB, Bandi Merlani, V, fol. 106r, untitled, begins “Non essendo
conveniente che presso li Monasteri j di Monache” (March 24, 1603). McCarthy, “Prostitution,”
131–97 60 Cohen, “‘Courtesans,’” 202. 61 “Vita et fine miserabile delle
meretrici” (“Life and Miserable End of Prostitutes”), ca. 1600, in Kunzle,
History of the Comic Strip, 275. Giuseppe
Maria Mitelli, “La vita infelice della meretrice compartita ne dodeci mesi
dell’anno lunario che non falla dato in luce da Veridico astrologo” (1692), Museo
della Città di Bologna, 2470 (re 1/425). 62 Cohen, “Honor and Gender,” especially 600–01.
Terpstra, “Sex and the Sacred,” 71, 79–80. 63 ASB, Assunteria di Sanità, Bandi (XVI–1792), Bandi
Bolognesi sopra la peste, 45, “Bandi Generali del Ill[ustrissimo] et
Reverendiss[i]mo Monsignor Fabio Mirto Arcivescovo di Nazarette Governatore di
Bologna,” (February 17, 18, and 19, 1575), fol. 2v; BCB, Bandi Merlani, V, fol.
64r, “Bando Sopr’al gioco, & Biscazze, alli balli nell’Hosterie, & che
le Donne meretrici non vadano vestite da huomo” (December 9, 1602). 64 Ibid. 65
Thomas Fisher Rare Book Library (hereafter Fisher), B-11 04425, “Bando generale
dell’Illustrissimo, & Reverendissimo Sig. Benedetto Card. Giustiniano
Legato di Bologna” (June 23 and 24, 1610), “Delle Meretrici. Ca XXVIII,” 60–61. 66 In
1565, Governor Francesco de’Grassi set the exclusionary zone at 30 pertiche
(approximately 114 meters), while in 1566 Francesco Bossi extended the zone to
50 pertiche (190 meters). See
Martini, Manuale di metrologia, 92. ASB, Legato, Bandi speciali, vol. 3,
fol. 16r (February 1, 1565); ASB, Boschi, b. 541 (February 1 and 8, 1566), fol.
115r. Florence reduced
its exclusionary zone from 175 to 60 meters in this time (i.e., from 300
braccia to 100): ASF, Acquisti e Doni 291, “Onestà e Meretrici” (May 6, 1561). Terpstra, “Sex and the Sacred,” 78–79. 67 These
convents were San Bernardino, Santa Caterina in Strada Maggiore, San Guglielmo,
San Leonardo, San Ludovico, Santa Cristina, San Bernardo, Corpus Domini, and
Sant’Agnese. Proclamations
also protected the new monastery of San Giorgio, the Benedictine monastery of
San Procolo, the college of the Hungarians, the Jesuits and their school, the
new church of Santa Maria Mascarella, and the shrine of the Madonna della Neve.
McCarthy, “Prostitution,” 131–97. 68
Zarri, “I monasteri femminili,” 166, 177. Johnson, Monastic Women, 235–37.
Fini, Bologna sacra, 14. 69 BCB, Bandi Merlani, V, fol. 106r, untitled, begins
“Non essendo conveniente che presso li Monasterij di Monache” (March 24, 1603).
70 One-third of
each fine was to go to the accuser, one-third to the city treasury, and
onethird to the esecutore. 71 In 1601, one woman registered on Bocca di lupo,
two on Capramozza, and four on Belvedere di Saragozza. In 1604, one registered
on Bocca di lupo, three on Capramozza, and one on Belvedere di Saragozza. C de
M 1601 and 1604. One of the women who lived on Belvedere in 1601 continued to
do so in 1604, while another had moved three blocks west to Senzanome, and a
third had moved across town to Campo di Bovi by the north-eastern wall. These were Vittoria Pellizani, Gentile di Parigi, and
Angela Amadesi, called “La Zoppina.” For Vittoria: C de M 1601, 204 and 1604, [np] “V”
section. For Gentile: C de M 1601, 74 and 1604, [np] “G” section. For Angela: C
de M 1601, 136 and 1604, [np] “A” section. 72 These were Camilla di Fiorentini,
who lived in the house of Caterina the widow, and Cecilia Baliera. C de M 1614,
288 and 39 respectively.73 See BCB, Bandi Merlani, XI, fol. 28r, untitled,
begins “Non essendo conveniente, che appresso li Monasterij di Monache”
(January 18, 1622). In 1624, four women lived on Altaseta and none on
Mussolina. 74 Guidicini, Cose notabili, vol. III, 179–80 and volume III,
346–50. 75 The proclamation clearly states that the order was made at the
insistence of the “Huomini della Madonna dalla Neve, Confraternità di essa, e
persone honeste di detta strada.” BCB, Bandi Merlani, X, fol. 128r (August 20,
1621). 76 These were published in 1587, 1602, 1608, and 1621. BCB, Bandi Merlani, I, fol. 449r, untitled, begins
“Devieto di affitare a persone disoneste nella contrada di S. Maria della Neve”
(April 26, 1587); ASB, Legato, Bandi speciali, vol. 15, fol. 198r, untitled,
begins “Essendo la Contrada di Santa Maria dalla Neve sempre stata Contrada
quieta” (January 31, 1602); ASB, Legato, Bandi speciali, vol. 17, fol. 225r,
untitled, begins “Havendo l’Illustriss[im]e Reverendiss[ime] Sig[nor]
Car[dinal] di Bologna pien notitia” (June 6, 1608); BCB, Bandi Merlani, X, fol.
128r, “Bando Contra le Meretrici, & Persone inhoneste, non possa, ne
possano, ne debbano sotto qual si vogli pretesto, a quesito colore fermarsi, o
star ferme per detta strada, sotto il portico, suso il lor’uscio, o d’altri, o
suso l’uscio dell’ Hostarie.” ASB, Legato, Bandi speciali, vol. 17, fol. 225r
(June 6, 1608). 78 “comanda espressamente all GIULIA da Gesso, all DORALICE
Moroni, alla LUDOVICA Guidi, & ad ogn’altra MERETRICE [sic].” ASB, Legato,
Bandi speciali, vol. 17, fol. 225r (June 6, 1608). 79 C de M 1609, 73, 121, and
151, respectively. 80 These were Agata Martelli, alias Bagni, from Castel San
Pietro and Lena di Stefani who lived in the casa of Messer Domenico Bonhuomo. C
de M 1614, 19 and 1624, [np] “L” section. 81 BCB, Bandi Merlani, X, fol. 128r,
“Bando Contra le Meretrici, & Persone inhoneste” (August 20, 1621). Though Savelli did not
specify which “Borgo Nuovo” they should move to, in all likelihood he meant
Borgo Nuovo di stra Maggiore, which had no convents or churches on it. 82 Cohen
and Cohen, “Open and Shut,” 67–68. 83 Cowan, “Gossip,” 314–16; Cohen and Cohen,
“Open and Shut,” 68–69. 84 Cohen, “‘Courtesans,’” 204–05; Cohen, “Seen and
Known,” 396–97. In a later article Cohen argues that “[t]hough typically
noisier and more abrasive than feminine ideals would dictate, much of
prostitutes’ street behavior was not radically distinct; rather it fell toward
one end on a spectrum of working class practices.” Cohen, “To Pray,” 310. 85 Tommaso Garzoni, Piazza
universale di tutte le professioni del mondo, nuovamente ristampata & posta
in luce, da Thomaso Garzoni da Bagnacavallo (Venice: Appresso l’Herede di Gio.
Battista Somasco, 1593), 598. Available online from the Università degli Studi
di Torino OPAL Libri Antichi internet archive GIII446MiscellaneaOpal, cited in Cohen, “Seen
and Known,” 397, n. 18. 86 Ibid.,
especially 396–97 and 399; Storey, Carnal Commerce, 172–75. 87 “Mirror of the
Harlot’s Fate,” ca. 1657, reproduced on 278–79 in Kunzle, History of the Comic
Strip: Volume 1 and Storey Carnal Commerce, 37. Vita del lascivo (“The Life of
the Rake”), ca. 1660s, Venice, reproduced on 39–44 of Storey, Carnal Commerce.
88 ASB, Ufficio delle Bollette 1549–1796, Inventionum 1601, [np] January 22,
1601. 89 Ibid., [np] July 23, 1601. 90 Ibid., [np] January 22, 1601. John
Florio defines “chiavare” as “to locke with a key. Also to transome, but now a
daies abusively used for Fottere.” He defines “fottere” as “to jape, to flucke,
to sard, to swive,” and “fottente” as “fucking, swiving, sarding.” Florio,
Queen Anna’s, 97 and 194, respectively. 91 On the attraction of lawmen to
streets known for prostitution, gambling, and drinking: Cohen, “To Pray,” 303;
Storey, Carnal Commerce, 99–100. 92 The complainants referred to themselves as
honorati and gentilhuomini, curiali principali, and artegiani buoni e da bene.
Storey, Carnal Commerce, 91, n. 103. She dates the two letters from 1601 and
1624.93 For the vice legate’s order, as transcribed into the 1586 register: C
de M 1586, [np], untitled, begins “Ill[ustrissim]us et R[everendissi]mus
D[ominus] Bononorum Vicelegatus in eius Camera” (June 28, 1586). 94 Cohen, “Seen and Known,” 409. 95 Storey, Carnal
Commerce, 1–2.Bibliography Archival sources Archivio di Stato di Bologna (ASB)
Assunteria di Sanità, Bandi (XVI–1792) Boschi, b. 541 Legato, Bandi speciali,
vol. 3, 15, and 17 Ufficio delle Bollette 1549–1796, Campione delle Meretrici
1600, 1601, 1602, 1603, 1604, 1605, 1609, 1614, 1624, and 1630 Ufficio delle
Bollette 1549–1796, Filze 1601, 1603, 1604, 1606, and 1614 Ufficio delle
Bollette 1549–1796, Inventionum 1601 Ufficio delle Bollette e Presentazioni dei
Forestieri, Scritture Diverse, busta 1 Ufficio delle Bollette e Presentazioni
dei Forestieri, Statuti, sec. XV, codici miniati, ms. 64 Archivio di Stato di
Firenze (ASF) Acquisti e Doni 291 Onestà, ms 1 Biblioteca Comunale di Bologna
(BCB) Bandi Merlani, I, V, X, and XI. Gabinetto disegni e stampe, “Raccolta
piante e vedute della città di Bologna,” port. 1, n. 14. Biblioteca Universitaria Bologna (BUB)
Manuscript 373, n. 3C Thomas Fisher Rare Book Library (Fisher) B-11 04425 Museo
della Città di Bologna (MCB) 2470 (re 1/425)Published sources Brackett, John K.
“The Florentine Onestà and the Control of Prostitution, 1403–1680.” Sixteenth
Century Journal 24, no. 2 (1993): 273–300. Chojnacka, Monica. “Early Modern
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Edited by Judith M. Bennett and Amy M. Froide, 217–35. Philadelphia:
Pennsylvania University Press, 1999. ———. Working Women in Early Modern Venice.
Baltimore, MD: Johns Hopkins University Press, 2001. Cohen, Elizabeth S. “Balk
Talk: Two Prostitutes’ Voices from Rome c. 1600.” Early Modern Women: An Interdisciplinary Journal
Camilla l Magra, prostituta romana.” In
Rinascimento al Femminile. Edited by Ottavia Niccoli, 163–96. Rome: Laterza, “Honor and Gender in
the Streets of Early Modern Rome.” Journal of Interdisciplinary History 2“Seen
and Known: Prostitutes in the Cityscape of Late-Sixteenth-Century Rome,”
Renaissance Studies “To Pray, To Work, To Hear, To Speak: Women in Roman
Streets c. 1600.” Journal of Early Modern History ‘Courtesans’ and ‘Whores’:
Words and Behavior in Roman Streets,” Women’s Studies and Thomas V. Cohen,
“Open and Shut: The Social Meanings of the Cinquecento Roman House.” Studies in
the Decorative Arts (Fall/Winter 2001–02): 61–84. Cowan, Alexander. “Gossip and
Street Culture in Early Modern Venice.” Journal
of Early Modern History Fanti, Mario. Le vie di Bologna. Saggio di
toponomastica storica, 2 volumes. Bologna: Istituto per la storia di Bologna,
2000. Ferrante, Lucia. “La sessualità come risorsa. Donne davanti al foro
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honor, family, and livelihood. Traditionally, this grave offense merited harsh
punishments like stoning, although by the sixteenth century these had much
softened. A sin, a crime, and a breach of contract, in early modern Italy it
could be prosecuted under several kinds of law. Beyond canon law’s jeopardy for
both spouses, under Roman law enshrining patria potestas, adultery was
overwhelmingly a wife’s transgression, to which, furthermore, she was presumed
to have consented.1 So, a vengefully passionate husband or kinsmen who killed a
wife found f lagrantly abed with a lover could claim immunity from prosecution
for murder.2 The adulteress herself figured ambiguously as a theme in Italian
paintings, prints, and stories. Nevertheless, neither law nor broader cultural
norms ref lected adultery’s complexities as social experience on the ground. To
juxtapose prescriptive and lived understandings and to test the crime’s
notoriety, we turn to judicial records. For contrast with our culturally framed
expectations and to glimpse the everyday worlds of most early modern people,
this essay reconstructs four stories from adultery prosecutions in the Roman
Governor’s court circa 1600. The particular crimes of these non-elite women and
men involved companionship and sex, but little else was directly at stake. My
accounts seek to represent both social dynamics and a vernacular culture of
sexuality accessible alike to the educated and the illiterate. I highlight a
cluster of adulteresses who cultivated not primarily instrumental, but rather
personal, alliances outside marriage. The lovers’ choices transgressed and had
consequences both at home and in the public courts. Nevertheless, their
misconduct was not radically out of step with an everyday culture of sexuality
that endured even in Catholic Reformation Rome. Adultery had a lengthy history
as a cultural, legal, and behavioral problem. From the twelfth century, an
ambivalent medieval literature on humanlove—from Andreas Cappelanus to
Gottfried von Strassburg—suggested that passion and marriage did not mix.
Despite the Renaissance emergence of more positive takes on sex, the notion
persisted that intense eroticism was seldom the business of husbands and
wives.3 The church still taught that marriage was the only licit setting for
sex, while discouraging the pursuit of pleasure for its own sake. The
iconography of love on domestic objects linked to betrothals and weddings
promoted family policy as much as private spousal gratification.4 Although married
people may not have behaved as they were told, they have left few words about
sex. If conjugal relations did often tend to routine, adultery could be easily
imagined by contemporaries, and by scholars since, as an agreeable alternative.
Popular histories have repeatedly featured swaggering Renaissance noblemen,
including prelates, who dallied sensuously with mistresses and fathered
bastards. Their female partners, who ranged from servants to gentlewomen, were
often married, and so adulteresses. A wife’s adultery posed problems for both
her spousal household and her natal family, but sometimes brought them benefits
as well. Under ancient Roman law still frequently cited in the Renaissance,
uncertainty about paternity and corruption of the lineage was one major cost.6
Adultery also rattled the public honor of a patriarchal family that could not
control its assets, including the chastity and fertility of its women. These
concerns appear as conventional rhetoric, but it is far from clear how much
they actually drove Renaissance husbands’ retribution. Certainly, charges of
adultery were invoked to instigate violence against an inconvenient kinswoman
and to cover other, less high-minded goals. On the other hand, where doctrines
of sexual exclusivity could bend in practice, adulteresses might reap rewards
rather than punishments for their liaisons, especially with powerful men. For
example, Giulia Farnese, wife of the Roman baron Orsino Orsini and the mistress
of Pope Alexander VI in the 1490s, arranged a cardinal’s hat for her brother,
Alessandro, the future Pope Paul III.7 Even bastards could be absorbed and
their mothers supported. In the 1460s Lucrezia Landriani, married conveniently
to a Milanese courtier, bore four illegitimate children to the young Galeazzo Maria
Sforza before he became Duke of Milan and took a bride. Bearing their father’s
name and raised in his court, Lucrezia’s brood included Caterina Sforza, the
future indomitable Countess of Forlí.8 The husbands of these high-f lying
adulteresses managed their role, its perks and its costs, more and less deftly.
In Florence, the husband of Bianca Cappello, the mistress and later wife of
Grand Duke Francesco I, retaliated by intemperate womanizing of his own, and
died at the hands of his paramour’s kinsmen.9 Husbands did not take adultery
lightly, but there might be multiple stakes and more than just one bloody end.
The dark emotions of adultery—jealousy and anger—struck men and women alike.
Legends of aristocratic adulteresses killed in flagrante delictu by vengeful
husbands arouse pity, horror, and titillation in later readers. Although the
threat and the rhetoric surely circulated, documented historical examples are
few.10 More modest women, too, had reason to fear even unmerited spousal
violence.For example, in a miracle attested in 1522, the Madonna della Quercia
of Viterbo saved a woman mortally assaulted by a suspicious husband, egged on
by his mother.11 More peaceably, a Quattrocento necromantic recipe promised
that to make a wife “persevere in honest alliance with her husband.”12
Moreover, although adulterers were rarely prosecuted, women deeply resented
their husbands’ philandering. In the 1550s a pious Bolognese gentlewoman,
Ginevra Gozzadini, asked her spiritual director if she owed the marital debt to
her errant husband. Though reluctant to release his disciple from godly duties,
Don Leone Bartolini allowed her to decline if her husband refused to forgo his
“public adultery and also grazing on his wife like a pig and not a
Christian.”13 Renaissance Italian visual and literary culture depicted four
roles in adultery’s drama: the wife; the husband or cuckold; the lover; and the
chorus of the public. Though shadowed by misogyny, views of women were mixed.
Ancient and medieval texts widely posited female propensities to falling in
love and to undisciplined and mercenary carnality. Beauty, coupled with fickle
mind, made women at once temptresses and easy prey to seducers. These risky
frailties in turn justified tightly constraining rules. In parallel, novelle,
poetry, madrigals, and commedia dell’arte evoked both woe and delight with
representations of love and romantic adventure. Magic, too, offered women and
men ways to attract and bind a lover.14 Mainstream cultural norms often lumped
non-conforming women together as sexual transgressors. Yet prestige and class,
singled out some for celebration. Thus, as whores, prostitutes stood for the
obverse of female virtue, but courtesans, especially those dubbed
counterintuitively “honest,” earned renown among elite men for their manners
and cultural finesse. Even Saint Mary Magdalene appeared in paintings as the
brightly dressed, or undressed, playgirl who was the foil to her model
penitent. The adulteress partook of this generic bad girl, at once attractive
and corrupt, but her jeopardy under law invited ambivalence. For example, many
early modern artists represented the Gospel story of the woman “taken in
adultery.”15 Sixteenth-century Italian paintings usually depicted a beautiful,
young woman, thrust by the Pharisees’ heavy legal hand to stand alone before a
crowd to be judged. Although conventional language suggested that she was in
some sense caught or trapped, she was still deemed to have consented to dire
offense. Viewers would hear Jesus first chide her persecutors, “Let he who is
without sin cast the first stone,” and then tell her to go and sin no more. All
were sinners, not least the adulteress, but law must not trump Christian mercy.
Among the men’s roles, not the male adulterer nor the wife’s lover, but rather
the husbandly cuckold claimed a share of cultural preoccupation. The
aristocratic choice between familial vengeance or instrumental accommodation
often came down on the latter side. Instead of destroying the adulteress, the
cuckold had his reasons for complacency. In visual imagery, art historians have
shown betrayed husbands responding as much with dismayed forbearance as with
hot ire. Comparing paintings of Joseph, the helpmate of the Virgin Mary, and
Vulcan, the spouse of Venus, Francesca Alberti explained how the aging husbands
ofexceptional wives, though vulnerable to mockery by artists and viewers,
served divine ends.16 Louise Rice tracked Italian depictions of the cuckold
from a nasty late fifteenth-century allegorical engraving through sixteenth-century
literary parodies from Aretino and Modio, and finally to Baccio del Bianco’s
drawings. These last offered whimsically ironic scenes that normalized both the
cuckold and the adulteress.17 Ambivalently allotting pleasure and agency to
women and complicating the revenge narrative, novelle offered socially more
varied cultural constructions of adultery. In the Decameron, Boccaccio
exploited these possibilities in more than twenty-five stories featuring
adultery that fancifully permuted its spousal roles.18 The married women of the
novelle, again almost always beautiful, pursued love and reaped their
adulterous pleasures with ambiguous culpability. At the expense of dull or
aging husbands, some wives schemed cleverly both to achieve their desires and
to elude discovery and punishment.19 Others, honest, virtuous, and alluring,
had to be tricked by would-be lovers into learning that sex outside marriage
was more fun.20 Lucrezia in Machiavelli’s Mandragola found similar fortune.
Although female delight was only a means to an end in the Decameron’s elegantly
ironic lessons, a more literal reading of the stories at least gave a space to
imagine wives’ extra-domestic enjoyment. Boccaccio’s cuckolded husbands reacted
variously to adultery’s challenges to honor and to its remedies in law. In Day
4, Story 9, a gentlewoman let herself fall to her death after her vindictive
husband fed her the heart of her paramour. Explained the woman, since she had
given her love freely, she was the guilty one and not the lover. In a lighter
vein, Day 3, Story 2 parodied the narratives of murder in f lagrante and, less
directly, of Christ forgiving the adulteress. A king, discovering his wife and
a groom asleep together, cut the man’s hair to mark his guilt. When the lover
woke, he scotched his jeopardy by similarly tonsuring other servants. In the
end, the king, rejecting a petty vendetta that would broadcast his dishonor,
announced cryptically to his assembled entourage: “He that did it, do it no
more, and may you all go with God. A hapless husband, fearing penalty if he
killed his adulterous wife himself, hauled her before the public court, where,
by statute, she faced a sentence of death by fire. Unlike the Gospel’s
submissive adulteress, the respected Madonna Filippa staunchly defended herself
with two claims. First, as in the tragedy of Day 4, she did it for her “deep
and perfect” love for Lazzarino. Secondly, having gotten her husband to agree
that she had always satisfied his every bodily wish, she asked: “what am I to
do with the surplus? Throw it to the dogs? Is it not far better that I should
present it a gentleman who loves me more dearly than himself, rather than allow
it to turn bad or go to waste?” The gathered populace of Prato greeted this
charming riposte with approving laughter and, at the judge’s suggestion,
altered the harsh statute to punish only adulteresses who did it for money.22
Christian rules as implemented through ecclesiastical courts also ref lected
more everyday cultural norms. Although by medieval canon law both spouses owed
the marital debt, in customary practice expectations differed for husbandand
wife. As historian Cecilia Cristellon shows, the church courts of preTridentine
Venice aimed less to police sex than to stabilize marriages and to minimize
scandal.23 Many proceedings, often brought by women, sought to formalize
separations or annulments of couples who had long since parted company.
Adultery by wife or husband was a charge to blacken character but was seldom
advanced as the source of a broken marriage.24 In fact, among the lower orders,
adultery was a common product of widespread, informal serial monogamy. Finding
themselves for various reasons without present spouses, people readily took up
new heterosexual partnerships. Although adulterous, such concubinage, sometimes
with a formal blessing that made it bigamy, was often marriage-like and, in the
absence of contrary evidence, usually accepted by the lay community. In the
face of these popular habits, fifteenth-century church courts worked to sharpen
the boundaries of marriage, and the Council of Trent’s legislation assimilated
concubinage more and more to prostitution.25 Even so, ecclesiastical judges
continued less to punish adulterous sex by itself than to seek better moral and
spiritual discipline around marriage as a whole. Let us turn now to Rome at the
end of the sixteenth century to gauge the moral climate and social textures in
which our everyday adulteries took place. For some decades Catholic reformers
had worked to burnish Rome’s reputation as a fitting capital for a resurgent
church. Issuing repeated regulations (bandi ) to suppress blasphemy and vice,
local authorities particularly targeted gambling and adultery.26 Yet these
official pronouncements better registered moralistic concern than they
energized a thorough cleansing of the civic body. Parallel rules sought to
constrain the practice of prostitution, although that trade and fornication by
the unmarried were transgressive but not criminal. The magistrates’ concerns
turned mostly on guarding sacred sites from taint and restraining violence and
disorder by prostitutes’ clients. Yet enforcement of decrees around illicit sex
remained sporadic. Pius V’s ghetto for prostitutes of the late 1560s at the
Ortaccio did not last long as either structure or policy. That moment was the
reformists’ exception rather than the trend. The early sixteenth-century
celebrity of Rome’s honest courtesans had certainly waned, but in 1580 the
gentleman traveler Montaigne was still keen to admire and visit their kind.27
More generally, the historian of crime Peter Blastenbrei concluded that, for
two decades immediately post-Trent, Rome was de facto quite accommodating of
heterosexual irregularities and sometimes attracted couples seeking to escape
sharper discipline elsewhere.28 All told, by 1600, reform in the papal city had
subdued the Renaissance culture of f leshly pleasures, but effective
suppression of non-marital sex was scarcely true on the ground. The labyrinth
of Rome’s institutions and, especially, the mobile demography of its residents
consistently subverted the religious and moral aspirations of its leadership.29
The city’s population swelled, from 35,000, after the catastrophic Sack by
Hapsburg imperial troops, to around 100,000 in 1600.30 Few people were native
Romans. Visitors and migrants f lowed in—men and women, of all social ranks
from ambassadors and nobildonne to pilgrims, cattledrivers,and servants. Many
also left town. In a f luid residential geography, most people rented their
accommodations and often moved house. Although many households had a nuclear
core or its remnants, complete families were fewer than in many cities.31
Lodgers and informal clusters of housemates were common. People also changed
jobs frequently, and some worked in one part of the city but, regularly or
occasionally, ate and slept elsewhere. As a result, ordinary Romans had
repeatedly to renegotiate the personnel and terms of daily life. Furthermore,
Rome’s sharply skewed sex ratio yielded distinctive economic and marital
dynamics. The urban population counted, roughly, only 70 women for every 100
men. Celibate clerics were not the primary culprits. Many of the surplus men
came to the city to provide for the needs and comforts of a courtly society, by
serving in great households of prelates or secular lords or by supplying
goods.32 With males doing much of the domestic work and without a major textile
industry, the market for female labor in turn was weak. Of the many men, some
married in Rome to help establish themselves, but others had wives elsewhere,
or were young and not ready to settle down.33 Although some, nubile, women
found husbands readily, many others were left to improvise when fathers died or
spouses left town for shorter or longer absences. Typically, they struggled to
live piecemeal from laundry, spinning, and sewing. As in Venice, concubinage
was common. Prostitution, too, though never as rampant as some hysterical
reformers claimed, was another, potentally better paid recourse. Often
informally and intermittently, younger, more presentable or gregarious women
offered mixes of sexual, social, and domestic services to a shifting contingent
of unpartnered men, and to some husbands as well. As a concubine or prostitute,
a married woman faced legal jeopardy for adultery. When a husband did not, as
obligated, support his wife, she had to find alternatives. Sometimes, he had
wasted the dowry. Often, he had been long away, having intentionally or not
abandoned his wife. A woman, in turn, unknowing if her spouse had died, often
proceeded as if he had and set up new partnerships. In the absence of contrary
information, neighbors tended to presume legitimacy for couples who lived
appropriately, including taking the sacraments at church. Nevertheless, married
women living as prostitutes, concubines, or even bigamist wives were liable, if
denounced, to prosecution. The discipline and prosecution of adultery in early
modern Rome has left only erratic traces. No trial records survive from the
tribunal of the Vicario, who bore many of the city’s episcopal functions for
the pope. 34 As an offense of “mixti fori,” however, adultery sometimes came
before the criminal courts.35 Killing women for honor was rare, especially in
the city, and the ferocity of the ancient law had attenuated. Going to law,
though risking unwelcome publicity, became more common, even for noblemen.36 In
the 1580 edition of Rome’s Statuta, carnal and associated crimes occupied a
brief three pages and mostly specified due punishments.37 In practice, these penalties
were often negotiated down, so the statutory guidelines are interesting mostly
as a ref lection of judicial thinking and broader cultural values. This section
began with sodomy and a tersepronouncement of death by burning. Next, a longer
paragraph, De Adulterio e incestu, spoke first of “adultery with incest,”
before turning to “simple adultery.” For this last, punishments were calibrated
to the woman’s honesty and the man’s social rank. For sex with an “honest”
wife, a plebian man faced a hefty fine of 200 scudi and three years of exile. A
gentleman owed double the fine and the exile, and a baron triple. Notably, this
scale of penalties targeted the common circumstance of high-status men making
alliances with women of lower rank. On the other hand, the chance that even a
middling family would successfully haul a nobleman into court was slim.
Continuing, the statute declared that if the wife was poor and “inhonesta, but
not a public prostitute,” the penalties were halved.38 Reputation ( fama) in the
neighborhood legally determined a woman’s “honesty.”39 At the same time, where
early modern criminal law recognized that virgins might resist forcible def
loration (stupro), wives were still held complicit in adultery.40 Thus, every
proven adulteress was, in principle, to be sequestered for correction in a casa
pia for errant wives (malmaritate), where her husband or family paid her
expenses. From the later sixteenth century, adultery came before the Governor’s
court by two routes. By legal tradition, reiterated in the Statuta, sexual
crimes involving respectable women received public intervention only when
brought by a kinsman with honor at stake. Institutional justice, seeking to
promote itself and to tame the violence of self-help vendetta, encouraged this
recourse with some success. Thus, husbands initiated many of the Governor’s
adultery trials, although typically with a keen eye to retaining spousal
property.41 On occasion, angry women prosecuted their husbands for adultery. To
note, the Governor’s criminal court in general took seriously women’s
complaints, even without male backing. Their testimony as accused or witness,
usually recorded under the same intimidating circumstances as men’s, bore
analogous weight. Especially for offenders from the lower social ranks,
adultery also came to the court’s attention by an investigation ex offitio, on
the state’s initiative. Usually, a secret report by a mercenary spy or grouchy
neighbor launched the case, followed by a police raid.43 Such arrests were
often handled by summary justice that imposed a fine and issued an injunction
against further misconduct.44 A few cases led to full trials, and my stories
here of “simple adultery” are among them.45 Although these examples were not
formally typical, they involved ordinary people getting into relatively routine
kinds of trouble. Bodies and honor were at stake, but neither money nor
property were central for either husbands or wives. All the women had engaged
actually or potentially in sex with men of their own choosing outside the bonds
of marriage. From the tales of these willing adulteresses who ended up in
court, we can learn about a range of possibilities for extramarital adventures
and about the narratives and discourses that explained them and hoped to
extenuate culpability. These women, though several years married, were often
young. In other Governor’s court trials around f lawed marriages the wives
typically complained of mistreatment to justify their straying. In none of
these four stories, however, did that rhetoric appear. The husbands, when
theysuspected or learned what was afoot, were angry, but the trials were not
about ending a marriage. The lovers, themselves unmarried, were among the many
unattached men in Rome, and met the adulteresses through family and local
connections. Also telling are the ways that neighbors and colleagues took part,
both in the trysts and in their discovery and discipline. In my first two
adultery stories, unhappy husbands tried, more and less cannily, to corral
their wandering wives. For both, events transpired close to home. In the first
case, the spouses spoke of Tridentine teachings to repair a troubled marriage.
The pastoral discipline had failed to work, however, and the next time the
irate husband resorted to self-help, seriously beating his incorrigible wife.
The domestic violence brought the problem to public notice. In the second
story, the husband confronted his wife with her misconduct reported by
neighbors. When she faced down his efforts at proper spousal correction and
still continued to roam, the husband turned for help to the ecclesiastical and
public authorities. They, in time, intervened, but notably declined to rush
into a private matter without good cause. The first tale provocatively mixed
elements of Boccaccio with Catholic reform teaching to the laity. A very short
trial from May 1593 recounted adultery trouble that exploded within the cramped
premises of a fruit and vegetable seller in central Rome.46 After the
beleaguered husband, Hieronimo, had resorted to self-help, the resulting
domestic violence led an unnamed informant to alert the police. In this
instance, probably because the wife, Caterina, lay injured, instead of
collecting testimony at the prison, the notary first hurried to the respectable
shopkeeper’s premises to interview both spouses. Husband and wife testified
immediately in the heat of events and again, later, in jail. The would-be
lover, the shop assistant Leonardo, nimbly decamped before the law arrived. As
was common for many city dwellers, Hieronimo Ursini from Milan kept shop on the
street f loor and lived upstairs with his wife, Caterina, but evidently had no
children. Two garzoni (shop assistants) slept in an adjacent room. The
fruitseller had good reason to suspect his young wife. By his account,
Caterina, whom he spied often f lirting in the window “with this one and that
one,” had repeatedly tried his patience. Worse, he once had caught her at her
mother’s house, “almost in the act” of having sex with a tavern keeper.
Nevertheless, Hieronimo averred piously, “I forgave her, and she promised to do
no more wrong, and we confessed together to the parish priest and took
communion, and I took her back and led her home, pardoning everything and
keeping her always as well as possible” (ff. 1125r–v). Portraying himself as a
pious and forgiving husband, Hieronimo sought to meliorate the court’s view of
his later, less irenic, behavior. The testimony, which likely was approximately
true, shows us a man of modest status deftly invoking good Catholic teaching.
Caterina in turn confessed, “Truly, I did wrong (torto) to do what I did to my
husband, because I once fell into error (errore) at my mother’s house, where I
had sex with Giovanni Angelo the tavern keeper, and even so, my husband forgave
me and took meback into the house” (ff. 1128r–v). Here she acknowledged not
only Hieronimo’s forbearance, but also her own inclinations to illicit
pleasure. Hieronimo’s jealousy thus primed, on a May morning he climbed early
out of the bed that he shared with his f lirtatious wife. According to his
testimony, he intended to go to a garden on the edge of the city to cut
artichokes for the shop. He tried to rouse his two garzoni who were sleeping in
another room. One got up, but Leonardo, also from Milan, claimed to be sick and
would not rise. Suspecting the lay-a-bed of setting a “trap,” Hieronimo sent
the other assistant out to collect the produce, but he himself slipped into the
shop and hid behind a barrel. After a while, Leonardo entered the shop,
“sighing,” according to the hidden Hieronimo, “an amorous sigh.” A few minutes
later, Caterina appeared, asking where her husband was. “Gone to cut
artichokes,” replied Leonardo. Immediately, said Hieronimo, Caterina began to
adjust the garzone’s ruff ( fare le lattughe), and quickly the two became
playful and kissed each other. The husband, seeing that “Leonardo wanted to
lift her skirts and do his thing ( fare il fatto suo),” burst out of hiding
shouting, “Oh traitor, oh traitor, you do this to me!” Seeing his master thus
enraged, Leonardo, expediently, slipped out the shop door and disappeared from
the story. Caterina retreated hastily up the stairs, and Hieronimo surged
after, beating her with a broomhandle, a domestic weapon of choice for women as
well as men, with his fists, and with his belt. So incensed was he that he
pinned her down with his knees on her belly and then on her shoulders, while
hauling on her braids, so that he left her “as if dead,” swollen, bloody, and
with bruises “blacker that your Lordship’s hat”. Hieronimo volunteered all
these details, and one suspects that he may have shocked even himself with his
ferocity. Caterina’s tale of the putative adultery and its sorry aftermath
provides another perspective. Not surprisingly, she presented herself as
aggrieved and “mistreated.” Nevertheless, she reported a similar account
leading to the f lirtatious exchange with Leonardo. Her husband, having left
early without a word, she rose two hours later. Going into the next room,
Caterina rousted Leonardo to get up and open the shop, while she swept. When
she went down for a basket to hold the sweepings, she found Leonardo, wrestling
with a pair of sleeves. He asked for help in attaching them, and the two began
laughing as they struggled with the laces. Just then, Hieronimo sprang out and
began to assault his wife. Confirming Hieronimo’s confessed details and adding
blows with the head of a hatchet, Caterina claimed that he wanted to kill her.
But, “please God,” he had not (f. 1125v). Later, pressured by the court at a
second interrogation, the wife admitted to some greater provocation of her
husband. In this version, as she came into the shop, Leonardo asked that she
help lace his sleeves and moaned about not feeling well. She joked that he was
not going to die, and they began to play so that, as in Hieronimo’s account,
the garzone had kissed her “lustfully (lusuriosamente)” on the cheek and she
responded in kind. Though more theatrical than some tales, this domestic drama
had several points in common with other neighborhood adulteries. First, illicit
relationssprouted very close to home. These were the settings—through work and
domestic propinquity—in which wives were likely to meet other men. Perhaps
surprisingly to us, these were also the spaces in which adultery—its
initiations and often its consummations—took place. People understood the risks
and costs of getting caught; at the same time, privacy, such as we imagine it,
was simply not a reality for most people. While married, Caterina had practiced
serious f lirtations first in her mother’s house and then in her husband’s,
with one of their live-in employees. Even if no real sex had transpired with
Leonardo, Caterina saw the wrongful pattern of her conduct. She evidently
enjoyed the play and appreciation of her guilty encounters, but she gave little
sign of personal feelings for her lovers. In contrast, there does seem to have
been some commitment, however f lawed on both sides, between the spouses. While
we may doubt that Caterina changed her ways, she did express a sense of
responsibility and a belief that she should make peace with her husband. The
brevity of the trial suggests that the magistrate was content to dispatch the
matter quietly. Both spouses had to answer for their transgressions— Caterina’s
sexual misconduct and Hieronimo’s excessive correction.47 The second story of
adultery is the only one of the four where the husband himself brought his
private troubles to the authorities.48 For more than six months, Bartolomeo
from Genoa, alerted by friends, investigated suspicions and then sought to
correct his errant wife, Isabetta from Rome. He had tried several times in
previous months to enlist the help of the Vicario’s ecclesiastical tribunal,
but in vain. Recently, however, he had procured a warrant, probably from the
Governor’s court (ff. 832r–v, 834r). So, a police patrol met Bartolomeo outside
the building where the lovers had been seen and at his direction made arrests
that led to the trial.49 Events took place in a shared neighborhood and within
a community of workers, several of whom testified. In this slightly larger, but
still face-to-face social terrain, friends and neighbors, notably men this
time, had a crucial role in managing their comrade’s disarray. On Saturday,
October 22, 1604, right after the arrests, Bartolomeo, coachman to a Monsignor
Dandini, complained formally against his wife and Francesco Cappelli from
Florence (ff. 831r–v). Bartolomeo had married Isabetta six years earlier;
although native Roman women were few, they often married men from outside who
sought to establish themselves in the capital. It was a second marriage for
Isabetta, who had a grown stepson and a son who lived together in another
neighborhood (f. 840v). Bartolomeo lived with Isabetta and their young son near
San Pantaleone in the city center. The accused lover, a twelve-year resident of
Rome who served as coachman to another churchman, the Archbishop of Monreale,
worked from a stable nearby. Bartolomeo’s complaint charged Isabetta with
spending “unusually much ( piu dell’ordinario)” time with Francesco. According
to reports from several men, including a third coachman, while Bartolomeo lay
on his sick bed, Isabetta came and went late in the evening from the stables
where Francesco worked. Once healthy again, Bartolomeo berated his wife for her
visits and threatened her with arrest and public whipping (f. 831r). She,
however, denied all charges and challenged her husband to do his
worst(f. 831v). Nevertheless, Bartolomeo asked his friends to spy on her
movements (ff. 833v–834r). One morning Bartolomeo’s nephew brought word
that Isabetta had been spotted a few streets away going with Francesco into the
Palazzo de Picchi. Bartolomeo sent a messenger to alert the city police. When
they arrived, Bartolomeo told them to arrest Francesco, then descending the
stairs. The husband entered the building, collected Isabetta, and sent her,
too, off to jail (f. 831v). Note that the Governor’s police were willing to
act, but left it to the respectable husband to hand over his wife. After the
arrests, neighbors and colleagues testified to having seen Francesco and
Isabetta often together over many months and hearing talk in the piazza of
their being lovers. One man observed her three or four times in the last month
taking advantage of walking her son to school to stop to talk with Francesco in
the courtyard of the Massimi family palace (f. 837v). Another neighbor,
Alfonso, intervened directly. Because, he said, Isabetta was his commare, his
spiritual kinswoman, he had invited her a month earlier to his house. There,
with his own wife present, Alfonso told the wayward Isabetta of the rumors that
she was in love (inamorata) with Francesco and having sex with him. Alfonso
urged to her to smarten up (stesse in cervello) and amend her ways, because her
husband knew and had a warrant to send her to jail, and because it dishonored
Alfonso himself, who had helped marry her so respectably. In their early
testimonies, the lovers took different tacks. The unattached Francesco
downplayed the whole business. He acknowledged, as did Isabetta, that they had
known each other in the neighborhood for three or four years. Yet Francesco
dismissed her presence in his room or any adulterous reasons for it, “I cannot
know the heart of that woman or why she came up” (f. 835v). Isabetta, pressed
hard through several interrogations, tried ineffectually to parry the court’s
questions. She garbed herself conventionally as a dutiful housewife who minded
her own business and seldom went out: “I have to keep working if I want to
live” (f. 841r). Accordingly, she implausibly denied knowing local geography;
then, insisting that she had never set foot in the stables, she fudged the
meanings of being “inside” a place (f. 839r). She invoked her own good name,
though in an elaborately conditional mode: “What do you imagine, your Lordship,
if I had gone out while my husband was sick, that would have been a fine honor
from me” (f. 839v). Blaming her neighbors for their spiteful testimony, she
invoked the chronic enmities of local life: “what fine witnesses are these?
this is how they repay the courtesies and good will that I have used with them”
(f. 843r). Later, however, she backtracked on some of these claims with a
pathetic tale of going out at night to fetch some greens to feed the ailing
Bartolomeo. Passing by the stable’s open door, she said, Francesco had called
out to her, “‘how is your husband?’ I, in tears, answered that the doctor
offered little hope, and then Francesco responded, ‘look, if you need anything,
be it money or anything else, just ask’” (ff. 843r–v). Spun this way, the
errant wife’s visit to the stable got folded into a stirring picture of her
desperate efforts to help her husband and of the fellow coachman’s sympathetic
offer of aid.Near the end of the trial, the accused lovers, confronted with
repeated testimony to their private meetings at the stable and in the palazzo,
were pushed to address the presumption that they met for sex. As a judge said
in another trial, “solus con sola, one does not presume they are saying the
paternoster.”50 When pressed, Francesco exclaimed, “Your Lordship, I will take
100,000 oaths that I had no carnal doings with Isabetta!” He continued, “I can
show your Lordship that only with great difficulty can I go with women, and
when I do, it is rarely and to my great injury (danno), because four ribs got
cut by a Turkish scimitar when I served as a soldier on the galleys of the
Grand Duke” of Tuscany (f. 849v). Here we have detail so baroque that we may
have to believe it. Francesco aimed to suggest, with timeless logic, that his
encounters with Isabetta were not, actually, sex. Whatever it was, however, he
feared culpability and had tried, with various moves, to def lect it.
Interestingly, Isabetta’s final remarks also denied a sexual relationship by
alluding to Francesco’s behavior. In her words, “if he were as proper (netto)
with other women as he is with me, he would never have had sex with any woman.”
Then, reaffirming her veracity, she concluded with a shift to a rhetoric of
intention and sin, “If I had done wrong (errore) and if Francesco had sex with
me, I would say so freely and ask for forgiveness, but because I did not do it,
I cannot say I did” (ff. 850v–851r). Much more was at stake for Isabetta than
for her lover. Knowing well that, in sneaking around while her husband was ill,
she had erred in the eyes of her peers, she did not counter Bartolomeo’s
charges with complaints of mistreatment. Yet she stood on her word that she
could not confess a lie. There the trial record ended with the usual legal
instruction that both accused parties be released into the jail’s public rooms
(ad largam) with three days to prepare a defense. Accumulated circumstantial
evidence, rather than catching lovers in the sexual act, was sufficient for
neighbors and, in turn, their publica vox et fama attesting to the offense had
weight in court. Nevertheless, perhaps fearing retaliation, people appear not
to have turned each other in too quickly. Once an adulterous coupling became
common, local knowledge, a friend or associate might assay an informal warning
to wife, husband, or lover. Consensus likely deemed these matters family
business, better handled privately and with minimal scandal. In this case,
Bernardino not only chose official help, but had to persist to get it. In two
other stories private adultery and its public prosecution unfolded in different
circumstances. Here the adulteresses took advantage of wider urban terrains
when pursuing their romantic yearnings. The husbands, although present in the city,
were not principal players in bringing the cases to court. Neighbors, on the
other hand, took active part, facilitating the alliances or tolerating them for
some time, until a moment arrived when someone alerted the authorities. These
times, when the police raided an illicit rendezvous, they acted ex offitio, on
the newer legal premise that the court could intervene directly, without a
kinsman’s request, to ensure order among the city’s lower-status residents. In
a third episode of simple adultery, prosecuted in January 1605, the husband,
Giovanni Domenico, was in fact the last to know. The short trial consists of
apolice report and testimonies from several neighborhood witnesses.51 Neither
wife nor lover spoke on record, but procedural annotations at the document’s
end register their choice not to challenge any of the witnesses. Most likely,
the adulterers accepted a summary decision that ordered them to pay fines and
agree formally not to consort any more. Giovanni Domenico di Mattei from
Lombardy and his wife, Madalena, lived on the Tiber Island with their two young
children and an orphan boy whom they kept “for the love of God” (f. 145v).
Husband and wife shared a business selling doughnuts from their home. Giovanni
Domenico also commuted daily across the city to Piazza Capranica to work as an
assistant to a doughnut-maker (ciambellaro) (f. 145r). The job required his
being away overnight, but every morning he returned to his family quarters,
evidently bringing pastries to sell. One Wednesday morning, Giovanni Domenico
came home to find that Madalena had been arrested, along with Pietro Gallo from
Parma, a twenty-five-year-old barber’s garzone who lived two doors down the
street (ff. 144r, 145v). According to the official report, a neighbor’s
denunciation had informed the authorities that “every night after four hours
(10 p.m.) Pietro habitually goes to sleep with Madalena” (f. 143r). Receiving
word again last night that the barber was there, the police raided the house
late on a chilly January evening. With professional savvy, the lieutenant
posted men to watch the exits before knocking on Madalena’s door, which she
opened after a few minutes’ delay. While a search inside found no man, a loud
noise overhead alerted the police to visit the roof, but in vain. They did soon
discover the barber in his nightshirt in his own bed, where he protested that
he had been checking the premises above on behalf of his absent landlord.
Unconvinced, the police led the two lovers off to jail (ff. 143v–145r). When
Giovanni Domenico came home to the unpleasant surprise of his wife’s arrest, he
learned that Pietro the barber, carrying a sword (a further offense), had been
in the house at night with Madalena. The cuckolded husband went immediately to
make a formal complaint and to demand, according to the protocol, the severest
punishments for Pietro, Madalena, and anyone with a part in “leading him to
her” (ff. 145r–v). The young orphan, Giovanni Santi, nicknamed Scimiotto
(Little Monkey), also testified then under his master’s auspices. The boy
explained that, during the four months that he had lived in the household,
Madalena had many times sent him to invite the barber to eat, and that, when
Giovanni Domenico was away, Pietro stayed to sleep. He shared the bed with
Madalena and the two children, while the young witness slept on the f loor in
the same room. The lover usually entered through the door, but sometimes
through a window belonging to a laundress (ff. 146r–v). During her husband’s
nightly absences and in plain view of the neighbors, Madalena had carried on
adulterously with, like the other women, a young, unmarried man who lived
nearby. The affair (amicizia) had been going on for as much as two years,
according to gossip in the local wineshop (f. 148v). A hatmaker who lived in
the house between the two lovers had for six months heardlocal “murmuring” that
Pietro was having sex (negotiava) with Madalena. In passing back and forth, the
neighbor had many times seen the barber in her house, their “talking and
laughing together publicly . . . sometimes in the morning,
sometimes after eating, sometimes toward evening” (f. 147r). Often, said the
hatmaker, other men also hung out convivially at the shop, eating doughnuts,
or, in season, roasted chestnuts (f. 148v). Giovanni Domenico must have been
around sometimes when such sociability, presumably good for business, took
place. Yet, about a month before the arrests, the hatmaker saw fit one day in
his shop to warn the young barber: “the people of Trastevere say you’re having
sex with the doughnut-maker’s wife; if you don’t straighten up, you’ll go to
jail.” When Pietro denied it, the hatmaker replied that it was not his
business, but that the barber had better mind his (f. 147r). Cesare the tavern
keeper had also challenged Pietro. Several weeks ago, Cesare had gone to
Madalena’s to borrow matches and found her eating with the barber and another
man. Seeing the tavern keeper, Pietro had slipped away to hide. Later that day,
Madalena’s small son came to Cesare’s house to get a light. Jokingly, he asked
the boy: “who was sleeping with your mother last night?” (f. 148r). Later
still, Pietro stormed into the tavern and began to threaten the host, saying
that he should take care of his own house and not speak of others, or that he
would get his head stove in. Cesare, figuring out how his words had passed from
the child to his mother and to Pietro, protested that he had only spoken in
jest (f. 148r). Although propinquity and opportunity during Giovanni Domenico’s
regular absences clearly favored the liaison, we must guess at what drew these
two lovers together. The unmarried barber could readily have found sex and even
a quasi-domestic companionship elsewhere among the city’s prostitutes. The
illicit pair seemed to enjoy each other’s company, alone together and also in
groups. In Rome where many men were on their own, taking meals in others’
houses, sometimes in return for a contribution in food or money, was not
unusual. Pietro’s sleeping over, especially when he lived so close by, was less
acceptable. Interestingly, though, no one called Madalena a whore or said that
she was in it for money. This suggests that there was something companionable
about the connection, and that may have colored local reactions, at least
initially. Some shift of neighborhood opinion in recent weeks, however, had led
the hatmaker to confront Pietro and the tavern keeper to make his tactless joke
to Madalena’s son. How, then, did the cuckolded husband not suspect? Seemingly,
none of the neighbors said anything to him. At least, when he came home to
discover the arrests, he hastily adopted a posture of righteous ignorance and
mustered shreds of domestic mastery by adding his complaint to the magistrate’s
file. Nevertheless, given local practices, the marriage probably muddled on.
The fourth case shows a different pattern of adulterous assignation.52 The
lovers had been acquainted through family connections for several years. The
older married woman, infatuated with a younger man, a cloth dealer, organized
their sexual trysts. Completely absent from the trial, the cuckolded husband
figured only as an angry specter in his wife’s mind. Here again, a neighbor’s
denunciationlaunched the official investigation. Testimonies from the two
lovers and from several women neighbors arrested with them confirmed and
extended the police report. On Saturday, March 23, 1602, in mid-afternoon, a
police patrol raided a modest upstairs room in the Vicolo Lancelotti near the
Tiber river. According to their lieutenant, an unnamed local informant reported
that a married woman had been meeting a lover there on Saturdays for some
months. The lodging belonged to Filippa from Romagna, a weaver and the wife of
Hieronimo Morini, though evidently alone in Rome (f. 1220r). Two other women on
their own, including Filippa’s commare Marcella, also shared the staircase. On
Saturday, hearing men barge into the building, the weaver was able to warn the
lovers, so that the police arrived to find the pair, both fully clothed, the
man sitting on the bed and the woman standing beside him. But when the man
rose, lifting his cloak from the bed, the lieutenant spotted a “shape” ( forma)
betraying the couple’s activity (f. 1219r). The woman, Livia, was known to all
present as the wife of Pietropaolo Panicarolo, a carpenter from Milan (f.
1224v). Confronted by the police, she threw herself tearfully on her knees and
begged not to be taken to prison, because “this is the time” that her husband
would kill her. The man, Marino Marcutio from Gubbio, took an officer aside, saying
“I am a merchant” and offering money or whatever he wanted in order to let them
go, the woman in particular (ff. 1219r–v). But the righteous policeman refused
the bribe, bound the pair, and sent them to jail. The adultery’s backstory
emerged from the interrogations. Livia testified that she had been married for
twenty-six years, although she likely included a brief first marriage
contracted when she was very young (ff. 1225r–v). That husband had died before
she was old enough to go live with him, and probably she had been wed soon
again to Pietropaolo. In any case, in 1602 Livia must have been at least
thirty-five and maybe older. She lived with her husband, but, like Caterina and
Hieronimo in the first story, they had no children. Besides Livia’s fear of
Pietropaolo’s violence should he discover the adultery, we know nothing of
their relationship. As in the third case, the geography in this one spread out
across the center of the city. Livia lived currently not far from the Trevi
Fountain and was accustomed to moving good distances around the city on her own
(f. 1221v). Marino, a younger man, kept shop across town on a corner where the
street of the Chiavari met the Piazza Giudea (f. 1220v). Livia had come to know
Marino eight years before in her own home, where she nursed his seriously ill
cousin, who later died (ff. 1227r, 1229r). Marino had also shared recreation
and games with her husband, Pietropaolo, and the merchant’s parents had more
recently lodged in the carpenter’s quarters during the Holy Year of 1600 (f.
1229r). Through these domestic encounters, Livia had fallen in love with Marino
and had long strategized to meet him discreetly for sex. Livia had known
Filippa for two years, during which time the weaver, who worked on a loom in
her room, had made three cloths for the more aff luent carpenter’s wife (f.
1221r). Filippa had visitedLivia’s house to collect yarn for the loom and to
deliver finished cloth, and Livia had called in the Vicolo Lancelotti, although
it was a good way from her home. So, bumping into Filippa at various spots
around town, Livia importuned her repeatedly for the use of her room to meet
Marino (f. 1221v). Though reluctant, Filippa eventually gave in to the woman
who gave her work. At risk of being charged as a go-between, the weaver said
she had refused any compensation, but Livia said that she had given Filippa
five giulii for the two recent assignations (f. 1227v). In Livia’s own
words, she had loved and been in love (inamorata) with Marino for years, and
her infatuation had propelled her to arrange a series of private encounters
“not having opportunity to enjoy him ( goderlo) in my house out of respect for
my husband” (f. 1225r). Livia and Marino both acknowledged having met privately
a number of times at Filippa’s room, and twice in the last week that was the
focus of the investigation. On the Monday before the arrests, the pair had had
a rendezvous at Filippa’s house. Duly chaperoned by a nephew, who left
immediately, Livia arrived first after the midday meal and joined the weaver in
her room. Marino appeared about a half hour later, bringing some collars for
starching as a standard cover story for his presence. After chatting brief ly,
Filippa withdrew and left the pair alone. Sometimes, the door was open during
the couple’s visits, but on this, as on another, occasion they had been locked
inside for about an hour (f. 1221r). When later the policeman asked Filippa
what the couple had been doing, she replied, “you know very well that when a
man and a woman are together, it is not licit to see what they are doing” (f.
1219v). Although all the women witnesses echoed the sentiment that Livia was in
love, it was not clear whether, when the couple next met on Saturday, they had
sex. Livia was angry with Marino, because she thought that he was chasing
another woman, and they had had words. She also insisted with dubious piety,
“on Saturday I don’t commit sin, not even with my husband (il sabbato non fo il
peccato, ne anco con mio marito)” (ff.1221r, 1225r). Although during the arrests
Marino had tried to protect Livia, under interrogation his story aimed first to
exonerate himself. He acknowledged that he had met Livia once before Christmas,
twice before Carnival, and another two times during Lent, but, he insisted,
only to talk. Making the implausible claim that he only sought the carpenter’s
wife’s help in order to secure a “simple benefice” for his brother who was a
student, he denied sex altogether (f. 1229v). Describing their emotional bond,
he notably cast the feelings in terms of Livia’s warmth toward him, “she is a
friend to me and loving because she has helped me (mi e amica et amorevole
perche mi ha fatto de servitii ),” referring to her nursing his mother and
cousin (ff. 1231v–1232r).53 To dislodge the lovers’ conf licting testimony and
to convict Marino, the court proceeded to torture the adulteress in front of
the merchant (f. 1234r–v). Using the lighter instruments of the sibille that
compressed the hands, this formal act of judicial stagecraft intended, as in
Artemisia Gentileschi’s case, to authorize the claims of the sexually
compromised woman.54 The tactic failed, nonetheless, to elicit a change in
Marino’s testimony that denied any sex, or touch, or kisses,or even hearing
that Livia was in love with him. The judge probably did not believe Marino, but
legally his respectability and his adamancy held good weight. Livia’s unknown
fate, on the other hand, would have lain in part with her invisible husband. If
less dramatic than high culture’s renderings of adultery, adorned by the heft
of law, familiar biblical tropes, and colorful narrative in paint and words,
these everyday stories of wives seeking illicit moments of love and fun have
their own art and pathos. For example, there is the coachman Francesco’s
alleged sexual impairment due to a Turkish scimitar injury. Or the hardworking
doughnut guy cuckolded by the young barber. Or Filippa the poor weaver, who got
into trouble because her friend and employer Livia wore down her resistance to
playing hostess to a sexual rendezvous. Paradoxically perhaps, the criminal
court’s address to transgression here tells us more about what really happened,
and what happened to most people some of the time than the great dramas of high
art. Despite reformers’ efforts to discipline marriage and sex, a customary
culture that tolerated various forms of heterosexual error persisted in Rome
long after Trent. In these four cases, only one husband sought the court’s
help. In the others, neighborhood informants alerted the authorities to a public
disorder, but only after an adulterous liaison had been known in their midst
for some time. While the Governor’s court prosecuted lovers as well as errant
wives, the women usually had more to lose, but also perhaps to gain. Even if
unwise, some married women broke the rules and went looking for love. What they
found was usually close to home so that their adventures took place under the
eyes of a local community. These neighbors knew often well before the law got
involved and responded in diverse ways. Adultery posed a social problem that
demanded a solution, sooner or later. Although the law had its own ambitions,
in these sorts of everyday misdeeds justice did not intervene with a
devastating external discipline.Notes 1 Cristellon, “Public Display,” 182–85,
summarizes Italian legal and customary views of adultery. 2 Clarus, Opera
omnia, 51b. 3 Besides essays in Matthews-Grieco, ed., Erotic Cultures, see
Bayer, ed., Art and Love, including essays by Musacchio (29–41) and Grantham
Turner (178–84). 4 Ajmer-Wollheim, “‘The Spirit is Ready’” 5 McClure, Parlour
Games, 36–38. 6 Esposito, “Donna e fama,” 97–98, states this standard view. 7
Cussen, “Matters of Honour,” 61–67. 8 Lev, The Tigress of Forlì, 3–20. 9
Musacchio, “Adultery, Cuckoldry,” 11–34; on Piero’s death 17–18. 10 On
wife-killing by nobleman Carlo Gesualdo in Naples, 1590, see Ober, “Murders,
Madrigals”; on Vittoria Savelli in the Roman hinterland, 1563, see Cohen, Love
and Death, 15–42. Killings of noble wives not caught in flagrante delictu often
had motives linked to claims on property or power rather jealous rage. 11 Esposito, “Donne e fama,” 47 48 49Elizabeth S. CohenGal, Boudet, and
Moulinier-Brogi, eds., Vedrai mirabilia, 241. Kaborycha, ed., A Corresponding
Renaissance, 172 + n. 19. Gal, Boudet, and Moulinier-Brogi, Vedrai mirabilia,
251. Examples include: Titian (1510); Rocco Marconi (1525); Palma il Vecchio
(1525–28); Lorenzo Lotto (1528); Tintoretto (1545–48); Alessandro Allori
(1577). Alberti, “‘Divine
Cuckolds.’” Rice, “The Cuckoldries.” Boccaccio, Decameron. For example, Day 3,
Story 3; Day 7, Story 2. For example, Day 3, Story 2; Day 4, Story 2. Ibid.,
241–46. My translation of the quote. Ibid., 500–01. Cristellon, Marriage, the
Church, 14–19, 159–90. For French parallels, see Mazo Karras, Unmarriages,
165–208. Ferraro, Marriage Wars also includes cases in secular courts, where
issues of property, often pursued by husbands, have greater visibility; yet
women brought many more suits than men, 29–30. In the complaints, adultery was
generally subordinate to other concerns, 71. Cristellon, “Public Display,” 175–76, 180–85,
Scaduto, ed. Registi dei bandi, vol. 1 (anni 1234–1605), passim. Storey, Carnal Commerce,
108-14, 242–43. Blastenbrei, Kriminalität im Rom, 274–75. Cohen and Cohen,
“Justice and Crime.” Sonnino,
“Population,” 50–70. Da Molin, Famiglia, 93–95. Sonnino, “Population,” 62–64.
See also, Nussdorfer, “Masculine Hierarchies.” Da Molin, Famiglia, 243. The unexplained disappearance
of Vicariato tribunal records precludes Roman comparisons with Venice.
Marchisello, “‘Alieni,’” 133–83. See also in the same volume, Esposito,
“Adulterio.” Blastenbrei, Kriminalität im Rom, 273, n. 160. Statuta almae urbis
Romae, 108–09, for what follows. Forcibly
abducting prostitutes was a crime. Ibid., 109. Esposito, “Donna e fama,” 89–90.
Marchisello, “Alieni,” 137, 166–68; Esposito, “Adulterio,” 26–27. Alternatively, the legal
narrative for the charge of sviamento, leading astray, shifted more blame onto
the lover. For example, Archivio di Stato di Roma,
Governatore, Tribunale criminale (hereafter ASR GTC), Processi, xvi secolo,
busta 256 (1592), ff. 540r–62; see also, Blastenbrei, Kriminalität im Rom, 272,
275. For example, ASR
GTC, Processi, xvii secolo, busta 25, ff. 17r–26v; (1603); busta 91, ff.
1153r–1159r (1610). In parallel, the Statuta almae urbis Romae, 110, declared
that men keeping concubines were liable for fines of 50 scudi. Counts based on
small numbers of surviving records do not reflect behaviour or even patterns of
prosecution. Nevertheless, it may be useful to note that this type of “simple
adulteries” represent about a quarter of the adultery prosecutions between 1590
and 1610. ASR GTC, Processi, xvi secolo, busta 270, ff. 1124r–1128v. References
to specific folios appear in parentheses in text. The trial record ended with
the usual note that those charged had three days to prepare their formal
defense. I have found no record of a judgment, but it is likely that the couple
were fined. ASR GTC, Processi, xvii secolo, busta 37, ff. 830r–851r. The charge
preteso adulterio (appearance of adultery) carried a lesser burden of
proof.Adulteresses in Catholic Reformation Rome50 51 52 53ASR GTC, Processi,
xvii secolo, busta 36, f. 63v. ASR
GTC, Processi, xvii secolo, busta 44, ff. 142r–149r. ASR GTC, Processi, xvii
secolo, busta 17, ff. 1218r–1238r. The range of colloquial meanings for “amica” and
“amorevole” was broad. Here Marino used these words to indicate friendship and
affiliation, rather than romantic or sexual alliance. 54 Cohen, “Trials of Artemisia Gentileschi,” Archival
sources Archivio di Stato di Roma, Governatore, Tribunale Criminale Processi,
xvi secolo, busta 256 (1592) Processi, xvi secolo, busta 270 (1593) Processi,
xvii secolo, busta 17 (1602) Processi, xvii secolo, busta 25 (1603) Processi,
xvii secolo, busta 36 (1604) Processi, xvii secolo, busta 37 (1604) Processi,
xvii secolo, busta 44 (1605) Processi, xvii secolo, busta 91 (1610)Published
sources Ajmer-Wollheim, Marta. “‘The Spirit is Ready, But the Flesh is Tired’: Erotic Objects and
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Edited by Sara Matthews-Grieco, 145–51. Farnham: Ashgate, 2010. Alberti,
Francesca “‘Divine Cuckolds’: Joseph and Vulcan in Renaissance Art and
Literature.” In Cuckoldry, Impotence and Adultery. Edited by Sara
Matthews-Grieco, 149–82. Farnham: Ashgate, 2014. Bayer, Andrea, ed. Art and
Love in Renaissance Italy. New Haven, CT: Yale University Press, 2008.
Blastenbrei, Peter. Kriminalität im Rom, 1560–1585. Tübingen: Max Niemeyer
Verlag, 1995. Boccaccio, Giovanni. Decameron. Translated by G.H. McWilliam.
Harmondsworth: Penguin, 1972. Clarus,
Julius. Opera omnia sive pratica civilis atque criminalis. Vol. 5. Venice: 1614. Cohen,
Elizabeth S. “Trials of Artemisia Gentileschi: A Rape as History.” Sixteenth
Century Journal and Thomas V. Cohen. “Justice and Crime.” In Companion to Early
Modern Rome. Edited by Pamela Jones, Simon Ditchfield, and Barbara Wisch. Leiden:
Brill, 2018 Cohen, Thomas V. Love and Death in Renaissance Italy. Chicago:
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2017. Originally published as La carità e l’eros. Bologna: Il Mulino, Public
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Council of Trent” In Erotic Cultures of Renaissance Italy. Edited by Sara
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Carnal Commerce in Counter-Reformation Rome. Cambridge: Cambridge. Two Capuchin friars sent by a
papal nuncio finished their investigation regarding whether abbess Benedetta
Carlini was a valid mystic. An earlier, local study drawn up for Pescia’s
provost in 1619 had been amenable to her claims. In July 1620, she became the
first abbess of the newly enclosed convent, a prestigious appointment that
suggests belief in her story. Yet Benedetta’s authority within the nunnery was
not universally accepted and she lost the support of the civic establishment,
leading to the new investigation by more distanced authorities. They decided
that she had been deceived by the devil because, according to evidence from
disaffected nuns, signs such as her stigmata were faked. New evidence also
included the testimony of the abbess’ assistant, Bartolomea Crivelli (often
called Mea), who unexpectedly told the men, in explicit detail, about sexual
relations between the two women. Most scholars were similarly surprised when
Judith Brown published the supposedly “unique” case in 1986, in Immodest Acts:
The Life of a Lesbian Nun.1 Responses were varied, the lengthiest being Rudolph
Bell’s evaluation in 1987, which argued that the nuncio was already determined
to silence Benedetta and that her subsequent lengthy imprisonment in the
convent was imposed by the nuns rather than external authorities, a claim
refuted by Brown.2 The details of the internal, civic, and ecclesiastical power
plays cannot be definitively known, but the sexual dynamics are clear. Over
thirty years later, it is time to reconsider this case, neither adhering to a
modernist notion of strict sexual identity nor relegating Benedetta and Mea to
the margins. In keeping with Konrad Eisenbichler’s ability to draw out erotic
implications from literary and archival evidence, this essay respects the
reality of the women’s intimacy and examines textual and visual materials in
order to situate them in their spiritual and sensual context. This case offers
specific details and terminology for what might be called corporeal
spirituality, the unequivocal coexistence of amorous language, sexual deeds,
pious rhetoric, and religious faith.3Since Benedetta’s visions entailed
visitations from Christ, whom she married in a public ceremony, and messages
from angels such as Splenditello, in whose voice she often spoke, Brown claimed
the two nuns were engaged in a heterosexualized affair: The only sexual
relations she seemed to recognize were those between men and women. Her male
identity consequently allowed her to have sexual and emotional relations that
she could not conceive between women. . . . In this double role of
male and of angel, Benedetta absolved herself from sin and accepted her
society’s sexual definitions of gender.4 Brown’s judgment associates male sex
with masculine gender, and in turn a presumed dichotomy between the two women
is seamlessly laminated onto their sex acts. However, this does not accord with
either the women’s physical actions, or with possibilities engendered by the
sensual spirituality of premodern Catholicism. The souls and f lesh of nuns
were not as neatly divided as a later, secular view imagines. Despite the
Foucauldian point that discourses of repression can generate the very thing
they seek to silence, the presumption of religious “purity” and feminized
innocence has hardly disappeared. Benedetta’s case remains nearly ignored in
studies of European religion or is cited brief ly with no new interpretation.5
It is seen as an aberration on two counts: she was a nun with a sex
life—considered an oxymoron—and her sexual activity was with another
woman—thought to be impossible in her time and setting. Documented cases of
nuns having sex with clergy or secular men, as well as anti-clerical, fictional
stories about such conjunctions, are taken as ordinary, natural, feminine acts
by women who were supposedly frustrated in an entirely earthly way.6 But
Benedetta, it seems, must be a “unique” case, even “bizarre,” who assumed a
male guise and cannot be assimilated into religious history.7 My point here is
to remove her from the interdependent frameworks of deviance and
heterosexuality, and to reintegrate her into a religious context. Benedetta
literally acted out what was usually a world of visual and imaginary culture.
Here I try to reconstruct a premodern nun’s agency and the imagination of
religious women, who were not necessarily repressed victims with no recoverable
history of any import. Nunneries were loci of social and economic power,
particular inhabitants inf luenced secular women and male authority figures
ranging from fathers to confessors, and some women like Benedetta negotiated
rich emotive lives for themselves. We tend to think of nuns as women restricted
by institutional confines and discourses that denied them their bodies, but
Benedetta’s story urges us to examine the materiality of passion, of art, and
of past lives. Only the report of the Capuchins told of Benedetta’s sexual
transgressions— f lirting with two male priests as well as “immodest acts” with
a woman—and only at the end of its account.8 The inquiry concluded that her
visions andecstasies were “demonic illusions.”9 Along with her disturbingly
erotic behavior, the inquirers were concerned by their discovery that apparent
signs of her special favor, the stigmata, nuptial ring, and a bleeding
crucifix, were all forged. The friars integrated Carlini’s sexual behavior with
her spiritual behavior—all were sinful and diabolically inspired. In an
important sense, we need to take this contemporary contextualization seriously,
understanding that Benedetta’s visions were not utterly divided from her
corporeal acts. The aspiring mystic, then in her early thirties, had been
having regular sex with Mea for at least two years. Neither investigation was
sparked byrumors of sexual sin, nor is it clear how central that particular
misconduct was to her lifelong imprisonment within the convent. Benedetta’s
story most resembles cases of what Anne Jacobson Schutte has called “failed
saints,” or what Inquisitors termed “pretended holiness” (affetata santità).11
Sixteenth- and seventeenth-century penance for a nun’s sexual sin ranged from
expulsion or permanent incarceration in the convent to just two years of
penance there.12 No witnesses or other evidence confirmed Mea’s testimony and
if she had not made a voluntary confession, no one could have uncovered the
information. The demoted abbess Carlini herself renounced her past and never
acknowledged Mea’s claims. The unusually visible sexual aspects may not be
unique. Recalling her secular life of the 1670s, and her enjoyment of men
courting her, St. Veronica Giuliani later emphatically interrupted one of her
autobiographies. A sentence written in capital letters alluded to imprecise
errors, implicitly sexual: “I bore great tribulation for the sins I committed
with those spinsters and I did not know how to confess them.”13 Cloistered
women may have enjoyed undocumented but thoroughly physical relationships in
secluded spaces. From at least the twelfth to the seventeenth century,
incidents of same-sex eroticism within female convents are recorded. Around
1660, nuns at Auxonne accused their mother superior of bewitching them, of
wearing a dildo, of kissing, and penetrating them with fingers.14 Sixteenth-
and seventeenth-century women in Italian religious refuges for convertite
(ex-prostitutes) and malmaritate (abused wives) became friends and in some
cases nearly half the inhabitants formed couples sharing rooms, where
“officials discovered women who were sexually involved with other women.”15
Close living and supportive conditions also obtained in non- or semi-cloistered
communities of pious laywomen. Bell’s critique of Brown usefully corrected
various errors, while nevertheless making new mistakes. His chief point was
that the male investigators “had no lack of imagination or conceptual framework
for describing love between two women” and that it was the nuns rather than the
Church officials who condemned Benedetta to life-long imprisonment.16
Certainly, she seems to have been a demanding, imperious abbess who could not
cope with the dissension her rule engendered, perhaps in part due to newly
instigated clausura. Brown’s label of “lesbian,” despite her careful
acknowledgment that it was anachronistic, provoked much criticism. One reviewer
of the book, using yet more historically inappropriate terms, insisted that
“Carlini is heterosexual or, more properly,bisexual in both her inclinations
and conduct.”17 Disagreements over labels and details should not distract from
the fundamental fact that physical, sexual contact took place between two nuns.
Too often, a series of dichotomies misinform discussions of sexual practices. A
binary between the mind and the body, the soul and its vessel, is often mapped
onto other seemingly concomitant divides, not only between masculine and
feminine but also the celestial and the mundane. The presumption is that
religious ideologies constantly repress bodily desires and only secular,
putatively modern, frameworks are capable of acknowledging material passion. In
a similar vein, a contrast is regularly drawn between “real sex” (whatever that
is) and “Romantic Friendships” amongst women. Both the abbess’s visions and her
sexual deeds were informed by conventions shaping the lives of all nuns as
brides of Christ at a time when dualism was not naturalized. Discussing the
exegetical tradition regarding the biblical Song of Songs as an allegory about
the soul’s union with the divine, E. Ann Matter noted that the text was “the
epithalamium of a spiritual union which ultimately takes place between God and
the resurrected Christian—both body and soul.”18 Benedetta’s mysticism links
her to a tradition of female spirituality “that made the body itself a vehicle
of transcendence. . . . Corporeal images were the stuff with which
nuns described their experiences.”19 Heterosexualization of the story is too
simplistic, too ignorant of complex issues related to gender dynamics as well
as intersex and transgender bodies. What Brown calls Benedetta’s “double role
of male and of angel” and “her male identity” was not a consistent performance
of masculinity. Speaking on occasion as an angel named Splenditello or as
Christ, the nun was a medium for the divine rather than for her “self ” in a
modern sense of individual identity, and none of her contemporaries, including
Mea, considered her male. During sex, neither seventeenth-century woman
believed the other was transformed into a man, and their sex did not
necessitate resort to “instruments” or dildos, devices that so obsessed
confessors. For two or more years, “at least three times a week,” when the
women shared a cell as mistress and servant, they had sex, in the day as well
as at night or in the early morning.20 Although Mea sought to protect herself
by claiming she was always forced, and a degree of intimidation or overbearing
insistence may well have been involved, she implicitly admitted pleasure.
“Embracing her,” the abbess “would put her under herself and kissing her as if
she were a man, she would speak words of love to her. And she would stir on top
of her so much that both of them corrupted themselves.” The women did much more
than engage in what Brown and Bell describe, using the dismissive misnomer, as
“mutual masturbation.”21 They touched each other until orgasm, in vigorous and
multiple ways, including actions that were not possible for a single person,
and had no need of a phallus. Rubbing or “stirring” their genitals together to
the point of “corruption,” they also manually penetrated each other and
actively used their mouths. Presenting herself as more passive, Mea recounted
how even during the day the abbess grabbed her handand putting it under
herself, she would have her put her finger into her genitals, and holding it
there she stirred herself so much that she corrupted herself. And she would
kiss her and also by force would put her own hand under her companion and her
finger into her genitals and corrupted her.22 A slightly later expansion of the
account accentuated Benedetta’s inventive pursuit of pleasure, saying that “to
feel greater sensuality [she] stripped naked as a newborn babe,” and “as many
as twenty times by force she had wanted to kiss [Mea’s] genitals. The document,
although stressing the younger woman’s reluctance, also showed a comprehension
of how satisfying the actions could be: “Benedetta, in order to have greater
pleasure, put her face between the other’s breasts and kissed them, and wanted
always to be thus on her.” During the day in her study, while teaching her
companion to read and write, the abbess again enjoyed sensual contact, having
Mea “sit down in front of her” or “be near her on her knees . . .
kissing her and putting her hands on her breasts.” Despite the reticence Mea
tried to convey in her statement, it was clear her lover sought mutual delight.
When manually arousing Mea, Benedetta “wanted her companion to do the same to
her, and while she was doing this she would kiss her.” The older woman was
presented as active and insistent. If Mea tried to refuse, the abbess went to
the cot “and, climbing on top, sinned with her by force,” or she would arouse
herself (“with her own hands she would corrupt herself ”). Hence, in a phrase
recorded only a few times in Mea’s testimony, the younger woman conceptualized
her vigorous, forceful lover in standard terms, saying “she would force her
into the bed and kissing her as if she were a man she would stir on top of
her.” Mea probably had no sexual experience with men, so her comparison was not
based on a Freudian model of the phallus or anatomical knowledge of a penis,
but on a sense of gendered roles whereby the man took a physically dominant
position. Benedetta and Mea enacted substantive, varied sex, in a range of
modes, positions, times, and locations. Benedetta’s case spurs us to ask
questions about the management of nunneries. How did seemingly “innocent” and
“repressed” women learn about sexual details and inventively contravene
prohibitions? A stock opposition between knowledgeable yet repressive male
authorities, and ignorant nuns without any agency, cannot satisfactorily apply.
Some inhabitants of nunneries shared a degree of sexual experience and innuendo
with their companions. Dedicated to God after her mother survived difficult
labor in 1590, Benedetta was a nine-year-old villager when she entered the
religious life.24 Most other entrants (and boarders) were similarly
prepubescent or in their early teens, but some were older, sexually experienced
women, such as widows or former prostitutes. Heterogeneity was increased by the
presence of converse, servants and lay sisters who entered at slightly older
ages, did not profess, and sometimes frequented the outside world, although the
growth of post-Tridentine enclosure made this less likely from the late
sixteenth century onward. The popular and much reprinted Colloquies (1529) by
Augustinian friar Erasmus suggested that nunneries were filled with “morewho
copy Sappho’s behavior (mores) than share her talent,” and that “All the veiled
aren’t virgins, believe me.”25 Through whatever means, cloistered women could
have clear ideas about how to attain sexual pleasure. An anonymous nun,
literate in Latin, wrote a love poem to another religious woman in the twelfth
century, noting that “when I recall how you caressed / So joyously, my little
breast / I want to die.”26 Confessors and canonists educated women in their
obsessive sense of sexual sin. Due to the urging of questioners, or to a sense
of guilt that welcomed the relief of voluntary confession, Venetian Inquisitors
heard in the 1660s about how the “failed saint” Antonia Pesenti fought in the
nighttime against diabolic temptations to masturbate.27 St. Catherine of Siena
(1347–80) was tormented by sexual visions.28 Such a woman, who strenuously
resisted association with secular men outside her family ever since she was a
girl and refused to place herself on the marriage market, nevertheless had some
comprehension of the conventions of sexual sin. Secular inspirations included
farmyard sights, carnival songs, and oral jokes. Sermons, or the queries of a
confessor, further embedded a degree of simple knowledge, horrifying yet
fascinating. Nuns were governed by regulations suspicious of erotic activity in
all-female environments, such as the provision since the early thirteenth
century of night-lights to deter illicit entries into cells, regular checks on
sleeping arrangements, supervision of female as well as male visitors, and
careful control of the grille and other points of contact with the wider world.
Yet those very rules made everyone aware of the possibility of contravention.
Many penitentials and texts of canon law voiced a concern about nuns erotically
touching or using “instruments” with each other, possibilities paradoxically
furthered through inquiries in the confessional.29 Visual culture, including
widely circulated prints and paintings of the damned, was another means whereby
nuns were incorporated into a communal imagination regarding both sin and
sensual piety. Explicit condemnations of same-sex activities led occasionally
to illustrations in religious texts or on the walls of convents.30 Sensitive
contact was also represented. Mutual tenderness and awe between the embracing
Mary and Elizabeth at the Visitation, liturgically celebrated in the musical
crescendo of the Magnificat (Luke 1:46–55) sung every day at Vespers, was powerfully
pictured by artists such as Domenico Ghirlandaio, Jacopo Pontormo, and
Parmigianino. Saints’ lives contained legends like Catherine of Siena suckling
at Mary’s breast or St. Catherine of Genoa tenderly kissing a dying woman on
the mouth.32 A woman’s understanding of sex and sensuality might have been
based more on discursive than experiential practices, but it could seem all the
more real in its visionary presence. The chief focus of my study is
legitimized, mystical eroticism in convents, leading to Benedetta’s mistaken,
kinetic literalization of spiritual metaphors. Her pious and sexual
performances intertwined on at least three levels of efficacy. Instrumentally,
her access to the divine persuaded the younger, initially illiterate Mea to be
a witness to the visionary experiences and to become a sex
partner.Parmigianino, Visitation, pen and wash. Galleria Nazionale, Palazzo
della Pilotta, Parma.FIGURE 6.1De Agostini Picture Library/A.
DeGregorio/Bridgeman Images.Whether the ambitious nun was a self-aware
manipulator throughout, or convinced by her own delusions, is neither knowable
nor particularly pertinent. For some time Mea and the other nuns, the
confessor, local officials, and the townspeople were all caught up in a
visionary scenario they wanted to believe. At Benedetta’s funeral in 1661, the
populace had to be kept away from a body they stillthought capable of
miracles.33 The investigators eventually judged Benedetta a “poor creature”
deceived by the devil, and she agreed that everything was “done without her
consent or her will.”34 That defense of unconscious possession was already
evident during the days of her acceptance by the community, but it shifted from
being divine favor and spiritual rapture to becoming demonic deception. On the
psychological level, the two women were provided with an effective way to cope
with guilt. Until Mea “confessed with very great shame” about their sex, the
angel Splenditello convinced her the women were not sinning. 35 Initially
hesitating, in the presence of a host of saints led by Catherine of Siena, to
obey Christ’s command to disrobe so he could place a new heart in her body,
Benedetta was reassured by Jesus, who said “where I am, there is no shame.”36
The Capuchin investigators thought her putative ecstasy “partook more of the
lascivious than of the divine” but the earlier inquiry, and the convent’s
inhabitants like Mea, had not taken it amiss. After all, Saints Catherine of
Siena, Catherine de’ Ricci (1522–90), and Maria Maddalena de’ Pazzi (1566–1607)
received hearts from Christ, and numerous images in printed or painted form
continued to disseminate this aspect of female sanctity’s typology.37 Secular
poetry and pictures also represented the gifting of manly hearts as a token of
a courtly love that metaphorically elevated carnal desire into an idealized
realm, without losing sight of erotic thrill.38 Nuns were increasingly devoted
to Christ’s wounded heart, and imagined their own hearts as inner loci to be
entered by their heavenly groom. The crucial difference was that Benedetta’s
imagination was so inventive, and her belief system so literal, that
representation of her participation in this mystic ritual included
physical—“lascivious”—details. Thirdly, on the affective level, Benedetta’s
mysticism heightened her sense of desire, not only for union with the divine,
but for sex aided by angels. Equally, it could be said that her yearnings
exacerbated her mysticism. Recourse to mystical fantasy endowed her passion
with a structure and rhetoric. Rather than sublimation through piety,
Benedetta’s case history indicates an intensifying of acts spiritual and
sexual. Much of her complex psyche is summed up by the striking act of
benediction she performed after sex: as Splenditello, “he made the sign of the
cross all over his companion’s body after having committed many immodest acts
with her.”39 Priest, angel, nun, lover, guilty and grateful, powerful and
placatory, Benedetta moved her hand over a body she rendered simultaneously
sacral and sensual. Alongside a renewed disciplinary zeal regulating cloistered
life, CounterReformation culture witnessed a heightening of the emotive
register of piety. In doing so, the Catholic Church accentuated a venerable,
central heritage that used human bodies to imagine spiritual passions. So, in
the Mystic Nativity of 1500–01 (National Gallery, London), Botticelli’s angels
reenact the ritual of the kiss of peace, a regular liturgical moment, but
potential eroticization is indicated by its conjunction with a nuptial kiss and
by the exclusion of sinners from the ritual.40 Primarily same-sex pairs kiss
and embrace in Giovanni di Paolo’s midfifteenth-century panels representing
eternal paradise ( Figure 6.2).41 Angels andFIGURE 6.2 Giovanni di Paolo,
Paradise, 1445, tempera and gold on canvas, transferred from wood, 44.5 × 38.4
cm. New York, Metropolitan Museum of Art. Open access.souls of the blessed
greet each other, and the blissful unions are all manifested as moments of
physical intimacy. Men in religious costume embrace, two secular women tenderly
touch, near them two Dominican nuns entwine in one unit, and angels enfold men
into the sweet realm of grace. Some female mystics were blessed with a miracle
of lactation.42 Catherine of Siena’s experiences especially inf luenced Benedetta
because her mother was devoted to Catherine and the convent was under her aegis
as its patron saint.43 That role model’s mouth drained pus from a woman’s
breast and the abnegation was rewarded by what her confessor termed an
“indescribable and unfathomableliquid” f lowing from Christ’s side.44 Both
scenes featured in one of the prints comprising a well-disseminated series
illustrating Catherine’s life, designed by Francesco Vanni.45 Her confessor
Raymond of Capua presented Christ as Catherine’s sensual lover: “putting His
right hand on her virginal neck and drawing her towards the wound in His own
side, He whispered to her, ‘Drink, daughter, the liquid from my side, and it
will fill your soul with such sweetness that its wonderful effects will be felt
even by the body.’” Raymond brief ly noted that an earlier confessor had
written about how “the glorious Mother of God herself fills her [i.e.
Catherine] with ineffable sweetness with milk from her most holy breast.”46
Nurtured at the breasts of Christ and Mary, and moaning that “I want the Body
of Our Lord Jesus Christ” in church before his body f luid miraculously
satisfied her so that “she thought she must die of love,” Catherine’s inf
luential model of sanctity encouraged women such as her follower Benedetta
Carlini to believe in sensate relief of their spiritual desires.47FIGURE 6.3
Francesco Vanni, St. Catherine of Siena orally draining pus from an ill woman
and being rewarded with liquid from Christ’s wound, 1597, engraving, 25.7 ×
28.9 cm. Amsterdam, Rijksmuseum. Open access.Benedetta’s maleness supposedly
derived from her role-playing as Jesus or an angel, yet neither Christ nor
angels were unequivocally male. In a fundamental sense, of course, Christ was
masculine, the son of God endowed with visible, male genitals to prove the
infant’s assumption of Incarnational humanity.48 His adult manifestation was
also primarily masculine and patriarchal. Imitative adoration of their heavenly
spouse could lead to mortification and even stigmatization, but nuns were not
masculinized through such actions and they did not automatically become lovers
of men. Stigmatized like Christ or speaking at times as though Christ was
delivering a message,Benedetta was not Jesus, but his bride and servant.
Cloistered women were privileged followers of Mary’s role as sponsa, the
heavenly bride reenacting the Song of Songs and enjoying sensual relations with
an adult, loving Christ. But when a German cleric regretfully noted that “it
properly is the prerogative of his [i.e. Christ’s] brides” alone to enjoy
sensual union with a celestial bridegroom, he nevertheless vicariously enjoyed
a homoerotic fantasy by instructing nuns to kiss Christ “for my sake.”49 As
scholars have shown, in many ways the metaphorical body of Christ was “feminine”
or homoerotic or, rather, polymorphous in its sensual charge.50 Nuns imagined
themselves as suckled infants, nurtured adults, mothers, spouses, female
friends, all sharing an affinity as “sisters and daughters in Jesus Christ,” as
Catherine de’ Ricci addressed a group of nuns in October 1571 after the death
of “your dearest mother,” their abbess.51 While Christ was their child and
groom, and Mary their exemplar, nuns were also enfolded in a female genealogy
of succession and a feminine household of multiple sisters, daughters and
mothers. Fellow nuns tenderly support Catherine of Siena when she is so
affected as to faint after receiving the stigmata, painted by Sodoma in the
mid-1520s for the Sienese chapel dedicated to her within the Dominican headquarters
of her cult (Figure 6.4).52 Catherine is shown with exemplary female acolytes
whose intimate, gentle regard for her swooning body suggests a bodily care and
unselfconsciousness that requires no masculine intervention. Nuns took on more
than one persona in this labile community of affection. After Benedetta married
Christ in a special ceremony on May 26, 1619, a brief investigation did not
distrust her mysticism, and on July 28, 1620 her religious sisters elected her
abbess, head of the new Congregation of the Mother of God.53 As such, “mother”
abbess Benedetta embraced her “daughter” and fellow “sister” Mea. Brown conf
lates being male with taking on an angelic guise, but Benedetta took on no such
“double role of male and of angel.” When using the voice of an angel, she was
not adapting a role assigned to unambiguously male figures. Since theologians
such as Aquinas believed angels might assume f lesh but had no natural bodies
or functions, the ethereal creatures were officially asexual. Names, pronouns,
and visual representations implied a degree of masculinity about God’s
messengers, but often of a childlike or pubescent and androgynous kind. At the
very moment when Gabriel carried the message transmitting the Logos into the
body of the Virgin Mary, that archangel was often depicted as especially
androgynous. It was probably to a frescoed Gabriel that the orphan,Sodoma,
Giovanni Antonio Bazzi, Scenes from the Life of Saint Catherine of Siena: The
swooning of the saint, 1526, fresco. Siena, S. Domenico. Scala/Art Resource,
NY.FIGURE 6.4The “lesbian nun” Benedetta Carlinilater Beata, Vanna of Orvieto
pointed on a church wall when she said “this angel is my mother.”54
Splenditello and Benedetta’s other angels empowered rather than masculinized
her. Splenditello and company were celestial, barely gendered embodiments of
winged eros or desire, rather than of a particular lover. Mea’s account moved
directly from details of their sex to the statement that the mystic “always
appeared to be in a trance (ecstasi ) . . . Her angel, Splenditello,
did these things, appearing as a beautiful youth (bellisimo giovane) of fifteen
years.”55 The attractive adolescent was endowed with the kind of homoerotic
potential celebrated in contemporary paintings such as Caravaggio’s The Stigmatization
of St. Francis produced in the first decade of the seventeenth century (Figure
6.5).56 Like the contemporaneous Splenditello, the seraphic spirit of celestial
love who gently supports Francis is a creature ostensibly male but
fundamentally symbolic of an eroticism which does not insist on singular
identifications of gender or sex. The saint swoons in the arms of a lover whose
pictorial form embodies the ineffable and polymorphous. Francis’s pious
identification with the supreme exemplar Christ is physically and
metaphorically consummated as he receives the stigmata in a mystical experience
necessarily represented in erotic terms. A little more than twenty years after
Mea’s confession, Gianlorenzo Bernini began work on a three-dimensional figuration
of The Ecstasy of St. Teresa (Figure 6.6). With caressing gaze, divine light, a
conventional arrow of Love, andFIGURE 6.5 Caravaggio, Saint Francis receiving
the stigmata, ca. 1595–96, oil on canvas, 94 × 130 cm. Wadsworth Atheneum
Museum of Art.Photo credit: Nimatallah/Art Resource, NY.FIGURE 6.6Bernini, The
Ecstasy of St. Teresa, marble, 1645–52. Rome, S. Maria dellaVittoria. Photo
credit: Alinari/Art Resource, NY.delicate gestures, Bernini’s embodiment of
celestial spirit visits upon Teresa an experience of divine transport. A
childlike member of the ranks of the cherubim gently strips Teresa of her
worldly garments, lifting the robe so that blissful fire will sear her soul
with what she called “a point of fire. This he plunged into my heart several
times so that it penetrated to my entrails.”57 As Teresa described her rapture
in the early 1560s, “this is not a physical, but a spiritual pain, though the
body has some share in it—even a considerable share.” Corporeal sensation was
certainly perceived by an anonymous critic who, around 1670, accused Bernini of
having “dragged that most pure Virgin not only into the Third Heaven, but into
the dirt, to make a Venus not only prostrate but prostituted.”58
Contemporaries, in other words, were quite aware of the fine line between
sensuality and spirituality, a boundary crossed not only by Benedetta but by
the renowned artist Bernini. Benedetta’s staging of such favors as her
stigmatization and her nuptials with Christ were eroticized events akin to
those depicted by artists. She involved an entire community of nuns and a local
populace in earthly manifestations of the divine, just as Caravaggio did in oil
paint, Bernini in marble, or preachers with words. Miracles were understood to
be physically manifest, and visions subtly brought the divine into the
corporeal realm. The late thirteenth-century mystic Gertrude of Helfta wondered
why God “had instructed her with so corporeal a vision.” Her question was
rhetorical, as any acceptable mystic knew: spiritual and invisible things can
only be explained to the human intellect by means of similitudes of things
perceived by the mind. And that is why no one ought to despise what is revealed
by means of bodily things, but ought to study anything that would make the mind
worthy of tasting the sweetness of spiritual delights by means of the likeness
of bodily things (corporalium rerum).59 As the seamstress and “failed saint”
Angela Mellini knew about her visions, “one never sees things with the eyes of
the body, but everything is seen intellectually.”60 On the other hand, this
reassuring statement was delivered to an Inquisitor, whereas a note written by
her halting hand understood that emotional passion had very real effects.
Thinking of such things as the pains she suffered in her heart, in imitation of
Christ’s passion, she observed that “love makes me experience the truth of
sufferings through the senses, now it beats, now it purges, now it hurts and
now all sorts of torments are felt.” In order to truly convey the exactitude
and reality of her sensate love, in September 1697 she sketched a diagram of
her wounded heart, complete with lance, nails, hammer, cross, and crown of
thorns. That drawing was produced for her confessor, a man she desired so much
that she felt “great heat in all the parts of my body and particularly of
movements in my genitals.”61 Like a courtier offering a heart to the beloved,
and like the related love-imagery for the soul’s yearning after the divine,
Angela availed herself of religious rhetoric and resorted to physical signs
when lovingChrist and wooing her priest. Similarly, on Caravaggio’s canvas and
in Bernini’s chapel, light is divine and natural, the ecstasy spiritual and
embodied. So, too, Benedetta’s sensate and emotive life was a continuous blend
of illusion and reality, spirit, and similitude. Echoing her model, Catherine
of Siena, Benedetta experienced visions, stigmatization, the exchange of
hearts, and a marriage with Christ. Catherine’s reception into heaven after her
death, disseminated in Francesco Vanni’s engravings and various paintings,
entailed a tender, intercessory greeting by Mary.62 Catherine’s charitable
nursing brought her mouth into contact with one dying woman’s breast (Figure
6.3), and on another occasion she transformed an ill woman into her spouse.63
“Full of burning charity,” Catherine rushed to the hospital to tend a bereft
woman, “embraced her, and offered to help her and look after her for as long as
she liked.” She motivated herself by “looking upon this leper woman, in fact,
as her Heavenly Bridegroom.” Benedetta took the actions of her exemplar
further, embracing another woman in a relationship where each was a spouse,
each a bride. At some level, she perhaps believed the words God spoke to
Catherine, that “In my eyes there is neither male nor female.”64 To have an
impact, mysticism had to present a degree of spectacle, and thus cross into the
physical realm. The special favors bestowed on some mystics were invisible, but
then other signs had to appear, especially as the Church grew more cautious
about legitimizing local cults, feminine excesses, fakery, and piety which
might turn out to be diabolical in origin. Lucia Broccadelli’s stigmata arrived
during Lent in 1496 but only becoming visible at Easter, after Catherine of
Siena’s supplication in heaven persuaded Christ “that the stigmata should be
visible and palpable in me.”65 For several years, the Dominican visionary was
highly favored by the lord of Ferrara, Ercole d’Este, and officials, including
the Pope’s physician, examined her wounds to their satisfaction. But the
fortunes of this “living saint” suffered a reversal when her ducal patron died
in 1505. The sisters, chafing under her strict rule, were able to mount a
counter-offensive because the stigmata had disappeared. Lucia was imprisoned
for fraud within the convent for nearly forty years, until she died in 1544. A
potential mystic impressing only a relatively small town and without a powerful
supporter, Carlini also encountered a backlash from her fellow religious and
was investigated in an even more stringent climate. Once the
Counter-Reformation took hold, especially after the Council of Trent (1545–63),
there was an increase in cases of women ultimately judged “failed saints” or
diabolically possessed. Concomitantly, the number of female canonizations
decreased, with a suspicion of women deemed credulous and excessive further
abetted by Urban VIII’s more strict procedures for canonization.66 Two hundred
years earlier, Catherine of Siena’s confessor, Raymond of Capua, later Master
General of the Dominican Order, was persuaded of the veracity of her mystical
experiences, despite the invisibility of her marriage ring and stigmata, by
“watching the movements of her body when she was in ecstasy.”67 Maria Maddalena
de’ Pazzi begged Christ that her mystical ring andThe “lesbian nun” Benedetta
Carlini113stigmata be invisible, but the impulse for humility was neatly
balanced by kinetic and audible theatre similar to Catherine’s. Her very wish
not to be singled out became itself part of the record collected by her
community. In May 1619, Benedetta staged an elaborate wedding witnessed by the
secular elite of Pescia. The first inquiry into her holiness began the very
next day. But her renewal of the ring (with saffron) and stigmata (with a large
pin) only emerged in the course of the later investigation.68 Judged fraudulent
by Bell, Benedetta may nevertheless have been acting in good faith, marking her
body artificially only when doubts grew, trying to persuade the sceptics by
secondary, external signs that she truly believed were there on her soul.69
When a Capuchin nun, the blessed Maria Maddalena Martinengo (1687–1737),
piously took a needle to her own body, it was not counted diabolical. She
embroidered the instruments of the Passion “with the needle threaded with silk
. . . into her own f lesh, nice and big, as chalice-covers are
embroidered, nor without bleeding.” To retain her status and stem the tide of
opposition in an increasingly fractious convent, Benedetta may have inscribed
her body without thinking that the act was forgery. Self-mutilation recurs in
the lives of mystics, including Angela of Foligno’s searing of her genitals,
Margaret of Cortona’s desire to cut her face, and Maria Maddalena de’ Pazzi’s
gouging of her f lesh.71 Benedetta’s piercing, documented by a hostile witness
who came forth only after the convent turned against their imperious abbess,
may have been motivated in part by a genuine element of imitatio Christi.
Rather than judge her by later standards of verisimilitude and honesty, it
would be more appropriate to understand her actions, and subsequent downfall,
as a naïve, over-literal, and undisguised performance of spiritual conventions
that found no meaningful political support amongst higher authorities or in a
discordant convent. Like other aspirants to mysticism, Benedetta displayed her
celestial vision through mime, “motioning with her hands as if she were taking”
souls out of purgatory, for instance, but her choreography went so far as to publicly
process in a prearranged mystic marriage, and to act out her erotic drive with
Mea.72 Maria Maddalena de’ Pazzi also kinetically staged her exceptionality.
She mimed her wedding with Christ, or in pantomime indicated to the novices
under her care that she was being stigmatized. Her charges reported that “she
held her hands open, staring at a figure of Jesus that she had on top of her
bedstead; she looked like St. Catherine of Siena. So, we thought that at that
point Jesus gave her his holy stigmata.” 73 Eroticizing a dormitory, looking at
one image and mimicking another, Maria Maddalena involved her young female
audience in a highly visual fantasy that drew on widely familiar iconography of
female mysticism. Those visualizations were further instilled through skills of
internalized sight. Trained, like all Catholics, in contemplative techniques
merging the inner and outer eye, Maria Maddalena and her faithful novices
witnessed the material reality of a vision. Meditative practices imagined
narratives set in contemporary settings, with familiar faces, placing a premium
on immediacy and recognition that was also highly valued in visual culture.
Visions were regularly made tangible,when nuns cared for and dressed dolls of
the Christ Child, acted out the stigmatization, wrote and performed religious
plays, or, in Catherine of Bologna’s case, painted and drew images inspired by
her raptures.74 To make fantasy real, to don the mantle of holy figures, was
orthodox rather than perverse. Benedetta’s concrete sexualization of her
religious scenario was not unique. In the early sixteenth century, a Spanish
canon lawyer had justified his inordinate lust for some nuns in Rome by arguing
that since, as a cleric “he was the bridegroom of the Church and the nuns were brides
of the Church,” they could have “carnal relations without sin.” 75 Imprisoned
until he renounced these beliefs, the educated man had muddled certain
doctrines, but his conf lation of spiritual allegory and physical desire was
present in the writings of many a mystic and it was visualized in numerous
visions or works of art. By making her desires earthly as well as divine,
Benedetta misunderstood conventions, but she did not invent outside a context.
While she cannot be posited as a mainstream example of premodern religiosity,
there was a logic to Benedetta’s actions that does not rely on a reading of her
as a skeptical, manipulative fraud. Angelic disguise transformed the mystic
aspirant Benedetta into a forceful seductress, whose tenderness and ecstatic
passion was not rigidly fixed along differently sexed lines. Mea reported: This
Splenditello called her his beloved; . . . [and said] I assure you
that there is no sin in it; and while we did these things he said many times:
give yourself to me with all your heart and soul and then let me do as I
wish.76 Like the facilitating angel in the mystic encounters represented by
Caravaggio and Bernini, Benedetta’s guardian angel was imagined as a beautiful,
curlyhaired youth dressed in gold and white.77 The young angel was an
instrument of persuasion, the abbess a figure of command and intimidation.
Splenditello’s power derived from a patriarchal hierarchy in heaven, but he
sounded like a youth rather than a god. His counterpart in Caravaggio’s
painting does not heterosexualize that encounter; and in Bernini’s ensemble the
young angel eroticizes a spiritual ecstasy that cannot be crudely reduced to
phallic penetration by an adult man. Nor does Splenditello’s presence amidst
the couplings of Benedetta and Mea reduce them to a differently sexed twosome.
There was a third, disembodied protagonist in each of these raptures. The
divine was elemental light in Caravaggio’s painting and Bernini’s sculpture. In
Benedetta’s visions, as in her sex with Mea, the divine was literally
articulated, through voice. Christ or Splenditello was a pivot in a
triangulation of desire in which one of the results was frequent, very real sex
between two women. The interpretation of Benedetta’s acts within the framework
of a heterosexualized bride of Christ points to the need to reconsider in quite
what ways Jesus was a spouse. Three kinds of marital imagery informed the
regulation of female religious: liturgical, allegorical, and mystical. While
all nuns were incorporated liturgically and could picture their souls as
allegorical spouses of the heavenlybridegroom, only mystics experienced
additional nuptials. In 1619, Benedetta’s mystic marriage was an overt,
preplanned, public festival, as was her first marriage to Christ in 1599 at the
age of nine, taking the veil, ring, and crown at a ceremony celebrated by a
bishop, though occasionally the celebrant was an abbess.79 In a drawing by an
anonymous German nun around 1500, enthroned Virgin Mary/Ecclesia replaces the
priest (Figure 6.7).80 Strikingly, the figure of Christ, particularly as an
adult, is absent from many such images. When he does appear, as in an
illuminated manuscript of the rule of St. Benedict produced for Venetian nuns,
he can bestow the nuptial crown on two Brides at once.81 Describing the ritual
as one involving “the giving of a woman to a man” and using the term “heavenly
husband” mistakenly suggests a scenario akin to a modern, secular, nuclear
family.82 Analogy should not be confused with actuality. The acculturation
entailed complex, multiple interchanges, evident in the drawing (Figure 6.7).
Its scroll carries the inscription “Take this boy and take care of [i.e.
suckle] me (nutri michi). I will give you your reward.”83 Like a priest
offering the veil, ring, and crown, and then the eucharist, the Virgin begins
to speak, licensing the earthly virgin to embrace the baby. But the infant
takes over, urging the young nun to suckle him and promising her eternal
reward. Her spouse is an infant, not a dominant patriarch, nor an earthly “husband.”
Christ was a communal groom, and a commonly nurtured babe. He was more visible,
and more often adult, in images of the allegorical and mystical levels of
marriage.84 Mystic marriages of saints show the adult, or often infant, Christ
as the pivotal locus of mediation, yet the rhetoric and ritual of marriage also
visually and symbolically bonds two or more female characters Anonymous German
nun, Consecration of Virgins, ca. 1500.Photo credit: Jeffrey Hamburger. Used
with permissionwho are devoted to God’s son. Catherine of Siena imitated St.
Catherine of Alexandria’s mystic marriage with Christ, and thereafter the
subject of union became popular.85 Female saints, especially the earlier
Catherine, are usually depicted in the act of espousal to an infant Christ
offered by his mother Mary, just as the German nun remembered (Figure 6.7).
Thereby, two holy women engineer a mystical union over the body of a small
child. To say that Christ becomes “the object of exalted maternal instincts
rather than sublimated sexual desire,” however, is to assume that a nurturing
woman’s affection has no component of passion, and that all female desire must
be focused on a male object.86 The child-groom can be shown as a young,
unknowing instrument guided by his mother, as in a painting by Correggio, where
the interplay of hands is particularly sensitive.87 Courtly decorum amongst
adults becomes in Correggio’s visualization an intimate, gentle affair in which
the child is too young to grant seigneurial permission. Held close so that his
body is subsumed in his mother’s, at other times he is a virtual extension of
her body, helping to connect through compositional line and symbolic gesture a
succession of two or more female figures. His small arms and shoulder stand in
for Mary’s left arm in a later painting by Ludovico Carracci, so that his torso
becomes especially symbolic of a presence that almost need not be there.88
Guercino’s painting of 1620 depicts a gentle touch between the two women, and
tender glances link the three characters, but Christ is relegated to the
opposite side.89 Visual management of nuns’ fantasies could imagine them in
very physical, explicit actions. A cycle on the Song of Songs painted in the
mid-fourteenth century on the walls of a nun’s gallery at Chelmno in eastern
Prussia imagined Sponsa eagerly pulling her spouse into her bedchamber.90 It
literalizes the Canticle: “I will seize you and lead you / into the house of my
mother” (8:2). Such pictures made manifest an emotive intensity that the
all-female audience knew they were meant to share with other women.91 In
Northern Europe, the instructional habit of elaborating the amorous interchange
between Christ and the soul produced a sequential narrative version illustrated
in comic-strip fashion, Christus und die minnende Seele (Christ and the loving
soul), written in German in the late fourteenth century, later disseminated in
printed sheets and books.92 The divine lover embraced the soul, wooed her with
music, and crowned her in a ritual reminiscent of a wedding ceremony. She
obeyed Christ’s command to divest herself of worldly garments when he said “If
you wish to serve me, you must be stripped bare.” It is unlikely that Italian
nuns like Benedetta knew this particular text or its imagery, but the practice
of encouraging a religious woman’s fantasy through narrative, whether in
sermons, sung words, wall paintings, prints, books, or paintings, fostered a
widespread, eroticized imagination. The soul’s rapturous reach toward its
divine lover from a supine position on a bed, as represented in the Rothschild
Canticles, was echoed in Bernini’s marble display of Ludovica Albertoni arching
up from a bed where the disarranged sheets are even more telling a sign of the
soul’s ecstasy.93 Within this ideological structure, BenedettaCarlini could
imagine herself as a privileged soul experiencing ecstatic union with the
actual body of Mea. On one of the three occasions when she addressed Mea in
Christ’s voice, “he said he wanted her to be his bride, and he was content that
she give him her hand; and she did this thinking it was Jesus.” Even if the
abbess was a manipulative faker, as a crude and cynical reading might have it,
Mea believed the illusion, according to her self-protective testimony. If
neither woman was skeptical at the time of the conversation, then the words and
gesture performed a tangible, if unconventional, enactment of bridal mysticism.
Christ was manifest in a human—and female—body rather than only present to the
mind’s eye, yet the two believers went on with the corporeal pantomime. If one
or both of the earthly players did think that Christ was not speaking, then at
least one of them heard a marriage proposal being offered by one woman to
another yet did not rebuff or denounce it at the time. Benedetta utilized the
traditional metaphors and scenarios of erotic mysticism, but at certain moments
she took the logic beyond doctrinal limits. She only assumed Jesus’ voice
during three conversations with Mea.95 Twice she spoke “before doing these dishonest
things,” first when Jesus took Mea’s hand and suggested marriage. The second
time was in the choir, “holding [Mea’s] hands together and telling her that he
forgave her all her sins.” “The third time it was after [Mea] was disturbed by
these goings on,” and was reassured that there was no sinfulness, and that
Benedetta “while doing these things had no awareness of them.” All three
occasions offered comfort and framed sex, occurring either before or after
their “immodest acts,” but Benedetta did not present herself as a sexually
active Christ. However much bridal mysticism structured Benedetta’s actions,
she never took on the persona of Christ during sex with Mea, instead acting
through an angel when she used any guise at all. Perhaps she is best described
as a mystic playwright, someone who wrote scripts during visionary or ecstatic
experiences but who acted out rather than wrote down the dramas, for an
audience that included not only Mea but also on occasion the other nuns and the
local populace. Plays by nuns were performed by inmates who cross-dressed for
the male roles.96 In 1553 Caterina de’ Ricci played the part of twelve-year-old
Jesus speaking, with “signs of particular love,” lines from the Song of Songs
to a fellow nun who was acting as St. Agnese.97 Taking multiple roles, such as
Christ or angels with a variety of dialects and ages, as well as sponsa and
anima, Benedetta was a consummate performer whose voice and appearance fitted
the occasion.98 The mutual gestures of Benedetta and Mea literally followed the
Song of Songs: “My beloved put forth his hand through the hole / and my belly
trembled at his touch / I rose to open to my beloved / my hands dripped myrrh /
. . . / I opened the bolt of the door to my love” (5:4–6). Mea’s
account of how Benedetta “put her face between the other’s breasts and kissed
them, and wanted always to be thus on her” recalls the Canticle’s enjoyment
too. In the adaptation of the biblical Song in the Rothschild manuscript
compiled for a nun, Sponsus delightsin breasts: “between my breasts he will
abide . . . Behold my beloved speaketh to me: How beautiful are thy
breasts, thy breasts are more beautiful than wine.”99 The phrase “sister my
bride (soror mea sponsa)” was particularly apt. It occurs four times in the
Song (4:9, 10, 12; 5:1), along with “open to me, my sister my friend” (sor mea
amica mea) (5:2). Imitating the soul’s statement in Christus und die minnende
Seele that “I must go completely naked,” Benedetta “stripped naked as a newborn
babe.” Each recalled the Song’s bride: “I have taken off my garment” (5:3). The
sequential narrative of the romance between Christ and the soul also had the
womanly soul say “I cannot read a book unless you are my master” and “I will
tell no-one, love, what I have heard from you,” each lines Mea could have
uttered to her abbess.100 Benedetta spoke another line, taking on the voice of
Christ to offer the symbolic emblem of mystical marriage: “Since you delight
me, love, I set a crown upon you.” She lay on top of Mea, “kissing her as if
she were a man [and] she would stir on top of her so much that both of them
corrupted themselves,” an arrangement, and finale, which bears comparison with
the miraculous levitation experienced by the Capuchin nun Maria Domitilla in
Pavia at the very same time, 1622. She recorded that Christ united his most
blessed head to my unworthy one, his most holy face to mine, his most holy
breast (petto) to mine, his most holy hands to mine, and his most holy feet to
mine, and thus all united to me so very tightly, he took me with him onto the
cross . . . I felt myself totally af lame with the most sweet love of
this most sweet Lord.101 Benedetta’s models, such as the sponsa, the anima, and
Catherine of Siena, were feminine, metaphorical, or legendary, and her mistake
in dogma was to take the symbolic literally. Benedetta acted as though the
material was the spiritual: stripping for Christ or Mea like an obedient and
pleasured soul in the Northern sequential romance; kissing a woman or suckling
at a breast as did certain female mystics or saints; engaging in mutual, manual
penetration of an orifice in line with the Song of Songs; proposing and
performing marriage as though she could take both roles in a mystical drama.
Her sex partner, Mea, was always a female figure, assigned a feminine part.
Benedetta enjoyed repeated sex with a woman, not because that was the only body
available to her, but because their religious beliefs were not predicated upon
some exclusionary, modern notion of heterosexual identity. Through the
vicissitudes of confession and documentary survival, we happen to know that in
the early 1620s two under-educated women in a provincial Tuscan convent took
religiously legitimized and visualized passion to a literal level. Brides of
Christ, nurtured on the notion that their cells were bedchambers for nuptial
union with a shared, metaphorical spouse, became in those very spaces lovers on
an earthly plane. In seventeenth-century Pescia a patriarchal logic led to an
alternative rite of passion. This does not mean that the women’s sexual arousal
was incidentalor insignificant, but that their sensual and spiritual
inspirations were neither entirely insincere nor irreligious. Benedetta Carlini
was a nun, abbess, articulate angel, feminized soul, female mystic, and woman’s
lover.Notes 1 Brown, Immodest Acts, 4; Bell, “Renaissance Sexuality,” with
“virtually unique” on 487, Brown’s response, 503–09, and Bell’s reply. I am
grateful to Professor Bell for sharing his microfilms of the documents. The
Italian of two missing frames, his figs. 1 and 2, was partly published in the
Italian edition of Brown’s book, Atti impuri, esp. 184– 86. I will endeavor to
place digital copies of the documents in the Deep Blue repository of the
University of Michigan. Ideas here were first explored in a talk at the
University of Michigan (January 2000). I am grateful for everyone’s attention
in numerous audiences since then, but for conversations I especially thank
Louise Marshall and Vanessa Lyon. 2 Bell, “Renaissance Sexuality,” 501–2, Brown’s
response, Immodest Acts, 507. 3 Partner, “Did Mystics Have Sex?” 296–311;
Salih, “When is a Bosom,” 14–32. 4 Brown, Immodest Acts, 127. 5 An exception is
Matter, “Discourses of Desire,” 119–31. 6 Documented cases include Brucker,
ed., The Society of Renaissance Florence, 206–12; Chambers and Pullan, with
Fletcher, eds., Venice. A Documentary History, 204–05, 208. 7 Matter,
“Discourses of Desire”, 122–23: “the nature of Benedetta Carlini’s sexual
encounters with her sister nun is so bizarre as to defy our modern categories
of ‘sexual identity.’” 8 Brown, Immodest Acts, 161–64. 9 Ibid., 110–14, 160–64;
Bell, “Renaissance Sexuality,” 491. 10 Carlini’s imprisonment “in penitence”
ended when she died in August 1661: ibid., 132. Upon Mea’s death in September
1660, the recorder referred to Benedetta’s fraud rather than sexual deeds: when
Benedetta “was engaged in those deceits” Mea “was her companion and was always
with her.” But Mea was not imprisoned: ibid., 135. 11 Jacobson Schutte, “Per
Speculum in Enigmate, 187, 195 n. 11. For another case see Ciammitti, “One
Saint Less.” 12 Brown, Immodest Acts, 7–8, 136; Rosa, “The Nun,” 221; Velasco,
Lesbians in Early Modern Spain, 92. 13 Bell, Holy Anorexia, 70. 14 Barstow,
Witchcraze, 72, and further cases, 139–41. Others include Velasco, Lesbians in
Early Modern Spain, 113–24. 15 Cohen, The Evolution of Women’s Asylums, 92–93,
208–09 n. 65. 16 Bell, “Renaissance Sexuality,” 498. 17 Cervigni, “Immodest
Acts,” 286. 18 Matter, The Voice of My Beloved, 142. 19 Hamburger, The
Rothschild Canticles, 4. 20 Unless otherwise indicated, quotations are from
Brown, Immodest Acts, 117–18, 120– 22, 162–64 passim (with emphases added). 21
Brown, Immodest Acts, 120; Bell, “Renaissance Sexuality,” 486, 495, 497, 499.
22 Ibid. 23 Ibid., 498 (“le ha voluto baciare le parti pudente”); Brown,
Immodest Acts, 120. 24 Ibid., 21–22, 27–28. 25 Collected Works of Erasmus, vol.
39: Colloquies, 290. 26 Coote, ed., The Penguin Book of Homosexual Verse,
118–21 for this and another example. 27 Schutte, “Per Speculum in Enigmate,”
192. 28 Raymond of Capua, Life of St Catherine of Siena, 91–93. 29 Payer, Sex
and the Penitentials, 43, 61, 99, 102, 138–39, 149–50, 172 n. 136.30 For a
female couple sinning sexually in a Bible Moralisée of c. 1220, see Camille,
The Medieval Art of Love, 138–39, fig. 125. For the 1468 fresco of the Inferno
situated in an upper room of the convent founded by St. Francesca Romana, with
a couple of indeterminate sex, but probably male, lying side by side on the
lowest (and most easily seen) register, see Bartolomei Romagnoli, Santa
Francesca Romana, Pl. 27. 31 Ghirlandaio’s panel is in the Louvre, Pontormo’s
remains in Carmignano. 32 See n. 43 below; Jorgensen, “‘Love Conquers All,’”
102–03. 33 Brown, Immodest Acts Bell, “Renaissance Sexuality,” 502. 34 Brown,
Immodest Acts, 108, 129, 130. 35 Ibid., 163–64. 36 Ibid., 63, 158, with
subsequent quotations from 107, 117, 164. 37 Raymond of Capua, Life of St
Catherine, 165–67; Kaftal, St Catherine in Tuscan Painting, 72–77; Bianchi and Giunta,
Iconografia di Santa Caterina da Siena, 112–14 and passim; Maggi, Uttering the
Word, 176 n. 15; Vandenbroeck, et al., Le Jardin clos de l’ame, nos. 147, 169;
Brown, Immodest Acts, 63–64. 38 Camille, Medieval Art of Love, 111–19, and
passim, including figs. 19, 55, 80. 39 Brown, Immodest Acts, 163. 40 Payer, Sex
and the Penitentials, 105; McNeill and Gamer, eds., Medieval Handbooks of
Penance, 81, 152. When Ercole d’Este married Renée of France in Paris in June
1528, at the Pax they kissed each other: Gardner, The King of Court Poets, 194.
41 The quotation is from Rosa, “Nun,” 222. A detail of embracing Dominican
women from the panel in Siena’s Pinacoteca appears on the cover of Brown’s
book. 42 Walker Bynum, Holy Feast and Holy Fast, 101, 126, 131–32, 157, 165–80,
270–73, and passim. 43 Brown, Immodest Acts, 26, 41. 44 Raymond of Capua, Life
of St Catherine, 141, 147–48 (hereafter quoted from 148). 45 Marciari and
Boorsch, Francesco Vanni, 118–27. 46 Raymond of Capua, Life of St Catherine,
179. 47 Ibid., 170–71. 48 Steinberg, The Sexuality of Christ. 49 Hamburger, The
Visual and the Visionary, 390. 50 Walker Bynum, Jesus as Mother; Rambuss,
Closet Devotions. 51 St. Catherine de’ Ricci, Selected Letters, 39 (no. 47).
Subsequent quotations come from Letters 19, 46. 52 For the frescoes by Sodoma
and an earlier one by Andrea Vanni in the same church see Riedl and Seidel, Die
Kirchen von Siena, II, pt. 2, pls. VII, 596, 627–28 (and pl. 276 for Rutilio
Manetti’s canvas of 1630). 53 Brown, Immodest Acts, 41. 54 Frugoni, “Female
Mystics, Visions, and Iconography,” 139. 55 Brown, Immodest Acts, 163, a
translation here adjusted according to the cropped photograph of the passage in
Bell, “Renaissance Sexuality,” 501 (fig. 2), because Brown conflates the
information on Splenditello and on another angel Radicello (a fanciullo) aged
eight or nine. The common misperception is thus that Splenditello was a boy. 56
Gregori, “Caravaggio Today,” no. 68. 57 Teresa of Ávila, The Life of Saint
Teresa of Ávila, 210 (ch. 29). 58 Bauer, ed., Bernini in Perspective, 53. 59
Hamburger, Rothschild Canticles, 165–66; Hamburger, Visual and the Visionary,
147. 60 Ciammitti, “One Saint Less,” Bianchi
and Giunta, Iconografia, nos. 43, 438, p. 126. 63 Raymond of Capua, Life of St Catherine, 131, 133.
64 Ibid., 108–09. During her visionary union with God, the medieval mystic
Hadewijch noted that God “lost that manly beauty” so that he dissolved and
“then it was to me as if we were one without difference”: Bynum, Holy Feast,
156. 65 Gardner, Dukes and Poets in Ferrara, 366–81, 401–05, 431-32, 464–67,
562.The “lesbian nun” Benedetta Carlini66 Weinstein and Bell, Saints and
Society, 141–42, 220–38; Bell, Holy Anorexia, 151, 170–71. Raymond of Capua,
Life of St Catherine, 100, 175–6. Brown, Immodest Acts, 160. Bell, “Renaissance
Sexuality,” 493. Rosa, “Nun,” 201–02. Bell, Holy Anorexia, with other cases
passim; Tibbetts Schulenburg, “The Heroics of Virginity,” 29–72. Brown,
Immodest Acts, 159. Maggi, Uttering the Word, 34 (my emphasis). On Catherine of
Bologna see Wood, Women, Art and Spirituality. Weyer, De praestiis daemonum,
184–85. Brown, Immodest Acts, 163; Bell, “Renaissance Sexuality,” fig. 2.
Brown, Immodest Acts, 64–65, 122. On erotic triangulation, see the classic
study Kosofsky Sedgwick, Between Men, esp. Ch. 1. Hamburger, Nuns as Artists,
56–61, 240 nn. 125–26; Lowe, “Secular Brides and Convent Brides,” esp. 43;
Vandenbroeck, et al., Le Jardin clos de l’ame, nos. 168, 172. Hamburger, Nuns
as Artists, Pl. 7. Lowe, “Secular Brides and Convent Brides,” fig. 3. The
phrases are in ibid., which often uses “heavenly husband” and has the other
phrase on 44. But at 56ff she points out how often Christ is absent from
images, although the essay’s point is to suggest parallels between the secular
and religious ceremonies. Hamburger, Nuns as Artists, 56–58. Vandenbroeck, et
al., Le Jardin clos de l’ame, nos. 148, 178 and fig. 106a; Hamburger,
Rothschild Canticles, 113–15. Raymond of Capua, Life of St Catherine, 99–101,
explicitly noting the antecedent with “another Catherine, a martyr and queen.”
Hamburger, Nuns as Artists, 57, 239 n. 118. Ekserdjian, Correggio, 137–38.
Emiliani and Feigenbaum, Ludovico Carracci, no. 1. In Parmigianino’s red chalk
drawing of the subject for an altarpiece, c. 1523–24, the Child does not appear
at all: Franklin, The Art of Parmigianino, 104–06. Stone, Guercino, 84 n. 62.
Hamburger, Rothschild Canticles, 85–87, fig. 156 (and see fig. 159); Hamburger,
Visual and the Visionary, 409–10, fig. 8.5. Wood, Women, Art and Spirituality,
128ff, 252 n. 31, 253 n. 37. Gebauer, “Christus und Die Minnende Seele. Both
nuns and secular women were readers. Hamburger, Rothschild Canticles, 106–10,
155–62, f. 66r (Pl. 7); Perlove, Bernini and the Idealization. Bernini’s
motives included wanting to atone for his brother Luigi sodomizing a boy in St.
Peter’s (13–14). Brown, Immodest Acts, Weaver, “Spiritual Fun,” 177, 181–83.
Trexler, Public Life in Renaissance Florence, 194–96. Splenditello spoke in
three dialects: Brown, Immodest Acts, 160. Hamburger, Rothschild Canticles, 82,
179, cf. Song of Songs Kunzle, History of the Comic Strip, vol. 1, 23. Brown,
Immodest Acts, 162; Matter, “Interior Maps,” 64–65.Bibliography Barstow, Anne.
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Early Modern Italy. New York: Cambridge University Press, Thomas V. CohenLet us
take two tawdry events, male affronts to women, with social history’s eye to
assets, both cultural and material, and to the subtle exchanges that bound men
to men, women to women, and one gender to the other. This is social history in
nearly-literary mode, keen to read texts closely. We have text of two
kinds—first the words on paper provided by a small tangle of criminal trials.
If not the actual words spoken before and by the court or in the streets,
taverns, and brothels, still these records do come close. The conventions and
imperatives of the court itself, and the imperfect scribal hand have, as
always, refracted actual speech, but the Roman-legal habits of verbatim
transcription still offer material for close, thoughtful reading. Second comes
the fabric of the city itself, for our scoundrel and his allies prowled and
enjoyed their small corner of Rome, with its streets, squares, and assorted
monuments, an urban backdrop and firm anchorage for memories. The urbanscape,
so prominent both in what happened and in the telling, in itself invites a
reading no less close than the one we accord words on paper. So, before turning
to the deeds, note the spaces where they took place. We are in Rome’s Rione
Regola, or Arenula, a zone sometimes little changed from the 1550s and 1560s of
our stories. Nevertheless, the urbanism of first united Italy and then the Duce
made drastic alterations. In the later 1880s, the wide Via Arenula ripped
inwards from the Tiber, obliterating a web of streets and squares, and
demolishing the church and convent of Santa Anna, right under the grand 1890
apartment where I once lived and wrote. The church survives only in the names
of Via Santa Anna, and of a pleasant trattoria whose menu depicts my own abode.
A second nineteenth-century destruction obliterated the ghetto, replacing it
with a grand synagogue and some lumpish buildings. And then, under Mussolini,
nostalgia for the Caesars erased the medieval fabric around the fish market at
Pescheria, reducing tight neighborhoods to sterile archeology.So, to trace our
scoundrel and his entourage, we must fall back on the old maps, especially the
splendidly accurate Nolli Plan, and read street plans, the surviving urban
fabric, and words in court, together. The Nolli plan shows how, from 1555, once
the ghetto gates went up, a street our witnesses call the strada dritta became
crucial for mobility, especially at night. It is hard today to recapture that
very ancient urban street, today the Via del Portico d’Ottavia. Down by the old
ghetto, it is now so wide that restaurants sprawl into it to hawk carciofi alla
giudia, and, on their Sabbath, Rome’s Jews gather after services for a great
chiacchiera —communal conversation. Further north, Via Arenula and the unkempt
park in Piazza Cairoli, and a vague piazza before the baroque facade of San
Carlo, have all smudged the profile of this street, which, in the sixteenth century,
was no less tight than straight. Moreover, it was handy, skirting the ghetto to
link the fishmongers’ square at Pescheria to Piazza Giudia. It then passed the
palace of the Santa Croce, Renaissance in spirit but, like Palazzo Venezia,
still half-medieval in shape, with an ornamental square tower today lopped
short. The Santa Croce, banished by Sixtus IV, had lost their houses;
readmitted, they threw up this palace, with its elegant diamond-studding on the
wall. As the Nolli map shows, heading northwest, the street, at a bivio (a
fork), slotted into Via Giubbonari, a curving passage today still narrow.
Joseph Connors, in his “Baroque Urbanism,” discusses the extremely ancient
streets of this part of Rome, pointing out how they wander eastwards from the
bridge from Hadrian’s Tomb, now Castel Sant’Angelo, forking as they go.1 The
Renaissance papacy used these roads often, as a way to San Giovanni in Laterano
and across Rome, and palaces of the early Renaissance clustered along them. For
our nocturnal misdeeds, the wide network mattered little, but the local Strada
Dritta bore much social traffic. Our louche central character straddled
lines—moral, social, sexual, and religious. A liminal man, he was and is hard
to place, and his actions, crossing boundaries ethical and social, remind us
not to put Rome and Romans into boxes. His name reveals his hybrid
nature—Ludovico Santa Croce. At first glance, nothing strange there, but, as
genealogies show, the civic noble Santa Croce, descending, they believe, from
Publius Valerius Publicola, anti-Tarquin and one of Rome’s first consuls, in
the sixteenth century named their children almost exclusively from Livy,
Sallust, and Tacitus: not a Ludovico in sight. Moreover, law courts called him
“the son of the late Giovanni Antonio de Franchi” so, if he was a Santa Croce,
the noble house somehow adopted him.2 A friend, aware of this f limsy identity,
says of him, “The said Messer Ludovico si fa romano de casa de Santa Croce et
per romano il tengo.”3 Close reading: the friend does not call him a Santa
Croce: just “si fa”—“he claims to be”; the friend readily affirms his Roman
identity but, as to family, balks. But Ludovico, clearly, grew up some at the
family’s palace. A friend recalls: “I have known him for more than twelve years
in Rome and I knew him when he was a lad [ putto] here at the Santa Croce [qui
alli Santa Croce].”4 Magrino, the witness, a very recent Jewish convert (Feast
of the Annunciation, 1556), testifies not at the prison as is usual, but at
home, asIn bed with Ludovico Santa Croce 127he is sick, and with his “here at
the Santa Croce” shows how, now fatto christiano, he has moved a mere block or
so beyond the ghetto gate at Piazza Giudia to lodgings near the Santa Croce
palace. Ludovico is sufficiently Santa Croce that, back in Carnevale of 1557, a
noble Santa Croce helped bail him out of prison.5 But he is no signore; his
cronies call him messer instead. This title f lags both his status and its
ambiguity. In 1557, at his first trial here, Santa Croce is “about twenty-six,
as he asserts.”6 If so, then either his friend Magrino knew him longer than
twelve years or, back then, age fourteen, he had become a fairly lanky putto.
He was born in 1531 or so. By 1565, at the second trial, he would be
thirty-four. No sign of a marriage. His loves, we will see, were all casual,
among the whores. No sign, either, of a craft, trade, or civic office. He
probably still lived at the palace as, for sex, he took his hireling women to
the bathhouse (stufa) or bunked down with them at friends’ and seldom, if ever,
took them home. So how did he pass the days? He hung out at the Pescheria, the
fish market at one end of the Strada Dritta. And the company he kept:
fishmongers, Jews, and recent converts. Plus prostitutes. He ate, drank,
caroused, and got into abundant trouble. In 1565 the court asks for his
criminal record: I have been in prison three or four times, here in Tor di Nona
and in Corte Savelli. I don’t remember why. And his lordship asked him that he
at least tell for what crimes and excesses he was investigated and tried. He
answered: I cannot remember things that are fifteen or sixteen years old, but I
know well that I have not been under investigation either for homicides or for
ugly things [cose brutte]. It is true that I remember that I was in jail in
Corte Savelli for having had a brawl with another gentilhomo, and for it I paid
ten scudi to Messer Pietro Bello.7 Here, Ludovico is as evasive as his memory
is fuzzy; cose brutte indeed came up in court. The court asks after a
jailbreak.8 The fight was probably in Carnevale, 1557, when Pietro Bello was a
judge on staff. Ludovico was wounded in a brawl where he, a reluctant fighter,
stabbed a spice-trader in the chest.10 In a trial of another unruly gentleman,
the court asks the suspect’s serving woman if her master ever wanted to kill
our Ludovico. “I don’t know,” she says, “but know that the said Ludovico was
wounded once and that [my master] Pietro de Fabii rejoiced.”11 So Ludovico is a
man on many margins. A self-proclaimed gentilhomo, he haunts the edge of his
foster-family, in a neighborhood strung between Jews and Christians, and his
socializing crosses boundaries of station, ethnicity, family, community, and
moral action. So let’s join him for the evening. We begin not along the Strada
Dritta, but atop Piazza Navona, by Torre Sanguigna and the Pace church, with
two Christians, doublet-makers both. It was before Christmas, 1556.12 Antonio
Scapuccio and Mario di Simone came offwork at the Ave Maria sunset bell. Mario,
aged twenty, lived across town, by Santissimi Apostoli. With Antonio he went
back three years, from their work.13 As for Ludovico, Antonio had known him
since childhood: “at the time I and he were lads, we had a close friendship.”14
Antonio, via Ludovico, knew that Fabritio, another convert, kept a house where
friends gathered. “Antonio brought me to the house of Fabritio,
Jew-made-Christian, who sells ironware.”15 When the doublet-makers arrived,
Ludovico was there, with Magrino, and one Giulio Matuccio, and the host,
Fabritio.16 So began their evening. “We all decided, in agreement, to go find a
Signora called Vienna Venetiana, friend of the aforesaid Giulio Matuccio.”17
Mario adds: And when we were at Vienna’s house—she lived at Torre Sanguigna—
Antonio Scapuccio knocked on the door, and the mother, if I remember, said that
she had hurt her arm and could not keep us company, and that we should let her
off.18 Torre Sanguigna was far from Ludovico’s haunts. “We left and went to a
pie-shop, also near Torre Sanguigna, and got ourselves a pasticcio. And I don’t
remember which of us paid for it.”19 Magrino, a convert, adds that the pie
contained a shoulder of pork.20 Ludovico stepped in, announcing as they walked:
let’s fetch my whore!21 So entered Betta, a cortigiana grande, says Mario,
meaning not a top-rank prostitute, but, as Magrino says disparagingly, a big
tall woman—“una donna grande longaccia.”22 Betta lived near the stufa of
Felice, near the Cavaglieri family palace, two blocks north of the strada
dritta.23 As the five trailed after him, Ludovico vaunted his sex with her: And
Ludovico said it again, while he was going with us for that woman, and he was
heading to knock on her door . . . that last night he had slept with
this woman, and he said that she had a fine ass and that it gripped firmly.24
At Betta’s lodgings, the men remained outside. Ludovico called or knocked and
the prostitute came down, and, oddly, if she really had slept with him the
night before, in error she embraced the wrong man, as if Ludovico, though a
gentilhuomo, was hard to tell from the company he kept.25 “And we asked her if
she wanted to come to dinner with us, showing her the pasticcio, and she said
yes, and came away. And going down the street Messer Ludovico and she went arm
in arm.”26 The passage illustrates handsomely some workings of Roman
prostitution. Note how complex were the exchanges between these women and their
customers. Roman prostitution was seldom simple sex for plain cash. Like many
transactions in the economia barocca, it had wide bandwidth and complex
linkages forward, backward, and across society.27 Betta here accepted a promise
of food and entertainment, and furnished public gestures of affection, a gift
to Ludovico, who could f launt her to posse and to street.In bed with Ludovico
Santa Croce 129The party, with Betta making seven, retired to Ludovico’s
hang-out, the inn at Pescheria, called after its owner Domenidio.28 It was some
hour after nightfall.29 “All of us, in company, went to dinner at the aforesaid
inn, and we brought with us a pasticcio, and we ate.”30 To this osteria,
patrons readily brought food. After dinner, the whole group went to spend the
night at Fabritio’s dwelling, near Ludovico’s own house, where Ludovico, other
times that winter, sometimes brought women: “in the time that he was made
Christian . . . he lent me the room.”31 On the way, the men say,
Ludovico again boasted of anal sex with Betta.32 The room had but a single bed;
Fabritio, leaving the bed to his gentleman guest, hospitably withdrew to a
little attic, a solarello —“no great thing”—and slept.33 Magrino “gave the
command to fetch from home a mattress, which we threw on the f loor.”34
Ludovico and Betta undressed at once and slipped under the covers.35 There was
a bed curtain. It would have had many colors, and it was mine [Magrino’s]. And
to a question he answered: It was not spread around the bed but gathered to one
side.36 Ludovico, in his account, avers that the curtain was draped around the
bed. 37 While Magrino settled somehow on a chair, clothed, to spend the night,
the two doublet-makers and Giulio huddled on the mattress. Ludovico, meanwhile,
lay snugly in one convert’s bed and another convert’s hangings, in a convert’s
house. “Before the light was put out we were all joking and chatting, and
Messer Ludovico told us please to put out the light.”38 And then, as men
settled for the night, Ludovico thrust his arm out from the covers, making a
letter “O” with his index and middle finger.39 Lest he shame Betta he said
nothing, Antonio avers, but Mario claims he boasted loudly.40 Mirth erupted.
Everybody laughed at that and said to one another, “He has fucked her in the
ass. Fire! Fire!”41 The stake, of course. And slim regard for Betta! What is
going on here? The social psychology of this scene is tangled. We have three
Christian artisans, two ex-Jews on the f luid boundary of the ghetto, and one
semi-gentleman half outside his noble family, a troop cemented, perhaps, by
Ludovico’s leadership, occasional largess, and arrant breach of sexual and
moral rules. All six men share in Betta’s humiliation. Ludovico parades his
transgression and the risks he runs and, laughing, the cronies applaud and,
vicariously, thrill to his vulnerability. Collusion cements this solidarity.
Ludovico and Betta were the first to fall asleep.42 Much later, say the others,
invited by Ludovico to join them in the bed, Magrino left the chair, climbing
in still clothed, and fell asleep.43And then awoke, jostled by the bounce of
sex. I could feel it when he was screwing her, and she had her bottom towards
Ludovico and she was turned with her face toward me. And it was one time that I
felt it, and I did not see him stick it in because it was no affair of mine. I
know well that he was screwing her, and he was shoving her towards me, so that
it made me wake up.44 Magrino is remembering events before Christmas, almost
nine months earlier. The trial took place first at the Inquisition, at the
Ripetta. Halfway through, interrogations moved to the prisons of the Governor
of Rome. That is why this record survives. Precisely two years later, when Paul
IV died, Rome’s most tumultuous Vacant See broke out. Mobs attacked the
Inquisition’s Ripetta offices, burning the papers, and ransacked the house of
the tribunal’s notary.45 Later, Napoleon’s supporters would destroy the
Inquisition’s later trials, so a transcript such as this is rare indeed. Both
at Ripetta and later, this trial has a Holy Office feel; the magistrates
treated the courtroom as a confessional, sparing neither shame nor feelings
with their swift, intrusive questions. Why did the matter slip to the criminal
court? The crime in question, though moral and involving converts, revealed no
taint of heresy. Prostitution in mixed company was no crime and the court was
after anal intercourse. He was asked if on that night he the witness heard the
said Betta moaning and crying out, because the said Messer Ludovico was having
intercourse and fucking her [ futuebat] from the back. He answered: “I could
hear it when she was screwed the first time by Messer Ludovico. She was crying
out [si lamentava]. But one can cry out for several things.” And to a question
of me the notary he said: “She can cry out the way women do.” And I the notary
asked, “And how do women do?” He said, “They can cry out because it pleases
them and they can cry out because it hurts them too. But, one time, as I said,
I felt it when he screwed her.”46 When the Inquisition hauled her in, Betta did
her all to prove it wasn’t so. Her testimony about what went on in bed surely
did her little good, as, on point after point, she lied elsewhere about her
history with Ludovico, shown as far skimpier than others alleged. Her
testimony, earthy and vehement, catches well a prostitute’s voice in court. He
never did it to me in that place. It is true that Messer Ludovico told me to
turn around, that he wanted to do it cunt-backwards [a potta retro], and I told
him, “You want to trick me. You want to stick it in contrary-wise.” And he said
no, that he wanted to do it cunt-backwards, and so I turned around and he did
it to me cunt-backwards. I know where he went in, and if he was fooled, I was
not fooled.47In bed with Ludovico Santa Croce 131Betta appears twice in the
record. The first time, to cover for the weakness of her case, she regales the
judge with promises to live in virtue. If I had consented to the other way, it
would seem to me that God would not keep me on earth. And if I have done wrong
in one way, I don’t want to do wrong in the other. And if I get out of this I
want to go to Santa Maria di Loreto, and then to my home to do good works, and
I want to go this September. And if he wants to say that he did it to me from
behind against Nature, he is lying through his throat, and he is tricked, and,
me, I am not tricked, because I protect myself from this the way I do from
fire.48 The next morning, Betta, Ludovico, and most of the posse stayed.
(Mario, sleeping clothed, had slipped off early to his shop.)49 At breakfast,
the boasts went on: She never heard a word when Messer Ludovico told us that he
had twice screwed Betta in the ass, but he said it at length to us. He was
asked if the said Betta was at the table eating with them, how could Ludovico
have said those words, since they could be heard by Betta. He answered: I will
tell you. We were kidding Ludovico . . . and when he said it at the
table she had not yet sat down.50 As current events show sadly, Renaissance
Italy was hardly the only place where, for some admirers, the swaggering abuse
of women gives callous men allure. Jump eight years ahead. It was 1565, not
1557, and Ludovico was now some thirty-four years old. Still unmarried, still
at loose ends, he haunted the same tight quarter, up to little good. He had a
new entourage; none of the same men turn up. At the center, as ever, sat that
osteria of Domenidio, in Pesheria. His cronies were, this time, two or three
fishmongers and one Cesare Vallati, son of the civic noble family that owned a
palace on the square, facing its ghetto gate. The Vallati house still stands, pared
back to its medieval core, which now bears sad plaques about Roman Jewish
deaths at Nazi hands. Cesare was gentleman enough to hold, they said, a civic
office.51 On Friday, November 23, the friends stirred up dinner at the inn.
Meo, fishmonger, says: Ludovico Santa Croce came to me, as I was in Pescheria.
It may have been a half-hour after dark, and he asked me if we wanted to go to
dinner together at the osteria of Domenidio. I said yes and so I picked up some
fish, and along with Grillo and Ludovico we went to the osteria of Domenidio,
and while we were setting up to eat Cesare arrived and said, “I want to eat
with you,” and so he too sat at the table and we were four in all.52Meo reports
that, when he left his fish-bench, he brought sardines, while Grillo fetched
clams.53 In the midst of dinner, “a Jew”—nobody names him, ever— joined the
group; no sign he ate with them.54 After dinner, except Grillo, all left
together. “Let’s go to the house of my whore,” said Ludovico. “We said, ‘let’s
go!’ and Cesare said, ‘I want to join you.’”55 The court asks later, did Cesare
and Ludovico go with sword in hand?56 Probably. The men took the strada dritta,
the ghetto to their left, the Santa Croce tower to the right, over to Il
Crocefisso, behind or under where the big church of San Carlo later stood.57
Ludovico’s woman of the month was Olimpia, who, it turned out, was off with an
amico, a regular of hers, who, she says, felt ill, so she headed homeward with
a Lorenzo stufarolo in tow.58 But when Ludovico and his cronies arrived, only
the house’s mistress, Lucretia, was yet home. Olimpia calls Lucretia the house
padrona; in court, Ludovico will call her a whore, whom he has known for years,
presumably hooking up with tenant after tenant. At Olimpia’s front door, the
four men, masking voices and pretending to speak Spanish, shouted, “Open up the
door!” Lucretia: “They banged six or seven times, for I was not of a mind to
open, ever.”60 At last I went to the window and told them that I did not want
to open for them under any circumstances, and told them to change their talk
because no way could I not recognize them. I knew them just fine, but, with my
tenant not home, and because, I knew, they wanted nothing of me, I had no
intention of opening for them. Instead, I said, I would throw water on their
heads if they did not get away from the door.61 The four men loped east to Via
dei Chiavari, still in Lucretia’s sight.62 There they encountered a second
Lucretia. Wife of wealthy Cyntho Perusco, and mother of two children, she was
returning with a servant—but with no light, lest she be seen and
recognized—from a call on her procurator.63 Two men armed with swords and
daggers, with their swords under their arms and the daggers in hand unsheathed,
came at us and at once they stopped me and one of them put his hand to my neck,
feeling my neck, thinking that perhaps I had some chain necklace or string of
gems.64 And I said to them, “I am a poor woman. What do you want of me?” And I
was screaming, “Thieves thieves!” When they heard that, they let go of me.65
Giovanni Maria, the servant, thought he recognized one of the four assailants:
“Ah Meo, why are you doing this to us?”66 Meo at once hid his face behind his
cape.67 Giovanni Maria’s assailants, Meo and the Jew, grabbed him. “They were
holding on to me and they told me to keep silent, and they held the naked
daggers to my neck.”68 The assailants released their quarry, only brief ly.
Lucretia will tell the Governor: “When we had walked three or four paces, the
same men,In bed with Ludovico Santa Croce 133with some others, made a circle
around me and some of them grabbed me from one side and some from the other,
putting their daggers to my throat.”69 Giovanni Maria tells the Governor: “they
began punch me and shove me and they threw me to the ground.” 70 Adds Lucretia:
And they took from him a pouch. In it were ten giulios, between testoni coins
and giulio coins, and a gold ring that was mine, with a Jesus on the top, and
on the bottom, there is a “claw of the great beast” [a fabled stone with
curative powers], which was also in that pouch, and they took from it also the
belt and a handkerchief. The ring contains 18 giulii of gold.71 Giovanni Maria
adds that the pouch had been tied to his waist and that Lucretia had removed
her ring to wash her hands.72 One of the band of four, almost certainly Cesare
Vallati, as Ludovico was by now no youngster, may have had second thoughts:
When this [theft] was done one of those youngsters took me by the hand and told
me, “Come here. I promise you as a gentleman that I will not hurt you.” And he
asked me, who was that woman. And I told him that she was not for them, and
that they should let her go, and that she was the wife of Messer Cynthio
Perusco.73 Ludovico had other ideas. One of the two underlings, probably not
the Jew but Meo, asked him “Messer, what are we to do?” “Carry her off, carry
her off!” 74 And they tried with all their might to lead me to a house, for
they took me by force and they dragged me . . . But I cried out,
“Thieves! Thieves! Is this how you assassinate people in the street!” And I
told them that I had nothing on me and that they should come to my house, that
was near there.75 The assailants hauled Lucretia into an alley.76 Lucretia was
convinced that they wanted to drag her to a stufa, a bath house of the sort
Ludovico haunted. As they pulled her, Lucretia fell in the mud, losing her
pianelle, her clogs. “She told them that her clogs had fallen off, and they
told her to keep walking, and they were making her walk up that alley, leading
her, as there were three or four around her.” 77 And then, providentially, down
the alley came two men, in front a servant with a torch, and, behind him, his
master, Agostino Palloni, a man of substance whose house stood close to the
Santa Croce palace.78 And when the light arrived, I recognized the gentleman,
and I begged him for the love of God to help me. And while I was saying those
words, one of those young men, who had dragged me, as he thought that the light
was not coming from that side and that he would not be seen—Messer Agostino
recognized one of those young men, who is called Cesare Romano.And at that
Messer Agostino said, “Ah Cesare, what are you doing [che fai]. What is this!
Do you see that you [tu] are doing wrong?79 Turning towards Agostino, says
Giovanni Maria, Lucretia tripped on an iron grate and once more fell and then,
as supplicant, grasped his cape: “Ah, Messer Agostino, don’t abandon me
. . .!”80 Agostino, Lucretia, and Cesare then stood together, a
threesome. First off, Cesare, to catch his social balance, tried to place
Lucretia as a Roman matron. Then Agostino did the same. Giovanni Maria tells
the Governor: The man whom Agostino had called Cesare asked Madonna Lucretia if
she knew Cyntho Perusco. She said, “Yes, I know him, and I have two children
with him, and he is my husband.” And Messer Agostino asked Madonna Lucretia if
she knew Messer Francesco Calvi, and she said yes, and if he came to her house
with her she would show him her daughter.81 Gentleman to gentleman! Cesare Vallati,
in night’s shadow, had strayed well outside his class’s code of conduct, and
Agostino’s torch jolted him back from the abyss. He switched codes as nimbly as
he could. Then Messer Agostino turned to Cesare and told him, “Cesare, son, you
have done wrong.” And then Cesare told Messer Agostino to leave, and said that
he would have Madonna Lucretia escorted by a servant of his.82 No such thing
happened, of course. After questions to Lucretia about how she came to be out
after dark, Agostino, with his torch and serving man, conveyed them both back
home.83 At her window, the other Lucretia, the madam, had seen and heard the
fracas. Outraged, woman to woman, she strove to allay the trouble. I heard a
woman who was starting to scream, and when I looked toward where I heard that
cry, I looked and saw a woman with a man, and she was screaming, “What do you
want with me, brothers, pull the door rope for me, pull the door rope for me!”
and when I heard those words, I feared it might be some neighbor, and I knocked
on the window of Diana and told her, “Listen to your sister who is screaming,”
and she answered, “My sister is here at home.”84 While Cesare and Agostino
parleyed, the other three miscreants probably crept away, and soon, all four
were back at Olimpia’s door. This time they had luck, as Olimpia turned up,
with Lorenzo her bathhouse worker, and his lute. “I came back home and I found
Ludovico Santa Croce there at my door, along with Meo the fishmonger and with
two others whom I did not know, but there was aIn bed with Ludovico Santa Croce
135Jew.”85 Lucretia opened for Olimpia and, willy-nilly, in came all the
others, with Ludovico, as usual, in the lead.86 Note Lucretia’s version: At
that moment, my tenant called Olimpia arrived, along with an amico called
Lorenzo the bathhouse worker, who played the lute, and I had to pull the rope,
and then there came in, along with my tenant, Ludovico Santa Croce, Meo, Cesare
Vallati, and a Jew.87 We learn from Olimpia several things. For one, the Jew
was a stranger, known only, presumably, by his obligatory Jew’s cap. For
another, Cesare Vallati had rejoined the crew. And, for a third, while she knew
Meo, Vallati, a stranger to her if not to the madam, was less central to
Ludovico’s habitual posse. Neither he nor the Jew had been part of the dinner’s
start; though locals, they were hangers-on. When the men entered, Lucretia, the
madam, upbraided them. “And when they were up the stairs, I said to them, ‘Oh
this is a fine state of affairs! Poor women cannot go in the street.’ And they
told me that they weren’t the ones who did it.”88 Lorenzo, with the lute, would
prove Ludovico’s undoing. The men all stayed a while in Olimpia’s room,
listening to him play. And then Ludovico led Olimpia off to the Santa Anna
stufa to spend the night. The other three escorted him down the block, then
went their separate ways.89 We catch a bit of the denouement via Barbara, Meo’s
ex-puttana, who, she tells the court, had after three years broken with him
because he owed her big money on borrowed goods. Barbara had moved to Monte
Savelli, just a block down-river from Pescheria.90 I went to bed without dinner
because I felt ill, and while I was in bed with Annibale the fish-monger I
heard passing in the street Cesare Vallati with other people whom I did not
see, and he said, “Your faithful servant, Signora Barbara, my heart!” I made no
answer.91 Annibale and Barbara went back, she says, three years; she swam as
easily among the fishmongers as a mackerel in the sea. But Cesare Vallati,
clearly, slipped through these same waters; in the intimate spaces of the city,
these men and women moved up and down class lines. Annibale, when asked, would
tell Madonna Lucretia what he knew about the crime. Small world!92 The very
next day, Madonna Lucretia sent her servant to scout the local bathhouses.
Lorenzo, the fellow with the lute, a paesano, led Giovanni Maria to Ludovico
and Meo, who would be arrested on Monday, together.93 At Olimpia’s, the four
men, said Lorenzo, had been “in a terrible mood and all of them distressed.”94
Agostino Palloni, meanwhile, refused to help Lucretia—“he sent word to me
through Cynthio that it wasn’t a gentleman’s role to accuse anybody, and that
was it was enough that I had suffered no harm.”95 Citing class solidarityhe
covered for Cesare Vallati, who either f led or ducked prosecution. The Jew,
luckily nameless, got away. We have neither a sentence nor knowledge what our
four villains did with the rest of their lives. Our story of status slippage
and hasty re-calibration, coarse male solidarity, callous abuse of women, and
female resilience models a careful reading of words, places, and actions, with
an eye to the density of webs and the fine-grained texture of lives in time and
space, to lay out the ref lexes with which Romans navigated their city.
Ludovico, uneasily perched on several margins, could build coalitions, trading
his noble connections, hospitality, slovenly rapaciousness, and access to paid
female sex and company for male support and applause. To Cesare he offered a
pathway down, to the others perhaps a step upwards. These male solidarities in
a moral grey zone show the porosity of Rome’s social boundaries and its
alliances’ often easy give.Notes 1 Connors, “Alliance and Enmity,” 208–09. 2 Archivio di Stato di Roma, Governatore, Tribunale
Criminale, Processi (16o secolo), busta 38, case 23, folio 568r: “Ludovicus de
S. Cruce filius q. Io. Ant. d. Franchis.” Henceforth, I give busta and folio only. 3 38.23,
559v: Antonio Scapuccio, August 15, 1557, to a notary at the Holy Office. 4
38.23, 573r, Magrino, August 26, 1557, at home sick, to a notary. 5 38.23,
579v: Ludovico cites Valerio Santa Croce and noble Mario Mellino. For Magrino’s
conversion at the Annunciation in 1555: 38.23, 573r, Magrino. 6 38.23, 568r. 7 Busta 103, 909r: Ludovico Santa Croce:
“. . . costione con un altro gentil’homo . . .” “fregit
carceres et unde exivit.” 9 38.23, 572v: “questo carnevale [1557]
. . . messer Ludovico uscii di pregione in Corte Savella.” 10
Investigazioni 80, 181v–183v, for 23–24, from June, 1563. 11 38.19, 461v:
“. . . se ne reallegrava.” 12 38.23, 577v: Betta: “. . . avanti
natale.” 13 38.23, 562v-563r: for age and employment; for the friendship and
the workplace: 38.23, 562v–563r. 14
38.23, 559v: “eravamo regazi havevamo amicitia intrinseca insieme.” 15 38.23,
562v: Mario: “Fabritio giudio fatto Cristiano che venne li ferri.” 16 We know
little about Giulio, never interrogated. Ludovico seems to place him among the
converts: 38.23, 570r–v: “Vi pratica in questa casa Julio Mattuzzo, Fabritio
doi o tre altri giudei facti christiani . . . de continuo li se ce
vengono giudei et d’ogni sorte de generatione.” But no other witness calls Giulio a convert. 17 38.23,
563r–v: Mario. 18 38.23, 563v: Mario: “. . .
lei o la madre . . . disse che era ferita in uno braccio et che non
posseva abadarci et che lavessemo per scusata.” 19 Ibid.: Mario:
“. . . a un pasticciero pur presso Torre Sanguigna et pigliassemo un
pasticcio . . .” 20 38.23, 574r: “comprassemo una spalla de porco.”
21 38.23, 564r: Mario: “. . . disse per la strada che voleva pigliar
detta cortigiana.” 22 38.23, 573v. 23 38.23, 563v: Mario: “apresso la stufa de
Felice presso li Cavalieri.” 24 28.23, 561r: Antonio Scapuccio:
“. . . ando con noi per dicta donna et voleva bussare la porta
. . . che haveva bravo culo et teneva bene.”In bed with Ludovico
Santa Croce 13725 38.23, 574: Magrino, for Ludovico’s call: “Messer Ludovico
chiamandola . . .”; 38.23, 564r: Mario: “credendosi di abracciar
messer Ludovico abraccio un altro in loco suo in cambio.” 26 38.23, 564r:
Mario: “Mostrandoli il pasticcio et per la strada messer Ludovico et liei
andavano abracciati insieme.” 27 Ago, Economia barocca. 28 38.23, 560r: Antonio
Scapuccio: “l’ostaria de Domenidio in Piscaria.” 38.23, 574r: for the name’s origin. 29 38.23, 564r:
Mario, for the time. 30 38.23, 560r:
Antonio di Scapuccio: “tutti de compagnia . . . portassimo
. . . un pasticcio . . .” 31 38.23, 568v: Ludovico Santa
Croce: “. . . Fabritio giudio facto christiano apresso
. . . [a] casa mia nel tempo che e facto christiano et lui me
impresto la stantia”; 38. 560r: Antonio Scapuccio: “presso la casa de Santa
Croce.” 32 28.23, 561r: Antonio Scapuccio for the boast: “et di poi che
andassemo a magnar a l’ostaria . . .” 33 38.23, 574v: Magrino: “un
solaretto di sopra quale era poca de cosa”; 38.23, 572r: Fabritio: “dormivo io
sopra una solarello.” 34 38.23, 560r: Antonio Scapuccio: “. . . un
matarazo quale lo buttassemo in terra.” 35 38.23, 574v: Magrino:
“. . . spogliati si misero sotto li panni.” 36 38.23, 574v–575r:
Magrino: “un paviglione che saria de piu colori quale era il mio
. . . radunato da una banda.” 37 38.23, 569r. Ludovico claims to have closed the
curtain: “mettevo il paviglione atorno.” 38
38.23, 564v: Mario: “et avanti che la lume fosse svitata stavamo a burlare et
ciancinare . . . che di gratia volessemo svitar la lume.” 39
38.23, 561v: Antonio Scapuccio: “. . . facendo un zeno con il deto
grosso et con il deto indice facendo uno O designando che lui haveva chiavato
nel culo dicta donna”; 38.23, 564v: Mario: “Dicendo forte con noi altri Nel
proprio facendo con il detto grosso et con il indice il tondo.” 40 38.23, 561v:
Antonio Scapuccio: “lui non diceva chiaramente per rispecto de dicta donna che
non volea svergognarla”; Loudly: Mario: “Dicendo forte.” 41 Ibid.: Antonio
Scapuccio: “. . . la chiavata in culo foco foco.” 42 38.23, 574v:
Magrino: “forno primi messer Ludovico et la donna.” 43 38.23, 574r: Magrino,
for sleeping clothed: “et io ancora dormi . . . vestito”; for much
later: 38.23, 560r: Scapuccio: “Giovanni Maria . . . dipoi a un gran
pezo . . . se ando a corigare nel medemmo lecto.” 44 38.23, 575r:
Magrino: “io ho inteso quando lui la chiavava et lei teneva le natiche verso
Ludovico et lei voltata con il viso verso di me et io una volta il sentia et io
non lho visto metter dentro perche io non ce ho tenuto le mane. So bene che la
chiavava et lui sbatteva detta [no noun] verso di me che mi fe svigliato.” 45 Hunt, The Vacant See,
183–84. 46 38.23, 575v: notary and Magrino: “. . . langere et
lamentare eo quia . . . ipsam retro negotiabat et futuebat. Respondit io sentivo che le quando fu chiava[ta] la
prima volta da messer Ludovico si lamentava. Ma si posseva lamentare de piu
cose . . . Si posseva lamentare come fanno le
donne . . . Se posono lamentare che li sappia bono et si posono
lamentare che se li faccia male ancora. Ma io una volta come o detto o sentito
che l’habia chiavata.” 47 38.23, 577v: Betta, August 23, 1557: “lui mai ha fato
in tal loco e e ben vero che messer Ludovico mi disse che mi voltassi che me lo
voleva far a potta retro et io li disse tu me voi gabare tu me voi mettere al
contrario et lui disse de no che il voleva fare a potta retro et cossi io mi
voltai et mi fece a potta retro. Io so dove intro. Si lui se e gabbato non me
sonno gabbata io.” Betta, August 21, 1557: “. . . mi parrebbe che dio
non mi tenesse sopra la terra et se ho fatto male per una via, non voglio far
male per laltra, et si io ne esco voglio andare a Santa Maria de Loreto et poi
a casa mia a far bene . . . et se si gabba lui non mi gabbo io,
perche me ne guardaro come dal fuoco.”49 38.23, 565r: Mario. 50 38.23, 576r–v:
“Lei non intese mai parole . . . Noi davamo la baia a Ludovico
. . . quando lui il diceva a tavola lei non se ce era messa
ancora.” 51 103, 911r: Ludovico: “me pare che sia cancelliero de conservatori.”
52 103, 906v: Meo: “. . . voleamo andare a cena al’hostaria de
domenedio insieme . . . et cosi righai certo piscio et
. . . andammo alhosteria . . . et mentre voleamo cenare
arrivo li Cesare . . . lui se messe a tavola et cenammo tutti quatro
insieme.” 53 103, 907r: Meo: “portai certe sarde . . . et Grillo
porto certe telline.” 54 103, 907v: Meo: “un’hebreo . . . venne
. . . mentre che magnammo.” 55 103, 907r–v: Meo: “voliamo andar a casa
della mia puttana et noi dicemmo andamo et Cesare ancora disse io ve voglio
fare compagnia.” 56 103, 911v. 57 The present Via del Monte della Farina was
then Via del Crocefisso, named for church, San Biagio del Crocefisso (or del
Annulo), demolished circa 1617 to expand San Carlo: Lombardi, Roma, 222; Delli,
Le Strade, 339; Gnoli, Topografia, 91; Adinolfi, Roma, 171. Olimpia probably
lived towards San Biagio. 58 103, 913r: Olimpia: “da uno amico mio quella sera
. . . tornai a casa et trovai Ludovico Santa Croce li alla mia
porta”; 913v for the name Lorenzo. 59 103, 918r: Ludovico: “sono parecchi
anni.” 60 103, 917r: Lucretia the madam: “parlando spagnolo et contrafacendo il
parlare loro solito . . . apri qua la sporta che batterno sette o
otto volte ch’io non li volsi mai aprire.” 61 Ibid.: “. . . non li
volevo aprire . . . dovessero mutare parlare perche non potessi di
non cognoscerli, . . . ma per non ci esser’ la mia pigionante in casa
et sapendo che non voleano niente da me io non li volsi aprire anzi
. . . haverci buttato del acqua in testa se non si fussero levati
dalla porta.” 62 Ibid.: “correre verso li Chiavari.” 63 103, 889r: Lucretia the
wife: “retornandome . . . senza lume et con una cannuccia in mano per
non esser vista ne conosciuta.” One Cynthio Perusco lodged by the Minerva:
Bullettino della Commissione archeologica comunale di Roma 29, 15. One puzzle: on October 7,
1567, a Cinzio Perusci by San Marcello, not the Minerva, buried a wife named
not Lucretia but Ortensia. de Dominicis, Notizie biografiche, 275; And, at
court, (103, 899r) Lucretia appears as “Lucretia q. Petri”—no father’s family
name, no husband’s name. Is
Lucretia a femina, a semi-wife? 64 Ibid., r–v: Lucretia: “Doi armati
. . . me si ferno incontro et subbito me fermorno et un di loro me
misse la mano al collo tastandomi il collo pensando forsi ch’io havessi qualche
collana o vezza.” 65 Ibid., v: “. . . io son poveretta che volete da
me strillando ai ladri ai ladri . . . me lasciorno”; the servant
confirms this and notes that other men were also holding Lucretia: 103, 902r.
66 103, 902r: 25: “. . . perche questo a noi.” 67 Ibid.: “se misse la
cappa inanti il viso et pero non posso saper’ ne poddi veder’ se l’era quel
Meo.” 68 Ibid.: “. . . pugnali nudi presso alla gola.” Why daggers?
The gentlemen, with their swords, held Lucretia. 69 Ibid.: Lucretia:
“. . . un cerchio intorno et chi mi pigliava da un canto et chi dal
altro mettendomi li pugnali alla gola.” Giovanni Maria: Ibid., 902r: “ci
fermamo per paura.” 70 Ibid.: Giovanni Maria: “. . . dar de i pugni
et d’urtoni et mi buttorno in terra.” 71 103, 900r: Lucretia: “. . .
con un yesu di sopra et di sotto c’e l’ongia della gran bestia . . . ancho
la cintura et un fazzoletto: che l’anello ci e 18 giulii d’oro.” This “yesu” may have been a
monogram. Giovanni Maria confirms almost all these goods. 72 103, 902r–v: Giovanni Maria: “una scarsella che io
portava cinta. . . . a tenere lavandosi la mano . . . messo
in la scarsella.” 73 103, 902v: Lucretia: “. . . vi prometto da
gentilhuomo de non ti far dispiacer . . . che non era per loro
. . . che era moglie di Messer Cynthio Perusco.” Cesare had yet to
hurt the servant.In bed with Ludovico Santa Croce 13974 Ibid,: Giovanni Maria:
“messer che volemo fare . . . menavola via menavola via.” See also Lucretia: 103, 899v:
“menala su menala su strascinala.” Why do we say Meo and not the Jew? Note
Meo’s ongoing relationship with Ludovico, their habit of joint action, plus
that prompt “Messer.” 75 103, 899v:
Lucretia: “. . . con molta instanza di menarmi in una casa che
. . . per forza . . . me strascinavano
. . . a i ladri a i ladri a questo modo si assassina alla strada,
. . . che venessero in casa mia . . .” Why this invitation? Probably
demonstrate her station, not to proffer loot. 76 103, 199v: Lucretia: “per andare al arco delli
catinari.” The present Via dei Falegnami then was Via dei Catinari: Gnoli,
Toponomia, 69. This Arco was demolished for San Carlo ai Catinari: Gnoli,
Toponomia, 11. 77 103, 903r: Giovanni Maria: “. . . gl’era cascate le
pianella . . . diceano che caminasse . . . la faceano
camminar . . . tre o quattro attorno.” See also Lucretia: 103, 899v:
“cascai in terra in un fangho et lasciai li pianelle.” 78 For Agostino Pallone’s
house, see Cohen and Cohen, Words and Deeds, 136. For the two men: 103, 903r: Giovanni Maria: “arrivò
quel che portava la torcia accesa et . . . mr Agostino Palone
. . . per il medesimo vicolo.” In 1577, Agostino would be buried in
Santa Maria in Publicolis, the Santa Croce family church: de Dominicis, Notizie
biografiche, 267. 79 103, 899v–900r: Lucretia: “. . . cognobbi detto
messer . . . per l’amor de dio che me aiutasse . . .
pensandosi che il lume non venesse da quella banda et de non esser visto detto
mr Augistino cognobbe . . . Cesari romano, al quale disse Mr.
Augustino ah Cesari che fai, che cosa e questa[!] . . .” 80 103,
903r: Giovannia Maria: “casco con una gamba in una ferrata et . . .
se attacò alla cappa di Messer Augistino . . . Mr Augustino di
grazia. non me abbandonate per l’amor de Dio.” 81 103, 903r–v: Giovanni Maria:
“. . . se conosceva Cyntho Perusco, et lei disse si che lo cognosce
et ho doi figli con lui et e mio marito et . . . se la conosceva
messer Francesco Calvi et lei disse de si . . . se li andava in casa
con lei che li mostraria la figlia.” 82 103, 903v: Giovanni Maria:
“. . . Cesari figlio tu hai fatto male . . . che andasse
via che farria accompagnare Madonna Lucretia da un suo servitore.” 83 Ibid.;
Lucretia: “m’accompagno con la torcia.” 84 103, 917r–v: Lucretia the madam:
“. . . guardai et viddi una donna con un’homo che cridava: che diceva
che volete da me fratelli che volete da me fratelli et diceva tiratimi la corda
tiratimi la corda . . . dubitando io che non fusse qualche vicina, io
bussai alla fenestra della Diana . . . senti quella tua sorella che
crida . . .” “Tiratimi la
corda” here refers to Lucretia’s door-rope: “open up for me!” with a dative. 85 103, 913r: Olimpia: “. . . trovai
Ludovico Santa Croce li alla mia porta assieme con Meo pescivendolo et con doi
altri . . . ci era un’hebreo.” 86 Ibid.: Olimpia: “. . .
Ludovico fu il primo”; 103, 918: Ludovico Santa Croce: “il primo io d’intrare
in casa.” 87 103, 917r: Lucretia the madam: “. . . Olimpia insieme
con un’ suo amico che si chiama Lorenzo stufarolo, quale sonava di liuto. Et me
bisogno tirar’ la corda et alhora intro . . . Ludovico Santa [Croce]
Meo Cesar Vallati et un hebreo.” 88 103, 917v: Lucretia the madam:
“. . . o bella cosa, le povere donne non ponno andare per la strada
et loro dissero che non erano stato.” 89 103, 913v: Olimpia, “Meo et l’altri ci
accompagnorno sino alla stufa et poi se ne andorno con dio”; 914v: Meo:
“insieme alla stufa et poi io me ne tornai a casa mia e Cesare e l’hebreo
andorno a fare i fatti suoi.” 90 103, 922r: Barbara claims Meo has been her
amico for three years; 103, 904r: Barbara: “e un mese ch’io l’ho lassato perche
non mi piace piu l’amicitia sua et perche ha dieci scudi delli mei in mano.” Monte Savelli is today’s
Teatro di Marcello, now stripped bare by archeology. 91 103, 922r: Barbara: “me ne andai a letto senza
cena perche io me sentivo male et mentre ch’io stavo a letto con Annibale
pescivendolo sentei passare per la strada Cesare 92 93 94 95Vallata con altre
genti . . . et disse servitor’ Signora Barbera cor mio ch’io non li
resposi altrimente” 103, 914r: Giovanni Maria: “madonna Lucretia domando a
. . . pescivendolo predetto per che causa fussi preso questo messer
Ludovico et . . . rispose che fu preso perche haveva preso una
donna nella strada.” 103, 905v: Meo, on Tuesday: “io fui preso hiermatina in
Ponte ch’io non so perche causa assieme con Messer Ludovico Santa Croce.” 103,
901r: Lucretia the wife: “et che stavano molto di mala voglia et tutti afflitti.”
103, 900v: Lucretia: “lui mi mando a dir per il detto Cynthio che non era
offitio da gentilhomo di accusar nesuno e che mi bastava che io non havessi
ricevuto mal nesuno.”Bibliography Archival sources Archivio di Stato di Roma,
Governatore, Tribunale Criminale Processi (16° secolo), busta 38, case 19
Processi (16° secolo), busta 38, case 23 Processi (16° secolo), busta 38, case
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dell’Arquata, 1984. Hunt, John M. The Vacant See in Early Modern Rome: A Social
History of the Papal Interregnum. Leiden: Brill, In two unrelated
sixteenth-century texts, a Renaissance prince was described as vulnerable to
assassination because of a f lawed fashion judgment. In his Historia patria
(published 1503), the courtier Bernardino Corio recounted that just before
Galeazzo Sforza left his castle on December 26, 1476, he put on and then took
off his corazina because he felt that the chest armor made him look “too fat.”1
The lack of armored protection was crucial as Galeazzo was famously stabbed to
death during mass later that day. In his analysis of the event, Timothy McCall
provocatively suggests that Galeazzo’s fatally bad judgment was determined by
fashion; Galeazzo, according to McCall, was inf luenced by the growing pressure
to conform to cultural expectations of a slim masculine figure.2 Sixty years
later, a Florentine prince was murdered by stabbing, and similar to the
description of Galeazzo Sforza, a chronicler of the episode points to
clothing’s role in the affair. Benedetto Varchi’s Storia fiorentina (incomplete
at his death in 1565) recounts that just before Duke Alessandro de’ Medici left
his bedchamber on the night of his murder in 1537, he contemplated whether he
should wear his gloves “da guerra” (for war) or his perfumed gloves “da fare
all’amore” (for making love).3 According to the story, Alessandro chose the
love-gloves as they better matched his sablelined cape and were suited to his
planned sexual escapade. He apparently chose unwisely. Elizabeth Currie argues
that Varchi added this presumably invented anecdote about gloves in order to
communicate—through sartorial metaphors—the gap between Duke Alessandro’s
expected dutiful behavior and his actual irresponsible conduct.4 To Currie’s
analysis, I add that the glove anecdote also participates in what had become a
literary pattern of associating men’s clothing with physical weakness. If, in
the first episode, the author indicates how a soft doublet made Galeazzo
defenseless to the knife blade, in the second, the writer implies that the
outcome of Alessandro’s evening might have been different had the princechosen
his gloves “da guerra.” The two historiographical accounts of Galeazzo’s and
Alessandro’s murders underscore not only the high stakes of men’s clothing
choices but the relationship between literary representations of dress and
elements of masculinity. Varchi, like so many writers of the fifteenth and
sixteenth century, chose to articulate men’s dress as integral components in
representations of violence, war preparedness, moral virtue, and sexuality.
Clothing was thus fundamental to Renaissance discourses of masculinity. While
masculine subjectivity as performed through dress has been the focus of several
excellent studies by fashion and art historians, what has gone somewhat
unexplored is how clothing functioned in such discourses of masculinity.5 Was,
for example, clothing presented as a symptom of men’s loss of masculine virtue
or did writers claim that clothing had a more active role in the imperilment of
men? Did so-called effeminate clothing cause men to weaken, or was it merely a
byproduct of a so-called anima effeminato? This essay will address these
questions by looking at the interconnection of male dress, effeminacy, and
militarism in Baldassare Castiglione’s Libro del cortegiano (Book of the
Courtier). I have chosen to concentrate on Castiglione’s Courtier because of
its prominent place in the history of dress and fashion as well as its role in
the history of masculinity.6 The Courtier presents male dress as a high-stakes
enterprise; a misstep in clothing not only had grave consequences for a man’s
reputation, it was also a question of life or death. Like the gloves of
Alessandro de’ Medici and the cuirass of Galeazzo Sforza, a man’s clothing
choice could lead to glory or personal injury, and it could also result in (at
least in Castiglione’s assessment) large-scale military defeat.Arms in the
Courtier Very early in the book, Ludovico da Canossa declares arms to be the
primary profession of the courtier [1.17].7 Yet, the privileged status of arms
is not a settled question, and it is destabilized during a debate of arms vs.
letters.8 The debate is framed by the same Ludovico, who asserts that the
French only respect arms and abhor letters. Ludovico extols the value of
letters by describing several successful military generals who trotted off to
battle with copies of the Iliad or other literature at their side. His examples
of successful and literary generals are offered as proof that the French were
erroneous in their belief that literature damaged a man’s ability to fight: “Ma
questo dire a voi è superf luo, ché ben so io che tutti conoscete quanto
s’ingannano i Francesi pensando che le lettre nuocciano all’arme” (1.43, p. 92)
(But there is no need to tell you this, for I am sure you all know how mistaken
the French are in thinking that letters are detrimental to arms) (1.43, p.
51).9 Ludovico’s accusation of the misguided French could as well have been
leveled against Italian contemporaries of Castiglione, since none other than
Niccolò Machiavelli himself was proclaiming that letters were injurious to arms
in both his Art of War as well as his Florentine Histories.10Contrary to the
view of the French (and Machiavelli), Ludovico proposes that letters are
beneficial to arms; letters bring glory, and glory inspires courage in warfare:
“Sapete che delle cose grandi ed arrischiate nella guerra il vero stimulo è la
gloria. . . . E che la vera
gloria sia quella che si commenda al sacro tesauro delle lettre” (1.43, p.92)
(The true stimulus to great and daring deeds in war is glory. . . . And it is true glory that is
entrusted to the sacred treasury of letters) (1.43, p. 51).11 When Ludovico
notes that literature, like the Iliad, could have a positive effect on
soldiers, he shifts the debate that began with the hierarchy of arms and letters
to the correlative and causative relationship between arms and letters.12 For
Ludovico, arms and letters are “concatenate” (conjoined) (1.46). Ludovico’s
assessment of the positive effects of letters on arms is troubled by the fact
that France, at least since 1494, had proven itself to be militarily superior
to Italy. He hedges his argument in a prebuttal, acknowledging that others
might cite recent French military success as evidence against his claim: “Non
vorrei già che qualche avversario mi adducesse gli effetti contrari per
rifiutar la mia opinione, allegandomi gli Italiani col lor saper lettere aver
mostrato poco valor nell’arme” (1.43, p. 93) (I should not want some objector
to cite me instances to the contrary in order to refute my opinion, alleging
that for all their knowledge of letters the Italians have shown little worth in
arms) (1.43, p. 51). To this objection, Ludovico states that the defeat of
literate Italians by illiterate French is the fault of only a few men: “la
colpa d’alcuni pochi aver dato, oltre al grave danno, perpetuo biasimo a tutti
gli altri” (1.43, p. 93) (the fault of a few men has brought not only serious
harm but eternal blame upon all the rest) (1.43, p. 52). The debate of arms and
letters in the Courtier raises two key points for my analysis on dress and
militarism. The first is that there is an anxiety among the speakers that the
actions of a “few men” can bring shame on all men.13 The book’s project of
social control depends in great part on this anxiety. Indeed, the belief that
massive military defeat was caused by a few deviant men gives urgency to the
entire masculine normativizing process (i.e., the ideal courtier). The second point,
related to the first, is that men’s ability to win wars could be affected
(positively or negatively) by what are presumably unrelated aspects of a
courtier’s masculine identity. Throughout the Courtier, not only letters but
music, dance, and of course dress are all placed in a context of their
relationship to warfare.14 When, for example, one speaker condemns music as
effeminate, another will anxiously argue that music stirs soldiers to combat,
and thus it is rightfully masculine (I.47). The book delineates the court and
the battlefield as discrete yet interrelated spaces. The courtier-soldier is
expected to shuttle between the two while performing hegemonic masculinity in both.15
The challenge is that certain practices of masculinity were viewed as causing a
negative effect in one or the other space. The battlefield, in particular, is
shown as vulnerable to the presence of courtly practices. Analogously, the
court’s refined spaces were shown as incompatible with certain military
behaviors.16 Nonetheless, the court often measured itself against a
functionality in war (e.g., music was useful in war) just as men in court adopted
martial aesthetics (e.g., court dress was an adaptation of the military
tunic).17 There thus arises a tension within the Courtier between the
masculinity of courtly practices and the masculinity of warfare, and this
tension is routinely expressed as a fear that practices at court are
deleterious to combat. The speakers never clearly articulate how dress,
letters, and music might endanger war tactics and strategies, but they do
repeatedly imply that refined behavior threatens masculinity. The reader is
then left to leap the epistemological gap that assumes such a claim to be true.
The cumulative effect of this rhetorical technique is that a fear of effeminacy
underlies the entire project to produce an ideal courtier, and this fear is
often articulated in terms of dress and aesthetics.18Aesthetics and masculinity
before Castiglione The association of men’s dress and aesthetics with effeminacy
has a literary tradition that stretches at least back to Classical antiquity.
Craig Williams’ groundbreaking text, Roman Homosexuality, provides scores of
ancient examples of writers reproaching men’s aesthetics. In Roman texts,
clothing, perfumes, and grooming habits were frequent subjects of scorn.
According to Williams, men’s aesthetics were invoked as part of accusations of
effeminacy in what was consistently a reproach of men’s loss of dominion and
self-mastery.19 More recently, Kelly Olson’s Masculinity and Dress in Roman
Antiquity has provided a systematic look at dress in ancient Rome, and she
usefully pinpoints specific elements of dress, perfumes, and grooming to show
how the Roman man “walked a fine line” between expected grooming and dressing
practice and what was considered effeminate.20 As we move into the Middle Ages
and Renaissance, writers adopted these Classical condemnations of men’s dress
and added their own brand of Christian morality. Renaissance legal codes and
prescriptive literature justified the regulation of male dress under the
auspices of protecting state expenditures, preventing deviant sexuality, or
ensuring the salvation of the soul.21 For example, Francesco Pontano (f l.
1424–41), a professor in republican Siena, attacked male hair styling,
cosmetics, and ornate garments as a civic and Christian moral problem.22 In his
treatise Dello integro e perfetto stato delle donzelle (On the whole and
perfect state of girls), a work written primarily about women’s vanities, the
author states that “vain and superf luous ornament” should be disdained by all
males “who want to be called real men.”23 Certain men, he states, do not care
if they are esteemed as masculine, and thus they spend extraordinary amounts of
time on hair and skin care.24 He complains that men multiply the effect of
their grooming habits by fussing over dress as well: “Ma i maschi moltiplicano
questo errore or co’ lisciamenti or con continui increspamenti di falde, e
arrondolamenti de’ cappucci a diadema, e infiniti altri loro frenetichi e
babionerie” (But men multiply this error, sometimes using cosmetics and at
other times with their continual ruff ling of crinoline and swirls of hoods in
the shape of a tiara, as well as their infinite other frenzies and
buffooneries) (Pontano 22). For Pontano, so-called luxurious dress muddied the
gender binary as well as presented a peril to Christian morality since, as he
states, vanities and ornament debased men, who were “made to be equal to the
angels” to a status “below pigs.”25 Dress imperiled the body and the very soul
of men. Effeminate dress, he states, showed disrespect for God. The crowd of
ornate men “non crede che Dio sia, e che non sia alcuno altro iudice che quegli
del podestà ovver del capitano” (does not believe that God exists, and that
there is no other judge than the podestà or commander) (Pontano 22). Pontano
made so-called effeminate dress a moral and theological issue. Similarly, other
writers of the fourteenth and fifteenth centuries voiced concern about the morality
of dress with respect to sexuality and class status. The chronicler Giovanni
Villani (c. 1280–1348) worried that men’s fashion could create dangerous
alliances with foreign powers and blur class differences, and San Bernardino da
Siena (1380–1444) complained that young men’s short tunics and tight hose were
too erotic.26 Ironically, those same tight hose were reevaluated in the
sixteenth century as evidentiary proof that the male youths of the past were
uncorrupted.27 There has as yet been no systematic study of the condemnations
of men’s dress in early modern Italy, but such a study would aid our
understanding of possible thematic shifts. Not only did the targets of these
condemnations vary (e.g., short tunics, tight hosiery), so too did the rhetoric
used to vilify certain dress undergo changes. There seems to be one significant
moment in the history of dress and masculinity at the beginning of the
sixteenth century, when condemnations of so-called effeminate male dress
shifted from threats of Christian imperilment to failed militancy.28 The
anxiety over dress and militarism had real-world implications such as the
standardized military uniform, just as it may have also inspired some
unexpected rhetoric, such as the praise of an unkempt look.29 Most importantly,
it made the abstract notions of dependency and autonomy visible; men’s clothing
carried the meanings of military victory or loss. Castiglione’s Courtier has a
distinct place within the normativization process of the militaristic masculine
body as it is an early—possibly the earliest— example of sixteenth-century
rhetoric of effeminacy, dress, and military defeat. Castiglione began writing
his text during the chaotic years between the invasion of France in 1494 and
the Sack of Rome in 1527. In this period of instability, he chose to point to
certain courtly behaviors, including dress, in relation to the military losses
that were still potentially viewed as reversible. The Courtier blames the
subjugation of the Italian people on certain refined masculine behaviors that
were otherwise unrelated to militarism, but so, too, it suggests that the
salvation of Italy lay in the hands of this same class of men, men who often
marked their class by the very dress that undermined their masculinity. There
are two moments in which Castiglione suggests that men’s clothing played a role
in military loss. I will analyze these passages along with other textual
examples of men’s aesthetics and dress to demonstrate that Castiglione is in
effect not only making pronouncements about dress but, more importantly, is
establishing a practice whereby men can redeem their masculinity through
speaking about the effeminizing power of aesthetics. The spoken condemnation of
courtly dress purportedly critiques gender and class structures, but like the
dress itself, this very speech is what marks the speaker as belonging to the
properly masculine elite.30Male aesthetics and dress in the Courtier Book One:
sprezzatura and gender nonconformity In Book One, the primary speaker, Count
Ludovico da Canossa, says that the ideal courtier should have a manly yet
graceful face. What is to be avoided, he exclaims with disgust, are certain
male grooming habits: [your face] has something manly about it, and yet is full
of grace. . . . I would have our Courtier’s face be such, not so soft
and feminine as many attempt to have who not only curl their hair and pluck
their eyebrows, but preen themselves in all those ways that the most wanton and
dissolute women in the world adopt; and in walking, in posture, and in every
act, appear so tender and languid that their limbs seems to be on the verge of
falling apart; and utter their words so limply that it seems they are about to
expire on the spot; and the more they find themselves in the company of men of
rank, the more they make a show of such manners. These, since nature did not
make them women as they clearly wish to appear and be, should be treated not as
good women, but as public harlots, and driven not only from the courts of great
lords but from the society of all noble men. (1.19, p. 27) Certo quella grazia del volto, senza
mentire, dir si po esser in voi . . . tien del virile, e pur è
grazioso . . . . di tal sorte voglio io che sia lo aspetto del nostro
cortegiano, non così molle e femminile come si sforzano d’aver molti, che non
solamente si crepano i capegli e spelano le ciglia, ma si strisciano con tutti
que’ modi che si facciano le più lascive e disoneste femine del mondo; e pare
che nello andare, nello stare ed in ogni altro lor atto siano tanto teneri e
languidi, che le membra siano per staccarsi loro l’uno dall’altro; e
pronunziano quelle parole così aff litte, che in quel punto par che lo spirito
loro finisca; e quanto più si trovano con omini di grado, tanto più usano tai
termini. Questi, poiché la natura, come essi mostrano desiderare di parere ed
essere, non gli ha fatti femine, dovrebbono non come bone femine esser
estimati, ma, come publiche meretrici, non solamente delle corti de’ gran
signori, ma del consorzio degli omini nobili esser cacciati. (1.19, pp. 49–50) For
Ludovico, the so-called effeminate courtiers are not by nature “molle” (soft)
or “ femminile” (feminine), but they work very hard (si sforzano) to make
themselvesappear to be so. Moreover, he links aesthetics to acts of despised
behavior, particularly obsequious dependency. This condemned behavior occurs
when, as Ludovico explains, men affect their appearance and speech around other
men of rank. We can situate these despised men within the context of Ludovico’s
own theory of sprezzatura. Coining a new term, Ludovico describes sprezzatura
as the art of “ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza
pensarvi” (1.26, p. 60) (making whatever is done or said appear to be without
effort and almost without any thought about it) (1.26, p. 32).31 In the case of
the men who plucked their eyebrows, curled their hair, and augmented certain
behaviors around men of rank, they have failed at this art. Rather than
concealing a performance, as sprezzatura demands, these men drew attention to
the act of ingratiating themselves to men of authority. Their failed
performance of sprezzatura thus resulted in the loss of reputation and power, a
point also made by Ludovico in his definition of the new term: Accordingly, we
may affirm that to be true art which does not appear to be art; nor to anything
must we give greater care than to conceal art, for if it is discovered, it
quite destroys our credit and brings us into small esteem. (I.26, p. 32) Però si po dir quella esser vera arte
che non pare esser arte; né più in altro si ha da poner studio, che nel
nasconderla: perché se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l’omo poco
estimato. (1.26, p. 60)
Successful sprezzatura, on the other hand, offered the courtier an ability to
perform a “compelling” version of himself that masked a very different, perhaps
less putatively masculine identity.32 This “manly masquerade,” however, risked
pointing to both a fantastic masculine ideal as well as to the absence of that
ideal.33 Dress and aesthetics, or more precisely, the discussions of dress and
aesthetics in the Courtier, form a paradox in the logic of sprezzatura. When
the speakers complain of the “effeminate” dress or grooming habits of men, they
imply that some idealized masculine version of these men existed before the
offending grooming or dressing occurred.34 However, this anchoring of
essentialist manhood is dismissed in the Courtier. Instead, the speakers
reaffirm that since very few men are born with the qualities of the ideal
courtier, the ideal (read masculine) courtier manipulates his body, behaviors,
and dress. If the ideal courtier is therefore a man who must alter his person
in order to be masculine, then the ideal masculine pre-altered courtier—much
like the idealized Urbino court itself—is a pastoral fantasy.35 The men who
alter their hair and posture when among men of rank, in effect, draw attention
to this absence of essential masculinity in all but the rarest courtiers. These
men fail at a sprezzatura of masculinity not because they ornament themselves,
but because they have exposed the necessity of ornamenting themselves. It is so
great an infraction that Ludovico angrily condemns these men to be punished not
as women but as “public harlots.” Of course, the reference to prostitution is
significant for it foreshadows an episode (discussed below) in Book Four where
Ottaviano explains that all courtiers must use their bodies, speech, and
behavior to gain princely favors. The irony is that the principal difference
between the despicable groomed courtier with plucked eyebrows and the masculine
courtier with less apparently plucked eyebrows is solely aesthetic; both sell
themselves for favors. The offending behavior of the groomed courtier is
therefore that he has failed to conceal this economy.Book Two: foreign dress
and foreign occupation Given the gravity of the punishment that Ludovico doles
out to certain courtiers, it is apparent that a mistake in styling and grooming
could pose a serious threat to masculinity. Thus, choosing proper male dress
also caused anxiety for the upwardly mobile courtier. In Book Two, Giuliano de’
Medici expresses his personal difficulty regarding the variety of dress
available to men, and he asks for assistance “to know how to choose the best
out of this confusion” (2.26). Federico Fregoso responds to this question by
stating that men should dress according to the “custom of the majority.”
Fregoso then states that the majority of Italians wore the styles of various
foreign cultures and that these foreign fashions signaled which cultures would
dominate Italian men.36 But I do not know by what fate it happens that Italy
does not have, as she used to have, a manner of dress recognized to be Italian:
for, although the introduction of these new fashions makes the former ones seem
very crude, still the older ones were perhaps a sign of freedom, even as the
new ones have proved to be augury of servitude . . . Just so our
having changed our Italian dress for that of foreigners strikes me as meaning
that all those for whose dress we have exchanged our own are going to conquer
us: which has proved to be all too true, for by now there is no nation that has
not made us its prey. (2.26, pp. 88–89)
Ma io non so per qual fato intervenga che la Italia non abbia, come soleva
avere, abito che sia conosciuto per italiano; che, benché lo aver posto in
usanza questi novi faccia parer quelli primi goffissimi, pur quelli forse erano
segno di libertà, come questi son stati augurio di servitù . . . cosí
l’aver noi mutato gli abiti italiani nei stranieri parmi che significasse,
tutti quelli, negli abiti de’ quali i nostri erano trasformati, dever venire a
subiugarci; il che è stato troppo più che vero, ché ormai non resta nazione che
di noi non abbia fatto preda. (2.26, p. 158)Fregoso’s fashion advice poses a host of problems
regarding identity and autonomy. By suggesting that men “follow the majority,”
he undermines agency, sovereignty, and control, themes often repeated as
central to masculinity by fifteenth- and sixteenth-century authors. Manliness
is the ability to look like others, to disappear in the crowd; but it is also
ironically defined as following the crowd’s errors. For, as Fregoso states, the
majority of Italians have made a grave error and adopted foreign dress, which
leads to invasion and occupation.37 If fitting in is a masculine virtue, it
could even mean implicating oneself in Italy’s political and military losses.
Fregoso’s concern about foreign dress is a Classical trope that has
considerable fortune in the Renaissance, where French and later Imperial
invasions were not infrequently associated with foreign fashions. 38 The
epistemological link of fashion and invasion was so imbedded in the culture
that even one hundred years after Castiglione wrote his Courtier, the Spanish
priest Basilio Ponce de Leon suggested that God castigated Italy with invasion
in 1494 precisely because Italian men wore French fashions.39 Within the
Courtier itself, foreign fashion does not incur God’s wrath, but rather, it
beckons other nations to “venire a subiugarci” (come and subjugate us). Such a
logic—where large scores of men were responsible for invasion because of their
fashion choice—stands in contrast to Ludovico’s claim in Book One when he
claimed that the collapse of Italy was caused by a “few men.” Book Two thus
broadens the guilty parties of Italy’s subjugation from a “few men” to a
“majority” of (upper class) men, who, like Castiglione himself, were bedecked
in the latest Spanish and French trends.Books One and Two: fashion theory and
agency The first two books are differentiated also by the way they discuss
men’s aesthetics. In Book One, for example, there is no association between
aesthetics and military loss. Ludovico did not state that plucked eyebrows and
curled hair brought about military defeat. Rather, his complaint was limited to
gender nonconformity. On the other hand, Book Two draws a direct line between
aesthetics (foreign dress) and military failure. This shift from Book One to
Book Two might be explained by the general ideological difference that
distinguishes the two books. Virginia Cox has convincingly argued that Book One
proclaims that a courtier’s virtue ensures him success, while in the more
cynical Book Two, success at court is depicted as at the whim of the prince.40
In particular, military bravery is praised only when it can be observed by
others, particularly by the prince. To risk one’s life when no one is watching
would be a waste of one’s personal resources. Virtue, therefore, is whatever
the courtier makes seen in the eyes of others. In the context of Book Two,
where the courtiers participate in an economy that trades in appearance of
virtue rather than intrinsic virtue, clothing takes a central role in masculine
identity construction. It thus follows that Fregoso attempts to draw a direct
relationship between appearance and essence. He statesthat one must be
attentive to what type of man he wishes to be taken for, and then act and dress
accordingly, “aggiungendovi ancor che debba fra se stesso deliberar ciò che vol
parere e de quella sorte che desidera esser estimato, della medesima vestirsi”
(2.27, p. 160) (I would only add further that he ought to consider what
appearance he wishes to have and what manner of man he wishes to be taken for,
and dress accordingly) (2.27, p. 90). Such action is necessitated by the belief
that external appearance (including mannerisms) communicates a person’s
identity: “tutto questo di fuori dà notizia spesso di quel dentro” (2.28, p.
161) (all these outward things often make manifest what is within) (1.28, p.
90). The body makes legible the soul, and this externalization of virtue and
morality is problematized by the fact that the courtier is taught to manipulate
the body according to his fashion. One speaker, Gasparo Pallavicino, pushes
back on the theory that dress determines personal character. He states that one
should not “judge the character of men by their dress rather than by their
words or deeds” (2.28, p. 90). To Gasparo’s comment, Fregoso responds that
although deeds and words are more important than dress, dress is “no small
index” (non è piccolo argomento) (2.28) of the man. Fregoso’s insistence that
dress is ref lective of the essence of man is, however, hard to reconcile with
the fact that one’s projected image, as Fregoso himself states, can be false:
“avvenga che talor possa esser falso” (2.28) (although it can sometimes be
false) (2.28, p. 90 translation altered to ref lect original). Despite
Fregoso’s suggestions otherwise, behavior, dress, and bodily adornment do not
convey an unproblematic version of the self. In the elegant fishbowl of the
court, courtiers manipulate dress with the hopes that others might be duped
into believing that it represents an intrinsic identity. Fregoso’s fashion
theory, though not cohesive, does communicate to other men that a fashion faux
pas imperils the courtier’s masculinity in two ways: it points to a perceived
essential effeminacy, or it demonstrates an inability to mask this
effeminacy.Book Four: Ottaviano’s paradox The last mention of dress in the
Courtier is in Book Four, and it famously gives elegance of dress a virtuous
purpose. In Book Four, Federico Fregoso’s brother, Ottaviano, declares that
dress, manners, and pleasantries permit the courtier access to the prince so
that he can provide the ruler with wise counsel. According to Ottaviano, the
courtier must fashion himself with this mask of the “perfect courtier” so that
he can lead the prince away from the ills of vice through deception,
“ingannandolo con inganno salutifero” (beguiling him with salutary deception)
(4.10, p. 213). Ottaviano’s interjection has received much scholarly attention
in part because it exposes the fashioning of the perfect courtier as a
performance of deceit.41 Berger, in particular, has noted how this deceit can
have an effect on the integrity of the courtier: The byproduct of the
courtier’s performance is that the achievement of sprezzatura may require him
to deny or disparage his nature. In order tointernalize the model and enhance
himself by art, he may have to evacuate – repress or disown – whatever he finds
within himself that doesn’t fit the model. (20) If sprezzatura requires the
courtier to deny or disparage his own nature, then there is an implicit notion
that the courtier also risks destabilizing his identity, including his
masculine identity.42 This is no more apparent than when we consider how a
courtier’s agency is compromised by the act of sprezzatura, an act of
self-fashioning that is dependent on the will of others. Ottaviano addresses
this very process head on. He states that elegance of dress, along with
singing, dancing, and general enjoyment, change a man and make him effeminate.
Relevant here, this effeminacy has consequences not only on a courtier’s
identity but also on state security: I should say that many of those
accomplishments that have been attributed to our Courtier (such as dancing,
merrymaking, singing, and playing) were frivolities and vanities and, in a man
of any rank, deserving of blame rather than of praise; these elegances of dress,
devices, mottoes, and other such things as pertain to women and love (although
many will think the contrary), often serve to merely make spirits effeminate,
to corrupt youth, and to lead to a dissolute life; whence it comes about that
the Italian name is reduced to opprobrium, and there are but few who dare, I
will not say to die, but even to risk any danger. (4.4, p. 210) anzi direi che molte di quelle
condicioni che se gli sono attribuite, come il danzar, festeggiar, cantar e
giocare, fossero leggerezze e vanità, ed in un omo di grado più tosto degne di
biasimo che di laude; perché queste attillature, imprese, motti ed altre tai
cose che appartengono ad intertenimenti di donne e d’amori, ancora che forse a
molti altri paia il contrario, spesso non fanno altro che effeminar gli animi,
corrumper la gioventù e ridurla a vita lascivissima; onde nascono poi questi
effetti che ’l nome italiano è ridutto in obbrobrio, né si ritrovano se non
pochi che osino non dirò morire, ma pur entrare in uno pericolo. (4.4, pp. 367–68) Ottaviano’s
claim marks a critical shift from the other cited passages. It is the only time
in the Courtier where clothing (along with other courtly behaviors) is
described as rendering men effeminate. In Book One, distasteful grooming habits
are practiced by those men who “wish” that they were women, and in Book Two,
foreign dress beckons military defeat. In Book Four, clothing causes
effeminacy, and the effeminized man loses wars. The passage is not only a
significant moment in the Courtier, it is an important moment in the history
ofeffeminacy. To my knowledge, it is one of the earliest Renaissance texts that
figures clothing and other behaviors as the agents that cause effeminacy
leading eventually to military defeat.43 Ottaviano’s brief interjection on
clothing would have provided the attentive listener with (again) some troubling
fashion advice. The passage forms what I call Ottaviano’s paradox: on the one
hand, Ottaviano affirms that elegant dress may be necessary to ingratiate the
prince and engender virtue, while on the other, he warns that dress has
deleterious effects, effeminizing the courtier’s soul and bringing shame to him
and Italy. If the courtier performs his requisite duties (which include
ingratiating the prince with dress, dancing, music, etc.), he cannot escape
losing his own masculinity. It is unclear how the reader is to navigate this
paradox. Castiglione may have been genuinely concerned with the possible
effeminizing effects of dress, or there may have been some irony in placing
these words in the mouth of Ottaviano.44 Ottaviano had, in fact, been derided
for his unusual dress in the earlier version of the book known as the seconda
redazione (written 1520–21).45 Moreover, Castiglione was himself quite the
fashionista. His letters tell us that he was deeply concerned with his own
dress, both at court and during military operations. Many of his letters to his
mother refer to his need for appropriate clothing, and on some occasions, he
refers to this clothing as necessary for exercises carried out in a context of
war.46 The fact that Castiglione has left us extensive writing on dress from
the period raises hermeneutical questions about Ottaviano’s statement that
courtly dress and activities “make spirits effeminate and corrupt youth” and
eventually lead to the shame of Italy. Surely the author was not suggesting
that winning wars merely a matter of changing clothing. I propose that
Castiglione was less interested in changing the garments and grooming habits of
Italians than he was in investigating how the rhetoric about aesthetics
functioned in defining identity and motivating social groups. His book explores
how courtly practices, including dress, determined the boundaries of an elite
ruling class, but so too does it explain how the language used to discuss these
practices could shift the values added to such practices. Thus, Ottaviano’s
paradox—where the courtier is virtuous if he ingratiates the prince but loses
his virtue of masculinity by doing so—is in effect a masterful demonstration of
sprezzatura. When Ottaviano utters his words, he not only explains how
courtliness denigrates a man for a virtuous cause, he also reveals how a
courtier can assume an intentional and masculine participation in this virtuous
cause. He derides the very courtly practices that he himself performs and then
engenders them with virtue.47 By showing that a courtier sacrifices his
masculinity on the altar of state security, Ottaviano offers a reclamation of
masculinity for any courtier. The trick is, however, that the courtier must be
willing to decry the very practices that make him a courtier in order to claim
this masculinity. Ottaviano states, in effect, “I criticize the grooming of men
as effeminizing, but I will also perform these acts for the larger good of
pleasing the prince.”By way of a conclusion, we will turn to this same moment
in the second manuscript edition, or seconda redazione.48 Here Ottaviano’s
passage appears in Book Three (the final book of the manuscript). It is spoken
by Gasparo and, most importantly, the condemned effeminate activities are not
routine courtly behavior, but belong to young courtiers in love: Do you not
believe that the young would be doing a much more praiseworthy thing if they
were to concentrate on arms to defend the patria, their own honor, and the
dignity of Italy, rather than to go around with their hair all coiffed,
perfumed, and strolling through the neighborhoods with their eyes glued to the
windows above without considering anything in the world except their own priorities?
And what purpose do these devices and mottoes and elegances of dress serve
other than vanity and frivolity? And what is the point of dancing at balls and
masquerades as well as games and music (and other such things that you praise
so much)? What do these things offer other than to give birth to the
effeminizing of men’s spirits as well as corrupting and reducing youth to a
delicious and lascivious life? Whence, as Signor Ottaviano so well says, it
comes about that the effect of all this is that the Italian name is reduced to
opprobrium, and one cannot find a man who dares, I will not say die, but even
to risk any danger. And all of this
is the cause of women. (Translation mine) Non credete voi che li giovani
facessero opera più laudevole, se attendessero all’arme per difender le patrie
e l’onor loro e la dignità de Italia, che andar con le zazare ben pettinate,
profumati, passeggiando tutto dì per le contrade, con gli occhi alle finestre
senza pensare cosa alcuna di quelle che più gl’importano? e queste imprese e
motti et attillature insomma a che servano altro che a vanità e leggiereze? e
danzare e ballare e mascare e giuochi e musiche e tai cose, fatte con tanta
diligenzia e che voi tanto laudate, infine che partoriscono altro che
effeminare gli animi, corrompere la gioventù e ridurla a vita deliziosa e
lascivissma? Onde, come ben talor dice el signor Ottaviano, ne nascono poi
questi effetti che il nome italiano è ridutto in obrobrio, né si truova uomo
che osi non dirò morire, ma purentrare in un pericolo. E di tutto questo sono causa
le donne. The manuscript passage, like that of the final 1528 version of the
Courtier quoted earlier, tells us that men’s dancing, games, music, and
elegance of dress are dangerous to Italian sovereignty. However, there are important
differences between these two textual examples. In the seconda redazione,
dressing and music, etc. are presented as the vices specific to young lovers.
This characterization of lovers fits clearly within Gasparo’s stated distaste
for any action that involves the courtship of women. Additionally, Gasparo
explains the relationship between warfare andeffeminate behaviors in simple
terms of time allocation; men should choose to spend time fighting to “defend
their homelands,” but instead they focus on love. Thus, when he states that
dancing, masquerades, and games effeminize men’s spirits, it follows that this
causal effect is at least in part due to the fact that men are busied with
these activities and not fighting. When the author adapted the passage for the
final version, he changed not the effeminizing practices but the cast of the
shameful men, and he removed the phrase that explains that these practices
simply took up too much of the courtiers’ time. In Courtier Book Four, the list
of mottoes, devices, dancing, and dress are not described as what courtiers do
to woo women, but rather, they are general courtly practices. Indeed, Ottaviano
mentions the previous evenings’ discussions and takes aims at these activities
and practices that are described by Ludovico and Fregoso in Books One and
Two.49 These courtly practices were not performed to attract only the attention
of women, but also (and primarily) of men; in particular, these practices
attracted the attention of other courtiers and, most importantly, the prince.
What Ottaviano offers his peers is the chance to reclaim a masculinity of
purpose, even while operating in a gender paradox where dress and acts
necessarily effeminized the men who pursued this purpose. Ottaviano reclaimed
courtly masculinity by denigrating the necessary courtly practices and dress
that enabled the courtier to pursue virtue. His accusatory rhetoric allows the
disempowered male to assert masculinity even in the performance of dependency.
Castiglione’s book enacted the same performance as Ottaviano’s utterance; the
book as a whole takes aim at dress as effeminizing while explaining that such
dress typified the ideal, masculine, and virtuous courtier. These accusations
of the practices of men also served the larger function of the Courtier’s normativizing
project, where the “few men” who were responsible for the shame of Italy might
be refashioned into warrior heroes. The nagging question is just how aesthetics
figured into this degradation of Italy. It is doubtful that Castiglione (or any
other Renaissance writer) would suggest that changing one’s ruff les and
sleeves would be the key to defeating the French or the Habsburg empire, but
why, then, we should ask, did writers frame military defeat in terms of silks
and ruff les? It would seem that we still have much to
learn about how aesthetics and militarism functioned in the Renaissance
projects of social control.Notes 1 Corio, Storia di Milano, 2: 1398–99: “il
duca se misse una corazina, quale cavò dicendo parebbe troppo grosso, puoi se
vestì una veste di raso cremesino fodrata di sibelline e cinto con uno cordono
di seta morella la biretta.” 2 McCall, “Brilliant Bodies,” 472. 3 Varchi, Storia Fiorentina, Vol. 3,
Book 15, 186. 4 Currie, Fashion, Introduction. 5 See, for example, Simons,
“Homosociality and Erotics,” Currie, Fashion, Biow, On the Importance, and
Eisenbichler, “Bronzino’s Portrait.” 6 Paulicelli, Writing Fashion, 3. On
masculinity and dress in the Courtier see Quondam, Tutti i colori and Currie,
Fashion.7 All Italian quotes of the Cortegiano are from the Garzanti edition.
All English quotes are from the Javitch edition (2002) of the Singleton
translation. 8 Najemy, “Arms and Letters.” The hierarchy of arms is challenged
by Ludovico himself, who states that letters are the “true and principal”
adornment of the courtier. Moreover, Bembo argues that arms are actually the
adornment of letters; see ibid., 211. 9 Castiglione’s references to France
change from manuscript to print edition. In one of the earliest manuscript
editions of the book, he calls those who do not appreciate letters, barbari.
Pugliese, “The French Factor.” 10 For a discussion of Machiavelli’s position on
arms and letters see Najemy, “Arms and Letters,” 207–08. For a later discussion
on the danger of letters to arms see Stefano Guazzo’s “Del paragone dell’arme
et delle lettere” in which an interlocutor suggests that some people fear that
letters “si snervassero gli huomini Martiali,” Stefano Guazzo, Dialoghi
piacevoli (Piacenza: Pietro Tini, 1587), 167. 11 See Albury, Castiglione’s
Allegory, 65. 12 Ludovico is here discussing the influence of literature on war
rather than the study of combat manuals. On Urbino’s master at arms, Piero
Monte, who published the “first significant combat manual ever to be printed,”
see Anglo, The Martial Arts, 133. 13 My reading on this passage differs from
Najemy’s, which argues that Ottaviano, in Book Four, implicates the courtiers
as the few bad men, responsible for Italy’s decline. 14 In Book One, Gasparo
states that music and other “vanities” “effeminar gli animi” of men. Quondam’s
published edition of Manuscript (L) Biblioteca Medicea Laurenziana,
Ashburnhamiano 409 shows that Castiglione originally phrased his concerns
differently, without using the word “effeminize”: “e cosi fatte illecebre
enervare gli animi.” Quondam, Il libro
del Cortegiano. 15 On hegemonic masculinity, see Connell, Masculinities, 77. 16 Although warfare is
typically shown to be endangered by courtly behaviors, there are some moments
in which the court is shown to be negatively affected by the presence of
warriors; see Book I.17. 17 Newton, Fashion, 1–5; Blanc, “From Battlefield to
Court.” 18 On effeminacy in the Courtier see Milligan, “The Politics of
Effeminacy.” On effeminacy in the study of pre-modern texts, see Halperin, “How
to Do.” 19 Williams, Roman Homosexuality, 125–58. 20 Olson, Masculinity and
Dress; see chapter four in particular. 21 See Blanc, “From Battlefield to
Court” for a discussion about several fourteenth-century chronicles that blame
a sudden change in dress for battles and plague. See also Muzzarelli, Breve
storia; Mosher Stuard, Gilding the Market; Sebregondi, “Clothes and Teenagers”;
Muzzarelli, Guardaroba Medievale. 22 Francesco Pontano, along with his brother
Ludovico Pontano, was a professor at the university of Siena. On Francesco Pontano see Marletta, “L’umanista
Francesco Pontano.” 23 “Il quale tanto più è vituperoso in loro in quanto
debbono in tutto essere rimoti da ogni vano e superfluo ornamento, s’eglino
debbono e vogliono esser detti veri maschi.” Pontano, “Dello integro e perfetto
stato,” 22. All translations are mine unless otherwise noted. 24 “Li quali non
minor tempo e industria mettono raschiamenti di coteche e scialbamenti di gote
e di collo e de’ vari pelatogi e scorticatogi, e di bionde e d’acque sublimate
e stillate, che si facciano le femine.” Ibid. 25 “Talché oggidì l’uomo che fu
fatto presso che pari agli angeli ’e di sotto a’ porci e a qualunque altro
sporco e vile animale.” Ibid. On dress
and gender confusion in early modern England see the essays by Epstein and
Straub, Body Guards. 26 See Sebregondi, “Clothes and Teenagers,” which shows
how preachers such as San Bernardino da Siena complained about the erotic
elements of tight hose and short doublets. Ibid., 31 cites Sermon 37 of
Prediche di San Bernardino vol. 3. 27 Sebregondi, “Clothes and Teenagers,” 36.
28 Not all writers condemned male dress. Leonardo Fiorivanti states that the
only way to make this “miserable world” better is to dress well and eat well,
and that young men dress extravagantly and then change their dress when they
reach the age to marry and have children. Fiorivanti, Dello specchio, Book I,
chapter 9, 27. On the other hand, Anton Francesco Doni (1513–74) and Scipione
Ammirato (1531–1601) both criticize military failings while discussing men’s
dress and aesthetics. In language that is contrary to modern notions of
military discipline, writers such as Pio De Rossi (1581–1667) suggested that
the most courageous warriors were slovenly, dirty, and untidy. De Rossi, Convito morale, 42. On Rossi see Biondi,
“Il Convito.” This mechanism
functions similarly to the “hypocritical rhetoric of self-censorship”
identified by Carla Freccero in that an utterance pretends to do one thing
while performing a different function. Freccero, “Politics and Aesthetics,”
271. On scholarly interpretations of sprezzatura see Javitch; Rebhorn, Courtly
Performances; and Berger Jr., The Absence of Grace. On the “more compelling
figure” see Rebhorn, Courtly Performances, 38; on the virility of sprezzatura
see Berger, Absence of Grace, 11. I borrow the term “manly masquerade” from
Finucci, The Manly Masquerade. How Renaissance writers characterized the
pre-dressed (naked) man as masculine or effeminate is discussed by Paulicelli,
Writing Fashion, ch. 3. According to Berger, Castiglione casts an idyllic,
unreal version of Urbino. Berger describes how Castiglione discloses to the
reader his process of casting Urbino as unreal in a “metapastoral” gesture
Berger, Absence of Grace, 119–78. On this passage see Quondam, Questo povero
cortegiano and Milligan, “The Politics of Effeminacy.” See Currie, Fashion;
Paulicelli, Writing Fashion. On Classical examples see Williams, Roman
Homosexuality. Castiglione himself cites an ancient anecdote of Darius III, King
of Persia (336–330 b.c.), told by Q. Curtius Rufus, Historiorum Alexandri Magni
III, 6. For Renaissance examples see Lando, Brieve essortatione, which states
that the Syrians have dominated the Italians through their perfumes, and
Lampugagni claims that Italians follow French fashions like monkeys, Della
carrozza da nolo. Lampugnani also complains of women who seek to
“dis-Italianize” themselves by adopting foreign fashions. De Leon, Discorsi novi, published in Spanish in 1605.
“E, quando in Italia cominciarono a vestirsi all’usanza di Francia, molti ciò
mirando con prudenza temerono, che i Francesi havessero a mal trattargli; e non
s’ingannò l’anima loro, come fra pochi giorni mostrò il successo. Di modo che
la natione, che lascia la sua foggia di vestito antica, e naturale per imitare
quella de’ Regni stranieri, ben può temere, che Dio non la castighi con guerre,
persecutione, rubamenti, e mali trattamenti che le faranno fatti da coloro, i
cui habiti ella va imitando,” 628. Cox, The Renaissance Dialogue, 54. On Ottaviano’s
interjection see Rebhorn, Courtly Performances, Albury, Castiglione’s Allegory,
and Quondam, Questo povero cortegiano. Berger does not characterize courtliness
as weak or effeminizing; he instead states that the successful performance of
sprezzatura demonstrates a certain virile mastery. Berger, Absence of Grace,
1–12. In his “Education of Boys” Aeneas Silvio Piccolomini suggests that
clothing can make boys soft and effeminate. He particularly warns against
feathers and silk. Piccolomini, “The Education of Boys,” 71. Basilio Ponce de Leon, Discorsi (Italian Translation
1614) suggests that clothing makes spirits effeminate and soft “Legislatori
antichi giudicarono così (e la isperienza lo insegna) che non tanta delicatezza
di vestiti si assottigliano gli animi, e di virile, e forti divengono bassi
effeminate e molli,” 626. Some assert that
Ottaviano’s response might be due to his “republican” leanings. This seems to
be overstated given that Ottaviano was the nephew of Guidobaldo de Montefeltro,
spent much of his childhood at the Urbino court, and was himself a prince of Sant’Agata
Feltria. In response to how a courtier should
dress, Federico responds “Voi lasciate una sorte de abiti che se usa, e pur non
si contengano tra alcuni di questi che voi avete ricordati, e sono quegli del
signor Ottaviano.” Castiglione,
Seconda redazione, II.26, 110.46 See, for example, letters 29 and 30.
Castiglione, Le lettere, Ottaviano’s censoring of courtly dress follows Carla
Freccero’s analysis of “’hypocritical’ rhetoric of self-censorship,” in that it
is as much about establishing identity groups as it is about a sincere rebuke
of argument. Freccero, “Politics and Aesthetics,” 271. 48 For a useful review
of the manuscript revisions to the text, see Pugliese, Castiglione’s “The Book
of the Courtier”, 15–24. 49
“Estimo io adunque che ’l cortegiano perfetto di quel modo che descritto
l’hanno il conte Ludovico e messer Federico, possa esser veramente bona cosa e
degna di laude; non però simplicemente né per sé, ma per rispetto del fine al
quale po essere indirizzato” (4.4) Castiglione, Il libro del Cortegiano, ed. Nicola Longo,
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social prestige in Renaissance literature and culture Laura GiannettiIn
Girolamo Parabosco’s comedy La fantesca (published in 1556) the sexual
activities of a maid, the young cross-dressed Pandolfo who impregnated his
young lover Giacinta, were humorously referred to with a culinary metaphor,
that of inserting meat in the oven: People, the female servant has become a
male in two houses at once as you have seen. And she has shown that she is a
better cook than a housekeeper, because she knew better how to put the meat
(carne) in the oven than make beds or sweep the house. (V, c. 94)1 The Italian
word carne with its multiple meanings of meat, f lesh, and the masculine sexual
organ commonly served as a tool for clever word play in Italian literature from
the Decameron to the Canti carnascialeschi and enjoyed a renaissance of its own
in sixteenth-century comic prose, poetry, letters, and everyday language.2 The
early modern dietary corpus reinforced the religious association between eating
meat, gluttony, and lust. All nutritious food, in particular meat, created more
blood than needed by the body; therefore the surplus translated into an extra
production of sperm, which in turn fueled the sex drive.3 A traditional view of
the link between gluttony and lust holds that biblical accounts of the Fall
considered gluttony the opening door to lust, although the Garden of Eden’s
transgression consisted in eating the forbidden fruit, a fig or an apple
according to different versions, and not eating immoderately. Many medieval
theologians and then Pope Gregory the Great, a medieval doctor of the Church,
defined gluttony mainly as a desire to stimulate the palate with delicacies,
while also exceeding what was considered necessary for basic nourishment and
health.4 But then he drew a more precise connection between the two sins and
differentorgans of the body: “when the first (stomach) fills up excessively,
inevitably, the other are also excited to sin.”5 Gluttony excites the senses
and therefore can carry the sinner to sins of the f lesh. In Dante’s Inferno,
and following Aristotle’s Nicomachean Ethics, incontinence (of desire) was the
link between gluttony and lust. Paolo
and Francesca in Canto V are among the “peccator carnali, / che la ragion
sommettono al talento” [Inf. 5.38–39]). Although for Dante gluttony was a sin worse than lust,
the common vision at his time was that eating immoderately and lusting were
both sins of carne, the f lesh.6 If early theologians’ readings discussed
gluttony without referring to a particular food, it was meat that later became
the preferred target of moralists and came to be associated with ideas of
lasciviousness and lust. Traditionally, animals such as the boar, pig, wolf,
and/or ape in late medieval and early Renaissance visual and prescriptive
sources represented luxuria7 and gluttony, as inextricably and negatively
bonded together.8 Sixteenth-century prints, paintings, broadsheets, and emblem
books kept those associations alive in society and culture even as the
associations between those animals and gluttony or voracity often surpassed
their association with luxuria.9 Sins of the f lesh were often symbolized as
sins of carne in the sense of meat.10 But before delving into the imaginative
perceptions and symbolism attributed to meat-eating it is advisable to recall brief
ly what the lived practice and experience of consuming meat in medieval and
Renaissance Italy involved. Symbol of power and violence, masculinity and
aggressive sexuality, luxury and abundance, meat was often associated with the
aristocracy and its lifestyle.11 As Massimo Montanari and Alberto Capatti have
shown, in the Middle Ages the noble table first saw a triumph of big game
gained through hunting but later the preference was directed more toward
smaller game such as pheasants, quails, and/or farmed animals, like geese and
capons. The new court nobility of the twelfth century no longer identified with
the warriors’ taste for big, bloody game.12 Gross and nutritious meat was now
left to peasants, usually in the form of pork. City dwellers also enjoyed the
meat of the pig in the form of sausages but strove to differentiate themselves
from the rural inhabitants by buying and eating veal, beef, and small birds.
Although Fernand Braudel famously called “carnivore” the period in Europe
between 1350 and 1550,13 Italians of the period had other food resources and
could not, and often did not care to eat meat every day. Nonetheless, eating
meat, and especially good meat, remained an indicator of social elevation and
offered the promise of good health. The preference of the new court nobility
for small birds and farmed animals received the approval of contemporary
doctors, who exalted birds as a source of exceptional nutritional value, with
the caveat that it was best suited to an aristocratic diet.14 It was not just
the symbolic and nutritional value that was considered important; in dietetic
tracts partridges and quails excelled also for their delicate taste and their
lightness. But not all agreed. Vatican librarian and gastronome Platina
(1421–81) was more open to the pleasures of eating a much wider range of meats,
demonstrating more catholic tastes. His De Honesta Voluptate et
Valetudine(first Italian edition 1487) is full of numerous recipes that
included poultry, organ meats, fowl, pork, and sausages. Still much like many
doctors, cooks, and courts stewards, he agreed that meat in general was a food
healthier than others and had an elevated nutritional value.15 The reputation
of meat as a primary source of nourishment and good health continued in the
sixteenth century, and was particularly strong among surgeons, medical
practitioners, and professors of “secrets.” A Spanish “surgeon and empirical
doctor”16 who lived in Rome, Giovan Battista Zapata (ca. 1520–86), claimed that
all meat products sustained good health, as long as they were roasted with a
rosemary oil and a mixture of other herbs and spices, and were accompanied by
good wine.17 Zefiriele Tommaso Bovio (1521–1609)—a Veronese nobleman and lawyer
who later became a medical practitioner—wrote a treatise at the end of the
sixteenth century against the “medici rationali ” who wanted to impose a strict
meatless diet on sick people. He claimed that doctors knew that eating good
meat and drinking wine had the power to restore health but kept the secret to
themselves for fear of losing fees from patients who recovered from illness and
stayed healthy eating meat.18 The nutritional value of meat was thought to rest
on the idea that meat could transform into the substance, the very carne, of
the human body. The steward Domenico Romoli affirmed in his cooking manual that
those who invented the eating of meat did it both for taste but especially for
health reasons: they knew that “more than any other food, it is meat (carne)
that makes f lesh (carne).”19 In his view eating meat meant literally giving
nutriment to human f lesh.20 Renouncing meat, however, was a crucial
requirement for early Christian hermits and monks. It represented unequivocally
the mortification of the f lesh and contempt for the body, although numerous
sources show that meat-eating in many monasteries was fairly normal. In
general, the suspicion of meat running through Christian texts in the period
appeared to be based on an association of the eating of meat with fears of the
f lesh and sexual incontinence. San Bernardino’s preaching in the fifteenth
century aggressively linked meat consumption with unruly sexuality and was
particularly severe on policing widows and youths’ eating practices. He
represented the extreme side of a widespread religious censure of culinary
pleasures and the sense of taste, emphasizing the presumed dangers of uniting
desire for meat and unruly sexuality.21 Outside of the monastic world,
religious proscriptions on food dictated that for periods of fasting, such as
Lent, abstinence from animal f lesh, meat, poultry, and eggs, was mandatory to
mortify the body and its appetites. And Lent was not just the forty days that
followed Carnival; every Friday and many vigils during the year were Lenten
days when meat was proscribed as well.22 How much weight did this religious
censure or the ideology of the ascetic abstention from eating meat actually
have? Apparently not much in everyday life or culture. The desire for meat,
originally condemned as gluttony and a carnal practice that took one away from
the life of the spirit, was often identified in theliterary imagination with
positive expressions of sexual desire. The longstanding Christian prohibition
against eating meat associated gluttony and illicit sexuality, and the Galenic
dietary theory reinforced this, claiming that the body of the meat eater would
have a surplus of blood and thus an increased sex drive. Literary sources
valorized the gastronomic desirability and sexual powers promised by eating
meat. Slowly but surely the sexual/alimentary play on carne as food and f lesh,
positively portrayed in imaginative literature and culture of the sixteenth
century, battled successfully against earlier moralistic discourses insisting
on restraint of the body and its instincts.23 The emerging cultural war of the
period opposed a disciplining view of the body and posited the increasing
importance of pleasure and taste in both life and literature, with the
enjoyment of meat, carne and f lesh, at their very center.Appetite for meat in
literature Returning to the courtly taste for birds in the Renaissance, the
link between eating birds and the lustful consequences that followed was
visible in literary texts, fresco cycles, and dietary discourses, albeit with
different meanings. While Dantesque Inferno punishment scenes in late medieval
Italian dietary treatises and church fresco cycles dwelt on the negative
consequences of eating birds or eating too much meat, literary texts presented
a competing discourse. Giovanni Boccaccio’s Decameron, novelle collections such
as those by Niccolò Sacchetti (ca. 1332–1400), Giovanni Sercambi (1348–1424),
Anton Francesco Grazzini (1503– 84), and Niccolò Bandello (1485–1561), and many
satirical and licentious poems, all exploited the phallic meat metaphor to elicit
laughter as well as sexually allusive word-play.24 Boccaccio made clear in his
Conclusione to the Decameron that the obscene language he had used came from
everyday usage and included words from the culinary world: It is not more
shameful that I have written words that men and women spell out continuously
such as hole, peg, mortar, pestle, sausage, and mortadello. Dico che più non si dee a me esser disdetto d’averle
scritte che generalmente si disdica agli uomini e alle donne di dir tutto dì
foro e caviglia e mortaio e pestello e salsiccia e mortadello. Many contemporary tales
depict adulterous lovers or lovers-to-be enjoying meals with game, fowl, and
poultry in preparation for the carnal pleasures to come. The “carne” metaphor
to designate the male member had a notable literary tradition. Giovanni
Sercambi’s Novelliere (written ca. 1390–1402) presents many instances of the
metaphorical/sexual use of the word carne, in some cases distinguishing between
“raw” and “cooked” meat to indicate the male sexual organ and actual meat.25 In
the novella “Frate Puccio e Madonna Alisandra,” Pseudo-Sermini26 plays on the
double meanings of food and sex and the pleasureof tasting the meat and its f
lavor.27 The metaphor of “fresh meat” to indicate the male sexual organ continued
unabated in the sixteenth century as seen in a laughing novella by the Sienese
Pietro Fortini (ca. 1500–ca. 1562) where a lusty friar offers a pound of “carne
fresca” for free to a young woman with the excuse that religion does not let
him enjoy meat that day. The novella naturally ends with the friar being beaten
by the woman’s husband and with the laughter of the brigata listening to the
story.28 The offer of an attractive bird for a meal often opened the way to a
carnal relationship. In one sixteenth-century novella by Grazzini, the priest
Agostino, enamored of his parishioner Bartolomea, decided to entice her with
the offer of a large and plump duck. Bartolomea, who was a woman of “easy
taste” (buona cucina), let him inside her house and made love to him with the
hope of gaining the duck. But the early return of her husband allowed the
priest to escape with his duck, leaving her literally empty handed. Agostino
bragged cleverly that she would never find another duck, or another member, so
large and plump. But, as often happens in Italian novelle, women were cleverer
than their lovers. Bartolomea was no exception; when Agostino came back with a
duck and two capons to make peace and love again, she got her revenge. With the
help of her husband she beat him and sent him away barely able to walk, keeping
the birds to enjoy with her husband.29 In this novella, birds carried out their
multiple roles: they were an enticing and valued meat, able to stimulate the
senses at many levels but also able to transform gluttony and lust into
laughter and pleasure. In sixteenth-century comedies, birds such as partridges
and pheasants could serve as domestic aphrodisiacs, for both old men and young.
In Donato Giannotti’s comedy Il vecchio amoroso (written ca. 1533–36), old
Teodoro, in love with the young female slave his son has brought home from
Sicily, organizes a banquet where the food includes delicacies like fat capons,
birds (starne), and pigeons, served with wine and sweets, in order to prepare
him for the rigors of lovemaking.30 The meat of birds was believed to arouse
lust because it was seen as hot and moist; for this reason Messer Nicomaco, in
the comedy Clizia, plans to eat a half bloody pigeon before his night of love
with the young Clizia. Perhaps because of this popular belief, or perhaps
because it was the most prized and elegant type of meat, Pietro Aretino, in one
of his letters from Venice in 1547, invites the painter Titian to a dinner at
his house with a famous courtesan, Angela Zaffetta, promising that the main
dish to be served would be roasted pheasants.31 Adulterous lovers with their
lascivious dinners were the protagonists of a great number of plays and
novella. Some specific language used in sixteenthcentury poetry, dialogues, and
comedies also suggested that the desire for meat was closely connected to the
practice of sodomy.32 A type of meat that was used euphemistically to signify
sodomy, either with men or women, was the young male goat or “capretto.” Pietro
Aretino in his Ragionamento (1534) used the masculine gender and the diminutive
form of “capretto” to indicate the act of sodomy with a nun, in obvious
contrast with the word “capra,” the adult goat used to refer to vaginal sex. In
describing a moment at an orgy in a convent, Aretino exploited the culinary
metaphor of meat to its fullest: Tired, at the first morsel of the goat he asked
for the young goat . . . I
tell [you] that as soon as he got it, he stuck inside the meat knife and madly
enjoyed seeing it in and out . . . stucco al primo boccone della
capra, dimandò il capretto [. . .] dico che ottenuto il capretto, e
fittoci dentro il coltello proprio da cotal carne, godea come un pazzo del
vederlo entrare e uscire. (Emphasis mine)
33 Matteo Bandello similarly narrates a tale about Niccolò Porcellio, humanist,
poet, and historian at the court of Francesco Sforza in Milan, and well known
for his notorious passion for young boys. Bandello expresses Porcellio’s desire
with the culinary euphemism: he loved “la carne del capretto molto più che
altro cibo” (he always preferred the meat of the young male goat much more than
any other food). In his final confession, he justified his vice as the most
natural thing in the world because it corresponded to his natural taste, and it
was a “buon boccone”: Oh, oh, Reverend Father, you did not know how to
interrogate me. Playing with young boys is for me more natural than eating or
drinking to a man . . . go away as you do not know what a good morsel
is . . . oh, oh padre reverend, voi non mi sapeste interrogare. Il
trastullarmi con i fanciulli a me è più naturale che non è il mangiar a il ber
a l’uomo . . . andate andate che voi non sapete che cosa sia un buon
boccone.34 Porcellio insisted that his sexual behavior—the preference for young
male goat meat—was as natural as it was natural to eat and drink for humans.
His narrator Bandello explained first that Porcellio was forced to marry by the
Duke in order to soften the opinion people had of him as someone who always
preferred “the meat of young goat.”35 The food metaphor, so widely employed in
the novella, was indeed perfect to address his sexual desire as a manifestation
of taste, which can vary according to different people. Contemporary literature
of the Land of Cockaigne included fantastic maps of Cuccagna [Cockaigne in
Italy] where meat, in all of its incarnations, for rich and for poor, was
center stage, while the theatrical Battaglia fra Quaresima e Carnevale
regularly ended with the victory of Carnival and meat eating.36 The carne of
the lascivious goat and luxurious hot birds were generally enjoyed by the rich.
Yet it was the meat of the more humble pig, in the form of sausages that became
dominant in sixteenth-century literature as a food easily conducive to sexual
play, gastronomical delights, and a festive world.The triumph of the sausage
The Allegory of Autumn by Niccolò Frangipane, a follower of Titian, is a
remarkable painting displaying a lascivious satyr who sticks one finger into a
split melon and with his other hand grabs a sausage on top of a table full of
other autumn produce. In the cultural imaginary and in the common understanding
of the period, that sausage in hand proclaimed with a perverse smile that it
was known as a type of meat that promised and was well suited for indulgence,
alimentary and sexual.37 The metaphorical use of the term “salsiccia” was not
new. Many tales in Sercambi’s Novelliere, fifteenth-century carnival songs, and
humorous and popular print allegories of Carnival used the same metaphor
associating the consumption of meat/sausages with the pleasures of the senses,
especially sexual pleasures. In one novella by Sercambi, a libidinous widow
living with her brother, who had not arranged for her to marry again, realizes
that there is a similarity between the sausages her brother brought home and
the instrument with which her dead husband had made her happy. She decides to
satisfy “the need she had of a man” using those sausages as an instrument of
pleasure and consumes them little by little until discovered by her brother. 38
A popular sixteenth-century print studied by Sara Matthews-Grieco shows an old
lower-class woman selling a sausage during Carnival, just before the time of
Lent, when both meat and sexual intercourse will have to be forgotten. While
Sercambi’s humorous novella does not attack the widow, who is described as
young and naturally deprived of sexual pleasure, the prints and grotesque
portraits studied by Matthews-Grieco, more often cruelly satirize old
lower-class women desirous of sausages. 39 Pork occupied a particular cultural
space in the realm of meat of the time. Far from high-class birds, or
middle-class poultry and veal, the pork sausage was the food of the poor, the
peasant, or at best, the uneducated.40 Sausages, particularly pork sausages,
were a food appealing to taste but otherwise problematic as gross, humid, full
of fat, and unsuited to a delicate stomach—or so claimed several early modern
doctors and apothecaries. Humoral physiology dictated that the f lesh of a hot
and humid animal would be beneficial only to a person with a cold temperament
who needed to adjust his/her complexion: people with predominantly moist/hot
humors should therefore avoid pork.41 Practice was, however, more complex. Some
doctors associated with the Galenic revival of the fifteenth and sixteenth
centuries promoted the meat of pig as nutritious and easy to digest, although
more suited to physical workers. In fact, for all the undesirable
characteristics noted, the idea that pork was nourishing and healthful enjoyed
wide circulation in dietaries and medical treatises. From there, it was added
as a significant qualifier to the traditionally unfavorable descriptions of
pigs, and ultimately found its way into comic and burlesque literature, where
it merged with the well-established carnivalesque passion for fat meat and
gastronomical excess. The Galenic revival maintained descriptionsof pork as
gross and humid, but gave more positive press by affirming that it was a
nutritious meat. Indeed, despite these warring visions, the sausage and pork
continued to win their battles in both literature and life.42 Even with their
negative medical and social reputation, sausages had had their partisans in the
gastronomical world for at least two centuries. Platina provided a general and
expected warning against the meat of pork at the beginning of Book VI (“you
will find pork not healthful whatever way you cook it”) but then offered three
recipes for sausages, all derived from maestro Martino: pork liver sausages,
blood sausages, and the range of sausages known as the Lucanica.43 Platina was
more interested in showing how to cook and smoke the meat of pork than in
talking about social suitability. He included an elaborate recipe for roast
piglet stuffed with a mixture of herbs, garlic, cheese, and ground pepper,
beaten eggs, slowly cooked over a grill. At the end of this tempting recipe, he
added the usual medical advice: “The roast piglet is of poor and little
nourishment, digests slowly, and harms the stomach, head, eyes, and liver.”44
While the roast piglet was ostensibly not a fare suitable for higher classes,
Platina’s detailed recipe and the ingredients used meant that the medical
proscriptions against pork were losing ground to the culinary practices of
courts and an emerging gastronomical culture. In a similar way, Marsilio
Ficino, who considered pork a meat more suitable to laborers who already had
pig-like physical features, admitted that dressing pork with expensive and
luxurious spices could transform it into a valuable food.45 Significantly, in
this vein, a testimony by Cristofaro da Messisbugo (late
fifteenth-century–1548), steward at the court of the Este in Ferrara, showed
how dressing up pork and sausages elevated such meat above its common status as
a food prescribed for rustic people. Messisbugo’s cookbook, Banchetti,
composizioni di vivande et apparecchio generale (published in 1549), exalted
the famous “salama da sugo,” still today a renowned Ferrarese specialty. In his
recipe he explained how the less noble parts of pork were mixed together with
expensive spices such as cloves, nutmeg, and cinnamon to create a dish that the
Este family appreciated. Apparently, the salama was served especially at
wedding banquets because of the reputed aphrodisiacal quality of its spicy
sauce.46 Sex, pleasure, and taste were clearly winning battles for the
once-humble sausage. The salsiccia, fresh or cured, also took center stage
among a group of bawdy poems on fruit, vegetables, and other humble foods,
authored by three of the most representative poets writing in the bernesque
style, Anton Francesco Grazzini, Agnolo Firenzuola (1493–1543), and Mattio
Franzesi (ca. 1500–ca. 1555). Firenzuola composed a canzone, and Grazzini and
Franzesi capitoli, praising pork sausage for its alimentary and sexual
properties, and demonstrating its social primacy over “superior” foods such as
pheasants and capons. And, as if in a philosophical debate, these poems
regularly elicited long, scholarly, and often obscene prose comments. The
erotic allusions of their verses were clearly associated with the consumption
of meat during Carnival, suggesting both the literal consumption of carne as
meat and of carne as f lesh of a more sexual variety.47 As we have alreadyseen,
pig meat had a mixed reputation because it was considered dangerous on one hand
and nutritious on the other. Imaginative literature built upon medical and
gastronomical culture to produce a more complex vision that allowed
considerable room for ambiguity and ambivalence. Pork never entirely lost its
reputation for promoting debased gluttony and pig-like manners, but it also
gained a more positive reputation as a pleasurable food suitable for both
peasants and upper classes to enjoy, as these poems demonstrate.48 The “Canzone
del Firenzuola in lode della salsiccia,” written between 1534 and 1538 by the
Florentine poet and dramatist,49 boasts of the primacy of his writing on the
sausage and plays on the double erotic sense: “Since no fanciful poet / has
dared yet / to fill his gorge with the sausage” (“poi ch’alcun capriccioso /
anchor non è stato oso / de la salsiccia empirsi mai la gola”).50 He concludes
with an invocation to the canzone itself to go and tell the poets’ friends in
Florence the secrets of this most perfect food.51 Probably written in Rome while
he was a member of the academy known as the Virtuosi52 and followed by an
ironic prose commentary signed by a mysterious Grappa,53 the poem recognizes
its affiliation with the bernesque poets. Yet it humorously affirms that they
deserved an herb crown on their head because they lauded the oven, figs, and
“boiled chestnuts” but not the sausage, “the most perfect food.”54 Firenzuola
presented the pork sausage produced in Bologna as a food worthy of poets but
good also for rich priests and lords, learned men, and beautiful women. He
argued that it had a better reputation than the highest priced meat of the
time, veal. The poem blended sexual innuendos and gastronomical discussion in
its overtly simple description of how to make the sausage. And following the bernesque
tradition, it mocked doctors’ recommendations about when to eat certain foods
and reassured readers that the sausage “is good roasted and boiled, for lunch
or for dinner, before or after the meal”; all these prepositions suggested different
parts of the body and different types of sexual intercourse.55 Firenzuola then
adds what he labels a “beautiful secret”: never use the sausage during the hot
months of summer but wait until August has passed. According to Aristotelian
physiology, men who are already by nature hot and dry are less potent in the
summer when the excessive heat of the season takes away their sexual force.56
Nonetheless, he argues that even old men who have lost their heat can be young
again thanks to the mighty sausage.57 Finally, and appropriately, for his
reportedly polymorphous tastes, Firenzuola concluded that one could make
sausages with “every type of meat,” referring to all possible sexual
practices.58 The sausage’s morphology, then, links it to the male member and to
its features that could be seen both as gastronomic and sexual: Sausages were
ordered from above / to amuse those who were born into the world / with that
grease that often drips from them; and when they are cooked and swelled / you
can serve them in the round dish, although a few today want them with the split
bread. Fur le salsiccia ab aeterno ordinate / per trastullar chi ne veniva al
mondo / con quell’unto che cola da lor spesso; et quando elle son cotte e
rigonfiate, le si mettono in tavola nel tondo. / Altri son, che le vogliono nel
pan fesso, / ma rari il fanno adesso; / che il tondo inver riesce più pulito, /
né come il pan, succia l’untume tutto.59 When a sausage is cooked and ready to
serve, Firenzuola advised, it would be best to display it on the table “nel
tondo” (the round dish and, metaphorically, the bottom) although others
preferred it served with the “pan fesso” (split bread or, metaphorically again,
a woman’s genitals). But there are few who prefer the latter today, Firenzuola
added. As a Florentine, he prefers the domestic Florentine sausage, large and
firm, red and natural, and encased in clean skin. The metaphors roasted or
boiled and the adjectives “tondo” and “ fesso” (round and split/foolish), refer
to sodomitical and heterosexual encounters, while also alluding to different
gastronomical appetites. The poem concludes in an ecumenical and procreative
tone, affirming that the creation of sausages was intended to give pleasure and
utility to everyone, but in the end the good sausages would always be the
reason why men and women were born into this world.60 Firenzuola’s poem affirms
that while the sausage is for everybody and every taste, gustatory and sexual,
when served “after” and roasted it is good only for upper classes. Like other
bernesque poets, he seems eager to assign a higher social status to this
“popular” (and economic) food. In fact, usually it was roasted fowl and roasted
meat that was theoretically reserved for upper classes. Since he is suggesting
sodomy with the reference to roasted meat, that sexual practice is seen as the
nobler activity, although forbidden. Elevating a lower-class food to a higher
status was the perfect metaphor for speaking in favor of sodomy and introducing
social values along with the sexual. What function did this type of poetic
imagery serve in a period when sodomy was a crime and even the depiction of
non-sodomitical sexual acts in an artistic work such as I Modi proved to be so
controversial? It seems likely that images had more power to move viewers than
writings, but in an era of printing reproduction, cheap copies of poetry, like
the one produced in the Vignaiuoli and Virtuosi circle, could circulate outside
an intended audience of intellectuals and fellow poets. It is therefore difficult
to assess the impact of these texts, but the humor and the metaphorical
language dedicated to meat, vegetables, and fruits may have helped allay the
anxiety among authorities, both religious and civic, about the diffusion and
circulation of writings exalting sodomy.61 The long Capitolo in lode della
salsiccia by Anton Francesco Grazzini, which is followed by an erudite and
playful prose commentary by the same author, extolled the sausage mainly from a
gastronomical point of view, humorously contrasting its attractions with
moralizing medical lore, and interweaving it once again with sexual
innuendos.62 Presenting himself as a knowledgeable gastronome, Grazzini also
praised the primacy of the Florentine sausage, superior to capons, partridges,
and all the meat of birds, as well as to highly prized fish such as lampreys
and eels.63 After defining it as a meal worthy of poets and emperors, and
begging Greece and Rome to recognize the superiority of the sausage made in
Florence, Grazzini once again lauded its colors and its appearance. In
addition, much like the cookbooks of his day, he listed its ingredients:
well-ground lean meat and fat from the pig, salt and pepper, cloves, cinnamon,
oranges, and fennel, all stuffed in a case of animal intestines.64 However, he
clarified that his intent was not to explain how to make it but to laud the
sausage’s beauty, taste, and goodness. And citing the process of stuffing,
“imbudellar la carne,” Grazzini took the opportunity to shift the poem from the
culinary to the sexual. He saluted women who always wanted to have their body
full of sausages because they are good and healthy—another battle won in the
same sausage wars.65 The prose Comento sopra il Capitolo della salsiccia di
maestro Niccodemo dalla Pietra al Migliaio, also authored by Grazzini, makes
clear that although women love the sausage, the double sense is again a
reference to sodomy. The “buona carne,” well done, well cut, and making a good
show when displayed in the round dish, once again is a pretext to laud the male
bottom. Furthermore, the view of the tagliere wins over all the other poetic
images (including those taken from fragments of Petrarch’s poems) such as eyes,
hair, breasts, or feet of Beatrice and Laura.66 A long section of the Comento
on the gastronomical virtues of pork begins with a verse from a sonnet by
Petrarch dedicated to the name of Laura: “O d’ogni riverentia et d’honor
degna.” In this line he humorously shifts abruptly from Petrarch’s words
honoring his beloved Laura to the more mundane culinary and sexual wonders of
pork, the only meal worthy of poets and emperors.67 Even Petrarch’s untouchable
Laura takes her blows in the sausage wars. Throughout the long prose comment on
his own poem on the pork sausage, Grazzini attacked Petrarchan poetry and
current medical lore regarding sausages and pork’s meat. The playful
observations on the ability of the sausage to heal every illness—while
maintaining a sexual overtone—reads like a learned medical prescription listing
several herbs and substances used by apothecaries to prepare their confetti,
pills, and tonic drinks.68 Yet Grazzini also made the straightforward culinary
point that Florentine pork and lard, key ingredients in their sausages, were
exceptionally good for roasting and frying as well as the essential ingredient
for making the popular bread with lard called pan unto. The attraction to lard,
the white fat of pork, was echoed in a poem by the author and translator
Lodovico Dolce (1508–68), “Salva la verità, fra i decinove,”69 dedicated to a
gift of wild boar he had received from a friend. This wild pork is defined as
“a magnificent and regal gift” whose rich fatty f lavor “will make Abstinence
die of gluttony and Carnival lick his fingers.” 70 His enthusiasm for lard in
the poem leads to a dream where Dolce witnessed himself, in an Ovidian fashion,
metamorphosed into a succulent sausage, rich with fat dripping from the
extremities of his body.71 Dolce gave the transference theory of Renaissance
doctors a positive spin, since eating pork actually transformed him if not into
the animal itself, into its gastronomical essence and pleasure. Accordingly,
his poem exploited the common ideaof closeness and fratellanza between pigs and
humans in an iconic and paradoxical way that privileged the sausage.72 The
third poem on sausages was written by Mattio Franzesi who dedicated it to a
certain “Caino spenditore,” a friend presumably in charge of food provisioning
in Florence.73 Franzesi employs the language of gastronomy in an amusing
pairing with quotidian language referring to sodomy. The sausage is called
“buon boccon” (excellent morsel) and “boccon sì ghiotto and divino” when it is
paired again with the beloved specialty panunto, declared superior to two
famous upper-class foods, the impepato and marzipan.74 Franzesi, like Dolce,
describes the panunto or slices of bread with sausage inside as a divine and
gluttonous morsel, definitely superior to luxury foods like the beccafico, a
fat and fresh songbird.75 Moreover, the salsiccia does not cost much and can be
used in many different ways to sustain a meal: it can substitute for a salad
(i.e., a woman)76 and priests in particular use it often because they do not
need to cook it but can just warm it up between their hands. All the
affirmations in Franzesi’s poem can be read in a double sense, as gastronomical
discussion or as a metaphorical way of talking about the phallussausage and its
pleasures. He refers with technical precision to the gastronomical side of
sausages, even when metaphorically discussing sexual acts.77 The sausage is
better than prosciutto (both come from pork), when boiled (used with women),
and is a good meal for sauces and “guazzetti ” (sauces). Moreover, all the
birds in the world would be like truff les without pepper and confetti without
sugar, if not accompanied by sausages. A meal with sausages is a meal for taste
and pleasure, not a meal for nourishment. Franzesi then describes its shape,
and how to make a good-tasting, good-smelling sausage, using spices, herbs, and
the unique ingredient for Florentine sausages, fennel. The poem ends with a
list comparing the sausage in the panunto as equal to Florentine gastronomical
specialties, such as the ravigiuolo cheese with grape, cheese with pears, old
wine with stale bread, and others. Exalting a humble subject fitted well with
the agenda of the bernesque poetry that lauded simple foodstuffs and everyday
objects. But privileging sausages over songbirds was clearly not just a
rhetorical ploy because it implied a comparison between a food for rustic
people and a luxury food. Franzesi, like Grazzini before him, contributed in
his poem to elevating the social status of the pork sausage. It was not simply
a food “da tinello,” for poor courtiers used to eating the leftovers of their
lord, but a meal worthy of rich people and important prelates.78 In sum, poets,
novellieri, and dramatists from the fourteenth to the sixteenth centuries took
full advantage of the possibilities offered by the different meaning inherent
in the word carne. It allowed them to discuss virility, sexual potency,
masculinity, and sodomy under the guise of the gastronomical discourse. The
sausage poems fit well with the constant preoccupation and advice of medical
and dietary literature of the time on how to ensure sexual potency. The novelle
discussed sexuality between men and women, endorsing a decisively masculine and
traditional view that depicted women as lusty and desirous of raw carne,which
is able to heal every illness and satisfy every need. The poems on sausages
confirm this hierarchical vision of sexuality dominated by the mighty phallus.
Yet they also endorse a concept of diverse gastronomical taste, lesso and
arrosto, nel tondo or nel fesso, to offer a variety of views of sexuality that
responded to every gusto. These poems on sausages were written in the cultural
circle of the Vignaiuoli and Virtuosi academies, well known in the period for
their substantial corpus of poetry dedicated to the comparison of fruit and
vegetables to sexual organs and sexual acts. The not-so-covert sexual sense of
most of those poems exalted sodomy, in their praise of peaches or carrots, or
sexuality with women in poems on salads and figs. Poems on the mighty sausage
covered all the bases of sexuality, although with a preference, often openly
stated, for male–male sexuality. Intriguingly, the poetic and linguistic play
on carne in the form of sausage allowed lengthy descriptions of an Italian and
Florentine gastronomic specialty of the time, totally ignoring the negative
vision of pigs as gluttonous, dirty animals presented by dietary literature.
Since gluttony was the quintessential behavior represented by pigs, what better
way to reclaim pork in the sausage wars than to use it to symbolize
gastronomical richness and sexual variety? If sins of the f lesh were often
symbolized as sins of carne in medieval times, now in a perfect reversal the
pleasures of the f lesh were symbolized by the pleasures of eating meat in all
of its variety, thanks in part to these sausage wars. Thus, while a moral and disciplinary
vision tried to control the discourse on food and eating in medical and
dietetic treatises of the sixteenth century, a counter-argument advanced
playfully in literature and bernesque poetry presented carne as a metaphor for
the pleasures of the senses.79 The conceptual pairing of gluttony and lust in
medieval tradition began to lose ground to a much more complex world of food,
taste, and pleasure, and the no longer quite so humble sausage led the
way.Notes I would like to thank Jacqueline Murray and Nicholas Terpstra for
inviting me to contribute to this volume in honor of Konrad Eisenbichler, a
friend and scholar who always supported my work and my career. The research and
writing of this essay took place when I was a fellow at the Institute for
Historical Studies at the University of Texas, Austin, in 2016–17. Some of the
topics of this essay were discussed at events at the University of Toronto in
2015 and University of Melbourne in 2012. Belated thanks to Konrad Eisenbichler
and Catherine Kovesi. This essay is part of my forthcoming book Food Culture
and the Literary Imagination in Renaissance Italy. 1 Girolamo Parabosco, La
fantesca, quoted in Giannetti, Lelia’s Kiss, 143. 2 The popularity and
frequency of the word carne to indicate the male sexual organ was matched in
Renaissance literature and culture by the use of bird terminology to indicate
the virile member as well as, less frequently, the female organ and sexual
intercourse. Allen Grieco has recently catalogued and analyzed the numerous references
to birds in imagery and literary sources and has studied birds and fowl as food
to understand the connection between eating birds and fowl, and sexuality. He
has uncovered the widely shared humoral perception of birds as a “hot” food
which tended to over-stimulateThe sausage wars the senses. In this way he was
able to give a deeper explanation of the theological link between gluttony and
lust typical of the period, pointing out the reason why, in common perception,
the consumption of luxurious and heating food, especially birds, stimulated the
sexual function. According to the taxonomy of the Great Chain of Being, birds
belonged to air and they were hot and humid: when eaten they would transfer
their properties to the body and stimulate carnal appetite. See Grieco, “From
Roosters to Cocks.” Albala, Eating Right, 144–47. Quellier, Gola, 15–16. Cited
in Grieco, “From Roosters to Cocks,” 123. Much later, gluttony was defined as
the consumption of luxury foods, particularly birds. On Dante’s conceptualization
of sins see Barolini, Dante, chapter 4. The Latin word “luxuria” meant
extravagant/excessive desire (for power, food, sex, money, etc.) and in the
Italian form “lussuria” became the word for lust in medieval Italy. In Inferno
“lussuriosi” sinners are those who had excessive love of others, thus
diminishing their love for God. Gluttony is a sin of incontinence like lust. In
medieval bestiary and other iconographic sources especially north of the Alps
gluttony is often represented as a fat man holding a piece of meat and a glass
in his hands and riding a swine or a wolf. Quellier, Gola, 15–23. For medieval
bestiaries see chapter one in Cohen, Animals. In Italy church frescoes
represented gluttons in Hell suffering the tantalic punishment. At the end of
the sixteenth century, in the first edition of Cesare Ripa Iconologia (without
images) Gluttony (Gola) is described as “donna a sedere sopra un porco perché i
porchi sono golosi . . .” and Gourmandize (Crapula) is identified
with a “donna brutta grassa . . .” Iconologia, 111 and 54. This
helps to explain, for instance, why the famed preacher San Bernardino da Siena
in his Lenten sermons in fifteenth-century Florence condemned the desire of
Florentine young men for capons and partridges, claiming they opened the doors
to a life of sensual foods and sensual pleasure. In particular, he linked gluttony to lust and sodomy.
Bernardino da Siena, Le prediche volgari, ed. Ciro Cannarozzi (Pistoia: Tip. A.
Pacinotti, 1934), II: 45–46, quoted in Vitullo, “Taste and Temptation,” 106. Montanari, “Peasants,” 179.
Montanari and Capatti, La cucina italiana, 76–77. Pheasants and partridges
represented the ideal components of a refined and tasty banquet, possible only
for people with means. Braudel,
Capitalism, 129. “Danno ottimo nutrimento, risvegliano l’appetito, massime a’
convalescenti e sono cordiali. Nuocono a gli infermi, e massime à quei che
hanno la febre e fanno venir tisichi i villani.” Residing on a high position on the Great Chain of
Being, they represented powerful people and, accordingly, were sternly
cautioned against for rustic people, to whom, according to Pisanelli, they
could be dangerous. Pisanelli, “De beccafichi, Cap. xxvi” in Trattato de’ cibi,
33. Similarly, pheasants and partridges are responsible for provoking asthma in
rustic people (Cap. xxvii and xxix). In his work, Bartolommeo Sacchi, known as
Platina, paid much attention to the idealistic principle of moderation derived
from the Greek and Roman world, along with his interest in the revival of Epicureanism.
Platina, On Right Pleasure. Eamon,
Science, 163. Giovan Battista Zapata, Li maravigliosi secreti di medecina, et
chirurgia, nuovamente ritrovati per guarire ogni sorta d’infirmità, raccolti
dalla prattica dell’eccellente medico e chirurgico Giovan Battista Zapata da
Gioseppe Scientia chirurgico suo discepolo (Venice: Pietro Deuchino, 1586; 1st
ed. Rome, 1577),
37–41, quoted in Scully, “Unholy Feast,” 85. Eamon, Science, 188. Bovio,
Flagello. He gives the example of a doctor whose wife was sick and how he cured
her with a diet of French soup, capon, and wine but could not apply the same
treatment to his other patients in fear of losing business; see 45–46. “più facilmente di carne si faccia carne che di
qualunque altra sorte di cibo.” Romoli, La singolare dottrina; “Delle carni in generale,” 205r. Domenico
Romoli (n.d.) previously Laura Giannettiworked as a cook with the name of
Panunto (oiled bread) and then became steward for Pope Julius III. For poor
people and peasants in particular, pork continued to be the meat of choice; and
although it had a negative reputation, in the case of people occupied in heavy
physical work, pork was reputed nourishing and healthful. Florentine communal
statutes of 1322 prohibited innkeepers from serving up culinary delights
because they could attract men and boys and incite them to commit the
unspeakable sin of sodomy. Rocke, Forbidden Friendships, 159. During Cosimo the
Elder’s regime Florentine Archbishop St. Antonino—in his confessor’s
manual—warned against sloth, excess food, and drink as causes of sodomy.
Toscan, Le Carnaval, vol. I: 190. See Giannetti Ruggiero, “The Forbidden
Fruit,” especially pages 31–33. Later in the seventeenth and eighteenth
centuries the Church allowed consumption of eggs, butter, and cheese during
famines and epidemics. See Gentilcore, Food and Health. One of the most
important representatives of this tendency was the Venetian noble Alvise
Cornaro who wrote the extremely successful Trattato della vita sobria in 1558.
In general, moralists’ writers of the later Middle Ages and early Renaissance
continued to advise against eating food that would produce excessive heating of
the body. The dietetic literature, particularly the influential earlier author
Michele Savonarola and the later Baldassar Pisanelli, supported the restriction
of birds and fowl to particular categories of people held to be more capable of
controlling the passions they induced, such as the powerful and rich or those
needier of stimulation such as the sick and the ailing. Grieco, “From Roosters to Cocks,” 115. See novella
“De Novo Ludo” (Sercambi, Novelliere) available online at www.classicitaliani.
it/sercambi_novelle_08.htm where Ancroia enjoys her time with the priest: “la
donna, come vide Tomeo fuora uscito, preso un fiasco del buon vino, una
tovagliuola, alquanti pani e della carne cotta per Tomeo, et al prete
Frastaglia se n’andò e con lui si diè tutto il giorno piacere, pascendosi di
carne cruda e carne cotta per II bocche . . .” Apostolo Zeno in the
eighteenth century attributed the author name Gentile Sermini to the two
anonymous caudexes containing the novelle. Monica Marchi in her critical
edition of the novelle prefers to use Pseudo-Sermini instead of the
conventional name Gentile Sermini. See Marchi, “Introduzione,” in
Pseudo-Gentile Sermini, Novelle, 10–22. The novelle were written in the first
half of the fifteenth century. “[
. . . ] non altramente fece la valente madonna Alisandra che,
agustandole molto la carne e ‘l savore, per quello dilettevole giardino, preso
insieme d’acordo giornata . . .” Pseudo-Gentile Sermini, Novelle, xi,
270. Fortini, Le giornate, I, xvi, 296–300. Grazzini (Il Lasca), Le Cene, I:
vi, 80–94. Giannotti “Il vecchio amoroso,” II: i, 40–41. On remedies for impotence,
and early modern drama, see Giannetti, “The Satyr.” “A Tiziano,” in Aretino,
Lettere, 67–68. This section is partially based on Giannetti Ruggiero, “The
Forbidden Fruit,” 31–52. See “Ragionamento Antonia e Nanna,” in Aretino, Sei
giornate, 38. “The Roman Porcellio Enjoys the Trick Played on the Friar in
Confession,” in Bandello, Novelle, vi: 125. See the discussion of the tale in
Giannetti, Lelia’s Kiss, 181–82. Ibid., 181. On the battles between Quaresima
and Carnival see Ciappelli, Carnevale. Albala, Eating Right, 168 and 181. The
painting is now in the Museo Civico of Udine. Sercambi, “De vidua libidinosa” in “Appendice,”
Novelle inedite, 417–18. Matthews-Grieco, “Satyr and Sausages.” Several novelle, from
Boccaccio to Sacchetti, related the closeness in everyday life of pigs and humans
in rural and urban areas and the importance of pork for sustenance, but also
the negative perception of pigs and filthy and gross animals. For instance, see Sacchetti LXX, CII, CXLVI, CCXIV.
For Boccaccio see “Calandrino e il porco.” Already in the Middle Ages, from the perspective of
the Great Chain of Being, pork and the quadrupeds occupied a questionable
position—they were not part of Air like birdsThe sausage wars nor of the Earth
but somewhere in between; and pig in particular occupied one of the lowest
position among all quadrupeds. Grieco, “Alimentazione e classi sociali,”
378–79. Pigs were voracious animals and, according to the Galenic doctor,
eating their fattening meat would transform a person in a pig, as a later image
of Gola as a woman sitting on a pork would make really explicit. For instance,
in the second half of the sixteenth century, Baldassar Pisanelli advised eating
sausages and salami in moderation, but recognized in them some positive
characteristics such as reawakening of appetite and helping to make drinking
more pleasurable. Pisanelli, Trattato de’ cibi, c. 13. Platina, On Right
Pleasure, Book VI, 281. Ibid., 277. Ficino, Three Books on Life, Book 2, 181.
See the section “Sausages and Salami” in Matthews-Grieco, “Satyr and
Sausages.” Pietro Aretino in his comedy Il Filosofo summarizes well this new
ambivalence about pork when he had one of his characters resolutely affirm:
“refined sugary confections (the biancomangiari) and quails do not stimulate
taste as do steaks and sausages.” Pietro
Aretino, Il Filosofo, III, 15. See the text in Romai, Plaisance, and Pignatti,
eds., Ludi esegetici, 313–15. Firenzuola is also author of the famous dialogue On the Beauty of Women.
vv. 12–14. “Canzon, vanne in Fiorenza a quei poeti,” v. 76 The Virtuosi academy
was the continuation of the Vignaiuoli academy, one of the first “academies” of
sixteenth-century Italy, an informal gathering of intellectuals that met for
dinner, witty conversations, music, and poetry in the early 1530s. Around 1535
or slightly later, the Vignaiuoli renamed themselves Academia della Virtù
and/or Reame della Virtù and continued their activities until ca. 1540.
Meetings, often held at Carnival time, featured improvised speeches and the
recitation of poems, frequently accompanied by music. The Vignaiuoli was one of
the first academies in Italy to privilege the usage of vernacular and became
most famous for the poetic production of so-called “learned erotica,” as well
as for their anti-Petrarchan and anti-classicist poetic stance. Grappa, now
identified with Francesco Beccuti, comments on Firenzuola’s poem. See Grappa, Il Comento. On Beccuti see Fiorini
Galassi “Cicalamenti.” The allusion here is to the poem Sopra il forno by
Giovanni della Casa, De’ Fichi by Francesco Maria Molza, and In lode delle
castagne by Andrea Lori. All three are poems dedicated to the female genitals.
“Mangiasi la salsiccia innanzi et drieto / a pranso, a cena, o vuo’ a lesso o
vuo’ arrosto / arrosto et dietro è più da grandi assai; / innanzi et lessa, a
dirti un bel segreto / non l’usar mai fin che non passa Agosto.” vv. 30–35.
“Perchè in estate gli uomini sono meno capaci di fare l’amore, le donne invece
lo sono di più [. . .]? Perché gli uomini sono più inclini a fare
l’amore d’inverno, le donne in estate? Forse perché gli uomini sono di natura
più caldi e secchi [. . .]?” Aristotele, Problemi, ed. Maria Fernanda
Ferrini (Milan: Bompiani, 2000), IV, 25–28, quoted in Pignatti, ed., Ludi
Esegetici II, 200. “O vecchi benedetti! / questo è quel cibo che vi fa tornare
giovani e lieti, et spesso ancho al zinnare” vv. 58–60. “Fassi buona salsiccia
d’ogni carne: /dicon l’istorie che d’un bel torello/dedalo salsicciaio già fece
farla /e a mona Pasife diè a mangiarne? Molti oggidí la fan con l’asinello . . .”
vv. 46–50. vv. 61–65. “Basta che i salsiccioli/cotti nei bigonciuoli, / donne,
dove voi fate i sanguinacci, / son cagion che degli uomini si facci.” vv.
72–75. On the cultural
function of humor see Matthews-Grieco, “Satyr and Sausages,” 37.62 For the text
of the canzone, see Grazzini, “In lode della salsiccia,” in Romei, Plaisance,
and Pignatti, eds., Ludi esegetici, 227–30. For Grazzini “Comento di maestro Nicchodemo dalla
Pietra al Migliaio sopra il Capitolo della salsiccia del Lasca,” see ibid.,
231–309. There is no
secure date regarding the writing of the Comento but it should have been
written around 1539–40. See Franco
Pignatti, “Introduzione,” in Romei, Plaisance, and Pignatti, eds., Ludi
esegetici, 163. 63 Ibid., vv. 22–33. 64 Ibid., vv. 76–81. 65 Ibid., vv. 94–111.
66 “La bellezza del tagliere non è come forse molti credono, e non consiste in
l’esser bianco, non di buon legno, non tondo, non ben fatto, ma si bene
nell’essere pieno di buona carne ben cotta e ben trinciata; . . .
tolghinsi pur costoro i capelli di fin oro, la fronte più del ciel serena, le
stellanti ciglia . . . come dire le Laure, le Beatrici, le Cintie e
le Flore!” Grazzini, Comento di Maestro, 240–41. 67 Sonetto n. 5 of Canzoniere
on the name of Laura: “Quando io movo i sospiri a chiamar voi” 68 “Perciò che
quei traditori de’ medici la prima cosa levono il porco e non vogliono a patto
nessuno che n’habbia l’ammalato per mantenergli bene il male addosso, sendo il
porco e maggiormente la salsiccia, habile e possente a guarir d’ogni malattia e
più sana che la sena, più necessaria che la cassia, più cordiale che il
zucchero rosato, più ristorativa che il manicristo, et insomma ha più virtù che
la bettonica.” Grazzini, Comento di Maestro, 280–81. The terzina commented is
103–05: “Io crederria d’ogni gran mal guarire/ quando haver ne potessi un
rocchio intero,/ancor ch’io fussi bello e per morire.” 69 In Dolce, Capitoli.
70 “dono invero magnifico e reale,/da far morir di gola l’astinenza/e leccarsi
le dita a Carnevale.” Ibid., vv. 10–12. 71 “E chi m’avesse allora allora
punto/aria veduto uscir liquor divino/del corpo, ch’era pien di grasso e
d’unto.” Ibid., vv. 43–45.
72 Some authors trying to dignify pork, recycled Galen’s idea expressed in De
alimentorum facultatibus where he argued troublingly that pork was pleasurable
because it was similar to human’s flesh. For
instance “Le carni del Porco fra tutte le altre carni dei quadrupedi han
vittorie in nutrire e dar più forza ai corpi perché cosi nel gusto come nello
odore par che habbiano una peculiar unione e fratellanza col corpo umano si
come da alcuni si è inteso che per non sapere hanno gustato la carne
dell’huomo” [For taste as well as for odor, it seems that the meat of pork has
a peculiar unity and likeness with the human body, as some reported, who tasted
human flesh while not knowing it] in Un breve e notabile trattato del
reggimento della sanità, ridotto dalla sostanza della medicina di Roberto
Groppetio 362–63 v. The little volume is attached to La singular dottrina. It is not clear whether it
was written by Panunto himself or not. For a similar affirmation see also:
Della natura et virtù de’ cibi, 68v. Not all agreed with this troubling
similarity but it was quite a common affirmation in many medical treatises and
in some literary works of the time. 73 In
Romei, Plaisance, and Pignatti, eds., Ludi esegetici, 316–18. 74 “Qui non è
osso da buttare al cane, / e’l suo santo panunto è altra cosa/che lo impepato
overo il mrzapane,” vv. 25–27. 75 “Dicon che la midolla del
panunto,/incartocciata come un cialdoncino, / tal che di sopra e di sotto
appaia l’unto, / è un boccon sì ghiotto e sì divino, / che se lo provi ti parrà
migliore/ch’un beccafico fresco e grassellino,” vv. 38–42. It should be noted that even
the luxury food, the beccafico, had strong sexual overtones. 76 The cultural
discourses that surrounded salad in early modern Italy and Europe were complex
and rich, ranging from sexuality and manners, to taste, gastronomy, and class
identity. See Giannetti, “Renaissance
Food-Fashioning.” org/uc/item/1n97s00d.
77 “è un boccon sì ghiotto e sì divino, / che se lo provi ti parrà
migliore/ch’un beccafico fresco e grassellino,” vv. 40–43. Franzesi, “Capitolo
sopra la salsiccia,” 316–18.78 “Questo non è già pasto da tinello/ma da ricchi
signori e gran prelati / che volentieri si pascon del budello.” Ibid., vv. 79–81. 79 On the
disciplining vision of the sixteenth century and a counter-discourse in
dramatic literature see Giannetti, “Of Eels and Pears.”Bibliography Albala,
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Press, 2002. Aretino, Pietro. Lettere. Edited by Gian
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alla Primiera -Lasca, Piangirida e Comento di maestro Nicodemo sopra il
Capitolo della salsiccia. Edited by Danilo Romei, Michel Plaisance, and Franco
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medici rationali di Zefiriele Tommaso Bovio nobile veronese; nel quale non solo
si scuoprano molti errori di quelli, ma s’insegnan ancora il modo d’emmendargli
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“Taste and Temptation in Early Modern Italy.” The Senses and Society 5,
Visualizing sexuality in word and image10Homosexuality in art, life, and
history James M. SaslowFrom his mid-thirties, the Lombard-Sienese painter
Gianantonio Bazzi (1477– 1549) was publicly known as “Il Sodoma.” This epithet
translates as “Sodom,” the biblical city eponymous with sexual transgressions
that were then both a sin and a crime. Sodomy bracketed multiple acts, but most
commonly referred to love between men; so, his nickname might be freely
rendered as “Mr. Sodomite.” Our principal biographical source is Giorgio
Vasari, whose Vita of Bazzi (1568) recounts several revealing or scandalous
episodes. A few are exaggerated or false, skewed by Vasari’s disdain for both
homosexuality and Siena. However, his plausible explanation of how the artist
earned his sobriquet is not refuted by other evidence. Vasari describes him as
a gay and licentious man, keeping others entertained and amused with his manner
of living, which was far from creditable. . . . [S]ince he always had
about him boys and beardless youths, whom he loved more than was decent, he
acquired the by-name of Sodoma.1 While sources for private feelings are scanty
and often problematic for this period, and Sodoma left little first-person
testimony, this and other records suggest a prima facie case for the artist’s
erotic interest in other males. He is unique in Renaissance Italy as the only
artist whose homosexuality was frankly avowed and widely known. His character
and sexual interests offer a provocative case study of the intersections
between eros and creativity, and how that sensibility was manifested in his
imagery. His experiences further suggest that there were overlapping audiences
eager to receive and respond to that sensibility. Sodoma exhibited other
character traits also considered eccentric or insolent, and was fond of
capricious pranks; the monks at Monteoliveto Maggiore, his first large
commission, referred to him as “Il Mattaccio,” the “crazy fool.”2 Hewas an
impudent mocker of moral decorum: Vasari reports indignantly about the nickname
Sodoma that “in this name, far from taking umbrage or offence, he used to
glory, writing about it songs and verses in terza rima, and singing them to the
lute with no little facility.” He was also infamous for his f lamboyant
clothing and for keeping an entire menagerie in his home, including pet birds,
monkeys, squirrels, and race horses; Vasari called the house “Noah’s Ark.”3 He
entered his horses in public contests, and we can date his sobriquet back to a
series of races in Florence from 1513 to 1515. When his steed won, the heralds
asked what owner’s name to announce; Bazzi replied, “Sodoma, Sodoma,”
indicating that he was already known by that name and willing to be associated
with it. The incident also reveals the precarious social landscape that known
or suspected sodomites had to negotiate. Thumbing his nose at a mocking public
backfired: a group of outraged elders incited a mob attack, during which he
narrowly escaped being stoned to death.4 Anecdotes and documents
notwithstanding, historians have long tried, for widely differing reasons, to
chip away at the foundations of a historiographical tradition dating back to
Vasari himself. For it was Vasari, unwittingly anticipating modern queer
scholarship, who first understood Sodoma as having homosexual desires and
assumed some connection between his sexuality and his work.5 To the prudish
chronicler, that connection was negative: Vasari blamed Sodoma’s failure to
achieve greatness on his excesses of character, from laziness to carnality,
scolding that if he had worked harder, “he would not have been reduced to
madness and miserable want in old age at the end of his life, which was always
eccentric and beastly.”6 Value judgment aside, the assumption that artists’
personalities and passions are intimately imbricated with their work runs
throughout Vasari’s biographies. Modern generations, beginning with the
homophile Victorian critic-historians John Addington Symonds and Walter Pater,
acknowledged the same connection with a positive valence, reading Sodoma’s
androgynous figures and distinctive iconography as revealing glimpses into the
sensibilities of a man aware of both his own desires and the gap separating
that passion from social norms. The path they laid down guided post-Stonewall
gay studies through the early 1980s.7 More recently, postmodern theoreticians,
stressing the ever-shifting social constructions of sexuality and identity, have
countered such attempts to posit any individual sexual identity or group
homosexual consciousness, however embryonic and sporadic, in that era. Their
methodology, inspired by scholars from Michel Foucault to Eve Sedgwick and
David Halperin, dismisses such formulations as anachronistic over-reading.8 The
generational shift in goals and methods, from “gay and lesbian studies” to
“queer studies,” instigated an ongoing debate. These theoretical polarities
have implications for the present study, which aims to excavate the embodied
passions and creative process of an individual who felt homosexual desire, and
to reconstruct, to whatever extent possible, an early moment in the gradual,
fitful emergence of self-aware homosexual sensibilities and self-expression.Although
I defer consideration of this theoretical controversy until the essay’s end, my
working hypothesis parallels the nuanced historiography of Christopher Reed,
who reminds us that, although readings of Renaissance homosexuality as similar
to modern conceptions were convincingly challenged by Foucault’s insistence
that [the modern] sexual typology was not invented until the nineteenth
century, [nevertheless] no idea is without roots, and subsequent scholarship
provided evidence that convinced even Foucault to recognize stages in the
eighteenth, the seventeenth, and even the sixteenth century leading to the
invention of homosexuality as a personality type.9 As a personality, Sodoma was
among the few early modern artists who visualized homoerotic desire. This essay
investigates that process along three intertwined axes: life, work, and
historiography. His biography provides a unique microhistory of an early avowed
homosexual and his culture’s understanding of that inclination. His works gave
visual expression to his erotic sensibility, and contemporary patrons and
spectators, from pederastic monks to libertine aristocrats, were ready to
receive it sympathetically. Finally, I conclude with a more personal
historiographical meditation on the controversy over whether embryonic
homosexual consciousness can be located in early modern culture.Early religious
works Arriving in Siena as a young man, Sodoma established relations with the
Chigi family and the Benedictine order, who commissioned numerous works, mainly
on sacred themes.10 Officially, since Christianity condemned all
non-procreative sex, theological narratives offered next to no scope for
“homo-representation”; but his religious pictures nonetheless provide material
for queer readings. If a subject contained any potential for imagining or
accentuating a homoerotic subtext, Sodoma exploited it more than any artist of
his time except Michelangelo (also a lover of men), seldom missing an
opportunity to foreground male beauty or intimacy in nude or suggestively clad
bodies. Many images celebrate the boyish, androgynous type that was the most
common object of adult male desire at the time, while a few idealize the more
heroic male adult body; he often derived both figure types from classical
sculptures with a homoerotic pedigree. And many members of the audience for his
imagery, both clerical and lay, were likely to appreciate this eroticized
beauty. The first example of the interlinked sensibilities of artist and
spectators is his fresco cycle for the abbey at Monteoliveto Maggiore, outside
Siena (1505–08), depicting the life of the order’s founder, St. Benedict.11
Payment records confirm several Vasarian details about the artist, from his
early nickname, Mattaccio, to his use of apprentices ( garzoni ) and his fondness
for extravagant finery. Although the austere life of the founder of monasticism
was unpromising terrain,Sodoma found novel pretexts for inserting numerous
visual features—often rare or unique inventions—that would appeal to the
homosexual or bisexual gaze. Most striking in its novel and ironic departure
from the subject’s nominal moral is the illustration of Benedict seeking relief
from a female devil’s sexual temptation by stripping off his clothes and f
linging himself into spiny briar bushes12 (Figure 10.1). Unlike the few earlier
representations of this scene, Sodoma renders the vegetation soft and
unthreatening: rather than conveying mortification of the f lesh, he presents
in full frontal view a nude of heroic proportions, reclining comfortably in a
pose modeled on classical prototypes. The all’antica beauty of the body
displaces attention from the saint’s physical self-abnegation onto his
potential to arouse erotic desire—precisely what Benedict is trying to
suppress.13 The most personally revealing of the frescoes is the Miracle of the
Colander (Figure 10.2), in which the saint and his homespun miracle (repairing
a household sieve) are shunted to the left, leaving the central focus on the
figure of Sodoma himself, showing off his legendary wardrobe. His self-portrait
corroborates Vasari’s disdainful take on him as a fop, “caring for nothing so
earnestly as for dressing in pompous fashion, wearing doublets of brocade,
cloaks all adorned Sodoma, Abbey of Monteoliveto Maggiore, Saint Benedict Is Tempted
by a Female Devil, fresco, 1505–8.Photo credit: Scala/Ministero per i Beni e le
Attività Culturali/Art Resource, NY.Gianantonio Bazzi, called “Il
Sodoma”Sodoma, Monteoliveto, Miracle of the Colander, fresco, 1505–8.Photo
credit: Scala/Ministero per i Beni e le Attività Culturali/Art Resource,
NY.with cloth of gold, the richest caps, necklaces, and other suchlike
fripperies only fit for clowns and charlatans.” Here, as elsewhere, Vasari
seems well informed about specific details of Sodoma’s life and work: his
comment is supported by the abbey account books, which describe a garment much
like the one Sodoma wears here, an embroidered gold cape listed among elaborate
items of apparel as a form of payment from the monks, who had received it from
a wealthy nobleman.14 The artist also surrounds himself with exotic animals,
just as Vasari noted he liked to do: birds and two pet badgers. Sodoma’s
sartorial tendencies and other biographical details connect him to a
contemporaneous homosexual demimonde in ways that Vasari himself was perhaps
unaware of, but which is well attested in social history of the period. His
clothing, fondness for androgynous youths, and writing of satirical poetry are
all behaviors then associated with sodomites as an identifiable group with its
own recognizable customs. Research by Michael Rocke, Guido Ruggiero, and others
into the prevalence of sodomy and the emergence of urban homosexual networks in
early modern Italy has revealed that they were so widespread they can scarcely
be called a “subculture.” As Rocke puts it, Bazzi’s brand of sexuality became
“an increasingly common feature of the public scene and the collective
mentality.”15 In Florence, a special sodomy court heard hundreds of
casesannually until 1502; a substantial percentage of males passed through at
some time in their lives.16 Hence “sodomy was . . . a common part of
male experience that had widespread social ramifications.” Rocke notes that
“this sexual practice was probably familiar at all levels of the social
hierarchy” and among a wide range of professions.17 Among those occupations are
the “beardless boys” whom Vasari blames for the artist’s nickname, probably his
apprentices and workshop assistants. Artists’ studios being all-male, “the
potential for homoerotic relations in such an environment was high,”18 and
intimate, sometimes sexual relations between assistants or models and their
masters are suggested by documents on artists from Donatello to Leonardo da
Vinci and Botticelli. Closer to Sodoma’s time, the bisexual sculptor Benvenuto
Cellini was taken to court by the mother of one apprentice for coercing him
sexually.19 This common social pattern gives Sodoma’s behavior wider
implications, since his actions were shared with countless other men. His
wardrobe is the clearest exemplar of those erotic implications. Helmut Puff has
documented the role of material culture in formulating and enacting sexual
subcultures, and how extravagant clothing was a marker of effeminacy and sexual
deviance. Exchange of rare and costly textiles or clothing could betoken
homosexual relationships, either as gifts for love or payment for services.20
By the mid-fifteenth century, San Bernardino da Siena’s sermons thundered
against boys’ receiving clothing and money for sex.21 Within the field of
costume studies, which asserts “the centrality of clothes as the material
establishers of identity itself,” clothing is understood as a set of
materialized symbols with social functions and meanings. As Jones and
Stallybrass have explored, clothes can either embody and reinforce submission
to normative social roles (uniforms) or, when deployed in violation of
sumptuary standards, mark the wearer as consciously rejecting those norms—as
Sodoma did by appropriating the dress of an aristocrat.22 Thus, portraying
himself in extravagant, coded finery was a subversive act of
self-identification with a marginalized minority: in Andrew Ladis’s phrase, “a
pose of arrant foppishness, as if the painter personified the very diabolical
temptations of the f lesh that he painted and lived, not excluding what was
commonly known as ‘the monastic vice’”23 —a revealing euphemism for sodomy. The
artist gives freest play to erotic signifiers in the scene of St. Benedict
welcoming two disciples, Saints Maurus and Placidus, amid the wealthy youths’
retinue and onlookers24 (Figure 10.3). While the disciples are modestly clothed
and posed, both the epicene youth on the center axis and the African groom at
right are shown da tergo, Italian for a rear view that spotlights the buttocks.
The central youth and his mirror image at far left are boyish androgynes,
embodying the predominant pattern of pederasty, in which mature men sought
stillfeminine adolescents for anal intercourse. Thus, some viewers, at least,
would have appreciated the erotic implications of the motif.25Gianantonio
Bazzi, called “Il Sodoma”Sodoma, Monteoliveto, St. Benedict welcomes Sts.
Maurus and Placidus, fresco, 1505–8.Photo credit: Scala/Ministero per i Beni e
le Attività Culturali/Art Resource, NY.Reinforcing this erotic interpretation,
the two youthful onlookers at center and left also sport versions of Sodoma’s
own elaborate clothing, as does the groom to the right of center. They f launt
the styles associated with homosexual seduction: tight multicolored stockings,
long hair, and extravagant fringes, hats, and colors.26 Such clothing had long
been associated with sodomites; Alainof Lille’s De planctu naturae (ca. 1160)
lamented that these men “over-feminise themselves with womanish adornments.”27
San Bernardino da Siena inveighed against parents who let their sons wear short
doublets and “stockings with a little piece in front and one in back, so that
they show a lot of f lesh for the sodomites,” resulting in such an appealing
adolescent always “having the sodomite on his tail.”28 These suggestive details
may have been projections of Sodoma’s erotic mindset, but it is highly likely
that they resonated with some of the monks who were his primary audience.
Shifting our focus from the artist, we should also examine the mental world of
his viewers. Reception theory or spectator theory asks not what did the artist
put into the work, but, rather, what did the audience take out of it? What
interests, beliefs, or habits of seeing did his audience have, and how did that
subject-position influence their reading of his messages? As Adrian Randolph
observed regarding the reception of Donatello’s homoerotic bronze David, an
artwork can function as “a receptacle for the beholder’s imaginative concerns.”
His and other studies have explored how reception of religious art was
determined by the viewers’ gender, particularly in convents, where nuns often
specified subjects relevant to their experience; these insights can be extended
to male religious and to sexuality as well as gender.29 Sodoma’s audience here
was exclusively male clergy, proverbially stereotyped as sodomitical.30
Temptations were exacerbated by the enforced closeness of clerical living
arrangements: several scenes depicting Benedict and his monks highlight their day-to-day
intimacies both emotional and physical.31 To head off such dangers, the rules
of the order specified that no brother is permitted to enter the cell of
another without permission of the abbot or a prior; if this is permitted, they
may not remain together in the cell with the door closed. And no monk may touch
another in any way . . . A light was to burn all night in the
dormitory area and latrine, presumably to prevent secret trysts under cover of
darkness.32 Such precautions were not entirely effective, as a few visual
examples attest. A near-contemporary satirical painted plate depicts a monk
pointing to a youth’s bare bottom; the caption explains, “I am a monk, I act
like a rabbit” (Figure 10.4)—then, as now, a symbol of tireless sexuality,
particularly homosexuality.33 A Flemish print depicts a 1559 event in Bruges in
which three monks were burned at the stake for “sodomitical godlessness.”34
These starkly contrasting examples dramatize the contradictory culture within
the religious world: male–male sex was acknowledged, though officially taboo
and sometimes severely punished, yet often tolerated and even laughed about.
Outside monastery walls, free from Church proscriptions, Sodoma found more
overt opportunities to celebrate such love. Majolica plate, attributed to
Master C.I., ca. 1510–20. Musée national de la Renaissance, Écouen,
France.Photo credit: ©RMN-Grand Palais/Art Resource, NY.Secular subjects Sodoma
illustrated secular subjects for private patrons and domestic settings. His most
career-boosting painting depicted the Roman heroine Lucretia, whose suicide to
preserve family honor after she was raped symbolized the ideal of married
women’s honorable chastity; gifted to Pope Leo X, it earned the artist a papal
knighthood.35 When the opportunity arose, however, as with sacred images,
hepaid unusual attention to the homoerotic elements of myth and history, which
offered explicit exemplars of male devotion and passion. And the audience for
his best-known classical project, a fresco cycle for the papal banker Agostino
Chigi, was the sophisticated, libertine Roman society who were as likely to
share his sexual interests and habits of spectatorship as were the monks at
Monteoliveto.36 In 1516–17, Chigi commissioned Sodoma to decorate the bedroom
of his villa, now called the Farnesina. The wealthy financier’s love nest,
shared with his mistress Francesca Ordeaschi, offers a revealing microcosm of
the hedonistic, tolerant atmosphere of High Renaissance Rome, where even popes
had mistresses and bastards, and humanist classical culture provided
justification for libertine bisexuality all’antica.37 Numerous rooms were
painted with erotic myths both heterosexual and homosexual.38 Given Chigi’s
personality and interests, Sodoma was a sympathetic addition to his creative
team. Although Sodoma married in 1510, his nickname was public knowledge by
1513, when he registered as “Sodoma” in a list of racehorse owners, and two
years later had the heralds call that name. After describing our artist’s
clothes, manners, and mocking spirit, including the racing incident, Vasari
reports that “in [these] things Agostino, who liked the man’s humour, found the
greatest amusement in the world.” The appreciative patron requested episodes
from the life of Alexander the Great, historically implied as bisexual.39 The
principal scene recreates a lost Greek painting of Alexander’s marriage to
Roxana, known through an ancient ekphrasis—a classicizing tribute to Chigi and
his beloved40 (Figure 10.5). The emperor proffers a marriage crown to the
princess, while putti cavort in playful eroticism. To the right stand two
idealized men: nude Hymen, god of marriage, and torch-bearing Hephaestion,
Alexander’s intimate companion and, in some accounts, lover. Both figures are
based on a well-known Greek statue, the Apollo Belvedere, depicting the most
vigorously bisexual of the gods.41 While principally a heterosexual scene,
then, the picture’s sub-theme is nude male beauty and the passion Hephaestion
represents. Sodoma’s audience was predisposed to appreciate this story’s erotic
duality. Many patrons and viewers had bisexual or homosexual desires; an
anecdote in Castiglione’s Book of the Courtier (ca. 1514) reports that “Rome
has as many sodomites as the meadows have lambs.” The erotic tone among these
clerics, aristocrats, artists, and writers was light-hearted; while sodomy was
outlawed, enforcement was spotty and penalties light.42 Eyewitness testimony
for “queer visuality” at the Farnesina comes from raunchy bisexual author
Pietro Aretino, who spent time there while Sodoma was painting. Aretino
recorded an ancient statue of a satyr chasing a boy, an explicit complement to
the loftier male love in Sodoma’s fresco. He wrote to Sodoma twenty-five years
later, expressing nostalgia for their shared youth, and wishing that “we were
embracing each other now with that warm feeling of love with which we used to
embrace when we were enjoying Agostino Chigi’s home so much.”43 One glimpses
the atmosphere of an affectionately demonstrative, pansexual pleasure-palace.
Like the life it looked out upon, Sodoma’s picture is a mélange of sexualities,
with intimacy between men given “equal time.”FIGURE 10.5 Sodoma, The Marriage
of Alexander and Roxana, Villa Farnesina, Rome, fresco, 1517–19.Photo credit:
Scala/Art Resource, NY.Further evidence for the casual attitude toward
homosexuality—Sodoma’s in particular—is a set of epigrammatic couplets
published in 1517 by Eurialo d’Ascoli, a poet in the circles around Chigi,
Aretino, and Leo X, bluntly informing his readers that “Sodoma is a pederast.”
The poem celebrates Sodoma’s painting of Lucretia, which earned his knighthood;
only the final verses turn comic. Having praised the artist for verisimilitude
that brings Lucretia back from the dead, Eurialo imagines her interpreting this
miracle as an opportunity to convert the artist sexually. The narrator then
asks her his own facetious question, implying that as a sodomite the artist
would not normally be inspired by female subjects: Now beautiful Venus grants
me the nourishment of light breezes [i.e., earthly life], So that I can reclaim
you, Sodoma, from tender youths. Sodoma is a pederast; why then, Lucretia, did
he make you So lifelike? He has our buttocks instead of Ganymede. Nunc mihi
pulchra Venus tenui dat vescier aura, Ut revocem a teneris, Sodoma, te pueris.
Sodoma paedico est; cur te Lucretia vivam Fecit? Habet nostras pro Ganimede
nates.44Sodoma’s knighthood was cited by whitewashing early scholars as proof
that the artist could not have been homosexual, since such sins would have
disqualified him from religious honors.45 But here we see again how casually
this milieu treated sexual transgressions. The fabulously wealthy Chigi married
Ordeaschi in 1519, and Leo X—himself a reputed sodomite who, Vasari records,
“took pleasure in eccentric and light-hearted figures of fun such as [Sodoma]
was”— legitimized their four children.46 Worldly success was hardly evidence
against impropriety. Eurialo’s couplets recall Vasari’s statement about
Sodoma’s nickname that “he used to glory [in it], writing about it songs and
verses in terza rima, and singing them to the lute.” As with clothing, Sodoma
was participating in another cultural tradition that linked artists, writers,
and readers of non-normative sexuality in a web of self-expression. Bawdy
burlesque poetry treated all sexuality with lighthearted comedy; Sodoma’s texts
have not survived, but we can garner some sense of their contents and tone from
verses by contemporaries. What Deborah Parker labels “a poetry of transgression,”
full of sexual innuendo and whimsical exaggeration, circulated in manuscript,
public readings, and print.47 The father of burlesque poetry, Francesco Berni,
was banished from Rome in 1523 for too openly mourning a young male lover.48
The genre became popular among visual artists eager to establish their
intellectual credentials through writing, including such homosexuals or
bisexuals as Michelangelo, Bronzino, and Cellini.49 Sodoma’s personality chimed
perfectly with the genre’s subversive insolence. Bronzino’s capitolo “In Praise
of the Galleys,” for example, unashamedly eroticizes the all-male world of
oarsmen on ships, muscular and sweaty males confined in close quarters where
sex among themselves was the only outlet: here “boiled and roasted meats are hardly
ever mixed,” a common metaphor for vaginal (wet) versus anal (dry) sex. Berni,
expanding on the trope that priests are sodomites, declares that their example
is infecting monks, using a fruity symbol for boys’ buttocks: Peaches were for
a long time food for prelates, But since everyone likes a good meal, Even
friars, who fast and pray, Crave for peaches today. Le pesche eran già cibo da
prelati, Ma, perché ad ognun piace i buon bocconi, Voglion oggi le pesche insin
ai frati, Che fanno l’astinenzie e l’orazioni.50 The sardonic, guilt-free humor
of such texts suggests, as Domenico Zanrè describes, “a marginal undercurrent
operating within an official cultural environment,” and demonstrates that
“certain individuals were able to produce alternative literary responses within
a dominant . . . milieu that attempted to contain and, insome cases,
exclude them.”51 An incident around 1530 corroborates Sodoma’s own refusal to
accept derogatory comments from authority: when a Spanish soldier insulted him,
the artist got revenge by drawing his portrait and identifying him to his
superiors.52 San Bernardino was furious precisely because so many sodomites
seemed unrepentant and unafraid of divine judgment. What enraged him and Vasari
was not these men’s behavior alone, but the quality Italians call faccia
tosta—“cheek” or “a big mouth”—refusal to give even lip service to official
mores.53 The burlesque mode evinces the first buds of an oppositional response
to social disapproval: a selfaware articulation of outsider status, and an
emerging rebellion against social convention that opened a space, however
narrow, for asserting alternative consciousness and self-affirming values.54
Greco-Roman texts and images served Sodoma, like other homosexual artists and
patrons from Michelangelo to Caravaggio, as validation for their all’antica
desires and pretexts for visualizing male beauty and eros.55 Within educated
elites, a tolerant, classically inspired hedonism held its own against legal
and clerical taboos until late in Sodoma’s lifetime, when the Council of Trent
began its anticlassical reform (1545). In this libertine culture, an artist
widely known for sexual nonconformity was able to smilingly adopt a derogatory
nickname as a public identity and even f launt his sexual interests in word and
image, with little harm to his string of major commissions and honors.Later
religious works Sodoma’s late commissions were predominantly religious. As at
Monteoliveto, these images emphasize the erotic appeal of figures who are
nominally not sexual: saints, angels, and soldiers. Whereas at the monastery it
was possible to analyze the reactions of a specific clerical audience,
commissions for more public locations could be viewed by the whole
cross-section of society, some proportion of which, as outlined earlier, would
have understood and welcomed homoerotic allusion. As Patricia Simons has
explained, “Renaissance imagery might appear to condemn non-normative sex
. . ., but it was possible for viewers to take works in other, imaginative
directions.”56 Sodoma’s best-known work, depicting Saint Sebastian (1525),
epitomizes his typical traits: androgynous classicizing male beauty, emotional
pathos and sensuous chiaroscuro (Figure 10.6).57 Iconographically, it offers a
prime example of his sensitive antennae for elements of religious narrative
with specialized appeal. Sebastian was a Roman soldier who refused to renounce
Christianity, for which Emperor Diocletian, despite their intimate personal
relationship, ordered him shot by archers. Saint Ambrose’s hagiography
establishes their strong emotional bond, open to erotic interpretation: he
notes that Sebastian was “greatly loved” by Diocletian and his co-emperor
Maximian (intantum carus erat Imperitoribus).58 Sodoma paints a virtually nude,
Apollo-like Sebastian with blood trickling from several wounds. He looks
longingly at the angel bringing a martyr’s crown—his reward for loving
sacrifice to God—with an expression that could Sodoma, Saint Sebastian,
processional banner, Pitti Palace, Florence,1525. Photo credit: Scala/Ministero per i Beni e le
Attività Culturali/Art Resource, NY.equally connote divine or earthly ecstasy. While his bond with the
emperor offered a secular hint at Sebastian’s sexual inclinations, the implied
passion between Sebastian and the godhead is a more important, and universal,
emotional dynamic, with a profound yet ambivalent homoerotic subtext. For all
Christians, intense, loving union with Christ was the ultimate spiritual goal;
for men, however, exhortation to the symbolically feminine ideal of passive,
ecstatic submission to another male raised the specter of sodomy. The phallic
arrows piercing Sebastian evoke sexual penetration, a symbol of the saint’s
necessary, but problematic, feminization;59 they also recall Cupid’s love-inducing
shafts, multiplying the signals for an erotic response. Cinquecento
image-makers were expected to encourage such a passionate response because, as
Simons observes in relation to Christ, for Sebastian too “the visualization of
supreme beauty was necessary in order to induce reverence.”60 Theoretically,
religious images could function on these two levels simultaneously, without
contradiction: the lure of physical beauty would hopefully lead the viewer to a
higher spiritual adoration. In practice, however, it was difficult to police
the borders between earthly and heavenly passion. We know that Sebastian’s
beauty was experienced as problematically titillating by at least one sex: the
Florentine artist-monk Fra Bartolommeo painted a nude image of the saint so
appealing that female parishioners admitted in confession that it stimulated
carnal thoughts, after which it was taken down.61 It was just such temptations
that the Council of Trent acknowledged when it set out to purge church imagery
of eroticism. So, it is not difficult to imagine that men, as well as women,
were attracted to Sodoma’s provocative Sebastian in the physical sense.62 The
“seeming contradictions of deliberately evoking erotic desire in religious
painting” have been parsed by Jill Burke, who sees in this practice “a deep and
knowing ambivalence toward sexuality” that signals “a huge variance between
official rhetoric and widely accepted practice.”63 By including formal and
iconographic cues to a homoerotic response, Sodoma could appeal to men who,
like himself, experienced love and desire in male terms. Like extravagant dress
and burlesque poetry, pictorial ambiguity opened another narrow cultural space
for expressing alternative sexuality.Historiography: a modest proposal This
essay has aimed to demonstrate three propositions: that Sodoma was known for,
and acknowledged, desire for men; that his work evinces a distinctive mode of
seeing and representing that expresses that erotic inclination; and that
contemporaneous audiences would have appreciated that sensibility. As Ruggiero
asserts, It is no longer possible to ignore the general shared culture of the
erotic and its omnipresence in daily exchange, nor is it possible to overlook
the particular subcultures that coexisted at the time and that were such a
central part of daily life.64Without claiming anachronistically that this
evidence establishes anything so coherent and exclusive as a modern “gay
identity,” I submit that these emerging networks and customs, alongside visual
and literary production on homosexual themes, constitute early shoots of an
alternative sexual consciousness that would reach critical mass only during the
Enlightenment. I accept the historiographic formulation of the Renaissance as
“early modern,” which stresses continuities from that culture into the modern
era, presupposing a model of cultural change that is gradual and evolutionary
rather than abrupt and discontinuous. To quote Reed again, “If modern ideas of
sexual identity and artistic self-expression cannot be simply mapped onto the
Renaissance . . . it is nevertheless true that these notions have
Renaissance roots.”65 However, to seek the “roots” of anything “modern” in
anything “past” has become problematic since the advent of postmodern theory.
There are now, as Reed observes, “wildly varying interpretations of Renaissance
art’s relationship to homosexuality”66 —more broadly, of relationships among
desire, behavior, identity, and self-expression. To social constructionists,
the search for glimmers of an alternative, proto-modern awareness in Sodoma’s
ambiente is misguided. There can be no transhistorical connections between
sexual actors in different periods, because sexual identity is not innate or
fixed; rather, it is created through social discourses that define and control
sexuality, an unstable product of external forces acting on the passive
individual. There were no homosexual persons, only homosexual acts. Puff ’s
formulation: “Sodomy was not thought of as a lifelong orientation, let alone a
social identity,” is echoed by Reed’s: “[S]exual behavior in Renaissance Italy
was not seen as a basis for individual identity.”67 This school coined the term
“essentialist” to disparage earlier researchers who, from Symonds to John
Boswell, saw sufficient commonality with those in earlier times who desired
other men to justify searching the Middle Ages and Renaissance for branches of
a sexual family tree dating back before 1867 (when “homosexual” was coined).
Without accepting all the methodological baggage identified with an often
over-simplified “essentialism,” one can still maintain that someone calling
himself “Mr. Sodomite” seems a prime excavation site for evidence of such
genealogical links, since his name rendered his erotic proclivity a “lifelong
social identity.” Like a genetic mutation that may crop up in random
individuals, and only gradually spread across a species’ gene pool, Sodoma
constituted an irruption of anomalous possibilities that, while not yet fully
articulated, began to diffuse new forms of sexual identity and self-expression
that increased over the next several centuries. These methodological
disagreements center on two questions: one external and sociological, the
cultural categorization of homosexual behavior; the other internal and psychological,
the conscious experience of individuals who desired other men and their degree
of agency within a hostile official discourse. There was clearly a dominant
conceptual structure of canon and civil law that confined homosexuality to
taboo acts that might potentially tempt anyone, within whichour modern notion
of inherent sexual “orientations” was not officially recognized. Just as
clearly, however, no culture is monolithic, and a complex of alternatives
operated alongside these formal structures. As we have seen, the elements of
this quasi-underworld were in place by the sixteenth century: meeting places,
distinctive behaviors, and cultural expressions.68 As Ruggiero has outlined,
such “illicit worlds had their own coherent discourse,”69 which viewed male–male
sexuality as an amusing peccadillo; suggested that some individuals were drawn
to it by distinctive character traits; and expressed awareness of (and
resistance to) the gap between official values and their own experience. The
solution to this impasse lies in moving beyond an “either–or” cultural analysis
to a “both–and” approach. Instead of setting arbitrarily precise boundaries to
ever-shifting conceptions of sexuality, it would more accurately ref lect
Sodoma’s transitional environment to acknowledge the temporal overlapping of
contrasting systems of thought and behavior, and to explore the realities of
those who negotiated the dialectic between them. Two tendencies in current
scholarship, however, militate against such open-ended rapprochement. The first
is reluctance to accept evidence for alternative sexual consciousness; the
second is ascribing to cultural discourses an unrealistic power over against
embodied experience. What follows is part summary, part personal statement: a
roadmap out of an increasingly pointless stalemate, and a brief for greater
attention to the lived experience of men-who-had-sex-with-men and its
genealogical links to later generations. Two principal examples of the discord
over what “counts” as evidence of sexual desire and identity are the tendency
to downplay or deny evidence for Sodoma’s sexuality, and the disregard of
alternative language imputing distinct personality to sodomites. First, the
present examination of how Sodoma expressed his homoerotic desires depends on establishing
that his nickname was in fact a marker of his sexuality, which raises the
question: how reliable is Vasari? Unfortunately, as Paul Barolsky notes, “How
we read Vasari depends on our sensibility and taste. We all ride our own
hobbyhorses.” 70 Since the Victorians, homophobic scholars have attempted to
discredit Vasari and defend a respected Old Master against any implication of
immorality in “his evil-sounding sobriquet.” 71 Efforts to give it a non-sexual
meaning are highly speculative: Enzo Carli supposes the nickname was simply
Bazzi’s own little joke, “with which . . . he loved to glorify
himself facetiously,” but it strains credibility that a heterosexual man would
consider a false claim of deviancy “glorifying.” 72 When such dismissals are
echoed by queer-studies scholars, the hobby-horse is epistemological caution
rather than morality, but the effect is the same: to erase facets of queer
history that conf lict with a higher belief—that homosexuality did not (yet)
exist.73 We do have to read Vasari cautiously: despite the author’s claims,
Sodoma’s wife never left him, nor did he die poor.74 Because few details in
Vasari’s psychological profile are confirmed by other sources, postmodern
skepticism insists that any statement not independently documented is probably
false. But Vasariis generally most informed about artists close to his own
time, many of his artistic facts are documentable, and details in the Vite of
Sodoma and Beccafumi indicate that he visited Siena, saw artworks, and interviewed
informed sources. Moreover, his characterization of Sodoma as capricious,
insolent, and sodomitical is corroborated by three period sources: Eurialo
d’Ascoli’s couplets, Paolo Giovio’s life of Raphael (“a perverse and unstable
mind bordering on madness”), and Armenini’s account of Sodoma’s revenge for an
insult.75 Thus, this essay has followed a less restrictive approach, accepting
any statement that is not contradicted by external sources as possible and
perhaps likely. All historical reconstructions involve judgments of
probabilities; giving one’s sources “the benefit of the doubt” can make up for
any loss of positivistic certainty with gains in breadth, depth, and detail.
Secondly, there is linguistic evidence that particular psychological traits
were becoming attached to habitual sodomites; but this suggestive vocabulary is
often brushed aside to “save the phenomenon” of an episteme of acts, not
personalities. I agree with Simons that “both categorical approaches are
problematic.” A more subtle, inclusive view is adumbrated by Robert Mills, who
demonstrates that the juridical focus on potentially universal acts was in
tension with moral, Church perspectives which also sought to make an identity
of the sodomite . . . by characterizing sodomy as a more enduring
kind of practice, a vice for which one had a particular disposition, tendency
or taste. . . . [S]uch perspectives developed unevenly, over long
periods of time, [but there are] signs that some medieval thinkers
. . . wished to pin the sin down to particular bodies and selves.76
Examples of how “Sodoma” might thus denote an individual with an inborn sexual
preference include one of Matteo Bandello’s humorous tales (novelle), ca. 1540,
in which the dying Porcellio, pressed by his confessor to admit that he
performed acts “against nature,” claims to misunderstand the question because,
he says, “to divert myself with boys is more natural to me than eating and
drinking.” 77 Similarly, Giordano Bruno’s Spaccio della bestia triunfante
(1584) praises Socrates for resisting “la sua natural inclinatione al sporco
amor di gargioni” (his natural inclination toward the filthy love of boys).78
Dall’Orto has surveyed numerous Renaissance Italian terms for those who commit
homosexual acts, notably inclinazione, which implies “leaning” in a particular
direction.79 Similar spadework for the French cognate inclination has been
performed by Domna Stanton, while numerous other French and English tropes,
such as “masculine love,” have been catalogued by Joseph Cady.80 Language was
clearly emerging at this point articulating distinctive traits among those
drawn to sodomy: not yet an “identity” in the modern sense, but a critical
shift toward notions of internal difference. If postmodernism underplays
evidence of sexual self-awareness, it conversely overestimates the power of
discourse, unduly minimizing individual agencyand the imperatives of the
embodied self. The ability of collective discourse to enforce social norms is
never absolute. It engages in perpetual dialectic with the potentially anarchic
desires of society’s diverse individual members, a situation in which “lived
eroticism did not always conform to the rules of social hierarchy,”81 from
Romeo and Juliet to Sodoma and his apprentices. This ineluctable tension arises
because discourse is inculcated into the mind, whereas sexual desire is
grounded in parts of the biological organism less susceptible to rational
suasion. Embodied experience is transhistorical: lust, like hunger, pre-exists
cultural conditioning, and “the recalcitrant realities of human conduct”82 are
insistent enough when unsatisfied to overcome any social convention. This essay
has marshalled evidence that Sodoma, and his contemporaries with similar
inclinations, felt a dissonance between their desires and the dictates of
society, and they possessed sufficient agency to imagine alternative
values—what Walter Pater viewed as a signal Renaissance development, a “liberty
of the heart” that enabled nonconformists to move “beyond the prescribed limits
of that system.”83 Individual bodies are not mere passive receptacles for an
overpowering discourse “poured into” them, but are capable of awareness of that
effort at marginalization, and of active resistance. The ultimate question
lying behind such methodological differences is: why do we do queer history?
Here again, divergent answers ride different hobbyhorses: postmodernists focus
on epistemology, while those open to historical continuity are more interested
in phenomenology. The former philosophize, “How and what can we know about
Renaissance sexuality?” answering that we can comprehend little about a
shifting discourse in which “sexuality” did not exist; the latter
psychoanalyze, “How did it feel for sexual outsiders to negotiate this social
regime?,” and seek clues in intimations of difference in life, language, and
art. While the former stress chronological discontinuity, the latter seek a
“usable past,” a narrative that produces affinities and resonances across time.
The latter project is inherently political: as George Chauncey characterizes
emerging queer studies in the late nineteenth century, claiming certain
historical figures was important to gay men not only because it validated their
own homosexuality, but because it linked them to others. . . . This
was a central purpose of the project of gay historical reclamation.
. . . By constructing historical traditions of their own, gay men defined
themselves as a distinct community.84 Put another way, this school, and this
essay, seek to recover evidence of homosexual desire and expression—however
fragmentary, ambiguous, and carefully historicized—to counter centuries of
suppression, and it seems ironic when social constructionism abets the same
historical erasure. A final image, recently attributed to Sodoma, provides an
enigmatic but tantalizing coda to this discussion85 (Figure 10.7). His hair
garlanded with leaves, beard and brows untamed, “Allegorical Man” leers like a
satyr while his rightJames M. SaslowFIGURE 10.7Sodoma (attributed), Allegorical
Man, ca. 1547–8, oil, Accademia Carrara,Bergamo. Photo credit: Scala/Ministero
per i Beni e le Attività Culturali/Art Resource, NY.hand makes the contemptuous
gesture of “the fig,” an insult that, since Martial’s Epigrams (2:28), can
imply that the receiver is a sodomite. The picture’s precise iconography
remains unexplored; Radini Tedeschi suggests the gesture alludes to Sodoma’s
nickname, and the picture may thus be a final self-portrait, literally or
symbolically. If so, it contrasts poignantly with the artist’s first
self-portraitforty years earlier ( Figure 10.2). Once young and beardless, his
foppishness a silent assertion of nonconformity, he has aged to a still
elaborately costumed but more overtly defiant graybeard, telling the world in
gesture what his burlesque poems expressed in words: I am what I am, I’ve
survived your derision, and I still don’t care what you think. Admittedly, this
interpretation remains speculative, but it would effectively bookend the
scenario of Sodoma’s life and work presented here. Our ability to entertain
such a hypothesis depends, however, on more than attribution and iconography.
The potential to recover the self-expression of creative Renaissance sodomites
also requires a polyvalent openness to a range of both personal and cultural
evidence and interpretive methods. Hearteningly, many seminal postmodern
theorists are more accepting of multiplicity than their acolytes. Foucault
praised Boswell’s conception of “gay,” while Carla Freccero deploys Foucault’s
own theoretics against his discontinuity between early modern and modern
sexuality. She approvingly cites David Halperin’s suggestion that we supplement
rigidly compartmentalized ideas of identity with concepts of “partial identity,
emerging identity, transient identity, semi-identity . . .,” the
better to “indicate the multiplicity of possible historical connections between
sex and identity.”86 Murray reassures us that “the alternative to intellectual
conformity is not a lack of coherence but rather a series of interwoven, complementary
. . . approaches.”87 Perhaps the most balanced and inspiring
methodological f lag has been raised by Valerie Traub, who recalls that, while
seeking traces of early modern same-sex eros, she assumed “neither that we will
find in the past a mirror image of ourselves nor that the past is so utterly
alien that we will find nothing usable in its fragmentary traces.”88 I have
sought in Sodoma not a mirror-image, but a family resemblance. He is “usable”
as our ancestor: someone with whom we share an identifiable lineage of desire
and self-expression, in whose uniquely chronicled creative life we can
recapture the origins of an increasingly prominent familial trait.Notes1 2 3 4
5This essay grew from a paper delivered at a 2007 conference at University of Toronto
organized by Konrad Eisenbichler. Thanks to Patricia Simons for her
constructive suggestions. Vasari, Le vite, 6: 380; Vasari, Lives, 7: 246. Vasari repeats these accusations in his Vita of
Domenico Beccafumi, ed. Milanesi, 5: 634–35. Vasari, Le vite, 6: 382; Vasari,
Lives, 7: 247. Vasari, Le vite, 6: 381; Vasari, Lives, 7: 246. Vasari, Le vite,
6: 389–90; Vasari, Lives, 7: 251, records the old men’s protest; for documents
for the 1513 and 1515 races, see 6: 389 n. 3, 390 n. 1; Bartalini and Zombardo,
Giovanni Antonio Bazzi, 44–45, nos. 15–19. A note on terminology: I use “homosexual” throughout
in the narrow descriptive sense, to refer to sexual desire or behavior between
persons of the same sex. Although modern audiences read “homosexual” with
broader connotations of psychology and identity, here it is only shorthand for
“male–male sex.” In modern typology, Sodoma would be considered bisexual, since
he was also married and a father.6 Vasari, Le vite, 6: 379; Vasari, Lives, 7:
245. The artist did not die destitute or insane: see below, n. 74. 7 Fisher, “A
Hundred Years,” 13–39, outlines the activist project of research into
Renaissance homosexuality since the nineteenth century. 8 For an overview of
this position, see Grantham Turner, “Introduction,” 8, n. 3. 9 Reed, Art and
Homosexuality, 54–55. 10 Bartalini, “Sodoma.” 11 The standard English monograph
remains Hayum, Giovanni Antonio Bazzi; for Monteoliveto see 93, cat. no. 4. See further on the abbey Radini Tedeschi, Sodoma,
138–47; Batistini, Il Sodoma; documents in Bartalini and Zombardo, Fonti,
15–31, no. 7. 12 Hayum,
Giovanni Antonio Bazzi, 93, no. 4.8; Batistini, Il Sodoma, no. 8. The incident
is recorded by Gregory the Great, Life of St. Benedict, chap. 2. 13 Only a few
illustrations of this subject are known: both a fresco by Spinello Aretino (San
Miniato, Florence) ca. 1387 and a panel by Ambrogio di Stefano Bergognone, ca.
1490, show a pale, unidealized body among prominent briars. A sexual reading of
the series is supported by Kiely, Blessed and Beautiful, chap. 7, “Sodoma’s St.
Benedict: Out in the Cloister.” 14 Vasari, Le vite, 6: 383; Vasari, Lives, 7:
248, for the quote and cloak. The gift, along with other payments of fabrics
and clothing, is transcribed by Bartalini and Zombardo, Fonti, 18–19, 266. See
also Radini Tedeschi, Sodoma, 78–80. 15 Rocke, “The Ambivalence,” 57. 16 Rocke,
Forbidden Friendships, 3–6; his book provides extensive data and analysis of
fifteenth-century Florence. On sodomy elsewhere, see Ruggiero, The Boundaries
of Eros; Crompton, Homosexuality and Civilization, chap. 9; Mormando, The
Preacher’s Demons. For a Europe-wide perspective, see Crompton, Homosexuality
and Civilization, chaps. 10–12; Puff, “Early Modern Europe,” 79–102. 17 Rocke,
Forbidden Friendships, 112, 134. 18 Simons, “The Sex of Artists,” 81. 19 Rocke,
Forbidden Friendships, 163; Crompton, Homosexuality and Civilization, 262–69.
20 Puff, “The Sodomite’s Clothes,” 251–72. 21 Bernardino da Siena, Le prediche volgari, ed.
Pietro Bargellini (Milan: Rizzoli, 1936), 796–97, 898, cited and discussed in
Dall’Orto, “La fenice,” 5, and n. 27 and n. 28. See also Rocke, “Sodomites.” 22 Jones and Stallybrass,
Renaissance Clothing, 2–7. 23 Ladis, Victims, 109. 24 Hayum, Giovanni Antonio
Bazzi, 94, no. 12. 25 On anal sex as social practice and artistic motif, see
Saslow, Ganymede, chaps. 2–3;
Rubin, “‘Che è di questo culazzino!’”; Grantham Turner, Eros Visible, 274–99. Sodoma’s Deposition, ca.
1510, similarly spotlights the rear view of a soldier: Hayum, Giovanni Antonio
Bazzi, 117, no. 7. Other artists emphasized rear views, often motivated by the
formalintellectual challenge of the paragone: Summers, “‘Figure come fratelli.’”
When we have evidence of an artist’s sexual proclivities, as with Sodoma, it is
reasonable to explore whether he imbued the motif with personal erotic
interest; lacking such evidence, however, we cannot know which other artists
might have done the same. Regardless of artistic intent, similar stimuli would
invite similar audience responses. 26 Similar figures appear in scenes no. 1,
30, and 36 as catalogued by Batistini (Hayum, Giovanni Antonio Bazzi, 93–4,
nos. 1, 20, 26). 27 Alain of Lille, The Plaint of Nature, trans. James Sheridan
(Toronto: Pontifical Institute, 1980), 187, cited in Puff, “The Sodomite’s
Clothes,” 260. 28 Bernardino, as quoted by Rocke, “Sodomites,” 12, 15; cited in
Simons, The Sex of Men, 99. 29 Randolph, Engaging Symbols, 151, chap. 4. For
nuns, see Hayum, “A Renaissance Audience”; for both sexes, Hiller, Gendered
Perceptions. 30 On the prevalence of clerical sodomy see Boswell, Christianity,
Social Tolerance; Mills, Seeing Sodomy, chap. 4; Rocke, Forbidden Friendships,
136–37. See also Parker, Bronzino, 37: “burlesque poets tended to present
clerics as sodomites.”31 Hayum, Giovanni Antonio Bazzi, 93–94, nos. 4.13, 4.14,
4.21; Batistini, Il Sodoma, nos. 13, 14, 31 (illns. 59, 60, 68). 32 The
regulations are in the monastery’s fourteenth- and fifteenth-century chronicle:
Regardez le rocher, 182–83, 418–19 (my translation). 33 Illustrated and
discussed in Saslow, Pictures and Passions, 103–04. 34 Frans Hogenberg,
Execution for Sodomitical Godlessness in Bruges, 1578; illustrated in Crompton,
Homosexuality and Civilization, 327. 35 Vasari, Le vite, 6: 387; Vasari, Lives,
7: 250. 36 On the city’s licentious paganism, see Bartalini, Le occasioni,
39–86. 37 Rowland, "Render unto Caesar.” 38 Other homoerotic images are in
the Sala di Psiche, where Ganymede appears twice, and one spandrel depicts
Jupiter kissing Cupid; Saslow, Ganymede in the Renaissance, 135–40; Turner,
Eros Visible, 109–33. 39 Vasari, Le vite, 6: 384–88; Vasari, Lives, 7: 248–50.
Alexander and Hephaestion’s love is alluded to by Aelian, Various History, 12:
7, and other ancient authors. 40
Hayum, Giovanni Antonio Bazzi, 164–77, no. 20; Bartalini, Le occasioni, 78–81;
Radini Tedeschi, Sodoma, 193–94, no. 56. 41 On Sodoma’s use of classical sources and gender
ambiguity see Smith, “Queer Fragments.” 42 Baldassare Castiglione, The Book of
the Courtier, book 2, chap. 61. On the sexual tone in Rome, see Crompton,
Homosexuality and Civilization, 269–90; Talvacchia, Taking Positions. Leo X’s
Rome also associated sartorial effeminacy with homosexuality: pasquinades
mocked Cardinal Ercole Rangone and sodomite friends for “going around disguised
as nymphs”: Burke, “Sex and Spirituality,” 491. 43 Aretino, Lettere sull’arte, vol. 1, no. 68 (1537),
vol. 2, no. 244 (1545); Aretino, The Letters, 123–25, no. 58. Other sources record a
sculpted Antinous, Hadrian’s lover: Bartalini, Le occasioni, 73–75. 44 d’Ascoli, Epigrammatum, 11v–12r; Bartalini and
Zombardo, Fonti, 64–67, no. 29; Radini Tedeschi, Sodoma, 71–72. 45 Ibid., 23.
46 Vasari, Le vite, 6: 386–88; Vasari, Lives, 7: 250. On Leo’s sodomitical
reputation see Giovio’s biography, in Le vite di dicenove, 141v–142v. 47 Parker, Bronzino, chap. 1;
Parker, “Towards;” Rocke, Forbidden Friendships, 3–5; Tonozzi, “Queering
Francesco”; Zanrè, Cultural Non-conformity, chap. 3. 48 Tonozzi, “Queering
Francesco,” 589–91. 49 On these artist-authors see Parker, Bronzino; The Poetry
of Michelangelo; Gallucci, Benvenuto Cellini. 50 Fisher, “Peaches and Figs,” 158–59. 51 Zanrè,
Cultural Non-conformity, 1-2. 52 Armenini, De’ veri precetti, 42–43; Vasari, Le
vite, 6: 393; Bartalini, Le occasioni, 17. 53 Dall’Orto, “La fenice di Sodoma,”
71-72, quoting Bernardino, in Le prediche volgari, ed. C. Cannarozzi (Pistoia:
Pacinotti, 1934), 277. A document dated 1531, purportedly Sodoma’s tax
declaration, is even more insolent, signed with a sexual vulgarity; Bartalini
and Zombardo, Fonti, 131–33, 281–92. While now considered a seventeenth-century
forgery, it demonstrates that a “legend” about Sodoma’s sexual brazenness
persisted after his death. 54 See Milner, “Introduction.” 55 Sodoma depicted
anther homoerotic myth distinctively: his Fall of Phaeton is almost unique in
including Phaeton’s cousin Cycnus, with whom literary sources imply a loving
relationship (Hayum, 135, no. 12). Suggestively, the only other artist to
include Cycnus was Michelangelo. 56 Simons, “European Art,” 135. 57 Vasari, Le
vite, 6: 390; Hayum, Giovanni Antonio Bazzi, 191, no. 24; Radini Tedeschi,
Sodoma, Acta sanctorum, 2: 629, 20 Januarii; Jacopo da Voragine’s
thirteenth-century Golden Legend repeats this phrase (s.v. “St. Sebastian”).59
On arrow symbolism, including homoerotic potential, see Cox-Rearick, “A ‘Saint
Sebastian,’” 160–61. 60 Simons, “Homosociality,” 38. 61 Vasari, Vita of Fra
Bartolommeo. For additional complaints about sexualized Sebastians, see Bohde,
“Ein Heiliger,” 86, n. 18. 62 Sodoma’s later depictions of Sebastian evoke the
same erotic subtext. In his Madonna and Child with Saints, ca. 1541–44 (Hayum,
Giovanni Antonio Bazzi, 257, no. 43), Sebastian stares at Jesus, who toys with
the saint’s arrow—a phallic detail seen in no other image. Similarly unique is
Sodoma’s Resurrection, 1535 (Hayum, 235, no. 33) in depicting the angels as
nude putti. 63 Burke, “Sex and Spirituality,” 488–92. 64 Ruggiero,
“Introduction,” 2. 65 Reed, Art and Homosexuality, 43. 66 Ibid., 47. 67 Ibid.,
43; Puff, “Early Modern Europe,” 84–85. 68 On this alternative culture in
various cities see Puff, “Early Modern Europe,” 87; Ruggiero, “Marriage,”
23–26; Dall’Orto, “La fenice di Sodoma,” 61–64, 79. 69 Ruggiero, “Marriage, Love,” 11. 70 Paul Barolsky,
“Vasari’s Literary Artifice,” 121. 71 Cust, Giovanni Antonio Bazzi, 10. 72
Carli, Il Sodoma, 9–12; Carli, “Bazzi.” 73 See, e.g., Patricia Simons, “Sodoma,
Il,” 286. 74 Vasari, Le vite, 6: 379, 398, citing contradicting documents, 399
n. 1. 75 On Eurialo see above, n. 44; Armenini, n. 52. On Giovio’s biographies
see n. 46; for his comment on Sodoma (“praepostero instabilique iudicio usque
ad insaniae affectationem”) see Bartalini and Zambrano, Fonti, 83–86, no. 35. 76 Simons, “Homosociality and
Erotics,” 48, n. 4; Mills, “Acts, Orientations,” 205. 77 Bandello, Tutte le
opera, ed. Flora, 1: 95, novella 6; Bandello, Tutte
le opera, trans. Payne, 1: 94–8. 78 Bruno and Campanella, Opere, 321. 79
Dall’Orto, “La fenice di Sodoma,” 74–76; Dall’Orto, “‘Socratic Love,’” esp.
34–35, 46–50. 80 Stanton, “The
Threat.” See further Stanton, ed., Discourses of Sexuality; the historiographic
overview by Smith, “Premodern Sexualities”; Cady, “The ‘Masculine Love.’” 81
Puff, “Early Modern Europe,” 87. 82 Brundage, “Playing,” 23. 83 Pater, The
Renaissance, 3–6, 18–19; Fisher, “A Hundred Years,” 19–23. 84 Chauncey, Gay New
York, 285–86. 85 Radini Tedeschi, Sodoma, 257, no. 118. 86 O’Higgins, “Sexual
Choice,” 10; Halperin is quoted and discussed in Freccero, Queer, 48. 87
Murray, “Introduction,” xiv. 88 Valerie Traub, The Renaissance of Lesbianism in
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1539, Alessandro Piccolomini, a thirty-one-year-old Sienese nobleman living in
Padua, published a short dialogue: La Raffaella, ovvero Dialogo della bella
creanza delle donne [Raffaella, or a Dialogue on women’s good manners].1
Piccolomini’s dialogue, in which an older woman encourages a younger one to
commit adultery, owes much to the example of Pietro Aretino’s scandalous
Ragionamenti (1534, 1536),2 in which an experienced courtesan teaches her
daughter how to become a prostitute. While the filial relationship between La
Raffaella and the Ragionamenti has long been noted, the cultural and
ideological significance of this relationship remains largely unexamined. Both
texts imagine private female conversations: what do women talk about when no
men can hear? The answer in both cases is men. Men and sex. (What else would
men think that women talk about?) Both texts are male fantasies of female
pedagogy and sexual knowledge, in which male authors adopt a voice of
experienced femininity to articulate imagined feminine perspectives on sex,
gender relations, and gender identity. In the Ragionamenti, the women’s
conversations are scandalous, but also, at times, radical and transgressive,
questioning fundamental norms of gendered behavior and exploring the role of
power in gender relations.3 Despite Aretino’s ambivalent misogyny, the
Ragionamenti imagine possibilities of female agency and power. Piccolomini’s
Raffaella, on the other hand, merely encourages women to subvert one form of
male authority in order to submit to another; it imagines freeing wives from
their husbands the better to subordinate them to their male lovers. Piccolomini
playfully suggests that this shift is doing women a favor because it
acknowledges their need for sexual pleasure.4 His text takes the subversive
energy of the Ragionamenti and turns it into a safe, sly joke. Women, it turns
out, do not want autonomy: they want to submit to younger, sexier men. In La
Raffaella, female agency is not a threat to male dominance—it simply rewards
ardent male lovers over dreary husbands.The conversations of Aretino’s
Ragionamenti take place over six days. An experienced courtesan named Nanna is
discussing with a younger prostitute named Antonia what way of life would be
best for her teenaged daughter Pippa—should she grow up to be a nun, a wife, or
a whore? Nanna spends the first three days of the dialogue recounting her own
experiences in each of these roles; at the end of the third day she
and Antonia decide that Pippa should be a prostitute. They reason that while
nuns break their vows and wives are unfaithful to their husbands, prostitutes
(for all their faults) are not hypocritical—they are simply doing the necessary
work they are paid to do.5 This ends the first volume. In the sequel, having
decided Pippa’s future, Nanna and Antonia teach her the things she will need to
know. On the fourth day, they instruct her how to be a successful courtesan; on
the fifth, they discuss men’s cruelty to women; and on the sixth they listen
while a midwife teaches a wetnurse how to make a living procuring women for sex
with men. In all the discussions about prostitution, Nanna’s instruction
focuses not on how to satisfy men but on how to manipulate them. The condition
of a prostitute is inherently hazardous, and Nanna and Antonia teach Pippa how
to survive and thrive in a world of gender warfare, where men are always
seeking to exploit women, sexually, physically, socially, and financially.
Throughout the Ragionamenti the text takes an ambivalent attitude to its
speakers. On the one hand, Nanna and Antonia are monstrous women who embody a
wide range of misogynist stereotypes. They are deceitful, amoral, gluttonous,
greedy, garrulous, and fickle. On the other hand, they are cunning tricksters,
who use their superior intellect to dupe those who try to exploit and
manipulate them. Nanna is at once a shocking figure of feminine excess and an
insightful satirist who bears more than a passing resemblance to Aretino’s own
persona as an epicurean scourge of powerful hypocrites.6 The Ragionamenti
contain shockingly explicit descriptions of a wide range of sexual activity,
but almost all of these are in the early chapters of the text, in which nuns
betray their vows in endless orgies and wives betray their elderly husbands to
find satisfying sex elsewhere.7 The chapters on prostitution focus not on
sexual pleasure or technique, but rather on how best to earn money and swindle
clients. Aretino’s whores are not particularly interested in sexual
pleasure—they want money, power, and status instead. And the best way to attain
all three is by selling the promise of sexual availability while deferring
sexual activity for as long as possible; the ideal relationship is one where a
man is paying large amounts of money without ever actually managing to have
sexual relations with the woman he is buying. As Nanna puts it, “lust is the
least of all the desires [whores] have, because they are constantly thinking of
ways and means to cut out men’s hearts and feelings.” (“La lussuria è la minor
voglia che elle abbino, perché le son sempre in quel pensiero di far trarre
altrui il core e la corata.”)8 Through a series of cunning tricks, deals, and
lies, Nanna ends up living in luxury in a fashionable house protected by gangs
of armed men whom she employs to remove unwanted suitors.9 She survives and
thrives by manipulating male desire and profiting from male gullibility.Nanna’s
worldly success is, of course, a fantasy that bears little relation to the
actual living and working conditions of most early modern prostitutes,10 but
the Ragionamenti admit this as well. Nanna knows she is not normative, and that
her position remains precarious: “I must confess that for one Nanna who knows
how to have her land bathed by the fructifying sun, there are thousands of
whores who end their days in the poorhouse.” (“Ti confesso che, per una Nanna
che si sappia porre dei campi al sole, ce ne sono mille che si muoiono nello
spedale.”)11 On the sixth day, the Midwife agrees: “A whore’s life is
comparable to a game of chance: for each person who benefits by it, there are a
thousand who draw blanks.” (“E
so che il puttanare non è traffico da ognuno; e percìo il viver suo è come un
giuoco de la ventura, che per una che ne venga benefiziata, ce ne son mille de
le bianche.”)12 Consequently, Nanna makes sure to spend a lot of time warning
her daughter Pippa about the many ways that men can harm the women in their
power. In contrast to
Aretino’s earthy dialogue of whores, Piccolomini’s La Raffaella consists of an
imagined discussion between two upper-class women: Raffaella, an elderly,
impoverished, but well-born woman, and Margarita, a newly married wealthy young
noblewoman. The tone of conversation in La Raffaella is certainly more polite
and decorous than Nanna and Antonia’s profane and bawdy language in the
Ragionamenti.13 Raffaella, a friend of Margarita’s late mother, presents
herself as a pious widow, eager to help Margarita adjust to the challenges of
being an adult woman and the mistress of a household. Throughout her talk of
pass-times, cosmetics, deportment, and fashion, Raffaella advises Margarita to
take full advantage of youthful pleasures; if a woman does not enjoy herself
while she is young and beautiful, she is sure to become bitter in her old age:
As for God, as I said earlier, it would be better, if it were possible, to
never take any pleasure in the world, and to always fast and keep strict
discipline. But, to escape even greater scandal, we must consent to the small
errors that come with taking some pleasures in youth, which can be taken away
later with holy water. . . . And moreover, in all this I’m telling
you, presuppose that this little necessary sin will bring you much honor in the
world, and that these pleasures that must be taken can be managed with such
dexterity and intelligence that they will bring no shame from anyone. Quanto a Dio, già t’ho detto che sarebbe meglio, se
si potesse fare, il non darsi mai un piacere al mondo, anzi starsi sempre in
digiuni e disciplina. Ma, per fuggir maggior scandalo, bisogna consentir a
questo poco di errore che è di pigliarsi qualche piacere in gioventù, che se ne
va poi con l’acqua benedetta. . . . E però in tutto quello che
io ti ragionerò presupponendo questo poco di peccato, per esser necessario,
procurerò quanto piú sia possibile l’onore del mondo, e che quei piaceri che si
hanno da pigliarsi sieno presi con tal destrezza e con tal ingegno, ch non si
rimanga vituperato appresso de le genti.14Margarita’s husband is constantly
away on business; she is bored and feels neglected. By the end of the dialogue,
Raffaella has convinced Margarita to embark on an adulterous affair with a
young man named messer Aspasio (who bears more than a passing resemblance to
Piccolomini himself ).15 It becomes abundantly clear to the reader that
convincing Margarita to sleep with messer Aspasio has been Raffaella’s goal all
along. As the dialogue ends, Margarita looks forward eagerly to her planned
affair, completely unaware of how she has been manipulated by the older woman.
She exults, Having learned today through your words that a young woman needs,
to avoid greater errors, to pour out her spirit in her youth, and having heard
certainly from you the good words of messer Aspasio and the love he bears me, I
am resolved to give all of myself to him for the rest of my life. And thus
having pledged eternal fidelity to messer Aspasio—whom she has barely
met—Margarita goes on to offer the impoverished Raffaella bread, cheese, and
ham as a reward for her kindness.16 Given its subject matter, it is not
surprising that some readers interpreted La Raffaella as an attack on women’s
moral character: older women are presented as corrupt and amoral; younger women
as hedonistic and naive. Women of all ages, it seems, are concerned primarily
with deceiving men to obtain sexual pleasure. Beyond its general cynicism
regarding female virtue, La Raffaella also gives precise and effective
direction on ways to deceive one’s husband and to discreetly carry on long-term
affairs. Raffaella warns Margarita against writing love letters—especially if
her lover is married.17 She recommends that her lover be unmarried, if possible
(messer Aspasio is a bachelor!).18 Raffaella tells Margarita she will need a
trusted servant to communicate with her lover, and that she should choose that
person with great care.19 She recommends a rope ladder for giving a lover
access to private rooms without anyone in the household knowing.20 Raffaella
encourages Margarita to take full advantage of the pleasures that wealth and
leisure can bring, but she insists that all these pleasures are worthless
without the final consummation of adulterous sex: What’s love worth without its
end? It’s like an egg without salt, and worse. Holidays, dinners, banquets,
masques, plays, gatherings at villas and a thousand other similar pleasures are
icy and cold without love. And with love they are so pleasurable and so sweet
that I don’t believe that one could ever grow old among them. In every person
love inspires courtesy, nobility, elegance in dress, eloquence in speech,
graceful gestures, and every other good thing. Without love, they are little
esteemed, like lost and empty things. E
amore poi che val, senza il suo fine? Quel ch’è l’uovo senza’l sale, e peggio.
Le feste, i conviti, i banchetti, le mascere, le comedie, i ritruovi di villae
mille altri cosí fatti solazzi senz’amore son freddi e ghiacci; e con esso son
di tanta consolazione e cosí fatta dolcezza, ch’io non credo che fra loro si
potesse invecchiar mai. Amor riforisce in
altrui la cortesia, la gentilezza, il garbo di vestire, la eloquenza del
parlare, i movimenti agraziati e ogni altra bella parte; e senza esso son poco
apprezzate, quasi come cose perdute e vane.21 The “end” of love, which in
Neoplatonic treatises was seen as a beatific transcendence of earthly desires,
is here clearly redefined simply as sex.22 As a result of passages like this,
La Raffaella was attacked both as an insult to women and as an instruction
manual for adultery.23 That the text was explicitly dedicated by Piccolomini to
“the women who will read it” (“A quelle donne che leggeranno”) only made matters
worse.24 Piccolomini was destined from youth for an ecclesiastical career,25
and at the time he wrote La Raffaella he was starting to make a name for
himself in Italian intellectual circles.26 He had published La Raffaella under
his academic pseudonym, Stordito Intronato, but this did little to conceal his
identity. Responding to criticism of the dialogue, Piccolomini disavowed La
Raffaella almost immediately, writing in 1540 that the text was a “joke,”
written only for his own amusement.27 Clearly, he felt that La Raffaella’s
scandalous reputation was not suitable for his public image and future
aspirations. Unlike Aretino, who published the Ragionamenti in two
installments, Piccolomini not only never published a sequel to La Raffaella, he
never wrote anything like it again.28 In his retractions, Piccolomini insisted
that he had meant no insult to women in La Raffaella, and compared his work to
the licentious novelle in Boccaccio’s Decameron, intended to give “a certain
pleasure to the mind, that cannot always be serious and grave” (“per dare un
certo solazzo a la mente, che sempre severa e grave non può già stare”).29
Although Piccolomini consistently downplayed the dialogue’s significance, La
Raffaella remained in print and remained popular. There were nine Italian
editions in the sixteenth century, as well as three separate translations into
French.30 Indeed, La Raffaella is the most frequently republished of all
Piccolomini’s texts, and one of the few still in print in the twenty-first
century.31 Though criticized for its licentiousness, generically La Raffaella
was in the mainstream of the literature of its time. Neoplatonic dialogues
dealing with love and sexuality were a staple of Italian literary and academic
culture, from Bembo’s Asolani (1505) and Judah Abrabanel’s Dialogi d’amore, to
Sperone Speroni’s Dialogo d’amore, and Tullia d’Aragona’s Dialogo
. . . della infinità d’amore (1547). Along with books on love, books
on the status of women and on feminine deportment were also produced in great
numbers in Italy in the midsixteenth century. Advocating adultery may have been
scandalous, but men telling women how to behave was commonplace. Besides
internationally inf luential texts such as Juan-Luis Vives’ De institutione
feminae christianae (1523)32 and Baldassare Castiglione’s Cortegiano (1528),33
there were dozens of lesser known or more specialized books, such as Giovanni
Trissino’s epistle on appropriate conduct forwidows (1524),34 and Galeazzo
Flavio Capella’s treatise on the excellence and dignity of women (1526).35 The
vast majority of these texts were written by men, and many were prescriptive
works that attempted to define appropriate female conduct.36 Of 125 works
listed by Marie-Françoise Piéjus dealing with the status of women published in
Italy between 1471 and 1560, only two were authored by women: Tullia
d’Aragona’s 1547 Dialogo . . . della infinità d’amore and Laura
Terracina’s 1550 Discorso sopra tutti li primi canti d’Orlando Furioso.37 Given
Piccolomini’s deep engagement with academic and literary culture, it is not
surprising that La Raffaella draws on a wide range of contemporary texts. The
character of Raffaella herself has a strong resemblance to the central figure
of the procuress from Fernando de Rojas’ La Celestina,38 and passages in Piccolomini’s
dialogue closely echo debates over proper feminine dress in Castiglione’s
Cortegiano.39 But arguably the most important model for La Raffaella remains
Aretino’s Ragionamenti.40 To begin with, there are precise textual echoes: La
Raffaella’s discussion of cosmetics closely follows passages from Aretino’s
work,41 as does Raffaella’s reference to the illicit sexual activities of
nuns.42 Even Raffaella’s notion, quoted above, that youthful sins can be
removed with holy water, recalls a speech by Antonia about the relative
insignificance of the sins committed by whores.43 Beyond her similarity to the
title character of La Celestina, Piccolomini’s Raffaella also recalls the
Midwife from the sixth book of the Ragionamenti. Certainly, the Midwife’s following
account of her own techniques are a good description of Raffaella, who comes
across as a pious churchgoer, says she loves Margarita like a daughter, and has
endless advice on fashions and hairstyles: It was always my habit to sniff
through twenty-five churches every morning, robbing here a tatter of the
Gospel, there a scrap of orate fratres, here a droplet of santus santus, at
another spot a teeny bit of non sum dignus, and over there a nibble of erat
verbum, watching all the while this man and that girl, that man and this other
woman. . . . A bawd’s work is thrilling, for by making herself
everyone’s friend and companion, stepchild and godmother, she sticks her nose
in every hole. All the new styles of dress in Mantua, Ferrara, and Milan follow
the model set by the bawd; and she invents all the different ways of arranging
hair used in the world. In spite of nature she remedies every fault of breath,
teeth, lashes, tits, hands, faces, inside and out, fore and aft. Io che ho sempre avuto in costume di fiutar
venticinque chiese per mattina, rubando qui un brindello di vangelo, ivi uno
schiantolo di orate fratres, là un giocciolo di santus santus, in quel luogo un
pochetto di non sum dignus, e altrove un bocconicino di erat verbum, e
squadrando sempre questo e quella, e quello e questa. . . . Bella
industria è quella d’una ruffiana che, col farsi ognun compare e comare, ognun
figilozzo e santolo, si ficca per ogni buco. Tutte le forge nuove di Mantova,
di Ferrara, e di Milano pigliano la sceda da la ruffiana: ella trova tutte
l’usanze de le acconciaturedei capi del mondo; ella, al dispetto de la natura,
menda ogni difetto e di fiati e di denti e di ciglia e di pocce e di mani e di
facce e di fuora e di drento e di drieto e dinanzi.44 In his Novelle (1554), Matteo
Bandello mistakenly attributed La Raffaella to Aretino, in part because of its
resemblance to the Ragionamenti.45 Clearly, the similarity of the two texts was
apparent to contemporary readers. Socially and intellectually, Piccolomini and Aretino
were on friendly terms in the years immediately following La Raffaella’s
publication. Piccolomini wrote to Aretino in December 1540, publicly praising
his satirical attacks on the abuses of the powerful.46 And in 1541, two years
after La Raffaella appeared in print, Piccolomini invited Aretino to join the
newly founded Accademia degli Infiammati in Padua. As Marie-Françoise Piéjus
has suggested, both the Ragionamenti and La Raffaella function as parodies of
the ubiquitous conduct books addressed to women in the mid-sixteenth century.
The Ragionamenti and La Raffaella are “provocative text[s], animated by an
ironic cynicism that, parod[ies] point by point the lessons habitually taught
to women.” By focusing on women’s sexual lives, both Aretino and Piccolomini “attest
to the divorce between openly affirmed principles and the daily conduct of
[their] contemporaries.”47 What makes these texts parodic is their sexual
subject matter; they both, in differing ways, affirm women’s fundamental
sexuality and attest to the central role of sexual desire in women’s lives.
This is precisely the aspect of femininity that most of the conduct books are
trying most urgently to restrain, repress, and police. The vast majority of
sixteenthcentury conduct books written for women are designed to make women
into good wives: chaste, silent, and obedient—pleasing to their husbands and
compliant to the wishes of their male relatives.48 It is telling that these two
parodic texts are both written in the voice of women. Rather than having a male
author lay down the law for women (like Vives does), or imagining a
conversation where women listen silently as men debate (as in Castiglione),
both the Ragionamenti and La Raffaella imagine female conversations with no men
present. In Ventriloquized Voices, her study of early modern male authors’
adoption of female voices, Elizabeth Harvey has argued that “in male
appropriations of feminine voices we can see what is most desired and most
feared about women.”49 If Harvey is right, what Aretino and Piccolomini most
desired and feared about women was their sexuality—and the ways their sexuality
creates possibilities for female agency. In both the Ragionamenti and La Raffaella,
an older woman instructs a younger one on issues of gender and sexuality—and on
ways to trick men to get what they want. In both cases, the absence of male
auditors creates the illusion that the reader is privy to the secret truth of
feminine speech. It is significant that both Aretino and Piccolomini imagine
that the main topic that women discuss in private is their sexual relations
with men. While the conversation in both the Ragionamenti and La Raffaella is
wide-ranging, both dialogues arguably fail the Bechdel test—an assessment that
asks whether or not a work of fiction has twonamed female characters who talk
to each other about something other than their relationships to men.50 In both
works, the women are constantly concerned about their interactions with men and
how their actions are perceived by men. The very categories of female life as
set forth in the Ragionamenti—nuns, wives, and whores—are defined by the ways
in which women’s sexual relations with men (or their lack) are structured and
determined. In their desire to hear the truth of female sexuality, both the
Ragionamenti and La Raffaella metaphorically echo a tradition of masculine
fantasy in which female genitalia are compelled to speak. In the
thirteenth-century French fabliau Du Chevalier qui fist les cons parler [The
Knight Who Made Cunts Speak], a poor, wandering knight who treats some bathing
fairies with courtesy and discretion is rewarded with the magical power to make
vaginas talk.51 He uses this power to discover the truth in situations where
people are lying to him: when he encounters a miserly priest riding on a mare,
he makes the mare’s vagina tell him how much money the priest is hiding. When a
countess sends her maid to seduce the knight, he makes the maid’s vagina reveal
the plot. Eventually, he makes even the countess testify against herself by
compelling her nether regions to speak.52 The vagina, it seems, always tells
the truth. This provocative trope reappears most famously in Denis Diderot’s
1748 libertine novel Les Bijoux indiscrets [The Indiscreet Jewels], in which a
sultan has a magic ring that makes vaginas tell all. While there is no evidence
that either Aretino or Piccolomini were aware of such tales of talking vaginas,
the gender dynamics of their texts are remarkably similar. The trope of a man
magically forcing a vagina to speak is culturally resonant on a number of
levels. On the most basic level, these stories are fantasies of masculine
power: the masterful male commands the female body to do his bidding and reveal
its knowledge. There is comedy, of course, in the blurring of function between
vagina and mouth—the earthy lower body inevitably tells a tale that refutes the
refined upper body. It is important to note that what the vagina says does not
merely contradict what the mouth says; it unerringly reveals the hidden truth
of the situation. Just as the Ragionamenti and La Raffaella ironically imagine
the sexual desires hidden behind a public façade of decorous femininity, in
these stories, the mouth tells lies, but the vagina tells the truth of the
body; it cannot lie. Indeed, in all these texts, the vagina is the truth, the
essence, the thing itself. The truth of woman is her sex. The same assumption
underlies Eve Ensler’s popular 1996 feminist play The Vagina Monologues, an
episodic work in which women of various ages and backgrounds recount their
sexual experiences, some positive, others negative. While the play was
acclaimed for giving voice to women’s sexuality, it was also criticized for
reducing women to their genitalia: as feminist scholars and activists Susan E.
Bell and Susan M. Reverby wrote, “The Vagina Monologues re-inscribes women’s
politics in our bodies, indeed in our vaginas alone.”53 But of course, in
Ensler’s work, the author who wrote the lines and the actors who perform them
are all women. The voices we hear are the women’s voices—not men’s imagination
of what a woman’s voice might sound like if there was no man there to hearand
record it. In Aretino and Piccolomini’s vagina dialogues, it is always only men
talking—even if the characters are female. Piccolomini’s ventriloquized fantasy
of female speech in La Raffaella is all the more remarkable given that the
Academy of the Intronati,54 the organization under whose auspices he published
the dialogue, was more arguably more open to women than any other
sixteenth-century Italian academy. The Accademia degli Intronati [the Academy
of the Stunned] was founded in 1525 by a group of six Sienese young men. The
avowed object of the group was “to promote poetry and eloquence in the Tuscan,
Latin and Greek languages” and their motto was: Orare, Studere, Gaudere,
Neminem laedere, Neminem credere, De mundo non curare [Pray, Study, Rejoice,
Harm no one, Believe no one, Have no care for the world].55 Membership in the
Intronati was restricted to men, but as Alexandra Coller has argued, “women were
awarded much more than a merely ornamental presence within the context of the
academy [of the Intronati], whether as sources of inspiration, correspondents
in educationally-oriented literary exchanges, or as discussants in
female-centered dialogues.”56 Sometime around 1536, not long before he wrote La
Raffaella, Piccolomini himself wrote a brief Orazione in lode delle donne
[Oration in Praise of Women]. He delivered the oration to the Intronati in
person on his return to Siena from Padua in 1542 and it was published three
years later.57 Utterly rejecting La Raffaella’s notion that love must be
sexually consummated to have any real value, Piccolomini’s oration draws
heavily on the Neoplatonic idealization of love articulated in Pietro Bembo’s
Asolani, and in Bembo’s concluding speech in the Fourth Book of Castiglione’s
Cortegiano. In this discourse, love is primarily a spiritual discipline that
paradoxically leads to a transcendence of physical desire. Women’s beauty is an
earthly echo of divine Beauty, and Beauty can be used by the lover to reach a
higher plane of spiritual awareness.58 Women are thus to be served, adored, and
obeyed, in the way that a Courtier should serve, adore, and obey his Prince.59
Many texts written by members of the Intronati were dedicated to female
patrons, including a translation of six books of Virgil’s Aeneid and
Piccolomini’s own 1540 translation of Xenophon’s Oeconomicus, a classic
treatise on household management.60 A text from the later sixteenth century,
Girolamo Bargagli’s 1575 Dialogo de’ giuochi [Dialogue on Games], describes the
activities of the Intronati in the 1530s, and attests to the support of the
Academy by “many beautiful and noble ladies” (“Molte belle e rare
gentildonne”).61 Some scholars have suggested that women may have even
participated in meetings of the Academy, a rare occurrence in sixteenth-century
Italian intellectual culture.62 An unpublished dialogue by Marcantonio
Piccolomini, a kinsman of Alessandro and a founding member of the Intronati,
imagines a scholarly dialogue between three Sienese gentlewomen on whether God
created women by chance or by design.63 At the outset, however, not all the
Intronati were so welcoming to women— at least if Antonio Vignali’s Cazzaria
(1525) is any indication. Vignali’s dialogue, in many ways a defense of sexual
relations between men, is a fiercely and crudelymisogynist text, a product of
an exclusively male environment that denigrates women at every turn.64 The
Cazzaria was a scandalous text. It was initially circulated in manuscript among
the Academy’s members and was probably printed without its author’s consent.
Although it was not publicly acknowledged or defended by the Intronati at any
point, it was nonetheless written by one of the Academy’s founding members and
was one of the most prominent products of the Academy’s early years.65
Piccolomini was surely familiar with the text— indeed, his kinsman Marcantonio
Piccolomini (Sodo Intronato) appears as one of La Cazzaria’s main characters.66
However eccentric and outrageous it may be, La Cazzaria is arguably an accurate
ref lection of the attitudes towards women of at least some of the Intronati’s
founding members. If the Intronati’s respectful and inclusive attitude towards
women represented in Bargagli’s Dialogo de’ giuochi is to be believed, things
must have changed a lot by the late 1530s. But it is quite possible that the
Intronati’s relatively positive public attitude towards women masked more
negative private views. Perhaps Alessandro Piccolomini’s ironic attitude towards
women in La Raffaella is a product of this conf lict. As we have seen, the
Ragionamenti ’s attitude towards its female speakers is always ambivalent. But
La Raffaella’s presentation of its speakers is much more straightforward.
Raffaella is a manipulative woman who is working throughout with a very
specific goal in mind—to convince Margarita to have an adulterous affair with
messer Aspasio. Margarita is simply a dupe. Whatever Piccolomini’s praise of
women, whatever support the Intronati gave and received from Sienese
noblewomen, La Raffaella ironically suggests that women are fundamentally
submissive to male desire. Raffaella’s considerable ingenuity is entirely
subordinate to the schemes of messer Aspasio. She has no other function than to
help him obtain his desires, and she is in many ways an abject character,
forced to make her living by tricking young women into having sex with
manipulative men. Piccolomini’s idealistic role as defender of women in his
Orazione and elsewhere has an ironic echo in the dedicatory epistle to female
readers that prefaces La Raffaella. Here Piccolomini insists that he has always
been a staunch defender of women against their detractors. He claims that La
Raffaella clearly shows “the appropriate life and manners appropriate for a
young, noble, beautiful woman,” and holds up the character of Raffaella as
proof that women are capable of “great concepts and profound statements and
good judgment.”67 He decries the double standard that sees extra-marital
affairs as “honorable and great” for men, and “utterly shameful for women.” He
admits that if a woman were to be so foolish as to conduct an affair in a way
that would arouse suspicion, that would be “a great error,” but he trusts that
his female readers “will be full of so much prudence, and temperance that
[they] will know how to maintain and enjoy [their] lovers” for years and years.
“There is nothing more pleasing nor more worthy of a gentlewoman than this.”68
In the epistle, Piccolomini is doubling down on the joke that underlies La
Raffaella as a whole: what women want most of all is satisfying sex with
anattractive and f lattering young man. Anyone who helps them attain this goal
becomes their greatest champion.As we have seen, Aretino’s Ragionamenti argue
at length that at least some women prefer money, status, and power to sexual
pleasure. But this is largely because the whores of the Ragionamenti are not
comfortable, upper-class women like those in La Raffaella. Aretino’s whores
want power, but his nuns and wives, whose material well-being is secured either
by the Church or by their husbands, want sex. In the more elevated world of La
Raffaella, the wealthy and well-born Margarita lives in luxury; all that is
missing from her pleasurable life is a satisfying sexual partner. The condition
of Nanna, Pippa, Antonia—and indeed of Raffaella, Piccolomini’s impoverished
elderly bawd—is much more precarious. The single-minded pursuit of sexual
pleasure, it seems, is a privilege of the upper classes, of those women who are
not compelled to participate directly in a capitalist market for goods and
services in which their sexuality is primarily a commodity used to raise
capital. Aretino’s attitude to women is often disdainful and dismissive;
Piccolomini almost always f latters his female readers. And yet, it is the
Ragionamenti that imagine autonomous women who manage to hold their own in conf
lict with men, whereas La Raffaella presents women who are entirely dominated
by men in one way or another. The Ragionamenti fantasize about the ways in
which women trick men; La Raffaella fantasizes about the ways women can be
tricked. Aretino’s Nanna provides a powerful contrast to Piccolomini’s fantasy
of feminine submission. In Book 2 of the Ragionamenti, when Nanna recounts her
experiences as a wife, she does exactly what Raffaella urges Margarita to do—
she takes young lovers who can satisfy her sexually in ways her impotent
husband cannot. But the key difference is that Nanna makes that choice for
herself—she is not tricked into it by a male suitor who is using a female
confidant to manipulate her. Even before becoming a prostitute, Nanna is always
looking out for herself. She tricks her lovers in the same way she tricks her
husband. She plays to win and is never duped. And unlike Margarita, who
promises to devote herself exclusively to messer Aspasio, Nanna’s adultery is
utterly promiscuous: Once I had seen and understood the lives of wives, in
order to keep my end up, I began to satisfy all my passing whims and desires,
doing it with all sorts, from potters to great lords, with especial favor
extended to the religious orders—friars, monks, and priests. Io, veduto e
inteso la vita delle maritate, per non essere da meno di loro, mi diedi a
cavare ogni vogliuzza, e volsi provare fino ai facchini e fino ai signori, la
frataria, le pretaria, e la monicaria sopra tutto.69 Eventually she ends up
stabbing her husband to death when he assaults her after catching her having
sex with a beggar.70 It is hard to imagine Piccolomini’s wellbred Margarita acting
in a similar manner should her husband ever catch her with messer Aspasio.
Piccolomini’s Raffaella fits into larger trends in the ways in which Aretino’s
Ragionamenti were read and assimilated into mainstream early modern
culture.Broadly speaking, texts that were inspired or inf luenced by the
Ragionamenti adapted Aretino’s text in ways that made it less subversive and
conformed better to traditional ideas of early modern gender relations. Later
editions, translations, and adaptations of the Ragionamenti focused on Book 3
of the first day, on the life of whores, and presented the text to readers
simply as a catalogue of female deceit and monstrosity in which the satirical
and subversive elements of Nanna’s character were downplayed in order to make
her a purely negative figure.71 In a similarly reductive move, La Raffaella
takes the notion that women will attempt to deceive men, and limits it to the
particular case of aristocratic wives deceiving their husbands—a model which
fits well into traditional discourses of courtly love that go back to the
twelfth century.72 Women are represented as fundamentally passionate creatures
that desire physical pleasures above all else, and these are found more
naturally with young men in adulterous relationships than with respectable,
mature, and neglectful husbands. Margarita’s husband spends too much time on
“business” and not enough with his wife, and the well-bred and discreet messer
Aspasio is the natural solution to Margarita’s problems. Raffaella the bawd is
not disrupting traditional aristocratic patterns of behavior, she is
facilitating them. As long as the affair remains discreet, everyone will
benefit and no one will care. (Machiavelli makes much the same point in his
play Mandragola, but in that case the satiric irony is obvious.) In La
Raffaella the extent to which Piccolomini supports Raffaella’s argument is not
clear. As we have seen, he explicitly endorses her point of view in his
dedicatory epistle to his female readers. But the degree of irony in the epistle
is an open question. It is enough that Piccolomini had deniability when he
needed it—La Raffaella, as he later claimed, was obviously a youthful joke.
Later commentators agreed that the dialogue, though seemingly immoral, was
actually a witty jeu d’esprit. The nineteenth-century scholar and editor
Giuseppe Zonta called La Raffaella a “jewel of the Renaissance, the most
beautiful ‘scene’ that the sixteenth century has left us, in which didactic
intent develops deliciously out of a comic drama” (“gioiello della Rinascita,
la più bella “scena” che il Cinquecento ci abbia lasciato, dove l’intento
didattico deliziosamente si svolge di su una comica trama”).73 Many things have
been said about Aretino’s Ragionamenti, but no one ever claimed that they were
a beautiful jewel.Notes 1 On sixteenth-century editions of La Raffaella, see
Zonta, ed., Trattati d’amore, 379–82; Cerreta, Alessandro Piccolomini, 175–77.
There are no known surviving copies of the 1539 edition. Zonta believes the
first edition may have been published in 1540. 2 Aretino, Ragionamento della Nanna; and Dialogo di
M. Pietro Aretino. 3 Moulton, Before Pornography, 132–36. 4 See the dedicatory
epistle to “quelle donne che leggeranno,” Piccolomini, La Raffaella, 31. Unless otherwise indicated,
all references to La Raffaella are to this edition. 5 On prostitution as a form
of labor and commerce in the Ragionamenti see Moulton, “Whores as Shopkeepers,”
71–86.6 Moulton, Before Pornography, 132–36. On Aretino’s public image, see
Waddington, Aretino’s Satyr. 7 Moulton, Before Pornography, 130–31. 8 Aretino,
Sei giornate, 132–33. English translation: Aretino, Aretino’s Dialogues, 116.
All English quotations from the Ragionamenti are from this edition. 9 Aretino,
Sei giornate, 115–16; Aretino’s Dialogues, 102–03. 10 See Larivaille, La Vie
quotidienne, esp. chapter 6 on the economic and personal exploitation of whores
and chapter 7 on syphilis. On
hierarchies of prostitution, see Ruggiero, Binding Passions, 35–37. 11 Aretino,
Sei giornate; Aretino’s Dialogues, 135–36. 12 Aretino, Sei giornate, 283–84;
Aretino’s Dialogues, 310. 13 Baldi, Tradizione, 106–07. 14 Piccolomini, La
Raffaella, 41. All translations from La Raffaella are my own. 15 Piéjus, “Venus
Bifrons,” 121. 16 Piccolomini, La Raffaella, 119. 17 Ibid., 101–02. 18 Ibid.,
94. 19 Ibid., 112. 20 Ibid., 113. 21 Ibid., 110. 22 Ibid., 135 n. 120. 23
Piéjus, “Venus Bifrons,” 82–83. 24
Piccolomini, La Raffaella, 27. 25 Piéjus, “Venus Bifrons,” 86. 26 Cerreta,
Alessandro Piccolomini, 10–48. 27 “Molte cose che per scherzo scrisse già in un
Dialogo de la Bella Creanza de le Donne, fatto di me più per un certo sollazzo,
che per altra più grave cagione.” Dedicatory epistle to Piccolomini, De la
Institutione. See Piccolomini, La Raffaella, 7. 28 He did publish two comedies:
L’Amor costante (1540) and L’Alessandro (1545). See Cerreta, Alessandro
Piccolomini, 177–78, 187–88. 29 Piccolomini, De la Institutione (f. 231r-v). See Piccolomini, La
Raffaella, 8. 30 Piéjus, “Venus Bifrons,” 81, 161. 31 See the 1960 bibliography
of Piccolomini’s published works in Cerreta, Alessandro Piccolomini, 173–96. 32
An Italian translation of Vives’ De institutione feminae christianae was
published in Venice in 1546 under the title De l’institutione de la femina. A
second edition appeared in 1561. Vives’ treatise was also the model for
Ludovico Dolce’s Della Institutione delle donne (Venice: Giolito, 1545).
Further editions of Dolce’s text were published in 1553, 1559, and 1560. 33
Burke, The Fortunes of the Courtier. 34 Trissino, Epistola. 35 Capella,
Galeazzo Flavio Capella Milanese. 36 Kelso, Doctrine for the Lady. 37 See the
chronological bibliography of 125 works on women published in Italy between
1471 and 1560, Piéjus, “Venus Bifrons,” 156–65. Women did address the issue in
unpublished texts, such as the collected letters of Laura Cereta (ca. 1488).
See Cereta, Collected Letters. Published texts by women were more common is the
later years of the sixteenth century. For an overview of “protofeminist”
writing in early modern Italy see Campbell and Stampino, eds. In Dialogue, 1–13. 38 Baldi, Tradizione, 99–102.
Piccolomini, La Raffaella, 11–15. 39 Piéjus, “Venus Bifrons,” 108. On the
larger influence of the Cortegiano on La Raffaella, see Baldi, Tradizione,
86–90. 40 Piccolomini, La Raffaella, 9. Baldi, Tradizione, 100–07. 41 Piéjus,
“Venus Bifrons,” 106, 118, 126. 42 Piccolomini, La Raffaella, 43.43 Aretino,
Sei giornate, 139; Aretino’s Dialogues, 158. 44 Aretino, Sei giornate, 285, 291; Aretino’s
Dialogues, 312, 318. 45 Bandello, Novelle, 1.34. Included in a list of
licentious books, along with the poems of Petrarch, Boccaccio’s Decameron, and
Ariosto’s Orlando Furioso. See
Piéjus, “Venus Bifrons,” 83. 46 Cerreta, Alessandro Piccolomini, 43–44.
Piccolomini and Aretino corresponded in 1540– 41. Five letters from Piccolomini
to Aretino are included in Marcolini, ed., Lettere scritte. See also Cerreta,
Alessandro Piccolomini, 253–54. 47 “De là naît, comme dans les Ragionamenti, un
texte provocateur, animé pare une ironie cynique qui, parodiant point par point
les leçons habituellement données aux femmes, renverse la finalité d’une
conduite désormais subordonnée à la recherche du plaisir”; “Piccolomini
constate, comme l’Arétin, un divorce entre les principes ouvertement affirmés
et la conduite quotidienne de ses contemporains.” Piéjus, “Venus Bifrons,”
147–48. My translation. 48 Kelso, Doctrine, 78–135. 49 Harvey, Ventriloquized
Voices, 32. 50 The Bechdel–Wallace test was first outlined in 1985 in Allison
Bechdel’s comic strip Dykes to Watch Out For. See Alison Bechdel, “The Rule,”
in Dykes to Watch Out For (Ithaca, NY: Firebrand Books, 1986), 22. Bechdel
attributes the idea to her friend Liz Wallace, and says the ultimate source is
a passage in Virginia Woolf ’s A Room of One’s Own. See also Selisker, “The
Bechdel Test.” 51 Rossia and Straub, eds., Fabliaux Érotiques, 199–239. 52 In
order to silence her vagina, the Countess stuffs it with cotton, but the Knight
is able to make her anus speak as well, and all is revealed. 53 Bell and
Reverby, “Vaginal Politics,” 435. 54 On the Intronati, see Constantini,
L’Accademia. 55 Maylender, Storie delle accademie
d’Italia, vol. 3, 354–58. 56 Coller, “The Sienese Accademia,” 223. See also Piéjus, “Venus
Bifrons,” 86-103. 57 Coller, “The Sienese Accademia,” 224. A second edition of
the Orazione appeared in 1549. See
Cerreta, Alessandro Piccolomini, 189. 58 Moulton, Love in Print, 48–53. 59
Piéjus, ‘L’Orazione, 547. Coller, “The
Sienese Accademia,” 225. 60 Piccolomini translated one of the six books of the
Aeneid. For these and other examples, see Piéjus, “Venus Bifrons,” 91–96. 61
Bargagli, Dialogo de’ giuochi, 22. Piéjus,
“Venus Bifrons,” 89. 62 Ibid. She cites Elena De’ Vecchi, Alessandro
Piccolomini, in Bulletino Senese di Storia Patria (1934), 426. 63 Piéjus, “Venus Bifrons,”
93–96. The untitled dialogue is roughly contemporaneous with La Raffaella. 64
Vignali, La Cazzaria, 40–41. 65 Ibid., 21–26. 66 As well as appearing in La
Cazzaria and being the author of the aforementioned scholarly dialogue between
three women, Marcantonio Piccolomini (1504–79) also appears as the primary
speaker of Bargagli’s Dialogo de’ giuochi. 67 Piccolomini, La Raffaella, 29. 68 “Io vi confesso
bene, poiché gli uomini fuori di ogni ragione tirannicamente hanno ordinato
leggi, volendo che una medesima cosa a le donne sia vituperosissima e a loro
sia onore e grandezza, poich’egli è cosí, vi confesso e dico che quando una
donna pensasse di guidare un amore con poco saviezza, in maniera che n’avesse
da nascere un minimo sospettuzzo, farebbe grandissimo errore, e io piú che
altri ne l’animo mio la biasmarei: perché io conosco benissimo che a le donne
importa il tutto questa cosa. Ma se, da l’altro canto, donne mie, voi sarete
piene di tanta prudenza e accortezza e temperanza, che voi sappiate mantenervi
e godervi l’amante vostro, elletto che ve l’avete, fin che durano gli anni
vostri cosí nascostamente, che né l’aria, né il ne possa suspicar mai, in
questo caso dico e vi giuro che non potete far cosa di maggior contento e piú
degna di una gentildonna che questa.” Ibid., 30–31.69 Aretino, Sei giornate,
89; Aretino’s Dialogues, 102. 70 Aretino, Sei giornate, 90; Aretino’s
Dialogues, 103. 71 Such texts
include Colloquio de las Damas (Seville, 1548); Le Miroir des Courtisans (Lyon,
1580); Pornodidascalus seu Colloquium Muliebre (Frankfurt, 1623); and The
Crafty Whore (London, 1648). See Moulton, “Crafty Whores,” and Moulton, Before
Pornography, 152–57. 72 On Courtly Love as a cultural phenomenon, see Newman,
ed., The Meaning of Courtly Love. On the cultural origins of courtly love, see
Boase, The Origin and Meaning. 73
Zonta, ed. Trattati d’amore, 377.Bibliography Abrabanel, Judah (Leone Ebreo).
Dialoghi d’amore. Rome: Mariano Lenzi, 1535. Aragona, Tullia d’. Dialogo
. . . della infinità d’amore. Venice: G. Giolito, 1547. Aretino, Pietro. Aretino’s
Dialogues. Translated by Raymond Rosenthal. New York: Marsilio, 1994. ———. Dialogo di M. Pietro
Aretino, nel quale la Nanna il primo giorno insegna a la Pippa sua figliola a
esser puttana, nel secondo gli contai i tradimenti che fanno gli huomini a le
meschine che gli credano, nel terzo et ultimo la Nanna et la Pippa sedendo nel
orto ascoltano la comare et la balia che ragionano de la ruffiania. Turin?:
1536. ———. Ragionamento della Nanna e della Antonia, fatto in Roma sotto una
ficaia, composto del divino Aretino per suo capricio a correttione de i tre
stati delle donne. Paris?: 1534. ———. Sei giornate. Edited by Giovanni
Aquilecchia. Bari: Laterza, 1969. Baldi, Andrea. Tradizione e parodia in
Alessandro Piccolomini. Lucca: Maria Pacini Fazzi Editore, 2001. Bandello,
Matteo. Novelle. 3 vols. Lucca: Il Busdrago, 1554. Bargagli, Girolamo. Dialogo
de’ giuochi. Venice: Gio.
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Laterza,Della Porta’s brief thirty-two-page treatise on the art of memory1
appeared in print in Naples in 1566. There was another edition in 1583; in 1602
Della Porta published a revised Latin version of the text under the title Ars
reminscendi.2 Despite the fact that The Art of Remembering did not see nearly
as many press runs as Della Porta’s more famous works on natural magic and
physiognomy, and despite (or because of?) its brevity, his art of memory was
frequently utilized by seventeenth-century preachers.3 Given its author’s
dubious reputation with Catholic orthodoxy—and his constant difficulties with
the Inquisition—this popularity might seem quite amazing.4 In both a series of
articles and a book chapter, Lina Bolzoni has discussed The Art of Remembering;
my contribution here seeks to elaborate on Bolzoni’s work by examining the
function of a peculiar sequence of images appearing in Della Porta’s
text—images that inf luence the entire structure and character of The Art of
Remembering. Della Porta recommends the use of explicit sexual fantasies as the
most powerful images for organizing the process of recollection. The use of
erotic images was not uncommon in the medieval and early modern tradition of
the art of memory. Yet in Della Porta’s text, images depicting sex between
human beings and animals are amazingly prominent (and especially in the two
Italian versions of the Arte del ricordare than in the later Latin Ars
reminiscendi ). Here I will argue that Della Porta’s use of pornographic and
even, in the modern sense of the word, sodomitic imagery is not merely a
consequence of the more innovative aspects of his instructions for developing
the capacities of memory. Rather, these images resonate in other of Della
Porta’s numerous and highly inf luential texts—namely, his texts for the
theater, on human physiognomy, natural magic, cross-breeding, and marvels
(meraviglia) in general. Such pornographic images thus refer to the core topics
of his most important texts—and, accordingly, to his general endeavors as an
early modern magus.5The art of memory Basically, the art of memory consists of
imagining a spatial structure—for instance, a house with different rooms (loci
)—and then furnishing these spaces with objects and persons (imagines).6 The
next step is to walk through the rooms of this imagined building and to assign
to each one item one wishes to recall, in the precise order of movement through
the architectonic structure. Originally developed in classical antiquity for
public orators, this method allows a speaker to recall the general content and
order of a speech, but the “art of memory” was also used to recollect specific
sequences of words. In this “art,” it is crucial to visualize and memorize a
mental structure, with its loci and imagines, in the greatest possible detail.
To facilitate this formidable task, the masters of the art of memory frequently
recommended that the images have a strong emotional nature (imagines agentes).
Conspicuously, manuals for the art therefore often recommend erotically charged
images as imagines agentes.7 Remembrance thus becomes dependent on—and
simultaneously synonymous with—exercising vivid (and, as we shall see,
predominantly male) sexual fantasies. The imaginary loci populated by a
sequence of well-ordered and striking images tend to acquire a life of their
own. As Bolzoni writes: “it is easy to imagine how centuries of experience in
memory techniques have given scholars some idea of the complex nature of mental
images and their capacity to inhabit their creators, to come alive and escape
their control.”8 And yet the affective movement of the soul, produced by
recalling a set of emotionally charged images, clashes with the imperative of
order that is the other vital aspect of the art of memory.9 Thus—in contrast to
modern literary authors who acknowledge and actively employ this same
phenomenon in developing their texts—the masters of memory were faced with the
arduous task of restraining the life of their own figments.10Della Porta’s
mnemotechniques Della Porta’s approach to the topic is characterized by a
methodical pluralism that is typical for the art of memory. Along with the
basic principles outlined above, he presents different ways of organizing
memory.11 For example, he recommends memorizing a group of ten to twenty women
whom one has loved to organize a system of pleasant and striking mnemonic
images. He contends that when employing the phantasmata of women one has made
love to or one has desired, one can succeed in remembering not only one word,
but an entire verse or even several verses.12 Della Porta also states one
particular system as his most innovative and preferred innovative contribution
to the art. For setting up the loci, he recommends memorizing little neutral
cubicles eight palms long, each populated with different impressive personae:
here, the sexually attractive women one has made love to or has been in love
with are placed alongside cubicles occupied by friends, jesters, noblemen, and
matrons.13 Della Porta accordingly recommends the use not only of men and women
personal acquaintances, but also of charactertypes—especially from comedy—that
during the sixteenth century were populating contemporary stage plays. In this
respect, The Art of Remembering follows a widespread tradition in
sixteenth-century treatises, as seen for example in Lodovoco Dolce’s
contemporaneous Dialogo del modo di accrescere e conservare la memoria
(1562).14 Another important precept in Porta’s Art of Remembering is that the
sequence of personae must vary; for example, he suggests “a woman, a boy, a
girl, a relative, an elderly man.”15 It is crucial to note that this succession
of personae is as fixed as the structure of the cubicles where they are
placed—which they “inhabit,” as it were. This implies that the personae become
part of the spatial setting, of the architecture of the memory palace, the
locus.16 These loci/personae determine the temporal sequence in which the
imagines appear, and in turn the content to be memorized in the correct
sequence (this content I will term the memorandum). In contrast to the fixed
personae, Della Porta defines the images as “animated pictures” which we
construct or spin out ( fingere/recamare) using the faculty of fantasy to
represent things and words.17 The images are mobile and variable: they constitute
what the personae in their fixed sequence do. And these activities must be
extraordinary in every respect; clothed in lavish and shining robes, the
personae’s movements should resemble larger-than-life actors, presenting the
mind with a “painting that is new, strange, marvelous, unusual, pleasant,
varied, and horrific (spaventevole).”18 Moreover, an image should also be
composed of a variable set of living and dead objects, which, like stage props,
are added to the persona—for instance, a cornucopia or a swan. Della Porta
recommends the use of relatively few loci/personae, condensing the sequence of
memoranda to a maximum of ten images agentes, as comic and tragic playwrights
would.19 One cannot help speculating that Della Porta discloses here a vital
aspect of his writing techniques as a prolific and inf luential author of
comedies.20 He obviously followed the advice of his predecessors, shaping his
personae in ways reminiscent of the exceedingly grotesque personae in his
mannerist comedies.21 The most salient feature of these plays is that they use
a limited set of characters whose social roles and statues are fixed in a set
of stock scenes.22 The practicability of this system is obvious, because there
is no need to memorize hundreds of loci and imagines. Yet there is one obvious
difficulty. This artificial memory is rather limited, because it will only
allow the practitioner to memorize one story (or a sequence of ten words).Della
Porta’s ars oblivionis This limitation is, of course, a general difficulty for
the art. From the time of its invention, the ars memoria has entailed an ars
oblivions, an art of forgetting, that in turn allows for the memory to be
organized anew. This is a difficult task, because laboriously constructed
chains of association between personae, imagines, and memoranda must now be
erased.23 Della Porta says that if we wish to remember a new story or a new set
of words, we can assign the same set of personae, in the same sequence, the
task of forging a new sequence of images.To this aim, we must imagine the fixed
sequence of personae in their cubicles, with these “usual suspects” stripped
naked or merely covered in white sheets, all in identical upright posture,
leaning with their shoulders against the walls of their cells.24 In Della
Porta’s system, the sequence of personae set in neutral cubicles is a permanent
pattern. He compares the personae to the lines on a specially varnished sheet
for musical compositions; it is inscribed with permanent lines, but what is
written onto them can be washed off. Thus, just as the musical notes (or signs)
are impermanent and can be reinscribed onto that sheet in a new order, creating
a new melody, so the old imagines agentes may be erased, with the personae free
to assume the pose of new imagines agentes.25 It is not only the architectonic
structure that functions as locus; the personae (who are usually classified as
“images”) become an aspect or a part of “place.”26 The personae assume the
paradoxical role of living statues—and this oxymoron aptly circumscribes the
self-contradictory function of the memory images: in order to impersonate new
imagines agentes, they should be plasmatic, but at the same time their bodies
must remain precisely fixed in dress, comportment, gesture, and the corresponding
affects communicated by these visual traits. However, Della Porta prescribes
that even when the personae are imagined naked, leaning against the wall—in
order to prepare them for a new role in another story—they should not be the
neutral recipients of images. Rather, they must be imagined in a highly
individualized form. And their actions are not arbitrary: Della Porta
prescribes constructing these stock characters of the imagination in the most
fitting way with respect to “age, facial traits, occupation, and comportment
(mores).”27 The personae’s actions are predetermined by their sex, social
status, and concomitant habits. Moreover, these actions of the personae—who
become the permanent abodes of the variable imagines—have to be related to the
content of the word or the story to be remembered. Della Porta’s technique of
character development was an important and original modification of the
traditional system of loci and imagines.28 In this way, the formal structure of
the memory is brought into a strong— and reciprocal—relationship with the
content that is to be memorized. In a key example, Della Porta writes that the
entire story of Andromeda can be remembered by the image of a naked, shivering,
and wailing woman chained to a rock.29 The setup of highly individualized
loci/personae is vital for the intricate task of memorizing a sequence of
individual images. Since more than one image is required, the spatial
arrangement of the personae/imagines becomes very important. The Latin version
of The Art of Remembering supplies the following example: if the word to be
remembered is avis (bird) and the cubicle is inhabited by the persona of a boy,
then he should be Ganymede; if it is “cook” then he cooks the bird;30 if the
word is taurus (bull) and a robust boy inhabits the cubicle, then we should
imagine Hercules wrestling with Achelous;31 if we wish to remember horn
(cornus) and a virgin inhabits the cubicle, we visualize her covered in f
lowers and fruits, like a Naiad with a cornucopia in hand.32The Italian Arte
del ricordare gives different examples.33 If we suppose the word “bird” to be
the memorandum for a prostitute (meretrice), Della Porta suggests constructing
an image of Leda during sexual intercourse with Jupiter in the guise of a
swan.34 This direction is confirmed in many other examples: for instance, under
the memorandum “bull” in the locus/persona of a virgin, we might imagine the
rape of Europa.35 If the memorandum “bull” embodies the locus/persona of a
meretrice (prostitute), then we should forge an image of Pasiphaë having sexual
intercourse with the bull.36 There is no doubt that the imagery of the
vernacular Arte del ricordare is more graphic, more sexually explicit, and less
polished than the later Latin version. Yet all the versions recommend sexually
explicit, or at least erotically charged, imagines agentes. Another striking
feature of Della Porta’s examples is that all memoranda— the “bulls,” “horns”—
are words with sexual connotations. Of course, uccello “bird” in Italian
denotes the penis; thus, the sexual connotation is as present in the memorandum
as in the image. 37 This intimate thematic connection highlights the rule that
imago and memorandum must be as closely related as possible. These examples
reveal that Della Porta wishes his readers to entwine their individual memories
of (present or former) personal acquaintances with the stories of classical
mythology to construct imagines agentes; like interlacing arches, they support
the architecture of the memory palace. It seems that the thematic link between
imago agens and memorandum is rather uncommon in the art of memory. Usually the
imagines agentes are used as placeholders for any content; for example, one
could use the imagines agentes of naked women to remember any sort of text, not
only erotic topics. Della Porta’s thematic over-determination would seem to
imply that his true interest lay in the actual topics to which the imagines
agentes and their corresponding memoranda refer; namely, a discourse concerning
the human body, the porous boundaries between human beings and animals.
Inherent in these tales of sex with animals is the generation of
monstrous—marvelous—offspring.Panoptic visions and living statues From a
Foucaultian perspective, Della Porta’s vision of the defenseless personae in
their mental prison cells has a panoptic character (though the term here is
used, of course, anachronistically). Whereas gazing at naked or sparsely
dressed human bodies, even in the imagination, can be considered a form of
symbolic violence, it is a technique of visualization in which the different
qualities of men and women of various ages, sexes, and professions become—quite
brutally— reduced to their physical features, because they are bereft of their
clothing and the social insignia, which denote, circumscribe, and protect their
social status and their moral integrity. This practice of examining the
physical features of naked men and women is echoed in the art of physiognomy of
which Della Porta considered himself a master. In fact, in his lavishly
illustrated works on the topic we find many depictions of the naked bodies of
men and women, with textssupplying the reader with the character traits (mores)
ascribed to various medical complexions; that is, the constituent factors of
human bodies and their affinities within the animal world.38 Measuring and
classifying naked human bodies according to their occupational and concomitant
social status was a widespread artistic practice during the fifteenth and
sixteenth centuries following the techniques for painters described in Leon
Battista Alberti’s De pictura (On Painting, 1435). Della Porta very closely
echoes and even plagiarizes Alberti, adapting Alberti’s instructions for
painters into his art of memory. In order to create images that appear lifelike
and therefore suited for communicating human emotions, Alberti recommends that
painters first draw human figures naked and only subsequently dress them (“ma
come a vestrie l’uomo prima si disegna nudo poi il circondiamo i panni”). 39 In
this context, the parallels between Alberti’s and Della Porta’s ideas are
obvious. In order to create emotionally charged imagines agentes they must be
as lifelike as possible, which means—especially in the case of erotic
imagines—that we undress the personae. Yet, whereas Alberti had pointed to the
appropriate decorum of his images, Della Porta opts for
larger-than-life-personae—for grotesque and exaggerated representations.40
Another point of reference between the De pictura and The Art of Remembering is
that Alberti links his measurements of human bodies to the proportions of
buildings. In Alberti’s context, an implied relation of architecture and body
clearly results from the process of constructing representations of irregular,
organic forms in central perspective. The architectural space must be
circumscribed before inserting the non-geometrical figures which are to
“inhabit” that space. The parallel to Della Porta’s The Art of Remembering is
striking, since for him as well the personae are an integral part of the loci
they inhabit. Paradoxically, Della Porta’s personae can be considered moving
statues. On the one hand, they must be imbued with as much life as possible; on
the other hand, they must freeze in one position, like a tableau vivant. But
the idea that moving statues are sexually arousing is much older than Della
Porta; Andromeda (one of the key examples in Della Porta’s The Art of
Remembering) is described by Ovid as sexually arousing to Perseus, her
liberator, because her naked body resembles a marble sculpture. “When Perseus
saw [Andromeda], her arms chained to the hard rock, he would have taken her for
a marble statue (“marmoreum esset opus”), had not the light breeze stirred her
hair, and warm tears streamed from her eyes. Without realizing it, he fell in
love (“trahit inscius ignes”).”41 When viewed from the perspective of
contemporary theater, Ovid’s erotic statue of Andromeda brings to mind the
“living statue” of Hermione in Shakespeare’s Winter’s Tale (V, 3) or Othello’s
description of Desdemona’s body as “whiter skin . . . than snow” and
as “smooth monumental alabaster” (Othello V, 2, 4–5). On Shakespeare’s stage,
this transformational power from living being to statue (and back again, in the
mode of comedy) is associated with male violence against women caused by
jealousy. Such marble statues may also play an important role in imaginings of
pregnant women. In a more general context, tales of walking statues are
associated with magical arts, as demonstrated in Apuleius’Metamorphoses, a work
closely associated with magic. Lucius, the protagonist of this second-century
Roman novel, describes his arrival in Corinth, the capital of Greek witchcraft:
There was nothing I looked at in the city that didn’t believe to be other than
it was: I imagined that everything everywhere had been changed by some infernal
spell into a different shape – I thought that the very stones I stumbled
against must be petrified human beings, . . . and I thought the
fountains were liquefied human bodies. I expected statues and pictures to start
walking, walls to speak, oxen and other cattle to utter
prophecies, . . .42 A magician’s power thus is akin to what a
master of memory does: turning one thing into another. This topic is intimately
linked to Della Porta’s other interests in the arts of cross-breeding, of
physiognomy, and of natural magic. Yet the relationship between Della Porta’s
imagines agentes and contemporary painting becomes even more striking upon a
closer examination of the individual imagines agentes ref lected in contemporary
media.Ovid’s Metamorphoses as represented by Titian’s paintings Virtually all
the examples in Della Porta’s The Art of Remembering refer to the thicket of
myths recorded in Ovid’s Metamorphoses. This is no wonder; as the most inf
luential “pagan” text of the Middle Ages and beyond, the Metamorphoses43
constitute a substantial encyclopedia of the transformations of the bodies of
gods and human beings—transformations caused mostly by violent sexual acts of
transgression on the part of gods, heroes, or powerful men upon their helpless
victims. Ovid’s text is thus a rich source for the primary task of Della
Porta’s art of memory: not only to associate but to exchange one image for
another. Moreover, Andromeda, Leda, Ganymede, Io, and Actaeon, to mention but a
few of the imagines mentioned in the Ars reminiscendi, were highly popular
subjects for contemporary artistic representation. It is thus no wonder that
Della Porta explicitly refers to the paintings of Michelangelo, Rafael, and
Titian in his writings.44 In the mode of synecdoche, these imagines agentes
serve as abbreviations for entire stories that are reduced to one single imago
agens, just as Della Porta had postulated in the case of Andromeda.
Accordingly, Titian’s most famous works supply the reader with instructive
illustrations for Della Porta’s The Art of Remembering. His key example,
Andromeda (in Perseus and Andromeda 1554–56), is represented by Titian with a
body as white as a marble statue, chained to her rock, with a vivid facial
expression, her arms depicted in an unusual, expressive pattern of movement.
The same applies to Europa (in Rape of Europa 1559–65), with the major
difference that she is not shown in an upright position like Andromeda, but
instead reclining against the back of the bull/Zeus; both female figures are
naked, their sexual organs barely covered by a piece of white transparent
garment. In all likelihood, this is whatDella Porta imagined as the lenzuola
with which the bodies of his personae should be covered in their ground positions.
Of course, Titian created many striking erotic female figures. One thinks of
his many Venuses, but also his renderings of a seductive St. Mary Magdalen
(1530–35) or St. Margaret (ca. 1565), paintings also remarkable for the
impressive movements of their subjects’ arms as well as gesture, (lack of )
apparel, and extravagant demeanor. The myth of Actaeon is the subject of two of
Titian’s most impressive paintings: the Death of Actaeon (1559) and The Fate of
Actaeon (1559–75). In the latter painting, the hunter’s head is already
transformed into the form of a horned stag. With the exception of Leda and the
Swan (by Michelangelo), nearly all the mythological subjects mentioned in Della
Porta’s treatise are represented in Titian’s most famous works. We thus do not
lack examples of contemporary paintings illustrating the imagines agentes in
Della Porta’s The Art of Remembering. Yet there is one notable exception: the
story of Pasiphaë (on whom see below). Like the imagines agentes in The Art of
Remembering, Titian’s figures seem to be frozen in their movements, despite
their vividness. An entire story is reduced to one spectacular moment—a
snapshot (to use an anachronistic term). This reduction is not merely a
convenient tool for remembering a myth in a wink of time. It also constitutes
an intervention eclipsing all other aspects of the story that are not
represented in the one imago agens. Titian’s paintings, like Della Porta’s
imagines, are evocations of a story in the mode of synecdoche. Alive and dead
at the same time, they are fetishistic representations catering to a male gaze,
for a specific set of sexual fantasies. Moreover, the fragmentation implicit in
this process also allows for a reduction of different myths to a limited set of
structural elements or topics which all point to one and the same topic. This
is exactly what Della Porta does in the examples given in The Art of
Remembering; he evokes one and the same topic (for instance, a bull) in various
loci/personae and the concomitant imagines agentes they enact. Moreover, all
the different topics he uses as examples for memoranda (bull, horn, bird) may
be subsumed under one single general topic: sex between human beings and
animals.Pasiphaë As I shall argue in what follows, the myth of Pasiphaë fulfills
a paradigmatic function for Della Porta’s memory technique, since it
corresponds so precisely with his preferred focus in natural magic, the mating
of different species and the creation of marvelous monsters. The myth is well
known. Pasiphaë falls in love with a bull, has intercourse with the animal, and
conceives the Minotaur. The sexual act leading to this monstrous birth is made
possible through the cunning intercession of Daedalus. This archetypal male
master-engineer from classical antiquity constructs a cow-shaped wooden frame
in which Pasiphaë could hide while being penetrated by the bull.45 The
remarkably imaginative and colorful myth of Pasiphaë thus conjoins illicit sex,
the art of the engineer, and the tale of a monstrous offspring.Pasiphaë is a
woman in love with an animal. She has sexual intercourse with a real bull, with
her desire thus inclined toward the animal world. Ergo, she impersonates a
highly negative image of women in the patriarchal societies through which the
myth has travelled. This gender bias is highlighted when we compare Pasiphaë to
the rape of Europa.46 Both Pasiphaë and Europa are situated in a liminal
territory of intersection between the animal, human, and divine— between
bodies, souls, and noumenal entities. Indeed, Europa is an inversion of
Pasiphaë’s story. Zeus here figures as a male lover and a god disguised as a
bull who has sexual intercourse with the maid Europa. Her fate is oriented
towards the stars. To have sex with a god in animal guise is a ticket to immortality.
To have sex as a woman with a real animal leads to ostracism and to the birth
of monsters. Thus, it is no wonder that there are copious visualizations in
fine art of the myth of Europa, but virtually none of Pasiphaë. From the
perspective of the art of memory, we may say that Pasiphae and Europa, as
imagines agentes, are inversions of each other. The mode of synecdoche, whereby
an imago agens embodies the stories of Europa and Pasiphaë, invites a synoptic
perspective on both myths, connecting as intersecting arches in the image of a
woman having sex with a bull. But this contradicts the specific image of
Pasiphaë observed in the myth, where the woman engaged in sexual intercourse
with the animal was a (real) bull covering a (dummy) cow. Pasiphaë in fact
disguises herself in what one could call a statue of a cow-like imago in the
art of memory, thus transforming the dummy cow into a caricature of a “living
statue.”47 Yet this image, on face value, shows an act that can be observed
frequently. The myth’s image of a cow and a bull mating (again, on face value)
cannot qualify as an imago agens, nor is it clear why it should be used in
Della Porta’s The Art of Remembering in the locus of the meretrice. This does
not mean the wooden cow is irrelevant to the phantasmatic transactions that
characterize the basic method of the art of memory, namely to exchange one
image for another. For the myth of Pasiphaë points in an oblique way to
Daedalus’s sublime craftsmanship, his ability to fabricate a wooden image which
deceives a bull. Despite the fact that Pasiphaë is a witch (Circe’s sister),
she seemingly has not been able to concoct a magical love potion that would
sexually attract the bull. In order to fulfill her desire, she needs the help
of a male master engineer. In Greek philosophical terminology, this ability to
produce potentially eternally lasting objects (like tables) is called “poetic.”
Daedalus is thus pursuing an activity that he shares with the poets. Indeed
Daedalus’ prop is a powerfully poetic cow, and the image he created has the
power to evoke a series of (brutally violent) images which are not the image:
they are quite literally “in” the image. The dummy cow (with its dark inside
where the male imagination can pursue its most graphic phantasies of penetration)
is a model for the associative processes at work in the art of memory—but it is
in itself not an imago agens. In marked contrast to Ovid’s version of the
story, where Pasiphaë is disguised in a dummy cow, Della Porta apparently
wishes his readersto create an imago agens in which a prostitute has sexual
intercourse with a bull without recourse to Deadalus’ prop. Pasiphaë’s myth
points to the idea that the birth of monsters, in this case the Minotaur,
requires the intervention of a male mastermind, who not only helps to beget the
deviant creature, but also provides the means to contain the dangers arising
from it, for it is Daedalus who constructs the famous maze in which Pasiphaë’s
child is imprisoned.48 This image of Deadalus as creator and container of
monsters or marvels epitomizes the role Della Porta wished to assign to himself
as a cunning magus.49 Here, at the crossroads between mechanical device and intervention
into the organic body, Della Porta’s particular form of late Renaissance
natural magic, physiognomy, and the theater unfolds. Actually, the imago agens
of a woman having sex with a bull has an interesting relationship to Della
Porta’s Magia naturalis. Here we learn of Della Porta’s keen interest in
practices of cross-breeding between human beings and animals. To bolster his
claims, he cites the usual suspects for such stories: Pliny, Herodotus, Strabo
and their tales of women who were raped by billy goats, producing monstrous
offspring.50 This leads him to believe that “some of the Indians have usual
company with bruit beasts; and that which is so generated, is half a beast, and
half a man” (Magick 2, 12, 43). Della Porta also contends that it would be
possible for a man to inseminate a fowl under the right astrological
constellation and the right medical complexion.51 In order to create a
human/animal monster, Della Porta does not resort to the kind of contraption
Deadalus constructed for Pasiphaë, but relies instead on his expertise in
measuring, not the proportions of the head as did Alberti, but rather the
lengths and depths of male and female sexual organs, the course of the stars,
and the assessment of the medical complexions inscribed in the physical traits
of human beings and celestial bodies alike. These parameters—basically a
doctrine of signatures—are also the most decisive indicators in Della Porta’s
texts on physiognomonics, where he postulates the close resemblance of human
beings to certain animals, with attendant implications for the human
character.52Apuleius’ Metamorphoses This impression is confirmed by looking at
another imago agens where a woman has sex with an animal. In both the Italian
and Latin versions of The Art of Remembering, Della Porta claims that we
remember the woman having intercourse with the ass from Apuleius’ Metamorphoses
better than we do the heroism of a Muzius Scevola.53 Apuleius’ Metamorphoses,
the second-century novel better known as The Golden Ass, is an interesting
source for The Art of Remembering, because Apuleius describes the sexual act
between an ass (not a bull) and a woman in great detail.54 Lucius, the
protagonist of The Golden Ass, is a young man obsessed by witchcraft who is
transformed into an ass after he applied the magical unguent concocted by
Pamphile, a powerful Thessalian witch. In the shape of an ass—although never
losing consciousness that he is a man—Lucius livesDella Porta’s erotomanic art
of recollectionthrough a veritable odyssey during which he is beaten and
mistreated. When one of his many keepers discovers that this ass is
particularly clever, he makes Lucius the object of special exhibitions and a
rich woman falls in love with the ass and hires it. In contrast to Pasiphaë,
this woman has sex with the animal without any recourse to a prop. Both Lucius
and the woman seem to enjoy the act, in spite of his asinine and—hence
proverbially large—sexual organ. This changes as soon as Lucius has to perform
the act again, this time as a cruel public entertainment in an amphitheater,
where a female convict, before being devoured by wild beasts, is sentenced to
have intercourse with the ass. Lucius deeply resents this act and manages to
escape.55 It is interesting to note that Apuleius explicitly links his
salacious story of the wealthy woman who has sex with the ass to the myth
Pasiphaë, given he calls the woman asinaria Pasiphaë (an ass-like Pasiphaë).56
The story is thus marked as a parody of the myth of Pasiphaë in the form of a
blunt satire on late Roman mores. Upon closer scrutiny, this story of the
noblewoman and the ass is—again structured by a set of inversions, an oblique
evocation of the myths of the rape of Europa as well as of Pasiphaë. In
Apuleius it is a man, Lucius, who has been turned into the shape of an
ass—neither a god ( Jupiter) who willfully changes his shape into a bull (as in
the Europa myth), nor a witch (Pasiphae) who desires a real bull and who needs
the help of a male engineer to fulfill her desire. Instead, Lucius is a man who
has been changed into an animal, not by a Pasiphaë (who was incapable of doing
that job for herself ) but by another relative or follower of Circe—Pamphile.
The sexualized content with a specific violence towards female bodies is deeply
inscribed into the story of Apuleius and, consequently, in the imago agens
prescribed in Della Porta’s The Art of Remembering, which again condenses the
stories of Pasiphaë (the prostitute has sex with a bull) and the story of the
sodomite noblewoman in Apuleius, as well as including the plan to showcase the
act with female convict. The extremity of this imago agens is enhanced by the
fact that such acts of bestiality were a capital crime in Della Porta’s time,
primarily because they were believed to engender monstrous offspring, to
humanize the animal world, and simultaneously to animalize the human
perpetrators.57Io: more cows Another myth Della Porta mentions in his The Art
of Remembering —this time, as an imago agens for remembering the word
“horns”—is the story of Io.58 Her story is most pertinent because it concerns a
beautiful Naiad who is raped by Jupiter and subsequently transformed into what
Ovid describes as an extremely beautiful cow. In this shape, Jupiter wishes to
protect the girl he has violated from the wrath of his ever-jealous wife.
Unexpectedly, however, Juno likes the animal and receives it as Jupiter’s gift.
Suspecting some ruse from her husband, she proceeds to have the animal
protected by Argos, the moment in the story Della Porta employs as imago agens.
According to Ovid, Io did not lose consciousness of herreal identity but,
rather, terrified by her transformation, she seeks the company of her (human)
family. Io’s father suspects that the tame, suspiciously human cow is his
daughter. He exclaims in desperation that he had been “preparing and arranging
a marriage (thalamos taedasque praeparam I, v 558), hoping for a son-in-law
. . . now you must have a bull from the herd for husband, and your
children will be cattle (de grege nunc tibi vir, nunc de grege natus habendus.
v.660).” Eventually, Juno discovers Io’s true identity, her wrath subsides, and
Io is fully restored to her former human shape. Similar to Apuleius’ story of
Lucius in his Metamorphoses, Ovid describes Io’s transformations from human
being into cow and back again in great detail.59 Io’s story is constructed as a
set of inversions of the story of Europa. Jupiter approaches Io in the form of
a human being (not as a handsome bull) and he transforms not his own body but
that of the maid into the shape of a beautiful cow, a body in which the
sexually abused girl is deeply unhappy. However, the affinities between Lucius
and Io are even more striking; their stories appear as mirrored inversions
along the gender divide. Both their bodies are transformed into the shapes of
animals (a cow viz. an ass), both are beautiful and attractive in that guise (
Juno unexpectedly takes a liking to the cow, the noblewoman has sex with
Lucius), neither of them lose consciousness of their human nature and suffer in
their shape as animals (but Io seeks the company of her father, whereas Lucius
wants his girlfriend back), both are subsequently transformed into human shape
again, and both were originally transformed in order to escape imminent
persecution. (Io is turned into a cow by Jupiter in order to protect her from
Juno’s wrath, Lucius is mistakenly transformed into an ass in order to escape
from the law.) The specific aspect making the stories of Europa, Io, Pasiphaë,
and Lucius so significant for Della Porta’s The Art of Remembering is the
constant interplay of various but related inversions of plots. Indeed, this
method is intrinsic to the modes of transformation prescribed by this
particular art.60 Interchangeability arises from the set of oblique inter-textual
references and inversions of plots, as amalgamated in a given imago agens.61 In
the mode of synecdoche, an imago agens is designed to represent an entire story
in one image. This is a constitutive strategy of Della Porta’s mnemotechnique,
which aims at the thematic interconnecting of persona/locus, imago agens, and
memorandum. For example, a prostitute Della Porta has slept with
(persona/locus) in turn embodies Leda having sex with Jupiter (imago agens) in
order to remember the word bird (memorandum). Della Porta’s personal (phallic)
imagination thus becomes entwined with classical myth. Within the positional
logic of loci/personae in Della Porta’s The Art of Remembering, therefore,
Leda, Io, Europa, Pasiphaë, the Roman noblewoman, and the female convict all
become different imagines agentes into which one and the same memorandum may be
inscribed. Thus, the porous boundaries between human beings and animals
integral to Della Porta’s imagines agentes not only indicate his personal taste
for a bizarre and grotesque imaginary and his studiesin physiognomy; they
embody the basic principles of the Renaissance natural magic tradition of which
Della Porta was a late (yet inf luential) exponent. It allows for a
“syn-opsis,” a viewing together of very different stories that bolsters one of
the foundational tenets of Renaissance natural magic: the universal drive for
wholeness permeating the entire enlivened and sexualized cosmos, where the male
and female aspects strive to unite. By dint of his profound knowledge of the
occult sympathies and antipathies between things, the natural magus has the
power to tap and organize these cosmic erotic forces so that he may produce his
marvels.62 Within this Renaissance tradition, the human imagination has not
only a specific capacity of the soul for evoking and then transforming images
that originate from sensory perception. The human imagination also had the
power to shape the body it inhabited, as well as other bodies.The formative
power of maternal longings Renaissance natural magic coopted an ancient belief
in order to exemplify the extraordinary formative powers of the human
imagination. If a woman was exposed to a strong sensation or harbored an
intense longing during intercourse or pregnancy, this state was thought to inf luence
the formation of the embryo in her womb. Renaissance magi thus believed that
the image of its mother’s obsession was impressed on the fetus and the future
child would physically resemble the entity she had longed for during
intercourse. Della Porta makes direct reference to such ideas and related
practices. Initially, it appears that he is simply repeating the highly popular
theories on maternal longings encountered in authors as diverse as Ficino and
Castiglione.63 In the circular reasoning characteristic of natural magic, this
set of beliefs about the imagination also opened implications for purposefully
shaping future children, by positively conditioning the imagination of the
mother. A frequently repeated segreto for creating beautiful children recommends
exposing women during intercourse and pregnancy to paintings or sculptures of
beautiful children, inf luencing the future child’s shape via beautiful
imaginamenta.64 Della Porta refers directly to this bedchamber practice: place
in the bed-chambers of great men, the images of Cupid, Adonis, and Ganymedes;
or else [. . .] set them there in carved and graven works in some
solid matter, [. . .] whereby it may come to passe, that whensoever
their wives lie with them, still they may think upon those pictures, and have
their imagination strongly and earnestly bent thereupon: and not only while
they are in the act, but after they have conceived and quickened also: so shall
the child when it is born, imitate and expresse in the same form which his
mother conceived in her mind, when she conceived him, and bare in her mind,
which she bare him in her wombe.65 It is fascinating that Della Porta’s two
discourses on memory and on what one could call family planning are also
interconnected through his choice of visualexamples, of imagines agentes. As in
The Art of Remembering, we again encounter the images of Adonis and Ganymede
and of Cupid. Significantly, in contrast to Della Porta’s The Art of
Remembering, where predominately female personae cater to male sexual
fantasies, all of the images that Magia naturalis prescribes for pregnant women
are of beautiful boys. Della Porta’s ideas on the power of maternal longings
entail a creative female capacity to produce such images in the shape of
children; her imagination is engaged with the future. A master of the art of
memory, on the other hand, is engaged in recollecting the past. Hence, the
process in the pregnant woman’s imagination constitutes an inversion of the
process prescribed in Della Porta’s The Art of Remembering: the woman’s
imagination allows a marble statue to come alive, whereas the (male) master of
the art of memory seeks to freeze the image of a living person (preferably a
sexualized woman) into an imago agens—that is, he turns the figment to stone, symbolically
killing the persona just when it appears to be most alive. This excursion into
beliefs about the effects of maternal longings allows us to re-contextualize
the mental process structuring Della Porta’s The Art of Remembering. The
imagination is a faculty of the human soul capable of producing loci and
imagines agentes, to be frozen into statues, into tableaux vivants. The story
of the maternal longings confirms Della Porta’s creed that the human
imagination can also materialize its products; in both cases, the image may be
unfrozen and directed back to its starting position to assume a new pose. The
master of Della Porta’s art of memory thus arrogates for himself a phantasmatic
power over life and death, inherently a much greater power that the pro-creative
capacity he has ascribed to women. The asymmetric gender bias that emerges in
this account is instructive. As in the story of Daedalus and Pasiphaë, the art
of memory also refers to the preeminent ability of the male magus to create
monsters through artificial cross-breeding, whereas the imagination of a
pregnant woman requires male protection and guidance to its power to shape
future children.Conclusion The evidence for my claim that Porta’s choice of
memory images in his The Art of Remembering is not arbitrary, but instead it is
closely related to the overreaching project he pursued as author of texts on
(and a practitioner of ) natural magic, physiognomy, and the theater. A set of
classical myths—Andromeda, Europa, Io, Pasiphaë, and Aktaion—handed down by
Ovid, parodied by Apuleius, and painted by Titian, was put to a specific use in
Della Porta’s The Art of Remembering. In the mode of synecdoche, he instructs
the reader on how to reduce an entire story to a single imago agens (for
instance, the image of naked Andromeda chained to her rock). The imago agens
thus functions as a synopsis of the entire myth. This oscillation between the
modes of synopsis and of synecdoche—entailing a constant process of
re-focalization—in effect constitutes the basic cognitive operation in Della
Porta’s The Art of Remembering. Since it reduces a whole welter of ancientmyths
to one common narrative, the mode of synecdoche facilitates the perception of
thematic or structural affinities between different myths. Accordingly, a
series of imagines agentes referring to very heterogeneous stories allows a
leveling in our perception of these different narratives and their content. The
mode of synecdoche is conducive to focalization on a single topic via myriad
topical affinities (which become highlighted in the mode of synopsis). In Della
Porta’s mnemotechnique, this re-focalization of a series of stories may
transpire not only through a heightening affinity, but also in the mode of
inversion (for instance, in the myths of Europa and Pasiphaë). In The Art of
Remembering, this results in the reduction of the stories of Io, Pasiphaë, and
Europa (as well as Apuleius’ asinaria Pasiphaë ) to the topic of women having
sex with animals and generating monstrous offspring (bulls, cows, asses). This
topical affinity is also pertinent to the relationship between of sexualized
imagines agentes and memoranda (bulls, horns, birds). The imagines agentes
operate within the imagination of the master of the art of memory. This
particular mental faculty not only receives such images; it also has the
capacity to transform them into new images—images which in turn have the power
for transforming the human body. Not only does Della Porta’s laboratory of
monstrous hybridization constitute a hotbed for the literary imaginary, but the
literary image also models the reader’s imagination, and once the imagination
is infected by an image, these images may acquire a life of their own. This
reasoning has its ultimate proof in the belief that a pregnant woman’s fantasies
inf luence the form of the future child. At the thematic intersections of
literature, visual art, physiognomonics, natural magic, the core topic—sex with
animals and the generation of monstrous offspring—becomes embedded (in the
literal sense of the word) with personal erotic experiences. The women who have
intercourse with animals are impersonated by the women with whom Della Porta
has had—or wished to have—intercourse. As mnemonic personae/loci and hence as
slaves of his erotic fantasy, they are forced to embody any role assigned to
them by their master. Della Porta is thus obliquely portraying himself in the
process of recollecting his own memories—living statues of women who have sex
with animals who may be seen as surrogates for him. In a series of constant
mise en abimes mirroring a phallic erotic imagination, Della Porta points his
readers (and himself ) towards the center of a truly mannerist Minotaur’s
abode.Notes I wish to thank Marlen Bidwell-Steiner for many invaluable
discussions and comments. 1 On the art of memory, see Yates, The Art of Memory;
Bolzoni, The Gallery of Memory; Carruthers, The Book of Memory. 2 The Latin Ars
reminiscendi was published 1602. L’arte del ricordare was purported to be the
Italian translation by a Dorandino Falcone da Gioia, but this was in all
probability a pseudonym for the author himself. Both texts are edited in Della Porta, Ars
Reminiscendi: L’arte di ricordare. For the first English translation of the Italian
version and a well-informed introduction to the text in English, see Della
Porta, The Art of Remembering/L’arte del ricordare. On the differences between
the Italian and the Latin versions, see in that edition Baum, “Writing
Classical Authority”; also Bolzoni, “Retorica, teatro, iconologia, 340, with
footnote 5; Maggi, “Introduction,” in Della Porta, The Art of
Remembering/L’arte del ricordare, 29–30; Balbiani on the fortuna of Della
Porta’s Magia naturalis in La Magia naturalis. Bolzoni, The Gallery of Memory, 175. Valente, “Della
Porta e l’inquisizione.” On which see
Kodera “Giambattista della Porta,” in Stanford Encyclopedia of Philosophy. For
a succinct and highly influential discussion of the medieval technique of the
art, see Rhetorica ad Herennium, ed. and trans. Nüsslein, 164–80 (bk III, §§
28–40, XVI–XXIV); Yates, The Art of Memory, 63–113. On the medieval use of
memory images, Carruthers, The Book of Memory, 59, writes: “Most importantly,
it is ‘affective’ in nature, that is, it is sensorily derived and emotionally
charged.” See also ibid., 109, 134, and 137. Bolzoni, The Gallery of Memory,
130–31. Della Porta, Ars Reminiscendi, 75. See for instance Dolce, Dialogo del
modo, 26–32. As Bolzoni, The Gallery of Memory, p. 137 (with footnote 12) has
pointed out, it is interesting to note that the Ars reminscendi explicitly
warns against the use of medicines or drugs for enhancing the capacitances of
memory, whereas in Della Porta had presented such recipes in his Magia
naturalis. Della Porta, Ars Reminiscendi, 68. On the
notion of phantasmata in Della Porta, see Kodera, “Giovan Battista della
Porta’s Imagination.” Della Porta, Ars
Reminiscendi, 70. See Dolce, Dialogo del modo, 92 and the attendant notes
directing the reader to medieval sources of this method. Della Porta, Ars
Reminiscendi, 70. Dolce, Dialogo del modo, 33–34, for example, does not try to
assimilate the personae to the loci, but instead distinguishes between them.
Della Porta, Ars Reminiscendi, 17. It is interesting to note that Della Porta
does not seem to be picky about terminology, as for him very different
notions—similitudo, idea, forma, simulacrum are synonyms with imago. Ibid., 79.
Galileo loved exactly such character traits in Ariosto’s heroes; cf. Bolzoni,
The Gallery of Memory, 211. Della Porta, Ars Reminiscendi, 17–18. Bolzoni, The
Gallery of Memory, 167 has pointed to the fact that Della Porta is here quoting
almost verbatim from Leon Battista Alberti’s, De pictura, 2. 40, arguing that
“the theatrical tradition becomes a point of reference to the painter who has
to paint an istoria.” For a discussion of the number of loci from a different
contemporary perspective see Dolce, Dialogo del modo, 39–43 with many
references to earlier sources. Bolzoni, The Gallery of Memory, 162–63; Dolce,
Dialogo del modo, 145, footnote 345 with much scholarly literature on the
connections between the art of memory and theater. Kodera, “Bestiality and
Gluttony.” Clubb, “Theatregrams,” has called these variable parts theatergrams.
One possibility is to generate a locus which is then invariably used, because
it is recharged with new imagines that have the capacity to store a new set of
memoranda. Yet if this process of re-inscription of the extant structure proves
impossible, one must destroy the entire setup. In order to do this, many
masters of memory suggested methods that were outright iconoclastic; cf.
Bolzoni, The Gallery of Memory, 142–44. Della Porta, Ars Reminiscendi, 18.
Ibid. Carruthers, The Book of Memory, 131 on the pictorial turn of medieval art
of memory. Della Porta, Ars Reminiscendi, 76. Ibid. Ibid., 17–18.30 This
otherwise puzzling imago seems to be a remnant from a manuscript version of the
Arte del ricordare, which refers as examples for imagines agentes to one of
Boccaccio’s Novellae, on Chichibio, of the Decameron VI, 4 (Della Porta, Ars
Reminiscendi, 77); in that version Della Porta also mentions two more highly
salacious stories from the Decameron (III, 10 and VIII, 7); see Della Porta,
Ars Reminiscendi, 79 and 95; see also Baum, “Writing Classical Authority,” 159.
31 The hero Hercules and the river god Achelous were fighting over Deianeira,
the daughter of Dionysius. During the battle between the two rivals, the
bull-headed river god turned first into a snake and then into a bull, whose
right horn is broken by Hercules; according to one version, Hercules took that
horn down to Tartarus where it was filled by the Hesperides with golden fruit
and is now called Bona Dea (cornucopia). Graves, The Greek Myths, 553–54; Ovid,
Metamorphoses, bk. IX, vv. 1–92. Observe that the cornucopia appears in the
next imago agens. 32 Della Porta, Ars Reminiscendi, 18. 33 This increasing
prurience is a general tendency in Della Porta’s works and is probably due to
the increasingly intolerant intellectual climate characterizing the last
decades of the sixteenth century; on this see Kodera, “Bestiality and
Gluttony,” 86–87 with references. 34 Della Porta, Ars Reminiscendi, 77. 35
Della Porta here had openly referred to the myth, whereas in the Ars
reminiscendi he only alluded to it—namely, by describing the iconography of one
of Titian’s most famous paintings (the persona of a virgin sitting and playing
on a bull and holding a crown over the animal’s head). 36 In the Latin version
the prostitute was substituted with the lover of one’s wife. In the Latin version,
ibid., 22, Leda is completely omitted. 37 The word ucello (bird) denotes penis,
with birds commonly looming large in all kinds of erotic metaphors; on the
semantics of ucellare (the word denoting prostitution, ridicule, and penis) see
Alberti, “Giove ucellato,” 59–64; for similar contexts in Della Porta’s
theater, see Kodera, “Humans as Animals,” 108–09. 38 Compare Schiesari, Beasts
and Beauties, 61–64 for perceptive remarks on the gender bias of Della Porta’s
Physiognomy. 39 Alberti, Della pittura, 122–24 (bk 2, §36) For a discussion of
the relevant passages, see for instance Heffernan, Cultivating Picturacy,
71–73. 40 Bolzoni, The Gallery of Memory, 167. 41 Ovid, Metamorphoses IV, vv
671–675; 112. 42 Apuleius, Metamorphoses: The Golden Ass, Book ii, § 1, 22. 43
See Innes, “Introduction,” 19–24. 44 So does Dolce, Dialogo del modo, 146-47,
mentioning Titian’s Europa and Akataion. 45 Ovid, Ars amatoria libri tres,
26–28, bk. I, v. 289–326, Ovid., Metamorphoses, bk. VIII, v. 134–36; Graves,
The Greek Myths, 293–94. 46 On Europa, see ibid., 194–97. 47 A caricature of
the animation of statues by Egyptian magi, as described by Hermes in the Corpus
Hermeticum, an account which it is well known, and haunted many renaissance
minds; for a commented edition, Copenhaver, Hermetica. 48 A labyrinth, i.e., an
architectural structure designed expressly to get lost in, as opposed to
orderly architectural structures—and also the inversion of the clearly
represented structure of loci in the art of memory. 49 See Kodera, Disreputable Bodies, 275–93 and Della
Porta, De i miracoli, 23–25, bk I, ch. 9. 50 Della Porta, Natural magick, 43,
bk 2, ch. 12. 51 Kodera, “Humans as Animals,” 109–15; Della Porta, Magia
naturalis libri XX, 76, bk II, ch. 12. This passage is an elaboration of Aristotle on
crossbreeding, from De generatione animalium 4.3, 769b. In this case Della
Porta’s credulity is greater than that of many of his educated contemporaries,
who were usually more skeptical about the possibility of producing offspring
through sex between humans and animals. For a very interesting24452 53 54 55 56
57 58 59 60 61 6263 64 65Sergius Koderacontemporary discussion of the topic,
which clearly accentuates the ways in which Della Porta is bending his
evidence, see Varchi, “Della generazione dei Mostri,” 99–106. On this see
MacDonald, “Humanistic Self-Representation,” Kodera, Disreputable Bodies, and
Schiesari, Beasts and Beauties. Della Porta, Ars Reminiscendi, 78–79. Cf.
Apuleius, Metamorphoses lib. X, §§ 19–22. For a succinct introduction to that
text, and relevant secondary literature, see Kenney in Apuleius, Metamorphoses,
ix–xli. Ibid., 84–186; 190–94, bk 10, § 19–23; § 29–35. Apuleius,
Metamorphoseon, bk. 10, § 19, l. 3. See Liliequist, “Peasants against Nature,”
408. On the increasing belief in the real existence of such hybrid animals in
the later Middle Ages, see Salisbury, The Beast Within, 139 and 147. Ovid,
Metamorphoses, bk I, vv. 588–662 and 724–45, Graves, The Greek Myths, 190–92.
Just see the example of the re-transformation: Ovid, Metamorphoses, bk I, vv
737–46, trans. Mary M. Innes, 48. For Lucius’ transformations into an ass and
back again, see Apuleius, Metamorphoses, 52, bk 3, § 25 and ibid., 202–03, bk
11, § 13–14. In that vein of thought, many more things could be said also on
the story of Hercules and the bull-headed river god Achelous (on whom, see
above, endnote 31). The Arte del
ricordare mentions not only association from the same (dal simile, Della Porta,
Ars Reminiscendi, 80 and 81) but also aggiungere, mancare, trasportare, mutare,
partire (ibid., 85) and trasponimento dal contrario (ibid., 95). Kodera, “Giambattista della
Porta,” 8–9 for a short introduction to the idea that all things in the
universal hierarchy of being are moved by the (irrational) forces of attraction
and repulsion they feel for one another. Porta provides an impressive
description of the macrocosmic animal, the male and female aspects of which
mingle in a harmonious and well-coordinated way; cf. Della Porta, Magia
naturalis, bk. 1, ch. 9. Della Porta, Natural magick, 51: “Many children have
hare-lips; and all because their mothers being with child, did look upon a
hare.” For an earlier source see Ficino, De amore, 252. For an introduction to
the history of these seemingly widespread practices and the related artwork
during the Renaissance, see Jacqueline Musacchio, The Art and Ritual of
Childbirth, 128–39. Della Porta,
Natural magick, 53.Bibliography Alberti, Francesca. “Giove ucellato: quand les
métamorphoses sefont extravagantes.” In Extravagances amoureuses. L’amour
au-delà de la norme à la Renaissance. Actes du Colloque international du Groupe de recherche
Cinquecento plurale, Tours, 18–20 Septembre 2008. Edited by Élise Boillet and
Chiara Lastraioli, 41–70. Paris:
Champion, 2010. Alberti, Leon Battista. Della pittura: Über die Malkunst. Edited and translated by
Oskar Bätschmann and Sandra Gianfreda. Darmstadt: Wissenschaftlche
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Helm. Stuttgart: Teubner, Metamorphoses: The Golden Ass. Translated by E.J. Kenney. London: Penguin, 1998.
Balbiani, Laura. La Magia naturalis di Giovan Battista Della Porta: Lingua,
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Miriam Aloisio, 147–61. Ravenna: Longo Editore, 2012.Della Porta’s erotomanic
art of recollectionBolzoni, Lina. The Gallery of Memory: Literary and
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Toronto Press, “Retorica, teatro, iconologia, nell’arte della memoria del Della
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337–85. Naples: Guida Editori, 1990. Carruthers, Mary. The Book of Memory: A
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1990. Clubb, Louise George. “Theatregrams.” In Comparative Critical Approaches
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1590. Yates, Frances A. The Art of Memory. London: Penguin, 1969.13 “O MIE ARTI
FALLACI” Tasso’s saintly women in the Liberata and Conquistata Jane TylusThe
second half of Torquato Tasso’s tormented life was taken up by his epic poem
Gerusalemme liberata and the painstaking revisions he made to it following its
unauthorized publication in 1581. Posterity has canonized the 1581 poem rather
than its more sprawling successor, Gerusalemme conquistata, which Tasso proudly
dedicated to Pope Clement VIII’s nephew when he published it in 1593. Posterity
notwithstanding, Tasso claimed that his “poema riformato” was far superior to
the earlier work largely because of “the much more certain knowledge I now have
of myself as well as of my writings” (“la certa cognizione ch’io ho di me
stesso e de le mie cose”).1 One result of this new certainty seems to have been
if not the eradication of the Liberata’s female characters, at least the
curtailing of their inf luence.2 The enchantress Armida virtually disappears
after Canto 13, lamenting her failures to keep the Christian army’s strongest
knight with her forever, and no longer converting to Christianity as in the
surprising end of the Liberata. The princess of Antioch, Erminia, is denied her
remarkable role in the Liberata as the discoverer and healer of the Christian
knight Tancredi’s wounded body and the revealer of a secret plot against his
captain, Goffredo. Two extraordinary Christian women are completely excised
from the Conquistata: Gildippe, who dies fighting by her husband’s side in the
Liberata’s twentieth canto, and Sofronia, who offered her life to save the
Christian refugee community in a captive Jerusalem, and who, in turn, is saved
by the Muslims’ most celebrated woman warrior, Clorinda. Only Clorinda’s tale
is relatively untouched—with the exception of her rescue of Sofronia. Both the
Liberata and the Conquistata tell of her strident independence and her baptism
into her mother’s Christian faith as she lies dying by the hand of Tancredi,
who has killed what he loved. This essay will not so much catalogue the
Conquistata’s many revisions as attempt to gauge the changing role of the
female body in Tasso’s epic practiceTylusand its relationship to Tasso’s
growing ambivalence about the status of the “arti fallaci” in his poetry—a
phrase, as we will see, that is uttered by the much altered character of
Erminia toward the end of the Conquistata. And even if Clorinda and Armida
continue to stand out in their memorable particularity in the Conquistata, they
are joined by a new host of women who exist largely to create a “dynamic that
is reassuringly familial,” as Claudio Gigante has observed, and who no longer
possess the self-conscious artfulness that characterized female characters in
the Liberata.3 The contrast allows us to see how potentially radical the Tasso
of the Liberata was and at the same time how his transformations of women in
the Conquistata are tied to his reconceptualization of himself as an epic
poet.4 I will elaborate some of these arguments by turning to developments that
led to the Conquistata, necessarily addressing selective incidents within both
poems in order to depict the nature of Tasso’s poetic transformation. One
episode in particular offers itself up for special consideration. It concerns a
female figure in the Liberata who has not attracted much attention, and who, as
mentioned above, is nowhere to be found in the revised poem: Sofronia.5 Willing
to die in exchange for the salvation of her fellow Christians, she is rescued
and subsequently exiled from Jerusalem. The contrast between this stirring
episode in the Liberata and its muted aftermath in the Conquistata could not be
greater, as the following pages will show. At the same time, they attest to
what might be called Tasso’s desire for the organicity of his revised epic, a
poem in which individual characters would be immune from the criticism launched
against Sofronia herself. For according to the Gerusalemme’s first readers, the
episode that centered on her in Canto 2 was “poco connesso” to the Liberata as
a whole.6 This lack of continuity, in turn, has a stylistic echo in the
infamous critique of Tasso’s language as “parlar disgiunto” or disjointed
speech—a disjointedness even Tasso acknowledged when he claimed to have learned
it from Virgil, admitting that it can tempt one to swerve dangerously from the
“truth” in its pursuit of fallacious artistries.7 The path toward wholeness in
the Conquistata thus marks a turn away from Virgil and toward the more
narratively f luid Homer, as readers of Tasso (and Tasso himself ) have readily
ascertained.8 But this path also goes through the body of the female,
inscripted into the Conquistata as bearer of a new epic model of integration
and personal loss. It is a body that the chastened Tasso, in his final critical
writings on his poetic output, may also have recognized as his own. * ** In the early 1680s, the prolific Luca Giordano
executed a series of paintings for a Genovese palazzo recently acquired by the
nobleman Eugenio Durazzo. Among the works Giordano designed for the entryway
into a palace that was on the “must-see” list of every foreign visitor to
Genova, were portraits of the death of Seneca and the Greek hero Perseus. But
his paintings also featured a large canvas depicting an event from the
Liberata’s story of Sofronia, the brave young woman who volunteers to die for her
fellow Christians and who, along with the man who loves her, is saved by
Clorinda. Moved by the taciturn stance of thefemale victim before her, Clorinda
asks Aladino, Jerusalem’s king, to free the two Christians in exchange for her
promise that she will perform great deeds in Jerusalem’s defense, and Giordano
chooses to display this moment in his work9 (Figure 13.1).10 At the same time,
Clorinda’s back is turned, so that the real savior of the two Christians bound
at the stake seems to be a painting of Mary which angels are holding
aloft—suggesting that Giordano’s work may also be about the salvific powers of
art. Mariella Utili has written of Giordano’s intent to throw into relief the
religious aspect of the story: “the exaltation of Christianity, which had been
the basis for the immediate success of Tasso’s poem and which many other
artists before Giordano had noted as well.”11 Yet with respect to the episode
of Sofronia and her would-be lover Olindo, who begs to die with her, such a
remark might seem ironic. For this story provoked almost more than anything
else in the epic the concerns of the poem’s Inquisitorial readers, and in turn
Tasso’s worries aboutFIGURE 13.1Luca Giordano, “Olindo e Sofronia,” Palazzo
Reale gia’ Durazzo (Genova).Photo credit: Zeri Photo Archive, Bologna, inv.
110885.the extent to which its inclusion would threaten the Liberata’s
publication. So much so, that in a telling letter written on April 3, 1576 to
his friend and literary confidant Scipione Gonzaga he writes, “Io ho giá condennato
con irrevocabil sentenza alla morte l’episodio di Sofronia” (“I’ve already
condemned the episode of Sofronia to death, and my decree is absolute”).12
Having barely escaped death at the hands of Jerusalem’s king, Sofronia was
condemned anew by Tasso. The reasons for this condemnation are several, even as
the episode contains within itself a germ of the process that will define
Tasso’s method in the Conquistata. One reason certainly has to do with the
painting which Giordano has f loating in the sky—a touch unaccounted for in the
Liberata itself, but prepared for by the odd narrative Tasso weaves in the
opening of Canto 2. For the catalyst that set off a tyrant’s rage, leading him
to sentence Jerusalem’s Christians to death, is indeed a work of art: an image
of Mary taken from the Christians’ church by the magician and former Christian
Ismeno, who is convinced of its supernatural abilities to protect the walls of
the city against the Crusaders. He places Mary’s picture in a mosque so as to
provide “fatal custodia a queste porte.”13 For reasons on which Tasso coyly
refuses to pronounce—(“O fu di man fedele opra furtiva, / o pur il Ciel qui sua
potenza adopra, / che di Colei ch’è sua regina e diva / sdegna che loco vil
l’imagin copra: / ch’incerta fama è ancor se ciò ascriva / ad arte umana od a
mirabil opra”; “It was either the work of a stealthy hand, or heaven interposed
its potent will, disdaining that the image of its queen be smuggled somewhere
so contemptible” [2: 9]14)—the immagine mysteriously disappears from the mosque
into which Ismeno has smuggled it. Certain that the Christians have contrived
to steal it back, Aladino plots for them universal slaughter, until the
beautiful Sofronia steps forward to take the blame so that her people will not
die, a confession the narrator describes as a “magnanima menzogna,” a
magnanimous lie. In a letter, however, written soon after he released the poem
to an official reading, Tasso seems fearful that the stolen immagine has
invoked the ire not of Aladino but of Silvio Antoniano, the Roman Inquisitor
and official in charge of granting the right of nihil obstat for books
published in Rome. Writing to Luca Scalabrino on a later occasion, he continued
to insist on excising the “episodio di Sofronia”: “perch’io non vorrei dar
occasione a i frati con quella imagine, o con alcune altre cosette che sono in
quell’episodio, di proibire il libro” (“I don’t want to give the friars a
chance to condemn the book because of that image, or because of any other
little things found in the episode”).15 Much of interest has been written of
the status of images in the aftermath of Trent, some of it in regard to the
poem’s second canto. As Naomi Yavneh has pointed out, Trent was preoccupied
with limiting the role that excessive popular devotion played in religious
life, and its stance on images was no exception: it perforce needed to clarify
the extent to which “immagini” were only the simulacri for the things to which
they pointed. As such, the importance of an object in referencing beyond
itself—its deictic function—was accentuated by the orthodox proclamations from
the 1570s and 1580s. One typical characterization of the post-Tridentine image,
although from the Seicento, is offered by the JesuitGiovanni Domenico
Ottonelli. He suggests that in gazing at a painting, “which represents
something other than the thing which it resembles, and from which it takes its
name” (“che rappresenta un’altra cosa, di cui tiene la simiglianza, e prende il
nome”), one must recognize that “while the image renders visible what is
invisible, the image is only worthy of honor by virtue of resemblance, not
substance.”16 Moreover, as Yavneh goes on to point out, in the episode from
Tasso’s Liberata, the transformation of the painting of Mary into a thing of
“substance”— i.e., it alone can save Jerusalem from harm—is initiated by the
renegade Christian, Ismeno, unable to leave his former religion completely
behind him (“Questi or Macone adora, e fu cristiano, / ma i primi riti anco
lasciar non pote; / anzi, in uso empio e profano / confonde le due leggi a se’
mal note”; “He adores Mohammed, as once he adored Christ, but cannot now
abandon the first way, so often to profane and evil use confounds the two
religions out of ignorance” [2: 2]). It is Ismeno who recommends that Aladino
place “questa effigie lor” of Mary, “diva e madre” or goddess and mother of the
Christian’s god (2: 5) into the mosque because of its talismanic status—an
idolatrous reading in which the Christians, who leave their offerings before
the “simulacro” do not, apparently, concur.17 One can only speculate as to what
about the “immagine” in Canto 2 might have angered Tasso’s inquisitorial
reader; the letter from Antoniano detailing his objections to the Liberata does
not survive. But it is striking that another vergine, Sofronia, proclaims for
herself the protective status Ismeno gave to the immagine of Maria. Her
sacrifice thus effects a substitution originally engineered by the apostate.
She too adopts the language of female uniqueness when boldly stating to the
king Aladino her “crime”: “sol di me stessa, sol consigliera, sol essecutrice”
(“I was the only one [who knew of it], one counselor, one executor alone”; 2:
23). When Olindo challenges Sofronia’s magnanimous lie, arguing that a mere
woman would be unable to carry out the theft, she insists again on her
autonomy: “Ho petto anch’io, ch’ad una morte crede / di bastar solo, e
compagnia non chiede” (“I too have a heart, confident it can die but once. It
does not ask for company”; 2: 30). But Tasso links her in other ways to the
Madonna that Ismeno made into a singularly potent object. As commentators have
noticed, Tasso compares her to the stolen image when her veil and mantle are
roughly taken from her when she is led to the stake.18 Just as Mary’s image,
“enveloped in a slender shroud” (“in un velo avolto”; 2: 5) was seized
(“rapito”) by Ismeno, so are Sofronia’s veil and mantle seized from her
(“rapit[i] a lei [Sofronia] il velo e ’l casto manto”; 2: 26). And an allusion
to Mary’s face (“il volto di lei”) returns with “smarrisce il bel volto in un
colore / che non è pallidezza, ma candore” (“the lovely rose of [Sofronia’s]
face is lost in white which is not pallor, but a glowing light”; 2: 26). And
yet the resonances between Sofronia and an inimitable female figure do not end
here. Giampiero Giampieri has noted that the white coloring of Sofronia at the
stake is echoed eleven cantos later when Clorinda, the third vergine of the
canto, dies at Tancredi’s hands. This pale demeanor at death’s arrival in turn
has its haunting origins in the phrase accompanying the suicides of
Virgil’smost prominent female character, Dido, and the historical figure on
whom she is partially modelled, Cleopatra. These intertextual allusions thus
trace an unsettling historical trajectory, insofar as far from being “vergini,”
unlike their Tassian counterparts, both women are known for their sensuality
and, in Dido’s case, unrequited passion. At the same time, Clorinda, like
Sofronia, occupies the role enjoyed by Dido and Cleopatra before romantic
liaisons led them astray. They are all the singular, female supports of their
people. When Islam’s powerful woman warrior enters Jerusalem in Canto 2,
Clorinda is defined as the self-sufficient savior of a people that Sofronia
and—according to Ismeno—the immagine of Mary have been before her. In greeting
Clorinda, Aladino bestows on her the signal distinction of the warrior who
alone can protect the city (“non, s’essercito grande unito insieme / fosse in
mio scampo, avrei più certa speme”: “though a whole host should come to rescue
me, I would not hope with greater certainty”; 2: 47). Not only does he concede
to her his scepter (“lo scettro”) but he adds, “legge sia quel che comandi”
(“let the law be what you command”; 2: 48), an honor that prompts Clorinda to
ask for her reward in advance: the release of the two Christians.19 Even as
Clorinda will exact bloody penalties on the Christians who attack the city to
which she pledges her protection, this fantasy of female potency that begins in
Canto 2 will be eclipsed outside Jerusalem’s walls when Clorinda is killed by
Tancredi: Meanwhile they whispered of the bitter chance behind the city wall
confusedly till finally they learned the truth. At once through the whole town
the bad news made its way mingled with cries and womanly laments, as desperate
as if the enemy had taken the town in battle and f lew to raze houses and
temples and set the ruins ablaze. Confusamente
si bisbiglia intanto del caso reo ne la rinchiusa terra. Poi s’accerta e divulga,
e in ogni canto de la città smarrita il romor erra misto di gridi e di femineo
pianto; non altramente che se presa in guerra tutta ruini, e ’l foco e i nemici
empi volino per le case e per li tèmpi. (12: 100) The defeat of a city in wartime evoked in
this moving simile is the fate that Ismeno believes Jerusalem will avoid if
Mary’s image is placed in the mosque; that Sofronia believes her people will
avoid if she dies at the stake; and thatAladino believes his kingdom will avoid
if Clorinda agrees to defend his city. And the moment, of course, looks
backward again to Virgil, and to the demise of another city, Carthage, upon the
death of another singular woman. “The palace rings with lamentations, with
sobbing and women’s shrieks, and heaven echoes with loud wails—even as though
all Carthage or ancient Tyre were falling before the inrushing foe, and fierce
f lames were rolling on over the roofs of men, over the roofs of gods” (IV:
667–71).20 The “città smarrita,” the urbs in ruin: in both Aeneid 4 and the
Liberata, the figurative collapse of the city, portrayed in a simile that
reveals the grim devastations of war, is tied to the death of a woman
characterized as savior. And in both cases, the two cities of these respective
poems will be invaded by the enemy—one during the Punic Wars that are only
predicted in the Aeneid, the other in Canto 20 of the Liberata. At the same
time, the simile of Canto 12 following Clorinda’s death can be said to silence
the diabolical suggestion that women’s bodies might be sufficient protection
for Jerusalem’s community; or in rhetorical terms, that the female body stands
in an analogical relationship to the city and can procure its health.
Sofronia’s self less action in Canto 2 procures temporary salvation for the
Christians. But genuine salvation arrives only eighteen cantos later, when
Goffredo’s troops invade Jerusalem and secure it for its “rightful” owners. In
the meantime, Sofronia, like the Madonna’s image, has been withdrawn forever
from the poem. Following her rescue by Clorinda, she does not refuse Olindo her
hand in marriage, and with him and others “di forte corpo e di feroce ingegno”
(whose bodies are robust and spirits bold; 2: 55) she is banished, so fearful
is Aladino of having so much virtue nearby (“tanta virtù congiunta
. . . vicina”; 2: 54). Some of the banished wandered aimlessly
(“Molti n’andaro errando”; 2: 55) while others traveled to Emmaus where
Goffredo’s troops are gathered. Of Sofronia and Olindo, however, no more is
heard. All Tasso divulges of their fate is that they both went into exile
beyond the bounds of Palestine (2: 54). Such a finale to Sofronia’s sacrificial
offering ensures—intentionally, it would seem— that the episode is indeed “poco
connesso” to the rest of the poem. Inserted into the beginning of the Liberata,
the story of Sofronia operates as a virtually self-contained unit, ending with
its main protagonist banished from Jerusalem. That the episode can be said to
trace Tasso’s ambivalences regarding “tanta virtù congiunta” in not one, but
three, female characters, is suggested by both Sofronia’s and the immagine’s
summary dispatch from the poem—as though to insist on the heretical nature of
Ismeno’s view of the painting, and the women’s views of themselves, as
sufficient to protect a city.21 But there may be another link between the
exiled women and the immagine. The latter is both more and less than an icon:
it is a work of art, in ways which the woman themselves may replicate. Much of
the threat represented by Sofronia has to do with her inscrutability, which
mirrors the unknowability of the immagine’s fate and of the painting itself.
Moved by generosity and “fortezza,” Sofronia exits alone among the people (“tra
’l vulgo”) after Aladino orders the Christians’ houses burned. But as she
journeys publicly to meet the king, Tassointroduces some seemingly gratuitous
phrases: she neither “covers up her beauty, nor displays it,” and “Non sai ben
dir s’adorna o se negletta, / se caso od arte il bel volto compose” (“If chance
or art has touched her lovely face, if she neglects or adorns herself, who
knows”; 2: 18). Similarly, she is described in relationship to the young
Olindo, who has loved her desperately from afar, as either “o lo sprezza, o no
‘l vede, o non s’avede” (“she scorns him, or does not see him, or takes no
note”; 2: 16), and of her considerable beauty, she “non cura, / o tanto sol
quant’onesta’ se ’n fregi” (“cares not for it, or only as much as required by
honor’s sake”; 2: 14). Even as Tasso depicts her as a “virgin of sublime and
noble thoughts” (“vergine d’alti pensieri e regi”), he wastes no time in adding
that she is also “d’alta beltà” (2: 14), suggesting that we do not know whether
Sofronia is aware of her beauty’s effect on her admirers. In short, she is the
product of an artfulness that at once belies her sincerity and renders her
inaccessibility to public scrutiny even more pronounced. Indeed, Sofronia is
impugned throughout Canto 2 in various ways that can only force the reader to
suspect if not her motive—which emerges following her struggle to balance
masculine virility or “fortezza” and female modesty (“vergogna”)22—then at
least her self-presentation in a public space. And because she is a woman,
“amore” emerges as the vehicle through which her integrity can be compromised.
Or as Tasso says in introducing Olindo and in returning to the language used
only several stanzas before of the chaste image of Mary and its supposed
ability to provide “fatal custodia” to the gates of Jerusalem: “tu [amor] per
mille custodie entro a i più casti/ verginei alberghi il guardo altrui
portasti” (“although a thousand sentinels are placed, you [Love] lead men’s
glances into the most chaste of dwellings”; 2: 15). The uncertain status of
Sofronia’s agency and her inability to control the reception of her offer are
highlighted again after the king, furious over her assertions that she was
right to steal the image, orders her to be burned: “e ’ndarno Amor contr’a lo
sdegno crudo / di sua vaga bellezza a lei fa scudo” (“too slight a shield is
womanly grace for Love to f ling against the crude resentment of the king”; 2:
25): as though she—or Love working through her—might cunningly be able to
soften the tyrant in his resolve. The manner in which Sofronia is tied to the
stake—her veil and “casto manto” stripped violently from her and used to tie
“le molli braccia” (2: 26)—and the ensuing appearance of Olindo beside her,
“tergo al tergo,” heighten the barely suffused sensuality of the preceding
stanzas in which Sofronia’s ambiguously constructed femininity has been a muted
but persistent theme. “O caso od arte.” This is the phrase that threatens to
turn Sofronia into the seductress Armida, who appears two cantos later at the
threshold of the Christians’ camp to lure the Crusaders away from war. Sofronia
is no Armida. Yet in depicting Sofronia’s inner conf lict between “fortezza”
and “vergogna,” while refusing to declare the extent of Sofronia’s artful
self-consciousness, Tasso highlights the problems that emerge when a woman
thrusts herself into the public gaze.23 The questioning presence of male
spectators, a group into which Tasso inserts the (male) reader by way of the
narrator’s interventions, ultimately pointsto the inability of Sofronia—and by
extension, of the immagine of Mary and of Clorinda, who has already unknowingly
inspired the passion of the Christian knight Tancredi—to control the effects of
her self-presentation. Like the Didos and Cleopatras before her, she is unable
to escape from the controlling system of gender that makes her into the object
gazed upon and fantasized about as though she were a work of art. At the same
time, what prevents Sofronia from becoming a martyr and hence giving her life
for her people is another woman, Clorinda: who at first appears to the populous
as a male warrior (“Ecco un guerriero [ché tal parea]”) but who is betrayed as
a woman by her insignia, the tiger. When Clorinda enters into the crowded
piazza where the two Christians are tied to the stake, she notes Olindo weeping
“as a man weighed down with sorrow, not pain” (“in guisa d’uom cui preme /
pietà, non doglia)” while Sofronia is silent, “con gli occhi al ciel si fisa /
ch’anzi ‘l morir par di qua giù divisa” (“her eyes so fixed on heaven that she
seems to be leaving this world before she dies”; 2: 42). Clordina’s response to
this sight—a Clorinda raised in the woods and led to disdain female pastimes
such as sewing and embroidery—is extraordinary: “Clorinda intenerissi, e si
condoles / d’ambeduo loro e lagrimonne alquanto” (“Clorinda’s heart grew tender
at this sight; she grieved with them, and tears welled up in her eyes”; 2: 43).
Such tenderness leads her to ask for the two Christians as a gift in advance of
her promised salvation of the city: a salvation, as we will soon know, she can
never achieve. Her pity for a woman like herself—at once self-contained and yet
vulnerable to others’ fantasies about her sexuality—breaks through the
religious and ethnic differences on which the Liberata as a whole depends, and
arguably questions for Muslims and Christians alike the very premise of the
war. Clorinda will be revealed later in the poem as the daughter of a Christian
mother, and in retrospect one might see her recognition of herself in Sofronia
as a premonition of her true identity. Yet, at this early point in the poem,
her alignment of herself with Sofronia, along with Tasso’s allusions to
Virgil’s fateful women, creates a potentially scandalous community of women
whose unpredictable and often unreadable actions threaten to undo the
transcendental militarism on which the poem is based. The crisis of the
immagine, in Ismeno’s feverish recasting of its significance, is like that of
the women who are endlessly substituted for it: complete within itself, it has
no deictic function, failing to refer beyond itself to heavenly powers.
Sofronia, too, points only to herself (“Sol essecutrice”), a presumed
self-sufficiency that Tasso’s narrator translates into inaccessibility. It
creates for Sofronia the same unknowable status of the stolen painting, and an
unknowability Clorinda can only admire, and in which she similarly partakes.
Tasso’s simile of the city that dissolves into f lames upon Clorinda’s death
ten cantos later is thus ultimately a failed simile. That he will go on to
banish all of his Christian women from the end of the Liberata suggests both
his attempt to contain the threat represented by the female figures of Canto 2
and his inability to integrate Christian and Muslim women alike into the
culminating events of the poem. Clorinda and Gildippe are dead, Erminia is in
an “albergo” somewherewithin the city, Armida utters words of conversion but
only on Jerusalem’s outskirts, and Sofronia has disappeared forever. To be
sure, on the one hand, Tasso’s poem generally refuses to allow any character to
stand in for the whole and thus represent the city, earthly or celestial, by
him or herself, as the belated “Allegoria del Poema” attests and as numerous
episodes involving Rinaldo and Goffredo suggest.24 In an early letter, Tasso
protests the custom of romance that allows single characters to decide the fate
of entire empires: “non ricevo affatto nel mio poema quell’eccesso di bravura
che ricevono i romanzi; cioè, che alcuno sia tanto superiore a tutti gli altri,
che possa sostenere solo un campo” (“In my poem, I don’t allow that excess of
bravura that the romance welcomes, in which one figure emerges as greater than
all the others, capable of defending the battlefield all by himself ”).25 To
this extent, transforming the painting of Mary or the body of Clorinda into singularly
protective forces copies the excess of romanzi which Tasso claims to avoid.
Only the uniting of Goffredo’s “compagni erranti” or wandering companions under
“i santi segni” can win for the Christians their city (1:1). The liberation of
Jerusalem is the work not of women, but of men; and not of a single man, but
many. On the other hand, unlike Goffredo or Rinaldo, these “virtuous” women do
indeed disappear from the poem, suffering the fate of the “poco connesso” and
summarily excluded from the larger body into which Tasso incorporates his men
in the “Allegoria.”26 Yet is such exclusion ultimately a penalty? While at work
on the Liberata, Tasso was penning his brief pastoral play, the Aminta, where
he experiments with the inaccessibility of a vergine in the figure of Silvia,
whose own near-violation while tied to a tree is reminiscent, even in its
phrasing, of Sofronia’s violent torture. The Liberata’s “Già ’l velo e ’l casto
manto a lei rapito, / stringon le molli braccia aspre ritorte” (“they tear
away her veil and her modest cloak, bind hard her tender hands behind the
back”; 2.26) echoes Silvia’s victimization at the Satyr’s hands.27 But the
exposure of Silvia’s and Sofronia’s bodies is in turn contrasted with the
degree to which they refuse to be contaminated by the violence that surrounds
them even as they are vulnerable to varying interpretations of their sincerity.
The fact that following their rescues neither female character is seen again
suggests an additional layer of inscrutability, as though Tasso chose to
protect the privacy of his vergini from those who would compromise their
virtue.28 Perhaps only in a world where epic values— the seizing of Jerusalem
from the renegade Ismeno and the infidel Turks—are unequivocally positive can
Sofronia’s premature departure be construed as a loss, rather than a gain. The
phrase used with respect to the mosque from which Mary’s image is taken—“a vile
place heaven holds in disdain”—might stand in for the contaminated city as a
whole that Sofronia inhabits with other embattled Christians. Tasso’s own
narrative gesture with regard to all women of “fortezza,” Clorinda included,
saves them from the bitter militarism that informs the second half of his poem,
preserving for them a space offstage—or above it. But Tasso continued to ponder
the ideal relationship of the female body to his epic project, one which would
rely on integration rather than separation. Such integration demanded a very
different kind of poem from the Liberata, whoseMuslim male warriors, if not its
women, are diabolical figures from whom the city must be wrested. The
Conquistata has typically been glossed as a work that celebrates the
Counter-Reformation Church in all its militancy. But attentiveness to the new
women of the revised poem, beginning with a lamenting Mary who has stepped out
of the painting to become a character, may suggest otherwise.29 * ** Death appears in the Conquistata’s opening
stanza, where the triumphant prolepsis of “compagni erranti” joining together
under “santi segni” no longer exists, and where the explicit allusions to the
failures of hell, Asia, and Africa to defeat the Crusaders is replaced by a
description of how Goffredo’s military feats “di morti ingombrò le valli e ’l
piano, / e correr fece il mar di sangue misto” (“filled the plains and valleys
with the dead, and made the sea run red with blood”). With death, there is
mourning—and a world, as Tasso will call it late in the poem, of “femineo
pianto” female lament (23:117). And the first evidence of female mourning that
we see in Tasso’s “poema riformato” is that of the Virgin Mary, who makes a
surprising cameo appearance at precisely the moment occupied in the Liberata by
the episode with Sofronia. Threatened, as before, by the impending arrival of
Crusaders, Aladino decides that the Christian community within the walls poses
a danger, and in his rage swears to put them all to death. A stolen painting no
longer exists to provoke his anger, but almost immediately the subject of that
painting appears, as Tasso’s narrator redirects our gaze from the cowering
Christian citizens of Jerusalem to heaven, in two entirely new stanzas: Holy
Compassion, you did not keep your thoughts hidden to yourself, as you gazed
down from the celestial and sacred realm onto the site where the King had lain
buried, and at his faithful f lock. Thus: “Lord,” you cried, “help, help—for
now I alone am not sufficient to save their lives.” Upon seeing those moist
eyes—the eyes that had wept for her Son who died on the cross—the Father said,
“now let me turn my attention to their fear” . . . and the savage man
[Aladino] tempers his insane rage. Non
fu ’l pensier, santa Pietate, occulto a te ne la celeste e sacra reggia, donde
guardavi il luogo in cui sepulto il Re si giacque, e la fedel sua greggia.
Pero’: – Signor, gridasti, aita, aita, ch’io non basto a salvarli omai la vita.
Vedendo il Padre rugiadosi gli occhi di lei che pianse in croce estinto il
Figlio, – Vo’ – disse – ch’al Timor la cura or tocchi – . . . . [e] Tempra dunque il crudel
la rabbia insana. (2: 11–13) 30Thanks to this heavenly intervention that
happens in the blink of an eye (“ad un girar di ciglio”), Aladino will “temper
his rage” by burning the fields where the Crusaders might have found food and
by exiling, rather than killing, the faithful—excepting “le vergini”—from
Jerusalem, who depart in tears (“gemendo in lagrimosi lutti”; 2: 53). But their
laments will not endure for long. When they come upon the Crusaders in their
camp, they offer their services to Goffredo and participate, presumably, in the
final attack on their former city in the closing cantos of the new poem. As in
Canto 2 of the Liberata, we have a threatened community, and once again Mary
figures in its protection. But for those familiar with the Liberata, this episode
in the Conquistata’s second canto represents a loss rather than a gain, albeit
a puzzling loss. Having omitted the episode of Sofronia that apparently, he,
and many of his first readers, found so troubling, Tasso leaves us with the
mere shadow of the women who once occupied the status, rightly or wrongly, of
Jerusalem’s saviors: a mourning mother. When Mary calls upon God to temper
Aladino’s wrath, she is gazing at a tomb: “il luogo in cui sepulto/ il Re si
giacque.” Jerusalem is a place of death, both past and imminent, and Mary is
not celebrating her son’s resurrection, but weeping for his demise on the
cross. Her grief is rehearsed again in the following canto in stanzas also new
to the Conquistata, where it will be shared by other mothers—many of them
Muslim. On tapestries which Goffredo shows the two ambassadors who have arrived
from the enemy’s forces—one of them, Argante, “intrepid warrior” (“intrepido
guerriero”; 2: 91)—is the thunderous defeat of Antioch, which the Christians
have just taken. Tasso lingers not over the victorious assault on the city but
on the artist’s attentiveness to women’s loss as they watch their sons die
below them: talented artist, you made the faces of their mothers’ pallid and
pale, for life no longer was welcome to them. From above each one gazed at her
dead child, who lay on the earth by enemies oppressed, his head affixed to the
enemy lance; and tears bathed their dry cheeks. And so he created great variety among these images of
grief . . . con viso vi [il maestro accorto] feo pallido e smorto le
madri, a cui la vita allor dispiacque. D’alto mirò ciascuna il figlio or morto
che tra nemici oppresso in terra giacque, e’l capo affisso a la nemica lancia;
e di pianto rigò l’arida guancia. E variò le imagini dolente . . . (3: 48–9)
The resulting “istoria” tells of a “Città presa, notturno orror, tumulto, /
ruine, incendi e peste”, to which the artist adds “Fuga, terror, lutto, e mal
fido scampo / . . . . e correr feo di sangue il campo” (“A city
seized, nocturnal horrors, tumult, ruin, firesand plague . . .
flight, terror, grief, and luckless escape, and he made the field run with
blood”; 50). Argante, the Christians’ enemy, is gazing on these images, and one
could argue that his perspective inf lects the presentation of the tapestries,
much as Aeneas’s grief in Book 1 colors his reception of the carvings in
Carthage that detail the fall of Troy. Yet, elsewhere in the descriptions, we
hear of the “pious Goffredo,” the “good Beomondo,” the “great Riccardo.”
Moreover, the direct apostrophes to the Christian reader (“Italici e Germani
uscir diresti . . .” [2: 17]) suggest that it is Tasso’s narrator—and
Tasso himself—who lingers over the mournful details. In fact, the singular
concentration on the Conquistata’s women as vehicles of lament suggests that
Tasso is far from making their response to loss yet another diabolically tinged
inspiration. Riccardo, formerly the warrior Rinaldo, now also has a mother, who
like Thetis, emerges from sea-depths to comfort her son when his friend Rupert
dies. The prayers of Riccardo in turn are carried by heaven to a female figure
who with tearful face (“con lagrimoso volto” 21: 74) asks God, as did Mary much
earlier, to bring aid by turning “your pitying face to my warrior” (“al mio
guerrier pietoso ’l ciglio”; 72). But as the scenes of the tapestry suggest,
women’s presence as mourners is most visible in the sections devoted to
Argante, scourge of the Christians, and in the Conquistata clearly meant to be
a double for Hector from Homer’s Iliad. To strengthen this parallel with the
Homeric poem, Tasso had to give Argante a wife to protest his going out into
battle as Andromache did with Hector, and a mother—and a Helen—who will mourn
him when he dies.31 In the Liberata, this “intrepido guerriero” was killed by
Tancredi after a bloody duel outside Jerusalem’s walls. The wandering Erminia,
in love with Tancredi, literally stumbles over the bodies when she is escorting
the spy Vafrino back to the Christians’ camp, and restores Tancredi to health
with pious prayers and herbal medicines. Argante is summarily ignored by the
pair until Tancredi insists that they carry his bloody corpse with them to
Jerusalem: “non si frodi / o de la sepoltura o de le lodi” (do not deprive him
of burial or of praise; 19: 116). But we hear no eulogies, nor do we witness
Argante’s burial, and he is as arguably isolated in death as in life. The
Argante of the Conquistata receives a very different fate after he dies at
Tancredi’s hands. His body is given to the women of Jerusalem, who eulogize him
at the close of Canto 23 as husband, father, and son, as well as fierce
protector of his city. This last role is given explicitly to him by Erminia,
rechristened Nicea in the Conquistata, who laments her inabilities to save him
in the plaintive cry “O arti mie fallaci, o falsa spene! / A cui piú l’erbe
omai raccoglio e porto / da l’ime valli e da l’inculte arene? / Non ti spero
veder mai piú resorto, / per mia pietosa cura” (“O my fallacious arts, o my
false hope! What use now the herbs that I gather and carry from the dark
valleys and the hidden sands? I no longer hope to see you risen, saved by my
compassionate healing”; 23:126). The woman who in the Liberata had collected
medicinal herbs for her beloved Tancredi, and who is addressed by him as
“medica mia pietosa” after she saves him from death, here reproaches herself
for having failed to rescue Tancredi’s enemy Argante. Ifshe saved Tancredi and
Goffredo—and the Christian cause—in the Liberata, here she can confess only her
failed arts, and in the context of prophetically imagining a future of grief
and destruction in the wake of Argante’s death: “Sola io non sono al mio dolor;
ma sola / veggio, dopo la prima, altre ruine, / altri incendi, altre morti: e
grave e stanca, / quest’alma al nuovo duol languisce e manca” (“I’m not alone
in my grief, but I alone can see after this first destruction, more ruin, more
fiery blazes, more deaths; and tired and heavy, this soul will languish and
expire, sickened by new sorrows”; 127).32 These three weeping women—mother,
wife, and friend whose arts cannot save a dead man—integrate Argante not only
into the life of the city and the family, but into the future, as the women who
survive him imagine their fates as vividly as the female survivors of Hector in
the Iliad imagine theirs. Or as Argante’s wife, Lugeria, laments, “Ne la tenera
etate è il figlio ancora, / che generammo al lagrimoso duolo, / tu ed io
infelici . . . / non vedrá gli anni in cui virtù s’onora, / Né la
fama tua” (“Our son whom you and I—unhappy— conceived only for tearful sorrow
is still in his tender years . . . he will see the years in which
virtue is bestowed on him, nor will he know your fame” (23:119). For herself,
she can envision only “foreign shores” (“lidi estrani”) and service in the
entourage of some proud, Christian lord. The lines closely follow those of
Andromache in the Iliad, much as the lament of Argante’s mother (“Difendesti la
patria, e palme e fregi / n’avesti, or n’hai trafitto il viso e ’l petto”; “You
defended our country, and had honors and laurels; now your face and breast are
pierced [by a lance]”) repeats that of Hecuba in Iliad 24. Thus just as in the
Iliad, as Sheila Murnaghan has written, female lament has the function of tying
the hero back into his community, while making it clear that the hero’s kleos
or fame is achieved at women’s expense.33 Such a constitution of a larger, more
sorrowful, poem can be allied in turn with Tasso’s new relationship to epic.
Even for a poet as relentlessly psychoanalyzed as Tasso, the creation in the
Conquistata of the familial contexts that Tasso may have longed for after the
death of his mother, never knew, may come as a surprise.34 Tasso’s redefinition
of the epic poet in his unfinished Giudizio del poema riformato, the last of
his critical works, may instead have been in response to those readers of the
pirated Liberata who complained about the inauthenticity of some of the
characters’ emotions that drove the poem. In particular, he argues forcefully
in the Giudizio for the new sentiment he seeks to generate throughout the
Conquistata: pity, or “la commiserazione e de la purgazione de gli affetti”
(“commiseration and purgation of its effects”; 165). With respect to Argante,
whom he explicitly declares to have now fashioned as “most similar to Hector”
(“similissimo ad Ettore”), he comments, where Argante earlier was not wretched,
now he’s completely so, because he’s been changed from a foreign and mercenary
soldier into the son of a king and a Christian queen, and has become the natural
prince of the city: defending his father, loving his wife, and constant in his
defense and in hisfaith; and so that pity that is denied him by [Christian] law
can be granted out of natural and human sentiment. dove la persona d’Argante
prima [nella Liberata] non era miserabile, ora è divenuta miserabilissima,
perché di soldato straniero e mercenario è divenuto figliuolo di re e di regina
cristiana e principe natural di quella città, difensor del padre, amator de la
moglie e costante ne la difesa e ne la fede; e però quella pietà che si niega a
la legge si può concedere a la natura ed a l’umanità. (164) Arguing against the
likes of Dion Crisostomos who complained about the scenes of mourning in Homer
(“Defunctum vero memoria honorate non lachrymis” [“the memory of the dead are
not honored by tears”]), Tasso strives for a poetics “that is more humane and
more appropriate to civil life” (“piú umana e piú accommodata a la vita
civile”), resisting not only Dion but Plato and the Pythagoreans as “too rigid
and severe” (“troppo rigida e severa”). Taking sides with that “most excellent
Aristotle,” Tasso argues for a poetry that will motivate the sentiment of
compassion “even for the enemy” (“ancora da’ nemici”; 178), and hence for the
creation of a human community in which one takes stock not so much of differing
religious beliefs, but of the parallels that make all humankind members of a
single family. Thus, for example, the king Solimano is to be considered not as
the emperor of the Turks, but as a valorous prince and father of a valorous and
compassionate son. . . . If
they were deprived of the theological virtues, they did not lack natural
virtue, nor those bred by custom. non come imperator de’ Turchi, ma come
principe valoroso e padre di valoroso e di pietoso figliuolo . . .
quantunque fosser privi de le virtú teologiche, non erano senza le virtú
naturali e quelle di costume. (177) As a result, as Alain Goddard has observed, Solimano and Argante
both now fail to embody “a code of values opposed to that of strict Catholic
orthodoxy” (“un code de valeurs opposé à celui de la stricte orthodoxie
catholique”)35 —a failure that unleashes “a tide of ambivalence” despite the
ideological claims made throughout for Catholicism’s supremacy. And the figures
who help to generate such ambivalence and, in particular, compassion for those
with “natural virtues” are largely Tasso’s women, as the Conquistata shapes not
only a new definition of masculinity but a new role for its women.36 Tasso’s
early readers may have challenged the authenticity of Armida’s conversion, the
“saintliness” of Sofronia, the status of the missing “immagine,” and the
rationale for Erminia’s midnight foray into the Christian camp, and her
supposed self lessness when ministering to a wounded Tancredi.37 The Conquistata
seems dedicated rather to making female behavior transparent and unquestionably
sincere, a sincerity that Erminia/Nicea’s rebuke of her “artifallaci” confirms.
The ubiquitous female mourner, for whom Mary is paradigmatic, embodies the
essence of non -theatricality, conveying a spiritual intensity which Tasso
himself longed to experience as clear from his late canzone to the Virgin,
“Stava appresso la Croce,” in which he asks Mary to become the guarantor of his
own prayerful sincerity: “Fa ch’io del tuo dolor / senta nel cor la forza”
(“Grant that I may sense in my own heart the power of your grief ”), and later
in the poem, “Fa ch’l duol sia verace / e ’l mio pianto sia vero” (“Enable my
grief to be authentic, my lament sincere”).38 If—with the exception of
Clorinda—there was no place for this expression of commiseration in the
Liberata, fixated as it was on the triumphant attaining of the city, the
Conquistata ensures with its weeping mothers and, on occasion, fathers and
friends, that we see Jerusalem’s conquest as mixed a blessing as was the defeat
of Troy. If the body recognized in the Liberata’s “Allegoria” is an exclusively
militaristic one, the corpus of the Conquistata is familial, in which men are
humanized, perhaps feminized, through their claims to having mothers, wives, or
children. In the meantime, Erminia’s pious arts of healing, Sofronia’s daring
sacrifice, and the immagine itself—aspects of feminine “artistry” not easily
assimilable to this model—are gone. * ** One final glance at Luca Giordano’s painting
may help to clarify the trajectory I have attempted to chart throughout this
essay. The interesting detail of Mary’s image, lifted high above the scene of
impending death, can be said to resolve for Genova’s Counter-Reformation audience
the identity of the “thief ” which Tasso had left in abeyance. Clearly the
“mano” that perpetrated the theft was that of the queen of Heaven herself, who
forcibly intervenes when her image is placed in a mosque, and who exhibits her
power by rescuing not only her “immagine” but the brave Sofronia. Giordano
restores Mary’s protective immagine, letting us “see” it for the first time as
he rescues Mary herself from oblivion in a work that makes the exaltation of
Christianity derive from her comforting presence. To this extent, the painting
confirms the overtly Catholic structure on which the Conquistata insisted. But
it does so by countering the very notion, emphasized by Mary herself in the
Conquistata’s new second canto, that she is “not enough now to save their
lives” (“io non basto a salvarli omai la vita”). Perhaps the key word in the
passage is “omai”: now, as opposed to some earlier time when Mary presumably
was sufficient. Reading backward from Mary’s phrase in Canto 2 of the
Conquistata, one emerges with a nostalgic vision of female sanctity which the
Liberata never intended to confirm; but a vision which for Tasso may have
resided in a not-so-distant past before Trent, found in a work such as the
Divina commedia, in which the Virgin has power to do more than weep. Her
compassion can be said to have generated an entire poem, and it is thanks to
her example that Beatrice is able to say to Virgil in Inferno 2, “amor mi
mosse” (“love moved me and made me speak”). Giordano’s late seventeenthcentury
painting willfully misreads the Liberata, as it envisions a world in which Mary
can glowingly transmit her power to the two central women of Canto 2in the form
of light radiating from her painting. The work of art thus comes to possess a
divine, unambiguously protective status such as a renegade Christian, the
wizard Ismeno, would confer on it—even if Tasso himself would not. 39 This was
a world that never did exist in the Liberata. But that may finally be beside
the point. Yet as Tasso tried to create a poem “senza arti fallacy,” newly
directed toward the compassionate involvement of all its personaggi, Muslims
and Christians alike, in the family of the “vita civile,” Mary and the women
like her enable a different kind of salvation, albeit of a less dramatic kind.
If threats of “parlar disgiunto” and episodic discontinuity hang over the
Liberata; if the three women of Canto 2 both embodied and actualized these
threats, once we arrive at the inclusive poem that is the Conquistata, the
lonely isolation of heroic difference is no longer a danger. And as a result,
there are no more female heroes.40Notes 1 Tasso, Lettere, ed. Guasti, 5: 72;
the letter is from July 1591, when he had almost completed the Conquistata. 2
For a summary of how female characters change in the Conquistata, see Goddard,
“Du ‘capitano’ au ‘cavalier sovrano,’” 236–38. Also of interest is Picco, “Or
s’indora ed or verdeggia.” 3 See Gigante’s introduction to Tasso’s Giudicio
sovra la Gerusalemme riformata, xlviii, as well as his discussion of the
Giudicio and Conquistata in Tasso, chapter 13. 4 That the female figures of the
Liberata are intriguing mirrors for Tasso himself is not a new argument;
particularly in the wake of a feminist criticism that has focused on Armida and
Clorinda. In some cases, such as Stephens’ article on Erminia (“Trickster,
Textor, Architect, Thief ” or Miguel’s “Tasso’s Erminia,” 62–75, a female
character’s narrative and artistic capabilities are put forth as convincing
evidence for self-portraits of the author/artist. 5 For two recent studies
devoted to the episode of Sofronia, Giamperi, Il battesimo di Clorinda and
Yavneh, “Dal rogo alle nozze,” 270–94; also see the few pages dedicated to
Sofronia in Hampton’s Writing from History, 116–18. 6 Some early readers of the
Liberata considered the episode “poco connesso e troppo presto,” a point with
which Tasso concurred; e.g., the letter to Scipione Gonzaga from April 3, 1576;
Lettere di Torquato Tasso, vol. I, letter #61; 153. Molinari’s edition of the
Lettere poetiche of Tasso contains this letter with ample critical text; 374.
The debate over the episode went on for a period of many months in 1575 and
1576; see the excellent account of Güntert, L’epos dell’ideologia regnante,
81–85. 7 The syntactic “difetto” or defect that
Tasso claims he learned from reading too much Virgil is that of “parlar
disgiunto”: “cioè, quello che si lega più tosto per l’unione e dependenza de’
sensi, che per copula o altra congiunzione di parole . . . pur ha
molte volte sembianza di virtù, ed è talora virtù apportatrice di grandezza: ma
l’errore consiste ne la frequenza. Questo difetto ho io appreso de la continua
lezion di Virgilio . . .” (Lettere, vol. I, 115). Fortini calls
attention to the symptomatic crisis of “parlar disgiunto” in relationship to Canto
2 in Dialoghi col Tasso, 81, describing it as “la frattura degli elementi del
discorso per ottenere maggior rilievo, maggiore drammatizzazione e
magnificenza.” 8 Tasso’s
references to Homer in his Giudicio are extensive, as are his spirited defenses
of Homer against those who would call him a liar; he often invokes Aristotle’s
praise of the poet. 9 On Tasso’s impact on and interest in the visual arts more
generally, see Waterhouse, “Tasso and the Visual Arts,” 146–61 and, more
recently, Unglaub’s Poussin and the Poetics of Painting and Traherne’s
“Pictorial Space and Sacred Time,” 5–25.Jane Tylus10 The image is item 176 in
the catalogue Luca Giordano, ed. Ferrari
and Scavizzi. 11 See Utili’s entry on Giordano’s Olindo e Sofronia in Torquato
Tasso, 313. 12 From the letter to Scipione Gonzaga of April 3, 1576; in Lettere
di Torquato Tasso, 153; Lettere poetiche, 374. This came less than a month after Tasso had informed
Luca Scalabrino on March 12, that he was going to add “eight or ten stanzas” to
the end of the Sofronia episode, in the hope of making it seem “more connected”
(“che ‘l farà parer più connesso”); ibid., 339. 13 I use the edition of Fredi
Chiappelli; II: 6. 14 Translations of the Liberata are from Jerusalem
Delivered, trans. Esolen; occasionally modified. 15 Lettere, I, 164; also in
Letter poetiche, 406; italics mine. 16 Yavneh, “Dal rogo alle nozze,” 272–73.
17 Giampieri, Il battesimo di Clorinda, 27, has noted in the “casto simulacro”
of Mary a parallel with the famous Palladium of Troy: Mary’s image takes the
place of the Palladium, and this substitution is extended further when Sofronia
herself “porta quella salvezza che tutti si aspettavano dall’efige della
Madonna” once the Madonna is gone. 18 See Yavneh, “Dal rogo alle nozze,” 150,
as well as Warner, The Augustinian Epic, 86. 19 This line is echoed by Armida
eighteen cantos later, when she proclaims herself Rinaldo’s “ancilla,” and
observes that his word is her law: “e le fia legge il cenno” (20: 136).
Intentionally or not, the line brings us full circle to the missing image of
Mary, but reducing the supposed potency of that image and the women who mirror
it to a gesture of submission to a “conquering” Gabriel. 20 Virgil, Eclogues,
Georgiecs, Aeneid I–VI, 441. 21 The Judith echoes are relevant as well, on
which see Refini, “Giuditta, Armida e il velo,” esp. 87–88. But unlike Judith,
who dominates the second half of the apocryphal book of Judith, Sofronia and
Clorinda disappear long before the ending. 22 “A lei, che generosa è quanto onesta, / viene in
pensier come salvar costoro. / Move fortezza il gran pensier, l’arresta / poi
la vergogna e ‘l verginal decoro; / vince fortezza, anzi s’accorda e face / sé
vergognosa e la vergogna audace” (2: 17). 23 Eugenio Donadoni remarked on Tasso’s “incapacità di
ritrarre una santa,” and while he doesn’t elaborate, he clearly has in mind the
puzzling presentation of Sofronia herself. Torquato Tasso, 324. 24 As Lawrence
F. Rhu nicely puts it, the “Allegoria,” first composed in 1576, probably
functioned “as a guarantor of acceptable intentions in the face of potential
censorship . . . rather than as a sure guide in the right
direction for a comprehensive interpretation of his poem”; The Genesis of
Tasso’s Narrative Theory, 56. At the same time, with regard to the conflict
between the “one and the many,” the poem, with its announced attention to bring
together Goffredo and his “compagni erranti,”and the Allegoria, focused on
demonstrating how the bodies of the (male) warriors are eventually incorporated
within the body of the army, seemingly speak with a single voice. 25 Lettere,
vol. 1, 84. Interestingly, Tasso will exempt Rinaldo from this rule. 26 On the
possibility that Tasso resists making his female warriors stronger than the
men, see Günsberg, The Epic Rhetoric of Tasso, 128: “female valour is described
essentially in terms of negative comparatives. This culminates in male
supremacy over a femininity that is already fragmented, and in an act
characterized by sexual overtones”—such as the deaths of Clorinda and Gildippe.
27 See Act III, scene 1, from Aminta, and
Tirsi’s description of the Satiro’s would-be rape of Silvia: She is tied with
her own hair, to a tree, while “‘l suo bel cinto, / che del sen virginal fu
pria custode, / di quello stupro era ministro, ed ambe / le mani al duro tronco
le sstringea; / e la pianta medesma avea prestati / legami contra lei
. . .”; lines 1237–42; from Opere di Torquato Tasso, Volume 5: Aminta
e rime scelte. 28 For a more
sustained reading of the Aminta and Tasso’s protectiveness of his two main
characters, see my chapter in Writing and Vulnerability, 82–95. 29 In truth, a
more nuanced criticism of the Conquistata has emerged in recent years,
including that of Goddard and of Residori, L’idea del poema, as well as in the
recent article of Brazeau, “Who Wants to Live Forever?” Yet critics have been
overly hasty to dismiss the30 31 323334 35 3637 38 39 40265later poem as the
project of Tasso’s new Counter-Reformation orthodoxy. This may be the case, but
surely only in part; as the Giudicio and contemporary letters attest, Tasso was
involved in a continuing dialogue with ancient authors, and the Conquistata
attests to his desire to write a poem that creates more of a balance between
opposing forces. Gerusalemme conquistata, II: 11–12. Luigi Bonfigli’s edition,
which comprises part of his five-volume Opere di Torquato Tasso, regrettably
has no notes; there is still no fully annotated modern version of the poem.
Shortly after Argante’s death a trio of female mourners lament his loss in a
passage taken directly from Iliad 24; the fact that they appear in the
Conquistata’s twenty-third canto makes the connection structural as well as
thematic. See Stephens, “Trickster, Textor, Architect, Thief,” on Erminia, in
which he talks about Erminia’s imitation of Helen; while he finds in the
Conquistata allusions to Helen’s weaving (Canto 3), he does not consider the
Homeric echoes in Canto 23. Also see my “Imagining Narrative in Tasso.”
Murnaghan, “The Poetics of Loss in Greek Epic,” 217: “As she gives voice to her
role as the bearer of Hector’s kleos, Andromache’s words fill in what Hector’s
gloss over . . . [she] insists that the creation of kleos begins with
grief for the hero’s friends and enemies alike. . . . Before it can
be converted into pleasant, care-dispelling song, a hero’s achievement is
measured in the suffering that it causes, in the grief that it inspires.”
Ferguson’s Trials of Desire and Enterline, The Tears of Narcissus explore
psychoanalytic material. Goddard, “Du ‘capitano’ au ‘cavalier sovrano,’” 240n.
I want here to make note of Konrad Eisenbichler’s suggestive work with respect
to new versions of masculinity articulated in early modern Europe, and
especially to his generous support of the volume that Gerry Milligan and I
edited for his series at the University of Toronto, The Poetics of Masculinity
in Early Modern Italy and Spain (Toronto: Centre for Renaissance and
Reformation Studies, 2010). The letters that take up these various episodes,
surely to be read in the larger context of Tasso’s oeuvre, include a majority
of the letters in Molinari’s Lettere poetiche, which date from March 1575
through July 1576. Opere di Torquato Tasso, vol. V, 583. See Traherne,
“Pictorial Space and Sacred Time,” for a bracing discussion as to why Tasso
refused to indulge in any ekphrasis of sacred images in his work—as in his late
poem, Lagrime. In the Conquistata, Tasso adds eight stanzas (15: 41–8) representing
a prophetic dream regarding Clorinda’s future baptism as a Christian—a future
less certain in the Liberata, when a number of verbs suggest the possibility of
an only apparent conversion (“pare,” “sembra,” etc.).Bibliography Brazeau,
Bryan. “Who Wants to Live Forever? Overcoming Poetic Immortality in Torquato
Tasso’s Gerusalemme Conquistata.” Modern
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Réforme 24, no. 1 (1988): 21–33. “Political Posturing in Some ‘Triumphs of
Love’ in Quattrocento Florence.” In Petrarch’s ‘Triumphs’: Allegory and
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spirito: L’amore proibito di Michelangelo.” In Annali della Facoltà di Lettere
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Sienne.” Renaissance and Reformation/ Renaissance et Réforme 37, vol. 2 (Spring
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Reading.” Renaissance and Reformation/Renaissance et Réforme -- abandoned women
Abrabanel, Judah Accademia degli Infiammati Accademia degli Intronati Actaeon
Ad compascendum (papal bull) adultery: as crime of violence cultural narrative
in fiction legal definitions of; locations of
prosecutions for and prostitution Aeneid aesthetics: and masculinity and
military prowess and social control agency: of courtiers female Agnoletto the
Corsican Agnolo di Ipolito Alain of Lille Alberti Alberti Albertoni Alessandro
de’ Medici Alexander the Great Alexander VI Altaseda Amadesi, Angela Aminta
(Tasso) anal penetration see also sodomy Andreoli, Andreoli androgyny Andromeda Angela of Foligno angels,
Carlini invoking animals, sex with Antoniano Apuleius Arenula Aretino and Il
Sodoma and Piccolomini Ragionamenti aristocratic behaviour Aristotle Armida
“arti fallaci” autonomy Averani badgers Baliera Ballerina Bandello Bandello
Bargagli Barolsky bastards beastliness Bechdel Test beffa Belforte Bell Bellini
Belvedere di Saragozza Bembo Benazzi Benedek Benedict Benedictine order
Bernardino bernesque poetry Berni Bernini bestiality see animals, sex with
Betta la Magra Bianco bigamy Bignardina birds: eating symbolising the penis
bisexuality blasphemy Blastenbrei Bocca di lupo Boccaccio Bollette see Ufficio
delle Bollette Bologna: Borgo degli Arienti Borgo di San Martino Borgo di Santa
Caterina di Saragozza Borgo di Santa Caterina di Strada Maggiore Borgo Nuovo di
San Felice Borgo Riccio Broccaindosso men’s
relationships with prostitutes in regulation of prostitutes in residencies of prostitutes in sausages of
Bolzoni The Book of the Courtier (Castiglione) arms and letters in dress and
aesthetics in homosexuality in on women’s behaviour Bossi Boswell Botticelli Bovio
Bràina Braudel Brizio Bronzino brothels see also prostitution Brown Bruno Buonacasa
Burckhardt burlesque literature Cady Camaiani Campi Campo di Bovi canon law
Canossa Capatti Capella Cappelli Cappello Capramozza Captain of Justice (Siena)
Caravaggio Caretta Carli Carlini: becoming abbess entry into religious life
imprisonment of investigation into marriage to Christ modern controversy over, sexual
contact with Mea spirituality of carne, multiple meanings of Carnevale
(neighbourhood) Carnival Carracci Carracci Castiglione castration Catherine de’
Ricci, Saint Catherine of Alexandria, Saint Catherine of Bologna, Saint
Catherine of Genoa, Saint Catherine of
Siena, Saint Cavedagna, Domenica Cazzaria (Vignali) Cellini Chauncey Chigi
family Christ: Carlini speaking as Carlini’s visitations from forgiving the
adulteress gender of loving union with Christianity: and eating meat and
masculinity and sexuality Circe Clarke Clement VIII Cleopatra clergy: sexual
violence by and sodomy Clorinda baptism of body of death of and Sofronia clothing: foreign and
masculinity and military defeat and sexual deviance Cockaigne, Land of Cohen Colieva
Colle Colloquies (Erasmus) “compagni erranti” concubines conjugal debt Connors Conquistata see
Gerusalemme conquistata convents: power of
prostitution and sexuality within Corio Cornaro Correggio cose brutte Cosimo cosmetics Council
of Trent and adultery 7and failed saints and images nunneries after and
sodomy Counter-Reformation court ladies
courtesans: in fiction idealized depiction of in Rome courtiers: ideal
sacrificing masculinity Crawford Criminal Judge (Siena) Cristellon Crivelli cross-breeding
cuckoldry Currie Cycnus Daedalus Dante d’Aragona d’Ascoli de Bertini de
Montaigne Decameron: adultery in Branca’s edition of culinary language in and
Dante and della Porta female heroines in Griselda and Gualtieri in and La
Raffaella Walter of Brienne in deceit, courtiers and de’Grassi della Porta Art
of Memory and myth and natural magic and nudity and Titian d’Este the Devil,
and sexual violence di Loli family of prostitutes Dido dildos discourse, and
social norms Dolce Domenidio, inn of Domitilla Donatello (Donato) Donina dress
see clothing Durazzo, ecclesiastical courts effeminacy: in clothing and military defeat Eisenbichler Elbl, Ivana
Elliott, Dyan embodied experience England, debts to Florence Ensler epistemological
caution Erminia/Nicea erotic forces,
cosmic erotica, learned essentialism Europa Fabritio faccia tosta fallacious
artistries Farnese the Farnesina female bodies see also genitals, female
Ferrante Ferrara Ferrari Ficino Finucci Fiorentina, Francesca Fiorentina Fiorentina
Fiorentina Fiorentini Firenzuola Florence: annexation of Siena bank failures in
conquest of Siena ghetto homosexuality in laws on sexual violence nobility and
tyranny in prostitution in sausages of
forgetting, art of fortezza Fortini Foucault Fra Bartolommeo France: in Book of
the Courtier humiliation of Italy
Francesco I Franchi Francis Franco Frangipane Franzesi Frassinago Freccero Fregoso
Fregoso Furlana Gabriel Galen Galianti Gallucci, Margaret gambling Ganymede
Garzoni gender: and art Foucault and Boswell on gender bias gender nonconformity
genitals: of animals female male mediaeval theories about Gentileschi,
Artemisia Gertrude of Helfta Gerusalemme conquistata (Tasso) female characters
in as orthodox and Sophronia episode
Gerusalemme liberata (Tasso) female characters in Sofronia episode in Gesso
Ghirardo Giampieri Giannetti Giannotti Gigante Gildippe Giordano Giovanni Giudi
Giustiniani gluttony Goddard Goffen Gonzaga gossip Gozzadini Grandi Grazzini Gregory
the Great Grosseto group sex Hadewijch
Halperin, David 1Harvey, Elizabeth hearts, gifting of Hercules Homer
homoeroticism: between nuns in master-apprentice relationship in religious
imagery in in Renaissance Italian art in Sodoma’s secular work homosexuality:
among clergy clothing denoting in early modern Italy Il Sodoma and in
Renaissance scholarship Saslow’s use of term 203n5; see also lesbians; sodomy
honour: and adultery in Decameron male
and sexual violence honour killings Il
Sodoma (Gianantonio Bazzi) “Allegorical Man” biography of early religious works
historiography of later religious works of painting of Catherine of Siena
secular art of Iliad images: holy sexual imagination, phallic imagines agentes
imitatio Christi immagine see images, holy impotence incest, laws on
incontinence of desire inns, and prostitution Inquisition instruments see
dildos interdisciplinarity intersectionality inversions Italian Renaissance:
idealised image of scholarship on sex and gender in Jews: and prostitutes in
Rome Kodera La Raffaella (Piccolomini) and Aretino’s Ragionamenti depiction of
women textual sources Labalme labyrinth lactation, miracle of Landriani Marsilio
lavoratori Leda and the swan lenzuola Leo X Leonardo da Vinci lesbians, use of term for Renaissance women
levitation Liberata see Gerusalemme liberata loci, in art of memory Lorenzo the
bathhouse worker love: in La Raffaella masculine Neoplatonic discourse of
Lucanica sausages Lucretia, wife of Cynthio Perusco Lucretia (Roman heroine)
Lucretia the madam Lugeria lust luxuria Machiavelli magic: charges of and love
natural Magrino male dress see also clothing, and masculinity male solidarity
malmaritate Malpertuso manly masquerade
Mantuana, Chiara Marcutio, Marino Marema, Caterina Margaret of Cortona Maria
Maddalena de’ Pazzi, Saint marital debt see conjugal debt marriage: arranged
mystical and passion married women, sexual laws about Martelli Martinengo,
Maria Maddalena marvels Mary Magdalene Mary mother of Christ: and Catherine of
Siena in Gerusalemme conquistata images of as mourner and mystical marriage
Visitation of masculinity: arms and letters in as conformity and courtiers’
self-presentation Renaissance masturbation maternal longings Mattei Matthews-Grieco
Matuccio Mauro McCall McCarthy Mea see Crivelli, Bartolomea meat: eating and
sexuality see also carne; sausages memory, art of Messisbugo Michelangelo
militarism Mills, Robert Minotaur
misogyny mixti fori monogamy, serial monstrous offspring Montalcino Montanari, Massimo Montauto,
Federico Barbolani di Monte of the Riformatori
Monteoliveto Maggiore Moroni, Doralice Moulton, Ian Frederick Murnaghan, Sheila Muslim women mysticism:
erotic physical signs of myths,
classical naked bodies: physiognomy of in Titian Negri Neoplatonism Niccoli Nolli
Plan normative codes Nosadella novelle nunneries see convents nuns: as brides
of Christ in fiction lust of clergy for and prostitutes sexual activities of
Office of the Night Olimpia Ordeaschi Ordinances of Justice Orsini Otto di
custodia Ottonelli Ovidio Paleotti Pallavicino Palloni, Agostino Panicarolo,
Pietropaolo panopticon Paolo Parabosco Parigi Parker parlar disgiunto parodies parties, prostitutes throwing
Partner Pasiphaë Pasulini Pater patria potestas Paul III Paul IV pederasty
pedagogical Pellizani personae, in art of memory Perusco Pesenti Petrarca version
of Griselda story Phaeton phallus, sexuality centred around the see also
genitals, male Philip II of Spain 3physiognomy Piazza Navona Piccolomini Oration
in Praise of Women see also La Raffaella Piccolomini Piéjus Pietro piety,
emotive register of pity Pius V Pizzoli Platina (Bartolommeo Sacchi)“poco
conesso” poetry, and homosexuality Ponce Pontano Poor Clares Porcellio pork:
poetic praise of social attitudes to pork sausage Porta Porta Procola Porta Stiera 56–7 postmodernism power, in
gender relations printing, transformative effects of procuresses prostitution:
behaviour associated with and courtesans and courtiers in della Porta evidence
of ex-prostitutes in fiction and Ludovico Santa Croce male men’s interaction
with female residential patterns in Bologna social and familial circles of Puff
queer studies queer visuality Querzola, Giovanna Randolph, Adrian rape see
sexual violence Raphael (Raffaello Sanzio da Urbino) Raymond of Capua reception
theory Reed re-focalization Renaissance Italy see Italian Renaissance
Renaissance scholarship, sexuality and gender in Renaissance sex Rice the Ripetta Rocke Rojas Roman
antiquity, effeminacy in Roman law romance Romantic Friendships Rome: adultery
trials in early modern street plan prostitution in regulation of illicit sex in
Renaissance demography of sexual bohemianism in Romoli Rosetti Rossi Rossi Ruggiero
Sacchetti Sacchi Romana Sack of Rome saints, failed same-sex eroticism see
homoeroticism San Colombano Santa Caterina di Saragozza Santa Croce Santa Croce
family Sarteano sausages Savi sbirri Scapuccio Schutte Sebastian Sedgwick self-expression
self-fashioning self-harm semen
sensuality: in Renaissance Italy and spirituality women known for Senzanome
Sercambi sex crimes sex ratio, in Rome sexual fantasies sexual identity sexual
innuendos sexual non-conformity sexual positions sexual violence: against women
and young girls against young boys in
art in classical myth by clergy laws on in Renaissance Italy sexuality: female
Foucault on male (see also phallus); and meat eating Neoplatonic discourse on
newer approaches to in poetry see also homosexuality Sforza, Caterina Sforza,
Galeazzo Shakespeare, William shrines, prostitution around sibille Siena:
administration of justice in Il Sodoma in sexual violence in Vasari on Simio Simon
Simone Simons sin, sexual single women, vulnerability of Sixtus V slander,
sexual social constructionism social control Socrates sodomy: defences of in
early modern Italy and meat preachers against regulating Roman laws on Sienese
laws against see also anal penetration; homosexuality; Il Sodoma Sofronia:
episode of Giordano’s paintings of inscrutability of Song of Songs Speroni Sperone
spirituality, sensual imagery Spisana Splenditello Spoloni sponsa spousal
violence, and adultery sprezzatura Stanton statues, living Statuta Stefani Stiera
stigmata Storey, Tessa strada dritta stufa subcultures Symonds synecdoche
synopsis Tagliarini Tarozzi Tasso “Allegoria del Poema” and female bodies
Giudizio del poema riformato and Sofronia episode Gerusalemme conquistata; Gerusalemme liberata
Taylor Tedeschi Teresa Terracina Tiziano Torre Sanguigna torture Toschi transgender
Traub, Valerie Trevisana, Margareta and Francesca Tridentine rules see Council
of Trent Tuscany, duchy of Tylus Ufficiali sopra la pace Ufficio delle Bollette
Urban VIII Ursini Usinini, Terenzio Utili, Mariella The Vagina Monologues 218
vaginas see genitals, female Vallati Vanna of Orvieto Vanni, Francesco Varchi, Benedetto Vasari,
Giorgio Venetiana, Vienna Venice: prostitution in sex crimes in Veronica
Giuliani, Saint Via del Portico d’Ottavia
Via Santa Anna Vicario
Vignaiuoli Villani, Giovanni Virgil
Virgil virtù: in Boccaccio in Tasso
Virtuosi visions, religious
visual culture Vives, Juan-Luis Walter of Brienne whores see prostitution witchcraft 1 see also
magic women: abuse of depictions in Renaissance culture honest and dishonest (see also prostitution); in the Intronati men
writing about men writing for 2in myth
published and unpublished texts by see also female bodies women’s
history word play Yavneh Zanetti Zanrè Zapata Zonta. Giovanni Battista Modio. Modio. Keywords. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Modio” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Moiso: la ragione conversazionale e ROMOLO, o
dell’implicatura conversazionale della filosofia della mitologia – filosofia
piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “I like
Moiso; I would think my two favourite of his treatises is one on the ‘filosofia
della mitologia’ (think Beowulf!) --; the other is a consideration on Goethe on
‘nature and her forms’ – having built my career on the natural/non-natural
distinction, it cannot but fascinate me!”
Esperto di storia della filosofia e della
scienza di fama internazionale, ha insegnato nelle Torino, Macerata e Milano.
Le sue ricerche hanno riguardato la filosofia post-kantiana, con particolare
attenzione al pensiero di Salomon Maimon, l'idealismo tedesco, con ricerche su
Kant, Fichte, Schelling e Hegel, Goethe e l'età goethiana, Achim von Arnim, il
concetto di esperienza ed esperimento nel Romanticismo, la filosofia di
Nietzsche nel suo rapporto con le scienze, il pensiero di Mach. È stato membro
della Schelling Kommission per l'edizione critica di Schelling. Ha partecipato
alla Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche di Rai Educational con
due interventi sulla La filosofia della natura tedesca e sulla "Scienza
specialistica e visione della natura nell’età goethiana". Presso l'Udine è
stato istituito il Centro Interdipartimentale di Ricerca sulla Morfologia. Fondamentali
per la ricerca filosofica e le oltre 100 pagine dedicate a “Pre-formazione ed
epigenesis”, in “Il vivente -- aspetti filosofici, biologici e medici,” –
Grice: “Interesting idea, ‘il vivente’ – we don’t have that thing in English,
‘a loose liver’ --. Verra, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana.
Caratteristica degli suoi studi è la connessione tra ricerca storico-filosofica
e impianto teoretico, fatto particolarmente evidente in suo saggio su
Schelling. “La filosofia di Maimon” (Milano, Mursia); “Natura e cultura”
(Milano, Mursia); “Vita, natura libertà” (Milano, Mursia); “Pre-formazione ed
epigenesi nell'età goethiana, in “II problema del vivente” Aspetti filosofici,
biologici e medici, Verra, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana); Nietzsche e le scienze” (Milano, Martino)--
Grice: cf. ‘gaia scienza’ – “Tra arte e scienza” (Milano, Marino);“La natura e
le sue forme,” C. Diekamp (Milano,
Mimesis); “La filosofia della mitologia,” M. Alfonso (Milano, Mimesis); “Il
nulla e l'assoluto” "Annuario Filosofico", “Teleo-logia dopo Kant”
in: Giudizio e interpretazione in Kant. Convegno sulla Critica del Giudizio
(Macerata, Genova, Idee in Schelling, in IDEA
Colloquio, Roma, Fattori e Bianchi (Olschki, Firenze); Schelling,
"Ricerche filosofiche sull'essenza della libertà umana: e gli oggetti che
vi sono connessi", Commentario A. Pieper e O. Höffe (Milano, Guerini); Le Ricerche: una svolta in
Schelling?, in Schelling, "Ricerche filosofiche sull'essenza della libertà
umana: e gli oggetti che vi sono connessi (Milano, Guerini); “Dio come
persona,” in Schelling, "Ricerche filosofiche sull'essenza della libertà
umana: e gli oggetti che vi sono connessi", Commentario Pieper e Höffe
(Milano, Guerini); “I paradossi dell'infinito, in: "Romanticismo e
modernità", Torino, La scoperta dell’osso inter-mascellare e la questione
del tipo osteologico, in Giorello, Grieco, Goethe scienziato” (Torino,
Einaudi); “Schelling: il romano antico nella filosofia dell'arte, in
"Rivista di estetica", Torino, pensatore e narratore dell'Europa,
Milano, Gargnano del Garda, Milano: Cisalpino (Acme/Quaderni); E ho visto le
idee addirittura con gl’occhi, in: Goethe: la natura e le sue forme, atti del
Convegno Arte, scienza e natura in Goethe; Torino (Milano, Mimesis); C. Diekamp,
Experientia/experimentum nel Romanticismo, in Veneziani, Experientia”
(Firenze: Olschki); “L'albero della malattia -- motivi della medicina in età
romantica, in Atti della sofferenza. Atti del seminario di studi. Udine,.
Casale e Garelli, Itinerari, La
percezione del fenomeno originario e la sua descrizione, in: Arte, scienza e
natura in Goethe. Torino, R. Pettoello, In memoriam, "Acme", Alfonso,
Matteo, In guisa di introduzione. La filosofia della luce di Fichte, in
"Rivista di storia della filosofia,” Ivaldo, La fichtiana dottrina della
scienza, In memoria di M.. La filosofia
della natura, in "Annuario Filosofico", Ziche, "Un terzo più
alto, la loro sintesi comune". Teorie della mediazione, In memoria di Moiso. La filosofia della natura, in
"Annuario Filosofico", S.
Poggi, Dopo Schelling, dopo Goethe. lettore di Mach, La filosofia della natura,
in "Annuario Filosofico", F. Vercellone, Da Goethe a Nietzsche. Tra
morfologia ed ermeneutica, in In memoria di M.. La filosofia della natura, in
"Annuario Filosofico", Giordanetti, Interprete di Kant", in
Rivista di storia della filosofia, Frigo, Natura della forma e storicità della
sua comprensione, testimonianze di colleghi e allievi, Torino, La responsabilità dell'uomo per la natura nel
pensiero degli scienziati romantici in Testimonianze (Torino, Trauben); F.
Cuniberto, Corpo e mistero, in Testimonianze (Torino, Trauben, M. Alfonso, I
corsi: una lezione di ricerca, in Testimonianze (Torino, Trauben); Giordanetti,
Il kantismo di Nietzsche, Testimonianze” (Torino, Trauben); L. Guzzardi, Tra
filosofia della natura e morfologia dei saperi: un ruolo per l'enciclopedismo,
in Testimonianze” (Torino, Trauben);
Viganò, Morfologia e filosofia: la filosofia della natura come
"tropica" del reale, in Testimonianze (Torino, Trauben); Potestio, Lo
Schelling di Heidegger (Torino, Trauben); Mainardi, L'estetica pittorica di Friedrich,
Testimonianze, Torino, Trauben,
Cazzaniga, La filosofia dell'evoluzione, testimonianze Torino, Trauben,
La natura osservata e compresa: saggi in memoria, Viganò, Milano, Guerini, Moro, In ricordo , in "Rivista di Storia
della Filosofia", antzen, In
memoriam: In ricordo, Università degli Studi di Milano, Sala Crociera Alta, La rivoluzione di Lavoisier, in Enciclopedia
delle Scienze, Goethe e la natura, in Enciclopedia delle Scienze Filosofiche,
Goethe poeta e scienziato, in Enciclopedia delle Scienze La
ri-culturalizzazione della scienza, in Enciclopedia delle Scienze Filosofiche,
Scheda biografica su Mimesis. Grice: “Plato is clear about this: other than predicated of ‘shape’
(forma), ‘beautiful’ has no SENSE! Moiso learned that from Gothe –problem with
Goethe is that he was interested in the German mandibule!” Grice: “Pliny
understood this best: it’s one boring thing to see Apollo Belvedere, larger
than life. The good thing is to see or experience a ‘symtagm’, such as ‘I
lottatori’ della Tribuna – a statuary group of two males – one may say there is
ONE form in the Lottatori – Goethe would say that each body is a form – and so
there are two forms. -- Francesco Moiso. Moiso. Keywords: la morfologia e
la fisiologia del vivente --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Moiso” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Mondin:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell ritorno
dell’angelo – la semantica filosofica – semantica pel sistema G –
interpretazione e validità – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Monte di Malo). Filosofo italiano. Monte di
Malo, Vicenza, Veneto. Grice:“Trust an Aquino to provide a systematic
philosophy! Mind, I’ve been called a systematic philosopher, too!” Grice: “At
Oxford, we are very familiar with angels – but only Mondin takes angeologia seriously!
Trust an Italian! Ponte Sant’Angelo comes
to mind!” Dottore di Filosofia e Religione a Harvard. È stato decano della
Facoltà di Filosofia presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma. Mondin
membro della Congregazione dei Missionari Saveriani. Nei suoi studi, le
principali figure di riferimento sono state AQUINO e Tillich, da cui ha tratto
l'ideale di un accordo e di un mutuo sostegno tra filosofia e teologia. “Etica, Etica e politica, Filosofia,
Antropologia filosofica, Manuale di filosofia sistematica, La Metafisica di
Aquino e i suoi interpreti,” “Storia dell'antropologia filosofica” Antropologia
filosofica e filosofia della cultura e dell'educazione; “Epistemologia e
cosmologia; “Logica, semantica e gnoseologia; Ontologia e metafisica Storia
della metafisica, Storia della metafisica, Storia della metafisica,
“Ermeneutica, metafisica, analogia in Aquino; Storia della filosofia medievale
Dizionario enciclopedico di filosofia, teologia e morale Il sistema filosofico
di Aquino Corso Introduzione alla teologia Dio: chi è? Elementi di teologia
filosofica Scienze umane e teologia Cultura, marxismo e cristianesimo I teologi
della liberazione, “Il problema del linguaggio teologico dalle origini ad oggi”
Filosofia e cristianesimo I teologi della speranza I grandi teologi
Professore I grandi teologi
Professore I teologi della morte di Dio
Dizionario enciclopedico di filosofia, teologia e morale. Software Filosofia
della cultura e dei valori Le realtà ultime e la speranza cristiana Religione
Nuovo dizionario enciclopedico dei papi. Storia e insegnamenti Commento al
Corpus Paulinum (expositio et lectura super epistolas Pauli apostoli) La chiesa
primizia del regno. Trattato di ecclesiologia Mito e religioni. Introduzione
alla mitologia religiosa e alle nuove religioni L'uomo secondo il disegno di
Dio. Trattato di antropologia teologica Preesistenza, sopravvivenza,
reincarnazione Teologie della prassi L'eresia del nostro secolo Società Storia
dell'antropologia filosofica Antropologia filosofica. L'uomo: un progetto
impossibile? Philosophical anthropology Una nuova cultura per una nuova
società. In ricordo di M.. Un tomista ed
"oltre" del XX secolo: M. di PMontini, Congresso tomista
internazionale, Roma, nel sito "E-
Aquinas" Studium thomisticum. Grice: “M. attempts a systematic semantics. Rather he
has a section on ‘semantics’ --. The expressions have to be used carefully.
System itself, should be used alla Gentzen, or as Myro does with System G in my
gratitude. A semantics for System BATTISTA
MONDIN introduzione alla filosofia
(Problemi, Sistemi, Filosofi) MASSIMO BATTISTA
6MONDIN INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA PROBLEMI -
SISTEMI - FILOSOFI Con guida alla lettura di alcune opere
fondamentali e glossario dei principali termini filosofici
MASSIMO - MILANO La prof. Rossana Carmagnani ha collaborato alla
revisione del pre- sente volume ed ha curato i « questionari », le « sintesi
contenutistiche » e le « chiose a margine ». ISBN
88-7030-8014 Quarta edizione completamente rinnovata: ottobre
1986 1° ristampa alla 4° edizione: novembre 1987 Copyright ©
by Editrice Massimo Corso di Porta Romana 122 - 20122 Milano
Proprietà letteraria riservata - Printed in Italy Tipolitografia
Grafica Novarese Via Marelli, 2 - San Pietro Mosezzo (No)
Altre opere filosofiche dello stesso Autore: Corso di storia della
filosofia, 3 voll., Massimo, Milano. L'uomo: chi è? (Elementi di
antropologia filosofica), Massimo, Milano. Introduzione alla
teologia, Massimo, Milano. Cultura, marxismo e cristianesimo,
Massimo, Milano. Storia della filosofia medievale, Pontificia
Università 'Urbaniana, Roma. Una nuova cultura per una nuova
società (Analisi della crisi epocale della cul- tura moderna e dei
progetti per superarla), Massimo, Milano. Il sistema filosofico di
Tommaso d'Aquino (Per una lettura attuale della filo- sofia tomista),
Massimo, Milano. Il valore uomo, Dino Editore, Roma. I
Verori fondamentali (Definizione e classificazione dei valori), Dino
Editore, oma. Presentazione dell’Editore
In quale modo contribuire alla trasformazione dell'uso di un testo per lo
studio della filosofia, affinché esso divenga lo strumento vivo di
ricerca e di riflessione? Questa quarta edizione di Introduzione
alla filosofia, completa- mente rinnovata rispetto alla precedente,
risponde a questo obiettivo, offrendo non solo una presentazione
sistematica di contenuti, ma anche indicazioni metodologiche atte a
sviluppare un processo di ri- cerca attivo e dialogico, alla luce della propria
tradizione culturale, attraverso l'esercizio della riflessione, per
arrivare a soluzioni con- formi alla ragione e alla natura
dell'uomo. L'Autore ha introdotto, nella prima parte dedicata ai
problemi fi- losofici, tre nuovi problemi, che durante l'ultimo decennio
si sono im- posti all'attenzione di tutti, quello culturale, quello
epistemologico e quello assiologico. Questi tre problemi suscitano oggi
particolare in- teresse perché ci si è resi conto che la grave crisi
spirituale, che ha colpito l'umanità intera, trova la sua ragione più
profonda nella disgregazione della cultura e dei valori e nella
confusione che si fa tra scienza e tecnica. E questo vale per chi vuole
fare dello studio della filosofia non un semplice esercizio accademico,
ma, come già pensavano i greci, uno strumento fondamentale e l’unico
razional- mente possibile, per la soluzione dei problemi della vita e
della no- stra società. Le parti seconda (dedicata ai sistemi
filosofici) e terza (dedicata alla presentazione dei principali filosofi)
sono state ampliate con l'aggiunta di altre « scuole filosofiche »,
specie quelle sorte negli ulti- mi decenni e di numerose altre « schede »
sui maggiori filosofi. Nella quarta parte, dedicata alla presentazione di
alcuni grandi testi filo- sofici, è stata inserita l'opera: Introduzione
alla metafisica, che è tra le più significative e rappresentative di
Heidegger, uno dei maggiori filosofi del XX secolo. Infine, il volume è
completato da una quinta (nuova) parte che contiene un « glossario » dei
principali termini filosofici, che sarà di aiuto a chi si accosta per la
prima volta alla filosofia. ì Questa quarta edizione
dell'opera è stata rielaborata seguendo an- che le indicazioni di molti
insegnanti che hanno usato il testo nel passato e che sono stati da noi
interpellati con « schede-inchiesta ». Ogni capitolo del testo è
corredato di questionari, di concetti da ritenere, di sintesi
contenutistiche e di chiose a margine, che, oppor- tunamente utilizzati,
costituiscono un adeguato sussidio per un mi- gliore approfondimento e
una rapida consultazione. — I questionari assolvono la duplice
funzione propedeutica e di verifica: a) i questionari propedeutici
sono finalizzati a suscitare il problema nei suoi aspetti fondamentali;
b) i questionari di verifica e discussione consentono il controllo del
processo di apprendimento in ordine ai contenuti, il raccordo tra le
successive fasi di lavoro e la discussione sui temi di maggior
rilievo. — I concetti da ritenere sono finalizzati alla corretta
acquisizione del linguaggio tecnico e alla capacità di gestire con
maggiore facilità qualsiasi testo filosofico. — Le sintesi
contenutistiche, elaborate alla fine di ogni capitolo, hanno lo scopo di
favorire la padronanza costante dei contenuti ac- quisiti. —
Le chiose, ai margini del testo permettono di individuare su- bito i temi
centrali presentati. — Alla fine di ogni capitolo una breve ed
aggiornata bibliografia segnala, secondo le necessità, opere per approfondire
temi parti- colari. Questa opera, oltre che per uso
scolastico, date le sue caratteri- stiche che ne fanno una piccola
enciclopedia filosofica (da consul- tare nelle più svariate occasioni),
la riteniamo molto utile anche per tutti coloro che vogliono conoscere
gli elementi fondamentali della filosofia come studio dei grandi problemi
dell'umanità e vogliono aggiornarsi su di essi. Ricordiamo,
infine, che l'Autore ha curato presso la nostra edi- trice un Corso di
storia della filosofia, in tre volumi, con le stesse caratteristiche
metodologiche della presente opera e con un'ampia antologia di testi dei
maggiori filosofi di ogni epoca. Il terzo volume del Corso suddetto, di
pp. 616, presenta in modo esauriente la filo- sofia degli ultimi due
secoli e può diventare un o ttimo strumento per far conoscere le
maggiori correnti filosofiche contemporanee ad ogni persona di cultura
media superiore. Introduzione QUESTIONARIO PROPEDEUTICO
{*) I. Chi sono? Da dove vengo e dove vado? Che cosa è la vita?
Sono questi i « perché » fondamentali che l’uomo si pone. 2.
Quali risposte dare a questi perché? 3. Rispetto agli altri esseri
viventi, che cosa significa essere uomo? 4. Che cosa significa essere
dotato di intelligenza, di volontà, di capacità di amare? 5.
Che cos'è il pensiero? Che cos'è la realtà? Che rapporto c'è tra la capa-
cità di pensaree la realtà? Che cos'è la verità? 6. Che cosa significa essere
libero? Che cosa significa essere condizionato? Qual è il criterio che deve
regolare il rapporto con i propri simili e con l’uso delle cose? Che cos'è il
bene? Che cos'è l'utile? Che rapporto c’è tra bene e utile? . 7. Ciascuno di
noi ha bisogno degli altri. Come e perché? L'uomo, si dice, è naturalmente
filosofo, cioè « amico della sa- pienza »; bramoso di sapere, egli non si
accontenta di vivere alla giornata e di accettare passivamente le informazioni
che l’esperien- za immediata gli offre, come fanno gli animali. Il suo sguardo
inquisitivo vuole conoscere il perché delle cose, soprattutto il perché della
propria vita. 1. Che cos'è la filosofia 1.1 La conoscenza intellettuale L'uomo
è un essere che pensa: egli è dotato di una capacità cono- scitiva superiore a
quella degli altri esseri viventi appartenenti sia al regno vegetale che a
quello animale. Gli animali, ad esempio, pos- sono avere coscienza ma non
autocoscienza; essi sanno, ma non sanno di sapere; desiderano, ma non sanno di
desiderare; amano, ma non sanno di amare; crescono, diventano adulti e muoiono,
ma non sono consapevoli di queste trasformazioni del loro essere. L'uomo non
solo percepisce con i sensi gli eventi particolari, come {(*) Come è accennato
nella presentazione dell'Editore, i questionari pro- pedeutici hanno lo scopo,
attraverso l'esercizio della riflessione e dell’autorifles- sione, di suscitare
la partecipazione attiva degli allievi alla costruzione previa della lezione,
Superiorità della conoscenza umana Conoscenza razionale e conoscenza simbolica
Varie definizioni del termine ‘‘filosofia’’ gli altri esseri viventi, ma con la
sua ragione è in grado di acquisire idee generali o di formulare giudizi
universali. Egli non conosce solo i fatti ma anche i « perché ». La conoscenza
intellettuale, di cui l'uomo è dotato, assume due forme principali: quella
razionale o logica (che opera con i concetti) e quella simbolica o analogica
(che opera con le immagini, i simboli, i miti, le parabole, ecc.). La prima è
di tipo speculativo e astratto, mentre la seconda è di tipo figurativo,
concreto. La conoscenza simbolica non è necessariamente inferiore a quella
razionale, anzi per alcune sfere della realtà (per esempio: arte e re- ligione)
essa è più congeniale della seconda. me il valore della vita e della conoscenza
umana, la libertà, la natura del male, l'origine e il valore della legge
morale. Di questi problemi si occupa soltanto la filosofia. In secondo luogo,
perché, mentre le scienze studiano questa o quella dimensione della realtà, la
filosofia ha per oggetto l’intero, la totalità, l'universo preso globalmente.
Ecco, pertanto, la prima caratteristica che distingue la filosofia da qualsiasi
altra forma di sapere: essa studia tutta la realtà ò, co- munque, cerca di
ottenere una comprensione completa ed esauriente di ogni settore della realtà.
Essa si preoccupa soprattutto, di sapere, di comprendere; mentre la scienza si
accontenta di analizzare e di calcolare. 1.3 Natura della filosofia Ma ci sono
anche altre tre qualità che contribuiscono a dare al sapere filosofico un
carattere proprio e specifico: a) lo strumento di ricerca; b) il metodo; c) il
fine o scopo. a) Lo strumento di ricerca, di analisi di cui si serve la
filosofia è la ragione, la pura ragione, il « puro ragionamento », come dice
Platone. Essa non dispone di microscopi, telescopi, macchine foto- grafiche,
ecc. Non può effettuare controlli con strumenti materiali né affrettare le sue
operazioni ricorrendo agli elaboratori. Anche gli strumenti conoscitivi, di cui
si serve ogni uomo e ogni scienziato, i sensi e la fantasia, al filosofo
servono solo nella fase iniziale, per ottenere quelle cognizioni del reale, su
cui poi indirizza lo sguardo penetrante della ragione. Il lavoro vero e proprio
dell'indagine filo- sofica è compiuto dalla sola ragione, Ia quale per
sottrarsi a qualsiasi distrazione si chiude dentro il suo sacro recinto,
lontana dal frastuo- no delle macchine, dalla seduzione dei piaceri e dalla
prassi, dalia confusione dei sensi, in solitaria compagnia col proprio oggetto.
b) Il metodo della filosofia è essenzialmente raziocinativo, anche se non
esclude qualche momento intuitivo (sia nella fase iniziale sia in quella
terminale). I procedimenti raziocinativi sono però mol- 9 La filosofia può
esaminare ogni cosa La filosofia, a differenza delle singole scienze, studia
ogni settore della realtà Lo strumento di ricerca della filosofia è la ragione
La fiiosotia nella su ricerca ha un metodo e un fine La filosofia elementare è
soprattutto narrativa: si esprime attraverso i miti Con l’indagine razionale è
sorta la filosofia scientifica teplici, di cui i più importanti sono
l’induzione e la deduzione. La filosofia li adopera entrambi: il primo per
risalire dai fatti ai prin- cipi « primi », il secondo per ridiscendere dai
principi primi ed illu- minare ulteriormente i fatti, per comprenderli meglio.
c) La filosofia si distingue dalle scienze anche nel fine. La filo- sofia non è
volta a fini pratici e interessati, come la scienza, l’arte, la religione e la
tecnica, le quali, in un modo o nell'altro, hanno sempre di mira qualche
soddisfazione oppure qualche vantaggio. La filosofia ha per unico obiettivo la
conoscenza; essa mira semplicemente a ricercare la verità per se stessa, a
prescindere da eventuali utiliz- zazioni pratiche. La filosofia ha uno scopo
puramente teoretico, ossia contemplativo; non ricerca per nessun vantaggio che
sia ad essa estraneo, ma per se stessa; essa è quindi — come ha detto egregia-
mente Aristotele nella Metafisica (A, 2,982b) — « libera », in quanto non è
asservita ad alcuna utilizzazione di ordine pratico, e quindi si realizza e si
risolve nella pura contemplazione del vero. 2. Le origini della filosofia 2.1
Filosofia elementare e scientifica L'uomo — l'abbiamo già visto — è per natura
filosofo: in quan- to essere ragionevole egli è portato ad interrogarsi su
tutto ciò che c'è, tutto ciò che accade, tutto ciò che compie e tutto ciò che
vale. Le questioni ultime non sono una riserva di caccia aperta soltanto ai
dotti e ai letterati, ma è aperta anche all'uomo della strada, an- che
all'analfabeta. Esiste pertanto una filosofia elementare che è comune a tutti
gli uomini. a La forma letteraria della filosofia elementare è quella del rac-
conto: è essenzialmente filosofia narrativa (non è filosofia argomen- tativa,
raziocinativa, sistematica); la filosofia elementare si esprime attraverso
miti, presentati in racconti, poemi, diari. Sotto queste forme essa è presente
in tutte le civiltà, in particolare nelle grandi civiltà orientali (cinese e
indiana) e nelle antiche civiltà del vicino Oriente (egiziana,
assiro-babilonese, ittita ed ebraica). Ma, come abbiamo già spiegato in
precedenza, oltre alla filosofia elementare esiste anche una filosofia
scientifica, sistematica, spe- cializzata. Questa forma di filosofia,
storicamente, si è sviluppata soltanto in Occidente (al pari della scienza e
della tecnologia). Per quale motivo? Perché soltanto gli occidentali, a partire
dal popolo greco, sono riusciti a mettere a punto gli strumenti concettuali (la
logica, la dialettica, il puro ragionamento) che sono necessari per elevare la
filosofia dal livello elementare a quello scientifico. Infatti anche nelle
altre culture, specialmente in quelle derivanti dalle grandi civiltà
mediorientali ed orientali, elementi filosofici appaiono in contesti di
carattere prevalentemente religioso e pertanto non 10 possono essere definiti «
filosofia » in senso scientifico vero e pro- prio. Che i problemi ultimi si
possono affrontare e risolvere col puro ragionamento (controllato dalle regole
della logica) fu scoper- to da Parmenide, Eraclito, Platone e, soprattutto, da
Aristotele. Que- ste grandi intelligenze dell’Ellade cercarono la filosofia
come scien- za. La filosofia è quindi una conquista degli occidentali e, fino
ai giorni nostri, è rimasta una prerogativa del pensiero occidentale. È per
questo motivo che ogni storia della filosofia coincide pratica- mente con
l'esposizione delle teorie dei filosofi dell'Occidente. 2.2 Mito e filosofia
L'umanità primitiva (lo si può constatare presso tutti i popoli) per qualsiasi
problema si è accontentata di dare delle spiegazioni mitiche. Così alla
domanda: « Perché tuona? » ha risposto: « Per- ché Giove è adirato »; alla
domanda: « Perché tira vento? » ha ri- sposto: « Perché Eolo si è infuriato ».
A noi moderni queste soluzioni paiono semplicistiche e sbaglia- te. Tuttavia,
storicamente, esse hanno grandissima importanza, in quanto rappresentano il
primo sforzo fatto dall'umanità per render- si conto della natura delle cose e
delle loro cause. Sotto il velo fan- tastico c'è in esse un'autentica ricèrca
delle « cause prime » del mondo. Per questo motivo, riteniamo opportuno
spendere qui qualche parola sul mito, sulla sua definizione, sulle sue interpretazioni
prin- cipali e sul passaggio dalla mitologia greca alla filosofia. Il Turchi,
noto studioso della storia delle religioni, definisce così il mito: « Il mito,
nella sua accezione generale e nelia sua scaturigi- ne psicologica, è
l'animazione dei fenomeni delia natura e della vità, dovuta a qualche forma
primordiale ed intuitiva della conoscenza umana, in virtù della quale l'uomo
proietta se siesso nelle cose, cioè le anima e personifica dando loro figura e
atteggiamenti sugge- riti dalla sua immaginazione; esso è, insomma, una
rappresentazio- ne fantastica della realtà spontaneamente delineata dal
meccani- smo mentale ».! Di questa lunga definizione possiamo ritenere l’ulti-
ma parte: il mito è una rappresentazione fantastica, intuitivamen- te delineata
dal processo mentale dell'uomo, al fine di dare un'’in- terpretazione e una
spiegazione ai fenomeni delia natura e della vita. Come s'è detto, sin
dall'inizio l'uomo ha cercato di indagare l'origine dell'universo, la natura
delle cose e delle forze cui egli si sentiva soggetto. A questa indagine, sotto
la spinta cella fanta- sia creatrice e dell’intuizione, doti così vive ancor
oggi presso i po- poli primitivi, egli ha dato colore e forma, costruendosi un
mondo di esseri viventi (con sembianza umana oppure ferina), dotati di storia.
La loro funzione è di fornire una spiegazione per qualsiasi ! N. TURCHI, Le
religioni dell'umanità, Assisi 1954, p. 61. 11 Ii mito è ia prima riscosta
dell’umanità ai fenomeni delia naiura e delia vita Rivaiutazione del mito quale
risposta “‘prelogica’’ ai problemi dell’esistenza umana evenio della natura e
dell’esistenza umana: per la guerra come per la pace, per la quiete come per la
tempesta, per l'abbondanza come per la carestia, per la buona salute come per
la malattia, per la na- scita come per la morte. Tutti i popoli antichi, gli
assiri, i babilonesi, i persiani, gli egiziani, gli indiani, i cinesi, i
romani, i galli, i greci, hanno i loro miti. Però, fra tutte le mitologie, la
greca è quella che spicca maggiormente per ricchezza, ordine e umanità. Non c'è
quindi da essere sorpresi se fu proprio dalla mitologia greca che prese svi-
luppo la filosofia. Del mito sono state fornite le più svariate
interpretazioni, di cui le principali sono due: mito = verità, mito = favola. Secondo
l’interpretazione « mito = verità », il mito è una rappre- sentazione
fantastica che intende esprimere una verità. Secondo l'interpretazione « mito =
favola », il mito è un racconto immagi- noso senza nessun intento teoretico. I
miti, secondo la prima inter- pretazione, sono le uniche spiegazioni che
l'umanità, ai suoi primor- di, era in grado di fornire delle cose, ma sono
spiegazioni in cui credeva fermamente. I miti, nella seconda interpretazione,
sono raffigurazioni fantastiche in cui nessuno ha mai creduto, e meno degli
altri i loro creatori. I primi a considerare i miti delle pure favole furono i
filosofi greci. A loro più tardi si sono associati volentieri i Padri della
Chiesa, gli scolastici e la maggior parte dei filosofi moderni. Ma, a partire
dall'inizio del nostro secolo, vari studiosi di storia delle religioni
(Eliade}, di psicologia (Freud), di filosofia (Heidegger), di antropologia
(Lévi-Strauss), di teologia (Bultmann) hanno inco- minciato ad appoggiare
l'interpretazione mito = verità, indotti a ciò dall’argomento che l'umanità
primitiva, pur non potendo darsi del- l'universo una spiegazione « logica »,
cioè concettuale, ragionata e metodica, tuttavia deve aver cercato di darsi una
spiegazione più o meno intuitiva di fenomeni come la vita, la morte, il bene,
il male, ecc., fenomeni che colpiscono la mente di qualsiasi osservato- re, per
quanto poco istruito. Secondo molti studiosi contemporanei, i miti nascondono,
pertanto, sotto la maschera di immagini più o meno eloquenti, la risposta «
prelogica » fornita dall'umanità pri- mitiva a questi grossi problemi. Tale
risposta, a loro giudizio, me- rita d'essere presa in considerazione anche
oggi, perché l’umanità primitiva, semplice e attenta, in alcuni casi può aver
colto intuitiva- mente nel segno più dell'umanità progredita, troppo smaliziata
e distratta che si vale dei metodi raffinati della logica, della dialettica e
della scienza. Dall'analisi degli studiosi del nostro tempo risulta che presso
i popoli antichi il mito ha svolto tre funzioni principali: religiosa, sociale
e filosofica. Anzitutto « il mito è il primo gradino nel processo di compren-
sione dei sentimenti religiosi più profondi dell’uomo; è il prototipo 12 della
teologia »? Però, allo stesso tempo, esso è anche ciò che se- gnala e
garantisce l'appartenenza ad un gruppo sociale piuttosto che ad un altro;
infatti la diversa appartenenza dipende dai miti particolari che uno sposa e
coltiva. Infine il mito svolge anche una funzione affine a quella della
filosofia in quanto esso rappresenta il modo di autocomprendersi dei popoli
primitivi. Anche l’uomo del- le civiltà antiche è consapevole di certi fatti e
valori, e cristallizza la causa dei primi e la realtà dei secondi in quelle
rappresentazioni fantastiche che sono appunto i miti. Noi siamo del parere che
il mito sia denso di significato sia religioso che filosofico, sia sociale che
personale. Però non siamo disposti a rivalutarlo fino al punto. di stabilire
una equiparazione diretta tra mito e filosofia. Questa, pur proponendosi essenzialmen-
te lo stesso obiettivo del mito, ossia quello di fornire una compren- sione
esaustiva delle cose, cerca di conseguirlo in un modo comple- tamente diverso.
Infatti il mito procede con la rappresentazione fan- tastica, con
l'immaginazione poetica, con intuitive analogie suggeri- te dall'esperienza
sensibile; pertanto resta al di qua del /ogos, ossia al di qua della
spiegazione razionale. Invece la filosofia opera con la sola ragione, con
rigore logico, con spirito critico, con motiva- zioni razionali, con
argomentazioni stringenti’ basate su principi il cui valore è stato previamente
assodato in forma esplicita? 3. | problemi filosofici fondamentali Abbiamo già
detto che ogni cosa è suscettibile di indagine filo- sofica; si può, quindi,
dare una filosofia dell'uomo, degli animali, del mondo, della vita, della
materia, degli dèi, della società, della politica, della religione, dell’arte,
della scienza, del linguaggio, dello sport, del riso, del gioco, ecc. Di fatto,
però, coloro che si chiama- no filosofi hanno studiato di preferenza soltanto
alcuni problemi, quelli che vanno sotto il nome di logica, gnoseologia (o
problema del- la conoscenza), epistemologia, metafisica, cosmologia,
antropologia, etica, teodicea {o religione), politica, estetica, pedagogia,
cultura, linguaggio e assiologia, le quali costituiscono pertanto anche le
parti principali della filosofia. La logica si occupa del problema del-
l'esattezza del ragionamento; la gnoseologia della conoscenza; l'e pi-
stemologia, nell'accezione attuale del termine, della scienza, del suo
fondamento e del suo valore; la metafisica, del fondamento ultimo ? L. GILKEY,
I! destino della religione nell'èra tecnologica, Roma 1972, p. 163. ?
Aristotele dice che la differenza specifica tra scienza ed esperienza sta nel
fatto che la seconda testimonia che qualcosa è accaduto e ne rappresenta il
come, mentre la prima cerca di chiarirne il perché. A nostro avviso, anche la
differenza tra mito e filosofia sta proprio qui. Il mito ci dice come si
struttura l'universo, ossia il mondo degli dèi, degli uomini e delle cose. La
filosofia invece vuole spiegare il perché del mondo, dell'uomo e di Dio. 13 |
fondamenti filosofici sono le costanti della riflessione umana delle cose in
generale; la cosmologia, della costituzione essenziale delle cose materiali,
della loro origine e del loro divenire; l'antro po- logia, dell'uomo, della sua
natura e del valore della sua persona; la teodicea, del problema religioso
ossia dell'esistenza e della natura di Dio e dei rapporti che gli uomini hanno
con lui; l’etica, dell'origine e della natura della legge morale, della virtù e
della felicità; la politica, dell'origine e della struttura dello Stato;
l’estetica, del problema del bello e della natura e funzione dell’arte; la
pedagogia, dell’educazio- ne; la cultura del complesso delle conoscenze e dei
comportamenti dell'uomo; l'assiologia, dei valori. Essendo queste le costanti
del filosofare, che in forma più o meno accentuata sono presenti in tutte le
epoche della storia, prima di iniziarne lo studio sistematico è opportuno
acquisire un'idea abba- stanza precisa dei problemi che esse abbracciano e
intendono risol- vere. A tale esigenza si propone di rispondere il presente
volume. Esso non è diretto agli specialisti ma a chi inizia a studiare la
filosofia. Per questo motivo, i singoli problemi sono esposti e di- scussi in
forma semplice, precisa, essenziale. Di ogni problema si illustrano le origini
e gli sviluppi storici, le soluzioni prospettate dai vari filosofi attraverso i
secoli e le questioni tuttora aperte e pen- denti. CONCETTI DA RITENERE —
Conoscere; filosofia; filosofo — Intelletto; razionalità; logicità — Ricerca;
metodo; finalità — Scienza; tecnologia; scientificità — Induzione; deduzione —
Mito; favola; risposta « pre-logica » o intuitiva. SINTESI CONTENUTISTICA 1)
Che cos'è la filosofia — La conoscenza umana è superiore a quella degli altri
esseri viventi. A livello intellettuale essa assume due forme: razionale o
logica e simbolica o analogica. L'uomo è naturalmente « filosofo », egli cerca
sempre il perché delle cose. Vengono chiamati « filosofi » coloro che hanno
come primo scopo queste ricerche condotte in modo sistematico, per arrivare ad
avere delle risposte ai grandi interrogativi che da sempre si è posta l’uma-
nità. La filosofia ha una sfera particolare di competenza. Non è facile però
stabilire in modo specifico il campo di ricerca proprio della filosofia. In
realtà i filosofi si sono occupati non solo dello studio dell'uomo, ma anche
del lin- guaggio, dell'essere, della storia, dell’arte, della cultura, della
politica, ecc. Si può dire pertanto che la filosofia si occupa di ogni cosa,
ricercandone le cause e le ragioni fondamentali. Inoltre, mentre le singole
scienze studiano una par- ticolare dimensione della realtà, la filosofia ha per
oggetto l'universo preso nella sua totalità. . 2) La specificità della
filosofia è data dal fatto che essa si vale: a) di uno strumento di ricerca,
che è dato dalla ragione; b) di un metodo raziocinativo, valendosi
dell’induzione e della deduzione; c) dell'obiettivo specifico della co-
noscenza. 14 3) Le origini della filosofia — Filosofia elementare (comune a
tutti gli uomini) e scientifica (sistematica, specializzata). Rapporto tra mito
e filosofia. Due principali interpretazioni del mito: mito = verità, mito =
favola. Mentre sino al secolo scorso ha dominato il concetto del mito = favola,
dall’inizio del secolo XX molti studiosi hanno ripreso il concetto di « mito =
verità » in quanto l'umanità primitiva, non potendo dare una spiegazione «
logica » del- l'universo, ha cercato una spiegazione intuitiva ai grandi
fenomeni come la vita, la morte, il bene, il male, ecc. I miti, sotto la
maschera di immagini varie, danno una risposta « prelogica » a questi fenomeni.
Dalla mitologia greca prese sviluppo la filosofia. Funzione religiosa, sociale
e filosofica del mito. 4) I problemi filosofici fondamentali — La logica
(studio dell'oggetto del pensiero in quanto tale) si divide in formale,
trascendentale e matematica. Il « sillogismo » aristotelico; l'epistemologia
(teoria generale del sapere scienti- fico) e la gnoseologia (teoria filosofica
della conoscenza); la cosmologia (studio della forma e delle leggi
dell'universo); l'antropologia {studio dell’uomo); la metafisica (studio
dell'essere in quanto tale); l'etica o morale (studio dell'agire umano con
riferimento all'ultimo fine); l’estetica (studio dell'attività e della
produzione artistica); la politica (studio dell'origine e del fondamento dello
stato); la teodicea {studio di Dio); la storia (lo studio del senso della
storia); la pedagogia (scienza dell'educazione); la cultura (l'insieme di
costumi, valori, ecc., propri di un popolo); l’assiologia (studio dei valori).
QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Animali e uomo: in che cosa consiste
la differenza? 2. Quali forme assume, nell'uomo, la conoscenza intellettuale?
3. Perché l’uomo è stato sempre naturalmente filosofo? L'uomo come si
differenzia dagli altri esseri viventi? 4. Che cosa sono la filosofia e il
filosofo? 5. La differenza tra filosofia e scienze consiste nell'oggetto o nel
metodo? 6. Quali sono le principali concezioni cosmologiche della scienza
contem- poranea? 7. Che cosa è il mito? Come è sorto? 8. Perché si dice oggi
che il mito è una risposta « prelogica » dell'umanità? SUGGERIMENTI
BIBLIOGRAFICI 1. Sul concetto di filosofia: AA.Vv., Enciclopedia Garzanti di
filosofia, Garzanti, Milano 1986°. AA.Vv., Scienza e filosofia oggi, Massimo,
Milano 1980. GENTILE M., Che cosa è il sapere, La Scuola, Brescia 1948.
MARITAIN J., Introduzione alla filosofia, Massimo, Milano 1986. Morra G.F.,
Filosofia per tutti, La Scuola, Brescia 1974. PIEPER J., Per la filosofia,
Ares, Milano 1966. RicoBELLO A., Perché la filosofia, La Scuola, Brescia 1979.
VERNEAUX R., Introduzione e logica, Paideia, Brescia 1956. 2. Sui rapporti tra
mito, religione e filosofia: ABBAGNANO N., Filosofia, religione, scienza,
Taylor, Torino 1960. CopLESTON F.C., Religione e filosofia, La Scuola, Brescia
1977. MonpoLro R., Alle origini della filosofia della cultura, Il Mulino,
Bologna 1956. SERVIER J., L'uomo e l'invisibile, Borla, Torino 1967. 15 SNELL
B., La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, Torino 1963.
VERNANT J., Mito e pensiero presso i greci, Einaudi, Torino 1970. 3. Sui
problemi fondamentali della filosofia: AA.Vv., Studio ed insegnamento della
filosofia, A.V.E., Roma 1966, 2 voll. AA.Vv., Concetti fondamentali di
filosofia, Queriniana, Brescia 1982, 3 voll. AA.Vv., Storia antologica dei
problemi filosofici, collana diretta da Ugo Spirito, Sansoni, Firenze 1965 ss.
VOLKMANN-SCHLUCK, Introduzione al pensiero filosofico, Città Nuova, Ro- ma
1986. Per un aggiornamento generale segnaliamo la rivista quadrimestrale Per la
filosofia (Filosofia e insegnamento), dell'Ed. Massimo di Milano, con temi monografici
e una seconda parte di aggiornamento didattico per gli insegnanti. (Si può
chiedere lo « specimen » della rivista con i sommari dei vari numeri usciti).
16 Parte prima: I PROBLEMI FILOSOFICI Capitolo primo IL PROBLEMA LOGICO (*)
QUESTIONARIO PROPEDEUTICO
1. Esiste una relazione del pensiero con
se stesso? 2. Eventualmente, esso come si esprime e quale valore ha? 3. Quale
rapporto è possibile stabilire tra pensiero e, discorso? 1. Natura del problema
La conoscenza umana è un fenomeno complesso e misterioso. Al suo studio si
interessano particolarmente tre discipline filoso- fiche, la psicologia, la
gnoseologia e la logica: la prima ne esa- mina l'origine e i tipi principali;
la seconda ne accerta il valore, studiando il rapporto che intercorre tra la
conoscenza e gli oggetti conosciuti; la terza, infine, studia le condizioni
essenziali al co- stituirsi della conoscenza e fissa le regole per il suo retto
funziona- mento. La logica non presuppone la gnoseologia, di cui è piuttosto
uno strumento indispensabile per il raggiungimento della verità. ‘Pre- suppone
invece la psicologia, perché è da quest’ultima che essa viene a sapere quali
sono i tipi di conoscenza di cui è dotata la mente umana. Ottenute queste
informazioni (per l'appunto dalla psicologia), la logica procede allo studio
delle condizioni fondamen- tali che rendono possibili tali tipi di conoscenza
ed a stabilire le norme per il loro retto funzionamento. (*) Il termine greco
/ogos (dal verbo /égein = dire) presenta nella lingua originaria una pluralità
di significati, che esprimono però tutti una stretta con- nessione reciproca;
dal più semplice al più complesso sono i seguenti: parola, discorso,
ragionamento, mente, intelletto. Il termine indica quindi sia il sog. getto
pensante, sia il procedimento proprio del pensiero, sia il linguaggio nel suo
irisieme che la parola nel suo valore di comunicazione e di specchio astrat- to
delia realtà. La logica, di fatto, finisce per essere lo studio della retta
corre- lazione di tutti quesii elementi. 17 La logica ricerca le condizioni ed
il loro retto funzionamento per giungere alla gonoscenza La storia della
filosofia conferma la dipendenza della logica dalla psicologia Il problema
della logica si impone da sé. La logica: l’oggetto del pensiero in quanto tale
La logica è lo studio degli enti di ragione Tale dipendenza della logica dalla
psicologia è chiaramente con- fermata dalla storia della filosofia. Aristotele,
per esempio, distin- gue tre tipi di conoscenza intellettiva (apprensione,
giudizio e ra- gionamento) e così nella sua logica fissa le regole per il retto
fun- zionamento dell’apprensione, del giudizio e del ragionamento. Hu- me e
Stuart Mill pensano che tutta la conoscenza umana faccia capo alla fantasia e
pertanto nella loro logica stabiliscono delle re- gole per il retto
funzionamento della fantasia. Kant, da parte sua, distingue tre operazioni
conoscitive: sensazione, giudizio e ragiona- mento, e pertanto esplora le
condizioni trascendentali che rendono possibile il loro funzionamento. Il
problema logico, anche se a qualcuno può sembrare artificio- so, si impone da
sé. Esso prende forma non appena ci si accorge che alcune conoscenze possono
essere interpretate in maniera diver- sa, oppure che la conclusione di un certo
ragionamento non può essere valida. Ecco due esempi. Primo: di notte ho la
sensazione d'essere colpito mortalmente da una fucilata e mi sveglio di so-
prassalto; in un primo momento non so se si tratta di una per- cezione
oggettiva oppure semplicemente d'un sogno. Cosa è che distingue queste due
forme di conoscenza? Secondo: dalle proposi- zioni: « tutte le oche sono bipedi
» e « tutti i galli sono bipedi », qualcuno potrebbe trarre la conclusione: «
tutti i galli sono oche ». Per quale motivo una simile argomentazione è errata?
La logica si propone, quindi, di fornire una risposta ai seguen- ti
interrogativi: Ciò che esprimo quando parlo, che cos'è? E quali sono le sue
strutture? Quale la sua organizzazione interna? Della logica sono state date
molte definizioni. Una di quelle su cui quasi tutti gli autori si trovano
d'accordo è la seguente: « è la scienza che studia il pensato in quanto pensato
». Che significa « il pensato in quanto pensato »? Vuol dire che la logica
studia un oggetto di pensiero {il pensato) in quanto oggetto di pensiero (in
quanto pensato) e non in quanto rappresentazione di questa o di quella cosa.
Per esempio, la logica prende in esame l'idea di tavolo non in quanto è la
rappresentazione più o meno fedele di questo o di quel tavolo, oppure per
spiegare in che modo tale idea è entrata nella nostra men- te, ma considera il
tavolo in quanto, diventato pensiero, esso assume certe particolari
caratteristiche (che come oggetto fisico non ha), come l'universalità, la
predicabilità, la definibilità, ecc. Così, quando spiego che nella proposizione
« il tavolo è quadrato » tavolo è sogget- to e quadrato è predicato faccio un
discorso che appartiene alla lo- gica e non alla fisica. Spesso si dice che la
logica non studia enti reali ma enti di ragione. E questo è vero. Infatti le caratteristiche
del pensato, delle idee, come l'universalità, la predicabilità, ecc. sono
entità che non esistono nella natura delle cose (non sono entità fisiche), ma
esistono solo nella mente. La logica si divide in tre grandi branchie: logica
formale, logica trascendentale e logica matematica. 18 La logica formale
esamina le caratteristiche delle idee al fine di stabilire le norme del retto
argomentare. Si dice « formale », ap- punto perché ciò che l’interessa sono le
caratteristiche delle idee e non i loro contenuti. Ne consegue che le norme che
essa stabilisce garantiscono la correttezza del discorso ma non la sua verità.
La logica trascendentale tratta della validità delle nostre cono- scenze, ossia
delle condizioni alle quali esse devono la loro possi- bilità e verità, e
perciò del peculiare modo di essere del pensato in quanto pensato. La logica
matematica non parte da un determinato discorso al fine di determinare le
regole che ne garantiscono la verità, ma procede nel senso inverso: stabilisce
anzitutto un gruppo di regole sulle relazioni di certi termini tra di loro e
poi procede a determi- nare quale discorso sia possibile una volta accettato
tale gruppo di regole. La logica matematica viene pertanto costruita come un
puro calcolo. 2. Panorama storico Aristotele ci ha dato le prime norme della
logica formale: « La scienza della logica è stata scoperta dai Greci. Ciò non
significa che prima di essi non vi sia stato pensiero logico: questo infatti è
antico quanto il pensiero, poiché ogni ideazione fertile è con- trollata dalle
regole della logica. Ma una cosa è applicare tali regole inconsciamente nelle
operazioni del pensiero pratico, e un’altra for- mularle esplicitamente, in
maniera da sistematizzarle sotto forma di una teoria. Spetta ad Aristotele il merito
d'aver iniziato lo studio organico delle regole logiche ». Il merito principale
d’Aristotele è avere fissato con grande pre- cisione le regole
dell'argomentazione deduttiva, nella forma del sillogismo. Il sillogismo consta
di tre proposizioni di cui le prime due sono chiamate « premesse » e la terza «
conclusione ». Le tre propo- sizioni sono costruite soltanto con tre termini,
denominati « me- dio », « maggiore » e « minore ». Il medio è quello che
compare due volte nelle premesse ma non figura nella conclusione. Il mag- giore
e il minore figurano sia nelle premesse sia nella conclusione. Il maggiore è
quello che ricorre nella premessa maggiore e il mi- nore quello che ricorre
nella premessa minore. Per esempio, nel sillogismo: « Tutti gli uomini sono
ragionevoli; Socrate è un uo- mo; quindi Socrate è ragionevole », « uomo » è il
termine medio; « ragionevole » è il termine maggiore; « Socrate » è il termine
minore. ! H. REICHENBACH, La nascita della filosofia scientifica, Il Mulino,
Bolo- gna 1961, p. 208, 19 La logica si divide in: — formale — trascendentale —
matematica Aristotele fissa ie regole dell’argomentazione deduttiva (il
sillogismo): si ha la logica ‘‘formale’’ Le quattro figure del sillogismo
L’induzione: dal particolare all’universale Critica al sillogismo: da Sesto
Empirico, Cartesio, Stuart Mill Del sillogismo si danno quattro figure
principali, le quali si ca- ratterizzano per la diversa posizione assunta dal
termine medio nel- le premesse. La prima figura si ha quando il termine medio è
sog- getto della maggiore e predicato della minore; la seconda figura, quando è
predicato in tutt'e due le premesse; la terza, quando è soggetto in entrambe le
premesse; la quarta quando è predicato nella maggiore e soggetto nella minore.
Perché il procedimento sillogistico sia retto Aristotele ha fissato otto regole
fondamentali Oltre che dell’argomentazione deduttiva Aristotele s'è occupato
anche di quella induttiva. Il procedimento induttivo, o induzione, si ha quando
una proposizione universale viene inferita da due gruppi di proposizioni
particolari. Per esempio: a) il ferro è un me- tallo, il bronzo è un metallo,
l'oro è un metallo, il rame è un me- tallo, ecc.; b) il ferro è un buon
conduttore di elettricità, l'oro è un buon conduttore di elettricità, il rame è
un buon conduttore di elettricità, ecc.; c) dunque i metalli sono buoni
conduttori di elet- tricità. L'enumerazione dei casi non può essere completa,
perché i casi sono potenzialmente infiniti, ma dev'essere sufficiente a far co-
gliere la ragione del fenomeno (per esempio, che l’esser metallo è la ragione
della buona conducibilità). Lo studio della deduzione e soprattutto quello
dell'induzione fu ulteriormente approfondito da altri filosofi dopo Aristotele.
Gli Stoici e alcuni filosofi medioevali hanno sviluppato lo studio delle
deduzioni imperfette, vale a dire delle argomentazioni ipotetiche e
disgiuntive. Invece Bacone * e Stuart Mill5 hanno fissato alcune re- gole per
rendere l’induzione più feconda e sicura. Le tabulae di Bacone offrono metodi
di enumerazione dei casi; le regole di Stuart Mill precisano vari metodi di
ricerca della ragione di fatti sperimentali. L'utilità del procedimento
sillogistico è stata contestata da vari autori lungo il corso dei secoli, per
esempio, da Sesto Empirico, Cartesio, Stuart Mill. C'è però da osservare che le
loro difficoltà non muovono tanto dalla logica quanto dalla teoria della
conoscenza, la quale .viene concepita in modo diverso da quello di Aristotele.
? Le otto regole del sillogismo sono: 1. I termini debbono essere soltanto tre;
2. I termini debbono avere la medesima estensione nelle premesse e nella
conclusione; 3. Il medio non deve mai entrare nella conclusione; 4. Il medio
deve essere preso almeno una volta in tutta la sua estensione; 5. Due premesse
negative non danno nessuna conclusione; 6. Due premesse afferma- tive risultano
necessariamente in una conclusione affermativa; 7. Due premesse particolari non
danno nessuna conclusione; 8. La conclusione segue sempre la parte più debole,
ossia se una premessa è negativa la conclusione dev'essere negativa; se una
premessa è particolare, la conclusione dev'essere particolare. ? Sulla logica
aristotelica cfr. B. MONDIN, Corso di storia della filosofia, vol. I, pp.
122-123, Massimo; Milano 1983. ‘ Cfr. B. MONDIN, Corso di storia della
filosofia, vol. II, pp. 103-107, Massi- mo, Milano 1984. 5 Cfr. B. MONDIN,
Corso di storia della filosofia, vol. III, pp. 184-186, Massi- mo, Milano 1985,
20 Sesto Empirico e Stuart Mill negano i concetti universali, e quindi per loro
è assurdo pretendere di passare dall'universale al singo- lare come si fa nel
sillogismo. Invece Cartesio afferma la corioscenza intuitiva sia degli
universali che dei particolari, e pertanto per lui diviene superflua qualsiasi
argomentazione tesa a passare da un ordine all’altro. Invece secondo Aristotele
noi abbiamo la capacità di acquistare concetti universali, ma non per
intuizione, bensì me- diante l’astrazione dai particolari. L’astrazione però
non comporta la conoscenza di tuiti i particolari. Così nella deduzione si
vengono a conoscere nuovi casi singoli che nell'universale erano presenti sol-
tanto potenzialmente. Un altro tipo di logica, detta logica trascendentale,
volta a stabi lire le condizioni essenziali che rendono possibili i vari tipi
di cono- scenza, fu elaborata da Kant. Questi, convinto della validità della
scienza, ha esaminato quali siano gli elementi che fondano tale validità. A suo
giudizio, essi non possono procedere dall’espe- rienza che non è mai dotata di
necessità e universalità, ma dal sog- getto stesso: sono forme o categorie con
le quali il soggetto accoglie, interpreta e classifica l’esperienza. Nella sua
logica trascendentale Kant determina appunto le forme (di spazio e tempo) e le
categorie (dodici) che danno ordine all'esperienza. Secondo Kant l'intelletto
spontaneamente foggia gli oggetti dell'esperienza (per esempio, fa sì che essi
siano regolati dai principi di causalità, di ordine, ecc.), ma non li crea;
esso fornisce le condizioni a priori mediante le quali, sol- tanto, qualcosa
può essere pensato come oggetto. Queste condizioni sono l'oggetto della logica
trascendentale kantiana, la quale studia pertanto l'origine, la validità
oggettiva e l'estensione (sempre limitata all'ordine fenomenico) delle nostre
conoscenze a priori. La logica trascendentale non prescinde da ogni contenuto
come la logica formale, ma solo dal contenuto empirico (sensibile) delle
conoscenze. La teoria kantiana della logica trascendentale ha dato luogo ad
innumerevoli dispute. C'è chi l’ha salutata come la soluzione più adeguata al
problema della conoscenza scientifica; invece altri l'ha respintaoperchéprivadi
fondamento oppure perché non neces- saria. Alcuni ne hanno contestata la
validità, negando alla matemati- ca, alla geometria e alla fisica quelle
caratteristiche di certezza asso- luta che Kant ascriveva loro. Ora, se questa
obiezione è fondata, come i più recenti sviluppi della matematica e delle
scienze speri- mentali sembrano attestare, è evidente che crolla il terreno su
cui
Kant ha costruito il suo edificio. Altri
non mettono in questione la validità della scienza, ma per spiegarla non
ritengono necessario po- stulare elementi conoscitivi a priori (forme e
categorie). Seguendo Aristotele affermano che l’universalità e la necessità
delle idee e dei giudizi non è il risultato di una sovrapposizione di queste
caratteri- stiche sui dati dell'esperienza, bensì di una lettura approfondita
di tali dati: non sono frutto di una sintesi dell'elemento a posteriori con 21
Kant elabora le condizioni essenziali della conoscenza: si ha la logica
‘‘trascendentale”’ Dalla critica a Kant deriva il recupero della logica
aristotelica Nell'ultimo secolo si è sviluppata la logica ‘‘matematica’’
costruita come un calcolo di simboli La sintassi del linguaggio comprende: —
regole di formazione — regole di deduzione Il sistema assiomatico deriva dai
due tipi di regole quello a priori, bensì di un'astrazione effettuata
dall’intelletto sugli oggetti dell'esperienza. L'ipotesi aristotelica rispetto
a quella di Kant ha il vantaggio di salvaguardare meglio l'obiettività del
conoscere e, allo stesso tem- po, è in condizione di render conto della
mobilità delle scienze (fi- siche e matematiche).£ In Hegel la logica formale
di Aristotele e quella trascendentale di Kant non sono abbandonate ma
acquistano un senso nuovo: esse non si riferiscono più semplicemente alla sfera
del pensiero, ma an- che a quella della realtà, perché, secondo Hegel, tra le
due sfere c'è perfetta coincidenza: « tutto ciò che è razionale è reale e tutto
ciò che è reale è razionale ». Durante l’ultimo secolo, per merito di Frege,
Peano, Whitehead, Russell e altri, ha ottenuto considerevole sviluppo un terzo
tipo di logica, la logica matematica {detta anche logica simbolica oppure
logistica). Questa, come s'è detto, viene costruita come un calcolo di simboli,
i quali non hanno nessun altro senso che quello assegna- to loro dalle
rispettive regole. Il primo passo della logica matematica è stabilire la
sintassi del linguaggio: ossia fissare le relazioni dei segni tra di loro,
mediante alcune regole generali. Tale sintassi viene costruita indipendente-
mente dalla semantica del linguaggio, la quale si occupa del rapporto dei segni
con ciò di cui si parla. La sintassi comprende due gruppi di regole: di
formazione e di deduzione. Le regole di formazione stabiliscono prima quali se-
gni scritti (per esempio, q, p, v, -) sono espressioni del linguaggio, e poi
quali combinazioni di tali espressioni sono formule ben for- mate ossia
espressioni sensate, distinte dalle altre (non sensate). Alcune di queste
formule ben formate vengono assunte quali as- siomi, ossia quali primi
enunciati validi. Le regole di deduzione poi determinano mediante quali
procedimenti (per esempio, sostituzione di una espressione ad un’altra) altri
enunciati validi possono essere derivati, ossia dedotti, dagli assiomi
iniziali. Sia gli assiomi sia gli enunciati dedotti sono chiamati teoremi del
sistema. Il sistema che ne risulta è detto sistema assiomatico, in quanto tutti
i teoremi vi sono dedotti da pochi assiomi. Come s'è detto, i sistemi
assiomatici sono costruiti in modo del tutto indipendente dal significato che
potrà poi essere attri- buito ai loro teoremi, quando siano applicati ad una
scienza; ed i loro assiomi non hanno affatto la pretesa di essere evidenti.
Per- ciò «la deduzione non consiste nell’inferire da verità evidenti altre
verità, mediatamente evidenti (come nel sillogismo); ma consiste solo nel
trasformare date formule assunte come primitive (ossia gli assiomi), in modo da
ottenerne altre (le formule derivate): tutte ‘ Cfr. B. MONDIN, vol. II, pp.
338-347. * Cfr. B. MoNDIN, vol. III, pp. 74-80. 22 queste formule — ossia tutti
i teoremi — risultano così tra di loro concatenati in un unico sistema. I
sistemi sono però usualmente costruiti in vista della loro interpretazione,
ossia applicazione ad una data scienza; sicché l'utilità di un sistema sta
tutta nella sua ca- pacità di fornire un criterio rigoroso di distinzione di
date formule — i teoremi, eventualmente interpretabili come enunciati veri di
una data scienza — dalle altre formule. L'interpretazione di un sistema è data
dalle regole semantiche che mettono ogni sua espressione in rapporto o con un
nesso logico (disgiunzione, implicazione, ecc.) o con una delle entità
(oggetto, proprietà, relazione, proposizione, ecc.) studiate in una data
scienza. Il sistema e la sua interpretazione sono costruiti in modo tale che ad
ogni teorema del sistema corri- sponda una proposizione vera di quella scienza
in cui esso viene inter- pretato »} Perché un sistema assiomatico sia corretto
e logicamente inter- pretabile si esige che sia non-contraddittorio, tale cioè
che due for- mule di cui una nega quello che l’altra afferma, per esempio, « A
» e « non A », non siano ambedue in esso deducibili. Senonché nel 1931 Gidel
fece una scoperta che ebbe del sensa- zionale: dimostrò che la
non-contraddittorietà del sistema non può essere dimostrata nel sistema stesso:
ossia espréssa in un enunciato che sia teorema o assioma del sistema. Sicché per
affermare valida- mente la non-contraddittorietà d'un sistema occorre usare
espressio- ni estranee al sistema stesso. Si prese così coscienza dei limiti
interni della logica matematica. Più tardi ci si accorse che difficoltà ancora
maggiori provenivano dall'esterno, nel momento in cui si passava dal calcolo
simbolico alla traduzione semantica dei sistemi assioma- tici. E in effetti le
difficoltà apparvero insormontabili allorché nella traduzione dei sistemi
assiomatici, in un primo tempo, si adot- tarono regole semantiche come quelle
del neopositivismo, regole troppo rigide e del tutto inadeguate ad esprimere la
ricchezza e varietà dell'esperienza umana. Si cercò di superare tale difficoltà
abbandonando il neopositivi- smo e sviluppando una nuova filosofia del
linguaggio, la filosofia analitica. Questa insegna che ogni tipo di discorso
deve avere una logica sua propria e che la logica matematica si addice soltanto
al discorso scientifico. Dalla filosofia analitica i logici matematici hanno
appreso l’impor- tante lezione di mantenere una rigorosa distinzione tra la
loro opera e quella dei semantici. In effetti i logici matematici contempo-
ranei (Carnap, Quine, Church) costruiscono dei calcoli puramente formali,
intesi cioè come sistemi di segni privi di significato. Solo in un secondo
tempo si chiedono se vi siano delle verità significate da * F. RIVETTI BARBO',
« Il problema logico », in Studio e insegnamento della posse, Ave, Roma 1966,
pp. 159-160. Cfr. B. 'MONDIN, vol. III, pp. 450-456. » Cfr. Ivi, pp. 456-460.
23 L’interpretazione di un sistema: — nesso logico (disgiunzione, implicazione,
ecc.) — entità (oggetto, proprietà, relazione, proposizione, ecc.) Il problema
della non contradditorietà e i limiti della logica matematica La filosofia
‘‘analitica’’ insegna che la logica
matematica è solo del discorso scientifico Logica ‘‘formale’’ e logica
‘’simbolica”’: affinità e differenze Oggi risulta chiaro che la logica è una
tecnica ordinatrice del pensiero quei segni, e quali esse siano. Le risposte
variano dal nominalismo (Quine) al platonismo (Church). Al suo primo apparire,
la logica matematica parve a molti incom- patibile con la logica formale
tradizionale. Questo giudizio oggi non è più condiviso da nessuno. In effetti
tra le due discipline non esiste nessuna incompatibilità. Tant'è vero che in
uno dei testi più classici di logica matematica (quello del Quine), tutta la
prima parte non fa altro che riproporre, in forma simbolica, la logica formale
di Ari- stotele. Esistono tuttavia sicuramente alcune importanti differenze tra
logica formale e logica simbolica. In quest'ultima è più netta la se- parazione
tra il calcolo logico e l’interpretazione semantica; mentre in Aristotele
regole logiche e principi semantici sono spesso mesco- lati insieme. In secondo
luogo, l'apparato della logica matematica è assai più vasto e complesso di
quello della logica formale. Infine, mentre la logica tradizionale partiva
dalla definizione degli enti lo- gici (concetto, giudizio, ragionamento) e poi
ne ricercava le strut- ture, la logica matematica si limita a costruire i
sistemi formali la- sciando alla semantica di determinare, in un secondo tempo,
di quali enti si tratti. Grazie alla netta separazione tra logica e semantica
oggi risulta più evidente una verità che i filosofi del passato non hanno
sempre visto chiaramente: che, cioè, la logica, propriamente parlando, non è
una parte della filosofia (e tanto meno tutta la filosofia come pre- tendeva
Hegel) bensì una tecnica generale per ordinare rettamente il pensiero,
qualsiasi pensiero. Essa è pertanto un presupposto fon- damentale di tutte le
scienze, inclusa ovviamente anche la filosofia. CONCETTI DA RITENERE —
Psicologia; gnoseologia; logica — Logica formale, trascendentale, matematica —
Sillogismo; deduzione, induzione — Sintassi del linguaggio; regole di
formazione; regole di deduzione — Sistema assiomatico — Filosofia analitica
SINTESI CONTENUTISTICA I. IL PROBLEMA 1. La conoscenza umana è un fenomeno
complesso e misterioso. Tre disci- pline filosofiche si interessano ad esso: la
psicologia {ne esamina l'origine e i tipi); la gnoseologia (ne accerta il
valore); la logica (ne studia le condizioni essenziali e le regole del retto
funzionamento). x 2. La logica non presuppone la gnoseologia, di cui è strumento,
ma presup- pone la psicologia che le indica i diversi tipi di conoscenza. 3. Il
problema logico si pone da sé quando ci si rende conto che alcune conoscenze e
alcuni ragionamenti possono condurre a conclusioni diverse. Na- 24 scono allora
questi interrogativi: Ciò che esprimo quando parlo che cos'è? Quali sono le sue
strutture? Quale la sua organizzazione interna? 4. La logica studia un oggetto
di pensiero (il pensato) in quanto oggetto di pensiero (in quanto pensato) e
non in quanto rappresentazione della realtà. 5. La logica è così distinguibile:
a) logica « formale »: suo oggetto sono le idee e i loro contenuti; stabilisce
le regole del retto argomentare; b) logica « trascendentale »: tratta della
validità delle nostre conoscenze e della loro possibilità e verità; c) logica «
matematica »: è un puro calcolo che stabilisce un gruppo di regole sulla
relazione tra certi termini e determina quale discorso sia possibile. II.
PANORAMA STORICO 1. Aristotele ha fissato nel sillogismo le regole
dell’argomentazione dedut- tiva. Egli si è occupato anche dell’argomentazione
induttiva, che inferisce una proposizione universale da una particolare. 2. Lo
studio della deduzione e dell’induzione si è protratto nei secoli attra- verso
gli stoici, Bacone, Cartesio e Stuart-Mill. 3. La logica trascendentale deve la
sua paternità a Kant che attribuisce alle forme pure dello spazio e del tempo e
alle categorie il compito di organiz- zare l’esperienza. 4. In Hegel la
prospettiva aristotelica e quella kantiana assumono carat- tere metafisico: la
realtà è il pensato del pensiero. 5. Nel sec. XX Frege, Peano, Whitehead,
Russell, ecc. hanno elaborato la logica matematica o simbolica orientata a
stabilire la sintassi del linguaggio incentrata sulle regole di formazione e di
deduzione. Queste ultime portano alla individuazione dei sistemi assiomatici.
La correttezza del sistema assioma- tico sta nella sua non contraddittorietà.
Gòdel nel 1931 ha scoperto che il cri- terio di non contraddittorietà del
sistema è posto fuori dal sistema stesso. 6. Una nuova filosofia del
linguaggio, la filosofia analitica, insegna che ogni tipo di discorso deve
avere una sua logica e che la logica matematica si addice solo al discorso
scientifico. 7. Tra logica formale e logica simbolica vi sono importanti differenze:
nella prima sono spesso mescolate regole logiche e princìpi semantici; nella
seconda il calcolo logico e l’interpretazione semantica sono più nettamente
separati. QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Quale relazione intercorre
tra psicologia, gnoseologia e logica? 2. Che cosa contraddistingue la logica e
qual è l'oggetto del suo studio? 3. La logica in quante branchie si divide e
quale significato ha ciascuna di esse? 4. Che cosa sono il sillogismo e
l’induzione? 5. Quale rapporto intercorre tra la logica formale e lo studio
dell'analisi logica di una lingua? 6. C'è un campo di applicazione specifica
della logica matematica o simbo- lica nella nostra cultura a tecnologia
avanzata? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI BocHENSKI J., La logica formale, 2 voll.,
Einaudi, Torino 1972. CAsARI E., La logica del Novecento, Loescher, Torino
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Capitolo secondo IL PROBLEMA GNOSEOLOGICO (o problema della conoscenza)
QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. Che cosa si può ritenere necessario per la
conoscenza? 2. È possibile analizzare i caratteri del proprio modo di
conoscere? 3. Quale rapporto intercorre tra verità, errore e conoscenza? Il
problema della conoscenza, s'è osservato nel capitolo preceden- te, è un
problema complesso, i cui aspetti principali sono tre: primo, origine e
strutturazione; secondo, valore; terzo, retto funziona- mento. Il primo aspetto
è trattato dalla psicologia, il secondo dalla critica e il terzo dalla logica.
Nel capitolo precedente abbiamo esa- minato l'aspetto logico; ora, nel presente
capitolo, ci occuperemo sia di quello critico che di quello psicologico. I
principali problemi di ordine psicologico sono due, uno riguar- da le forme
della conoscenza umana e l’altro la loro origine. 1. Le forme della conoscenza
umana Per quanto concerne la conoscenza umana, è evidente che anche noi come
gli animali siamo dotati di alcune forme di conoscenza sensitiva: vista, udito,
gusto, odorato, tatto. 'Possediamo inoltre, anche un'altra capacità, la
memoria, la quale ci consente di richia- mare alla mente notizie che
appartengono al passato. Vi è infine la fantasia, che ci permette di
rappresentare le cose in modo originale, diversamente da come le abbiamo
ricevute dall'esperienza. Così, per esempio, possiamo immaginare un bue con la
testa di leone e la coda di coccodrillo, anche se di fatto un simile animale
non esiste nella realtà. Sul possesso di queste facoltà non esiste nessun
dubbio; perciò la filosofia non ha nulla da disputare al riguardo. Senonché la
conoscenza umana fornisce anche altri dati singo- lari, appartenenti all'ordine
scientifico, religioso, morale, estetico, ecc., che includono idee universali e
astratte, principi generali e asso- luti, leggi necessarie, e che presentano
quindi caratteristiche del tutto dissimili dalle conoscenze ottenute mediante i
sensi e la fanta- sia. Di fronte a tali dati sorge inevitabilmente
l’interrogativo: di che 27 Aspetti del problema della conoscenza: — orlginl e
strutturazione — valore — retto funzionamento Alcune forme della conoscenza: —
conoscenza sensitiva — memoria — fantasia Parmenide e i Pitagorici danno valore
assoluto alla conoscenza razionale Conoscenza sensitiva e conoscenza
intellettiva: orientamento platonico e orientamento aristotelico genere di
conoscenze si tratta? A quale sfera appartengono? Questo è un problema
impegnativo e spetta al filosofo risolverlo. Le soluzioni possibili, come ci
insegna la storia della fiiosofia, sono molte. Il problema fu già dibattuto dai
presocratici, i quali presentano subito una soluzione contrastata: Parmenide e
i Pitagorici ricono- scono apertamente oltre alla conoscenza sensitiva anche
quella ra- zionale, ma soltanto a quest’ultima ascrivono valore assoluto. In-
vece Protagora, Gorgia e gli altri Sofisti ammettono solo l’esistenza della
conoscenza sensitiva e in tal modo ritengono di riuscire a spiegare le profonde
divergenze che si incontrano tra gli orizzonti conoscitivi di membri
appartenenti a diverse società o anche allo stesso gruppo sociale. In generale,
però, durante il periodo classico, quasi tutti i filosofi riconoscono
l’esistenza di almeno due ordini conoscitivi: quello dei sensi e quello
dell'intelletto. Ma all’interno di questo ampio accordo di fondo, si danno
alcune divergenze significative tra i pensatori di orientamento platonico
(Platone, Plotino, Agostino, san Bonaven- tura) e quelli di orientamento
aristotelico (Aristotele, Averroè, Al- berto Magno, Tommaso d'Aquino). I
platonici suddividono sia la conoscenza sensitiva che quella intellettiva in
due tipi: — conoscenza sensitiva per immagine diretta, — conoscenza sensitiva
per immagine indiretta, ossia mediante una copia, — conoscenza intellettiva per
ragionamento (che Platone chiama dianoia e Agostino ratio inferior), —
conoscenza intellettiva mediante visione (che Platone chiama noesis e Agostino
illuminatio)? Gli aristotelici mantengono la prima distinzione, ma le assegna-
no scarsa importanza; respingono invece la seconda in quanto a lo- ro avviso la
nostra mente non è dotata di conoscenza intuitiva, ma solo astrattiva e
raziocinativa.* Il problema gnoseologico assume un'importanza singolare nel-
l'epoca moderna a partire da Cartesio. Questi comprende che dalla soluzione del
suddetto problema dipende la soluzione di tutti gli altri. Anche nel periodo
moderno come in quello classico, di fronte al problema dei tipi di conoscenza i
filosofi si dividono in due grandi schieramenti: alcuni ammettono sia la
conoscenza sensitiva che quella intellettiva; sono i razionalisti (Cartesio,
Spinoza, Malebran- che, Leibniz) e gli idealisti (Kant, Fichte, Hegel, Croce).
Altri ammet- tono soltanto la conoscenza sensitiva: sono gli empiristi
(Berkeley, ! Cfr. B. MONDIN, vol. I, pp. 60-61. ? Cfr. Ivi, pp. 62-64. ? Cfr.
Ivi, pp. 85-87; 217-219. ‘ Cfr. Ivi, pp. 137-139. 28 Hume), i positivisti
(Comte, Spencer, Mill) e i neopositivisti (Russell, Ayer). Oggi, il problema
delle forme della conoscenza rimane ancora aperto e tutto lascia prevedere che
neppure nel futuro si arriverà ad una soluzione conclusiva. Ci sarà sempre
anche in seguito, come nel passato, chi basandosi su ciò che è immediatamente
sperimentabile affermerà che l’unica conoscenza di cui siamo dotati è quella di
or- dine sensitivo. Altri invece, prendendo seriamente in esame alcune
espressioni della nostra conoscenza che non sono riconducibili al- l'ordine
sensitivo (come le conoscenze scientifiche, religiose, etiche, estetiche, ecc.)
riterrà necessario ammettere che siamo dotati anche di una forma di conoscenza
trans-sensitiva, ossia intellettiva. 2. Origine della conoscenza Le idee di cui
noi siamo in possesso da dove provengono? Sono riproduzioni di oggetti esterni
a noi o sono invece creazioni della nostra mente? Anche per questo problema,
come per quello pre- cedente si possono dare varie soluzioni. Si può pensare
che le idee siano esclusivamente frutto dell’azione dell'oggetto su di noi,
oppure che siano, viceversa, il risultato dell’opera del soggetto solamente,
oppure, infine, che siano dovute all'azione combinata del soggetto e
dell'oggetto. (Le divergenze, però, non finiscono qui. Abbiamo visto che quasi
tutti i filosofi riconoscono almeno due forme di conoscenza: quella sensitiva e
quella intellettiva. Ne consegue che le tre ipotesi prece- denti vanno
moltiplicate per due. E in effetti si può pensare: 1. tutta la conoscenza (sia
sensitiva che intellettiva) viene pro- dotta dall'oggetto (Platone); 2. tutta
la conoscenza (sia sensitiva che intellettiva) è prodotta dal soggetto (Hegel);
3. la conoscenza intellettiva è prodotta dal soggetto e quella sensitiva
dall'oggetto (Occam); 4. la conoscenza intellettiva è prodotta dall'oggetto e
quella sen- sitiva dal soggetto (Berkeley); 5. la conoscenza intellettiva è il
risultato dell'azione combinata del soggetto e dell'oggetto, mentre invece la
conoscenza sensitiva è dovuta esclusivamente all’azione dell'oggetto
{Aristotele); 6. la conoscenza sensitiva e quella intellettiva sono entrambe il
risultato dell'azione combinata del soggetto e dell'oggetto (Kant).
Storicamente le grandi linee di sviluppo del problema dell'origine della
conoscenza sono le seguenti. ‘Platone, il quale è il primo filosofo ad
affrontare questa questione in maniera esplicita e sistematica, ritiene che
tutta la conoscenza umana sia sensitiva che intellettiva abbia la sua origine
dall'oggetto. Dato però che nel mondo fisico che esperimentiamo non esistono 29
Forme della conoscenza: è un problema aperto Le idee: — riproduzione di oggetti
esterni — creazione della mente — relazione soggetto “oggetto Sei soluzioni al
problema delle forme e delle origini Sviluppo storico: — Platone: l’origine è
nell’oggetto (reminiscenza e anamnesi) — Aristotele: azione del soggetto In
virtù dell’intelletto — Sant'Agostino: le verità eterne e l'illuminazione — San
Tommaso: l’azione astrattiva dell’intelletto — Berkeley: Dio causa delle idee —
Hume: il primato della sensazione oggetti universali e necessari, Platone, per
spiegare l'origine della conoscenza intellettiva, ritiene necessario postulare
l’esistenza di un mondo ideale costituito appunto di oggetti universali,
necessari e pertanto immateriali. L'anima è stata a contatto con questo mondo
delle Idee prima di entrare nel corpo: è quindi preesistita al corpo.
Attualmente, quando conosciamo verità assolute noi non facciamo altro che
prendere coscienza (reminiscenza, anamnesi) di quanto ab- biamo già esperito
precedentemente, nell'Iperuranio.5 Aristotele considera la teoria platonica
dell'origine della cono- scenza intellettiva artificiosa, arbitraria e non
corroborata in alcun modo dall'esperienza. La conoscenza intellettiva a suo
parere, è do- vuta in larga misura all’azione del soggetto, il quale è dotato
di una potenza particolare (l'intelletto) mediante la quale elabora i dati
offertigli dall'esperienza così da cogliere in essi l'elemento universale e necessario
e pertanto essenziale. Sant'Agostino condivide la tesi platonica che le idee
universali (le verità eterne) sono prodotte in noi dall'esterno, perché a suo
giudi- zio se esse fossero causate da noi stessi non potrebbero avere quei
caratteri di assolutezza, certezza, universalità, immutabilità di cui sono
dotate, essendo noi esseri contingenti e fallibili; ma la modifica in un
aspetto importante: la causa della loro origine non sono le Idee ma Dio. Questi
le infonde nella nostra mente con la sua azione il- luminatrice (illuminatio).
San Tommaso ritiene che la teoria agostiniana misconosca l’auto- nomia
dell'uomo proprio in quella che è la sua facoltà più propria e specifica e che
lo innalza al di sopra del regno degli animali. Ripro- pone quindi la teoria
aristotelica: la conoscenza delle idee universali è dovuta all’azione
dell'intelletto umano, il quale le astrae dalle cose.! Sulla linea di Platone
continuano a muoversi alcuni eminenti filosofi moderni (Cartesio, Malebranche,
Rosmini, Gioberti); invece altri si muovono sulla linea di Aristotele (Locke, i
Neotomisti). Ma durante l'epoca moderna si affacciano soluzioni diverse da
quelle tradizionali. Così, per esempio, Berkeley afferma che le idee sono tutte
particolari, ma non hanno come causa della loro origine gli og- getti
materiali, bensì Dio stesso.’ Hume fonda tutta la nostra cono- scenza sulla
sensazione; ma non sa spiegare in che modo si formano in essa i dati iniziali
Ad ogni modo, presupposti tali dati, tutte le nostre conoscenze fattuali, a suo
avviso, sono frutto dell’azione della fantasia la quale le ottiene associando
oppure dissociando i dati pri- mari in base alla loro contiguità nello spazio e
nel tempo, alla loro 5 Cfr. Ivi, pp. 85-87. 6 Cfr. Ivi, pp. 137-139. ? Cfr.
Ivi, pp. 217-219. * Cfr. Ivi, pp. 286-290. * Cfr. B. MoNnDIN, vol. II, pp.
229-230. 30 somiglianza e dissomiglianza, e alla loro successione causale.!
Kant spiega sia la conoscenza sensitiva che quella intellettiva come il risul-
tato di una sintesi di elementi forniti in parte dal soggetto e in parte
dall'oggetto. L'oggetto fornisce la materia, il soggetto la forma. C'è pertanto
un elemento a posteriori (la materia) ed uno a priori (la forma). Kant
distingue pertanto vari elementi formali: nella cono- scenza sentitiva sono lo
spazio e il tempo; nella conoscenza intellet- tiva, le dodici categorie. In tal
modo Kant ritiene di aver superato l'impasse tra razionalisti ed empiristi e di
avere fornito una valida spiegazione dell'origine della conoscenza
scientifica." Ma la sua spie- gazione viene ben presto contestata dagli
idealisti; essi escludono qualsiasi apporto dell'oggetto nella formazione della
conoscenza, ritenendo che soltanto così si può salvare l'autonomia del
soggetto; e affermano che la conoscenza è creazione spontanea del
soggetto." Oggi si cerca di sbloccare il problema dell'origine della
conoscen- za facendo intervenire nella sua formazione molti altri fattori oltre
a quelli tradizionali (soggetto, oggetto, Dio). Gli psicanalisti danno rilievo
al fattore subcoscienziale ed istintivo; gli strutturalisti a quello sociale;
gli esistenzialisti, in particolare Heidegger, e i teorici della nuova
ermeneutica (Gadamer) al fattore storico; gli analisti a quello linguistico. A
nostro avviso, però, la soluzione conclusiva del problema della conoscenza non
va ricercata nell’affermazione di una sola di queste componenti ad esclusione
delle altre, bensì nella giusta armonizza- zione di tutti questi coefficienti
tra di loro e con quei due coefficienti indispensabili che sono il soggetto e
l'oggetto. 3. Valore della conoscenza Anche per quanto concerne l'aspetto
critico i problemi fonda- mentali sono due: a) che valore ha la conoscenza
umana? b) qual è il metodo più efficace per garantire alla nostra conoscenza il
raggiun- gimento della verità? Esaminiamo anzitutto il primo problema. Il
valore della nostra conoscenza diventa un problema nel mo- mento in cui
facciamo esperienza dell'errore. Allora ci domandiamo: possiamo fidarci delle
nostre facoltà conoscitive? Le conoscenze che esse ci procurano sono valide?
Quando e in che misura? Storicamente il problema del valore della conoscenza è
uno dei primi affrontati dai filosofi, i quali, poi, non hanno più cessato di
dibatterlo, fino ai nostri giorni. Per risolverlo, Parmenide traccia una netta
distinzione tra cono- ‘ Cfr. Ivi, pp. 234-236. " Cfr. Ivi, pp. 337-345. !?
Cfr. B. MonDIN, vol. III, pp. 31-32; 67-77. 4 Cfr. Ivi, pp. 222-227; 406-414;
456-460; 468472. 31 — Kant: la conoscenza come sintesi soggetto- oggetto Valore
della conoscenza: — i Sofisti: relativismo gnoseologico — Socrate: valore
assoluto della conoscenza intellettiva — Platone: immortalità, assolutezza e
necessità della conoscenza intellettiva — Aristotele: intelletto, essenza e
verità — Agostino: evidenza dell’esistenza scenza sensitiva ed intellettiva:
solo la seconda può attingere la verità; la prima al massimo può generare
opinioni. I Sofisti, i quali come s'è visto hanno una concezione sensistica
della conoscenza non le riconoscono in nessun caso valore assoluto: né nel campo
speri- mentale né in quello filosofico né in quello religioso né in quello
giuridico. Contro il relativismo e lo scetticismo dei Sofisti, Socrate fa
vedere che oltre alle conoscenze dei sensi l'uomo possiede anche altre
conoscenze che travalicano la sfera sensitiva come le idee di bontà, giustizia,
felicità, bellezza, verità; le quali hanno valore as- soluto." Platone
cerca di considerare la posizione di Socrate distinguendo due piani di realtà,
quello fisico e quello ideale ed assegnando all’in- telletto la conoscenza del
secondo mentre ai sensi appartiene la cono- scenza del primo. Ora, come il
piano ideale è immutabile, eterno, in- corruttibile, così anche la conoscenza
intellettiva è necessaria, im- mutabile e assoluta. Per contro, essendo il
piano materiale mutevole e corruttibile, anche la conoscenza sensitiva è
mutevole e soggetta ad errore." Aristotele condivide il pensiero di
Socrate e Platone circa l’essen- ziale validità della conoscenza intellettiva,
ma non la spiegazione fornita da Platone. Sono le cose stesse a suo giudizio a
contenere un nucleo fondamentale sempre identico a se stesso, l'essenza. Questa
non si trova al di fuori delle cose, separata, ma nelle cose. E l’intel- letto
umano attinge la verità afferrando per astrazione tale essenza. Dopo Platone e
Aristotele la filosofia greca attraversa un profondo travaglio, che sfocia
nell’abbandono dei loro poderosi sistemi meta- fisici e nel ripiegamento, con
gli Stoici e gli Epicurei, su specula- zioni di carattere etico e politico. Ma
la crisi della metafisica fornisce un ulteriore motivo per mettere in dubbio il
valore della ragione umana: così sorge lo “scetticismo”. Secondo questa
filosofia l’uomo non può mai raggiungere con certezza la verità." Durante
l’ultimo secolo avanti Cristo e nei primi secoli dell'era cristiana lo
scetticismo diviene la teoria di moda oltre che in Grecia anche a Roma. Persino
Agostino la condivide durante una fase della sua vita; ma poi, convertito al
cristianesimo, la respinge ferma- mente, mostrando che anche ammettendo di
cadere continuamente nell'errore, uno ha ciononostante e proprio per questo
motivo il possesso di almeno una verità: che esiste. Si fallor, sum. « Chi può
dubitare d'essere vivo, se ricorda, capisce, desidera, pensa, conosce e
giudica? Dal momento che egli ha questo dubbio, egli vive; se egli dubita,
pensa. Per quanti dubbi egli abbia, quindi riguardo ad altre cose, egli non
deve aver dubbi riguardo a questa; poiché se egli non * Cfr. B. MONDIN, vol. I,
pp. 49-51; 61-65; 70-74. * Cfr. Ivi, pp. 81-87. “ Cfr. Ivi, pp. 137-139. ” Cfr.
Ivi, pp. 177-179. 32 esistesse, non potrebbe aver dubbi riguardo ad alcuna cosa
»." Il valore della conoscenza umana, almeno di quella intellettiva, è
apertamente affermato e difeso da san Tommaso e dagli altri Scola- stici. Ma
col tramonto della Scolastica spunta nuovamente lo scetti- cismo. Alla fine del
Cinquecento esso fa presa su molti spiriti tanto che non è esagerato dire che
il « Que sais-je? » non è solo il motto di Montaigne ma di tutta la sua epoca.
Quando Cartesio decide di rin- novare l’edificio filosofico, la visione
imperante nel mondo dei dotti è ancora quella scettica. E così si comprende
perché il padre della filosofia moderna inizi la sua costruzione filosofica,
sottoponendo al vaglio della critica l’ordine della conoscenza, onde
verificarne il valore e la portata. Egli inizia, com'è noto, facendo le massime
con- cessioni allo scetticismo; ma questo non gli impedisce di cogliere una
prima fondamentale verità: dubito, quindi penso; penso, quindi sono: Cogito,
ergo sum. Da questa verità Cartesio deduce poi tutta una vasta serie di
proposizioni di ordine metafisico, religioso e anche fisico. Alla fine egli
ritiene di potere riscattare dal dubbio non sol- tanto le conoscenze di ordine
intellettivo ma anche quelle di ordine sensitivo, in quanto neppure queste
ultime sarebbero frutto del- l’esperienza bensì il risultato di un'attività «
innata ».!° A fianco di Cartesio e a difesa del valore della conoscenza intel-
lettiva si schierano alcuni grossi nomi della filosofia moderna, come Spinoza,
Malebranche, Leibniz, Wolff: è il gruppo dei filosofi razio- nalisti. Ma allo
stesso tempo si sviluppa anche una forte corrente contraria a Cartesio e alla
sua interpretazione ottimistica del feno- meno conoscitivo: è la corrente degli
empiristi (Locke, Berkeley, Hume) i quali o negano qualsiasi forma di
conoscenza intellettiva oppure ne contestano l'utilità. Secondo gli empiristi
l’unica cono- scenza che consente all'uomo di ottenere informazioni fattuali è
quella dei sensi, la quale tuttavia non può mai rivendicare per sé i caratteri
dell’universalità e della necessità. Pertanto la verità come sicura
corrispondenza tra le nostre idee e le cose non esiste. Come si vede, siamo di
nuovo ripiombati dentro lo scetticismo, anzi nello scetticismo più radicale.
Tale è in effetti la conclusione cui giunge la ricerca filosofica di Hume.®
Dalle posizioni assunte dagli empiristi e dai razionalisti, ma te- nendo allo
stesso tempo anche conto delle posizioni di prestigio ac- quisite dalla scienza
moderna, muove Kant quando affronta e pren- de nuovamente in esame il problema
critico. Questo a suo giudizio non può essere risolto che in modo positivo dati
i successi ottenuti dalle scienze sperimentali. Ossia si deve riconoscere la
validità della conoscenza intellettiva. Ma secondo Kant si deve circoscrivere
il suo ambito ad oggetti diversi da quelli che volevano assegnarle i ra-
zionalisti e gli empiristi. La conoscenza intellettiva non ha di mira #
AGOSTINO, De Trinitate, X, 10, 14. ' Cfr. B. MONDIN, vol. II, pp. 137-139. ®
Cfr. Ivi, pp. 224-243. 33 — Cartesio: dall’'evidenza del pensare all’evidenza
dell’esistere — Kant: la soluzione critica Tendenze attuali circa il valore
della conoscenza: scetticismo che si basa sulla scienza e sulla prassi la cosa
in sé (ossia la realtà oggettiva), ma i fenomeni. Soltanto come conoscenza dei
fenomeni essa attinge la verità, cioè la necessità e l'universalità. Quando
mediante la ragione l’uomo vuole oltrepas- sare la sfera dei fenomeni per
raggiungere quella del noumeno, egli si perde necessariamente in una selva di
antinomie.* La soluzione indubbiamente geniale ma discutibile di Kant, la quale
se per un verso aveva il merito di chiarire la struttura della conoscenza
scientifica, per un altro verso aveva anche il demerito di precludere ogni
soluzione teoretica proprio per quei problemi che maggiormente interessano e
tormentano l’uomo (come la pro- pria origine, la natura del proprio essere, la
sopravvivenza dopo la morte, l’esistenza di Dio, la libertà, ecc.): tale
soluzione non viene ac- colta per molto tempo. Dopo qualche decennio i filosofi
ricadono nuo- vamente nelle due classiche alternative: quella
intellettualistica (spo- sata dagli idealisti, gli intuizionisti, i neotomisti)
e quella sensistica (accolta dai positivisti, gli empiriocriticisti, i
materialisti, i neopo- sitivisti). î Oggi, la tendenza generale per quanto
concerne il valore della conoscenza è contraria al razionalismo ed è favorevole
ad uno scetti- cismo più o meno oltranzistico. È, però, una tendenza che assume
toni e sfumature diverse, di cui le espressioni più significative sono due. Una
è rappresentata da coloro che ritengono che la verità si debba sempre ricercare
per via conoscitiva, ma sono convinti che è necessario escludere qualsiasi forma
di metafisica: per scoprire la verità bisogna affidarsi soprattutto alle
tecniche delle scienze umane, la psicanalisi, la nuova ermeneutica, lo
strutturalismo oppure alle scienze sperimentali. L'altra è rappresentata da
coloro che cercano la verità non attraverso la speculazione bensì attraverso la
prassi. Secondo un gruppo di pensatori del XIX secolo, che fanno capo a Marx e
a Engels, la validità di una concezione, d'una teoria, d'un sistema non si può
provare con argomenti aprioristici, ma emerge nella prassi, nell'azione. Ma a
questo punto il nostro discorso è scivolato fuori da quello che era l'argomento
specifico di questa sezione, il problema critico, ed è entrato in un altro
argomento, quello del metodo. Eccoci quin- di, ora, a trattare la questione del
metodo nei suoi sviluppi storici. 4. Il metodo Il problema del metodo, in
quanto si propone di trovare una via che dia sicure garanzie di attingere la
verità, coincide in larga misura col problema logico, ma non interamente,
perché il problema logico prescinde dai contenuti, mentre invece il problema
critico si rivolge soprattutto ai contenuti. 2 Cfr. Ivi, pp. 336-346. 34 Il
problema del metodo è già avvertito dalla filosofia greca (c’è il metodo
maieutico di Socrate, il metodo dell’ascensus e del descen- sus di Plotino, il
metodo dialettico di Platone, il metodo induttivo e deduttivo di Aristotele) e
dalla filosofia cristiana (c'è il metodo alle- gorico di Origene, quello
introspettivo di Agostino, quello analogico di Tommaso d'Aquino), ma acquista
importanza capitale soprattutto nella filosofia moderna. Sorpresi e abbagliati
dal successo delle scienze sperimentali i filosofi si persuadono che anche la
filosofia potrebbe aspirare ad analoghi risultati, qualora disponesse di un
buon metodo. E perciò si preoccupano o di trasferire direttamente alla ricerca
filosofica gli stessi metodi della scienza (Bacone, Galilei)? e della
matematica (Cartesio, Spinoza, Leibniz) oppure cercano di escogitare nuovi
metodi. I più noti sono:
— il metodo del « cuore » di Pasca — il
metodo della verifica « storica » (verum est factum) di Vico ® — il metodo
associativo di Hume * — il metodo « trascendentale » di Kant 7 — il metodo
dialettico di Hegel * — il metodo positivo di Comte ” — il metodo pragmatico di
James ” — il metodo intuitivo di Bergson *! — il metodo fenomenologico di
Husserl” — il metodo della verifica sperimentale dei neopositivisti * — il
metodo della falsificabilità di Popper.* Oggi molti autori sono propensi ad
abbandonare tutti questi me- todi di tipo teoretico e ritengono che l'unico
metodo valido sia co- stituito dalla prassi. È la prassi, l’azione, la vita che
rivela se una teoria, un sistema sono validi. È nell'impatto con la storia, con
la realtà vissuta che emerge il valore di un'idea. A nostro avviso questo
metodo della prassi ha certamente dei pregi, perché la testimonianza dei fatti
contribuisce senza dubbio a decidere della bontà o meno di un'idea, una teoria,
un sistema. Ex fructibus eorum conoscetis eos, diceva Gesù. Ma non pensiamo che
esso possa essere assunto come criterio supremo di verità, come 1% ? Cfr. Ivi,
pp. 103-110. ® Cfr. Ivi, pp. 134-137; 163-164. 2 Cfr. Ivi, pp. 203-204. * Cfr.
Ivi, pp. 273-275. * Cfr. Ivi, pp. 234-236. 2" Cfr. Ivi, pp. 336-344. * Cfr.
B. MonpIN, vol. III, pp. 77-78. 2 Cfr. Ivi, pp. 178-181. * Cfr. Ivi, pp.
346-348.
# Cfr. Ivi, pp. 253-254. ® Cfr. Ivi, pp.
389-392. ® Cfr. Ivi, pp. 450-453. * Cfr. K.R. PoPPER, Logica della scoperta
scientifica, Torino 1970. 35 Metodo maieutico e metodo dialettico: Socrate e
Platone Nuovi metodi di ricerca sotto l'influsso dello sviluppo della scienza
Il metodo della prassi La valutazione critica di G. Reale guida infallibile
delle nostre azioni. Qualsiasi azione, per non essere cieca e stolta, ha
bisogno di venire guidata, illuminata, e la sua guida, ovviamente, non può
essere l’azione. Su questo punto a noi pare che abbia perfettamente ragione
Giovanni Reale quando scrive: « Quando sulla scia del pensiero marxistico o di
estrazione marxi- stica si asserisce che la filosofia non ha da contemplare ma
da can- giare la realtà [...] non si sostituisce semplicemente una visione
filosofica ad un'altra, ma si uccide la filosofia: il cangiare la realtà può
infatti essere solo un momento conseguente al vero ricercato e trovato, e più
che filosofare è, al massimo, corollario del filosofare. Il cangiare può essere
solo impegno etico, politico, educativo e non può mai essere, dal punto di
vista filosofico, momento primario, per- ché presuppone strutturalmente che si
sappia e si accerti preliminar- mente perché, come e in che senso e misura
cangiare; dunque sup- pone sempre a monte il momento teoretico (cioè
propriamente filo- sofico) come condizionante. Né vale obiettare, come coloro
che, quasi sentendosi in colpa di fronte all’obiezione prassistica, asseriscono
che, sì, cangiare la realtà non è filosofare, ma che, tuttavia, l'uomo di oggi
deve filosofare per cangiare qualcosa. Anche questa posizione è decettiva:
infatti, chi filosofa con questo spirito perde la libertà, e l'ansia del
cangiare fatalmente condiziona e turba il momento del contemplare; lo turba al
punto che, rovesciati i termini, e aggiogatisi al carro della prassi, la
speculazione pura diventa ideologia e quindi cessa di essere filosofia »,5
CONCETTI DA RITENERE — Conoscenza sensitiva; conoscenza intellettuale —
Relazione soggetto-oggetto — Scetticismo; metodo SINTESI CONTENUTISTICA I. LE
FORME DELLA CONOSCENZA UMANA 1. La conoscenza umana, complessamente articolata,
consta di una forma sensitiva (vista, udito, gusto, odorato, tatto); della
memoria che custodisce il passato; della fantasia che rappresenta le cose in
modo originale rispetto al- l'esperienza. Sull’evidenza di questa conoscenza la
filosofia non ha nulla da discutere. Problematiche sono invece le conoscenze
astratte che suscitano in- terrogativi circa il loro genere e la sfera di
appartenenza. 2. Il problema gnoseologico è stato dibattuto in modo
contrastante. Dalle origini del pensiero occidentale ad oggi si è verificata la
seguente alternanza di orientamenti: a) compresenza della conoscenza sensitiva
e di quella razionale (Parme- nide, pitagorici, platonici, aristotelici); * G.
REALE, I problemi del pensiero antico dalle origini a Platone, Celuc, Milano
1972, pp. 52-53. 36 b) primato della conoscenza sensitiva su quella razionale
(i sofisti, gli em- piristi, i positivisti, i neopositivisti); c) primato della
conoscenza razionale su quella sensitiva (i razionalisti e gli idealisti). 3.
Nell’età moderna il problema gnoseologico va acquisendo un graduale primato,
decisamente affermato soprattutto da Cartesio; nel nostro tempo re- sta un
problema aperto. II. ORIGINE DELLA CONOSCENZA 1. Le idee sono riproduzioni di
oggetti esterni a noi o sono creazioni della nostra mente, oppure esse sono il
risultato dell’azione combinata del soggetto e dell’oggetto? 2. Si sono
delineate per i tre interrogativi sei piste di soluzione: a) tutta la
conoscenza è prodotta dall'oggetto (Platone); b) tutta la conoscenza è pro-
dotta dal soggetto (Hegel); c) la conoscenza intellettiva è prodotta dal
soggetto e quella sensitiva dall'oggetto {(Occam); d) la conoscenza
intellettiva è prodotta dall'oggetto e quella sensitiva dal soggetto
(Berkeley); e) la conoscenza intel- lettiva è risultato dell'azione combinata
del soggetto e dell'oggetto; f) la cono- scenza sensitiva è dovuta all’azione
dell'oggetto {Aristotele). III. VALORE DELLA CONOSCENZA 1. Il valore della
conoscenza diventa un problema DS momento in cui fac- ciamo esperienza
dell’errore. 2. Storicamente il problema del valore è stato tra i primi ad
essere affron- tato: Parmenide: la conoscenza intellettiva attinge alla verità,
la conoscenza sensitiva genera opinioni; Sofisti: la conoscenza non ha mai
valore assoluto; Socrate e Platone: le conoscenze intellettuali hanno valore
assoluto, le cono- scenze sensitive sono soggette ad errore; Aristotele: l'intelletto
umano attinge la verità afferrando per astrazione l'essenza delle cose;
Agostino: inoppugna- bile verità dell’esistenza; San Tommaso: afferma il valore
della conoscenza intellettiva; Prospettiva scettica della filosofia del ’500;
Cartesio: dal dubbio metodico al valore assoluto della conoscenza intellettiva;
Empiristi: primato della conoscenza sensibile e negazione della verità; Kant:
mediazione tra cono- scenza sensibile e conoscenza intellettiva; Tendenza
scettica della cultura con- temporanea. IV. IL METODO 1. Già avvertito nel
pensiero classico (Socrate, Platone e Aristotele), il pro- blema emerge
nell'età moderna con particolare riferimento al sapere scientifico (Bacone e
Galilei) e al sapere matematico (Cartesio, Spinoza e Leibniz). 2. Dal metodo
del « cuore » di Pascal al metodo della falsificabilità di Pop- per il pensiero
moderno e contemporaneo si è impegnato in una costante ri- cerca. Oggi,
abbandonata la strada teorica, si attribuisce validità di metodo alla prassi
(la storia e la realtà vissuta convalidano un'idea). QUESTIONARIO DI VERIFICA E
DISCUSSIONE 1. Qual è l'origine della conoscenza umana e quali le sue forme
fonda- mentali? 2. Quale valore ha la conoscenza umana? 3. Come si arriva al
raggiungimento della verità per la nostra conoscenza? 4. In che cosa consiste
il problema gnoseologico? Quali sono i suoi aspetti princi pali? 5. Qual è il
pensiero dei platonici, degli aristotelici, dei razionalisti, degli empiristi,
degli idealisti sulla divisione, l'origine e il valore della conoscenza? 37 6.
Come sorge il problema critico? Quale impostazione assume in Socrate, Agostino,
Cartesio, Kant e Husserl? 7. Che cos'è il metodo? Quali sono i metodi proposti
da Platone, Aristotele, Cartesio, Spinoza, Vico, Leibniz, Hume, Kant, Hegel,
Husserl, Wittgenstein, Mara? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI BLANDINO G., I!
problema della conoscenza, Abete, Roma 1972. FagRO C., Percezione e pensiero,
Morcelliana, Brescia 1961. HEEGGER M., Sull’essenza della verità, La Scuola,
Brescia 1977, MARCUSE H., L'uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967.
MARITAIN J., / gradi del sapere, Morcelliana, Brescia 1981. Miano V., Problemi
di gnoseologia e metafisica, L.A.S., Roma 1966. PENATI G.C., Problemi di
gnoseologia e metafisica, Vita e Pensiero, Milano 1979. Poppi A., La verità, La
Scuola, Brescia 1984. RINALDI G., Critica della gnoseologia fenomenologica,
Giannini, Napoli 1979. RIVETTI BarBò F., Dubbi, discorsi, verità. Lineamenti di
filosofia della cono- scenza, Jaca Book, Milano 1985. SAMEK Lopovici E.,
Metamorfosi della gnosi, Ares, Milano 1979. SANGUINETI J.J., Logica e
gnoseologia, Ed. Urbaniana, Roma 1984. VANNI RovIGHI S., Gnoseologia,
Morcelliana, Brescia 1979. 38 Capitolo terzo li PROBLEMA EPISTEMOLOGICO {o
problema della scienza) QUESTIONARIO PROPEDEUTICO I. Che cosa si intende per
scienza oggi? E che cosa si intendeva nel passato? 2. Quale valore è da
attribuire al sapere scientifico? $. Evoluzione del concetto di scienza nei
corso dei seceli Da quando Comte negò alia filosofia una propria sfera di
oggetti e le affidò come compito specifico lo studio delle scienze, ia determi-
nazione dei loro oggetti e dei loro compiti, la loro divisione e coor-
dinazione, l’attenzione dei filosofi si è rivolta sempre più insistente- mente
in direzione della scienza, la quale è divenuta per molti l’ar- gomenta
principale e centrale della loro analisi. Del resto, un'inda- gine più attenia
e approfondita delle caratteristiche e delle funzioni del sapere scientifico
era richiesta, oltre che dall’orientamento posi- tivistico delia filosofia,
anche dagli enormi sviluppi e dall'importanza straordinaria che la scienza
aveva acquisito durante gli ultimi due secoli, un periodo in cui essa ha
mostrato di essere un sapere estre- mamente fecondo e pratico. Da tali istanze
ha preso il via quelia speciale disciplina che si chiama filosofia della
scienza o episiemologia. Questa si identifica « con la critica metodologica
della scienza, nelia misura in cui tale critica tende all’'esplicitazione
consapevole e sistematica del metodo e delle condizioni di validità dei giudizi
— particolari, o singolari, e universali — fatti propri dagli scienziati e
persegue così una “rico- struzione razionale”, convenzionalmente qualificata in
senso empiri- co-pragmatico, del concetto di conoscenza scientifica ». Gli interrogativi
a cui l'epistemologia si propone di rispondere sono i seguenti: « Cos'è la
conoscenza scientifica? In altre parole, in che cosa cohsiste propriamente il
lavoro dello scienziato? Cosa fa egli quando fa scienza? Interpreta, descrive,
spiega, prevede? Le sue sono soltanto congetture oppure asserzioni (generali e
singolari) rispecchianti fedelmente tratti (generali e singolari) dei fatti? E
quan- do lo scienziato spiega, cos'è che egli spiega dei “fatti”? La fun- FO A.
PASQUINELLI, Nuovi principi di epistemologia, Feltrinelli, Milano 946, p. 56.
39 La riflessione sulla scienza: caratieristiche s funzioni L'epistemotpgia:
critica metodologica della scienza Gli interrogativi fondamentali — induzione —
causalità — oggettività Presa di coscienza della problematicità del sapere
scientifico Trasformazioni nel tempo del concetto di scienza: — divisione
aristotelica: matematica, fisica, metafisica — età moderna: l’aspetto
denotativo ristretto ai fenomeni sperimentabili e calcolabili zione, l'origine,
la genesi, l'essenza, il fine? Qual è lo status logico delle leggi nella
scienza? Sono essi l'esito di procedimenti induttivi (e poi che cosa vuol dire
induzione nella scienza?), ovvero congetture della fantasia scientifica che
dovranno venir sottoposte ad una terribi- le lotta (prove empiriche) per
l’esistenza? Inoltre, in che senso si par- la di causalità (e di cause) nelle
scienze empiriche? Quand'è, poi, che possiamo dire che una teoria è “migliore”
di un’altra? E che cos'è che intendiamo allorché diciamo che le scienze
empiriche sono og- gettive? Qual è il ruolo dell'esperienza nella ricerca
scientifica? Sono questi tutti interrogativi che sgorgano dalla domanda
iniziale su che cosa sia la conoscenza scientifica »? Questi interrogativi
hanno cominciato ad imporsi all'attenzione dei filosofi verso la fine
dell'Ottocento con Boutroux, Poincaré, Duhem, Mach, ecc., allorché
all’atteggiamento di ottimistica fiducia e cieca esaltazione della scienza, è
subentrato un atteggiamento di pacato scetticismo e di critica penetrante nei
confronti della cono- scenza scientifica. Si deve appunto alla presa di
coscienza della pro- blematicità di tale conoscenza (coscienza che era ancora
assente in Cartesio, Newton, Kant, Comte, Spencer, ecc.) la nascita e lo
sviluppo della filosofia della scienza o epistemologia. Il concetto di scienza
ha subìto profonde trasformazioni lungo il corso dei secoli sia per quanto
attiene all'aspetto connotativo (il significato del termine) sia a quello
denotativo (il campo di applica- bilità). Aristotele, per primo, definì la
scienza come cognitio rei per causas: conoscenza di una cosa attraverso i suoi
principi (cause) costitutivi, o, più brevemente, « conoscenza ragionata,
argomentata, delle cose ». Aristotele divideva le scienze in tre grandi rami: mate-
matiche (scienze dei numeri), fisiche (scienze delle cose materiali) e
metafisiche (scienze delle realtà indipendenti dallo spazio e dal tempo).
Durante l'epoca moderna, a partire da Bacone, c'è stato un cam- biamento per
quanto concerne l'aspetto denotativo: perché l'ambito di applicazione del
termine « scienza » un po’ alla volta è stato ri- stretto allo studio di
fenomeni sperimentabili fisicamente e calcola- bili matematicamente; ma allo
stesso tempo interveniva anche un cambiamento concernente l'aspetto
connotativo, dato il nuovo si- gnificato che andava assumendo nel pensiero
moderno il concetto di causa. Per « causa » Aristotele ed in generale tutti i
pensatori dell'an- tichità e del Medioevo intendevano l'essenza, la natura
delle realtà (sia materiali che spirituali) e credevano che per spiegare ‘un
fatto, un fenomeno, bastasse conoscere l'essenza della cosa che lo pro- duce.
Così, per es., per spiegare il fenomeno dell'ebollizione del- l'acqua quando
viene messa sul fuoco, pensavano che fosse necessario ? D. ANTISERI, La
filosofia del linguaggio, Morcelliana, Brescia 1973, p. 95. 40 e sufficiente
conoscere la natura dell’acqua e del fuoco. Da tale con- cetto di scienza e di
causa derivava quell'interessamento per le es- senze delle cose tanto caratteristico
del pensiero antico. Nel pensiero moderno si registra un cambiamento radicale.
Da Bacone (1561-1626) in poi l'oggetto della scienza non è più l'essenza delle
cose che si nasconde dietro i fenomeni, bensì i rapporti co- stanti, le leggi
che legano i fenomeni fra di loro. Anche secondo la concezione moderna la
scienza studia la causa dei fenomeni ma, per causa, non si intende più
l’essenza e l'elemento qualitativo delle cose, ma solo gli aspetti quantitativi
e la relazione costante che lega i feno- meni fra di loro, cioè la legge. La
legge indica puramente una relazio- ne di fatto fra due termini. Anziché un
rapporto causale propriamente detto la legge esprime una certa regolarità
fenomenica. Per esempio, che ad una certa variazione di temperatura coincide
nel metallo una certa variazione di dilatazione. Questo però non dice nulla
riguardo alla natura ontologica del calore e del metallo o della causalità del
mondo materiale. Il problema che si pone lo scienziato non è più quello del
perché e dell'essenza delle cose, ma quello del come e del comportamento delle
medesime. Nasce così il concetto moderno di legge naturale che viene a prendere
il posto della natura, essenza, o forma aristotelica. La legge non è la
definizione dell'essenza della co- sa, bensì la formulazione del rapporto
costante tra due grandezze va- riabili, non è dunque che la descrizione del
comportamento di un fe- nomeno, espressa in forma matematica. Questo
cambiamento nella concezione dell'oggetto della scienza è avvenuto, come già
detto, nel sedicesimo e diciassettesimo secolo. In tempi assai più recenti si è
effettuato un cambiamento non meno sensazionale riguardo alla concezione dei
rapporti tra scienza e realtà. Fino alla fine del secolo scorso si è sempre
concepita la scienza come una fedele riproduzione della realtà. Scienziati e
filo- sofi hanno universalmente ritenuto che la scienza riveli all'uomo la
struttura effettiva delle cose e gli manifesti esattamente la realtà. Secondo
tale concezione dei rapporti tra scienza e realtà, per esem- pio, le «
definizioni » di Euclide non indicano semplici costruzioni mentali nostre, in
certo modo convenzionali e che potrebbero perciò essere diversamente formulate,
ma designano essenze reali concepite di per sé esistenti. Allo stesso modo è
concepita la sostanza e lo spazio. Molti antichi credono non solamente in
questa fedele corri- spondenza tra scienza e realtà ma arrivano persino ad
identificare il razionale con il reale. Così, per esempio, poiché cerchio e
sfera, per l'equidistanza di tutti i punti dal centro e quindi la simmetria ed
ar- monia che presentano, sono figure « perfette », Aristotele e gli astro-
nomi antichi deducono che gli astri, che sono gli esseri materiali più «
perfetti », devono avere forma sferica e muoversi secondo orbite circolari. La
scienza moderna invece, fondandosi sull’osservazione di fatto, ha dimostrato
che la terra è schiacciata ai poli e che le orbite dei pianeti sono ellittiche.
La concezione classica di esatta 41 Oggi si studia Il comportamento delle cose
Daila scienza come riproduzione della realtà si passa alla scienza come
sistemazione dei dati dell'esperienza Dogi si ritiene che i cencetti filosofici
fon corrispondono esattamente alla realtà corrispondenza tra scienza e realtà è
durata per molto tempo anche nell'età moderna e non raramente si è spinta la
corrispondenza tra lo scientifico e il reale fino a tal punto da identificare
lo scientifico col reale, sicché è reale solo quello che è scientifico. È
famoso il caso delle proprietà primarie (figura, estensione e numero) e secon-
darie (colore, odore, sapore, ecc.). Secondo Galilei, Cartesio e mol- tissimi
altri scienziati e filosofi moderni, poiché la considerazione scientifica si
limita alle qualità primarie, queste sono ritenute ogget- tive e perciò reali,
mentre le qualità secondarie sono considerate sog- gettive e quindi irreali.
Estensione, moto e numeri, cioè i concetti che hanno preso il luogo prima
occupato dalle forme e essenze arista- teliche non sono concepiti da Galilei e
Newton meno realisticamen- te di quanto non lo siano state ie forme e sono
considerati l'essenza costitutiva della realtà naturale. Col crollo di molti
punti cardinali della scienza moderna, co- struita da Newton e ritenuta per un
paio di secoli infallibile come i dogmi rivelati, la concezione classica di
esatta corrispondenza tra scienza e realtà cominciò a vacillare. Oggi la
maggioranza degli scienziati ritiene che i concetti scientifici non
corrispondano esatta- mente alla realtà. Essi non concepiscono la scienza come
una ripro- duzione fedele della realtà ma come una semplice sistemazione dei
dati dell'esperienza. La scienza, quindi, non è valida in quanto rivela
all'uomo la struttura effettiva dei fenomeni ma in quanto permette all'eomo di
orientarsi nella congerie dei fatti che gli presenta l’espe- rienza, di
prevederne la successione futura e di poter quindi meglio attendere
all'organizzazione della propria vita. Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955),
paleontologo e teologo, ha scritto a questo proposito: « Se prendiamo nel suo
insieme l’edificio di onde e di particelle costruito dalla nostra scienza,
risulta chiaro che questa bella architettura contiene di “noi-stessi” almeno
quanto contiene delle “cose”. Giunte ad un certo grado di ampiezza e di
sottigliezza, le costruzioni della fisica moderna lasciano intravedere
distintamente la trama intellettuale dello spirito del ricercatore sotto la
marea dei fenomeni. Di qui il dubbio che fotoni, protoni, elettroni e altri
elementi della materia non abbiano né maggiore (né minore) realtà fuori della
nostra mente di quanto ne abbiano i colori fuori dei nostri occhi. Di
conseguenza il vecchio realismo dei laboratori si incammina verso una specie di
idealismo scien- tifico ».3 Sullo stesso argomento il matematico Jules-Henri
Poincaré (1854- 1912) si è espresso nel modo seguente: « Le teorie matematiche
(dei fenomeni fisici) non hanno lo scopo di rivelarci la vera natura delle
cose; questa sarebbe una pretesa irragionevole. Il loro unico scopo è di
coordinare le leggi fisiche che l'esperienza ci fa conoscere, ma che senza il
concorso delle matematiche non potremmo neppure e- ? P. TEILHARD DE CHARDIN,
L'énergie humaine, Parigi 1962, p. 144. 42 nunciare. Interessa poco che l'etere
esista effettivamente, questo è un problema che interessa i metafisici:
l'essenziale per noi è che tutto si svolga come se di fatto esistesse ».* Le
parole di Poincaré sono assai autorevoli, perché è stato lui a provare che lo
spazio di cui tratta la geometria euclidea non è né la riproduzione esatta
della realtà, come aveva creduto la scienza classica, né una forma a priori
come aveva sostenuto Kant, ma è una costruzione mentale escogitata dall'uomo
per riordinare i dati dell'esperienza ed eliminare da essi il carattere
complesso e contrad- dittorio con cui si presentano. Anche il concetto di
numero ha mutato significato per lo scienziato moderno. Mentre per gli antichi
il nu- mero era un elemento essenziale della realtà materiale e per alcuni
l'essenza stessa delle cose, per gli scienziati del nostro tempo i nu- meri
sono un simbolismo, come le parole, introdotto dall'uomo per esprimere e
riassumere certi caratteri dei fenomeni, come la esten- sione, la molteplicità,
la direzione, ecc. I principali argomenti che si adducono a favore della nuova
con- cezione della scienza e del significato delle teorie scientifiche sono
tre. Il primo e più importante è quello che si fonda sulla verità che tutte le
nostre idee hanno solo una corrispondenza parziale con le cose. La realtà
individuale è troppo complessa e la mente umana per comprenderla deve sempre
sottoporla a riduzioni, semplificazioni, schematizzazioni che rappresentano le
cose solo in modo imperfetto e inadeguato. Per questo motivo gli scolastici
affermavano che tra conoscenze umane e cose non vi è relazione di univocità ma
di ana- logia. E tutti sanno che l'analogia comporta una piccola somiglianza là
dove c'è grande differenza. Un altro importante argomento 2 fa- vore della
nuova interpretazione è il fatto che il soggetto conoscerite è sempre coinvolto
nell'evento che sta osservando, e, per certi espe- rimenti, l'osservazione si
risolve sempre in una modificazione de! fe- nomeno. È questo il significato dei
famoso principio di indetermina- zione formulato dal fisico Werner Heisenberg,
che afferma l’impos- sibilità di determinare assieme la posizione e la velocità
di un elet- trone, perché la determinazione delia posizione richiede che
l’eiet- trons sia illuminato, il che ne altera inevitabilmente la velocità.
Analoga conclusione si ricava dal famoso teorema di Gòdel,' il quale dice che «
di qualsiasi sistema logico è indimostrabile la non-con- traddittorietà con i
mezzi offerti dal sistema stesso ». Il terzo arga- mento è la constatazione che
tante teorie scientifiche ritenute incroi. labili in un non lontano passato,
recentemente sono risuitate se non proprio errate quanto meno insufficienti:
inapplicabili ai nuovi fe- nomeni che sono venuti alla luce con l'ampliarsi
dell'orizzonte delia scienza. ‘ H. PoINCARÉ, La science et l'hypothèse, Parigi
1902, p. 245. 5 Kurt Géodel (1906-1978) matematico statunitense di origine
morava, che, doro l'avvento del nazismo, andò negli USA ad insegnare
nell'università di rinceton. 43 Dal carattere essenziale 21 carattere simbolico
del numero Tre argomenti a favore delia concezione moderna della scienza: — if
concetto di analogia — ii principio di indeterminazione —- il priterie d!
falsificeditità Nozione non univoca di scienza La matematica e la geometria
come rappresentazioni formali Probabilismo e relativismo del sapere scientifico
Stando così le cose, si può ritenere filosoficamente valida la con- cezione
moderna della scienza e la nuova interpretazione della rela- zione tra scienza
e realtà, in termini di analogia (cioè di parziale cor- rispondenza tra teorie
scientifiche e mondo reale), perché si tratta semplicemente di un'applicazione
in un campo particolare (quello scientifico) dell'unica interpretazione
corretta del rapporto tra cono- scenza umana in generale e le cose materiali.
La nuova interpreta- zione sottrae definitivamente le scienze sperimentali al
pericolo al quale si sono trovate sistematicamente esposte in passato: il
pericolo di identificare il razionale col reale, lo scientifico col fisico, il
quan- titativo col qualitativo. Oltre che alla interpretazione dei rapporti tra
scienza e realtà, se- condo alcuni epistemologi (Maritain, Agazzi, Tonini,
ecc.) il concetto di analogia si addice perfettamente anche alla definizione
della no- zione di scienza. Questa non è una nozione univoca (che si applica
cioè esattamente allo stesso modo a tutte le scienze), bensì analoga. In
effetti il rigore e l'oggettività, che sono gli elementi specifici del sapere
scientifico, non si applicano allo stesso modo alle varie scienze, ma variano
da scienza a scienza: altro è il rigore e l’oggettività che si richiede nella
fisica, nella chimica, nell’anatomia, ecc. e altro il ri- gore e l’oggettività
che si esige in psicologia, sociologia, antropologia culturale, ecc.9 2.
Classificazione delle scienze e natura del sapere scien- tifico secondo gli
epistemologi contemporanei I primi risultati significativi di questa nuova
disciplina riguar- dano la matematica e la geometria, le quali non sono più
concepite come scienze reali, come rappresentazioni di situazioni obiettive,
bensì come costruzioni formali: come sistemi fondati su postulati scelti
arbitrariamente e costruiti con la tecnica della deduzione lo- gica delle
conseguenze che tali postulati comportano. Così, per opera di Hilbert,
Poincaré, Peano, Riemann, Frege, Russell e di altri stu- diosi, la matematica e
la geometria prendono coscienza della loro specificità come scienze del
possibile, distinte dalla fisica che è invece scienza del reale. Per quanto
concerne la fisica e le scienze sperimentali in ge- nerale si passa dalla
visione statica e meccanicistica ad una visione dinamica, probabilistica e
relativistica delle leggi della natura. Que- sto cambiamento fu motivato dalle
scoperte della entropia, della radioattività, della relatività, dei quanta,
ecc... In conseguenza di tali scoperte i concetti di uno spazio e di un tempo
assoluti come pure quelli di simultaneità persero ogni valore. L'idea dello
spazio curvo ‘ Cfr. E. AGAZZI, « Analogicità del concetto di scienza », in
Epistemologia e scienze umane, Massimo, Milano 1979, pp. 57-76. 44 prende il
posto dell'idea euclidiana dello spazio rettilineo; l’idea di rapporti
necessari di causalità è sostituita dall'idea di indetermi- nazione. Nelle
scienze della natura, all'inizio del Novecento, acquista ri- lievo una serie di
questioni filosofiche relative al carattere e alla fun- zione della conoscenza
sperimentale. Le scienze naturali non figu- rano più nel campo del sapere come
conoscenza assoluta e onnipo- tente, ma come una forma singolare di conoscenza,
con caratteri- stiche e limiti propri. Il suo campo è la quantità. In tal modo
la fisica guadagna un profilo matematico, relegando in secondo piano le
intenzioni ontologiche e gli elementi sensibili. Di qui la tendenza di ridurre
la conoscenza sperimentale a puri dati metrici e allo sche- ma relazionale di
tali dati. Questo sforzo di quantificazione e mate- maticizzazione della fisica
accentua i tratti che la distinguono sia dalla conoscenza ordinaria che da
quella filosofica. ‘Per quanto concerne la filosofia della scienza propriamente
detta, essa ha avuto uno sviluppo considerevole nel nostro secolo, dando
origine a tre movimenti principali: il neo-positivismo, l’interpreta- zione
metafisica e il razionalismo scientifico. I sostenitori più qualificati del
neopositivisnio sono Schlick, Wittgenstein, Carnap, Ayer e Russell. I
neopositivisti dividono le scienze in due grandi gruppi: a) quelle
logico-matematiche e b) quelle sperimentali. Le prime sono costituite da
proposizioni analitiche ossia tautologiche, mentre le seconde sono composte di
proposizioni fattuali. Le proposizioni lo- giche e matematiche, prive di
contenuto, non sono altro che regole per l'utilizzazione dei simboli e per
l'ordinazione delle proposi- zioni. 'Le proposizioni sperimentali o fattuali
sono quelle il cui conterfuto è verificabile empiricamente.
In contrasto radicale col neopositivismo
si colloca la concezione metafisica della scienza. Questa afferma che la
scienza implica una metafisica e soltanto in questa trova il suo ultimo
fondamento. Se- condo tale concezione l’opera della scienza si presenta o come
la scoperta progressiva della realtà oppure come l’automanifestazione dello
spirito umano attraverso la ricerca scientifica. Nel primo caso si tratta di
una concezione metafisica realistica; nel secondo caso di una concezione
metafisica idealistica. Uno dei più autorevoli esponenti del realismo
metafisico è il francese Emile Meyerson (1859-1933). Questi afferma che la
scienza « non è positiva e non contiene neppure dati positivi, nel senso pre-
ciso che è stato dato a questo termine da A. Comte e dai suoi se- guaci, ossia
di dati sprovvisti di qualsiasi ontologia. L'ontologia fa corpo con la scienza
stessa e non può esserne separata ».” È il reali- smo del senso comune, secondo
Meyerson, che si prolunga nella scienza senza soluzione di continuità. La
scienza, avanzando nella ? E. MEyERson, /dentité et réalité, Parigi 1926, pp.
438-439. 45 La filosofia della scienza oggi: — il neopositivismo: scienze
logico- matematiche e scienze sperimentali — la concezione metafisica: la
scienza come automanifestazione dello spirito — il ‘“selettivismo soggettivo”’
di Eddington: attività spontanea
dell'intelletto — il razionalismo
scientifico: la scienza come opera della ragione Esperienza e ragione: il ruolo
direttivo dell’eilemenio teorics direzione del senso comune, crea delle essenze
il cui carattere reale non solamente non viene eliminato ma si intensifica.
L'interpretazione metafisica idealistica della scienza ha avuto invece un
valido sostenitore nell’inglese Arthur S. Eddington (1882- 1944). L'idea
centrale di questo pensatore è la « selezione », che egli stesso designa come «
selettivismo soggettivo ». Nella sua epi- stemologia l'idea di selezione occupa
il posto che nell’epistemologia realista detiene l’idea di astrazione. La
selezione corrisponde ad una attività del nostro intelletto, sorta
spontaneamente e di cui lo scien- ziato inglese si compiace di accentuare la
soggettività. In tal modo, al concetto di scoperta egli contrappone quello di
creazione, intesa in senso idealistico, come apprensione del proprio lavoro
intellettivo nell'universo. Fra le leggi fisiche, Eddington distingue quelle
che egli chiama « leggi epistemologiche ». La loro caratteristica peculiare è
di essere deducibili mediante il solo studio dei nostri metodi di osservazione.
Queste leggi necessarie, universali ed esatte costituiscono l'elemento a priori
della fisica e delle altre scienze sperimentali. Secondo un altro gruppo
abbastanza nutrito di autori la scienza è opera della ragione umana, una specie
di macchina creata da essa, di cui si tratta di riscoprire le strutture e le
leggi interne. Mentre l'interesse dell’interpretazione metafisica si rivolgeva
alla infrastrut- tura ontologica della scienza e quello del neo-positivismo ai
suoi contenuti in quanto tali, appresi nel loro grado massimo di cristalliz-
zazione oggettiva, lo sforzo del razionalismo scientifico, per contro, è teso a
chiarire il senso dell'opus rationale che costituisce la scienza. Principale
esponente di questa interpretazione è il francese Gaston Bachelard (1884-1962).
Secondo questo studioso la filosofia della scienza dei nostri giorni non può accogliere
né la soluzione rea- listica né quella idealistica, ma deve collocarsi in una
via di mezzo ira realismo e idealismo, in cui vengono entrambi ripresi e
superati: « un realismo che si è incontrato col dubbio scientifico non può più
essere della stessa specie del realismo immediato [...] un razionali- smo che
ha corretto i giudizi a priori, come è avvenuto nelle nuove ramificazioni della
geometria, non può più essere un razionalismo chiuso ».3 Nella sua gnoseologia,
Bachelard pone la coppia esperienza- ragione alla base di tutta la conoscenza
umana. Non si tratta tuttavia di un condominio di potenze eguali, perché
l'elemento teorico si ma- nifesta con maggior forza. In effetti è l'elemento
teorico che svolge il ruolo direttivo: « Il senso del settore epistemologico ci
appare assai netto. Esso va certamente dal razionale al reale e non, nell’or-
dine inverso, dalla realtà al generale come professarono tutti i filo- sofi da
Aristotele a Bacone »/ ; Sd RSCHELARD, Le nouvel esprit scientifique, 5° ed.,
Parigi 1949, pp. 2-3. Vi, p. 9. 46 Il procedimento scientifico si configura,
pertanto, come « rea- lizzante », in quanto realizzazione del razionale e del
matematico. È così che un certo matematicismo si impadronisce del pensiero di
Bachelard, fino alla dissoluzione della realtà nella matematica, e il reale non
si presenta più al limite che come un caso particolare del possibile. In questo
senso la posizione filosofica di Bachelard si po- trebbe definire come un «
razionalismo applicato », in cui primeggia la direttrice che va dalla ragione
all'esperienza e che corrisponde alla supremazia della fisica- matematica.
Mentre l’empirismo, secondo Bachelard, è la filosofia della conoscenza volgare,
il razionalismo ri- sponde alle istanze della conoscenza scientifica. Anche
Bachelard, come Gadamer e l'ultimo Popper, ritiene che l'osservazione scien-
tifica si realizza sempre movendo da una teoria precedente e prepara- trice e
non viceversa. Una posizione analoga a quella del Bachelard è quella difesa da
Karl Popper. Anch'egli respinge decisamente l'empirismo in nome di una certa
forma di razionalismo. « L'epistemologia empiri- stica tradizionale e la
storiografia tradizionale della scienza — scrive K. Popper — sono ambedue
profondamente influenzate dal mito baconiano secondo cui l’intera scienza parte
dall'osservazione per poi lentamente e con cautela procedere verso le teorie
».!° Ma le cose non stanno così. Il primum {logico e genetico) nella costru-
zione della scienza sono i problemi e con essi le ipotesi, le conget- ture e
non le osservazioni. Noi osserviamo sempre da un punto di vista, sempre sotto
lo stimolo di un problema. Tutte le nostre cono- scenze sono risposte a
precedenti problemi. Noi acquistiamo le co- noscenze che si prestano a
risolvere i nostri interrogativi, i nostri problemi. Pertanto le teorie
scientifiche non sono cumuli di osser- vazioni, ma sistemi di azzardate e
temerarie congetture. La scienza è anzitutto invenzione di ipotesi;
l’esperienza svolge il ruolo di con- trollo delle teorie. Il controllo delle
teorie, la convalida delle proposizioni scienti- fiche, secondo Popper, non si
ottiene come vogliono i neopositivisti, direttamente, facendo ricorso alla
verifica sperimentale, bensì indi- rettamente mediante il processo della
fa/sificabilità. Questo criterio stabilisce che una teoria può considerarsi
scientifica soltanto se sod- disfa a due condizioni: a) essere falsificabile,
ossia poter venir smen- tita e contraddetta in linea di principio; b) non
essere ancora stata trovata falsa di fatto. Secondo Popper « una teoria che non
può venir confutata da nessun evento concepibile non è scientifica. L'in-
confutabilità di una teoria non è (come spesso si ritiene) una virtù, bensì un
vizio... Il criterio dello stato scientifico di una teoria è la sua falsificabilità
o confutabilità o controllabilità ».! Non la verifi- cabilità è il criterio di
demarcazione tra teorie empiriche e teorie non !° K. PopPER, Conjectures and
Refusations, 2* ed., Londra 1965, p. 137 {ora tradotta in Italia dall”Ed. Il
Mulino, Bologna 1974). # K, PopPPER, Scienza e filosofia, Einaudi, Torino 1969,
p. 130 s. 47 Il ‘‘razionalismo applicato”: — dalla ragione all'esperienza —
primato della fisica-matematica Popper: problemi- ipotesi e congetture sono il
“primum” logico e genetico Dal criterio di verificabilità al processo di
falsificabilità empiriche (per es., le metafisiche, le teologie della storia,
le utopie, ecc.), ma la loro falsificabilità. In effetti, una legge scientifica
non potrà mai essere completamente verificata, mentre invece può essere
totalmente falsificata. 3. Conclusione La nostra breve rassegna delle posizioni
degli epistemologi con- temporanei ha messo in luce come, anche in questo nuovo
settore della filosofia, la ragione umana non sia riuscita a raggiungere una
soluzione soddisfacente, su cui ci si possa trovare tutti d'accordo. Anche
nella filosofia della scienza si sono rinnovate le classiche al- ternative:
idealismo o realismo? razionalismo o positivismo? Nonostante la persistente
problematicità, il compito della filosofia è quello di non arrestare mai il suo
cammino di ricerca, ma di conti- nuare ad esprimere la profonda esigenza
dell'uomo di trovare una spiegazione radicale ed esauriente ai suoi
interrogativi. CONCETTI DA RITENERE — Epistemologia — Aspetto connotativo;
aspetto denotativo — Nozione di analogia; principio di indeterminazione;
criterio di falsifi- cabilità — Neopositivismo; interpretazione metafisica;
razionalismo scientifico SINTESI CONTENUTISTICA I. IL PROBLEMA DELLA FILOSOFIA
DELLA SCIENZA 1. Nel pensiero contemporaneo, sulla scorta del positivismo di
Comte, na- sce la filosofia della scienza, che si interroga su: che cos'è la
conoscenza scien- tifica? Qual è l’attività propria dello scienziato? Di che
natura sono le sue affer- mazioni? Che cosa egli spiega? Qual è lo status
logico delle leggi della scienza? 2. Nel tempo il problema della scienza si è
trasformato sia nell'aspetto connotativo (significato del termine) sia nel
campo denotativo (campo di ap- plicabilità). 3. Nel pensiero classico la scienza
aveva per oggetto l'essenza delle cose (Aristotele). Nel pensiero moderno
l’oggetto divengono i rapporti costanti, le leggi che legano i fenomeni tra
loro (da Bacone a Newton). Nel pensiero con- temporaneo si è ormai pervenuti
alla convinzione che la scienza è una costru- zione mentale dell'uomo per
ordinare e semplificare i dati dell'esperienza (Teil. hard de Chardin,
Poincaré, ecc.). 4. Ne consegue un ridimensionamento del valore del sapere
scientifico a cui si attribuisce la nozione scolastica di analogia, il
principio di indetermina- zione di Heisenberg e il criterio di falsicabilità.
II. CLASSIFICAZIONE DELLE SCIENZE E NATURA DEL SAPERE SCIENTIFICO SECONDO GLI
EPISTEMOLOGI CONTEMPORANEI 1. Nel pensiero contemporaneo si passa dalla visione
statica della scienza alla visione dinamica, probabilistica e relativistica. 48
2. All’inizio del ’900 le scienze naturali si pongono come una forma singo-
lare di conoscenza con caratteristiche e limiti propri. 3. La filosofia della
scienza nel nostro tempo si orienta in tre direzioni: neopositivismo,
interpretazione metafisica, razionalismo scientifico: a) neopositivismo —
distingue le scienze in logico-matematiche (costituite da proposizioni
analitiche o tautologiche) e in sperimentali (il cui contenuto è verificabile
empiricamente); b) interpretazione metafisica — si configura in due
orientamenti: 1) meta- fisica realistica: la scienza, che ha il suo fondamento
nella metafisica, è consi- derata come scoperta progressiva della realtà (E.
Meyerson); 2) metafisica idealistica: la ricerca scientifica è
automanifestazione dello spirito {A.S. Ed- dington); c) razionalismo
scientifico — preoccupato di chiarire il senso dell’« opus rationale » che
costituisce la scienza {G. Bachelard e Popper). QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE
1. Che cosa è l’epistenwologia e a quali interrogativi risponde? 2. Oggi in che
cosa si differenzia l'epistemologia dalla gnoseologia? 3. L’epistemologia a
quali movimenti ha dato origine? . 4. Nella cultura del nostro tempo quale
rapporto intercorre tra scienza e religione? 5. In che misura il secolo XX ha
promosso un progetto uomo finalizzato alla scienza? 6. Quale rapporto
intercorre oggi tra scienza e potere politico? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI
AA.Vv., Epistemologia e scienze umane, Massimo, Milano 1979. AA.Vv., Scienza e
filosofia, Massimo, Milano 1980. AcassI J., Epistemologia, metafisica e storia
della scienza, Armando, Ro- ma 1978. 'ANTISERI D., Epistemologia e didattica,
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Vita, Firenze 1974. BRAITHWAITE R.B., La spiegazione scientifica, Feltrinelli,
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rinnovamento filo- sofico, Bulzoni, Roma 1977. GEIMONAT L., /l pensiero
scientifico, Garzanti, Milano 1954. HEMPEL C.G., Filosofia delle scienze
naturali, Il Mulino, Bologna 1968. LecourT D., Per una critica
dell’epistemologia, De Donato, Bari 1973. NAGEL E., La struttura della scienza,
Feltrinelli, Milano 1968. PANNEMBERG W., Epistemologia e teologia, Queriniana,
Brescia 1975. PASQUINELLI A., Nuovi principi di epistemologia, Feltrinelli,
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1970. VAN STEENBERGHEN F., Epistemologia generale, SEI, Torino, 1966. VERNEAUX
R., E pistemologia generale, Paideia, Brescia 1967. 49 Il linguaggio umano
espressione della totalità della persona L’uomo-essere parlante Capitolo quarto
IL PROBLEMA LINGUISTICO (o filosofia del linguaggio) QUESTIONARIO PROPEDEUTICO
1. Quale valore ha la comunicazione nella vita della persona? Possiamo vivere
senza comunicare? 2. Nella comunicazione quale posto occupano la conoscenza e
l’amore? 3. Esiste un rapporto tra parola, persona e libertà? 1. Caratteri del
linguaggio Il linguaggio è una proprietà primaria, fondamentale dell’uomo, ed è
inoltre una proprietà che lo caratterizza nettamente nei con- fronti degli
altri esseri di questo mondo, viventi e non viventi. Anche gli animali sono
dotati di una forma elementare di linguaggio, ma possono servirsene solo come
strumento di sopravvivenza, per segnalare agli animali delia stessa specie
situazioni di vitale impor- tanza, come presenza di cibo, di pericolo, ecc.
L'uomo, invece, adope- ra il linguaggio per scopi e nei modi più svariati: come
strumento di espressione di se stesso, dei propri sentimenti, desideri, idee,
per co- municare con gli altri, per descrivere le cose, per domandare, per
educare, per pregare, per cantare, come strumento di lotta, di pro- paganda, di
divertimento, ecc. « L'uomo — scrive Martin Heidegger — parla sempre. Noi
parliamo nella veglia e nel sonno. Parliamo sem- pre, anche quando non
proferiamo parola, ma ascoltiamo o leggia- mo, ci dedichiamo ad un iavoro o ci
perdiamo nell’ozio. In un modo o nell'altro parliamo ininterrottamente.
Parliamo perché il parlare ci è connaturato. Il parlare non nasce da un
particolare atto di volontà. Si dice che l’uomo è per natura parlante, e vale
per acqui- sito che l’uomo, a differenza della pianta e dell'animale, è
l'essere vivente capace di parole. Dicendo questo non si intende affermare
soltanto che l’uomo possiede, accanto ad altre capacità, anche quella del
parlare. Si intende dire che proprio il linguaggio fa dell’uomo quell’essere
vivente che egli è in quanto uomo ». Il linguaggio costituisce un problema per
i cultori di molte di- scipline: per lo storico che cerca di conoscerne
l'origine e lo svi- luppo, per il fisiologo che studia gli organismi
interessati alla emis- sione dei suoni, per lo psicologo che esamina
l'incidenza del lin- ! M. HEIDEGGER, In cammino verso il linguaggio, Mursia,
Milano 1973, p. 27. 50 guaggio sulla sfera del conscio e dell'inconscio, per il
logico che stu- dia il linguaggio in vista di rimuovere da esso oscurità e
ambiguità e promuovere una sua intrinseca chiarificazione, per il critico
lette- rario che esamina lo stile che gli scrittori imprimono al linguaggio,
per il sociologo che si interessa all’influsso del linguaggio sui movi- menti
sociali, sulle dottrine, gli ideali, gli usi, i costumi di una società, ecc.
Per il filosofo il linguaggio fa problema quanto all'origine, alla natura, alla
funzione e al valore. Sono questi i punti della problema- tica linguistica che
prenderemo in esame nel presente capitolo e a questo scopo sarà opportuno
chiarire il significato di alcuni termini e di alcune distinzioni. Anzitutto lo
stesso termine linguaggio. Secondo una definizione molto comune « per
linguaggio si intende ogni sistema di segni che può servire come mezzo di
comunicazione » Esso comporta, quindi, una struttura essenzialmente intenzionale.
In effetti il linguaggio vuole segnalare intenzioni, idee, sentimenti, cose,
ecc. Si può dire a buon diritto che il linguaggio è lo strumento ideale della
intenziona- lità essenziale dell'uomo, che è un essere aperto e in continuo
movi- mento, orientato verso tutta la realtà che lo circonda e sovrasta. Tale
apertura dispone alla comunicazione, e la comunicazione si ef- fettua
principalmente mediante il linguaggio. Altri termini che ricorrono spesso nel
discorso linguistico sono lingua, parola, significante, significato.
Diversamente dal linguaggio, il quale indica la funzione generale delia
comunicazione, ia lingua significa il sistema linguistico usato da una
determinata società (lingua latina, italiana, greca, russa, da- nese, inglese,
ecc.). La lingua, pci, viene distinta a sua volta dalla parola. La lingua è il
sistema sovraindividuale di segni grazie ai quali gli uomini pos- sono
comunicare tra di loro: il sistema secondo le regole stabilite dalla grammatica
e dalla sintassi e secondo i significati generali regi- strati nel dizionario.
La parola, invece, è la forina concreta ed indi- viduale assunta dal sistema,
secondo i’uso di una determinata per- sona, secondo i significati personali,
soggettivi, emotivi da essa voluti. Abbiamo infine i termini significante e
significato. Il significante indica una realtà come essa è denotata e
strutturata dal linguaggio, mentre il significato indica il modo sempre
parziale e storico in cui la lingua parlata attualizza il significante. Per
esempio « padre » è un significante che ha il proprio senso grazie alle
relazioni all’interno della costellazione familiare. Il significato rappresenta
l'attuazione di questo significante in un determinato discorso e in una cultura
determinata. ? A. LALANDE, Dizionario critico di filosofia, ISEDI, Milano 1971,
p. 478. 51 Origine, natura, funzione e valore del linguaggio La lingua come
sistema linguistico di una società Significante e significato: denotazione di
una realtà e sua attualizzazione storica Linguaggio: origine naturale o origine
convenzionale? La teoria evolutiva è la tesi odierna: onomatopea — caso —
convenzione Preminenza di parole onomatopeiche nelle lingue europee 2. Origine
del linguaggio Sulla questione dell'origine del linguaggio le soluzioni
possibili, in definitiva, sono due: o il linguaggio è stato ricevuto (dalla
natura oppure da Dio), o è stato inventato dall'uomo (imitando la natura oppure
in un modo affatto convenzionale). Entrambe le soluzioni hanno incontrato il
favore di numerosi sostenitori sia nell'antichità sia ai nostri giorni. Mentre
però la prima soluzione era largamente seguita nel passato, oggi trova pochi
sostenitori. Secondo Humboldt, il linguaggio non può essere stato inventato
dall'uomo stesso, perché « l’uomo è uomo soltanto mediante il lin- guaggio,
ora, per inventare il linguaggio, egli dovrebbe essere già uomo ». Oggi, però,
la tesi più comune è che il linguaggio abbia avuto origine per evoluzione. Ma
ci sono modi diversi di interpretare que- sto evento. Alcuni ritengono che
l'evoluzione sia stata determinata dall'’onomatopea; altri invece assegnano la
parte principale al caso e alla convenzione. La teoria che il linguaggio nasce
formando suoni onomatopeici (ossia imitando suoni già esistenti in natura, per
esempio, il sibilo del vento, il mormorio dell’acqua, il canto degli uccelli,
ecc.) era già stata ventilata dagli stoici e più tardi da Leibniz, ma fu
proposta per la prima volta in modo scientifico solo da Herder, il quale già
nella sua tesi di laurea affermava: « Il primo vocabolario è costituito da
suoni raccolti da ogni parte del mondo. Da ogni natura emettente un suono si
ricava il suo nome: l’anima umana si vale di tali suoni quali segni per
indicare le cose ».* Recentemente la tesi dello Herder è stata ribadita con
dovizia di argomenti dal Bruni. Secondo questo studioso, « la tesi dell'origine
naturale del linguaggio, mediante l’onomatopea, è l’unica scientifica- mente
sostenibile ».5 « I glottologi e gli psicologi, che ritengono il linguaggio di
origine naturale, hanno sempre pensato che l’onoma- topea sia stata la madre
più feconda delle parole. Il Renan affermò che nelle lingue semitiche, e
specialmente nell'ebraico, la formazione della onomatopea è sensibilissima per
un grande numero di radici, e soprattutto per quelle che hanno un carattere
spiccato di antichità e di monosillabismo » Del parere del Bruni è anche il
Merlo. Questi afferma che « le prime parole create dall'uomo furono certo
onomatopeiche, imitative dei suoni risonanti al nostro orecchio; onomatopeiche
sono le prime parole che il bambino crea e che poi presto dimentica per le
eredi- tarie. Il lessico delle lingue europee è pieno di parole onomatopei- }
W. von HuMmBOLDT, Ueber das vergleichende Sprachstudium, par. 2. ER CIUO H.
ARENS, Sprachwissenschaft, K. Alber Verlag, Friburgo-Monaco » P. IUS. 5 F.
BRUNI, L'origine del Linguaggio, Studium, Roma 1958, pp. 6-7.. * Ivi, p. 7. 52
che; molte ne conosce di sue proprie il lessico della lingua latina; e perché
alle ereditarie non sarebbero venute ad aggiungersene altre, e molte altre, in
età latina tarda, e nelle singole lingue romanze? ».’ Secondo moltissimi
studiosi il linguaggio ha origine convenzio- nale. È l’homo sapiens che
escogita certi suoni per espletare deter- minate operazioni. A questa teoria ha
dato espressione autorevole il Wittgenstein nelle sue Philosophical
Investigatiovs. In quest'ope- ra egli sostiene che l'assegnazione di nomi alle
cose è arbitraria così come è arbitrario l'accordo sulle regole per fare un
determinato
gioco. Il linguaggio stesso è concepito
dal Wittgenstein come un gioco (Sprachspiel). Come esempio del formarsi del
gioco linguistico Wittgenstein cita il caso dell'accordo che si stabilisce tra
un muratore e un manovale a riguardo di un certo arnese. « Supponi che un
arnese adoperato da un muratore per costruire porti un certo segno,
un'etichetta. Quando il muratore mostra al ma- novale il segno (l'etichetta),
il manovale gli porta l’arnese che porta quel segno. È press'a poco in questo
modo che un nome significa e viene assegnato ad una cosa. Si rivelerà assai
utile in filosofia ripe- tersi di tanto in tanto che denominare è una
operazione simile al- l’affibbiare un'etichetta ad una cosa ».? A nostro
giudizio queste due tesi sull'origine del linguaggio non sono necessariamente
contraddittorie, ma si possono integrare vi- cendevolmente. Dando per certo che
il linguaggio è un'invenzione dell’uomo e non un dono della natura o di un
essere superiore, ci pare che questa invenzione abbia avuto luogo inizialmente mediante
l'imitazione dei suoni emessi dagli animali e dalle cose. Così, per designare
il cane, si ripete il verso del cane; per designare il lupo, si ripete il verso
del lupo; per designare il vento, si ripete il rumore del vento, e così per
tante altre cose. Questa origine prima del linguaggio è confermata dalla larga
quantità di suoni onomatopeici presenti in tutte le lingue. Ed è pure
confermata dal modo con cui il bambino apprende a parla- re, imitando i suoni
che sente dalla mamma. Su questa base onomatopeica l’uomo ha in seguito
manovrato con libertà e genialità, escogitando suoni nuovi, oppure combinando
in maniera diversa suoni vecchi (per es., automobile, televisione, ae- roplano,
ecc.). Per questo motivo gran parte del linguaggio attual- mente in uso ha
origine convenzionale. 3. Condizioni essenziali del linguaggio Il linguaggio
presuppone tre condizioni essenziali, tre costanti o componenti assolute: ?
Citato in ivi, p. 8. * L. WITTGENSTEIN, Philosophical Investigations, n. 15. 53
L’“homo sapiens” e l'origine convenzionale: la teoria di Wittgenstein
Integrazione tra naturalismo e convenzionalismo Tre condizioni essenziali del
linguaggio: soggetto, oggetto, interlocutore Divisione dicotomica: conoscenza
et esistenza — soggetto che parla (e si esprime parlando); ; — oggetto di cui
si parla (e si rappresenta mediante la parola); — interlocutore a cui si parla
e al quale si vuole dare una comu- nicazione parlando. « È chiaro che ci sono
tre elementi in gioco: il parlante, l’ascol- tante o gli ascoltatori, e la
comunicazione che si stabilisce tra loro. Un noto psicologo ha riassunto questo
triplice aspetto del linguaggio in una chiara formula: dal punto di vista del
parlante, l'atto lingui- stico è un sintomo, un'indicazione di ciò ch'egli ha
in mente; dal punto di vista dell’ascoltatore è un segnale, che lo stimola ad
una de- terminata azione; dal punto di vista della comunicazione è un sim-
bolo, un segno cioè che sta per qualsiasi cosa il parlante intenda trasmettere
».° A ragione, quindi, il Macquarrie afferma che il linguaggio è un complesso
di relazioni fondate su tre termini: «i tre termini sono ovviamente la persona
che dice qualcosa, la materia di cui si parla e la persona o le persone alle
quali si parla... È il linguaggio che fa da intermediario per la relazione
triadica, anzi è esso che la costi- tuisce ».!° 4. Funzioni e valore del
linguaggio iFino a qualche anno fa si soleva presentare una divisione dico-
tomica delie funzioni del linguaggio. Vi si distinguevano, da una parte, una
funzione descrittiva o conoscitiva o denotativa o rappre- sentativa o
simbolica, e, dall'altra, una funzione emotiva, esisten- ziale o personale.
Così Ogden-Richards, Carnap, Ayer, Stevenson, e altri. Ultimamente però sono
diventati sempre più numerosi gli autori che propongono una divisione
tricotomica, aggiungendo alie due funzioni precederti quella comunicativa o
intersoggettiva. Sono di questo parere Schbkel, Polanyi, Barbotin, Ullmann e
vari altri stu- diosi. Noi troviamo quest'ultima divisione più giustificata della
prima, in quanto essa risulta dalle ire componenti essenziali costitutive del
linguaggio, che abbiamo visto essere ii soggetto che parla, ciò di cui si parla
e ia persona alla quale si parla. Iì linguaggio esercita una funzione diversa
rispetto alle sue tre componenti: — ha una funzione rappresentativa o
descrittiva o denotativa ‘nei confronti dell'oggetto; — ha una funzione
espressiva o esistenziale o emotiva nei con- fronti del soggétto; ? S. ULLMANN,
La semantica, Il Mulino, Bologna 1966, p. 27. * J. MACQUARRIE, Ha senso parlare
di Dio?, Borla, Torino 1969, pp. 66-67. 54 — ha una funzione comunicativa o
intersoggettiva nei confronti della persona cui si dirige il discorso. In
connessione con la questione delle funzioni dei linguaggio si affaccia anche la
questione del suo valore, la quale, fra tutte le que- stioni concernenti il
linguaggio è quella oggi più assiduamente e vi- vacemente dibattuta. Se ne
occupano tutti i filosofi (sia gli esistenzia- listi che gli strutturalisti,
sia i neopositivisti che gli ermeneuti, sia i tomisti che i marxisti) e anche i
teologi e gli scienziati. ‘Le soluzioni di questa questione sono molte e assai
disparate. C'è chi assegna al linguaggio un valore puramente strumentale.
Questa è la soluzione tradizionale, tuttora largamente condivisa dai
neopositivisti, dagli analisti, dai tomisti, dai marxisti, e da tanti altri.
C'è invece chi gli assegna un valore fondamentale, di ordine esistenziale. 4.
Funzione descrittiva Una folta corrente filosofica del nostro tempo, la corrente
neo- positivistica e analitica ha riconosciuto valore conoscitivo alla fun-
zione denotativa (descrittiva, conoscitiva, oggettiva) e ha proscritto come
insignificanti e prive di senso le altre funzioni. Secondo tale corrente, solo
la funzione denotativa abilita l'uomo a raggiungere e a trasmettere la verità.
Questa funzione è svolta in modo eccellente dal linguaggio scientifico, il
quale è dotato della massima chiarezza, precisione e oggettività. Qualsiasi
altro linguaggio acquista più o me- no valore nella misura in cui si conforma
al linguaggio scientifico. La ragione dell'eccellenza di quest'ultimo sta nella
semplicità del suo criterio di significazione, che è la verifica sperimentale,
il quale prescrive di riconoscere significato descrittivo soltanto a quelle
pro- posizioni che sono traducibili in una catena di dati sensitivi. La teoria
dei neopositivisti e degli analisti inglesi ha suscitato fortissime reazioni da
parte di filosofi di tutte le scuole, i quali han- no potuto provarne
l'infondatezza appellandosi a vari argomenti, di cui i principali sono i
seguenti: a) ilcriterio della verifica sperimentale è un postulato metafisico
privo di qualsiasi fondamento, è una proposizione metafisica sensa- zionale che
si squalifica da sola perché è inverificabile." " Ecco alcune
critiche radicali al principio della verifica sperimentale. «Il principio di
verifica sperimentale significa ridurre all’assurdità sia la conoscenza che il
significato... Perché l'intenzione di riferire al trascendente l'esperienza
immediata è l'essenza della conoscenza e del significato ». (C.I. LEVIS « Experience and
Meaning », in Readings in Philosophical Analysis, P. . «Il principio della verifica è una dichiarazione
metafisica e, perciò, il positivismo logico deve essere considerato senza
significato ». (JoAD, A critique of Logical Positivism, p. 11). « Il principio
di verificabilità è una dichiarazione metafisica ‘sensazio- nale’ ». (J.
WIspom, Philosophy and psychoanalysis, Oxford 1953, p. 245). Cfr. anche: A.C.
EwING, « Meaninglessness », in Mind 1937; MACQUERRIE, Ha senso parlare di Di0?,
cit. 55 Il vaiore del linguaggio: strumentale, esistenziale Neopositivismo:
valore conoscitivo e funzione denotativa Posizioni critiche al neopositivismo
Funzione espressiva e funzione comunicativa b) la preferenza per il linguaggio
scientifico è del tutto ingiusti- ficata, perché ci sono molti altri linguaggi
che per la esistenza uma- na sono altrettanto importanti quanto quello
scientifico, per es., il linguaggio ordinario, il linguaggio etico, il linguaggio
artistico, il linguaggio poetico, il linguaggio mistico." c) la preferenza
per la funzione descrittiva o conoscitiva del lin- guaggio è la conseguenza di
una tradizione intellettualistica e razio- nalistica che è stata estremamente
dannosa perché ha creato un'im- magine distorta e depauperata dell'uomo.”* 4.2
Funzione comunicativa Da questi argomenti risulta che non si può ascrivere
valore sol- tanto alla funzione conoscitiva ma si deve riconoscere anche l’im-
portanza fondamentale che hanno le altre funzioni, sia quella espres- siva, che
quella comunicativa. Del resto è abbastanza facile rilevare che il linguaggio
umano non ha soltanto e neppure principalmente valore a causa della sua fun-
zione conoscitiva (descrittiva o denotativa). La sua funzione princi- pale è
infatti comunicativa e la comunicazione, in moltissimi casi, non intende
affatto offrire descrizione di oggetti, cose, fenomeni, leggi della natura, ma
affetti, sentimenti, desideri, comandi. È soprattutto su questo punto che gli
studi più recenti hanno gettato nuova luce. Qui ci limiteremo a riferire alcuni
risultati ac- quisiti dal Barbotin nel suo saggio, profondo, ricco e
illuminante, Humanité de l'homme. In quest'opera egli mette in evidenza il
valore comunicativo esistenziale e prassistico del linguaggio. Il linguaggio è
lo strumento privilegiato della‘comunicazione, nonché della pre- senza e della
socialità. L'uomo, diversamente dalle cose che sono chiuse in e su se stesse, è
aperto, si vuole dare agli altri e dagli altri vuole ricevere; si vuole rendere
presente... La parola trasforma la nostra presenza puramente fisica e passiva —
semplice giustapposizione nello spazio — in presenza attiva che ci impegna
reciprocamente. «Io sono presente a me stesso nella misura in cui sono fuori di
me, in un movimento di donazione che mi rende libero. La parola, per la
precisione, è donatrice; al di là dei propositi, essa mira allo scambio dei due
« Io »; nella preghiera mi dono, mi consegno a Dio, mi getto nelle sue mani
»." Questo potere esistenziale della parola, questo potere di renderci
presenti agli altri, e gli altri a noi stessi è stato meravigliosamente
rafforzato dalle moderne scoperte della radio, del telefono, dei re- !? Cfr.
H.G. GADAMER, « Che cos'è la verità », Rivista di filosofia, 1956, pp. 257-260.
) ! Cfr. ivi, pp. 253 ss.; P. RICOEUR, Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna
1970 4 E, BARBOTIN, Humanité de l'homme, cit., p. 139. 56 gistratori, ecc.
Riuscire, oggi, a registrare le voci di persone che ci sono care, oppure di
personaggi importanti modifica sensibilmente il salto, l'abisso della morte e i
nostri rapporti con i defunti: poter risentire la loro voce ci dà la sensazione
che la morte non abbia operato una separazione completa tra noi e loro. La
funzione fondamentale del linguaggio è quindi quella della comunicazione.
Tuttavia dobbiamo dolorosamente constatare che è una comunicazione che il
linguaggio non ci consente mai di realiz- zare pienamente. « La parola
scambiata, dice bene Barbotin, mette in comunicazione due persone tra di loro,
essa risveglia, mantiene e consacra l'apertura reciproca; ma allo stesso tempo
conserva qual- cosa di inesprimibile. E questo non è dovuto alla doppiezza,
bensì alla ineffabilità della persona, delle sue intenzioni, della sua libertà:
la parola lascia filtrare qualche raggio, ma ne conserva, per forza, se- greto
il focolare. Sempre ineguale rispetto a ciò che manifesta, la parola è di
conseguenza necessariamente molteplice — se fosse perfetta sarebbe invece unica
— e provoca nell'interlocutore interro- gativi a non finire; essa esaudisce lo
spirito, ma non lo sazia mai ».! Che il linguaggio abbia aspetti ambigui è cosa
evidente ed è stata ripetutamente rimarcata già dai filosofi dell'antichità, in
par- ticolare da Platone, Aristotele e Agostino. Esso è strumento di for-
mazione (educazione), ma si presta anche molto facilmente alla de- formazione e
alla corruzione, come rileva Socrate contro i Sofisti. In un capitolo celebre
di Sein und Zeit Heidegger ha mostrato come l’inautenticità degli individui è
dovuta soprattutto al linguaggio: la maggior parte degli uomini non pensa da
sé, non giudica con la pro- pria testa, non decide per proprio conto: ma pensa
giudica decide, ecc. secondo quanto sente dire dagli altri. 4.3 Funzione e
valore esistenziale Il linguaggio è importante non soltanto per la funzione
descrittiva e comunicativa, ma anche per la funzione esistenziale. Esso infatti
oltre che a descrivere oggetti e a comunicare sentimenti serve anche a
testimoniare agli altri e a noi stessi la nostra esistenza. Suppo- niamo, per
es., che uno si sia smarrito in una foresta oppure su una montagna. A chi
scrive capitò una volta scalando il Monte Rosa. Eravamo a quota 3.000 e, alle
dieci di sera, non eravamo ancora giunti al rifugio Quintino Sella. Era buio
fitto e ad un certo punto avevamo completamente smarrito la pista. Allora
abbiamo comin- ciato a gridare con la speranza che qualcuno dal rifugio ci
sentisse e ci fornisse qualche elemento per orientarci. In effetti fu così. Da
sopra ci risposero alcune voci d'uomo. Esse bastarono da sole a li- berarci
dall'angoscia e a restituirci fiducia in noi stessi e padro- 4 E. BARBOTIN, op.
cit., p. 141. Sui limiti del linguaggio vedi anche G. GuSsDORF, Filosofia del
linguaggio, Città Nuova, Roma, pp. 78-92. 4 M. HEIDEGGER, Essere e tempo,
Longanesi, Milano, pp. 140 ss. 57 La funzione fondamentale della comunicazione
Parola e determinazione dell’esistenza La densità esistenziale del nome
Funzione del nome nanza della montagna. Quelle voci improvvise invasero tutto lo
ssa- zio che stava intorno, conquistarone il mondo silenzioso delie cose e lo
trasformarono conferendogli un nuovo significato. Così avvenne che un universo
senza voci in cui ci trovavamo smarriti, divenne un universo in cui l'uomo
parla. Certo lo smarrimento non avviene soltanto là dove l'uomo non parla; in
certi casi ciò accade anche in luoghi dove sono troppi co- loro che parlano,
facendo fracasso e confusione. Eppure anche in questi casi, è di nuovo una
voce, una voce familiare che ci rassicura della nostra esistenza. Si pensi al
caso di un bambino che si smar- risce in mezzo alla folla... Basta che ad un
certo punto senta la voce del babbo o della mamma che lo chiama da lontano
perché riacquisti la serenità e la pace. Dunque la parola testimonia la mia
esistenza a me stesso e agli altri. E non si tratia di una testimonianza vaga,
indeterminata, gene- rica, ma determinata, precisa e qualificata. Infatti
quando sono adi- rato adopero un particolare tono di voce ed un certo tipo di
lin- guaggio, che sono del tutto diversi da quelli che uso quando insegno
oppure quando prego. Fare corrispondere perfettamente un certo linguaggio con i
vari modi di essere dei loro personaggi è una spe- cialità degli attori. Ma ciò
che questi ultimi sono in grado di fare per molti personaggi, noi lo facciamo
tutti i giorni per quel perso- naggio singolare che ciascuno di noi è
naturalmente. La parola acquista densità esistenziale soprattutto attraverso il
nome. Avere un nome significa possedere un'esistenza. Ma a causa della pubblicità
del nome, per mezzo di esso anche ia mia esistenza acquista una certa
pubblicità. Lo nota bene il Barbotin guando scri- ve: « Il nome è la parola che
mi rivela, mi esprime agli altri, aprendo loro l’accesso al mio essere. Io non
esisto veramente che per coloro che conoscono il mio nome; l'anonimato,
l’incognito sono alibi che aggiungono ai vantaggi della presenza fisica in un
determinato luogo il beneficio di una certa “assenza sociale”. [...] Però, se
il mio nome mi esprime agli altri, allo stesso tempo esso mi consegna a loro,
mi mette in loro potere. Dichiarando il mio nome, io rinuncio a parte della mia
autonomia; ormai gli altri mi dominano e mi posseg- gono. La prima
preoccupazione del direttore di un internato non è forse quella di imparare il
nome dei suoi ragazzi per controllare le iniziative e mantenere la disciplina?
I servizi di polizia non svolgono un'attività vigile per conoscere i nomi e i
molteplici soprannomi delle persone sospette e, in tal modo, poter controllare
i loro movi- menti? ».!” . Sta di fatto che il nome fa sempre da sostegno alla
propria pre- senza. Ovunque il nome di una persona è conosciuto, pronunciato,
ricordato, ha luogo la sua presenza intenzionale presso gli altri, e soddisfa
in qualche modo quel desiderio di ubiquità che è insito " E. BARBOTIN, Op.
cit., p. 155. 58 in ogni uomo. Ma oltre che a superare i limiti dello spazio,
il nome ci consente anche di scavalcare i confini del tempo: la nostra presenza
continua a perdurare anche dopo la morte, fintanto che il ricordo del nostro
nome permane vivo. Questo spiega il desiderio che noi tutti abbiamo perché il
nostro nome sia famoso, acquisti notorietà: è il nostro modo di conquistare
un'illusione di eternità. 5. Rapporto del linguaggio con. il pensiero, con le
cose e con gli interlocutori Passiamo ora a considerare la questione del valore
del linguag- gio dall'altro punto di vista: quello dei suoi rapporti col
pensiero, con le cose e con i due interlocutori. Al linguaggio si assegna
valore diverso a seconda del modo di- verso di come viene concepito questo
rapporto. C'è chi si preoccupa esclusivamente del pensiero; altri invece si
preoccupa soltanto degli interlocutori. Nell’analisi linguistica la
preoccupazione è centrata sulle cose; nell’esistenzialismo è centrata sul
soggetto pensante; nell'ermeneutica, nel personalismo e nello strutturalismo è
centrata sugli interlocutori. In tutti i tre casi si danno però due alternative
(e qualche volta anche tre). Per il rapporto pensiero-linguaggio, la soluzione
comune è di vedere nel linguaggio uno strumento subordinato e secondario del
pensiero. Oggi gli strutturalisti e gli ermeneuti tendono a sovvertire questo
rapporto e a mettere il pensiero al servizio e alle dipendenze del linguaggio.
La tesi di questi ultimi non può essere pienamente accolta, perché tutti
abbiamo esperienza di pensieri per i quali non riusciamo a trovare le parole
adatte per esprimerci. Tuttavia è una tesi che contiene della verità, in quanto
tra pensiero e linguaggio intercorre un rapporto assai profondo. Con un
linguaggio nitido an- che il pensiero guadagna in chiarezza e precisione.!
Anche per quanto concerne i rapporti tra linguaggio ed essere ci sono due
opposte tendenze. Generalmente al linguaggio si rico- nosce valore semantico,
indicativo, segnalatore dell'essere. Oggi strutturalisti ed ermeneuti vogliono
ascrivere al linguaggio una den- sità ontologica molto più profonda: l’essere
trova la sua manifesta- zione nel linguaggio; soprattutto l'essere dell’uomo ha
il suo soste- gno, il suo modello nel linguaggio. Anche a questo proposito ci
pare di non poter accogliere la secon- da tesi integralmente perché, se seguita
fino in fondo, essa sfocia inevitabilmente in una nuova forma di idealismo;
tuttavia è una tesi ! Ivi, pp. 133-144, 59 Il rapporto linguaggio-pensiero La
subordinazione del linguaggio al pensiero Linguaggio e intersoggettività: due
tesi opposte che contiene anche un importante nucleo di verità: essa esprime il
carattere storice e creativo dell’uomo.! Quanto al terzo tipo di rapporti,
quelli fra linguaggio ed interlo- cutori, si danno anche qui due tesi opposte:
una che afferma il valore capitale del linguaggio per l’intersoggettività,
valore tanto più grande in quanto oggi si vede nell'uomo un essere essenzial-
mente intersoggettivo; oggi la persona umana non è intesa in chiave
egocentrica, cartesiana, ma in chiave sociale. L'altra tesi assegna uno scarso
valore intersoggettivo al linguaggio, in quanto muove da una concezione
egocentrica, angelicata dell’uomo. Noi riteniamo che il linguaggio abbia
effettivamente importanza capitale per la funzione intersoggettiva. Tale
importanza risulta da quanto è stato detto in precedenza sulla funzione
comunicativa del linguaggio. Ma essa risulterà ancor più evidente in seguito,
quando ci occuperemo del problema politico e sociale e vedremo che il lin-
guaggio costituisce il mezzo necessario, principale ed ideale per rea- lizzare
la socievolezza umana. CONCETTI DA RITENERE — Linguaggio; lingua; parola —
Significato; significante — Origine naturale, convenzionale, evolutiva;
onomatopea — Soggetto; oggetto; interlocutore — Sintomo; segnale; simbolo —
Funzione descrittiva, emotiva, comunicativa SINTESI CONTENUTISTICA I. CARATTERI
DEL LINGUAGGIO 1. Proprietà primaria e fondamentale dell'uomo che lo distingue
dagli altri esseri viventi per l’uso che ne fa, in ordine a scopi e modi
diversi. 2. Il linguaggio è uno degli elementi che costituisce l'uomo in quanto
uomo. Esso ha una struttura intenzionale che lo fa mezzo della comunicazione
degli uomini tra loro. 3. Esiste una distinzione tra linguaggio (funzione
generale della comuni. cazione), lingua (sistema linguistico usato da una
determinata società) e parola (forma concreta e individuale assunta dal sistema
linguistico). Differenza tra i termini significante e significato: il primo
indica una realtà come è denotata dal linguaggio; il secondo indica il modo
parziale e storico in cui la lingua parlata attualizza il significante. II.
ORIGINE DEL LINGUAGGIO . Tre ipotesi: origine naturale (tesi ormai
abbandonata); origine conven- zionale; origine evolutiva (tesi più comune
oggi). La prima ipotesi annovera tra i suoi sostenitori Humboldt, Herder, Bruni
e Merlo che attribuiscono al- 4 Cfr. I. MANCINI, Linguaggio e salvezza, Vita e
Pensiero, Milano 1964, pp. 14 ss. 60 l'onomatopea la maternità delle parole. La
seconda è autorevolmente espressa da Wittgenstein: il linguaggio è un gioco di
cui l’uomo ha stabilito le regole. Come terza ipotesi si può dire che oggi
l’azione creativa e libera dell’uomo sul- l'’onomatopea ha prodotto un
linguaggio convenzionale che può essere chiamato evolutivo. III. CONDIZIONI
TRASCENDENTALI DEL LINGUAGGIO 1. I trascendentali o costanti del linguaggio
sono: — il soggetto che parla — l'oggetto di cui si parla — l'interlocutore a
cui si parla 2. L'atto linguistico dal punto di vista: del soggetto è un
sintomo, dell'og- getto è un segnale, dell'interlocutore è un simbolo. Il
linguaggio è l'intermediario di una relazione triadica. IV. FUNZIONE E VALORE
DEL LINGUAGGIO Si sono delineate tre connotazioni delle funzioni del
linguaggio: a) la fun- zione descrittiva (o conoscitiva, denotativa,
rappresentativa, simbolica); b) la funzione emotiva (o esistenziale,
personale); c) la funzione comunicativa o intersoggettiva. V. RAPPORTI DEL
LINGUAGGIO COL PENSIERO, CON LE COSE E CON GLI ‘INTERLOCUTORI (Al linguaggio si
assegna valore diverso in relazione al rapporto nel quale viene colto: —
rapporto pensiero-linguaggio: il linguaggio è uno strumento subordi- nato e
secondario del pensiero; — rapporto pensiero-cosa: a) in genere si attribuisce
al linguaggio un va- lore semantico; b) oggi strutturalisti e ermeneuti
considerano il linguaggio una manifestazione dell'essere; — rapporto
linguaggio-interlocutore: a) importanza fondamentale del lin- guaggio per
l'essere umano inteso come essere intersoggettivo; b) scarsa im- portanza del
linguaggio per l'essere umano inteso in senso egocentrico. QUESTIONARIO DI
VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Quali delle diverse forme del linguaggio umano
sembrano predominare nella nostra cultura? 2. In quale misura il linguaggio
identifica l’uomo come essere di relazione? 3. Che cosa si intende per
linguaggio, lingua, parola, significante, signi. ficato? 4. Quali sono le
principali teorie sull'origine del linguaggio? 5. Quali sono gli elementi costitutivi,
essenziali, trascendentali del lin- guaggio? ! 6. Quali sono le principali
funzioni del linguaggio? 7. Quale rapporto è possibile stabilire tra linguaggio
e concezione del- l'uomo? 8. Che rapporto intercorre tra pensiero, linguaggio e
cose? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI ANTISERI D., La filosofia del iinguaggio,
Morcelliana, Brescia 1973. BENVENISTE E., Problemi di linguistica generale, Il
Saggiatore, Milano 1971. BERRUTO G., Nozioni di linguistica generale, Liguori,
Napoli 1976. 61 BRuNI F., L'origine dei linguaggio, Studium, Roma 1958.
CASTELFRANCHI C.-PARISI D., Linguaggio, conoscenza e scopi, Il Mulino, Bo-
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1977. HeIpEccER M., In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973.
HEILMANN C., Corso di linguistica teorica, Celuc Libri, Milano. Linsky L.,
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Saggiatore, Milano 1968. RoBINS R.H., Storia della linguistica, Il Mulino,
Bologna 1971. ULLMANN S., La semantica, Il Mulino, Bologna 1966. WARTBURG
WALTER VON-ULMANN S., Problemi e metodi della linguistica, Il Mulino, Bologna.
62 Capitolo quinto IL PROBLEMA COSMOLOGICO QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. Il mondo
ha un'origine e uno scopo? Quali? 2. È possibile individuare la struttura
dell'universo? In quale imaniera? ‘i. Problematicità dell’universo L'universo è
una realtà problematica sotto molteplici aspetti: la sua origine, i suoi
elementi costitutivi fondamentali, la sua durata, il suo fine ultimo. La branca
del sapere che si occupa della costitu- zione dell'universo per definirne la
forma e le leggi che lo gover- mano, viene denominata cosmologia {dal greco
kosmos,! che significa ordine, mondo e logos = discorso); quanto riguarda la
sua origine e il suo fine ultimo viene invece studiato dall'ontologia e dalla
tsleologia. i Intorno all'universo e in ordine alla soluzione dei suddetti pro-
blemi si può fare un duplice discorso, scientifico e filosofico. Nel primo caso
si propone una descrizione dei fenomeni, specialmente nelle loro relazioni
d'insieme e nel loro divenire, interpretandoli se- condo criteri logici,
tendenti a stabilire tra loro un ordine, una struttura, una legge di
conservazione e di evoluzione. Nel secondo si presenta un’interpretazione
generale dei fenomeni dell'universo, nella loro natura essenziale, nelle loro
proprietà, nel loro ultimo fondamento. Questa distinzione tra discorso
scientifico e filosofico è una con- quista piuttosto recente del pensiero
umano. Essa è divenuta possi- bile soltanto col sorgere delle scienze
sperimentali, vale a dire du- rante il secolo XVII. Prima si consideravano le
ricerche dei metafisici e gli studi degli astronomi e dei fisici come facenti
parte d'una unica grande disciplina, la filosofia. ‘ Il termine kosmos ìn greco
indica ìn senso proprio l'armonia universale regolata da leggi precise e
inviolabili. Contrapposto al termine kaos, che nella mentalità dei Greci era
espressione non solo di disordine indifferenziato, ma anche di tutto ciò che
contiene in sé la forza del negativo, il kosmos rap- presentava per gli antichi
tutto ciò che è positivamente conforme alla volontà degli dèi e che è pertanto
vita e bene. 63 La cosmologia studia la costituzione dell’universo {forma e
leggi) Discorso scientifico e discorso filosofico Una soluzione mitica ai primi
interrogativi sul cosmo Il problema dell’uno e del molteplice in Talete 2. La
cosmologia nel pensiero occidentale Il problema cosmologico è uno dei primi che
la mente umana si sia posto. Appena ha acquisito il potere di riflettere,
l'uomo ha cominciato ad interrogarsi sull'origine delle cose: qual è la loro
causa ultima? e in che modo tale causa ha prodotto tutto il comples- so sistema
dell'universo? Qual è il costitutivo fondamentale del mondo? A questi
interrogativi gli uomini hanno cercato di dare una ri- sposta molto tempo prima
di scoprire gli strumenti logici di ricer- ca propri della filosofia,
servendosi degli strumenti espressivi del mito. Documenti preziosi di alcune
spiegazioni cosmologiche di caratte- re mitico sono i poemi di Omero e Esiodo.
Nelle loro opere l’uni- verso è considerato come una grande città, di cui fanno
parte oltre gli uomini anche gli dei. Come la città così l'universo sta sotto
il governo di un grande monarca. Tutto ciò che accade nel mondo è opera sua e
degli altri dei; tutti i fenomeni naturali sono promossi dai numi: i tuoni e i
fulmini sono scagliati dall'alto da Zeus, i flutti del mare sono sollevati dal
tridente di Poseidone, i venti sono so- spinti da Eolo, e così di seguito.
Nella sua Teogonia Esiodo ha fissato con precisione il quadro cosmico, entro
cui in seguito si muo- verà la spiegazione cosmologica dei filosofi. Secondo la
spiegazione esiodea della genesi dell'universo, dapprima si generò il Caos, poi
si generò Gea (ossia la Terra), nel cui ampio seno sono tutte le cose. Nella
profondità della Terra si generò il Tartaro buio, e, da ultimo, Eros (l’amore)
che, poi, fece generare tutte le altre cose. Talete, vissuto a cavallo tra il
VII e VI secolo avanti Cristo, è il primo pensatore che si domanda
espressamente e sistematica- mente: « Qual è la causa ultima, il principio
supremo di tutte le cose? », e che per rispondere a tale interrogativo non fa
ricorso a raffigurazioni mitiche ma si vale di concetti filosofici. Talete si
domanda se, nonostante l’esperienza, la quale ci pre- senta il quadro
impressionante di una molteplicità infinita di fe- nomeni apparentemente
irriducibili, sia possibile derivare la realtà da un unico principio supremo. È
un problema colossale che oltre- passa i confini della cosmologia ed invade il
terreno della stessa metafisica: il problema dell'uno e del molteplice,
problema che tormenterà i filosofi d'ogni tempo. A questa domanda ardita ed im-
pegnativa, Talete offre una risposta ingenua e rudimentale. Gli sembra che tra
i quattro elementi che il buon senso considera pri- mordiali e costitutivi
d'ogni cosa, l’acqua abbia una priorità sugli altri. E conclude che l'acqua è
il principio da cui traggono origine tutte le cose. Dall'acqua per
condensazione deriva la terra, per rare- fazione derivano l'aria e il fuoco. ?
Cfr. B., MONDIN,, vol. I, pp. 39-40. 64 Più che come una città, alla stregua di
Omero e Esiodo, Talete concepisce il mondo come una casa. In questa casa c'è
movimento, c'è mutamento, c'è caldo e freddo, fuoco e umidità, c'è fuoco al
centro, e su di esso una marmitta con acqua. La casa è esposta ai venti e alle
correnti; ma è una casa e questo significa sicurezza e stabilità. Per tre
secoli il problema cosmologico conserva l'impostazione che gli aveva data
Talete, un'impostazione ambigua, in cui il pro- blema metafisico del principio
supremo d’ogni cosa si confonde col problema cosmologico dell'origine e della
strutturazione di questo mondo. La distinzione tra problema metafisico e
problema cosmologico viene finalmente percepita e lucidamente formulata da
Platone. Questi distingue due piani di realtà, uno di ordine fisico (che è
quello di questo mondo materiale) e l’altro di ordine metafisico: è il piano
delle idee. Della origine e strutturazione del mondo mate- riale egli presenta
una famosa spiegazione nel Timeo. Il mondo è stato prodotto dal Demiurgo.
Questi contemplando le Idee (ossia prendendo le Idee come modelli), assistito e
coadiuvato da altre Potenze, plasma la materia informe, facendole assumere
quelle qua- lità e caratteristiche che sono proprie degli esseri che popolano
questo mondo. Portata a compimento la formazione del mondo, il Demiurgo vi
infonde un'anima universale, la quale ha la funzione di conservare in vita il
mondo, senza bisogno di un continuo inter- vento da parte del Demiurgo?
Aristotele, in Metafisica, compie un esame ancora più approfon- dito del
problema cosmologico, almeno per quanto concerne l’aspet- to della natura
essenziale delle cose materiali e del loro divenire. Secondo Aristotele il
mondo non ha né origine né fine: è eterno. Ma non è affatto immobile, statico,
perché il divenire è uno dei suoi tratti più caratteristici. Ma a che cosa è
dovuto questo perenne divenire? C'è anzitutto una causa estrinseca: la tensione
delle cose verso il loro ultimo traguardo, Dio. Ma c'è anche una causa
intrinseca: la costituzione stessa delle cose materiali, le quali sono composte
di materia e forma. La materia è di natura corruttibile ed è quindi la ragione
intrinseca del continuo succedersi di nuove forme sulla sce- na di questo
mondo. La materia è inoltre il fondamento ultimo del- l'estensione e quindi
dello spazio. Invece il divenire è la ragione pro- fonda del tempo. Da parte
sua la forma è la ragione della distinzione delle cose in molte specie diverse.
Le specie fondamentali secondo Aristotele sono quattro, e, di conseguenza,
quattro sono anche i grandi regni degli esseri terrestri: minerale, vegetale,
animale e uma- no. Particolarmente interessante ed acuta è l’analisi condotta
da Aristotele intorno al divenire, di cui distingue e definisce quattro tipi
principali: quantitativo (crescita e diminuzione), qualitativo * PLATONE,
Timeo, 5 ss. 65 Platone e le due realtà: fisica e metafisica Aristotele e la
sua concezione sulla costituzione del cosmo: materia, divenire, forma
L'esistenza e la perfezione del Movente immobile La concezione atomista di
Democrito ed Epicuro Agostino e Tommaso: la temporalità del mondo e la sua
eternità (alterazione di qualità), sostanziale (generazione e corruzione) e lo-
cale (spostamento da un luogo ad un altro).* Ma come s'è detto, secondo
Aristotele, il divenire delle cose non ha soltanto una causa intrinseca ma
anche una estrinseca: le cose divengono per un fine ed è appunto il fine che le
induce a trasfor- marsi, ad acquisire ulteriori gradi di realizzazione. Ciò
porta Ari- stotele a riconoscere l'esistenza di un Movente immobile, che pro-
voca tutti i fenomeni, tutte le generazioni, tutti i movimenti di questo mondo.
Aristotele deduce la necessità del Movente immobile continuando la sua analisi
del divenire. Si deve dare un movente in ogni forma di divenire perché il
soggetto del divenire, non può darsi da sé ciò che non ha: « Tutto ciò che è
mosso, è mosso da un altro ». Dalla esistenza delle varie forme di divenire e
di movimento esistenti nel mondo Aristotele deduce l'esistenza di un Movente
immobile, non subordinato a nessun genere di movimenti, causa im- mediata del
movimento totale dell'universo, e causa mediata di tutti i movimenti
particolari. Il Movente immobile è, secondo Aristotele, eterno, unico, del
tutto immobile cioè talmente perfetto da non essere suscettibile di qualsiasi
perfezionamento; inesteso non però come sono inestesi di natura loro la materia
o i punti, ma perché superiore a tutto il mondo della materia e
dell'estensione. Una concezione profondamente diversa e sotto molti aspetti
con- traria a quella di ‘Platone e di Aristotele hanno sviluppato alcuni loro
contemporanei, detti atomisti, i cui massimi esponenti sono Democrito ed
Epicuro. Secondo questi filosofi il mondo è composto di una moltitudine
infinita di atomi o elementi fisicamente invisibili, a causa della piccolezza
delle loro dimensioni. Queste particelle si muovono nel vuoto e unendosi
producono la nascita dei corpi e se- parandosi la distruzione. Fino a questo
punto Democrito ed Epicuro sono perfettamente d'accordo. Divergono invece nella
maniera di concepire il moto degli atomi. Mentre secondo Democrito tale moto
assume una direzione rettilinea, Epicuro ritiene che per spiegare il mutamento
e la combinazione degli elementi tra di loro occorre concepire il moto come
passibile di deviazioni spontanee (clinamen): è proprio grazie a tali
deviazioni che gli atomi danno origine a com- binazioni così molteplici e
diverse, quali noi osserviamo in questo mondo I pensatori cristiani per
spiegare la struttura intrinseca delle co- se materiali di solito si rifanno
alla dottrina aristotelica; mentre in- vece per spiegare l'origine del mondo
ricorrono alla nozione biblica di creazione: il mondo è scaturito dal nulla per
volontà di Dio. Ma quando è stato creato questo mondo? Per rispondere a questo
in- terrogativo gli autori cristiani hanno avanzato due soluzioni: una fa capo
ad Agostino ed è quella più comune; l'altra è quella di Tom- 4 Cfr. B. MONDIN,
vol. I, pp. 129-133. 5 Ivi, pp. 134-136. 6 Ivi, pp. 52-54; 174-177. 66 maso
d'Aquino. Secondo il Vescovo di Ippona il mondo è stato creato nel tempo, così
vuole la Scrittura e così esige anche la natura contingente e mutevole delle
cose materiali. Invece secondo l’Aqui- nate, in linea di principio (vale a dire
assolutamente parlando senza tener conto di quanto la ragione umana ha
acquisito dalla Rivelazio-
ne) non si può escludere l’esistenza
eterna del mondo, in quanto Dio ha potuto crearlo da sempre.” L'epoca moderna
si apre con uno spiccato interessamento per il problema cosmologico.
L'’Umanesimo e il Rinascimento sono carat- terizzati appunto da un interesse
straordinario per il mondo, per la natura. Gli uomini del Quattro e Cinquecento
(Cusano, Telesio, Pico della Mirandola, Ficino, Bruno, ecc.) sono incantati,
abbagliati dalla bellezza, grandezza, fecondità, potenza della natura e su di
essa ap- puntano il loro sguardo indagatore. Ma le loro spiegazioni di so-
lito, sono pure fantasticherie, che non possono vantare maggiore solidità di
quelle di alcuni pensatori greci, dai quali traggono ispi- razione. Eppure,
ciononostante, le loro ipotesi costituiscono il pro- logo essenziale allo
sviluppo di una nuova cosmologia, la quale assu- me la veste di ricerca
scientifica anziché quella di indagine filo- sofica.? Già con Galilei non ci si
interessa più delle essenze delle cose materiali e delle loro cause ultime, ma
si concentra tutta l’attenzio- ne sui fenomeni e sulle leggi che li regolano.
Sono soprattutto le leggi che contano. Si tratta di una rivoluzione che ha
prodotto copiosi frutti. Un po’ alla volta, per merito di Galilei, Keplero,
Newton, Lavoisier, Einstein e tanti altri, l'indagine scientifica è riuscita,
almeno in parte a dipanare la complessa voluminosa ed intricata matassa delle
leggi che regolano i fenomeni dell’universo. Tutte le cosmologie antiche,
quella egiziana, babilonese e gre- ca, mettevano sempre al centro dell'universo
la Terra, circondata e sostenuta da un oceano e sopra la volta del cielo. Nel
secondo secolo dopo Cristo, il matematico ed astronomo alessandrino Tolo- meo
Claudio rielaborò tutti i risultati delle ricerche precedenti e sviluppò un
complesso sistema geocentrico, basato su una serie di circonferenze, in cui la
Terra era al centro ed il sole e la luna le giravano intorno, mentre gli altri
corpi celesti avevano dei percorsi eccentrici. Questo sistema fu accettato per
oltre un millennio, sino a che Niccolò Copernico non elaborò il suo sistema
eliocentrico, nel 1507, secondo cui i pianeti si muovono intorno al sole su
orbite com- plementari. Si deve soprattutto agli studi di Galilei la diffusione
del sistema copernicano. Un altro elemento caratteristico della cosmologia
moderna trae origine da Galilei: il meccanicismo. Applicando allo studio
dell’uni- ? Ivi, pp. 221-223; 285. * B. MONDIN, vol. II, pp. 48-50. 67 Il
naturalismo della cultura rinascimentale Il cammino verso la scienza: da
Galilei ad Einstein Il ‘‘meccanicismo’’ di Galilei Teoria cinetica e teoria
molecolare: movimento perpetuo e struttura atomica I corpi celesti e la
distanza infinita Teoria stazionaria e
teoria evolutiva: creazione continua ed
esplosione originaria verso il metodo matematico, come aveva insegnato Galilei,
i filosofi e gli scienziati moderni non si interessano più delle qualità e
delle forme, ma guardano esclusivamente alla quantità e ai numeri. Viene in tal
modo a cadere la spiegazione vitalistica delle cose di questo mondo: le piante
e gli animali non svolgono determinate attività perché sarebbero dotati di
un'anima ma semplicemente perché sono forniti di elementi fisici capaci di svolgere
movimenti più o meno complicati Il meccanicismo peraltro non è mai riuscito a
sradicare il vitali- smo, il quale conta anche oggi molti validi sostenitori. È
comunque al meccanicismo che si ispirano alcune importanti ipotesi scientifiche
dell'ultimo secolo, come la teoria cinetica e quel- la molecolare. La teoria
cinetica constata un perpetuo movimento disordinato delle particelle dei gas,
tanto più rapido quanto maggio- re è la temperatura. In quésto disordine si
possono tuttavia applicare le leggi del calcolo delle probabilità, e trovare
delle relazioni tra grandezze macroscopiche direttamente misurabili. Secondo la
teoria molecolare la struttura della materia risulta da un'aggregazione di
atomi, tutti di una specie se si tratta di un corpo semplice, di tante specie
diverse quanti sono i componenti semplici, se si tratta di un composto o di un
miscuglio. Di ciascuna specie di atomi si conosce esattamente il peso,
indicabile con H per l'idrogeno, 238 H per l’ura- nio, ecc. 3. La cosmologia
nel secolo XX In questo secolo, grazie allo sviluppo di nuovi strumenti di ri-
cerca, è stato possibile penetrare sempre più a fondo nel cuore della materia e
individuarne gli elementi costitutivi più minuscoli, come le molecole, gli
atomi, gli elettroni, ecc. Anche del più piccolo organismo vivente, la cellula,
si è riusciti a decifrare in larga misura la complessa e meravigliosa
struttura. Dal lato opposto lo sguardo umano, sospingendosi sempre più lontano,
è riuscito a raggiungere corpi celesti che si trovano ad una distanza pressoché
infinita dalla terra. In tal modo l’uomo ha acquistato una coscienza più acuta
della vastità e della complessità dell'universo che lo circonda, un universo di
cui gli riesce sempre più difficile cogliere le ragioni del suo inizio, il
tempo della sua durata e il momento della sua fine. Per risolvere questi
problemi enormi oggi si avanzano varie ipotesi: le più note sono quella
stazionaria e quella evolutiva. Secondo la teoria stazio- naria, oggi meno
accettata, vi è una creazione continua di materia, che mantiene l'universo ad
una densità costante, nonostante la sua espansione, che si desume dall'ipotesi
del moto di allontanamento * Ivi, pp. 107-110; 143. 68 delle galassie. Secondo
la teoria evolutiva, vi fu un’esplosione origi- naria in un universo
superdenso, il cosiddetto « big bang », circa 10 o 12 miliardi di anni or sono.
Oggi comunque la parola definitiva è affidata alla ricerca che si vale di
strumenti sempre più perfezionati. Ma a parere di molti filosofi e scienziati
moderni, i quali riten- gono valida la distinzione kantiana tra realtà
fenomenica e realtà noumenica, cioè pensata, non è possibile trovare una
risposta con- clusiva agli interrogativi ultimi della cosmologia (origine del
mondo per creazione o per caso, durata finita oppure infinita, estensione li-
mitata oppure senza limiti, movimento teleologico oppure necessario, ecc.), in
quanto ad ogni tesi è possibile contrapporne un'altra di segno contrario. Ma
qui sono la natura e il valore della ragione umana e più spe- cificamente della
speculazione filosofica che sono chiamati in causa. E qualora si rifiuti di
accogliere la prospettiva kantiana, e si ascriva alla ragione il potere non
solo di cogliere i nessi tra i fenomeni ma la verità stessa delle cose, allora
si può anche ritenere che il pre: blema cosmologico non sia un problema
insolubile. A nostro avviso esiste una filosofia in grado di fornire una
risposta valida anche a questo difficile problema: è la filosofia dell'essere.
Questa filosofia (lo vedremo meglio nel capitolo dedicato al problema
ontologico) muove dalla « intuizione » del valore infinito della per- fezione
dell'essere e dalla constatazione che nel mondo tale perfezio- ne si realizza
sempre e soltanto in modi limitati. Ora, la finitudine e contingenza dell'essere
di tali modi, ossia delle cose dell'universo, fanno comprendere l'esigenza
della realtà di un Essere infinito, che ne segni l'origine e lo mantenga in
vita, la necessità d'un Incondizio- nato che regga tutta la serie delle
condizioni. Pertanto l'universo trae origine da Dio. Questi lo genera compiendo
un atto singolare, che nessuna creatura può compiere, l'atto della creazione.
Crea- zione significa la produzione di una cosa che prima non era in nessun
modo, né in se stessa né nella potenza d'un soggetto (o ma- teria). Il termine
« creazione » quindi evidenzia la totale inesisten- za dell'universo prima
della sua produzione da parte dell'Essere sussistente; esso pone l'accento sul
nulla del punto di partenza rispetto all'oggetto, l'universo. Con l’atto creatore
l'Essere sussi- stente comunica il suo essere all'universo. Il suo è un dono
del tutto straordinario, perché dal suo darsi nasce la realtà dell'universo là
dove prima c'era soltanto il puro nulla. Il termine « creazione » pone quindi
l'accento sull'inizio dell'universo, punto di partenza che è tutto nell'Essere
sussistente, nella sua generosa dedizione, una dedizione che non ha nulla a che
vedere né con l’emanazio- ne necessaria dei neoplatonici, né con l'alienazione
dell'Assoluto degli idealisti. Si tratta però, ovviamente, di una comunicazione
limitata. L'Essere sussistente non crea un altro essere sussistente, !° J. DE
FINANCE, Existence et liberté, Vitte, Paris 1955, pp. 152-207. 69 La risposta
della filosofia dell'essere L’atto creativo dell’Essere sussistente (Dio)
Insoluto il problema cosmologico della durata ma un ente contingente. Per
questo motivo l'universo non eguaglia la perfezione di Dio e tanto meno si
identifica con la sua realtà. Esso semplicemente partecipa alla perfezione
dell'Essere sussistente, os- sia possiede in modo particolare, limitato,
imperfetto, quella perfe- zione che nell’Essere sussistente si attua in modo
totale, illimitato e perfetto. C'è tuttavia una tensione permanente nel modo di
fare ritorno alla sua prima sorgente, all'Essere sussistente; e questo spiega
il profondo dinamismo che lo pervade, la costante trasformazione e la
meravigliosa evoluzione che lo animano: l’universo è in cammino verso Dio.
Questi è pertanto allo stesso tempo sia il punto Alfa che il punto Omega dell’universo."!
Abbiamo così chiarito, facendo appello ai principi della filosofia dell'essere,
i due principali problemi della cosmologia: origine e fine dell'universo. Resta
ancora insoluto il problema della durata. Qual è la distanza temporale che deve
percorrere l'universo prima di raggiungere il punto Omega? ‘Per trovare una
risposta a questo interrogativo non possiamo fa- re appello a nessuna
filosofia, neppure alla filosofia dell'essere. Si tratta certamente di una
distanza finita, come affermano oggi una- nimemente gli scienziati; ma è una
distanza che la ragione non riuscirà mai a misurare. CONCETTI DA RITENERE —
Teogonia — Condensazione-rarefazione — Materia; forma; divenire — Motore
immobile — Geocentrismo; eliocentrismo; meccanicismo — Teoria cinetica,
molecolare, stazionaria, evolutiva; creazione SINTESI CONTENUTISTICA I.
‘PROBLEMATICITÀ DELL'UNIVERSO 1. ‘L'universo è una realtà problematica in
ordine alla sua origine, ai suoi elementi costitutivi, alla sua durata, al suo
fine ultimo. 2. La risposta al problema può essere scientifica o filosofica.
Nel primo caso si propone una descrizione dei fenomeni. Nel secondo una
interpretazione generale dei fenomeni dell’universo. 3. La distinzione tra i
due ordini di soluzione risale al sec. XVII. II. LA COSMOLOGIA NEL PENSIERO
OCCIDENTALE 1. Il problema cosmologico è uno dei primi che la mente umana si è
posto: "! B. MONDIN, Il sistema filosofico di Tommaso d'Aquino {Per una
lettura at- tuale della filosofia tomista), Massimo, Milano 1985. 70 qual è la
causa ultima delle cose? in che modo ha prodotto il sistema dell'uni- verso?
qual è il costitutivo fondamentale del mondo? 2. Le cosmogonie e le teogonie
del mondo antico (da Esiodo ad Omero) sono state i primi tentativi di
soluzione. 3. Il problema sta alla base della filosofia ionica {Talete,
Anassimene, Anassimandro) che prospetta ambiguamente il problema cosmologico
con il problema metafisico. 4. La distinzione tra i due problemi viene posta da
Platone con la sua di- stinzione tra il mondo fisico e il mondo metafisico
(natura e mondo delle Idee). 5. Aristotele approfondisce il problema
cosmologico: it mondo è eterno e il divenire è uno dei suoi caratteri, poiché
le cose tendono verso il proprio perfezionamento. Un Motore immobile provoca
tutti i fenomeni, tutte ie gene- razioni, tutti i movimenti del mondo. 6. Gli
atomisti (Democrito e Epicuro) pongono all'origine del mondo atomi invisibili
per le loro dimensioni che unendosi e separandosi provocano la na- scita o la
distruzione. Democrito afferma che il movimento degli atomi è retti- lineo;
Epicuro afferma che avviene per deviazione spontanea. 7. I pensatori cristiani
per spiegare la struttura intrinseca delle cose si rifanno ad Aristotele,
mentre spiegano l'origine del mondo come atto creativo deila volontà di Dio. 8.
L'Umanesimo e il Rinascimento privilegiano il problema cesmologico (Cusano,
Telesio, Pico della Mirandola, Ficino, Bruno). Le visioni sono spesso
fantasiose e animistiche. 9. Progressivamente, nel corso dell'età moderna e
contemporanea, la co- smologia passa dalla dimensione metafisica a quella
scientifica attraverso i traguardi segnati da Galilei, Newton, Lavoisier e
Einstein. Il meccanicismo so- stituisce il vitalismo rinascimentale, lasciando
successivamente il posto alla teoria cinetica e alla teoria molecolare. III. LA
COSMOLOGIA NEL SECOLO XX 1. I nuovi strumenti di ricerca hanno consentito di
penetrare i segreti del- la materia e di individuarne gli elementi costitutivi
fondamentali: molecole, atomi, elettroni. 2. La teoria stazionaria afferma la
creazione continua di materia; la teoria evolutiva afferma l'origine di un
universo superdenso da un'esplosione ori- ginaria. 3. La filosofia dell'essere
offre una valida soluzione al problema dell'origine dell'universo stabilendo
una relazione tra gli esseri finiti e contingenti e l’Es- sere infinito e
incondizionato. L'universo trae, pertanto, origine da Dio per atto creativo, in
virtù del quale l'Essere sussistente comunica il suo essere al- l'universo con
un atto di generosa dedizione. QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Quali
rapporti intercorrono tra metafisica e cosmologia? 2. Che cosa caratterizza la
distinzione tra discorso mitico, scientifico e filo- sofico circa il mondo? 3.
Quali correlazioni è possibile stabilire tra scienza e cosmologia? 4. In che
misura il problema cosmologico si incontra con il problema religioso? 5. Quali
sono i principali aspetti del problema cosmologico? 6. Quali sono le
interpretazioni cosmologiche più significative del pensiero occidentale? 71 7.
Quali interpretazioni sono state date al problema dello spazio e del tempo? 8.
Che cosa sono il meccanicismo e il vitalismo? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI
ARCIDIACONO G., Relatività e cosmologia, Veschi, Roma. AuBERT J.M., Cosmologia,
Paideia, Brescia 1968. BERTOTTI B., Lo cosmologia, Le Monnier, Firenze 1980.
CRICK F., Uomini e molecole, Zanichelli, Bologna 1970. HOENEN P., Cosmologia,
Università Gregoriana, Roma 1956. JoLIVET R., Trattato di filosofia, vol. II:
Cosmologia, Paideia, Brescia 1957. MARCOZZI V., Caso e finalità, Massimo,
Milano 1978. MERLEAU PonTY J., Cosmologia del secolo XX, Il Saggiatore, Milano
1974. Monop J., I! caso e la necessità, Mondadori, Milano 1970. OraISsoN M., I!
caso e la vita, SEI, Torino 1971. SELVvaGGI F., Filosofia del mondo fisico, PUG,
Roma 1977. TEILARD DE CHARDIN P., Il fenomeno umano, Il Saggiatore, Milano
1968. TONINI V., La scienza della vita, Jouvence, Roma 1983. TORALDO DI FRANCIA
G., L'indagine del mondo fisico, Torino 1976. VAN Hacens B., Filosofia della
natura, Urbaniana ‘University Press, Roma 1983. 72 Capitolo sesto IL PROBLEMA
ANTROPOLOGICO QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. Quali interrogativi l’uomo si pone
in relazione a se stesso? 2. Perché l'uomo ha bisogno di capirsi? 3. Di che
cosa si ha più bisogno per stare bene con se stessi? 1. Natura del problema La
filosofia ha sempre fatto dell'uomo argomento del suo studio e delle sue
ricerche. Però, lungo l'arco della sua storia plurimille- naria, ci sono
momenti in cui l’attenzione del filosofo s'è rivolta all'uomo in maniera distinta
e privilegiata. Così, nell'antichità, dopo che lo sforzo dei primi filosofi
greci, teso a scoprire la causa ultima delle cose era riuscito vano, con
Socrate e i Sofisti la ricerca filo- sofica si concentra tutta sull'uomo, al
fine di comprenderne la vera natura, determinarne le capacità e intenderne i
doveri e la missione. « Conosci te stesso »: ecco l'obiettivo preciso della
filosofia di Socrate e dei suoi contemporanei. Altrettanto è accaduto molti
secoli più tardi, alla fine del Medio- evo, dopo i vani tentativi degli
Scolastici di fissare in bell’ordine gli elementi molteplici che compongono
l'universo. Ancora una volta l'indagine filosofica torna a riflettere anzitutto
e soprattutto sul- l'uomo, per conoscerlo più profondamente. In seguito, tutta
la filosofia moderna ha assunto un indirizzo spiccatamente antropocentrico.
Oggi, anche chi crede nella possibi- lità della metafisica ossia nella
possibilità di un sapere filosofico in- torno all'essere assoluto, ritiene di
doverla sviluppare partendo dal- l'uomo. Attualmente persino i teologi
ritengono opportuno se non proprio necessario dare alla loro disciplina
un'impostazione antro- pocentrica. Ma questa tendenza dei metafisici e dei
teologi di portare l'uomo al centro delle loro considerazioni rende più acuto
che mai il pro- blema di sapere chi sia l'uomo. Infatti senza una soluzione
adegua- ta di questo problema ogni tentativo di elaborare dottrine metafi-
siche, etiche, politiche, religiose, sociali è inevitabilmente destinato al
fallimento. Chi è, dunque, l'uomo? 73 Nel secoli la filosofia ha sempre
studiato l’uomo L’interrogativo fondamentale: l’uomo chi è? La complessità
della realtà ““uomo”' definito ‘‘mistero’’ da sant'Agostino Il problema
antropologico si riferisce all'essenza propria dell’uomo Tre prospettive di
ricerca sull'uomo: Sant'Agostino, che è uno degli autori che hanno studiato più
at- tentamente la realtà umana, a questo interrogativo risponde di- cendo: «
Grande mistero è l'uomo ».! L'uomo, infatti, a causa della complessità del suo essere,
fisico e psichico ad un tempo, confinato in una piccola zona dello spazio col
suo corpo, ma in grado di scaval- care tutti i confini dell'universo con la sua
mente, è effettivamente una realtà di cui è impossibile ottenere una
comprensione e fornire una spiegazione sicura ed esaustiva. L'uomo è una realtà
estremamente complessa. Ciò è vero anzitut- to nell'ordine dell'azione. Egli
esplica attività d'ogni genere: cono- sce, studia, scrive, parla, lavora,
gioca, prega, canta, ama, soffre, gode, mangia, ecc. Ed ognuna di queste
attività solleva interrogativi e problemi di non facile soluzione. Ma la
complessità diventa ancora più accentuata quando si passa dal piano dell'azione
a quello dell’es- sere. Allora ci si domanda: chi è questo individuo singolare
che chiamiamo Io e che qualifichiamo come persona? Che cos'è che con- sente al
suo corpo di esplicare le suddette attività molte delle quali trascendono così
palesemente i confini della materialità? È mai pos- sibile decifrare l'essere
profondo dell’uomo? Il problema-uomo investe pertanto tutti i campi della
filosofia, dalla logica alla gnoseologia, alla cosmologia, alla metafisica,
all’eti- ca, alla politica, alla cultura, all'arte, alla psicologia, alla
religione. Una antropologia generale dovrebbe affrontarlo nella sua tota- lità
e trovare una risposta per ogni specifico interrogativo. Ma, di solito, quando
si parla di problema antropologico non si intende riferirsi al problema di
questa o di quella attività umana (per esem- pio al problema della conoscenza
oppure della libertà, del lavoro, ecc.) ma al problema della natura umana in
quanto tale: qual è l'essenza propria dell'uomo? quali sono i suoi elementi
costitutivi fondamentali? in che rapporto si trovano tra di loro? quale l’ori-
gine prima e il fine ultimo dell’uomo? È appunto di questa serie di
interrogativi che noi terremo conto tracciando il quadro storico del problema
antropologico. 2. Panorama storico Agli interrogativi: chi è quell’essere
vivente che chiamiamo uomo? quali sono gli elementi costitutivi della sua
natura? in che rapporto si trovano tra di loro? sono state date le risposte più
disparate, le quali tuttavia sono riducibili ad alcuni tipi fondamentali,
qualora si tenga conto della prospettiva in cui si sono collocati i filosofi
op- pure del metodo che hanno impiegato nell’elaborarle. Le prospettive
principali sono tre, cosmocentrica, teocentrica e antropocentrica. ! S.
AcostINO, Confessioni, IV, 14. 74 La prospettiva cosmocentrica assume come
punto d'osservazione il mondo. È la prospettiva della filosofia greca. Platone,
Aristotele, gli Epicurei, gli Stoici, i Neoplatonici quando studiano l'uomo lo
situa- no all’interno del mondo e lo considerano alla luce della visione che
hanno di quest’ultimo. La prospettiva teocentrica assume come punto
d'osservazione Dio. È la prospettiva della filosofia cristiana dei Padri e
degli Sco- lastici. Questi si accostano all'uomo in un contesto teologico ossia
tenendo conto di quanto Dio stesso ha fatto conoscere all'umanità riguardo alla
realtà divina, umana e cosmica. La prospettiva antropocentrica prende come
punto di riferimento l'uomo stesso, focalizzando questo o quell'altro suo
aspetto caratte- ristico. È la prospettiva propria della filosofia moderna. A
partire dall’Umanesimo tutte le antropologie, quella di Cartesio come quella di
Hume, quella di Kant come quella di Hegel, quella di Comte come quella di
Freud, quella di Nietzsche come quella di Heidegger, ecc., pur tra grandi e
profonde divergenze, concordano nell’assumere la stessa prospettiva antropocentrica.
Se, però, per classificare le antropologie, anziché la prospettiva si prende
come fondamento il metodo, allora si ottengono quattro ti- pi principali: —
antropologie metafisiche, le quali si valgono del metodo me- tafisico. Sono
quelle di Platone, Aristotele, Plotino, Agostino, Tom- maso, Cartesio, Spinoza,
Leibniz, ecc. — antropologie naturalistiche, le quali applicano anche allo
studio dell’uomo il metodo positivo-scientifico. Sono le antropologie di
Darwin, Comte, Spencer, Freud, ecc. — antropologie storicistiche, le quali
adoperano il metodo sto- rico. Di queste le più rappresentative sono quelle
elaborate da Vico, Marx, Croce, Gadamer, ecc. — antropologie esistenziali, le
quali si servono del metodo fe- nomenologico. A questo gruppo appartiene la
maggior parte delle antropologie più recenti. Tra queste ricordiamo le analisi
di Scheler, Heidegger, Sartre, Ricoeur, Merleau-Ponty, Marcel, Gehlen, ecc.
Qui, a motivo dei limiti che ci siamo imposti nel presente scritto, non ci è
consentito di tracciare un panorama completo delle antro- pologie che abbiamo
ricordato. Illustreremo soltanto alcune posi- zioni più rappresentative e
storicamente più influenti. Sono posi- zioni che si trovano già delineate nella
filosofia greca. Nella cultura greca la posizione dell'essere umano
nell'universo assume indubbiamente maggior rilievo che nelle altre culture ad
es- sa contemporanee sia del Medio che dell'Estremo Oriente (cultura
babilonese, egiziana, ebraica, indiana, ecc.). E tuttavia anche nella cultura
greca la posizione dell'uomo rimane sempre una posizione in- certa,
contrastata, subordinata: egli non è padrone dell'universo e neppure della sua
storia. Tutti gli sforzi ch'egli compie per affermare se stesso, la propria
autonomia, la propria libertà, e per far valere i 75 — cosmocentrica: l’uomo e
la visione del mondo — teocentrica: l’uomo e la rivelazione di Dio —
antropocentrica: l’uomo a partire da se stesso Quattro metodi di ricerca
antropologica: metafisico, naturalistico, storicistico, esistenzialista Soprattutto
nella cultura greca emerge lo studio dell’uomo Visione predominante: il fato
incombe sull'uomo Altre visioni: — Platone: natura spirituale con libertà
assoluta — Aristotele: il limite della corporeità — Plotino: il ritorno
dell’anima all’Uno I quattro problemi fondamentali diritti della propria
intelligenza sono destinati al fallimento, perché egli rimane inesorabilmente
incatenato alle forze del Fato, della Natura e della Storia. La libertà è una
vana aspirazione, come pure vana aspirazione è quella di sfuggire alla morsa
della morte per rag- giungere l'eternità. Intelligente, coraggioso, forte e
astuto l’uomo greco si sente circondato da potenze soprannaturali che sono più
forti, intelligenti ed astute di lui. Prometeo incatenato è la figura più
emblematica della visione antropologica ellenica. Da tale visione si staccano
peraltro le concezioni dell’uomo ela- borate dai filosofi Platone, Aristotele e
Plotino. Platone afferma la libertà assoluta dell’uomo, riconoscendogli una
natura spirituale che non può in nessun modo essere incate- nata dalle forze
del mondo, del tempo e del fato. L'uomo per Platone è essenzialmente anima,
spirito. Perciò la sua sopravvivenza, la sua immortalità è fuori questione e
non presenta nessun problema. L'u- nico problema per l’uomo è quello di
riscattare la sua anima dalla prigione del corpo.’ Aristotele è meno ottimista
di Platone riguardo al carattere tra- scendente dell'uomo e all’eternità del
suo destino. A suo giudizio l'uomo non è puro spirito, non è essenzialmente ed
esclusivamente anima. Come tutti gli altri esseri di questo mondo anche l’uomo
è composto di materia (il corpo) e forma (l’anima). Ora, dato che l'anima
svolge il ruolo di forma, proprio per questo motivo, nono- stante la sua
evidente superiorità rispetto al corpo e alla sua capa- : cità di dedicarsi ad
attività sublimi come quella della contempla- zione, non pare tuttavia in grado
di sfuggire alla corruzione e di sot- trarsi al flagello della morte. Plotino
riprende e sviluppa ulteriormente la concezione plato- nica. Afferma anch'egli
la dicotomia tra anima e corpo ed assegna all'anima un'attività che appartiene
soltanto ad essa, la contempla- zione. L'anima che conosce la verità può
sottrarsi alla prigione del corpo e del mondo, può ritrovare se stessa e
ricongiungersi con l'Assoluto, l’Uno. Il ritorno dell'anima alla sua fonte
originaria è reso possibile da una tensione che le è connaturale. È una
tensione che all’inizio si afferma come impulso oscuro e pressoché inconsa-
pevole, ma è già sufficiente a determinare un senso di disgusto per tutto ciò
che è molteplice e diveniente. Le tappe del ritorno del- l'anima all’Uno sono
tre: ascesi, contemplazione, estasi. Oggi, queste tre visioni antropologiche
elaborate da ‘Platone, Ari- stotele, Plotino potranno sembrare inadeguate. Esse
hanno comun- que il merito singolare d'avere quanto meno individuato i problemi
fondamentali di qualsiasi indagine antropologica: — determinazione di ciò che
caratterizza essenzialmente l’uomo, ossia il problema della natura umana; ?
Cfr. B. MONDIN, vol. I, pp. 88-91. ? Ivi, pp. 137-139. * Ivi, pp. 185-186. 76 —
funzione e consistenza dell'elemento psichico, ossia proble- ma della
sostanzialità dell'anima; — rapporti tra elemento psichico ed elemento
somatico, ossia problema dei rapporti tra anima e corpo; — destino ultimo
dell'essere umano: ossia problema dell’immor- talità dell'anima. Su questi
quattro problemi fondamentali si è incentrata l'atten- zione di tutti i
filosofi posteriori, del Medioevo e dell’epoca moderna, allorché hanno
affrontato il problema antropologico. Sul problema della natura umana, fino al
secolo scorso c'è stato un accordo costante tra i filosofi nel situarla
nell'elemento razionale, come avevano già indicato Platone, Aristotele e
Plotino: l’uomo è essenzialmente animale ragionevole (anima! rationale).
Agostino, Tommaso, Scoto, Occam, Cartesio, Spinoza, Locke, Leibniz, Kant,
Hegel, convengono tutti su questo punto. Ma da un secolo a questa parte si è
cominciato a rilevare che nell'uomo esistono altre dimensioni e manifestazioni
altrettanto ti- piche e fondamentali quanto quella del conoscere, come il
parlare, il lavorare, il giocare, l’amare, il pregare, ecc. Sono così sorte
nuove antropologie che definiscono l'uomo in base a queste altre sue at-
tività. Tra le definizioni che hanno suscitato maggior interesse ricor- diamo
quelle di Marx (essere economico), Freud (essere sessuale), Heidegger (essere
ex-sistente), Marcel (essere problematico), Fink (essere ludico), Gadamer
(essere storico), Ricoeur (essere fallibile), Buber (essere dialogante), Bloch
(essere utopistico), Luckmann (essere religioso), Eliade (essere
mitologizzante), Tillich (essere a- lienato), Sartre (essere libero). Per
ultima riportiamo quella di Scheler che definisce l'uomo « l'essere capace di
dire di no all’im- pulso istintivo ». Anche altri filosofi, come Plessner,
Gehlen, Litt han- no confermato il concetto che il tratto essenziale dell'uomo
sia la rottura con l’istinto, valendosi dei risultati delle ricerche
biologiche. Naturalmente in questa sede non possiamo esporre le ragioni con cui
i vari autori giustificano le loro definizioni della realtà umana. Possiamo
tuttavia affermare che in generale si tratta di ragioni valide. Essi fanno
vedere che sotto l’aspetto della tecnica, del linguaggio, del gioco, della
cultura, della religione, dell'amore, ecc., l'uomo sovrasta infinitamente tutti
gli esseri che lo circondano e che, pertanto, ci si può servire di ciascuno di
tali aspetti a modo di principio erme- neutico della natura umana. Occorre tuttavia
riconoscere che la com- prensione di tale natura riesce più chiara e profonda
se non la si ac- costa alla prospettiva di una sola attività, ma di molte. Le
antropo- logie pluriprospettiche sono quindi preferibili alle antropologie che
esplorano l'uomo da un solo punto di vista. Queste ultime riescono
difficilmente ad aggirare lo scoglio del riduttivismo. Il problema
dell’esistenza dell'anima e del suo carattere sostan- ziale è indubbiamente il
più difficile dei problemi antropologici. Pla- tone fu il primo ad affrontarlo
in modo esplicito e rigoroso. Nel 77 L’essenza razionale della natura umana La
pluralità delle dimensioni Validità delle antropologie pluriprospettiche
Platone: spiritualità e immortalità dell'anima Agostino, Cartesio, Leibniz: la
sostanzlalità dell’anima Lucrezio, Hobbes, Marx, Comte e altri: l’anima
epifenomeno della corporeità Fedone egli prende in esame l'obiezione di coloro
che negano al- l'anima il carattere sostanziale, dicendo che essa non è altro
che un epifenomeno del corpo: l’anima non sarebbe altro che uno splen- dido
accordo degli elementi che costituiscono il corpo. Platone re- spinge
l’obiezione rilevando che l’anima, lungi dall'essere in accordo col corpo, si
trova praticamente in costante dissidio con esso; infatti le esigenze
dell'anima sono in perenne contrasto con quelle del corpo. Per esempio « nel
corpo c’è arsura e sete, e l’anima lo tira al contrario a non bere; c'è fame, e
l’anima lo tira a non mangiare, e così in mille altri casi in cui vediamo che
l’anima si oppone alle passioni del corpo ».î Quindi per Platone non c'è nessun
dubbio che l'anima è una sostanza, una sostanza di natura spirituale,
incorrutti- bile e immortale. Essa stessa costituisce la vera autentica
essenziale natura dell'uomo. L'uomo è l’anima. Il corpo è la prigione in cui
l'anima espia le sue colpe. Dopo Platone il problema della sostanzialità
dell'anima continua a suscitare dispute assai vivaci, ricevendo soluzioni molto
diverse e contrastanti. Alcuni autori (Agostino, Cartesio, Leibniz) seguendo
l'esempio di ‘Platone affermano che l’anima è una vera sostanza e che la sua
sostanzialità si identifica con quella dell’uomo. Le ragioni che adducono a
sostegno di questa tesi sono in parte di ordine mo- rale (come l'aspirazione
dell'uomo ad una vita di perfetta felicità, che non può trovare attuazione in
questo mondo) e in parte d'ordine gnoseologico (per esempio, il possesso di
verità assolute che non sembrano tratte dall’esperienza)£ Secondo un altro
gruppo di filosofi (Lucrezio, Pomponazzi, Hob- bes, Marx, Comte, i
neopositivisti, gli strutturalisti e molti altri pensatori contemporanei)
l’anima non è affatto una sostanza ma semplicemente una trasformazione
inconscia ed immaginaria (un epifenomeno) della corporeità. Le ragioni che
adducono a sostegno della loro posizione sono note. A loro giudizio la fonte
unica d'ogni cosa è la materia. Da essa si sviluppa tutto quello che noi
osserviamo nell'universo, compreso l’uomo. Anche ciò che c'è di più alto e di
più sublime in lui, come la scienza, l’arte e la morale, è tutto frutto della
potenza inesauribile della materia. Quindi anche l'insieme di quegli aspetti
superiori dell'uomo per spiegare i quali di solito si postula l’esistenza
dell'anima non sono il frutto di « uno spirito che abita nella macchina », ma
il risultato più o meno casuale di un alto grado di evoluzione della materia.”
Secondo san Tommaso, il quale su questo punto ritiene di inter- pretare il
pensiero autentico di Aristotele, e secondo la nutrita schie- ra di discepoli
che l’Aquinate ha avuto durante la Seconda Scolastica (Silvestri, Caietano,
Suarez) e durante la rinascita neotomistica (Mer- 5 PLATONE, Fedone, c. 43. *
Cfr. B. MonpIN, ‘vol. I, pp. 226-227; vol. II, pp. 189-191. ? Cfr. J. Monop, Il
caso e la necessità: saggio di filosofia naturale e della biologia
contemporanea, Mondadori, Milano 197 78 cier, Gilson, Maritain, Masnovo, De
Finance, ecc.) il possesso da parte dell’uomo di un'anima spirituale è una
verità indiscutibile, ma essi non condividono la tesi di Platone secondo cui l’anima
si identifica con l'uomo, perché l'anima da sola non è in grado di svol- gere
tutte le attività che sono tipiche dell'uomo, come sentire, par- lare,
lavorare, giocare, ecc. E tuttavia essendo l’anima dotata di al- cune attività
proprie come il riflettere, il ragionare, il giudicare, il volere liberamente,
anch'essi affermano che l'anima è dotata di un suo proprio atto di essere e che
pertanto è una sostanza completa: è una sostanza completa in ordine
all'esistenza ma non in ordine alla specificazione. Essa ottiene la propria
specificazione nella scala de- gli esseri soltanto unendosi al corpo. C'è
infine un altro gruppo di filosofi che ha per capostipiti Hume e Kant, il
quale, per ragioni d'ordine gnoseologico, nega che si possa risolvere il
problema della sostanzialità dell'anima. Questo è un pro- blema che riguarda «
la cosa in sé », mentre la nostra mente è com- petente soltanto su quanto
concerne la sfera dei fenomeni? Oggi, con la crisi profonda che sta
attraversando la metafisica e con quello scetticismo che sta aggredendo anche
la scienza, la posizione, agno- stica di Kant e di Hume incontra un numero
sempre più grande di sostenitori. Strettamente connessi col problema della
sostanzialità dell'anima
sono gli altri tre problemi principali
dell'’antropologia: origine del- l'anima, rapporti dell'anima col corpo, e
destino ultimo dell'essere umano. Per il problema dell'origine dell'anima i
filosofi hanno proposto le seguenti soluzioni: — traducianesimo, ossia
derivazione dell'anima dei figli da quella dei genitori (analogamente a quanto
succede per il corpo). Questa posizione è stata assunta da Tertulliano e
Agostino per rendere in- telligibile la trasmissione del peccato originale; —
emanazione dall'essere supremo: dal Logos secondo gli Stoi- ci, dall'Uno
secondo i Neoplatonici, dalla Sostanza secondo Spi- noza, dallo Spirito
assoluto secondo gli Idealisti; — creazione simultanea di tutte le anime prima
oppure nel mo- mento stesso dell'origine del mondo. Questa tesi è stata
proposta da Platone, Filone Alessandrino e Origene; — creazione individuale e
diretta di ogni singola anima da parte di Dio nel momento stesso della
formazione del corpo. È la tesi più diffusa tra i pensatori cristiani d'ogni
tempo, condivisa anche da quasi tutti i massimi esponenti della filosofia
moderna (Cartesio, Vico, Campanella, Locke, Berkeley, Leibniz, ecc.); * Cfr. B.
MONDIN, vol. I, pp. 289-290. * Cfr. B. MONDIN, vol. II, pp. 345-347. 79 Da
Aristotele e Tommaso al neotomismo: sostanzialità dell'anima e specificazione
in unione al corpo L’agnosticismo di Hume e Kant. La crisi scettica attuale Il
problema dell’origine: traducianesimo, emanazione, creazione, evoluzione
Creazione ed evoluzione Origine spirituale dell'anima: è creata da Dio Il
rapporto anima- corpo: a) unione accidentale — evoluzione dalla materia: è la
tesi patrocinata da tutte le cor- renti moderne di ispirazione materialistica.
Di queste soluzioni le prime tre oggi non trovano più sostenitori e il campo
delle scelte è pertanto ridotto a due: creazione individuale da parte di Dio e
evoluzione dalla materia. Qual è quella giusta? Le anime discendono
direttamente da Dio o sono invece derivate dal- la materia? A nostro avviso la
seconda soluzione ha un solo argomento dalla sua parte: la promozione della
conoscenza scientifica a metro esclu- sivo di qualsiasi verità e,
conseguentemente, il rifiuto di prendere in considerazione fenomeni che non
sono suscettibili di verifiche sperimentali, come il fenomeno della riflessione,
della libera scelta, dell'autotrascendenza, ecc. Ma per chi non vuole prestar
fede al dog- ma dello scientismo, la derivazione dell'anima dalla materia non
trova nessuna giustificazione e diviene, per contro, plausibile la tesi della
sua origine per creazione. Anzi, una volta che per spiegare fenomeni come la
riflessione, il giudizio, il ragionamento, l’auto- trascendenza, la libera
scelta, ecc., si ammetta nell'uomo l’esistenza di un elemento spirituale,
l’anima, non è più possibile derivare il suo essere dal basso, dal mondo
fisico, dalla materia, perché tra l’a- nima quale si rivela nella sua essenza e
nelle sue proprietà e il mondo fisico si spalanca un abisso che nessun processo
evolutivo di ordine materiale ha la possibilità di colmare. ‘Pertanto su questa
questione ci pare che abbiano perfettamente ragione quei filosofi i quali
riten- gono che l’anima abbia origine dall'alto, abbia cioè un'origine spi-
rituale e non materiale. Il loro argomento, ridotto all'osso, è il se- guente:
l’origine dell'anima dev'essere conforme al suo essere. Ora, essendo il suo
essere di natura spirituale, è necessario concludere che anche la sua origine
abbia carattere spirituale, vale a dire essa non può essere causata che da Dio;
si deve pertanto trattare di crea- zione, perché così si chiama l’azione con
cui Dio causa l'esistenza del- le creature. Quanto al problema dei rapporti tra
anima e corpo, anch'esso ha ricevuto soluzioni molto disparate, che tuttavia in
generale sono perfettamente coerenti con le posizioni che gli autori hanno
assunto sul problema della natura dell'anima e della sua sostanzialità. Le più
significative sono le seguenti: — unione accidentale. È una delle tesi che ha
trovato il più ampio coro di consensi; patrocinata anzitutto da Pitagora e
Platone è stata in seguito ripresa e sviluppata dai loro innumerevoli disce-
poli di cui i più illustri sono Agostino, Bonaventura, Cartesio, Mà- lebranche
e Leibniz. Tutti questi autori considerano l'unione tra anima e corpo un'unione
accidentale, ossia un'unione tra due so- stanze già completamente strutturate,
ciascuna dotata d'un proprio atto di essere, due sostanze assolutamente
eterogenee e pertanto aliene da qualsiasi saldatura profonda e duratura. Com'è
noto, Pla- tone paragona l'unione dell'anima col corpo a quella del nocchiere
80 alla nave o del cavaliere al cavallo. Malebranche parla di una unione
puramente occasionale; Leibniz di un'armonia prestabilita. Cartesio, infine,
fissa una localizzazione ben precisa alla saldatura tra l'anima e il corpo:
essa avviene nella ghiandola pineale;! — unione sostanziale. È la tesi che
Aristotele ha contrapposto a Platone e Tommaso ad Agostino. Secondo lo
Stagirita e l’Aquinate l'unione tra l’anima e il corpo è una unione profonda,
sostanziale, duratura, perché non è l'incontro fra due sostanze già dotate di
un loro essere autonomo prima di incontrarsi, bensì di due elementi sostanziali
di cui almeno uno, il corpo, non dispone di un suo proprio atto di essere. La
loro unione è simile a quella della materia con la forma sostanziale: due
elementi che si compenetrano da capo a fondo, così da formare una sola, unica
sostanza;! — identificazione dell'anima col corpo. È la tesi dei materialisti,
positivisti, neopositivisti, strutturalisti e di altri autori i quali negando
all'anima qualsiasi carattere sostanziale, risolvono il suo es- sere in quello
della corporeità; . — posizione agnostica. È la posizione di Hume, Kant e dei
loro rispettivi discepoli, i quali, ritenendo che nulla si possa dire del-
l'anima come « cosa in sé », concludono logicamente che non è neppure possibile
pronunciarsi sulla natura dei suoi rapporti col corpo.!? Anche il problema del
destino ultimo dell'essere umano segue la strada già segnata precedentemente
dalle soluzioni che i vari autori elaborano per il problema della natura
dell'anima e della sua sostan- zialità. Le soluzioni basilari sono tre: —
estinzione dell'essere dell'uomo con la morte: la morte non segna soltanto la
fine del corpo ma di tutto l'essere dell'uomo, anima compresa. Questa tesi che
fino agli inizi del secolo scorso aveva in- contrato il favore di pochissimi
pensatori, a partire da Feuerbach, Marx, Comte, Nietzsche, diviene la tesi
maggiormente seguita. Og- gi è sostenuta dalla maggior parte degli
esistenzialisti, dai neo- positivisti, dai materialisti, dai marxisti, dagli
strutturalisti e da molti altri ancora; — sopravvivenza dell'anima dopo la
morte del corpo. Questa te- si avanzata in sede filosofica per la prima volta
da Pitagora, Socrate e Platone è stata in seguito ripresa e sviluppata con ogni
sorta di argomentazioni da quasi tutti i filosofi del Medioevo e dell’epoca
moderna. Tra gli argomenti più suggestivi a favore dell'immortalità dell'anima
ricordiamo i seguenti: a) argomento di Platone. È basato sulla conoscenza che
l'anima ha delle idee del Bello, del Bene, del Vero, del Giusto, del Santo,
ecc. Ora, questa conoscenza si raggiunge non mediante i sensi, ma pi$t- tosto
con l’allontanamento da essi. Vi è quindi una vita propria dello !° B. MONDIN,
vol. I, ‘pp. 88 ss.; vol. II, pp. 1402142; 189-191. 1! Ivi, pp. 137-139;
286-290. !? B. MONDIN, vol. II, pp. 238-239; 345-347. B1 b) unione sostanziale
c) identificazione d) agnosticismo Il destino ultimo: estinzione o
sopravvivenza? Immortalità dell'anima secondo: — Platone: l’affinità dell'anima
con il mondo delle idee — Agostino: la conoscenza delle verità eterne —
Tommaso: il desiderio naturale della sopravvivenza — Cartesio: non si può
provare la corruttibilità dell'anima spirito, che si svolge tutta sola,
indipendentemente dal corpo. « Quan- do compie da sola la ricerca, l’anima si
slancia verso ciò che è puro, eterno, immortale e sempre uguale a se stesso; e,
sentendo la pro- pria affinità con esso, vi dimora per tutto il tempo che le è
con- cesso, e trova pace nel suo errare, e posta in contatto con tali realtà,
permane essa stessa costante e immutabile ».* L'affinità, la parentela con
l'Idea, che è eterna, è il perno dell'argomento platonico. In quanto spirito la
nostra anima è fatta per l’Idea e di essa si nutre e per essa vive della vita
dello spirito. Ora l’Idea è eterna, immuta- bile. Di conseguenza anche la
nostra anima, che è affine ad essa e vive di essa, è eterna ed immutabile; b}
argomento di sant'Agostino. È basato anch'esso sulla cono- scenza delle verità
eterne. « L'anima, dice Agostino, nella conoscen- za intellettiva attinge la
verità. Ora, in quanto sede della verità, l’a- nima è immortale allo stesso
modo della verità. Infatti se ciò che si trova in un soggetto è eternamente
duraturo, è necessario che lo stesso soggetto sia eternamente duraturo. Ma
poiché ogni scienza risiede sempre in un soggetto, è necessario che l’anima
duri per sem- pre. Ma dato che la scienza è verità e la verità dura per sempre,
anche l’anima dura per sempre, né si potrà mai dire che essa muore »;! c)
argomento di san Tommaso. È basato sul desiderio naturale che l'uomo ha di
sopravvivere alla morte e di non morire mai. Ecco come ragiona san Tommaso: « È
impossibile che una tendenza na- turale sia vana. Ora l'uomo brama per natura
di durare in perpetuo. E questo appare chiaro dal fatto che l'essere è ciò che
da tutti è desiderato; l’uomo poi mediante l'intelletto percepisce l'essere non
soltanto in un dato momento (come si trova realizzato hic et nunc), a modo
degli animali bruti, ma assolutamente. Dunque l’uomo con- segue la perpetuità
nella sua parte spirituale, vale a dire l’anima, per la quale percepisce
l'essere assolutamente e secondo ogni tempo »;! d) argomento di Cartesio. È
basato sull'impossibilità di provare che l’anima umana sia logorata dal tempo e
destinata a perire: « Non abbiamo nessun argomento e nessun esempio che ci
persuada che la morte, o l'annientamento di una sostanza quale lo spirito,
debba seguire da una causa così leggera come un cambiamento di figura, il quale
non è altro che un modo, e di più un modo del corpo e non dello spirito... Non
abbiamo nessun argomento né esempio che ci possa convincere che vi sono delle
sostanze spirituali soggette ad essere annientate »; — posizione agnostica. È
la posizione di coloro che ritengono che il problema della sopravvivenza
dell’uomo dopo la morte del corpo sia insolubile. Tracce di questa posizione si
incontrano già 4 :PLATONE, Fedone, c. 27. 4 S. AcosTINO, Soliloquia, II, c. 13.
4 S. TomMaso, Summa contra gentiles, II, c. 79. * CARTESIO, Meditazioni,
Laterza, Bari 1954, p. 156. 82 in alcuni filosofi del Medioevo (Abelardo,
Scoto, Occam) e del Rinascimento (Valla, Zabarella, Caietano); ma diviene una
posizione molto seguita dal momento in cui essa ottiene il suffragio di due dei
massimi esponenti della filosofia moderna: Hume e Kant, i quali come sappiamo,
in conseguenza dei loro postulati epistemologici, ritengono che la sfera della
realtà oggettiva (sia essa materiale oppu- re spirituale) sia inaccessibile
alla nostra mente. La posizione agno- stica è molto diffusa anche ai nostri
giorni. Ci sono, oggi, tanti stu- diosi i quali non negano l'immortalità
dell'anima ma ritengono che non sia possibile risolvere questo problema
mediante prove attinte dalla metafisica. C'è poi un gruppo di teologi
capeggiato da Barth e Cullmann, il quale considera la teoria dell'immortalità
dell'anima incompatibile con la Rivelazione biblica e, pertanto, ritiene che il
cristianesimo primitivo si sia reso colpevole di un errore imperdo- nabile
allorché ha tradotto la dottrina biblica della risurrezione dei morti nella
teoria greca dell'immortalità dell'anima.” Tale è, a grandi linee, il quadro
del problema antropologico così come si è venuto delineando attraverso i
secoli. Con la sua lunga serie di tentativi di soluzione, tentativi quasi
sempre insoddisfacen- ti, esso comprova l'esattezza della affermazione di
Agostino: « Gran- de mistero è l'uomo ». In effetti, messi di fronte a noi
stessi, per cercare di cogliere la vera natura del nostro essere ed il nostro ultimo
destino, dobbiamo riconoscere che non riusciamo a realizzare que- sta impresa:
capaci di risolvere complicati problemi relativi alla fisica, alla matematica,
all'astronomia, all'economia, alla politica, ecc., non siamo però in grado di
spiegare con sufficiente chiarezza la problematicità del nostro essere, della
nostra vita e del nostro de- stino. 3. Il significato dell’autotrascendenza Una
delle costanti del comportamento umano è di superare, tra- scendere
sistematicamente quello degli animali: l'uomo sorpassa gli animali nel
pensiero, nella libertà, nel lavoro, nella parola, nel di- vertimento, nella
tecnica ed in tante altre cose. ° Ma ciò che è ancor più singolare è la
presenza in tutte le espres- sioni dell'agire umano di un altro tipo di
superamento, di trascen- denza, la quale non è più volta verso l'esterno, verso
gli altri esseri viventi, bensì verso l'interno, verso l’uomo stesso: questi in
tutto ciò che fa, dice, pensa, vuole, desidera, mostra di tentare costante-
mente di superare se stesso. L'uomo è essenzialmente segnato dal-
l’autotrascendenza. .I filosofi del nostro tempo ancor più che i filosofi dei
secoli pre- ” O. CULLMANN, « Immortalità dell'anima o risurrezione dei morti»,
in Protestantesimo, 1956, pp. 48-74. 83 Insolubilità del problema:
l’agnosticismo da Abelardo a Kant Barth e Culmann: incompatibilità tra
immortalità e risurrezione Trascendenza e autotrascendenza: la tensione oltre
il limite
Soluzione egocentrica: il perseguimento
della propria perfezione Ritrovare se stessi in pienezza cedenti vedono
nell’autotrascendenza il tratto più caratteristico del- l'essere umano e
ritengono quindi che si possa giungere alla com- prensione di quest'ultimo
soltanto chiarendo il senso dell'auto- trascendenza. Ma su questo punto le loro
opinioni sono discordi. Vo- lendo schematizzare si possono ridurre a tre.
Secondo alcuni l’auto- trascendenza ha come obiettivo il perfezionamento del
soggetto che si autotrascende (soluzione egocentrica). Secondo altri il suo
obiet- tivo è il perfezionamento della comunità, dell'umanità (soluzione
filantropica). Secondo altri ancora il suo obiettivo primario è Dio: chi si
autotrascende si distacca da se stesso per raggiungere Dio (soluzione
teocentrica). a) Soluzione egocentrica - In tutte le epoche della storia
troviamo filosofi insigni che interpretano l'autotrascendenza come supera-
mento di ciò che l'uomo è attualmente al fine di raggiungere uno stato
superiore di esistenza, di perfezione, di felicità. Tra i sosteni- tori più
rappresentativi di questa soluzione figurano Platone, Aristo- tele, gli Stoici,
Cartesio, Hegel, Nietzsche, Sartre. ‘Sul senso ultimo dell'esistenza umana
tutti gli autori citati ma- nifestano un sostanziale accordo. Secondo il loro
modo di vedere, l'uomo nella vita presente si trova in una situazione precaria,
piena di deficienze e di miserie. C'è però nell'uomo una tensione (più o meno
forte a seconda dei casi) di superare tale situazione e di libe- rarsi-dalla
schiavitù dell'ignoranza, dell'errore, della paura, delle passioni. Ma questo
sforzo di autotrascendenza non vuole essere un’alienazione da se stessi e
un'immersione in qualche altro essere diverso da sé. L'intento
dell’autotrascendenza è di ritrovare se stessi mediante l'acquisto di un essere
più vero, più proprio e più autentico, effettuando una attuazione più piena e
più completa delle proprie possibilità. A nostro parere questa interpretazione
dell’autotrascendenza è valida nei limiti di ciò che afferma. Essa riconosce
giustamente che l'uomo supera costantemente se stesso non per disfarsi della
propria realtà ma per realizzarla più pienamente. L'uomo vuole acquisire nuovi
livelli di conoscenza, nuovi gradi di cultura e di benessere, ma senza buttare
a mare quanto già conosce, può e possiede. L'auto- trascendenza non è una
restituzione della macchina vecchia per l’ac- quisto di quella nuova, ma è
piuttosto una revisione e un nuovo col- laudo della macchina vecchia.
L'autotrascendenza non è un'immola- zione di se stessi a vantaggio di qualche
altro. Ma essa è anzitutto e soprattutto ricerca d'un essere personale più
perfetto. Però in questa interpretazione dell’autotrascendenza rimane in-
soluto il problema di come si possa
portare a compimento questo processo di più completa autorealizzazione, in
quanto da tutti gli autori sopracitati questa impresa è affidata alla
iniziativa e alle forze dell'uomo. Ora, l’esperienza insegna che nella maggior
parte dei casi i nostri sforzi vengono sistematicamente frustrati: non acqui-
siamo mai né il sapere, né l'avere, né il potere, né l'essere che vor- 84
remmo. Ma allora l’autotrascendenza non diviene uno sforzo insen- sato e vano?
A questo interrogativò cruciale l’interpretazione ego- centrica non offre
nessuna risposta. Per avere una risposta dobbia- mo rivolgerci alle altre due
interpretazioni. b) Soluzione sociocentrica - A partire da Marx e Comte
numerosi autori hanno visto nell’autotrascendenza un movimento di supera- mento
dei confini dell’individualismo e dell'egoismo e un tentativo di dare origine
ad una nuova umanità affrancata dalle miserie indi- viduali e dalle
diseguaglianze sociali e quindi in grado di conseguire la perfetta felicità. Recentemente
questa concezione dell'autotrascen- denza ha trovato dei validi interpreti
soprattutto nei marxisti revisio- nisti, Bloch, Marcuse e Garaudy. A nostro
avviso questa interpretazione contiene un punto assai positivo: il
riconoscimento che il movimento di autotrascendimento ha anche una dimensione
sociale: è l'uomo come essere socievole che si autotrascende e non come una
monade senza porte e senza finestre. Del resto questo trascendimento a livello
sociale oggi è am- piamente testimoniato dalle contestazioni che le giovani
generazioni (ma non soltanto loro) sollevano contro le strutture attuali della
so- cietà (di qualsiasi società sia capitalista che socialista). Ma il
riconoscimento che l’autotrascendenza abbia una compo- nente sociale non
significa affatto che essa non comporti anche un elemento personale. Quanto è
stato affermato dalla concezione ego- centrica non può essere ignorato
completamente come fanno tutti i marxisti, sia quelli ortodossi che i
revisionisti. E pertanto la soluzione che Marx e discepoli offrono al problema
dell'autotrascendenza non può essere accolta. Pure ammesso (anche se ciò è
decisamente assai improbabile) che nel suo progressivo auto- trascendersi
l'umanità raggiunga uno stadio finale di perfetta rea- lizzazione di se stessa
e delle proprie esigenze, questo non offre nes- suna risposta al problema della
propria, personale autotrascendenza. In effetti nessuna comunità storica
organizzata, nessuna economia, nessuna politica, nessuna cultura umana riescono
ad esaurire l’esi- genza di totalizzazione delle persone che trova espressione
nell’auto- trascendenza. Per questo motivo assegnare al movimento di autotra-
scendenza traguardi affascinanti e spettacolari che potranno essere raggiunti
dall’umanità soltanto in un lontano futuro, come fanno Marx, Comte, Bloch,
Garaudy e altri, significa lasciare completa- mente disattese e deluse speranze
reali degli uomini d'oggi, che oltre che collettivamente e socialmente sperano
anche e soprattutto individualmente e personalmente, ciascuno per il proprio
essere, e non tanto per la realizzazione di una nebulosa « società senza clas-
si », di cui siamo ben poco sicuri di poter mai far parte.!? Ha ragione quindi
Helmut Gollwitzer quando scrive: « Tutti i o Cfr. J. DE FINANCE, Essai sur
l'agir humain, Gregoriana, Roma 1962, P. S. Ivi, pp. 185 ss. 85 Soluzione
sociocentrica: la realizzazione di una nuova umanità Componente sociale ed
elemento personale Contingenza dei fenomeni ed esigenza del significato
dell’uomo Soluzione teocentrica: Dio è l'Alfa e l’Omega dell’autotrascenden- za
L’autotrascendenza come prova dell’esistenza di Dio fenomeni di questo mondo
sono destinati a decadere col tempo; non possono quindi conferire un senso
permanente alle cose. Non rimane allora che l’uomo a dare un significato
all'uomo. Ma il prossimo che è altrettanto transitorio e imperfetto, non è
capace di fornire questa spiegazione — per quanto ci si possa, nel caso pratico
individuale, attaccare al prossimo nella speranza di trovare in lui il
significato
dell’esistenza —. Sembra allora più
qualificata a far ciò l'umanità nel suo complesso, la cui durata supera di gran
lunga quella dell’indi- viduo. Essa però è un'astrazione di grado elevato e
bisognerebbe chiudere gli occhi per ignorare il fatto che anch'essa è un
fenomeno passeggero nel cosmo. Per trovare un significato, si deve presuppor-
re un'istanza permanente. Mancando questa, s'impone all'uomo e al- l'umanità un
peso che non possono portare, un compito che non possono svolgere ».® c)
Soluzione teocentrica - Molti studiosi all'autotrascendenza danno un senso
teocentrico: l’uomo esce incessantemente da se stesso e oltrepassa i confini
della propria realtà, perché vi è sospinto da una forza superiore, Dio. Questi
grazie alla sua grandezza, bontà, perfezione e onnipresenza polarizza su di sé
tutte le creature, in particolare l'uomo. Dio è il punto A/fa e Omega
dell'autotrascen- denza. I più validi esponenti di questa interpretazione
dell'autotrascen- denza sono Blondel, Rahner, Marcel, Metz, Boros e De Finance.
Ma contro questo modo d'intendere l’autotrascendenza si solleva una grossa
difficoltà, che è la seguente: l’autotrascendenza teocen- trica dà per scontata
la realtà di Dio. Ora questa è una concessione che la filosofia moderna non è
affatto disposta a fare. Oggi c'è tutta una schiera di filosofi i quali
affermano che Dio è assolutamente in- conoscibile e indimostrabile, oppure
dicono che l’idea di Dio è sol- tanto una ipostatizzazione dei bisogni e degli
ideali dell'uomo, cioè Dio è una creatura della mente umana. A questa grave
difficoltà Blondel, Rahner, De Finance e gli altri sostenitori del senso
teocentrico dell’autotrascendenza replicano che la loro interpretazione del
movimento di autotrascendimento non presuppone nessuna dimostrazione dell’esistenza
di Dio, ma al con- trario essa fa vedere che è questo stesso movimento a
fornire un chiaro documento a favore della realtà divina. Infatti
l'autotrascen- denza, essendo un movimento, esige un senso, un traguardo, una
meta. Ma s'è già visto in precedenza che né l’io né l'umanità possono fornire
il senso richiesto. Perciò non resta altra possibilità che rico- noscere che il
senso ultimo dell'autotrascendenza è Dio. Perciò a nostro avviso commettono
grave errore quei filosofi (e sono molti) che contrappongono la trascendenza
orizzontale a quella verticale, come se si trattasse di due tensioni
antitetiche, quando ®* H. GOLLWITZER, La critica marxista della religione e la
fede cristiana, Morcelliana, Brescia 1970, p. 118. 86 invece ci sono fondati
motivi per credere che la trascendenza oriz- zontale acquista senso e realtà
soltanto mediante la irascendenza verticale. Lo stesso Merleau-Ponty ha
giudicato stolto il tentativo di
opporre trascendenza orizzontale e
trascendenza verticale, attri- buendo alla prima quello che si toglie alla
seconda e concependo la Storia infinita e progressiva come « una Potenza
esteriore », di cui l'uomo non sarebbe che strumento senza sostanza interna. «
Non è mai stata tipica di nessuna filosofia, — assicura Merleau-Ponty, — la
scelta tra le trascendenze, per esempio quella di Dio e quella del- l'avvenire
umano; che anzi è sforzo costante di ogni filosofia me- diare tali trascendenze
».? Questo incontro tra le due trascendenze è stato ultimamente lu- cidamente
esplorato da Antoine Vergote. Egli descrive in modo e- gregio la trascendenza
orizzontale (egocentrica) nei termini seguen- ti: « L'uomo è corporalmente
legato al mondo che lo porta. Ma ne è il centro movente. Tutte le direzioni di
senso, in avanti e all’in- dietro, in lontananza e in vicinanza, a destra e a
sinistra sono relative alla totalità del suo io corporeo. Centro contingente e
asso- luto, riferisce tutto a sé e, nel guardare, toccare o semplicemente nel
camminare, si muove nello spazio ambiente. La dimensione oriz- zontale gli
offre il campo che si estende davanti a lui. Egli vi sfoggia la sua potenza, lo
ordina e gli dà senso. L'orizzontalità è il terreno delle sue possibilità e
delle sue realizzazioni. Egli vi mostra la propria vita nell'immediato. Vi si
muove instancabile, padrone di quanto lo circonda, dando forma ai suoi desideri
e alle sue idee ». Ma nell’uo- mo la trascendenza orizzontale si apre
spontaneamente e chiaramen- te verso la trascendenza verticale. Questa è
felicemente illustrata dal Vergote nel brano seguente: « Il desiderio
dell’uomo, il suo pensiero e il suo linguaggio si slanciano senza tregua al di
là del mondo de- gli oggetti o si volgono verso la loro origine, verso la
sorgente ori- ginaria da cui scaturiscono. La scissura verticale scava la sua
pre- senza negli uomini e nelle cose, perfino quando vuole recuperarsi tra-
mite un ritorno orizzontale. Ed è precisamente la presenza interiore di una
liberatrice deiscenza verticale che crea nelle cose un'apertura,
salvaguardandole da ogni reificazione. È essa che garantisce così al mondo
ambiente la sua separazione e la sua autonomia, nei limiti definitivi di un
orizzonte del mondo in perpetua estensione ».? A conclusione della sua
penetrante analisi del senso della trascen- denza verticale il Vergote scrive:
« Il cielo non sovrasta l'uomo come un'oscura trascendenza minacciosa. E non è
neppure il miraggio di un paradiso che aliena dai problemi della terra.
Delimita invece la terra come dimora e regno dell'umano. Esso è anche l’indizio
di un ? M. MERLEAU-PonTY, Signes, 1960, pp. 88-89. Ro La teologia e la sua
archeologia, Esperienze, Fossano 1974, pp. 79-80. 87 integrazione della
trascendenza orizzontale e verticale Il cielo delimita la terra ma non la nega
L’Altro assoluto sorgente dell’ipseità e superamento del limite superamento che
non spezza mai il legame terrestre della condizione umana ».# L'uomo non esce
dai confini del proprio essere per sprofondare nel nulla, ma esce da se stesso
per buttarsi in Dio, il quale è l'unico essere capace di portare l’uomo alla
perfetta e perenne realizzazione di se stesso, « Ciò che è necessario
riconoscere, è che lo slancio verso l'Ideale non è possibile e non ha
significato che a causa della presen- za affascinante e in certo qual modo
aspirante dell’Ideale sussi- stente o, per dargli il nome sotto il quale
l’invoca la coscienza reli- giosa, di Dio. È lui e lui solo — l'Altro assoluto
e cionondimeno la sorgente della mia ipseità — che pur consegnandomi a me
stesso mi strappa al mio io; è la sua presenza che introduce in me un principio
di tensione interiore e di oltrepassamento ».* Così, lungi dal fondare
l’'Ideale, l'autotrascendenza dell’uomo tro- va il suo ultimo fondamento.
CONCETTI DA RITENERE — Cosmocentrismo; teocentrismo; antropocentrismo —
Antropologia metafisica, naturalistica, storicistica, esistenziale —
Traducianesimo; emanazione; creazione simultanea; creazione indivi- duale e
diretta; evoluzione; unione accidentale; unione sostanziale; identifica- zione
anima/corpo — Posizione agnostica — Estinzione, sopravvivenza —
Autotrascendenza; soluzione egocentrica, filantropica, teocentrica SINTESI
CONTENUTISTICA I. NATURA DEL PROBLEMA 1. Interesse costante della filosofia per
l’uomo fino a farne l’obiettivo pri- vilegiato con i Sofisti e Socrate. 2. La
filosofia moderna assume un indirizzo spiccatamente antropocentrico, Oggi
persino i teologi ritengono opportuno dare alla loro disciplina una impo-
stazione antropocentrica. 3. Diviene pertanto sempre più urgente rispondere
all'interrogativo chi sia l'uomo e confrontarsi con la complessità della sua
natwira e del suo mistero. Il problema antropologico investe il problema della
natura umana in quanto tale: qual è l'essenza propria dell'uomo? quali i suoi
elementi costitutivi? quale la sua origine e il suo fine? II. PANORAMA STORICO
DELLO STUDIO DELL'UOMO 1. Storicamente si sono delineate tre prospettive di
studio: cosmocentrica, teocentrica, antropocentrita: i A a) la prospettiva
coòmocentrica (Platone, Aristotele, Epicurei, Stoici, Neo- platonici) situa
l'uomo nell'ordine dela natura e lo studiano in relazione ad esso; ® Ivi, p.
107. J. DE FINANCE, Op. cit., p. 191. 88
b) la prospettiva teocentrica (filosofia cristiana dei Padri della Chiesa e
degli Scolastici) considera l’uomo come « immagine di Dio» e lo studia in
prospettiva teologica; c) la prospettiva antropocentrica è propria della
filosofia moderna e con- temporanea (Umanesimo, Cartesio, Hume, Kant, Hegel,
Comte, Freud, Nietz- sche, Heidegger, ecc.) e assume come punto di riferimento
l’uomo stesso accen- trandone questo o quell’aspetto. 2. Le antropologie
possono distinguersi anche in ordine al metodo: 1) an- tropologie metafisiche
(Platone, Aristotele, Plotino, Agostino, Tommaso, Carte- sio, Spinoza, Leibniz,
ecc.); 2) le antropologie naturalistiche (Darwin, Comte, Spencer, Freud, ecc.);
3) le antropologie storicistiche (Vico, Marx, Croce, Ga- damer, ecc.); 4) le
antropologie esistenziali (Scheler, Heidegger, Sartre, Ricoeur, Merleau-Ponty,
Marcel, Gehlen, ecc.). 3. Nel panorama antropologico domina il problema della
libertà: a) nel mondo classico essa è una vana aspirazione vinta dalle forze
del Fato; b) nel mondo post-cristiano emerge come il dono di Dio all'uomo
responsabile così della sua storia e del suo destino; c) nell'epoca moderna la
libertà legittima il graduale distacco dell'uomo da Dio; d) nell'epoca
contemporanea l’antropolo- gia oscilla tra arbitrarietà e condizionamento. 4.
Il problema della natura umana è così determinabile: — problema della
sostanzialità dell'anima — problema dei rapporti tra anima e corpo . — problema
dell'immortalità dell'anima. Il pensiero contemporaneo ha progressivamente
accentuato altri aspetti da cui derivano definizioni dell'uomo in base alla sua
attività fondamentale: eco- nomico (Marx); sessuale (Freud); esistenziale
(Heidegger); storico (Gadamer); fallibile (Ricoeur); dialogico (Buber); utopico
(Bloch); religioso (Luckmann); mitologizzante (Eliade); alienato (Tillich);
libero :(Sartre); problematico {Mar- cel); ludico (Fink). III. IL SIGNIFICATO
DELL'AUTOTRASCENDENZA 1. Il comportamento umano supera quello degli animali.
L’agire umano, inoltre, non esprime solo una trascendenza rivolta all’esterno,
ma anche ri- volta verso l’uomo stesso. L'uomo è autotrascendente. 2.
L'autotrascendenza dell’uomo è interpretata in tre direzioni: a) egocentrica
(Platone, Aristotele, Stoici, Cartesio, Hegel, Nietzsche, Sar- tre): l'uomo
tende a ritrovare se stesso mediante l'acquisto di un essere più vero, più autentico,
attuando pienamente le proprie possibilità; b) sociocentrica (Marx, Comte,
Bloch, Marcuse, Garaudy): l’autotrascendi- mento è uscita dall’egoismo e ha una
dimensione sociale; c) ieocentrica (Blondel, Rahner, Marcel, Metz, Boros, De
Finance): l’uomo esce incessantemente da se stesso e oltrepassa i confini della
propria realtà sospinto da una forza superiore, Dio. QUESTIONARIO DI VERIFICA E
DISCUSSIONE 1. Perché l'uomo è un problema a se stesso? Sotto quali aspetti si
presenta come un problema filosofico? 2. Quali sono le principali prospettive
in cui si sono collocati i filosofi per risolvere il problema antropologico? 3.
Quali sono i metodi usati dai filosofi nello studio dell'uomo? 4. Come
interpretano i rapporti tra anima e corpo Platone, Aristotele, Agostino,
Tommaso, Cartesio, Spinoza, Malebranche, Leibniz? 5. Perché secondo Kant il
problema antropologico è insolubile? 6. Perché la morte del corpo non implica
necessariamente la fine di tutto l’uomo? 89 7. A che cosa è riconducibile il
problema metafisico e religioso come esi- genza peculiare della natura umana?
8. In che rapporto si trova il singolo con le strutture sociali, economiche,
politiche? 9. Quali sono le principali opinioni sul significato di
autotrascendenza del- l'essere umano? 10. Quale rapporto è possibile stabilire
tra l’autotrascendenza e la dimen- sione etica e politica dell'uomo?
SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA.Vv., Il problema filosofico dell'antropologia,
Morcelliana, Brescia 1977. AA.Vv., Umanesimo cristiano e umanesimi contemporanei,
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d'Aquino, Vita e Pensiero, Milano 1965. Ip., Uomo e natura. Appunti per una
antropologia filosofica, Vita e Pensiero, Milano 1980. 90 Capitolo settimo IL
PROBLEMA METAFISICO ‘QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. Che cosa c’è a fondamento e a
garanzia dell’esistenza? 2. Che cosa esprimono le parole « esistere », « essere
»? 3. Che cosa accadrebbe se esse scomparissero dal linguaggio umano? 1.
L'origine del termine L'origine del termine metafisica è legata all'opera di‘
Aristotele e al destino dei suoi scritti dopo la sua morte. Aristotele morendo
lasciò la propria biblioteca al discepolo Teo- frasto. Essa conteneva, oltre le
opere pubbliche degli altri filosofi e di Aristotele, anche gli scritti privati
del maestro, riservati alla stretta cerchia dei discepoli, tra i quali la
Metafisica. A sua volta, morendo, Teofrasto lasciò con la propria biblioteca
anche quella di Aristotele a Neleo, discepolo di ambedue. Questi la trasportò a
Scepsi, nella Troade, sua patria. Qui i suoi eredi, per sottrarla alle ricerche
dei sovrani di Pergamo e di Alessandria, che intendevano ar- ricchire le
proprie raccolte acquistando tutte le opere importanti su cui riuscivano a
metter mano, la nascosero in un sotterraneo, dove ri- mase poi abbandonata e
quasi ignorata fino verso il 100 a.C., anno in cui il bibliofilo Apellicone la
scoprì, l’acquistò e la portò ad Atene. Quando nell'86 a.C. Silla conquistò la città,
fece portare i preziosi manoscritti a Roma, dove furono affidati ad Andronico
di Rodi, affin- ché ne curasse l'edizione completa. Egli li suddivise e, poiché
dopo avere ordinato le opere di fisica si era trovato davanti ad un gruppo di
14 libri senza nome, allora aveva deciso di chiamarli «i libri che vengono dopo
la fisica » (tà metà tà physicà). Il nome, originato in modo così casuale,
corrispondeva effettivamente al contenuto dei volumi: essi infatti trattavano
di realtà, qualità, perfezioni, es- seri, che non si trovano oppure non si
restringono al mondo fisico, ma vanno oltre, sono cioè « metafisiche »; tutto
ciò costituiva per Aristotele la « filosofia prima ». Quindi il nome dato ad un
gruppo delle sue opere è passato giustamente a designare quella parte della
filosofia che si occupa delle cause ultime, dei principi costitutivi su- premi
delle cose. 91 II problema delle cause ultime e dei principi supremi La scienza
dell'essere in quanto tale Scetticisti, empiristi e materialisti: negazione
della metafisica Il dibattito metafisico non è più controverso di quello
scientifico La validità della definizione aristotelica 2. Oggetto della
metafisica La metafisica è stata variamente definita: come « scienza suprema in
assoluto, che studia l'essere in quanto tale e le proprietà che lo accompagnano
necessariamente » ed è « la scienza che esplora le cause prime e i primi
principi » (Aristotele); come « scienza dei principi primi della natura e della
morale » (Kant); come « immer- sione della propria esistenza nelle possibilità
fondamentali dell’esse- re considerato nella sua totalità » (Heidegger); come «
riflessione sui principi primi » (Gilson). L'elenco delle definizioni potrebbe
con- tinuare ancora, ma quelle riportate bastano ad indicare qual è la preoccupazione
che dà vita all'indagine metafisica: è la preoccu- pazione di scoprire le
ragioni supreme della realtà. La possibilità della metafisica è stata messa in
questione ripetuta- mente per ragioni diverse. Prima dagli scettici a causa
della loro sfi- ducia nelle capacità conoscitive dell'uomo, poi dagli empiristi
a causa della loro riduzione della conoscenza umana all'esperienza sensitiva,
più tardi dai positivisti, dai materialisti, dai marxisti a motivo della loro
riduzione di tutta la realtà all'ordine materiale, e, infine, dagli analisti
del linguaggio a causa della loro riduzione di tutti i pro- blemi, compresi
quelli filosofici, a puri problemi linguistici. Però pare che nessuna delle
suddette ragioni abbia valore pro- bativo. Anzitutto non è affatto vero che
quando i filosofi discutono della realtà delle cose, della loro origine, del
loro essere, della loro natura, del loro divenire, ecc., discutano soltanto sul
significato dei termini « realtà », « origine », « natura », « essere », «
divenire », per il semplice motivo che i dispareri tra i filosofi non sono di
natura diversa da quelli che si incontrano tra gli scienziati. Ora nessuno
vorrà affermare che quando i dotti della Sorbona non condividevano la teoria
dei coniugi Curie a proposito del radium, il loro disaccordo riguardasse
solamente la parola « radium ». Altrettanto si deve dire del disaccordo dei
filosofi a proposito dei principi primi della realtà, della natura, dell'essere
delle cose. Non sono semplicemente disac- cordi verbali; il disaccordo non
verte sul significato delle parole ma sulle cose stesse. Neppure è vero (e la
prova è stata fornita nel capi- tolo dedicato al problema epistemologico), che
l'uomo è dotato sol- tanto di conoscenze sensitive. Noi possediamo anche una
conoscenza superiore a quella sensitiva, di ordine intellettivo, capace di
raggiun- gere la verità entro certi limiti. Vengono così a crollare le
obiezioni mosse dagli scettici e dagli empiristi alla possibilità della
metafisica. Ma, ammessa la legittimità dell'indagine metafisica, qual è l’og-
getto al quale essa è diretta? Aristotele, come abbiamo ricordato, determina
l’oggetto della
metafisica con la celebre espressione:
l'essere in quanto tale e le proprietà che l'accompagnano necessariamente.
Quasi tutti i filosofi sono d'accordo sulla bontà di questa definizione: chi fa
metafisica 92 scruta il mistero dell'essere degli enti al fine di scoprire che
cosa sia che dà loro consistenza, che li riempie di realtà. Alla domanda « che
cos'è l'essere dell'ente » si arriva così: si osserva anzitutto nelle cose una
molteplicità di aspetti, che le ren- dono interessanti, meravigliose, spaventose,
problematiche, ecc. A poco a poco, però, un aspetto attira con maggior forza la
nostra attenzione, l'aspetto della loro esistenza, il loro essere: anziché non
essere, le cose sono! Improvvisamente la mente avverte la fondamen- talità di
tale aspetto a paragone di tutti gli altri e comincia ad in- terrogarsi
sull'essere delle cose, sull'essere dell'ente e nell’ente. È a questo punto che
l'indagine metafisica spicca il suo volo. Quindi l'indagine metafisica è
indagine intorno all'essere del- l'ente 0, che è poi lo stesso, indagine
intorno all'ente in quanto es- sere. La metafisica è essenzialmente ricerca
intorno all'essere. Quan- do invece il filosofo abbandona la questione
dell'essere, egli si al- lontana automaticamente dal terreno della metafisica.
Da ciò che siamo venuti dicendo risulta che l'oggetto formale della metafisica
non è questa o quella cosa, questa o quella qualità,
questo o quel principio; oggetto formale
della metafisica non è nep- pure l'ente, nessun ente: né l'ente materiale né
quello spirituale, né l'ente necessario né quello contingente. Lo studio di
questo o quel- l'ente particolare, di questa o di quella specie di ente non
spetta alla metafisica ma ad un altro ramo della filosofia oppure ad una delle
scienze sperimentali. L'oggetto formale della metafisica è l'essere in quanto
tale. L'ente materiale non è il suo oggetto formale ma solo il suo punto di
partenza. Solamente l'essere dell'ente (l’ente consi- derato nella sua qualità
di essere, l'ente in quanto è, l'ente conside- rato dal punto di vista
dell'essere) costituisce l'oggetto formale del- la metafisica. Naturalmente la
metafisica non si accontenta di parlare dell'ente in quanto essere, perché il
suo resterebbe un discorso puramente a- stratto. Essa deve parlare anche di
tutto ciò che è implicato in una risposta esauriente all'interrogativo: « Che
cos'è l'essere dell'ente? ». Però è bene precisare che non tutto appartiene al
discorso metafisico allo stesso modo. L'essere dell'ente costituisce l'oggetto
formale; il resto rientra nel discorso metafisico come risultato dell'indagine.
Quindi se per spiegare l'essere dell'ente occorrerà parlare di Dio, questi non
entrerà a far parte dell'oggetto formale della metafisica, ma dei suoi
risultati. 3. Metodo della metafisica Dunque l'oggetto della metafisica è
l'essere in quanto tale. Se- nonché dobbiamo constatare, come osserva
giustamente Heidegger, che l'essere non è mai accessibile direttamente e
immediatamente: l'essere non si manifesta mai da solo; non ci parla mai a tu
per 93 L’essere oggetto della metafisica L’uomo: l’ente che si interroga
sull’essere Metodo deduttivo e metodo induttivo Esigenza di tre metodi:
fenomenologico, induttivo e deduttivo tu; ma è sempre velato, nascosto sotto la
maschera di un ente par- ticolare. Perciò, si può arrivare all'essere soltanto
passando attra- verso gli enti. Ma, attraverso quale ente? A quale dei
moltissimi en- ti che affollano la grande scena dell'universo è più opportuno
rivol- gersi per spiare la natura dell'essere? C'è qualche ente privilegiato
che meglio di ogni altro possa svelarci i segreti dell'essere? Gli esi-
stenzialisti hanno sottolineato il fatto che il nostro ente (quell’ente che noi
chiamiamo « uomo ») ha per l’essere un interessamento del tutto particolare: è
l’unico ente che si interroga sull'essere; gli importa molto di scoprire che
cosa sia l'essere in quanto tale, e so- prattutto che cosa sia l’essere del nostro
ente. Gli esistenzialisti tro- vano in questa singolare vicinanza del nostro
ente all'essere un mo- tivo sufficiente per iniziare la metafisica con lo
studio dell'essere dell'uomo, uno studio che essi conducono secondo il metodo
fenome- nologico. Invece nel passato per risolvere il problema metafisico i
filosofi ricorrevano generalmente o al metodo deduttivo oppure a quello in-
duttivo. Platone, Plotino, Agostino, Avicenna, Bonaventura, Cartesio, Leib- niz
e molti altri, movendo dal presupposto che la mente umana co- nosce a priori o
per illuminazione divina i principi primi e le idee universali oppure
considerando il conoscere non come un apprendere ma come un creare, hanno
potuto procedere nell'indagine metafisica servendosi esclusivamente del metodo
deduttivo. Altri filosofi, tra cui Aristotele, Tommaso d'Aquino e molti mo-
derni, non ammettendo le idee a priori e neppure una illuminazione speciale da
parte di un essere metaempirico e neanche concependo il conoscere come un
creare bensì come un rappresentare, hanno im- piegato il metodo induttivo. A
nostro avviso, l'indagine metafisica per essere seria, feconda e concreta,
esige l’uso di tre metodi: quello fenomenologico, quello induttivo e quello
deduttivo. I primi due servono ad assicurarle una solida base nel concreto,
mentre il terzo va incontro all’esigenza del- la metafisica di offrire una
visione sistematica del reale. 4. Sguardo storico Tracciare la storia del
problema metafisico equivale sostanzial- mente a tracciare la storia della
filosofia occidentale, ché la primà e massima preoccupazione di tutti i
filosofi dei periodi antico, me- dioevale e moderno è sempre stata quella di
fornire una spiegazione conclusiva dei fenomeni che noi esperimentiamo,
scoprendo la cau- sa suprema, la ragione ultima del loro essere. L'intento
metafisico è già chiaramente presente nei filosofi io- nici: è la causa ultima
che essi ricercano, anche se poi in effetti 94 la situano in uno dei quattro
elementi costitutivi della materia, l’acqua, l'aria, la terra, il fuoco. Con
Parmenide la metafisica non è più una semplice aspirazione ma diviene
un'autentica realtà. Infatti, additando l'essere quale prin- cipio unico e
supremo d'ogni cosa, egli introduce la metafisica nel- l'ambito che le è
proprio e che resterà tale per sempre. Platone approfondisce la ricerca
dell'essere, distinguendo tra ciò che veramente è e ciò che invece è solo in
modo apparente, finito, contingente. Ciò che veramente è egli io identifica col
mondo delle Idee: esso è ingenerato, eterno, incorruttibile; mentre ciò che
sem- plicemente appare lo identifica col mondo materiale: esso è finito,
mutevole, contingente, corruttibile. Ovviamente, per Platone, il mon- do ideale
è il fondamento, la causa di quello materiale. In che mo- do? È noto che su
questo punto Platone non ha mai raggiunto una posizione definitiva. Egli ha
formulato due ipotesi: quella della par- tecipazione delle cose nelle Idee, e
quella della imitazione delle Idee da parte delle cose. Ma entrambe
presentavano alcune grbsse diffi- coltà e questo gli impedì di ascrivere
certezza assoluta alle sue ipo- tesi metafisiche.’ - Aristotele, l'abbiamo già
detto e ripetuto, definisce il problema metafisico come « studio dell'essere in
quanto tale e delle proprietà che l'accompagnano necessariamente ». Egli
identifica tale studio con quello delle quattro cause: materiale, formale,
efficiente, finale. Ma le quattro cause di che cosa? Ovviamente, del mondo
materiale che ci circonda. È scoprendo i principi fondamentali che sorreggono
questo mondo che si dischiude il mistero dell'essere. Peraltro, quan- do si
tratta di determinare la natura specifica delle cose materiali egli rifiuta la
teoria platonica delle Idee ritenendola come puramen- te fantastica e del tutto
superflua. L'essenza delle cose, a suo giu- dizio, non sta fuori delle cose ma
nelle cose stesse. E tuttavia, quan- do vuole rendere ragione del fondamento
ultimo delle cose, anche Aristotele ritiene necessario postulare, come aveva
fatto Platone, l’esistenza di una realtà spirituale, Dio. Questi però non lo
conce- pisce come causa efficiente del mondo, ma come suo ‘fine ultimo: Dio è
il movente supremo, che col suo fascino determina l’evolu- zione del mondo.
L'impostazione e la soluzione data al problema metafisico da Pla- tone e da
Aristotele esercitarono un influsso decisivo su tutta la speculazione
posteriore. Le si ritrova sostanzialmente inalterate presso gli Stoici, i
Neopiatonici, i Padri della Chiesa, gli Scolastici e anche presso la maggior
parte dei filosofi moderni. Lo studio del- l'essere degli enti finiti e
contingenti li porta tutti a postulare l'’esi- stenza di un Essere infinito,
assoluto, necessario. Questi per gli Stoici, ! B. MONDIN, vol. I, pp. 82-85. 2
Ivi, pp. 124-136. 95 L'emergenza metafisica in Parmenide Platone: l'essere è il
mondo delle idee Aristotele: l'essere e le sue proprietà Influenza di Platone e
Aristotele sulla speculazione posteriore L’Essere sussistente nella filosofia
cristiana Il graduale primato della gnoseologia sulla metafisica da Cartesio a
oggi L’impossibilità della metafisica per Hume e Kant è il Logos, per i
Neoplatonici l’Uno, per i Padri e gli Scolastici Dio, per Spinoza la Sostanza,
per Leibniz la Monade suprema. Ma, nella filosofia cristiana, pur conservando
essenzialmente l’im- postazione che gli avevano dato i due massimi esponenti
della filo- sofia greca, il problema metafisico fa un notevole passo avanti e
raggiunge un definitivo chiarimento su uno dei punti più difficili ed oscuri,
quello concernente i rapporti che intercorrono tra gli enti finiti e l’Essere
sussistente. Questo punto viene chiarito mediante l'introduzione della dottrina
della creazione, la quale insegna che gli enti finiti (il mondo) devono tutta
la loro realtà all'Essere sussi- stente, a Dio. Senza Dio il mondo è
assolutamente nulla, e prima d’es- sere stato prodotto da Lui non aveva alcuna
realtà. Ma anche do- po che è stato posto in essere, esso deve la sua
consistenza alla presenza attiva di Dio. Tratto dal nulla, il mondo si muove
continua- mente sull'orlo del nulla. E tuttavia proprio perché ha Dio per pa-
dre e creatore, il mondo non sarà mai sopraffatto dalle insidie del nulla. Al
contrario, sviluppando le possibilità che Dio gli ha con- ferito esso si
allontana gradualmente dall’abisso del nulla e si avvi- cina al regno inespugnabile
e indistruttibile dell'Essere sussistente.’ Il problema metafisico, s'è detto,
abbraccia gran parte della spe- culazione filosofica fino agli inizi del secolo
XIX. Occorre però preci- sare che già a partire da Cartesio esso cede il
primato, che prima era sempre stato suo, al problema gnoseologico. Ciò che
occorre affron- tare per primo è il problema del valore e della portata della
nostra conoscenza. Solo se si risolve positivamente questo problema, è le- cito
passare all'indagine metafisica. Diversamente si rischia di co- struire dei
castelli in aria. Sappiamo che Cartesio, Spinoza, Pascal, Malebranche, Leibniz,
Vico e, parzialmente, anche Locke, considerano obiettivamente valida la
conoscenza della ragione umana e, conseguentemente, se ne val- gono per
risolvere il problema del fondamento ultimo della realtà. Di esso Cartesio,
Malebranche, Pascal, Vico, Leibniz offrono una soluzione che non si discosta
gran che da quella degli autori cristia- ni che li avevano preceduti; mentre
invece profondamente ‘innova- trice è la soluzione di Spinoza. Secondo questo
autore la realtà ma- teriale non rimanda ad un piano superiore di ordine
spirituale: i due piani, materiale e spirituale, a suo avviso, sono
strettamente con- giunti tra di loro, e rappresentano le facce d'una unica
Sostanza.* Ma, dopo che il problema metafisico ha ceduto il primo posto a
quello gnoseologico, si intuisce facilmente come esso possa venire soppiantato
del tutto da quest'ultimo e definitivamente soppresso: basta soltanto
contestare il valore obiettivo e trascendente della ra- gione umana. È la
posizione che adottano prima gli empiristi inglesi e poi Kant. Per i primi non
si dà altra conoscenza fattuale al di ? Ivi, pp. 221-223; 283-286. ‘ B. MONDIN,
vol. II, pp. 164-168. 96 fuori di quella dei sensi, i quali, ovviamente possono
ben fornire catene di dati ma non garantirne l’obiettività e tanto meno
proporre una spiegazione profonda ed esaustiva della loro esistenza. Per Kant
la mente umana è sì in grado di fornire un'interpretazione ge- nerale,
scientifica della realtà fenomenica, ma soltanto di questa, non della realtà in
sé (la realtà noumenica). A proposito di quest’ul- tima è lecito sollevare
degli interrogativi, ma non fornire delle ri- sposte valide e sicure. Il
fondamento della realtà è irraggiungibile ed incomprensibile.’ Così con Hume e
Kant la sorte della metafisica è definitivamente segnata. La situazione per la
metafisica non migliora nel nostro secolo, quando, dopo aver esperimentato la
sterilità dell’'impostazione cri- tica della ricerca filosofica, alcuni autori
{ci riferiamo ai neo- positivisti e agli analisti) operano una seconda
rivoluzione coperni- cana, affermando che l’unica via per risolvere i problemi
metafisici non è quella che parte dall'essere e neppure quella che parte dal
co- noscere, ma quella che muove dal linguaggio. La questione fondamen- tale,
che dev'essere affrontata prima di ogni altra, è la questione del senso delle
nostre parole. Risolta questa questione anche le più astruse questioni
metafisiche non presentano più nessuna difficoltà. Questa impostazione
linguistica dell'indagine filosofica di per sé non è ostile alla metafisica; di
fatto però ha condotto alla sua negazione radicale, perché i filosofi del
linguaggio per determinare quali parole siano sensate e quali prive di senso
hanno assunto un criterio non meno rigorosamente empiristico di quello che i
filosofi inglesi del secolo XVIII avevano usato per risolvere il problema del
valore della conoscenza. Secondo tale criterio, detto della verifica sperimentale,
una proposizione ha significato soltanto se è tradu- cibile in una serie di
proposizioni sperimentali. Quando « una pro- posizione non è traducibile in
proposizioni di carattere empirico [...] non è affatto un’asserzione; non dice
nulla; non è altro che una se- rie di parole vuote; è semplicemente senza senso
»$ Con questo criterio di significanza crolla ovviamente e voluta- mente
qualsiasi metafisica. « È impossibile » dichiara Carnap « ogni metafisica che
voglia inferire il trascendente, cioè ciò che giace al di là dell'esperienza,
dall'esperienza stessa. [...] Non c'è affatto una filosofia come teoria, come
sistema di proposizioni con caratteristiche proprie, che possano stare accanto
a quelle della scienza ».” È per- tanto impossibile qualsiasi visione del mondo
che abbia la pretesa di essere l’ultima risposta all'ultima domanda, che voglia
fornire la 3 Ivi, pp. 345-347. $ R. CARNAP, Philosophy and Logica! Syntax,
Londra 1935, pp. 13-14; trad. it., Sintassi e logica del linguaggio, Silva,
Milano 1961. ? R. CARNAP, « Ueberwindung der Metaphysik durch logische Analyse
der Sprache » (JI superamento della metafisica mediante l'analisi logica del
lin- guaggio, pubblicato nel 1932 a Vienna), in Erkenntnis II (1931-1932), p.
240. 97 Linguistica e metafisica: il problema del senso delle parole Il crollo
della metafisica per il criterio della significanza Oggi la metafisica riemerge
costantemente chiave risolutiva del problema del fondamento dell'essere degli
enti. Abbandonata la metafisica, ai giorni nostri si cerca di trovare una
risposta agli interrogativi ultimi rivolgendosi o alle scienze positive o alla
storia oppure, più recentemente, alle scienze umane (psico- logia, psicanalisi,
etnologia, sociologia, ecc.). Ed oggi il dibattito sul rapporto metafisica-scienza
nell’ambito della storia della scienza è tornato a svilupparsi in modo intenso
(v. Kuhn, Lakatos, Feyera- bend, Strawson, ecc.). Ma le risposte che si
ottengono da queste discipline, anche se di notevole interesse, non riescono
neppure a scalfire il problema del fondamento ultimo della realtà. E allora la
metafisica fa di nuovo capolino in uno dei due modi seguen- ti: o come esigenza
di superare i confini angusti della storia, delle scienze positive, delle
scienze umane; oppure, e questo è il modo più comune, mascherandosi dietro il
paravento della visione gene- rale delle cose che ognuno porta necessariamente
in se stesso e che, però, quasi mai si è disposti a riconoscere e tanto meno a
concet- tualizzare rigorosamente. Così attualmente, nonostante la generale
ostilità per la metafisica teoretica, c'è una metafisica esigenziale ed
esistenziale che è più viva che mai. E questo conferma quanto avesse ragione
Kant quando di- ceva che l'uomo è un animale essenzialmente metafisico.
CONCETTI DA RITENERE — Essere; ente — Oggetto formale; metodo induttivo,
deduttivo; fenomeno logico — Mondo delle Idee; Essere sussistente; enti finiti;
creazione — Metafisica esigenziale, esistenziale SINTESI CONTENUTISTICA I.
L'ORIGINE DEL TERMINE 1. L'origine del termine « metafisica » è legata
all'opera di Aristotele e al destino dei suoi scritti dopo la sua morte. Essi,
dopo alterne vicende, furono af- fidati ad Andronico di Rodi, il quale,
ordinate le opere di fisica, si trovò davanti a un gruppo di libri senza nome
che chiamò « i libri che vengono dopo la fisi- ca » (tà metà tà physicà). Il
nome dato in modo casuale corrispondeva al con- tenuto relativo alle realtà che
vanno oltre il mondo fisico. II. OGGETTO DELLA METAFISICA 1. Variamente
definita, la metafisica esprime l'esigenza dell'uomo di sco- prire le ragioni
supreme della realtà. Nel corso dei secoli la sua possibilità è stata messa
ripetutamente in discussione da quegli orientamenti filosofici che tendevano a
ridurre l'ambito conoscitivo dell’uomo (scettici, empiristi, positi- visti,
marxisti, materialisti in genere, strutturalisti, ecc.). 2. La capacità propria
della natura umana di esercitare, oltrela conoscenza sensitiva, quella
intellettiva legittima tuttavia l'indagine metafisica. 3. L'indagine metafisica
verte sull'essere dell'ente, è essenzialmente ricerca 98 intorno all'essere.
Oggetto formale della metafisica è l’essere in quanto tale. L'ente materiale è
solo il suo punto di partenza. III. METODO DELLA METAFISICA 1. L'essere non è
mai accessibile immediatamente e direttamente, è sem- pre velato dall'ente. C'è
allora qualche ente privilegiato che ne favorisca la rivelazione? 2. Nel nostro
tempo gli esistenzialisti hanno colto nell'uomo, l’unico ente che si interroga
sull’ente, il punto di partenza per l'indagine metafisica. 3. Nel pensiero
classico la ricerca metafisica ha assunto ora il metodo de- duttivo ora quello
induttivo. I filosofi di orientamento platonico e razionalistico sulla base
dell'innatismo delle idee hanno accentuato la deduzione. I filosofi
aristotelico-tomisti hanno usato invece il metodo induttivo. 4. Una completezza
di indagine richiede tre metodi: il fenomenologico, l’'induttivo e il
deduttivo. I primi due le danno una base nel concreto, il terzo offre la
visione sistematica della realtà. IV. SGUARDO STORICO 1. Il problema metafisico
nel mondo classico è caratterizzato dall’intreccio con la cosmologia nella
filosofia ionica; dalla centralizzazione del problema dell'essere con
Parmenide; dall’approfondimento di Platone che lo riconduce al mondo delle
Idee; dalla definizione del problema in Aristotele: « studio del- l'essere in
quanto tale e delle proprietà che lo accompagnano necessariamente ». 2. Platone
e Aristotele influenzano la filosofia medioevale. Con san Tom- maso il problema
metafisico risolve il problema del rapporto tra gli enti finiti e l’Essere
sussistente in virtù dell’atto creativo. 3. Nell’età moderna con Cartesio
questo problema cede il posto a quello gnoseologico ed entra in una grave crisi
con il criticismo kantiano, che chiu- dendo la conoscenza nell’ambito
dell’esperienza, nega la possibilità della meta- fisica come scienza. 4. Nel
pensiero contemporaneo, dopo il passaggio dalla metafisica dell’es- sere a
quella della soggettività, segnata dall'idealismo, con il positivismo la
metafisica entra in una crisi ulteriore. I filosofi del linguaggio, in
particolare, ne decretano la fine affermando la validità solo di quelle
proposizioni che sono traducibili in proposizioni di carattere empirico. Nel
nostro tempo la metafisica tende tuttavia a riemergere come metafisica
esigenziale ed esistenziale. QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Qual è
il significato etimologico del termine « metafisica »? Da chi è stato
introdotto? 2. Come viene definita la metafisica da Aristotele, Kant,
Heidegger? 3. Qual è l'oggetto, il fine, il metodo della metafisica?
4. Perché molti filosofi hanno messo e
mettono tuttora in dubbio la possi- bilità della metafisica? 5. Perché si dice
che Parmenide è il « padre della metafisica »? 6. Che cosa si intende per
creazione, emanazione, evoluzione, partecipa- zione? 7. Che cosa si intende per
sostanza e accidente, materia e forma, atto e Potenza, essenza ed esistenza? 8.
In che misura il problema metafisico coinvolge il problema gnoseo- logico? 9.
Quali sono i punti di interazione e di contrasto tra metafisica ed epi- stemologia?
99 10. Quali rapporti si possono stabilire tra il problema metafisico e il pro-
blema religioso? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA.Vv., Metafisica e ontologia,
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Morcelliana, Brescia 1963. VANNI ROVIGHI S., Elementi di filosofia. II,
Metafisica, La Scuola, Brescia 1979. 100 Copiolo0Hovo riu IL PROBLEMA RELIGIOSO
QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. Come si spiega la presenza del fenomeno religioso
in tutti i tempi e in tutte le culture? 2. In che misura la dimensione
religiosa fa parte della natura umana e perché? 3. C'è differenza tra bisogno
naturale di Dio e scelta religiosa? < 1. | termini del problema La
dimensione religiosa è propria ed esclusiva dell’essere uma- no, e non esiste
presso gli altri esseri viventi. Si tratta peraltro di una manifestazione che,
abbracciando l’intera umanità sia in ordine allo spazio che al tempo (e non
soltanto quesito o quell'altro gruppo di un'epoca storica particolare), assume
proporzioni notevolissime. Gli antropologi ci informano che l’uomo ha
sviluppato una attività religiosa sin dalla sua prima comparsa sulla scena
della storia e che tutte le tribù e tutte le popolazioni di qualsivoglia
livello culturale hanno coltivato qualche forma di religione. D'alironde è cosa
risapu- ta che tutte le culture sono profondamente segnate dalla religione e
che le migliori produzioni artistiche e letterarie non solo delle civiltà
antiche ma anche moderne si ispirano a motivi religiosi. È pertanto ragionevole
affermare che l'uomo oltre che sapiens, volens, faber, loquens, ludens, ecc., è
anche religiosus. Né il fatto che oggi la religione stia attraversando una
crisi profonda e si in- contrino molti individui che si professano areligiosi,
costituisce un argomento plausibile contro la rilevanza del fenomeno religioso.
In effetti, noi consideriamo l’uomo ludens, loquens, faber, sapiens, ecc.,
anche se non tutti gli uomini giocano, lavorano, parlano, pensa- no.
Altrettanto vale per la dimensione religiosa: essa si impone come una costante
dell'essere umano, anche se non è coltivata da tutti gli individui della
specie. La religione è quindi un fenomeno reale, tipico dell’uomo, ma è anche
un fenomeno molto problematico, forse il più problematico di tutti. Infatti
mentre le altre attività umane si rivolgono ad oggetti la cui esistenza è fuori
di discussione, l’attività religiosa, per contro, si dirige verso un oggetto,
di cui si vede messa in questione persino l'esistenza. — Iti queste poche
pagine noi cercheremo di dare un'idea della na- 101 La religione dimensione
universale ed esclusiva dell’uomo Problematicità del fenomeno religioso Nella
storia la questione religiosa è sempre esistita Controversie interpretative dei
filosofi degli ultimi secoli Riconoscimento del valore oggettivo della
religione in Hume e in Kant tura e della complessità del problema religioso. A
tal fine procede- remo secondo l’ordine seguente: anzitutto tracceremo una
breve storia delle interpretazioni del fenomeno religioso così com'è stato
visto dai filosofi; poi faremo un approfondimento teoretico del pro- blema,
elaborando una definizione della religione ed esaminando i rapporti che essa
mantiene con le altre attività umane. 2. Le principali interpretazioni
filosofiche della religione La questione religiosa è stata sempre presente
nella storia della filosofia. Nel periodo antico se ne interessarono Senofonte,
Prota- gora, Platone, Aristotele, Lucrezio, Plotino; in quello medioevale
Avicenna, Averroè, Maimonide, Tommaso d'Aquino, Scoto, Occam;
agli inizi dell'epoca moderna, Giordano
Bruno, Campanella, Spi- noza, Hobbes, Locke. Ma è stato soprattutto a partire
da Hume e da Kant che la questione religiosa è divenuta uno dei punti cen-
trali della riflessione filosofica, e possiamo dire che, a partire da questi,
ha inizio una vera e propria « scienza delle religioni » che è andata sempre
più sviluppandosi sino ad oggi. Fu Muller che usò per la prima volta nel 1877
il termine religionswissenschaft, cioè « scienza delle religioni », che ebbe
uno sviluppo notevole, va- lendosi molto dell’antropologia culturale. Più
tardi, alla « scienza delle religioni » fu dato l'apporto dei sociologi,
soprattutto di Durk- heim che elaborò, nel 1912, una teoria generale della
religione. “Sulla questione religiosa i filosofi moderni si sono schierati su
due fronti opposti. Da una parte alcuni hanno cercato di mostrare che la
religione è priva di qualsiasi fondamento oggettivo: essa sarebbe una più o
meno astuta invenzione dell'uomo, dovuta alla paura (Feuerbach), alla prepotenza
(Marx), all'ignoranza (Comte), al ri- sentimento (Nietzsche), alla sublimazione
degli istinti (Freud), ad abusi linguistici (Carnap), ecc. Dalla parte opposta
altri autori difendono il valore oggettivo della religione, in quanto essa si
fon- derebbe su un rapporto dell'uomo con la realtà assoluta (Hegel, Croce,
James, Bergson, Scheler, Otto, Jaspers, ecc.). I primi svilup- pano una critica
negativa e demistificante; invece i secondi elaborano una critica positiva e
costruttiva del fenomeno religioso. 2.1 Demistificazione della religione Hume e
Kant, pur assegnando basi diverse al fenomeno religioso (Hume l'aveva fondato
sull’istinto e Kant sulla ragione pratica), non ne avevano messo minimamente in
dubbio il valore essenzialmente oggettivo. Tale valore, più tardi, venne
nuovamente ribadito dagli idealisti, in particolare da Hegel. L'orizzonte
culturale entro il quale Hegel interpreta la religione è quello della «
religione nei limiti della pura ragione » di Kant. 102 Essa costituisce il
secondo momento del sapere assoluto, quando lo spirito prende piena coscienza
di se stesso e diventa « autoco- scienza ».! Feuerbach, discepolo di Hegel,
partendo dal pensiero di questi, arrivò a negare il valore oggettivo della
religione. Contro il postulato hegeliano il quale afferma che tutto procede
dall’Assoluto e ogni cosa, l’uomo compreso, non è altro che un mo- mento del
suo automanifestarsi, Feuerbach sostiene che le cose stan- no esattamente
all'opposto: Dio è solo un'idea escogitata dall'uomo allo scopo di conseguire
la piena realizzazione di se stesso; pertanto la realtà suprema non è Dio ma
l'uomo. Nel famoso saggio L'essenza del cristianesimo Feuerbach argomenta che
la religione trae origine da un processo di ipostatizzazione dei bisogni e
degli ideali dell’uo- mo: l'uomo proietta tutte le qualità positive che ha in
sé in una persona (ipostasi) divina e fa di essa una realtà sussistente, capace
di sopperire ai suoi bisogni e alle proprie lacune? In Karl Marx, anche egli
discepolo di Hegel, le critiche avanzate da Feuerbach al pensiero del maestro
hanno certamente contribuito ad avviare anche lui alla contestazione del
fenomeno religioso, alla negazione di Dio e alla condanna di ogni chiesa. Ma a
fargli sposare la causa dell’ateismo, più che argomenti di natura filosofica e
meta- fisica sono stati motivi di ordine storico e sociale? La sua identifica-
zione della società ideale con la società senza classi e la ricerca della
instaurazione di tale società mediante la demolizione delle strutture sociali
vigenti ai suoi tempi, l'hanno portato necessaria- mente a confrontarsi con la
religione. Ora, tutta una serie di circo- stanze storiche gli hanno fatto
credere che la religione fosse uno dei maggiori ostacoli alla realizzazione
della nuova società e, per- tanto, concludere che la religione non può essere
che un'invenzione delle classi privilegiate per meglio sfruttare le classi
subalterne: essa è strumento di evasione per gli sfruttati e di giustificazione
per gli sfruttatori. La religione è l'oppio del popolo. « La religione è il
sospiro della creatura oppressa dalla sventura, l'anima di un'epoca senza
spirito. È oppio per il popolo. [...] Il fondamento della critica religiosa è
questo: l'uomo crea la religione, non è la religione che crea l’uomo ».* Nel
XIX secolo la critica della religione di maggior riscontro non fu quella di
Marx e Feuerbach, ma quella di Comte, il padre del positivismo. Secondo Comte
tutto l'universo procede dalla materia per via di evoluzione. Anche l’uomo è un
portato dell'evoluzione. Con la sua comparsa sulla scena del mondo ha inizio la
storia, le cui fasi principali, secondo la celebre classificazione del padre
del po- ! B. MONDIN, vol. III, pp. 67, 79-80. 2 Ivi, pp. 142-144. » Cfr. W
GOLLWITZER, La critica marxista della religione e la fede cristiana,
Morcelliana, Brescia 1970. ‘+ B. MONDIN, vol. III, pp. 153-156. 103 La crisi
post- hegeliana: Dio autoproiezione dell'uomo Negazione di Dio e condanna della
Chiesa in Marx La critica di Comte alla religione L'esperienza religiosa come
stadio primitivo dell’umanità Nietzsche: la ‘morte di Dio” e l'autonomia del
Super-uomo Il cristianesimo messaggio di debolezze e di mediocrità sitivismo,
sono tre: religiosa, metafisica, scientifica. Le tre diverse fasi corrispondono
a tre diversi modi di concepire e di spiegare le cose. Nell’epoca religiosa
l’uomo si dà una spiegazione mitica defenomeni naturali escogitando cause
soprannaturali; nell'epoca me- tafisica egli ottiene una spiegazione dei
fenomeni ricorrendo a prin- cipi reconditi, quali sostanza, accidenti, essere,
ecc.; nell'epoca po- sitiva infine egli elabora una spiegazione ragionata,
scientifica delle cose per mezzo delle leggi naturali, le quali bastano da sole
(senza che ci sia bisogno di ricorrere a Dio oppure a principi metafisici) a
spiegare tutti i fenomeni che noi constatiamo. Tutte le attività e tutte le
branchie del conoscere passano per questi tre stadi: la politica come il
diritto, l'economia come la morale, la fisica come l’astrono- mia, ecc.
All’inizio dell'epoca moderna, con lo sviluppo del metodo scientifico,
l'umanità ha raggiunto finalmente l'età adulta e può, quindi, lasciarsi alle
spalle sia la religione, sia la metafisica. An- ziché rivolgere la sua
attenzione ad esseri soprannaturali o recon- diti essa può ora prendere cura di
se stessa. Questo è l’unico culto (cioè il culto dell'Umanità) che essa deve
promuovere. Un altro autorevole esponente della critica negativa del fenomeno
religioso, nel secolo scorso, è Nietzsche. Di lui tutti conosciamo il famoso
proclama: « Dio è morto ». Questa sentenza, che rappresenta il leit-motiv della
predicazione di Zaratustra è anche il motivo do- minante della riflessione
filosofica di Nietzsche. Questi vuole svi- luppare l’idea di un uomo (il
Super-uomo) assolutamente autonomo, padrone di se stesso, sovrano della natura
e della storia, affrancato dai vincoli e dalle costrizioni imposte dalla
morale, dal diritto, dalla religione. Studiata alla luce dell'idea del
Super-uomo a Nietzsche la religione appare una ingegnosa invenzione degli
uomini, però non dei forti per tenere sotto il loro giogo i deboli, bensì dei
deboli per di- fendersi dalla prepotenza dei forti, dei super-uomini. Di tale
origine della religione il Nietzsche ritiene di trovare conferma nel cristia-
nesimo. Qui i deboli, gli umiliati, gli oppressi elevano il loro ideale di
debolezza, di vigliaccheria, di rassegnazione ad ideali universali e fanno di
tutto per costringere anche gli uomini forti, i potenti, i su- per-uomini, ad
accettarlo. « Solo il misero è buono, proclama il cri- stianesimo, il povero,
il debole, l'umile solamente sono buoni; l’am- malato, il bisognoso, colui che
fa ribrezzo soltanto è pio. Solo a co- storo viene promessa la felicità e la
salvezza eterna. Mentre a voi potenti, aristocratici, a voi viene detto che siete
per tutta l'eternità cattivi, perversi, ingordi, insaziabili nemici di Dio e
che perciò siete eternamente infelici, condannati, maledetti »f Un'altra
importante forma di critica della religione è stata intro- dotta all'inizio del
nostro secolo da Freud mediante la psicanalisi. Da Freud l'infondatezza della
religione è data per scontata in quanto 5 Ivi, pp. 178-181. $ Ivi, pp. 217-222.
104 a suo giudizio è cosa ovvia che fuori del mondo dell’uomo non esiste alcun
altro essere. Allo studioso rimane perciò solo il problema di spiegare come sia
sorta la « illusione religiosa ». A pa- rere del fondatore della psicanalisi
essa non è sorta in conseguenza di una lotta di classe tra classi dominanti e
classi dominate, come voleva Marx, e neppure in conseguenza di una lotta tra
deboli e potenti come sosteneva Nietzsche, bensì attraverso un processo di
sublimazione di una lotta primordiale tra i membri del focolare do- mestico,
con la conseguente proiezione, fuori della psiche sul piano cosmico, dell'idea
di padre. L'oggetto della religione — Dio — è appunto il risultato di tale
proiezione. L'idea di questo Essere su- premo riflette, sul piano cosmico, la
polarità affettiva amore-adio, che i figli sentono nei confronti del padre.”
Altre forme di demistificazione del fenomeno religioso sono state sviluppate
nel nostro secolo dagli esistenzialisti (in particolare da Sartre e da
Heidegger) e dai neopositivisti. Mentre però il pensiero di Sartre è chiaro ed
inequivocabile, non si può invece*stabilire con sicurezza quali siano le vedute
di Heidegger riguardo alla religione. In effetti le sue opere più recenti
contengono tracce inconfondibili di misticismo. Una cosa, peraltro, è fuori
discussione: secondo l’autore di Sein und Zeit la filosofia non può dare che un
giudizio negativo per quanto concerne l’idea di Dio. Infatti, a suo parere,
tale idea è aberrante sia nei confronti della metafisica, in quanto fa decadere
il problema dell'Essere nel problema di un ente; come pure nei confronti del
problema della esistenza umana, perché la distoglie dal- le sue vere,
autentiche possibilità.* L'ultimo importante tentativo di demistificare il
fenomeno reli- gioso è stato compiuto dal neopositivismo. Per questo movimento,
com'è noto, la filosofia consiste essenzialmente nell'analisi del lin- guaggio:
solo in questo modo essa può determinare la verità o la falsità di una
dottrina. Ma, per effettuare l’analisi del linguaggio occorre anzitutto un
criterio per distinguere le proposizioni che hanno significato da quelle che ne
sono prive. Ora, secondo i neo- positivisti per le proposizioni fattuali (non
per quelle logiche) l’'u- nico criterio possibile è quello della verifica
sperimentale. Vale, per- tanto, anche per la religione quanto abbiamo citato
precedentemente da Carnap circa la metafisica” Da queste premesse i
neopositivisti traggono la conclusione, logica e necessaria, che il linguaggio
etico, estetico e religioso è privo di senso, non dice nulla: è privo di qual-
siasi valore oggettivo. Pertanto « dire che Dio esiste è un'espressione metafisica
che non può essere né vera né falsa. E, per lo stesso mo- tivo, nessuna
proposizione che miri a descrivere la natura di un ? Ivi, pp. 224-221. ® Ivi,
pp. 410-413. ° Vedi cap. VII, nota 7. 105 Freud: Dio proiezione dell'immagine
paterna Ateismo e misticismo nelle filosofie esistenzialiste La negazione della
reiigione nel neopasitivismo fl valore positivo della religione Kierkegaard: il
primato della fede per giungere allo stadio religioso Bergson e il valore
dell’esperienza mistica Dio trascendente può avere significato letterale...
Tutte le espressioni riguardanti la natura di Dio sono prive di senso ».! 2.2
Difesa della religione Contro le opinioni espresse dai demistificatori del
fenomeno re- ligioso hanno preso posizione molti ‘filosofi del secolo scorso e
del nostro, affermandone il valore positivo e considerandolo anzi una delle
manifestazioni più proprie, autentiche e genuine dello spirito umano. Qui non
possiamo riferire le vedute di tutti coloro che si sono espressi in questo
senso. Ci limiteremo a riferire il pensiero di alcuni autori più
rappresentativi, cominciando da Kierkegaard. Contro la concezione hegeliana
della religione, la quale vede in essa puramente un momento logico, naturale
dell'evoluzione dello Spirito Assoluto e contro qualsiasi subordinazione della
religione al- la filosofia, Kierkegaard proclama che la religione non può
essere ridotta ad un momento logico d'un sistema generale di pensiero, perché
essa appartiene alla sfera dell’esistenza, della vita. Allo stadio religioso non
si giunge attraverso l'intuizione come sosteneva Hegel, ma mediante la fede.
L'incontro con Dio non si dà nell’immediatezza della visione, ma nelle tenebre
della fede. E questa non è la con- seguenza d'un ragionamento bensì un atto di
decisione che com- porta un salto al di là di tutto ciò che poggia sulla
sicurezza delle leggi scientifiche e dei codici morali. Quando l’uomo crede in
Dio e avverte l’infinita differenza che separa la natura divina dalla pro-
pria, allora si prostra davanti a Lui e Lo adora." Lo sforzo di
Kierkegaard di riabilitare la religione nel suo signi- ficato autentico non
ebbe successo. Durante la seconda metà del- l’Ottocento, come s'è visto, per
opera di Marx, Engels, Comte, Niet- zsche, Freud, esplode la demistificazione della
religione la quale incontra vasti consensi e moltissimi sostenitori nel momento
in cui impera il positivismo e il materialismo. Ma quando questi sistemi
cominciano a vacillare, anche la demistificazione della religione per- de
terreno. Anzi è proprio l'impossibilità dell’accettazione di una simile
interpretazione del fenomeno religioso che induce autori co- me Bergson, James,
Scheler, Otto, Blondel a prendere posizione contro il positivismo e il
materialismo. Bergson, nel celebre saggio Le due sorgenti della morale e della
religione, prende in esame il fenomeno religioso in alcune delle sue
manifestazioni più elevate, quali il misticismo greco ed orientale, il
profetismo ebraico e il misticismo cristiano. Attraverso l’esperienza dei
mistici egli arriva all'esistenza di Dio. Questa, già presentita nella
speculazione filosofica dello slancio vitale (é/an vital), si impone ora in
maniera incondizionata. In che modo? In base alla testimonianza 0 A.J. AYER,
Language, Truth and Logic, New York (senza data), p. 115; trad. it.,
Linguaggio, verità e logica, Feltrinelli, Milano 1961. ! B. MONDIN, vol. III,
pp. 212-216. 106 di coloro che hanno l'esperienza delle cose divine. Bisogna
credere ai mistici in queste cose così come si crede ai medici e agli ingegneri
quando si tratta di problemi attinenti alle loro specializzazioni: gli uni e
gli altri sono degli esperti; sanno quello che dicono." L'esempio di
Bergson esercitò un grande influsso anzitutto in Francia e poi anche altrove.
Tra i suoi seguaci si distinse in par- ticolare Maurice Blondel. Questi,
tuttavia, nel difendere il valore oggettivo della religione, si colloca in una
prospettiva diversa da quella del suo maestro. Mentre Bergson giustifica il
fenomeno reli- gioso partendo dalle sue espressioni più autentiche, Blondel
cerca di fondarlo sull'analisi del dinamismo umano considerato nella sua
struttura essenziale. Secondo Blondel un esame attento e appro- fondito
dell’azione conduce logicamente al riconoscimento dell’esi- stenza di Dio.
Infatti « L'azione è in perpetuo divenire come trava- gliata dall’aspirazione
di una crescita infinita. [...] Noi siamo costretti a voler divenire ciò che da
noi stessi non possiamo né raggiungere né possedere. [...] È perché ho
l'ambizione d'essere infinitamente che sento la mia impotenza: io non mi sono
fatto, non posso ciò che voglio, sono costretto a superarmi. [...] Ora, questa
spinta verso l'infinito, che dilata continuamente la mia azione, è Dio. Egli
non. ha altra ragion d'essere per noi perché è ciò che noi non possiamo essere
né fare con le nostre sole forze ».! Noi siamo la sproporzione tra l'ideale e
il reale, ma tendiamo verso la loro identità: tale iden- tità è Dio stesso.
Un'abile difesa del valore e del significato dell'esperienza reli- giosa è
stata condotta anche dal filosofo americano William James, in particolare
nell'opera Le varie forme dell'esperienza religiosa. La sua difesa è basata su
motivazioni d'ordine mistico come in Bergson, piuttosto che su speculazioni
d'ordine teoretico come in Blondel, James non crede che sia possibile
trasformare la religione in un siste- ma di proposizioni scientifiche
dimostrabili apoditticamente. A suo giudizio il fondamento della religione non
è la ragione, ma la fede, il
sentimento ed altre esperienze
particolari come la preghiera, conver- sazioni con l'invisibile, visioni, ecc.
Tutto questo però non significa che la religione sia priva di concetti e di
dottrine. Anzi James rico- nosce che una religione che sia veramente autentica
deve logicamen- te guardare ad un certo tipo di metafisica o di cosmologia
teistica, e che perciò la fede in Dio, i cui attributi sono essenzialmente «
mo- rali » o connessi con l’esperienza umana, può essere difesa come un
elemento necessario dell'esperienza religiosa, sebbene non possa ser- vire come
base di una teologia razionale." Ma i più autorevoli assertori del valore
oggettivo dell'esperienza religiosa non sono venuti dalla Francia o
dall'America, bensì dalla 12 Ivi, pp. 257-258. 4 M. BLONDEL, L'action, Parigi
1893, pp. 352-354; trad. it., L'azione, La Scuola, Brescia. “4 B. MONDIN, vol.
III, pp. 348-349. 107 Blondel: esperienza religiosa e dinamismo umano James: la
dimensione interiore della religione e l’esiysnza delle dotirine Il valore oggettivo
dell’esperienza religiosa Scheler: la critica all’interpretazione
evoluzionistica L'automanifestazione di Dio Otto: le differenti modalità
dell'esperienza religiosa (il sentimento del numinoso) Germania. Si tratta di
una vasta schiera di profondi pensatori di cui i più noti sono: Scheler, Otto,
Schmidt, Guardini, Adam, Tillich, Dessauer, Lang. Per esigenze di spazio noi
qui ci limiteremo a rias- sumere brevemente il pensiero dei primi due. Max
Scheler pone il fenomeno religioso al centro della sua ricerca filosofica. In
polemica coì positivismo, che come abbiamo visto riduce la religione ad un
momento transitorio dello sviluppo pro- gressivo della storia dell'umanità,
Scheler afferma il carattere asso- luto e perenne dell'esperienza religiosa.
Egli respinge categoricamen- te la teoria positivistica della nascita della
religione per un processo evolutivo che va dal feticismo, all'animismo, alla
magia, ecc., al po- liteismo e finalmente al monoteismo. Rifacendosi per la
parte storico- positiva agli studi di W. Schmidt, in particolare alla sua tesi
del monoteismo primitivo, Scheler rileva come fenomenologicamente « anche il
feticcio più primitivo presenta, per quanto rozzamente, l'essenza indeducibile
del divino, quale sfera globale dell’essere as- soluto corredato con tutte le
caratteristiche del santo ».5 In esso, e tramite esso, l'intenzione religiosa
intende, sente, vede la totalità dell'essere assoluto e santo e non un semplice
oggetto naturale in cui per entropia introduce una vita psichica. Per quanto
concerne la sfera religiosa Scheler ritiene che il motivo ultimo della sua
accet- tazione sia l'evidenza immediata dell'oggetto che si dà come tale in
atti di conoscenza specifica, nel caso, negli atti religiosi. Pertanto il
fondamento ultimo della religione non può essere che l’automani- festazione di
Dio. Tale automanifestazione della realtà personale di Dio, secondo Scheler,
può avvenire solo tramite gli uomini religiosi, culminanti nel « santo
originario », che egli individua nella figura di Cristo.! Rudolf Otto, nel suo
famoso saggio Das Heilige (Il sacro), de- scrive con acutezza straordinaria le
differenti modalità dell’espe- rienza religiosa. Questa si configura anzitutto
come sentimento del numinoso. Il numinoso è una categoria che fa parte della
categoria più complessa del « sacro ». È una categoria del tutto sui generis,
che è completamente inaccessibile alla comprensione concettuale e, in quanto
tale, costituisce un arreton, qualcosa di indefinibile, ineffa- bile, proprio
come il « bello » sul piano estetico. In questo senso appartiene al dominio
dell’« irrazionale », e rappresenta l'elemento più intimo che è comune a tutte
le religioni. Il numinoso a sua volta assume due aspetti che lo caratterizzano
in modo inequivocabile: a} l'aspetto di mysterium tremendum e b) l'aspetto di
miysterium fascinans. Il primo costituisce l'aspetto ripulsivo del numinoso, il
se- condo ne rappresenta invece l'aspetto attrattivo e « affascinante ». Però
il sacro oltre che un aspetto « irrazionale », rappresentato dalla categoria
del numinoso, riveste anche un aspetto « razionale »; que- 5 M. SCHELER,
L’eterno nell'uomo, Fabbri, Milano. i 4 Cfr. G. FERRETTI, Max Scheler.
Filosofia della religione, Vita e Pensiero, Milano 1972. 108 sto trova
espressione soprattutto nei « simboli » e nei « dogmi ». Grazie a queste
categorie, attraverso « segni » stabili e universal- mente validi, il sacro
acquista una struttura solida, che gli conferisce il carattere di « dottrina »
rigorosa, oggettivamente valida, e l’op- pone per ciò stesso alle stravaganze
dell’« irrazionalismo » fanta- stico e sognatore. 3. Definizione della
religione e sua distinzione dall’arte, dalla filosofia e dalla morale « Tutti
quelli che si occupano di scienza della religione — nota A. Lang — tutti quelli
che della religione intendono favorire lo svi- luppo, tutti quelli che la
vorrebbero estirpare, offrono una defini- zione della sua essenza »."” Noi
proponiamo come definizione sufficientemente descrittiva la seguente: « La
religione è l'insieme di conoscenze, di azioni e di strutture con cui l’uomo
esprime riconoscimento; dipendenza, ve- nerazione nei confronti del ‘sacrò ».'
Questa definizione, come si vede, comprende due elementi, uno riguardante il
soggetto e l’altra l'oggetto. Quanto al soggetto essa indica l'atteggiamento
che l’uomo assume quando si esprime religio- samente. In effetti non
ogni‘rapporto col Sacro è attività « religiosa ». Se per esempio si studia il
processo di trasformazione e di sviluppo delle religioni, i loro influssi e
Manifestazioni, non si può fare a meno di occuparsi anche dell'oggetto
dell'esperienza religiosa, tuttavia ci si muove sul piano della storia, non
della religione. « Si può par- lare di un atto religioso, soprattutto d'un atto
religioso fondamentale, solo quando l'uomo assume di fronte al Sacro e al
Divino un atteg- giamento soggettivo del tutto particolare, cioè quando viene
emoti- vamente colpito e attratto dall'oggetto ed entra in contatto DErR0: nale
con esso. Questo è il lato psichico o interiore della religione ». Come s'è
detto, l'aspetto soggettivo del fenomeno religioso è costi- tuito dal
riconoscimento della realtà del Sacro, dal sentimento di to- tale dipendenza
nei suoi confronti e dall’atteggiamento di venera- zione verso di esso.
Dell’oggetto della religione la nostra definizione indica ciò che lo
caratterizza in modo esclusivo, vale a dire di essere-sacro. Sacro è un
concetto primario, fondamentale, come i concetti di essere, di vero, di bene,
di bello, e pertanto non lo si può spiegare ulteriormen- te rifacendosi a
categorie estranee alla sfera religiosa. Su questo punto mi pare che Scheler e
Otto abbiano perfettamente ragione. Ma non per questo lo si deve considerare un
concetto non suscetti- " A. LANG, Introduzione alla filosofia della
religione, 2° ed., Morcelliana, Brescia 1969, p. 25. 4 Ivi, p. 48. 109
L'aspetto razionale del sacro: simboli e dogmi Una definizione della religione
L’atto religioso fondamentale come atteggiamento soggettivo di fronte al Divino
Il ‘Sacro’ è un concetto primario e fondamentale Le caratteristiche del Sacro:
oggettività, assiologia, trascendenza, personalisticità L'elemento oggettivo
distingue la religione dalla filosofia bile di qualche delucidazione. Infatti,
all'interno della sfera reli- giosa il Sacro assume caratteristiche sue
proprie, inconfondibili, che consentono di descriverlo in modo inequivocabile.
Tra le carat- teristiche più perspicue ricordiamo quelle così bene evidenziate
da Rudolf Otto: la numinosità (o sacralità), la misteriosità, la maestà, il
fascino. Ma sue caratteristiche importanti sono anche queste al- tre:
l'oggettività, l’assiologia, la trascendenza e la personalisticità. Anzitutto
l’oggettività: il Sacro finché permane sacro e quindi og- getto della religione
non può essere considerato una trovata della fantasia umana, una proiezione e
ipostatizzazione dei bisogni, de- sideri, ideali dell'uomo. L'atto religioso è
rivolto ad una realtà effettivamente esistente: « sempre i contenuti religiosi
si presentano con la pretesa d'avere consistenza e validità anche al di fuori
della coscienza e dell'esperienza religiosa ».” La trascendenza: anche se non è
collocato fuori del mondo, il Sacro viene sempre conside- rato come qualcosa
che supera infinitamente il mondo stesso e tut- to ciò che nel mondo è
compreso, in particolare l’uomo. L'assio- logia: il Sacro rappresenta il valore
supremo, cui fanno capo tutti gli altri valori. La personalisticità: l'uomo
religioso non si colloca in rapporto con un oggetto, ma con un Tu, con una
persona. « C'è qualcuno di fronte a lui. Io esperimento un Tu. E io me lo
immagino sotto la forma di un dèmone o di un dio ».® Determinata in questo modo
l'essenza della religione, risulta evi- dente in che cosa essa si distingua
dalla filosofia, dall'arte e dalla morale. Ciò che la distingue dalla filosofia
è soprattutto l'elemento soggettivo; infatti sia la religione che la filosofia
si occupano del Sacro, del Divino, della « realtà ultima », ma fanno ciò in un
modo totalmente diverso. La filosofia procede astrattamente e con fina- lità
puramente speculative; invece la religione « è una presa di po- sizione
personale che va oltre la semplice conoscenza della verità, è l'atteggiamento
in cui tutto l’io si raccoglie nella sua singolarità »,% con un impegno supremo
(ultimate concern)? Ciò che distingue la religione dall'arte è invece
soprattutto l'elemento oggettivo: la re- ligione ha per oggetto il reale,
l’arte l'ideale. Infine, anche religione e morale, nonostante siano legate
l'una all'altra nel modo più stret- to, sono essenzialmente distinte. « La
prima è incontro con Dio: contatto personale con Lui, riconoscimento umile e
devoto del suo valore assoluto e della sua santità. Alla seconda spetta la cura
e la realizzazione dei valori che corrispondono all'essenza dell’uomo ».# »
Ivi, p. 79. i i 2° G. VAN DER LEEUW, L'uomo primitivo e la religione, Einaudi,
Torino 1961, p. 144. 2 A. LANG, Op.
cit., p. 110. ® P. TiLIcH, Systematic Theology, Chicago 1951, vol. I, pp. 22 ss. 3 A. Lanc, Op. cit., p. 118. 110 4.
Fondazione teoretica della religione A questo punto, se si vuole passare dal
piano formale della de- finizione della religione a quello della sua verità
obiettiva, occorre affrontare il problema della verità dell’ oggetto della
religione, un problema di capitale importanza ma anche estremamente arduo
qualora ci si voglia affidare esclusivamente alle forze della ragione. Per
risolverlo si possono battere due vie: la metafisica e l’erme- neutica storica;
però né l'una né l'altra sono in grado di garantire il sicuro raggiungimento
del traguardo e sono tutte due SOSpAFE di grosse difficoltà. La metafisica ha
il pregio di far leva esclusivamente sulle forze della pura ragione; ma proprio
per questo ha ben poche probabilità di risolvere un problema così difficile
come questo. Anche nell’even- tualità che riesca ad elevarsi fino al piano
religioso, la ragione spe- culativa non potrà mai fornire un quadro
sufficientemente preciso, dettagliato, concreto ed esistenziale. La sua massima
aspirazione è provare l’esistenza di Dio, la creazione del mondo e la possibilità
della rivelazione. Ma queste verità non sono sufficienti ad alimentare la vita
religiosa, una vita fatta di intimità, amore, devozione, ado- razione,
preghiera. Da Leibniz in poi a quella parte della metafisica che si occupa del
problema di Dio si è dato il nome di teodicea (difesa di Dio; dal greco theos =
Dio; dikein = difendere). I limiti inevitabili che accompagnano questa
disciplina sono ovvi per la natura sovrannaturale del suo oggetto: Dio, che
rimane anche per il filosofo un mistero tremendo e fascinoso, il quale acceca
qualsiasi intelligenza che pretende di catturarlo. Lo stesso san Tom- maso
confessava che il modo migliore di parlare di Dio è quello x« per negazioni »,
perché « Dio rimane avvolto nella notte oscura del- l'ignoranza, ed è in questa
ignoranza che noi ci avviciniamo a Dio durante la nostra vita. Infatti in
questa fitta nebbia abita Dio ». Ma altra cosa è riconoscere i limiti di una
disciplina, altra cosa conte- starne la legittimità e la possibilità. A partire
da Kant sono state sollevate contro la teodicea tali dif- ficoltà da mettere in
dubbio la sua stessa legittimità e possibilità. Kant ha sollevato obiezioni di
ordine gnoseologico; Wittgenstein di ordine semantico; Heidegger di ordine
metodologico. In breve, Kant confinando la conoscenza umana all'ordine dei fe-
nomeni, concede alla ragione il potere di sollevare la questione di Dio ma le
nega la possibilità di risolverla positivamente. Wittgen- stein, ritenendo che
si possa parlare sensatamente soltanto di oggetti verificabili empiricamente,
poiché Dio non appartiene a questo or- dine di oggetti, dichiara che di Lui non
si può parlare: né sollevare questioni, né dare risposte. Infine, Heidegger
ritiene che la meta- fisica abbia come oggetto proprio lo studio dell'essere
degli essenti (« Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla? ») e come
metodo 111 II problema della verità dell'oggetto ‘religioso Il compito della
“‘teodicea’’ Obiezioni contro la teodicea I limiti dell’ermeneutica e della
ragione storica proprio la fenomenologia e di conseguenza sostiene che non c'è
spazio per una riflessione autenticamente metafisica su Dio: la teo- dicea non
può essere altro che una onto-teo-logia. Alle obiezioni di Kant, Wittgenstein e
Heidegger non è difficile replicare: basta denunciare la loro pretesa di
bloccare la conoscen- za umana dentro il mondo dei fenomeni, il linguaggio
sensato den- tro la sfera delle cose verificabili, la metodologia appropriata
per accostarsi alla realtà al solo metodo fenomenologico. Se tali pre- clusioni
non vengono ritenute legittime, allora lo studio di Dio divie- ne per il
filosofo non solo una possibilità ma anche un dovere, poiché esprime l’esigenza
insopprimibile della natura umana di afferrare il senso della sua origine e del
suo fine ultimo. L'ermeneutica, cioè l’arte della interpretazione, da parte
sua, assumendo come punto di partenza un evento storico particolare (la
rivelazione biblica, oppure quella cristiana, quella islamica, ecc.) si trova
nella difficoltà di provare come un evento storico di carattere particolare
(situato in un dato momento spazio-temporale) possa assurgere a valore
universale, assoluto. Essa dovrebbe mostrare che è l'unico evento capace di
rispondere alle istanze fondamentali della natura umana e di appagarle
pienamente. Ma dove trovare argo- menti decisivi a sostegno di questa pretesa?
La ragione storica non sembra in grado di scoprirli. Qualcuno potrebbe pensare
di risolvere il problema unendo in- sieme le due vie. Ma questa è un'impresa
irrealizzabile, perché la metafisica e l’ermeneutica storica si dirigono verso
oggetti che non hanno nulla di comune tra di loro. Tutto ciò lascia intendere
che la soluzione adeguata del problema religioso non si può ottenerla con la
pura ragione, ma soltanto me- ‘ diante la fede, cioè mediante un'umile e
completa sottomissione di tutto l'essere dell'uomo a colui che costituisce il
centro, il cuore, l'anima della sfera religiosa, Dio. CONCETTI DA RITENERE —
Stadio religioso — Numinoso; arreton; mysterium tremendum — Soggetto e oggetto
della religione — Numinosità; misteriosità; maestà; fascino; oggettività;
assiologia; tra- scendenza; personalisticità SINTESI CONTENUTISTICA I. I
TERMINI DEL PROBLEMA a) La religione è una manifestazione tipicamente umana che
ha caratteriz- zato tutti i tempi e tutte le culture. Essa si impone come una
costante dell'es- sere umano, anche se non è coltivata da tutti gli uomini. b)
:La problematicità della religione risiede nel fatto che l’attività religiosa è
rivolta verso un oggetto di cui si vede messa in questione persino l'esistenza.
‘112 II. LE PRINCIPALI INTERPRETAZIONI FILOSOFICHE DELLA RELIGIONE 1) La
questione religiosa ha interessato sia il pensiero classico che quello
medioevale e moderno. Ma è a partire da Hume e da Kant che essa assume una
connotazione centrale. Nella cultura contemporanea si delineano due orien-
tamenti: uno tendente a demistificare la religione, l’altro a difenderla. III.
DEMISTIFICAZIONE DELLA RELIGIONE Iniziatore di tale orientamento è Feuerbach
che sottraendo alla religione ogni valore oggettivo la riduce a fenomeno in
proiezione di alcuni bisogni fon- damentali dell’uomo: Dio èsolo l’idea che
esprime ciò che l’uomo aspira ad essere. — Sulla scorta di Feuerbach, Marx
radicalizza l’interpretazione affermando che la religione è una delle
sovrastrutture prodotte da una determinata strut- tura economica e che di essa
la classe egemone si è sempre servita per man- tenere lo stato di sottomissione
della classe subalterna. — La soluzione della questione economico-sociale
prospettata dal comuni- smo decreta la scomparsa della religione. — Comte,
padre del positivismo, colloca l’esperienza religiosa nella fase primitiva
della storia dell'umanità, che nella sua fase matura {quella del pro- gresso
industriale e scientifico) è chiamata ad esprimere un unico culto, quello di se
stesso: il culto dell'Umanità. — La religione viene considerata un fenomeno
proiettivo e illusorio anche da Freud, che considera il fatto religioso come
espressione dell'idea del padre che l'inconscio umano porta dentro di sé. —
Nietzsche giunge perfino a decretare la « morte di Dio », con particolare
riferimento al Dio cristiano, in un mondo in cui il Super-Uomo non lascia più
spazio alla realtà dei miseri, dei deboli, degli umili, dei poveri. —
Esistenzialisti (per esempio Sartre ed Heidegger) e neopositivisti (Car- nap,
Ayer) negano alcun valore alla dimensione religiosa, i primi impegnati
totalmente sulla dimensione dell’immanenza e dell’esistenzialità dell'uomo, i
secondi perché ritengono valide solo le proposizioni il cui contenuto è speri-
mentalmente verificabile. IV. DIFESA DELLA RELIGIONE — Kierkegaard attribuisce
allo stadio religioso il grado più elevato del- l’esistenza umana che affida il
proprio senso alla fede e all'adorazione di Dio. — Bergson arriva all'esistenza
di Dio attraverso l’esperienza dei mistici, che egli considera gli esperti
delle cose divine. — Blondel cerca di fondare il fenomeno religioso
sull'analisi del dinami- smo umano considerato nella sua struttura essenziale;
l’azione, che trova solo in Dio la giustificazione della sua spinta
all'infinito. — James afferma che fondamento della religione sono la fede, il
sentimen- to e la preghiera. Una religione autentica deve guardare a una certa
metafisica o a una certa cosmologia razionale e la fede in Dio, i cui attributi
sono « mo- rali », può servire da base ad una teologia razionale. Il valore
oggettivo della religione è stato ribadito soprattutto da pensatori tedeschi: —
Scheler afferma il carattere assoluto e perenne dell'esperienza religiosa. Il fondamento
ultimo della religione è l’automanifestazione personale di Dio, che avviene
attraverso gli uomini religiosi, culminanti nel Cristo, il « Santo originario
». — Otto configura il fenomeno religioso come sentimento del numinoso che
assume due aspetti: il mysterium tremendum (aspetto repulsivo) e il myste- rium
fascinans (aspetto attrattivo e affascinante). L'aspetto irrazionale si ac-
compagna a quello razionale dei simboli e dei dogmi, che conferiscono al sacro
il carattere di dottrina rigorosa, oggettivamente valida. 113 — Ricordiamo tra
gli assertori del valore oggettivo dell'esperienza reli- giosa anche Schmidt,
Guardini, Adam, Tillich, Dessauer, Lang. V. DEFINIZIONE DELLA RELIGIONE E SUA
DISTINZIONE DALL'ARTE, DALLA FILOSOFIA E DALLA MORALE 1. La religione è stata
definita da Lang come l'insieme di conoscenze, azioni, strutture con cui l’uomo
esprime riconoscimento, dipendenza, venerazione nei confronti del sacro. 2.
Soggetto della definizione è l'atteggiamento assunto dall'uomo nell’espri- mere
la sua religiosità; oggetto è l'essere Sacro. Sacro è un concetto primario,
fondamentale, come l'essere, il bene, il vero, ecc. Pertanto può essere
spiegato solo attraverso le categorie dell'esperienza religiosa. 3. Le
categorie del sacro sono state ben evidenziate da R. Otto: numinosità,
misteriosità, maestà, fascino, oggettività, assiologia, trascendenza,
personali- sticità. 4. a) La religione si distingue dalla filosofia in ordine
all'elemento sogget- tivo: quest’ultima procede astrattamente e speculativamente,
mentre la prima è un atteggiamento totale, personale .e singolare dell'io; b)
la religione si di- stingue dall'arte in ordine all'elemento oggettivo: per la
prima esso è il reale, per la seconda è l'ideale; c) religione e morale pur
strettamente legate sono distinte: la prima è incontro personale e contatto con
Dio, la seconda è realiz- zazione dei valori che rispettano l’uomo. VI.
FONDAZIONE TEORETICA DELLA RELIGIONE 1 La fondazione è possibile attraverso due
strade: a) la metafisica fa leva sulla forza della ragione. La sua aspirazione
è di provare l’esistenza di Dio, la creazione del mondo, la possibilità della
rivelazione; b) l’ermeneutica assume come punto di partenza un evento storico
particolare (ad esempio la rivela- zione biblica). 2. Limite della metafisica è
quello di non poter alimentare la vita religiosa (intimità con Dio, amore,
adorazione, preghiera). Limite dell'ermeneutica è quello di poter provare come
un evento storico particolare può assurgere a valore universale assoluto. QUESTIONARIO
DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. In quale misura la dimensione del mistero circonda
la vita umana e si sottrae al possesso della conoscenza e dell'indagine
scientifica? L'uomo può veramente ignorare questa dimensione? 2. Perché la
religione è un fenomeno problematico? 3. Come provano l’esistenza di Dio
Aristotele, Agostino, Tommaso, Ansel. mo, Cartesio, Leibniz? 4. Che cosa si
intende per prova ontologica? 5. Kant quale classificazione presenta delle
prove dell’esistenza di Dio? Che valore assegna alle prove tradizionali? 6. Su
quali ragioni basano la demistificazione della religione Feuerbach, Marx,
Comte, Freud, Nietzsche, Sartre, Carnap? p 7. Che funzione assegnano alla
religione Spinoza, Hegel, Croce? 8. Su che cosa fondano la religione
Schleiermacher, James, Bergson, Otto, Scheler? © 9. Come ha avuto origine la
religione? Che cos'è il sacro? Qual è la sua relazione col profano? | 10. In
che rapporto si trovano religione e cultura, religione e cristianesimo,
‘religione e filosofia, religione e scienza, religione e mito, religione e
morale, ‘religione e arte? 114 11. Fino a che punto il nostro tempo ha perso il
senso del mistero e di Dio? Quati le conseguenze storico-culturali ed etiche
più evidenti? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA.Vv., L'ateismo: natura e cause,
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di Dio, Rusconi, Milano 1972. WINDELBAND W., Filosofia e filosofia della
religione, Benucci, Perugia 1982. 115 Etica: studio dell’attività umana
riferita al suo fine ultimo Prospettiva critica: indagine sui codici morali e
le prescrizioni Capitolo nono | IL PROBLEMA ETICO O MORALE QUESTIONARIO
PROPEDEUTICO 1. Che cosa caratterizza il comportamento umano? In che misura
libertà e capacità di scelta orientano l’azione? 2. Come si può definire il
valore morale? L'etica o morale, secondo una delle definizioni più comuni, è lo
studio dell'attività umana con riferimento al suo ultimo fine, che è la piena
realizzazione dell'umanità. Il problema etico assume due aspetti principali:
uno riguarda il fondamento e il valore dei codici, dei principi, delle norme,
delle persuasioni morali già esistenti; è la prospettiva critica. L'altro ri-
guarda le condizioni che rendono possibile l’azione morale in asso- luto; il
criterio di ciò che è morale e immorale per l’uomo; il fine ultimo della vita
umana e i mezzi più adatti per raggiungerlo. Que- sta è la prospettiva
teoretica. Le due prospettive non sono disgiunte l'una dall'altra, ma
intimamente connesse, in quanto la prima fa da preambolo alla seconda: infatti
la teorizzazione sistematica della morale richiede la valutazione critica dei
comportamenti comuni. 1. La prospettiva critica La prospettiva critica riguarda
gli interrogativi suscitati dalle prescrizioni e dalle norme dei codici morali.
Infatti, se tali codici non sono suffragati dall'autorità divina, è naturale
che ci si domandi: Chi li ha stabiliti? Che valore hanno? Si possono cambiare?
A chi spetta il diritto di sostituirli con altri? Tocca alla collettività,
oppure ai singoli, o ai governanti? Nella storia della filosofia questi sono
gli interrogativi che han- no dato il via alla riflessione morale. Essi sono
già dibattuti vivace- mente dai Sofisti, ma poi sono ripresi anche dalla
filosofia morale di Socrate, Platone, Aristotele e dagli Stoici. Il contesto
politico e culturale dell'età di Pericle era particolar- mente propizio allo
sviluppo della critica della morale tradizionale. Le guerre con i Persiani e il
commercio con gli altri popoli avevano rivelato ai greci nuovi stili di vita, e
di pensiero, costituzioni civili e consuetudini morali diverse dalle proprie.
Questo induce i Sofisti, 116 che già avevano rinunciato alla riflessione sul
mondo per concentrare la propria attenzione sull'uomo, ad interrogarsi sul
fondamento del- le norme che regolano la condotta umana. La constatazione che
tali norme presentano notevoli divergenze presso i vari popoli li induce a
concludere che esse non si fondano sulla natura umana bensì su determinate
convenzioni sociali. Gli stati fissano per i propri citta- dini le convenzioni
che giudicano più opportune per il loro benessere individuale e sociale.
Ovviamente i Sofisti ritengono che il popolo greco possegga le convenzioni
morali più elevate di qualsiasi altro popolo barbaro. Ma poiché non si tratta
di principi morali innati bensì acquisiti, occorre farli apprendere alla
gioventù mediante una apposita istruzione ed educazione. Di qui l’importanza
che assume l'insegnamento morale nella polis greca. I Sofisti dicono di
assumersi la responsabilità di tale insegnamento e si presentano perciò come «
maestri di virtù ». Il problema del fondamento dei codici e delle consuetudini
mo- rali viene ripreso ed approfondito da Socrate il quale lo fa con tale
originalità di vedute da meritare di essere considerato*il creatore della
filosofia morale: « Socrate è il principale punto di partenza da cui si
distaccano tutte le successive linee di sviluppo del pensiero etico greco; le
speculazioni sulla condotta umana prima di Socrate, a nostro avviso, sono
semplicemente un preludio alla effettiva rap- presentazione ».! Socrate prende
nettamente posizione contro le due tesi basilari dei Sofisti. Contro la prima
la quale dice che i codici morali, le per- suasioni etiche, i concetti
fondamentali dell'etica (come buono, giu- sto, onesto, ecc.) sono frutto di
convenzioni sociali, Socrate sostiene che essi trovano invece il loro
fondamento nella natura stessa delle cose e dell’uomo. Parimenti contro la
seconda tesi la quale afferma che le idee e i principi morali si apprendono
mediante l’insegnamen- to, Socrate mostra che l'insegnamento presuppone il
possesso di tali principi ed idee, e contribuisce tutt'al più alla presa di
coscienza ri- guardo ai medesimi. Ma Socrate non si accontenta di respingere le
tesi dei Sofisti contrapponendo ad esse altre tesi che si ispirano alla visuale
filosofica opposta; egli sposta l'indagine morale ad un livello più profondo
domandandosi come si possano giustificare le valuta- zioni morali. Certo,
valutazioni morali se ne davano anche prima di Socrate. Per esempio Eutifrone
(il personaggio dell'omonimo dia- logo di Platone) riteneva « empia » la
condotta di suo padre e per questo aveva deciso di denunciarlo; ma l’incontro
con Socrate gli impone in sostanza questo problema: « Perché giudico empia la
con- dotta di mio padre? Che cos'è l’empio e che cosa invece il suo op- posto,
il santo? ». Si badi bene, la domanda non è « che cosa è empio e che cosa è
santo » — questo può indicarlo anche l'ordine E Outlines of the History of
Ethics, Macmillan, London 1949, Pp. . 117 L'’interrogativo dei Sofisti sul
fondamento della norma morale Socrate: critica al convenzionalismo e fondamento
naturale della morale Il fondamento ultimo della moralità La nozione di bene e
di male Prospettiva teoretica: le condizioni trascendentali dell’agire morale
costituito (quell’ordine in base al quale Eutifrone aveva deciso di procedere
contro suo padre) — bensì « che cos'è l’empio e i/ santo », ossia che cosa sono
l’empietà e la santità, che cosa sono cioè quei valori in base ai quali si può
dichiarare empia o santa una deter- minata azione, e giustificare questa
valutazione. Come si vede, Socrate non si accontenta di prendere in esame i
codici morali correnti e di verificarne la legittimità. Egli si spin- ge più
avanti e si interroga sul fondamento ultimo della moralità in quanto tale. In
tal modo egli oltrepassa il problema critico e si cimenta con quello teoretico.
La sua soluzione di questo pro- blema è nota. Scavando sotto le apparenze le
quali danno l’im- pressione che non esista nessun principio morale assoluto,
univer- sale, Socrate mostra che l’uomo è in possesso di un criterio su- premo
di moralità che lo aiuta a distinguere il bene dal male. È vero che gli uomini
considerano buone cose diverse: uno pone il suo bene nella ricchezza, un altro
negli onori, un altro ancora nella virtù; ma è anche vero che ogni uomo
possiede la stessa nozione di bene e di male. Un uomo può amare le ricchezze e
considerarle buone, un altro può considerare buoni gli onori, un altro i
piaceri. Ma, osserva Socrate, nessuno dirà che il bene è male e che il male è
bene; ognuno cercherà quello che egli considera bene e fuggirà quello che
considera male. È evidente, dunque, che in ciascun uomo c'è la nozione o
concetto di bene e di male, in se stessa sempre ugua- le, anche se la sua
applicazione è diversa. Il problema critico del fondamento e del valore dei
codici e delle consuetudini morali dopo Socrate viene ripreso spesse volte da
molti altri filosofi, ma senza più uscire dall’alternativa già emer- sa nel
dibattito tra Socrate e i Sofisti, l'alternativa tra convenzio- nalismo (la
soluzione dei Sofisti) e naturalismo (la soluzione di So- crate). A favore del
convenzionalismo si schierano gli epicurei, gli scettici, i nominalisti,
Cartesio, gli empiristi, i positivisti, gli esi- stenzialisti, i marxisti e
altri ancora. Si mettono invece dalla parte del naturalismo Platone,
Aristotele, Plotino, i neoplatonici, la mag- gior parte degli scolastici, gli
idealisti, i neorealisti e i neotomisti. 2. La prospettiva teoretica La
prospettiva teoretica verte sulle condizioni trascendentali del- l'agire morale
e sul criterio supremo per distinguere il bene dal male. Quanto alle condizioni
trascendentali tutti i filosofi sono d’ac- cordo nel riconoscere che la prima
di tutte le condizioni è la libertà. Essi potranno discutere sulla possibilità
o meno di provare teoretica- mente che l'uomo possiede questa qualità, ma non
sul principio che se l'uomo non è libero non si può assolutamente parlare di
mora- lità. Questa verità già lucidamente illustrata da Aristotele nell’Etica
nicomachea fu ulteriormente approfondita dagli Scolastici, in parti- 118 colare
da san Tommaso, da Cartesio e da Kant. Questi considera la libertà la conditio
essendi della morale e fa di essa il primo postu- lato della ragion pratica
ossia della filosofia morale. A proposito della libertà Vanni Rovighi osserva
giustamente che essa è non soltanto una condizione ma anche una componente co-
stante dell'atto morale. Essa non precede la scelta e poi viene meno, ma
accompagna la scelta dall'inizio alla fine. « La scelta è sempre libera, perché
sempre il tradurre in azione un giudizio valutativo esige impegno. Il valore da
attuare in concreto non ci determina mai necessariamente perché non incarna mai
totalmente il valore, per- ché non è mai la pienezza del valore. Un’azione
giusta e generosa è sempre abbastanza scomoda e faticosa per poter essere
guardata sotto questi aspetti negativi, e quindi scartata, e il giudicare che
hic et nunc è il mio vero bene, che l’autentica attuazione di me stesso è
questa, anche se impone un sacrificio, esige sempre, come si diceva, un
impegno, un atto di volontà »- Un'altra condizione trascendentale della morale
è là consapevo- lezza o coscienza. Di per sé questa è già implicita nella
condizione precedente:peressere veramente libera un'azione implica che si
conosca ciò che si fa. Uno dei principi più elementari della morale cristiana
dice giustamente che, per essere grave, un'azione cattiva dev'essere compiuta
con piena avvertenza, ossia con consapevolezza. L'assenza di questa condizione
può essere determinata da due motivi: a) errore riguardo a ciò che si fa (si
sceglie una cosa per un'altra); b) mancanza della facoltà raziocinativa o
impedimento del suo uso in chi agisce (per esempio, il bambino che non ha
ancora l’uso di ragione, il pazzo, l'ubriaco, ecc.). La terza condizione
trascendentale della morale è che la libertà sia guidata da qualche norma, da
qualche principio direttivo. Una libertà assoluta che rifiuti di sottostare a
qualsiasi legge, come quella affermata da Nietzsche e Sartre, diventa
necessariamente una libertà amorale. Ma a quali norme deve sottostare la
libertà? Qui tocchiamo già la questione del criterio supremo della moralità,
una questione che vede i filosofi profondamente divisi. Da una parte si trova
una va- stissima schiera d’autori che assegnano la funzione di criterio su-
premo al fine ultimo verso cui si dirige l'uomo nelle sue azioni. Dall'altra si
trova un gruppo abbastanza nutrito di filosofi che asse- gnano il ruolo di
criterio supremo alla legge, al dovere. Le morali costruite sul principio del
fine si chiamano teleologiche; invece
quelle costruite sul principio del dovere
si chiamano deontologiche, Dato, però, che tutt'e due i principi, fine ultimo e
dovere, sono suscettibili di diverse interpretazioni (così, per esempio, il
fine ultimo può essere identificato col piacere, oppure con l'interesse, 2 S.
VANNI RovIGHI, « Il problema morale », in Studio ed insegnamento della
filosofia, Ave, Roma 1969, vol. I, pp. 294-295. 119 Costante interazione tra
libertà e scelta La consapevolezza 0 coscienza Morali teleologiche e morali
deontologiche Le concezioni relativistiche o situazionali Edonismo: il bene
morale è il piacere sensibile Epicuro: il piacere come assenza di dolore La
virtù mezzo per conseguire il vero piacere l'utile o privato oppure della
società, con la felicità, con i valori, ecc., e il dovere può essere fondato su
leggi divine oppure naturali oppure civili, ecc.) ne consegue che si possono
sviluppare vari tipi sia di morali teleologiche sia di morali deontologiche.
Nel gruppo delle morali teleologiche i'tipi principali sono: edo- nismo,
utilitarismo, eudemonismo e l'etica dei valori. Mentre nel gruppo delle morali
deontologiche i tipi principali sono due: stoici- smo e formalismo kantiano. Ci
sono però alcuni filosofi che rifiutano di costruire la morale su di un
principio assoluto, sia esso il fine ultimo oppure il dovere. Ammettono
senz'altro che l’uomo ha doveri da compiere, leggi da osservare, fini da
realizzare, ma questi mutano da un'epoca all'altra, da un luogo all’altro, da
una circostanza all'altra. Pertanto ritengono che si possano elaborare soltanto
etiche relativistiche o situazionali. Nelle pagine che seguono esporremo
brevemente questi tipi fon- damentali di morale teleologica, deontologica e
situazionale, riferen- doci a qualcuno degli autori più rappresentativi. a)
Edonismo - L'edonismo assume quale criterio supremo della moralità il piacere
sensibile e, pertanto, identifica il bene morale con quest'ultimo. Esso è stato
professato anzitutto da alcune cor- renti della filosofia greca: i Sofisti, i
Cirenaici e gli Epicurei, e poi da vari autori dell'epoca moderna: Montaigne,
Hobbes, Helvetius, Bentham, Stuart Mill, Freud. I più noti assertori dell'etica
edonistica sono gli Epicurei, ai quali si deve senz'altro l'elaborazione più
rigorosa di questo tipo di morale. Epicuro giustifica la scelta del piacere
quale criterio supremo della morale nel modo seguente: « Noi diciamo che il
pia- cere è principio e fine della vita felice, perché abbiamo riconosciuto che
tra i beni il piacere è il primo e quello più connaturale a noi ». In effetti è
sempre per il piacere che noi scegliamo di fare o di fuggire qualche cosa. a Il
piacere in cui Epicuro fa consistere la felicità è la vita pacifica, l'assenza
di qualsiasi preoccupazione (atarassia). Il piacere è quindi concepito come
assenza di dolore piuttosto che come soddisfaci- mento di qualsiasi passione: «
Quando diciamo che il piacere è il bene supremo non intendiamo riferirci ai
piaceri dell'uomo corrot- to, che pensa solo a mangiare, bere e alle donne ».
La virtù è il mezzo per conseguire il vero piacere. Virtuoso è colui che coglie
il vero diletto secondo moderazione e misura, e limita il suo desiderio a quei
piaceri che non turbano l’anima. Per il pieno raggiungimento dell’atarassia,
della felicità, Epicuro raccomanda di liberarsi dalle tre preoccupazioni che
maggiormente assillano l'uomo: gli dèi, la morte e la politica? L'etica
edonistica teorizzata da Epicuro e propagandata dai suoi ' Cfr. B. MONDIN, vol.
I, pp. 176-177. 120 discepoli in tutte le regioni dell'impero ellenistico, aveva
già trovato dei convinti assertori in alcuni filosofi del secolo V a. C.,
soprattutto tra i Sofisti e i Cirenaici (questi ultimi capeggiati da
Aristippo). Le loro teorie avevano richiamato l’attenzione di Platone e di
Aristotele, i quali elaborano le loro dottrine morali in costante polemica con
le posizioni degli edonisti, mettendone in luce i gravissimi limiti. In- fatti
la natura umana si caratterizza per la sua componente spiri- tuale, l'anima, e,
quindi, non può avere per fine il piacere, bensì la virtù, in particolare la
virtù della sapienza. Questa e non il pia- cere costituisce il criterio supremo
della moralità, e per conseguire la sapienza l'uomo dev'essere disposto a
compiere qualsiasi sacrificio. Una critica altrettanto perentoria dell’edonismo
si ha col cristia- nesimo che esalta l’amore come superamento dell’egoismo e
del- l’edonismo, e rivela i lati positivi del dolore, i quali lo rendono per-
fino amabile, non in sé, ma come mezzo insostituibile di purifica- zione e di
perfezione individuale, e di redenzione per gli altri. b) Utilitarismo -
L’utilitarismo assume come criterio supremo della morale l’utile, l'interesse,
il vantaggio. Di esso si danno due ver- sioni principali, dette utilitarismo
egoistico e utilitarismo altruisti- co o sociale. Il primo fa valere come
criterio l'utilità, l'interesse del singolo; invece il secondo fa valere
l'interesse, il vantaggio della collettività. Il sostenitore più convinto
dell’utilitarismo egoistico è Hobbes; mentre quasi tutti gli altri massimi esponenti
della filosofia inglese (Bacone, Locke, Hume, Stuart Mill, Russell) sostengono
l’u- tilitarismo altruistico e criticano severamente la posizione di Hob- bes.
Così, per esempio, Hume osserva, contro Hobbes, che la lode e il biasimo che
noi accordiamo ad azioni virtuose compiute lontano da noi (lontananza di tempo
e di spazio) oppure da un nostro avversario e che possono anche nuocerci,
provano l’esistenza, all’ori- gine dei nostri sentimenti, di qualcosa che
sfugge all’istinto egoista e che non pretende di far appello nemmeno ad un
interesse privato immaginario. Vi sono inoltre inclinazioni in noi, come la
generosità, l’amore, l'amicizia, la compassione, la rettitudine, che hanno «
cause, effetti, oggetti, operazioni » totalmente diverse da quelle delle pas-
sioni egoistiche. L'ipotesi di una benevolenza disinteressata, distinta
dall'amore proprio, è realmente più semplice e più conforme all'e- sperienza
dell'ipotesi che pretende di risolvere ogni sentimento u- manitario attraverso
l'egoismo. Vi sono esigenze naturali e passioni mentali che ci spingono verso
l'oggetto senza alcuna considerazione di puo interesse. A Stuart Mill spetta il
merito d'avere elaborato una forma sofi- sticata di utilitarismo in cui cerca
di far coincidere il piacere indi- viduale (fissando una ingegnosa « scala dei
piaceri ») con l'utilità della collettività. La coincidenza si realizza
allorché si dà la prefe- renza ai piaceri del « cuore » (devozione e
altruismo), inesauribili produttori di gioie incessantemente rinnovate per colui
che dà come 121 L'utilitarismo egoistico di Hobbes Stuart Mill: piacere
individuale e interesse collettivo Eudemonismo in Aristotele e Tommaso: la
felicità come piena realizzazione dell’essere Contemplazione filosofica e
contemplazione teologica per colui che riceve. Il traguardo di questa mirabile
fusione non è frutto di calcoli egoisticamente sottili, ma piuttosto di un pro-
cesso psicologico di associazione delle idee. Secondo Mill, grazie a tale
processo, la nozione di interesse proprio e ia nozione di interesse altrui
diventano così strettamente fuse che l'individuo non può più pensare alla
propria felicità senza, automaticamente, pensare a quella degli altri: donde
l’aspetto d'obbligazione e di spontaneità, allo stesso tempo, che assume la
vita morale presso l’in- dividuo realmente virtuoso. c) Eudemonismo - Per
l’eudemonismo (dal greco eudaimonia), il criterio supremo della morale è la
felicità, cosicché un'azione è giudicata moralmente elogiabile oppure
riprovevole a seconda che sia o no compiuta in vista della felicità, I massimi
esponenti di questo tipo di morale sono Aristotele e Tommaso d'Aquino. Secon-
do entrambi questi autori ogni azione è diretta ad un fine, ma que- sto non
basta a renderla eticamente valida; ciò avviene soltanto nel caso che il fine
particolare in vista del quale è compiuta sia in ar- monia col fine ultimo
verso cui è orientato colui che la compie. Il fine ultimo d'ogni ente è la sua
piena realizzazione, e questa si ottiene con lo svolgimento a pieno ritmo di
quell’attività che gli è propria, ossia di quell'attività che attua la sua
natura specifica. Dal raggiun- gimento dell'ultimo fine dipende la sua
felicità. Quanto all'uomo, l’attività che lo distingue dagli animali è il
pensiero, la cui espres- sione massima è la contemplazione. Perciò la felicità
dell'uomo non consiste né nelle ricchezze né negli onori e tanto meno nel
piacere (tutte cose che anziché contribuire alla piena realizzazione della men-
te umana, la disturbano e persino l’offuscano interamente), bensì nella contemplazione.
Ma contemplazione di che cosa? Su questo punto c'è una parziale divergenza tra
Aristotele e Tommaso. Secondo Aristotele la contemplazione che assicura
all'uomo la piena felicità è quella della verità assoluta nei tre campi della
fisica, della mate- matica e della metafisica. Invece per san Tommaso la
contempla- zione ha un senso eminentemente teologico: secondo il pensatore di
Aquino l’unica contemplazione che può esaurire tutte le esigenze del pensiero e
che perciò può ricolmare l’anima di felicità è la con- templazione di Dio. Per
comprendere bene il pensiero di san Tom- maso su questo punto occorre però fare
una precisazione: la cono- scenza di Dio in cui egli ripone la piena felicità
dell'uomo non è certamente quella conoscenza analogica di Dio che la nostra
mente può raggiungere durante la vita presente. Neppure la conoscenza
metafisica più eccelsa può bastare a farci felici, dato che la rîfles- sione
filosofica ci fa vedere più quello che Dio non è, che quello che egli è.
Persino la conoscenza che otteniamo mediante la fede è insufficiente a farci
felici: essa mette a disagio la nostra mente piuttosto che appagarla. La sola
conoscenza in cui san Tommaso ri- pone la nostra felicità è la visione
beatifica di Dio, una conoscenza 122 soprannaturale che possiamo ottenere
solamente nella vita futura. S'è detto che la moralità d'una azione secondo
Aristotele e Tom- maso dipende dal rapporto che intercorre tra il fine al quale
essa è di fatto diretta e il fine ultimo. Ora, a questo proposito sorge spon-
taneamente la domanda: come fa l’uomo a determinare la moralità delle proprie
azioni? Chi lo istruisce sui rapporti esistenti tra le azio- ni che vuole
compiere e il suo fine ultimo? Sia secondo Aristotele che Tommaso, questa è la
funzione propria della legge, la quale è essenzialmente l’espressione della
moralità d'una azione. Si danno però due tipi principali di legge. C'è
anzitutto una legge naturale, la quale è conosciuta infallibilmente solo nei
suoi principi più univer- sali, come, per esempio, « fa' il bene e evita il
male ». Da questi principi generali della legge naturale l’uomo può procedere a
deter- minare la moralità delle singole azioni mediante il ragionamento. E
questo è il compito principale dell’etica e di chi fa filosofia morale cioè del
saggio. Senonché questo è un lavoro che ben pochi hanno la possibilità e
capacità di svolgere. Ecco allora che subentra la legge positiva (umana per
Aristotele, anche divina per Tommaso), la quale ha la funzione di determinare
la legge naturale e di applicarla ai casi concreti.‘ d) Stoicismo - Lo
stoicismo assume come criterio supremo della morale la pratica della virtù. I
tratti essenziali dello stoicismo etico sono già presenti in Platone. Questi
nel Gorgia dimostra che merita più compassione chi commette ingiustizia che
colui che la soffre; con lo stesso ragionamento nella Repubblica dimostra che è
più fe- lice il giusto in croce che l'ingiusto che nuota in un mare di piaceri.
Infine, nel Fedone insegna che per raggiungere la felicità è necessario rinunciare
ai piaceri e alle ricchezze e dedicarsi alla pra- tica della virtù. Gli
insegnamenti etici di Platone sono stati ripresi e sviluppati con maggiore
organicità da Zenone e dai suoi discepoli (ossia dagli Stoici). Il loro
principio fondamentale è che condotta morale significa condotta secondo ragione
(vale a dire secondo il Logos). Condotta secondo ragione vuole dire pratica
della virtù. Pertanto la virtù costituisce il criterio supremo della moralità.
Ma che cosa intendono gli Stoici per virtù? La virtù è una dispo- sizione
interna dell'anima per la quale essa si trova in armonia con se stessa, ossia
col proprio Logos. La virtù non consiste come aveva creduto Aristotele nel
giusto mezzo tra due difetti opposti, bensì in uno dei due estremi: e precisamente
nell'estremo conforme alla ragione (mentre l’altro estremo è conforme alle
passioni). Tra virtù e vizio non si dà via di mezzo; uno non è più o meno
vizioso o più o meno virtuoso: o è virtuoso o è vizioso. E di fatto, chi vive
secondo ra- 4 Ivi, pp. 139-141. 5 Ivi, pp. 92-93. 123 La funzione regolatrice
della legge morale Il criterio morale supremo dello stoicismo è l'esercizio
delle virtù La virtù: condotta secondo ragione La virtù è l'assoluto dominio
della ragione La ‘‘apatia’’ degli Stoici: superamento dell’egoismo e
immedesimazione nel Logos Il formalismo etico: l'esecuzione del dovere
L’“‘imperativo categorico’’ di Kant come norma suprema della moralità gione,
cioè il saggio, fa tutto bene e virtuosamente; invece chi è privo della retta
ragione, lo stolto, fa tutto male e in modo vizioso. La pratica della virtù
secondo gli Stoici consiste nell’apatia (a- patheia), cioè nell'annullamento
delle passioni e nel superamento della propria personalità. Solo superando la
propria personalità, che è l'indice estremo dell’egoismo, perdendo la propria
individua- lità, è possibile congiungersi col Logos. Per questo è necessario
liberarsi dalle passioni che sono le catene che legano l’anima al cor- po e le
impediscono di unirsi al Logos. Per raggiungere questa libertà di spirito
bisogna essere indifferenti alle contingenze della vita quotidiana, e a tutto
ciò che non è in nostro potere. La morale stoica con i suoi spunti fortemente
ascetici e con il suo impegno squisitamente interioristico e spirituale
presenta una considerevole affinità con la morale cristiana. Questo spiega
perché essa abbia incontrato il favore della chiesa primitiva e abbia indotto i
padri della chiesa e molti scolastici ad incorporarla nella loro dottrina
morale. Ciò è durato fino a quando san Tommaso, riabili- tando Aristotele,
introdusse una nuova visione dell'uomo e delle cose in cui si esaltano non
soltanto i valori dell'anima e del cielo ma anche quelli del corpo e di questo
mondo. Il felice connubio du- rato tanti secoli tra stoicismo e cristianesimo
fu allora interrotto. e) Formalismo etico - Il formalismo etico pone il
criterio supre- mo della morale nella pratica della virtù, nell'esecuzione del
dovere, nell’obbedienza alla legge, come lo stoicismo. Ma esso insiste ancor di
più di quest’ultimo sulla non pertinenza dei contenuti al fine di determinare
il valore morale di una azione: ciò che conta è esclusiva- mente la forma e
questa è data dall’obbedienza alla legge per la legge, dall'esecuzione di
un'azione solo per puro amore del dovere. Questa è la nota concezione della
morale che Kant sviluppa nella Critica della ragion pratica. In quest'opera
Kant sostiene che il cri- terio supremo della morale non può essere derivato
dall’esperienza, perché in tal caso si avrebbe un criterio soggettivo e
particolare, per- ciò variabile e contingente, che determinerebbe la volontà ad
agire per un fine esterno ad essa e non per la legge morale che la volontà dà a
se stessa: la volontà sarebbe eteronoma e non autonoma, come invece esige la
moralità dell’azione. Perché il criterio supremo della moralità abbia validità
assoluta e universale, è necessario che sia indipendente da ogni possibile
oggetto particolare e si riferisca ad una forma a priori incondizionata. Come
la conoscenza è universale e necessaria non per il contenuto fornito
dall'esperienza, ma per la forma a priori che la riveste; così un'azione assume
valore morale non in forza dell'oggetto a cui è rivolta bensì per una forma a
priori, una legge pura. Tale forma a priori, tale legge pura, per Kant è l'im-
perativo categorico: « obbedisci alla legge per la legge stessa e per ‘ Ivi,
pp. 171-174. 124 nessun altro motivo ». L'obbedienza a questo imperativo
costituisce l'essenza della morale. « L'essenziale d'ogni determinazione della
vo- lontà mediante la legge è: che essa come volontà libera, quindi non solo
senza il concorso degli impulsi sensibili, ma anche con l’esclu- sione di tutti
quegli impulsi, e con danno di tutte le inclinazioni, in quanto possono essere
contrarie a quella legge, venga determinata solo mediante la legge ». Kant,
però, è consapevole che la norma dell'imperativo categorico è troppo astratta e
indeterminata per costituire una guida valida ed efficace della vita morale, e
pertanto suggerisce alcune formule che consentono a chi agisce di verificare se
la propria azione sia con- forme all'imperativo categorico o no. Le formule
sono le seguenti: Prima: « Agisci in modo che la massima della tua azione possa
sempre valere al tempo stesso come principio universale di con- dotta ». Seconda:
« Agisci in modo da trattare l'umanità sia nella tua persona che negli altri
come fine e mai come mezzo ». Terza: « A- gisci in modo che la tua volontà
possa considerare se stessa come istituente una legislazione universale »,
ossia agisci secondo mas- sime tali che la volontà d'ogni uomo, in quanto
volontà legislatrice universale le possa approvare. f) Etica dei valori o
assiologia? - Da alcuni autori (Meinong, Hart- mann, Scheler, ecc.) il
tentativo di Kant di uscire dal soggettivismo facendo appello ad un principio a
priori non è ritenuto valido, e que- sto per due ragioni. Prima, perché deriva
il criterio dell’imperativo categorico esclusivamente da un dettame della
coscienza indivi- duale. Seconda, perché prescinde completamente dal contenuto
delle azioni. Al fine di restituire obiettività al criterio supremo della mo-
rale essi si richiamano alla tradizione classica, la quale come s'è visto,
assegna la funzione di norma suprema della morale al bene. Questo però viene da
loro concepito non tanto come fine ultimo quanto come valore. Di qui il nome
della loro etica. Il massimo esponente di questa concezione del fondamento
della morale è Max Scheler. Nell'opera Formalismo nell'etica e l'etica ma-
teriale dei valori egli fa vedere che la critica kantiana all'etica ma- teriale
può valere soltanto se riferita a dei beni particolari, ma non vale se riferita
al bene inteso come valore. Questo infatti non è per nulla un dato empirico
come pretende Kant, ma qualcosa di as- soluto. Il valore, precisa Scheler, è l'oggetto
proprio dell'etica così come l’essere è l'oggetto della metafisica, il bello
dell'estetica, il sacro della religione, il fatto della storia. E pertanto come
per la percezione del bello, del sacro, dell'essere, ecc., si danno organi
specifici, simil- mente l’anima possiede un organo particolare per la
percezione del valore. Quest'organo non è né la fantasia, né il senso, né la
ragione, ® I KANT, Critica deîla ragion pratica, Laterza, Bari 1924, p. 87. $
B. MONDIN, vol. 1I, pp. 320-326. ? L'etica dei valori (o assiologia) è trattata
più ampiamente nel cap. XIV. 125 Le tre massime universali di Kant L’etica dei
valori: recupero del contenuto delle azioni Scheler: il valore - oggetto della
morale L’apprensione emozionale come sentimento intenzionale I valori della
persona e i valori delle cose Relativismo morale e gnoseologia scettica ma
qualcosa di diverso, che Scheler chiama « organo emozionale ». L'organo
emozionale che ci pone a contatto col valore si articola in un « sentire » che
coglie i singoli valori, in un « preferire » che ne stabilisce la gerarchia, e
in un « amare » che precede il sentire e il preferire nella ricerca di nuovi
valori, « come un pioniere e una guida ». Siffatta apprensione emozionale non
ha nulla a che vedere con la sensibilità empirica, perché il valore è una
qualità che sussi- ste del tutto indipendentemente, non una proprietà connessa
sostan- zialmente con l'oggetto che ne è il portatore; tanto è vero, osserva
Scheler, che la « sfumatura di valore » di un oggetto, ad esempio il carattere
simpatico o antipatico di una persona, è colto prima an- cora che si colga
distintamente l'oggetto stesso. E neppure si tratta di un sentimento
psicologico, bensì di un sentimento intenzionale, che è « un originario
riferirsi o indirizzarsi a qualcosa di oggettivo », qual è appunto il valore.
Determinato il criterio fondamentale dell’etica e la facoltà co- noscitiva atta
a riconoscerlo, Scheler passa a considerare quali sono di fatto i valori che
l’uomo conosce e con quale ordine gerar- chico si presentano. Scheler distingue
due classi di valori: valori di persona {Personwerte) e valori di cosa
(Sachwerte). Ovviamente i valori di persona sono quelli che si riferiscono alla
persona, e cioè anzitutto il valore dell'essere stesso della persona e poi i
valori delle virtù. Invece valori di cosa sono quelli che contribuiscono a
formare quelle unità axiologiche cosali costituenti i « beni », siano essi beni
materiali (utili o piacevoli), beni vitali (come quelli economici), beni
spirituali (come la scienza e l’arte), o siano in genere i beni culturali. Di
queste due classi solo la prima abbraccia i valori propriamente etici, perché
questi, come già osservava Kant, hanno per portatore essenzialmente la persona.
Ciò significa che un'azione, che contri- buisce alla formazione e allo sviluppo
della persona, in sede etica, merita d'essere giudicata positivamente; mentre
invece un'azione che danneggia la persona va giudicata negativamente. g)
Relativismo e situazionismo - Con questi due termini si designa una teoria
etica, la quale si sforza di dimostrare che le esigenze morali sono determinate
da condizioni mutevoli dalle quali derivano, per tali esigenze, contenuti non
solo diversi ma anche in parte con- traddittori, cosicché è logico pensare che
nessuna istanza morale può essere veramente vincolante. Il relativismo morale
come pure il situazionismo si presentano in due forme principali. La prima
forma è a base gnoseologica e ha avuto diffusione anche di là dal campo
dell'etica filosofica e délla stessa scienza. I suoi principali sostenitori si
trovano tra i sofisti, gli scettici, i nominalisti. La seconda forma è a base
ontologica: è il relativismo proprio del materialismo storico elaborato da Marx
e da Engels. In entrambe queste forme di relativismo, proprio perché si nega
126 l'esistenza di un criterio supremo della moralità, qualsiasi discorso etico
diviene arbitrario e, in ultima analisi, privo di senso. A questa conclusione è
giunta ultimamente anche la corrente filo- sofica del neopositivismo, in base a
considerazioni che a prima vista sono di ordine linguistico, ma guardando a
fondo, sono di ordine gno- seologico: si tratta sempre di una concezione
empiristica e quindi relativistica della conoscenza umana. I neopositivisti e i
loro discendenti, gli analisti del linguaggio, ritengono errata l'impostazione
tradizionale della filosofia morale come del resto anche di tutte le altre
parti della filosofia. La que- stione primaria e specifica della filosofia in
ogni suo settore non è esaminare contenuti e tanto meno stabilirli, bensì
studiare il lin- guaggio con cui vengono espressi. Pertanto, per quanto
concerne l’e- tica, il compito del filosofo non è di ricercare il criterio
supremo della moralità, ma di esaminare il linguaggio proprio della morale al
fine di determinarne il vero significato. Secondo i neopositivisti il
linguaggio della morale non può avere significato oggettivo, perché non si può
controllarlo mediante la « verifica sperimentale »: esso esprime disposizioni
soggettive di chi parla oppure è teso a suscitare determinate disposizioni
sogget- tive di chi ascolta. È pertanto un linguaggio che ha un valore essen-
zialmente emotivo. I filosofi della corrente analitica ritengono arbitraria e
falsa la teoria neopositivista del linguaggio, in quanto privilegia indebita-
mente un tipo di linguaggio, quello delle scienze sperimentali, ad e- sclusione
di tutti gli altri. Il linguaggio modello a loro avviso non è quello
scientifico bensì quello ordinario. Il significato e il valore degli altri
linguaggi va determinato mettendoli a confronto col lin- guaggio ordinario.
L'esito di questo confronto per quanto concerne il linguaggio morale varia da
autore ad autore. C'è peraltro una tendenza a riconoscerne il valore oggettivo
ed universale.! 3. Il problema etico ha delle soluzioni? Il quadro che ci
presenta la storia della filosofia morale è indub- biamente uno dei più
sconcertanti: all'uomo che ha bisogno di di- rettive sicure per le sue azioni e
di un'indicazione precisa sul senso e il significato ultimo della sua esistenza
esso offre i suggerimenti più diversi e contraddittori. Che significa tutto
questo? Forse, che ci tro- viamo davanti a problemi insolubili? Molti filosofi,
tra cui alcuni anche di ispirazione cristiana, pensano di sì. Noi non siamo di
questo parere. Ammettiamo senz'altro che an- che per la morale come per je
aitre parti della filosofia sia impossibile ottenere soluzioni dogmatiche, si
tratta in effetti di problemi estre- 1° Per il problema del linguaggio vedi
cap, III 127 Neopositivismo: determinazione del senso del linguaggio morale
Analisi del linguaggio: l'assunzione del linguaggio ordinario come modello
Impossibilità di una soluzione dogmatica Esigenza della correlazione
antropologica, metafisica e teologica naturale Rapporto tra valore e volontà
mamente difficili, la cui soluzione si raggiunge soltanto per la tor- tuosa via
della speculazione. Ma ciò non toglie che tale speculazione possa avere esiti
positivi e conseguire soluzioni valide. Per raggiungere questo traguardo però
occorre sviluppare l'etica su basi teoretiche sufficientemente sicure,
derivandole dall’antropo- logia, dalla metafisica e dalla teologia naturale.
Una morale autono- ma, totalmente disgiunta dalla metafisica e dalla teologia
naturale e indipendente dalla filosofia dell'uomo, così come la concepisce
Kant, sfocia necessariamente nel soggettivismo e nel relativismo. D'altronde è
inammissibile che si possa dare autonomia etica per un essere come l'uomo, un
essere finito, creato da Dio, dal quale riceve oltre all'esistenza, anche lo
scopo della sua vita e le regole e i mezzi per conseguirlo. Pertanto la morale
è essenzialmente legata alla metafisica e tale nesso si coglie bene nel
concetto di valore. La morale, come dicono molti autori, è la scienza dei
valori e il suo obiettivo è di promuovere valori come la giustizia, la carità,
la pace, la speranza, la sapienza, la modestia, ecc. Ma che cosa sono
essenzialmente questi valori? Qual è il loro fondamento? Forse il capriccio
individuale? È la volontà umana che stabilisce che cosa è bene, cosa è giusto,
cosa è vero, cosa è puro, o è la realtà stessa che porta con sé questi
caratteri? La riflessione metafisica può mostrare che è la realtà stessa che
pos- siede questi valori. D'altra parte il concetto di valore dice rapporto ad
una volontà (valore è la caratteristica per cui una cosa è degna d'essere
voluta). Ciò significa che la realtà è in quanto tale voluta; « vuol dire che
all'origine delle cose c'è una Volontà intelligente, vuol dire che il supremo
Essere, quello da cui procede ogni realtà, è volontà intelligente ».!! Su
queste basi metafisiche si può innalzare un edificio morale sufficientemente
robusto, universalmente valido e, allo stesso tem- po, solidamente ancorato
alla realtà concreta e alla storia. CONCETTI DA RITENERE — Problema critico;
problema teoretico — Edonismo; utilitarismo; stoicismo; formalismo etico; etica
dei valori o assiologia; relativismo o situazionismo — Apatia; imperativo
categorico SINTESI CONTENUTISTICA . I. CARATTERI DEL PROBLEMA 1. L'etica o
morale è lo studio dell’attività umana con riferimento al suo fine ultimo,
ovvero la sua piena realizzazione. 2. Il problema riveste due aspetti o
prospettive: a) critico (fondamento e 4! S. VANNI ROVIGHI, Articolo citato, p.
292. 128 valore dei codici, dei principi, delle norme); b) teoretico
{condizioni che ren- dono possibile l'azione morale in assoluto). II. LA
PROSPETTIVA CRITICA 1. Si impone da sé a partire dalle norme e dalle leggi che
i membri di una società devono osservare. Si pongono i seguenti interrogativi:
Chi le ha stabi- lite? Che valore hanno? Si possono cambiare? Chi ha diritto di
farlo? ecc. 2. I Sofisti, a motivo delle diversità presenti nei vari popoli,
ritengono che le norme etiche siano determinate dalle convenzioni sociali e che
i giovani deb- bano essere educati ad esse. 3. Socrate, al contrario, afferma
che le norme e i principi etici hanno il loro fondamento nella natura umana e
l'educazione pertanto non è finalizzata all’ap- prendimento, bensì alla presa
di coscienza di ciò che è innato. 4. Nel corso dei secoli il convenzionalismo
avrà i suoi sostenitori negli epicurei, scettici, nominalisti, in Cartesio,
negli empiristi, neopositivisti, esisten- zialisti e marxisti. Il naturalismo
sarà invece condiviso da Platone, Aristotele, Plotino, dai neoplatonici, dagli
scolastici, dagli idealisti, dai neorealisti e dai neotomisti, III. LA
PROSPETTIVA TEORETICA 1. Prima condizione trascendentale dell'azione morale è
concordemente ritenuta dai filosofi la libertà. La questione aperta da
Aristotele «(Etica nico- machea), è stata approfondita da s. Tommaso, da
Cartesio e da Kant. 2. Seconda condizione trascendentale è la consapevolezza o
coscienza. L'assenza di essa può essere determinata da: a) errore circa ciò che
si fa; b) mancanza di facoltà raziocinativa o impedimento momentaneo del suo
uso. 3. Terza condizione trascendentale è che la libertà sia guidata da un
princi- pio direttivo. Una libertà assoluta (Nietzsche e Sartre) diviene
libertà amorale. 4. Circa il criterio supremo della moralità si prospettano due
concezioni: la teleologica (basata sul principio del fine); la deontologica
(basata sul prin- cipio del dovere) con delle diversificazioni al proprio
interno; una terza posi- zione, dettata da orientamenti relativistici, è quella
situazionale (leggi e fini mutano attraverso i tempi, i luoghi, le
circostanze). Le specificazioni interne ai due criteri sono: — edonismo
(Sofisti, Cirenaici, Epicurei, Montaigne, Hobbes, Helvetius, Bentham, Stuart
Mill, Freud): criterio supremo è il piacere sensibile, con il quale si
identifica il bene morale; — utilitarismo: criterio supremo è l’utile,
l'interesse, il vantaggio. Esso si distingue in: a) utilitarismo egoistico
(Hobbes) che fa valere come criterio l'utilità e l'interesse del singolo; b)
utilitarismo altruistico (Bacone, Locke, Hume, Stuart Mill, Russell) il quale
tende a far coincidere la realizzazione del- l'utile individuale con quello
della collettività; — eudemonismo (Aristotele, S. Tommaso): criterio supremo è
la Felicità: un'azione è morale nella misura in cui fa conseguire la felicità,
che esprime la piena realizzazione della persona; — stoicismo: criterio supremo
è la pratica della virtù. La prospettiva, già presente in Platone (Gorgia,
Repubblica, Fedone) è maggiormente sviluppata dagli Stoici, secondo i quali la
pratica della virtù consiste nell’apatia (annulla- mento delle passioni e
superamento della propria personalità). L'ascetismo, che caratterizza la morale
stoica, ha fatto sì che essa fosse ben accetta dalla Chiesa primitiva; —
formalismo etico: il criterio supremo sta nell'esecuzione del dovere e
nell'’obbedienza alla legge. Ciò che conta è soprattutto la forma, cioè l’obbe-
dienza alla legge (cfr. Kant, Critica della Ragion pratica). — etica dei valori
o assiologia {Meinong, Hartmann, Scheler): esprime anzitutto una critica nei
confronti del formalismo etico kantiano e si richiama 129 alla tradizione
classica, assegnando al bene Ja funzione di norma suprema. Il bene è concepito
però come valore più che fine ultimo. Scheler in Formalismo nell’etica e
l'etica materiale dei valori afferma che il valore è l'oggetto dell'etica così
come l'essere lo è della metafisica, il bello dell’arte, il sacro della
religione. L'anima possiede pertanto un organo specifico per percepirlo, che
Scheler chiama « organo emozionale » che « sente » i singoli valori, li «
preferisce » gerarchicamente e « ama », ovvero ricerca valori nuovi, come « un
pioniere e una guida ». Scheler distingue inoltre i valori di persona e i
valori di cosa. — relativismo e situazionismo: secondo tali concezioni le
esigenze morali sono determinate da condizioni mutevoli dalle quali derivano
contenuti non solo diversi ma anche in parte contraddittori: a) la forma a base
gnoseologica (sofisti, scettici, nominalisti) ha avuto dif- fusione anche al di
là del campo dell'etica e della scienza. b) la forma a base ontologica è quella
propria del materialismo storico elaborato da Marx ed Engels. Il relativismo è
oggi condiviso dai neopositivisti e dagli analisti del linguaggio. IV. ETICA E
METAFISICA 1. È impossibile per il problema etico trovare soluzioni dogmatiche,
ma è possibile avere esiti positivi e conseguire soluzioni valide. 2. È
necessario pertanto reperire basi teoretiche sufficientemente sicure
nell'antropologia, nella metafisica, nella teologia naturale. 3. Il nesso tra
etica e metafisica si coglie nel concetto di valore. La rifles- sione
metafisica, infatti, può mostrare che è la realtà stessa che possiede i va-
lori, mentre il concetto di valore rivela che c'è un rapporto tra realtà e
volontà (cioè che una cosa è degna di essere voluta: quindi la realtà in quanto
tale è degna di essere voluta). QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Come
si configura il nostro orizzonte culturale in ordine all’antropolo- gia, alla
metafisica, alla teologia e conseguentemente all'etica? 2. Che cosa studia la
morale? 3. Che cosa si intende per prospettiva critica e teoretica della
morale? 4. Qual è il compito del filosofo riguardo alla morale? 5. Su che cosa
si fondano i codici morali? Qual è l'opinione dei massimi filosofi al riguardo?
6. Quali sono i principali tipi della morale filosofica? Che cosa si intende
per edonismo, utilitarismo, eudemonismo, formalismo etico? 7. Che cosa
rappresenta la libertà per la morale? 8. Quali sono le condizioni essenziali dell'atto
morale? 9. Che cos'è l’etica dei valori? 10. Qual è il fine ultimo della vita
umana secondo i massimi filosofi? 11. Quali dovrebbero essere i termini di una
correlazione tra scienza ed
etica? . 12. In che relazioni si trovano
morale e religione, morale e metafisica, mo- rale e arte, morale e politica?
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1986. ARISTOTELE, Etica nicomachea, Laterza, Bari 1973. 130 BAUSOLA A.,
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Educazione: esigenza dell’uomo di realizzare le sue infinite capacità Solo gli
esseri umani possono acquisire mediante insegnamento e apprendimento: ciò è
l'educazione Interazione tra discorso filosofico e quello sull'educazione
Capitolo decimo a ee IL PROBLEMA PEDAGOGICO QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. Qual è
il significato etimologico dei termini « pedagogia » ed « educa- zione »? 2.
Che cosa dovrebbe caratterizzare in modo particolare l'educazione? 3.
L'educazione è un'azione o una relazione? 1. La pedagogia come teoria pratica
Pedagogia è una parola di derivazione greca, che significa « arte di guidare il
fanciullo » ed è generalmente usata come sinonimo di « scienza dell'educazione
». L'educazione è un dato di fatto che non ha mai cessato di esistere. Si
tratta, in effetti, di un'esigenza fondamentale dell’uomo il quale nasce con
sconfinate capacità di agire ma senza l'abilità di realiz- zarle. Egli deve
apprendere dagli altri come esplicare le sue capa- cità: come nutrirsi,
camminare, parlare, leggere, scrivere, lavorare, ecc. Il fenomeno
dell'educazione è tipicamente umano. Solo l'uomo può e deve educarsi; nel mondo
animale è possibile tutt'al più un addestramento. Questo perché, mentre
l’animale è un essere già « specializzato » sin dalla nascita, dotato
istintivamente di determi- nate abilità e soltanto di quelle, l'essere umano è,
invece, inizialmen- te privo di qualsiasi specializzazione, ma con la capacità
di acquisire, mediante l'insegnamento e l'apprendimento (vale a dire tramite
l’e- ducazione) le specializzazioni più disparate: nel cibo, nel vestito, nel
lavoro, nello studio, nello sport, nella religione, nell'arte, ecc. Mediante
l’opera educativa esso si specializza e, conseguentemente, si individualizza,
diventa un « io ». In tal modo acquista una per- sonalità che, tra l’altro, è
in continua evoluzione e maturazione. Naturalmente la concezione che si ha
dell'educazione dipende dal- la concezione che si ha dell’uomo e del suo
destino, cioè, come af- ferma il Laberthonnière « esiste tra l'educazione e la
concezione che si ha della vita un rapporto che dovrebbe essere impossibile
contestare ».! È quindi evidente il necessario rapporto che esiste tra il
discorso filosofico ed il discorso sull'educazione. Quest'ultimo è ! L.
LABERTHONNIÈRE, Teoria dell'educazione, La Scuola, Brescia 1965, p. 3. 132 il
logico coronamento dei discorso antropologico ed etico: dopo che sì è compreso
chi è l'uomo e quai è il traguardo ultimo della vita umana, si pone
necessariamente il problema di come guidarlo alla conquista di tale traguardo.
La pedagogia è, dunque, una teoria pratica, € cioè « una teoria che ha per
oggetto di riflettere sui sistemi e sui procedimenti di edu- cazione al fine di
valutarne il valore, con ciò illuminando e dirigendo l’azione degli educatori
». La pedagogia è nata come esigenza delle persone e dei pcpoli per due motivi.
In primo luogo, perché sarebbe rischioso lasciare l’edu- cazione esclusivamente
all'istinto e alla tradizione. in secondo luogo, perché lo stesso pensiero,
cercando di spiegare l’esistenza del- l'uomo ed il suo impegno etico, ha dovuto
necessariamente incon- trarsi con la realtà educativa. 2. Autcnomia della
scienza pedagogica e interdisciplina- rietà L'evoluzione della cultura ha
contribuito alla configurazione an- che della pedagogia come scienza autonoma.
Nelle civiltà antiche le varie cognizioni sulla realtà costituivano un sapere
indifferenziato, identificato generalmente con la filosofia, di cui faceva
parte anche la pedagogia. Nel Medioevo questa venne assorbita dalla teologia.
Solo dopo la fine del Medioevo, con l’ap- profondirsi delie diverse conoscenze,
le scienze acquistarono pro- gressivamente la loro autonomia rispetto sia alla
filosofia che alla teologia. Nell'antichità vediamo pertanto che la pedagogia è
considerata come parte della politica, la quale a sua volta è vista come ramo
della filosofia morale. Infatti, l'ideale educativo dei greci e dei ro- mani era
la formazione dell'uomo in quanto cittadino. Aristotele afferma che, essendo
uno solo il fine della comunità politica, « è ma- nifesta la necessità che
l'educazione sia una sola e identica per tutti, e che la cura di essa sia
affidata allo Stato e non ai privati »? La rivoluzione intellettuale, morale e
sociale operata dal cristia- nesimo portò in primo piano il problema
etico-religioso. Per questo motivo, anche la pedagogia non fa più parte della
politica, ma di- venta un capitolo della morale teologica durante tutto il
Medioevo. Con l’umanesimo e il Rinascimento l'ideale educativo non è più il
perfetto cittadino o il santo, ma l'uomo colto. Gli studi filosofici si
approfondiscono e influenzano anche la pedagogia, che sente sempre più
l'esigenza di un'impostazione di carattere filosofico evi- ? A. LALANDE,
Dizionario critico di filosofia, ISEDI, Milano 1971, p. 620, 3 ARISTOTELE,
Politica VII, c. 1. 133 La pedagogia come taoria pratica Con l'evaluzione della
cultura la pedagogia è divenuta scienza autonoma Oggi la pedagogia, che
rappresenta l'educazione dell’uomo, si vale di scienze ausiliarie (psicologia,
etica, biologia, sociologia) Prospettiva integrale e autonomia della pedagogia
Pedagogia e destino dell'uomo tando peraltro qualsiasi subordinazione ad altre
discipline filo- sofiche. Oggi, l'affermarsi delle scienze positive sta
influenzando anche il campo pedagogico. Si riconosce che se la pedagogia
riguarda es- senzialmente l’uomo, è necessario un contributo di tutte le
scienze; ma non per questo essa deve essere considerata una sintesi oppure un
aggregato di varie scienze, « un ammasso più o meno incoerente di ricette »,
come afferma il Mialaret.* Senza dubbio, la pedagogia è una scienza dell'uomo,
ma ha vn ambito -specifico diverso da quello delle altre scienze: l'educazione
dell'uomo. Le scienze che maggiormente concorrono alla conoscenza dell'uomo e
costituiscono pertanto il necessario presupposto della pedagogia sono la
psicologia, l'antropologia, l'etica, la biologia e la sociologia. Queste, che
sono chiamate « scienze ausiliarie » della pedagogia, sono importanti nella
scienza della educazione perché, considerando l'uomo nella sua evoluzione verso
una maturazione fisico-biologica, psicologica e sociale, affrontano problemi e
acqui- siscono cognizioni che sono di importanza capitale per l’impostazio- ne
dell’opera educativa. In effetti, se lo scopo dell'educazione è la liberazione
totale dell'educando, il raggiungimento di tale fine si verifica tenendo conto
delle situazioni biologiche, psicologiche, an- tropologiche, sociologiche e
storiche vissute concretamente dal sog- getto. Inoltre, se l'educazione
dev'essere integrale, cioè riguardante sia l'aspetto materiale che spirituale
dell'uomo, deve mutuare prin- cipi, criteri, metodi dalla filosofia, dall’etica,
dall’estetica, ecc., a se- conda dei problemi specifici che deve affrontare nel
suo ambito. La pedagogia è quindi una scienza autonoma, pur esigendo un ap-
prodo interdisciplinare. Di tutte le discipline, la filosofia è quella che dà
il massimo con- tributo al costituirsi della scienza pedagogica. Perché?
Abbiamo affermato precedentemente che la pedagogia è il logico coronamento
dell'antropologia (la quale spiega chi è l'essere u- mano) e della morale (la
quale stabilisce il fine ultimo della vita umana); conseguentemente
l'educazione è sempre, necessariamente condizionata da una visione dell'uomo e
del destino umano. Infatti, come già s'è detto, « specialmente riguardo
all'uomo, di cui le scienze studiano molteplici aspetti, sono molti i problemi
che nes- suna di esse affronta (mentre li suppone già risolti), come il valore
della vita e della conoscenza umana, la natura del male, l'origine e il valore
della legge morale. Di questi problemi si occupa soltanto la filosofia ».
Esistono tuttora due posizioni opposte per ciò che riguarda il rapporto tra
pedagogia e filosofia: coloro che identificano le due * G. MIALARET,
Introduzione alla pedagogia, Armando, Roma 1970, p. 9. 5 B. MONDIN, vol. I, p.
8. 134 scienze, considerando la pedagogia una semplice appendice della
filosofia e coloro che, al contrario, negano qualsiasi discorso filo-
nell’ambito della pedagogia. Riteniamo queste posizioni er- rate, perché ogni
corrente filosofica trae dai suoi principi una propria pedagogia ed ogni
pedagogia ha come fondamento una data imposta- zione filosofica. Ma la
pedagogia ha un campo di ricerca suo proprio, e dispone di metodi e criteri
specifici che non sono quelli più gene- rali della filosofia. Ed è pertanto da
considerarsi come ambito spe- cifico della ricerca filosofica, alla pari
dell'etica e della politica. 3. Soggetto e finalità delia pedagogia La
pedagogia moderna, capovolgendo il rapporto tradizionale tra maestro e
discepolo, ha affermato il ruolo primario di quest'ultimo nel processo della
sua educazione e di fronte al maestro stesso. Il moderno pensiero pedagogico ha
coniato la espressione rivoluzione copernicana dell'educazione per indicare il
sostanziale mutamento avvenuto nel rapporto tra educatore ed educando,
derivando tale lo- cuzione dal capovolgimento della relazione Terra-Sole
operata da Copernico. Che cosa significa « rivoluzione copernicana
dell'educazione »? Come Copernico in campo astronomico aveva rivoluzionato la
concezione tolemaica della centralità della terra nel sistema solare,
affermando la centralità del sole rispetto a tutti i pianeti del sistema
solare, così, in campo pedagogico, non è più il maestro il perno del- l'azione
educativa, ma il discepolo, alle cui esigenze il maestro deve adeguarsi,
cercando di scoprirle e facendo in modo che egli si auto- promuova. In questa
prospettiva, l’attore e l'autore primario nel processo educativo è il fanciullo
stesso (puerocentrismo). Il sogget- to quindi dell'educazione è certamente
l'educando, come essere at- tivo, personale ed originale; ma è bene precisare
che per « educando » non si deve intendere esclusivamente il bambino, il
ragazzo, il gio- vane, ma l'uomo, perché l'educazione non ha mai termine, né
limiti di età, ma continua per tutta la vita (da questo è derivato il con-
cetto di educazione permanente). Soggetto allora dell'educazione è l’uomo, ma
egli è persona ed è tale nella misura in cui realizza la propria personalità.
Attingendo dalle affermazioni della scienza psicologica, soffermiamoci un mo-
mento su quest'ultimo concetto. La personalità dell’uomo è la risultanza di
elementi nativi, ere- ditari e di elementi acquisiti mediante la propria
esperienza. Co- munque, tali strutture sono dinamiche e non rigidamente
definibili e quindi la personalità è una realtà « plastica », dinamica, determi-
nantesi con atteggiamenti differenziati a seconda delle situazioni che
l'individuo incontra e vive concretamente. L'uomo non è determi- nato (almeno
non lo è totalmente) dalla sua struttura originaria, 135 Nel rapporto ira
filosofia e pedagogia questa ha un ambito specifico di ricerca La ‘‘rivoluzione
copernicana” in pedagogia: l’educando come protagonista (puerocentrismo)
Educazione permanente per la continua realizzazione della personalità umana
L’educazione dura tutta la vita Promozione a autopromozione dell’individuo:
aspetto personale Aspetto sociale: relazione interpersonale e convivenza con
gli altri Aspetto culturale: trasmissione dei valori e custodia della civiltà
dalla sua essenza, ma può anche migliorare, peggiorare o, comunque, cambiare. E
se c'è sempre una possibilità di mutamento, allora è valido quanto già detto:
l'educazione dura per tutta la vita. Ciò che si è detto a proposito del
soggetto dell'educazione con- sente di esaminare le finalità di un certo tipo
di processo educativo che permette ad ogni individuo di giungere allo sviluppo
della pro- pria personalità. ‘4. I tre aspetti fondamentali dell'educazione
L'educazione, dal punto di vista teoretico e scientifico, presenta tre aspetti
fondamentali: personale, sociale e culturale. a) Personale: perché l’educando è
una persona e non una cosa od un oggetto; è soggetto dotato di attività, di
personalità e di creati- vità. Egli pensa ed agisce seguendo energie interiori.
L'educazione dunque deve promuovere o meglio fare in modo che l'individuo si
autopromuova. Rimandiamo qui al concetto di maieutica socratica già espresso
nel Corso di storia della filosofia Come è la madre che genera il bambino e
l’ostetrica l’aiuta soltanto a darlo alla luce, così il vero educatore non
comunica la « verità », ma mette l’educando nelle condizioni di trovare la
risposta da sé. Innanzitutto, quindi, l'educazione è autopromozione della
personalità del soggetto che si educa... b) Sociale: e questo sia come fatto
che come obiettivo. Anzitutto come fatto perché l'educazione è un evento
eminentemente inter- personale e sociale, perché coinvolge quanto meno due
persone, l’e- ducando e l'educatore. In secondo luogo, come obiettivo perché
tra le finalità primarie che l’opera educativa si propone è inclusa quella di
far conoscere gli altri e di abituare a vivere insieme con essi, in loro
armonia, per la realizzazione di un bene superiore comune a tutti. L'educazione
pertanto « socializza » il singolo, perché « la no- stra vita personale si
esplica in una vita sociale. Certo ci può essere una vita sociale che al limite
ignora o soffoca la vita personale ed è questo che va evitato ».’ Il fine
primario dell'educazione lo si ottiene operando sui singoli soggetti e non sul
gruppo. Però è necessario an- che l'apporto del gruppo, che spesso opera
inconsciamente, per me- glio sviluppare l'educazione del singolo. Anzi in molti
stati, oggi l'e- ducazione è attuata operando sul gruppo, e in tal modo si
raggiun- gono anche i singoli. c) Culturale: perché l'educazione trasmette alla
persona i valori culturali elaborati dall'umanità nel corso delle generazioni,
tra- 6 Ivi, p. 70. ? C. PERUCCI, in Educare, U.C.L.I.M., Varese 1572, p. 67.
136 sformando un essere incolto in un essere che può contribuire al progresso
della civiltà in cui è nato. È evidente che questi tre aspetti della educazione
sono interagenti poiché formare la personalità del soggetto significa
promuovere la socialità e, trasmettendo la cultura e la civiltà, l'educazione
fa parte- cipe il soggetto dei progressi dell'umanità stessa. In conclusione,
la finalità educativa consiste: in primo luogo nella realizzazione della
personalità intesa come affermazione della individualità e originalità di
ognuno; in secondo luogo nella capa- cità di partecipazione alla vita sociale.
Tale centralità della persona e dell'individuo non ha sempre costituito
l'ideale educativo in’ seno alle varie civiltà: Infatti, ciò che attualmente
secondo un certo si- stema politico e filosofico si apprezza ed esalta come
individuale, era per i greci un aspetto negativo. 5. Autoeducazione ed
eteroeducazione Tenendo presente il fine da realizzare si possono distinguere
due concezioni radicalmente opposte dell'educazione. Da una parte si afferma
che educare un fanciullo vuol dire ren- derlo conforme ad un modello
prestabilito, per cui il fine dell'educa- zione è posto fuori dal fanciullo (=
eteroeducazione) e l'educazione si risolve in un adattamento delle disposizioni
del fanciullo ad un ordine preesistente, di fatto o di diritto. Dall'altra
parte si dice che educare significa permettere al fan- ciullo di sviluppare
tutto ciò ch'egli ha in se stesso (autoeducazione), per cui il fine è il
fanciullo stesso e l'educazione mira a favorire la realizzazione della sua
personalità ed il suo armonico sviluppo. L'eteroeducazione si fonda sul
presupposto che le strutture con- crete della civiltà attuale (sociali,
economiche, morali, religiose, ecc.) impongano di adattare il fanciullo in modo
che da adulto possa age- volmente integrarsi in esse, per cui un'educazione
sarà ritenuta va- lida se riuscirà ad adattare l’uomo all'ordine stabilito,
considerato come assoluto, sia esso la classe sociale, la chiesa, lo stato. In
questo caso l’educatore rivelerà le sue doti nella misura in cui la sua abilità
tecnica sarà capace di realizzare tale scopo, senza troppe preoccupa- zioni
delle esigenze soggettive dei singoli educandi. Per contro, l’autoeducazione
mira ad assicurare, per quanto è possibile, l’armonico sviluppo delle varie
tendenze e capacità pre- senti nel fanciullo, senza fare appello ad ideali
preesisienti. Educa- zione quindi che rifiuta ogni intervento autoritario
esterno e lascia alla spontaneità naturale del fanciullo di sviluppare le
naturali forze bio-psichiche che operano in lui; all'educazione inoltre è dato
il ° A. AGAZZI, Problemi attuali della pedagogia e lineamenti di pedagogia
sociale, La Scuola, Brescia, 1968, pp. 9-10. 137 Eterceducazione: confermità a
un modello Autoeducazione: armonice sviluppo di tendenze e capacità Interazione
di eteroeducazione e autoeducazione compito di preservare il fanciullo stesso
dalle influenze che dall’ester- no potrebbero turbare l’armonico sviluppo della
personalità. Che dire di queste due opposte concezioni dell'educazione? A
nostro avviso un'educazione integrale non può essere né pura- mente
estrinsecistica come ritengono i fautori della eteroeducazione, ma neppure
semplicemente innatistica come affermano gli assertori dell’autoeducazione. Ma
dev'essere l'una e l’altra insieme. Se è vero infatti che una valida educazione
non può trascurare i condizionamenti dell'ambiente familiare, sociale,
politico, religioso, ecc., è anche vero che il voler considerare tali fattori
come assoluti, e riconoscerli come norme intangibili cui sottomettere gli
elementi personali dell’educando, è un palese controsenso, date le variabilità
e precarietà del cosiddetto « ordine stabilito ». D'altra parte, « che il
fanciullo possa spontaneamente e con le sole sue forze, senza l'intervento di
un'autorità esterna, disciplinare se stesso e diventare capace di libere
scelte, è stato il paradosso di Rousseau, fondato sulla bontà naturale
dell'uomo, al quale però lo stesso Rousseau sembrò non concedere molta fiducia
quando con- sigliava agli educatori di lasciar credere all'educando di essere
lui il padrone, ma di non permettergli di esserlo, di fatto. In definitiva, un
sistema educativo che si limiti a rispettare nel fanciullo ciò che
l'osservazione psicologica, scientificamente anche la più perfetta e accurata,
permette di osservare in lui, non è sufficiente ad edu- carlo veramente »?
Autentica educazione dev'essere quindi autoeducazione, perché non è concepibile
una maturazione integrale inconsapevole e priva di impegno personale; e
dev'essere inoltre eteroeducazione perché la presenza del docente non è solo
auspicabile, ma necessaria. Oc- corre, peraltro, tener ben presente che
nell'opera di educazione il do- cente non può né deve sostituirsi all’educando;
egli è solo la guida e la forza stimolatrice delle energie che devono
svilupparsi spontanea- mente dall’interiorità del soggetto (secondo i canoni
della maieutica socratica). Nel rapporto educatore-allievo esiste, senza
dubbio, un pericolo che occorre assolutamente evitare: quello di « manipo- lare
», « foggiare » ed inoltre di distruggere la personalità dell’edu- cando per
far emergere quella dell’educatore. Educare significa, in- vece, aiutare ad
autodeterminarsi come essere libero, e ciò è possi- bile soltanto attraverso il
libero esercizio delle proprie attitudini. 6. L’attivismo pedagogico Tra le
tante teorie dell'educazione, l'attivismo è senza dubbio quella che ha
suscitato maggior interesse durante il nostro tempo. * A. VALERIANI, « Il
problema dell'educazione », in Studio ed insegnamento della filosofia, I,
AVE-UCIIM, Roma 1966, pp. 315-316. 138 Essa però ha qualche riferimento nel
passato. I Sofisti ritenevano che l'educazione deve essere sottratta ad ogni
autoritarismo e dog- matismo. Nel Medioevo viene ripreso talvolta il concetto
di sant'Ago- stino, il quale riteneva che l'educazione deve essere un processo
au- tonomo di autoeducazione: il maestro comunica solo le parole, ma la vera
educazione è « autoeducazione », data da Dio per illumina- zione. Con l’inizio
del Rinascimento inizia il superamento delle vecchie tradizioni e con Bacone si
ha la prima grande affermazione del carat- tere attivistico del sapere.
Comenio, poi, con il suo « naturalismo » e la sua « pansofia » intende dare a
tutto il sapere una connessione si- stematica, seguendo gli indirizzi della
nuova scienza sperimentale. In Rousseau, infine, sono già presenti le varie
motivazioni con cui l'attivismo di oggi giustifica l'introduzione del lavoro
nella scuola. L'attivismo pedagogico si presenta come reazione alla pedagogia
tradizionale, la quale era di tipo estrinsecistico e teoretico. L'ideale del
mondo classico e, generalmente, anche del mondo cristiano, era la vita come
attività teoretica, come conoscenza e come contempla- zione. L'educazione
consisteva nell’insegnamento di principi, dottri- ne, ideali trascendenti e
assoluti. La pedagogia contemporanea ha compiuto un rovesciamento radicale,
risolvendo il conoscere nel- l'agire, la verità nel fatto. Ma è necessario
subito riconoscere che in quel rovesciamento si ritrovano il valore ed,
insieme, i limiti dell'at- tivismo pedagogico contemporaneo: il valore, perché
l'ideale del mondo classico non poteva soddisfare la mobilità sociale e l'ansia
di attività dell'umanità moderna; i limiti perché molto spesso l'agire viene
ridotto ad un semplice fare meccanico, ad un fare per il fare, anche contro le
attese degli stessi fautori dell’attivismo. :iA fondamento dell'attivismo sta,
come s'è detto, un atteggia- mento di rifiuto del metodo tradizionale. Ma
l’attivismo non è sol- tanto protesta: esso è anche proposta, e propone una
educazione proiettata verso l'avvenire, quindi dinamica, centrata sul soggetto,
quindi aperta ed esistenziale: una scuola attiva sostitutiva di quella
passiva.! ‘Applicando i criteri dell'autoeducazione, l’attivismo si pone al
servizio delle attitudini, dei bisogni, dei modi di sentire e di agire pro- pri
del fanciullo che deve poter liberamente esprimere tutto se stesso ed
apprendere quanto sarà utile per sé e per la società nella quale si troverà a
vivere da adulto. Da parte sua, l’educatore, anziché in- tervenire per
trasmettere un sapere dall'esterno o inculcare principi morali assoluti, è
chiamato a fornire all’educando occasioni ed ali- menti al suo appetito di
conoscere e di agire, ponendolo a contatto con l’esperienza che è la vera
maestra della vita, ad aiutare lo svi- luppo spontaneo della intelligenza e
della volontà dell'allievo, se- !° Cfr. A. AGAZZI, « Scuole nuove e attivismo
», in Questioni di storia della pedagogia, La Scuola, Brescia 1963, p. 972. 139
L’attivismo pedagogico: reazione alla pedagogia tradizionale L’attivismo come
educazione proiettata verso l’avvenire Attivismo e autoeducazione Psicologia,
attivisma e scuola nuova Concezione ateo- materialista dell’attivismo guendo le
linee dei suoi interessi scientificamente determinati. Ne- cessità, quindi, di
muovere dal fanciullo, « ma non dal fanciullo in sé, considerato in astratto,
ma dal fanciullo come individuo origi- nale ed unico, dalla ricchezza della sua
spontaneità naturale da co- noscere e da dirigere. Lo studio della psicologia
sarà pertanto a fon- damento della preparazione e dell’azione dell'educatore e
la scuola su misura sarà il nuovo credo didattico del puerocentrismo ».! Le
idee dominanti dell’attivismo sono, pertanto, le seguenti: azio- ne,
spontaneità, vita. Delle prime due s'è già parlato. Quanto alla terza essa fa
parte di un'espressione cara all’attivismo, l’espressione scuola-vita. Secondo
l’attivismo la scuola deve preparare alla vita, deve essere essa stessa vita,
adeguarvisi e strutturarsi secondo le forme reali della vita. Sulla legittimità
dell’attivismo pedagogico ci siamo già implicita- mente pronunciati parlando
dell’autoeducazione. Abbiamo escluso che si possa realizzare pienamente il
processo educativo col solo me- todo dell'autoeducazione. È un metodo che si
fonda su una visione troppo ottimistica dell’uomo, considerato esente da ogni
debolezza e da ogni cattiva inclinazione e già intimamente incamminato verso il
bene e la virtù. Ma troppo spesso l’attivismo è anche basato su una concezione
materialistica ed atea dell’uomo. Questi è visto come creatore d’ogni valore e,
allo stesso tempo come il prodotto ultimo dell'evoluzione della materia.
Fondate su tali premesse, anche le tesi più interessanti e, in se stesse,
legittime, dell’attivismo pedagogico diventano discutibili e sospette. Per
acquistare piena legittimità occorre che siano fondate sul riconoscimento dei
valori più auten- tici della persona (libertà, spiritualità, immortalità) e
sulla realtà di Dio, creatore del mondo, padre di tutti gli uomini, termine
ultimo delle nostre più profonde aspirazioni. CONCETTI DA RITENERE — Pedagogia
come teoria pratica — Liberazione totale; educazione integrale — Rivoluzione
copernicana dell'educazione — Aspetto personale, sociale, culturale —
Autoeducazione (modo innatistico), eteroeducazione (modo estrinse- cistico) —
Attivismo pedagogico SINTESI CONTENUTISTICA I. LA PEDAGOGIA COME TEORIA PRATICA
1. Il termine pedagogia (« condurre il fanciullo ») indica l’« arte» o la «
scienza dell'educazione ». L'educazione esprime l'esigenza dell'uomo che na- !
A. VALERIANI, Op. cit., p. 324. 140 sce con molteplici capacità, ma ha bisogno
di essere aiutato a realizzarle nel corso della sua crescita. 2. L'educazione è
quindi un fatto propriamente umano. L'uomo si educa, l’animale si addestra. La
concezione dell'educazione si ricollega alla concezione che si ha del- l'uomo:
il discorso pedagogico è collegato al discorso antropologico e al di- scorso
etico. La pedagogia è una teoria pratica, cioè ha per oggetto di riflettere sui
si- stemi di educazione per aiutare l’azione degli educatori. II. ‘AUTONOMIA E
INTERDISCIPLINARIETÀ DELLA PEDAGOGIA 1. Nelle civiltà antiche la pedagogia
faceva parte dei diversi sistemi filo- sofici. Spesso essa è riferita alla
politica, che a sua volta dipende dall’etica. L'ideale greco-romano è la
formazione dell’uomo in quanto cittadino. 2. Nel Medioevo la pedagogia diventa
un capitolo della teologia a motivo del primato assunto dal problema
etico-religioso: dal cittadino al santo. 3. Nell'epoca dell'Umanesimo e del
Rinascimento l’ideale diviene quello dell'uomo colto. La pedagogia avverte,
pertanto, l'esigenza di una imposta- zione di carattere filosofico. ; 4. Nella
cultura contemporanea l'affermazione delle scienze positive, ha collocato la
pedagogia in una posizione interdisciplinare. La psicologia, l’an- tropologia,
l'etica, la biologia e la sociologia si configurano come scienze ausi- liarie
della pedagogia, offrendole elementi di integrazione e di approfondi- mento
circa gli scopi che le sono propri. 5. L'educazione può avere come scopo: a) la
liberazione totale dell’educan- do e necessita del contributo della biologia,
della psicologia, dell’antropologia, della sociologia e della storia; b)
l'educazione integrale e si dovrà rivolgere alla filosofia, all’etica,
all'estetica, ecc. al fine di promuovere sia la dimensione spi- rituale che
quella materiale dell’uomo. 6. Il rapporto tra pedagogia e filosofia è visto
attraverso due posizioni: a) l’identificazione tra le due scienze; b) la
dipendenza della pedagogia dalla filosofia. Una conclusione opportuna appare la
seguente: la pedagogia gode di una autonomia nel campo di ricerca, dei metodi e
dei criteri. Afonda comunque le sue radici in una determinata visione
filosofica, di cui è una ramificazione al pari dell'etica e della politica. III.
SOGGETTO E FINALITÀ DELLA PEDAGOGIA 1. La pedagogia moderna è orientata dalla
cosiddetta rivoluzione coperni- cana dell’educazione: il perno dell'azione
educativa non è più, come nel mondo classico-medioevale, il maestro, bensì il
discepolo. 2. La prospettiva puerocentrica guarda all’educando come ad un
soggetto attivo, personale e originale. Occorre però ricordare che in senso
proprio l’edu- cando è l’uomo nelle diverse tappe della sua vita e che pertanto
l'educazione è un fatto permanente, un cammino continuo senza meta terminale.
3. Poiché la persona è la protagonista dell’azione educativa, l'educazione avrà
come scopo la formazione della personalità. La personalità è la risultanza di
elementi originari, ereditari e acquisiti. Essa è quindi una struttura dinamica
e in perenne trasformazione. Compito dell'educazione è di orientare la
trasformazione sempre verso la positività. IV. I TRE ASPETTI FONDAMENTALI
DELL'EDUCAZIONE1. Aspetto personale dell'educazione: l’educando è una persona,
soggetto dotato di attività, personalità e creatività. L'educazione deve
promuovere la persona e renderla capace di autopromozione. 2. Aspetto sociale
dell'educazione: a) è un fatto perché l'educazione è un 141 evento
interpersonale e sociale {rapporto educatore-educando); b) è un obiet- tivo
perché l'educazione si propone di formare gli individui alla conoscenza
reciproca, alla vita in comune, all'armonia sociale, al bene comune. 3. Aspetto
culturale dell'educazione: l'educazione trasmette di generazione in generazione
i valori elaborati dall’umanità, facendo di ogni individuo un essere capace di
dare il proprio contributo alla civiltà. I tre aspetti sono interagenti;
infatti sono propri della finalità educativa sia la realizzazione della
personalità e dell’originalità dell'uomo, sia la forma- zione della sua
capacità di partecipazione alla vita sociale. V. AUTOEDUCAZIONE E
ETEROEDUCAZIONE 1. L'autoeducazione mira ad assicurare l’armonico sviluppo
delle varie ten- denze e capacità presenti nel fanciullo senza riferimento ad ideali
preesistenti. Rifiuta l'intervento autoritario, promuove la spontaneità e
preserva dalle in- fluenze esterne. Tale concezione può anche essere definita
innatistica. 2. L'eteroeducazione vuole adattare il soggetto umano alle
strutture con- crete sociali, economiche, morali, religiose, ecc. Il processo
educativo raggiunge il suo scopo se l'educando saprà adattarsi all'ordine
stabilito, considerato come un assoluto {concezione estrinsecistica). 3. Alla
concezione innatistica e a quella estrinsecistica si può opportuna- mente
opporre quella integrale, per cui il processo educativo fonde le esigenze della
libertà e dell'originalità della persona con l’ineliminabile presenza del
condizionamento ambientale. L'autoeducazione, pertanto, favorisce una matu-
razione integrale e consapevole attraverso l'impegno personale, mentre l’etero-
educazione forma nell’educando il senso del limite e gli dà la misura di ciò
che significa vivere con gli altri. VI. L'ATTIVISMO PEDAGOGICO 1. La pedagogia
contemporanea ha compiuto un rovesciamento radicale, risolvendo il conoscere
nell’agire, la verità nel fatto. 2. Il valore dell’attivismo pedagogico, la
teoria dell'educazione che ha tro- vato maggiore risonanza nel nostro secolo,
sta nel fatto che, puntando sul. l'autoeducazione, stimola la partecipazione
attiva dell'educando nell'esperienza scolastica. L'educatore fornisce
all'’educando occasioni di esperienza al suo de- siderio di conoscenza e
orienta le sue attitudini ed i suoi interessi, individuati
scientificamente. 3. Azione, spontaneità
e vita sono le idee dominanti dell’attivismo pedago- gico. L'espressione
scuola-vita indica, inoltre, la convinzione che la scuola deve adeguarsi e
strutturarsi secondo le forme reali della vita. 4. L’attivismo pedagogico si
fonda: a) su una antropologia ottimistica che ignora in realtà la debolezza
della natura umana; b) su una visione essenzial- ‘mente materialistica ed atea,
QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Che cosa si intende per pedagogia?
Qual è il significato etimologico di questo termine? 2. Perché l'educazione è
un fenomeno tipicamente umano? 3. Quando la pedagogia si è costituita come
scienza autonoma? Prima, în quale disciplina era incorporata? 4. Che rapporti
intercorrono tra pedagogia e filosofia? 5. Quali sono gli aspetti fondamentali
dell'educazione? 6. Che cosa si intende per autoeducazione e per
eteroeducazione? 7. Che cosa si esige per una educazione integrale? 142 8. Che
cos'è l’attivismo pedagogico? Quali sono i pregi e i limiti di questo metodo
educativo? 9. Quali contraddizioni pedagogiche e strutturali ostacolano
nell’ordina- mento scolastico attuale una educazione integrale della persona?
10. Quali implicazioni si possono individuare tra pedagogia e formazione della
coscienza democratica? 11. Nel nostro tempo quali sono le esigenze emergenti
per una individua- zione di opportuni obiettivi educativi in vista di un
progetto-uomo aperto al secondo millennio? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA.Vv.,
Questioni di storia della pedagogia, La Scuola, Brescia 1963. ABBAGNANO
N.-VISALBERGHI A., Linee di storia della pedagogia, Paravia, To- rino 1959, 3
voll. AGAZZI A., Problemi dell'educazione e della pedagogia, Vita e Pensiero,
Mi- lano 1979. BARONI A., Pedagogia moderna, Studium, Roma 1960. BERTOLINI P.,
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dell'educazione occidentale, Armando, Roma 1960. CaRBONI-ZEPPA-MONDIN,
Pedagogia, storia e problemi, 3 voll., Massimo, Mi- lano 1975. CasoTTI M.,
Scuola attiva, La Scuola, Brescia 1962. DE BARTOLOMEIS F., Pedagogia come
scienza, La Nuova Italia, Firenze 1976. DEWEy J., Il mio credo pedagogico, La
Nuova Italia, Firenze 1950. FLorES D'ARCAIS G., Discorso educativo e discorso
pedagogico, 2 voll., Li- viana, Padova. FoERSTER F.W., I compiti essenziali
dell'educazione, Herder, Roma 1961. GIUGNI G., Significato e dimensione
dell'educazione nella società contem- poranea, SEI, Torino 1974. MARITAIN J.,
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pedagogia, Armando, Roma 1970. PERETTI M., Cultura, pedagogia, educazione
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correnti, Esperienze, Fossano 1971. STEFANINI L., Personalismo educativo,
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Maritain, Vita e Pensiero, Milano 1985. VoLPICELLI L., L'educazione
contemporanea, 2 voll, Armando, Roma 1964. 143 Socialità e politicità dell’uomo
Preminenza del problema politico e sociale nel nostro tempo Origine, fondamento
e fine dello Stato Capitolo undicesimo IL PROBLEMA POLITICO E SOCIALE
QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. L'uomo ha bisogno degli altri per vivere o è
autosufficiente? 2. Qual è lo scopo del vivere associato? 3. Da che cosa nasce
la realtà sociale e politica dell'uomo? Come deve es- sere regolato il rapporto
uomo-libertà-bene-utile-società-Stato? 4. Che rapporto c'è tra politica e
morale. È possibile considerarle separate? 1. I termini del problema L'uomo è
un essere vivente atto a una vita sociale e politica, come aveva già osservato
Aristotele nella sua Politica. Nelle condi- zioni delle età precedenti, queste
caratteristiche hanno trovato un'’at- tuazione ristretta; allora era perfino
possibile condurre una vita ri- tirata, eremitica, lontano dalle vicende del
mondo e considerarsi una monade « senza porte e senza finestre », secondo la
nota espressione di Leibniz. Oggi tutto questo è impensabile, oltreché
impossibile. Il più piccolo atto umano e qualsiasi realtà per quanto minuscola
sono coinvolti in un regime sociale e politico che li dirige e li compenetra da
ogni parte. Così, nel nostro tempo i problemi politici e sociali hanno acqui-
stato importanza capitale. 'Nel presente capitolo tratteremo anzitutto del «
problema po- litico », che è quello di cui i filosofi si sono occupati da
sempre. Poi nella seconda parte studieremo quello che è stato chiamato « pro-
blema sociale », un problema che i filosofi hanno cominciato ad af- frontare
sistematicamente soltanto nel secolo XVIII al sorgere del- la questione sociale
derivante dalla rivoluzione industriale determi- nata dall'introduzione della
macchina nell’attività produttiva. Il problema politico è il problema relativo
all'origine e al fon- damento dello Stato (polis), alla sua organizzazione, la
sua forma migliore, la sua funzione e il suo fine specifico, alla natura della
azio- ne politica e ai suoi rapporti con l'azione morale, ai rapporti tra Stato
e individui, tra Stato e Chiesa, tra Stato e partiti. Questo problema così
vasto e complesso, è stato studiato nei suoi aspetti diversi quando le istanze
storiche l'hanno richiesto. Così per esempio la questione dell'origine dello
Stato, della sua struttu- razione e della sua forma migliore è stato dibattuto
quando guerre 144 o rivoluzioni hanno messo in questione o posto termine ad uno
Stato oppure ad una forma di governo per sostituirli con altri. Ciò è avve-
nuto, in Grecia, nel secolo V in conseguenza delle guerre con i Per- siani,
delle guerre tra Atene, Sparta e Tebe e delle guerre civili all’interno di
queste tre città-stato. Furono tali congiunture storiche ad indurre i Sofisti,
Platone e Aristotele ad esaminare il problema del- l'origine dello Stato, della
sua funzione e della sua forma ideale. Al- trettanto accadde nel secolo XVII,
al tempo delle guerre religiose, della guerra dei Trent'anni, delle rivoluzioni
e delle guerre civili del- l'Inghilterra e della Francia. Questi eventi
determinarono le spe- culazioni politiche di Hobbes, Bacone, Locke, Campanella,
Hume, Rousseau. In tempi recenti hanno trattato del problema dello Stato Hegel,
Marx, Engels, Lenin, Gramsci e la Scuola di Francoforte, determinando larghe
correnti di pensiero e attuazioni ispirate alle loro ideologie; va inoltre
ricordato il contributo particolare ad una soluzione cristiana di tali problematiche
dato da Jacques Maritain e da Luigi Sturzo. î Trattando il problema politico
nei suoi vari aspetti non si può dimenticare quello dei rapporti tra Stato e
Chiesa che ha acquistato rilevanza soprattutto nel Medioevo, allorché la Chiesa
assunse una strutturazione sociale da far concorrenza a quella dello Stato. Di
qui le teorie politiche di Innocenzo III, san Tommaso, Bonifacio VIII, Occam,
ecc. Il problema dei rapporti tra politica e morale ha potuto svilup- parsi
soltanto nell'epoca moderna, nel momento in cui le varie forme di sapere e di
operare si sono affermate nella loro autonomia rispetto alla teologia e alla
filosofia. Questo ha consentito prima a Machiavel- li e poi a Hobbes e a tanti
altri di proporre una concezione dell’a- zione politica come qualcosa di
assolutamente distinto da qualsiasi altro tipo di attività. Il problema dei
rapporti tra lo Stato e i partiti, tra lo Stato e i suoi membri è diventato
d'attualità nell'epoca contemporanea, quan- do alle forme monarchiche e
assolutistiche di governo sono suben- trate quelle parlamentari e democratiche,
e ai sistemi capitalisti si sono opposti quelli socialisti e comunisti. 2.
Natura sociale dell’uomo L'uomo — come è stato già detto — è essenzialmente
socievole: da solo non può venire al mondo, non può crescere, non può edu-
carsi; da solo non può neppure soddisfare i suoi bisogni più ele- mentari; né
realizzare le sue aspirazioni più elevate; egli può otte- nere questo solo in
compagnia con altri. Perciò sin dalla sua prima comparsa sulla terra troviamo
sempre l'uomo collocato in gruppi so- ciali, inizialmente assai piccoli (la
famiglia, il clan, la tribù) e poi sempre più vasti (il villaggio, la città, lo
stato). Man mano che il 145 Dagli eventi storici ha origine lo studio del
‘‘problema Stato” Rapporti tra: — Stato e Chiesa — Politica e morale — Stato e
partiti La socialità come condizione originaria Riflesso sociale delle azioni
umane Oggi c’è il primato della dimensione sociale livello culturale
dell'umanità si innalza, anche la dimensione della socievolezza si espande e si
arricchisce. Oggi essa ha raggiunto un orizzonte sconfinato: da nazionale è
diventata, prima, internazionale, poi, intercontinentale e ormai sta assumendo
proporzioni planetarie. I moderni mezzi di comunicazione hanno messo ciascuno
di noi in contatto con ogni vicenda (importante o insignificante) che ac- cade
in qualsiasi parte del mondo. La vita di ciascuno di noi, ora, « può essere
sconvolta da cima a fondo a causa di un avvenimento che capita in una parte del
mondo ove egli non ha mai messo piede e di cui forse si fa un'immagine alquanto
vaga ».' « Il più piccolo atto umano e qualsiasi realtà per quanto minuscola
sono coinvolte in un regime sociale che le dirige e compenetra da ogni parte.
Non posso compiere il più piccolo atto commerciale, pretendere il più modesto
salario, regolare il contratto più elementare senza sentirmi immediatamente
accerchiato da ogni parte — anche sostenuto — dalla solidarietà economica,
sociale, giuridica, che costituisce la base stessa del mio contratto, del mio
lavoro, del mio commercio, indipen- dentemente e al di fuori delle mie
intenzioni. E questo in un interse- carsi che, da un capo all'altro del mondo,
moltiplica senza fine una rete inestricabile ed invincibile: un colpo della
borsa di New York accresce, oggi, senza che io me ne interessi, il mio
capitale, e domani la mia piccola impresa potrebbe crollare sotto la
concorrenza tra- volgente dell'industria giapponese. Lo stesso si deve dire per
qual- siasi altro settore ». Quanto l'intreccio sociale oggi sia vasto e pro-
fondo l’ha mostrato negli anni ‘70 e '80 l'embargo del petrolio nei confronti
dell'occidente attuato dagli Stati arabi nel conflitto arabo- israeliano.
Questo espediente degli arabi è bastato a mettere in crisi l'immenso castello
della civiltà dei consumi, il concetto stesso di progresso e il modello di
sviluppo del mondo occidentale. 'La dimensione sociale durante il nostro secolo
ha assunto tali proporzioni che può venire legittimamente considerata un
fenomeno tipico del nostro tempo. La dimensione privata è praticamente scom-
parsa. A stento possiamo occultare i nostri pensieri e i nostri desi- deri; ma
appena questi si traducono in azione, essi diventano appan- naggio anche degli
altri e grazie alla televisione e alla radio e alla stampa in un batter
d'occhio vengono divulgati nei quattro angoli della terra. L'isolazionismo,
oggi, non è più possibile. « Se dobbiamo in qualche modo sopravvivere, è chiaro
che sopravviveremo solo come membri gli uni degli altri. La linea tra il privato
e il pubblico diventa sempre più confusa. Bene o male, questa in cui viviamo è
l'epoca della pianificazione: dell'assistenza sociale, della compro- prietà e,
sul piano internazionale, delle organizzazioni soprannazio- nali. La capacità
dell'individuo di agire, e persino di pensare, con una certa indipendenza dal
suo ambiente sociale o in contrasto con ! G. MARCEL, L'uomo problematico,
Borla, Torino 1967, p. 143. a MD. CHENU, L’évangile dans le temps, Du Cerf,
Parigi 1964, pp. 89-90; trad. it., Il Vangelo nel tempo, A.V.E., Roma 1968. 146
esso si va costantemente riducendo [...] Ciò significa, tra l’altro, che il
nostro ideale di libertà e di società libera non può essere semplice- mente
definito in termini di in-dipendenza. Per l’uomo contempora- neo la redenzione
coincide con la sua capacità di diventare non già un individuo — la cui
indipendenza sarebbe, in realtà, impotenza di fronte alla gigantesca macchina
dello Stato — bensì una persona che possa trovare (e non perdere) se stessa
nell’interdipendenza del- la comunità. Il contenuto della sua salvezza in seno
alla società consiste, per l’uomo moderno, nello scoprire se stesso come
persona
che deliberatamente decide a favore d'un
rapporto d'interdipen- denza con gli altri; consapevole che la sua natura è
fatta per mettersi in relazione con i simili, egli vuole positivamente questa
interdipen- denza, anziché subirla per effetto delle pressioni della sua epoca.
. L'alternativa al “loro” non è l’“io”, ma il “noi” ».? Nel momento attuale,
mentre da una parte i diritti della persona umana e la sua esigenza di libertà
ottengono riconoscimento uni- versale, dall'altra i sistemi politici, le strutture
economiche e so- ciali, le scoperte della scienza e della tecnica, e l'apparato
statale minacciano di soffocarli inesorabilmente. Questa situazione ripropone
con particolare urgenza il problema tante volte dibattuto anche nelle epoche
precedenti, circa l'origine, la natura e le funzioni dello Stato, e dei
rapporti tra gli individui e la società. 3. L'origine dello Stato Lo Stato è
una realtà empirica la cui esistenza è incontrovertibile, ma è anche una realtà
estremamente mutevole: nasce, si sviluppa, sviluppandosi assume molte forme, e
spesse volte e per ragioni varie si indebolisce e dissolve. Tutto questo fa
dello Stato una realtà problematica. Anzitutto problematica per quanto concerne
la sua origine. Da che cosa nasce lo Stato? Chi ne è l’autore, la causa, il
fondamento? A questo interrogativo sono state date molte risposte, di cui le
principali ci sembrano le seguenti: a) origine naturale dello Stato: sappiamo
che l'uomo è socie- vole e da solo non può soddisfare i suoi bisogni né
realizzare le pro- prie aspirazioni; può ottenere questo soltanto in compagnia
con gli altri. Quindi è la natura stessa che induce l’individuo ad associarsi
con altri individui e ad organizzarsi in comunità, in Stato. I princi- pali
teorici dell'origine naturale dello Stato sono Aristotele, Hegel e Marx.
Secondo Aristotele « è evidente che lo Stato è una creatura della natura e che
l'uomo è per natura un animale politico. Colui che per natura è senza Stato è
superiore oppure inferiore all'uomo, vale a dire o un dio oppure una bestia. Il
motivo per cui nasce lo Stato 3 J.A.T. RoBINSON, /! corpo, Gribaudi, Torino
1967, pp. 20-21. 147 L'esigenza di riscoprire la propria persona: salvezza
dell’uomo contemporaneo Le attuali strutture economico-politiche minacciano i
diritti della persona Stato: realtà empirica e mutevole Origine naturale:
l’uomo è essenzialmente politico Hegel: lo Stato come volontà dello Spirito
assoluto Marx: lo Stato deriva dalla necessità di unirsi per soddisfare i
bisogni dei singoli Origine convenzionale: autonomia originaria e logica della
sopraffazione è quello di rendere possibile la vita e anche una vita felice. E
poiché il traguardo della vita umana è la felicità, la ragion d'essere dello
Sta- to è di facilitare il raggiungimento della felicità ». In Hegel la natura
di Aristotele diviene lo Spirito Assoluto, per- ciò lo Stato ha origine per
volontà dello Spirito Assoluto, di cui è anzi l'attuazione conclusiva. Infatti,
secondo Hegel, lo Spirito Assoluto si esprime e si sviluppa nella storia, la
quale è essenzial- mente storia dell'uomo. Questi come essere socievole si
unisce spon- taneamente con gli altri. In tal modo sorgono le varie
organizzazioni: anzitutto la famiglia poi la società civile ed infine lo Stato.
La fami- glia è l'unione amorosa di almeno due persone. La società civile è una
condizione in cui c'è una mutua dipendenza di tutte le persone da tutte le
altre, essendo esse già una collezione di individui indi- pendenti. Essa poggia
su di un sistema di bisogni. Lo Stato è una isti- tuzione concreta, che unifica
e dà una realtà più alta alla vita etica dei suoi membri individuali. Pertanto
lo Stato è « l’Idea dello Spirito Assoluto nella manifestazione esterna della
volontà umana e della sua libertà ». Anche per Marx come per Aristotele (e
linguaggio idealistico a parte come per Hegel), lo Stato deve la sua origine
alla natura stes- sa delle cose (non a patteggiamenti convenzionali o a
prevaricazioni contro qualche ordine soprannaturale): deve la sua origine alla
na- tura stessa dell’uomo la quale è fatta in modo tale che le è consen- tito
di soddisfare i suoi bisogni più elementari di sopravvivenza soltanto con
l’aiuto, il concorso, l'assistenza di altri uomini. Non si può dire invece
altrettanto delle varie forme concrete che lo Stato assume nella storia. Esse
non sono dovute alla natura ma all’arbitrio umano: alla sua decisione di
distribuire in un modo o in un altro i tre elementi costitutivi fondamentali
della struttura fondamentale dello Stato che è quella economica: il lavoro, il
capitale e gli stru- menti di produzione.‘ b) Origine convenzionale. Questa
teoria dice che all'inizio, al suo primo apparire sulla faccia della terra,
l’uomo, il singolo indi- viduo era pienamente autosufficiente e perciò per
vivere e svilupparsi non aveva bisogno di unirsi agli altri. Senonché la
presenza di tanti altri piccoli centri di potere (quali erano gli altri uomini)
ha inevita- bilmente dato luogo a conflitti, per evitare i quali è stato
necessario trattare con gli altri, mettersi d'accordo con loro, rinunciando a
qualche diritto e assoggettandosi a qualche dovere. Così, sulla base di tale
accordo, è sorto lo Stato. Questa teoria che era già stata avanzata dai Sofisti
fu ripresa e sviluppata da molti filosofi moderni, in particolare da Spinoza,
Hobbes, Locke e Rousseau. Ciascuno di questi autori ha presentato una versione
personale della teoria convenzionalistica o contrattuale; per Spinoza e Hobbes
il contratto sociale ha carattere irreversibile:
* Cfr. B. MoNnDIN, vol. III, pp. 548-550.
148 una volta rinunciato ai propri diritti per costituire lo Stato non si può
più ritirarli e tornare indietro. Invece per Locke e Rousseau il contratto
sociale ha carattere reversibile. c) Origine preternaturale. Questa teoria
considera lo Stato come conseguenza di una caduta dell'uomo da una condizione
originaria di perfezione e di felicità dove non abbisognava di sostegno e di
aiuto da parte degli altri. Già annunciata da Platone, la teoria del- l'origine
preternaturale dello Stato è stata sviluppata in forma orga- nica da due grandi
pensatori cristiani, Agostino e Vico. Agostino afferma l’esistenza di due
grandi associazioni di spiriti: la civitas Dei (città di Dio) e la civitas
terrena (città terrena o Stato). Tutt'e due sono fondate sull'amore. Ma mentre
la città di Dio è fon- data sull'amore di Dio, un amore così altruistico che
non teme d'ar- rivare fino al sacrificio totale di se stesso, della propria
vita, la città terrena è fondata sull'amore di se stessi, un amore talmente
cieco ed egoistico che arriva fino al disprezzo e al rinnegamento di Dio. « Ciò
che anima la società terrena (civitas terrena) è l'amore di se stessi al punto
di disprezzare Dio; ciò che anima la società divina (civitas coelestis) è l'amore
di Dio al punto di disprezzare se stessi. L'una basa il suo orgoglio in se
stessa, l'orgoglio dell'altra è in Dio; una cerca la gloria fra gli uomini,
l’altra ritiene che la conoscenza di Dio sia la gloria più grande »%
L'essenziale nel regno terreno così come in quello spirituale è il debitus
finis, vale a dire lo scopo che deriva dall'intrinseca natura della cosa:
dunque in questo caso la realizzazione di valori puramen- te terreni. Questi
includono, per cominciare, « il corpo e i suoi beni, cioè una buona salute,
sensi acuti, forza fisica e bellezza, parte di essi essenziali per una vita
migliore, e quindi più desiderabili, parte di minor pregio. Poi, la libertà,
nel senso che uno crede di essere libero quando è padrone di se stesso, cioè
nel senso desiderato dagli schiavi. In terzo luogo i genitori, le madri, una
moglie e dei bambini, i vicini, i parenti, gli amici, e, per coloro che
condividono il nostro modo di vedere (quello greco-romano) l'appartenenza ad
uno Stato, nonché gli onori, le ricompense e ciò che è chiamato favore
popolare. Infine il denaro, intendendo con questo termine tutto ciò che posse-
diamo legalmente, o che abbiamo il potere di vendere o di cui possiamo
altrimenti disporre ».” Storicamente l'origine della civitas terrena risale alla
caduta dei primogenitori; ma essa trova la prima espressione emblematica nel-
la Torre di Babele. Come nella Torre di Babele, così nella civitas ter- rena
regna costantemente la confusione, la violenza, la malvagità, la miseria. Ma, a
parere di Agostino, l’espressione più mostruosa la civitas terrena l'ha
raggiunta nell'Impero Romano, esempio supremo 5 B. MONDIN, vol. II, pp. 162-173
(Spinoza); 220-224 (Hobbes); 224-228 (Locke); 320-328 (Rousseau). € S.
AcosTINO, De civitate Dei XIV, c. 28. ? S. AcostINO, De libero arbitrio, I, 15,
32, 149 Origine preternaturale: Agostino e Vico Agostino: regno terreno
(‘civitas terrena’) e regno spirituale (‘‘civitas Dei””) Dal peccato originale
ha origine la '‘civitas terrena” Vico: lo Stato come creazione provvidenziale
di Dio Per Platone e Aristotele: — costituzioni giuste (monarchia,
aristocrazia, repubblica) di brutale conquista e sfruttamento, che si può
definire come « brigantaggio su vasta scala ». Anche per il Vico lo Stato deve
la sua origine al peccato, ossia ad un atto di ribellione dell'uomo nei
confronti dei disegni di Dio. Tuttavia Vico non ha affatto dello Stato
quell’opinione così negativa e pessimistica dataci da Agostino; in effetti
l’autore della Scienza nuova, anziché un'invenzione degli uomini per meglio
soddisfare le loro brame egoistiche, vede nello Stato una creazione provviden-
ziale con cui Dio cerca di trar fuori gli uomini dalle loro miserie. « E
sommamente da ammirare la provvidenza divina la quale, in- tendendo gli uomini
tutt'altro fare, ella portògli in prima a temere la divinità (con il primo
fulmine)... Appresso, con la religione me- desima, li dispose ad unirsi con
certe donne in perpetua compagnia di lor vita: che sono i matrimoni,
riconosciuti fonte di tutte le po- testà; di poi con queste donne si
ritrovavano aver fondato le fa- miglie, che sono il seminario delle
repubbliche. Finalmente, con l'aprirsi degli asili (per dare rifugio a quei
giganti che non si erano piegati alla religione), si truorono aver fondato le
clientele onde fussero apparecchiate le materie tali che poi, per la prima
legge a- graria, nascessero le città sopra due comuni di uomini che le com-
ponessero: una di nobili che vi comandassero; l’altra di plebei che ubbidissero
».* 4. Le forme di governo Lo Stato può assolvere la sua funzione essenziale di
garantire pace, giustizia e benessere per tutti soltanto se dispone di un
governo, e di un governo autorevole e giusto, il quale sappia far rispettare i
diritti e far osservare i doveri da parte di tutti i cittadini. Di go- verni
capaci di realizzare queste funzioni se ne possono ipotizzare molti. Però tutte
le ipotesi possibili si trovano già chiaramente for- mulate in Platone ed
Aristotele, i primi due grandi maestri del pen- siero politico. Movendo dal
principio che scopo dello Stato è facilitare il rag- giungimento del bene
comune, sia Platone che Aristotele dividono le costituzioni possibili (ossia le
forme di governo ipotizzabili) in due categorie: giuste ed ingiuste, e
affermano che si danno tre forme di costituzioni giuste e altrettanto di
ingiuste. Sono costituzioni giu- ste quelle che servono il bene comune e non
solo quello dei gover- nanti. Tali sono: la monarchia, ossia il comando di uno
solo che cura il bene di tutti; l'aristocrazia, ossia il comando dei virtuosi,
dei mi- gliori, che curano il bene di tutti senza attribuirsi alcun privilegio;
la repubblica o politia, ossia il governo popolare che cura il bene di tutta la
città. Sono invece costituzioni ingiuste quelle che servono * G. Vico, Scienza
nuova, ed. Nicolini, p. 629. 150 il bene dei governanti e non il bene comune.
Tali sono: la tirannia ossia il comando di un solo capo che persegue il proprio
interesse; l'oligarchia, ossia il comando dei ricchi che cercano il bene econo-
mico personale; la democrazia, ossia il comando della massa popo- lare che
vuole sopprimere ogni differenza sociale in nome dell’egua- glianza. Queste
sono sostanzialmente anche le ipotesi che hanno avanzato nel Medioevo san
Tommaso, Dante, Marsilio Ficino, Occam, e du- rante l'epoca moderna Spinoza,
Hobbes, Locke, Montesquieu, Rous- seau, Fichte, Marx e molti altri ancora. Si
nota però una diversità di opinione, anzi una vera e propria inversione di
pareri tra i filo- sofi dell'antichità e del Medioevo da una parte, e i
filosofi moderni dall'altra. Mentre i primi ritenevano, normalmente, che la
forma ideale di governo fosse la monarchia assoluta e la forma più imper- fetta
quella democratica, i secondi, in generale, giudicano l’'asso- lutismo
monarchico la forma peggiore e invece ritengono che la for- ma ideale sia o
quella della monarchia parlamentare oppure*quella della repubblica. La
complessità delle strutture attuali della società, la diffusione della cultura
in tutti gli strati sociali, l'esigenza di rendere tutti i membri della società
direttamente partecipi dei benefici del potere, la consapevolezza dei rischi
che corre la libertà individuale allorché il governo viene affidato ad uno
solo, tutti questi motivi ci sembrano dar ragione ai filosofi moderni: essere
cioè la forma repubblicana quella più adatta a tutelare i diritti di tutti e a
procurare il bene comune. 5. Rapporti tra politica e morale a partire
dall'epoca mo- derna Fino agli inizi dell'epoca moderna si pensava che la
politica non disponesse di criteri di giudizio suoi propri e che dovesse
mutuarli dalla morale e dalla religione. Perciò, quando un sovrano doveva pren-
dere una decisione, suo primo compito era consultare la Bibbia e la propria
coscienza. Se queste gli dicevano che una certa azione era moralmente illecita oppure
contraria agli interessi della religione, egli doveva considerarla anche
politicamente riprovevole. Il primo assertore dell'autonomia della sfera
politica rispetto a tutte le altre, in particolare rispetto alle sfere della
morale e della religione, in quanto disporrebbe di principi normativi suoi
propri, è Niccolò Machiavelli. Per la prima volta, la politica viene indaga- ta
dal Machiavelli nella sua cruda realtà, nella sua nudità; per la prima volta
essa viene fissata nella sua logica interna spregiudicata- mente, fuori cioè da
ogni preoccupazione d'ordine morale e teolo- ° Cfr. B. MonDIN, vol. I, pp.
78-97 (Platone); 120-143 (Aristotele). 151 — costituzioni ingiuste (tirannide,
oligarchia, democrazia) Dall’epoca moderna si capovolge il concetto di governo
ideale Garanzie della forma repubblicana Machiavelli: — l'autonomia della
politica dalla morale — la politica come forza positiva e autonoma Kant:
distinzione e interazione tra etica e politica gico; e, come risultato di
questo metodo, per la prima volta essa viene affermata nella sua peculiarità.
Il Machiavelli, attingendo es- senzialmente dalla lezione delle cose, «
proclama che la politica non è né la morale, né la negazione della morale, ma
una forza positiva, impossibile ad eliminare dal mondo, come ogni altra forza
della na- tura, che contribuisce a tener su e far camminare il mondo. In quanto
forza positiva, non riducibile quindi alla negatività del male ma insieme non
identificabile, per l’invincibile resistenza delle cose a tale identificazione,
con la moralità, essa sta per sé, è cioè una forma particolare dell'attività
spirituale. La politica è la forza del mondo dello spirito, della forza “cruda
e verde”, come si dirà più tardi, che, in quanto forza spirituale, non può
essere che forza co- sciente, cioè volontà forte, solida, coerente, indirizzata
risolutamente al fine. L'uomo politico, degno di questo nome, è dotato di
questa forza, di questa volontà, senza la quale non sarà in grado né di fondare
né di mantenere lo Stato: che è lo scopo della sua azione, a conseguire il
quale egli calcola l'utilità di tutti i mezzi nella situazio- ne disponibili,
tenendo fisso lo sguardo alla realtà effettuale, libero da pregiudizi e
scrupoli, persino morali, e invece pronto a sfruttare, ove sia il caso, ossia
ove ciò sia utile e necessario, le altrui preoc- cupazioni, credenze e scrupoli
».! Dopo Machiavelli, i filosofi della politica si dividono in due cor- renti,
una favorevole a Machiavelli e l’altra contraria. Gli antima- chiavellici
(Campanella, Vico) tentano di ricondurre la politica alla dipendenza dalla
morale. Per contro, i machiavellici (Spinoza, Hob- bes e poi Marx e Lenin)
ribadiscono la totale autonomia della politica dalla morale e dalla religione.
La questione dei rapporti tra morale e politica viene per qualche tempo
accantonata dagli illuministi (Rousseau, Montesquieu), i quali preferiscono
concentrare la loro attenzione nella ricerca del governo più conforme ai lumi
della ragione. Ma il problema del rap- porto morale-politica si ripresenta con
forza in Kant. Questi, pur mantenendo una rigorosa distinzione tra le due
sfere, afferma che né la politica può sottrarsi alla giurisdizione universale
dell'etica, né l'etica può prescindere dalla politica, ossia dalla società
civile, che è il mezzo e quasi il luogo ideale della sua espiicazione mondana:
«La condizione formale sotto cui soitanto ia natura può raggiun- gere questo
suo scopo finale (la moralità) è quella costituzione nei rapporti degli uomini
tra loro, che in un tutto che si dichiara società civile, oppone una resistenza
legale alle infrazioni reciproche della libertà, perché solo in tale
costituzione si può effettuare il massimo sviluppo delle disposizioni naturali
» (Kant). Qualsiasi distinzione tra etica e politica viene invece respinta !°
A. ATTIANI, « Politica », in Enciclopedia filosofica, Sansoni, Firenze 1957,
vol. III, col. 1497. 152 da Hegel, perché secondo questo filosofo la fonte
suprema d'ogni moralità è lo Stato. Il pensiero di Marx sui rapporti tra etica
e politica è ambivalen- te. Nella polemica contro l’idealismo e contro il
capitalismo egli riduce l'etica e la politica a semplici sovrastrutture dei
fatti econo- mici, i quali si svolgono e trasformano in diretta dipendenza
rispetto a questi ultimi. Invece nella progettazione della società ideale in
cui tutte le discriminazioni e le differenze di classe saranno tolte, Marx vede
nell’etica uno dei valori fondamentali e nella politica uno strumento
necessario per la sua realizzazione. « Marx crede nella so- vranità della
coscienza morale, che condanna l'ingiustizia nel mondo e anela alla
instaurazione della giustizia e della libertà spingendo a maturazione le
condizioni che ne rendano possibile l'avvento. La po- litica, allora, sotto
questo aspetto ha da servire alla instaurazione dell'ordine morale nel mondo e,
questo instaurato, a mantenerlo, di- fenderlo e potenziarlo ».! Ma che cosa è
questo « ordine morale » vagheggiato da Marx? In forza del principio che le
trasformazioni economiche determi- in molte parti del mondo e che ha assunto
una dimen- sione planetaria in base allo sfruttamento dei pochi paesi ricchi
sul resto dell'umanità. Il motivo fondamentale della difficile situazione
politica e so- ! A. ATTIANI, Art. cit., col. 1501. 153 Hegel: lo Stato fonte
suprema della morale Giudizio ambivalente di Marx: lo Stato è regolatore delle
condizioni morali per edificare la dittatura del proletariato L’ordine morale
costringe l’individuo ad una unica volontà sociale Per Maritain la realtà
morale deve ispirarsi ai principi morali evangelici Esigenza del recupero della
morale cristiana che ha l’amore al centro della vita talmente assorbito nella
dimensione religiosa ed ha cercato questa riabilitazione nel se- parare l'uomo
da Dio. L'umanesimo che ne è nato e che si è svilup- pato nelle varie formule —
capitalistiche, marxistiche, idealistiche — è un umanesimo antropologico,
finalizzato all'uomo e realizzato dall'uomo attraverso la sua ragione, la sua
coscienza, la sua tecnica, le sue violente reazioni contro le alienazioni
emergenti dalla storia del suo tempo. Si tratta di un umanesimo naturalistico,
che si chiude in un materialismo senza sbocchi. Volendo dimenticare che
nell’uo- mo vi è una componente negativa, l’antropocentrismo naturalistico ha
dovuto subire tutto il male che è nell'uomo senza poterlo spie- gare o
spiegandolo erroneamente come imputabile a un « sistema » storicamente
dominante, o all'’imperfezione del grado di progresso conseguito, o a oscure
ragioni psicologiche del profondo. In particolar modo, sotto la spinta dell’interpretazione
marxi- stica della storia, lo sforzo di liberazione dell'uomo si è incentrato
nella lotta contro un sistema economico fondato sulla fecondità del denaro. Ma
in questa azione di liberazione della classe operaia si è assunto come valore
la forza dell'odio e la violenza, mentre la prospettiva da realizzare è posta
in un materialismo che vuole solo procurare le maggiori quantità di beni
materiali, ricopiando in tal modo lo schema della società neocapitalistica, che
operando sui fat- tori tecnica, produzione e pubblicità ha prodotto la società
consumi- stica. « Le realtà della vita sociale, economica e politica sono state
ab- bandonate alla legge della carne, sono state sottratte alle esigenze del
Vangelo. Ne è risultato che è sempre più difficile viverle. Contem-
poraneamente, la morale cristiana, non essendo più praticata nella vita sociale
dei popoli, s'è isterilita — non già in se stessa o nella Chiesa — ma nel
mondo, nel comportamento pratico della civiltà, in un universo di formule e di
parole ».! « Per vincere questa fatalità occorre il risveglio della libertà e
del- le forze creatrici. E l'uomo ne diviene capace non in virtù dello 1 J.
MARITAIN, Che cosa è l'uomo: discorso per la città fraterna, in « Vita e
Pensiero », 1973 (LV), n. 1, p. XXV. 154 Stato o di una pedagogia di partito,
ma nell'amore che pone il centro della vita infinitamente al di sopra del mondo
e della storia tem- porale ».! 6. Rapporti tra Stato e Chiesa Lo « Stato » è
per definizione una società perfetta con un fine ul- timo suo proprio (il bene
comune degli uomini in questo mondo) e con mezzi adeguati per raggiungerlo. Ma
anche la « Chiesa » si con- sidera una società perfetta, avente un suo fine
ultimo da raggiungere (la salvezza eterna dell'uomo) e mezzi appropriati da
utilizzare per conseguirlo. a dei due poteri: quello dello Stato e dei regni
terreni e quello di Dio e della Chiesa, corpo mistico di Cristo: questi due
poteri sono essenzialmente di natura diversa come diversi sono i loro fini: il
primo si occupa della felicità terrena dell’uomo, il se- condo ha per fine la
sua felicità eterna; secondo, anche il potere della società politica viene
dall'alto: Omnis auctoritas a Deo. Con questa affermazione si vuol intendere
che il potere terreno trova la sua giu- ” Ibidem. 155 Stato e Chiesa: due
società perfette in teoria completamente separate Conflitto e interazione dal
Medioevo ai giorni nostri tra Stato e Chiesa Le diverse soluzioni: —
subordinazione indiretta delio Stato alla Chiesa (san Tommaso) — subordinazione
diretta dello Stato alla Chiesa (Bonifacio VIII) — subordinazione diretta della
Chiesa allo Stato (Marsilio da Padova) Età moderna: tendenza alla separazione
Maritain: uomini liberi sotto la provvidenza di Dio stificazione non in sé ma
in Dio, e quindi si afferma un nesso con il potere dato alla Chiesa. Ma Gesù
non volle determinare le applicazioni concrete di questi principi universali.
Questo deve essere il compito di tutti i cristiani inseriti nella propria epoca
storica. olitica dalla morale e dalla religione le teorie di Bo- nifacio VIII,
Marsilio e Tommaso cadono in disuso e si dà sempre maggior credito alla teoria
della netta separazione tra Stato e Chiesa. Ma anche questa ipotesi, in pratica
non è scevra di difficoltà, per la ragione che abbiamo ricordato più sopra:
cioè che gli stessi indi- vidui fanno parte sia dello Stato che della Chiesa.
Ora può accadere (e in effetti accade di sovente) che le decisioni dello Stato
siano in contrasto con quelle delle varie Chiese. Così quella separazione che
si era ipotizzata teoricamente, nella realtà quotidiana non è ‘facil- mente
realizzabile. Su questo contrastato problema ha fatto delle acute considera-
zioni Maritain, il quale analizzando la costituzione americana, os- serva che
il suo spirito si oppone all'idea di una società umana che si tenga lontana da
Dio e da ogni fede religiosa. In realtà la distin- zione tra Stato e Chiesa che
la costituzione americana afferma è in funzione di una reale cooperazione,
escludendo ogni privilegio nel- l'una e nell’altra parte. Si tratta di far
vivere uomini liberi sotto la 156 provvidenza di Dio (under God). In questa
linea lo Stato ha tutto da guadagnare riconoscendo alla Chiesa una influenza
immateriale sulle anime attraverso l'insegnamento del Vangelo. Ma alla base del
contrasto moderno che vuole l'opposizione to- tale tra Chiesa e Stato, sta il
malinteso di chi non intende considerare la Chiesa se non in termini umani, non
riconoscendole altro valore
che di istituzione umana, nata nella
storia, come fatto umano che può come tutti i fatti umani esser modificata o
distrutta. Chi consi- dera la Chiesa come fatto umano — prosegue Maritain —
tende a riversare tutte le colpe, che gli uomini in essa viventi manifestano,
alla Chiesa stessa. Bisognerebbe riconoscere che anche se il cristia- nesimo
fosse tradito dai cristiani (ma in realtà vi sono sempre uo- mini che
realizzano pienamente il cristianesimo in ogni epoca) ciò non infirmerebbe gli
ideali e la realtà che la Chiesa porta nel mondo. Allo stesso modo che sul
piano delle civiltà umane, queste non si giu- dicano dal comportamento
dissennato di parte dei membri di esse.!* 7. Rapporti tra fede e politica Il
problema del rapporto politica-religione oggi non si configura più solo come
studio dei rapporti tra Stato e Chiesa, intesi come due associazioni autonome e
complete in se stesse. Ogni Chiesa oggi è vista come una comunità spirituale
che tiene uniti i suoi membri con il solo vincolo dell'amore, senza strutture
temporali che possono farla apparire come uno !Stato in concorrenza con gli
altri Stati. Ma non per questo si può estromettere la Chiesa o le Chiese dalle
vicende di questo mondo e confinarle in un mondo impalpabile delle anime. Molti
teologi in questi ultimi anni hanno sottolineato l’impor- tanza della
dimensione politica del messaggio cristiano e, di conse- guenza, dell'impegno
politico di ogni cristiano sia singolarmente che collettivamente. Si rileva,
anzitutto, che destinatario della Pa- rola di Dio e della sua opera di salvezza
è l'uomo. Ora, questi non è una monade, un angelo, un monaco, ma un essere
essenzialmente socievole. Egli non si realizza nella clausura della sua anima,
con- templando la verità, ma nella apertura intersoggettiva, nel rapporto
recettivo e comunicativo con gli altri, inserendosi in una società e
avvalendosi delle sue molteplici strutture. Questo aspetto politico dell'essere
umano è al centro della rivelazione nella Bibbia (Antico Testamento), la quale
sì occupa costantemente delle strutture so- ciali e politiche del ponolo
ebraico, l’eletto dal Signore, sottraendolo * Cfr. J. MARITAIX, L'uomo e io
Stato, Vita e Pensiero, Milano 1971, pp. 224- 227, passim. 157 Il contrasto
moderno Il rapporto fede- politica oggi La dimensione politica del messaggio
cristiano al dominio dei suoi nemici (v. Esodo), determinando la sua organizza-
zione in tribù, assegnandogli determinate forme di governo, ecc. Reazione del
potere Nel Nuovo Testamento l'attenzione alla dimensione politica è politico
meno esplicita, ma si trova sempre presente. Pur non intraprendendo
all'insegnamento di iniziative politiche, Gesù è coinvolto nella politica. La
sua condotta
Gesù e il suo insegnamento provocano la
violenta reazione dei poteri po- litici costituiti. Egli diviene la loro
vittima. Ma il « potenziale sov- versivo » della sua dottrina e della sua
grazia non sarà soffocato. Esso opererà profondamente sui rapporti umani, sulle
strutture sociali e a poco a poco li trasformerà radicalmente. Esiste quindi un
impatto inevitabile della fede sulla politica. E Fede e liberazione —se questo
può essere vero di qualsiasi fede, lo è in modo singolare totale della fede
cristiana, che è fede nella liberazione dell'uomo: a ciò contribuisce il
cristiano con la testimonianza della sua fede, la quale, di conseguenza, non è
passiva accettazione né estatica contempla- zione della parola di Dio, ma è
fattiva attuazione delle promesse divine in ordine alla piena realizzazione del
regno di Dio che Gesù ha annunziato. 8. Lettura politica del messaggio
evangelico Queste importanti ragioni (la natura dell'uomo e il processo sto-
rico della rivelazione di Dio) autorizzano una lettura « politica » del
messaggio evangelico. Questo, tuttavia, non può essere letto esclu- sivamente
in chiave politica, come pretendono alcuni oggi. Quello politico, infatti, è
soltanto un aspetto del messaggio cri- Una lettura politica —stiano. Questo ha
di mira anzitutto la singola persona (e poi la so- del messaggio cietà) e in
ogni persona considera in primo luogo la dimensione evangelico interiore: la
conversione dello spirito, la trasformazione del cuore. I profeti dell'Antico
Testamento e Gesù Cristo vogliono instaurare un nuovo tipo di rapporti, basato
essenzialmente sull'amore, tra l'uomo e Dio e tra i singoli uomini. Ma non
intendono realizzare tale obiettivo con la forza, con la violenza, con le armi,
bensì con la tra- sformazione interiore delle anime, sollecitandole alla
conversione con la testimonianza delle opere, con l'insegnamento della verità,
con la pazienza, la carità e il sacrificio di se stessi. Il comandamento
[L'amore per Dio e per il prossimo è il vero comandamento « po- dell'amore è il
litico » di Gesù. Però non un amore romantico ma un amore critico, comandamento
non inteso solo come aiuto caritativo al prossimo, ma come dedizione politico
di Gesù. piena alla giustizia, alla libertà e alla pace. Questo comporta una
cri- tica decisa contro ogni forma di potere puro e un impegno concreto: per
trasformare ogni situazione politica oppressiva degli uomini. Impegno del Di
fronte ai grandi temi politici, concretamente, il cristiano sa che cristiano
per il bene la vita politica tende ad un bene comune che è superiore alla sem-
comune e la plice somma dei beni individuali, un bene che deve riversarsi sulle
promozione Umana —rersone umane cioè un bene che riguardi innanzi tutto il
migliora-
158 mento della vita umana, non già sul
solo piano degli squilibri eco- nomici, ma anche su quello dei valori
spirituali, permettendo a cia- scuno di vivere sulla terra come uomo libero e
di godere i frutti della intelligenza umana. Per il cristiano la libertà è una
realtà di cui deve rendersi degno; l'uguaglianza con gli altri uomini si
instaura soltanto in un clima di rispetto reciproco e di fraternità, e non già
in una lotta per l’afferma- zione di una sola classe sulle altre; la giustizia
è la forza di conserva- zione della comunità politica e la condizione
indispensabile per per- mettere all’« amicizia civica » di prendere forma «
conducendo gli ineguali all'uguaglianza ». Si potrebbe obiettare che il
cristiano, secondo questa visione ideale, appare tutto proteso in una visione
verticale, tutto rivolto all’affermazione di principi spirituali e morali, che
lo disincarnano dal mondo attuale. È la nota accusa dell’alienazione del
cristiano dalle responsabilità del mondo presente. In realtà nella natura uma-
na è presente anche un movimento orizzontale, anch'esso determi- nante per la
piena e totale realizzazione dell’uomo in se stesso. Tale movimento orizzontale
riguarda l'evoluzione dell'umanità e rivela progressivamente la sostanza delle
forze creatrici dell'uomo nella storia. È il movimento orizzontale della
civiltà, che se è orientato ver- so fini temporali autentici, aiuta la tensione
verticale dell'umanità. L'ideale supremo cui deve tendere l’opera politica e
sociale del- l'umanità è l'inaugurazione di una città fraterna, la quale non
com- porta che tutti gli uomini saranno un giorno perfetti sulla terra e si
ameranno fraternamente, bensì la speranza che lo stato esistenziale della vita
umana e le strutture della civiltà si avvicineranno sempre più alla perfezione,
la cui misura è la giustizia e la fraternità. « Questo ideale supremo è anche
quello della democrazia au- tentica, l'ideale di una nuova democrazia che tutti
attendiamo. Essa esige non solo il potenziamento di tutte le strutture tecniche
e una organizzazione socio-politica salda’ e razionale nelle società degli
uomini, ma soprattutto una filosofia eroica della vita e il fermento interiore
vivificante dell’ispirazione evangelica ».” 9. Capitalismo o socialismo? Il
mondo attuale si presenta diviso in due blocchi contrapposti: da un lato i
paesi che gravitano nell'orbita della Russia governati da un regime
politico-economico di tipo socialista; dall'altro i paesi detti «
dell'Occidente », che comprendono l'America del Nord, l’Eu- ropa occidentale, il
Giappone e l'Australia, a regime capitalista sotto la guida reale dell'altra
superpotenza mondiale (gli Stati Uniti d’Ame- rica). Vi sono poi i cosiddetti «
paesi non allineati » (o. del Terzo 4 Ivi, p. XXIX. 159 Libertà, uguaglianza e
giustizia cristiana Visione verticale ed orizzontale del cristiano L'ideale di
una città fraterna I due blocchi politici contrapposti Due sistemi economici,
due scelte di civiltà Horkheimer: la società capitalista è una diretta
conseguenza dell’Illuminismo Individualismo, liberalismo e Stato di diritto
“Mondo) rappresentati dalla maggioranza dei paesi « poveri ». Ma anche questa
distinzione non fa che ribadire la contrapposizione mon- diale dei « due
blocchi ». Si tratta di una contrapposizione non soltanto di due sistemi economico-politici,
ma di due concezioni di vita da cui derivano ri- percussioni profonde umane e
sociali. Entrambi si pongono come « scelte di civiltà » affermando di possedere
la garanzia del futuro individuale e sociale del mondo. Di fronte all’alternativa
per quale dei due sistemi optare, è difficile pronunciare un giudizio sereno e
spassionato. La propagan- da e la lotta politica hanno confuso e oscurato fatti
e dottrine, fino al punto di radicalizzare la convinzione ideologica degli
individui e delle masse che vivono nei due schieramenti contrapposti. Tutta-
via per molti uomini d'oggi, all'interno dell'uno e dell'altro schiera- mento,
si pone un urgente problema di coscienza: per quale dei due sistemi è giusto
schierarsi? Prima di tentare di avanzare una risposta, è necessario richiama-
re i punti essenziali su cui si fondano i due sistemi e le differenzia- zioni
che si sono sviluppate nel loro seno. 9.4 Il capitalismo classico Giova
innanzitutto avere delle idee chiare sulla ‘situazione sto- rica degli ultimi
secoli, in cui si è sviluppata la società attuale. La società, infatti, non è
un prodotto naturale, ma il risultato di un lungo processo storico. Ci sembra
utile a questo proposito ricordare che, muovendo dai suddetti presupposti,
Horkheimer e i suoi col- leghi della Scuola di Francoforte hanno condotto uno
studio accu- rato sulle origini della società capitalista contemporanea,
stabilen- do che essa affonda le sue origini nell’illuminismo e nelle sue
distor- sioni. Con questi studi Horkheimer arriva a concludere che «la
manipolazione, lo sfruttamento e l'oppressione che si registrano nella nostra
società sono la diretta conseguenza della concezione illuministica del sapere e
del ruolo che l’illuminismo ha preteso di assegnare al sapere ».” Il sistema
economico chiamato capitalismo non può essere effet- tivamente compreso nella
sua essenza se non come conseguenza di una concezione dell’uomo detta «
antropocentrica »: l’uomo non ha altro fine all'infuori di se stesso. Egli è
destinato a promuovere il proprio sviluppo nella storia, sotto la guida della
ragione, nella to- tale espansione della propria libertà. In questa concezione
dell’uomo si esalta l'individuo nei confronti della società (individualismo) e
si proclama la sua libertà incondizionata (liberalismo). Lo Stato, e-
spressione delle libertà individuali, si regge sulla democrazia rap- * B.
MONDIN, vol. III, pp. 540-541. " Ivi, p. 541. 160 presentativa e sulle
garanzie della Legge (stato di diritto). Sul piano economico la libertà
dell'individuo (o dei gruppi) si estende quanto si estendono le sue possibilità
economiche. All'iniziativa privata del capitale non vengono posti limiti né di
natura legale né di ordine sociale. L'uomo, spinto dal suo esclusivo egoismo,
mette in atto una sfrenata « lotta per il successo », e basandosi
esclusivamente sulle leggi inevitabili della economia-libera concorrenza,
concentrazione dei mezzi di produzione e dei capitali nelle mani di uno o di
pochi (trusts, oligopòli, multinazionali, ecc.) esercita una forza di pressione
su governi, partiti politici, opinione pubblica, allo scopo di assicu- rarsi
copertura ideologica sugli intrighi utilitaristici. È questo il capitalismo
classico !# che ha avuto il suo massimo svi- luppo nel secolo scorso e nei
primi anni del nostro secolo; esso si fonda sul principio secondo il quale
l’attività economica nasce nel li- bero gioco tra capitale e lavoro; due forze
nel cui equilibrio non devono interferire né lo Stato né la morale, perché il
solo rapporto economico è sufliciente a bilanciarne gli eccessi. In realtà il
capitale, con l'enorme concentrazione di potere in suo dominio, riusciva ad
arrogarsi ogni vantaggio, lasciando alle forze del lavoro (proletariato) appena
di che mantenersi e ripro- dursi. La legge ineluttabile che si diceva
essenziale all'ordine eco- nomico, continuava a mantenere ed accrescere la
ricchezza in mano di pochi, mentre il lavoro, pur derivante dalla produzione di
molti, li condanna allo sfruttamento e a una disumana condizione di vita. La
critica a questo sistema scaturisce dalla sua insanabile ingiu- stizia e dalla
inammissibilità di un sistema che mette le persone umane (i lavoratori) in
balia di una cosa (il capitale). Ma anche sul piano strettamente economico
l'errore su cui si fondava il capitali- smo non tardò a rendersi evidente:
l’uomo non è sensibile esclusiva- mente a stimoli di ordine economico. Le
tensioni sociali che si mani- festarono a partire dalla metà del secolo XIX
nascono dalla presa di coscienza che l'uomo non può essere schiavo delle leggi econo-
miche, ma queste devono servire al suo sviluppo sociale e morale. Questa presa
di coscienza deriva soprattutto dalla nascita di asso- ciazioni di lavoratori
sorte verso la metà del secolo scorso in Inghil- terra per la difesa dei propri
diritti, inizialmente soprattutto di ca- rattere economico, soprattutto dei
cosiddetti sindacati. 9.2 Il neocapitalismo Il crollo del rendimento produttivo
dei lavoratori e la loro cre- scente avversione ai datori di lavoro condussero
il capitalismo a profonde modificazioni. Con Frederick Winslow Taylor
(1856-1915) X Il capitalismo nasce dalla rivoluzione industriale, in forza
della quale la macchina, applicata alla produzione, assorbì gran parte della
mano d'opera nelie fabbriche. Secondo Marx ciò ebbe inizio nel 1735 con
l'introduzione del- la macchina per filare di Wyatt. 161 Capitalismo classico e
sfruttamento del proletariato L’uomo non è schiavo delle leggi economiche Nel
neocapitalismo c’è l'intervento condizionatore dei sindacati dei lavoratori e
dello Stato La crisi del ’29 e il “Nuovo corso” Effetti sociali della
tecnostrutiura che modifica i processi produttivi La ‘‘società dei consumi” e
la manipolazione dei ‘mass-media’ nasce negli Stati Uniti il neocapitalismo che
riconosce al lavoratore «dipendente, sia pure dopo dure e lunghe lotte dei
sindacati operai, e allo Stato un intervento condizionatore dell'attività
economica, non più lasciata ai soli automatismi di mercato. Riconoscendo al
lavoratore il diritto a migliorare le condizioni di lavoro, il neocapita- lismo
supera il gretto concetto di sfruttamento della mano d'opera. Si elabora una
organizzazione scientifica di pianificazione del lavoro (scientific management)
e al lavoratore vengono riconosciuti il di- ritto a tempi ragionevoli di
lavoro, il diritto a un'istruzione specifica, il diritto alla cooperazione tra
direzione manageriale e lavoratori. Dopo la grande crisi economica del 1929,
con il New Deal di F.D. Roosevelt, il potere politico viene coinvolto sempre
più decisamente nel processo economico e la nuova politica economico-sociale
dello Stato rappresenta uno strumento di redistribuzione dei redditi della
produzione economica a più larghi strati della popolazione, e- sercitando una
forte pressione sugli automatismi economici. Soprattutto dopo la seconda guerra
mondiale, con l'avvento della tecnostruttura, l'automazione introdotta nei
processi produttivi in- serisce nel processo economico gli scienziati e i
tecnici, condizionan- do una volta di più la potenza del capitale e riducendo
il proletariato tradizionale a sempre più esigue minoranze. Ma il
neocapitalismo sa approfittare ancora una volta delle mu- tate condizioni di
produzione con l’estendere su larga scala la pro- duttività di beni di consumo
e favorire in tal modo i consumi di massa. Nasce la « società dei consumi »
(affluent society) il cui ideale è di produrre sempre di più per rendere più
umana la vita dell’indi- viduo, fornendogli un numero sempre crescente di beni
di consumo. La critica a questo sistema emerge dal fatto che l'uomo viene stritolato
nel rapporto produttività-consumi, rapporto che si confi- gura come una nuova e
più sofisticata forma di sfruttamento di massa:. l’uomo della civiltà dei
consumi vive costretto a produrre ciò che dovrà consumare. Di qui uno stato di
insoddisfazione sempre crescente, cui s'aggiunge l'alienazione derivante dalla
mercificazione della cultura e dallo svuotamento delle menti prodotto dai mass
media. H. Marcuse ha tratteggiato amaramente l’uomo « unidimen- sionale »
emergente dalla nuova società creata tanto dal consumismo dell'Occidente,
quanto dall'industrialismo sovietico: « Una confor- tevole, democratica
non-libertà prevale nella società industriale a- vanzata ».!? 9.3 Il labourismo
e la socialdemocrazia Nel 1883 sorge a Londra la « Società Fabiana » (Fabian
Society) che si pone come fine la elevazione della classe lavoratrice, in modo
che essa possa arrivare ad assumere il controllo dei mezzi di produ- # H.
MARCUSE, L'uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967, p. 21. 162 zione.
Questo fine doveva essere raggiunto in modo graduale, « tem- poreggiando ». Da
qui il nome di questa società, derivante dal con- sole romano Fabio Massimo,
detto il « temporeggiatore ». Dopo qual- che anno (nel 1900) dalla Società
Fabiana e dalle Trade Unions (i sindacati operai, sorti agli inizi del secolo
XIX come associazione di mutuo soccorso tra gli operai dell'industria
metallurgica inglese) fu fondato il partito labourista inglese (Labour Party =
partito del la- voro) che assume il programma del socialismo (per cui il controllo
dei mezzi di produzione deve passare ai lavoratori) senza fare però un dogma
dei suoi principi filosofici tratti dal marxismo. Esso diven- ne nel giro di
alcuni decenni uno dei due partiti fondamentali della Gran Bretagna, andando al
potere diverse volte a partire dal 1924. I mezzi di lotta adottati per
raggiungere le mete prefissate sono stati: una imponente azione di propaganda
tra le masse popolari per farle crescere culturalmente e renderle coscienti dei
propri diritti di esseri umani sullo stesso piano di tutte le altre classi
sociali; gli scioperi, attraverso il sindacato, anche a livello nazionale e di
sostegno tra le varie categorie di lavoratori, per ottenere dallo Stato una
legislazione sia di assistenza sociale (dalla culla alla tomba) onde migliorare
le condizioni di vita, sia per sancire il passaggio allo stato o un suo di-
ritto di controllo delle aziende di interesse nazionale (comunicazioni,
miniere, energia, banche, ecc.), e per ottenere dal padronato adeguati
miglioramenti salariali ed una partecipazione, sia pure indiretta, alla
gestione dell'azienda. Come in Inghilterra, così anche in altri paesi
dell'Europa occiden- tale come Germania, Olanda, Danimarca e in Scandinavia i
partiti socialisti, sorti nei primi decenni del XX secolo, non fecero la scelta
rivoluzionaria, ma presero la strada del riformismo e della gradualità per la
trasformazione della società capitalista. :IIl nome di partiti «
socialdemocratici », che essi assunsero, era una indicazione della loro scelta
democratica, cioè del pieno rispetto della volontà dei cittadini. Alcuni di
essi, che erano sorti basandosi sul marxismo, specie dopo il secondo
dopoguerra, fecero una esplicita rinuncia al materialismo storico e dialettico
di Marx, accettando nella pratica il sistema neocapitalista con cui convivere
tranquillamente. Il partito socialdemocratico della Germania occidentale e
quelli scandinavi sono gli esempi più significativi di questo socialismo in
perfetta simbiosi con il capitalismo; anche i partiti socialisti france- se,
italiano e spagnolo, pur restando in teoria marxisti, nella pratica sono da
tempo dei partiti socialdemocratici che hanno accettato le tesi del
neocapitalismo per il quale lo sviluppo massimo della pro- duzione con
l'utilizzazione della tecnica moderna, permette la cre- scita di tutta la
società e l'aumento dei consumi per ogni categoria sociale (v. il paragrafo sul
neocapitalismo). 163 Dal fabianesimo alle ‘Trade Unions”’ inglesi e al
labourismo Il socialismo riformista dell'Europa occidentale: la socialdemocrazia
Marx: abolizione dello sfruttamento e comunismo Lotta di classe e
collettivizzazione dei mezzi di
produzione Il ‘Manifesto del partito comunista’’ e la coscienza di classe
L'Internazionalismo socialista I partiti dei lavoratori italiani 9.4 Il
socialismo marxista Karl Marx (1818-1883), fondatore del socialismo scientifico,
si propone di fondare una società in cui sia abolito lo sfruttamento dell'uomo
e a tutti venga assicurato il soddisfacimento dei loro bisogni materiali e
spirituali (comunismo). Marx vede nel possesso privato dei mezzi di produzione
il prin- cipio di ogni male, non solo economico, ma anche individuale e
sociale. Da questa privatizzazione nasce il rapporto salariale per cui
l'operaio vende il proprio lavoro per un salario sul quale l’im- prenditore
lucra ingiustamente il « plusvalore », cioè il profitto. La lotta di classe,
cioè la lotta per la conquista della proprietà collettiva dei mezzi di
produzione da parte del proletariato sfruttato dai ca- pitalisti, è, secondo
Marx, un fatto ineluttabile della storia che deve condurre all'eliminazione
della classe padronale. Tolta di mezzo quest'ultima, nascerà un nuovo tipo di
umanità, senza più classi né egoismi: uomini che vivranno in una società di
uomini « comuni », solleciti al bene degli altri quanto e forse più che non al
bene proprio. Nel 1848 Marx lanciò un appello a tutti gli operai, con il «
mani- festo del partito comunista » firmato anche da Engels, in cui il pro-
letariato veniva sollecitato a prender coscienza della propria con- dizione e
della propria individualità, per diventare una forza sociale contro lo
sfruttamento. Con la fondazione della I* Internazionale dei Lavoratori (Londra,
29-8-1864) le varie correnti socialiste sviluppatesi prima e durante la
diffusione del marxismo si associarono, non senza contrasti pro- fondi. In
Inghilterra prevalse il sindacalismo delle « trade unions » riformista e
antirivoluzionario; in Germania il socialismo democra- tico mirava alla
trasformazione dello Stato, mentre in Francia an- ziché alla conquista del
potere il movimento operaio tendeva a or- ganizzarsi e a liberarsi dallo
sfruttamento senza ricorrere alla rivo- luzione. Ma vi furono anche movimenti
dichiaratamente anarchici, terroristici e rivoluzionari ispirati da Bakunin,
fiero oppositore di Marx. In Italia, con la fusione dei movimenti operai
preesistenti, nacque a Genova nel 1892 il Partito dei Lavoratori Italiani
(l'anno seguente prese il nome di Partito Socialista Italiano), in cui ben
presto si ma- nifestò la divisione tra socialisti riformisti e socialisti
radicali, rivo- luzionari, i quali sotto la spinta della rivoluzione bolscevica
del 1917 in Russia finirono per separarsi e fondare a Livorno nel 1921 un nuovo
partito denominato « Partito Comunista d’Italia », cam-° biando poi il nome
nell'attuale Partito Comunista Italiano. 9.5 Il marxismo-leninismo-stalinismo
Con la rivoluzione d'ottobre 1917, in Russia, ad opera di Lenin si ebbe la
creazione di uno Stato collettivista, senza distinzioni di 164 classe. Lenin
stabilì tutto il potere al vertice, non già nella classe — come avrebbe voluto
Marx — ma nel partito. Stalin giungerà ancor più avanti: alla dittatura
personale del capo unico. Il paese fu spinto con la forza alla
collettivizzazione della terra, all'industrializzazione a tappe forzate, alla
compressione continua e spietata dei consumi. Le libertà individuali o di
gruppo furono abolite e con Stalin venne accentuato il regime poliziesco
repressivo con continue « purghe » e con l'invio di milioni di persone nei
famigerati campi di lavoro in Siberia. Questo terrorismo dispotico venne poi
denunziato al XX Congresso del Partito Comunista da Kruscev nel 1956, dopo la
morte del dittatore. Anzi, dopo questa denunzia, venne iniziata la cosid- detta
fase di « destalinizzazione », in cui tutti gli errori e le deficienze del
sistema vennero addebitate al dittatore scomparso. Sul piano dell'economia e
dei diritti umani non cambiò pratica- mente nulla, pur con qualche accenno di
liberalizzazione attuata in qualche settore e solo per brevi momenti. La rigida
organizzazione centralizzata avente come perno il Partito Comunista, fonte di
ogni potere e costituito da un gigantesco apparato burocratico, è rimasta
invariata in questi ultimi 30 anni, in quanto il marxismo-leninismo è rimasto
la filosofia ufficiale dell'Unione Sovietica. Questo sistema in cui praticamente
domina lo sfruttamento delle masse da parte di una oligarchia costituita
dall’apparato del partito e dalla macchina statale, è stato imposto a tutti i
paesi del blocco dell'Europa orientale, caduto sotto il dominio comunista alla
fine della seconda guerra mondiale. 9.6 L'esperienza del maoismo in Cina Una
esperienza diversa si è attuata in Cina da Mao-Tse-tung, quando, dopo una lunga
lotta rivoluzionaria contro il regime di Chiang-Kai-sheck, riuscì a conquistare
il potere nel 1949, costituen- do la Repubblica Popolare Cinese su basi
marxiste. Mao-Tse-tung — che era stato uno dei fondatori del Partito Comunista
Cinese, sorto nel 1921 a Shangai — divenne il capo cari- smatico del comunismo
cinese e dell'immenso paese asiatico, che ha ora 900 milioni di abitanti. Egli,
dopo la morte di Stalin nel 1953, si proclamò unico difensore e interprete del
marxismo-leninismo, accusando di revisionismo i paesi del blocco sovietico. In
realtà il suo socialcomunismo si è differenziato da quello proclamato da Marx e
Lenin, soprattutto per alcuni punti qualificanti: a) stretta unione tra teoria
e prassi; b) legame completo e continuo con le masse; c) sviluppo
dell’autocritica. In realtà, Mao ha creato un nuovo tipo di comunismo, in cui
le verità universali del marxismo vengono ri- pensate per un popolo contadino,
povero, fortemente socializzato attraverso un incessante indottrinamento — i «
pensieri di Mao » — » B. MONDIN, vol. III, pp. 514-515. 165 La rivoluzione del
’17: dai marxismo- leninismo alla dittatura di Stalin Mao e ii ripensamento del
marxismo per un popolo contadino Caratteri militari e monacali del maoismo: la
rivoluzione culturale Il processo di revisione del maoismo a partire dal 1976
‘‘Marxismi’’ e ‘‘postmarxismo”’: la devianza eterodossa in forza del quale si
tenta di cambiare la natura degli uomini, il loro modo di pensare e di
comportarsi, accentuando una forte tendenza nazionalistica e volontaristica.
Accentuando il valore «teoretico » della prassi, più che Marx ed Engels, Mao è
stato soprattutto un utopista pragmatico e per questo, vedendo diminuire nel
quadro del partito la spinta ideale iniziale, si fece promotore nel 1966 della
cosiddetta « rivoluzione cul- turale » con un appello diretto alle masse,
specialmente ai giovani, per controllare l’attività dei dirigenti di partito
che si erano im- borghesiti e burocratizzati e combattere chi non condivideva
le sue tesi politiche riunite nel « libretto rosso ». Come risultato si ebbe
una ventata di violenze con processi sommari e centinaia di mi- gliaia di vittime
innocenti e l'anarchia in tutto il paese, con lo scardi- namento di tutto
l'apparato produttivo. Solo dopo la morte del dittatore, nel 1976, i nuovi
dirigenti, sotto la guida attenta di Deng Hsiao-ping, eminenza grigia del
regime, hanno iniziato un graduale processo di revisione delle direttive maoi-
ste, rivalutando i dirigenti vittime della « rivoluzione culturale » ed
avviando una politica economica più duttile, aperta alle esperienze dei paesi
capitalisti. Facendo un primo bilancio del maoismo, si può dire che esso, co-
me il bolscevismo russo dei primi decenni, era incentrato sul partito come
motore di tutta l’attività del paese, fondata sulla cieca ubbi- dienza di tutti
i sudditi, trattati solo come strumenti di produzione. Una delle sue debolezze
fondamentali, ereditate dal marxismo, è stata la sua incapacità di affrontare
le realtà insopprimibili della vita e della morte. E questo perché ignorava le
preoccupazioni fondamen- tali di ogni essere umano. 9.7 Crisi del marxismo
ortodosso: i nuovi marxismi Dopo un settantennio di esperienza di comunismo
sovietico e circa quarant'anni di quella, simile nei principi, della Repubblica
Popolare Cinese e delle altre costituzioni « socialiste », si può tentare di
formulare un giudizio di validità e di merito. Il pensiero di Marx che in
questo secolo ottenne una grande dif-
fusione e fu assunto come dottrina di
Stato, indiscutibile come un dogma, sia in Russia che in Cina e nelle altre «
democrazie popo- lari », ebbe da parte di qualche eminente studioso marxista,
spe- cialmente dell'Europa occidentale, delle nuove interpretazioni che .
modificarono alcune delle sue tesi classiche. Tanto che da alcuni decenni non
si parla più di marxismo ma di « marxismi » e di « post- marxismo ».
Naturalmente queste nuove interpretazioni furono su- bito condannate come
eterodosse dagli organismi culturali ufficiali dei governi comunisti.
L'elemento che distingue maggiormente il marxismo non orto- dosso o
revisionistico da quello ortodosso è che per quest’ultimo la 166 dialettica
regola con leggi inderogabili tutti gli eventi della natura e della storia,
mentre per i nuovi marxismi la dialettica non ha leggi e non riguarda affatto
la natura bensì il soggetto singolo nei suoi rapporti con la storia. Anche
nelle società a regime comunista occor- re lottare contro la disumanizzazione e
l'alienazione delle singole personalità. Inoltre mentre per i marxismi
ortodossi la religione è soltanto « oppio del popolo » e perciò da distruggere,
per i nuovi marxismi la religione è considerata come un importante fattore di
superamento e di liberazione dalle presenti situazioni di oppres- sione e di
sofferenza in cui si dibatte l'umanità ed anche di sostegno delle aspirazioni
per un mondo migliore. (I più qualificati rappresen- tanti di queste nuove
correnti di pensiero marxista sono stati An- tonio Gramsci, Max Horkheimer,
Herbert Marcuse ed Ernst Bloch, i quali hanno esercitato un notevole influsso
nei movimenti culturali del nostro tempo). ‘Assolutizzando l'influsso che le
strutture esercitano sull'uomo e sulla società Marx scorge nella base economica
il peccato d’origine che determina l’uomo, la sua coscienza, le sue
alienazioni. Ciò com- porta una visione materialistica dell'uomo, la quale ne
autorizza la strumentalizzazione e la manipolazione, subordinandolo alla
ideolo- gia, né più né meno di quanto avviene ad opera del capitalismo. Anche
per il capitalismo l’uomo conta soltanto in quanto è iavoro, senza alcun
riferimento superiore o trascendente. Non si può quindi credere ingenuamente e
acriticamente che una semplice scelta capitalista o socialista sia in grado di
eliminare, automaticamente, i molteplici mali, ingiustizie, discriminazioni,
op- pressioni che affliggono la società attuale. I mali della società non
derivano tanto dai sistemi, quanto dagli uomini. L'origine dello sfrut- tamento
sociale e dell’oppressione risale alla volontà dell'uomo di ser- virsi
egoisticamente e brutalmente di un altro uomo. Occorre dire poi che queste
critiche di ordine teoretico (filoso- fico o scientifico) non avevano mai fatto
grande impressione a molti altri studiosi, ammiratori di Marx e non avevano
scalfito minima- mente la fede di milioni di comunisti militanti dei vari
partiti comu- nisti dell'Europa occidentale. Per tanti anni, neppure le pesanti
conseguenze di ordine pratico (sociale, economico, politico) che accompagnarono
il marxismo, specie in Russia, erano bastate ad intaccare la convinzione delia
intrinseca bontà di tale sistema. Anche quando gli innumerevoli cri- mini di
Stalin divennero di dominio pubblico, la grande intelligentsia dei paesi
occidentali continuò ad aderire al marxismo, sottovalutan- do o facendo finta
di non vedere gli stermini, le oppressioni, le pur- ghe, i campi di
concentramento che avevano flagellato il popolo rus- so da quando i comunisti
conquistarono il potere. Senonché, a partire dagli anni ’60, sia in Russia che
nei paesi occidentali, cominciò a serpeggiare un senso di sfiducia nella capa-
167 de Marxisma revisionistico: la dialettica e ii soggetto singoio nella
storia; îa religione come fattore di liberazione La subordinazione dell’uom&
all’ideologia Le colpe dell’ ‘‘intelligentsia’’ occidentale filomarxista Le
crisi di fede nel marxismo e l'““arcipelago Gulag” L’interesse del
cristianesimo per il problema economico-sociale cità del marxismo di creare
quella nuova società perfetta, senza di- seguaglianza, senza ingiustizie, senza
divisioni di classe, promessa da Marx. Le ragioni di questa crisi di fede nel
marxismo sono molteplici. Ma quella fondamentale, a mio avviso, è il vuoto
culturale del marxi- smo stesso. Questo sistema, come ha mostrato Karl Popper,
dove ha la pretesa di parlare « scientificamente » non può produrre che ipotesi
falsificabili. Mentre per quelle dure realtà quali il male, il dolore, la
morte, il senso della storia, non ha nessuna parola da dire. Un'altra ragione
che ha messo in crisi la fiducia nel marxismo è stata la pubblicazione di
Arcipelago Gulag di A. Solzenicyn. Per molti lettori di fede marxista questo
libro è stato una rivelazione sensazionale, «decisiva, che li ha scossi
profondamente e da fedeli e zelanti seguaci di Marx li ha trasformati, tutto
d'un tratto, nei suoi critici più severi e nei suoi più violenti avversari. 10.
Le dottrine sociali di ispirazione cristiana Sarebbe oltreché ingiusto,
acritico, pensare che la soluzione alla questione sociale sia venuta soltanto
dai movimenti socialistici del- l'Ottocento e, in modo particolare, dalla
dottrina di Karl Marx. Il cri- stianesimo non si disinteressò mai, nel corso
della sua millenaria storia religiosa e sociale, dell'uomo nei confronti del
problema eco- nomico-sociale e delle ingiustizie conseguenti alle soluzioni
impo- ste dall'egoismo umano. Le soluzioni cristiane possono ridursi a due
tipi, spesso integran- tisi: da un lato una forma prevalentemente (anche se non
esclusiva- mente) assistenziale-caritativa (cristianesimo caritativo) e
dall'altro, una forma che proponeva la revisione delle stesse strutture econo-
mico-sociali (cristianesimo sociale). La prima forma, che è essen- ziale al
cristianesimo stesso, è presente in tutti i secoli dell’era cri- stiana e cerca
di lenire con la fattiva carità le esasperate conseguen- ze della violenza, di
qualsiasi tipo, che l'uomo e la società fa sul- l'uomo..È questo uno dei frutti
più originali del Vangelo che ha a cuore i poveri, gli umili, gli oppressi, i
diseredati. Sono innumerevoli le opere di efficace aiuto realizzate, nei
secoli, dalla Chiesa in questo campo. Né si può dimenticare la precisa condanna
nei confronti del- l'usura, del profitto ingiusto e speculativo,
dell’ingiustizia economica derivata dallo strapotere della ricchezza. Il
cristianesimo sociale si è preoccupato invece di individuare, accanto
all'azione caritativa, anche il problema della giustizia. Di qui le
sollecitazioni, specialmente da parte del magistero della Chiesa cat-, tolica,
a interventi individuali, di categoria, statali per rimuovere le cause
dell’ingiustizia sociale, derivante dalla concentrazione della ricchezza nelle
mani di pochi. Il magistero della Chiesa cattolica ha elaborato, a partire
dalla 168 seconda metà del secolo XIX," una sempre più precisa critica al
prin- cipio di libertà — uno dei miti della società nata dall'Illuminismo —
applicato sul piano della realtà sociale ed economica. Inoltre non si è
abbandonata la tesi della legittimità del principio di proprietà pri- vata, « la
quale è conforme alla natura umana e vantaggiosa per l’or- dine sociale »? ma
ci si è sforzato di condizionarlo con le esigenze sociali, attribuendo allo
Stato il diritto di determinare i limiti nel- l'uso del bene privato in vista
del bene comune. Nella discussione tra legittimità delia proprietà privata e
bene comune, spesso non si di- stingue tra proprietà e uso che se ne fa: nella
mancata distinzio- ne tra proprietà e uso — e quindi, in certo senso, tra
proprietà privata e destinazione universale dei beni — sta la radice sia
dell'in- dividualismo capitalistico che del comunismo. Dal fatto che i beni
sono fatti per tutti, il comunismo deduce la dottrina e la prassi che i beni
devono essere di tutti; dal fatto che i beni devono essere ap- propriati e sono
di fatto appropriati, l’individualismo capitalistico ricava che essi sono fatti
solo per i singoli, i quali, quindi, possono disporne senza curarsi per nulla
degli altri. Entrambe queste solu- zioni commettono lo stesso errore. . In
questa linea di principio, le soluzioni proposte negli ultimi cento anni alla
questione sociale riguardano soprattutto lo Stato,
che deve promuovere l’uso dei beni, pur
posseduti in privato, a effet- tivo vantaggio sociale, a promozione del bene
comune. I sindacati dei lavoratori, per la rivendicazione dei loro diritti
individuali, fami- liari e di categoria, nonché la loro partecipazione alla
ripartizione delle ricchezze prodotte con il proprio lavoro a vantaggio non di
alcuni, ma di tutti, devono egualmente svilupparsi e potenziarsi. 11. Îl
cristiano e la promozione delia coscienza sociale e politica: la mediazione
culturale e l'impegno politico Soprattutto nei tempi più recenti, si è
sviluppata nella coscienza individuale del cristianesimo la consapevolezza che
non si tratta più di vivere interiormente la propria fede, ma di esprimerla
come “ I documenti principali sono: l’enciclica Rerum novarum del pontefice
Leone XIII (1891); l'’enciclica Quadragesimo anno di Pio XI (1931); Radiomes-
saggio per il 50° della Rerum novarum di Pio XII (1941); l’enciclica Mater et
magistra di Giovanni XXIII (1961); l’enciclica Pacem in terris di Giovanni
XAIII (1963); la costituzione Gaudium et spes del Conc. Vaticano II (1965);
l'enciclica Popolorum progressio di Paolo VI (1967); la lettera apostolica
Octogesima adveniens di Paolo VI (1971); il documento su « La giustizia nel
mondo » del III Sinodo dei Vescovi (1971); l’enciclica Laborem exercens di
Giovanni Paolo II (1981) e l’istruzione della Congregazione per la dottrina
della fede Libertà cristiana’ e liberazione (1986). Si suggerisce come testo di
consul- tazione il volume / documenti sociali della Chiesa (da Pio IX a
Giovanni Paolo II, 1864-1982), Massimo, Milano 1983. © PIo XI, Quadragesimo
anno, n. 73. ® G. BATTISTA GUZZETTI, L'uomo e i beni, Marietti, Torino 1956, p.
215. 169 La dottrina sociale della Chiesa dal sec. XIX a oggi H problema della
proprietà privata in rapporto al bene comune Responsabilità dello Stato e
promozione del bene comune Esperienza di fede e testimonianze di impegno di
azione sociale Un nuovo modello di civiltà e l'appello all’immaginazione
sociale Gli insegnamenti del Concilio Vaticano li La ‘‘mediazione culturale”:
congiunzione e sintonia tra fede e coerenza politica impegno di azione sociale,
testimonianza di una autentica volontà di rinnovare il mondo secondo l'ideale
cristiano. Ma accanto a questa preliminare posizione del cristianesimo, anzi
come conseguenza della conversione personale, nasce l'impegno di chi vuol
vivere la sua fede cristiana in una azione politica. Verso questa testimonianza
cristiana nel mondo politico-sociale contemporaneo sono orientati oggi i cristiani
più sensibili e consa- pevoli dell'urgenza dei problemi che il mondo è chiamato
a risol- vere. Il cristiano sa che non si tratta più di affrontare i problemi
sociali emergenti dal conflitto capitale-lavoro, bensì di affrontare l’urgen-
te problema di un nuovo modello di civiltà. « In nessun'altra epoca come nella
nostra l'appello all'immagina- zione sociale è stato così esplicito. Occorre
dedicarvi sforzi di inven- tiva e capitali altrettanto ingenti come quelli
impiegati negli arma- menti e nelle imprese tecnologiche ».* Oggi si incomincia
a vedere con chiarezza che nessuna delle ideo- logie dominanti porta con sé la
proposta di un mondo veramente instaurato sulla democrazia, sulla giustizia e
sulla non violenza. Le ingiustizie del capitalismo sono note ed evidenti. Ma
anche là dove esso è stato debellato secondo la soluzione socialista-marxi- sta
non mancano gravi problemi che si impongono a una coscienza umana sincera e non
prevenuta. Una perenne tensione divide il mondo e pone « due continenti ideologici
» in uno stato di guerra e di inconciliabile opposizione. L'urgenza e la
consapevolezza di questi problemi impegnano de- cisamente i cristiani che nel
corso dell'ultimo ventennio, soprattutto sulla scorta degli insegnamenti del
Concilio Vaticano II, si sono tro- vati a compiere lo sforzo di attuare una
corretta modalità di pre- senza. Il cristiano, infatti, nell'impegno politico
ha dovuto confron- tarsi e guardarsi sia dal rischio di attuare una presenza
politica, in cui la scelta di fede e l'azione politica non siano sintonizzate
da alcun legame di coerenza, arrivando a compiere scelte ideologiche di
formulazione anticristiana, come dall'altro rischio che deriva dalla pretesa di
attingere l'indicazione della teoria e della prassi politica direttamente dalla
dimensione di fede e dal contenuto delle verità ultime. Possiamo dire pertanto
che il cristiano deve operare per « co- struire la città dell'uomo a misura
d'uomo; e questo lo impegna a superare stati d'animo di disinteresse, di
diffidenza, talora di rifiuto della politica fino a forme di gretto
qualunquismo ».® . Sorge così l'esigenza di pervenire all'elaborazione di una «
me- diazione culturale » per operare in sintonia tra scelta di fede e * :PaoLO
VI, Lettera apostolica Octogesima adveniens del 14-5-1971, n. 19. * Questo
concetto è preso dal volume La città dell'uomo di Giuseppe Laz- zati, scomparso
recentemente, splendida figura di uomo politico cristiano, di studioso, che fu
rettore dell’Università Cattolica di Milano. 170 coerenza politica. Le mediazione
culturale si pone, inoltre, come la linea di confine lungo la quale realizzare
il confronto ideologico e stabilire i termini di possibilità del dialogo nel
pluralismo delle culture e degli orientamenti politici. 12. | nuovi problemi
impongono una nuova concezione di società 12.1 La nuova società «
post-industriale » o della comunicazione Come è stato detto nei paragrafi
precedenti, l'immenso progresso negli ultimi decenni della scienza ha permesso
l'applicazione delle tecnologie più avanzate, soprattutto la robotica e
l'informatica, in ogni settore dell'attività produttiva. Per distinguere questa
nuova fase della società industriale si è creato il termine di « società
post-industriale » la quale pur avendo risolto molti problemi che a- vevano pesato
sull’umanità nei secoli scorsi, si è trovata ‘a fronteg- giare altri nuovi
gravi problemi, sorti soprattutto per effetto della nuova civiltà della
comunicazione e dell'immagine che ha svilup- pato una serie di nuovi bisogni,
dando origine alla « società dei con- sumi » e a nuove forme di potere
disumanizzanti della vita indivi- duale, familiare e comunitaria. Nella società
comunista come in quella capitalista sono nati i «nuovi poveri » che si
sostituiscono a quelli creati nel secolo scor- so dalla rivoluzione
industriale: i drogati, i disadattati, i deviati, gli emarginati d'ogni tipo;
cresce la difficoltà del dialogo tra generazio- ni; si moltiplicano le forme di
discriminazione razziale, culturale, religiosa, nonché quella meno apparente ma
altrettanto grave del- l'emarginazione di coloro che sono improduttivi come i
vecchi, i ciechi, gli handicappati. La civiltà dell'immagine, sorta soprattutto
con la televisione, ha sviluppato la violenza ed ha contribuito anche ad una
eccezionale crescita della criminalità organizzata che ha reso insicura la vita
di tutti. Infine, lo sfruttamento irrazionale per i propri fini egoistici delle
risorse terrestri minaccia l’ambiente na- turale e di conseguenza il contesto
umano stesso. Sarebbe semplicistico ridurre tutti questi problemi — ed altri
an- cora dello stesso genere — al semplice conflitto tra capitale e lavoro. È
una società intera che, nonostante abbia iniziato da qualche ge- nerazione la
soluzione dei suoi problemi in termini di « capitale- lavoro », oggi riconosce
amaramente che la società tecnologica, sia essa a servizio del capitalismo o
sia a servizio del proletariato, ha aperto il passo a conflitti umani che
richiedono un superamento ra- dicale della concezione della società e
dell'uomo. L'invocazione che emerge da questi gravissimi conflitti è che si
debba al più presto sorpassare ogni sistema e ideologia attualmente vigenti,
per trovare 171 Nella società post- industriale sorgono nuovi problemi sociali
I nuovi poveri: gli emarginati, i devianti, i disadattati Occorre giungere ad
una nuova concezione della società e dell’uomo Pesante costo sociale delia
odierna societa tecnologica Gsisi dell’era tecnologica perché essa appare
troppo pericolosa Il giudizio di Abbagnano {sa scensiderato delia tecnologia nuove
forme di democrazia, libera e sociale, che sia un autentico con- trappeso alla
invadenza della tecnocrazia.® 12.2 La « crisi epocale » della società nell'era
tecnologica L'era tecnologica e dell'informatica ha determinato, come è stato
detto, nella società trasformazioni di dimensioni tali da creare una « crisi
epocale » della nostra società. Questo progresso, infatti, se da un lato ha
portato immensi van- taggi all'umanità, dall'altro lato ha avuto un pesante
costo, non solo in termini economici, ma soprattutto per quanto riguarda la
difesa della natura, la salute e l'integrità della persona. Di questa « crisi
epocale » segnaliamo qui appresso gli aspetti più rilevanti: a) Crisi
tecnologica - « La crisi della tecnica è esplosa dopo anni di infatuazione per
i risultati spettacolari che la tecnologia moderna è riuscita a conseguire:
treno, auto, aereo, radio, televisione, trat- tore, carro armato, veicoli
spaziali, missili, grattacieli, metropolitane, calcolatori elettronici, polmoni
e reni artificiali. La crisi è scoppiata quando la gente ha cominciato ad
accorgersi che il gioco tecnologico è troppo costoso e troppo pericoloso.
«Davanti al costo enorme di certe armi (missili, bombardieri, sottomarini
atomici, bombe atomiche, ecc.) e soprattutto dei viag- gi spaziali, molta gente
ha cominciato a chiedersi se questo impiego della tecnologia sia lecito,
morale, o se non sia invece più giusto indirizzare la tecnologia ad obiettivi
ben più urgenti come il pro- blema della fame, la cura dei tumori, ecc. ».” «
Oggi come oggi — nota Nicola Abbagnano — il senso di una insicurezza radicale
che investe tutti gli aspetti della vita è assai diffuso e costituisce il
carattere dominante del tempo. I capisaldi sui quali, da qualche secolo in qua,
si fondava la certezza dell'uomo riguardo al suo destino non stanno più in
piedi. Non si crede più al progresso ineluttabile della storia. La scienza e la
tecnica hanno realizzato conquiste enormi e insperate, ma i contraccolpi
negativi di esse, i costi enormi naturali ed umani, sono diventati evidenti ed
appaiono sempre più pesanti ed insostenibili ».* « Oltre che per i suoi costi
altissimi la tecnologia viene messa in crisi dai pericoli e dai danni assai
gravi che essa procura sia alla natura sia all'uomo. « Nel mondo della natura l'uso
sconsiderato della tecnologia ha provocato danni gravissimi forse irreparabili.
[....] ì « Oltre che per i danni che sta provocando nella natura, la tecno-
logia viene messa in crisi per gli effetti perniciosi che ha sull'uomo. * PaoLo
VI, Ivi, par. n. 47. . Î ? B. MONDIN, Una nuova cultura per una nuova società,
Massimo, Milano 1983, p. 169. 5 N. ABBAGNANO, L'uomo progetto 2000, Dino, Roma
1980, pp. 231-232. 172 Essi riguardano anzitutto l'ordine fisico, materiale,
economico. [....] « Un altro effetto negativo della tecnologia è di produrre
disoc- cupazione: essa, appena può, sostituisce l'uomo con la macchina e
annulla moltissimi posti di lavoro. [....] « Ancor più grave è l’avvertimento
che ci viene dalla tecnologia allorché essa viene impiegata per fare
esperimenti sulla struttura genetica dell'uomo. È un'aberrazione gravissima,
mostruosa. [...] Infatti intervenire sulla struttura genetica è far violenza
all'uomo, alla sua libertà, la quale non è solamente quella qualità e quel
diritto a cui noi moderni teniamo maggiormente, ma quella capacità che insieme
all'intelligenza costituisce il vero nucleo essenziale del no- stro essere ».?
b) Crisi morale - Anche sull'ordine morale le ripercussioni nega- tive della
tecnologia sono allarmanti. « Una delle ragioni dello sfacelo morale del nostro
tempo è stato il dimenticare che l'uomo diviene autenticamente uomo soltanto
col- tivando se stesso, plasmando il proprio essere, disciplinando i propri
istinti, tenendo lo sguardo fisso su certi valori fondamentali che for- mano la
morale naturale: quelli già scoperti dal pensiero greco (bel- lezza, bontà,
giustizia, prudenza, temperanza, amicizia, ecc.) e quelli aggiunti più tardi
dal cristianesimo (amore, sacrificio, umiltà, pu- rezza, eguaglianza,
solidarietà, ecc.). [...] « Con questo è chiaro che ultimo responsabile degli
effetti per- versi della tecnologia e del suo cattivo uso è l'uomo. La
responsabi- lità della “crisi epocale” ricade sulla società che ha introdotto
la tecnologia e sugli uomini che l'adoperano. Essi hanno smarrito il cor- retto
impiego della tecnologia dal momento in cui hanno smarrito la verità dell'uomo
e della società ».® c) Crisi dei valori - « Storici e letterati, scrittori e
giornalisti, filosofi e teologi, sociologi e psicologi, uomini politici ed
ecclesia- stici, tutti riconoscono che la ragione fondamentale per cui la
nostra società sta precipitando nel caos è il suo abbandono dei valori fonda-
mentali che l'avevano informata e ispirata per secoli, cioè Dio, la Pa- tria,
la Famiglia, lo Stato, la Chiesa, la Scuola, il Diritto, la Persona, la
Solidarietà, la Filantropia, la Giustizia, ecc. ».* « Tutta la società è
rimasta sconvolta dalla crisi dei valori tradi- zionali e dal loro
capovolgimento. Ma la vittima principale, che pa- ga il prezzo più alto, è la
gioventù, la quale spesso soffre di un vuoto interiore spaventoso che cerca di
colmare rifugiandosi nei paradisi artificiali della droga oppure nell’inferno
della criminalità e della violenza. Sono, però, soprattutto gli stessi giovani
a restare delusi dalla cultura di oggi e a contestarne i risultati morali. Essi
respin- gono assolutamente il principio base del consumismo, secondo cui * B.
MONDIN, Una nuova cultura..., cit., pp. 169-172. ® Ivi, pp. 172-175. # Sul
problema dei valori vedere il cap. XV. 173 Grave crisi morale della società
attuale Grave crisi dei valori Una dura verità che deve essere annunciata
Giovanni Paolo Il: occorre pensare non all'uomo astratto ma a quello reale,
concreto Mediazione tra fede e cultura l'uomo tanto vale in quanto è un
principio di produzione e di con- sumo ».® 12.3 È necessario un nuovo progetto
culturale « Ciò che è urgente e inderogabile per trarre l'umanità fuori dalla
barbarie è darle una nuova forma spirituale, ossia una nuova cul- tura, la
quale, dopo Cristo, non può più essere una forma semplice- mente umana ma
dev'essere una forma cristiana. [...] « Per i laicisti questa è una dura verità
ma è la verità, e il cre- dente non può nasconderla sotto il moggio, per non
offendere la loro miopia. La verità va annunciata, proclamata con coraggio, con
chiarezza, non a mezzi termini, con circonlocuzioni più o meno oscu- re. E
questo vale anche per la cultura. [....] « Il credente sa che solo Cristo (il
quale fa parte della storia e l'ha anche profondamente trasformata) possiede la
verità sull'uomo e sulla società e ce ne ha resi partecipi. [....] « Perciò per
chi rifiuta il messaggio evangelico ed il suo insegna- mento equivale ad
escludersi automaticamente dalle condizioni per rielaborare un progetto
culturale adatto alla nostra società ».* L'ha proclamato in un modo
estremamente chiaro il papa Gio- vanni Paolo II nella enciclica Redemptor
hominis indirizzata alla u- manità intera: « Non si tratta dell'uomo astratto,
ma reale, dell'uomo concreto, storico. Si tratta di ciascun uomo, perché ognuno
è stato compreso nel mistero della redenzione, e con ognuno Cristo si è unito,
per sempre, attraverso questo mistero. L'uomo così com'è voluto da Dio, così
come è stato da lui eternamente scelto, chiamato, destinato alla grazia e alla
gloria: questo è proprio ogni uomo, l'uo- mo il più concreto, il più reale;
questo è l’uomo in tutta la pienezza del mistero di cui è divenuto partecipe in
Gesù Cristo, mistero del quale diventa partecipe ciascuno dei quattro miliardi
di uomini vi- venti sul nostro pianeta, dal momento in cui viene concepito »
(Enc. Redemptor hominis, n. 13). « Con ciò non si intende identificare fede e
cultura, perché la cultura non si deduce immediatamente, direttamente dalla
fede, ma deve avvalersi delle varie mediazioni fornite dalla scienza, dalla
filosofia, dalla sociologia, dalla politica, ecc. Ma il pilastro portante, a
pietra angolare, storica, reale, è Cristo. Chi lo rifiuta non potrà mai
produrre un progetto culturale atto a promuovere il bene reale della persona
umana e della società ». * B. MONDIN, Una nuova cultura..., cit., pp. 176-179.
® Ivi, pp. 188-189. 174 CONCETTI DA RITENERE — Origine dello stato naturale,
convenzionale, preternaturale — Civitas terrena; civitas Dei; debitus finis —
Costituzioni giuste e ingiuste: monarchia; aristocrazia; repubblica o politfa;
tirannia; oligarchia; democrazia — Autonomia della sfera politica — Ordine
morale; volontà sociale — Stato; Chiesa; società perfetta; subordinazione
diretta; subordinazione indiretta — Mediazione culturale — Città fraterna —
Capitalismo; individualismo; liberalismo; stato di diritto; trust; oligo- poli;
multinazionali; capitalismo classico; capitale; proletariato; sfruttamento —
Neocapitalismo scientifico; management; New Deal; tecnostruttura; af- fluent
society — Socialismo marxista; comunismo; salario; plus-valore; profitto; lotta
di classe — Marxismo; leninismo; stalinismo; maoismo; labourismo — Marxismo
revisionista; postmarxismo; neomarxismo — Cristianesimo caritativo; cristianesimo
sociale; testimonianza; impe- gno; nuovo modello di civiltà; immaginazione
sociale; continenti ideologici SINTESI CONTENUTISTICA I. I TERMINI DEL PROBLEMA
1. Il carattere essenzialmente politico e socievole della natura umana, già
evidenziato da Aristotele nella sua Politica, ha assunto oggi una rilevanza
quasi predominante. 2. Il problema politico investe l'origine e il fondamento
dello Stato, la sua organizzazione, la sua forma migliore, la sua funzione, il
suo fine specifico, la natura dell'azione politica e i suoi rapporti con
l’azione morale, i rapporti tra Stato e Chiesa, tra Stato e partiti. 3. Le
diverse istanze storiche hanno accentuato di volta in volta uno dei diversi
aspetti: a) durante la crisi della polis (Sofisti, Platone, Aristotele) e durante
le vi- cissitudini dell'età moderna e contemporanea (Hobbes, Bacone, Locke,
Cam- panella, Hume, Rousseau, Hegel, Marx, Engels, Lenin, Maritain, ecc.) è
emersa la questione dell'origine dello Stato; b) nel Medioevo e per taluni
aspetti nell'età contemporanea (ad esempio, nel contesto dell’unificazione
nazionale) si è affrontato il problema dei rapporti Stato-Chiesa; c) la
relazione « politica-morale » ha trovato soprattutto riscontro nell'età moderna
(Machiavelli e Hobbes); d) i rapporti Stato-partito sono oggetto soprattutto
della riflessione con- temporanea. II. NATURA SOCIALE DELL'UOMO 1. Sin
dall'origine della sua storia l'uomo è vissuto in relazione a un grup- po
sociale (inizialmente la famiglia, il clan, la tribù, successivamente il
villag- gio, la città, lo Stato). La dimensione sociale dell'uomo si perfeziona
in rela- zione alla sua crescita culturale. 2. Oggi la socialità ha assunto una
fisionomia planetaria favorita anche dai 175 mezzi di comunicazione di massa. A
motivo di ciò la socievolezza ha assunto dimensioni tali da poter essere
considerata un fenomeno tipico del nostro tempo. 3. ‘Per l'uomo contemporaneo
la redenzione coincide con il diventare una persona capace di trovare se stessa
in interazione con la comunità. 4. Caratteristica del momento attuale è il
fatto che da un lato vengono affermati i diritti inviolabili della persona e la
sua libertà e dall'altro alcuni sistemi politici, strutture economiche e
sociali e il primato tecnologico-scien- tifico tendono a soffocarli. III.
L'ORIGINE DELLO STATO 1. Lo Stato è una realtà empirica di natura
incontrovertibile. Tre sono le interpretazioni che ne spiegano l’origine: a)
Origine naturale: l’uomo, essenzialmente socievole, può soddisfare i suoi
bisogni e realizzare le sue aspirazioni solo in relazione ai suoi simili. —
Secondo Aristotele il traguardo della vita umana è la felicità e lo Stato ne
facilita il conseguimento. — Secondo Hegel, lo Stato è originato dalla volontà
dello Spirito Assoluto, principio metafisico della realtà, che nello Stato si
attua compiutamente. Fami- glia, società civile e Stato sono le diverse tappe
di questa attuazione che, par- tendo dall'unione d'amore di due persone, arriva
alla realizzazione di una isti- tuzione concreta che organizza la vita etica
dei suoi membri. — Secondo Marx, lo Stato nasce dal bisogno degli uomini di
soddisfare i loro bisogni elementari attraverso l’aiuto reciproco. Le forme che
successiva- mente lo Stato assume nella storia sono invece dovute all'arbitrio
umano circa la distribuzione dei tre elementi costitutivi della struttura
fondamentale dello Stato che è la struttura economica: lavoro, capitale, mezzi
di produzione. b) Origine convenzionale: l'originaria autosufficienza degli
individui sa- rebbe stata inficiata dal progressivo costituirsi di piccoli
centri di potere. I con- seguenti conflitti hanno dato origine allo Stato come
garanzia di stabilità e di accordo sulla base della rinunzia a qualche diritto
e con l’assoggettazione a qualche dovere. I Sofisti avanzarono per primi questa
ipotesi, sviluppatasi suc- cessivamente attraverso altri filosofi. — Secondo
Hobbes e Spinoza il contratto sociale ha carattere irreversi- bile: la delega
allo Stato dei propri diritti non può essere revocata. Per Locke e Rousseau,
invece, il contratto è reversibile. c) Origine preternaturale: lo Stato è
conseguenza di una caduta dell'uomo da una condizione di perfezione originaria,
Avviata da Platone, tale concezione è sviluppata da Agostino e da Vico. —
Agostino distingue la civitas Dei, fondata sull'amore di Dio e sulla ca- rità,
dalla civitas terrena fondata sull'amore di se stessi fino all'egoismo e al
rifiuto di Dio. L'essenziale di entrambi i regni è il debitus finis, l'uno
ricerca la gloria di Dio, l’altro la gloria degli uomini. Secondo Agostino
l’espressione più mostruosa della civitas terrena è stato l'Impero Romano. —
Vico, pur attribuendo l'origine dello Stato al peccato, non ha la conce- zione
pessimistica di Agostino. Egli vede però nello Stato un intervento prov-
videnziale di Dio per trarre gli uomini dalle loro miserie. IV. LE FORME DI
GOVERNO 1. Platone e Aristotele, considerando lo Stato in relazione al
consegui- mento del bene comune, distinguono le costituzioni possibili in
giuste ed in- giuste: 176 GIUSTE INGIUSTE — la monarchia: governo di uno so- —
la tirannia: governo di uno solo lo che cura il bene di tutti che persegue il
proprio interesse — l'aristocrazia: governo dei virtuo- — l'oligarchia: governo
dei ricchi si che curano il bene di tutti sen- che cercano il bene economico za
attribuirsi privilegio personale — la repubblica: governo popolare — la
democrazia: governo della che cura il bene di tutta la città massa popolare che
vuole sop- primere ogni differenza sociale Nei filosofi dell'età moderna le
ipotesi hanno avuto una inversione di ten- denza rispetto a quelli
dell'antichità e del Medioevo: mentre questi ultimi rite- nevano la monarchia
assoluta la forma ideale di governo, i primi si sono fatti assertori della
monarchia parlamentare e della repubblica. Oggi la forma repubblicana è considerata
la più adatta alla tutela dei di- ritti e al perseguimento del bene comune. V.
POLITICA E MORALE 1. Machiavelli fu il primo assertore dell'autonomia della
politica sia ri- spetto alla morale che rispetto alla religione. Egli riteneva
infatti che la poli- tica disponesse di principi normativi suoi propri. Essa è
posta come una for- ma particolare dell'attività spirituale, non riducibile in
quanto forza eminen- temente positiva rispetto alla negatività del male. 2.
Dopo Machiavelli i teorici della politica si dividono tra coloro che sono
favorevoli alla sua teoria e coloro che sono contrari: a) Vico e Campanella
tendono a ricondurre la politica alla morale; b) Hobbes e Spinoza rivendicano
la totale autonomia della politica. 3. Dopo una pausa segnata dall’interesse
degli Illuministi solo sulla ricerca delle forme ideali di governo, il problema
viene nuovamente approfondito: — Kant, pur distinguendo le due sfere, afferma
che né la politica può sot- trarsi agli obblighi morali, né la morale può
sottrarsi all'impegno nella vita civile. — Per Hegel la distinzione è
inammissibile, poiché lo Stato è la fonte su- prema di ogni moralità. — Marx
presenta una prospettiva ambivalente: a) polemica contro l'idea- lismo e il
capitalismo: l’etica e la politica sono sovrastrutture dei fatti econo- mici;
b) progettazione della società ideale: l'etica è uno dei valori fondamentali e
la politica è uno strumento necessario per la sua realizzazione. Non diversa-
mente da Hegel, nella seconda
prospettiva, Marx attribuisce allo Stato il com- pito regolatore della volontà
collettiva. — Nella prospettiva cristiana, Maritain riafferma non solo la
stretta cor- relazione tra morale e politica (la morale orienta i fini della
politica e ne giu- dica i mezzi di realizzazione), ma ribadisce inoltre
l'ispirazione lievitante e liberante del Vangelo, capace di dirigere l’azione
dell’uomo e il suo significato oltre i limiti della natura e della storia. VI.
STATO E CHIESA 1. Stato e Chiesa sono entrambi caratterizzati dalla definizione
di società perfetta, il primo finalizzato al bene comune terreno, la seconda
finalizzata alla salvezza eterna e ai mezzi per conseguirla. 2. La legittima
distinzione tra i due ordini non può comunque intendersi come una separazione
poiché i soggetti delle due società sono gli stessi: i cit- tadini di uno Stato
sono per lo più anche i membri di una Chiesa. Inoltre gli obiettivi si
integrano: né il vero benessere della persona può disgiungersi dalla sua
salvezza; né la salvezza è disgiunta dal benessere materiale. 177 3. La
questione « Stato-Chiesa », acuta nel Medioevo a motivo dell’univer- salismo
dell'Impero e della Chiesa di Roma, si ridimensiona nell'età moderna con gli
stati unitari e le pluralità confessionali dopo la Riforma. Le linee risolutive
principali restano comunque le seguenti: a) S. Tomma-
so: subordinazione indiretta dello Stato
alla Chiesa (il fine della seconda è superiore a quello del primo); b)
Bonifacio VIII: subordinazione diretta dello Stato alla Chiesa: 1) Lo Stato è
al servizio della Chiesa. 2) Il Papa riceve di- rettamente l’autorità da Dio;
l'Imperatore la riceve dal Papa; c) Marsilio da Padova: subordinazione diretta
della Chiesa allo Stato, che provvede al benes- sere totale dei cittadini; il
Papa e la gerarchia ecclesiastica sono funzionari incaricati del benessere
spirituale dei cittadini; d) Età moderna-contempora- nea: progressiva netta
separazione tra le due società. VII. RAPPORTO FEDE-POLITICA 1. È maturata oggi
la consapevolezza che la Chiesa è essenzialmente una comunità spirituale
vincolata dall'amore, senza strutture temporali che la fac- ciano apparire uno
Stato in concorrenza con gli altri stati. 2. La concezione integrale dell'uomo
e la fede in un Dio che si è incarnato ha fatto sì che la teologia
contemporanea abbia sottolineato l’importanza della dimensione politica del
messaggio cristiano, esplicitamente al centro dell’An- tico Testamento (in
particolare nel libro dell'Esodo), ma presente anche nel Nuovo {la condotta e
l'insegnamento di Gesù provocano la violenta reazione dei poteri politici
costituiti). 3. La testimonianza del cristiano non è accettazione passiva né
estatica contemplazione della parola di Dio, ma fattiva attuazione delle
promesse divine per la piena realizzazione del Regno. VIII. LETTURA POLITICA
DEL MESSAGGIO EVANGELICO 1. La legittimità di una lettura politica del
messaggio evangelico non la giustificano come lettura esclusiva. Scopo
fondamentale del messaggio cristia- no è anzitutto la conversione del cuore. 2.
Il cristiano sa che la vita politica deve tendere al bene comune, che la
libertà e l'uguaglianza sono diritti inalienabili della persona. 3. Il
cristiano è consapevole del fatto che nella natura umana è presente un
movimento orizzontale anch'esso determinante per la totale realizzazione
dell’uomo in se stesso. In questa direzione l’ideale verso cui deve tendere
l'opera politica è l'inaugurazione di una città fraterna (Maritain). IX.
CAPITALISMO O SOCIALISMO? 1. Capitalismo e socialismo sono i due sistemi
economici contrapposti che oggi si spartiscono le sorti del mondo. Entrambi
sono caratterizzati al loro interno da alcuni punti essenziali e da alcune
differenziazioni. CAPITALISMO A) Capitalismo classico: sistema economico
conseguente ad una concezione antropocentrica dell’uomo: l’uomo non ha altro
fine all'infuori di se stesso. e Affermazione prioritaria dell'individuo
rispetto alla società (individua- lismo) e sua libertà incondizionata
(liberismo). e Lo Stato (espressione delle libertà individuali) si regge sulla
democrazia rappresentativa e sulla Legge (stato di diritto). e Economicamente
la libertà dell'individuo si estende sulla base delle sue possibilità
economiche. È e La lotta per il successo porta all'organizzazione di trust
(oligopoli, mul- tinazionali, ecc.) che esercitano pressione sui governi e
sull’opinione pubblica. e Accresce se stesso sulla base dello sfruttamento del
proletariato. B) Neocapitalismo: nasce negli Stati Uniti con F.W. Taylor
(1856-1915) a 178 motivo del crollo del rendimento produttivo dei lavoratori e
del loro conflitto con i datori di lavoro. e Si riconosce allo Stato capacità
di intervento condizionatore nell’attività economica e ai lavoratori di
associarsi liberamente per difendere i propri diritti. e Lo scientific
management regola i tempi di lavoro, di istruzione specifica e di cooperazione
tra direzione manageriale e lavoratori. e Dopo la crisi del 1929, il « New Deal
» di F.D. Roosevelt, lo Stato viene maggiormente coinvolto nel processo
economico con un intervento di ridistri- buzione dei redditi attraverso una
forte pressione sugli automatismi economici. e La tecnostruttura degli anni ’30
inserisce scienziati e tecnici nel processo economico per un'ulteriore
riduzione dell’area proletaria. e Nel secondo dopo-guerra nasce la « società
dei consumi », il cui scopo è il miglioramento delle condizioni di vita in base
alla disponibilità sempre mag- giore dei beni di consumo. Ma l’uomo di questa
società iperproduttiva finisce per vivere costretto a consumare sempre di più
ciò che produce. SOCIALISMO A) Socialismo marxista: K. Marx (1818-1883) si
propone di fondare una so- cietà in cui sia abolito lo sfruttamento e garantito
a tutti il soddisfacimento dei bisogni fondamentali (comunismo). e La proprietà
privata è considerata l'origine di ogni male individuale e sociale. x e La
privatizzazione fa generare il rapporto salariale sul quale l’impren- ditore
lucra il « plus valore » o profitto. e iLa lotta di classe è il mezzo per
risolvere lo stato di sfruttamento e av- viare la società verso il comunismo. e
Con la I° Internazionale dei Lavoratori (Londra 28-9-1864) le varie cor- renti
socialiste si associano seppure con profondi contrasti. e Dalle posizioni di
Bakunin nasce l'orientamento anarchico. e In Italia, a Genova, nel 1892 nasce
il partito dei lavoratori italiani (poi P.S.I.). B) Labourismo e
socialdemocrazia: il primo (Labour Party) sorge in In- ghilterra all’inizio di
questo secolo come naturale frutto politico della Fabian Society, fondata nel
1883 a Londra con lo scopo della elevazione della classe lavoratrice e delle
Trade Unions, i sindacati operai che avevano iniziato la loro attività nei
primi decenni del 1800 come società di mutuo soccorso tra gli operai
metallurgici. Come it socialismo, il labourismo si è data la meta di arrivare a
dare alla classe lavoratrice la proprietà dei mezzi di produzione, senza accogliere
però i principi filosofici di quello. I mezzi di lotta per raggiungere le mete
stabilite è l'educazione delle masse e lo sciopero attraverso il sindacato per
ottenere dallo Stato e dal padronato migliori condizioni di vita, salariali ed
una legislazione sociale a difesa del lavoratore. Sulla linea del labourismo
sorgono in altri paesi dell'Europa occidentale (come Germania, Olanda,
Danimarca, Scandinavia) partiti socialdemocratici i quali ripudiano la via
rivoluzionaria per il riformismo, per attuare nel tempo le proprie mete.
Entrambi questi due socialismi riformisti e democratici non combattono il
capitalismo, trasformatosi nel contempo in neocapitalismo, ma convivono con
esso, accettando la tesi dello sviluppo massimo della produzione come strumento
per migliorare le condizioni dei lavoratori e rendendoli partecipi della vita
sociale e politica del proprio paese. C) Marxismo-leninismo e maoismo: nel 1917
con la Rivoluzione d'ottobre 179 Lenin crea in Russia uno Stato collettivista,
con un potere di vertice esercitato dal partito in modo assoluto. e :La terra
fu collettivizzata; furono negate le libertà individuali e di grup- po. Con
Stalin il regime assume un carattere dittatoriale estremo. e Nel 1956 al XX
Congresso del Partito Comunista il dispotismo staliniano viene denunziato. e
Nel 1949 in Cina Mao-Tze-Tung costituisce la Repubblica Popolare Cinese. Furono
collettivizzate l'agricoltura, l'industria e i commerci. e I capisaldi del
marxismo vengono ripensati per un popolo povero e con- tadino che viene
indottrinato secondo una metodologia nazionalistica e volon- taristica. Il
socialismo maoista ha caratteri militaristi. Dopo la morte di Mao- Tze-Tung il
regime comunista cinese diviene meno rigido. D) Marxismo revisionista o
neo-marxismo: dopo sessant'anni di marxismo sovietico e nonostante la notevole
diffusione del marxismo in Occidente, vi è stato un evidente allontanamento
nell’area degli intellettuali dalle tesi classiche. e Peri nuovi marxismi, ad
esempio, la dialettica non ha leggi, non riguarda la natura, ma il soggetto
singolo in rapporto con la storia. e La religione è considerata un fattore di
liberazione e apertura alla speranza. e Tra i rappresentati del nuovo marxismo:
Gramsci, Horkheimer, Mar- cuse, Bloch. X. LE DOTTRINE SOCIALI DI ISPIRAZIONE
CRISTIANA 1. Le soluzioni cristiane alla questione sociale si distinguono in
due tipi: — forma assistenziale caritativa {cristianesimo caritativo): la prima
forma essenziale al cristianesimo è presente in tutti i secoli cristiani, come
frutto dell'attenzione evangelica agli umili, agli oppressi, ai diseredati; —
forma propositiva di revisione delle strutture economico-sociali (cristia-
nesimo sociale): si è preoccupata di individuare accanto all'azione caritativa,
il problema della giustizia a partire dalla seconda metà dell’800. e Il
magistero della Chiesa ha elaborato a partire dalla fine del XIX se- colo una
coraggiosa dottrina sociale che legittima la proprietà privata nel ri- spetto
del bene comune, rivendica i pieni diritti del lavoratore e indica i com- piti
dello Stato per un giusto equilibrio sociale ed economico. XI. IL CRISTIANO E
L'IMPEGNO SOCIO-POLITICO 1. La testimonianza cristiana nel mondo socio-politico
si traduce in un im- pegno capace di promuovere un nuovo modello di civiltà e di
favorirne la realizzazione. 2. Il cristiano sente tutta la responsabilità di
essere la coscienza critica dei « due continenti ideologici » del capitalismo e
del socialismo e di dover offrire all'uomo del nostro tempo il terreno di una
mediazione culturale sul quale egli possa recuperare la propria integrazione
personale e sociale. XII. I PROBLEMI DI UNA NUOVA CONCEZIONE DELLA SOCIETÀ 1.
Tra i fenomeni emergenti del nostro tempo appaiono l’'urbanesimo e la civiltà
dell'immagine e della comunicazione presenti sia nell’area comunista che
nell’area capitalista. 2. Questi fenomeni hanno generato la realtà dei « nuovi
poveri »: delin- quenti, drogati, disadattati, devianti, emarginati in genere.
3. Si sono acutizzate le discriminazioni razziali, culturali e religiose. Si
ri- fiutano i deboli, i vecchi, gli handicappati perché improduttivi, 4. Il
nostro tempo mostra l'urgenza del recupero di una mentalità che ri- trovi
l'amore per l’uomo inventando nuove forme di democrazia libera e sociale. 180
5. « La « crisi epocale » della società attuale è soprattutto crisi
tecnologica, morale e dei valori, 6. In questa situazione di « crisi epocale »
emerge la necessità di un nuovo progetto culturale, ispirato dal Vangelo, che
abbia come centro del suo inte- resse l’uomo concreto, storico. QUESTIONARIO DI
VERIFICA E DISCUSSIONE i. Che cosa si intende per politica? 2. A che cosa deve
la sua origine lo Stato? 3. Quali sono le opinioni dei filosofi antichi e
moderni riguardo allo Stato? 4. Qual è la costituzione politica ideale secondo
Platone, Aristotele, Tom- maso, Hobbes, Campanella, Locke, Hegel, Marx? 5. Che
rapporto c'è tra politica e morale? Qual è lo scopo dello Stato? 6. Come sono
stati intesi i rapporti tra Stato e Chiesa da Agostino, Tom- maso, Bonifacio
VIII, Marsilio da Padova, Machiavelli, Mazzini, Croce? 7. Politica e morale si
distinguono tra di loro? Come? 8. Che rapporto intercorre tra fede e politica?
C'è una funzione politica nel messaggio evangelico? 9. Cosa si intende per
stato democratico, liberale e totalitario? 10. Quali sono le caratteristiche
del capitalismo e del socialismo? Che cosa è il neocapitalismo? E il labourismo
e la socialdemocrazia?* 11. Quali sono le caratteristiche del
marxismo-leninismo-stalinismo rispetto al maoismo? Che significano i termini «
nuovi marxismi » e « postmarxismo »? 12. Il neocapitalismo e il marxismo
riescono a superare i mali della so- cietà odierna? Perché si dice società dei
consumi? 13. Che cos'è il cristianesimo sociale? Il cristiano come deve operare
in campo sociale e politico? 14. Quali possono essere considerate le cause
determinanti che hanno pro- gressivamente subordinato il potere politico al
potere economico? 15. È legittimo oggi parlare non solo di continenti
ideologici ma addirit- tura di dittature planetarie? 16. In quale misura è
possibile stabilire un rapporto tra il deterioramento attuale dell'orizzonte
metafisico, antropoiogico ed etico e il disorientamento politico contemporaneo?
47. In quale prospettiva e perché una sana mediazione culturale può fare dell'esperienza
religiosa la coscienza critica dei sistemi politici ed economici degenerati?
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Introduzione alla filosofia politica, L.A.S., Roma 1980. WEIL E., Filosofia
politica, Guida Napoli 1977. 182 Capitolo dodicesimo iL PROBLEMA ESTETICO
QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. L'uomo avverte l'esigenza della bellezza? Che cosa
è la bellezza? 2. Che cosa caratterizza l’opera d'arte? 3. Che rapporto
intercorre tra soggetto, natura e opera d'arte? 4. Qual è lo scopo dell'opera
d’arte? Il problema estetico riguarda la natura dell'opera d'arte, il suo fine
e i rapporti che intercorrono tra l’attività estetica e le altre attività
umane. Questi tre aspetti capitali del problema estetico, già esplorati tante
volte nel passato, continuano ad essere oggetto di discussione anche ai nostri
giorni. Nel presente capitolo noi cerche- remo di determinare il senso di
questi aspetti del problema estetico e presenteremo inoltre un quadro sintetico
delle soluzioni più si- gnificative elaborate dai filosofi antichi e moderni.
1. Natura dell’opera d’arte Che cos'è l'opera d'arte in se stessa? Quali sono
le ragioni per cui qualche cosa viene considerata artistica mentre altre cose
no? Per esempio, perché lo scarabocchio d'un bambino non viene rite- nuto
artistico, e invece se porta la firma di Picasso sì? Oppure, per- ché si
giudica artistica una cattedrale gotica, ma non un palazzo in cemento armato?
Ancora, quando un artista produce un'opera d’arte, che cosa fa di preciso: crea
oppure imita, inventa oppure copia, e- sprime se stesso, i propri sentimenti,
le proprie passioni, oppure dà corpo a valori universali intuitivamente
percepibili da ogni uomo? Questi sono appena alcuni degli interrogativi che si
affacciano alla mente quando ci si trova di fronte ad un'opera d'arte. Per
prenderne coscienza non occorre nessuna preparazione speciale e nessun grado
elevato di cultura. Ma la risposta non è affatto ovvia e molto spesso neppure
le menti più acute e preparate sono riuscite a trovarne una soddisfacente. Il
problema estetico è tra i primi che si presentano alla riflessione
dei greci, per la necessità di intendere
anzitutto come ad un mondo di poesia possa affiancarsi o anteporsi un mondo di
idee, e come l'essere possa persistere nella sua assorbente sovranità, pur
lascian- 183 La natura dell’opera d’arte, il suo fine, il suo rapporto con le
altre attività umane I caratteri essenziali dell’opera d’arte Platone: l’arte
imitazione della Bellezza La poesia come procreazione spirituale Aristotele: la
bellezza è ‘‘un bene che piace” Filosofia cristiana e concezione mimetica: Dio,
che è bellezza, è oggetto di imitazione do sussistere accanto e di fronte a sé
la scialba e inconsistente realtà del mito e della poesia. Questo problema ha
appassionato soprattutto Platone, il quale ha cercato di risolverlo nel
contesto della sua teoria delle Idee, fa- cendo dell'estetica una specie di
controprova di tale teoria. L'arte viene intesa da Platone come imitazione
-della natura e questa, a sua volta, è concepita come imitazione delle Idee.
L'oggetto della imi- tazione è la Bellezza. Nel Filebo Platone descrive la
Bellezza come un preludio sensibile del Bene inaccessibile, quasi si trattasse
del « portico » della casa del Bene. Nel Fedro egli parla del Bello come di
un'idea corporea, l’unica tra le idee che ebbe in sorte il privilegio di
rendersi visibile ai mortali, per poter essere da loro ardentemente amata. Nel
Convito Platone oltrepassa la concezione mimetica del- l'arte e formula una
teoria dell’arte intesa come creazione, una pro- duzione dall'interno, un «
parto » (tokos). Eros, il simbolo divino del Convito, è fecondato dall’anelito
verso la Bellezza oggettiva e asso- luta, quando si rende capace di generare e
procreare nel Bello. Quand'uno già brama di generare e procreare, allora
soltanto si lan- cia alla ricerca del Bello e, trovatolo, genera e procrea ciò
di cui da lungo tempo era pregno. Poesia è questa procreazione spirituale, per
cui nessun particolare requisito si chiede ai « buoni poeti », eccetto che
siano generatori e inventori. Alla concezione mimetica dell’arte si attiene anche
Aristotele, no- nostante il suo rifiuto della teoria platonica delle Idee: per
lui l’arte è essenzialmente imitazione della natura. L'imitazione, però non è
in- tesa come semplice riproduzione, ma piuttosto come emulazione della natura,
considerata maestra. Dal punto di vista soggettivo, Ari- stotele definisce la
bellezza come « un bene che piace » e la distin- gue, pertanto, sia dal bene
che dal piacere. Infatti, mentre il bene è oggetto della volontà e il piacere
delle passioni, il bello interessa le facoltà conoscitive: è un piacere
suscitato nelle facoltà conoscitive. Gli elementi fondamentali che
contribuiscono a rendere bella ossia artistica una cosa sono tre: l'ordine, la
simmetria e la determina- tezza. La concezione mimetica dell’arte viene ripresa
anche dai filosofi cristiani i quali peraltro la modificano su di un punto
fondamen- tale: oggetto dell'imitazione non è più la natura oppure le Idee, ma
Dio stesso. L'arte umana dovrà risultare imitazione dell'atto con cui Dio crea
la natura. Si tratta di una modificazione profonda che non riguarda soltanto la
maggior eievatezza della realtà imitata, ma anche la natura stessa
dell'imitazione, perché questa diviene imi- tazione dell'attività creatrice di
Dio, un'attività che i greci non ave- vano mai conosciuto. Ne consegue che «
unità, armonia, proporzione, integrità, congruenza, convenienza della forma
bella, tutti i concetti estetici insomma, che i cristiani avevano ereditato
dalla classicità, acquistano un nuovo timbro nella loro riesecuzione: tutte queste
sono note della bellezza, per loro in quanto appartengono all'atto -184
espressivo e manifestativo dello Spirito Assoluto che contiene il mon- do nella
sua potenza creatrice e perciò lo rende bello. Nessuna cosa sarebbe bella, se
non venisse da Dio: è il motivo che ricorre dalle Confessioni di S. Agostino
all'Itinerarium di S. Bonaventura. Il Dio cristiano è il « genio della nuova
estetica ».! Dal punto di vista soggettivo, i pensatori cristiani, seguendo
Aristotele definiscono la bellezza come una relazione: « pulchrum est quod
visum placet » (bello è ciò che piace alla vista). Come la bontà così pure la
bellezza è una relazione di convenienza, di ar- monia, ma non più tra le cose e
la facoltà appetitiva (come nella bontà), bensì tra cose e facoltà conoscitive.
Tuttavia la bellezza si distingue anche dalla verità, in quanto pur essendo
come quest’ulti- ma una relazione tra cose e facoltà conoscitive, diversamente
da essa non è una relazione di corrispondenza, ma di eccitazione e di sod-
disfazione. Dal punto di vista oggettivo anche gli autori cristiani, come
Aristotele, fondano la bellezza sull’integrità, l'ordine e lo splendore
(integritas, proportio, claritas). % Durante il Rinascimento, che è anche
l’epoca d'oro delle arti figurative, non potevano mancare indagini intorno alla
natura del- l'opera d’arte. Tali indagini in alcuni casi sono svolte dagli
autori stessi di alcuni dei più celebri capolavori di pittura, scultura, archi-
tettura di tutti i tempi; Leon Battista Alberti, Leonardo da Vinci, Giorgio
Vasari, ecc. Le loro considerazioni si rifanno oltre che ad Aristotele anche,
anzi soprattutto, a Platone. Di lui si apprezzano in particolare ie dottrine
sull'amore (eros), sulla generazione creativa (tokos) e sull’entusiasmo lirico
(mania). Una svolta decisiva alla storia dell'estetica fa registrare Giam-
battista Vico. Da lui l'arte non viene più concepita secondo la ma- niera
mimetica, ma come un modo fondamentale ed originario di e- sprimersi da parte
dell'uomo in una determinata fase del suo svilup- po. Secondo il Vico, com'è
noto, tale sviluppo comporta tre fasi o età: del senso, della fantasia e della
ragione. L'arte è il modo carat- teristico di esprimersi dell'età della
fantasia: in quell'età l’uomo diede espressione al suo modo di intendere la realtà
nelle creazioni della fantasia, nei poemi, nei miti, ecc. « La sapienza della
gen- tilità dovette cominciare da una metafisica non ragionata e astratta qual
è questa degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovette essere da
tali primi uomini ». La mente degli uomini antichi, incapace di usare la
ragione logica e ribelle alla fatica dell’astrazio- ne e del ragionamento, è
naturalmente portata a sostituire o antici- pare il processo astrattivo
mediante la fantasia. E in tal modo an- ziché universali logici si foggia
universali fantastici, fantasmi o im- ! L. STEFANINI, Estetica, Studium, Roma
1953, p. 19. 185 La bellezza: relazione di convenienza e di armonia tra cose e
facoltà conoscitive Umanesimo- Rinascimento: amore, generazione creativa e entusiamo
lirico Vico: l’arte come una delle espressioni fondamentali della natura umana
L'accoglienza di Vico da parte dei filosofi idealisti Kant: l’opera d’arte
nasce dai sentimento che esprime l’universale nel particolare Idealisti e
neohegeliani: l’arte rappresentazione sensibile
deli’Assoluto L'arte come meccanica
psicologica e come sovrastruttura magini che tengono il posto di veri
universali, ossia delle idee o con- cetti elaborati dalla ragione.” La
concezione vichiana dell'estetica, corabattuta aspramente ai suo primo apparire,
in quanto urtava contro il pregiudizio cartesiano allora imperante, secondo cui
soltanto la ragione può attingere la verità delle cose, fu più tardi
calorosamente accolta e ampiamen- te seguita dai romantici e dagli idealisti
(Schelling e Hegel) i quali reagendo contro gli eccessi del razionalismo e
dell'illuminismo, a- scrivevano grande importanza alle facoltà della fantasia e
del sen- timento in ordine alla conoscenza della verità. Una singolare teoria
della natura dell'opera d’arte, teoria in parte dettata da esigenze di sistema,
viene elaborata da Kant nel- l'opera Critica del giudizio. In essa l'autore
cerca di mostrare che l’opera d’arte non è né un'imitazione della natura e
neppure un'inter- pretazione metafisica della realtà e che pertanto non è prodotta
né dalla fantasia né dall’intelletto. Essa è invece essenzialmente frutto deì
sentimento il quale nell'opera d’arte percepisce ed esprime l'’uni- versale nel
particolare, l'intelligibile nel sensibile, ii noumeno nel fenomeno. E così fa
sorgere il piacere estetico che appaga tutto l’uo- mo in quanto produce una
profonda armonia tra le opposte facoltà dei sensi e dell'intelletto. Il
problema estetico occupa un posto di singolare rilievo nelle speculazioni degli
idealisti e dei neohegeliani (Croce, Gentile). Ii lorc obiettivo è fondere ì
motivi più originali delle teorie di Vico e Kant. Dal primo riprendono la tesi
secondo cui l’arte rappresenta un momento preciso e di capitale importanza
nella storia dell'uma- nità; dal secondo mutuano la tesi secondo cui l’arte è
una rappre- sentazione dell’Assoluto in forma sensibile. Il significato
spirituale dell'opera d'arte è stato però ripetuta- mente messo in questione
durante l’ultimo secolo da autori che si ispirano più o meno direttamente al
positivismo. Alcuni come il Taine riconducono l’arte ad un teorema di meccanica
psicologica, legata ai tre fattori concorrenti della razza, dell'ambiente e del
mo- mento; altri, come Marx, vedono nell'arte una sovrastruttura de- terminata
dai rapporti tra i mezzi di produzione all'interno di una particolare società;
altri, come Freud, considerano l’arte una su- blimazione dell'istinto sessuale;
altri infine, come Dvorak, conside- rano l’arte come criterio ermeneutico della
storia della culiura e così identificano la storia dell’arte con la storia
della cultura. Contro queste interpretazioni positivistiche dell’opera d’arte
han- no preso posizione i filosofi della Gestaltschule (scuola della figura).
Secondo questi autori la conoscenza delle condizioni storico-psico- logiche non
giova affatto alla comprensione di una opera d’arte. La sola cosa che importa è
la figura sensibile, cioè importano i valori ? B. MONDIN', vol. II, pp.
238-240. 3 Ivi, pp. 321-322. 186 tattili o quelli della pura visibilità oppure
gli elementi contrappun- tistici e tonali dell'esecuzione musicale, presi
globalmente, come un tutto, e non frammentariamente. Attualmente molti filosofi
che si ispirano al neopositivismo e agli analisti del linguaggio, non
affrontano più il problema della natura dell'opera d'arte in se stessa, ma in
modo assai indiretto, cercando di stabilire quale sia il senso del linguaggio
estetico e se esistano dei criteri validi per accertarne la presenza (come per
determinare il significato oggettivo delle proposizioni scientifiche esistono i
criteri della verifica sperimentale oppure della falsificabilità). La lezione
che possiamo raccogliere alla fine di queste brevi note intorno alla storia del
problema della natura dell'opera d’arte mi pare che possa essere la seguente.
L'opera d'arte non è una semplice imitazione di idee archetipe o di fatti
naturali. Per caratterizzarsi come esteticamente bella un'opera dev'essere
qualcosa di più e di diverso da ciò che esiste già nel mondo della natura
oppure della cultura. Per avere opera d'arte ci vuole originalità, creatività.
L'ope- ra d'arte è in un certo senso (certo non proprio in senso letterale) una
creazione, più esattamente una trasformazione radicale degli ele- menti che
l’artista ha a sua disposizione: gli elementi fornitigli dalla. tecnica, dalla
osservazione, dalla ispirazione. Ciò che ne risulta si qualifica come bello se
presenta tratti d'assoluta novità. Il lavoro dell'artista può essere paragonato
a quello dell’ape: egli non crea ma, assimilando elementi già preesistenti,
produce una realtà asso- lutamente nuova.‘ 2. Il fine dell’opera d’arte Oggetto
dell'attività estetica è il bello (così come oggetto di quella scientifica è la
verità, di quella etica il buono, di quella reli- giosa il sacro). L'artista
facendo un’opera d’arte si propone anzitutto di dare espressione sensibile alla
bellezza. Ma oltre a questo fine specifico i filosofi generalmente assegnano
all'opera d’arte anche altre finalità più o meno importanti. Così, per Platone,
Agostino e Tommaso essa ha una finalità eminentemente pedagogica; perciò
raccomandano solo le opere d'arte che giovano all'educazione e condannano
quelle che favoriscono la corruzione. Platone nella Repubblica condanna la
commedia e la tragedia so- prattutto per due motivi. Primo, perché i comici e i
tragici rappre- sentano gli dèi e gli eroi attribuendo loro bassezze e passioni
pro- prie della natura umana e in questo modo snaturano il senso reli- gioso.
Secondo, perché, componendo le loro opere, non si fondano sulla ragione ma sul
sentimento e sulla fantasia; e invece d'essere d'aiuto alla ragione agitano le
passioni, provocando il piacere e il * Cfr. F. MEI, La filosofia del concreto,
Marzorati, Milano 1961, pp. 101-104. 187 L'opera d’arte è creazione Il fine:
esprimere sensibilmente la bellezza Da Platone a Tommaso: scopo pedagogico
dell’opera d’arte Platone: la musica come educazione all’armonia interiore
Scopo teoretico dell’opera d’arte: conoscenza delle verità ultime Idealisti
tedeschi e neohegeliani: scopo metafisico dell’arte Pedagogico, catartico e
metafisico: scopi secondari dolore. Secondo Platone, una sola arte merita
d'essere coltivata as- siduamente: la musica. Essa educa al bello e forma
l'anima all’ar- monia interiore. Per Aristotele, Plotino e Schopenhauer l’arte
ha uno scopo es- senzialmente catartico: va coltivata in quanto aiuta l’anima a
libe- rarsi dalle passioni, a purificarsi, a elevarsi verso la contemplazione.‘
Per Vico, Schelling, Hegel, Croce, Gentile l’arte ha una finalità eminentemente
teoretica: ha di mira la conoscenza delle verità ul- time, della natura
profonda delle cose, del mondo intelligibile, del- l'Assoluto. Vico respinge
espressamente le opinioni di Platone e di Aristotele. A suo parere, l’arte non
ha primariamente né funzione pedagogica né catartica: essa non è al servizio né
dell'estetica né
della pedagogia. L'opera d'arte ha
anzitutto e soprattutto una fun- zione teoretica e metafisica in quanto
costituisce una comprensione ed espressione profonda delle cose da parte di un
essere intelligen- te, nel quale la ragione non ha ancora raggiunto la piena
matura- zione e che, quindi, riesce ad esprimersi meglio per mezzo della fan-
tasia e del sentimento. Questo intento metafisico dell’arte, com'è noto, è
stato ribadito dagli idealisti tedeschi del secolo scorso e dai neohegeliani
italiani (Croce e Gentile) del nostro secolo. Per tutti questi autori l’arte è
una delle attività supreme dello Spirito Asso- luto. Il suo scopo specifico è
esprimere l'Assoluto in forma sensi- bile. Pertanto un’opera è artistica
soltanto e nella misura in cui è una manifestazione concreta dell’Assoluto.
Oggi queste finalità secondarie dell’opera d'arte (pedagogica, catartica e
metafisica) non riscuotono troppi consensi tra i filosofi. Generalmente si
afferma, e a nostro parere giustamente, che l'arte ha una sua funzione autonoma,
che è fine a se stessa, come la scienza, la religione, la morale, la politica,
l'economia. Per quanto concerne l'autonomia si paragonano le opere d'arte alle
opere della natura. Allo stesso modo come quest'ultime hanno una consistenza
propria e una propria autonomia, altrettanto si deve pensare delle prime: an-
che le opere d’arte devono essere considerate come aventi una fina- lità loro
propria. La natura produce delle realtà (animali, laghi, fo- reste) che non
vanno riferite a qualche cosa d'altro per essere com- prese, ma sono studiate
direttamente in se stesse. Altrettanto si deve far anche per le opere d’arte.
Producendo l’opera d'arte, l'artista in- tende creare qualcosa: vuole metterci
davanti ad una realtà nuova, La sua creazione, questa nuova realtà, va guardata
in faccia diret- tamente, per conto proprio, senza la pretesa o la
preoccupazione di trovarvi dei significati reconditi, delle seconde intenzioni.
Tutto quello che l'artista ha voluto dire è quanto egli è riuscito di fatto :
Cfr. B. MONDIN, vol. I, pp. 96-97. > Ivi, p. 142 (Aristotele); pp. 185-186
(Plotino); vol. III, pp. 208-209 (Schopen- hauer). * B. MONDIN, vol. III, pp.
79-80. 188 a manifestare. E quello ch'egli è riuscito a manifestare sta lì
davanti a noi. C'è però una precisazione da fare riguardo all'autonomia del-
l'arte. Quando si dice che l’arte è essenzialmente autonoma non si vuole
escludere che essa venga adoperata anche per altri scopi, teo- retici o
pratici. Si vuole solo affermare che se lo scopo teoretico e pratico per cui
l’opera d'arte viene compiuta è innalzato a fine pri- mario, in tal caso si
priva l'opera d'arte della sua autonomia e quindi della sua vita. Quindi se
un’opera d'arte ha intenti pedagogi- ci, religiosi, politici, ecc. essa può
ancora riuscire come opera d'arte alla sola condizione che tali intenti non
siano quelli primari ma se- condari. In conclusione, il principio
dell'autonomia delle singole attività e discipline, che è stata la grande
conquista dell’epoca moderna, vale certamente anche per l’attività estetica.
Quindi nell'esplicarla e nel valutarla non si deve tener conto d'altri criteri
al di fuori di quelli che sono intrinseci alla natura stessa dell’opera d'arte.
. 3. Arte e morale Alla questione dei rapporti tra arte e morale s'è già fatto
cenno alla fine del precedente paragrafo. Questo problema è stato diversa-
mente risolto dai filosofi a seconda della finalità ch’essi hanno rite- nuto
giusto assegnare all'attività estetica. Sia gli autori che come Platone e
Aristotele attribuiscono all'arte una finalità essenzialmen- te pedagogica e
catartica, come pure gli autori che col Vico le ascri- vono una finalità
metafisica sottomettono in modo più o meno di- retto, più o meno esplicito,
l’arte alla morale, e, di conseguenza, condannano dal punto di vista estetico
quelle opere che giudicano moralmente riprovevoli. Il riconoscimento
dell'autonomia dell’arte dalla morale è una conquista piuttosto recente e va
ascritta a merito degli idealisti, in particolare di Benedetto Croce. ‘Secondo
Croce l’arte è assolutamente autonoma: non è soggetta né alla filosofia, né
alla morale, né alla pratica. L'arte come arte è amorale, cioè al di qua del
bene e del male. « L'arte per avere carattere d'arte, per essere vera arte,
deve essere vera espressione. Espressione di che? Che volete che esprima
l'artista se non le sue im- pressioni? i sentimenti che prova? ».* Per fare
vera arte bisogna espri- mere ciò che si ha in sé: chi lo esprime bene, è
artista. Ma l’uomo e l'artista sono due realtà distinte. Per essere artista basta
esprimere bene i propri sentimenti mentre l’uomo deve essere anche morale,
saggio, pratico. Quindi, pur non essendo soggetto alla morale come artista,
l'artista è soggetto alla morale come uomo: « Se l'arte è al © B. CROCE,
Breviario di estetica, Laterza, Bari 1933, p. 49. 189 Non è il fine secondario
a determinare il valore dell’opera d’arte Autonomia dell’arte dalla morale:
conquista recente Croce: amoralità dell’arte Arte e morale: subordinazione
indiretta di là della morale, non è di qua né di là, ma sotto l'impero di lei è
l'artista in quanto uomo, che ai doveri dell’uomo non può sottrarsi, e l'arte
stessa — l’arte che non è e non sarà mai la morale — deve considerare come una
missione, esercitare come un sacerdozio ».? Di capitale importanza è la
precisazione contenuta nell'ultima citazione: « L'arte è al di là della
morale... ma sotto l'impero di lei è l'artista in quanto uomo ». L'uomo
infatti, nonostante la molte- plicità delle sue attività e delle sue facoltà,
costituisce un'essenziale unità. Ora l’unità è possibile soltanto se le varie
attività sono ordi- nate ad un unico fine ultimo. Ma, dato che il fine ultimo
dell'uomo è la piena realizzazione di se stesso, qui sta il suo bene supremo,
la sua felicità, e poiché spetta alla morale riconoscere tale fine e stu- diare
i mezzi per conseguirlo, ne deriva una certa subordinazione dell'arte alla
morale. Quindi tra arte e morale c'è un rapporto simile a quello che abbiamo
registrato tra morale e politica: è un rapporto di subordinazione indiretta. Anche
l'arte come la politica deve con- tribuire al raggiungimento del fine ultimo
dell'uomo. Questo però è l'obiettivo primario e principale della morale.
CONCETTI DA RITENERE — Unità; armonia; proporzione; integrità; congruenza;
convenienza — Ordine; splendore — Eros, tokos; manìa — Rappresentazione
dell’Assoluto; meccanica psicologica; sublimazione della pulsione istintuale;
sovrastrutture — Figura sensibile; valori tattili; visibilità; elementi
contrappuntistici e tonali SINTESI CONTENUTISTICA I. LA NATURA DELL'OPERA
D'ARTE 1. Il problema estetico riguarda la natura dell’opera d’arte, il suo
fine, i rapporti intercorrenti tra l’attività estetica e le altre attività
umane. 2. Il problema estetico è tra i primi a presentarsi alla riflessione dei
Greci: rapporto tra il mondo della poesia e il mondo delle idee
(complementarietà o opposizione); rapporto tra la sovranità dell'essere, il
mito e la poesia. 3. Platone (Filebo, Fedro, Convito) intende l’arte come
imitazione della natura, che a sua volta è imitazione del mondo delle Idee. La
Bellezza è il pre- ludio sensibile al Bene inaccessibile. In una fase ulteriore
egli intende l’arte come creazione, « parto » (tokos): Eros, il simbolo divino
del Convito, è fecon- dato dall’anelito verso la Bellezza oggettiva e assoluta,
quando diviene capace di generare il Bello. La poesia è questa procreazione
spirituale; ai poeti non si chiede altro che siano procreatori e inventori. 4.
Aristotele ritiene che l'arte, imitazione della natura, sia emulazione. La
bellezza è un « bene che piace », distinto sia dal bene morale che dal piacere.
Tre elementi caratterizzano il bello artistico: l'ordine, la simmetria, la
deter- minatezza. 9 Ivi, p. 33. 190 5. Per i filosofi cristiani l’arte è
imitazione dell'atto con cui Dio crea la natura. Unità, armonia, proporzione,
integrità, congruenza, convenienza della forma belia sono concetti ereditati
dalla concezione classica che i cristiani ri- conducono all'atto di Dio che
rende bello ciò che crea {S. Agostino, S. Bona- ventura). 6. Nel Rinascimento
predomina la concezione platonica sull'amore {eros), sulla generazione (tokos)
e sull’entusiasmo lirico. 7. Nell’età moderna fondamentale è l’estetica di G.B.
Vico, secondo il quale l'arte è un mondo primario ed originario
dell’espressività dell'uomo in quella fase del suo sviluppo che è dominata
dalla fantasia. 8. Kant nell'opera Critica del giudizio afferma che l’opera
d'arte è essen- zialmente frutto del sentimento, il quale in essa percepisce ed
esprime l’uni- versale nel particolare, il noumeno nel fenomeno. Il piacere
estetico è, per- tanto, l’appagamento che l’uomo riceve dall’armonia tra le
opposte facoltà dei sensi e dell'intelletto. 9. L'idealismo e il neoidealismo,
riecheggiando sia Vico che Kant, danno grande importanza al ruolo dell’arte nella
storia dell'umanità e la considerano la rappresentazione sensibile
dell’Assoluto. 10. Nella seconda metà del secolo XIX si sono succedute le
seguenti inter- pretazioni dell’arte: a) Taine riconduce l’arte ad una
meccanica psicologica regolata dai tre fattori della razza, dell'ambiente e del
momento; b) Marx considera l’arte come una delie sovrastrutture dei meccanismi
di produzione; c) Freud la considera prodotto del meccanismo di sublimazione
della pul- sione sessuale; d) Dvorak afferma che l’arte è un criterio
ermeneutico della storia della cultura e identifica la storia dell’arte con la
storia della cultura; e) i filosofi della Gestalischule (scuola della forma)
ritengono che a deter- mirare l’opera d'arte è la figura sensibile, i valori
tattili, quelli visibili, gli elementi contrappuntistici e tonali, assunti
nella loro globalità; f) oggi l'interesse è soprattutto rivolto alla ricerca
del senso del linguaggio estetico e alla ricerca dei criteri validi per
accertarne la presenza. II. IL FINE DELL'OPERA D'ARTE 1. Oggetto dell'attività
artistica è il bello e fine dell'arte è quello di dare espressione sensibile
alla bellezza. 2. Oltre al fine specifico, i filosofi hanno assegnato all’arte
altre finalità: — Platone, Agostino e Tommaso le hanno attribuito scopi
pedagogici; — Aristotele, Plotino, Schopenhauer le hanno assegnato uno scopo
ca- tartico; — Vico, Schelling, Hegel, Croce, Gentile hanno attribuito all'arte
una fina- lità teoretica e metafisica. Un'opera è artistica solo e nella misura
in cui è manifestazione concreta dell’Assoluto. 3. L'estetica contemporanea
tende ad affermare che l’arte ha una sua fun- zione autonoma, che essa è fine a
se stessa. In tal senso l’opera d’arte è parago- nabile all'opera della natura.
III. ARTE E MORALE 1. I filosofi che attribuiscono all'arte fine pedagogico o
catartico o metafi- sico in modo più o meno diretto sottomettono l’arte anche
alla morale. 2. Croce, invece, ha decisamente affermato l'autonomia dell’arte
dalla mo- rale. L'arte in quanto tale è amorale, al di là del bene e del male.
Ma anche se l'artista non è soggetto alla morale in quanto tale, lo è in quanto
uomo. A motivo, quindi, della unità essenziale dell'uomo, anche per il rapporto
tra arte e morale si può parlare di subordinazione indiretta della prima alla
seconda. 191 QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Quali sono i principali
aspetti del problema estetico? 2. Quali sono gli elementi costitutivi
dell’opera d’arte? In che cosa consiste l’opera d’arte? 3. Qual è l'organo
specifico che coglie la bellezza delle cose oppure di un’opera d'arte? 4. Come
definiscono l’arte Platone, Aristotele, Kant, Vico, Schelling, Hegel, Croce,
Freud, Marx? 5. In che cosa consiste il piacere estetico? 6. Qual è il fine
dell’opera d’arte secondo Platone, Aristotele, Plotino, Vico, Kant, Hegel? 7.
Quale ruolo ricopre l’arte nella cultura contemporanea? 8. La società a
tecnologia avanzata conserva il senso della bellezza? 9. In quale misura e in
quali contesti specifici della storia dell'umanità l’arte è stata asservita all'ideologia?
10. In che rapporti si trovano arte e morale? 11. È legittima la possibilità di
rapporto tra messaggio artistico e messag- gio politico? SUGGERIMENTI
BIBLIOGRAFICI Aporno TH.W., Teoria estetica, a cura di E. De Angelis, Einaudi,
Torino 1975; ANCESCHI L., Autonomia ed eteronomia dell’arte (1936), Garzanti,
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Italia, Paravia, Torino 1976. SIMONINI A., Storia dei movimenti estetici nella
cultura italiana, Sansoni, Firenze 1968. STEFANINI L., Trattato di estetica,
Morcelliana, Brescia 1960. 192Capitolo tredicesimo IL PROBLEMA STORICO
QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. Che rapporto intercorre tra la propria
realizzazione e il trascorrere del tempo? 2. Che definizione si può dare del
tempo? 3. Consapevolezza, ricordo e attesa: che rapporto c'è tra queste parole
e il tempo? Il problema storico riguarda il senso della storia: la storia,
nella sua movimentata sequenza di avvenimenti, ha un senso? Quale? Dove si
situa il fulcro della storia: nel passato, nel presente oppure nel futuro? E se
la storia ha un senso ed un punto di riferimento decisivo, è possibile effettuare
una ricostruzione scientifica delle vicende umane? Il carattere problematico
della storia è stato riconosciuto dai filosofi di tutti i tempi. Ma mai come
nel nostro secolo, durante il quale il succedersi degli eventi ha assunto un
ritmo incredibile sco» nosciuto alle epoche precedenti, la problematicità della
storia si è imposta all'attenzione degli studiosi. 1. Il concetto di storia 'La
storia si definisce diversamente a seconda che per essa si intendano gli
avvenimenti in se stessi (senso oggettivo) oppure la nostra conoscenza dei
medesimi (senso soggettivo). La storia in senso oggettivo è la marcia dell’uomo
attraverso il tempo. Invece la storia in senso soggettivo ‘è lo studio degli
avveni- menti umani che accadono nel tempo, nelle loro cause e nei loro ef-
fetti, ed inoltre nel loro significato ultimo.! La storia di cui ci occu- piamo
in queste pagine direttamente è la storia come scienza (sen- so soggettivo) ed
indirettamente anche la storia come vicenda (senso oggettivo). ! Si suole
distinguere tra storia empirica e storia filosofica. La prima si occupa
solamente delle vicende umane nelle loro cause e nei loro effetti. Invece la
seconda si propone di scoprire il loro significato ultimo. 193 La storia ha un
senso? Senso oggettivo e senso soggettivo della storia Scetticismo storico: —
apparenza degli avvenimenti — casualità degli eventi — discordanza degli
avvenimenti Realismo storico: è possibile una scienza degli eventi storici 2.
Possibilità della scienza storica Una scienza storica è possibile? A questo
interrogativo si posso- no dare e di fatto sono state date due risposte
antitetiche. Si può rispondere negativamente e allora si ha lo scetticismo
storico. Op- pure si può rispondere affermativamente e allora si professa il
rea- lismo storico. 2.1 Scetticismo storico La negazione della scientificità
della storia poggia sui seguenti argomenti: a) Gli avvenimenti sono solo
apparenti. Il mondo della esperien- za quotidiana è un mondo illusorio,
apparente, senza alcuna consi- stenza e perciò senza senso. La filosofia
indiana, Eraclito, Schopenhauer e altri filosofi si sono appellati a questo
argomento per negare la possibilità della scienza storica. b) Gli eventi non
accadono secondo un piano ordinato. Gli eventi sono reali e non illusori. (Anzi
per molti pensatori che si appellano a questo argomento i fatti sono l’unica
realtà). Però essi non hanno un significato, perché non hanno una direzione. Un
evento suc- cede all’altro senza che nulla vada mai avanti. La storia è un ca-
vallo che mentre va per la strada improvvisamente si imbizzarrisce e allora si
lancia per i campi o ritorna indietro o si butta nel pre- cipizio. c)
Discordanza nella interpretazione dei fatti storici. L'interpre- tazione dei
fatti è molto diversa secondo che la storia sia scritta da un positivista, da
un laicista, da un marxista o da un cristiano, anche escludendo che si tratti
di falsificazioni volute a scopo di propa- ganda o di errori dovuti a
documentazioni o indagini insufficienti. Basti pensare alle interpretazioni
tanto discordanti del Medioevo, della Controriforma e del Risorgimento. 2.2
Realismo storico ‘Per realismo storico s'intende quell’indirizzo filosofico che
am- mette la possibilità di una scienza degli eventi storici. Questo può
avvenire in due modi, a seconda che la possibilità della scienza degli eventi
storici si fondi su una visione deterministica o non determini- stica della
storia. Si dà quindi un realismo storico deterministico o un realismo storico
non deterministico. Nel primo i fatti accadono necessariamente, nel secondo
liberamente. Tanto nel realismo storico deterministico quanto nel realismo
storico non deterministico si danno due interpretazioni principali. In quello
deterministico c’è chi ritiene che nella successione dei fatti non ci sia
nessun progresso, mentre altri ci vede un divenire, una 194 evoluzione verso
mete sempre più alte. Il primo è il realismo storico deterministico statico; il
secondo, il realismo storico deterministico dinamico. Tra i fautori del primo
tipo vanno annoverati tutti i pen- satori greci; tra quelli del secondo molti
filosofi moderni, soprattutto gli idealisti e i materialisti. Ciò che distingue
i materialisti dagli idealisti è il punto di partenza del divenire storico: per
i primi è la materia, per i secondi è lo spirito. Nel realismo storico
non-deterministico c'è chi sostiene che gli eventi storici si svolgono secondo
un piano esclusivamente naturale, mentre altri sostengono che essi accadono
secondo un piano sopran- naturale. Sostenitori della prima teoria (che
chiamiamo realismo sto- rico non-deterministico naturalistico) sono gli
illuministi e soprat- tutto Kant. Sostenitori della seconda teoria (che
chiamiamo reali- smo storico non-deterministico cristiano o semplicemente
realismo storico cristiano) sono tutti gli storici cristiani e i filosofi
cristiani della storia. Riducendo questa divisione a schema, essa si presenta
così: statico (pensatori greci) materialistico (Marx) deterministico |
idealistico (Hegel) È dinamico REALISMO STORICO naturalistico (Kant) non
deterministico cristiano : (Agostino, Bossuet, Vico) a) Realismo storico
deterministico statico - Secondo il pensiero filosofico greco la storia si
svolge su un piano circolare, in cui l’in- dividuo ha una certa libertà (una
libertà relativa) mentre l’universo è soggetto alle leggi matematiche di una
eterna palingenesi. La stra- da del tempo è una pista rotonda su cui tutte le
società, tutte le civiltà, tutte le istituzioni si succedono con un ritmo
inesorabile e dopo un breve periodo di gloria scompaiono. Il tempo, e quindi la
storia, « è l'immagine mobile dell’immobilità eterna », esso è « quel-
l'immagine senza fine che si svolge secondo le leggi dei numeri » (Pla- tone,
Timeo). « Dio guida l'universo nel suo percorso circolare, ma una volta
compiuti i periodi del tempo che gli sono fissati, esso riprende il suo
movimento in senso inverso » (Platone, Politica). Questa concezione circolare
della storia è condivisa da quasi tut- ti i pensatori greci (cfr. Empedocle,
Platone, Stoici, ecc.). b) Realismo storico deterministico dinamico - Non è
possibile qui effettuare una esposizione soddisfacente delle complesse dottrine
della filosofia della storia insegnate in questo ultimo secolo dai ma-
terialisti e dagli idealisti. Del resto ne abbiamo già trattato distesa- mente
nel terzo volume della nostra storia della filosofia, ora ci pre- me solamente
indicare una caratteristica fondamentale comune tan- to al realismo storico
degli idealisti quanto a quello dei materia- 195 Piano naturale della storia:
Kant Piano soprannaturale: storici e filosofi cristiani — Realismo storico
deterministico statico: assenza di progresso (pensatori greci) — Realismo
storico deterministico dinamico: cammino evolutivo (materialisti, idealisti)
Identificazione tra storia e realtà Il teleologismo storico di Kant e degli
illuministi: ottimismo e progresso Rivelazione, ordine soprannaturale e libertà
dell’uomo listi. In tutti e due la storia viene identificata con la realtà:
tutta la realtà si esaurisce negli eventi storici: al di fuori della storia non
c'è più nulla. Questa identificazione della storia con la realtà si chia- ma
storicismo. A nostro avviso questa interpretazione della storia è insosteni-
bile, per almeno tre ragioni. Anzitutto perché essa implica la nega- zione del
trascendente, di Dio. La seconda ragione è la negazione della libertà umana.
Negando all'uomo la libertà lo storicismo idealistico e materialistico condan-
na alla disperazione l’uomo come persona singola, che invano cerca la salvezza
dal male e dalla morte che lo stringono nel tempo. Que- sta filosofia della
storia rappresenta la forma estrema della disper- sione dell'essere dell'uomo.
Infine lo storicismo, nonostante le apparenze, svaluta la storia perché la
considera uno sviluppo incessante nel quale tutto viene superato e mutato. I
valori di ieri non sono quelli di oggi. I prota- gonisti della storia, gli
uomini, sono prigionieri del presente, poiché negano il passato e negheranno a
loro volta l'avvenire. Rimane una sola realtà: l'eterna legge della mutazione.
c) Realismo storico non-deterministico naturalistico: Kant - Se- condo Kant e
molti illuministi la storia si svolge su un piano ordi- nato ‘(teleologico)
voluto dalla natura. « La storia è l'attuazione di un nascosto piano della
natura ». « Il fine della storia è la realizza- zione di una società che
universalmente viva secondo il diritto » (Kant, Idea per una storia universale
dal punto di vista cosmopo- litico, pr. 5 e 8). Altrettanto si legge nel saggio
Se il genere umano sia in continuo progresso verso il meglio: « Ora io affermo
di poter predire alla stirpe umana, anche senza avere spirito profetico, il suo
progresso verso il meglio, escludendo che questo progresso possa conoscere
sostanziali pericoli di involuzione ». Questa visione ottimistica della storia,
nata dal successo bor- ghese della seconda rivoluzione industriale e
dall'entusiasmo per il progresso scientifico, ha verificato i suoi limiti
davanti ad una uma-
nità provata dall’orrore di due guerre
mondiali, artefice del peri- colo dell’autodistruzione atomica, del disastro
ecologico e vittima di un consumismo che antepone il valore delle cose a quello
delle persone. d) Realismo storico cristiano - Secondo il pensiero filosofico
cristiano la storia si svolge secondo un piano determinato dall’incon- tro di
due volontà libere: quella di Dio e quella dell'uomo. Di qui l'estrema
difficoltà ad interpretare un così complesso disegno che è possibile
comprendere solo in virtù dell'intervento di Dio e della ri- velazione da parte
sua del senso fondamentale della storia. Dalla Rivelazione sappiamo che la
storia non si svolge secondo un piano circolare ciclico e tanto meno secondo
leggi fatalistiche e 196 meccaniche, e nemmeno secondo un ordine puramente
naturale. Dio ha voluto liberamente inserire l'uomo in un ordine
soprannaturale; in tale ordine, cui l’uomo corrisponde liberamente, Dio
continua ad intervenire per adattare il suo piano di grazia alla corrispondenza
dell'uomo di modo che nonostante le deviazioni umane, la storia pro- cede verso
destini sempre più alti. Il piano cristiano della storia si può raffigurare
diagrammatica- mente con una linea ascensionale in cui ci sono varie deviazioni
verso il basso, ma tutto sommato la parte terminale è più alta di quella
iniziale. Dalla Rivelazione si viene a conoscere: a) il significato di tutta la
storia che ci precede {attraverso i dogmi della creazione, del pec- cato e
della redenzione); b) il punto della storia in cui ci troviamo at- tualmente
(cioè tra la prima e l'ultima venuta di Cristo); c) che cosa ci riserva
l'avvenire (cioè la fine del mondo e il ritorno trionfale del Messia dopo che
il suo messaggio sarà stato annunziate a, tutti gli uomini). ‘Attraverso la
Rivelazione conosciamo quindi il grandioso piano divino della storia: il piano
generale, non i singoli momenti e i parti- colari di esso, sempre avvolti nel
mistero. Sappiamo che la storia non è in regresso, non è un circolo su cui si
ripetono eterni ritorni, ma è progresso verso la salvezza. Ampliiando le
conoscenze dateci dalla fede mediante quelle che ci sono fornite dalia scienza
sappiamo che l'umanità esiste sul pianeta da circa mezzo milione di anni. Però
la serie delle civiltà è cominciata appena da 10.000 anni, mentre le
generazioni future possono percorrere un altro mezzo miliardo di anni. Il
Cristianesimo appartiene quindi all'infanzia della storia dell'umanità. La
Chiesa non è che ai primi passi del processo che tende a fare di lei la
provincia terrena del Regno dei cieli, motore e scopo della storia della
umanità. Su questa concezione cristiana della storia sono state scritte pagine
interessanti in tutti i tempi, in particolare da S. Agostino (De civitate Dei),
Bossuet (Discorso sulla storia universale), Vico (La scienza nuova), Maritain
(Sulla flosofia della storia), De Lubac (Cattolicesimo), von Balthasar
(Teologia della storia), Toynbee (A study of history), Mouroux {I! mistero del
tem po), Cullmann (Cristo e il tempo). 3. La storia è veramente una scienza?
Molti filosofi pensano di poter accordare alla storia il titolo di scienza,
definendo la conoscenza storica come sintesi di fatti e di idee, di particolare
e di universale. Anche a noi pare che la storia sia una scienza, ma non secondo
il concetto ciassico di scienza, bensì secondo il concetto moderno, secondo il
quale la scienza non è una riproduzione precisa, ma solo una sistemazione
approssimativa 197 il diagramma ascensionale del piano cristiano della storia
La scienza storica come sistema approssimativo ‘‘Cognitio certa per causas”’: —
“per causas’’ (il nesso che unisce due eventi) — “‘certa’’ (futuro: necessario
e universale; passato: anche particolare e contingente) La ricerca dell’unità
storica: l’universale che si realizza ripetutamente Carattere ipotetico
dell’universale storico La Rivelazione come garanzia del senso della storia
della realtà che è troppo complessa per essere pienamente intelligi- bile. Come
la scienza sperimentale si chiama scienza sebbene sia soltanto una
schematizzazione conveniente, perché permette all’uo- mo di intendere il mondo
complicato della natura fisica, così la sto- ria si può chiamare scienza anche
se non può vantarsi di riprodurre con fedeltà la connessione causale che lega
le vicende umane tra di loro, perché permette all'uomo di avere una certa
comprensione della successione di tali vicende. La storia, come la scienza
sperimentale, può chiamarsi cognitio certa per causas. Il per causas va inteso
in storia come nelle scienze sperimentali, non come il mezzo per conoscere un
evento, ma come il nesso, la legge che unisce due eventi. Quanto al certa non
v'è dubbio che anche in storia si può rag- giungere certezza. Nella visione
cristiana della storia ci sono dei pi- lastri assolutamente certi, posti dalla
Rivelazione, che permettono di costruire una storia universale di valore
categorico almeno nel- le linee generali. In più si può dare certezza per molti
fatti singoli non conosciuti per fede. Circa tali fatti si può dare certezza
anche se non sono universali e necessari. Infatti, pur essendo vero che quando
si tratta del futuro abbiamo la conoscenza « certa » solo del- l’universale e
necessario, quando si tratta invece del passato ab- biamo certezza anche del
particolare e del contingente, perché quan- to è accaduto nel passato ha per
noi posteri la stessa necessità e immutabilità dell'universale e necessario che
accadrà nel futuro. Qualche storico ha creduto che l'oggetto della storia non
sia sol- tanto certo, perché necessario e immutabile, ma anche universale. Basandosi
su questa convinzione, storici come Vico, Toynbee, Spengier sono andati alla
ricerca dell'unità storica, dell'universale storico (la nazione, la civiltà,
ecc.) che torna a realizzarsi ripetuta- mente, come l’idea universale di uomo
continua ad avere ripetute realizzazioni, (con la sola differenza che mentre
l'individuo umano ha una breve durata di 50, 100 anni, l’unità storica ha una
durata di migliaia di anni). Che dire di questo universale storico? A noi pare
che non sia una cosa impossibile, tuttavia rimane qualcosa di estremamente
ipotetico, non esistendo nessun criterio certo per determinare quale
raggruppamento di eventi abbia i ca- ratteri di universalità e ripetibilità.
Possiamo infine domandarci se una storia universale vera sia raggiungibile. Come
abbiamo precedentemente sottolineato, sono l’esistenza di Dio e il mistero
della sua incarnazione a consentirci una autentica visione dei fatti, poiché la
storia è comprensibile soio nella sua du- plice dimensione naturale e
soprannaturale. 198 4. L’interpretazione della storia Nel nostro secolo la
problematica della storia ha acquisito uno spessore del tutto sconosciuto ai
nostri antenati. Nel passato l'uomo era abituato a guardare la storia dall'alto
come uno spettatore. Certo lo spettacolo non era di facile comprensione, ma
almeno si pensava di poterlo osservare pacificamente dal di fuori. Invece in
seguito al cumulo di eventi che ci sono piombati addosso durante gli ultimi
decenni e in conseguenza degli scossoni che hanno subito tutte le nostre cognizioni
della realtà e tutte le nostre convinzioni morali e religiose, nonché i nostri
rapporti con gli altri e con il mondo, ci siamo accorti che noi stessi siamo
immersi nella storia, che faccia- mo parte dello spettacolo; in altre parole
che il divenire storico non riguarda soltanto il mondo, ma il nostro stesso
essere. Perciò anche l’uomo è un essere storico. La presa di coscienza della
nostra storicità, dice giustamente Gadamer, è «-verosimilmente la più
importante tra le rivoluzioni da noi subite dopo l'avvento dell’epoca moderna.
La sua portata spiri- tuale sorpassa probabilmente quella che noi riconosciamo
alle rea- lizzazioni delle scienze naturali, realizzazioni che hanno
visibilmente trasformato la superficie del nostro pianeta. La coscienza storica,
che caratterizza l’uomo contemporaneo, è un privilegio (forse perfino un
fardello) quale non è stato imposto a nessuna delle generazioni pre- cedenti
».? Ora, la presa di coscienza della storicità del nostro essere implica una
revisione profonda non solo della scienza storica ma anche della teoria
generale della conoscenza umana. Questa non può più essere concepita né come
diretto riflesso della realtà, come volevano i realisti antichi e moderni
(compresi i positivisti) e neppure come creazione originaria dell'Io (come
affermavano gli idealisti); ma va intesa come interpretazione (ermeneutica) di
situazioni: un essere storico comprende se stesso, gli altri, la cultura e le
vicende del passato soltanto interpretando. Egli fa necessariamente parte di un
circolo ermeneutico: gli vengono offerte dal passato delle tradi- zioni che
egli riceve interpretandole, e di nuovo le comunica agli al- tri, i quali a
loro volta le fanno proprie interpretandole. L'uomo coglie la realtà storica
soltanto interpretandola per due ragioni. Primo, perché la storia è
essenzialmente movimento e nel movimento c'è sempre qualcosa che rimane e
qualcosa che muta; perciò per risalire al senso originale delle tradizioni
occorre passare attraverso i vari sviluppi. Secondo, perché il passato non ci è
estra- neo ma entra a far parte del nostro essere, della nostra vita; però en-
tra a far parte del nostro spessore soggettivo solo mediante l'inter-
pretazione. Noi siamo eredi di tradizioni che non sono semplici ? H. GADAMER,
Il problema della coscienza storica, Guida, Napoli 1969, p. 27. 199 Gadamer:
una rivoluzione fondamentale del nostro tempo è la presa di coscienza deila
nostra storicità Gadamer: la storia come ermeneutica delle situazioni Due
ragioni dell’esigenza interpretativa: — mutamento e permanenza nel movimento
storico — appartenenza del passato al nostro essere I tre principi ermeneutici:
— il conoscere è un interrogare — i documenti storici come risposta alle
domande informazioni da registrare, ma fanno parte della nostra realtà, de-
terminano le nostre prospettive e le nostre progettazioni, il riostro modo di
vedere e di agire. « Comprendere è operare una mediazione tra il presente e il
passato, è sviluppare in se stessi tutta la serie con- tinua delle prospettive
attraverso cui il passato si presenta e si ri- volge a noi ».? Ma, accertata la
verità del carattere storico del nostro essere e del nostro conoscere, come si
sviluppa la nostra conoscenza intesa come interpretazione, ossia il pensare
ermeneutico? Secondo Gadamer, che è il principale teorico della teoria della
interpretazione (ermeneutica) storica, il pensare ermeneutico si sviluppa sulla
base di tre principi. Il primo dice che ogni conoscenza è la risposta ad una
domanda. Il che significa che il conoscere è anzitutto un interrogare, e que-
st'ultimo, secondo Gadamer, è sempre determinato da una situa- zione
particolare: « Non al giudizio, ma alla domanda spetta il pri- mato nella
logica, come dimostrano storicamente il dialogo plato- nico e l'origine
dialettica della logica greca. Ma il primato della domanda rispetto alla
proposizione significa che la proposizione è, per sua natura, risposta. Non c’è
proposizione che non sia una spe- cie di risposta e perciò non si può intendere
una proposizione se non rifacendosi ai criteri intrinseci alla domanda di cui è
una risposta... Certo non è facile trovare fa domanda, di cui una data
proposizione è effettivamente la risposta, soprattutto perché una domanda non è
mai qualcosa di semplice e primo, a cui si possa ar- rivare solo che lo si
voglia: ogni domanda è ancora una risposta e questa è la dialettica in cui
siamo impigliati. Ogni domanda è mo- tivata e anche il suo significato non è
mai dato interamente in es- sa ». In conclusione, « l'orizzonte di ogni
proposizione è il sorgere da una situazione problematica », e « una conoscenza
si mostra fe- conda in quanto appiana una situazione problematica ».* Il
secondo principio dice che qualsiasi documento storico, qual- siasi testo
letterario e anche tutti i monumenti artistici, le istituzioni sociali,
politiche e religiose sono la registrazione di certe conoscenze, le quali, come
vuole la dialettica del conoscere, rappresentano le ri sposte alle domande che
i loro autori si sono fatte in certe situa- zioni. Pertanto, per comprendere
tali documenti occorre riportare le risposte che essi contengono nel coniesto,
nell'orizzonte degli in- terrogativi da cui sono sorte, un orizzonte che
conteneva la possi- bilità di molte altre risposte. In certo qual modo la
formulazione conclusiva che esse hanno assunto deve essere ricondotta al movi-
mento della conversazione. Questo è il compito dell'ermeneutica: « trarre il
testo fuori dallo stato di alienazione in cui gtace (a causa della forma
immobile che esso ha assunto nella composizione scrit- 3 Ivi, p. 93. * H.
GADAMER, « Che cos'è la verità », in Rivista di filosofia 1956, pp. 261-262.
200 ta) e riportarlo al presente vivo del dialogo, Ia cui forma originaria è
sempre quella della domanda e della risposta ».ò Il terzo principio afferma che
nessuna conoscenza è « pura », « impregiudicata », ma è sempre « mista »,
accompagnata e condi- zionata da « pregiudizi ». Questo terzo postulato, nel
pensiero del Gadamer, è la logica conseguenza della sua concezione dell'uomo
come essere storico e, perciò, legato a certe tradizioni, prospettive,
situazioni. Sono queste tradizioni, prospettive, situazioni a formare i
pregiudizi. Come si vede, Gadamer dà al termine « pregiudizio » un signi-
ficato che si discosta sostanzialmente da quello usuale per due ra- gioni. Anzitutto
nel significato usuale il pregiudizio è una « cono- scenza errata » che
impedisce di vedere e giudicare rettamente in certe situazioni. Ora, per
Gadamer il pregiudizio non ha questa con- notazione negativa di falsità e
falsificazione. ‘Per lui il pregiudizio è soltanto una « conoscenza previa »,
la quale può essere sia vera che falsa. La seconda ragione è che nella
accezione comune il pregiudizio è qualcosa di contingente, qualcosa quindi che
si può superare, neu- tralizzare. Invece per il Gadamer questo è impossibile,
in quanto, come si è detto, i pregiudizi fanno parte della storicità dell'uomo
e perciò accompagnano necessariamente la sua esistenza. Il che tut- tavia non
significa che la conoscenza umana debba essere schiava dei pregiudizi. Questo no,
anzitutto perché essa può prenderne coscien- za e, così, in certo qual modo li
può dominare, e in secondo luogo erché di certi pregiudizi si può anche
disfare. Ma come è possibile per l'interprete uscire dall’orizzonte dei suoi «
pregiudizi » e mettersi in cumunicazione con l'orizzonte altrui, in particolare
con quello di un testo che appartiene ad altri tempi lon- tani da lui? Non
esiste forse tra passato e presente un abisso insor- montabile? Del resto, la
storicità non richiude necessariamente l'in. terprete dentro il vicolo cieco
del suo soggettivismo? Gadamer, pur riconoscendo e affermando l’alterità tra
passato e presente, esclude che fra loro esista una scissura completa. La sto-
ricità esige piuttosto il contrario: essa fa sì che la distanza tempo- rale sia
« colmata dalla continuità delia tradizione e della trasmis- sione, grazie alle
quali tutto ciò che ci viene trasmesso si rivela a noi ».$ Ma neppure il fatto
che l'orizzonte conoscitivo dell’interprete sia circoscritto da « pregiudizi »
è tale da rinchiuderle nel soggetti- vismo e «a impedirgli l’incontre con altri
orizzonti. Infatti i « pre- giudizi » non sono tutti « egocentrici » e,
soprattutto, i « pregiudizi » non sono la prima cosa: al di là e al di sotto
dei « pregiudizi » esiste un accordo fondamentale, che Gadamer chiama « accordo
portante ». Questo « punto di stabilità », questa solida piattaforma che rende
5 H. GADAMER, Wahrheit und methode, Mohr, Tiibingen 1960, p. 350. Ivi, p. 281.
201 — ogni conoscenza è mista al pregiudizio il pregiudizio come conoscenza
previa e come contingente superabile La tradizione colma la separazione tra
passato e presente L’‘accordo portante’ rompe il rischio del soggettivismo il
linguaggio punto di stabilità e dì fusione La storia come tradizione: permanenza
della forma e identità delia struttura La conoscenza del passato, del presente
e del futuro come proiezione verso l'eternità possibile l’incontro e la fusione
tra i vari orizzonti è fornita dal linguaggio. « Io credo che il linguaggio
operi la sintesi perenne tra l'orizzonte del passato e quello del presente. Nci
ci intendiamo reci- procamente, perché ci parliamo, perché, pur svolgendosi
sempre il nostro discorso su piani diversi e non convergenti, alla fine, per
mez- zo delle parole, riusciamo a metterci reciprocamente di fronte le cose
dette con le parole ».' Come si vede, nella interpretazione gadameriana della
storicità della conoscenza umana, si riscontra uno sforzo notevole di superare
lo scoglio delio storicismo, del relativismo e del soggeitivismo in cui erano
generalmente incappate le precedenti interpretazioni del- lo stesso fenomeno.
In effetti, la proprietà della storicità non significa necessaria- mente queste
interpretazioni scettiche del conoscere. Infatti, che cos'è la storia? È solo
divenire senza permanere; sequenza di muta- menti senza alcuna costante? La
natura della storia e conseguentemente della storicità non può essere diversa
da quella del tempo. Ora, il tempo, ci dice Bergson, è essenzialmente durata.
Perciò la storia più che successione di av- venimenti di natura diversa è
tradizione di fatti, di azioni e, quindi, essa ha come suo connotato essenziale
la permanenza della forma e l'identità di struttura, nonostante tutti i
possibili mutamenti. La storia non è pura successione casuale di avvenimenti
sconnessi e discontinui, ma un flusso, un trascorrere di una medesima sostan-
za fondamentale; non è un divenire occasionalistico e frammentario, ma uno
sviluppo organico e continuo. In conclusione, riconosciamo senz'altro che il
nostro conoscere è segnato dal sigillo del tempo. Ma affermiamo che, come il
tempo ha tre « estasi » (passato, presente e futuro), così il nostro conoscere
ha una triplice estensione: quella in direzione del passato, quella in
direzione del futuro e quella rivolta verso il presente. Inoltre il nostro
conoscere gode di una considerevole padronanza rispetto a queste estasi, in
quanto può protendere il suo sguardo oltre ogni orizzonte segnato dal passato e
dal futuro e proiettarsi verso l’eter- nità. CONCETTI DA RITENERE — Senso
oggettivo; senso soggettivo — Scetticismo storico — Realismo storico,
deterministico, statico e dinamico — Realismo storico non deterministico
naturalistico; realismo storico cristiano — Ermeneutica storica; pregiudizio;
accordo portante; punto di stabilità * H. GADAMER, « Che cos'è la verità »,
cit., p. 265.202 SINTESI CONTENUTISTICA I. IL CONCETTO DI STORIA La storia si
definisce a seconda che per essa si intendano gli avvenimenti in se stessi
(senso oggettivo) oppure la conoscenza dei medesimi (senso sog- gettivo): a) il
senso oggettivo indica il cammino dell’uomo attraverso il tempo; b) il senso
soggettivo è lo studio degli avvenimenti umani che accadono nel tempo, nelle
loro cause, nei loro effetti, nel loro significato ultimo. II. POSSIBILITÀ
DELLA SCIENZA STORICA Gli orientamenti nei confronti della scienza storica si
distinguono in scet- ticismo storico e in realismo storico. A. Lo scetticismo
storico posa sui seguenti argomenti: 1. Gli avvenimenti sono solo apparenti: a)
Il mondo dell'esperienza è un mondo illusorio e perciò senza senso; b)
Assertori dell'argomento sono, ad esempio, la filosofia indiana, Eraclito e
Schopenhauer. 2. Gli avvenimenti non accadono secondo un piano ordinato: a) Gli
eventi sono reali ma non hanno significato poiché sono privi di direzione. b)
Il loro susseguirsi non determina un progresso. 3. Discordanza nella
interpretazione dei fatti storici: a) L’interpretazione dei fatti storici è
soggetta. al filtro ideologico dello storiografo. B. Il realismo storico ammette
la possibilità di una scienza degli eventi storici. Il realismo presenta due
orientamenti: il deterministico e il non-determi- nistico. 1. Realismo storico
deterministico afferma l'accadimento necessario dei fatti e si distingue in: a)
Realismo storico deterministico | nella successione degli avvenimenti statico |
non vi è progresso — Secondo il pensiero greco la storia si svolge su un piano
circolare, in cui l'individuo gode di una libertà relativa e l’universo è
soggetto alle leggi ma- tematiche dell'eterna palingenesi. Il tempo è
l’immagine mobile dell'eternità immobile (Platone, Timeo e Politica). b)
Realismo storico deterministico | il divenire storico procede verso me-
dinamico te sempre più elevate — Tale concezione tipica della filosofia
contemporanea accomuna materia- listi e idealisti. Viene affermata una
sostanziale identità tra realtà e storia ‘(sto- ricismo). — Lo storicismo
implica la negazione della trascendenza di Dio, nega la libertà della persona e
sostiene la continua transitorietà dei valori. 2. Realismo storico
non-deterministico afferma che i fatti accadono secon- do libertà e si
distingue in: a) Realismo storico non-determini- }la storia si svolge su un
piano ordi- stico naturalistico | nato voluto dalla natura — È la concezione
kantiana secondo la quale fine della storia è una so- cietà che vive secondo il
diritto e che il genere umano progredisca sempre verso il meglio. . | la storia
si svolge secondo un piano deter- b) Realismo storico cristiano } minato
dall'incontro di due libertà: quella ( di Dio e quella dell’uomo . — Il piano
della storia può essere raffigurato come una linea ascensionale con deviazioni
verso il basso, ma il cui punto terminale è più elevato di quello iniziale. 203
— La Rivelazione ci svela: a) il significato della storia che ci precede; b) il
punto della storia in cui ci troviamo; c) che cosa ci riserva l'avvenire. —
Appartengono a tale concezione: S. Agostino, Bossuet, Vico, Maritain, De Lubac,
von Balthasar, Toynbee, Mouroux, Cullmann.III. LA STORIA È UNA SCIENZA? 1. La
storia, come la scienza sperimentale, può chiamarsi cognitio certa per causas.
Il per causas è il nesso, la legge che unisce due eventi. 2. Anche nella storia
si può raggiungere certezza. Nella visione cristiana la Rivelazione pone dei
pilastri assoiutamente certi, che permettono di costruire una storia universale
di valore categorico almeno nelle linee generali. 3. Vico, Toynbee, Spengler,
in base alla convinzione che l'oggetto della storia non sia soltanto certo ma
anche universale, hanno ricercato l’unità sto- rica, l’universale storica che
torna ripetutamente a realizzarsi (nazione, civiltà, ecc.). IV. L'ERMENEUTICA
STORICA 1. La consapevolezza della storicità dell'uomo, come afferma Gadamer, è
una delle più importanti rivoluzioni del nostro tempo. 2. La scienza storica
subisce una profonda trasformazione, poiché diviene interpretazione
(ermeneutica) di situazioni: un essere storico comprende se stesso. 3. L'uomo
coglie la realtà storica interpretandola per due ragioni: a) la storia è
movimento, perciò per risalire al senso originale delle tradi zioni occorre
passare attraverso vari sviluppi; b) il passato non è estraneo all'uomo, ma fa
parte del suo essere, entra quindi a fare parte della soggettività mediante
l’interpretazione. 4. Secondo Gadamer il pensare ermeneutico si sviluppa sulla
base di tre principi: a) Ogni conoscenza è la risposta ad una domanda. Il
conoscere è anzitutto un interrogare e l'interrogativo è sempre determinato da
una situazione par- ticolare. b) Qualsiasi documento storico è la registrazione
di certe conoscenze. I documenti per essere compresi richiedono che le
risposte, che contengono, siano riportate nell'orizzonte da cui sono sorte. c)
Nessuna conoscenza è « pura », ma è sempre condizionata da pregiudizi. In
Gadamer il termine pregiudizio significa « conoscenza previa », che in quanto
tale può essere sia vera che falsa. I pregiudizi fanno parte della storia
dell'uomo, vanno in ogni caso dominati e se necessario eliminati. Al di là dei
pregiudizi esiste tra i diversi orizzonti interpretati la possibilità di un
accordo fondamentale, che Gadamer chiama « accordo portante ». Questo punto di
sta- bilità è fornito dal linguaggio che opera la sintesi tra l'orizzonte del
passato e quello del. presente. 5. Caratteristica dell’ermeneutica storica è il
tentativo di essere il supera- mento dello storicismo, del relativismo e del
soggettivismo. QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Che cosa è la storia?
Come si definisce in senso soggettivo e in senso oggettivo? 2. È possibile una conoscenza
scientifica della storia? Quali sono gli argo- menti pro e contro? 3. Quali
sono le principali interpretazioni del senso della storia? 4. Che cosa si
intende per storicismo? 5. Che significa materialismo storico? 204 6. Qual è la
concezione vichiana della storia? 7. È possibile una « filosofia » cristiana
della storia? 8. Che cosa è l'universale storico È possibile identificarlo con
sicurezza? 9. Quale rapporto è opportuno stabilire tra antropologia e
concezione della storia? 10. In quale misura la concezione della storia
contribuisce all'elaborazione di un progetto-uomo? 11. Che cosa si intende per
ermeneutica storica? Quali sono i principi fon- damentali su cui essa si regge?
12. È legittimo ritenere che l’ermeneutica storica possa contribuire a un
recupero dei valori morali da parte della coscienza personale e collettiva del
nostro tempo? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AcosTINO, La città di Dio, Città
Nuova, Roma 1978. BERDJAEV N., Il senso della storia, Jaca Book, Milano 1977.
CAPPELLO C., La visione storica in G.B. Vico, Einaudi, Torino 1946. CASTELLI
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1973. RIGOBELLO A., Il futuro della libertà, Studium, Roma 1978. Vico G.B., La
scienza nuova, Nicolini, Bari 1934. 205 Valore e funzione della cultura nello
sviluppo della civiltà Cultura, termine plurisemantico: senso elitario,
pedagogico, antropologico la Capitolo quattordicesimo IL PROBLEMA CULTURALE
QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. Quale etimologia attribuire alla parola cultura?
2. In quale misura e perché caratterizza la realtà dell’uomo? 3. Si può
stabilire un rapporto tra cultura e civiltà? La cultura « è l'ultimo e più alto
mezzo per il fine ultimo del- l'uomo, ossia la sua più perfetta coerenza con sé
medesimo »} ha affermato Fichte in La missione del dotto (1794), facendosi
porta- voce, già sul finire del XVIII secolo, di una consapevolezza nuova che
l'uomo aveva ormai raggiunto di questa sua radicale dimensione. L'uomo, nella
sua storia, ha sempre fatto cultura poiché egli è un essere essenzialmente
culturale oltre che naturale, ma questa verità è diventata oggetto della
riflessione filosofica soltanto durante gli ultimi decenni. Ciò è accaduto per
due ragioni principali: a) lo sviluppo dell'antropologia culturale come
scienza, la quale ha messo in luce il valore e la funzione che ha la cultura
nello sviluppo della civiltà e nella caratterizzazione dei popoli; b) la crisi
epocale che sta attraversando da qualche tempo la cultura occidentale. È stata
so- prattutto questa crisi radicale a sollecitare uno studio più attento e più
approfondito di ciò che è la cultura in se stessa, per l'individuo e per la
società. 1. Definizione « Cultura » è un termine plurisemantico che
storicamente e attual- mente ha tre significati e tre usi principali che
possiamo chiamare elitario, pedagogico e antropologico. Nel senso elitario
cultura si- gnifica una gran quantità di sapere, sia in generale che in qualche
settore particolare. Così, per esempio, quando si dice che una certa persona
possiede una vasta cultura scientifica, filosofica, artistica, letteraria, ecc.
o quando si dice semplicemente che è « molto colta ». Nel senso pedagogico
cultura sta ad indicare l'educazione, la forma- zione, la coltivazione
dell'uomo: è la paideia dei greci, ossia il pro- cesso attraverso il quale
l’uomo (il bambino, il ragazzo, l'adulto) 1 J.G. FICHTE, La missione del dotto,
La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 86. 206 perviene alla piena maturazione e
realizzazione della propria per- sonalità. Infine, nel senso antropologico, che
è quello che si è andato consolidando nel nostro secolo, cultura significa
quell'insieme di co- stumi, di tecniche e di valori che contraddistinguono un
gruppo so- ciale, una tribù, un popolo, una nazione: « è il modo di vivere pro-
prio di una società » (Taylor). i A noi, nel presente capitolo, interessano
soltanto gli ultimi due significati di cultura, in particolare il terzo. Ma il
secondo e il terzo sono strettamente legati tra loro: in effetti la cultura è
dimensione di un gruppo sociale, di una società, perché è anzitutto dimensione,
proprietà dell'uomo in quanto uomo. Premesse alcune informazioni sulla storia
del problema culturale, gli argomenti di cui ci occuperemo sono i seguenti:
l'uomo come essere culturale, la cultura come forma spirituale della società, i
fondamenti della cultura, classificazione delle culture, rapporti tra cultura e
religione, urgenza del rinnovamento della cultura. 2. Il problema della cultura
nella storia della filosofia Fino ad un paio di secoli fa il problema culturale
coincise sostan- zialmente con quello pedagogico. Fino all'Illuminismo si
concepiva la cultura essenzialmente come paideia, come formazione della persona
e non come struttura fondamentale della società. Di con- seguenza, il problema
culturale veniva affrontato dalla prospettiva antropologica, ignorando
totalmente quella etnologica. Quanto la filosofia è riuscita a dire della
cultura come paideia l'abbiamo visto nel capitolo riguardante la pedagogia, e
qui lo diamo per acqui- sito. Ora ci interesseremo degli ulteriori sviluppi che
ebbe il pro- blema culturale allorché, a partire dal secolo XVIII, fu
affrontato oltre che dalla prospettiva antropologica, anche da quella
etnologica. A prendere coscienza della verità che la cultura è un feno- meno
che interessa oltre che la singola persona anche il gruppo so- ciale in quanto
tale, in quanto essa rappresenta il suo sistema di vita e costituisce il
vincolo che unisce tra loro i membri di un determi- nato gruppo e li distingue
dai membri degli altri gruppi, furono gli illuministi tedeschi Herder e
Humboldt. Questi due filosofi con- cepiscono entrambi la cultura sia come
vincolo spirituale che tiene
strettamente uniti tra loro i membri di
una nazione sia come realiz- zazione di un particolare progetto di humanitas.
Secondo Herder l’obiettivo primario della cultura è l’uomo stesso, la
coltivazione dell'uomo per renderlo sempre più uomo e avvici- narlo all'ideale
della umanità, la humanitas. « A questo scopo evi- dente è organizzata la
nostra natura; per esso ci sono dati sensi ed impulsi più raffinati, per esso
ci è data la ragione e la libertà, una salute delicata e durevole, il
linguaggio, l'arte e la religione. In ogni condizione e in ogni società, l'uomo
non può avere altro in vista 207 Cultura: dimensione dell’uomo in quanto uomo
Fino al secolo XVIII coincidenza di cultura e pedagogia Herder e Humboldt:
cultura, vincolo spirituale di un popolo Humboldt: funzione principe del
linguaggio nella cultura Dal XIX secolo si sviluppano l’etnologia e
l’antropologia culturale né può costruire altro che l'umanità, così come la
pensa in se stes- so »? La realizzazione dell'ideale dell'umanità varia da popo
a po- polo, da individuo a individuo, ma progredisce incessantemente stro alla
fine dei tempi. Anche per Humboldt, come per :Herder, la cultura è la forma
spi- rituale di un popolo, di una nazione. Egli insiste soprattutto sulla
funzione che compete alla lingua quale fattore principale della cul- tura. A
suo parere la cultura è una forma spirituale dell'umanità caratterizzata da una
determinata lingua, individualizzata rispetto alla totalità ideale. «
L'individualità divide, ma in una maniera così meravigliosa che proprio
mediante la divisione risveglia il senti- mento dell'unità, anzi appare un
mezzo per costituire questa unità almeno nell’idea [...1. Qui, in modo davvero
meraviglioso, gli viene in aiuto il linguaggio, che unisce anche quando isola e
che, nella veste della più individuale espressione, racchiude la possibilità di
universale intelligenza. Il singolo, dove, quando e come vive, è un frammento
staccato di tutta la sua stirpe, e il linguaggio dimostra e mantiene questo
eterno nesso che guida il destino del singolo e la storia del mondo »} Dopo
Herder e Humboldt e per merito loro, la cultura come forma spirituale della
società diviene un tema importante sia per l'indagine scientifica sia per la
riflessione filosofica. Dalla seconda metà dell'Ottocento in poi gli etnologi e
antropo- logi francesi, tedeschi, inglesi, italiani, americani che si dedicano
allo studio delle civiltà antiche o dei popoli primitivi elaborano teo- rie
generali intorno ai fenomeni della cultura e formulano ipotesi varie circa la
sua origine, il suo sviluppo, i traiti universali, la classificazione,
l'assimilazione, il collegamento fra le parti di una cultura, ecc. Altrettanto
fanno i filosofi. Questi, normalmente {e logi- camente) affrontano e risolvono
i problemi della cultura alia luce dei postulati generali della loro
cosmovisione. Così gli idealisti (Cas- sirer, Croce, Gentile, Husserl) vedono
nella cultura di un popolo le varie tappe della presa di coscienza
dell’Assoluto; i vitalisti (Dil- they e Spengler) considerano la cultura come
massima espressione della vita; i marxisti (Marx e iLenin e i loro seguaci)
interpretano la cultura come rispecchiamento delle condizioni economiche di una
società; gli strutturalisti fanno della cultura un prodotto del Pensiero
inconscio (così Lévi-Strauss e Foucault). I filosofi hanno dibattuto con
vivacità i rapporti della cultura con la politica, la religione e la
tecnologia, giungendo alle soluzioni più disparate: di conflitto, di armonia,
di inclusione, di esclusione, di correlazione, ecc. Ad analoghi risultati è
approdato il dibattito in- torno alla priorità tra cultura scientifica e
cultura umanistica (ma 2 JG. HERDER, /dee per la filosofia della storia
dell'umanità, Il Mulino, Bologna 1971, p. 137 # W. v. HUMBOLDT, « Ueber die
Verschiedenheiten des menschlichen Sprach- baues », in Gesammielte Schriften,
Berlino 1904, vol. VI/1, p. 125 ss. 208 questo è un dibattito che toesa
maggiormente il problema pedago- gico che quello etnologico). In questi ultimi
anni — dopo che la cultura moderna o occi- dentale ha dato segni evidenti di
una crisi profonda, forse irrever- sibile — l’attenzione dei filosofi si è
concentrata maggiormente sui fondamenti della cultura, sui suoi elementi
costitutivi, sulle sue funzioni, sui valori che animano una cultura, sulla
progettazione di una nuova cultura. E se è vero, come perisano molti, che la
cultura moderna ha ormai esaurito le sue risorse e va verso una completa
dissoluzione, allora si deve ammettere che il compito più urgente a cui sono
chiamati attualmente i filosofi è quello di elaborare un nuovo progetto
culturale che risponda alle esigenze della nascente società che dovrà
affrontare e risolvere non più problemi di interesse particolare e locale, ma
problemi di interesse planetario e universale. Per una società planetaria
occorre studiare un progetto di cultura planetaria.‘ 3. L'uomo come essere
culturale Abbiamo già osservato più volte nei capitoli precedenti che l’uo- mo
non è solo un essere naturale ma anche culturale: ciò significa che al momento
della nascita la natura gli dà appena il mirimo ne- cessario, l'essenziale, per
essere uomo e affida a lui stesso il compito di farsi, di formarsi, di
realizzare pienamente il proprio essere me- diante la cultura. L'integrazione
della dimensione naturaie dell'uomo nella dimen- sione culturale viene così
teorizzata da J. Maritain: « Essendo l'uomo uno spirito animatore di una carne,
ia sua natura è di per sé una natura progressiva. Il lavoro della ragione e
della virtù è naturale nel senso che è conforme alle inclinazioni essenziali
della natura umana, di cui mette in moto le energie essenziali. Non è naturale
nel senso che sia dato bell'e fatto dalla natura. [...] La cultura è naturale
per l'uomo nello stesso senso del lavoro, della ragione e della virtù, di cui è
il frutto e il compimento terreno ». Mentre l’animale acquisisce tutto dalla
natura e lungo l'arco della sua esistenza non fa altro che eseguire
puntualmente, istiniiva- mente, meccanicamente, quanto sta iscritto nel suo
DNA, l’uomo riceve dalla natura un DNA che gli spalanca immense possibilità:
col DNA la natura consegna all'uomo un progetto, ed è compito di tutta la sua
vita quello di tradurlo in realtà e di portarlo a compimento. La filosofia
classica (Platone, Aristotele, Zenone, Plotino, ecc.) ‘ ‘Per un'analisi critica
di vari progetti culturali laici e cristiani di rinnova- mento della cultura si
veda B. Mondin, Una nuova cultura per una nuova società, (Analisi della crisi
epocale della cultura moderna e dei progetti per superarla), 2° ed., Massimo,
Milano 1983. 5 J. MARITAIN, Religione e cultura, Morcelliana, Brescia 1973, p.
15. 209 Crisi detta cultura e indagine sui suoi fondamenti per un nuovo
progetto culturale Maritain: la cultura è naturale per l’uomo La concezione
naturalistica dell’uomo nel mondo classico La concezione storicistica dell’età
moderna Non tutto l’uomo è opera della cultura La cultura dimensione delia
natura umana considerava l’uomo come essere naturale: costituito di un'essenza
immutabile che gli viene data dalla natura, dalla quale egli deriva non
soltanto le leggi biologiche ma anche i dettami morali: « Agisci secondo natura
» era l'imperativo categorico della filosofia greca. Era chiaramente una
concezione statica dell'uomo, fondata sul pri- mato dell'intelletto sulla
volontà, della contemplazione sull'azione, della natura sulla storia. La
filosofia moderna ha operato una svolta radicale. Essa non vede più nell'uomo
un parto della natura, ma piuttosto un prodotto di se stesso. È la tesi di
Nietzsche, Hegel, Sartre, Heidegger e della maggior parte dei moderni. È una
concezione « storicistica » del- l'uomo, basata sul primato della volontà e
della libertà sulla cono- scenza, della prassi sulla teoria, dell'esistenza
sull'essenza, della storia sulla natura. Sul piano morale non esiste nessun
altro impe- rativo al di fuori di quello di tradurre in atto le proprie
possibilità (la propria potenza!). Tra queste due vie antitetiche c'è però una
terza via: che è quella che considera l'uomo né come essere naturale né come
essere sem- plicemente storico, bensì come essere culturale. Ciò significa che
non tutto l’uomo è prodotto della natura e neppure della storia, ma in parte
della natura e in parte della storia, e questo amalgama tra natura e storia si
chiama cultura. Non tutto l’uomo, però, è opera della cultura. Molto di quanto
c'è in lui proviene dalla natura. Tutta la sua dimensione somatica e bio-
logica è prodotta direttamente dalle forze naturali. Quel piccolo esse- re
umano che viene alla luce dopo nove mesi di gestazione nel grembo della madre è
frutto delle leggi genetiche che la natura ha iscritto nei corpi dei genitori.
Gli organismi e le facoltà di cui sono muniti il bambino e l'adulto provengono
dalla natura. Anche gran numero delle attività somatiche e psichiche che noi
svolgiamo dipendono dal- le leggi della natura. ‘Però gran parte di ciò che noi
possediamo e che facciamo già da bambini di un anno non è frutto della natura
bénsì della cultura. Questa è la caratteristica più rimarchevole, che distingue
immedia- tamente l’uomo dagli animali e dalle piante. Diversamente dagli altri
viventi il cui essere è interamente prodotto dalla natura, l’uomo è in larga
misura l'artefice di se stesso. Mentre le piante e gli ani- mali subiscono
l’ambiente naturale che li circonda, l'uomo è capace di coltivarlo e di
trasformarlo profondamente, adeguandolo ai pro- pri bisogni. La cultura non è
qualche cosa di accidentale per l’uomo, un passatempo, ma fa parte della sua
stessa natura, è un elemento costitutivo della sua essenza. In passato per
distinguere l’uomo dagli altri esseri ci si basava sulla ragione, sulla
volontà, sulla li- bertà, sul linguaggio, ecc. Oggi si è compreso che un
aspetto, una dimensione non meno specifica dell'uomo è la cultura. Questa
carat- terizza l'uomo e lo distingue dagli animali non meno chiaramente della
ragione, della libertà, del linguaggio. In effetti gli animali non 210 hanno
culiura, non sono artefici di cultura: tutt'al più sono passivi ricettori di
iniziative culturali compiute dall'uomo. Per crescere e sopravvivere gli animali
sono muniti dalla natura di certi istinti e di determinati sussidi, sia a scopo
di difesa sia a scopo di prote- zione; invece « l'uomo al posto di tutte queste
cose possiede la ra- gione e le mani, che sono gli organi degli organi, in
quanto col loro aiuto l'uomo può procurarsi strumenti di infinite fogge per
infiniti scopi ».î L'uomo è un essere culturale in due sensi, anzitutto in
quanto è artefice della cultura, ma anche, come s'è visto, in quanto è lui
stesso il primo destinatario e il massimo effetto della cultura. La cultura,
nelle sue due principali accezioni di formazione del singolo (acce- zione
soggettiva) e di forma spirituale della società (accezione ogget- tiva), ha di
mira la realizzazione della persona in tutte le dimensioni, in tutte le sue
capacità. Scopo primario della cultura è coltivare l’uo- mo in quanto uomo,
l’uomo in quanto persona, cioè il singolo uomo, in quanto esemplare unico ed
irripetibile della specie umana. Obiettivo della cultura — in senso
antropologico — è sempre stato quello di fare dell’uomo una persona, uno
spirito pienamente svilup- pato, in grado di portare alla completa e perfetta
realizzazione quel progetto-uomo che la Provvidenza gli ha consegnato. « Fare
di se stessi, dal fanciullo che si è stati da principio, dall'essere mal diroz-
zato che si rischia di rimanere, far nascere l’uomo pienamente uomo, di cui si
intravede l'ideale figura: tale è l'opera di tutta la vita, l’uni- ca opera a
cui questa vita possa essere nobiimente consacrata ».” L'uomo, in quanto essere
culturale, non è prefabbricato: egli deve costruirsi con le proprie mani. Ma
secondo quale progetto? Quale modello, se ce n'è uno, deve tenere davanti agli
occhi? Pla- tone, gli stoici, i neopiatonici dicevano che il suo modello è
l'uomo ideale. I Padri della Chiesa, richiamandosi al Vangelo, hanno pro- posto
come modello l’imago Dei, cioè Gesù Cristo, il Figlio di Dio incarnato, il
grande Pedagogo. Qui emerge l'importanza capitale dell'antropologia filosofica
che è l'unica disciplina razionale in grado di determinare chi è l’uomo e di
conseguenza di elaborare quel progetto su cui impostare la col- tivazione
dell'uomo. Spetta infatti all’antropologia filosofica e non alle scienze
particolari rispondere ai grandi quesiti relativi alla na- tura dell'essere
dell'uomo, alla sua origine prima e al suo ultimo destino. L'antropologia
filosofica ha la possibilità di evidenziare la dimensione spirituale dell'uomo
e il suo destino eterno. Essa mette in luce il primato dello spirito sulla
materia, dell'anima sul corpo: verità capitale questa per stabilire con
esattezza le linee di un pro- getto culturale teso alla piena realizzazione
dell'essere dell'uomo. Affinché sia valido, un progetto-uomo deve assegnare il
primato alla $ TomMaso D'AQUINO, S. Theol., I, 76, 5 ad 4 m. ' H.I. MARROU,
Storia dell'educazione nell'antichità, Studium, Roma 1966, p. 139. 211 L’uomo
artefice destinatario ed effetto della cultura L'importanza dell’antropologia
filosofica: delinea il primato della dimensione spirituale La cultura ‘forma spirituale
della società” Elementi costitutivi della cultura: lingua, costumi, tecniche,
valori dimensione spirituale, la dimensione interiore, la dimensione che
riguarda la crescita nell'essere anziché nell'avere. 4. La cultura come forma
spirituale della società L'accezione oggettiva del termine « cultura » esprime
soprattutto la crescita e la creatività del gruppo umano e l'incidenza che esse
assumono nel cammino della storia. « Invece del termine cultura, che si
riferisce allo sviluppo razionale dell'essere umano considerato in generale, si
può ugualmente usare quello di civiltà, che si riferisce a questo stesso
sviluppo, considerato però in un caso eminente, cioè nella produzione della
città e della vita civile, di cui la civiltà è come il prolungamento e lo
sviluppo ».* J. Maritain ci offre con questa riflessione una intelligenza ade-
guata della cultura come caratteristica che specifica, unificandoli e
distinguendoli, i vari gruppi sociali. Così la cultura è ciò che di- stingue un
popolo dagli altri popoli. ‘Intesa come proprietà della società, la cultura
viene definita essenzialmente come « forma spirituale della società » e
descrittiva- mente come quell'insieme « di oggetti materiali, di istituzioni,
di mo- duli di vita e di pensiero che non sono peculiari dell'individuo ma che
caratterizzano un gruppo sociale. [...] La cultura è la vita di un popolo, così
come si formalizza in contatti, in istituzioni, in apparati tecnologici che
sono tipici; essa comprende inoltre concetti, com- portamenti, costumi e tradizioni
caratteristici. [...] La cultura quindi significa tutte quelle cose,
istituzioni, oggetti materiali, reazioni ti- piche alle situazioni, che
caratterizzano un popolo e lo distinguono da altri ».° Da un'accurata analisi
della cultura come forma spirituale di una società risulta che dei molteplici
elementi che la costituiscono (lingua, letteratura, arte, poesia, religione,
istituzioni politiche, giu- ridiche, pedagogiche, sport, macchine, strumenti di
lavoro, costumi, leggi, religioni, riti, miti, valori, ecc.) alcuni sono più
essenziali, altri meno (per esempio la lingua è più essenziale della scrittura,
della matematica; la religione dei riti; i valori morali delle leggi, ecc.) e
così si può giungere alla conclusione che gli elementi costitutivi fondamentali
essenziali per avere una cultura sono quattro: la lin- gua (che sorregge il
pilastro simbolico), le abitudini o i costumi (che sorreggono il pilastro
etico), le tecniche (che formano il pilastro tecnologico) e i valori (che
rappresentano il pilastro assiologico).! * * J. MARITAIN, Op. cit., pp. 15-16. * W.D. WALLIS,
Culture and Progress, McGraw-Hill, New York 1930, p. 32. * Secondo Malinowski e molti altri antropologi le
componenti fondamen- tali della cultura sono tre: l'economia, la politica e
l'educazione. Con queste attività ogni società riesce a far fronte ai propri
bisogni: con l'economia pro- duce, conserva e usa i beni necessari per il
proprio sostentamento; con la po- 212 Per acquisire un'idea più adeguata della
cultura è necessario analizzare l'apporto dato da ciascuno di questi quattro
elementi alla formazione della realtà culturale. 5. Gli elementi fondamentali
della cultura Come s'è detto, gli elementi fondamentali della cultura sono
quattro: la lingua, le abitudini, le tecniche e i valori. Il primo elemento
fondamentale è la lingua. Dove non c'è una lingua non ci può essere una
società, non ci può essere una nazione, e pertanto non si può sviluppare
nessuna cultura. La lingua è il pri- mo elemento che fa uscire il singolo da se
stesso e lo mette in comu- nicazione con gli altri. E il raggruppamento sociale
avviene anzi- tutto e soprattutto sulla base di una lingua. Anche i blocchi
etnici che si formano all’interno delle nazioni, per esempio, degli operai
italiani in ‘Germania, dei portoricani negli Stati Uniti, ecc., hanno per prima
causa la lingua. Gli italiani che vanno in Germania non sanno il tedesco e
pertanto continuano ad associarsi con i conna- zionali che parlano italiano. In
tal modo formano dei blocchi in cui si conserva la cultura e non soltanto la
lingua italiana. Ma la lingua da sola non basta per dare origine ad una
determi- nata cultura. Ci sono tanti popoli e nazioni che parlano la stessa
lingua (per esempio, l'inglese è parlato dagli inglesi, dagli irlandesi, dai
canadesi, dagli australiani, dagli americani, ecc.) ma posseggono una cultura
diversa. Occorrono altri elementi. Uno assai importante oltre la lingua sono le
abitudini. Queste possono riguardare tutto: il cibo, il vestito, il camminare,
il gesticolare, l'educazione dei bam- bini, l'attenzione per gli anziani, le
credenze religiose, ecc. Nelle abi- tudini si incarna e si esprime lo stile di
vita di un popolo, il suo modo di concepire e di affrontare l’esistenza, la
visione e l’atteggia- mento peculiare che assume di fronte alla realtà totale:
la natura, la società, la sfera del sacro. Le abitudini riguardano il comporta-
mento in generale e quindi solo in minima parte cadono sotto l’or- dine morale.
Oltre che abitudini comportamentali ogni gruppo umano svi- luppa delle tecniche
di lavoro sue proprie. Queste corrispondono alle esigenze dell'ambiente, alla
capacità, alla creatività e al livello di civiltà di un popolo. Così gli stessi
popoli cacciatori, pescatori, agricoltori, industriali inventano tecniche
differenti per pescare, per litica regola i rapporti tra i membri del gruppo
sociale; con l'educazione adde- stra e forma i suoi membri secondo gli ideali
che sono stati consacrati dalla tradizione del gruppo. La classificazione del
Malinowski è corretta se si con- sidera la cultura dal punto di vista
funzionale (come insieme di attività volte a provvedere ai bisogni di un gruppo
sociale). Se invece si assume il punto di vista ontologico, che intende
cogliere ciò che la cultura come forma specifica di una società è in se stessa,
allora risulta che i suoi elementi costitutivi es- senziali sono quanto meno
quattro: lingua, tecniche, costumi e valori. 213 La lingua mezzo di
comunicazione con l’altro Le abitudini: incarnazione della vita di un popolo Le
tecniche: espressione delle esigenze dell'ambiente La sfera dei valori:
“sapienza di un popolo’ La vita: valore primario di ogni popolo Dibattito sul
rapporto tra cultura e altre espressioni simboliche cacciare, per arare i
campi, per lavorare i metalli, ecc. Altrettanto fanno i sarti, i cuochi, i
falegnami, i giocatori, i maestri, ecc. Ogni cultura porta con sé tutta una
serie di stili di ordine tecnico e gli individui che né sono in possesso
mostrano chiaramente di fare par- te del gruppo sociale che possiede tale cultura.
Così dal modo di giocare, di cantare, di dipingere, di cucinare, ecc., si può
facilmente arguire se uno è italiano, francese, russo, cinese, indiano, ecc. Un
altro elemento costitutivo fondamentale di ogni cultura sono i valori. Ogni
cultura si caratterizza per apprezzamenti speciali in ordine a determinate
azioni, abitudini, tecniche, cose. Si tratta di a- zioni, abitudini, tecniche o
cose che rivestono straordinaria im- portanza per il gruppo sociale, il quale
le assume come criteri, come norme, come ideali. Tutti insieme essi
costituiscono la serie dei va- lori. Ogni popolo possiede una coscienza dei
valori, che forma anche ciò che si chiama « sapienza di un popolo ». Mediante
tale « sapien- za » il popolo riconosce, più o meno intuitivamente, il valore
posi- tivo o negativo della realtà, e sa quale deve essere il suo comporta-
mento davanti ad essa. In tutte le culture il primo posto nella sfera dei
valori è occupato dalla vita. La vita è ciò che conta maggior- mente: è il
valore supremo. Gli altri valori come la pace, la giu- stizia, l'onestà, la
bellezza, ecc., sono subordinati ad essa. Le abi- tudini, le tecniche e il
linguaggio circondano la vita come sostegno, come difesa, come promozione, ecc.
Lingua, abitudini, tecniche e valori sono pertanto gli elementi costitutivi
fondamentali di ogni cultura. Sulla base di tali elementi ogni popolo sviluppa
tutti gli altri aspetti che contribuiscono a conferirgli una sua forma
specifica: l’arte, la filosofia, la religione, la scienza, la letteratura, la
politica, ecc. 6. Rapporti tra cultura e religione Nel breve excursus
attraverso la storia del problema culturale abbiamo visto che nell'ultimo
secolo ci sono state vivaci dispute intorno ai rapporti tra la cultura e le
altre espressioni simboliche {scienza e religione in particolare), economiche e
politiche della società. In realtà molti di questi problemi sono stati mal
posti e il loro conflitto è stato determinato dal fatto che essi erano
espressioni di presupposti teorici e ideologici molto diversi, determinati
proprio dall'ambiguità del termine cultura, ai quali abbiamo già fatto rife-
rimento: cultura come erudizione, come formazione (educazione), come struttura
(forma spirituale della società). ° Chi tiene conto della condizione
piurisemantica del termine cul. tura si avvede immediatamente che mettere a
confronto la scienza (oppure la politica) con la cultura è una cosa possibile e
legittima se il termine cultura viene inteso nel primo oppure nel secondo sen-
214 so, perché si tratta di dimensioni o complessi totalmente distinti; mentre
la cosa diviene impossibile e assurda se la cultura viene presa nel terzo
senso; perché secondo questo senso essa ha un valore on- ninclusivo: abbraccia
tutte le espressioni tipiche di un gruppo socia- le, tutti i suoi prodotti e
quindi anche la scienza e la politica. In tal caso domandare che rapporti
intercorrono tra scienza e cultura oppure tra cultura e politica come se si
trattasse di due regni di- stinti o di due edifici separati è incorrere in un
inutile sofisma. Con questo non intendo sostenere che quando il termine cultura
viene usato in senso etnologico la questione risulti del tutto impro- ponibile.
La questione è proponibile purché si tenga presente che essa riguarda i
rapporti di una parte col tutto; in questo caso i rap- porti della politica
oppure della scienza come parti della cultura. Posta in questi termini la
questione ha senso e ha anche un peso non indifferente, perché tocca un
problema assai importante, e cioè: quale ruolo compete alla scienza oppure alla
politica o alla tecnologia in seno al vasto regno della cultura, È in questi
termini che intendiamo sollevare qui una questione che ha diviso profondamente
gli spiriti in Italia e altrove da oltre un secolo: la questione dei rapporti
tra cultura'‘e religione. Nel capitolo dedicato al problema religioso abbiamo
visto come dopo Kant la religione sia stata sottoposta a tutta una critica
serrata: partendo da posizioni differenti, i materialisti, i vitalisti, gli
psica- nalisti, gli esistenzialisti, i neopositivisti, gli strutturalisti hanno
cercato di demolire tutte le basi razionali della religione, conside- randola
un'interpretazione del mondo infantile, non scientifica, alie- nante e
degradante. Queste interpretazioni marcatamente illuministe e razionaliste del
fenomeno religioso non potevano non pregiudicare seriamente la questione dei
rapporti tra cultura e religione. Così i pensato- ri che si occuparono di
questo problema da Nietzsche in poi, men- tre non potevano negare che nelle
culture tradizionali la religione aveva sempre occupato un posto importante e
aveva svolto un ruolo fondamentale, sostenevano quasi tutti che essa aveva
ormai esau- rito la sua funzione storica ed era giunto il momento di dare alla
società una cultura senza religione. Questa tesi dei filosofi — favo- rita
indirettamente dalle scoperte della scienza e dalle conquiste della tecnologia
— fece presa su molti spiriti, che l'accolsero come il nuovo vangelo (il
vangelo dell’ateismo). In breve tempo, la reli- gione, ignorata dalle manifestazioni
pubbliche e sociali della vita, fu ridotta ad una questione personale, ad un
affare privato. Così la religione è scomparsa dalla cultura come forma
spirituale della so- cietà. Ma è proprio vero che il sodalizio tra cultura e
religione si è di- sciolto per sempre e che, in futuro, la religione non
troverà più posto nella cultura come sua componente fondamentale? Molti an-
tropologi culturali e molti filosofi lo negano. Per citare soltanto 215 La
cultura come valore onninclusivo La cultura e il ruolo delle diverse scienze
Rapporto tra cultura e religione Cultura moderna e contemporanea: esaurimento
della funzione storica della religione La religione: esigenza della cultura La
religione come garante dei valori assoluti e fondamento della cultura la
dignità che loro com- pete. Da ciò risulta che tra cultura e religione non si
dà nessuna incom- patibilità e si comprende per quale motivo in tutte le
culture tradi- zionali la religione rappresenta la dimensione primaria,
dominante. È in effetti la religione che facendo da sostegno ai valori
assoluti‘ garantisce un sicuro fondamento anche a tutti gli altri elementi del
vasto edificio della cultura. Pertanto, per passare dalla filosofia alla storia
dei giorni nostri, si può dire che la nostra società secolarizzata ed atea, se
vuole uscire dalla crisi epocale che la divora, deve restituire alla religione
quel 216 la nuova cultura non vuole ricadere nell'errore gravis- simo della
modernità che ha coltivato l’immanenza con l'esclusione della trascendenza,
allo stesso tempo non vuole neppure ricadere nell'errore della cultura
cristiana medioevale e delle culture orientali che hanno coltivato la
trascendenza a spese dell’immanenza. CONCETTI DA RITENERE — Significato
elitario, antropologico, pedagogico di cultura — Accezione soggettiva e
accezione oggettiva di cultura SINTESI CONTENUTISTICA I. DEFINIZIONE 1. Ii
problema culturale si è affermato negli ultimi decenni per lo sviluppo
dell'antropologia culturale e per !a crisi epocale che attualmente la nostra
civiltà sta vivendo. 2. Cultura è un termine plurisemantico con tre significati
e tre usi prin- ‘cipali: — elitario: la cultura come quantità di sapere
generale o specifico. — pedagogico: la cultura indica l'educazione globale e
progressiva del- Yuomo. — antropologico: ba cultura è l'insieme dei costumi,
tecniche e valori che contraddistiaguono un gnippo sociale, una tribù, un
popolo, una nazione. Il. lL PROBLEMA DELLA CULTURA NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA
1. Fino all’illuminismo si concepiva la cultura essenzialmente come paideia,
formazione della persona. Il problema veniva quindi affrontato solo in pro-
spettiva antropologica ignorando auella etnologica. 2. Herder e Humboldt,
illuministi tedeschi, presero coscienza che la cul- tura è un fenomeno che
riguarda anche il gruppo sociale: la cultura è sia il vincolo spirituale che
tiene uniti i membri di una nazione sia la realizzazione di un particolare
progetto di humanitas. 3. Dalla seconda metà dell’’800 in poi gli etnologi e
antropologi, sia europei che americani, elaborano teorie generali sui fenomeni
culturali e formulano ipotesi sull'origine, lo sviluppo, i tratti universali,
la classificazione, l'assimila- zione, il collegamento tra le parti di una
cultura. 217 Una nuova cultura della trascendenza 4. I filosofi affrontano e
risolvono i problemi della cultura a partire dalla loro visione della realtà: —
Idealisti (Cassirer, Croce, Gentile, Husserl): Ja cultura di un popolo è
segnata dalle varie tappe del processo di autocoscienza dell'Assoluto. —
Vitalisti (Dilthey, Spengler): la cultura è la massima espressione della vita.
— Marxisti (Marx, Lenin, ecc.): la cultura è rispecchiamento delle condi- zioni
economiche di una società. — Strutturalisti (Levi-Strauss e Foucault): la
cultura è prodotto del Pen- siero inconscio. 5. Negli ultimi anni l’attenzione
dei filosofi si è concentrata maggiormente sui fondamenti della cultura, sui
suoi elementi costitutivi, sulle sue funzioni, sui valori che la animano, sulla
progettazione di una nuova cultura. I caratteri planetari del nostro tempo
prospettano l'esigenza di una cultura planetaria, III. L'UOMO COME ESSERE
CULTURALE 1. La filosofia moderna ha integrato la concezione classica dell'uomo
come essere naturale con l'affermazione che egli è anche essere culturale:
diversa- mente dagli altri viventi, il cui essere è interamente prodotto dalla
natura, l'uomo è in larga misura l'artefice di se stesso. La cultura è elemento
costitu- tivo della natura umana. 2. La cultura nelle sue due principali
accezioni di formazione del singolo (accezione soggettiva) e di forma
spirituale della società (accezione oggettiva) ha lo scopo di realizzare l’uomo
in tutte le sue dimensioni e capacità. 3. Esiste pertanto una profonda
interazione tra cultura e antropologia filo- sofica, poiché è quest'ultima che
fornisce alla prima le linee secondo le quali tracciare il suo progetto-uomo.
IV. 'LA CULTURA COME FURMA SPIRITUALE DELLA SOCIETÀ E I SUOI ELEMENTI FONDA-
MENTALI 1 La cultura è anche l'insieme di quei caratteri che specificano,
unifican- doli e distinguendoli, i vari gruppi sociali. In questa prospettiva
la cultura rap- presenta la vita di un popolo nella sua peculiare identità. 2.
L'analisi degli elementi, che costituiscono la cultura come forma spiri- tuale,
ha fatto giungere alla conclusione che gli elementi costitutivi fondamen- tali
di una cultura sono quattro: la lingua {che sorregge il pilastro simbolico), i
costumi (che sorreggono il pilastro etico), le tecniche (che formano il
pilastro tecnologico), i valori (che rappresentano il pilastro assiologico). 3.
La lingua è il primo elemento che fa uscire il singolo da se stesso e lo mette
in comunicazione con gli altri. Il raggruppamento sociale avviene anzi- tutto e
soprattutto in base alla lingua. 4. Le abitudini o costumi incarnano ed
esprimono lo stile di vita di un popolo, il suo modo di concepire la vita, la
sua visione della natura, della so- cietà, del sacro. 5. Le tecniche
corrispondono alle esigenze dell'ambiente, alla capacità, alla creatività, al
livello di civiltà di un popolo. Ogni cultura porta in sé una serie di stili di
ordine tecnico e gli individui che ne sono in possesso mostrano chia- ramente
di fare parte del gruppo sociale che possiede tale cultura. . 6. I valori sono
caratterizzati da azioni, abitudini, tecniche e cose che rive- stono straordinaria
importanza per il gruppo sociale, che li assume come cri- teri, norme, ideali.
In tutte le culture il primo posto nella sfera dei valori è occupato dalla
vita. 7. Sulla base degli elementi fondamentali ogni popolo sviluppa tutti gli
altri aspetti che generano la sua identità: arte, filosofia, religione,
scienza, let- teratura, politica, ecc. 218 V. RAPPORTI TRA CULTURA E RELIGIONE
1. Nel passaggio dalla cultura moderna alla cultura contemporanea la reli-
gione, progressivamente soppressa dalle manifestazioni pubbliche e sociali
della vita e relegata alla sfera della dimensione privata, è scomparsa dalla
cul. tura come forma spirituale della società. 2. Tillich, Maritain, Dawson,
Niebuhr, Croce, Berger, Luckmann, Guardini, Toynbee sostengono che la religione
ricomparirà nell'orizzonte culturale del- l'uomo: infatti la scomparsa della
prima determina la disgregazione del secondo. 3. La stessa essenzialità dei
valori nella struttura costitutiva della cultura richiede uno stretto rapporto
tra cultura e religione, poiché solo quest’uitima è in grado di garantire ai
valori quella assolutezza e quella dignità che compete loro. La religione
sostenendo i valori assoluti garantisce inoltre anche tutti gli altri elementi
del vasto edificio della cultura. QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Che
cosa è la cultura e quali significati gli si può dare? 2. Perché l'uomo è
chiamato essere culturale? ù 3. Quali sono gli elementi fondamentali della
cultura? 4. Quali possono essere considerati i caratteri più propri della
cultura contemporanea? 5. Quale rapporto ci può essere ira cultura e storia e
tra cultura e re- ligione? 6. Una cultura planetaria a quale progetto-uomo
dovrebbe guardare? 7. Quali valori, che possono dirsi smarriti, l'uomo del
terzo millennio do- vrebbe impegnarsi a riconquistare? SUGGERIMENTI
BIBLIOGRAFICI ABBAGNANO N., L’uome progetto 2000, Dino Editore, Roma 1980.
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della cultura. Studio sull'uomo e la civiltà, Sansoni Firenze 1978. Capitolo
quindicesimo IL PROBLEMA DEI VALORI. O ASSIOLOGICO QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1.
Quale significato dare alla parola « valore » e che cosa possono rappre-
sentare i valori nelia vita dell’uomo? 2. In che rapporto stanno essi con la
realtà? Perché oggi si parla di « crisi di valori »? Il problema dei valori ha
assunto nel nostro tempo particolare rilievo. La coscienza dei valori assoluti
e perenni quali la verità, la bontà, l'essere, l'amore, la vita, la giustizia,
l'onestà sembra essersi offuscata. ‘La nostra cultura appare caratterizzata da
un diffuso rela- tivismo etico, in nome del quale la condotta è regolata dal
cri- terio dell'utile e del piacere individuale, piuttosto che dal riferi-
mento ai valori oggettivi e universali. Tuttavia la strada di ritorno verso i
valori sembra essere ria- perta proprio dal malessere esistenziale provocato
dalla loro per- dita, cosicché oggi l'assiologia,) ovvero la scienza dei
valori, è colti- vata più che nel passato. Un tempo, infatti, il compito
proprio dell'assiologia era svolto dalla metafisica, scienza delle « cause
ultime », dell’« assoluto », dei « principi supremi », delle « questioni
fondamentali ». Il tramonto della metafisica nell'orizzonte speculativo
dell'età moderna e con- temporanea ha provocato il progressivo emergere
dell’assiologia che, cercando di comprendere la natura dei valori assoluti e di
verificarne la consistenza ontologica, realizza di fatto le stesse funzioni
della metafisica. Essa si colloca pertanto tra le forme più elevate del sapere
umano. In questo capitolo, dopo un breve excursus attraverso la storia
dell’assiologia, ci occuperemo delle seguenti questioni: che cosa sono i valori
in se stessi? Nell’universo che ci circonda che posto occupano? Quali sono le
loro proprietà e le loro funzioni? Qual è la facoltà con cui percepiamo i
valori? C'è una gerarchia nel mondo dei valori? Si può operare rina classificazione
dei valori? Quali sono i valori che contano di più? Esistono anche valori
assoluti? Quali sono? ' Il termine assiolcgia ritrova la sua etimologia
nell’aggettivo greco acsios, che significa « valido », « degno ». Indica quindi
in senso proprio la riflessione su ciò che è degno di pieno riconoscimento da
parte della coscienza umana. 221 Importanza attuale de!lo studio dei valori
L’assiologia al posto della metafisica Recente fondazione del problema: la
transvalutazione di Nietzsche Lotze: regno dei fatti; regno delle leggi
universali; regno dei valori Hartmann e l’ultrarealismo: sussistenza dei valori
1. Informazioni storiche sull’assiologia Dei grandi problemi filosofici quello
dei valori è stato messo a tema per ultimo. ‘Esso è diventato oggetto di analisi
sistematica ed approfondita — dando origine a quella nuova disciplina che porta
il nome di assiologia — soltanto dopo che Nietzsche tentò la famosa operazione
della trasvalutazione dei valori con la quale cercava di trasformare la
gerarchia dei valori tramandata dalla cultura greca e dal cristianesimo.
Nietzsche, infatti, cercò di demolire tutti i valori assoluti della logica
(verità), della morale (virtù), della metafisica (essere) e della religione
(Dio) facendo vedere che essi erano valori decadenti e alienanti: un vero
blocco sulla strada che conduce l’uo- mo verso il traguardo del super-uomo. Al
posto dei valori assoluti della logica, della morale, della religione e della
metafisica collocò i valori dinamici e mutevoli della vita, una vita che accetta
fatalistica- mente e innocentemente se stessa in tutte le sue espressioni. Si
può quindi affermare che l’assiologia è nata con Nietzsche anche se il suo
padre effettivo è un suo contemporaneo: Rudolf H. Lotze (1817-1881). Questi nel
suo capolavoro, Microcosmo, distin- gue tre regni di ricerca: regno dei fatti,
regno delle leggi universali, regno dei valori. I primi due riguardano soltanto
i mezzi, il terzo i fini. I primi due sono studiati dalla ragione col metodo
analitico e possono essere considerati in prospettiva meccanicista. Il terzo è
appreso dal sentimento e implica necessariamente una prospettiva spiritualista.
Infatti, fondamento ultimo di tutti i valori e valore assoluto esso stesso è
Dio: « La realtà vera che è e dev'essere non è la materia e neppure l'Idea
hegeliana, ma lo spirito vivente e per- sonale di Dio ». Sulla linea realista
tracciata da Lotze si mossero Rickert, Eucken e Hartmann. Nicolaj Hartmann
(1882-1950) per quanto concerne lo statuto ontologico dei valori professa una
specie di ultrarealismo. I valori, a suo giudizio, non hanno fondamento né
nell'uomo né in Dio, bensì in se stessi: sono sussistenti alla pari delle Idee
di Platone; essi sono dotati di aseità (Ansichsein). Il valore sussiste
indipendentemente ? La filosofia dei valori (l'assiologia) si costituì come
disciplina autonoma solo dopo Nietzsche, ma spunti di filosofia dei valori si
possono rinvenire lungo tutto il corso della storia della filosofia: in quella
greca (Platone e Plotino in particolare), in quella medioevale (Tommaso e
Bonaventura) e in quella moderna (Pascal e Kant). Quanto a Nietzsche, a
giudizio di Heidegger, il suo pensiero è essenzialmente « una metafisica dei
valori ». La metafisica nietzschiana comprende due momenti, negativo e
positivo. Nel primo «i valori supremi vengono svalutati ». Quei valori che sono
stati ritenuti dalla tradizione del pensiero occidentale come i più alti
(l'essere, il vero, il buono, il bello, ecc.) vengono svuotati del significato
fondamentale che avevano man- tenuto nel corso dei secoli. Il momento positivo
è quello in cui Nietzsche
opera il « capovolgimento ». Valore è per
Nietzsche tutto ciò che contribuisce al mantenimento e all'aumento della durata
della vita, la quale per svolgersi dispone di un solo mondo: il mondo materiale
e storico. 222 dall'essere riconosciuto, così come due più due continua a fare
quat- tro anche se nessun uomo ne avesse coscienza. Un altro argomento a favore
della autonomia dei valori risulta dal fatto che ci si può sbagliare e anche
riconoscere d'aver sbagliato nella valutazione dei valori: « Non il valore
bensì la percezione del valore è variabile ». Hartmann però rifiuta di dar
consistenza ontologica ai valori fon- dandoli in Dio, perché Dio non esiste né
può esistere se l’uomo è li- bero. Secondo Hartmann l’esistenza di Dio
renderebbe impossibile la libertà e la responsabilità dell’uomo, quindi il
valore morale. Alla interpretazione « realista » dei valori si opposero
Ehrenfels e altri filosofi tedeschi che sostennero la tesi contraria. Secondo
Christian von Ehrenfels (1859-1932) i valori sono semplici stati soggettivi. In
un primo tempo li identificò con il desiderio; succes- sivamente incluse come
componente essenziale anche la « deside- rabilità »; cosicché il valore
comprende sia il desiderio in atto di ciò che non si possiede sia la
desiderabilità, cioè il desiderio poten- ziale che sorgerebbe se si venisse a
conoscere un determinato oggetto o se se ne fosse privi. Pertanto « il valore —
afferma Ehrenfels — è una relazione tra un oggetto e un soggetto, per cui il
soggetto o desi- dera effettivamente l'oggetto, o lo desidererebbe nel caso che
fosse informato della sua esistenza ». La tesi secondo cui i valori sono
semplicemente degli stati soggettivi (gusti personali) — tesi soggettivista —
fu categoricamente respinta e vigorosamente criticata da Max Scheler
(1874-1928), mas-' simo assiologo del secolo XX. Discepolo di Eucken, Scheler
subì so- prattutto l'influsso di Husserl, dal quale apprese il metodo fenome-
nologico, di cui fece largo impiego nella elaborazione della sua filo- sofia
dei valori. La sua opera principale si intitola Der Formalismus in der Ethik
und die materiale Wertethik (Il formalismo in etica e l'etica materiale dei
valori), « l'opera di gran lunga più significativa apparsa da molto tempo »
{Hildebrand). In effetti, l’analisi fenome- nologica della esperienza morale
effettuata da Scheler assumendo la prospettiva assiologica è stata tra le più
fertili del pensiero con- temporaneo. Mediante i’elaborazione di un'etica dei
valori, in cui si rivendica a questa entità una dimensione ontologica che
sfugge a tutte le minacce dello psicologismo, Scheler sottrae la morale a
quelle visioni soggettiviste o positiviste che erano diventate di moda alla
fine dell'Ottocento: nominalismo, psicologismo, pragma- tismo, formalismo
kantiano, idealismo neokantiano, positivismo, ecc. Scheler definisce i valori
come « oggetti autenticamente oggettivi, disposti in ordine eterno e gerarchico
». La sua assiologia si carat- terizza pertanto come realista è come gerarchica
(in forza della stes- sa definizione che egli offre dei valori) ed inoltre come
personalista e teocentrica. ‘Per fissare la gerarchia dei valori Scheler
suggerisce i criteri se- guenti: durata, indivisibilità, fondamentalità,
soddisfazione e grado di relatività. I valori sono tanto più alti quanto più
durano e quanto 223 — Dio rende impossibile il valore morale Von Eherenfelds:
soggettività dei valori e desiderabilità Scheler: — etica dei valori e
fondazione ontologica — assiologia realistica, gerarchica, teocentrica — valori
sensibili, vitali, spirituali, religiosi — modello personale — concretezza del
valore — fondamento e garante dell’oggettività dei valori è Dio (teocentrismo)
La diffusione dell’assiologia dalla Germania all’Europa sono indivisibili, cioè
mentre la partecipazione di più individui a beni di carattere materiale (per
esempio, una torta) è possibile sol tanto mediante la suddivisione di tali
beni, vi sono opere di eultura e di arte per le quali la fruizione di più
individui non richiede tale divisione. Ancora, i valori sono tanto più alti
quanto è più profonda la soddisfazione da essi prodotta. Inoltre, il valore che
fonda è ovviamente più alto rispetto al valore fondato. Infine, ci sono valori
relativi a determinate sfere, come per esempio i valori vitali, e va- lori
assoluti, cioè indipendenti da una determinata sfera, come per esempio i valori
morali. Grazie a questi criteri Scheler fissa una gerarchia dei valori che
comprende quattro livelli: valori sensibili (gradevole-sgradevole), valori
vitali (salute-malattia), valori spiri- tuali (vero-falso, buono-cattivo,
ecc.), valori religiosi (saero-profano, beatitudine-infelicità, ecc.). La terza
caratteristica dell’assiologia scheleriana è di essere per- sonalista. Nella
prefazione alla seconda edizione di Der Formali- smus ha scritto: « Il
principio fondamentale secondo cui tutti i va- lori debbono essere subordinati
al valore di persona [...] è così im- portante per l’autore che egli, nel
titolo del libro, ha anche qualif- cato il suo saggio come un “nuovo tentativo
di personalismo” ». Il carattere personalista della assiologia scheleriana
emerge anche dalla teoria dei modelli personali. Secondo Scheler ai valori
danno sostanza, concretezza, si potrebbe dire corporeità, i modelli perso-
nali. Così, per apprezzare e seguire il valore-giustizia, occorre guar- dare al
Giusto, per il valore-fortezza all'Eroe, per il valore-santità al Santo, ecc.
La quarta caratteristica dell’assiologia scheleriana è di essere feo-
centrica. Per Scheler Dio occupa il primo
posto sia come persona sia come valore e fa da fondamento e da sostegno di ogni
altra per- sona come pure d'ogni altro valore. « Tutti i valori possibili —
scrive Scheler — sono fondati sul valore di uno Spirito infinito e sul “mon- do
dei valori” che gli sta di fronte. Gli atti, che comprendono i valori, in tanto
comprendono valori assolutamente oggettivi in quanto ven- gono compiuti “in”
Lui, e i valori sono valori assoluti soltanto in quanto compaiono in questo regno
». Dal purito di vista fenomeno- logico Dio fonda tutti i valori in quanto lui
solo può assicurare loro quell’assoluta oggettività che non può essere
garantita mediante una misura valutativa semplicemente umana: soltanto il
valore del sa- cro fa sì che l’assiologia trascenda la sfera antropomorfica e a
for- tiori quella vitalista. Gli sviluppi più importanti e più originali
dell’assiologia ebbero dunque luogo in Germania per merito dei filosofi che
abbiamo ricor- dato. Successivamente il problema assiologico destò l'interesse
an- che di filosofi italiani (Stefanini e Prini), francesi (Lavelle e Le
Senne), spagnoli (Ortega y Gasset), argentini (Derisi), inglesi (Moore),
americani (Dewey), ecc. Qui noi riferiremo ancora brevemente sul 224 pensiero
di Lavelle e Le Senne in quanto, a nostro avviso, offrond spunti interessanti
per la soluzione del problema assiologico. Per Louis Lavelle (1883-1951) il
problema assiologico ha un carattere essenzialmente metafisico. Il fatto
contingente che talune filosofie dei valori abbiano assunto un carattere
antintellettualistico, sentimentalistico e irrazionale, non deve interferire
col genuino pro- blema del valore, il quale, al di fuori di ogni moda di tempi
e di luoghi, è di competenza della metafisica. Il principio supremo della
metafisica teorizzata da Lavelle è l’es- sere, la cui essenza è atto, inteso
come perfezione assoluta, efficacia pura, sorgente di ogni determinazione e di
ogni valore. Da questo principio si snoda la teoria assiologica del Lavelle. Se
« l'essere alla sua radice è atto, cioè interno a se medesimo; se è un sé che è
anche un per sé, è evidente che c’è identità fra l'essere e la sua giustifi-
cazione. Di qui l'impossibilità di staccare l’ontologia ‘dall’assiolo- gia ».
Non a caso la filosofia classica aveva accostato, fino a confon- derle, le due
nozioni dell'essere e del bene. Approfondendo il concetto di valore, Lavelle
osserva che il va- lore non si identifica col bene, tuttavia esso ha col bene
un rapporto analogo a quello che ha l’esistenza con l'essere. Come l'esistenza
è l'essere in quanto si incarna e diventa concreto, così îl valore è il bene in
quanto riferito a un oggetto di cui facciamo uso, a una vo- lontà che si sforza
di coglierlo; e come l’esistenza è l'essere in quanto riceve una forma
interiore e individuale, così il valore è il bene, in quanto implica
un'attività che tende a realizzarlo. Perciò, mentre il bene ha sempre un
carattere assoluto, il valore ha un carattere re- lativo. Ma — avverte Lavelle
— su questa relatività del valore oc- corre essere cauti: infatti il valore è
nelle cose ciò che esprime la loro relazione all'assoluto; è ciò che permette
di elevare all’asso- luto ogni cosa relativa. Pertanto il valore non è una
proprietà statica ma fortemente dinamica: esso provoca il soggetto e lo tra-
scina all’azione. « L'errore più grave — dichiara Lavelle — è pen- sare che il
valore sia un oggetto che si contempla, mentre al contrario è sempre un'azione
da farsi e una pratica da seguire ». Nel suo Breviario di metafisica assiologica
René Le Senne (1882- 1954) respinge sia il naturalismo sia il nichilismo, e si
oppone sia al sociologismo sia allo psicologismo per affermare ad un tempo tan-
to la trascendenza quanto l'immanenza, sia il carattere oggettivo che
soggettivo dei valori: « Il valore deve, per la sua origine, esserci tra-
scendente », ma « tale estrinsecità resterebbe sterile se il valore non fosse
fatto per discendere nella nostra esperienza: tale discesa può essere
spirituale solo grazie al concorso degli spiriti umani per i quali il valore
deve rendersi attuale. [...] Il valore universale deve rinfrangersi e persino
frazionarsi secondo la diversità di sfu- mature e la profondità dei tagli
consentiti dall'unità e dalla moltepli- cità relativa degli spiriti ». Della
filosofia dei valori si sono occupati anche vari neotomisti: 225 Lavelle: —
assiologia e ontologia: identità tra l'essere e la sua giustificazione
(carattere metafisico) — rapporto analogico tra essere e bene Le Senne:
trascendenza del valore I neotomisti: oggettività e fondazione ontologica del
valore Difficoltà di definire il valore Il valore in economia, in etica, in
ontologia Wittmann, Rintelen, De Finance, Derisi, ecc. Questi filosofi
difendono l'oggettività dei valori e escludono sia l’interpretazione psicologistica
che riduce i valori a meri sentimenti personali sia l’interpretazione
ultrarealistica che fa dei valori realtà sussistenti analoghe alle Idee
platoniche. Il valore ha carattere oggettivo in quanto si fonda sul- l'essere.
Però, a giudizio di questi filosofi, il valore non costituisce una proprietà
trascendentale dell'essere distinta dal bene: sostan- zialmente il valore si
identifica col bene, anche se connota più del bene una relazione al soggetto,
all'uomo. In effetti, « il valore, qua- lunque esso sia, non ci si rivela
pienamente che nell'atto in cui è effettivamente amato, stimolato, desiderato,
ecc. [...] Nel desiderio e nell'amore in atto, e lì soltanto, il bene —
esercitando la sua causalità propria — si manifesta e diviene, per il soggetto,
in “atto ultimo” un valore » (De Finance). 2. Definizione del valore Come tante
altre parole dense di significato (ente, realtà, verità, tempo, onore, ecc.)
anche la parola « valore » a prima vista sembra chiara, quasi ovvia; ma poi, ad
una considerazione più attenta ed approfondita, essa risulta nebulosa, oscura,
difficile a definirsi. « Il senso esatto di valore — osserva André Lalande — è
difficile da de- finire rigorosamente perché il più delle volte questa parola
esprime un concetto instabile, un passaggio dal fatto al diritto, dal
desiderato al desiderabile » Nella lingua italiana essa possiede tre
significati principali: eco- nomico, etico, ontologico. In economia significa «
danaro »; in etica indica la virtù con cui si affrontano gravi pericoli e si compiono
grandi imprese; in ontologia dice la qualità per cui una cosa possie- de
dignità ed è, quindi, degna di stima e di rispetto: « valore — in questo senso
— è ciò per cui un essere è degno di essere, un'azione è degna di essere
compiuta ».* Di questi tre significati quello che interessa quando si affronta
il problema assiologico è soprattutto l'ultimo, che è senza dubbio il più
importante, ma anche il più oscu- ro, il più problematico, il più disputato. Il
suo regno è vastissimo: infatti, tutto ciò che è ritenuto prezioso, e che in
qualche modo può contribuire al perfezionamento dell'uomo o come singolo o come
es- sere sociale, merita stima ed è perciò un valore. Dalla complessità delle
questioni relative alla categoria del valore, come risulta anche dall’excursus
storico precedente,.quello che ha dato luogo alle dispute più accese e alle
soluzioni più di- sparate è il problema dello statuto ontologico dei valori.
Per questo »? A. LALANDE, Dizionario critico della filosofia, ISEDI, Milano
1971, p. 977. ‘ R. GUARDINI, Libertà, grazia, destino, Morcelliana, Brescia
1957, p. 85. 226 e anche perché la sua soluzione condiziona praticamente la
soluzione di tutti gli altri problemi, lo affrontiamo per primo. 3. Lo statuto
ontologico dei valori La questione dello statuto ontologico dei valori si
domanda che cosa sono i valori in se stessi: sono entità reali, oggettive come
una casa, un tavolo, il Monte Bianco, la luna; oppure sono realtà fittizie,
semplici aspirazioni soggettive o ideali astraiti, come una montagna d'oro
oppure una società seriza classi? Qui vale la pena precisare che la questione
riguarda la categoria del valore in generale e non valori singoli (come la
bontà, la verità, la persona, ecc.). Ed è chiaro che si tratta di due problemi
distinti come chiedere chi è l’uomo è certamente altra cosa dal domandarsi chi
è ‘Pietro, Paolo o Giovanni. D'altronde la questione dello statuto ontologico
espressa in forma generale ha senso solo con riferimento al valore in generale,
perché solo ad essa si può dare una risposta univoca. Se si solleva con
riferimento alle singole cose che sono dotate di dignità assiologica, si
possono ottenere un'infinità di ri- sposte, perché ci sono valori reali e
valori possibili, valori concreti e valori astratti, valori spirituali e valori
materiali, ecc. Dall’excursus storico risulta che tre sono le principali
soluzioni che sono state daie alla questione dello statuto ontologico dei
valori. La prima afferma che sono entità oggettive, sussistenti in se stesse
(Lotze, Windelband, Scheler, Hartmann). La seconda sostiene che i valori sono
semplicemente dei sentimenti e perciò non hanno nes- suna realtà propria, ma
esistono esclusivamente come fenomeni sog- gettivi, come disposizioni o
aspirazioni della psiche (Meinong, Ehren- fels, Freud). La terza considera il
valore né come una entità a sé stante né come un fenomeno soggettivo, bensì
come una proprietà trascendentale dell'essere e lo identifica generalmente con
il classico trascendentale del bene (De Finance, Lavelle, Hammer). A mio avviso
nessuna di queste tre soluzioni è adeguata, anche se ciascuna esprime una parte
di verità. La verità parziale sottolineata dalla prima è l’obiettività del
valore; quella messa in luce dalla seconda è il suo rapporto col soggetto,
l'uomo; quella indicata dalla ierza è il suo rapporto col bene. Si tratta
effettivamente di tre pro- prietà dei valore, ma nessuna di esse esaurisce
tutta la sua realtà. Ma, allora che cosa è il valore in se stesso? Il valore è
un trascen- dentale, come afferma la terza teoria, cioè è una qualità che
appar- tiene all'essere in quanto tale, e perciò è presente in ogni cosa come
gli altri trascendentali (unità, bontà, verità, bellezza). È una pro- S Per le
posizioni personali della maggior parte degli autori ricordati in questo capoverso
si veda: C. Rosso, Figure e dottrine della filosofia dei valori, Guida, Napoli
1973. 227 I valori: entità reali o fittizie? Il problema vale per il valore in
generale Tre soluzioni: — entità oggettive- sussistenti — sentimenti —
proprietà trascendentale dell'essere Il valore: proprietà dell’essere Il valore
è un trascendentale a sé Proprietà comuni agli altri trascendentali: —
coestensività — convertibilità prietà trascendentale e non predicamentale: è
cioè una proprietà universale che accompagna tutte le cose e non è ristretta ad
una sola classe di esseri, ad una sola categoria. Il valore è un trascendentale
perché di tutte le cose si può chiedere sensatamente se è un valore: dell’aria
come dell’acqua, del sole come delle stelle, di una bambola come di un pallone,
di un libro come di un quadro, di una capra come di un elefante, di un fiume
come di una montagna, ecc. Mentre non si può sensatamente chiedere se il fiume
è una montagna, se la capra è un elefante, ecc. Nel regno dei trascendentali il
valore occupa un posto a sé, distinto da quello occupato dal bene, dal vero,
dal bello. Infatti il valore è la dignità di una cosa, non la verità, non la
bontà e neppure la bellezza. Il valore è una facciata dell'essere distinta
dalle altre tre grandi facciate; tant'è vero che in noi mette in moto una
facoltà di- versa da quelle che sono interessate alle altre tre facciate: la
verità mette in moto la conoscenza, la bellezza, l'ammirazione e il piacere; la
bontà il desiderio e la volontà; mentre il valore, la dignità di una cosa ci
provoca alla estimazione, alla valutazione. Come trascendentale il valore ha in
comune con gli altri trascen- dentali alcune proprietà importanti. Anzitutto la
coestensività con l'essere: là dove c'è essere c'è valore e dove c'è valore c'è
essere. Il valore non si distingue dall'essere e dagli enti (cioè dalle
incarna- zioni dell'essere) fisicamente, materialmente e neppure realmente;
perché separare il valore dall'essere significa distruggerio, sprofon- dandolo
nell'abisso del nulla. Il valore si distingue dall'essere concet- tualmente,
logicamente, il che non vuol dire arbitrariamente, perché si tratta di una
distinzione concettuale fondata nell'essere stesso, nel- la sua
pluriprospetticità rispetto alle nostre facoltà e alle nostre
possibilità. Il valore esprime una
modalità dell'essere che l’accom- pagna necessariamente e non accidentalmente;
la sua dignità, una modalità che nel nome puro e semplice dell'essere o degli
altri tra- scendentali rimane inespressa” Una seconda proprietà del valore, in
quanto trascendentale, è di essere convertibile con l'essere e con gli altri
trascendentali: verità, bontà, bellezza. Coestensivo con l'essere è
necessariamente coesten- sivo con gli altri trascendentali che sono a loro
volta coestensivi con l'essere. E, dato che anche tra gli altri trascendentali
e l'essere si dà soltanto una distinzione logica e non una distinzione reale,
ne segue che, per quanto concerne la realtà, tutti i trascendentali coincidono,
pur restando logicamente e necessariamente distinti tra di loro. Per questo
motivo, grazie alla convertibilità, nell'essere e negli enti tanto c'è di vero
altrettanto c'è di buono, tanto c’è di buono altrettanto c'è di bello, e tanto
c'è di buono, di vero e di bello e altrettanto c'è di valore. £ Su questa
proprietà dei trascendentali vedi S. ToMmMASO D'AQUINO, De veritate, q. I, a.
l. 228 Una terza proprietà che il valore ha in comune con gli altri tra-
scendentali è la relazione bipolare: il valore ha due poli, un polo soggettivo
e un polo oggettivo. Per quanto si dice che il valore è una correlazione:
correlazione tra dignità ed estimazione, analoga alla correlazione tra verità e
conoscenza, tra bontà e desiderio, tra bel- lezza ed ammirazione. Che il valore
abbia bisogno di due poli e che si tratti effettivamente di una correlazione
tra due poli, risulta dal fatto che è un trascendentale, cioè una modalità
dell'essere (e non una fetta di essere), che non spunta dall'essere da sola
come un ramo dal tronco di un albero, ma solo in rapporto ad una facoltà di un
es- sere intelligente e grazie alla sua azione. E come il vero nasce dal
rapporto dell'essere con la conoscenza, il buono dal svo rapporto con il
desiderio o la volontà, il bello dal suo rapporto cor l'ammira- zione, così il
valore nasce dal suo rapporto con la estimazione. Come tutti gli altri
trascendentali, anche il valore possiede due dimensioni, una soggettiva ed una
oggettiva. Tali dimensioni deri- vano immediatamente e direttamente dalla sua
proprietà di essere una correlazione. Con questo si vede quanto siano infondate
ed errate sia la teoria degli psicologisti, che riducono il valore al sen-
timento, sia quella dei platonici che fanno dei vaiori delle realtà
sussistenti. Anzitutto il valore gode della prerogativa dell’oggettività, e a
provario ci vuol poco. Basta tener presente la verità che il valore è una
proprietà trascendentale dell'essere (che è l’oggettività per essenza). il
valore è radicato nell'essere; è una facciata dell'essere, è uno dei suoi
aspetti fondamentali e più interessanti. Ti valore è og- gettivo come è
oggettiva la verità, come è oggettiva la bellezza, come è oggettiva la bontà.
Ma c'è anche un secondo argomento che con- ferma l'esattezza di questa
assegnazione: dell’oggettività ai valore. In quanto trascendentale il valore è
oggettivo perché non è una creazione e neppure un'arbitraria invenzione della
psiche umana. Ci sono valori creati dall'uomo, ma non il valore come proprietà
fon- damentale dell'essere. Non si può parlare seriamenie di creazione del
valore da parte dell'uomo. L'uomo può produrre oggetti, cose, ma non il loro
valore. L'attività creatrice dell'uomo è volta agli og- getti non ai valori;
può produrre una bella statua, ma non il valore artistico; può compiere una
buona azione, ma non generare il valore della bontà; può inventare la radio, ma
non il valore delle comu- nicazioni. L'uomo può solo produrre oggetti di valore
non il valore. Cosicché gli oggetti e le azioni di valore, per quanto concerne
la di- mensione del valore, rinviano ad un fondamento diverso dall'uomo e a lui
superiore. Del resto, quanto meno in rapporto a determinati valori, l’uomo ha
la sensazione netta di non esserne l’inventore e il padrone, bensì il servo e
il discepolo. Di fronte a valori quali la giustizia, la verità, la saggezza, la
prudenza, l’amore, la bontà, ecc., l’uomo si sente più passivo che attivo: sono
valori che agiscono su di lui; lo guidano, lo provocano, lo stimolano, lo
attraggono, lo 229 — relazione sipolare Ls due gdimensioni diei valori:
oggettiva e soggettiva Valore come proprietà trascendentale dell'essere I
valori fanno crescere l’essere dell’uomo Il polo soggettivo: ia stima è valore
senza l’uomo resta inespresso Necessità di un’educazione della facoltà dei
valori elevano e lo arricchiscono. Non è l'uomo che comunica l'essere ai
valori, ma viceversa sono i valori che contribuiscono a far crescere l'essere
dell'uomo. L'uomo ha indubbiamente il potere di scoprire i valori ma non il
potere di crearli. « Ogni vero valore porta in se stesso il suo significato. La
“fortezza” è appunto fortezza e, in quanto fenomeno originario, non può essere
derivato da nessun altro. Perciò l'uomo la può realizzare solo muovendo da
essa, in quanto agisce “fortemente” e diviene “forte” ». Ma per avere il valore
non basta il polo oggettivo: la dignità dell'essere; occorre anche quello
soggettivo: la stima da parte del- l’uomo. Come non c'è bellezza senza
ammirazione, né verità senza conoscenza, né bontà senza volontà, così non
fiorisce la dignità dell'essere o di un ente senza l’estimazione. In effetti,
il valore emerge nel momento in cui c'è un soggetto, l’uomo, che compie un atto
positivo di valutazione, di estimazione e che, così, riconosce la dignità di
una cosa, di una persona o di un'azione (analogamente alla verità: questa emerge
nel momento in cui una intelligenza cono- sce una cosa). Il valore, senza
l’uomo, rimane inespresso, occulto, celato: non risplende; è come un sovrano
senza sudditi, vale a dire non esiste più come sovrano. Può rimanere il regno
dell'essere, ma scompare il regno dei valori. Si può dire che il valore, in
quanto trascendentale, è essenzial- mente dotato sia di oggettività sia di
soggettività. Possiede oggetti- vità perché è fondato sull'essere. Il valore
non è una chimera ma un aspetto primario, fondamentale, costante, perenne
dell’essere e degli enti. Però il valore è oggettivo non alla maniera di una
cosa, diuna sostanza e tanto meno alla maniera di un'idea sussistente, ma alla
maniera di una relazione. Ed è oggettivo perché il primo termine della
relazione assiologica è appunto l’essere. Ma il valore è anche dotato di
soggettività, perché il secondo ter- mine della relazione assiologica è il
soggttto: l'uomo o un altro es- sere intelligente. In forza del polo soggettivo
il valore può sbocciare soltanto dove c'è predisposizione e preparazione per
accoglierlo, per riconoscerlo. I colori sono oggettivi ma i sassi non li
vedono. Ci vuole la vista per percepirli. Certi odori o profumi sono oggettivi
ma ci vuole un particolare addestramento per avvertirli (cani da caccia, cani
poliziotto, ecc.). Altrettanto accade per i valori. La dignità del- l'essere e
degli enti, ia dignità della natura e degli animali, la dignità della famiglia
e della patria, la dignità dell'uomo e la dignità di Dio è indubbiamente
oggettiva ma per coglierla occorre un'adeguata educazione della facoltà
dell’estimazione da parte del soggetto, da parte dell'uomo. Senza
un'appropriata educazione della facoltà dei valori, in particolare quando si
tratta di valori assoluti, trascendenti, pe- renni, si perde la capacità di
percepirli. Allora i valori si offu- ? R. GUARDINI, Libertà, grazia, destino,
Morcelliana, Brescia 1957, p. 85. 230 scano, si eclissano, scompaiono. È,
purtroppo, quanto sta suc- cedendo nella nostra cultura e nella nostra società.
4. Gerarchia e classificazione dei valori Dopo avere chiarito che il valore è
una relazione trascendentale dotata di un polo soggettivo e di un polo
oggettivo e che il primo affonda le radici nell'uomo e il secondo nell'essere,
possiamo risol- vere due complesse questioni assiologiche, che hanno visto i
filosofi diversamente schierati circa le questioni delia gerarchia e delia
classificazione dei valori. a) La gerarchia dei valori - Nel campo del valore,
come nei campi della bontà, della bellezza e della verità vi è una varietà di
gradi (rispetto al valore non tutte le cose e ie azioni stanno alla pari, ma ci
sono quelle che hanno maggior valore e quelle che hanno minor valore) e c'è
pertanto una gerarchia, ia quale presenta al ver- tice un valore massimo, con
dignità piena, assoluta, totale, incon- dizionata, perenne, mentre alla base,
cioè sui gradini più bassi, pre- senta valori con poca dignità: una dignità
caduca, relativa, condizio- nata, parziale, provvisoria, evanescente. Che
rispetto al valore, come rispetto al bene, alla verità e alla bellezza esistano
dei gradi pare cosa abbastanza ovvia; perché se il valore è una proprietà
trascendentale dell'essere, essendoci grada- zioni nell'ordine dell'essere, ci
sono gradazioni anche in quello del valore, e certo nell'ordine dell'essere ci
sone gradazioni: non c'è pa- rità di essere tra un lombrico e un cane, e ira un
cane ed una donna! Il grado del valore corrisponde a quello dell'essere. Quanto
più ele- vato è il grado di essere che una cosa possiede, tanto più grande è il
suo valore. E che questo sia vero lo conferma anche il fatto che,
obiettivamente parlando, noi riconosciamo maggior valore ad un animale che ad
un pezzo di legno, ad un bambino che ad un cane, ad una persona che ad una
cosa. Ma se il principio della gradazione dei valori risulta abbastanza ovvio,
non si può dire altrettanto della ijoro gerarchia. In effetti, su questo punto,
ancor più che altrove, non solo non si registra nessun accordo nella prassi
quotidiana, ma neppure nelia speculazione degli studiosi. I filosofi dei valori
hanno proposto scale gerarchiche molto disparate (basta confrontare la scala di
Nietzsche cor quella di Scheler, o la scala di Marx con queila di Lavelie!}.
Questo perché nel fissare le loro gerarchie hanno assunto prospettive spesso
diametral- mente opposte. A mio avviso c'è un criterio valido per stabilire una
gerarchia og- gettiva e completa dei valori. S'è visto che i valori non sono
entità astratte, cose in sé, ma dimensioni della realtà, più esattamente re-
lazioni, che hanno vitale, capitale importanza per l'uomo. I vaiori 231 Varietà
di gradi 6 gerarchia i Corrispondenza ira grato cCell’essere e grad dei valore
Disaccordo sulla Gerarchie dei valori Criterio di riferimento: il valore e la
realizzazione del progetto-uomo Progetto-uomo e dimensione religiosa: Dio al
vertice Valori economici, culturali, spirituali sono le guide, i mezzi che lo
aiutano a realizzare il proprio progetto di umanità. Ecco, quindi il criterio
per stabilire la gerarchia dei valori: il criterio è fornito dall’apporto che
una cosa, una persona, un'azione può dare alla realizzazione del progetto-uomo
e del valore- uomo. Una realtà occupa uno scalino tanto più elevato nella
gerarchia dei valori, quanto maggiore è il suo apporto in tal senso, e tanto
più basso quanto minore è il suo contributo. In effetti, le gerarchie dei
valori sono state stabilite da quasi tutti gli studiosi con questo criterio. E
se le gerarchie risultano disparate e contrastanti, lo si deve semplicemente al
disaccordo che regna tra i filosofi intorno al progetto-uomo. Se si accetta il
progetto nietzschiano si ottiene una gerarchia che ha al vertice la volontà di
potenza; se si accoglie il progetto marxista il primo posto nella gerarchia dei
valori tocca al lavoro; se si assume il progetto freudiano si elabora una
gerarchia fondata sul primato del piacere. Invece, un progetto-uomo che — per
essere fedele a tutti i dati della nostra esperienza — tiene conto anche della
esperienza della trascendenza e perciò non trascura né soffoca la dimensione
religiosa, non può non collocare al vertice della scala dei valori che Dio
stesso. Lui — già degno della massima stima, rispetto e lode in se stesso — è
anche degno della massima considerazione in rapporto al pro- getto-uomo, perché
Egli solo è in grado di assicurare all'uomo l’at- tuazione piena del proprio
progetto di umanità. Un progetto-uomo studiato sulla base di una visione
globale di ciò che l'uomo è e di ciò che nel piano di Dio è chiamato a
diventare, riesce non solo ad accertare che Dio è il valore sommo e che sta
quin- di in cima alla scala gerarchica dei valori, ma è anche in grado di
individuare, sempre in base al progetto-uomo, gli altri gradini più importanti,
perché sa che l'uomo è costituito essenzialmente di tre dimensioni: corpo,
anima e spirito. Dopo Dio, vengono pertanto altri tre ordini di valori, che
sono quelli che contribuiscono alla realizzazione del progetto-uomo a livello
somatico, a livello psichico e a livello spirituale: si tratta dei valori
economici, dei valori cultu rali e dei valori spirituali. I valori economici o
vitali sono quelli che contribuiscono alla pre- servazione della vita e alla
conservazione, sviluppo, salute e piacere del corpo. I valori culturali, in
senso stretto, sono quelli che con- tribuiscono immediatamente alla
coltivazione, crescita, elevazione dell'anima o più esattamente della mente. I
valori spirituali sono quelli che giovano alla cresciia, allo sviluppo e al
perfezionamento dello spirito. Qui è opportuno notare — per non incorrere nell’accusa
di' sog- gettivismo — che scegliere l'uomo come punto di riferimento nella
determinazione della gerarchia dei valori è altra cosa dal fare del- l'uomo la
misura, il metro dei valori o il loro creatore. I valori han- no la loro
consistenza ed autonomia e si trovano ad un livello più o meno elevato rispetto
all'uomo secondo la loro dignità intrinseca 232 e secondo il contributo che
danno alla realizzazione del progetto- uomo. Certo, il riferimento al
progetto-uomo spiega ancor meglio quella dimensione soggettiva che è propria
del valore, di cui si è detto in precedenza: perché colui che coltiva e incarna
i valori non è la natura in astratto, ma l'individuo concreto (Pietro, Paolo,
Luca, Carlo, ecc.), la persona storica, la quale per la realizzazione del pro-
prio progetto di umanità può essere maggiormente interessata ad alcuni valori
(economici, spirituali, culturali) che ad altri. Né l'assunzione del
progetto-uomo come criterio per stabilire la scala dei valori fa scomparire la
distinzione fondamentale tra valori assoluti (che sono quelli che hanno dignità
e sono meritevoli di stima e di rispetto in se stessi e non in ordine ad altri
valori) e valori strumentali (che hanno dignità e sono meritevoli di stima solo
in quanto giovano alla realizzazione dei valori assoluti). La distinzione
rimane salva (anzi, più salva che mai), perché la realizzazione di un valore
assoluto partecipato, qual è l'uomo, reclama l’esistenza di valori assoluti
sussistenti, in particolare di quel valore assoluto sussistente, fondamento
ultimo di ogni altro valore, che è Dio. b) Classificazione dei valori - Il
regno dei valori è immenso: pra- ticamente abbraccia ogni pensiero, ogni
azione, ogni cosa e ogni per- sona. È possibile allora effettuare una
classificazione dei valori? Pare di sì e molti autori ci hanno provato. Una
delle classificazioni più note è quella di Scheler, la quale riduce tutti i
valori a quattro gruppi principali: valori edonistici, vitali, spirituali e
religiosi. Questa classificazione è buona per distinguere, come in effetti
voleva Scheler, i vari gradi dei valori, ma non serve per determinare le gran-
di aree assiologiche. A tal fine credo che si riesca ad ottenere una
classificazione più adeguata distribuendo i valori in dieci grandi gruppi. Si
tratta di una classificazione empirica, ma abbastanza sod- disfacente in quanto
riesce a trovare una sistemazione a tutto ciò che possiede una dimensione
assiologica. I dieci gruppi sono: 1. valori ontici (il primo valore è
l'essere); 2. valori personali (il primo è la persona); 3. valori sociali (il
primo è la famiglia); 4. valori economici (il primo è il lavoro); 5. valori
culturali (il primo è la cultura); 6. valori somatici (il primo è il corpo); 7.
valori noetici {il primo è la verità); 8. valori estetici (il pri- mo è la
bellezza); 9. valori morali (il primo è la bontà); 10. valori re- ligiosi (il
primo è il sacro). Come si vede in ogni gruppo c’è un valore primario, un
valore principe, un capofila. Intorno ad ogni valore primario si dispone una
costellazione più o meno grande di altri valori che appartengono allo stesso
ordine e partecipano alle qualità del valore primario. Così, tutto ciò che gode
della perfezione dell'essere partecipa anche al suo valore e diviene pertanto
un valore ontico. E quanto più grande è la perfezione di una cosa in rapporto
all'essere tanto più elevato è il suo valore ontico. Sono dotate di valore
ontico le piante, le 233 Progetto-uomo e dimensioni soggettive La
classificazione dei valori secondo Scheler Valore primario e costellazione di valori
Gruppo di valori e scienza principale Percezione dei valori: col sentimento o
con i‘ intuizione? Percepire i valori con la facoltà estimativa case, i fiumi,
i laghi, ie persone, la terra, il cielo, la natura..., Dio, Valore assoluto in
tutti gli ordini e fondamento di ogni altro valore, Dio è il primo (non in
quanto prototipo ma in quanto fuori serie) anche nell'ordine ontico. Per lo
studio di ogni singolo gruppo di valori esiste una scienza principale, che è
quella che si occupa direttamente del valore pri- mario, e tutta una serie di
altre scienze, che sono quelle che studiano gli altri valori della stessa
costeliazione. Così per esempio, per il primo gruppo c’è la metafisica, che si
occupa direttamente e prima- riamente dell'essere. A fianco della metafisica
per lo studio dei vari gradi dell'essere siedono la teologia (che studia Dic),
l'astronomia {che studia i corpi celesti), la fisica (che studia la natura), la
ma- tematica (che studia i numeri), l'antropologia (che studia l’uomo). 5. La
facoltà dei valori Qual è la facoltà con cui percepiamo i valori? Anche questo
è un problema che è stato molto dibattuto dai filosofi dei valori e le
soluzioni che sono state proposte sono varie. Secondo aicuni la facoltà dei
valori è il sentimento. Questo però viene inteso da alcuni come una
disposizione totalmente soggettiva (come quella che percepisce il piacere, il
dolore, la gioia, ecc.), men- tre da altri viene considerato come un sentimento
del tutto speciale, che ha una intenzionalità squisitamente oggettiva. Secondo
altri fi- losofi la facoltà dei valori è l'intuizione: una specie di visione
in- tellettiva, che coglie immediatamente i valori, così come la visione
sensitiva coglie immediatamente i colori. Noi siamo del parere che il valore
sia, come gli altri trascenden- tali, oggetto di una facoltà particolare. Come
la verità è oggetto della conoscenza, il bene della volontà e del desiderio, la
bellezza dell’am- mirazione, così dev'essere anche del valore. Ma qual è la sua
facoltà? Forse il sentimento, oppure l'intuizione? Non v'è dubbio che l’in-
tuizione interviene in alcuni casi e un sentimento del tutto parti- colare
(l’empatia) in altri. Ma in generale non direi che la facoltà che percepisce il
trascendentale del valore o la dimensione assiolo- gica di una determinata cosa
o di una certa azione sia il sentimento oppure l'intuizione, bensì la facoltà
valorativa e cioè l’estimativa, che è altra cosa sia dal sentimento sia
dall’intuizione, pur non esclu- dendoli. L'estimazione, cioè la percezione
dell'essere o di un ente come va- lore, non è né una semplice intuizione (nuda
riproduzione dell’og- getto come nella percezione della verità) né puro
sentimento {cioè un rapporto affettivo ed emozionale come nella tendenza
appetitiva verso un bene). L'estimazione, come s'è detto, li può comprendere
en- trambi, senza tuttavia risolversi né nella prima né nel secondo e neppure
nella simbiosi di tutt'e due. 234 Il valore è l'oggetto proprio
dell’estimativa, così come il colore Io è della vista, il sapore del gusto, la
verità della conoscenza, il bene della volontà, la bellezza dell’ammirazione.
L’estimativa co- glie l'oggetto come più o meno degno, più o meno valido, così
come il gusto lo coglie come più o meno gradevole, l'udito come più o meno
rumoroso, l'intelligenza come più o meno evidente, la volontà come più o meno
buono o utile, l'ammirazione come più o meno bello. E non può essere che così
perché, come abbiamo mostrato in pre- cedenza, la dimensione dell'essere che
viene alla luce attraverso il valore è una dimensione diversa da quelle che
emergono attraverso la verità, la bellezza e la bontà, ed è logico che come
queste tre ci inter- pellano ciascuna mediante una distinta facoltà,
altrettanto accada per il valore: la sua facoltà è l'estimativa. ‘Per il
costituirsi della categoria del valore l’estimativa è indi- spensabile. Dove
non c'è apprezzamento, estimazione, si danno bruta facta, oggetti, cose; non
affiorano ancora i valori. Alla pari della facoltà gnoseologica (che coglie la
verità), etica (che coglie la bontà) ed estetica (che coglie la bellezza),
anche la facoltà assiologica opera in diversi modi a seconda del livello
(grado) dei valori che è in gioco. Ai diversi gradi di valore corrispondono
dif- ferenti operazioni assiologiche. Nel caso dei valori materiali si può
realizzare un’estimazione in base ad una semplice intuizione della cosa oppure
di un'analisi ed un processo raziocinativo più o meno prolungato. Nel caso dei
valori assoluti sussistenti (Dio, la Trinità, ecc.), l'estimazione è sostenuta
dal ragionamento oppure dalla fede. Nel caso dei valori morali (prudenza,
castità, coraggio, fedeltà, ecc. spesso interviene l’empatia, una specie di
giudizio per connaturalità. Ciò succede quando tali valori sono avvertiti come
rispondenti alle nostre più intime aspirazioni — in questo sta la loro
connaturalità. Sono valori per i quali sentiamo una profonda sintonia,
un’intima corrispondenza col nostro progetto di umanità e sono perciò in grado
di condurlo verso una sua realizzazione più piena. La facoltà dell’estimazione
che ci mette a contatto con i valori comprende tre funzioni: quella del
capitare velorativamente che co- glie i singoli valori; quella del preferire
che ne stabilisce la gerarchia e quella dell'aspirare che porta alla scoperta
di nuovi valori e pre- cede il captare e il preferire come una specie di
pioniere o di esplo- ratore. L'uomo è naturalmente dotato della facoltà
valorativa, così come è naturalmente doiato della facoltà conoscitiva,
appetitiva ed este- tica. Ma alla pari di queste facoltà anche quella
valorativa va col- tivata. Come l'intelligenza perché possa conoscere la verità
dev’esse- re istruita e come la volontà, perché possa scegliere il bene
autentico, va educata, altrettanto l'estimativa, perché si apra
all’apprezzamen- to e all'assimilazione dei valori dev'essere guidata ed
ammaestrata. In tutte le sue facoltà l’uomo è essenzialmente educabile e col-
235 La facoltà estimativa coglie l’oggetto nel suo valore Valori materiali:
estimazione per intuizione o per analisi Valeri assoluti sussistenti:
estimazione e fede Valori moraii: estimazione ad La funzione deil’estimazione:
— Captare valorativamente — preferire — aspirare Necessità di coltivare la
facoltà valorativa Il ricorso all'esperto Necessità di una nuova assiologia
tivabile. Ciò è dovuto al fatto che nasce più come un progetto aperto che come
un’opera finita. E, dato che abbiamo visto che la realiz- zazione del
progetto-uomo dipende soprattutto dalia scelta dei va- lori, l'educazione
dell'estimativa, cioè della facoltà dei valori, as- sume capitale importanza.
L'educazione non occorre per tutti i gradi di valore. Così, per esempio, per
certi valori vitali (come l’aria, l’acqua, il pane) la valutazione è istintiva
e non c'è bisogno di edu- cazione. Non così per la maggior parte dei valori
appartenenti al li- vello culturale e al livello spirituale. Anche per essi ci
può essere un impulso istintivo o empatico. Così l'uomo nasce con una specie di
apprezzamento istintivo delia verità, della bontà, della giustizia, delia
solidarietà, della castità, ecc. Ma senza un'adeguata coltiva- zione tale
impulso facilmente si indebolisce e si perde. C'è di più. Nel campo degli
apprezzamenti e delle valutazioni è molto facile errare e, così, molto spesso
si trovano in circolazione pseudo-valori. Per questo motivo, per stabilire
quali sono i valori autentici e quali quelli inautentici, è necessario
ricorrere agli e- sperti, agli specialisti. Quando si tratta di perle preziose,
di monete antiche, di francobolli rari non ci fidiamo di noi stessi e ricorriamo
al giudizio di un perito. Perché non si deve fare altrettanto per quei valori
che contano di più per la realizzazione del progetto-uomo, i valori spirituali,
trascendenti, perenni? Già Aristotele diceva che, nel caso dei valori etici, è
bene ricorrere al giudizio dell'uomo sa- piente. Ciò che urge maggiormente
nella nostra società culturalmente di- sorientata è una nuova assiologia che
sappia restituire il primato che loro compete ai valori assoluti, trascendenti,
perenni e, conse- guentemente, una nuova pedagogia altamente umanistica che
faccia risplendere la luce di tali valori alle menti dei giovani, menti che
avvertono istintivamente la dignità dei valori perenni e sentono fortemente il
loro fascino e sono pertanto naturalmente inclinati ad assumerli come guida
della propria esistenza, come componenti essenziali del proprio progetto di
umanità. CONCETTI DA RITENERE — Assiologia; trasvalutazione; sentimento; aseità
— Statuto ontologico; ultrarealismo; tesi soggettivistica — Assiologia
realistica, gerarchia, personalistica, teocentrica — Valori sensibili, vitali,
spirituali, religiosi — Assiologia metafisica — Trascendentale; estensività;
convertibilità; relazione bipolare — Sentimento; intuizione; empatia;
estimativa — Captare valorativamente; preferire; aspirare 236 SINTESI
CONTENUTISTICA I. IL PROBLEMA E LE SUE CARATTERIZZAZIONI STORICHE 1. Il
problema ha assunto particolare rilievo nel nostro tempo. La scienza dei valori
ha sostituito la metafisica e i suoi interrogativi sulle ragioni ultime della
realtà, ponendo l’accento sulla natura dei valori assoluti e sulla loro con-
sistenza ontologica. 2. L'assiologia ha assunto dignità speculativa in tempi
relativamente re- centi, dopo che Nietzsche ha teorizzato la sua
trasvalutazione, demolendo i valori assoluti della logica (verità), della
morale (virtù), della metafisica (esse- re), della religione (Dio). 3. Padre
della assiologia è Rudolf H. Lotze (1817-1881). Nel suo capolavoro, Microcosmo,
egli distingue il regno dei fatti, il regno delle leggi universali, il regno
dei valori. I primi due riguardano i mezzi, il terzo i fini. I primi due sono
suscettibili di interpretazione meccanicistica, il terzo è appreso dal sen-
timento. Fondamento ultimo dei valori e valore assoluto per eccellenza è Dio.
4. N. Hartmann (1882-1950) è assertore di un ultrarealismo assiologico: i
valori hanno il proprio fondamento in se stessi. Essi sono sussistenti, sono
dotati di aseità. Hartmann, peraltro, nega l’esistenza di Dio, poiché secondo
lui l’esistenza di Dio vanificherebbe la libertà e la responsabilità dell'uomo
e quindi il valore morale. i 5. C. von Ehrenfels {1859-1932) è assertore al
contrario del soggettivismo assiologico: il valore comprende sia il desiderio
in atto di ciò che non si pos- siede sia la desiderabilità, desiderio
potenziale di un determinato oggetto. 6. Max Scheler (1874-1928), massimo
teorico dell’assiologia, influenzato dal- la fenomenologia di Husserl, elabora
un'etica dei valori (I! formalismo in etica e l'etica materiale dei valori) a
fondamento ontologico. L’assiologia di Scheler è realista, gerarchica,
personalista e teocentrica: — Realista: i valori sono oggetti autenticamente
oggettivi, secondo un ordine eterno e gerarchico. — Gerarchica: a) i criteri
sono la durata, l’indivisibilità, la fondamentalità, la soddisfazione, il grado
di relatività. b) i quattro livelli della gerarchia sono: valori sensibili,
vitali, spirituali, religiosi. — Personalista: a) la persona è il valore ai
quale debbono essere subor- dinati tutti i valori. b) i modelli personali danno
concretezza ai valori: ad esempio il Giusto, l’Eroe, il Santo, ecc. —
Teocentrica: tutti i valori sono fondati sul valore di uno Spirito infinito e
sul « mondo dei valori » che gli sta di fronte. 7. L'interesse per l'assiologia
si è diffuso successivamente in Italia (Stefa- nini e Prini); in Francia
{(Lavelle e Le Senne); in Spagna (Ortega y Gasset), in Argentina (Derisi), in
Inghilterra (Moore), negli Stati Uniti (Dewey). 8. L. Lavelle (1883-1951)
elabora una assiologia di carattere metafisico: l'essere — la cui essenza è
atto, perfezione assoluta, efficacia pura — è sorgente e determinazione di ogni
valore. Ne consegue un legame inscindibile tra assio- logia e ontologia. Il
valore ha, pertanto, con il bene un rapporto analogo a quello che intercorre tra
l'essere e l’esistenza: così come l'esistenza è l’essere che si concretizza, il
valore è il bene in quanto riferito a un oggetto di cui fac- ciamo uso, il
valore è il bene in quanto implica un'attività che tende a realiz- zarlo. Il
valore è una proprietà dinamica che trascina il soggetto all'azione. 9. R. Le
Senne (1882-1954) afferma sia l'immanenza che la trascendenza del valore, sia
il suo carattere oggettivo che quello soggettivo. 10. I neotomisti Wittmann,
Rintelen, De «Finance, Derisi ed altri difendono 237 l’oggettività dei valori,
che essi considerano fondati sull'essere. Il valore non costituisce però una
proprietà trascendentale dell'essere distinta dal bene, ma si identifica con
esso. II. DEFINIZIONE DEL VALORE 1. Nella lingua italiana la parola « valore »
possiede tre significati princi- pali: economico, etico, ontologico. In
economia significa denaro, in etica virtù, in ontologia indica le qualità che
danno dignità a una cosa. 2. Il terzo significato è quello che interessa
l’assiologia che riconduce im- mediatamente alla complessa questione dello
statuto ontologico dei valori. III. LO STATUTO ONTOLOGICO DEI VALORI 1. I
valori sono entità reali, oggettive; oppure sono realtà fittizie, aspira- zioni
soggettive o ideali astratti? La storia dell'assiologia indica tre piste
interpretative: a) oggettività e sussistenza dei valori (Lotze, Windelband,
Scheler, Hart- mann); b) soggettività e fondazione sentimentale o psicologica
dei valori (Meinong, Ehrenfels, Freud); c) il valore come proprietà trascendentale
dell'essere, identificato con il bene (De Finance, Lavelle, Hammer); d)
un'ultima interpretazione può essere elaborata a partire da elementi delle
prime tre: il valore è un trascendentale, che nel regno dei trascendentali
occupa un posto a sé: esso è la dignità di una cosa. In quanto trascendentale
ha in comune con gli altri trascendentali alcune proprietà: — Coestensività con
l'essere: dove c'è essere c'è valore e dove c’è valore c'è essere. Il valore
esprime una modalità dell'essere che lo accompagna ne- cessariamente. —
Convertibilità: poiché la distinzione tra l'essere e i suoi trascendentali è
solo logica e non ontologica, tutti i trascendentali coincidono: tanto c'è di
vero, altrettanto c'è di buono, di bello, di valore. — Relazione bipolare: il
valore ha un polo soggettivo e uno oggettivo: a) oggettività: 1) il valore è
radicato nell'essere; '2) il valore è scoperto dall'uomo, ma non è creato
dall'uomo; b) soggettività: il valore emerge nel momento in cui l'uomo lo
scopre. IV. GERARCHIA E CLASSIFICAZIONE DEI VALORI 1. Il grado del valore
corrisponde a quello dell'essere: quanto più elevato è il grado «li essere che
una cosa possiede, tanto più grande è il suo valore. 2. Il criterio per
stabilire la gerarchia dei valori è fornito dall’apporto che una cosa, una
persona, un'azione può dare alla realizzazione del progetto uomo e del valore
uomo. Un progetto-uomo globale che tenga conto di tutte le dimensioni dell’uomo
e del suo bisogno di Dio apre alla seguente gerarchia di valori: — valori
economici o vitali: contribuiscono alla preservazione della vita e alla
conservazione del corpo. — valori culturali. contrilsuiscono alla coltivazione,
all’elevazione della mente. — valori spirituali. giovano alla crescita, al
perfezionamento dello spirito. 3. La classificazione dei valori più nota è
quella formulata da Max Scheler: valori edonistici, vitali, spirituali,
religiosi. Questa classificazione distingue i vari gradi dei valori, ma non
determina le aree assiologiche, in relazione alle quali è possibile produrre la
seguente classificazione: 238 Valori ———;- Primo valore — ontici —__—->
essere — personali ——__* persona — sociali ———+» famiglia — economici + lavoro
— culturali -——_—+» cultura — somatici «———>Ò corpo — noetici —————*» verità
— estetici ————=» bellezza — morali ———+» bontà — religiosi ———-;- sacro V. LA
FACOLTÀ DEI VALORI 1. Secondo alcuni filosofi la facoltà che percepisce il
valore è il sentimento, inteso secondo alcuni come una disposizione totalmente
soggettiva, secondo altri come una intenzionalità oggettiva. Per altri ancora
la facoltà dei valori è l'intuizione. 2. Il valore sembra comunque essere più
propriamente oggetto dell’esti- mativa: infatti, dove non c'è apprezzamento,
estimazione i valori non emergono. L'estimativa comprende tre funzioni: a)
captare valorativamente: cogliere i singoli valori; b) preferire: stabilire la
gerarchia; c) aspirare: scoperta di nuovi valori. 3. L'uomo è naturalmente
dotato della facoltà valorativa, che al pari delle altre facoltà va coltivata.
Se per i valori vitali la valutazione è istintiva, per i valori culturali e
spirituali è necessario l'intervento dell'educazione. “ QUESTIONARIO DI
VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Che cosa sono i valori? Quando è sorta l'assiologia?
2. Chi è stato il massimo teorico dell’assiologia? 3. Perché l’assiologia viene
chiamata realistica, gerarchica, personalistica e teocertrica? 4. Chi sono
stati altri grandi studiosi dei valori? 5. La parola « valore » quali
significati ha nella lingua italiana? 6. Qual è lo statuto ontologico dei valori?
7. Quali sono le gerarchie e la classificazione dei valori? 8. In che modo, con
quali facoltà percepiamo i valori? 9. È legittimo stabilire delle correlazioni
tra l’assiologia, il problema sto- rico, quello politico e la riflessione sulla
scienza? 10. È possibile ritenere che l'assiologia possa restituire alla
cultura tecno- logico-scientifica il senso del sacro e del mistero?
SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA.Vv., Il problema del valore, Atti del XII
Convegno del Centro di Studi filosofici di Gallarate, Morcelliana, Brescia
1957. Aa.Vv., Il valore - La filosofia pratica fra metafisica, scienza e
politica, Li- breria Gregoriana Editrice, Padova 1984. BATTAGLIA F., I valori
tra la metafisica e la storia, Zanichelli, Bologna 1967. CAMPANALE D., Scienza,
ontologia e valore, Bari 1963. FERRAROTTI F. {a cura di), Forme evolutive dei
valori nel quadro della mo- bilità odierna di grandi gruppi umani, Angeli,
Milano 1982. 239 HARTMANN N., Introduzione all'ontologia critica, Guida, Napoli
1972. ILAMBERTINO A., Max Scheler: fondazione fenomenologica dell'etica dei va-
lori, Firenze 1977. MAGNANI G., Itinerario al valore in R. Le Senne,
Gregoriana, Padova 1971. MARCHELLO G., Valori e tecniche di avvaloramento -
Studi sull'etica dei valori, Giappichelli, Torino 1972. MonpIN' B., Il valore
uomo, Dino, Roma 1983. Paci E., Pensiero, esistenza e valore, Principato,
Milano 1940. Rizzo A,, Infinito e persona - Ermeneutiche cristiane di fronte
alla crisi di senso, Iarma, Roma. Romano P., Ontologia del valore, studio
storico critico sulla filosofia dei valori, CEDAM, Padova 1949. Rosso C.,
Figure e dottrine della filosofia dei valori, Guida, Napoli 1973. ScHELER M.,
L’eterno nell'uomo, Fabbri, Milano 1972. StoETZEL J., I valori del tempo
presente. Un'inchiesta europea, SEI, Tori- no 1984. 240 Parte seconda: I
SISTEMI FILOSOFICI PRINCIPALI * Come si vede qui di seguito i primi sistemi
filosofici presentati sono quelli della Grecia antica. Ci si è posti il
problema del perché la filosofia, come forma di sapere organizzata spesso in
modo che possiamo chiamare scientifico e come ricerca di una spiegazione or-
ganica ai problemi dell'universo, si sia sviluppata inizialmente pres- so i
greci, e precisamente nei territori fuori della Grecia in cui si era
trapiantata la civiltà greca. Perché non ci furono scuole filosofiche nelle
altre più antiche ci- viltà medio-orientali, quali quella egiziana,
assiro-babilonese, persia- na, o in quella ebraica? Esaminando queste civiltà
si possono riscon- trare in ciascuna di esse elementi filosofici, inseriti
specialmente in insiemi dottrinari di carattere religioso e che pertanto non
possono essere definiti filosofici nel senso stretto della parola. Inoltre, per
il mancato sviluppo di una vera mentalità filosofica, sono da sottolinea- re le
differenti situazioni politiche in cui si sono sviluppate le varie civiltà, che
normalmente avevano regimi autocratici o teocratici, con il dominio assoluto
dei monarchi o dei loro rappresentanti sul resto della popolazione; e questo
aveva impedito un libero sviluppo del pensiero individuale. Nel secolo VIII e
VII la Grecia aveva sviluppato, a contatto con altri popoli del Medio Oriente,
le sue particolari doti di intrapren- denza in attività commerciali ed
industriali, creando un vero impero commerciale, con numerose colonie, specie
nell'Italia meridionale (la Magna Grecia). L'aristocrazia terriera che aveva
nella madre patria dominato sino ad allora, aveva perso pian piano potere a
vantaggio degli artigiani e dei commercianti e tutto ciò aveva sviluppato una
nuova forma di governo, quella repubblicana delle città-stato, in cui tutti i
cittadini partecipano alla cosa pubblica. È l’inizio della democrazia. * Per
notizie sulla vita e le opere dei filosofi, vedere la Parte terza. Per quanto
riguarda le date di nascita e morte di gran parte dei filosofi dell'anti-
chità, per mancanza di dati precisi, esse si devono ritenere approssimative.
241 Nelle colonie insediate e diffusesi fuori della Grecia, il sorgere della
democrazia fu facilitato dalla mancanza di una aristocrazia terriera, padrona
del potere politico; al suo posto dominavano in- vece coloro che si erano dati
al commercio, traendone ricchezze e benessere. Questa fiorente attività
commerciale li aveva messi in contatto con le grandi civiltà orientali, da cui
avevano saputo attin- gere con intelligenza il meglio delle conoscenze
scientifiche ed aveva permesso la fioritura delle arti e delle scienze. Si era
perciò sviluppato in tutto il mondo greco il senso dell’osservazione, dello
studio e della ricerca ed aveva portato ad un libero dibattito, nei vari campi.
Pertanto le prime scuole filosofiche si erano sviluppate, prima che nella
madrepatria, nelle città dell'Asia minore e della Magna Grecia. I filosofi che
facevano capo a queste scuole in generale erano scienziati (matematici,
astronomi, medici, ecc.) che però allo stesso tempo indagavano intorno a sé per
cercare di trovare un principio unitario di tutte le cose, e per conseguire
questo obiettivo ricorre- vano sia alla mitologia che alla speculazione
razionale. 1. Scuola ionica o di Mileto Fondatore: TALETE (624-562 a.C.)
Dottrine principali: La ricerca di questa scuola, che è stata la più antica
scuola greca di filosofia, sorta a Mileto, sulla costa dell'Asia minore, verso
il VII e VI secolo a.C., è volta a dare espressione filosofica al problema del-
l'esistenza di una causa suprema di tutto. Il principio viene quindi
individuato di volta in volta in un elemento naturale o materiale: acqua, aria,
fuoco... Maggiori esponenti: TALETE, il quale pone l'acqua come principio da
cui traggono origine tutte le cose per condensazione o rarefazione.
:ANASSIMANDRO (610-546 a.C.), matematico e astronomo di Mileto, il quale va
oltre Talete e pone come principio primo qualcosa di indeterminato (apeiron).
Il suo eterno movimento determina nella materia, per separazione, i contrari.
ANASSIMENE (585-527 a.C.), discepolo di Anassimandro, il quale ripone il
principio primo nell'aria, eterna e in continuo movimento. 2. Scuola pitagorica
Fondatore: PITAGORA (571-490 a.C.) Dottrine principali: La scuola pitagorica
sviluppatasi a Crotone, nella Lucania, 242 era composta da discepoli di
Pitagora (nato a Samo da cui do- vette fuggire per motivi politici) uniti
insieme con uno scopo di vita comune. La ricerca scientifica era considerata
come mezzo a servizio di questa comunità. Della prima scuola pitagorica si
conosce solo il nome del fondatore Pitagora, e questo per la segretezza che
circondava la vita di quella comunità che viveva con un codice mo- rale
impegnativo. Anche i pitagorici, come gli ionici, sono impegnati alla ricerca
del principio unitario, ma superano il primitivo prin- cipio unitario di
natura. Per essi, il principio delle cose e la sostanza dell'universo è il
numero. La monade (dal greco monàs = unità) è il termine usato dai pitagorici
per indicare l'unità originaria dalla quale deriva la serie dei numeri. Dai
numeri, con una serie di pas- saggi, si arriva alle figure solide; da queste
derivano i singoli corpi i cui elementi costitutivi sono il fuoco, l'acqua, la
terra e l'aria. Per Pitagora l'anima è immortale perché trae origine dall’etere
che è incorruttibile; essa è composta dall’intelligenza, dalla ragione e dal-
l'impulso passionale. 3. Scuola eleatica Fondatore: PARMENIDE (520-440 a.C.)
Dottrine principali: Secondo Parmenide, l’unica realtà è l'essere; nessuna
altra realtà è possibile, neppure il divenire come diceva invece Eraclito di
Efeso, in Asia minore, vissuto nella stessa epoca. Infatti, o una cosa è o non
è. Se è, non può divenire perché è già. Se non è, non può divenire perché dal
nulla non si può ricavare che il nulla. In tal modo veniva rilevaia la
correlazione tra l'essere e il pensiero. Maggiori esponenti: ‘PARMENIDE, di
Elea, colonia greca in Lucania, scrisse il poema Della Natura. Egli è
considerato il primo grande metafisico. ZENONE, di Elea (vissuto nel V sec.
a.C.), scrisse il poema Sulla Natura. La dottrina dell’« è » parmenideo si
trasforma in quella di una realtà, che non può essere molteplice e si presenta
come l'« uno » assoluto. È stato un formidabile dialettico, noto per i suoi
paradossi. 4. Scuola atomista Fondatore: DemocRITO (460-370 a.C.) Dottrine
princi pali: Democrito di Abdera, in Tracia, sostiene sia l'immutabilità del-
l'essere, sia la realtà del divenire. L'essere è costituito da atomi, 243 che
sono particelle invisibili e immutabili, immerse nel vuoto. Dal movimento degli
atomi derivano tutte le cose, secondo un meccanico determinismo. Queste
particelle non hanno nessuna qualità eccetto l’impenetrabilità; differiscono
fra loro solo per fi- gura e dimensioni. L'anima umana è costituita da atomi
leggeri e sottili, di carattere igneo. Il fondatore della « scuola atomistica »
di tipo fisico scrisse molte opere, andate tutte perdute. Per lui la felicità
non consiste nel piacere dei sensi ma nell'armonia della ragione e nella pace
dell'anima, la tranquillitas animi che deriva soprattutto dal non darsi troppo
da fare, né per faccende private né per quelle pubbliche, dal sapersi
accontentare di una condizione moderata. 5. Scuola sofista Fondatore: PROTAGORA
(480-410 a.C.) Dottrine principali: I sofisti si caratterizzano come una
corrente filosofica alla ri- cerca dell’arte del persuadere invece che della
ricerca della ve- rità. Essi sollevarono per primi la questione se l’uomo
avesse o no la capacità di conoscere l’intima natura delle cose e la legge
morale assoluta. La loro risposta fu che l'uomo non le può conoscere, perché la
realtà e la legge naturale stanno al di sopra delle capacità conoscitive
dell'uomo. Quindi tutto quello che l’uomo conosce in filosofia e in etica è
prodotto della sua coscienza. Da qui il famoso detto dei sofisti: « L'uomo è
misura di tutte le cose ». Quindi: non è possibile una conoscenza vera, ma solo
probabile; non c'è una legge morale assoluta, ma solo leggi convenzionali, In questa
dimensione empirica della conoscenza umana il piacere si pone come unico
traguardo per l’uomo. Maggiori esponenti: PRroTAGoRA di Abdera, in Tracia:
sostiene che non c’è nessuna verità assoluta. L'uomo interpreta a suo modo e a
suo vantaggio i dati della sensazione. Il sapiente, ossia il sofista, con
l’arte della per- suasione, fa sì che appaiano migliori non le opinioni più
vere, ma le più vantaggiose. Protagora insegna una morale convenzionale, ma non
arbitraria, basata sui princìpi divini del rispetto e della giu- stizia che
Giove ha comunicato a tutti gli uomini. Gorgia (484-375 a.C.) di Lentini, in
Sicilia, spinge il relativismo di. Protagora verso il più radicale scetticismo.
La sua filosofia so- stiene che: l'essere non esiste; una cosa è il pensare,
altra cosa è l'essere; la parola detta è altro dalla cosa significata.
Conclusione: bisogna rendersi conto che ciò che appare è solo probabile. Altri
esponenti della scuola sofista sono: ProDpIco di Ceo ed IPPIA di Elide. 244 6.
Scuola eclettica o fisico-pluralista Fondatore: EMPEDOCLE (483-423 a.C.)
Dottrine princi pali: Questa scuola viene chiamata pluralistica o « eclettica »
per- ché si propone di selezionare e raccogliere il meglio delle teorie sino ad
allora conosciute. Empedocle, di Agrigento, sostiene che la causa ultima delle
cose risiede in 4 elementi (terra, fuoco, aria e acqua), che sono originari e
immutabili e che il divenire è causato dalla lotta tra due forze primordiali:
Amore e Odio. L'altro grande rappresentante di questa scuola è Anassagora (500-
428 a.C.) il quale sostiene che l'essere è costituito da corpuscoli qua-
litativamente diversi. Il divenire è causato dal moto rotatorio e dalla Mente
Suprema che è costituita anch'essa di materia. 7. Scuola socratica Fondatore:
SOCRATE (469-399 a.C.) Dottrine principali: Il convincimento fondamentale di
Socrate è che si danno va- lori assoluti sia nell'ordine gnoseologico che in
quelli metafi- sico ed etico. In questo egli si oppone ai sofisti, i quali
sosteneva- no che tutto è relativo: le opinioni cambiano da individuo ad
individuo, i costumi da città a città, da popolo a popolo. Invece, se- condo
Socrate, esistono principi assoluti, verità eterne, leggi morali immutabili ed
eguali per tutti. A suo giudizio la vita umana merita e dev'essere vissuta in
obbedienza a tali valori etici e metafisici, an- che se questo può esigere
enormi sacrifici, perché l'uomo è destinato a raggiungere la sua piena
realizzazione soltanto dopo la morte, al- lorché l’anima si libera dal peso del
corpo. Fermo oppositore dei sofisti, si occupa essenzialmente delle cose umane,
ma raggiunge risultati ben diversi: l'immortalità dell'anima, la possibilità di
giun- gere al concetto universale, l’uso efficace del metodo induttivo. Per
Socrate è essenziale la distinzione di male e bene; la felicità consiste nella
pratica della virtù. Maggiori esponenti: ‘SOCRATE nacque e visse ad Atene; si
dedicò alla ricerca, volendo insegnare agli uomini la verità. Non ha lasciato
alcuno scritto. ANTISTENE ( V-IV sec. a.C.), il quale esaspera l'ascetismo di
Socrate esigendo un totale distacco dai beni materiali e l'assoluta indipen-
denza dalle vicende di questo mondo. Da lui prese il via la scuola cinica.
ArISTIPPO di Cirene (V-IV sec. a.C.), il quale accentua talmente l'assenza di
valore per quanto concerne il mondo materiale, il corpo, 245 le passioni, i
piaceri sensibili, da ritenere che sia perfettamente in- differente occuparsi
di loro ed assecondarli. A lui fa capo la scuola cirenaica. EucLIDE di Megara
(450-380 a.C.), il più fedele discepolo di So- crate: egli, che fu influenzato
anche da Parmenide, considera il bene come l'unica realtà e fa consistere la
felicità nella pratica della vir- tù. È il fondatore della scuola megarica.
PLATONE, il quale è certamente il massimo esponente del socra- tismo, ma col
suo possente ingegno gli conferisce una struttura fi- losofica più solida e
soprattutto originale, dando origine ad uno degli indirizzi più significativi
della storia della filosofia. 8. Scuola platonica Fondatore: PLATONE di Atene
(427-347 a.C.) Dottrine principali: L’intuizione fondamentale del filosofo
ateniese è la dottrina delle Idee, cioè la convinzione che, esistendo il mondo
sensibile, deve esistere anche il mondo intelligibile, che di quello è la cau-
sa e il modello. A dimostrazione
dell’esistenza del mondo intel- ligibile egli adduce tre argomenti: della
reminiscenza, della vera conoscenza, della contingenza. Le principali proprietà
delle Idee sono: semplicità, incorporeità, immutabilità, eternità. Non tutte le
Idee hanno lo stesso valore ontologico. Circa la concezione di Dio Platone è
convinto che Dio costituisce un grande mistero. L'origi- ne del mondo sensibile
è attribuita al demiurgo (Artefice sovrano). La caratteristica dominante del
pensiero platonico è il dualismo. Platone considera il mondo materiale come un
mondo decaduto ed alienato, una riproduzione imperfetta, una imitazione
malfatta, una partecipazione limitata di un mondo ideale, perfetto, eterno,
incor- ruttibile, divino, il mondo delle Idee. Questo dualismo si riflette in
tutti i settori della filosofia: in logica, dove si segue il procedimento
dialettico; in gnoseologia, in cui si svaluta la conoscenza sensitiva
riducendola alla funzione di ravvivare il ricordo delle Idee (teoria della
reminiscenza); in psicologia, con la identificazione dell'uomo con la sola
anima, spirituale ed immortale, considerando il corpo una prigione ed un
ostacolo alle attività dell'anima; in etica, dove si or- dina un rigido
controllo, anzi la completa soppressione degli istinti, delle passioni, onde
rendere possibile il distacco dell'anima dalla prigione del corpo e la
contemplazione delle Idee; in estetica, con la svalutazione della commedia,
della tragedia e delle arti figurative, perché non giovano alla elevazione
dello spirito; in politica, con la divisione della società in classi e
l'assegnazione del governo al filosofo-re. 246 Maggiori esponenti: Il
platonismo costituisce il massimo filone della storia della filo- sofia; esso
ha avuto validi rappresentanti in tutte le epoche: in quelia ellenistica con la
Vecchia e la Nuova Accademia e con il Neo- platonismo (PLoTINO [205-270]; in
quella patristica (con CLE- MENTE ALESSANDRINO [150-215], OriceNE [185-254],
BasiLIo [330- 379], S. AgcostINno [354-430], Pseupo-DioNIGI i[V sec.], Boezio
[480- 524]; in quella scolastica (con S. ANsELMO [1033-1109], BoNAVENTURA
[1221-1274], Cusano [1401-1464]; in quella moderna (con CARTESIO [1596-1650],
MALEBRANCHE [1638-1715], Vico [1668-1744], LEIBNIZ [1646-1716], SCHELLING [1775-1854]
e HegeL [1770-1831]). 9. Scuola aristotelica Fondatore: ARISTOTELE di Stagira,
in Tracia (384-322 a.C.) Dottrine princi pali: La visione filosofica di
Aristotele si caratterizza per lo sforzo di cogliere la realtà in modo unitario
(contro il dualismo di Platone) e, allo stesso tempo, per il tentativo di
ricondurre le cause ultime di tutto ciò che è mutevole e contingente ad un
principio unico tra- scendente. A tal fine Aristotele postula quattro cause
fondamentali: la materia e la forma (per spiegare la struttura intrinseca delle
realtà corporee), l'agente e il fine (per spiegare l'origine delle co- se e il
loro dinamismo). Egli si vale di questi principi per risol- vere tutti i
massimi problemi: problema cosmologico (composizione ilemorfica delle cose,
ossia esse sono costituite di materia e forma, le quali si trovano in rapporto
di potenza e atto); problema teleologico (il dinamismo delle cose e il loro
divenire sono causati dal Primo Motore Immobile, che è il loro fine ultimo);
problema antropologico (l'uomo non è solo anima, come affermava Platone, ma è
il risultato dell'unione sostanziale di anima e corpo, la prima concepita come
forma e il secondo come materia; l’anima, tuttavia comprende un elemento
spirituale, divino, immortale); problema gnoseologico (la conoscenza
intellettiva si fonda su quella sensitiva, in quanto le idee si ricavano dalle
sensazioni mediante il procedimento astrat- tivo); problema metafisico (la
metafisica è il sapere più importante ed elevato, perché studia l'essere in se
stesso e ha di mira la scoperta delle cause ultime delle cose); problema etico
(la perfetta felicità e la piena realizzazione del proprio essere, per l'uomo,
non può con- sistere solo nella contemplazione delle Idee, ma esige anche un
adeguato soddisfacimento dei sensi, perché l'uomo è essenzialmente costituito
di corpo oltre che di spirito); problema teologico (esiste un Essere supremo,
che è la causa ultima d'ogni divenire in qua- lità di Motore Immobile).
Aristotele ha realizzato una grandiosa costruzione filosofica. Ele- 247 menti
validi di questa sono soprattutto un efficace metodo di ricerca (logica) e la
forma espositiva, un'analisi acuta degli elementi costi- tutivi del mondo
fisico, una visione realistica del mondo e dell’uomo, ed infine un'acuta concezione
per il suo tempo della trascendenza di Dio. Maggiori esponenti: La scuola
fondata ad Atene da Aristotele (e chiamata anche peri- patetica, perché
Aristotele insegnava nel corridoio [peripatos] del lyceum, sacro ad Apollo
Licio) in un primo tempo non ebbe nessun esponente di rilievo e così il
pensiero del maestro cadde ben presto in oblio. Riemerse tuttavia
prepotentemente durante il Medioevo, prima nel mondo arabo e poi in quello
cristiano. Dall'incontro del pensiero aristotelico con l’islamico uscì la
Scolastica araba (AVICENNA [980-1037] e AverRoÈ [1126-1198]); mentre
dall'incontro col cristiane- simo sorse la grande Scolastica cristiana (ALBERTO
Magno [1205- 1280], S. Tommaso [1225-1274], Ruscero BACONE [1214-1293], DUNS
Scoro [1265-1308], OccaM [1290-1349]). Anche nel Rinascimento (con Pomponazzi
[1462-1524] e TELESIO [1509-1588]) e agli inizi del- l'epoca moderna (con Locke
[1632-1704]) questa scuola continuò ad avere validi rappresentanti. 10. Scuola
stoica Fondatore: ZENONE di Cizio (336-274 a.C.) Dottrine principali: Lo
stoicismo è il movimento filosofico più originale dell'epoca ellenistica, sorto
dopo la nascita dell'impero di Alessandro Magno, e che ha avuto la:maggiore
durata di tempo rispetto alle altre scuole filosofiche dell'antichità; è
essenzialmente una dottrina morale, la quale fa consistere la felicità e quindi
il fine ultimo dell’uomo nella pratica della virtù e nel rifiuto di qualsiasi
concessione ai sensi e alle passioni. Però esso comprende anche alcune
importanti dottrine sul- la conoscenza e sulla struttura del cosmo. Per quanto
concerne il problema gnoseologico, gli sioici si allontanano sia da Platone che
da Aristotele per il modo di concepire la verità. Mentre per Platone e
Aristotele essa consiste essenzialmente nella perfetta corrispon- denza tra la
rappresentazione mentale e la situazione reale delle cose, per Zenone e i suoi
discepoli sta nella totale comprensione o catalessi dell'oggetto, per cui la
mente è costretta all’assenso. Per quanto concerne il problema cosmologico, il
mondo, secondo gli stoici ri- sulta costituito di due elementi primordiali, la
materia ed il Logos. La prima, essendo indefinita ed inerte, rappresenta il
principio pas- sivo; il secondo, essendo animato e pieno di energia,
rappresenta il principio attivo. 248 Maggiori esponenti: Lo stoicismo, fondato
alla fine del IV secolo a.C., continua a fiorire fino ad oltre il III secolo
dopo Cristo. Altri esponenti di questa scuola, che si chiama stoica perché
l'insegnamento era tenuto da Zenone sotto i portici (stoà) di Atene, sono:
CRISPINO (281-208 a.C.), SENECA (4 a.C.-65 d.C.), EPITTETO (50-138) e MARCO
AURELIO (121-180). 1i. Scuola epicurea Fondatore: EpPicuRo di Samo (341-260
a.C.) Dottrine principali: Davanti ai grandi problemi filosofici l’epicureismo
assume una posizione di netto contrasto con lo stoicismo, rifiutandone il rigo-
rismo etico e lo spiritualismo antropologico e metafisico. L'epicurei- smo
sviluppa, pertanto, una concezione materialistica per quanto concerne i
principi primi delle cose (tutte le cose, compresi gli dei e le anime, sono
costituiti di atomi e vuoto); meccanicistica riguardo ai fenomeni della natura
i quali sono ascritti esciusivamente al moto e alla sua legge; sensistica per
il problema della conoscenza, che è tutta ricondotta alle facoltà sensitive,
mentre il concetto viene con- siderato come semplice anticipazione (prolessi)
del futuro; edoni- stica per quanto riguarda il problema morale: la felicità,
il bene supremo dell'uomo consiste nel piacere (edoné). Maggiori esponenti:
L'epicureismo ha avuto sempre dei seguaci, ma soprattutto nel mondo romane con
Lucrezio (98-54 a.C.) e Orazio (65-8 a.C.) e nel mondo rinascimentale con VALLA
(1407-1457) e MONTAIGNE (1533- 1592). 12. Scuola neoplatonica Fondatore:
PLOTINO di Licopoli, in Egitto (205-270) Dottrine princi pali: Viene chiamato «
neoplatonismo » il movimento filosofico che riprende e sviluppa, dal III al VI
secolo dopo Cristo, le dottrine platoniche. Questa scuola, fondata ad
Alessandria d'Egitto da Am- monio Sacca, fu sviluppata dal suo discepolo
Plotino che poi si trasferì a Roma, dove aprì una scuola che ebbe grande
successo. L'impegno maggiore della riflessione filosofico-religiosa di Plotino
riguarda l'Assoluto e i nostri rapporti con Lui. Valendosi di sugge- stioni che
gli venivano dall’ebraismo e dal cristianesimo, ch'egli bene conosceva, il
pagano Plotino è in grado di superare i limiti 249 materia, che in tal modo si
trova all'estremo opposto dell’Uno e del Bene e per questo si identifica col
male. Al processo di emanazione fa riscontro un processo di ritorno e di
riassorbimento delle cose nell’Uno. L'attuazione dell’epistrofé (ri- torno)
spetta all'uomo, il quale la realizza percorrendo tre tappe: ascetica o catarsi
(mediante l'esercizio delle quattro virtù cardinali), contemplazione
(conoscenza dell’Uno mediante la filosofia) ed estasi (unione mistica,
immediata, con l'Uno). Maggiori esponenti: ‘Profondo è stato l'influsso dei
pensiero di Plotino su tutta la filo- sofia medioevale e moderna. Tra i
maggiori esponenti ricordiamo i discepoli PoRFIRIO (232-303) e ProcLOo
(410-485) (due filosofi pagani), PsEupo-DroNIGI (V sec.) e Boezio (480-524),
l'arabo AvICENNA (980- 1037), NiccoLò Cusano (1401-1464) e MarsiLio FIcINO
(1433-1499), e i moderni LEIBNIZ (1646-1716), ScuELLING (1775-1854) e HEGEL
(1770-1831). 13. Scuola agostiniana Fondatore: AgostINo d'Ippona (354-436)
Dottrine principali: La visione filosofica agostiniana è frutto della esigenza
di trovare una base razionale per la fede cristiana. Per conseguire questo obiet-
tivo Agostino fa ricorso alla filosofia di Platone e, in tal modo, ottiene una
visione che viene giustamente qualificata come platonismo cri- stiano. In
effetti in tutti i problemi fondamentali la matrice platonica è chiaramente
riconoscibile: nel problema della conoscenza con la dottrina della
illuminazione; nei problema antropologico con la so- stanziale identificazione
dell'essere dell’uomo con l’anima; nel pro- blema metafisico con la teoria
delle verità eterne (idee) e delle ragioni seminali cioè queile impresse sino
dalla creazione; nel problema etico con la dura condanria di ogni piacere
sensibile e delle passioni e di tutto ciò che appartiene al mondo naturale.
Però, nella visione ago- stiniana, gli elementi platonici non costituiscono dei
blocchi isolati, 250 ante e con- clusivo. Alla visione agostiniana resteranno
fedeli tutti i medioevali sino a San Tommaso, e molti altri dopo di lui: basti
ricordare i nomi di ANSELMO (1033-1109), Uco (1096-1141) e RICCARDO DI S.
VITTORE (1123-1173), BERNARDO (1090-1153). Dominante è l’elemento agostinia- no
nei pensatori francescani: BONAVENTURA (1221-1274), ALESSANDRO DI HALES
(1180-1245), DuNnS ScoTo (1265-1308). Sulla scia di Agostino si muovono anche
alcuni grandi filosofi moderni, in particolare CARTESIO (1596-1650) e Vico
(1668-1744). Al vescovo di Ippona si ri- fanno infine LuTERO (1483-1546) e
CaLvino (1509-1564). 14. Scuola tomista Fondatore: ToMMaso d'Aquino (1225-1274)
Dottrine principali: ione dell'essere negli enti è dovuta ad una potenza, ossia
all'essenza. Quindi negli enti si dà una distin- zione reale tra essere ed
essenza; tra i singoli enti, come pure tra gli enti e l’Essere supremo, c'è
analogia ossia semiglianza, perché sono tutti imparentati con la stessa
perfezione. Alla luce della sua con- cezione dell'essere Tommaso risolve tutti
i principali problemi filo- sofici: il problema epistemologico (la verità
consiste nella corrispon- 251 denza tra il pensiero e l'essere); il problema
teologico (Dio è l’ipsum esse subsistens); il problema cosmologico (il mondo
trae origine per creazione mediante una comunicazione dell’essere da parte di
Dio); il problema antropologico (l'anima umana è naturalmente immor- tale in
quanto possiede un atto di essere suo proprio indipendente- mente dal corpo);
il problema politico (come in Aristotele, viene affermata l'origine naturale
dello Stato che è una società perfetta; però l'altra società perfetta, cioè la
Chiesa, ha la preminenza, in quanto il fine di questa è il « bene
soprannaturale » dell’uomo). Maggiori esponenti: Il pensiero tomista ha avuto
poi rappresentanti di grande va- lore del secolo XVI (il Caretano [1468-1533],
SUAREZ [1548-1617], DE VITORIA [1483-1546]) e nel secolo XX (card. MERcIER
[1851-1926], GiLson [1884-1978], MARITAIN [1882-1973], RAHNER [1904]). 15.
Scuola francescana Fondatore: BoNAVENTURA da Bagnoregio (1221-1274) Dottrine
principali: Il pensiero dei maestri francescani, in particolare di S. Bona-
ventura, che è il loro caposcuola, si caratterizza per una sintesi non sempre
organica ma di grande respiro, di elementi desunti da varie fonti, soprattutto
da Platone e Agostino, ma anche da Aristotele e da Avicenna, e ovviamente dalla
rivelazione biblica. Le dottrine spe- cifiche della scuola francescana sono le
seguenti: in epistemologia, la teoria della illuminazione e la conoscenza
diretta e immediata sia di se stessi che delle singole cose (senza far ricorso
al processo astrat- tivo); in ontologia, la concezione univoca dell'essere e ia
negazione della distinzione reale tra essenza ed esistenza; in cosmologia, la
dottrina dell’ilemorfismo universale (cioè tutte le cose, compresi gli angeli,
sono costituiti di materia e forma) e la negazione dell’eter- nità del mondo;
in antropologia, la teoria della pluralità delle forme (una per il corpo, un'altra
per l’anima vegetativa e sensitiva ed un'al- tra ancora per l’anima razionale);
in teologia naturale, la dottrina dell’evidenza immediata dell’esistenza di
Dio, secondo alcuni autori (Alessandro di Hales e Bonaventura), oppure della
sua indimostra- bilità, secondo altri autori (Duns Scoto e Occam). Maggiori
esponenti: La scuola francescana ha avuto validissimi esponenti soprattutto nei
secoli XIII e XIV {(BonavENTURA [1221-1274], ALESSANDRO di HaLEs [1180-1245],
Duns Scoro [1265-1308], Occam [1290-1349], RucceRo BaconE [1214-1293] e PieTRO
OLIVI [1248-1298]). 252 - 16. Scuola razionalista Fondatore: CARTESIO
(1596-1650) Dottrine principali: Per svariate ragioni, a partire da Cartesio,
la preoccupazione dominante del filosofo non riguarda più l'essere, la realtà
in sé, le cause ultime delle cose, Dio, ma riguarda l'uomo, ia sua capacità di
conoscere il mondo e di trasformarlo. Ciò che conta maggiormente è stabilire il
valore della conoscenza umana e scoprire una metodo- logia appropriata per la
ricerca filosofica. Cartesio, padre del razio- nalismo, affascinato dalla
matematica e dalla geometria, ritiene che l'unica conoscenza valida sia la
conoscenza che non proviene dai sensi ma si trova innata nell'anima. Quanto al
metodo, Cartesio propone quello della messa in dubbio di qualsiasi conoscenza
che non risulti immediatamente chiara e distinta. Chiarezza e distinzione
infatti co- stituiscono per lui le proprietà essenziali d'ogni vera conoscenza.
La conoscenza razionale ha per oggetto l’universale e il necessario, ed è,
quindi, capace di afferrare la natura vera, immutabile delle cose. Così la
metafisica diviene possibile: si può conoscere Dio (anzi la sua esistenza è
praticamente evidente: per riconoscerla basta l'argomento ontologico) e si può
provare l'immortalità dell'anima. L'uomo raggiunge la perfetta felicità facendo
trionfare la potenza della ragione sugli istinti e le passioni e dedicandosi
alla contempla- zione amorosa di Dio (amor intellectualis Dei, secondo la bella
e- spressione di Spinoza). Maggiori esponenti: Le tesi razionaliste di Cartesio
sono state riprese e sviluppate da MALEBRANCHE (1638-1715), SPINOZA
(1632-1677), LEIBNIZ (1646-1716) e in parte anche dagli illuministi e dagli
idealisti. 17. Scuola empirista Fondatore: FRANCESCO BACONE (1561-1626)
Dottrine principali: Nel secolo XVII il punto di partenza della riflessione
filosofica non è più il problema dell’essere, bensì quello del conoscere.
Mentre, però, i filosofi continentali (Cartesio, Spinoza e Leibniz) lo affron-
tano a partire dal modello delle scienze esatte (matematica e geome- tria) e
questo li conduce ad evolvere una concezione razionalistica della conoscenza e
delia realtà, i filosofi inglesi si trovano in una temperie culturale
profondamente diversa: nel loro paese fioriscono non tanto le scienze
matematiche guanto quelle sperimentali: la bo- tanica, la chimica,
l'astronomia, la meccanica, ecc. ed è perciò logico che la loro preoccupazione
sia volta alla ricerca d'una teoria della 253 conoscenza e di un metodo di
ricerca che corrispondano alle esigenze di tali scienze. Ora, le scienze
sperimentali muovono dalla costata- zione di eventi particolari,
dall'esperienza di certi fatti concreti (non da idee astratte, da principi
universali); loro obiettivo è il supera- mento dei fatti, con la scoperta di
rapporti costanti, leggi stabili, così da rendere possibile l’anticipazione di
ulteriori esperienze. La problematica epistemologica della filosofia inglese
consiste essen-
zialmente in questo: com'è possibile,
partendo dall'esperienza sen- sitiva risalire a leggi universali? Senonché
proprio la tesi che tutta la conoscenza procede dall'esperienza (= empirismo)
li induce a con- cludere che anche le idee astratte e le leggi scientifiche
conservano la stessa incertezza, instabilità e particolarità della conoscenza
sen- sitiva. La mente umana non afferra niente di universale e necessario. In
tal modo la metafisica diviene impossibile: nulla si può sapere intorno alla
esistenza e natura di Dio, sulla origine prima e sull'ulti- mo fine della vita
umana, sulla essenza delle cose materiali. Nep- pure in campo morale si danno
norme assolute: buono o cattivo è ciò che viene approvato o disapprovato dalla
società. Maggiori esponenti: L'empirismo è la filosofia congeniale al popolo
inglese. Nel se- colo XVII l'hanno professato FRANCESCO Bacone {1561-1626),
HoBBES (1588-1679) e Locke (1632-1704); nel secolo XVIII BERKELEY (1685- 1753)
e HUME (1711-1776); nel secolo XIX SPENCER (1820-1903) e MILL (1806-1873); nel
secolo XX RussELL (1872-1970), AYER (1910), RYLE (1900-1976) e molti altri. 18.
Scuola illuminista Fondatore: VOLTAIRE (1694-1778) Dottrine principali:
L'illuminismo più che una scuola o un sistema filosofico è un complesso movimento
culturale, tipico del secolo XVIII e caratte-
rizzato da una sconfinata fiducia nella
ragione umana, ritenuta capa- ce di diradare le nebbie dell'ignoto e del
mistero, che limitano e oscurano lo spirito umano, e di rendere migliori e
felici gli uomini illuminandoli ed istruendoli. L’illuminismo è essenzialmente
un an- tropocentrismo, un atto di fede appassionato nella natura umana. È un
nuovo vangelo di progresso e di felicità. L'illuminismo predica un messianismo
nuovo, un'era nuova, in cui l’uomo vivendo in con- formità con la sua natura,
sarà perfettamente felice. I caratteri fon- damentali dell'illuminismo sono:
venerazione della scieriza, con la quale si spera di risolvere tutti i problemi
che affliggono l'umanità; empirismo: tutto ciò che sta al di là dell'esperienza
non mantiene alcun interesse e cessa di valere come problema; razionalismo:
scon- finata fiducia nella ragione, il cui potere è ritenuto illimitato; anti
254 con BECCARIA (1738-1794) e GIANNONE (1676-1748). 19. Scuola idealista
Fondatore: IMMANUEL KANT (1724-1804) Dottrine principali: Ii credo fondamentale
degli idealisti è l'affermazione del pri- mato assoluto delia funzione
conoscitiva rispetto a qualsiasi altra at- tività (estetica, economica,
tecnica, politica, religiosa, ecc.). Secondo ii loro punto di vista il
conoscere diviene un principio sussistente: la Coscienza, il Sapere, la
Ragione, lo Spirito Assoluto, l'Io puro. E, logicamente, il principio
conoscitivo non si attua come rappresen- tazione, bensì come creazione di
oggetti. Dall'attività dello Spirito traggono origine la natura, la storia e
l'umanità. Nel suo agire, lo Spirito non si propone altro fine al di fuori di
quello di realizzare pienamente se stesso acquistando una perfetta
autocoscienza. L'i- stanza dell’idealismo è già presente nel sistema kantiano,
ma Kant la sviluppò soltanto parzialmente, affermando gratuitamente l'’esi-
stenza di un mondo oggettivo, della cosa in sé, che esiste fuori di ogni
esperienza {il noumer0). Ma tale postulato era possibile a prezzo d'una grave
contraddizione: l'attribuzione del concetto di causa, il quale secondo i
princisi kantiani di per sé è applicabile solamente ai fenomeni, anche alla
cosa in sé. Ai discepoli di Kant (Fichte, Schel- ling e Hegel) riuscì
facilmente il tentativo di raggiungere l’idealismo assoluto: fu sufficiente liberare
il criticismo dall’applicazione inde- bita del principio di causalità,
trascurare la cosa in sé, e condurre alle ultime conseguenze il cuncetto
kantiano dell'Io come attività ordinatrice e unificatrice dell'esperienza
esterna ed interna. Con que- sta ultima operazione l'io da unificatore diviene
creatore di tutta la realtà; l’'autocoscienza diviene il principio assoluto di
tutto il reale e di tutto ciò che è; ogni limite al pensiero non può essere
posto che dal pensiero, e dal pensiero anche superato. In breve, l'io penso è
255 insieme il mondo e Dio, il fenomeno e il nowmeno, il soggetto e l’og-
getto. In tal modo ogni differenza qualitativa tra Dio e la natura, tra
l'Assoluto e la storia viene cancellata. La natura, la storia, l'umanità non
sono altro che i momenti decisivi della manifestazione dell'As- soluto.
Maggiori esponenti: L'idealismo è stato professato, anzitutto, dai tre grandi
discepoli di Kant: FIicHTE (1762-1846), SCHELLING (1775-1854) e HEGEL (1770-
1831), i quali però lo svilupparono in modo diverso, in forma etica il primo,
estetica il secondo, logico-storica il terzo. Alla fine del se- colo XIX e
all'inizio del XX l’idealismo ebbe validi esponenti in Fran- cia (con RavaIsson
[1813-1900], BrunscHvICG [1869-1944], HAMELIN [1856-1907]), in Inghilterra (con
BrapLEY [1846-1924] e Mc TAGGART [1866-1925]), in America (con Royce
[1855-1916]) e in Italia (con Croce [1866-1952] e GENTILE [1875-1944]). 20.
Scuola volontarista Fondatore: ARTHUR SCHOPENHAUER (1788-1860) Dottrine
principali: L'esaltazione del potere della ragione che con l'Illuminismo e
l'Idealismo aveva toccato momenti di autentica follia, dopo la morte di Hegel
(1831) scatenò tutta una serie di vivaci reazioni a favore della dimensione
opposta dello spirito umano, la dimensione affettiva della volontà, delle
passioni, degli istinti. Un gruppo di filo- sofi. di grande levatura contestò
l’importanza che si ascriveva alla ragione e la sua abilità a condurre l’uomo
verso la completa realiz- zazione di se stesso, ne evidenziò i limiti di fronte
ai problemi più gravi e più profondi e l'incapacità di fornire un orientamento
sicuro per l'avvenire. Secondo il loro punto di vista ciò che conta maggior-
mente nell'uomo non è la ragione, la speculazione, la logica, la me- tafisica,
bensì la volontà, l'istinto, la fede. C'è però chi (p. es.: Nietzsche) guarda
alla dimensione volitiva dell'uomo con eniusiasmo, fiducia, ottimismo e,
quindi, professa un velontarismo fatto di coraggio, potenza, azione, un
volontarismo volto al superamento del- la condizione attuale dell'umanità e
allo sviluppo di un uomo supe- riore (super-uomo). C'è invece chi (come
Schopenhauer, Kierke- gaard) considera la situazione dell'uomo in modo
pessimistico: l’uo- mo è alienato e oppresso da un male insanabile, governato
da una volontà perversa, a cui con le sue forze non riuscirà mai a sottrarsi né
potrà mai guarire. Egli potrà uscire da questa situazione in due modi: o
sopprimendo la propria individualità (Schopenhauer) op- pure affidandosi alla
grazia di Dio (Kierkegaard). 256 Maggiori esponenti: Oltre a Schopenhauer,
KIERKEGAARD (1813-1855) e NIETZSCHE (1844 1900) che abbiamo già ricordato e che
sono i massimi esponenti del volontarismo; da ricordare anche HERBART
(1776-1841) e FREUD (1856-1939). 21. Scuola positivista Fondatore: AUGUSTE
COMTE (1798-1857) Dottrine principali: Nel secolo XIX gli scienziati
moltiplicavano le loro scoperte su aspetti della natura e dell'uomo per i quali
nei secoli precedenti la filosofia aveva cercato invano di fornire spiegazioni
valide. Tutto questo parve giustificare l’illazione che l'unica vera filosofia
fosse la scienza stessa. E questa è precisamente la tesi centrale del positi-
vismo, il quale è, pertanto, la logica conseguenza degli insuccessi della
metafisica da una parte e dei trionfi della scienza dall'altra. Il positivismo
si propone di rispondere alla istanza di estendere il dominio dell’uomo sulla
natura per mezzo della scienza, e, insieme, all'esigenza di organizzare per
mezzo della scienza lo stesso mondo umano; onde può, sotto tale aspetto,
considerarsi una prosecuzione o una riaffermazione dei motivi illuministici
contro le arbitrarie co- struzioni metafisiche e le aprioristiche filosofie
della natura fiorite nell'età romantica. Oltre che con l'illuminismo, il
positivismo è im- parentato anche con il materialismo: entrambi vedono nella
materia il principio supremo, la causa ultima di tutta la realtà. Uno degli
aspetti più originali ed interessanti del positivismo è la preoccupa- zione
umanistica. Da una parte esso si propone di liberare l’uomo da tutte le
alienazioni ideologiche a cui l'avevano precedentemente incatenato la religione
e la metafisica. Dall'altra vuole acquisire una cognizione esatta dell’uomo
come essere sociale, valendosi del metodo delle scienze sperimentali: come le scienze
sono idonee a for- mulare le leggi relative al dispiegarsi della realtà
naturale, così deb- bono essere idonee a formulare le leggi relative al
dispiegarsi del mondo sociale umano. Maggiori esponenti: Come l’illuminismo
anche il positivismo, il cui termine fu coniato da Saint-Simon e poi adottato
da Comte, è un movimento filoso- fico di portata europea, anzi, si può dire,
mondiale, avendo avuto sostenitori e seguaci in tutte le parti del mondo. Però
i suoi espo- nenti più illustri appartengono alla Francia (SAINT-SIMmon [1760-
1825) e Comte [1798-1857], all'Inghilterra (DARWIN [1809-1882], SPENCER
[1820-1903], STuART MiLL [1806-1873]), alla Germania HaEc- KEL [1834-1919]) e
all'Italia (ArpIGÒ [1828-1920]). 257 22. Scuola materialista-marxista Fondatore:
KarL Marx (1818-1883) Dottrine principali: I fattori che maggiormente
concorsero alla formazione di una interpretazione materialistica della realtà
in Karl Marx furono tre: lo sviluppo della scienza, la dialettica hegeliana e
l’acuirsi dei pro- blemi economico-sociali. I trionfi riportati dalla scienza
durante il secolo XIX favorirono l'affermarsi del materialismo perché fecero
credere che l’unica spiegazione vera delle cose sia quella scientifica, non
quella religiosa o quella metafisica. Anche l’acuirsi dei problemi
economico-sociali con il progredire della civiltà industriale operò a favore
del materialismo, in quanto ben presto uomini politici, so- ciologi e filosofi
cominciarono a considerarli fondamentali, condizio- nanti rispetto a tutti gli
altri. Ma la spinta decisiva per il trionfo del materialismo la fornì Hegel
stesso con l'eliminazione della dico- tomia tra reale ed ideale, tra realtà
pensante e realtà estesa, tra spirito e materia, e con la risoluzione di tutta
la realtà nella storia. Facendo assurgere la storia a realtà assoluta, Hegel
spalancò la porta al materialismo perché, partendo da queste premesse, era fa-
cile trarre la conclusione che nello sviluppo storico pesano assai più i
fattori economici che le teorie filosofiche e religiose: i primi costituiscono
la struttura fondamentale, le seconde sono semplice- mente sovrastrutture. Il
principale artefice della « conversione » del- l'idealismo nel materialismo fu
Marx. Questi ha voluto dimostrare scientificamente che l’esistenza or- ganizzata
degli individui, ossia la società, è il risultato della organiz- zazione dei
mezzi di produzione e della loro distribuzione tra gli uomini; ha fornito una
acuta e chiara diagnosi della società mo- derna come società basata sulla
produzione e appropriazione pri- vata della ricchezza socialmente prodotta,
come società che spacca la comunità dei soggetti in classi contrapposte,
capitalisti e lavora- tori; da questa iniqua distribuzione della ricchezza
prodotta ne de- riva inevitabilmente la lotta di classe e che questa a sua
volta sfocerà nella rivoluzione dei proletari di tutto il mondo che porterà
alla fine del capitalismo e al trionfo del comunismo. Maggiori esponenti: Il
materialismo dialettico elaborato da Marx con la collaborazio- ne di EncELS (1820-1895)
fu ripreso e sviluppato « secondo la lettera » da LENIN (1870-1924), STALIN
(1879-1953) e Mao (1893-1976); secondo tendenze revisionistiche da GRAMSCI
(1891-1937), MARcUSE (1898- 1979), BLocH (1885-1977) e GARAUDY (1913). 258 23.
Scuola pragmatista Fondatori: WiLLiam JAMES (1842-1910) e CHARLES SANDERS
‘PEIRCE (1839-1914) Dottrine principali: Il pragmatismo è un indirizzo
filosofico tipicamente americano, sorto negli Stati Uniti alla fine del secolo
scorso, ma si inquadra in quella temperie culturale che, a cavallo del secolo,
domina l’Euro- pa: la reazione al positivismo e al materialismo positivista.
Mentre in Europa la reazione viene condotta sotto l’insegna dello spiri-
tualismo, in America percorre una via nuova ed originale, la via del successo pratico:
questo viene assunto come criterio generale nel determinare la bontà di una
conoscenza, di un sistema, di una norma di condotta. Il termine pragmatism fu
coniato da Ch. S. PEIRCE (intorno al 1872) per indicare che la funzione del
pensiero consiste precisamente nell’imporre una regola d'azione, un
comportamento, una « credenza » (belief); ne deriva che il concetto di un
oggetto si identifica con gli effetti pratici che se ne possono trarre. Le tesi
del Peirce sono state riprese ed efficacemente propagandate da W. James nel
celebre saggio Pragmatism (1907), dove il succo del nuovo indirizzo filosofico
viene così espresso: « Il metodo pragmatico con- siste nello studio delle varie
dottrine dal punto di vista delle con- seguenze pratiche. Quale differenza ci
sarebbe, in pratica, se fosse vera questa dottrina anziché quella? Se non si
può riscontrare nes- suna differenza pratica, allora le dottrine hanno in
realtà la stessa importanza e qualsiasi discussione è superflua. Quando una
discus- sione è seria, dovremmo essere capaci di mostrare le differenze pra-
tiche che devono derivare dal fatto che una alternativa è vera e l’altra no.
Tutta la funzione della filosofia è di accertare se l'accettazione di questo o
quel sistema come vero implica una differenza nei miei o nei tuoi riguardi in
un momento particolare della nostra vita ». Maggiori esponenti: Oltre a CH. S.
PEIRCE e W. JAMES, che ne sono i fondatori, il prag- matismo è stato professato
con qualche variazione da J. DEWEY(1859- 1952) e G.H. MEAD (1863-1931). Alle
tesi del pragmatismo hanno par- zialmente aderito anche pensatori europei, in
particolare J. ORTEGA Y GassET (1883-1955) e E. LE Roy (1870-1954). 24. Scuola
neopositivista Fondatore: LUDWIG WITTGENSTEIN (1889-1951) Dottrine principali:
Il neopositivismo è, essenzialmente, l'applicazione delle teorie classiche
dell’empirismo inglese all'analisi del linguaggio. Non a caso esso si è
sviluppato soprattutto nel mondo anglosassone (Inghil- 259 terra e Stati
Uniti), anche se i suoi inizi ebbero luogo a Vienna, dove un gruppo di
scienziati ebrei capeggiato da Wittgenstein e Schlick si propose di elaborare
un linguaggio scientifico rigoroso sottoposto a criteri infallibili di verità.
I motivi che hanno determinato la tra- sformazione dell’empirismo da teoria
della conoscenza in teoria del linguaggio sono due. Primo, il convincimento che
molte discussioni filosofiche siano dovute ad una insufficiente chiarezza e
precisione di linguaggio. Secondo, il desiderio di scoprire un linguaggio
univer- sale ed un criterio di significazione assoluto, validi per tutte le
disci- pline scientifiche e filosofiche. I canoni fondamentali del neopositi-
vismo, detto anche positivismo logico, sono i seguenti: a) i problemi
filosofici possono essere risolti solo con l’analisi del linguaggio; b) so- lo
le proposizioni sperimentali o fattuali, ossia le proposizioni che sono
passibili della verifica sperimentale, hanno senso; c) le proposi- zioni della
metafisica come pure quelle dell'estetica, della religione, della morale, ecc.
non hanno un contenuto, in quanto ogni contenuto proviene dali’esperienza e,
perciò, sono prive di senso. Su questi po- stulati si fonda la tesi centrale
del neopositivismo: quella della as- surdità (più esattamente, della
non-sensatezza) della metafisica, del- l'etica, dell'estetica e della
religione. Maggiori esponenti: Nella forma rigida che abbiamo esposto il
neopositivismo è stato sostenuto oltre che da Wittgenstein (il primo
Wittgenstein) e SCHLICK (1882-1936), anche da NEURATH (1882-1945), REICHENBACH
(1891-1953), CARNAP (1891-1970), RussELL (1872-1970) e Ayer (1910). Ma,
allorché si riconobbe l'insostenibilità del principio della verifica sperimen-
tale come criterio assoluto di significanza, la corrente neopositivista si
trasformò in corrente dell'analisi del linguaggio. Questa cessa di privilegiare
il linguaggio scientifico sopra tutti gli altri e adotta come linguaggio base
il linguaggio ordinario. Quanto al criterio di significanza molti sono disposti
ad accogliere quello proposto da K. PoPPER (1902), detto criterio di
falsificabilità. 25. Scuola esistenzialista Fondatori: MARTIN HEIDEGGER
(1889-1976) e KIERKEGAARD (1813-1855) Dottrine principali: La prima guerra
mondiale mostrò la vacuità di tutti i sistemi filosofici, dall'idealismo al
volontarismo, dal positivismo al materia- lismo, mettendo in scacco i valori da
essi esaltati, e fece sentire l’ur- genza d'un rinnovamento sostanziale della
filosofia. Interprete di tale istanza di rinnovamento e, allo stesso tempo,
testimone della situazione di angoscia in cui il flagello orrendo della guerra
aveva sprofondato l'umanità è l’esistenzialismo, un movimento di pensiero che —
rifacendosi anche al pensiero di Kierkegaard — concepisce 260 la speculazione
filosofica come una minuta analisi dell'esperienza umana quotidiana, in tutti i
suoi aspeiti, teorici e pratici, indivi- duali e sociali, istintivi ed
intenzionali, ma soprattutto degli aspetti ‘irrazionali della vita umana. I
caratteri fondameniali deil’esistenzia- lismo sono i seguenti: a) il metodo
fenomenologico: questo consiste essenzialmente in uno sforzo di chiarificagione
della esperienza con- dotto non alla luce di principi metafisici ma nell’ambito
dell’espe- rienza stessa mediante l'osservazione obiettivadella realtà così
come essa si manifesta;! b) il punto di parienza antropologico: la ri-
flessione filosofica comincia dall'uomo e si incentra sempre su di lui; c) il
tentativo di integrare le dimensioni dell'uomo comunemen- te considerate
irrazionali, come gli istinti, i sentimenti e ie passioni, in una visuale più
comprensiva; d) la subordinazione dell'essenza al- l'esistenza: l'uomo non è
concepito come un essere naturale com- pletamente configurato nella sua essenza
sin dalla nascita, ma come un individuo che, esistendo, crea la propria essenza
mediante l’uso della libertà; e) i criteri della condotta morale ron sono
ricavati dal- la natura e neppure da Dio bensì dalla storia e precisamente
dalle possibilità concrete che si presentano quotidianamente ad ognuno di noi.
È autentica ossia morale la vita di coiui che sa tradurre in atto le proprie
possibilità, mentre invece è inautentica la vita di chi le trascura. Maggiori
esponenti: L'esistenzialismo attuale ha avuto i suoi rappresentanti più iliu-
stri in Germania (con HFipEGcER e Jaspers [1883-1969]), dove tra l'ai- tro
esercitò un influsso decisivo sulla teologia, dando origine al mo- vimento
denominato teologia della crisi (BARTH [1886-1968], ILLICH [1886-1965],
GocarTEN [1887-1967], BuLTtMANnN [i884-1976]), e in Francia (con SARTRE
[1905-1980], CAMus [1913-1960], MarczL [1889- 1973], MERLEAU-PONTY [1908-1961]
e LaveLLE [1883-1951]); in Italia con ABBAGNANO (1901). 26. Scuola personalista
Fondatore: CHARLES RENOUVIER (1815-1903) Dottrine principali: Il personalismo è
un importante movimento filosofico contem- poraneo che ha avuto per culla la
Francia (già alla fine del secolo scorso), ma poi ha trovato molti seguaci sia
negli altri paesi eu- ropei come in alcuni paesi dell'America sia del Nord sia
del Sud. Si caratterizza per l’attenzione che rivolge alla persona. Contro
tutti quei sistemi filosofici che trascurano la persona o facendone un mo-
mento dell’Assoluto (idealismo) o della Storia (storicismo) o della Vita
(vitalismo) o della Natura (materialismo) o subordinandola alla 1 Vedere più
avanti la Scuola fenomenologica. 261 ori religiosi (cattolici, protestanti,
ebrei). Ciò spiega come il loro discorso sulla persona si apra necessariamente
verso la Trascendenza: Dio è il Tu supremo che chiama, interpella e porta a
compimento la progettualità umana tesa all'infinito. Maggiori esponenti: Tra i
cattolici: CH. RENOUVIER (1815-1903), E. MOUNIER (1905- 1950), J. QuiLEes, R.
GUARDINI (1885-1968); tra i protestanti: P. Ri- COEUR (1913), E.S. BRIGHTMAN;
tra gli ebrei M. BuUBER (1878-1975) e E. LÉvInAs (1906). 27. Scuola
spiritualista Origine: È un vasto movimento di pensiero che si sviluppa in
Europa (in particolare in Francia, Italia e Germania) negli ultimi decenni del-
l'’Ottocento e nei primi del Novecento in contrapposizione al positi- vismo,
allo scientismo e al materialismo. 4 Dottrine principali: Lo spiritualismo
accoglie nelle sue file pensatori di svariate ten- denze che hanno in comune
tra di loro tre cose: a) il rifiuto del ma- terialismo positivista e scientista
che aveva dominato la scena cul- turale europea durante la seconda metà del
secolo XIX; b) la riaf- 262 fermazione del primato della dimensione spirituale
su quella ma- teriale della realtà; c) la critica della concezione positivista
delle conoscenze che aveva identificato scienza e ragione e, allo stesso tempo,
assolutizzato i poteri della scienza. Denunciando le assurde pretese scientiste
del positivismo, gli spiritualisti riaprono la porta alla riflessione
metafisica. Questa però viene realizzata in svariati modi: secondo il modo più interioristico
ed antropologico di Agosti- no, oppure secondo il modo più oggettivo ed
ontologico di san Tom- maso, oppure secondo il modo trascendentale di matrice
kantiana, oppure secondo il modo dialettico di ispirazione pascaliana, ecc.
Così si è avuto lo sviluppo di uno spiritualismo agostiniano (con Blondel,
Lavelle, Sciacca, Lazzarini, Guzzo); di uno spiritualismo neoscolastico o
neotomistico (Gilson, Maritain, Masnovo, Fabro, Bontadini); di uno
spiritualismo neokantiano (Lotze, Rickert, Ca- rabellese, Martinetti). Divisi
nelle vie da percorrere gli spiritualisti si trovano però uniti nel traguardo
finale: la riaffermazione di Dio quale centro spirituale dell'universo,
principio primo del possente dinamismo insito nell'uomo e nelle cose, valore
supremo che assi- cura un solido fondamento a tutti gli altri valori (morali,
religiosi, sociali, personali) in particolare al valore assoluto della persona.
Maggiori esponenti: Tra i primi e principali esponenti dello spiritualismo,
oltre i nomi di cui abbiamo riferito sopra, occorre ricordare F. RAVAISSON
(1813-1900), CH. RENOUVIER (1815-1903), J. LACHELIER (1832-1918), E. BouTRoux
(1845-1921), che, in certo modo, possono anche dirsi fon- datori di questo
movimento. 28. Scuola di Francoforte Fondatore: M. HoRKHEIMER (1895-1973), che
è stato il principale ani- matore dell'indirizzo di pensiero che ebbe
nell'Institut fiir Sozial- forschung (Istituto per la ricerca sociale) di
Francoforte il suo cen- tro di irradiazione. Storia e dottrine princi pali:
L'Istituto, fondato nel 1924 e diretto da Karl Griinberg, fu do- minato poi
dalla personalità di Horkheimer, che fu chiamato a di- rigerlo nel 1931.
Horkheimer diede notevole impulso agli studi del- l’Istituto, proponendosi di
promuovere la elaborazione di una « teo- ria della società esistente
considerata come un tutto », avvalendosi di una ricerca interdisciplinare che
contava soprattutto sull’apporto oltre che della filosofia, della psicanalisi,
della antropologia, della sociologia. Nel 1932 nacque la rivista Zeitschrift
fiir Sozialforschung (Rivista per la ricerca sociale), come organo ufficiale
dell'Istituto. Questo, nel 1933, a causa dell'avvento del nazismo che ne aveva
de- cretato la soppressione, fu trasferito prima a Parigi e successiva- 263
movimento di pensiero che, nello studio della realtà, assegna il primato alle
strutture anziché ai contenuti. Dello strutturalismo si danno due versioni
principali, guella lingui- stica e quella filosofica. Fondatore delia prima è
F. De Saussure, della seconda C. Lévi-Sirauss. Poiché la versione filosofica
dipende stret- tamente da quella linguistica, si può coglierne il significato
soltanto tenendo presenti le tesi basilari di quest'ultima, che sono le se-
guenti: nello studio strutturalistico di una lingua i isrmini non vanno
trattati come entità indipendenti ma vanno considerati nelle loro reciproche
relazioni, cioè l’analisi deve basarsi sulle relazioni fra i termini; la lingua
va vista come un sistema, mostrande che ci sono sistemi fonologici concreti e
scoprendo le loro strutture; in- fine si cerca di arrivare, sia con l’induzione
sia con la deduzione, alla conoscenza di leggi generali e a formulare relazioni
necessarie. Dal campo della linguistica Lévi-Strauss ha trasferito lo
strutturalismo allo studio generalizzato dell’uomo e della società, ritenendo
di poter trattare i membri della società alla stregua dei singoli termini di
264 logia, dalla macchina, e si vede sempre più gravemente lesa nella sua
libertà e nella sua autonomia. Ciò che è accaduto, secondo ‘Foucauli, è la morte
dell’uomo; e, in effetti, più che la « morte di Dio », lo strutturalismo «
annuncia la fine del suo uccisore [...] l'assoluta dispersione dell’uomo ».
Maggiori esponenti: I maggiori rappresentanti dello strutturalismo sono: C.
LÉvI- STRAUSS (1908) che concepisce l'antropologia strutturale come inven-
tario delle possibilità inconsce da cui emergono le strutture proprie di una
società; M. FoucauLT (1926), studioso dell’epistema, ossia del- l’a priori
storico di alcuni periodi della civiltà occidentale. 30. Scuola fenomenologica
Fondatore: EDMUND HussERL (1859-1938) Dottrine principali: Come suggerisce il
termine « fenomenologia » — che è quello che dà il nome a questa scuola — lo
studio dei fenomeni costituisce l’obiettivo primo e principale della filosofia
secondo Husserl e i suoi seguaci. Senonché il loro concetto di fenomeno ha ben
poco in co- mune con il classico concetto kantiano, il quale rimanda
necessaria- mente alla « cosa in sé », il noumeno. Secondo Husser! il fenomeno
è il dato immediato ed ultimo, e la questione della cosa in sé non si pone
neppure. Il fenomeno, si potrebbe dire, è la cosa in sé, e in effetti per
Husserl e per i suoi seguaci studiare i fenomeni significa studiare la realtà
quale essa si offre alla intelligenza al fine di evi- denziarne i contenuti
essenziali. Per quesio è essenziale l’epoché (termine greco che significa «
sospensione », « messa in parentesi »): vale a dire la sospensione di qualsiasi
conoscenza previa intorno ai fenomeno preso in esame, compreso il presupposto
deila coscienza naturale che al di là del mondo conosciuto (mondo eidetico, dei
significati) esista anche un mondo esterno. Il metodo fenomenologico — di cui
Husserl fu il geniale inven- tore — fu accolto con entusiasmo e fu ampiamente
utilizzato da 265 molti filosofi del sec. XX, soprattutto dagli
esistenzialisti, ma anche dai personalisti, dagli psicanalisti, dagli analisti
del linguaggio, da- gli antropologi, dai sociologi, dai filosofi della
religione, ecc., i quali, però si appropriarono della teoria husserliana con
una buona dose di libertà, depurandola quasi sempre da quella venatura idea-
listica che c'era in Husserl. Della fenomenologia salvaguardarono i due canoni
fondamentali: l'epoché (cioè sospensione di ogni cono- scenza o precomprensione
di ciò che costituisce oggetto di studio) e intenzionalità (che è il
riconoscimento del carattere essenzialmente referenziale della coscienza e dei
suoi contenuti), mentre lasciarono cadere gli altri elementi che avevano
condotto Husserl sui sentieri dell'idealismo e del solipsismo. ; Maggiori
esponenti: L'indirizzo fenomenologico ha avuto un largo seguito, e l’uso del
metodo fenomenologico ha consentito a numerosi pensatori di conseguire
importanti risultati: a SCHELER (1874-1928) di esplorare il mondo dei valori; a
HEIDEGGER (1889-1976) il mondo dell’esistenza; a MERLEAU-PONTY (1908-1961) il
mondo del corpo; a WITTGENSTEIN (1889-1951) il mondo del linguaggio; a RICoEUR
(1913) il mondo del simbolismo religioso; a LÉvINAS (1906) il mondo dell'altro;
a MARCEL (1889-1973) il mondo della fede, della speranza e della carità; a
SARTRE (1905-1980) il mondo della libertà; a GADAMER (1900) il mon- do della
storia. 31. Scuola epistemologica Una vera e propria scuola! che porti questo
nome non è mai esi- stita e non esiste. Nella storia della filosofia invece si
registra forte attenzione a numerosi problemi della conoscenza come la natura,
i fondamenti, i limiti e le condizioni di validità del sapere scientifico nei
vari campi delle scienze; ciò è avvenuto soprattutto a partire da Cartesio e
con maggior impegno nell'ultimo secolo. Tale attenzione è il tratto comune di
tutto il pensiero moderno ed è ciò che lo di- stingue dal pensiero antico e
medioevale. Mentre questo aveva un orientamento marcatamente metafisico, il
pensiero moderno ha pre- so un orientamento marcatamente gnoseologico o
epistemologico: la discussione fondamentale e principale riguarda il conoscere
e non più l'essere. Da questo indirizzo generale e comune si distaccano sva- P
! Per avere una scuola non basta un bel tema. La metafisica e l'etica, per
esempio, sono temi bellissimi eppure non esistono né una scuola metafisica né
una scuola etica. Perché si dia una scuola occorre anzitutto un maestro e poi
un discreto numero di discepoli che per qualche tempo ne abbiano ripreso il
pensiero. Sui grandi temi (e questo è anche il caso dell’epistemologia) sono
state proposte, come è detto sopra, svariate interpretazioni ed elaborazioni da
parte di numerosi maestri insigni che pertanto hanno dato luogo a molte scuole,
non ad un'unica scuola. 266 riate ramificazioni: la scuola razionalista (con
Cartesio, Spinoza e Malebranche) nel secolo XVII; la scuola empirista (con
Locke, Berkeley e Hume); la scuola illuminista (con Voltaire, Rousseau,
Lessing) e la scuola criticista (con Kant) nel secolo XVII; la scuola
positivista (con Comte e Spencer) nel secolo XIX; la scuola neopo- sitivista o
neoempirista (con Carnap, Popper, Wittgenstein, Russell, Ayer) nel secolo XX. I
recenti sviluppi della riflessione epistemo- logica (di Bachelard, Popper,
Kuhn, Agazzi) ha fruttato un ridimen- sionamento delle pretese della scienza e
ha rimesso in luce questio- ni preliminari sulla natura stessa del conoscere e
del soggetto che svolge l’attività scientifica che debordano i confini
dell’epistemolo- gia e invadono il terreno della metafisica. 32. | « Nuovi
Filosofi » Non rappresentano una scuola nel senso proprio del termine, ma
rappresentano sicuramente una delle correnti‘ di pensiero più indicative della
crisi. della coscienza contemporanea. Giovani intel- lettuali marxisti,
‘protagonisti del maggio 1968 in Francia, sono diventati progressivamente
assertori di una critica radicale alla complessità teorica e pratica del
marxismo nelle .sue formulazioni di principio e nelle sue attuazioni storiche.
Le ragioni di questa crisi profonda nei confronti del marxismo sono state
provocate soprattutto dalle tragiche vicende degli intellet- tuali sovietici
del dissenso e dalla pubblicazione di Arcipelago Gulag (1978) di A. Solzenicyn.
Maggiori esponenti: CHRISTIAN JAMBET (1949), Guy LARDREAU (1947), JEAN-MARIE
BENOIST (1942), JEAN PAUL Dottè (1939), MicHEL GUERIN (1946), BERNARD- Henry
LEvy (1949), ANDRÈ GLUCKSMANN (1937). Kk xk Abbiamo presentato i sistemi
principali delle filosofie occiden- tali. Il motivo di questo è dato dal fatto
che « soltanto gli occidentali, a partire dal popolo greco, sono riusciti a
mettere a punto gli stru- menti concettuali (la logica, la dialettica, il puro
ragionamento) che sono necessari per elevare la filosofia dal livello elementare
a quello scientifico. Infatti, anche nelle altre culture, specialmente in
quelle derivanti dalle grandi civiltà mediorientali ed orientali, elementi fi-
losofici appaiono in contesti di carattere prevalentemente religioso e pertanto
non possono essere definiti “filosofia” in senso scientifico 267 vero e proprio
».! Altrettando non si puè dire delia filosofia islamica, la quale approfondì e
Sviluppo la filosofia scolastica prima ancora che essa si sviluppasse in
Europa. I massimi rappresentanti della filo- sofia islamica sono AVICENNA, nato
nell'Asia centrale nel 980 e morto nel 1037 duranie una campagna militare;
AVERROÈ, nato a Cordova, in Spagna, nel 1126 e morto nel 1198. Anche nel mondo
ebraico si di- stinsero, rel Medioevo, due filosofi che hanno tentato di
approfon- dire le più importanti verità della fede, servendosi anche delia spe-
culazione aristotelica e neoplatonica: AVICEBRON, nato a Malaga, in Spagna,
verso il 1820 e morto a Valencia fra il 1058 e il 1069; MAIMONIDE, nato a
Cordova nel 1135 e morto a Il Cairo nel 1204.
Naturalmente, alla suddivisione delle
Scuole illustrate nel pre- sente volume, specie per quanto riguarda quelle
degli ultirni se- coli, si possono fare delle obiezioni. Non è possibile
seguire un cri- terio rigido e uniforme. Molti filosofi appaiono in più di una
Scuola, sia per l'evoluzione del loro pensiero che per i, multiformi contributi
dati da numerosi filosofi a più di un indirizzo filosofico. Per questo, è utile
consultare la ZII Parte, che presenta le schede dei maggiori filosofi,
dall'antichità ad oggi. ! B. MONDIN, vol. I, p. 9. 268 Parte terza: I
PRINCIPALI FILOSOFI" Abbagnano Nicola (1901) Filosofo italiano, nato a
Salerno, fu allievo di A. Aliotta e docente in varie università. Distaccatosi
dall’idealismo, in Italia fu tra i pri- mi a cogliere e segnalare l’importanza
della nuova prospettiva esi- stenziale nello studio della realtà, che proveniva
dalla Germania e dalla Francia, propugnando, peraltro, una sorta di
esistenzialismo positivo , in contrapposizione a quello essenzialmente negativo
di Heidegger, Jaspers, Sartre. Successivamente, dopo il 1945, approfon- dendo
il pragmatismo e lo strumentalismo anglo-americano, divenne assertore convinto
di una concezione del mondo che, pur afferman- do la dignità assoluta della
persona e dei suoi diritti, allo stesso tempo riconosce apertamente i limiti
della ragione umana, la quale deve rifuggire ogni tentazione di onniscienza ed
onnipotenza e col- tivare la via del « limite ». Opere principali: La struttura
dell’esistenza (1939); Introduzione all'esistenzialismo (1942); Esistenzialismo
positivo (1948); Storia della filosofia, in 3 voll. (1946-1950); Possibilità e
libertà (1956); Di- zionario di filosofia (1960). Abelardo Pietro (1079-1142)
Filosofo e teologo francese nato a Nantes, fu una mente enciclo- pedica e un
dialettico formidabile. Discepolo a ‘Parigi di Roscellino (nominalista) e di
Guglielmo di Champeaux (ultrarealista), ben pre- sto prese posizione contro i
suoi maestri, aprendo nuove strade sia in filosofia (con la teoria del realismo
moderato), sia in teologia (col metodo dialettico del sic et non). Fu maestro
prima di dialettica e successivamente di teologia a Parigi (nella scuola di
Notre Dame * In questa Parte terza vengono presentate le schede dei filosofi
delle grandi Scuole del periodo antico, medioevale e moderno; un maggior
sviluppo è riservato ai filosofi dell’epoca contemporanea. Le date di nascita e
morte di gran parte dei filosofi dell'antichità, per mancanza di dati precisi,
si devono ritenere approssimative. 269 e nel monastero di san Vittore)
ottenendo grande successo tra la folla dei suoi auditori. Ma incappò in due
grossi infortuni: quello sentimentale a causa del suo sventurato amore per la
sua giovane allieva Eloisa che aveva sposato in segreto e che gli costò
l’evira- zione e la chiusura in convento a Chalons sur Saòne fino alla morte;
quello dottrinale che gli attirò la condanna dei concili di Soissons (1121) e
di Sens (1141). In teologia la tendenza di Abelardo è razio- nalistica: mira a
sottoporre all'analisi critica della ragione anche le verità di fede. In
filosofia hanno avuto vasta risonanza la sua so- luzione del problema degli
universali secondo la linea del realismo moderato, e la dottrina della buona
intenzione quale criterio unico della bontà di un'azione. Opere principali:
Dialectica; De unitate et trinitate divina (in cui tenta di accostare le tre
persone della Trinità alla triade neoplatonica Uno, Mente, Anima); Nostrorum
petitioni sociorum; Ethica seu liber scito teipsum; Ingredientibus. A carattere
teologico scrisse, tra l’al- tro: Introductio ad theologiam, Theologia
christiana. Adler Max (187 1937). . È annoverato” tra È ‘tapiscuola dell’è
‘austromarxismo », la nuova scuola nata ‘da’ una « Comunità spirituale »,
frantumatasi, nel 1914, per le divergenze sorte in merito alla valutazione del
problema della partecipazione alla guerra, dei nazionalismi e dei caratteri
della rivo- luzione bolscevica. i Questione primaria dell’austromarxismo è la
fondazione dei va- lori del socialismo e la verifica di quanta scienza sia
presente nel marxismo o quanto meno derivabile da esso. La sua riflessione è
polarizzata su tre questioni fondamentali: a) il concetto di pro- gresso; b)
l'interrogativo circa l’interpretazione del materialismo; c) il carattere
metafisico e metodologico della dialettica. Opere principali: l'opera nella
quale Adler elabora le linee fonda- mentali della sua riflessione è Problemi
marxisti (1920); altre sue opere sono: La condizione dello Stato nel marxismo;
Democrazia e consigli operai; Socialismo e intellettuali. Adorno Theodor
Wiesegrund (1903-1969) Filosofo, sociologo e musicologo, nacque a Francoforte,
dove visse e lavorò sino all'avvento del nazismo, quando si trasferì negli
U.S.A. insieme ad Horkheimer, dal ’34 al '50. Tornato in Germania, divenne condirettore
dell'Istituto per le Ricerche Sociali, la famosa Scuola di Francoforte, che era
stata fondata nel 1924, e dal 1931 al 1933 venne diretta da Horkheimer, di cui
Adorno fu sempre il più sti‘etto collaboratore. Insieme a questi curò la
stesura delle due opere fondamentali: Dialettica dell'Illuminismo e Lezioni di
sociologia. Da marxista pienamente convinto, quale fu sino agli anni ‘’40,
divenne un critico preciso del pensiero di Marx, sia come ideologia che come
filosofia, impegnandosi, soprattutto negli ultimi anni, ad 270 analizzare
criticamente i miti del progresso ed il loro sviluppo nelle società capitaliste
avanzate. Nel contempo, come studioso della filosofia della musica, di cui può
dirsi fondatore, indicò nell'arte il mezzo per riproporre in modo continuo la
dimensione utopica per la risoluzione della crisi culturale moderna. Opere
principali: Dialettica dell'illuminismo (1944); Lezioni di sociologia (1947);
Personalità autoritaria (1950); Minima moralia (1951); Tre studi su Hegel
(1963); Dialettica negativa (1966). Come musicologo è notevole La filosofia
della musica moderna (1949); In- troduzione alla sociologia della musica
(1962). Nel 1974 è uscita po- stuma ed incompleta la sua Teoria estetica.
Agostino di Ippona (354-430) Nato a Tagaste (nell'attuale Algeria) da madre
cristiana (la futura santa Monica), si dedicò a studi letterari e filosofici e
poi all’insegna- mento. Aderì in epoche diverse a filosofie diverse. Passò a
Roma e poi a Milano: qui, anche per l’incontro con sant'Ambrogio, si con- vertì
al cristianesimo e ricevette il battesimo. Tornato in Africa, di- venne prete e
poi vescovo di Ippona. Morì nel 430. Scrisse molte opere su svariati argomenti
di interesse filosofico e teologico. Sant'Agostino è il massimo esponente della
filosofia cristiana du- rante il periodo patristico. Egli ha operato una
sintesi armoniosa di cristianesimo e di neoplatonismo. Egli dà alla sua
filosofia una netta impostazione interioristica (« la verità abita nell'uomo
interiore ») ed è essenzialmente attraverso l’interiorità umana che egli
ascende a Dio. Nell'uomo, che è mutevole — osserva Agostino —, vi è la verità,
che è immutabile: in ultima analisi, Dio è la Verità che si fa riconoscere nel
cuore dell'uomo. Al problema se l'uomo possa conoscere la verità Agostino
rispon- de con una serrata critica dello scetticismo, dimostrando che l'uomo
conosce con certezza alcune verità. La conoscenza delle verità eterne, che è il
vertice della conoscenza intellettiva, ha luogo attraverso la illuminazione
divina. Il linguaggio ha funzione strumentale: la pa- rola serve per comunicare
le idee. Momento centrale della sua riflessione è il tema della creazione del
mondo messo in rapporto al problema dell'eternità e del tempo. Il tempo per
Agostino è una dimensione propria dell'animo umano, è la durata di una natura
finita che ha bisogno di tappe successive e continue per realizzarsi. Il tempo
è un presente che passa, l'eternità, invece, è un presente che non passa. La
mente è la misura del tempo: 1) la memoria è il presente del passato; 2)
l'intuizione è il presente del presente; 3) l'attesa è il presente del futuro.
Il mondo è stato creato da Dio nella sua intierezza, sin dall'inizio, con tutte
quelle virtualità, che si sarebbero venute sviluppando nel- la storia (ragioni seminali).
Inoltre, nell'affrontare il problema del male, comune alla tradizio- 271 ne del
neoplatonismo, afferma che il male non deriva da Dio, ma dalle creature, in
quanto non è una realtà positiva, ma una privazio- ne della realtà. Contro il
manicheismo sostiene la libertà dell'uomo, contro il pelagianesimo il valore
della grazia. La centralità riservata da Agostino all'interiorità dell'uomo fa
sì che nel suo pensiero il problema dell'anima acquisti una particolare
incidenza. Per Agostino l’uomo è « un'anima ragionevole che si serve di un
corpo mortale terrestre ». Gli argomenti per dimostrare la spi- ritualità e
l'immortalità dell'anima sono: 1) o l’anima esplica la sua attività (volere,
pensare, dubitare, ecc.) senza il corpo e allora è spi- rituale, o ha sempre
bisogno «del corpo e allora è materiale. (C'è un caso in cui l'anima non ha
bisogno del corpo ed è quando conosce se stessa come sostanza che vive, ricorda
e vuole, ecc.; 2) la prova del- l'immortalità è di ispirazione platonica:
l’anima si trova in continua relazione con la verità; vi è pertanto un'intima
unione tra la mente che contempla la verità e la verità che è contemplata. Con
Agostino ha inoltre origine nel pensiero occidentale una vera e propria
teologia della storia, innestata su una nuova filosofia della storia, ben
diversa da quella del mondo classico. La storia non è più concepita come un
susseguirsi di cicli che si ripetono periodicamen- te, ma un cammino in linea
retta che sale dalla terra al cielo. Lo svolgersi della storia è la lotta tra
la città terrena e quella celeste. La storia è divisa in tre grandi periodi
(l'origine, il passato, il fu- ‘turo) rischiarati dalla luce della Rivelazione
cristiana. Infine, per Agostino, i rapporti fra la « città celeste » (o Chiesa)
e la « città terreno » (o mondo) sono chiariti ricorrendo alla dialettica dei
due amori: l’amore di Dio; l’amore di sé. Opere principali: Contra academicos;
De beata vita; De ordine; Soliloquia (quattro opere scritte tra il 386 e il
387); De immortalitate animae (387); De libero arbitrio (388); De vera
religione (390); Con- fessiones (13 libri scritti tra il 397 e il 401); De
Trinitate (15 libri scritti tra il 399 e il 419); De civitate Dei (22 libri
scritti tra il 413 e il 426). Alberto Magno (1205-1280) Filosofo e teologo
tedesco. Fece i suoi studi a Bologna e a Padova e nel 1223 entrò nell'ordine
domenicano. Insegnò teologia a Parigi e poi a Colonia, dove morì. A Parigi ebbe
come allievo Tommaso d'Aquino. Fu uno dei primi pensatori medievali a
valorizzare la filo- sofia e la scienza aristotelica, dichiarandola compatibile
con la fede cristiana; ne raccomandò l'assunzione da parte della Chiesa e diede
egli stesso l'esempio di ome si poteva utilizzare le dottrine scientifi- che e
metafisiche di Aristotele a vantaggio del cristianesimo. A tal fine cercò di
liberare il pensiero del filosofo greco dalle distorsioni che gli aveva
procurato l’interpretazione di Averroè. In tal modo egli spianò la strada al
discepolo Tommaso d'Aquino, che riuscì ad operare 272 quella grande sintesi del
pensiero aristotelico con la rivelazione cri- stiana, che costituisce una delle
massime conquiste del Medioevo. Opere principali: Commentari alle opere di
Aristotele; Tractatus de natura boni; Summa de creaturis; commento alle
Sentenze di Pietro Lombardo; Summa theologiae. Althusser Louis (1918) Filosofo
francese, nato ad Algeri e discepolo di Bachelard, ha insegnato a lungo all’«
École Normale Superieure » di Parigi sino a quando fu colpito da una malattia
mentale. Appartiene con Bloch e Garaudy al neomarxismo francese. Egli ritiene
che la dialettica hegeliana sia funzionale in ordine alla prassi marxiana,
leninista e maoista e pertanto vada o abbando- nata o ridefinita; asserisce,
inoltre, che in Marx è presente una « rottura epistemologica » tra la nozione
fondamentale di « modo di produzione » e l'umanesimo degli scritti giovanili.
Assume, pertanto, il metodo strutturale come chiave di lettura dei testi
marxiani con soluzioni opposte a Bloch e a Garaudy. Egli nega infatti che nelle
opere giovanili di Marx esista la prospettiva di un « umanesimo socialista »,
attribuendo al concetto di umanesimo una valenza ideologica e al concetto di
socialismo una valenza scien- tifica. Marx, secondo Althusser, si è impegnato
in un affrancamento dai pregiudizi filosofici e, anche se non ha eliminato
l'ideologia, ha creato le condizioni storiche per conoscerla, ponendosi così da
un punto di vista scientifico. L'approccio scientifico all'ideologia avreb- be
pertanto costituito il vero merito di Marx e del marxismo. Opere principali:
Per Marx (1965) e Leggere il « Capitale » (scritto con i suoi allievi nel
1965); Lenin e la filosofia (1969), Umanesimo e stalinismo (1973), Elementi di
autocritica (1974). Anassagora (500-428 a.C.) Originario di Clazomene, in Asia
Minore, introdusse la filosofia ad Atene. Fu filosofo e scienziato. Ad Atene
divenne maestro di Pe- ricle. Imprigionato a causa delle sue teorie
astronomiche, fu liberato per intercessione di Pericle e morì in esilio. Anche
per Anassagora, come per Democrito, l'essere è costituito da atomi
qualitativamente diversi, le « omeomerie ». La diversità dei corpi è data dal
prevalere di determinate omeomerie. Per primo Anassagora pone come causa del
divenire una Mente Suprema (Nous), principio ordinatore delle cose. Così egli
supera la spiega- zione naturalistica dell'universo ed apre orizzonti nuovi al
pensiero greco. Della sua opera Sulla natura rimangono 12 frammenti.
Anassimandro (610-546 a.C.) Matematico e astronomo di Mileto, oltre che
filosofo. Successe a Talete nella guida della Scuola ionica. Pone come
principio primo di tutte le cose qualcosa di indeterminato (àpeiron). Il suo
eterno 273 movimento determina nella materia, per separazione, i contrari.
L'àpeiron (infinito) di Anassimandro è un concetto nuovo e importan- tante
perché introduce elementi metafisici, che trascendono cioè le co- se « finite
». Della sua opera Della natura rimane un solo frammento. Anassimene (585-528
a.C.) Nacque a Mileto, come Talete e Anassimandro, di cui fu disce- polo.
Ripone il principio primo nell'aria, che è eterna e in continuo movimento,
rifiutando così il concetto dell’àpeiron del suo maestro Anassimandro. È
l’espressione più compiuta della filosofia ionica. Della sua opera Sulla natura
rimane un solo frammento. Anselmo d'Aosta (1033-1109) Nato ad Aosta entrò,
adolescente, nell'abbazia benedettina di Bec, in Normandia, nel 1086 ne divenne
abate. Una decina d'anni più tardi fu nominato vescovo di Canterbury in
Inghilterra. Anselmo è il massimo pensatore cristiano del secolo XI e dà l’avvio
alla rinascita del pensiero filosofico e teologico medioevale. Egli studia, tra
l'altro, due problemi di fondamentale importanza per la filosofia cristiana: il
problema dei rapporti tra fede e ragione che risolve secondo la linea
dell'armonia nella sottomissione della ragio- ne alla fede e il problema della
esistenza di Dio, che risolve con la celebre prova ontologica (movendo cioè dal
concetto che Dio è l’esse- re massimo che si possa concepire: id cuius maius
cogitari nequit). Opere principali: Monologion; Proslogion; Cur Deus homo; De
veritate; De grammatico. Ardigò Roberto (1828-1920) . Nato a Casteldidone
(Cremona), mentre compiva gli studi classici a Mantova si sentì chiamato alla
vocazione sacerdotale. Venne ordi- nato prete nel 1851 a Mantova, dove fu
nominato canonico della cattedrale nel 1863. Dopo un lungo periodo di crisi,
abbandonò il sacerdozio nel 1871. Nel 1881 fu chiamato alla cattedra di storia
del- la filosofia nella università di Padova. Ricoprì tale incarico per quasi
30 anni. Morì suicida a Mantova dove si era ritirato. Ardigò fu il più illustre
rappresentante del positivismo in Italia. Rifacendosi a Spencer, Ardigò insegna
che tutta la realtà è una « for- mazione naturale » che va dal sistema solare
alle più elevate espres- sioni del pensiero umano; pertanto egli considera la
vita psichica quella che rivela nel modo più singolare la vita stessa
dell'universo. Secondo Ardigò la differenza tra l’uomo e l'animale è
soprattutto organica. Nell'uomo la più perfetta organizzazione del sistema rer-
voso e specialmente del cervello, consente uno sviluppo psichico più perfetto.
Tutta la realtà è omogenea; perciò non esiste l’inconosci- bile (Dio) ma
soltanto l'ignoto. Quindi non esiste trascendenza ma pura e assoluta immanenza,
per cui non si possono superare i confini della coscienza o del mondo umano.
274 Opere principali: La psicologia come scienza positiva {1870); La motale dei
positivisti (1879); Relatività della logica umana (1881); Il fatto psicologico
della percezione (1882); Sociologia (1886); La scienza dell'educazione (1893);
L'unità della coscienza (1898). Aristotele (384-322 a.C.) Nato a Stagira
(Tracia), visse ‘soprattutto ad Atene; fu discepolo di Platone e precettore di
Alessandro Magno; fondò ad Atene il « Li- ceo » o Scuola peripatetica (335).
Insieme a Platone, Aristotele è la figura dominante della storia della
filosofia, dall'antichità sino al- l'epoca moderna. Ha scritto su moltissimi
argomenti: sulle scienze, sulla logica, sulla filosofia. Mentre Platone
preferisce il dialogo, Aristotele usa il trattato filosofico come espressione
del suo pensiero. È il creatore della logica, cioè dello studio sistematico dei
concetti e dei loro rapporti. Nel campo del ragionamento propone due metodi: la
deduzione e.l’induzione. | ‘« Afistotele sostiene che la'scienza:è superiore
all'esperienza, per- tte la*scienza è conoscenza medi nte lepanse. Là
Metafisica è l’opera if cui i Aristotele : si occupa dei ‘principi. ‘primi
delle cose. La verità prima e fondamentale è il principio. di non-contraddizione,
principio noto, assoluto, indimostrabile. Quanto al costitutivo essenziale
delle cose, Aristotele rifiuta la teoria platonica delle Idee perché essa, a
suo avviso, non spiega né l'essenza delle cose, né il loro divenire, né il loro
rapporto con le Idee, né in che modo l’uomo le possa conoscere. La spiegazione
della realtà va ricercata nella realtà stessa, costituita di sostanze e di ac-
cidenti ed i cui elementi costitutivi sono la materia e la forma. Materia e
forma esistono soltanto insieme (« sinolo »): alla sostanza la forma conferisce
i caratteri specifici; la materia conferisce le ca- ratteristiche individuali.
Attraverso un'approfondita analisi del divenire, Aristotele giunge alla
scoperta delle nozioni di potenza e di atto. È la « potenza » che rende
possibile il divenire. Il divenire delle cose deriva dal passaggio della
potenza all'atto. Solo Dio è Atto puro, unico, eterno. L'uomo, come tutti gli
esseri, è costituito di materia e forma: la materia è il corpo, la forma
l’anima che ha tre funzioni: vegetativa, sensitiva e intellettiva. La
conoscenza umana ha come sua prima sorgente l’espe- rienza sensitiva. Secondo
Aristotele la felicità dell’uomo consiste nel- l'attività della ragione
mediante l'esercizio delle virtù dianoetiche o dell'intelletto e le virtù
morali. Per lui lo Stato ha origine naturale e non convenzionale; esso deve
facilitare la completa realizzazione delle capacità umane. Esistono tre forme
di costituzioni giuste (monarchia, aristocrazia, repubblica) e tre forme
ingiuste (tirannia, oligarchia, « democrazia ». L'estetica di Aristotele è una
filosofia dell’arte, cioè un'attività che mira a pro- 275 durre una cosa bella.
La funzione dell’arte è duplice: pedagogica e catartica (cioè di purificazione
teoretica delle passioni). Aristotele ha realizzato una grandiosa costruzione
filosofica i cui elementi fondamentali sono: efficace metodo di ricerca
(logica) e forma espositiva; analisi acuta degli elementi costitutivi del mondo
fisico; visione realistica del mondo e dell’uomo; concezione alta (per i tempi)
della trascendenza di Dio. Elementi caduchi sono invece: inadeguata analisi
della natura; mancato riconoscimento della causa efficiente del mondo; eternità
della materia; concezione di Dio come motore immobile; dualismo di fondo del
sistema. Opere principali: Metafisica (14 libri); Fisica (8 libri); Etica nico-
machea {10 libri); Politica (8 libri); De anima (3 libri); Poetica. (1 libro).
i Averroè (il suo nome arabo è Ibn Rushd) (1126-1198) Filosofo e scienziato
arabo spagnolo, nacque a Cordoba, e di quella città fu anche per vari anni gadì
(giudice). Genio polivalente operò in molti campi: teologia, diritto, medi-
cina, matematica, astronomia e filosofia. Ma egli è ricordato soprat- tutto
come commentatore di Aristotele, tanto che è chiamato « il commentatore » per
antonomasia: « Averrois che '1 gran commento feo », dice Dante nella Divina
Commedia. Averroè contribuì in modo determinante alla diffusione del pensiero
di Aristotele tra gli scola- stici cristiani. L'interpretazione letterale delle
opere di Aristotele operata da Averroè lo poneva spesso in contrasto con alcune
dottrine fondamentali del cristianesimo. Per questo fu criticata da Alberto
Magno e san Tommaso, i quali promossero una nuova interpreta- zione che si
armonizzava più facilmente con la loro fede. Di religione musulmana, Averroè
pone invece una netta separazione tra fede re- ligiosa e pensiero filosofico.
Opere principali: Commentari (grande, medio, piccolo) alle opere di Aristotele
(1169-1180); La distruzione della distruzione; Esposi- zione dei metodi di
dimostrazione relativi ai dogmi della religione. Avicenna (il suo nome arabo è
Ibn Sina) (980-1037) Filosofo e scienziato persiano, nacque a Bukara nell'Asia
centrale (Uzbekistan). Ragazzo prodigio acquistò una cultura enciclopedica. Si
affermò soprattutto come medico e come filosofo. A 17 anni era già un medico
famoso e durante il Medioevo, in Europa, egli godeva più fama come medico che
come filosofo. Per quanto concerne la filosofia, Avicenna è il massimo rappresen-
tante della filosofia araba. Su una base sostanzialmente neoplatonica e
utilizzando ampiamente le categorie metafisiche di Aristotele (ma- teria-forma,
atto-potenza, sostanza-accidenti, ecc.) egli creò una im- 276 ponente sintesi
tra il pensiero religioso musulmano e il pensiero filo- sofico greco. Opere
principali: della sua prodigiosa produzione letteraria che venne molto diffusa
nell'Occidente cristiano, sono noti soprattutto: il breve Najat (un compendio
di metafisica); il voluminoso Chifa (conosciuto dai medioevali sotto il titolo
di Liber sufficientiae: un'o- pera che comprende trattati sulla logica, la
fisica, la matematica, la psicologia e la metafisica); il Canone (una grande
enciclopedia me- dica in cinque libri); Direttive e rilievi; Libro di scienza.
Bachelard Gaston (1884-1962) Epistemologo francese, nato a Bar sur Aube,
insegnante per molti anni alla Sorbona di Parigi; come rappresentante del
raziona- lismo scientifico è impegnato a chiarire il senso dell’opus rationale
che costituisce la scienza. Egli si oppone sia al positivismo che allo
spiritualismo. Nella sua gnoseologia Bachelard pone la coppia
esperienza-ragione alla base di tutta la conoscenza umana. L’elemen- to teorico
però svolge il ruolo direttivo. Il procedimento scientifico si configura come «
realizzante », cioè come realizzazione del razionale e del matematico. La
posizione filosofica di Bachelard potrebbe essere definita co- me un «
razionalismo applicato », in cui primeggia la direttrice che va dalla ragione
all'esperienza e che corrisponde alla supremazia della fisica-matematica. Come
Gadamer e Popper, anche Bachelard ritiene che l'osservazione scientifica si
realizza sempre muovendo da una teoria precedente e preparatrice e non
viceversa. Opere principali: I! valore intuitivo della relatività (1929); Il
nuo- vo spirito scientifico (1934); La formazione dello spirito scientifico
(1938); Il razionalismo applicato (1949); Il materialismo razionale (1953).
Bacone Francesco (Francis Bacon) (1561-1626) Nato a Londra da una famiglia dell'alta
borghesia, si diede alla carriera politica ottenendo onorificenze e cariche
importanti. Nel 1621 fu accusato e condannato per corruzione nell'esercizio
delle sue funzioni di lord cancelliere. La pena inflittagli gli fu risparmiata
per la protezione di cui godeva presso il re. Bacone elabora il nuovo metodo
induttivo: con gli esperimenti si deve raccogliere una sufficiente informazione
e poi, per mezzo della ragione, si devono elaborare ipotesi generali che
consentano di arri- vare a riconoscere la causa del fenomeno studiato. Il fine
della scienza è pratico, l'oggetto è la causa delle cose naturali. Nella sua
opera Novum Organon contrappone una nuova logica induttiva a quella
aristotelica, essenzialmente deduttiva. Nella 1? parte, pars destruens, demolisce
quegli ostacoli (idola tribus, specus, fori, theatri) che possono impedire la
ricerca scientifica; nella 2°, pars costruens, indica il procedimento per
arrivare ai risultati. 277 Bacone ha il grande merito di essere stato il primo
a porsi in maniera sistematica il problema del metodo proprio delle scienze
sperimentali, del loro oggetto e del loro fine. Pur non avendo dato nessun
contributo concreto al progresso di qualche scienza, il suo apporto è
fondamentale perché ha fatto progredire la scienza in quanto tale. Opere
principali: Discorso in elogio della conoscenza (1592); De sapientia veterum
(1609); Instauratio magna scientiarum (1609) (in sei parti, ma ne portò a
termine solo due: De dignitate et augmen- tis scientiarum e Novum Organon);
Saggi (1625). Bergson Henri (1859-1941) Filosofo francese, nato a Parigi. Nel
1900 ottenne la cattedra di filosofia al Collegio di Francia, dove le sue
lezioni ebbero un gran- dissimo successo. Nel 1927 ricevette il premio Nobel
per la lettera- tura. La sua influenza sui suoi contemporanei e sulle
generazioni successive (tra cui è da ricordare Maritain) fu notevole. È stato
uno . dei niaggiori rappresentanti dello
spiritualismo- francese, in forte polemica ‘cori. il positivismo. e-lo
scieritismo della fine .del se-
colo XIX e gli inizi del XX: è stato la
loro coscienza critica. Esercitò una grande influenza anche
sull'esistenzialismo francese, sul pragma- tismo e sulla fenomenologia. Bergson
ha elaborato una filosofia antimeccanicistica e anti- materialistica imperniata
su due tesi fondamentali: 1) la realtà è durata; 2) la realtà è colta mediante
l'intuizione. La realtà scaturisce da una evoluzione creatrice colma di
possenti energie, differente- mente impegnate (torpore vegetativo, istinto,
intelligenza) e orientate in due direzioni: ascensionale {verso la vita),
discendente (verso la materia). Oggetto della filosofia è lo slancio vitale,
che si manifesta nel continuo divenire degli esseri: dalla materia allo spirito
e dallo spi- rito alla materia. L'applicazione alla morale della distinzione
fra ragione e intuizione dà origine rispettivamente alla morale « chiusa » e a
quella « aperta ». La medesima distinzione vale per la religione « statica » e
la religione « dinamica ». La pratica della religione di- namica è la vita
mistica (il cui vertice è il misticismo cristiano). At- traverso l’esperienza
dei mistici, Bergson arriva all'esistenza di Dio. La mistica, però, esige la «
meccanica »; come la meccanica esige la mistica. Opere principali: Materia e
memoria (1896); Il riso (1901); Intro- duzione alla metafisica (1903);
L'evoluzione creatrice (1907); L'intui- zione filosofica (1911); L'energia
spirituale (1919); Le due fonti della morale e della religione (1932); Il
pensiero e il movimento (1934). Berkeley George (1685-1753) Irlandese, fu
professore al « Trinity College » di Dublino. Nel 1709 prese gli ordini sacri
nella Chiesa anglicana. Viaggiò in Inghil- 278 terra, Francia e Italia. Nel
1721 si recò in America per erigervi un seminario, ma dovette rinunciare. Nel
1723 fu nominato vescovo. Berkeley, che era un'anima profondamente religiosa,
fu molto sensibile agli argomenti che i materialisti portavano contro la re-
ligione, per cui tutta la sua attività filosofica fu rivolta alla difesa del
teismo e all'affermazione del primato dello spirito sulla materia. Sua tesi
fondamentale è quella secondo cui l'essere delle cose si risolve nell'essere
pensato (tutte le qualità sono secondarie). La materia è passività, lo spirito
è attivo; ed è nella mente (umana o divina) che le idee esistono. La propria
esistenza è conosciuta im- mediatamente; la conoscenza degli altri spiriti è
mediata e indiretta; la conoscenza di Dio è mediata ed evidente. Contro Locke
sostiene che non esistono idee astratte e generali. La filosofia studia le idee
ed il linguaggio attraverso il quale Dio si manifesta (la filosofia reli- giosa
berkeleiana si ispira al neoplatonismo). ‘Solo la fede rivelata, infine, è in
grado di illuminare la vita e di avere effetti benefici su- gli uomini. ù Opere
principali: Commentari filosofici (1707-1708); Teoria della visione (1709);
Trattato sui principi della conoscenza umana (1710); tre Dialoghi tra Hylas e
Philonus (1713); De motu (1721). Bernstein Eduard (1850-1932) Nato a Berlino e
passato attraverso l’esperienza dell'esilio sviz- zero, fu il massimo teorico
del revisionismo socialdemocratico. Col- laboratore di Marx ed Engels, fu
particolarmente amico di quest'ul- timo e ne ottenne l'affidamento delle opere
postume. Nel 1919 iniziò una dura polemica contro il leninismo e il sistema
rivoluzionario russo. Bernstein, che rifiuta la dittatura del proletariato
sulle altre classi, affida al socialismo il compito etico di favorire la
collaborazione tra le classi, realizzando delle riforme in seno alle stesse
istituzioni borghesi al fine di realizzare l'integrazione dei lavoratori nella
strut- tura produttiva. Egli ritiene fallite le previsioni fondamentali di Marx
e vede come limite del marxismo il dualismo tra economia e politica. Il
revisionismo-riformista di Bernstein deriva dalla sua convinzio- ne che la
democrazia è un inizio e un fine al tempo stesso: soppres- sione del dominio di
classe e perseguimento di una società migliore, quale impegno costante, senza
fine, attraverso passaggi graduali e progressivi. Opere principali: Per la
storia e la teoria del socialismo (1901); Ferdinand Lassalle (1914); I
presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1919). Bloch
Ernst (1885-1977) Filosofo tedesco, tra i massimi esponenti del marxismo
revisio- nista. Nacque a Ludwigshafen. Durante la prima guerra mondiale si 279
ritirò in Svizzera, mentre durante il dominio nazista si rifugiò negli Stati
Uniti. Terminata la seconda guerra mondiale si trasferì nel 1949 nella Germania
orientale, a Lipsia, occupando la cattedra di filosofia. Ma nel 1961, accusato
di revisionismo, abbandonò la Ger- mania orientale e si trasferì a.Tubinga per
ricoprirvi una cattedra di filosofia. Bloch ha operato una revisione profonda
del marxismo soprattutto in due punti: a) nell'abbandono del principio della
dia- lettica, ch'egli sostituisce con quello della ‘possibilità (del « non-
ancora »); b) nell’incentrare l’interpretazione della storia in una nuova
concezione dell'uomo, invece che nello studio dei fenomeni economici, come
aveva fatto Marx. Anima dell’antropologia blochia- na è la speranza e l'utopia;
a questa dimensione Bloch assegna un primato assoluto nei confronti di tutte le
altre: vita, volontà, amore, pensiero ecc. La religione è la sfera in cui
l’uomo proietta la sua brama di una esistenza riconciliata. Dio non è altro che
un tenta- tivo di dare un volto allo « spazio utopico ». La costruzione della
sua filosofia della speranza però è fragile e insostenibile.
Opere principali: Spirito dell'utopia
(1918); Soggetto-oggetto. Commento a Hegel (1949); Il principio speranza
(1954-1959); Diritto naturale e dignità umana (1961); Ateismo nel cristianesimo
(1968); Il problema del materialismo: storia e sostanza (1972). Blondel Maurice
(1861-1949) Nato a Digione, collaborò con l'organo del movimento moder- nista
Annali di filosofia cristiana, fondato da Laberthonnière. Quan- do, nel 1907,
Ia Chiesa condannò il movimento modernista, Blondel cessò la sua collaborazione
alla rivista. Ispirandosi al metodo volontaristito di Agostino e Pascal, cerca
di dare un fondamento sicuro al riconoscimento dell’esistenza di Dio, mediante
la dialettica dell'azione. Infatti agire è volere e volere è volere qualcosa:
ciò che è proprio dell’agire è il continuo risorgere in esso di uno squilibrio
tra il potere e il volere, tra la volontà voluta e la volontà volente. Ne
deriva una insoddisfazione che non si appaga fino a che la volontà voluta non
abbia soddisfatto pienamente al de- siderio infinito della volontà volente
raggiungendo un oggetto ade- guato al suo desiderio infinito, cioè Dio. Blondel
vuole dimostrare che la natura umana è aperta verso l'alto ed è predisposta,
sia pure in modo passivo, ad essere inserita in un ordine di realtà superiore
alla sua natura, che è il solo che possa realizzare completamente le tendenze
dell'uomo. Opere principali: L'azione. Saggio d'una critica della vita e d'una
scienza della pratica (1893); Storia e dogma{(1904); Il pensiero (1934);
L'essere e gli esseri (1935); La filosofia e lo spirito cristiano (1944- 1946).
Boezio Severino (480-524) Filosofo ed uomo politico, nacque a Roma dalla nobile
famiglia 280 degli Anici. Fu console e primo ministro del re ostrogoto
Teodorico. Accusato di tradimento, fu imprigionato, processato e giustiziato a
Pavia. Nella sua opera più celebre, De consolatione philosophiae, scritta in
prigione mentre attendeva l'esecuzione capitale, egli cerca di risolvere il
problema eternamente dibattuto della sofferenza degli innocenti, e dei problemi
con esso connessi, quali la provvidenza di Dio e la libertà umana, il tempo e
l’eternità. Boezio è considerato uno dei padri della Scolastica e questo per
due motivi: per la tradu- zione in lingua latina degli autori (Platone,
Aristotele, Porfirio ecc.) ai quali gli scolastici attingeranno molte loro
dottrine; e per la de- finizione di alcuni concetti fondamentali quali quello
di persona, eternità, felicità ecc. che saranno ripresi e costantemente
adoperati dai filosofi medioevali. Opere principali: l’attività letteraria di
Boezio fu eccezionale. Tradusse in latino e commentò molte opere di -Platone,
Aristotele, dei neoplatonici, degli scrittori di matematica, geometria,
astronomia,
musica del periodo ellenistico. Scrisse
inoltre piccoli trattati di filosofia (De Trinitate; De hebdomadibus), di
teologia (De fide catho- lica; Contra Eutichen et Nestorium), di musica (De
institutione musicae). Ma la sua opera più celebre è il De consolatione philo-
sophiae. Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274) Nato a Bagnoregio (Viterbo),
entrò nell'ordine francescano an- cora molto giovane. Studiò teologia a Parigi
e fu nominato maestro di teologia. Nel 1255, fu esonerato dall'insegnamento,
assieme a san Tommaso d'Aquino, per opera dei maestri secolari dell'università
di Parigi. Nel 1257 fu reintegrato nell'insegnamento e poco dopo fu nominato
ministro generale dell'ordine francescano. Teologo, !filosofo e santo. È
ricordato col titolo di doctor sera- phicus. S. Bonaventura sottolinea con
vigore la coesistenza di ragione e fede e la subordinazione della prima alla
seconda. L'oggetto della filosofia è l’esemplarismo, cioè la proprietà che le
cose hanno di essere immagine di Dio. Egli considera assurda la dottrina di una
creazione nel tempo; ritiene che la « materia » (che non è concepita come
qualcosa di corporeo) eniri nella costituzione di tutti gli es- seri finiti.
L'uomo, pur essendo una sola natura, è costituito di corpo e di anima. La
conoscenza umana si vale sia dell’astrazione sia della il- luminazione. La
volontà, nell'uomo, è più importante dell’intelletto. L'esistenza di Dio è
evidente. In ‘Lui ci sono tre tipi di conoscenza: approvazione, visione,
intelligenza. L'essenza divina è il modello di tutte le cose. ‘In una delle sue
opere più importanti, il trattato mistico Itinera- rium mentis in Deum, afferma
che il nostro processo di ascensione 281 dalle cose sensibili verso Dio avviene
per gradi: per conoscenza dei vestigi della Trinità nel mondo sensibile, per
conoscenza dell’im- magine che abbiamo della Trinità nella nostra anima; per
conoscenza diretta di Dio. Opere principali: Commentario alle Sentenze (quattro
volumi scritti fra il 1250 e il 1254); Quaestiones disputatae: De scientia
Christi (1254), De mysterio Trinitatis (1254), De perfectione evange- lica
(1255); Breviloquium (1254-1257); Reductio artium ad theolo- giam (1254-1255);
Itinerarium mentis in Deum (1259). Bontadini Gustavo (1903) ‘.. Filosofo
italiano, nato a Milano, professore di filosofia teoretica nelle università di
Urbino e Pavia e poi all'Università Cattolica di Milano. È da annoverarsi tra i
rappresentanti più significativi ed au- torevoli della neoscolastica italiana.
Inizialmente seguace dell'ideali- smo gentiliano, ben presto l’abbandonò per
orientarsi decisamente verso una visuale metafisica cristiana che assume come
principio fondamentale la creazione del divenire o « teorema della creazione ».
Secondo Bontadini la mediazione
metafisica dell'esperienza è neces- saria per rimuovere quella contraddizione
che si presenta sul piano fenomenologico: la contraddizione costituita
dall’identità del posi- tivo e del negativo nel divenire. Opere principali:
Saggio di una metafisica dell'esperienza (1938); Studi di filosofia moderna
(1966); Metafisica e deellenizzazione (1971); Conversazioni di metafisica
(1971). Boutroux Emile (1845-1921) Nato a Montrouge, studiò filosofia,
matematica e fisica. Si laureò alla Sorbona. Insegnò all'università di Nancy e
poi alla Sorbona. Boutroux fa una critica radicale al positivismo
meccanicistico, in nome della libertà della natura e dello spirito, e di una
nuova concezione della scienza. L'unica vera legge necessaria è quella del
principio di identità che è una legge del pensiero e non delle cose. La scienza
della natura deve accontentarsi di leggi contingenti. Le leggi del I gruppo
(logiche, matematiche, meccaniche, fisiche) si prestano meglio al calcolo
matematico, quelle del II gruppo ({biolo- giche, psicologiche, sociali) sono
più vicine alla realtà. Oltre lo spi- rito scientifico, vi è la « ragione » che
si occupa delle ragioni umane e divine. Opere principali: Sulla contingenza
delle leggi della natura (1874), L'idea della legge naturale nella scienza e
filosofia contemporanea (1895); La natura e lo spirito (1904-1905); Scienza e
religione nella filosofia contemporanea (1908). Bruno Giordano (1548-1600) Nato
a Nola, entrò nell'ordine domenicano e dopo essere stato accusato di eresia,
lasciò l'abito talare. Dopo aver peregrinato in 282 Svizzera, Francia,
Inghilterra e Germania, fu denunziato al tribunale dell’Inquisizione e, non
volendo ritrattare, fu arso sul rogo a Roma. Per Bruno la realtà è costituita
da due principi fondamentali: il principio attivo o anima del mondo, e quello
passivo o materia. Dio si identifica con l’anima del mondo che genera
eternamente un mondo infinito (panteismo). Dio non è conoscibile; lo spirito
uma- no è spinto dall’'eroico furore a tendere sempre più in alto e ad avvi-
cinarsi a Dio, disinteressandosi di ciò che prima lo teneva avvinto. Opere
principali: De la causa principio et uno (1584); De l’infi- nito universo et
mondi (1584); La cena delle ceneri (1584); Spaccio della bestia trionfante
(1584); Eroici furori (1585); De monade (1590). Buber Martin (1878-1965)
Filosofo tedesco nato a Vienna da famiglia israelita, ha insegnato etica
ebraica a Francoforte e dal 1938 si è trasferito in Palestina; è il più
importante rappresentante del personalismo religioso ispi- rato dalla
tradizione ebraico-hassidica. È morto a Gerusalemme. Secondo Buber la persona è
un essere in relazione, caratterizzato dall'esperienza dialogica /o-Tu. Il
dialogo con Dio è la garanzia della comunione tra gli uomini. Buber contrappone
il rapporto « Io-Tu » che è proprio della relazione dialogica al rapporto «
Io-Esso » che è quello dell’affermazione individuale. L'individualità appare in
quanto si distingue da altre individualità. La persona appare in quanto entra
in relazione con le altre persone. La prima è il legame naturalizzato, la
seconda è la forma spirituale della indipendenza na- turale. Il rapporto «
Io-Esso » è caratterizzato dall'uso, dal possesso, dal dominio, dalla fatalità.
Il rapporto « Io-Tu » è caratterizzato dal dia- logo, dall'incontro, dalla
dedizione, dall'amore, dalla libertà, dal destino. Opere principali: La
leggenda di Baal Shem {1908); la sua opera fondamentale Jo e Tu (1923); Gog e
Magog (1941); I racconti dei chassidim (1949); Sentieri in Utopia (1950);
Immagini del bene e del male (1952). Butler Joseph (1692-1752) Filosofo
inglese, fu vescovo di Durham e cappellano della casa reale. Aperto avversario
e critico intelligente del deismò radicale e dell'illuminismo antireligioso,
Butler sostenne la complementa- rietà e convergenza tra natura e rivelazione,
evidenziando tutta una serie di analogie che intercorre tra i due ordini. Ciò
vale anche per l'ordine etico: in effetti la coscienza, voce naturale di Dio
nell'uomo, mentre gli rivela la sua miseria e i suoi limiti, allo stesso tempo
gli testimonia la sua vocazione soprannaturale. Opere principali: Quindici
sermoni sulla natura umana (1720); Analogia della religione naturale e rivelata
con la costituzione e il corso della natura (1736). 283 Calvino, nome
italianizzato di Jean Cauvin (1509-1564) Nato a Noyon, in Francia, fu
contemporaneo di Lutero e fu con lui il padre deila Riforma protestante. Di
famigiia borghese, rice- vette dapprima una formazione umanistica a Parigi; poi
per volontà del padre si dedicò agli studi giuridici nelle università di
Orleans e Bourges, conseguendo il dottorato in giurisprudenza. Quando co-
minciò a interessarsi della Riforma luterana si rifugiò nel 1534 in Svizzera,
prima a Basilea e poi a Ginevra, dove fomentò e capeggiò la rivolta contro la
Chiesa di Roma; fondò una nuova chiesa di cui divenne il leader indiscusso,
onnipotente e intollerante. La sua opera principale è intitolata Institutiones
religionis christianae (4 volumi). I punti chiave del suo sistema sono i seguenti:
sovranità assoluta ed esclusiva della Parola di Dio, cioè della Scrittura;
predestinazione di alcuni uomini alla salvezza e di altri alla dannazione
eterna. La vera Chiesa è quella dei predestinati alla vita eterna e, in
concreto, di coloro che aderiscono a Cristo con fede sincera; tale adesione si
manifesta esteriormente con i sacramenti del Battesimo e della Cena e con le
opere buone. Campanella Tommaso (1568-1639) Nacque a Stilo, in Calabria.
Domenicano, nel 1599 preparò una insurrezione della Calabria contro la Spagna.
Imprigionato, rimase in carcere per 27 anni. Liberato nel 1633, si rifugiò poi
a Parigi, dove morì, sotto la protezione del re Luigi XIII. Campanella segue in
parte la teoria di Telesio del sensismo e del naturalismo, ma lo supera per la
sua teoria della conoscenza innata di sé (sensus inditus) che precede e
condiziona ogni altra conoscenza. Nelle cose l’autocoscienza diventa sensus
abditus cioè nascosto per- ché le cose subiscono un forte influsso
dall'esterno. Nella Città del Sole Campanella formula il suo stato ideale, il
cui governo è teo- cratico, con perfetta fusione del potere politico e
religioso. Tenta di fondere il cristianesimo (religio addita) con la religione
naturale (religio indita) dettata dalla ragione. Opere principali: Philosophia
sensibus demonstrata (1591); La città del sole (1602); Philosophia rationalis
(1606-1614); Theologia (1613-1624); Philosophia realis (1619); Metaphisica
(1623). Carnap Rudolf (1891-1970) Filosofo tedesco, nato a Ronsdorf, tra i
massimi esponenti del positivismo logico. Dopo gli studi a Jena, si trasferì a
Vienna dove entrò a far parte del Wiener Kreis, ai cui lavori partecipò attiva-
mente fino al 1935 quando, con l’avvento del nazismo, fu costretto a
trasferirsi negli Stati Uniti, prima a ‘Chicago e poi a Los Angeles, sino alla
morte. Lucido e convinto asseriore delle tesi de] positivismo logico o
neopositivismo, Carnap afferma recisamente che compito della filosofia non è
quello di elaborare teorie e costruire sistemi, ben- sì quello di sviluppare un
metodo: il metodo dell'analisi logica o lin- 284 guistica e, con esso, vagliare
tutto quanto viene affermato nei vari campi del sapere. Tale metodo ha una
duplice funzione: togliere di mezzo le parole prive di significato e così pure
le pseudo-proposi- zioni; chiarire i concetti e le proposizioni aventi
significato, per dare in tal modo una fondazione logica alla scienza
sperimentale, e alla fisica in particolare. Per decidere del significato delle
propo- sizioni Carnap opta per il criterio della verifica sperimentale, per cui
« se una proposizione significa qualcosa, può significare soltanto un dato
empirico ». Con questo criterio di significazione ultraradi- cale egli elimina
tutti gli enunciati metafisici, etici, religiosi, estetici. Questi non possono
avere significato teoretico o conoscitivo, ma semplicemente emotivo,
soggettivo. Opere principali: La costruzione logica del mondo (1928); La sin-
tassi logica dei linguaggio (1934); Introduzione alla semantica (1942);
Formalizzazione della logica (1943); Fondamenti logici della proba- bilità
(1950). Carneade (219-129 a.C.) Filosofo greco nato a Cirene, è tra i maggiori
esponenti della Se- conda Nuova Accademia, di cui ebbe anche per qualche tempo
la direzione. Assertore di uno scetticismo moderato, ammette per l’uo- mo la
possibilità di conoscere ciò che è probabile, anche se non gli riconosce il
potere di raggiungere con certezza la verità. Per Car- neade il sapiente è
colui che, pur sapendo che la verità è irraggiun- gibile, non desiste dal
cercarla assiduamente. Nella vita pratica, sa- piente è colui che segue ciò che
gli sembra più vicino alla verità e al bene. Non ha lasciato nessuno scritto;
il suo pensiero ci è pervenuto attraverso le testimonianze trasmesse da
Cicerone e Sesto Empirico. Cartesio (René Descartes) (1596-1650) Nacque a La
Haye in Touraine. 'Studiò nel collegio dei gesuiti di La Flèche. Viaggiò in
Germania, Olanda, Italia, Francia. Cartesio, che fa assumere alla filosofia una
impostazione pretta- mente critica e gnoseologica, può essere considerato
l’iniziatore della filosofia moderna, sia per l'orientamento epistemologico
della sua filosofia, sia per il soggettivismo ed il razionalismo che sono
impli- citi nel suo filosofare. Ritiene che l'indagine ‘filosofica debba comin-
ciare con lo studio della mente umana per accertare la natura e la possibilità
della conoscenza. Primo scopo che si propone Cartesio è quello della ricerca di
un metodo adatto per la conquista del sapere. Scopre questo metodo prendendo in
considerazione quello matema- tico, secondo il criterio di chiarezza e
distinzione. Pone come prin- cipio fondamentale di tutta la conoscenza il «
cogito ergo sum », cioè la certezza del proprio pensiero e della propria
esistenza. In base ad esso ricostruisce tutto l'universo della metafisica clas-
sica: prova che l'essenza dell'uomo (composto di materia e spirito) consiste
nel pensiero (r2s cogitans); dimostra l'esistenza di Dio con la 285 prova
ontologica; afferma che il mondo è essenzialmente estensione (res extensa).
Opere principali: Discorso sul metodo (1637); Meditationes de pri- ma
philosophia (1641); Principia philosophiae (1644); Trattato sulle passioni
dell'anima (1649). Comte Auguste (1798-1857) Filosofo e sociologo francese,
nacque a Montpellier da genitori cattolici, ma perdette la fede quand'era
ancora molto giovane. Stu- diò all'École Polytecnique di Parigi. Per qualche
tempo fu discepolo e collaboratore di Saint-Simon, dal quale apprese
l'interesse per la sociologia e per la storia. Nel 1826 dette inizio a Parigi
ad un corso di lezioni di filosofia positiva; ma le precarie condizioni di
salute e le opposizioni ai suoi insegnamenti lo costrinsero prima a sospen-
derlo e poi ad interromperlo definitivamente. Nel 1845 ebbe un'altra grave
crisi nervosa e si unì a Clotilde de Vaux la quale morì nel 1846. Da questo
legame ricavò l'ispirazione per una religione mi- stica umanitaria. L'intento
primario della riflessione filosofica di Comte, che è con- siderato il
fondatore del positivismo, è duplice: a) elaborare una filosofia della storia
fondata non sul principio del divenire dialettico (come aveva fatto Hegel) ma
sul principio della evoluzione progres- siva dell'umanità; b) costruire una
teoria scientifica della società. Secondo Comte tutto l'universo procede dalla
materia per via di evoluzione. Anche l'uomo è un prodotto dell'evoluzione della
mate- ria. Quando l'evoluzione raggiunse lo stadio umano ebbe inizio la storia,
le cui fasi principali sono tre: religiosa, filosofica e scientifi- ca.
Attualmente l'umanità ha raggiunto la fase scientifica e si è quin- di lasciata
alle spalle la interpretazione religiosa e filosofica della realtà. Il
traguardo ultimo della ricerca scientifica è « giungere allo studio sistematico
della umanità, sola sua stazione finale ». Opere principali: Piano di lavori
scientifici necessari per riorga- nizzare la società (1822); Sistema di
politica positiva (1824); Corso di filosofia positiva (opera in sei volumi
scritta fra il 1830 e il 1842); Calendario positivista (1849); Sistema di
politica positiva o trattato di sociologia che istituisce la religione
dell'umanità (opera in quattro volumi scritta fra il 1851 e il 1854);
Catechismo positivista (1852). Croce Benedetto (1866-1952) Filosofo e uomo
politico, nacque a Pescasseroli (L'Aquila). Nel 1903 iniziò la pubblicazione de
La Critica. Nel 1920, durante l’ultimo governo Giolitti, fu ministro
dell'educazione. Quando Mussolini salì al potere, si ritirò dalla politica. .
Croce identifica la filosofia con la storia (storicismo) per cui concepisce
tutta la realtà come storia, cioè come opera dello spirito. Il compito dello
storico è quello di capire i fatti storici; in senso as- soluto nella storia
non c'è mai decadenza (storicismo assoluto). Lo 286 spirito nella ricerca della
sua piena autocoscienza, esercita quattro attività: estetica, logica, economica
ed etica. Le prime due sono attività teoretiche, le ultime due pratiche. Le
attività estetica ed eco- nomica hanno per oggetto l’'individuale; le attività
logica ed etica hanno per oggetto l’universale. Il rapporto fra le varie
attività è regolato dal principio del nesso dei distinti che integra la
dialettica hegeliana degli opposti, in quanto i termini non si annullano come
gli opposti ma armonizzano fra loro come momenti dello spirito. Il rapporto fra
i diversi gradi è chiamato « circolarità dello spirito ». Delle quattro
attività dello spirito quella che Croce ha analizzato più acutamente è quella
estetica. Definisce l’arte « intuizione lirica del particolare », cioè
l'immagine estetica è una sintesi di intuizione e sentimento: il sentimento è
l'elemento materiale, l'immagine è quello formale. Il valore dell'arte, che è
autonoma, non può essere né pratico, né intellettualistico ma solo teoretico e
conoscitivo. Opere principali: di carattere filosofico: La storia ridotta sotto
il concetto generale dell'arte (1893); Materialismo storico ed economia
marxista (1900); Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale
(1902); Logica come scienza del concetto puro (1905); Filo- sofia della pratica
(1909); La filosofia di Vico (1911); Saggio sullo Hegel (1913); Etica e
politica (1931); Il carattere della filosofia mo- derna (1940); Filosofia e
storiografia (1949); Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici (1952). Di
carattere letterario: Ariosto, Sha- kespeare e Corneille (1920); La poesia di
Dante (1921); Poesia popo- lare e poesia d'arte (1933); Poesia antica e moderna
(1941). Cusano Nicolò (Nicola Crypffs) (1401-1464) Nacque a Cues (Germania), e
fu matematico e astronomo. Nel 1450 fu nominato cardinale e vescovo di
Bressanone. Sî propone la rinascita religiosa e concepisce il ritorno al
platoni- smo (inteso come sintesi del pensiero religioso dell'antichità) come
condizione di tale rinascita. Dalle teorie di Occam desume l’impossi- bilità di
conoscere Dio per via raziocinativa. Tuttavia afferma che possiamo avere
l’intuizione di Dio; quanto alla natura divina sostiene che è assolutamente
inconoscibile (docta ignorantia). Opere principali: De concordantia catholica
(1433); De docta ignorantia (1440); De coniecturis (1441); Apologia doctae
ignorantiae (1449); Idiota (1450); De visione Dei (1453); De venatione
sapientiae (1463); De apice theoriae (1464). Darwin Charles Robert (1809-1882)
Biologo e naturalista inglese, nato a Shrewsbury e morto a Down. Dopo alcuni
anni di studi di medicina che aveva iniziato a Edim- burgo e di teologia a
Cambridge, si dedicò a quelli delle scienze naturali a Cambridge. Nel 1831 ebbe
la possibilità di imbarcarsi in qualità di naturalista sul brigantino Beagle al
seguito di una spedi- zione scientifica intorno al mondo. Il viaggio durò
cinque anni e gli 287 consentì di raccogliere moltissimo materiale intorno alla
flora e alla fauna di vari continenti e sulle formazioni geologiche della
terra. Dallo studio di tale materiale, al suo rientro in patria, poté pubbli-
care nel 1839 un diario col titolo Viaggio di un naturalista intorno al mondo e
nel 1859 il famosissimo Sull’origine della specie per selezione naturale. In
questo scritto Darwin getta le basi dell’evolu- zionismo scientifico. Secondo
Darwin tutti gli esseri viventi traggono origine da pochi esemplari per
evoluzione, secondo leggi ben precise, di cui le principali sono le seguenti: «
Crescita (cioè moltiplicazione degli esseri) con la riproduzione; ereditarietà,
che è quasi implicita nella riproduzione; variabilità in conseguenza
dell’azione diretta e indiretta delle condizioni di vita e dell'uso o disuso
degli organi; un aumento così grande da portare alla lotta per la vita e
conseguen- temente alla selezione naturale implicante la diversificazione di
tipi e l'estinzione delle forme meno sviluppate » (Origine della specie). La
teoria darwiniana dell'evoluzione ha esercitato un'influenza im- mensa in tutti
i campi, ed anche in quello filosofico, ed è diventata assieme alla psicanalisi
di Freud e all'analisi socio-politica di Marx uno dei tre pilastri portanti
della cultura occidentale dell'ultimo secolo. Da tempo, però, quello
dell’evoluzione, alla pari degli altri due pilastri, mostra crepe allarmanti.
Democrito (460-360 a.C.) Nacque ad Abdera, in Tracia. È il vero fondatore della
Scuola atomistica, secondo cui l'essere è costituito da atomi, particelle
indivisibili e immutabili, immerse nel vuoto. Dal movimento degli atomi
derivano tutte le cose, secon- do un meccanico determinismo. È il primo
filosofo che si occupa dell'origine del linguaggio. Opere principali: Mikròs
diàkosmos (Piccolo ordinamento del mondo); Logikà (Canoni); Hypothékai
(Consigli); Perì Ideon. Dewey John (1859-1952) Filosofo e pedagogista
americano, nato nel Vermont (Stati Uniti), insegnò all’università di Chicago e
poi alla « Columbia University » di New York. Passò dall’idealismo ad un
evoluzionismo naturalistico influenzato dal pragmatismo e, nel 1896, diede vita
alla « scuola- laboratorio », fondata sull'attivismo pedagogico. Fondò un
partito di tendenza riformista e, nel 1937, denunciò i crimini dei processi
staliniani. La funzione della mente umana e quindi della conoscenza è di
ricercare le vie più sicure del progresso. Ne deriva che il pensiero ha per Dewey
un carattere essenzialmente strumentale. L'uomo è inteso non come parte del
meccanismo naturale, bensì come forza il cui agire possa modificare in meglio
le condizioni del mondo. L'agire dell'uomo deve tendere dunque alla
socializzazione, alla so- lidarietà, affinché si costituisca una società
veramente democratica, 288 capace di realizzare il dominio completo della
natura, sottometten- dola ai nostri fini. In campo pedagogico insiste
sull’attivismo nell’apprendimento e sul fine sociale dell'educazione che può
risolvere tutti i problemi sociali e realizzare la vera democrazia. ‘Opere
principali: Il mio credo pedagogico (1897); Scuola e società (1900); Studi
sulla teoria logica (1903); Etica (1908); Democrazia ed educazione (1916);
Ricostruzione filosofica (1920); Esperienza e na- tura (1925); Filosofia e
civiltà (1931); Logica, teoria dell'indagine (1938); Libertà e cultura (1939);
Il conoscente e il conosciuto (1949). Dilthey Wilhelm (1833-1911) Filosofo e
storico tedesco, nato a Biebrich, in Renania, è stato un oppositore del
positivismo ed il massimo rappresentante dello sto- ricismo tedesco
contemporaneo; studiò a Berlino e insegnò a Ba- silea, Kiel, Breslavia e
Berlino. Morì a Siusi, in Alto Adige. Sulla scorta di Rickert, Dilthey sostiene
che i fenomeni culturali o spirituali possono essere colti solamente attraverso
l’Erlebnis, cioè l'esperienza vissuta. Dell'Erlebnis, Dilthey distingue tre
aspetti inseparabili: 1) la vita (momento della soggettività,
dell'immediatezza, della singolarità); 2) l’espressione e 3) l’intendimento
(momento dell’universale e del- l'oggettività). Le scienze dello spirito si
«distinguono pertanto dalle scienze «della natura sia per l'oggetto che per il
metodo. Dilthey è inoltre preoccupato di determinare i rapporti tra storia e
(filosofia, che finisce per identificare, poiché la vita è la realtà suprema e
la storia (unica vera filosofia) è l’espressione unica e ge- nuina della vita.
I principi che giustificano tale identificazione sono i seguenti: 1) l'uomo si
conosce solo attraverso la storia; 2) un'epoca è compren- sibile solo se se ne
conoscono i precedenti storici; 3) i sistemi filosofici riflettono la mentalità
di un dato popolo e di un dato periodo, perciò sono comprensibili solo se
studiati storicamente. Dilthéy distirigue tre sistemi filosofici fondamentali:
a) il mate- rialismo {primato della categoria di causa); b) l'idealismo
oggettivo (primato dell'idea di valore); c) l'idealismo soggettivo (primato
dell'idea di fine). Causa, valore e fine rappresentano diverse relazio- ni
dell'uomo con il mondo. Opere principali: Introduzione alle scienze dello
spirito (1883); Idee per una psicologia descrittiva e analitica (1894); La
nascita del- l'ermeneutica (1900); L'essenza della filosofia (1907); La
costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito (1910). Eckhart
Johannes (1266-1327) Domenicano della provincia tedesca, discepolo di Alberto
Magno e contemporaneo di Occam, Meister Eckhart fu per oltre un decen- nio
provinciale dei domenicani tedeschi. Accusato di eresia nel 1326 289 fu
sottoposto a processo. Questo si concluse due anni dopo la sua morte con la
condanna di 26 proposizioni tratte dalle sue opere. La visione
filosofico-religiosa di Eckhart si caratterizza come un misticismo di tipo
idealistico. Fine ultimo dell'uomo è l'unione con Dio. Questi è concepito come
identità di pensiero ed essere, ma con la priorità del pensiero sull'essere,
anziché dell'essere sul pensiero come aveva insegnato san Tommaso. Poiché
l'essere di Dio si identifi- ca col conoscere, l'uomo ascende a Lui man mano
che si avvicina al- l'intellettualità. Nell'intelletto e più precisamente nella
contempla- zione si realizza l'unione e l'immersione dell'anima in Dio. Opere
principali: gli scritti di Eckhart comprendono oltre ad un'opera sistematica di
vaste proporzioni in lingua latina, intito- lata Opus tripartitum, alcuni saggi
in lingua tedesca, che gli hanno meritato il titolo di « creatore della prosa
tedesca »; Quaestiones de esse; Commento al Parmenide di Platone. Empedocle
(fine V sec. a.C.) Nato ad Agrigento, fu medico ed ebbe la fama di mago. iLe
dottrine principali della sua filosofia riguardano la causa prima di tutte le
cose che è riposta nei quattro elementi (terra, ac- qua, fuoco e aria)
assolutamente originali e immutabili e il mecca- nismo della conoscenza che è
spiegato mediante la teoria dell'ana- logia. Il divenire consiste nell'unirsi e
disunirsi dei 4 elementi ed è causato dalla lotta di due forze primordiali:
Amore e Odio. Opere principali: Sulla natura; Carmen lustrale. Engels Friedrich
(1820-1895) Filosofo tedesco nato a Barmen da una famiglia facoltosa che aveva
interessi nell'industria tessile inglese, conobbe Marx a Parigi, in un viaggio
nel 1844 e ne divenne intimo amico. Dopo i moti in Germania del 1848 a cui
partecipò, si trasferì in Inghilterra e nel 1869 si stabili a Londra lavorando
intensamente insieme a Karl Marx sul piano politico e intellettuale. Dalla
visione idealistica passò a quella materialistica, dopo la lettura dell'opera
L'essenza del cristianesimo di Feuerbach. In col- laborazione con Marx scrisse
il famoso Manifesto del partito comu- nista e La sacra famiglia in cui si
criticano le dottrine di Bauer e degli altri hegeliani di sinistra. Operando in
stretta collaborazione con Marx, dopo il 1844 non è facile distinguere i tratti
originali del suo pensiero. Comunque, si può stabilire con sicurezza che per la
sua competenza in campo economico-commerciale e la conoscenza della situazione
sociale inglese fu Engels a fornire a Marx il taglio economico e sociale del
suo materialismo. In alcuni saggi Engels ha cercato di illustrare la diversità
tra i materialismi precedenti e quello professato da lui e da Marx. La
differenza fondamentale sta nel fatto ‘che, mentre i materialismi precedenti
guardavano alla natura come un insieme di realtà sta- 290 tiche, « il
materialismo moderno vede nella storia l'evoluzione stessa dell'umanità secondo
un movimento, e il suo scopo è di riconoscerne le leggi ». In altre parole, il
nuovo materialismo di Engels e di Marx non è più naturalistico ma storico e
inoltre non è più statico ed im- mobilistico, bensì evolutivo e dinamico. Opere
principali: La situazione della classe operaia inglese (1845); Origine della
famiglia, della proprietà privata e dello stato (1884); Feuerbach e il punto
d’approdo della filosofia classica tedesca (1888). Dopo la morte dell'amico
condusse a termine il secondo e terzo vo- lume de // Capitale. Epicuro (341-271
a.C.) Filosofo greco, fondatore della scuola filosofica che da lui prende il
nome e che ebbe largo seguito durante il periodo ellenistico. Nato a Samo da
genitori ateniesi, Epicuro fu praticamente un autodidatta. Nel 310 fondò una
scuola a Mitilene; nel 306 si trasferì ad Atene dove comprò una casa con un
giardino (il famoso « giardino di Epicuro »), dove fissò stabilmente la sua
scuola e che lasciò in eredità ai suoi discepoli. Intollerante e polemico verso
gli altri filosofi, Epicuro fu verso i suoi discepoli di somma affabilità e
generosità, guadagnan- dosi una venerazione che col tempo divenne vero e proprio
culto. Scrisse molto, ma tutte le sue opere andarono perdute tranne al- cune
massime, tre lettere e il Testamento che sono stati conservati da Diogene
Laerzio nel libro X delle sue Vite. Alla conservazione, alla diffusione e
quindi alla fortuna dell’epicureismo contribuì mol- tissimo Lucrezio col suo
poema, De rerum natura, nel quale il poeta latino addita la dottrina di Epicuro
come farmaco supremo ai mali umani, dovuti a superstizioni e a falsi timori.
Davanti ai grandi problemi filosofici che angustiano la mente umana, Epicuro
assume una posizione di netto contrasto con lo stoicismo. Epitteto (50-138) Era
un liberto di Nerone, il quale lo emancipò. Andò alla scuola del filosofo
Musonio Rufo. Quando Domiziano, nel 92, cacciò dal- l’Italia tutti i filosofi,
si rifugiò nell'Epiro e lì fondò una sua scuola. È il più celebre
rappresentante dello stoicismo. Il suo pensiero filosofico è contenuto nel
Manuale e nei Discorsi. Più ancora che in Zenone e Crisippo (i fondatori della
scuola stoica) in Epitteto lo stoicismo diviene un sistema di vita, una
dottrina morale. Si tratta d'una morale molto rigida, che nulla concede agli
istinti e alle passioni, nulla agli onori, alla ricchezze e ai piaceri, e punta
tutto sulla interiorità, sull'amore per il prossimo e l'unione col Logos.
Questi, sotto l'influsso del cristianesimo, in Epitteto acquista le
caratteristiche del Dio persona, provvidente e paterna, dei cristiani. Secondo
Epitteto tutto quello che accade all'uomo, accade per volere del Logos, il
quale agisce sempre secondo ragione e mai arbitraria- 291 mente. Il Logos
esercita sull'uomo e su tutte le creature una perfetta provvidenza, senza
lasciare nulla all'arbitrio umano. L'uomo è libero in quanto si uniforma alle
leggi del Logos. Opere principali: Manuale; Discorsi. Eraclito (550-480 a.C.)
Nato ad Efeso, secondo la leggenda, fu uomo aristocratico ed eccentrico.
Avversò la democrazia nella sua città e si rifiutò di colla- borare alla
stesura della nuova costituzione. Sostiene che la realtà è in continuo divenire
(pànta rèi) e pone come principio di questo divenire il fuoco, ricollegandosi
agli Ionici. La forza che opera l'unificazione del molteplice è il Lògos. Opere
principali: unica opera di cui si abbia notizia è Perì phy- seos (Sulla natura
delle cose), che gli procurò la fama di pensatore enigmatico e oscuro.
Feuerbach Ludwig (1804-1872) Nacque a Landshut (Baviera). Studiò prima teologia
e poi filo- sofia. Frequentò, a Berlino, le lezioni di Hegel. Nel 1828 ottenne
la libera docenza all'università di Erlangen. Riprende le critiche a Hegel
sulla religione, proprie di Sturm e Bauer. Nega ogni valore al cristianesimo.
La filosofia religiosa di Feuerbach è pertanto uno studio dell'origine
dell'idea di Dio e dei suoi attributi. L'origine dell'idea di Dio ha il carattere
di ipostatiz- zazione: l'uomo proietta le qualità positive che ha in sé in una
per- sona divina e ne fa una realtà sussistente di fronte alla quale si sente
schiacciato come un nulla. All'adorazione degli enti divini bisogna sostituire
il culto dell'umanità. Per Feuerbach non è il pensiero che causa la materia, ma
la materia a svilupparsi in pensiero, quando tocca i vertici della sua
evoluzione. Opere principali: Pensieri sulla morte e l'immortalità (1830); Per
la critica della filosofia hegeliana (1839); Essenza del cristianesimo (1841);
Principi della filosofia dell'avvenire (1843); L'essenza della fede secondo
Lutero (1844); L'essenza della religione (1846); Lezioni sull'essenza della
religione (1851); Teogonia (1857). Fichte Johann Gottlieb (1762-1814) Nacque a
Ramenau in Sassonia, studiò all'università di Jena. Fu discepolo di Kant. Nel
1807, durante l'invasione napoleonica della Prussia tenne presso l'università
di Berlino i famosi Discorsi alla nazione tedesca. Fichte fu il primo ad
avvertire le contraddizioni che minacciavano il criticismo di Kant e a
risolverle in direzione dell'idealismo. Ne- gando l’esistenza della cosa in sé
(noumeno), la realtà ha un unico fondamento che può essere solo di natura
spirituale, ossia il pen- siero. Il pensiero è l'Io puro. Ma alla funzione del
pensare non è292 sufhciente l'identità del pensiero con sé stesso: occorre un
soggetto pensante e un oggetio pensato. L'io puro origina quindi il soggetto
pensante o « io empirico » e l'oggetto pensato o « non io». Fra io puro, io
empirico e non-io esiste una netta distinzione. L'io puro ha una priorità
assoluta sull'io empirico e sul non io. Il fine ultimo del- l'io empirico sta
nel raggiungimento dell'io puro; per raggiungere tale traguardo deve rimuovere
tutti gli ostacoli frapposti dal non-io. L'uomo è in continuo progresso verso
il traguardo della perfetta coerenza con sé stesso. Nell'ultima fase del suo
filosofare Fichte offre una nuova consi- derazione dell’assoluto, che viene
concepito come un Dio sussistente e, a suo modo, trascendente. Opere
principali: Rivendicazione della libertà di pensiero (1793); Contributi per
rettificare i giudizi del pubblico sulla rivoluzione fran- cese (1793-1794);
Fondamenti dell'intera dottrina della scienza (1794); Alcune lezioni sulla
missione del dotto (1794); Fondamenti del diritto naturale (1796-1797); Il
sistema della dottrina morale {1798); La mis- sione dell'uomo (1799);
Introduzione alla vita beata (1806); Discorsi alla nazione tedesca (1807).
Filone Alessandrino (13 a.C.-40 d.C.) Nato ad Alessandria d'Egitto da una
nobile famiglia ebraica della diaspora, fu rabbino di quella città,
contemporaneo di Cristo e autore di numerosi commenti alla Sacra Scrittura.
Filone è considerato da tutti come l’iniziatore di un nuovo modo di interpretare
la Sacra Scrittura, il modo allegorico (0 metodo alle- gorico). Ma da molti
oggi è ritenuto anche fondatore di un nuovo tipo di speculazione, chiamata
filosofia religiosa. In effetti Filone ha ela- borato un sistema in cui si
saldano armonicamente le dottrine fonda- mentali della fede biblica con le
principali dottrine di Platone e degli Stoici: dottrina delle Idee, del Logos,
dell'immortalità dell'anima, della contemplazione ecc. La filosofia religiosa
iniziata da Filone esercitò grande influsso sui padri della chiesa e anche
sugli scola- stici che la continuarono e perfezionarono. Opere principali:
Commento allegorico sulle sante Leggi; Sul de- calogo; Sulle leggi particolari;
Sulia migrazione di Abramo; Sulla provvidenza; Sull’eternità del mondo,
Foucauli Michel (1926-1984) Filosofo e saggista francese, nato a Poitiers, ha
studiato al- l’« École Normale Supérieure » di Parigi e poi in Germania, Polo-
nia e Svezia. Di vasta esperienza culturale (medicina, filosofia, psico- logia,
storia), si è ben presto affermato tra i massimi esponenti della rivoluzione
culturale dell'ultimo ventennio. È stato professore al « Centro Universitario
Sperimentale » di Vincennes e ha insegnato dal 1970 storia dei sistemi di
pensiero al « Collège de France ». Dallo studio della storia della medicina,
Foucault è passato, par- 293 tendo da Heidegger, ad una indagine epistemologica
delle strutture fondamentali del conoscere che sono alla base dei vari momenti
della storia della moderna civiltà occidentale. Foucault svilupperà l'analisi
strutturalistica del linguaggio di de Saussure spostandola dal livello dei
fonemi a quello degli enunciati e concentrerà la sua attenzione sulle società
evolute moderne piut- tosto che su quelle primitive. Secondo Foucault ogni
cultura ha il suo « a priori storico », sot- tofondo comune a tutte le arti,
scienze e ideologie di un determinato periodo. In ordine al problema del
linguaggio Foucault distingue l’analisi della lingua dall'analisi degli
enunciati, così come distingue la storia del discorso dall'analisi del campo
discorsivo. Infine, sotto- linea come l’analisi enunciativa sia soprattutto
un'analisi storica, che si tiene fuori da ogni interpretazione. Opere
principali: Malattia mentale e psicologia (1954); Storia della follia (1961);
Nascita della clinica (1963); Parole e cose (1967); Archeologia del sapere
(1969); Sorvegliare e punire (1975); La vo- lontà di sapere (1976). Freud
Sigmund (1856-1939) Nato a Freiberg, in Moravia, da famiglia israelita, si
laureò in medicina all'università di Vienna nel 1881; nel 1885 conseguì la li-
bera docenza specializzandosi in neuropatologia e nel 1886 aprì un gabinetto
privato per lo studio delle malattie nervose. Nel 1938, con l'annessione
dell'Austria alla Germania di Hitler, fu costretto a emi- grare a Londra, dove
morì, l’anno dopo, all'età di 83 anni. Secondo Freud, che fu il fondatore della
psicanalisi, la nostra psiche è costituita da tre livelli (o topiche): un
livello profondo o inconscio che si chiama Es (0 Id), sede della pulsione
libidica e orien- tato alla soddisfazione del bisogno sessuale; il livello
dell'/o o della coscienza razionale; ed infine, il livello del Super-Io,
risultato dell’in-
troiezione delle figure parentali e sede
della legge morale. Il costante conflitto tra Es e Super-Io spesso provoca uno
stato patologico, proprio delle diverse forme di nevrosi. La pulsione libidi-
ca, che muove l’attività sessuale dell'individuo, trova pertanto una
possibilità di sfogo nell'attività onirica, quando l'abbassamento tem- poraneo
della soglia cosciente lascia libero spazio all'Es, ai suoi de- sideri, alla
sua conflittualità repressa. Fondamentale per la cultura contemporanea come
scoperta del dinamismo psichico e come terapia, la psicanalisi che negli
scritti freudiani dell'ultimo periodo viene teorizzata come una weltan-
schauung, ha finito per presentare i suoi limiti, che sono stati evi- denziati
in questi ultimi decenni da molti studiosi. Opere principali: Le origini della
psicanalisi (1887-1902); Studi sull'isteria (1895); Psicopatologia della vita
quotidiana (1901); Tre saggi sulla teoria sessuale (1905); Totem e tabù
(1912-1913); Introdu- 294 zione alla psicoanalisi (1915-1917); Al di là del
principio di piacere (1920); L'avvenire di un'illusione (1927); Il disagio
della civiltà(1929); L'uomo Mosé e la religione monoteista (1934-1938). Galilei
Galileo (1564-1642) Nato a Pisa, fu matematico, fisico, astronomo. Nel 1589
ebbe l'insegnamento di matematica all'università di Pisa e nel 1592 passò
all'università di Padova. Nel 1609 inventò il cannocchiale. Nel 1616 la sua
teoria eliocentrica venne condannata dalla Chiesa. Processato una seconda
volta, fu costretto, nel 1633, a rinnegare le sue teorie scientifiche. Morì ad
Arcetri, nell'isolamento obbligato e colpito da cecità. È considerato il
creatore della fisica moderna e il decisivo promotore del metodo sperimentale,
avviato da Bacone, nelle sue applicazioni pratiche. Merito di Galileo è di aver
provato la netta distinzione tra filo- sofia, scienza e religione, mostrando
che il loro oggetto specifico è di- verso. Perciò lo studio scientifico dei
fenomeni umani è libero. Per la scienza diverso è anche il metodo, «
induttivo-deduttivo ». Tipico di questo metodo è l’uso della matematica. In
sintonia con tale im- postazione vi è la riduzione della realtà materiale ai
soli aspetti quantitativi (ma in Galilei più che di un meccanicismo filosofico
si tratta di un meccanicismo metodologico e scientifico). Opere principali: De
motu (1589); Sidereus Nuncius (1610); Di- scorso intorno alle cose che stanno
în su l'acqua (1612); Il saggiatore (1623); Dialogo sopra i due massimi sistemi
del mondo, tolemaico e copernicano (1632); Discorsi e dimostrazioni matematiche
intorno a due nuove scienze, attinenti alla meccanica e i movimenti locali
(1638). Galluppi Pasquale (1770-1846) Filosofo italiano, nato a Tropea, studiò
all'università di Napoli, dove insegnò filosofia teoretica dal 1831 sino alla
morte. La filosofia di Galluppi, che è uno degli esponenti maggiori del
realismo critico italiano, vuole essere essenzialmente una risposta al kantismo
che egli critica soprattutto per quanto concerne la inconoscibilità del- l'io e
della cosa in sé, e la apriorità delle categorie. A proposito della
inconoscibilità dell'io e della cosa in sé, egli afferma che la coscienza
testimonia immediatamente la conoscenza sia del primo sia della seconda (il
mondo) e che pertanto occorre ammetterli tutt'e due co- me assolutamente certi.
Assodato il carattere obiettivo del cono- scere, Galluppi, contro Kant, mostra
che anche l’esistenza di Dio risulta dimostrabile. Opere principali: Saggio
filosofico sulla critica della conoscenza (6 voll. 1819-32); Elementi di
filosofia (6 voll. 1820-27); Lettere filo- sofiche (1827); Lezioni di logica e
metafisica (4 voll. 1832-34); Filo- sofia della volontà (4 voll. 1832-40);
Considerazioni filosofiche sul- l'idealismo trascendentale e sul razionalismo
assoluto (1841). 295 Garaudy Roger (1913) Filosofo francese, nato a Marsiglia,
è un esponente prestigioso e originale del revisionismo marxista; si iscrisse
giovanissimo al Partito Comunista francese e alternò l’attività sindacale
all’insegna- mento della filosofia. Nel 1970 fu radiato dal partito per il duro
atteggiamento polemico assunto nei confronti dell'U.R.S.S. per l'in- vasione
della Cecoslovacchia. Caratteristica del pensiero revisionista di Garaudy è il
ripen- samento del problema del socialismo nella società contemporanea e
l'apertura al cristianesimo, presente però anche nei suoi primi scritti, quando
egli attribuiva alla chiesa cattolica il merito di avere realiz- zato alcune
fondamentali trasformazioni della società, come l’aboli- zione della schiavitù
e l'uguaglianza della donna e di avere affermato il valere della persona,
dell'amore, della libertà e della trascendenza. Per Garaudy la « trascendenza »
è un umanesimo prometeico e faustiano che porta al superamento del limite; ed è
convinto che solo nell’organizzazione politico-sociale del comunismo esso possa
trovare la sua piena realizzazione. A seguito del rifiuto del modello
sovietico, Garaudy approda alla convinzione che il socialismo possa trovare la
sua pienezza aprendo un dialogo con il cristianesimo, al quale è accomunato
dalla passione per l'uomo, dall'impegno di trasformazione del mondo, dalla
dimen- sione profetica. Opere principali: La teoria materialista della
conoscenza (1953); Karl Marx (1965); Marxismo del XX secolo (1966); Lenin
(1968); Tutta la verità (1970); Riconquista della speranza (1971); L’alterna-
tiva (1973); Parola di uomo (1974). Gentile Giovanni (1875-1944) Nacque a
Castelvetrano (Trapani) nel 1875. Insegnò nelle uni- versità di Palermo, Pisa e
Roma. Aderì al regime fascista e nel 1922 fu nominato ministro della Pubblica Istruzione.
Nel 1943 aderì alla Repubblica Sociale e fu trucidato dai partigiani nel 1944 a
Firenze. La ‘filosofia idealista di Gentile si chiama attualismo, in quanto
l'assoluto è concepito come atto puro. Le cose non sono altro che momenti di
tale atto, sono l'atto puro stesso in un momento del suo generarsi. Realmente
c'è solo il pensiero attuale che pone sé stesso (autoctisi). L'atto puro di
Gentile, come l'idea di Hegel, svolge la sua attività secondo un processo
triadico, che ha per momenti princi- pali l’arte, Ja religione e la filosofia.
L'arte è il momento soggettivo; la forma immediata dello spirito assoluto. La
religione è l'antitesi dell'arte, il momento oggettivo. La filosofia
costituisce la sintesi del momento soggettivo con l'oggettivo, riconoscendo
l'assoluto nell'atto che pone se stesso attraverso una dialettica eterna. Lo
Stato è consi- derato l'incarnazione suprema dello Spirito, volontà sovrana e
as- soluta da cui discende sia la morale che il diritto. La filosofia di Gen-
296 tile ha occupato un posto centrale nello sviluppo del pensiero specu-
lativo italiano nei primi decenni del nostro secolo. Opere principali: Rosmini
e Gioberti (1898); Sommario di peda- gogia come scienza filosofica (1912); I
problemi della scolastica e il pensiero italiano (1913); Studi vichiani (1915);
Fondamenti della fi- losofia del diritto (1916); Teoria generale dello spirito
come atto puro (1916); Sistema di logica come teoria del conoscere (1917-1922);
Le origini della filosofia contemporanea in Italia (quattro volumi, scritti fra
il 1917 e il 1923); I/ pensiero italiano nel Rinascimento (1920); Studi sul
Rinascimento (1923); Filosofia dell’arte (1931). Gilson Etienne (1884-1978)
Filosofo e storico francese, nato a Parigi, si è addottorato in lettere e
filosofia alla Sorbona; ha insegnato a Lilla, Strasburgo, Parigi. Trasferitosi
in Canada, nel 1929 vi ha fondato l’« Institute of Medieval Studies » di
Toronto che diresse sino alla morte avvenuta nel 1978 a Cravant. Con Jacques
Maritain, Gilson è colui che ha maggiormente contribuito alla rinascita del
tomismo nella prima metà del sec. XX e della sua diffusione nel mondo
nord-americano. AI] centro della sua riflessione è il concetto di « filosofia
cristiana » di cui Gilson sostiene la legittimità, affermando che la filosofia
cri- stiana non comprende verità che appartengono essenzialmente al- l'ambito
della fede e della rivelazione, ma solo di fatto, storicamente. Oggetto
specifico della filosofia cristiana non è il « rivelato », ma il « rivelabile
», cioè verità di per sé accessibili alla ragione come l’unità di Dio,
l'immortalità dell'anima, il senso della storia, la per- sona, la libertà ecc.
La filosofia cristiana è stata elaborata dai Padri della Chiesa e dagli
Scolastici, che hanno conferito evidenza a verità attinte dalla Bibbia e alle
quali i Greci non erano pervenuti quali l'unicità di Dio, la creazione, la
libertà, la persona, la storia, la contingenza, la causalità delle creature e
dell'uomo, la bontà della materia e del corpo umano, la provvidenza, ecc. I filosofi
cristiani hanno conferito a queste verità una espressione razionale,
filosofica, che gli storici non cristiani hanno attribuito alla filosofia
moderna. Per Gilson questa è una falsificazione della storia, che ha dimostrato
in modo preciso ne Lo spirito della filosofia medioevale e in altre opere. Sul
problema della conoscenza dell'essere, Gilson dimostra che essa non si realizza
mediante un’astrazione, ma mediante il giudizio di esistenza, che è un atto di
composizione che la mente compie tra un soggetto e l’atto di esistere,
attribuendoglielo. Opere principali: I/ tomismo (1919); La filosofia nel
Medioevo (1922); San Bonaventura (1924); Sant'Agostino (1929); Lo spirito del-
la filosofia medioevale (1932); Duns Scoto (1952). Delle sue opere a ca- rattere
teoretico citiamo: Il realismo metodico (1934); Dio e la filo- sofia (1941);
Realismo tomista e critica della conoscenza (1945); 297 L'essere e l'essenza
(1948); L'essere e alcuni filosofi; Introduzione alla filosofia cristiana
(1960); Il filosofo e la teologia (1960). Gioberti Vincenzo (1801-1852) Nato a
Torino, fu ordinato prete nel 1825. Laureatosi in teologia, fu preso da una
crisi di fede e si orientò verso il panteismo. Par- tecipò a circoli
rivoluzionari per cui fu arrestato ed esiliato nel 1833. Si rifugiò in Belgio e
in quel periodo si riconciliò con la Chiesa. Passò gli ultimi anni della sua
vita a Parigi, dedito allo studio della filosofia, nella povertà e nella
solitudine. Gioberti ha gli stessi motivi ispiratori di Rosmini: si vale del-
l’idea dell'essere ma sostiene che per salvare l'oggettività dell'idea
dell'essere bisogna darle materialità, realtà. Cioè bisogna porre l'a priori
non nell’idea dell'essere ideale, ma in quella dell'essere reale, Dio
(ontologismo). Dio crea il mondo e opera intrinsecamente allo spirito umano,
mentre a Dio il mondo ritorna grazie al progresso umano (l'ente crea
l'esistente, l'esistente ritorna all'ente). Gioberti ha anche studiato la
realizzazione di un piano per l’unità e l’indipenden- za d'Italia. Opere principali:
Teoria del sovrannaturale (1838); Introduzione allo studio della filosofia
(1840); Del bello (1841); Del primato morale e civile degli italiani (1843);
Del buono (1843); Del rinnovamento civile d'Italia (1851). Giovanni Damasceno
(675-750) ‘Dottore della Chiesa (di lingua greca), santo. Nacque a Damasco e
morì probabilmente a Gerusalemme. Discendente da una nobile e ricca famiglia
arabo-cristiana (suo padre era ministro del tesoro presso la corte del Califfo)
ebbe un'eccellente educazione letteraria e filosofica. Consacrato prete da
Giovanni V patriarca di Gerusalemme si ritirò nel monastero di San Saba in
Palestina e si dedicò soprat- tutto all'insegnamento della sacra Scrittura e
della teologia e si adoperò sia con la parola sia con gli scritti per la difesa
del culto delle immagini sacre (opponendosi coraggiosamente all’iconoclastia).
È stato per lungo tempo uno dei pilastri della teologia della Chiesa cattolica
orientale ed anche oggi è un riferimento nel dialogo ecu- menico fra le varie
confessioni cristiane. Nella sua sintesi teologica vengono adoperati non pochi
elementi filosofici da lui appresi in parte dagli arabi e in parte dai Padri
greci. C'è in lui un influsso ari- stotelico nella concezione della logica e
della metafisica, e c'è anche un influsso platonico e neoplatonico derivato
dallo Pseudo-Dionigi. iLa sua opera maggiore è la Fonte della conoscenza che si
suddi- vide in tre parti riguardanti la filosofia (Capitoli filosofici), le
eresie (Libro delle eresie) e la fede (Sulla fede ortodossa). Glucksmann André
(1937) Laureato in filosofia, fu maoista e partecipò ai movimenti rivolu- 298
zionari del '68. Attualmente lavora al « Centro nazionale per la ri- cerca
scientifica ». Critico implacabile del sistema marxista, è im- pegnato in una
denuncia sistematica dei crimini sovietici. Nelle sue ultime opere denuncia il
carattere disumano del sistema marxista e accusa l’U.R.S.S. di essere una
potenza capitalistica, violenta e ter- roristica, di cui il Gulag è
l'espressione più terrificante. Tra le molte critiche che Glucksmann muove al
marxismo la più radicale è quella con cui gli contesta di essere un sistema
socialista. Opere principali: Il discorso della guerra (1967); La cuoca e il
mangiauomini (1977); I padroni del pensiero (1978); L'atto antitota- litario
(1983). Gramsci Antonio (1891-1937) Uomo politico e pensatore italiano; nato ad
Ales (Cagliari) si tra- sferì successivamente a Torino, dove interruppe gli
studi letterari per dedicarsi alla vita politica. Nel 1921 con Bordiga e Tasca
fondò a Livorno il Partito Comunista Italiano, di cui divenne segretario nel
1924. Arrestato dai fascisti e condannato a 20 anni di carcere, morì nel 1937
in una clinica, dopo undici tormentati e dolorosi anni di prigionia. Il
pensiero filosofico di Gramsci si articola intorno al superamen- to del dilemma
idealismo o marxismo; alla fondazione della filosofia della prassi, in cui
risalta il carattere storicistico del conoscere e il suo carattere pratico; e
infine alla dimensione storica quale tratto qualificante della filosofia della
prassi. Gramsci recupera inoltre la conoscenza come creatività e non solo come
rispecchiamento della realtà. Riguardo al problema politico l'ideologia
gramsciana si snoda lungo le seguenti direttrici: 1) il potere va conquistato
attraverso una guerra di posizione che sottragga alla classe dirigente prima il
consenso e poi il dominio; 2) la rivoluzione non è violenta ma cultu- rale; nel
progetto rivoluzionario gramsciano il cristiano deve giun- gere ad abbandonare
la sua religione per accedere a forme più ri- spondenti al divenire storico; 3)
ogni nazione ha diritto di realizzare il proprio stato socialista conforme alla
propria storia, cultura e tradizioni; 4) il Partito comunista è il Nuovo
Principe: esso è la fonte di ogni potere, di ogni diritto, di ogni legge; la
sua attività è essenzialmente morale. Realizzatori della guerra di posizione e
successivamente del rap- porto tra il Nuovo :Principe e la base proletaria sono
« gli intellet- tuali organici », prima interpreti della rivoluzione culturale
e suc- cessivamente garanti del consenso ideologico. Gramsci appare sensibile
al problema religioso che considera la grande utopia delle classi subalterne.
Come la metafisica, essa è or- mai superata dal comunismo che ha pienamente
compiuto il processo di secolarizzazione del mondo moderno. Opere principali:
gli scritti di Gramsci sono distinti in due 299 periodi: a) Scritti giovanili
(1914-1918); L'Ordine Nuovo (1912-1920); Socialismo e fascismo (1921-1922); La
costruzione del Partito Co- munista (1923-1926); b) Quaderni del carcere,
scritti durante la pri- gionia. Guardini Romano (1885-1968) Filosofo e teologo
tedesco, di origine italiana (nacque a Verona), conoscitore profondo della
storia moderna, fu il primo a coprire la cattedra di Weltanschauung cattolica
all'università di Berlino. Allon- tanato -dall'insegnamento dal nazismo, lo
riprese dopo la seconda guerra mondiale prima a Tubinga e poi a Monaco sino
alla morte. In base al concetto di opposizione polare Guardini afferma che ogni
concetto fondamentale è distinto da un aliro, ma al tempo stes- so lo
presuppone e lo implica, poiché nessun elemento pilò essere pensato senza il
suo opposto. Il mondo storico è concepito da Guardini come il concreto viven-
te, ed è essenzialmente mondo della cultura, mondo dell’uomo. Convinto della
crisi dell'età moderna, si impegna a riaffermare il principio cattolico della
unità e collaborazione tra fede e ragione, convalidata dalla tesi della
polarità. In base a tale tesi, Guardini ela- bora una serie di binomi capaci di
descrivere la struttura della real- tà: atto-struttura, immanenza-trascendenza,
unità-pluralità, affinità- distinzione, originalità-regola. Egli riscontra
inoltre la crisi del mondo moderno in tre settori principali: quello della
natura, quello del soggetto, quello della cul- tura. La natura viene percepita
come estraneità, il soggetto è pri- gioniero della massa e delle macchine, la
cultura ha perduto la sua credibilità per lo scacco storico delle sue
convinzioni. Guardini abbozza, pertanto, il progetto di una « nuova società » e
di una nuova cultura sulla base della riaffermazione del valore assoluto della
persona; del controllo della potenza; del coraggio del- la verità; della
libertà dello spirito. Opere principali di carattere filosofico: L'opposizione
polare (Sag- gio per una filosofia del concreto vivente) (1925); La fede nella
ri- flessione (1928); La morte di Socrate. Una interpretazione degli scrit- ti
di Platone: Eutifrone, Apologia, Critone, Fedone (1943); La fine del- l'epoca moderna
(1951); Religione e soprannatura (1958). Habermas Jiirgen (1929) Filosofo e
sociologo tedesco, nato a Gummersbach; dopo essersi laureato a Francoforte, si
è dedicato a studi e ricerche nell’ambito dell'Istituto per le ricerche sociali
di Francoforte fondato da Hork- heimer e di cui egli è il continuatore. Per
Habermas, compito di una scienza sociale filosoficamente fon- data, è
l'elaborazione del nesso tra teoria e prassi che penetri i meccanismi della
comunicazione intersoggettiva, la sua struttura lin- guistica, i processi di
creazione del consenso e della legittimazione 300 per raggiungere una Verità
che è nel contempo illuminazione pra- tica e formazione di una volontà
collettiva. Opere principali: Storia e critica dell'opinione pubblica (1962);
Teoria e prassi (1963); Logica delle scienze sociali (1967); Conoscenza e
interesse (1968); Tecnica e scienza come ideologia (1968); La crisi della
razionalità nel capitalismo maturo (1973); Per la ricostruzione del
materialismo storico (1976). Hartmann Nicolai (1882-1950) Filosofo tedesco,
nato a Riga e morto a Gottinga. Assertore della filosofia dei valori e vigoroso
critico del positivismo, aderì all'inizio della sua formazione culturale al
criticismo e in seguito alla feno- menologia di Husserl. La sua concezione
ontologica dei valori è caratterizzata da una sorta di ultrarealismo platonico:
i valori non hanno fondamento né nell'uomo né in Dio, ma in se stessi, sono
sussisienti al pari delle Idee di Platone e sono dotati di aseità. In nome
dell'autonomia dei valori Hartmann giunge perfino a negare l’esistenza di Dio,
poiché la sua esistenza sàrebbe incompa- tibile con la libertà dell'uomo. Opere
principali: Principi di una metafisica della conoscenza (1921); La filosofia
dell'idealismo tedesco (1923-1929); La costru- zione del mondo reale (1940);
Filosofia della natura (1950); Estetica (1953, postuma). Hegel Georg Wilhelm
(1770-1831) Nacque a Stoccarda e fece gli studi teologici nel seminario di
Tubinga. Nel 1801 fu nominato professore presso l'università di Jena, poi
insegnò ad Heidelberg e infine a Berlino dove ottenne gran- de successo. Morì
di colera a 61 anni. Hegel è uno dei protagonisti della filosofia contemporanea
ed elaborò l’idealismo logico e storico. Egli si inserisce nel recupero
romantico del concreto e del reale, ma per attuarlo radicalmente. Si impegna a
coniugare la valorizzazione della creatività del pensiero e della libertà con
l'esigenza di fondare razionalmente la realtà, in- tesa come costruzione logica
del mondo; perviene così all'esito fi- nale del processo storico culturale
moderno: un umanesimo asso- luto che sfocerà, dopo Hegel, in un ateismo
assoluto (l’uomo è il fon- damento immanente delle realtà). Scopo della
filosofia hegeliana è, quindi, la comprensione razio- nale del mondo e della
storia, caratterizzati dalla presenza del ne- gativo e dalla nostalgia
dell'armonia perduta. La storia è caratteriz- zata dalla scissione: essere-non
essere; bene-male; infinito-finito; Dio-mondo. La consapevolezza di queste
realtà fa dell'uomo una « co- scienza infelice », che tende a liberarsi della
contraddizione. Per Hegel la realtà è Idea (tutto ciò che è razionale è reale e
tutto ciò che è reale è razionale). Da questa affermazione deriva il nome 301
dato alla filosofia di Hegel di idealismo logico. L'unico metodo ade- guato per
lo studio di una realtà in perpetuo divenire è quello della logica speculativa
o dialettica. Esso è costituito di tre momenti: tesi, antitesi e sintesi. La
tesi è il momento dell'essere in sé, l’antitesi è il momento dell'essere extra
sé, la sintesi è il momento del ricongiungimento delle due parti poste dalla
tesi e dell'anti- tesi in un unico tutto che annulla le imperfezioni dei
momenti pre- cedenti mentre ne conserva la positività. Lo studio della triade
fondamentale riconduce alle tre parti principali del sistema hege- liano:
logica o studio dell'idea in sé, filosofia della natura, filosofia dello
spirito, forma in cui l'idea si attua pienamente, ritornando in sé
dall’alienazione della natura. Anche la vita dello spirito si svolge
dialetticamente in tre momenti: spirito soggettivo (o indi- viduale), oggettivo
(o sociale) e assoluto (che si attua nelle opere artistiche, religiose,
filosofiche). Per Hegel la religione è mito e la teologia è mitologia. Egli
sva- luta la Rivelazione e afferma l’esigenza di una religione nazionale sul
modello di quella della polis greca. In una fase successiva Hegel com- pie
un'autocorrezione, rivalutando la prospettiva storico-filosofica del
cristianesimo come espressione del «rapporto dialettico » tra
universale-particolare, pensiero-vita, infinito-finito. L'amore cristia- no si
presenta come il superamento di ogni dualismo. Supera in tal modo la «
dialettica servo-signore » del giudaismo e si presenta come sintesi Dio-mondo.
Hegel considera il suo pensiero come sintesi del pensiero occiden- tale da
Talete a Schelling. La sua critica si rivolge in particolare al- l'impostazione
kantiana della cosa in sé e alla scissione tra sfera teoretica e sfera pratica.
Per Hegel la storia è lo studio delle manifestazioni dello spirito oggettivo.
Essa è la manifestazione progressiva dell’assoluto; in es- sa tutto quanto
avviene ha un carattere razionale. Il male è solo un momento della dialettica
della ragione. Per manifestare se stesso nella storia, lo spirito si vale dello
Stato e della nazione: la storia si esprime nelle successive egemonie dei
popoli. Opere principali: Scritti teologici giovanili (Religione popolare e
cristianesimo; La vita di Gesù; La positività della religione cri- stiana; Lo
spirito del cristianesimo e il suo destino) (1797-1800); Fenomenologia dello
spirito (1807); Scienza della logica (tre volumi scritti tra il 1812 e il
1816); Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817); Lineamenti
di filosofia del diritto (1821). Infine quattro opere postume: Filosofia della
storia; Estetica; Filosofia della religione; Storia della filosofia. Heidegger
Martin (1889-1976) Nacque a Messkirch, in Germania. Si avviò verso la carriera
sa- cerdotale che poi interruppe. Fu discepolo di Husserl. Nel 1928 ebbe la
cattedra di filosofia all'università di Friburgo, come succes- 302 sore del suo
maestro Husserl. Durante il periodo nazista si ritirò dall'insegnamento e lo
riprese dopo la guerra. La prima speculazione di Heidegger, che è il massimo esponente
del movimento esistenzialista, ed uno dei maggiori filosofi del nostro secolo,
è diretta alla soluzione del problema dell'essere. Porta di accesso all'essere
è l’uomo. Nell'uomo vi sono alcuni tratti fondamentali caratteristici del suo
essere, o esistenzia- li: essere-nel-mondo, esistenza (essere fuori di sé),
temporalità. Tra i primi due esistenziali, essere-nel-mondo e esistenza c'è
aperto contrasto: l’uno incatena l’uomo al passato, l’altro lo proietta verso
il futuro. A seconda che l'uomo si lasci guidare dal primo o dal secondo la sua
vita sarà inautentica o autentica. La prima è quella di assuefazione al mondo,
la seconda è quella interiore che conduce colui che vive in vista della morte.
Secondo Heidegger la morte ap- partiene alla struttura fondamentale dell'uomo,
perché è solo nella morte che l’uomo conquista la totalità della sua vita.
L'uomo diventa consapevole della sua soggezione alla morte nell’angoscia che è
un'al- tra disposizione fondamentale del suo essere. L'essere è ciò che fa presente
l’ente e ciò che in esso si manifesta: ma l'essere è indicibile. L'uomo è « il
custode dell'essere », ma non gli è dato sapere come avvenga il costituirsi
dell'ente per mezzo dell'essere. La manifesta- zione dell'essere si realizza
attraverso il linguaggio. Opere principali: Essere e tempo (1927); Kant e il
problema della metafisica (1929); Dell'essenza del fondamento (1929); La dot-
trina platonica della verità (1947); Introduzione alla metafisica (1953); Il
principio di ragion sufficiente (1957); Nietzsche (1961); La tesi di Kant
sull'essere (1963); Tempo ed essere (1968); Il trattato di Schelling
sull'essenza della libertà umana (1971). Herbart Johann Friedrich (1776-1841)
Filosofo e pedagogista tedesco. Discepolo di Fichte e Schiller si orientò nella
linea di pensiero idealistica, che ben presto criticò e superò elaborando la
sua concezione filosofica di un pluralismo rea- listico immobilistico, in cui
riserva particolare attenzione ai pro- blemi pedagogici. Esercitò
l'insegnamento universitario a Gottinga e poi a Kénigsberg, dove fondò un
seminario di pedagogia e una scuola sperimentale. Herbart sostiene che la
filosofia è analisi critica dell'esperienza e superamento delle sue
coniraddizioni. L'esperienza ci dà una pluralità di esseri mutevoli, mentre
l'essere è sempre se stes- so, unico e immobile. Alla base della sua concezione
pedagogica vi è l’idea di istruzione educativa, tesa a promuovere la
plurilateralità, il complesso delle tendenze e delle attitudini dell'’educando,
senza al- terare le proporzioni e la forma dell’individualità, senza indebolire
la forza del carattere. Opere principali: Manuale di psicologia; Pedagogia
dedotta dal fine dell'educazione; Disegno di lezioni di pedagogia; Metafisica
ge- nerale secondo i principi della filosofia della natura. 303 Herder Johann
Gottfried (1744-1803) Filosofo, teologo e letterato tedesco, nato a Mohrungen e
morto a Weimar. Studiò teologia a Kénigsberg, avendo come maestro Kant. Dopo
essere stato alcuni anni a Riga, in Lettonia, come predi- catore, andò in
Francia e di lì, per interessamento di Goethe, si tra- sferì come pastore di
corte a Weimar, dove rimase sino alla morte, salvo il periodo di viaggio in
Italia nel 1788-1789. Scrisse moltis- simo in vari campi e può essere ricordato
come uno dei testimoni maggiori di quella stagione della cultura tedesca che
costituisce il suo periodo aureo. In filosofia i campi che coltivò con maggiore
successo furono l'estetica, la storia, la linguistica. Nell’estetica af- ferma
la relatività della nozione di bellezza. Nella storia egli vede una rivelazione
divina: natura e storia, a suo parere lavorano secondo il disegno di Dio per
l'educazione dell'umanità. Infine, per quanto concerne la linguistica, Herder
considera il linguaggio come espres- sione spontanea della soggettività: essa
può essere intesa sia come prodotto della sensazione immediata, sia come opera
della « rifles- sione ». Il linguaggio è quindi un fattore nella costruzione
sintetica della coscienza, ed occupa un posto fondamentale sia nella costru-
zione sia nella espressione della cultura di un popolo. Opere principali:
Saggio sull'origine del linguaggio; Il conoscere e il sentire dell'anima umana;
Idee per la filosofia della storia del- l'umanità. Hobbes Thomas (1588-1679)
Nato in Inghilterra, conobbe Galilei e (Cartesio e ne subì gli influssi
culturali. Fece lunghi viaggi in Francia e in Italia. Hobbes apre la serie dei
grandi filosofi inglesi del XVII secolo, le cui principali caratteristiche sono
empirismo e politicità. Per Hobbes l’unica sostanza è la materia: ad essa si
riporta ogni essere come al puro e trascendentale principio del suo esistere.
La cono- scenza si basa esclusivamente sull'esperienza. È bene ciò che causa
piacere, male ciò che procura dolore. Nel Leviathan, apologia del- l'assolutismo,
sostiene che lo Stato nasce da un volontario assogget- tamento degli uomini a
un sovrano, in cui si accentrano tutti i di- ritti, per uscire dallo stato di
natura, in cui regna una lotta sel- vaggia tra gli altri uomini (homo homini
lupus). Opere principali: Elementi di legge naturale e politica (1640);
Obiezioni alle « Meditazioni » di Cartesio (1641); De cive (1642); Le- viatano
(1651); De corpore (1655); De homine (1658); Behemoth (1670). Horkheimer Max
(1895-1973) Fondatore e animatore della « Scuola di Francoforte », il cui cen-
tro principale è l'« Istituto per le Ricerche Sociali ». L'Istituto seguì
Horkheimer quando questi emigrò a Parigi e, durante la seconda guerra mondiale,
a New York. Fece ritorno a Francoforte insieme 304 col suo fondatore nel 1950.
Il nucleo della Scuola di Francoforte era costituito oltre che da Horkheimer,
da Adorno, Fromm e Marcuse. Per la sua formazione filosofica Horkheimer si
colloca lungo l'e- redità del marxismo occidentale. Ma dal punto di vista
politico la sua posizione era totalmente eccentrica, in quanto non intendeva
avere rapporto alcuno con le organizzazioni di partito. Horkheimer e la sua
scuola concentrarono le ricerche sulla società e sulle sue istituzioni,
sviluppando una teoria critica anziché un progetto utopistico come avevano
fatto Marx e Engels. La teoria critica si propone di smascherare le
ingiustizie, i mali, le deviazioni, le lacune che affliggono la società in un
determinato momento storico. Da Marx accetta le seguenti tesi: priorità della
prassi; priorità della società sull’individuo; negazione della metafisica. In
altri punti si discosta dal marxismo: socialismo e politica del partito
comunista non coincidono; la dialettica ha un dominio più vasto; la religione
merita un giudizio più favorevole. La società è un fenomeno storico e dinamico.
La società contem- poranea affonda le sue radici nell’illuminismo; ma questo,
nel com- battere il mito, prende esso stesso la forma di mito. La ragione è
arte- fice e vittima dei mali provocati dall’illuminismo (manipolazione e
dominio dell’uomo sull'uomo). L'ideale che Horkheimer assegna alla società è la
felicità di tutti gli individui in questo mondo, in una concezione
rigorosamente storicistica e immanentistica. Più tardi il filosofo accoglierà
un'apertura teologica, verso la nostalgia di una perfetta e consumata
giustizia. Opere principali: Autorità e famiglia (1936); Dialettica dell'illu-
minismo (1944); Eclisse della ragione (1947); Studi sul pregiudizio (1950);
Teoria critica (1968); La società di transizione (1972). Humboldt Karl Wilhelm
von (1767-1835) Filosofo, linguista, letterato tedesco, nato a Postdam e morto
a Tegel. Ebbe una educazione illuminista; si specializzò in giurispru- denza a
Francoforte e a Gottinga. Dopo una breve permanenza a Parigi nel periodo della
rivoluzione, si trasferì a Jena, dove divenne amico di Schiller e Goethe. Dal
1802 al 1809 fu a Roma come rap- presentante del re di Frussia presso il Papa.
Rientrato a Berlino si occupò della strutturazione della nuova università. ‘Il
nome di Humboldt è legato soprattutto alle sue profonde ricer- che nel campo
della linguistica. Egli ha portato avanti le ricerche iniziate da Herder e con
lui è il maggior rappresentante della filo- sofia romantica tedesca. Per lui il
linguaggio è sintesi di dati ogget- tivi e di elementi soggettivi (tesi ripresa
da Kant, che però l'aveva applicata al fenomeno della conoscenza); esso è, poi,
parziale ri- flesso della totalità oggettiva nelle lingue particolari. La
lingua, per Humboldt, non è opera compiuta, bensì attività: la sua definizione
non può essere altro che genetica. Essa costituisce un importante 305 documento
di identificazione per quelli che sono i tratti caratteri- stici di un popolo.
Opere principali: Sull'origine delle forme grammaticali e il loro influsso
sulle idee; Sulla differenza della struttura linguistica del- l'uomo e sulla
sua influenza sullo sviluppo spirituale del genere umano. Hume David
(1711-1776) Nacque ad Edimburgo, in Scozia. Nel 1735, si recò in Francia per
continuare gli studi. Partecipò all'attività politica e fu segre- tario
dell'ambasciata in Olanda, Italia, Austria. Nel 1756 tornò in Francia. Fu amico
di Rousseau, con cui poi venne a rottura. Fu an- che sottosegretario di stato.
Hume è sostenitore di un empirismo radicale. Principio fonda- mentale della sua
filosofia è il principio di immanenza, interpretato empiristicamente: l’unica
fonte di conoscenza è l’esperienza e l’og- getto dell'esperienza non è la cosa
esterna ma la sua rappresenta- zione. In base a questo principio le rappresentazioni
o impressioni costituiscono il dato ultimo della conoscenza umana. Hume
trasfor- ma quindi l’empirismo in fenomenismo. Critica il rapporto di cau-
salità in quanto la relazione tra causa ed effetto non è necessaria, ma nasce
dall'esperienza. L'esistenza di Dio non è dimostrabile. Dio rimane un'ipotesi e
un atto di fede. La morale è improntata a un utilitarismo altruista: è buono
ciò che è utile e perciò approvato dalla società; è cattivo ciò che è dannoso e
perciò condannato dalla società. Le passioni sono impressioni riflesse,
connesse alle idee di sensazione. Le principali sono: orgoglio-umiltà,
amore-odio. La virtù è un'attività conforme a quella particolare specie di
passioni che causano piacere. Opere principali: Trattato sulla natura umana
(1739-1740); Saggi morali e politici (1741); Ricerca sull’intelletto umano
(1748); Ricer- ca sui principi della morale (1751); Discorsi politici (1752);
Quattro dissertazioni (1757); Dialoghi sulla religione naturale (1779). Husserl
Edmund (1859-1938) Nacque a Prossnitz, in Germania. Laureatosi in scienze
matema- tiche a Berlino, si trasferì per alcuni anni a Vienna. Rientrato in
Germania, insegnò filosofia all'università di Gottinga e di Friburgo fino
all'avvento del nazismo. È il fondatore della Scuola fenomenologica. La
fenomenologia studia l'oggetto quale si manifesta nella sua effettiva realtà,
assoluta- mente puro. Il metodo fenomenologico consta di due momenti prin-
cipali, negativo e positivo. Quello negativo, chiamato da Husserl epoché o riduzione
fenomenologica è quello in cui si isola l’oggetto (fenomeno) da tutto ciò che
non gli è proprio perché possa svelarsi nella sua purezza. Il momento positivo
è quello in cui lo sguardo del- 306 l'intelligenza si dirige verso la cosa
stessa e si immerge in essa e lascia che si manifesti. Mediante l'elaborazione
del metodo fenomenologico, Husserl ha offerto un apporto decisivo allo sviluppo
dell’esistenzialismo, for- nendogli un metodo di indagine che rispondeva
perfettamente alla sua esigenza, quella di effettuare un'analisi minuziosa
dell’esperien- za umana. Opere principali: Filosofia dell’aritmetica (1891);
Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (in tre volumi,
di cui il primo nel 1913 e gli altri due posiumi nel 1952); Logica for- male e
trascendentale (1929). Molte opere postume: Meditazioni car- tesiane (1950); La
crisi delle scienze europee e la fenomenologia tra- scendentale (1954); Mondo,
io e tempo (1955); Filosofia prima (1956); Psicologia fenomenologica (1962);
Analisi delle sintesi passive (1966).
James William (1842-1910) Nato a New
York, fu per molti anni titolare delle cattedre di filo- sofia e psicologia
all'università di Harvard, dove fondò uno dei primi laboratori di psicologia
sperimentale. Rappresentante del pragma- tismo, James dette a questa corrente
di pensiero un carattere marca- tamente volontaristico. Nell'uomo la facoltà
principale non è la ragione ma la volontà; perciò una dottrina viene accolta
non perché la ragione la riconosce come vera, ma perché la volontà la trova
utile al conseguimento di un determinato obiettivo (pragmatismo). Il mondo è
costituito da un insieme di parti che non armonizzano perfettamente tra loro.
In questa concezione è evidente il pluralismo di James il quale difende anche
l’individualismo. Opere principali: Principi di psicologia (1890); La volontà
di cre- dere e altri saggi di filosofia popolare (1897); Le varietà
dell'esperien- za religiosa (1902); Pragmatismo (1907); Il significato della
verità (1909); Un universo pluralistico (1909); Alcuni problemi di filosofia
(1911, postumi); Saggi sull’empirismo radicale (1912, postumi). Jaspers Karl
(1883-1969) Scienziato, psicologo e filosofo tedesco, Jaspers fu uno dei massi-
mi esponenti dell’esistenzialismo. Nacque a Oldemburg in Germania. Insegnò per
molti anni filosofia nell'università di Heidelberg. Costret- to dal regime
nazionalsocialista ad abbandonare la cattedra, riprese l'insegnamento
universitario nel 1945. Nel 1947 si trasferì a Basi- lea dove insegnò e
risiedette sino alla morte. La sua filosofia ha come punto di partenza la
distinzione tra esserci (Dasein) ed esistenza (Existenz). L'esserci è la realtà
empi- rica, la vita naturale dell'uomo soggetia alle leggi del tempo e dello
spazio e esposta allo studio preciso delle scienze sperimentali. L'esi- stenza
è la capacità dell'uomo di superare costantemente la situa- zione, il suo
trovarsi sempre sistematicamente fuori di sé, oltre se 307 stesso. L'esistenza
autotrascendendosi non si dissolve nel nulla, ma si muove verso l'orizzonte
dell'essere, il quale mi circonda da tutte le parti: è l'’onnicomprensivo (das
Umgreifende). Senonché alla ra- gione umana resta impossibile determinare il
senso di tale orienta- mento. Questo può esser svelato soltanto dalla fede.
Opere principali: Psicopatologia generale (1913); Psicologia delle visioni del
mondo (1919); Filosofia (1932); Ragione ed esistenza (1935); Nietzsche (1936);
Descartes e la filosofia (1937); Filosofia del- l'esistenza (1938); Il problema
della colpa (1946); Sulla verità (1948); La fede filosofica (1948);
Introduzione alla filosofia (1950); I grandi fi losofi (1957); Ragione e
libertà (1959); La fede filosofica di fronte alla rivelazione (1962). Jung Carl
Gustav (1875-1961) ‘Psichiatra svizzero, fondatore della psicologia analitica,
nato a Kesswil e morto a Kiisnacht. Conseguita la laurea in medicina, en- tra
nel 1900 in qualità di assistente nell'ospedale psichiatrico di Zurigo. Dopo
vari anni di ricerche giunge alla conclusione che per comprendere le
manifestazioni psicotiche occorre soprattutto tener conto della storia
individuale del malato. Nel 1907 pubblica la Psico- logia della demenza precoce
nella quale formula l'ipotesi dell'origine psichica della schizofrenia,
interpretando il comportamento e il linguaggio del malato come espressione di
fantasie inconsce che hanno sostituito completamente l’attività della
coscienza. Nel 1912 pubblica la Trasformazione e simboli della libido che segna
la defi- nitiva differenziazione del pensiero di Jung da quello di Freud, dif-
ferenziazione che riguarda tutti i punti fondamentali della psicana- lisi: il
concetto di inconscio, la libido, la funzione dei simboli, il metodo
terapeutico. Queste tesi, Jung le riprende e sviluppa ulterior- mente nelle
opere successive: Tipi psicologici; Energetica dell'anima; L'io e l'inconscio;
Psicologia e religione. In quest'ultima opera Jung, diversamente da Freud,
riconosce l'importanza della religione nella vita dell'individuo e della
società e vede in essa una profonda esi- genza della natura umana stessa:
questa ha bisogno e si serve della religione per dare espressione simbolica
alle sue ricchezze interiori. Ma a parere di Jung, « una dottrina intorno a Dio
nel senso di un'esistenza non psicologica non può essere sostenuta ». Kant
Immanuel (1724-1804) Nacque a Kénigsberg (Prussia). Studiò filosofia,
matematica e teologia all'università della sua città natale. Fu precettore
presso alcune famiglie patrizie. Nel 1755 ebbe la libera docenza e nel 1770
ottenne la nomina a professore ordinario di logica e metafisica all’uni-
versità di Kònigsberg. Nel 1794 il re di Prussia gli proibiva, con una lettera,
di insegnare le idee critiche nei confronti della religione. Kant si adeguò e
non tenne più corsi sulla filosofia della religione. Morì nella sua città
natale che non aveva mai abbandonato. 308 La filosofia di Kant non parte dal
presupposto che ci sia una realtà esteriore preordinata, ma che la realtà è
costruzione nostra, in quan- to soggetti intelligenti. L’atto conoscitivo è
sintesi a priori di due elementi: contenuto e forma; la forma è fornita dal
soggetto, il contenuto dalle cose. Vi sono tre gradi nel processo del pensiero:
ap- prensione, giudizio e raziocinio. Il contenuto del I grado è il com- plesso
dei dati sensoriali, la forma è l'ordinamento che ne facciamo nello spazio e
nel tempo. Il risultato che è una sintesi di carattere sensibile, o
apprensione, serve di contenuto del secondo grado di conoscenza, di cui la
forma è l'elaborazione secondo alcuni criteri intellettivi che Kant chiama
categorie. Ne derivano i giudizi o sintesi concettuali. Questi primi due gradi
dell'attività conoscitiva si inte- grano a vicenda. Nel raziocinio si hanno tre
idee regolatrici dell’atti- vità stessa: anima, mondo e Dio. Anche questa
attività è unificatrice, anzi è quella che tende alla sintesi suprema: ma
questa non è mai realizzabile obiettivamente. Pertanto la metafisica,
tradizionalmente intesa, non è possibile come scienza positiva. La reale
conoscenza u- mana è limitata all'esperienza sensibile. Per Kant i postulati
della vita morale sono tre: l’esistenza-di Dio, l'immortalità dell'anima, la
libertà. La prima formula del dovere morale o imperativo categorico è: Agisci
sempre ed esclusivamente per amore della legge, prescindendo da qualsiasi
risultato utile o dannoso. Nella terza opera fondamentale (Critica del
giudizio) Kant tratta dei giudizi fondati sul finalismo, che riconosciamo nella
nostra vita e nella natura e dei giudizi estetici, che sorgono spontanei dalla
ripercussione nel nostro spirito di tale riconoscimento. I meriti maggiori della
filosofia kantiana sono il tentativo di uscire dal ristagno del razionalismo e
dell'empirismo, il riconosci- mento della ragione pratica e del « sentimento ».
Inoltre è riuscito a dare espressione filosofica alla Weltanschauung del popolo
germa-
nico, che è caratterizzata da una
profonda coscienza del dovere e dal culto per la legge e per la disciplina,
dall'amore per la natura. Opere principali: Storia universale della natura e
teoria del cielo (1755); Monadologia physica (1756); Studio sull'evidenza dei
prin- cipi della teologia naturale e della morale (1764); Osservazioni sul
sentimento del bello e del sublime (1764); Critica della ragion pura (1781);
Prolegomeni ad ogni futura metafisica che voglia presentarsi come scienza
(1783); Primi principi metafisici della scienza del- la natura (1786); Critica
della ragion pratica (1787); Critica del giu- dizio (1790); La religione nei
limiti della semplice ragione (1793); La fine di tutte le cose (1794);
Metafisica dei costumi (1797). Kautsky Karl (1854-1939) Filosofo e uomo
politico tedesco, nato a Praga e morto ad Amsterdam, compì i suoi studi a
Vienna. Conobbe personalmente Marx e dopo avere diretto nel 1883 Neue Zeit
(Tempo Nuovo), la ri- vista teorica della socialdemocrazia tedesca, redasse il
Programma 309 di Erfurt (1891) e il suo commento al Programma del Partito
social. democratico costituì la formulazione di piena ortodossia per gli
aderenti alla Seconda Internazionale in contrasto con l’ala revisio- nista di
Bernstein. Kautsky opera una sintesi tra l'evoluzionismo darwiniano e l’or-
todossia marxista. Il suo socialdarwinismo è elaborato a partire dalla sua
concezione di dialettica intesa naturalisticamente come intera- zione
organismo-ambiente. Egli si interroga se la storia dell'umanità non sia in
fondo un caso particolare della storia degli esseri viventi. Nonostante la sua
pretesa ortodossia fu spietato critico del bolsce- vismo che accusò di
dittatura personale. ” Opere principali: Le dottrine economiche di Karl Marx
(1887); Etica e concezione materialistica della storia (1906); La rivoluzione
sociale (1909); La concezione materialistica della storia (1927). Kierkegaard
Sòren (1813-1855) Nacque a Copenaghen, nel 1840 si laureò in teologia a
Berlino. Visse sempre a Copenaghen. Fu un filosofo ripiegato totalmente su se
stesso, sulle riflessioni del suo intimo, incentrate soprattutto su tre grandi
fatti: il suo rapporto con il padre; il tormento da lui chia- mato « pungolo
della carne » e la sua breve relazione sentimentale con Regina Olsen. Fu critico
efficace del sistema hegeliano e del cristianesimo uffi- ciale, da lui accusato
di formalismo. Obiettivo della sua filosofia è quello di riabilitare i concetti
di « esistere » e di « interiorità » facen- doli gravitare intorno alla
categoria fondamentale di singolo, ovvero l'uomo nel concreto della sua
specificità. Secondo Kierkegaard la drammatica complessità dell'esistenza non
può essere giustificata al- l'interno di un sistema logico totalizzante, cui si
sottraggono la pre- carietà e la sofferenza della persona, ma può trovare il
proprio senso solo nella realtà di ogni singolo e nella dialettica delle sue
scelte di vita, in una continua alternanza di scelte, dominate dall'angoscia, e
regolate o dalla decisione per il piacere traseunte ed egoistico (stadio
esistenziale estetico o del Don Giovanni); o dal senso del dovere e
dell'impegno personale (stadio etico o del padre di famiglia) o dall'ab-
bandono incondizionato all'imperscrutabile volontà di Dio con un atto di fede
senza ritorno (stadio religioso o di Abramo). Dio è l’Es- sere ed ha due modi
di manifestarsi: naturale e soprannaturale. Sulla scia di una radicale
prospettiva luterana, Kierkegaard espri- me la consapevolezza che tra Dio e
uomo, tra natura divina e natura umana vi è una infinita differenza
qualitativa, cosicché la conoscenza religiosa finisce per manifestarsi come
passione per l'infinito. La mancanza di garanzia oggettiva fa sì che la fede
sia vissuta come un rischio, ma la sua accettazione non è irrazionale. Il salto
dalla inno- cenza al peccato non è spiegabile con la dialettica « quantitativa
» di Hegel; esso si spiega con la dialettica « qualitativa ». Nella storia di
Adamo è delineata la sequenza dall’innocenza alla colpa. La coscienza 310 del
peccato costituisce il singolo; ma Cristo ha liberato l’uomo dal peccato senza
privarlo della individualità. Opere principali: Sul concetto dell’ironia con
particolare riguardo a Socrate (1841); Aut-aut (1843); Timore e tremore (1843);
La ripresa (1843); Briciole di filosofia (1844); Il concetto dell'angoscia
(1844); Stadi del cammino della vita (1845); La malattia mortale (1849);
Esercizio del cristianesimo (1850); Discorsi edificanti. Opere po- stume:
Diari; Libro su Adler; La dialettica della comunicazione etica ed
etico-religiosa. Korsch Karl (1886-1961) Filosofo tedesco nato a Tostedt, si
laureò in giurisprudenza nel 1912. Si iscrisse al Partito Socialdemocratico
tedesco indipendente di Kautsky. Nel 1920, alla scissione di questo, entrò nel
Partito Comunista filosovietico. A causa del nazismo abbandonò la Germa- nia e
più tardi si trasferì negli Stati Uniti dove morì a Cambridge, nel
Massachussets. Le sue critiche colpirono soprattutto la teoria gnoseologica del
rispecchiamento di Lenin, secondo la quale la coscienza di classe sa- rebbe estrinseca
alla prassi proletaria. Ciò farebbe della dittatura di Lenin una dittatura sul
proletariato e non una dittatura del pro- letariato. Korsch tende inoltre a
recuperare la dimensione hegeliana della totalità, valutando criticamente la «
scientificità » del Capitale, che tende a separare economia, politica è
cultura. Opere principali: Marxismo e filosofia (1923; l’opera che ne decre- tò
l'espulsione dal Partito); Il materialismo storico (1929); Karl Marx (1938).
Labriola Antonio (1843-1904) Filosofo italiano, nato a Cassino, docente
successivamente di filosofia morale e pedagogia e quindi di filosofia della
storia a Roma, dove morì; introdusse lo studio del marxismo in Italia. Ebbe
rap- porti diretti con Engels e fu critico di Bernstein e Sorel. In base al
metodo genetico egli guarda alle cose non più come entità fisse, ma come
funzioni. Inoltre, con un deciso atteggiamento di distinzione tra marxismo e
naturalismo positivista, egli differenzia un « terreno naturale » da un «
terreno artificiale »: gli uomini sono originariamente dipendenti dalla natura,
ma la storia dell'umanità è la storia della società che varia ad opera del
comune impegno del lavoro umano. Opere principali: il suo pensiero è elaborato
in tre saggi fonda-' mentali: In memoria del manifesto dei comunisti (1895);
Del mate- rialismo storico. Delucidazione preliminare (1896); Discorrendo di
socialismo e di filosofia (1898). Leibniz Gottfried Wilhelm (1646-1716) Nato a
Lipsia, partecipò alla vita politica, ottenendo incarichi di- 311 plomatici.
Studiò filosofia all'università di Lipsia e matematica a Jena. Scoprì ii
calcolo infinitesimale contemporaneamente a Newton e inventò il regolo
calcolatore. Dietro suo consiglio fu fondata a Berlino l’« Accademia della
Scienza », di cui fu il primo presidente. Fu a Parigi, dove propugnò la
riunificazione della Chiesa cattolica con quelle protestanti. Questa missione
lo impegnò per tutta la vita. La sua fine fu solitaria e triste. La filosofia
di Leibniz si presenta come reazione al dualismo car- tesiano e all'empirismo
inglese. È reazione al dualismo cartesiano in nome dell'unità degli esseri
(ogni essere è essenzialmente uno: una monade, centro di attività e di energia,
che riproduce in se stessa la struttura di tutta la realtà); non esistono due
sostanze, quella spirituale e quella materiale; ma una sola: quella spirituale.
È inol- tre reazione all’empirismo inglese in nome dell'originalità della cono-
scenza intellettiva che non è una semplice reazione passiva alle idee dei
sensi, ma lo sviluppo di idee che l'intelletto ha già germinalmente presenti
sin dalla nascita (idee innate). Le facoltà conoscitive del- l'uomo sono:
senso, memoria, ragione. Le conoscenze della ragione si dividono in verità di
ragione (principio di non contraddizione) e verità di fatto (principio di
ragione sufficiente). L'esistenza di Dio è provata con il procedimento
ontologico, par- tendo dal concetto di possibilità; da ‘Dio trae origine il
mondo per folgorazione. La perfezione delle creature viene da Dio, l’imper-
fezione dalla loro limitazione, in cui sta anche la causa del male. Opere
principali: De arte combinatoria (1666); Discorso di meta- fisica (1686); Nuovo
sistema della natura, della comunicazione tra le sostanze e dell'unione tra
l'anima e il corpo (1695); Nuovi saggi sul- l'intelletto umano (1703); Saggi di
teodicea (1710); Principi della na- tura e della grazia fondati sulla ragione
(1714); Monadologia (1714). Lenin Nikolay (1870-1924) Pseudonimo di Vladimir
Ilijc Uljanov, laureatosi in legge a Pietro- burgo, iniziò la professione
legale, svolgendo nel contempo attività politica sulla scorta del pensiero di
Marx. Passato attraverso l’espe- rienza dell'esilio, diresse l’ala avanzata del
partito socialdemocratico russo chiamato bolscevico. Rientrato in patria allo
scoppio della Rivoluzione del '17, dopo l’esperienza parziale della Rivoluzione
del 1905, portò al potere il suo partito, le cui linee programmatiche sono
contenute nelle cosiddette « tesi di aprile » del 1917: rivendica- zione della
rivoluzione socialista (potere ai Soviet), costituzione di una repubblica dei
Soviet, nazionalizzazione delle banche e della terra. Capisaldi del pensiero di
Lenin sono: 1) il divenire dialettico della materia con la distinzione tra
concetto filosofico e concetto scientifico di materia; 2) la partiticità della
filosofia in base alla quale sono vere quelle dottrine che sono utili al
partito; 3) la ditta- 312 tura del proletariato come forma necessaria per il
passaggio dallo stadio del capitalismo a quello del comunismo. Opere principali:
L'imperialismo fase estrema del capitalismo (1899); Stato e rivoluzione (1917);
L’estremismo, malattia infan- tile del comunismo (1920). La sua opera
filosofica più importante è Materialismo ed empirio-criticismo (1909). Lessing
Gotthold (1729-1781) Critico drammaturgo e filosofo. Nato a Kamenz, in
Sassonia, stu- diò a Lipsia e passò la sua vita fra le città di Breslavia,
Berlino e Amburgo. Morì a Brunswick. È la figura più rappresentativa
dell'illuminismo tedesco ed è il sostenitore di un radicale razionalismo
religioso. Nei suoi scritti fi- losofici, in cui si uniscono motivi
illuministici e senso storico, egli ri- prende i motivi comuni
dell'illuminismo: critica di tutte le manife- stazioni della cultura, tendenza
a « rischiarare le menti » ed a rea- lizzare la felicità dell'umanità;
ottimismo, ossia fiducia nella con- tinuità del progresso umano sulla via del
suo perfezionamento spi- rituale. Molto influsso ha esercitato la sua
svalutazione dell'elemento storico della figura di Cristo e dei Vangeli. A suo
parere una decisione di fede e la salvezza eterna non possono dipendere da
eventi storici che sono necessariamente contingenti e difficilmente
accertabili. Lessing ritiene che l'elemento storico non possa avere
l'importanza che le chiese cristiane gli ascrivono e che la fede, considerata
come inserimento dell'uomo in una determinata tradizione storica sia qual- cosa
di accessorio. L'essenza della religione è comune a tutte le re- ligioni e
prescinde dai dogmi delle varie tradizioni cristiane e non cristiane. Opere
principali: Sulla genesi della religione rivelata (1735-1755); Il cristianesimo
della ragione (1753); Laocoonte (1766); Sulla prova dello spirito e della forza
(1777); L'educazione del genere umano (1780); Dialoghi per massoni (1780).
Lévinas Emmanuel (1906) Nato in ‘Lituania, ha svolto parte dei suoi studi in
Russia e suc- cessivamente a Strasburgo. A Friburgo entrò in contatto con Hus-
serl e Heidegger. Naturalizzato francese, insegnò prima a Poitiers e poi alla
Sorbona. Da Husserl Lévinas riprende il metodo fenomenologico come ri- chiamo a
pensare ciò che è implicito e sottinteso. L’epoché viene utilizzata come
superamento dell’ovvietà e ritorno all’originario « prima » del pensiero.
L'intenzionalità viene vista da Lévinas nel suo aspetto assiologico, come
intenzionalità dei valori morali e fondamento dell'etica. La fenomenologia
trascendentale diviene, in- fine, lo strumento principe per l'elaborazione del
personalismo etico proprio del filosofo lituano. 313 Tale personalismo è detto
propriamente etico-metafisico, poiché l'etica non è, secondo Lévinas, fondata
dalla metafisica ma è essa stessa metafisica, capace di fornire una spiegazione
esaustiva della realtà umana. Per accedere all’Assoluto, Lévinas parte dalla
contingenza della responsabilità, pilastro dell'etica. La via etica è
eminentemente auscultazione dell’Assoluto, dell’Infinito, dell'Altro, di Dio, a
cui si accede seguendo la traccia del volto dell'altro, il prossimo; quindi
dall'altro (il prossimo) si accede al Totalmente-Altro (Dio). Nella nudità e
povertà inerme dell'uomo risplende, infatti, la traccia di Dio, fondamento di
ogni rapporto etico e di giustizia. L'etica è essenzialmente rapporto con
l'altro, esercizio della propria libertà come assunzione della responsabilità
dell'altro. La « responsabilità per gli altri » è il principio di
individuazione della persona, Nella prospettiva della responsabilità Lévinas
conferisce una so- vradeterminazione etica alle categorie ontologiche: essere,
ente, to- talità, infinito, differenza divengono elezione, convocazione,
sostitu- zione, espiazione, ostaggio, volto. Opere principali: Totalità e
infinito (1979); Quattro lettere talmu- diche (1981); Altrimenti che essere o
al di là dell'essenza (1982); Etica e infinito (1983); Dal sacro al santo (1984).
Lévi-Strauss Claude (1908) Nato a Bruxelles da genitori francesi, dopo gli
studi filosofici, a seguito dell'insegnamento presso la cattedra di sociologia
di San Paolo, dopo l’esperienza di spedizioni scientifiche in Brasile, ap-
prodò allo studio dell'antropologia di cui è uno dei maggiori studiosi. Lo
strutturalismo di Lévi-Strauss si fonda sulle premesse lingui- stiche di De
Saussure ed egli ritiene che la priorità dello strutturale sul contenuto
significativo non sia proprietà esclusiva della lingua, ma è comune a tutte le
manifestazioni culturali. Il linguaggio si ri- vela pertanto come il principale
elemento della vita culturale. Il metodo strutturale conferisce così
all’antropologia culturale un carattere rigorosamente scientifico consentendole
di separare certe proprietà in una data serie di fenomeni e nel tentare di sta-
bilire definite relazioni fra di loro. Attraverso lo studio dei « sistemi di
parentela », Lévi-Strauss ne scoprì l'analogia con i sistemi fonologici. I
felici risultati di questi studi indussero lo studioso ad elaborare una
antropologia strut- turale completa capace di cogliere al di là della immagine
cosciente le infinite possibilità inconscie. L'umanità è un continuo divenire,
fondato su un sostrato inalte- rabile: compito dell'antropologia è far emergere
questa struttura soggiacente inconscia, che determina anche il formarsi di
tutte le diverse forme di società. L'inconscio non ha però una valenza
metafisica, è piuttosto la 314 mente collettiva della società che si evolve e
si trasforma con la società stessa. Opere principali: Tristi tropici (1955);
Antropologia strutturale (1958); Il pensiero selvaggio (1962); Il crudo e il
cotto (1964); L'ori- gine delle buone maniere a tavola (1968); Antropologia
strutturale due (1973); La via delle maschere (1975). Lévy Bernard-Henry (1949)
‘Autore del libro La barbarie dal volto umano che ebbe grande fortuna e
prestigioso rappresentante dei « nuovi filosofi », attacca con grande virulenza
il marxismo, giungendo ad identificare lo sta- linismo con il socialismo in
senso proprio. Ciò che lo ha indotto a lasciare il marxismo è stata la lettura
dell’Arcipelago Gulag di Solzenicyn. A suo modo di vedere la radice delle
aberrazioni del socialismo è l'utopia illuministica del progresso, fatta propria
da Marx e dai suoi discepoli, eredi e continuatori dell'illuminismo. Lévy
sostiene inoltre che il marxismo non è altro che una eari- catura del
cristianesimo del quale « va assumendo nel meglio e nel peggio l’integralità
della [...] vocazione ». Non diversamente da ciò che avviene nella Chiesa,
anche il marxismo si distinguerebbe in un marxismo d'élite e in un marxismo di
massa, non meno alienante del cristianesimo. Opere principali: Barbarie dal
volto umano (1975); Il testamento di Dio; L'ideologia francese. Locke John
(1632-1704) Nato a Wrington in Inghilterra, studiò a Oxford. Da concezioni
politiche assolutistiche passò più tardi a posizioni opposte. Accusato di
complicità in moti politici fu costretto a esiliare e si rifugiò in Olanda. Il
suo pensiero è soprattutto riunito nell'opera « Saggio dell’in- telletto umano
» in quattro libri che trattano rispettivamente delle idee innate, del processo
della conoscenza, del linguaggio e del valore della conoscenza. Locke critica
la dottrina cartesiana delle idee innate. L'anima umana al momento della
nascita è una tabula rasa: la conoscenza umana incomincia con l’esperienza
sensibile. Vi sono due tipi di idee: idee semplici e idee complesse. L’idea di
sostanza è inconoscibile, in quanto supera i limiti della conoscenza sensibile.
Quindi l'uomo può conoscere solo l’esistenza delle cose e non la loro essenza.
In politica Locke nega lo stato di natura affermato da Hobbes, so- stenendo che
gli uomini possono vivere in perfetto accordo. Ammette il contratto sociale da cui
nasce lo stato, ma non è una abdicazione ai propri diritti, bensì una delega
della loro difesa all'autorità. È an- che assertore della tolleranza e della
libertà religiosa. 315 Opere principali: Saggio sulla tolleranza (1667);
Epistula de tolerantia (1688); Trattati sul governo civile (1690); Saggio
sull’in- telletto umano (1688); Pensieri sull'educazione (1693); Ragionevo-
lezza del cristianesimo (1695). Lotze Hermann (1817-1881) Medico e filosofo
geniale, nato a Bautze, professore di filosofia a Gottinga e a Berlino, è uno
dei rappresentanti della filosofia dei valori sorta in Germania come reazione
al positivismo che era sfo- ciato nella distruzione di tutti i valori
(nichilismo). Sostiene che fra le leggi meccaniche e la natura dell'uomo non vi
è alcun contrasto. Rappresentante del pensiero assiologico Lotze afferma che i
valori assoluti hanno carattere trascendente e hanno come ultimo fonda- mento
Dio stesso. Per Lotze, inoltre, la realtà di Dio risulta irrefu- tabile se solo
si ammette che Dio è, per definizione, essere perfet- tissimo. Opere
principali: Microcosmo. Idee sulla storia naturale e sulla storia dell'umanità
(tre volumi scritti fra il 1856 e il 1864); Metafisica (1841); Logica (1843);
Sistema di filosofia (due volumi scritti nel 1874 e 1879); Scritti minori
(1885-1891, postumi). Lukéacs Gyérgy (1885-1971) Nato a Budapest, si presenta
come il teorico più complesso e interessante del marxismo occidentale.
L’Italia, Heidelberg e Vienna sono le tappe in successione del suo prestigioso
itinerario culturale che si è svolto in un ambito etico-estetico. Il suo
pensiero si articola su tre poli di interesse: l'etica, l’este- tica e
l'adesione al comunismo. L'ortodossia marxista è per Lukécs una metodologia
volta all'interpretazione della società e della classe operaia intese come
totalità, i cui eventi vanno colti dialetticamente nelle loro connessioni più
profonde. Circa l’arte, essa non può essere considerata come rispecchia- mento
della realtà, ma a partire dal « tipo », lo strumento che con- sente la
riflessione estetica. Il tipo è il risultato della convergenza dialettica delle
contraddizioni sociali, morali e psicologiche più significative di un'epoca. La
fantasia è la generatrice del tipo. Opere principali: Il dramma moderno (1908);
L'anima e le forme (1911); Teoria del romanzo (1916); Goéthe e il suo tempo
(1948); Il giovane Hegel (1948); Thomas Mann e la tragedia dell'arte moderna
(1953); La distruzione della ragione (1954). Il suo capolavoro poli- tico è
Storia e coscienza di classe (1923). Lutero Martin (1483-1546) Padre della
Riforma protestante, teologo insigne, polemista, esege- ta della sacra
Scrittura e possente oratore. Nacque ad Eisleben in Sassonia. Nei 1505 entrò
nell'ordine degli agostiniani, dove compiuti celermente gli studi teologici fu
ordinato sacerdote. Nel 1517 con la 316 pubblicazione delle famose
Novantacinque Tesi, prese energica posi- zione contro l'abuso della
predicazione delle indulgenze indetta dal pontefice Leone X, un male diffuso
ovunque ma soprattutto in Ger- mania. Fu scomunicato. Alla Dieta di Worms
(1521) ruppe definitiva- mente con la Chiesa di Roma, seguito da molti
principi, vescovi, preti e laici tedeschi, essendo considerato come difensore
del popolo tedesco. L'essenza del pensiero di Lutero sta in una nuova
concezione della salvezza: questa non dipende dall'uomo, dalle sue opere buone,
ma esclusivamente dalla misericordia di Dio. Per salvarsi occorre quindi un
totale fiducioso abbandono in Dio. In tale prospettiva non occorrono più
intermediari: papa, vescovi, preti, santi, sacra- menti, reliquie. E anche se
si vogliono ammettere mutano completa- mente di importanza e significato. Opere
principali: 95 tesi sulle indulgenze (1517); Alla nobiltà cri- stiana di
nazione tedesca per la riforma del ceto cristiano (1520); De captivitate
babylonica ecclesiae praeludium (1520); De libertate christiana (1520); De
votis monasticis (1521); De abroganda missa privata (1521); Esortazione alla
pace (1525); Piccolo catechismo (1529); Grande catechismo (1529). Luxemburg Rosa
(1870-1919) Nata a Zamo$é, in Polonia, da famiglia ebrea, militò sin da gio-
vane nel movimento socialista polacco, di cui divenne ben presto una dirigente.
Nel 1897 si trasferì in Germania, di cui prese la cittadi- nanza e divenne
collaboratrice di Karl Liebknecht nel 1914 alla fondazione della Spartakus-Bund
(Lega di Spartaco) caratterizzata da acceso spirito internazionalista e
rivoluzionario. Due capisaldi della sua teorizzazione sono il diritto di
sciopero generale e la teoria della catastrofe, quale autodistruzione del ca-
pitalismo in base allo sfruttamento e alla conquista indiscriminata di nuovi
mercati. Rosa Luxemburg condusse inoltre una spietata accusa contro il
bolscevismo di Lenin. Morirà a Berlino, uccisa dai soldati del go- verno
socialdemocratico, durante uno scontro con gli spartakisti. Opere principali:
Riforma sociale o rivoluzione? (1899); L'accu- mulazione del capitale (1913);
Questione nazionale e sviluppo capi- talista; Tra guerra e rivoluzione (1921
postumo). Malebranche Nicolas (1638-1715) Filosofo francese nato a Parigi.
Sacerdote della Congregazione del- l'Oratorio, si distaccò apertamente dalle
posizioni della filosofia aristotelico-tomistica. Amico e discepolo di Cartesio
accoglie le tesi fondamentali di questi in metafisica (anche per lui la realtà
si divide in pensiero ed estensione) ed in epistemologia (il criterio supremo
di verità è l'idea chiara e distinta). In due punti però oltrepassa il 317
pensiero di Cartesio: nel problema della conoscenza ed in quello della
causalità. Per Malebranche in ‘Dio è fondato sia l'essere che l'agire,
includendo nell'ordine dell'agire prodotto da Dio la stessa attività
intellettiva della mente umana: le nostre idee sono le perfezioni di Dio che
egli ci fa vedere nella sua infinita essenza. La visione delle idee in Dio è
possibile perché Egli è immediatamen- te presente nel nostro spirito. Si avvale
del principio dell’occasionalismo inoltre per risolvere il problema dei
rapporti tra anima e corpo: essendo queste due realtà di genere diverso, non
possono entrare in comunicazione di- retta né esercitare un influsso reciproco.
Le disposizioni dell'anima e del corpo servono soltanto da occasione per
l'intervento di Dio, il quale svolge direttamente ed esclusivamente tutte le
azioni sia del corpo sia dell'anima. Opere principali: La ricerca della verità
(1675); Trattato della na- tura e della grazia (1680); Colloqui sulla
metafisica e la religione (1688); Trattato dell'amore di Dio (1698). Mao
Tse-tung (1893-1976) Nato da famiglia contadina, fu tra i fondatori del partito
comu- nista cinese sorto nel 1921 a Shangai. Sconfitta la Cina nazionalista di
Chang Kai-shek (1949) dopo la « lunga marcia », da lui guidata attra- verso
migliaia di chilometri, divenne il capo carismatico della Cina Popolare e
antagonista della Russia sovietica. I punti qualificanti del pensiero di Mao
sono: a) unione tra teoria e prassi; b) stretto legame con le masse; c)
sviluppo dell’autocritica. Nel 1966 si fece promotore della « rivoluzione
culturale » che appellandosi alle masse e ai giovani intendeva esercitare un
controllo sui quadri del partito e stimolarli a mantenere intatta la carica ri-
voluzionaria. Purtroppo questa operazione politica degenerò rapida- mente e ne
derivarono delle stragi di centinaia di migliaia di persone, coinvolte senza
alcun motivo. Obbligò gli intellettuali a impegnarsi periodicamente nel lavoro
dei campi e in fabbrica per evitare il ri- schio di discriminazioni con le
masse. Si oppose inoltre rigidamente alla cultura tradizionale, considerando
incompatibili Marx, Lenin, se stesso con Confucio, di cui era impregnata da
secoli la cultura e la tradizione del popolo cinese. Opere principali: Mao
scrisse solo due opere a carattere filosofico: Sulla contraddizione (1937);
Sulla prassi (1937). Da questi volumi furono tratti dei brani che formarono il
famoso « libretto rosso », punto di riferimento dei giovani durante la
rivoluzione culturale e che divenne di moda presso i giovani dell'Occidente
durante la contesta- zione sorta nel 1968. Marcel Gabriel (1889-1975) Filosofo
e scrittore francese, uno dei maggiori esponenti del- l'esistenzialismo
cattolico. Fu professore nei licei, si occupò di gior- 318 nalismo e di critica
letteraria. Compose numerosi drammi teatrali. Nel 1929 passò dall’ebraismo al
cattolicesimo. La metafisica è « ricerca di ciò che è », dell'essere, compiuta
da ciascuno per proprio conto alla ricerca della verità, assurta a valore
vitale, qualcosa cioè di vissuto, frutto di una esperienza personale. Egli
rifiuta di definire esistenzialista il proprio pensiero e lo qua- lifica come «
socratismo cristiano ». Per Marcel, mentre la scienza può parlare del reale in
terza persona, la riflessione filosofica è il regno della domanda e della
risposta, dell'io e del tu, in cui domina la seconda persona. Fra tutte le
realtà suscettibili di ricerca meta- fisica il primato spetta all'essere perché
gode di una duplice prio- rità: nei confronti del pensiero e nei confronti
dell’avere. L'uomo è un essere incarnato, itinerante (homo viator), animato
dalla speran- za, in atteggiamento di adorazione davanti a Dio. Alla
trascendenza si arriva per intuizione: l'uomo è fatto per Dio. Opere
principali: Giornale metafisico (1927); Essere e avere (1935); Dal rifiuto
all’invocazione (1940); Homo viator (1945); Il mi- stero dell’essere (1951); In
cammino, verso quale risveglio? (1971). Marcuse Herbert (1898-1979) Nato a
Berlino, frequentò l'università di Friburgo. Fece parte del- l'’« Istituto per
la ricerca sociale » di Francoforte. Nel 1933 lasciò la Germania e si rifugiò negli
Stati Uniti, insegnando in diverse uni- versità americane. ‘Per lo sviluppo del
suo pensiero utilizza tre fonti principali: da Freud deriva la tesi che
l'essere profondo dell'uomo consiste nel- l'istinto del piacere; da Hobbes
proviene la distinzione di due stati nella vita umana: quello di natura e
quello sociale. La terza compo- nente fondamentale della visuale filosofica
marcusiana trae origine da Marx, da cui Marcuse deriva la prospettiva del
materialismo sto- rico e dialettico e la tesi che tutte le lotte sociali sono
dovute a ra- gioni economiche. Anche nella società contemporanea esiste una
ten- sione tra stato, natura e società e tutto si risolve a favore della so-
cietà, che si è trasformata in realtà autonoma, assoluta, onnipotente, fine a
se stessa. L'uomo, schiavo della società industriale, non può liberarsi dallo
stato repressivo in cui si trova. Solo gli inetti, gli emarginati, gli
sfruttati, cioè coloro che restano fuori dal pro- cesso democratico, che si
oppongono al sistema, sono una speranza di liberazione. Opere principali:
L'ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità (1932);
Ragione e rivoluzione (1941); Eros e ci- viltà (1955); Marxismo sovietico
(1958); L'uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata
(1964); Critica della tolleranza (1965); La fine dell'utopia (1967). 319
Maritain Jacques (1882-1973) Filosofo e diplomatico francese, discepolo di
Bergson. Nato a Parigi da agiata famiglia protestante, dopo aver aderito per un
po’ di tempo al socialismo rivoluzionario, nel 1906, con l’aiuto di Léon Bloy,
si convertì con la moglie al cattolicesimo. ‘Insegnò all'« Istituto cattolico »
di Parigi e, in seguito, in alcune università degli Stati Uniti. Fu
ambasciatore di Francia presso il Vaticano dal 1945 al 1948. Dal 1961 sino alla
sua morte si ritirò presso la comunità dei « Piccoli fratelli di Gesù » di
Tolosa. Ardente sostenitore della filosofia tomista, di cui è stato il più
autorevole rappresentante nel nostro secolo, ne mise in rilievo l’ap- plicabilità
ai problemi moderni: politica, arte, pedagogia, scienza. Particolarmente
importante il suo contributo al pensiero politico. Maritain è il teorico di un
tipo di democrazia di ispirazione cristiana, ch'egli chiama nuova cristianità,
per distinguerla dalla cristianità medioevale. Mentre la cristianità medioevale
non riusciva a mante- nere sufficientemente distinti ordine sacro e ordine
profano, la nuova cristianità, pur facendo del sacro una categoria che ordina a
sé la creatura per quanto concerne il fine ultimo, riserva allo spazio strut-
turale del mondo una configurazione categoriale profana, ovvero di- stinta dal
sacro. Maritain propone l'umanesimo integrale, assegnando alla de- mocrazia,
ispirata in modo cristiano, cinque caratteristiche: plura- lismo, infravalenza
del temporale, libertà della persona, autorità de- legata e collaborazione.
Egli ha avvertito profondamente la decaden- za e la « miseria » della nostra
civiltà ed era sicuro di una sua immi- nente fine apocalittica. Queste sue
previsioni ed illuminazioni spie- gano il fiorire dopo la sua morte in varie
parti del mondo di centri di studio del suo pensiero. Opere principali: La
filosofia bergsoniana (1914); Arte e scola- stica (1920); Distinguere per unire
o i gradi del sapere (1932); Sul re- gime temporale e sulla libertà (1933);
Sette lezioni sull'essere e sui primi principi della ragione speculativa
(1934); Scienza e saggezzà (1935); Umanesimo integrale (1936); Da Bergson a
Tommaso d'£ quino (1944); Cristianesimo e democrazia (1948); L'uomo e lo Stato
(1951); Ateismo e ricerca di Dio (1953); L’intuizione creativa nell'arte e
nella poesia (1953); Il contadino della Garonna (1966); La Chiesa del Cristo
(1973). Marx Karl (1818-1883) Nacque a Treviri, in Germania, studiò presso
l'università di Ber- lino. Dopo la laurea si dedicò al giornalismo, rivolgendo
aspre cri- tiche ai governi assolutisti del tempo. Nel 1843 e 1844 si rifugiò
due volte a Parigi per sfuggire alla caccia della polizia tedesca. Nel 1848
pubblicò il Manifesto del partito comunista insieme a Engels, con cui ebbe una
grande amicizia e dimestichezza di lavoro comune (an- che Il Capitale fu
preparato valendosi dell'apporto dell'amico) e nel 320 1849 dovette riparare in
Inghilterra. Nel 1864 convocò a Londra la Prima Internazionale per coordinare
l’attività rivoluzionaria del proletariato di tutto il mondo. L'intuizione
geniale di Marx consiste nell'aver scoperto nella natura e nella storia dei
rapporti economici quella logica immanente, quella dialettica progressiva che
regola la storia della coscienza in Hegel. L’unica realtà è quella della
storia, la quale a sua volta non è altro che l'evoluzione della materia in
tutte le sue fasi, compresa quella umana. Il materialismo storico è quindi
quella concezione della storia la quale afferma che nelle vicende umane il
fattore fon- damentale è quello economico. Un altro punto fondamentale della
teoria marxista è quello che riguarda il plus valore, cioè il guadagno
superiore all'investimento che il capitalista ricava dal prodotto. Per Marx la
religione è una sovrastruttura contingente e fonda il suo ateismo su tre
postulati: 1) il materialismo metafisico e dialet- tico; 2) il materialismo
storico; 3) l'umanesimo assoluto che situa l’uomo al vertice del cosmo. Opere
principali: Manoscritti economico-filosofici del 1844; Ideo- logia tedesca
(1845-1846); Miseria della filosofia (1847); Manifesto del partito comunista
(1848); Il Capitale (1867, insieme a Engels). Merleau-Ponty Maurice (1908-1961)
È nato a Rochefort-sur-Mer, in Francia. Fu professore all'univer- sità di
Lione, poi ordinario di psicologia pedagogica alla Sorbona. Prese il posto di
Lavelle nell'insegnamento al « College de France ». Fondò, insieme a Sartre, il
mensile Les temps modernes e lo diresse dal 1945 al 1953. La sua filosofia è di
indirizzo fenomenologico. Essa si sviluppa su due linee: 1) come critica
interna della psicologia sperimentale e convinzione che la riduzione
fenomenologica ci riconduce ad una coscienza sempre più definita dal corpo,
rapporto originario con il mond, e dalla situazione storica, rapporto
originario tra soggetto e soggetto; 2) come riflessione sul marxismo: da una
proposta di let- tura esistenzialistica degli scritti del giovane-Marx, ad una
successiva interpretazione dello stalinismo come tragedia giustificata da una
storia rivoluzionaria, il cui fine fondamentale è tuttavia il consegui- mento
di rapporti comunitari, per giungere infine ad una concezione del marxismo come
componente indispensabile, accanto ad altre, della cultura contemporanea e di Marx
come di un punto di riferi- mento ormai classico ma inattuale. Opere
principali: La struttura del comportamento (1942); Feno- menologia della
percezione (1945); Umanismo e terrore (1947); Senso e non senso (1948); Le
avventure della dialeitica (1955); Segni (1960); Il visibile e l'invisibile
(1964, postumo). 321 Mill John Stuart (1806-1873) Nacque a Londra. Filosofo ed
economista. Fu in Francia e in Inghilterra dove si dedicò alle scienze e alla
giurisprudenza. Genio precocissimo, fu scrittore molto fecondo e per alcuni
anni membro della Camera dei Comuni. Il problema speculativo che lo preoccupò
maggiormente fu l'ela- borazione di una logica induttiva valida e completa,
basata sulla gnoseologia dell'empirismo inglese, la quale non ammette concetti,
idee universali. A tal fine egli escogitò vari metodi di cui i principali sono:
metodo dell'accordo, metodo della differenza, metodo dell'ac- cordo e della
differenza. Opere principali: Sistema di logica deduttiva e induttiva (1843);
Principi di economia politica (1848); Sulla libertà (1859); Conside- razioni
sul governo rappresentativo (1861); Utilitarismo (1863); Comte e il positivismo
(1865); Tre saggi sulla religione (1874, po- stumi). Mounier Emmanuel
(1905-1950) Ritenuto da molti il vero fondatore del personalismo, fu per un
ventennio (1930-1950) una delle voci più autorevoli e più ascoltate del mondo
cattolico europeo. Dopo aver iniziato gli studi alla facoltà di scienze di
Grenoble dove era nato, passò a quella di filosofia della Sorbona, superando il
disagio, provocatogli dalla filosofia ideali- sta, attraverso il rapporto con
Maritain, Guitton e il teologo P. Payet. L'incontro fondamentale resta però
quello con il pensiero di C. Péguy. Fondò la prestigiosa rivista Esprit (1932).
Mounier colpisce con la sua critica sia il carattere oppressivo dell'economia
capitalista sia il carattere generico, utopistico, ateo e collettivista del
marxismo. Al capitalismo e al marxismo contrappone il personalismo (I/
Personalismo, 1949) le cui linee fondamentali sono: 1) la struttura psicofisica
della persona umana; 2) la trascendenza della persona ri- spetto alla natura;
3) l'apertura verso gli altri e verso il mondo me- diante la comunicazione; 4)
la dinamicità; 5) la vocazione; 6) la libertà. Secondo Mounier le difficoltà di
carattere materiale e sociale che ostacolano la realizzazione della vocazione
della persona possono essere ridimensionate da una democrazia che sia politica
e socio- economica al tempo stesso. Opere principali: Rivoluzione personalista
e comunitaria (1935); Dalla proprietà capitalista alla proprietà umana (1936);
Personalismo e cristianesimo; Manifesto al servizio del personalismo (1936); I
cri- stiani e la pace (1939); Trattato del carattere (1946); Che cos'è il per-
sonalismo (1947); Rottura fra l'ordine cristiano e il disordine stabili- to; Il
lavoro; Il denaro; Tentazioni del comunismo; Aspetti del cor- porativismo. 322
Nietzsche Friedrich (1844-1900) Figlio di un pastore protestante, nacque a
Rochen, in Germania. Studiò filosofia classica nelle università di Bonn e di
Lipsia. Nel 1869 fu chiamato ad insegnare all'università di Basilea lingua e
let- teratura greca. Nel 1879, per il suo precario stato di salute, lasciò
definitivamente l'insegnamento e iniziò a soggiornare senza fissa di- mora in
Svizzera, Italia e Francia, specie in riviera. Nel 1889 fu colto, a Torino, da
un nuovo e più grave attacco di pazzia che, sia pure con brevi periodi di
sosta, non lo lasciò più e lo portò alla morte, che avvenne a Berlino.
Nietzsche si oppone criticamente all'idealismo di Hegel e al pessimismo di
Schopenhauer e contesta aspramente ogni religione. La base del suo pensiero è
il concetto che la realtà sia una esplo- sione di forze disordinate. Davanti a
questa strepitosa esplosio- ne di potenza, che non può essere imbrigliata da
nessuna legge della ragione, si può assumere un duplice atteggiamento: di debo-
lezza (quello del gregge), di forza e potenza (del superuomo). Il gregge, di
fronte alla potenza sregolata della natura, invènta la re- ligione. Contro la
massa dei mediocri (il gregge) Nietzsche, per bocca di Zarathustra, il
protagonista del suo famoso libro Così parlò Zarathustra, proclama che
l’esistenza dell'uomo è completamente ter- rena e che Dio non esiste: « Dio è
morto », L'etica del superuomo, l'uomo forte, « il leone », come egli lo
chiama, è il trionfo della propria personalità, al di là del bene e del male,
purché si affermi sugli altri; come è per il bambino, deve saper « dire di sì
alla vita » in tutte le sue forme e deve creare nuovi ideali di esistenza,
nuovi simboli sacri (Dioniso al posto di Dio). Nietzsche recupera la dottrina
dell'eterno ritorno, che ha come proprio centro la volontà creatrice dell'uomo.
Opere principali: La nascita della tragedia dallo spirito della mu- sica
(1872); Considerazioni inattuali (1873-1876); Umano troppo uma- no (1878); Il
viandante e la sua ombra (1880); La gaia scienza (1882); Così parlo Zarathustra
(1883-1885); Al di là del bene e del male (1886); Genealogia della morale
(1887); Il caso Wagner (1888); Cre- puscolo degli idoli (1888). Opere postume:
L'Anticristo; Ecce homo; Nietzsche contro Wagner. Occam (di) Guglielmo
(1290-1349) Francescano, studiò e insegnò ad Oxford. Per le sue dottrine so-
spette nel 1314 fu invitato a presentarsi alla corte papale ad Avi- gnone per
rispondere delle idee eretiche di cui era accusato. Fuggì da Avignone con un
gruppo di francescani dissidenti e in seguito si rifugiò a Monaco di Baviera,
presso l'imperatore Ludovico il Ba- varo, venendo così scomunicato. Egli
afferma che gli universali esistono solo nella mente e non hanno nessun
rapporto con le cose; sono solo puri concetti. Quindi bisogna eliminare le
entità astratte {rasoio d’'Occam). 323 Tra fede e ragione non esiste armonia:
non si possono conoscere le verità soprannaturali; sono solo oggetto di una
fede cieca. Opere principali: Commento alle Sentenze; Summa logicae; Opus
nonaginta dierum (1333-1334); De dogmatibus papae Johannis XXII (1334);
Dialogus; Octo quaestiones; Breviloquium de potestate papae; De imperatorum et
pontificum potestate. Parmenide (I metà del V sec. a.C.) Nacque a Elea (colonia
greca in Lucania). Fondatore della Scuola eleatica, pone come unica realtà
l’essere, negando il divenire considerato come illusione dei sensi. Secondo
Parmenide l’unica realtà ‘è l'essere; nessun'altra realtà è possibile in quanto
senza l'essere nulla è pensabile: « la stessa cosa è pensare e il pensiero che
è ». Con questo Parmenide intende dire che l'oggetto del nostro pensiero è
l'essere, e che il non essere non è pensabile. Coerente con questo postulato,
passando dalle esigenze del pensiero a quelle dell'esperienza, conclude
iogicamente che il nasce- re e il perire delle cose, ossia ogni forma di
divenire, sono solo nomi, esprimenti le fallaci opinioni degli uomini.
Parmenide è considerato il primo grande metafisico della storia perché è il
primo filosofo che si preoccupa di chiarire la nozione fondamentale
dell'essere. Opere principali: scrisse il poema Della natura. Pascal Blaise
(1623-1662) Nacque a Clermont Ferrand. Di grande ingegno fin da ragazzo, studiò
matematica e fisica. A 18 anni si trasferì con il padre, alto magistrato da cui
aveva avuto la prima educazione, a Parigi e qui frequentò il circolo culturale
guidato da Mersenne. Si distinse per le sue ricerche e scoperte di geometria e
di ‘fisica. Questa sua vita completamente indirizzata agli studi rese la sua
salute fragile e gli abbreviò l'esistenza, morendo a Parigi non ancora
quarantenne. Nel 1646 aderisce al giansenismo, per cui attacca violentemente
sia i gesuiti francesi, che accusa di predicare una morale lassista, sia i
cosiddetti « libertini », ai quali rimprovera il mancato impegno per la
salvezza finale. Abbracciò il misticismo del monastero di Port-Royal e nel
1654, dopo una breve crisi mondana, ebbe una specie di visione mistica (la
famosa notte del 23 novembre) e si convertì definitiva- mente. Pascal critica
il metodo geometrico di Cartesio che pretende di ridurre tutto ad idee chiare e
distinte. Ad esso contrappone il metodo affettivo (esprit de finesse); alle idee
chiare e distinte le idee emozio- nanti. Più che opporre la ragione al cuore,
intende integrare la ra: gione col cuore: e valersi di entrambi nella difesa
del cristianesimo di cui fu ardente seguace e abile apologista. Oltre che
scienziato di grandissimo valore e forte polemista, fu dotato di uno spirito
finissimo, l'esprit de finesse, di cui fu pieno il suo pensiero filosofico che
partiva da una conoscenza penetrante, 324 quasi intuitiva, delia realtà umana
nella sua condizione storica con- creta. Opere principali: Trattato sulle
sezioni coniche (1639); Lettere provinciali (1656); Apologia della religione
cristiana (del progetto rimasero solo alcuni frammenti raccolti poi nei famosi
Pensieri). Peirce Charles Sanders (1839-1914) Filosofo e matematico statunitense,
studiò alla « Harvard Uni- versity » e dal 1859 al 1891 lavorò presso il
servizio geodesiaco e costiero degli Stati Uniti. Visse gli ultimi anni nella
solitudine e nella povertà. Può essere considerato il fondatore del
pragmatismo, corrente nata in America come reazione al positivismo e al
materiali- smo positivistico e che risolve il criterio di verità delle diverse
teorie nel loro successo pratico, operando induttivamente e poi veri- ficando.
L'impostazione di Peirce è infatti empiristica e sperimenta- lista; egli però
nega che la sua tesi abbia esiti soggeîtivistici e uti- litaristici. Opere
principali: La grande logica; Raccolta di scritti di Ch. S. Peirce (in 8 volumi
fra il 1931 e il 1958, postumi); Corne rendere chia- re le nostre idee (1878).
Piaget Jean (1896-1980) Nato e vissuto in Svizzera è annoverato tra gli
studiosi più ge- niali della psicologia contemporanea. Notevole il suo
contributo an- che di carattere epistemologico. Nel 1954 foridò a Ginevra il
notis- simo « Centro internazionale di epistemologia genetica ». A partire
dall’osservazione del comportamento Piaget sottolinea che il pensiero del
fanciullo differisce da quello dell'adulto non solo quantitativamente, ma anche
qualitativamente e ciò perché il pen- siero umano è evolutivo. Tappe
dell'evoluzione del pensiero infantile sono: 1) l'intelligenza serisomotoria;
2) l’attività rappresentativa; 3) l’attività imitativa differita e il
linguaggio verbale. Piaget ritiene, inoltre, di poter cogliere una stretta
correlazione tra linguaggio e pensiero attraverso tre fasi fondamentali di
svilup- po: 1) il pensiero egocentrico (il fanciullo attribuisce valore
assoluto alla propria esperienza); 2) il pensiero realista (primato dei dati
per- cettivi su quelli rappresentativi); 3) lo sviluppo intellettuale vero e
proprio nelle due evoluzioni successive che vanno dai nove ai dieci anni e dai
quindici ai sedici anni. Partendo dall'evoluzione del pen- siero umano, Piaget
affronta due questioni fondarnentali di episte- mologia genetica: quelia relativa
allo sviluppo della nozione e quella relativa alla cognizione della nozione.
Opere principali: Il linguaggio e il pensiero del fanciullo (1923); Il giudizio
e il ragionamento nel fanciullo (1925); La rappresentazio- ne del mondo nel
fanciullo (1926); Il giudizio morale nel fanciullo (1932); La nascita
dell’intelligenza (1936); La formazione del sim- bolo (1947); Introduzione
all’epistemologia genetica (1950); Le trasformazioni delle operazioni logiche
(1952). 325 Pitagora (571-490 a.C.) Nacque a Samo, isola greca del Mar Egeo. Fu
un genio multi- forme che coltivò ad un tempo la matematica, l'astronomia,
l’asce- tica e la mistica. Fondò a Crotone la scuola pitagorica, la cui dot-
trina fondamentale è che il numero è l'essenza di ogni cosa. Da cui la derivazione
della molteplicità dell'unità. Il concetto matematico con cui Pitagora spiega i
fenomeni è superiore a quello degli Ionici, perché è astratto e più razionale.
Per Pitagora l’anima è eterna e rinasce in altri corpi di uomini o animali
(metempsicosi). Alla sua scuola diede un indirizzo spiccatamente religioso. I
suoi membri vi- vevano in comunità, compiendo pratiche ascetiche molto elevate.
Platone (427-347 a.C.) | Nacque ad Atene da una famiglia fra le più nobili
della Grecia. È uno dei più grandi filosofi della storia. Fu discepolo di
Cratilo e poi di Socrate. Dopo la tragica fine di questi, per evitare delle
rappre- saglie, si allontanò da Atene e si rifugiò a Megara e più tardi iniziò
a viaggiare, visitando varie città della Grecia e dell’Italia, sofferman- dosi
a Siracusa, dove ritornò alcuni anni dopo. Tornato ad Atene, vi fondò nel 387
a.C. l'Accademia che può essere considerata la prima università a carattere
scientifico. Per secoli questo prestigioso centro di studi attrasse le migliori
intelligenze della Grecia. Scrisse moltis- sime opere, in parte andate perdute.
Platone fu il primo filosofo meta- fisico: per spiegare il mondo sensibile
sentì il bisogno di ipotizzare un altro mondo ideale, immateriale. Infatti,
caratteristica dominan-
te del pensiero platonico è il dualismo:
esistono due mondi: uno intelligibile o mondo delle Idee, che sono le essenze
eterne, divine e immutabili delle cose e il mondo sensibile, che è prodotto dal
De- miurgo, l'artefice sovrano, plasmando la materia informe a immagi- ne delle
Idee. Caratteristica della filosofia platonica è la tesi secondo cui il
conoscere umano non è altro che un ricordare. Per Platone l'uomo è un'unità
accidentale di anima e di corpo: essenzialmente l’uomo è soltanto anima. Tutta
la sua filosofia ha un orientamento etico: l'uomo è sulla terra di passaggio,
nel desi- derio dell'eternità. iPer raggiungere la felicità occorre rinunciare
ai piaceri e alle ricchezze e dedicarsi alla pratica della virtù, per cui è
meglio subire l'ingiustizia che commetterla. La filosofia è l’unica via sicura
per giungere alla giustizia e al bene. All'incontro con le cose di questo
mondo, copie delle Idee, nell'anima umana si risve- glia il ricordo delle ‘Idee
che aveva contemplato in una vita prece- dente (mito della caverna). Anche la
concezione politica di Platone è ideale e si fonda sulla divisione dei compiti
e del lavoro tra le classi dei lavoratori, guerrieri e magistrati che
corrispondono alle anime concupiscibile, irascibile e razionale dell'individuo.
Dall'’armonia di queste tre classi nasce il raggiungimento del Bene, del
Giusto, del Vero. Per lui lo Stato ha origine dal fatto che l'individuo non può
bastare a se stesso. 326 Opere principali: a) Dialoghi giovanili (Apologia di
Socrate; Critone; Ipparco; Protagora; Menesseno); b) Dialoghi della matu- rità
(Gorgia; Menone; Cratilo; Repubblica; Fedone; Fedro); c) Dia- loghi della
vecchiaia (Teeteto; Parmenide; Sofista; Timeo; Crizia); Lettere. Plotino
(205-270) Nato a Licopoli (Egitto), entrò nella scuola di Alessandria diretta
da Ammonio Sacca e partecipò a una spedizione bellica contro i per- siani. Poi
si trasferì ad Antiochia e infine a Roma, dove fondò una scuola. Morì in
Campania, nella sua villa. Fu l'ultimo grande espo- nente del pensiero classico
e il principale esponente del neoplato- nismo, movimento che opera una sintesi
tra la filosofia di Platone e le religioni pagane orientali. Per inclinazione
naturale e dato una certa conoscenza dell'ebraismo e del cristianesimo in Roma,
ha con- centrato la sua speculazione sul problema religioso, in particolare sul
rapporto dell'anima con Dio. Plotino accentua i concetti di semplicità e di
trascendenza ri- guardante l'Assoluto che chiama Uno. All’Uno quindi: non si
può attribuire nessuna qualità positiva (teologia negativa). Dall'Uno trag-
gono origine tutte le altre realtà mediante emanazione, secondo un ordine: il
Nous o intelligenza, la vita, l’anima universale, le anime, la materia. La
missione dell'anima umana è di ristabilire l'unità originaria delle cose,
riconducendole all’Uno, attraverso tre tappe: ascetica e catarsi,
contemplazione, estasi. Opere principali: i suoi scritti furono ordinati dal
discepolo Porfirio e sono noti sotto il nome di Enneadi. Popper Karl Raimund
(1902) Nacque a Vienna, dove studiò fisica, matematica e poi filosofia. Data la
sua origine ebraica nel 1937 emigrò in Nuova Zelanda dove insegnò a
Christchurch. Nel 1945 si trasferì a Londra, iniziando ad insegnare alla London
School of Economy. Popper fu, in un primo tempo, uno degli esponenti più
qualificati del Circolo di Vienna e del neopositivismo, ma poi abbandonò questo
sistema e sviluppò una concezione originale dei fondamenti della scienza e del
metodo scientifico, che può essere definita come razionalismo critico, in forte
contrasto con la Scuola di Francoforte a cui rimprovera, oltre la dialettica,
lo « storicismo », per cui si fan- no previsioni della storia nella totalità
del suo corso che viene con- siderato essere diretto in modo ineluttabile verso
una meta prefis- sata, come la società senza classi prevista da Marx. I punti
qualificanti della sua concezione in campo epistemologico sono due: il
carattere sostanzialmente deduttivo (anziché induttivo) della scienza; e il
criterio di demarcazione tra teorie scientifiche e non scientifiche, che viene
chiamato criterio di falsificabilità. Que- sto stabilisce che una teoria può
considerarsi scientifica soltanto se è falsificabile, ossia se si può indicare
dei casi in cui risulterebbe 327 falsa, cioè smentita in linea di principio e
non per essere stata consta- tata falsa di fatto. Notevole anche l'apporto di
Popper alla filosofia politica con la sua appassionata difesa della « società
aperta », vale a dire la difesa di una società che non solo tolleri, ma stimoli
la cri- tica dei singoli e dei gruppi in vista della soluzione razionale dei
problemi più gravi come quello delia fame e dell'ignoranza. Opere principali:
La logica della scoperta scientifica (1934); Che cos'è la dialettica (1937); La
‘società aperta e i suoi nemici (1945); Miseria dello storicismo (1957);
Congetture e confutazioni (1962); Conoscenza oggettiva (1972). Frotagora (490,
morto tra il 410 e il 400 a.C.) Filosofo greco, massimo esponente della
sofistica. Dalla sua natia Abdera (in Tracia), si trasferì ancora in giovane
età ad Atene, dove insegnò ad una folta schiera di studenti entusiasti. Si
guadagnò la stima e il favore di Pericle, il quale lo incaricò di stendere la
costituzione della colonia di Thurii. Data e luogo della sua morte sono
incerti, e ja causa sembra sia stata un naufragio. L'attenzione precipua della
riflessione filosofica di Protagora non è più voita come nella maggior parte
dei presocratici allo studio
della natura e della causa o principio
primo, bensì verso l’uomo ed è tesa, soprattutto, a scoprire quali sono le
possibilità umane in or- dine alia conoscenza e alla morale. In entrambi i casi
Protagora sposa una tesi sostanzialmente relativistica: non esistono verità
asso- lute nell'ordine gnoseologico né leggi universali nell'ordine etico; sia
le verità sia le leggi sono relative. Questa tesi è espressa nel ce- lebre
detto di Protagora: « L'uomo è misura di tutte le cose; di quelle che sono
perché sono e di quelle che non sono perché non sono ». È la stessa condizione
naturale dell’uomo, la sua struttura corporea a non consentirgli di raggiungere
né il vero né il bene in maniera assoluta e definitiva: «La materia — afferma
Protagora — è flut- tuante, e fluendo essa ininterrottamente, si verificano
aggiunte al posto delle perdite, e le sensazioni mutano e variano secondo l'età
e secondo le altre costituzioni dei corpi ». Opera principale: La verità o
Discorsi sovvertitori. Renouvier Charles (1815-1903) Filosofo francese, nato a
Montpellier e morto a Prades, nei Pirenei Orientali. Nella sua opera del 1903,
I/ personalismo, ha fornito spunti fondamentali al personalismo contemporaneo
offrendo addirittura la denominazione che lo caratterizza e che è desunta da
una indagine filosofica centrata sull'uomo concreto e sulla sua dimensione dia-
logica. ‘ Per Renouvier il carattere specifico della persona umana è Îa
conoscenza da intendersi come apertura verso il mondo e verso l'as- soluto e
capace di portare l’uomo a riconoscere l’esistenza di una Persona prima e
creatrice. Il riconoscimento della sua esistenza è imposto al nostro assenso
dal carattere di unità armonica delle leggi 328 che regolano l’intendimento
degli esseri intelligenti e reggono il mondo. È favorevole ad una specie di
religione filosofica. Opere principali: Saggi di critica generale (1854-1864);
La nuova monadologia (con L. Prat, 1899); Il dilemma della metafisica pura
(1901); Il personalismo (1903). Rickert Heinrich (1863-1936) Filosofo tedesco,
nato a Danzica, fu docente di filosofia ad Heidel- berg dove morì e direttore
delia scuola di Baden; sviluppò la « fiia- sofia dei valori », distinguendo la
scienza delio spirito dalle scienze della natura. Critico del positivismo,
distingue due forme di conoscenza e due logiche ad esse correlate: 1) la logica
delle scienze spirituali o sto- riche da un lato; 2) la logica delle scienze
naturali dall'altro. 'La realtà per Rickert è quella che ci rivelano le scienze
spirituali o che i loro giudizi valutativi determinano. La natura, invece, è
solo un'immagine astratta e abbreviata della realtà, creata per il bisogno che
l'uomo ha di dominare, classificandola e uniformandola, l'infi- nita varietà
degli individui, di cui consta l’esperienza. , Le scienze naturali, pertanto,
tendono all'astrazione; mentre le scienze spirituali o storiche tendono a
determinare il valore dei fatti, che sono il presupposto stesso della storia.
Opere principali: L'oggetto della conoscenza (1892); Scienze della cultura e
scienze della natura (1899); La filosofia della vita (1920); Sistemi di
filosofia (1921); La logica del predicato e il problema dei- l’ontologia
(1930); Problemi fondamentali della filosofia (1934). Ricoeur Paul (1913)
Filosofo francese, nato a Valence, docenie di filosofia ciella storia prima
alla Sorbona e poi all'università di Parigi-Nanterre, può essere annoverato sia
tra i fenomenologi che tra gli esistenzialisti e i personalisti. Assertore di
una interessante visione antropologica, Ricoeur la fonda sul concetto di fallibilità,
che la storia delle religioni docu- menta aîtraverso i simboli del male e dei
peccato. La fallibilità è una prerogativa dell’uomo, realtà essenzialmente
progettuale, che può fallire nella realizzazione dei proprio progetto. La
persona per Ricoeur è un progetto di umanità. Attività fonda- mentali della
persona sono il conoscere, il cui oggetto è il vero; il volere, il cui oggetto
è il bene; il sentire, il cui oggetto è l’affettività. Alla sfera del
sentimento appartengono l'amicizia (apertura verso i propri simili) e la
deiezione (apertura verso il mondo delle Idee, la Trascendenza, Dio). Opere
principali: G. Marcel e K. Jaspers (1947); K. Jaspers e la filosofia
dell'essere (1947); Filosofia della volontà (1950-1960); Finitu- dine e colpa
(1960); Il conflitto delle interpretazioni {1969); La sfida semiologica (1974);
Metafora viva (1975). 329 Rosmini Antenio (1797-1855) Nacque a Rovereto e fu
ordinato sacerdote nel 1821. Nel 1828 fondò la congregazione religiosa dei «
rosminiani »; morì a Stresa sul Lago Maggiore; Nel 1848 fu ambasciatore a Roma
di Carlo Al- berto presso Pio IX; suo compito era quello di cercare un accordo
col Pontefice per una confederazione di stati italiani, ma la missione fallì.
In quella stessa occasione, furono messe all'indice due opere in cui egli
propugnava il rinnovamento della Chiesa. Amareggiato, si ritirò a Stresa,
dedicandosi esclusivamente alla filosofia. Rosmini tentando di porre un freno
all'estensione del sensismo e dell’empirismo, riconosce come elemento a priori oggettivo
della co- noscenza l'idea dell'essere, che non è l’idea dell'Essere reale (Dio)
ma dell'essere ideale, astratto, indeterminato che deriva dall’Essere reale.
L'essere ideale è forma di ogni conoscenza, ma in se stesso non rappresenta
nessun oggetto determinato. Deve incontrare e unire qualche dato della
sensibilità. La conoscenza si sviluppa in diversi gradi: intuizione,
affermazione, astrazione.
Opere principali: Nuovo saggio
sull'origine delle idee (1830); Principii della scienza morale (1831);
Antropologia in servigio della scienza morale (1838); Trattato della coscienza
morale (1839); Filo- sofia della politica (1839); Filosofia del diritto (1845);
Teodicea (1845). Opere postume: Saggio storico-critico sulle categorie e la
dialettica; Antropologia soprannaturale; Teosofia. Rousseau Jean-Jacques
(1712-1778) Filosofo svizzero di lingua francese, nacque a Ginevra. Orfano di
madre, a soli sedici anni iniziò una vita di vagabondaggi. A Parigi frequentò
gli ambienti dell'Enciclopedia. Si attirò molti nemici. Fuggì in Svizzera e in
Inghilterra. Rientrato in Francia, passò gli ultimi anni nella solitudine e
nella povertà, continuando a scrivere fino alla morte. Massimo esponente
dell'illuminismo francese, Rous- seau scrisse moltissimo occupandosi degli
argomenti più disparati: dalla storia alla musica, dalla pedagogia alla
politica, dalla metafisica alla religione. Nel Contratto sociale espone la sua concezione
politica in cui, pur assegnando allo Stato un'origine convenzionale, non gli si
ascri- ve mai poteri assoluti e definitivi, ma ogni decisione dello Stato
sotto- stà all'approvazione dei cittadini. Altre due sue opere espongono la
dottrina pedagogica. Questa si caratterizza per una completa fiducia nelle
capacità autoeducative del fanciullo: alla scuola della natura egli ritiene di
ottenere un'educazione assai migliore di quella che somministra normalmente la
società ai suoi membri. Opere principali: Discorso sulle scienze e le arti
(1750); Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli
uomini (1755); Lettera sulla provvidenza (1756); Lettera sugli spettacoli
(1758); Emilio o dell'educazione (1762); Contratto sociale (1762); Lettera a
330 Christophe de Beaumont (1763). Opere postume: Dialoghi: Rousseau giudice di
Jean-Jacques; Meditazioni di un viandante solitario. Russell Bertrand
(1872-1970) ‘Nacque (e vi morì anche) nel Galles da famiglia nobile. A 23 anni
entrò nel « Trinity College » di Cambridge, dove fece gli studi di ma- tematica
e filosofia. Scienziato e filosofo tra i più celebri del no- stro secolo.
Scrisse moltissimo. Russell fu uno spirito profondamente inquieto, mai
soddisfatto delle soluzioni acquisite, in continua evoluzione di pensiero. Egli
aderì successivamente all’idealismo, al realismo, al neopositivismo, alla
analisi linguistica, al fenomenismo. Tuttavia, nonostante la perenne
instabilità e icambiamenti, talora radicali, di vedute, di teo- rie, di
sistemi, c'è una prospettiva di fondo cui egli ha mantenuto sempre fede durante
la sua quasi centenaria esistenza: è la prospet- tiva empirista propria della
filosofia inglese, la quale è caratterizzata da un forte attaccamento alla
esperienza ed uno spiccato interesse per le questioni di ordine epistemologico
e morale, anziché metafisico e teologico. In logica sono importanti le
considerazioni svolte da Russell intorno alla definizione degli individui,
delle classi, dei tipi e delle « descrizioni ». In gnoseologia finì per
professare un empiri- smo radicale, riducendo la conoscenza ad un fascio di
sensazioni, ch'egli preferisce chiamare « una classe di particolari »; il
filosofo ha proposto sia una concezione « dualistica » della verità
(corrisponden- za tra fatti e proposizioni) sia una concezione « umanistica ».
Nella filosofia del linguaggio ci sono vari punti in comune con i neopositi-
visti, dai quali si allontana circa il criterio di significazione, distin-
guendo il senso dal significato. Russell nega alla morale la carat- teristica
di vera scienza e circa la religione la sua posizione è agno- stica. Opere
principali: Saggio sui fondamenti della geometria (1897); Principi della
matematica (1903); Principia Mathematica (1910- 1913); Sulla conoscenza del
mondo esterno (1914); Elementi di etica (1910); Analisi della mente (1921);
Atomismo logico {1924); Perché non sono cristiano (1927); Libertà e
organizzazione (1932); Educa- zione e ordine sociale (1932); Storia della
filosofia occidentale (1945); Il mio sviluppo filosofico (1959); Autobiografia
(1967-1969). Saint-Simon Claude-Henry de (1760-1825) Di famiglia nobile nato a
Parigi, dove morì, è un filosofo e stori- co francese. Allievo del d’Alembert,
seguì dapprima la carriera mi- litare. Poi, dopo essersi proficuamente occupato
di affari, nel 1798 si dedicò totalmente alla filosofia, rovinandosi ben presto
finanzia- riamente fino a cadere nella più squallida miseria, pur non cessando
per questo gli studi. Rappresentante del positivismo, Saint-Simon fu tra i
primi a sottolineare l’importanza del fattore economico nella costituzione e
331 nella trasformazione delia società. A suo parere il problema eco- nomico
soverchia, per imporianza, tutti quanti gli altri, compresi quello palitico e
quello religioso. La crisi profonda che sta attraver- sando ia società moderna
è dovuta soprattutto a ragioni economiche, e non poeîirà essere superata se non
ponendo a capo della società i grandi industriali e gli womini di scienza. Nei
nuovo sistema d'orga- nizzazione della società ia direzione spirituale deve
passare dal clero agli scienziati, Ia cura degli interessi materiali dalla
nobiltà alla bor- ghesia, dalla corona alie banche. Queste teorie del
Saint-Simor: eser- sitarono un profondo influsso su alcuni grossi nomi della
filosofia dell'Ottocento, in particolare su Comte e su Marx. Opere principali:
/miroduzione «i lavori scientifici del XIX se- celo (1808); Ricrganizzazione
della società europea (1814); Nuovo cristianesimo (1825), che però fu
incompiuto. Santeyana George {1863-1952} Filosofo e scrittore statunitense
d'origine spagnola, nacque a Madrid. Fu professore alla università di Harvard
dove aveva fatto gli studi di filosofia, fino al 1912. Cessato l'insegnamento
si trasferì in inghilterra, quindi in Francia e infine in Italia dove morì a
Roma. Santayana professa un realismo di ispirazione platonica, basato su un
dualismo esasperato tra « essenze » ed « esistenze ». L'esistenza è la materia,
i'essenza è lo spirito. L'anima è la vita di un organismo in cui è incarnato lo
spirito e funge pertanto da mediatore tra la materia e le essenze. I due mondi
delle essenze e delie esistenze co- stituiscono un dualismo irriducibile; ia
vita è divisa, scissa tra questi due regni; e l’aitività umana non è che lo
sforzo assurdo, grottesco e tragico di conciliare l'essenza (l’idea) con
l’esistenza e l'esistenza con l'essenza (l’idea). Tutto quanto gli uomini fanno
e pensano (istituzioni sociali, riti religiosi, sistemi filosofici ecc.) nen è
che un immenso, vano tentativo di accordare la vita animale e la contemplazione
spirituale, quasi una condanna imposta all'uma- nità. Opere principali: La vita
della ragione (5 voll., 1905-1906); Soli- loqui in Inghilterra (1922);
Scetticismo e fede animale (1923); Dia- loghi nel Limbo (1925-26); I regni
dell'essere (4 voll., 1927-1940); Dominazioni e poteri (1951). Sartre Jean-Paul
(1905-1980) Nacque e morì a Parigi, dove, all’« École Normale Supérieure »,
studiò filosofia che insegnò poi per diversi anni nei licei di Le Havre e
Parigi. Iniziò la carriera letteraria come giornalista, romanziere, saggista,
drammaturgo e sceneggiatore cinematografico. Dopo il 1945 viaggiò moltissimo,
anche per motivi politici, data la sua mili- tanza nel Partito Comunista
francese, di cui poi assunse dall'esterno il ruolo di critico. Negli anni del
dopoguerra fu la personalità più popolare in Francia e più discussa in Europa.
332 Sartre, come Heidegger, concentra la sua analisi filosofica sul- l'essere
ai fine di coglierne il significato profondo e di svelarne la natura. Però per
Sartre l'essere, che egli chiama essere-in-sé per distinguerlo dalla coscienza
(essere-per-sé) è una massa inerte, gon- fia, qualcosa di ripugnante. Ma la
caratteristica sua particolare è l'assurdità: nell’assurdità sta la chiave
della esistenza di ogni cosa. L'uomo si distingue dagli altri esseri perché ha
la coscienza che è l'opposto dell'essere. Per vivere, la coscienza ha bisogno
di nulli- ficare l'essere, in quanto è per sua natura il non-essere, il vuoto,
il nulla. L'attività nullificatrice della coscienza ha come sbocco neces- sario
la « nausea ». Questa nasce dal fatto che la coscienza trova sempre davanti a
sé qualche cosa di troppo. Ma ciò che è il dato costitutivo essenziale
dell'uomo non è la coscienza ma la libertà, senza limiti e non vincolata da nessuna
legge morale. L'uomo desi- dera fondamentalmente di essere in sé, poiché il per
sé (o essere della coscienza) è un puro nulla. Questo ideale è ciò che può
essere chia- mato Dio, il quale perciò è una semplice ipostatizzazione di
questo ideale. Opere principali: La trascendenza dell’Ego (1936-1937); L'imma-
ginazione (1936); La nausea (1938); Abbozzo di una teoria delle emo- zioni
(1939); L'immaginario (1940); L'essere e il nulla (1943); Il muro (1943); Le
mosche (1943); A porte chiuse (1945); Materialismo e rivo- luzione (1946);
Questioni di metodo (1957); Critica della ragione dia- lettica (1960); Le
parole (1964); Kierkegaard vivo (1966); Conversa- zione sull'antropologia
(1966); L'idiota di famiglia (1971-1972); Ri- bellarsi è giusto (1974). Scheler
Max (1874-1928) Filosofo tedesco, nato a Monaco e morto a Francoforte. Già di-
scepolo di Dilthey, Eucken e Simmel ed influenzato da Nietzsche, subì in
seguito fortemente l’influsso di Husserl, dal quale apprese il metodo
fenomenologico, di cui fece ampio uso nel suo studio del- l'uomo, della
persona, dei suoi atti, della conoscenza (intenzionalità ed oggettività) ed in
particolare della esperienza morale. Importante il suo tentativo di uscire
dall’'etica formalistica di ispirazione kan- tiana, conferendole un contenuto
materiale desunto dai valori. La sua opera principale porta per titolo //
formalismo in etica e l'etica materiale dei valori (1916), « l'opera di gran
lunga più signifi- cativa apparsa da molto tempo » (Hildebrand). Mediante
l’elabora- zione di un'etica dei valori, in cui si rivendica a queste entità
una dimensione ontologica propria che sfugge a tutte le minacce dello
psicologismo, Scheler sottrae la morale oltre che al formalismo kantiano anche
a tutte quelle visioni soggettivistiche e positivistiche che erano diventate di
moda alla fine dell'Ottocento (nominalismo, psicologismo, positivismo,
pragmatismo ecc.). Scheler definisce i valori come « oggetti autenticamente
ogget- tivi, disposti in ordine eterno e gerarchico ». La sua assiologia si ca-
333 ratterizza pertanto come realistica, come gerarchica ed inoltre come
personalistica (in quanto tutti i valori dei gradi inferiori sono subor- dinati
alla persona) e teocentrica (in quanto al vertice di tutti i va- lori, come
valore supremo, viene posto Dio). Scheler si sottrae al rischio immanentistico
presente nel metodo fenomenologico distin- guendo la fenomenologia dei valori
dalla filosofia della religione. Senonché questa distinzione viene abbandonata
negli ultimi scritti, dove Scheler assume una visione immanentistica e pertanto
pan- teistica della realtà. Opere principali: Il formalismo in etica e l'etica
materiale dei valorî {1916); Essenza e forme della simpatia (1923); Le forme
del sapere nella società (1926); La posizione dell'uomo nel cosmo (1927); La
visione filosofica nel cosmo (postuma). Schelling Friedrich Wilhelm (1775-1854)
Nacque a Leonberg, nel Wiirttemberg, studiò a Tubinga dove ebbe come
condiscepolo Hegel. Nel 1799 fu chiamato a sostituire Fichte a Jena, poi passò
ad insegnare a Wiirzburg, a Monaco e a Berlino. Schelling ha una concezione
dell’assoluto come sintesi degli op- posti: dell'io e della natura, del
soggetto e dell'oggetto, dello spi- rito e del mondo. L'assoluto origina la
natura, forma oggettiva, per acquistare per mezzo di essa maggiore coscienza
della propria sog- gettività. Quindi la natura è preistoria della coscienza,
pensiero pie- trificato. L'uomo è l'essere in cui l'assoluto acquista coscienza
di sé diventando spirito. La comprensione dell'universo in cui natura e spirito
non sono più contrapposti ma armonizzati si attua nell'attività estetica.
L'opera d’arte è manifestazione dell'infinito sotto forma finita. Opere
principali: Sui miti, le leggende storiche e i filosofemi del mondo antico
(1793); Lettere filosofiche sul dogmatismo e sul cri- ticismo (1795-1796);
Nuova deduzione del diritto naturale (1796- 1797); Sistema dell'idealismo
trascendentale (1800); Esposizione del mio sistema di filosofia (1801);
Filosofia e ragione (1804); Ricerche’ filosofiche sull'essenza della libertà
umana (1809). Opere postume: Filosofia dell'arte; Le età del mondo. Schlegel
Friedrich (von) (1772-1829) Critico e filosofo tedesco, nacque ad Hannover e
studiò giurispru- denza dedicandosi allo studio «della letteratura greca. Insegnò
priva- tamente a Parigi e poi a Colonia. Fu a Vienna, dove si impegnò in un
movimento tardo romantico fiancheggiato dalla rivista Concordia. Morì a Dresda.
Dopo una fase in cui Schlegel si distinse per i suoi contributi di natura
storico-filologica, egli cominciò a orientarsi verso gli studi
filosofico-estetici. I suoi primi contributi in questo senso, appaiono, a
partire dal 1797, nella rivista Atheneum, organo del Circolo di Jena, 334
raccolti più tardi col titolo Lezioni filosofiche del 1804-06. Dopo la conversione
al cattolicesimo, avvenuta nel 1808, Schlegel orientò il suo pensiero verso un
nuovo spiritualismo fondato sull'esperienza cristiana. Opere principali: Sul
valore dello studio dei greci e dei romani (1797). Schleiermacher Friedrich
Daniel Ernst (1768-1834) Filosofo e teologo tedesco. Nacque a Breslavia e morì
a Berlino. Studiò teologia all'università di Halle, che era il centro
dell’illumi- nismo tedesco. Come Kant, ricevette una formazione religiosa di
stampo pietistico. Amico di Schlegel, si aprì per il suo tramite al
romanticismo. Durante l'occupazione napoleonica con Fichte fu uno dei più
ardenti difensori del nazionalismo tedesco. Dopo la ca- duta di Napoleone
riprese l'insegnamento alla università di Berlino dove fu anche preside della
facoltà di teologia per oltre un ventennio. Schleiermacher è più teologo che
filosofo; i suoi argomenti pre- feriti sono la ‘Scrittura, la fede, il
cristianesimo, la religione, ai quali si accosta da una prospettiva che fonde
insieme istanze ra- zionalistiche, romantiche e idealistiche. Il suo apporto
maggiore riguarda la natura della teologia e il metodo teologico e il suo inse-
gnamento in questo campo avrà un influsso rimarchevole dando origine a quel
movimento che porta il nome di protestantesimo li- berale. Notevole anche il
suo insegnamento relativo all'essenza della religione. Due sono i principi su
cui egli fonda il suo concetto della religione: 1) la religione è una
determinazione del sentimento; 2) l'essenza della religiosità sta nel fatto di
essere coscienti della propria dipendenza da Dio. Il sentimento, come lo
concepisce Schle- iermacher è qualcosa di più della comune accezione dello
stesso. È una facoltà che si colloca tra la ragione e la volontà. Per lui il
cristianesimo è superiore alle altre religioni « non per il valore ra- zionale
dei suoi contenuti dottrinali, ma per il maggiore grado di ade- guatezza con
cui questi contenuti attestano e suggeriscono il senti- mento fondamentale
della nostra dipendenza da Dio ». Opere principali:. Discorsi sulla religione
(1798); Monologhi (1800); La fede cristiana (1821-1822). La maggior parte dei
suoi corsi accademici vennero pubblicati postumi nell'edizione delle Opere
complete (1834-1864). Schopenhauer Arthur (1788-1860) Nacque a Danzica da
famiglia agiata. Costretto dal padre a se- guire la carriera commerciale,
l’abbandonò nel 1805 alla morte del padre e studiò a Gottinga e poi a Jena,
dove, nel 1813, si laureò in filosofia. Ottenne la libera docenza
all'università di Berlino, ma le sue dottrine pessimistiche come risultavano
nella sua opera Il mondo come volontà e rappresentazione, pubblicata nel 1819,
non trova- 335 rono molta fortuna. Nel 1833 si stabilì a Francoforte ove
risied&tte fino alla morte. Schopenhauer, opponendosi alla tesi idealistica
della razionalità della storia, evidenzia gli elementi negativi della natura e
della storia. Movendo dalla distinzione kantiana fra fenomeno e noumeno, ma
rovesciandone i significati, identifica il mondo dei fenomeni (della
rappresentazione) col mondo della ragione e il mondo noumenico (reale, vero)
con quello della volontà, una volontà cieca e irrazio- nale, da cui traggono
origine tutte le cose e tutti gli avvenimenti. Gli individui non sono altro che
l’oggettivazione della volontà. Tutto nel mondo è volontà, desiderio di ciò che
non si possiede, perciò l’u- manità è in preda a un continuo dolore nato
dall’insoddisfazione dei suoi desideri. L'unico modo per liberarci da queste
dolorose volontà di vivere è quello consistente nella noluntas, nella rinuncia
alla pro- pria individualità. Essa avviene in tre momenti: arte, simpatia, a-
scesi. Opere principali: Sulla vista e i colori (1816); Il mondo come vo- lontà
e rappresentazione (1814-1818); Sulla volontà della natura (1836); Sulla
libertà del volere (1839); Sul fondamento della morale (1840); I due problemi
fondamentali dell'etica (1841); Quadruplice radice (1847); Parerga e
paralipomena (1851). Scoto Duns (1265-1308) Nacque a Maxton in Scozia. Entrò
giovanissimo nell'ordine fran- cescano. Fece gli studi ad Oxford e a Parigi. A
Parigi ottenne il ti- tolo di magister theologiae. Nel 1298 tornò in
Inghilterra dove com- mentò le Sentenze di Pietro Lombardo. Poi ancora a
Parigi. Finì la sua vita nello studentato francescano di Colonia. Scoto si
sforzò di operare una sintesi fra la corrente francescana e quella
aristotelica. Le dottrine più originali della sua metafisica so- no l'univocità
dell'essere, l’ecceità e la distinzione formale tra essenza ed esistenza.
L'oggetto della metafisica è l'essere in quanto perfe- zione massimamente
indeterminata. L'« ecceità » (0 « questità ») è una forma particolare che
conferisce l’individuazione. Tra essenza ed e- sistenza non vi è distinzione
reale, ma « formale ». L'esistenza di Dio deve essere dimostrata: la prova più
convincente è quella della causalità. Sia in Dio sia nell'uomo la volontà ha
priorità rispetto al- l'intelletto. L'uomo è essenzialmente composto di anima e
di corpo. Intelletto e volontà sono formalmente distinte dall'anima, pur costi-
tuendo con essa una sola realtà. Distanziandosi da s. Tommaso, Scoto afferma la
priorità della volontà sull’intelletto. Opere principali: Commentari ad
Aristotele; Opus oxoniense; Re- portata parisiensia; De primo rerum principio.
Seneca Lucio Anneo (4 a.C.-65) Nacque a Cordova, ma si trasferì a Roma sin da
fanciullo. Qui ebbe come maestri di filosofia gli stoici Attalo e Sozione.
Assimilò 336 in modo personale le loro dottrine e divenne il massimo rappresen-
tante dello stoicismo nel mondo latino. Diventò massimo consigliere di Nerone.
Ma, caduto in disgrazia di questi, si ritirò dalla vita pub- blica. Accusato di
aver partecipato ad una congiura contro Nerone, fu da questi indotto al
suicidio. Secondo Seneca l'universo è composto di due principi: uno passi- vo,
la materia, e uno attivo, Dio. Questi è l’anima dell'universo, ra- gione
(logos) diffusa in tutte le cose, fonte immanente di vita, legge suprema che
connette in un'unica catena di cause tutti gli eventi e condiziona l'unità
organica del cosmo. Seneca è il filosofo pagano che maggiormente ha compreso il
valore della libertà come diritto costitutivo fondamentale di ogni uomo. La
lotta di Seneea eontro la schiavitù è incondizionata. L'uguaglianza è un
diritto naturale. Fine ultimo della vita umana è l'autonomia della persona di
fronte ad uo- mini ed eventi: è la libertà dello spirito da tutto ciò che può
pro- fanare la divina serenità dell'animo. Opere principali: 9 Tragedie; De
clementia; De beneficiis; Dia- logorum libri; 124 Lettere a Lucilio; Naturalium
quaestionum libri VII. Socrate (469-399 a.C.Nacque e visse ad Atene nell'epoca
del suo maggior splendore arti- stico e della maggiore potenza militare ed
economica. Condusse una vita molto semplice e frugale. Nel 400 a.C. venne
accusato di empietà e corruzione della gioventù. Non volle salvarsi andando in
esilio pri- ma del processo. Condannato a morte, morì bevendo la cicuta. Eser-
citò una grande influenza sulla filosofia greca. La missione a cui si sentì
chiamato dall’oracolo di Delfi fu di in- citare gli uomini a preoccuparsi degli
interessi della loro anima con l'acquisto della saggezza e della virtù. Contro
i Sofisti si preoccupò di definire i concetti universali di bene, giustizia,
felicità e virtù, iden- tificando la conoscenza con la moralità e la felicità
con la pratica del- la virtù. Infatti per lui è essenziale la distinzione di
male e di bene. Il metodo ‘da lui usato nelle conversazioni con i discepoli fu
quel- lo dell'ironia che spinge l'interlocutore a porsi nuovi problemi
(maieutica). Non ha lasciato alcuno scritto. Spencer Herbert (1820-1903) Nato a
Derby, Inghilterra, compì studi scientifici e avanzò la tesi dell’evoluzionismo
scientifico dalla iettura delle opere di Lyell. Successivamente, trasferendo
l'evoluzione dal campo scientifico a quello filosofico, ne ha fatto una vera e
propria visione del mondo sia cosmico che biologico, sia umano che sociale.
Valendosi dell’evo- luzione anche per spiegare l'ordine dell'universo, Spencer
ascrive a tale ordine un'origine meccanica e non intenzionale {o finalistica).
Non per questo egli ritiene di dover negare l’esistenza di Dio, che 337 anzi
egli ammette, perché sfugge alla ragione. Questa realtà assoluta è
l’Inconoscibile, l'essere assoluto che l'uomo chiama Dio. Opere principali:
Statica sociale (1850); Principi di psicologia (1855); Primi principi (1862);
Principi di psicologia (1870-1872); Principi di etica (1879-1892); Individuo e
Stato (1884); Autobiografia (1904, postuma). Spinoza Baruc (1632-1677) Nacque
ad Amsterdam da una famiglia di ebrei profughi dal Por- togallo. Il padre lo
avviò allo studio delle sacre Scritture e delle dottrine rabbiniche, ma Spinoza
coltivò anche lo studio della filo- sofia e della teologia protestante.
Asserendo che l’interpretazione tradizionale della sacra ‘Scrittura era errata,
nel 1656 fu scomuni- cato dalla comunità israelita ed espulso per eresia.
Abbandonò Am- sterdam e si trasferì a Leida dove visse nella riservatezza e
nella povertà. Spinoza, quasi ignorato per oltre un secolo dopo la sua morte,
avvenuta a l’Aia, fu messo poi in luce dai filosofi tedeschi come Lessing,
Herder e gli idealisti che divennero suoi ferventi ammira- tori e gli
assicurarono un posto tra i più grandi pensatori dell'uma- nità. Come Cartesio
egli incentra tutta la sua riflessione filosofica su due realtà: Dio e l’uomo.
Il suo obiettivo non è la conquista della verità ma il raggiungimento della
felicità. Spinoza risolve il dualismo cartesiano di res cogitans e res extensa
considerandole come i due attributi conoscibili dell'unica so- stanza
esistente, Dio, costituita da infiniti attributi. Il mondo è iden- tico a Dio
(Natura sive Deus): Dio è natura naturans, cioè infinita attività produttrice e
il mondo è natura naturata, infinito prodotto. L'etica di Spinoza si risolve
nell’amor intellectualis Dei, cioè nella conoscenza della sostanza divina che
si ha quando è raggiunto il trionfo della ragione e il dominio delle passioni.
In politica Spinoza è uno dei primi assertori della teoria dell’origine
contrattuale dello Stato. Opere principali: Breve trattato su Dio, l'uomo e la
sua feli- cità (1660); Ethica more geometrico demonstrata; Tractatus de intel-
lectus emendatione; Principia philosophiae cartesianae (1663); Trac- tatus
theologico-politicus (1670). Spirito Ugo (1896-1979) L'itinerario filosofico di
U. Spirito, filosofo italiano nato ad Arez- zo e morto a Roma, iniziò con
un'adesione piena ed entusiastica al- l’attualismo di Gentile, che lo Spirito
difese contro le obiezioni che da varie parti sorgevano contro di esso. Ma poi
proseguì su una linea autonoma, dando all’attualismo una piega marcatamente
anti- intellettualistica oltre che fortemente immanentistica ed atea, cui viene
dato il nome di problematicismo. Come spiega lo stesso Spi- rito, il
problematicismo è « una concezione della vita come ricerca, 338 che non ha
scetticamente rinunciato alla verità e che anzi sa bene quanto dogmatica e
contraddittoria sia tale rinuncia, ma che non si illude d'averla già in suo
possesso ». « Esso non si presenta come una filosofia bensì soltanto come
un'aspirazione alla filosofia: non pretende di avere valore assoluto [...] ma
non si definisce nep- pure come relativismo, perché non comprende come si possa
rinun- ciare alla speranza dell’assoluto ». Al termine del suo movimentato
itinerario filosofico Spirito si attestò su una posizione sostanzialmente
neo-positivistica, assumen- do la scienza come principio chiave per la
comprensione del mondo e come criterio supremo per decidere di qualsiasi
problema, inclusi i problemi di ordine etico ed assiologico. In tale
prospettiva marcata- mente scientista, Spirito affida alla scienza — e non più
alla meta- fisica e alla religione — il compito di fungere da strumento connet-
tivo della società e di fissare una nuova tavola di valori. Opere principali:
Il pragmatismo nella filosofia contemporanea (1921); Scienza e filosofia
(1933); La vita come ricerca (1937); Il pro- blematicismo (1948);
Dall’attualismo al problematicismo (1976). Stalin (1879-1953) Pseudonimo di
Josif Visarionovic Dzugasvili, nato in Georgia, uomo politico russo, fondatore,
con Lenin e Trotzsky, del Politburo del Partito Bolscevico russo e
collaboratore di Lenin nella fase di ricostruzione della Russia; stroncò le
opposizioni interne con dure repressioni, facendo assassinare persino Trotzsky
quando già si tro- vava in esilio in Messico (1940). Lo stalinismo è il frutto
più specifico del dogmatismo ideologico di Lenin. Nei suoi brevi scritti,
Stalin segue la linea del suo maestro Lenin, sforzandosi di dimostrare che
questi era il più diretto e orto- dosso seguace di Marx e che la dottrina
derivante messa a punto da Lenin, il marxismo-leninismo, era la più completa
teorizzazione fi- losofica per lo sviluppo dell'umanità. Il XX Congresso del
Partito comunista russo del 1956, quando era salito al potere Kruscev, rinnegò
e condannò l’opera di Stalin, avviando il cosiddetto processo di «
destalinizzazione ». Opere principali: Sul! materialismo dialettico e sul
materialismo storico, Principi del leninismo {1924); Questioni del leninismo
(1926). Stein Edith (1891-1942) Ebrea di razza e di fede, nata a Breslavia in
Germania, fu disce- pola e assistente di Husserl. Convertitasi al cattolicesimo
nel 1922, nel '32 entrò nel Carmelo di Colonia, dove fu arrestata dai nazisti
nel 1942. Morì nel lager di Auschwitz il 9 agosto dello stesso anno. Carattere
centrale del suo pensiero è l'impegno di rivedere tutto l'impianto della
metafisica aristotelico-tomista in chiave fenomeno- logica. Nella sua tesi di
laurea Sul! problema dell'empatia sviluppa uno studio pregevole e originale sul
sentimento dell’empatia, con cui l'io « percepisce condividendola » la realtà
dell'altro. 339 ILa Stein intende approfondire la riflessione avviata da Lipps
e Husserl: pur avendo quaicosa in comune sia con la percezione ester- na, sia
con la memoria, sia con l'immaginazione, l’empatia è un'espe- rienza sui
generis: è l’esperienza che un Io in generale ha di un altro Io. Con l’empatia,
considerata come atto di compartecipazione, si entra nel « regno dello spirito
», che è il regno dei valori. Opere principali: Su! problema dell'empatia
(1917); La fenome- nologia di Husserl e la filosofia di san Tommaso d'Aquino
(1929); Essere finito ed eterno (1950, postuma); La scienza della croce (1950,
postuma). Suarez Francisco (1548-1617) Nacque a Granada. Fu filosofo e teologo.
Mentre studiava nel- l'università di ‘Salamanca entrò nell'ordine dei gesuiti.
Insegnò filosofia a Segovia e teologia a Valladolid. Tra il 1580 e il 1585
insegnò a Roma al « Collegio Romano ». Poi rientrò in Spagna e continuò a
insegnare. Suarez è il pensatore più profondo e originale della Controri-
forma. Col suo tentativo di conciliare il tomismo con le dottrine do- minanti
dopo Occam e con le nuove teorie che lo sviluppo della scienza moderna andava
evolvendo, egli inaugura un nuovo tipo di filosofia scolastica, il cui
obiettivo principale è di operare una sin- tesi tra le posizioni di san Tommaso
e il pensiero moderno. La sua opera principale, Disputationes metaphysicae, è
la prima trattazione sistematica completa delle questioni discusse dalla
filosofia scola- stica, in forma indipendente sia dalla teologia che dalle
opere di Aristotele. In tal modo Suarez costituì la metafisica nella sua spe-
cificità e totalità. In una prima parte tratta dell'essere in generale e delle
sue cause, nella seconda dei vari enti esistenti: Dio, l’uomo e il mondo. Opere
principali: De Verbo incarnato (1590); Disputationes me- taphysicae (1597);
Varia opuscola theologica (1599); De vera intel- ligentia (1605); De legibus ac
Deo legislatore (1612). Talete (624-562 a.C.) Matematico, astronomo e filosofo
di Mileto. Fondatore della Scuo- la ionica. Descritto nell'antichità come una
personalità poliedrica. A lui sono attribuiti numerosi teoremi di geometria e
la scoperta del- la formula per misurare l'altezza delle piramidi attraverso la
misu- razione dell’ombra da queste proiettata. Pone l’acqua come prin- cipio da
cui traggono origine tutte le cose, per condensazione o ra- refazione. Telesio
Bernardino (1509-1588) Originario di Cosenza, studiò fisica, medicina e
filosofia a Padova dal 1527 al 1535. Si ritirò poi, per circa dieci anni, in un
convento benedettino. 340 È il primo importante esponente di una nuova
filosofia della na- tura che scorge in essa solo forze naturali che si devono
spiegare con i suoi principi. L'indagine sulla natura deve procedere non dalla
ragione ma dal senso. Ed è quest’ultimo a rivelare che nella natura non
agiscono principi astratti come le forme o le cause finali, ma le forze, che
sono cause meccaniche, principi agenti. I due principi agenti sono il caldo e
il freddo. Dal loro contrasto deriva la realtà dei fenomeni fisici. Con questi
due principi Telesio spiega anche la conoscenza umana, ridotta a sensazione.
Telesio riconosce, comunque, la presenza nell'uomo anche di un'anima
soprannaturale, divina e infusa da !Dio, la cui presenza non è testimoniata
solo dalla rivelazione, ma anche dal bisogno innato che l’uomo ha di iDio e di
una giustizia, ultraterrena. Conse- guentemente quest'anima è immortale. Opere
principali: De rerum natura juxta propria principia (1586); Varii de rebus
naturalibus libelli (1590, postumi). Tommaso d'Aquino (1225-1274) Nato a
Roccasecca, presso Aquino (Frosinone), ricevette la pri- ma educazione dai
benedettini di Montecassino. Studiò a Napoli ed entrò nell'ordine dei
domenicani. Imprigionato dai fratelli perché contrari alla sua scelta
religiosa, quando uscì di prigione lasciò l’Ita- lia e andò in un convento
domenicano di Parigi, sotto la guida di Alberto Magno. Insegnò teologia alla
Sorbona e fu teologo papale presso la corte pontificia. Passò gli ultimi anni
nel convento di Na- poli componendo la Summa theologiae e predicando al popolo.
Nel gennaio 1274, papa Gregorio X lo invitò al Concilio di Lione. Durante il
viaggio si ammalò e fu trasportato nell'abbazia cistercense di Fossanova (in
provincia di Latina) e qui morì il 7 marzo dello stesso anno. Tommaso d'Aquino,
una delle maggiori figure della filosofia occi- dentale, portò a compimento
quella straordinaria sintesi tra la gran- de eredità classica e la metanoia
cristiana, che pone l’uomo al centro della creazione. Nella sua filosofia la
conciliazione tra cristianesimo e aristo- telismo avviene in seno ad una
altissima concezione dell'Essere se- condo cui l’Essere è la perfezione
assoluta; l'origine degli enti è dovuta alla creazione; la creazione è una
partecipazione per somi- glianza della perfezione dell'essere da parte degli
enti; tra i singoli enti e l’Essere c'è solo analogia. In tale prospettiva,
fede e ragione sono modi di conoscere diver- si, che non si contraddicono ma si
completano reciprocamente: 1) la ragione accetta una verità nell'ordine delle
cose naturali in base alla loro evidenza; 2) la fede accetta una verità
nell'ordine del sopranna- turale sulla base dell'autorità di Dio rivelante. 341
Filosofia e teologia sono di conseguenza due scienze diverse, che non si
contraddicono poiché Dio è il loro autore comune. (Circa la concezione
antropologica, Tommaso considera l’uomo come un composto {sinolo) di anima e
corpo, in cui l’anima è l'unica forma del corpo. La conoscenza umana è
autosufficiente per cui non abbisogna di interventi straordinari per avere
luogo. L'anima è im- mortale, di immortalità personale perché essa è « forma
assoluta, che non dipende dalla materia ». Pur riconoscendo all'anima un più
elevato grado di perfezione ri- spetto al corpo nella gerarchia degli esseri,
egli crea una antropologia integrale, nella quale al corpo viene restituita
tutta la sua dignità nell'ordine della creazione. Tommaso considera la
conoscenza dell'uomo autonoma da un intervento diretto di Dio e risultato di un
processo che l'intelletto compie a partire dall'esperienza. Definisce inoltre
la coscienza quale « ritorno completo del soggetto in se medesimo »: la
coscienza, in virtù dell'intenzionalità, pone se stessa in relazione con le
cose e, confrontandosi con esse, conquista la propria identità. iLa
consapevolezza di Tommaso della dignità dell’uomo è tale che sia l’esistenza di
Dio (cinque prove) che l'immortalità dell'anima ven- gano dimostrate dalla
ragione. In Tommaso trova spazio anche il problema politico, in relazione al
quale egli asserisce l'origine naturale dello Stato, che considera una società
perfetta poiché ha un fine proprio, il bene comune, e mez- zi sufficienti per
realizzarlo. Nel conflitto tra i due poteri, tipico del suo contesto storico,
egli fu assertore della dipendenza indiretta dello Stato dalla Chiesa, che è
una società più perfetta in ordine ai fini e ai mezzi che le sono propri: lo
Stato dipendente indirettamente dalla Chiesa nell'ordine dei fini soprannaturali
dell’uomo. È opportuno sottolineare come oggi molti noti studiosi, ca- me ad
esempio Jaspers, hanno riconosciuto che le analisi sulla volontà, la libertà e
le passioni umane fatte da Tommaso sono pro- fonde e precise, valide anche per
la filosofia contemporanea. Opere principali: De ente et essentia; Commentari
alle principali opere di Aristotele; Summa contra gentiles (1269-1273); Summa
theo- logiae (iniziata nel 1269 e rimasta incompiuta); De unitate intellectus
contra averroistas (1270); De veritate; De potentia; De malo; De spiritualibus
creaturis; Expositio super Job; De regimine princi pum; Compendium theologiae;
De substantiis separatis. Vico Gianbattista (1668-1744) Nato a Napoli, studiò
filosofia presso i gesuiti, sotto la guida di padre Rissi. Dal 1699 fu
professore di retorica all'università della stessa città. Visse poveramente fra
incomprensioni e ostilità. Nel 1732 gli fu conferito l’incarico di storiografo
regio. L’intuizione fondamentale di Vico dal punto di vista filosofico è 342
espressa nella formula « verum est factum », cioè per conoscere ve- ramente una
cosa è necessario essere in grado di farla. In base a questo criterio l’uomo
non può conoscere la natura perché creata da Dio, non può conoscere il proprio
essere in quanto non si è auto- creato. Oggetto della conoscenza umana è la
storia in quanto opera dell’uomo. La legge universale che regola la storia è
una legge di sviluppo attraverso la ritmica ripetizione delle tre epoche del
corso storico (età degli dei, degli eroi, degli uomini). Questa legge della
ripetizione dei corsi non sopprime la libertà umana, non è un ostacolo al
proces- so della civiltà, è necessaria e voluta da Dio per riportare l’uomo
cor- rotto dalla ragione alla religione. Oltre alla dimensione storica, Vico
riabilita, in sede filosofica, quella estetica. Per lui l’arte ha una funzione
metafisica, in quanto è l'espressione profonda delle cose da parte di un essere
intelligen- te, in cui la ragione non ha ancora raggiunto la piena maturazione
e che perciò riesce a esprimersi per mezzo del sentimento e della fantasia. .
Opere principali: De nostri temporis studiorum ratione (1708); De antiquissima
Italorum sapientia; Liber physicus; Liber moralis; Il diritto universale; De
universi iuris uno principio et fine uno; De constantia iurisprudentis;
Principi d'una scienza nuova dintorno alla natura delle nazioni (Scienza nuova
prima, 1725; Scienza nuova seconda, 1730; Scienza nuova terza, 1744). Voltaire
(soprannome di Frangois Marie Arouet) (1694-1778) Nato a Parigi, studiò presso
i gesuiti della stessa città. Fre- quentò l’ambiente libertino di Parigi e si
prese un anno di prigione per il suo spirito dissacratorio e anticonformista.
Tra il 1726 e il 1729 fu in Inghilterra. Tornò in Francia per un decennio
circa, riti- rato in un castello della Lorena, poi andò a Berlino alla corte di
Fe- derico II. Trascorse gli ultimi venti anni a Ferney, in Francia, impe-
gnato a far conoscere le sue idee sulla tolleranza religiosa e sulla libertà.
Massimo esponente dell'illuminismo francese, tentò di operare una sintesi tra
il razionalismo di Cartesio e l'’empirismo di Newton. Dalla contingenza del
mondo egli argomenta a favore dell’esistenza di Dio, ma resta profondamente
agnostico per quanto concerne la sua natura e i suoi attributi. Anche riguardo
all’immortalità dell'ani- ma sostiene che bisogna credervi anche se non
esistono argomenti probativi per dimostrarla. In conformità con le esigenze
dell’illumi- nismo Voltaire è massimamente critico di ogni religione
istituziona- lizzata, in particolare del cristianesimo. Egli attacca con
critica spietata, ingiusta e beffarda tutte le dottrine e le strutture della
Chiesa cattolica. Opere principali: Edipo (1718); Lettere filosofiche
(1729-1732), Trattato di metafisica (1734); Elementi della filosofia di Newton
343 (1737); Il secolo di Luigi XIV (1753); Dizionario filosofico (1753);
Candido (1759); Trattato sulla tolleranza (1763); Questioni sui mira- coli
(1765); Filosofia della storia (1765); Filosofo ignorante (1766); Bisogna
prendere partito (1772); Questioni sull’Enciclopedia (1776). Whitehead Alfred
North (1861-1947) Matematico e filosofo inglese, nato nel Kent, a Ramsgate e
mor- to negli U.S.A. a Cambridge, nel Massachusetts. Giunse tardi alla
filosofia, dopo avere insegnato per molti anni geometria e mate- matica
all'università di Londra. Dal 1924 al 1937 occupò la cattedra di teoretica
all'università di Harvard. In collaborazione con Russell scrisse i famosi
Principia mathematica, opera volta a dimostrare che le matematiche pure
(compresa la geometria pura) sono un ramo del- la logica e le loro proposizioni
sono analitiche e non sintetiche a prio- ri come aveva sostenuto Kant. Sulie
orme di Peano e Frege, White- head pone come proposizioni iniziali pochi
principi logici, rappresen- tati da simboli formali, da cui, con un calcolo
logico, si deducono al- tre proposizioni. Con questo metodo vengono man mano
introdotti e dimostrati principi e teoremi. Il processo è puramente analitico e
a priori, indipendentemente dalle cose e dallo spirito. Non per questo
Whitehead sposa una visione idealistica della realtà: il mondo non emerge dal
soggetto come per gli idealisti, ma piuttosto il soggetto dal mondo. Ma questo
non significa che il soggetto procede dalla ma- teria come insegnano i
materialisti. La realtà è concepita come un processo, costituito da eventi in
connessione reciproca. Oltre che dagli eventi il processo è costituito da forme
e struiture ricorrenti che Whitehead chiama « oggetti eterni ». Al più alto
grado gli og- getti eterni costituiscono i valori {il bene, il bello, il vero)
che si rea- lizzano occasionalmente nel processo. Di qui la singolare
concezione del divino proposta da Whitehead: Dio è insieme ia « natura origi-
naria », in quanto contiene in sé la totalità degli oggetti eterni, e la «
natura conseguente », come realizzazione progressiva, interna al processo, di
tutti i possibili valori dell’esistenza. Dio, principio del bere e degli altri
valori supremi, è in lotta con ii male. Egli soffre per iiberarsene insieme a
quanti vivono e soffrono ia vicenda della vita. Alia filosofia del processo di
Whitehead si è ispirato un impor- tante movimenio teologico statunitense,
chiamato « teologia del processo » {Process theology). Opere principali:
L'organizzazione del pensiero (1917); Ricerca sui principi della conoscenza
naturale (1919); ii concetto di natura (1920); La scienza e ii mondo moderno
(1525); Processo e realtà (1929); Avventure delle idee (1933); Modi di pensiero
(1938); Scienza. e filosofia (1947). Wittgenstein Ludwig (1889-1952) Logico e
filosofo del linguaggio, massimo esponente prima del neopositivismo e poi
dell'analisi linguistica. Nato a Vienna, compì gli 344 studi in Germania e in
Inghilterra. Qui svolse anche la sua attività accademica a partire dal 1939
operando con B. Russell, a Cambridge, dove morì. Le due opere Tractatus
logico-philosophicus e Osserva- zioni filosofiche rappresentano due diverse
concezioni della filosofia del linguaggio, per cui si è soliti parlare di un
Wittgenstein I e di un Wittgenstein II. il primo (che è quello del Tractatus)
concepisce il linguaggio come rappresentazione delle cose, privilegia il
linguaggio scientifico su tutti gli altri e assume come criterio di
significazione la verifica sperimentale. Il secondo (che è quello delle
Philosophical Investigations) considera il linguaggio come un gioco le cui
regole so- no fissate arbitrariamente. Riconosce molti giochi linguistici
validi, purché siano regolati da un preciso e stabile gruppo di norme. Ri-
tiene che la funzione di linguaggio-guida, criterio di verifica per ogni altro
linguaggio, non spetti al linguaggio scientifico bensi al linguag- gio
ordinario. Opere principali: Tractatus logico-philosophicus (1918); Osser-
vazioni filosofiche (1964); Quaderno blu (appunti del 1933-34); Qua- derno marrone
(1934-1935); Osservazioni sui fondamenti della mate- matica (1956); Grammatica
filosofica (1969); Della certezza‘(1969). Wolff Christian (1679-1754) Nacque a
Breslavia e nel 1706 fu nominato professore nell'uni- versità della stessa
città. Il re Federico, convinto dai suoi avversari, gli tolse l'insegnamento
per il suo razionalismo religioso. Il succes- sore Federico II, però, lo
riconiermò nell'insegnamento. Discepolo di Leibniz, è l'autore di una sintesi
poderosa tra il pensiero filosofico tradizionale di stampo razionalistico e le
scoperte scientifiche del suo tempo. Egli divide tutta la filosofia in sette
parti principali: /ogica, antologia, cosmologia, psicologia empirica,
psicologia razionale, teo- fogia naturale, filosofia moraîe. Questa divisione verrà
regolarmente seguita dalla maggior parte dei filosofi dei secoli successivi.
Riguardo aì contenuto la filosofia di Wolff è sostanzialmente leibniziana. Come
Leibniz, Wolff elabora una spiegazione della realtà partendo da tre principi:
ragion sufficiente, armonia prestabilita, ottimismo. Offre, però, due
importanti novità: abbandono del concetto della monade, come sostanza semplice
costituente lo spirito e la materia; riduzione del principio di ragion
sufficiente al principio di non contraddizione. Opere principali: Philosophia
rationalis sive Logica (1728); Philo- sophia prima sive Ontologia (1729);
Philosophia moralis sive Ethica {1750-1753); Oeconomica (1750). Zenone (336-274
a.C.) Nato a Cizio, nell'isola di Cipro, si trasferì ad Atene dove fre- quentò
le scuole di diversi filosofi. Tenne ie sue lezioni sotto il Portico Dipinto
(Stoà Poikilé) di Atene. Da qui prese il nome ia sua dottrina filosofica: lo «
stoicismo ». La sua dottrina è essenzialmente di ordine morale, ma comprende
345 anche importanti elementi di metafisica e cosmologia. E i suoi inse-
gnamenti morali, estremamente rigorosi (soppressione delle passioni e degli
istinti, eliminazione del piacere, pratica della virtù) sono in perfetta
armonia con la sua visione metafisica. Questa pone al vertice di tutte le cose
il Logos (la ragione), il quale irradia la sua forza sulla materia a modo di
semi (/ogoi spermatikoi); questi germi svi- luppandosi danno origine agli
individui. I semi irradiati dal Logos non sono altro che frammenti del Logos
stesso. Anche l'uomo, come tutti gli altri esseri, è costituito da un frammento
del Logos (l’anima) e da una parte di materia (il corpo). L'uomo può essere
immortale solo in quanto cerca di identificarsi col Logos, cioè in quanto cerca
di superare la sua individualità, distaccandosi dalla materia. Opere
principali: La repubblica; I segni; Il discorso; La natura; La vita secondo
natura; Le passioni, 346 Parte quarta: GUIDA ALLA LETTURA DI ALCUNE OPERE DI
FILOSOFIA" « Il Fedone », di Platone « Il discorso sul metodo », di
Cartesio « La missione del dotto », di Fichte « Manifesto del partito comunista
», di Marx- Engels « Introduzione alla metafisica », di Heidegger Non c'è via
migliore alla conoscenza del pensiero dei filosofi della let- tura diretta
delle loro opere. Ma è evidente che per uno studente di liceo (e non soltanto
per lui) questa è un'impresa impossibile, dovendo egli, nel breve giro di tre
anni, prendere contatto con tutta la folta schiera di pen- satori che va dal
primo sorgere della filosofia fino ai giorni nostri. Cio- nondimeno, per ogni
epoca della storia della filosofia, i programmi gover- nativi prevedono che lo
studente effettui una lettura accurata e critica di almeno un'opera di un
grande autore. La scelta dell'opera è general- mente affidata al professore.
Quando insegnavo storia della filosofia in liceo ai miei studenti facevo
leggere tre opere, le quali oltre che importanti e significative in se stesse,
e per il nome dei loro autori, sono anche singolarmente adatte ad intro- durre
lo studente alle tre grandi epoche della storia della filosofia: an- tica,
moderna e contemporanea. Tali opere sono: — Il Fedone, di Platone — Il discorso
sul metodo, di Cartesio — La missione del dotto, di Fichte Per venire incontro
alle richieste di diversi insegnanti e per una mi- gliore completezza storica
del pensiero filosofico contemporaneo, abbia- mo aggiunto poi due opere, che
riteniamo significative, dei secoli XIX e XX: — Manifesto del partito
comunista, di Marx-Engels — Introduzione alla metafisica, di M. Heidegger. * Le
traduzioni di cui si siamo serviti sono le seguenti: PLATONE, Fedone, tr. di M.
VALGIMIGLI, Laterza, Bari 1946. CARTESIO, Il discorso sul metodo, tr. di G.
BONTADINI, La Scuola, Brescia 1957. FICHTE, La missione del dotto, tr. di C. MAZZANTINI,
Società ‘Editrice Interna- zionale, Torino 1957. MARx-ENGELS, Il manifesto del
partito comunista, tr. di E. CANTIMORI MEZZA- MONTI, Laterza, Bari 1974.
HEIDEGGER, Introduzione alla metafisica, tr. di G. Masi, Mursia, Milano 1979.
347 Le accuse a Socrate Difesa di Socrate: educazione del giovani all'esercizio
della virtù I. «IL FEDONE » Platone (427-347 a.C.) 1. Ambientazione storica
dell’opera Nel 399 a.C. Socrate viene condannato a morte dai governanti di
Atene sotto l'imputazione di empietà e corruzione delia gioventù, due accuse
che gli erano state mosse da varie parti già da molto tempo. Ancora nel 423,
nella commedia Le Nubi, Aristofane aveva attaccato Socrate proprio in quanto,
col suo spirito critico, incitava i giovani a considerare con di- sprezzo la
tradizione etico-politica della città, e in quanto con i suoi inse- gnamenti si
metteva fuori della stessa tradizione religiosa seguita da tutti i cittadini.
Alcuni anni più tardi ii poeta tragico Meleto aveva dichiarato: «Commette reato
Socrate, non ritenendo dèi quelli che considera tali lo Stato e tentando
inoltre di introdurre altri enti demoriaci nuovi; com- mette ancora reato
corrompendo i giovani ». In questo clima si spiega la denuncia contro Socrate,
che appariva a molti non soltanto l'avversario più accanito della cultura
allora impe- rante (quella sofista) ma anche come l'esponente intellettuale più
te- mibile per gli aristocratici che governavano la città. Probabilmente
l'o-biettivo dei suoi avversari era che egli se ne andasse in esilio e in
effetti gli proposero questa soluzione; ma Socrate volle affrontare il pro-
cesso, in cui respinse entrambe ie accuse: il suo obiettivo non era quello di
corrompere la gioventù, ma di sollecitarla alla pratica della virtù e al
‘perseguimento dei più elevati valori morali; quanto alla religione, egli non
avversava affatto la tradizione, ma cercava di ‘adeguarla alle esi- genze di
una maggiore razionalità. In tribunale, i più dovettero avere ia chiara
impressione che Socrate non intendeva affatto modificare ii suo atteggiamento;
ed i voti di coloro che si pronunciarono per la sua asso- luzione furono
inferiori a quelli necessari. Quando si trattò di definire il tipo di pena che
gli sarebbe stata inflitta, Socrate chiese ironicamente che gli venisse decretata
una pensione a vita, come benemerito dello Stato. La cosa suonò come una
provocazione e come un insulto alle isti- tuzioni cittadine; anche parecchi di
quelli che avevano votato a favore della sua assoluzione gli furono infine
contrari; ed egli fu condannato a bere la cicuta. L'esecuzione della pena
capitale, che di per sé doveva aver luogo im- mediatamente, fu rimandata d'un
paio di settimane, perché in quei giorni sì stavano celebrando le Delie (le
feste in commemorazione della impresa di Teseo) e pertanto non si potevano
eseguire pene capitali. In attesa dell'esecuzione della sentenza Socrate fu
rinchiuso in prigione. È ap- punto questo il luogo e il momento in cui si
svolge il dialogo tra Socrate e i suoi discepoli circa il destino ultimo
dell'uomo, 348 2. Ii dialogo, metodo dell’opera La metodologia filosofica ai
tempi di Platone è ancora in fase di gesta- zione e assestamento. Î primi
pensatori greci avevano dato espressione poetica alle loro meditazioni
filosofiche. Più tardi Aristotele introdurrà quelia che diventerà la forma
definitiva: quella sobria e rigorosa del trattato. Per esporre il suo pensiero
Platone si vale di una via di mezzo: meno libera ed alata di quelia poetica, ma
anche meno arida e sistema- tica di quella del trattato, ia via del diaiogo. Il
dialogo e il trattato perseguono lo stesso obiettivo ma cercano di raggiungerlo
in maniera diversa. Tutt'e due svolgono una tesi; ma mentre nel trattato il
discorso è sviluppato da una sola mente, la quale prima di accoglieria con
certezza definitiva, vaglia tutti i pro e contro della tesi, i! cialogo è tun
discorso tra due o più persone, le quali di fronte ad una tesi particolare,
assumono ciascuna una posizione perso- nale, Diversamente che nel trattato,
dove le obiezioni rimangono pure difficolrè. astratte da superare, nel dialogo
le tesi contrastanti si inca: nano in personaggi vivi: esse rappresentano il
loro modo di intendere le cose e di vivere ia vita. uesto è vero in rarticolare
del Fedone, del quale il Valgimigli scrive a ragion veduia che « quì non
abbiamo a che fare con un’opera filosofica pura e semplice, la quale possa
essere considerata esclusivamente nella sua astrattezza razionale, sia pure nel
vivo diaiettizzarsi del pensiero; qui abbiamo a che fare con un'opera ci
filosofia che si concreta s si avvia in una vera azione, che anche dai punto di
vista formale esterno si sviluppa in un vero dialogo, cioè in una scena che si
muove tra persone vere, non tra simboli, tra persone le quali, sì, ragionano,
ma anche sono agitaie e travagliate e conimosse e hanno un’ansia di ricerca che
non ie interessa solc intellettualmente, ma ie prende e conquide nella loro più
profonda umanità. Lo stesso Socrate avverte più volte, e scherzando se ne
giustifica, che questo ragionare lo tocca assai da vicino; e ci sono intorno a
lui il giovanetto Fedone e il vecchio Critone, e i due ospiti te- bani, e
Apollodoro che meno degli altri, guando Socrate beve il far- maco, riesce a
frenare il pianto; e tutti infine si velanc il capo e si traggo- no da parte, e
nella stanza ormai fatta oscura e silenziosa biancheggia ii iettuccio dov'è
disteso il maestro, il compagno e l’amico, con gli occhi e le labbra appena
chiusi per sempre dal pio atto di Critone ».i 3. Divisione e sintesi dell’opera
Ii dialogo si divide in due grandi parti (separate da un breve ma splendido
intermezzo), costruite in perfetta simmetria tra di loro. La prima comprende i
capiîci! 1-34; la seconda i capitoli 36-66. Entrambe le parti si articolano in
tre tempi: primo, annotazioni biografiche (nella prima parte Socrate è seduto
sui suo lettuccio, accanto a iui è Santippe, intorno gli amici, e Critone com
ia sua premura affettuosa e le sue rac- comandazioni un poco inopporiune; nella
seconda parte Socrate si trova nuovamente sul suo Jettuccio con intorno gli
amici piangenti); secondo, ! M, VALGIMIGLI, intrcduzione a PLATONE, Fedone,
Laterza, Bari 1946, pp. 1-2. 349 La metodologia platonica dei dialogo
Distinzione tra dialoge e trattato Il ‘“Fedone’”: un’opera di pensiero e
concretezza Struttura simmetrica del dialogo Un dialogo tra amici su Socrate
Gli ultimi istanti della vita di Socrate La sopravvivenza dell'anima dopo la
morte Filosofia e musica: aftinità tra mitologia e filosofia dimostrazione
dell'immortalità dell'anima (nella prima parte con le pro- ve della
reminiscenza e della affinità dell'anima con la sfera delle Idee: nella seconda
parte con la prova dei contrari e della partecipazione del- l'anima al mondo
delle Idee); terzo, miti (nella prima parte, il mito della metempsicosi; nella
seconda parte, il mito della condizione delle ani- me dopo la morte). Il
dialogo .tra Socrate e i suoi amici, in :particolare con Simmia e Cebete, due
pitagorici, è collocato in un contesto più vasto, che ha come interlocutori
Echecrate e Fedone. Questi, ritornando ad Atene dopo il volontario esilio che
si era imposto dopo la morte del maestro, passa da Fliunte patria di Echerate,
il quale coglie l'occasione per chiedere all'amico come Socrate avesse
trascorso i giorni del carcere. PRIMA PARTE (cc. 1-34) SEZIONE PRIMA (cc. 1-5)
1. Introduzione ‘Echecrate domanda informazioni a Fedone riguardo agli ultimi
mo- menti della vita di Socrate; più esattamente gli chiede due notizie: — Come
mai passò tanto tempo tra ‘la condanna e l'esecuzione della pena? — Chi era presente
alla morte di Socrate? ‘Alla prima domanda Fedone risponde che la ragione del
lungo inter- vallo fu la coincidenza della condanna a morte di Socrate con la
celebra- zione delle Delie, durante le quali non si poteva dare esecuzione a
nes- suna pena capitale. Alla seconda domanda risponde che erano presenti
alcuni ateniesi, tra cui Critone, due forestieri, Simmia e Cebete, che pro-
venivano da Tebe {cc. 1-2), e la moglie di Socrate, Santippe. Poi Fedone passa
a descrivere le prime vicende dell'ultimo giorno: l'allontanamento sofferto ma
deciso di Santippe da parte di Socrate dalla prigione, e lo scioglimento di
Socrate dalle catene. Quest'ultimo fatto offre a Socrate lo spunto per
introdurre il tema che gli sta a cuore, la sopravvivenza dell'anima dopo la morte.
Stropicciandosi la gamba indo- lenzita, Socrate pensa al singolare caso di due
esseri i quali, pur essendo tra loro contrari, piacere e dolore, non possono
stare separati; e chi fa per inseguire l'uno e lo prende, ecco che gli viene
subito dietro anche l’altro, quasi ‘che fossero legati insieme a un unico capo:
cosicché, dice, se Fisopo ci avesse posto mente, certo ne avrebbe composta una
del. le sue favole. Allora si introduce Cebete il quale chiede a Socrate: a
proposito, com'è che da quando sei qui, ti sei messo a musicare favole di Esopo
e un poema ad Apollo? Me l’ha domandato più volte anche l’amico Eveno. E tu
digli la verità, gli risponde Socrate: più volte nella vita passata mi apparve
un sogno, ora in questo, ora in quell’aspetto, e sempre mi di- ceva la stessa
cosa: — O Socrate, componi ed esercitati nella musica. — Ed io credevo in
verità che il sogno mi incitasse a quello che già facevo, ossia a filosofare,
ritenendo appunto che la filosofia fosse la più alta350 musica. Ma venuto qui
sono stato assalito dal dubbio che il sogno volesse intendere musica proprio
nel significato usuale e comune del termine; e allora mi parve bene obbedire
comunque al sogno; e così composi un inno ad Apollo e ho messo in musica alcune
favole di Esopo? Dì, dunque, all'amico Eveno, conclude Socrate, che questa è la
ragione della mia applicazione alla musica e alla poesia; e digli inoltre che «
se è savio, mi venga dietro al più presto ». Queste mie parole, insiste
Socrate, non devono sorprendere nessuno, perché tutti i veri filosofi
desiderano di morire, anche se non è loro consentito procurarsi la morte con
ila propria mano. A questo punto Cebete obietta: « Come dici, o Socrate, che
far vio- lenza a se stessi non è lecito, e d'altra parte che chi è filosofo
possa avere desiderio di andare dietro a chi muore? » L'obiezione interessa
molto Socrate, anche perché, a chi è sul punto di intraprendere il viaggio per
il mondo di là, niente si addiceè meglio che meditare intorno a questo viaggio.
SEZIONE SECONDA (cc. 6-13) 2. Immortalità dell'anima è Tesi di Socrate: Al
filosofo è lecito desiderare la morte Prima formulazione della tesi — Socrate
risponde all’obiezione di Cebete che per certi uomini e in certe circostanze è
meglio morire che vivere, però è loro vietato procurarsi la morte da se stessi
perché « noi uomini siamo come in una specie di carcere, e quindi non possiamo
libe- rarci da noi medesimi e tanto meno svignarcela », infatti: « Dei sono
coloro che hanno cura di noi uomini e noi siamo una delle cose in pos- sesso
degli Dei » (c. 6). Obiezione di Cebete — Appunto perché siamo nelle mani degli
Dei non è lecito al filosofo desiderare di morire. Si tratta infatti di una
cosa assurda che una persona saggia come il filosofo desideri sottrarsi al ser-
vizio di coloro che sono i migliori dominatori, dato che gli è impossi- bile
provvedere meglio a se stesso divenendo libero (c. 7). Seconda formulazione
della tesi — Socrate risponde a Cebete dando una formulazione più completa
della sua tesi. Afferma che è lecito desi- derare di morire perché egli crede
che dopo la morte si va presso altre divinità savie e buone, insieme a uomini
morti migliori dei vivi. « Data questa speranza, io non ho ragione di
rammaricarmi alla pari di chi eguale speranza non abbia; e anzi io sono pieno
di fede che per i morti ? Platone accenna ad una teoria che gli è molto cara:
quella delle affinità tra mitologia e filosofia: « C'è un “fare miti” o poetare
che non contraddice propriamente al “fare logoi” 0 filosofare, e anzi sono
ambedue, in vario senso, più compiuto o più limitato, un “fare musica”; e
codesto far miti o poetare può dar luogo esso al filosofare, e anche concludere
il filosofare, quando in questo far logoi il logos sia giunto a un punto
estremo oltre il quale non può più avere svolgimento senza mutarsi in mito »
(Ibidem, pp. 4-5). Questo spiega perché Platone accompagri sistematicamente le
sue argomentazioni filosofiche con immagini mitiche. Nel Fedone alle
dimostrazioni dell'immor- talità dell'anima, fa seguire il mito della metempsicosi
e il mito della con- dizione delle anime dopo la inorte. 351 I veri filosofi
desiderano la morte Non è lecito ad alcuno procurarsi la morte La vita
Immortale in La vita ascetica del filosofo puro ragionamento si rivela la
verità Astrazione e contemplazione La morte è indispensabile al raggiungimento
della sapienza , verità e virtù qualche cosa ci sia, e come anche si dice da
tempo, assai migliore per i b i che per i cattivi» (c. 8). Dimostrazione della
tesi (cc. 9-13) — Al filosofo è lecito deside- rare la morte, anzi, durante
tutta la vita non si cura di nient'altro se mon di morire ed essere morto,
perché la morte è la separazione dell'anima dal corpo, e questa separazione è
desiderabile per tanti motivi: Primo motivo. Durante la vita non vale la pena interessarsi
del corpo, e questo per quattro ragioni: 1) I piaceri del corpo sono troppo
caduchi. Perciò « il filosofo in tutte le cose sopra dette (mangiare, bere,
vestire...) cerca di liberare quanto più può l’anima da ogni comunanza col
corpo, a differenza degli altri uomini » {c. 9). 2) Il corpo impedisce
l’acquisto della sapienza. Vista e udito, che sono i sensi più perfetti, non ci
fanno conoscere niente di preciso e di sicuro, e invece di farci conoscere la
verità ci tirano in inganno. È solo nel puro ragionamento che si rivela
all'anima la verità. « L'anima ragiona con la sua migliore purezza quando non
la conturba nessuna di cotali sensa- zioni. Né vista, né udito, né dolore e
nemmeno piacere; ma tutta sola si raccoglie in se stessa, dicendo addio al corpo;
e, nulia più partecipando del corpo, né avendo contatto con esso intende con
ogni suo sforzo la verità » (c. 10). 3) Le idee di giustizia, bontà, ecc. non
possono essere percepite dal corpo; esse possono essere percepite solo da chi «
con purità perfetta massimamente si adoperi di avvicinarsi a ciascun oggetto
col solo pensie- ro, senza né aiutarsi, nel suo meditare, con la vista o con
altro senso [...] anzi astraendo, per quanto può, da occhi e da orecchi e
insomma da tutto il corpo, come quello che perturba l'anima e non le permette
di acqui. stare verità e intelligenza, quando abbia comunanza con esso » (c.
10). « Fino a quando abbiamo il corpo e la nostra anima è mescolata e con- fusa
con un male di tal natura, noi non saremo mai capaci di conqui- stare
compiutamente quello che desideriamo e che diciamo essere la verità » (c. 11) o
« sapienza » (cfr. c. 11 più avanti). 4) I) corpo stesso è causa delle
inquietudini che lo tormentano: « Infinite sono le inquietudini che il corpo sì
procura per le necessità del nutrimento [...] Guerre, rivoluzioni, battaglie,
chi altri ne è cagione se non il corpo e le passioni del corpo? » (c. 11).
Secondo motivo. La morte è desiderabile perché completa quella separazione tra
anima e corpo che è indispensabile per il raggiungimen- to della sapienza;
separazione che il filosofo ha cercato di attuare du- rante tutta la sua vita
con l’ascesi di purificazione. La purificazione con- siste nell'adoperarsi « in
ogni modo a tener separata l’anima dal corpo e abituarla a raccogliersi e a
racchiudersi in se medesima fuori da ogni elemento corporeo » (c. 12). Se il
filosofo non desiderasse la morte com- metterebbe una grande contraddizione,
perché il filosofo è per ogni ri- spetto in discordia con il corpoe ha
desiderio di essere solo con la propria anima e solo con la morte questo
diviene possibile (c. 11; cfr. la bellis- sima finale). Terzo motivo. La morte
è necessaria non solo per raggiungere la verità (o sapienza), ma anche per
raggiungere le altre virtù: giustizia, fortezza e temperanza. Solo i filosofi
considerano la morte un bene; tutti gli altri la mettono nel numero dei grandi
mali. Per cui, fatta eccezione per 352 il filosofo, tutti gli altri sono
coraggiosi perché sono vili e hanno paura, sono temperanti per la loro intemperanza,
per paura di restar privi di certi piaceri... (c. 13). SEZIONE TERZA (cc.
14-34) 3. Argomenti a favore dell'immortalità dell'anima Obiezione di Cebete —
Tutto quello che Socrate ha detto sulla desi- derabilità della morte è vero
solo a patto che l’anima sia immortale, ma molti uomini temono che, «
quand’ella sia distaccata dal corpo, non esista più in alcun luogo, e si guasti
e perisca il giorno stesso in cui l’uomo muore » (c. 14). :Perciò affinché sia
possibile accettare quello che Socrate ha detto sulla desiderabilità della
morte e sulla vita futura è necessario che Socrate provi prima che l’anima
seguita ad esistere quando l’uomo è morto, e poi che ella conserva potere e
intelligenza (c. 14). Socrate accetta la richiesta e adduce vari argomenti a
favore dell'immortalità dell'anima. 1) Il primo argomento è basato sulla
dottrina dei contrari — I con- trari (piacere-dolore, buono-cattivo,
vita-morte, caldo-freddo, etc...) si avvicendano in modo ciclico. Perciò i vivi
si generano dai morti e i morti dai vivi. Aspetto religioso dell'argomento.
Dottrina della metempsicosi: « C'è una antica dottrina che esistono colà anime
giuntevi di qui e che di là nuovamente tornano qui e che si rigenerano dai
morti nuovi esseri » {c. 15). Aspetto filosofico dell'argomento. Ogni essere
che ha il suo contrario, non da altro si genera se non da quello appunto che è
il suo contrario. « Ebbene, disse, al vivere c'è qualcosa di contrario, come
all'essere sveglio è contrario il dormire? Certamente, disse. E che cosa è? L'essere
morto, disse. E, dunque, questi due stati, se è vero che sono contrari fra
loro, non si generano così l’un dall'altro? [...] Senza dubbio » (c. 16). «
Dunque da ciò che è morto, o Cebete, si genera ciò che è vivo, e insomma dai
morti si generano i vivi? » — È chiaro, disse. — Dunque le nostre anime sono
nell’Ade. — Così pare (c. 16). Necessità di un perpetuarsi ciclico nel
passaggio da un contrario al- l'altro. « Perché non ci fosse tra gli esseri,
nel loro generarsi, una corri- spondenza perpetua degli uni con gli altri, come
se ruotassero in cerchio; e invece il processo generativo si svolgesse
esclusivamente da un essere al suo opposto, come in linea retta, e non girasse
più all'indietro verso il primo punto e non compisse il suo giro, tu capisci
bene che tutti gli esseri finirebbero con l'assumere la stessa forma e si
troverebbero nelle stesse condizioni e insomma cesserebbero di generarsi » (c.
17). « Se tut- te le cose che muoiono rimanessero in tale forma e non più
riprendessero il corso verso la vita, sarebbe necessario che alla fine tutto
fosse morto e più niente vivesse » (ib.). 2) Il secondo argomento è tratto
dalla dottrina della reminiscenza — Senza la preesistenza dell'anima la
reminiscenza è impossibile. La remi- 353 Argomenti a favore dell’immortalità
dell’anima I contrari si generano l’uno dall'altro Ciclicità della generazione
dei contrari Resistenza e reminiscenza: prove di immortalità fl ricordo delle
idee come criterio di giudizio Reminiscenza e perdita delle conoscenze alla
nascita Tutto ciò che è vivo si genera da ciò che è morto x niscenza non « è
possibile se l'anima nostra non esistesse già in qual. che luogo prima di
generarsi in questa nostra forma umana. Cosicché anche per questa via appare
che l’anima è qualcosa di immortale » (c. 18). Socrate distingue due modi di
reminiscenza: a) reminiscenza per contiguità; per esempio, vedendo la lira
dell’innamorato ci si ricorda del- la sua figura; b) reminiscenza per
somiglianza; per esempio, vedendo i’im. magine di Simmia, ci si ricorda della
sua persona. Poi, esaminando il se- condo tipo di reminiscenza {quello fondato
sulla somiglianza) trova che non è possibile giudicare della somiglianza tra
varie cose senza avere una idea universale di eguaglianza, dell’eguale in sé.
Ma questa idea dell’egua- le in sé non può essere ricavata dall'esperienza.
Infatti, nell'esperienza, le cose che giudichiamo eguali sono sempre difettose,
non sono perfette come l’eguale in sé. Ora per giudicare di questa discrepanza
tra l’eguale in sé e le cose eguali, colui che giudica « ha da essersi pur
fatta dapprima in qualche modo un'idea di quel tale essere a cui dice che la
cosa veduta s'assomiglia, ma rispetto alla quale è difettosa » (c. 19). «
Dunque prima che noi cominciassimo a vedere e a udire, insomma a far uso degli
altri sensi (cioè prima di nascere) bisognava pure che già ci trovassimo in
possesso della conoscenza dell’eguale in sé, che cosa realmente esso è, se poi
dovevamo, gli eguali che ci risultavano dalle sensazioni, ripor- tarli a
quello, e pensare che tutti quanti hanno una loro ansia di essere come quello,
mentre poi gli rimangono al di sotto » (c. 19). Questo si- gnifica che « prima
di nascere e subito dopo nati conoscevamo già non so- lo l’eguale e quindi il
maggiore e il minore, ma anche tutte insieme le al- tre idee; perché non tanto
dell’eguale stiamo ragionando ora, quanto anche del bello in sé e del buono in
sé e del giusto e del santo [...] » (c. 20). Il meccanismo della reminiscenza
viene spiegato nel modo seguente: « Acquistate delle conoscenze prima di
nascere noi le perdiamo nascendo; e poi, valendoci dei sensi relativi a certi
dati oggetti, veniamo recupe- rando di ciascuno di essi quelle conoscenze che
avevamo già anche pri- ma » (c. 20). Poi Socrate mostra che la reminiscenza è l’unico
modo di spiegare il fatto che noi non conosciamo immediatamente le idee appena
nati (cfr. c. 21). In conclusione: la reminiscenza delle idee postula la
preesistenza dell'anima. « Se veramente esistono questi esseri di cui an- diamo
ragionando continuamente e il buono, e il bello e ogni altro si- mile e a
ciascuno di questi riportiamo e compariamo tutte le impressioni che ci vengono
dai sensi riconoscendo che essi sono gli esemplari prima già posseduti dal
nostro spirito, non è necessario, per la stessa ragione onde questi esistono,
che anche esista la nostra anima prima ancora che noi siamo nati? » (c. 22).
Dimostrazione che l'anima continua ad esistere anche dopo la morte del cor po.
All’argomentazione di Socrate Simmia obietta: « Che cosa vieta che ella si
generi e si formi da qualche altra parte ed esista anche prima di giungere nel
corpo umano; ma che poi, quando vi sia giunta e se ne distacchi, allora finisca
anch'ella di esistere e si perda compiutamente? » (c. 23). Risposta di Socrate.
« Ebbene, o Simmia e Cebete, disse Sacrate, è dimostrato fin d'ora anche
questo: purché vogliate congiungere insieme il nostro presente argomento con
l’altro sul quale già ci mettemmo d'ac- cordo prima, e cioè che tutto ciò che è
vivo si genera da ciò che è morto. Infatti, se l’anima esiste anche prima, ed è
necessario che, entrando 354 essa per la sua generazione nella vita, non da
altro si generi se non dalla morte e dall'essere morti; come non è parimenti
necessario che ella seguiti ad esistere anche dopo la morte, se è vero che deve
poi nuova- mente rinnovarsi? Ed ecco dunque che anche questo secondo punto ri-
mane dimostrato senz'altro » (c. 23). (Digressione sul fanciullo dentro di noi
[la parte irrazionale dell'anima che non vede il bene e tende solo al piacevole],
che si spaventa davanti alla morte) (c. 24). 3) Il terzo argomento a favore
dell'immortalità dell'anima è basato sulla semplicità del suo essere — L'anima
non è soggetta a decompo- sizione perché il suo essere non è composto, ma
semplice. Ora solo gli esseri composti sono soggetti a corruzione. L'anima è
semplice perché è costante, invariabile e invisibile. L'anima ha queste doti
perché è « congenere alle idee che sono costanti, invariabili e invisibili ».
Le idee sono invariabili. « L'eguale in sé, il bello in sé e insomma ogni data
cosa che è in sé, l'ente, c'è mai caso che patisca mutazione veruna? — No » (c.
25). Le idee sono invisibili. « Quelle che rimangono costanti non c’è altro
mezzo col quale le possa apprendere se non col pensiero e con la medita- zione:
perché quelle di questa specie sono invisibili e non si possono per- cepire con
la vista » (c. 26). Il corpo invece è mutevole e visibile perché è simile alle
cose sensibili. Per cui l’anima soggeita al cotpo « va errando qua e là e si
conturba e barcolla come ebbra » mentre l'anima indipen- dente dal corpo « se
ne va colà dov'è il puro, dov'è l’eterno e l’immuta- bile e l’invariabile... e
cessa dal suo errare, e rimane sempre invariabil- mente costante » (c. 27).
fondato sulla fun- 4) Il quarto argomento a favore dell'immortalità è è padrona
del corpo. zione dell'anima nei riguardi del corpo — L'anima Ora questa è una
funzione divina {(c. 28). 5) Il quinto argomento si basa sul fatto che neppure
il corpo, pure appartenendo alla sfera del corruttibile, si corrompe
immediatamente, perciò tanto meno potrà essere distrutta l'anima dalla morte,
che appar- tiene alla sfera dell'incorruttibile. « Ebbene dunque, se tale è
l'anima, non se n’andrà ella a ciò che le è simile, cioè, dico, all’invisibile,
al divino, al- l'immortale, all’intelligente, dove giunta potrà essere in
realtà felice [....]? » (c. 29)? 4. Metempsicosi Dopo aver provato
l'immortalità dell'anima del filosofo, Socrate espone la sorte che tocca ai
filosofi e agli altri uomini dopo la morte. ? Gli studiosi sono in disaccordo
circa il numero delle prove che Platone elabora nel Fedone: chi ne conta tre,
chi cinque, chi otto. Però se si tiene conto della struttura dialettica
dell’opera, la quale esige che si considerino le singole argomentazioni non
come qualcosa di autonomo, completo e defi- nitivo, ma come elemento di un
unico tutto, allora si può ‘dar ragione a chi ritiene che Platone, alla fin
fine, sviluppi un'unica grande prova. Non figura peraltro nel Fedone la prova
della semovenza (cioè la prova fondata sulla proprietà che ha l’anima di
muovere se stessa e d’essere causa del proprio agire), a cui Platone dà ampio
risalto nel Fedro (cfr. B. Monpin, Corso di storia della filosofia, cit., pp.
90-91). 355 Semplicità e immortalità dell'anima L’anima Incontaminata ritorna
agli dei L'arnlma contaminata è nuovamente “incaîenata al corpo” La filesofia
conduce agli dei La morte non è per Socrate una sventura L'anima che durante la
vita non è stata contaminata dal corpo, cioè l'anima del filosofo, ritorna fra
gli Dei. Quest'anima « si diparte pura dal corpo; nulla del proprio conpo
traendo seco, come quella che nulla in vita, per quanto poté, volle avere in
comune con esso e anzi fece di tutto per fuggirlo e starsene tutta raccolta in
sé medesima » (c. 29; cfr. c. 32). L'anima che in questa vita è stata
contaminata dal corpo, alla morte « si parte dal corpo contaminata e impura,
come quella che fu sempre assieme col corpo e lo servì e Io amò e si lasciò
affascinare da esso, e cioè dalle sue passioni e dai suoi piaceri » (c. 30).
Quest'anima non può ritornare tra gli Dei, ma, vinta dalla sollecitudine del
corpo, « sarà tratta di nuovo in giù verso la ragione visibile, per paura
dell’invi- sibile, o, come dicono, dell’Ade; e se ne andrà girando intorno alle
tombe e ai sepolcri [...] fino a che, per l’insaziabilità di quel corporeo che
sempre l’accompagna, non è di nuovo incatenata in un corpo» (c. 30). « Queste
anime che durante la vita furono contaminate dal corpo, si reincarneranno e
assumeranno forme corporee diverse secondo le con- suetudini diverse che ebbero
in vita: così per esempio, quelli che furono dediti a gozzoviglie o a violenze
carnali, ecc. diventeranno asini e simili bestie; altri che furono ingiusti o
rapaci, diventeranno lupi e sparvieri e così via » (c. 31). Conclusione. Per
raggiungere gli Dei occorre mettersi sotto la guida della filosofia. « La
filosofia, prendendo ad educare la loro anima in tali condizioni (la condizione
di essere «incollata al corpo e costretta ad indagare la verità attraverso
questo, come attraverso un carcere »), cerca a poco a poco di guidarla e
addirittura si adopera di liberarla dal corpo » (c. 33). Sotto la guida della
filosofia «l'anima cerca di conquistare la propria serenità da codeste
passioni, seguendo il razio- cinio e in esso persistendo ininterrottamente,
attendendo alla contem- piazione del vero, del divino e di ciò che non è
soggetto all'illusione dei sensi » (c. 34). INTERMEZZO (c. 35) Quando Socrate
ebbe finito di parlare domandò se ci fosse qualche manchevolezza nei suoi
ragionamenti. Simmia risponde che ha dei dubbi, ma non osa manifestarli « per
la preoccupazione che potesse riuscirgli fastidioso questo domandare in un
momento così malaugurato ». Socrate protesta che se è così, cioè se è vero che
hanno paura di fargli delle do- mande, vuol dire che non è ancora riuscito a
convincere i suoi amici che egli non reputa sventura la sua condanna a morte, e
che essi lo riten- gono da meno dei cigni, i quali, con un canto più lungo e
più bello, sanno predire, quando si avvicina la morte, che andranno al Dio, di
cui sono devoti. Ma « anch'io credo di essere compagno di servizio coi cigni e
sacro al medesimo Iddio (Apollo) e di avere avuto dal Dio Signore non meno di
loro l'arte della divinazione; e perciò anche credo di potermi allontanare
dalla vita con non minore letizia » (c. 35). 356 SECONDA PARTE (cc. 36-66)
SEZIONE PRIMA (cc. 36-40) 1. Le obiezioni di Simmia e Cebete Obiezione di
Simmia — Simmia osserva che tutto quello che Socrate ha detto riguardo all'anima
e al corpo si può ugualmente dire dell’ac- cordo e della lira; anche l'accordo,
come l’anima, è invisibile, incorporeo, bello, divino; anche la lira come il
conpo è visibile, corporea, terrena, e insomma congenere del mortale. Possiamo
noi ammettere, secondo il tuo ragionamento, che, rotta la lira, possa seguitare
ad esserci l'accordo?
Ora, l’anima è una specie di accordo
degli elementi che costituiscono il corpo; e dunque se il corpo, che è
condizione indispensabile per l’esistere dell'anima, verrà meno, anche l’anima
necessariamente, per quanto di- vinissima, dovrà venir meno; e anzi verrà meno
prima del corpo, che durerà ancora per qualche tempo, fino a che non sia arso
dal fuoco o consumato dalla putredine (c. 36). Obiezione di Cebete — Cebete
dice che Socrate, con l'argomento della reminiscenza non ha fatto un passo
avanti nella dimostrazione dell'immortalità. Ha dimostrato che l’anima esiste
già prima del nostro nascere; ma che ella seguiti a vivere eternamente, questo
non pare an- cora dimostrato. Non già che egli sia d'accordo con Simmia, perché
crede che l'anima è più resistente del corpo: ma questo non basta a dimostrarne
l'immortalità. Facciamo un esempio: chi dura più a lungo, il tessitore o il suo
mantello? Chiaro, il tessitore. Infatti egli consuma diversi mantelli e
rispetto a questi mantelli si può dire che egli è morto dopo. Però se il
tessitore è morto non si può provare che egli è ancora vivo portando come prova
che l’ultimo mantello che si era tessuto e portava non è ancora consumato.
Applichiamo questo esempio alle relazioni tra l'anima e il corpo. L'anima può
via via consumare e ritessere sopra di sé più corpi, come il tessitore più
mantelli; e un giorno che ella venga a morire avrà sopra di sé l’ultima sua
tessitura e morirà prima di questa. Si può quindi concedere che sopravviva a
più corpi, ma chi potrà mai avere coscienza che il proprio corpo non sia
precisamente l’ultima tessi- tura della propria anima, e con codesto, anzi
prima, muoia anche la sua anima? Ecco perché io dico che sulla soglia della
morte ognuno ha ragione di temere che in quel momento avvenga anche per la sua
anima l'estrema dispersione e distruzione (c. 37). Gli argomenti di Simmia e di
Cebete fanno molta impressione sugli astanti che sono presi da un certo senso
di scoraggiamento e temono che la immortalità dell'anima non sia dimostrabile
(c. 38). Allora Socrate li ammonisce contro la malattia della misologia (cioè
dell’avversione al ragionamento) e raccomanda Îoro di « non diventare misologi
come si diventa misantropi. Perché non può capitare a uno peggior guaio di
questo, che gli vengano in odio i ragionamenti » {c. 39. Vedi la bellissima
spiegazione dell’origine della misantropia). Se un argomento appare una volta
vero e un'altra falso non è colpa sua: il ragionamento rimane sempre lo stesso,
o vero o falso. La colpa è solo di chi ragiona o meglio della sua imperizia
nell'arte del ragionare. E sarebbe molto pietoso se « per piacere di liberarsi
dal tormento di si- 357 Argomento di Simmia: l’accordo e la lira come l’anima e
il corpo Argomento di Cebete: l’anima è più resistente del Corpo, ma non necessariamente
eterna; il tessitore e il suo mantello Sopravvivenza, ma non eternità Socrate
contro la misologia che distrugge il sano ragionamento L’imperizia nell’arte di
ragionare La tesi di Simmia non spiega il vizio e la virtù C'è contrasto tra
anima e corpo Socrate e i naturalisti; come spiegare l’eguale esito dei
processi contrari? mile alternativa, egli finisse col respingere da sé quella
che è unicamente sua colpa e la gettasse addosso ai ragionamenti stessi, e così
ormai seguitasse tutto il resto della sua vita, odiando e maledicendo ogni ra-
gionamento, e si privasse della conoscenza e della verità di ciò che real-
mente esiste » (c. 39). Quindi, conclude Socrate, le obiezioni di Simmia e
Cebete « non devono scoraggiare più voi di quello che turbino me, e io non ne
sono certamente turbato perché non mi preoccupo tanto di fare apparire vero a
voi quel che dico, quanto che apparisca vero a me prima che ad ogni altro,
diversamente dai sofisti che non si curano già dove sia la verità in ciò di cui
stanno ragionando bensì di fare apparire vere a chi discute con loro le
questioni che essi stessi pongono » (c. 40). SEZIONE SECONDA (cc. 41-57 e 63)
2. Risposta di Socrate alie obiezioni di Simmia e Cebete Risposta all'obiezione
di Simmia (cc. 41-43) — Secondo Socrate l’obie- zione di Simmia, basata sulla
concezione dell'anima come epifenomeno del corpo, non regge per tre motivi: a)
Essa mette Simmia in contraddizione con se stesso, perché egli accetta
l'argomento della reminiscenza e sostiene allo stesso tempo che l’anima non è
altro che l'accordo degli elementi del corpo. Ora chi accetta l'argomento della
reminiscenza deve ammettere che l’anima esi- ste prima del corpo mentre chi
concepisce l'anima come accordo deve negare che l’anima esista prima del corpo
(come l’accordo non può esi- stere prima delle corde della lira) (c. 41). b)
L'anima non può essere concepita come accordo, perché in tal caso non si
potrebbe spiegare cos'è il vizio e la virtù; perché, in tal caso si dovrebbe
dire che la virtù è un accordo di un accordo ed il vizio un di- saccordo di un
accordo. Se l’anima è per definizione un accordo, « nessu- na anima pcetrà
avere più di un'altra né disaccordo né accordo [...] e an- cora se questa è la
sua condizione, nessun'anima potrà avere più di un’altra né vizio né virtù,
ammesso che vizio è il disaccordo e virtù è accordo » (c. 42). c) L'anima non
può essere concepita come accordo, perché tra anima e corpo non c'è accordo, ma
disaccordo, contrasto, lotta, guerra. « Per esempio, nel corpo c’è arsura e sete,
e l’anima lo tira, ai contrario, a non bere; c'è fame, e l’anima lo tira a non
mangiare, e così in mille aitri casi in cui vediamo che l’anima si oppone alle
passioni del corpo » (c. 43). Risposta all'’obiezione di Cebete — Passando alla
obiezione di Cebete, Socrate dice che in sostanza Cebete domanda che sia
dimostrato che l'anima nostra è indistruttibile ed immortale {c. 44). « Non è
cosa da poco, o Cebete, quello che cerchi; bisognerà rifarsi a ricercare in
genere la causa della generazione e della corruzione delle cose. Ora io ti dirò
a questo proposito, se vuoi, quello che è capitato a me e se qualche cosa di
quello che sono per dirti ti sembrerà utile potrai usarne [...] » (c. 45).
All’inizio Socrate seguì i naturalisti. « Quand’erc giovane fui preso da una
vera passione per quella scienza che chiamano indagine della na- tura ». Ma poi
« finii col persuadermi che a questa specie di indagini io 358 ero nato assai
meno di ogni altro. E a persuadertene basterà questo. Che quelio che già prima
sapevo con chiarezza [...] ecco che allora, per effetto di queste ricerche mi
si abbuiò totalmente cosicché disimparai anche quello che prima credevo di
sapere [...] » {c. 45). Il problema che tormen- tava Socrate e a cui i
naturalisti erano incapaci di dare una risposta era come sia possibile con due
processi contrari (per es., sottrazione e addi- zione) ottenere lo stesso
risultato (per esempio si può ottenere con l'addizione di due unità e con la
divisione di 4 in due parti eguali) e come una stessa cosa possa essere
chiamata a volte grande e a volte piccola. Poi si entusiasmò per Anassagora. «
Ma udito una volta un tale leggere da un libro, come egli diceva, di
Anassagora, e dire che dunque c'è una Mente ordinatrice e causa di tutte le
cose, io mi rallegrai di questa causa, e mi parve, secondo un mio modo, che
questo porre Ja Mente come causa di tutto, convenisse sommamente. Presi con
grande sollecitudine quei suoi libri, mi misi a leggerli con la maggior
rapidità, perché volevo, con la maggior rapidità, conoscere il meglio e il
peggio » {c. 46). Ma Socrate restò deluso da Anassagora, quando si accorse che
anziché attribuire alla causalità della Mente l'origine delle cose, la
attribuiva alle cose mate- riali. « Ed ecco, invece, o amico, che da così alta
speranza io mi sentivo cadere giù e portar via man mano che, procedendo nella
lettura, vedevo quest'uomo non valersi affatto della Mente, non assegnarle
alcun prin- cipio di causalità nell'ordine dell'universo, bensì presentare come
cause e l’aria e l'etere e l’acqua e altre cose, e tutte quante fuori di luogo;
e mi parve fosse proprio lo stesso che se uno, pur dicendo che Socrate tutto
quello che fa lo fa con la mente, quando poi si provasse a determi- nare.le
cause delle cose che io faccio, incominciasse col dire che ora, per esempio, io
sono qui seduto per il fatto che il mio corpo è composto di ossa e nervi [...]
senza curarsi affatto di dire quelle che sono le cause vere e proprie: e cioè
che, siccome agli Ateniesi parve bene votarmi contro, per questo anche a me è
parso bene restarmene a sedere qui, e ho ritenuto mio dovere non andarmene via
[ ...]}. Ma chiamar cause ragioni di questo genere non ha a che fare
assolutamente. Ché se uno dice che io, senza avere di codeste cose e ossa e
nervi e tutto quello che ho non sarei capace di fare quello che mi sembra di
dover fare, sta bene, costui dirà il vero. Ma dire che queste sono la causa per
cui io faccio quelio che faccio, e dire ai tempo stesso che io opero con la
mente, ma senza che ci sia per mia .parte la scelta dei meglio, questo in
verità è il più grossolano e insensato modo di parlare. Questo significa essere
incapaci di discernere «che altro è la causa (aition) vera e propria, altro
quella cosa senza cui la causa non potrà mai essere causa » (c. 47), ossia altro
è la causa e altro è la condizione necessaria. Ora questa è precisamente una
distinzione che Anassagora non era riuscito a vedere. La ricerca della vera
causa condusse Socrate alla scoperta della dot- trina {ipotesî) delle « idee »
— Disgustato di Anassagora, Socrate abban- donò la filosofia dei naturalisti e
si mise alla ricerca della vera causa, e disse che per trovarla dovette
rifugiarsi nei concetti (logoi) e « consi- derare in essi la realtà delle cose
esistenti » {c. 48). «Io mi misi dunque per questa via; e assumendo caso per
caso come vero quel concetto che io giudicassi più sicuro e più saldo, ie cose
che a questo concetto mi par- vero accordarsi, queste ritenevo come vere, sia
rispetto alla causa, sia rispetto a tutte ie altre questioni; quelle che no, io
ritenevo come non 359 Socrate come Anassagora: le cose sono originate dalle
cose materiali e non dalla mente Distinziene tra causa e origine delta causa in
quanto fale La ricerca della vera causa nei concetti La presenza 0 comunanza
delle cose al suo concetto La dottrina delle Idee spiega l’essere e il divenire
Apparente contraddizione della tesi sulla teoria delle idee con l'argomento
contro Cetete Occorre distinguere i contrari nelle cose dai contrari in sé Le
cose nartecipano dei contrari, ma non sono necessariamente contrarie in sè
vere. Ma voglio chiarirti meglio ciò che intendo dire, perché penso che tu ora
non capisca » (c. 48). Socrate passa quindi a dimostrare apertamente qual è la
specie di causa che si è costruita. « Poniamo dunque che esista, (si tratta
quindi di un'ipotesi) un bello in sé, un buono in sé, un grande in sé, e così
via: le quali cose se tu mi concedi e ammetti che esistano realmente io ho
speranza, movendo da queste di scoprire la vera causa e di dimostrarti che
l’anima è immortale ». Infatti, ammesse le Idee, Socrate trova che esse sono la
vera causa. « A me pare infatti che, se c'è cosa bella all'infuori del bello in
sé per nessuna altra ragione sia bella se non perché partecipa di codesto bello
in sé. E così dico naturalmente di tutte le altre cose [....]. Niente altro fa
sì che quella tale cosa sia bella se non la presenza o comu- nanza di questo
bello in sé (e ekeinu tu kalù eite parusia eite koinonia) o altro modo
qualunque onde codesto bello le aderisce. Perché io non insisto affatto su
questo modo, e dico soltanto che tutte le cose belle sono belle per il bello »
(c. 49). La dottrina delle Idee spiega non solo l'essere delle cose finite, ma
anche il loro divenire. Infatti, dice Socrate, una data cosa si genera in quanto
viene a partecipare di quella essenziale realtà che è propria di quella data
idea onde essa partecipa; e così nei casi sopraddetti, tu non hai altra causa
da addurre di codesto diventar due, se non la parteci- pazione alla dualità, e
che di questa dualità bisogna che partecipino tutte ie cose che sono per
diventare due e dell'unità le cose che sono per diventare uno » {c. 49). C'è
però una difficoltà: come si spiega con la teoria delle Idee che la stessa cosa
è chiamata grande e piccola (ad esempio, Socrate è chia- mato grande rispetto a
Cebete e piccolo rispetto a Simmia)? Socrate ri- sponde che ia difficoltà è
puramente verbale. In realtà « non solo la grandezza non vuole mai essere
grande e piccola al medesimo tempo, ma altresì la grandezza che è in noi non
vuole mai accogliere la picco- lezza e tanto meno esserne superata: e allora
delle due l'una o fugge o cede il posto, quando il suo contrario, la
piccolezza, le si avvicina, o addirittura quella sopravvenendole perisce; ma di
restar ferma aì suo posto e ricevere in sé la piccolezza, e essere diversa da
ciò che era prima, questo non vuole assolutamente » {c. 50). Qui pare però che
Socrate si contraddica con quello che aveva affer- mato prima riguardo ai
contrari, cioè che un contrario genera l’altro e Cebete fa presente a Socrate
la difficoltà. Socrate chiarisce la difficoltà facendo vedere che essa deriva
da un semplice malinteso: « Prima non si ragionava dei contrari, ma delle cose
che hanno in sé i contrari (alle quali per questo si dà pure il nome di
contrari). Ora parliamo dei con- trari in sé che noi riteniamo non vorranno mai
accettare di generarsi gli uni dagli altri » (c. 50). Ultima dimostrazione
dell'immortalità dell'anima (cc. 52-56) — Ora Socrate applica la dottrina che
due contrari non possono partecipare l’uno dell'altro, (perché si oppongono e
si escludono; e nel caso che so- pravvenga l’altro contrario il primo deve
allontanarsi o perire) a quelle cose che non sono contrarie (solo le Idee si
possono chiamare propria- mente contrarie) ma partecipano essenzialmente dei
contrari {per esem- pio la neve e il fuoco non sono contrari, ma partecipano
essenzialmente del freddo e del caldo che sono contrari). Tali cose quando
sopravviene l’altro contrario non possono riceverlo, 360 ma'devono 0 allontanarsi
o perire. Così, per esempio, la neve partecipa essenzialmente del freddo. Se
sopravviene il caldo essa deve o allontanarsi o perire. Infatti, poiché
partecipa essenzialmente del freddo, essa non può più essere neve se perde il
freddo. Ciò che è essenziale non può essere ab- bandonato senza perire. Questo
è precisamente il caso dell'anima. L'anima non è un contrario (perché non è
un'Idea) ma partecipa essenzialmente ad uno dei contrari (la vita). Per cui
l’anima, quando sopravviene l’altro contrario (la morte), deve o allontanarsi o
perire. Secondo Socrate l’anima non può perire perché incorruttibile. Cebete
concede che bisogna am- mettere non solo che l’anima è immortale (cioè non
soggetta al contrario della vita, la morte) ma anche che è imperitura, perché
se si ammette che « l'immortale che è eterno si corrompa » sarebbe impossibile
poter cre- dere che nel mondo esista alcunché di incorruttibile (cc. 52-55 a).
3. Conclusione Non solo Dio e l’Idea della vita sono incorruttibili e
imperituri, ma anche l’anima. « E quindi se la morte si abbatte sull'uomo, la
parte di lui che, come sembra, è mortale, muore: la parte che è immortale, se
ne va via salva e incorrotta sfuggendo la morte » (c. 56). ; Simmia però non è
completamente pago della dimostrazione di So- crate. Questi gli dà ragione
perché « quelle nostre prime ipotesi (le Idee), se anche non sono a te e agli
altri cagione di dubbio, gioverà in ogni modo, per ragione di sicurezza,
riesaminarle da capo » (c. 56). Però Socrate ritiene che se anche le prove non
sono del tutto convincenti, l’a- nima è senza dubbio immortale. Dopo
l'esposizione del mito meraviglio- so del giudizio delle anime dei morti e la
descrizione della terra ideale, Socrate conclude: « Certo, ostinarsi a
sostenere che le cose siano proprio così come io le ho descritte non si addice
a uomo che abbia senno; ma che sia così o poce diverso da così delle anime
nostre e delie loro abitazioni dopo che s'è dimostrato che l’anima è immortale,
sostenere questo mi pare che si addica e anche si possa avventurarsi a crederia
» (c. 63). Quanto a sé. conclude Socrate serenamente e solennemente, egli non
ha nulla da temere perché « timori per la propria anima non deve avere chi
nella vita disse addio ai piaceri del corpo e ai suoi ornamenti, sa- pendo che
gli sono estranei, e persuaso che più gli possono far male che bene; e si curò
invece dei piaceri deli'apprendere, e l'anima adornando non di ornamenti a lei
alieni, ma di quelli suoi propri, temperanza, giu- stizia, fortezza, libertà,
verità, attende così preparato l'ora del suo viaggio all’Ade, pronto a pigliare
la sua strada appena il! destino lo chiami » {c. 63). SEZIONE TERZA (cc. 57-66)
4. Il mito delle anirne dopo la morte « Ebbene, o amici, questo se non altro,
sarà bene sia chiaro nella mente: che se l’anima è immortale essa ha il diritto
che se ne abbia cura; né solo per questo spazio di tempo che chiamiamo vita, ma
per sempre e che ormai, dopo quel che s'è detto, anche il pericolo, a chi non
ne abbia 361 L’anima partecipa a uno dei contrari: la vita Incorruttibilità e
immortalità Non teme ia moris chi ha vissuto bene la vita Avere cura per
l’anima che è immortale Sosmogratia pitagorica, dicotomia plaionica e mito
della caverna Ultime parole dii Socrate cura, dovrà apparire assai grave. Infatti,
se la morte fosse una libera- zione da ogni cosa, gran fortuna sarebbe per i
trisii, morendo, sentirsi liberi non solo dai corpo, ma, nello stesso tempo,
insieme con l'anima anche delia loro tristezza. Ma ora che l’anima ci si è
rivelata immor- tale, nessuno scampo essa potrà avere dai mali, né alcuna
salvezza, se non in quanto diventa il più possibile virtuosa ed intelligente.
Perché nient'altro l'anima ha seco, andando all’Ade, all'infuori della sua cul-
tura e dei suo costume, che è ciò appunto come dicono che grande- mente giova o
nuoce a chi muore, subito al principio del suo viaggio all’al di là » (c. 57).
5. Figura e dimensione delia terra (cc. 58-61) Questi capitoli sono importanti
per tre motivi: a) sono un docu- mento molto interessante per la conoscenza
cella cosmografia pitagorica: ia terra non è piatta (come dicevano gli Ionici),
ma sferica; è molio gran- de ed è collocata nel mezzo dell'universo; b) Platone
vi espone la distin- zione fondamentale tra mondo sensibile ed intelligibile,
tra la nostra terra e la terra ideale; c) c'è infine una chiara allusione al
mito della caverna (cfr. c. 58, 109c - ii0 Db). 8. La morte di Socrate (cc.
64-66) Ultime parole di Socrate: « O Critone, disse, noi siamo debitori di un
gallo ad Asclepio: dateglielo e non ve ne dimenticate » (c. 66). Il significato
di questa ingiunzione è il seguente: chi guariva da una malattia, in segno di
gratitudine usava offrire un gallo ad Asclepio (detto anche Esculapio), il dio
della medicina. Ora, essendo per Socrate l’esistenza corporale una malattia e
la morte una guarigione ed una liberazione, è quindi giusto che morendo si
mostri grato ad Esculapio. Intanto la cicuta che Socrate aveva bevuto da poco,
comincia a produrre il suo effetto letale. Tutti intorno scoppiano in lacrime.
Socrate si corica sul suo lettuccio e poco dopo muore. Critone gli chiude le
labbra e gli occhi. « Questa, o Eche- crate — soggiunse Fedone — fu la fine
dell'amico nostro: un uomo, noi possiamo dirlo, di quelli che allora conoscemmo
il migliore; e senza paragone il più savio e il più giusto ». QUESTIONARIO DI
VERIFICA E DISCUSSIONE + Che senso ha la vita per Socrate? . Che valore assegna
Platone alla conoscenza intellettiva? . Come giustifica il valore assoluto
della conoscenza intellettiva? . Quali sono le principali prove
dell'immortalità dell'anima? . Come formula la prova basata sulla reminiscenza?
. Come formula la prova basata sulla « parentela » o affinità dell'anima con il
mondo delle Idee? 7. Come formula la prova basata sulla partecipazione dell'anima
all’Idea della Vita, ossia al contrario dell’Idea della Morte? 8. Quali sono le
obiezioni di Simmia e Cebete alla tesi di Socrate? 9. Che valore annette
Socrate alle sue argomentazioni? 10. Confrontare le prove del Fedone con quella
del Fedro. SAAWwWNA 362 11. Che rapporto pone Platone tra immortalità
dell'anima e la teoria delle Idee? 12. In che cosa consiste il mito della
metempsicosi? Sviluppare la conce- zione platonica dei rapporti tra mito e
filosofia. 13. Su quali ragioni fonda Platone la dottrina delle Idee nel
Fedone? 14. Quali sono le implicazioni etiche della dottrina della immortalità
del- l'anima? — Illustrare l'ascesi platonica: rapporti tra teoria e prassi.363
A Cartesio si deve l'impostazione della filosofia moderna Le quattro caratteristiche
presentate nell’opera sono: autonomia, gnoseologia, metodo e antropocentrismo
Obiettivo di realizzare una scienza universale e rigorosa li. IL « DISCORSO SUL
METODO » Cartesio (René Descartes, 1596-1650) 1. Origine dell’opera Cartesio è
universalmente riconosciuto come il padre della filosofia moderna. A lui in
effetti spetta il merito d'aver dato a quest'ultima i li- neamenti che la
caratterizzano: autonomia della filosofia rispetto alla teologia; orientamento
spiccatamente gnoseologico anziché metafisico: il primo e massimo problema da
risolvere è quello della conoscenza, del suo valore e della sua portata;
preoccupazione per il metodo: per dare solidità e organicità alla ricerca
filosofica occorre valersi di un metodo sicuro e rigoroso; attenzione per
l’uomo, che ora viene posto al centro di tutte le ricerche e di tutte le cose:
dal teocentrismo si passa all’antro- pocentrismo. Il « manifesto » della nuova
filosofia è la prima importante opera filo- sofica di Cartesio, Discorso sul
metodo. In questo breve e tuttavia ri- voluzionario saggio, si annunciano
chiaramente i quattro lineamenti ca- ratteristici della filosofia moderna:
autonomia della filosofia, orientamento gnoseologico, interessamento per il
metodo, antropocentrismo. Cartesio aveva avvertito la necessità di rinnovare lo
studio e l'insegna- mento della filosofia ancora quando frequentava la scuola
dei gesuiti a Parigi. Ma un piano preciso di revisione gli si presentò alla
mente per la prima volta nel 1619 durante una visione. Allora Cartesio, che si
era arruolato con le schiere degli imperiali (era scoppiata da poco la Guerra
dei Trent'anni), si trovava in Germania. All’inizio dell'inverno, dove si erano
fermati a svernare, « non trovando alcuna conversazione che lo svagasse, e non
avendo d'altronde né preoccupazioni né passioni che lo turbassero, restava
tutto il giorno solo accanto ad una stufa, dove aveva tutto l’agio di
intrattenersi con i suoi pensieri ». Ed ecco, appunto, a risultato della
assidua e profonda meditazione, la visione. Gli comparve l'Angelo della Luce e
gli fece comprendere che il metodo matematico che aveva adoperato con tanto
profitto nelle studio dell'algebra e della geometria era un metodo valido per
tutte le scierize, compresa la filo- sofia. Di qui la risoluzione di Cartesio
di tradurre in realtà la « scoperta mirabile »: si propose di elaborare una
scienza universale dotata di quella rigorosità, certezza e precisione tipiche
della matematica. Per alcuni anni lavorò all'applicazione della matematica alla
fisica, facendo vedere che « la fisica, la quale fino al suo tempo era ancora
unita alla medicina e alla filosofia si poteva tradurre in numeri ». Più tardi
cercò di compiere la stessa impresa anche per la filosofia: Dio e gli angeli, i
misteri del tempo e dello spazio, delle piante e degli animali, le complicate
relazioni sociali, anche quella creatura complessa e sfuggente che è l’uomo,
dove- vano essere tradotte in idee chiare e distinte come se si trattasse di
quan- 364 tità matematiche. « Tutte le scienze », scrive Cartesio, « sono
legate tra loro da una catena; non è possibile afferrare alcuna di loro senza
aver compreso le altre e pertanto senza abbracciare contemporaneamente tutta
l'enciclopedia del sapere ». E ancora: « Tale scienza dovrebbe in- cludere
tutti i primi rudimenti della ragione umana, e il suo dominio dovrebbe
estendersi fino a comprendere la conoscenza di tutte le cose ». Pertanto, il
mondo e qualsiasi conoscenza sono raggiungibili col nuovo metodo. Per quanto
Cartesio ascriva la sua « mirabile scoperta » ad una visione (a qualcosa di
imprevisto, subitaneo e in certa misura soprannaturale), in effetti non si
trattava di un'idea priva di precedenti. Uno dei suoi pro- fessori al collegio
dei gesuiti, padre Clavius, ch'egli stimava e apprezzava moltissimo se n'era
fatto già da tempo convinto assertore. Nelle sue Opere matematiche; stampate
nel 1611, aveva scritto: « Le discipline matematiche dimostrano e giustificano
con le più solide ragioni tutto ciò che è oggetto di discussione, cosicché esse
producono effettivamente la scienza e scacciano dalla mente dello studente
qualsiasi dubbio. La stessa cosa non si può assolutamente affermare delle altre
scienze, nelle quali molto spesso la mente resta incerta e dubbiosa circa il
valore delle con- clusioni, talmente numerose sono le opinioni e contrastanti i
giudizi [...]. I teoremi di Euclide come pure quelli degli altri matematici,
oggi sono ancora così veri, sicuri nei loro risultati, solidi nelle loro
dimostrazioni, come erano molti secoli orsono [...] Ora, siccome le discipline
matema- tiche sono così completamente assorbite dall'amore e dal culto della
verità, che nel loro ambito nulla di falso viene recepito e neppure ciò che è
meramente probabile [...] non si dà alcun dubbio che tra le varie scienze il
primo posto spetta alla matematica ». Queste teorie del padre Clavius erano
certamente note a Cartesio, il quaie le fece sue. Un po’ alla volta esse
fermentarono nella sua mente fino ad esplodere nella celebre visione del 1619.
Come s'è detto, Cartesio in un primo tempo effettuò l’applicazione del metodo
matematico alle scienze sperimentali e poi, in un secondo tempo, alla
filosofia. Dopo una decina d'anni di ricerche ininterrotte un nuovo sistema
cominciò a delinearsi con chiarezza nella sua mente, un sistema che si
distingueva nettamente sia da quello di Platone come da quello di Aristotele e
degli Scolastici. Nel 1628 Cartesio si sentiva ormai così sicuro di sé che non
esitò a prendere parte ad una discussione pub- blica, tenuta a Parigi alla
presenza del nunzio pontificio, il cardinale Berulle, e di padre Mersenne, con
alcuni dei massimi filosofi e scienziati del tempo. Con le sue istanze di
chiarezza, rigorosità e precisione in materia di metodo, Cartesio impressionò
profondamente il Berulle, il quale lo invitò a mettere per iscritto le sue
teorie per controbattere gli argomenti degli scettici e degli atei. Nel 1633
Cartesio aveva portato a compimento una vasta opera di fisica e di filosofia,
intitolata /l Mondo, ma la notizia della condanna di Galileo lo indusse a non
procedere alla sua pubblicazione. Da essa stralciò tre trattati (Diottrica,
Meteore e Geo- metria), ai quali appose come introduzione il Discorso sul
metodo, e li consegnò alle stampe nel 1637. Il piano di quest’ultima opera era
già stato definito l’anno precedente. Nel marzo del 1636 Cartesio ne aveva dato
l'annuncio all'amico Mer- senne con queste parole: « L’opera comprenderà
quattro trattati, tutti in francese, e il titolo generale sarà: Progetto di una
scienza universale che 365 La connessione tra le scienze Primato epistemologico
delle discipline matematiche Metodo matematico dalle scienze sperimentali
applicato alla filosofia La chiarezza cartesiana a servizio del dibattito
teologico Il ‘‘Discorso’’ come proposta e come pratica Divisione dell’opera in
sei parti possa elevare la nostra natura al più alto grado di perfezione. Più
la Diot- trica, le Meteore e la Geometria: in cui le più curiose materie,
scelte per prova della Scienza universale proposta dall’Autore, sono spiegate
in modo che possano essere intese anche da coloro che non le hanno mai studiate
». Seguiva un sommario delle materie studiate nei tre saggi. Quando Cartesio
così scriveva a Mersenne, non aveva ancora steso tale parte preliminare. La
compose invece alcuni mesi dopo, nello stesso anno, in autunno, secondo
l'attestazione ch'egli ci fornisce alla fine della III Parte del Discorso. 'In
una sua lettera al padre Vatier confessa ch'egli finì di scrivere il Discorso
mentre, essendo già composto tutto il resto, il libraio pressava perché gli
mandasse quella parte. La quale, è da sup- porre, soltanto allora venne fuori
col titolo, che poi mantenne, di Discorso sul metodo. Intanto, quando nel marzo
del 1637 Mersenne ricevette il pacchetto delle bozze del volume completo,
dovette meravigliarsi di non trovare il preannunciato « quarto trattato », ma
semplicemente un « discorso » e ne scrisse a Cartesio, il quale così gli
rispose: « Non capisco bene ciò che voi obiettate riguardo al titolo: io non ho
messo Trattato, ma Discorso, ch'è come dire Prefazione o Avvertenza, e ciò
perché fosse chiaro ch'io del metodo non pretendo di offrire una trattazione da
insegnare agli altri ma soltanto di parlarne (come di esperienza personale):
perché, come si vede anche da ciò che vi ho detto, esso consiste più nella
pratica che nella teoria, e vi ho inserito qualcosa di metafisica, di fisica e
di medicina per mostrare che tal metodo si estende a ogni sorta di materie ».
Ottenuta l'autorizzazione del re per il libraio, il volume poté finalmente
uscire recando nel frontespizio la dicitura stabilita: « Discours de la Méthode
pour bien conduire la raison, et chercher la vérité dans les sciences ». 2.
Divisione e sintesi dell’opera In apertura del Discorso Cartesio stesso
fornisce al lettore una lucida divisione dell'opera. Essa consta di sei parti
le quali trattano nell'ordine: I. L'esperienza scolastica di Cartesio e il suo
giudizio sulle varie di- scipline studiate al collegio dei gesuiti. II. Le
principali regole del metodo. III. I principi fondamentali della morale. IV. II
dubbio metodico e i fondamenti della metafisica, Dio e l’anima umana. V. Il
corpo umano, spiegazione del movimento del cuore, la differenza che passa fra
l’anima umana e quella delle bestie. VI. Considerazioni sul progresso delle
scienze e motivazioni per la pubblicazione dell’opera in lingua francese
anziché in latino. 366 PRIMA PARTE L'ESPERIENZA SCOLASTICA DI CARTESIO E LA
SCOPERTA DELLA NECESSITÀ DI UN METODO RIGOROSO 1. Necessità del metodo Gli
uomini, che pure sono tutti eguali in fatto di intelligenza (che Car- tesio
chiama « buon senso » o « ragione »), ottengono tuttavia risultati diversi a
seconda del metodo adoperato. Di qui l’importanza capitale del metodo. Ma i
metodi finora usati non sono affatto buoni; per questo i ri- sultati conseguiti
sono stati quasi sempre meschini. Cartesio informa il lettore di avere scoperto
un metodo particolarmente efficace e perciò ha deciso di renderlo pubblico, non
con lo scopo di insegnare a tutti come devono condurre la propria ragione ma
soltanto per mostrare agli altri come egli abbia condotta la sua (pp. 7-10). 2.
La storia della propria educazione e l'utilità dello studio delle materie sco-
lastiche (pp. 10-20) Cartesio racconta che aveva iniziato gli studi dai gesuiti
con la per- suasione che per mezzo delle varie discipline scolastiche avrebbe
potuto acquistare una cognizione chiara e sicura di tutto ciò che è utile alla
vita. Ma dopo alcuni anni di studio si accorse che sebbene l'istruzione scola-
stica gli avesse insegnato molte cose utili ed interessanti, perché tutte le
discipline (storia, poesia, retorica, filosofia, teologia, ecc.) gli avevano
fatto apprendere qualche cosa, non aveva tratto altro profitto... se non quello
di aver scoperto sempre più la sua ignoranza (p. 10). Infatti nessuna
disciplina è capace di insegnare tutto quello che è utile alla vita. Non la
storia che ci dà del passato notizie sempre impre- cise e talora false e ci
lascia completamente ignoranti della situazione presente e futura. Non la
retorica e l’arte poetica, che sono del tutto su- perflue dato che la stessa
cosa si può benissimo dire senza retorica e senza arte poetica. Non le
matematiche, perché « non vedevo ancora il loro vero uso » (p. 16) sebbene lo
dilettassero per la certezza ed evidenza delle loro ragioni. Non l'etica
naturale degli antichi, perché « fabbricata sulla sabbia e sul fango » (p. 17).
Non la teologia, perché non è necessaria per andare in cielo: « la via di esso
non è meno aperta ai più ignoranti che ai più dotti» (p. 18) e non riesce a
dissipare il velo del mistero. Non la filosofia, perché fino ad oggi non è
riuscita a dirci niente di indiscu- tibilmente vero. Non le altre discipline,
perché « siccome esse prendono i loro principi dalla filosofia, giudicavo che
non si poteva aver fabbricato nulla di solido su basi così poco ferme » (p.
20). 3. Lo studio del mondo attraverso i viaggi (pp. 20-22) Per queste ragioni
non appena l’età gli permise di uscire dalla sog- gezione dei suoi genitori,
Cartesio abbandonò interamente lo studio delle lettere e si mise a viaggiare
con lo scopo di imparare dal libro della na- tura quello che non aveva imparato
sui libri di carta. Però, viaggiando trasse l'impressione che, per quanto
riguarda la morale, le cose stessero come in filosofia: considerando «i costumi
degli altri uomini [...] vi notavo quasi tanta diversità quanta ne avevo
rilevata prima tra le opi- 367 . Esigenza del metodo per il conseguimento del
fine Studio e consapevolezza della propria ignoranza Nessuna disciplina insegna
tutto ciò che è utile alla vita Lo studio di se stesso riesce meglio che non
attraverso viaggi e libri Un solo autore costruisce meglio Necessità della
revisione della propria mente e della propria cultura nioni dei filosofi » (p.
22). Così « imparavo a non credere troppo ferny mente a ciò di cui non ero
persuaso che a cagione dell'esempio e del. l'usanza; e così mi liberavo a poco
a poco da molti errori che possono offuscare la nostra luce naturale e renderci
incapaci di intendere la ra- gione » {(p. 22). 4. Lo studio di se stesso (p.
22) « Dopo che ebbi impiegato alcuni anni a studiare così nel libro del mondo e
a procurare d’acquistare un po’ di esperienza io presi un giorno la risoluzione
di studiare anche me stesso, e di impiegare tutte le forze della mia mente a
scegliere le vie che dovevo seguire. Il che mi riuscì assai meglio, mi sembra,
che se non mi fossi mai allontanato né dal mio paese né dai miei libri » (p.
22). SECONDA PARTE LA SCOPERTA DEL NUOVO METODO E LE SUE REGOLE PRINCIPALI 1.
Ambientazione Terminati gli studi al « La Flèche » (il collegio dei gesuiti),
Cartesio si era arruolato nell’esercito degli Imperiali. Questo tuttavia non
gli impediva di continuare ad occuparsi di filosofia. In particolare, durante
la sosta forzata che l'inverno imponeva alle azioni militari in quei tempi,
aveva tutto l’agio di dedicarsi alla riflessione filosofica, trascorrendo il
tempo accanto ad una stufa, immerso nei suoi pensieri. 2. Prima considerazione
Le opere composte di molti pezzi e fatte da molti maestri sono spesso più
imperfette di quelle cui ha lavorato uno solo. Così si vede che gli edifici che
un architetto ha iniziato e compiuto da solo sogliono essere più belli di
quelli che molti hanno cercato di riadattare, servendosi di vecchie muraglie,
che erano state costruite per altri fini. Altrettanto si può dire delle scienze
e della politica. La ragione per cui c'è tanta im- perfezione nelle scienze e
nelle costituzioni è che esse :sono il prodotto di molte mani diverse (pp.
25-27). 3. Seconda considerazione È vero che non si buttano giù tutte le case
di una città, allo scopo di rifarle in un altro modo e di rendere le vie più
belle; ma si vede che molti demoliscono le proprie case per ricostruirle, e che
anzi talvolta vi sono costretti, quando esse sono in pericolo di cadere da sé,
e le loro fonda- menta non sono ben ferme. Da questo esempio Cartesio trae la
conclusione che sarebbe stato completamente inverosimile proporsi di riformare
tutto il corpo delle scienze e l'ordine stabilito nelle scuole per inse-
gnarle; tuttavia avrebbe potuto riformare la sua mente e la sua culturà,
togliendo via tutte le opinioni raccolte nel passato, per rimetterne in seguito
delle altre migliori o anche le medesime, quando le avesse ag- giustate al
livello della ragione {pp. 27-29). 368 4. Ammonimento Cartesio avverte il
lettore che non intende consigliare a nessuno il suo esempio. Infatti ci sono
due specie di ingegni ai quali non conviene affatto seguirlo: quelli che quando
si sono presi una volta la libertà di dubitare dei principi che hanno ricevuto
e di allontanarsi dal cammino comune non potrebbero mai tenere il sentiero che
bisogna prendere per andare più diritti e resterebbero sviati per tutta la loro
vita; e quelli che, essendo meno capaci di altri di distinguere il vero dal
falso, hanno sufficiente modestia per mettersi alla scuola di altri. 5.
Decisione di procedere alla ricerca di un nuovo metodo, essendo la logica e la
matematica metodi insufficienti — Lalogica serve solo a spiegare ad altri
quello che già sanno. — La matematica è troppo complicata. In entrambi i casi
si tratta di discipline che si riferiscono a materie astrattissime appesantite
da una montagna di regole che ne hanno fatta « un'arte confusa e oscura che
imbarazza la mente, invece, che una scien- za che la coltivi ». 6. Le regole
del nuovo metodo (pp. 35-36) Così finalmente Cartesio si decide a cercare un
nuovo metodo, sem- plice, facile, basato su pochissime regole. E trova
finalmente un metodo che consta solo di quattro regole. Ecco le quattro famose
regole: a) Non accogliere mai nulla di vero, che non si conosca evidentemen- te
come tale: « Non comprendere nei miei giudizi niente di più di quello che si
presentasse così chiaramente e distintamente alla mia mente che io non avessi
alcuna possibilità di metterlo in dubbio ». In questa regola Cartesio indica il
criterio di verità che egli intende adottare: è il famoso criterio della
chiarezza e distinzione. Nei Principia philosophiae esso viene così precisato:
chiamo chiara un'idea che è presente e manifesta a uno spirito attento: come
quando diciamo di vedere chiaramente gli oggetti, allorché essendo presenti
agiscono assai fortemente sui nostri occhi disposti a guardarli. E distinta,
quella che è talmente precisa e diffe- rente da tutte le altre, che non
comprende in sé che ciò che sembra ma- nifestamente a chi la considera come
conviene (Princ. phil. 1, n. 45). b) Dividere ciascuna difficoltà che si
incontra in tante parti quante è possibile... per meglio risolvere le
difficoltà stesse. c) Condurre con ordine i propri pensieri, cominciando dagli
oggetti più semplici per salire a poco a poco, come per gradi, sino alla cono-
scenza dei più composti. d) Far dappertutto delle enumerazioni così complete e
delle rassegne così generali, da non omettere nulla. 7. Fecondità del nuovo metodo
(pp. 37-38) Col nuovo metodo si possono conoscere tutte le cose, purché
soltanto ci si astenga dall'accoglierne alcuna per vera che non lo sia e si
serbi sempre l'ordine che occorre per dedurre le une dalle altre. 369 Cartesio
denunzia i rischi della sua scelta critica Le regole del nuovo metodo: —
chiarezza e distinzione — divisione delle difficoltà — ordine nel pensieri —
completezza delle enumerazioni 8. Applicazione del nuovo metodo alla matematica
Cartesio fa la prima applicazione del nuovo metodo alla matematica per due
ragioni. Anzitutto perché era necessario partire dalle verità più semplici e
più facili. E poi perché tra tutti gli scienziati solo i matematici erano
riusciti fino ad allora a trovare delle dimostrazioni convincenti, « cioè delle
ragioni certe ed evidenti ». 9. ‘Primi risultati Esiti positivi del ‘L'esatta
osservanza di questi pochi precetti che Cartesio aveva scelto, nuovo metodo gli
procurò tale facilità di risolvere tutti i problemi a cui si estendono quelle
due scienze (algebra e geometria), che nei due o tre mesi che impiegò ad
esaminarli, non soltanto venne a capo di molti di essi, che altra volta aveva
giudicato difficilissimi, ma gli parve anche, verso la fine, che poteva
determinare in quelli stessi che ignorava, con quali mezzi e fin dove fosse
possibile risolverli (p. 39). 10. Applicazione del nuovo metodo alla filosofia
Cartesio allora si propone di applicare lo stesso metodo anche alle altre
scienze. «Ma avendo notato che i loro principi dovevano essere at- tinti dalla
filosofia, nella quale non ne trovavo ancora di certi, pensai che bisognava
prima di tutto che io cercassi di stabilirvene » (p. 41).! TERZA PARTE LE
MASSIME DELLA MORALE PROVVISORIA E L'ESERCIZIO DEL METODO 1. Necessità di una
morale provvisoria Necessita una Come uno che, dovendo ricostruire in modo
diverso la casa dove abi- morale provvisoria: ta, si provvede di un'altra casa
dove abiterà mentre si lavora alla nuova, — diversità di così occorre al
filosofo trovarsi una morale provvisoria con cui regolarsi comportamento circa
fino alla scoperta della vera. Infatti non è possibile comportarsi verso le È
opimiani porca azioni allo stesso modo come ci si comporta verso le opinioni.
Si possono REAZIONE sospendere le opinioni, ma non si può essere irresoluti nelle
azioni. « E così, giacché spesso le azioni della vita non tollerano nessuna
dilazione, è x una verità certissima che, quando non è in nostro potere
discernere le opinioni più vere, dobbiamo seguire le più probabili » (p. 49). !
Delle quattro regole: la prima fissa il criterio di verità. Le altre si riferi-
scono al metodo, i cui momenti principali sono due: l’analisi {seconda regola);
la sintesi (quarta regola). i L'originalità di Cartesio sta nella sua
preoccupazione di dare ampio svi- luppo al primo momento, quello dell'analisi,
in modo da preparare alla sin- tesi un terreno solido. Al momento dell’analisi
appartiene la critica laboriosa di tutte le opinioni incerte, accettate dalla
tradizione e dall'ambiente e la di- mostrazione di come si arriva ai primi
principi e alle definizioni (Cartesio rimanda questa dimostrazione alle
Meditazioni). Per Cartesio l'unica intuizione che ha valore è quella
intellettuale; l’in- tuizione sensitiva è fonte di innumerevoli errori e perciò
va scartata. 370 2. | principi della morale provvisoria Primo. Obbedire alle
leggi e ai costumi del proprio paese, praticando la religione nella quale si è
stati istruiti sin dall'infanzia, e regolarsi in ogni cosa secondo le opinioni
più moderate. A giustificazione di questo principio Cartesio adduce la seguente
ragione: « cominciando da allora a non contare per nulla le mie proprie perché
volevo sottoporle tutte all'esame, ero sicuro di non poter far meglio che
seguire quelle dei più assennati ». Egli sottolinea peraltro il carattere provvisorio
di tale accet- tazione: « Fra parecchie opinioni ugualmente ammesse, io non
sceglievo che le più moderate, e anche queste solo in modo provvisorio, e avrei
pensato di commettere un grande delitto contro il buon senso, se, per il fatto
che approvavo allora qualche cosa, mi fossi obbligato di prenderla per buona,
anche dopo che avesse forse cessato di esserlo o che io avessi cercato di
stimarla come tale » (p. 48). Secondo. Essere fermo e risoluto nelle azioni e
opinioni a cui si fosse determinato. « Imitando in ciò il viaggiatore che
trovandosi smarrito in qualche foresta non deve errare girando da una parte e
dall'altra e ancora meno fermarsi in qualche posto, ma camminare sempre quanto
più diritto è possibile in una sola direzione [...] almeno si arriverà così in
qualche parte » (p. 49). : Terzo. Sforzarsi sempre di vincere se stesso
piuttosto che la fortuna, e di cambiare i propri desideri piuttosto che
l'ordine del mondo; e gene- ralmente di abituarsi a :credere che non c'è nulla
che sia interamente nostro tranne i nostri pensieri e perciò non bisogna
affannarsi troppo per le cose esterne. Né questo riesce difficile se noi «
consideriamo tutti i beni che sono fuori di noi come ugualmente lontani dal
nostro potere ». Allora « non avremmo maggior rammarico di mancare di quelli
che sembrano esser dovuti alla nostra nascita, allorché ne saremo privati senza
colpa, di quel che ne abbiamo per non possedere i regni della Cina e del
Messico ». « Ma confesso che c’è bisogno di un lungo esercizio e d'una meditazione
spesso reiterata per abituarsi a guardare da questo punto di vista tutte le
cose » (pp. 49-50). 3. Rassegna delle varie azioni per scegliere la migliore
Cartesio trova che la cosa migliore è « impiegare tutta la vita a coltivare la
ragione e progredire quanto più è possibile nella conoscenza della verità ».
Questa è la migliore occupazione per due ragioni: a) Perché la vita
intellettuale è piena di soddisfazioni. « Avevo provato così elevate soddi-
sfazioni da quando avevo cominciato a servirmi di questo metodo che non credevo
se ne potesse ricevere delle più dolci e delle più innocenti in questa vita »
(p. 51). 9) Perché progredendo nella conoscenza si progre- disce nelle virtù, «
infatti, siccome la nostra volontà non si determina a seguire né a fuggire
alcuna cosa se non secondo il nostro intelletto gliela rappresenta buona o
cattiva, basta ben giudicare per ben fare e giudicare meglio perché si possa
fare anche tutto il proprio meglio » (p. 52). 4. Esercizio del metodo
viaggiando e studiando Dopo essersi così rassicurato di queste massime e di
averle messe da parte insieme alle verità della fede, Cartesio giudica che, per
tutto il 371 — obbedienza alle leggi e ai costumi del proprio paese — scelta
delle opinioni moderate — risolutezza nelle azioni e nelle opinioni determinate
— vincere se stessi piuttosto che l’ordine del mondo — valore della vita
intellettuale Distruggere per arrivare alla verità; conservare ciò che può dare
cognizioni certe Il dubbio metodico come sospensione della conoscenza umana in
generale resto delle sue opinioni, poteva liberamente cominciare a disfarsene.
E poiché sperava di poter venire meglio a capo conversando con gli uo- mini...
si rimise a viaggiare. Intanto, mette in pratica il nuovo metodo, guidato da
due norme: a) non distruggere per distruggere (come gli scet- tici), ma per
arrivare alla verità; b) non distruggere tutto, ma conservare quello che può
servire per arrivare a cognizioni certe. Dopo nove anni di viaggi, per
applicare il nuovo metodo alla filosofia si ritira nella solitudine in Olanda.?
QUARTA PARTE I DUE PRINCIPI FONDAMENTALI DELLA METAFISICA: IL COGITO E
L'ESISTENZA DI DIO 1. Il dubbio metodico Per uscire dall’incertezza in cui era
stato gettato dalla diversità delle opinioni e costumi, Cartesio decide di
rigettare come assolutamente falso tutto quello in cui potesse immaginare il
minimo dubbio, allo scopo di vedere se gli restasse dopo ciò qualche cosa che
fosse interamente indubitabile. Così decide di scartare: tutta la conoscenza
sensitiva, « siccome i no- stri sensi qualche volta ci ingannano »; tutta la
conoscenza razionale, « poi- ché ci sono uomini che si ingannano ragionando »;
tutta la conoscenza umana in generale: « considerando che tutti i medesimi
pensieri che ab- biamo da svegli ci possono venire anche quando dormiamo, senza
che ve ne sia allora alcuno che sia vero, risolvetti di fingere che tutte le
cose che mi erano mai entrate nella mente non fossero più vere delle illusioni
dei miei sogni » (pp. 60-61).3 ? a) Morale provvisoria e morale definitiva - La
morale definitiva, che Cartesio esporrà più tardi nel libro Les passions de
l’àme è in sostanza iden- tica alla morale provvisoria. L'una e l'altra sono di
marca stoica. Unica diffe- renza: la prima legge della morale definitiva non è
di obbedire alle leggi e costumi del proprio paese, ma di obbedire alla ragione
e adoperarla costan- temente per scoprire quel che è doveroso fare. Inoltre
nella morale defini- tiva è aggiunta qualche precisazione alla terza legge con
l'intento di indi- care quello che è necessario fare per vincere se stessi (e
le proprie passioni) e rendersi completamente indipendenti dal mondo. Per
raggiungere un com- pleto dominio sulle cose e su se stessi (cioè sulle
passioni) serve molto medi- tare su due verità fondamentali: presenza e
provvidenza di Dio e immortalità dell'anima. Facendo questo si può raggiungere
il fine ultimo, la contempla- zione di Dio. b) Errore e male - Cartesio riduce
la questione del male a quella dell'er- rore. Il male consiste nell'errore.
Egli però risolve il problema dell'errore. adoperando i principi tomistici per
la risoluzione del problema del male. Così l'errore come il male è una «
carentia perfectionis debitae » (responsa- bile di tale carenza non è Dio, ma
l'uomo). L'errore però non è causato dal- l'intelletto, ma dalla volontà.
Infatti per Cartesio affermare, dubitare, negare non sono atti della ragione,
ma della volontà. In definitiva l'errore è dovuto a un cattivo uso del libero
arbitrio... :(cfr. E. GIiLson, La doctrine cartésienne de la liberté et la
théologie, pp. 211-235). ? Il dubbio metodico - Il dubbio metodico di Cartesio
non è un dubbio universale, ma è un dubbio parziale. Non è un dubbio universale
anzitutto perché un dubbio universale non è possibile; di fatto poi risulta
chiaro che 372 2. La prima verità indubitabile: il « cogito ergo sum » Ma,
mentre cercava di dubitare di tutto, Cartesio s'accorge di una verità: « mentre
in tal modo volevo pensare che fosse tuito falso, biso- gnava necessariamente
che io che lo pensavo fossi qualche cosa. E no- tando che questa verità: IO
PENSO DUNQUE SONO era così ferma e così sicura che tutte le più stravaganti
supposizioni degli scettici non erano capaci di scuoterla, giudicai che potevo
riceverla senza scrupolo come il principio della filosofia che io cercavo »
(pp. 60-63).* Cartesio non intende adottare il dubbio universale. Nella parte
terza ha detto che applicando il metodo del dubbio non bisogna scartare tutto e
che esa- minando criticamente le proposizioni che costituivano il sapere del suo
tempo, « non ne incontrava alcuna sì dubbia che non ne traesse sempre qualche
con- clusione abbastanza certa, non fosse altro che questa: che non conteneva
nulla di certo » (p. 54). Cartesio quindi non intendeva dubitare di tutto, ma
solo tentare di dubitare quanto più fosse possibile per potere con più
sicurezza raggiungere la verità. Così inteso il dubbio è legittimo. Si tratta
infatti solo di una sospensione prov- visoria della nostra conoscenza ordinaria
per arrivare ad una giustificazione critica della medesima; non è perciò
negazione, svuotamento, annullamento del pensiero, ma solo sospensione
dell’assenso. « Ciò che Cartesio già sa, ciò che forma il suo patrimonio
mentale, ricco o povero che sia, è l'immediato, dal quale egli parte, come ogni
uomo, ogni filosofo, parte dal suo. Egli è filosofo precisamente in quanto si
propone di rivederlo criticamente, di discuterlo, di fondarlo, di meditarlo.
L'atteggiamento implicito nel dubbio cartesiano, visto nelle sue giuste
dimensioni, non esagerato, non fatto slittare sul viscido di qualche
espressione del testo, è l'atteggiamento filosofico come tale: non SA cata del
pensatore 'di La Haye » (G. BoNTADINI, Discorso sul me- todo, p V Nelle
Meditazioni la fondazione del dubbio metodico prenderà molto più rilievo: essa
occupa tutta la prima Meditazione. Anche la formulazione verrà radicalizzata
per mezzo del genio maligno. Nelle Meditazioni il dubbio meto- dico rischia di
diventare dubbio scettico. Sulla validità di un dubbio metodico spinto fino a
questi punti l'ermeneutica cartesiana è discorde, Comunque se si può riportarla
alla interpretazione che abbiamo data alla formulazione del Discorso sul metodo
noi riteniamo che sia un procedimento valido. Se, invece, il dubbio diventa un
autentico dubbio positivo (e non sem- plice negativo) universale, esso porta
necessariamente allo scetticismo, e costituisce quindi un procedimento
invalido. ‘ Significato del cocito — A proposito del Cogito è necessario notare
che non si tratta di una dimostrazione ma di una intuizione. Il dunque (ergo)
non ha valore di conseguenza, ma è semplicemente pleonastico. Se il Cogito
fosse la conclusione di una dimostrazione, ossia un entinema, allora sarebbe
neces- sario sottintendere una premessa universale (per esempio: dovunque c'è
co- noscenza c’è esistenza) e non sarebbe quindi più possibile considerare il
Cogito come la prima verità metafisica. Quanto all'esistenza provata dal Cogito
non si può trattare che del. l'esistenza del pensiero, della realtà pensante
(res cogitans) non già della realtà distinta dal pensiero. Così per la sostanza
intuita nel Cogito, si deve dire che essa non è altro che il pensiero stesso e
non già qualche cosa di di- stinto dal pensiero e soggiacente ad esso. Dicendo
del pensiero che esso è una sostanza Cartesio viene ad affermare che il
pensiero è qualche cosa che sta da sé, indipendentemente dalla realtà corporea.
Infatti questo « star da sé » è la sostanzialità. Ecco il motivo della
sostituzione alle espressioni « cogito » e « cogitatio » di queste altre: « Sub-
stantia cogitans» o «res cogitans» («res cogitans» che è contrapposta alla «
res extensa » 0 sostanza corporea). Non solo l'esistenza provata dal Cogito
riguarda soltanto il pensiero ma ha anche carattere momentaneo, contingente,
riguarda l’hic et nunc. Nulla è provato della sua esistenza nel passato e nel
futuro. ‘Perciò il Cogito è un cri- terio universale di verità solo in un senso
molto ristretto. Anzi più che criterio 373 Prima verità indubitabile: dal
dubbio all'evidenza del pensare e dell’esistere Esame della natura del ‘‘sum’’
(l’esistenza) Chiarezza e distinzione come criterio di verità 3. L'essenza
dell'uomo consiste nel pensiero Dal Cogito Cartesio passa a considerare la
natura del « sum » (= l'esi- stenza) che vi aveva intuito e osserva che poteva
fingere di non aver alcun corpo..., ma che non per questo poteva fingere di non
esistere e che, al contrario, dal fatto stesso che pensava a dubitare della
verità delle al- tre cose, seguiva evidentissimamente e certissimamente che
egli era: laddove se appena avesse cessato di pensare, ancorché tutto il resto
di ciò che aveva immaginato fosse stato vero, non avrebbe mai avuto nes- suna
ragione di credere che esisteva; conobbe da ciò che era una sostanza della
quale tutta la essenza o la natura non è che di pensare e che, per , non ha
bisogno di alcun luogo e non dipende da alcuna cosa materiale. « Di modo che
questo io, vale a dire l’anima, per la quale io sono ciò che sono, è
interamente distinta dal corpo ed anzi è più facile a conoscere di questo e dato
pure che questo non fosse non cesserebbe di essere tutto quello che è» (pp.
63-64)5 4. Il criterio di verità: chiarezza e distinzione Conseguiti questi
risultati sensazionali, Cartesio passa a considerare che cosa è necessario ad
una proposizione per essere vera e certa; perché dal momento che ne aveva
trovata una che sapeva essere tale, pensava che doveva altresì sapere in che
cosa consisteva questa chiarezza. Edavendo notato che non vi è niente in questo
« 10 PENSO DUNQUE SONO » che ci assicuri di dire la verità se non il fatto di
vedere chiarissimamente che per pensare bisogna essere, ritenne di poter
prendere per regola generale che le cose che noi concepiamo ben chiaramente e
ben distin- di verità esso è una illustrazione del criterio di verità. Infatti
per Cartesio il criterio di verità è la chiarezza e distinzione. Come
esemplificazione, il Cogito ha valore, ma non un valore così esclusivo come
credeva Cartesio. Ci sono molti altri principi (per esempio, il principio di
non-contraddizione) in cui la verità risplende immediatamente e possono essere
presi come illustrazione del criterio di verità. Spesso si paragona il Cogito
di Cartesio al si fallor di S. Agostino. Tanto Cartesio come S. Agostino hanno
fatto uso del dubbio metodico, ma in modo diverso e per questo il Cogito ha una
portata diversa del si fallor. Il si fallor mira soprattutto al superamento
dello scetticismo e per S. Agostino, esso non costituisce la prima e unica
certezza. Il Cogito non mira tanto al supera- mento dello scetticismo quanto al
fondamento della verità e costituisce la pri- ma certezza metafisica. 5
Dualismo di spirito e materia, anima e corpo - Questa distinzione è il ri-
sultato di un paralogismo. Cartesio commette un passaggio illecito quando dal
fatto che l'anima può essere conosciuta senza che sia richiesta la conoscen- za
del corpo conclude che essa esiste senza che sia richiesta l’esistenza del
corpo. Dalla constatazione che l’anima è distinta dal corpo è illecito
concludere che essa è un ente diverso dal corpo e capace di esistere senza di
esso. Cartesio « ha fuso e confuso il fatto gnoseologico col fatto ontologico,
ha modificato il cogito nella res cogitans, ha sostituito alla proposizione
vera « io sono nell'atto della mia coscienza » la proposizione non vera « io sono
l’atto della mia co- scienza » (F. MEI, La filosofia del concreto, Marzorati,
Milano, p. 48). Cartesio eviterà di ripetere questo paralogismo nelle
Meditazioni, dove svolge una trat- tazione a parte per provare la teoria del
dualismo tra spirito e materia. Ad ogni modo, il dualismo tra spirito e
materia, anima e corpo è insostenibile non solo dal punto di vista ontologico
(anima e corpo formano una unità sostanziale), ma anche dal punto Si vista’
psicologico, perché l'anima non conosce direttamente se stessa senza l'uso del
corpo. 374 tamente sono vere, ma che vi è soltanto qualche difficoltà nel ben
discer- nere quali siano quelle che concepiamo distintamente (pp. 65-68)$ 5.
Dimostrazione dell’esistenza di Dio Trovato il principio fondamentale della metafisica
e il supremo cri-
terio di verità, Cartesio passa a
dimostrare l’esistenza di Dio, e la prova in quattro modi: a) Dal fatto che
abbiamo l'idea di perfetto e non possiamo essere noi la causa di tale idea — «
Riflettendo sul fatto che io dubitavo e che per conseguenza il mio essere non
era tutto perfetto, perché vedevo chiara- mente che era una più gran perfezione
conoscere che dubitare, mi proposi di cercare donde avessi imparato a pensare
qualche cosa di più perfetto che io non fossi, e conobbi con evidenza che
doveva essere da qualche natura che fosse in realtà più perfetta [...j poiché
non vi è meno ripu- gnanza che il più perfetto sia una conseguenza e una
dipendenza del meno perfetto di quel che dal nulla proceda qualche cosa [...]
di ma- niera che restava che essa fosse stata messa in me da una natura che
fosse veramente più perfetta di quel che io non fossi e che anzi avesse in sé
tutte le perfezioni delle quali potevo avere qualche idea, vale a dire per
spiegarmi in una parola che fosse Dio » (pp. 68-69). b) Dal fatto che non mi
sono dato io stesso la mia esistenza — Se è vero che io, pur avendo l'idea di
perfetto, non sono perfetto, vuol dire che non mi sono dato l'esistenza da me,
perché altrimenti mi sarei data un'esistenza perfetta; cioè conforme all'idea
che posseggo; solo Dio dun- que, cioè l'essere perfettissimo, può aver creato
me avente l'idea di per- fetto (p. 70). A questo punto Cartesio fa una breve
digressione sulla natura divina: « Di tutte le cose di cui trovavo in me
qualche idea (consi- deravo) se fosse perfezione o no il possederle, e ero
sicuro che nessuna di quelle che denotavano imperfezione era in Lui, ma che
tutte le altre vi erano » (p. 71). c) Dall'idea di perfetto — « Tornando ad
esaminare l’idea che avevo di un essere perfetto, trovavo che l’esistenza vi
era compresa allo stesso modo che è compreso nell’idea di triangolo che i suoi
tre angoli sono uguali a due retti, o in quella di una sfera che tutte le sue
parti sono equidistanti dal centro, ed anche più evidentemente; e che per
conse- guenza è altrettanto certo che Dio, che è questo Essere perfetto, è o
esiste, quanto potrebbe esserlo qualunque dimostrazione di geometria » (p. 72).
d) Dalle conseguenze disastrose che la negazione dell'esistenza di Dio implica,
cioè dal fatto che in tal caso qualsiasi certezza diviene impos- sibile. «
Infatti donde si sa che i pensieri che vengono in sogno sono più falsi degli
altri, visto che spesso non sono meno vivi e precisi? E anche se i migliori
ingegni vi studino quanto più loro piacerà non credo che pos- sano dare alcuna
ragione che sia sufficiente a togliere questo dubbio, se non presuppongono
l’esistenza di Dio. Giacché [...] anche quella che io testé ho presa come
regola, cioè che le cose che noi concepiamo in modo $ Il criterio di verità
proposto da Cartesio suscitò aspre critiche da parte di molti autori, in
particolare da parte di Pascal (che lo tacciò di raziona- lismo: «ci sono
verità che soltanto il cuore può capire ») e del Vico (che lo accusò di
soggettivismo e di superficialità. Al criterio cartesiano del verum est certum
il Vico contrappose il suo verum est factum). 375 Dio causa dell’idea di
perfezione Prova ontologica dell’esistenza di Dio Dio garante della conoscenza
Dio garante della verità Dalla metafisica alla cosmologia chiarissimo e distintissimo
sono tutte certe, non è accettata che dal fatio che Dio è o esiste, che Egli è
un Essere perfetto e che tutto ciò che è in noi viene da lui » {p. 76) .
Funzione psicologica dell’esistenza di Dio Dopo che la conoscenza di Dio e
dell'anima l’ha reso certo di questa regola (chiarezza e distinzione), Cartesio
dice di poter accettare con indu- bitabilè certezza tutte le altre idee che si
presentano col carattere della chiarezza e distinzione, « perché non è
possibile che Dio, che è somma- mente perfetto e verace » ce le abbia messe in
mente per ingannarci (pp. 77-78).8 QUINTA PARTE VERITÀ DI ORDINE FISICO -
NATURA DELL'ANIMA UMANA 1. Il corpo degli animali e dell’uomo Cartesio ora
deduce dalle verità metafisiche dimostrate nella quarta parte (Cogito ergo sum,
ed esistenza di Dio) alcune verità circa il mondo, adoperando sempre il
criterio di verità della chiarezza e distinzione ed ? a) Dimostrazione
dell’esistenza di Dio — La più conosciuta delle prove di Cartesio è la terza,
che è spesso chiamata argomento ontologico. Si chiama argomento ontologico
perché parte dal concetto di Dio per provarne l’esi- stenza. L'argomento
ontologico di Cartesio come quello di S. Anselmo (Deus est esse cuius maius
concipi nequit) è ritenuto invalido dalla maggior parte dei filosofi, perché
l'uomo non ha un'idea adeguata del perfetto, ma solo un concetto negativo,
ricavato dalle cose per viam mnegationis et eminentiae. Cartesio però sosteneva
che l’idea di perfetto non è ricavata dalle cose, ma è un’idea innata, prodotta
da Dio nella nostra mente, perciò capace di rappre- sentare Dio adeguatamente.
Le prime due prove sono cogimolo siche, partono cioè da fatti che noi espe-
rimentiamo. La prima è un’esemplificazione della prova agostiniana delle verità
eterne. b) La natura di Dio — Una delle dottrine più caratteristiche di
Cartesio circa la natura divina è quella che riguarda la volontà di Dio.
Secondo Car- tesio in Dio non v'è alcuna distinzione tra intelletto e volontà,
altrimenti la volontà dovrebbe dipendere dall’intelletto e non sarebbe più
libera. La vo- lontà divina invece è assolutamente libera e tutto quello che
essa fa è un pro- dotto della sua libertà. La conseguenza più grave di questa
dottrina è che anche le verità eterne, per esempio, le verità matematiche, sono
creazione della libera volontà di Dio. Esse tuttavia sono eterne e immutabili
perché la volontà di Dio è eterna e immutabile. * Il circolo vizioso — Cartesio
prima dimostra l’esistenza di Dio valendosi della regola della chiarezza e
distinzione; poi dice che il valore di tale regola dipende da Dio. Chi
garantisce la chiarezza e distinzione, cioè la verità del mio pensiero?
L’esistenza di Dio. Ma chi garantisce l’esistenza di Dio? La chiarezza e
distinzione. Si tratta chiaramente di un circolo vizioso. Cartesio ha certato
di difendersi da questa accusa sostenendo che la veracità di Dio è invocata
solo per dare valore alla memoria. Ma non pare che sia una risposta soddi-
sfacente, perché, nella dimostrazione dell’esistenza di Dio, Cartesio deve ap-
poggiarsi su vari principi che sono accettati adoperando il criterio della
chia- rezza e distinzione (cfr. F. CopLESTONn, History of Philosophy, IV, pp.
105 e ss.; tr. it., Storia della filosofia, 5 voll, Paideia, Brescia). 376 il
metodo geometrico. Si tratta però solamente di un riassunto del libro Il mondo
o Trattato sulla luce. Le due dottrine più importanti esposte in quel libro
sono quella della duce e quella della circolazione del sangue. Esse vengono
riportate per esteso nella quinta parte del Discorso sul metodo. Dal punto di
vista filo- sofico la cosa più interessante di questa parte è la dottrina della
na- tura del corpo animale ed umano. Rispetto al corpo Cartesio afferma che non
c'è alcuna differenza tra uomini ed animali: essi sono tutti degli automi o macchine
semoventi. Il movimento è causato dagli spiriti ani- mali, « che sono come' un
vento sottilissimo o piuttosto come una fiamma purissima e vivissima che,
salendo continuamente in grande abbondan- za dal cuore nel cervello, si reca di
lì attraverso i nervi nei muscoli e dà il movimento a tutte le membra ». Ciò
che distingue l’uomo dagli altri animali è l'anima. Gli animali non hanno
l’anima, nessun’anima; l’uomo invece ha un'anima creata da Dio. In pratica,
dato che l’anima è invisibile, l'uomo si distingue dagli animali per due
caratteristiche: il linguaggio e la libertà. 1) Gli animali mai potrebbero
usare parole né altri segni compo- nendoli come facciamo noi per comunicare
agli altri i nostri pensieri (p. 98). 2) Anche se essi facessero parecchie cose
bene o forse anche meglio di alcuni di noi, essi « sbaglierebbero
infallibilmente in certe altre, me- diante le quali si scoprirebbe che non
agiscono iper coscienza, ma solo per disposizione degli organi » (p. 99). 2.
Natura dell'anima Al termine della quinta parte Cartesio indica brevemente qual
è la natura dell'anima. Essa in nessun modo può essere tratta dalla potenza
della materia, così come le altre cose delle quali aveva parlato, ma essa deve
espressamente essere creata; e non basta che sia posta nel corpo umano come un
pilota nella sua nave, se non forse per muovere le sue membra, ma bisogna che
essa sia congiunta ed unita più strettamente con esso per avere, oltre a ciò,
sentimenti ed appetiti simili ai nostri e così comporre un vero uomo (pp. 101-102)?
? a) L'universo cartesiano — L'universo cartesiano è costituito da due tipi di
realtà profondamente diverse: realtà pensante (res cogitans), e realtà estesa
(res extensa). La realtà pensante costituisce il mondo spirituale; quella
estesa costituisce il mondo fisico. I due mondi si incontrano nell'uomo, ma
senza compenetrarsi: essi si toccano appena nella glandola pineale. b) La
definizione di sostanza — Tanto il mondo fisico come quello spi- rituale
contengono molte sostanze, ma sono tutte imperfette, perché per esistere
dipendono da Dio. L'unica sostanza perfetta è Dio e solo a Lui si può applicare
in modo proprio la definizione che Cartesio dà di sostanza: Res quae ita
existit ut nulla re alia indigeat ad existendum. c) Il mondo fisico — L'essenza
del mondo materiale è l'estensione. Il mo- to dà all’estensione diverse forme.
Così dall’estensione, per mezzo del moto, si ottiene l'origine di tutte le
cose. Delle varie proprietà che noi attribuiamo alle cose solo quelle primarie
(spazio, figura e numero) appartengono effettiva- mente ad esse; quelle
secondarie sono dovute ai sensi. (Esempio di un pezzo di cera odorosa colorata
messa sul fuoco: l'odore se ne va, il colore cambia... Resta solo qualche cosa
che occupa spazio, ha qualche figura ed è capace di essere divisa) (cfr. /I°
Meditazione, in Meditazioni filosofiche, Pa- ravia, Milano, p. 30). Nel Metodo
questa dottrina è appena accennata (vedi Parte V, p. 83). 377 Meccanicismo e
animismo | caratteri peculiari dell’uomo: linguaggio e libertà L’anima espressamente
creata e strettamente congiunta al corpo cempone un vero uomo SESTA PARTE
RAGIONI DELLA MANCATA PUBBLICAZIONE DE « J{ Mondo » In questa parte Cartesio dà
le ragioni che lo hanno portato a differire la pubblicazione de Il Mondo già
terminato prima del Discorso. Le ra- gioni principali sono due: timore che il
libro potesse essere condannato dalla Chiesa; il fatto che l'opera non era
molto progredita e poteva dare origine a molte controversie tra gli scienziati.
QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE I. Di quante parti si compone il
Discorso sul metodo? 2. Cosa intende Cartesio per « buon senso »? 3. Che
giudizio dà Cartesio della storia e della teologia? 4. Quali sono le quattro
regole del metodo cartesiano? 5. Confronta il metodo di Cartesio con quelli di
Aristotele, Galilei, Bacone e Hegel. Quali sono le somiglianze e le differenze?
6. Cosa intende Cartesio per « chiarezza e distinzione »? 7. Il criterio delle
idee chiare e distinte che valore ha? 8. Cosa si intende per dubbio metodico?
9. Che differenza passa tra il dubbio metodico e il dubbio scettico? 10. Che
cosa sono le idee innate? Quali sono le idee innate secondo Carte- sio? Che
differenza c’è tra l'innatismo cartesiano e quello leibniziano? 11. Che
funzione svolge il Cogito nel sistema di Cartesio? 12. Qual è la concezione
cartesiana dell'uomo? Che rapporti pone Cartesio tra anima e corpo? Paragona la
dottrina di Cartesio cor quelle di Platone, Ari- stotele, San Tommaso d'Aquino
e Spinoza. 13. Quali sono i quattro argomenti con cui Cartesio prova
l'esistenza di Dio? 14. Metti a confronto l'argomento vniologico di Cartesio
con quelli di Sant'Anselmo e Leibniz e con la quarta via (quella dei gradi di
perfezione) di san Tommaso d'Aquino. 15. Quale considerazione ha Cartesio per
îa religione? Pone sullo stesso piano la religione « filosofica » e le varie
religioni positive? 16. Quali sono i fondamenti della morale cartesiana? 17.
Quale è l'essenza del mondo materiale secondo Cartesio? 18. Tra qualità
primarie e secondarie che distinzione pone Cartesio? 19. Quali sono, a parere
di Cartesio, gli elementi che distinguono il corpo dell'anima da quelio degli
animali? 20. Perché si dice che Cartesio è un razionalista e quali sono i
limiti di tale posizione? d) Relazione tra anima e corpo — L'anima muove il
corpo mediante la volontà. Il corpo eccita le sensazioni dell'anima mediante
gli stimoli mec- canici che arrivano al cervello (glandola pineale). Tuttavia
le sensazioni sono atti della sola anima; esse sono innate, sono prodotte
dall'anima stessa in cor- rispondenza a quanto avviene nel corpo. e) Facoltà
dell'anima — Nelle Meditazioni Cartesio ascrive all'anima tre facoltà:
sensazione, immaginazione (fantasia) e ragione. Inoltre divide le idee in tre
classi: avventizie (quelle che dipendono dai sensi}; fattizie (quelle che
dipendono dalla fantasia); innate (quelle che dipendono esclusivamente dalla
ragione). Nei Principi Cartesio ritiene ancora verbalmente le tre facoltà del.
l'anima, ma elimina la classificazione delle idee innate, fattizie e
avventizie, a favore delle sole idee innate. Così però rende inutili anche due
facoltà: la sensazione e l'immaginazione. 378 III. « LA MISSIONE DEL DOTTO »
Fichte (Johann Gottlieb, 1762-1814) 1. Origine e importanza dell’opera La
missione del dotto (Einige Vorlesungen iiber die Bestimmung des Gelehrten),
composto nel 1794, allorché Fichte contava appena 32 anni, è uno dei suoi primi
scritti. Fu preceduto soltanto da Kritik aller Offen- barung (1792), un saggio
che, pubblicato anonimo, in un primo momento era stato attribuito erroneamente
a Kant, ma poi, dopo la smentita e la rettifica di quest’ultimo, aveva fatto
segnalare il nome di Fichte all’at- tenzione del mondo filosofico. La missione
del dotto occupa un posto di capitale importanza non solo nello sviluppo del
pensiero del suo giovane autore, ma.anche nello sviluppo della stessa storia
della filosofia, in quanto segna il distacco di Fichte da Kant, e il
superamento del criticismo in direzione dell’idealismo. A grandi pennellate
Fichte vi traccia tutto il quadro della sua visione idealistica della realtà e
vi enuncia chiaramente tutte le tesi fondamentali del suo idealismo: la
negazione della cosa in sé, l'affermazione del pri- mato assoluto
dell’autocoscienza, la derivazione della realtà materiale dall’Io assoluto come
momento dialettico di quest'ultimo, il ruolo essen- ziale della scienza e della
filosofia nello sviluppo della storia dell'uma- nità, l'impegno etico, politico
e sociale del filosofo. La missione del dotto appartiene ad un gruppo di
scritti abbastanza consistente, in cui Fichte si rivolge ad una vasta cerchia
di lettori, con intento divulgativo. Di qui il suo stile semplice, chiaro,
immediato, fa- cilmente comprensibile anche a studenti di liceo. L'opera
comprende cinque lezioni (Voriesungen) che Fichte tenne agli studenti
dell’Università di Jena, durante l'estate del 1794, ogni domenica mattina dopo
il rito religioso. Gli argomenti trattati nelle cinque lezioni sono i seguenti:
1) la mis- sione dell'uomo in sé; 2) la missione dell'uomo in società; 3) la distin-
zione fra gli stati sociali in società; 4) la missione del dotto; 5) critica
della tesi di Rousseau circa i rapporti tra cultura e moralità. 379 Questa
opera segna il distacco di Fichte da Kant Intento divulgativo dell’opera Senso
della struttura dell’opera e il rapporto dotto- società Ciò che è e non è
l’uomo Confutazione dei materialismo trascendentale L’uomo come fine a se
stesso 2. Divisione e sintesi dell’opera PRIMA LEZIONE LA MISSIONE DELL'UOMO IN
SÉ 1. Introduzione Fichte esordisce enunciando il programma delle sue lezioni.
Esso comprende quattro argomenti principali: a) la missione dell'uomo consi-
derato in se stesso; b) la missione dell'uomo in società; c) la missione del.
l'uomo nelle singole classi sociali; d) la missione del dotto. Alla tratta-
zione di questi quattro argomenti sono destinate le prime quattro lezioni. :In
una quinta lezione esaminerà la teoria del Rousseau circa i rapporti tra
cultura e moralità. A giustificazione dell'ordine indicato, che a prima vista
potrebbe sem- brare poco opportuno, dato che l'obiettivo primario del breve
corso di lezioni è illustrare la vocazione e la missione del dotto (ossia del
filosofo), Fichte dice che siccome il dotto è pensabile soltanto in una
società, oc- corre anzitutto chiedersi quale sia la missione dell'uomo nella
società. E poiché a quest'ultima domanda non si può rispondere, se non si cono-
sce qual è la missione dell'uomo in se stesso, è necessario premettere una
lezione sullo studio della missione dell’uomo considerato in se stesso, come
singolo individuo. Nella parte conclusiva dell’introduzione (pp. 76-77), Fichte
mette in risalto l'importanza del suo argomento. Egli afferma che la missione
del- l'uomo in generale è il primo problema della filosofia, e la missione del
dotto « è l’ultimo problema d'ogni ricerca filosofica ». 2. Natura e missione
dell’uomo in se stesso Prima Fichte spiega quello che l’uomo non è, poi quello
che è. L'uomo, il suo principio spirituale, non è causato dal Non-io. Il
materialismo tra- scendentale, che sostiene il contrario, è falso. Il principio
spirituale del- l'uomo è invece causa del Non-io. Però il principio spirituale
dell'uomo (l'Io puro) non può esistere senza essere qualche cosa (un Io
empirico) e l'Io empirico non può essere qualche cosa senza essere determinato
dal Non-io. Conclusione: « Dicendo perciò che si vuol considerare l’uomo in se
stesso e isolato, non si vuol intendere di considerarlo [...] semplicemente
come Io puro, senza rapporto alcuno con nessuna cosa che sia estranea a questo
suo Io puro. S'intenderà soltanto pensarlo fuori di ogni rapporto con esseri
ragionevoli simili a lui » (p. 79). Tuttavia la natura dell'uomo appare ben
diversa a seconda che si consideri come ragione o come qualche cosa. L'uomo in
quanto ragione è fine a se stesso, è indipendente e attivo: è assolutamente, è
perché è. L'uomo in quanto è qualche cosa è passivo (senziente) e dipendente,
non è fine a se stesso ma ha per fine l’Io puro. Rapporti fra ragione e sensi-
bilità: ambedue devono sussistere l'una accanto all'altra. La ragione non
dev'essere annullata dalla sensibilità. Ma a sua volta non deve sopprimere
quest'ultima. 380 Conclusione: « L'uomo deve essere ciò che è soltanto per
questa ra- gione, che egli è. In altri termini tutto ciò che egli è, deve
essere riferito al suo Io puro, al suo semplice essere come Io, o Iità. Tutto
ciò che egli è, dev'esserlo esclusivamente per questo, che egli è un Io; e ciò
che egli non può essere per questa sola ragione, egli non deve assolutamente
essere » (pp. 81-82). 3. La legge morale dell’uomo considerato in se stesso
Dato che il fine dell'Io empirico è l'Io puro, da questo Fichte deriva le
regole della condotta dell'Io empirico. Dalla natura dell'Io puro egli ri- cava
la condotta dell'uomo considerato in se stesso e le seguenti leggi: a) L'uomo
deve essere sempre uno (coerente) con se stesso, perché l'Io puro è perfetta e
assoluta unità. Ossia, l’uomo non deve contraddirsi, non si deve mai lasciar
determinare da qualcosa di estraneo, cioè dalle cose esterne, perché nell’Io puro
non c'è diversità e perciò non può es- sere determinato da alcuna cosa
estranea, ma è sempre uno ed identico con se stesso. In altre parole, che
Fichte riprende da ‘Kant, l’uomo deve essere determinato in quel. modo, nel
quale avrebbe potuto eternamente essere determinato, cioè senza nessun riguardo
per le cose che lo circon- dano nel tempo, perché l'Io puro agisce come se non
ci fosse il Non-io. Quindi, « agisci in modo che tu possa pensare la massima
della tua volontà come legge eterna per te » (p. 83). b) L'uomo deve cercare di
modificare le cose (che nella loro molte- plicità sembrano irriducibili
all'unità e all'identità), e portarle ad accor- aarsi con la forma pura dei suo
Io. Per questo non basta la sua volontà. Ci vuole anche una certa abilità, e
questa si acquista solo con l'esercizio e la cultura. c) L'uomo deve estirpare
le cattive inclinazioni, dovute all’influsso delia natura quando la ragione non
si era ancora destata. Anche per questo non basta la sola volontà e occorre
abilità, e, perciò esercizio e cultura. La cultura « è l’ultimo e più alto
mezzo per il fine ultimo del- l'uomo, ossia, la sua perfetta coerenza con se
medesimo » (p. 86). 4. Il fine ultimo, il sommo bene, ia perfezione Il fine
ultimo dell'uomo, che Kant chiama Sommo Bene, e Fichte preferisce chiamare
perfezione, è « la perfetta coerenza dell’uomo con se stesso, e, appunto perché
egli possa raggiungere questa coerenza, anche la perfetta coerenza di tutte le
cose esterne a lui (con la sua volontà) » (p. 86). Il fine ultimo, considerato
come coerenza dell'uomo con se stesso {della sua volontà con la volontà dell'Io
puro, cioè del suo vero essere), costituisce il bene morale. Il fine ultimo,
considerato come accor- do delle cose fuori di noi con la nostra volontà,
costituisce /a felicità. Però, osserva Fichte, l’ultimo fine è qualcosa di
assolutamente irraggiun- gibile per l'uomo: è un Sommo Bene, una perfezione che
rimarrà eter- namente irraggiungibile. La missione dell'uomo consiste in
questo: avvi- cinarsi all'infinito, al suo uliimo fine, perfezionarsi
all'infinito. « Egli esi- ste per divenire egli stesso sempre moralmente
migliore, e per rendere tutto ciò che trova intorno a. sé riigliore
sensibilmente e anche [...] moral. mente; e in questo modo fare se stesso
sempre più felice. Questa è la missione dell'uomo in quanto lo si consideri
isolato, e cioè senza relazione con nessun essere ragionevole simile a lui »
(p. 88). 381
L’io come dover essere dell’uomo L’uomo
non deve contraddire la sua identità La cultura come mezzo alla perfetta
coerenza dell’uomo a se stesso ll bene morale come perfetta coerenza dell’uomo
a se stesso Ls felicità: accordo delle cose fuori di noi con la volontà La
missione dell’uomo: perfezionarsi sempre più La società: rapporto reciproco tra
gli esseri ragionevoli | due presupposti della società: la presenza di esseri
ragionevoli fuori di noi — la possibilità di distinguerli dagli esseri
irragionevoli tra coscienza interiore e coscienza esteriore Finalità e libertà:
criterio di distinzione degli esseri ragionevoli LEZIONE MISSIONE DELL'UOMO IN
SOCIETÀ 1. Introduzione — La soluzione dei problemi filosofici non può essere
basata sul buon senso come pretendono i filosofi popolari (Nicolai, Mendelsohn,
ecc.), ma su ragionamenti rigorosi. — Scopo della seconda lettura: « stabilire
quale sia la missione del- l'uomo nella società » (p. 95). — Definizione di
società: « Col termine società intendo designare il rapporto reciproco di
esseri ragionevoli tra loro » (p. 96). 2. Esistenza della società Fichte
enumera anzitutto le cose che la società presuppone per poter esistere e poi
formula i problemi riguardo all'esistenza della società, I presupposti della
società sono due: 1) « Che vi siano esseri ragione- voli fuori di noi »; 2) Che
« noi li possiamo distinguere da tutti quegli altri esseri che sono invece
irragionevoli » (p. 96). Perciò due sono i pro- blemi che riguardano la
società: 1) Problema del fondamento razio- nale della credenza nell'esistenza
di altri uomini; 2) Problema del criterio per distinguere gli esseri
ragionevoli dagli esseri privi di ragione. Quindi Fichte passa a risolvere il
problema del fondamento razio- nale della credenza nella esistenza di altri
uomini. Scarta anzitutto una soluzione ch'egli giudica errata, quella fondata
sulla esperienza. Secondo Fichte tale soluzione è errata per due ragioni: 1)
anche i solipsisti (gli egoisti) hanno l’esperienza di altri esseri
ragionevoli, ma non credono alla loro esistenza; 2) l'oggetto dell'esperienza è
la rappresentazione, non la cosa in sé (vedi pp. 96, 97, pagine chiarissime!).
Al posto della soluzione fondata sull'esperienza, Fichte propone una soluzione
basata sulla esigenza della esistenza di altri esseri ragio- nevoli perché
l'uomo possa raggiungere il suo ideale di perfetta coe- renza con se stesso.
L'uomo, argomenta Fichte, non può raggiungere l'ideale della coerenza interiore
senza mantenere la coerenza esteriore. Ma, affinché ci sia perfetta coerenza
esteriore, per « ciascun concetto che si trova nell’fo, deve trovarsi nel
Non-io l'oggetto corrispondente ». Ora « nell'uomo si trova anche il concetto
di ragione, e di un agire, e di un pensare alla ragione conforme ». Perciò per
tale concetto è necessario che nel Non-io si trovi l'oggetto corrispondente,
cioè è necessario che si trovino degli esseri ragionevoli. « Tra le sue
esigenze (dell'Io) va anno- verata anche questa: che si trovino, nella realtà a
lui esterna, esseri ra- gionevoli simili a lui » (p. 100). 3. Il criterio per
distinguere gli esseri ragionevoli dagli esseri privi di ragione. Il criterio è
duplice: finalità e libertà. Quello della finalità, da solo, è insufficiente e
va integrato con quello della libertà. Primo criterio: finalità — « Il primo
carattere che subito ci si presenta per riconoscere la ragionevolezza è quello
della finalità ». Infatti, « tutto ciò che porta impresso il carattere della
finalità può avere un autore ra- gionevole » (ib.). Però la finalità è un
criterio insufficiente perché è equi- 382 voco. « L’unificazione del molteplice
in un tutto coerente è certo carattere della finalità ma vi sono parecchie
specie di unificazioni consimili che si lasciano spiegare con semplici leggi
naturali (non certo meccaniche, ma organiche) (pp. 101-102) ». Dove c’è ordine,
c'è finalità. Ma l'ordine può avere cause naturali. Secondo criterio: libertà —
Questo è un criterio sicuro: « qualsiasi unificazione di un molteplice in un
tutto coerente, la quale fosse operata mediante la libertà sarebbe una
caratteristica sicura e non equivoca, che il fenomeno stesso ci offrirebbe
della ragionevolezza » in quanto « la na- tura anche là dove opera secondo
fini, opera però secondo leggi neces- sarie; la ragione invece opera sempre con
libertà » (p. 102). Ma, in pratica, è possibile distinguere se un effetto si
produce per mezzo della necessità o per mezzo della libertà? A questa
difficoltà Fichte risponde che non è possibile avere esperienza della libertà
perché la libertà è presupposta a qualsiasi esperienza. Si può avere esperienza
del- l'assenza di costrizione e « questa non consapevolezza di una cosa esterna
si potrebbe anche chiamare consapevolezza della libertà » (p. 103). Per- tanto,
ogni volta che per una azione io non conosca altra causa, non riesca anzi a
supporne nessuna ali'infuori di una volontà libera, che si decida per motivi
ragionevoli corrispondenti a quelli che hanno guidato la mia volontà libera,
allora :potrò concludere con certezza che si tratta di un'azione prodotta da un
essere ragionevole come me, 4. Società e Stato Secondo Fichte, tra società e
Stato vi è differenza profonda. Lo Stato è qualcosa di contingente e
transitorio mentre la società è qualcosa di necessario e permanente. Quindi «la
vita nello Stato... non può dirsi uno dei fini dell'uomo. Essa è piuttosto un
mezzo... per la fonda- zione di una perfetta società » (pp. 105-106). Quando si
arriverà alla costituzione di una società perfetta allora «saranno divenuti
superflui tutti quei vincoli i quali costituiscono lo Stato » (p. 106). 5. Fine
e missione della società La società è fine a se stessa (p. 107). Però più
avanti (cfr. p. 113), riprendendo lo stesso tema, Fichte dirà che « l’ultimo e
più alto fine della società è la totale unificazione e concordia di tutti i possibili
suci membri ». La missione della società è il perfezionamento della specie
umana per rendere sempre più vicino l'ideale della unificazione. Questo
progressivo perfezionamento è inevitabile. Infatti, « ciascun individuo ha il
suo proprio ideale dell’uomo in genere; tutti questi ideali sono di- versi non
per materia, ma per grado. E ciascun individuo valuta ogni altro, che egli
riconosca conìe uomo, secondo il proprio ideale dell'uomo. Ciascuno desidera in
virtù di quella aspirazione fondamentale di trovare ogni individuo simile al
proprio ideale dell'uomo; lo mette alla prova perciò e lo esperimenta in tutti
i modi. Nel caso poi che lo irovi inferiore a quell’ideale cerca di sollevarlo
alla medesima altezza. in questa iotta tra spirito e spirito vince sempre colui
che è uomo in senso migliore e più elevato » {p-p. 107-108). Con- clusione: «
L'uomo [...] ha la missione di vivere per la società [...]. Questa missione per
la società in generale è [...], tuttavia, in quanto mero im- 383 La ragione
opera secondo libertà Volontà libera: causa dell’azione dell’essere ragionevole
Stato, mezzo per giungere ad una società perfetta Missione della società:
perfezionamento della specie umana Rapporto tra morale sociale e morale
individuale Coordinazione delle volontà Unità perfetta degli uomini come
dell’uomo pulso, subordinata a quella legge più alta della stabile coerenza con
noi stessi » (p. 109). 6. La morale sociale fondamentale è la coerenza
dell’uomo con se stesso. Da questa legge su- prema della morale individuale
Fichte deduce le seguenti leggi della morale sociale: a) L'impulso alla
socievolezza non deve entrare in contraddizione con se stesso. Questo
accadrebbe se l'uomo trattasse gli esseri ragione- voli da schiavi. Infatti la
ragionevolezza consiste nella relazione reciproca, e quindi l'impulso alla
socievolezza è rivolto alla relazione reciproca. Ma se ci comportiamo verso gli
altri uomini da padroni « mettiamo il nostro impulso alla socievolezza in
contraddizione con se medesimo » (p. 110). Quindi la nostra condotta non deve
mirare alla subordinazione degli altri, ma alla coordinazione della nostra
volontà con quella dei no- stri simili. « Chiunque si ritiene padrone degli
altri uomini è egli stesso uno schiavo » (p. III). b) Non adoperare mai gli
altri esseri ragionevoli come mezzi per i propri fini. « È lecito all'uomo
usare le cose irragionevoli come mezzi per i suoi fini; ma non gli è lecito
agire nello stesso modo con gli esseri ragionevoli » (p. III). c) Adoperarsi
perché tutti gli altri uomini raggiungano l’ideale della perfezione. 7. Il fine
ultimo e la missione dell'uomo nella società Il fine ultimo dell’uomo in quanto
essere socievole è l’unità perfetta’ con gli altri individui. Però anche questo
fine, come anche quello della perfetta coerenza con se stesso, è
irraggiungibile. « Se tutti gli uomini potessero diventare perfetti e
raggiungere così il loro più alto e supremo fine, essi sarebbero allora
totalmente simili l'uno all’altro; formerebbero anzi un solo essere, un solo
soggetto », cesserebbero di essere uomini per essere Dio (p. 113). La missione
dell'uomo in società è il progressivo avvicinamento al- l'ideale dell'unità.
Fichte chiama questo indefinitivo avvicinamento uni. ficazione. 8. L'educazione
alla socievolezza Per realizzare la missione dell’unificazione occorre una
duplice abi- lità: abilità nel dare ossia nell’agire sugli altri in quanto
esseri liberi; abilità nel ricevere. TERZA LEZIONE LA DISTINZIONE TRA GLI STATI
SOCIALI 1. Introduzione Dopo aver studiato la missione dell’uomo in se stesso e
nella società, Fichte dovrebbe ora passare allo studio della missione del
dotto. Però, 384 poiché il dotto non è solo uno dei membri della società, ma è
altresì un membro di un determinato stato sociale, Fichte deve premettere allo.
studio della missione del dotto, lo studio dell'origine della diseguaglianza
tra gli uomini, che è il presupposto della distinzione tra gli stati sociali.
2. La diseguaglianza tra gli uomini Nella lezione precedente Fichte ha mostrato
l’esistenza di fatto della molteplicità degli esseri ragionevoli, ma non la
possibilità di tale fatto. Ora, nella terza lezione, egli mostra che la
molteplicità e la diversità degli Io empirici si fonda, in ultima analisi,
sull'influsso che il Non-Io finito esercita sopra gli esseri ragionevoli
finiti: « Il Non-Io, come quel fonda- mento dell'esperienza che è indipendente
da noi, e che può anche chia- marsi natura, è molteplice; nessuna sua parte è
perfettamente simile a nessun'altra [...]. Quelle parti diverse agiranno perciò
sullo spirito umano in modo diversissimo e non potranno mai sviluppare in egual
modo le capacità e le disposizioni. Da questi diversi modi di agire della
natura nascono gli individui, e vien formata quel che in ciascuno di essi so-
gliamo chiamare la loro semplice natura empirica individuale » (p. 126). Si
tratta perciò di una diseguaglianza inevitabile: 1) perché non dipende dalla
nostra volontà essendo causata dal Non-Io; 2) perché l'ideale della coerenza,
il quale, come s'è visto, riporterebbè gli esseri ragionevoli all'unità, è
irraggiungibile. Tuttavia mediante la socievolezza si deve fare tutto il
possibile per ridurre le diseguaglianze ed eliminare le differenze. « E qui si
presenta l'efficacia dell'impulso alla socievolezza, il quale è diretto al
medesimo fine e diventa mezzo per quell’avvicinamento all'infinito che la legge
da noi pretende ». L'impulso alla socievolezza comprende sia l'impulso alla
partecipazione, cioè l'impulso a dare, sia l'impulso a ricevere (pp. 128-129).
Conclusione: « Così, per opera della ragione e della libertà viene corretto
l'errore che la natura ha commesso » (p. 129). « La ragione si tro- va
impegnata in una lotta senza tregua con la natura; né questa guerra potrà mai
avere termine, se pure non dovremo diventare iddii. Tuttavia potrà e dovrà
diventare sempre più debole l'influsso della natura e sem- pre più forte invece
quello della ragione » (pp. 130-131). Questa lotta con- tro la natura fa
nascere una nuova solidarietà tra gli uomini e li stringe assieme come a
formare un nuovo corpo (p. 131). 3. La scelta dello stato [La natura fornisce
ogni uomo di particolari impulsi, o attitudini. Si sceglie uno stato quando si
sceglie di sviluppare una certa attitudine. Facendo questa scelta « io
stabilisco una volta per tutte di non tener più conto da allora in poi di certe
opportunità che la natura forse potrebbe fornirmi, e di applicare invece
esclusivamente tutte le forze e le qualità naturali allo sviluppo di una sola,
o magari di parecchie, ma sempre ben determinate attività » (p. 133). 4. La
scelta dello stato non è obbligatoria, ma jibera La scelta dello stato non è
obbligatoria, ma libera perché se fosse ob- bligatoria, allora dovrebbe essere
possibile « dedurre dalla suprema 385 Molteplicità e diversità degli ‘‘lo’’
fondate sul “non-lo”’ Gli individui originati dai diversi modi di agire della
natura La socievolezza come riduzione Libertà e ragione in lotta contro
l’errore della natura Scelta di uno stato di vivere e sviluppo di determinate
attitudini Scelta nella libertà Scelta di uno stato: atto di libertà e
restituzione alla società di quanto Partecipazione al perfezionamento
dell'umanità e immortalità legge razionale l'impulso il quale spinga alla
scelta di uno stato allo stes- so modo con cui abbiamo dedotto riguardo alla
società un impulso ana- logo ». Ma la legge suprema dice soltanto: « Educa
tutte le tue attitudini completamente ed uniformemente per quanto ti è
possibile. Essa non arriva a determinare se io debba esercitare quelle mie
attitudini imme- diatamente sulla natura o solo attraverso la mediazione degli
altri uo- mini: la scelta perciò si trova, a questo riguardo, interamente
lasciata alla mia prudenza » (pp. 134-135). « La legge non vieta di scegliere
uno stato; neanche però comanda [...]. Mi trovo sul terreno del libero arbitrio:
mi è semplicemente lecito di scegliere uno stato » (p. 135). Tuttavia la scelta
dello stato è consigliabile perché ogni uomo ha il dovere di restituire alla
società quanto ha da essa ricevuto. Questo è facile se si sceglie uno stato.
Nessuno ha diritto di lavorare per la propria soddisfazione soltanto. « Questo
non è lecito. Egli deve almeno sforzarsi di pagare alla società il suo debito;
deve occupare il proprio posto; deve fare almeno ogni tentativo per elevare in
qualche modo il grado di perfezione della specie che tanto ha lavorato per lui
» (p. 136). Per raggiungere questo fine, due vie gli si aprono davanti: o
cercherà di elaborare la natura in ogni sua parte, ma questa è un'impresa
impos- sibile. Oppure affronterà solo una porzione determinata della natura:
quella della quale gli sia forse più accessibile tutta la elaborazione prece-
dentemente compiuta, quella per la elaborazione della quale egli forse dalla
natura e dalla società fu già nel tempo anteriore specialmente for- mato.
Questa seconda via è senz'altro la migliore. Quando uno si dedica a questa
speciale porzione, egli ha scelto il proprio stato. Conclusione: « La scelta di
uno stato è una scelta per mezzo della libertà; perciò nessuno deve essere
costretto ad abbracciare uno stato, come nessuno deve essere escluso da uno
stato. È però una scelta consi- gliabile perché la particolare abilità che uno
ha è in un certo senso un
prodotto, un legittimo possesso della
società, e ognuno ha il dovere di restituire alla società quello che da essa ha
ricevuto secondo le proprie possibilità ». 5. La partecipazione al
perfezionamento dell'umanità assicura come premio l'immortalità Qualcuno si
chiederà: che vantaggio ha l'individuo a lavorare per il perfezionamento
dell'umanità? Secondo Fichte ha due vantaggi: è di utilità agli altri: «il
felice pro- gresso di un membro è infatti non meno felice progresso degli altri
» (p. 140); è di utilità a se stesso: si assicura infatti l'immortalità. Ogni
uomo è « un anello necessario della catena, la quale dalla generazione del
primo uomo, avanza verso la piena consapevolezza della sua propria esi- stenza
nell’eternità » (p. 140). Ogni uomo può avvicinare di più alla sua perfezione
quel tempio di- vino che i suoi predecessori furono costretti a lasciare
interrotto. È vero che ogni individuo morirà. Ma se egli partecipa a questa
sublime im- presa non si estinguerà completamente, perché la morte non può inter-
rompere la sua opera, giacché la sua opera, mentre deve essere terminata, non
può essere terminata nel tempo. Egli è eterno. 386 QUARTA LEZIONE LA MISSIONE
DEL DOTTO 1. Introduzione È ora necessario passare a parlare della missione del
dotto, « una missione molto onorevole, molto elevata, nettamente superiore a
quella degli altri stati » (p. 148). Forse, il fatto che sia un dotto innanzi a
dotti in via di formazione, a parlare della missione del dotto, potrebbe
causare imbarazzo (timore di offendere gli altri stati, di apparire superbo
ecc.). Ma se questo ci trattenesse dal nostro compito, peccheremmo di falsa
modestia. Non c'è infatti nessun pericolo di insuperbirsi, né di offendere gli
altri se l'esposizione della missione del dotto viene fatta in modo oggettivo e
si tiene presente che « non lo stato, ma la degna afferma- zione di esso,
nobilita l’individuo ». Non lo stato, ma il perfetto compimento del proprio
dovere è quello che importa. Dopo questo preambolo Fichte mostra la necessità
di uno stato speciale, d'una professione particolare, quella del dotto,
muovendo dalla definizione di società perfetta. A suo giudizio è perfetta
quella so- cietà in cui si è provveduto « allo sviluppo e alla soddisfazione di
tutti i bisogni, e anzi al loro uguale sviluppo e alla loro uguale
soddisfazione » {p. 151). Questo non è possibile senza la professione del
dotto. 2. La società perfetta richiede lo stato (la professione) del dotto La
società perfetta ha bisogno di tre cose cui può provvedere una sola professione,
quella del dotto: 1) Perfetta conoscenza dell'uomo nella sua interezza, delle
sue atti- tudini, di tutti i suoi impulsi e bisogni (perché senza tale
conoscenza è im- possibile provvedere allo sviluppo uguale di tutte le
attitudini). Questo è l'oggetto della filosofia. 2) Conoscenza dei mezzi per
sviluppare Ie attitudini e soddisfare i bisogni (perché la semplice conoscenza
delle attitudini e dei bisogni, senza la conoscenza dei mezzi sarebbe vuota e
inutilissima). « Con quella conoscenza dei bisogni deve dunque andare unita la
conoscenza dei mezzi per soddisfarli; e questa conoscenza dovrà legittimamente
essere posse- duta dal medesimo stato sociale, dato che una conoscenza senza
l’altra non può mai arrivare ad essere perfetta, né tanto meno viva ed efficace
» (p. 153). La conoscenza dei mezzi è l'oggetto della scienza filosofico-
storica. 3) Conoscenza del grado di cultura in cui si trova in un determinato
momento storico una società e quale grado essa dovrà raggiungere per primo
partendo da quello che ora occupa; e infine di quali mezzi essa possa disporre
per questo fine. Questo è l'oggetto della scienza storica. Conclusione: «La
sintesi di queste tre forme di conoscenza costi- tuisce quella che si chiama, o
almeno ciò che esclusivamente dovrebbe chiamarsi dottrina » (pp. 154-155), e lo
stato di coloro che si dedicano allo studio della dottrina, si dovrebbe
chiamare stato (o professione) dei dotti. 3. Definizione del dotto « Dotto si
chiama colui che all'acquisto di tali conoscenze (filosofica, filosofico-storica
e storica) dedica la sua vita» (p. 155). 387 Lo stato del dotto e la società
perfetta La missione del dotto e la dottrina: — filosofia — scienza filosotico-
storica - — scienza storica Il dotto e le sue regole di vita: elevare il grado
delle scienze; agire con piena moralità; sviluppo della socialità; essere
maestro dell'umanità; essere guida nelle circostanze particolari; essere
modello eccellente II dotto sacerdote della verità 4. La missione del dotto «
Così ci si rivela finalmente la vera missione dello stato dei dotti; tale
missione consiste nella suprema vigilanza sopra il progresso reale della stirpe
umana in genere e nell'attività continuamente diretta a promuovere questo
progresso » (p. 155), specialmente il progresso delle scienze: infatti « dal
progresso delle scienze dipende in modo immediato il progresso del genere
umano. Chi ferma quello, ferma questo » (p. 156). 5. La morale del dotto (La
morale professionale) Le principali leggi che regolano la vita del dotto sono
le seguenti: — « Sforzarsi per portare a un grado più elevato le scienze, e in
parti- colare quel ramo della scienza che egli ha prescelto », altrimenti il
dotto si mette in contraddizione con la sua missione che consiste appunto nel
promuovere il progresso delle scienze. Questa legge è dedotta dalla suprema
legge della morale individuale (non-contraddizione, unità- coerenza). — Nella
propria attività non deve adoperare mai mezzi che non siano perfettamente
morali; il dotto non cadrà mai nella tentazione di far ac- cettare agli uomini
le convinzioni proprie con mezzi coercitivi, con l'uso della violenza fisica.
Questa legge è dedotta dalla suprema legge della morale sociale (coordinazione
e non-subordinazione). — « Sviluppare in se stesso quanto più gli è possibile
le disposizioni socievoli, la capacità di ricevere e quella di comunicare » (p.
160), perché il dotto è destinato alla società, « esiste in virtù della società
e per il vantaggio della società » (ib.). Questa legge è dedotta dalla missione
del- l'uomo nella società (che consiste nel perfezionamento della società
attra- verso la politica del dare e del ricevere). — « Deve portare gli uomini
alla consapevolezza dei loro bisogni, alla conoscenza dei mezzi atti a
soddisfarli » (p. 161). È possibile attuare que- sta legge? Sì, perché gli
uomini hanno fiducia nella dottrina e abilità degli altri; inoltre tutti gli
uomini hanno un certo senso di verità. Da questa legge il dotto è costituito
maestro dell'umanità. Si può dunque affermare che il dotto, secondo quel
concetto di lui che finora è stato sviluppato, è per la sua missione stessa
maestro dell'umanità. — « Il dotto non deve soltanto istruire gli uomini sopra
i loro bisogni e sopra i mezzi necessari per soddisfarli in generale. Deve
anche guidarli, in particolare, in un determinato tempo e in un determinato
luogo, a prendere coscienza dei bisogni che si presentano in quelle particolari
circostanze e a scoprire quei mezzi particolari che servono per raggiun- gere i
fini in certo modo imposti dalla situazione presente » (p. 163). Da questa
legge il dotto è costituito educatore (guida) dell'umanità. — Il dotto infine
deve dare buon esempio, deve essere un modello perché il dotto « deve essere
l'uomo moralmente migliore della sua età » {p. 167). Da questa legge il dotto è
costituito modello dell'umanità. Conclusione: Fichte conclude la quarta lezione
col seguente pane- girico sulla missione del dotto: « Questo è l'ufficio a cui
sono chiamato, a rendere testimonianza della verità. Nulla importano [...] la
mia vita e la mia sorte, ma l'ufficio che io compio ha un'importanza infinita.
Io sono un Sacerdote della verità. Appartengo alla sua milizia; ad essa ho
prestato giuramento di fare, di osare, di soffrire tutto fedelmente per lei! »
(p. 168). 388 QUINTA LEZIONE (CRITICA DELLE AFFERMAZIONI DI ROUSSEAU ÌNTORNO
ALL'INFLUSSO DELLE ARTI E DELLE SCIENZE SOPRA LA FELICITÀ DELL'UOMO 1.
ìntroduzione ‘Per la scoperta della verità, dice Fichte, la confutazione degli
errori opposti non è di considerevole importanza. La critica degli errori, però,
è sempre di grande utilità per mettere meglio a fuoco la verità già sco- perta:
« Il confronto della verità con gli errori costringe ciascuno di noi ad
osservare i caratteri distintivi dell'una rispetto agli aitri; e ci conduce a
formare un concetto più perspicuo e meglio definito della verità stessa » (p.
136). 2. L'errore di Rousseau Secondo Rousseau il fine dell'uomo è
raggiungibile solo nello stato di natura. La civiltà, la cultura (lo stato dei
dotti) « costituiscono se- condo lui la sorgente e nello stesso tempo la
espressione più completa della corruzione umana » (p. 177). Questo è in diretta
e completa con- traddizione con tutto l'insegnamento di Fichte, che « ha
riposto la mis- sione della umanità nel progresso continuo della cultura e
nello sviluppo parallelo e continuo di tutte le sue attitudini e dì tutti i
suoi bisogni » (p. 177). 3. Critica dell'errore di Rousseau Fichte fa
dell'errore di Rousseau una duplice critica. Anzitutto egli rileva che,
nonostante la sua dottrina secondo cui la felicità è raggiungibile solo nello
stato di natura, Rousseau ha educato le proprie attitudini in un grado molto
raffinato; e coll'educazione che ha ricevuto da questo alto grado di cultura
egli si adopera quanto può a convincere l'umanità della giustezza delle sue
affermazioni. Quindi, « le sue azioni contraddicono in modo flagrante i suoi
principi ». Poi, fichte svolge una critica molto dettagliata della dottrina di
Rousseau. Gli argomenti principali sono i seguenti: — La dottrina di Rousseau
non è dedotta « per via meramente razio- cinativa, da un principio più
fondamentale ». Infatti « su nessuna que- stione il Rousseau ha approfondito la
sua ricerca fino a raggiungere gli ultimi fondamenti di tutto il sapere umano »
(pp. 178-180). — Tutto quello che dice Rousseau si fonda sul sentimento e non
sulla ragione e quella del sentimento è una conoscenza malsicura, in cui il
vero si trova commisto al falso, « perché ogni giudizio fondato sul sen-
timento greggio e immediato presenta come equivalenti cose che non sono punto
tali » (p. 180). — Tuttavia la deduzione delle conseguenze non viene fatto da
Rous- seau secondo le leggi del sentimento, ma secondo quelle della ragione: «
Se egli avesse lasciato al sentimento un influsso anche sulla deduzione delle
conseguenze, il sentimento l'avrebbe poi riportato sulla strada giu- sta, dalla
quale prima l’aveva sviato » (p. 181). — La dottrina di Rousseau anziché avere
una base razionale ha una motivazione psicologica: la constatazione che il suo
alto ideale del dotto 389 Confutazione degli errori e focalizzazione delle
verità scoperte Critica a Rousseau: — non raggiunge i fondamenti primi del
sapere — deduce secondo le leggi della ragione e nor del sentimento La dottrina
dello stato di natura ha conseguenze
disastrose Due incompatibilità:stato di
natura e indipendenza dai Bisogni Con il ‘’non-lo’’ si ha l’ideale di perfetta
coerenza Rousseau: energia gel sopportare, fiuttosto che energia dell’agire non
trovava alcuna attuazione nella realtà tra i suoi contemporanei; an- zi, i
dotti del suo tempo mettevano il loro ingegno a servizio dei soldi, degli
onori, e delle ricchezze, e cercavano di far passare come virtù la corruzione
degli uomini. Questa dolorosa constatazione spiega la sua avversione per la
cultura e il suo odio per l'umanità (pp. 180-185). « Ecco donde sorge nel
Rousseau l'aspirazione allo stato di natura. Nello stato di natura, così come
egli lo intendeva, le attitudini proprie della umanità non dovrebbero ancora
essersi sviluppate; non dovrebbero anzi nep- pure essersi manifestate. L'uomo
non dovrebbe avere nessun bisogno oltre a quello della sua natura animale;
dovrebbe vivere come le bestie vivono nei campi sotto i suoi occhi. E
certamente in uno stato simile non troverebbe posto nessuno di quei vizi che
avevano acceso l'ira del Rousseau. L'uomo, in quello stato, mangerà quando avrà
fame e berrà quando avrà sete. Una volta saziato non avrà nessun interesse a
pri- vare gli altri di quel nutrimento che egli non può in quel momento utiliz-
zare » (p. 186). — La dottrina dello stato di natura come stato ideale è
inaccettabile per le sue disastrose conseguenze. « Certo il vizio viene in
questo staio di- strutto totalmente, ma col vizio viene distrutta la virtù e
senz'altro la ragione. L'uomo diventa allora un animale » (p. 187). — Lo stato
di natura rende impossibile il conseguimento del fine che Rousseau si propone,
quello di « riflettere sopra la sua missione e sopra i suoi doveri per poter
così nobilitare se stesso e i suoi fratelli in uma- nità » (p. 189). — Rousseau
vuole due cose incompatibili: a) il ritorno allo stato di natura; b)
l'indipendenza dell'uomo dai bisogni della sensibilità. Queste due cose sono
incompatibili perché si trovano in proporzione inversa. Infatti, «quanto più la
ragione estenderà il suo dominio, tanto meno l'uomo avrà di bisogno » (p. 190).
— ‘Rousseau si raffigura come qualche cosa che noi siamo già stati quello che
invece dobbiamo diventare; si rappresenta il fine che noi dob- biamo
raggiungere corne qualche cosa che noi abbiamo perduto (p. 191). — Rousseau
dimentica che l'umanità si può, anzi si deve avvicinare a questo stato soltanto
attraverso la sollecitudine, la fatica, il lavoro. È attraverso la progressiva,
laboriosa conquista del Non-io (natura) che l’uomo realizza il suo ideale di
perfetta coerenza, «l'aspirazione di essere simile a Dio » (p. 192). Ma l'uomo
è, quanto alla sua natura, pigro e inerte. Ecco come nasce la dura battaglia
tra il bisogno e la pigrizia naturale; il primo vince, ma la seconda si lagna
amaramente, non il biso- gno è l'origine del vizio; il bisogno è invece lo
stimolo che spinge alla attivita e alla virtù. L'origine del vizio è
nell'inerzia naturale. « Non v'è per l'uomo nessuna salvezza, finché questa sua
inerzia naturale non sia stata combattuta e sconfitta; finché l'uomo non
riponga nell'attività, e soltanto nell'attività, tutte le sue gioie e tutto il
suo piacere » (pp. 192-193). — «In definitiva lo sbaglio di Rousseau è il
seguente: aveva anche lui urna certa energia, ma era piuttosto l'energia del
sopportare che non l'energia dell'agire (l'energia di piangere invece di
operare). Egli è l'uomo della sensibilità sempre sofferente, ma non è nello
stesso tempo l’uomo dell’attività in lotta. « La lotta della ragione contro le
passioni, la vittoria strappata a poco a poco [...] tutto questo egli lo
nasconde ai nostri oc- chi » (p. 195). 390 Conclusione: Fichte conclude la
quinta lezione con una infuocata esortazione a fuggire l'esempio di Rousseau: «
Agire! agire ancora. Questa è Ja ragione per la quale noi esistiamo » {D. 196).
QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Per chi fu scritto La missione del
dotto? 2. Quante e quali sono le parti di La missione del dotto? 3. Con quali
argomenti Fichte respinge il materialismo e fonda l'idealismo? . Tra Io-puro e
Io-empirico che rapporti pone Fichte? Confronta la dot- trina fichtiana con
quelle di Schelling e Hegel. 5. Che cos'è il non-Io? Che atteggiamento assume
Fichte nei confronti del non-Io? Metti a confronto il pensiero di Fichte su
questo punto cor quello di Spinoza. 6. Quali sono secondo Fichte gli elementi
caratteristici, essenziali del. l’uomo? 7. A parere di Fichte, è possibile
esperire la libertà degli aitri? 8. Da che cosa deduce la necessità degli stati
sociali, ossia delle vatie pro- fessioni? Confronta la dottrina fichtiana
sull'origine della società con guelie di Aristotele, Hobbes, Spinoza,
Rot:sseau. 9. Su che cosa fonda Fichte il progresso deila società? 40. Cosa
intende Fichte per scienza filosofica, filoscfico-storica e storica? Cosa insegna
sullo stesso argomento nelle altre opere? 11. Chi è il dotto e quali sono i
suoi compiti? 12. Quali sono le principali leggi dell'etica individuale,
sociale e professio» nale? Confronta i principi etici di Fichte con: quelli di
Kant. 13. Secondo Fichte a quale immortalità può aspirare l'individuo? Può spe-
rare nell'immortalità individuale? Paragona la dottrina jichtiana sull’immor-
talità con quelle di Platone, Spinoza e Kant. 14. Quali sono le critiche più
acute che Fichte muove a Rottsseati? LS 391 Rivoluzioni e trasformazioni socio-
politiche agli inizi del XIX secolo L’opera nasce in occasione del primo
Congresso internazionale della
‘Lega dei Giusti” (1847) Engels invita
Marx a formulare l’opera come un catechismo IV. il « MANIFESTO DEL PARTITO
COMUNISTA » K. Marx (1818-1883) e F. Engels (1820- 1895) 1. Origine dell’opera
Quando nel 1848, Marx e Engels scrissero il Manifesto tutta l'Europa sì trovava
in stato di agitazione: una nuova ondata rivoluzionaria la scuoteva da capo a
piedi dopo quelle del 1789, del 1821 e del 1830. In conseguenza delle precedeni
rivoluzioni le strutture politiche della società avevano già subito profonde trasformazioni:
in varie nazioni l'assolutismo aveva dovuto cedere il posto al parlamentarismo
e alla de- mocrazia e quasi ovunque l'aristocrazia era stata soppiantata dalla
bor- ghesia. Solo il proletariato continuava ad essere oppresso e sfruttato
come per il passato, anzi più ancora che nel passato. In effetti verso la metà
dell'Ottocento !e sue condizioni di sfruttamento e asservimento avevano toccato
il punto estremo. Ma l'atmosfera rivoluzionaria che stava attraversando
l'Europa fece credere a Marx e a Engels che l'ora fosse propizia anche per la
libera- zione del proletariato, mediante la soppressione del capitalismo e
l’avven- to del comunismo. Essi erano del parere che « la rivoluzione borghese
in Germania, compiendosi in condizioni di grande progresso della civiltà
europea e con un proletariato più progredito che non ci fosse stato nella
rivoluzione inglese e francese, avrebbe rapidamente preparato la rivo- luzione
proletaria » (E. Cantimori Mazzomonti), la quale si sarebbe conclusa con la
conquista del potere da parte della classe operaia. La circostanza storica
immediata che indusse Marx e Engels a com- porre il Manifesto fu il primo
congresso internazionale della Lega dei giusti (un movimento operaio d'origine
inglese, ma che contava seguaci in tutta l'Europa) ai primi di giugno del 1847.
In quella occasione, Engels aveva proposto di cambiare la denominazione della
Lega in « Lega dei comunisti ». Il suo suggerimento venrie accolto. Presidente
della nuova comunità di Bruxelles fu eletto Karl Marx. Nella seconda metà di
ottobre Marx fu invitato a partecipare personalmente al secondo congresso, nel
quale sarebbe stata discussa anche la professione di fede politica della Lega.
Di questa professione di fede, nei mesi che intercorsero ira i due ‘congressi si
occupò soprattutto Engels, ma senza poriare a compimento la stesura del saggio.
Poco prima della partenza per il congresso egli scriveva a Marx: « Pensaci un
po’ tu alla professione di fede. Credo sia la miglior cosa abbandonare la forma
di catechismo e intitolare la cosa: Manifesto comunista ». Verso la fine di
novembre Marx raggiunse Engels a Londra per partecipare al secondo congresso
della Lega. { principi pro- grammatici e tattici suoi e di Engels furono
accettati, e il congresso in- caricò entrambi di stendere il Manifesto. Appena
tornato a Bruxelles e cioè a metà dicembre del 1847, Marx si mise al lavoro.
Verso la fine di gennaio il manoscritto era pronto e fu spedito a Londra. La
stampa del 392 Manifesto si protrasse per quasi tutto il mese di febbraio.
Pochi giorni prima dello scoppio della rivoluzione, il Manifesto del partito
comunista uscì dalla stamperia di J.E. Burghard, in Londra, in 30 pagine di
formato 8°. Sul frontespizio non figura nessuna indicazione dei nomi degli au-
tori: solo il titolo, l’indicazione « febbraio 1848 » e il motto: « Proletari
di tutto il mondo unitevi ». Il Manifesto, come del resto tutti gli altri
scritti di Marx e Engels, ebbe poca diffusione e poca influenza in questi anni;
cominciò a esser largamente letto, diffuso e tradotto solo dal 1870 in poi. 2.
Divisione e sintesi dell’opera Il Manifesto si articola in quattro parti,
precedute da una breve in- troduzione. Le quattro parti portano i titoli
seguenti: 1) Borghesi e pro- letari; 2) Proletari e comunisti; 3) Letteratura
socialista e comunista; 4) Posizione dei comunisti di fronte ai diversi partiti
di opposizione. INTRODUZIONE :Nell’Introduzione Marx e Engels tratteggiano con
brevi ma vigorose pennellate la situazione di guerra ingaggiata dalla « vecchia
Europa » contro il comunismo. Contro questo sono scesi in campo « papa e zar,
Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi » (p. 51). Ma la
lotta, argomentano gli autori, è anche un indizio positivo: si- gnifica che «
il comunismo è di già riconosciuto come potenza da tutte Je potenze europee »
(p. 52). Perciò, concludono Marx e Engels, « è ormai tempo che i comunisti
espongano apertamente in faccia a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro
fini, le loro tendenze, e che contrappongano alla favola dello spettro del
comunismo un manifesto del partito sîesso » (p. 52). PRIMA PARTE BORGHESI E
PROLETARI In questa parte Marx e Engels enunciano i principi fondamentali della
loro concezione della storia, una concezione in cui si assegna il primato
assoluto alle strutture economiche; espongono la storia della borghesia e del
proletariato; e, infine, mostrano che i tempi sono ormai maturi per
l'abbattimento della borghesia e ia conquista del potere da parte del
proletariato. JI punti più salienti della loro trattazione sono i seguenti: 1)
La storia dell'umanità concepita come storia di lotte di classe. Muovendo dal
postulato secondo cui « la storia di ogni società esistita fino a questo
momento, è storia di lotte di classi » (p. 54), e valendosi di tale postulato
quale principio ermeneutico per ia comprensione delle vicende storiche, Marx e
Engels ricostruiscono schematicamente la storia dell'umanità come una sequenza
ininterrotta di antagonismi tra le classi 393 Prima edizione a Londra Nella
‘‘vecchia Europa’’ i nemici del comunismo Storia della borghesia e del
proletariato La storia dell'umanità come di lotta tra le classi sociali
politico e potere economico La concezione Qorghese dell’uomo la dignità deila
persona Trasformazione sociale e irasformazione economica La sovrapproduzione
la causa delîa crisi della borghesia il proletariato è una creazione del di
classe e prospettiva : in Grecia tra liberi e schiavi, a Roma tra patrizi e
plebei, nel Medioevo tra feudatari e servi della gleba, nell'epoca moderna tra
borghesia e proletariato {pp. 54-55). 2) Storia della formazione della
borghesia: i suoi inizi sono fatti risa- lire aila fine del Medioevo (pp.
55-56). Coincidenza dell’accrescimento del potere politico cella borghesia con
l'aumento del suo potere econo- mico. Così alla fine dello sviluppo della
classe borghese « dopo la crea- delle grandi industrie e del mercato mondiale,
la borghesia si è con- quistata il dominio politico esclusivo nello Stato
rappresentativo mo- derno. TI potere stataie moderno non è che un comitato che
amministra gli affari comuni di tutta ia classe borghese » (p. 57). Anche la
borghesia come qualsiasi altra classe sociale è salita al potere con la lotta,
la rivoluzione (pp. 57-58). 3) Le aberrazioni della concezione borghese
dell’uomo e della società: nella concezione borghese sono stravolti ia dignità
personale, la libertà de} singolo (p. 58), il significato delle professioni, i
rapporti familiari so- ciali e nazionali (pp. 59-62). 4) Il dinamismo di
trasformazicne della società: un tipo di società si qualifica in forza dei
rapporti economici esistenti tra i suoi membri, ossia secondo la distribuzione
dei inezzi di produzione. Una società si trasforma allorché i rapporti
economici subiscono un cambiamento so- stanziale. Così, alla società feudale è
subentrata la società borghese allorché, «a un certo grado di sviluppo dei
mezzi di produzione e di scambic, le condizioni nelle quali la società feudale
produceva e scam- biava, l'organizzazione feudale dell’agricoltura e della
manifattura, in una parola i rapporti feudali della proprietà, non corrisposero
più alle forze produttive ormai sviluppate. Essi inceppavano la produzione
invece di promuoverla. Si trasformarono in aitrettante ‘catene. Dovevano essere
spezzate e furono spezzate. Ad esse subentrò la libera concorrenza con la
confacente costituzione sociale e politica, con il dominio economico e
‘politico della classe borghese » (pp. 62-63). 5) Crisi della società borghese:
« La società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e
di scambio così potenti, ras- somiglia al mago che non riesce più a dominare le
potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia
dell'industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze
produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i
rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della
borghesia e del suo dominio » (pp. 63-64). La causa principale della crisi
della società borghese è « l'epidemia della sovraproduzione » (pp. 64-65). 6)
La svolta verso il comunismo: essa è preparata dallo stesso capita- lismo
mediante la creazione di una nuova classe sociale, la classe del pro- letariato
(p. 65). Questa classe sta ingrossando vieppiù mediante l'assor- bimento di
tutte le classi intermedie (pp. 67 e 72). 7) Le cause della ribellione del
proletariato: la disumanizzazione del lavoro, l'ingiusta retribuzione, lo
sfruttamento, l’asservimento (pp. 66-67). 8) La dialettica della lotta di
classe: da lotta di piccoli gruppi un po' alla volta essa si sta trasformando
in lotta massiccia dell'intera classe operaia contro la classe dei padroni (p.
68); da lotta nazionale in lotta internazionale (p. 74). 9) Definizione del
proletariato: « Il proletario è senza proprietà; il suo rapporto con moglie e
figli non ha più nulla di comune con il rapporto 394 familiare borghese; il
lavoro industriale moderno, il soggiogamento mo- derno al capitale, identico in
Inghilterra e in Francia, in America e in Germania, lo ha spogliato di ogni carattere
nazionale. Leggi, morale, religione sono per lui altrettanti pregiudizi
borghesi, dietro i quali si nascondono altrettanti interessi borghesi » (p.
73). 10) La via al comunismo: consiste nella eliminazione dell’attuale si-
stema di appropriazione e nella conquista delle forze produttive della società
« attraverso il violento abbattimento della borghesia » e la sop- pressione
della proprietà privata: «I proletari non hanno da salvaguar- dare nulla di
proprio, hanno da distruggere tutta la sicurezza privata e tutte le
assicurazioni private che ci sono state fin qui » (p. 74). 11) Certezza della
vittoria del proletariato sulla borghesia: perché quest’ultima contiene in se
stessa i germi della sua dissoluzione. Essa e- sige infatti la moltiplicazione incessante
del capitale, ma ciò non si può ottenere che con uno sfruttamento sempre più
iniquo della classe operaia. E questo conduce inevitabilmente alla reazione
violenta da parte del proletariato e alla rivoluzione (p. 76). SECONDA PARTE
PROLETARI E COMUNISTI In questa parte Marx e Engels, dopo una breve
dilucidazione dei rapporti tra proletariato e comunismo, prendono in esame e
respingono con fermezza, ad una ad una, tutte le critiche più gravi che vengono
sollevate contro la visione comunista della società. 1) Distinzione tra
proletari e comunisti: anche i comunisti sono dei proletari, ma non si
identificano con essi; se ne distinguono come ii partito di punta del
proletariato nella lotta contro i! capitalismo (p. 78). 2) Obiettivo immediato
‘del comunismo: « Abbattimento delia bor ghesia e conquista del potere da parte
de! proletariato » {p. 78). 3) Obiettivo ultimo del comunismo: abolizione della
proprietà pri- vata (p. 79). 4) Legittimazione della soppressione della
proprietà privata: questa è un'istituzione che è essenzialmente incompatibile
con la giustizia so- ciale. Infatti, nel sistema borghese, «il lavoro dei
proletario crea il capitale, ossia quella proprietà che sfrutta il lavoro
salariato, che può moltiplicarsi solo a condizione di generare nuovo lavoro
salariato, per sfruttarlo di nuovo » (p. 80; ofr. anche p. 83). 5) Ingiustizia
del lavoro salariato: nella società borghese esso è ap- pena sufficiente a
garantire all’operaio « la sua nuda esistenza » (p. 81). 6) Funzione del lavoro
nella società borghese e nella società comu- nista: « Nella società borghese il
lavoro vivo è soltanto ur: mezzo per mol. tiplicare il lavoro accumulato. Nella
società comunista il lavoro accu- mulato è soltanto un mezzo per ampliare, per
arricchire, per far pro- gredire il ritmo d'esistenza degli operai » (p. 81).
7) Diversità tra concezione borghese e concezione comunista della libertà e
della persona umana (pp. 82-84). 8) Diversa funzione della cultura, del
diritto, della religione, della morale nella società comunista e nella società
borghese {p. 85). Subordi- 395 Legge, morale e religione: pregiudizi borghesi
La via al comunismo: sconfitta della borghesia, fine della proprietà Lo
sfruttamento conduce alla rivoluzione del proletariato Alsune importanti
affermazioni di principio risultano dall'esame delia situazione La tradizione
del socialismo in Europa Adesione dei comunisti ad ogni forma di rivoluzione
contro il sistema in atto. nazione della cultura, del diritto, della religione
e della morale alla strut- tura economica (p. 85). 9) Storicità delle
espressioni culturali (p. 85). 10) Subordinazione dell'educazione al sistema
economico vigente in una determinata società. Superiorità dell'educazione
comunista nei con- fronti di quella borghese (p. 86). 11) Le diverse concezioni
della famiglia e della nazione (p. 86). 12) Approfondimento del tema dei
rapporti tra struttura economica e sovrastrutture culturali (pp. 88-90). 13)
Dieci provvedimenti riguardanti l’abolizione della proprietà pri- vata (pp.
91-92). 14) Abolizione della divisione della società in classi: «Il proleta-
riato [...] facendosi classe dominante attraverso una rivoluzione, ed abo-
lendo con forza, come classe dominante, gli antichi rapporti di produ- zione,
abolisce insieme a quei rapporti di produzione le condizioni di esi- stenza
dell'antagonismo di classe, cioè abolisce le condizioni di esistenza delle
classi in genere, e così anche il suo proprio dominio in quanto clas- se » (p.
93). TERZA PARTE LETTERATURA SOCIALISTA E COMUNISTA In questa parte Marx e
Engels presentano una rassegna critica della letteratura socialista e comunista
del loro tempo, soffermandosi in par- ticolare sul « socialismo cristiano » dei
romantici cattolici francesi (Lam- menais e Montalembert) (pp. 97-98), sul «
socialismo piccolo borghese » di Sismondi {pp. 99-102), sul « socialismo
tedesco » di Bauer e Hess (pp. 103-109), sul « socialismo borghese » di
Proudhon (pp. 109-113), e sul «‘comunismo critico-utopistico » di Saint-Simon e
iFourier (pp. 113-120). QUARTA PARTE POSIZIONE DEI COMUNISTI DI FRONTE AI
DIVERSI PARTITI DÌ OPPOSIZIONE In questa parte conclusiva gli autori delineano
brevemente la posi- zione dei comunisti di fronte ai diversi partiti operai già
costituiti e ai movimenti rivoluzionari già operanti in Francia, Svizzera,
Polonia e Ger- mania. Particolare attenzione riservano a quest'ultima nazione
perché, a loro giudizio, la Germania offre le condizioni socio-politiche più
pro- pizie per la lotta e per la vittoria del proletariato contro il sistema
bor- ghese. Le linee direttrici indicate da Marx e Engels sono le seguenti: «I
comunisti appoggiano dappertutto ogni movimento rivoluzionario diretto contro
le situazioni sociali e politiche attuali. Entro tutti questi movimenti essi
mettono in rilievo, come problema fondamentale del movimento, il problema della
proprietà, qualsiasi forma, più o meno svi- luppata, esso possa avere assunto.
Infine, i comunisti lavorano dappertut- to al collegamento e all’intesa dei
partiti democratici di tutti i paesi. I 396 comunisti sdegnano di nascondere le
loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini
possono esser raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto
l'ordinamento sociale finora esistente. Rovesciamento Le classi dominanti
tremino al pensiero d'una rivoluzione comunista, Violento del sistema I
proletari non hanno da perdervi che le loro catene. Hanno un mondo anto: da
guadagnare. PROLETARI DI TUTTI Ì PAESI, UNITEVI » (p. 124). QUESTIONARIO DI
VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Che cosa è la « Lega dei giusti » e dove sorse? 2.
Quando e dove sorse la « Lega dei comunisti »? 3. Chi ne fu il primo
presidente? 4. Il libretto « Manifesto del partito comunista» quando e dove
venne pubblicato? 5. Marx come concepisce la storia dell'umanità? 6. Dalla
concezione borghese della società che cosa deriva? 7. Quale era la crisi della
borghesia che Marx intravvedeva? 8. Questa crisi, a distanza di un secolo, era
reale? 9. Come vengono considerate da Marx le leggi, la morale e la religione?
10. Che distinzione c'è tra proletari e comunisti? . 11. Per quali motivi Marx
giustifica la soppressione della proprietà privata? 12. Quale funzione ha il
lavoro nella società comunista? 13. Quale è la posizione dei comunisti rispetto
agli altri partiti operai sorti in Europa? 397 Obiettivo della metafisica:
risposte esaustive agli interrogativi ultimi Nei secoli XVIII e XIX la scienza
come sapere assoluto Attualità della metafisica, ‘‘inattualità’’ dei suoi
risultati Denunciati gli errori del passato e nuove soluzioni per il futuro Organicità
e maturità delia trattazione V. « INTRODUZIONE ALLA METAFISICA » Martin
Heidegger (1889-1976) 1. Premessa I limiti della scienza, i pericoli della
tecnologia, la caducità delle cose, la finitudine del mondo, il non-senso della
storia, il nichilismo che ci circonda e assedia da ogni parte, hanno conferito
nuova attualità (tanto da farne secondo alcune previsioni il sapere del futuro)
a quella che già fu per molti secoli regina di ogni sapere, la metafisica.
Definita già da Aristotele come studio delle cause ultime oppure come studio «
dell’ente in quanto ente », l’obiettivo della metafisica è stato sempre quello
di esibire una risposta esaustiva agli interrogativi ultimi, gli interrogativi
che riguardano il senso della vita, l'origine del mondo, il valore della
conoscenza, il problema del male e della libertà, la verità, la morte, ecc. Con
l'avvento della scienza e con l'illusione che questa potesse affer- marsi come
un sapere assoluto, si è creduto di poter dichiarare il tra- monto della
metafisica. Il XVIII e il XIX secolo hanno espresso una cul- tura
essenzialmente antimetafisica; ma la scienza, che si è sempre più perfezionata
nel calcolare i fenomeni per poterli controllare e dominare, si è invece
arrestata davanti alla porta dei problemi ultimi. Così il loro esame e
possibilmente la loro soluzione sono oggi nuovamente demandati alla metafisica.
L'uomo, diceva Schopenhauer, è essenzialmente un essere metafisico: lo è in
forza della sua natura spirituale, lo è grazie al suo conoscere intel- lettuale.
Come essere metafisico egli è da sempre chiamato ad interro- garsi su se
stesso, sul proprio essere e sugli enti che lo circondano con l'obiettivo e la
speranza di pervenire ad una risposta soddisfacente e conclusiva. Il suo
oggetto e il suo compito rendono, pertanto, la meta- fisica sempre attuale,
anche se i suoi risultati sono costantemente messi in crisi dall'inarrestabile
tensione di ricerca della mente umana. 2. Origine e obiettivi dell’opera Dei
filosofi del nostro secolo nessuno come M. Heidegger — che molti studiosi
considerano il più grande di tutti — si è occiipato con altrettanto impegno e
costanza della metafisica, denunciando, da una parte, gli er- rori in cui sono
incorsi i filosofi del passato e proponendo, dall'altra, nuo- ve impostazioni e
soluzioni per il futuro. Dei molti scritti in cui Heidegger affronta il
problema della metafisica la Einfiihrung in die Metaphysik (Introduzione alla
metafisica) si racco- manda in modo particolare per la organicità, completezza
e maturità della trattazione. Questo saggio occupa « una posizione centrale e
peculiare nel- lo svolgimento del pensiero di Heidegger [...] tanto che esso si
può col. 398 locare accanto a Seiti und Zeit (Essere e tempo) come seconda
cpera chia- ve per la comprensione dell’intero suo pensiero » {Vattimo).
Concepita e scritta nel 1935 — a quasi dieci anni di distanza da Essere e tempo
— nello sviluppo del pensiero heideggeriano Introduzione alla metafisica è il
documento principale della grande svolta (Kehre) in dire- zione dell'essere. In
Essere e tempo, per risolvere la questione ontolo- gica (quella dell'essere),
Heidegger aveva seguito il cammino ascendente (dagli enti all'essere),
assumendo come punto di partenza quell’ente pri- vilegiato che è l’uomo, che è
colui in cui l'essere si interroga e si mette in questione. Ma questa strada Jo
aveva condotto in un vicolo cieco: anziché alla sponda dell'essere approdava a
quella del nulla. Così, in Introduzione aila metafisica, Heidegger segue il
cammino inverso: dal- l'essere agli enti. L'essere è il punto di partenza, è il
fondamento, la sor- gente da cui tutto discende. Gli enti o essenti sono le
parole, il raccogli- mento, la non-latenza, la verità, l’epifania, il
disvelamento dell'essere. In taì modo Heidegger ritiene di sfuggire alla
trappola in cui — a suo avviso — è caduta tutta la metafisica tradizionale
{greca, medioevale, moderna), che assumendo come punto di partenza questo o
quell’ente o questa o quella modalità dell'essere non era mai riuscita ad
oltrepas- sare l'orizzonte degli essenti ossia l'orizzonte della fisica e
finiva rego- larmente nella identificazione dell'essere con l'Ente supremo.
(Kehre), oltre che un nuovo cominciamento della comprensione dell'essere,
comporta anche la ricerca di un nuovo lin- guaggio, « adatto », cioè adeguato
al contenuto di un pensiero che non in- tende più avvalersi delle categorie
metafisiche tradizionali e vuol met- terle in discussione nelia loro stessa
radice. Anche di questo sforzo arduo e grandioso la Introduzione costituisce il
primo importante documento e, fino a Cammino verso il linguaggio, resterà
l'unico saggio di una certa ampiezza ed organicità. Introduzione alla
metafisica consta di quattro capitoli che trattano 399 in ‘‘Essere e îempo’’
cammino ascendente: dail’ente al nulla in questa opera cammino discendente:
dall'essere agli enti La storia dischiude l'essenza dell’essere Le quattro
delimitazioni dell’essere: divenire, apparire, pensare, dovere La grande
svolta: nuovo sominiciamento e nuovo linguaggio Le tre priorità della domanda
metafisica fondamentale: ampiezza, profondità, origine La domanda fondamentale:
evento, salto, non suscettibilità di verifica La filosofia come sapere:
inattuale inutile ambiguo fecondo difficile rispettivamente di: 1) La domanda
metafisica fondamentale; 2) Gram-. matica ed etimologia della parola « essere
»; 3) La domanda sulla es- senza dell’essere; 4) La limitazione dell'essere. 3.
Divisione e sintesi dell’opera CAPITOLO I LA DOMANDA METAFISICA FONDAMENTALE 1.
La domanda metafisica fondamentale È la seguente: « Perché vi è, in generale,
l’essente e non il nulla? ». Questa è la domanda metafisica per eccellenza e
gode su qualsiasi altra domanda di una triplice priorità: in ordine
all'ampiezza « è la più vasta »; in ordine alla profondità: « è la più profonda
»; in ordine all'origine: « è la più originaria ». L'interrogativo riguarda
tutti gli enti senza nessuna distinzione: « In ragione della sua portata
illimitata tutti gli enti per essa
si equivalgono ». Perciò « bisogna
evitare di porre in primo piano un ente particolare, anche l’uomo [...]. Non
sussiste nessun motivo perché, per entro l’essente nella sua totalità, si debba
porre in primo piano quel- l'essente chiamato uomo, alla cui specie noi stessi
per caso appartenia- mo » (pp. 15-16). Ta domanda metafisica fondamentale, già
singolare in se stessa, as- sume capitale e vitale importanza per colui che la
solleva: è un evento nella sua esistenza. L'evento consiste in un salto, che comporta
l’abban- dono di tutte le precedenti certezze; ma si tratta di un salto
singolaris- simo, che si esplica più in maniera passiva che attiva, è un salto
origi- nario (Ur-sprung). La domanda metafisica non è suscettibile di verifica;
perciò non si può stabilire con certezza se essa è autentica oppure
inautentica. Tuttavia, almeno una cosa è certa: non è autentica quando si
presta a ricevere una risposta sicura, precisa, definitiva; per esempio, la
risposta biblica: c’è l'essente perché Dio l’ha creato. D'altronde questa è una
di quelle do- mande che si colloca fuori dall’orizzonte della fede:
l’interrogarsi sul- l'essente in rapporto al suo fondamento per il credente è «
una follia » (p. 19). 2. Caratteristiche della filosofia i- sica. Ma se si
risale al significato originale del termine physis, il quale voleva dire « ciò
che si dischiude da se stesso (come, ad esempio, lo sbocciare di una rosa),
l’aprentesi dispiegantesi e in tale dispiegamento l’entrare nell’apparire e il
mantenersi in esso, in breve: lo schiudentesi- permanente imporsi », allora si
può ben dire che oggetto della filosofia è nient'altro che la physis, in quanto
«la physis è lo stesso essere, in forza del quale soltanto l'essente diventa
osservabile e tale rimane » (p. 26); « l'essente come tale nella sua totalità è
physis, cioè ha come essenza caratteristica lo schiudentesi-permanente imporsi
» (p. 28). Per- tanto studiare la physis e studiare l'essere è la stessa cosa.
Senonché non è a questo studio dell'essere come tale che ha atteso la metafisica
tradizionale: volendo scavalcare la physis essa ha fallito il suo obiettivo,
l'essere, sin dall'inizio. « Per chiunque si ponga dal nostro punto di vista,
diviene chiaro che l'essere come tale risulta in realtà na- scosto alla
metafisica, resta obliato, e ciò in maniera così radicale che la dimenticanza
dell’essere, col cadere essa stessa in oblio, viene a costi- tuire l'impulso,
ignoto ma costante, che sollecita il domandare metafi- sico » {p. 30). 4. Il
ricominciamento deila filosofia Per fare autentica filosofia occorre
ricominciare da capo, sollevando di nuovo la domanda fondamentale: « Perché vi
è, in generale, l'essente e non il nulla? ». Questa domanda ha ‘carattere
fortemente personale. Per affrontarla non ci sono né maestri, né guide, né compagni,
né sostituti: « è un andare avanti domandando [...] che non comporta nessuna
com- pagnia » (p. 31). Essa ha, inoltre, carattere di ri-soluzione, di impegno:
« interrogare significa voler-sapere. Chi vuole, chi pone tutto il suo es- sere
in un volere, è risoluto » (p. 32). Infine, ha anche carattere di eser- cizio:
l'atteggiamento interrogativo dev'essere sviluppato, fortificato con
l'esercizio (p. 33). 5. Svolgimento della domanda fondamentale AI fine di
chiarirne meglio il senso, Heidegger vi distingue tra l'inter- rogato
{l'essente) e ciò su cui verte l'interrogazione: il fondamento (Grund)
dell'essente. A prima vista, si ha l'impressione che la domanda sia tutta
rinchiusa in « perché l’essente?» e che l'aggiunta « e non il nulla » abbia una
funzione meramente pleonastica. Tuttavia, se si fa mag- 401 straordinario La
‘‘physis’’ oggetto della filosofia: è studiare l’essere Carattere personale e
carattere di risoluzione della dumanda fondamentale sull’essente Il nulla è
legato alla logica del pensare Priorità del sapere filosofico e dei psetare sui
sapere scientifico Distinzione dell’essere dall’essente La crisi
dell'Occidente: oblio dell’essere e frenesia dell’essente Ripetizione del
cominciamento e ricollocazione dell’esistenza storica dell’uomo gior attenzione
si vede che c'è almeno urna ragione storica per integrare la dorranda cor
l'espressione « e non il nulia »: il fatto che la filosofia si è posta sin
dall'inizio insieme alla domanda sull’essente anche la doman- da sul
non-essente, sul nulla. Ma c'è di più: il divieto di interpellare il nulla,
perché il nulla è nulla, è sì legato alla logica del pensare, ma si tratta di
una logica che opera all’interno di una determinata precom- prensione
dell'essente, e potrebbe essere che « ogni pensiero che obbe- disce solamente
alle regole della logica tradizionaie si trovi fin da prin- cipio
neli'impossibilità anche solo di comprendere, in generale, la do- imanda circa
l’essente, e tanto più nella impossibilità di svilupparla real- mente e di
pervenire ad una risposta » (p. 36). Solo la logica del pensiero scientifico
vieta il discorso sul nulla. Ma (e questa è tesì assai cara a Heidegger) il
sapere filosofico e il poetare godono di un'assoluta priorità sul sapere
scientifico (pp. 36-37). Ci sono pertanto delle buone ragioni (storiche e
teoretiche) per includere nella domanda fondamentale la frase «e non il nulla
». Questa aggiunta conferisce alla domanda un più ampio respiro e le apre un
orizzonte diverso. Nella forma abbre- viata l'orizzonte e il respiro restano
sempre quello dell’essente; così, si è tentati di rinvenire il fondamento nello
stesso ordine {un essente su- periore}. Invece, includendo il riferimento al
nulla, ciò che si vuol scoprire è la ragione deila ‘vittoria dell’essente sui
nulla (pp. 38-39). 6. La differenza ontologica tra essente ed essere Di che
natura è questa differenza basilare, primaria? Non è soltanto una differenza
logica, concettuale, bensì una differenza reale. Anche se inafferrabile,
l'essere rimane sempre distinto dall’essente, è altra cosa rispetto
all’'essente. E ciò implica una qualche comprensione dell’es- sere: solo grazie
a tale comprensione noi possiamo interrogare l’essente a proposito del suo
essere (p. 43). L’essere non è incluso nella definizione dell’essente (del cavallo,
del- l’uomo, del gesso, ecc.) eppure senza l'essere nessun essente è. E, tut-
tavia, l’essente non è percepibile immediatamente, non è qualcosa che si vede
(pp. 44-46). Ma tutto questo non giustifica la tesi nietzschiana secondo cui
l'essere è « fumo, esalazione, errore ». Quella sull'essere è domanda
estremamente seria, che tocca direttamente il destino del. l'Occidente. Dal
rapporto che l'umanità assume nei confronti dell’es- sere ne va del suo
destino, della sua storia. in effetti, l'oblio dell'essere e la frenesia per
l’'essente sono la causa vera e profonda della crisi e della rovina
dell'Occidente e del mondo intero {pp. 48 ss.). Del tutto singolare è la
responsabilità del popolo tedesco che « è il popolo metafi- sico per eccellenza
» (p. 49), nei confronti dell'essere. 7. La ripetizione del cominciamento,
superando gli errori della ontologia Dopo la « morte dell'essere » sentenziata
da Nietzsche, solo un co- minciamento nuovo, originario, può restituire
all'interrogativo « che cosa è dell'essere », quella forza, quella rilevanza,
quel peso che gli è proprio come interrogativo fondamentale. La ripetizione del
fondamento riguarda anzitutto e soprattutto il concetto di « essere »,
sottraendolo a quell’appiattimento che l’ha ridotto a « concetto più generale
di tutti », come è stato normalmente inteso dalla ontologia (pp. 49-51). Per
realiz- 402 zare la ripetizione del cominciamento occorre « ricollocare
l'esistenza storica dell'uomo [...] nella potenza dell'essere da rivelarsi in
modo ori- ginario: tutto ciò, beninteso, solo nei limiti del potere concesso
alla filosofia » (p. 52). Porre questo nuovo cominciamento è una « decisione
storica » per l'Europa e per tutto il globo terrestre (p. 53). 8. Urgenza del
ricominciamento Esso è indispensabile per vincere quel depotenziamento dello
spirito che si registra ovunque oggi nel mondo (pp. 56 ss.). Definizione dello
spiri- to come « dischiudimento (ent-schlossenheit) originario verso l'essere
». Ed è per questo che l'interrogarsi sull’essente come tale nella sua
totalità, «il proporre la domanda sull’essere, costituisce una delle condizioni
fondamentali, essenziali, per un risveglio dello spirito, per il porsi di un
mondo originario dell'esserci storico, per arrestare il pericolo di un
oscuramento del mondo e per una assunzione della missione storica del nostro
popolo considerato come centro dell'Occidente » (p. 60). Il rico- minciamento —
che ha luogo quando si instaura un autentico rapporto con l'essere — è anche
condizione essenziale per restituire al linguaggio la sua funzione e il suo
significato {p. 61). CAPITOLO II SULLA GRAMMATICA E SULLA ETIMOLOGIA DELLA
PAROLA « ESSERE » 1. Condizioni preliminari all'esame grammaticale ed
etimologico :Si impone anzitutto un'autentica rivoluzione del nostro rapporto
con la lingua; anche se è vero che la determinazione dell'essenza del lin-
guaggio e il nostro stesso modo di interrogarci si conformano alla nostra
concezione dell'essenza dell’essente e dell'essere, tuttavia è pur vero che «
l'essenza e l'essere parlano nelia lingua ». Di qui la necessità « di chia-
rire l'essenza stessa dell'essere, per quanto riguarda la sua essenziale
implicazione con la natura del linguaggio » (pp. 64-65). 2. La grammatica della
parola « essere » « Come sostantivo “l'essere” deriva dal verbo. Per questo si
dice che la parola “l'essere” è un sostantivo verbale. Con questa forma gram-
maticale si può considerare esaurito quanto c'è da dire, sul piano lin-
guistico, delia parola “essere” » (p. 66). E tuttavia rimane aperto e sco-
perto un problema: «il problema di sapere se la forma originaria della parola
come sostantivo e come verbo rappresenti effettivamente il ca- rattere
originario del dire e del parlare. Tale questione include in sé, in pari tempo,
quella dell’origine del linguaggio » {p. 66). Ma non ci si può accontentare di
questa indicazione assai generica. Per verificare quale sia stato in origine il
rapporto linguaggio-essere occorre esplorare come siano andate le cose nella
lingua greca, la quale «è accanto alla tedesca la più potente ed insieme la più
spirituale » (p. 67). Heidegger si sofferma anzitutto sulla distinzione tra
onoma e rema: onoma è manifestazione ed espressione della cosa, rema dell’azio-
ne; il primo corrisponde al sostantivo, il secondo al verbo. Ma questa 403 Lo spirito:
dischiudimento verso l’essere Necessaria una autentica rivoluzione de rapporto
con la lingua La parola ‘‘essere’' e l’origine del linguaggio Analisi dei
termini greci: ‘“onoma”’ (manifestazione della cosa), ‘‘rema”’ (dell’azione)
L’‘‘emergenza dell’essente come lotta: ‘“polemos”’ Essere come vivere:
dischiudersi, permanere L’inafferrabilità dell’essere analisi dice ancora poco.
Perché la ricerca approdi a qualche risultato apprezzabile occorre spingersi
più avanti, e cercare di comprendere come i greci concepivano il linguaggio
(pp. 68-69). Heidegger fa vedere che nella lingua greca l’essente è concepito
come qualche cosa che si rende presente assumendo un limite (telos), una forma
(morfé), un aspetto (idea), una natura (physis), una verità {a-letheia), cioè
come « un fuoruscire dalla latenza » (pp. 70-72). L'emergenza dell’essente come
qualcosa di distinto e determinato è concepita come polemos (lotta). Quando la
lotta cessa l’essente perde la sua identità, e viene ridotto a mero oggetto di
considerazione teorica, di calcolo, di produzione: « resta pur sempre l’essente
[...] ma l'essere si è ritratto da lui » (p. 73). In conclusione, « per i greci
“essere” significa stabilità (Stàndigkeit), e ciò in duplice senso: 1) Lo stare
in sé nel senso del prodursi, del pro-cedere (Ent-stehen): physis. 2) Lo stare
in sé come tale, come qual. cosa di “stabile”, che rimane, di permanente
(Verweilen): ousia. Non-es- sere, per conseguenza, significa l’uscire da tale
stabilità proceduta da se stessa: existasthai. “Esistenza” ed “esistere”,
significano quindi per i Greci precisamente: non-essere » (p. 74). A questo
punto Heidegger fa seguire una sottile disquisizione sulla forma infinitiva
delle parole (pp. 77 ss.). 3. Etimologia della parola « essere » Le tre radici del
verbo « essere » (che si possono cogliere nelle pa- role indogermaniche, greche
e latine), determinano i tre significati prin- cipali che questa parola ha
avuto sin dalle origini nella lingua greca:
vivere, dischiudersi, permanere. « Ma a
questo punto ci si presenta una domanda decisiva: come si accordano e in che
cosa convergono le tre radici citate? Cosa è che regge e dirige il dire
dell'essere? Su che cosa si fonda il nostro dire dell'essere secondo le varie
flessioni della lingua? Questo dire e la comprensione dell'essere sono o no la
stessa cosa? Come è presente (west), nel dire dell'essere, la differenza fra
l'essere e l’essente? » (p. 82). 4. Questioni pendenti ‘A questo punto
Heidegger segnala una serie di importanti questioni ancora aperte ed irrisolte,
in particolare: 1) Quale tipo di « astrazione » era in gioco nella formazione
della parola « essere »? 2) Qual è il signifi- cato fondamentale predominante
(dei tre significati iniziali) che può avere presieduto alla fusione
verificatasi? 3) Il senso dell'essere che, stando alle interpretazioni
puramente logiche e grammaticali, ci si pre- senta come « astratto » e come
qualcosa, per conseguenza, di puramente derivato, può essere in se stesso pieno
e originario? (pp. 82-83). Conclusione: Quando si tenta di spiegare il
significato della parola «essere » ci si trova subito in imbarazzo, perché è un
voler cogliere l'inafferrabile. « Con tutto ciò, noi siamo continuamente
attratti dall’es- sente, inseriti in esso, portati a considerare noi stessi
come degli “es- senti”. “L'essere”, per ora, non è per noi che un semplice
vocabolo, un termine frusto. Se non altro, bisogna che cerchiamo almeno di
impadro- nirci di quest'ultimo resto rimasto in nostro possesso » (p. 83). È
quanto 404 si è tentato di fare nel secondo capitolo mediante la ricerca
grammati- cale e filologica intorno alla parola « essere ». CAPITOLO III :LA
DOMANDA SULL’'ESSENZA DELL'ESSERE 1. La strategia da seguire per determinare
l'essenza dell’essere Chi vuole realizzare un effettivo « cominciamento » ed ha
constatato che l’essere è diventata la parola più generica e più vuota di
tutte, può essere tentato a Jasciare in disparte questa parola e rivolgersi ai
vari ambiti dell’essente. Senonché a questo punto sorge un grosso problema:
come stabilire che qualche cosa è davvero un essente? « E come stabilire,
d’altra parte, che in un certo tempo, in un certo luogo, un supposto es-. sente
non è, se non siamo già in grado di distinguere con chiarezza fra essere e non
essere? E come compiere questa decisiva distinzione, se non sappiamo, in modo
altrettanto decisivo e determinato, che cosa signi- fichino l'essere e il non
essere che vengono qui appunto distinti? Come può, nel caso specifico e in generale,
un essente essere per noi un essente, se prima non comprendiamo che cosa
significhino “essere” e “non esse- re”? » {p. 87). 2. Il significato della
parola « essere » « Essere », questa parola apparentemente tanto vaga ed
indeterminata, tuttavia è così densa di significato da fornire una sicura e
decisiva linea di demarcazione sia nell'ordine del pensiero sia in quello del
linguaggio. « Riflettendo più attentamente su questa parola risulta alla fine
questo: malgrado ogni obliterazione, mescolanza, genericità del suo
significato, noi pensiamo in essa qualcosa di determinato. Questo qualcosa di
deter- minato è così determinato ed unico nel suo genere che occorre fare la
seguente aggiunta: quell’essere che tocca a qualsiasi ente e che si sperde in
ciò che vi è di più comune, è, per eccellenza, quanto vi è di più unico » (p.
88). Pertanto « proporsi di abbandonare l’“essere”, come parola vuota di senso,
per rivolgersi all’essente in particolare, è cosa non solo avventata ma
oltretutto eminentemente incerta » (p. 89). ‘Heidegger illustra questa tesi
ricorrendo all'applicazione di un con. cetto generale (per esempio, albero) ai
casi singoli e mostrando che questi sono identificabili (come alberi) solo
grazie al concetto generale. Ma, si potrebbe obiettare che il caso dell'essere
è molto diverso da quello del- l'albero, perché l’essere non è un genere.
Tuttavia, risponde Heidegger, « la necessità di comprendere già in anticipo la
parola “essere” è la più alta ed ineguagliabile » (p. 91). Ciò che ‘va
approfondito (« erigere in sa- pere ») è la particolarità, unica nel suo
genere, di questo nome. 3. Accertamento della conoscenza dell'essere Che si dia
una certa cognizione dell'essere lo si può provare quanto meno indirettamente.
‘Infatti, senza una cognizione dell'essere risulte- rebbe impossibile qualsiasi
dischiudersi dell’essente in quanto tale, e ri- sulterebbe impossibile anche il
linguaggio, perché parlare è sempre dire 405 Capire ‘‘essere’’ e “‘non-essere'’
per giungere all’essente L’unicità dell’essere Parlare è sempre dire l’essere
L'uomo è l’essere capace di ‘‘dire’’ La necessità di interrogare l'essere Il
linguaggio luogo del dischiudimento dell'essere Determinazione del senso
dell’essere: presenza presenzialità consistenza sussistenza permanenza avvenire
e Il fatto che noi comprendiamo l'essere, anche se in modo indetermi- nato ed
opaco, « ha per il nostro esserci il più alto valore, in quanto vi si manifesta
una forza nella quale si fonda tutta la possibilità essen- ziale del nostro
esserci. Non si tratta di un fatto qualunque, ma di qual- cosa che per il suo
peso esige la più alta valutazione, a patto che il no- stro esserci, che è
sempre qualcosa di storico, non rimanga per noi qual- cosa di indifferente.
D'altronde anche perché il nostro esserci possa ri- manere per noi un'entità
indifferente, occorre comprendere l'essere. Sen- za questa comprensione non
saremmo neanche in grado di dire di no al nostro esserci » (p. 92). Interrogare
l’essere (non il rispecchiarlo o rap- presentarlo c l'apprenderlo) è l'unica
via da seguire per sottrarlo al suo nascondimento. E « il nostro interrogare
risulta tanto più autentico quan- to più ci atteniamo con aderenza e costanza a
ciò che più merita di essere investigato, e precisamente al fatto che l'essere
è ciò che per noi risulta compreso in modo completamente indeterminato e
tuttavia eminente- mente determinato » {(p. 93). L’interrogare verte sul senso
dell'essere cioè sulla sua « apertura ». 5. La filosofia come accesso
all'essere Il dischiudersi dell'essere è un evento ed un evento è anche la
filosofia in quante cerca di ri-effettuare taje dischiudimento. La via però che
la filosofia ha da percorrere nen è quella ascendente della metafisica tradi-
zionale {dall'essente verso l'essere), bensì quella discendente: « dall’es-
sere a ciò che si deve problematizzare della sua apertura » (p. 95). La « di-
scesa » da seguire è quella tracciata dalia lingua, perché il dischiudersi
dell'essere ha luogo nel linguaggio: « l'essere stesso è legato alla parola in
un senso del tutto diverso e più essenziale di qualunque altro ente » (p. 97).
6. L'orizzonte del senso deli’essere . Mediante una vasta esemplificazione ed
esplorazione dei vari sensi dell'essere, Heidegger perviene alla conclusione
che essi si inscrivono tutti dentro un certo orizzonte, che corrisponde a
quello del pensiero greco: « C'è una certa linea unitaria che li percorre
tuiti. Essa orienta la com- prensione dell'essere verso un determinato
orizzonte dal quale trae il suo significato. La determinazione dei senso dell’essere
si circoscrive nell'am- bito della presenza (Gegenwartigkeit) e della
presenzialità {(Anwesenheit), 406 della consistenza {(Bestehen) e deila
sussistenza (Bestand), della perma- nenza (Aufenthait) e dell'avvenire
(Vor-kommen) » {.p. 101). CAPITOLO IV LA LIMITAZIONE DELL'ESSERE In questo
capitolo Heidegger tenta un’altra via per raggiungere il di-schiudersi
dell’essere (oltre a quella ciel linguaggio: grammatica ed eti- mologia),
quelia di mettere a confronto e di contrapporre l'essere con slcune sue modalità
fondamentali: l'apparire, il divenire, il pensare e il dever-essere, modalità
queste che hanno trovato espressione nelia sto- ria della filosofia {per cui il
dischiudersi dell'essere coincide, come vuole iIeidegger, con la storia della
filosofia), le prime due modalità nella filosofia greca, le ultime due nella
filosofia moderna. 1, Fsssre e divenire Storicamente questa è la prima
distinzione e contrapposizione presa in considerazioni dai filosofi (Parmenide,
Eraclito, ecc.). Contropposto al divenire « l'essere si mostra come la solidità
propria dello “stabile in sé raccolto” » (p. 106). Qui Heidegger introduce una
importante osservazio- ne concernente la storia della filosofia: che non è
semplice altalena di affermazioni e negazioni, di tesi e antitesi, come si suol
credere, bensì un discorso unitario intorno alla stessa cosa la quale «
possiede in realtà come sua interna verità l’inesauribile ricchezza di essere
ogni giorno come al suo primo giorno » (p. 107). 2. Essere e apparenza ro 407
Le modalità fondamentali deli’essere: apparire, divenire, pensare, dover essere
La filosofia: discorso unitario intorno alia stessa cosa L’unità recondita di
essere e apparenza L’apparenza come possibilità intrinseca dell’essere La lotta
dei greci per la conquista dell’essere Tre vie per un giusto rapporto
dell'essere con l’'essente: la via dell'essere, del nulla, dell'apparenza Il
pensare: modalità dell'essere Carattere prospettico del pensare e valore
prospettico del conoscere sembrare è conseguenza dell'essere stesso come sua
possibilità intrin- seca in quanto — come physis — consiste nell'apparire,
nell'emergere per prospettive (p. 114). a sperimentato, sulla via del-
l'essere, la tempesta capace di trascinarlo via, a colui cui lo spavento della
seconda via, quella che conduce all’abisso del nulla, non è rimasto estraneo, e
che pure ha saputo accettare il rischio sempre incombente della terza via,
quella della apparenza » (p. 122). vo del Dasein, è anzitutte modalità
dell'essere. ia distinzione esse- re-pensiero va studiata con la massima
attenzione, in quanto precede tutte ie altre distinzioni e, per intenderla
rettamente occorre ricondurla alle origini: anche per essa è necessario il «
ri-cominciamento », di modo che la verità primigenia venga restituita nei suoi
propri limiti e con ciò nuovamente fondata (pp. 125-126). Occorre anzitutto
prender nota del ca- rattere prospettico del pensare: esso accade sempre dentro
un determina- to orizzonte, un determinato campo di osservazione. Non tenendo
conto del valore prospettico del conoscere — assolutizzandolo — la gente in-
408 corre spesso in gravi errori e deviazioni, talché « non riconosciamo più
guono tre tipi principali di a. predicativa: di attribuzione, di
proporzionalità propria e di proporzio- nalità metaforica. L'a. è una categoria
fondamentale per la verifica del linguaggio metafisico e religioso. Anima -
Deriva secondo i filologi o dal greco anaigma (senza sangue) o dal greco dnemos
(soffio, vento). Il termine viene universalmente ado- perato per significare il
principio primo della vita. I pensatori antichi e medioevali solevano
distinguere tre a. vegetativa, sensitiva e razio- nale. Secondo molti
scolastici nell'uomo le tre a. sono formalmente di- stinte; invece secondo san
Tommaso si dà nell'uomo soltanto l’a. razio- nale la quale svolge anche le
attività delle a. inferiori. A. si distingue dalla parola spirito, sia in
quanto contiene l'idea di una sostanza’ spiri- tuale, sia in quanto è più
comprensiva, dal momento che la parola spirito si applica soprattutto alle
operazioni intellettuali. Antropologia - È lo studio dell'uomo {dal greco
anthropos = uomo, logos = studio). Si danno tre tipi principali di a.:
culturale (o scienti- fica), filosofica e teologica. La prima studia l'uomo con
criteri scienti- 416 fici e si propone di ricostruire gli elementi costitutivi
delle culture pri- mitive o tradizionali. L'a. filosofica cerca di risolvere
col puro ragiona- mento l'enigma umano in tutti i suoi molteplici aspetti:
ontologico, etico, politico, religioso, storico, ecc. Infine l'a. teologica
procura di ottenere un'intelligenza approfondita e sistematica del mistero
dell'uomo alla luce della «Parola di Dio. Arte - L’a. è ogni produzione di
bellezza da parte di un essere co- sciente. L'oggetto dell’attività artistica
(o estetica) è la bellezza, come oggetto di quella scientifica è la verità, di
quella etica la bontà, di quella religiosa il sacro, di quella tecnologica
l'utile. Perciò l'a. si distin- gue dalla tecnica. L'artista facendo un'opera
d'a. si propone anzitutto di dare espressione sensibile alla bellezza (in un
disegno, un edificio, un quadro, ecc.). L'opera d'a. non è mai una semplice
riproduzione di fatti naturali. Perché si dia opera d'a. occorre originalità,
genialità, creatività. Aseità - Indica la condizione dell'essere che esiste di
per sé. Il con- cetto di a. è presente nella patristica in relazione alla
natura di Dio. In Cartesio e Spinoza riguarda la sostanza. Nell’assiologia di
Nicolai Hart- mann l'a. è riferita alla sussistenza dei valori. Assiologia - È
lo studio filosofico dei valori (dal greco arxios = degno, valido; e logos =
studio). È una disciplina che deve le sue origini, al- meno indirettamente, a
Nietzsche con la sua aspra critica dei valori tradizionali e il tentativo di
capovolgerli in valori « mondani », terrestri. Ma il suo vero fondatore fu
Rudolf H. Lotze {1817-1881), un contempo- raneo di Nietzsche. Egli distingueva
tre regni di ricerca: regno dei fatti, regno delle leggi universali e regno dei
valori. I primi due sono studiati dalla ragione con il metodo analitico e
possono essere considerati in prospettiva meccanicistica, il terzo è appreso
dal sentimento e implica necessariamente una prospettiva spiritualistica.
Infatti, secondo Lotze, fondamento ultimo di tutti i valori e valore assoluto
esso stesso è Dio. Astrazione - Denota l’attività con cui l'intelletto (agente)
ottiene la conoscenza delle idee universali. La loro conoscenza, secondo la
teoria dell’a. (che fu elaborata per primo da Aristotele e fu ripresa nel
Medio- evo da san Tommaso), non avviene né per anamnesi, cioè il ricordo di
quanto l'anima ha contemplato nell'Iperuranio prima di entrare nella prigione
del corpo (Platone), né per illuminazione divina (Agostino), ben- sì mediante
l’azione dell'intelletto, che ricava dai dati della fantasia ciò che è
fondamentale, essenziale, trascurando ciò che è accidentale, pe- culiare di un
fenomeno particolare. Così, per esempio, dal fantasma (immagine) di questo
colore (bianco, verde, ecc.) l'intelletto ricava l’idea di verde. Ateismo - È
la negazione di Dio (dal greco a-theòs = senza Dio). Fe- nomeno già noto
nell’antichità, ha acquistato vasta diffusione soltanto dopo la rivoluzione
francese. Si distinguono due forme principali di a.: teorico e pratico. Il
primo è il risultato di una speculazione più o meno sistematica e rigorosa (e
viene anche chiamato a. scientifico), il secondo corrisponde all’indifferenza
religiosa, ed è la negligenza di ciò che riguarda Dio nella vita quotidiana.
Atto - Categoria fondamentale della metafisica aristotelica insieme al 417 suo
correlativo, la potenza. A. designa tutto ciò che è perfezione, com- pletezza,
realizzazione, definizione, mentre la potenza indica ciò che è imperfetto,
incompleto, indefinito. Nelle cose materiali l’a. non si iden- trascendentale dell'essere.
Bene - Secondo la classica definizione di Aristotele, il b. è tutto ciò che è
oggetto di appetizione, di desiderio. Il b. interessa sia la metafi-
sica sia l’etica. Dalla prima è visto
come una delle qualità trascenden- tali dell'essere (insieme all'uno, al vero e
al bello). Dalla seconda è considerato come il fine a cui l'uomo indirizza
costantemente le proprie azioni. Categoria - Significa classe di predicati (o
predicamenti). Aristote- le, che fu il primo a fissarne la classificazione,
definisce le c. come idee generali che non sono riconducibili a nessun'altra.
Sono dieci: sostanza, «qualità, quantità, azione, passione, relazione, tempo,
luogo, posizione e rivestimento (abito). Per Kant e la scuola kantiana, le c.
sono i concetti fondamentali dell'intelletto puro, forme a priori della nostra
conoscenza, che rendono possibili tutte le funzioni del pensiero discor- sivo.
Causa - È tutto ciò che in qualche modo contribuisce alla produ- zione di
qualche cosa. È di Aristotele la classica divisione delle c. in quattro specie:
materiale, formale, efficiente e finale. Le prime due de- signano la materia e
la forma, e per questo sono dette c. intrinseche, mentre la c. efficiente
indica l'agente e la c. finale lo scopo per cui una cosa viene prodotta o
un'azione compiuta. Non rientrando tra gli ele- menti costitutivi di ciò che
viene prodotto, le c. agente e finale sono dette c. estrinseche. Molto si è
disputato nella filosofia moderna sia intorno alla c. agente come a quella
finale, 418 Concetto - Denota una conoscenza universale, astratta ed è pratica-
mente sinonimo di idea universale. Le diverse scuole filosofiche differi- scono
profondamente sia nella spiegazione dell'origine dei c. sia nell’as- segnazione
del loro valore. Quanto all'origine, Platone propone la teoria dell’anamnesi,
cioè del ricordo; Aristotele la teoria dell'astrazione; Ago- stino la teoria
dell’illuminazione e Kant quella della struttura a priori dell'intelletto.
Quanto al valore, si sono proposte tre soluzioni: i c. non hanno nessun valore,
essendo dei puri nomi (flatus vocis); hanno valore totalmente oggettivo e
rispecchiano realtà sussistenti in rerum natura: le Idee dell’Iperuranio; hanno
un valore parzialmente oggettivo e par- zialmente soggettivo: oggettivo quanto
al contenuto, soggettivo quanto alla forma (l'universalità esiste solo nella
mente). La prima è la soluzio- ne dei nominalisti e degli empiristi; la seconda
è la soluzione di Platone e dei suoi discepoli; la terza è la soluzione di
Aristotele, di san Tom- maso e dei loro rispettivi seguaci. Conoscenza - Il
termine è usato sia per designare l'attività con cui si diviene consapevoli di
qualche cosa, di qualche oggetto, sia l’infor- è usato per quella parte che
stu- dia la realtà materiale (dal greco cosmos = mondo e logos = studio).
Aristotele questa parte l'ha chiamata Fisica. Il suo obiettivo non è sem-
plicemente quello di spiegare la costituzione fondamentale dei corpi (ma- teria
e forma), la ragione della loro individuazione, le condizioni del loro esistere
(spazio e tempo), ma anche l'origine prima e il fine ultimo del mondo
materiale. Creazione - In senso lato indica ogni genere di produzione; in senso
stretto designa l'azione con cui Dio trae dal nulla tutte le cose. Secondo la
definizione latina la c. è productio rei ex nihilo sui et subiecti: è pro-
durre una cosa dal nulla rispetto sia alla forma, sia alla materia (su-
biecti). Mentre gli uomini nelle loro « creazioni » traggono le cose dal nulla
rispetto alla forma (in effetti l’uomo può soltanto trasformare ma- teriali già
esistenti) e non rispetto alla materia; è privilegio di Dio trarre le cose
dalla condizione di totale inesistenza. Insegnata dalla Bibbia (Gn. 1,1 ss.)
questa verità è stata ripresa sul piano razionale dalla filosofia cristiana,
della quale è divenuta una delle dottrine emblema- tiche. Cultura - Della c. si
danno tre accezioni principali: elitaria, pedago- gica e etnologica. Secondo la
prima accezione, c. significa erudizione (ha c. chi possiede molte cognizioni,
o in generale o in un campo ristretto, come l’arte, la musica, la filosofia,
ecc.). Secondo la seconda accezione, c. significa educazione: è la c. del corpo
{c. fisica) o dell'anima (c. morale e spirituale), c. degli istinti o degli
affetti, ecc. Di questa c. si occupa la pedagogia. Secondo la terza accezione,
la c. è la forma spirituale di una società, tutto ciò che la unisce all’interno
e la distingue dalle altre so- cietà all’esterno (come fa la c. italiana per
gli italiani, quella francese per i francesi, quella cinese per i cinesi,
ecc.). La c. intesa in questo ultimo senso costituisce l'oggetto sia
dell’antropologia culturale sia della filosofia della c. Deduzione - È un
procedimento raziocinativo con il quale da prin- cipi o proposizioni generali o
universali si discende verso conclusioni meno universali o particolari. La
forma ideale e perfetta della d. è il sillogismo, il quale è un ragionamento
che consta semplicemente di due premesse e di una conclusione. Creatore della
scienza della d., cioè della Logica, fu Aristotele. Kant denomina « deduzione
trascendentale » il suo procedimento con cui cerca di stabilire quali sono i
concetti a priori (cioè le categorie) che vengono applicati agli oggetti
dell'espe- rienza nei vari tipi di giudizi. Definizione - Secondo Aristotele,
la d. è « l'enunciato che esprime la quiddità, cioè l'essenza di una cosa ». La
filosofia moderna si rifiuta di dare alla d. un senso così marcatamente
ontologico e metafisico e per d. intende semplicemente un’operazione logica
mediante la quale si de- zzo filosofico chiamato nuova ermeneutica (Gadamer,
Ricoeur), il termine e. ha acquisito un significato più esteso e più profondo e
sta ad indicare una prospettiva di pensiero che asse- gna sia alla filosofia
che alla teologia il compito di interpretare, poiché l'uomo stesso è un essere
che vive nella precomprensione e nell’inter- pretazione delle cose e della
storia. Esistenza - Nel linguaggio più comune il termine denota semplice- mente
il fatto che qualche cosa è. In filosofia ha acquisito valenze se- n sono
distinguibili fisicamente ma sol- tanto metafisicamente. Secondo san Tommaso,
e. ed esistenza si trovano nel rapporto di potenza e atto: in effetti è
l’esistenza (più esattamente l'atto dell'essere, actus essendi) che conferisce
attualità ad un'e. In Dio e. ed esistenza si identificano. Essere - Da sempre
il termine e. è plurisemantico e, secondo i casi, varia da un minimo di
comprensione (quando si limita a significare la presenza o posizione di una
cosa, come dice Kant) ad una comprensione 422 sconfinata, che « abbraccia tutte
le perfezioni », come afferma san Tom- maso. Secondo Aristotele, Tommaso e
Heidegger studiare l’e., le sue proprietà e le sue manifestazioni è compito
primario della metafisica. Estetica - Termine tratto dal greco aisthesis {=
sensazione), e creato da Baumgarten come titolo della sua opera Aestetica
(1750), che aveva per oggetto l’analisi e la formazione del gusto. Di solito la
si adopera per denominare quella parte della filosofia che si occupa dell'arte:
della sua natura, principi, funzioni e distinzione dalle altre attività dello
spirito. Etica - Dal greco ethos = costume. È la scienza che ha per oggetto il
fine della vita umana e i mezzi per raggiungerio. Storicamente la pa- rola e. è
stata applicata alla morale sotto tutte le sue forme, sia come scienza del
comportamento effettivo degli uomini, sia come arte di guidare il
comportamento. Propriamente l’e. si dovrebbe occupare del bene quale valore
primario da assumere dalla libertà come guida delle proprie scelte. Fede - In
generale si intende la disposizione del credente ad abban- donarsi
fiduciosamente nelle mani di Dio e ad accettare umilmente la sua parola. In
modo ulteriore, la f. è definita come assenso della mente e della volontà alle
verità rivelate da Dio e proposte dalla Chiesa come tali e accettate non in
forza della loro intrinseca evidenza, bensì sull’au- torità di Dio stesso il
quale non inganna né può ingannare. Come dice sant'Agostino, la f. consiste nel
credere, nell'accettare ciò che non è manifesto alla ragione. Il suo oggetto
proprio sono i misteri. Felicità - È la condizione di completo soddisfacimento
di tutte le proprie aspirazioni, soprattutto di quelle che assecondano maggiormente
la piena realizzazione del proprio progetto di umanità. A seconda dei ‘vari
progetti di umanità proposti dai filosofi (eroe, ‘filosofo, gaudente, santo,
ecc.), di volta in volta, la f. è stata riposta nella forza, nella con-
templazione, nel piacere, nell'unione beatificata con Dio, ecc. Fenomeno - Dal
greco phainomenai = apparire. Il termine è usato so- prattutto da Kant, Hegel e
Husserl e dai loro seguaci, con valenze se- mantiche distinte. Per Kant il f. è
l'oggetto del nostro conoscere, un pirito? 429 E in che rapporto si trova lo
spirito con la materia? Il corpo è prigione dell'anima (Platone), strumento
dell'anima (Agostino, Cartesio), compo- nente essenziale ma subordinata
all'anima (Tommaso) o in qualche altro rapporto? Quello gnoseologico si
preoccupa di verificare se questioni come questa, della natura profonda
dell'essere dell'uomo e della sua pos- sibile sopravvivenza dopo la m. siano
questioni alla portata della ragione umana o enigmi insolubili. Una cosa
comunque è certa: anche per chi il problema di tutti i problemi, il problema
principe della ricerca filosofica. È disci- plina importante anche per la
teologia perché l'intelligenza della fede (che è l’obiettivo della teologia) si
opera al massimo livello, quando si ricorre al più alto grado di
intelligibilità, e questo è appunto quello onto- logico o metafisico. Pace - La
p. è quella tranquillitas ordinis (ordine tranquillo) di cui 430 gode una
società quando tutto funziona bene al suo interno e non pa- venta pericoli
dall'esterno. Due sono pertanto le principali espressioni della p.:
internazionale e sociale. La prima riguarda i rapporti di uno Stato con gli
altri Stati, mentre la seconda riguarda i rapporti tra le classi e gli
individui di uno stesso Stato (nazione). Passione - In generale significa una
inclinazione veemente, un senti- mento forte, prepotente, difficilmente
controllabile. Nonostante una certa connotazione negativa del termine, la p.
può essere sia buona sia cattiva: è buona se è volta ad uno scopo, un oggetto
moralmente buono; è cat- tiva nel caso contrario. Le p. hanno costituito
argomento di studio da parte di moltissimi filosofi, in particolare di
Aristotele, Tommaso d'Aqui- gli educatori » (Lalande). Pensiero - Comunemente
si dice di tutti i fatti cognitivi, in oppo- vidua substantia incommunicabilis
(una sostanza individua e inco- municabile di natura ragionevole). iPer i
medioevali, fondamento della p. è l'essere, più esattamente il possesso di un
proprio atto d'essere, in- vece per i moderni fondamento è l’autocoscienza,
mentre per i contem- poranei fondamento è l’intersoggettività oppure
l’autotrascendenza. In tutte queste tesi c'è qualche cosa di vero e, per
questo, come definizione adeguata della p. si può proporre la seguente: un
essere sussistente dotato di autocoscienza, intersoggettività e
autotrascendenza. Politica - È lo studio dei fatti politici, cioè dei fatti che
riguardano lo Stato e il governo, in opposizione ai fatti economici, culturali
e so- ciali. La filosofia politica studia principalmente la questione
dell’origine’ dello Stato, la sua strutturazione e la sua forma migliore, la
questione dei rapporti tra lo Stato, le classi sociali, i partiti e la persona
singola, la questione dei rapporti tra politica e morale, politica e cultura,
poli- 431 tica e religione ecc. E in effetti, tutti questi problemi sono stati
affron- tati dai filosofi nel corso dei secoli a partire da ‘Platone e da
Aristotele. Potenza - Nel suo significato più comune il termine indica la ca-
pacità e l'abilità di compiere un'azione. Denota pertanto l’idea di at- tività
e di efficacia. Nella metafisica aristotelica e scolastica p. si Studiare e
risolvere i p., cioè le questioni aperte, è compito sia della scienza (Popper)
sia della filosofia. Compito specifico della filo- sofia è affrontare e
risolvere i problemi ultimi (cfr. « Filosofia » e « Me- tafisica »).
Prospettiva - È il punto di vista che si assume nel vedere, nel consi- derare,
nello studiare una cosa. La filosofia contemporanea vede in tutte le conoscenze
umane, compresi i sistemi scientifici e ‘filosofici, semplice- mente delle
prospettive più o meno allargate; in tal modo rifiuta ogni forma di olismo,
cioè di visione e spiegazione totale, completa, esaustiva perfetta della
realtà. Prova - Operazione mentale con cui si cerca di stabilire la verità di
un’asserzione o la validità di una tesi. Normalmente si tratta di qualche forma
di ragionamento (induttivo o deduttivo), ma può trattarsi anche di semplice
ostensione dei fatti, allora si chiama p. ostensiva. . Ragione - Comunemente oggi
si intende la facoltà conoscitiva propria dell’uomo e di cui lui solo è dotato.
Sostanzialmente questo è il senso che ha il termine anche nella filosofia
scolastica e moderna fino a Kant. È una facoltà discorsiva, che raggiunge la
verità non immediatamente,432 per intuizione (come fa invece l'intelletto), ma
mediante qualche forma di ragionamento. Kant restringe l'uso del termine r.
{Vernunft) alla co- noscenza dell'eterno e dell’assoluto, che però sortisce
risultati estrema- mente deludenti, in quanto la r. in questo campo può
soltanto avvertire e impostare dei problemi senza essere in grado di
risolverli. Relazione - È sostanzialmente sinonimo di rapporto. :È un concetto
fondamentale per molte scuole filosofiche. Nella filosofia hegeliana la r. è la
categoria primaria; in effetti, per Hegel, tutta la realtà non è altro che una
vastissima trama di r. Nella filosofia aristotelica è una delle dieci
categorie, e di tutte sembra la più debole, fragile, povera, dato che non
esiste in se stessa e neppure può vantare una consistenza ontologica analoga a
quella della quantità, della qualità o dell’azione. Per acquisire consistenza
ontologica la r. richiede quanto meno due real- tà, perché si tratta di una
specie di ponte, che si regge soltanto quando ci sono almeno due enti a farle
da sostegno. Eppure, la r. è un veicolo potentissimo di realtà, soprattutto
quando si tratta della r. di causalità, cioè della r. tra causa ed effetto,
perché l’effetto in quanto effetto deve tutta la sua realtà, tutto il suo essere
alla causa: questa è causa soltanto nella misura in cui è in r. con l’effetto e
gli comunica qualche cosa del proprio essere. Si è soliti distinguere tra r.
reali e logiche: le prime sono quelle che influiscono sull'essere dei termini
rapportati, le seconde non influiscono. La categoria di r. riveste, infine, una
importanza fondamen- tale nel personalismo contemporaneo, che, centrato sulla
struttura dia- logica della persona umana, ne coglie come costitutiva la r.
io-tu, fonda- mento di ogni possibile forma di comunicazione. Una sintesi
concettuale che accomuna i personalisti è quella relativa all'uomo come
essere-di- relazione. Religione - Dal latino religare = legare insieme. È
l'insieme dei miti (racconti, testi sacri) e dei riti (preghiere, azioni, sacrifici)
con cui l’uo- mo esprime e attua i suoi rapporti con Dio. La r. è l’espressione
spon- tanea, naturale della condizione di finitezza e creaturalità dell’uomo.
Ogni popolo, sviluppando la propria cultura, si crea anche una r. (che
nella maggior parte dei casi,
storicamente, assume un carattere animi- stico, politeistico, mitologico,
magico). Oltre alle r. « naturali » esistono anche tre r. « storiche » o
rivelate: l’ebraismo, il cristianesimo e l’isla- mismo, a cui forse va aggiunto
anche il buddismo, se lo si considera una r. e non una semplice filosofia.
Riflessione - Vedi « Autocoscienza ». Rivoluzione - R. è «lo sviluppo di nuove
forme di potere che divi- dano ed indeboliscano il vecchio ordine e facciano
posto al sorgere del nuovo, e che nello stesso tempo siano in grado di
stabilizzare il nuovo al suo sorgere in mezzo al vecchio » (R. Schaull). È una
categoria che si applica a qualsiasi ordine di cose, così si può parlare di r.
religiosa, filosofica, scientifica, letteraria, economica, politica, ecc. Ma
più comu- nemente si usa per l'ordine socio-politico. In tutti i casi, la r. è
un valore strumentale e non assoluto, ed è un valore positivo quando serve la
causa dell'uomo {della società, della nazione, del popolo) non gli inte- ressi
di una sola classe, di un partito e tanto meno di una sola persona. 433 Sacro -
In senso generale e più proprio, questo termine denota un ordine di cose
separato, riservato e inviolabile, che deve essere oggetto di rispetto
religioso da parte di un gruppo di credenti. È correlativo di profano. Il s. è
la qualità specifica che caratterizza la dimensione religiosa (questa è per
definizione la dimensione del s.), come il vero è la qualità specifica della
dimensione gnoseologica e il bene della dimen- sione appetitiva. È una qualità
analogica che ha per analogato principale Dio (che è il s. per eccellenza) e
per analogati secondari tutte le cose o persone che si trovano o vengono messe
in rapporto con Lui: come libri (libri s.), attività (arte s., musica s., ecc.)
persone (persone consa- crate). Scienza - Termine polivalente, la cui gamma
semantica va dal conosce- re in generale alla conoscenza metodica più rigorosa
e sofisticata. Di soli- to, comunque, si intende una conoscenza sistematica
intorno ad un deter- minato oggetto, condotta con rigore ed obiettività. È un
concetto essen- zialmente analogico, in quanto sia il rigore sia la obiettività
variano da oggetto ad oggetto. Grazie alla sua metodologia assai precisa e al-
l'obiettività facilmente verificabile nell'epoca moderna e contempora- nea non
solo si è visto nella scienza sperimentale il tipo ideale del sapere
scientifico, ma spesse volte si è identificato la s. con esso sic et simpli-
citer (così l’illuminismo, il positivismo, il neopositivismo, il materiali-
smo, ecc.). Oggi che le ambizioni della s. sono state fortemente ridimen-
sionate sia quanto alla portata sia quanto al rigore e all’obiettività, si
ritorna a riaffermare il valore analogico del termine s. Segno - Tutto ciò che
ha il potere di richiamare l’attenzione oltre che su se stesso anche su
un'altra cosa. Così, il fumo in quanto richiama l'idea del fuoco, le nubi in
quanto richiamano l’idea dell’acqua, la co- lomba in quanto richiama l’idea
della pace, un suono vocalico in quanto richiama l’idea di un determinato
significato, ecc. Il regno dei s. è va- stissimo, infinito. Se ne distinguono
molti generi: naturali e conven- zionali, iconici e arbitrari, vocalici e
scritti, ecc. Area massimamente importante è quella dei s. linguistici. In effetti,
il linguaggio non è altro che un insieme di s. volto alla comunicazione tra gli
uomini. Due sono le discipline principali che si occupano dello studio del
linguaggio: la linguistica che studia i s. dal punto di vista fonetico,
grammaticale e sintattico e la semantica che studia il linguaggio dal punto di
vista del significato. Simbolo - Dal greco symballo = comporre, mettere
insieme. Il ter- mine si adopera per significare tutto ciò che si collega
intenzionalmente con qualche altra cosa e perciò serve a richiamarla. In genere
viene con- siderato come sinonimo di segno; ma qualche autore (per esempio,
Tillich) assegna al s. una pregnanza semantica più forte, in quanto, mentre i
segni possono essere prodotti puramente convenzionali, ciù non si avvera nel caso
dei s., in quanto questi comportano una partecipa- zione nella realtà della
cosa di cui sono simboli (così, per esempio, l’ac- qua battesimale, s. della
purificazione dell'anima). Nel linguaggio eccle- siastico la parola s. è stata
adoperata sin dalle origini per indicare una formula di fede ufficiale, che
serve come carta di identità, come tessera distintiva anzitutto di appartenenza
alla Chiesa e in secondo luogo di 434 ortodossia (per esempio, il Simbolo
apostolico, il Simbolo costantino- politano, ecc.). Sintesi - In generale
significa composizione: il mettere insieme ele- menti dapprima separati. In
particolare e in senso tecnico, s. indica quel processo logico — tipico delle
scienze sperimentali — per cui si passa da nozioni più semplici o da dati
particolari per ottenere asserzioni più complesse e universali. Società -
Qualsiasi gruppo di individui che si riuniscono per il con- seguimento di
determinati obiettivi. In questo senso il termine s. ha un'estensione
vastissima: si applica alla famiglia, alla Chiesa, allo Stato, ai gruppi
sportivi, culturali, economici, ecc. In senso proprio, il termine designa un «
insieme di individui i cui rapporti sono consolidati in isti- tuzioni nonché,
per lo più, garantiti dall'esistenza di sanzioni, sia codi- ficate sia diffuse,
che fanno sentire all'individuo l’azione e la costrizione della collettività »
(Lalande). Sociologia - Termine di accezione recente nel linguaggio filosofico
e delle scienze umane e risale alla filosofia positivistica di Augusto Comte (metà
del sec. XIX), il padre della s. Egli l’ha considerata la forma di sapere
positivo per eccellenza, essendo lo studio del predotto proprio della natura
umana: la società. Anche successivamente il termine ha continuato a mantenere
il significato di scienza dell’« attività sociale » e, poiché questa attività è
sempre orientata a sistemi sociali, si può anche dire che la s. è la scienza
dei sistemi e dei gruppi sociali (piccoli e grandi). Sostanza - In filosofia
questo termine ha un significato tecnico ben preciso: secondo la classica
definizione che ne ha dato Aristotele, la s. « è ciò che è in sé e non in
un'altra cosa ». S. è qualsiasi realtà dotata di un proprio atto di essere e ha
quindi una sua consistenza ontologica. È il contrapposto di accidente, che non
ha un proprio atto di essere, ma per esistere, deve appoggiarsi, deve inerire
(inesse) alla s. di cui è un frutto più o meno avventizio (per questo si
distingue tra « accidenti propri» e « accidenti accidenti » o « accidenti
puri»). Nella filosofia moderna, a partire da Locke, il termine s. è stato
svuotato di questa densità ontologica e ridotto a mero sustrato, inattingibile
dall'intelletto umano, in quanto questo, ristretto ai dati dell'esperienza
sensitiva, non può andare oltre i fenomeni. Spazio - Nel linguaggio filosofico
questo termine significa il luogo o ambiente illimitato e indefinito in cui gli
oggetti reali appaiono collo- tati. Questo concetto è stato variamente inteso
dalle scuole filosofiche antiche e moderne. Le soluzioni proposte si possono
ridurre a tre: quel- la ultrarealistica o realistica che vede nello s. una
realtà interamente oggettiva sussistente in se stessa, come un grande
recipiente che con- tiene tutte le cose materiali (Platone, Newton); una idea
puramente sog- gettiva, una forma a priori della sensibilità, che mette ordine
ai feno- meni materiali (Kant); una costruzione mentale con fondamento nelle
cose (Aristotele). Speranza - Il termine indica un atteggiamento fondamentale
dello spirito umano: quello di fiducia verso il futuro, più precisamente di 435
attesa fiduciosa di qualche futuro evento. C'è una s. umana, quando è fondata
su calcoli umani; c’è una s. cristiana o religiosa quando è fon- data sulla
parola di Dio, le sue promesse, la sua grazia. Generalmente trascurata da tutta
la riflessione filosofica antica e moderna, la s. è diventata argomento
fondamentale nelle riflessioni e nei « sistemi » di Bloch (Il principio
speranza), Marcel (Homo viator), «Pieper (Speranza e storia). Spirito - Con
questo termine si denota qualsiasi realtà immateriale, cioè superiore alla
materia e indipendente da essa, quanto meno nel- l'ordine ontologico. Con
riferimento all'uomo si dice dell'anima, in con-trapposizione al corpo; con
riferimento all'universo si dice di Dio in contrapposizione al mondo e alla
materia. La parola s. viene adoperata spesso e volentieri anche da una cultura
fortemente sensistica e mate- rialistica qual è la nostra. Pur negando Dio e
tutto il mondo della tra- scendenza, che — in sede ontologica — è l'unico mondo
che meriti effet- tivamente il nome di s., la cultura laica, e talvolta
ostentatamente atea del nostro tempo, non esita a parlare con rispetto di «
valori spirituali », ad esaltarne l’importanza e a invocarne la riabilitazione
per salvare la nostra società. Ma è chiaro che tutto questo è vaniloquio se
nell'uomo e al di sopra dell’uomo stesso non esiste una dimensione, una realtà
effet- tivamente spirituale. Storia - È l'insieme degli eventi di cui l’attore
principale è l'uomo. Analogicamente il termine si applica anche alla natura e
perciò si parla anche di s. naturale. La s. nel senso che si è detto è un
concetto squisi- tamente biblico e cristiano, ignoto alla filosofia greca,
anche se come sequenza di eventi il concetto è già presente nei narratori greci
(Tuci- dide, Erodoto). Sulla natura, senso, periodizzazione della s. e sulla
co- scienza storica la riflessione filosofica s'è concentrata soltanto
nell'epoca moderna a partire da Vico, dando luogo a tre soluzioni principali:
cri- stiana (che fa intervenire nelle vicende umane anche la Provvidenza di-
vina), idealista (che fa della s. una manifestazione diretta dello Spirito
Assoluto), atea, che esclude totalmente Dio dal processo storico e lo con-
sidera esclusivamente un'opera dell'uomo. I due orientamenti più re- centi
circa l’interpretazione della s. sono quelli dell’Historie e della Geschichte:
il primo considera la storia solo in relazione al fatto nella sua contingenza e
relatività; il secondo considera la storia come « tempo- ralizzazione » dei
valori (o degli anti-valori), che contrassegnano la condotta umana. Tecnica - È
l'insieme di procedimenti ben definiti e trasmissibili de- stinati a conseguire
un risultato utile. In altre parole: sono i procedi- menti e gli strumenti
escogitati dall'uomo per dominare la natura e as- servirla ai propri bisogni. È
una delle componenti.fondamentali della cultura insieme al linguaggio, ai
costumi e ai valori: costituisce in un certo qual modo la sua
esteriorizzazione. La t. rappresenta il risvolto pratico, applicato, della
cultura: è l'applicazione al mondo della natura delle acquisizioni simboliche.
Per questo, scienza e t. camminano di pari passo. Man mano che progredisce la
conoscenza teorica delle leggi della natura, avanza anche la capacità dell'uomo
di sfruttare le sue ri- sorse. Così la storia della t. coincide sostanzialmente
con la storia della scienza. Alle conoscenze prescientifiche corrispondono t.
estremamente 436 elementari di tipo manuale ed artigianale. Poi, col
sopraggiungere della conoscenza scientifica, ha inizio l'invenzione di i.
sempre più complesse, che trasformano l’uomo da semplice homo faber in homo
tecnologicus (vedi anche « Lavoro »). Tempo - In generale per t. si intende una
durata infinita di momenti, simile all'estensione spaziale, entro la quale
durata trovano posto tutte le altre durate più o meno lunghe degli anni, delle
stagioni, dei mesi, dei giorni, delle ore, ecc. La riflessione dei filosofi sul
tempo ha camminato di pari passo con la riflessione sul t. e ha dato luogo
sostanzial- mente alle stesse soluzioni: ultrarealistica o realistica (Platone,
New- ton), concettualistica (Kant) e logico-realistica (Aristotele). È di
Aristo- tele la celebre definizione: « Il tempo è la misura del movimento
secondo il prima e il poi ». Intendiamo, infine, per « tempo cronologico »
quello segnato dagli eventi inconsapevoli della natura e per « tempo storico »
quello che è oggetto della coscienza riflessa dell’uomo, che contrassegna il t.
cronologico con l'incidenza delle sue azioni consapevoli e libere. Teodicea -
Termine coniato da Leibniz e che etimologicamente signi- fica « difesa di Dio »
(dal greco dîìke = difesa e theòs = Dio). Si dice di quella parte della
filosofia che si occupa dell’esistenza di Dio, della sua natura e dei suoi
attributi. Questa parte si chiama anche « teologia na- turale ». Intorno alla
possibilità di questa disciplina i filosofi sono di- visi in due grandi
partiti: quelli che, assegnando alla conoscenza razio- nale un valore
obiettivo, la ritengono possibile (e sono quasi tutti i filo- sofi antichi,
medioevali e moderni fino a Kant) e quelli che, riconoscendo al conoscere un
valore puramente soggettivo, la giudicano impossibile (questa è la tesi di
molti filosofi dopo Kant). Teoria - Dal greco theoria = visione di uno spettacolo,
oppure visione intellettuale. Nel linguaggio filosofico ha due valenze
semantiche prin- cipali, una in opposizione alla conoscenza volgare e l'altra
in opposizione a quella pratica. Nel primo caso, significa una concezione
metodica organiz- zata sistematicamente e rigorosamente (e ciò vale sia per il
campo scienti- fico sia per quello filosofico); nel secondo, t. significa ciò
che è oggetto di una conoscenza disinteressata, indipendentemente dalle sue
applica- zioni. Tradizione - Comunemente il termine t. significa ciò che in una
so- cietà, piccola o grande, si irasmette in maniera viva, sia per mezzo della
parola sia della scrittura e dei modi di agire. In questo senso, la t.
rappresenta la vita stessa di una cultura, la sua storia. Pertanto non ci può
essere cultura senza t. né t. senza cultura. Il valore di una t. va controllato
con la bilancia del valore-uomo. Questo controllo consen- tirà di constatare
che, analogamente alle culture, nessuna tradizione è un valore interamente
positivo sotto ogni aspetto in tutte le circostanze, perché in nessuna t. si
realizza pienamente quel valore o quei valori in cui una cultura intende
specializzarsi e tanto meno tutto l'universo dei valori. Per questo, nessuna t.
dal punto di vista della ragione appare divina, assoluta, perfetta, sacra e
intoccabile. Per contro, ci sono culture e anche t. molto povere e talvolta
anche gravemente difettose ed er- rate. Colui che le possiede ha il diritto e
il dovere di rivederle, criticarle, correggerle e, se necessario, anche abbandonarle.
437 Trascendentale - In filosofia questo termine conosce due usi princi- pali,
quello aristotelico-scolastico e quello kantiano. Nella filosofia ari-
stotelico-scolastica sta ad indicare le proprietà fondamentali dell'essere, che
secondo alcuni autori sono tre: l'uno, il vero e il bene, secondo altri sono
quattro (ai tre precedenti aggiungono anche il bello). Nella filosofia kantiana
t. sta ad indicare le condizioni a priori del conoscere e il loro studio
(estetica t., analitica t. e logica t.). Trascendenza - Dal latino
trans-ascendere = salir su, valicare. Il con- cetto di t. è attinto
dall'esperienza sensibile e in tale ambito denota una relazione spaziale: di
superamento, sconfinamento, oltrepassamento, ecc. Successivamente questo
concetto dalle cose materiali è stato tra- sferito a quelle spirituali e
astratte. Così si è potuta, dire che il mondo dello spirito trascende quello
della natura, che Dio trascende il mondo, ecc. In termini recenti in filosofia,
ha acquisito un significato tecnico e sta ad indicare la realtà divina; la t. è
Dio. Però, oltre che per parlare di Dio, il termine t. viene adoperato oggi
anche per parlare dell’uomo e lo si adopera soprattutto per indicare la
capacità che l’uomo ha di superare costantemente se stesso in tutto ciò che fa,
che dice, che pensa e che è. È questa, dell'autotrascendenza, una delle
proprietà specifiche dell'uomo e più ricche di significato al fine di una
comprensione del suo essere profondo. Umanesimo - Questo termine è usato sia
come nome proprio sia come nome comune. Nel primo caso indica quel movimento
spirituale rappre- sentato dagli « umanisti » del Rinascimento (Ficino, Valla,
Pico della Mi- randola, Erasmo, ecc.) e caratterizzato dallo sforzo di
sollevare la dignità dello spirito umano e di rimetterlo in valore
richiamandosi all’antichità classica greca e romana. Come nome comune significa
qualsiasi dot- trina che esprime e sottolinea il valore dell'uomo. Ciò si può
fare asso- lutizzando il valore dell’uomo con l'esclusione di Dio e allora si
parla di u. ateo, o affermando il valore dell'uomo in coniugazione e subordina-
zione al valore di Dio e allora si parla di u. religioso o cristiano. Univocità
- È la funzione semantica propria di un termine che viene applicato a molti
soggetti sempre con lo stesso significato. Per esempio, l'applicazione del
termine « uomo » a Pietro, Paolo, Giovanni, Marco, ecc. Utopia - Dal greco ou =
non e topos = luogo e pertanto significa una realtà che non esiste in nessun
luogo. Il nome fu introdotto da Tom- maso Moro nel titolo della sua famosa
opera De optimo reipublicae statu, deque nova insula Utopia, nella quale
descrive un popolo perfettamente saggio, forte e felice grazie alle istituzioni
ideali di cui gode, il quale abita appunto nell'isola di Utopia. Organizzazioni
ideali ed immaginarie della società umana, sull'esempio di Moro, furono
escogitate da Cam- panella, da Fénelon e, con pretese più scientifiche, da
Comte e da Marx. Del ruolo dell’u. nella dinamica sociale e culturale la
filosofia ha co- minciato ad occuparsi soltanto recentemente. A questo riguardo
occorre evitare sia la posizione di rifiuto categorico come se l’u. fosse
soltanto un fattore alienante, sia quello di approvazione incondizionata, come
se l’u. fosse la panacea di tutti i mali. Valore - « Il senso esatto di valore
è difficile da definire rigorosa- mente perché il più delle volte questa parola
esprime un concetto in- 438 stabile, un passaggio dal fatto al diritto, dal
desiderato al desiderabile » (Lalande). In italiano v. possiede tre significati
principali: economico, etico, ontologico. In economia significa « danaro », in
etica la virtù con cui si affrontano gravi pericoli e si compiono grandi
imprese; in ontolo- gia la qualità per cui una cosa possiede dignità ed è
quindi degna di stima e di rispetto. La scienza dei v. — cioè l'assiologia — si
occupa del concetto di v. inteso secondo il terzo senso e cerca di comprendere
qual è la sua natura effettiva, le sue caratteristiche essenziali, i suoi
rapporti con gli altri trascendentali dell'essere e di fissare l'ordine e la
gerarchia dei v. Verità - Questo termine assume in filosofia un significato
veramente fondamentale, perché il sapere filosofico si configura anzitutto come
amore e ricerca della v. Secondo la definizione più classica, la v. è la
conformità della mente, cioè della conoscenza con la realtà. Questa si chiama
anche v. logica. Ad essa si contrappone la v. ontologica, che è la
corrispondenza delle cose alla mente divina, che le ha ideate. C'è anche una
terza forma di v. ed è la v. morale che è data dalla corrispondenza delle
proprie intenzioni con le esigenze della moralità. Non c'è dubbio che la v. è
un valore fondamentale anzitutto nell'ordine noetico, perché essa costituisce
l’obiettivo principale di detto ordine, ma è valore primario anche per altri
ordini: pedagogico, epistemologico, onto- logico e culturale. Della v. i
filosofi si sono occupati da sempre sia per definirne l'essenza, sia per
scoprire le vie per raggiungerla, come pure per determinare i criteri per
identificarla. Due sono i criteri per deter- minare ia v.i quello oggettivo
dell'evidenza e quello soggettivo della certezza. L'integrazione dei due
criteri è proprio delle filosofie intellettua- listico-realiste (da Aristotele
a S. Tommaso a Maritain, ecc.). Il primato del criterio della certezza è
proprio delle filosofie idealistico-dogmatiche (da Plaione a Cartesio ad Hegel,
ecc.). Virtù - Con questo termine generalmente si intende un'abitudine, cioè
una disposizione ferma e costante, ad agire bene: è un'’inclinazione al bene
che si è consolidata, tanto che il virtuoso è portato ad agire bene (per
esempio, ad essere casto, generoso, coraggioso, umile, ecc.) con spontaneità,
anzi con veemenza. La v. è oggetto primario dell'etica, in quanto questa studia
il fine dell'uomo e i mezzi per raggiungerlo e la v. è appunto il mezzo
principale. La ‘v. si può dividere e classificare in tanti modi. Importante è
la divisione tra v. etiche e v. dianoetiche: le prime sono le disposizioni ad
operare bene nell'ordine morale; le seconde nell'ordine speculativo o
intellettuale. Vita - È la qualità per cui un essere è capace di muovere se
stesso. Dal punto di vista della biologia molecolare la v. consiste
esclusivamente in una singolare e più complessa strutturazione delle molecole
rispetto alla strutturazione che si incontra nella sostanza inorganica. Fenome-
nologicamente la v. si manifesta come un movimento che diversamente da quello
meccanico è immanente (cioè va a vantaggio del soggetto che lo produce) e
spontaneo (è prodotto direttamente dal soggetto stesso grazie alla sua
costituzione intrinseca). Le caratteristiche principali della v. sono: potere
di crescere, di rispondere all'ambiente e di riprodursi. Si è soliti
distinguere tre gradi di v.: vegetativa, sensitiva, razionale; la prima è propria
delle piante, la seconda degli animali, la terza dell'uomo. 439 Vocazione - Con
questo termine generalmente si intende la chiamata che una persona sente dentro
di sé a svolgere determinate attività e ad assumere un certo ruolo nella
società. Nella concezione secolarizzata della vita la v. è semplicemente
siffatta inclinazione. Invece nella vi- suale cristiana, la diversità di
attitudini fa parte del piano provviden- ziale che Dio ha concepito per ogni
singolo uomo e la v. non è altro che il modo con cui Dio fa sentire a ciascuno
la chiamata alla realizzazione del suo piano o progetto. Tema raramente
trattato nella storia della filosofia, quello della v. ha acquisito rilevanza
speculativa soprattutto per merito dei personalisti e degli esistenzialisti
cristiani (Marcel). Volontà - È il nome che si dà alla facoltà che ha l'uomo di
tendere verso il bene; si dice anche appetito razionale, per distinguerlo
dall’ap- petito sensitivo che è proprio degli animali. Mentre l'appetito
sensitivo è una tendenza istintiva, quello razionale cioè l'inclinazione della
v., è un appetito guidato, calcolato, libero. Il privilegio della v. è in
effetti quello di essere libera: cioè padrona dei propri atti e quindi anche
degli oggetti verso cui si porta con le sue decisioni. In filosofia due sono le
grosse questioni che sono state dibattute in ogni tempo a proposito della v.:
una riguarda proprio la libertà. La questione è di sapere se, nono- stante
tutti i condizionamenti cui viene sottoposta la v. umana, essa può dirsi veramente
libera (è la controversia tra i deterministi e gli inde- terministi). La
seconda è se nell'uomo conta maggiormente la cono- scenza o la v. {è la
controversia tra intellettualisti che assegnano il primato alla conoscenza e
volontaristi che per contro assegnano il pri- mato alla v.). 440 INDICE DEI
NOMI (I NUMERI IN CORSIVO INDICANO LE PAGINE IN CUI L'AUTORE È TRATTATO
SISTEMATICAMENTE) Abbagnano N., 172, 261, 269 Abelardo P., 83, 269 Adler M.,
270 Adam K., 108 Adorno Th.W., 264, 270, 305 Agazzi E., 44, 267 Agostino
d'Ippona (sant’), 28, 30, 32, 35, 57, 66, 74, 75, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83,
94, 139, 149, 150, 185, 187, 195, 197, 247, 250, 251, 252, 263, 271, 280, 417,
419, 423, 425, 426, 430 Alberto Magno, 28, 248, 272, 276, 341 Alembert (d’)
J.B., 331 Alessandro di Hales, 251, 252 Aliotta A., 269 Althusser L., 273
Ammonio Sacca, 249, 327 Anassagora, 245, 273 Anassimandro, 242, 273 Anassimene,
242 Anselmo d'Aosta (sant’), 247, 251, 274 Antistene, 245 Aristippo, 121, 245
Ardigò R., 257, 274 Aristotele, 8, 10, 11, 18, 19, 20, 21, 22, 24, 28, 29, 30,
32, 35, 40, 41, 46, 57, 65, 66, 75, 76, 77, 78, 81, 84, 91, 92, 94, 95, 102,
116, 118, 121, 122, 123, 124, 133, 144, 145, 147, 148, 150, 184, 185, 188, 189,
209, 247, 248, 250, 251, 252, 273, 275, 276, 281, 340, 415, 416, 417, 418, 419,
420, 421, 423, 424, 425, 426, 428, 431, 432, 435, 437, 439 Attalo, 336 Averroé,
28, 102, 248, 268, 273, 276 Avicebron, 268 Avicenna, 94, 102, 248, 250, 252,
268, 276 Ayer A.J., 29, 45, 54, 254, 260, 267 Bachelard G., 46, 47, 267, 273,
277, 429 Bacone F., 20, 35, 40, 41, 46, 121, 139, 145, 253, 254, 277, 295, 426,
428 Bacone R., 248, 252. Bakunin M.A., 164 Balthasar H.U. von, 197 Barbotin E.,
54, 56, 57, 58 Barth K., 83, 261 Basilio (san), 247 Bauer B., 290, 292
Baumgarten A., 423 Bautain, 424 C., 255 Benoist J.M., 267 J., 119 Berger G.,
216 Bergson H,., 35, 102, 106, 107, 202, 278, 320 Berkeley G., 28, 29, 30, 33,
79, 254, 267, 278 Bernardo di Clairvaux, 251 Bernstein E., 279, 311 Bloch E.,
77, 85, 167, 258, 273, 279, 436 Blondel M., 86, 106, 107, 263, 280 Bloy L., 320
Boezio S., 247, 250, 280, 431 Bonaventura da Bagnoregio (san), 28, 80, 94, 185,
247, 25ì, 252, 281, 425, 426 Bonifacio VIII, 145, 156 Bontadini G., 263, 282
Boros L., 86 J.-B., 195, 197 Boutroux E., 40, 263, 282 Bradley F.H., 256
Brentano F., 427 Bruni F., 52 Bruno G., 67, 102, 282 Brunschvicg L., 256 441
Buber M., 77, 262, 283 Bultmann R., 12, 261
(Tommaso da Vio), 78, 83, 252 Calvino J., 251, 284 Camus A., 261
Carabellese P., 263 Carnap R., 23, 45, 54, 97, 102, 105, 260, 267 284, 426
Carneade, 285 Cartesio R., 8, 20, 21, 28, 30, 33, 35, 40, 42, 75, 77, 78, 79,
80, 81, 82, 84, 94, 96, 118, 119, 247, 251, 253, 266, 267, 285, 304, 317, 324,
338, 343, 416, 417, 426, 429, 430, 431, 439 Cassirer E., 208 Chiang-kai-sheck,
165, 318 Church A., 23, 24 Cicerone M.T., 8, 285 Alessandrino T.F., 247 J.A.,
139 Comte A., 29, 35, 39, 40, 45, 75, 78, 81, 85, 102, 103, 106, 257, 267, 286,
332, 435, 438 Copernico N., 67, 135 Cratilo, 326 Crisippo, 291 Crispino, 249
Croce B., 28, 75, 102, 186, 188, 189, 208, 216, Cullmann O., 83, 197 Cusano N.,
67, 247, 250, 287 Damiani P., 424 Dante Alighieri, 151 Darwin Ch.R., 75, 257,
287 Dawson C., 216 De Finance J., 79, 86, 226, 227 De Lubach H., 197 Democrito,
66, 243, 273, 288 Deng Hsiao-ping, 166 De Saussure F., 264, 294, 314 Descartes
(v. Cartesio) Derisi, 224, 226 Dessauer F., 108 Vitoria, 252 Dewey J., 224,
259, 288 Diderot D., 255 Dilthey W., 208, 289, 333 Dollè J.P., 267 442 Duhem
P., 40 Durkheim E., 102 Eckhart J., 289 Eddington A.S., 46 Ch., 223, 227
Einstein A., 67 Eliade M., 12, 77, 429 F., 34, 106, 126, 145, 164, 166, 258,
279, 290, 305, 311, 320 Epicuro, 66, 120, 249, 29/ Eraclito di Efeso, 11, 194,
243, 292 Erasmo da Rotterdam, 438 Eròdoto, 436 Esiodo, 64, 65 Eucken R., 222,
223, 333 Euclide, 41, 246 Fabro C., 263 Fénelon F., 438 L., 81, 102, 103, 290,
292 Feyerabend P.K., 98 Fichte J.G., 28, 151, 206, 255, 256, 292, 303, Ficino
M., 67, 151, 250, 438 Filone Alessandrino, 79, 293 Fink E., 77, 425 Foucault
M., 208, 265, 293, 421 Frege F.L.G., 22, 44, 344 Freud S., 12, 75, 77, 102,
104, 106, 119, 186, 227, 257, 288, 294, 308 Gadamer H.G., 31, 47, 75, 77, 199,
200, 201, 266, 277, 422 G., 35, 42, 67, 68, 295, 304, 429 Galluppi P., 295
Garaudy R., 85, 258, 273, 296 Gehlen A., 75, 77 Giannone P., 255 Gilson E., 79,
92, 252, 263, 297 Gioberti V., 30, 298 Giovanni Damasceno, 298 Giovanni Paolo
II, 174 Glucksmann A., 267, 298 Gbdel K., 23, 43 Goethe J.W., 304, 305 Gogarten
F., 261 Gollwitzer H., 85 Gorgia, 28, 244
Gramsci A., 145, 167, 258, 299 Guardini
R., 108, 216, 262, 300 Guerin M., 267 Guglielmo di Champeaux, 269 Guitton J.,
322 Guzzo A., 263 J., 264, 300 Haeckel E.H., 257 Hammer, 227 Hamelin O., 256
Hartmann N., 125, 222, 223, 227, 301, 417 Hegel G.W.F,, 8, 22, 24, 28, 29, 35,
75, 77, 84, 102, 103, 106, 145, 147, 148, 153, 186, 188, 195, 210, 247, 250,
255, 256, 258, 286, 292, 296, 301, 302, 310, 323, 334, 415, 421, 423, 425, 433,
439 Heidegger M., 12, 31, 50, 57, 75, 77, 92, 93, , 111, 112, 210, 260, 261, 266,
269, 294, 302, 313, 333, 421, 422, 423, 429, 431 Heisenberg W., 43 Helvetius
C.A., 119 Herbart J.F., 257, 303 Herder J.G., 52, 207, 208, 304, 305, 338
Hilbert D., 44 Hildebrand D., 223 Hobbes Th., 78, 102, 119, 121, 145, 148, 151,
152, 254, 304, 315, 319 Horkheimer M., 160, 167, 263, 264, 270, 300, 304
Humboldt K.W., 52, 207, 208, 305 Hume D., 18, 29, 30, 33, 35, 75, 79, 81, 83,
97, 102, 121, 145, 254, 267, 306, 426, 428, 431 Husserl E., 35, 208, 223, 265,
301, 306, 313, 339, 423, 424, 427 di Elide, 244 Innocenzo III, 145 Illich I,
261 Ch., 267 James W., 35, 102, 106, 107, 259, 307 Jaspers K., 102, 261, 269,
307, 342 Jung C.G., 308 Kant I., 18, 21, 22, 28, 29, 31, 33, 34, 40, 43, 75,
77, 79, 81, 83, 92, 96, 97, 98, 102, 111, 112, 119, 124, 125, 126, 128, 152,
186, 195, 196, 215, 255, 256, 267, 292, 295, 304, 305,
308, 335, 343, 416, 418, 419, 420, 422,
423, 425, 426, 428, 430, 431, 432, 433, 435, 437 Kautsky K., 309, 311 Keplero
G., 67 i Kierkegaard S., 106, 256, 257, 260, 3/0, 421 Korsch K., 3// Kruscev
N., 339 Kuhn Th., 98, 267 Laberthonnière L., 132, 280 Labriola A., 3/1
Lachelier J., 263 Lakatos I., 98 Lalande A., 226, 431, 435, 439 Lamennais
H.F.R. (de), 424 Lang A., 108, 109 Lardreau G., 267 Lavelle L., 224, 225, 227,
231, 261, 263, 321 Lavoisier A.L., 67 Lazzarini, 263 Leibniz G.W., 28, 33, 35,
52, 75, 77, 78, 79, 80, 81, 94, 96, 111, 144, 247, 250, 253, 3I1, 345, 426, 437
Lenin N., 145, 152, 153, 164, 165, 208, 258, 311, 372, 317, 339 Le Roy E., 259
Le Senne R., 224, 225 G., 255, 267, 3/3, 338 Lévinas E., 262, 266, 3/3 Levy
B.H., 267, 315 Lipps T., 339 Litt T., 77 149, 151, 248, 254, 267, 279, 315, 435
Lonergan B., 216 Lotze R.H., 222, 227, 263, 316, 417 Luckmann Th., 77, 216
Lucrezio Caro T., 78, 102, 249, 291 Lukacs G., 3/6 Lutero M., 251, 284, 316,
424 Luxemburg R., 317 Lyell Ch., 337 Mach E., 40 Machiavelli N., 145, 151, 152
J., 54 Maimonide M., 102, 268 Malebranche N., 28, 30, 33, 80, 81, 96, 247, 253,
267, 317 Mao-Tse-tung, 165, 166, 258, 3/8 Marcel G., 75, 77, 86, 261, 266, 358,
436, 440 Marco Aurelio, 249 Marcuse H., 85, 162, 167, 258, 264, 305, 3/9 Maritain
J., 44, 79, 145, 154, 157, 197, 209, 212, 216,252, 263, 278, 297, 320, 322, 439
Marsilio da Padova, 151, 156 Martinetti P., 263 Marx K., 34, 75, 77, 78, 81,
85, 102, 103, 105, 106, 126, 145, 147, 148, 151, 152, 153, 163, 164, 165, 166,
167, 168, 186, 195, 208, 231, 258, 270, 273, 279, 280, 288, 290, 305, 309, 312,
315, 319, 320, 321, 327, 332, 339, 415, 421, 425, 426, 427, 438 Masnovo A., 79,
263 Mc Taggart E.J., 256 Mead G.H., 259 Meinong A., 125, 227 Mercier D., 79,
252 -Ponty M., 75, 87, 261, 266, 321Metz J.-B., 86 Meyerson E., 45 Mialaret G.,
134 Mill J.S., 18, 20, 21, 29, 119, 121, 122, 254, 257, 321, 426 Monod J., 428
Montaigne M., 33, 120, 249 Moore G.E., 224 Moro T., 438 Mounier E., 262, 322
Mouroux J., 197 Muller A., 102 Musonio Rufo, 291 Newton I., 40, 42, 67, 255,
312, 343, 435, 437 Neuraht O., 260 Niebuhr R., 216 Nietzsche F., 75, 81, 84,
102, 104, 105, 106, 119, 210, 215, 222, 231, 256, 257, 322, 323, 417, 421, 425,
426, 431 Neleo, 91 Occam G., 29, 77, 83, 102, 145, 151, 248, 252, 287, 289,
322, 340, 424, 426 Ogden-Richards, 54 Olivi P., 252 Omero, 64 ,65 Orazio, 249
444 Origene, 35, 79, 247 Ortega y Gasset T., 224, 259 Otio R., 102, 106, 108,
199, 110 Parmenide, 11, 28, 31, 95, 243, 246, 324, 421, 428 Pascal B., 35, 96,
280, 324, 424, 426 Payet P., 322 Peano G., 22, 44, 344 Péguy Ch., 322 Peirce
Ch.S., 259, 325 Piaget J., 325 Pico della Mirandola, 67, 438 Pieper J., 436
Pietro Lombardo, 336 Pitagora, 80, 81, 242, 325, 415 Platone, 9, 11, 28, 29,
30, 32, 35, 57, 65, 66, 75, 76, 77, 78, 79, 80, 81, 84, 94, 95, 102, 116, 117,
118, 121, 123, 145, 149, 150, 184, 185, 187, 188, 189, 195, 209, 211, 222, 246,
247, 248, 250, 251, 252, 275, 28, 293, 326, 415, 417, 419, 421, 425, 426, 430,
431, 432, 435, 437, 439 Plessner H., 77 Plotino, 28, 35, 75, 76, 77, 94, 102,
118, 188, 209, 247, 249, 250, 327, 421, 426 Poincaré J.H., 40, 42, 43, 44
Polanyi K., 54 Pollock F., 264 Pomponazzi P., 78, 248 Popper K.R., 35, 47, 168,
260, 267, 277, 327, 428, 429, 432 Porfirio, 250, 281, 327 Prini P., 224 Proclo,
250 Prodico di Ceo, 244 Protagora, 28, 102, 244, 328 Pseudo-Dionigi, 247, 250,
298 Quine W., 23, 24, 429 Quiles J., 262 Rahner K., 86, 252 Ravaisson J.G.,
256, 263 Reale G., 36 Reichenbach, 260 Reid T., 255 Reimarus, 255 Renan J.E.,
52 Renouvier Ch., 261, 262, 263, 328 Riccardo di S. Vittore, 25î Rickert H.,
222, 263, 289, 329 Ricoeur P., 75, 77, 262, 266, 329, 422, 429, 431 Riemann B.,
44 Rintelen F.J., 226 Rissi (p.), 342 Rogers C., 421 Rosmini A., 30, 298, 330
Roscellino, 269 Rousseau J.-J., 138, 139, 145, 148, 149, 151, 152, 255, 267,
306, 330 Royce J., 256 Russell B.A.W,, 22, 29, 44, 45, 121, 254, 260, 267, 331,
345, 421 Ryle G., 254 Saint-Simon C.H., 257, 286, 33/
Santayana G., 332 Sartre J.-P., 75, 77,
84, 105, 119, 210, 261, 266, 269, 332, 421, 426, 430, 431 Scheler M., 75, 77,
102, 106, 108, 109, 125, 126, 223, 224, 227, 231, 233, 266, 333 Schelling
F.W.J., 186, 188, 247, 250, 255, 256, 302, 334 Schiller F., 303, 305 Schlegel
F., 334, 335 Schleiermacher F.D.E., 334 Schlick M., 45, 260 Schòkel L., 54
Schopenhauer A., 188, 194, 256, 257, 335, 431 Schmidt W., 108 Sciacca M., 263
Scoto (Duns) G., 77, 83, 102, 248, 251, 252, 336 Seneca L.A., 249, 336
Senofonte, 102 Sesto Empirico, 20, 21, 285 Silvestri, 78 Simmel G., 333
Socrate, 32, 35, 57, 73, 81, 116, 117, 118, 245, 326, 337, 426 Solzenicyn A.,
168, 267, 315 Sorel G., 311 Sozione, 336 Spencer H., 29, 40, 75, 254, 257, 267,
274, 337 Spengler O., 198, 208 Spinoza B., 28, 33, 35, 75, 77, 79, 96, 102,
148, 151, 152, 253, 267, 338, 417, 421, 426, 428, 430, 431 Spirito U., 338
Stalin J., 153, 164, 165, 167, 258, 339 Stefanini, 224 Stevenson, 54 Stein E.,
339, 421 Strawson P.F., 98 Sturm F., 292 Sturzo L., 145 Suarez F., 78, 252, 340
Taine I., 186 Talete, 64, 65, 242, 273, 302, 340 Taylor F.W., 161, 207 Taziano,
424 Teilhard de Chardin P., 42 Telesio B., 67, 248, 284, 340 Teofrasto, 91
Tertulliano Q.S.F., 79, 424 Tillich P., 77, 108, 216, 434 Tolomeo Claudio, 67
Tommaso d'Aquino (san), 28, 30, 33, 35, 67, 75, 77, 78, 81, 82, 94, 102, 111,
119, 122, 123, 124, 145, 151, 156, 187, 248, 251, 263, 272, 273, 276, 281, 290,
336, 340, 341, 415, 416, 417, 419, 422, 423, 426, 430, 431, 439 Tonini V., 44,
429 Toynbee A.J., 197, 198, 216 Trotzsky L., 339 Tucidide, 436 Turchi N., 11
Ullmann S., 54 Ugo di S. Vittore, 251 Valla L., 83, 249, 438 Vanni Rovighi S.,
119 Vergote A., 87 Vico G.B., 35, 75, 79, 96, 149, 150, 152, 185, 186, 188,
189, 195, 197, 198, 247, 251, 342, 429, 436 Voltaire F.M.A., 254, 255, 267, 343
Whitehead A.N., 8, 22, 344 Wittmann, 226 Windelband W., 227 Wittgenstein L.,
45, 53, 111, 112, 259, 266, 267, 345, 426 Wolff C., 33, 255, 345 Zabarella J.,
83 Zenone, 123, 209, 243, 248, 291, 346 445 pag. 10 13 17 17 19 27 27 29 31 34
39 39 44 48 INDICE GENERALE {I NUMERI TRA PARENTESI, IN CORSIVO, INDICANO LE
PAGINE) Presentazione dell'Editore INTRODUZIONE: CHE COS'È LA FILOSOFIA? 1. Che
cos'è la filosofia 1.1 La conoscenza intellettuale {7) - 1.2 Riflessione
filosofica (8) 1.3 Natura della filosofia (9) 2. Le origini della filosofia 2.1
Filosofia elementare e scientifica (10) - 2.2 Mito e filosofia (//) 3. I
problemi filosofici fondamentali PARTE PRIMA: I PROBLEMI FILOSOFICI CAPITOLO
PRIMO: IL PROBLEMA LOGICO 1. Natura del problema 2. Panorama storico CAPITOLO
SECONDO: IL PROBLEMA GNOSEOLOGICO {o problema della conoscenza) 1. Le forme
della conoscenza umana 2. Origine della conoscenza 3. Valore della conoscenza
4.IlmetodoCAPITOLOTERZO:ILPROBLEMAEPISTEMOLOGICO(0problemadellascienza)1.Evoluzionedelconcetto
di scienza nel corso dei secoli 2. Classificazione delle scienze e natura del
sapere scientifico secondo gli epistemologi contemporanei 3. Conclusione 447 50
50 52 53 54 59 63 63 64 68 73 73 74 83 91 91 92 93 94 101 101 102 109 111 116
116 118 127 132 132 448 CAPITOLO QUARTO: IL PROBLEMA LINGUISTICO (o fi- losofia
del linguaggio) 1. Caratteri del linguaggio 2. Origine del linguaggio 3.
Condizioni essenziali del linguaggio 4. Funzioni e valore del linguaggio 4.1
Funzione descrittiva (55) - 4.2 Funzione comunicativa (56) - 4.3 Funzione e
valore esistenziale (57) 5. Rapporto del linguaggio col pensiero, con le cose e
con gli interlocutori CAPITOLO QUINTO: IL PROBLEMA COSMOLOGICO 1.
Problematicità dell'universo 2. La cosmologia nel pensiero occidentale 3. La
cosmologia nel secolo XX CAPITOLO SESTO: IL PROBLEMA ANTROPOLOGICO 1. Natura
del problema 2. Panorama storico 3. Il significato dell'autotrascendenza
CAPITOLO SETTIMO: IL PROBLEMA METAFISICO 1. L'origine del termine 2. Oggetto
della metafisica 2. Metodo della metafisica 4. Sguardo storico CAPITOLO OTTAVO:
IL PROBLEMA RELIGIOSO 1. I termini del problema 2. Le principali
interpretazioni filosofiche della religione al Demistificazione della religione
(102) - 2.2 Difesa della religione 06) 3. Definizione della religione e sua
distinzione dall'arte, dalla filosofia e dalla morale 4. Fondazione teoretica
della religione CAPITOLO NONO: IL PROBLEMA ETICO O MORALE 1. La prospettiva
critica 2. La prospettiva teoretica 3. Il problema etico ha delle soluzioni?
CAPITOLO DECIMO: IL PROBLEMA PEDAGOGICO 1. La pedagogia come teoria pratica 133
135 136 137 138 144 144 145 147 150 151 155 157 158 159 168 169 171 183 183 187
189 193 193 194 197 199 2. Autonomia della scienza pedagogica e
interdisciplinarietà 3. Soggetto e finalità della pedagogia 4. I tre aspetti
fondamentali dell'educazione 5. Autoeducazione ed eteroeducazione 6.
L'attivismo pedagogico CAPITOLO UNDICESIMO: IL PROBLEMA POLITICO E SOCIALE 1. I
termini del problema 2. Natura sociale dell’uomo 3. L'origine dello Stato 4. Le
forme di governo 5 . Rapporti tra politica e morale a partire dall'epoca mo-
derna 6. Rapporti tra Stato e Chiesa 7. Rapporti tra fede e politica 8. Lettura
politica del messaggio evangelico 9 . Capitalismo o socialismo? 9.1 Il capitalismo
classico (160) - 9.2 Il neocapitalismo (/61) - 9.3 Il labourismo e ia
socialdemocrazia (/62) - 9.4 Il socialismo marxista (163) - 9.5 Il
marxismo-leninismo-stalinismo (£64) - 9.6 L'esperienza del maoismo in Cina
(165) - 9.7 Crisi del marxismo ortodosso: i nuo- vi marxismi (166) 10. Le
dottrine sociali di ispirazione cristiana 11. Il cristiano e la promozione
della coscienza sociale e poli- tica: la mediazione culturale e l'impegno
politico 12. I nuovi problemi impongono una nuova concezione di so- cietà 12.1
‘La nuova società « post-industriale » o della comunicazione (171) - 12.2 La
«crisi epocale » della società nell'era tecnologica (172) - 12.3 È necessario
un nuovo progetto culturale (174) CAPITOLO DODICESIMO: IL PROBLEMA ESTETICO 1.
Natura dell'opera d’arte 2. Il fine dell'opera d'arte 3. Arte e morale CAPITOLO
TREDICESIMO: IL PROBLEMA STORICO 1. Il concetto di storia 2. Possibilità della
scienza storica 2.1 Scetticismo storico (194) - 2.2 Realismo storico (194) 3.
La storia è veramente una scienza? 4. L'interpretazione della storia 449 206
206 207 209 212 213 214 221 222 226 227 231 234 242 242 243 243 244 245 245 246
247 248 249 249 250 251 252 253 253 254 255 256 257 258 450 CAPITOLO
QUATTORDICESIMO: IL PROBLEMA CULTU- RALE 1 2. Il probleina della cultura nella
storia della filosofia 3. L'uomo come essere culturale 4. 5 6 Definizione La
cultura come forma spirituale della società . Gli elementi fondamentali della
cultura . Rapporti tra cultura e religione CAPITOLO QUINDICESIMO: IL PROBLEMA DEI
VALORI O ASSIOLOGICO 1. . Definizione del valore . Lo statuto ontologico dei
valori . Gerarchia e classificazione dei valori . La facoltà dei valori U
ASUWUN Informazioni storiche sull’assiologia PARTE SECONDA: I SISTEMI
FILOSOFICI PRIN- CIPALI 00! UDAWNE . Scuola ionica o di Mileto Scuola
pitagorica . Scuola eleatica Scuola atomista Scuola sofista . Scuola eclettica
o ‘fisico-pluralista . Scuola socratica . Scuola platonica . Scuola
aristotelica . Scuola stoica . Scuola epicurea . Scuola neoplatonica . Scuola
agostiniana . Scuola tomista . Scuola francescana . Scuola razionalista .
Scuola empirista . Scuola illuminista . Scuola idealista . Scuola volontarista.
Scuola positivista . Scuola materialista-marxista 269 269 277 284 287 289 292
295 298 300 307 23. Scuola pragmatista 24. Scuola neopositivista 25. ‘Scuola
esistenzialista 26. Scuola personalista 27. Scuola spiritualista 28. Scuola di
Francoforte 29. Scuola strutturalista 30. Scuola fenomenologica 31. Scuola
epistemologica 32. I « ‘Nuovi Filosofi » PARTE TERZA: I PRINCIPALI FILOSOFI
Schede sui principali filosofi Abbagnano Nicola (1901) (269) - Abelardo Pietro
(1079-1142) (269) - Adler Max (1873-1937) (270) - Adorno Theodor Wiesegrund
(1903-1969) (270) - Agostino di Ippona (354-430) (271) - Alberto Mo (1205-1280)
(272) - Althusser Louis {1918) (273) - Anassagora (500-428 a.C.) (273) .
Anassimandro (610-546 a.C.) (273) - Anassimene (585-528 a.C.) (274) - Anselmo
d'Aosta (1033-1109) (274) - Ardigò Roberto (1828-1920) (274) - Aristotele
(384-322 a.C.) (275) - Averroè (1126-1198) (276) - Avicenna (980- 1037) (276)
Bachelard Gaston (1884-1962) (277) - Bacone Francesco (1561-1626) (277) -
Bergson Henri (1859-1941) (278) - Berkeley George (1685-1753) (278) - Bernstein
Eduard (1850-1932) (279) Bloch Ernst (1885-1977) (279) - Blon- del Maurice
(1861-1949) (280) - Boezio Severino (480-524) (280) Bonaven- tura da Bagnoregio
(1221-1274) (28/1) - Bontadini Gustavo (1903) (282) - Boutroux Emile
(1845-1921) (282) - Bruno Giordano (1548-1600) (282) - Buber Martin (1878-1965)
(283) - Butler Joseph (1692-1752) (283) Calvino (1509-1564) (284) - Campanella
Tommaso (1568-1639) (284) - Carnap Rudolf (1891-1970) (284) - Carneade {219-129
a.C.) (285) - Car- tesio (1596-1650) (285) - Comte Auguste (1798-1857) (286) -
Croce Bene- detto (1866-1952) (286) - Cusano Nicolò (1401-1464) (287) Darwin
Charles Robert (1809-1882) (287) - Democrito {460-360 a.C.) (288) - Dewey John
(1859-1952) (288) - Dilthey Wilhelm (1833-1911) (289) Eckhart Johannes
(1266-1327) (289) - Empedocle (fine V sec. a.C.) (290) - Engels Friedrich
(1820-1895) (290) - Epicuro (341-271 a.C.) (291) - Epit- teto (50-138) (29/) -
Eraclito (550-480 a.C.) (292) Feuerbach Ludwig (1804-1872) (292) Fichte Johann
Gottlieb (1762-1814) (292) - Filone Alessandrino (13 a.c.-40 d.C.) (293) -
Foucault Michel (1926-1984) (293) -Freud Sigmund (1856-1939) (294) Galilei Galileo
(1564-1642) (295) - Galluppi Pasquale (1770-1846) (295) - Garaudy Roger (1913)
(296) - Gentile Giovanni (1875-1944) (296) - Gilson Etienne (1884-1978) (297) -
Gioberti Vincenzo (1801-1852) (298) - Giovan- ni Damasceno (675-750) (298)
Glucksmann André {1937) (298) - Gramsci Antonio (1891-1937) (299) - Guardini
Romano {1885-1968) {300) Habermas Jiirgen (1929) (300) - Hartmann Nicolai
(1882-1950) (301) - Hegel Georg Wilhelm {1770-1831) (301) - Heidegger Martin
(1889-1976) (302) - Herbart Johann Friedrich (1776-1841) (303) - Herder Johann
Gottfried (1744-1803) (304) - Hobbes Thomas (1588-1679) (304) - Hork- heimer
Max (1895-1973) (304) - Humboldt Karl Wilhelm von (1767-1835) 109) - Hume David
(1711-1776) (306) - Husserl Edmund (1859-1938) James William (1842-1910) (307)
- Jaspers Karl (1883-1969) (307) - Jung Karl Gustav (1875-1961) (308) 451 308
311 317 328 331 348 348 349 349 364 364 452 Kant Immanuel (1724-1804) (308) -
Kautsky Karl (1854-1939) (309) - Kierkegaard Séren (1813-1855) (3/0) - Korsch
Karl (1886-1961) (31/1) Labriola Antonio (1843-1904) (3/1) - Leibniz Gottfried
Wilhelm (1646- 1716) (3/1) - Lenin Nikolay (1870-1924) (3/2) - ‘Lessing
Gotthold (1729- 1781) (313) - Lévinas Emmanuel (1906) (313) - Lévi-Strauss
Claude (1908) (3/4) - Lévy Bernard-Henry (1949) (315) - Locke John (1632-1704)
(315) - Lotze Hermann (1817-1881) (3/6) - Luk&cs Gyòrgy (1885-1971) Gio -
Lutero Martin (1483-1546) (3/6) Luxemburg Rosa (1870-1919) Malebranche Nicolas
(1638-1715) (3/7) - Mao Tse-tung (1893-1976) (318) - Marcel Gabriel (1889-1975)
(318) - Marcuse Herbert (1898-1979) (319) - Maritain Jacques (1882-1973) (320)
- Marx Karl (1818-1883) (320) - Mer. leau-Ponty Maurice (1908-1961) (321) -
Mill John Stuart (1806-1873) (321) - Mounier Emmanuel (1905-1950) (322) Nietzsche
Friedrich (1844-1900) (322) Occam (di) Guglielmo (1290-1349) (323) Parmenide {I
metà del V sec. a.C.) (324) - Pascal Blaise (1623-1662) (324) - Peirce Charles
Sanders (1839-1914) (325) - Piaget Jean (1896-1980) (325) - Pitagora (571-497
a.C.) (326) - Platone (427-347 a.C.) (326) -
Plotino (205- 270) (327) - Popper Karl Raimund {1902) (327) - Protagora (490
morto tra il 410 e il 400 a.C.) (328 Renouvier Charles (1815-1903) (328) - Rickert Heinrich (1863-1936)
(329) - Ricoeur Paul (1913) (329) - Rosmini Antonio (1797-1855) (330) - Rous-
seau Jean-Jacques (1712-1778) (330) - Russell Bertrand (1872-1970) (331) Saint-Simon
Claude Henry de (1760-1825) (33/1) - Santayana George (1863-1952) (332) -
Sartre Jean-Paul (1905-1980) (332) - Scheler Max (1874- 1928) (333) - Schelling
Friedrich Wilhelm (1775-1854) (334) - Schlegel Friedrich (1772-1829) (334) -
Schleiermacher Friedrich Daniel Ernst (1768-1834) (335) - Schopenhauer Arthur
(1788-1860) (335) - Scoto Duns (1265-1308) (336) - Seneca Lucio Anneo (4
a.C.-65) (336) - Socrate (469- 399 a.C.) (337) - Spencer Herbert (1820-1903)
(337) - Spinoza Baruc (1632-1677) (338) - Spirito Ugo (1896-1979) (338) -
Stalin (1879. 1953) (339) - Stein Edith (1891-1942) (339) - Suarez Francisco
(1548-1617) (340) Talete (624-562 a.C.) (340) - Telesio Bernardino (1509-1588)
(340) - Tom- maso D'Aquino (1225-1274) (341) Vico Gianbattista (1668-1744)
(342) - Voltaire (1694-1778) (343) Whitehead Alfred North (1861-1947) (344) -
Wittgenstein Ludwig {1889- 1952) (345) - Wolff Christian (1679-1754) (345)
Zenone (336-274 a.C.) (346) PARTE
QUARTA: GUIDA ALLA LETTURA DI AL- CUNE OPERE DI FILOSOFIA . « IL FEDONE » -
PLATONE . Ambientazione storica dell’opera . Il dialogo, metodo dell’opera .
Divisione e sintesi dell’opera Prima parte: 1. Introduzione (350) - 2.
Immortalità dell'anima (351) - 3. Argomenti a favore dell'immortalità
dell'anima (353) - 4. Metem- psicosi (355) - Intermezzo (356) - Seconda parte:
1. Le obiezioni di Simmia e Cebete (357) - 2. Risposta di Socrate alle
obiezioni di Sim- mia e Cebete (358) - 3. Conclusione (36/1) - 4. Il mito deile
anime dopo la morte (361) - 5. Figura e dimensione della terra (362) - 6. La
morte di Socrate (362) W N re bai II. IL « DISCORSO SUL METODO » - CARTESIO 1.
Origine dell’opera 366 2. Divisione e sintesi dell’opera Prima parte:
L'esperienza scolastica di Cartesio e la scoperta della necessità di un metodo
rigoroso (367) - 1. Necessità del metodo (367) - 2. La storia della propria
educazione e l'utilità dello studio delle materie scolastiche (367) - 3. Lo
studio del mondo attraverso i viaggi (367) - 4. Lo studio di se stesso (368) -
Seconda parte: La scoperta del nuovo metodo e le sue regole principali (368) -
1. Am- bientazione (368) - 2. Prima considerazione (368) - 3. Seconda con-
siderazione (368) - 4. Ammonimento (369) - 5. Decisione di procedere alla
ricerca di un nuovo metodo, essendo la logica e la matematica metodi
insufficienti (369) - 6. Le regole del nuovo metodo (369) - 7. Fecondità del
nuovo metodo (369) - 8. Applicazione del nuovo metodo alla matematica (370) -
9. Primi risultati (370) - 10. Appli- cazione del nuovo metodo alla filosofia
(370) - Terza parte: Le mas- sime della morale provvisoria e l'esercizio del
metodo (370) . 1. Ne- cessità di una morale provvisoria {370) - 2. I principi
della morale provvisoria :((37/) - 3. Rassegna delle varie azioni per scegliere
la migliore (371) - 4. Esercizio del metodo viaggiando e studiando (371) -
Quarta parte; I due principi fondamentali della metafisica: il cogito e
l’esistenza di Dio (372) - 1. Il dubbio metodico (372) - 2.La prima verità
indubitabile: il « cogito ergo sum » (373) - 3. L’es- senza dell’uomo consiste
nel pensiero (374) - 4. Il criterio di verità: chiarezza e distinzione (374) -
5. Dimostrazione dell’esistenza di Dio (375) - 6. Funzione psicologica
del’esistenza di Dio (376) - Quinta parte: Verità di ordine fisico - Natura
dell'anima umana (376) - 1. Il corpo degli animali e dell'uomo (376) * 2.
Natura dell'anima Ga Sesta parte: Ragioni della mancata pubblicazione de « Il
ondo » 379 III. « LA MISSIONE DEL DOTTO » - \FICHTE 1. Origine e importanza
dell’opera (379) - 2. Divisione e sintesi del- l'opera (380) - Prima lezione:
La missione dell’uomo in sé - 1. Intro. duzione (380) - 2. Natura e missione
dell'uomo in se stesso (380) - 3. La legge morale dell'uomo considerato in se
stesso (381) - 4. Il fine ultimo, il sommo bene, la perfezione (381) - Seconda
lezione: La missione dell'uomo in società - 1. Introduzione (382) - 2. Esisten-
za della società (382) - 3. Il criterio per distinguere gli esseri ragio-
nevoli dagli esseri privi di ragione (382) - 4. Società e stato (383) - 5. Fine
e missione della società (383) - 6. La morale sociale (384) - 7. Il fine ultimo
e la missione dell’uomo nella società (384) - 8. L’edu- cazione alla
socievolezza (384) - Terza lezione: La distinzione tra gli stati sociali - 1.
Introduzione (384) - 2. La diseguaglianza tra gli uomini (385) - 3. La scelta
dello stato (385) - 4. La scelta dello stato non è obbligatoria, ma libera
(385) - 5. La partecipazione al perfe- zicnamento dell'umanità assicura come
premio l'immortalità (386) - Quarta lezione: La missione del dotto - 1.
Introduzione (387) - 2. ‘La società perfetta richiede lo stato (la professione)
del dotto (387) - 3. Definizione del dotto (387) - 4. La missione del dotto
(388) - 5. La morale del dotto (La morale professionale) (388) - Quinta
lezione: Critica delle affermazioni di Rousseau intorno all’influsso delle arti
e delle scienze sopra la felicità dell'uomo - 1. Introduzione (389) - 2.
L'errore di Rousseau (389) - 3. Critica dell'errore di Rousseau (389) 392 IV.
IL « MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA » - MARX-ENGELS 392 1. Origine dell'opera
393 2. Divisione e sintesi dell’opera Introduzione - Prima parte: Borghesi e
proletari (393) - Seconda parte: Proletari e comunisti (395) - Terza parte:
Letteratura socia- 453 398 398 398 400 415 454 WNnrx< lista e comunista
(396) - Quarta parte: Posizione dei comunisti di fronte ai diversi partiti di
opposizione (396) . « INTRODUZIONE ALLA METAFISICA » - HEIDEGGER Premessa
Origine e obiettivi dell’opera . Divisione e sintesi dell’opera Cap. I: La
domanda metafisica fondamentale - 1. La domanda metafisica fondamentale (400) -
2. Caratteristiche della filosofia (400) - 3. Oggetto iniziale della filosofia
e della metafisica (401) - 4. Il ricominciamento della filosofia (401) - 5.
Svolgimento della domanda fondamentale (401) - 6. La differenza ontologica tra
es- sente ed essere (402) - 7. La ripetizione del cominciamento, supe- rando
gli errori della ontologia (402) - 8. Urgenza del ricomincia- mento (403) -
Cap. II: Sulla grammatica e sulla etimologia della parola « essere » - 1.
Condizioni preliminari all'esame grammaticale ed etimologico (403) - 2. La
grammatica della parola « essere » (403) - 3. Etimologia della parola « essere
» (404) - 4. Questioni pen- denti (404) - Cap. III: La domanda sull’essenza
dell'essere - 1. La strategia da seguire per determinare l'essenza dell’essere
(405) - 2. Il significato della parola « essere » (405) - 3. Accertamento della
conoscenza dell'essere (405) - 4. Importanza e valore della compren- sione
dell'essere (406) - 5. La filosofia come accesso all'essere (406) - 6.
L'orizzonte del senso dell’essere (406) - Cap. IV. La limitazione dell'essere -
1. Essere e divenire (407) - 2. Essere e apparenza (407) - 3. Essere e pensare
(408) - 4. Essere e dovere (41/0) - Alcune osserva- zioni intorno alla «
Metafisica » di Heidegger. PARTE QUINTA: GLOSSARIO DEI PRINCIPALI TERMINI
FILOSOFICI Questa quarta edizione di Introduzione alla filosofia esce
completamen- te rinnovata ed ampliata. Essa è stata anche aggiornata dal punto
di vi- sta didattico, secondo i criteri del Corso di storia della filosofia (in
tre volumi) dello stesso autore, divenendo così uno strumento vivo di ri- cerca
e di riflessione. Nella prima parte del volume sono trattati: il problema
logico, gnoseo- logico, epistemologico, linguistico, cosmologico,
antropologico, meta- fisico, religioso, etico, pedagogico, politico e sociale,
estetico, storico, culturale e assiologico (o dei valori). L'autore, noto
studioso di problemi di filosofia e chiaro divulgatore, illu- stra le origini e
gli sviluppi storici di ogni problema, le soluzioni pro- spettate dai vari
filosofi e, infine, il loro possibile sviluppo. Si tratta di «panoramiche
essenziali, introduzioni in parte informative ed in parte suggestive e
stimolanti ad uno studio più approfondito». Nella seconda parte vengono
presentati, nei loro aspetti fondamentali, i più importanti sistemi (o scuole)
filosofici. Di ogni sistema sono presen- tati: il fondatore, le dottrine
principali e i maggiori esponenti. Nella terza parte sono raccolte, in ordine
alfabetico, delle schede bio- bibliografiche che di ogni filosofo (dagli
antichi greci ai contemporanei) e scuola, informano sulla vita, sulle opere e,
per sommi capi, sul pen- siero. La quarta parte contiene una guida accurata e
critica alla lettura di ope- re fondamentali per la storia della filosofia:
Fedone di Platone; Discorso sul metodo di Cartesio; La missione del dotto di
Fichte, Manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels e
Introduzione alla metafisica di Martin Heidegger. Infine, una quinta parte
contiene un «glossario» dei principali termini fi- losofici. L'opera, data la
sua chiarezza espositiva, oltre che come moderno testo scolastico, è utile per
ogni persona di cultura che desidera approfondi- re la conoscenza della filosofia;
essa può essere consultata come una piccola enciclopedia filosofica. Questo
volume, sprovvisto del talloncino a fronte, è da considerarsi copia di SAGGIO-
OMAGGIO esente da |.V.A. (D.P.R. n. 24, art. 2 sub d) ed esonerato dalla Bolla
d'ac- compagnamento (D.P.R. 627, art. 4) e come tale non può essere messo in
commercio L. 25.000 ISBN 88-7030-801-4 ento (D.P.R. 627, art. 4) e come tale
non può essere messo in commercio L. 25.000 ISBN 88-7030-801-4 -- Battista
Mondin. Keywords. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Mondin” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Mondolfo: la ragione
conversazionale della filosofia romana – antica filosofia italica – filosofia
marchese -- la filosofia italiana – Luigi Speranza (Senigallia). Filosofo
italiano. Senigallia, Ancona, Marche. Grice: “Mondolfo is one of the few who
have focused on ‘gli eleati’ as involving a locus – pretty much as I do when I
talk of Oxonian dialectic.” Grice: “Mondolfo’s study of the politics of
Risorgimento is good; especially since every Englishman seemed to endorse it!”
-- essential Italian philosopher. Like Grice, Mondolfo believed seriously in
the longitudinal unity of philosophy and made original research on the
historiography of philosophy, especially during the Eleatic, Agrigento, and
later Roman periods. Figlio di Vito
Mondolfo e Gismonda Padovani, una famiglia benestante di commercianti. Aderisce
alle idee marxiste e socialiste. Studia a Firenze. Si laurea con F. Tocco,
discutendo una tesi su Condillac dal titolo: "Contributo alla storia della
teoria dell'associazione", un saggio da cui saranno poi tratti alcuni dei
suoi primi saggi di storia della filosofia. Frequenta un gruppo
socialista. Insegna a Potenza, Ferrara, Mantova, Padova, Torino, e Bologna. Consigliere
comunale nelle file del Partito Socialista. Collabora con la rivista
"Critica Sociale" fino a quando viene soppressa dal regime
fascista. Compone "Saggi per la storia della morale utilitaria"
di Hobbes ed Helvetius”; "Tra il diritto di natura e il comunismo", "Rousseau
nella formazione della coscienza moderna", "Il materialismo storico
in F. Engels" (Formiggimi, La Nuova Italia) "Sulle orme di Marx".
E tra i firmatari del manifesto degli
intellettuali anti-fascisti, redatto da Benedetto Croce. Si dedica alla
filosofia italica antica. Ciò nonostante, pur in questo periodo, grazie alla
politica di Gentile che volle coinvolgere filosofi di diverso orientamento
nell'impresa, collabora con l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Compone la
voce Socialismo. In seguito alle leggi razziali fasciste che vietavano agli
ebrei di ricoprire cariche pubbliche, Mondolfo scrisse il proprio curriculum di
benemerenze e vi inserì lo stesso Gentile come testimone il quale ha a propormi
per il Premio Reale di filosofia presso i lincei". Gentile autorizza
Mondolfo a citarlo tra i testimoni e tenta inutilmente di farlo ri-entrare tra
gli esclusi dalle leggi razziali. Costretto a lasciare l'Italia Gentile scrive
ad Alberini e lo aiuta a trovare lavoro in Argentina. Il suo archivio personale
è depositato in parte a Firenze presso la Fondazione di Studi Storici Filippo
Turati ed in parte presso Milano. Altre saggi: Sulle orme di Marx,” –
Grice: “Whitehead used to say that metaphysics has been but footnotes to Plato;
and Strawson used to say that to rob peter to pay paul you must show first that
pragmatics is but footnotes to Grice!” --
Grice: “But of course a footnote is not a footprint – only similar!” –
Grice: “While ‘footprint’ involves Roman pressum, ‘orma’ obviates that!”
-- Cappelli); “L'infinito nel pensiero
dei greci, Felice Le Monnier, La Nuova Italia); “Problemi e metodi di ricerca
nella storia della filosofia” (Zanichelli, La Nuova Italia, Firenze, Milano,
Bompiani, “Gli albori della filosofia in Grecia,” «La Nuova Italia», Editrice
Petite Plaisance, Pistoia,. La comprensione del soggetto umano nella cultura
antica, La Nuova Italia (Milano, Bompiani ). Alle origini della filosofia della
cultura, Il Mulino, “Il pensiero politico nel Risorgimento italiano,” Nuova
accademia, Cesare Beccaria, Nuova Accademia Editrice,. “Moralisti greci: la
coscienza morale da Omero a Epicuro,” Ricciardi, “Da Ardigò a Gramsci,” Nuova
Accademia, “Il concetto dell'uomo in Marx,” Città di Senigallia, “Momenti del
pensiero greco e cristiano,” Morano, “Umanismo di Marx. Studi filosofici,
Einaudi, “Il contributo di Spinoza alla concezione storicistica, Lacaita, Polis,
lavoro e tecnica, Feltrinelli, Educazione e socialismo, Lacaita, “Gli eleati,”
Bompiani,. Note Vedi Paolo Favilli, Dizionario Biografico degli Italiani,
riferimenti in. Fu una delle prime donne
italiane a conseguire la laurea (cfr. Le donne nell'Firenze). Sposò civilmente
a Firenze in Palazzo Vecchio Cesare Battisti. La sorella di Ernesta, Irene,
sposerà Giovanni Battista Trener, per anni collaboratore di Cesare. Amedeo Benedetti, L'Enciclopedia Italiana
Treccani e la sua biblioteca, "Biblioteche Oggi", Milano, Enciclopedia
Treccani, vedi alla voce futuro di Cesare Medail, Corriere della Sera, Archivio
storico. «SOCIALISMO» la voce nella
Enciclopedia Italiana, Volume XXXI, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana; Paolo
Simoncelli41. Paolo Simoncelli42.
Paolo Simoncelli43. Vedi Fabio Frosini, Il contributo italiano
alla storia del PensieroFilosofia, riferimenti in. Archivio, Inventari Stefano Vitali e Piero
Giordanetti. Ministero per i beni culturali e ambientali. Ufficio Centrale per
i beni archivistici. Archivio Rodolfo
Mondolfo. Inventari, Stefano Vitali e Piero Giordanetti, Roma, Ministero per i
beni culturali e ambientali. Ufficio Centrale per i beni archivistici, Paolo
Simoncelli "Non credo neanch'io alla razza" Gentile e i colleghi
ebrei, Le Lettere, Firenze, L. Vernetti,
R. Mondolfo e la filosofia della prassi, Morano, E. Bassi, Rodolfo Mondolfo nella vita e nel
pensiero socialista, Tamari); A. Santucci, Pensiero antico e pensiero moderno
in Mondolfo, Cappelli, Bologna); Bobbio, Umanesimo di Rodolfo Mondolfo, in
Maestri e compagni, Passigli Editore, Firenze 1984. M. Pasquini, Del Vecchio,
il kantismo giuridico e la sua incidenza nell'elaborazione di Rodolfo Mondolfo
(Alfagrafica, Città di Castello); C. Calabrò, Il socialismo mite: tra marxismo
e democrazia, Polistampa, Firenze); E. Amalfitano, Dalla parte dell'essere
umano. Il socialismo di Rodolfo Mondolfo, L'asino d'oro, Roma. TreccaniEnciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo
Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.
Opere su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere Fabio Frosini,
MONDOLFO, Rodolfo, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero:
Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Vita opere e pensiero Diego
Fusaro, sito "filosofico.net". Fondo Rodolfo Mondolfo Università
degli Studi di Milano. Biblioteca di Filosofia. Fondo Rodolfo Mondolfo
Fondazione di Studi Storici Filippo Turati. Italiani emigrati in Argentina – Antica
filosofia italica. La filosofia italica sin dai tempi antichi era cosi deita, e
quel che più monta, dai Greci stessi, e l'autorità non sospetta di un Platone e
di un Aristotele, che non la chiamarono con altro nome, ci sembra dar peso alle
ragioni di quanti la vogliono originaria, contro l'opposta opinione di chi tra
noi la dice portata dalle colonie greche. Comunque sia, certo è che in questa
seconda supposizione, l'Italia non perde tutto il suomerito, perchè la scienza
quisorse più splendida mercè il concorso del genio e il sussidio delle tradizioni
italiane. Le scuole di cui essa può menar vanto sono due, la di
Crotone/Ponto/Taranto e la dei velini. La setta di Crotone e fondata da
Pitagora, di cui si tiene incerta così l'origine come iltempo della nascita;
l'origine, perchè è dubbio s'ei nascesse à Samo della Ionia od a Samo della
Magna Grecia; il tempo, perchè chi lo vuol nato nell'anno 584 av. C.,chi nel
608,e chi ancor prima, ai tempi di Numa, il quale, come ciè noto, mori nel 672,
dopo quarantatrè anni di regno. Tra i filosofi che vi appartennero, chiamati
ancor essi pitagorici, con un ARCHITA di TARANTO (il più celebre di tutti), che
capitana più volte gl’eserciti, e non fu mai sconfitto, si ricordano un FILOLAO,
probabilmente di Crotone, un TIMEO di LOCRI, ed un OCELLO di LUCANIA. Taciamo i
minori o dimen nota dottrina, come LISIDE, CLINIA, EURITE, ZELEUCO, e CARONDA
-- i quali due ullimi, legislatori entrambi, di Locri l'uno, l'altro di CATANIA,
insigni rese l'efficacia che, per loro opera specialmente, ha allora la
filosofia negl’ordini civili, quando, mutata la forma, i governi regi si
convertirono in popolari. La setta di CROTONE ha vita dal bisogno di una
scienza, che, professata da uomini austeri e ornati di grandi virtû, e con
giunta all'operosità civile -- in ciò la consorteria pitagorica, chè tale fu
veramente, distinguesi dalle indiane -- serve di criterio per una riforma
riconosciuta necessaria in mezzo al guasto ognor crescente della religione, dei
costumi e della libertà; lo che ci spiega le persecuzioni a cui andò soggetto.
Scuola pitagorica. -Nuovo affatto è nella scienza il metodo recatovi dai CROTONESI.
Questo metodo -- e lo stesso dicasi del linguaggio -- è il matematico; il quale consiste
nell'applicare le idee di quantità alla natura interna ed esterna, ed al
principio sommo della medesima; metodo che, tutto essendo nel mondo capace di
numero e di misura, non sarebbe forse tanto strano quanto a prima vista appare,
se non fosse che i Crotonesi all'esperienza, che la verità ci rivela nell'ordine
dei contingenti, il più delle volte preferirono il ragionamento a priori, error
palese a chi consideri che dal concetto, per esempio, di circolo, di triangolo,
di pentagono, non si può argomentare che questi tipi si effettuino in natura, e
chi lo fa si espone al pericolo manifesto di costruire da sè un mondo
fantastico, un mondo che non esiste fuori della sua mente. Ma i crotonesi sono
educati allo studio delle matematiche; perciò non è meraviglia cheil metodo di
queste scienze trasportassero nelle regioni della filosofia. Il gran problema
metafisico dei CROTONESI riducesi adunque al seguente: trovare la legge mentale
della quantità effettuate nella realtà, e con queste salire alla prima cagione.
Ed ecco perchè tutto è numero nel loro sistema. I principi delle cose sono i
numeri. Un numero, una unità parziale è ogni cosa. Un numero, una unità
generale il loro complesso, cio è l'universo o mondo, il quale comprendendo in
sè tutti i numeri od unità parziali, à in sè la pienezza d'ogni grado di
entità, epperciò è decade; e la prima cagione, il principio di tutti iprincipi
delle cose, la causa che ad ogni altra causa antecede, è numero essa pure, ma
il numero per antonomasia, e quindi può chiamarsi l'unità, la diade, la triade,
il quadernario (o solido), il settenario e la decade. Ma lasciamo da banda
questo gergo simbolico, e vediamo che di sostanziale si peschi in fondo alla
dottrina dei Crotonesi, e come s'abbia a intendere la sua formula. Ogni cosa è
un numero. Che cosa è il numero per eccellenza, la Monade somma, infinita, il divino
dei Crotonesi? E che sarà l'essere individuo? Che cosa il mondo od universo? Il
divino èl'ente che in sè contiene la propria essenza e quella di tutti gl’esseri,
epperò tutti i contrari, cioè le cose più opposte e disparate (inito ed
infinito, dispari e pari, uno e più, positivo e negativo, quiete e moto, luce e
tenebre, bene e male, ecc.), ed inoltre la moltiplicità loro insieme concilia,
risultandone una suprema unità, un'armonia universale. Il divino, insomma, è
l'unità suprema di tutti icontrari. Le cose particolari, gl’esseri derivati da lei
sono immagini sue, epperò consteranno anch'esse di elementi contrari, a unità
ed armonia ridotti; dunque ogni essere è un numero ed armonia parziale. Poni
assieme tutti questi numeri, tutti gl’esseri finiti, e in modo che i contrary non
cozzino, ma formino un solo numero , una sola unità vastissima, immagine
essa pure della monade divina. Tale il mondo od universo dei crotonesi, il
quale e l'assieme dei contrari, non già nell'unità somma inesistenti, ma in
atto e dal divino ridotti ad armonia. Ora, in qual modo la generalità dei
contrari, cioè la decade, il mondo in esi steva nell'unità per eccellenza, nel
divino? Qui crotenesi tacciono, di modo che nulla di positivo e certo può
rilevarsi dalla loro dottrina. Bensi e'ci apprendono come l'universo o mondo si
venisse formando per ispirazione od aspirazione.La monade universale e suprema,
contenente in sè le unità particolari, da principio e una, continua, indivisa,
ma non indivisibile, e da ogni parte circondata da un vuoto immenso; il quale, aspirato
da essa,come l'aria entra nei polmoni, si introduce fra i contrari,ossia fra le
monadi particolari, e cosi separandoli, individuolli, e produsse la grande
moltiplicità delle cose mondiali. La formola esprimente l'armonia universale
(tuttoènumero) per la scuola pitagorica può dirsi il principio di tutta la filo
sofia, dappoichè essa l'applicò in tutti tre gl’ordini --metafisico, logico e
morale. Che cosa è l'anima umana , la quale, dice Filolao, giace nel corpo come
in un sepolcro? Risponde il crotonesi: un numero, un'armonia, insieme
conciliando essa due contrari, cioè i sensi e la ragione, che sono ilnegativo
ed il positivo, l'irragionevole ed il ragionevole. E la verità, la co gnizione
che cosa è mai ? Un numero, un'armonia, come fuor dell'armonia è l'errore,
essendo che per l'acquisto della medesima cooperano gli stessi contrari,
quantunque la ragione si spinga più oltre dei sensi, i quali non escono dalla
sfera dei contingenti o fenomeni. E che sarà, infine, la virtù? Un numero,
un'armonia, che risulia anch'essa dall'accordo dell'irragionevole col
ragionevole, essendo la virtù riposta nella soggezione dei sensi all'impero
della ragione, toltalaquale, all'armonia sotten traladisarmonia, alla virtû il vizio.
Vadasè che la virtù ci rimena alla monade suprema, all'ordine od armonia
universale, che d'ogni essere è principio e fine. Critica. Bene esaminando la
dottrina dei crotonesi, si scuopre nella medesima un error capitale, che à per
sorgente l'abuso del metodo trascendentale, come quello che li condusse a
trasportare nell'ordine delle realtà le astrazioni della matematica, e a
concepir il divino quasi unità generica o numero per eccellenza, che è come
dire quale un'essenza in cui si contengono e si immedesimano le cose tutte quante.
Nè a salvarli dal panteismo implicito bastano le alte verità frammischiatevi, eladichia Senofane,
schernitore dei politeisti, i qualiammettono più dei, e degli antropomorfisti,
che li fingono a loro immagine e somiglianza, insegna che il divino è
potentissimo, uno ed eterno; potentissimo, perchè egli è l'ente (entità, forza,
energia e potenza per la scuola italica sono termini sinonimi). Uno, perchè,
tra più dèi uguali, nessuno è potentissimo per l'uguaglianza, e se inferiori,
nessuno è potentissimo per inforiorità; eterno, perchè l'ente non può non
essere, e il non ente non può divenire. Si fosse egli qui arrestato! ma fra gli
altributi divini ne annovera un quinto, dal quale poi con falsa logica deduce
una (1) Colonia ionica di Elea. (2) Velia ha un'altra scuola, fondatavi da
Leucippo e Democrito, i quali spiegavano la formazione del mondo con ammettere
nel vacuo immenso una infinità di atomi eterni, il cui fortuito accozzamento
avrebbe dato origine a tutte cose (atomismo). Questa scuola,chiamata fisica,non
siconfonda coll'eleaticasemplicemente detta, e denominata anche metafisica per
distinzione. Uno razione di Filolao, Dio essere imperatore e duce sommo,
ed eterno, potentissimo, supremo e diverso dalle altre cose; per chè d'uopo è
che accetti le conseguenze chi non rinunzia al l'erroneità dei principi. E
l’erroneità del principio pitagorico sta appunto nel far di Dio un tutto, un
numero che comprende in sè ogni altro numero. « Il sentimento religioso e
morale, scri ve il dottissimo Bertini (Idea d'una filosofia della vita) induce
va i Pitagorici a collocare Dio molto al dissopra del mondo;ma il fato della
logica li forzava sovente ad immedesimarli in una sola sostanza, e ricacciavali
nel panteismo ». La scuola eleatica ebbe tal nome da quello della città dove
sorse, poco dopo la di Crotone, per opera di Senofane, che, nato a Colofone
della Ionia tardi migra di là per l'invasione della patria,e venuto nella Magna
Grecia, prenfr stanza in Velia, e vi morì nella grave età di oltre a cent'an
ni.- SenofaneebbediscepoloParmenide,eParmenideZenone, buon patriota, che,
condannato a morte da un tiranno, corag giosamente sostenne ilsupplizio.Questi
due,d'Elea entrambi, con Melisso di Samo, il quale capitano gl’Italioti contro
Pericle, continuarono la dottrina del primo, e vi dettero forma più rigorosa,
se non incremento. D'altri nomi più famosi non la menzione la storia della
filosofia eleatica. Una dottrina si ripugnante al senso comune non poteva
menarsi per buona; perciò si levarono a impugnarla e combat terla gli
empiristi, o fautori del metodo a posteriori, sostenendo contro gli Eleati
el'esistenza reale di sostanze finite, e la loro contingenza e varietà, e la mutabilità
loro, attestata dall'evidenza dei fatti. Zenone, quel valente Zenone che
Aristotele riconobbe quale inventore della dialettica -- scienza ed arte di
ragionare e disputare -- come lo fu senza dubbio tra gli Occidentali, a sua
volta non lascia senza difesa la filosofia della sua scuola e del suo maestro, anzi
incalzò gliavversari con molta lena e con buona copia d'argomenti diretti a
dimostrare, per una parte la fallacia dei sensi e l'autonomia della ragione,
per l'altra, e con sofismi ad homincm , che l'empirismo, ilquale all'autorità
della ragione oppone quella dei sensi, contiene in sè contraddizioni ben più
gravi di quelle che si dicevano implicite nella metafisica eleatica. Ed allora,
se la memoria non ci falla, sorse la prima delle po lemiche che, per la loro
importanza, ànno meritato una pagina nella storia della scienza. ~ Famoso
argomento di Zenone deyto l'Achille. strana conseguenza: l'ente è tutto
od intiero, epperò nulla a lui può aggiugnersi; donde segue che nulla può
incominciare ad essere.Qui l'error di illazione, il sofisma del conseguente è
manifesto; quanto viene all'esistenza è forse un che d'aggiunto
all'infinitudine divina? D'altronde, se nulla può nascere o di venire, che
pensare degli esseri contingenti e mutabili, cosi detti perchè nei vari momenti
del tempo sono e non sono, e mutano continuamente ? Senofane se la spicciò
nettamente con negare a dirittura l'esistenza delle sostanze finite, e
sentenziò: « Tali cose non ànno altra vita fuorchè l'apparenza, ed appartengono
all'opinione. O che! sarà dunque menzognera sempre la voce dei sensi ? E ci
ingannerà di continuo l'intimo sentimento ? Che si, rispondono in coro gli
Eleati , quanto ci rilevano i sensi altro non è che illusione; e la ragione è
il mezzo unico per giungere al vero; e il vero è che tutto è uno, e l'uno è
tuito. Critica. Ma l’arte dei Zenoni, che con sofismi strani pro pugnano la
falsità del vero, e quel che è più, l'incertezza del l'evidente, e, prova non
dubbia di grande acume, perfin riesco no a dimostrare, contro la possibilità
del moto, che nella più rapida sua corsa il più celere cavallo non raggiungerà
mai una tartaruga,quantochè tardissima, la quale anche di poco la preceda,
tutta l'arte dialettica, ripeto, non sarà mai da tanto che possa collocare
sopra una base solida isistemi della scuola Filosofia presso i
Greci antichi. Principio, mezzo e fine; infanzia,virilità e decrepitezza, o
decadimento, ecco i tre stadi o periodi, le tre età dell'antica fi losofia
greca. Tra il principio e la fine corrono ben sette secoli, all'incirca; ma noi
li percorreremo in minor tempo, se non ci manchi lena. da l'alete a Socrate. La
prima età della filosofia greca antica incomincia con Talete, e termina al
comparire della filosofia socratica. Talete, già è delio, nacque 600 anni av.
C. e Socrate nel 170 ; qui dunque abbiamo press'a poco un periodo di centotrenť
anni, durante i quali sorsero due scuole, la ionica e la sofistica; le quali,
aggiunte alla pitagorica ed all'eleatica, ci dànno in com plesso l'antica
filosofia designata col nome di italo-greca. Scuola ionica. Fondata in Mileto
della Ionia, sua patria, da Talete,primo tra i filosofi greci conosciuti, ma
forse non tale veramente, que sta scuola è, come vedremo, la men filosofica di
tutte le pre cedenti. Nè la ragione è difficile a comprendersi da chi sappia
che la scienza ebbe allor contrari i voluttuosi costumi e la ser vitù di quelle
cit tà, soggette ai Lidi ed ai Persiani, e che , a giudicarnedalsilenzioe dai pochi
cenni della storia, coloroi quali la professavano erano ben lontani dalle virtù
che adorna vano i pitagorici; virtù che col venir meno a poco a poco,
pois cleatica; e sono tre: l'idealismo logico, perchè si nega l'au torità
dei sensi, per riconoscere soltanto quella della ragione; l'idealismo
metafisico, perchè si esclude la materialità, ilmolte plice ed ogni mutamento;
e, conseguenza di ciò, ilpanteismo, che ammette la sola esistenza dell'ente
immutabile ed eterno, e cosi rimuove ogni concetto di creazione. Il primo
nacque colla scuola pitagorica,mada Senofane fu recatoasistema ;ilsecon do
venne accolto dagli Eleati per evitare le contraddizioni della medesima, che
nell'uno identificava le cose più opposte; il terzo sidirebbe comune alle due
scuole,se non fosse che nell'eleatica si lasciò da banda la parte corporea e
mutabile, e così si riusci a un panteismo parziale, al panteismo idealistico. Grice:
You have to love Mondolfo. As a Jew he was into Sartre’s existentialism, and
the rest of it – when Gentile inhibited Jews from teaching Italians, M. had to
stream his energy into the study of ‘antica filosofia italica’! for our glory!”
-- o ABBAHU di Cesarea Rabbi Abraham educazione, in Filone) Achei
Acheronte Acherusia, vedi Acheronte Achille Adamo Adamson Ade AEZIO Africa,
africani Afrodite Agamennone ACATARCO AGATONE Agostino agostiniana corrente
filosofia Aiace Albertelli ALCEO Alcibiade ALCMEONE ALESSANDRINA FILOSOFIA ALESSANDRINI
MATEMATICI Alessandro, vedi Paride. ALESSANDRO Afrodisia
Alessandro Magno ALESSIDE Alfieri Altamura Ambrogio Amerio Amicizia Amleto Amore
ANACARSI di Scizia ANACREONTE Ananke ANASSACORA DISCEPOLI di - ANASSIMANDRO
ANASSIMENE Anfione Anima universale Anselmo ANTICHI POETI E SAGGI ANTICHITÀ CLASSICA
antica scienza, cultura, antico spirito, pensiero, etc. ANTICO TESTAMENTO
ANTIFANE ANTIFONTE Antigone ANTIcoNo di Caristo ANTISTENE Apatia stoica
Apocalissi di Pietro Apollo Apollo Lairberos (santuario di) Aquitania
ARCAICo pensiero ARCESILAO ARCHELAO ARCHILOCO ARCHIMEDE ARCHITA Ardizzoni
AREIOs DIDYMOS Areopago Aridea, vedi Thespesio. ARISTARCO ARISTIPPO ARISTOCLE
ARISTOFANE ARISTOSSENO ARISTOTELE Armstrong Arnauld Arnim ARTE Artemide ASCLEPIO commentatore di Aristotele
Asclepio (dio) Asia minore Asiatico principio AssIoco Atarassia epicurea Atargatis (dea) Ate Atena
Atene, ateniesi ATENIONE di Atene ATOMISMO, ATOMISTI Atreo Atride Augusto
Aulide Aymard Baccanti Вассо Bacone Bacone Baeumker Bailey Baius Barbari del
nord Barth BASILICA PITACORICA della Porta Maggiore a Roma Battaglia F.
Bauch B. Beare Becker 0. Behaviourismo
Bello Bene Bergk Berkeley BIANTE BIBLICA tradizione Bignone Bill A. Billeter
Binder Blanchet Blankert Blondel Boas Lovejoy Boemia Bolland Bossuet Bovis Bréhier
Breier Brochard Brune Buccellato Buonaiuti Burnet Bywater CARNEADE CARONDA
Carteron H. Cartesio, cartesiano Cassandra Cataudella Cattolicesimo
Cattolici filosofi, storici Cefalo CELSO CENSORINO Centimani Ceramone
Cerbero Cesarea Charisio Charu Cherecrate CHEREMONE Cherniss Chimera Chronos
Ciaceri Cibele CICERONE, ciceroniano Ciclopi Caino Cairo Calcidio Callahan CALLICLE
CALLIPPO Calogero Calvino Cameron A. Campanella Campidoglio Canosa Cantarella
Carcopino Carlini Cilento Cilonidi CINICI CIRENAICI Classicista concezione
CLASSICO spirito, mondo, CA cultura Claudio CLEANTE CLEIDEMO CLEMENTE
alessandrino Clitennestra Clodd Cohn CoLòTE di Lampsaco Colchide Combarieu
COMMEDIA DI MEZZO COMMENTATORI DI ARISTOTELE Comparetti Comte Condillac
E. B. de CoNoNE di Samo Contese Croiset Croce Cusano Cypselo arca di
Dahlmann Daimon Dal Pra M. DAMONE Danaidi Dante Dardania, Dardano Daremberg Ch.
e Saglio E. Dario Dedalo Controriforma Copernico Coribanti Corinto, corinzi
Conford CORPUs HIPPOCRATICUM COSMOLOGHI (primi) Couissin Cousin Covotti CRATETE
CRATILO Credaro Creso Creta Crimine oggettivo CRISIPPO Cristianesimo, cristiano
spirito, pensiero, cristiana era, na, filosofia, etc. Cristo CRITIA
Criticismo kantiano Critone Ctesibio Delatte DELFICA religione, DELFICO
«ePto, le a Delfi Del Grande Del Re R. Delvaille Demetra DEMETRIo cinico
DEMETRIO LACONE DEMOCRITO DEMOCRITEA tradizione DEMOCRITEO-ARISTOTELICA
stinzione di Demoni del cristianesimo 401. DEMOSTENE Deonna W., vedi De
Ridder A. Derenne De Ridder A. e Deonna Derketo Ruggiero Descartes,
vedi Destino De Strycker Deucalione Dewey Dialettica moderna Diano
DICEARCO Diderot Diela Diels Diès Dieterich Dike Diller Dimenticanza Dio natura
persona DIODORO CRONO DIODORO SICULO DIOGENE di Enoanda DIOGENE DIOCENE LAERZIO Dione DIONE CRISOSTOMO
DIONISIACO culto, spirito Dioniso Discordia Discorsi menzogneri Aiacol Royor
Divinazione Doering Dornseiff Fr. Dostoiewski DRACONE 430. Ducati Dümmler
Dupréel EBRAICO-CRISTIANE eredenze, reli- gione, tradizione EBRAISMo,
ebrei EBRAICA religione EBRAICHE suggestioni ed ispirazioni EBRAICE elementi
Ecabe Ecate EcATEo d'Abdera EcATEo di Mileto Eden Edipo Efesto EcESIA di Cirene
Egisto Egitto Egizi EGIZIANO tradizionalismo ELEATI, ELEATISMO, scuola,
dottrina Elena Elettra Eleusi Eleutherna
ELLENICO genio, spirito, pensiero, etc. ELLENISMO ELLENISTICA eredità
ELLENISTICA ROMANA filosofia 2ELVIDIO PRISCO EMPEDOCLE, EMPIRISTICHE correnti
Empusa Endimione Enea ENESIDEMO Enoanda
Enoch pentimento, in Filone Enos speranza, in Filone Enriques
EPICARMICO principio EPICUREI, EPICUREISMO EPICURO Epidamno Epifanio EPIMENIDE
Epimeteo EPITTETO Erarmeno (mito di) Era Eracle ERACLIDE PONTICO ERACLITO
FRACLITEA dottrina esigenza proposizione ERACLITISMO BRASISTRATO BRATOSTENE
Brinni ERMIPPO ERMOTIMO Ernout Erodico di Selimbria ERODOTO ERoFILo di
Calcedone Eros Esaminatore interno (elenchos) ESCHILO ESCHINE Esculapio
ESICHIO EsIoDo ESIODEO principio Espero Età post-omerica Eteocle ETICA ANTICA, CLASSICA cristiana e moderna
GRECA morale moderna STOICA Etiopi Ettore Eucken EUDEMO EuDosso Eumenidi Eumeo
Euromo di Polignoto EURIPIDE Euristeo Eusebio Eva Evangeli evangelico
messaggio Fabre Falaride, toro di, Farrington B. Fatica Fato Fedra
FERECRATE Festa Festugiere Feuerbach Fichte Ficino Fidia Fiere FILEMONE FILISCO
Fränkel Frazer Friedländer Frigia Frinide Furie GALENO Galileo Callavotti
Gallia Ganter 201. Gassendi Gea Geffcken Geiger GELLIO AULO Gelosia degli
dei Genius malignus di Cartesio Gentile GEREMIA Germani Сет FILODEMO FILOLAO
FILONE FILONIANO testo Filoponia FILOSOFIA NATURALISTICA (ionica)
FILOSOFIA OCCETTIVISTICA FILOSOFIA PRESOCRATICA FILOSSENO FILOSTRATO FISICI
ANTICHI Fitzralph Flegias Flint FoCILIDE Fougères Frank Gerusalemme GesÚ figlio
di Sirach GIAMBLICO Giansenio Gige, anello di, Gigon Gileon GIMNOSOFISTI
indiani GIoBBE Giovanni di Rodington GIOVANNI FILOPONO Giove GIOVENALE
GIUDAISMO, giudaica chiesa, etc. Giuliano imperatore Giuliano di Eclano
pelagiano Giussani Glaser Glauco di Chio Glotz GNoMIcI poeti CNOMICA saggezza
GNOSEOLOGIA ANTICA GRECA medievale NEOPLATONICA Goedeckemeyer Gomar Gomperz
Gomperz Goodenough GORCIA Gorgoni Gottschalk Grande Anno GRECA morale
GRECA tragedia, vedi TRAGEDIA. GRECI, greco pensiero, popolo, spirito,
etc.; greca anima, arte, cultura, filosofia, etc. Grecia Greene Grilli
Grousset Guthrie Guyau Halbfass Harnack Hegel Heidel W. A. Heinemann Heinze
Henz Herbertz Herder Hermann Hermes Hildebrand Himeros Hirzel Hobbes Hoffmann Howald E. Hume Hus Huyghens
Hybris Ida Idealismo assoluto cristiano GRECO postkantiano Idealisti Idra
IEROCLE Ifigenia Ilio ILLUMINISMO, ILLUMINISTI, etc. Musionismo Indiani Inferi
(Enfers) Inganno Inge Innocenzo III
Intelletto Invidia degli dei Lo Ionia, ionico mondo, ionica civil- ta,
etc. JONICA poesia IONICI poeti IONICI Glosofi IONICA filosofia scienza
Ipermestra IPPIA (sofista) IPPOCRATE,
IPPOCRATICI, ippocrati- ci scritti, trattati, Ippolito Ippolito Iris Isaac (= natura, in Filone) Isaac (Abn
Jacob Jsaac?) ISAIA Isdoso scolastico Isis isiaco culto ISOcRATE, pseudo Issione
Jaeger Jago Jacob ascetismo e perfezione, in Filone Janet Jardé Jehova Jeat Kaibel Kant Kêr, Kêres Kern
Kierkegaard Kirk Kitto Kleingünther Klimke
Kock Kranz Krokiewicz Kronos Laas Laberthonnière Labriola Lachesi
Lachete Laconia Laio Lamennais Lamenti Laminette auree Lana Langerbeck Latini
Lattanzio Latzarus Laurent Lavagnini Leibniz Leonardo da Vinci Leone Ebreo
Leonte di Salamina Leonzio Leroux Lesky LeuCIPPO Levi Levi Lévy-Bruhl Licurgo
Lidia, Lidi Liénard E. IONICO-EOLICA
LISIA Locke Lodge LOGICA ANTICA Logos divino Loisy Losacco Lotte Lovejoy
LUCIANO Lucido Lucifero Lucilio LUCREZIO Lugdunum (Lione) Luria Lusitania Lutero
Maddalena Magalhães Vilhena Y. De Magia Maieutica Maier Malcovati Mancini
Manetti MANICHEISMO Marbach Marchesi Marchesini MARCO AURELIO Mario Vittorino
Marouzeau Marsia Martin Martinazzoli Marx MASSIMO TIRIO Mazziotti M., vedi
Enriques F. Meautis MEDICI EMPIRICI O METODICI IPPOCRATICI mediche
scuole Medievale gnoseologia, scienza, filosofia, teologia — coscienza Medio
Evo MECARICA teoria MECARICI Meineke MELIsso di Samo MENANDRO Menelao Menzel
MENONE Mercier Messaggio evangelico, ellenizza- zione del METRODoRo di
Chio Milesi Mill Milton Minucio MISTICA, MISTICA soggettività,
MI-CORRENTI, CRECO (medievale)
MITOLOGIA ANTROPOMORFICA CRECA, mitologiche rappresentazioni OMERICO-ESIODEA
Mitre Modernismo Moderni, moderno spirito, pen- cultura, hlosofia,
sia, etc. Ix, Moeller Moira Momigliano Mondo classico cristiano
greco precristiano ionico arcaico orientale, greco, romano, germanico M. A. M. vedi
Zel-Monoteismo cristiano e greco MORALISTI GRECI Morrison MOSCHIONE Mose
Mullach Murray MUSoNIo RUFo 5Nardi Natorp NATURALISMO PRESOCRATICO, NATURALISTI
PRESOCRATICI Nauck Nausicaa Neikos Nekyia omerica Nenci NEOACCADEMICI
Neohegeliani NEOPITAGORICI NEOPLATONICI, NEOPLATONISMO, NEOPLATONICA teoria,
etc. Nestle Nestore Newmann Nicia di Atene Nietzsche Noè (- giustizia, in Filone) Norden NUMENIO
Nuovo Testamento Occhio di Zeus Occhio vendicatore degli dei Oceanidi
OCCETTIVISMO ANTICO Olimpica religione Olimpo, olimpici dei Olimpo
Olivieri OMERO OMERICHE concezioni Ontologica prova ontologico argomento ORACOLO
DELFICO, lemma dell', vedi DELFico precetto. Oratorio ORAZIO Oreste
Orfeo ORFICI, ORFICO misticismo, religione, etc oRFISMO Oriente,
orientali Origene Otium Otto OVIDIO Pacioli PAGANESIMO, PAGANI FILOSOFI,
etc. Palamede Pan PANEZIO Paolo Paratore Parche Paride PARMENIDE DISCEPOLI
di parmenideo ente mondo parmenidea Pascal Pascal Pasquali Patristica
patristica eredità Pearson Peipers Pelagio, pelagianismo Pelasgo
Pelope Penía Pericle PERIPATETICI, PERIPATETICA teo-ria, etc. Пері téXvNS
Perrotta Perse Persiani Pesce Petelia Petersen Petrarca Pettazzoni Philippson
Piat Pico della Mirandola Pieper Pilade
PINDARO Piriflegetonte PIRRONE PITAGORA PITAGORICI, PITACORISMO, etc.
Pittura greca etrusca PLATONE PLATONICO mito PLATONISMO PLAUTO Pleiadi PLINIO
PLOTINO PLUTARCO POETI COMICI TEOCONICI TRAGICI Pohlenz PoLIBIO Policleto
POLICRATE Polignoto di Taso Polinice POLITEISMO PoLo Poppe PORFIRIO Puech Póros
Porzig Posidone PoSIDONIO POSTARISTOTELICA epoca, filosofia, etc.,
POSTARISTOTELICI FILOSOFI Praechter K.,
vedi Ueberweg Pragmatismo, pragmatisti Predestinaziani 424. Positivismo,
positivisti 29, 578. PRESOCRATICI FILOSOFI, NATURALI-STI, etc.,
PRESOCRATICA filosofia Priamo PRIMI FILOSOFI Primitivi popoli PROCLO
PRODICO Prometeo PROTAGORA PROTAGORISMO Protestanti, protestantesimo
protestante storiografia Provvidenza PSICOLOGIA « behaviourista», del
comportamento platonica Radamanto Radermacher RAFFINATI del Teeteto Ragione
divina Regenbogen Regnum hominis Reinach Reinhardt Reminiscenza platonica
ReyRinascimento rinascimentale distinzione rivoluzione
rinascimentali celebrazioni — innovatori scrittori Ritter
Rivelazione Rivaud Robin Rohde Roma Romanticismo Rosmini Ross Rossi Rosei
Rostagni Rousseau Rudberg Ruvo Saffo Saglio E., vedi Daremberg Ch. Saitta
SALLUSTIO SALOMONE Satana Saturnia età Saturno SCETTICI, SCETTICISMO SCETTICA
critica Schaerer Schiller Schleiermacher Schmid Schuhl Sciacca Scilla Seiti
Scolastica, etc. Scrittura, Scritture Sacre Segni indicativi, teoria dei, Segni
memorativi, utilizzazione dei SENECA SENOFANE SENOFONTE Senso comune
aristotelico Senso interiore agostiniano Serse Sertillanges SESTIO,
SESTIL, scuola dei EMPIRICO Sette savi Shakespeare Shorey Sibari
Sibilla SIMONIDE di Ceo SIMPLICIO SINESIO Siri Sisifo Snell SOCRATE SOCRATICA
esigenza esperienza
predica
SOCRATICI, SOCRATISMO Sofferenze 86. SOFISTI, SOFISTICA SOFOCLE
Sofronisco Soggettivismo cristiano-moderno Sogni Solari Soliman SOLONE Sorley
Sparta Spencer Spengel Spengler SPEUSIPPO Spinoza Spirito classico antico cristiano moderno
greco classico Spiritualisti cristiani, spiritualismo cristiano Stefanini
TEOCONIE, TEOGONICI POETI Teologi di Oxford Teone Stein Stenzel Stige STILPONE
SToBEo STOICI, STOICISMO, etc. Sroic, HOMAN Storicismo, storicistica concezione
Stragi STRATONE di Lampsaco Strycker TALETE Tannery Tantalo Tarozzi Tartaro
tartareo abisso Tatto interno Taylor Tebe Teeteto Teggart Temesa TEMISTIO Tempo
Tenebre TEODETTE TeodoretoTeodoro di Beza TEOFRASTO TEOGNIDE TERENZIO Тевео Thamus
Thaumante Theiler Thespesio Theuth Thurii Tieste Tifeo Tifone Tilgher TIMEO
TIMONE TIMOTEO Tindaro Tiresia Tiro TISIA Titani Titano Tizio Tommaso Tomismo,
etc. Traci TRADIZIONE DEMOCRITEO-EPICUREA Traducianismo TRAGEDIA TRAGICI
POETI TRASIMACO Traversari Treves Trieber Troia, troiani Tuchulca TUCIDIDE Türk
Tylor Tzetzes Uccisioni Ueberweg Ulisse 4Uno Untersteiner Usener Uxkull Vaihinger
Weil Wendland Wilamowitz Windelband Wundt Wycliffe algimigli Vangelo Vangelo
Vaso arcaico di Palermo Vespasiano Vico Vidari Vlastos Walzer Wehrli
Zafiropulo ZALEUCO ZARATHUSTRA ZENONE
ZENONE Zeller. L'eredità in T. Tasso, in «Archivio di psichiatria, scienze
penali ed antropologia criminale», Torino, Memoria e associazione nella scuola
cartesiana (Cartesio, Malebranche, Spinoza), con appendice per la storia
dell'inconscio, M. Ricci, Firenze. Per le relazioni fra genialità e degenerazione:
Guerrazzi, in «Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropologia
criminale», Torino, Spazio e tempo nella psicologia di Condillac, in «Rivista
filosofica», Pavia, Scienza e opinioni di B. Varisco, in «Scienza
sociale», Palermo, Uno psicologo associazionista: E. B. de Condillac, R.
Sandron, Palermo. In esso viene riportato anche lo scritto sullo spazio e
il tempo in Condillac precedentemente citato Il concetto di bene e la
psicologia dei sentimenti in Hobbes, in «Rivista di filosofia e scienze
affini», Bologna, L'educazione secondo il Romagnosi, in «Rivista filosofica»,
Pavia, Ora anche in Tra teoria sociale e filosofia politica. Rodolfo Mondolfo
interprete della coscienza moderna. Scritti a cura di R. Medici, CLUEB,
Bologna Ancora a proposito di refezione scolastica: il pensiero di Romagnosi,
in «Critica Sociale», Milano, Saggi per la storia morale utilitaria: I - La morale
di Hobbes, Drucker, Padova Saggi per la storia morale utilitaria: II - Le
teorie morali e politiche di Helvétius, Drucker, Padova La politica degli
insegnanti, in «Critica Sociale», Milano, Il dubbio metodico e la storia della
filosofia, Prolusione a un corso di storia della filosofia nell'Università di
Padova, con appendice storico-critica, Drucker, Padova. Per una filosofia naturale, in «Rivista
di filosofia e scienze affini», Bologna, Recensione a G. Marchesini, La
funzione dell'anima, Laterza, Bari 1905, in «Critica Sociale», Milano,
L'insegnamento liceale della filosofia. Considerazioni pratiche, in «Rivista di
filosofia e scienze affini», Bologna L'insegnamento della filosofia nei licei e la riforma
della scuola media al congresso di Milano, in «Rivista di filosofia e scienze
affini», Bologna, Per la riforma della scuola media: la scuola unica, in
«Critica Sociale», Milano, Anche in Educazione e socialismo. Scritti sulla
riforma scolastica (dagli inizi del 900 alla Riforma Gentile), a cura di T.
Pironi, Laicata, Manduria Ancora per la riforma della scuola media: polemica
fra colleghi, in «Critica Sociale», Milano, Di alcuni problemi della pedagogia
contemporanea, in «Rivista di filosofia e scienze affini», Bologna, Anche in
Educazione e socialismo. Scritti sulla riforma scolastica (dagli inizi del '900
alla Riforma Gentile), Dalla dichiarazione dei diritti al Manifesto dei
comunisti, in «Critica Sociale», Milano, Con alcune variazioni è stato inserito
da Mondolfo anche nella raccolta Tra il diritto di natura e il comunismo: studi
di storia = •archive.org INTERNET ARCHIVE e filosofia,
parte I, Tip. degli operai, Mantova Tra teoria sociale e filosofia politica.
Rodolfo Mondolfo interprete della coscienza moderna. Scritti Intorno al
convegno filosofico di Milano, in «Rivista di filosofia e scienze affini»,
Bologna Politica scolastica: per la riforma della scuola media, in «Critica
sociale», Milano, Questioni varie: il problema della laicità nella scuola
media, in «Rivista di filosofia e scienze affini», Bologna Educazione e
socialismo. Scritti sulla riforma scolastica (dagli inizi del '900 alla Riforma
Gentile), Ancora Mazzini e il socialismo, in «La fiaccola», Senigallia Altre
obiezioni alle idee di Salvemini sugli esami, in «Nuovi doveri», Palermo Il
contratto sociale e la tendenza comunista in J. J. Rousseau, in «Rivista di
filosofia e scienze affini», Bologna, Tra il diritto di natura e il comunismo:
studi di storia e filosofia, parte II, Tip. degli operai, Mantova Il pensiero
di Ardigo, Mondovì, Mantova. La dottrina della proprietà del Montesquieu, in
«Rivista filosofica», Pavia Tra il diritto di natura e il comunismo: studi di
storia e filosofia, parte II, cit. 30. La filosofia della proprietà alla
Costituente e alla Legislativa nella rivoluzione francese, in «Rivista di
filosofia e di scienze affini», Bologna, Pubblicato anche in Tra il
diritto di natura e il comunismo: studi di storia e filosofia, parte II,
cit. Sulla laicità della scuola, in «Critica sociale»,
Milano Educazione e socialismo. Scritti sulla riforma scolastica (dagli inizi
del '900 alla Riforma Gentile), Religione, fanciulli, educazione, in «Nuovi
doveri», Palermo, Educazione e socialismo. Scritti sulla riforma scolastica
(dagli inizi del '900 alla Riforma Gentile), La fine del marxismo?, in
«Critica sociale», Milano, Umanismo di Marx. Studi filosofici a cura di N.
Bobbio, Einaudi, Torino Roberto Ardigò nelle scuole di Mantova. Notizie e
documenti, Tip. Operai, Mantova. Studi sui tipi rappresentativi. Ricerche
sull'importanza dei movimenti dell'immaginazione, nelle funzioni del
linguaggio, nelle pseudoalluci-nazioni e nella localizzazione delle immagini,
in «Rivista di filosofia», Roma, I, 2, marzo-aprile, pp. 38-92. Tra
il diritto di natura e il comunismo: studi di storia e filosofia, parte I, Tip.
Operai, Mantova. La filosofia di Feuerbach e le critiche del Marx, in
«La Cultura filosofica», Firenze Accolto in Sulle orme di Marx. Studi di
marxismo e di socialismo a partire dalla prima edizione (Cappelli, Bologna con
il titolo Feuerbach e Marx. È stato poi successivamente integrato di due
capitoli, precisamente il sesto e il settimo, nella terza edizione (Cappelli,
Bologna Ora anche disponibile, sempre con il titolo Feuerbach e Marx, in
Umanismo di Marx. Studi filosofici La filosofia della storia di Ferdinando
Lassalle (Per nozze Mondolfo-Sacerdote), Pirola, Milano. Poi nelle prime due
edizioni de Sulle orme di Marx: Cappelli, Bologna Cappelli, Bologna
Recensione a G. Vidari, L'individualismo nelle dottrine morali del secolo XIX,
in «Cultura Filosofica», La riforma della scuola media: fra la Commissione
Reale e il congresso della federazione, in «Critica sociale», Milano, Politica
scolastica: il dovere presente della federazione degli insegnanti, in «Critica
sociale», Milano La vitalità della filosofia nella caducità dei sistemi,
Prolusione all'Università di Torino Cultura filosofica», Firenze Rovistando in
soffitta, in «Critica sociale», Milano, Pubblicato anche in Umanismo di Marx.
Studi filosofici Fra l'ideale e l'azione: per l'unità di teoria e praxis, in
«Critica sociale», Milano Umanismo di Marx. Studi filosofici La
filosofia di Bruno e l'interpretazione di Felice Tocco, in «La Cultura
filosofica», Firenze, V, n. 5-6, aprile, pp. 450-482. Pubblicato poi a sé: La
filosofia di Giordano Bruno e l'interpretazione di Felice Tocco, Tip. Collini e
Cencetti, Firenze Sul concetto di plus-valore, in «Critica sociale», Milano La
pretesa antieticità del materialismo storico - il sopravalore e il passaggio
dalla necessità alla libertà) de Il materialismo storico in Federico Engels,
Formiggini, Genova Nell'edizione del (La Nuova Italia) Il concetto di
necessità nel materialismo storico, in «Rivista di filosofia II fatalismo
materialistico o dialettico e il concetto di necessità storica) de Il
materialismo storico in Federico Engels La Nuova Italia, Firenze Umanismo di
Marx. Studi filosofici Il materialismo storico in Federico Engels,
Formiggini, Genova. I ginnasi magistrali, in «Unità», Firenze, Partiti
politici e generi letterali, in «Unità», Firenze Intorno alla filosofia di
Marx, in «Critica sociale», Milano, Presente anche in Umanismo di Marx. Studi
filosofici La crisi magistrale, in «Unità», Firenze, La
preparazione dei maestri elementari, in «Unità», Firenze, Intorno alla morale
sessuale, in «Critica sociale», Milano, Ancora la morale sessuale, in «Critica sociale»,
Milano, Rousseau nella formazione della coscienza moderna, in «Rivista
pedagogica», Roma Saggio che Mondolfo ripropone nel volume Per il centenario di
Rousseau (Formiggini, Genova) e poi con alcune modifiche nell'Introduzione alle
opere di Rousseau (Discorsi e il Contratto sociale, a cura di R. Mondolfo,
Cappelli, Bologna Rousseau e la coscienza moderna (La Nuova Italia, Firenze, di
cui si ha una precedente edizione in lingua spagnola (Rousseau y la consciencia
moderna, Imán, Buenos Aires Tra teoria sociale e filosofia politica.
Rodolfo Mondolfo interprete della coscienza moderna. Scritti Socialismo
e filosofia: I. La crisi e la necessità di un orientamento filosofico; II.
Materialismo, realismo storico e lotta di classe; III. La necessità della
filosofia della praxis, in «Unità», Firenze, Ristampato nelle prime due
edizioni di Sulle orme di Marx, Cappelli, Bologna Nella terza edizione in due
volumi (Cappelli, Bologna) fu pubblicato privato della prima parte (La crisi e
la necessità di un orientamento filosofico) e con qualche aggiunta. Anche in La
cultura italiana del '900 attraverso le riviste, a cura di Golzio e Guerra,
Einaudi, Torino Umanismo di Marx. Studi filosofici Personalità e responsabilità
nella democrazia, in «La Cultura filosofica», Firenze Per l'amore della
moralità e per la moralità dell'amore, in «Critica sociale», Milano La
preparazione degli insegnanti, in «Unità», Firenze, La crisi della scuola media e il compito
delle Università, in «Nuova Antologia», Roma, Ripubblicato da Mon-dolfo, con
alcune modifiche, in Libertà della scuola, esame di stato e problemi di scuola
e di cultura, Cappelli, Bologna Discutendo di materialismo storico, in «Rivista di
filosofia neoscolastica», Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, Zur
soziologie der Geschlechtsmoral, in «Archiv für Sozialwis-senschaft und
Sozialpolitik», Tübingen, Mohr, Per la biografia di Bruno, Rivista d'Italia»,
Roma, Appunti di Storia della filosofia La filosofia di Giordano Bruno, R.
Università di Torino, Facoltà di Lettere e filosofia, Torino Acri e il suo
pensiero, Discorso tenuto nella R. Università di Bologna, Zanichelli, Bologna. Il
pluralismo nell'etica, in «Rivista d'Italia», Roma Acri, in «Rivista
pedagogica», Roma La filosofia in Belgio, «Rivista di filosofia»,
Genova La crisi del socialismo e l'ora presente, in «Unità», Firenze La cultura
italiana del '900 attraverso le riviste, vol. V, a cura di Golzio e Guerra,
Einaudi, Torino Revolutionärer Geist und historischer Sinn, in «Archiv für die
Geschichte des Sozialismus und der Arbeiterbewegung», her-ausgegeben von Prof.
Carl Grünberg Hischfeld Verlag, Leipzig. Successivamente in italiano: Spirito
rivoluzionario e senso storico, in «Nuova Rivista Storica Roma, Le
matérialisme historique chez F. Engels, Trad. de l'Italien par S.
Jankelevitch, Giard et Brière, Paris. 72. Chiarimenti sulla dialettica
engelsiana Rivista di filosofia Genova Sulle orme di Marx con il titolo La
dialettica di Engeis (Cappelli, Bologna Cappelli, Bologna Il materialismo
storico in Federico Engels. Ristampato anche in Tra teoria sociale e filosofia
politica. Mondolfo interprete della coscienza moderna. Scritti Spirito
rivoluzionario e senso storico, in «Nuova rivista storica», Roma, Revolutionärer
Geist und historischer Sinn, in «Archiv für die Geschichte des Sozialismus und
der Arbeiterbewegung, herausgegeben von Prof. Carl Grünberg, Hischfeld Verlag,
Leipzig. Nella versione italiana è apparso anche nella prima edizione di Sulle
orme di Marx (Cappelli, Bologna e nelle successive. Presente anche in Umanismo
di Marx. Studi filosofici Dai sogni d'egemonia alla rinuncia della libertà.
Discorso letto per la solenne inaugurazione degli studi nell'Università di
Bologna il 5 novembre 1917, Zanichelli, Bologna. Confluito con una nota
introduttiva e con il titolo La teoria della egemonia tedesca in Filosofi
tedeschi: saggi critici, trad. di L. Bassi, Cappelli, Bologna Mondolfo e la
guerra delle idee. Scritti a cura di G. Ferrandi, Museo storico del Trentino e
Società aperta di Trento, Trento Imperialismo e libertà, in «Unità Il primo assertore della missione germanica: Herder, Rivista
delle nazioni latine Mondolfo e la
guerra delle idee - Scritti Tra il primato d'un popolo e la missione universale
delle nazioni, in «Nuova rivista storica», Milano, Mondolfo e la guerra delle
idee - Scritti Leninismo e marxismo, in «Critica sociale», Milano,Poi in Sulle
orme di Marx, a partire dalla seconda edizione (Cappelli, Bologna Studi sulla
rivoluzione russa, a cura del Centro Studi di Critica Sociale, Morano, Napoli
Umanismo di Marx. Studi filosofici Leninismo e socialismo, in «Critica
sociale», Milano Sulle orme di Marx, Ristampato anche in Studi sulla
rivoluzione russa Il socialismo e il momento storico presente, in
«Energie Nove», Torino, Poi inserito nelle prime due edizioni di Sulle orme di
Marx: Cappelli, Bologna Cappelli, Bologna Il socialismo dopo la guerra):
Cappelli, Bologna Recentemente anche in M. e la guerra delle idee -
Scritti L'insegnamento di Marx, in «Critica sociale», Milano, Saggio
apparso anche come Prefazione alla prima edizione di Sulle orme di Marx. Studi
di marxismo e di socialismo, Cappelli, Bologna Sulle orme di Marx. Studi
di marxismo e di socialismo, Cappelli, Bologna. Per una coscienza realistica della storia
e della rivoluzione sociale, in «Critica sociale», Milano Sulle orme di Marx,
Cappelli, Bologna Visioni realistiche e utopie rivoluzionarie. Presente anche
in Umanismo di Marx. Studi filosofici Problemi concreti: la scuola: I. L'azione
«pro schola» e la difesa della coscienza laica, in «Critica sociale», Milano,
Campane d'allarme, in «Il Progresso», Bologna Problemi concreti: II. Il proletariato e
la scuola media. La difesa dellafunzione sociale della finalità educativa della
scuola di Stato, in «Critica sociale», Milano Educazione e socialismo. Scritti
sulla riforma scolastica (dagli inizi del '900 alla Riforma Gentile Problemi
concreti: III. Linee di un programma d'azione scolastica: Premesse generali; il
concetto di servizio pubblico e la scuola, in «Critica sociale», Milano Problemi
concreti:L'amministrazione della scuola, in «Critica sociale», Milano Problemi
concreti: d) La partecipazione del proletariato alla cultura, in «Critica
sociale», Milano, Riportato anche in Libertà della scuola, esame di stato e
problemi di scuola e di cultura, Gli adulatori del proletariato, in «Cultura
popolare», Milano Libertà della scuola, esame di stato e problemi di scuola e
di cultura Intorno al progetto Rignano, in «Critica sociale»,
Milano, Recensione a E. di Carlo, Ferdinando Lassalle, in «Critica sociale»,
Milano, Ardigò, in «Critica sociale», Milano, Bevilaqua, C'è uno spettro in
Italia, Modernissima, Milano Critica sociale», Milano Ardigò, in «Il Tempo Socialismo
e lezioni della realtà, intervista con Rodolfo Mondolfo, in «Il piccolo della
sera», Trieste, 24 settembre. Il marxismo e la crisi europea, in «Scientia Il
problema sociale contemporaneo, relazione al IV congresso italianodi filosofia,
in «Rivista di filosofia», Bologna, Sulle orme di Marx, Cappelli, Bologna Parte
di questo articolo apparve con il titolo Le condizioni della rivoluzione, in
«Critica sociale», Milano, Anche in Umanismo di Marx. Studi filosofici Le
condizioni della rivoluzione, in «Critica sociale Sulle orme di Marx, 2ª
edizione accresciuta di nuovi saggi, Cappelli, Bologna. La rivoluzione e il blocco, in «La
Giustizia», Reggio Emilia, 11 dicembre, p. 1. Per la realtà del socialismo, in «La
Giustizia», Reggio Emilia Le condizioni della rivoluzione, in «La Giustizia»,
Reggio Emilia, 1 gennaio, p.1. Martoff contro Zinovieff e l'antitesi fra
socialismo e bolscevismo, in «Critica sociale», Milano Sulle orme di Marx,
Cappelli, Bologna Studi sulla rivoluzione russa Introduzione a F. Turati, Le vie maestre
del socialismo, Cappelli, Bologna. Forza e violenza nella storia, Introduzione a S.
Panunzio, Diritto, forza e violenza. Lineamenti di una teoria della violenza,
n. III della «Biblioteca di Studi sociali diretta da R. Mondolfo», Cappelli,
Bologna. Pubblicata con l'aggiunta di alcune note in Sulle orme di Marx, II
vol., Cappelli, Bologna Umanismo di Marx. Studi filosofici 1 corsi
di esercitazione nelle Università, in «Educazione nazionale», Roma funzione
sociale della finalità educativa della scuola di Stato, in «Critica sociale»,
Milano, Più recentemente in Educazione e socialismo. Scritti sulla riforma
scolastica (dagli inizi del '900 alla Riforma Gentile Problemi concreti:
III. Linee di un programma d'azione scolastica: a) Premesse generali; b) il
concetto di servizio pubblico e la scuola, in «Critica sociale», Milano,
Problemi concreti: c) L'amministrazione della scuola, in «Critica sociale»,
Milano Problemi concreti: La partecipazione del proletariato
alla cultura, in «Critica sociale», Milano, Riportato anche in Libertà della
scuola, esame di stato e problemi di scuola e di cultura, Gli adulatori del
proletariato, in «Cultura popolare», Milano Libertà della scuola, esame di
stato e problemi di scuola e di cultura, Intorno al progetto Rignano, in
«Critica sociale», Milano, Recensione a E. di Carlo, Ferdinando Lassalle, in
«Critica sociale», Milano, Ardigò, in «Critica sociale», Milano, Recensione a
G. Bevilaqua, C'è uno spettro in Italia, Modernissima, Milano Critica sociale»,
Milano,Ardigò, in «Il Tempo», 16 settembre. Socialismo e lezioni della realtà,
intervista con Rodolfo Mondolfo, in «Il piccolo della sera», Trieste, 24
settembre. Il marxismo e la crisi europea, in «Scientia Il
problema sociale contemporaneo, relazione al IV congresso italiano= • archive.
di filosofia, in «Rivista di filosofia», Bologna Sulle orme di Marx, Cappelli,
Bologna Parte di questo articolo apparve con il titolo Le condizioni della
rivoluzione, in «Critica sociale», Milano Umanismo di Marx. Studi
filosofici Le condizioni della rivoluzione, in «Critica sociale Sulle orme di
Marx, 2ª edizione accresciuta di nuovi saggi, Cappelli, Bologna. La
rivoluzione e il blocco, in «La Giustizia», Reggio Emilia, Per
la realtà del socialismo, in «La Giustizia», Reggio Emilia, Le condizioni della
rivoluzione, in «La Giustizia», Reggio Emilia, 1 gennaio, p.1. Martoff
contro Zinovieff e l'antitesi fra socialismo e bolscevismo, in «Critica
sociale», Milano Sulle orme di Marx, Cappelli, Bologna Studi sulla rivoluzione
russa, cit., pp. 55-63. Introduzione a F. Turati, Le vie maestre del
socialismo, Cappelli, Bologna. Forza e violenza nella storia, Introduzione a S.
Panunzio, Diritto, forza e violenza. Lineamenti di una teoria della violenza,
n. III della «Biblioteca di Studi sociali diretta da R. Mondolfo», Cappelli,
Bologna. Pubblicata con l'aggiunta di alcune note in Sulle orme di Marx, II
vol., Cappelli, Bologna Umanismo di Marx. Studi filosofici 1 corsi di
esercitazione nelle Università, in «Educazione nazionale», Roma Il proletariato
e la scuola, in «La squilla Educazione e socialismo. Scritti sulla riforma
scolastica (dagli inizi del '900 alla Riforma Gentile La scuola e i partiti, in
«Il Progresso», Bologna, marzo. I discorsi di F. Turati ai Congressi Socialisti, in
«Critica sociale», Milano, Il saggio
corrisponde ad alcuni paragrafi tratti dalla prefazione di R. Mondolfo a F.
Turati, Le vie maestre del socialismo, Cappelli, Bologna Collaborazione e lotta
di classe, in «Critica sociale», Milano Sulle orme di Marx, Cappelli, Bologna Per
la comprensione storica del fascismo, in «Critica sociale», Milano, Il saggio
corrisponde ad alcuni paragrafi (in particolare il IV e parte del V) dell'
introduzione alla raccolta Il fascismo e i partiti politici italiani, I volume,
Cappelli, Bologna Significato e insegnamento della rivoluzione russa, in
«Critica sociale», Milano, La contraddizione iniziale; La conquista compiuta;
La nuova contraddizione risultante e la progressiva consapevolezza del
problema. Ristampati con alcune modifiche e aggiunte in Studi sulla rivoluzione
russa, cit., pp. 67 ss. Estratto poi in edizione Benporad, Firenze Significato
e insegnamento della rivoluzione russa, in «Critica sociale», Milano, La
rivincita della realtà; L'inevitabile soluzione: dal libero commercio al
capitalismo; La lotta e l'immediato rapporto delle forze L'anello e la
catena; Le nuove condizioni del proletariato e la sua scissione in gruppi
concorrenti; I nuovi problemi del Governo: la rivalutazione della moneta; Gli
insegnamenti: a) non il dissolvimento ma lo sviluppo è condizionato dalla
rivoluzione; on ne détruit que ce qu'on substitue; Le condizioni di un regime
socialista: produzione e distribuzione; I limiti dell'azione politica:
forza ed economia. Ristampato con alcune modifiche in Studi sulla rivoluzione
russa, La libertà della scuola, in «Critica sociale», Milano, Riportato in
Libertà della scuola, esame di stato e problemi di scuola e di cultura, cit.,
pp. 9-23. Recentemente in Educazione e socialismo. Scritti sulla riforma
scolastica (dagli inizi del '900 alla Riforma Gentile Scuola e Stato.
Lettera a Luigi Miranda, in «Il Tempo», Roma Libertà della scuola, esame di
stato e problemi di scuola e di cultura, La libertà e la scuola, in «Il Tempo», Roma, 16
giugno, p. 3. L'esame di Stato, in «Critica sociale», Milano, Libertà
della scuola, esame di stato e problemi di scuola e di cultura, La
formazione storica delle arti e dello spirito umano in Vitruvio, in «L'Arduo»,
Bologna Tra teoria sociale e filosofia politica. Rodolfo Mondolfo interprete
della coscienza moderna. Scritti Sempre nuove opposizioni al progetto su
l'esame di Stato, in «L'istru-zione media», Perugia-Bologna-Firenze, Lettera
a Gobetti, in «La Rivoluzione liberale», Torino Ricostruire, in «La Giustizia Per
la comprensione storica del fascismo, introduzione alla raccolta Il fascismo e
i partiti politici italiani, I volume, Cappelli, Bologna. Per la difesa della libertà, in «Critica
sociale», Milano, Il problema della cultura popolare, in «Critica sociale»,
Milano Il comunismo è la negazione del marxismo, in «La
Giustizia», Milano, 1 ottobre. Libertà della scuola, esame di Stato e problemi di
scuola e di cultura, Cappelli, Bologna Prefazione a S. Diambrini Palazzi, Il
pensiero filosofico di Antonio Labriola, Zanichelli, Bologna. Educazione
e rinnovamento sociale in Mazzini e in Marx, in «Rivista di filosofia Con
alcune modifiche anche in Sulle orme di Marx, Cappelli, Bologna Tra teoria
sociale e filosofia politica. Rodolfo Mondolfo interprete della coscienza
moderna. Scritti Mazzini e Marx, in «Critica sociale», Milano, Poi confluito in
Sulle orme di Marx, Cappelli, Bologna, Il monito delle tradizioni del Risorgimento
nazionale, in «Istruzione media Scuola, patria e libertà, in «La Giustizia»,
quotidiano del Partito Socialista Unitario, Milano, n. 52, 2 marzo 1923, p. 2.
Più recentemente anche in Educazione e socialismo. Scritti sulla riforma
scolastica (dagli inizi del 900 alla Riforma Gentile Scuola, patria e libertà,
in «La Giustizia», quotidiano del Partito Socialista Unitario, Milano, Il
materialismo storico: conferenza all'Università Proletaria di Milano, in
«L'Avanti!», Milano, 13 marzo. Volontà e necessità nella storia, scambio di lettere con
Longobardi L'Avanti!», Il materialismo storico, in «La Rivoluzione liberale»,
Torino Umanismo di Marx. Studi filosofici Mentre la riforma si compie, in «L'istruzione
media», I punti oscuri, in «L'istruzione media La riforma
della scuola, in «Critica sociale», Milano Educazione e socialismo. Scritti
sulla riforma scolastica (dagli inizi del '900 alla Riforma Gentile Il
problema sociale in Mazzini e Marx, in «Critica sociale», Milano, Con alcune
modifiche confluito in Sulle orme di Marx, Cappelli, Bologna Scuola
e libertà (Note polemiche), in «Critica sociale», Milano,196. Risposta
all'inchiesta tra scrittori italiani: Dove va il mondo?, Libreria politica
moderna, Roma. Aspetti della crisi contemporanea, in «Studi politici
La riforma universitaria, in «Critica sociale», Milano Libertà e funzione
sociale della scuola nella riforma Gentile, in «Cultura popolare Educazione e
socialismo. Scritti sulla riforma scolastica (dagli inizi del 900 alla Riforma
Gentile Si chiedono dati statistici, in «L'istruzione media L'esperimento
russo, in «La Rivoluzione liberale», Torino, Verso la scuola confessionale?, in
«L'istruzione media Si chiedono dati statistici, in «L'istruzione media La
lotta di classe in Russia, in «La Rivoluzione liberale», Torino Le attività del
bilancio, in «Critica sociale», Milano Umanismo di Marx. Studi filosofici
Contadini e proletariato nella Rivoluzione russa, in «Nuova rivista storica»,
Milano Sulle orme di Marx, 3ª edizione in due volumi, Cappelli, Bologna: vol. 1
Studi sui tempi nostri, vol. Il Lineamenti di teoria e di storia critica del
marxismo. La filosofia e l'insegnamento di Francesco Acri
(commemorazione nel decennale della sua morte), in «Rivista di filosofia Significato
e insegnamenti della rivoluzione russa, con prefazione di C. Treves, Bemporad,
Firenze Contributo a un chiarimento di idee, in «Critica sociale», Milano Umanismo
di Marx. Studi filosofici Il rispetto dei diritti acquisiti e l'interesse della
nazione, in «L'istruzione media Marxismo e revisionismo, in «Libertà»,
quindicinale della gioventù socialista, Milano La filosofia politica in Italia
Raccolta sulla Storia d'Italia a cura dell'Istituto superiore di
perfezionamento pergli studi politico sociali e commerciali in Brescia,
Litotipo editrice, Padova Dal naturalismo di Feuerbach allo storicismo di Marx,
in «Rivista di psicologia», Bologna Estratto da Feurbach e Marx Sulle orme di
Marx. Si trova anche in Tra teoria sociale e filosofia politica. Rodolfo
Mondolfo interprete della coscienza moderna. Scritti Ricordando Antonio Labriola, in «Critica
sociale», Milano Umanismo di Marx. Studi filosofici L'esame di Stato
professionale, in «L'istruzione media Rousseau, Discorsi e Contratto sociale, cur.
M., Cappelli, Bologna. L'idealismo di Jaurés e la funzione storica delle
ideologie, in «Cri-tica sociale», Milano, Ristampato in Tra teoria sociale e
filosofia politica. Rodolfo Mondolfo interprete della coscienza moderna.
Scritti Dopo il primo esperimento, in «Istruzione media Le cose più grandi di
lui (i programmi degli esami di Stato), in «Istruzione media Momigliano, in
«Rivista di filosofia», Torino Prefazione a F. Dal Monte, Filosofia e mistica
in Bonaventura da Bagnorea, Libreria di scienze e lettere, Roma. Sintomi
premonitori in Russia. Nuove forze politiche in vista, in«Critica sociale»,
Milano, Studi sulla rivoluzione russa, Opere scelte di Beccaria, con introduzione
e note a cura di Mondolfo, Cappelli, Bologna La questione istituzionale,
in «La Rivoluzione liberale», Torino Fiorentino, in «Nuova rivista storica»,
Milano, Da Ardigò a Gramsci, Nuova Accademia, Milano Discussioni marxiste, in
«La Rivoluzione Liberale», Torino Umanismo di Marx. Studi filosofici Intorno
ai nuovi concorsi, in «L'Istruzione media I punti del problema: per definire la
discussione marxista, in «La Rivoluzione Liberale», Torino Umanismo di Marx.
Studi filosofici Liberalismo della vecchia destra, in «Critica sociale»,
Milano, L'opera di Ferdinande Lassalle, in «Critica sociale», Milano, Il
problema delle classi medie, in «Critica Sociale», Milano, Uscito anche come
opuscolo con un preambolo di Filippo Turati nell'edizione La Giustizia, Milano
1925. Il pensiero di Engels e la prassi storica della
classe lavoratrice, in «Critica sociale», Milano Proletariato e ceti
intellettuali, in «La Giustizia Beccaria e Kant, in «Rivista Internazionale di
Filosofia del Di-ritto», Genova Tra teoria sociale e filosofia politica.
Rodolfo Mondolfo interprete della coscienza moderna. Scritti La negazione della
realtà dello spazio in Zenone di Elea, in «Rendiconti dell'Istituto Marchigiano
di scienze, lettere ed arti Problemi del pensiero antico, Zanichelli, Bologna
Per la serietà dell'esame di Stato, in «Istruzione Media», Parma Critiche
esagerate?, in «L'istruzione media», Parma Veritas filia temporis in
Aristotele, in Scritti filosofici per le onoranze nazionali di Bernardino
Varisco, Vallecchi, Firenze, pp. 235-253. Presente anche in Momenti del
pensiero greco, Morano, Napoli 1964, pp. 1-20. 185. Das Problem der
Mittelklassen in seiner Bedeutung für den Sozialismus in Italien, in
«Archiv für die Geschichte des Sozialismus und der Arbeiterbewegung»,
herausgegeben von Carl Grünberg, XII, p. 1 ss. 186. Beccaria filosofo, in «Rivista di filosofia»,
Torino, XVI, n. 1, dicembre, pp. 1-11 ss. Tratto dall' introduzione a Opere
scelte di Cesare Beccaria, Cappelli, Bologna Risposta a un'inchiesta
sull'idealismo, in «Il Baretti», Torino, Un cervello maschile, un cuore
materno. In memoria di Anna Kuliscioff, in «Critica Sociale», Milano Moto e
vuoto, in «Il Baretti», Torino, a. 3, n. 2, febbraio, p. 76. Il
problema etico e culturale del socialismo nei rapporti col movimento
socialista, in «Critica sociale Materialismo, idealismo, realismo
critico-pratico, in «Il Quarto Stato», Milano Umanismo di Marx. Studi
filosofici Per la revisione del bilancio idealistico, in «Il Quarto Stato»,
Milano Umanismo di Marx. Studi filosofici Primum intelligere..., in «Il Quarto
Stato», Milano Umanismo di Marx. Studi filosofici Dall'esperienza agricola
russa al problema contadino occidentale, in «Critica sociale», Milano Studi
sulla rivoluzione russa Diderot, D'Alambert e il Trattato delle sensazioni, in
«L'idealismo realistico», Roma Condillac contro Condillac. Critica della prima
parte del Trattato delle sensazioni, in «Rivista di Psicologia», n. 1. Sulla
nozione di progresso, sintesi di una comunicazione al Congresso della Società
per il progresso delle Scienza (sezione scienze filosofiche), in Atti del
Congresso di Bologna. Il trattato delle sensazioni di Condillac, con
introduzione su L'Opera di Condillac, Cappelli, Bologna. Spinoza e la nozione del progresso umano,
in «Rivista di filosofia», XVIII, n. 3, luglio-settembre, pp. 262-266. Anche in
Tra teoria sociale e filosofia politica. Rodolfo Mondolo interprete della
coscienza moderna. Scritti La polemica di Zenone di VELIA contro il movimento,
Rivista di Filologia e d'istruzione classica», Torino, Confluito poi con alcune
aggiunte in R. Mondolfo, Problemi del pensiero antico, Der Faschismus in Italien (sotto lo
pseudonimo di «Rerum italicarum scriptor»), in Internationaler Faschismus,
herausgegeben von C. Landauer und H. Honegger, Karlsruhe. La polemica di Zenone di VELIA contro il
movimento, parte II, in «Rivista di Filologia e d'istruzione classica Problemi
del pensiero antico, Zanichelli, Bologna Fichte, in «Dizionario di scienze
pedagogiche Vallardi, Milano, Confluito poi nella raccolta Filosofi tedeschi:
saggi critici, trad. di L. Bassi, Cappelli, Bologna Il realismo di Roberto Ardigò, in
«Rivista di filosofia Tra teoria sociale e filosofia politica. Rodolfo Mondolfo
interprete della coscienza moderna. Scritti Nel primo centenario di Roberto
Ardigò, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», Roma Romagnosi,
in «Dizionario di scienze pedagogiche», vol. II, Vallardi, Milano, Il pensiero
antico. Storia della filosofia greco-romana, esposta con tesi scelti dalle
fonti, Società Editrice Dante Alighieri, Roma-Genova-Milano-Napoli. Sintesi
storica del pensiero antico, Società Editrice Dante Alighieri, Roma-Genova. Rassegne
di storia della filosofia: I. Filosofia del Rinascimento, in «Rivista di
filosofia», XX, Torino L'antinomia fondamentale nella visione della vita e
della storia di F. Nietzsche, in «L'idealismo realistico Die Anfänge der
Arbeiterbewegung in Italien bis 1872 und der Konflikt zwischen Mazzini
und Bakunin, in «Archiv für die Geschichte des Sozialismus und der
Arbeiterbewegung», herausgegeben von Prof. Carl Grünberg, Hischfeld
Verlag, XIV, heft 3, Leipzig Il superamento dell'utilitarismo e la coscienza
morale nella dottrina epicurea, in «Rendiconto delle sessioni della R.
Accademia delle scienze dell'Istituto di Bologna», vol. 3, Azzoguidi,
Bologna. Confluito poi in Problemi del pensiero antico, c Responsabilità
e sanzione nel più antico pensiero greco, in «Civiltà moderna», Firenze Problemi
del pensiero greco Razionalità e irrazionalità della Storia: per una visione
realistica del problema del progresso, in «Nuova Rivista Storica», Milano Collaborazione
alla «Encyclopedia of the Social Sciences» della Columbia University di New
York; voci: T. Campanella, A. Costa. I primordi del movimento operaio in Italia avanti il
1872 e il conflitto tra Mazzini e Bakunin, in «Nuova Rivista Storica Die
Anfänge der Arbeiterbewegung in Italien bis 1872 un Konflikt zwischen Mazzini
und Bakunin Riproposto poi da Mondolfo in una rivista argentina Nella versione
italiana, anche in Tra teoria sociale e filosofia politica. Rodolfo Mondolfo
interprete della coscienza moderna. Scritti Collaborazione alla «Enciclopedia
Italiana» (Istituto Treccani); voce: Giordano Bruno, vita ed opere, religione e
filosofia, dio e l'universo: il monismo, l'etica Nella sua versione rielaborata
Mondolfo ripropone questo articolo in Figure e idee del Rinascimento, trad. di
L. Bassi, La Nuova Italia, Firenze Tarozzi, L'esistenza e l'anima, in «Nuova
Rivista Storica Enciclopedia Italiana» (Istituto Treccani); voci: Comunismo
(esposizione critica della dottrina e della storia Filone di Alessandria,
Helvétius Collaborazione alla «Encyclopedia of the social Sciences» della
Columbia University di New York; voci: Epicure and epicureanism, Giuseppe
Ferrari, Gaetano Filangeri, Pasquale Galluppi, Melchiorre Gioia, Gian Vincenzo
Gravina, Theodor Karl Grün, Peter Alexeyevitch, Antonio Labriola. Collaborazione
a «Pedagogia» (Enciclopedia delle Enciclopedie, Formiggini, Roma); voci:
Didattica della filosofia Libertà e Laicità della scuola Entrambi riportati in
Educazione e cultura come problemi sociali, Cappelli, Bologna Comunicazione
al Congresso della Società Italiana per il progresso delle scienze su Criteri
di studio del problema riguardante le origini della filosofia greca. Germi
in Bruno, Bacone e Spinoza del concetto marxistico della storia, in «Civiltà
moderna», Firenze Germania nel 1932 (cfr. n. 228) e, successivamente, nel sulla
rivista argentina «Dialéctica Tra teoria sociale e filosofia politica. Rodolfo
Mondolfo interprete della coscienza moderna. Scritti Un educatore scomparso:
Marchesini, in «La Cultura popolare Rapporti tra la speculazione religiosa e la
filosofia nella Grecia antica, I, in «La Nuova Italia», Firenze, II, dicembre,
pp. 463-468. Intorno al contenuto dell'antica teogonia orfica, in
«Rivista di Filologia e d'istruzione classica Rapporti tra la speculazione
religiosa e la filosofia della Grecia antica, II, in «La Nuova Italia», Firenze
Il concetto della «umwälzende Praxis» e i suoi germi in Bruno e Spinoza, in
«Grünbergs Fetschrift», C. L. Hirschfeld, Leipzig, pp. 365-376. I
Discorsi e il Contratto sociale di Rousseau, trad. con introduzione e commento,
2ª edizione, Cappelli, Bologna. Collaborazione alla «Enciclopedia Italiana» (Istituto
Treccani); voci: Labriola Internazionale e Internazionalismo Il Giansenismo in
Italia di Jemolo, in «Rivista di Filosofia», Torino. Discutendo il problema dei caratteri
differenziali tra filosofia antica e moderna, in «Rivista di filosofia», Milano
Nota sul genio ellenico, inserita nell'edizione italiana di E.
Zeller-R.Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, I
Presocratici; vol. 1: Origini, caratteri e periodi della filosofia greca, La
Nuova Italia, Firenze Arte e religione in Grecia secondo gli schemi del
neoumanesimo, in «Civiltà moderna», Firenze Tratto da M., Nota sul genio
ellenico in E. Zeller-R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo
storico, Parte I: 1 Presocratici, vol. I: Origini, caratteri e periodi della
filosofia greca, Nota sulla divisione in periodi della filosofia, in «Archivio
di storia della filosofia Zeller-R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo
sviluppo storico, 1 presocratici, Origini, caratteri e periodi della filosofia
greca, La Nuova Italia, Firenze La filosofia dei Greci nel suo sviluppo
storico, Parte I: I presocratici, vol. II: lonici e Pitagorici, La Nuova
Italia, Firene Encyclopedia of the Social Sciences» della Columbia University
di New York; voci: Lucretius, Karl Geory Winkelblech (Karl Marlo). E.
Zeller-R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I: 1
Presocratici, vol. I: Origini, caratteri e periodi della filosofia greca,
traduzione e aggiornamenti, La Nuova Italia, Firenze. Studi sopra l'infinito nel pensiero dei
Greci, in «Memoria della R. Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna,
classe di scienze morali», serie 3, tomo 6, Gamberini e Parmeggiani, Bologna
Azzoguidi, Bologna Eternità e infinità del tempo in Aristotele, in «Giornale
Critico della Filosofia Italiana», Firenze Il contributo di Zenone di VELIA alla
scoperta dell'infinitesimale, in «Archivio di storia della filosofia La
preparazione dei greci alla comprensione dell'infinito, in «Civiltà moderna»,
Firenze La concezione dell'Empireo in Platone, in «La Nuova Italia», Firenze,
marzo. 242. Il passaggio dal teleologismo al determinismo nella dottrina
peripatetica dell'eternità del mondo, in «Rivista di filosofia», Milano L'infinito
nel pensiero dei Greci, Le Monnier, Firenze L'infinità divina nelle
teogonie greche presocratiche, in «Studi e materiali di storia delle
religioni», Roma L'infinito nel pensiero dei greci, Le Monnier, Firenze
L'infinità della potenza divina in Aristotele (Dal concetto negativo al
concetto positivo dell'infinito), in «Ricerche religiose», Roma L'infinito nel
pensiero dei greci, Le Monnier, Firenze 1934. L'infinità dell'essere in Melisso di Samo
(contributi a un processo di riabilitazione), in «Sophia», Padova L'infinità
divina da Filone ai neoplatonici e ai suoi precedenti, in «Atene e Roma»,
Firenze, Le Monnier L'Infinito nel pensiero dei greci, Le Monnier, Firenze L'infinità
del numero dai Pitagorici a Platone e ad Archimede, in «Archivio di filosofia»,
Roma Prassi che rovescia» o «Prassi che si rovescia»?, in «Rivista
internazionale di filosofia del diritto», Roma, XIII, fasc. VI, pp. 743 ss.
Scritto che viene successivamente inserito da Mondolfo in Il materialismo
storico in Federico Engels Collaborazione alla «Enciclopedia italiana»; voce:
Materialismo storico Il contratto di lavoro nella voce Il lavoro Encyclopedia
of the Social Sciences» della Columbia University di New York; voce: Paruta. Lezioni
di storia della filosofia svolte da M., a cura di Bortolotti e Wittig, Bologna,
Facoltà di filosofia, Bologna La genesi storica della filosofia presocratica,
in «La Nuova Italia», Firenze, 20 marzo, pp. 82-94. Prefazione al libro di G. Fontanesi, Il
problema filosofico dell'amore nell'opera di Leone ebreo, Libreria Emiliana,
Venezia, pp. I-XIII. Problema umano e problema cosmico nella formazione
della filosofia greca, Memoria presentata all'Accademia delle Scienze di
Bologna nella sessione del 17 marzo, Azzoguidi, Bologna Problemi del pensiero
antico Note sull'eleatismo di VELIA: a proposito degli Studi sull'eleatismo di
G. Calogero, in «Rivista di filologia e d'istruzione classica», Torino Problemi
del pensiero antico, Zanichelli, Bologna I problemi dell'infinità numerica e
dell'infinitesimo in Aristotele, in «Rivista di filosofia», Milano L'infinito
nel pensiero dei greci, Le Monnier, Firenze 1934. Caratteri
e sviluppi della filosofia presocratica, in «Sophia», Roma, luglio-settembre,
pp. 274-288. La giustizia cosmica secondo Anassimandro ed
Eraclito, in «Civiltà moderna», Firenze L'infinito nel pensiero dei Greci, Le
Monnier, nella Collezione di «Studi filosofici» diretta da G. Gentile, Firenze.
Recensioni in «Pan»: A. Rosemberg Storia del
bolscevismo da Marx ai giorni nostri, Sansoni, Firenze, in «Rivista
internazionale di filosofia del diritto»; N. Festa, I frammenti degli stoici
antichi, vol. I, Laterza, Bari 1932; G. Della Valle, Tito Lucrezio Caro e
l'epicureismo campano, Accademia Pontaniana, Napoli 1933; Id., Dove nacque T.
Lucrezio Caro?, Stab. industrie editoriali meridionali, Napoli 1933, in
«Sophia»; G. Pasquali, Pagine stravaganti di un filologo, Carabba, Lanciano
1933; Conte di Gobineau, Il rinascimento, trad. di F. Gentile Tarozzi,
Cappelli, Bologna Civiltà moderna»; G. Mayer, Friederich Engels: Eine
Biographie, M. Nijhoff, Haag 1934; Marx-Engels, Historische, Kritische,
Gesamtausgabe Werke Schriften, Briefe, Berlin, in «Rivista di filosofia»; C.
Ottaviano, Joachimi abbatis liber contra Lombardorum, Reale Accademia d'Italia,
Roma 1934. 261. Collaborazione alla «Enciclopedia italiana»; voce:
Movimento Operaio Fiorentino e il positivismo, in AA.VV, Onoranze a
F. Fiorentino nel cinquantenario della sua morte, Morano, Napoli Infinità
dell'istante e infinità soggettiva nel pensiero degli antichi, in «Giornale
critico della filosofia italiana», Firenze Problemi del pensiero antico L'infinito
nel pensiero dell'antichità classica, cit. 264. La genesi e i
problemi della cosmogonia di Talete, in «Rivista di filologia e d'istruzione
classica», Torino Physis e theion: intorno al carattere e al concetto centrale
della filosofia presocratica, in «Atene e Roma», Firenze, Le Monnier Il
principio universale di Anassimandro, in «Civiltà moderna», Firenze Questioni
di storia della scienza greca, in «Rivista di filosofia», Torino L'infinito e
le antinomie logiche nel pensiero greco, relazione al «Congresso della Società
italiana per il progresso delle scienze», tenutosi a Palermo il 12-18 ottobre,
Società italiana per il progresso delle scienze, Roma. Confluito poi in R.
Mondolfo, I problemi del pensiero antico, Zanichelli Enciclopedia italiana: Sindacalismo,
Socialismo Scienza (classificazione delle scienze e storia della scienza Problemi
del pensiero antico, Zanichelli, Bologna 1935. Lezioni di storia della filosofia, a cura
di Zambrini, Università di Bologna, Facoltà di lettere e filosofia, Bologna. Lezioni
di filosofia moderna: Benedetto Spinoza, tenute dal Chiar.mo Prof M., a cura di
Cavalli, GUF G. Venezian, Bologna Gli albori della filosofia in Grecia, in «La
Nuova Italia», Firenze, gennaio. Feuerbach y Marx. La dialéctica y el concepto de la
historia, trad. di M. P. Alberti, Claridad, Buenos Aires. Su
una presunta affermazione antica della sfericità terrestre e degli antipodi, in
«Archeion Anaximenea, in «Rivista di Filologia e d'istruzione classica», Torino
Gérmenes en Bruno, Bacon y Espinoza de la concepción marxista de la historia,
in «Dialéctica», Buenos Aires, abril. Per Diogene d'Apollonia, in «Rivista di filosofia»,
Torino Gli atomisti antichi, in «Il Lavoro Formes et tendences actuelles du
mouvement philosophique en Italie (in collaborazione con il Prof. Limentani
della R. Università di Firenze), in «Revue de Synthèse L'utopia di Platone, in
«Il Lavoro», 17 novembre, p.3. Aristotele ed Epicuro, in «La Nuova Italia», Firenze Echi
del centenario di Romagnosi, in «Il Lavoro La vitalità di Aristotele, in «Il
Lavoro». La filosofia antica in terra d'Africa e le tendenze
del soggettivismo. Estratto da Atti della XXV Riunione della SIPS a Tripoli,
Raduno coloniale della scienza italiana, 1-7 novembre 1936. Relazione
Congresso della Società per il progresso delle scienze (Tripoli). Problemi
della cosmologia di Anassimandro, in «Logos», Napoli Nota sulla cosmologia e la
metafisica di Anassimandro introdotta come aggiornamento nel Il vol.
dell'edizione italiana de E.Zeller-R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo
sviluppo storico, Parte I: I Presocratici, Il vol.: lonici e Pitagorici, La
Nuova Italia, Firenze, 1938, pp. 190 ss. Ancora sull'infinito e gli antichi, in «Sophia La
prima affermazione della sfericità della terra. Nota dell'accademico effettivo
prof M., comunicata il 12 dicembre, in «Rendiconti delle sessioni della R.
Accademia delle scienze dell'Istituto di Bologna. Classe di scienze morali Bologna,
Tip. Azzoguidi, p. 18. Trad. it con l'aggiunta di una postilla in Momenti del
pensiero greco e cristiano Enciclopedia italiana; voci: Unità, Universo (nella
storia della filosofia) Per l'interpretazione di F. Fiorentino, in «Archivio di
storia della filosofia italiana Sui frammenti di Filolao (contributo a una
revisione del processo di falsità), in «Rivista di Filologia e d'istruzione
classica Platone e la storia del pitagorismo, in «Atene e
Roma», Firenze, Le Monnier Nota sulle fonti della nostra conoscenza e
ricostruzione storica del Pitagorismo, in E. Zeller-R. Mondolfo, La filosofia
dei Greci nel suo sviluppo storico, pp. 313 ss. Forme e tendenze attuali del movimento
filosofico in Italia, (in collaborazione con il Prof. Limentani della R.
Università di Firenze), in «Logos», Napoli L'origine dell'ideale filosofico
della vita. Comunicazione, Rendiconti delle sessioni della R. Academia delle
scienze dell'Istituto di Bologna. Classe di scienze morali», serie V, I, Azzoguidi,
Bologna Zeller-M., La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I: 1
Presocratici, vol. Il: lonici e Pitagorici, La Nuova Italia, Firenze. Intorno
ad Epicarmo, in «Civiltà moderna», Firenze L'unità del pitagorismo, in «La Nuova
Italia», Firenze, giugno. 1940 Origen y sentido del concepto de cultura humanista,
para la inauguración de cursos del Istituto de Humanidades de la Universidad
Nacional de Córdoba, El Sol, La Plata Historia y filosofia, in «Sustancia», Tucumán, Trad.
it. in Alle origini della filosofia della cultura, trad. di L. Bassi, Il
Mulino, Bologna El materialismo histórico en Federico Engels, version
castellana de A. Mantica, Libreria y Editorial Ciencia, Rosario,
Descartes, Discorso sul metodo, a cura di M. e Garin, Sansoni, Firenze La
traduzione e le note di M. vennero pubblicate anonime in questa prima
edizione, mentre ricompaiono nelle ristampe successive Descartes, Principi di
filosofia, a cura di M. e E. Garin, Sansoni, Firenze, pp. XXXIII-82. La
traduzione e le note di Rodolfo Mondolfo vengono pubblicate anonime in
questa prima edizione, mentre ricompaiono nelle ristampe successive Sócrates,
edición de la Universidad Nacional de Córdoba, Córdoba. Anche in Moralistas
griegos. La conciencia moral de Homero a Epicuro, Imán, Buenos Aires 1941. Sugestiones
de la técnica en las concepciones de los naturalistas presocráticos, in
«Archeion» de la Universidad Nacional del Litoral Trad. it di L. Bassi:
Suggestioni della tecnica nelle concezioni dei naturalisti presocratici, in
Alle origini della filosofia della cultura, introduzione di R. Treves, Il
Mulino, Bologna Moralistas griegos. La conciencia moral de Homero a Epicuro,
Imán, Buenos Aires. Trad. it. accresciuta a cura di V. E. Alfieri, Moralisti
greci. La coscienza morale da Omero a Epicuro, Ricciardi, Napoli-Milano
Espíritu revolucionario y conciencia histórica, in «Revista Mexicana de
Sociología», Universidad Nacional Autónoma de México El pensamiento antiguo,
historia de la filosofia greco-romana, 2 vol., Losanda, Buenos Aires. El
problema del conocimiento desde los presocráticos hasta Aristóteles,
Publicaciónes del Instituto de Humanidades de la Universidad Nacional de
Córdoba, n. 19, Córdoba. La teoría del sentido interior en San Agustín y sus
antecedentes griegos, in «Insula», Buenos Aires. Trad. it. in Momenti del
pensiero greco e cristiano Espíritu revolucionario y conciencia histórica, in
«Revista mexicana de Sociología» e nel «Boletín del Instituto de Sociología de
Bueons Aires La antinomia del espíritu innovador, in «Sustancia», n. 9,
Tucumán, pp. 12- La filosofia política de Italia en el siglo XIX,
Imán, Buenos Aires. En los orígenes de la filosofía de la cultura, Imán,
Buenos Aires. En el centenario de Galileo, in «Sur La crítica
escéptica de la causalidad, in El problema de la causalidad, Publicaciones del
Instituto de Humanidades de Córdoba. El genio helénico y los caracteres de sus creaciones
espirituales, Cuadernos de la Facultad de Filosofía y Letras de Tucumán,
Tucumán. Roberto Ardigó y el positivismo italiano, in
«Sustancia», Tucumán Naturaléza y cultura en la formación de la filosofía
griega, Publicaciones del Instituto de Humanidades Córdoba. Rousseau
y la consciencia moderna, Imán, Buenos Aires. Campanella y Descartes, in «Estudios de
Filosofía», Universidad Nacional de Córdoba. La filosofía de la historia de Fernando
Lassalle, in «Revista mexicana de Sociología», Universidad Nacional Autónoma de
México Traducción de Carmelo di Bruno del original italiano. E.
Zeller-R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, 1
Presocratici, vol. I: Origini, caratteri e periodi della filosofia greca, 2ª
edizione, La Nuova Italia, Firenze. 1944 323. El pensamiento de Galileo y
sus relaciones con la filosofía y la ciencia antiguas, Publicaciones del
Instituto de Humanidades, n. 33, Córdoba La filosofía de Giordano Bruno, trad. Ricardo Resta,
in «Minerva», Buenos Aires, a. 1, vol. 1, mayo-junio. La ética antigua y la noción de
conciencia morale, Imprenta de la Universidad Nacional de Córdoba,
Publicaciónes del Instituto de Humanidades, n. 41, Córdoba, pp. 31. Misión
de la cultura humanista, in «Papales», Buenos Aires. Determinismo contra volontarismo en la
filosofia de Nietzsche, in «Minerva», Buenos Aires, II, n. 4. Anche Ensayos
críticos sobre filósofos alemanes, Imán, Buenos Aires Determinismo contro
volontarismo nella filosofia di F. Nietzsche, in Filosofi tedeschi: saggi
critici, trad. di L. Bassi, Cappelli, Bologna La politica y la utopía de
Campanella. La Ciudad del Sol, in «Revista mexicana de Sociología», Universidad
Nacional Autónoma de México Origen del ideal filosófico de la vida, in «Revista
de estudios clásicos de la Universidad de Cuyo», Mendoza Inserito
successivamente in M., En los orígenes de la filosofía del la cultura, Libreria
Hachette, Buenos Aires La trascendencia extratemporal divina y la infinitud
temporal en el período religioso de la filosofía griega, in «Philosophia»,
Mendoza, Universidad de Cuyo Eternidad e infinitud del tiempo en Aristóteles,
Publicaciones del Instituto de Filosofía y Humanidades, n. 44. Pubblicato nella
«Revista de la Universidad Nacional de Córdoba El infinito y las antinomias
lógicas de la filosofia antigua, «Publicaciones del Instituto de Humanidades Córdoba.
El primer fragmento de Heráclito: texto, traduccion y
comentario, in «Revista de la Universidad de Buenos Aires El pensamento
antiguo, Losada, Buenos Aires. Sobre la pena de muerte (Kant contra Beccaria), in
«Bebel», Santiago del Chile Bruno, in «Philosophia», Mendoza, Univer- sidad de
Cuyo La infinitud del espiritu en la filosofia antigua, Universidad Nacional de
Córdoba, Publicaciones del Instituto de Filosofía y Humanidades, Córdoba Qué es
el materialismo histórico, in «Babel», Santiago del Chile, Heidel, La edad
heroica de la ciencia, Espasa Calpe, Buenos Aires. Cesar
Beccaria y su obra, Depalma, Buenos Aires Trad. it con ampliamenti ed aggiunte:
Cesare Beccaria, La Nuova Accademia, Milano Descartes, Discorso sul metodo, a
cura di E. Garin e R. Mondolfo, Sansoni, Firenze, 2ª edizione. R.
Descartes, Principi di filosofia, a cura di E. Garin e R. Mondolfo, Sansoni,
Firenze, 2ª edizione. Il problema del male in Agostino e nell'agostinismo,
conferenza tenuta nell'aula magna dell'Università di Montevideo il 31 agosto.
Confluita in Momenti del pensiero greco e cristiano Ensayos críticos sobre
filósofos alemanes, Imán, Buenos Aires. Trad. it a cura di L. Bassi, Filosofi
tedeschi: saggi critici, Cappelli, Bologna 1958. La
idea de progreso humano en G. Bruno, in «Babel», Santiago del Chile, n. 39, pp.
97 ss. Tres filósofos de Rinascimiento: Bruno, Galileo,
Campanella, Losanda, Buenos Aires. Poi rifuso in Figuras e ideas de la Filosofía
del Rinacimento, Losada, Buenos Aires San Augustín y el problema del mal en el
neoplatonismo cristiano, in «Revista de la Facultad de Humanidades y Ciencias
de Montevide Interpretaciones de Heráclito en el último medio siglo, prólogo a
O. Spengler, Heráclito, Espasa-Calpe, Buenos Aires. Interpretaciones
italianas del materialismo histórico, in «Cultura italiana», Buenos Aires.
Trad. it: Il materialismo storico nelle interpre-tazioni italiane, in «Critica
sociale», Milano Voluntarismo y pedagogia de la acción en Mazzini y en Marx, in
«Babel», Santiago del Chile La idea de cultura en el Rinacimiento italiano, in
«Jornadas de centro de cultura italiana», Tucumán, Universidad Nacional Figure
e idee del Rinascimento, La Nuova Italia, Firenze, Die Klassische Philosophie
in Latein-Amerika, Universitas, Stuttgart. Problemas y métodos de la investigación
en historia de la filosofia, Cuadernos de Instituto de Universidad Nacional de
Tucumán, Tucumán. Sulle orme di Marx, 4ª edizione, Cappelli, Bologna. Le
sujet humain dans la philosophie antique, in AA. VV., Proceedingof the Tenth
International Congress of Philosophy, North-Holland Publishing Co., Amsterdam
Voluntad y conocimiento en Heráclito, in «Notas y estudios de filosofía»,
Tucumán, Spinoza y la noción de progreso humano, in «Bebel», Santiago de Chile Descartes,
Discorso sul metodo, a cura di E. Garin e R. Mondolfo, 3ª edizione, Sansoni,
Firenze. Descartes, Principi di filosofia, a cura di Garin e M.,
3ª edizione, Sansoni, Firenze. El hombre como sujeto espiritual en la filosofía
antigua, in Actas de primer Congreso Nacional de Filosofía, tomo III, Mendoza,
Universidad Nacional de Cuyo L'utopia di Campanella, Studi in onore di Gino
Luzzatto», Giuffrè, Milano. Rousseau, Discorsi e Contratto sociale, a cur. M., 3ª
edizione, Cappelli, Bologna. Il pensiero antico. Storia della filosofía
greco-romana, esposta con testi scelti dalle fonti, 2ª edizione, La Nuova
Italia, Firenze. Il metodo di Galileo e la teoria della conoscenza, in
«Rivista di filo-sofia», Torino Figure e idee del Rinascimento, La Nuova
Italia, Firenze Ensayos sobre el Renacimiento italiano, Universidad Nacional de
Tucumán, Instituto de filosofía, Tucumán. El método de Galileo y la teoría del
conocimiento, in Actas de la Academia de Ciencias Culturales y Artes de la
Universidad Nacional de Tucumán, Tucumán Trabajo manual y trabajo intelectual
desde la antigüedad hasta el Renacimiento, in «Revista de historia de las ideas
de la Universidad Nacional de Tucumán», Tucumán Lavoro manuale e lavoro
intellettuale dall'antichità al Rinascimento, in «Critica sociale», Milano,
Ristampato in Alle origini della filosofia della cultura, a cura di R. Treves,
Il Mulino, Bologna Polis, lavoro e tecnica, introduzione e cur. Ferriolo,
Feltrinelli, Milano La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I: I
presocratici, vol. Il: Ionici e Pitagorici, 2ª edizione, La Nuova Italia,
Firenze Lo humano y lo subjetivo en el pensamiento antiguo, in «Notas y
estudios de filosofía», Tucumán, Sobre
una interpretación reciente de Anaxagoras y los eleatas, in «Notas y estudios
de filosofía», Tucumán, Preparación profesional e investigación científica, in
La universidad del siglo XX, Universidad Nacional de San Marcos, Lima Trad. it.
in Educazione e cultura come problemi sociali La reminiscencia platónica y la actividad
del espíritu, in «Actas del Congreso de filosofía en Lima» y «Revista de la
Universidad Nacional de S. Agustín de Arequipa». Reseñas en «Notas y estudios de
filosofía», sobre: M. Dal Pra, La storiografia filosófica antica; C. Moeller,
Sagesse grecque etparadoxe chrétien; A. Nogueira, Universo Zeller-M., La
filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I: I Presocratici, vol. I:
Origini, caratteri e periodi della filosofia greca, 3ª edizione, La Nuova
Italia, Firenze El pensamiento antiguo.Desde los orígines hasta Platón.
Tomo II: Desde Aristóteles hasta neoplatónicos, 3ª edizione, Losada, Buenos
Aires El infinito en el pensamiento de la antigüedad clásica, trad. de F.
Gonzáles Ríos, Ediciones Imán, Buenos Aires. La filosofía como problematicidad
y el historicismo, in «Philosophia», Universidad Nacional De Cuyo, Mendoza,
Trad. it: La filosofia come problematicità e lo storicismo, in «Il Dialogo Il
materialismo storico in F. Engels, 2ª edizione italiana, La Nuova Italia,
Firenze. Leonardo teórico del arte y de la ciencia, in «Sur»,
Buenos Aires, Eduard Zeller y la historia de la filosofía, in «Notas y estudios
de filosofía», Tucumán Intorno alla gnoseologia di Democrito, «Rivista critica
di storia della filosofia», Milano La comprensione del soggetto umano
nell'antichità classica, trad. di L. Bassi, La Nuova Italia, Firenze Problemi e
metodi di ricerca nella storia della filosofia, La Nuova Italia, Firenze.
1953 I cirenaici e i raffinati del Teeteto platonico,
«Rivista di filosofia», Torino La comprensione del soggetto umano nell'età
classica Il valore del lavoro nel riconoscimento di Senofonte,
Platone ed Aristotele, in «Critica sociale», Milano, Trabajo y conocimiento
según Aristóteles, in «Imago mundi», Buenos Aires L'unité du sujet dans la gnoséologie
d'Aristóte, in «Revue philosophique», Paris Platón y el concepto unitario de
cultura humana, in «Humanitas», Universidad Nacional de Tucumán, a. 1, n. 1,
pp. 15-24; nella versione italiana: Platone e il concetto unitario di cultura
umana, in Scritti di sociologia e politica in onore di Luigi Sturzo, II,
Zanichelli, Bologna, pp. 569-580. Dos textos de Platón sobre Heráclito, in «Notas y
estudios de filosofía», Tucumán Leonardo teorico dell'arte e della scienza, in
«II Ponte», Firenze Campanella y su utopía, prólogo a T. Campanella, La Ciudad
del Sol, Losada, Buenos Aires. Breve historia del pensamiento antiguo, Losada, Buenos
Aires La valoración del trabajo en la Grecia antigua hasta
Sócrates, in «Revista de economía», Córdoba, The Greek attitude to manual
labour, in «Past & Present», London Rousseau e la coscienza moderna, La
Nuova Italia, Firenze. Trad. it. di Rousseau y la consciencia moderna, Imán,
Buenos Aires 1944. Cultura e libertà nel pensiero di Croce, in «Critica
sociale», Milano, Educazione e cultura come problemi sociali Cultura y libertad
en el pensamiento de B. Croce, in AA.VV, Homenaje a Benedetto Croce en el
primer aniversario de su fallecimiento, de la Facultad de Filosofía y Letras de
Buenos Aires Seneca e l'infinità del progresso spirituale, in
«Critica sociale», Milano, aprile. La divisione del lavoro e il compito sociale
dell'educazione, in «Critica sociale», Milano Educazione e cultura come
problemi sociali, cit., pp. 35-43. Séneca y la infinitud del progreso espiritual, in «La
Torre», de la Universidad de Puerto Rico, n. 5, pp. 63-74. Il
problema di Cratilo e l'interpretazione ai Eraclito, in «Rivista critica di
storia della filosofía», Milano, IX, n. 3, pp. 221-231. La conciencia moral en Sócrates, Platón y
Aristóteles, in «Humanidades», de la Universidad Nacional de La Plata, n. 34,
Seccíon Filosofía Figuras e ideas de la filosofía del Renacimiento, Losada,
Buenos Aires. Trad. it. a cura di L. Bassi: Figure e idee della filosofia
del Rinascimento, La Nuova Italia, Firenze El problema de Cratilo y la
interpretación de Heráclito, in «Anales de Filología Clásica», Buenos Aires,
Universidad de Buenos Aires Rousseau, Discorsi e Contratto sociale, a cura di
R. Mondolfo, 4ª edizione, Cappelli, Bologna. Educazione e democrazia nel pensiero
socialista, in «Critica sociale», Milano Historia de la filosofía e historia de
la cultura, in «Imago mundi», Buenos Aires, marzo. Trad it. Storia della
filosofia e storia della cultura, in Educazione cultura come problemi sociali Intorno
a Gramsci e alla filosofia della prassi, in «Critica sociale», Milano Critica
sociale», Milano 1955, con prefazione di E. Bassi. Successivamente
compreso nel volume Da Ardigò a Gramsci, Nuova Academia, Milano Umanismo di
Marx. Studi filosofici Antologia di Aristotele, La Nuova Italia, Firenze. La
comprensión del sujeto humano en la cultura antigua, Imán, Buenos Aires. Trad.
it. a cura di L. Bassi, La comprensione del soggetto umano nell'antichità
classica, La Nuova Italia, Firenze 1958. Giuseppe Mazzini y los orígenes del movimiento obrero
en Italia hasta 1872. El conflicto entre Mazzini y Bakunin, in «Cuadernos de la
cultura de Italia», Buenos Aires, Sócrates, Colección filósofos y sistemas,
Losange, Buenos Aires. Edizione ampliata de Sócrates, edición de la
Universidad Nacional de Córdoba, Cordoba I moralisti greci. La coscienza morale
da Omero a Epicuro, Ricciardi, Milano-Napoli Lavoro e conoscenza nelle
concezioni dell'antichità classica, «Sag-giatore», Torino. Poi in Educazione e
cultura come problemi sociali, Successivamente anche in Polis, lavoro e
tecnica, a cura di M. V. Ferriolo Espíritu revolucionario y conciencia
histórica, Ediciones Populares Argentinas, Buenos Aires. Evolución del socialismo, Ediciones
Populares Argentinas, Buenos Aires. Historia de la Universidad de Bologna, in «La Torre»,
Puerto Rico, Universidad de Puerto Rico, 3, 12, ottobre-dicembre, pp. 45 ss.
Trad. it. Storia dell' università di Bologna, in «La vita italiana», nel volume
Estudios italianos en la Argentina, publicado dal Centro di studi italiani,
Buenos Aires Cultura y libertad en el pensamiento de B. Croce, in Homenaje a
Croce en el primer aniversario de su fallecimiento, Facultad de Filosofía y
Letras de Buenos Aires. Trabajo y conocimiento en las concepciones de la
antigüedad clásica, in «Cuadernos Americanos», México, Universidad Nacional
Autónoma de México, Titolo originale: Lavoro e conoscenza nelle concezioni
dell'antichità classica, in «Saggiatore» Torino. Storia dell'università di Bologna, in «La
vita italiana», nel volume Estudios italianos en la Argentina, publicado dal
Centro di studi italiani, Buenos Aires Educazione e cultura come problemi
sociali, L'infinito nel pensiero dell'antichità classica, La Nuova Italia,
Firenze. El genio helénico: formación y caracteres, Editorial
Columba, Buenos Aires. La ciencia de la lógica de Hegel, trad. de Augusta y M.,
prólogo de M. Hachette, Buenos Aires. La división del trabajo y la tarea de la educación,
en «Estudios sociológicos» (IV congreso de sociologia), México, y en «La
Nación», Buenos Aires, abril. El materialismo histórico en Engels y otros ensayos,
nueva traduccion de la 2ª edicion italiana con agregados, Editorial Raigal,
Buenos Aires. Alle origini della filosofia della cultura, trad. it
di L. Bassi e con introduzione di R. Treves, I Mulino, Bologna. Bolscevismo
e dittatura (la conseguenza del sistema), in «Critica sociale», Milano Studi
sulla rivoluzione russa, cit., L'esigenza del nesso fra storia della filosofia
e storia della cultura, in AA. VV., Verità e storia: un dibattito sul metodo
della storia della filosofia, Società filosofica romana, Arethusa, Asti Aristotele.
Antologia, 1ª ristampa, La Nuova Italia, Firenze.1957 La coscienza morale e la legge interiore
in Plutarco, in «Filosofia», Torino, Sul concetto di lavoro, in «Il comune»,
Senigallia, febbraio. Successivamente in S. Anselmi, Incontro con Rodolfo
Mondolfo. In appendice: M. Il concetto di lavoro, Libr. editrice Sapere,
Senigallia 1961. La filosofia della Critica sociale, in Esperienze e
studi socialisti: in onore di U. G. Mondolfo, La Nuova Italia, Firenze, pArte,
religión y filosofía de los Griegos, Columba, Buenos Aires. La
deuda de Aristóteles con Platón, in «La Nación», Buenos Aires, 10 de
febrero. Acerca de la primera traducción directa de la Ciencia
de la lógica de Hegel, in «La Prensa», Buenos Aires, 13 de enero. La
filosofía como problemática y su continuidad histórica, in «Revista de
filosofía de la Universidad de Costa Rica», San José de Costa Rica, Prólogo
a A. Nogueira, Ideas vivas e ideas muertas, Colecão Rex, Río de Janeiro. Problemas
de cultura y educación, Hachette, Buenos Aires. Trad. it Educazione e cultura
come problemi sociali, Cappelli, Bologna 1957: Prólogo a Lamanna, Historia de la
Filosofía, I: El pensamento antiguo, trad. de Caletti, Hachette, Buenos Aires. Educazione
e cultura come problemi sociali, Cappelli, Bologna. Edizione spagnola:
Problemas de cultura y education, Hachette, Buenos Aires. La historia de
la filosofía y la historia integral, in «Revista de la Universidad de Buenos
Aires», Buenos Aires, Note intorno alla storia della filosofía, in «Rivista
critica di storia della filosofia», Milano,
L'influenza storica e la perennità di Socrate, in «Il
Dialogo», Bologna, Evidence of Plato and Aristotele relating to the
ekpyrosis in Heraclitus, trad. D. J. Allan, in «Phronesis», Intorno
al problema storico di Hilferding, in «Critica sociale», Milano, Ristampato in
R. Mondolfo, Umanismo di Marx. Studi filosofici, Filosofi tedeschi: saggi
critici, trad. di L. Bassi, Cappelli, Bologna. Il pensiero stoico ed
epicureo. Antologia di testi, a cura di R. Mondolfo e D. Pesce, La Nuova
Italia, Firenze. Determinismo contro volontarismo in Nietzsche, in «Il
Dialogo», Bologna, nTitolo originale: Determinismo contra volontarismo en la
filosofia de Nietzsche, in «Minerva», Buenos Aires. Nella sua traduzione
italiana il saggio si trova anche in Id. Filosofi tedeschi: saggi
critici, trad. di L. Bassi, Cappelli, Bologna Prospettive filosofiche: la
filosofia come problematicità e lo storicismo, con bibliografia degli scritti
di R. Mondolfo, in «Il Dialogo», Bologna, Titolo originale: La filosofía como
problematicidad y el historicismo, in «Philosophia», Universidad Nacional De Cuyo,
Mendoza, Rispetto all'originale spagnolo del 1949, Mondolfo inserisce una breve
postilla di aggiornamento. La comprensione del soggetto umano nell'antichità
classica, trad. it. L. Bassi, La Nuova Italia, Firenze. Titolo originale: La
comprensión del sujeto humano en la cultura antigua, Imán Buenos Aires
Prefazione a L. Conti, L' assistenza e la previdenza sociale. Storia e
problemi, Feltrinelli, Milano. Aristotele. Antologia, La Nuova Italia,
Firenze Eraclito e Anassimandro, La Nuova Italia, Firenze. Eraclito
e Anassimandro (Dalle note di aggiornamento Zeller-Mondolfo, vol. III: Capitoli
su Eraclito), in «Filosofia», Torino, I frammenti del fiume e il flusso universale in
Eraclito, in «Rivista critica di storia della filosofía», Milano El flujo
universal de Heráclito y el símbolo del río, in «Cultura Universitaria» Anche
in E. Zeller e R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico,
Parte I: 1 Presocratici, Eraclito, La Nuova Italia, Firenze, Il pensiero
politico del Risorgimento italiano, La Nuova Accademia, Milano. Titolo
originale: La filosofia política de Italia en el siglo XIX, Imán, Buenos Aires.
Rispetto all'edizione castigliana quella italiana presenta aggiornamenti e
arricchimenti. El pensamiento antiguo. Historia de la filosofia
greco-romana, vol. I-IL, 4ª edición, Losada, Buenos Aires. Sócrates,
Editorial Universitaria, Buenos Aires. El sol y las Erinias, según Heráclito, in
«Universidad», Universidad Nacional del Litoral, Santa Fe, La
idea de una misión del filósofo, en el pasado y en nuestros días, in «La
Nación», Buenos Aires, octubre. El flujo universal de Heráclito y el símbolo del río,
in «Cultura Universitaria», Caracas, Direccion de Cultura. Departamento de
Publicaciones, Nota sobre los Antecedentes en la historia de la filosofía, in
«Philosophia», Mendoza, Universidad Nacional de Cuyo, Facultad de Filosofía y
Letras, Instituto de Filosofía, La conflagración universal en Heráclito, in
«Philosophia», Mendoza, Revista del Instituto de Filosofía, Universidad
Nacional de Cuyo, Facultad de Filosofía y Letras, Los seminarios de investigación filosofíca, in
«Revista de Educación», La Plata, La missione della filosofia nell'epoca
attuale, in «Critica sociale», Milano, Anche in Prospettive storiche e problemi
attuali dell'educazione. Studi in onore di Ernesto Codignola, La Nuova Italia,
Firenze Guía bibliográfica de la filosofía antigua, Losada,
Buenos Aires. Cesare Beccaria, La Nuova Academia, Milano. Edizione
italiana, con complementi ed aggiunte de Cesare Beccaria, Editorial Depalma,
Buenos Aires Moralisti greci. La coscienza morale da Omero a Epicuro, trad. a
cura di V. E. Alfieri, Ricciardi, Napoli-Milano. Titolo originale: Moralistas
griegos. La conciencia moral de Homero a Epicuro, Imán, Buenos Aires Rispetto
all'originale edizione spagnola, quella italiana si presenta accresciuta.
O genio helénico, en V. de Magalhães Vilhena,
Panorama do pensamiento filosófico, Cosmos, Lisboa. En los orígenes de la filosofía de la
cultura, 2ª edición ampliada, Hachette, Buenos Aires. La Universidad latino-americana como
creadora de cultura, Cultura universitaria de Caracas Universidad de la
República, Montevideo; Universidades (Unión de Universidades de América
latina), Buenos Aires, IMarx y marxismo, Estudios histórico-críticos, Trad.
esp. parciale de M. H. Alberti, Fondo de cultura económica, México-Buenos
Aires. Socrates, 3ª edición, Eudeba, Buenos Aires Bibliografía
heraclitea, in «Anales de filología clásica», Buenos Aires, Il pensiero
stoico ed epicureo. Antologia di testi, introduzione critica e commento a cura
di D. Pesce, La Nuova Italia, Firenze. Presentazione a AA.VV, Senigallia, a cura di S.
Anselmi, Libreria Editrice Sapere, Senigallia. Socialismo e cristianesimo, in «Critica
sociale», Milano, El genio helénico y Arte, religión y filosofía de los
griegos, Editorial Columba, Buenos
Aires. Notas heraclíteas. La identidad de los caminos
opuestos (B 59 y B 60), in «Philosophia», Mendoza, Universidad Nacional de
Cuyo, Facultad de Filosofía y Letras, Instituto de Filosofía, Heráclito y
Parménides, in «Cuadernos filosóficos», Universidad Nacional del Litoral,
Rosario, De las notas de actualización de Zeller-Mondolfo, La filosofia dei
Greci nel suo sviluppo storico. Problemas y métodos de la investigación en la
historia de la filosofia, 2ª edición ampliada, Edit. Universitaria, Buenos
Aires. Il pensiero neoplatonico. Antologia di testi, scelta,
traduzione e note introduttive di M., introduzione critica e commento di D.
Pesce, La Nuova Italia, Firenze. Il pensiero antico. Storia della filosofia
greco-romana esposta con testi scelti dalle fonti, 3ª edizione aggiornata, La
Nuova Italia, Firenze. E. Zeller-R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo
sviluppo storico, I Parte: 1 Presocratici, vol. IV: Eraclito, La Nuova Italia,
Firenze. E. Zeller-R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo
sviluppo storico La filosofia post-aristotelica, vol. VI: Giamblico e la Scuola
di Atene, trad. di E. Pocar, a cura di G. Martano, La Nuova Italia,
Firenze. Nel centenario di Filippo Turati, in «Quaderni
italiani dell'Istituto italiano di cultura», Buenos Aires. Arte,
religion y filosofia de los Griegos, Columba, Buenos Aires. Veritas
filia temporis en Aristóteles, in «Revista de la Universidad Nacional de
Córdoba», Personalità e responsabilità nella democrazia, I parte, in «Critica
sociale», Milano, Il movimento operaio fino al 1860, in «Critica
sociale», Milano, S. Anselmi, Incontro con Rodolfo Mondolfo. In appendice: M.,
Sul concetto di lavoro, Libreria editrice Sapere, Senigallia. 1962 Personalità
e responsabilità nella democrazia, Il parte, in «Critica Sociale», Milano, Il
concetto dell'uomo in Marx, in «Il dialogo», Bologna, e a cura del Comune di
Senigallia. Si tratta di una conferenza tenuta all'Università di Montevideo per
i corsi del Consejo Interuniversitario Regional di Argentina, Cile e Uruguay,
nel febbraio del 1962. Successivamente pubblicata in spagnolo (trad. a cura di
O. Caletti) nel testo Humanismo de Marx, Fundo de la cultura económica, México
Ora in Umanismo di Marx. Studi filosofici Personalidad y responsabilidad en la
democracia, in «Buenos Aires. Revista de Humanidades», Buenos Aires, La
conciencia moral de Homero a Demócrito y Epicuro, Eudeba, Buenos Aires Materialismo
histórico. Bolschevismo y dictadura, Ediciones nuevas, Buenos
Aires. Le opere complete di Antonio Labriola, in «Critica
sociale», Milano, in numero di ripubblicazione dell Tesi di Critica Sociale,
Rousseau y la conciencia moderna, Eudeba, Buenos Aires. Homenaje a M., Universidad Nacional de
Córdoba. Da Ardigò a Gramsci, La Nuova Accademia, Milano. Testimonianze
su Eraclito anteriori a Platone, in «Rivista critica di Storia della
filosofia», Milano, Fratelli Bocca Eraclito, Testimonianze e imitazioni, a cura
di M. e L. Tarán, La Nuova Italia, Firenze Breve historia del pensamiento
antiguo, Losada, Buenos Aires. Siete opiniones sobra la significación del humanismo
en el mundo contemporáneo, in «Revista de la Universidad de Buenos Aires»,
Buenos Aires Un precorrimento di Vico in Filone alessandrino, in
AA. VV., Miscel-lanea di studi alessandrini in onore di A. Rostagni, Bottega
d'Erasmo, Torino, Successivamente in R. Mondolfo, Momenti del pensiero greco e
cristiano, Morano, Napoli Morale e libertà in Labriola, recensione a Dal Pane,
Ricerche sul problema della libertà e altri scritti di filosofia e pedagogia
Critica sociale», Milano, L'uomo greco secondo Pohlenz, in «Il Ponte», Firenze,
La Nuova Italia, Poi in Momenti del pensiero greco e cristiano, Morano, Napoli,
Fromm y la interpretación de Marx, in «La Nación», Buenos Aires, julio. La
Universidad y sus antecedentes, in «La Gaceta», del Fondo de Cultura Económica,
Mexíco. Personalidad y responsabilidad en la democrazia,
Buenos Aires. Sócrates, Mestre Jou, São Paulo. Sócrates,
4ª edición, Eudeba, Buenos Aires. En torno a la contemporaneidad de la historia, in «La
Torre», Puerto Rico, Universidad de Puerto Rico, Trad. it. Intorno alla
contemporaneità della storia, in «Critica sociale», Milano, La obra de
Condillac, prólogo a Condillac, Tratado de las sensaciones, Eudeba,
Buenos Aires. Problemas y métodos de la investigación en la
historia de la filosofía, Eudeba, Buenos Aires. Fromm e il concetto dell'uomo in Marx, in
«Critica sociale», Anche in R. Mondolfo, Umanismo di Marx. Studi filosofici, Figure
e idee della filosofia del Rinascimento, La Nuova Italia, Firenze. Trad. it.
Figuras e ideas de la filosofía del Rinacimento, Losanda, Buenos
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di recenti studi), in «Il Dialogo», Bologna, Ristampato in Umanismo di Marx.
Studi filosofici, Nuovi studi su Feuerbach e Marx, a cura di M. e A. Testa, in
«Il Dialogo», Bologna, Marxismo e libertà, in «Il Ponte», Firenze, Anche in
Umanismo di Marx. Studi filosofici, Le antinomie di Gramsci, in «Critica
sociale»,Decartes, Discorso sul metodo, a cura di M. ed E. Garin,
Sansoni, Firenze. Galileo e la
scienza, in «Critica sociale», Milano, Ripubblicazione del saggio (cap II: Il
pensiero di Galileo e i suoi rapporti con l'antichità e con il Rinascimento)
apparso nella raccolta Figure e idee del Rinascimento, La Nuova Italia, Firenze
In memoria di Gino Luzzatto, in «Critica sociale», Galileo y el método experimental, in «La
Nación», junio. Momenti del pensiero greco e cristiano, Il Morano,
Napoli. A quarant'anni della prima edizione de «La
Rivoluzione Liberale», M. a Piero Gobetti, Centro Studi Gobetti, Quaderno
Torino. El humanismo de Marx, trad de O. Galetti, Fondo de la
Cultura Económica, México-Buenos Aires. Origen y desarrollo histórico de la universidad, in
«Revista de la Universidad de Córdoba», Córdoba. O pensamento antiguo, 2 tomos, Maestre
You, São Paulo. Momentos de pensamiento griego y cristiano, versión
castellana de O. Caletti, Paidós, Buenos Aires Materialismo histórico como
humanismo realista, in «La Gaceta», del Fondo de la Cultura Económica, México,
septiembre. Si tratta di una conferenza tenuta all'Università di Montevideo per
i corsi del Consejo Interuniversitario Regional di Argentina, Cile e Uruguay,
nel febbraio del 1962. Pubblicata anche nel testo Humanismo de Marx, Fundo de
la cultura económica, México. La versione italiana (I materialismo storico come
umanismo realistico) si trova in «Il Dialogo», Bologna, e in M., Umanismo di Marx. Studi filosofici, Discussioni
su un testo di Parmenide (Die Fragm. d. Vorsokr. -- Rivista critica di storia
della filosofia», Milano, Sul valore storico delle testimonianze di Platone, in
«Filosofia», XV, ottobre, pp. 583-601. Anche in Eraclito, Testimonianze e
imitazioni, a cura di M. e L. Tarán, La Nuova Italia, Firenze, Platón y la
interpretación de Jenófanes, in «Revista de la Universidad Nacional de
Cordoba». La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico,
Parte I: I presocratici, vol. Il: Ionici e Pitagorici, La Nuova Italia,
Firenze. K. Marx, Crítica de la filosofia del derecho de
Hegel, trad. del alemán, con notas aclaratorias de R. Mondolfo, Ed. Nuevas,
Buenos Aires La lotta di classe secondo Juan B. Justo, in «Critica sociale»,
Milano, Riproduzione dell'Introduzione a AA. VV., Bilancio del marxismo,
Cappelli, Bologna 1965; e con il titolo Conclusioni sul marxismo, in «П
Dialogo», Tecnica e scienza nel pensiero antico, in «Athenaeum», Pavia, El
pensamento antiguo, trad. del italiano por S. A. Tri, tomo I-II, 5ª edición,
Losada, Buenos Aires. Introduzione a Bilancio del marxismo, Cappelli,
Bologna. 1966 539. Le testimonianze di Aristotele su Eraclito, in
«Filosofia», Torino, Anche in Heraclitus, Testimonianze e imitazioni,
cura di R. Mondolfo e L. Tarán, La Nuova Italia, Firenze, Aristotele.
Antologia, 4ª edizione, La Nuova Italia, Firenze. Verum ipsum factum desde la antigüedad
hasta Galileo y Vico, in «La Torre», Puerto Rico. Verum ipsum factum dall'antichità a
Galileo e Vico, in «Il Ponte», Firenze, La prima inchiesta sul fascismo, in
«Critica sociale», Milano, Il
centenario di Filippo Turati e introduzione e parti di F. Turati, Le vie
maestre del socialsimo, Morano, Napoli. Universidad: pasado y presente, Eudeba, Buenos Aires.
Sócrates, Eudeba. Heráclito, textos y problemas de su
interpretacion, prologo de R. Frondizi, trad. de O. Caletti, Siglo XXI, México,
Madrid, Buenos Aires Battisti, in «Critica sociale», Milano, La lucha de clases
según ]. Justo, in Concepto humanista de la historia, Libera, Buenos Aires. Chiarimenti
sulla filosofia della prassi, in «Critica sociale», Anche in R. Mondolfo,
Umanismo di Marx. Studi filosofici, Prefazione e saggi: Per la comprensione
storica del fascismo e il fascismo in Italia in AA. VV., Il fascismo e i
partiti politici italiani. Testimonianze, a cura di R. De Felice,
Cappelli, Bologna. 552. Cesare Battisti socialista, in «Critica sociale»,
Milano, Zeller-M., La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte II:
Da Socrate ad Aristotele, Aristotele e i Peripatetici più antichi, trad. di C.
Cesa, a cura di A. Plebe, La Nuova Italia, Firenze. La testimonianza di
Platone su Eraclito, in «De homine», Roma, Anche in Eraclito, Testimonianze e
imitazioni, a cura di R. Mondolfo e L. Tarán, La Nuova Italia, Firenze Zeller-M.,
La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte I: 1 Presocratici, vol.
Origini, caratteri e periodi della filosofia greca, testo della 5ª edizione
tedesca con nuovi aggiornamenti, La Nuova Italia, Firenze. Zeller-M.,
La filosofia dei Greci, Parte I: 1 Presocratici, vol. III: Eleati, a cura di G.
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Mestre Jou, São Paulo. Sulle orme di Marx, 5ª edizione, Cappelli, Bologna. La
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sviluppo storico, Parte I: 1 Presocratici, vol. IV: Eraclito, La Nuova Italia,
Firenze. E. Zeller-R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo
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Scuola di Atene, trad. di E. Pocar, a cura di G. Martano, La Nuova Italia,
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con nuovi aggiornamenti, La Nuova Italia, Firenze. J. J. Rousseau, Discorsi e contratto
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Firenze. Scritti pubblicati e rieditati dopo la morte dell'Autore
Rousseau, Discorsi e Contratto sociale, a cura di M., Cappelli, Bologna El
humanismo de Marx, 2ª edición, Fondo de Cultura Económica, México Il
pensiero stoico ed epicureo. Antologia di testi, introduzione critica di
D. Pesce, La Nuova Italia, Firenze Heráclito: textos y problemas para su
interpretación, Siglo Veintiuno, México Mazzini e il movimento operaio in
Italia fino al 1872, introduzione di Tramarollo, in «Nuova Antologia»
Firenze, Zeller-M., La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte III:
La filosofia post-aristotelica, I precursori del Neoplatonismo, trad. di Pocar,
a cura di R. del Re, La Nuova Italia, Firenze La comprensión del sujeto humano
en la cultura antigua, Eudeba, Buenos Aires Aristotele. Antologia, La
Nuova Italia, Firenze, Figuras e ideas de la filosofia del Rinacimiento,
Icaria, Barcelona El pensamiento antiguo: historia de la filosofía
greco-romana: desde los orígenes hasta Platón, Losada, Buenos Aires El
pensamiento antiguo: historia de la filosofía greco-romana: desde Aristóteles
hasta los neoplatónicos, Losada, Buenos Aires Q Turati, Le vie
maestre del socialismo, a cura di M, in AA. VV., Il riformismo socialista
italiano, a cura di O. Pugliese, Marsilio, Venezia Marx y marxismo: estudios
histórico-críticos, Fondo de Cultura Económica, México Heráclito: textos y
problemas de su interpretación, prólogo de R. Frondizi, trad. de Caletti, Siglo
Veintiuno, México Polis, lavoro e tecnica, introduzione e cura di M. Venturi
Ferriolo, con un saggio di A. Aymard, Feltrinelli, Milano Pensamiento antiguo,
I-II, Trad. di S. Trí, Losada, Buenos Aires Il pensiero stoico ed epicureo.
Antologia di testi, introduzione critica e commento a cura di D. Pesce, La
Nuova Italia, Firenze Su pensamiento filosofico historico y social, Instituto
de Intercambio Cultural y Cientifico Argentino-Israeli, Buenos Aires Il
pensiero stoico ed epicureo. Antologia di testi, introduzione critica e
commento a cura di Domenico Pesce, La Nuova Italia, Firenze Il pensiero stoico
ed epicureo. Antologia di testi, La Nuova Italia, Firenze Aristotele.
Antologia, La Nuova Italia, Firenze Tra teoria sociale e filosofia politica.
Rodolfo Mondolfo interprete della coscienza moderna. Scritti, a cura di R.
Medici, CLUEB, Bologna Turati, Le vie maestre del socialismo, a cura di M
e G. Arfè, Laicata, Manduria Lettere inedite a Santino Caramella, a cura
di F. Armetta, «Theológos» Sócrates, Eudeba, Buenos Aires La conciencia
moral de Homero a Demócrito y Epicuro, 3a edición, Eudeba, Buenos Aires
Prologo alla traduzione spagnola della Scienza della Logica di Hegel, in «Il
Cannocchiale: rivista di Studi Filosofici» M e la guerra delle idee - Scritti,
a cura di Ferrandi, Museo storico del Trentino e Società aperta di
Trento, Trento Breve historia del pensamiento antiguo, Losada Breve,
Buenos Aires Zeller, Compendio di storia della filosofia greca. Con una
guida bibliografica di Rodolfo Mondolfo, ristampa anastatica, La Nuova
Italia, Firenze Rousseau, Discorsi sulle scienze e sulle arti,
sull'origine della disuguaglianza fra gli uomini, introduzione e note di L.
Luporini, trad. Di M., Rizzoli, Milano El pensamiento antiguo: historia de la
filosofía greco-romana, Desde los orígenes hasta Platón, Losada, Buenos Aires
El pensamiento antiguo: historia de la filosofía greco-romana, Desde
Aristóteles hasta los neoplatónicos, trad. de A. Trì, Losada, Buenos
Aires Breve historia del pensamiento antiguo, Losada, Buenos Aires Figuras e
ideas de la filosofía del Renacimiento, Losada, Buenos Aires. Educazione
e socialismo. Scritti sulla riforma scolastica (dagli inizi del '900 alla
Riforma Gentile), a cura di Pironi, Laicata, Manduria-Bari- Roma Guía
bibliográfica de la filosofía antigua, Losada, Buenos Aires 2005.
Feuerbach y Marx: la dialéctica y el concepto marxista de la historia,
Claridad, Buenos Aires Heraclitus, Testimonianze, imitazioni e frammenti, a
cura Tarán, M. Marcovich, introduzione di Reale, Bompiani, Milano Gli
albori della filosofia in Grecia, introduzione di G. Casertano, Petite
Plaisance, Pistoia. Zeller-M.-G. Reale, Gli Eleati da La filosofia dei Greci
nel suo sviluppo storico, con un aggiornamento bibliografico di Girgenti,
Bompiani, Milano 2011. L'attrattiva della bellezza poetica, con cui Lucrezio
adorna la sua esposizione della teoria del progresso nella filosofia dell’orto intensifica
il potere suggestivo di questa sulla mente dei filosofi romani. Cooperano, a
Roma verso la visione ottimistica del progresso, altri influssi, come quelli del
lizio e del portico che si riconosceno nella celebrazione da Cicerone del
divino potere creatore dell'intelligenza dell’uomo. L'influsso democriteo si
ripercuoteva in Diodoro Siculo attraverso Ecateo di Abdera. Quello dell’Orto agiva
non solo sul grande poema di Lucrezio, ma anche (attraverso questo) sulla
filosofia di Virgilio, Orazio, e Vitruvio. Certo, a Roma ci si mostrano
due orientamenti opposti. Quello ottimistico, assertore ed esaltatore del
potere creatore dello spirito umano e del progresso. Quello pessimistico,
ispirato all'idea di una inferiorità naturale dell'uomo rispetto agl’animali,
ovvero di una sua caduta dalla perfezione e felicità primordiali della mistica
età saturnia alle miserie, alle fatiche e ai conflitti dell'epoca storica.
Queste voci tetre risuonano in Ovidio e Plinio, come già anteriormente in
quella di Sallustio (Catilina). Ovidio, in Metamorph.-, influsso di
Cicerone (De natura deorum), esalta la nascita dell'uomo (« natus est homo »),
come dell'animale piú savio e di maggior capacità mentale tra tutti, dominatore
della natura, di figura simile a quella degli dèi, l'unico che per la sua
posizione eretta possa contemplare il Cielo. Ma Ovidio limita l'epoca beata dell’uomo
all'età d’oro, quando non ancora l'uomo aveva scoperto i metalli, né inventato
la navigazione, né le armi, né le fortificazioni, e neppure l'aratro e iutte le
altre creazioni tecniche che sono per Ovidio fonti di pene e di danni per il
loro inventore. La creatività della mente dell’uomo ha cosí un riconoscimento
in Ovidio, ma come causa lamentevole d'infelicità. “Contra te sollers, hominum
natura, fuisti, et nimium damnis ingeniosa tais Amores). D'altra
parte Plinio (Natur. hist.) vuole umiliare l'orgoglio di coloro che - come
Cicerone in De natura deorum, — affermano che il mondo fu creato *per* l'uomo;
e li richiama alla considerazione di tutti gli elementi d'inferiorità che ha
l'uomo rispetto agli altr’animali, e dei motivi della sua infelicità:
un'anticipazione del pessimismo del “De miseria hominis.” Ma nell'atteggiamento di Ovidio il
riconoscimento (fatto a denti stretti) del potere creatore dell'intelligenza
dell’uomo, rivela la forza con cui, nonostante ogni pessimismo, tale idea
s'imponeva allo spirito dell'epoca. Aiutata certo nella sua diffusione dalla
condizione storica, cioè dall'espansione trionfale del potere di Roma. Ma ispirata nella sua affermazione da
suggestioni teoriche derivanti da filosofi. Dall’orto attraverso l'affascinante
esposizione poetica di Lucrezio, e da Cicerone. Influenze combinate si devono
riconoscere appunto in Cicerone, nella sua celebrazione dell'eccellenza
dell'uomo, del potere creatore dello spirito umano, del lavoro, dell'industria
e della co-operazione tra gl’uomini, come fonti delle grandi conquiste della
civiltà, che troviamo in “De natura deorum”, “De finibus bonorum et malorum”, “De
legibus”, e “De officiis”. L'uomo, dice Cicerone in “De legibus,” questo
animale previdente, sagace, molteplice, acuto, dotato di memoria, pieno di
ragione e di prudenza, ha da dio la sua natura privilegiata, anzi partecipa con
la sua ra- lavor dichiarate alle he Coceo in “De officis”, L, s, dove
ri corda che Panezio ha sviluppato molto ampiamente e con numerosi esempi
ciò che i capitoli 3-5 sintetizzano, specialmente intorno alla co-operazione
tra gli uomini, indispensabile per la creazione di tante arti -- “senza le quali la vita non meriterebbe
d'esser vissuta” . . Modernamente l'influenza di Panezio è sione di
richiamare l'attenzione nel saggio L'infinito nel pen siero dell'antichità
classica, Firenze, La Nuova Italia] gione alla natura e alla comunità divine 7.
Seminato sulla terra, ha ricevuto il dono divino dell'anima e la capacità della
virtú, che è la natura perfezionata in se stessa ed elevata al suo grado
sommo (“in se perfecta et ad summum perducta natura”); e, mediante l'imitazione
della natura maestra, la ragione umana, usando la sua capacità industriosa (“sollerter”),
è pervenuta all'invenzione di un numero infinito di arti (“artes
innumerabiles repertae sunt”). La natura diede all'uomo — mediante
i sensi messaggeri, la rapidità della mente e la luce dell'intelligenza -- i
fondamenti della scienza (“quasi fundamenta quaedam scientiae”), di modo che, per
se stessa, la natura umana sempre piú progredisce ed avanza (“ipsam per se
natu-ram longius progredi”) e, da sé, senza aver bisogno di maestri (“etiam
nullo docente”), arriva a consolidare e a perfezionare la ragione, partendo
dalle cose le cui specie ha conosciuto per mezzo della intelligenza primordiale
ed iniziale (“ex prima et inchoata intelligentia”) 3. In tal modo —
ripete Cicerone alla fine dell'Hortensius (come riferisce Agostino, De
trinit.), con Aristotele, Protrept. fr. c Walzer (Rose), l'intelligenza è forza
visiva e sforzo attivo della mente (“mentis aciem”), animata dal desiderio
attivo dell'investigazione (“ratione et investigandi cupiditate”). E come la
sua attività è rivolta ugualmente e congiuntamente [Eredità di
ARISTOTELE, Protreptico, fr. c Walzer = 61 Rose (che Anoke qul Cierone a
apia al concet aristotelice dele potenza che per se stessa tende
all'atto. La potenza fondamentale dell'intelligenza (“inchoatae intelligentiae”)
considerata qui, è tanto teorica (argumentamur, etc.) quanto pratica
(conficimus), e non è privilegio di pochi eletti, ma possesso di tutti (“communis
omnium”). E Cicerone aggiunge ciò che già diceva Sofocle nel coro dell'Antigone
e tornerà a dire nel rinascimento Pico nel suo “De hominis dignitate”, cioè che
l'uomo ha nella sua natura la doppia possibilità, d'elevarsi verso la sommità
del bene o di sprofondare negli abissi del male alla conquista della scienza e
alla creazione delle arti, cosí — ripete Cicerone, “De finibus”, con lo stesso
Protreptico di Aristotele - si deve riconoscere che l'uomo è nato per una
doppia finalità, mentre ogni animale è nato per un unico compito: il cavallo
per la corsa, il bue per arare, il cane per cercare, ma l'uomo, come un dio
mortale, per due attività creatrici, intendere ed operare (“ut ad cursum equum,
ad arandum bovem, ad investigandum canem, sic hominem ad duas res, ut ait
Aristoteles, ad intelligendum et agendum esse natum, quasi mortalem deum”).
Queste idee hanno piú ampio sviluppo in “De natura deorum”, dove la superiorità
dell'uomo sugli animali è affermata da Cicerone, seguendo le orme di Panezio,
negli aspetti seguenti. La costituzione del suo corpo, la cui posizione eretta
gli permette la contemplazione del cielo e gli dà la possibilità di conoscere
il corso degli astri, di determinare le divisioni del tempo, di prevedere i
fenomeni astronomici per tutto l'avvenire (“in omne posterum tempus”) e di
trarre dall'ordine di essi la nozione della divinità legislatrice e
governatrice del mondo. I sensi che alla percezione associano i giudizi di
distinzione e di valutazione delle impressioni, e si fanno pertanto ispiratori
della creazione di arti rivolte a cogliere e ad usare le sensazioni (“ad quos
sensus ca-piendos et perfruendos, plures etiam quam vellem artes repertae sunt”);
l'intelligenza
che comprende, definisce, connette le cose e crea una scienza di tale potere ed
eccellenza, che neppure in dio c'è qualcosa di superiore (“qua ne in deo quidem
est res ulla prestantior” § 59). E per questa via l'uomo crea anche le arti, le
une per le necessità della vita, le altre per il diletto (secondo la
distinzione tradizionale di Democrito e Aristotele); e a questi risultati
coopera anche il linguaggio che, come mezzo di comunicare le conoscenze e di
influire sul sentimento e la volontà altrui, e il vincolo sociale che trasse
l'umanità fuori della vita ferina primordiale (“haec nos iuris, legum, urbium
societate devinxit: haec a vita immani et fera segregavit”). Ma
nella creazione delle arti Cicerone torna a far notare, con Anassagora, l'opera
della mano, la cui conformazione e agilità permettono all'uomo di operare tanto
nelle arti di diletto (pittura, scultura, musica), quanto in quelle di
necessità (agricoltura, edilizia, tessitura, cucitura, confezione di strumenti
di metallo, etc.). «Per cui si comprende che noi abbiamo conseguito tutto
ciò che concerne le cose scoperte dallo spirito e percepite dai sensi, mediante
l'applicazione delle mani degli operai, per poter essere protetti, vestiti e
salvi, e avere città, difese, domicilii, templi ». Possiamo prendere
l'ali-mento e conservarlo; allevare e utilizzare animali per il trasporto e per
l'agricoltura; estrarre i metalli nascosti dalle profondità della terra e
forgiarli in strumenti e decorazioni; tagliare alberi per riscaldamento,
cottura di alimenti, edificazione di case, costruzione di navi, che a noi —
unici al mondo — permettono di dominare la forza del mare e dei venti. In
conclusione, l'uomo si converte in inventore delle arti e in dominatore della
natura, cioè in creatore di una nuova realtà, quella del mondo della
cultura. «Noi usufriamo dei campi, noi dei monti; nostri sono i fiumi,
nostri i laghi; noi seghiamo le messi, noi tagliamo gli alberi; noi, mediante
l'immissione di acque, diamo fecondità alle terre; noi chiudiamo i fiumi tra
dighe, li inalveiamo, li deviamo; insomma cerchiamo di creare con le nostre
mani una specie d'altra natura nella natura delle cose ». Non seguiremo
Cicerone nella sua dimostrazione successiva della tesi che il mondo fu creato
al servizio dell'uomo, che è la tesi contro cui polemizza Plinio, ma che non
interessa il nostro tema. Ciò che ci importa è la celebrazione menzionata del
potere creatore dell'umanità, che si può considerare un eloquente commento
esplicativo della citazione che il “De finibus” trae dal Protreptico
aristotelico, la quale dichiara che l'uomo è nato per la doppia attività,
conoscitiva e creativa, come un dio mortale. L'uomo contemplato qui da Cicerone
è appunto quello che crea il mondo della cultura e lo sovrappone al mondo della
natura; e Cicerone offre una formula efficace per esprimere tale creazione: «
nostris denique manibus in rerum natura quasi alteram naturam efficere
conamur». Formula che, insieme alla ricordata definizione (“dio mortale”)
tratta da Aristotele, ispira le 'linee memorabili dello Spaccio della bestia
trionfante di Bruno, che sintetizzano il contenuto essenziale della
dimostrazione ciceroniana: « gli dèi avevano donato a l'uomo l'intelletto e le
mani, e l'avevano fatto simile a loro, donandogli facultà sopra gli altri
animali; la qual consiste non solo poter operar, secondo la natura ed
ordinario, ma, ed oltre, fuor le leggi di quella; acciò, formando o possendo
formar altre nature, altri corsi, altri ordini con l'ingegno.... venesse a serbarsi
Dio de la terra » (Gentile, Dialoghi morali, Bari, Laterza). Anche quello
che segue nella pagina bruniana, sulle necessità che acuiscono gli ingegni e
fanno inventare le arti — di modo che « sempre piú e piú.... allontanandosi
dall'esser bestiale, piú altamente s'approssi-mano a l'esser divino › — poteva
ispirarsi alle frasi di Cicerone relative all'uomo che « se segregavit a vita
immani et fera »; frasi che, tuttavia, esprimevano un concetto comune ad altri
filosofi antichi, da Democrito a Lucrezio, i quali insieme a Cicerone
influiscono sulle celebrazioni della dignità dell'uomo e della creatività dello
spirito, rinnovate dagli scrittori rinascimentali, da Manetti a Bruno e
Campanella ?. Ma in un particolare caratteristico il luogo citato dello
Spaccio bruniano poté ispirarsi alla I Georgica di Virgilio, vale a dire nel
considerare la mitica età dell'oro come epoca di pigrizia e di stupidità umane,
e nel celebrare invece la dura necessità come causa del risveglio
dell'intelligenza e della creazione delle arti. « Ne l'età de l'oro,” dice
Bruno, “per l'Ocio gl’uomini non eran piú virtuosi, che sin al presente
cultadi, risorte le necessitadi, sono acuiti gl'ingegni, inventate le
industrie, scoperte le arti; e sempre di giorno in giorno, per mezzo de l'egestade,
dalla profundità de l'intelletto umano si eccitano nove e maravigliose
invenzioni. Onde, sempre piú e piú per le sollecite ed urgenti occupazioni
allontanandosi da l'esser bestiale, piú altamente 'approssimano a l'esser
divino » Senza dubbio il mito dell'età aurea o saturnia, pertamente svalutato
qui da Bruno, e motivo di sogni nostalgici per i filosofi dell'epoca d’Ottaviano,
quando Ovidio lo evoca in Metamorph., collegandolo con l'altro mito esiodeo
delle cinque età della degradazione umana, e lo stesso Virgilio torna a sognare
un ritorno del regno di Saturno (« redeunt Saturnia regna ») nella profezia
della Sibilla nell'Egloga IV. Tuttavia questi miti si trovavano già in
Esiodo in conflitto con la celebrazione del lavoro condizionante la dignità
della vita, oltre che ogni acquisizione di beni. 3 Cfr. anche Gentile,
«Il concetto dell'uomo nel rinascimento › ne Il pensiero del rinascimento,
Firenze. E il problema torna a porsi per Virgilio, che lo risolve nella I
Georgica in un modo che precorre Bruno. L’abbondanza e la facilità di vita
della mitica età saturnia significano ozio e letargo mentale; e Giove, che nel
detronizzare Saturno introduce le difficoltà, l'indigenza e la necessità del
lavoro, da agli uomini per questa via il dono inestimabile dell'attività
dell'intelligenza, creatrice delle arti e trionfatrice di tutte le avversità
per mezzo del lavoro. «Giove, il padre (pater ipse), volle che non fosse
facile la via della coltivazione, e dapprima fa lavorare i campi per mezzo
dell'arte, e acuí per mezzo delle preoccupazioni gli spiriti dei mortali, e non
permite che il suo regno s'intorpidisse in un pesante letargo », come accadeva
prima del suo governo, quando nessuno lavora la terra, e questa concede tutto
senz'esser sollecitata dal lavoro umano. Giove cancella totalmente le facilità
e comodità, « affinché la necessità suscitasse le diverse arti, a poco a poco,
mediante la meditazione ». Cosí nasce l'agricoltura. Si scopre il modo di
accendere il fuoco con la pietra focaia. Si incanalano i fiumi. Si inventa la
navigazione, e il navigante impara a conoscere e nominare le stelle. Si
inventano gl’artifici della caccia e della pesca. Si forgia il ferro e se ne
fanno strumenti come l'ascia e la sega. «Allora vennero le varie arti;
trionfano di tutte le difficoltà il lavoro instancabile e l'indigenza che
assilla [gli uomini] nell'asperità delle condizioni di esistenza »: Tum
variae venere artes; labor omnia vicit improbus, et duris urguens in rebus
egestas. In tal modo, per Virgilio, la necessità e il lavoro, che Ovidio
lamenta come una maledizione per la vita umana, sono una vera benedizione,
perché risvegliano l'intelligenza e l'attività creatrice dell'uomo, e stimolano
quella meravigliosa creazione delle arti e della cultura, i cui momenti e
aspetti Virgilio sintetizza ispirandosi alla ricostruzione storica tracciata
nel V libro di Lucrezio. Certo, Virgilio s'allontana da Lucrezio
nell'accettare il mito dell'età saturnia, pur valutandolo negativamente
rispetto a ciò che è piú essenziale e nobile nell'umanità, vale a dire, l'intelligenza
e la creatività dello spirito. Ma un'eco piú fedele della concezione lucreziana
sulla condizione primordiale dell'umanità risuona in Orazio (“Satyr.”) con la
descrizione dei primi uomini che, come gl’altri animali, formano un gregge muto
e turpe (mutum et turpe pecus), lottano tra loro con unghie e pugni, poi con
bastoni e piú tardi con altre armi per soddisfare i primordiali bisogni di cibo
e di riparo, finché non creano il linguaggio, desistendo dalle guerre, edificando
città e creando leggi che impediscano i delitti. In una generazione successiva
Giovenale (“Satyr.”, VI e XIII) ripresenta una descrizione analoga dello stato
bestiale dell'umanità primitiva, satirizzando l'idea dell'età saturnia:
anch'egli, probabilmente, influenzato da Lucrezio e dalla concezione epicurea
della storia dell'umanità. Tuttavia, l'eco piú importante, teoricamente,
di tale concezione ci si presenta nell'età d'Ottaviano (come oggi si torna a
riconoscere da parte della critica storica) con Vitruvio, il quale sembra
raccogliere dagli ambienti colti della sua epoca o compiere lui stesso una
fusione delle idee esposte da Lucrezio con altre di varia provenienza, relative
al progresso umano, derivanti da Cicerone, al cui insieme aggiunge l'intuizione
dell'importanza che hanno per il progresso due fattori, apparentemente
contrari, ma connessi da lui in una dipendenza mutua, che sono la divisione del
lavoro e l'unità organica della cultura umana. Vitruvio mette in rilievo,
nella sua concezione del progresso storico dell'umanità e della creazione della
cultura, una molteplicità di fattori cooperanti: la durezza primordiale della
vita; le esperienze fortuite che suggeriscono qualche mezzo per mitigare tale
durezza; le capacità e potenze congenite negli uomini, che sono stimolate al
loro esercizio dai due fattori suddetti, e sono avviate cosí ad uno sviluppo
progressivo e alla produzione di risultati crescenti; la ripercussione che
hanno i fattori citati sulla formazione di raggruppamenti umani permanenti, a
partire da quelli temporanei primordiali, e sulla creazione del linguaggio;
l'effetto prodotto da tali innovazioni, che non solo permettono l'assommarsi
delle capacità individuali, ma provocano il loro acerescimento progressivo,
dovuto sia al mutuo aiuto e all'esperienza dei vantaggi della cooperazione, sia
allo stimolo reciproco derivante dall'attrito degli ingegni; il sussidio
poderoso, che dà a tale processo l'uso di due strumenti meravigliosi, che sono
il linguaggio, generato dalla convivenza sociale, e il possesso della mano,
organo naturale incomparabile per afferrare ed elaborare le cose, la cui
efficacia, già intuita da Anassagora, ha di nuovo posta in rilievo Cicerone; e
infine l'imitazione e trasformazione della natura effettuate dalle arti, dove
il conoscere è un fare e l'esperienza è un esperimento. Questo fare e
sperimentare воло геві possibili precisamente dal possesso e
dall'uso delle mani, che rendono capace l'uomo di tentare i piú vari modi
di combinazione ed elaborazione dei mezzi naturali, di modo che, a partire da
principi minimi, le arti si elevano nel loro sviluppo verso risultati sempre
maggiori e progressivi affinamenti delle loro capacità creative. Tutti
questi elementi sono messi in rilievo da Vitruvio nel cap. I del libro II del
De Architectura: Sulla vita degli uomini primitivi e sugl’inizi e incrementi
della civiltà e dell'architettura.” La prima esperienza che, secondo Vitruvio, ha
una funzione decisiva per togliere gli uomini dalla vita ferina primordiale e
generare la convivenza sociale permanente, fu quella dell'incendio di selve
prodotto da qualche tempesta. L'impressione di terrore iniziale è seguita dalla
curiosità, per la quale gli uomini, dopo esser fuggiti, tornano ad avvicinarsi
e, sentendo il calore del fuoco, intuiscono la sua utilità per la vita.
Attratti dallo spettacolo, gl’uomini si riuniscono, concepiscono la possibilità
di continuare ad alimentare il fuoco. E cosí iniziano la loro convivenza ed una
comunicazione mutua delle loro impressioni mediante voci, che a poco a poco,
con il tempo, si convertono in linguaggio. La posizione eretta e il possesso
delle mani, che permettono il maneggio di qualunque oggetto, portano gl’uomini
alla prima creazione di ripari e di tetti, mediante escavazione di tane o costruzioni
di rami e fango che imitano quelle dei nidi di rondini. Lucrezio e
Cicerone insieme suggerivano a Vitruvio questa concezione delle fasi e dei
fattori del processo. Vitruvio aggiunge l'idea di un'analogia generale di
questo sviluppo storico presso i diversi popoli, allegando i documenti offerti
da resti di costruzioni primitive che si trovavano in paesi civili come sul
Campidoglio di Roma, e dalle edificazioni che continuavano a farsi in paesi
barbari (Gallia, Aquitania, Colchide, Frigia, etc.). Queste osservazioni
comparate, che presentano il passato dei popoli civili come analogo al presente
dei barbari, potevano suggerire l'idea di un futuro progresso dei barbari verso
uno sviluppo analogo al presente dei popoli civili, tanto piúin quanto Vitruvio
rileva l'impulso che danno al progresso le relazioni mutue nell'interno d'ogni
popolo. L'osservazione reciproca (egli nota) desta non solo la capacità
d'imitazione, ma anche l'emulazione, per cui si perfezionano con il tempo i
prodotti e si affinano la stessa intelligenza e la facoltà di giudizio dei
produttori. Allora con l'osservazione delle costruzioni altrui e
l'aggiunta di novità per mezzo delle riflessioni proprie, di giorno in giorno
andavano migliorando il tipo delle costruzioni. Ed essendo gli uomini capaci
d'imitazione e d'istruzione, nel celebrare giornalmente le loro invenzioni, si
mostravano tra di loro i risultati delle loro costruzioni; e in tal modo,
nell'esercitare i loro ingegni in competizioni, di giorno in giorno si facevano
di giudizio piú raffinato ». Quest'ultima frase, “in dies melioribus
iudiciis efficiebantur,” anticipa l'idea di Bruno, che gli uomini acquistano
progressivamente giudizio « piú maturo »; il che si determina, secondo Bruno
per tre fattori: l'accumulazione delle osservazioni, l'attività riflessiva e
inventiva del pensiero, e la varietà delle cose osservate. Ma Vitruvio aggiunge
un altro fattore piú importante: l'esercizio attivo del potere dell'ingegno,
stimolato dalla emulazione (exercentes ingenia certationibus). In ciò Vitruvio
raccoglie la suggestione di Aristotele relativa all'affinamento progressivo del
giudizio per via del suo esercizio costante. Ma in Aristotele tale esercizio
nasce dall'insoddisfazione e dalla critica delle idee altrui. In Vitruvio dallo
sforzo d'emulazione. In entrambi, tuttavia, il processo si realizza tanto nello
spirito individuale quanto in quello collettivo; e Vitruvio riconosce cosí la
formazione storica dello spirito dell'umanità, considerando il vincolo e l'azione
reciproca tra il perfezionamento dei prodotti dell'arte e lo sviluppo dello
spirito produttore.Vitruvio esprime cosí u concetto tipicamente storicistico,
nel riconoscere che lo spirito umano è in sé e per sé storia e sviluppo;
concetto considerato abitualmente « tutto proprio dell'età moderna», come lo
define Gentile (Il pensiero del rinascimento, cit.), nel trovarlo espresso da
Bruno. Vitruvio riconosce e spiega tale carattere storico dello spirito in
rapporto con la storia dell'architettura, che nel suo sforzo di perfezionamento
progressivo, per rispondere sempre piú alle esigenze umane, si fa, secondo lui,
generatrice di altre arti e discipline, per via dell'esercizio continuo cui
obbliga la mente, che in tal modo si potenzia e sviluppa in se stessa nuove
capacità, madri di arti e scienze nuove. « Come, dunque, con l'attività
costante (quotidie faciendo) avevano [gli uomini] rese piú esperte ed abili le
loro mani per ogni costruzione (tritiores manus ad aedificandum perfecissent),
e mediante l'esercizio instancabile dei loro ingegni (solertia ingenia
exercendo) erano giunti con l'uso incessante alla creazione delle arti, allora
l'attività industriosa aggiunta da essi ai loro spiriti (industria in animis
eorum adiecta) fece sí che quelli che erano piú ben disposti e diligenti
(studiosiores) si convertissero in artefici professionali (fabros se esse
profiterentur) ». Nasce in questo modo, dal progresso delle capacità
intellettuali e pratiche, la divisione del lavoro; ma nasce e si mantiene
legata all'unità organica della cultura, affermata già, con notevole vigore, da
Vitruvio nel I cap. del libro I. Dove si fa notare per l'architettura il
vincolo reciproco dell'attività pratica (fabrica) e di quella teorica
(ratiocinatio), che non permette di raggiungere la perfezione dell'arte né al
puro homo faber né al puro homo sapiens, ma solo a chi riunisce in sé entrambe
le condizioni; e aggiunge Vitruvio che l'architetto ha bisogno di conoscenze di
letteratura, disegno, geometria, storia, filosofia, musica, medicina,
diritto, astronomia, cioè di possedere una cultura organica: « tutte le
discipline hanno tra loro un vincolo ed una comunicazione mutua.... e la [cosí
detta] disciplina enciclica come un corpo unico è costituita di tali
membri ». Certamente, come tecnico e teorico dell'architettura, convinto
e preoccupato dell'importanza preminente della sua arte, Vitruvio nel I cap.
del libro II, che stiamo analizzando, sembra che spieghi l'unità e connessione
reciproche di tutte le arti e discipline come dovute ad un germinare di tutte dalla
radice comune dell'archi-tettura, che per le sue esigenze ed i suoi sviluppi
genererebbe le altre arti e scienze, e ne determinerebbe i progressi. « Dalla
costruzione degli edifici progredendo gradualmente verso le altre arti e
scienze (e fabrica-tione aedificiorum gradatim progressi ad ceteras artes et
disciplinas) e utilizzando le armi del pensiero e la riflessione deliberativa',
con cui la natura rafforzò le loro menti (cum natura cogitationibus et
consiliis arma-visset mentes), essi trassero l'umanità dalla vita ferina e
selvaggia a quella civile (e fera agrestique vita ad mansuetam perduxerunt
humanitatem) ». Allora si genera negli uomini la capacità di prepararsi
nel loro spirito, e di guardar lontano per mezzo dei pensieri piú grandi, che
nascono dalla varietà delle arti (tum autem instruentes animo se et
prospicientes maioribus cogitationibus ex varietate artium natis); il che
Vitruvio applica, indubbiamente, ai progressi del-l'architettura, ma è un
concetto che s'estende da sé ad ogni sviluppo culturale. « Poi con le
osservazioni degli 1 Se leggessimo, con qualche edizione, conciliis
anziché con siliis, dovremmo pensare che Vitruvio rilevasse qui non già
l'importanza della riflessione deliberativa (consilia), bensi quella della
convivenza e della cooperazione sociale (concilia). Ma queste ul-
time sono per Vitruvio creazione umana e non dono della natura.
studi portarono [le loro opere] dai giudizi errati ed incerti alle ragioni
certe delle simmetrie. Quindi mediante le loro cure alimentarono e adornarono
di piaceri l'eleganza della vita, accresciuta dalle arti (trac- tando
nutriverunt et auctam per artes ornaverunt vo- luptatibus elegantiam
vitae) ». Si presenta pertanto, nella concezione di Vitruvio, tutto un
processo storico nel quale l'uomo, spinto dai bisogni, guidato dalle
esperienze, rafforzato dall'eserci-zio, sviluppa e traduce progressivamente in
atto le sue potenze naturali, creando le arti e le scienze; ma in questo
processo i prodotti reagiscono sul produttore; l'esercizio intensifica i poteri
dello spirito e genera nuove capacità; i risultati realizzati si convertono in
mezzi e impulsi per creazioni ulteriori; e in questo modo l'umanità progredisce
e si sviluppa, creando il mondo della cultura e creando nello stesso tempo spiritualmente
se stessa per mezzo del suo lavoro, come causa ed effetto insieme dei suoi
progressi. La concezione della creatività dello spirito appare, dunque,
raggiunta in pieno da Vitruvio. Lo scambio d'azione che Vitruvio vedeva
effettuarel tra lo spirito produttore e i suoi prodotti nella creazione e nello
sviluppo progressivo delle arti e delle scienze, significava per se stesso un
processo storico di autocreazione e d'autosviluppo incessanti dello stesso
spirito umano, che logicamente doveva presentarglisi come un processo infinito.
Ma Vitruvio non segnalò, e forse non intuí neppure questa conseguenza della sua
conce- ' (Appare in questa visione un barlume del processo chiamato da
Marx il processo della umwälzende Praxis, cioè dell'attività dell'uomo che si
rovescia su se stessa e sull'uomo, trasformandolo nel trasformare se
stessa. zione, cosí come non l'aveva espressa né vista Aristotele,
benché riconoscesse che il potere intellettuale dell'uomo va aumentando sempre,
quantitativamente e qualitativa- mente, con l'esercizio attivo delle sue
capacità di indagine e di riflessione critiche. La prima affermazione
esplicita dell'infinità del progresso spirituale umano ci appare nell'antichità
classica con Seneca, che tuttavia era stato precorso parzialmente da Filone
ebreo, come diremo. Ma mentre nella concezione di Vitruvio l'infinità
potenziale del progresso è in rapporto con il processo di creazione e sviluppo
delle arti, a cui egli collegava la scoperta delle scienze, Seneca invece nella
polemica contro Posidonio ripudia l'unità e identità tra l'homo faber e l'homo
sapiens, che quello aveva affermato (cfr. Epist.). Contro la celebrazione
del progresso tecnico, inserito da Posidonio nello sviluppo stesso della
saggezza, Seneca nella sua polemica sembrava ripudiare la creazione umana delle
arti, accusandola di complicare e render difficile la vita, e sembrava
ritornare, con l'evocazione di Diogene, all'ideale cinico-stoico della
semplicità primordiale della vita conforme alla natura, che facilmente soddisfa
le sue esigenze minime. «Non fu tanto nemica la natura, da concedere la
facilità della vita agli altri animali e volere che solo l'uomo non potesse
vivere senza tante arti.... Siamo noi che ci rendemmo tutto difficile per la
nostra tendenza a stancarci (fastidio) delle cose facili.... Tutte queste arti,
per le quali la città si eccita e rumoreggia, lavorano per il corpo, a cui
prima si imponeva ogni [sa-crificio] come ad uno schiavo, mentre ora gli si
prepara ogni [godimento] come ad un padrone » (epist. cit.). Tuttavia
questa posizione polemica non rappresenta integralmente l'orientamento
spirituale di Seneca. Seneca è ben lungi dall'identificare la saggezza —
nel cui culto vede l'unica attività che possa render degna la vita
umana - con la supposta felicità primordiale dello stato di natura. « Per
quanto egregia e priva di inganni fosse la vita di quelli (primitivi), essi non
furono savi.... non avevano ingegni perfezionati (consum-mata).... La natura
non dà la virtú, e il diventar buono è un'arte.... Quelli erano innocenti per
ignoranza; ma c'è una gran differenza tra il non volere e il non saper peccare
(multum interest utrum peccare aliquis no-lit an nesciat). Mancava loro la
giustizia, mancava loro la prudenza, la temperanza, la fortezza. La loro vita
incolta aveva qualcosa di simile a tutte queste virtú; ma la virtú non è
conseguita se non da uno spirito edu-cato, istruito e portato mediante
l'esercizio assiduo fino al vertice. Certo nasciamo per questo, ma senza
que-sto; e anche negli uomini migliori, prima che posseggano l'educazione,
esiste la materia della virtú, ma non la virtú stessa » (ibid.). In tal
modo, la virtú torna a presentarsi connessa alla cultura in questa stessa
Epistola 90, dove la critica a Posidonio sembrava portare ad una rivendicazione
della natura primordiale, simile a quella dei cinici. La virtú, dunque, per
Seneca non è un'ingenuità ignorante, ma deve avere chiara coscienza del male e
del vizio per trionfare di essi. Seneca fa in certo senso presentire il
concetto che ispira in tempi moderni la filosofia della storia di Fichte
(Caratteri fondamentali dell'epoca con- temporanea), secondo cui
l'umanità, dopo di essere uscita dalla sua primitiva rettitudine incosciente,
abbisogna della piú profonda coscienza ed esperienza del peccato, per elevarsi
alla sua cosciente redenzione. Con la rivalutazione della cultura come
condizione e fondamento dell'etica e della filosofia, tornano ad essere
pertanto rivalutate da parte di Seneca anche le arti, ed è riaffermato il
concetto del Protreptico aristotelico, della doppia e indivisibile
funzione che incombe al- Q l'uomo, cioè quella di esercitare tanto
l'attività intellettuale quanto quella pratica. Aristotele aveva affermato,
secondo la testimonianza di Cicerone (De finibus), che l'uomo nacque per due
cose: intendere e operare («ad duas res, ad intelligendum et agendum esse natum
»); e Seneca (De otio) ripete che la natura volle che facessimo le due cose:
operare e coltivare la contemplazione. « Natura autem utrumque fa-cere me voluit,
et agere et contemplationi vacare ». Anzi, aggiunge che egli le fa entrambe,
perché sono insepa-rabili, giacché neppure la contemplazione può esistere senza
azione: « utrumque facio; quoniam ne contem-platio quidem sine actione est »'.
Nessuna virtus è un bene reale, finché non passa all'azione (“in otium sine
actu proiecta”). «Chi potrebbe negare che essa deve comprovare nelle opere i
suoi progressi, e non limitarsi a pensare ciò che si deve fare, bensí
esercitare anche le sue mani e portare a realtà le sue meditazioni? » (* sed
etiam aliquando manum exercere, et ea quae meditata sunt ad verum perducere?
»). Questa rivalutazione dell'attività pratica, a causa del legame che
l'attività teorica ha con essa, doveva portar seco anche un apprezzamento delle
creazioni delle arti, che per questa via tornano ad inserirsi nel processo
creativo della cultura, dove si afferma il potere e il valore dello spirito
umano. Una celebrazione caratte ristica di questa creatività dello spirito,
applicata alle opere della civiltà e delle arti, merita di esser segna- É
evidente la derivazione da Seneca del noto luogo dello Spaccio bruniano
(ed. Gentile): « e per questo ha determinato la providenza, che vegna occupato
ne l'azione per le mani, e contemplazione per l'intelletto; de maniera che non
con-temple senza azione, e non opre senza contemplazione. Ne l'età dunque de
l'oro per l'Ocio gli uomini non erano piú virtuosi, che sin al presente le
bestie son virtuose ». lata nell'Epistola, relativa all'incendio che
in una sola notte aveva distrutto la città di Lione (Lugdunum), che era per la
sua bellezza la gloria della Gallia. Seneca si rende conto che le opere dei
mortali sono. condannate a perire e che noi viviamo tra cose caduche: « omnia
mortalium opera mortalitate damnata sunt. Inter peritura vivimus». Ma questo
carattere mortale delle opere è superato dall'imperitura energia creatrice
del-l'umanità, che ricostruisce sempre ciò che è caduto e lo ricostruisce piú
bello e perfetto, di modo che le distruzioni si convertono in fattore di
progresso. « Multa cecide-runt ut altius surgerent et in maius ». Come Roma
sempre risorse piú bella e potente dalle ceneri degli incendi subiti, cosí
anche a Lione tutti competeranno per ricostruirla in forma piú grande e piú
solida di quella per-duta: « ut maiora certioraque quam amisere restituant. Ciò
che caratterizza l'uomo, dunque, consiste per Seneca nell'esigenza e nello
sforzo costanti di superamento; per il loro mezzo lo spirito immortale
dell'umanità si sovrappone al carattere mortale delle sue creazioni. Sono
mortali - sembra dire Seneca — le creazioni partico-lari; ma è immortale la
creazione progressiva della cul-tura, per essere immortale e inesauribile lo
spirito creatore. In questo sforzo interminabile di superamento,
le attività pratiche delle arti e della tecnica in generale si unificano, per
Seneca, con le attività teoriche della scienza e della filosofia. Possiamo dire
che Seneca precorre Lessing nel considerare che questo sforzo spirituale
costituisce il valore della vita, che pertanto si afferma solo in quanto l'uomo
amplia progressivamente il suo orizzonte e le sue aspirazioni. Se mai l'umanità
potesse giungere ad un possesso pieno della scienza, e non avesse piú davanti a
sé un cammino ulteriore da percorrere e difficoltà nuove da superare, non
avrebbero piúsignificato la vita e il mondo in cui si sviluppa l'attività
umana. È lo sforzo ciò che costituisce il valore della vita; la sua persistenza
inestinguibile e il suo rinnovamento incessante presuppongono l'impossibilità
perenne di raggiungere il fine ultimo; ma questa condizione non significa per
l'uomo una maledizione o condanna ad una tensione vana che non può mai essere
soddisfatta, bensí alimenta e mantiene il valore della vita come milizia ' ed
aspirazione dignificatrice, che sono nello stesso tempo perfezionamento
spirituale progressivo. Quest'idea, dell'infinità dello sforzo e del
progresso umano, derivante dall'impossibilità di conseguire il fine supremo,
era stata intuita ed espressa parzialmente, prima di Seneca, da Filone ebreo.
La posizione degl’uomini in qualsivoglia delle loro attività, dice Filone, sta
sempre nel mezzo tra l'inizio e la fine: « Noi siamo trattenuti nell'intervallo
tra la fine e l'inizio nell'impa-rare, nell'insegnare, nel lavorare la terra,
nell'operare in ciascuna delle altre cose » (Quis rerum divin. heres sit); ma
questa inferiorità che caratterizza la nostra imperfezione costante in
confronto alla perfezione assoluta di Dio, non significa ristagno e immobilità
spi-rituali, bensí movimento e progresso incessanti: « A misura che uno avanza
nelle scienze e si pone stabilmente sul loro terreno, si fa tanto piú incapace
di raggiungere i loro limiti.... La scienza per i piú capaci è una sorgente
sempre in movimento, che produce sempre nuovo afflusso di idee» (De plantat.
Noë). In tal modo per Filone ogni approfondimento della nostra conoscenza
è nello stesso tempo un approfondi- [Cfr. Epist.: Atqui vivere, Lucili,
militare est. Itaque qui iactantur et per operosa atque ardua sursum ac deorsum
eunt, et expeditiones periculosissimas obeunt, fortes viri sunt,
primo- resque castrorum; isti, quos putida quies, aliis laborantibus,
mol- liter habet, turturillae sunt, tuti contumeliae causa ».
mento della coscienza della nostra ignoranza: dalla conoscenza acquisita
spuntano sempre problemi nuovi; ma dai problemi nasce il movimento progressivo
dell'intel-ligenza, in un processo che non finisce mai a causa
dell'impossibilità di raggiungere, con il pensiero, il termine ultimo. Questo,
per Filone, si raggiunge certo nel rapimento dell'estasi, che è estinzione di
ogni movimento attivo della mente; ma fuori della soluzione mistica, c'è solo
un processo infinito, conseguenza dell'infinita di- stanza, che ci divide
dall'irraggiungibile oggetto supremo. Vero è che di questi pensieri di
Filone non ebbe alcuna notizia Seneca, il quale giunse per una via parzialmente
analoga all'idea dell'infinito progresso conoscitivo, cou- siderandolo
determinato dall'infinita distanza, che ci separa sempre dal fine supremo delle
nostre aspirazioni e dai nostri sforzi. Ci sono delle realtà — osserva Seneca
in Natur. quaest., a proposito dell'igno-ranza del suo tempo riguardo alle
orbite e alle. leggi di movimenti delle comete:
- che non possono essere colte dai nostri occhi, o perché permangono in
luoghi sottratti alla nostra vista, o perché la loro sottigliezza è
irraggiungibile per la nostra acutezza visiva, o forse anche perché non abbiamo
la capacità di percepirle, nonostante che riempiano i nostri occhi. Tutte queste
realtà sono accessibili unicamente allo spirito (animo) e debbono essere
contemplate con il pensiero (cogitatione). Ma lo stesso pensiero che ci porta
fino all'idea dell'esistenza di Dio, che creò tutto l'universo intorno a sé e
lo governa, ed è la parte mag- derlo nella giore e migliore della
sua opera, non arriva a comprenderlo nella sua essenza. « Non possiamo sapere
che cos'è ciò, senza di cui nulla esiste, e ci stupiamo per non conoscer bene
certi piccoli fuochi (le comete), mentre ci resta celata la parte maggiore
dell'universo, dio. Quid sit hoc, sine quo nihil est, scire non possumus,
et miramur si quos igniculos parum novimus, cum maxima pars mundi, deus,
lateat »). Ma da questa situazione nasce in noi uno stimolo all'indagine,
che si intensifica con l'esperienza dei pro-gressi già realizzati. Ci sono
conoscenze che abbiamo acquisito di recente, altre in gran numero che ancora
non abbiamo raggiunto; ma - aggiunge Seneca - verrà un tempo in cui queste
cose, che ora permangono occulte, le porterà alla luce un giorno futuro ed una
indagine assidua di piú lunga durata.... Verrà un tempo in cui i nostri posteri
resteranno stupiti che noi igno-rassimo cose che per essi saranno tanto
evidenti. Multa venientis aevi populus ignota nobis sciet; multa saeculis tune
futuris cum memoria nostri exoleverit reservantur. Pusilla res mundus est, nisi
in illo quod quaerat omnis mundus habeat. Questa inesauribilità dell'indagine e
delle scoperte supera con la sua infinità la gradualità progressiva. ma
limitata, del processo delle iniziazioni ai misteri, a cui Seneca la paragona.
Certo che, come ad Eleusi non si mostrano tutte le cose sacre al novizio,
riservandosi le piú importanti per gli iniziati, cosí si può dire che la natura
non concede in una sola volta ed a chiunque tutti i suoi sacri segreti, e anche
quando ci crediamo iniziati, siamo ancora nel vestibolo del tempio e gli arcani
rimangono chiusi nel sacrario interno. Ma nelle cerimonie mistiche gli iniziati
pervengono, alla fine, a veder tutto; e nella scienza, invece, il processo di
sco-perta non finisce mai. Dei suoi segreti, alcuni potrà sco-prirli la nostra
età, altri le età successive (« aliud haec aetas, aliud quae post nos subibit
aspiciet »); ma ri-marrà sempre campo per le investigazioni di « tutto il mondo
». E anche nell'ipotesi che gli uomini si dedi-chino completamente all'indagine
e alla comunicazione reciproca delle conoscenze acquisite, Seneca dice che
a mala pena (vix) si giungerebbe a quel fondo dove è collocata la verità
che ora cerchiamo alla superficie e con leggerezza (ibid., cap. 32); e
l'esplorazione di questo fondo, secondo le dichiarazioni precedenti, esigerebbe
sempre uno sforzo investigativo infinito. La sospensione dello sforzo e
del lavoro, dunque, non solo ritarda o impedisce del tutto le grandi conquiste
ulteriori (« tarde magna proveniunt, utique si labor ces-sat »: cap. 31), e
impedisce che si trovi alcunché di ciò che gli antichi indagarono in modo
insufficiente, ma fa perdere anche le stesse scoperte già realizzate (« adeo
nihil invenitur ex his quae parum investigata antiqui reliquerunt, ut multa
quae inventa erant obliterentur »: cap. 32). Donde la necessità e
l'obbligo morale, per cia-scuno, di mantenere attivo lo sforzo incessante e di
cooperare attivamente alla grande opera di conquista collettiva dell'umanità.
Coloro che rimangono soddisfatti delle acquisizioni già realizzate dagli
antecessori, non si rendono conto dell'immenso cammino da percorrere, che si
estende davanti a noi. «Non si troverebbe mai nulla, se restassimo contenti con
ciò che è già stato trovato. Inoltre, chi si limita a seguire un altro, non
trova nulla per conto suo, anzi, non cerca neppure.... Ma coloro che
hanno promosso queste investigazioni sono per noi guide, non padroni. [Il
cammino del]la verità è aperto a tutti, non è ancora occupato, anzi gran parte
di esso resta ancora da percorrere agli uomini del futuro › (Epist.).
Confidiamo pertanto e molto nel giudizio dei grandi uomini, ma rivendichiamo
anche l'uso del giudizio nostro. Forse neppur essi ci han lasciato scoperte
effettuate, ma indagini da compiere » (* Num illi quoque non inventa, sed
quaerenda nobis reliquerunt »: Epist.). «Non mi sembra che i
predecessori si siano impadroniti con la forza (praeripuisse) di ciò che si
poteva dire, ma che ce lo abbiano solamente mostrato (ape-ruisse).
Se non che c'è molta differenza tra l'avvicinarsi ad una materia esaurita
(consumptam) e ad una solamente preparata (subactam): questa va crescendo
giorno per giorno, e le invenzioni effettuate non sono ostacoli per chi
realizzerà invenzioni ulteriori (« crescit in dies, et inventuris inventa non
obstant »: Epist.). Anzi, chi ha qualcosa da insegnare agli altri, deve
spargerlo come semente feconda (« seminis modo spargenda sunt»), la quale, per
quanto piccola, cadendo in terreno adatto sviluppa le sue forze, e dalla sua
piccolezza originaria, crescendo fino alle sue dimensioni massime, si diffonde
(« ex eo minimo in maximos auctus diffunditur»). Gli insegnamenti son come le
sementi: ancorché siano limitati (angusta), possono sviluppare una grande
efficacia, purché una mente idonea li accolga e li raduni in se stessa; e a sua
volta questa mente ne genererà molti altri e ren- derà piú di
quello che ricevette » (Epist. 38). Naturalmente questo processo storico
di accrescimento progressivo della cultura, nella successione delle generazioni
e delle comunicazioni da maestri a disce-poli, esige l'attività vivente degli
spiriti ricettori. Quindici secoli piú tardi G. Bruno dirà che se « di questi
alcuni, che son stati appresso, non siino però stati piú accorti, che quei che
furon prima.... questo accade per ciò che quelli non vissero.... gli anni
altrui, e, quel che è peggio, vissero morti quelli e questi negli anni pro-prii
» (Cena delle Ceneri, ed. Gentile). Una esigenza analoga aveva affermato
Seneca nella Epist. 84, dichiarando che gli insegnamenti devono, come
alimenti digeriti, trasformarsi in forze e sangue di chi li assimila (« in
vires et sanguinem transeunt»). Le conoscenze ingerite non debbon lasciarsi
tali e quali sono (integra), affinché non restino come cose estranee (alie-na):
dobbiamo digerirle (concoquamus), affinché sianonutrimento dell'ingegno e non
peso della memoria. I discepoli o le generazioni successive devono assomigliare
ai loro maestri e padri come figli viventi e attivi, non come immagini morte: «
imago res mortua est »; e nella trasmissione della cultura, invece, occorrono
spiriti viventi che (come dirà Bruno) vivano attivamente gli anni dei
predecessori e non vivano morti gli anni propri, bensí progrediscano sempre
piú. Si deve imprimere la forma della propria personalità a tutti gli elementi
di cultura che si raccolgono, affinché confluiscano in una unità (in unitatem
illa competant) come le voci di un coro. « Tale voglio che sia il nostro
spirito, che abbia in se stesso molte arti, molti precetti, gli esempi di molte
generazioni, ma facendoli confluire tutti in una unità», vivente e attiva (« ut
multae in illo artes, multa praecepta sint, multarum aetatum exempla, sed in
unum conspirata). L'Epistola 84 integra pertanto l'affermazione
del-l'Epistola 80, che lo spirito (animus) non è come il corpo, che abbisogna
dall'esterno di molto alimento, di molta bevanda, di molto olio e di lunghe
cure; lo spirito invece (continua l'Epistola 80) cresce da se stesso, si
alimenta e si esercita da sé, ed abbisogna solo della volontà per il suo
perfezionamento. L'Epistola 84, dunque, riconosce che anche lo spirito
abbisogna del suo alimento, che consiste nella cultura che riceve dalle
generazioni precedenti e dall'ambiente sociale in cui si sviluppa, e che
anch'esso deve, non meno del corpo, assimilare il suo alimento e trasformarlo
in proprio sangue e forza attivi. Certamente egli deve avere in sé
l'energia della volontà richiesta dall'Epistola 80: ossia deve, secondo il
paragone dell'Epistola 39, essere come una fiamma che s'innalza in linea retta
e che non può essere inclinata e oppressa, né tanto meno aver tregua: cosí lo
spirito è in movimento ed è mobile e attivo tanto piú quanto piú è
energico. Ma questa energia, questa attività, questo movimento spirituali non
si esercitano nel vuoto, bensí nel mondo della cultura, che è
creazione dello spirito; nel qual mondo si forma cosí la tradizione vivente e
attiva, che è conservazione e accrescimento in-cessanti. Seneca ha visto
che questo doppio aspetto della tradizione implica un doppio atteggiamento
spirituale: di dipendenza e d'indipendenza rispetto al passato. I diritti del
passato devono essere riconosciuti, ma come condizione e mezzo di salvare e
assicurare i diritti dell'avve-nire, che sono diritti di un progresso infinito.
Venero pertanto — dice l'Epistola 64 - le invenzioni della sapienza e i loro
inventori; bisogna avvicinarsi ad essi come ad una eredità collettiva. A nostro
beneficio sono state effettuate queste acquisizioni e questi lavori. Ma
comportiamoci come buoni padri di famiglia; rendiamo piú ampia l'eredità
ricevuta, cosi che questa passi da noi alla posterità fatta maggiore. Molto
lavoro resta ancora da compiere, e molto ne resterà poi; né a nessuno, anche se
nasca dopo migliaia di secoli, sarà preclusa l'occasione di aggiungere ancora
qualcosa di piú ». Anche nell'ipotesi assurda, che gli antichi avessero
inventato tutto, resterebbero sempre nuove l'utilizzazione, la scienza e la
disposizione delle invenzioni altrui. Ma siamo ben lungi dalla possibilità di
ammettere l'ipotesi citata. Quelli che esistettero prima di noi « multum
ege- runt, sed non peregerunt ». Certamente dobbiamo ammirarli e
onorarli come dei, e professare verso « i precettori del genere umano, da cui
ci vennero i principi di un bene tanto grande, la stessa venerazione che
dobbiamo ai nostri maestri personali ». Tuttavia l'onore migliore, anzi l'unico
onore degno ed efficace che i discepoli possano rendere ai mae-
stri e i figli ai padri, consiste, secondo le affermazioni esplicite di Seneca
già citate, nel far viva e operante la loro eredità, nel proseguire le vie che
essi ci aprirono, cioè nel compiere per ciò che possiamo il progresso della
cultura, la cui infinità esige sempre l'attività creatrice di ogni generazione
nel trascorrere infinito del tempo. In questo senso devono intendersi le
affermazioni della Epistola 102, relative allo spirito: « Lo spirito umano è
una realtà grande e generosa, che non tollera gli si pongano mai limiti che non
gli siano comuni anche con Dio»; cioè afferma la sua esigenza di infinità e
vuole tradurla in atto nel doppio aspetto spaziale e temporale. Lo spirito
pertanto non accetta che gli si attribuisca una patria umile e limitata, come
sarebbe la città natale di ciascuno, e reclama come propria patria tutto
l'universo; e «non permette che gli si assegni un'epoca limitata: tutti gli
anni sono miei (dice); nessun tempo è inaccessibile al pensiero ». Ma questa
doppia esigenza di infinità - che significa coscienza di un potere infinito, e
che, quanto al tempo, si estende ugualmente verso il passato e verso il futuro
— vale, secondo il pensiero espresso di Seneca, tanto per la contemplazione
quanto per l'azione creativa. La contemplazione si realizza per mezzo
dell'investigazione e (come vedemmo)
piccola cosa sarebbe il mondo se in esso non avesse sempre tutto il
mondo qualcosa da investigare (Nat.
quaest.); ma d'altra parte (come vedemmo) neppur la contemplazione può darsi
senza azione: ne con- templatio quidem sine actione est › (De
otio). Talché lo spirito deve effettuarle entrambe ad un tempo, nella
loro mutua correlazione, e considerare l'infinita estensione dell'universo in
tutte le sue dimensioni, e del tempo nella sua doppia direzione di passato e
futuro, non solo come oggetto di contemplazione conoscitiva, ma anche come
campo d'azione creativa. Per questa via, nellaconcezione delineata da Seneca,
lo spirito riconosce ве stesso nell'infinita creazione della cultura, opera del
suo infinito passato e compito del suo infinito avvenire 1. m). In tal
modo, nell'affermare esplicitamente e mettere in evidenza sotto vari aspetti
l'infinità del processo storico di creazione della cultura e d'accrescimento
dello spirito umano, Seneca portava la teoria del progresso al suo piú alto
grado di compimento nell'antichità. Dopo di lui, nonostante l'attivismo della
gnoseologia e della pedagogia di Plutarco e di Plotino, il predominio crescente
dell'orientamento mistico nella filosofia non favorí certo nuovi sviluppi della
teoria del progresso; la cui tradizione, tuttavia, lungi dal perdersi, appare
conservata — come abbiamo visto a proposito di Aristotele anche
in scrittori tardi come Asclepio e Giovanni 1 Meritano di essere ricordate alcune
altre dichiarazioni signi- Epansa (Sice rel Eple 65) Eaar dee appreanere
ne che a riferisce alle cose divine e alle umane, alle passate e alle
future, alle caduche e alle eterne, al tempo, etc.»; e qui Seneca cita esempi
delle « innumerabiles questiones» che si pongono per la conoscenza di ogni
sfera e di ogni aspetto della realtà universale. Ma il De otio, mostra
che all'infinito numero dei problemi corrisponde l'infinita curiosità (curiosum
ingenium) dell'uo- mo: il desiderio di conoscere lo sconosciuto
(cupiditas ignota no-scendi) ci spinge ai viaggi ed alla navigazione, alle
investigazioni naturali ed agli scavi, alle ricerche storiche relative
all'umanità ad che poe eseri al dd a del come o aire dacueione dei
probiem pelaurs ar ateria dd ale epifio) relativi alla materia ed allo
spirito, etc. Nello stesso capitolo del “De otio” aggiunge (come abbiamo
già ricordato) che la contemplazione non può mai essere senza azione, e che le
cose meditate esigono la loro realizzazione mediante l'esercizio della mano; di
modo che il processo infinito di creazione della cultura è inteso nell'unità di
teoria e pratica. Filopono; e la loro fonte al riguardo, Aristotele, ci
attesta che tale teoria si è trasmessa senza soluzione di continuità. Ma
Plutarco ci fa udire l'eco tanto di idee provenienti da Archita e Democrito,
intorno alla funzione che spetta alla necessità nel processo storico delle
creazioni umane, quanto dell'ordine cronologico in cui Democrito e Aristotele
distribuivano la creazione progressiva delle arti di necessità, di quelle di
abbellimento e delle scienze. E nello stesso II secolo cui appartiene
Aristocle, un documento caratteristico ci dimostra la diffusione raggiunta
dall'idea del progresso umano nella coscienza pubblica dell'epoca; documento
che consiste nell'utilizzazione che fa Luciano (“Erotes”) di questa idea con
fini satirici. L'apologia paradossale dell'amore per gli efebi, che Luciano
fonda sul principio che, essendo creazione piú recente dell'amore per le donne,
deve costituire un progresso rispetto a questo, poteva avere significato come
satira solo in un clima spirituale dove l'idea del progresso figlio del tempo
fosse divenuto generale e dominante. Nella sua esposizione di questa
teoria, Luciano dipende specialmente dalla tradizione democriteo-epicurea, ma
con infiltrazioni della tradizione platonico-ari-stotelica relativa al
rinnovamento ciclico successivo alle catastrofi, e con derivazioni anche da
altre fonti. Da Democrito ad Epicuro deriva la descrizione della vita ferina
primordiale: « i primi uomini nati dovevano cercare un rimedio per la fame
d'ogni giorno, e per il fatto che erano preda della indigenza presente e che la
pe- o chi il ato nuria non permetteva loro alcuna scelta del
migliore, dovevano mangiare le erbe che trovavano, e le radici tenere che
dissotterravano, e soprattutto le ghiande delle querce. Mentre la loro vita
permaneva cosí incolta e non concedeva loro ancora la comodità per
esperimenti giornalieri al fine di trovare il meglio, essi dovevano
accontentarsi di quelle stesse cose necessarie, poiché il tempo, incalzandoli,
non permetteva loro l'invenzione di un buon regime». Anche per ciò che concerne
la necessità di difese, gli uomini subito, all'inizio della vita, avendo
bisogno di coprirsi, 'avvolgevano nelle pelli delle fiere scorticate ed
escogitavano come rifugio contro il freddo le grotte delle montagne o le cavità
disseccate di radici o alberi antichi». piú che democritea, poiché è
scomparsa in essa, come pia wete Questa descrizione è evidente
eredità epicurea ancor tra gli epicurei, la distinzione introdotta da
Democrito tra i momenti successivi della prima fase di vita del-
l'umanità. Manca inoltre in Luciano ogni allusione all'introduzione della
convivenza sociale e del linguaggio e alla scoperta del fuoco, già considerati
dall'epicurei-smo; ma la suggestione epicurea si riconosce nella spiegazione
che dà tanto dell'uscita dallo stato primordiale mediante l'agricoltura, quanto
delle invenzioni della tessitura e dell'edilizia per via di un'imitazione dei
ripari naturali (pelli e caverne) usati primordialmente. La capacità di
un'imitazione dei processi naturali, che ripro-ducendoli li modifica e li
adatta alle proprie esigenze e finalità, era già per gli epicurei un carattere
che differenziava l'uomo dagli altri animali, incapaci di uscire dalla loro
condizione naturale originaria. Tuttavia sembra che in Luciano si perda la
comprensione della funzione attribuita dagli epicurei alla necessità come forza
stimolante dell'intelligenza umana; Luciano la considera piuttosto un ostacolo
alla ricerca del meglio. Solamente (dice) « dopo che le necessità urgenti
ebbero fine, le intelligenze (zoyouo) delle generazioni successive, liberate
dalla necessità, trovarono l'occasione d'inventarequalche miglioramento, e di
lí a poco a poco s'accreb-bero al tempo stesso le scienze. E questo ci è
possibile congetturarlo dalla considerazione delle arti piú perfezionate
». Può esservi in queste linee un'eco (certo confusa) della distinzione
democriteo-aristotelica dei tre momenti successivi di creazione progressiva:
delle arti di neces-sità, di quelle d'ornamento e delle scienze disinteressate;
certo Luciano -- utilizzando l'esempio dell'arte tessile, preso dagli epicurei,
e quello dell'architettura, derivante forse da Vitruvio - insiste specialmente
sul carattere graduale e quasi insensibile dei progressi, dicendo che «le arti
presero per maestro il tempo » e progredirono « segretamente». E questa idea di
un processo graduale sembra associarsi a quella di un rinnovamento ciclico,
cioè alla teoria platonico-aristotelica della rinascita progressiva della
cultura dopo le catastrofi distruttrici - idea rievocata nel II secolo da
Aristocle - poiché Luciano scrive che « ciascuna di queste arti e scienze, che
giaceva muta e coperta in molto oblio, come da un lungo tramonto a poco a poco
si levò nella sua luce raggiante ». Questa confluenza di elementi di
derivazione tanto diversa è un indice interessante della conservazione di
differenti rappresentazioni del progresso nell'epoca di Luciano, che le mescola
senza preoccuparsi molto dei loro eventuali contrasti. E cosí, nonostante la
sua apparente accettazione della teoria ciclica platonico-aristote-lica,
Luciano delinea un processo di sviluppo della cul-tura, che per se stesso gli
si presenta infinito, cosí come era apparso a Seneca. « Poiché ciascuno che
faceva qualche scoperta la trasmetteva alla posterità; e quindi la successione
di quelli che ricevevano l'eredità, facendo aggiunte a ciò che avevano appreso,
continuò a riempire le lacune esistenti ». E cosí ‹ le scienze varie...
mediante sforzi (uoris) si preparano per arrivare (EUENOV
7ÇELV) alla loro chiara manifestazione, spinte dal tempo infinito (úò To
aiovos), che non lascia niente senza indagare. Ma ciò che agisce attivamente
sugli uomini attraverso il corso del tempo è (per dichiarazione esplicita di
Lu-ciano) « l'intelligenza (ppóvnois), che si accompagna alla scienza e trae
dal frequente sperimentare la possibilità di scegliere l'ottimo ». Pertanto «
dobbiamo considerare necessario lo studio dell'antico, ma onorare come migliore
ciò che la vita seppe trovare poi, dopo aver raggiunto la possibilità di
dedicarsi alla riflessione razionale (поугомоїс) ». Torna cosí in
Luciano il concetto della tradizione vivente, che non è conservazione
cristallizzata, bensí creazione progressiva continua realizzata dalla vita;
torna l'idea dell'infinità di questo processo, che si estende dal passato e dal
presente verso l'avvenire. Riassumendo, possiamo dire che per tutti gli
assertori antichi dell'idea del progresso umano la natura offra il punto di
partenza allo sviluppo dell'attività creatrice dell'intelligenza dell'uomo;
quindi le conquiste compiute da ogni generazione offrono alle successive i
mezzi e gli stimoli per nuovi incessanti esperimenti e nuove acqui-sizioni; e
in tal modo la creazione della cultura progredisce insieme con l'intelligenza
creatrice. L'antichità dichiara con Cicerone ciò che tornerà a dichiarare il
rinascimento con Bruno; cioè che l'umanità è caratterizzata dal suo sforzo
incessante di creare, mediante l'opera della sua intelligenza e delle sue mani,
un'altra natura, altri corsi e altri ordini al di sopra di quelli che le furono
dati naturalmente; e per questa creatività del suo spirito l'uomo merita
d'esser considerato «come un dio mortale» o « dio della terra. Dai
presocratici e dai poeti tragici fino a Seneca innegabilmente l'idea della
creatività dello spirito si afferma e si sviluppa nell'antichità, e si
ripercuote poi sugli ultimi secoli della cultura classica, da Luciano ed
Aristocle ad Asclepio e Giovanni Filopono. Per negare agl’antichi il
raggiungimento di tale intuizione, occorre chiudere gli occhi alla realtà
storica e cancellare l'ampia documentazione che conferma la sua esistenza. Rodolfo
Mondolfo. Mondolfo. Keywords: antica filosofia italica. Refs.: Luigi Speranza, "Grice, Mondolfo, e la filosofia
greco-romana," per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library,
Villa Grice, Liguria, Italia. Mondolfo
Grice e Monferrato: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia piemontese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Casale Monferrato). Filosofo italiano.
Casale Monferrato, Alessandria, Piemonte. Autore di opere di teologia e scienza
e legato pontificio. Entra nell'ordine francescano nella provincia genovese. Docente
presso lo studio francescano di Assisi. Compone il saggio. “Quaestio de
velocitate motus alterationis, Venezia. In esso presenta un'analisi grafica del
movimento dei corpi uniformemente accelerati. La sua attività di insegnamento
in fisica matematica influenza gli studiosi che operarono a Padova e Galilei
che ri-propose idee simili. ‘Giovanni da Casale’, Treccani. Filosofia Filosofo
del XIV secolo Teologi italiani Casale Monferrato Storia della scienza. Grice: “Casali dicusses the velocity of motion of alternation. He wisely
remarks that if one takes the example of the quality of hotness, one may
conceive of a UNI-FORM hotness throughout – ‘just as a rectangular
parallelolgram is formed between two equidistant lines, such that any part you
wish is equally wide with another. ‘Let there be throughout a UNIFORMLY DIFFORM
hotness, such that it is a triangle!” -- Giovanni da Casale Monferrato. Monferrato.
Keywords: corpi inanimati, corpi animati, inerzia, un corpo animato non e un
missile guidato – Grice. La liberta dei corpi animati, uniform, uniformly
difform, difformly difform. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Monferrato” – The Swimming-Pool
Library.
Grice
e Monimo: all’isola – la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- Roma – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Siracusa). Filosofo italiano. A former slave. Wrote two books. Monimo.
Grice e Montanari: la ragione conversazionale --
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Cf Mazzino Montanari. Massino Montanari.
Grice e Montani: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale e il debito del segno – implicatura riflessiva – filosofia
abruzzese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Teramo). Flosofo italiano. Teramo, Abruzzo. Allievo
di GARRONI (si veda), è Professore di Estetica alla Sapienza Roma, è stato
Directeur d'Études Associé presso all'EHESS di Parigi e ha insegnato Estetica
al Centro sperimentale di cinematografia di Roma. La sua ricerca si concentra
oggi principalmente sui temi di filosofia della tecnica. Allievo di
Emilio Garroni, per M. l'estetica non va considerata come filosofia dell'arte,
ma come una teoria della sensibilità umana, che ha la peculiarità di essere
aperta agli stimoli del mondo esterno. La riflessione di M. si snoda in diversi
passaggi e attraverso il confronto con alcuni dei protagonisti della filosofia,
della linguistica, della semiotica e della teoria del cinema del Novecento,
avendo sempre come punto di riferimento la filosofia critica di Kant.
Pensiero Ermeneutica e filosofia critica. Pubblica Il debito del linguaggio, in
cui, partendo dal confronto con le teorie strutturaliste, in particolare quelle
di Jakobson e Mukarovsky, mostra come la questione del significato del testo
poetico non possa essere risolta mediante l'individuazione del codice
linguistico o semiotico di riferimento, ma rimandi ad una condizione estetica
della significazione. Questo tema viene ulteriormente approfondito in Estetica
ed ermeneutica. Prendendo le mosse dalla filosofia critica kantiana, propone di
ripensare la verità nel senso heideggeriano dell’ “a-letheia”, del
“dis-velamento” dell'essere come una situazione ermeneutica strettamente
legata all'effettiva esperienza del soggetto, seguendo la rilettura della
filosofia di Heidegger proposta da Gadamer.La formazione e il pensiero di M.
sono stati segnati dal suo interesse per il cinema e in particolare per Vertov
e Ėjzenštejn. Di entrambi ha curato l'edizione
degli scritti. Nel testo “L'immaginazione narrative” (Guerini)
coniuga l'interesse per il cinema con quello più strettamente filosofico per il
tema dell'immaginazione. Propone di considerare l'immaginazione nei termini in
cui, in Tempo e racconto, Ricœur parla della narrazione, ovvero come di un
processo di “rifigurazione” dell'esperienza del tempo da parte dell'uomo. Per
Ricoeur la narrazione ha il potere di far fare al lettore esperienza di un
tempo propriamente umano. Montani fa propria la tesi di Ricoeur, applicandola
però, all'ambito della narrazione cinematografica. M. ritiene che il territorio
dell'immaginazione in cui lavora il cinema sia quello dell'intreccio tra
finzione e testimonianza, tra la costruzione dell'intreccio narrativo e la
documentazione del reale. La trasformazione dell'esperienza del tempo avviene, così,
ad un livello più profondo e creativo. Tecnica ed estetica Con Bioestetica
si inaugura la fase più recente del pensiero di M., dedicata
all'approfondimento del rapporto tra tecnica e estetica. Attraverso il
paradigma della bioestetica M. propone di leggere i fenomeni di biopotere che
caratterizzano l'epoca contemporanea a partire dalla loro natura innanzitutto
tecnica ed estetica, cioè a partire dal fatto che la sensibilità dell'essere
umano viene sempre più orientata ed organizzata tecnicamente. Il biopotere
consiste proprio nella capacità di canalizzare la sensibilità umana. In
L'immaginazione intermediale Montani prende in analisi i modi in cui il cinema
risponde alle forme di anestetizzazione. Prendendo le mosse dalla
spettacolarizzazione della politica emersa in seguito all'attentato delle Torri
Gemelle, Montani introduce il concetto di "autenticazione
dell'immagine", che non consiste nell'accertamento del referente fattuale
dell'immagine (il vero, il reale) ma nella rigenerazione di un orizzonte di senso
condiviso, la capacità di riferimento dell'esperienza e del linguaggio, in
un'epoca caratterizzata da crescenti fenomeni di “indifferenza referenziale” La
riflessione sul rapporto tra estetica e tecnica continua in “Tecnologie della
sensibilità”, in cui viene teorizzata l'esistenza di una terza funzione
dell'immaginazione: accanto a quella produttiva e riproduttiva vi è una
funzione inter-attiva. L'immaginazione inter-attiva diventa il paradigma
attraverso cui leggere l'epoca contemporanea, attraversata profondamente da fenomeni
dell'inter-attività digitale e dalla proliferazione di ambienti virtuali. Saggi:
“Il debito del linguaggio: l'auto-riflessività nel discorso,” – Grice: “There
is the ‘debito’ and there is the ‘credito’ or ‘price’ of semiosis, too!” --
Marsilio, Venezia; -- Grice: “Actually, Montani uses ‘aesthetic
self-reflection,’ using ‘aesthetic’ etymologically, as per what he calls
‘ermeneutica sensibile’ -- Fuori campo:
studi sul cinema e l'estetica, Quattroventi, Urbino; Estetica ed ermeneutica:
senso, contingenza, verità, Laterza, Roma);
L'immaginazione narrativa: il racconto del cinema oltre i confini dello
spazio letterario, Guerini, Milano); Arte e verità dall'antichità alla
filosofia contemporanea: un'introduzione all'estetica, Laterza, Roma); L'estetica
contemporanea: il destino delle arti nella tarda modernià, Carocci, Roma; Lo stato dell'arte:
l'esperienza estetica; Carboni e M., Laterza, Roma); Bioestetica: senso comune,
tecnica e arte” (Carocci, Roma; L'immaginazione intermediale: perlustrare, ri-figurare,
testimoniare il mondo visibile, Laterza, Roma); Tecnologie della sensibilità.
Estetica e immaginazione interattiva, Cortina, Milano. M., Il senso, Rai
Scuola, su raiscuola.rai. I percorsi
dell'immaginazione. Studi in onore di M., Pellegrini, Censi, Cine-occhi e
cine-pugni: due modi di intendere il cinema, su Nazione Indiana, L'immaginazione estatica. Estetica, tecnica e
biopolitica, su giornaledifilosofia.net. 2 lAlessandra Campo, Biopolitica come
an-estetizzazione. Il significato estetico della biopolitica, su
sintesidialettica. Montani, L'immaginazione intermediale, Laterza, , M., L'immaginazione
intermediale, Laterza, Anna Li Vigni, Gli occhiali per immaginare, Il Sole 24
Ore. La vita immersa nell’estetica del virtuale, su ilmanifesto. Pietro
Montani. Montani. Keywords: il debito del segno, Narciso e la reflexione. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Montani” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Montinari: la ragione conversazionale e
l’implicatura conversazionale del sovrumano – torna a Surriento – filosofia
toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucca). Filosofo italiano. Luca, Toscana. Grice: “If I were
asked to identify the main difference between the Italian philosopher and the
Oxonian philosopher is that the Italian philosopher takes Nietzsche seriously! But then he lived at Torino!” «Nelle istituzioni esistenti, sostenute da
immani forze di produzione e di distruzione, viene assimilata e mercificata
ogni e qualsiasi protesta, persino quella dei Lumpen, ogni tentativo di
lasciare la «nave dei folli». Se il metodo di Nietzsche può ancora aiutarci,
allora l'unica forza che ci è rimasta è quella della cultura, della
ragione.» Considerato uno dei massimi editori e interpreti di Nietzsche.
Ha definitivamente dimostrato che Nietzsche non ha mai scritto un'opera dal
titolo “La volontà di Potenza” e che le cinque diverse compilazioni che la
sorella del filosofo e altri editori dilettanti hanno pubblicato sotto questo
titolo sono testi del tutto inaffidabili per comprendere il pensiero di
Nietzsche. Si era formato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e
all'Pisa, presso la quale si laureò con una tesi, “I movimenti ereticali a
Lucca.” Caduto il fascismo, divenne un attivista del Partito comunista, presso
il quale si occupava della traduzione di scritti dal tedesco. Mentre visitava
la Germani a Est per motivi di ricerca, fu testimone della rivolta.
Successivamente, in seguito alla repressione della Rivoluzione ungherese del
1956, si allontanò dall'ortodossia marxista e dalla carriera nel partito.
Mantenne tuttavia la sua iscrizione al PCI, e rimase fedele agli ideali del
socialismo. Collabora con le Edizioni Rinascita, e per un anno fu direttore
dell'omonima libreria in Roma. Dopo averne rivisto la raccolta di opere e
manoscritti in Weimar, Colli e M. decisero di iniziarne una nuova edizione
critica. Essa divenne lo standard per gli studiosi, e fu pubblicata in da
Adelphi. Per questo lavoro fu preziosa la sia abilità nel decifrare la
scrittura a mano (praticamente incomprensibile) di Nietzsche, fino a quel
momento trascritta solo da "Gast“ (Köselitz). Fonda la rivista
Nietzsche-di cui fu coeditore. Attraverso le sue traduzioni ed i suoi commenti
di Nietzsche, diede un contributo fondamentale alla ricerca storica e
filosofica, inserendo Nietzsche nel contesto del proprio tempo. Saggi: “Che
cosa ha detto Nietzsche” Roma, Ubaldini,
ripubblicato come “Che cosa ha detto
Nietzsche,” [Grice: “I convinced Montinari that ‘veramente’ is a trouser word
and should be avoided!” -- Campioni, Milano, Adelphi. Su Nietzsche, Roma,
Riuniti, Teoria della Natura, Torino,
Boringhieri, Milano, SE, F Nietzsche,
Lettere a Rohde, Torino, Boringhieri, Nietzsche, Opere, (Milano, Adelphi, Nietzsche, Il caso Wagner: Crepuscolo degli
idoli; L'anticristo; Scelta di frammenti, S. Giametta, Ferruccio Masini,
Giorgio Colli, Milano, Mondadori Editore, Ecce homo; Ditirambi di Dioniso;
Nietzsche contra Wagner; Poesie e scelta di frammenti postumi, Milano, A.
Mondadori, Nietzsche, Schopenhauer come educatore, Milano, Adelphi, Epistolario
di Nietzsche, Pampaloni Fama, Milano, Adelphi,
Nietzsche, Scritti, Milano, Adelphi, Schopenhauer, La vista e i colori
Carteggio con Goethe,Abscondita, Nota
introduttiva a Genealogia della morale, Nietzsche e Van Gogh, due cardini del
pensiero occidentale moderno di Bettozzi
(Liberal democaratici), su liberal democratici.. «Tant qu'il ne fut pas possible aux
chercheurs les plus sérieux d'accéder à l'ensemble des manuscrits de Nietzsche,
on savait seulement de façon vague que La Volonté de puissance n'existait pas
comme telle (...) Nous souhaitons
que le jour nouveau, apporté par les inédits, soit celui du retour à
Nietzsche.» (Deleuze)
Aveva infatti ottenuto una borsa di studio della Scuola Normale
Superiore a Francoforte sul Meno.
Rinascita Che era stato il suo maestro. Giuliano Campioni, Dizionario
Biografico degli Italiani stituto dell'Enciclopedia italiana Treccani Giuliano
Campioni, Giuliano Campioni, Lanata, Esercizi di memoria, Bari, Levante,
(notizie su M. M. nell'articolo su Colli anche a proposito dell'Enciclopedia di
autori classici, Boringhieri, progettata e diretta da Colli e a cui M. M.collaborò).
Paolo D’Iorio, L'arte di leggere Nietzsche, Firenze, Ponte alle grazie,Giuliano
Campioni, Leggere Nietzsche. Alle origini dell'edizione critica
Colli-Montinari. Con lettere e testi inediti, Pisa, M.: l'arte di leggere
Nietzsche Paolo D'Iorio, Pubblicato da Ponte alle grazie, Studi germanici — Di
Istituto italiano di studi germanici — Pubblicato da Edizioni dell'Ateneo,
Originale disponibile presso la l'Università della Virginia — "M.,
Nietzsche", di Tuca Giuliano Campioni, Da Lucca a Weimar: M. e Nietzsche
in Nietzsche. Edizioni e interpretazioni,
Fornari, ETS, Pisa, Die "ideelle Bibliothek Nietzsches". Von
Charles Andler M. Pensiero di Schopenhauer Roscani Torino#Filosofi Giuliano
Campioni, M., in Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia. Opere di M.,
Centro interdipartimentale di studi Colli-M. su Nietzsche e la Cultura Europea
— Pisa, Lecce, Padova e Firenze (Centronietzsche.net), su centronietzsche.net.
Grice: “Montinari is right that ‘la volonta di potenza’ ‘n’existe pas’ –
vacuous name. Torna a Surriento. Umano, troppo umano, uscito cento
anni fa, più precisamente nel 1878, e dedicato al centenario della morte di
Voltaire, è tra le opere di Nietzsche quella che ha avuto il più lungo periodo
di gestazio-ne, dall'estate del 1875 all'inverno 1877-78. Nella mighore e più
attendibile biografa di Nietzsche che mai sia stata scritta e che troppe volte
non viene presa sul serio, voglio dire in Ecce homo, leggiamo: « Umano,
troppo umano è il monumento di una crist. Dice di essere un libro per spiriti
liberi: quasi ogni frase vi esprime una vittoria - con quel libro mi sono
liberato da ciò che non apparteneva alla mia natura... qui il termine "
spirito libero" deve essere inteso solo in un senso: uno spirito diventato
libero, che ha ripreso possesso di se stesso ». Ciò che non apparteneva alla
natura di Nietzsche era la speculazione metafisica di Schopenhauer, il pensiero
mitico di Wagner (più in generale il • pensiero impuro » dell'artista).
L'approdo alla liberazione dello spirito è dunque un processo; esso — per il
Nietzsche del 1878 - doveva essere compreso in una sorta di tirocinio, al cui
inizio stavano le Memorie di un'idealista (1872-76) di Malwida von Meysenbug e
alla fine l'Origine dei sentimenti morali (1877) di Paul Rée. Tra i due nomi,
che sembrano in contrasto tra loro, si compie una parabola tipica per la
situazione spirituale di un gruppo importante di intellettuali del tardo
Ottocento, cui anche Nietzsche appartiene. La vecchia quarantottarda Malwida
(an-no 1816) acquisisce negli anni della rivoluzione e dell'esilio (Herzen,
Mazzini, Kinkel) una concezione del mondo intrepidamente materialistica ed
ateisti-ca, anche se illuminata dall'idealismo pratico-poli-tico e poi
sostenuta (dopo l'incontro con Wagner) dalla pessimistica (e consolatoria)
metafisica schopen-haueriana. Ciò spiega, tra l'altro, l'entusiasmo concui ella
nell'inverno 1876-77 a Sorrento accolse, per il tramite di Nietzsche, l'‹
ottimismo del temperamento » coniugato al • pessimismo della conoscenza »,
secondo la formula adoperata da Jacob Burck-hardt per definire il carattere dei
Greci. (Questa formula doveva avere fortuna particolare da noi in Italia, nel
passaggio dalla Meysenbug a Romain Rolland, e da costui a Antonio
Gramsci). Quindi Paul Rée (anno 1849): il giovane filosofo positivista si
era educato alla scuola di Schopenhauer (e di Eduard von Hartmann, al quale
anche il giovane Nietzsche doveva qualcosa), ma anche di Darwin e dei nuovi
moralisti inglesi, con una considerevole aggiunta di nichilismo russo (Turgenev).
Non mi sembra casuale che nel 1877 sia proprio Rée a scoprire (per regalarlo
poi alla Meysenbug e a Bay-reuth) il giovanissimo Heinrich von Stein
(anno 1857, allievo di Eugen Dühring, filosofo della « realtà »), anche
lui schopenhaueriano (e poi wagneria-no) e autore di un libro dedicato agli «
ideali » del « materialismo ». Questa schiera di personaggi,
spiriti più o meno li-beri, tra i quali si trovavano amici e ammiratori di
Nietzsche, vive la crisi di un'epoca satura di scienza, che può essere solo onestamente
materialistica ed è al tempo stesso intimamente insoddisfatta, perché non
riesce a scaldarsi al pallido, nordico agnosticismo königsberghiano, né ad
entusiasmarsi per la « nuova fede » ottimistica e scientista del senile
D.F. Strauss. Le rimangono tutt'al più i paradisi artificiali e
neoromantici del dramma musicale di Ri- chard Wagner. Dopo il
grande tentativo wagneriano della Nascita della tragedia, la serie delle
Considerazioni inattuali e più ancora la grande massa dei frammenti postumi
stesi tra il 1872 e il 1876 si presentano ai nostri occhi come la preparazione
del Nietzsche nuovo di Umano, troppo umano. Al di là della predicazione e
dell'invettiva del Nietzsche inattuale è possibile infatti cogliere quel
processo di intellettualizzazione radicale e di distruzione di ogni convinzione
che è uno degli aspetti fondamentali della libertà di spi-rito, come viene
enunciata nelle ultime pagine di Umano, troppo umano. Le illusioni e le
consolazioni dell'arte, della metafisica, della religione cadono « in balia
della storia», e solo la storia può rievocarle - e questa è ancora la nostra
fortuna: poter mantenere in noi la possibilità della rievocazione storica
dell'umanità passata. L'importanza della conoscenza storica è sottolineata da
Nietzsche proprio in rapporto alla fine della metafisica, quando nell'aforisma
37 di Umano, troppo umano scrive: * Qual è comunque la proposizione
principale a cui giunge, attraverso le sue penetranti e taglienti analisi
dell'umano agire, uno dei più arditi e freddi pensatori, l'autore del libro:
Sull'origine dei sentimenti morali [cioè Paul Rée]? " L'uomo morale"
egli dice "non è più vicino al mondo intelligibile (metafisico) dell'uomo
fisico". Questa proposizione, temprata e affilata sotto i colpi di
martello della conoscenza storica, potrà forse un giorno, in un qualche futuro,
servire come l'accetta che reciderà alla radice il " bisogno
metafisico" degli uomini: se più a benedizione che a maledizione del
benessere gene-rale, chi saprebbe dirlo? ma in ogni caso come una proposizione
dalle più importanti conseguenze, feconda e terribile insieme, e che scruta il
mondo in quel modo bifronte, proprio di tutte le grandi co-noscenze». Dieci
anni più tardi Nietzsche citerà ancora una volta in Ecce homo la proposizione
di Rée, presentandola come il preannuncio della sua « trasvalutazione di tutti
i valori ». Ho l'impressione che nessuno degli esegeti di Nietzsche abbia preso
sul serio quel ritorno estremo a Paul Rée. A Rée mancano tuttavia la
disciplina e l'esercizio del senso storico che troviamo invece in tutta l'opera
di Nietzsche, a partire proprio da Umano, troppo umano. Né il nome del massimo
rappresentantedell'età dei lumi, di colui che Goethe chiamava la • luce
di noi tutti » si trova sul frontespizio della prima edizione del « libro per
spiriti liberi » a celebrare la casualità di un giubileo. Esso rappresenta
invece il nuovo programma di Nietzsche, che consiste nel risuscitare e lo
spirito dell'Illuminismo e dello sviluppo progrediente » contro lo spirito di Rousseau,
padre ambiguo delle « mezze verità » della Rivoluzione francese e del
romanticismo. Nel 1876-78 l'antagonismo Voltaire-Rousseau rientra per
Nietzsche in una sorta di schema storico, che vale per l'età moderna nei due
momenti dell'Umanesi-mo-Rinascimento e dell'Illuminismo. L'Umanesimo-
Rinascimento è un movimento di civiltà che viene interrotto da una rivoluzione
(la Riforma) e da una reazione (la Controriforma), così come l'Illuminismo è
stato interrotto dalla Rivoluzione francese e dalla reazione romantica. Dalla
reazione romantica maturano però risultati imprevisti: da un lato il senso
della storia, come forma superiore e prosecuzione dell'Illuminismo, dall'altro,
- come prodotto diret-to, secondo Nietzsche, del senso storico, - il socialismo
(rivoluzione) e l'oscurantismo moderno (in Germania nelle forme ideologiche del
conservatorismo cristiano degli Junker e dell'antisemitismo). Nietzsche è
dalla parte del Rinascimento, dell'Illu-minismo e del senso storico, a cui si
contrappongono di volta in volta le coppie rivoluzionario-reazionarie che
abbiamo visto. I valori positivi del passato non sono di coloro che hanno
combattuto o reagito contro la Riforma e contro la Rivoluzione francese, come
nel presente non è la reazione antisocialista (nel 1878 si hanno le leggi
antisocialiste di Bismarck) a cui Nietzsche senta di aderire. La pacata
riflessione storica dello spirito libero si colloca piuttosto nella vita
contempla-tiva; questa comporta non tanto la rinuncia all'immediatezza vitale
dell'azione, quanto e soprattutto il dominio dello « spirito » sulla pienezza e
ricchez-za della « vita » (e quel dominio avrà significato in proporzione
diretta a questa ricchezza e pienezza). Un modello di questo dominio è il
classicismo illu-ministico, tollerante e cosmopolitico di Goethe, che è il
saldo punto di riferimento di tutto il libro. guerra, bensi come la
constatazione del definitivo crepuscolo degli « ideali » metafisici
(Schopenhauer) e mitici (Wagner), a cui secondo lui avrebbero dovuto approdare
per onestà della ragione anche i suoi amici e seguaci. Tranne alcune rilevanti
eccezioni (Overbeck, in particolare, ma anche Burck-hardt e Karl Hillebrand,
che tuttavia non erano propriamente né amici né seguaci) gli amici (Richard e
Cosima Wagner, Erwin Rohde, Malwida von Mey-senbug) rimasero costernati e,
anzi, si sentirono attaccati e provocati, abbandonati e traditi. Così Nietzsche
stesso, che pochi mesi prima aveva scritto cpistole dedicatorie di Umano,
troppo umano a Ri-chard e Cosima Wagner, una di esse persino in (brutti) versi,
dovette rendersi conto dell'abisso che lo separava non solo dai suoi vecchi
amici, ma anche dal suo proprio passato: « Quell'offuscamento metafisico di
tutte le cose vere e semplici, la lotta condotta con la ragione contro la
ragione, con la mira di vedere in ogni e qualsiasi occasione chissà quali
immense meraviglie, per giunta un'arte barocca di ipereccitazione e esaltazione
della smodera-tezza, intendo dire l'arte di Wagner: queste due cose messe
insieme avevano finito per rendermi sempre più malato e quasi ad estraniarmi
dal mio buon temperamento... Mi resi pienamente conto di tutto ciò nell'estate
di Bayreuth [1876]: fuggii via, dopo le prime rappresentazioni a cui avevo
assistito, e mi rifugiai sui monti, e là in un piccolo villaggio in mezzo alla
foresta, nacque il primo schizzo, all'incirca un terzo del mio libro, allora
sotto il titolo del Vomere ». Cosi scriveva Nietzsche all'inconsola-bile
Mathilde Maier, un'amica di Wagner, nel luglio del 1878, e nella stessa epoca a
Rée: « I miei conoscenti ed amici (con pochissime eccezioni) si comportano come
se gli avessi rovesciato il pentolino del latte. Dio li aiuti - io non posso
fare altrimenti ». Umano, troppo umano non era nato come libro po-lemico,
lo ripetiamo, ma come superamento di una crisi, che non era solo di Nietzsche.
Perché non vada perduto, nella presente pubblicazione che non ha commento,
riproduciamo qui ciò che l'autore volle premettere nel 1878 alla prima
edizione, ‹ in luogo di una prefazione », affinché serva come avviamento alla
lettura della prima grande opera veramente sua. Si tratta della traduzione di
un brano tratto dalla versione latina del Discorso del metodo di
Cartesio: *- per un certo tempo considerai le occupazioni disparate alle
quali gli uomini si dedicano in questa vita, e feci il tentativo di scegliere
la migliore tra queste. Ma non è necessario qui raccontare quali pensieri mi
vennero nel far ciò: basti dire che, per parte mia, nulla mi sembrò essere
meglio che attenermi rigidamente al mio proposito, vale a dire: impiegare tutto
il tempo della vita a sviluppare la mia ragione e a seguire le tracce della
verità così come i mi re proponi queche i ri che gali che, secondo
il mio giudizio, non si può trovare in questa vita nulla di più gradevole e di
più in- nocente; oltre a ciò, da quando mi ero giovato di quel modo di
considerare le cose, non passava giorno senza che io non scoprissi qualcosa di
nuovo, che era sempre di un qualche peso e niente affatto conosciuto dalla
generalità degli uomini. La mia anima finalmente divenne allora cosi piena di
gioia, che tutte le altre cose non potevano più offenderla in alcun modo ›.Mazzino
Montinari. Montinari. Refs. Luigi Speranza, “Grice e Montinari: l’implicatura
di Nietzsche” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Monte: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – la prospettiva e la filosofia
della percezione – filosofia marchese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pesaro). Filosofo
italiano. Pesaro, Marche. Grice: “I like to illustrate a ‘scientific
revolution’ with Del Monte’s refutation on the equilibrium controversy, since
it involves a lot of analyticity that only a philosopher can digest!” --
essential Italian philosopher. Il marchese Guidubaldo Bourbon Del Monte (Pesaro), filosoMecanicorum
liber, Suo padre, Ranieri, originario da un famiglia benestante di Urbino,
discendente dalla schiatta dei Bourbon del Monte Santa Maria, fu notato per il
suo ruolo bellico e fu autore di due libri sull'architettura militare. Il duca
di Urbino, Guidobaldo II della Rovere, gli attribuì, per meriti, il titolo di
Marchese del Monte, dunque la famiglia divenne nobile solo un generazione prima
di Guidobaldo. Alla morte del padre, ottenne il titolo di Marchese. Studia
matematica a Padova. Mentre era lì, strinse una grande amicizia con Tasso. Combatté
nel conflitto in Ungheria, tra l'impero degli Asburgo e l'Impero Ottomano. Al
termine della guerra, torna nella sua tenuta a Mombaroccio, vicino Urbino, dove
passava i giorni studiando matematica, meccanica, astronomia e ottica. Studia
matematica con l'aiuto di Commandino. Divenne amico di Baldi, che fu anch'esso
studente di Commandino. Ispettore delle fortificazioni del Granducato di
Toscana, pur continuando a risiedere nel Ducato di Urbino. In quegli anni, corrisponde con numerosi
matematici inclusio Contarini, Barozzi e
Galilei e con alcuni di loro si dice
abbia avuto anche relazioni più che professionali. L'invenzione per la costruzione di poligoni
regolari e per dividere in un numero determinato di segmento qualsiasi linea fu
incorporata come caratteristica del compasso geometrico e militare di Galileo.
Proprio fu fondamentale nell'aiutare Galilei nella sua carriera, che e un promessa
ma disoccupato. Raccomanda il toscano al suo fratello Cardinale, che a sua
volta parla con il potente Duca di Toscana, Ferdinando I de' Medici. Sotto la
sua protezione, Galileo ha una cattedra di matematica all'Pisa. Guidobaldo
divenne un amico fidato di Galileo e lo aiutò nuovamente quando dovette
necessariamente fare domanda per poter insegnare matematica all'Padova, a causa
dell'odio e della macchinazione di Giovanni de' Medici, un figlio di Cosimo de'
Medici, contro Galileo. Nonostante la loro amicizia, M. fu un critico di alcune
teorie di GALILEI, come quella relativa alla legge dell'isocronismo delle oscillazioni.
Compone un importante saggio sulla prospettiva, “Perspectivae Libri VI”, pubblicato
a Pesaro che ha ampia diffusione. E sicuramente, anche secondo il parere di
Galileo, uno dei massimi studiosi di meccanica e matematica. “Mechanicorum
liber”. Pisauri. Saggi: “Mechanicorum” (Pisauri, Girolamo Concordia – Venezia,
Deuchino -- Mecanicorum); “Plani-sphaeriorum universalium theorica” (Pisauri,
Girolamo Concordia); “De ecclesiastici calendarii restitutione" (Pisauri,
Girolamo Concordia); “La prospettiva” (Pisauri, Girolamo Concordia -- Roma); “Problematum
astronomicorum” Venezia, Giunta); De cochlea,” Venezia, Deuchino); “Le mechaniche nelle quali si contiene la
dottrina di tutti gl’istrumenti principali da mover pesi grandissimi con
picciola forza” (Venezia, Franceschi);
“Lettere” (Venezia); “La teoria sui planisferi universali” (Firenze). Galileo
(che nel frattempo era stato molto probabilmente anche suo ospite) puo occupare
la cattedra di Padova, grazie anche all’intervento delduca., che nell’ambiente
veneto poteva contare, oltre che sull’amicizia di un Contarini e di un Pinelli,
sull’autorità e l’influenza di M., generale delle fanterie della
Repubblica": Fondazione cardinal Francesco maria delmonte -- guidobaldo-del-monte.
A. Giostra, La stella o cometa nelle lettere a Giordani, Giornale di
Astronomia. Galilei. Guidobaldo II della Rovere Mombaroccio, Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Grice: “There possibly is no
equivalent to perspective for the other senses. Prospettiva, as the Italians
call it. They
are obsessed with it. Consider the human body. Consider Apollo del Belvedere –
it is not just a body perceiving another body, there is a perspectival side to
it!” Giambattista del Monte. Guido
Ubaldo de’ marchesi Del Monte; Guidobaldo Del Monte. Monte. Keywords: implicature,
perspective in statuary. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e del Monte,"
per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria,
Italia.
Grice e Moramarco: la ragione conversazioane e l’implicatura
conversazionale della tradizione massonica filosofia emiliana – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Reggio
nell’Emilia). Filosofo italiano.
Reggio, Emilia. Grice: “Unlike Moramarco, what most people know about
massoneria is via “Il flauto magico”!” Grice: “Moramarco analyses massoneria aa
a philosophical cult, talking about ‘brotherly link’ ‘vincolo fraterno’ – he
has unearthed a few fascinating details about massoneria in Italy. Esponente della Massoneria te assertore di una
sintesi religiosa tra Mazdeismo e Cristianesimo. Discende da un'antica famiglia
di Altamura, di ascendenze latino-germaniche, cresciuta e ramificatasi durante
il dominio dei Farnese. Studioso di Massoneria, ha scritto la Nuova
Enciclopedia Massonica in tre volumi, importante testo di ricerca
massonologica. Un suo precedente volume, La Massoneria ieri e oggi fu tra i
primi, sull'argomento, pubblicati in Russia dopo il crollo del regime sovietico,
che aveva proscritto le Logge. Iniziato nel Grande Oriente d'Italia,
divenne Maestro Venerabile della Loggia Intelletto e Amore, ricevette la
decorazione all'Ordine di Bruno, conferita a quanti si distinguono nello studio
e nella diffusione degli ideali massonici. Coordinatore scientifico del
Convegno Internazionale anni di Massoneria in Italia, al quale parteciparono
studiosi quali Paolo Ungari, Alessandro Bausani, Mola, Basso, Roversi Monaco,
Ricca. Il convegno fiorentino costituì la prima risposta pubblica, da parte
della Comunione massonica di Palazzo Giustiniani, alle degenerazioni della
P2. Nello stesso anno, in qualità di Garante d'Amicizia tra il Grande
Oriente d'Italia e la Grand Lodge of South Africa, richiese, d'accordo con il
Gran Maestro Armando Corona, che tutte le Logge sudafricane, peraltro già
avviate in tale direzione (quando un
gruppo di Liberi Muratori della Massoneria Prince Hall era stato ammesso nella
Loggia "De Goede Hoop" di Cape Town), abrogassero l'apartheid, scelta
che esse fecero, qualificandosi tra le prime associazioni bianche a superare la
segregazione razziale. Uscì dal Grande Oriente d'Italia, rigettandone il
laicismo, per ravvivare i nuclei massonici di impronta cristiana e
spiritualista, che assunsero la denominazione Real Ordine degli Antichi Liberi
e Accettati Muratori. Su tale concezione della Massoneria ha scritto La via
massonica. Dal manoscritto Graham al risveglio noachide e cristiano (), un
testo dal quale emerge, fra l'altro, l'importanza della devozione alla Vergine
Maria, come madre del Cristo ed espressione umana della divina Sophia, nella
genesi della spiritualità massonica. Ha ricostruito le vicende della Gran
Loggia d'Italia, l'altra associazione maggioritaria di Liberi Muratori in
Italia, nel volume Piazza del Gesù. Documenti rari e inediti della tradizione
massonica italiana, contribuendo in seguito alla realizzazione di programmi
tematici per varie emittenti televisive, tra le quali Rossija 24, Reteconomy e
È TV Rete7. Ha conseguito il 33º grado del Rito scozzese antico ed
accettato e il VII del Rito filosofico italiano, che nel secondo decennio del
Novecento vide tra le sue fila i neopitagorici Arturo Reghini e Amedeo Rocco
Armentano. Fonda in Italia l'Antico Rito Noachita su patente ricevuta
presso il British Museum dall'ex Maestro Venerabile della Loggia
"Heliopolis" di Londra. Ha realizzato una colonna sonora per i
rituali massonici, dal titolo Masonic Ritual Rhapsody. presso la Loggia
"Gottfried Keller" di Zurigo, è stato ricevuto come membro
nell'Independent Order of Odd Fellows. Già attivo con Joseph L.
Gentili, editore del newsletter Brooklyn
Universalist Christian, in un progetto di restaurazione della Chiesa Universalista
d'America, contro la deriva liberal di quel movimento, ha ricevuto il navjote
zoroastriano. Nel volume Il Mazdeismo Universale propone una visione eclettica
di tale religione, collegando ad essa elementi del misticismo ebraico, del
dualismo platonico e cristiano, del buddhismo Mahāyāna, e riconoscendo in Gesù
il saoshyant (divino soccorritore, messia) profetizzato dall'antica religione
iranica, in una prospettiva teologica di tipo mazdeo-cristiano, intorno alla
quale si è formata una Fraternità Mazdea Cristiana. Si è avvicinato alle
correnti latitudinaria e mistica dell'Anglicanesimo e al percorso religioso di
Loyson, confluendo in una comunità religiosa di orientamento eclettico, ove ha
potuto conservare la doppia appartenenza, cristiana e zoroastriana. Entro tale
gruppo, che nel gennaio ha assunto la
denominazione Reformed Cloister of the Holy SpiritUnione Riformata
Universalista, è un oblato di San Pellegrino delle Alpi, secondo la Regola che,
ispirandosi alle tradizioni fiorite intorno alla vita di quell'eremita del
Cristianesimo celtico, contempla almeno un atto quotidiano "di giustizia,
o di soccorso fraterno" anche nei riguardi di animali e piante.
Laureatosi cum laude in Filosofia presso l'Bologna,, con una tesi sul pensatore
indiano Sri Aurobindo (relatore il noto indologo e sanscritista Giorgio Renato
Franci), nella seconda metà degli anni Ottanta si è formato in Training
autogeno e Psicoterapia con la procedura immaginativa sotto la guida di Luigi
Peresson. Ha trattato dei nessi tra Zoroastrismo e Cristianesimo nei
libri La celeste dottrina noachita (e I Magi eterni, di fenomenologia del sacro
ne L'ultima tappa di Henry Corbin e di tanatologia in Psicologia del morire. Ha
scritto sulle esperienze di autogestione dei lavoratori nel mondo e sui
rapporti tra socialismo e religione per Azione nonviolenta, la rivista fondata
da Aldo Capitini. Con il saggio Per una rifondazione del Socialismo partecipò
al simposio "Marxismo e nonviolenza" (Firenze) nel quale
intervennero, tra gli altri, Bobbio e Garaudy. -- è un sostenitore della lingua
ausiliaria internazionale Esperanto. Ha aderito al gruppo esperantista
bolognese "Achille Tellini". In ambito narrativo, ha scritto
Diario californiano e Torbida dea. Si è occupato di storia dello spettacolo,
scrivendo I mitici Gufi, sul celebre quartetto di cabaret degli anni sessanta,
e partecipando all'allestimento del programma Gufologia per Rai Sat; con l'ex
"Gufo" Roberto Brivio ha collaborato sia nella riproposta del
repertorio del gruppo in teatri e circoli culturali, sia nella realizzazione di
un laboratorio teatrale e musicale che vide attivamente coinvolti numerosi
alunni portatori di disabilità, presso l'Istituto medio superiore in cui
insegnò psicologia. Ha inciso quattro CD, Allucinazioni amorose (meno
due), Gesbitando, Come al crepuscolo l'acacia e Existenz, che contengono sue
canzoni e brevi suites strumentali, ricevendo il plauso, tra gli altri, di
critici come Maurizio Becker, Mario Bonanno (Musica & Parole) e Salvatore
Esposito (Blogfoolk), di autori come Bruno Lauzi, Ernesto Bassignano, Giorgio
Conte e dei jazzisti Giulio Stracciati e Shinobu Ito. Nel dicembre è stato chiamato da Luisa Melis, figlia e
continuatrice dell'opera di Ennio Melis, il patron della RCA Italiana, a far
parte della giuria del Premio De André. Saggi:
“La Massoneria” (Vecchi, Milano), “La Massoneria: cronaca, realtà, idee (Vecchi,
Milano), “Per una rifondazione del socialismo, in: Marxismo e non-violenza
(Lanterna, Genova) – PARTITO SOCIALISTA ITALIANO --; “La Libera Muratoria”
(Sugar, Milano); “La Massoneria. Il vincolo fraterno che gioca con la storia” (Giunti,
Firenze) Diario (Bastogi, Foggia) Grande Dizionario Enciclopedico POMBA
(Torino); Antroposofia, Besant, Cagliostro, Radiestesia, ecc.). L'ultima tappa
di Henry Corbin, in Contributi alla storia dell'Orientalismo, Franci (Clueb,
Bologna) “La Massoneria in Italia” (Bastogi, Foggia) Enciclopedia Massonica
(Ce.S.A.S., Reggio E.; Bastogi, Foggia); Psicologia del morire, in I nuovi ultimi (Francisci, Abano Terme)
Piazza del Gesù. “Documenti rari e inediti della tradizione massonica italiana”
(Ce.SA.S. Reggio Emllia); Sette Lodi Massoniche alla Beata Vergine Maria (Real
Ordine A.L.A.M., Reggio Emilia) La celeste dottrina noachita (Ce.S.A.S, Reggio
E.) I mitici Gufi (Edishow, Reggio Emilia); “Torbida dea. Psicostoria d'amore,
fantomi & zelosia (Bastogi, Foggia); Il Mazdeismo Universale. Una chiave
esoterica alla dottrina di Zarathushtra (Bastogi, Foggia ) I Magi eterni. Tra
Zarathushtra e Gesù (Om, Bologna ) La via massonica. Dal manoscritto Graham al
risveglio noachide (Om, Bologna ) Massoneria. Simboli, cultura, storia
(consulenza scientifica di M.M.) (Atlanti del Mistero/Giunti-Vecchi, Firenze )
Introduzione alla Libera Muratoria (Settenario, Bologna ) Musica Allucinazioni
amorose (meno due) (Bastogi Music
Italia) (Bastogi Music Italia) Gesbitando, (Bastogi Music Italia ) Come al
crepuscolo l'acacia (Heristal
Entertainment, Roma ) Existenz ((Heristal Entertainment, Roma ). Note Aplogruppo Mola, Un valido impulso per una Massoneria
"à parts entières", in 250 anni di Massoneria in Italia, F. Ferrari,
La Massoneria verso il futuro (una conversazione con Michele Moramarco) v.
) Una breve rassegna di testi fondamentali
sulla Massoneria si trova sul sito del Cesnur diretto da Massimo Introvigne.
Vedi anche le recensioni di E. Albertoni ne Il Sole 24 Ore, inserto domenicale,
e di G. Caprile ne La Civiltà Cattolica, Il volume fu pubblicato nell’anno
della dissoluzione dell'URSS, dalla casa editrice Progress, V. Brunelli,
Massoneria: è finito con la condanna della P2 il tempo delle logge e dei
"fratelli" coperti, in Corriere della sera, Il Corriere della Sera
dedicò un lungo articolo allo "scisma" (v. ). Del Real Ordine
A.L.A.M. si è occupato anche il centro di ricerca Cesnur, diretto dal noto
storico e sociologo delle religioni Massimo Introvigne,
v.//cesnur.org/religioni_italia/a/ appendice_02.htm. Il termine Real non aveva
alcun riferimento alla storia italiana, ma si richiamava alla leggenda,
contenuta negli Antichi doveri, secondo cui l'Ordine Massonico ricevé le sue
proto-costituzioni dal re Atelstano d'Inghilterra (Æðelstan); recentemente il
Real Ordine ha assunto la denominazione di Unione Cristiana dei Liberi
Muratori Rito filosofico italiano Antico Rito Noachita Masonic Ritual Rhapsody, Bastogi Music
Italia, youtube.com/watch?v=rSs0 4kpA36U. A questa esperienza è collegata la
sua iscrizione alla SIAE come autore musicale
Del percorso che lo ha condotto verso la visione di Zoroastro
(Zarathushtra) si è occupata la rivista parsi di Bombay, Parsiana, così come il
quotidiano torinese La Stampa v. mazdeanchristian.wordpress.com/ latitudinarismo, in Dizionario di filosofia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, v.
riformati universalisti.wordpress // In questa comunità si ritrovano, su vari
temi, idee tratte dal Manicheismo, dall'Arianesimo, dal Quaccherismo,
dall'Unitarianismo, dal Giurisdavidismo e dall'universalismo hindu-cristiano
del movimento Navavidhan fondato da Keshab Chandra Sen. Frequenti e
significativi sono altresì i riferimenti al pensiero di aint-Martin e alla
"religione aperta"o della "compresenza dei morti e dei
viventi"elaborata da Capitini, Stracciati
Ito E. Albertoni, Tante fedi,
nessun dogma (recensione della Nuova Enciclopedia Massonica, Il Sole 24 Ore,I,
inserto culturale domenicale) M. Chierici, Nasce la Lega dei Venerabili
(Corriere della Sera) S. Esposito, Dalle radici del Mazdeismo all'Alleanza
Mazdea CristianaIntervista con M. (in Secreta Magazine S. Esposito, Gesbitando:
intervista con M. (Blogfoolk) F. Ferrari, La Massoneria verso il futuro (una
conversazione con M.) (Bastogi, Foggi8) S. Semeraro, Tra la via Emilia e l'Est.
Così parlò Zoroastro (La Stampa, Torino) S. Sari, Unico e plurimo al contempo,
Dio secondo gli Zoroastriani [intervista a M.M.](Libero) G. Giovacchini,
Cultura e spiritualità della Massoneria italiana [prefazione di M.] (Tiphereth,
Acireale-Roma ) Zoroastrismo
Universalismo Massoneria Rosacroce michelemoramarco. blog del Real Ordine A.L.A.M., su
realordine.wordpress.com. Pagina sul sito di Heristal Entertainment, su
heristal.eu. blog degli anglicani latitudinari, su
riformatiepiscopali.wordpress.com. Grice: “The Romans are obsessed with what
Moramarco calls ‘paganesimo romano’ – the word ‘pagano’ only makes sense in
opposition to Christ. It would be very
inappropriate of the greatest Italian philosopher ever, Antonino, to consider
his self pagan!” -- Michele Moramarco. Moramarco.
Keywords: la tradizione massonica italiana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Moramarco” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Moravia: la ragione conversazionale -- l’implicature
conversazionali dei ragazzi – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Bologna). Filosofo italiano. Bologna, Emilia-Romagna. Grice: “I
like Moravia: he has philosophised on what makes us ‘human,’ (“il pungolo
dell’umano”) – his analysis of ‘il ragazzo selvaggio’ is sublime – and he has
played with ‘reason,’ hidden and strutturata – and the universi di senso with
which I cannot but agree! – provided we don’t multiply them ad infinitum!”
-- Grice: “I like Moravia’s idea of ‘la
ragione nascosta’ – you have indeed to seek and thou shalt find!” -- “Il
Nietzsche che prediligo è il Nietzsche terreno, umano, presente nel tempo. È il Nietzsche intrepido esploratore del sottosuolo
dell'uomo e dei disagi della civiltà. È il Nietzsche che fertilmente e
sofferentemente (non narcisisticamente) vive e pensa il nichilismo: ma per
andare oltre il nichilismo. È soprattutto il Nietzsche cheneo-illuminista forse
malgrado luivuole conoscere, capire, dare un (nuovo) senso alle cose.”
Professore a Firenze. Allievo diGarin,
si è formato in ambiente fiorentino conseguendovi la laurea in filosofia nel
1962 con tesi su Gian Domenico Romagnosi. Professore incaricato, è poi
diventato ordinario di Storia della Filosofia all'Firenze. Nel corso della sua carriera, si è
interessato particolarmente dell'illuminismo francese e del pensiero del
Novecento, della storia e dell'epistemologia delle scienze umane, con
particolare attenzione all'antropologia, la filosofia della mente e
l'esistenzialismo. I suoi studi e le sue ricerche hanno aperto nuove
prospettive interdisciplinari fra pensiero filosofico e scienze umane. Attualmente, le sue attenzioni sono rivolte
verso l'opera e il pensiero del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche del quale pubblica
già una celebre antologia dal titolo La distruzione delle certezze e, nel 1985,
una raccolta di saggi intitolata Itinerario nietzscheano. Proprio un nuovo modo
di avvicinarsi e concepire il pensiero del filosofo tedesco lo hanno reso uno
dei suoi interpreti più originali e più discussi. Grazie ai suoi studi e contributi filosofici,
è stato visiting professor presso l'Università della California a Berkeley,
l'Università del Connecticut a Storrs e il Center for the Humanities della
Wesleyan University. Conferenziere
presso altre sedi universitarie americane (fra le quali, Harvard, UCLA, Boston)
ed europee (Francia, Belgio, Germania), è cofondatore della “Società italiana
degli studi sul XVIII secolo”, nonché membro del Comitato direttivo delle
Riviste filosofiche “Iride” e “Paradigmi”. Collabora ai giornali Corriere della
Sera, Quotidiano nazionale, La Repubblica. Saggi: “Il tramonto dell'Illuminismo
-- filosofia e politica” (Laterza, Roma); “La ragione nascosta” (Sansoni,
Firenze); La scienza dell'uomo” (Laterza, Roma); “L’antropologia strutturale” (Sansoni,
Firenze); “Esistenziale” (Laterza, Roma); “La teoria critica della società” (Sansoni,
Firenze); “Gl’idéologues -- scienza e filosofia” (Nuova Italia, Firenze); “La
distruzione delle certezze” (Nuova Italia, Firenze); “Linguaggio, scuola e
società not ‘storia’! -- Guaraldi, Firenze); “Filosofia e scienze umane
nell'età dei Lumi” (Sansoni, Firenze); “Pensiero e civiltà” (Monnier, Firenze);
“Il ragazzo selvaggio dell'Aveyron.” Pedagogia e psichiatria nei testi di
Itard, Pinel e dell'anonimo della "Décade" (Laterza, Roma); “Itinerario
nietzscheano, Guida, Napoli); Educazione e pensiero, Monnier, Firenze,
Filosofia: storia e testi, Monnier, Firenze, “L'enigma dell’animo” Laterza,
Roma); Compendio di filosofia, Monnier,
Firenze, L'enigma dell'esistenza -- soggetto, morale, passioni nell'età del
disincanto, Feltrinelli, Milano, L'esistenza ferita -- modi d'essere,
sofferenze, terapie dell'uomo nell'inquietudine del mondo, Feltrinelli, Milano,
Filosofia dialettico-negativa e teoria critica della società, Mimesis, Milano;
“Ragione strutturale e universi di senso” (Lettere, Firenze); “La Massoneria.
La storia, gli uomini, le idee, Mondadori, Milano); “Firenze e l’Umanesimo.
Arte, cultura, comunicazione” (Lettere, Firenze); Lo strutturalismo, Lettere,
Firenze); “Filosofia e psicoanalisi (POMBA, Torino); “L'universo del corpo,
Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma,
“Animo e realtà psichica” (Borla, Roma, "L'esistenza e il
male", in: "Mysterium
iniquitatis", Gregoriana, Padova, Linterpretazione personologico-esistenziale
dell'uomo", in: La questione del
soggetto tra filosofia e scienze umane, Monnier, Firenze) – PERSONOLOGIA –
PIROTOLOGIA – Grice, persona -- Lettura Magistrale" al Convegno Dalla
riabilitazione psicosociale alla promozione della salute(Montecatini),
"S.I.R.F. News", "Mente, soggetto, esperienza nel mondo",
in La filosofia italiana in discussione -- La filosofia italiana in
discussione, Società Filosofica Italiana, Firenze), Bruno Mondadori, Milano,
"Crisi della cultura e relazioni generazionali nel mondo
contemporaneo", in Giovani e adulti: prove di ascolto, Sansepolcro (AR),
"La filosofia degli idéologues. Scienza dell'uomo e riflessione epistemological,
Letteratura italiana tra illuminismo e romanticismo, Convegno, Italianistica,
Padova, "Libertà, finitudine,
impegno -- genesi e significato della responsabilità nel mondo", in: V.
Malagola Giustizia e responsabilità (Convegno, Firenze), Giuffré Milano, "Dal soggetto persona alla relazione
interpersonale", Maieutica, De-mitizzazione e de- valorizzazione. La crisi
della 'forma famiglia' nella società", in: Interazioni, "Illuminismo
e modernità", Hiram, "Prove d'ascolto. Crisi della cultura e
relazioni generazionali nel mondo contemporaneo", Studi sulla formazione, "La
guerra giusta", Hiram, "La
filosofia, la conoscenza dell'umano, il dialogo col pensiero religioso",
Hiram, "Esistenza e felicità", Hiram, "L'Occidente e la pace.
Luci e ombre all'alba del terzo millennio", Hiram,"La filosofia e il
suo 'altro'. La riflessione metafilosofica di Adorno in 'Dialettica
negativa'", Iride, "L'uomo:
una storia infinita", in: Per una
scienza dell'umano, Arezzo, "L’'interpretazione
personologico-esistenziale dell'uomo" – PERSONALOGIA – Grice, PERSONA. in:
L. Neuro-fisiologia e teorie della mente, Vita & Pensiero, Milano, "La
scoperta dell'inconscio, l'ambiguità del freudismo e il lavoro della
psicoanalisi sull'animale, Convegno "Meta-psicologia”, Napoli, La Biblioteca,
Bari, "Un mondo negato. L'assolutizzazione del corpo nella
psico-umanologia contemporanea", UMANOLOGIA – ibrido -- Hermeneutica,
Corpo e persona, "Complessità, pluralità, confini", in: Dal
coordinatore al coordinamento,Coordinatori pedagogici in Emilia-Romagna,
Assessorato Servizi Sociali, Bologna, Bruno Maiorca, Filosofi italiani
contemporanei. Parlano i protagonisti, Bari, Dedalo, su sapere, De Agostini. Gran Loggia del GOI
dal titolo "Tu sei mio fratello" Registrazione video della Lectio Magistralis
"Al di qua del bene e del male Nietzsche esploratore dell'umano"
Modena e Reggio Emilia Tavola rotonda del GOI "Pedagogia delle libertà Libertà
civili" Convegno del GOI "La scienza non sia ostacolata
dall'ideologia, dalla politica e dalla religione" tavola rotonda della
Comunità Oasi "Significato e funzione della pena, della punizione e della
penitenza nella promozione umana e sociale" "Catturati dall'effimero?"
all'interno del Convegno Giovanile alla Cittadella di Assisi" dsu
arcoiris. Sergio Moravia. Moravia. Keywords: ragazzi, personologia. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Moravia” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Mordacci: l’implicatura convresazionale e la
norma – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I like Mordacci – in a way,
like I did with J. L. Mackie, Mordacci opposes both ‘assolutismo’ and
‘relativismo’ – and tries to ‘construct’ an ‘inter-personal’ reason out of a
full-fledged personal reason. Whereas it would seem that we enjoin the principle
of conversational helpfulness out of altruism, there is this balance between
conversational self-love and conversational other-love; and we only ‘respect’
the other that respects us as ‘pesonal;’ against Apel, the logic of the
inter-personal reduces, in a complex way, to the logic of the personal; without
it, we would be annihilating the autonomy of the will.” Grice: “I like
Mordacci’s emphasis on reason for normativity – interpersonal reason, as he
calls it!” È preside della Facoltà di Filosofia
dell'Università Vita-Salute San Raffaele dove è Professore di Filosofia
Morale. È Direttore del Centro Internazionale di Ricerca per la Cultura e
la Politica Europea. Laurea in filosofia presso l'Università Cattolica
del Sacro Cuore di Milano; Dottorato in bioetica presso l'Università degli
Studi di Genova. Ha svolto attività di ricerca e insegnamento presso la Scuola
di Medicina e Scienze Umane dell'Istituto Scientifico Ospedale San Raffaele.
Insegnato presso l'Università Vita-Salute San Raffaele, prima presso la Facoltà
di Psicologia e dal 2002 presso la Facoltà di Filosofia che ha contribuito a
fondare insieme con Cacciari, Edoardo Boncinelli, Michele Di Francesco, Andrea
Moro. Ha contribuito a progetti di ricerca ed è stato membro del Consiglio
d'Europa per l'insegnamento della bioetica. Dal
è preside della Facoltà di Filosofia dell'Università Vita-Salute San
Raffaele, essendo stato rieletto nel giugno
per il secondo mandato. Membro del Comitato Nazionale per la
Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze per la Vita della Presidenza del
Consiglio dei Ministri. Dal
al è stato membro del Comitato
Scientifico per EXPO come delegato del
Rettore dell'Università Vita-Salute San Raffele. Dal è membro della Commissione per l'Etica della
Ricerca e la Bioetica del consiglio nazionale delle ricerche e del consiglio
direttiva della Società Italiana di Filosofia Morale. Si è dedicato in
particolar modo dei temi: "Etica e ragioni morali", "Etica
pubblica e rispetto", "Neuroetica". Attraverso l'indagine delle
"ragioni morali" e dell'"identità personale" e ispirandosi
alla filosofia kantiana, propone una forma di "personalismo critico"
in base alla quale il fondamento dell'esperienza morale viene individuato nella
ricerca, che ognuno compie, delle "buone ragioni" che danno forma
alla propria individualità personale attraverso l'agire. Riconoscere ogni
persona come autrice della propria identità fonda un'etica del rispetto delle
persone in quanto a ogni individuo viene riconosciuto il diritto e il dovere di
esprimere le proprie abilità e costruire la propria personalità. Si è
inoltre occupato di bioetica essendo anche stato coordinatore del progetto
Bioetica della genetica: questioni morali e giuridiche negli impieghi clinici,
biomedici e sociali della genetica umana del Miur (FIRB, Tra i suoi interessi
più recenti, la disciplina della Film and Philosophy: la riflessione su come i
film possono fare filosofia e se possono argomentare vere e proprie tesi
filosofiche. In questo contesto ha dato vita al Laboratorio di Filosofia e
Cinema presso la Facoltà di Filosofia dell'Università Vita-Salute San Raffaele,
conduce il sabato pomeriggio la rubrica "Al cinema col Filosofo" su
TgCom24 (stagioni - e -) e la rubrica "Imparare ad amare i film"
all'interno di Cinematografo Estate () su Rai 1. Riviste È membro del
comitato scientifico dell'Annuario di Etica (ed. Vita e Pensiero),
dell'Annuario di Filosofia (ed. Mimesis) e della rivista online Etica &
Politica. Dalla sua fondazione è membro del Comitato Scientifico della
rivista scientifica a cura del Comitato Etico della Fondazione Umberto
Veronesi. Attività teatrale Romeo e Giulietta: nascita e tragedia dell'io
moderno, Eloisa e Abelardo: passione e negazione, Occidente, o identità
fragile: Auster e le Follie di Brooklyn, analisi filosofiche con letture
sceniche, ciclo "Aperitivi con Sophia", Teatro Franco Parenti,La
violenza e l'ingiustiziaGorgia, ciclo "Filosofi a teatro" M., Teatro
Franco Parenti, L'individuo, la libertà e il perdono. Hegel legge Dostoevskij,
lettura scenica di M. e Sorel, ciclo l'Intelligenza e la Fantasia, Teatro
Strehler,L'isola della verità. Divagazioni fotografiche e filosofiche, lettura
scenica di M., Traini e Stepparava, Cluster Isole, Mare e Cibo, Padiglione
P03-Expo Milano (Rho-Fiera), Kant e il
mare, lettura scenica di Roberto Mordacci e Francesca Ria, agosto Saggi:“Bio-etica della sperimentazione,”
Angeli, Milano; “Salute e bio-etica,” Einaudi, Milano); “Una introduzione alle
teorie morali,” Feltrinelli, Milano, La
vita etica e le buone ragioni, Mondadori, Milano, “Ragioni personali, ragione
inter-personali: Saggio sulla normatività morale,” Carocci, Milano, Elogio
dell'Immoralista, Mondadori, Milano; Rispetto, Cortina, Milano. Bioetica, Mondadori,
Milano. L'etica è per le persone, San Paolo, Cinisello Balsamo. Al cinema con
il filosofo. Imparare ad amare i film, Mondadori, Milano. La condizione
neomoderna, Einaudi, Torino,. Ritorno a utopia, Laterza, Bari,. Note Università Vita-Salute San Raffaele, su
unisr. Governo/bioetica, su governo.M., su Le Università per Expo,Commissione
per l’Etica della Ricerca e la Bioetica, Consiglio Nazionale delle Ricerche, su
cnr. Organi della società | SIFM, su
sifm. Intervista a L'accento di Socrate, su laccentodi socrate. Rai 1, Cinematografo estate, su rai.tv. Scienza e etica: in uscita la nuova rivista
della Fondazione Veronesi, su Fondazione Umberto Veronesi. Chi siamo
su scienceandethics. fondazioneveronesi. Feeding the Mind: Expo-Bicocca
Conversation Hour, su unimib. Lettura scenica de "I Sensi del Mare",
su//elbareport. 1 Pearson Imparare sempre su pearson. 1º agosto. Bioetica Mordacci Robertoe Book Mondadori
BrunoSai cos'è?FilosofiaePubIBS, su ibs. L'etica è per le personeEdizioni San
Paolo, su edizionisanpaolo. Riflessioni
sul senso della vita intervista di Ivo Nardi, sito "Riflessioni",
settembre. Ci vuole più rispetto intervista a Roberto Mordacci, Famiglia
Cristiana. Ma l'etica non è un'intrusa, intervista a Roberto Mordacci,
Avvenire, Ora smettiamola di parlare inglese, intervista a Roberto Mordacci, Il
Giornale. La storia costituisce per la filosofia contemporanea un ambito di
indagine costante e pervasivo: quasi
tutta la filosofia dopo Hegel ha pensato il proprio oggetto, cioè l’uomo, la conoscenza, l’agire
e l’essere stesso, come essenzialmente
storico. Questa “svolta storica”, che ha preceduto e favorito la cosiddetta “svolta linguistica”, ha
significato per buona parte della filosofia
contemporanea l’adozione di un metodo in cui la storia di un concetto e
delle sue incarnazioni storiche sono
dive nu te rilevanti almeno quanto la definizione teorica di esso. Tuttavia, in questo diffuso
storicismo, che attraversa la filosofia
dall’hegelismo all’ermeneutica, si è in parte persa di vista la
specificità del l’ambito di riflessione
che si può chiamare filosofia della storia. La specifica interpretazione dell’agire storico suggerita
dallo storicismo, come svolgimento di un
«destino» dello spirito, ha infatti occultato gran parte della riflessione che la tradizione filosofica ha prodotto, nel
corso dei secoli, sull’agire storico in
quanto tale. Questa preminenza del
paradigma storicista ha inoltre favorito la nascita delle tesi circa la cosiddetta «fine della storia»:
una percezione che, dalle riflessioni di
Spengler sul «tramonto del l’Occidente» alle provocazioni del
postmoderno, ha finito per estendersi ad
ampi settori della cultura contemporanea. Quest'ultima appare per questo in estremo disagio, oggi,
nel progettare il futuro: pensando
l’intero dell’essere come contenuto nella storia «fino al momento
presente», la cultura odierna rifugge
dai tentativi di prefigurare un fine della storia come compimento, soprattutto perché questo
tentativo appare come intrinsecamente
ideologico e, quindi, non più credibile. Si può quindi ancora pensare la
storiaa venire? Mettere in discussione questa
precomprensione storicista della storia è uno
degli obiettivi di questo volume. La filosofia della storia è oggi
un’area vasta di riflessioni sul senso
dell’agire storico che non può essere affatto ridotta all’idea di un «destino» immanente dell’Occidente o
del mondo. Anche una semplice e non
pregiudiziale ricognizione di alcune concezioni filosofiche della storia che
si rintracciano nella tradizione mostra
come l’interpretazione di essa sia assai varia
e più aperta alla possibilità di pensare il futuro in modo non
ideologico e soprattutto aperto al
cambiamento, pur senza che esso sia abbandonato alla completa anomia. In questo senso, il volume mira a riabilitare
una disciplina che, a volte
affrettatamente, si è considerata così intrinseca alla pratica
filosofica da non esserne distinguibile
come un ambito di studi specifico. Si tratta, innanzitutto, di contribuire a rimuovere l’identificazione
della filosofia della storia con il
racconto di un «destino» ineluttabile. Questa interpretazione è stata
resa canonica anche attraverso la
preziosa ricostruzione condotta da Karl Lòwith in Significato e fine della storia,1 un libro
che è stato, di fatto, il più autorevole e
pressoché unico manuale di filosofia della storia dalla fine degli anni
quaranta, quando fu scritto, a
oggi. Lòwith ha una tesi tanto
affascinante quanto riduttiva sulla vicenda della filosofia della storia. Definita
essenzialmente come secolarizzazione
dell’escatologia cristiana, essa evidentemente può esistere solo in
certe condizioni culturali: in sostanza,
quelle che si sono date da Gioacchino da Fiore
a Marx. Si tratta di una lunga epoca, che pensa il tempo interamente in
rapporto a un fine che, al suo apparire
finale, svela l’autentico significato di tutto il movimento storico. Prima di quel momento
finale, il cui modello è 1° Apocalisse
cristiana ma che nella modernità si traduce in varie forme di
realizzazione di un programma filosofico
o sociale, le vicende storiche mostrano il loro senso solo a colui che si è elevato al punto di vista
della fine. Quest’ultima è dunque il
criterio di valore grazie al quale si possono giudicare tutti i momenti
della storia. A partire dai movimenti
millenaristi, di cui Gioacchino da Fiore è interprete, quella fine è comunque posta all’interno del
tempo, vuoi come apparire dell’ Alfa e
Omega che apre e chiude la storia, vuoi come luogo di inizio di una nuova epoca, contraddistinta dalla conoscenza,
dalla società senza classi, dalla libertà
pienamente realizzate. Il negativo, l’orrendo e il tragico che affligge
la storia presente è comunque destinato
a sciogliersi in quella sintesi finale, che mentre svela il senso del passato apre un futuro di
armonia e libertà. La potenza di questa
immagine ha tenuto prigioniera più di un’epoca, eppure non è stata senza rivali, nemmeno nello stesso Occidente, il
quale, pur pensandosi forse inconfessata
men te come il luogo di quella realizzazione, ha saputo anche tenere aperte interpretazioni diverse dei corsi
dellastoria. Nell’interpretazione di
Lòwith, l’idea di “senso” della storia diviene sinonimo di ciò che la parola “fine” nomina nella
tradizione ebraico-cristiana. La chiave di
volta è la speranza, la promessa di un avvenire di salvezza o di vita
piena. È questa speranza ad aprire il
futuro, perché esso non sarà la ripetizione del già visto da sempre, come invece può solo essere
in una concezione ciclica. La promessa,
inoltre, non è determinata nei dettagli e apre su un oltre della storia: per questo è possibile progettare un futuro
diverso dal presente. Al tempo stesso,
il compimento della promessa è certo, atteso e desiderato, e questo
anima le coscienze più efficacemente
dell’idea della ripetizione di cicli sempre ritornanti. Questa concezione, dunque, rimanda a una
profondissima responsabilità
individuale, sociale e universale per l’uomo, giacché quella
destinazione non si può compiere,
ricordano queste filosofie della storia, senza la partecipazione attiva degli individui, senza l’impegno
soprattutto di coloro la cui coscienza ha
scorto quella fine all’orizzonte e per questo deve operare per
realizzarla. Simili filosofie della
storia sono dunque vere e proprie concezioni morali del mondo e del tempo, capaci di mobilitare le energie
individuali e di costituire cause ideali
di grandi rivoluzioni attese o annunciate. La previsione dell’avvento
necessario dell’epoca finale è pensato
come compatibile con il riconoscimento della piena libertà umana, ma questa ipotesi di
conciliazione è fonte di tensioni irrisolte sul
piano sia concettuale sia pratico: la necessità di un “destino” mal
sopporta il riconoscimento di
un’autentica libertà personale. Così,
la concezione moderna della storia è tesa fra la ricerca di leggi storiche
e il riconoscimento della responsabilità
dell’uomo, basato sulla tesi irrinunciabile
dell’autonomia del volere. Questa oscillazione è visibile in Tocqueville
(La démocratie en Amérique è del
1835-1840; la democrazia come destino e come
missione), in Spengler (Der Untergang des Abendlandes è del 1918-1923: Zivilisation come tramonto, come fato
naturale e decisione storica), in Toynbee
(A Study of History, 1934-1961: nascita e crollo delle civiltà, attesa
di una nuova chiesa). Il destino è
segnato ma è nelle nostre mani farlo accadere; come Lòwith riassume efficacemente in una domanda: «Lo
storico classico si chiede: come si è
giunti a ciò? Quello moderno si chiede: come andrà a finire?».2 Così la
storia diviene universale: mentre il
movimento che ha condotto alla costituzione di una specifica cultura, di un particolare modo di
vita, si può ricostruire limitandosi a
concentrare i fattori causali in formazioni peculiari, che
contingentemente si sono intrecciati in
un luogo e in un tempo, l’idea di una fine, specialmente di una ‘fine di tutte le cose”, non può che avere un
respiro totalizzante, universale
appunto, perché a esso contribuiscono tutti i fattori storici e
culturali in grado di influenzare la
storia. Si guarderà quindi non alla storia locale ma ai grandi movimenti storici, agli spostamenti di assi
epocali, da Est a Ovest, da Nord a Sud
(come è di moda fare ora), cercando di rintracciare la legge necessaria di questi spostamenti e, quindi, di rendere possibile
una ‘futurologia”, una previsione
scientifica del corso della libertà umana.
Ora, i tentativi di ricostruire questi movimenti e le loro leggi sono
apparsi a buona parte della cultura
contemporanea come sostanzialmente fallimentari. Le utopie del futuro si sono spesso rivelate
come ideologie politiche che, in nome
del progresso, della società post-classista, del trionfo degli spiriti
forti, hanno mobilitato le masse verso
strutture politiche e forme del potere che hanno causato tragedie mondiali lungo tutto il XX
secolo. La consapevolezza del pericolo
che si cela dietro a una filosofia della storia ha così motivato molta parte della reazione contemporanea contro questo
tipo di prospettive, fino a revocare in
dubbio non solo la modernità, bensì l’intera storia come luogo dell’accadimento di eventi umani dotati di
senso. Uno dei nomi di questa reazione è
“postmoderno”, un movimento di pensiero che, fra molto altro, include la tesi secondo cui della storia non
si deve anzitutto dare un’interpretazione
complessiva, che anzi in tal senso non vi è affatto una “storia”, bensì una costellazione di eventi
frammentaria e casuale: cercare di
ordinarla tramite un significato è una forma di violenza, una
contraddizione rispetto alla libertà che
si pretende di veder realizzata proprio in quella necessità del movimento storico. La liberazione da
questa immagine è uno degli obiettivi
che l’arte, la filosofia e la letteratura postmoderna perseguono come un
modo di riaprire il movimento storico
alla creatività, alla possibilità e all’effettiva eguaglianza. In questo movimento non ci sono
criteri di valore, secondo questa tesi
non c’è una direzione e per questo non vi è un metro di giudizio: la storia
è costituita da accadimenti che ci si
rifiuta di valutare se non in un’ottica
pragmatica o meramente descrittiva. Si può giudicare più o meno bella
una data composizione dei fatti, ma
nessuna di esse è né assolutamente reale né
definitiva: ogni rotazione del tempo crea una nuova immagine. Tuttavia, si potrebbe avanzare la tesi
secondo cui il postmoderno non sia in
fondo altro che una patologia del moderno. Proprio il rifiuto di un
senso della storia incluso nel tempo, e
al tempo stesso la rinuncia a un criterio di giudizio sulla storia in nome della liberazione dalle
filosofie ideologiche della storia,
mostrano che l’ideale di libertà tipico della modernità, rinunciare al
quale è per noi impossibile e ingiusto,
è ancora l’anima del tempo presente. Si può piuttosto interpretare la reazione postmoderna più
semplicemente come la fine
dell’idealismo storicista, il quale è in sé un movimento profondamente
anti- moderno: la pretesa di imbrigliare
la storia nel movimento dell’idea o dello
spirito assoluto è in fondo incompatibile tanto con la ricerca
illuminista di un criterio di sviluppo
cognitivo e morale che prevede espressamente la possibilità di progressi e regressi, quanto con la
rivendicazione romantica di parametri di
valore legati al genio, all’apparire improvviso del senso anche nel
mezzo delle crisi più profonde e perfino
con la coscienza cristiana di una dimensione
trascendente del tempo, di un rapporto con l’eterno che non è la fine
della storia bensì la sua dimensione
ortogonale, l’asse su cui si colloca l’attesa dell’avvento ultimo, improvviso e non prevedibile tramite
alcuna dialettica storica. Questa
patologia è stata diagnosticata con chiarezza già da Nietzsche a partire dalla seconda Inattuale, ma con l’errore (che
molti ripetono) di omologare idealismo e
Illuminismo, di considerare l’idea di un progresso morale e sociale sullo stesso piano della postulazione di un
incessante Auffeben, di un movimento
necessario e prevedibile. In realtà, sotto questo profilo fra Kant e Hegel vi è un’assoluta discontinuità.
L’unilateralità idealistica ha poi il suo
contraltare nel positivismo estremo e nell’empirismo radicale e proprio
nel rifiuto, in nome della libertà dal
pregiudizio storicista, di ogni canone di
valutazione degli eventi storici. La delegittimazione diviene così pratica universale, perché non si è distinto, a
partire dall’idealismo, il portatore dal
messaggio, l’agire dal significato che attraverso di esso gli individui
cercano di realizzare limitatamente alle
condizioni in cui si trovano e secondo le loro
capacità. Per uscire da questa
impasse occorre allargare la visuale sulle filosofie della storia. Contrariamente a quanto pensava
Lòwith, pur con la sua grande capacità
di sintesi, avere una filosofia della storia non comporta affatto
leggere tutta la storia in base a un
fine che le dia significato, soprattutto se questo fine è pensato come un punto preciso del corso del tempo
che, giungendo alla fine, ne sveli
l’intero senso. L’idea di un giudizio sugli eventi storici non
richiede necessariamente che si pensi
una “fine” e nemmeno uno “scopo”. Vi sono anzi
state nella storia del pensiero numerose interpretazioni dello svolgersi
del tempo come anzitutto regolato da
proprie leggi, da ritmi ciclici o alternati e dinamiche di continuità e ripetizione che non
presuppongono una fine nel tempo bensì
magari solo, come nel caso del cristianesimo, del tempo. Non si tratta
solo della concezione greca del tempo
come di un ciclo incessante e non orientato a un fine (che qui non è trattata ma che è per altro
ben nota), bensì anche di concezioni
cristiane e moderne in cui, senza rinunciare a porre un criterio di
giudizio sulla storia, si è però posto
tale criterio non in un fine bensì in una dimensione per così dire verticale del tempo, che è
coinvolta nel suo movimento orizzontale
come paradigma del valore, del senso e della possibilità sempre presente
di perdere il contatto con essi. Possono essere interpretate in questo senso,
per esempio, la dicotomia fra città di
Dio e dell’uomo in Agostino, il rapporto fra corsi e ricorsi da un lato e Provvidenza dall’altro in Vico, l'ideale
regolativo della pace perpetua in Kant, la
dialettica fra vita e storia in Nietzsche. Oltre alla lettura “lineare”
del progresso bisogna dunque riconoscere
— anche nel cuore della modernità — almeno anche una lettura “ondulatoria”, secondo cui il
rapporto fra tempo e verità non si
dipana lungo una direttiva ascendente ma conosce alti e bassi, vertici e
abissi, il cui canone di riferimento è
il rapporto con l’assoluto, con la pienezza vitale, con la promessa salvifica o con la realizzazione
di una società armonica e pacificata.
Riaprire la molteplicità degli sguardi sulla storia di cui l'Occidente è
stato ed è capace è un’esigenza
imprescindibile per il tempo presente: la capacità di progettare un futuro dipende esattamente, da
un lato, dalla denuncia di concezioni
chiuse della storia e, dall’altro, dalla ricerca di un criterio di valutazione reale, obiettivo sugli eventi
storici, che non rinunci alla volontà di
giudicare del tempo per animare l’azione di valore umano e soprattutto dell’impegno delle libertà personali verso
qualcosa che mostri di meritare la
nostra dedizione. Questo volume
si presenta dunque un utile strumento per l’introduzione alla comprensione filosofica dell’agire storico e
del tema della storicità dell’esistenza.
Scritto pensando anzitutto a chiarire le concezioni della storia che emergono dai principali autori della
tradizione filosofica, il volume non intende
però dare un panorama completo ed esaustivo di tutta la disciplina,
troppo vasta e dispersiva. La
selezione dei temi ha seguito il criterio della rilevanza degli autori trattati, con una chiara
inclinazione verso il moderno e il contemporaneo. Gli autori dei testi sono docenti universitari
noti per la competenza sull’autore
trattato e dottorandi del Corso di dottorato in Filosofia della storia
(l’unico di questo genere in Italia)
istituito congiuntamente dall’Istituto Italiano di Scienze Umane di Firenze e dalla Facoltà di Filosofia
dell’Università VitaSalute San Raffaele
di Milano. L’esperienza di collaborazione che ha portato a questo volume si è concentrata soprattutto
nell’attività didattica e per questo ha ricevuto uno speciale contributo dalla discussione con
gli studenti, ai quali molti dei testi
qui raccolti sono stati presentati in una prima stesura. Anche questa
genesi del testo ne spiega la vocazione
e l’ambizione esplicita: quella di essere la porta di accesso a una disciplina che, nell’epoca di
una presunta quanto fallace “fine della
storia”, ha più che mai bisogno di rinascere.
Note 1K. Léwith, Significato e
fine della storia [1949], trad. it. di F. Tedeschi Negri, Einaudi, Torino 1989. 2Ivi, p. 38. Roberto Mordacci. Mordacci. Keywords:
la norma, filosofia dela storia, Vico. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Mordacci” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Morelli: la ragione conversazionale, l’implicatura
conversazionale e la filosofia del digiuno – filosofia lombarda -- italiana –
Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Milano,
Lombardia. Grice: ‘I once told Austin, I don’t give a hoot what the dictionary
says;’ ‘And that’s where you make your big mistake,’ his crass response was!”
-- Grice: “I once told Ackrill, ‘should there be a manual of philosophy, must
we follow it?’ He replied, “One thing is to know the manual, another is to know
how to abide by it!” Si laurea a Pavia
e l'anno dopo assolve all'obbligo di leva a Trieste dove presta
attenzione alle problematiche relazionali dei militari nello svolgimento delle
proprie mansioni; si è poi specializzato in Psichiatria presso l'Università
degli Studi di Milano. Direttore dell'Istituto Riza, gruppo di ricerca che
pubblica la rivista Riza Psicosomatica ed altre pubblicazioni specializzate,
con lo scopo di "studiare l'uomo come espressione della simultaneità
psicofisica riconducendo a questa concezione l'interpretazione della malattia,
della sua diagnosi e della sua cura". Inoltre è direttore delle riviste Dimagrire
e Salute Naturale. Dall'attività dell'Istituto Riza è sorta anche la
Scuola di Formazione in Psicoterapia ad indirizzo psicosomatico, riconosciuta
ufficialmente dal Ministero dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica.
Vicepresidente della Società Italiana di Medicina Psicosomatica. Partecipa a
numerose trasmissioni televisive sia per la RAI sia per Mediaset (Maurizio
Costanzo Show, Tutte le mattine, Matrix, ecc.) e per la radio. Nelle sue
opere ci sono molti riferimenti alle dottrine orientali. Saggi: “Verso la
concezione di un sé psico-somatico. Il corpo è come un grande sogno della mente
(Milano, UNICOPLI, Milano, Cortina); La dimensione respiratoria. Studio psico-somatico
del respiro, inspiro, expiro – spiro -- Milano, Masson Italia, Dove va la medicina
psico-somatica (Milano, Riza); Il sacro.
Antropoanalisi, psico-somatica, comunicazione, Milano, Riza-Endas, Convegno
internazionale Mente-corpo: il momento unificante. Milano, Atti, Milano,
UNICOPLI, Riza, I sogni dell'infinito, Milano, Riza, Autostima. Le regole
pratiche, Milano, a cura dell'Istituto Riza di medicina psicosomatica, Il
talento. Come scoprire e realizzare la tua vera natura, Milano, Riza, Ansia,
Milano, Riza, Insonnia, Milano, Riza, Cefalea, (Milano, Riza); Lo psichiatra e
l'alchimista. Romanzo, Milano, Riza, Le nuove vie dell'autostima. Se piaci a te
stesso ogni miracolo è possibile, Milano, Riza, Conosci davvero tuo figlio?
Sconosciuto in casa. Dal delitto di Novi Ligure al disagio di una generazione,
Milano, Riza, Come essere felici, Milano, Mondadori, Cosa dire e non dire nella
coppia, Milano, Mondadori, Come mantenere il cervello giovane, Milano, Mondadori,
Come affrontare lo stress, Milano, Mondadori, Come amare ed essere amati
(Milano, Mondadori); Come dimagrire senza soffrire (Milano, Mondadori); Come
risvegliare l'eros, Milano, A. Mondadori, Come star bene al lavoro, Milano,
Mondadori, Come essere single e felici, Milano, A. Mondadori, Cosa dire o non dire ai nostri figli, Milano,
A. Mondadori, La rinascita interiore, Milano, Riza, Volersi bene. Tutto ciò che
conta è già dentro di noi (Milano, Riza); L'amore giusto. C'è una persona che
aspetta solo te, Milano, Riza, Vincere i disagi. Puoi farcela da solo perché li
hai creati tu, Milano, Riza); Felici sul lavoro. Come ritrovare il benessere in
ufficio, Milano, Riza, I figli felici. Aiutiamoli a diventare se stessi,
Milano, Riza, La gioia di vivere. Scorre spontaneamente dentro di noi, Milano,
Riza, Essere se stessi. L'unica via per incontrare il benessere, Milano, Riza,
Accendi la passione. È la scintilla che risveglia l'energia vitale, Milano,
Riza, Alle radici della felicità. Editoriali dpubblicati su Riza psicosomatica,
rivista mensile delle Edizioni Riza, Milano, Riza, Ciascuno è perfetto. L'arte
di star bene con se stessi, Milano, Mondadori, Il segreto di vivere. Aforismi,
Milano, Riza, Realizzare se stessi, Milano, Riza, Vincere la solitudine,
Milano, Riza, Dimagrire senza fatica, Milano, Riza, Amare senza soffrire,
Milano, Riza, Guarire con la psiche, Milano, Riza, Superare il tradimento,
Milano, Riza, Dizionario della felicità, 6 voll, Milano, Riza, Non siamo nati
per soffrire, Milano, Mondadori,L'autostima. Le cinque regole. Vivere la vita.
Adesso, Milano, Riza, Conoscersi. L'arte di valorizzare se stessi. Via le
zavorre dalla mente, Milano, Riza, I
figli difficili sono i figli migliori, Milano, Riza, Il matrimonio è in
crisi... che fortuna!, Milano, Riza, Autostima, I consigli di M. per un anno di
felicità, Milano, Riza, Le parole che curano, Milano, Riza, Perché le donne non
ne possono più... degli uomini, Milano, Riza, Le piccole cose che cambiano la
vita, Milano, Mondadori, Come trovare l'armonia in se stessi, Milano,
Mondadori, Ama e non pensare, Milano,
Mondadori, Curare il panico. Gli attacchi vengono per farci esprimere le parti
migliori di noi stessi, con Vittorio Caprioglio, Milano, Riza, Non dipende da
te. Affidati alla vita così realizzi i tuoi desideri, Milano, Mondadori,
L'alchimia. L'arte di trasformare se stessi (Milano, Riza); Il sesso è amore.
Vivere l'eros senza sensi di colpa, Milano, Mondadori, Puoi fidarti di te,
Milano, Mondadori, La felicità è dentro di te, Milano, Mondadori, L'unica cosa
che conta (Milano, Mondadori); La felicità è qui. Domande e risposte sulla
vita, l'amore, l'eternità, con Luciano Falsiroli, Milano, Mondadori, Guarire
senza medicine. La vera cura è dentro di te (Milano, Mondadori); Lezioni di
autostima. Come imparare a stare beni con se stessi e con gli altri (Milano,
Mondadori); Il segreto dell'amore felice, Milano, Mondadori, La saggezza
dell'anima. Quello che ci rende unici (Milano, Mondadori); Pensa magro. Le 6
mosse psicologiche per dimagrire senza dieta (Milano, Mondadori); Vincere il
panico. Le parole per capirlo, i consigli per affrontarlo, cosa fare per guarirlo
(Milano, Mondadori) Nessuna ferita è per sempre. Come superare i dolori del
passato (Milano, Mondadori); Solo la mente può bruciare i grassi. Come attivare
l'energia dimagrante che è dentro di noi (Milano, Mondadori); Breve corso di
felicità. Le antiregole che ti danno la gioia di vivere (Milano, Mondadori); La
vera cura sei tu (Milano, Mondadori); Il meglio deve ancora arrivare. Come
attivare l'energia che ringiovanisce (Milano, Mondadori); Il potere curativo
del digiuno. La pratica che rigenera corpo e mente (Milano, Mondadori). Segui
il tuo destino. Come riconoscere se sei sulla strada giusta (Milano,
Mondadori); Il manuale della felicità. Le dieci regole pratiche che ti
miglioreranno la vita (Milano, Mondadori); Pronto soccorso per le emozioni. Le
parole da dirsi nei momenti difficili (Milano, Mondadori). Movie. Grice: “Should there be a
‘dizionario della felicita,’ I would perhaps follow Austin’s advice and go
through it!” –. Raffaele Morelli. Morelli. Keywords: la
dimensione respiratoria, inspirare, respirare, spirare, spirito, il corpo
animato spira – il corpo spira – corpo spirante, corpo animato --. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Morelli” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Moretti: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale e la segnatura romantica – i romantici di roma – filosofia
lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like Moretti
– he uses a good metaphor, ‘the wounded poet,’ unless we mean Owen, but he was
more than wounded, even if that implicature is cancellable --.” Grice: “I like
Moretti also because he wrote on ‘ermeneutica sensibile,’ which is exactly what
I do.” Grice: “I like Moretti also because he uses ‘segnatura’ etymologically,
when he writes of the ‘la segnatura romantica’ – talk of tokens!” Nasce nel borghese quartiere Trieste, primo di due
fratelli. Ottiene il diploma di maturità classica presso il Liceo Giulio Cesare.
Successivamente consegue una prima laurea in Giurisprudenza, con una tesi in
filosofia del diritto, e, nel una seconda in filosofia, con una tesi in
filosofia morale, entrambe presso l'Roma La Sapienza. È poi borsista presso
l'Friburgo in Brisgovia, dove imposta un progetto di ricerca che, partendo
dall'interpretazione di Heidegger, mira ad un'analisi critica delle categorie
filosofico-estetiche del “romantico” in Germania, con particolare attenzione
alle opere di autori del romanticismo di Heidelberg, quali Creuzer, Görres, i
Fratelli Grimm e Bachofen, che contribuisce a tradurre e a far conoscere in
Italia. Al suo rientro insegna dapprima materie letterarie nelle scuole medie
e, in seguito, filosofia presso la Scuola germanica di Roma. La sua ricerca si amplia poi al pensiero
estetico di Novalis, di cui cura la prima edizione completa in lingua italiana
della Opera filosofica; durante questo periodo consegue il dottorato di ricerca
in Estetica presso l'Bologna. Vince la cattedra di professore associato di
Estetica all'Bari; Professore a Napoli L’Orientale. Redattore di Itinerari e Studi Filosofici,
collabora con varie altre riviste filosofiche (Agalma, Rivista di Estetica,
Studi di Estetica, aut aut, Nuovi Argomenti, Filosofia e Società, Filosofia Oggi,
Estetica) e ha spesso partecipato a trasmissioni RAI su temi filosofici e a
numerosi convegni. Saggi: ”Il romantico:
poesia, mito, storia, arte e natura” (Itinerari, Lanciano); -- roma – romantico
-- “Anima e immagine: sul poetico” (Aesthetica, Palermo); “Nichilismo e romanticismo
-- estetica e filosofia della storia” (Cadmo, Roma); La segnatura romantica
(Roma, Hestia); “Interpretazione del romanticismo” (Ianua, Roma); “Estetica: analogia
e principio poetico nella profezia romantica” -- Rosenberg & Sellier,
Torino); “La segnatura romantica -- filosofia e sentimento” (Hestia, Cernusco
L.); “Il genio” (Mulino, Bologna); “Il poeta ferito.” Hölderlin, Heidegger e la
storia dell'essere” (Mandragora, Imola); “Anima e immagine.” Studi su Klages, Mimesis, Milano, Heidelberg
romantica. Romanticismo e nichilismo” Guida, Napoli, Introduzione all'estetica
del Romanticismo, Nuova Cultura, Roma,
Il genio, Morcelliana, Brescia. Per immagini. Esercizi di ermeneutica
sensibile” (Moretti & Vitali, Bergamo); Heidelberg romantica. Romanticismo
tedesco e nichilismo europeo, Morcelliana, Brescia, Novalis. Pensiero, poesia,
romanzo Morcelliana, Brescia, Romano Guardini, Hölderlin, Morcelliana, Brescia.
Novalis, Scritti filosofici, Morcelliana, Brescia. J. J. Bachofen, Il
matriarcato (Marinotti, Milano); Novalis, Opera filosofica, I, Einaudi, Torino, Un video con una trasmissione
RAI. Un video con un intervento di Moretti. Giampiero Moretti. Moretti. Keywords:
roma, romanzo, romanzare, romanzato – non vero. Romanticismo filosofico, I
filosofi romantici italiani Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Moretti: il romanticismo romano” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Mori: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale e la coerenza dell’intransigenza – la ripproduzione sessuata
fra i antici romani – filosofia lombarda -- filosofia italiana -- Luigi
Speranza (Cremona).
Filosofo italiano. Cremona, Lombardia. Grice: “I like Mori; he wrote a
treatise on Stephen, better known as Virginia Woolf’s father; which reminded me
of Bergmann who once called me an English futilitarian!” -- Professore a Torino
e presidente della Consulta di Bioetica Onlus, un'associazione di volontariato
culturale per la promozione della bioetica laica. L’etica e la bioetica con le
varie problematiche connesse sono le tematiche al centro dei suoi interessi
filosofici e teorici. Mori ha studiato
all’Università degli Studi di Milano, dove ha conseguito la laurea (con Bonomi
e Pizzi) e il dottorato sotto Scarpelli e Jori. Insegnato ad Alessandria e Pisa,
prima di essere chiamato a Torino. Studia i temi della meta-etica e della
logica dell’etica con le problematiche della teoria etica. Tra i primi a
occuparsi di bioetica, nella quale ha dato contributi in tutti i principali
settori, con particolare attenzione all’aborto e alla fecondazione assistita.
Sollecitato dai casi Welby e Englaro ha dato contributi anche sul fine-vita a
difesa dell’autonomia individuale. Per primo teorizza la contrapposizione
paradigmatica tra bioetica laica e bioetica cattolica, derivante dal fatto che
quest’ultima propone un’etica della sacralità della vita caratterizzata da
divieti assoluti, mentre l’altra avanza un’etica della qualità della vita senza
assoluti e soli divieti prima facie. Presta grande attenzione al problema della
liberazione animale. Fonda Bioetica. Rivista interdisciplinare (Ananke Lab,
Torino). Membro di numerosi comitati, tra cui il comitato scientifico di
Notizie di Politeia, di Iride del Journal of Medicine and Philosophy e altre. Saggi:
“Manuale di bioetica: verso una civiltà bio-medica secolarizzata” (Lettere,
Firenze); “Introduzione alla bioetica. temi per capire e discutere” (Piazza, Torino);
Il caso Eluana Englaro. La “Porta Pia” del vitalismo ippocratico ovvero perché
è moralmente giusto sospendere ogni intervento, Pendragon, Bologna, Aborto e
morale. Per capire un nuovo diritto” (Einaudi, Torino); “La fecondazione
artificiale. Una forma di riproduzione umana” (Laterza, Roma-Bari); “La
fecondazione artificiale: questioni morali nell'esperienza giuridica Giuffrè,
Milano); “Utilitarismo e morale razionale. Per una teoria etica obiettivista,
Giuffrè, Milano, La legge sulla procreazione medicalmente assistita. Paradigmi
a confronto, Net, Milano, Laici e cattolici in bioetica: storia e teoria di un
confronto, Le Lettere, Firenze, La fecondazione assistita dopo 10 anni di legge
40. Meglio ricominciare da capo!, Ananke editore, Torino, Questa è la scienza,
bellezze! La fecondazione assistita come novo modo di costruire le famiglie,
Ananke Lab, Torino. Mori ha rappresentato, nella nostra infernale
esperienza di famiglia, un riferimento grazie al quale trovare un senso agli
eventi che si succedevano, i qua-Ii, ai nostri occhi, un senso proprio non lo
possedevano. Ho avuto in lui un osservatore attento, un interlocutore
profondo, un contestatore intelligente. Come direttore di «Bioetica.
Rivista interdisciplina-re» è stato il primo a dare rilievo pubblico alla
vicenda di mia figlia, e ha sollecitato in vari modi la riflessione sul caso
Eluana. Gli sono inoltre debitore di numerose conversazioni chiarificatrici, di
lezioni private concesse in esclusiva, e lo considero il filosofo che meglio di
ogni altro è stato in grado di tenere testa ai miei, notoriamente poco
accomodanti, modi e argomenti. Auspico che questa lettura possa sortire
lo stesso effetto in tutti coloro i quali insieme a lui si apprestano, ora, a
partire per questo viaggio nel ragionamento etico. Nel panorama bioetico
italiano la sua posizione non mi pare sia assimilabile ad alcuna predefinita
corrente di pensiero, anche perché i suoi maestri e amici hanno manifestato
originalità e indipendenza. Credo che il libro vada considerato e letto per le
argomentazioni che adduce senza schemi precostituiti. Può darsi che in
alcuni passaggi sia un libro scomo-do. Di questo non c'è da stupirsi, ma da
prenderne atto. Scomodo, dunque. Come mia figlia. Come me. Una scomodità
che suscita dibattito e stimola la riflessione. Invece di gridare allo
scandalo, si deve cogliere l'impegno a riflettere, sempre e senza compromessi.
Così è stato nello sforzo compiuto, alla ricerca di una modalità per
farrispettare la legittima volontà espressa da mia figlia. La riflessione seria
comporta anche scontri, ardenti e auten-tici, che restano per sempre vivi nella
memoria. Essere grandi amici non implica certo un accordo incondizionato di
vedute. La franchezza delle nostre collisioni dialettiche mi rimane,
indimenticabile, nel cuore. La condivisione dei valori di fondo, comunque,
rafforza la sintonia e la stima reciproca. Questo libro propone una
riflessione filosofica di ampio respiro sui problemi sollevati dal caso Eluana.
Ma oltre a questo contiene la storia di Eluana ripercorsa nelle sue principali
tappe, una cronaca precisa degli eventi noti e meno noti che si sono verificati
in questi ultimi mesi di continuo travaglio e logorio. Al trionfo dello stato
di diritto, rappresentato dai pronunciamenti della Corte di Cassazione prima e
della Corte d'Appello dopo, è succeduto un orrore. Non mi è nota, al momento,
altra fonte in cui la narrazione dei fatti, la ripresa del dibatti-to, la
ricostruzione degli avvenimenti si sia così fedelmente attenuta ai nostri
effettivi trascorsi. Il lettore rimarrà certamente colpito dalla presentazione
lineare e puntuale degli eventi, e forse, in qualche caso, ne resterà anche
perplesso. In questo testo è inoltre dimostrata la possibilità di
difendere gli stessi valori, di reclamare gli stessi diritti, a partire da
percorsi differenti: quello che la mia famiglia ha sempre sentito come un
insopprimibile bisogno, connaturato e viscerale, di poter decidere riguardo se
stessi - tanto più quando in gioco è la fine della propria vita -,
Maurizio Mori lo dimostra come il risultato di una esigente, legittima e
rigorosa riflessione etica. Vi sono argomentazioni morali che sono sostenute da
così poderose ragioni da apparire dotate di evidenza. Egli ci costringe al
ragionamento leale sui nostri sentimenti e pregiudizi più profondi. E lui
più degli altri ha compreso che non mi può cambiare nessuno.Come i magistrati
hanno capito questo di Eluana. Oltre ai giudici che hanno avuto il
coraggio di andare fino in fondo, in favore di una delle nostre libertà
fonda-mentali, Eluana avrebbe ringraziato anche lui, Maurizio: per la
riflessione filosofica compiuta, per il tempo speso, per il mutuo soccorso, per
le andate e i ritorni in mille iniziative, per avere lanciato il sasso ed aver
mostrato la mano. In attesa di sapere quale direzione prenderanno gli
eventi, mi fa piacere vedere che la vicenda di Eluana e della nostra famiglia
sia stata presentata in un testo così autorevole e umanamente ricco. Maurizio Mori.
Mori. Keywords: la coerenza dell’intransigenza.
Grice e Moriggi: la ragione conversazionale e la
stretta di mano – Ercole e Cerbero – le tre implicature conversazionali – filosofia
lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I like
it when Moriggi does substantial metaphysics; he has edited a collection on
‘why is there something rather than nothing?” – hardly rhetoric – and the
subtitle is fascinating: the vacuum, the zero, and nothingness! All in Italian, to offend Heidegger!” Specializza in
teoria e modelli della razionalità, fondamenti della probabilità e di
pragmatism. Insegna a Brescia, Parma, Milano e presso la European School of Molecular
Medicine è conosciuto al grande pubblico attraverso la trasmissione TV E se
domani di Rai 3 e per alcuni interventi ad altre trasmissioni. Saggi: “Le tre
bocche di Cerbero” (Bompiani. Perché esiste qualcosa anziché nulla? Vuoto,
Nulla, Zero, con P.Giaretta e G.Federspil (Itaca) Perché la tecnologia ci rende
umani (Sironi) Connessi. Beati quelli
che sapranno pensare con le macchine (San Paolo) School Rocks! La scuola
spacca, con A. Incorvaia (San Paolo, ), con prefazione rap di Frankie Hi-nrg.
Stefano Moriggi. Moriggi. Keywords: le tre bocche di Cerbero. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Moriggi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Morselli
– filosofia lombarda – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Vigevano). Filosofo italiano. Vigevano, Pavia, Lombardia. Grice:
“What I like about Morselli is that his is mainstream (Lombardia) and that he
approached philosophy systematically. Only Morselli could conceive of a
‘dictionary’ – and he also wrote a ‘storia della filosofia’!” Osn!:d P*%r OdMi WHMJOTECA CAPWvj|a£. dico) = Il silenzio) (fllos.): per gli
Scettici antichi l'afasia. Il tacere è 11 risultato della sospensione di
qualsiasi giudizio 0 affermazione circa la vera natura del¬ lo cose. L’uomo
conosce soltanto ciò che appare, và 9aiv6jj.Eva, la pura appa¬ renza: se si
vuolo oltrepassarla, ci si trova di fronte a ragioni contrarlo e d'uguale
forza; perciò il saggio, se vuol conservare l’impassibilità e l’equilibrio
dell’anima (derapala), non afferma nuLa, neppure l’impossibilità della scienza.
- (psicol.): l’afasia ò la perdita totale o parziale dello funzioni del
linguaggio. Affettivo (lat. a/Hccrc. p. 0. dolore, lae- iiiìa —- addolorare,
rallegrare) (psicol.): si dico delle modificazioni e dei modi di essere dei soggetto,
dei processi es¬ senzialmente soggettivi, come il niacore, il dolore, le
emozioni, 1 sentimenti, lo passioni, io inclinazioni, che formano una dello tre
grandi attività in cui si distribuisce solitamente, per comodità d’analisi, la
vita psicologica, cioè l’in¬ telligenza, il sentimento, la volontà. Affezione
(lat. a/fcctio) (psicol.): in ge¬ nerale designa una disposizione, uno 0 stato,
un mutamento dovuti a causo esterne o Interne, sempre con un carat¬ tere di
passività. In senso più particola¬ re esprime il piacere, il doloro e lo emo¬
zioni elementari. A fortlorl (logica): ò la forma di prova che, dimostrando
vera una proposizione, afferma che un’altra proposizione, di quella più 1 meno
estesa, più o mono generalo, ò vera con più forte ragione; p. es.: se il santo
pecca, a /ortiori pecca la comune umanità; so ò immorale la menzogna, tanto più
è Immorale la ca¬ lunnia, clic è una menzogna diretta con¬ sapevolmente a recar
danno. Agatologia (gr. rò àyaflóv = 11 bene, e Xóyo; = discorso : scienza del
bene) tfilos.): termine usato dal Rosmini per indicare la dottrina del bene,
che viene considerato come il principio primo del¬ la filosofia ; tale esso è
nel sistema plato¬ nico, in cui l’idea del Bene è l’idea più alta, dalla quale
tutto lo altre idee rice¬ vono luce e alimento. Agnosticismo (gr. éc-yvcooto; =
non conoscibile) (fllos.): ò un termine creato dal naturalista Inglese Tommaso
Hux¬ ley; si applica a quelle dottrine che, corno l’cvolnzionismo di Erberto
Spen¬ cer, ammettono bensì al di là dei feno¬ meni e delle loro leggi un ordine
supe¬ riore di realtà, ma lo dichiarano inco¬ noscibile per la mento umana,
conside¬ rando cosi insolubili i problemi metafisici, 0 relativo il sapere
umano. Agorafobìa Anagogia Agorafobia: vedi fobìa. Agostlnismo (fllos.):
designa Io spirito della dottrina di S. Agostino o l’ispi¬ razione mistica
comune allo filosofie di S. Anselmo, S. Bonaventura, Pascal, Malebranche e, in
misura inferiore, ad altri sistemi. 11 presupposto fondamen¬ tale ò l'atto di
adesione alTordine soprannaturale, a Pio che libera la vo¬ lontà dal senso
mediante la grazia e la mente dallo scetticismo mediante la rivelazione; Pio.
che è verità© amore, costituisco il centro della dottrina, della quale sono
principii essenziali il primato della volontà, la debolezza peo- oumiuo.su
dcH’iiomo, la metafisica del- Tespcrlenza interiore e della conversione, la
prescienza divina o la prede¬ stinazione, cec. Agrafia (gr. a priv. o YPtt?»
scrivo) ( psicol.): è quella forma particolare di perdita della memoria, che
colpisce, sopprimendoli, i movimenti necessari! alio scrivere. Allucinazione
ilat. alucinaiio, da alu- einor = agisco vanamente, sogno) (psicol.): consiste
nel percepii*© come presenti esseri, oggetti, fonomeni che in realtà non sono
presenti. Si osserva nel delirio, nella febbre alta, ma anche in stuti
apparentemente normali. Alogico (gr. a priv. o XÓyo$) {topica): si dice di ciò
che é estraneo, indifferente alla logicu, di ciò clic aucora si sottrae olle
leggi della logica, come è di senti¬ menti, passioni, fatti accidentali, cec.
Non ò da confondersi con illogico , che si applica a ciò che ò contrario alle
leg¬ gi logiche. Alterità (gr. éTepórv)^; opposto: iden¬ tità) (logica): ò il
carattere di ciò che ò altro, cioè differente o distinto. Nel So¬ fista di
Platone l'altro, conio categoria, è diverso dall’essere; e così vicn
ristabilita, contro Parmenide, resistenza del non essere. - Nicola ( Tjìano
all’unità divina fa corrispondere Taltcrità (e cioè la. varia molteplicità)
delle cose del mondo. Altruismo (opposto: egoismo) (morale): comprendo le
tendenze o 1 sentimenti che hanno per oggetto il bene o l’inte¬ resso dei
nostri simili. La dottrina di G. Bentham o di G. Stuart Hill vuole spiegare,
con l’associazione delle idee, il passaggio, nella vita sociale, dal sen¬
timenti egoistici a quelli altruistici, dal¬ la considerazione dell’utile
proprio a quella dell'utile altrui, che ò poi il fine più alto della morale,
secondo Tuffi»- tarismo. Amnesìa (gr. a priv. c {iva, tema di {UfJLvy) croco =
ricordo) (psicol.): è la perdita totale o parzialo della memoria, che ora
annulla o riduce la capacità di fissare i ricordi, ora sopprimo la facoltà di
richiamarli, ora cancella tutto il pas¬ sato o una data classe di ricordi (p.
e. una lingua straniera, le nozioni di mu¬ sica, eco.). Amorale = ò ciò che non
è né morale né immorale, ciò elio non ha rapporto con la morale, ò indifferente
di fronte alla distinzione di bene o di mule. Amore (in generale): comprendo lo
ten¬ denze elio portano verso un oggetto o una persona, quando non mirano
esclu¬ sivamente alla soddisfazione d’un bi¬ sogno materiale o d’uu fino
egoistico. - (filos.) : Empedocle vuol spiegare il divenire con Tumore
(q>tXiÓT7)£), grazie al qualo il molteplice tende n costituirsi in unità,
mentre la discordia (vetxoc) scioglie l'unità per dar luogo alla plu¬ ralità
degli clementi o delle cose. - per Platone l'amore è un'os pi razio¬ no al
mondo divino delle Idee, cui l’ani¬ ma, tratta dui desiderio della bellezza,
ascende, per gradi, da un corpo bello a due, da due a tutti, c da tutti i corpi
belli alle belle istituzioni, alle belle scienze, finché perviene alla stessa
idea del bello (Conrito); l'amore è pertanto la forza che determina il
passaggio da una conoscenza più povera a una co¬ noscenza più ricca. - con S.
Agostino l’umore non ò più un movimento dal basso verso l’alto, dal mondo reale
verso il mondo Ideale e divino, ma un movimento che dall’al¬ to scende verso
gli esseri inferiori per elevarli a sé; è puro, non mescolato con interessi,
timori o speranze, è la per¬ fetta carila, umore del prossimo in Pio, è un
amore che viene da Pio o porta verso Pio. - per Spinoza dalla conoscenza intui¬
tiva, per cui la mente umana abbraccia tutta la molteplicità delle cose come
uno sviluppo della sostanza infinita e divina, sorge un infinito amore di Dio
(amor inUUcctualis dei) e la beatitudine perfetta corno effetto della
conoscenza più adeguata, in cui lo spirito coglie Pio stesso e ne gioisco; però
« chi ama veramente Pio non pretenderà elio Pio ricambi il suo umore . Anagogìa
(gr. àvaYCoyq = elevazione) (rclig.): ò detto anagogico II significato più
profondo e simbolico dello Sacre Scritture, quello iu cui sono adombrato le
cose del mondo divino, Analisi — 10 — Anamnesi - (/iloti. ) : è adoperato da
Leibniz to¬ me sinonimo di induzione. Analisi (dal greco ava— aG eo = «dolgo,
separo; opposto: sintesi) (in generale ): è un procedi mento del pensiero eh©
con¬ siste nei risolvere un composto negli c- lemeuti che lo costituiscono. -
(/ ilos.): si procedo per analisi quan¬ do, per còglierò la realtà ultima delle
cose, si vuol giungere agli elementi piti semplici che la compongono; p. oh.:
-— a) Vatomistica di Democrito, che scioglie i corpi in atomi indivisibili; -
è) Vcmpirismo, eh© tende a scoprii© gli elementi più semplici della coscien¬
za, gli atomi psichici (cioè sensazioni, sentimenti, volizioni), costruendo o
ri¬ costruendo con questi lo operazioni più ulte della mente: la memoria, la
fanta¬ sia, il ragionamento, eoe. (Locke, Uu- are, Taixjb); - d) la dottrina di
Kant, che, per chia¬ rire l’attività conoscitiva, la scioglie nel suoi elementi
(forma e materia) e nei suoi fattori ( sensibilità , intelletto, ragione). --
(psicol.): la mente analitica consi¬ dera e rileva nelle cose i loro elementi ;
la mente sintetica le vede nel loro in¬ sieme. - Biagio Pascal denomina lo spi¬
rito analitico esprit de géomitric, che ò penetrante, scorge i particolari, ri¬
cerca l'esattezza nell’osservazione dei fatti, segue uu principio fin nello sue
ultime conseguenze; mentre lo spirito sintetico, detto da lui esprit de finesse
, ama, più che il rigore del ragionamen¬ to astratto, la visione unitaria e
com¬ plessiva delle cose, l’intuizione dei rap¬ porti che le uniscono. - la
filosofia dell’i nfuizione considera l’analisi un procedimento che si arresta
all'osservazione esteriore, si lascia sfug¬ gire la vita interiore o l’essenza
dello cose e considera un tutto vivente come un meccanismo da smontare pezzo
per pezzo. «Chi vuol conoscere c descrivere un essere vivente, ne trae prima fuori
lo spirito; allora ha in sua mano le parti, ma, ahimè l non c’è più la vita che
unifica • (Goetite, Faust). Analitica trascendentale (filos.)- Kant designa con
questo termine quel¬ la sezione della ('ritira della fingi(m para, clic espone
la dottrina dello ca¬ tegorie, cioè delle forme a priori deWiu- trillilo,
intendendo per intelletto la fa colta di pensare o ridurre a scienza gli
oggetti dell'Intuizione, ossia i fenomeni, collegandoli o ordinandoli, appunto
mediante le categorie. Analitici (filos.): Aristotele chiamò analitici i libri
nei quali studia le leggi formali del pensiero o *rà àvaXuTtxà il complesso
delle sue ricerche logiche fondamentali. - Kant denomina analitico il giudizio
in cui il predicato è contenuto implici¬ tamente nel soggetto e si rendo espli¬
cito con ranalisi del soggetto; è a priori e non aggiungo alcuna conoscenza
nuo¬ va; p. cr. i corpi sono estesi » (V. sin* t etico). Analogia (gr.
àva-Xoytx - rapporto, proporzione) ( logica ì: come proprietà delle cose indica
una somiglianza di rap¬ porti fra oggetti differenti; p. ee. sono analoghi gli
organi che, pur non avendo la stessa forma o appartenendo a due classi di
esseri distinti, compiono però le stesse funzioni: cosi per Platone l’a¬ nima
razionale (vou^) nell'uomo c la classe dei * filosofi " nello Stato sono
analoghe. - per S. Tommaso e pel Ncotomismo gli attributi applicati a Dio (come
po tenza, bontà, sapienza ecc.) debbono essere intesi in significato analogico,
cioè non sono applicabili nello stesso senso e misura all’uomo e a Dio, come,
per es. t l’aggettivo ridente non ha lo stesso significato se riferito a un
viso umano e ad un paesaggio. - come procedimento di ricerca runa- logia è un
ragionamento che da una so¬ miglianza fra due cose in alcuni punti deduce una
somiglianza su altri punti; p. e. : « se la Temi e Marte hanno co¬ muni le note
a, b, c, si può inferire che anche la nota d, la vita, si trova in Marte . 11
procedimento analogico non dà certezza, ma solo probabilità. Anamnesi (gr.
àvàjxvyjoriq =reminlscen- za, ricordo alquanto vago) (filos.): per Platone il
vero sapore (èTriOTi^fjLV)* cioè la scienza delle idee) è ricordare, c re¬
miniscenza, c Ignorare è aver dimenti¬ cato. L’anima, prima di nascere, è vis¬
suta nello spazio sopracoleste (TÓ7TO£ ur:spoupàvio£) contemplando la realtà
vera, lo idee , la giustizia, la saggezza, la scienza; cadendo poi in un corpo
sulla terra, l’anima dimentic a ciò che ha ve¬ duto; ma alla presenza delle
cose sen¬ sibili, copie imperfette e sbiadite delle idee, degli esemplari sopmeelesti
(rra- pa$siy(AaTa), questi ritornano davanti alla niente in modo più o meno
con¬ fuso. [X7}Ttx4v); e. intenneillnrin fra i dm'. l’appetito ira- scibile (tò
— Per Mosto- tele l'aninm è la /ormo del corpo, al uuaic dà la Illuni, il
movimento, l’ar- monia, e sta ad esso come la visione, oyte. all'occhio ; è
vegetativa nelle pian¬ te, in più è tensilira midi animali ra¬ zionale nell
'uomo, vii Khituiìi, se¬ guendo l’atomismo democriteo, pensano l’anima
materialisticamente formata d’atomi e mortale, mentre gii Stoici. ispirandosi
ad Eraclito, la credono un fuoco sottile, un sodio x{a): termine n- doperato da
Leibniz per designare «dò cho fa sì che un corpo è impenetrabile a un altro » (
aUribulum per quod viale- ria est in spatio). Antropocentrismo {/ilos.): ò la
con¬ cezione antropomorfica cho pone l’uo¬ mo come il centro o lo scopo di
tutta la realtà, corno se Lordine universale delle cose fosse creato o disposto
per l’uomo o le sue esigenze, ft por lo più Antropologia - 13 - A posteriori
legata al geocentrismo (yyj = terra), cioè alla teoria, comunemente detta to¬
lemaica, cho poneva la terra nel centro dell’universo, e die cadde per opera di
Copernico, di Galileo e di Giordano Bruno. Antropologia (gr. £v9porito? »=
uomo, o Xóyog = discorso) Un generale); è la scienza che tratta della storia
naturale dell’uomo, ricercandone le origini e de¬ scrivendone le diverso rozze.
■-( filos ,.): Kant distingue un 'antropo¬ logia teorica, che cuna psicologia
empi¬ rica o tratta delle facoltà umane; un'nn* tropologia pragmatica, eh©
studia l’uo¬ mo per aumentarne e perfezionarne l’a¬ bilità; uu’antropologia
morale, che ha per line la saggezza della vita in modo conformo ai prindpii
della Metafisica dei costumi e della morale. Antropomorfismo (gr. àv9pco-oc =
uomo o (j.op(py;= forma, liguri») (psicol.): è la tendenza spontanea dell’uomo
a rappresentarsi le cose, gli esseri, Dio stesso sul modello delia propria
natura ; p. e. attribuire alia divinità forma cor¬ porea e passioni umane.
Skxojane, fon¬ datore dolla scuola identica, è uno del primi elio condannano
l’antropomorfi- •smo religioso. Apatia (gr. àrriOcia. da a prlv. o 77x9-, tema
di TTarryco = io soffro) (in gene- rute): s’intendo una specie d’insensibi¬
lità, d’indolenza, che si rileva dalla len¬ tezza delle reazioni, sia
psicologiche, sia morali. - (filos.): per gli Stoici l’apatia è lo stato in cui
viene a trovarsi l’uomo quando vive operando in modo confor¬ mo alla ragione,
ossia quando non si la¬ scia turbare dagli affetti Irragionevoli, dalle
passioni, dai beni eslcriorl, e di¬ viene uuo spirito sereno, eguale, imper¬
turbabile. Apodittico (gr. i-oSeiy.Tiy.óc, da SEty.vupu = mostro, provo)
(logica) : si dico di ciò che si afferma incondiziona¬ tamente come necessario,
certo, incon¬ futabile, sla per una dimostrazione de¬ duttiva, sia per la sua
intrinseca evi¬ denza. Apologetica (gr. àrroXoyÉo|iai = mi difendo) (retto.):
l’apologetica cristiana comprendo l’arto dialettica e gli scritti aventi por
line la difesa della religione cristiana eoutro gli attacchi della (ilo- 80 lia
antica, dei potere politico e delia religione pagana,, e miranti a ottenere per
i Cristiani la tolleranza delle leggi, nonc hé a dimostrare che la vera reli¬
gione è la cristiana. Apologeti sono: Tertulliano, Giustino, Minucio Fe¬ lice,
Ireneo, eoo. (II e III soc. d. Cr.). Aporèma (gr. x-ópy)|zx, da àrtopéto = sono
In dubbio) (logica): è un sillogi- snio dubitativo, che vuol dimostrare Pu¬
gnai valore di due ragionamenti opposti. Aporia (gr. à Tropea = imbarazzo,
situa¬ zione senza uscita) (logica): è il dubbio logico proveniente da
difficoltà insolu¬ bili. Sono famose le aporie di Zenone D’Elea, che mirano a
ridurre all'assur¬ do le tesi contrarie all’idea deli’Dno im¬ mobile di
Parmenide e affermanti l’esi¬ stenza reale della pluralità e del movi¬ mento. I
filosofi scenici sono detti an¬ che aporetici, per lo stato di dubbio in cui
alla fine vengono a trovarsi dopo aver ricercato la verità, e per cui so¬
spendono ogni giudizio (èizoyjr) o asseti - tUrnie rclcntio, come ilice
Cicerone). A posteriori (opposto: a priori) (filos.): le due espressioni « a
priori ■ e • a poste¬ riori », assai importanti nel linguaggio filosofico,
derivano tini procedimento a- rlstotclieo, per il quale il concetto, l'i/n i-
versale, i> designato corno logicamente anteriore, il particolare come
posteriore : ' non è lo stesso ciò che ò primo per natura ( 7 tpÓTSpov Ty
(juierst) e ciò che è primo per noi (7tpè; fyjtà; TCpórepov); è primo per
natura l’universale, il con¬ cetto; è primo per noi, o per opera del senso, il
particolare, il singolo ». — Questi termiul diventano comuni nella Scolastica :
per Alberto Magno ( sec. XIII) provare ex priori bus significa dimostrare
partendo dui principi!, dalle cause; provare ex posterioribus significa
dimostrare partendo dalle conseguen¬ ze, dagli effetti; per S. Tommaso non si
può dimostrare a priori l’esistenza di ilio, perché questi è causa prima: oc¬
corre partire dagli ottetti (p. e., il mo¬ vimento) o di qui risalire alla
causa prima. -Nei tempi moderni, quando l'indagi¬ ne filosofica si sposta, e
dalla ricerca delle cause dell'» essere » si trascorre a indagare le cause o le
fonti dei « conosce¬ re - , si ha un notevole cambiamento : a priori è ciò che
è dovuto alio sviluppo spontaneo della ragione, ciò che questa trae da sé, dalla
sua interiorità, in ma¬ niera, Indipendente dall’esperienza, o quindi lia, por
Kant, i caratteri dell'unf- versalità e delia necessità: a posteriori è ia
conoscenza che proviene dall'ospe- rienzu o ha il suo fondamento mdl'ospe-
rienza o manca perciò di quei caratteri, Perché è ristretta ai casi
effettivamente sporlmentati. Appercezione Arianesimo _ Nella teoria
dell'evoluzione (Spen¬ cer) 6 « priori per l'Individuo ciò che si trova In lui
come un prodotto dell'esile- rienza della aporie, trasmesso per ere¬ ditò, e
che per la. spedo, quindi, è a posteriori ; « posteriori per l’Individuo è ciò
che egli acquista con la sua espe¬ rienza: si tratta dunque (l'un’anterio-
rlrìv cronologica o psicologica, non lo¬ gica o razionale. In realtii per
l'evoluzio¬ nismo, che è una forma di empirismo, la conoscenza è interamente a
poste¬ riori. perché tutta, originariamente, de¬ riva dall'esperienza.
Appercezione (in generale): b il pren¬ der possesso d'un’idea eon un lavoro
attivo della mente che la rende piu chiara e meglio definita. -- (/«os.) per
Leibniz è la conoscenza chiara odistinta, clic differisce di grado dalla
percezione oscura e confusa; è rrprarsr n/al io multi liuti tris in imitate. -
Ka.N 1 distingue Vnpitercezionc empi¬ rica ila quella trasreintentate: la prima
è in sé dispersa, senza legame col «og¬ getto, di guisa clic I fenomeni
psichici percepiti non sono vissuti come facenti parte d’nn’unità superiore,
d'un io. ma rimangono isolati e disgregati a guisa di atomi: la seconda è
l'atto di riferire una rappresentazione, una conoscenza alla coscienza pura,
originaria, superio¬ re al senso e da questo distinta, cioè aìVitmtUa. cho
accompagna c stringe i-ln un tutto, in una sintesi, le varie rap¬
presentazioni, ed è in ogni coscienza una e identica, non derivata da altro; p.
e. il senso percepisce due fenomeni « c b isolati, senza collegamento:
Vinlelletta quando dice: •Alt raggi solari) è causa (j.aT0S = incor¬ poreo, da
a prlv. c eròica, corpo) (fi- bui.): secondo gli Stoici sono asomatlci il
vuoto, il tempo c gli oggetti del pen¬ siero. Assenso (il lat. assensvs traduce
11 ter¬ mino stoico auv-xaTa—ftsaic - il nor¬ ie, raffermare) (logica): in
generale ò l’atto col quale l’intelletto accoglie o fi) sua un’idea o
uu’affeminzlono al¬ trui. - per gli Stoici si dà l’assenso a una
rappresentazione, la si accoglie come vera, quando questa, quasi impressa,
suggellata in noi da un oggetto, s’im¬ pone allo spirito por la sua forza, la
chiarezza, l'evidenza,Ci tira per i ca¬ pelli, come essi dicevano. Assertorio
(giudizio) (logica): b quello elio esprime la realtà, l’esistenza, con la
copula: «è , «non è ", senza Implicare la necessità, essendo possibile il
con¬ trario. Assioma (gr. àjicojxa = dignità, po¬ stulato; da &£toc -
degno; hit. mun- fiatimi) (logica): è in generale in affer¬ mazione, un
principio considerate come vero per la sua evidenza e accolto come vero senza
bisogno di dimostrazione. -- i matematici greci l'applicarono pei primi alle
proposizioni evidenti: p. e.; tra due punti la linea più breve è la retta. -
con AniITOTELE si è esteso ni prin- cipjt logici: al ] trincipio di identità,
di contraddizione, ccc. - Spinoza denomina assiojni alcuni principi!
fondamentali della sua Etica « more geometrico i/cmonstratu », Associazione
delle idee — 16 — Astrazione Associazione delle idee ( psicol. ): de¬ signa la
tendenza comune ai processi psichici a collegarsi fra loro, in modo r-lie,
quando uno di essi risorge nella co¬ scienza, tende a richiamare altri stati
psichici, o per coni ignita, cioè per essere entrati contemporaneamente nella
co¬ scienza, ^ per ragioni di somigliansa, o anche per ragioni di contrasto. —-
Si può ricondurre a due leggi generali : — a) la legge Cinica razione, per cui
un processo psichico tende a ricostituire il complesso mentale di cui ha fatto
parte ; — b) la legge dell* interesse, per la quale fra gli stati psichici
richiamati si opera una selezione dovuta all’interesse at¬ tuale clic offrono
pel soggetto. - L'associazione delle idee è descritta per la prima volta da
Platone noi Fe¬ done (cap. 18 ), per spiegare l’idea del- 1 ’ anamnesi . - I).
Humk sviluppa e determina la teoria dell’associazione e la pone a fon¬ damento
della vita psicologica. Associazionismo ( filos è la dottrina sostenuta dagli
inglesi H ARTLKY , Hv- ; me, Stuart Mill, Bàin, ecc., secondo la quale
l’associazlono delle idee ò la leg¬ go fondamentale della vita dello spiri¬ to
e del suo sviluppo. È collegata a una concezione atomistica della vita spiri¬
tuale, per cui un numero determinato di elementi psichici, analoghi agli atomi
della chimica (cioè sensazioni, sentimeli- li, immagini), associandosi, danno
ori¬ gine alle funzioni superiori (memoria, intelligenza, fantasia, ragione) ©
le spie¬ gano. Assoluto (dal lat. absolvcrc = separare, perfezionare ; quindi
assoluto = ciò che è indipendente e perfetto ; opposto : re¬ lativo) (/ ilo 8
.): esprime l’essere cho è sciolto da ogni limite, relazione o con¬ dizione,
indipendente da ogni altro es¬ sere o cosa, e a un tempo perfetto ; quin¬ di
l’easere che esiste in só e per sé. - l’assoluto può essere inteso come il
fondamento primo di tutte le cose, che per il materialismo è la materia, per lo
spiritualismo lo spirito pensato come sostanza, per l’idealismo il pensiero nel
suo più ampio significato, ecc. - Newton pone a fondamento della sua meccanica
il tempo assoluto e lo spazio assoluto, che cioè hanno esisten¬ za in sé,
mentre ]>er Kant tempo e spazio sono attività della nostra sensi¬ bilità, c,
quindi, dipendenti da questa, ad essa relative (v. spazio e tempo). Assurdo
(Ionica): si dice d’un’hlea o d’un giudizio che viola le leggi fonda¬ mentali
del pensiero, perché contiene elementi incompatibili fra loro o con¬
traddittori. - la dimostratone per assurdo (o ridu¬ zione all’assurdo, deducilo
ad absurdum) è quella che vuol dimostrare o confu¬ tare una determinata tesi,
esponendo la falsità evidente e la contraddittorietà delle conseguenze che no
derivano. Astratto (dal lat. abs-trahcrc = trarre fuori; opposto; concreto)
(psicol.): si di¬ ce della parte n dell'elemento che venga tratto fuori
(abstrachim) da un tutto o considerato separatamente, p. e. la for¬ ma, il
colore d’un oggetto; perciò pren¬ de il senso di - pensato \ * concettuale »,
in opposizione a ciò che ò dato imme¬ diatamente nell’intuizione. Astrazione
(gr. d^aeCpsot?, da à = traggo fuori, lat. abstraho ): questo tonnine passa per
due fasi prin¬ cipali (Euoken): - 1 . fase logico-metafìsica: per Arisi o- TELE
è il procedimento che, omessi i ca¬ ratteri accidentali cruna cosa, ne rileva
le qualità essenziali c le considera per so stesso; quindi sono astratte (è5
àcpaipéoEox; XsyójjLeva) lo forme sepa¬ rate dalla materia, come lo grandezze
matematiche, l'idea della statua sepa¬ rata dal masso di marmo. Nello stesso
senso è intesa nel Medio evo: abstrahere. formam a materia int dicchi —
separare la forma dalla materia mediante l’in¬ telletto. Nella logica astrarre
consiste general¬ mente nel passare, mediante la sop¬ pressione d’una o di più
note d’un con¬ cetto, a un concetto più generalo; p. e. togliendo ai concetti
di quercia, olmo, pioppo ecc. alcune note, cioè quelle che li differenziano, si
salo al concetto più generale di albero, cosicché quanto più l’astrazione
procede, tanto più dimi¬ nuisce il contenuto del concetto, cioè la sua
comprensione (che ò il numero dello note che esso include), e cresce invece
l'estensione (che è il numero degli indi¬ vidui che esso abbraccia), come si
vede passando, p. e., dal mammifero al ver¬ tebrato, àlTanimale, all’essere
viven¬ te ecc. - 2 . fase psicologica (con Locke, Ber¬ keley ecc.): è
l'operazione spontanea per cui il pensiero isola progressiva¬ mente, nella
massa dei fenomeni, le qualità comuni ai singoli oggetti e le esprime mediante
un nomo comune, un concetto, un’idea generale, trascorrendo dall osservazione
dei singoli individui alla specie e al genere, grazio a quell 'al* Atarassia 17
— Autarchia tra operazione spontanea che è la ge¬ neralizzazione, per cui si
estende a tutta una classe, a una specie, a un genere ciò eho si osscrra in uno
o più individui. Atarassia (gr. àrapaSta, da a prlv. e rapaOCTtij = turbo,
agito) (filos.): è la serenltù dello spìrito che per K Pier no è l’ideale del
saggio; è una conquista della ragione mediante la saggezza (, c vede in questo
atto la prova In¬ tuitiva della propria esistenza. _per Kant Invece l'io
conosce so stesso non come sostanza, ma come « sog¬ getto », corno attività;
ossia l'io è il ter¬ mine comune a tutti i processi di co¬ scienza, quasi il
ilio invisibile ohe 11 tie¬ ne collegati; separato da essi, è pura astrazione.
, Autoctisi (gr. auró? e etici!.? — crea¬ zione di se stesso) (/ilos.): termine
usato dal Gentile per esprimere che lo spi- t rito, pensandosi, prendendosi
come og- getto, creo se stesso, si sviluppa in¬ cessantemente, grazio a una.
vivente | dialettica del pensiero (v. dialettica). Automatico (gr. aÙTÓ[.taTO?
= che s muove da Bé) (in generale): si dice di ciò che si muove da sé in
maniera meccanica, senza l’intervento di for¬ ze psichiche o di una volontà
intelli- gente. _ (psicol.): si applica all’attività in¬ cosciente, cioè a
quegli atti che si ri¬ petono in maniera indipendente dalla volontà. . , , ,, .
Autonomia (gr. coìtó? e vólto? = il da¬ re a se stesso lo legge, il reggersi
con proprio leggi; opposto: eteronomia, dal gr. c~po? = altro, e vópio?= legge;
che significò: il reggersi con leggi date da altri) (morale): per Kant consiste
nel fatto che la volontà umana 6 una vo¬ lontà legislatrice universale, in
quanto l'uomo nell’ordine morale obbedisco a una legge che emana non da una vo¬
lontà a lui esteriore (sia questa Dio, la società, la naturo, come avviene
nella morale eleronoma), ma dalla sua volontà di essere ragionevole, dalla suo
co¬ scienza. Autorità (principio di) —) (in generale): consiste ncll'accogliere
come vera una cognizione da una persona cui si rico¬ nosce una superiorità
intellettuale o morale, rinforzata spesso dalla tradi¬ zione. , . . , _
(/ilos.): nel Medio Evo Aristotele gode d'un'autorità assoluta nella scien¬ za
e nella filosofia, donde il detto: ipse dirit (traduzione del greco aùvò? 2pY)Tlx6?),
cioè della piena esplicazione delle tor- -,c spirituali, della vita
contemplativa che offre la conoscenza più alta, quella del macrocosmo e delle
sue leggi eterne. __per B u Stoici si raggiunge nell apa¬ tia ànà&Eia, nel
dominio della ra- gionc sulle passioni e sul dolore; per TOPI ceno
nell’atorossla, che e data dal- 1 l’assenza del dolore, da una scelta
Bapiente'del piaceri e dall’armonia della vita. . _ per Spinoza 1 ’uomo
raggiunge la beatitudine, la quiete definitiva, solo nella conoscenza del terzo
grado, cioè nella «conoscenza intuitiva», per cui la ragiono vede le cose In
Dio, nel loro aspetto eterno (sub specie acf erri itati»), che è poi un
conoscerò Dio stesso nella sua unità, quasi un coincidere con lui. Beavlorlsmo
(inglese: behariour - comportamento, condotta) (psicol.): ts il metodo di
ricerca psicologica, che consiste nell’indagare 11 modo di rea¬ gire alle
impressioni esterne, la manie¬ ra di comportarsi, di condursi nelle differenti
circostanze della vita. Que¬ sto metodo, applicato dapprima agli a- nimali, s’è
poi esteso all'nomo. Bello (/ ilos.): nell'antichità: per Platone il hello è
ciò che offre all’occhio e alla , mente proporzione e armonia, ordine e misura.
In modo cho la varlotà degli elementi si disponga In gradi e si com¬ ponga in
un tutto plasmato o ordinato dalla vita dello Bpirito, il quale,. libe¬ randosi
gradatamente da tutto ciò cho è corporeo e sensibile, può essere tratto verso
il bello In sé, verso l’idea del bello eterna, perfetta, immortale (v. dialet¬
tica). L’arte dell’uomo non ò altro che un’imitazione della natura, che alla
sua volta c un’imitazione dell’idea, quindi un'imitazione dell’imitazione, non
un'c- spressione dirotta del hello. _Per Aristotele gli elementi del hello
sono: l’ordine (Tpia|.iévov); la fonte del bello è nel senso innato del ritmo e
dell’armonia e nell’istinto d’ìniitazione, raffinato dalle due facoltà del
genio ellenico: veder le cose con meravigliosa chiarezza; rappresentar¬ sele
con perfetta obbiottività. __per Plotino il bello con è nella sim¬ metria, ma «
è ciò cho rispleudc nolla simmetria »; una statua è bella « per In forma che
l’arte vi ha introdotto », i-apà top stSou?, 2 èvfixvjv 7] t éyvv)). È l
'intuizione dell’artista, il suo genio che cren l’unità fra le parti molteplici
d’un oggetto e dona a questo ciò che lo spirito ha di più profondo, mediante
una raffinata elaborazione tecnica; l’ar¬ te non è più imitazione, come per
Pia¬ tone o Aristotele, ma creazione dell’in¬ telligenza, del voù?. Questa
teoria viene ripresa nel Hinascinicnto. - nei tempi moderni : per KANT è hello
ciò che procura una soddisfazione di carattere universale, non esprimibile
mediante concetti, libera da qualsiasi fino uti itarlo o morale: le coso non
sono belle perla loro intima costituzio¬ ne, che In se stessa rqpta a noi
scono¬ sciuta, ma perché sono capaci di ecci¬ tare c tendere In maniera
armoniosa le nostre forze spirituali. - per B. Cuoce il bello non è un fatto
fisico, non ha nulla da vedere con ru¬ tile, col piacere, col dolore, con la
mo¬ rale. non è oggetto di conoscenza con¬ cettuale; è dunque ciò ohe produce
uno stato d’animo libero da ogni interesse pratico o logico, un’impressione che
si esprime in una pura Immagine, oggetto di intuizione, ebe è
conoscenzaimme¬diatao fantastica d’un momento della vita dello spirito
considerato nella sua singolarità. Intuizione cui dà coerenza e unità il
sentimento. Bene (in generale): ò tutto ciò cne ri* spondo o si crede che
risponda a un bisogno e porta n un fine voluto o de¬ siderato. _ (morale): è
ciò che nell’ordine dell a- zlone ò oggetto d’approvazione, ciò il cui possesso
è causa di soddisfazione e avvia alla perfezione. -_il gommo bene (summutn
bollimi) è, per la filosofia antica, l’oggetto ultimo al quale deve tendere la
volontà mo¬ rale • quindi un bene bastante a so stes¬ so, cui tutti gli altri
beni sono subordi¬ nati e rispetto a cui son da considerarsi come mezzi. _ gli
scolastici, Cartesio, Spinoza, Leibniz seguono la tradizione antica. Kant
giudica che 11 dovere è anteriore al bene morale, che questo deriva da quello e
gli è subordinato ; giacché li bene è ciò che si fa per dovere: ossia l’asione
morale trae U suo valore non Biogenetica — 20 — Carattere dallo scopo al quale
tende, non dal bene che attua, ma dal principio cui la volontà obbedisce, apendo
unicamen¬ te por rispetto olla leppo morale : perciò la lepgo morale
incondizionata deter¬ mina il bene, non il beno determina il dovere.
Biogenetica (legge) (gr. (Uos = vita, yeveatS = origine): ò la legge, oggi con¬
testata, che ebbe questo nome dal na¬ turalista tedesco K. Haeckkl, per la
quale le fasi dello sviluppo individuale ricapitolano in breve le fasi dello
svi¬ luppo della specie. La formula è: Yonto- genesi ripete la filogenesi (v.
ontoge¬ nesi). Biologia (gr. plot; = vita, Xóyos = di¬ scorso). È la scienza
dei fenomeni ge¬ nerali della vita, comuni agli animali e alle piante.
Comprende la morfologia, la f isiologia, la patologia , secondochó si
considerano lo forme, le funzioni, i fenomeni anormali degli organismi vi¬
venti. Bisogno ( psicol .): ò la consapevolezza che qualche cosa manca al
nostro orga¬ nismo, o anche, in senso più alto ameno usato, alla vita
intellettuale, giacché ogni essere per vivere, svilupparsi o rag¬ giungere 1
fini che gli sono proprii deve prendere al mondo esteriore lo materie e gli
elementi necessari all’esistenza. Si distinguo dal desiderio, perché il biso¬
gno ò indeterminato nel suo oggetto, mentre il desiderio si dirigo verso un
oggetto determinato: ho bisogno di nu¬ trirmi o desidero un determinato cibo.
Buon senso: per Cartesio ò sinonimo di ragione, intesa come facoltà di di-
Bcernere il vero dal falso; quindi ò la capacità di ben giudicare, che non vie¬
ne concessa a tutti gli uomini nella stessa misura. Buridano (asino di — ) (
filos .) : cosi s’inti- titola rargomentazione attribuita a Bu¬ rlo ano»
rettore dell’università di Pa¬ rigi ( 1328 ); ossa consiste ncH’affcrmarc, a
proposito del libero arbitrio , che un asino affamato, posto davanti a duo
socchi d’avena perfettamente uguali, si troverebbe nell’impossibilità di faro
una scelta fra duo cose che lo solleci¬ tano in ugual misura, o morrebbe di
fame, (V. anche Dante, Paradiso, can¬ to IV, vv. 1 -(J). L'argomentazione non
si trova negli scritti di Buridano; ed ò forse dovuta ai contemporanei, per
deridere il suo determinismo psicolo¬ gico, secondo cui la volontà si decide,
tra più beni, pel bone maggiore; donde l’indecisione di fronte a due boni
uguali. c Cabala (dall’ebraico Kabbalah = tradi¬ zione) (rclig.): opera di
filosofìa religiosa, che si considera un’interpretazione se¬ greta della
Bibbia, trasmessa per tra¬ dizione da Adamo ad Àbramo, attra¬ verso una serie
ininterrotta di iniziati. Tratta dello sviluppo di Dio, che prendo coscienza di
sé generando tutto lo coso dalla propria sostanza per via d’ema¬ nazioni;
contiene l’enumerazione dello milizie celesti, il simbolismo dei nu¬ meri ecc.
Campo della coscienza (psicol.): de¬ signa l’insiemo dei processi psichici
(idee, sentimenti, emozioni), cho in un determinato momento sono presenti nella
coscienza d’uu individuo. Campo visivo (psicol.): ò l’insieme de¬ gli oggetti
cho sono percepiti simulta¬ neamente dall’occhio in un dato mo¬ mento; mentre
il punto visivo è l’og¬ getto cho nel campo visivo si presenta con maggior
chiarezza. Canonica (dal gr. xavtóv = regolo, re¬ gola, norma) (logica): ò cosi
detta da Epicuro la parte introduttiva della sua dottrina, che tratta del
criterio di ve¬ rità, cioè della validità obbiettiva dello nostre cognizioni,
che egli fa consistere noU’immediata evidenza delle perce¬ zioni sensibili.
Carattere (dal gr. x a pacrcrco = scalfi¬ sco, donde '/apaxTyp = impronta) (in
generale): indica la qualità propria, la « impronta » che serve a distinguere o
a definire un oggetto. -(psicol.): ò l’unità stabile, costante dello disposizioni
intellettuali, sentimen¬ tali e volontario che distinguono un in¬ dividuo dagli
altri, il nucleo permanen¬ te che dirige la sua evoluzione psicolo¬ gica,
Vimpronta che egli lascia nei suol atti, tenendo presente che le qualità co¬
stitutive del carattere, le quali formano un fascio di energie diretto verso un
fi¬ ne, si manifestano nelle contingenze della vita, soprattutto in quelle
arduo e gravi. - (metafisica) : Kant concepisce l’uomo come cittadino di due
mondi: del mon¬ do fenomenico e di quello noumcnico; come parte del mondo
sensibile l’uomo ha un carattere empirico, che si inserisco nella catena delle
cause naturali, di gui¬ sa che le sue azioni sono sempre deter¬ minate, o cioè
non sono libere; invece come parte del mondo nouraenico ha un carattere
intelligibile, sottratto alla serie delle cause naturali, e quindi libero
.Caratterologia — 21 — Categoria _ (morale): aver un cara’lere morale si¬
gnifica possedere stabilmente quelle qualità del volere per cui il soggetto
tien fermo a principi o a norme pratiche c morali determinate, che egli si ò
pre¬ scritto con la ragione. Caratterologia (psicol.): neologismo che servo a
indicare la scienza del ca¬ rattere, la quale studia l’essenza, l’evo¬ luzione
del carattere, mira a fissarne i tipi fondamentali. Cardinali (virtù): v.
virili. Carità (tcol.): è la maggioro dello tre vir¬ tù teologali (lede,
speranza e carità) ed e- eprime l’amore di Dio e l’amore del pros¬ simo in Dio;
è il principio d’ognl virtù. - (morale): consiste nel far del bene al prossimo
senza mira alcuna di van¬ taggio proprio. Cartesianismo: si può Intenderò: 1 ”
la filosofia di Cartesio nello sue tesi fon¬ damentali: l'idea di sostanza, 11
duali¬ smo fra anima o corpo, il meccanicismo del mondo fisico, l’evidenza
corno cri¬ terio di Terità eoe.; 2» la filosofia dei discepoli o dei successori
di Cartesio, cioè ili Malebranche, Oeclinx, Bpi- nossa, occ., benché non sia
facile stabi¬ lire ciò che del pensiero di Cartesio ò di¬ venuto pensiero
comune dei cartesiani, i quali mirano a risolvere i problemi po¬ sti ma non
risolti da Cartesio: i rap¬ porti fra pensiero ed estensione, fra ani¬ ma e
corpo, fra Dio c 11 mondo. Casistica (morale): è quella parto della morale
pratica che tratta dei « casi di coscienza *, cioè dell'applicazione di norme
morali olle circostanze particola¬ ri, o ancho nei loro rapporti con la reli¬
gione, Bpeelalmcnte quando rincontro o l’intreccio fortuito degli avvenimenti
della vita umana portano a conflitti di doveri di non facile soluzione. -in
senso peggiorativo, s’usa per in¬ dicaro distinzioni sottili o abili con cui si
vuol giustificare un atto che spesso la inoralo non approva. Caso (gr. ’M/tj,
slitapirivi)) (fn gene¬ rale): si dico elio un fatto è dovuto al caso, quando è
fortuito, inaspettato o so ne ignorano le causo. - ( Hlos .): già Aristotele
intorpreta il caso corno un avvenimento dovuto al fatto che due o più serie di
fenomeni s’incontrano in un punto in maniera imprevedibile, o dà l’esempio
dello sca¬ vatore che trova un tesoro. - in senso più comprensivo il caso si ha
ciuando una modificazione insensi¬ bile e impercettibile nello cause d’un
avvenimento produce una modifica¬ zione nell’effetto; p. e. il ritardo d’un
attimo di un fatto qualsiasi può pro¬ durre o far evitare un accidente gra¬
vissimo per lo sue conseguenze. Catalettica (fantasia) (gr. cpavvaota
y.xTaXvjTTTixr,, lat. risum impressum e//ictumque: t ic.): è per gli Stoici una
rappresentazione che ei si presenta, con tale evidenza (èvàpysia) o forza, ri¬
producendo lutto le qualità dell’ogget¬ to. elio ci afferra (y.aTaXa|j.[ 3
àvet) o ci costringe ad accoglierla come vera. 10 il fondamento del criterio
stoico di ve¬ rità. Catarsi (gr. xdt&apot Q, da xaDmpio = purifico)
(Hlos.): per Platonf., come più tardi per Plotino, consisto « nel se¬ parar-, e
rimovore (ytopi) quanto più è possibile l’anima dal corpo c as¬ suefarla a
raccogliersi in só medesima, rimanere sola, sciolta dai vincoli del senso >
(Fedone). La catarsi ha por fine di preparare l'anima allo più olevate at¬
tività spirituali. Per i Neo pi, atonici è un avviamento alla mistica,
aH’unione con Dio. - (estetica): Aristotele parla d’una calarsi traffica, che
sarebbe l’effetto pro¬ dotto dalla tragedia sopra gli uditori: raziono tragica,
suscitando la compas¬ sione e il terrore, compio la funziono di purificare da
tali sentimenti l'animo dello spettatore, sollevandolo dalle an¬ gustie dolln
vita quotidiana. - (psicol.): nella psicanalisi la catarsi consiste nel
richiamare un’idea o un ri¬ cordo, che, represso, produce perturba¬ zioni
fisiche e psichiche, mentre, cono¬ sciuto e chiarito, diviene innocuo.
Categoria (gr. xanj-fopta, da xccrv)- yopEtv = affermare; lai. praedicamen- t
avi : Boezio) (logica): per Aristotele le categorie sono lo affermazioni, i
pre¬ dicati più generali delle cose, le diffe¬ renti classi di predicati che si
possono affermare d’un oggetto qualsiasi, c quin¬ di 1 sommi generi del reale
(xanjYOptòcl toO Svuoi;); ne distingue dicci, traen- dole, forse, dallo parti
del discorso: sostanza, qualità, quantità, relazione, luoao, tempo, situazione,
avere, lare, patire. -per Kant le categorie sono le /orme a priori del
conoscere, con le quali l'in¬ telletto unisco il molteplice offerto dal-
Vintuizione sensibile: c cioè I fenomeni che il senso percepisce slegati,
isolati, sono dall 'intelletto collegati in una sin¬ tesi per mezzo delle
categorie: p. e. gli organi di senso percepiscono duo fono - meni isolati, il
calore e la dilatazione Categorico — 22 — Certezza d'un corpo; l’inteUetto li
unifica con la categoria di causa : il coloro ò causo della dilatazione. lCont.
enumera dodici cate¬ gorie: tre della quantità (unità, plura¬ lità, totalità),
tro dello qualità {realtà, negazione-, limitazione), tro dello rela¬ zione (
sostanza, causa, reciprocità (ia¬ sione), tro della modalità (possibilità,
esistenza, necessità). - -Schopenhauer ammette la sola ca¬ tegoria di causa: il
mondo come sem¬ plice rappresentazione è una moltepli¬ cità di fenomeni
disposta nello spazio e nel tempo, ordinata o pensata secondo il principio di
causa. -per Rosmini la categoria unico e su¬ prema è l'idea dell’essere in
universale, cioè di quella vj(n?= il sentire) (psicol.): designa il complesso
delle sensazioni provenienti dagli organi interni del corpo, lo stato psichico
totale risultante dall’azione simultanea e complessiva dolio im¬ pressioni
interne. Certezza (opposto: dubbio ) (jwricoZ.): è lo stato dello spirito
intimamente persua¬ so di possedere la verità, o por via imme¬ diata, dovuta
all 'evidenza, o per dimo¬ strazione, o anche per fede; iu questo terzo caso
s'accost-’. olla credenza (V. credenza). Cinestetiche — 23 — Compositivo _
(logica): è il carattere di ciò che non lascia aperta alcuna via al dubbio ed è
dovuto al fatto che i principi! logici sono osservati. Cinestetiche
(sensazioni) (dal gr. xt- véo>= muovo, atat>r,a'.; = sensazione) (
psicol.): sono le sensazioni che proven¬ gono dai movimenti degli organi cor¬
porei. Circolo vizioso = vedi diallelo. CI inamen (è la traduzione , luereziana
del greco exxXtai:, da èxxXivetv = de- vìai-e, declinare) (filos.): Emerito am¬
mette che gli atomi, invece di cadere dall’alto al basso in linea retta (ché in
tal caso non potrebbero incontrarsi, né, quindi, formare i mondi c i corpi
compo¬ sti). subiscono, per un Impulso interiore, una deviazione dalia linea
verticale (che è appunto il clinamcn), la quale ne ten¬ de possibile l'urto.
Por tale tendenza spontanea la necessità meccanica cedo nell'uomo il posto ulla
volontà libero, essendo anche l'anima formata di atomi. Cogito ergo sum (8 . Tojimaso). Contingentismo o filosofia
della contingenza (filos.): servo a designa¬ re il complesso dello dottrino che
nella spiegazione dell’universo assegnano ima parto più o meno grande alia
contin- i gema. _ il francese Emilio BoCTROOX ha dato particolare rilievo a
questa dot- 1 trina; egli pensa infatti che a mano a Contraddittorio — 26 —
Cosa in sè mano che si sale dalle formo Inferiori degli esseri alle forme
superiori, dalla chimica alla biologia o da questa alla psicologia, si
introducono nuovi modi di realtà (la qualità, la rtta, la coscien¬ za,
l’auto-coscienza), In cui il ferreo con catcnamento di causa od effetto ohe si
osserva nel mondo tìsico si viene atte nuando, fino a scomparire nella libertà
spirituale umana; perciò la vita del ponsiero è una novità continua, In cui il
nuovo non si può spiegare col vecchio. Il superiore con l’Inferiore, perché
con¬ tiene qualcosa di più e di nuovo (con¬ tingente), che nella realtà
inferiore non c'era. Contraddittorio (logica): due giudizi, due concetti
dloonsl contraddittoril, quando l'affermazione del primo irnpll- I ca la
negazione del secondo ; ò contrad¬ dittoria anche una proposizione in cui il
predicato affermi una qualità o modo di essere opposta a quella espressa dal
soggetto. Contraddizione (logica): il principili di contraddizione ò cosi
formnlnto da Aristotele: «due giudizi, dei quali l’uno nega quello stesso che
l’altro afforma (A è B, A non è B), non possono essere veri nel medesimo tempo
e otto il me¬ desimo rispetto, poiché non ò possibile ammettere che alcuno
pensi cho la stes¬ sa cosa sia o non sla» (àSuvavOV Ù7TO- Aaupàvetv vaùv&v
elvat xal (xv) elvoci). -Leibniz lm dato di questo principio una formula più
semplice: «A non ò non A», cioè un giudizioò falBO quando ' soggetto e
predicato si contraddicono. - (filos.): Hegel pone la contraddi¬ ziono nel
cuore della realtà vera, ossia nel pensiero: ogni idea contiene in sé la sua
negazione, ciò' un’idea opposta che spinge a un nuovo concetto più alto
comprendente e conciliante in sé i due primi : il primo concetto ò la tesi, il
se¬ condo ’ antitesi , il erzo la sintesi. Que¬ st'ultimo subisce lo stesso
destino, c cosi il movimento dello spirito i recede sem¬ pre più oltre, finché
tutta la realtà è trasformata in puro ponsiero, in una « reto di concetti »:
l’attività pensante diviene processo cosmico, che abbraccia tutte lo cose e
tutte da sé lo produce (V. coincidcntia oppositorum). Contradictio in adiecto
(logica): è la contraddizione fra un termino e ciò che vi si aggiunge (
adiectum ), aggettivo o sostantivo; p. e.: legno ferreo. Contrario (logica):
sono contrarie due proposizioni opposte e universali, l'una affermativa e
l'altra negativa; p. e.: 1 * tutti gli uomini sono mortali ; nessun uomo ò
mortale » ; sono contrari due concetti, quando l’aiiermazione dell’uno implica la
negazione dell'altro; p. e.: bianco, non bianco. Contrattualismo (diritto): è
la teoria dell’origine contrattuale dello Stato, che ebbe la sua forma più
perfetta e famosa nel Contratto sociale di G. G. Rousseau ( 1762). Il principio
è: lo Stato si fonda sulla volontà individuale dei consociati, i quali l’hanno
costituito per mezzo di un contratto. Se si pensa con I’Hobbes che, nel dar
vita allo Stato, l’Individuo rinunzia a ogni suo diritto, si ha il go¬ verno
dispotico, so con Locke si sta¬ bilisce ina rapporto bilaterale fra indi¬ viduo
e Stato, si ha il governo liberale ; so col Rousseau si considera innlicna-
liilo ogni diritto individuale, cosicché i singoli, riuniti in assemblea,
possono, con un semplice atto di volontà, far tabula rasa d’ogni governo e
magistrato esistente, si ha il governo radicale. Corpo (filos,): per Cartesio e
Spinoza ò corpo ciò che ha estensione o moto, il quale non è altro che una
successione di luoghi occupati da un corpo nell’e¬ stensione; per Berkeley o
Hume, ne¬ gata resistenza della materia, il corpo è un complesso di idee o
sensazioni as¬ sociate. Corsi e ricorsi (filos.): è la legge uni¬ versale che
per il Vico regge la vita dei popoli e rispecchia le fasi di svi¬ luppo dello
spirito individuale: il sen¬ so, la fantasia, la mente pura, corrispon¬ denti,
nella vita pratica, alla passione ferina, alla soggezione a una legge di forza
e arbitrio, alla libera osservanza dei dettami della ragione. Cosi ogni popolo
trascorrenecessariamente dalla violenza dolio stato ferino alla vita civile, e,
in conformità dell'eterna natura umana, dove ripercorrere il suo corso,
ricadere, per un processo degenerativo, nel senso o nella violenza, e dalla
barbarle ripren¬ derò il moto ascensivo, iniziare 11 ri¬ corso. Vico trasse
questa sua dottrina dalle indagini sulla storia di Roma, generalizzata e
integrata, qua e là, con quella di Grecia. Cosa in sè (opposto: fenomeno):
espri¬ me il carattere dello coso considerate por sé, fuori dei soggetto che le
cono¬ sce, o in maniera da questo indipen¬ dente. - per Kant è il quid
inconoscibile che si cela dietro ai fenomeni e no è il fon¬ damento; è posta
fuori del tempo e dello spazio, non vi si possono appi!-Cose e persone — 27 —
Creazione care lo categorie, valido solo poi feno¬ meni. __ Schopenhauer vedo
la cosa in so nella volontà metafisica, fondamento ultimo o immanente del
divenire co¬ smico: volontà ili vivere, for/.a cieca, inconscia, elio « si
accendo ima lampada noi corvello umano », cioè si fa consa¬ pevole solo
nell’uomo. --- corno concetto limite la cosa in sé stabilisco, per Kant, il
confine fra il conoscibile o l incomiscibile £ è ciò che ó al di là
dell’esperienza, oggetto di una intuizione non sensibile, ma solo
intellettuale, elio è negata all’uomo. Cose o persone (morale): per Kant lo cose
sono mezzi , oggetti per i nostri bi¬ sogni (in linguaggio economico: beni
materiali ); lo persouo sono non mezzi ma /ini in si, hanno un valore assoluto
che si misura non dall’uso oho so ne può fare, corno avviono delle cose, ma dal
rispetto che si deve all’esscro ragio¬ nevole. in ciò che ha di intimo o invio¬
labile. Coscienza (lat. conscirc = sapere insie¬ me, detto di più persone che
conoscono le stesse cose; gr. erjvei8r, = giudico, esa¬ mino): in generale
consiste nel sotto¬ porre ad esame un principio, un’asser¬ zione, un fatto, per
stabilirne il grado di credibilità o il valore prima di acco¬ glierli come
veri; cosi avviene, p. e., nella critica storica. -per Kant ò una ricerca
intorno alla ragione umana in tutto le sfere della sua attività (nel conoscere,
nelPoperare moralmente, nel sentimento del bello). La critica tende a separare
ciò che allo spirito umano proviene passivamente Criticismo — 29 Deismo dal
mondo esterno, ossia ciò che ò em¬ pirico, a poste riori, e che Kant denomina
materia, da ciò che ù un’attività oiter¬ naria della stessa ragione, ossia da
ciò che ò puro, a priori , o che vien detto forma. Cosi nel conoscere sono a
priori le intuizioni dello spazio o del tempo e lo categorie; nella condotta
morale la leggo morale non deriva dall’esperienza ma è un fatto della ragione,
è pura for¬ ma; nel giudizio estetico l’essenziale non è la realtà empirica
dell’oggetto che si dice bello, ma la rappresenta¬ zione, cioè un’attività
dello spirito. In¬ fine, per spiegare certe produzioni della natura, non
spiegabili col meccanismo, si ricorro alla finalità Interna, cioè si afferma
che nella natura l’idea del tutto ò In ragiono dell’esistenza e dell’accor¬ do
delle parti, corno avviene negli esseri viventi, nei quali la natura
s’organizza grazio a un’arte tutta intcriore, non per una causa esterna, qual è
quella, ad es., che agisce in un orologio. Criticismo (filo»-)' ò la dottrina
di Kant o della sua scuola, fondata su questi principi!: a) lo spirito umano
im¬ pone ai fenomeni le sue forme , le sue attività costitutive, vaio a dire le
in¬ tuizioni puro dello spazio e del tempo c le categorie; b) lo categorie,
cioè i concetti puri dell’intelletto, non pos¬ sono applicarsi a oggetti posti
fuori dell'esperienza (l’anima, il mondo, Dio); c) l’uomo conosce solo fenomeni
e l’as¬ soluto gli sfugge. Cruciale (dal lat. crux = croce, come segno
indicatore della via da prende¬ re) (logica): per Bacone instantiac cru¬ cis
(fatti cruciali) sono le esperienze ri¬ solutive che decidono fra due ipotesi
contrarie. D Darwinismo; è la dottrina di C. Dar¬ win che, accolto il principio
della va¬ riabilità dello specie animali, vugl spie¬ garlo mediante: 1) la
lotta per l esi¬ stenza che dà la vittoria ai meglio a- datti; 2) l’ambiente
elio crea modifica¬ zioni organiche o qualità; 3) 1 eredita- rietà, per cui i
caratteri acquisiti dal¬ l’individuo si fissano nella specie, e si accrescono
grazie anche alla correlazio¬ ne di sviluppo, per cui i mutamenti In una parto
del corpo determinano muta¬ menti anche nelle altre parti. Dato (s’oppone a ciò
che ò costruito, ela¬ borato, dedotto) ( filos .): designai prin¬ cipi!
generali, le condizioni, i fatti che sono una premessa necessaria per ri¬
spondere a una questione o risolvere un problema. Deduzione (opposto:
induzione) (logi¬ ca): è il procedimento logico che va daH’universale al
particolare, dai prin¬ cipi! allo conseguenze, o anche da una o più
proposizioni a una o più altre proposizioni,come necessarie conseguen¬ ze.
(.'osi nella fisica da una legge otte¬ nuta per via Induttiva si possono de¬
durre altre leggi subordinate o applica¬ zioni di essa; CARTESIO, dalla
proposi¬ zione: « Dio ò un essere verace », trae quest'altra: «egli non può
ingannarci quando ci fa credere all’esistenza reale d’un mondo esterno ». La
forma tipica della deduzione ò data dal sillogismo aristotelico. Vedi
Sillogismo. Deduzione trascendentale (filos.): ò per Kant il procedimento che
ricerca se le categorie possono applicarsi ai fe¬ nomeni, so sono la condiziono
neces¬ saria e sufficente dell'esperienza. La so¬ luzione ò data dall
'immaginazione crea- trice, « funziono cieca dell’anima ma in¬ dispensabile »,
facoltà Intermediarla fra la sensibilità e l’intelletto, per la quale l’io si
realizza, entra in rapporto con la molteplicità delle cose sensibili, le unifi¬
ca, dando l’oggettività alle leggi della natura; quindi non solo cogito ergo
sam, ma anche cogito, ergo rea sunt (v. sche¬ ma). Definizione (logica): ha per
fine di de¬ terminare l’essenza d'una cosa, d'un’i¬ dea, enumerandone lo note
essenziali. La Scolastica dice: definitio fit per ge- nus proximum et per
differcntiam spe- cif icam, intendendo per genere prossi¬ mo la classe di cui
una cosa è parte, e per differenza specifica i caratteri pro¬ pri! della cosa
stessa: p. es., definendo l’uomo un mammifero bimane, il ter¬ mine mammifero ò
il genere prossimo, il termino bimane la differenza speci¬ fica. Degnità:
tormino usato dal Vico nella Scienza nuova ; equi vaio ad assioma, (gr.
à^o>|Aa, da (z^ioc — degno) e sorve a indicare le idee fondamentali intorno
alla fantasia, all’intelletto, al mito, alla religione ecc. Deismo: è l’idea
della divinità ottenuta per opera della sola ragione, senza l’au¬ silio della
fede rivelata e dei dogmi, e resistenza. Questa concezione domina Demiurgo 30 —
Determinismo soprattutto nell'ILLUMINISMO (sec. XVII e XVIII): è pure la
religione del Maz¬ zini. Demiurgo (gr. SmuoopYÓG, da = popolo e rad. épy =
opero, lavoro; quindi: chi lavora pel pubblico, artefi¬ ce); ( filo8 .): con
questo nome vicn desi¬ gnato nel Timeo di Platone il dio arte¬ fice
dell'universo, che plasma il cosmo dando forma all’informe, regola c ordine a
ciò che ò senza regola o ordine, te¬ nendo l’occhio fisso alle idee, come a
modelli perfetti ed eterni di tutte le co¬ se. Il cosmos, opera del demiurgo, è
por Platone un essere vivente, fornito di ciò che v’ò di più nobile ed essen¬
ziale in un essere vivente, l'amma, che ò poi l’anima del viondo. Democrazia
(gr. $7)(jtoxpaT(a = potere del popolo) (filos.): per Platonf. ò il governo dei
molti (ol 770 XX 0 O, avente per fine la libertà, la quale può, per ec¬ cessivo
desiderio d’uguaglianza, dege¬ nerare facilmente in anarchia e tiran¬ nide.
-Aristotele, nella sua celebro teoria delle forme di governo, considera le for¬
me pure, cioè quelle che hanno por fine d’attuare la giustizia, o sono la
monar- càia, Varistocrazia, la democrazia (se- condoché governa uno solo , una
mino¬ ranza o la generalità dei cittadini). A queste corrispondono tre formo
cor¬ rotte: la tirannide, 1 Oligarchia, la de¬ magogia, quando il governo ò
esercita¬ to a Bolo beneficio di chi lo tiene. -oggi è la forma di governo in
cui la sovranità risiede nella volontà popo¬ lare, intesa come l’espressione
della maggioranza numerica dei cittadini riu¬ niti in assemblea (Rousseau).
Demone (gr. Sat(jL6>v) {filos.): è un se¬ gno o uno spirito o, meglio, una
voce ammonitrice, cosa al tutto intima e per¬ sonale di Socrate, non una
personifica¬ zione divina: « è come una voce che io ho in me fin da fanciullo,
la quale ogni volta che mi si fa sentire, sempre mi dissuade da cosa che io sia
per fare, e non mai ad alcuna mi persuade; è que¬ sta che mi vieta d’occuparnii
delle cose dello Stato e mi pare faccia ottima¬ mente a vietarmelo ». Questo
Satjj.6- vióv ti è dunque un segno personalis¬ simo, come ognuno In certi casi
e mo¬ menti della vita può sperimentare più o meno sensibilmente per conto
proprio (Valgimigli). Deontologia (gr. tò Séov = il dovere, e Xóyo- gica): è la
divisione d’un concetto in due concetti generalmente contrarii, o anche la classificazione
d’un genere in due specie che ne esprimono tutto il contenuto; p. o. gli
animali in verte¬ brati o invertebrati. Dictum de omni et nullo (Zotica):
esprime la nozione che tutto ciò che è affermato o negato d’un genero ò puro
affermato o negato delle specie o degli individui contenuti nel genere.
Differenza (metodo di — ) (logica): ò il secondo del metodi dello Stuart Mill
per la ricerca della causa. La formula è: se un caso nel quale il fenomeno si
verifica e un caso nel qualo non si ve¬ rifica hanno in comune tutte lo circo¬
stanze meno una, che si presenta nel primo caso e non nel secondo, questa è la
causa del fenomeno : p. e. la causa per cui la colonna del mercurio s'in¬ nalza
nel barometro si può ricercare facendo II vuoto; ossia: sopprimendo la
pressione atmosferica, mentre tutto I lo altre circostanze restano immutate, e
vedendo il mercurio scendere, si con¬ cludo elio la causa ricercata è il peso
dell’aria. SI riconnetto alla tabula ab - sentine di Bacone. Gli altri metodi
dello Stuart Mlll sono: di concordanza, delle variazioni concomitanti, dei
residui (v. questi termini). Differenza specifica: v. definizione . Dignità (in
generale): ò il sentimento di rispetto che l’uomo deve avere verso se stesso,
come essere ragionevole. - (morale): in opposizione a prezzo, per Kant esprime
il valore assoluto del- l’essero ragionevole, come fine in sé. Dilemma (gr.
Sia—Xap^àvco = prendo da due parti) (logica): è un sillogismo composto, che
pone due alternative, dalle quali vien tratta una conclusione identica, in modo
da non lasciare una via d’uscita; p. e.; contro la tortura: « o il torturato è
forte tanto da soppor¬ tare I tormenti, e dirà quel eli© vuole; o è debole da
non poter resistere, e dirà quel che vogliono i giudici: in ambedue i casi la
tortura non conduce alla ve¬ rità ». Dinamico e dinamismo (dal gr. Suva- (Xi£=
forza; opposto: meccanico o mec¬ canismo) (filos): si applicano tali deno¬
minazioni a quello dottrine che vedono nella forza o neW energia l’essenza del¬
l’universo; forza che agisco non dal¬ l’esterno ma dall’intorno, con sponta¬
neità e attività trasformatrice o crea¬ trice incessante, quindi irriducibile
alle leggi meccaniche. Lo teorio dinamiche pongono il tutto prima delle parti,
ciò che è vivente prima di ciò che è privo di vita, ciò che ò superiore atto a
spie¬ gare ciò che è inferiore. - In opposizione a statico si usa a In¬ dicare
ciò che si trasforma, si sviluppa, diviene senza tregua. Dio; GII aspetti e i
significati principali di questo termino complesso e oscuro nel suo sviluppo
storico si possono cosi riassumere : - a) nelle religioni piii antiche l’Idea
di Dio sembra sorgere da un antropomor¬ fismo spontaneo, cioè si concepisce Dio
sul modello dell’Uomo, sia che si colle¬ ghi con la fede nella sopravvivenza
dei morti c col culto degli avi, sia che lo si pensi come il simbolo del gruppo
so¬ ciale; si oscilla fra l’idea di Dio pen¬ sato come una forza, e l’idea di
Dio concepito come Un essere più o meno personale ; - b) per l’azione del
pensiero filosofico e scientifico Dio è pensato come l’unità essenziale di
tutti gli elementi dell’uni¬ verso: unità della sostanza prima, come nei
Presocratici; idea dell’essere puro, come in Piatone o in Aristotele; su¬
periore a tutte le categorie logiche e ad ogni idea di persona, ineffabile,
come in Plotino; costituente la realtà essen¬ ziale del mondo, col quale si
identifica, come nel panteismo (v. panteismo).- c) Dio essere morale, giusto e
buono, rispondente all’esigenza che ha l’uomo di credere al valore della
propria azione. Dio 33 Discorsivo e discorso a un essere che sia garante dei
nostri fini più alti, cioè dei valori spirituali. -Tra gli altri, 11 francese
M. Blondel vede nell’idea di Dio tre aspetti, cia¬ scuno dei quali tendo a
predominare In tempi e mentalità diverse: a) il Dio del* TAntico Testamento, il
rigido domina¬ tore che riferisce tutto a sé. oggetto di rispetto e, più, di
timore;è) il Dio intel¬ ligenza o tutto chiarezza e verità, do¬ vuto alla
tradizione ellenica; c) il Deus charitas, tutto amore per le creature, il Dio
Cristiano. Dio (prove dell’esistenza di — ) ( filos .); "Te* principali
sono: - 1. la prova cosmologica , cho dall’esi- sten/.a del mondo, cioè del
condizio¬ nato, del contingente o doll’imperfotto, conchiude all’esistenza
d’una causa pri¬ ma, d’un incondizionato, necessario o 1 l>erfetto. Cosi per
Aristotele Dio, spi¬ rito puro, è la causa prima d’ogni mo¬ vimento, è primo
motore immobile ( 7TpcoTOV x.ivoOv àx(vT)TOV); è seguito dalla Scolastica (S.
Tommaso ecc.). Op¬ pone Kant cho dal fatto ohe noi af¬ fermiamo una causalità
nel inondo dei fenomeni, non si può logicamente de- | durre ohe v’è una
causalità del mondo fuori del mondo, dato cho essa è al di fuori del
campodellanostraesperienzaempirica, alla quulo soltanto può la no- stia monto
applicare la categoria di causa. — 2. prova ontologica, eho dall'idea di Dio,
come dell'essere più perfetto, de¬ duce la sua esistenza, giacché un essere
soltanto pensato, ma non esistente, non sarebbe l’essere perfetto; è concepita
da S. Anselmo, respinta da S. Tom¬ maso, seguita da Cartesio, Spinoza, Leibniz,
Hegel, occ. Kant nega che nel concetto d’una cosa sia contenuta Tesistonza
corno nota essenziale: cento talleri reali non contengono più noto essenziali
di conto talleri pensati. Ma, osserva Hegel, conto talleri non sono un
concetto, e tanto mono paragona¬ bili con l’idea di Dio; in questa resi¬ stenza
è implicita, non come un'idea cho s’aggiunge a un’altra idea eteroge¬ nea:
l’idea di Dio e 1'osistenza coincido¬ no, come dove avvenire nel più alto
principio cui possa giungere la filosofia; - 3. prova teleologica o
fisico-teologica: le cose della natura non solo rivelano ordine o regolarità,
inspiegabili con la nozione di causa, ma formano un si¬ stema. convergono verso
un’unità su¬ prema, come a un fine ultimo ; donde la necessità d’ammettere
l’esistenza d’un essere cho pone e attua i fini manife- stantisi nella vita
della natura. È so¬ stenuta da Socrate, Platone, Ari¬ stotele, dalla Scolastica
occ. Kant fa osservare che, pur ammettendo essere lo opere della natura paragonabili
a quello d’un artista, si giungo solo a un Dio artefice ordinatore della
materia, non a un Dio creatore; per passare dalla considcraziono d’un ordino
nel mondo all’eslstcuza d’un essere necessario o perfetto, bisogna far ricorso
alla prova cosmofogica e ontologica, lo quali van¬ no inoontro — egli dice — ud
altre ob¬ biezioni non meno gravi (v. sopra); - 4. prova morale o
etico-teologica, che dall'esistenza della legge morale in noi trae la prova
dell’esistenza di Dio fuori di noi. Kant, per accordare l’idea doV dovere con
la felicità, ammette un pr cf grosso indefinito verso la santità, cioè verso la
virtù perfetta che esigo la sop¬ pressione della sensibilità; na ciò è pos¬
sibile solo se la nostra personalità per¬ siste, ossia so ò immortale, grazie
nH’u- ziouo sul mondo d’un essere in cni l'u¬ nione della santità o della
felicità è at¬ tuata. Però questa prova non consento la conoscenza metafisica
d’una sostanza divina, ma solo una credenza razionale, che s’accorda col
risultati della Critica della ragion pura. Hegel oppone cho Kant, appoggiando
la prova dell* esi¬ stenza di Dio alia credenza monile, presuppone implicita
ncll'idqa di Dio 1 ’esistcnza; cade perciò in una gravo eoutraddizione, perché
lia prima con¬ dannato tale identità, che ò il fonda¬ mento della prova
ontologica, da lui respinta. Discontinuo (opposto: continuo) (/ posizione
scompare. Dogma (gr. Sóyfxoc, da Soxéco: opinio¬ ne. decreto) (relig.): esprimo
il decreto d’un concilio, un principio religioso con¬ siderato verità inoppugnabile.
- ( filos .): designa comunemente un principio piii affermato che provato, o
anche imposto da un’autorità o accolto senza esame critico. Dogmatismo
(opposto: scetticismo) ( fi- los.): Kant chiama dogmatici i filosofi cho fanno
uso di principii o di concetti senza ricercare per quale via e con che diritto
si pervenga ad affermarli, ossia senza una critica preventiva del nostro potere
di conoscere. Dolore ( psicnl .): ò uno stato affettivo indefinibile per la sua
semplicità, che si presenta come dolore fisico, cioè come sensazione penosa più
o meno localiz¬ zata, o come dolore morale (v. piacere), (filos.): il dolore è
considerato dai Greci corno un ostacolo alla felicità cui l’uomo aspira
naturalmente, come qual¬ che cosa di ostile cho dovessero elimi¬ nato con ogni
mezzo; mentre il Cri¬ stianesimo ha sublimato il doloro, che diviene mezzo di
purificazione e di ele¬ vazione morale, soprattutto per l'a¬ zione dell'esempio
di Gesù, che, assu¬ mendo corpo mortalo, ne ha preso tutto le infermità, è stato
vinto, deprezzato, umiliato o ha subito il supplizio dello schiavo. Doppia
verità (/ito.): ò la dottrina in- trodotta da Averrok, secondo la quale può
essere vero nella filosofia ciò elio è ritenuto falso ed errato nella reli¬
gione, e inversamente; donde nna scis¬ sione interiore dello spirito. Dovere
(morale): in senso concreto è una norma determinata di condotta, un'ob¬
bligazione ben definita: p. e. i doveri verso la famiglia, la patria. - in
senso generale e astratto è l’obbli- gazione morale, considerata separata¬
mente dal suo contenuto, ima legge, un comando, cui si deve obbedire. - per
Kant consiste ueirobbodiro a un comando, a un imperativo categorico, valido
incondizionatamente por ogni essere ragionevole, che si può, ma non si deve
trasgredire. Dualismo (opposto: monismo) (relig .): applicato per la prima
volta da T. Hyde nel 1700 per designare un si¬ stema religioso in cui a un
principio buono s’oppone un principio cattivo, l’uno e l’altro eterni e in
eterno con¬ trasto fra loro, come nella religione di Zoroastro. - (filos.): si
applica alle dottrino che ricorrono a due principii opposti e irri¬ ducibili
por spiegare l’universo o quindi Ri presenta, anzitutto, come dualismo cosmico:
in Platone fra la materia, oscura, ostile, causa del perpetuo can¬ giamento e
del perenne fluire di tutte le cose, c lo spirito, il mondo delle idee, essenze
eterne, fuori del nostro pensie¬ ro, sostegno del mondo reale; in Ari¬ stotele
fra la materia, docile alle esi¬ genze dello spirito, plasmabile, o la forma, l’idea
che s’inserisce nella ma¬ teria, la, plasma e la perfeziona; in Cartesio fra la
res cogitans , lo spirito, e la res extcnsa , la materia; in Kant fra il mondo
dello cose in sé, inconosci¬ bile, e il mondo dei fenomeni., aporto alla nostra
conoscenza. - dal dualismo cosmico discende un dualismo conoscitivo, che fissa
e scinde duo formo di conoscenza, derivanti da due facoltà dello spirito, il
senso e la Dualità — 35 — Edonismo ragione, donde la conoscenza sensi¬ bile o
la razionale, e il loro opposto va¬ lore. -o’è un dualismo morale, che dori va
dal contrasto fra senso e ragione, cioè fra il piacere e l'utile da una parte,
posti a fondamento della morule dell’edonismo di Aiustippo di Cirene, di
Epicuro e del moderno utilitarismo, e l'attività ra¬ zionate dall'altra,
caratterizzata dal disinteresse verso i boni sensibili e dal¬ l'obbedienza allo
norme dettate dalla ragione, come nell’cticn di Platone e di Kant. Dualità: il
Gioberti dà a questo ter¬ mino un senso più generale che a dua¬ lismo: ■ Ogni
ordino di conoscibili, egli dice, ci si manifesta come una dualità, che è
quanto dire che non possiamo ponsare un oggetto, senza che la cogni¬ zione di
esso importi quella d’un og¬ getto congiunto e correlativo. Cosi l'i¬ dea di
Dio inchiude quella dell'univer¬ so, il concetto dell'universo comprendo quella
di Dio; essa si reitera in una successione indefinita, fino all’ultima specie
materiale, e risplendo in tutti gli ordini della natura ». Dubbio (in
generale): stato di Incertezza, di indecisione, in cui viene a trovarsi 10
spirito per la difficoltà grave, o an¬ che Insormontabile, di giungere a un’af-
ferinaziono conclusiva. - (filos.): si distingue un dubbio me¬ todico, cho
consiste nel sospendere prov¬ visoriamente il giudizio Intorno al va¬ lore
d’un'Idea, d'una teoria, o anche della scienza (Cartesio), finché la ri¬ cerca
non giunga a conclusioni sicure o a un principio certo; e un dubbio scettico,
cho consiste nel pensare che né 11 senso né la ragiono siano capaci di cogliere
la verità, la realtà vera delle cose, e cho l’uomo perciò apprenda solo
apparenze. Durata ( filos .): pel francese E. Berg¬ son 6 , non il tempo
matematico, quan¬ titativo, concepito come una serie di¬ scontinua di momenti
eguali, a somi¬ glianzà dei punti d’una linea geome¬ trica, ma il tempo
vissuto, che sentiamo fluire nella coscienza, una successione continua di
processi qualitativi., di espe¬ rienze spirituali, cho si compenetrano, si
fondono in uno sviluppo continuo, imprevedibile, libero, passano l’una
nell'altra come una corrente intcriore, ininterrotta, a guisa d’un fiume che
tra¬ scini seco tutto le sue acque, cosicché il passato vivo nel presente e
l'uno e l'altro si prolungano nel futuro, costi¬ tuendo la vita profonda dello
spirito, mascherata e deformata per lo più dal¬ le abitudini meccaniche. Da
durata vio- ne colta nella sua purezza e semplicità dall’intuizione (vedi
questo termine) per via immediata, cho perù esige pre¬ parazione o sforzo. E
Ecceità (lat. scol. haecceitas, da haecce res, che traduce l’aristotelico rò róSe
ti = questa cosa qui) (filos.): termino co¬ niato da Duns Scoto per designare
il principium individuationis, cioè i carat¬ teri che distinguono un individuo
da un altro e dei quali il più importante, ultima realitas, è la volontà. Il
principio ildl’liaecceitas è perciò collegato ad una tendenza volontaristica
(v. volontari¬ smo) in contrasto con l'inlcUettualismo (V. questo termine) di
S. Tommaso. Eclettismo (dai gr. èy.)dfsiv = sceglie¬ re) (filos.): in senso
largo consiste nella tendenza a cogliere in tutte le filosofie le affermazioni
positive (considerando che ogni sistema filosofico è falso in ciò che nega,
vero in ciò che afferma), lo verità che l'esperienza dei secoli ha con¬
sacrate, a conciliarle o comporlo In una dottrina armonica o coerente, che sia
quasi il credo filosofico del genere umano. Eclettica è, ad cs., la dottrina di
Cicerone. - in senso più preciso, eclettismo è la conciliazione di tesi diverso
o anello contrarie, che si raggiungo subordinando quelle tesi a un principio
superiore: p. e. Victor Cocsin, capo della Scuola eclettica francese,
s’appoggia al fatto che in ogni uomo esisto un senso del vero, il quale
contiene allo stato latente le verità filosofiche eterno cho si disco¬ prono
interrogando la coscienza e ri¬ correndo alla riflessione; la ragione è come
una luce cho illumina l’anima umana, una specie di rivelazione uni¬ versale.
Economica (teoria) della conoscen¬ za: v. teoria economica della conoscenza.
Edonismo (dal gr. Y;Sovvj = piacere) (filos.): comprende lo dottrine che pon¬ gono
come principio unico della morale il piacere, che e il bene più alto, men¬ tre
il suo opposto, il doloro, è da evi¬ tare come un male; in senso rigoroso si
applica alla dottrina di Aiustippo di Cirene, meno propriamente all’epi¬
cureismo e all'utilitarismo di G. Ben¬ tham e di G. Stuart Mii.l (quest’ultimo
Effetto — 30 — Empirico stabilisco tra i piaceri differenze quali¬ tative,
distinguendo piaceri più o meno elevati, mentre Aristippo, come poi Bentham,
prendo come misura delle cose l’intensità dei piaceri). La calma dello spirito,
l 'atarassia di Epicuro o la ricerca doU'utilc sociale dello Stuart MII 1 , che
arriva lino al sacrificio di sé pel fieno comune, sono perciò molto lontani
dall'edonismo vero e proprio. Effetto = vedi causa. Efficente (dal lat.
eflicere = produrre, gr. 7 toi 7 )Tiy. 6 v = efficiens, Ciò,) (lilos.): in
senso generale si applica alla causa intesa nella sua piena ostensione. - in
senso piti ristretto: è il terzo si¬ gnificato dato da Aristotele al termino
causa, cioè quella « donde è il principio del movimento » ( oi>£v 7 ) àp
/.')) tt)S xiVYjfTEtoq): è la causa motrice. Egocentrismo (lilos.):
letteralmento consiste nel fare del proprio io il cen¬ tro doll’tiniverso,
ossia nel riferirò tutte lo coso al proprio io, che divieue il centro del
piccolo mondo elio ci sta intorno o poi anche del cosmo in generale; quindi, in
un linguaggio più rigoroso, consiste ncU'identideare i valori personalI coi
valori del mondo circostante o i valori del mondo circostante col mondo del
valori in generalo. Egoismo (opposto: altruismo) (psicol.): è l’amore di se
stesso, la tendenza natu¬ rale a protessero la propria esistenza e i propril
fieni; «l'istinto fondamen¬ tale nell’uomo come nell'animale èl'e¬ goismo, cioè
l’impulso a vivere e a ben vivere « (Schopenhauer). - (morale)-. 6 la tendenza
a subordi¬ nare il beno e le esigenze altrui al fieno e alle esigenze proprie e
ad applicare questo principio come criterio per giu¬ dicare gli atti altrui e i
proprii. -- (metafisica)-, l’egoismo metafìsico corrisponde a solipsismo, che è
voca¬ bolo più usato, o sta nel considerare l’esistenza degli altri esseri come
illu¬ soria o dubbia: soltanto il mondo della mia coscienza esiste o
l’affermazione d’nna realtà fuori della mia coscienza è contraddittoria. (Per Schopenhauer
ehi la pensa cosi non ha bisogno d’essere confutato, ma solo d’iuta cura
medica). Egotismo (in generale)-. 6 la coltura e- sclusiva delVio, della
propria persona¬ lità, l’educazione raffinata dei senti¬ menti egoistici, con
tendenza estetica o creduta tale. Eidetico (gr. el&oq, tema i§, da cui
vedere , idea) (psicol.): b! dice eidetica la tendenza, frequente nei
fanciulli, a richiamare t ricordi recenti sotto forma di immagini visive, dette
anche eide¬ tiche, o a proiettarle all’esterno. - (lilos.): nella Fenomenologia
di Hus¬ serl, filosofo tedesco contemporaneo, l’aggettivo eidetico si riferisco
all'essm- za ideale, alla forma o idea nel senso platonico-aristotelico, o si
oppone a em¬ pirico: le essenze pure, oggetto dello scienze eidetiche, sono
strutture uni¬ versali, extratemporali, indipendenti dai fatti empirici.
Elemento: in generale gli elementi sono lo parti semplici cho compongono i
corpi e in cui questi si possono risolvere. Acqua, aria, terra e fuoco erano 1
quat¬ tro elementi di cui si credeva composta la materia (Empedocle). Dieonsi
ele¬ menti aueho i primi rudimenti delle arti o delle scienze. Emanazione (dal
lat. emanare = scor¬ rere fuoji; opposto: creazione) (lilos.): esprime il
processo, affermato dagli Gnostici c dai Nkoplatonky, me¬ diante il qualo la
molteplicità delle cose, sia materiali, sia spirituali, cho forma l’universo,
si svolge, esco fuori dal¬ l’essere uno cho no costituisce il prin¬ cipio,
senza cho vi sia discontinuità in questo sviluppo, vi sia o no diminuzione dell’Essere
uno in tale operazione. - Il Cesano distingue due sensi di que¬ sto termine:
imanatio in divini» duple» est, una genrratin, altera per nwdum ro- l untali»,
introducendo cosi nellYauma- zione l’opera della volontà, che è pro¬ pria della
creazione, della generatili. Eminentiae via (lilos.): è una dello provo
dell’esistenza di Pio, comune nel¬ la Scolastica: « Le cose belle della terra
sono il segno rivelatore della bellezza più alta, le coso pure della purezza
per¬ fetta, le cose elevato della più elevata ■ (pulchra puìeherrimum,
sublimili alti»- simum, pura purisstmum ostendunt). Emozione (lat. emoveo =
pongo in mo¬ vimento, scuoto) (psicol.): in generale s’appllea ad ogni stato
affettivo o sen¬ timentale. - - in senso stretto s’applien agli siati affettivi,
reazioni d’ima certa Intensità, d’apparizione brusca, spontanea, e di breve
durata, a costituire i quali con¬ corrono stati di piacere o di dolore ac¬
compagnati o seguiti (por W. James, invece, preceduti) da movimenti e rea¬
zioni fisiologiche. Le emozioni possono essere piacevoli o spiacevoli,
eccitanti o deprimenti, forti o deboli. Empirico (gr. SjjLTretpoq = che sa per
esperienza; opposto: razionale, puro)Empiriocriticismo Ent( scienza) : si
applica all’osservaziono fon¬ data sull'applicazione diretta dei sensi
all‘oggetto della ricerca, all’esperienza metodica cui partecipa 1
intelligenza, • i ciechi solo hanno bisogno di guida, ma chi ha gli occhi nella
fronte e nella mente di quelli si ha da servire per iscorta - (Galileo); ò
sinonimo di spe¬ rimentale. - (filos.): per Kant ò ciò che ò dato
nell’esperienza sensibile, ciò che giunge a noi dal mondo esterno per la via
dei sensi; equipollente di a posteriori (vedi questo termine). - - in senso
peggiorativo, è opposto a sistematico e si dice di ciò che ò frutto di
osservazione superficiale, non gui¬ data da principii e norme metodiche.
Empiriocriticismo ( filos .): è la « filo¬ sofia dell'esperienza pura «
concepita da Riccardo Avexariub, che vuole liberare l'idea d 'esperienza da
tutte lo aggiunto del pensiero, dalle Ideo della speculazione metafisica e
anche della vita pratica, fondando una teoria eco¬ nomica della conoscenza (v.
teoria e. d. c.). L’esperienza pura sarebbe il sem¬ plice contenuto della
percezione. Empirismo (gr. ètXTCEipta = esperien¬ za; opposto: raziottftltàmo)
(filos.): com¬ prende lo dottrino che considerano l'e¬ sperienza sensibile , le
Impressioni dei sensi come il fondamento e la fonte prima, essenziale,
insostituibile del co¬ noscere umano; vi appartengono: nel¬ l’antichità la
scuola cirenaica, la cinica, 1* epicurea, la stoica, e, nel tempi moder¬ ni, la
filosofia di Bacon e, di |v = eterno) (filos.): lo gno¬ stico Valentino
denomina Pone per¬ fetto il principio primo dell’universo, Pio, donde escono
trenta coni minori, cho sono esseri intelligibili e interme¬ diari fra Pio e
l’uomo; l’ultimo cono, Sofia, ò presa dalla curiosità o dal de¬ siderio
Inestinguibile di contemplare 11 Padre o di scoprire il segreto della sua
natura (to Se tox&oc; elvat ^7)TY) = contendo; quindi: arte di con¬ tendere
con la parola) (lavica): è l’arte di discutere, adoperando, por vincere nella
disputa, argomenti sottili e in¬ gannevoli ; è la degenerazione della dia¬
lettica al tempo dei sofisti. Eros (gr. £po>s = amore) (filos.): per | Plato.ve
ò l'amore rivolto alle ideo, la i tendenza filosofica che trasporta Pani- ! ma
dall'amore por il bello alla visiono del perfetto esemplare della bellezza,
cioè all'idea del bello, e di qui all'idea più alta, a quella del Beno (v.
amore). Errore (logica): in generale si distinguo¬ no due classi d’errori: 1.
errori logici, che dipendono dalla violazione delle norme logiche del pensiero,
p. e. del principio di contraddizione (v. conirad- dizione); 2. errori reali,
inerenti alle Idee stesse, quando queste non siano, in tutto o in parte,
conformi allo cose che rappresentano come ut viene per gl ter rori de i sensi.
-per gli Epicurei la possibilità dclTcr- rore non ò nella sensazione presa in
se stessa, ma nel giudizio che pronunziamo intorno allo cose percepite. - per
Cartesio un’idea presa in sé e per sé non è né vera, né falsa: lo di¬ viene
solo se viene posta in relazione con altre, cioè negata o affermata me¬ diante
il giudizio, che ò un atto della volontà, ed erra quando afferma o nega ciò che
l’intelletto non vede in modo chiaro e distinto, essendo il potere vo¬ lontario
disposto, per la sua stessa na¬ tura libera, a varcare i limiti dell’in¬
telletto, sul quale ò fondato il criterio di verità (vedi criterio c verità). -
per Spinoza Terrore non è nulla di positivo, è solo una privazione dovuta
all’imperfezione del senso, che perce¬ pisco una realtà parziale e no fa una
realtà totale, come quando si prende la distanza apparente del sole per la
distanza reale. Escatologia (gr. Ict^octoc = ultimo o Xóyos = discorso)
(filos.): è quella parte della filosofia che ha per oggetto l’esa¬ me dei fini
ultimi dell’uomo e dell’imi* verso. Esistenza (filos.): è la proprietà attri¬
buita a ciò che ò oggetto dell’esperienza attualo o dell’esperienza possibile.
Quan¬ do si dice: questa cosa esiste, si esprime un giudizio sulla sua realtà.
- gli Scolastici oppongono essenlia ad existcntia: la prima ò la natura con¬
cettuale della cosa, l’idea costitutiva di essa; la seconda ò la piena
attualità, ultima actualitas, un quid che, aggiun¬ gendosi all’essenza, la pone
nel mondo della realtà. - per S. Anselmo essenza od esistenza in Dio coincidono
o anche Spinoza nella I definizione dell’Effco dice: 7 vr causata sui (cho è la
sub stantia, sire Deus) intclligo id cuius essenlia invol - vii existrnf iam. -
V. Gioberti distingue essere da esi¬ stere: « in latino cxsistcre, cho suona
ap¬ parire, uscir fuori, emergere, mostrarsi, s’usa a significare la
manifestazione d’u- na cosa che prima ora come avvilup¬ pata, Implicita in
un’altra, e che, uscen¬ do, si rende visibile di fuori; quindi prodotta da una
sostanza che la con¬ tiene potenzialmente, in quanto è atta a produrla »,
giacché II verbo sistere e I suoi derivati, p. e. subsislcre t con¬ tengono
puro il concetto metafisico di sostanza; quindi Fesisfen/e non può concepirsi
senza VEnte che ne ò la causa creatrice, donde la formula ideale (come il
Gioberti la chiama): ■ l’Ente crea Tesistento ». Esistenziale (giudizio) =
(logica): è il giudizio che afferma o nega semplice¬ mente Tesistenza d’una
cosa o d’una classe di cose. Esoterico (gr. IdtoTSpixóq = interio¬ re)
(filos.): dicesi particolarmente del¬ l'insegnamento cho Aristotele impar¬ tiva
ai discepoli già istruiti; per esten¬ sione si dice, in generale, dell’insegna¬
mento impartito a pochi, fino a raggiun- Esperienza — 40 — Essere gere il
significato di sapere occulto, accessibile a pochi iniziati (v. acroama- tico
). Esperienza (dal lat. experior — pongo alla prova) (ingenerale): ò la
conoscenza diretta,Immediata, omediata, elicsi può acquistare dei fatti o dei
fenomeni che si succedono in noi o fuori di noi. Y’ò un'esperienza comune o
vulvare che pro¬ cede in maniera spontanea, incoerente, senza regola e
precauzione, obbedendo a impulsi sentimentali o utilitari; e v’ò un’esperienza
scienti fica, già detta dagli Stoici è[X“£tpta {jlsO’oSlxt) (esperienza
metodica ), che nelle sue ricerche applica all’osservazione dei fatti, alla
loro in¬ terpretazione e al loro coordinamento le norme suggerite dalla ragione
nel suo sviluppo storico, c dall’esperienza pas¬ sata. - l’idea moderna
d’esperienza si co¬ stituisce nel Hi nascimento soprattutto per opera di
Galileo, seguito poi dal¬ l’empirismo inglese. Locke riconosce due fonti
dell’esperienza: il senso ester¬ no e il senso interno (cioè la riflessione ),
e quindi vede già nell’attività dell’In¬ telletto una condizione importante
del¬ l’esperienza. - (filos.): per Kant l’esperienza consta di due fattori: a)
della conoscenza doi fenomeni, cioò delle impressioni clic ci pervengono dal
mondo esterno per la via dei sensi o dal inondo interno per la via della
coscienza: materia passiva; b) dello spirito, che elabora il rozzo ma¬ teriale
delle sensazioni, cioè dei feno¬ meni, con le intuizioni pure o a priori dello
6pazio e del tempo e con le cate¬ gorie, cioò con le forme attive. Questi duo
fattori sono intimamente e indisso¬ lubilmente fusi nel l’esperienza.
Esperienza possibile (filos.): si ha quando, dice Kant, « io mi rappresento
insieme tutti gli oggetti sensibili esi¬ stenti in tutti i tempi e in tutti gli
spazi, ossia gli oggetti che si trovano in quella parte dell’esperienza verso
la quale deb¬ bo ancora progredire ». Esperienza pura (ItTos.): è la dottrina
che vuole liberare il pensiero da tutto le aggiunte artificiose e superflue,
come causa, tempo, sostanza eoe. e costituire •' un’idea naturale del mondo
met¬ tendo nella sua vera luce il puro dato immediatamente vissuto, cioè la
sen¬ sazione. Così R. Avkxarius c Vempi- rio-cri deismo. Esperimento (scienza):
consiste nel ri¬ produrre artificialmente fenomeni na¬ turali col lino di
poterli osservare — iso¬ landoli, ripetendoli, « provando e ri¬ provando » —
nelle condizioni più fa¬ vorevoli per l’indagine scientifica. Ga¬ lileo è stato
uno dei primi e più ge¬ niali sperimentatori. Essenza (lat. csscntia da esse)
(logica): designa il complesso delle determina¬ zioni, cioò dei caratteri che
definiscono nelle sue note costitutivo un oggetto del pensiero. Aristotele Ja
definisce: oùaCa àveo CXyjs, ossia la sostanza senza la materia; p. es.:
l’essenza del¬ l’albero ò data dallo qualità costitutive del concetto di
albero, distinte dalla sua materia; forma c materia, unite, dànno la sostanza
(oùoCa). - (filos.): è ciò che costituisce il nu¬ cleo costanto d’una cosa in
opposizione alle modificazioni che non lo toccano se non superficialmente e
temporanea¬ mente; così la intende Cartesio. - Spinoza aggiunge che l’essenza
d’una cosa ò ciò senza di cui questa non può né esistere né essere concepita e,
vice¬ versa, ciò che senza la cosa non può né esistere né essere concepita: id
sine, quo res et vice versa quod sine re nec esse nec concivi potest. Essere
(filos.): in opposto a divenire in¬ dica ciò che esiste o sussiste stabilmente,
non ostante i mutamenti che può su¬ bire; è dunque una realtà permanente,
costante, presente nell’esperienza o an¬ che accessibile al solo pensiero; por
gli uni (per cs.: Parmenide o Platone) l’idea dell’essere è la più ricca di
con¬ tenuto; per gli altri (per es.: Hegel o Rosmini) è l'idea più semplice o
più povera di contenuto; ma sempre di grande valore speculativo. - Parmenide
por primo pensa l'essere come la realtà vera, immutabile, per¬ fetta, senza
passato né futuro, posta In un eterno presente, unità del tutto o- mogenea,
accessibile al solo pensiero logico; mentre il non essere ò apparenza mutevole
o dipendente dall’esperienza ingannevole dei sensi. - per Democrito l'essere è
posto nella pluralità degli atomi, che si muovono nel vuoto, cioè nel non
essere, il quale ò quindi una realtà anch’essa. - per Platone ressero è nelle
Idee. - per Hegel, so ad una cosa si tolgono tutto le determinazioni e le
qualità, ri¬ mane la pura affermazione* questa co¬ sa è; ossia l’idea più
semplice, più a- stratta, più povera di contenuto, che richiama alla mente
l’idea opposta, cioè quella del non essere. È il punto di par¬ tenza (Iella
logica hegeliana, e della dia- Essoterico — 41 Esterno lettica (v. questo
termine) ; infatti « la verità dell'essere {tesi) e del non essere (antitesi) è
la loro unità, la quale ò di¬ venire ( sintesi ); l’essere, se vicn pen¬ sato
nel divenire, è un formarsi, un in¬ cominciare ; invece il non essere ò un
passare ». L’idea decessero è un’idea della ragione (v. qui sotto l’esempio ci¬
tato nel Nuovo Saggio del Rosmini). -anche pel Rosmini ■ se dall’idea con¬
creta di M. nostro amico voglio rimo- vero ciò che ha di proprio e originale,
non mi resta più l’idea del mio amico, ma solo l’idea comune di un uomo; se poi
astraggo le qualità proprie del¬ l’uomo, mi resta un’idea più generale, cioè
l'idea d’un animale; io posso allo stesso modo colla mia mente astrane dalle
qualità proprie dell’animale o mi resta allora l’idea d’un puro corpo privo di
sensitività, dotato solo di vegetazio¬ ne; voglio ancora colla mente togliere
da lui ogni vegetazione, allora la mia Idea ò divenuta l’idea d’un corpo in
genero; se infine non voglio badare a ciò che ha di proprio il corpo, rimane
allora l’idea più universale di tutte, cioè l’idea d’un ente, senza che questo
nel mio pensiero sia determinato da nessuna qualità cognita, l’idea dell’es¬ sere
è dunque quella, tolta la quale, è tolto interamente il pensare ed è resa
impossibile qualsiasi altra idea ». Però l’idea dell’essere « che è la verità
prima e la ragione suprema, presuppone chi dia l’essere alle coso che esistono,
ossia l’essere in sé, Dio, causa ». Essoterico (gr. èScoTepixò»; Xóyo|xv) =
sentenza) (in pflBile): si usa a indi¬ care la saggczzi^Riq s’esprime per mez¬
zo di sentenze morali, proverbi, afori¬ smi: filosofia gnomica, poesia gnomica
(Solone, Focilide, Teognide). Gnoseologia (gr. yv&at? = conoscenza e Xóyo?
= discorso) (filos.): ò quella parte della filosofia che studia il proble¬ ma
della conoscenza (vedi conoscenza). Gnosi (gr. yvcócu? = conoscenza, sag¬
gezza) (rch' 0 .): è lo stato del Cristiano illuminato che distinguo chiaramente
la propria fèdo da quella dei pagani, le divinità dei quali gli appaiono pure
finzioni. - (filos. e rclig.): ò una forma di co¬ noscenza che trasforma la
fede in scien¬ za; è però una conoscenza concreta, giacché per gli Gnostici
conoscere Dio vuol dire possederlo, non per via di¬ scorsiva, dialettica, o per
la certezza soggettiva della fede, ma per via mi¬ stica. che si complica con
gli clementi provenienti dallo religioni orientali o dalla filosofia; giacché
gli Gnostici, per superare l’antitesi fra Dio, principio del bene, e la
materia, principio del malo, imaginano una serie di coni (alcove?), realtà
intelligibili uscite dal Primo prin¬ cipio ineffabile, una delle quali, dege¬
nerando, ha prodotto la materia e il male. La creazione e 1 a redenzione cri¬
stiane sono episodi di quella lotta. Principali rappresentanti della gnosi sono
Valentino e Marcione (II sec. d. Or.) (v. Eoni). Grazia ( relig .): è un dono
gratuito fatto da Dio alle creature umane, senza che vi abbiano .alcun diritto;
in questo sen¬ so non v’è cosa alcuna che non sia una grazia, poiché Dio basta
a sé e dona liberamente e gratuitamente tutto ciò che dà. - In un senso meglio
determinato da S. Agostino la grazia ò un dono gra¬ tuito che Dio fa all’uomo
(posto dal pec¬ cato originale nello stato di natura de¬ caduta e pervertita)
per rendere possi- Gusto — 4ft — Idea bile la salvezza di pochi eletti, Bcelti
dalla sua imperscrutabile volontà, giac¬ ché l’uomo da sé non può risollevarsi
e lo Spirito Santo soffia dove vuole (spiriius sanctus apirat ubi vult, non
merita seqiUns, sed merita facicns). _ Lo stato di grazia implica una par¬
tecipazione più o meno consapevole dell'anima alla vita soprannaturale, che
oltrepassa l’ordine croato, cioè la na¬ tura o la conoscenza razionale; è og¬
getto di fede (v. natura). - (estetica): La grazia è il sentimento, non beilo
definibile» che nasce alla vista idola
tori, gli Idoli del mercato, cioè provenienti dai rapporti sociali: p C , gli
errori per cui si prendono corno reali le coso fittizie designate da ter- minll
del linguaggio; d) idola thratri, consistenti nell'azione esercitata sulla
mente dai sistemi filo- solidi, elio si succedono sulla scena della storia,
come le rappresentazioni fan¬ tastiche della realtà si svolgono sulla scena
d'un teatro. _ (teoria della conoscenza) : per E cicli HO tutto le coso reali
emettono efflussi d'a¬ tomi. quasi Involucri vuoti isimularm. 11 dice
Cicerone), i quali riproducono la struttura generalo e le qualità del^ corpi
donde emanano e, movendosi con grondo velocità, pervengono attraverso 1 sensi
fino al cuore, dove producono le sensazioni. Possono provenire audio da corpi
non piti presenti ai sensi; di qui 1 fantasmi del sogno e del delirio. Ignava
ratio (gr. ip-fòc; Xbyo r, = vita) (filos.): è la teoria comune ai più antichi
filosofi greci, secondo la quale la materia è considerata non solo come attiva,
ma come animata, vivente: materia e lotiche sono Indi¬ stinto. Immaginazione
(psicol.): è l’attitu¬ dine mentalo a formare immagini c rappresentazioni ; si
presenta sotto duo forme : --- a) rappresentativa, o riproduttrice, che sta nel
potere psicologico di ripro¬ durre nella mente gli oggetti già per¬ cepiti, non
presenti: - li) creatrice, che consiste nei comporre, nel creare nuove
immagini; è alliue a fantasia o ha una funzione importante nell’arte. __.
(/ilo».): per Spinoza la imaainalio è il grado inferiore del conoscere, vi¬
sione oonfusa, disordinata, incompiuta * delle" coso. _ per Kant
Vimmaginasionc creatrice è « una funzione cieca ma indispensa¬ bile % che
applica le categorie deU’in* folletto ai fenomeni, collognndo lo for¬ ine
dell'intelletto con lo forme della sen¬ sibilità e rcndondo cosi possibile la
co- stituziono doli'esperienza; _ per FICHTE l’immaginazione crea¬ trice
produce il non io, che si oppone all'io puro o lo limita; opera In ma¬ niera
Incosciente. Immagine (psicol.): In generalo ò la rappresentazlono montalo d'un
og¬ getto percepito, o anche una nuova rappresentazione formata d’elementi
psichici elio già si trovano nella co¬ scienza, come le immagini poetiche.
Immanente (opposto: trascendente ) (/»- /os.): già nel soc. XIII immanens (op¬
posto a transiens c transitiva) i> detta un’azione od una causa elio rimanga
nell'Interno dol soggetto agente, men¬ tre transitiva è dotta quando, uscendo dal
soggetto, s'cserclta sopra un'altra cosa; cosi S. Tommaso: duplex est actio,
una qua e transil in citeriorem ma- teriam, ut calc/acerc et secare, alia quac
manci in agente, ut intclligcre, sentire et rette (= duplice è l'azione; una
che passa nella materia esterna, come ri¬ scaldare o tagliare, l’altra cho
rimane nell’agente, come intendere, sentire e volere). — Spinoza Intende in
questo senso il termine immanente, quando dice: Deus est omnium rerum causa
immanens non vero transiens (Ilio è causa immanente di tutte le cose, non
transitiva), per¬ ché, contenendo in sé il mondo (v. pan¬ teismo), non esco
fuori di sé quando agisce, ma resta in so stesso. -—- per Kant è immanente ciò
che sta entro i limiti dell’esperienza, trascen¬ dente ciò clic sta fuori
deH'esperienza a non è conoscibile. Immanentismo Imperativo - in dottrina eli
Blondel (vedi: azione) ò detta una « trascendenza im¬ manente », perché la
divinità che è tra¬ scendente, può, per un atto della vo¬ lontà individuale,
consapevole della propria incompletezza e insuiHeionza. divenire immanente,
entraro nella vita umana, compenetrarla, facendo cosi l’uomo partecipo della
vita soprannatu¬ rale per un dono gratuito, cioè per tuia grazia, la quale però
risponda a un ap¬ pello interiore, a un’intensa aspirazione della coscienza.
Immanentismo (relìg.): è la teoria at¬ tribuita al clero modernista cattolico e
condannata dall’enciclica Pascendi ( 1907 ), pei duo principi! di cui conste¬
rebbe : - a) il sentimento religioso è un pro¬ dotto dell'attività interiore o
incoscien¬ te dello spirito ed ò il germe d’ogni re¬ ligione, che così apparo
un frutto pro¬ prio o spontaneo della natura; - b) Dio è immanente nell’uomo,
per¬ ciò la sua aziono si confonde con quella della natura e 11 sovrannaturale
viene eliminato. Immanenza (filosofia dell'— )(filos.): ò la dottrina di G.
Schuppe, secondo cui l’io, la coscienza ò il fatto primo, supcriore ad ogni
dubbio, irriducibile, e la pluralità delle cose di cui l’io è conscio è
l’oggetto inseparabile della coscienza, per cui ogni oggetto non pen¬ sato, non
presente al soggetto e da que¬ sto indipendente, è inconcepibile; ogni cosa è
solo in quanto è presente al sog¬ getto, in quanto entra nella sfera della sua
luce e della sua realtà (ossia è im¬ manente nella coscienza). Ciò non vuol
dire che il mondo sia nell'io, ma solo che l’io e il suo oggetto sono due mo¬
menti inscindibili d’uno stesso atto: • quando lo ho la sensazione d’un disco
rosso posto a nna.corta distanza o d’una data grandezza, ciò non vuol dire
altro so non che io ho coscienza di esso, clic esso è oggetto della mia
coscienza ». La realtà è perciò il contenuto della co¬ scienza. non dello
singole coscienze!, ma d’unti « coscienza generica >, che è il sog¬ getto
pensato nella sua perfezione c nella sua purezza, avente un’esistenza concreta
solo nello coscienze particolari. Immaterialismo (filo».): cosi deno¬ mina
Berkeley la propria filosofia, clic, opponendosi al materialismo del suo tempo,
vuol dimostrare resistenza reale delle sole idee e dell’anima e ri¬ duce la
materia a un complesso di idee, intese nel senso di processi psichici.
Immediato (opposto: medialo) (logica): ò immediata un’inferenza, quando il
passaggio da un giudizio a un altro, da una proposiziono a un’altra avviene
senza un termine medio, senza un terzo giudizio intermediario; p. e. dalla pro¬
posizione : ■ i triangoli sono poligoni », si deduce immediatamente: « alcuni
po¬ ligoni sono triangoli ». - (/ilo*.): è immediata la conoscenza che coglie
un'idea, un sentimento per via dirotta, intuitiva , senza passare per un
termine medio, come invece av¬ viene nella conoscenza discorsiva e ana¬ litica;
cosi Platone intuisce l’idea del Bello e del Bene, Cartesio il cogito ergo sum.
Immoralismo (/ ilos .): per Nietzsche designa l'aspirazione verso nuovi va¬
lori morali, cho si dovrebbero concre¬ tare nelle virtù forti ed eroiche del
su¬ peruomo (v. questo termine), e do¬ vrebbero sostituirsi ai vecchi valori,
soprattutto allo virtù umili e inclini alla rinunzia, esaltate dalla morale del
Cristianesimo. Immortalità (filo*, o velia.): è il so¬ pravvivere indefinito
dcU’anima al cor¬ po, conservando la propria individua¬ lità. La dottrina dell
'immortalità per¬ sonale è por la prima volta affermata con prove da Platone
(specialmente nel Fedone). - per Aristotele. ò immortale solo l 'intelletto
attiro (v. questo termine), che è la forma dell’anima ed entra in que¬ sta
dall’esterno. - per Kant l'immortalità dell’anima è un postulato della ragion
pratica ; è fondata sopra l'esigenza, por l’essere umano finito, di attuai*© la
perfezione morale In un progresso indefinito verso la santità. Imperativo
(morale): ò un comando, una norma obbligatoria che l’uomo deve imporre a se
stesso pel raggiungimento d’un fine. - Kant distingue due specie di impè* rat
ivi : a) ipotetici, che sono comandi condi¬ zionati, mezzi da servire a un
deter¬ minato fine, e sono regole d’abilità o consigli di prudenza; p.e.: sii
tempe¬ rante se vuoi vivere a lungo • ; b) categorici che comandano in modo
assoluto, incondizionato, non sono su¬ bordinati ad altro fine ed esprimono la
necessità dannazione, in quanto è buona in 60 stessa; sono norme razio¬ nali,
che esprimono la forma che deve rivestire un'azione per essere giudicata
Implicito — 53 — Indifferenza morale; provenendo dalla ragione, non
dall'esperienza, sono universali e ne¬ cessari ; p. e. : non mentire, avvenga
olio può . Implicito (opposto; esplicito) {logica): un’idea o un giudizio sono
impliciti.in un’altra idea o giudizio, se, affermati questi, sono affermati e
sottintesi quelli ; p. e.: essere ragionevole 6 implicito in uomo. Impressione
( filos.): ò il principio fon¬ damentale della dottrina di D. HUME, pel quale «
Bono impressioni le sensazio¬ ni, lo passioni, le emozioni elio compa¬ iono per
la prima volta nella coscienza . mentre le idee e lo rappresentazioni so¬ no
copie dello impressioni, ma più tenui o meno vivaci. Per Humc non v’è idea
senza impressione, non vi sono con¬ cetti a priori e non vi è metafisica.
Impulsione e impulsivo (dal lat. im¬ pellere = incitale; opposto: inibizione)
(psicvl.): esprime la tendenza sponta¬ nea e immediata all’azione. Un carat¬
tere è impulsivo quando passa dirotta- mente dalla concezione d’un atto alla
sua esecuzione; allora il potere inibi¬ torio agisce debolmente e noi casi pa¬
tologici è annullato (v. inibizione). Imputabilità (da,, lat. imputare = met¬
tere in conto, attribuire a qualcuno un atto) ( diritti> e morale): è 11
carattere d’un atto, die, trasgredendo la legge ci¬ vile o la legge morale, può
essere im¬ putato a una persona. Ha un aspetto og¬ gettivo, in quant o si
considerano gli unte- cedenti deiratto imputabile, cioè la persona agente, la
condiziono elio per¬ mette ad ossa di operare e la circostan¬ za, ossia
l’occasione più o meno favo¬ revole ad agire; e ha un aspetto sog¬ gettivo, che
è la libera decisione della volontà, l’aver agito consapevolmente e
liberamente. La responsabilità e la pena non sono necessariamente con¬ nesse
all'imputabilità, giacché le cause che diminuiscono il valore razionalo della
persona agente (p. e. la passione c l’ignorau/a invincibile), ne diminui¬ scono
pure e, in certi casi estremi, ne annullano la responsabilità. L’imputabilità
morale esige pjù par¬ ticolarmente l'apprezzamento morale dell’atto in
relaziono col valore morale della persona agente. Incondizionato (filos.): è
ciò che ha in sé la ragione del suo essere e, quindi, non sottosta ad alcuna
condizione; può quindi essere inteso come assoluto. Inconoscibile {filos.): è
ciò che, pur essendo reale, si sottrae ni nostri mezzi di conoscenza, ò un
assoluto che sta dietro i fenomeni; lo Spencer lo pone a fondamento della sua
dottrina (v. «- gnosticismo). Incosciente (opposto: cosciente) (psi- ’col.): si
dice dei processi psicologici (sensazioni, rappresentazioni, volizio¬ ni, ecc.)
che, pur essendo reali e attivi nel nostro interno, non sono avvertiti dalla
coscienza. -- Leibniz pel primo ha richiamato l’attenzione su questi processi
psichici oscuri (petites, insensitiva percepìurna), che costituiscono la vita
delia mona¬ de nel suo grado più basso: p. e. il movimento d’ogni singola onda
mari¬ na dà u na percezione debole, confusa, inavvertita, incosciente, e deve
fondersi coi movimenti delle altre ondo per es¬ sere percepito distintamente. -
- (filos.): pel tedesco Kdourdo Haht- maxx rineosciento è l'essenza del¬ la
realtà, un principio universale, do¬ vunque presento, attivo, intelligente,
manifostuntesi nella materia, nella vi¬ ta, nel pensiero; In se stesso ò sopra-
cosciente, per nói è incosciente; ò una sostunza operante, analoga alla volontà
ili Schopenhauer, itila quale l’inconscio deH’Hnrtmann ò sostituito come prin¬
cipio primo dell'essere o del dive¬ nire. Indetenninismo (opposto: determini¬
smo) (filos.): ò lu dottrina elio afferma la libertà del volere, per cui la
volontà non dipende nelle sue decisioni né da forze esterne, né da processi
interiori c mentali, non è determinata da cause, è dotata di spontaneità, lia
la facoltà di decidersi senza causa. - il Bol'tkoux o il Bergson esten- douo
questa spontaneità a tutta la re¬ altà, nella quale si possono rilevare novità,
creazioni, produzioni originali, elio il determinismo non riuscirebbe a
spiegare (v. contingenza ). Indifferenza (filos.): per Aiustippo di Cirene è
indifferente una sensazione clic non è né piacevole né dolorosa, para¬ gonabile
al mare in bonaccia., — (morale): per gli Stoici sono indif- rercnti, cioè
prive di valore pel saggio, le cose che non dipendono da noi, come la vita, la
morte, la salute, la malattia, la ricchezza, la povertà; la virtù è il solo
bene c il vizio il solo male. - per gli Scettici tutte le cose sono
indifferenti (àSldccpopa, da a priv. o àiacpépco = distinguo), perché l’uomo
conosco le coso come appaiono, non co¬ me sono in se stesse; quindi le cose
sono Indifferentiae — 51 — Ineffabile (.ulte no» differenti, cioè uguali, sono
pure apparenze. - per sk'UKmxu l’indiffcreuza è il ca- rattere del principio
supremo dcll’uni- verso, clic dove concepirsi indetermi¬ nato, comprendente in
sé. Indistinti, l’oggetto o il soggetto, la materia e lo spirito, o conciliante
in sé tutti 1 cou- lrasti e gli opposti: tale principio è la natura creatrice,
natura naturimi!, spi¬ rito clic diviene. Materia 0 spirito sono per lo
Schelling inni differenti, coinci¬ dono: la materia è spirito ohe sonnec¬ chia,
lo spirito è materia in formaziono (v. identità). Indifferentiae (libertini
artritrium) — ): v. arbitrio. Individualismo (opposto: universali¬ smo)
ifilos.): consiste nel concepire l’in¬ dividuo corno line a se stesso. Per que¬
sta dottrina tutte le forme sociali (la famiglia, l’associazione, lo Stato)
sono mezzi creati dall’individuo per lo svi¬ luppo dell’individuo, o la society
non è altro die un uggrnppumento d’indi¬ vidui. - (morale): è la dottrina per
cui ciò che piu importa è la formazione e il per¬ fezionamento morale dell'individuo,
o la società ha valore in quanto favorisco lo sviluppo morale indefinito della
per¬ sona umana, [ruiividualistica è la mo¬ rale di Kant. Individuazione
(principio di —) (Jat. mediev. : principi um individuai ionio) (filos.): nella
Scolastica 6 ciò che conferisce a un essere l’esistenza con¬ creta, determinata
nel tempo c nello spazio, cioè individuale. Questo prin¬ cipio è la nuitcria
per S. Tommaso, la e verità (haccccitas) per Duxs Scoto; per Leibniz è ciò che
fa si che un es¬ sere possieda non solamente un tipo speci fico, ma
un’esistenza singolare, concreta, determinata nel tempo o nello spazio e che lo
distinguo da tutti gli altri : por SCHOPENHAUER è il tempo e lo spazio, grazie
ai quali la volontà iti vi¬ vere, che ò il fondamento mota fisico della vita
universale, sempre identico a se stesso, si manifesta come diverso e molteplice
negli esseri individuali. Individuo (gr. &-to[AOV = indivisibile, che
Cicerone traduce con in-dividuum) (in generale): 6 ciò cho costituisce un tutto
determinato, concreto, distinto e distinguibile dagli esseri della stessa spe¬
cie (Boezio: dicitur irui irido um quoil (minino secavi non potrai, ut unitas
vet menu: dicitur id euiiis praedicatio in n- llqua similia non convenit, ut
Socrafes). - (filos.): individuo ò l'uomo iu quanto rappresenta un mondo a
parto o ri¬ flette in maniera particolare Putiiverso ; ò un microcosmo, cioò
una concentra¬ zione della realtà, del macris-osmo. Que¬ sta concezione risale
a Plotino o ri¬ compare in Nicola Cusano, in Giordano Bruno e in Leibniz.
Induzione (Ionica): in generale ò l’ope¬ razione che consiste nel passare da
fatti, affermazioni, proposizioni particolari o singolari a proposizioni e a
principi! generali. L’induzione ha duo forme: a) induzione perfetta, quella
aristo¬ telica, detta enumeratio prr/ccta, che da ciò che ò stato provato dello
singole parti d’un tutto procede al tutto stesso(v. epagoge): b) l’induzione
moderna, o enumcralio imper/ecta, cho vu dalla parte al tutto, da ciò che si ò
osservato in alcuni indi¬ vidui d’una classe a tutta la classe, è conclude con
Un principio gene¬ ralo, con una legge; ò divenuta un pro¬ cedimento comune
nella scienza dopo Bacone e Gallico; Stuart Mill vorrebbe che fosse riservato
il uomo d’induzione a questo solo procedimento. - (filos.): in che modo si
giustifica l’induzione come passaggio dalla parto al tutto 1 Alcuni ricorrono
al principio di causa: • qunudo lo stesso condizioni sono attuate in due
momenti diversi del tempo c in duo punti diversi dello spazio, gli stessi
fenomeni si riprodu¬ cono, mutando solo lo spazio o il tem¬ ilo • (PAINLEVÈ). -
pel Lacuki.ikh è fondata su duo principi, cioè sul principio di causa, In Virtù
del quale i fenomeni formano serie in cui l’esistenza del precedente determina
quella del seguente, e sul principio delle cause finali, per cui lo serie dei
fenomeni formano sistemi (co¬ me, p. e., specie e generi), nei quali l’idea del
tutto determina l'esistenza delie parti (p. e.; l'idea dell'uomo de¬ termina
l’esistenza dei singoli uomini). Questo secondo principio assicura l’or¬ dine
nella natura, il quale alla sua volta assicura la costanza delle leggi mecca¬
niche del movimento, ossia l'induzione stessa. - il fisico K. MACH considera l
iudu- ziono solo come un principio regolati co, un’ipotesi utile nello ricerche
scientifi¬ che, non un principio costitutivo e corto. Ineffabile (gr. SpprjTop.
7)11x4;). Che nasce, o muore col corpo, è illuminato dall’in¬ telletto attivo,
è materia rispetto a questo che è forma; Intellettualismo — 56 — Intelligibile
• ■ per Plotino emana direttamente dall’l/no, è intelletto universale, come poi
per G. Bruno, pel quale « esso em¬ pie il tutto, illumina l'universo, è fabro
del mondo », simile al demiurgo del Timeo platonico, che plasma il mondo
sensibile con rocchio fisso alle idee. -per Spinoza è la facoltà che ha la
nostra mente di collegare le idee in un ordine obbiettivo uguale per tutti,
mentre 1’ associazione psicologica le ordina secondo le affezioni del corpo,
collegato fra loro da rapporti nou neces¬ sari!, ma puramente accidentali e va¬
riabili ; -per Kant è la facolta di giudicare, cioè l'attività che subordina
rappresen- | tazioni diverse a un concetto unico, è l’organo delle categorie ,
che collega i fenomeni dati dalla sensibilità; - per Schopenhauer ò l’organo
che coordina le rappresentazioni mediante il principio di causa, la sola
categoria da lui ammessa. Intellettualismo (opposto: volontari¬ smo) ( filos
.): il termine ò di recente for¬ mazione e risale a Schelling, ma l’idea è
antica, e consiste nel subordinare alla ragione teoretica (vou?
&so>p7)Tixós di Aristotele) la ragione pratica (voo£ 7rpax?ixó$); ossia
nel porro il centro di gravità dell’esistenza umana nell'!zi¬ telle tto,
considerato come la sola fun¬ zione che le possa dare forza, calore, vita,
giudicando l’azione pratica come secondarla e subordinata al conoscere, c
affermando che le norme valide pel pensiero sono pure valide per le altre
attività vitali, il sentimento e la t*o- lontà. -I filosofi greci ci diurno un
esempio tipico dell’intellettualismo: convinti che l’uomo fa parte d’un cosmo
retto da leg¬ gi immutabili che lo circonda con la sua certezza c il suo
splendore, non vede¬ vano nulla di più grande della cono¬ scenza d’un tale
mondo (D-eopCa) me¬ diante l’intelletto (vouc). Con Socrate e Platone
l’intelletto diviene anche la guida sicura della condotta morale: non è
possibile fare il bene senza co¬ noscerlo, né è possibile che, conoscen¬ dolo,
non lo si faccia. -nei tempi moderni tipici rappresen¬ tanti
dell’intellettualismo sono Leib¬ niz, il qualo afferma essere il pensiero la
potenza fondamentale dell’anima, ed Hegel, pel quale l’universo è la ragione
realizzata, la realtà ultima è quella ac¬ cessibile al solo pensiero, e « lo
spirito è la causa del mondo « (v. volontarismn). -in senso peggiorativo ò 1
tendenza a rinchiudere la realtà vivente entro schomi rigidi e quadri
artificiali, che invece di riprodurla fedelmente la de¬ formano, toccando solo
la superficie del¬ le cose o disconoscendo le esigenze del sentimento e della
volontà. Intelligenza (psicol.): in generale equi¬ vale a «organo della
conoscenza» e quin¬ di compie tutte quello funzioni psico¬ logiche che
contribuiscono al cono¬ scere (percezione, associazione dello i- dee, memoria,
immaginazione, ragio¬ ne); suo operazioni importanti sono; distinguere e
generalizzare. -(filos.): per S. Tommaso l'intelligen¬ za è l’intelletto nella
sua effettiva at¬ tività: inteUigentia significai ipsum ac- tum inkllcclus qui
est intelligcrc ; -per Hpinoza ò l’attività mentale, es¬ senziale alla ragione:
nulla est via ra- tionalis sinc inteUigentia. - il Bergson contrappone
l’istinto e Tintuizione all’intelligenza : questa ha una funzione analitica,
discorsiva, vuol comprendere ciò che si sottrae al mec¬ canismi, ossia la vita
e lo spirito, me¬ diante le leggi meccaniche che gover¬ nano i corpi solidi;
perciò si lascia sfug¬ gire il carattere profondo e originale della vita e
dello spirito, che è dive¬ nire spontaneo, imprevedibile, crea¬ tore.
Intelligibile (gr. voyjtó$, da voéo = penso, comprendo con la mente; op¬ posto:
sensibile) (filos.): in generale in¬ dica ciò che può essere soltanto pen¬
sato, conosciuto dall’intelletto. - più particolarmente, l’ospresBione monito
intelligibile (xó; il Logos è Gesù, Il Verbo mediante il quale tutto è stato creato,
la luce che illumina ogni uomo, il figlio unico di £>io o Dio egli stesso;
xal ò Xóyos vjv Tcpò? ateòv, xal ?)V 6 Xóyo^ (il Verbo era presso Dio: e Dio
era il Verbo). La teologia cri¬ stiana interpreta il Logos come il verbo che
s’ò fatto carne nel figlio di Dio; è un mutamento importante nella sto¬ ria di
questo termine e, anche, del Cri¬ stianesimo. - per Filone d'Alessandria, il
logos è intermediario fra Dio e il mondo; per mezzo del verbo Dio é creatore
del mondo, ò il primogenito di Dio, un se¬ condo Dio, forza cosmica ordinatrice
del tutto; - per Plotino ò in generale ogni at¬ tività spirituale, e più
particolarmente l’immediata produzione dell’t’no, la seconda ipostasi, il V 0
U£» la ragiono che contiene in sé lo idee e da sé le produce: vosi và 6 vva xal
ucplaT7] vento. - questa ido» viene ripresa nei Rina¬ scimento e per N. Cusano
l'uomo ò un parvus munxtus, uno specchio, una quin¬ tessenza dell'universo,
poiché fra il grande e il piccolo cosmo i termini si corrispondono e abbondano
lo analogie. Magia: in gemcrale è una delle arti taumaturgiche occulte, assai
diffusa anche nel Rinascimento, la quale in¬ segna a conoscere le forzo segreto
della natura eglispiritiche in questa agi¬ scono, per trarli a vantaggio
dell’uomo con mezzi 0 pratiche occulte. - il poeta-filosofo tedesco Federico
Novaus ò Fautore cl’un idealismo ma¬ gico, per cui l’uomo può entrare in
rapporto di simpatia o d'azione diletta con l’universo, compiere l'unione mi¬
steriosa dell’io con la natura per via intuitiva: « l’artista, simile all’uomo
primitivo, ò un visionario; tutto gli ap¬ paro come spirito ». Maieutica (gr.
(xatsuTiXY) TéyvY] = For¬ te dell’ostetrica) (filos.): è il metodo seguito da
Socrate che, interrogando, fa scoprire a ciascuno la verità che egli porta in
sé: « hai sentito dir© che io son figlio d’una levatrice molto valente e seria,
Fenarete, o che m’occupo della stessa arte, ma con riguardo alle anime e non ai
corpi * 1 (Platone, Teeteto), Male (il problema del — ) (filos.): deriva dalla
difficoltà di conciliare resistenza d’un Dio buono o onnipotente con a presenza
del male nell’universo, sia che si consideri come male morale nel pec¬ cato,
sia come male metafisico nell’im¬ perfezione di tutte ie cose, sia come male
fisico. Tale problema si presentii soprattutto nelle religioni e nelle filo¬
sofie ottimistiche (v. manicheismo). - per lo Stoicismo il male, se è osser¬
vato non in sé ma in relazione ool tutto, dipende da condizioni posto perii
bene, o anche ò un mezzo per attuare un bene, oppure dipende dalla stoltezza
dell’uomo che disconosce le leggi della ragione cosmica e Berve alle passioni.
- per Plotino, seguito spesso dalla Scolastica, il male ò pura apparenza,
perché colpisce Bolo l’uomo empirico che vive tutto nel mondo esteriore e
Manicheismo Meccanica por i boui materiali, non l’anima olio s’elevi,
purificata, nella sfera della ra¬ gione o dell’Uno. - Leibniz afferma la
superiorità del bene sul male nel mondo, il quale nel 1 suo insieme ò un’opera
buona, prefe¬ ribile al nulla. Anche VIlluminismo ò ottimistico. Manicheismo
(relig.): dottrina fon¬ data da Mani, persiano del III sec. d. Or., che vuol
spiegare il mondo con la lotta frtt duo potenze sovrane e in¬ finite, di cui la
prima ò il Principe della luce, la causa o l’essenza del bene, l’altra il
Principe delle tenebre, la causa e la sostanza del male. s. Agostino pro¬ fessò
tale dottrina nella sua gioventù. Massima {morale): per Kant ò il prin¬ cipio
soggettivo del volere, norma di condotta elio l’uomo si dà come valida per la
sua volontà, senza riferirsi ad altre persone. Materia (opposto: spirito) (,
filos .): per Platone è qualcosa di rozzo, di rosi- stente e di ostile allo
spirito, il quale non riesce a dominarla interamente. -per Aristotele ò una
realtà Inde¬ terminata e inerte, ohe riceve deter¬ minazione e vita accogliendo
la forma (v. questo termine), alla quale si a- datta e la, serve docile,
essendo a ciò predispostadalla stessa natura: è la potenza di ciò che, grazie
alla forma, è tradotto in atto; p. e. il marmo ri¬ spetto alla statua. ■-per
Cartesio ò la rea extensa, essendo l’estensione la sola qualità del corpo la
quale si presenti a noi chiara e di¬ stinta ; è retta da leggi meccaniche, e lo
stesso corpo umano è una macchina, benché mirabilmente foggiata. - nei tempi
moderni o s’ammette resi¬ stenza d’uria materia distinta dalla for¬ za e se ne
ha una concezione meccanica, come in Cartesio; oppure materia ed energia si
identificano, o allora se ne ha una concezione dinamica, come in Leibniz; nel
primo caso la causa del movimento ò esteriore, nel secondo è interiore e opera
dall’interno verso l’e¬ sterno. Materialismo (opposto: spirUualismoy {filos.):
ò la dottrina che considera la materia come l’unic a sostanza o il prin¬ cipio
primo dell’universo, concepito co¬ inè una molteplicità di corpi posti
nellospazio e accessibili ai sensi. Si presenta sot to diversi aspetti, per la
difficoltà di spiegare* l’esistenza dello spirito: a) nella forma 'attributiva
Io spirito è considerato un attributo, una qua¬ lità inerente alla materia,,
che appare animata, come nei Presocratici, ma¬ terialisti inconsapevoli; b)
nella forma causale lo spirito è un effetto della materia, à un epifenomeno
dell’attività cerebrale, o anche l’insie¬ me dello reazioni clolTorganisnto
cor¬ poreo: «E la coscienza, come il pen¬ siero, è un prodotto della materia «
(B Corner); c) nella forma equaliva i processi psi¬ chici sono pensati come
materiali nella loro essenza, crjuali essenzialmente agli elementi materiali;
per Democrito, mi cs., 1’anima consta di atomi lisci, ro¬ tondi. simili u
quelli del fuoco. Materialismo storico (filos.): Marx ed Engels, asserendo che
l'uomo, nella sua essenza, é un essere che ha fame e sete, ha bisogno di
nutrirsi, di vestirsi, in una parola subisce un certo numero di necessità
vitali e dipende in ogni istante dolla sua vita dai mezzi atti a soddisfarle,
cioè dai mezzi cconsnnici , materiali, deducono che il fattore eco¬ nomico
determina, in maniera pili o meno visibile, ina reale e decisiva, ogni ‘ nostra
azione; quindi bisogna dire, con¬ tro Ìidealismo classico, specialmente di
Hegel, che non l’attività dello spirito ma le condizioni materiali d’esistenza
sono gli organi- c 1 motori della storia, elio la produzione economica genera e
domina il fenomeno giuridico, politico, morale, e, iu qualche modo, anche quel¬
lo religioso, intellettuale, artistico. Que¬ sta dottrina viene anello detta
deter¬ minismo economico, che però non esclu¬ de un’azione dello spirito sulle
condi¬ zioni materiali della vita. Meccanica (opposto: dinamica ; gr. rj
(i.y)/avtx.7) 'ziyyrr = l'arte di compor macchine ponendo a profitto Io forze
della natura): in venerale è là teoria che spiega la formazione della natura in
maniera analoga dlle opere dell’uo- mo, benché la natura operi con mnggior
finezza dell’uomo (Aristotele). - (filos.): l’idea di meccanismo dalla fisica
s’estende a tutti i gradi della realtà, dando luogo a una teoria mec¬ canica
del mondo, che appare per la, prima volta nell’. 4 tomTsfica di Demo¬ crito :
Il mondo, così vario e muta¬ bile, ò sempre e dovunque lo stesso, giacché ogni
cangiamento dipendo dal fatto che il substrato materiale é sog¬ getto a
movimenti d’ogni sorta, c tutti i fenomeni si succedono obbedendo al principio
di causa, non esclusi i feno¬ meni psichici, che, seguendo le leggi Mediato —
(in — Metempirico dcHVwffWwciofli’ delle idee, si ntlrng- , sono o si
respingono, veri àtomi psì-r. chic!, come irli atomi Usici ; questa teoria lia
li carattere d'nn deiermintomo uni- versale. • ,_ n Laplacp: cosi formula la
conse¬ gui n/.a di tale teoria: Un’intelligenza elio conoscesse tutto le forze
onde è animata la natura c la posizione ri¬ spettiva degli esseri che la
compon¬ gono, so poi fosso cosi vasta da poter nssoggettaro questi fatti
all’analisi, comprenderebbe in un’unica formula i moti dei più grandi corpi
dell’uni¬ verso o quelli delPatomo più leggero; nulla sarebbe incerto o
l’avvenire come il passato sarebbe presento ai suoi oc¬ chi ». Mediato
(ragionamento) (Apposto: immediato) (logica): è la forma di ragio¬ namento che
consisto nel passare da un giudizio a un altro mediante un terzo giudizio; p.
e. f il sillogismo. Medio (logica): è nel sillogismo il ter¬ mino che serve per
eollcgaro il termine maggiore col minore: p. e. mortale si collogu a Sacrale,
mediante uomo, nel sillogismo: • l’uomo è mortalo; Socrate è uomo ; dunque
Socrate è mortale », Memoria (psicol.): ò la funzione psico¬ logica clic
consiste nel fatto che i pro¬ cessi psichici giù vissuti si conservano e si ri
presentano nella coscienza, quindi vengono riconosciuti come ricordi, o localizzati,
cioè riferiti al passato non in generalo, ma in un punto preciso, (ora, luogo,
circostanze); se quest’ul¬ timo carattere manca, si ha solo una reminiscenza. -
si ha memoria affettiva quando con la rappresentazione si rivive più o meno
intensamente lo stato affettivo, il sentimento che da essa fu determi¬ nato. -
: (filo 8 .): il Bergson distingue: a) una memoria abitudine, per la quale il
pas¬ sato sopravvive In un sistema di mo¬ vimenti; s’acquista con la
ripetizione, servo all’azione, è localizzata nel si¬ stema nervoso; b) una
memoria pura, in cui il passato sopravvive in ricordi indipendenti di fatti
onici, che non sì ripetono mai nello stesso modo, per¬ ché neirintcrvallo fra
il processo psi¬ chico originale e il suo richiamo l’io è mutato; il processo
integrale non è quin¬ di piìi lo stesso, perché rappresenta uno «tato d’animo
unico, che non toma più. Questa memoria è indipendente dal corpo: la prima ha
carattere mecca¬ nico, la seconda dinamico. Metafisica ffilos.): nella storia
del (or¬ mino è già abbozzato il significato: Andronico di Rodi (I sec. d.
Cr.),nel- l‘ordinare Io opero d’Aristotelo, collocò gli scritti ri f cren tisi
alla filosofia prima it:?cót 7] 91X0009ta) dopo quelli ri- ferontisi alla
filosofia naturale (và yvai'/.óc.): quindi la filosofìa prima (quel¬ la che ha
per oggetto la realtà ultima e l’essenza immutabile di tutte le coso) fu detta
và [xsvà và 9omxà, ossia u/7)v = al di là della psiche) ( psicol.) : è il nome
dato da C. Richkt, nel 1911 , a quel ramo della psicologia che tratta dei
processi psichici rari e anormali, come la telepatia, la divinazione, la
chiaro¬ veggenza, che dovrebbero rivelare fa¬ coltà psichiche ancora ignorate 0
co¬ stituire una nuova scienza. Metempirico (film): è ciò che sta fuori dei
limiti dell'esperienza. Metempsicosi 04 — Mito Metempsicosi (gr. — lctt.,
trans-animazione;) (filos. o re¬ titi.): ò la dottrina antichissima, sorta in
Oriente, giti nota a Pitagora c ac¬ colta da Platone, la quale ammette il
trapasso dell’anima da un corpo al¬ l’altro, per cui una stessa anima pn
successivamente dar vita a pia corpi, sia umani, sia animali, o anche vegetali.
Metessi (gr. [lébcV-t = partecipazione, da uET-é/m = partecipo) (/ilos.). e !
pensata dà Platone per spiegare 1 rapporto fra le idee c le cose sensibll , i
che sarebbero una «partecipazione, di quelle. Viene usata anche dal GIOBERTI I
ì u significato nillne per chiarire il rap¬ porto fra l’Idea, l’Ente, la
divinità, e l’esistente, il mondo; è intermediaria fra l’atto creatore c il suo
effetto, è partecipazione degli esistenti alla real¬ tà originaria dell’Ente,
per cui gli esi¬ stenti imperfetti, cioè gli esseri umani, aspirano alla
perfezione dell’Ente. Metodo (gr. uéDoSoc, da o 684 ? = via; quasi: in via)
(ionica): esprime l’Indagine e audio i mezzi per compierla, i procedimenti col
quali si ordinano e si estendono lo cognizioni; donde: ._1 ) il metodo
sistematico (dal gr. cr'-> v fomiti = raccolgo con ordino), che in¬ dica lo
norme con le quali il sapere viene ordinato; p. o. la dassWcazionc : _ 2) il
metodo inventivo, che offre l procedimenti col quali dallo cognizioni note si
passa a quello Ignorate; p. e. )■ induzione. _ Il metodo inventivo si suddivido
alla sua volta in: _n) metodo induttivo, che da le nonne per tra ire
dall’osservazione dei fatti lo leggi che li reggono, per estendere a tutta una
classe di fenomeni elo che si è constatato in alcuni casi ’ omerale e
narrazione favolosa ta cui esseri Impersonali, p. e. 1# forzo del natura,
vengono personificati per spie¬ gare simbolicamente fenomeni e av- Modalità 85
Movimento veni menti ; noi tempi uniteli! costituì* scolio II fondo delie
credenze religiose. -- (filos.): per Platone è una narra- * ziono fantastica di
ciò clic può avve- nire al .il li dei limiti dell'esperienza e della ragiono;
p. e. le vicende del¬ l'anima dopo la morte: dove termina l’ufficio delia
ragione, supplisce li mito o il Himbolo, come nel (forvia, nel Fe¬ ttoni’. nel
Fedro, nella Repubblica: di¬ mostrata razionai monto l’immortalità (loirauima,
si può favoleggiare iito&o- Aoysìv) intorno al destino dell’uomo dopo la
morte. __ ()(rs | por mito s'intende anche un’idea fondata sull'intuizione o la
fede, che può divenire il sostegno o il motore interno (l’un movimento
politico, so¬ ciale o religioso (p. o. li mito della razza). Costruito, almeno
in parte, su elementi fantastici, trae 11 suo valore dalle conseguenze più o
meno buone, più o meno utili, non dal suo contenuto di verità, «Difforme alla
dottrina prag¬ matistica (v. pragmatismo). Modalità {Ionica): b per Kant la fun¬
zione dei giudizi, fondata sul valore della copula; essi sono problematici, as¬
sertori, apodittici, serondocl»! la rela¬ zione «'enuncia come possibile, come
e- sistente nella realtà, come necessaria: le formule rispettivo cono: può
essere, è, deeVsscrc. Modo (filos.): per Spinoza i modi sono affezioni, cioè
gli stati, le modi ttoazioni transitorie della sostanza, sono sii esseri
particolari o Uniti; p. o. le idee sono modi della res rogitans, i corpi della
res extensa, cioè degli attributi della so¬ stanza. —— per Locke 1 modi sono
una classe di idee coniposte, che sono o idee di azioni umane (p. cs. :
uccisione), o modi di comportarsi (p. c. gratitudine), op¬ pure modi di essere
(p. e. triangolo, che è un modo di essere dello spazio). Monade ter. uovi; = l’unità,
il sem¬ plice) Oilos.ì: al dire d*Aristotele i Pi¬ tagorici pensavano i corpi
composti di pimti, « di monadi che hanno posto nel¬ lo spazio ». -per (ì. Bruno
minimo, punto, atomo, monade dicono la stessa cosa, cioè un primum indivisibile
delle cose, che è insieme corpo c anima, sostanza mate- aie e centro di forze
vivente e ani¬ mato. — per Leibniz le monadi sono sostanze spirituali seni
[ilici, chiuse in sé, - senza porte nò fi nestr e -, dotate (l’appetizione e di
percezione, veri punti metafisici, M'spn retiia nti ciascuna l'unlrcnp, di¬
sposti in gradi ascendenti, che vanno dalla più bassa, ancora inconscia, alla
più alta, Dio, monade delle monadi. Monadismo "(/iTós.): si ilice dei
sistemi dinamici cito pensano il mondo formato di monadi spirituali, in
opposizione al¬ l’atomismo meccanico di Domocrito; tale la dottrina di (I.
Bruno e di Leib- NIZ. Monismo (gr. fióvo? - unico) (oppo¬ sti: dualismo c
pluralismo) (filos. ) : è la dottrina checonsidera la natura e lo spirito. Il
corpo e l’anima subordinati a un terzo principio o aliasi inseriti .in esso. Il
Tooco ne distingue duo specie: - a) monismo dell'essere: ammette un solo essere
e considera la molteplicità delio cose un'illusione (corno gli Klea- Ttcì), o
almeno come accidente fugge¬ vole dell’unica sostanzaicomeSi’iNOZA) ; - 6)
monismo della qualità.: all’essere unico sostituisce una pluralità origi¬ narla
di esseri, tutti però della stessa natura, materiale per gli uni (gli Ato¬
misti), spininole, per gli altri (Leibniz). Monoteismo (opposto: politeismo)
(re¬ titi.): indica lo religioni cito, come il Cristianesimo, il Giudaismo, il
Mao¬ mettismo, ammettono un solo Dio, di¬ stinto dui mondo. In tllosotla il Dio
di Platone e d’AiusTOTEt.E rientra in questo sistema. Morale = v. etica.
Moralismo (filos.): si applica alle dot¬ trine filoso Urbe che, come quella del
FICHTE, considerano la legge morale e l’esigenza dell’azione pratica corno
prin¬ cipio filosofico fondamentale. Motivo (dal lat. morrò) (morale): si dice
(Fogni processo intellettuale o affettivo che muove la volontà a compiere ttu
determinato atto. La norma indica una direzione da seguire, il motivo ngisee
stilla porsona in modo più o meno im¬ perativo, perché segua tale direzione e
sia persuaso a seguirla. Motrice (causa) = v. efflcentc (causa). Movimento (in
generale): è fi cambia¬ mento di posizione d'ttn corpo nello spazio,
considerato In funzione del tem¬ po e, quindi, fornito d'una determinata
velocità; fi semplice mutamento nello spazio è uno spostamento. - (filos.): per
.Aristotele è fi passag¬ gio da uno stato a un altro, è ogni mu¬ tamento
((ArratpoXYj), elio suppone l’e¬ sistenza di una materia cnpnee di ri¬ ceverò
una forma. ; quindi è ugualmente fi passaggio dalla potenza (S'iva|Als) al¬
l'atto (ivépys tal. Nativismo — Cd — Neo-hegelismo -S. I ommaso accetta la
concezione aristotelica (moneti est cri re de txilintiii '«tinnì e. conio
Aristotele, voile nel movimento un tierstuiNlvo ui-gomcnto n prova
dell'esistenza di Ilio: |.er spie- gare il niovimontn c rieereurne la eati.su,
bisogna passare di causa in causa, es¬ sendo ogni movimento prodotto da un
altro movimento, ina è necessario arre¬ starsi tavàyxv; trrijvat) a un primo
motore immobili cri y.tvoòv àz.tvyj-rov), a Din. che muovo l'universo come
l'og¬ getto umilio attrae colui che l'ama, co- me il desiderio agisce
sull'anima per una sollecitazione tutta interiore. N ' ' Nativismo - v.
innatismo. Natura (gì. (piiai.; da =
nascnr) (fylos.): nel senso piti antico esprime l'idea d una sostanza
primordiale diesi determina e si sviluppa da sé. l’idea di dò che ò primario,
persistente, in oppo¬ sizione a ciò elle è derivato, seconda¬ rio, transitorio.
Tale significato ha nei tirimi filosofi greci: e di riui i significati sorti in
seguito. - è il complesso delle qualità o pro¬ prietà elio definiscono
l’essenza d’una «•osa, quindi anche tutto ciò ohe è In¬ nato: p. c. la natura
d'un uomo, cioè il suo carattere e il suo temperamento. denota le cose conio
sarebbero al di fuori d ogni intervento umano: cosi pel Rocsseai: lo „ stato di
natura è quel fondo della lealtà umana elle resto dopo aver eliminate le
deforma¬ zioni e le falsificazioni operatevi dalla civiltà, ossia ciò che è
semplice, piano spontaneo, originarlo. denota 11 sistema totale delie cose con
le loro proprietà, l'insieme di tutto Ciu die esiste, in una parola, l’universo
- in Kant natura è ciò che obbedisce al principio di causa nel mondo dei fe¬
nomeni, in opposizione al mondo dei lini in cui vige la liberto incondizionato.
~ ( rehy.): 1 ordine della natura, cioè I ordine delle cose terrene,
accessibile alla sola indagine della ragione viene opposto all'ordine della
prozio, che è 1 ordine delle cose soprannaturali e di- \j n *' tvistotele
adombra questa distinzione nelle parole: r, oótitc Szt- [tovia aÀ>, oli
lista = la natura è am- mfrevole. ma non divina (v. prozio). Natura naturans e
natura natu¬ rata ( film .): natura naturans è, in so¬ stanza, Ulti come untore
e principio d ogni cosa; natura naturata c l'Insieme delle creatura o di tutto
ciò clic ò stato creato: espressioni adoperato dalia Nro- lastira, da li. ltm
.vi, e da Spinoza, chc le rese comuni: per naturalo naturati- lem noèta
intcìlìqenduiii est i,l (Juw i tn se est et im i- se etnicipitur. tuu • est
j> eU s quatcnu» ut causa libera eonsidrratur- per naturatali t inielli,,,,...
rrs , /uae ff * Dea sani et quac si,,,- tira nei- esse nec connpt possunt •
Naturalismo (/Kos.): comprende le dot- trine che non ricorrono a prlncipli tra¬
scendenti, ma rimangono entro la cer¬ ehia dell’esperienza e ilei fenomeni sog¬
getti al principio di causa o concepi¬ scono anche la vita dello spirilo come
un prolungamento della vita organica- si oppone a spiritualismo, idealismo' eti
e lift)no a positivi tot io. Necessario (opposto: conti geni) Ui • bis.): si
dice di ciò che non può, senza contraddizione, essere altrimenti né essere
pensato altrimenti da quello cUc o; cosi Hi applica ai fenomeni elio si
succedono secondo il principio di causa,, alio proposizioni derivate, im¬
plicito In proposizioni piò generali', alle conseguenze di principi! posti come
veri. ■ per Spinoza Dio è un essere neces¬ sario, ma la necessità In virtù
della quale egli esiste e produce io cose gli e essenzialmente Interiore e
razionale. deriva didla sua, stessa essenza, e Dio e causa sui; ò determinalo
ad agire- dal¬ ia sua soia natura, o quindi la sua ò una • necessità libera», t
ecessità, (opposto: eunt inpenza ) ( fi. bis.): e la qualità asti-alta di ciò
elle è ruressario, di ciò che non può essere diverso da ciò elio è.
Neo-criticismo o neo-kantismo i/i- fos.t: ò la dottrina elio Iniziò in Oer-
munia il movimento tU ritorno alla Hlosotta di Kant, al criticismo, verso il
ISOO, come reazione al materialismo allora dominante; riprende i principi della
teoria kantiana delia conoscenza il relativismo, è ostile alla metafisica c all
idea della rosa in . e vuol ilare alle /unzioni aprioristiche dello spirito un
fondamento psicologico. In Italia furono neo-kantiani. In vario modo. ««•
-rir:" .Ielle idee penerfllt. e.n n^ gplrlto; r„ a òn
mtirskb^eoncepire^td^ di nò curvilineo, ne rettilineo, i nit0 '-srìxssns*-
nSTSU™ e ' - si) Atomisti tutta la
realtà Ita duo parti, lo kikizìo pieno occupato dagli atomi, o lo spazio vuoto
eho rosi 6 concepito altrettanto renio quanto I corpi. --per Hegel il non
essere è l'Idea eho nella prima triade dialettica (v. dialet¬ tica) fa da
antitesi all'idea dell’essere (tesi) o con Questa si fondo nella sin¬ tesi del
divenire; e poiché l'essere è l'idea più semplice, più astratta, inde¬
terminatissima c priva ili contenuto, ma è pur sempre un’affermazione po¬
sitiva del pensiero, è • in realtà non essere, non piti e meno di nulla ». cioè
la negazione d’ogni qualità e d’ognl contenuto positivo (s. essere). Non io: v.
io. Norma: modello concreto o anello re¬ gola che indica ciò eho si deve fare
por raggiungete un dato line; vi sono nonno Illiriche, etiche, estetiche eoe.
Normale: in generale designa ciò eho è conforme alla regola, ciò che è più
comune in ogni singola categoria o classe, ciò che rappresenta in media in un
dato tipo eli società e In un dato tempo; quindi ò un termine variabile e un
po’ vago. Normativo: diconsl spesso normativo la logica, l’etica, l'estetica in
quanto offrono una norma, cioè un modello ideale cui si guarda come a qualche
cosa di perfetto, elle per la logica è il vero, per l'etica il bene, per
l’estetica Il hello (WtiNPT). Noumeno (dal platonico voo>i(jtevov, part. di
voéio = penso, quindi: ciò che è pensato) (/t'ios.): Platone lo ap¬ plica al
mondo delle ideo, in opposi¬ zione al mondo sensibllo. - Kant l’adopera in due
significati: a) negativo: ò ciò che sta a fondamento dei fenomeni, il loro
substratum ; ma ò soltanto pensato, ed ò inaccessibile sia ai sensi, sia
all’intelletto; perciò è un limite 'posto alla conoscenza umana, clic non può
oltrepassare i feno¬ meni; b) positiva: è il sovrnsensibilc, l'incondizionato,
posto fuori dell’espe¬ rienza; può essere oggetto d’ima intui¬ zione
intellettuale (v. intuizione), hi quale però è negata itll’uomo; ha un
carattere metafisico, giacché 6 bensì la causa dei fenomeni, ma la causa¬ lità
è qui non una categoria dell’Intel¬ letto, sditene una causalità Intelligibile,
cioè esistente solo nell’ordine metafisico, ni di là dei fenomeni. Nous (gr.
voù; = la mente) (fitta.): per Anassagora è ciò che mette in moto, plasma e
ordina le otneonicrie.; ò un principio lntelllgcnto, «la più sottile o più pura
di tutte lo cose ». - per Platone e Aristotele ò la par¬ te razionale
dell’anima umana; per Plo¬ tino è la prima emanazione dell’Ctno ( v.
intelletto). Nulla (/ilos,): è la negazione doll'essere, lutto non essere (v.
questo tcrmiue). Parmenide ha posto l’essere come prin¬ cipio primo della
filosofìa o ha negato qualsiasi realtà al non essere: « soltanto l’essere è, il
non essere non 6 ». Invece Platone ammette la realtà del non essere, eho per
Itd è la materia soggetta al divenire; mentre per Democrito ò il vuoto (to
xevóv), in cui avviene la caduta degli atomi. Numero ( filos .): per Pitagora e
per i suoi seguaci è la vera essenza delle coso, per cui gli elementi dei
numeri sono gli elementi dello cose, c il coseno é nu¬ mero e armonia.
Aristotele dico pure che pei Pitagorici i numeri sono i mo¬ delli che le cose
imitano, e questo rap¬ porto fra i numeri e le cose ita ispirato evidentemente
Platone, clic consi¬ dera la matematica conte propedoutiea noeossnria alla
dialettica, cioè alla in¬ tuizione delle idee, modelli delle coso sensibili.
per Galileo la matematica ò II lin¬ guaggio coi quale s’esprimo la natura: » 1
universo è scritto in lingua maternn- t'ca e i caratteri sono triangoli, cerchi
e altre figure, senza i quali mezzi ò dif¬ ficile intenderne umanamente parola,
ò un aggirarsi vanamente in un oscuro labirinto » (Il Saggiatore). La formula
matematica divionc, dopo Galilei, l'e¬ spressione esatta dalia legge fisica. o
Obbiettità (filos.): per Schopenhauer, che ha coniato questo termine ( Obiek■
tildi), i] corpo è l’obbiettivarsl, cioè la manifestazione esteriori?,
visibile, e, per I uomo, (tura e semplice rappresenta¬ zione, della volontà che
è concepita co¬ me forza c imput-n cieco, sempre at¬ tivo, non guidato da
alcuna ragione, ed è poi il principio metafisico posto a fondamento
dell’universo. Questo uni¬ verso non è altro cito Voggcttità, l’ap- 1 mrire
all’esterno — sotto forma di rap¬ presentazioni coordinato dalla catego¬ ria di
causa («il mondo ò la mia rap¬ presentazione ») — della volontà cosi intesa.
Obbligazione — 69 — Ontologia Obbligazione (morale): è il carattere imperativo
che costituisco la forma del¬ la legge morale, donde la consapevo¬ lezza
d’un'obbodieuza incondizionata ad una norma inorale, il sentirei inte¬
riormente legati a una determinata re¬ gola di condotta (sentimento del
dovere), per cui si prova inquietudine e dolore quando essa viene in qualche
modo contrariata o impedita nel suo libero svolgimento. Occasionalismo: v.
cause occasionali. Occultismo: comprende le arti che, crome le divinatorie,
apprendono a sco¬ prire 11 futuro, o, come le taumaturgi- che, apprendono il
compimento di atti che si sottraggono al corso ordinario della natura (v.
magìa). Oggettivo (opposto: soggettivo) (in ge¬ nerale): è ciò che ò posto di
fronte o davanti allo spirito o ai sensi e può offrire materia alla loro attivi
tei : ò im- pl cita pertanto una distinzione fra sog¬ getto e oggetto, cioè fra
l’atto del pen¬ sare o ciò che è peusato, fra chi perce¬ pisco e ciò che ò
percepito. - nella scienza ò oggettivo ciò che il lavoro elei pensiero trae
dall'osserva¬ zione c dall’esperienza, seguendo 1 me¬ todi del l’indagine
scientifica; ò sogget¬ tivo ciò che l’individuo pensa e sente riferendosi alle
sue Inclinazioni, alle sue preferenze, ai suoi interessi, in , modo più o mono
consapevole. - (filos.): per Duxs Scoto, Cartesio o Berkeley è oggettivo,
esiste ogget¬ tivamente, ciò che costituisco un’idea, cioè l’oggetto di una
rappresentazione dello spirito, non una realtà sussistente per sé e
indipendente «mentre subiecti- mis e formalis corrispondo a reale, a ciò elio
appartiene all’oggetto). -per Kant ha validità oggettiva tutto ciò che è
fondato sui principi costitu¬ tivi dello spirito umano e comuni a tutti gli
uomini, e cioè sullo forme pure della sensibilità (spazio e tempo) e su quelle
dell’intelletto (categorie). Ogg e tt° (gr- àvTi-xsi{X£VOV, traduz. lat.:
ob-iectum posto di fronte agli occhi o allo spirito, opposto: soggetto): ciò
che si ha presente nella percezione esterna o nel pensiero, con un certo grado
di consapevolezza. - (filos.): ciò che possiede un’esistenza in sé,
indipendente dalla conoscenza che esseri pensanti possono averne; in que¬ sto
senso lo spazio per Newton è og¬ getto. come lo ò il mondo esterno per il
realismo conoscitivo (v. realismo), e per Kant il noumeno positivo (v.
noumeno). - ò tutto ciò che è rappresentato o pensato solo in quanto lo si
distinguo dall’atto col quale lo si pensa: donde la « logge UgUu coscienza »
espressa dal Fichte e accolta da Schopenhauer: • senza soggetto non v*ò
oggetto, sen¬ za oggetto non v’è soggetto ». Oligarchia; governo di pochi: è,
per Aristotele, forma corrotta dell’aristo¬ crazia (v. democrazia). Omeomerie
(gr. ó{xoio(jtipeiat da 6{XOioc; = simile e [iipo$ = parte) (filos.): così
denominò Aristotele lo particelle originarie, impercettibili, divisibili al-
l’inttnito, clic Anassagora considera co¬ me gli elementi primi, tutti diversi
di qualità, dapprima mescolati insieme, che costituiscono l’universo o le sin¬
gole cose, essendo innumerevoli lo loro differenze qualitativo: « come il ca¬
pello può derivare da ciò che non è capello e la carne da ciò che non è carne?
». Affinché l’animale abbia car¬ ne, ossa, capelli, bisogna che vi siano
particelle di carne, ossa, capelli negli alimenti di cui esso si nutre. Il
tutto ha, insomma, la stessa natura delle parti che lo compongono: di qui
appunto il nome di ^)meomerle (= parti simili) dato agli elementi primi. Questi
costi¬ tuiscono l’Essere immutabile, eterno, che viene messo In moto, ordinato
o distinto dall’inteUlgenza (voo^), «lapiu pura o la piu sottile di tutte le
coso », con un’azione separatrice che si esercita sugli clementi, cioè sulle
omeomerie. Omogeneo (opposto: eterogeneo) (filos.): ciò che consta di parti
qualitativamente identiche. K. Spencer spiega l’evolu¬ zione cosmica come un
passaggio dal¬ l’omogeneo all ‘eterogeneo (v. evoluzione ). Ontogenesi (dal gr.
6v = ente o yé- vsai? = origine) (scienza): è lo svilup¬ po sia fìsico sia
mentale dell'individuo, seguito dalla prima Infanzia fino al pieno sviluppo,
mentre la filogenesi (gr. * 6 per gli stoici la rinvolta ,eseguente
aU’èxiwpcotn;, oioe alla conflagrazione del coamo (v. ritorno Panenteismo (gr.
nàv b ta? = tutto in Dio) (/ilo».)', nome dato (lai tedesco ' KuitnsB alla sua
musetta, e ap- nttcabile a quella di Spinoza, por In¬ diano che non Dio è nel
inondo, come nel panteismo stoico, ma il mondo è in Dio. è contenuto In Dio.
Panlogismo (gr. itSv = tutto. Xójo, _ ragione; tutto è ragiono) (/ito».). si
applica alla tilosotla di HEGEL, pel quale l'universo è sviluppo totero- ,rione
Immanente in esso, e la uglui è una metafisica. Se Vè ancora dell ir razionale,
ossia qualche cosa che non sia ancora penetrato dalla ragione*) organizzato In
concetti, esso è trans! torio; dondo la formula; ciò che t ra¬ zionale è reale,
e ciò che è reale è ramo naie (vedi razionale). _ Panpsichismo (gr. Ttav =
tutte, e .S.jyr, = anima; tutto ò anima) V'tos.)- dottrina alquanto vaga, seoondola
quale tutto è animato in divorai grad e fornito d'un'attivitè. analoga alla
vita psicologica dell'uomo, comprenden¬ dovi anche i processi incoscienti,. si
la questo nome alla dottrina dogli /to- coisti onci (che però non fanno :ancom
distinzione fra materia e vita), degli Stoici, di Sfingea, di se, eluso. di
Lotze occ. , _ Panteismo (gr- iwtv = tutto e uso, Dio; tutto ò Dio) i/ilos.): ò
in generale la dottrina che identifica Dio eoi mon¬ do. c concepisce la
divinità come un principio supremo d’uniftoazione o d vita che fa sentire la
sua azione nello cose tutte o ne costituisce la realtà es- Bezusiale. _ _per
«li Stoici il cosmo e un prmndo organismo vivente, tutto penetrato e animato
dal soffio divino, simboleg¬ giato nel fuoco, cioè da una sostanza eterea.
Impercettibile o intelligente. _per li. Bruno il principio divino dii vita al
tutto, lo ordina e l'u- nillca. C r anima dol inondo. (V. que¬ sto termino).
_per Spinoza, la sostanza. Din, la natura (substant ia sive De un si ve na-
tura) sono termini d'identico valore; però Dio non coincido col mondo cui
pirico, come negli Stoici, uiu lo con¬ tiene in sé (V. panentns.nor. il
pensiero e l'estcnsiono sono due dei suol muniti attributi c tutte lo cose
particolari (l modi) sono determinazioni provvisorio di quegli attributi. ....
Parallelismo psicofisico (pstool.). teoria psicologica, secondo hi quale la
serio dei processi psichici corrisponde punto per punto, alla serie del
processi fisiologici, noi senso che od ogni reno meno psicologia) corrisponde
un feno¬ meno nervoso (non però viceversa). 1 due fenomeni sono pertanto come
due aspetti dello stessa esperienza; le due serie, psichica o nervoso, scorrono
pa- — "f/OM )'• per Spinoza il corpo e lo spirito (ree ectenia e ree
rag.fan» sono due aspetti diversi ed essenziali dello stesso essere, cioè della
sostanza divina, la serie dei processi corporei e quella dei processi
spirituali si svolgono cia¬ scuna lu so stessa, senza mai inoon trarsi c senza
turbamenti fazioni .re¬ ciproche, e tuttavia runa e l altra s ac¬ cordano
perfettamente, termine per termine, perché la loro emerita 'unica c. come
attributi di Dio. sono Identici a Dio. sono Dio stesso. Cosi svanirebbe
l’opposizione fra corpo o spirito, posta, ma non risolta da Cartesio. _
Paralogismo (dal gr. *°Y ov - contro la ragione) (topica): ò M» ra¬ gionamento
errato che simula 11 vero, un errore logico Involontario. ... _ Kast denomina «
paralogismi della ragione le affermazioni metafisiche dira la sostanzialità. la
scmplteitói e Vunità dell'anima, perché esse don vano dal fatto clic si scambia
il sog¬ getto Intrico (v. somtetto) del pensiero con una sostanza metafisica. „
Particolare (giudizio) (tornea), e aneli in Olii il predicato s'afferma o si
nega d'una parte del soggetto, proso ne la 1 sua estensione-, P. e.: alcuni
uomini sono veramente colti. Parusia (gr. itapouola = presoli», « wb-etui)
(/ilo».): la presenza dello idee nel mondo sensibile (p. e. la pre¬ senza
dell’idea del hello nelle cose bei- le) è uno dei modi pensati da alatone per
chiarire il rapporto fra » mondo intelligihlle 0 quello sensibile (v. me tessi
o mimesi). rf fHvo Passione (psicol.): e uno stato affettivo intenso c
persistente, un'inol nazione che predomina sulle altre inclinazioni „ anche le
annulla quasi confiscando ,v suo proli.lo tutta l'attività psico¬ logica; p. e.
la passiono del giuoco, Passività 72 — Percezione -pur gii Stoici è una
perturbazione do¬ vuta a un errore ili giudizio, e ut* nello etiiuaro veri beni
quelli che tali non sono. Le passioni fondamentali sono: il piacere (yjSovtj =
voluptaa), il do¬ lore (XÓtt/j = atgritudo), il desiderio (èn&ujjita =
libido), il timore (96^01; = metus). 1 - per Cartesio è un’emoziono, un moto
puramente sensibile che l’anima prova per l’azione del corpo ocheimpe- disco il
retto giudizio intorno allo cose. -per Spinoza ò dovuta allo Idee ina-
digitate, alla conoscenza sensibile, in quanto questa determina l’azione pra¬
tica. Tutto le passioni rappresentano uifimporteziono, ma non tutte sono
asHoiutamonto cattivo; lo passioni fon¬ damentali sono il desiderio (
cupidità»), il piacere, 11 doloro. -- per Kaxt procedo dalla facoltà di
desiderare; ò una tendenza sensibile, * un delirio che cova un’Idea, s’imprl-
me con tenacia sempre crescente », Im¬ pedendo alla volontà di agire per do¬
veri:, di obbedire alla legge morale. Passività: è l'ultima dolio dieci cate¬
gorie aristoteliche, espressu dal verbo Ttadjrtiv (= pati, ricovero passiva¬
mente) (v. recettività). Patristica (/ibis.): è la dottrina dei Pa¬ dri della
Chiesa; difendo il Cristiane¬ simo contro lo critiche e lo accuse della
lilosolia e della religione antica e con¬ tro le numerose eresio che venivano
sorgendo nei secoli III, IV, V, e si volge all’elaborazione e alla defini¬
zione dei dogmi e a porre 1 fondamenti d’una filosofia cristiana, attingendo
lar¬ gamente al pensiero greco. Per la Pa¬ tristica la filosofia non ba altro
ufficio che di offrire ni dogma l’ausilio delle sue dottrine, e quindi è al
sorvizlo del dogma cristiano; essa tratta delle que¬ stioni riguardanti la
trascendenza di Dio, la Provvidenza, l'immortalità del¬ l’anima, la finalità
dell’universo,la dl- pendenza dell’uomo dalla divinità. Pedagogia (dal gr. -il'
= fanciullo, 0 àyci>YT) = condotta, da ttyzw, lat. du¬ cere : donde
educazione): è la scienza e Varte dell'educazione, cioè della forma¬ zione del
fanciullo considerato nel suo aspetto fisico, intellettuale e morale; perciò
come scienza si fonda sopra una concezione della vita, cioè sopra una fi¬
losofia, c come arte esige una conoscen¬ za diretta della psicologia del
fanciullo e dell'adolescente c particola ri qualità, neiroduoatore, virtù
pratiche, come la devozione e lo spirito di sacrificio. Pedologia (g r . Trocu;
= fanciullo, o X = pas¬ seggio) {filos.): sono cosi denominati i seguaci della
filosofia aristotelica (che furono numerosi fino al sec. XVIII) dall’abitudine
attribuita ad Aristo¬ tele di tenere una parte delle suo le¬ zioni passeggiando
in un giardino o sotto un portico del Liceo in Atene. Per sé ifilos.): si dice
di ciò che esiste e può essere concepito senza l'aiuto d’altra cosa o di altra
idea; p. e. la sostanza divina, per Spinoza, per se etmcipUur. Persona (lat.
persona = maschere. tea¬ trale, poi carattere rappresentato dalla maschera)
(filos.): tonnine trasmesso a uoi da BOEZIO e dalla Scolast ica : per¬ sona est
rationalis naturar individua substantia (la persona è un essere in¬ dividuale
di natura ragionevole). - Leibniz pone l’essenza della per¬ sona nella
coscienza di s . nella consapevolezza d’un’identità, d’essere sem¬ pre la
stessa nel diversi momenti e mu¬ tamenti dell'esistenza individuale. -Kant
aggiungo che la persona, come essere ragionevole e libero, ò anche re¬
sponsabile, è un essere morale, un f ine in sé, cioè non dovessero mai trattato
corno un semplice mezzo. - In conclusione: la personal un essere cosciente di e
moralmente autonomo. Pessimismo (opposto: ottimisnw) {fi¬ los.): consisto nella
convinzione elio la vita coi suoi dolori, le sue preoccupa¬ zioni e le sue
miserie senza line, è un mole o, anche, cho nell’esistenza la som¬ ma dei mali
è sui>criore alla somma dei beni. >• Noi sentiamo il doloro, dico
Schopenhauer, non l’assenza del do¬ lore, sentiamo la cura uou la sicurezza, la
malattia non la salute: la vita del¬ l’uomo oscilla come un pendolo fra il
dolore e la noia ». Ri conseguenza, come pensa anche la filosofia indiana, lo
sfor¬ zo per liberarsi dal male, o, almeno, per attenuarne il ppso costituisce
la somma saggezza umana. Petizione di principio {Ionica): ò un sofisma che
consisto nell'accogliere corno dimostrato ciò che invece ò da dinio- , strare
{si postula fin da principio, àpX7j$» ciò che si dove appunto dimo¬ strare) ^ e
piti specialmente nel fondale la verità d’un principio sopra una pro¬ posizione
che, per essere vera, ha bi¬ sogno della verità di quel principio (p. e.:
Tanima ò sostanza spirituale, perché ò immortale). Piacere (opposto: dolore)
{psicol.): il pia¬ cere o il dolore, essendo dati immediati della coscienza,
sono indefinibili, sono i due poli estremi e opposti della vita del sentimento,
Secondo ima teoria già ammessa da Aristotele, il piaceli) sarebbe legato ad
ogni atto naturalo e normale della vita e segnerebbe un aumento dell’attività
vitale, tiu con¬ sumo più elevato o più libero dell’ener¬ gia, mentre il doloro
indicherebbe una diminuzione della vitalità, quasi uti grido d’allarme di
fronte ul pericolo; ma tale teoria oggi è in parte contestata. - ( filos .):
per Artstippo di Cirene, il piacere, che è dato dal movimento dolco della
sensazione presente e libera da ogni cura per 1'avvenitc, è il fonda¬ mento c
la misura di ogni bene: que¬ sto ò 11 principio dc.W edonismo. - il piacere
inteso come assenza del dolore, calma dello spirito, è il prin¬ cipio
dell’etica epicurea. - per Aristotele il piacere affina e perfeziona Ratti'vità
anche nei suol gra¬ di più elevati; p. ‘e., la gioia cho accom¬ pagna la musica
è incitamento natu¬ ralo alla creazione musicale., - Houbes, appoggiandosi al
principio materialistico che la sensazione è un movimento del corvello, pensa
che, so questo movimento è favorevole idi'in¬ sieme delle funzioni vitali,
produco 11 piacere, nel caso contrario il dolore: donde duo motivi essenziali
d’azione:
la ricerca dei piacere e la tendenza a
fuggire il dolore. -- per la dottrina intellettualistica di Leibniz il piacere
è un processo intel¬ lettuale oscuramente percepito, una «petite, insenslble
perceptlon : p. e., il piacere della musica è dato dall‘ac¬ cordo e dal numero
delle vibrazioni sonore percepito dall'orecchio in ma¬ niera confusa. - per
Kant il piacere è iu diretto rap¬ porto con lo stato favorevole dell’or** Pigra
ragione — 71 — Positivismo gallismo c deli-anima: « Il piacere è un sentimento
che stimola in vita, il do¬ lore Invece le è d’impodimento «. Pigra ragione =
v. innova rotto. Pirronismo (/ ilo *.): i» stretto ile- signa la dottrina
scettica di PnrnoNE. giunta a noi nei frammenti del suo di¬ scepolo TIMONI', in
SlLLOOKAFO (sec. I 1 a Cr ) o negli scritti di Sesto Ejiruuco (circa 11 200 d.
Cr.); in senso tergo e sinonimo di soettteismo. di cui Pinone È considerato II
fondatore (v. scrii,n- 877JO ). . , Pleroma (gr. 7uXr 4 pco(j.a. ila TtXTjpoo =
riempio) (filos.): ò per gli amatici (vedi) il complesso degli Koni che escono
dal principio originario, daU’Kone per¬ fetto, cioè dalla divinità (y. Eone).
Pluralismo (opposto: monismo ) (filo».): designa le dottrine che pongono piii
principi! essenziali e distinti per spie¬ gare la composizione dell’universo;
ap¬ partengono, fra gli altri, a questo in¬ dirizzo: _Empedocle, che alla
materia unica del naturalismo ionico sostituisce «quat¬ tro radici di tutte le
cose »: fuoco, ac¬ qua, etere, terra, che sono l’ essere immutabile; il loro
mescolarsi o disgre¬ garsi è dovuto a due forze, l 'amore ioiXÓttk) e la
discordia (veixoc); _gli atomisti, che affermano due prin¬ cipi: Vatomo e il
vuoto; gli atomi sono Infiniti di numero, materiali, della stessa qualità,
eterni ; le cause del loro movi¬ mento sono la gravità e il vuoto (TÒ xcvóv); ,
„ , - \ v asm agora . nel quale gli elementi dell'universo sono le omeomerie
(v. que¬ sto termine), messe in moto da una materia sottile e impalpabile.
l'Intelli¬ genza (voucj). * cosa infinita, padrona di sé. ocÙTOxpaTéc. che è in
sé e per sé «, la più fine e più pura di tutte le cose ; - Leibniz, pel quale
le vere sostanze costituenti l’universo sono le monadi. tornite di attività o
forza propria, unità spirituali cho sono disposto per gradi, i quali vanno
dalla monade oscura e confusa alla monade delle monadi, a Dio. Pneuma (gr.
7tve0(itx, da irveto - 8 ° r_ Ho. spiro) (/ilo*.): per gli Stoici è la forza
originaria divina che anima il cosmo, un softtn vitale caldo ohe appare in
forme e gradi diversi nel corpi Inor¬ ganici, nelle piante, negli animali; e
nell’uomo appare come ragiono ( AoyOC). conservando sempre la sua unità, giac¬
chi) il grado Inferiore si conserva o opera nei grado supcriore. Pneumatico
(gr. da nvgùlJ.X= alito, sofflo) ir,'Ha. o /ilo*.): usato spesso nel Suor »
Testamento nel senso di spirituale. __ , K . r gii Gnostici gli uomini, secondo
Il grado di perfezione spirituale, sono detti ilici (= materiali, da uX’f] =
mate¬ ria), psichici (= esseri animati) c pneu¬ matici (*= originati dallo
spirito). Polidemonismo (dal gr. TtoXu;- mol¬ to e SiUojv = demone) Ir,
■tir/.): cre¬ denza che scorgo in ogni fenomeno naturale il prodotto di entità
spirituali. Pollmatia (gr. ToXu-na&ta = esteso sapere) i/ilos.): è il
procedimento che ERACLITO rimprovera a ITTauora. di dedicarsi a indagini
particolari, alla mi¬ nuta erudizione che impedisco la vi¬ sione diretta e
unitaria del cosmo: iroX'J[.ia{Hx vóov e/mv ou Stòaoxei (rapprender molte cose
non educa 1 in¬ telletto), e cioè: la rieoroa personale è migliore della
tradizioni;. Politeismo (relig.): è la concezione re¬ ligiosa che ammette
l’esistenza di piu divinità personali e distinte. Positivismo Uilos.Y- nel
tempi moderni ne pose il principio Davide Hume; la percezione è la fonte unica
del co¬ noscere; senza di essa non v c idee, n concetto; un a priori, come lo
pensa il razionalismo, è impossibile, c ogni metafisica che oltrepassi respeiienza
deve respingersi. Il nome di positivismo fu introdotto da Augusto CoMTK, secon¬
do il quale la civiltà e la scienza per¬ corrono tre fa-si ; _ a) fase
teologica , in cui la spiega - | zione dei fenomeni è riferita ad esseri
soprannaturali; , ___ b) fase metafisica, in cui la spiega¬ zione dei fenomeni
è riferita ad entità astratte, forze, sostanze, cause oc¬ culte; . . . * , _ c)
fase positiva, in cui la scienza »» per oggetto la ricerca rigorosa dei fatti e
dello leggi, cioè dei rapporti costanti che col legano i fenomeni osservati
nella loro genuina realta; più in la non * pnù andare e la metafisica si perde
in astrazioni vuote e in vani sogni: la scienza è ricerca di relazioni, di
leggi, è retati ra, ma, permettendo di preve¬ dere gli effetti anche lontani e
di cal¬ colarli, risponde ai bisogni umani, « al servizio del l’uomo. _ dopo il
f’omte 11 positivismo si tra¬ sforma in un atteggiamento dello spi¬ rito ehc ha
soprattutto una tendenza antimotafisica e vuole attenersi alla pura esperienza.
Positivisti ni vano Positivo Predestinazion e senso sono considerati G. STO ART
Mill, K. SPKNCEB, I. TAINE, R. AUOIOÒ, h. Mach ecc. , „ .., Positivo (scienza):
è ciò ohe e effettivo, reale, constatato mediante l'esperienza, c anche il
prodotto d'un processo sto¬ rico; p. e. religione positiva, diritto po-
PoEsibii e e possibilità (AtoOj W* senta diverse formo; la possibilità è. __„)
fisica, nuando un fenomeno non contraddice ad alcun fatto o ad alcuna legge
empiricamente stabilita; _ l,) delVesperienza o reale, per Kant è possibile ciò
che «'accorda con le con¬ dizioni formali dell'esperienza, ossia con le forme
dell'Intuizione pura dello spa¬ zio e del tempo, e con le forme dell in¬
telletto, cioè con le categorie; _e) Ionica, quando ciò che e pensato o affermato
non contraddice ai principi della ragione; però dal fatto ohe una oosa è
logicamente possibile, non si può oonoludero alla sua esistenza reale; - e)
metaf isica : per AulSTOTKUJ la ma¬ teria contiene la possibilità di ciò che
nuó attuarsi mediante la forma -,, P- e. un masso di marmo può divenir statua.
Post hòc ergo propter hoc c un sofisma che consiste noli affer¬ mare che un
fatto è causa d un altro fatto solo perché lo precede nel tempo. Postulato er
aki- HTOTELE la materia è l'essere in potenza, l'essere allo stato virtuale,
possili lita che tonde verso la torma, verso 1 es¬ sere determinato (v. atto),
Pragmatismo (gr. rpayiia - azione) ( fiios .): è la dottrina sostenuta in Ame¬
rica da W. James e in Italia da G. 1 A- pini giovane, secondo la quale la co¬
noscenza è uno strumento al servizio dell’attività umana; il valore d un idea è
riposto nell'esperienza e la verità d'uua proposizione dipende dalle con¬
seguenze che ne derivano, cioè dal fatto che essa è utile, che riesce ad uno
Hcopo, dà soddisfazione, quindi se le conse¬ guenze sono buone, cioè conformi a
ciò che l’uomo si propone, allora 1 asser¬ zione è giustificala, cd é vera, e
falsa nel caso contrario: ossia la verità o la falsità d'un'ldea dipendono
dalle sue applicazioni, sostituendosi in tal modo alla ragione l'esperienza, al
sapere I a- zione. Per esemplo, nella questione se sia vero il materialismo
oppure lo spi¬ ritualismo. la decisione spetta a esa¬ me delle conseguenze: il
miiterialismo. Densa W. James, nei suol ultimi risul¬ tati pratici è desolante,
. cade In un oceano di disillusioni -, mentre lo spi¬ ritualismo, con la sua
“razione d un ordino morale, apre la via alle migliori speranze, -si riferisce
sempre a un mondo di promesse •. _ Prammatici (imperniivi)(«orale), sou per
Kant consigli di saggezza P ratica che contribuiscono alla felicita. Pratico
(gr. irpotxTiwSs da = opero: opposto: teoretico) i/iloa.). la distinzione e
l’opposizione di iwa^co c teoretico risalgono ai Greci. Aristotele attribuisce
all'Intelletto pratico (vou? ™«XTIx6?) l'ufilclo di occuparsi delle cose umane
soggetto al mutamento e legate all'azione, e lo considera subor¬ dinato
all'Intelletto teoretico (vou? &so>pr]Tix6?), che ha per oggettola
conoscenza dell'universo e delle sue lepori eterne. VVT1T r11f . _Cristiano
Wolff nel sec. XM1I dir fonde le espressioni di filosofia teore¬ tica e di
filosofia pratica, attribuendo la superiorità alla prima. __ K!a.nt capovolge
questo rapporto, perché nel dominio dell'attività morale la ragione raggiunge
una P iena aut nomia e apre all'uomo uno spiraglio sopra una verità assoluta
(il regno dei fini, ili cui domina la libertà), mentre l'attività teoretica si
limila alla conoscenza del fenomeni, cioè a una verità relativa, a un mondo in
cui regna la necessità (v. primato della ragion pra- Predestinazlone (reWff.):
è ia dottrina posta in termini rigorosi da 6}. MQ- Predeterminismo Primum anso:
tutto ù già fermo o prodesti- I nato ab aclerno uol giudizio divino; ciò elio
deve accadere accadrà o l’uoino nulla nc può mutare; la sua parto nel mondo è
in ogni punto prestabilita e soltanto la grazia può liberarlo dal male derivato
dal primo peccato. Dopo ia colpa originale lo stato dell’uomo è: non posse non
peccare, mentre la libertà d’Adamo era posse non peccare, e quella dei beati 6
non posse peccare. Perciò la volontà umana nulla può senza la gra¬ zia, e tutto
ciò che l’uomo fa di bene, è Dio che lo fa in luì: potestas nostra ipsc est.
Predeterminismo (filos. e rclig.): ò la dottrina di S. Tomtuaso secondo la qua¬
le gli atti liberi umani non solo sono previsti da Dio ( v. prescienza), ma
sono predeterminati da Dio nella sua prov¬ videnza: ex hoc ipso quod nihil
volun- lati divinae resista ■, seguitar quod non solum fiant ca quac deus cult
fieri , sed quod fiant contingcnter vel necessario quae sic fieri vutt. Quindi
l’uomo è mosso in antecedenza e naturalmente da Dio au agire in questo o quel
modo, Ina la divinità ha predisposto pure che agisca liberamente, ossia la sua
azione c a un tempo necessaria e libera. Kani, opponendo determinismo a
predeterminismo, si chiede: so ogni atto è determinato da cause anteriori, da
fatti passati che non sono più in nostro potere, come può questo conciliarsi
con la libertà, la quale esige che nel mo- mento d’agire l’atto dipenda dal
sog¬ getto, cioè sia libero l « Questo è ciò ohe si vuol saperi* e che non si
saprà inni . Predicabile i,r n ,,om )• nella dottrina di Kasr eonivale al
termine a priori, cioè Indi¬ pendente dall’esperienza, razionale tper es nelle
espressioni: ragion pura, in- tulzlone pura, concetto puro). Ouadrivlo: nella
Scolastica è la divi¬ sione degli studil superiori costituenti la Facoltà delle
arti-, comprende 1 anl- au lica la geometria, la musica e 1 astro¬ nomia;
mentre il Invia, che lo precede, comprendo hi grammatica, la retorica, la
dialettica. Oualità (psicol.): indica gli aspetti sen- sI bili offerti dalla
percezione d’uu cor¬ no facendo astrazione dalla loro in¬ tensità e quantità:
p. es.: un suono, un colore, un sapore, un profumo; e anche ciò che dà valore o
perfezione ad una cosa, come quando si apprezzano i pregi d’nn’opera d'arto
oppure le vir¬ tù o lo abilità d'una persona. __t logica): è una categoria del
pensiero logico che risponde in Aristotele alla do¬ manda: ttoIo; = gitana?, ed
esprime la maniera d'essere d’un soggetto; p. e.: quest'uomo è bello, è brutto
ccc. Se¬ condo questa categoria fondamentale, 1 giudizi logici sono affermativi
o nega¬ tici, ossia attribuiscono o negano una data qualità a un soggetto.
Qualità primarie e secondarie ■- Job ): già per Democrito e poi per Ga¬ lileo,
Cartesio o Locke sono prima¬ rie le qualità costanti, universali, oggettive,
rispecchianti la realtà nella sua vera natura, come la grandezza, la for¬ imi,
il numero, la posizione, il movi¬ mento: «per veruna immaginazione, dice il Galilei,
posso separare una so¬ stanza corporea da queste condizioni ■ ; secondane sono
invece le qualità accidentali e mutevoli, come sapori, odori, colori, suoni,
che « tengono lor residenza nel corpo, sensitivo, si che, rimosso l’animale,
sono levate e an¬ nichilate tutte queste qualità ■; le quali sono dunque
soggettive. Quantità (in generale 1* si applica a ciò che può essere misurato
ed e- spresso numericamente, e perciò pre¬ senta la possibilità del piti e del
me¬ no, è suscettibile d'aumento e iti di¬ minuzione. __ (logica): b una
categoria fondamen¬ tale che per Aristotele risponde alla do¬ manda: jtfjdov -
guaritami-, per essa l giudizi, secondo Kant, possono essere universali,
particolari, singolari, sccon- doche 11 soggetto ò preso in tutta la sua estensione
(p. e.: lutti gli uomini sono mortali), o in una parto della sua ostensione (p.
e.: alcuni uomini sono poeti), o nella sua singolarità (p. o.: quost’nomo è
scultore). Quiddità (lat. scolast. guidditas) (lo¬ gica): risponde alla domanda
guid est ? ed esprime l’essenza d'ima cosa, la tor¬ ma nel senso aristotelico.
Quietismo (in generale): b la dottrina che ripone la quiete e la felicità dell
a- nhna nell'allontannrsi dalle coso ilei inondo o nel ritrarsi nella
meditazione Interiore e di Dio. _ 6 la dottrina dello spagnuolo Michele 1 do
Molinos, secondo la quale si può raggiungere la perfezione e ottenere una
quiete assoluta dell'anima mediante un atto di fede e un assoluto abbandono a
Dio, che dispensa dalla necessità di ogni pratica religiosa e attività morale,
e, in generale, ili opero esteriori. Quintessenza: signitlea dapprima la .
quinta essenti» -, il quinto elemento cosmico, l'etere, considerato il più sot¬
tile e puro; poi l’estratto condensato, essenziale il’uu corpo, d una dottrina
, infine sottigliezze complicate e vane. Ragionamento (logica): b un'operazio¬
ne dell’intelligenza che si svolge ili piu momenti, cioè in una serie di
preposi¬ zioni collegate fra loro per giungere a una conclusione che in tutto o
in parte è già Implicita in esse. Ragione (/ ilos.): in generale, è la facoltà
naturale di ben giudicare, di saper di¬ stinguere 11 vero dal false, disporre m
una serie coordinata e libera da con¬ traddizioni idee, giudizi, esperienze,
col (ine di raggiungere un sapere oggettivo e universale, ossia valido per
tutte le intelligenze, anche se poche sono in grado di riconoscerlo, di rifare
da sé la via che ha condotto a tale sapere. _ per Platone la ragione (vou?) e
l'attività più elevata dell’anima, quella cho può rappresentarsi le idee eterne;
_. per Aristotele è ciò che distingue l'uomo dagli altri esseri; _ per s.
Tommaso intellect.is e la ta- eoltà superiore e intuitiva ili conoscere.
Razionalo Ragion sufficiente ratio è In facoltà di conoscere di¬ versiva [nomea
rattorti* sumitur ab inquininone et discussa; hdellrc us no¬ mai sumitvr ab
intima penetratimi ver itati*)* __ „ er SPINo'/.v la. ratio da la conoscenza
vera, adeguata, dell’essere; «appartiene a lla natura della ragione il
contemplare le cose non come contingenti, ma come necessarie * (pr. II, 14);
essa ci apprende le cose sotto un «corto aspetto delle* ternità, sub queula.nl
acternitidìs specie; apro la via alla conoscenza pin alta, I alla « scindili
intuitiva -, a veder le cose sub specie aelernitatis. _ per Kant la ragione in senso
largò ò il intasare a priori, è la Incolta che ci fornisco: a) i principi! o le
forme a priori della conoscenza, che sono le in¬ tuizioni dello spazio c del
tempo, le categorie, le idee; b) i principi! a priori dell'azione, ossia la
regola della, mora¬ lità, la legge morale: nel primo caso è ragione teoretica,
nel secondo è ra¬ gione pratica; o l’una e 1 altra sono indlpondout 1
dall’ospcrienzn. _ In senso ristretto la ragione è per Kant la facoltà di
pensare lo idee allo quali non corrispondono oggetti nel- l’esperienza, cioè lo
idee di Dio, del¬ l'anima, del mondo. -- iu oppos. a tede rivelata è l'organo
della, conoscenza autonoma, a cui l’uo- ilio giunge con le sole sue forze; cosi
l’intende anello ( : A I.II.KO che scrive. . la Scrittura dovorebbo essere
riserbata nell'ultimo luogo; quello degli effetti naturali ohe o la scusata
esperienza ci pone innanzi a gli occhi o lo necessarie dimostrazioni oi
concludono, non deve in oont-o alcuno c-scr revocato in dub¬ bio por luoghi
della Sorittura • (Lett. al Costelli). È dunque il procedimento naturalo dello
spirito umano ncU’ac- quisto del sapere. ^ Ragion sufficcnte (logica) : u il
prin¬ cipio formulato dal Leibniz, secondo il quale nulla avviene senza ragione
o motivo, cioè « nulla avviene senza che vi sia una causa o ragione determi¬
nante, che possa servire a render conto a priori perché una cosa csisxc o non
esiste, è in un modo piuttostochò in uu altro », - 8CHopenHAU ek lo rappresenta
sotto quattro forme: - a) ratio estendi, principio dell’essere: ogni parte
dello spazio o del tempo è In relazione con le altre parti, in modo che
ciascuna è determinata e condizio¬ nata dalle altre ; _ b) ratio /fendi,
principio del dlvoidro: ogni nuovo stato (effetto) dev’essere preceduto da un
altro (causa); _ c ) ratio coanoscnuU, principio del conoscere: ogni giudizio
che esprime una cognizione deve avere un fonda¬ mento sufficcnte; _ _ ,/) ratio
spendi, principio dell agire. ogni atto della volontà dev’essere pre¬ ceduto da
un motivo. Rappresentazione (psicol.); è il n- prescntarsi, 11 riprodursi nella
nostra mente d'uua percezione anteriore, o quindi È affine a\V immagine ed è
sog¬ getta a un'elaborazione interiore di¬ pendente dall’azione continua delle
al¬ tre rappresentazioni ; perciò si dice che essa ha una sua vita propria,
come rimmagtne. _ Locke denomina rappresentazioni e Idee tutto ciò che è
presente alla men¬ to, ciò elio questa percepisce in sò, o ciò che è oggetto
Immediato della per¬ cezione e del pensiero, mentre HOME distinguo nettamento
percezione e la corrispondento rappresentazione, copia debole o sbiadita della
prima. _pei- Leibniz. è la funzione più impor¬ tante della monade, ò la facoltà
di per¬ cepire e ili ridurre la molteplicità all’u¬ nità (p erceptio nihil
aliud est qiiam inul- torum in uno exprtssum, est rcpracscn- tatio multitudinis
in imitate). Ogni mo¬ nade si rappresenta, eioò percepisce, l'u¬ niverso da un
punto di vista proprio, ohe s'accorda con quello delle altro monadi (v, armonia
prestabilita), f - n percezione ò chiara, quando la conoscenza ohe abbia¬ mo d
uu oggetto ci permette di differen¬ ziarlo dagli altri, oscura nel caso oppo¬
sto; distinta, quando un oggetto ò per¬ cepito o conosciuto nello sue qualità
particolari ed essenziali, contusa noi caso contrario; p. es.: un giardiniere
può avere un'Idea chiara d un iioro, ma non distinta; un botanico ne ha un'idea
chiara c distinta, _ Sc®OPENHAC'EK col suo principio: . il mondo ò la mia
rappiesentazione « esprimo l’essenza' dell» idealismo cono¬ scitivo » (v.
idealismo). Razionale (in generale ): ò ciò che ò con¬ forme alla ragione c al
suoi prinelpii, ciò che da questa trac la sua origine, (p. e. lo categorie
kantiane), o ciò che in esse ha 11 suo fondamento, o quindi non dipende
dall’esperienza (p. e. le matematiche, la meccanica razionale). _ Woijp
distingue una cosmologia, una ontologia, una psicologia c una teo¬ logia
razionali, che Kant sottopone ad RazionalismoRegno dei fini e8 amo crltioo per
dimostrare l’impossi¬ bilità e le contraddizioni d'nna meta¬ fisica razionale
(v. ciascuno di quei ter¬ mini). _per Hi-'.cei. • ciò che è razionale è reale,
e ciò che è reale è razionale », esprimendo con ciò il fatto elle il con¬ cetto
ò l'essenza delle coso (come in Aristotele le idee sono nelle gose stes¬ se),
cho tutta la realtà data noU’cspe- rienza umana ò accessibile alla.ragione c
può essere inquadrata noi concetti della ragione; cho so vi ò qualche cosa di
irrazionale, questa non ha che un’e¬ sistenza provvisoria. Però tale formula c
non serve a giustificare tutto ciò che avviene, p. es. : un errore di stampa o
uno sternuto; ma cho gli uomini vivano in imo Stato si chiarisce come razio¬
nale », ossia lo Stato è l’attuarsi, l’in- camarsi d’uu’idea. Razionalismo
(opposto: e mpiris mo e irrazionalismo) (filos.): b la dottrina che, avendo
fede assoluta nella ragione, afferma che la conoscenza della verità si apro non
al scuso e all’esperienza, o alla fede rivelata, ma allo piti alte fun¬ zioni
dello spirito, il quale non ò un recipiente vuoto, una tabula rasq. ma porta in
sé e trae dalla sua interiorità principi!l’attività, idee (p. e. di causa e di
sostanza), che consentono di pene¬ trare nella realtà, considerata razio¬ nale
nella sua essenza, comprenderla, or¬ dinarla, volgerla a beneficio dell'uomo
nell’opera di dominare la natura. Ra¬ zionalisti si possono considerare nel¬
l’antichità Parmenide, Platone, Ari¬ stotele; Cartesio inizia il razionall- smo
moderno, seguito da Spinoza, Leib¬ niz, Kant, Hegel, eoo. --dai principi
costitutivi della ragione il razionalismo trae un diritto, una morale, uua
religione naturali. Inten¬ dendosi qui per naturale ciò cho ò con¬ cepito e
costruito dalla ragione, quindi opponendosi a diritto positivo (cioè lealmente
in vigore), a morale tradi- stimale, a religione positiva o storica. -Kant, per
dare un fondamento solido alla conoscenza, fonde empiri¬ smo e razionalismo,
distinguendo la materia, cioè il complesso delle impres¬ sioni cho ci giungono
dall’esterno per la via dei sensi, e la /orino, cioè 1 prin¬ cipi! che lo
spirito trae da sé per or¬ dinare la materia. Perciò l’uomo co¬ nosce le cose,
1 fenomeni solo In quanto e nel modo ondo trapassano nelle forme dello spazio e
del tempo e delle caie- \ gorie, cosicché non i concetti si mo¬ dellano sulle
cose, ma le cose sui con¬ cetti, e l’intelletto non attingo le sue leggi dalla
natura, ma gliele impono. Quosta dottrina può definirsi un razio¬ nalismo
critico. Realismo (filos.): in oppos. a nominali¬ smo o a concettualismo è la
dottrina cho nel problema degli universali ammette che le ideo generali hanno un’esistenza
indipendente dolio spirito che le conce¬ pisce e dagli esseri individuali; si
col¬ lega a Platone che pone lo idee fuori del mondo sensibile, e ad Aristotele
che le pone nelle coso stesse. -in opposizione a idealismo si applica alle
dottrino cho ammettono l’esistenza reale d'un mondo esterno, d’un oggetto
indipendente dal soggetto pensante o di natura diversa da esso; vi appar¬
tengono moltissimi filosofi antichi o moderni. -In estetica esprime la tendenza
arti¬ stica alla riproduzione esatta della real¬ tà naturale e degli
avvenimenti umani ; è sinonimo di naturalismo, che la ri¬ produzione fedele,
integrale o artistica delia natura vorrebbe rivolta anche ad un fine
scientifico. Realtà (filos.): in opposizione a possi¬ bilità o a irrealtà esprime
ciò che è at¬ tualmente esistente, sia sotto forma materiale e sensibile, sia
sotto forma intellettuale o ideale. - in opposizione ad Apparenza indica ciò
ohe veramente è: p. e., un bastone posto di traverso neU’ncqua corrente sembra
spezzato, ma in realtà non ò. - iu opposizione alla realtà empirica v’è una
realtà metafisica, che è al di là dei fenomeni percepiti dal sensi; è
accessibile olla sola ragione o anche ineonosoibilo, come la cosa in si di
Kant. — (logica): realtà è una delle tre cate¬ gorie kantiane della modalità
(realtà, possibilità, necessità ); il giudizio di realtà enuncia semplicemente
un fatto o un rapporto di fatti come effettiva¬ mente esistente (v. modalità).
Recettività (dal hit. recipere = acco¬ gliere passivamente; opposto: attività)
(filos.): b la disposiziono a ricevere pas¬ sivamente impressioni e suggestioni
dall'esterno. - per Kant la sensibilità è recettiva, ossia ò la facoltà di
ricevere impressioni per la via dei sensi, che formano la materia del
conoscere. Regno dei fini (morale): nell’etica di Kant è l’idealo di una unione
sistema¬ tica degh esseri ragionevoU, per i quali Regressus in inflnitum è cosa
spontanea l’obbodicnza alla lecite morale «li cui essi stessi sono sii untori:
fc il regno della libertà in opposizione al mondo fenomenico, In cui domina la
causalità c, quindi, la necessità. Regressus in inflnitum (/ito*.): se¬ condo
gli Scettici antichi il filosofo dogmatico è costretto a un regresso
ail’iullnlto, cioè a risalire, senza mai fermarsi, nella serie dei principii,
se vuol non lasciare alcuna affermazione indlmostrata c non porro corno primo
principio una proposizione arbitraria o un’ipotesi elio ha bisogno d'essere di¬
mostrata. Ha il oorrispettivo nel prò- gressus iti infittitimi (v. questo
termine). _per Kant il regressus nella serio «lei fenomeni dell’universo
conduce in il i- definitum, cioè la serie dei fenomeni è potenzialmente
illimitata, non dollnlta. Relativismo (/ito*.): si applica alle dot¬ trine cho
accolgono lo. relatività della conoscenza umana, limitata ai feno¬ meni c «ile
loro relazioni tostanti, ossia olio lauri, dichiarando che citi cho si pono ai
di là di ossi, o è inconoscibile. come pensa lo Spencer, o non esisteaffatto,
come dice C'omte, Relatività (/ito*.): è il carattere ohe si può attribuire
alla conoscenza, di es¬ sere relativa (v. relativo). Relativo (opposto:
assoluto) (/ito*.): è re¬ lativa la conoscenza, in quanto la si fa dipendere
dalla costituzione soggettiva dello spirito umano, dal rapporto fra il soggetto
o l’oggetto e si esclude la possibilità di cogliere con l'intelletto unii
verità assoluta. -la relatività della conoscenza è so¬ stenuta già dallo
Scetticismo greco con Enesidemo, mediante dieci tropi che ponovano in rilievo
la soggettività dello percezioni dovuta alle differenze fra gli uomini, diversi
di corpo, di tempera¬ mento, di anima, dominati da disposi¬ zioni o condizioni
variabili, come la, sa¬ lute, l’età, le malattie; che percepiscono diversamente
socondo le distanze, le po¬ sizioni, la complessità degli oggetti, la rarità e
la frequenza dei fenomeni ecc. -anche per Kant la conoscenza è re¬ lativa,
essendo limitata al fonomeni e ai loro rapporti, mentre la cosa in sé, che sta
dietro ad essi, è inconoscibile. - un’Importante concezione delia re¬ latività
è quella odierna dell’EiNoTBix, che estende ni movimenti accelerati e alia
stessa gravitazione la relatività ammessa in meccanica: la massa d'uti corpo
non è costante, ma varia in fun¬ zione della velocità; non v’è spazio e
Religione tempo assoluto, le dimensioni ilei tarpi sono relative, giacché un
corpo, trasci¬ nato in una traslaziono, subisco una contrazione nel senso del
movimento; spazio, tempo, energia sono fra loro collegati; si Invecchia piti in
un Inogo che in un altro. _ vi ù anche una concezione relativa della attirale :
i principi dell’apprezza¬ mento o della condotta morale dipendono dal
carattere, dal grado di civiltà d’un popolo, dall'iunbionte nslco o so¬ ciale,
dalla tradizione eco.; non esi¬ stono principii morali assoluti. a 31 osò, ai profeti, e, in maniera completa,
in¬ segnate agli uomini dii Cristo e con¬ segnate nelle .Sacre Scritture.
Romanticismo (opposto: classicismo, illuminismo): v un Importante movi¬ mento
spirituale Iniziatosi verso la due del scc. XVIII, che ha un'aziouo rilevante
sui filosofi sorti dopo Iva.it (Fiotti:, Sm maino, Hegel eco.). L'I¬ dea
centtale è quella di vita pensata come forza originarla, immateriale, ir¬
riducibile, incosciente, spontanea, che rivela una verità piti profonda «li
quella offerta dalle • Idee chiare e distinte ¬ li! Cartesio e
dell'Illuminismo; il senti- • mento vi appare più complesso e più ricco della
ragiono astratta, il arnia ò superiore «vile regole, l 'istinto più forte delle
convenzioni, dello istituzioni, dei calcoli della scienza. T)1 qui le conse¬ guenze:
- «) di fronte all'ordine e ai modelli classici è una rivolta contro lo regole
e le convenzioni, un'esaltazione di tutto le potenze della vita,
un’affermazione della rclativitii di tutti gli ideali o della mutabilità delle
Torme estetiche; - b) «'accosta alla natura, alle intui¬ zioni infallibili d'un
istinto collettivo, inventa il genio della rozza, l'anima dei popoli, pone
l’ispirazione e il genio al disopra del sapere e deìl’abilità tec¬ nica; ai
giardini e al parchi ben dise¬ gnati preferisce ipaesaggi grandiosi e selvaggi,
le solitudini (Rousseau); al razionalismo oppone l’irrasiona- lismo, si stacca
dai soggetti e dalle tradizioni classiche per rivolgersi al Modto Evo,
considerato più sponta¬ neo, alla tradizione cavalleresca, alla cattedrale gotica;
ha il gusto e il senso della storia ; contro l’antistoricismo degli illuministi
ò storicistico. s Saggio (gr. 0096? = sapiente) i/ilos.): l’ideale del saggio è
definito, dopo Ari¬ stotele: l’uomo die incarna la virtù in¬ tesa come sapere,
abilità, prudenza, giustizia, indipendenza dai beili ester¬ ni. Rispondono a
questo ideale i Sette saggi, come anello il « saggio stoico » clic ne attua il
tipo morale più alto, offrendo il modello pratico alla Roma «lei primi due
secoli dopo ( ‘risto. La saggezza non 0 soltanto liberazione dalle passioni o
dal l’utilitarismo volgare, ma anche scienza ed esperienza armonio¬ samente
operanti nella vita o gni ftte da un ideale superiore. Sanzione (diritto e
nomile): la sanziono giuridica, ossia la pena, ó determinata da tre fattori:
dallo esigenze della di¬ fesa sociale; dall'offesa clic il delitto reca al
sentiment o «li giustizia, pel qua¬ le 11 colpevole, partecipe della ragione, è
considerato come persona razionale, trattato come tale o quindi costretto a
subordinarsi alla ragione comune, in¬ fine dall’offesa portata all’ordine mo¬
rale, per cui, oltre al ripristinnmento deU'ordino giuridico, la pena mira an¬
che ad educare possibilmente il colpe¬ vole a sentimenti migliori. La sanzione
morale, cioè la riprovazione e il rimorso, è una reazione della Volontà morale
Idealo contro la volontà inoralo Imper¬ fetta, che ha violato la legge morale:
il fondamento di essa va corcato nella responsabilità di noi verso noi stessi
(Martinetti). Scetticismo (gr. ay.irrzrjij.xi = Inve¬ stigo ; opposto:
dogmatismo) i/ilos.): è la dottrina fondata da l'iuuoNi:, se¬ condo la quale la
mente umana non può cogliere verità alcuna intorno alla vera realtà delle cose,
ma solo appa¬ renze. Non esiste un criterio di verità che permetta di distinguere
le rappre¬ sentazioni vere «la quelle false, donile l’astensione dti ogni
giudizio iZTZoyT,) e l’indifferenza (àSiatpopta). il dubbio Schema Scolastica
sistematico c una tranquillità d’animo Inalterabile (&Tapoc££a). Dapprima,
me¬ diante la disciplina della condotta mo¬ rale, mira alla calma e alla quiete
dell’e¬ sistenza, ma alla line diviene anche una disciplina dello spirito
scientifico, gra¬ zie al suo atteggiamento eri-fico e al severo esame cui
sottopone le dottrine filosofiche contemporanee, specialmente Pepicureismo e lo
stoicismo. Schema (gr. cr/-? (i iia = forma, esteriore), figura) (//los.): in
generale indica il di¬ segno, la figura che rappresenta in ma¬ niera
semplificata le linee essenziali d’un oggetto o d’un movimento. -per Kant lo schema
trascendentaleindica una rappresentazione intorme* diaria fra un’intuizione
sensibile (per es. : d’uri dato triangolo) e un concetto (per es.: 11 triangolo
in generale); ed è affine da un lato al concetto puro, in quanto non contiene
nulla d’empirico, e dall’altro lato alle percezioni, e quindi all’ordine
sensibile. Perciò esso per¬ metto di applicare indirettamente agli ; oggetti
dell'esperienza i concetti puri dell’intelletto, cioè lo categorie, che so¬ no
inapplicabili per via diretta. Cosi lo sohema della sostanza, cioè la
rappresen¬ tazione sotto la quale si raccolgono i fenomeni per poter loro
applicare la categoria di sostanza (v. questo termi¬ ne), è il substrato che
permane nel tem¬ po; lo schema della quantità è il nu¬ mero, mediante il quale
la continuità dei fenomeni è distribuita in quantità determinate. Questi schemi
sono creati dall'immaginazione, che ò una facoltà intermediaria fra
l’intelletto o la sensibilità, con essa Kant vuol risolvere l'antico problema
dell’accordo fra le idee, le categorie o le cose; per risol¬ vere il quale
Cartesio era ricorso allaveracità divina, Malebranche alla ri¬ velazione,
Spinoza al parallelismo (per cui l’estensione e il pensiero sono gli attributi
d'un unica sostanza, di quella divina), Leibniz all’armonia prestati• •Scienza:
è un complesso di cognizioni dovute a ricerche metodiche (fondato
sull’esperienza guidata dalla ragione), disposte in un sistema ben coordinato,
suscettibili di dimostrazioue e aventi per oggetto una parte ben definita della
realtà naturale. I suoi strumenti 6ono: l’osservazione diretta dei fenomeni,
l’c- sperimento, l 'induzione, la deduzione. - Galileo apro ima via nuova alla
scienza, sostituendo olla ricerca delle qualità, propria del metodo
aristotelico- scolastlco e ancora presente in Bacone, la ricerca «iella
quantità , esprimibile con formule matematiche; quindi non più forz e qualità
occulte, ma elementi spaziali c numerici. Anche oggi gli a- tomi, gli ioni, gli
elettroni c le loro composizioni quantitativo sono l'og¬ getto dell'indagine
scientifica. —*— L 'aggetto della scienza è duplice, se¬ condo filosofi c
scienziati (BENTHAM, Ampère, Hill, Hegel, Wcndt, ecc.), cioè: la natura o lo
spirito, donde le scienze della natura e le scienze dello spirito (o morali).
Il Windklbanp di¬ vide le scienze In nomotetiche (gr. VÓ(AO£ = legge, e
tU1yjjì.i= pougo), come la chimica o la fisica, che ricercano le leggi secondo
cui si svolgono i fenomeni na¬ turali; o ideografiche (gr. = par¬ ticola^ e
ypàcpstv = scrivere), cioè lo scienze storiche, che studiano gli avve¬ nimenti
passati, considerati nella loro Impronta individuale e non ripetibili.
Scolastica (dal lat. setola, che è l’in- sognamento per eccellenza del Medio
evo, quello della teologia o della filo¬ sofia; scholasticus ò il titolare di
tuie insegnamento) ( /ilos .): ò la filosofia do¬ minante in Europa dal hoc. X
al XIV : le sue tesi fondamentali sono: a) dualismo fra Dio. che è atto puro ,
puro spirito, e la creatura, nella quale si mescolano l’atto e la potenza , la
forma e la materia, l'anima o il corpo; b) Dio è persona spirituale, ha creato
il mondo dal nulla e lo trascende ; c) la parola di Dio manifestata nelle Sacre
Scritturo è l'espressione infal¬ libile della verità; quindi, pur mirando a
conciliare ragione e fede , cioè la filo¬ sofia antica, specialmente quella
d’A- ristotele, col dogma cristiano, la Sco¬ lastica afferma che la'ragione non
può andare contro la fede, ma subordinarsi a questa; d) la distinzione flit
soggetto cono¬ scente e oggetto conosciuto, pensato co¬ me reale, indipendente
dal soggetto nella sua esistenza; e) la distinzione fra teologia e filosofia :
la prima ha per oggetto l’ordine soprannaturale in quanto è rivelato dalla
parola di Dio; la seconda inve¬ stiga l’ordine naturalo per mezzo della
ragione, ma accordandosi con la teo¬ logia. - In senso peggiorativo si dice che
ima dottrina si trasforma in una scola¬ stica quando si irrigidisce in formulo
verbali, in distinzioni e divisioni nu¬ merose. sottili e astratte, in tesi im-
Secondarie Simbolo mutabili, o perciò diviene stagnante, in¬ capace di
progredire. Secondarie (qualità) = v. qualità. Sensazione (psicol.): è la piò
semplice modificazione della coscienza, il pro¬ cesso psichico nella sua forma
elemen¬ tare; presenta due aspetti: a) è recettiva, cioè passiva, in quanto è
prodotta da stimoli esterni o Interni; p. o. un raggio di luce, la contrazione
d’un muscolo, che dònno rispettivamen¬ te una sensazione visiva o muscolare:
li) è successivamente attiva, in quanto le impressioni provenienti dagli stimoli
sono elaborate dalla coscienza, nella qualo già si trova ima molteplicità, d’e¬
lementi psichici, di ricordi, di immagi¬ ni, occ. ; perciò la sensazione ò il
pro¬ dotto dell'analisi e dell’astrazione. Sensibilità (furimi.): è la facoltà
d’aver sensazioni, di conoscere por mezzo doi sensi, o anche di provare piacere
o do¬ lore che accompagnano lo sensazioni; _da Kant la dottrina della
sensibilità, clic ò la capacità di ricovero passiva¬ mente impressioni da
oggetti osterni por la via del scusi, ma ordinate nello forme a priori dolio
spazio c del tempo, è detta estetici i. Sensismo (filos.): dottrina che consi¬
ste nel far derivare tutto le nostro fa¬ coltà o le nostre conoscenze dalla
seu- suzione ; ò rappresentato dal C ONDII*- i*ao (sec. XVIII), che dalla sensazione
fa derivare la memoria, l’attenzione, il giudizio, il sentimento, lo volizioni.
Si distinguo én\Yempirismo, in quanto questo ammette duo fonti del conosce¬ re:
la sensazione o la riflessione. Senso ( psùvl .): è la facoltà (p. e. la vista,
l’udito, il tatto) che mette gli esseri viventi in rapporto col mondo esterno c
dà luogo a una determinata classo di sensazioni (visivo, uditivo, tattili
eoe.). _ (morale): il senso morale consiste in una facoltà innata dì
distinguere in¬ tuitivamente Il bene dal male, facoltà ohe dove considerarsi
parto integrante della natura umana; tale dottrina è so¬ stenuta per la prima
volta dagli inglesi SnAFTEsnniY o Hvtchkson. Senso comune: comprende un’in¬
sieme indeterminato di opinioni c ili cognizioni condivise quasi universal¬
mente, che si impongono o por la loro evidenza o per il loro valore pratico, o
anche per l'autorità della tradizione. - (Jilos.): per Aiustotklk II senso co¬
mune (Jtotvi) crìa&r,oiz) è una specie di senso interno cho ci dà la
coscienza della sensazione o, al tempo stesso, coor¬ dina I dati offertici dai
singoli sensi par¬ ticolari (udito, vista, ecc.): esso costi¬ tuisco quindi
l'unità del soggetto sen¬ ziente di fronte all'oggotto sentito. _I*a scuola
scozzese del senso comune (Reto, Dcoai.p Stkwaht) ammottesen- za discussione
come validi i principi ac¬ colti da tutti gli uomini, oppure « cosi
indispensabili nella condotta della vita elio il rinunzlarvi equivale a cadorc
in numerose assurdità speculativo e pra¬ tiche »(Roid), e anzitutto afferma
l’e¬ sistenza realo dell’oggetto, indipenden¬ temente dall’attività percettiva
del sog¬ getto. Il senso oomuno sostituisco la ragione nella filosofia e,anohe
nello ma¬ tematiche. Sentimento (psicol.): In senso ampio esprime il complesso
degli stati allei - Ziri, cioè di tutti quei processi sogget¬ tivi, interiori,
gradevoli o sgradevoli, legati con lo funzioni vitali e con la psiche
dell’Individuo, come le emo¬ zioni, le passioni ecc. m - in senso piò ristretto
è uno stato affettivo stabile, o ancho un’attitudine costante a provare
emozioni, corno il sentimento estetico, morale, intellet¬ tuale, il qualo
ultimo consisto nel pia¬ cere complesso cho dà l’esercizio dello funzioni
intellettuali. Sentimento fondamentale corpo¬ reo: ò l’cspressiono usata dal Rosmini
per indicare la cenestesi (vedi). Sillogismo (gì-, ouXXo^tojxó;, da uoX- Xévw =
raccolgo) (lattica): Aristotele, che ne ha creato la teoria, cosi lo de¬
finisce: ò un ragionamento (Xó-fb?), nel qualo, posto alcune cose, ohe p. o. «
l'uomo ò mortalo ".e 0 Socrate ò uo¬ mo », un’altra cosa no risulta
necessa¬ riamente, che « Socrate è mortalo », per qu sto solo cho 1 primo sono
posto. Consta di tre proposizioni, di cui Io primo due diconsi premesse ; la
terza, implicita in queste, conclusione-, e com- I prendo tre termini: il
maggiore, che ò il concetto più esteso (nel sillogismo citato: mortale), il
minore (Socrate), il medio (uomo), che ò il ponto di pas¬ saggio. Corrisponde
ai noti principi: ciò cho è contenuto nel genere ò puro contenuto nella specie;
e nel linguaggio matematico: tiue quantità ugnali a una terza sono uguali fra
loro. Simbolo = «of¬ fro insieme) (
psicol .): in generale con¬ siste nell’esistenza di disposizioni iden¬ tiche in
due o più individui della stessa specie o di specie diversa. - nella sua forma
più umile è un ac¬ cordo di movimenti, detto sinergia, co¬ me si osserva nel
riso o nello sbadiglio, che si propagano quasi per contagio. - nella sua forma
superiore ò un ac¬ cordo di sentimenti, una sinestesia, un movimento che ci
porta verso gli altri, a gioire della loro presenza, a parteci¬ pare allo loro
gioie c alle loro pene, c alla fine si muta in «unore attivo, che supera i
limiti della nostra co¬ scienza per rivelarci la presenza imme¬ diata
d’un’altra coscienza; scopro va¬ lori (come pensa Max Scholer), men¬ tre
l’intelligenza dà solo rappresenta¬ zioni. - (morale): è il fondamento della
mo¬ rale dell’inglese Adamo Smith: * la fonte della nostra sensibilità per le
sof¬ ferenze altrui, egli dico, è la facoltà di collocarci con 1 ’immaginazione
al loro posto, facoltà ohe ci rende capaci di concepire ciò che essi sentono o
d'es¬ serneaffetti »; por essa giudichiamo moralmente delle azioni altrui e
delle nostre. Sincretismo (gr. ouY-xpiJTurpóc» no¬ me derivato daH’unione dei
Cretesi di fronte al nemico, nonostante lo dissen¬ sioni intorno) (in
generale): esprime l'u¬ nione artificiosa, senza critica, di idee o teorie di
disparata origine, nel campo della filosofia come in quello della re¬ ligione.
Sinderesi (forse derivata da auvirrj- pnjai? = sorveglianza, o, per deforma¬
zione, da vet$Y)el libero consenso degli indivi¬ dui ed è fondato sopra la
volontà della nuiggioranzu, espressa mediante 1 rap¬ presentanti del popolo,
donde lo Stato liberale rappresentativo coi suoi tre poteri ben distinti:
legislativo, giudi¬ ziario, esecutivo, quale traeeorà più tardi Montesquieu -
por Rousseau lo stato sorge pure dallo stato di natura per un contratto pel
quale l’individuo, naturalmente buono, trasferisce il buo diritto al po¬ polo,
riunito in assemblea, la cui sovra¬ nità è assoluta c inalienabile; la -
volontà generale , manìfestantesi nelle decisioni della maggioranza o nel
potere legislativo, che è il potere supremo, implica la volontà di tutti gli
individui. Di qui il governo democratico. Stato etico (filos.) : per Hegel lo
Stato è Tincarnazione suprema della moralità, l’attuazione delle Idee morali,
lo spirito del popolo divenuto visibtlo; perciò il suo fine non è di assicurare
la libertà individuale, la sicurezza, la pro¬ prietà dei singoli, giacché
l’individuo non ha obbiettività, verità, moralità se non in quanto è parte
dello Stato, e la vera volontà dell’individuo (la qua¬ le ò pensiero attuautesi
nella realtà) è volontà razionale, quindi ani versale o, alla fine, identica
alla volontà dello Stato: la rappresentanza del popolo non deve ingerirsi negli
affari dello Stato, ma solo eccitare il governo a rendere pubblica ragiono dei
suoi atti, elevan¬ done cosi la vita a un grado di coscienza Stoicismo — 91
Superuomo sempre più alto. Questa dottrina del- l’Hegcl è l'affermazione
dell’onnipo¬ tenza dello Stato. ■ Stoicismo (/ iloa .): dottrina della Scuola
filosofica fondata da Zenone di Cizio, elio fu aperta in Ateno nel ITI scc. a.
Cr. nello Stoa Pecilo (portico ornato delle pitture di Poiignoto) od ebbe
cinque secoli di vita e duo periodi, quello preco o quello minano (con Seneca,
M. Aurelio, Kpittcto): professò un pan¬ teismo secondo il quale 11 mondo è
animato da una forza immanente, la ragionecosmica simboleggiata nel luoco,
della quale l'anima ù una particella. 11 lino supremo della condotta umana è
per essa l 'avalla, che si raggiungo con la virtù, cioè liberandosi dallo pas¬
sioni, obbedendo alle leggi inflessibili, ma ottime, con le quali la divinità
reg¬ go 11 mondo. Storicismo (/flottitela tendenza a con¬ siderale un oggetto
della conoscenza come il prodotto d’uu’cvoluzione sto¬ rica; ha un duplice
aspetto: . d) in opposizione all' filmai mano, considera 1 prodotti spirituali
non co¬ me l'effetto della ragiono, concoplta uguale dovunque e costante, ma
corno Il risultato Ionio d'uno sviluppo storico, durante il qualo 1 caratteri
essenziali si conservano, mentre quelli acciden¬ tali cadono ; -— i>) In
opposizione al naturalismo meccanico, considera e interpreta il tutto come una
manifestazione dello spirito umano nel suo svolgimento storico : cosi per Heokl
la storia ò lo sviluppo suc¬ cessivo della ragione c l'essenza di quosta appare
o si do finisce eoi ca¬ ratteri che sorgono in tale evoluzione idealo;
l'essenza della filosofia è quin¬ di da rioeroursì nella storia della filo¬
sofia. Subcosciente tpsicol.): si dice del pro¬ cessi psichici debolmente e
oscura¬ mento percepiti. Per primo il Leibniz ammise esservi nell’attività
psicologica « petites insensiblcs perceptions - che, riunite e fuse Insieme,
possono pro¬ durre una percezione chiara; p. e. il rumore d’un’ondata marina è
dato da un numero incalcolabile di rumori infini¬ tamente piccoli, non
percettibili sepa¬ ratamente. S’usa anche come sinonimo d 'incosciente. Sublime
(estetica): è il sentimento pro¬ dotto nell'animo dalla visione diretta o
dall'idea vivamente rappresentata della potenza.naturale n della grandezza mo¬
rale e intellettuale. -- Kant distingue: a) 11 sublime matematico, provocato
dalla visiono o intuizione d'una gran¬ dezza assoluta nel senso dell’estensio¬
ne; p. e. la vista dell’oceano immenso, l’idea dell'immensità degli spazi cc-
lesti; i) Il sublime tlinamico, dovuto alla visiono della potenza non disgiunta
dal senso di sicurezza dello.spettatore: p. c. la vista d'un vulcano jn
eruzione, dell'oceano in tempesta. Questi spetta¬ coli » elevano le forzo
dell’anima sopra la loro ordinaria mediocrità c disco¬ prono in noi un potere
di resistenza che ci dà il coraggio di misurarci con l'apparento onnipotenza
della natura. Il sublimo quindi non è nelle coso, ma nel nostro spirito, ci
eleva al disopra della natura che è In noi, o di quella che è fuori di noi .
Sufismo (relig.): è una dottrina, dovuta a ispirazione neo-platonica c seguita
da una setta mistica mussulmana: Dio è il beno assoluto, l'essere puro, la bel¬
lezza eterna, 1'unica o vera realtà, men¬ tre il mondo del fenomeni è un
semplice riflesso della divinità, non essere, puro fantasma. Una vita
spirituale rigida¬ mente ascetica, la stretta osservanza dei precetti sacri
sono la condizione necessaria per raggiungere il fine supremo proposto da
questa dottrina all uomo. l'annientamento in Dio. Suggestione (psieol.): nel
significato più generale f> l'evocazione, il suggerimento d’un’ideu o d’un
sentimento cho qualcuno esercita, volontariamente o no, sulla coscienza d’un
altro Individuo o ambe di se stesso (autosuggestione), e che agisce, senza
trovare resistenza, sulla condotta e sul modo di pensare di questo. È comune
nella vita so¬ ciale. _ La suggestione ipnotica consiste in un comando cui il
soggetto obbedisco senza riflettere, senza cho II suo con¬ senso intervenga:
per una specie «Vautn- matismo irresistibile, egli compie tutto ciò elio gli
viene suggerito, subisce, il¬ lusioni, allucinazioni, iperestesie, ane¬ stesie
dei sensi ccc. Superuomo: termine usato da Goethe nel Faust o reso popolare da
Nietzsche ; è la concezione idealo d’un tipo futuro di personalità superiore,
d'una specie li¬ tuana meglio dotata di quella attuale. nell’umanità deve
apparire tuia specie più forte, un tipo superiore, che abbia all re condizioni,
per creare c conservare, clic rurnno medio Tn una prima con- Sussunzione Tempo
codone U superuomo era per Nietzsche il gonio che s’innalza sulla folla e la
domina. Sussunzione (dal lat. subsumcre = su¬ bordinare; gr. u 7 c 6 X 7 )^/i£)
{Ionica): è una forma di ragionamento che consiste nel pensare un individuo
come com¬ preso in una specie, o una specie in un genere, o un fatto come
l'applica¬ zione d’una leggo. .-per Aristotele il unionismo di sus¬ sunzione è
il solo perfetto ; in esso il ter¬ mine medio è soggetto nella premessa
maggiore e predicato nella minore; p. e: « l’uomo è mortale, Socrate è uomo;
quindi Socrate è mortale ». T Tabula rasa {film.): a una tavoletta di cera su
cui nuda è scritto viene para¬ gonata daU’empirtono l’anima umana, la quale nel
suo nascere non ha ideo o cognizioni innate. L’espressione si trova nel De
anima d "Aristotele: &rsT:tp èv Ypa[xu.o!T£t(p té \j.r,Sh ùitxpxsi
y£vpx'j.;j.£VOv {sirut tabula rasa in qua nihil est scriptum, traduce 8.
Tommaso). Teismo (/ilo*.): si applica alle dottrine ohe ammettono un Dio
personale, tra¬ scendente, creatore del mondo; 6 pro¬ prio del Giudaismo,
dcllTsliunismo e, più particolarmente, del Cristianesimo. Teleologia (dal gr-
t£Xo; = fine e Xóyo? — discorso: scienza dei fini) (/iios.): dot¬ trina che
ammetto una specie di ragione cosmica o un essere supremo ohe agisca per cause
finali, cioè per l’attuazione di determinati fini nel mon¬ do e negli esseri. È
iniziata da Anassa¬ gora, sviluppata da Platone, da Ari¬ stotele, dagli Stoici
ccc. - per Kant la vita della nat uni, pur essendo soggetta al principio di
causa e a leggi meccaniche, rivela tuttavia un’arte tutta interiore, grazio
alla quale essa si organizza, produco esseri orga¬ nizzati o viventi, che
possono essere detti fini della natura. Però l’ammet¬ tere questi fini non ha
il valore di un principio costitutivo, ma solo regolati- vo, cioè «esprime la
regola senza la quale l’organizzazione della natura sa¬ rebbe inesplicabile per
la nost ra intelli¬ genza ». Temperamento (gr. xpaot? = mesco¬ lanza; trad.
lat. temperamentum)- (psi- cof.): dalla mescolanza dei vari umori del corpo
{sanane, bile, atrabile, linfa) e dai predominare d’uno di essi i Greci
dedussero la distinzione dei quattro temperamenti (sanguigno, bilioso o
collerico, melanconico, linfatico), distin¬ zione che tuttora si conserva. II
tem¬ peramento lia il suo fondamento nella vita fisiologica, specialmente nel
siste¬ ma nervoso, consideralo in relazione con l’attività psicologica; è
ereditario. Tempo ( filo ».): vi sono due principali concezioni del tempo :
realistica o oggettiva, die ci ò data nella sua forma tipica da Newton per cui
il tempo lia esistenza reale, asso¬ luta, senza relaziono con le coso ester¬
ne, o scorre in so stesso in maniera uniformo per sua propria natura, seuzu
rapporto col mutamento. È bensì vero che !a divisione umana del tempo in ore,
giorni, mesi, anni è relativa; perù tale relatività diponde dalia mancanza d’un
movimento uniforme atto u misu¬ rare il tempo in modo preciso e noti
contraddice al carattere assoluto ili questo. (La relatività della misura uma¬
na del tempo è sostenuta duo secoli dopo da E. Poincaré, fondandosi sul fatto
che tale misura si compie sulla durata dell’anno solare, la quale ò variabile;
la nostra misura del tempo è soltanto comoda, utile por le usigenzo umane, non
vera e assoluta). - idealistica e soggettiva: preannunziata da Leibniz, pel
qualo il tempo esprimo l'ordine di successione dello nostre percezioni, appare
nel suo carattere più spiccato in Kant: il tempo è intuizione pura, la forma a
priori dei fenomeni del senso interno, cioè dei processi psichici, la
condizione necessaria e universale dello nostro percezioni; quindi è
soggettivo, in quanto è un’attività dello spirito umano, ma è al tempo stesso
oggettivo. In quanto è condizione d'ogni possibile esperienza. - secondo
Aristotele a noi è dato solo il tempo itrescnle, perchè 11 passato non 6 più c
il future non ò ancora; quindi il presente è il limite fra 11 passato o il
futuro; fra tempo e movimento esiste un rapporto, in quanto il primo è la
misura numerica del secondo e contiene in sé distinzioni e divisioni che
possono essere calcolate o sommate. Agostino, pur affermando che Dio ha creato
il tempo, e con ciò attri¬ buendo valore oggettivo al tempo, però quando lo
considera nel suo aspetto umano e psicologico, lo interiorizza, 10 pensa come
soggettivo, lo definisce una distenmo animar, per la quale tutto 11 tempo è
presente, giacché il passato Teodicea — Teosofia ò presente nella memoria, li
futuro nel¬ l’aspettazione, mentre l’attenzione ci dà la coscienza del momento
presente (v. durata). Teodicea (gr. = dioc 8t*/.aia= cose giuste) (/ ilos .):
tonnine coniato da Leibniz per indicale quella parte della teologia naturale
che tratta della giu¬ stizia di Dio, ossia mira a giustificare j la presenza
del malo nel mondo e a conciliarla con la bontà divina, o ad ac¬ cordare
inoltre la libertà umana con* la realtà della provvidenza e pre-scienza di Dio.
Per estensione com¬ prende la trattazione. dell’esistenza e degli attributi
della divinità. Quindi, se il nome è recente, l’argomento è og¬ getto di studio
fin dall’antichità greca (Platone, Aristotele, Stoici ecc.). Teofania (dal gr.
9 -eó; = dio c «patveiv ss apparire) ( filos. c relig.): ò il mani¬ festarsi
della divinità, sia in maniera diretta, sia, in un significato più esteso,
indirettamente nelle sue opero o nel¬ l’universo. Teologali (virtù): v.
virtù.'reologia (gr. dio e \ 6 yo$ = di¬ scorso) ( relig . e filos.): è la
dottrina che ha per oggetto la divinità, i suoi attributi, i suoi rapporti con
l’universo e l’uomo. -la teologia rivelata o sacra s’appella. nella sua
trattazione, solo alla parola di Dio rivelata nelle Sacre Scritture o ai dogmi.
- la teologia razionale sottopone l’oggetto della fede all’esame critico della
ragiono. Teoria (gr. -ilstopCa = investigazione intellettuale, scienza)
(filos.): in oppo¬ sizione a prativa, designa la ricerca pura, disinteressata,
indipendente dalle applicazioni pratiche, non solo nella filosofia, ma anche
nelle scienze, come la fisica c la chimica. in opposizione a sapere volgare
esprime la trattazione metodica, sistematica, conforme a determinati principi,
o anche appoggiamosi a ipotesi scientifiche. - nel significato (li contemplazione,
vedi questo termine. Teoria biologica della conoscenza (filos.): è la dottrina
che fa derivare l’impulso al conoscere dalla vita, intesa nel suo significato
biologico, fondandosi sopra l’ipotesi che lo spirito umano sia soltanto
un’efllorescenza, una su¬ blimazione, un prolungamento della vita: perciò la
conoscenza risponde alle necessità prime e fondamentali doll’esi¬ stenza; la
conoscenza, dapprima con¬ fusa e soggettiva, conio nell’te/w/o, si va facendo
più cosciente e cliiara, toc¬ cando lo suo torme più elevate nella scienza c
nella filosofia. Teoria della conoscenza (filos.): ò la dottrina cho serve da
introduzione alla filosofia e rivolge l’attenzione non sull’oggetto conosciuto,
ma sullo stesso soggetto in guanto conosce, sullo spirito umano nella funzione
del conoscere; in altre parole, è il ripiegarsi della mente sopra se stessa per
indagare il potere che essa ha di conoscere. È stata concepita con chiarezza da
Locke e, ancor più profondamente, da ICant, che mira con la sua Critica della ragion
pura a ricercare le fonti, i limiti, il valore della facoltà conoscitiva
deiruomo. Hegel nega la possibilità
d’una teoria della conoscenza, affermando cho ò Impresa chimerica voler fissare
1 li¬ miti della ragione, anzitutto perché una ragione limitata non è più una
ragione; in secondo luogo perché la ra¬ gione soltanto può far la critica della
ragloue e, se questa riconosce e definisce i propri! limiti, con ciò non fa
altro che oltrepassarli, dal momento che la conoscenza del limite implica
necessa¬ riamente la conoscenza di ciò che sta al di là del limite. Teoria
economica della conoscenza (filos.): designa la dottrina cho, per comprendere
il legame tra i fenomeni, rinunzia al principio di causa e si vale soltanto
dell'idea di funzione (si vegga questo termine), riducendo a una pura
convenzione la differenza tra fenomeno fisico o fenomeno psichico. Ufficio es¬
senziale della conoscenza ò soltanto di descrivere 1 fenomeni e i loro rap¬
porti funzionali nel modo più sem¬ plice e con la maggior possibile econo¬ mia,
riducendo una lunga serie di espe¬ rienze a una formula abbretriata, cho
risparmi! ulteriori esperienze, dispensi da ràgionamentì o eolcol 1 ?omplicatÌ,
e riduca la trattazione dei fatti alla più semplice descrizione. È
rappresentata da H. Avenarius (v. empiriocri- licismo ), dal fisico Mach e
dalla Scuola di Vienna: ha tendenza anti- metafisica. Teosofia (gr. fi-sóc =
dio e 009£a = saggezza): si può dire una metafisica religiosa, in cui entrano
clementi di varia natura e di diversa provenienza. L’idea-comune alle varie
dottrine teo¬ sofiche è di giungere alla conoscenza di Dio e delle cose divine
mediante l'ap- Termini — 94 Tradizionalismo profondiment o della vita interiore
e ob¬ bedendo al precetto mistico clic « rientrare In sé j equivale ad «
elevarsi a Dio: in hurnano animo idem est mini¬ mum quoti intimimi : nell’anima
ciò che vi è di più alto e di più profondo coin¬ cidono (Riccardo di S.
Vittore). Que¬ sto procedimento rivela forze spirituali che si sottraggono alla
volontà umana o diurno luogo alla saggezza, alla calma e serenità interiore.
Una credenza teo¬ sofica caratteristica è l'evoluzione del¬ l'anima attraverso
la catena dello esi¬ stenze, la dottrina della reincarnazione. I ermini del
sillogismo = v. sillogismo. Terminismo (filos.): è il nome dato al nominalismo
di Guglielmo d’Occam, pel quale ogni cosa reale ò individualo (quaclibet res co
ipso quoti est, est haec rcs) e sono vere lo proposizioni quando si riducono a
termini , cioè ad espressioni vorbali che esprimano esseri in¬ dividuali. Terzo
escluso (principio del) (logica) : afferma che di due proposizioni con¬
traddittorie se l’una è vera, l'altra ò necessariamente falsa; una terza
proposizione non ò possibile. È stato formulato da Aristotele. Iesi £48-1600).
anima del mondo, antropocentrismo, coineklentia oppositorum, in¬ dividuo,
intelletto, monade, monadismo, panteismo, principio, umanesimo. Buchnkr:
materialismo. Bit RH) A no: Buridano (asini» .n- ). CAMPANELLA: conosci te
stesso, pri nudità. CANTONI: neo-kantismo t 'arnkadk: Accademia, ignava ratio,
progressus in intìnitum, relativo. Cartesio: auCoscienza, autorità, bene, buon
senso, cartesianismo, cogito, conosci te stesso, corpo, creazione continua¬ ta,
criterio, deduzione, Dio, dualismo, dui», bio, errore, essenza, estensione,
esterno (mondo), formale, gianduia pineali?, idea, illumi¬ nismo, immediato,
innato, legge, lume natu¬ rale, materia, oggettivo, ontologica (prova),
parallelismo, passione, percezione, qualità primarie, schema, sostnnzialismo,
spazio, spiriti animali, spiritualismo. CICERONE: anticipazione, aporia,
catalettica, cosmopolitismo, eclettismo, etica, neo-pitagorismo. Comtk:
discontinuo, filosofia della storia, positivismo, relativismo, sociologia.
COXPTLLAO: sensismo. Condorcet: progresso. ( Vij’krnico: antropocentrismo.
Cousin: eclettismo. CROCE: bello, neo-hege Usino. Cesano: alterità, coincidentia
oppositorum, doeta ignorantia, emanazione, explicatio, individuo, macrocosmo.
Darwin: darwinismo. De Bonald: tradizionalismo. Democrito: analisi, anima, atomo,
essere, filosofia, infinito, materiali¬ smo, meccanico, monadismo, nulla,
qualità primarie, spazio. Dkstutt de Tràcy: ideologia. Dilthey: comprendere.
Dubois-Reymond: ignorabimus. Dugàld Stewart: senso comune Duns Scoto: anima,
eeceità, individuazione, volontarismo. Einstein, relativo. Empedocle da
GIRGENTI: amore, elemento, infinito, pluralismo. ENEsrDEMO: relativo, tropi.
Epicurei: anima, anticipazione, edonismo, empirismo, errore, etica, piacere.
Epicuro: atarassia, atomo, beatitudine, canonica, dinamen, dualismo, idoli,
intermuncU, spontaneo, utilitarismo. Epitteto: stoicismo. Eracuto: anima,
attua¬ lismo, coincidentia oppositorum, conosci te stesso, divenire, logos,
polipiatin. Esiodo: etica. Euckkn: astrazione, attivismo. Euhemkro (IN’ sec. a.
Cr.): ovemerismo. Fechner: legge di K., jwico- fiaica. Feuerbach: umanismo.
Fichte: antitesi, esterno (mondo), idealismo, immaginazione, io, moralismo,
romanticismo. Stato, volontarismo. FICINO: Accademia, neo-platonismo. Filone: logos.
Focilide: gnomica. Freud: psicanalisi. Galileo: antropocentriamo, autorità,
causa, compositivo, empirico, epagoge, esperienza, esperimento esterno (mondo),
filosofia naturale, induzione, legge, numero, qualità primarie, ragione,
risolutivo, scienza. Gall: frenologia. GENTILE: atto puro, attualismo,
autoetwi, idealismo attuale, neo-hegelismo. Geulinx: cartesianismo, cause
occasionali. Gilsox:’ illuminazione. GIOBERTI: creazione, dualità, ente,
esistenza, formula ideale, intuito, me- tessi, ontologismo. Giustino:
apologetica. Gnostici: gnosi, intuizione, pleroma, non essere. Goethe: analisi,
superuomo, umanesimo, volontarismo. Haeckiu: biogenetico. Hamilton:
intuizionismo. IXartley): associazionismo. Hartmann: incosciente. Harvrt:
anima. Hegel: acosinismo, antitesi, at¬ tualismo, conosci te stesso,
contraddizione, dialettica, Dio, essere, esterno (mondo), evoluzione,
fenomenologia, filosofia della storia, idea, idealismo, intellettualismo, io,
liberti politica, non essere, ontologica (prova), ottimismo, panlogismo,
rappresentazione, razionale, razionalismo, religione, romanticismo. Stato
otico, storicismo, teoria della conoscenza, tesi, volontà. Heidegger: angoscia.
Helmuoltz: proiezione. Herbart: appercezione, pluralismo, volontà. Herder:
umanesimo. Hobbes: contrattualismo, illuminismo, piacere. Stato. Humboldt:
coltura. Hume: abitudine, analisi, associazione delle idee, associazionismo,
corpo, credenza, empirismo, osterno (mondo), fenomenismo, idea, impressione,
positivismo, religione, soggettivo. Husserl: eidetico, fenomenologia. Hutciieson:
senso morale. Huxley: agnosticismo. Hyde: dualismo. James: emozione,
pragmatismo, volontà di crederà Janssen: giansenismo. Kant: analisi, analitica,
antinomia, antitesi, antropologia, a posteriori, appercezione, apriorismo,
assoluto, autocoscienza, autonomia, bello, bene, carattere, categorie, conosci
te stesso, cosa in sé, cose e persone, coscienza trasccnd.. cosmologia
razionale, credenza, oritiea, criticismo, deduzione trascend-, dialettica,
dignità, Dio, dogmatismo, dovere, dualismo, empirico, epigenesi, esperienza,
esperienza possibile esterno (mondo), estetica, etica, fenomeno, filosofia,
line in sé, forma, generatio spontanea, giustizia, idea, identità, illusione
metalisica, immaginazione, immanente, immortalltà. imperativo. individualismo, innato,
in sé, intelligibile, intendimento, intenzione, intuizione, legalità, legge,
libertà, limitativi, metafisica. modalità, natura, neokantismo, noumeno,
oggettivo, oggetto, ontologia, ontolo¬ gica (prova), |iaralogiamo, passione,
pensiero, persona, piacere, [inssibile, pratico, predeterminismo, primato,
progresso, psicologia razionale, ragione, razionalismo, recettività, regno dei
tini, regressus, relativo, romanticismo, schema, sensibilità, sintesi,
soggettivo, soggetto, sostanza, spazio. Stato, sublime, tempo, teoria della
conoscenza, trn- noendontale, trascendente, volontà, volontà buona,
volontarismo. Kirkegaard: angoscia. Ivlaues (vivente): anima. Krause:
panenteismo. Lachelier: cause finali, i riduzione. 1. A lande (vivente):
logistica. Lamennais: tradizionalismo. Laplace: meccanica. Leibniz: antitipla,
appercezione, appetizione, armonia prestabilita, atto puro, bene,
contraddizione, Dio, energia, entelechia, idealismo, identità, illuminismo,
incosciente, individuazione, individuo, infinito, innato, intellettualismo,
male, materia, monade, monadismo, monismo, ontologica (prova), ottimismo,
percezione, pesona, piacere, pluralismo, ragion sufficente, rappresentazione,
schema, sostanzialismo, spazio, spiritualismo, spontaneo, subcosciente, tempo, teodicea.
Leonardo da VINCI: filosofia naturale. Lessino: umanesimo. Locke: analisi,
astrazione, contrattualismo, empirismo, esperienza, esterno (mondo), ideo,
modo, qualità primarie, rap¬ presentazione, ritleesione, spazio, Stato, teo¬
ria della conoscenza, tolleranza. Lotze: panpsichismo, valori (filosofia dei). LUCREZIO:
elmamen, internimi- d ; , progresso. M ,|M 1018V fenomenismo, induzione, Uacii
u . ft Bell» con»- poHÌtivfeino, icona t .ri-,)- «gostinismo, cor- Malebranche
-e: etica, gnomica. Spencer: agnosticismo, altruismo, a posteriori, associar.
One dello idee, associazionismo, evoluzione, inconoscibile, libertà, omogeneo,
relativismo, sociologia. Specsippo: Accademia. Spinoza: acosmismo, adeguato,
amore, animo del mondo, assioma, attribu- to, beatitudine, bene, cartesianismo,
causo sui, cor[x>, determinazione, determinismo, Dio, ente, orrore,
esistenza, essenza, esten- sione, esterno (mondo), immaginazione, ini- manente,
in sé, intelletto, intelligenza, Intel- ligibilc, monismo, necessario, panenteismo,
panpsichismo, panteismo, parallelismo, passione, per sé, ragione, razionalismo,
schema, sostanzialismo, spazio. Staiil: animismo. Stoici: adialora, uuima,
anima del mondo, anticipazione, apatia, ascetismo, asoroatieo, assenso,
atarassia, autarchia, beatitudine, catalettica, cosmopolitismo, empirismo, esperienza,
etica, filosofia, ignava ratio, indifferenza, legge, logos, macrocosmo, male,
nihil est in intelleotu, ottimismo, panpsi¬ chismo, panteismo, passione,
religione, ritorno eterno, saggio, spirito, stoicismo, teleologia, teodicea,
virtù. Stuart Mill: altruismo, associazionismo, concordanza, differenza,
edonismo, etica, induzione, positivismo, residui, variazioni. Tainb: analisi,
associazionismo, positivismo. Talete: filosofia, uno. TempieR: Averroismo.
Teognidf. : etica, gnomica. TertulUANO: allegorica, traducianismo. Timone:
pirronismo. TOCCO: monismo, neo-kantismo, AQUINO: analogia, anima, a
posteriori, a priori, contingente, contmgentia mundi, cosmologica (prova),
creazione, determinismo teologico. Dio. forma, idea, immanenza, individuazione,
intelligenza, ipostasi, metafisica, movimento, neo-scolastica, neo-tomismo,
ontologica (prova), prc- determinismo, ragione, sinderesi, spiritua¬ lismo,
Stato, tabula rasa, tomismo, univo- co, volontarismo. Tonnies: sociologia.
Vaihinoer: come se, iinziouc. Valentino (II sec.): coni, gnosi. Valkby:
identità. Vauhmioli: demone. VICO: corsi e ricorsi, degnila, filosofia della
storia, legge, provvidenza, verità. Vittorini: mistica, teosofia. Voltaire:
ottimismo. Winuelband: scienza, valori. Wolff: pratico, psicologia razionale,
razionale. Wundt: metafisico, normativo, psicologismo, scienza, volontarismo.
Zenone Ozici: stoicismo. Zenone Eleatico: antinomia, dialettica. z za
jr'srs' EMILIO MORSELLI PRINCIPI DI
LOGICA LIVORNO RAFFAELLO GIUSTI,
EDITORE LIBRAIO-TIPOGRAFO M 1906
PROPRIETÀ LETTERARIA
Livorno, Tipografia di Raffaello Giusti.
INDICE Capitolo I. Pag. 1-11 1. Ufficio della
logica, 1. — 2. Divisione generale della logica, 2. — 3. Lo¬ gica e
psicologia; relazioni e differenze, 3. — 4. Le origini della logica
razionale, 5. — 5. Il linguaggi*} o il ragionamento. 7. — 0. La logica o
l’edu¬ cazione dello spirito, 9. Capitolo II.12-17
1. I principi logici, 12. — 2. Il principio del terzo escluso e il
principio di ragion sufficiente, 14. — 3. L’origino psicologica dei
princìpi logici, 15. Capitolo III.18-30 1. Il concetto;
come si forma, 18. — 2. I caratteri del concetto, 21. — 3. La
relazione tra i concetti, 24. — 4. Le categorie, 28. Capitolo
IV.31-46 1. Che cos’c il giudizio, 31. — 2. Classificazione dei
giudizi. 33. — 3. Giu¬ dizi analitici e giudizi sintetici, 36. — 4.
Giudizi “ esistenziali „ e giudizi di valore, 37. — 5. 11 ragionamento,
39. — 6. Trasformazione dei giudizi per subalternazione, per opposizione,
per equipollenza, 40. — 7. Conver¬ sione o contrapposizioue dei giudizi,
43. — 8. L’evoluziono psicologica dol giudizio, 44. Capitolo
V . 47-57 1. Il sillogismo; nozioni preliminari. 47. — 2. Lo regole
del sillogismo, 49. — 3. Le figure e i modi del sillogismo, 51. —
4. Forme sillogistiche secon¬ darie, 53. — 5. Sillogismi composti,
54. Capitolo VI . 58-69 1. La logica aristotelica, 58.
— 2. La sillogistica aristotelica neU'antichità e nel medio-evo, 59. — 3.
Francesco Bacone e G. Stuart Mill, 61. — 4. Al¬ tre obbiezioni contro il
sillogismo, 04. — 5. La novità della conclusione nel sillogismo, 66. — 6.
La certezza scientifica nella conclusione del sillo¬ gismo, 07.
Capitolo VII. . . . ..70-78 1. Clie cos'è uu sofisma; i
sofismi verbali, 70. — 2. Sofismi propriamente detti, 71. — 3. La logica
dei sentimenti, 74. — 4. Le forme della logica affettiva, 76.
VI INDICE.
Capitolo Vili . Pag. 79*88 1. Il metodo; nozioni generali, 79. —
2. Il sapere scientifico, 80. — 3. Cbe cosa è una scienza, 82. — 4.
La classificazione delle scienze, 84. Capitolo IX. 89-102
1. L’osBervazione scientifica, 89. — 2. L'esperimento, 93. — 3. La
ricerca della causa, 94. — 4. Valore del principio di causa. 95. —
5. Evoluzione del concetto di causa, 96. — 6. I quattro metodi
sperimentali di G. Stuart Mill, 97. — 7. Osservazioni intorno ai metodi
dello Stuart Mill, 99. — 8. Ec¬ cezioni apparenti del principio di causa,
101. Capitolo X . 103-117 1. Che cos’è una legge
naturale, 103. — 2. I caratteri della legge natu¬ rale. 105. — 3.
L’evoluzione del concetto di legge, 107. — 4. Conno storico della teoria
logica dell’induzione, 110. — 5. Galileo Galiloi o G. Stuart Mill.
113. Capitolo XI . 118-132 1. La deduzione, 118.— 2. 11
fondamento delja deduzione, 119. — 3. L’ipo¬ tesi, 122. — 4. Esempio d’ipotesi
generale, 124. — 5. L’analogia, 126. — 6. Valore dell’inferenza
analogica, 127. — 7. La logica dell’invenzione. 129. Capitolo
XII.133-142 1. Il metodo sistematico, 133. — 2. Lo definizione;
norme generali. 134. — 3. Oggetto della definizione, 135. — 4.
Diverse specie di definizioni, 137.— 5. Regole della definizione,
138. — 6. La divisione, 139. — 7. La classifica¬ zione; utilità e specie
diverse, 140. — 8. Fondamento della classifica¬ zione, 142.
Capitolo XIII . 143-152 1. La dlmostraziono, 143. — 2. Prova
diretta, 144. — 3. Prova indiretta — 4. I principi supremi delle
scienze, 145. — 5. Definizioni, ipotesi, postulati, assiomi, 146. — 6. Il
calcolo delle probabilità, 149. Capitolo XIV. . . 153-170
1. Carattere generale delle scienze storiche, 153. — 2. Oggetto dello
scienze storiche, 155. — 3. Svolgimento del concetto di storia. 157. — 4.
La storia è una scienza o un’arte? — 5. La critica storica, 162. — 6.
Esiste una scienza generale della sociotà ?, 166. — 7. Il metodo nello
studio dei feno¬ meni sociali. 168. Capitolo XV .
171-178 1. La verità e il pensiero, 171. — 2. La verità e gli
oggetti esteriori, 172. — 3. L’autorità e la scienza, 173. — 4. Il
criterio della verità, 175. — 5. Il dubbio metodico, 177.
Conclusione. — II problema della conoscenza . . . . 179-190
]. Il problema della conoscenza, 179. — 2. L'origine della conoscenza,
180. — 3. Il valore della conoscenza, 183. — 4. L’oggetto della
conoscenza, 186. — 5. Scienza e filosofia, 188.
Raccolta di alcune fra le voci più comuni nella logica . 191-200
CAPITOLO I.
1. Ufficio della logica — 2. Divisione generale della logica — 3. Logica
e psico¬ logia; relazioni e differenze — 4. Le origini della logica
razionale — 5. 11 linguaggio e il ragionamento — 6. La logica e
l'educazione dello spirito. 1. Ufficio della logica. — Una
tendenza naturale e in¬ vincibile dello spirito umano in ogni momento
della sua storia e del suo sviluppo lo spinge a conoscere e a spiegare
i fenomeni che cadono sotto i sensi; un tale bisogno s’ap¬ plica
dapprima alle cose che hanno o sembrano avere un’uti¬ lità pratica e sono
favorevoli alla conservazione e al mi¬ glioramento dell’esistenza ; più
tardi, quando la lotta per la vita è divenuta meno aspra, la curiosità e
la ricerca si l’anno a mano a mano disinteressate e sono coltivate
per sè stesse, senza mirare in modo esclusivo alle necessità pra¬
tiche. Sorge allora il sapere scientifico, si formano lentamente le
singole scienze e la filosofia, le quali si possono ben con¬ siderare
come il prodotto più elevato e più pregevole dell’ in¬ telletto umano,
del quale mettono in chiara luce tutta la mirabile potenza.
Qualunque scienza oggi si consideri, si possono in essa distinguere
duo cose : la materia ossia Voggetto studiato ; la forma ossia l’insieme
delle operazioni che la mente nostra compie e dei procedimenti che
adopera per conseguire la scienza di quell’oggetto e per giungere alla
conoscenza vera delle cose. Valga a chiarire tale distinzione l’esempio
della psicologia sperimentale : la materia di questa scienza è co¬
stituita da fatti psichici, cioè da quei fatti che ognuno può
Morselli, Principi di Logica — 1 PRINCIPI DI
LOGICA. 2 constatare nella propria coscienza come
sensazioni, perce¬ zioni, idee, sentimenti, desideri, volizioni ; ma per
ottenere la conoscenza scientifica della materia psicologica
occorrono svariate operazioni tra loro strettamente connesse.
Innanzi tutto è necessario formarsi un concetto ben chiaro del
fatto psichico, determinando con precisione i caratteri che gli
sono propri e che lo distinguono dagli altri fatti naturali,
oggetto delle altre scienze; inoltre, poiché i fatti psichici, come
si presentano alla nostra osservazione, mostrano fra loro diffe¬
renze più o meno spiccate, sorge l’esigenza d’una classifica¬ zione in
fatti di conoscenza, di sensibilità, di volontà, dei quali bisogna poscia
ottenere una descrizione accurata, inda¬ gare le connessioni, ricercare e
stabilire le leggi. In queste ope¬ razioni e in altre simili ad esse, che
prescindono dalla materia e dal contenuto delle varie cognizioni,
consiste l’ufficio della logica, la quale si può quindi definire come
quella parte im¬ portante della filosofia, che ricerca e studia i
principi for¬ mali della conoscenza, ossia, per parlare con maggior
chia¬ rezza, qnellc cond izioni che debbono essere soddisfatte,
affinchè una cognizione, qualunque possa essere il suo contenuto,
si debba considerare come validamente costituita, ben fondata e vera,
non come un semplice caso o una supposizione incon¬ sistente. In questo
modo mentre le altre scienze s’occupano d’oggetti particolari, le
matematiche del numero e dello spa¬ zio, la fisica dei fenomeni luminosi,
elettrici, termici eco., la fisiologia dei fenomeni vitali, la logica si
occupa invece delle condizioni generali della scienza stessa, in quanto
mira ad assicurarci della verità formale di ciò che pensiamo, delle
nostre idee e dei nostri ragionamenti, qualunque ne possa essere il
contenuto. Si comprende quindi facilmente come la logica venga ritenuta
una disciplina filosofica generale al pari della metafisica e della
teoria della conoscenza o, con pa¬ rola greca, gnoseologia, le quali si
riferiscono a tutto il con¬ tenuto del nostro sapere e non a parti
determinate di esso. 2. Divisione generale della logica. — I
principi formali della conoscenza si distinguono generalmente in semplici
e complessi, secondochè si riferiscono alle forme elementari del
pensiero, oppure alle forme dette metodiche, a costituir le quali
CAPITOLO I. 3 ultime le prime contribuiscono
come dementi. Quindi la divi¬ sione più razionale della logica è quella
che distingue in essa due parti principali: la prima comprende lo studio
delle forme elementari del pensiero, che sono il concetto, il giudizio,
il sillogismo, nei quali si risolve ogni pensiero, per quanto
grande sia la sua complessità ed ai quali corrispondono gli elementi
linguistici, la parola, la proposizione, il ragiona¬ mento. La seconda
parte abbraccia lo studio delle forme me¬ todiche che le scienze vengono
applicando per acquistare nuove cognizioni e por ordinare e provare le
cognizioni ac¬ quistate ; onde questa parte dicesi metodologia, e tratta
del metodo inventivo che indica le norme, con le quali si possono
estendere le nostre conoscenze, e del metodo sistematico, cioè dei
procedimenti coi quali la scienza ordina le sue co¬ noscenze. La storia
della scienza ci dimostra chiaramente che il metodo non si costituisce a
priori, cioè prima che una scienza sia formata, ma piuttosto si deduce
dalla scienza, quando questa ha raggiunto un certo grado di sviluppo
; anzi si può dire che il metodo si trova spesso in ritardo
rispetto al cammino che percorre la scienza, nello stesso modo che i
trattati dell’arte poetica sono l’espressione tardiva dell’arte
contemporanea. Infine bisogna notare che ogni scienza speciale
presenta un complesso particolare di norme e di procedimenti, che
però non rientra nella trattazione della logica generale, essendo
strettamente collegato con la materia che costi¬ tuisce il contenuto
d’ogni singola scienza ; così il fisico, il chimico, il fisiologo,
oltreché delle conoscenze generali di logica, fanno uso nelle loro
osservazioni e nelle loro ricerche di re¬ gole e di mezzi speciali di
indagine, che sono propri della scienza alla quale dedicano le loro forze
intellettuali. 3. Logica e psicologia ; relazioni e differenze. —
Le ope¬ razioni che formano l’oggetto della logica possono essere con¬
siderate sotto due diversi aspetti, ossia sotto l’aspetto logico e sotto
l’aspetto psicologico. La psicologia tratta le operazioni logiche
come tutti gli altri processi che sono offerti allo studio dello spirito
umano, senza occuparsi per nulla della loro validità o della loro
4 PRINCIPI DI LOGICA. forza
dimostrativa, stimando clie un cattivo ragionamento valga quanto uno
buono, nello stesso modo che pel chimico lo zucchero e il vetriolo sono
due corpi d’egual valore per l’osservazione scientifica. La logica invece
è stata detta una « scienza ideale » , perchè ricerca le leggi che il
pensiero deve seguire per procedere alla conoscenza delle cose, ossia
ricerca la forma ideale del ragionamento, ciò che dev’essere un
buon giudizio, un buon ragionamento. La psicologia studia lo
spirito umano qual è, per cono¬ scerne i caratteri, la natura, le leggi
e, tende a mostrare come si formano le idee, i giudizi, i ragionamenti e,
in una parola, ha per fine di conoscere le condizioni reali delle
no¬ stre operazioni intellettuali ; la logica mira a conoscere le
forme ideali di queste stesse operazioni. Quindi l’una non fa che
constatare fenomeni, l’altra ne considera il valore; l’una ricerca come
noi pensiamo ordinariamente, l’altra come pen¬ siamo correttamente ; la
logica va dal semplice al composto; concetto, giudizio, o legame di
concetti, ragionamento, o le¬ game di giudizi ; la psicologia ripudia
questo ordine come artificiale, e pone il giudizio come elemento
primitivo, affer¬ mando che l’uomo ha cominciato a parlare per frasi
espri¬ mendo un giudizio e che questa frase può essere o una sola
parola, Vatirihuto, o due parole, soggetto e attributo, o tre parole,
soggetto, attributo e copula ; ma che sotto queste forme diverse la
funzione fondamentale rimane sempre la stessa : affermare o negare.
Così, per citare ancora un esempio, che renda più evi¬ denti le
differenze che corrono tra la psicologia e la logica, quest’ultima
considera il giudizio nella sua forma compiuta, quale lo possiamo trovare
nella scienza, nella letteratura, nei dogmi religiosi, o anche nelle
affermazioni del buon senso, e che si esprime per mezzo di proposizioni
le quali alla loro volta si compongono, nella maggior parte dei casi, di
più termini. Invece il psicologo, ben lungi dall’indagare ciò che
dev’essere un giudizio affinchè si possa ritenere valido, si chiede ciò
che è come operazione mentale e in qual modo si forma : dietro i termini
del giudizio egli ricerca le idee, dietro le idee le rappresentazioni ;
nelle proposizioni scorge un potere d’analisi o di sintesi capace di
dissociare gli eie- . ) r 5
CAPITOLO I. menti che l’esperienza presenta legati, d’unire quelli
che l’esperienza presenta isolati, e vuol trovare l’origine di
questo potere dello spirito umano, seguendone l’origine e lo
sviluppo, rifacendosi dalle forme più semplici del giudizio quali
si presentano nell’ infanzia, per risalire alle forme adulte e più
elevato. In conclusione, mentre lo psicologo si pone il seguente problema
: per quali influenze fisiologiche, psicologiche e so¬ ciali si sviluppa
nell’uomo l’abitudine di giudicare, d’affer¬ mare e di credere? il logico
si propone invece quest’altro: quali caratteri deve avere il
ragionamento, a quali esigenze e a quali leggi deve obbedire affinchè
possa dirsi regolare, libero da contraddizioni? La logica
dunque vuole offrire al nostro pensiero un mo¬ dello da seguire, se
inteude di apprendere l’uso retto e rigo¬ roso del ragionamento ; però, se
un tale modello deve avere un valore reale, bisogna che abbia la sua base
nella realtà, ossia nella conoscenza degli elementi e delle energie più
pro¬ fonde e costanti dello spirito umano; di qui l’importanza e la
necessità della psicologia per lo studio della logica. 4. Le
origini della logica razionale. — Una lunga civiltà ha abi¬ tuato non
solo gli uomini poco istruiti, ma ancor più quelli educati dalla
disciplina scientifica ad ammettere senza riflessione che la log ica
razionale, oggettiva, esatta sia sorta in modo spontaneo e naturale e che
i logici altro non abbiano fatto che «strame le re¬ gole. Vi sono invece
buone ragioni per affermare che la logica ra¬ zionale taira è il
risultato acquisito d'unn lunga evoluzione e che la facoltà di ragionare
e di inferire, suscitata e alimentata dai bi¬ sogni e dalle necessità
della vita, è stata essenzialmente pratica ' e ha dovuto fare i suoi
primi passi in modo incoerente e poco sicuro. Si è scritto
molto e si son fatte numerose congetture intorno nlla costituzione
mentale dell'uomo primitivo ; ma lasciando da una parte qualsiasi
ricostituzione deU'uomo appartenente alla preisto¬ ria, vi sono i
selvaggi attuali che, a torto o a ragione, si conside¬ rano come
equivalenti a quello, e intorno ai quali si hanno notizie numerose,
svariate e positive. In questi il livello delle facoltà lo¬ giche è assai
basso e si mostrano evidenti l'incapacità all'astra¬ zione e la
difficoltà estrema a collegare le idee secondo rapporti oggettivi; essi
sanno invece rag ionare praticamente, per mezzo di percezioni e di
immagini che conducono al risultato atteso cioè, alla
PBISCIPI DI LOGICA. 6
conclusione, e hanno il loro fondamento e l'origine nelle necessità
vitali e nelle questioni che si pongono di fronte agli agonti natu¬ rali
e soprannaturali. Per convincersi di ciò basta pensare ai mezzi che
l’uomo primitivo ha escogitato pel soddisfacimento dei suoi bi¬ sogni :
pel nutrimento, la caccia e la pesca ; per difendersi dalle intemperie,
le vesti e l'abitazione; per l'attacco e la difesa contro gli animali e i
suoi simili, le armi. La costituzione d’uua .logica pura
progredisce di pari passo coi progressi della tecnica, secondo le
attestazioni dei documenti sturici, che dimostrano essere la tecnica la madre
della logica ra¬ zionale : l'invenzione degli strumenti, degli utensili,
della fusione dei metalli, della navigazione, dell’astronomia,
dell'agrimensura ecc. Ita costretto a poco a poco lo spirito umano a
sottoporsi alla di¬ sciplina del ragionare. Terò questi “ ragionamenti ,
non sono liberi dagli elementi affettivi e fantastici ; infatti noi
sappiamo che ope¬ razioni profane, come il fabbricare uno strumento o
l'edificare una capanna, esigevano un intervento soprannaturale,
preghiere, sacri¬ fici, incantesimi, riti vari, forinole magiche ; tutte
queste cose erano considerate intermediari indispensabili per arrivare
allo scopo, o solo per l’influenza della coltura e della civiltà appare
manifesta 1 in¬ differenza e la vanità di questi mezzi e si fa complota
l'emancipa- ' zione della logica razionale. Quando questo
strumento naturale d'esplorazione che è il ra¬ gionamento si è affermato
e perfezionato con l'esercizio, l'abitudine e l'applicazione perseverante
a materie di varia natura, sono venuti i logici clic hanno analizzato,
dilucidato le inferenze corrette o hanno dettato le regole per ragionare
correttamente, incominciando con Aristotile a studiare le forme più
astratte o più rigorose del ra¬ gionamento. Però sono stati primi i
Sofisti, i più antichi maestri d’eloquenza, che tentarono di rilevare le
regole del pensiero cor¬ retto, nonché le regole grammaticali e le parti
del discorso, delle quali tutti si servivano senza saperlo; 1' * arte del
pensare, le regolo della dimostrazione e della confutazione divennero
neces¬ sarie in quel'giorno, in cui la forza della parola potè modificare
il verdetto d'un tribunale o l'opinione d'un’assemblea politica.
(') Ma a questo proposito, non bisogna confondere tra loro la
Io- pica e la dialettica, perchè quest’ultima è, come dice Aristotile,
l’arto che apre la strada al vero mediante la discussione dello
opinioni; discute, intorno ad un dato soggetto, le opinioni favorevoli e
quelle contrarie, no rileva le difficoltà e le contraddizioni, si può, in
una parola, considerare come l’arte della discussione. La potonza
della (i) Rjbot, La logique des sentiinents, pag. 23 e seg., F.
Alcnn, 1905. / CAPITOLO I.
7 parola è stata per un certo periodo della storia greca, lo
strumento pl-iucipale per governare; e non solo nelle assemblee del
popolo, ma anche nei tribunali, dove sedevano centinaia di giudici, la
parola era come un’arme che adoperala abilmente, raddoppiava le
proba¬ bilità della vittoria, e chi ne era privo, nel seno della propria
pa¬ tria e nella pace più profonda, era cosi esposto agli attacchi
degli avversari, come se si fosse precipitato nel tumulto della
pugna senza spada e senza scudo. Si comprende quindi facilmente
come nelle democrazie di quel tempo, la retorico, la quale è per
metà dialettica e per metà stilistica, siasi coltivata per la prima
volta come una professione e abbia preso un posto importante
nell'edu¬ cazione della gioventù. 5. Il linguaggio e il
ragionamento. — La parola si deve considerare non solo come un mezzo per
comunicare le idee, ma anche come uno strumento efficacissimo per lo
sviluppo del pensiero e del ragionamento. L’osservazione della
psiche infantile ha dimostrato che non è possibile un certo
sviluppo mentale senza Faiuto della parola nei primi anni di vita
del bambino, durante i quali egli percepisce, esperimenta e ra¬
giona senza possedere un linguaggio propriamente detto, che si sviluppa
poscia a poco a poco per un balbettio spontaneo, per l’espressione dei
sentimenti e per influenza del linguaggio che si parla intorno a lui e
che egli cerca d’imitare. Il Preyer ha riconosciuto nel fanciullo
una « logica senza parole » che precede di molto lo sviluppo integrale
del lin¬ guaggio. Infatti, quando il bambino allontana rapidamente
la mano dalla fiamma che il giorno prima lo ha bruciato, non compie forse
un vero e proprio giudizio di riconosci¬ mento ? L’ufficio
della parola diviene importante quando sorgono le idee generali, per le
quali la parola diviene un mezzo in¬ dispensabile ; infatti i sordomuti
che non hanno appreso il linguaggio tattile esprimono le loro
osservazioni in modo vivo o individuale per mezzo di gesti o di movimenti
d’imita¬ zione ; e appunto per questo carattere individuale e
concreto delle loro descrizioni non riescono a formare idee
generali chiare e distinte, le quali non si staccano mai bene dalle
rappresentazioni singolari; così, per indicare il cibo e il pasto essi
accennano al proprio corpo, indicano il rosso toccando
PRINCIPI UT LOGICA. 8 le proprie
labbra, esprimono col gesto l’atto di innalzare un muro, di tagliare un
abito; ma non sanno indicare l’idea generale di queste azioni, mancando
loro l’udito e la parola. (*) Il linguaggio verbale ha quindi una
doppia funzione: una funzione sociale, in quanto è il mezzo piti potente
di co¬ municazione del pensiero ; una funzione che si può dire in¬
dividuale nel senso che ferma per mezzo di formule stabili i nostri
pensieri più fuggevoli e più sottili, e li rende ai nostri occhi più
chiari e più resistenti. Ammettiamo pure che la potenza del pensiero
varchi i limiti d’espressione for¬ niti dal linguaggio, e che una serie
più o meno lunga di idee possa decorrere nella nostra mente senza che ad
essa corri¬ sponda una serie concatenata di parole ; così per esempio
io posso passeggiare solo attraverso i campi, fermarmi un se¬ condo
sulla sponda d’un fosso che io debbo passare : io ne « apprezzo »
coll’occhio la larghezza, « misuro » lo sforzo che debbo fare e mi trovo
senz’accorgermi sull’altra riva; tutte queste operazioni contengono una
serie di « giudizi » veri e propri, di atti silenziosi. Però in questo e
nei casi simili, le idee appaiono quasi come annebbiate, dai contorni
indecisi, e sfuggono con estrema facilità, se il linguaggio non
inter¬ viene ; e se poi qualche parola improvvisamente viene a
mancare, si arresta in modo brusco l’enunciazione del giu¬ dizio, e il
pensiero esce con fatica e spesso incompleto od offuscato. Il possedere
un linguaggio ricco e atto ad espri¬ mere le più tenui sfumature del
pensiero, equivale, pel pit¬ tore, all’avere una tavolozza ricca di
colori coi quali si pos¬ sano porre in rilievo i minimi particolari d’un
quadro. Certo non bisogna dimenticare, che se una lingua ben
fatta e abbondante è il migliore strumento di progresso per
l’intelligenza, tuttavia occorre che questa senta il bisogno di
servirsene. Il vocabolario usuale d’una persona dedicata agli uffici più
umili della vita si compone tutt’al più di qualche centinaio di parole,
appunto perchè queste sono sufficienti alle sue necessità intellettuali ;
e la povertà del linguaggio di alcuni popoli che vivono in uno stato di
roz¬ zezza primitiva, non è la causa, ma l’effetto della loro po-
(i) Hoffding, Psychologie, pag. 229, F. Alcan, 1900.
CAPITOLO I. 9 vertà mentale. Infine è da
notarsi che se il concetto non può far di meno d’una forma espressiva, la
forma espressiva non ha per sua necessaria condizione una forma logica o
un concetto. G. La logica e l’educazione dello spirito. — Lo
storico Tucidide dice che in una nazione colta e civile si esige
non già che tutti i cittadini debbano essere capaci di trovare la
soluzione dei problemi che loro si presentano, ma che sap¬ piano
giudicare con criterio retto ed equanime le soluzioni trovate ed
affermate dagli specialisti. Per raggiungere questo fine, oltre ad un
certo complesso di cognizioni letterarie e scientifiche, sono
indispensabili le buone abitudini intel¬ lettuali , che ci avvezzano a
considerare le cose con pazienza, a scorgere facilmente la falsità delle
soluzioni affrettate e troppo semplici, e a convincerci che a conoscer
bene la realtà occorrono analisi prudenti e ossorvazioni accurate e ripe¬
tute. Inoltre lo spirito deve avere l’amore disinteressato del vero,
assoggettarsi alla sola evidenza razionale, veder chiaro nelle proprie
idee, non prendere le proprie preferenze per buoni argomenti, i propri
pregiudizi o le proprie passioni per dimostrazioni valide. Lo studio
coscienzioso della logica può recare un aiuto efficacissimo a questo
scopo, divenire quasi un’igiene dello spirito e la preparazione
necessaria ad ogni istruzione scientifica seria e profonda; e questo si
può affermare per più ragioni. Anzitutto la logica è utile
considerata come scienza per sè stessa ; infatti, poiché V intelligenza è
lo strumento indi¬ spensabile in ogni ramo di cognizioni scientifiche e
queste ultime non si possono pensare senza di quella che in certo
modo le crea e le sviluppa, ne viene che è necessario al¬ l’uomo
conoscerne l’intima struttura ed il valore intrinseco, nello stesso modo
che nessuna persona sensata vorrà adope¬ rare uno strumento qualsiasi
senza possederne una qualche cognizione. In questo caso la necessità è di
gran lunga maggiore, poiché si tratta di conoscere come opera e
come funziona ciò che Bacone ha denominato « instrumentum instru-
mentorum ». 10 PRINCIPI DI
LOGICA. Però lo studio delle operazioni logiche del pensiero
ha un’altra ragione pur grave, se si considera come disciplina
dell’intelligenza, come conoscenza tecnica necessaria per aguz¬ zare e
rafforzare la facoltà del ragionamento e per rendere più pronto e più
sagace lo spirito d’osservazione. Il vedere come la nostra mente,
partendo dall’osservazione dei fatti e paragonan¬ doli fra loro, riesce
ad ottenere una cognizione generale, una legge naturale che ordina e
rischiara tutta una serie di fatti, ci aiuta a comprendere come si
acquista il sapere e per quali con¬ dizioni questo sapere deve rispondere
alla verità, e rendere più forte l’attitudine a cogliere i rapporti fra
le cose. Invece, l’accettare da altri una scienza bell’e fatta, la quale
non richiede da noi altra briga che quella, troppo leggera, di
credervi, non ci fornisce l’abito della critica, il desiderio della prova
rigorosa, e ci abitua a prestar la stessa fede ai fatti constatati, alle
leggi saldamente stabilite, e alle ipotesi probabili e solo possibili ;
il sapere che una verità è am¬ messa come certa non è come sapere in qual
maniera, con quali procedimenti e con quante precauzioni quella si
sta¬ bilisce, come nacque, come crebbe e venne formandosi. So¬
lamente in questo modo si impone il rispetto e l’amore della verità
scientificamente fondata e si formano le intelligenze libere, attive,
desiderose di conoscere, educate all’osserva¬ zione e alla critica, e
tolleranti delle opinioni altrui. Un pregiudizio assai diffuso pone la
memoria come unica base dell’educazione intellettuale, e si considera
come cosa impor¬ tantissima il versare nella mente il più gran numero
possi¬ bile di cognizioni, il ripetere con precisione tutto ciò che
è entrato passivamente nel cervello. E questo un errore fatale,
poiché s’è constatato infinite volte che in un breve periodo di tempo si
dimentica una gran parte di ciò che si è studiato meccanicamente con
grande fatica. Ciò che più importa è invece abituarci a pensare colla
nostra testa, formare lo spi¬ rito d’iniziativa : il fanciullo che impara
a camminare, im¬ para appunto perchè va colle sue gambe e non colle
altrui ; insegnare ad osservare, scrive il Gabelli, è insegnare a
pen¬ sare, a operare, a vivere, è infine formare la testa, intento
principalissimo dell’ istruzione ; quando invece l’offrire, o l’imporre
dogmaticamente le cognizioni bell’e fatte, è anne-
CAPITOLO I. 11 gliittire l’intelligenza, uccidere la
spontanea attività del pen¬ siero, consumare l’anima. (*)
Certo non si può negare che si può divenire un grande scienziato e
un finissimo ragionatore senza aver latto uno studio speciale della
logica, nè questa sa rendere forte e penetrante uno spirito che è
naturalmente falso ed ottuso ; ma come lo studio coscienzioso della
grammatica, senza for¬ mare da sè solo lo scrittore, gli concede il
possesso sicuro della lingua, così lo studio delle leggi che il pensiero
segue nella conoscenza rende più sicuro e robusto l’organo del ra¬
gionamento. Quindi, se la logica riflessa è insufficiente quando le venga
meno l’aiuto della logica naturale, la quale non si impara sui libri e
nelle scuole, ma si ha dalla natura, quando invece questa vi sia, la
nostra mente può essere più facil¬ mente avviata ad usare del pensiero
con abilità e con frutto. (») Gabelli, L’istruzione in Ilalia, voi.
I. pAg. 208, Bologna, Zanichelli, 1871. /
12 PRINCIPI DI LOGICA. CAPITOLO II.
J. I principi logici — 2. 11 principio del terzo escluso e il principio
di ragion suf¬ ficiente — 3. L’origine psicologica dei principi
logici. 1. I principi logici. — Poiché la logica mira ad
assicurarci della verità e della validità delle nostre cognizioni e
dei nostri ragionamenti, si presenta naturale la domanda se esi¬
stano principi o leggi fondamentali, alle quali ogni nostro pensiero
debba obbedire affinchè possiamo essere certi della sua verità.
Il principio di identità, il principio di contraddizione, quello
del terzo escluso fra i contradditori, e il principio di ragion
sufficiente esprimono appunto le condizioni necessarie per le quali noi
possiamo pensare correttamente, e sono leggi di ogni realtà spirituale
valevoli per le creazioni estetiche non meno che pei pensieri logici e
per la vita pratica. Il principio d’identità si esprime colla
formula: A è A, ed afferma l’identico dell’identico, che ogni cosa è
uguale a sé stessa. La parola identità, presa nel suo significato
eti¬ mologico indica che la cosa, che noi ci rappresentiamo in
diversi tempi sotto diversi nomi, in diverse combinazioni è sempre
identica a sé stessa ; però questo principio non deve affermare che nel
giudizio il soggetto e il predicato deb¬ bano dire esattamente la stessa
cosa, essendo un tale giu¬ dizio affatto vuoto di senso, come se dicessi
che « un circolo è un circolo » che « questa mano è questa mano » ; un
giu¬ dizio di tal fatta è una vera e propria tautologia priva d'un
valore qualsiasi per la conoscenza e, non a torto è stato detto giudizio
idiotico, giacché solo un idiota potrebbe compiacer¬ sene. Occorre invece
che il predicato esprima qualcuna delle qualità che appartengono, oppure
che possono aggiungersi al soggetto: Galileo è il fondatore della fisica,
Newton ha sco¬ perto le leggi dell’attrazione universale. Il principio di
iden¬ tità enuncia dunque l’impossibilità di pensare un concetto
CAPITOLO II. 13 dato e i suoi
caratteri come dissimili reciprocamente: vi è equivalenza assoluta tra un
tutto e la somma delle parti che 10 compongono, tra un concetto e
la totalità degli attributi che lo costituiscono ; cosi si può dire che
una cosa è uguale a sè stessa, oppure A = A. Anche quei
giudizi nei quali in apparenza il soggetto e 11 predicato sono
parole identiche, in realtà non sono tauto¬ logici. Così quando dico: la
guerra è la guerra, intendo di manifestare il pensiero' che, una volta
intrapresa una guerra, non è da maravigliarsi delle conseguenze triste
che ne pos¬ sono derivare; quando dico: i bimbi sono bimbi, col
soggetto voglio esprimere solo l’età infantile, col predicato le
qualità ad essa congiunte. Il principio di contraddizione
dice che due giudizi dei quali l’uno nega quello stesso che l’altro
afferma: A è B, A non è B, non possono essere veri nel medesimo tempo,
ma se l’uno è vero, l’altro è necessariamente falso. Aristotile dà
questo significato al principio di contraddizione, che giudica il più
certo di tutti (aùii) TtaaCtv iait $e$a.'.oxb.Tt] tC5v àpx® 7 )» poiché
non è possibile che alcuno pensi che la stessa cosa sia e non sia
(àSuvzrov yàp ÓvtivoOv Taùxòv OnoXa|i^àv£iv efvzt xai fitj eivat).
Molti secoli dopo il filosofo tedesco Guglielmo Leibniz ha dato
un’altra formula del principio di contraddizione, che è la seguente: A
non è non A; mentre la formolo aristo¬ telica riguarda la relazione tra
un giudizio affermativo ed uno negativo, invece quella del Ijiilmiz si
riferisce alla rela¬ zione che passa tra soggetto e predicato in uno
stesso giu¬ dizio, e significa che un giudizio è falso quando il
soggetto e il predicato si contraddicono ; Aristotile ha voluto dare non
già un criterio per stabilire la verità o la falsità d’un giudizio, ma
solo negare la possibilità di ritener vere nel medesimo tempo
l’affermazione e la negazione; invece il Leibniz ha inteso di porre un
principio, per mezzo del quale si potesse riconoscere la verità in tutte
le forme della conoscenza. Però le due formule esprimono alla fine
una sola e stessa legge del pensiero umano. Infatti che/significa: un
predi¬ cato B è in contraddizione con un soggetto A? che un affer¬
mazione, la quale attribuisce il predicato B al soggetto A,
14 PRINCIPI DI LOGICA. per es. il sangue caldo ai
rettili, contiene una contraddi¬ zione. Non vi è altra via, per la quale
una contraddizione divenga possibile se non questa, che il giudizio il
quale attri¬ buisce il predicato B al soggetto A, contraddica ad un
altro giudizio, il quale neghi che il predicato B possa convenire
al soggetto A; e poiché quest’ultimo giudizio; A non è B, i rettili non
hanno il sangue caldo, è evidente di per sé o per altre ragioni note, la
contraddizione annulla il primo giudizio ; e ciò avviene secondo il
principio enunciato da Aristotile, che le due proposizioni non possono
essere vere ambedue nel medesimo tempo. (*) Il filosofo greco
Eraclito (III secolo a. C.) sostenne la coesi¬ stenza ilei contrari,
partendo dal principio fondamentale del suo sistema, pel quale
attribuisco alla materia il cambiamento continuo delle formo e delle
proprietà, cosicché tutto ciò che vive è soggetto nd una distruzione
incessante e ad nn incessante rinnovamento, o quando il nostro occhio
crede di afferrare qualche cosa di perma¬ nente, è vittima d’una
illusione, giacché tutto in realta è in un perpetuo divenire, navi* pei.
“ Noi non possiamo, egli dice, discen¬ dere due volte nel medesimo fiume,
perchè di continuo porta nuove acque; quindi noi discendiamo nel medesimo
fiume e non vi discen¬ diamo, noi siamo e non siamo; il bene o il male
sono una sola o stessn cosa; la dissonanza è in armonia con se stessa;
l’armonia invisibile (cioè quella che risulta dei contrari) è migliore di
quella visibile,. Ora con una concisione degna d’un oracolo, ora con
precisione e ampiezza mirabile, formula la proposizione che la legge del
con¬ trasto regge tanto la vita degli uomini quanto la natura, e che
non sarebbe meglio por questi ottenere ciò che desiderano, vale a
diro vedere tutti i contrari fondersi in una vana armonia. ( s )
2. Il principio del terzo escluso e il principio di ragion
sufficiente. — Il principio del terzo escluso afferma che tra due giudizi
contradditori, A è B, A non è B, non è possi¬ bile un terzo modo di
essere, una terza via d’uscita, e che uno dei giudizi è necessariamente
vero, perchè ambedue non possono essere negati nel medesimo tempo; mentre
il prin¬ cipio di contraddizione dice che uno dei due è necessaria-
(i) Siowart, Logil-, I, p. 192. Freiburg i. B., Mohr, 1889.
(®) Gompebz, Les pene tur8 de la Orice. Libro I, 1.5 passini. F. Alcan,
1904. CAPITOLO II. 16
mente falso, perchè ambedue non possono essere affermati nel medesimo
tempo. L’applicazione di questo principio incontra difficoltà
ap¬ parenti, le quali dipendono unicamente dal fatto che una cosa
viene osservata in momenti diversi e sotto diversi aspetti. Cosi, mentre
il sole tramonta, è vero tanto raffermare che 1 LOGICA. ima
chimera, un non-valore. Tra queste due opposte estremità sono possibili
molte gradazioni, le quali contribuiscono a for¬ mare una « scala di
valori » . In modo simile, pel malato una determinata medicina, che può
dargli la guarigione, ha un grande valore, mentre per l’uomo sano non ne
possiede alcuno. In conclusione il valore è una qualità che noi
attribuiamo alle cose, come i colori, ma che in realtà, come i colori,
non esiste fuori di noi, ed ha quindi una vita essenzialmente sog¬
gettiva. La nozione di “ valore „ ò penetrala lentamente e tardi
nelle scienze filosofiche; qualcuno ha voluto farne risalire l'origine
ad E. Kant, fondandosi sopra alcuni passi di interpretazione alquanto
dubbia; ò invece più esatto attribuirne il inerito a Ermanno Lotze
(1817-1881), il quale espose il principio che mette in rilievo la no¬
zione di valore colle seguenti parole : * là dove due ipotesi sono ugual¬
mente possibili, l'una che s'accorda coi nostri bisogni morali, l'altra
che ad essi contraddica, bisogna sempre scogliere la prima „. In
realtà però codesto concetto è d’origine economica, e bisogna ricorcarne
la fonte prima nell’opera “ La ricchezza delle nazioni „ del- l’inglese
Adamo Smith (1723-1790), pel quale il valore ò ricondotto all'utilità, e
alla sua volta l'utilità alla soddisfazione dei bisogni e dei desideri
dell'uomo. Ai nostri tempi il principio di valore è dive¬ nuto quasi
popolare, grazio aU’opora di Federico Nietsche, sia che egli voglia
stabilire una * tavola di valori „, oppure restaurare “ l’equazione
aristocratica dei valori „, o biasimare acerbamente i “ valori di
decadenza ,, o rifare in senso inverso il lavoro dei mo¬ ralisti,
operando una * trasmutazione di tutti i valori ,, o celebrare i ‘ forti
che creano i valori ,. Il campo, nel quale si applica la nozione di
valore, è estesis¬ simo o comprende la morale, l'estetica e le scienze
sociali, la reli¬ gione ecc. Nella morale si ritrovano i concetti del
sommo bene, dell'imperativo categorico, del bene, della simpatia, della
giustizia, della carità, della solidarietà, dell’utilità individuale o
generale, del¬ l'obbedienza a una legge rivelata, alla religione ecc.
Nella vita sociale vi sono i concetti di teocrazia, di monarchia,
democrazia, feudalesimo, il regime di casta, la schiavitù, il lavoro
libero, il salariato, che variano di valore secondo i tempi, le
condizioni so¬ ciali e i bisogni. Infine nella religione
vediamo che il monoteismo, il dualismo, il politeismo, i dogmi sono
variamente apprezzati nelle diverse religioni.
CAPITOLO IV. 39 5. Il ragionamento. — Le percezioni,
le immagini, le idee astratte e generali forniscono la materia
indispensabile al ragionamento, il quale, nel suo significato più esteso,
è un atto dello spirito che consiste nel passare dal noto alV
ignoto. La forma pia semplice di ragionamento è quella che va da
una cognizione particolare ad un’altra cognizione particolare e che si
può già osservare nel bambino: questi, che ripete ed applica alcuni nomi
generali, forma una proposizione col- ltegando due nomi, come quando un
oggetto, che evoca in lui uu nome, evoca pure un altro nome, abbozzando
cosi le prime frasi incomplete e sprovviste di verbo. Quando per esempio
un cane scorge in un ruscello un liquido scorrevole, inodoro, incoloro e
chiaro, questa percezione suscita in lui, in virtù d’un'esperienza
anteriore, l'immagine d’una sensazione di freddo, e la percezione e
l’immagine s’uniscono per formare una coppia; nel fanciullo invece,
grazie al linguaggio, la me¬ desima percezione evoca la parola acqua ; la
medesima imma¬ gine evoca la parola freddo e le due parole s’associano
insieme a formare una proposizione, un giudizio. In molti di
questi accoppiamenti di termini che si sug¬ geriscono reciprocamente si
riscontrano i caratteri del ragio¬ namento, come quando uu segno presente
suggerisce una realtà non veduta distante o futura, per es. le nubi e la
pioggia ; qui abbiamo vere e proprie inferenze. Però nella
logica il nome di inferenza si applica ad operazioni mentali più
complesse, ossia a quelle per le quali da uno o più giudizi dati si passa
ad uu nuovo giudizio. L’inferenza è immediata, quando il giudizio
risultante è una conseguenza necessaria del giudizio dato ed è ottenuta
senza che sia necessario ricorrere a giudizi intermedi; cosi, se
dal giudizio che i triangoli sono poligoni io deduco che alcuni
poligoni sono triangoli, avrò un’inferenza immediata. Si avrà
invece un 'inferenza mediata, quando da un giu¬ dizio si passi ad un
altro ricorrendo ad un terzo giudizio. Cosi dal giudizio « gli uomini
sono mortali » posso dedurre queat’altro che Pietro è mortale, per mezzo
d’un terzo giu¬ dizio, vale a dire che Pietro è uomo. Tanto
nel primo, quanto nel secondo caso occorre che i giudizi posti in
relazione non abbiano contenuto affatto 40 PRINCIPI
DI LOGICA. diverso l’uno dall’altro, poiché allora non vi potrebbe
essere tra loro alcuna relazione logica, ossia dalla verità o falsità
del¬ l’uno non si potrebbe dedurre la verità o la falsità
dell’altro. 6. Trasformazione dei giudizi per subalternazione,
per opposizione, per equipollenza. — Quando la relazione è im¬
mediata, il contenuto dei due giudizi dev’essere identico, ma diversa o
la quantità, o la qualità, o la relazione, o la ino? dalità; dal primo
giudizio si deduce il secondo senza ricor¬ rere ad un giudizio
intermediario, e mentre la materia dèi raziocinio, cioè il soggetto e il
predicato, resta inalterata, si muta invece la forma. Le
relazioni immediate dei giudizi si possono ridurre a tre specie
principali: «) Per subalternazione, che ha luogo tra giudizi
iden¬ tici di contenuto e di qualità, ma diversi di quantità o di
modalità. b) Per opposizione, che ha luogo tra giudizi identici
di contenuto, ma diversi di qualità, oppure di qualità e di mo¬
dalità insieme, mentre la quantità può rimanere identica o mutare.
c) Per equipollenza che avviene tra giudizi di contenuto identico,
ma o diversi di qualità, o diversi di relazione. Affinchè apparisca
più chiaramente la diversità dei giu¬ dizi posti in relazione fra loro, i
logici indicano con la let¬ tera A il giudizio universale affermativo,
con E il giudizio universale negativo; con I il giudizio particolare
affermativo, con 0 il giudizio particolare negativo; e tale convenzione
fu espressa con artificio mnemonico in questi due versi:
Asserit A, nogat E, sed univejsaliter ambo, Asserit I, negat
0, sed particulariter ambo ; e dal filosofo bizantino Michele Psello
del secolo XI fu pro¬ posto il quadro che può vedersi nella pagina
seguente. a) La relazione per subalternazione ha luogo tra
giudizi identici di contenuto e di qualità ma diversi di quantità :
il primo è universale e dicesi subalternante, il secondo è partico¬
lare e dicesi subalternato. Le regole che stabiliscono il pas¬ saggio da
una ad altra forma sono: CAPITOLO IV.
41 1°. Dalla verità del giudizio subalternante (generale) si
conchiude la verità del giudizio subalternato (particolare); ma dalla
verità del subalternato non si può dedurre la verità dol subalternante,
poiché, come è facile comprendere, ciò che A opposti contrarii
g è vero d’un'intera classe è vero anche d’una parte di
essa, ma non viceversa. Così, se è vero che gli uccelli sono mu¬
niti di becco, è vero pur che alcuni uccelli sono muniti di becco; ma se
è vero che alcuni popoli sono monoteisti, non si può per questo
concludere che tutti i popoli sono mono¬ teisti. 2°. Dalla
falsità del giudizio subalternato si conchiude la falsità del
subalternante, ma dalla falsità del giudizio subalternante non
s’inferisce la falsità del subalternato. Se è falso che alcuni uomini
sono perfetti, è pure falso che tutti gli uomini sono perfetti; ma se è
falso che tutti gli animali sono provvisti di sistema nervoso, non ne
segue che sia falso l’altro giudizio, che alcuni animali sono provvisti
di sistema nervoso. b) La relazione per opposizione ha luogo
fra giudizi che sono identici di contenuto, ma diversi di qualità.
Diconsi opposti contrari se sono entrambi universali, opposti
subcon¬ trari se sono entrambi particolari, opposti contraddittori
se hanno diversa la quantità e la qualità. I passaggi da un
giudizio ad un altro opposto contrario sono retti dalla regola
seguente: Se uno di essi è vero, si può inferirne la falsità
del¬ l’altro, non potendo essere veri entrambi insieme ; ma non è
possibile l’inverso, poiché se uno di essi è falso, non si può affermare
che l’altro sia vero, potendo essere falsi tutti e
42 PRINCIPI DI LOGICA. due. Cosi, se è vero
che tutti i popoli civili dell’Oriente sono monoteisti, sarà falso
l’altro giudizio che nessun popolo civile dell’Oriente è monoteista; ma
se è falso che tutti gli uomini sono onesti, non sarà perciò vero
raffermare che nessun uomo è onesto. I giudizi subcontrari
possono essere ambedue veri, non possono essere ambedue falsi ; quindi
dalla verità dell’uno non si conchiude alla falsità dell’altro, ma si può
invece dalla falsità dell’uno dedurre la verità dell’altro; cosi se è
vero che alcuni uomini sono giusti, non ne segue che sia falso
l’altro che alcuni uomini non sono giusti; ma, se è falso che alcuni geni
sieno in tutto malefici, è vero il giudizio che alcuni geni non sono in
tutto malefici. Per V opposizioìie contraddittoria vale la regola
seguente: dalla verità dell’uno si inferisce la falsità dell’altro, e
dalla falsità dell’uno la verità dell’altro; se è vero che ogni
uomo è mortale, è falso che certi uomini non siano; se è falso che
tutti gli uomini* sono saggi, è vero che alcuni uomini non sono
saggi. c) Le trasformazioni logiche per equipollenza dei giu¬
dizi sono di molte specie; l’equipollenza tra giudizi d’identico contenuto
può aver luogo o per mutate qualità, o per mu¬ tata relazione, o per
mutazione della quantità nella modalità e di questa in quella, o per
mutata posizione dei termini nel giudizio, o per mutata posizione dei
termini e insieme per mutata quantità del giudizio. Vediamone qualche saggio.
Quando si tratta di giudizi di identico contenuto e diversi di
qualità, dato un giudizio, se ne può derivare un altro con diversa
qualità; es. « se ogni vizio è biasimevole, nessun vizio sarà da non
biasimarsi » ; quindi il giudizio uni¬ versale affermativo e il
particolare affermativo hanno cia¬ scuno i loro equipollenti qualitativi
nell’universale negativo e nel particolare negativo infiniti. Però, come
è stato osser¬ vato, se si bada bene, si vede che le trasformazioni
per equipollenza qualitativa non danno illazioni, perchè il conte¬
nuto logico e materiale dei due giudizi è lo stesso. Il principio, duplex
negatio afflrmans, indica questa identità; riducendosi ad espressioni
dello stesso giudizio in diversa forma, sono più del dominio della
grammatica che di quel della logica. CAPITOLO IV.
43 7. Conversione e contrapposizione dei giudizi. —
Due forme di raziocinio immediato s’ottengono con la conversione
e la contrapposizione dei giudizi. *' Si ha la conversione del giudizio
trasportando il soggetto nel posto del predicato e il predicato nel posto
del soggetto. Il giudizio reciproco può avere la stessa quantità del
giu¬ dizio diretto, e allora la conversione è semplice; es. «
nessun accusatore può fare da giudice, nessun giudice può fare da
accusatore » ; oppure può avere quantità diversa, e allora la conversione
si fa per accidente; es. « i triangoli sono poli¬ goni, alcuni poligoni
sono triangoli ». Le universali affermative si convertono per
accidente in particolari affermative; es. « i benefici mal collocati
sono malefici, alcuni malefici sono benefici mal collocati » .
Si convertono semplicemente tutti i giudizi universali uegativi:
es. «nessun pesce respira per polmoni, nessun ani¬ male respirante per
polmoni è pesce » . Sono pure convertibili semplicemente i giudizi
particolari affermativi; es. * qualche uomo è saggio, qualche saggio
ò uomo » . Se però il predicato fa parte del soggetto la conver¬
sione semplice non è possibile; se infatti dico: alcuni parallelo- grammi
sono quadrati, non posso dire : alcuni quadrati sono parallelogrammi,
poiché tutti i quadrati sono parallelogrammi. I giudizi particolari
negativi non presentano regola di conversione; dal giudizio « qualche
uomo non è medico » , non si può inferire che qualche medico non è
uomo. La contrapposizione consiste nel poter derivare da un
giudizio universale un altro giudizio di diversa qualità, mentre si
scambia l’ufficio dei termini, passando il soggetto a pre¬ dicato, e il
predicato a soggetto. Quindi i contrapposti dei giudizi affermativi, sono
negativi e quelli dei giudizi nega¬ tivi sono affermativi; es. « se tutti
gli atti virtuosi sono lodevoli, nessun atto non lodevole sarà virtuoso;
se nessun superbo è contento, talune persone scontente son superbe »
. Si è osservato dallo Stuart Mill che le regole logiche
della conversione e della contrapposizione dei giudizi non si possono
ritenere come regole del ragionamento, poiché le pro¬ posizioni
reciproche e quelle contrapposte non sono illazioni, e dicono in forma
verbale indiretta la stessa cosa che le 44 PRINCIPI
DI LOGICA. proposizioni dirette; vi è illazione solo quando v’è
passaggio da una nozione nota ad una ignota. Però se in molti
casi si può affermare che le trasforma¬ zioni dei giudizi non hanno altro
scopo che di farcene cono¬ scere con maggior chiarezza il contenuto,
tuttavia in alcuni casi, come nella conversione dei giudizi universali
quando non è artificiosa, e nel contrapposto del giudizio
universale affermativo, l’illazione ci dà qualche cosa di nuovo. Una
delle cause più. frequenti d’errori, là osservare il Bain, consiste
appunto nella tendenza a convertire le affermative universali senza
limite; quando si dice: tutti i grandi ingegni hanno il cervello
voluminoso, si passa facilmente ad affermare che tutti i cervelli
voluminosi sono grandi ingegni ; cosi pure quando si dice: tutte le cose
belle sono gradevoli, tutte le virtù conducono al benessere, ogni
evidenza suppone testimo¬ nianze contemporanee, sorge in noi la tendenza
a convertire senz’altro queste proposizioni. Di qui la necessità di
applicare le forme logiche per mettersi in guardia contro simili
errori. 8. L’evoluzione psicologica del giudizio. — Come abbiamo
già detto, si può considerare il giudizio nella sua forma completa,
quale si trova nella scienza, nella letteratura, nei dogmi religiosi o
nelle affermazioni dol sonso comune, ed ò espresso per mezzo di
proposizioni composte di piii termini, che dall'analisi vengono ri¬ dotti
al minor numero possibile: soggetto, attributo, copula; questo è
l’aspetto logico. Lo psicologo, invece di ricercare ciò che de- *’ essere
un giudizio affinchè sia valevole per la nostra ragione, si chiede che cosa
esso è quando si consideri come operazione men¬ tale, e come si forma.
Sotto le parole egli trova le idee e le rap¬ presentazioni, nelle
proposizioni un potere d'analisi e di sintesi; nella genesi
deU’affermaztone distinguo diversi momenti; in una parola, considera il
giudizio non come un prodotto completo, ma come una funziono di cui
descrive gli organi e l'attività. 11 punto di partenza
dell’evoluzione del giudizio, secondo un autore recente, (*) si deve
ricercare nelle manifestazioni della vita fisiologica. Ogni organismo, a
incominciare dal più semplice, ha il potere d’entrare in movimento di
porse stesso ; questa spontaneità non è del tutto indipendente, poiché
l'animale vive in un ambiente determinato, dal quale riceve eccitamenti
diversi, ai quali risponde (*) Ruyssen, L'éi'olution psychologique
tlu jugement, p, 53 e seg., F. Alcan, 1904. CAPITOLO
rv. 45 in maniera diversa, e può anche moversi
automaticamente per l’azione interna; quindi il movimento organico
elementare è un movimento d’oscillazione dall’esterno all'interno e
viceversa, uu alternarsi ritmico di consumo e di ncquisiziono che i
biologi chia¬ mano “ reazione circolare La cellula vivente ha una
costituzione propria che la rende atta a reazioni originali, è un sistema
con¬ servatore fondato sul principio della ripetizione, in una parola è
for¬ nita d’ abitudine . Se l'ambiente esterno fosse sempre
costante, la reazione cir¬ colare per ripetizione basterebbe ad
assicurare alla vita qualsiasi durata; ma noi sappiamo che l'essere
vivente è di continuo esposto alle variazioni termiche, meteorologiche,
luminose, alle quali deve adattarsi o perire; \'adattamento è appunto la
seconda facoltà ca¬ ratteristica della cellula; anche gli organismi
monocellulari sanno ricercare ed evitare con un discernimento prodigioso
gli agenti che sono loro favorevoli od ostili. L'adattamento
segue una via ascendente; anzitutto si scorge nelle reazioni motrici
dell'animale e del fanciullo, nelle quali si possono riconoscere le primo
manifestazioni della vita; il primo pe¬ riodo della vita infantile
costituisce il fondo d’abitudini sul quale vengono ad innestarsi gli
adattamenti ulteriori; le risposte del¬ l’organismo agli eccitamenti
successivi divengono a ninno a mano più facili c più sicure, preparando
così il terreno alla vita cosciente. Con l’apparizione della
coscienza si notano nuovi adattamenti motori provocati specialmente dalle
sensazioni della vista e del¬ l'udito; nelle quali si coglie la forma più
dementare del giudizio. 11 fanciullo risponde ad eccitamenti diversi per
mezzo di reazioni non più diffuse, ma precise, localizzate nelle parti
distinto dell'or¬ gano eccitato; così il suono d'una voce famigliare lo
fa muovere e gesticolare, un oggetto luminoso gli fa alzare e tendere le
mani; in una parola, le sue sensazioni quanto più variano e
s'arricchi¬ scono, tanto più facilmente provocano reazioni motrici
adattate al loro scopo, dove si può quasi scorgere la traccia d’una
scelta in¬ telligente. Il prender coscienza del piacere e del dolore è il
prin¬ cipio d'adattamenti più variati e più efficaci. A
queste reazioni sensorio-motrici, che formano una specie d’attuazione
primaria, succedono lo reazioni ideo-motrici che pre¬ suppongono il
sorgere de\V attenzione secondaria, del riconoscimento, dell’associazione
delle idee, e quindi del linguaggio e della facoltà di generalizzare. Con
queste diverse operazioni il fanciullo acquista gli elementi necessari
pel suo sviluppo mentale. I giudizi che pronuncia il fanciullo di due
anni e quelli dell'uomo adulto pos¬ sono differire in estensione e in
profondità, ma non pel meccanismo; 46 PRINCIPI
DI LOGICA. non avranno le qualità accessorie di rapidità, di
esattezza, di sin¬ cerità, ma 1 essenza sarà identica ; in una parola lo
affermazioni del fanciullo e dell’adulto differiscono solo per la forma,
non per la materia. Così pel fanciullo giudicare vuol dire, almeno da
prin¬ cipio, adattare in maniera appropriata i propri movimenti agli
sti¬ moli della sensibilità: apprezzare una distanza equivale a
rinnovare 10 sforzo necessario per percorrerla; riconoscere una
persona equi¬ vale n tenderlo le braccia, sorriderle, nominarla in
maniera ade¬ guata; comprendere un segno è come riprodurlo. Nell’adulto
la cosa non avviene in modo troppo diverso; malgrado le apparenze,
nei movimenti quotidiani, nel camminare, nel gestire, nel parlare
noi non facciamo altro che ripetere reazioni motrici che abbiamo
ac¬ quistato per le prime. Anche quando il pensiero arriva al suo
com¬ pleto sviluppo, quando s eleva alle più alto astrazioni della
scienza e della filosofia, non si libera completamente dall’elemento
motore; 11 linguaggio diviene qui ora sostegno indispensabile del
pensiero astratto. Bisogna pero notare che se l’operazione
intellettuale del giu¬ dizio ha le suo radici nel terreno biologico, non
ne segue che il suo valore soffra qualche diminuzione e che gli elementi
ideali e attivi cresciutivi intorno nel corso dell'evoluzione debbano
perdere patte del loro profumo e della loro freschezza; la stessa
osserva¬ zione si dove fare riguardo agli altri fatti riferentisi allo
sviluppo dello spirito untano, la famiglia, l'amore, il sentimento
morale, il pudore ecc. / CAPITOLO
V. 47 CAPITOLO V. 1. Il sillogismo — 2.
Le regole del sillogismo — 3. Lo figure e i modi del sillogismo. 4. Forme
sillogistiche secondarie — 5. Sillogismi composti. 1. Il
sillogismo; nozioni preliminari. — Già secondo Ari¬ stotile i
procedimenti che il pensiero umano adopera nella ricerca sono di due
specie ben distinte Ira loro: V induzione, èTCaYwy^i muove dal l'atto per
risalire alla legge e al princi¬ pio, dai giudizi particolari per
ascendore a giudizi universali, è il ragionamento che afferma d’un genere
ciò che si sa appar¬ tenere a ciascuna delle specie di questo genere;
ossia quella forma di ragionamento, per la quale dall’esame e dal
para¬ gone d’una serie di casi particolari si passa ad una propo¬
sizione generale che riguarda non solo i casi osservati, ma anche un
numero indeterminato d’altri casi che sono coi primi in una certa
relazione di somiglianza. Cosi se dico: i processi di conoscenza, di
sensibilità, di volontà presentano come carattere essenziale la coscienza
— i processi di cono¬ scenza di sensibilità, di volontà sono (tutti i)
processi psichici, e quindi tutti i processi psichici hanno come
carattere es¬ senziale la coscienza; faccio un ragionamento
induttivo. TI secondo procedimento è la deduzione, che dal principio
e dalla legge vuole discendere al fatto, da un giudizio uni¬ versale
andare ad un giudizio particolare; cosi, per usare l’esempio precedente,
se dico partendo da un principio noto: tutti i processi psichici hanno
come carattere essenziale la coscienza — i processi di volontà sono
psichici — dunque hanno come carattere essenziale la coscienza; compio un
ra¬ gionamento deduttivo. In ogni modo tanto l’una quanto l’altra
for ma di ragionamento si imo formulare per mezzo del sillo ¬ gismo
, che si può di conseguenza considerare come la forma più semplice ed
elementare del raziocinio. Aristotile è l’inventore della teoria
del sillogismo (da auXXéYO) raccolgo), che egli cosi definisce: Il
sillogismo è un 48 PRIXCrPl DI
LOGICA. discorso nel quale, poste alcune cose, un’altra cosa ne
risulta necessariamente, per questo solo che quelle sono poste :
£uXÀo- Ytopòs S è èoxi Xóyo; èv (Ti xe&évxwv xivwv, gxepóv xi
x&v xeipivwv àvàyxrjs oupPaivec x(7> xaOxa efvai, ossia:
quando si parte da due proposizioni, di cui l’tina afferma una pro¬
prietà data appartenente a tutta una classe d’oggetti, e l’altra afferma
che uno 0 più oggetti appartengono a quella classe, si passa ad una terza
proposizione nella quale la pro¬ prietà suddetta è attribuita anche a
questi ultimi casi. La parola sillogismo si legge già in Platone,
ma sola¬ mente nel significato generale di ragionamento; Aristotile
le diede il significato speciale che tuttora conserva; il prin¬ cipio
fondamentale su cui esso posa consiste in questo, che ciò che è contenuto
nel genere è pure contenuto nella specie. Inoltre dalla definizione
aristotelica derivano al sillogismo i seguenti caratteri : che
l’illazione o conclusione derivi dalle premesse, che derivi
necessariamente, e che enunci cosa di¬ versa da quella che è enunciata
nelle premesse. Ogni sillogismo comprende due premesse, Ttpoxxoei?
0 U7to9 , last;, ed una conclusione, aupxépaopa, cosi detta perchè
unisce i due termini estremi, ulpaxa. Nelle premesse entrano tre termini,
Spoi, il termine maggiore, xò pec^ov Sxpov, il termine minore, xò gXaxxov
fixpov, il termine medio, péao; 5po; che non entra mai nella conclusione,
ma serve a pro¬ durla, e jleve invece entrare in ciascuna delle due
premesse. Di queste l’una si chiama premessa maggiore 0 contiene il
predicato della proposizione che fa da conclusione, l’altra di¬ cesi
premessa minore e contiene il soggetto della conclusione.
Aristotile considera come il tipo del raziocinio e il solo perfetto
quello di sussunzione (subsumtio) nel quale appunto due idee sono poste
nella dipendenza come di specie a ge¬ nere, di cosa individuale a legge
generale. Cosi nel noto sil¬ logismo ; Tutti gli nomini sono
mortali Pietro è uomo Dunque Pietro e mortale
l’idea Pietro, termine minore è posta in dipendenza (subsu- mitur)
di mortale, termine maggiore, la sussunzione si opera per mezzo del
termine medio uomo. CAPITOLO V. 49
2. Le regole del sillogismo. — Le regole del sillogismo, secondo
la logica tradizionale, sono otto, delle quali quattro si riferiscono ai
termini, e quattro alle proposizioni. 1°. Il sillogismo non può
avere più di tre termini: ter¬ ni ìnus esto triple:/', meclius, maiorque
minorque. Se in un sillogismo vi fossero due termini medi
invece duino solo, si avrebbero come premesse due giudizi che non
avrebbero termine comune, dalle quali nessuna illazione, o solamente
un’illazione erronea potrebbe deri\aie, ciò appare cosi nel caso che i
due termini medi siano diversi nel signi¬ ficato come nel caso che,
differenti nel significato, sieno iden¬ tici nel nome, come chi dicesse:
borsa è una costellazione, ina l’orsa vive nelle selve, dunque una
costellazione vive nelle selve. 2°. I termini maggiori e minori
non debbono essere presi nella conclusione più universalmente che nelle
premesse: latius Ima quarn praemissae conclusi o non vult. Se
i termini maggiori o minori fossero presi nella con¬ clusione più
universalmente che nello premesse, si avrebbe allora un ragionamento che
andrebbe dal particolare all’uni¬ versale, non dall’universale al
particolare, come è richiesto dalla natura stessa del sillogismo; tale
errore è manifesto nell’esempio seguente : gli empi sono nocivi alla
società _ alcuni scienziati sono empi — dunque gli scienziati
sono nocivi alla società. 3°. Il termine medio non deve
entrare nella conclusione: nequaquam medium capiat conclusio
oportct. Questa regola deriva dal carattere fondamentale del
sil¬ logismo esposto più sopra; non la osserverebbe chi dicesse per
es. : Napoleone fu un grande statista — Napoleone fu un grande generale —
dunque Napoleone fu un grande sta¬ tista e un grande generale ; qui non
si è fatto altro che riu¬ nire le due premesse, facendo una proposizione
composta, non una conclusione vera e propria. 4°. Il termine
medio dev’essere preso almeno una volta universalmente : aut semel aut
iterum meclius generaliter esto. Questa regola vieta che il termine
medio sia preso tutte e due le volte particolarmente, non potendo allora
seguirne alcuna conclusione o solo una conclusione erronea ; così
dalle Morselli, Principi di Logica — 4
50 PRINCIPI DI LOGICA. premesse: le piante sono corpi
organici — gli animali sono corpi organici, non si potrebbe dedurre altro
che la conclu¬ sione seguente: gli animali sono piante; e similmente
dalle premesse: alcuni filosofi sono materialisti, alcuni filosofi
sono spiritualisti, seguirebbe la conclusione: alcuni spiritualisti
sono materialisti. 5°. Non si concliiude negativamente da premesse
afferma¬ tive: ambae affirmantes nequeunt generare negantem.
In fatti se le premesse sono affermative, dicono che i termini
maggiore e minore convengono col medio e quindi convengono tra loro,
escludendo la conclusione opposta a questa. Errerebbe chi dicesse per
esempio: il giudice dev’es¬ sere imparziale — il tale e giudice — dunque
non dev’es¬ sere imparziale. G°. Non si conchiude da premesse
negative: utraque si praemissa neget, nihtt inde sequetur. Se
confrontiamo il termine maggiore e il minore col medio e vediamo che non
convengono con esso, non è pos¬ sibile affermare nè che convengano, nè
che non convengano fra loro. Quale conclusione si può, per esempio,
trarre dalle due premesse seguenti: l’animale non è eterno _
l’uomo non è eterno? oppure da queste altre: l'acqua non è un
corpo semplice — la cellula non è un corpo semplice? 7°. Non
si conchiude da premesse particolari: vii seguitar geminis ex
partici/iaribus unquam. Per questa regola vale la dimostrazione che
abbiamo data per la seconda regola sui termini. 8°. La
conclusione segue la parte più debole delle pre¬ messe: peiorem sequitur
semper canclusio partem. I logici chiamano parte più debole la
proposizione negativa rispetto all affermativa, la particolare rispetto all’universale;
perciò la regola suona in questi termini: se una delle premesse è
negativa, la conclusione è negativa; se una delle premesse è particolare,
la conclusione è particolare. Nel primo caso una delle premesse
afferma che uno dei termini conviene col medio, l’altra premessa afferma
che l’altro termine non conviene col medio; donde si deduce fa¬
cilmente che i termini minore e maggiore non convengono fra loro; cosi se
affermo che logico conviene con uomo, ma CAPITOLO
V. 51 che libero dall’errore non conviene con nomo, i
due termini estremi: logico e libero dall’errore non convengono
evidente¬ mente fra loro: Nessun uomo è libero
dall’errore Tutti i logici sono uomini Dunque nessun
logico è libero dall’errore. Pel secondo caso vale la dimostrazione
che si è data per la seconda regola sui termini. 3. Le figure
e i modi del sillogismo. — Il sillogismo categorico è quello in cui le
premesse e quindi anche la con¬ clusione sono giudizi categorici, o
fungono come giudizi ca¬ tegorici: secondo il posto che il termine medio
occupa nelle premesse il sillogismo categorico presenta quattro ligure,
che indicando con la lettera M il termine medio, con P il ter¬ mine
maggiore, con S il termine minore, sono le seguenti : 1° MP
SM ' SP Il termine medio fa da soggetto nella
premessa mag¬ giore, da predicato nella minore, come nell’esempio:
I martiri della scienza onorano l’umanità Molti uomini sono stati
martiri della scienza Molti uomini onorano l’umanità. Il
sillogismo della prima figura è per Aristotile il tipo più perfetto del
ragionamento deduttivo, perchè va dalla causa all’effetto, dalla legge al
fenomeno, dalla condizione al con¬ dizionato; la sua validità dipende da
queste due regole, che la maggiore sia sempre universale e la minore
affermativa. 2° PM SM SP Nella
seconda figura il termine medio fa da predicato nelle due premesse;
inoltre la premessa maggiore dev’essere universale, e una delle premesse
deve essere negativa; es.: Nessuna scienza è corruttrice Ogni
oscenità è corruttrice Nessuna osceuità è scienza.
52 PRINCIPI DI LOGICA. 8° MP MS
SP Nella terza figura il termine medio fa da soggetto nelle
due premesse; la premessa minore dev’essere affermativa e la conclusione
particolare; es.: Nessuna frode è nobile Ogni frode è atto di
ragione Qualche atto di ragione non è nobile. 4° PM
MS SP Nella quarta figura il termine medio fa da
predicato nella premessa maggiore, da soggetto nella minore; es. :
Tutti i romboidi sono parallelogrammi Nessun parallelogrammo è un
trapezio Nessun trapezio è un romboide. Quest’ultima figura è
stata da Averroè attribuita al medico Oaleno (■{■ 200 d. C.), mentre le
prime tre furono stabilite da Aristotile. Però si nega generalmente che
possa esservi una quarta figura, o almeno si ammette che questa si
può ridurre con molta facilità ad una delle precedenti. Oltre alle
figure si sogliono distinguere nella logica i m° 09S > a sillogismo
dialettico, che, per provare la verità, discute il prò e il contro e
serve di preparazione alla scienza. Il sofisma, oó^tapa, da
oo;pf£o|i.ai o sillogismo eristico (eristica da ip££nrticolare
dall’universale-, provare scientificamente significa dimostrare le ragioni
in forza delle quali l’afferma¬ zione ha valore incontestabile; tali
ragioni si ritrovano solo nell universale. La sillogistica diviene cosi
il nucleo centrale della logica aristotelica e della logica tradizionale
fino ai nostri giorni. I punti fondamentali di questa dottrina sono
i seguenti : L illazione è la derivazione d’un giudizio da due
altri; poiché in un giudizio un concetto (il predicato) viene
affer¬ mato d un altro concetto (il soggetto). Tale affermazione è
valida solo quando il legame avviene per mezzo d’un terzo concetto, il
termine medio, il quale deve però avere coi due primi una certa
relazione, espressa in due giudizi, cioè nelle due premesse; 1 illazione
consiste appunto in quel processo del pensiero, il quale dalle relazioni
tra un unico concetto CAPITOLO VI.
59 e due altri, vuole manifestata la relazione che corre fra
questi due ultimi concetti. Delle relazioni possibili fra concetti
una se ne trova alla quale la logica aristotelica, conforme ai suoi
principi, ha posto speciale attenzione: quella della subordinazione
del particolare al generale. La sillogistica vuol conoscere le condizioni
del pensiero, per le quali con l'aiuto d’un termine intermedio, può
determinare se la subordinazione d’un con¬ cetto ad un altro può aver luogo
o no. Aristotile ha dato a questo problema una risoluzione feconda di
ottimi risul¬ tati; in essa consiste il merito imperituro della sua
sillogi¬ stica, ma anche il limite del valore di questa. Per
mezzo della deduzione, così determinata, la mente umana può solo
acquistare cognizioni meno generali di quelle più generali dalle quali
sono tratte. Qui appare il carattere (limitato) del concetto che gli
antichi si erano formato in¬ torno alle qualità essenziali del pensiero,
il quale può solo abbracciare e spiegare la realtà data, non creare nuove
ve¬ rità. Perciò la scienza che deduce, prova e spiega poteva di
nuovo dedurre ciò, che in un sillogismo serviva da premessa, come
conclusione d’un sillogismo più generale; alla fine però deve partire da
premesse che non possono più essere nè de¬ dotte, nè provate, nè spiegate
e neppure essere ricondotte al termine medio; la verità di esse è quindi
immediata (ìpsoa), indeducibile, non suscettibile di prova, inspiegabile
e consiste in quei principi più generali e forniti di im¬ mediata
certezza, che costituiscono il punto di partenza delle operazioni
scientifiche. (*) 2. La sillogistica aristotelica nell’antichità e
nel me¬ dio-evo. — Già sin dall’antichità, qualche secolo dopo la
morte di Aristotile, avvenuta nel 332 a. Cr. sorsero dubbi e discussioni
vivaci intorno al valore del sillogismo; tra i critici più notevoli a
questo proposito troviamo Cameade di Cirene (214-129 a. C.) e Sesto Empirico,
vissuto intorno al 200 dell’era volgare. p) Windelband,
Qeschichte der PhUosophie , png. 110 e sgg. Mohr, Tubingen, 1903, ed.
3*. 60 I PRINCIPI 1)1
XOGICA. Cameade, che è annoverato fra gli scettici della
seconda Accademia, insegnava che non si poteva fondare nessuna
dottrina sicura nè sopra il senso per le apparenze fra loro contrarie e
inconciliabili, nè sopra la ragione, perchè in tutto ciò che forma
oggetto di ragionamonto, si può ugualmente provare il prò e il contro;
egli dimostrava pure che ogni prova rende necessario un « regressus in
infinitum » , giacché per la validità delle sue premesse presuppone altre
prove; e questa conseguenza era importante per gli scettici, i
quali non ammettevano verità immediate, come abbiamo visto che le
ammetteva Aristotile. Più radicale di Cameade è il medico Sesto
Empirico, il quale dice che il vero scettico sottopone ad esame
qualsiasi affei inazione, reca il dubbio in ogni cosa e si astiene
tanto dall affermare quanto dal negare; egli fa un’analisi spietata
del sillogismo, il quale non riesce per nulla ad estèndere il campo delle
nostre cognizioni, poiché non serve a farci pas¬ sare da una verità nota
ad una vorità ignota. Ecco le parole di Sesto Empirico nel suo
capitolo contro la logica d’Aristotile contenuto nell’opera intitolata «
Uoibo- VSÌat U7tOTU7ttt)a£l£ » . Quelli che dicono:
Ogni uomo è mortale Socrate è un uomo Dunque Socrate è
mortale, per provare quest’ultima proposizione per mezzo della
prima commettono un circolo vizioso (e: C xòv 5t’ ianin touol)»
poiché ammettono che tutta la certezza della prima propo¬ sizione
non può derivare che da un’induzione di casi parti¬ colari dello stesso
genere di quelli che s’affermano nella con¬ clusione. Infatti se, prima
d’enunciare la proposizione gene¬ rale: «ogni uomo è mortale, noi non
siamo già convinti della verità di tutte le proposizioni particolari che
essa contiene, non si potrebbe ragionevolmente ammetterla per vera
». Di qui egli conclude che nessun sillogismo o catena di
sillogismi potrà mai farci conoscere qualche cosa di diverso da ciò che
prima già sapevamo, e che la deduzione, ben lungi d’essere la forma
tipica e più corretta del ragionamento, non è che un artificio sofistico
atto a mascherare la nostra CAPITOLO VI.
61 ignoranza e a far passare come prova delle nostre
opinioni le nostre stesse opinioni espresse sotto altra forma.
Nel Medio Evo fin quasi verso la metà del secolo XII la logica
aristotelica si studiava assai più nelle opere dei commentatori, che
negli scritti originali, pochissimi dei quali erano conosciuti; però
Aristotile è considerato come il filosofo che ha raggiunto il limite
estremo della sapienza — il maestro di color che sanno — come lo chiama
il Divino poeta, e quindi, il giudice inappellabile della verità;
donde la frase « ipse dixit » foggiata probabilmente dall’arabo
Aven'oè(112(1-111*8) «che il gran comento féo» considerato come il più
illustre commentatore dello Staggita, che egli chiama « regola e modello,
creato dalla natura a mostrare l’ultima perfezione umana, la cui dottrina
è la somma verità, poiché il suo intelletto segua il limite dell’umano
intelletto». Ma già durante il Rinascimento incomincia una
forte opposizione contro la logica aristotelica, specialmente per
opera di Bernardino Telesio (1508-1588), che vuol fondare la scienza
della natura sopra l’esperienza, e accusa Aristotile di aver voluto
spiegare la realtà con ipotesi arbitrarie; e di Francesco Patrizi
(1529-1597). Gli Umanisti affermavano ri¬ solutamente, come fecero più
tardi Giordano Bruno, Bacone da Verulamio e Renato Cartesio, che la
sillogistica dev’es¬ sere amplificata e perdere il predominio
tradizionale; che il sillogismo è incapace di farci acquistare nuove
cognizioni ed è una forma del pensiero infruttuosa. 3.
Francesco Bacone e G. Stuart Mill. — Francesco Ba¬ cone (15G1-1626)
considera la scienza come lo strumento e il mezzo più efficace per
volgere le forzo della natura al¬ l’utilità degli uomini e per dare
all’osservazione dei fatti naturali un carattere imparziale ed oggettivo,
combatte la dottrina tradizionale e intende di offrire un nuovo
metodo nella sua opera capitale Instauratio magna scientiarum, che
comprende due parti distinte : la prima intitolata De digni- tate et
augmentis scientiarum, la seconda Novum organimi in opposizione
all’Organo di Aristotile. Egli combatte aspra¬ mente il sillogismo
aristotelico, attribuendo all’induzione, il nuovo organo, l’ufficio più
importante nella ricerca delle PRINCIPI PI LOGICA.
G2 nuove verità scientifiche; sostiene che il sillogismo è
viziato profondamente da una petizione di principio, poiché se la
conclusione non è vera, non è vera neppure la premessa mag¬ giore; in
questa critica Bacone s’accorda quindi coi filosofi precedenti,
specialmente con Sesto Empirico. L’idea fondamentale della logica,
quale è stata conce¬ pita dallo Stuart Miti (1806-1873), consiste nel
ricondurre la logica ai fatti e all’esperienza, affinchè possa
diventare una scienza come le altre, ossia abbia per oggetto le
cose quali sono; essa diventa «la scienza delle operazioni intel¬
lettuali che servono all’estimazione della prova, cioè del pro¬ cedimento
generale che va dal noto all’ ignoto, delle operazioni ausiliarie di codesta
operazione fondamentale», è insomma una logica reale che ha per oggetto i
fatti e non le idee. La teoria del sillogismo è profondamente
trasformata nella dottrina del^Mill. Anzitutto egli dichiara che .ogni
sil¬ logismo, considerato nella sua forma ordinaria, contiene una
petizione di principio; così (piando si dice: Tutti gli uomini sono
mortali, Socrate è un uomo Socrate è mortale la
conclusione è presupposta nella premessa maggiore; noi non possiamo
essere sicuri della mortalità di tutti gli uomini, se prima non siamo
sicuri della mortalità di ciascun uomo; se si dice che la mortalità di
Socrate è dubbia prima d’essere estratta dalla premessa maggiore, questa
è colpita pure di incertezza e non può per conseguenza servire a
legittimare la conclusione. Il principio generale, ben lungi dal
provare la verità del caso particolare, non può essere accolto come
vero, se rimane l’ombra d’un dubbio sopra uno dei casi che esso contiene.
Quindi nessun ragionamento dal generale al particolare può, come tale,
provare qualche cosa, giacché da un principio generale non si possono
dedurre che i fatti particolari supposti conosciuti da quel
principio. Pertanto sembra che il sillogismo ci fornisca ogni
giorno la conoscenza di verità non ancora constatate o stabilite;
vi sarebbe dunque in esso la possibilità di trarre inferenza,
possibilità disconosciuta e quasi soffocata da formule artifi¬ ciali;
infatti è incontestabile che la seguente proposizione: CAPITOLO
VI. 63 il duca di Wellington è mortale, deve
considerarsi come un’inferenza: ma si può trarla da quest’ultra
proposizione: tutti gli uomini sono mortali? Bisogna rispondere di
no. L’errore che qui si commette dipende dal fatto che si di¬
mentica che nel procedimento filosofico vi sono due opera¬ zioni e due
parti, quella dell’ inferenza e quolla dell'abbre¬ viazione e che si
attribuisce alla seconda la funzione della prima. Infatti che cos’è, una
proposizione generale? Non è altro che un registro abbreviato delle nostre
osservazioni e delle inferenze che ne abbiamo dedotte; quando dalla
morte di Giovanni, di Pietro, e di tutti gli individui dei quali
abbiamo sentito parlare concludiamo che il duca di Wel¬ lington è
mortale, noi non possiamo senza alcun dubbio pas¬ sare per la proposizione
generale: tutti gli uomini sono mortali, come passeremmo per una stazione
intermedia; però l’inferenza non risiede in questa metà del cammino
che va da tutti gli uomini al duca di Wellington; essa è fatta
(piando noi abbiamo osservato che tutti gli uomini sono mor¬ tali. La
garanzia della mortalità del duca di Wellington è la mortalità di
Giovanni, di Pietro, di Giacomo e di tutti gli altri uomini a noi
conosciuti ; dal fatto che tra il primo e l'ultimo stadio del
ragionamento noi interponiamo una proposizione generale, la prova come
tale non riceve alcun giovamento. Quale è dunque la vera
funzione del sillogismo? Tutte le inferenze primitive si fanno dal
particolare al particolare; per esempio il bambino che, essendosi
bruciato il dito, si guarda bene dall’accostarlo alla candela, ha
ragionato e con¬ cluso, benché non abbia mai pensato il principio
generale: il fuoco brucia; egli si ricorda del dolore provato, e
fondan¬ dosi su questa attestazione della memoria, crede che,
quando vede la candela, se pone il dito sulla fiamma, si brucierà ;
egli n ensa ciò in tutti i casi simili che gli si offrono, senza guardare
più in là del caso presente; non gener ali zza, ma i nferisce un fatto
particolare da un altro fatto particolare . Le proposizioni generali sono
quindi semplici registri abbre- viati di inferenze già fatte e formule
assai concise utili per dedurne altre. Bisogna perciò dire non già che la
conclu¬ sione del sillogismo è dedotta dalla premessa maggiore,
ossia 64 TBIKCIPI DI
LOGICA. dalla proposizione generale, ma solo conformemente a
questa; la premessa reale, o, meglio, l'antecedente logico della
con¬ clusione, è la somma dei fatti particolari, dalla quale l’in¬
duzione ha estratto la proposizione generale. Noi abbiamo potuto
dimenticare questi fatti individuali; ci resta però sempre al posto di
essi una breve annotazione, un memo¬ randum, che, rammentandoci che certi
caratteri sono sempre legati a certi altri caratteri, ci permette di
passare dalla presenza degli uni all’esistenza degli altri. Ma
realmente l’inferenza ha luogo partendo dai fatti dimenticati e
con¬ densati nella formula generale al fatto particolare di cui si
tratta; il sillogismo quindi è essenzialmente un’inferenza dal
particolare ni particolare, la quale ha il suo fondamento e quasi la sua
autorizzazione in un’inferenza anteriore dal particolare al generale ; la
conclusione è ritrovata nella pre¬ messa maggiore , na non è provata da
questa. (’) 4. Altre obbiezioni contro il sillogismo. — Un altro
celebre filo¬ sofo inglese, Herbert Spencer (1820-1904) muove pure aspra
critica al sillogismo. Egli dice che noi non ragioniamo mai per
sillogismi, e che se vi sono verità che sembrano stabilirsi per mezzo
dello due premesse, ve ne sono altre che richiedono un procedimento
o più semplice o piii complesso, come le affermazioni elementari
che inseriamo spontaneamente, senza ricorrerò ad alcun termine
inter¬ medio, e le conclusioni che deduciamo da un sistema di
numerosi o svariati rapporti. Ma nuche ristretto entro limiti più
modesti, è il sillogismo la forma vera del ragionamento? Sia il
sillogismo seguente: Tutti i cristalli hanno un piano di
clivaggio Questo è un cristallo Dunque ha un piano di
clivaggio. Quosta serie di proposizioni esprime forse l’ordine voro
nel quale i nostri pensieri si succedono per produrre la
conclusione? Si può sostenere che prima di pensare a questo cristallo, io
ho pensato a tutti i cristalli e sono disceso dal generalo al
partico¬ lare? Vi sarebbe qui una coincidenza fortuita e affatto
inesplica¬ bile, poiché l’idea di questo cristallo ha dovuto precedere la
mia concezione di tutti i cristalli, ed è quindi uno degli clementi
della conclusione che mi ha suggerito uno degli elementi generali
della premessa maggiore. (!) Liart>, Lee ìogìciens
auglais contetnporains, pag. 24. F. Alcali, 1890, 3» ed.
CAPITOLO VI. 65 Se per evitare l’obbiezione, si
imita il posto delle premesse, si può sempre affermare che prima di
pensare alla proposizione generale: tutti i cristalli hanno un piano di
clivaggio, io ho già scorto in questo cristallo tale proprietà; è vero
che le mie espe¬ rienze anteriori mi determinano a riconoscere la
proprietà indicata nel caso particolare, ma il ricordo delle esperienze
passate non s'offre al mio spirito prima che io abbia osservato il caso
indivi¬ dualo; esso hanno lasciato in me la tendenza a considerare,
nel cristallo in questione, il piano di clivaggio piuttosto che
qualunque altro attributo; di qui io sono portato a pensare alla
proposizione generale che mi suggerisce la proposizione particolare, e da
quella ritorno a questa. Quindi ogni deduzione incomincia con un
rapporto inferito spontaneamente, ed ogni inferenza è ossenzialmente
indut¬ tiva. Al ragionamento dal particolare al particolare, secondo
il concetto del Mill, si può ricondurre la deduzione, diminuendo
con¬ tinuamente il numero dei fatti affermati e osservati ; esso è a
mela cammino fra le due forme di ragionamento, è quasi la comune
ra¬ dice donde ambedue partono. Oltre allo obbiezioni mosse
al sillogismo dal Mill, dallo Spencer e dai loro discepoli, pei quali la
logica si riduce alla teoria del¬ l'Induzione e dolla prova sperimentale,
e il sillogismo nd un'indu¬ zione mascherata, vi sono altre obbiezioni di
filosofi che, senza pro¬ porre le radicali riforme propugnate dai primi,
pure s'accordano con questi nel condannare la logica d’Aristotile, per
sostituirvi un sistema nuovo e più conforme alla verità scientifica.
Questi affer¬ mano che il sillogismo è una tecnica delle relazioni dei
concetti, cioè serve a rendere più chiare le relazioni che corrono fra le
nostre idee, e che il principale strumento della ricerca è sempre
l’induzione. In conclusione le obbiezioni che si movono al
sillogismo si possono ridurre essenzialmente a due principali:
1°. Il sillogismo non ci dà nella conclusione nulla di nuovo.
2". Pur affermando la novità della conclusione, si nega a que¬
sta il carattere di novità scientifica, poiché l’inferenza dal parti¬
colare al particolare non può offrire che conclusioni probabili, o in
alcuni casi, false; nel sillogismo classico: Gli uomini sono
mortali lo sono uomo Io sono mortale la conclusione non
contiene più di verità che la premessa maggioro; secondo i logici della
scuola dello Stuart Mill, bisognerebbe dire: Gli uomini del tempo passato
sono morti, Io sono uomo Dunque è probabile ch'io
muoia. Morsbi.li, Principi di Logica — 5
PRINCIPI DI LOGICA. 6) Op. cit., pag. Ili e sgg.
CAPITOLO Vili. 79 CAPITOLO
Vili. 1. Il metodo; nozioni generali — 2. Il sapere scientifico —
3. Che eoa'i una scienza — 4. La classificazione delle scienze.
1. Il metodo; nozioni generali. — La metodologia è la seconda
parte della logica, che ha per line di determinare le regole riguardanti
la ricerca e la prova delle verità scienti¬ fiche. Il metodo (da |i£xà e
éòój, via) abbraccia quindi lo studio dei mezzi coi quali lo spirito
umano estende ed ordina le sue conoscenze; donde la distinzione in metodo
inventivo, che esamina i procedimenti e le operazioni del pensiero
per le quali dalle cognizioni note si passa a quelle ignote; e
metodo sistematico (da auv-:oxT]p.t, pongo insieme) che invece studia le forme
con le quali le cognizioni vengono ordinate in un complesso di cui le
singole parti abbiano tra loro relazione e dipendenza reciproca. Per
rendere più chiara tale distinzione osserviamo l’esempio della psicologia
; questa scienza adopra nelle sue ricerche, ossia ne)l' estender e le
sue conoscenze, due strumenti essenziali che sono Vintrospezione od
osservazione interna e Vosservazione esterna, cui vanno unite V indagine
sperimentale e la misura 1 , al secondo ufficio, cioè a quello
sistematico, la psicologia soddisfi con la defini¬ zione del processo
psichico, per distinguerlo dagli altri feno¬ meni naturali, con la
classificazione in fatti di conoscenza, di sensibilità, di volontà
ecc. Però bisogna osservare che la logica tratta soltanto
delle nozioni metodologiche generali, di quelle operazioni che si
presentano come indispensabili in ogni singolo ramo di scienza ; non v’è
scienza che possa fare a meno della de¬ finizione e della classificazione
e dei procedimenti più sem¬ plici e più generali. Inoltre il metodo di
ogni parte del sapere comprende un certo complesso di particolarità,
che solo gli specialisti hanno il dovere di conoscere e di appli¬
care nelle loro indagini; così al chimico soltanto spetta di
80 PRINCIPI CI LOGICA. apprendere tutto
quell’insieme di particolari procedimenti che sono propri della chimica,
l’uso degli strumenti, le pre¬ cauzioni da osservarsi quando si osserva e
si sperimenta ecc. Questo compito, come è facile comprendere, sta fuori
del dominio della logica. Considerando la storia dello
sviluppo delle scienze, si può constatare che il metodo non si
costituisce a priori, ma piuttosto si deduce dalle scienze stesse quando
abbiano rag¬ giunto un certo grado di progresso; anzi si può ben
dire che il metodo si trova non di rado in ritardo rispetto al
cammino che percorre la scienza, nello stesso modo che ve¬ diamo i
trattati dell arte poetica essere in generale l’espres¬ sione ritardata
dell’arte contemporanea. Ed è facile com¬ prendere la causa di questo
fatto, la quale dipende da ciò, che il perfezionamento delle regole
metodiche è dovuto per lo più alle intuizioni e alle scoperte dell’uomo
di genio, per cui vediamo Galileo, Newton, Claudio Bernard, Darwin por¬
tare alle teorie logiche contributi preziosi, che poscia di¬ vengono
indicazioni e guida indispensabile per gli scienziati posteriori.
Ad ogni modo lo studio delle operazioni metodiche, quan¬ tunque
spesso il ricercatore si affidi, con molta cautela, al suo buon senso
naturale e trovi qualche volta nel caso un utilissimo ausiliario,
disciplina e regge la nostra intelligenza, abbrevia il tempo della
ricerca e ci fa conoscere più pro¬ fondamente l’organismo e il valore
della scienza. « Quelli che camminano lentamente, dice Cartesio, possono
percorrere un buon tratto di strada, se sanno tenere la via dritta
assai più di quelli che corrono qua e là allontanandosene ». 2. Il
sapere scientifico. — Il sapere scientifico inco¬ mincia a sorgere quando
un popolo raggiunge un certo grado di civiltà ed ha il suo fondamento in
un bisogno pratico della vita. E assai probabile che ogni scienza sia
derivata da un’arte corrispondente, la medicina dall’arte di
medicare comune anche ai popoli selvaggi, l’astronomia dalle
esigenze della navigazione, e forse anche la matematica ha
attraver¬ sato nel suo inizio un periodo, nel quale le verità
acquisite venivano considerate come conoscenze utili e derivavano
CAPITOLO Vili. 81 dalle necessità inerenti alla
costruzione delle case, alla misurazione dei campi ecc. In questo primo
momento cogni¬ zioni pratiche e conoscenze teoriche formavano una sola
e identica cosa; cosi da principio in una persona si riunivano
strettamente diversi uffici, il medico, lo stregone, il mago, il
sacerdote, che doveva combattere le malattie, molte delle quali pel loro
carattere epidemico e violento suggerivano facilmente l’idea di uno o di
più principi malefici che s’introducevano nel corpo, donde la necessità
di ricorrere, per cacciarli, all’aiuto di forze sovrannaturali. Con
molta lentezza, quantunque non ancora completamente, la divi¬ sione
del lavoro sociale e la conoscenza delle leggi naturali hanno separato
queste funzioni tra loro discordanti, distin¬ guendo lo stregone dal
sacerdote e il medico dall’uno e dal¬ l’altro. L’opinione ora
dominante consiste nel considerare la teoria come fondamento
indispensabile delle applicazioni pratiche, pur rimanendo l’uua e le
altre indipendenti tra loro; perciò vediamo che chiunque voglia oggidì
dedicarsi all’arte della medicina, deve prima d’ogni altra cosa
apprendere le scienze, come l’anatomia, la fisiologia, l’embriologia
ecc., le cui co¬ noscenze applicherà poi nelle malattie che dovrà curare.
Di qui la distinzione tra le scienze teoretiche e le scienze pra¬
tiche-. le prime tendono alla cognizione pura e hanno tra¬ sformato il
mezzo in fine, acquistando coscienza d’una fina¬ lità propria, la quale
consiste nella spiegazione della natura, cioè d’una massa enorme di
fenomeni che l’uomo vuole or¬ dinare razionalmente e spiegare per mezzo
di leggi; le se¬ conde invece si fondano sopra le scienze per applicarne
i risultati ai vari scopi che l’uomo o la società possono pro¬
porsi di raggiungere, e perdono quindi il vero carattere di scienza. In
questo modo, con lo svolgersi della conoscenza, il lavoro scientifico si
è a mano a mano diviso in due grandi parti: alcune discipline s’occupano
esclusivamente della teoria ed altre della pratica; quasi in ogni ramo
del sapere la parte teorica si è venuta staccando nettamente dalla parte
pra¬ tica. A noi spetta di considerare solo le scienze teoriche,
ossia le scienze nel senso più esatto e meglio determinato della
parola. Morselli, Principi di Logica — 6
82 PRINCIPI DI LOGICA. 3. Che cosa è una scienza. —
Se si considera una scienza qualsiasi, la fisica o la chimica, la
botanica o la zoologia, si scorge senza difficoltà che esse hanno di
mira non -la conoscenza dei singoli corpi e dei singoli esseri e
fe¬ nomeni separati e distinti completamente gli uni dagli altri ma
fatta eccezione, come si vedrà in seguito, della storia,’ tendono a
raggiungete concetti generali, i caratteri che le cose hanno comuni, ciò
che si ripete nei fenomeni, ossia la c/usse, la legge. Vediamo qualche
esempio, per chiarir meglio il vero significato di queste osservazioni e
le proprietà di¬ stintive di una delle produzioni più mirabili dell’umano
in¬ telletto, quale è la scienza. Lo studio del regno
animale ha per fine precipuo di pre¬ sentare in modo compiuto e ordinato
un quadro compren¬ dente tutti gli esseri viventi nella natura; e
raggiunse la meta dividendoli e suddividendoli in gruppi, in classi,
se¬ condo 1 caratteri comuni a ciascuna di queste, in mammiferi, in
uccelli, in pesci ecc. La psicologia considera i processi psichici non in
quanto sono individuali, ma in quanto sono generali; essa non osserva,
per esempio, questo o quel de¬ terminato atto volontario, questa o quella
determinata serie di percezioni, ina vuole stabilire i caratteri generali
dell’atto volontario e della percezione. In fine la fisica mira a
stabi- iire non come cada questo o quel corpo, ma la legge gene-
rale della caduta dei corpi, ossia come, date le attuali con-' ( izioni
dell universo, la caduta dei corpi. si ripeta in quel dato modo ovunque e
in ogni tempo. Però il concetto di scienza non è sempre stato lo
stesso, giacche vediamo che, ad esempio, gli antichi avevano di
essa un opinione assai diversa da quella che ha valore nell’epoca
nostra. 1 Per spiegare l’ordine che ammirava nell’universo,
Ari- statile ricorse alla nozione di essenza, di forma, di tipo-,
eoli pensa che la costituzione effettiva delle cose risulti di
due fattori : i°. I tipi immateriali, che tendono
costantemente a rea¬ lizzarsi nella materia, ed hanno, a quel che pare,
un’esistenza eterna ed ininterrotta; cosi il tipo « quercia comune »
guerci,s rmir esiste, ed io son certo che ad ogni momento vi è nel-
CAPITOLO Vili. 83 l’universo almeno un
esemplare individuale della quercia co¬ mune. 2°. La materia,
che subisce l’influenza dei tipi immate- • riali, si lascia muovere e
ordinare da essi, opponendo però una certa resistenza, di guisa che dove
maggiore è la quan¬ tità di materia, ivi è più viva la resistenza di questa
ad assumere la forma dei tipi, e minore appare quindi l’ordine :
perciò nei cieli eterei l’ordine è perfetto; invece ''nella re¬ gione
sublunare o della materia bruta vi è molta irregola¬ rità e
disordine. I tipi sono dunque eterni, permanenti e si
riproducono nella materia docile e resistente nel medesimo tempo.
■ L’epoca nostra non ha accettato questa dottrina, della quale ha
messo in rilievo gli errori e le conseguenze assurde ; essa non ammette
nè la costanza dell’ordine, nè l’esistenza di .irregolarità risultante
dall’opposizione della materia. Infatti, come già abbiamo detto, i
tipi naturali, mine¬ rali, vegetali, animali non sono permanenti, ma
vanno sog¬ getti a continue trasformazioni; il nostro sistema solare
sap¬ piamo essere la trasformazione d’una nebulosa, la terra essere
stata un tempo un anello gassoso, poi una sfera liquida, la flora e la
fauna terrestre aver avuto un principio, essersi arricchite
successivamente e non aver cessato di trasformarsi. L’ordine è certamente
una delle qualità che appaiono in modo più spiccato a chi osserva e
studia i fenomeni dell’uni¬ verso; può anche darsi che sia di questo uno
degli elementi essenziali; ma, ben lungi dall’essere costante, è soggetto
a mutazioni e a trasformazioni. In secondo luogo la scienza
moderna nega che vi siano fenomeni contrari alle leggi naturali, che
esistano deviazioni, anomalie risultanti da ima resistenza più o meno,
grande della materia; poiché anche nelle mostruosità e nei casi pa¬
tologici le leggi non soffrono eccezioni ; cosi se scorgiamo una piuma
salire verso l’alto invece di tendere al centro della terra, non
affermiamo certo essere questo fatto un’ in¬ frazione della legge di
gravità. In conclusione, una scienza è un sistema di verità e
di cognizioni generali, che sono dovute ad un lavoro metodico dello
spirito e della riflessione razionale dell’uomo.
84 PRINCIPI DI LOGICA. “ Il popolo greco ha diritto a
più d’un titolo di gloria: a lui, o almeno ai suoi grandi geni, era
concesso di fare i più brillanti sogni speculativi, di creare con la
poesia e le arti plastiche capo- lavoii incompaiabJi; ma vi è un altra
creazione dello spirito greco, che si può dire non solo incomparabile, ma
unica. Noi possiamo oggi gloriarci del predominio che esercitiamo sulla
natura grazie alla conoscenza che abbiamo acquistato delle sue leggi;
ogni giorno i nostri sguardi penetrano sempre più addentro, se non
nell'essenza delle cose, certo nel succedersi dei fenomeni; questi
trionfi a chi son dovuti, se non ai creatori della scienza greca? 1
legami che in tale materia uniscono l’opera moderna ai tempi antichi sono
bene evidenti. A Iato ad un immaginazione creatrice d’una ricchezza
mi- ìabile il Gieco possiede uno spirito del dubbio sempre vigile,
che esamina tutto freddamente; e non sosta davanti ad alcuna
audacia; ad un irresistibile bisogno di generalizzare si congiunge
un’osser¬ vazione così attiva e penetrante da non lasciare sfuggir la più
leggera sfumatura; una religione che accordava piena soddisfazione ai
bisogni del cuore, senza per nulla impedire la libera azione di una
intelligenza che minacciava o anche distruggeva lo sue crea¬ zioni.
Aggiungansi numerosi centri intellettuali aventi ciascuno il piopiio
emettere, 1 attrito continuo delle forze che escludeva ogni possibilità
di stagnazione, un’organizzazione politica e sociale elio frenava i
desideri vaghi e puerili della gente mediocre, senza met¬ tere in serio
pericolo lo slancio degli spiriti superiori: tali sono i doni naturali e
le condizioni favorevoli che hanno dato allo spirito greco la preminenza
e gli hanno concesso di porsi e di mantenersi al primo posto nel dominio
della ricorca scientifica „. (') 4. La classificazione delle scienze.
— Ora che abbiamo v isto che cos è una scienza, possiamo chiederci quale
rela¬ zione colie fra le diverse scienze; poiché, volendo queste
of¬ frirci la conoscenza dell’universo, ossia d’un complesso di
fenomeni connessi gli uni cogli altri, non si può negare che tra esse vi
sieno legami e relazioni. Di qui la necessità d’una classificazione delle
scienze, che è stata tentata fino dall antichità e che forma anche ai
nostri tempi oggetto di discussione. Aristotile ammette una
scienza fondamentale, la filosofìa prima, '-fùcoCfix npwTTj, avente per
oggetto la realtà ul¬ tima e 1 essenza immutabile delle cose, alla quale
sono su¬ oi Gojipebz, op. cit., pag. 292.
CAPITOLO vra 85 bordinate tutte le scienze, cioè la
teoretica, la quale comprende la matematica, la fisica, la storia
naturale, la pratica, che corrisponde alla morale, e la poetica, ossia
l’estetica. Francesco Bacone (1560-1626) ha tracciato una
classi¬ ficazione delle scienze fondata sulla sua teoria delle
facoltà dell'intelletto riducibili a tre principali, che sono: la
me¬ moria, l’immaginazione, la ragione; dalla prima facoltà deriva
la storia, che può essere civile e naturale', dall’immagina¬ zione deriva
la poesia, che può essere narrativa, drammatica e parabolica; infine
sulla ragione è fondata la filosofia, la quale ha un triplice oggetto:
Dio, la natura, l’uomo; donde la teologia, ossia la scienza che tratta di
Dio, degli angeli, e dei demonii; la filosofia naturale che comprende la
meta¬ fisica, la fisica e la matematica; la filosofia umana o
antro¬ pologia, che contiene la medicina, la psicologia, la logica
ecc. Augusto Comte (1798-1857), fondatore della filosofia po¬
sitiva, è l’autore d’una celebre classificazione delle scienze, che
esporremo qui brevemente. Egli ha diviso prima di tutto il sapere, per
rispetto al fine che questo può proporsi, in teo¬ retico e pratico. Alla
loro volta le scienze teoriche si possono considerare sotto un doppio
aspetto: o ricercano leggi vale¬ voli per tutti i casi possibili, come le
matematiche e la fisica, e allora sono generali e astratte ; oppure
applicano tali leggi alla spiegazione dei vari esseri esistenti in
natura, e sono particolari, descrittive, concrete. Per esempio, lo studio
delle leggi generali della vita è oggetto d’una scienza astratta,
la biologia ; mentre il determinare il modo d’esistere di cia¬ scuna
specie di esseri viventi mediante le leggi scoperte dalla biologia, dà
luogo a scienze concrete, quali sono la bo¬ tanica e la zoologia; queste
ultime quindi sorgono dopo e per effetto delle prime. Le
scienze astratte sono enumerate dal Comte nell’or¬ dine seguente :
matematica, fisica, chimica, biologia, socio¬ logia ; e una tale
divisione non è arbitraria, ma fondata sopra diverse e importanti
ragioni. Anzitutto il Comte osserva che i fenomeni si
presentano alla nostra osservazione in una serie di generalità
decre¬ scente e di complessità crescente, poiché ciascun ordine di
fenomeni è meno generale di quello che lo precede, ma più
86 PRINCIPI DI LOGICA. complicato; infatti, per poter
osservare un fenomeno in un maggior numero di casi, bisogna spogliarlo
(estrarlo) da un maggior numero di circostanze, e inversamente un fe¬
nomeno che conserva un maggior numero di circostanze, si riscontra meno
frequentemente; anche in questo caso la comprensione e Y estensione
stanno ira loro in ragione inversa, come abbiamo osservato a proposito
dei concetti subordinati. Cosi i ienomeni tisici sono meno generali, ma
più complessi di quelli matematici; i fenomeni chimici meno generali
ma più complessi di quelli fisici. Inoltre questa scienza è
gerarchica , poiché ciascuna scienza presuppone quella che la precede e
ne dipende, al¬ meno nei tratti essenziali, non potendosi studiare il
fenomeno più complesso senza conoscere quello più semplice, la
fìsica senza la matematica, la chimica e la biologia senza le
scienze precedenti. Inoltre la serie è storica, nel senso che
le scienze sor¬ sero 1 una dopo l'altra nell’ordine indicato. Qui non
bisogna confondere il sorgere, il costituirsi delle singole scienze
col loro sviluppo. La classificazione del Comte è
strettamente legata al suo sistema di filosofia, al positivismo, e non è
possibile ac¬ cettare la prima rifiutando il secondo. Si può ben dire
che il problema della classificazione razionale della scienza è un
problema essenzialmente filosofico. In questi ultimi anni le
classificazioni delle scienze si sono moltiplicale; il problema ha
assunto un aspetto filosofico, e cia¬ scuno che si accinge a risolverlo,
è guidato dalle sue vedute filo¬ sofiche o scientifiche. Noi citeremo qui
due fra quelle classifica¬ zioni che hanno ora maggior voga, quella di
Guglielmo Wundt, e quella del Windelband, esaminandole brevemente nelle
loro linee generalissime, come quelle che rispecchiano due fra gli
indirizzi filosofici ora predominanti. Secondo il IPundt, se
si classificano le scienze secondo il loro oggetto, si è condotti, dato
lo stato attuale delle conoscenze, a di¬ stinguerne tre gruppi: lo
scienze matematiche, le scienze della natura, le scienze dello spirito.
Le matematiche sono puramente formali, lo scienze della natura e quelle
dello spirito sono reali. Le scienze naturali indagano il contenuto
dell’esperienza fa¬ cendo astrazione dal soggetto conoscente; mentre le
scienze dello CAPITOLO Vili. 87
spirito, che hanno come fondamento principale la psicologia, stu¬ diano
quei fenomeni, nei quali l’uomo, considerato come fornito di volontà e di
ragione, è un fattore essenziale: alle leggi dello spi¬ rito debbono
essere subordinate le leggi della natura, e la causa¬ lità fisica è
governata da leggi assai diverse da quelle che gover¬ nano i fenomeni
psichici; poiché, mentre nel mondo fìsico si nota pur nel variare delle
sue energie, una rigidità immutabile, il mondo dello spirito invece
manifesta un continuo accrescimento d’energia, dovuto al fatto che ogni
processo psichico è una sintesi, un pro¬ dotto affatto nuovo fornito di
proprietà che invano si ricercano negli elementi che lo compongono.
Inoltre in ciascuno di questi due gruppi bisogna distinguere:
1° lo scienze che hanno per oggetto la scoperta di leggi che
reggono i fenomeni attualmente dati dall'esperienza, scienze feno¬
menologiche ; 2° le scienze che studiano le cose nella loro genesi,
scienze genetiche ; 3° le scienze che, considerando non piu i
mutamenti passeg¬ geri ma gli oggetti o almeno i risultati durevoli,
determinano per comparazione le relazioni di queste cose, ne formano
concetti di¬ stinti e riuniscono questi concetti in sistemi, scienze
sistematiche. Di qui il soguente quadro: 1° scienze
formali: matematiche. 2° scienze scienze
naturali se. fenomenologiche : fisica, chimica,
fisiologia, se. genetiche : Mimologia, geologia, scienza
doll'crolu- lionc degli organismi. se. sistematiche:
mineralogia, holanica, zoologia. reali scienze
se. fenomenologiche : psicologia. dello se.
genetiche: storia. spirito se. sistematiche: diritto,
economia politica. (') Il Windelband e il Jlickert distinguono le
scienze naturali, quali la fisica, la chimica, la psicologia, che
studiano le relazioni tra i fenomeni, le quali sono date da giudizi
universali e necessari, ossia da leggi, e sono quindi scienze rette da
leggi; e le scienze sto¬ riche, quali la meteorologia, la geologia, la
storia, che studiano la realtà considerata sotto l’aspetfo individuale e
si limitano a stabi¬ lire una pura successione di fatti, sieno essi
naturali o morali. La storia considera un organismo collettivo per sé
stesso, come qualche cosa d’individuale, di particolare, d’unico, mirando
a rilevare i 0) Wundt, Einleitung in die rhilosophie, E rate r
Theil, Leipzig, Engel- mann, 1901.
88 PRINCIPI DI LOGICA. caratteri che lo distinguono
da tutti gli altri organismi collettivi ; ingomma, un gruppo d’individui,
una famiglia, una nazione, lino stato sono esseri concreti al pari degli
individui, e sotto questo aspetto deve osservarli la storia, che non è
altro che la scienza del particolare, doli' individuale, di ciò che non
esiste che una volta sola e non si ripete mai. Quindi, mentre le leggi
naturali s’appli¬ cano ai fenomeni che si ripetono sempre nella stessa
maniera e non variano essenzialmente nelle loro manifestazioni, invece
nella vita storica non è possibile in alcun modo stabilire leggi simili
a queste, che si possano applicare tanto all’avvenire quanto al
passato, appunto perchè non esistono due individualità storiche
identiche, due avvenimenti che si possano ricondurre sotto la medesima
legge generalo. Gli avvenimenti storici non costituiscono se non serie
di fatti che si sono prodotti una sola volta nel corso del tempo e
non si riprodurranno mai più; e ciò è tutto l’opposto della nozione
di legge» che dà la formula dei fatti che si sono sempre prodotti e
sempre si riprodurranno: questa è la differenza essenziale ed im¬
portantissima che corre tra le scienze naturali e le scienze storiche.
CAPITOLO IX. 89 CAPITOLO
IX. 1. L'osservazione scientifica — 2. L'esperimento — 3. La
ricerca della causa — 4. Valore del principio di causa — 5. Evoluzione
del concetto di causa — 6. I metodi speriraontali del MUl — 7. Osservazioni
intorno ai metodi del Mill — 8. Eccezioni apparenti del principio di causa.
1. L'osservazione scientifica. — I principali procedi¬ menti che
il pensiero umano adopera per estendere le nostre conoscenze, per passare
dal noto all’ ignoto e che fanno parte del metodo inventivo, sono:
Vinduzione, la deduzione, l’analogia e l'ipotesi. Il metodo induttivo
c’insegna la via per risalire dai fatti alle leggi, ossia, come s’è già
accennato, ai rapporti costanti e necessari tra due fenomeni, dei
quali il primo dicesi causa e il secondo effetto ; il primo mezzo
per raggiungere questo scopo è l’osservazione. L'osservazione
si fa generalmente consistere in un atto immediato del conoscere,
nell’applicare il potere percettivo alla constatazione dei fenomeni. Gli
strumenti principali che adoperiamo nell’osservare sono i sensi quando si
tratta di fenomeni esteriori, la coscienza quando vogliamo esami¬
nare processi interni, pei quali è però sempre indispensabile anche
l’osservazione esterna. I sensi limitati e imperfetti ricevono un
aiuto prezioso dagli strumenti scientifici, i quali possono o aumentare
il po¬ tere di percezione, come il telescopio e il microscopio, o
ren¬ dere più esatte le osservazioni che noi facciamo, come i cro¬
nometri che permettono di misurare un secondo e parti minime d’un secondo,
oppure sostituirli ai sensi stessi, quando i fenomeni da osservarsi sono
fuggevoli e difficilmente affer¬ rabili, come ce ne porge esempio la
fotografia applicata allo studio dei fenomeni celesti, o quando i
fenomeni non pos¬ sono essere da noi percepiti. Cosi la retina
dell’occhio non è sensibile ai raggi ultra violetti, dei quali invece
rimane traccia sopra la lastra fotografica. 90
PRINCIPI DI LOGICA. Però l’osservazione scientifica ha il
suo fondamento es¬ senziale e la sua guida nella ragione, nell’
intelligenza la quale dirige la ricerca, interpetra e classifica i fatti
e ne trae le con¬ seguenze; in una parola, è il buon osservatore che fa
le buone osservazioni ; lo spirito di chi indaga sempre vigile,
attento anche ai ienomeni che sembrano più insignificanti, paziente
nel persistere nelle ricerche, imparziale, cioè libero da qualsiasi
pregiudizio, può giungere a risultati e a scoperte di grande valore, come
ce ne porge un mirabile esempio il Galilei, che possedette in grado
eminente l’ingegno critico; e si deve solo a questo se dalle sue indagini
intorno ai fenomeni na¬ turali seppe trarre conseguenze e cognizioni
importantis¬ sime: il suo metodo, come afferma egli stesso, si fonda
tutto sulla sensata esperienza non mai disgiunta dal ragionamento.
Innumerevoli persone avranno senza alcun dubbio osservato le oscillazioni
della lampada sospesa nel celebre Duomo, ma solo una mente severa e
indagatrice come quella del Galilei poteva da quel fatto avere il primo
impulso a stabilire ri¬ gorosamente le leggi del pendolo.
L’osservazione dev’essere quindi esatta, cioè fedele e scrupolosa:
bisogna raccogliere il maggior numero di fatti, nulla omettere e nulla
aggiungere. A questo fine occorre che l’osservatore sia fornito d’un
ricco corredo di cognizioni, af¬ finchè non si lasci sfuggire quelle
indicazioni minuziose che spesso collegano tra loro fenomeni i quali in
apparenza non presentano nulla di comune, e possa compiere un’analisi
com¬ pleta del fenomeno considerato, che solo uno spirito acuto,
provvisto di profonda cultura, sereno, libero di preconcetti è in grado
di compiere. È inoltre necessario che l’osservatore determini chiaramente
la scelta dei fatti che prende per sog¬ getto dei suoi studi, giacché
tutti i fatti non hanno lo stesso valore, ma alcuni conducono più
agevolmente allo scopo, altri invece ne allontanano, e i fenomeni che la
natura ci presenta sono innumerevoli, e tra essi la mente umana deve
sapersi muovere con grande discernimento. In conclusione, se
è vero che quando i fatti che servono di base al ragionamento siano male
stabiliti o erronei tutto l’edi¬ ficio rovinerà e le teorie scientifiche
fondate sopra di quelli saranno false, è però innegabile che nelle buone
qualità e CAPITOLO IX. 91 nella perspicacia
dello spirito risiede la condizione più pre¬ ziosa per una buona
osservazione. Cosi, per citare un esempio, alcuni astronomi prima di
Guglielmo Herschell avevano visto una stella nella costellazione dei
Gemelli, e l’avevano presa per una stella fissa; ma l’Herschell non
s’arrestò alle os¬ servazioni superficiali dei predecessori : esaminò la
qualità della luce, l’ingrandimento che presentava al telescopio, e
conchiuse che non poteva essere una stella fìssa; osservò quindi il suo
spostamento e dapprima io paragonò con quello delle comete e vide che non
coincideva; lo paragonò con quello dei pianeti e, confermando l’ipotesi
già formata, con¬ chiuse che era un nuovo pianeta, chiamato poscia
Urano. Il Galilei così descrive con somma finezza la grande
ricchezza della natura nel produrre i suoi effetti: “ Nacque
già in un luogo assai solitario un uomo dotato da natura di un ingegno
perspicacissimo e d’una curiosità straordi¬ naria; e por suo trastullo
allevandosi diversi uccelli, gustava molto del loro canto, e con
grandissima maraviglia andava osservando con che bell'artifizio, colla
stess’aria colla quale respiravano, ad arbitrio loro formavano canti
diversi o tutti soavissimi. Accadde che una notte vicino a casa sua sentì
un delicato suono, nè poten¬ dosi immaginare che fosse altro che qualche
uccelletto, si mosse per prenderlo, e, venuto nella strada, trovò un
pastorello, che sof¬ fiando in certo legno forato, e movendo le dita
sopra il legno, ora serrando ed ora aprendo certi fori che vi erano, ne
traeva quelle diverse voci, simili a quelle d'un uccello, ma con maniera
diver¬ sissima. Stupefatto e mosso dalla sua naturai curiosità, donò
al pastore un vitello per avere quello zufolo, e ritiratosi in sè stesso,
e conoscendo che, se non si abbatteva a passar colui, egli non avrebbe
mai imparato che ci erano in natura due modi da formar voci e canti
soavi, volle allontanarsi da casa, stimando di poter incontrare qualche
altra avventura. Ed occorse il giorno seguente che, passando presso un
piccolo tugurio, sentì risonarvi dentro una simil voce, e per
certificarsi se era uno zufolo o pure un merlo, entrò dentro e trovò un
fanciullo che andava con un archetto, eli ei teneva nella man destra,
segando alcuni nervi tesi sopra un certo legno concavo, e con lo sinistra
sosteneva lo strumento e vi andava sopra movendo le dita, e senz'altro
fiato ne traeva voci diverse e molto soavi. Or qual fusse il suo stupore,
giudichilo chi pnrticipa dell’ingegno e della curiosità che aveva costui,
il quale vedendosi sopraggiunto da due nuovi modi di formar la
92 PRINCIPI DI LOQIOA. voce ed il canto, tanto
inopinati, cominciò a credere ch’altri an¬ cora ve ne potessero essere in
natura. Ma qual fu la sua mara¬ viglia quando, entrando in certo tempio,
si mise a guardare dietro la porta per veder chi aveva sonato, e
s’accorse che il suono era uscito dagli arpioni e dalle bandelle
nell'aprir la porta! Un'altra volta spinto dalla curiosità, entrò in
un’osteria, e credendo d’aver a vedere uno che coll’archetto toccasse
leggermente le corde di un violino, vide uno che, fregando il
polpastrello d'un dito sopra l'orlo d’un bicchiere, ne cavava soavissimo
suono. Ma quando poi gli venne osservato che le vespe, le zanzare e i
mosconi, non come i suoi primi uccelli col respirare, formavano voci
interrotte, ma col velocissimo batter dell'ali rendevano un suono
perpetuo, quanto crebbe in esso lo stupore, tanto si scemò l’opinione
ch’egli aveva circa il sapere come si goueri suono; nè tutte l’esperionze
già ve¬ dute sarebbero state bastanti a fargli comprendere o credere
che i grilli, giacché non volavano, potessero non col fiato, ma con
lo scuoter l’ali cacciar sibili cosi dolci e sonori. Ma quando ei si
cre¬ deva non poter esser quasi possibile cbe vi fossero altre
maniere di formar voci, dopo l’avere, oltro ai modi narrati, osservato
an¬ cora tanti organi, trombe, pifferi, strumenti da corde, di tante e
tante sorte, e sino a quella linguetta di ferro, che sospesa fra i
denti, si servo in modo strano della cavità della bocca por corpo
della risonanza e del fiato pel veicolo del suono; quando, dico, ei
cre¬ deva di aver veduto il tutto, trovassi più che mai rinvolto
nell’igno¬ ranza e nello stupore nel capitarli in mano una cicala, e che
né por serrarle la bocca, nè per fermarle l’ali poteva nè pur
diminuire il suo altissimo stridore, nè le vedeva muovere squame nè
altra parte, e che finalmente alzandole il casso del petto, e
vedendovi sotto alcune cartilagini dure, ma sottili, e credendo cbe lo
strepito dorivasso dallo scuoter di quelle, si ridusse a romperle per
farla chetare, e tutto fu invano, sinché, spingendo l'ago più a dentro,
non 10 tolse, trafiggendola, con la voce la vita; sicché neanche potè
accertarsi se il canto derivava da quelle; onde si ridusse a tanta
diffidenza del suo sapere che, domandato come si generavano i suoni,
generosamente rispondeva di sapere alcuni modi, ma che teneva per formo
poterveue essere cento altri incogniti ed inopi¬ nabili. “ lo
potrei con altri esempi spiegar la ricchezza della natura nel produrre
suoi effetti con maniere inescogitabili da noi, quando 11 senso e
l'esperienza non lo ci mostrasse, la quale anco talvolta non basta a
supplire alla nostra incapacità “ Il Saggiatore, XII, 21 w .
CAPITOLO IX. 93 2. L'esperimento. — Un altro
mezzo efficacissimo nel raccogliere i fatti è Vesperimento, che consiste
nel riprodurr e artificialmente i fenomeni natnrali, per poterli stud
iare nelle c ondizioni p iù fa vorevoli . I vantaggi che lo sperimentare
offre sopra l’osservazione pura e semplice si possono ridurre ai
seguenti : a) I fenomeni che lo sperimentatore può procurarci
sono più numerosi di quelli offerti dalla pura osservazione natu¬
rale, potendo esso ripeterli e moltiplicarli a sua volontà. Però
l'esperimento non si può estendere a tutti quanti i fe¬ nomeni
dell’universo, e molti di essi non si possono in alcun modo riprodurre.
Cosi Galileo potè osservare due volte il più straordinario e il più misterioso
tra i fenomeni celesti: l’ap¬ parizione e l’estinzione totale di stelle
fisse, che vincevano in splendore tutte le altre stelle e i pianeti: anzi
una di esse si vedeva in pieno mezzogiorno. Fenomeni di questo
genero sono assai rari e si sottraggono naturalmente alla prova
dell’esperimento. b) I fenomeni forniti dall’esperimento sono
spesso più chiari, più evidenti ed hanno un valore dimostrativo
assai maggiore di quelli forniti dall’osservazione, giacché, mentre
la natura procede sinteticamente, e in un medesimo essere si riscontra
una moltitudine d’esseri, in un effetto una molti¬ tudine d’effetti; l’
esperimento invece separa questi elementi, isola que sti effetti, pres
enta un fenomeno separato dai fe no¬ meni concom itanti, rendendone qui
ndi più facile l’esame. Cosi ! osservazione della caduta dei corpi, quale
si prosoma in natura, è difficile o dà risultati assai scarsi; mentre
studiando tale fenomeno come si produce colla nota macchina d’Atwood,
tutti gli elementi e le circostanze di esso si possono rile¬ vare con
precisione. c) Lo sperimentatore può variare indefinitamente
il gruppo delle cause insieme agenti, e raccogliere con tal mezzo
più fàcilmente gli indici rivelatori dei rapporti di cau¬ salità, e
ottenere anche fenomeni nuovi, che in natura non si possono constatare,
come la caduta dei gravi nel vuoto, la liquefazione dell’idrogeno e
dell’ossigeno. Come è fàcile scorgere, anche nello sperimentare, se
si vogliono ottenere buoni frutti, il predominio spetta sempre
94 PRINCIPI
DI LOGICA. al potere discernitivo della ragione ; anche in questo
campo, come in quello dell’osservazione pura, la natura non rivela
i suoi secreti e le sue leggi se non al ricercatore illuminato e
guidato dalla luce dell’intelligenza. 3. La ricerca della causa. —
U osservazione e 1 ’esperi¬ mento si possono denominare operazioni
preparatorie , in quanto servono quasi a fornire il materiale, il
complesso dei fenomeni, che verranno poi elaborati dall’ induzione per
trarne le leggi generali ; quest’ultimo compito, che ha nella scienza
un’importanza essenziale e ne è il fine più alto, pro¬ cede anzitutto
dalla ricerca della causa. Vediamo quindi di chiarire il concetto di
causa, soggetto di tante discussioni tanto nella filosofia quanto nella
scienza dei tempi nostri. Il principio razionale di causalità
consiste nell’afferma¬ zione che « nell’universo ogni fenomeno ha una
causa » . Quindi allorché si presenta un nuovo fenomeno, ossia
quando nell’universo ha luogo un mutamento qualsiasi, dobbiamo
considerarlo come la conseguenza, la continuazione, la tra¬ sformazione
d’un fenomeno anteriore. Noi diciamo che esiste un rapporto causale tra
due fenomeni, quando li conside¬ riamo cosi strettamente legati l’uno
all’altro, che quando è dato il primo, l’altro si presenta
inevitabilmente. Perciò mentre nel significato volgare la causa si
restringe a indi¬ care il fenomeno antecedente d’un altro fenomeno, a
designare ciò che produsse una cosa o un fatto, invece nel
significato scientifico i due termini causa ed effetto sono
correlativi, l’uno non può sussistere senza l’altro, e il passaggio,
la transizione dal fenomeno antecedente al fenomeno conse¬ guente
apparisce come il punto vitale, il « proprium quid » della causalità. Si
giunge così ad affermare l’identità della causa e dell’effetto, a
considerarli come due manifestazioni d’un’identità fondamentale, benché
differenti nel tempo. In conclusione, si può dire collo Stuart Mill che «
la causa è la somma delle condizioni positive e negative, che,
essendo date, sono seguite da un conseguente invariabile ». Cosi,
quando esprimiamo la legge biologica generale: Vaumento eli temperatura
produce un’azione eccitante su tutti i processi vitali, vogliamo indicare
che se è dato l’aumento della tem- CAPITOLO
IX. 95 pelatura , n ® se £ ue > invariabilmente il
crescere dell’energia e della ìapidità del movimento in un essere vivente.
4. Valore del principio di causa. - Il principio di causa e una ipotesi
che è accertata solo fino ad un certo punto e si può sostenere che non si
potrà mai avere una verifica- zinne completa del principio di causalità
per mezzo del- 1 esperienza. Il principio di causalità stabilisce un
ideale, che pei la nostra coscienza non potrà mai avverarsi.
Anzitutto 1 esperienza non può mai dimostrarci che vi sia tra i
fenomeni una continuità assoluta ; giacché in tutte le evoluzioni che noi
possiamo seguire, si trovano sempre /acune, differenze non spiegate.
Quando si sarà spiegato il passaggio dal fenomeno A al fenomeno B
scoprendo ]’ inter¬ mediario k, si avranno due questioni invece di una:
come si spiega il passaggio da A a k e quello da k a B? In
secondo luogo l’esperienza non ci palesa nessuna ri¬ petizione assoluta ,
la quale sarebbe una condizione necessaria per applicare la legge di
causa. Anche quando noi siamo convinti che A è la causa di B, non avremo
con ciò il di¬ ritto di applicare questo principio ai casi futuri, se non
nel caso che ci rappresentiamo A sempre in modo identico; il che
avviene solo in maniera approssimativa, giacché vi sono sempre
circostanze accessorie, gradazioni infinite, le quali lanno sì che una
data situazione non si possa mai riprodurre due volte nell’identica
forma. Ciò è vero non solo pei feno¬ meni organici, psichici e storici,
dove le condizioni e gli elementi sono assai numerosi, ma anche nel mondo
inorga¬ nico: la ripetizione assoluta è un ideale. In terzo
luogo la serie delle cause è infinita precisamente come sono infiniti il
tempo e lo spazio. Ogni arresto nella nostra investigazione è sempre
fortuito o arbitrario; e poiché secondo il principio di causa, ogni causa
diviene alla sua volta effetto, il volersi fermare ad una causa prima
sarebbe come un contraddire a quel principio; se anche nelle
ipotesi più ardite siamo costretti di fermarci ad un certo punto,
questo non è che un limite di fatto-, noi concludiamo sempre con un punto
d'interrogazione, giacché in virtù del principio di causa, vi è sempre un
nuovo problema da porre e da ri- PHINCIPI PI LOGICA.
96 solvere. Perciò si può dire in un certo senso che
nessun fenomeno è completamente spiegato. In realtà però si
può sostenere che, anche ammettendo il pensiero dell’ Hurne che noi non
percepiamo mai la causa, ma solo una successione, tuttavia per un numero
estesissimo di fenomeni la successione è inevitabile e continua, come
do¬ vremmo attenderci se il principio di causa fosse vero. (’)
5. Evoluzione del concetto di causa. — L’idea di causa ha una
origine interna, soggettiva, ci è suggerita dalla nostra attività mo¬
trice. Un essere, che per ipotesi fosse puramente passivo e vedesse o
sentisse successioni esterno costanti, non potrebbe avere alcuna idea
della causalità. Tutti i fatti di attività mentale che si mani¬ festano
per mezzo di movimenti contribuiscono a far sorgere in noi l'idea
empirica di causa, come azione transitiva e conio muta¬ mento; tra essi
quello più importante è la coscienza dello sforzo f. muscolare, ossia la
coscienza d'un complesso di sensazioni prove¬ nienti dalle articolazioni,
dai tendini, dai muscoli, dalle variazioni della respirazione ecc.; e la
coscienza dello sforzo consiste sovrat- tutto nella coscienza AeW'effetto
prodotto, alla quale s’aggiunge T idea confusa d’una creazione che emana
da noi, d’una capacità che noi abbiamo di produrre un fatto nuovo. Noi
estendiamo poscia questa capacità individuale e soggettiva di modificare
la nostra persona e le cose, a ciò che ci circonda, giacché in forza
d’una tendenza istintiva l’uomo suppone intenzioni, volontà, una
causa¬ lità analoga alla propria in ciò che intorno a lui agisce o
reagisce, nei suoi simili, negli esseri viventi e in quelli clic pei loro
movi¬ menti simulano la vita, come le nubi, le acquo correnti ecc.
È questo il periodo del feticismo primitivo elio s'osserva in tutte
le mitologie e in tutte le lingue; se ne scorgono ancor oggi le
trnccie noi fanciulli, nei selvaggi, negli animali, per es. nel cane
che morde la pietra che lo colpisce, e anche neH’uomo civile,
quando tornando ad essere per un momento un uomo primitivo, va in
col¬ lera contro una tavola elio lo urta. Dalla concezione
popolare, pratica, esteriore della causalità che deriva dal fatto, che
ogni mutamento suggerisce all’uomo nor¬ male che no è testimonio la
credenza invincibile in un agente noto o ignoto che lo produce, si passa
al secondo periodo, che inco¬ mincia colla riflessione filosofica e si
sviluppa col lento costituirsi delle scienze. Questo cammino si può
riassumere nel seguente modo: ( l ) Hoffding, Psychologie, p. 282.
F. Alcan, 1900. CAPITOLO IX. 97 si
spoglia a poco a poco la nozione di causa del suo carattere sog¬ gettivo,
umano, senza che si arrivi totalmente a raggiungere questa meta ideale;
si riduce il carattere essenziale di tale nozione a un rapporto fisso,
invariabile, costante tra un antecedente e un conseguente determinati; si
scorge nella causa e nell'effetto non altro che due aspetti o due momenti
d’nn solo e medesimo pro¬ cesso, il che alla fino equivale
all'affermazione d’una identità.. (') 6. I quattro metodi
sperimentali di G. Stuart Mill. — Come abbiamo già detto, la
scienza non bì ferma alla con¬ statazione e alla descrizione dei
fenomeni, ma tende come ad ultimo fine alla ricerca delle cause, e quindi
delle leggi; queste ultime consistono in rapporti invariabili di
succes¬ sione tra i fenomeni, e la causa non è altro che l'antece¬
dente invariabile dell’effetto; quindi la ricerca della causa e quella
delle leggi costituiscono in ultima analisi un unico problema, o almeno
due problemi tra loro indissolubilmente congiunti, e la soluzione del
primo conduce in modo facile alla soluzione del secondo. Il
problema della ricerca della causa si può esprimere nel modo seguente; «
fra una moltitudine di rapporti di suc¬ cessione, trovare un rapporto di
causalità». Ogni fenomeno che cade sotto i nostri sensi ha per
antecedente non solo il fenomeno che ne è la causa, ma altri fenomeni a
questo con¬ comitanti, e in simile maniera ha per conseguenti non
solo il suo effetto, ma altri fenomeni concomitanti di tale
effetto. Quindi il problema da risolvere consiste nel saper
distinguere con esattezza il fenomeno causa tra gli antecedenti che non
sono causa, oppure tra i conseguenti che non sono effetto il fenomeno che
è veramente effetto. Se i fenomeni, invece di prodursi riuniti in
aggregati più o meno complessi, costi¬ tuissero una serie unilineare, noi
comprenderemmo con grande facilità che ogni fenomeno è causa di quello
che segue, ed è effetto di quello che lo precede; ma la roaltà
delle cose è diversa, e bisogna quindi ottenere per mezzo della ragione
ciò che non ci è dato direttamente dalla na¬ tura: ossia bisogna mediante
il ragionamento sperimentale (i) Kibot, L’évolutìon des idée»
generai*», p. 202 e Bgg. F. Alcan, 1897. Morselli, Principi di
Logica — 7 Kucfo cUMt eùJtjurpUl
98 PRIXCIPI DI LOGICA. in mezzo
al complesso dei fenomeni isolare il fenomeno causa e il fenomeno
effetto. I quattro metodi induttivi messi innanzi dallo Stuart Mill
servono in parte a questo scopo; essi sono il metodo d’accordo, il metodo
di differenza, il metodo delle variazioni concomitanti e quello dei
residui. 1°. Metodo d’accordo. — Il canone di questo metodo è
il seguente: Se due o più casi d’un fenomeno concordano in una sola
circostanza, sempre presente, questa è la causa, del fenomeno.
Sia da ricercare la causa del fenomeno a accompagnato dai fenomeni
ab, preceduti dai fenomeni ABC, nòe diconsi antecedenti, ABC conseguenti;
se in un secondo esperimento s’ottiene il gruppo ode, preceduto dal
gruppo ADE, si può concludere che A ò causa di a. Infatti non si può
affermare che siano B o C la causa di a, perchè nel primo
esperimento questi mancano ed a invece vi appare ; per una ragione
identica non si possono considerare come causa nò D nè E. Esempio: più
corpi in circostanze differenti, entrano in fu¬ sione e si volatilizzano
parzialmente, quando sono sottoposti ad una forte temperatura: la fusione
e la volatilizzazione dei corpi hanno dunque evidentemente per causa il
calore, unica circostanza comune. Metodo di differenza. — Il
canone di questo metodo è il seguente: Se un caso nel quale il fenomeno
si verifica, e un caso nel quale non si verifica, hanno in comune
tutte le circostanze meno una, questa presentandosi solo nel primo
caso, la circostanza per la quale sola i due casi differiscono, è la
causa. Se in un primo esperimento si ottiene il gruppo dei
con¬ seguenti abe preceduto dal gruppo degli antecedenti ABC e in
un secondo esperimento si ha il gruppo he preceduto dal gruppo BC, si può
conchiudere che A è causa di a. La di¬ mostrazione in questo caso è assai
semplice. Esempio: Tutte le volte che la pressione atmosferica si
esercita nella camera barometrica, il mercurio si eleva nel tubo
.barometrico: sop¬ primiamo questa pressione facendo il vuoto: se vediamo
il mercurio scendere, la causa cercata sarà il peso dell’aria; cosi
pure in tisiologia la funzione d'un nervo si può stabilire con
precisione, quando, tagliato il nervo, cessa la funzione.
CAPITO!,0 IX. 99 3°. Metodo delle variazioni
concomitanti. — Il canone suona così: Un fenomeno clie varia in una certa
maniera tutte le volte che un altro fenomeno varia nella stessa ma¬
niera, è una causa di questo fenomeno. Se in un primo esperimento
abbiamo abc preceduto da ABC e se in un secondo esperimento facendo
variare A vediamo che varia pure a, diciamo che il primo è causa del
secondo. Variando ad esempio la quantità di calore in un
corpo, osserviamo il variare concomitante della sna dilatazione; e
giungiamo così a porre la legge che il calore dilata i corpi; il calore
(antecedente) si assume come causa della dilata¬ zione
(conseguente). 4° Metodo dei residui. — Il canone è il seguente:
Sot¬ tratta da un fenomeno la parte che si sa per induzioni an¬
teriori essere l’effetto di determinati antecedenti, ciò che resta fra i
conseguenti sarà effetto di quello fra gli antece¬ denti che si è
trascurato. Supponiamo che si abbiano gli antecedenti ABC e i
conseguenti abc. Per induzioni precedenti sappiamo che causa di b è B e
che causa di c è C; resterà che causa di a sia A. Con questo metodo
l’odore sparso nell’aria dall’elettri¬ cità guidò a scoprire l’ozono;
così pure, poiché il movimento d’Urano si spiegava nel suo insieme per
mezzo di cause note, le irregolarità di questo movimento formavano un
re¬ siduo che, determinato con precisione, condusse il Leverrier
alla scoperta di Nettuno. Un bell’ esempio di questo me¬ todo è
l’induzione con la quale Galileo trovò la causa del candore cinereo della
luna. Le cause possibili sono quattro, la luce del sole, quella delle
stelle, una luce propria, quella riflessa dalla terra; non può essere la
prima perchè si prova che quella parte della luna nella quale si scorge
il candore ci¬ nereo non è illuminata dal sole ; non la seconda, perchè
il can¬ dore cinereo si dovrebbe vedere anche nelle ecclissi, il che
non avviene, nè per la stessa ragione può essere la terza. Quindi
la luce riflessa dalla terra è la causa del candore cinereo. 7.
Osservazioni intorno ai metodi dello Stuart Mill. — I quattro
metodi sopra descritti, che hanno il loro fonda¬ mento comune nell
'eliminazione di tutte le circostanze che 100
PRINCIPI DI LOGICA. sono la vera causa del fenomeno in questione,
hanno per le ricerche scientifiche in generale un’importanza relativa,
la quale dev’essere ridotta nei suoi giusti limiti, giacché ve¬
diamo spesso il fisico, il chimico, il fisiologo ricorrere, nello
stabilire esattamente la causa d’un fenomeno, a mezzi diversi da quelli
proposti dal celebre filosofo inglese. Anzitutto è stato osservato
giustamente che l’uso di questi metodi induttivi presuppone due
condizioni, che non sempre si verificano nella realtà, ossia: « che ogni
effetto fibbia una sola causa, e in secondo luogo che gli effetti
di ciascuna causa possano essere tenuti distinti dà quelli delle
altre ». Anche nella % r ita quotidiana noi osserviamo un nu¬ mero
considerevole di fenomeni, che possono essere prodotti d a iiiii cause,
tali sono per es. TI movimento, il calore, il piacei e. la morte :
in questi casi è quasi impossibile ridurre le esperienze in formule così
nette e precise, come quelle che sopra abbiamo rappresentato per mezzo di
lettere alfa¬ betiche, ed è molto difficile non omettere qualcuno degli
an¬ tecedenti tra i quali vi è la causa che si ricerca; quindi si
comprende facilmente come l a pluralità delle cause renda difficile il
metodo di concordanza, anche quando si moltipli¬ cano le osservazioni e
gli esperimenti. Cosi l’ignoranza del peso dell’aria indusse i fisici ad
attribuire al vuoto, o, meglio, come essi dicevano, all’orrore del vuoto
l'ascensione dell’acqua nelle pompe. La seconda esigenza
rende dubbio il metodo di diffe¬ renza; cosi nelle esperienze
fisiologiche i risultati ottenuti per mezzo della vivisezione rimangono
non di rado dubbi, giacché il fenomeno prodotto dalla soppressione oppure
dalla le¬ sione d’un organo, come sarebbe ad esempio, il cervello, non
è sempre da attribuirsi in tutto ad esse, mà è spesso il contrac¬
colpo più o meno lontano prodotto dalla soppressione o dalla le¬ sione
d’un determinato organo sopra un altro, o anche sopra l’insieme
dell’organismo preso a soggetto d’esperieuza. Per questa ragione le
precauzioni e le cautele che deve prendere il fisiologo sono rigorose e
infinite, se non vuole cadere in errore. Un’altra difficoltà,
per citarne ancora una, si presenta quando avviene che più cause insieme
s’uniscano a produrre CAPITOLO IX.
101 un medesimo effetto, come il salire d’un areostato
nell’atmo- slera, prodotto dal combinarsi dell’azione della gravità
con altre cause, che non si possono trascurare, se si vuol dare uua
spiegazione esatta del fenomeno; oppure quando la cau¬ salità è
reciproca. Non osservando l a reciprocità delle cause, cadono in errore
quelli che sostengono essere il fenomeno economico la causa unica e
diretta del determinarsi degli altri fenomeni sociali, politici,
religiosi, giuridici, artistici e morali; mentre sono più nel vero quelli
che sostengono che i fenomeni sociali sopra indicati possano alla loro
volta eser¬ citare un’azione determinatrice sopra il fenomeno donde
hanno tratto l’origine; così è innegabile che se la produ¬ zione
economica stimola il movimento scientifico, questo alla sua volta con
l’invenzione di macchine, di strumenti ecc. stimola e rende più perfetta
la produzione economica. 8. Eccezioni apparenti del principio di
causa. — Vi sono due idoe, che pare si sottraggano all’universalità del
principio di causa o che malgrado lo sviluppo del pensiero scientifico
hanno tuttora molta forza; sono le idee del miracolo e del caso.
J1 miracolo, preso non nel significato religioso, ma nel signi¬
ficato etimologico più gouorale [mirari), è un avvenimento raro,
imprevisto, che si produce fuori oppure in opposizione del coreo
ordinario e naturale delle cose. Però esso non porta alla negazione della
causa intesa nel senso popolare, giacché suppone sempre un antecedente:
la Divinità, o una potenza ignota; ma ammette una derogazione al
determinismo, nega la causa nel senso scientifico; il miracolo sarebbe la
causa senza la legge. Per molto tempo nulla ò sembrato più naturale del
miracolo: nel mondo fisico l'appari¬ zione d'una cometa, le ecclissi e
altri feuomoni simili erano consi¬ derati come prodigi e presagi, e
tuttora sono causa d’inquietudine per molte persone; nel campo della vita
codesta credenza è più tenace; nel secolo XVII spiriti illuminati
ammettevano ancora gli errore s o lusus naturar, stimavano la nascita di
mostri segno di cat¬ tivo augurio ecc. Peggio avveniva nel campo della
psicologia; sono noti i pregiudizi, così diffusi nell'antichità, non
ancora scomparsi, intorno ai sogni profetici, al mistero onde si è
circondato per tanto tempo il sonnambulismo naturale o provocato e gli
stati analoghi. Infine anche nella vita sociale vi sono molti utopisti,
cho pur re¬ spingendo la realtà del miracolo, l'ammettono però con grande
fa- 102 PRINCIPI DI LOGICA.
cilità nell'ordine politico o ricostruiscono la società umana ab imis
fundanientis seguendo i loro sogni. (') L’idea di caso è più oscura
e controversa. Nel significato vol¬ gare esso è un avvenimento elle non
presuppone nè causa nè leggo, un'eccezione alla regola generale, secondo
la quale ogni fatto è un effetto. Molti pensano che il caso sia uua causa
reale, ma oscura e impenetrabile, un principio di disordine e di
confusione, che con irresistibile potenza agisce nel mondo a dritto e a
torto, produ¬ cendo ora con ostinazione capricciosa, una serio continua e
strana di avvenimenti, ora fenomeni isolati e mostruosi. Ma già
nell’an¬ tichità Aristotile, intravedendo la verità, scrisse: “ si dice
che al¬ cune cose avvengono per caso, altre no, pur sapendo che tanto
le prime quanto le seconde si possono spiegare riferendosi a qual¬
cuna delle cause ordinarie ,. Anche David Hume (1711-1786) af¬ ferma
essere il caso non altro che l’ignoranza delle cause vere. Il Cournot
(1801-1877), studiato profondamente tale problema, dice die “ gli
avvenimenti prodotti dall’incontro o dalla combina¬ zione di altri
avvenimenti che appartengono a serie indipendenti le uno dalle altro sono
chiamati fortuiti o risultati del caso ,. In¬ numerevoli sono gli esempi
di questa congiunzione o incrociamento di due o più serie di cause e di
effetti, indipendenti all'origine le uno dalle altre e non destinate per
la loro natura ad una influenza reciproca; cosi una serie di cause e
d’effetti conduce un viaggia¬ tore a prendere un determinato treno e una
serie di cause e d effetti totalmente distinti produce in un luogo e
momento deter¬ minato, un accidente che uccide il nostro personaggio.
Rappresen¬ tandosi con una linea continua la catena delle ragioni che
spiegano un fenomeno, se questa catena 6 attraversata da un’altra catona
e questa linea vioue tagliata da una linea che parte da un altro
punto, il risultato di tale intersezione è qualcosa di fortuito, un caso,
che non è altro quindi che l'incontro di due serie di cause non solidali,
o non presenta quel carattere di assurdità che si scorge in un fatto
senza causa, giacché suppone il concorso di più cause; si potrà dire con
maggior precisione che è un fatto senza legge. Tra la definizione del
Cournot e quella antica di Aristotile, come è stato osservato, ( s )
esisto una profonda analogia, e si può almeno diro che tanto per il primo
quanto pel secondo il fortuito consisto nell'incontro imprevedibile di
cause e d'effetti fino a quel punto indipendenti. l ) Ribot,
op. eit., png. *210. (2' Da G. Miltiaud e H. Piérox nella Heviie de
Métapht/sique et de Morale * del seti. 1902. CAPITOLO
X. 103 CAPITOLO X. 1. Che cos’è una
leggo naturale — 2. I caratteri della legge naturale — 3. L'evo¬ luzione
del concetto di legge — 4. Cenno storico della teorìa logica doli’in¬
duzione — 5. Galileo Galilei c G. Stuart Mill. 1. Che cos’è una
legge naturale. — Dopo che si è os¬ servato che a’ intenda per causa, è
facile comprendere che cosa s’intende per legge, sempre però nel campo
delle scienze che sono anche dette nomotetiche, appunto perchè
mirano a stabilire leggi. Quando noi esprimiamo giudizi universali,
come i seguenti : tutti gli uomini sono mortali, tutti i raggi luminosi
che cadono sotto un angolo di 30 gradi, sono riflessi sotto un angolo di
30 gradi; noi vediamo tosto che essi fu¬ rono veri noi passato e saranno
nell’avvenire [manto nel pre¬ s ente . Quando il chimico dice che ogni
combinazione dello zolfo con l’ossigeno avviene secondo rapporti fissi di
peso, non si riferisce ad un momento, ad un giorno, ad un anno, ad
un secolo, ma Quindi nello stesso modo che davanti a giudizi di tal
fatta è lecito porre la parola sfM pg£ dominane , si può mettere anche la
parola sempre , la quale £ . richiamerebbe insieme col tempo
presente anche il passato ” e il futuro: sempre e dovunque le combinazioni
di zolfo o (l’ossigeno si sono fatte, si fanno e si faranno secondo
rap¬ porti fissi di peso. Però il tempo presente che si
adopera in queste propo¬ sizioni categoriche universali non deve essere
inteso nel senso che indichi una realtà permanente ed eterna', giacché
la scienza considera i fenomeni fìsici e chimici, l’esistenza degli
organismi viventi, le attività psichiche, gli aggruppa¬ menti sociali, c
ome semplici possibilità : ossia tutti questi fe¬ nomeni sono, possibili
sempre e doni nane, quando ne sian o date le condizioni, non vuol già
dire che siano perpetua- mente reali; la quale affermazione evidentemente
sarebbe 104 PRINCIPI DI
LOGICA. / ■ erronea. Tediamo di dare le ragioni di
questo possibile * errore. Posso io dire in forma di giudizio
categorico: sempre e d ovunque i corpi si combinano secondo rapporti
fissi di peso? la combinazione dei corpi è una realtà costante ed
eterna ? No certo; la chimica non insegna forse che «ad una
certa temperatura tutte le attività chimiche sono sospese? Può
esservi stato nel tempo trascorso, potrà esservi nell’avvenire un periodo
di freddo universale nel quale alcuna combina¬ zione chimica non era e
non sarà possibile; bisognerebbe quindi esprimersi con maggior precisione
nel seguente modo: sempre e dovunque, se alcuni corpi si combinano, le
loro combinazioni avvengono secondo rapporti lissi di peso.'
Negli enunciati generali della fisica si può constatare un fatto
simile. Così la legge d’attrazione non si può espri¬ mere per mezzo
d’un’affennazione categorica ed universale come la seguente: tutti i
corpi si attirano; ma assai meglio e in modo più preciso in una forma
condizionale: sempre e dovunque, se due corpi pesanti sono soggetti,
senza causa perturbatrice o inibitrice, all’influenza che essi
esercitano l’uno sull’altro secondo le loro masse, la forza della loro
at¬ trazione è direttamente proporzionale al prodotto della massa e
inversamente al quadrato della distanza. L ’impenetrabilità ci
mette in presenza d’un problema analogo. A prima vista nulla di più
categorico di questa as¬ serzione: tutti i corpi nello spazio occupano un
posto; che cos’è un corpo? è un aggregato che ha un certo volume e
una certa stabilità; vi sono corpi, ve ne sono sempre stati e sempre ve
ne saranno. Eppure possiamo chiederci con ra¬ gione se la scienza non
deve ammettere come possibile uno stato dell’universo, nel quale ogni
aggregato sarà sciolto e gli elementi veri verranno separati e rimarranno
indipen¬ denti. Non vi sarebbero quindi corpi percettibili per la
nostra mano o per le nostre bilance, non vi sarebbero più atomi o
elettroni ; gli atomi e gli elettroni sono essi impe¬ netrabili? lo
sappiamo noi di vera scienza? (*)
(*) A. Isaville, La primauté des jngements condiiiunnels, “ Rovue philos.
avril 1905, p. 343. CAPITOLO
X. 105 In conclusione possiamo dire che alle leggi e
ai teoremi universali conviene non la forma categorica, ma la forma
condizionale, poiché espri m ono affermazioni relative a rap ¬
p orti e ad avveni menti consid erati solo come possibili, ossia
soggetti a determinate condizioni , le quali col tempo pos¬ sono anche
venir meno. 2. I caratteri della legge naturale. — Chiarito in
tal modo il concetto di legge naturale, possiamo chiederci: perchè
noi crediamo, anche sulla testimonianza d’un caso solo, che i casi futuri
saranno simili ai casi sperimentati? come da un certo numero di casi si
trae una legge e si estende a * r** 6 " tutti i casi omogenei
possibili? perchè, ad esempio, dopo r '“- y ' m - t, ’ z aver
esperimentato una o più volte che un corpo immerso in un liquido perde
tanto del proprio peso quanto è il peso del liquido spostato, il fisico
passa a stabilire la legge gene¬ rale: sempre e dovunque se un corpo è
immerso nell’acqua perde tanto ecc. ecc.? Il fondamento
logico di quest’affermazione è da ricer¬ carsi in un postulato, cioè in
un principio indimostrabile, c he dev’essere ammesso affinché la realtà
riesca comprensi¬ bile : tale postulato è quello deU.’uniformità
della indura, il quale è alla sua volta fondato sul principio dì causa
inteso nel senso che cause simili in condizioni simili producono
effetti simili e sul principio della conservazione della mate¬ ria e
dell’energia. Il postulato àe\Vuniformità della natura, la cui
esigenza era già stata compresa dagli antichi nell’espressione:
natura non facit saltus, non indica già che la realtà naturale è
costante e uniforme, ma che, pur essendo essa in perpetua evoluzione e
trasformazione, i mutamenti incessanti avven¬ gono secondo leggi costanti
e uniformi. Il principio della conservazione dell’energia, che dà
alla scienza contemporanea della natura il suo carattere proprio,
trova la dimostrazione più evidente nella chimica, la quale, appoggiandosi
a tale supposizione , confermata da un gran numero d'esperienze, afferma
che la somma delle particelle materiali o atomi rimane sempre la stessa
in tutti i muta¬ menti che la materia subisce. Perciò quando un corpo
riceve
10G PIUXCIPI DI LOGICA. nuove proprietà, ciò si
spiega per mezzo d’una modificazione nell’insieme e nelle modificazioni
delle parti: produzione o soppressione d’una sostanza significa
aggregazione o disgre¬ gazione d’atomi che già preesistevano, benché in
altre com¬ binazioni. Ammettendo quindi che la materia persista
attra¬ verso a tutti i suoi mutamenti, si ammette ancora che la
somma dell'energia ossia la capacità di lavoro, di vincere la resistenza
che si manifesta nella natura materiale, rimane sem¬ pre la stessa; e
solo in apparenza avviene che l’energia nasca o si distrugga, come si può
dimostrare con qualche esempio: La forza colla quale una pietra
cade a terra dipende dall’altezza dalla quale cade, e, alla sua volta,
l’altezza di¬ pende dalla forza con la quale la pietra era stata
sollevata. Quando la pietra s’è fermata sulla terra, pare che la
forza si perda, giacché la pietra non ha apparentemente il potere
di muoversi dal suo posto; ma, anche allora, il dileguarsi della forza
significa solamente che questa si è convertita in qualche altra cosa, in
calore. Lo stesso fenomeno avviene quando il movimento non cessa del
tutto, ma è solamente rallentato dall’attrito, giacché la forza perduta
dal corpo, per l’azione dell’attrito, non si perde in modo assoluto,
ma si trasforma in calore. Esperienze ripetute, sempre confer¬
mate, dimostrano che la quantità di forza, o, meglio, d’energia che
scompare sotto una forma, trova il suo equivalente esatto in un’altra
forma, cosicché la stessa quantità della stessa specie d’energia potrà
essere di nuovo restituita, e qualunque sia la metamorfosi che può subire
ciascuna delle differenti forme d’energia, considerate a parte, la loro
somma rimane sempre la stessa. L ’importanza di questo principio
è grandissima per la s cienza, benché come legge generale della natura
non abbia ell e un valore ipotetico, giacche, non potenao mai
conoscersi il contenuto totale del la natura, non potrà inai ess
ere con¬ fe rmato dall’espe rienza se non in maniera
approssimativa. (*) Esso si deve quindi considerare come~u
n~;7r7nc7'»fo o un 'idea che ci dirige nelle nostre investigazioni.
Infatti quando si presenta ai nostri sensi un nuovo fenomeno, ossia
C) HJmnsc, op. cifc., pag. 41.
CAPITOLO X. 107 quando ha luogo un
mutamento dentro o fuori di noi, esso ci invita a scorgere nel nuovo
fenomeno non altro che la continuazione o la trasformazione del primo, o
almeno a ricercare un fenomeno antecedente, del quale sia la conse¬
guenza inevitabile, donde il principio di causalità, secondo il quale due
fenomeni ci appariscono cosi strettamente legati rimo all’altro, che,
dato il primo, l’altro si presenta inevi¬ tabilmente. La formula
dell’induzione, ossia la legge scienti¬ fica si può dunque esprimere nei
seguenti termini: 1°. Ogni rapporto di causalità è costante.
2°. Il rapporto constatato tra i fenomeni A e B è un rapporto di
causalità. 3°. Il rapporto tra A e B è costante. Se,
come ha dimostrato l'Helmoltz, esiste veramente la legge di conservazione
dell’energia, essa deve valere tanto per la natura animata, quanto per
quella inanimata. Poiché la natura animata, dice un tisiologo idealista,
( 1 ) è composta della stessa materia del¬ l’inanimata ed è in continuo
ricambio materiale con ossa, e poiché per mezzo delle sostanze assunte
certe forme d’energia son traspor¬ tato dalla natura inanimata in quella
animata, la leggo di con¬ servazione dell’energia sarebbe interrotta, se
nella sostanza viva l'energia perisse o sorgesse, cioè se la stessa
quantità d’energia introdotta nei corpi vivi, non fosse ridata di nuovo
alla natura ina¬ nimata, sia durante la vita, sia dopo la morte.
Studi recenti hanno dimostrato che tutta l’energia assorbita
dall’organismo coila nutrizione dalla natura inanimata, abbandona poi di
nuovo il corpo sotto altre forme; nell’organismo non vi ha produzione nè
perdita d’alcuna minima quantità d’energia. 3. L’evoluzione del
concetto di legge. — Nello sviluppo del concetto di legge si possono
distinguere tre periodi prin¬ cipali: quello delle immagini generiche,
quello delle leggi concrete o empiriche, quello delle leggi teoriche e
ideali. Nella prima fase la mente umana si forma una conce¬
zione meccanica della regolarità d’un fenomeno, la quale si estende ad un
numero assai ristretto di avvenimenti: è il risultato della ripetizione
costante o frequente di alcuni cicli, (*) Verworx, Fisiologia
generale, pag. 222, Torino, Bocca, 1898. 108
PRINCIPI PI LOGICA. come, ad esempio, del corso del sole, della
lima, delle stagioni ; molti uomini non hanno che questa ombra, questo
simulacro di legge, che riposa sulla pura associazione,
sull’abitudine pratica, sull’ attesa spontanea d’una ricorrenza che è
stata percepita più volte. Questa nozione, quantunque sia assai
umile, tuttavia è stata assai utile nei primi passi percorsi dall’umanità
sul cammino della scienza, poiché ha frenato la tendenza vivissima
dell’immaginazione a popolare il mondo di cause capricciose e senza
regola: è stata la prima affer¬ mazione d’una credenza nella
regolarità. In un periodo posteriore la riflessione e la ricerca
me¬ todica fanno sorgere lentamente le leggi empiriche , che con¬
sistono nella riduzione d’un gran numero di fatti in una formula unica,
senza però dare di essi la ragione esplicativa. Nel corso degli
avvenimenti la mente scopre tra due o più fatti un rapporto costante di
coesistenza o di successione, il quale viene esteso ad altri casi; qui
non è del tutto neces¬ saria la costanza, basta la frequenza. La legge
empirica è identica ai fatti, ossia legge e fatti non sono che due
aspetti della stessa cosa. Si assimila facilmente la legge empirica
a un fatto generale; cosi in psicologia si dice: la legge d’as¬
sociazione o anche il fatto generale dell’associazione. In secondo
luogo la legge empirica è non di rado com¬ plessa ; non riuscendo sempre
a rinchiudere in una formula unica e breve molti fatti, essa deve
scindersi in più casi e adoprare lunghe formule per potere contenere i
casi parti¬ colari e le eccezioni. Appaiono infine le leggi
teoriche o ideali, che sono le più astratte e le più semplici; sono
costruzioni dello spirito che divengono sempre più approssimative a mano
a mano che salgono e s’allontanano dall’esperienza; e non possono
essere applicate, discendere dalla teoria alla pratica se non mediante
rettificazioni o addizioni. Per gli spiriti abituati alla disciplina
delle scionze rigorose la legge ideale è la sola valevole, onde
considerano con un certo disprezzo e con certa diffidenza le formule che
sono un semplice riassunto dei ri¬ sultati dell’esperienza.
Il carattere approssimativo delle leggi teoriche deriva dal loro
carattere ideale. Cosi si è detto che « le leggi fisiche CAPITOLO
X. 109 sono verità generali sempre più o meno falsate
in ogni caso particolare » ; per es., non è sempre assolutamente vero che
un movimento sia uniforme e rettilineo; la legge teorica delle
oscillazioni del pendolo non si può constatare in modo asso¬ luto,
giacché non esiste un mezzo non resistente, una forza affatto rigida e
che non possa estendersi, nè un apparecchio di sospensione capace di
moversi senza attrito; un pianeta non potrebbe descrivere una ellissi
esatta, se non nel caso che girasse solo intorno al Sole, e poiché vi
sono più pianeti che agiscono e reagiscono gli uni sugli altri, la legge
di Ke¬ plero rimane vera solo idealmente. Si sa da ricerche com¬
piute con estrema precisione, che la legge di Mariotte sopra i rapporti
tra la densità d’un gas e la pressione che sop¬ porta, non è
rigorosamente esatta in nessuno di essi ; però tra la teoria e la realtà
le differenze sono così tenui, che nei casi ordinari si possono
trascurare. Neppure le leggi della termodinamica (conservazione
dell’energia, correlazione delle forze) adoperate con tanta frequenza ai
nostri giorni pel loro carattere di generalità e che qualcuno considera
come il prin¬ cipio ultimo dei fenomeni, non hanno un valore assoluto;
in¬ fatti non è del tutto esatto il dire che ogni cambiamento dia
luogo a un cambiamento capace di riprodurre il primo senza addizione o
perdita. L’enumerazione delle leggi ideali sarebbe lunghissima.
Oggidì la nozione di legge è comune a tutte le scienze od è usata
nel significato più rigoroso nelle scienze matematiche e fi¬
sico-chimiche. Però non è sempre avvenuto così. Nell'antichità il termine
è adoperato in un senso quasi esclusivamente sociale, giu¬ ridico,
morale, per cui si considerano le leggi naturali come norme impartite ai
fatti da una volontà soprannaturale, nello stesso modo che il legislatore
impone ni cittadini il proprio volere con norme non trasgreditoli; con
gli stoici l’idea di legge è trasportata per la prima volta dai fatti
morali ai naturali, e con la scuola epicurea cominciò a considerarsi come
la manifestazione spontanea della realtà intima dei fenomeni.
Il concetto di legge nel senso moderno si è formato tardi o assai
lentamente; Copernico o Klepero nel secolo XVI si servono della parola “
ipotesi il Galilei chiama assiomi le leggi fonda- mentali della natura e
leoi-emi quelle che ne derivano secondo la 110
PMNOIPI DJ LOGICA. torminologia dei matematici. Renato
Descartes (1596-1050) inco¬ mincia la sua filosofia della natura ponendo
alcune lìegulae sire leges vaturales. Newton dice: Axiomata sire leges
motti ». L’esten¬ sione della pai'ola logge è dovuta assai probabilmente
al bisogno di stabilire una divisione netta tra gli assiomi astratti dei
mate¬ matici e i principi ai quali si attribuisce un valore oggettivo
e un esistenza nella natura. Infine con la celebro delinizioue del
Mon¬ tesquieu (1689-1755): “ le leggi sono i rapporti necessari che
de¬ rivano dalla natura dello cose , il concetto di logge ha preso
il più alto grado di generalizzazione. Un altro fatto degno
d’osservaziono è il seguente : Cartesio chiama lo leggi della natura 41
regolo „ in quanto esse servono a spiegarci i fenomeni; lo chiama “ leggi
„ in quanto Dio le ha sta¬ bilite all'origine dell’universo come
proprietà della materia. Tiù tardi la natura pronde il posto di Dio; il
che è una sopravvivenza d una concezione panteistica del mondo; poscia
predomina la ten¬ denza a designare lo leggi coi nomi dei loro
scopritori: legge di Ma- riotte, di Oay-Lussac, d'Avogadro, di Weber ecc.
Nel secolo XVII è Dio che stabilisce le leggi della natura; nel XVIII è
la natura stessa; nel XIX sono gli scienziati stessi che si assumono un
tal compito. 4. Cenno storico della teoria logica
dell’induzione.— Benché abbia avuto il suo massimo svolgimento
nella scienza moderna, tuttavia la teori a logica dell’induzione risale
al- l’antichità, e la vediamo formulata per la prima volta da Ari¬
stotile, pel quale l’induzione è il procedimento opposto al sil¬ logismo
deduttivo, e consiste nel ragionamento che procede - biamo tenerci
lontani dai pregiudizi e dalle illusioni, ch’egli chiama Mola e distingue
in quattro classi : Mola tribus, che derivano dalla natura e dalle
tendenze proprie dell’uomo; Mola spedis prodotti dal carattere e dalle
particolarità in¬ dividuali proprie di ciascun nomo; Mola fori, che sono
gli errori che sorgono dal commercio cogli altri uomini, special¬
mente per mezzo del linguaggio; Mola theatri, cioè gli errori che si
ricevono per la via della tradizione, dell’insegnamento e dell’autorità
altrui, quando si accolgono senza critica. Liberato il terreno da
questi ostacoli, sarà assai piè agevole salire dai fatti constatati per
mezzo dell’osservazione e dell’esperimento alle leggi; in ciò consiste la
vera induzione, che egli considera come la via migliore per costruire
la scienza. Egli però non attribuisce alla parola legge il
significato odierno, ma il senso d’una semplice generalizzazione
empi¬ rica; d à valore di prova solo all’induzione completa,
all’enn- merazione compieta, che nella maggior parte dei casi non è
possibile, dimodoché non è mai stata adoperata da nessuno dei grandi
maestri della scienza. Si è osservato giustamente che l’induzione
baconiana trascende in un volgare empirismo, poiché, c oncedendo minima
importanza al ragionamento , non ci permette di vedere distintamente se
la connessione osser¬ vata tra vari fenomeui è puramente casuale e sarà
contrad¬ detta da ulteriori osservazioni, o se dipende da ragioni pro¬
fonde che fanno estendere il principio generale ottenuto anche a fatti
non ancora esaminati. Bacone dichiara che la scoperta di nnove
verità può ottenersi soltanto per mezzo d’una raccolta metodica di fatti,
la quale deve essere fatta in modo da distinguere i fatti in tre
categorie, dispo¬ nibili in tre tabelle differenti. La prima, che vien
chiamata tabula essentiae et presentine, contiene esempi concordanti
nella presenza del fenomeno che si vuole investigare; la seconda detta
tabula de- clinationis sive absentiae in proximo contiene esempi che
mancano nel fenomeno, ma che sono connessi cogli esempi in cui il
feno¬ meno accade, ciascun esempio corrispondendo per quanto è
possi¬ bile a quelli già inclusi nella primn tavola. La terza, che
prende CAPITOLO X. 113
il nome di tabula graduimi si ve tabula comparativa, comprende i
fenomeni in cui il carattere ricercato si trova in grado più o meno
intenso, sia elio la variazione avvenga nollo stesso soggetto, sia che in
diversi soggetti paragonati fra loro. Come è facile accorgercene,
il procedimento induttivo viene in tal modo sottoposto a troppe
lungaggini, che ne rendono l’uso assai difficile o poco pratico, benché
Bacone abbia con lo sue tavole in¬ traveduto i tre primi dei quattro
metodi dello Stuart Mill. 5. Galileo Galilei e G. Stuart Mill. — Il
creatore del me¬ todo sperimentale è Galileo Galilei ( 1564-1(142) che
vide più chiaramente di Bacone il vero carattere dell’induzione e
seppe accoppiare ad una mente critica e indagatrice di supremo
valore un’abilità insuperabile nello sperimentare. « Noi salu¬ tiamo oggi
il Galilei (cito a bello studio le parole non so¬ spette d’uno straniero)
come il vero fondatore della scienza della natura, alla quale egli ha
dato il metodo più acconcio; noi salutiamo in lui lo scopritore della
legge della caduta dei gravi, con la quale ha posto la base alla scienza
del movi¬ mento, alla dinamica, e ha aperto in tal modo la prima
porta a tutta la fisica; con profonda ammirazione pensiamo alle sue
osservazioni astronomiche, e sopratutto alla scoperta dei satelliti di
Giove, delle stelle Medicee, mondo copernicano in piccolo: egli stesso
visse e soffri per la dottrina di Co¬ pernico, per la conoscenza scientifica
dell’universo. Il metodo tjalileiano, cioè il metodo sperimentale che
riunisce armoni¬ camente l’induzione e la deduzione, l’esperienza e il
pensiero, rappresenta, come ha già affermato Emmanuele Kant, una
rivoluzione dell’indagine scientifica; l’antica filosofia naturale è
condannata, per lasciare il posto alla moderna scienza. Tutta
l’opposizione fra questa e quella, il progresso grande fra l’una o
l’altra si può esprimere con brevi parole: invece di chie¬ dere: perchè
cadono i corpi, da quale specie di impulso, da quale ignota causa vengono
sospinti ; il Galilei si pone il pro¬ blema : come cadono i corpi,
secondo quale legge. Questo mu¬ tamento in apparenza leggero nel porre la
questione scien¬ tifica separa due età della conoscenza umana, collocando
al posto dell’inutile e ingannevole ricerca intorno all’essenza
delle cause il s olo compito possibile di indagare e ritrovare l e leggi
dei fenomeni » . (') 0) A. Riehl, Philosophie
der Gegenwart, pag. 33 e seg., Lipsia, Teubner, 1903. Morselli,
Principi di Logica — 8 114 PRINCIPI DI
LOGICA. Il Galilei concepisce le forze naturali come capaci
di peso e di misura nelle loro azioni, e dice quin di essere la
natura scritta in caratteri matematici, e i caratteri essere t riang oli,
centri e altre figure geometriche, e quindi senza questi mezzi essere
impossibile di intenderne umanamente parola; adopera i sensi nelle
esperienze, l’immaginazione per ^ rappresentarci all’intelletto le
apparenze possibili o avverate dei corpi, la ragione tanto nell’indagare
le intime leggi del pensiero, quanto a ricercare con le matematiche le
leggi in¬ telligibili del mondo esterno, essendo ogni cosa creata
con peso, numero e misura. Egli sottomette all’analisi ogni ben¬
ché minimo accidente, con instancabile pazienza r ipete l’os¬ s ervazione
e l’esperimento variando le circostanze e rimovendo ' g li ostacoli che
ne potessero diminuire la sincerità. Tutte queste precauzioni, dice
il Fiorentino, sarebbero rimaste inu-j tili, senza quella geniale
divinazione dell’ingegno, che, quasi lampo attraverso d’una nuvola
squarciata, gli faceva alla lon¬ tana intravedere la possibile causa d’un
fatto. Vede oscillare una lampada, ne osserva i movimenti equabili, li
misura ai battiti del polso e corre col pensiero all’ isocronismo del
pen¬ dolo. Si sovviene aver veduto nelle tempeste cadere piccoli 1
grani di grandine misti con mezzani e con grandi, tutt’ in¬ sieme, nè gli
uni aver anticipato l’arrivo in terra a prefe¬ renza degli altri e medita
la legge della caduta dei gravi. Raschia con uno scarpello di ferro
tagliente una piastra ottone per levarle alcune macchie, e movendolo con
velocità sente fischiare ed uscirne un sibilo molto gagliardo e
chiaro;! guarda su la piastra e vede un lungo ordine di virgolette!
sottili, egualmente distanti l’una dall’altra; rifà l’esperienza e
s’accorge che il fischio s’ode soltanto quando più veloce vi striscia,
più inacutisce il suono e più inspessisconsi le vir¬ golette; ed eccolo
pensare alle proporzioni delle onde sonori ed alla teorica degli accordi
musicali. Il pensiero e il senso la natura e la ragione si trovarono
riunite nell’ingegno del sommo Galilei, ed a questo propizio
congiungimento si del: bono le sue maravigliose scoperte : non trascurar
nulla di ciò che la sensata sperienza ci porge ; nè d’altra parte
ar¬ restarsi impigliato nell’immediatezza del fatto; tale fu la
giusta misura ch’egli seppe trovare tra le angustie del senso
CAPITOLO X. 115 o gli sfrenati
ardimenti del vuoto intelletto ( B . Telesin, voi. II). Nel
secolo XIX una trattazione profonda e singolare della teoria induttiva è
data dall’ inglese John Stuart Miti (1806-1873), che definisce la logica
« la scienza delle opera¬ zioni intellettuali che servono all’estimazione
della prova, ossia la scienza del procedimento generale che va dal
noto all'ignoto, e delle operazioni ausiliario di quell’operazione
fondamentale » . Salire dal noto all’ignoto significa ragionare, e
ragionare, in senso esteso, è sinonimo d’inferenza, la quale, come
ab¬ biamo già detto, nella sua forma originaria va sempre dal p
articolare al particolare: la logica ci mostra appunto come da questa
forma primitiva e irreducibile di ragionamento spunta l’induzione
scientifica ossia quella che va dal parti ¬ colare al generale. Il
carattere essenziale di quest’ultima con¬ siste nel concludere che « ciò
che è vero in un caso partico- c olare sarà trovato vero in tutti i casi
che rassomigliano al p rimo * . E chiaro che una tale operazione ha
come prejmp- pjgjounpostulato, giacche per credere che ciò che
s^pro - d otto in un caso particolare si riprodurrà in tutti i casi
simili , bisogna prima ammettere « che vi sono in natura casi
paral- leli, che ciò che è avvenuto una volta avverrà pure in
circo¬ stanze simili e avverrà tutte le volte che le stesse
ciscostanzo si ripresenteranno » o, in altre parole, è necessario
credere che i l corso della natura è uniforme , e l’uniformità della
na¬ t ura alla sua volta riposa su l principio della causalità uni¬
versale che, secondo il Mill, trae la sua origine dall’esperien za"
Egli censura la definizione comune della causa ; gi aedi è, "se
due fenomeni che si succedono in ordine di tempo fossero l’uno
causa dell'altro, bisognerebbe dire che il giorno è la causa della notte
e viceversa; invece noi sappiamo bene che tale successione è soggetta a
una condizione, il levarsi del sole sull’orizzonte; è quest’ultimo
fenomeno quello che fa suc¬ cedere la luce alle tenebre e, se venisse a
mancare, non ve¬ dremmo più il giorno alternarsi alla notte. Bisogna
quindi definire la causa d’un fenomeno « l' antecedente o la riunion
e d’ antecedenti, di c ui il fenomeno è invariabilmente e incon¬
dizionatamente la conseguenza ».
ne PRINCIPI DJ
LOGICA. Dopo l'apparizione dell'opera capitale del Alili “ Sistema
di logica , si La una vera fioritura importante di opere che
trattano di questioni logiche, e in particolare della teoria induttiva;
frale più importanti noteremo le seguenti: A. Baiu, La logique
induttive et deductive (trad. dall’inglese); Dii fondement de l'induction
di S. Lacheli er (2" ed. 1896); Cristoforo Sigw art. Logik (3“ ed.
1904); Guglielmo Wundt, Logik (2* ed. 1893-95). Degna di nota
è la dottrina della contingenza sostenuta in Francia da una schiera
valorosa di pensatori, tra i quali emergono Emilio B outro ux ed Enrico
Bergson. Secondo tale dottrina la con¬ tingenza è al fondo della natura,
e l a necessità dello leggi naturali è solame nte r elativ a, perchè la
coni» non spiega mai tutto l'effetto, e se questo facesse una cosa sola
con la causa, non si potrebbo considerare come un vero effetto. Si
osserva quindi che nella na- turn ad ogni grado s'a ggiu nge sempro
qualch e cosa di nuovo.qual- che elemento che non si trova nel grado
precedente : cosi la co¬ scienza s'aggiunge alla vita, la vita alla
materia, nella materia lo proprietà fisiche e chimiche s’uniscono allo
proprietà matemati¬ che ecc. ecc. La contingenza che si nota in ogni
forma de ll’eBsere è il segno manifesto della libertà che agisce nel
mondo dei feno¬ meni; ossa scuote il postillato che rende
inconcepibile l'intervento della libertà nel succedersi dei fenomeni, la
massima secondo la quale nulla si crea o nulla si distrugge; essa ci
porta ad ammet¬ tere uua libertà che discenderebbe dalle regioni
soprassensTbili, per mescolarsi ai fenomeni e dirigerli per vie
impreviste. ( l ) La tendenza ad estendere la liber tà e la conti
ngenza ai feno- meni della natura o dell'uomo tocca il minto culminante
nella dot ¬ trina del Bergso n, pel quale gli stati psichici
profondi, quelli elio formano la baso fondamentale dello spirito,
costituiscono un’etero¬ geneità assoluta: essendo ciascuno qualche cosa
di unico nel suo genere, non diviene uè causa nè effetto, non potendo la
causa ri¬ produrre sè stessa; e non ha alcun rapporto colla quantità,
essendo qualità pura; alla quantità egli oppone la qualità, al
meccanismo dello spirito il dinamismo, allo spazio la durata pura, al
determi¬ nismo la libertà. Però una tale questione esco dai limiti della
lo¬ gica, per entrare nel campo della metafisica. Uno dei
seguaci del Bergson, il Le Roy, afferma che l e leggi s cientifiche
diventano rigorose solo un mulo si trasformano in con- 1 vonzione e
si appoggiano a circoli viziosi: il corso degli avvenimenti è
regolare, abituale, ma non necessario; cosi la legge della caduta dei
gravi ha valore, ma solo quando forze estranee non la turbano: ( !
) Boutroux, De la contingence des loie de la nuture, pag. 149. F. Alcali,
1895. CAPITOLO X.
117 la conservazione dell’energia s’applica solo ai sistemi chiusi,
i quali sono quelli appunto in cui l'energia si conserva. Importante
nel movimento del pensiero contemporaneo, è pure la teoria di Ernesto
Mach, fìsico e filosofo illustre. Questi pensa elio le scienze fisiche c
naturali non sieno altro elio descrizion i di fatti naturali, ossia di
fatti di coscienza, di sensazioni, e che quindi tra il mondo della
materia e Quello dello spirito non viT~) Euyssex, op. cit-, pag. 216,
CAPITOLO XI. 125 Ma, è stato osservato,
le forze naturali e il tempo ba¬ stano per spiegare le irregolarità della
crosta terrestre, senza ricorrere ai cataclismi; nè si può affermare che
il periodo attuale risalga solo a sei mila anni, ma a molte migliaia
di più; inoltre a periodi differenti non corrispondono specie dif¬
ferenti, poiché certe specie appaiono in diversi strati suc¬ cessivi,
mentre altre si sono estinte prima che avesse fine l’epoca alla quale
appartenevano. Queste ed altre obbiezioni pur gravi fecero tramontare
l’ipotesi del Cnvier, della quale prese il posto e si diffuse rapidamente
quella del Darwin, Bisogna risalire fino al Rinascimento, per
trovare i primi tentativi d’interpretazione del mondo organico per mezzo
del¬ l’evoluzione naturale. Se no trovano accenni in opere di
scien¬ ziati e filosofi appartenenti alle scuole più diverse, in
Giordano Bruno, in Guglielmo Leibniz, in Antonio Cesalpiuo, nel
Buf¬ fon, nel Goethe, e più chiaramente nel Damarli ecc. Il Darwin
ebbe il merito, senza dubbio, grandissimo di aver saputo met¬ tere.
insieme tutti i fattori dell’evoluzione organica : vide nella lotta per
l’esistenza la causa della selezione naturale, a cui la variabilità offre
la materia, che poi l’eredità trasmette; accanto a questi fattori
principali pose come fattori ausiliari l’azione dell’ambiente
sull’organismo, l’influenza dell’ uso e del non uso degli organi, la
scelta sessuale, la legge di correlazione di sviluppo. L
'influenza dell’ambiente è la causa più in vista; piante e animali si
modificano mutando clima e paesi; di tutti gli esseri viventi
sopravvivono solo quelli che sanno adattarsi all’ambiente.
Gli animali debbono lottare non solamente contro il suolo e il
clima, ma anche fra di loro: le piante sembra che si contendano i raggi
del sole e il nutrimento della terra; gli animali adoprano l’intelligenza
e l’energia che possiedono per procurarsi da vivere; gli uccelli da preda
provvedono alla propria esistenza mettendo a morte gli uccelli più
piccoli e più deboli; questi alla lor volta si nutrono di insetti, i
quali vivono a spese del regno vegetale; dimodoché tutti gli
esseri, dall’animale più perfetto alla pianta, si movono di
continuo una guerra violenta e accanita; e in questa lotta per
resi¬ stenza vincono i più forti e i più fecondi. I caratteri che
120 FltlNCrPI DI LOGICA. assicurano il
trionfo degli individui e delle specie si svilup¬ pano producendo
nell’organismo modificazioni più o meno pro¬ fonde, giacché le diverse
parti delPorganismo sono così stret¬ tamente collegate fra di loro, che i
mutamenti che accadono in una si fanno sentire più o meno anche nelle
altre, donde la legge di correlazione di sviluppo ; infine Veredità fissa
nella specie i caratteri acquistati dall’individuo. In tal modo la
selezione naturale, mediante continue modificazioni, conduce ad una
trasformazione continua e progressiva degli esseri ani¬ mali e vegetali,
assicurando la sopravvivenza dei più perfetti. L ipotesi
darwiniana, appoggiata ad una grandissima copia di fatti, di osservazioni
e di prove, contribuì a spie¬ gare molti fenomeni che fino allora erano
rimasti senza spie¬ gazione, oppure erano stati spiegati in modo
imperfetto; non è quindi a meravigliarsi se oggi essa è accettata dalla
mag¬ gior parte dei naturalisti come legittima; benché le
differenze nel modo di intenderla siano assai gravi, e benché abbia
se¬ gnato il principio d’una rivoluzione radicale nell’ interpre¬ tazione
scientifica della natura. E se oggi la selezione naturale solleva non
poche obbiezioni e appare di per sé sola insuffi- cente a spiegare tutti
i fenomeni della vita organica, tuttavia i principi messi innanzi dal
Darwin devono figurare come la regola il « metodo » generale che bisogna
seguire nell' in¬ terpretazione dei fenomeni naturali. (*) 5.
L’analogia. — Il procedimento analogico ha pure, come abbiamo già
accennato, molta importanza nella ricerca scientifica. La parola «
analogia » ha però bisogno d’esser chiarita nei suoi significati
essenziali, affinchè si possa com¬ prendere il valore che essa possiede
nella ricerca scien¬ tifica. Nel linguaggio volgare tale
vocabolo s’adopera general¬ mente come sinonimo di somiglianza, mentre in
realtà non è che ima forma imperfetta di somiglianza. In tutte le
scienze si possono ritrovare esempi d’analogia. Cosi nella chimica vi
sono corpi analoghi, cioè capaci di combinarsi con un altro corpo dato,
producendo composti paralleli ; in fisica 0) De Sablo, Studt di
filosofia coni., pag. 143. Roma, Loeschcr, 1901.
CAPITOLO XI. 127 il suono è analogo alla luce,
avendo amendue un carattere comune che è la vibrazione, malgrado la
differenza del mezzo che serve di veicolo. L’analogia riesce
ancor più evidente e frequente negli esseri viventi; così malgrado le
differenze grandi che a prima vista passano tra un uomo e un uccello e
tra un uccello o un pesce, pure la loro struttura è analoga, poiché
tutti constano d’nna serie di segmenti vertebrali, che for¬ mano appunto
la colonna vertebrale; hanno tutti un capo che è collocato all’estremità
anteriore di questa colonna, un tubo digestivo che ne percorre tutta la
lunghezza e una certa quantità d’organi che si corrispondono a
vicenda. L’analogia, considerata come un procedimento dello
spi¬ rito che mira a nuove cognizioni, si può dire un’ inferenza
che da una rassomiglianza constatata di alcuni punti con¬ chiude alla
rassomiglianza su altri punti; è un procedimento instabile, ondeggiante e
multiforme, che può dar luogo ad aggruppamenti imprevisti e ad invenzioni
originali, come ci dimostra la storia delle scoperte scientifiche, e in
generale tutti i prodotti della fantasia e dell’immaginazione.
Negli spiriti poco precisi e rigorosi nelle loro osservazioni Yana-
logia si fonda per lo più sopra il numero degli attributi pa¬ ragonati,
benché non sia raro il caso di analogie singolari basate su pochissimi
caratteri comuni; cosi un bimbo vede nella luna circondata dalle stelle
una madre colle sue figlie ; gli aborigeni dell’Australia, racconta un
viaggiatore, chia¬ marono un libro una « conchiglia », perchè si apriva e
si chiudeva come la valve di questo animale. L’analogia è più
profonda quando ha per base la qua¬ lità o il valore degli attributi
messi a confronto; allora s’ap¬ poggia sopra un elemento variabile che
oscilla dall’essenziale all’accidentale, dalla realtà all’apparenza; cosi
tra i cetacei e i pesci le analogie sono molte pel profano, tenui pel
natu¬ ralista. 6. Valore dell’inferenza analogica. —
L’analogia può ri¬ ferirsi ai termini oppure ai rapporti', cosi se da una
rasso¬ miglianza di natura fra due organi si inferisce la rassomi¬
glianza delle funzioni, nella prima rassomiglianza abbiamo
128 PRINCIPI DI LOGICA, un’analogia clie
si riferisce ai termini; nella seconda ima analogia elle si riferisce ai
rapporti. L’inferenza analogica si distingue dall’induzione per
due caratteri principali: 1° L’analogia è in realtà una
deduzione fondata sopra una precedente induzione, benché in apparenza
proceda dal particolare al particolare. Sieno per esempio i fenomeni
A e B che abbiamo in comune i caratteri a b c d ; constatando nel
primo un quinto carattere x, posso inferire che esiste pure un’analogia
fra i due fenomeni anche rispetto al ca¬ rattere x, ossia affermo che
anche in B si trova quest’ul¬ timo carattere; per es. Franklin nota che
alla scintilla elet¬ trica e al fulmine sono comuni alcuni caratteri, e
conclude che hanno pure comune la causa, donde la scoperta della
causa del fulmine e del mezzo per mitigarne gli effetti. Bi¬ sogna però
notare che il legame che esiste tra i caratteri a b c d e il carattere x
dev’essere costante e necessario, ossia deve avere il valore d’una legge
ottenuta mediante il pro¬ cedimento induttivo; non dev’essere un fatto
accidentale, giacché, come è facile comprendere, in tal caso
l’analogia non sarebbe possibile o sarebbe per lo più errata. Molti er¬
rori di ragionamento che commette l’osservatore volgare o poco
circospetto dipendono spesso da false analogie. 2°. Uanalogia è
sempre ipotetica, mentre ciò non si può dire dell’induzione. Se per es.
io osservo sulla terra i carat¬ teri abed. l’atmosfera, il calore,
l’umidità e la vita, e con¬ stato nel pianeta Marte i caratteri abe, sono
tratto a inferire che anche in Marte esiste il carattere d, ossia la
iuta; però evidentemente questa inferenza è ipotetica, e rimarrà
tale finché l’esperienza non ne abbia provato la verità.
Quindi il ragionamento analogico è di uso assai delicato, e può
condurre ad errori assai frequenti anche nell’osserva¬ zione scientifica,
come ce ne fanno fede tanto le scienze che hanno per oggetto lo studio
della natura, quanto le scienze storiche. Un esempio celebre di fallaci
analogie è quella già citata di Newton intorno alla luce; è pure fallace
quella che Platone stabili fra lo stato e l’individuo, in forza della
quale conchiude che debbono esservi tre categorie di cittadini :
servi, guerrieri, reggitori, come vi sono tre facoltà dello spi-
CAPITOLO XI. 129 rito, sensibilità, affettività,
ragione; Platone non volle vedere che le proprietà osservate
nell’individuo non corrispondono esattamente alle funzioni esercitate
dallo Stato ; in un errore simile sono caduti recentemente quegli
studiosi che hanno stabilito un’analogia molto stretta fra l’organismo e
la società e hanno affermato che le funzioni sociali debbono corrispon¬
dere alle funzioni dell’organismo, riconoscendo nella società un
cervello, i tessuti, la circolazione del sangue, un sistema nervoso,
muscolare ecc. 7. La logica dell' invenzione. — Per ben comprendere
la scienza nei suoi caratteri essenziali, per coglierne lo spirito
sotto le apparenze superficiali, bisogna ancora considerare brevemente l
'invenzione, la ricerca creatrice, la quale non di rado trascura i
metodi, le forme e le vie comuni dell’in¬ dagine, giacché il lavoro della
mente che crea si compie spesso come in un’atmosfera nebbiosa e oscura,
spinto quasi da un presentimento della verità che è anteriore al
possesso chiaro e cosciente di questa. In qualche caso lo spirito
del- l’ inventore è avvolto dalle contraddizioni, non ha la
coscienza ben chiara di ciò che compie e dello scopo a cui mira,
manca di rigore, di precisione, d’evidenza; spesso nello scoprire
una verità, grazie alla potenza intuitiva del suo ingegno, salta a
piè pari gli anelli intermedi che congiungono una verità con un’altra,
senza curarsi in nessun modo della continuità e della concatenazione dei
suoi ragionamenti. La storia ci prova ampiamente che una conclusione
nuova e giusta è uscita spesso da falsi ragionamenti, che un edificio
creato dalla nostra mente può essere esatto, mentre ne sono false tutte
le singole parti; non so quale scienziato ha un giorno esclamato: «
Io non vorrei raccontare il succedersi dei miei pensieri in una
ricerca, perchè mi potrebbero giudicare o un imbecille o un pazzo » .
L’amore esclusivo dell’ordine, della chiarezza, della logica razionale,
l’orrore per la contraddizione, che si ritro¬ vano negli spiriti comuni e
mediocri, sono non di rado assenti nei- grandi inventori. Il
Turgot, uno dei più saggi filosofi del secolo XVIII ha scritto : « Se si
elevassero monumenti agli inventori nelle arti e nelle scienze, vi
sarebbe un minor numero di statue Mobselli, Principi di Logica —
9 130 PRINCIPI PI LOGICA. per gli
nomini, che pei fanciulli, per gli animali, e soprattutto, 4 per la
fortuna » . L’importanza del caso nelle invenzioni scientifiche è
•] stata spesso esagerata, e va messa nei suoi giusti limiti; esso
1 va inteso in un doppio senso: 1°. In senso largo, il caso
dipende dalle circostanze inte- I riori e psichiche. Si sa che una delle
migliori condizioni per I inventare è l’abbondanza dei materiali,
l’esperienza accumu- j lata, un periodo preparatorio lungo, complesso,
laborioso, par- I ticolare o generale, che rende poscia lo sforzo
efficace e facile; I nel dominio del pensiero, come negli altri campi,
non esiste 9 generazione spontanea. Le confessioni degli
inventori non lasciano alcun dubbio 9 intorno a questo punto, cioè
intorno alla necessità d’un gran I numero di schizzi, di saggi, di
abbozzi preparatori, sia che i si tratti d’uua macchina o d’un poema,
d'un quadro o d’uu J edificio ecc. ; un’ incubazione profonda precede
sempre l’e&pvjxa. 1 Qui il caso ha la sua funzione incontestabile, ma
dipende • J infine dall’ individualità, e da questa spunta la sintesi
impre- M vista di idee che costituisce la scoperta. 2°. 11
caso, in senso limitato, preciso, è un accidente for- 1 tunato che
suscita l’invenzione, ma che non ha in questa il merito maggiore : si può
dire che sia piuttosto la convergenza jj di due fattori, l’uno interno,
il genio individuale, l’altro 9 esterno, l’avvenimento fortuito. È
impossibile determinare 9 tutto ciò che l’invenzione deve al caso inteso
in questo senso;* certo nell’ umanità primitiva l’efficacia ne deve
essere stata I enorme: la scoperta del fuoco, la fabbricazione delle
armi, degli* utensili, la fusione dei metalli sono state suggerite da
accidenti 9 assai semplici, come, per esempio, la caduta d’un albero
attra- 1 verso un corso d’acqua può aver suggerito la prima idea d’un
9 ponte. Nei tempi storici la raccolta dei fatti autentici forme-'®
rebbe un grosso volume; chi non conosce il pomo di Newton, ■ la lampada
del Galilei, la rana del Galvani? Huyghens ha I dichiarato che senza un
concorso imprevisto di ch’costanze, 9 l’invenzione del telescopio avrebbe
richiesto un « genio so-* vrumano » , mentre si sa che è dovuta ad alcuni
bimbi che® giocavano con vetri nel laboratorio d’un ottico; lo
SchònbeinH scopre l’ozono grazie all’odore fosforico dell’aria quando
èl CAPITOLO XI. 131 attraversata da
scintille elettriche; si dice che la vista d’un granchio abbia suggerito
a Giacomo Watt l'idea d’una mac¬ china ingegnosa. Le scoperte di Grimaldi
e di Fresnel sulle interferenze, quelle di Faraday, Arago, Foucault,
Fraunhofer, Kirchhoff e di altri cento debbono qualche cosa al
caso. L’ufficio del fattore esterno è chiaro, mentre è men
chiaro quello del fattore interno, benché sia capitale. Infatti lo
stesso avvenimento fortuito passa davanti a milioni d’uomini senza
suscitare nessuna idea nuova. Quanti Pisani avevano visto oscillare la
lampada nel celebre Duomo prima del Galilei! Il caso fortunato tocca solo
a quelli che lo meritano ; per profit¬ tarne occorre prima un acuto
spirito d’osservazione, l’atten¬ zione sempre desta e vigile, infine, se
si tratta di invenzioni scientifiche o pratiche, la penetrazione che
coglie i rapporti tra le cose e avvicina caratteri ed elementi, che
nessuno aveva pensato di riunire; in conclusione il caso è un’occasione,
non un agente di creazione. (*) Il Voltaire attribuiva ad
Archimede tanta immaginazione quanta a Omero; A. Baili, C. Bernard, Th.
Ribot hanno poscia determinato con una certa precisione l ’importanza che
l’immag i nazione ha nell e scienze. Tra i caratteri essenziali
dell’immagi nazione, il cui mec¬ canismo sempre e dovunque è presso a
poco lo stesso, sono note¬ voli i seguenti: 1°. Un’invenzione
qualsiasi ha sempre i caratteri d’un’opera d’arte, e nella sua unità
rassomiglia ad un organismo vivente; essa non è mai ottenuta mediante un
lavoro d'intarsio discorsivo, ma è il frutto d'un pensiero intenso e
profondo più che metodico e mi¬ nuzioso. 2°. Ogni inventore è
un uomo d’azione; il suo pensiero, cosi diverso da quello del contemplatore
o del critico, va dritto, rapido, è essenzialmente concreto e specifico,
flessibile, prudente, capace di adattarsi al variare delle circostanze e
alle minime indicazioni dell'esperienza. Si sa che l'abbondanza dei
ricordi non è una con¬ dizione sufficiente uè necessaria per creare; si è
anzi osservato che un’ignoranza relativa è qualche volta utile per
innovare, e favorisc e l’audacia; vi sono invenzioni scientifiche
elio non si sarebbero fatte séTIoro autori fossero stati trattenuti
dai dogmi e dalle opinioni ( l ) Ribot, L'imagination créatrice,
p. 137. F. Alcali, 1900. 132 PRINCIPI
DI LOGICA. dominanti nei loro tempi e ritenuti come incrollabili
ed eterni. La mente dell’inventore mira al fatto, al risultato.
3°. La facoltà inventiva per eccellenza, come ha osservato il Bain,
consiste nella facoltà di identificare, di percepire somiglianze e
differenze, e suppone quindi una singolare attitudine a pensare per
analogie e por immagini; lo scienziato non si distingue in questo punto
dal poeta. CArITOLO XII. 133 CAPITOLO
XII. 1. Il metodo sistematico — 2. La definizione; nozioni generali
— 3. Oggetto della definizione — 4. Varie specie di definizioni — 5.
Regole della definizione — 6. La divisione — 7. La classificazione — 8.
Fondamento della classificazione. 1. Il metodo sistematico. — Il
metodo sistematico ha per fine essenziale di dare alle cognizioni
scientifiche un ordi¬ namento razionale e di ottenere la prova della
verità. Me¬ diante queste operazioni l’insieme dei fenomeni che
costitui¬ scono l’oggetto di lina scienza diviene un complesso
ordinato nel quale tutte le parti hanno relazione e dipendenza
reciproca. Al primo ufficio la logica soddisfà con la teoria della
defi¬ nizione e della divisione, che comprende la classificazione ;
al secondo con la teoria della prova e dei principi di prova.
Quest’ultimo ufficio viene anche attribuito ad una parte spe¬ ciale del
metodo, che appunto dicesi dimostrativo. In tutte le scienze tali
operazioni hanno molta impor¬ tanza per diverse ragioni: una raccolta di
fatti e di cogni¬ zioni, come possiamo osservare nella tìsica, nella
botanica, nella zoologia ecc., quando viene fatta con ordine
sistematico, mette in maggiore evidenza la verità delle cognizioni
rintrac¬ ciate, che vengono presentate in tal modo alla nostra
intel¬ ligenza come riunite in un quadro dai contorni chiari e ben
determinati; in ciò il sapere scientifico si distingue special- mente dal
sapere comune e volgare che è per lo più disordi¬ nato, confuso, e non
distingue le nozioni importanti e generali da quelle che sono meno
importanti e particolari, ciò che è vero da ciò che è falso. Il valore e
l’utilità d’un ordinamento razionale si possono chiaramente stabilire
osservando l’ufficio che esso compie anche nelle raccolte di minore
importanza, come quando si tratta d’una biblioteca, d’un museo, d’un
er¬ bario eco., il disordine fa perdere tempo all’osservatore e gli
impedisce di apprezzare l’importanza degli oggetti che ha davanti agli
occhi. 134 PRINCIPI DI LOGICA. 2.
La definizione; norme generali. — La definizione è In più semplice delle
forme sistematiche; precede la divisione e la classificazione, poiché, se
ogni nozione generale, come già abbiamo visto nella prima parte, ha ima
comprensione che è la somma dei caratteri che essa racchiude, ed
un’estensione, che è il numero degli esseri che, possedendo in comune
quei caratteri, trovansi raggruppati sotto quella nozione, la com-
prensione determina l’estensione, e quindi la definizione de¬ termina la
divisione. Ufficio primo della definizione è quello di
determinare con chiarezza e precisione le idee che sono l’oggetto
d’una scienza, ossia il co nte nuto dei singoli concetti; ora la
defini¬ zione d’un concetto si esprime, nel modo più semplice, me¬
diante un giudizio, nel quale il soggetto è il concetto che dev’essere
definito e dicesi appunto definito o definiendo ; e il predicato è quella
nota o quell’insieme di note, mediante le quali il soggetto viene
definito, e dicesi definiente. La definizione si può prendere in
tre significati : a) è l’operazione o l’insieme d’operazioni che
mirano a determinare l’essenza delle cose ; e in questo senso
l’intendeva Socrate, che pel primo, al dire d’Aristotile, applicò la
mente alle definizioni. Definire era per lui cercare razionalmente
l’essenza delle cose, xò li iotiv ; cosi egli voleva determinare l’idea
della giustizia, della sapienza, della prudenza, l’idea dell'uomo
politico, del giudice ecc.; la definizione di queste idee e di quelle
simili permetteva di misurarne esattamente l’oggetto e il valore e quindi
di regolare meglio la nostra vita pratica. E chiaro che in
questo significato la definizione è il mezzo della scienza, in quanto
tende alla conoscenza dei ca¬ ratteri essenziali delle cose;
b) la definizione può anche essere il fine della scienza, ossia la
nozione, il concetto, nel quale si rende stabile il ri¬ sultato della
ricerca scientifica ; c) infine la definizione può essere intesa
come l’opera¬ zione, la quale consiste nello sviluppare in una
proposizione o giudizio il contenuto d’un concetto ottenuto mediante la
ri¬ cerca scientifica. In quest’ultimo significato è l’espressione
della scienza, la formula esplicita e breve dei risultati della
scienza. CAPITOLO XII. 135 3.
Oggetto della definizione. — I caratteri e le note che formano il
contenuto d’un concetto possono essere numerosi e di specie diversa e di
valore disuguale, e non possono di conseguenza entrare tutti nella
definizione scientifica; ma, poiché la scienza ha per oggetto il
generale, la definizione ha per oggetto ciò che dicesi l’essenza ed
esclude il partico¬ lare, l’accidente. Vediamo quindi che vuol dire
essenza d’un concetto. L’essenza è costituita dall’insieme dei
caratteri intimi che persistono in mezzo al variare delle relazioni e
delle mo¬ dificazioni accidentali ; è ciò che l’essere possiede in sé
stesso, ciò che non può cessare d’appartenergli, senza che esso
cessi tosto di esistere. Li’accidente è ora un rapporto fortuito,
come ad esempio il posto occupato da un individuo o da un oggetto
nello spazio e nel tempo, ora una modificazione accessoria che altera,
per cosi dire, soltanto la superficie dell’essere che la subisce, senza
toccarne il fondo, è, in generale, tutto ciò che avviene negli esseri per
un concorso fortuito di circostanze esteriori. Si comprende
quindi come la definizione escluda l’acci¬ dente e accolga solo ciò che è
essenziale. Però bisogna avvertire che questi due concetti non
hanno limiti fissi, giacché l’accidente può alla sua volta divenire
oggetto di definizione; cosi, se non si può definire l’uomo per mezzo di
qualche malattia, cui vada soggetto, si può però definire la malattia nei
suoi caratteri essenziali, escludendone gli accidenti particolari, ai
quali esso può andare incontro. Però non tutte le nozioni si
possono definire in modo preciso e determinato, e nelle diverse scienze,
oltre le defini¬ zioni approssimate, come le idee di colore, tono, sapore,
vi sono definizioni oscillanti, come avviene per le idee che si
arricchiscono di continuo per mezzo dell’esperienza e mediante caratteri
che vengono aggiunti dalle nuove scoperte. Per esempio, dice il Taine, la
nozione che un uomo ordinario ha del corpo umano è assai misera e
incompleta: per lui è una testa, un tronco, un collo, quattro membra d’un
colore e di una certa forma; e questi pochi caratteri gli sono
sufficienti per la pratica usuale della vita ; ma è chiaro che i
caratteri propri del corpo umano sono infinitamente più numerosi ;
136 PRINCIPI DI LOOICA. l'anatomico vuol
sezionare, notare, descrivere, disegnare- il manuale che si dà agli
studenti ha mille pagine, e occorre¬ rebbe un bel numero d’atlanti e di
volumi per contenere le hgure e l'enumerazione di tutte le parti che
l’occhio nudo ha constatate. Se poi l’occhio s’arma d’un
microscopio, questo numero si centuplica; al di là del nostro
microscopio, uno strumento piu potente aumenterebbe ancora la nostra
conoscenza; con¬ tinuando per questa via la ricerca non ha termine.
Inoltre in alcune scienze le detinizioni segnano come il punto
d’arrivo della ricerca scientifica, in altre invece se¬ gnano il punto di
partenza. Cosi nella geometria, dove nessun ragionamento e possibile
senza le definizioni, queste debbono essere stabilite da principio;
mentre nelle scienze sperimen¬ tali, dove esprimono i risultati ottenuti,
debbono rappresen¬ tarne le conclusioni. E evidente che le definizioni
del trian¬ golo, del circolo, del quadrato ecc. debbono precedere qualsiasi
ragionamento intorno a queste figure; e che la definizione delia « vita »
nelle scienze biologiche non può essere che il risultato di un gran
numero di ricerche e di studi che ri- guardano i fenomeni vitali. Infine
nella definizione debbono entrare quelle note che sono sufficienti per
distinguere il concetto definendo sia dai concetti simili, sia dai
concetti che appartengono ad altre classi; per questo si dice che la
definizione si fa pel genere prossimo e per la differenza specifica, de/ìnitio,
dicevano gli Scolastici, fit per genua proximum et differentiam
specificavi. ■Definire pel genere prossimo, cioè per quel genere che
più, s avvicina alla comprensione del definendo, equivale a indi¬
care il gruppo di cui un oggetto o un individuo fa parte, e ' quindi
attribuirgli implicitamente i caratteri di questo gruppo- cosi per
definire l’uomo è inutile dire che è un animale ver¬ tebrato, mammifero-,
quest’ultimo carattere, che esprime il ge¬ nere prossimo, è sufficiente,
giacché implica i due primi. Definire per la differenza specifica
vuol dire constatare e determinare 1 caratteri speciali che appartengono
solo al definendo e lo distinguono da tutti gli altri esseri del
me¬ desimo gruppo. Cosi se al carattere « mammifero » noi aggiun¬
giamo, per designare l’uomo, quello di bimane, gli attribuiamo
CAPITOLO XII. 137 con quest’ultimo concetto un
carattere che lo distingue da tutti gli altri mammiferi. 4.
Diverse specie di definizioni. — Il metodo che si ado¬ pera nel lare una
definizione può essere duplice, positivo e negativo. Il primo consiste
nel riunire nella definizione tutti i caratteri che servono a determinare
il definendo; il secondo mira invece a stabilire i caratteri che debbono
essere esclusi e non possono attribuirsi al definiendo. Quest’ultimo
metodo ó assai meno perfetto e si può considerare, nella maggior
parte dei casi, come un complemento del primo. La definizione si
suole distinguere in nominale e reale. La definizione nominale ha per
fine di spiegare e di deter¬ minare in forma precisa il valore e il
significato d’una parola, o di fissare il senso costante di alcune parole
attraverso le varietà mutabili delle significazioni particolari. Essa ha
valore logico non in quanto sia una semplice spiegazione
etimologica o sintattica, nel qual caso la definizione rientra nel
campo della grammatica, ma solo in quanto serva di preparazione
alla definizione reale. Vi è un certo numero di parole che non sono
facilmente definibili pel numero e la varietà degli ele¬ menti che
contengono e che spesso sono il prodotto di varie epoche storiche; di qui
la difficoltà che s’incontra nel defi¬ nire la « società » oggetto di
tante dispute nella scienza so¬ ciale contemporanea, la religione, lo
stato ecc. La definizione reale tende a darci invece l’essenza
d’un concetto, il valore intrinseco del definiendo, indicando i ca¬
ratteri che questo ha comuni con gli altri concetti simili, e quelli che
ne lo differenziano; si fa quindi, come s’è già detto, pel genere
prossimo e per la differenza specifica. Anche qui le difficoltà per
ben definire non sono poche, quando si tratti di concetti che si
considerano come un pro¬ dotto storico o di concetti scientifici, ai
quali nuove esperienze possono di continuo aggiungere nuovi elementi;
sono minori per altre scienze, come ad esempio perle matematiche,
dove sono possibili definizioni perfette. Inoltre la
definizione, considerata sotto un altro aspetto, può essere anche
analitica o sintetica. E analitica quando risolve il concetto del
definito in più 138
PRINCIPI DI LOGICA. altri concetti; per es. l’eredità fisiologica
è la trasmissione di caratteri speciali dell’organismo dai progenitori ai
discen¬ denti; oppure: il cerchio è una curva chiusa che ha tutti i
punti^ della circonferenza equidistanti dal centro. L sintetica la
definizione, quando nel determinare i ca¬ ratteri del concetto segue il
processo col quale il definiendo si è venuto formando, ossia costituisce
un concetto per mezzo di altri concetti più semplici. In questo senso la
definizione può essere detta genetica, in quanto espone la genesi
d’un concetto ; e questa si può considerare come la forma più per¬
fetta del definire. Un esempio di definizione genetica è il seguente : Se
in un piano, tenendo ferma una retta ad un suo estremo, la muovo sempre
nello stesso senso e in modo che essa torni alla sua posizione di
partenza, descrivo una figura che dicesi circolo. Si sogliono
anche distinguere due specie di definizioni ge¬ netiche, la diretta e V
indicativa: è diretta quando essa stessa produce e costituisce il
definiendo; è indicativa quando espone il modo col quale il definiendo
può essere prodotto da cause che sono distinte dal nostro pensiero, come
avviene delle cose prodotte dalla natura, per es. dei ghiacciai, dei
venti ecc. 5. Regole della definizione. — Le principali regole
che si debbono seguire per ottenere una buona definizione logica
sono le seguenti : a) i concetti defi nienti non debbono essere una
semplice tautologia del concetto definito o definiendo, ossia il
defi- niente non deve ripetere colla stessa o con diversa forma
grammaticale il definito, come quando si dice che uomo bu¬ giardo è colui
che dice bugie. Questo errore assai comune viene indicato dalla logica
tradizionale colle note parole la¬ tine : idem per idem definire.
b) la definizione non dev’essere circolare, ossia non ci deve
spiegare il delùdente mediante il definito e viceversa, ricordando 1
errore del circolo vizioso, come quando si definisce la coscienza per la
percezione dei fatti interni, e questi ultimi vengono definiti per quei
fatti che si producono nella nostra coscienza. c) la
definizione non dev’essere negativa, ossia deve dire CAPITOLO
XII. 139 non già quello clie il definiente non è, ma
quello che è, ed esporre i suoi caratteri propri. Sarebbe negativa la
defini¬ zione che chiamasse la virtù la qualità opposta al vizio.
d) la definizione dev’essere infine chiara ed esatta, non dev’essere
sovrabbondante, non essere nè troppo ampia, nè troppo ristretta, deve
evitare le espressioni improprie, oscure, e anche le espressioni
figurate, quando non contribuiscono a chiarire il concetto. Cosi quando
si dice che il bello è lo splendore del vero, non si giunge ad avere del
bello un con¬ cetto nè chiaro nè esatto. Le definizioni di
questo genere nascondono spesso l’igno¬ ranza di cognizioni sicure e
profonde intorno all’oggetto che si vuole definire, oppure anche
l’imperfezione della scienza. 6. La divisione. — La divisione,
intesa come operazione logica, determina l’estensione d’un concetto,
mentre la defi¬ nizione ne determina la comprensione ; essa si riduce
quindi a un giudizio, nel quale s’espongono le diverse specie d’una
idea generale, e il dividendo, che rappresenta il genere, fa da soggetto,
mentre il dividente, che contiene l’enumerazione delle diverse specie
contenute nel dividendo, fa da predicato. Anzitutto nella divisione
bisogna considerare le note con¬ tenute nel concetto da dividere,
distinguere in esso gli ele¬ menti generici, che sono costanti, dagli
elementi variabili, che costituiscono il cosiddetto fondamento o
principio della divisione. Cosi nella nota divisione delle lingue in
monosil¬ labiche, agglutinanti, flessive, le parti divise sono queste
ul¬ time, il dividendo è il concetto lingua, e la divisione è
fondata sulla morfologia. Le regole della divisione sono le
seguenti: 1°. La divisione deve corrispondere esattamente
all’og¬ getto suo, ossia le sue parti debbono riprodurne tutta
l’esten¬ sione, in modo che nessuna parte ne sia trascurata e non
ve ne sia alcuna superflua. 2°. Ogni divisione dev’essere fatta
secondo un unico prin¬ cipio. Così se dividiamo le opinioni professate
dagli uomini in vere, false e dubbie, la divisione posa sopra un doppio
prin¬ cipio, la verità e la certezza: le opinioni tutte, comprese
quelle dubbie, sono vere o false ; cosicché converrebbe fare due
140 rniNOIPI DI LOGICA. divisioni: a) tutte le
opinioni sono o vere o false; b) tutte le opinioni sono o certe o
dubbie. 3°. La divisione non dev’essere negativa, ossia ogni
specie divisa deve avere caratteri propri, non già essere una sem¬
plice negazione dei caratteri della specie opposta. Così è ne¬ gativa
l’antica divisione degli animali in vertebrati e inver¬ tebrati.
4°. Le parti divise debbono essere coordinate ed opposte: bisogna
far in modo che nessun oggetto o nessun essere possa venir collocato in
due termini d’una medesima divisione. Cosi chi dividesse i fenomeni
naturali in fisici, chimici, psi¬ chici e volontari cadrebbe nell’errore
che è cagionato dal non osservare la presente regola ; infatti i fenomeni
volontari non sono nè opposti uè coordinati a quelli psichici, ma
subordi¬ nati ad essi, e ne sono parte. La divisione più
semplice è quella die dicesi dicotomia, la quale consiste nel dividere il
genere in due specie opposte, che si distinguono per la presenza nell'una
e l'assenza nella seconda d’un solo e medesimo carattere. La classi fic
azion e delle scienze concepita dal fisico Ampère è una vera e propria
divisione dicotomica ; egli infatti distingue le scienze in due grandi
regni, scienze cosmologiche che si occupano del mondo materiale e
studiano la natura, e scienze nooloyiche che studiano il mondo morale e
spirituale. Ciascuna di queste classi si suddivido alla sua volta in
altre due classi minori e così di seguito; l'Ampère giunge con questo
metodo a stabilire cento ventotto scienze speciali, che abbracciano tutte
le cognizioni umane. 7. La classificazione; utilità e specie
diverse. — Una forma sistematica del sapere scientifico più
importante di quella precedente è la classificazione , la quale tende a
pre¬ sentare in modo compiuto e ordinato tutte le parti che com¬
pongono un complesso di cognizioni omogenee. Essa si può dire una
divisione complessa risultante da una divisione prin¬ cipale e da una o
più divisioni subordinate o suddivisioni. Nella classificazione lo
scienziato parte da un concetto gene¬ rale, ne distingue prima le specie
immediate e più generali ; in ciascuna di queste poscia le specie
rispettive, finché giunga fino alle ultime specie per mezzo di successive
divisioni e suddivisioni. CAPITOLO SII.
141 I vantaggi che presenta un tale ordinamento delle co¬
gnizioni scientifiche sono evidenti. Anzitutto il contenuto di nna data
scienza viene compreso in un prospetto sintetico, che abbrevia il tempo
necessario per apprendere, riducendo in un certo senso il numero delle
cognizioni indispensabili; cosi per es. il regno animale abbraccia
probabilmente non meno di 600000 specie, che lo zooologo riesce a
conoscere in modo relativamente completo riducendo gli individui in
specie, le specie in generi, i generi in famiglie ecc.; il quadro in
tal modo semplificato può essere facilmente ritenuto e riprodotto
dalla memoria, benché non ci fornisca che una cognizione schematica o
scheletrica della natura, che per la scienza è però sufficiente e, pur
sopprimendo i caratteri particolari, estende mirabilmente il campo delle
nostre conoscenze. In secondo luogo la classificazione ci permette
di appren¬ dere non solo un numero infinito di esseri o di oggetti,
ma anche la loro 'parentela mediante le loro affinità naturali. In
tal modo l’immensità della natura viene riassunta non solo in una forma
concisa, ma anche in una forma ordinata ed armonica. Inoltre
la somiglianza e le affinità constatate tra gli esseri appartenenti ad un
dato gruppo permettono spesso di infe¬ rire altre somiglianze ed affinità
prima ignorate. Così, come dice il botanico Adriano de Jussieu, quando
sappiamo che un certo numero di piante costituiscono una famiglia, di
solito siamo tratti ad attribuir loro le medesime proprietà econo¬
miche e medicinali. La classificazione può essere artificiale o
naturale. La classificazione artificiale, che ha uno scopo
essenzial¬ mente pratico e mnemonico, tende a darci la conoscenza
degli oggetti o degli esseri che si vogliono classificare
fondandosi sopra un numero ristretto di caratteri, i quali vengono
scelti fra i più appariscenti, senza badare alla loro importanza
in¬ trinseca; un esempio di classificazione artificiale è l’ordina¬
mento d’una biblioteca, dove i libri vengono disposti o secondo l’ordine
alfabetico, o secondo il formato, o, meglio, secondo il contenuto.
La classificazione naturale invece si ha quando, per ri¬ produrre
in certo qual modo l’ordine della natura, è fondata 142
PRINCIPI DI LOGICA. sopra la scelta dei caratteri più
importanti, manifesti oppure occulti, permanenti oppure evolutivi. La
forma più perfetta di classificazione naturale è quella detta genetica
(da yiveatc nascita, origine, formazione) la quale tende a classificare
gli esseri secondo l’ordine della loro apparizione. Cosi la
biologia mira, secondo tale principio, alla classificazione genetica
delle forme viventi, la psicologia a quella dei fatti psichici, la
filologia comparata a quella delle lingue. 8. Fondamento della
classificazione. — Il fondamento della classificazione naturale è da
ricercarsi, come si com¬ prende facilmente da ciò che già si è detto, non
nelle prò- prietà apparenti, ma nelle primarie o causali, ovvero in
quelle che sono segni di proprietà primarie o causali; ossia
bisogna fermare 1 attenzione sopra i caratteri che si posson
chiamare dominatori, perchè la presenza di ciascuno di questi trae
seco necessariamente quella d’un certo numero di caratteri subor¬
dinati, essendovi tra un carattere dominante e i caratteri su¬ bordinati
ad esso uniti un rapporto costante e necessario, una legge non di
successione, ma di coesistenza, di contempora¬ neità. In altre parole, la
presenza di certi caratteri fonda- mentali fa supporre con certezza
l’esistenza di altri caratteri; come avviene specialmente nei gruppi
animali. Per questa ragione le classificazioni zoologiche sono
fon¬ date sui caratteri anatomici e fisiologici più importanti ed
essenziali; per esempio il pipistrello, che in apparenza ha maggior
affinità cogli uccelli, tuttavia è messo fra i mamini- . ' b 01cllè ^
questi ultimi possiede i caratteri dominanti; in modo simile la
balena è mammifero e non pesce ecc. E pur sempre per questo motivo
di regola generale nelle classificazioni scientifiche si va dall’idea più
generale a quelle che sono a queste immediatamente subordinate, e
così di seguito a mano a mano alle specie più distinte, senza
omettere alcun anello intermedio. CAPITOLO xm.
143 CAPITOLO XIII. 1. La dimostrazione — 2. Prova
diretta — 3. Prova indiretta — 4. I principi supremi delle scienze
— 5. Definizioni, ipotesi, postulati, assiomi — 6. Il calcolo delle
probabilità. ofTTtfo€‘5ti5 1. La dimostrazione. — Il
metodo dimostrativo ha per fine di giustificare la verità delle
conoscenze scientifiche, di accertare noi stessi e gli altri d’una verità
già scoperta fa¬ cendola derivare dalla verità d’altre conoscenze, per
offrire in questo modo un fondamento logico alle nostre
osservazioni. La prova o dimostrazione, cosi concepita è un
complemento necessario delle altre operazioni logiche, le quali
forniscono ed ordinano le cognizioni scientifiche, ma non ce ne
danno la giustificazione che appaghi la nostra mente, collegando la
verità d’una conclusione alla verità delle premesse, come fa la
prova. Nella prova bisogna distinguere tre elementi principali
: a) la tesi da provare. Ti*’er sé stesse in- ,
dimostrabili. Spesso nella vita pratica, quando si vuole ottenere
qual¬ che line particolare, si parte dalla tesi supposta vera e si
dimostra come essa non porti a nessuna conseguenza falsa. La prova
diretta e regressiva o induttiva che dir si voglia parte d
ai particolari, come abbiamo già d et to, p er salire al principio
generale ; dimodoché la verità di questo si deve am- 300 0 00000
mettere grazie alla verità dei particolari sui quali si fonda.»
Questa forma di dimostrazione ha la sua base nella verità del principio
dell’ induzione, intorno alla quale già a lungo si è discorso, essa si
adopera in tutte le scienze, ma più spe¬ cialmente nelle scienze
naturali, e meno nelle matematiche. •Sia per esempio da provare la
tesi seguente: la celerità della I erra nella sua orbita intorno al Sole
é in ragione inversa della distanza da esso; la prova si ottiene
osservando se è verificata almeno in due casi particolari, cioè quando la
Terra si trova nel punto più lontano dal Sole ossia nell’afelio, o
quando raggiunge la massima vicinanza col Sole, ossia nel perielio.
La prova diretta regressiva è d’uso assai frequente an¬ che nella
iuta pratica, quando per esempio si vuol provare la bontà d un
provvedimento o d’un disegno qualsiasi, ap-
CAPITOLO XIII. 145
placandolo nei casi e nelle circostanze particolari ; così Focione
disapprovava nna spedizione di poche navi che gli Ateniesi volevano tare
contro una città, dicendo che era troppo piccola per un’impresa ostile, e
troppo grande per un atto d’amicizia. 3. Prova indiretta. — La
prova indiretta e progressiva si ha quando si prova la falsità della tesi
opposta o aj^gpi partendo da due principi generali. Sia per esempio da
pro¬ vare la tesi : due rette perpendicolari ad una terza sono
perpendicolari fra di loro; si prova la falsità dell’antitesi: due
parallele perpendicolari ad una terza non sono parallele fra di loro,
partendo dal principio generale che « da un punto preso fuori di una
retta non si può sulla medesima abbassare che una perpendicolare »
. Una seconda forma della prova indiretta e progressiva si ha
quando si dimostra che V antitesi conduce a conseguenz e le duali o jono
assurde, o sono in co ntraddizione con prin ¬ cipi, la cui verità è
solidamente stabilita e non si può in nes¬ sun casomeitere m dubbio. Sia
per esempio da provare la tesi seguente : il triangolo equilatero non può
essere rettan¬ golo; si ammette, per ipotesi, che sia vera la tesi
opposta: il triangolo equilatero può essere rettangolo; in tal caso la
con¬ seguenza è che il triangolo equilatero dev’essere anche equia
n¬ golo ; e poiché ciò non è possibile ammettere, perchè dovrebbe
avere dille angoli retti, si conchiude essere falsa l’antitesi e vera la
tesi da provare. La prova indiretta regressiva, che dicesi anche
ap^gogica o induttiva, si ha quando si vuol provare la tesi
esponendo quali principi assurdi bisognerebbe accogliere se si ritenesse
T vera l’antitesi. Cosi per dimostrare la necessità del governo che
diriga e regoli l’attività dei cittadini, si espone quali principi falsi
bisognerebbe ammettere intorno agli uomini, per j~~l dimostrare che
l’anarchia è utile e giovevole alla società umana. ^ b>
4. I principi supremi delle scienze. — Le scienze hanno per
fine proprio la spiegazione della natura, la quale si pre¬ senta a noi
come una massa enorme di fenomeni; spiegare i quali vuol dire per la
mente umana ricondurli sotto rapporti di più in più semplici e generali,
finché si giunga ai prin- Mobbelli, Principi di Logica — 10
146 PRINCIPI Di LOGICA.
cip! supremi e irriducibili di ciascuna scienza, cioè a quei!
principi e a quelle leggi che non si possono derivare d a i.rin-l o c a
leggi piu__semplici. La dimostrazione ci conduce in i ultima analisi a
tali principi supremi, giacché, dovendo una di giostrazione fondarsi
senti r e soura altre verità già areni? ] t a^e, dipende da altre dimo
str azioni ole presuppone: ina in u imo devesi giungere n e cessariamente
a verità fondamen- ' -■ ^ mdimos trabil i , e che sono evidenti per sè
stesse . osi nella meccanica i principi irriducibili sono le leggi
fondamentali e più generali del movimento; nella fisica l’iner¬ zia.
l’equivalenza e la trasformazione delle forze; nella chi¬ mica la teoria
atomica; nella biologia, la contrattilità, l'as- similazione e la
proliferazione dell’elemento anatomico, ossia la vita, che le scienze
biologiche studiano in tutte le sue svariate manifestazioni.
L’irriducibilità di queste leggi ap¬ pare manifesta: il moto non si può
dedurre dalla quantità, nè 1 attrazione dal movimento, nè l’attività
dall’attrazione. ) E necessario però notare che se ciascuna scienza ha
prin- — li -riducibili e fondamentali, tuttavia le scienze tutte
formano nel loro complesso una specie d’organismo, le cui parti sono
strettamente collegate fra loro e si aiutano di continuo a vicenda;
giacché sappiamo che nè il fisico può fare a meno nelle sue ricerche
delle cognizioni matematiche, nè il chimico delle cognizioni fisiche, nè
il fisiologo delle co¬ gnizioni di fisica e di chimica e cosi di seguito.
\ odiamo inoltre che i principi fondamentali costituiscono una sene
di nozioni di complessità crescente, in modo simile a . quello che è già
stato osservato nella classificazione delle scienze del Cointe; infatti c
iascun a nozion e, pur contenendo un fiuid irriducibile, cade sotto
l’estensione del principiar piecede, e diviene di questo un caso par
ticolare . Così, coni* piuta per mezzo dell’astrazione e dell’analisi la
distinzione delle proprietà fondamentali, ne succede tosto la sintesi: il
movimento s’aggiunge alla quantità, l’affinità chimica all’at¬ trazione,
al movimento e alla quantità ecc. 5- Definizioni, ipotesi,
postulati, assiomi. — I principi su¬ premi delle dimostrazioni si possono
ridurre a quattro classi principali: le definizioni, le ipotesi, i
postulati, gli assiomi.
CAPITOLO XIII. 147 Le definizioni,
secondo quanto s’è già stabilito, conten-UPF'iNf£) Gomperz, op. cit„ pag.
482. 150 PRINCIPI DI
LOGICA. dere, dipendono sopratutto dall’esame critico e dal buon
senso dell’osservatore. Il secondo caso è quello della
verisiiniglianza quantita¬ tiva, o calcolo delle probabilità, che
consiste nel determinare quale di due affermazioni di materia identica,
ma opposte, sia più probabile; se la causa a ha ora per effetto b, ora
per effetto c, sicché sia vero ugualmente che a produce b e che a
non produce b, si tratta di vedere quale dei due effetti b o c è più
probabile; chiamando m i casi di b ed n quelli di c, evidentemente sarà
più probabile quello degli effetti, che ha per sé il maggior numero di
casi favorevoli. Il probabilismo ha le sue radici nell’antichità e
si può dire che sia sorto con l’arte oratoria; i primi retori
siciliani Corace e Tisia considerano il verisimile (sìxós) come lo
strumento necessario della retorica, e distinguono due specie ‘»i, ver
isimiglianza, 1 assoluta (eìxój àTUÀòi;) e la relativa (eìxó? Tt); i
filosofi della Nuova Accademia, soprattutto Arce- silao e Cameade acuti
osservatori della vita, sostengono che in nessun dominio del sapere noi
possiamo raggiungere la verità e, per conseguenza, la certezza assoluta,
ma che dob¬ biamo in ogni caso accontentarci di semplici
probabilità. * Probabile aliquid esse (dicebat) et quasi verisimile
eaque se uti regula et in agenda vita et in qunerendo ac disse-
rendo » (Cicerone, Acad. II, X, 32). Dopo saggi importanti di
Biagio Pascal, di Giacomo Bernouilli e di Guglielmo Leibniz, la logica
del probabile trova, nei tempi moderni, due cultori eminenti nel
Laplace e nel Cournot. Il grande Trattato del Laplace
comprende due parti: una parte matematica, la Teoria analitica delle
probabilità (1812), e una parte filosofica, Saggio filosofico sulle
probabi¬ lità (1814), che espone, senza l’aiuto dell’analisi
matematica, i principi della teoria delle probabilità, i suoi risultati
ge¬ nerali e le applicazioni più importanti. Il calcolo delle
probabilità riposa, secondo il Laplace, sulla nozione del caso che ha il
suo fondamento nella nostra ignoranza delle cause e serve a dissimulare
la nostra debo¬ lezza, giacché nell’universo tutto è rigorosamente
determi¬ nato e bisogna considerare lo stato presente del mondo
come CAPITOLO XIII. 151 l’effetto dello
stato anteriore e come la causa di quello che deve seguire.
La causa che è manifesta in certi fenomeni semplici, per es. nei
fenomeni celesti, ci sfugge in altri fenomeni più complessi, che noi,
nella nostra ignoranza, attribuiamo al caso. Benché la scienza tenda a
eliminare sempre più i casi fortuiti, tuttavia non è sempre facile
respingere l’ipotesi del caso: perciò le probabilità hanno una
grandissima impor¬ tanza nelle conoscenze umane. « Le questioni più
importanti nella vita sono per la maggior parte problemi di
probabilità; anzi, parlando con rigore, si può dire che quasi tutte
le nostre conoscenze sono solamente probabili, e, che nel pic¬ colo
numero di cose, che, nelle stesse scienze matematiche, possiamo sapere
con certezza, i mezzi principali per giun¬ gere alla verità, l’aualogia e
l’induzione, si fondano sulle probabilità » . Il Cournot nel
1843 pubblica la sua * Esposizione della teoria dei rischi e delle
probabilità », colla quale vuole in¬ segnare alle persone, che non
conoscono le matematiche su¬ periori, le regole del calcolo delle
probabilità, senza le quali, non possiamo renderci un conto esatto nè
della posizione delle misure ottenute nelle scienze d’osservazione, nè
del valore dei numeri forniti dalla statistica, nè delle condizioni
del successo di molte imprese commerciali. Chiamasi probabilità
matematica d'un avvenimento il rapporto esistente tra il immero dei cas i
favorevoli a questo avvenimento e il numero di tutti gli altri casi
possibili ; laonde tutti questi casi debbono essere egualmente
possibili. Prendiamo un paio di dadi da giocare, in forma di cubi
geo¬ metricamente regolari e affatto eguali; in queste condizioni non
si può ammettere che, gottando i dadi nel modo consueto, i dadi ca¬
schino sopra una faccia piuttosto che sopra un’altra; in altri ter¬ mini,
i casi di caduta d’ogni dado sono ugualmente possibili. Ogni faccia
dei dadi è segnata con numeri (dall'uno al sei eompreso) e tutti e due i
dadi si gettano nel medesimo tempo; è chiaro che ogui faccia d’uno dei
dadi può cadere con ogni faccia dell'altro dado; si avrebbero così 36
casi possibili di combinazione di numeri a due a due. Indicando l'uno dei
dadi con A e l’altro con B, possiamo comporre la seguente tabella dei 36
casi possibili. 152 TAam» o Cl l *
u PRINCIPI DI LOGICA. A B 1 1 1
2 1 3 1 4 1 5 1 6 A B 2
1 2 2 2 3 2 4 2 5 2 6 A
B 3 1 3 2 3 3 3 4 3 5 3 6
A B 4 1 4 2 4 3 4 4 4 5 4 6
A B 5 1 5 2 5 3 5 4 5 5 5
6 A B 6 1 6 2 6 3 6 4 6 5 6
6 Come si disse, tutte le combinazioni di questa tabella sono
ugualmente probabili: cosi l’avere il numero 5 sul dado A e il numero 2
sul dado B, è ugualmente probabile cbe l’avere 6 e 6 su tutti e due i
dadi. Ma se consideriamo la sortita dei numeri 2 e 5 indipendentemente
dal dado sul qualo possono comparire, al¬ lora la probabilità di sortita
di questa coinbinnzione si distinguer» dalla probabilità di sortita
dell'altrn combinazione 6 o 6 per questo, che la prima combinazione
s'avrà tanto con 5-2 cbe con 2-5, mentre la combinazione 6 e 6 rimarrà
limitata n una sola volta fra le 36 coppie di numeri. In questo modo la
probabilità matematica di sortita dei numeri 5 e 2 (rimanendo
indifferente cbe ciascun d’essi appaia sul dado A o sul dado B) sarebbe
di */j 0 ossia di ‘/ist mentre pei numeri 6 e 6 è solo di '/ss-
Se poi consideriamo la sortita, sui due dadi, di numeri tali che la
loro somma corrisponda ad una quantità desiderata, allora la probabilità
d'avere questa somma sarebbe, por le differenti qua¬ lità, affatto
diversa. Così per os. il numero 2 si potrebbe avere in un modo solo, cioè
coll’uscita dei numeri 1-1, mentre il numero 7 si potrebbe avere nei
seguenti modi : 1-6, 6-1, 2-5, 5-2, 3-4, 4-3, per cui
la probabilità dell'uscita del numero 2 sarebbe di l jn, del numero 7
sarebbe di e / 3 «. Dalla definizione data della probabilità
matematica, risulta che essa è sempre una frazione, vale a dire un numero
di parti dell’unità, alla quale questa probabilità s’avvicina tanto più
quanto maggioro è il numero dei casi favorevoli all’avvenimento in
con¬ fronto doi casi possibili. Questa frazione potrebbe cambiarsi
nel¬ l’unità solo quando non esistesse nessun caso sfavorevole
all'avve¬ nimento aspettato; ecco perchè l’unità si considera come il
simbolo della certezza. CAPITOLO
XIV. 153 CAPITOLO XIV. 1 Carattere
generale delle scienze storiche — 2. Oggetto delle scienze storiche ~
3. Svolgimento del concetto di storia — 4. La storia ì> una scienza o
un’arte? — 5. La critica storica — 6. Esiste una scienza generale
della società? — 7. Il metodo nello studio dei fenomeni
sociali. 1. Carattere generale delle scienze storiche. — Come
si è già accennato parlando della classificazione delle scienze, la
storia ha per oggetto il particolare , l’ individuale, ciò che esiste una
volta sola e non si ripete mai. Per comprendere il valore di questa
affermazione e per stabilire a quali scienze si può sicuramente
applicare, bisogna anzitutto determinare con esattezza il significato
dell’espressione: fatto o avveni¬ mento individuale di cui si occupa lo
storico. Individuale è, in questo caso, ciò che si riscontra
una sola volta nel mondo, tanto se il fatto è singolare, cioè non
appartiene che a un solo corpo o essere, quanto se è generale, cioè
comprende una collettività, è comune a più esseri. In tal senso si
considerano come fatti individuali : la sovrapposizione degli strati,
terrestri, la quale non si è mai ripetuta nel corso del tempo ; le specie
vegetali e animali scomparse che hanno popolato la terra solo in un’epoca
determinata; tutti i fatti storici propriamente detti, che non si sono
prodotti che una sola volta nel passato, come gli imperi egiziano,
babilonese, persiano, la civiltà greca, la conquista macedone, la
domina¬ zione romana, l’invasione dei barbari, il feudalismo,
l’impero di Carlo Magno, le Crociate, l’emancipazione dei Comuni,
lo assolutismo del secolo XVII, la Rivoluzione francese e così di
seguito. Tutti questi fatti e gli altri simili ad essi sono indivi¬
duali, perchè si constatano una sola volta nelle formazioni dello spazio
e in quelle del tempo. I fatti più universali sotto l’aspetto dello
spazio possono entrare nel quadro della storia tostocliè vengano
individualizzati nel tempo, ossia quando si
154 PRINCIPI DI LOGICA. sono prodotti una sola volta
nei secoli decorsi. Appunto in questo senso, secondo la nota ipotesi del
Laplace, il nostro sistema planetario è passato dalla nebulosa primitiva
allo stato attuale attraverso a tappe successive che non si sono
mai riprodotte nel corso del tempo. La stessa cosa si può affermare
delle modificazioni subite dalla crosta terrestre, dei fatti della storia
umana: si è vi¬ sta una sola volta l’epoca della pietra rozza, una sola
volta l'epoca della pietra levigata e quella del bronzo; gli uomini
d’un paese sono pure passati una sola volta dallo stato di cacciatori a
quello di pastori, e da questo allo stato di agri¬ coltori.
Anche quando sembra che i fatti storici si ripetano, co- desta
ripetizione è talmente differente, che i fatti, i quali paiono ripetersi,
in realtà sono nuovi. Cosi la produzione let¬ teraria si è manifestata in
tutte le epoche; ma in ciascuna epoca essa ha rivestito un carattere
particolare: la letteratura classica del periodo aureo in Grecia e in
Roma è ben diversa dal nostro Cinquecento o dalla letteratura francese
dell’epoca di Luigi XIV. Ciò che bisogna considerare in queste
fioriture letterarie non è già il fondo comune umano, la tendenza
ad esprimere il bello mediante la lingua, ma la forma diversa colla
quale tale tendenza si è manifestata. Lo stesso avviene di tutti gli
altri fatti storici: tutti si ripetono, poiché l’uomo rimane sempre il
medesimo, coi suoi bisogni e colle sue aspi- zioni; ma il contenuto delle
sue produzioni varia di continuo e le opere sue sono sempre differenti,
possiedono un carattere individuale. Ben diversa è la
concezione dei fatti universali nel tempo, ossia di quelli che si
ripetono con differenze trascurabili, come la rivoluzione dei pianeti
intorno al Sole, la circolazione del¬ l'acqua sulla terra, lo scambio
d’ossigeno e d’acido carbonico tra le piante e gli animali ecc. Sono
fatti che si sono pro¬ dotti, si producono, e, possiamo dire, si
produrranno anche nel futuro, quando siano date le condizioni necessarie
in forza del postulato dell’uniformità delle leggi di natura, di cui già
si è parlato diffusamente. Invece, dei fatti storici si può affer¬
mare che sono fatti di successione, i quali sono avvenuti una sola volta
e non avverranno più; il che porta ad una eouse- CAPITOLO
XIV. 155 guenza importante, cioè che i fatti storici
non si possono esprimere, come i fatti naturali, per mezzo di leggi
universali e necessarie. \ Questa è la differenza più grave
che corra fra le scienze che si possono dire di sviluppo e di successione
e le ricerche teoriche, cioè quelle che studiano i fatti di
ripetizione. Alcuni sociologi hauuo creduto di ritrovare nella
storia alcune leggi sui generis: essi, considerando le serie intere di
fatti succes¬ sivi come fatti singolari, le hanno riunite in fasci c ne
hanno tratte leggi mediante gli stessi procedimenti che le scienze
nomotetiche applicano ni fatti singolari di ripetizione. In tal modo si è
tentato di formulare la Ugge dell’evoluzione religiosa, secondo la quale
le concezioni religiose sono sempre passale attraverso a tre stati
con¬ secutivi : il feticismo, il politeismo e il monoteismo (Spencer,
Gum- plowicz); la legge dell’evoluzione politica, espressa nella
formula seguente: la serie politica incomincia con l'anarchia, passa pel
clan famigliare, per la tribù repubblicana dapprima, più tardi
monarchica e aristocrntica, giunge alla monarchia dispotica, e infine,
con uu ritorno corretto verso le sue origini, arriva ni governo
parlamentare (Letourneau); la legge dell'evoluzione della pittura, che
nei suoi pri¬ mordi è religiosa, per dare origine alla pittura mitologica
come ramo parallelo, la quale alla sua volta divieue pittura storica; da
que¬ st’ ultima si stacca la ritrattistica, che dà origine al genere,
per giuugere infine per il paesaggio alla natura morta
(Brunetière). Ma non una di queste leggi e delle altre simili può
reggere all'esame dei fatti; esse non sono che generalizzazioni
arbitrarie, che non hanno il più piccolo fondamento nella realtà delle
coso. (') 2. Oggetto delle scienze storiche. — Adunque la
storia, concepita nel suo significato più logico, ha per fine
essenziale di esporre lo sviluppo complessivo dell’universo, a
cominciare dalla formazione dei corpi celesti, svoltisi dalla nebulosa
pri¬ mitiva secondo il principio ipotetico del Laplace, per giun¬
gere, attraverso alla geologia e alla trasformazione successiva degli
organismi vegetali e animali, allo sviluppo dello spirito umano, al quale
in modo più speciale s’applica il nome di storia. In questo complesso
entrano tanto i fatti universali quanto i fatti singolari considerati
nello spazio, ma che sono però 0) XÉNOPOi., Le caracthrc- de
l’histoire , in Jievue phil., gennaio 1902, p. 38. Lee principes
fondatHeniau.r de l’histoirè, p. 201-251. Paris, Lerotut, 1899.
156 PRINCIPI DI LOGICA. tutti
individuali considerati nel tempo, ossia che non si sono prodotti che una
sola volta nel corso del tempo e non si ri¬ produrranno più nell’
identico modo : ogni fatto è unico e non rassomiglia ad alcun altro in
maniera completa. Tali sono per esempio: la successione di zone
sedimentarie nei terreni secon¬ dari o terziari; le trasformazioni
successive attraverso le quali sono passati i sauriani rettili per
mutarsi in uccelli, o quella dell ’elephas antiquus per divenire
l’elefante che os¬ serviamo ai nostri giorni; oppure le vicissitudini per
le quali ha dovuto passare l’Impero germanico o la Penisola italica
per arrivare alla forma unitaria attuale, o la trasformazione dell’epica
cavalleresca leggendaria e primitiva nelle opere individuali del Pulci,
del Boiardo e dell’Ariosto. Per evitare equivoco, è però necessario
in questo punto uno schiarimento; cioè bisogna stabilire una distinzione
tra l’esposizione scientifica naturale e l’esposizione storica d’un
oggetto o d’una classe d’oggetti, per esempio degli esseri vi¬ venti,
della società umana ecc. Cosi la biologia concepita come scienza
naturale, che mira a farci conoscere le leggi generali che governano la
vita degli animali e dei vegetali, non si deve confondere colla biologia
considerata come scienza storica, la quale ha in vece per fine di
studiare le succes¬ sive modificazioni e trasformazioni dei medesimi
esseri sulla superficie della terra dal primo momento, se è possibile,
della loro apparizione fino ai nostri giorni ; in modo simile la
so¬ cietà umana può essere oggetto d’una scienza naturale, in
quanto questa la studia e l’analizza nella sua maniera di essere, di
vivere, nella dipendenza dei suoi elementi ; e può anche essere oggetto
d’una esposizione storica nel senso comu¬ nemente inteso, in quanto ne
espone le vicende successive. (*) È quindi evidente che nello studio
di certe classi di og¬ getti il metodo naturale, che vuole stabilire
leggi, e il metodo storico, che vuole invece stabilire il modo di
successione dei fenomeni, possono alternarsi, ma non confondersi; giacché
le leggi naturali non si applicano che ai fenomeni che si ripetono
e non esprimono che il carattere quantitativo dei rapporti tra 0)
Rickert, Die Qrensen der naturwisseuschaftlichen liegriffsbildung, pag.
294. Leipzig, Mohr, 1896-902. CAPITOLO
XIV. 157 i fenomeni, mentre la storia si occupa solo
del lato qualita¬ tivo dei fenomeni, e afferma che non vi sono due
individualità storiche che si rassomiglino, due avvenimenti che si
possano ricondurre sotto la medesima nozione generale o legge che
si applichi tanto al presente quanto al passato. (*) Noi ci
limiteremo qui ad esporre per sommi capi le re¬ golo metodiche più.
importanti che riguardano lo studio dei fatti umani, cioè che riguardano
la storia propriamente detta, la quale ci interessa più da' vicino.
3. Svolgimento del concetto di storia. — Le varie trasfor¬ mazioni
cui il concetto di storia andò via via soggetto servono a mettere in
evidenza i vari elementi che lo compongono e a farne conoscere meglio la
vera indole e lo scopo. L’idea di cercare un disegno generale della
storia non si era presentata, nè si poteva presentare, agli antichi, i
quali non avevano un concetto chiaro dell’unità del genere umano.
Erano talmente immedesimati nella società e civiltà in cui vivevano e di
cui facevano parte, che non sapevano ricono¬ scere e pregiare il valore
d’un’altra : lo straniero era per essi un barbaro; essere civile, pei
Romani che conquistarono il mondo, voleva dire accettare le leggi, le
istituzioni, le idee di Roma, divenire in una parola, romano.
La storia ha però trovato in Grecia e in Roma cultori di grande
valore ; pel primo Tucidide rivolge lo sguardo sui fattori politici e,
quasi, sulla base naturale degli avvenimenti, le cause dei quali ricerca
non già nelle disposizioni di esseri sopranaturali, ma soprattutto nelle
condizioni in cui si trova¬ vano i popoli, negli interessi degli Stati,
e, in piccola misura, nei capricci e nelle passioni degli individui; egli
vuol descri¬ vere il corso delle cose umane, come farebbe per quello
dei fenomeni naturali, ricerca la verità con zelo infaticabile, e
nessuno sforzo, nessun sacrificio risparmia, per raggiungerla, per dare
dei fatti un’esposizione esatta. Col Cristianesimo si diffuse il
concetto d’un Dio unico, creatore e guidatore del mondo, innanzi a cui
tutti gli uo¬ mini sono eguali; e cosi sorse anche il concetto d’un
disegno (i) Kickkbt, op. cit„ pag. 530.
158 PRINCIPI DI LOGICA. nella storia, d’una niente
superiore, che conduca ad un fine determinato. E noto che questo concetto
apparve per la prima volta nella Città di Dio di S. Agostino e nelle
Storie del suo discepolo Orosio. Cosi cominciò quella che fu chiamata
Scuola teologica, la quale in sostanza era la negazione del vero
me¬ todo storico e la rendeva impossibile. Infatti l’uomo diveniva
un cieco strumento, senza proprio valore, nelle mani di Dio. che guidava
i popoli come un cocchiere guida i cavalli; i popoli sorgono o cadono,
perchè Iddio avvicina o allontana da essi la sua mano; le leggi dei fatti
bisogna cercarle nella mente divina, in cui ai mortali non è dato
penetrare. Quindi l’errore fondamentale non stava già neU’ammettere un
Dio creatore dell’uomo e. regolatore della storia, ma nel metodo
che si voleva seguire. Anche Galileo Galilei credeva in un Dio creatore
del mondo, autore dello leggi della natura; ma egli cercava queste ultime
studiando la natura e i suoi feno¬ meni. Invece gli scrittori del Medio
Evo pensano che gli avve¬ nimenti storici sieno esclusivamente opera
della Provvidenza divina, considerano l’uomo come un semplice strumento e
la vita terrena non altro che una preparazione alla vita celeste.
Coi grandi storici del Rinascimento italiano questo con¬ cetto è
totalmente abbandonato; nelle storie del Machiavelli e del Guicciardini,
infatti, la Provvidenza è scomparsa del tutto; essa non è mai chiamata a
spiegare qualcuno dei grandi avvenimenti storici. Tutto ciò che avviene
nella storia è, per gli scrittori del Rinascimento, opera dell’uomo, e
dell’nomo individuo civile, razionale. Però l’uomo non è considerato
come parte integrante della società, ma isolato, immutabile. Così il
Machiavelli nel primo libro delle sue Storie narra gli avvenimenti
dell’Europa nel Medio Evo: perchè i barbari si precipitano sull'impero?
perchè uno o un altro generale romano offeso, geloso, irritato, li chiama
per vendicarsi. Perchè seguono le Crociate? perchè Urbano II, non avendo
altro da fare, pensò di darsi ad una « generosa impresa » . V’è
sempre un capitano, un politico, un uomo di Stato, che è la causa
di tutto ; è esso che fa le leggi, che fonda una repubblica o una
monarchia, che muta i governi, che apparecchia le con¬ giure, le grandi
rivoluzioni e le conduce al fine desiderato; non vi sono forze generali
d’alcuna specie che operino : l’uomo CAPITOLO XIV.
159 rimane sempre lo stesso, e le differenze che vediamo di
se¬ colo in secolo, da nazione a nazione, sono secondarie, più
apparenti che reali. (') Queste idee durarono fino al secolo 2àlll.
Il primo che osò prendere una via a fiat io diversa fu Giambattista
Vico (1G68-1744). Egli accetta il pensiero degli uomini del Ri¬
nascimento, cioè che le cause dei fatti storici sono da ricer¬ carsi
unicamente nell’uomo e nelle modificazioni dello spirito umano, « questo
mondo delle nazioni è pur fatto dagli uo¬ mini e bisogna quindi
ricercarne leej-ipiegazione nella mente umana * ; non crede però che
l’uomo rimanga sempre lo stesso attraverso a tutte le trasformazioni
sociali, ma assi¬ cura invece che lo spirito umano muta col mutar dei
tempi e che, se vogliamo, per esempio, comprendere l’infanzia del
genere umano, dobbiamo uscire di noi stessi, rifarci in certo qual modo
fanciulli. Questo è il concetto che avviò la storia per una via nuova e
che fa del Vico il precursore dell’indi¬ rizzo seguito più tardi dal
Wolf, dal Niebuhr, dal Savigny. Questi ultimi iniziarono un nuovo metodo,
studiando con me¬ todo scientifico e con grande pazienza i linguaggi, le
mito¬ logie, il diritto, la società primitiva, le antiche
istituzioni. Questa scuola pose in evidenza che la mitologia, i
linguaggi, le società nascono e crescono secondo leggi determinate,
senza essere creazione personale dell’uomo: l’uomo non appariva
più, quale una volta, come un essere immutabile in tutti i tempi, i
tutti i luoghi, con facoltà sempre identiche in ogni età, in ogni razza o
civiltà diversa ; ma d’ora in ora continuamente mutabile, ed in questa
sua mutabilità, in questo suo continuo diveìiire doveva essere
studiato. Di qui ha avuto principio quell’immenso lavoro di
in¬ dagini che va rinnovando ab imis fundamentis tutta la storia
del passato e disseppellendo ad una ad una le antiche ci¬ viltà ; si
tende ad una ricostruzione completa degli avveni¬ menti storici, fondata
sulla conoscenza critica delle fonti e di tutte le forze che agiscono nei
gruppi sociali e dei bisogni che cagionano i movimenti delle masse umane.
Intorno alla (!) Vili.ari, Scritti rari; il saggio “La Storia è
una scienza? „ passim. Bo¬ logna, Zanichelli, 1874.
PRINCIPI DI LOGICA. \t>e*ì
Pane 160 natura di questi bisogni spuntano le
divergenze delle con¬ cezioni storiche, oggidì assai numerose.
Secondo la concezione eroica non sono altro che ^bisogni degli eroi
e dei geni che póngono in moto quella màis in- (ììgéstaqtte moles che è
l’umanità; è una spiegazione insuffi¬ ciente, che riposa sopra una
concezione antiscientifica della causalità, confonde l’occasione del
movimento storico con la sua causa e cade in un circolo vizioso, poiché
conclude dal¬ l’importanza dei risultati ottenuti dall’uomo di genio a
quella della sua energia, e fa poi di questa energia supposta la
causa dei risultati ; già Niccolò Machiavelli ha notato che la
storia insegna che i tempi porgono l’occasione ai grandi e questi
sanno afferrarla, mutando spesso il corso degli avvenimenti. (')
Una concezione ideolo gica della storia si ritrova nella celebre
opera di H. Th. Buchle « Storia della civiltà in In¬ ghilterra ; » le
azioni umane, secondo questo scrittore, ven¬ gono determinate parte dalla
natura, parte dallo spirito. Il primo fattore si assoggetta il secondo,
ed è quindi prepon¬ derante, nelle zone calde e fredde, mentre nei paesi
tempe¬ rati, come nell’Europa, la natura è subordinata allo
spirito; gli Europei debbono la loro civiltà ai progressi del sapere
e dell’ intelligenza ; però la civiltà non è già il prodotto arbi¬
trario e casuale di cieche forze fisiche o di potenze spiri¬ tuali, ma si
deve considerare come il risultato necessario d’una serie di cause
strettamente tra loro concatenate. La concezione collettivista,
sorta di recente, vede la causa dei movimenti indicati in un « bisogno
delle masse » , e spe¬ cialmente in un bisogno economici) ; la forma più
importante di questa concezione economica della storia è il
cosiddetto materialismo storico, che ha il suo principale
rappresentante e fondatore in Carlo Marx (1818-1883). Questi sostiene
che t utto lo sviluppo sociale è determinato dal sistema econo¬ mico,
che alla sua volta dipende dalla forma e dallo svilnpup della produzion
e. La struttura economica della società, egli dice, è la base reale, su
cui s'eleva poi 1 edificio giuridico e politico, cosicché i (_ modo dì
produzione della vi ta m&tedale domina in generale lo sviluppo della
vita sociale, politic» o_ (>) Il Principe, cap. VI, p. 6, ed.
carata da G. Lisio. Firenze, Sansoni, 1900.
CAPITOLO XIV. 1G1 i ntellettuale
. Il Marx distingui nella storia dell’umanità tre periodi principali : il
periodo a ntico, il f eudale , il borghese o capitalista, tutti
caratterizzati dal differente modo di pro¬ duzione : ciascuno porta
ingenita la sua propria contraddi¬ zione e ci mostra il progresso come
uno sviluppo storico ne¬ cessario. Il regime borghese, nel quale viviamo,
è d’origine recente, giacché incomincia nel -secolo XVI, quando i
grandi proprietari invadono a poco a poco il dominio dei grandi
col¬ tivatori, spingendo nelle città gli abitanti delle campagne.
La soppressione dei mestieri e l’invenzione delle macchine hanno dato un
grandissimo sviluppo all’industria, nella quale s’ impiega un numero
sempre crescente di lavoratori. La sto¬ ria è c|uindi dominata dal
sistema economico e non avrebbe c he una fonte p rincipale: i Jjiso^ni
mat eriali dell nomo; l’or¬ ganizzazione economica che oravecliamo non è
l’espressione di leggi economiche eterne, ma non altro che una
modifica¬ zione dell’organizzazione economica medioevale, che alla
sua volta deriva dall’antica. Il fatto economico è per natura sua
esclusivamente umano ; precede nel tempo tutti gli altri fenomeni
sociali, poiché, come Aristotile ha già osservato fino dall’antichità,
gli uomini non potevano porsi a speculare prima d’aver provveduto ai loro
naturali bisogni ; infine è tra i fatti sociali il più semplice.
È innegabile che i fatti economici hanno sopra gli altri fatti
sociali una efficacia spesso decisiva, e che quindi la loro conoscenza ha
molta importanza nella spiegazione dello svol¬ gimento storico delle
società umane. Però non bisogna di¬ menticare il legame che uni sce gli
uni agli altri i fenomen i s ociali: il diritto, l a religione, la
morale, reconomia, la po - Jitìca. tutte le categorie di fatti che
l’analisi distingue sono unite fra loro da reciproche influenze ;
lo stesso Marx ha no¬ tato ciò che v’è di contingente nei progressi della
tecnologia, ciò che questa deve al caso, alle gr andi inv enzioni e
all’im t elligenza . Quindi il materialismo storico, secondo recenti
in¬ terpreti (Antonio Labriola e Benedetto Croce), fornisce una
somma di nuovi dati, di nuove esperien ze., che entra nella coscienza
dello storico, si risolve in un ammonimento a tener presenti le
osservazioni fatte da esso come nuovo sussidio a intendere la
storia. Mobsbllt, Principi di Logica — 11
162
PRINCIPI DI LOGICA. 4. La storia è una scienza o un’arte? -
Importante è pure la questione non ancora chiusa se la storia sia una
scienza oppure un arte; ponendola alcuni risolutamente fra le scienze,
altri fra lo arti, ed altri accordandole i caratteri d’una scienza e nel
mede¬ simo tempo d un’arte. Notevoli sono le argomentazioni chq il
Croce pone innanzi per sostenere che la storia è un’arte: egli
distingue nella conoscenza umana due forftd: la còrios'ceuza intuitiva e
la conoscenza logica, conoscenza per la fantasia e conoscenza per l
intelletto, conoscenza dellWimrfnalc e àeW universale, delle cosse delle
loro relazioni; l'una è produttrice d’imagini, l’altra produttrice di
concetti. Lo intuizioni sono: questo fiume, questo lago, questo ri¬
gagnolo, questa pioggia, questo bicchiere d’acqua; il concetto è: 1
acqua, non questa o quella, ma l’acqua in genere, in qualunque luogo o
tempo si roalizzi. Le manifestazioni più alte della cono¬ scenza intuitiva
e dolla conoscenza intellettuale sono arte e scienza. (') La stona è
un’arte, come la poesia, la pittura, la musica; essa ò una pittura vora e
propria, descrivo gli avvenimenti, vuole rappre¬ sentare vivamente
all’immaginazione degli uomini i fatti passati; racconta e non fa
deduzioni nè induzioni, secondo il metodo ado¬ perato nelle scienze, non
ricerca leggi, nè foggia concetti, è diretta art narrandum non ad
demonstrandnm. Il questo qui, Vindividuimi umilino determinatimi è il suo
dominio, od è il dominio medesimo dell arte; la storia rientra perciò
sotto il concetto dell’arte. 1', un sofisma quello di credere che
la storia abbia por oggetto il concetto dell’individuale, donde si
conchiude che la storia sia conoscenza logica o scientifica; la storia
elaborerebbe il concetto d un personaggio, di Carlo Magno o di Napoleone
; d’un’opoca come del Ri nascimento o dolla Riforma: d’un avvenimento
come della Rivoluzione trancoso e dell'unificazione d’Italia, allo stesso
modo che la Geometria elabora i concetti delle forme spaziali. Ma
di tutto ciò non è niente: la storia non può se non presentare Na¬
poleone o Carlo Magno, la Riforma o il Rinascimento, la Rivolu¬ zione
francese o l’unificazione d’Italia, fatti individuali, nella loro
fisionomia individuale, proprio nel senso cho dai logici si dico che dell
individuale si dà non concetto ma rappresentazione. ( a ) Tra aite ola
storia corre quosta differenza: la prima è la conoscenza d una cosa, d’un
sentimento, d’un carattere, la conoscenza della lealtà possibile, non
della realtà esistente e reale, oggetto della storia 5. La critica
storica. — Lo storico trae la materia della narrazione o dai fatti che
egli stesso ha veduto, oppure dai * (*) 0) Croce, Estetica , p. 3.
Palermo, Sandron, 1902. (*) Croce, op. cit„ p. 29-30.
CAPITOLO XIV. 163 fatti che altri in
tempi o luoghi lontani hanno osservato; d’onde la necessità di valutare
il grado di certezza delle te¬ stimonianze, per avvicinarsi più che è
possibile alla verità. Bisogna notare che l’uomo lascia traccia di sè e
delle sue opere non solo nei racconti scritti o tramandati di
genera¬ zione in generazione, ma anche nelle armi, negli ornamenti,
negli strumenti che adopera nella caccia, in casa ecc. ecc. La preistoria
è basata quasi esclusivamente sopra questi ul¬ timi monumenti, non
esclusi gli avanzi fossili del regno ani¬ male e di quello vegetale. Il
materiale per ricostruire il pe¬ riodo che segue alla preistoria ci viene
fornito da una grande quantità di monumenti, come iscrizioni, monete,
sculture, edi¬ fici, opere pubbliche ecc., che provengono dagli stessi
autori degli avvenimenti o dai loro contemporanei ;
l’interpretazione di essi rientra propriamente nel campo dell’archeologia
sto¬ rica, la quale fornisce pure un prezioso sussidio alla storia
propriamente detta. Importante è il criterio per stabilire la
certezza della tradizione scritta e della tradizione orale, per le quali
s’in¬ contrano non poche e gravi difficoltà, se si pensa che non di
rado per fatti e avvenimenti di lievissima portata e a noi contemporanei,
le testimonianze di persone oneste e co¬ scienziose sono incerte e
contraddittorie ; per fatti di molto maggior gravità e che possono
riguardare tutto intero un popolo, le passioni, l’intelligenza, il
partito politico, gl’inte¬ ressi degli osservatori possono turbare la
narrazione spesso in modo irrimediabile ; tali testimonianze debbono
essere va¬ gliate con grandi cautele e con tutti gli speciali sussidi
for¬ niti dal metodo storico, e con tutto ciò non sempre si riesce
ad eliminare le alterazioni sia volontarie sia involontarie. Avvenimenti
come la origine del Cristianesimo, la Riforma protestante, la Rivoluzione
francese sollevano ancor oggi po¬ lemiche e pregiudizi, che impediscono e
offuscano la retta valutazione di essi. n. quindi chiaro che
il principio di verisimiglianza e di probabilità, come dice il Croce, (')
domina tutta la critica storica ; l’esame delle fonti e delle autorità è
diretto a sta- (>) Op. cit„ I. c.
PRINCIPI PI LOGICA. 164 bilire le testimonianze
più credibili. Chi parla d’induzione e di dimostrazione storica fa un uso
metaforico di queste pa¬ role, le quali nella storia assumono un aspetto
affatto diverso da quello che hanno nella scienza. La convinzione dello
sto¬ rico è la convinzione indimostrabile del giurato, che ha
ascol¬ tato i testimoni, seguito attentamente il processo ;
sbaglia, senza dubbio, delle volte, ma gli sbagli sono una
trascura¬ bile minoranza di fronte ai casi in cui coglie il vero.
La storia è quindi ciò che l'individuo o l’umanità ricorda del suo
passato, ricordo dove oscuro, dove chiarissimo, ricordo che con industri
esami si procura di allargare e precisare il meglio possibile; ma tale
che non se ne può far di meno e che, preso nel tutto insieme, è ricco di
verità. Solo per spi¬ rito di paradosso si potrà dubitare che non sia mai
esistita una Grecia, una Roma, un Alessandro, un Cesare, un’ Eu¬
ropa feudale e una serie di rivoluzioni che l’abbatterono; che il 1°
novembre 1517 si videro affisse le tesi di Martin Lutero alla porta della
chiesa di Wittemberga e che il 14 lu¬ glio 1789 fu presa dal popolo di
Parigi la Bastiglia. Che ra¬ gione rendi tu di tutto questo?, chiede
ironicamente il sofista : l’umanità risponde : Io ricordo.
Chi si accinge a scrivere un’opera di storia deve atten¬ dere a
quattro operazioni principali, a ciascuna dolle quali risponde una parte
distinta della metodica : 1" Raccogliere il materiale, donde
Veuristica: ossia dot¬ trina delle fonti. 2° Analizzarlo,
donde la critica delle fonti. •1° Comprendere i fatti in sè e nei
loro rapporti, donde la co Riprensione dei fatti e loro rapporti.
4* Esposizione dei fatti. Queste quattro operazioni nella
pratica s’intrecciano e si confondono, giacché nel tempo stesso che, ad
esempio, si raccoglie il materiale, questo viene vagliato, e non si può
va¬ gliarlo senza comprendere il valore dei fatti che esso
fornisce. Le fonti sono il materiale da cui si attinge la
storia; dapprima furono tradizioni orali e canti popolari, poi note
scritte e anche, occasionalmente, iscrizioni e documenti: più in là
nell’età antica e nel medio evo non si andò; solo nel¬ l’età moderna si
pose mano a ricercare ed usufruire iscri-
CAPITOLO xiv. 165 zioni, documenti, monete, tutti i
prodotti dell’arte, e persino gli avanzi preistorici. Tutto il materiale
storico si può di¬ videre in due categorie: a) avanzi ossia
tutto ciò che di un l'atto è rimasto ed esiste ancora, con semplici
reliquie o parti di fatti e di atti umani interamente spogli d’ogni idea
di ricordo per la po¬ sterità e innanzi tutto i resti corporei degli
uomini, poi la lingua, le abitudini, i costumi, le feste, i giuochi,
culti, isti¬ tuzioni, leggi, utensili, monete, armi, edifizi; tra gli
avanzi sono da annoverarsi i monumenti nel senso più largo, vale a
dire tutto ciò cui è inerente l’intenzione di conservare la memoria dei
fatti; b) la tradizione, che mira a conservare il ricordo degli
avvenimenti col proposito appunto di essere fonte o mate¬ riale storico.
Si distingue in figurata, orale e scritta, se¬ condo che consta di
rappresentazioni di persone di luoghi (ad es. carte geografiche, piante
di città e simili) e avveni¬ menti storici, oppure di racconti orali,
leggende, proverbi, canti storici, oppure di iscrizioni storiche, alberi
geneologici, calendari annuali, cronache, ricordi, biografìe e storie
d’ogni genere. Ufficio della critica storica è quello di
stabilire la ve¬ rità effettiva dei dati contenuti nelle fonti, cioè
decidere se e fino a che punto siano da ritenersi come veri o come
falsi, come realmente avvenuti o no. Ciò si fa sempre affermando o
negando, sotto forma d’un giudizio, sia nei rapporti delle fonti coi
fatti, sia dei fatti tra loro; come indica anche il significato
fondamentale del verbo xpfveiv (separare, distin¬ guere, giudicare) da
cui è derivata la parola critica. La me¬ todica insegna i principi, le
regole, l’arte onde s’adempie a quell’ufficio. Tutto si riduce al
raffronto di ciò che sottopo¬ niamo a critica con altri dati di cui siamo
sicuri, all’esame, in una parola, dell’incerto col certo. Si deve alla
critica ve¬ ramente metodica o scientifica, se la storia è diventata una
vera e propria scienza, giacché solo il metodo scientifico ha reso
possibile l’accertamento dei fatti storici, cioè lo sceve¬ rare il vero
dal falso, la storia, dalla leggenda. La critica dicesi estrinseca,
quando esamina se una data fonte sia da considerare o no, e fino a che
punto, come te- 166 PRINCIPI DI LOGICA.
stimonianza storica, come vera e propria fonte storica; e ha
quindi per ufficio di a) provare l’identità delle fonti ; b) sta¬ bilire
quando, dove e da chi e per che modo (se originali o derivate) furono
prodotte; c) stabilirne il contesto originale (recensione) e pubblicarle
(edizione). La critica dicesi invece intrinseca, quando esamina
i rapporti delle testimonianze coi fatti, cioè se le testimo¬
nianze corrispondano, e fino a che punto, alla realtà. Il suo ufficio
somiglia a quello del giudice istruttore, il quale deve constatare la
realtà d’un delitto dalle dichiarazioni dei te¬ stimoni e dalle immediate
tracce di esso; essa esamina la forza dimostrativa delle singole tracce o
testimonianze, raf¬ fronta e bilancia le ime colle altre. (')
6. Esiste una scienza generale della società? — I primi saggi
d’osservazione scientifica della vita sociale si ritrovano in alcune
opere di Platone e di Aristotile; ma solo nei tempi nostri lo studio dei
fenomeni sociali ha preso uno svi¬ luppo notevolissimo e un’ importanza
veramente straordinaria. Augusto Comte nel suo « Corso di filosofia
positiva » lo ha innalzato al grado di scienza indipendente, dandogli il
nome di « sociologia » , che viene ormai generalmente accettato ;
nella nota classificazione comtiana delle scienze, la sociologia
tiene 1 ultimo posto, essendo sorta di recente e presentando mag¬
gior complessità e minor generalità delle altre scienze. Ma la
sociologia è ben lungi dall’aver determinato con chiarezza e precisione
il suo oggetto e i suoi metodi; anzi alcuni negano ad essa il diritto
all'esistenza, affermando che i fatti che studia formano oggetto di altre
scienze già co¬ stituite. La sociologia viene generalmente
intesa come la scienza dei fenomeni sociali, cioè dei fenomeni che sono
propri della vita della società. Questo però non è sufficiente per
determinare l’oggetto della sociologia, poiché i fenomeni so¬ ciali sono
già studiati da un gran numero di discipline par¬ ticolari, storia delle
religioni, del diritto, delle istituzioni (') Manuale Sei metodo
storico di A. CnivEU.ucci, pnssim. Pisa, Spocrri, 1897 (è la traduzione
dei capitoli 3° e 4° del Manuale del m. st. del Berkheim).
CAPITOLO XIV. 167 politiche, statistica,
scienza economica ecc. Ora due sono le soluzioni principali date a questo
problema. Secondo alcuni la sociologia è una scienza distinta dalle
scienze sociali par¬ ticolari, ha un’individualità sua propria, considera
in tutta la sua complessità la realtà sociale, che le scienze
partico¬ lari dividono e decompongono per astrazione; essa è una
scienza concreta, sintetica, mentre le altre sono analitiche ed astratte.
In questo modo lo Stuart Mill afferma che la sociologia ha per oggetto «
gli stati di società » che si suc¬ cedono nella storia dei popoli;
l’insieme degli elementi che formano lo stato di società è costituito dai
fenomeni sociali più importanti, come il grado d’istruzione e di cultura
mo¬ rale nella comunità e in ogni classe, le condizioni dell’in¬
dustria, del commercio, della ricchezza, le occupazioni ordi¬ narie della
nazione, la sua divisione in classi, la forma di governo, le leggi, i
costumi ecc. La sociologia dev’essere quindi come una filosofia delle
scienze sociali particolari, e, come la biologia ha preso il significato
di filosofia delle scienze biologiche, cioè d’una scienza che studia i
fenomeni essenziali ed universali della vita sotto le sue
molteplici forme, cosi essa dev’essere la scienza generale della
società, deve analizzare le caratteristiche generali dei fenomeni
sociali e stabilire le leggi più alte dell’evoluzione sociale.
Altri invece affermano che la sociologia non può essere che il sistema,
il «corpus» delle scienze sociali; la molti¬ tudine innumera dei fatti
sociali viene studiata dalle disci¬ pline speciali, che diventano in tal
modo come rami parti¬ colari della sociologia e devono prendere un nuovo
indirizzo e un nuovo metodo, derivanti dalla considerazione che i
fatti sociali sono tra loro intimamente legati e debbono conside¬
rarsi come fenomeni naturali soggetti a leggi necessarie. Un esempio di
questa trasformazione ci viene presentata dalla storia. Sotto gli
avvenimenti particolari e contingenti che costituiscono la storia
apparente delle società umane, si co¬ minciò a cercare qualche cosa di
più fondamentale e di più permanente, le istituzioni ; con ciò la storia
cessa d’essere uno studio narrativo e si apre all’analisi scientifica. I
fatti che vengono eliminati o considerati di secondaria impor¬
tanza, sono i più refrattari alla scienza, essendo propri ad
168 PRINCIPI DI LOGICA. ogni individualità
sociale considerata in un dato momento della sua vita ; mutano da una
società ad un’altra, e nel seno d’una medesima società: le guerre, i
trattati, gli intrighi delle corti o delle ‘assemblee, gli atti degli
uomini di Stato costituiscono delle combinazioni che non si ripetono mai
nello stesso modo e non sono soggetti a leggi definite ; la storia
in questo senso si limita a stabilire una pura successione di fatti.
Invece le istituzioni nel loro svolgimento conservano caratteri
essenziali per lunghi anni e anche, qualche volta, per l’intero corso
d’un’esistenza collettiva, poiché esprimono ciò che vi è di più
essenziale in un aggregato umano ; in questo campo i fenomeni sociali non
possono più essere con¬ siderati come il prodotto di combinazioni
contingenti, di vo¬ lontà arbitrarie, di circostanze locali e fortuite,
ma di cause generali permanenti e definite. Quindi sotto l’azione
dei principi, degli uomini di Stato, dei legislatori, che era con¬
siderata un tempo come preponderante, si è scoperta l’azione decisiva
delle masse, si è compreso che una legislazione non è che la
codificazione dei costumi, che non può vivere se non profonda le sue
radici nello spirito dei popoli, e inoltre che i costumi, le abitudini,
lo spirito dei popoli non sono cose che si creano a volontà, ma sono
l’opera dei popoli stessi. Non pochi sono gli argomenti cho si
adoperano per dimo¬ strare 1 impossibilità d'uua scienza generale della
società; si ri¬ corre alle definizioni tra loro discordanti che i
sociologi propongono di essa, del suo metodo, del suo oggetto; per gli
uni la caratteri¬ stica dei fenomeni sociali è la continuità o storicità,
per altri la reciprocità d’azione, o la giustizia, o la sociabilità, o la
coscienza della specie; l'elemento primario e costitutivo della società è
ora l' individuo, ora la famiglia, ora l' orda ; nè può avvenire
altrimenti quando si pensi alla complessità estrema, alla variabilità di
tali fenomeni, le quali però, se attestano della gravissima difficoltà
del- l'impresa, non sono prove sufficienti per poterne affermare
l’im¬ possibilità. 7. Il metodo nello studio dei fenomeni
sociali. — Intorno al metodo da adoperarsi nello studio dei
fenomeni sociali si notano divergenze simili a quelle che abbiamo trovato
nelle opinioni intorno al vero oggetto della sociologia. Per
un certo periodo di tempo ha avuto molta for-
CAPITOLO XIV. 169 tuna la concezione biologica
della società ; ma oggi per l'im¬ portanza maggiore acquistata dalla
psicologia e per altre cause lia perduto gran parte della sua importanza
e conta minor numero di sostenitori. L’analogia biologica si
fonda sul metodo induttivo e con¬ siste nella comparazione d’una società
ad un organismo per la corrispondenza e il parallelismo di non pochi
caratteri fra l’una e l’altro. Cosi in ambedue il punto di partenza, è
uno stato semplice, indefinito, relativamente omogeneo; lo sviluppo
della società come degli organismi s’effettua per differenzia¬ zione,
successione e coordinazione delle parti differenziate ; all’accrescimento
della massa e del volume corrisponde la complicazione graduale della
struttura e delle funzioni, e, come gli individui, gli aggregati sociali
nascono, si svilup¬ pano e muoiono. In secondo luogo l’individuo nella
società è l’equivalente dell’elemento anatomico nell’organismo, e
come i, io opino, credo, e quindi opinione imposta da un’autorità
posta al di fuori e al disopra di ogni critica) afferma che il nostro
sapere non ha limiti, che lo spirito umano può giungere a conoscere
la realtà quale essa è. Dogmatici sono stati Platone e Aristo¬ tile
e i razionalisti del secolo XVII. b) Lo scetticismo rappresenta una
dottrina opposta al dogmatismo ; esso (da oxémopai, esamino) afferma che
il dubbio si estende a tutte quante le cognizioni. Vi è uno
( l ) Kulpe, EinUitung in die rhilosophie, p. 131. Leipzig, Hirzel, 1903, 3*
ediz. 184 PRINCIPI PI LOGICA.
scetticismo relativo, pel quale tutte le nostre cognizioni sono
relative, vale a dire dipendenti dalle circostanze accidentali in cui
sono sorte, e quindi valevoli solo per determinati luo¬ ghi o tempi ; e
uno scetticismo soggettivo, pel quale la verità è una cosa affatto
dipendente dall’ individuo. Manca quindi un criterio assoluto della
verità: la debolezza e l’imperfezione dei sensi rendono impossibile una
percezione sicura, e la ra¬ gione per la sua stessa natura è condannata
alla contraddi¬ zione. Lo scetticismo ha avuto la sua massima
fioritura nell'anti¬ chità fino dall'epoca dei Sofisti. Protagora,
fondandosi sul principio d’Eraclito che tutte le cose sono soggette a una
mutazione inces-, sante, ne trae la conseguenza che le coso sono ciò che
pare a ciascuno in un dato momento, e che la verità dipende, corno il
gusto, dal sentimento momentaneo degli individui, cadendo cosi nello
scetti¬ cismo che abbiamo denominato soggettivo: l’uomo è la misura
di ogni cosa, egli diceva : nàvitov xp 1 il i, ‘ xa,v M T P SV
Sv&puiitoj. Però questa frase si riferisce solo alla teoria della
conoscenza, non alla morale, corno sposso si dico. 11 Goethe, guidato
dall'istinto d’uno spirito superiore, ha compreso ciò : “ noi possiamo,
egli dice, os¬ servare, misurare, calcolare, pesare la natura, ma ciò
avviene sem¬ pre secondo la nostra misura e il nostro peso, giacché
l’uomo ò la misura di tutto le cose „. Questa espressione equivale dunque
a dire: il reale solo può essere percepito da noi, l’irreale non
può in alcun modo divenire oggetto della nostra percezione ; noi
uomini non possiamo varcare i limiti dalla nostra natura, e la verità,
per quanto può essere percepita da noi, deve trovarci entro questi
con¬ fini. (') Gorgia Leontino cercò di dimostrare le
seguenti tre tesi : nes¬ suna cosa è ; anche se qualche cosa fosse, non
sarebbe conosci¬ bile; quando pure fosse conoscibile, la cognizione che
un uomo potesse acquistarne, non sarebbe comunicabile ad altri ; in
con¬ clusione la verità non esiste, tutto ò falso. Infine Pirrone,
capo degli Scettici, affermò che le cose sono inaccessibili tanto ai
sensi quanto alla ragione, e che noi possiamo di esse affermare o
negare quello che vogliamo; il meglio che ci rimane a fare consiste
nel- l’astenerci da qualsiasi giudizio. Fra gli scettici posteriori sono
da ricordarsi Arcesilao e Cameade. Nei tempi moderni gli
scettici più famosi sono Michele Mon¬ taigne (f 1592) e Pietro Charron
(1541-1603). 0) Gompebz, op. cit., p. 480.
conclusioni;. 185 c) Il positivismo restringe
il valore della conoscenza al campo dell’esperienza e delle scienze positive,
ai fenomeni e alle loro relazioni. Noi non possiamo conoscere
l’essenza dei fenomeni, le cause prime e i fini ultimi, ma solo,
me¬ diante l’osservazione, l’esperimento e la comparazione, le re¬
lazioni costanti tra i fenomeni, il loro succedersi, le somi¬ glianze, le
leggi. Pertanto il positivismo elimina dalle scienze qualsiasi ricerca
estranea a quella delle leggi e rapporti co¬ stanti di coesistenza e di
successione tra i fenomeni. La filo¬ sofia positiva procede come le vere
scienze, badando solamente ai fatti e restringendosi a spiegare un fatto
per mezzo di altri fatti; e il fatto non è altro che il fenomeno.
11 fondatore del positivismo è Angusto Colute (1798-1857), del
quale abbiamo già esposto la classificazione delle scienze. Secondo il
Comte la coscienza passa per tre fasi principali, la fase teologica, la
metafisica, e infine la positiva. Nella fase teologica lo spirito
umano considera i fenomeni del¬ l'universo come effetti di forze e di
esseri soprannaturali; anzitutto si considerano tutti i corpi esteriori
come animati, vivouti (feticismo), quindi si ammetto l'esistenza di
esseri invisibili, ciascuno dei quali presiede ad una classe distinta
d'oggetti, di avvenimenti (politeismo), finché tutte le divinità
particolari vengono comprese nell'idea d’un Dio unico, che, dopo aver
croato il mondo, lo governa sia diretta¬ mente, sia indirettamente per
mezzo di agenti soprannaturali. Nella fase metafisica i fenomeni
vengono spiegati non più per mezzo di volontà soprannaturali coscienti,
ma mediante astrazioni considerate come esseri reali: ciò che governa il
mondo è una forza, una potenza, un principio; si vogliono spiegare i
fatti colle tendenze della natura, cui si attribuisce ad esempio, la
tendenza alla perfe¬ zione, l’orrore del vuoto, una forza salutare
ecc. Infine nel periodo positivo si lasciano in disparte lo
entità astratte, come cause, forze, sostanze, e si ricerca la spiegazione
dei fatti nei fatti stessi, confrontandoli, ricercandone le affinità e
clas¬ sificandoli per ragione di somiglianza ; la storia dell'umano
pensiero cammina, secondo il Comte, verso la sintesi, l’organizzazione
dello scienze, mentre il regno della metafisica volge al suo
termine. d) II criticismo, s’oppone tanto allo scetticismo, che,
ne¬ gando la possibilità di qualsiasi conoscenza, finisce anche col
negare sè stesso, quanto al dogmatismo che ha una cieca fi¬ ducia nella
ragione; mentre il positivismo ammette solo la
18G PRINCIPI DI LOGICA. scienza positiva e come fine
di questa la ricerca della legge, il criticismo riconosce allo spirito
umano altri campi di ri¬ cerca. Esso investiga ed esamina lo stesso
potere, conoscitivo, distinguendo quali problemi può risolvere, e quali
invece ri¬ mangono senza soluzione e fuori del suo dominio. Il Kant
ammette la conoscibilità del fenomeno, di ciò che è dato alla nostra
esperienza, e afferma l’inconoscibilità dell’essenza delle cose; però vi
è in noi una tendenza naturale a valicare i i limiti del mondo dei
fenomeni, e a penetrare nel mondo dei noumeni (tò voupevov - il pensato,
la cosa in sè, l’oggetto quale noi supponiamo che esista in sè stesso, in
opposizione al fenomeno, che è l’oggetto quale noi ci rappresentiamo
nel¬ l’esperienza). Questa dottrina del Kant che vien detta anche «
razionalismo idealistico » si può cosi riassumere : noi pos¬ siamo
conoscere la realtà a priori mediante la ragione pura, non come è in sè
stessa, ma solo, come appare a noi e sotto l’aspetto formale. (*)
4. L’oggetto della conoscenza. — Le scienze, come ab¬ biamo visto,
si possono anche dividere in formali e scienze della realtà ; alle prime
appartengono la logica e la matematica e hanno per oggetto idee che non
sono tratte dagli oggetti reali; cosi i numeri e le figure della
matematica vengono costruiti e determinati dalla nostra mente. Le altre
invece studiano oggetti presi dalla realtà, dal mondo interno, dal
mondo esterno, dal passato, dal presente e che si impongono alla
coscienza dell’osservatore. Ora, si può chiedere se questi 0 £f?®tti)
studiati dalle scienze reali, esistono assolutamente, in se stessi,
quindi in maniera indipendente dalle rappresen¬ tazioni che noi ne
possiamo avere, oppure si può dare al problema un’altra soluzione. Le
principali risposte a tale questione sono tre: il realismo, il
fenomenalismo, Videa¬ lismo. Il realismo rappresenta la più
antica concezione, giacché si presenta a noi come naturale il fatto di
pensare che le cose che stanno fuori di noi cosi come noi stessi, siano
quali sono apprese dalla coscienza che le considera come gli ori¬
li) Pauusv, jB ’inleitung in lite Philosojihie, pag. 368. Berlin, Cotta,
1903; 9* ediz. CONCLUSIONE. 187
ginali ritratti dalle nostre sensazioni ; quindi crediamo che gli oggetti
sieno realmente rossi e verdi, chiari e oscuri, lisci e ruvidi, dolci e
amari. Però questo realismo ingenuo, che ha ancora la sua influenza nella
vita pratica, come quando ad es. diciamo di vedere il sole levarsi e
tramontare mal¬ grado la scoperta di Copernico, non dura a lungo;
molti fatti vengono presto a dimostrare che le rappresentazioni non
sono una copia della realtà: le illusioni, le allucinazioni, i sogni, la
cecità dei colori parziale o totale, le differenze individuali
nell’acutezza visiva e uditiva ci convincono che la percezione sensibile
dipende in modo naturale da fattori soggettivi; si aggiunga a ciò la
relatività della percezione sensibile, per la quale ciò che ad uno sembra
freddo è per¬ cepito come caldo da un altro, a questo un movimento pare
lento, a quello veloce, e uno stesso oggetto al medesimo individuo
si presenta sotto diversi aspetti secondo le circostanze, gli strumenti
coi quali s’osserva, la luce, ecc. ecc. Quindi non è più possibile
pensare che lo spirito sia come uno specchio che rifletta fedelmente
l’immagine degli oggetti esteriori. L 'idealismo è stato iniziato
nella sua forma tipica dal fi¬ losofo inglese Giorgio Berkeleg
(1685-1753) secondo il quale tutte le qualità dei corpi che percepiamo
sono meramente re¬ lative a noi, e i corpi non si riducono ad altro che a
gruppi di qualità, le quali esistono solo nelle nostre percezioni,
sono pure parvenze e la loro esistenza si riduce semplicemente
all’essere percepite, esse est per dpi ; che cos’è, per esempio, una
mela? un complesso di sensazioni visive, olfative, gustative, tattili e
nulla più. Infine la dottrina del fenomenalismo fondata dal
Kant afferma che tutto ciò che ci viene dato nell’esperienza è
costituito dai fenomeni; noi possiamo conoscere le cose non come sono in
sè, ma come appaiono a noi. Le leggi fon¬ damentali, alle quali la natura
obbedisce e che ci aiutano a comprenderla, non esprimono che le
condizioni d’esistenza della nostra intelligenza. La ragione è questa;
poiché noi pensiamo il mondo dei fenomeni, bisogna ammettere che vi
sia una correlazione tra le leggi dell’ universo e le leggi della nostra
intelligenza; ora, per spiegare questa correlazione sono possibili solo
due supposizioni: o lo spirito ha ricevuto
188 PRINCIPI DI LOGICA. dal inondo, mediante i
sensi e l’esperienza, le leggi costitu¬ tive conforme alle quali esso
pensa; oppure lo spirito impone al mondo le sue leggi proprie e l’obbliga
in certo modo a costituirsi in modo che la natura fenomenica gli divenga
in¬ telligibile. Kant accoglie quest’ultima ipotesi, e quindi le
cose che noi pensiamo sono per noi ciò che il nostro spirito le fa
essere; il nostro pensiero attuale e cosciente non fa che prendere
conoscenza d’un mondo di fenomeni, che gli preesiste e che, diventando
oggetto di conoscenza, ha già subito la legge del pensiero umano in ciò
che esso ha di essenziale e di costitutivo, di guisa che tutto ciò che
noi pensiamo non esiste in sè stesso, ma solo per rapporto a nyi.
5. Scienza e filosofia. — L’importanza che i problemi sopra ac¬ cennali
hanno per la scienza, va sempre più crescendo non solo presso i filosofi,
ma anche presso gli scienziati, tra i quali non pochi, b enché siano di
continuo a contatto deU'esperieiiza. meditano o s'accingono a
risolvere problemi filosofici gravissimi . Cosi un cèlebre fisiologo,
Max Verworn, nell’introduzione alla fisiologia generale, pone come
fondamento a tutta l’opera una teoria della conoscenza, giungendo alla
conclusione “ che il mondo fisico è un frammento della nostra psiche e
cho è quindi naturale il fenomeno, cosi mera¬ viglioso sotto un altro
aspetto, che le leggi le quali reggono il mondo fisico sieno del tutto
identiche a quelle che reggono la nostra psiche; questo fatto ci pare
tanto più probabile in quanto troviamo che i fenomeni del mondo fisico
sono ordinati secondo lo spazio, il tempo, la causalitù, ossia secondo lo
leggi logiche della nostra mente; le leggi cho noi assegnamo al mondo
fisico sono le leggi proprie del pensiero, le leggi secondo le quali
avvengono i fenomeni psichici, perchè il mondo è solo ima nostra
rappresentazione. 11 mondo este¬ riore è quindi pura illusione, l’idea d'
una realtù oggettiva è affatto insostenibile „, (‘) 11.
Helinhol t z (181 1 -1894) matem a tico, fisico o fisiologo di grand e.
valore, speriinentatoro geniale, pensatore profondo e limpido , cho ha
lasciato una traccia luminosa nei campi più diversi della scienza, ha
pure proclamato la verità che ogni discussione scientifica mena dritta
all'analisi e alla critica della conoscenza, che qualsiasi rifles¬ sione
sul movimento scientifico non può non metter capo a quesiti d'ordine
conoscitivo; egli tenta la soluzione del problema della co¬ noscenza dal
punto di vista della psico-fisiologia e pensa che la ;>) Verwork,
op. cit., p. 38. CONCLUSIONE.
189 conoscenza deve essere analizzata, esaminata per
scoprire in essa i fattori, gli elementi impliciti, i presupposti che la
rendono pos¬ sibile. La filosofia moderna, dice il Riehl,
vive nelle opere di Ro¬ berto Mayer, di H, Helmholtz, di Enrico Hertz .
Dal breve, ma profondo scritto del Mayer “ Osservazioni intorno
all'equivalente meccanico del calore „, si svolge chiaramente tutto il
compito e il metodo della conoscenza naturale e nel medesimo tempo i
limiti di essa, E fino agli ultimi tempi l'Helmholtz ha rivolto la
sua atten- zione alle questioni della conoscenza teoretica,
separando le condi¬ zioni per l'intelligibilità delle cose dalle rose
stesse, e tentando, dapprima sulle orme del Kant, poscia scostandosene,
di esaminare con intendimento critico le basi della scienza della natura
. Un ottimo esempio del modo onde filosofia e scienza possono
accordarsi in un’opera comune e feconda si ritrova nei * Princip i
della meccanica , dell' Hertz. 11 metodo adoperato in quest’opera è
il metodo generale delle scienze teoretiche della natura, già
conce-■»' due correnti riunendosi insieme vengono a costituire la
scienza ; non diversamente pensano i più illustri scienziati dei
nostri tempi. Non potrà ritornare un'epoca, nella quale la scienza
creda di aver raggiunta la sua meta, quando abbia accumulato fatti
sopra fatti, nè un'epoca in cui la filosofia osservi con disdegno il
lavoro indispensabile di proparaziono compiuto dalla scienza. Il
costruire e il plasmare i mattoni per innalzare un edificio è tanto
impor¬ tante quanto l'opera dell'architetto che abbozza il disegno e
guida l'esecuzione della casa. Quindi come alla conoscenza verrebbe
meno il materiale senza il paziente e faticoso lavoro delle ricerche
empi¬ riche, .così all’edificio scientifico mancherebbe un disegno senza
l'ela¬ borazione intellettuale dei fatti: l a scienza ha bisogno della
filosofia , e se ne foggia una per proprio conto, quando non ne trova
altre. Perciò può accadere che ricerchi i limiti del conoscere là
dove sono le condizioni di essa, oppure scambi i segni delle cose per le
cose stesse. In simile maniera l a filosofia non può fare a meno dell
a srionzfl. uon deve perdersi in vuote speculazioni, o restringersi
ad una teoria puramente formale della conoscenza, la quale non
possa raggiungere il nocciolo del sapere, i fatti offerti
dall’esperienza. La ricerca scientifica e la filosofia formano una cosa
sola, si comple- i
190 PRINCIPI DI
LOGICA. tano a vicenda. Sull’ingresso della scuola di Platone,
come si dice, si leggeva: Nessuno, che non conosca la geometria, ossia,
come si direbbo oggi, che non conosca la scienza esatta, può entrare.
Una iscrizione analoga dovrebbe incidersi sulle porte dei nostri
labora¬ tori e dei nostri gabinetti scientifici: non può entrare chi non
abbia studiato la filosofia. L'educazione filosofica è parte
dell’educazione speciale d’ogni scienziato; essa gli insegna a conoscere
lo strumento dei suoi strumenti e gli offre la norma per le sue ricerche.
Rieiil, op. clfc., 8 Vortrag, passim. Voglio offrire una Raccolta di
alcune fra le voci più comuni nella logicn. Accidente: Aristotile
contrappose l’accidente (oupjìelltjxòf da oóv cum e |ia£vci> evento
(recido ) allo sostanza (oùo£a), come ciò die non può esistere da sé, ma
solo nella sostanza; è quindi una qua¬ lità o modificazione che non
appartiene all’essenza della cosa e si ritrova in questa senza esser
legata necessariamente alla sua idea; oggi s’adopera comunemente nel
senso di cosa non necessaria, che può essere e non essere, senza che la
cosa muti o sparisca; cosi si può concepire una roccia, senza pen¬
sare che sia aguzza o arrotondata: queste ultimo qualità, ri¬ spetto al
concetto di roccia, sono accidentali. Un significato del tutto diverso ha
nel ‘ sofisma per accidente „ e nella “ conversione per accidente
„. Ad hominem: si dice argomento ad hominem quello che si
fonda sopra un principio accettato come vero dall’avversario, il
quale si vede quindi costretto, per non parere in contraddi¬ zione con sè
stesso, ad accettare la tesi. Agnosticismo: (da a-fvoioxog, &
neg. e yiYvtòoxo), inconoscibile) si applica a quelle dottrine che
affermano l’esistenza noi mondo di qualche cosa che non si può conoscere,
che è inaccessibile alla mente umana, e che bisogna ammettere per potere
spie¬ gar l’universo; la filosofia di E. Kant, che pone l’esistenza
della cosa in sè, e l’evoluzionismo di E. Spencer che dichiara
inconoscibile l’assoluto, sono dottrine agnostiche. (’) Un buon
dizionnrio di scienze filosofiche is quello compilato da Ranzoli, Hoepli. Analisi:
(da àvoi, prep. che esprime in composizione l'idea di retro¬ cedere, di
rifarsi da capo, e Xóo> sciolgo) nel significato pin generale è
l'operazione del pensiero mediante la quale si scioglie un tutto nei suoi
elementi, nelle parti componenti, o si distinguono in un composto una o
più parti; il metodo ana¬ litico parte dai fatti particolari per salile
ad un principio ge¬ nerale, come f induzione ; la prova analitica è
quella elio va dagli effetti alle cause; giudizio analitico è, secondo il
Kant, quello il cui predicato è contenuto necessariamente nel sog¬
getto: i corpi sono estesi. Analogia: (àvee Xéyou pei matematici
greci significa: nel medesimo rapporto), è un'operazione logica per la
quale, quando nell'idea od oggetto A e nell’idea od oggetto C si sono
riscontrali elementi o caratteri comuni, si afferma che un altro o
altri caratteri che sono in A debbono pure ritrovarsi in B; l’ana¬
logia porta quindi a conclusioni ipotetiche, elio possono poi essere
confermate dall’esperienza. Anfibolia: designa l'equivoco di senso
prodotto dall'uso di termini forniti di doppio significato, oppure di una
speciale costruzione sintattica d'uua frase; dal greco A;isp£-PoAog, elio
va da due parti, dubbio, da cui anfibologia parlare clic può prendersi
in duo significati anche opposti, es. : aio te Hannibalen vincere
posse. Antecedente e conseguente: in un rapporto logico dicesi
antecedente il primo termine, conseguente il secondo; cosi la causa è
l’an¬ tecedente, l'effetto il conseguente. Apodittico: (da
àitoSetxvojxt, dimostro); l'apodittica è quella parte della dialettica
che insegna il modo di dimostrare la verità d'un principio mediante il
semplice ragiouameuto; il Kant ha chiamato giudizi apodittici quelli nei
quali il predicato appar¬ tiene necessariamente al soggetto, intendendosi
per necessità l’inconcepibilità del contrario; quindi pei giudizi
necessari affermativi la formula è: dev’essere; pei negativi: non
può essere. Aporema: (da ànopèui: dubito) è, secondo
Aristotile, il sillogismo dubitativo, quello che mostra l'ugual valore di
due ragiona- monti contrari. A posteriori, a priori: la prima
espressione significa ciò che risulta dall’esperienza; così le idee a
posteriori sono quelle fornite dall’esperienza; la seconda esprime ciò
che è dato anterior¬ mente all’esperienza, ciò che non proviene dai
fatti; così si è detta scienza a-priori la matematica o scienza
a-posteriori la storia. Però tanto tra i Latini quanto tra i filosofi
medioevali l’espressione “ dimostrare a-priori , significava
dimostrare dalle cause; dimostrare a-posteriori dimostrare dagli
effetti. S. Tommaso d’Aquino negò che Dio si potesse conoscere
a-priori, perchè non si può conoscere dalle cause, ma solo dagli
effetti. Asserzione: ò l’atto dell'esprimere una semplice verità di
fatto, e giudizi assertori ha chiamato il Kant quelli nei quali il pre¬
dicato appartiene al soggetto, senza annettervi T idea di ne¬ cessità o
di possibilità. Assioma: (dal greco oj degno donde à{j(to|ia la
stima che si fa d'una cosa, poi principio evidente; Giambattista Vico
nella Scienza nuova chiama gli assiomi degniti) è una verità evi¬
dente per sè stessa, indimostrabile, che serve di fondamento por altre
proposizioni; secondo gli empiristi trae la sua origine dall’esperienza,
secondo gli aprioristi dalla ragione indipen¬ dentemente
dall'esperienza. Astrazione: (traduzione di àcpaipsoij da ino ab o
atpéw traggo, fu dapprima adoperata dagli scultori per esprimere l'atto
di estrarre il primo abbozzo dal masso informe) per Aristotile ò il
processo montale con cui, omesse le qualità accidentali della cosa, si
separano le qualità essenziali e si considerano per loro stesso; in
generale significa considerare separata¬ mente ciò che in realtà non è
separato, decomporre una no¬ zione in elementi. Canone: per
lo Stuart Mill, che nel suo sistema di logica ha for¬ mulato cinque
canoni fondamentali dell'induzione scientifica, è sinonimo di norma, di
regola da seguirsi; canonica (da xa- V(év, xavóvoj, regolo per tracciare
linee diritte) chiamarono gli Epicurei la logica, la quale era un
complesso di regole del pensalo, di norme per discernere il vero dal
falso. Categoria: le categorie sono i concetti più generali delle
cose, i generi supremi in cui si dispongono le nostre idee, p. e.
so¬ stanza, qualità, quantità; il giudizio categorico è quello che
afferma o nega senza soggiacere ad alcuna condizione; sillo¬ gismo
categorico 6 quello composto di giudizi categorici. Causa: nel
significato comune e popolare ò ciò che produce un fe¬ nomeno, ciò che
agisce, l'antecedente d'un altro fenomeno; però un po' di riflessione
basta a far comprendere che la causa è determinata come tale solo
dall’effetto, che i due termini sono correlativi e l’uno non può
sussistere senza l'altro; se¬ condo il Mill la causa non è altro che
l'antecedente invaria¬ bile e incondizionato di un fenomeno; il principio
di causa o di causalità esprime il fatto che nulla vi ha senza causa,
che tutto ciò elio incomincia ad essere lia la propria ragion d'es¬
sere in qualche cosa di anteriore e che cause simili in circo¬ stanze
simili producono effetti simili, secondo il principio (ipotetico)
dell’uniformità del corso naturale delle cose. Circolo vizioso: è
un sofisma il quale consiste nel provar la verità d’una proposizione,
appoggiandosi ad un'altra, la quale alla sua volta non può essere provata
se non appoggiandosi alla prima. Composizione: ò il complesso dei
caratteri che sono contenuti in un’ idea, l’ insieme degli elementi o
note, che costituiscono ciò che si dice anche “ connotazione „ d'un
concetto. Concetto: (dal latino conceptm che corrisponde ni greco
da ooXXappàvm, prendo insieme, concipio, per significare che
mediante il concetto apprendiamo il significato della cosa; i Greci
chiamarono il concetto anche 8poj, termine da ipt^io 10 termino) ò
l'unità delle cose essenziali dell'oggetfo : non ò da confondersi colle
rappresentazioni, che sono varie, indivi¬ duali, mutevoli.
Concettualismo: dottrina filosofica che ha per principale
rappresen¬ tante Abelardo, secondo la quale gli universali, ossia i
generi e le specie, pur essendo nomi comuni che designano qualità
che appaiono solo negli individui, hanno però, come concetti, una realtà
nello spirito di chi li pensa. Concomitante: due fatti sono detti
concomitanti quando si accom¬ pagnano e avvengono sia simultaneamente sia
uno dopo l'nltro; cosi sono fatti concomitanti l'aumento di calore e l’
innalzarsi del mercurio nel termometro. Concreto: si adopera
in opposizione di astratto, e pare che'sia d’ori¬ gine latina e
significasse dapprima denso, spesso; Cicerone dice aer concretilo come
opposto ad aer fusilo; si applica a ciò che è fornito di tutte le sue
qualità ed ha un’esistenza reale per sé. Contingenza e
contingente', s’oppongono a necessità e a necessario; il vocabolo
aristotelico xò ou|ipepr,aóg tradotto in latino accidens e contingens
designa ciò che avviene, ma che potrebbe anche non avvenire; s’intende
generalmente in un doppio significato: contingente è ciò che lo spirito
può concepire come non esi¬ stente o esistente in modo diverso; oppure
ciò che in realtà potrebbe non essere o essere diversamente.
Criterio: (da xptxiqpiov che deriva da xpivm, giudico) è il segno o
la regola, mediante la quale si può riconoscere e distinguere 11
vero dal falso o che socondo alcuni ò posto nell’ intelletto, secondo
altri nella sensazione, nel senso comune, neU'auto- rità ecc. ecc.
Deduzione: forma di ragionamento, che consiste in genorale nel par¬ tire
da un principio generale noto, per trarne conseguenze particolari, o nel
trovare il principio ignoto d'una conseguenza nota; si adopera tanto
nelle scienze di puro ragionamento, quanto nello scienze
sperimentali. Definizione: è la determinazione del contenuto d’un
concetto che può essere espressa mediante un giudizio, nel quale il sog¬
getto è il concetto da definire, il defìniendo o il definito-, e il
predicato è l'insieme di note con lo quali il primo viene de¬ finito e
dicesi definienle. Determinismo: è la dottrina secondo la quale
ogni fenomeno natu¬ rale è l’effetto necessario d’una causa, oppure,
secondo il pen¬ siero dello Stuart Mill, ogni fenomeno ha per
condizione d’esistenza un insieme di circostanze positive e negative
che costituiscono il suo antecedente incondizionale, non già nel
senso che l'antecedente incondizionale produca effettivamente il
conseguente, ma solo nel senso che ne è seguito in ma¬ niera invariabile;
il determinismo universale consisto quindi neU’ammettere che il principio
di causa ha valore tanto per la natura materiale quanto per la natura
spirituale. Si suole distinguere il determinismo fisico, che riguarda i
fenomeni fi¬ sici, e il determinismo psicologico, che riguarda quelli
psi¬ chici e afferma che in ogni caso particolare, dati i nostri
mo¬ tivi d'agire, le nostre risoluzioni sono determinate e seguono
di necessità il motivo prevalente. Non si deve confondere de¬ terminismo
con fatalismo, secondo il quale gli avvenimenti sono determinati ab
aetemo in modo necessario da un agente esteriore. Dialettica:
(8tà attraverso e ^éyio raccolgo) è l'arte che apre la strada al vero o
quindi alla scienza mediante il raffronto e la discussione delle varie
opinioni; Platone dico noi Cratilo: “ colui che sa interrogare e
rispondere come lo chiameremo se non dialettico? , osso quindi espone ed
esamina con arte polemica le opinioni favorevoli e quelle contrario
intorno ad un dato soggetto, rivelandone le difficoltà e le
contraddizioni. Dictum de omni aut de nullo: è l’espressione usata
dagli scolastici per significare che ciò che si dice d'un complesso di
cose o di esseri, si dice pure dei singoli, e ciò che si nega d'un
complesso, si nega pure dei singoli; esprime quindi il principio
fondamentale del sillogismo. Differenza specifica: è l'insieme dei
caratteri, mediante i quali una specie si distingue da un’altra o dalle
altre, appartenenti al medesimo genere. Discorsivo: designa la
conoscenza e il ragionamento mediato, nel quale entra come fattore
importante il lavoro della ragione; si oppone a intuitivo, giacché la
conoscenza intuitiva è quella che avviene per un atto immediato,
subitaneo, senza passaro da un’ idea ad un’altra, senza la comparazione
di più idee, come avviene nella conoscenza discorsiva.
Divisione: nel linguaggio logico, è l'operazione mediante la quale
si determina l’estensione d’un concetto, mentre la definizione ne
determina la comprensione; la forma più semplice della divisione è una
proposizione in cui il soggetto ossia il divi¬ dendo è il genere, e il
predicato ossia il dividente enumera le specie contenuto sotto quel
genere. Dogma: o domma (da Box ito, io penso, donde 8óf|ia: ciò che
è pai’so conveniente, opinione, principio professato,
deliberazione) significa in generale un'opinione che viene imposta da
un’au¬ torità posta al di fuori e al disopra d'ogni critica e
d'ogni esame; il dogmatismo, in opposizione allo scetticismo,
ammette la possibilità di conoscere la realtà quale essa è.
Dubbio metodico: consiste nel sospendere il nostro giudizio intorno
a qualsiasi cosa, respingendo le opinioni anteriormente stabi¬ lite,
finché la verità non si imponga con assoluta evidenza ni nostro spirito;
si distingue quindi dal dubbio scettico, che nega la possibilità stessa
di conoscere alcnna cosa. Eclettismo (da èx-Xéyto, scelgo): si dice
del metodo filosofico che consiste nel raccogliere da sistemi filosofici
diversi e anche opposti opinioni e dottrine, che si cerca di conciliare
armoni¬ camente. Empirismo: (da èp-Reipia esperienza,
icatpdco io sperimento) ò la dottrina filosofica che fa derivare
dall'esperienza tutto ciò che conosciamo, e considera il fenomeno come
unico oggetto della nostra conoscenza. Ammette un’esperienza esterna
basata sul potere dei sensi ed un’esperienza interna basata sul
potere della riflessione; si distingue quindi dal sensismo, che
ammette essere i sensi la sola fonte di tutte le nostre cognizioni.
Eristica: (da spij, contesa, ipf£o>, io contendo) è l'arte di
disputare, di contraddire ad ogni affermazione dell’avversario pel
solo scopo o pel piacere di voler contraddire, è una derivazione e
una degenerazione della sofistica, con la quale non si devo
confondere. Esplicito: un giudizio o una nozione diconsi espliciti
quando sono chiaramente e precisamente espressi nella proposizione.
Essenza (essentia da esse, traduzione del greco cuoia) è un’espres¬
sione di vario significato; è stata usata dai Greci por indicare ciò cbe
persiste identico sotto la varietà e la molteplicità dei fenomeni, ciò
elio cade solo nel dominio della conoscenza ra¬ zionale. Per gli
scolastici l'essenza è il complesso delle qua¬ lità indicate dalla
definizione e dalle idee che rappresentano il genere e la specie; designa
quindi ciò che nell’essere è in¬ telligibile e concorre a definirlo,
ossia i suoi attributi fonda- mentali. Estensione d’un
concetto: è il complesso degli individui e degli os- seri, dei quali un
concetto o una qualità può essere affermato come attributo, ossia il
numero dei concetti cbe contiene sotto di sé. Fenomenalismo:
o fenomenismo, è la dottrina filosofica la quale af¬ ferma resistenza dei
fenomeni essere l'unica realtà, negando l'esistenza della sostanza, della
cosa in sé; noi conosciamo le coso come appaiono a noi, non come sono in
sè stesse. Forma: por Aristotile la forma (popoli, et8oj) è attività
ed energia, la materia (OXv)) è passività o potenzialità; la forma trae
dalla materia, per mezzo del perpetuo moto che in essa suscita, la
molteplicità dei particolari, ciò facendo secondo certe regole e quindi
introducendo in quella ordine e uniformità; la forma è inscindibile dalla
materia. Oggi per materia della conoscenza s’intende il contenuto di
questa; la materia è ciò cbe indi¬ vidua i fatti e distingue, per
esempio, il pensiero a dal pen¬ siero ò, dal pensiero c e cosi via: per
la materia una propo¬ sizione logica di scienza giuridica si distingue da
una di etica, una legge economica da una legge estetica; ma la logica
che non entra nei dibattiti delle varie discipline, ed ha per og¬
getto il pensiero in universale qualunque ne sia il contenuto, la
materia, prescinde da questa e contempla la forma. Però un’affermazione
logica, per esempio una qualsiasi affermazione di scienza, non può esser
vera formalmente o falsa material¬ mente, perchè, in concreto, la sua
forma b inseparabile dalla sua materia; la logica non può prescindere dalla
verità dei concetti, dei giudizi, dei ragionamenti, per quanto
prescinda da questi o quei concetti, giudizi, ragionamenti. (Croce,
op. cit., 9). Genere: in una serie di concetti in cui
l'estensione va crescendo e diminuisce la comprensione, dicesi genere il
concetto più esteso e meno comprensivo rispetto ai concetti meno estesi e
più comprensivi: animale, per esempio, rispetto a vertebrato, vertebrato
rispetto a uomo, uomo rispetto a Europeo e cosi via. Giudizio ; fu
detto dei Greci àitócpaaij, o Xóyos ànotpaxtxój, da &7ti e ig) il
dubbio degli scettici. Scolastica: è il secondo periodo della
filosofia del medio evo, che va dall' 800 al 1400; è preceduta dalla
Patristica o filosofia dei SS. Padri, è seguita dal Rinascimento ed ha
per iniziatore Scoto Erigeua e per centro Parigi; la Scolastica dipende
stret¬ tamente dalla religione, nella quale ritrovavano la verità;
è essenzialmente dogmatica e manifesta in generale una sfiducia e
una diffidenza più o meno grando verso la ragione o la scienza; una
questione capitale che si agitò nella Scolastica è quella che riguarda
gli universali. Sintesi: (da ouv-xIS-rjpt: pongo insieme) nel
significato più lato designa ogni operazione che tendo a riunire in un tutto
elementi diversi; si intende anche il processo mediante il quale
dai principi si scende alle conseguenze. Sistema: (da
oov-£<mj|u: metto insieme) è in generale un tutto nel quale le singolo
parti sono ordinatamente collegate fra loro, un complesso di idee
subordinate ad uno o a più principi ge- nerali e fra loro
coordinate. Sostanza: (substautia, loti.: ciò elio sta sotto,
traduzione della parola aristotelica: &Ro-xe!|ievov, composta di imo sotto
e xsìpat io giaccio) è ciò che permane identico in mezzo al variare
delle qualità, del colore, della forma; per gli Scolastici è ciò che
sussiste per sé (ens quod per se subsistit), mentre gli accidenti
sussistono nella sostanza e quindi per la sostanza. Subordinazione:
è la relazione che corre fra due concetti di cui l’uno ò contenuto
nell’estensione dell’altro; cosi il concetto di uomo e subordinato a
quello di mammifero, che dicesi concetto sopraordinato.
Sussunzione: (subsumptio, da subsumere) è una specie di
ragionamento che consiste nel porre due idee nella dipendenza come
di specie a genere, di caso individuale a legge; per Aristotile il
sillogismo di sussunzione, che corrisponde al sillogismo di pi ima
figura, è il tipo perfetto del raziocinio. Emilio Morselli. Morselli.
Grice e Mosca: a l’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – filosofia siciliana – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Palermo). Filosofo italiano. Palermo, Sicilia. Grice:
“When Austin was defending the ‘man in the street,’ he was thinking Mosca!” --
Grice: “I like Mosca; he speaks of elites – Gellner speaks of elites, too!” --
Grice: “Do Italians consider Mosca a philosopher?” – Saggi: “Sulla teorica dei governi e sul
governo parlamentare, Appunti sulla
libertà di stampa, Questioni costituzionali, Le Costituzioni moderne; Elementi
di scienza politica, Che cosa è la mafia, Appunti di diritto Costituzionale,
Italia, Stato liberale e stato sindacale, Il problema sindacale, Saggi di storia delle dottrine politiche,
Crisi e rimedi del regime parlamentare, Storia delle dottrine politiche,
Partiti e sindacati nella crisi del regime parlamentare, Ciò che la storia
potrebbe insegnare. Scritti di scienza politica (Milano), Il tramonto dello
Stato liberale (a cura di A. Lombardo, Catania) Scritti sui sindacati (a cura
di F. Perfetti, M. Ortolani, Roma) Discorsi parlamentari (con un saggio di
Panebianco, Bologna. Appunti di diritto costituzionale dall’Enciclopedia
Giuridica Italiana. Milano. La genesi
delle cottituzion imoderne. Cenni storici sulla scienza del diritto costituzionale.
Definizione dello stato e della sovranità. Condizioni sociali che prepararono
il regime rappresentativo. Dottrine politiche che integrano l'azione
del dizioni sociali. La costituzione inglese e sua importanza con
dello di tutte le costituzioni moderne. Origini. Ordinamenti politici ed
amministrativi dell'Inghilterra. La prima rivoluzione inglese. La restaura:
Vhabecis corpus. La seconda rivoluzione inglese. Il seconc
dei diritti e Patto di stabilimento. Lo svolgimento della costituzione
inglese nel decimottavo. Lo statuto
albertino. Caratteri delle prime costituzioni moderne. più dirette dello statuto
albertino. Il re. Sue prerogative e norme della succezione monarchica. Il
gabinetto, i ministri ed il presidente del consiglio. La responsabilità penale
dei ministry. La formazione delle due Camere. Varii sistemi di suffragio.
La legge elettorale politica. Prerogative
e funzioni dell» due Camere. Dell’ordine giudiziario. Dei diritti individuali. Dei
rapporti fra la chiesa e lo stato. Lo studio del diritto pubblico in genere e
del diritto costituzionale in ispecie richiede anzitutto la
definizione esatta di certi concetti che, per quanto non nuovi, non hanno
acquistato ancora un significato preciso e determinato e nello stesso
tempo accolto da tutti. Il concetto di Stato, che è il più
fondamentale di tutti, venne ad esempio elaborato fin dalla classica
antichità e corrisponde a ciò che i greci chiamavano “polis” ed i romani “respublica”.
Eppure anche oggi si disputa sulla origine e la natura dello stato. Fra
tutte le definizioni dello stato la migliore mi sembra quella che lo fa
consistere nella organizzazione politica e giuridica di un popolo entro
un determinato territorio, ma anche essa ha bisogno di spiegazioni e
commenti. Quando si dice infatti organizzazione politica di un
popolo, s' intende quella di tutti gli elementi che dirigono politicamente
un popolo ossia esercitano funzioni statuali. Nello stato moderno perciò
vanno compresi non solo tutti i pubblici funzionari, tenendo conto pure
di quelli fra costoro che non sono pubblici impiegati, ma anche i membri
del parlamento ed i consiglieri provinciali e comunali; e perfino gl’elettori
politici e comunali, quando sono convocati nei comizi, esercitano
funzioni statuali e perciò fanno parte dello stato. Ma per quanto in una
organizzazione statuale democratica lo stato comprende, almeno
giuridicamente dappoiché in fatto le cose vanno diversamente, la parte maggiore
della società, pure questa non si confonde mai intieramente collo stato. Perchè
anche nei paesi dove vige il suffragio universale vi sono molti individui che
pur fanno parte del sociale consorzio, come le donne, i minorenni e
coloro che per condanne sono esclusi dal suffragio, i quali in nessun caso partecipano
alle funzioni politiche o statuali. Ma se lo stato non è la società, esso
essendo costituito dal complesso di tutti gl’elementi che
partecipano alla direzione politica di questa non è certo al di fuori
della società. Il cervello non è tutto il corpo umano, ma ne fa parte e
senza di esso il corpo umano non può vivere. Bisogna però notare
che la vita del corpo sociale ha delle analogie non delle identità con
quelle dell'individuo umano. Infatti in questo ogni singola cellula è
fissata nell'organo di cui fa parte, mentre negl’organismi sociali più
perfezionati, nei quali le funzioni statuali sono suddivise in vari organi le
cui attribuzioni sono giuridicamente limitate, vediamo spesso che il medesimo
individuo fa parte dello stato nell'esercizio della sua pubblica funzione e é
sem-plice membro della società al di fuori della sua funzione e di fronte
a tutti gli altri organi dello stato. Ciò accade tanto al semplice
elettore che al magistrato ed allo stesso membro del parlamento, se non
vogliamo tener conto per i due ultimi delle poche speciali prerogative che
mirano a salvaguardarne l'indipendenza nell'esercizio delle loro
funzioni. Molti filosofi considerano intanto lo stato e la società
come due enti che per necessità vivono in continuo antagonismo, per
alcuni anzi lo stato è il perpetuo nemico della società. Dopo quanto si
è scritto risulta evidente che il loro concetto è per lo meno
inesatto e sopratutto è difettoso perchè contribuisce piuttosto a confondere
che a chiarire le idee che si possono avere sull'argomento. Nondimeno
esso non è del tutto falso e può essere anzi riguardato come una
interpretazione sbagliata di una condizione di cose in tutto od in parte
verace. È indiscutibile infatti che in una società vi possono essere
elementi dirigenti che dalla costituzione in vigore sono tenuti lontani
dalla organizzazione statuale. Ed allora naturalmente vi è una lotta
fra questi elementi e quelli già accolti entro lo stato che può assumere
la parvenza di una lotta fra stato e società. E può anche accadere che i
progressi del senso morale e giuridico di una società
abbiano oltrepassato quel livello che si era aggiunto nel momento
della formazione del suo organismo politico. Sicché questo, rimasto arretrato,
permette ai rappresentanti dello stato un'azione che
riesce vessatoria ed arbitraria per gli altri membri
della società. Ma in sostanza i periodi di antagonismo acuto
fra gl’elementi statuali e quelli extra-statuali di una società possono
essere considerati come eccezionali e sogliono ordinariamente precedere le
grandi rivoluzioni. Tutto quanto si è detto spiega perchè lo stato sia
l'organizzazione politica di un popolo. Se si tiene poi presente che, in
tutti i paesi che hanno raggiunto un certo grado di civiltà, le condizioni
in base alle quali si arriva all'esercizio delle funzioni statuali ed i
limiti di queste funzioni sono determinati dalla LEGGE si vede facilmente
come questa organizzazione sia non solo politica ma anche giuridica;
perchè essa crea fra i diversi organi dello stato e fra coloro che
esercitano le funzioni statuali ed i semplici cittadini una serie di
rapporti giuridici. Questi rapporti nascono in base ad una facoltà
che lo stato esclusivamente possiede: la sovranità. La sovranità consiste nel
potere di conchiudere convenzioni e trattati con un’ altro stato e di
creare il diritto e farlo eseguire in tutto il territorio sottoposto allo
stato. I filosofi, educati quasi esclusivamente alle concezioni del
diritto privato, si sono spesso trovati in qualche imbarazzo riguardo a
questo attributo della sovranità. Essi stentano a spiegaisi come e perchè
l'ente che ha facoltà di fare la legge, di modificarla e disfarla e *sottoposto*
alla legge. Per darsi ragione di questo fatto i filosofi hanno ricorso a
tante ipotesi, fra le quali la più divulgata è quella che lo stato a
sorto in base ad una convenzione, ad un “contratto”, ad un atto
giuridico tacito od espresso, ma ad ogni modo consentito da coloro che
fanno parte del consorzio sociale sul quale esso esercita la sua
sovranità. Prendendo a base il concetto che già si è adottato sullo stato
e dei suoi rapporti con la società non riesce difficile di risolvere
la difficoltà accennata. Già fin dal tempo dei filosofi e giureconsulti
romani si distinsero nello stato due personalità -- una di diritto PRIVATO, per
la quale esso potea contrarre obbligazioni come ogni altra persona
giuridica -- ed un'altra di diritto PUBBLICO che gli confere l'esercizio
dei poteri sovrani. L'esercizio di questi poteri produce la conseguenza che
lo Stato impone a tutti i cittadini degli obblighi, come ad esempio quello
dell'imposta e del servizio militare, senza offrire in cambio
alcun corrispettivo diretto. Senonchè è da osservare che nelle forme
di stato più perfezionato e sopratutto nello stato rappresentativo
moderno, quando si tratta d'imporre questi obblighi e di esercitare in genere
la funzione sovrana per eccellenza, che è quella di fare le leggi,
è necessario il consenso del capo dello stato e di tutte quelle forze
politiche che son rappresentate nei due rami del parlamento. Nel
momento nel quale, collettivamente e nelle forme volute, gl’elementi ai
quali è affidato il POTERE LEGISLATIVO esercitano questa funzione, essi
sono sovrani, cioè, SUPERIORI alla legge perchè la fanno e la
disfanno, in tutti gli altri momenti ed individualmente sono soggetti alla
sovranità, cioè all'impero della legge. A guardarci bene nello stato
moderno ciò non rappresenta una vera anomalia, perchè anche nell'esercizio
delle altre funzioni statuali gl’elementi che le disimpegnano agiscono,
sia individualmente che collegialmente, in nome dello stato e lo
rappresentano nei limiti delle loro attribuzioni. Mentre sono completamente
soggetti alla sovranità dello stato in qualunque *altra* manifestazione
della loro attività personale. Tanto i membri del POTERE GIUDIZIARIO che
gl’agenti del POTERE ESECUTIVO si trovano infatti nelle condizioni
accennate, colla differenza però che, quando esorbitano dalla
loro funzione ed anche nell'esercizio della loro funzione, è sempre
possibile di esercitare sopra di essi un controllo che riesce malagevole,
se non impossibile, di fronte al potere legislativo. Sia a
causa di una lontana parentela. etnica, sia perchè l'influenza
delle vicine colonie greche dell’ Ita- lia meridionale avrebbe agito
efficacemente fin dal se- sto secolo avanti l’era volgare, certo è che l’organiz-
zazione politica delle città italiche, all’inizio dell’epoca storica,
presenta molte analogie con quella dello stato- città ellenico.
In Roma infatti, che è la più nota fra le città italiche, troviamo
in origine il Re, il Senato composto nei tempi più antichi dai capi delle
diverse genti pa- trizie, ed i Comizi, ossia l’assemblea del popolo.
Abo- lita come in Grecia la regalità ereditaria e sostituita ad
essa il consolato e le altre magistrature temporanee, elettive e quasi
sempre multiple, sorse presto anche a Roma la lotta tra l’antica
cittadinanza patrizia, costi- tuita da coloro che facevano parte delle
antiche genti e la nuova cittadinanza plebea, composta a preferenza
dai discendenti degli stranieri domiciliati e dei servi liberati. E per
un certo tempo pare che due città coesiste nell’urbe, con magistrature speciali
all’una ed all’altra, finchè si fusero quasi intieramente con
una costituzione che ricorda molto il tipo ellenico
della città-stato, ma che si distingue da essa per alcune particolarità
originali. Le principali sarebbero la maggior facilità con la quale
veniva accordata gradatamente la cittadinanza, od una semicittadinanza,
alla parte migliore dei popoli vinti, il mantenimento di tutti i diritti di cittadinanza
ai coloni che si spedivano in siti abbastanza lontani dalla capitale, ed
infine il carattere spiccatamente aristocratico che conservò fino
all’ultimo secolo della repubblica la costituzione romana rispetto
a quella di quasi tutte 1é città greche. Infatti il Senato romano nell’epoca
storica era com- posto da coloro che erano scelti dal censore fra le
persone che avevano esercitato cariche elevate, e solo in un'epoca
relativamente recente i Comizi centuriati fu- rono riformati in maniera
da togliere in essi la pre- ponderanza alle classi altamente censite ed
accanto at Comizi centuriati furono ammessi i Comizi tributi, nei
quali prevaleva il numero sul censo. Però la legge non poteva essere
approvata se non nelia forma precisa con la quale i magistrati l'avevano
proposta, ed il Senato romano ebbe attribuzioni ed autorità assai più
larghe di quelle concesse ai corpi analoghi che si potevano trovare
in qualche città ellenica. Ed in quanto alle cariche elettive il costume,
più che lia legge, impedì sino agli ultimi tempi della repubblica che
fossero conferite a veri popolani. Infatti il tribunato militare, che era
il primo gradino che dovevano salire coloro che aspiravano alla carriera
politica, fino alla fine della repubblica non fu praticamente accessibile che
ai membri dell’ordine equestre, i quali dovevano possedere un censo
piuttosto elevato. Ma quando Roma, dopo avere sottomesso l'Italia,
ebbe conquistato quasi tutte le terre bagnate dal Mediterraneo apparì
chiaramente che la costituzione della città-stato, sia pure modificata nel
modo accennato, non poteva più funzionare. Infatti la lontananza
della. grande maggioranza dei cittadini era di ostacolo alla
regolare e pronta riunione dei Comizi nel foro, i quali in ultimo non
furono più frequentati che dalla pleba- glia che abitava nell’ Urbe.
Inoltre diveniva impossibile di conservare l’annualità delle cariche più
elevate quando i consoli dovevano fare un lungo viaggio per recarsi
nelle lontane province. Oltre a ciò era avvenuto un profondo rivolgimento nella
distribuzione della proprietà fondiaria, poichè questa si era a poco a
poco accentrata nelle mani di un piccolo numero di latifondisti, e quindi
era gradatamente diminuita quella classe di piccoli proprietari che per
lungo tempo aveva costituito il nerbo degli: eserciti romani. Per
riparare a questa deficienza furono promulgate due leggi: una proposta da Caio GRACCO,
mediante la quale l’armamento non era più a carico del soldato, ma
veniva. pagato dal pubblico erario, e l’altra proposta da Caio MARIO, il
riformatore dell’organizzazione militare romana, con la quale ve-. nivano
ammessi nelle legioni non solo i proletari ma anche i figli dei
liberti. Conseguenza di queste leggi e delle guerre lunghe e lontane fu
che all’esercito cittadino si andò mano mano sostituendo un esercito di
soldati di mestiere, reclutati negli strati più bassi della popolazione,
e praticamente il comando (imperium), prima corcesso solo temporaneamente
e con possibilità di revoca ai comandanti delle legioni, divenne
illimitato e si protrasse per molti anni; sicchè i soldati divennero
facili strumenti dei loro capi sostenendone gli ambiziosi di- segni
a patto di partecipare ai vantaggi della vittoria. In questa condizione
di cose bisogna ricercare una delle principali origini delle guerre civili, che
ebbero come conseguenza un sensibile spostamento della proprietà
privata; perchè durante la prima, e soprattutto durante la seconda
proscrizione, molte furono le terre che ven- nero tolte ai ricchi ed ai
medii proprietari e furono distribuite ai soldati, cioè ai proletari
armati. Viva è stata una disputa fra alcuni storici moderni, perchè
alcuni sostengono che OTTAVIANO vuole creare una nuova forma di governo,
sostituendo l’impero alla Repubblica, mentre altri invece opinano che
egli volle conservare la forma repubblicana ritoccandola dove e
necessario. A noi la questione sembra, in tali termini, posta male;
perchè le persone non troppo addentro nello studio dell’istituzioni romane
potrebbero in tal modo supporre che la repubblica in Roma antica fosse
una forma di governo presso a poco uguale alle moderne repubbliche
e che l'impero d’OTTAVIANO ha molta somiglianza con gl’imperi moderni. La
verità è che OTTAVIANO vide che l’antica costituzione dello stato-città
non puo più funzionare dopo che Roma aveva soggiogato tutte le coste del
Mediterraneo e che i cittadini romani sono diventati milioni e perciò
aggiunse a quelli antichi nuovi e più efficaci organi di governo,
adattando pure, per quanto era possibile, gl’organi antichi ai bisogni
nuovi. Quindi i comizi come organi legislativi comincia- rono ad
andare in disuso, sebbene Augusto abbia fatto .da essi approvare due
importanti leggi tutelatrici del- l'istituto familiare, cioè la legge
Papia Poppea de maritandis ordinibus e la legge Julia de
adulteriis. L’ultima legge approvata dai comizi, di cui si ha notizia, è
una legge agraria di NERVA (si veda). La funzione legislativa dei comizi
passò all’ Imperatore ed al Senato, il quale emanava Senatus consulta
aventi forza di legge. Però le antiche prerogative di questo corpo
politico furono notevolmente limitate; in- fatti gli affari finanziari e
la politica estera, che erano stati di sua competenza, furono in buona
parte affidati all’ Imperatore! Le province dell’impero furono divise in
imperiali e senatorie; le une erano amministrate direttamente dall’
Imperatore mediante funzionari da lui nominati, le altre da funzionari
nominati dal Senato. È da notare che le province imperiali erano quasi tutte ai
confini dell'impero ed in esse risiedevano le legioni delle quali era
generalissimo l’imperatore, il quale aveva conseguentemente nelle sue mani la
forza militare, e nelle province imperiali, dove vi era un governo militare,
esercita un’autorità assoluta. A Roma e nelle province senatorie l’mperatore
era un magistrato civile, però cumulava in sè tante cariche che la sua
volontà era preponderante. Le antiche magistrature repubblicane furono quasi
tutte con-servate, ma, accanto ad esse, si istituirono nuove e più
efficaci ciriche, coperte da semplici cavalieri o dai liberti dell’
Imperatore, che dipendevano direttamente da lui. Così a poco a poco la
burocrazia imperiale Nella civiltà. antica non si riscontra quella netta
suddivi- sione di attribuzioni fra i diversi organi sovrani che, almeno
teoricamente, esiste oggi nei paesi di civiltà europea ed americana;
poichè spesso la stessa attribuzione, come ad esempio il potere
legislativo, veniva a vicenda esercitata da due organi diversi. Di ,
fatto poi a Roma, nei primi due secoli dell'impero, i poteri del Senato
si allargavano e restringevano secondo la volontà degli imperatori; più
rispettosi essendo in generale dell’autorità del Senato quelli che
lasciarono un buon nome, come ad esempio TRAIANO (si veda), meno assai
quelli che furono dai contemporanei e dai posteri giudicati malvagi.
oa soppiantò le antiche magistrature, che divennero col tempo
puramente onorifiche. Rimase soltanto, come traccia e ricordo
dell’antico regime politico, la /ex regia de imperio per la quale
nominalmente era il Senato, come rappresentante del popolo romano, che
conferiva all'Imperatore la sua potestà; sebbene di fatto era il favore
ed il disfavore dei pretoriani e poi delle legioni che creava ed abbat-
teva gli imperatori. Ad ogni modo la legge citata fa- ceva sì che, fino
alla fine del terzo secolo dopo Cristo, la costituzione dell'impero
romano si poteva distin- guere da quella degli antichi imperi orientali,
nei quali il sovrano era tale per delegazione del Dio nazionale O
per privilegio ereditario della sua famiglia. Di questo concetto relativo
all’origine dell’autorità dell’ imperatore romano si trova ancora il ricordo
nelle Pandette di GIUSTINIANO; e GREGORIO Magno, scrivendo all’ imperatore
d’Oriente, affermava che mentre i sovrani stranieri (reges gentium) erano
signori di servi, gl’imperatori romani (imperatores vero reipublicae)
comandavano ad uomini liberi. Uno dei punti più deboli della
costituzione impe- riale romana fu la incertezza della regola di
successione, la quale faceva sì che nascessero frequenti lotte fra
i diversi pretendenti al trono. I primi cinque imperatori
appartenevano per sangue o per adozione alla famiglia Giulia Claudia,
spentasi questa con NERONE; dopo un anno di guerre civili sottentra con tre
imperatori, Vespasiano, TITO e Domiziano, la famiglia Flavia. Con
quell’anno prevale il costume dell’adozione, mediante il quale
l’imperatore vivente designava il successore e, mercè questo.
costume, si ebbe una serie di buoni imperatori. In quell’anno si tornò alla
successione naturale, perchè ad ANTONINO (si veda) succedette l’indegno
suo figlio COMMODO (si veda) e, dopo che questi fu ucciso, nel 192
dopo Cristo, ricominciarono le guerre civili fra i candidati alla
successione, sostenuti ognuno dalle proprie legioni, e con il
ricominciare di queste lotte si manifestarono i primi indizi della
decadenza dell’ impero e della ci- viltà antica. Le dottrine
politiche dei filosofi romani non sono molto originali. I romani, uomini
eminentemente d'azione, amano poco di teorizzare. Inoltre nell’ultimo
secolo della Repubblica, epoca torbida di lotte civili, le teorie
servivano poco. Sotto l’ Impero manca il fine pratico per l’indagine teorica
dei problemi politici. Ad ogni modo fra i filosofi romani nei quali
si trovano pensieri che hanno rapporti con la vita politica si può anzitutto
ricordare LUCREZIO (si veda), il quale nel suo poema De rerum natura dopo
aver ammesso l'esistenza degli Dei, i quali però non si
occuperebbero delle cose di questo mondo, ricerca le origini degl’ordinamenti
politici. Afferma che in principio gl’uomini si riunirono in città
sotto capi scelti tra i più forti ed i più prestanti, poichè questo è il
significato che bisogna dare all’aggettivo pulcher che LUCREZIO usa;
costoro degenerando abusarono del loro potere raccogliendo nelle loro
mani tutte le ricchezze e suscitando così la ribellione dei governati, la quale
avrebbe provocato uno stato di anarchia che avrebbe reso necessaria la
for- mulazione delle leggi e l'elezione dei magistrati. Come
facilmente si vede vi è in queste teorie molto eclettismo e si sente in
esse l’ influenza di Platone e di Polibio. SALLUSTIO (si veda) nella sua
De bello jugurtino mette in bocca a CAIO MARIO una violenta
invettiva contro l’aristocrazia romana, inoltre nella descrizione
che fa della congiura di CATILINA mette in evidenza in maniera
efficacissima la corruttela della vita politica romana negl’ultimi tempi
della repubblica. Altro filosofo che si occupa anche di politica e
CICERONE che nel De republica, nel De legibus e nel De officiis esamina le
tre tradizionali forme di governo, affermando la sua preferenza per un
governo misto nel quale le tre forme erano fuse. Appare in ciò chiaramente
l’ influenza di Polibio. Oltre a ciò CICERONE parlando della schiavitù non
ammette la teoria aristotelica della disuguaglianza degl’uomini, ma la
giustifica con un principio di diritto internazionale, affermando
cioé che nella guerra i vinti ai quali si lascia la vita diventano
servi. Intanto è giusto ricordare che CICERONE tratta assai
umanamente i suoi schiavi, specialmente quelli colti che venneno
dall’Oriente, e difatti sono molto affettuose le lettere che scrive al suo
liberto e collaboratore Tirone. Seneca, basandosi sulla distinzione fra
diritto naturale e diritto civile, sostenne che la schiavitù non e
giustificabile dal punto di vista del diritto naturale, ma lo e in base
al diritto civile. TACITO nell’annali dice incidentalmente che i governi
misti di monarchia, aristocrazia e democrazia è più facile che siano
lodati anzichè effettuati e che, se sono effettuati, non durano. Non sembra che
TACITO sia stato repubblicano nel senso che avrebbe desiderato il ritorno
all’antica forma di governo anteriore a GIULIO Cesare e ad OTTAVIANO, egli e
soltanto avverso ai cattivi imperatori e lodava quelli buoni, che hanno saputo
conciliare il principato con la libertà, cioè col rispetto delle leggi e
dell’autorità del senato. Il più grande contributo alla elaborazione
della civiltà antica lo diede la Grecia, ma fu merito di Roma l’avere
esteso i risultati della cultura ellenica a buona parte dell’Asia,
all'Africa settentrionale ed a tutta quella parte dell’ Europa che sta a
mezzogiorno del Danubio e ad occidente del Reno e perfino alla parte
meridio- nale della Gran Bretagna. E merito anche maggiore di Roma
fu quello di avere introdotto, dovunque esten- deva il proprio dominio,
leggi, idee e costumi presso a poco uguali, sostituendo, senza apparente
coazione, in Occidente IL LATINO, in Oriente il greco, alla MOLTITUDINE
DEI LINGUAGGI BARBARICI e facendo col tempo sparire ogni distinzione fra
vincitori e vinti, conquistatori, e conquistati. Poichè con l’editto di CARACALLA
si estende la cittadinanza romana a quasi tutti i provinciali,
completando così quella unità politica e morale di tanta parte del mondo
civile, che, dall’ora in poi, non è stata più raggiunta. Urbem
fecisti quod prius orbis erat. Così canta il poeta gallico Rutilio
Namaziano al principio del quinto secolo dell’era volgare,
riassumendo in poche parole l’opera grandiosa che nel corso di parecchi
secoli Roma aveva compiuto. La ricerca delle cause che produssero la
caduta dell'Impero romano d'Occidente è ancora uno dei più oscuri
problemi fra quelli che presenta la storia. Poichè non si tratta soltanto
di spiegare il crollo di un organismo politico, ma la dissoluzione, sia pure
non completa ma certamente profonda, di una civiltà. Una osservazione, che
forse finora non è stata fatta, è quella che riguarda la China e fino ad
un certo punto l’ India, paesi la cui civiltà ha avuto pochi contatti con
quella ellenica e romana, e nei quali, pur essendosi succedute
parecchie invasioni barbariche, i conquistatori, in capo ad un paio di
generazioni hanno assorbito la civiltà dei vinti e questa ha continuato
il suo corso senza che la decadenza sia stata lunga e molto sensibile.
Ciò che non è avvenuto alla caduta dell'Impero romano d’ Oc-cidente, ragione
per la quale si può supporre che essa sia principalmente dovuta a cause
interne. È già noto che i primi gravi sintomi della crisi si ebbero
nel terzo secolo dopo Cristo e che essi sono visibili perfino nell’arte e
nella letteratura, che manifestano un notevole decadimento del gusto e del
pensiero. Si è pure accennato alla mancanza di una norma regolatrice
della successione al trono che diede occasione ad una serie di guerre civili,
durante le quali qualche volta si ebbero tanti imperatori quante erano
le province importanti. Contemporaneamente ebbero luogo le prime
irruzioni dei barbari, che sparsero la desolazione nella Gallia e nella
penisola balcanica ed arrivarono un momento perfino nell'alta
Italia. Gl’imperatori Illirici Claudio secondo, Aureliano, Probo,
Caro ed in ultimo Diocleziano riuscirono a respingere i barbari pur
abbandonando loro la Dacia e quella parte della Germania che era ad
oriente del Reno e si estendeva fino alle sorgenti del Danubio; poi
Diocleziano per rinforzare il potere centrale compiè l’evoluzione già iniziata
da Settimio Severo e diede all'impero il carattere di una monarchia
assoluta di tipo orientale, trasformando anche in questo senso l’e-
tichetta di corte. Egli cercò pure di fissare le norme per la successione
al trono in maniera da evitare le guerre civili, mercè la coesistenza di
due Augusti e di due Cesari che si rinnovavano per cooptazione. Ma,
dopo il ritiro di Diocleziano, si rinnovarono le guerre civili, finchè
Costantino ristabili l’unità dell’impero, che però durò poco e, dopo
varie vicende, si spezzò definitivamente alla morte di Teodosio. Durante
tutto il quarto secolo dell’era volgare e nei primi decenni del quinto la
dissoluzione politica, economica e morale dell'Impero romano di
Occidente si aggravò sempre più fino a diventare un male irreparabile.
Come già si è accennato è difficile di accertare quale sia stata la causa prima
di questa decadenza, dovuta probabilmente ad un complesso di cause,
prevalentemente di natura interna, alcune delle quali sono abbastanza
note. E prima di tutto bisogna segnalare la diminuzione della
popolazione dovuta, oltre che a qualche irruzione dei barbari, alle
frequenti pestilenze ed alle carestie. Nè l’igiene pubblica nè il sistema
dei trasporti erano allora così perfezionati da potere prevenire le
stragi delle une e delle altre. Si aggiunga che la natalità era
scarsa, perchè il cristianesimo non era ancora così diffuso nelle plebi rurali
da sradicare l’uso del procurato aborto e dell’esposizione degli infanti.
La diminuzione della popolazione produsse naturalmente l'abbandono
della coltura di molti campi, alla quale si cercò di riparare coll’istituzione
del colonato, che legava l’agricoltore ed i suoi figli alla terra, rimedio
artificioso ed insufficiente. Altra causa e la decadenza della
classe media, dovuta soprattutto all’eccessivo fiscalismo. Oltre
alle dogane ed alla imposta del cinque per cento sulle eredità, il
maggior provento del fisco imperiale consisteva nell’imposta sulla
proprietà terriera. Essa veniva ripar- tita mediante il sistema del
contingente, in base al quale il governo centrale stabiliva l'onere di
cui era gravato ogni municipio. Della riscossione erano incaricati i
decurioni, ossia i membri del consiglio muni- cipale reclutato fra i
maggiori censiti, i quali erano tenuti a ricoprire con le loro sostanze
la differenza fra la somma stabilita e quella realmente riscossa. I
grandi proprietari residenti a Roma o nelle ‘principali città
dell'impero si facevano esentare facilmente dal decu- rionato, che così
ricadeva tutto sulle spalle dei medi e piccoli proprietari e li
rovinava. Si aggiunga che l’incertezza del valore della moneta
doveva contribuire ad aggravare la crisi economica. Durante il periodo
dell’anarchia militare, nella seconda metà del terzo secolo, si era
cominciato a coniare mo- neta falsa, mescolando nelle zecche dello Stato
del piombo all’argento e qualche volta all’oro. Natural- mente nel
commercio queste monete erano accettate per il loro valore reale con un
conseguente rincaro dei prezzi. DIOCLEZIANO cerca di ripararvi con
un’unica tariffa che stabiliva in tutto il territorio dell'impero i
prezzi massimi di tutte le derrate e di tutti i servizi. Ma ciò era
assurdo, perchè fra le altre cose era im- possibile che una derrata
avesse lo stesso prezzo in: tutte le parti del vastissimo impero, sicchè,
malgrado le gravi pene comminate a chi la violava, la tariffa non
fu applicata. È noto anche che in molte parti dell’impero il
brigantaggio era una piaga permanente e contribuiva. a turbare la
sicurezza dei beni e ad impoverire a pre- ferenza il medio ceto, perchè i
ricchi si difendevano con le loro guardie private ed i poveri erano
difesi dalla loro stessa povertà. Ma soprattutto ciò che aggravava
le conseguenze degli errori del governo e rendeva inefficaci quei
provvedimenti che sarebbero stati utili fu la corruzione della.
numerosissima ed invadente burocrazia, la quale, dopo il terzo secolo,
avea conquistato sempre maggiori poteri a Scapito delle libertà individuali e
delle autonomie municipali. Gli storici ricordano qualche caso
tipico di questa corruzione. Quando i goti, sospinti dagl’unni, chiesero
verso la fine del quarto secolo di sta-bilirsi nel territorio dell'impero a
mezzogiorno del Danubio, gli imperatori accolsero la loro domanda, e promisero
loro viveri per un anno e sementi per coltivare la terra a patto che
consegnassero le armi. Or i funzionari incaricati di questo servizio li
derubarono dei viveri e delle sementi, e, lasciandosi corrompere
dai loro doni, lasciarono loro le armi. Sicchè i barbari si
ribellarono, devastarono la penisola balcanica e sconfissero ed uccisero in
battaglia l’ imperatore VALENTE (si veda). Altrò caso tipico di corruzione
burocratica fu quello narrato dallo storico Ammiano Marcellino a
proposito di una serie di inchieste che ebbero luogo in Tripolitania.
Senonchè tutto ciò spiega solo in parte la caduta dell’ Impero
romano d'Occidente e, fatto più grave di questa caduta, la grandissima
decadenza, per non dire la dissoluzione, della civiltà antica. Perchè in
ogni paese civile ed in ogni generazione, accanto alle forze
dissolvitrici, vi sono sempre quelle conservatrici e ricostituenti,
rappresentate dai caratteri nobili e devoti al pubblico bene; ed uomini
di questo carattere non mancavano nella società romana nel quarto e
quinto secolo dell’era volgare, tanto vero che la Chiesa ebbe
allora una serie di uomini superiori, come indiscutibilmente furono sant’Ambrogio,
son Girolamo, sant’Agostino, Paolino di Nola, Salviano, Paolo Orosio,
ecc. Ma questi uomini superiori per ingegno e moralità non
ritardarono la caduta dell'Impero romano d’Occidente perchè facevano parte
della gerarchia ecclesiastica; nella quale, sebbene non facesse difetto
il patriottismo, la salvezza dei corpi era posposta a quella delle
anime. All’ideale pagano (partecipazione attiva alla vita dello Stato,
sentimento del dovere civico e militare, concezione immanentistica della
vita), si so- stituiva, in gran parte e necessariamente, quello cristiano
(disinteresse per le cose di questo mondo e quindi anche per lo Stato,
aspirazione alla beatitudine eterna, concezione trascendentale della vita,
considerata come un esilio, un passaggio, un ostacolo al raggiungimento
della perfezione cristiana). Veniva cioè dissolvendosi quell’ insieme di
idee e di sentimenti che sino ad allora aveano diretto l’azione della civiltà
antica e per- ciò veniva a mancare quella forza morale che è il coefficiente
essenziale degli sforzi collettivi di ogni società umana, e tale mancanza
doveva di conseguenza produrre, sotto la spinta di un urto esteriore un
po’ grave, la dissoluzione dell’organismo politico e della civiltà
che erano da quella forza morale vivificati e sostenuti. Così morì l’
Impero romano d’Occidente, che, meno favorevolmente situato di quello
d’Oriente, ebbe inoltre la sventura di essere assalito ed invaso dai barbari proprio
nel periodo più acuto della crisi morale, occasionata dal diffondersi del
Cristianesimo fra la sua classe dirigente; mentre l'Impero d’Oriente ebbe
il tempo di reintegrare le proprie forze materiali e morali, di superare
il momento peggiore della crisi e potè ancora durare per quasi un
millennio. Colà il Cristianesimo, diventato nel sesto secolo dell’era
volgare e nei susseguenti religione nazionale dell’impero, contribuì ad
accrescerne la forza ed a mantenerne la compagine di fronte agli attacchi
prima dei Persiani, poi degli Arabi e per lungo tempo dei Barbari del settentrione.
Nè bisogna dimenticare che a cominciare dagli inizi dell’ottavo secolo la
lotta contro il culto delle immagini fu l’effetto, nella società
bizantina, di una reazione dell'elemento laico contro l’ascetismo
ed il monachismo. Gaetano Mosca. Mosca. Keywords: implicatura,
mafia. Stato liberale, stato sindacale, regime parlamentare, partito e
sindacato. Refs.: H. P. Grice: “Mosca’s liberalism;” Luigi Speranza, "Grice e Mosca," per il Club Anglo-Italiano,
The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria.
Grice e Motta: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Vercelli). Filosofo italiano. Vercelli, Piemonte. Grice: “If
Mill’s claim to fame is to some his examination of Mill, Motta’s claim to fame
is his examination of Rosmini!” -- Il conte Emiliano Avogadro della Motta. Nacque dal conte Ignazio della Motta e da Ifigenia
Avogadro di Casanova, entrambi appartenenti a nobili famiglie di vassalli e
visconti, i cui antenati risalgono a poco oltre il mille. Tra gli Avogadro vi
fu anche Amedeo, inventore della legge sui fluidi. Frequenta con profitto gli
studi e si laureò in utroque iure, ma proseguì lo studio in diverse aree della
teologia e della filosofia, trasformando le dimore familiari in piccole
accademie dove giuristi, filosofi, studiosi di diritto canonico e vescovi si
riunivano, per discutere vari argomenti ed approfondire la filosofia moderna e
i diversi aspetti del nascente socialismo. Ricevette l'incarico, che già
fu del padre, di riformatore degli studi del Vercellese e in un'epoca in cui si
guardava ancora con diffidenza all'istruzione delle classi popolari, egli
visitava ciclicamente le scuole d'ogni ordine, scegliendone accuratamente gli
insegnanti, convinto che l'istruzione e l'educazione fossero un diritto di
tutti e dovessero procedere simultaneamente. Assunse la carica di
Consigliere di Formigliana e continuò a dedicarsi allo sviluppo culturale della
natia Vercelli, ove fondò la Società di Storia Patria, per incrementare gli
studi sul glorioso passato della città. Divenne membro del Consiglio Generale
del Debito Pubblico e più tardi sindaco di Collobiano e “Consigliere di Sua
Maestà per il pubblico insegnamento” La sua notorietà varcò i confini del
Piemonte, allorché ricevette l'eccezionale invito di partecipazione alla fase
preparatoria della definizione del dogma dell'Immacolata e le sue riflessioni
ebbero un seguito fra alcuni importanti gesuiti, come il direttore de La
Civiltà Cattolica, che fece dono a Pio IX del Saggio intorno al socialismo.
Azeglio, richiamandosi a M., espresse la propria preferenza per una condanna
esplicita di tali errori, da includere nella bolla di definizione del dogma, ma
l'autore sollecitò apertamente la distinzione di due argomenti (definizione del
dogma e condanna degli errori) dalla portata tanto diversa e lo stesso Pio IX
incaricò la Commissione, che aveva già lavorato sulla definizione del dogma, di
esaminare gli errori moderni e di preparare il materiale necessario per la
bolla e chiese al cardinale Fornari di invitare formalmente alcuni laici a
collaborare. Avogadro fu l'unico laico italiano ad essere interpellato e inviò
a Roma una risposta singolare e ricca di argomentazioni. Ben presto la
Commissione incaricata abbandonò la trattazione univoca dei due argomenti e la
solenne definizione su Maria sarà fatta da Pio IX, mentre l'esame degli errori
si trascinerà per altri dieci anni, mentre prevaleva in ambito ecclesiastico
l'idea di una severa condanna. Attività parlamentare Diventò membro
attivo nella vita politica, quale deputato eletto nel collegio di Avigliana e
operò nelle file dello stesso schieramento politico della Destra. La proposta
avanzata in Parlamento di ridurre il numero delle feste, indusse Avogadro a
scrivere un apposito opuscolo, per difendere la dignità dell'uomo che,
in quanto essere intelligente e creativo, «senza tempo libero non vive da
uomo, e mal lo conoscono gli economisti che altro non sanno procacciargli se
non “lavoro e pane”». In Parlamento prendeva spesso la parola contro il
progetto di legge che prevedeva l'obbligo del servizio militare e criticò la
cessione di Nizza e Savoia alla Francia, smascherando le reali intenzioni che
sull'Italia nutriva l'ambiguo Napoleone III. Riceve la decorazione della
Croce di Ufficiale dei Santi Maurizio e Lazzaro e continuò a scrivere, oltre a
collaborare con l'Armonia, l'Unità cattolica, l'Apologista, il Conservatore,
rivista quest'ultima stampata a Bologna e di cui è ritenuto uno dei fondatori e
collaboratori. Muore in Torino”, come annotano diversi giornali e riviste, non
ultima La Civiltà Cattolica, che gli dedicò un sentito necrologio. Saggi:
“Saggio intorno al Socialismo e alle dottrine e tendenze socialistiche” (Torino,
Zecchi); -- partito socialista italiano
-- “Sul valore scientifico e sulle pratiche conseguenze del sistema filosofico
di Serbati (Napoli, Societa Editrice Fr. Giannini); “Teorica dell'istituzione
del matrimonio e della guerra moltiforme cui soggiace, M. già Riformatore delle
R. Scuole provinciali degli Stati Sardi, a spese della Societa Editrice Speirani
e Tortone, Teorica dell'istituzione del matrimonio Parte II che tratta della
guerra moltiforme cui soggiace, per M., già deputato al Parlamento Subalpino,
Torino, Speirani e Teorica dell'istituzione del matrimonio e della guerra a cui
soggiace, -- che tratta delle difese e dei rimedi, con una Appendice intorno
alla ricerca del principio teorico morale generatore degli uffizi e dei doveri
coniugali,” Torino, Speirani e Tortone, M. deputato al Parlamento Nazionale,
Torino, Tipografia Speirani e Tortone, “Teorica dell'istituzione del matrimonio
e della guerra a cui soggiace, Parte Documenti per M. già deputato al
parlamento nazionale (Torino, Speirani); “Gesù Cristo nel secolo XIX, Studi
religiosi e sociali, Modena, Tipografia dell'Immacolata Concezione, “La
filosofia di Serbati” (Napoli, Giannini);
“La festa di S. Michele e il mese di ottobre agli angeli santi, Torino,
Marietti, Il mese di novembre dedicato a suffragio dei morti, Torino, Marietti);
“Le colonne di S. Chiesa. Omaggi a S. Giovanni Battista e ai Santi Apostoli nel
mese di giugno e novena per la festa dei Santi Principi Pietro e Paolo, Torino,
Marietti); “Il mese di dicembre in adorazione al Verbo Incarnato Gesu nascente
e ad onore di Maria Madre SS.ma, Torino, Marietti); “Opuscoli di carattere
storico-giuridico; Rivista retrospettiva di un fatto seguito in Vercelli con
osservazioni al diritto legale di libera censura, Vercelli, De Gaudenzi, Delle
feste sacre e loro variazioni nel Regno sub-alpino, Torino, Marietti); “Quistioni
di diritto intorno alle istituzioni religiose e alle loro persone e proprietà,
in occasione della Proposta di Legge fatta al Parlamento torinese per la
soppressione di alcune corporazioni, Torino, Marietti, Cenni sulla
Congregazione degl’oblati dei SS. Eusebio e Carlo eretta nella Basilica di S.
Andrea in Vercelli e sulla proposta sua soppressione. Per un elettore
Vercellese, Torino, Marietti); “Parole di conciliazione sulla questione della
circolare di S. E. Arcivescovo di Torino); “Del diritto di petizione e delle
petizioni pel ritorno di S. E. l'Arcivescovo di Torino); “Lo statuto condanna
la Legge Siccardi, Torino, Fontana, Erroneità e pericoli di alcune teorie ed
ipotesi invocate a sostegno della proposta di Legge di soppressione di vari
stabilimenti religiosi” (Torino, Speirani e Tortone); “Alcuni schiarimenti
intorno alla natura della Proprietà Ecclesiastica allo stato di povertà
religiosa, ed alle quistioni relative ai diritti e ai mezzi temporali di
sussistenza della Chiesa. Con una Appendice intorno alla legalità nell'esecuzione
della legge sulle Corporazioni religiose” (Torino, Speirani); “Considerazioni
sugli affari dell'Italia e del Papa” (Torino, Speirani); “Una quistione
preliminare al Parlamento Torinese” (Torino, Speirani); “Il progetto di
revisione del Codice Civile Albertino e il matrimonio civile in Italia, Torino,
Speirani); La Rivoluzione e il Ministero Torinese in faccia al Papa ed
all'Episcopato Italiano. Riflessioni retrospettive e prospettive” (Torino,
Speirani); L'Armonia, Civiltà Cattolica, Rivista retrospettiva sopra la
discussione delle leggi Siccardi, Unità Cattolica, Angelo Ballestreri,
segretario della Famiglia, presso l'Archivio Storico di Torino. Enciclopedia
storico-nobiliare italiana, promossa e diretta dal marchese Vittorio Spreti, Milano,
Avogadro di Vigliano F., Pagine di storia Vercellese e Biellese, in Antologia,
M. Cassetti, Vercelli, Avogadro di Vigliano F., Antiche vicende di alcuni feudi
Biellesi degl’Avogadro di San Giorgio Monferrato (e poi Conti di Collobiano e
di Motta Alciata), dalla Illustrazione biellese, XIX, Biella, Corboli G., Per
le nozze del Conte Federico Sclopis di Salerano e della Contessa Isabella Avogadro,
Cremona, Feraboli, De Gregory G., Historia della Vercellese letteratura ed
arti, parte IV, Torino, Di Crollallanza G. B., Dizionario storico-blasonico
delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, I, Sala Bolognese, Dionisotti C., Notizie
biografiche dei vercellesi illustri, Biella, Amos, Manno A., Il patriziato
Subalpino. Notizie di fatto storiche, genealogiche, feudali ed araldiche
desunte da documenti, I, Firenze, I vescovi di Italia. Il Piemonte, Savio F.,
Torino, Bocca, Bonvegna G., Filosofia sociale e critica dello Stato moderno nel
pensiero di un legittimista italiano: Emiliano Avogadro della Motta in Annali
Italiani. Rivista di studi storici, Bonvegna G., Il rapporto tra fede e ragione
in Avogadro della Motta, in Sensus Communis,
Valentino V., Un difensore rigoroso dei diritti della Chiesa e del Papa,
in Divinitas, rivista di ricerca e di critica teologica, Volumi e tesi
sull'autore Bonvegna, M. Il pensiero filosofico-politico e la critica al
socialismo, Tesi, Filosofia. Università Cattolica, Milano, De Gaudenzi L.,
Ultima parola su di una pretesa ritrattazione di M., Mortara, Cortellezzi,
De Gaudenzi L., Un'asserzione di Paoli D.I.D.C. tolta ad esame, Mortara,
Cortellezzi, De Gaudenzi, Istruzione del
vescovo di Vigevano al Ven.do Suo Clero sul Matrimonio, Vigevano, Spargella,
Manacorda G., Storiografia e socialismo, Padova, Martire G., II, Roma, Omodeo,
L'opera politica di Cavour, Firenze, Pirri, Carteggi delL. Taparelli
d'Azeglio, XIV di Biblioteca di Storia
Italiana Recente, Torino, La scienza e la fede,
XXIV, Napoli Spadolini, L'opposizione cattolica da porta Pia, Firenze, Storia
del Parlamento Italiano, N. Rodolico, Palermo
Traniello F., Cattolicesimo conciliarista. Religione e cultura nella tradizione
Rosminiana Lombardo-Piemontese, Milano, Valentino, Il matrimonio e la vita
coniugale, Facoltà dell'Italia Centrale, Valentino, Un'introduzione alla vita e
alle opere, Vercelli, Saviolo, Valentino V., Un laico tra i teologi, Vercelli,
Valentino, Il pensiero di Gioberti, Genova, Verucci, Dizionario Biografico
Italiano, Istituto dell'Enciclopedia, Roma. Guido Verucci, Emiliano Avogadro
della Motta, in Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Opere di Emiliano Avogadro della Motta, Emiliano Della Motta
(Avogadro), su storia.camera, Camera dei deputati. DEL SOCIALISMO IN GENERALE. Origini
del socialismo nel razionalismo protestantico. Le prime eresie tentarono
soffocare la fede e la Chiesa; le seconde, viziar l'una, e sostituirsiall'altra.
Lutero e Calvinodistrussero il principio della fede, dell’amorale, dellasocietà.
Idolli germani cercarono rimedio nella scienza e nell'ecclettismo; la loro
filosofia, il loro diritto pubblico.Il protestantismo in Francia fa più audace e
ribelle.Combatiuto come selta religiosa produsse i liberi pensatori, che, a
titolo di scuola, ne dilatarono il razionalismo empio. Previsioni di Bossuet. Il
genio di Voltairee de'suoi discepoli fu essenzialmente anti-cristiano,
Paradossi del Gioberti. La guerra del filosofismo dcontro la fede e la scienza e
più radicale di quella del protestantesimo. Suo spirito non di separatismo ,ma
dicosmopolismo. Da secoli la preponderanza nell'ordine delle idee e devoluta in
Europa alla Germania e alla Francia, colà bisogna cercare le fonti dell'errar.
Diverso carattere delle due nazioni. Nel razionalismo dell'una, nell'incredulità
dell'altra, stette deposto il primo articolo della carta socialistica. Non più
autorild Progressi del razionalismo e dell'incredulità nell'idealismo. Kant, il
suo antidommatismo; I suoi seguaci. Non vollero dirsi atei, loro panteismo
spurio peggiore dell'ateismo. Non vollero comparir scettici ne materialisti, ma
sovvertirono la scienza e la morale con l'i dealismo apriori. Hegel, el'idealismo
trascendentale e pratico. I teologi protestanti lo seguirono. Il
protestantesimo avea sfigurato fin da principio l'idea di un “Cristo”; a cosa
la ridusse Strauss. Apparente regresso in Francia dal materialismo e dalle
teorie rivoluzionarie. Principio di tolleranza mal applicato in tutte le
ristorazioni; indi l'indifferenti. Prefazione Saggio. L'incredulismo e il
filosofismo francese e nell'indifferentismo. I tedeschi pensatori seguirono
l'esempio, non la frivolezza dei volteriani. Smo religio sue políticone
gli ordini pubblici, l'eclettismo nella scienza. Gl’eclettici vollero mitigare l'idealismo
germanico; vollero parer rispettosi al cristianesimo, ma lo condannarono come
decrepito. La loro religione filosofica. Non ebbero pensatori. Lamennais, e i
razionalisti cattolici. L'idealismo o l'indifferentismo sono morbi quasi
insanabili. Questi compongono il secondo articolo del simbolo socialistico: la
fede all'Idea propria. Ne sorge l'amore all'indeterminato futuro, l'odio a ciò cheesiste.
Giudizio di Staudenmayer. L'uomo nello stato suo presente non comporta nè
dommatismo assoluto, nè razionalismo assoluto. La natura e il cristianesimo lo educano
colla sede e colla ragione, somministrandogli un'ontologia reale e certa Alcune
riflessioni sulle cose anzi esposte. Il protestantismo, il filosofismo francese,
e il tedesco, sono professioni d'ignoranza. Pongono fuori delle condizioni di
possibilità la religione e la scienza, e abbattono la ragione individuale con
un'assurda emancipazione. Tolgono lo scopo della ricerca della verità. La fede
per contro è scienza iniziale, anche negl’ordini naturali promettitrice. Gli
spiriti penetranti previdero da gran tempo il socialismo moderno; i più furi
bondi ne proclamarono e praticarono le massime. La religione e la società reale
erano già condannate in teoria dall'Idea dei sofisti, cui non possono
corrispondere in fatto. La Chiesa ne è la salute, perchè pre dica la verità positiva,
e muta le ipotesi de'sofisti. Questi falsificarono anche I principii positivi,
che vollero conservare per ricostrurre la società; tolsero la possibilità
dell'amore; sfigurarono le idee di libertà, di eguaglianza, di fratellanza, che
portate all'assoluto si escludono mutuamente. Il socialisino vuole ricostituire
con queste l'uman genere. Gli uomini di distruzione, e quelli dell'utopia, sorti
a slagellare l'umanità colle sperienze d'applicazione e tresta di d'esistenza delle
sette. Siappoggianoa un fiero dommatismo. Non inventano dottrine, ma scelgonoe volgarizzano
le più acconce ai loro fini. Sono la gerarchia, il sacerdozio, l'esercito della
filosofia anticristiana e antisociale, che senza di quelle non sarebbe
largamente perniciosa. Ora non sono più mere associazioni, ma trasformandosi
divennero società e governi sotterranei. Una buona storia delle sette sarebbe
un gran beneficio; come vorrebbe essere fatta. La miglior difesa contro di quelle
è farle conoscere. I sommi Pontefici lo vennero facendo, furono mal secondati. Le
sette massoniche. Veisaupte l'illuminismo. Le sette moderne teoriche ed
esecutive. La Giovine Europa e Mazzini. Loro tre mezzi d'influenza, le loro arti,
le loro forze. Non aspirano che alla propria supremazia e tirannia solto nome
di repubblica sociale. Gioberti le descrisse con somma perizia mutando
l'applicazione. Avvenire delle sette. Non sono esse sole il socialismo, ma ne sono
la virtù plastica e direttrice. Carattere e spirito del socialismo. È l'
eterodossia. Essa porta all'apice, all'universalità, a l l'atto, le empietà ed aberrazioni
de'secoli precedenti. Le sue idee sono Le sette secrete demagogiche. Esse
aggiunsero alle teorie un organismo artilizioso ed attivo. Tre aspetti, però terrene
e ristrette. È un cattolicismo umanoe diabolico, che vuol essere più universale
di quello di Cristo. Il suo Messianismo. Le sue stolte promesse e stolte accuse
contro la società. Professa odio a Dio e a Cristo, odio all'uomo, odio alla
giustizia. Sovverte il naturale eil supernaturale. L'idea socialistica non è intiera
nella mente diverün10 mo, il solo spirito del male ne può abbracciare e volere il
tutto. Nelle menti umane prende diversi gradi e forme. Coldomma dell'idea il socialismo
raccoglie a sè tutti gli spiriti erranti e passionati; disordina i difensori della
verità; esi infiltra nelle menti. Potenza seduttrice del l'Idea e delle Idee. Semisocialismo.
Unità di pensiero, di scopo, di forze morali e materiali nel socialismo, collimanti
contro il cristianesimo. Fa predetto dai santi Apostoli. Lamorte confuta il domma
e le speranze del socialismo, erende calamito se le sue promesse. Il comunismo.
È doppio; altro filosofico e in apparenza economico, altro apertamente Jadro e sensuale.
Il solo principio della comunanza non valea fondare veruna società che basti a
sè stessa. Esseni; comunanze monastiche; sistemi utopistici. Socialismo e
comunismo sono due estremi della stessa idea.La Francia è travagliata di preferenza
dal secondo, la Germania dal primo, il perchè. Il principio Cristiano non può ameno
di somministrare la soluzione di tutti i loro problemi sociali.Sentenza di
Jouffroy DEGLI SCOMPARTIMENTI PRECIPUI DEL SOCIALISMO . Delle scuole e dei sistemi
sociali più insigni, e in particalare dicoli. Hegel le aprì un orizzonte vasto
e pratico colla sua teoria sulla storia, e colle sue viste sul mondo germanico.
Con queste infiamm di pietistic protestanti e i politici ambiziosi, specialmentein
Prussia.Trovo eco fra novatorianche cattolici e israeliti. Le sette demagogiche
germaniche s'impadronirono dell'idea hegeliana di nazionalità, ostile alla
religione e alla civiltà romana. I sofisti la parodiarono altrove, adadulare le
proprie nazioni CATO II. Sansimonismo, umanitarismo. Il misticismo di Sansimone
s'indirizza alle passioni sensuali nobilitando le, alle ambizioni ultra-democratiche
esaltando le capacità individuali. I suoi discepoli l'organizzarono amodo di
religione panteistica umanitaria. Molti eclettici dell'università francese ne
adottarono I principii ideali, compiendo con questi la metafisica hegeliana. Leroux
e l'umanitarismo universale; gli umanitarii ricusano le idee di patria e di nazionalità.
Il principio saņsimoniano penetra largamente in Francia,e per ogni dove; esso
improntò al socialismo l'aria di religione lasciva e cosmopolitica.
L'emancipazione della carne e conseguenza logica del l'emancipazione del pensiero
dell'hegelianesimo e neo-egelianesimo. Owen e Fourrier vestirono l'idea
socialistica e comunistica di sistemi ri . Del svoialismo anarchico e
trascendentalmente empio . Prudhon, discepolo intelligente e sfacciato dei socialisti
tedeschi, sveld le vere esigenze del socialismo. Professa esplicitamente l'odio
a Dio, l'abolizione di ogni diritto, l'anarchia; cosa intenda con tal parola. Flagella
i socialisti e comunisti, ma è peggiore di loro. Le sue idee fanno impressione,
perchè sono l'espressione la più semplice della idea d'indipendenza assoluta. Lecoutrier,
la sua cosmosofia materialistica, prosessa il culto di sè stesso. Condanna la
filosofia e la civilizzazione. Il materialismo e l'anarchia spaventano in
Francia; ostinazione di certi razionalisti, che non dimenonon ne vogliono vedere
il rimedio additato già da Napoleone. Del socialismo operativo o militante, e
di quello latente. Il socialismo pensante sta nelle scuole panteistiche
incredule, l'operativo nelle sette e fazioni rivoluzionarie. I suoi fasti
recenti. Lo scopo principale è distrurre il caltolicismo. Perciò cerca di
rivoluzionare moral mente e materialmentela Chiesa. Adocchia l'Italia che ne tiene
il centro. Mazzini, la sua filosofia panteistica, le sue idee di nazionalità e
di primato italico parodia del primato germanico di Hegel. Sue contraddizioni.
È lo strumento del socialismo universale, che non vuol altro in Italia che non
più Papi. Per progredire il socialismo vesti in Italia tutte le forme e le ipocrisie.
Cerca di alluarvi il comunismo politico. Il socialismo latente. L'Inghilterra
ne possiede grandi elementi. Cenni sull'utopia del Moro.La Russia. Nissuna
rivoluzione eguaglia quella voluta dal socialismo. Che cosa è una rivoluzione.
Diverse specie di rivoluzioni parziali, che ora lutte s'informano
dellospiritodelsocialismo.Sono ingiuste,ruinose,infrenabili nei confini voluti
dai moderati, dai dottrinarii, dai liberali. Cos'è la riforma vera.Coloro non
sono riformatori,ma rivoluzionarji. Possono chiamarsi semisocialisti; lo sono
altri in religione, allri in filosofia, altri in politica. Fanno penetrare a tratti
a tratti l'idea, ed eseguiscono per parti l'opera socialistica. Sono
incoerenti. Giudizi di Joutfroye di Prudhon sui rivoluzionari al minuto.
Giudizi di Quinet sui cattolici democratici predicatori d'indipendenza. Non
sorge dai loro sistemi la vera democrazia, ma l'anarchia prudoniana in tutte le
relazioni degl’individui, e delle società fra loro. L'indipendenza assoluta non
esiste al mondo. Epilogo. Giudizio di Sterne sul principio rivoluzionario
socialistico, eminentemente anticristiano. Il termine della rivoluzione
sociale. La rivoluzione universale sociale non si compirà mai appieno. La
rivoluzione religiosa, come è promossa dal socialismo,è nata a far luogo addi
questa; e del semi-socialismo. Della rivoluzione universale e sociale; scompartimenti
precipui Del panslavismo demagogico, e del ruteno. Un detto napoleonico inverosimile,
o malinteso. Il panslavismo. È doppio. L'Idea russa; la suavivacità per forze
morali e materiali. Le sue arti. È ostile all'idea Latina e cattolica. È
religiosa e politica, panslavi sticae panscismatica. L'Italia ne èminacciata doppiamente.
Calamità europea, che si è la dissoluzione dellaGermania nell'anarchia religiosa
e politica. L'idea russa, ora antirazionalistica e antidemagogica, può col
tempo mutare processo ed allearsi religiosamente al protestantesimo, politicamentealla
demagogia europea. La Chiesa non teme, ma aspeita negli ultimi tempi un grande
assalto dai popoli di quelle regioni, e dalla apostasia dei propria figli. Quel
panslavismo sembra destinato a chiudere l'era del socialismo nostrale. laci, esuberanti,
indefinite. La verità e l'autorità hanno l'adesione della maggioranza, ma sono malconosciute.
Il clerocattolico fa quella vagliatura per ufficio, ma fra popoli colti la scienza
e la dimostrazione è necessaria. Parte dei laici. La filosofia dee essere
ricondotta al suo stato normale, da cui si di parti negando o trascurando l’ontologia
cristiana e la scienza della socieià universale degli spiriti. In Italia
bisogna far conoscere le produzioni della scienza straniera, dei paesi cioè in
cui la controversiaè vivace. Bisogna svelare il fondo dei sistemi socialistici;
formolare con precision i problemi; porre in lume i principii assoluti; questi non
impediscono le temperazioni pratiche. Si fa alcontrario. Esempio nella
quistione capitalissima delle relazioni fra chiesa e Stato. Questa in assoluto non
è quistione di libertà, ma di autorità. Il principio di libertà non basta a
spiegare l'ordine morale.Teorie di Rosmini nel suo saggio Della Costituzione.
Il problema religioso vi è mal formolato. Il progetto di costituzione
rosminiana non guarentirebbe alla chiesa nemmeno libertà; include
l'indifferentismo politico; toglie all'ordine civile la base morale. Necessità
della professione religiosa dello stato. Il problema politico intorno al
diritto e alla giustizia sociale vi è del pari inesattamente formolato. Nel
criticare le costituzioni galliche Rosmini non netacci ai vizii principali. Quale
sia laquistione politica odierna; come sia formolata dai socialisti, come da
Lainennais. Le emende proposte dal Rosmini alle costituzioni da lui criticate
sono vane, o insufficienti a farargine al socialismo e comunismo.È inutile adulare
e contrastare a metà le idee di moda, se non si risolve il tema del socialismo.
Esso nega Dio e le due leggi provvidenziali per cui l'uo mo è governato
dall'uomo, e il diritto sulle cose materiali è diviso fra gl’uomini. I dottrinarii
italiani e francesi si contentano di massime generiche, di idee dimezzate,
scoza analisi e applicazione. Gli americo una nuova foggia di demonolatria;
la rivoluziones cientificaproducela perdita dell'unità di senso morale; la
civile,un'anarchia,e tirannia in curabile. La rivoluzione universale,se potesse
compiersi,distrurrebbe inultimol'umangenere.Come ilsocialismo l'odii dio dio satanico.
Il suo termine logico sarebbe la distruzione dell'ordine di natura e di so
prannatura. Il mondo non saràmai tutto socialista come fu tutto pagano, perchè la
chiesa ha delle promesse infallibili; ma le nazioni civili non ne hanno, e camminano
indolenti verso grandi ruine. Un altro socialism che si dispone a trasformare il
mondo europeo. Timori, speranze, rimedii contro l'invasione delle dottrine
socialistiche. Vuolsi una buona vagliatura delle idee, dei desiderii, delle
speranze fal mani italiani, e gl’anglomani francesi, non conoscono i tipi
stranieri che vogliono imitare. I cattolici idealisti e razionalisti non comprendono
che guastano e snaturano il cristianesimo colle misture eterodosse,a vece di
farne l'apologia. Quali sieno dunque le tre vagliature,or peces sarie, delle
dottrine e delle voglie del secolo. Ancora alcune osservazioni sul modo di
trattare ora le controversie. Partito violento. La rivoluzione materiale è sopita,
ma l'ideale si dilala. L'Italia odierna, e la Germania di tresecoli fa. Dollinger.
È quindiur gente il bisogno di grandi manisestazioni della verità, per mezzo della
fede e dellaragione. I governi, ora materialmente forti, sono moralmente deboli;
l'epoca presente di razionalismo e di opinioni indeterminate piega alt ermine. Il
socialismo vuol dommi e fatti, vuolsi contrap porgli la scienza della fede
cristiana, continuando il lavoro dei più grandi genii del cristianesimo. Che
cosa è una filosofia cristiana. La polemica dee essere trattata con franchezza;
tenendo conto di tutti i principii veri e di tutti i fatti; distinguendo le
ricerche di ciò che è giu sto, ediciò che è prudente. Non dee contentarsidi debellare
gl’errori singoli, ma metter in luce la storia fillosofica, e il sistema universale
dell'eterodossia .Ilpanteismo è lasostanza dell'eterodossia moderna.
Considerazioni sul panteismo, suls uo lungo regno, sulle sue fasi.Non sarà l'ultimo
errore.Voto umile e riservato per un oracolo della Santa Sede, e una condanna
dottrinale e solenne del socialismo e comunismo. Motivi. Insufficienze e
pericoli delle discussioni scientifiche. Il socialismo, come sistema compiuto,
ha del nuovo; spesso sembra sfuggire agli anatemi degli errori antichi che
rinnova. Fra icattolici stessi sinceri visono dubbiezze e illusioni. La gloria
del nome di Cristo è avvilita. L'idea di Cristo, e quindi quella della Chiesa, sono
meno mate in molte menti.Quella èl'antidoto a tuttol'errare moderno .Lapedagogia
pende ad insinuare ilnaturalism o e ilsensualismo. La Santa Sede spesso unì
alle decisioni, e condanne dommatiche contro gli errori, le lezioni razionali a
illustrar lementi dei fedeli. Esempi. Così bramerebbesi ora, perchè da molti il
socialismo e comunismo non sono conosciuti quali sono. Condannati, rimarrebbero
nolati d'infamia agli occhi del mondo cristiano, e resi moralmente impotenti. È
quel tutto un arcano di sata nasso, alla sola Santa Sede apparterrà svelarlo e
conquiderlo; a lei però sola il giudicare della opportunità dei mezzi. Intanto,
colle armi già pronte della fede e dellascienza, vuolsi da ognuno colle sue forze
combattere la rivoluzione ideale. Teologia e filosofia, rivelazione e ragione,
vogliono andar congiunte, distinte, ma non parallele. Un passo del Mancini. Due
filosofismi, due rivoluzioni, che neminaccia no una più terribile. Presunzione dei
moderni; giudizi dei posteri. Tutti i partiti scontenti del presentemirano all'avvenire;
I più sci occhi sono gli aspettanti e ineuirali. Il principio cristiano è
incarnato nella Chiesa, essa non fa quistioni di clericocrazia, quando parla
alle genti con autorità. L'Italia
e isuoiri formatori sispecchino nella Germania di tre secoli fa. La Chie sa
benefica e invitta in tutti i secoli. I fedeli hanno da incoraggirsi; fra
l'idea socialistica e la cristiana sanno quale abbia la verità,e quale ot
Alcuni documenti intorno alle scriesegrere demagogiche. SOCIALISJIO IN (iKNKRALE. Origini
del socialismo nel
razionalismo protcstanlieo. T.p
(uime eresie tenurono
soffocare la fede e
la Chiesa; le
seconde, viziar r ona.
e sosiiluirsi all' altra.
JLulcro c Calvino distrussero
il principio della
fede, della morale,
della società.! dotti
germani ccrenronn rime*
dio nella scienza
e neireccletlismo; lo loro
filosofia, il loro
diritto pubblico. Il
protestantismo in Francia
fu più audace
c ribelle. Combat- tuto come
setta religiosa produsse
i liberi |>cnsatori, che, a
(itolo di scuola,
ne dilatarono il
razionalismo empio. Previsioni
di Bossuct. >» L' increduUsmo e
il filosofiimo francete.
Il genio di
Voltaire e de* suoi
discepoli fu essenzialmente anticristiano. Paradossi
di GIOBERTI (si veda). La
guerra del lilosufismo
con- tro la fede e
la scienza fu
più radicale di
quella del protestantesimo. Suo
spirito non di
separatismo, ma di
costnopolismo Da tre
secoli la preponderanza
nell'ordine delle idee è
devoluta in Europa
alla Germania c alla Francia,
colà bisogna cercare
le fonti dell' errar
moderno. Diverso carattere
delle due nazioni.
Nel razionalismo dell' una.
neli'iu- creduliià dell'
altra, stette dcposlo
il primo articolo
della carta sociali*
slica : iVoii più
aulorilà » Progresti del
razionalismo e de/r nell'
idealismo, e nell indifferentismo. I tedeschi
pensatori segnirono l esempio,
non la frivolezza
dei volteriani. Kant,
il suo aiitidommatismo ; i suoi
seguaci. Non vollero
dirsi atei, loro
panteismo spurio peggiore
dell’ateismo. Non vollero
comparir scettici nè
materialisti, ma sovvertirono
la scienza e la
morale con l' idealismo
a ;>riori. Hegel, e T idealismo
trascendentale e pratico. I teo-
logi protestanti lo seguirono.
Il protestantesimo avea
sfigurato fin da
principio l'idea di
Cristo ; a cosa la
ridusse Strauss. Apparente
regres- so in Francia
dal materialismo e dalle
teorie rivoluzionarie. Principio
di tolleranza mjl
applicato ip tulle
le ristorazioni ; indi
1 indifiVreiiti- Saggio smo
rflit^iosu e politicu nejilt
ordini pubblici, 1 ecldtismu
nella scien- za. (ìli
ccieltici vollero tiiiiigare
ridealismo | che
esiste. Giudizio dì
Staudeiimayer. L'uomo nello
stato MIO presente
non comporta nè
dommaiismo assoluto, nè
razionalismo assoluto. ìji
natura e il crisUnnesimo
lo educano colla
fede c colla ragioncj
souuQÌoistraDdogU un' ontologia
reale e certa Alcune
rifleuioni iulle cote
anzi etpotle» Il
protestantismo, il filosofismo
francese, e il tedesco,
sono professioni d’ ignoranza.
Pongono fuori delle
condizioni di possibilità
la religione e la scienza,
e abbattono la ragione
individuale con un’
assurda cmancU pallone.
Tolgono lo scopo
della ricerca della
verità. La fede
per contro è scienza
iniziale, anche negli
ordini naturali promeititrìce. Gli
spiriti penetranti previdero
da gran tempo
il socialismo moderno
; i pib furi- bondi ne
proclamarono e praticarono le
massime. La religione
g la so- cietà reale
erano già condannate
in teoria dall' /dea
dei sofisti, cui
non possono corrispondere
in fatto. La
Chiesa ne è la
salute, perchè pre-
dica la verità positiva,
e muta le ipotesi
de' sofisti. (Questi
falsificarono anche i
prìncipiì positivi, che
vollero conservare per
ricostmrre la società;
tolsero la possibilità
deU amorc; sfigurarono
le Ideo di
libci là, di
eguaglianza, di fratellanza,
che portale alfassolalo
si escludono mu-
tuamente. Il socialismo ruolo
ricusiiiuire con queste
l’unian genere. Gli uomini
di disinizione. e quelli
dell’ utopia» sorti a flagellare
f umanità colle spcrienze
d'applicazione Le tette tecrete
dema^o^icàe. Esse aggiunsero
alle teorie un
organismo nriifizioso ed
atlivo.Tre aspetti* e tre
stadi d'esistenza delle
sette. Si appoggiano
a an fiero dommaiisino.
Non inventano dottrine,
ma scelgono e volgarizzano le
più accon- ce ai
loro fini. Sono
la gerarchia, il
sacerdozio, rcsercito delia
filoso- fia anticristiana e antisociale, che
senza di quelle
non sarebbe largamente perniciosa. Ora
non sono piu
mere associazioni, ma
trasforman- dosi dirconero società
e governi sotlurranei. Una
buona storia delle
sette sarebbe un
gran benefizio ; come
vorrebbe essere fatta. La
miglior difesa contro
di quelle è farle
conoscere. I sommi Pontefìri
lo vennero facendo,
furono mal secondati.
Le sette tnassonirhe.
Veisaupt e l' illu- minismo. Le
sette moderne teoriche
ed esecutive. La
Giovine Europa c MAZZINI
(si veda). Loro tre mezzi
d' ìiillaenza, le loro
arti, le loro
forze. Non a-
spirano che alla
propria supremazia c tirannia
sotto nome di
repnbblica sodale. Gioberti
le descrisse con
somma perizia mutando
f applicazio- ne. Avvenire delle
sette. Non sono
esse sole il
socialismo» ma ne
sono lu virtù
plastica e direttrice »
Carattere e spirito del
tocialismo. t r eterodossia del
secolo XIX. Essa
porla all' apice, all' unìversalilà, al* 1
atto, le
empielà ed aberrazioni
de secoli precedenti.
Le sue idee
sono però lorrone c ri^trelic.
K un c.iUolicKmo umano
e diabolico, die vuol
essere più universale
di quella dì
Cristo. Il suo
Messianismo. Le sue
stolte promesse e stolte
accuse contro la
società. Professa odio a
Dio e
a Cristo, odio all'
uomo, odio alla
giustizia. Sovverte il
naturale e il supernaiurole. L*
idea socialistica non è
intiera nella mente
di veron ito SuuiimoNiimo, umanifat
iimo. 11 inislicisnio di
Sansimone s'indirizza alle
passioni sensuali nobilitando-
le, alle ambizioni ullradeuioi
ratiebe esaltando le
capacità individuali. 1 suoi
discepoli l'organizzarono a modo
di religione panteistica
umani- Mria. Multi
eclettici dell'università francese
ne adottarono i principii
ideali, compiendo con
questi la metafìsica
hegeliana. Leroui e l umaniia-
risiilo universale; gli
uinaniiarii ricusano le
idee di patria
odi naziona- lità. Il
principio sansinioniano penetrò
largamente in Francia,
c per ogni dove;
esso improntò al
sorìalismo V aria di
religione lasciva c co-
Miio|Kiiiiica.
L'eiiiancipaziono della carne
era conseguenza logica
del- I cmancipaziono del
pensiero Val tucùìlUnio
anarchico t
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udiion, disrcpolo inlelligenle
c sfaccialo dei socialisti
Icdcsclii* svelò le
vere esigenze del
socialismo. Professa esplicitamente rodio
a Dio, rabolizione di
ogni diritto^ l aiiarchm;
cosa intenda con
tal parola. Flagella
i socialisti e cotuunisiU ina è
(H.'ggiore di loro.
Le sue idee
fanno iinpresaione, percliè
sono respressimiu lo più sctnpiico
della idea d’ in-
dipendenza assoluta.
Lccoutrier, la sua
Cotmosufia materialìstica, pro-
fessa il culto di
sé steiso. Condanna
la lilosolia e la
civilizzazione. Il iiintcrialisnio c ranarebia
spaventano in Francia;
ostinazione di certi
razionalisti, che non
di meno non
tic vogliono vedere
il rimedio addi-
tato già da Nopoleune
Del socialitmo operaDto
o mtliftmle, e di quello
latonte. Il socialismo
pensante sta nelle
scuole panicistiche incredule,
l'operalivo nelle selle
c fiutoni rivoluzionarie. 1 suoi
fasti recenti. Lo
scopo princi- pale distrurre il
eattolicisino. Perciò cerca
di rivoluzionare nioral-
tiienle e riinterialmeiiie la
Chiesa. Adocchia l'Italia
che ne lime
il centro. MAZZINI (si veda), la sua
filosofia panteistica, le sue idee
di nazionalità e di PRIMATO
ITALICO parodia del primato
germanico di Hegel.
Sue contraddizioni. C lo striinienio
dei socialismo universale,
che non vuol
altro IN ITALIA che non
piA /’opu. Per progredire
il socialismo vesti
iu Italia tutte
le forme e le
ipocrisie. Cercò di
attuarvi il comuniSmo
politico. Il socialismo
latente. L'Inghilterra ne
possiede grandi elementi.
Cenni siiU titopia
del Moro. La
Russia .1 d Della
rivoluzione universale e iociale:
seompartimenti precipui di
quetta; e del semisocialUmo. Nissuna
rivuluiione eguaglia quella
voluta dal socialismo.
Cito cosa è una
rivoluzione. Diverse specie
di rivoluzioni parziali,
che ora tulle
s'infor- nianu dello
spirito del socialismo.
S*ino ingiuste, ruinose,
infrenabili nei cuitlini
voluti dai moderali,
dai dottrinarii, dai
liberali. Cos'èia iiloiina
vera. Coloro non
sono rirorinalori, ma
rivoluzioiiarit. Possono chiamarsi
scmisocialisti; lo sono
altri in religione,
altri in lilosolia,
al- tri in polilira.
Fanno penetrare a tratti
a traili V idea, ed
eseguiscono per partì
l upera socialistica. Sono
incoerenti. Ciudizi di
Jouffroy e di |*ruuhn
sul rivoluzionari al
mìmito. Giudizi di
Qitinelsuì callolici de-
inncruticì predicatori d'indi(K!ndenza. Non
sorge dai loro
sistemi la vera
democrazia, ma V anarchia
prudoiiiana in tulle
le relazioni degli
individui, e delle società fra
litro. L’indipendenza assoluta
non insiste al
mondo, hiepiiogo. Giudizio
di Sterne sul
principio rivoluzionario soiialislico,
iiuiuenlcmentc
aiUicrisiiauo. . u il termine
della rivoluzione sociale.
La rivoluziono univcisalc
sociale non si
compirà mai appieno.
La rivoluzione Ecìigio^a, come è
promossa dal socialismo,
è nata a far luogo
atf (U»l una
nuovfl di dtHìonuiaitia; la
rivoluzione scientifica produce
ia perdita dell
unità di senso
morale; la cìvilci
un'anarchia, e tirannia incurabile.
La rivoluzione universale,
se potesse com|nersi,
dìstrurrebhc iu ultimo
l'nroan genere. Come
il socialismo Todii
di odio satanico.
Il suo termine
logico sarebbe la
distruzione delt'urdioe di
natura e di soprannatnra.
Il mondo non
sarà mai lutto
socialista come fu
lutto pagano, perchè la
Chiesa ha delle
promesse Infallibili; ma
le nazioni civili
non iic hanno,
e camminano indolenti verso
grandi ruine. Un
altro socialismo che
sì dispone a trasformare
il mondo europeo
Del panslavismo demagogico,
e del ruteno. Un
detto napoleonico inverosimile,
o mal inteso. 11
panslavismo, è dop- pio. L'Idea
russa; la sua
vivacità |>er forzo
morali e materiali. Le sue arti.
£ ostile aU'idca latina
c cattolica. È religiosa c politica,
panslavi- stka e panscismatica. L' Italia
ne è minacciala doppiamente.
Calamità europea, che
si è la dissoluzione
della Germania neU'anarchia
religiosa c politica. L’idea
russa, ora antirazionalisiica c aoUdemagogica, può col
tempo mutare processo
cd allearsi religiosamente al
protestantesimo, politicamente
alla demagogia europea.
La chiesa non teme,
ma aspetta negli
ullìroi tempi un
grande assalto dai
popoli di quelle
regio- ni, e dalla a|K>stQSÌa
dei propri! figli.
Quel panslavismo sembra
desU- iiaio a chiudere
l’era de! socialismo
oustraie a 389 CAPO Vili.
Timori, speranze, rimedi»
contro l'invasione delle
dollrine socialistiche. Vuoisi una
buona vagliatura delle
idee, dei desiderii,
delle speranze fal-
laci, esuberanti, indefinite. La
verità e l'aulorità hanno
Padesiune della maggioranza,
ma sono mal
conosciute. 11 clero
cattolico fa quella
va- gliatura per ufiìzioi
ma fra [>opoli
colti la scienza
c la dimostrazione ò
necessaria. Parte dei
laici. La filosofìa dee
essere ricondotta al suo stato normale, da
cui si diparti
negando o trascurando l'ontologia
cristiana c la scienza
della società universale
degli spirili. In Italia bisogna
far conoscere le
prodazioni della scienza
straniera, dei paesi
cioè in cui
la controversia è vivace.
Bisogna svelare il
fondo dei sistemi
socialistici; formolare con
precisione i problemi; porre
in lume i principU
assoluti; questi non
impediscono le lempcrazioni
pratiche. Si fa
al contrario. Ksempio
nella quislione capitalissima
delle relazioni fra
Chiesa c Stalo. Questa
in assoluto non è
quistione di libertà,
ma di autorità.
Il princi- pio di
libertà non basta
a spiegare P ordine morale.
Teorie del sig.
A. Itosmini nel
suo libro Della
CostUusione. Il problema
religioso vi é
mal furmoialo. 1!
progetto di costituzione
rosminiana non guarentirebbe
alla Chiesa nemmeno
libertà; include P indifTercntisino politico;
toglie alP ordine
civile la base
morale. Necessità della
prufessiono religiosa dello
Stato. Il problema
polìtico intorno al
diritto c alla ginstizia
so- ciale vi è del
pari inesallamenlc formolato. Nel criticare
le costituzioni galliche
Rosmini non ne
taccia i vizii principali.
Quale sia la
quistiono politica odierna;
come sia formolaia
dai socialisti, come
da I.amcnnois. Le
emende proposte da SERBATI (si veda) alle
costituzioni da lui
criticate sono vane,
o ìnsuilicicnii a far argine
al socialismo e comuniSmo.
É inutile adulare c contrastare
a metà le ideo
di moda, se
non si risolve
il tema del
socialismo. Esso nega
Dio e le due
leggi provvidenziali per
cui Puoiiio è governato
dalPiiomo, c il diritto
sulle cose materiali
è divìso fra gli
iiuniìiii. 1 dominarli italiani
c francesi sì runtentano
di massime generiche, di
idee dimezzate, senza
analisi e spplicazìouc. Gli
amcricomniii italiani, e gli anglomani
francesi, non cono^ono
i tipi stranieri clic
vogliono imitare. 1 cattolici
idealisti e razionalisti non
comprendono che guastano
e snaturano il crisiianesitiio colle
misture eterodosse, vece
di farne l'apologià.
Quali aieno dunque
le ire vagliature,
or necessarie, delle doUrtne
e delle voglie del
secolo pug. j4ncora alcune
ottervatìoni ost- zione
generale appoggiata con
prove e dorumenli irrerragabili. Lnngi
dall* a- vere
esagerato bisogna anzi
dire che non
ha approfittato di
tutti i suoi vantag-
gi, perchè ha fottcr soltanto una
scelta di tante
prove, che erano
a sua disposi- zione ( A.
Riccordt. ;lfanuale d'
ugni letteralurOf Milano),
Gl’addetti alle società
segrete predicano alle
genti il Barruel
per un bu-
giardaccio, impostore, sognatore
e parabolano ma credono
in famiglia che
niu- no meglio
di lui abbia
svolto le dottrine,
le finezze e gli
intendimenti di Weis-
sbaupi Germogli dell’ illuminismo
di Weisshaupt sono
tutte le odierne
società segrete, cd
hanno il incde;simo
intendimento che si
propose cotesto o-
dioso e sfìdato nemico
di Dio, dei
Re e di tutta l’umana
società. ( 3ìemori$ di
LionellOf nella Cii’titd
Cattolica). Un grido
d’ indegnazione accolse queste
memorie che avrebbero
potalo minacciare la
sorte di molli
intriganti ivi oominali
e l'esito delle loro
consor- terie ; ma niuno
sì tolse a provare
che fossero calunniose,
sebbene si trovassero aliissimi personaggi
menzionali come fautori
0 come membri delle
sette occulte colà
istoriale. 1 falli provano
la verità delle
dottrine 0 delle tendenze
altribuile all’ illuminismo.
Se Weissbaupt non
le avesse professale,
converreb- be dire che
il Barruel avesse
mutato il nome
del settario 0 nc
fosse stato egli r
inventore ; certo è che
dopo l’apparizione dell’illuminismo ic
società se- grete rivoluzionarie non
ebbero altro codice,
altra niosutìa, altro
sistema di governo da
quello già da
più di cinquant'anni
loro attribuito in
tali àicmorie, il
loro liogaaggio, le
loro opere, il
loro scopo suno
sostanzialmente idcntUi an-
che ai di d’ oggi
( Saggio intorno al
socialismo, Torino). VIAGGIO d'lN
GENTIUOMO IRLANDESE IN
CERCA d’I’NA RELIGIO.NE,
OPERA DI TOMMASO MOORE. Quest’ opera ha
fatto in Inghilterra
il più grande
incontro. Moore combatte
il protestantismo nelle
sue basi, e più
di venti opuscoli
gli furon scritti
contro. Quest’ opera,
come dice l’autore, offro
un programma completo
del protestantismo, e vi
si vedono messi
in mostra a lato
dogli errori dogmatici
i vizi c gli
scandali dei riformaiori.Essa contribuì
a condurre alla fede
parecchi dei nostri
traviati fratelli; c cièche
prova il suo
gran merito è la
debolezza delle risposte
che invano si
tentò di opporle
(Conseils pour former
une bibliothègue }. LKTTKHF, SH-L
ITALI V CONSIUEIIATA SOTTO IL RAPPORTO DELLA
RELIGIONE, OPERA DI
PIETRO DE JOUX.
Icitrrp S4 iiue
Jn un nrotrsontf
ronvoriilu, tendono ,i
i dei prolrsianli
ed n diicndere la
nostra Rde. Meritano
d'essi^r pu' siecui
Tra/Icnimcrifi dt ÀlarAcc,
foli* £cct7/en2a ddOi
re/i^tone di Milner»
folle Lcltere di
Cobbett c fo^Ii altri
senili rhc vider
ta luce in
questi tempi e rivelano
tnUa la (ìevole/za
del nroleslantismn. Alle
savie disrirssinni die
quesl* opera rarehiude
c che produssero c produrranno
i più grandi elTeUi
nei proteslanii c in
tulli quelli che
le leggeranno, I* Aulure
ha rrapi>usic abilinen-
le delle descrizioni
inicressanii che ne
Yendunu aggradevole la
Icllura c tic formano
nn opera convenevole
a darsi per premio
alla gioventù studiosa
( Cori* Sfi/J pour
formcr «n« bibliothèquc
). Sl'L PRINCIPIO GENERATORE DELLE COSTITIZIOM POLITICHE E DELLE ALTRE
IMANE ISTITLZIOM, SAGGIO
DEL CONTE GITSEPPE DE
MAISTRE. Il Saggio
sul principi» ^cncraiore
doHc Coslilusiuni po/t(icitc,
è una di quelle
opero fon cui
il de Maistre
impresse il suggello
della immorlalilA alla
riputazione che già
crasi acquistala grandissima
colle sne Considcmsioni
sulla Francia. Nel Saggio
es^itiiina i) fomianieiiio
della scienza, c rovescia
dal fondo l'ediGzio
di quelle cflìnicre
legislazioni, che da un
mezzo secolo si
succedono e scompariscono r.
Tpidamcnlc. Vi approfondisce qnistioni molto importanti nell'ordine sociale c
le sue considerazioni si collegano agl’oggetti] MÙ gravi della religione c
della società. ( A. iliccurJi. Manuale d’ogni letteratura.Aii7aao /A'ò/, Rrescianì parlando
del De Maistre lo chiama uomo, non so se più acuto
poltlico o profondo filosofo t o cristiano
eminente. La Francia dà quasi
ogni momento altcstaU dell’ammirazione che
pròfessa pel grande
ingegno che illustra la Savoia il
conte Deinaistre, il Platone
dell’Alpi, come lo
chiama Lainartine, nell’Histoire
de la itestavration. Noi leggiamo nel A/idt, giornale che si stampa a Tolosa, che
l’Accademia dei Jeux-Florau:c decreto un premio d'eloquenza all’autore del
miglior elogio del
fonte IVemaistrc, uno
de'più grandi- *ìrui-
lo annunzia che
il concorso e
ben ragguardevole (Dall'
Armonia, il Vaggio
f53i ), Il Conte
De Maislrc e Invialo
del re Vittorio
Eromanuelc 1 alla Corte
di llnshia, e in
tempi infelici in
cui la carica
era atto di
singolare devozione, da
)mihi ambita. Il
Conte Do Maistre
è forse il primo fra i
savi dell’età presente
e i? solo vero filosofo, senza
che altri possa
o%erlo a male. ( Conte Soìaro della Margarita, nel
Memorandum, Torino ISiif. SAGGIO INTORNO
AL SOCIALISMO E ALLE DOTTRINE E TENDENZE SOCIALISTICHE. Il
saggio intorno al socialismo è un libro profondo che merita di
essere oticntamcntc letto
c studiato, ma ciò
non si farà imichò adesso
i diziu> Ilari, i giornali, e i compendi bastano a far gl’uomini eruditi e sapienti (Conte Solaro della
Margarita, nel Memorandum,
Torino). Emiliano Avogadro, conte Della Motta. Il conte Emiliano
Avogadro. Emiliano Avogadro Collobiano e Della Motta. Il Conte Emiliano
Avogadro della Motta. Conte Emiliino Avogadro della Motta. Avogadro di
Vigliano, Motta. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Motta”
– The Swimming-Pool Library.
Grice e Motterlini: l’implicatura
conversazionale e la critica della ragione economica – il principio d’economia
dello sforzo razionale – filosofia lombarda -- filosofia italiana -- Luigi
Speranza (Milano). Filosofo
italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I like Motterlini – he has written, echoing Kant, a critique of
economic reason, which Stalnaker should read before saying I’m Kantian rather
than Futilitarian!” Specializzato in filosofia della scienza, economia
comportamentale e neuro-economia, e noto per i suoi saggi in ambito psico-economico
su processi decisionali, emozioni e razionalità umana e per le sue ricerche in
ambito epistemologico sulla razionalità della scienza e il metodo scientifico.
Insegna a Milanodove. Consigliere per le Scienze Sociali e Comportamentali
della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Si laurea a Milano, dove porta a
termine il proprio dottorato in filosofia della scienza. Ricercatore di
economia politica e professore associato di filosofia della scienza presso
l'Trento; Visiting Associate Professor al Department of Social and Decision
Sciences della Carnegie Mellon di Pittsburgh, Visiting Research Scholar al
Department of Psychology della UCLA. Professore di filosofia della scienza
presso l'Università Vita-Salute San Raffaele. Tra gli altri incarichi è
collaboratore de Il Corriere Economia, Il Corriere della Sera e Il Sole 24 Ore,
per cui ha curato per anni il blog Controvento. È stato consulente scientifico
di Milan Lab, A.C. Milan, fondatore e direttore di Anima FinLab, di Anima Sgr,
centro di ricerca di finanza comportamentale e Scientific advisor di
MarketPsychData, Ls Angeles. È direttore del CRESA (Centro di ricerca in
epistemologia sperimentale e applicata), da lui fondato a Milano presso la
facoltà di filosofia dell'Università Vita-Salute San Raffaele. I progetti di
ricerca del centro si concentrano su vari aspetti della cognizione umana, dal
linguaggio al rapporto tra mente e cervello, dall'economia comportamentale alle
neuroscienze cognitive della decisione, con particolare attenzione all'indagine
sperimentale multidisciplinare e alle sue ricadute pratiche e applicative (per
esempio nell'ambito del policy making e dell'evidence-based policy). A
inizio, ha avviato il progetto di finanza comportamentale per Schroder Italia,
dal quale è nato Investimente, un test psicofinanziario al servizio di
risparmiatori, promotori finanziari e private banker, per raccogliere e quindi
analizzare i dati riguardanti le decisioni di investimento e i bias cognitivi
nell'ambito della gestione del risparmio. Attualmente è direttore
dell'E.ON Customer Behavior Lab e Chief Behavior Officer di E.ON Italia; stesso
incarico che ricopre per il Gruppo Ospedaliero San Donato. Analizza la proposta
falsificazionista, rivelando le difficoltà in cui si imbatte il progetto de-marcazionista
e anti-induttivista. Affrontano quindi il modo in cui si ha preteso superare
alcune di queste difficoltà, e insieme raccogliere la sfida di Duhem circa il
carattere olistico del controllo empirico, tenendo conto delle immagini che il
filosofo ha della sua stessa pratica e riferendosi a particolari casi storici
come termine di confronto. Sull'orlo della scienza e in edizione ampliata. Nel
suo “Filosofia e storia” avanza una interpretazione del progetto razionalista come
il prodotto di una peculiare combinazione delle idee di Platone e Hegel. Ciò è
motivo della straordinaria fecondità di Platone, ma anche di una inesauribile
tensione al suo interno. Una tensione che viene illustrata affrontando la
relazione tra filosofia e storia della filosofia (unita longitudinale) in
riferimento alla questione della valutazione di una data metodologia in base
alle 'ricostruzioni razionali' o construzioni logica a cui essa conduce.
Nell'idea che la metodologia filosofica va confrontate con la storia della
filosofia è contenuto il germe di una logica della scoperta in cui i canoni non
siano fissati una volta per sempre, ma mutano nel tempo, anche se con ritmi non
necessariamente uguali a quelli delle teorie filosofiche. Si focalizza su
questioni di metodologia dell'economia da una prospettiva interdisciplinare che
combina riflessione epistemologica, scienza cognitiva, ed economia sperimentale
con aspetti più tecnici di teoria della scelta e della decisione individuale in
condizioni d'incertezza. Le ricerche di questo periodo analizzano criticamente
lo status delle assunzioni della teoria della scelta razionale, valutando
l'impatto delle violazioni comportamentali sistematiche alle restrizioni
assiomatiche imposte dai modelli normativi di razionalità. Avanzano quindi
ragioni epistemologiche per la composizione della frattura economia e
psicologia cognitiva in ambito della teoria della decisione; e suggeriscono di
guardare ai recenti risultati dell'economia cognitiva in prospettiva di una
nuova sintesi 'quasi-razionale' in cui i modelli neoclassici, integrati da
teorie psicologiche che tengano conto dei limiti cognitivi dei soggetti
decisionali, rafforzano le previsioni del comportamento economico degli esseri
umani. Neuroeconomia e evidence-based policy Le sue ricerche indagano le
basi neurobiologiche della razionalità umana attraverso lo studio dei correlati
neurali dei processi decisionali in contesti economico-finanziari, con particolare
attenzione al ruolo svolto dalle emozioni, dal rimpianto, e dall'apprendimento
sociale. Parallelamente progetta ed esperimenta i modi in cui i risultati
dell'economia comportamentale e della neuroeconomia possono informare
politiche pubbliche più efficaci e basate sull'evidenza. Queste ricerche
sono oggetto dei corsi di Filosofia della scienza e di Economia cognitiva e
neuroeconomia che insegna all'università San Raffaele, e hanno altresì trovato
diffusione attraverso numerosi articoli divulgativi e due libri, Economia
emotiva e Trappole mentali. Il suo ultimo libro è Psicoeconomia di Charlie
Brown. Strategia per una società più felice. Saggi: “Sull'orlo della scienza,”
– Grice: “Must say that ‘orlo’ is a genial word, wish Popper knew it!” –Lakatos,
Feyerabend: Pro e contro il metodo, Cortina, Milano. Popper, Saggiatore-Flammarion, Milano, Lakatos.
Scienza, matematica e storia, Saggiatore, Milano, Decisioni mediche. Un
approccio cognitive, Cortina, Milano.
Critica della ragione economica. Tre saggi: McFadden, Kahneman, Smith,
Saggiatore, Milano, Economia cognitiva & sperimentale, Bocconi Editore,
Milano La dimensione cognitiva dell'errore in medicina, Fondazione Smith Kline,
Angeli, Milano Economia emotiva
(Emotional Economics), Rizzoli, Milano Trappole mentali, Rizzoli, Milano Mente,
Mercati, Decisioni. Introduzione all'economia cognitiva e sperimentale, Egea,
Milano Psico-economia di Charlie Brown.
Strategia per una società più felice, Rizzoli, Milano Alcuni articoli
scientifici, Lakatos between the Hegelian devil and the Popperian blue sea. In
Kampis, G., Kvasz, L., Stoeltzner, M. Considerazioni epistemologiche e
mitologiche sulla relazione tra psicologia ed economia, Sistemi intelligenti,
Il Mulino, Metodo e standard di valutazione in economia. Dall'apriorismo a
Friedman, Studi Economici, Milano. A fMRI Study, PlosONE', Vai in laboratorio e
capirai il mercato (con Francesco Guala) Prefazione a Vernon Smith, La
razionalità in economia. Tra teoria e analisi sperimentale, IBL, Milano.. Neuro-economia
e Teoria del prospetto, voci Enciclopedia dell'economia Garzanti, Milano. Investimente.
Test dell'investitore consapevole
Recensione di Hacking sulla The London Review of Books IlSole24Ore 22.5.//ilsole24ore. com/art/cultura/-05-18/motterlini-spinta-riforme--shtml?uuid=ADAaR2J
A Sito su matteo motterlini. CRESA, su cresa. I am strongly
inclined to assent to a principle which might be called a Principle of Economy
of Rational Effort. Such a principle would state that where there is a ratiocinative
procedure for arriving rationally at certain outcomes, a procedure which,
because it is ratiocinative, will involve an expenditure of time and energy,
then if there is a nonratiocinative, and so more economical procedure which is
likely, for the most part, to reach the same outcomes as the ratiocinative
procedure, then provided the stakes are not too high it will be rational to
employ the cheaper though somewhat less reliable non-ratiocinative procedure as
a substitute for ratiocination. I think this principle would meet with
Genitorial approval, in which case the Genitor would install it for use should
opportunity arise. On the assumption that it is cha~acteristic of reason to
operate on pre-rational states which reason confirms, revises, or even
(sometimes) eradicates, such opportunities will arise, provided the rational
creatures can, as we can, be trained to modify the relevant pre-rational states
or their exercise, so that without actual ratiocination the creatures
84 Paul Grice can be more or less reliably led by those
pre-rational states to the thoughts or actions which reason would endorse were
it invoked; with the result that the creatures can do, for the most part, what
reason requires without, in the particular case, the voice of reason being
heard. Motterlini. Keywords: critica della ragione economica, principle of
economy of rational effort, twice in Grice – in Reply, etc. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Motterlini” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Musatti: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’erote collettivo – filosofia fascista – filosofia del
ventennio – Gruppo universario fascista – filosofia veneta -- filosofia
italiana -- Luigi Speranza (Dolo).
Filosofo italiano.
Dolo, Venezia, Veneto. Grice: “Musatti reminds me of Malcolm, “Tonight I had a
dream,”” – Grice: “Musatti has explored the implicatures of ‘who’s afraid of
the big bad wolf?’, which comes strictly from Grimm – this is a rhetorical
question – and Grimm is implicating that nobody should!” -- Ccesare luigi eugenio
musatti. Tra i primi che posero le basi della
psicoanalisi, in Italia. Nato a Dolo, sulla riviera del Brenta, nella
Villa Musatti a del nonno paterno in cui i parenti erano soliti trascorrere la
villeggiatura. Figlio di Elia, ebreo veneziano e deputato socialista
amico di G. Matteotti, e della napoletana Emma Leanza, non fu né circonciso, né
battezzato -- durante le persecuzioni razziali si procura un falso certificato
di battesimo dalla parrocchia di Santa Maria in Transpontina di Roma -- e non
professa mai alcun credo religioso. Frequenta il liceo Foscarini di
Venezia, poi si iscrive dapprima alla facoltà di Scienze dell'Padova per il
corso di Ingegneria, e immediatamente dopo alla facoltà di Lettere e Filosofia,
dove si laurea in filosofia. Dopo la laurea, si iscrisse per due anni al corso
di Matematica della facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali di
Padova, ma non sostenne esame alcuno. A diciannove anni fu chiamato a Roma
per il servizio di leva. Dopo un periodo di addestramento a Torino, e mandato
al fronte come ufficiale, con impegni marginali. Finita la guerra tornò a
Padova per terminare gli studi. Sulla cattedra di Psicologia Sperimentale c'era
Vittorio Benussi, allora chiamato per chiara fama a insegnare a Padova
dall'Graz. Si laurea in filosofia e l'anno successivo divenne assistente
volontario del Laboratorio di psicologia sperimentale. Benussi si uccise con il
cianuro a causa di una grave forma di disturbo bipolare, lasciando tutto nelle
mani di M. e di Silvia De Marchi, anch'essa assistente volontaria, che poi
divenne sua moglie. Il suicidio di Benussi fu scoperto da Musatti, il quale
però lo nascose per paura di ripercussioni negative sulla psicologia italiana
in una situazione di fragilità e precarietà accademica, sottoposta a pressioni
da parte sia del regime fascista, con le sue istanze gentiliane, che della
Chiesa Cattolica. Negli anni ottanta M. rivelò che Benussi s'era suicidato, non
era morto a causa di un malore. Musatti divenne direttore del Laboratorio
di Psicologia dell'Padova. Porta in Italia la Psicologia della Forma con
importanti lavori di livello internazionale. Dopo aver diffuso in Italia la
psicologia della Gestalt, divenne il primo studioso italiano di
psicoanalisi. Studiando la psicologia della suggestione e dell'ipnosi,
introdotta in Italia da Benussi, approdò alla psicoanalisi, sulla quale tenne
il primo corso universitario italiano. Il corso si tenne presso a Padova. Divenne
allora uno dei primi e più importanti rappresentanti italiani della
psicoanalisi. Nell'Italia le teorie di Freud non erano state accolte bene né
dalle Università, né dalla Chiesa cattolica, a causa dell'ideologia culturale
gentiliana assunta dal fascismo. La Società psicoanalitica italiana venne
limitata anche dalle leggi razziali fasciste che colpirono i membri ebrei della
società. Benché non fosse ebreo (poiché figlio di madre cattolica), e
allontanato dall'insegnamento a Urbino e declassato ad insegnante di liceo. Nominato
professore di Filosofia al Liceo Parini di Milano. Si ritrova con L. Basso, Ferrazzutto e altri vecchi socialisti
con l'intento di creare un partito erede del Partito Socialista Italiano; ebbe
l'incarico di trovare denaro per una prima organizzazione e di allacciare
rapporti col Partito Comunista clandestino. Musatti lavorò anche durante la
guerra. Nel periodo dell'occupazione nazista, fu tratto in salvo dall'avvocato
Paolo Toffanin, fratello di Giuseppe Toffanin, che lo aiutò a trasferirsi a
Ivrea, ospite dell'amico Adriano Olivetti. Con il suo sostegno fondò un centro
di psicologia del lavoro. Ricoprì anche l'incarico di direttore della Scuola
Allievi Meccanici, scuola aperta per formare operai meccanici specializzati.
Successivamente fu richiamato dall'Esercito per andare sul fronte
francese. Ottenne all'Università degli Studi di Milano la prima cattedra
di Psicologia costituita nel dopoguerra in Italia, presso la Facoltà di Lettere
e Filosofia. Vi insegnò per venti anni. A Milano ebbe il periodo più florido
della sua ricerca scientifica: gli studenti affollavano le sue lezioni. M. fu
il leader del movimento psicoanalitico italiano nei primi anni del dopoguerra.
A quel periodo risale il suo “Trattato di Psicoanalisi”, pubblicato da Einaudi.
Divenne direttore della “Rivista di psicoanalisi”. Presidente del Centro
Milanese di Psicoanalisi fondato da Franco Ciprandi, Renato Sigurtà e Pietro
Veltri, che gli verrà intitolato dopo la sua morte. Nel 1976 è diventato
curatore della edizione italiana delle Opere di Sigmund Freud, della Casa
Editrice Bollati Boringhieri di Torino. Vecchiaia La località a lui
dedicata Musatti scrisse anche libri di letteratura, tra cui Il pronipote di
Giulio Cesare, che gli fece vincere il Premio Viareggio. Fu eletto per due
volte consigliere comunale di Milano nella lista del PSIUP e fu anche
consulente del Tribunale dei Minori del capoluogo lombardo. Sostenne sempre la
pace, il progresso dei lavoratori, l'emancipazione femminile ed i diritti
civili. M. era ateo, come ebbe a dichiarare in più occasioni, l'ultima
delle quali in uno dei martedì filosofici del Casinò di Sanremo. Muore nella
sua abitazione di via Sabbatini a Milano. L'indomani dopo una cerimonia laica
di commiato celebrata in forma strettamente privata, la sua salma e cremata a Lambrate. Le sue ceneri sono
tumulate, secondo le sue ultime volontà, nel cimitero comunale di Brinzio, località
in cui era solito trascorrere i periodi di vacanza. Il suo archivio è
conservato presso l'Aspi Archivio Storico della Psicologia Italiana
dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca. Il comune di Dolo ha
ribattezzato la sua località natale Casello 12 località M. e gli ha intitolato
il locale istituto professionale. Musatti e il suicidio di Benussi Anche
dopo la rivelazione che si era trattato di un suicidio, non parla mai
volentieri della morte del maestro. Nel generale silenzio dello studioso di
Dolo emerge un'intervista. Nell'intervista M. confessa di sognare a volte che
in una caserma dei carabinieri in cui viene tradotto, il commissario lo
interroga sulla morte di tre sue mogli (si sposò quattro volte), decedute
tragicamente, e di Vittorio Benussi. A fine colloquio il militare lo intima di
confessare di aver ucciso il maestro per prendere la cattedra di psicologia.
«Io gli rispondoprosegue Musatti, da buon psicoanalistache sicuramente nel mio
subconscio mi sono sentito responsabile per questa e per altre morti. Il
commissario, che non capiva nulla di subconscio, decide: “Mi spiace professore,
ma devo arrestarla”. Io allora gli rispondo: ”Non è possibile commissario,
perché si tratta di delitti commessi più di cinquant'anni fa, e quindi sono
prescritti!”». ‘Cesare’ è un riferimento al pro-zio M., medico pediatra,
uno che aveva visitato il piccolo, nato settimino. ‘Luigi’ e il nome del bonno
materno (L. Leanza, morto in carcere, partecipa alla rivolta anti-borbonica); ‘Eugenio’
e il nome di un altro pro-zio paterno, lo storico Eugenio Musatti; cfr. Musatti
IX-XIII. Forse la psicoanalisi è nata e morta con lui. Il nome allude alla
fermata della tranvia Padova-Malcontenta-Fusina che il nonno, presidente della
Società Veneta Lagunare, odierna ACTV, aveva fatto aprire per raggiungere più
agevolmente Venezia. Musatti IX-XIII. Archivio dell'Università degli Studi di
Padova, Carriere scolastiche della Facoltà di Lettere e filosofia, Padova,
Carriere scolastiche della Facoltà di scienze matematiche, fisiche e naturali,
Opuscolo del Centro Milanese di Psicoanalisi, a cura del Comitato Direttivo,
redatto da L. Ambrosiano Capazzi Gammaro Moroni, Reatto, Schwartz, M. Sforza, Stufflesser,
Milano Per una storia del Centro
Milanese di Psicoanalisi Chiari, Seminario presso il Centro Milanese di
Psicoanalisi Cesare Musatti, Milano Freud,
Opere (Torino, Boringhieri); S. Giacomoni, Cerimonia privata per M., la
Repubblica, è consultabile sul
dell'Aspi, all'indirizzo web AspiArchivio storico della psicologia
italiana, Università degli studi di Milano-Bicocca. D. Mont D'Arpizio, Vittorio
Benussi, Padre della psicologia padovana, in La Difesa del popolo, Mille anni
di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di Storia della
Scienza di Firenze, Mia sorella gemella
la psicoanalisi, 1Pordenone, Edizioni Studio Tesi,Luciano Mecacci, M. voce
dell'Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti. Il contributo italiano
alla storia del pensiero. Ottava appendice, Roma, Istituto della Enciclopedia
Italiana. Saggi: “Analisi del concetto di realtà empirica” (Solco, Città di
Castello); “Forma e assimilazione,” in: Archivio italiano di psicologia,
“Elementi di psicologia della testimonianza” (Rizzoli, Forma e movimento” (Ferrari,
Venezia, da: Atti del Reale Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, Gl’elementi
della psicologia della forma, Gruppo Universitario Fascista, Padova, Trattato
di psico-analisi (Boringhieri, Torino); Super io individuale e Super io
collettivo (Olschki, Firenze); Condizioni dell'esperienza e fondazione della
psicologia” (Universitaria, Firenze, Riflessioni sul pensiero psicoanalitico e
incursioni nel mondo delle immagini (Boringhieri, Torino); Svevo e la
psicoanalisi (Olschki, Firenze); I rapporti personali Freud-Jung attraverso il
carteggio, Olschki, Firenze, Commemorazione accademica, Olschki, Firenze Nino
Valeri, Olschki Firenze, Il pronipote di Giulio Cesare, Mondadori Milano A
ciascuno la sua morte (Olschki, Firenze); Hanno cancellato Livorno (Olschki,
Firenze); Mia sorella gemella la psicoanalisi (Riuniti, Roma). Una famiglia
diversa ed un analista di campagna, Olschki, Firenze, Questa notte ho fatto un sogno, Riuniti, Roma,
Chi ha paura del lupo cattivo?, Riuniti, Roma, Psicoanalisti e pazienti a
teatro, a teatro (Mondadori, Milano); Leggere Freud, Bollati Boringhieri,
Torino, Curar nevrotici con la propria auto-analisi, Mondadori, Milano:
Geometrie non-euclidee e problema della conoscenza, Aurelio Molaro, prefazione
di Mauro Antonelli, Mimesis, Milano,Treccani Enciclopedie oIstituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. siusa.archivi.beniculturali, italiana di Cesare
Musatti, su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com. Cesare
L. Musatti. Cesare Musatti. Musatti. Keywords: erote, Gruppo Universitario
fascista, il collettivo di Jung, l’ego e il noi collettivo Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Musatti” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Musonio: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del Musonio di Gentile
-- Roma – filosofia lazia – lingua lazia -- filosofia italiana – Luigi
Speranza. (Bolsena).
Filosofo italiano. Bolsena, Viterbo, Lazio. Esercita un forte influsso sui
contemporanei. Di famiglia equestre dell’etrusca Volsini (Bolsena) suscita
per la sua fama di filosofo l’invidia di Nerone. Segue Rubellio
Plauto nell'Asia Minore e lo incoraggia a togliersi la vita quando Nerone lo
condanna a morte. Ritorna a Roma, dove e bandito insieme
con Cornuto in occasione della congiura di Pisone e
confinato nell’isola di Gyaros nelle Cicladi, ove per la sua rinomanza attira
uditori da ogni parte.Verosimilmente richiamato a Roma da GALBA, negli
ultimi giorni di Vitellio si une ad una ambasceria del Senato presso Antonio
Primo per perorare la causa della pace fra i suoi soldati, ma senza
successo.Quando Vespasiano assunse il potere, M. accusa davanti al Senato P.
Egnazio Celere, quale delatore e falso testimonio nel processo di Borea Sorano.
Vespasiano lo escluse dalla prima espulsione dei filosofi da Roma (71), ma poi
lo esiliò per la seconda volta ; però Tito, che già lo aveva conosciuto,
lo richiamò dopo la sua assunzione al trono. In seguito mancano notizie su di
lui, ma da una lettera di Plinio il Giovane sembra che non fosse più in vita.
Non risulta che abbia composto e pubblicato scritti, anzi sembra che si sia
servito soltanto dell’insegnamento orale, del quale, però, rimangono frammenti
abbastanza numerosi. Essi comprendono 19 brevi apoftegmi conservati da
Plutarco, da Aulo Gellio e dallo Stobeo ; altri apoftegmi e trattazioni
filosofiche relativamente ampie raccolti da Epitteto nel suo insegnamento-È e
trasmessi i primi da Arriano, le seconde dallo Stobeo ; esposizioni o lezioni
che si trovano nello Stobeo o costituiscono la parte più estesa dei frammenti.
È verosimile che provengano da uno scritto di quel Lucio che si è già ricordato
e che si deve ritenere la fonte più importante dello Stobeo. Un’altra è
Epitteto, cioè Arriano. Sembra che un Pollione (probabilmente Valerio Pollione
da Alessandria, vissuto sotto Adriano) compone Memorabili di Musonio, ma non ne
restano tracce. È giudicata falsa una lettera di Musonio a un certo Paneratide.
Le concordanze che si sono osservate tra i frammenti di M, e il Pedagogo di
Clemente di Alessandria hanno fatto pensare o alla dipendenza di questo da uno
scritto di Lucio o alla derivazione di ambedue da una fonte più antica. Della
forte azione di Musonio sui contemporanei sono prova i suoi numerosi scolari,
tra i quali si ricordano (oltre al genero Artemidoro, amico e maestro di Plinio
il Giovane), i filosofi Epitteto, Dione di Prusa, Eufrate di Tiro e il suo
scolaro Timocerate di Eraclea, e insigni romani, come Plauto, Sorano e Minicio
Fundano. M. si avvicina ai cinici nell’assegnare alla filosofia finalità
radicalmente etico-pratiche, accetta spunti dell’ascetismo dei crotonesi. Ma
nel complesso dipende dal Portico con influssi posidoniani. Nel sno
insegnamento non trascura le esercitazioni logiche e i frammenti toccano
argomenti di fisica, ma ciò che vi è detto degli dei, designati con le
denominazioni della religione tradizionale, non supera la sfera del pensiero
comune e non ha carattere filosofico determinato. Invece riporta al Portico
l'affermazione della necessità universale, che equivale alla teoria del fato.
Però l'interesse di M. si concentra sulla funzione pratica della filosofia, che
è assolutamente necessaria in quanto (secondo la tesi introdotta dai filosofi
dai Cinargo) gli uomini sono malati che richiedono una cura continua la quale
dev'essere prestata dalla filosofia, che perciò è necessaria a tutti, alle
donne non meno che agli uomini. La filosofia però è identificata alla ricerca e
alla realizzazione della virtù, per conseguire la quale non vi è necessità di
molti discorsi, nè di molte teorie. Inoltre, in essa l'esercizio ha maggiore
importanza dell’insegnamento o del discorso. Siccome la natura ha posto in ogni
uomo i germi della virtù, se il discepolo non è stato corrotto, una breve
dimostrazione è sufficiente per fargli riconoscere i principi etici
giusti. Ciò che soprattutto importa è che maestro e discepolo uniformino
la loro condotta ai propri principi. Si comprende che M. si interessasse in
primo luogo della formazione etica degli scolari. Nell’insieme, la morale
di M. si conforma alle dottrine tradizionali del Portico. Occorre distinguere
ciò che è e ciò che non è in nostro potere. Ora da noi dipende soltanto l’uso
delle rappresentazioni, cioè l'assenso dato alle opinioni sul bene e sul male,
dalle quali è determinata la giusta valutazione delle cose e quindi
l'intenzione quale atteggiamento interiore della volontà. In la volonta, se è
retta, consiste la libertà, la virtù, la felicità. Tutto il resto non dipende
da noi e perciò rispetto ad esso, ossia alle cose esterne, dobbiamo rimetterci
all’ordine necessario dell'universo e aecettare volentieri ciò che arreca.
Soltanto la virtù è bene, soltanto la malvagità è male e ogni altra cosa è
indifferente. Però, per rafforzare la volontà, M. ritene necessario, oltre
l'insegnamento e l’esercizio morale, anche l’indurimento fisico, perchè,
essendo il corpo uno strumento indispensabile dell’anima, occorre rafforzare
ambedue. In generale raccoman, avvicinandosi ai filosofi del Cinargo, la vita
semplice e conforme alla natura e accoglie dai crotonesi, il divieto dei
cibi carnei. Oltrepassando le opinioni di molti antichi filosofi del portico,
esige una vita morale severissima, raccomanda il matrimonio, condanna la
limitazione delle nascite e l’esposizione dei figli. Nell'insieme, i frammenti
di Musonio rivelano un’anima nobile e retta, appassionata per il bene e guidata
dal desiderio di educare gli spiriti, ma a queste doti non corrisponde il
valore scientifico degli insegnamenti, perchè i suoi pensieri sono molto
mediocri e privi di originalità. Inoltre non si può trovare nelle sue parole
l’espressione di una visione della vita vibrante di dolore e di amore simile a
quella di Seneca. Gaio Musonio Rufo. M. (Volsinii) è un filosofo
romano. Frammento di papiro (P. Harr.Col.), con parte di una
diatribe. Sulla vita di Gaio Musonio Rufo, stoico, si posseggono poche notizie
certe. È noto che nacque a Volsinii, corrispondente all'odierna Bolsena, in
Etruria, che fu cavaliere. Il ‘prae-nomen’ Gaio lo conosciamo solo attraverso
Plinio il minore che ci fornisce anche un’altra notizia su una sua figlia
(presumibilmente chiamata Musonia, secondo l’uso romano), sposata ad
Artemidoro, al quale Plinio presta aiuto anche per stima e affetto nei
confronti del suocero. Sappiamo dalla voce “Mousonios” della Suda che Musonio e
figlio di Capitone ma non abbiamo altre notizie sulla sua famiglia, che era
comunque di origine etrusca. In effetti, il nomen “Musonius” denotare la gens,
e viene indicato da alcuni studiosi della lingua etrusca come forma latina di
un gentilizio etrusco “Musu,” “Muśu-nia.”. E capo a Roma di un circolo o
gregge filosofico e si dedica anche alla politica, con idee abbastanza
tradizionali e moderate. Fa parte del gruppo creatosi intorno a Rubellio
Plauto, un discendente della famiglia Giulia. Quando Rubellio Plauto e allontanato
da Roma in via precauzionale da Nerone, M. lo segue in Asia. Due anni dopo giunge
l'ordine del principe di eliminare Rubellio Plauto. Musonio ritorna a Roma, ma,
in concomitanza della congiura di Pisone,
e mandato in esilio, in quanto allievo di Seneca, nell'isola di Gyaros,
inospitale e rocciosa nel Mar Egeo. Indicativi della sua integrità morale
e della sua coerenza sono altri due momenti della sua vita, entrambi riportati
da Tacito nelle Storie. Dopo essere ritornato dall’esilio, forse grazie a
GALBA, con il quale sembra fosse in amicizia, nella fase finale della guerra
civile seguita alla morte di Nerone, Musonio si rese protagonista di un primo
episodio significativo, rivelatore della sua generosa attitudine a mettere in
pratica i principi morali e gli ideali di pace che insegna. In una Roma che era
teatro di violenti scontri tra le fazioni avverse, il filosofo di Volsinii si
impegna a svolgere un’improbabile opera di pacificazione. “S’era mescolato agli
ambasciatori M., di ordine equestre, zelante filosofo e seguace dei precetti
dello stoicismo, ed in mezzo ai manipoli prendeva ad ammonire gli uomini armati
con le sue disquisizioni sui beni della pace e sui mali casi della guerra. Ciò
fu per molti motivo di scherno; per la maggioranza, di fastidio. E non mancava
chi l’avrebbe spinto via o l’avrebbe calpestato, se, dietro consiglio dei più
equilibrati e fra le minacce di altri, non avesse deposto la sua inopportuna
esposizione di saggezza.” Il secondo episodio, ci presenta Musonio Rufo
impegnato nella riabilitazione della memoria dell’amico Barea Sorano, che era
stato sottoposto a processo e condannato a morte insieme alla figlia Servilia e
a Trasea. Contro di lui era stata resa una falsa testimonianza da parte del suo
stesso maestro, Publio Egnazio Celere, anche lui appartenente alla corrente
stoica. Musonio, che pure nei suoi insegnamenti si dichiarava contrario ad
intentare cause per difendere se stesso dalle offese ricevute, in questo caso
non esita ad accusare in Senato il traditore per difendere la memoria
dell’amico condannato ingiustamente. Come scrive Tacito: “Allora Musonio Rufo
attacca Publio Celere, accusandolo di aver attaccato Sorano con una falsa
testimonianza. Evidentemente con quell’accusa si rinnovavano gli odii delle
delazioni. Ma l’accusato, vile e colpevole, non poteva essere difeso. Di Sorano
e santa la memoria. Celere, che fa professione di sapienza, testimoniando
contro Barea, ha tradito e violato l’amicizia.” Musonio porta avanti con
tenacia il suo impegno, che e coronato da successo. “Fu deciso allora di ri-aprire
il processo tra M. e Publio Celere: Publio venne condannato ed ai mani di
Sorano e resa soddisfazione. Quel giorno, che si distinse per la severità dei
magistrati, non manca nemmeno di elogi ad un cittadino privato. Si era,
infatti, del parere che Musonio avesse agito con giustizia in tribunale.
Opinione ben diversa si ha di Demetrio, seguace della scuola cinica, in quanto
aveva difeso, più per ambizione che con onore, un reo manifesto. Quanto a
Publio, non ebbe né animo, né eloquenza sufficienti in quel frangente.»
Più tardi M. riusce a guadagnarsi la stima di Vespasiano evitando la cacciata
dei filosofi. Ci e però un secondo esilio e, dopo il suo rientro a Roma, voluto
da TITO, le fonti tacciono. Potrebbe essere stato espulso da Roma, assieme agli
altri filosofi, a causa di un senatoconsulto sollecitato da Domiziano, che fa uccidere
Aruleno Rustico e cacciare Epitteto e altri. Da un'epistola di Plinio minore si
apprende che egli non era più in vita. Si proclama suo discendente il
poeta Postumio Rufio Festo Avienio. Probabilmente in modo volontario,
sull'esempio di Socrate o Grice e come fa anche il discepolo Epitteto, non
lascia nulla di scritto. I principi della sua predicazione filosofica si
ricavano da una raccolta di diatribe dovuta a un discepolo di nome Lucio, di
cui 21 ampi estratti sono conservati nell'Antologia di Stobeo. Essi sono
intitolati: “Che non è necessario fornire molte prove per un problema” “Su chi
nasce con un'inclinazione verso la virtù” “Che anche le donne dovrebbero
studiare filosofia” “Se le figlie debbano ricevere la stessa educazione dei
figli maschi” “Se è più efficace la teoria o la pratica” “Sul praticare la
filosofia” “Che si dovrebbero disprezzare le difficoltà” “Che anche un principe
deve studiare filosofia” “Che l'esilio non è un male” “Il filosofo perseguirà
qualcuno per lesioni personali?” “Quali mezzi di sostentamento sono appropriati
per un filosofo?” “Sull'indulgenza sessuale” “Qual è il fine principale del
matrimonio” “Il matrimonio è un ostacolo per la ricerca della filosofia?” “Ogni
bambino che nasce dovrebbe essere allevato?” “Bisogna obbedire ai propri
genitori in tutte le circostanze?” “Qual è il miglior viatico per la vecchiaia?”
“Sul cibo” “Su vestiti e riparo” “Sugli arredi” “Sul taglio dei capelli”. Lo
stile delle diatribe è semplice. In genere viene posta una questione iniziale,
poi sviluppata con chiarezza durante il testo, spesso costruito in modo
figurato, usando metafore e similitudini (spesso sfrutta il paragone con il
medico, alcune volte intervengono immagini di animali). Questa caratteristica
si adatta bene alla sua personalità e al suo tipo di insegnamento, tutto
rivolto alla schiettezza della vita. Ci restano, inoltre, frammenti
minori, spesso in forma di apoftegma. A parte quelli sempre di Stobeo (in
numero di 14), due frammenti conservati da Plutarco sono brevi aneddoti che
potrebbero essere definiti come "detti celebri", mentre tre brani di
Aulo Gellio conservano detti memorabili ed un quarto è lungo abbastanza da rappresentare
la sintesi di un intero discorso. C'è, poi, un aneddoto in Elio Aristide ed
Epitteto ne racconta una mezza dozzina (11, per la precisione). Restano,
inoltre, due epistole, concordemente ritenute spurie. M. rappresenta, con
Epitteto, Antonino e Seneca, uno dei quattro esponenti più significativi del portico
romano del principato. Egli, se per certi versi corrisponde appieno alle
istanze propugnate dalla temperie spirituale del suo tempo, per altri si
distingue e mette in luce, soprattutto per il recupero radicale e profondo di
una filosofia intesa come arte del vivere bene e onestamente, cioè mezzo per
conseguire uno scopo riscontrabile nei fatti. Il ruolo della filosofia
Egli crede che la filosofia (stoica) fosse la cosa più utile, in quanto ci
persuade che né la vita, né la ricchezza, né il piacere sono un bene, e che né
la morte, né la povertà, né il dolore sono un male; quindi questi ultimi non
sono da temere. La virtù è l'unico bene, perché da sola ci impedisce di
commettere errori nella vita. Del resto, sembra che solo il filosofo si occupi
di studio della virtù. La persona che afferma di studiare filosofia deve
praticarla più diligentemente di chi studia medicina o qualche altra attività,
perché la filosofia è più importante e più difficile da comprendere di
qualsiasi altra occupazione. Questo perché, a differenza di altre abilità, le
persone che studiano filosofia sono state corrotte nella loro anima da vizi e
abitudini sconsiderate, imparando cose contrarie a ciò che impareranno in filosofia.
Ma il filosofo non studia la virtù soltanto come conoscenza teorica. Piuttosto,
M. insiste sul fatto che la pratica è più importante della teoria, poiché la
pratica ci porta all’azione in modo più efficace della teoria. Sostene che
sebbene tutti siano naturalmente disposti a vivere senza errori e abbiano la
capacità di essere virtuosi, non ci si può aspettare che qualcuno che non abbia
effettivamente imparato l'abilità di vivere virtuosamente viva senza errori più
di qualcuno che non è un medico esperto, un musicista , studioso, timoniere o
atleta ci si poteva aspettare che praticassero quelle abilità senza
errori. In una delle sue diatribe, si racconta il consiglio che offrì a
un re in visita, dicendogli che deve proteggere e aiutare i suoi sudditi, quindi
sapere cosa è buono o cattivo, utile o dannoso, utile o inutile per le persone.
Ma diagnosticare queste cose è proprio il compito del filosofo. Poiché un re
deve anche sapere cos'è la giustizia e prendere decisioni giuste, il principe studia
filosofia, anche per possedere autocontrollo, frugalità, modestia, coraggio,
saggezza, magnanimità, capacità di prevalere nel parlare sugli altri, capacità
di sopportare il dolore e deve essere privo di errori. La filosofia, sosteneva M.,
è l'unica disciplina che fornisce tutte queste virtù. Per dimostrare la sua
gratitudine il re gli offrì tutto ciò che desiderava, al che il filosofo chiese
solo che il re aderisse ai principi stabiliti. Musonio sosteneva che,
poiché l'essere umano è fatto di corpo e anima, dovremmo allenarli entrambi, ma
quest'ultima richiede maggiore attenzione. Questo duplice metodo richiede
l’abituarsi al freddo, al caldo, alla sete, alla fame, alla scarsità di cibo, a
un letto duro, all’astensione dai piaceri e alla sopportazione dei dolori. Questo
metodo rafforza il corpo, lo abitua alla sofferenza e lo rende idoneo ad ogni
compito. Crede che l'anima fosse rafforzata in modo simile sviluppando il
coraggio attraverso la sopportazione delle difficoltà e rendendola
autocontrollata astenendosi dai piaceri. Musonio insisteva sul fatto che
l'esilio, la povertà, le lesioni fisiche e la morte non sono mali e un filosofo
deve disprezzare tutte queste cose. Un filosofo considera l'essere picchiato,
deriso o sputato come né dannoso né vergognoso e quindi non avrebbe mai
litigato contro nessuno per tali atti, secondo M.. L'opposizione di M. alla
vita lussuosa si estendeva alle sue opinioni sul sesso. Pensa che gli uomini
che vivono nel lusso desiderano un'ampia varietà di esperienze sessuali, sia
legittime che illegittime, sia con donne che con uomini. Osserva che a volte gl’uomini
licenziosi perseguono una serie di partner sessuali maschili. A volte diventano
insoddisfatte dei partner sessuali maschili disponibili e scelgono di
perseguire coloro che sono difficili da ottenere. M. condanna tutti questi atti
sessuali ricreativi. Insiste sul fatto che solo gli atti sessuali finalizzati
alla procreazione all’interno del matrimonio sono giusti. Denuncia l'adulterio
come illegale e illegittimo. Giudica i rapporti omosessuali un oltraggio contro
natura. Sosteneva che chiunque sia sopraffatto dal piacere vergognoso è vile
nella sua mancanza di autocontrollo. M. difende l'agricoltura come
un'occupazione adatta per un filosofo e nessun ostacolo all'apprendimento o all'insegnamento
di lezioni essenziali. Gli insegnamenti esistenti di Musonio sottolineano
l'importanza delle pratiche quotidiane. Ad esempio, ha sottolineato che ciò che
si mangia ha conseguenze significative. Crede che padroneggiare il proprio
appetito per il cibo e le bevande fosse la base dell'autocontrollo, una virtù
vitale. Sostene che lo scopo del cibo è nutrire e rafforzare il corpo e
sostenere la vita, non fornire piacere. Digerire il cibo non ci dà alcun piacere,
ragiona, e il tempo impiegato a digerire il cibo supera di gran lunga il tempo
impiegato a consumarlo. È la digestione che nutre il corpo, non il consumo.
Pertanto, concluse, il cibo che mangiamo serve al suo scopo quando lo
digeriamo, non quando lo gustiamo. M. sostenne la sua convinzione che le
donne dovessero ricevere la stessa educazione filosofica degli uomini con i
seguenti argomenti. In primo luogo, gli dei hanno dato alle donne lo stesso
potere di ragione degli uomini. La ragione valuta se un'azione è buona o
cattiva, onorevole o vergognosa. In secondo luogo, le donne hanno gli stessi
sensi degli uomini: vista, udito, olfatto e il resto. In terzo luogo, i sessi
condividono le stesse parti del corpo: testa, busto, braccia e gambe. Quarto,
le donne hanno un uguale desiderio per la virtù e una naturale affinità con
essa. Le donne, non meno degli uomini, sono per natura compiaciute delle azioni
nobili e giuste e censurano il loro contrario. Pertanto, concluse M., è
altrettanto appropriato che le donne studino filosofia, e quindi considerino come
vivere onorevolmente, quanto lo è per gli uomini. Suda μ 1305: «Figlio di
Capitone, etrusco, della città di Volsinii; filosofo dialettico e stoico,
vissuto ai tempi di Nerone, conoscente di Apollonio di Tiana e di molti altri.
Ci sono anche lettere che sembrano provenire da Apollonio a lui e da lui ad
Apollonio. Naturalmente per la sua schiettezza, le sue critiche e il suo
eccesso di libertà e ucciso da Nerone. Numerosi sono i discorsi filosofici che
portano il suo nome e anche le lettere. Epistole. Di origine etrusca: cfr.
Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, VII 16. Pittau, “Dizionario della lingua
etrusca (DETR), Dublino. Tacito, Annales, XIV, Epitteto, Diatribe, III 15, 14.
Storie, III 81. Storie, IV 10. Cassio Dione, Girolamo, Chronicon, a. 2095:Titus
Musonium Rufum philosophum de exilio revocat»; Temistio (Orationi, XIII, 173c),
inoltre, attesta l'amicizia tra Tito e M.. Cameron, Avienus or Avienius?, in "Zeitschrift
für Papyrologie und Epigraphik". L'attribuzione è data nell'estratto XV Hense:
sicuramente questo Lucio era un allievo di Musonio, e uno specifico riferimento
in cui M. parla da esule a un esule rivela che anche Lucio partecia al bando del suo maestro. Nella diatriba Lucio
riporta una conversazione di Musonio con un re siriano e dice, tra parentesi,
che c'erano ancora re in Siria a quel tempo, vassalli dei romani. -- nell'edizione
Hence. Una delle due è una lunga lettera scritta da M. a Pancratide sul tema
dell'educazione dei suoi figli. Diatriba VIII Hense. Cfr. anche il detto «Un re
dovrebbe voler ispirare soggezione piuttosto che paura nei suoi sudditi. La
maestà è caratteristica del re che incute timore reverenziale, la crudeltà di
quello che ispira paura» (in Stobeo, IV 7, 16). A differenza del suo allievo
Epitteto, che mostrava disprezzo per il corpo, M. sottolinea l'interdipendenza
tra anima e corpo. Questa visione, del tutto coerente con il panteismo stoico,
non è estranea al pensiero neoplatonico. Diatribe III e IV Hense; Nussbaum, The Incomplete
Feminism of M., Platonist, Stoic, and Roman, in The Sleep of Reason. Erotic
Experience and Sexual Ethics in Ancient and Rome, Nussbaum and J. Sihvola,
Chicago. Bibliografia C. Musonii Rufi reliquiae, edidit O. Hence (Lipsia,
Teubner); Lutz, Musonius Rufus, the Roman Socrates, Yale classical studies. Dillon, M. and Education in the Good Life: A Model of
Teaching and Living Virtue. University Press of America. Laurenti, Musonio,
maestro di Epitteto, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt. Berlino, de
Gruyter, King, (Musonius Rufus: Lectures and Sayings. Edited by William B. Irvine. Create Space. DOTTARELLI,
M. l'etrusco. La filosofia come scienza di vita” (Roma, Annulli). Musònio Rufo,
Gaio, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Calogero, MUSONIO Rufo, Caio, in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Musonio Rufo, Gaio, in Dizionario di filosofia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, M., su Encyclopedia of Philosophy. Opere
di Gaio Musonio Rufo, su Open Library, Archive. VDM Stoicismo. Portale Antica
Roma Portale Biografie Categorie: Filosofi romani Filosofi del II
secoloRomani del II secoloStoici[altre] Grice e Tito – La clemenza di Tito –
“Titus M. Rufum philosophy revocat. Amico di Musonio. Grice e Galba. Grice e
Nerone – Grice e Vespasiano. Gaio M. Rufo, figlio di Capitone e degli stoici di
maggior grido in quell'età, e uno di quelli che si guadagnarono un maggior
numero di seguaci per l'efficacia del loro insegnamento. Plinio Secondo
infatti, lodando le virtú singolari del suo amico Artemidoro, assicura che per
esse ei merito che a C. M. ex omnibus omnium ordinum adsectatoribus gener
adsumeretur. E di Volsinio, in Etruria. Ma non si può dire se fosse nato sotto
Claudio o sotto Caligola. Benché sia più probabile la seconda supposizione. Appartenne
all'ordine equestre. L'incontriamo la prima volta in Roma, quando ne è mandato
in esilio da Nerone in quella serie di condanne che segui alla sventata
congiura di Pisone. A lui, come a Verginio Flavo, celebre maestro di retorica,
nocque, secondo Tacito, claritudo nominis nam Verginius studia iuvenum eloquentia,
Musonius praeceptis sapientiae fovebat. Tre anni innanzi era nell'Asia Minore
presso Rubellio Plauto, insieme con un altro filosofo, Cerano,il quale non si
trova nominato in altro luogo. Sicché è probabile che egli non tornasse in Roma
se non dopo la morte di Rubellio, per seguire il quale aveva dovuto lasciar
Roma, quando a Rubellio per ordine di Nerone convenne ritirarsi in Asia. Se,
adunque, il nostro M. poté essere il filosofo di Rubellio Plauto, del quale
vedremo con che ardore proseguisse lo stoicismo, la frase di Tacito ci dice che
egli dove esercitare in Roma l'insegnamento pubblico. Le relazioni avute con
Rubellio, che al dire di Tacito, omnium ore celebratur, e quei due anni
consecutivi d'insegnamento pubblico, devono avergli fruttato la claritudo
nominis che fu madre del suo esilio Nerone nella scoperta della congiura
pisoniana trova tra i congiurati più d'uno della setta stoica, come Seneca, a
quanto pare, e Lucano. Ed era naturale che anche M., l'antico maestro ed amico
del suo odiato Rubellio, lo stoico che suscita tanta ammirazione intorno a sé e
trasfondeva in tanti il suo entusiasmo, siccome apparisce da quel che ne dicono
Tacito e Plinio il giovane, facesse nascere nell'animo di Nerone sospetti e
timori e fors'anche invidia. Musonio, cacciato da Roma, e da Nerone relegato
nell'inospitale isola di Giaro, tra le Cicladi. E quivi dimora fino alla morte
di codesto imperatore. Ma neppur li si rimase dall'insegnare. Giacché
Filostrato, testimonio, in verità, non sicuro, ci fa sapere che in quell'isola
accorrevano a lui da ogni parte, e da uno dei frammenti conservatici da Stobeo
si scorge che in Giaro era alla scuola di Musonio il compilatore di quella
specie di 'Azurnusycuata, donde gli estratti musoniani di Stobeo sarebbero
tolti. A Giaro si rese benemerito dell'isola, dove non s'era mai vista
dell'acqua, ed ei seppe trovare una fonte. Per vedere la quale Filostrato
afferma che al suo tempo si visita ancora quell'erma isola. Quanto tempo vi
rimane si può precisare da un luogo del suo discepolo Epiteto; dove si ricorda
un detto di lui relativo alla morte di Galba, dal quale risulta che M. e già a
Roma sotto questo imperatore. Sicché molto probabilmente vi sarà tornato alla
morte di Nerone. Non altrimenti dello stoico Elvidio Prisco, cacciato anche lui
da Nerone e tornato a Roma all'avvento di Galba
all'impero. A Roma, M. si trovava durante il breve impero di Vinelio poicho 1 Potia Coria, sli api
basiatori to riti Tao qua dio qui (o in pa la da i, partando gravi Guasti l'ambasceria
è rimasta famosa; giacché le parole, onde ce la descrive Tacito, colpiscono una
delle debolezze più ridicole che si possano rimproverare ai filosofi: quella di
far della filosofia fuori di luogo. Grave il danno prodotto dai Flaviani fuori
della città. Il popolo, levatosi in armi, vuole uscire in massa contro gl’assalitori.
Tra poco scope terribile la guerra civile. Si convoca il Senato. E questo
sceglie dei legati, che si rechino ai duci di quell'esercito, per persuaderli
pel bene della repubblica alla concordia e alla pace. Tra i primi inviati c'è
uno de' più fervidi e sventurati stoici di quest'età, Aruleno Rustico, allora
pretore. Ma egli e i compagni, venuti da Ceriale, furono accolti assai male. Egli
anzi ferito. Il che eccita più che mai gli animi del popolo: auxit, dice Tacito
invidiam super violatum legati prae-torisque nomen propria dignatio viri. E
quest'offesa recata a un uomo di tanta riputazione della sua setta. non dovette
essere l'ultimo dei motivi che spinsero quindi Musonio a mischiarsi con gl’altri
legati, che andarono da Antonio. Ma già non deve parere strano, che un uomo
cosi illustre, cosi rispettato al tempo suo, e che sapeva di essere ammirato e
di poter contare sull'efficacia della sua nobile parola, s'inducesse a
confidare in questa per calmare gl’animi dei soldati, dimentichi perfino del
più sacro diritto delle genti. Sarebbe stata forse la prima volta che M. parla
a una moltitudine. Anche le Vestali si fecero apportatrici d'una lettera di
Vitellio ad Antonio. Pure non si può non sorridere leggendo in Tacito che
Musonio coeptabat permixtus manipulis, bona pacis ac belli discrimina
disserens, armatos monere. Id plerisque ludibrio, pluribus taedio: nec deerant
qui propellerent propulsarent-que, ni admonitu modestissimi cuiusque et aliis
minitantibus omisisset intempestivam sapientiam. Ci si sente Tacito ammiratore
del vecchio Agricola, anche in quelle considerazioni che l'aveva sentito più
volte a fare circa il suo amore per la filosofia - ultra quam con-cessum Romano
ac senatori; anche nell'avere conservato soltanto ex sapientia modum: e pare
che goda a metterci innanzi lo spettacolo comico e pietoso della fatuità d'un
filosofo fanatico. Ma sotto i colori aggiunti da Tacito si scorge chiaramente
un quadro, che è eloquente testimonianza dell'atteggiamento morale e sociale di
questo stoi-cismo: nei seguaci del quale vedi l'anima piena di fede, ardente
degli apostoli. In Musonio non c'è l'uomo speculativo inesperto della vita, ma
un'anima infiammata da profonde idealità, non comprese dai molti. Un'anima
compagna a quella dei martiri coetanei della religione novella. Sotto la
pretura d'un altro illustre stoico, Elvidio Prisco, dopo il trionfo di
Vespasiano, M. si riaffaccia nella storia di Roma. E questa volta con un atto,
che gl’attira l'ossequio di tutti gl’onesti. Era costume del tempo, come sotto
l'imperatori violenti, di darsi al mestiere di accusatore, cosi sotto
l'imperatori miti di dare addosso agli accusatori che più avevano
spadroneggiato. Chi non ricorda il commovente processo di Barea Sorano, che occupa
gli ultimi capitoli degli Annali di Tacito? In quell'imperversare contro tutti
i virtuosi che Nerone vedesse in Roma, mentre Marcello Eprio assale Trasea
Peto, Ostorio Sabino citava Barea Sorano a scolparsi dell'amicizia, che nel suo
proconsolato in Asia aveva mantenuta con Rubellio Plauto e delle speranze
sovversive sparse in quella provincial. E ne trascinava in Senato anche la
giovane figliuola Servilia, che, mossa dall'angustia del suo cuore filiale,
s'era indotta a consultare gli astrologi sulla sorte del padre (delitto anche
questo agli occhi di Cesare, che ci vedeva sotto trame e propositi ribelli di
novità). Invano il padre proclamava l'assoluta innocenza della sua Servilia: e
accorreva verso di lei per abbracciarla, ma i littori frappostisi glielo
impedivano.Venuta la volta de' testimoni, fra essi si fece a deporre contro il
padre, suo discepolo, e la figlia, che a lui s'era rivolta per il responso
desiderato sulla sorte del padre, quel malvagio stoicastro di Publio Egnazio
Celere, vecchio antenato di Tartufo, e che già conosciamo. Quantum mise-ricordiae,
dice Tacito, saevitia accusationis permoverat, tantum irae P. Egnatius testis
concivit. Ma Sorano e Servilia dovettero morire; e Tartufo ebbe il solito
compenso dei delatori: denari ed onori — benché Tacito un po' ingenuamente
conchiuda che « dedit exemplum praecavendi quo modo fraudibus involutos aut
flagitiis commaculatos, sie specie bonarum artium falsos et amicitiae fallaces
». Dopo d'allora i professori di filosofia avrebbero dovuto diventar tutti fior
di galantuomini; il che veramente non pare.Ma tra gli Egnazii per fortuna c'è
sempre un Musonio. E Musonio, anni dopo il turpe fatto, ri-staurato con la
vittoria di Vespasiano il regno della giustizia, sorse a vendicare la morte del
compagno Sorano. Simile al suo sciagurato Rubellio oltre che nella misera fine,
nel desiderio di avere presso di sè un filosofo, che gli facesse da mentore,
quasi dottrina vivente. Musonio adunque assali Publio Egnazio Celere,
accusandolo di falso testimonio contro Sorano. Mentre Elvidio Prisco si
apprestava a fare altrettanto contro Eprio Marcello, accusatore di Trasea. Nota
Tacito, che con l'accusa di Musonio pareva si rinfocolassero I vecchi odii
delle delazioni. Ma che nessuno tuttavia poteva far nulla che giovasse a
salvare un accusato cosi vile e cosi apertamente reo: quippe Sorani sancta memoria; Celer professus
sapientiam, dein testis in Baream, proditor corruptorque amicitiae, cuius se
magistrum ferebat. Quel giorno però in cui fu presentata l'accusa, si stabili
che se ne trattasse il di seguente: e l'aspettativa era grande. Ma, entrato poi
Muciano in Roma e tradottosi ogni potere in mano sua, si disviò e rinviò anche
il processo di Egnazio, e non fu ripreso che al principio dell'anno seguente un
giorno che presiedeva il senato il figlio dell'imperatore, Domiziano.Egnazio fu
condannato all'esilio, e Sorano vendicato. Sorani manibus satisfactum, dice
Tacito, con onore di Musonio, il quale parve a tutti che fosse venuto a capo di
un'opera di giustizia. Vi fu chi ambitiosius quam honestius tentò la difesa
della spia: ipsi Publio neque animus in periculis neque oratio subpeditavit. Questa
condanna fu un trionfo dello stoicismo, e poté sembrare per un momento che
un'aura più propizia incominciasse per i suoi seguaci, grazie al governo mite
di Vespasiano. Ma poco dopo, sappiamo da Dione che essi furono da questo
imperatore per consiglio di Muciano cacciati tutti da Roma. Tutti, ad eccezione
di M., risparmiato forse per l'amicizia personale che lo stringeva, secondo
Temistio, a Tito. Si vede le ragioni di questo bando generale dei filosofi a
cui Muciano, secondo Dione, avrebbe indotto Vespasiano (che pur tanto favori la
cultura) sitofino alla morte, che non si può dire quando sia avvenuta. Ma pare
che fosse morto da un pezzo quando Plinio il giovane scrive al padre raccomandandogli
l'amico suo e genero di Musonio, Artemidoro, e ricorda l'affetto misto di
ammirazione che egli quantum licitum est per actatem, aveva portato al filosofo
etrusco. PLINIO, Epist. Lo ZELLER dice soltanto verosimile che il Gaio M. di q.
1. sia il noto filosofo stoico. Ma il contesto della lettera a me non pare che
lasci alcun dubbio. Sur A, s.v.(3) TAcioo lo dice “Tusci generis”; Ab excessu;
e TUpprvóv FILOSTRATO,Vita Apoll. Ma SuIDA precisa anche la città, confermata
da un'iscrizione relativa al poeta Rufio Festo Avieno discendente di Musonio e
anch'esso Volsiniense: Corpus inscript. latin., VI, 587. Cfr, anche Epigramm.
Anth. lat. (Burm.). Infatti la frase di PLiNIo, Epist. et M., socerum eius (sc.
Artemidori), quantum licitum est per aetatem, cum admiratione di-lexi deve far
pensare che Musonio fosse innanzi negl’anni quando Plinio era ancora giovane;
che perciò intorno all'80 avesse una cinquantina d'anni. Zeller pone l'anno di
nascita di lui tra il 20 e il 80 d. C.TAc., Hist., III, 81. (1) Ab excessu, XV,
71. Cfr. DIoNE-SIFILINO, LXII, 27. SUIDA (s. v.) dice: 8iàNépwvos dvoupsitar
(cioè è ucciso: ma questo è certo un errore). Da un frammento d'una lettera di
GIULIANO l'Apostata, riferito da Suida, si ricaverebbe che quando Nerone bandi
Musonio, questi occupa una pubblica carica aTe-jé?eto Bapüv = murorum curator
erat; ed. Bernardy). Ma non è chiaro se il frammento di Giuliano si riferisca
al nostro Musonio, o al Musonio vissuto sotto Gioviano, a cui si riferisce
l'art. seguente di Suida. Тас., Аб ехсеззи, XIV, 59. Ma forse è una stessa
persona con lo scrittore di questo nome ricordato da PliNio tra le fonti della
Nat. Hist. A torto l'HALM (nell'Index historicus, s. v. Coeranus nella sua
ediz. di Tacito) sospetta che sia da sostituire Cornutus nel detto luogo Ab
exc.; perchè la lezione è sicura; e d'altra parte Cornuto in quel tempo era in
Roma. Su Cornuto, maestro di Persio e Lucano, v. per ora MARTINI, De L. Ann.
Cornuto, Lugd., Bat.;ZELLER; TEUFFEL-SCHWARE, Roem, Litter.-Gesch.; e
PAULY-WIssOwA, Real-Encyclopidie s. v. Il Lipsio al cit. loc. di Tacito sospetta
che il Coeranus dovesse con lieve mutazione di lezione identificarsi con quel
Claranus, condiscepolo di Seneca, di cui questi parla nell'epist. 66. Ed invero
la probabile data di questa lettera (Hu-GENFELD)
e il dirsi in essa che Seneca aveva riveduto cotesto Clarano post multos annos
combinano con l'anno 63, nel quale ei si sarebbe trovato con Rubellio in Asia.
Ma nè anche di Clarano s'avrebbe altra notizia. Ab exc. A questo tempo si può
riferire la notizia di EPITETo (Diss.) di un rimprovero dato a Trasea Peto, che
avrebbe detto voler egli morire la vigilia di quel giorno, in cui gli sarebbe
toccato di lasciar Roma.TU ODU aUTÕ POSSOS SiTEV; El uéy d5 PapÚTEpOr ¿xTErA,
TIS i Mapia tÃsextorisi si d'ós xoupótepor, tis ool déduxev; aù d618i6 pelerãy
apxsiolesTỘ Siouévo. Quando Musonio tornò, Trasea e morto. Quanta incertezza ci
sia intorno all'autore dei frammenti musoniani di Stobeo, comunemente
attribuiti a quel CLAUDIo PoLLIoNE, che secondo SUIDA (Moudúvos) avrebbe scritto
appunto degli anourquoveú para Mouraviou vedidi thy puyny pains au Epaxévos pE
X.T.?, STon.Cir. WENDLAND, JULIANI epist. in Rhein. Mus., XIII, 24, Froste.,
Vita Apoll., VII, 16.Tutti gli altri luoghi di Filostrato in cui si nomina un
Musonio, si riferiscono a un altro Musonio, di Babilonia, cinico EPITETO (Diss.) dice: POÚpO TIS ElEYE,
l'álßa aparèvros,8t Noy Movoi o MóJHOE dOEia; "O 8à, Mi yap dyú ool tot',
egn, añò l'arßaнатвохейава, оть проова б хосноє діохвіто. Il concetto di Calba
accennato in questo passo M. non avrebbe potuto averlo se non a Roma, dopo
essere steto da lui richiamato ed averne sperimentato il governo assai mite
inconfronto del precedente. ZELLER cita anche (come il MoNasEN, Ind. plin.)
Tac., Hist. Ma questo luogo non proverebbe. È un evidente errore quello di Girolamo,
all'anno M. philisophum de exilio revocat/ Giacché nella cacciata Musonio fu
eccettuato, e rimase sempre in Roma sotto Vespasiano.Il CHRIST, Gesch. d.
griech. Litter., Nördlingen, dice che Musonio torna in Roma sotto Trajano!
-Molto probabilmente allora era morto. TAc., Hist., IV, Hist.,
III, 80,Tac., Hist. Miscuerat se legatis... ». Egli non era dunque propriamente
un legato.prodie tot, il vole di grinto rogu latativo. Bai minciava
sompre Era stato consul suffectus sotto Claudio nel 52; e apparteneva
forse alla famiglia Servilia (Ephem. Epigr.). Sua figlia infatti si chiamava
Servilia. Crimini dabatur amicitia Plauti et ambitio conciliandae provinciaead
spes novas. Tac. O 8è On MOÚTAOS Eri uE to duxopaurig nal xpipara Nai tudE
EraßEpostquam pecunia reclusa sunt. di Tac.. Barea Sorano dovette volgersi allo
stoicismo dopo il 52, perchè in quest'anno lo vediamo (TAc., Ab exc.) autore di
quel senatoconsulto (Pul-NIo, Ep., e SvEr., Claud.) in cui si decretavano le
insegne pretorie e 150 milioni di sesterzi a Pallante. Chi consideri il modo
onde Plinio parla di quel S. C., uno stoico non avrebbe commesso un tale atto;
mentre poi TAcITo, Ab excessu, dice che Cicerone volle distruggere la virtù
stessa, virtutem ipsam excindere concupivit, con l'uccidere Trasea e Sorano.(4).
Tum invectus est Musonius Rufus in P. Celerem, a quo
Baream Soranum falso testimonio circumventum arguebat. Tac., Hist. Il nome
d'Egnazio, come s'è visto più su, rimase tristamente celebre come sinonimo di
delatore e traditore vilissimo. Lo dimostrano le frequentiallusioni di
Giovenale. Justum officium [Nipperdey) explesse Musonius videbatur • Tac.,
Hist., IV, 40. Per la condanna della spia cfr. DIONE-SirIL., e lo ScHoL. di
Giovenale ad Sal., I, 33. - TAcrro, l. c., continua: • Diversa [da quella di
Musonio] fama de Demetrio Cynicam sectam professo, quod manifestum reum
ambitiosius quum honestius defendisset Ma è da sospettare che Tacito abbia
confuso il Demetrio cinico, onorato da tutti gli stoici migliori del tempo
(cfr. Ab exc.), col Demetrio causidico, delatore di Nerone, ricordatodallo
ScuoLIAsTE di Giovenale, ad Sat., Tac., 1. c. DIoNE-SIFIL., LXVI, 18.(5) Orat.
XIII, 178.SvEr., Vesp. ingenia et artes vel maxime fovit ..Epist., III, 11. Le
lettere del lib. III di Plinio devono essere state scritte tra il 101 o il 102,
secondo il MouMsEN, Zur Gesch. d. junger. Plinius, nell' Her. mes, III, 1869,
p. 40 (v. lo stesso studio con aggiunte nella Biblioth, de l'école des hautes
étude, trad. par Morel, Paris, Franck, Sulla vita di Musonio non v'è che la
vecchia Dissertatio de M. R. di NIEUWLAND, ristampata innanzi a C. M. R.
Reliquiae et apophthegmata, cum ann. ed. F. VENHUIZEN PEERLKAMP, Harlemi, e uno
scritterello del REINACH, Sur un témoignage de Suidas relatif à Mus. R., in
Comples rendus de l'Acad. des inscriptions et belles lettres. Rufo (si veda).
Tito Musonio Rufo. Gaio Musonio Rufo. Keywords: Etruria. Luigi Speranza, “Grice
e Musonio”, The Swimming-Pool Library. Musonio.
Grice e Mussolini: la ragione conversazionale e la
storia della filosofia di Lamanna – filosofia emiliana -- filosofia italiana –
Luigi Speranza
(Dovia di Predapio). Filosofo italiano. Dovia di Predapio, Forli-Cesena, Emilia-Romagna.
In his history of philosophy for ‘i licei classici’, he rewrote his Manuale di
filosofia into a ‘Sommario’. – The history goes smoothly up to Kant. The third
volume is about MUSSOLINI. He is the only philosopher he cares to capitalize.
He also capitalizes fascism into FASCISMO, which is odd seeing that his main
source is Mussolini’s own entry for ‘fascismo’ in the Treccani which does not
give it such a status. The third volume is ITALO-CENTRIC, from VICO onwards,
FARLINGIERI, and notably GENTILE to end with MUSSOLINI. The idea is presented
by L. as a ‘riconstruzione dello stato’ – we are talking of the ‘stato moderno’
– il stato liberale borghese is in ruins – and although he plays with the
‘socialist state’ he does not consider it within the realm of the proper history
of philosophy when he talks of French illuminism. So his concern is wht the
idea of the state in the liberal party – the philosophy of the laissez-faire.
It provides NEGATIVE freedom. Freedom from the other. And there is competition.
Also, as he notes, liberalism lies in that the ‘condizioni iniziali’ are hardly
‘equal’ for every member of society, so that liberalism only pays lip service
to ‘liberale’. With the socialist state, the problem is the opposite: the state
becomes a gestore – and there is this idea of an endless dialectic among the
classes. So how does Mussolini reconstruct all this. He calls it ‘stato
fascista’ – Had L. continued from Kant to Fichte and Hegel, the student would
be more prepared! Mussolini’s idea of the state is Hegel’s – it is the
NAZIONE-STATO. While Mussolini speaks of the ‘individui’ of this nazione, he
means the Italians (not the Jews, etc.). SO this NAZIONE however, is MORE than
the sum of its individui. Individui come and go – but the state remains. The
state becomes governo. Mussolini’s prose is machist and homosocial, and Lamanna
has to lower down the rhetoric, but nothing is said about Germany. It is ITALY
which is seen as proposing this new or novel idea of the state (after la
rivoluzione fascista) with a Kantian approach. Since L. has only read Kant
seriously, he applies Kantian categories here: Mussolini’s fascist state gives
each individual POSITIVE freedom – to be a slave to the CAPO or Duce who
‘knows’ how to command. L. quotes from CICERONE to the effect that it is
obeying the law that makes us free. The emphasis is constantly on the azione or
prassi, which is understandable since the pupils are supposed to learn about
philosophy. So where is the dotttina? Mussolini is candid about this. When ‘I
all started it’ I did not know where I was going. It was the ANTI-PARTY
movement --. L. provides the editorial. During the ventennio, this action,
which is the INSTINCTIVE FORCE OF THE SPIRIT OF THE NATION, becomes legalistic,
a party is formed, and indeed a government (polizia, politeia) established. But
Mussolini accepts castes in society. Even the religion, a civil religion, is
subdued and one can very well be allowed to worthip the God of the Heroes. It
is an ‘etica guerriera’ and it targets the male – virtu, andreia. Being
commanded by one know knows is a privilege. Ths is interesting because this is
conceived after the temporary successes in Africa – Mussolini romano e africano
– and before the problems of the second world war. For the first time, Italians
FEEL they are part of a NATION. The seeds are in the Risorgimento, but this got
stuck with a liberal kind of state, which only provides negative freedom,
anyway, and where the initial conditions are
unequal. Lo stato fascista does not play with parlamentarism, so Congress
is closed, and the only party is the national party. Jews are excluded from
PUBLIC service -- even if some wrote panegirici for fascism, like Mondolfo. The
philosophical foundations are found in Hegel. If Hegel concentrated all in the
Kaiser of Prussia, Mussolini does so with himself. GENTILE did not really help,
although he was the official voice of fascist philosophy --. The student of
philosophy then is taught the lessons of history (philosophy is IDENTIFIED with
its history) and indoctrinated in the final stages into a particular IDEOLOGY.
The tone is catechistic, and there is no idea of dissent. L. however emphasises
that the stato fascista still recognizes the indidivuality and the personality
of each member – as the stato comunista or socialista would not!” Tra gli scritti di Mussolini figurano, in ordine di
pubblicazione: Dio e patria nel pensiero
dei rinnegati, New York, s.n., 1904. L'Uomo e la Divinità. Contraddittorio
avuto col pastore evangelista Alfredo Taglialatela la sera del 26 marzo 1904
alla "Maison du peuple" di Losanna, Lugano, Cooperativa tipografica
sociale, 1904. [Testo di una conferenza tenuta a Losanna per commemorare la
Comune di Parigi, conosciuto anche col titolo di Dio non esiste, col quale
viene a volte ristampato] La filosofia della forza. Postille alla conferenza
dell'on. Treves, Predappio 1908. Pio Battistini, 7 settembre 1891. Discorso
commemorativo, pronunciato nel diciannovesimo anniversario dell'assassinio,
Forlì, Lotta di Classe, 1910. Claudia Particella. L'amante del cardinale,
romanzo pubblicato a puntate su "Il Popolo", Trento, 1910. Il
Trentino veduto da un socialista. Note e notizie, Firenze, La rinascita del
libro, 1911. La mia vita dal 29 luglio 1883 al 23 novembre 1911(1911-12), Roma,
Editrice Faro, 1947. Giovanni Huss. Il veridico, Roma, Podrecca e Galantara,
1913. [pubblicato nella collana de «I martiri del libero pensiero» col
dichiarato intento di suscitare nei lettori «l'odio per qualunque forma di
tirannia spirituale e profana», fu dall'autore censurato nel 1921 e, dopo la
stipula del Concordato del 1929, scomparve dalle biblioteche e dalle librerie]
La guerra per la libertà e per la fine della guerra. Lettera ai socialisti
d'Italia di Benito Mussolini con l'aggiunta delle sue ultime dichiarazioni dopo
le dimissioni da direttore dell'Avanti, Firenze, Nerbini, 1914. Il mio diario
di guerra (1915 - 1917), Milano, Imperia, 1923. My Autobiography, New York
City, Charles Scribner's Sons, 1928 [pubblicato inizialmente a puntate sul
Saturday Evening Post e poi in volume nello stesso anno il libro, scritto come
opera di propaganda per i lettori americani, è stato scritto in realtà
dall'ambasciatore statunitense Richard Washburn Child, il quale viene riportato
come "traduttore", insieme a Luigi Barzini con materiale fornito da
Margherita Sarfatti e con la possibile collaborazione di Arnaldo Mussolini. Il
libro vide la sua prima traduzione italiana solo nel 1971 come La mia vita, da
non confondersi con La mia vita dal 29 luglio 1883 al 23 novembre 1911 spesso
ristampato e riportato abbreviato con lo stesso titolo][323] La dottrina del
fascismo, 1932[324] Vita di Arnaldo, Milano, Il Popolo d'Italia, 1932. Scritti
e discorsi di Benito Mussolini, 12 voll., Milano, Hoepli, 1934-1940. Parlo con
Bruno, Milano, Il Popolo d'Italia, 1941. Storia di un anno. Il tempo del
bastone e della carota, Milano, Mondadori, 1944 ( versione digitalizzata.).
Memoriale del nord del duce, (scritto tra il 1944 e il 1945, mai pubblicato)
Opera omnia di Benito Mussolini, 44 voll., a cura di Edoardo e Duilio Susmel,
La Fenice Firenze 1951-1963, poi Volpe Roma 1978-1980. Note ^ E. Bertoni,
Aurelio Saffi. L'ultimo "vescovo" di Mazzini, Forlì, Cartacanta,
2010, pp. 109-112, ISBN 88-96629-28-4. ^ Sulla questione della meta finale di
Mussolini la comunità scientifica è tuttora divisa fra sostenitori di una
possibile "fuga in Svizzera" e coloro che invece ritengono che
Mussolini avesse altri scopi immediati. ^ Per la tesi a favore di una fuga,
vedi, per esempio Aurelio Lepre, La storia della repubblica di Mussolini; Salò:
il tempo dell'odio e della violenza, 1ª ed., Mondadori, 1999, p. 300, ISBN
88-04-45898-4. «Svanita ogni speranza di trattare, cercò la salvezza personale
nella fuga. In questo non si comportò diversamente da come si erano comportati
Vittorio Emanuele III e Badoglio l'8 settembre, perché lasciò gli uomini che
gli erano rimasti fedeli senza ordini e senza guida. Visto, infatti,
dall'interno, con gli occhi degli uomini che gli erano più vicini, il
comportamento di Mussolini non appare dissimile da quello di Vittorio Emanuele
III così come è stato descritto da Paolo Puntoni» ^ Per la tesi a favore di una
fuga, vedi anche Franco Bandini, Vita e morte segreta di Mussolini, 3ª, 1981,
Mondadori, 1978, p. 318. «(Dal capitolo "Il tiranno è morto", premettendo
i seguenti fatti all'epilogo) Occorre cominciare appena un poco più indietro,
nel momento in cui Mussolini – spinto da un cupo demone – si avvia con passi
esitanti e già guidati da una sottile paura, a quella fuga che sarà, prima
dell'altra, la sua vera morte. Dimentico di se stesso, di una vita pur sempre
cominciata nelle battaglie e nel rischio, incurante dell'ancor possibile
rispetto e dei suoi e della Storia, che non assolve, ma pesa ogni atto
dell'uomo potente su bilance inesorabili, Mussolini sceglie di cadere da vile,
ingannando, moralmente uccidendo coloro che gli sono ancora rimasti fedeli, pur
nella certezza della fine imminente. Va stancamente, miserabilmente verso il
nord, mezzo inclinato alla fuga in Svizzera, mezzo turbato dai fieri propositi
che ode attorno a sé, per "l'ultima battaglia" in Valtellina: e
rivolge nel pensiero non la forte accettazione del fato che si compie, ma i
cavillosi punti della sua difesa di domani, quando – come spera – potrà ancora
allineare fiumi di logore parole e giocare su vecchi e nuovi equivoci e forse
galleggiare indefinitamente sullo scontro degli opposti giudizi, come il
sargasso immobile tra il turbinare delle correnti. È disposto a tutto, anche al
cappotto tedesco, anche a tradire chi vorrebbe ancora morire per lui, i vecchi
fascisti, i suoi ministri, persino Claretta: e finge irresolutezza fin dal
momento della Prefettura di Milano, la sera del 25 aprile, non perché sia
davvero incerto tra la morte e la vita, ma perché – ancora una volta – è
incapace di dire "andiamo" e preferisce che lo dicano altri, che la
cosa "nasca da sola", perché ha forse già in mente altri articoli
"del tempo del bastone e della carota", destinati ad illustrare come
questi nuovi passi che sta facendo siano colpa di questo e di quello, di
cardinali e militari, di traditori e servizi segreti, di tutti, meno che sua» ^
Il colonnello statunitense Lada Mocarski, in un rapporto scritto per conto
dell'Office of Strategic Services riguardo un'inchiesta da lui condotta sugli
ultimi giorni del dittatore, afferma invece che «nessuna prova circa le
intenzioni e i piani di Mussolini è stata raggiunta durante l'indagine e forse
non esisteva alcun piano definito. È infatti ovvio che i movimenti del Duce
fossero il risultato di improvvisazioni non appena le condizioni di fatto
cambiavano». Dino Messina, Ordine da Milano: eliminate il Duce, in Corriere
della Sera, 23 febbraio 2009. URL consultato il 20 ottobre 2011. ^ Antonio
Spinosa, "Parte quarta: Il cappotto tedesco. Infauste sponde", in
Mussolini. Il fascino di un dittatore, Milano, Mondadori, 1989, p. 367.
«Imbruniva quando una colonna di automobili lasciava la prefettura e usciva da
Milano, la città in cui ormai tutti gli tendevano una trappola, i partigiani, i
tedeschi, gli alleati. Doveva fuggirne per evitare il peggio. [...] Già quella
sera, a tarda ora, si apprese che le auto fuggitive avevano raggiunto Como
[...]» ^ Fra i molti, da Renzo De Felice, in diverse opere, e Denis Mack Smith
in Mussolini. ^ Palla, p. 15. ^ cit. D. Mack Smith, Storia d'Italia, Laterza,
1973, rectius Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Einaudi, pp. 12 e
13. ^ De Giorgi, p. 22. ^ De Giorgi, p. 21. ^ De Giorgi, p. 24. ^ De Giorgi, p.
25. ^ U. Alfassio Grimaldi, La cattedra che Mussolini non ebbe, in «Storia
Illustrata» n. 271, giugno 1980, p. 6. ^ Pier Mario Fasanotti, Tra il Po, il
monte e la marina. I romagnoli da Artusi a Fellini, Neri Pozza, Vicenza 2017,
p. 139. ^ Mussolini,
Benito, in The Columbia Encyclopedia, New York, Columbia University Press,
2008. ^ B. Mussolini, Opera Omnia, vol. 1,
pagg. 9-10. ^ R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario cit., pagg. 31 e 36. ^
L'esistenza di una relazione sentimentale non trova riscontri univoci. È invece
accertata presso la maggior parte delle fonti la sua influenza nell'avvicinamento
di Mussolini al marxismo. ^ La teoria dell'equilibrio economico in Vilfredo
Pareto, in Ztl Macerata. URL consultato il 19 luglio 2013 (archiviato dall'url
originale il 19 luglio 2013). ^ Raffaello Uboldi, La presa del potere di Benito
Mussolini, su books.google.it, Arnoldo Mondadori Editore, 2010. URL consultato
il 19 luglio 2013. ^ Mussolini più tardi dirà[senza fonte] di essersi iscritto
alla Facoltà di Scienze sociali di Losanna, ma non vi è riscontro documentale.
^ Emilio Gentile, Le origini dell'ideologia fascista 1918-1925, Bologna, Il
Mulino, 1996, pp. 67, ISBN 88-15-08365-0. ^ Furono diffuse notizie
inattendibili sul suo frequentare le università di Zurigo e di Ginevra
(quest'ultima falsa notizia è riportata nella biografia ufficiale della Sarfatti),
mentre è vero che nell'estate trascorse due mesi all'università di Losanna. ^
Mack Smith, 1981, p. 23. ^ Monografie verbanensi, su verbanensia.org. URL
consultato il 20 aprile 2016 (archiviato dall'url originale il 12 maggio 2016).
«Nel giugno del 1904 ottiene il permesso di lavoro annuale, e in quello stesso
anno succede a Mussolini come corrispondente dalla Svizzera del giornale
italiano «Avanguardia Socialista»» ^ Mack Smith, 1981, p. 24. ^ B. Mussolini,
La mia vita, p. 136. ^ Nel 1908, Benito Mussolini in Riviera, su
sanremonews.it. URL consultato il 13 agosto 2018. ^ R. De Felice, Mussolini il
rivoluzionario, cit., pagg. 49 n. 5 e 52. ^ R. De Felice, Mussolini il
rivoluzionario, cit., pag. 57. ^ Trento, italiana, si trovava nel territorio dell'Impero
austro-ungarico. ^ Rosa Broll, la «santa di Susà». Intervista di Mussolini., in
LaValsugana.it. ^ R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, cit., pagg. 74-5.
^ Lo sfratto di un italiano dall'Austria, in La Stampa, 3 marzo 1910. URL
consultato il 27 dicembre 2012. ^ Questa l'interpretazione di (DE) Hans Woller,
Ante portas. Mussolini in Trient 1909, in Regionale Zivilgeselllschaft in
Bewegung - Cittadini innanzi tutto. Scritti in onore di Hans Heiss, a cura di
Hannes Obermair, Stephanie Risse, Carlo Romeo, Vienna-Bolzano, Folio 2012, pp.
483-500, cfr. soprattutto p. 497. ISBN 978-3-85256-618-4. ^ Antonio Mambelli,
Archimede Montanelli nella vita e nell'arte. Un maestro del Duce, Valbonesi,
Forlì, 1938. ^ El violín de Mussolini (in spagnolo).. ^ Benito Mussolini,
L'amante del cardinale. Claudia Particella, Salerno Editrice, 2009, ISBN
978-88-8402-673-6. ^ Benito Mussolini, Il Trentino veduto da un socialista -
note e notizie (PDF), a cura di Giuseppe Prezzolini, Firenze, Casa Editrice
Italiana, 28 febbraio 1911, pp. 104. URL consultato il 26 marzo 2013. Sul rapporto Nenni-Mussolini si veda: Duilio
Susmel, Nenni e Mussolini mezzo secolo di fronte, Rizzoli, Milano, 1969;
Nicholas Farrell, Giancarlo Mazzuca, Il compagno Mussolini, Rubbettino,
Catanzaro, 2013; Alberto Mazzuca, Luciano Foglietta, Mussolini e Nenni amici
nemici, Minerva Edizioni, Bologna, 2015. ^ A. Spinosa, Mussolini. Il fascino di
un dittatore, Mondadori, Milano, 1989, pag. 33. ^ cit. D. Mack Smith, Storia
d'Italia, Laterza, 1973 [manca numero pag]. ^ Quello scatolone di sabbia che
unì Mussolini e Nenni. ^ Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario,
1883-1920, Collana Biblioteca di cultura storica, Einaudi, Torino, 1965.
Sull'argomento vedasi anche: Maurizio Degl'Innocenti, Il socialismo italiano e
la guerra di Libia, Roma, Editori Riuniti, 1976. ^ R. De Felice, Mussolini il
rivoluzionario, cit., pagg. 108-110. ^ I quattro avrebbero poi dato vita al
Partito Socialista Riformista Italiano. ^ R. De Felice, Mussolini il
rivoluzionario, cit., pagg. 126-7. ^ R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario,
cit., pagg. 136-9. ^ R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, cit., pagg. 190
sgg. In realtà il pensiero anti-massonico era già stato portato innanzi nel
XIII congresso del 1912 a Reggio Emilia (cfr. ibid. pag. 125), nel congresso
regionale socialista romagnolo di Forlì, 16 giugno 1912, (ibid., pag. 674) e in
vari altri ambienti fin dal 1904, compreso un attacco mussoliniano del 2 luglio
1910 (ibid., pagg. 89-91). ^ cfr. Alfonso Maria Capriolo, Ancona 1914: la
sconfitta del riformismo italiano, in Avanti! online, 25 aprile 2014
(archiviato dall'url originale il 19 settembre 2016). ^ Valerio Castronovo et
alii, La stampa italiana nell'età liberale, Laterza, 1979, p. 212. Vd. anche
Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario cit., pag. 188. ^ Cfr. Renzo De
Felice, Mussolini il rivoluzionario, 1883-1920, Collana Biblioteca di cultura
storica, Einaudi, Torino, 1965. ^ Luciano Lucci, Mussolini partecipa alla
"Settimana rossa”, ma senza convinzione 10 giugno 1914, su
alfonsinemonamour.racine.ra.it. ^ Mussolini propose il 27 luglio 1914 uno
sciopero generale insurrezionale nel caso dell'entrata italiana nel conflitto.
Vedi Leo Valiani, Il partito socialista italiano nel periodo della neutralità
1914-1915, Milano, 1963, pag. 8. ^ Stando alle dichiarazioni di Filippo Naldi
del 1960, citate in Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario cit., pagg.
274-75 e 286-87. Mussolini
interventista: l’espulsione dal PSI, su fattiperlastoria.it. URL consultato il
21 dicembre 2023. ^ Valerio Castronovo et alii, La stampa italiana nell'età
liberale, Laterza, 1979, p. 248. ^ R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario
cit., pagg. 229-236. ^ Mussolini interventista e la cacciata dal Partito
Socialista Italiano, su vanillamagazine.it. URL consultato il 21 dicembre 2023.
^ Cfr. Antonio Spinola, Mussolini. Il fascino di un dittatore, Mondadori,
Milano, 1989.[manca il numero della pagina]. ^ Claudio Mussolini, Grande
guerra, la verità su Mussolini interventista, «Corriere della Sera», 2 luglio
2002, p. 35. ^ Scrive Renzo De Felice: «Secondo Filippo Naldi, direttore del
Resto del Carlino, alle prime spese per il giornale fecero fronte alcuni
industriali di orientamento più o meno interventista o, almeno, interessati ad
un incremento delle forniture militari: Esterle (Edison), Bruzzone (Unione
zuccheri), Agnelli (Fiat), Perrone (Ansaldo), Parodi (armatori)». Renzo De
Felice, Mussolini il rivoluzionario, Einaudi, p. 277. ^ Mussolini resterà alla
direzione del Popolo d'Italia fino al novembre 1922, quando verrà nominato
Presidente del Consiglio. ^ Vd. la relazione della Commissione d'inchiesta sul
caso Mussolini in Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario cit., pagg.
684-88. ^ Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario cit., pagg. 276-77 e il
"Rapporto Gasti" presentato alle pagg. 723-37, in particolare pagg.
732-33. ^ Massimo Novelli, l giovane Mussolini al soldo della Francia (PDF), in
La Domenica di Repubblica, 14 dicembre 2008, p. 31. URL consultato il 15 agosto
2011. ^ Nel fascicolo "Corrispondenza, b. 1, fascc. 17, fotografie 1
(1895-1933)" del fondo "Treves" conservato presso la Fondazione
di studi storici "Filippo Turati", è presente una ricca
corrispondenza sull'episodio. ^ Piero Treves, Ma perché quel giorno non infilzò
Mussolini?, La Stampa, 30 giugno 1992, pag. 19. Anche in: Piero Treves, Scritti
novecenteschi, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 182-184. ^ Renzo De Felice,
Mussolini il rivoluzionario, cit. ^ Renzo De Felice, Mussolini il
Rivoluzionario cit., pagg. 321-22. ^ Da cui sarà tratto il libro Il mio diario
di guerra. ^ a causa di ciò ricevette un anno di licenza di convalescenza,
seguito da altri sei mesi al suo rientro in ospedale allo scadere del primo
permesso. Cfr. Foglio matricolare di Mussolini Benito di Alessandro, matricola
12467 D.M. di Forlì in Mussolini il rivoluzionario cit., pagg. 665-67. ^ Il 22
maggio del 1940, alla morte del Senatore Giuseppe Tusini, il Duce inviò un
telegramma di condoglianze alla famiglia dove citava con riconoscenza il suo
intervento chirurgico risolutivo all'Ospedale di Ronchi di Soleschiano. Cfr. P.
Marogna, Giuseppe Tusini, Archivio italiano di chirurgia, Vol. LIX - fasc. V
Vedi anche: AA. VV., Studenti al fronte, LEG (GO), 2010, p. 177- 182. ^ Enzo
Biagi, Storia del Fascismo, Mondadori[manca la pagina]. ^ Mack Smith, 1981, p.
54. ^ Ludwig, Colloqui (1932), pag. 50. ^ M. Sarfatti, Dux, pag. 158. ^ Pini,
Mussolini (1939), pp. 80-81. ^ Sebbene alcuni abbiano recentemente sostenuto
ipotesi differenti sulle cause del congedo, attribuendolo a condizioni generali
di salute non buone legate a malattie infettive, la presenza di tali patologie
è stata negata dal referto autoptico relativo al cadavere di Mussolini. ^ Renzo
de Felice, Mussolini il rivoluzionario cit., pag. 353. ^ In una lettera dal
fronte ad Ottavio Dinale dell'11 settembre 1916 Mussolini mostrava già di aver
voglia di modificare il sottotitolo del giornale. Vd. Renzo De Felice,
Mussolini il rivoluzionario cit., pagg. 405-6, 687 e 734. La spiegazione del
cambiamento venne data comunque in breve fondo del 1º agosto 1918 dal titolo
Novità... ^ Grandi, Le origini, pag. 52. ^ Alessio Altichieri, Le cento
sterline che Mussolini intascava dalla "perfida Albione", 6 ottobre
2009.. Il tenente colonnello Hoare, nelle sue memorie, riportò le parole che
Mussolini gli fece pervenire nonché le proprie conclusioni: «"Mobiliterò i
mutilati di Milano, che spaccheranno la testa a ogni pacifista che tentasse di
tenere una manifestazione di strada contro la guerra". E fu di parola, i
fasci neutralizzarono davvero i pacifisti milanesi». ^ (EN) Benito Mussolini
was MI5's man in Italy., articolo del The Times, del 14 ottobre 2009. ^ Renzo
de Felice, Mussolini il rivoluzionario cit., pagg. 353-56. ^ Renzo De Felice,
Mussolini il rivoluzionario cit., pagg. 414-15.
Mack Smith, 1981, p. 63. ^ Un rapporto della stessa sera della Polizia
di Milano indicava circa 300 presenti, compresi giornalisti e curiosi. Vd.
Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario cit., pag. 504. ^ Chiurco, vol. I,
pag. 22. ^ O.O., vol. XIV, pp. 88, 102-133. ^ Vd. la relazione di Giovanni
Gasti in Renzo de Felice, Mussolini il rivoluzionario cit., pag. 520-21. ^
O.O., vol. XVIII, pag. 201. In un fondo dal titolo Non subiamo violenze! del 18
aprile 1919 dice noi dei Fasci non abbiamo preparato l'attacco al giornale
socialista, ma accettiamo tutta la responsabilità morale dell'episodio. ^ Mack Smith, 1981, p. 65. ^
O.O., vol. XIII, pag. 231. ^ O.O., vol. XIII,
pag. 26 e 252. ^ De Felice, pag. 727[Non è chiaro di che libro si parli]. ^ La
questione fiumana era già dibattuta da tempo. Erano stati deliberati, nelle
riunioni dei Fasci di combattimento, gli invii di diverse centinaia di
volontari. Vd. Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario cit., pagg. 531 n.
1 e 533 n. 1. ^ Carteggio Arnaldo-Benito Mussolini, pp. 223-224 (16 settembre
1919). ^ Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario cit., pag. 572. ^ È
interessante il modo con cui Giuseppe Ungaretti - all'epoca corrispondente da
Parigi per «Il Popolo d'Italia» - visse gli arresti di Mussolini e Marinetti
del 18 novembre 1919. Il poeta, molto preoccupato, cercò d'organizzare una
manifestazione a Parigi in favore degli arrestati. Racconterà Ungaretti in
un'intervista del 1933: «Nel ’19, a Parigi, facevo il corrispondente e seguivo
i lavori della Conferenza della Pace per incarico del «Popolo d’Italia». Gli
italiani si radunavano in un grande albergo dove era stabilita la delegazione
italiana. Non rammento con precisione la composizione della delegazione
italiana. Credo Nitti o Tittoni al posto di Sonnino e Orlando (…). Chissà se
fra le carte di S. Ecc T. si troveranno forse un giorno una mia lettera in cui
gli dicevo che avesse fatto bene attenzione perché oltre all’Italia ufficiale,
delle schede e dei portafogli, c’era una Italia tremendamente giovane, che
avrebbe vinto per forza o per amore. Signor delegato, gli dicevo, ho il dovere
di avvertirvi che rappresento qui il giornale dell’Italia Nuova e vi prego di
fare attenzione ai mali passi! Vi furono in quel periodo degli arresti a
Milano. Organizzai allora una specie di Manifestazione in difesa degli
arrestati alla quale aderirono tutti gli intellettuali più in vista di Parigi
alla testa dei quali si misero gli scrittori di Littérature e del gruppo Dadà,
Aragon, Breton, Tristan Tzara, ecc., che erano quelli che facevano più chiasso.
Avevamo intenzione di invadere l’Ambasciata. Io feci annunciare a Nitti che gli
avrei bucato la pancia. Ma poi non se ne fece nulla perché gli arrestati
vennero rilasciati (Intervista di Alfredo Mezio ad Ungaretti, «Il Tevere»,
17-18 luglio 1933. Su questa vicenda si veda anche F. Pierangeli, Ombre e
presenze. Ungaretti e il secondo mestiere (1919-1937), premessa di E. Giachery,
Loffredo, Napoli 2016, p. 86; lettera di Mussolini a Soffici del 2 dicembre
1919, in G. Ungaretti, Lettere a Soffici 1917-1930, a cura di P. Montefoschi e
L. Piccioni, Sansoni, Firenze 1981, pp. 69-70; Giuseppe Ungaretti e Benito
Mussolini (archiviato dall'url originale il 24 marzo 2020).). Più pacati furono
i toni usati in quell'occasione da Mussolini che nel dicembre 1919 cercò di
tranquillizzare il suo corrispondente parigino: «Carissimo, Marinetti è in
libertà. Tutto bene» (Biglietto del 13 dicembre 1919 inviato da Mussolini ad
Ungaretti, Vita d'un uomo. Saggi e Interventi, Mondadori, Milano 1986, p. 910).
^ Per tutta la vicenda vedi Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario cit.,
pagg. 573-77. ^ Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario cit., pag. 544,
pag. 590 e sgg. ^ O.O., vol. XV, pagg. 197-8. ^ Renzo De Felice, Mussolini il
rivoluzionario cit., pagg. 592 e 658-59, Mussolini il fascista - La conquista
del potere, Einaudi, Torino, 1995, pag. 29. A volte le richieste di denaro
erano quasi esplicitamente ricattatorie, vd. Mussolini il rivoluzionario cit.
pag. 354 e Mussolini il fascista - La conquista del potere cit., pag. 45. ^ M.
Drago, Allievi marescialli nelle forze armate. Teoria ed esercizi per la
preparazione alla prova di preselezione dei concorsi, Alpha Test, 1º gennaio
2012, p. 124, ISBN 978-88-483-1469-5. URL consultato il 3 febbraio 2017. ^
Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario cit. pagg. 645-47. ^ Emilio
Gentile, E fu subito regime: Il fascismo e la marcia su Roma, Gius.Laterza
& Figli Spa, 1º settembre 2014, ISBN 978-88-581-1642-5. URL consultato il 3
febbraio 2017. ^ Andrea Leccese, Inciucio forever: La costante del
trasfmormismo nella politica italiana, Armando Editore, 1º gennaio 2014, p. 61,
ISBN 978-88-6677-726-7. URL consultato il 3 febbraio 2017. ^ Giolitti aveva
esplicitato la sua intenzione di avere con sé i "patrioti" e i
"partiti nazionali" il 1º aprile 1921. Vd. Renzo De Felice, Mussolini
il fascista - La conquista del potere cit., pag. 64. ^ La lista di associazioni
che aderirono al blocco è consultabile in Renzo De Felice, Mussolini il
fascista - La conquista del potere cit., pag. 82 n. 4. ^ Dal Corriere della
Sera del 1º gennaio 1922. ^ Dall'8 aprile al 14 maggio risultano 105 morti e
431 feriti. Renzo De Felice, Mussolini il fascista - La conquista del potere
cit., pag. 87. ^ Camera, 11 marzo 1925, pag. 2438. ^ Renzo De Felice, Mussolini
il rivoluzionario, Torino, 1965. ^ Renzo De Felice, Mussolini il fascista - La
conquista del potere cit., pag. 111, 138. ^ Renzo De Felice, Mussolini il
fascista - La conquista del potere cit., pag. 151. ^ O.O., vol. XVI, pagg. 241
e 297. ^ Renzo De Felice, Mussolini il fascista - La conquista del potere cit.,
pag. 222. ^ Se i treni, se le poste hanno funzionato non lo si deve alle misure
preventive prese dal Governo, ma al concorso spontaneo, disinteressato,
entusiasta degli elementi nazionali. in Renzo De Felice, Mussolini il fascista
- La conquista del potere cit., pag. 273. Per i pareri negativi riguardo allo
sciopero vedi ibidem pagg. 222-24: Lo sciopero generale proclamato ed ordinato
dall'Alleanza del Lavoro è stato la nostra Caporetto. Usciamo da questa prova
clamorosamente battuti. ^ Enzo Biagi, Storia del Fascismo cit. ^ Amendola, Una
battaglia, pag. 186. ^ Nitti, Rivelazioni, pagg. 346-7. ^ Mack Smith, 1981, p.
87. ^ Antonino Repaci, vol. II, pagg. 125 e 132. ^ Mussolini stesso asserisce,
nel discorso di insediamento in Parlamento, che le camicie nere sarebbero state
ben 300 000. ^ Secondo Badoglio sarebbe bastato arrestare al massimo una
dozzina di persone e i fascisti avrebbero perso al primo scontro[senza fonte],
asserì, inoltre che "al primo fuoco, tutto il fascismo crollerà".
Renzo de Felice, Mussolini il fascista - La conquista del potere cit., pag.
325. ^ Renzo de Felice, Mussolini il fascista - La conquista del potere cit.,
pag. 358. ^ Secondo Renzo De Felice la parte destrorsa del fascismo era di
tendenza o monarchica e conservatrice di ispirazione nazionalista, oppure
revisionista, normalizzatrice e moderatamente parlamentarista. Vd. Mussolini il
fascista - La conquista del potere cit., pagg. 365-66. ^ Paolucci, pag. 240. ^
cfr. "Il Parlamento è morto". Discorso pronunziato alla Camera
dall'on. Filippo Turati il giorno 17 novembre 1922 sulle Comunicazioni del
Governo, in "Critica Sociale", a. XXXII, n. 22, 16-30 novembre 1922,
p. 339-349. ^ Vedi anche Atti Parlamentari, Camera dei deputati, Discorsi, XXVI
legislatura, Tornata del 17 novembre 1922, pp. 8425-8435. ^ Rendo De Felice,
Mussolini il fascista - La conquista del potere cit. pag. 479. ^ Gianfranco
Bianchi, Da Piazza San Sepolcro a Piazzale Loreto, Vita e Pensiero, Roma, 1978,
p.264. ^ Renzo De Felice, Mussolini il fascista - La conquista del potere cit.,
pag. 481 n. 4. La legge sarà la n. 1601 del 3 dicembre 1922 (G. U. 15 dicembre,
num. 293), vd. qui (PDF).. ^ Renzo De Felice, Mussolini il fascista - La
conquista del potere cit., pagg. 528-534. ^ Renzo De Felice, Mussolini il
fascista - La conquista del potere cit., pagg. 524 e 535. ^ Italo Scotti,
Bollettino di informazioni costituzionali e parlamentari 1 (1984): Il fascismo
e la Camera dei deputati: I - La Costituente fascista (1922-1928), pag. 109
(PDF) (archiviato dall'url originale il 4 novembre 2013).. ^ Renzo De Felice,
Mussolini il fascista - La conquista del potere cit., pag. 534. ^ "The Italo-Greek
Crisis." Economist [London, England] 8 Sept. 1923: 356+. The Economist
Historical Archive, 1843-2012. . ^
Renzo De Felice, Mussolini il fascista - La conquista del potere cit., pagg.
561-62. ^ Renzo De Felice, Mussolini il fascista - La conquista del potere
cit., pagg. 557-570. ^ Renzo De Felice, Mussolini il fascista - La conquista
del potere cit., pag. 563. ^ Regio Decreto Legge 22 febbraio 1924, n. 213. ^
Renzo De Felice, Mussolini il fascista - La conquista del potere cit., pag.
564, n. 3. Cfr. anche Prassi italiana di diritto internazionale - I casi della
prassi - Parte V - Cap. I - C. - a - 411/3 (archiviato dall'url originale il 13
dicembre 2014).. ^ Alessandro Visani, La conquista della maggioranza,
Mussolini, il PNF e le elezioni del 1924, Fratelli Frilli Editori, 2004, in
particolare nel cap. 4 l'elenco dei fatti di cronaca riguardanti risse,
aggressioni, provocazioni raccolte dall'A. nelle carte dell'ACS provenienti da
prefetture, questure, stazioni di RRCC e dalla stampa coeva, da p. 134 a p.
143. ^ Nella fattispecie i fascisti uccisi durante la campagna elettorale
furono 18 e i feriti 147: cfr. Fabio Andriola, Mussolini prassi politica e
rivoluzione sociale, e.f.c. Le vittime della violenza fascista, invece, secondo
Renzo De Felice, furono "centinaia di feriti e non pochi morti" (fra
questi anche il deputato Antonio Piccinini), quasi tutti appartenenti a partiti
d'opposizione, ma anche alle frange dissidenti del fascismo (come nel caso di
Cesare Forni e Raimondo Sala) cfr. Renzo De Felice, Mussolini il fascista - La
conquista del potere cit., pag. 583. ^ Fin dalla presa del potere nell'ottobre
1922 Mussolini e il Governo tentarono di arginare la violenza squadristica non
più necessaria, vd. Renzo De Felice, Mussolini il fascista - La conquista del
potere cit., pagg. 406-07, 440-44, 481, 584. ^ Cfr. soprattutto Alessandro
Visani, La conquista della maggioranza, Mussolini, il PNF e le elezioni del
1924, Fratelli Frilli Editori, 2004, in particolare il capitolo 4 e 5 e la
prefazione di Giovanni Sabatucci. ^ Renzo De Felice, op. cit. nonché Alessandro
Visani, op. cit.[Manca numero di pagina]. ^ Riferisce infatti A. Visani (op.
cit.), p. 146, come particolare cura dovesse essere tenuta nell'esporre bene
che sulla scheda elettorale non andasse apposto altro segno che la croce sul
partito scelto, e soprattutto si dovessero evitare slogan e frasi d'ogni
genere. Ci si riferiva infatti alla possibilità riferita dalle prefetture che
agenti in incognito dei partiti di minoranza avessero volontariamente spinto i
più ingenui elettori del blocco nazionale a scrivere sulle schede "Viva
Mussolini!", una pratica che avrebbe portato all'annullamento della scheda
stessa. ^ Renzo De Felice, Mussolini il fascista - La conquista del potere
cit., pag. 563 n. 2. ^ ibidem. ^ Si veda il resoconto stenografico della seduta
del 30 maggio 1924, Camera dei Deputati. ^ Così chiamata in richiamo alla
secessione della plebe ai tempi della res publica romana i quali si riunirono
sull'Aventino. ^ Renzo De Felice, Mussolini il fascista - La conquista del
potere cit., pagg. 620 sgg. ^ La morte di Matteotti infatti sarebbe stata
causata accidentalmente, durante la colluttazione seguita al prelevamento da
parte degli squadristi. ^ Scheda biografica di Matteotti, su treccani.it. ^
Renzo De Felice, Mussolini il fascista - La conquista del potere cit., p. 622.
^ Ibidem, pag. 646; Renzo De Felice, Mussolini il fascista - L'organizzazione
dello Stato fascista, Einaudi, 1995, pagg. 55, 158 n. 2. ^ Renzo De Felice,
Mussolini il fascista - La conquista del potere cit., pag 703. ^ Renzo De Felice,
Mussolini il fascista - La conquista del potere cit., pagg. 686-87. ^ Renzo De
Felice, Mussolini il fascista - La conquista del potere cit., pag. 701. ^ Renzo
De Felice, Mussolini il fascista - La conquista del potere cit., pag. 650-51,
707-08 e 722-23. ^ Renzo De Felice, Mussolini il fascista - La conquista del
potere cit., pagg. 673-74, 676, 681, 707-08, 715. ^ Renzo De Felice, 'Mussolini
il fascista - La conquista del potere cit., pag. 705. ^ Indignatissimo il
settimanale della sinistra fascista Impero scriverà un pezzo (dicembre 1924)
intitolato Rivoluzione, non criminalità nel quale si accusava Mussolini di far
"di tutto per portarsi sul terreno della non-rivoluzione". Vd. Renzo
De Felice, Mussolini il fascista - La conquista del potere cit., pag. 714. ^
Per i varii articoli giornalistici del fascismo intransigente contrario al
moderatismo mussoliniano vd. Renzo De Felice, Mussolini il fascista - La
conquista del potere cit., pagg. 711-15 e 723-26. ^ Ibidem, pag. 715. ^ Renzo
De Felice, Mussolini il fascista - La conquista del potere cit., pagg. 717-18.
^ R. De Felice, Mussolini il fascista, Einaudi, 1966. ^ Discorso alla Camera
dei Deputati sul delitto Matteotti, testo integrale di Benito Mussolini del 3
gennaio 1925 su Wikisource. ^ Dopo il delitto Matteotti, infatti, alcuni
esponenti liberali e fascisti propendevano per l'idea secondo cui Mussolini
dovesse "mettersi a disposizione della giustizia". Vd. Renzo De
Felice, Mussolini il fascista - La conquista del potere cit., pagg. 701 e 704. ^
Col discorso del 3 gennaio ebbe inizio il regime dittatoriale fascista, data
confermata dallo stesso Mussolini nel libro "Storia di un anno: Il tempo
del bastone e della carota", Mondadori, 1944, pag. 175 (in Opera Omnia,
vol. XXXIV, pag. 411). ^ Renzo De Felice, Mussolini il fascista - La conquista
del potere cit., pagg. 722-23. ^ Renzo De Felice, Mussolini il fascista - La
conquista del potere cit., pagg. 726. ^ Renzo De Felice, Mussolini il fascista
- La conquista del potere cit., pag. 729. ^ Renzo De Felice, Mussolini il
fascista - L'organizzazione dello Stato fascista cit., pagg. 139-40. ^ Ibidem,
pag. 145. ^ Ibidem, pagg. 149-157. ^ Ibidem, pagg. 142 e 148 n. 2. ^ In
particolare " La Giustizia.", cfr. ibidem, pag. 142, "La
Rivoluzione liberale" e "Il Popolo", cfr. ibidem, pag. 150. ^
Simonetta Falasca Zamponi, Lo spettacolo del fascismo, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2003, p. 124. ^ Marco Cesarini Sforza, Gli attentati a Mussolini,
Per pochi centimetri fu sempre salvo, in La storia illustrata nº 8, Anno 1965,
pag. 244: "Un gruppo di squadristi si lanciò sull'attentatore: più tardi
sul suo cadavere furono contate quattordici pugnalate profonde, un colpo di
pistola e tracce di strangolamento". ^ Marco Cesarini Sforza, Gli
attentati a Mussolini, Per pochi centimetri fu sempre salvo, in La storia
illustrata nº8 Anno 1965, pag. 244: "Lasciamo la parola all'ex capo dei
servizi politici presso la Direzione generale della PS, Guido Leto.
"Furono sospettati a turno" egli scrive "Farinacci, Balbo, Arpinati,
quest'ultimo perché proveniente dalle file anarchiche e amico della famiglia
Zamboni, e lo stesso Federzoni, ma le indagini accurate che furono eseguite
dalla questura di Bologna, diretta allora da un eccellente funzionario, il
questore Alcide Luciani, e da un altro espertissimo funzionario, perfetto
conoscitore dell'ambiente bolognese, Michelangelo Di Stefano, giunsero alla
conclusione che non v'era alcun elemento apprezzabile per sostenere la tesi di
un complotto organizzato nei ranghi fascisti. Ve n'erano, invece moltissimi per
convalidare quella di un gesto di un isolato". ^ Marco Cesarini Sforza,
Gli attentati a Mussolini, Per pochi centimetri fu sempre salvo, in La storia
illustrata nº8 Anno 1965, pag. 244: "Un'inchiesta segreta fu anche
compiuta, in seguito, per iniziativa del Sottosegretario all'interno, conte
Giacomo Suardo, dal magistrato Noseda del Tribunale Speciale; ma i risultati
non differirono da quelli stabiliti dalle indagini della polizia". ^ Renzo
De Felice, Mussolini il fascista - L'organizzazione dello Stato fascista cit.,
pagg. 211-14. ^ Mack Smith, 1981, p. 199. ^ Renzo De Felice, Mussolini il
fascista - L'organizzazione dello Stato fascista cit., pag. 130. ^ Sebbene
Federzoni avesse intimato lo scioglimento dopo la presa del Ministero e dopo il
3 gennaio 1925, molte squadre vennero ricreate dall'ambiente farinacciano
provinciale e rimasero attive per diversi anni, pur con le minacce di
ritorsioni da parte di Federzoni e dello stesso Mussolini. Cfr. Renzo De
Felice, Mussolini il fascista - L'organizzazione dello Stato fascistacit.,
pagg. 63-65, 68, 123 n. 1, 170-171, 184 n. 3, 209 n. 3, 210. In occasione delle
violenze di Firenze dell'ottobre 1925 Mussolini, riunendo il Gran consiglio del
fascismo il giorno 5, fece approvare un ordine del giorno in cui si ordina lo
scioglimento immediato di qualsiasi formazione squadristica di qualsiasi specie
perché esse non hanno più, a tre anni di distanza dalla Marcia su Roma, alcuna
giustificazione storica e politica. Ibidem, pag. 134. ^ Aniante, pag. 71. ^
Arpinati, pag. 256-7. ^ Renzo De Felice, Mussolini il fascista -
L'organizzazione dello Stato fascista cit., pagg. 91-98. ^ Alfio Caruso,
Arrivano i nostri, Longanesi &C. ^ Matteo di Figlia Alfredo Cucco, Quaderni
Mediterranea 1979. ^ G. Tricoli, Alfredo Cucco. Un Siciliano per la Nuova
Italia, ISSPE, 1987. ^ InStoria - Mafia e Fascismo.. ^ Non è da escludersi
tuttavia che Cucco fosse stato trascinato in una vera e propria trappola
politica, poiché egli - essendo dell'area farinacciana - era notevolmente
inviso a Mussolini, che proprio in quel periodo stava "epurando" i
vertici del partito degli elementi vicini a Farinacci. Cfr. Matteo di Figlia
Alfredo Cucco, Quaderni Mediterranea 1979. ^ Sospetti di affiliazione mafiosa
restarono, tuttavia, come fa notare il biografo Matteo di Figlia in op. cit. ^
Ibidem, nonché cfr. Alfio Caruso, op. cit. ^ Ibidem. Giampietro aveva iniziato
perfino una campagna contro le... gonne sopra al ginocchio, tanto da essere
invano richiamato alla moderazione dallo stesso ministro Rocco. Cfr. Alfio
Caruso, op. cit. ^ Ibidem. ^ La mafia e la crociata del prefetto Mori.. ^ op.
cit. "Non è vero che la mafia dei salotti impone a Mussolini
l'allontanamento di Mori. È vero viceversa che i suoi modi hanno allarmato
Roma; che Mussolini ritiene il problema liquidato e che può ora liquidare il
liquidatore". ^ DDI, VII Serie, vol. IV, pagg. 294-5. ^ Graziotti, pagg.
77-8. ^ Mack Smith, 1981, p. 201. ^ Regio decreto 6 novembre 1926, n. 1848. ^
Legge 25 novembre 1926, n. 2008. ^ Re, regina, reggente, principe ereditario e
primo ministro. ^ Sergio Romano, Vademecum di storia dell'Italia unita,
Rizzoli, Milano, 2009, p. 86.. ISBN 978-88-586-0165-5. ^ Enzo Biagi, Amori,
Rizzoli, 1988, p. 138. ISBN 88-17-85139-6. ^ il patto fu siglato il 7 giugno
1933 e firmato il 15 luglio dell stesso anno. Salata riporta che nel protocollo
della sigla, sottoscritto il 7 giugno, fu concordato che il patto avrebbe
portato la data del 7 giugno, indipendentemente dalla data della firma, un atto
espressivo della volontà del governo. Vedi Francesco Salata Il patto Mussolini,
1933, p. 122 ^ Francesco Salata, Il patto Mussolini, Mondadori, 1933, p. 133. ^
Francesco Salata, Il patto Mussolini, Mondadori, 1933, p. 134. ^ L'origine del
sistema pensionistico italiano va comunque fatta risalire al 17 luglio 1898,
legge n. 350 con l'istituzione di una «Cassa Nazionale di previdenza per la
invalidità e per la vecchiaia degli operai», con contributi su base volontaria.
^ Nel momento dell'uccisione di Dollfuß, la moglie e i figli erano ospiti di
Mussolini presso una sua residenza balneare. ^ All'origine dell'incidente di
Ual Ual, Salvatore Minardi, 1990, S. Sciascia (Caltanissetta). ^ R. De Felice,
Mussolini il Duce, tomo 1º pp. 526 e ss. ^ A tale accordo si fa riferimento in
Langer, William L. (a cura di) An Encyclopaedia of World History, Houghton
Mifflin Company, Boston, 1948, p. 990. ^ R. De Felice, Mussolini il duce, cit.
pp. 395 e ss. ^ Del Boca, p. 192. ^ Ministero per la Guerra, Relazione
dell'attività svolta per l'esigenza A.O., Istituto Poligrafico dello Stato,
Roma, 1936, allegato n. 76. ^ Del Boca, p. 193. ^ Per un quadro completo quadro
sull'uso sistematico delle armi chimiche durante il periodo 1935-1940 sul
fronte Etiopico si veda Angelo Del Boca, I gas di Mussolini, Il fascismo e la guerra
d'Etiopia, Editori Riuniti, Roma, 1996. ^ Del Boca, p. 194. ^ Del Boca, pp.
194-195. ^ Del Boca, p. 196. ^ Del Boca, pp. 196-197. ^ Del Boca, p. 197. ^ Del
Boca, pp. 197-198. ^ Del Boca, pp. 198-200. ^ Del Boca, pp. 200-201 e 205-224.
^ F. Cardini e R. Mancini, Hitler in Italia. Dal Walhalla a Ponte Vecchio,
maggio 1938, Bologna, Il Mulino, 2020 (ed. digit.: 2020, doi:
10.978.8815/355706) ^ È il caso per esempio del prefetto Cesare Mori. ^ Per un
primo approccio sull’origine, motivazioni e caratteristiche del diffuso
consenso che il fascismo riscosse dagli intellettuali italiani si veda, ad
esempio, A. d’Orsi, La cultura a Torino tra le due guerre, Einaudi, Torino
2000; G. Belardelli, Il Ventennio degli intellettuali, Laterza, Roma-Bari 2005;
A. Tarquini, Storia della cultura fascista, Laterza, Roma-Bari 2011. ^ A
proposito dell'adesione di Giuseppe Ungaretti al fascismo, ed in particolare al
suo rapporto con Mussolini, si veda: Robert S. Dombroski, L’esistenza
ubbidiente, letterati italiani sotto il fascismo, Guida, Napoli, 1984, pp. 71 e
89; Filosofia fantastica. Prose di meditazione e d’intervento (1926-1929), a
cura di Carlo Ossola, UTET, Torino 1997, pp. 10-11; L. Piccioni, Vita d'un
poeta, Rizzoli, Milano 1970, p. 66; W. Mauro, Vita di Giuseppe Ungaretti,
Camunia, Milano, 1990, p. 81; P. Guida, Ungaretti privato. Lettere a Paul-Henri
Michel, Pensa multimedia, Rovato-Lecce 2014, p. 38. Copia archiviata, su laltraverita.it. URL
consultato il 7 luglio 2009 (archiviato dall'url originale il 2 febbraio
2009).. ^ Allocuzione "Vogliamo anzitutto".. ^ Mussolini e il papa
(2) (archiviato dall'url originaleil 20 maggio 2011).. ^ Copia archiviata, su
anpi.it. URL consultato il 7 luglio 2009 (archiviato dall'url originale il 10
luglio 2009).. ^http://www.ilmanifesto.it/25aprile/02_25Aprile/9502rs14.01.htm
Archiviato il 30 dicembre 2005 in Internet Archive. . ^ Cap 3.. ^ A Trieste
operarono alcuni dei principali responsabili della cosiddetta "Aktion
Reinhardt", l'operazione che aveva portato allo sterminio di milioni di
ebrei deportati nei campi della Polonia Orientale. Comandante delle SS e della
SD nel settore adriatico (e quindi anche incaricato della caccia agli ebrei)
era il generale delle SS Odilo Globocnik, già comandante del settore di Lublino
e quindi responsabile dei campi di Belzec, Majdanek, Sobibor e Treblinka; a
Trieste operavano con lui Franz Stangl, già comandante di Treblinka, e
Christian Wirth uno degli ideatori delle camere a gas, poi ucciso dai
partigiani. Benito Mussolini, MEMORIA
SEGRETA DI MUSSOLINI SULLA CONDOTTA DELLA GUERRA, Schede tecniche aerei
militari italiani e storia degli aviatori, su alieuomini.it, 31 marzo 1940. ^
Si veda Pietro Badoglio (L'Italia nella seconda guerra mondiale, p. 37), che
riporta questa affermazione come ricevuta direttamente da Mussolini durante un
loro colloquio avvenuto il 26 maggio 1940. ^ Dalle colonie inglesi, e in
particolar modo dall'India, giunsero migliaia di soldati, che non era stato
possibile mobilitare precedentemente. ^ Già a Capo Spada venne affondato un
incrociatore italiano (19 luglio) e l'11 novembre 1940 alcune navi italiane
furono affondate da un attacco aereo nel porto di Taranto. L'ultimo scontro di
rilievo si ebbe a Capo Matapan, il 28 marzo 1941, una delle più gravi sconfitte
nella storia della Marina. ^ Alfassio Grimaldi, U., Bozzetti, G. (1974). Dieci
giugno 1940 [i. e. millenovecentoquaranta], il giorno della follia. Italia:
Laterza. ^ Ciabattini, p. 69. ^ Ciabattini, p. 68. ^ La conquista fu completata
in poco più di un mese (17 agosto). ^ Renzo De Felice, Mussolini l'alleato,
Einaudi, 1996, p. 1221-1228. ^ Ciabattini, p. 101. ^ Ciabattini, p. 102. ^
Ciabattini, p. 105. ^ Mussolini e il re avevano un colloquio privato due volte
alla settimana, il lunedì e il giovedì. L'unica persona ammessa era il Ministro
della Real Casa. Iniziati nel 1922, gli incontri proseguirono ininterrottamente
fino al 1943, per ventuno anni.
Ciabattini. ^ Ciabattini, p. 110.
Poi arrestato dai tedeschi e trucidato alle Fosse Ardeatine). ^ Benito
Mussolini, Memoirs 1942-1943, Weidenfeld & Nicolson, London 1949, p. 218n
(in inglese). Il testo si trova anche qui: MEMOIRS 1942-1943, su
oudl.osmania.ac.in. URL consultato il 2 marzo 2012 (archiviato dall'url
originale il 13 dicembre 2014).. ^ Franco o Francesco Maugeri, su
digilander.libero.it. URL consultato il 17 gennaio 2024. ^ Enzo Antonio
Cicchino, Saverio Polito e il viaggio di Rachele a Rocca delle Caminate il 4
agosto 1943, su historyfilesnetwork.com, 22 settembre 2023. URL consultato il
17 gennaio 2024. ^ Marco Riscaldati, DAL GRAN CONSIGLIO AL GRAN SASSO I 50
terribili giorni che videro l’Arma protagonista, in Notiziario storico
dell'Arma dei carabinieri, Anno IV, n. 7. ^ Sandro Russo, Mussolini prigioniero
a Ponza (1), su Ponza Racconta, 22 marzo 2011. URL consultato il 17 gennaio
2024. ^ Cfr. Fabrizio Montanari. Nenni-Mussolini, amicizia impossibile, in
Quotidiano on line 24emilia.com (archiviato dall'url originale il 28 ottobre
2016). ^ L'8 febbraio 1943, alla vigilia del suo compleanno, Nenni fu arrestato
dalla Gestapo a Saint-Flour, in Rue de la Franze n.13, nella Francia di Vichy
(cfr. Mimmo Franzinelli, I tentacoli dell'Ovra: agenti, collaboratori e vittime
della polizia politica fascista, Bollati Boringhieri, 1º gennaio 1999, ISBN
978-88-339-1164-9. URL consultato il 23 febbraio 2017. e Pietro Nenni,
Intervista sul socialismo italiano, Laterza, 1º gennaio 1977. URL consultato il
23 febbraio 2017.). Venne condotto prima a Vichy e poi fu rinchiuso nel carcere
parigino di Fresnes per circa un mese (cfr. Enzo Santarelli, Pietro Nenni,
UTET, 1º gennaio 1988, ISBN 978-88-02-04183-4. URL consultato il 23 febbraio
2017.). Il 5 aprile venne consegnato dai tedeschi a due carabinieri alla
frontiera del Brennero, probabilmente su richiesta di Mussolini, che così lo salvò
dalla deportazione nei campi di concentramento nazisti. Condotto nel carcere
romano di Regina Coeli, Nenni fu poi confinato nell'isola di Ponza. ^ Cfr.
Arrigo Petacco, La Storia ci ha mentito, MONDADORI, 8 aprile 2014, ISBN
978-88-520-4911-8. URL consultato il 23 febbraio 2017., che riporta degli
appunti che il Duce scrisse durante il crepuscolo di Salò. ^ La grande storia,
Rai Tre, 3 settembre 2010. ^ Di Michele, Vincenzo,, L'ultimo segreto di
Mussolini, ISBN 88-8474-422-9, OCLC 925734586. ^ Renzo De Felice, Mussolini
l'alleato: la guerra civile 1943-45, Torino, Einaudi, 1997, pp. 54-71. ^ La
Provincia autonoma di Lubiana era stata annessa all'Italia nel 1941. De iure,
continuò a essere considerata tale fra paesi dell'Asse fino alla fine del
conflitto. Ovviamente, tale annessione non era considerata legittima dagli
Alleati. ^ Renzo De Felice, Mussolini l'Alleato, tomo II, Einaudi. ^ Il Teatro
Lirico aveva assunta la funzione della Scala, gravemente colpita dai
bombardamenti alleati. ^ Elena Aga Rossi e Bradley F. Smith Operazione Sunrise,
Mondadori. ^ Mack Smith, 1981 "La ragione offerta (in cui è difficile
scorgere un qualsiasi senso logico) fu lo shock subito nell'apprendere che i
tedeschi erano scesi a patti senza informarlo". ^ Per l'intera vicenda,
cfr. Fabio Andriola, Appuntamento sul lago e Carteggio Segreto Churchill
Mussolini, SugarCo. ^ Mack Smith, 1981. ^ Secondo, fra gli altri, Raffaele
Cadorna (La riscossa: dal 25 luglio alla liberazione, Milano, 1948), Leo
Valiani (Tutte le strade conducono a Roma, Firenze, 1947) e Silvio Bertoldi (La
guerra parallela, Milano 1996), Mussolini avrebbe appreso il 25 aprile della
decisione del CLNAI di giustiziarlo. Secondo Silvestri (Turati l'ha detto:
socialismo e democrazia cristiana, Milano, 1946), che però è fonte isolata,
avrebbe proprio confidato questa valutazione. ^ Fabio Andriola, Appuntamento
sul lago e Carteggio Segreto Churchill Mussolini, entrambi per i tipi della
SugarCo. ^ Pier Luigi Bellini delle Stelle, Urbano Lazzaro, Dongo: la fine di
Mussolini, ed. Mondadori, 1962, p. 117. ^ Che a seguito dell'armistizio aveva
per decreto luogotenenziale assunto tutti i poteri costituzionali. ^ Comandante
del Corpo Volontari della Libertà ^ Raffaele Cadorna, Milano, La riscossa: dal
25 luglio alla liberazione, 1948. Per la sintesi del vasto relato del generale,
si è fatto riferimento a Ray Moseley (Mussolini, Taylor Trade Publications,
2004). ^ Walter Audisio, In nome del popolo italiano, Edizioni Teti, 1975). ^
Fondazione ISEC - cronologia dell'insurrezione a Milano 24-30 aprile
1945.. Fondazione ISEC - cronologia
dell'insurrezione a Milano 24-30 aprile 1945.. ^ Vincenzo Costa L'ultimo
federale, il Mulino 1999, p. 107. Sempre secondo Costa, nell'attentato
partigiano erano morti cinque soldati tedeschi della Propaganda Staffel e due
popolane milanesi. Una trentina fra civili e militari germanici erano i feriti.
^ Giorgio Pisanò, Storia della guerra civile in Italia, cfr. fotografie alle
pp. 1586 e 1587. ^ Ibidem, p. 1606. ^ Fra i molti testimoni, era presente anche
il giornalista Indro Montanelli. ^ L'autopsia effettuata sul corpo di
Mussolini(archiviato dall'url originale il 2 giugno 2012)., Controstoria, 27
settembre 2010. ^ Filmati e foto d'epoca girati a Piazzale Loreto - Milano e
all'obitorio.. ^ Tettamanti Franco, 1946, commando a Musocco Rubata la salma
del duce, in Corriere della Sera, 18 giugno 2008, p. 9. URL consultato il 2
ottobre 2009 (archiviato il 7 luglio 2012). ^ Ex multis, recentemente, Pasquale
Chessa, Guerra civile 1943-1945-1948. ^ Gherardo Casini Editore, Santarcangelo
di Romagna, 2003 e 2010, collana Frammenti di storia. ^ Come ravvisabile ad
esempio nel discorso pronunciato da Benito Mussolini il 2 aprile 1923 a Milano.
^ Domenico Venturini con prefazione di Amilcare Rossi. Pubblicazioni d'Opere
per l'incremento della Letteratura fascista. Dante Alighieri e Benito
Mussolini. Roma, Casa Editrice Nuova Italia, 1932. ^ Roberto Gervaso, Il dito
nell'occhio, Rusconi, 1977, p. 25. ^ Renzo De Felice, Mussolini il
rivoluzionario, Einaudi 2004.. ^ Copia archiviata, su cssem.org. URL consultato
il 7 luglio 2009 (archiviato dall'url originale il 16 aprile 2009).. ^ Massimo
Baioni. Risorgimento in camicia nera. Studi, istituzioni, musei nell'Italia
fascista. Roma, Carocci, 2006. ^ Brano tratto da La Dottrina del fascismo, di
Giovanni Gentile e Benito Mussolini, ( cfr.(archiviato dall'url originale il 30
marzo 2009).), sviluppata sin dal 1929, inserito nell'edizione de
L'Enciclopedia Italiana del 1934, (Volume XIV, p. 849): «Regimi democratici
possono essere definiti quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo
l'illusione di essere sovrano, mentre la vera effettiva sovranità sta in altre
forze talora irresponsabili e segrete. La democrazia è un regime senza re, ma
con moltissimi re talora più esclusivi, tirannici e rovinosi che un solo re che
sia tiranno.[...] Il fascismo respinge nella democrazia l'assurda menzogna
convenzionale dell'egualitarismo politico e l'abito della irresponsabilità
collettiva e il mito della felicità e del progresso indefinito. Ma, se la
democrazia può essere diversamente intesa, cioè se democrazia significa non
respingere il popolo ai margini dello stato, il fascismo poté da chi scrive
essere definito una 'democrazia organizzata, centralizzata, autoritaria.» ^
Emilio Gentile, La Grande guerra e la rivoluzione fascista, su treccani.it.
«Ateo militante negli anni giovanili, quando era socialista rivoluzionario,
dopo la conversione all’interventismo e l’espulsione dal Partito socialista,
alla fine del 1914, Mussolini era rimasto ateo, anticlericale e pagano, e tale
si professava quando diede vita al fascismo: «Noi» scriveva all’indomani della
sconfitta» ^ Emilio Gentile, La Grande guerra e la rivoluzione fascista, su
treccani.it. «Pochi mesi dopo, nell’agosto, Mussolini inneggiava all’impero
spirituale del cristianesimo «che non ha territori, ma ha ancora un’idea nella
quale si raccolgono quattrocento milioni di uomini sparsi sulla faccia della
terra»: «È un impero che conta oramai la sua vita a millenni. Sui flutti
agitati della storia è ancora la barca del divino ebreo Gesù quella che
galleggia meglio di tutte le altre»64. E un mese dopo, Mussolini ripudiava
l’anticlericalismo e l’anticattolicismo» ^ Fonte: Corriere della Sera,
18.04.1996, "Mussolini rubacuori. Ha avuto 15 amanti".. ^ M. Sarfatti
The Life Of Benito Mussolini (1925) scaricabile. ^ Mimmo Franzinelli, Il duce e
le donne. Avventure e passioni extraconiugali di Mussolini, Mondadori, 2013,
ISBN 8804630957, ISBN 9788804630951 ^ Sergio Luzzatto, Così il Duce distrusse
la famiglia segreta, su archiviostorico.corriere.it, Archivio storico del
Corriere della Sera. URL consultato il 12 settembre 2022. ^ Alfredo Pieroni, La
vera storia del bigamo Benito, su archiviostorico.corriere.it, Archivio storico
del Corriere della Sera. URL consultato il 23 aprile 2009. ^ Marco Zeni, La
moglie di Mussolini, Trento, Effe e Erre, 2005, ISBN 88-901945-0-2. ^ Mirella
Serri, Claretta l'hitleriana, Longanesi, 2021, p. 47. ^ Alberto Bertotto, Tutti
i fgli di Benito Mussolini - Voceditalia.it, su voceditalia.it, 13 aprile 2013.
URL consultato il 19 settembre 2022 (archiviato dall'url originale il 13 aprile
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pp. 121.-122. ^ È morta Elena Curti, la
figlia naturale di Mussolini, in repubblica.it, 17 gennaio 2022. ^ Roberto
Festorazzi, La pianista del duce. Vita, passioni e misteri di Magda Brard,
l'artista francese che strego Benito Mussolini, Milano, Simonelli, 2000, p. 41
^ Antonio Spinosa, I figli del duce, Milano, Rizzoli, 1983 Milleduci. Si è spenta a 99 anni Elena Curti,
figlia naturale del dittatore. Da Albino Benito a Glauco di Salle e Asvero
Gravelli, chi sono i Mussolini illegittimi, segreti e sospetti., su tag43.it. ^
Mussolini: una figlia segreta da una pianista, su news.ch. URL consultato l'8
giugno 2023. ^ Sito web del Quirinale: dettaglio decorato(archiviato dall'url
originale il 19 ottobre 2016).. ^ Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia n.94
del 26 aprile 1926, pag.1702. ^ (p.211).. ^ John P. Diggins, L'America,
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diventa, Gherardo Casini Editore, 2003/2010. Benito Amilcare Andrea Mussolini. Mussolini.
Grice e Mustè: la
ragione conversazoinale e l’implicatura conversazionale nella filosofia
dell’idealismo italiano – il dialogo di Socrate e il dialogo di Gentile – filosofia
lazia – lingua lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Flosofo italiano. Roma, Lazio. Laurea in
filosofia con la tesi, “Marx,” borsista dell'Istituto italiano per gli studi
storici di Napoli, dove ha svolto attività didattica e di ricerca, collaborando
con Gennaro Sasso. Redattore della “nuova serie” della “Rivista trimestrale”.
Consegue il titolo di dottore di ricerca alla Sapienza. Lavora alla
"Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi Filosofici"
dell'Università "La Sapienza" in qualità di “Segretario e Curatore
dell'archivio e della biblioteca di Gentile”. È stato professore a contratto di
Storia della filosofia. Insegna a Roma. È membro del Consiglio
scientifico della Fondazione Gramsci e della Commissione scientifica per la
Edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci. Ha collaborato con
l'Enciclopedia Italiana, in particolare ai volumi: Il contributo italiano alla
storia del pensiero. Filosofia (ottava appendice), Enciclopedia machiavelliana
e Croce e Gentile. La cultura italiana e l'Europa. Ha diretto la rivista
"Novecento". Fa parte del Comitato scientifico di alcune riviste, tra
cui: "Giornale critico della filosofia italiana", "Annali della
Fondazione Gramsci", “La Cultura”, “Filosofia italiana”. Scrive su diverse
riviste scientifiche, tra le quali, con maggiore continuità: "Giornale
critico della filosofia italiana", "La Cultura", "Studi
storici", "Filosofia italiana". Nel è stato nominato dal Ministero dei beni
culturali Segretario del "Comitato nazionale per il bicentenario della
nascita di Bertrando Spaventa". Dal
al ha insegnato Ermeneutica
filosofica, in qualità di Visiting Professor, alla Pontificia Università
Antonianum. Ricerche Le sue ricerche si sono rivolte alla storia della
filosofia italiana, con contributi dedicati all'idealismo e al marxismo. Per
quanto riguarda l'idealismo italiano, ha indagato i momenti e le figure
fondamentali (sino al profilo complessivo) e le premesse nella filosofia
dell'Ottocento, specie in relazione al pensiero di Vincenzo Gioberti
(soprattutto con il libro su La scienza ideale). Di particolare interesse gli
studi su Bertrando Spaventa e le monografie su Omodeo e Croce. Ha dedicato saggi
e ricerche al pensiero di Antonio Gramsci e ad altri momenti del pensiero
marxista italiano: del è la monografia
su Marxismo e filosofia della praxis, che ricostruisce la storia del marxismo
italiano da Labriola a Gramsci. Sono noti i suoi studi sul pensiero politico
nell'Italia contemporanea, con particolare riguardo alle figure di Rodano,
Balbo, Noce. Ha approfondito lo studio dell'opera di Marx e in generale
la storia della filosofia tedesca tra Hegel e Nietzsche. Particolare
attenzione ha poi rivolto (con il libro
su La storia e con altri scritti, tra cui quelli sull'evento e sulla
teoria delle fonti) alle questioni specifiche della teoria della
storiografia. Metodi Conduce l’indagine teoretica in stretta relazione
con gli studi di storia della filosofia e di storia della storiografia, in
generale nell’ambito della storia delle idee, adottando un metodo
storico-critico che spesso privilegia l’uso di fonti archivistiche e di
documentazione inedita. Il suo metodo cerca di coniugare l'analisi strutturale
delle opere filosofiche con la ricerca filologica sulle fonti e sulla
tradizione dei testi, con particolare riguardo ai processi di lungo periodo
della filosofia italiana moderna e contemporanea. Saggi:“Storiografia”
(Mulino, Bologna); “Croce, Morano, Napoli
Franco Rodano. Critica delle ideologie e ricerca della laicità” (Mulino,
Bologna); “Carteggio Croce-Antoni, Mulino, Bologna Politica e storia in Bloch,
Aracne, Roma La scienza ideale. Filosofia e politica” (Rubbettino, Soveria
Mannelli, Franco Rodano. Laicità, democrazia, società del superfluo, Studium,
Roma Grice: “’superfluo’ is possibly one of the most unsuperfluous words in the
Italian philosophical dictionary – cf. “I was in New York, which was black
out.” -- Gioberti, Il governo federativo” (Gangemi Roma) – nazione e stato
federale – federazione, governo federativo -- Rodano, Cristianesimo e società opulenta,
Edizioni di storia e letteratura, Roma, Il giudizio sul nazismo. Le
interpretazioni -- La storia: teoria e metodi, Carocci, Roma, La filosofia
dell'idealismo italiano, -- Grice: “filosofia” is superfluous here, seeing that
idealism already ENTAILS philosophy!” -- Carocci, Roma, Croce, Carocci, Roma
Tra filosofia e storiografia. Hegel, Croce e altri studi” (Aracne, Roma); “La
prassi e il valore -- la filosofia dell'essere” Aracne, Roma “Filosofia della
praxis” Viella, Roma); “In cammino con Gramsci, Viella, Roma. L'ermeneutica, in
«Rivista trimestrale», Il problema del mondo nel «Tractatus» di Wittgenstein,
in «Rivista trimestrale», Le fonti del giudizio marxiano sulla rivoluzione
francese in «Annali dell'Istituto
Italiano per gli Studi Storici», L'orizzonte liberale di Dahrendorf, in
«Critica marxista», Sturzo e il popolarismo – POPOLARISMO -- nel giudizio, in
Sturzo e la democrazia europea, Laterza, Roma-Bari, Croce e il problema del
diritto, in «Novecento», Metodo storico e senso della libertà” “La storiografia
crociana, in «La Cultura», Omodeo. Il pensiero politico, in «Annali
dell'Istituto Italiano per gli Studi Storici», Libertà e storicismo assoluto:
per un'interpretazione del liberalismo di Croce, in Croce e Gentile fra
tradizione nazionale e filosofia europea, Riuniti, Roma, “La società civile
democratica, in «Novecento», Sul
giudizio politico, in «Novecento», Il marxismo politico nell'interpretazione di
Noce, in «Poietica», Gioberti e Cartesio, in Bibliopolis, Napoli, Comunismo e
democrazia, in La democrazia nel pensiero politico del Novecento” (Aracne, Roma);
Guido Calogero, in «Belfagor», Gioberti e Leopardi, in «La Cultura», Verità e
storia, in «Storiografia», “La morale”, Rosmini e Gioberti. G. Beschin e L.
Cristellon, Morcelliana, Brescia, Il destino dell'evento nella nuova storia”
francese, in «La Cultura», Carattere e svolgimento delle prime teorie estetiche
di Croce, «La Cultura», Liberalismo
etico e liberismo economico, in Croce filosofo liberale, -- cf. Grice, “Do not
multiply liberalisms beyond necessity: ‘liberalismo semiotico’” – Grice: “Muste
is very witty in distinguishing between liberalism and liberrism!” Reale, LUISS
University Press, Roma, La teoria della storia in Croce, in «Giornale critico
della filosofia italiana», L'idea di “Risorgimento” in Gioberti, in «Quaderni
della Fondazione Centro Studi Noce», Il significato delle fonti storiche, in
«La Cultura», La storia: teoria e
metodi, in «History and Theory», Il passaggio all'anti-fascismo di Croce, in
Anni di svolta. Crisi e trasformazione nel pensiero politico della prima età
contemporanea, Sciullo, Rubbettino, Soveria Mannelli, Alterità e principio del
dialogo in Calogero, in L'idea e la differenza. – principio dialogo – il noi --
Noi e gl’altri, ipotesi di inclusione nel dibattito contemporaneo, M.P.
Paternò, Rubbettino, Soveria Mannelli Il principio del nous nella filosofia di
Calogero, in «La Cultura», La filosofia come sapere storico, in Il Novecento di
Garin. Atti del Convegno di studi, Vacca e Ricci, Istituto della Enciclopedia
Italiana, Roma, Gioberti, in Il contributo italiano alla storia del pensiero.
Filosofia, M. Ciliberto, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, Lo
storicismo italiano nel secondo dopoguerra, in Il contributo italiano alla
storia del pensiero. Filosofia, M. Ciliberto, Istituto della Enciclopedia
Italiana, Roma, Il problema della libertà nella filosofia di Scaravelli, in «La
Cultura», La libertà del volere nella filosofia di Croce, in Filosofia e
politica. Cesarale, M., Petrucciani, Mimesis, Milano, Il senso della dialettica
nella filosofia di Spaventa, in "Filosofia italiana", apr. Storia, metodo, verità, in «La Cultura»,,
Gentile e Marx, «Giornale critico della filosofia italiana», Togliatti e Luca,
«Studi storici», Gentile e Socrate, (Grice: cf. caricature of Gentile as
Aristotele in ‘La scuola d’Atene”) -- in La bandiera di Socrate. Momenti di
storiografia filosofica italiana nel Novecento, Spinelli e F. Trabattoni,
Sapienza Università, Roma, Gentile e Gioberti, «La Cultura», Gramsci, Croce e
il canto decimo dell’Inferno di Alighieri, «Giornale critico della filosofia
italiana»,, Spaventa e Gioberti, «Studi storici»,, La presenza di Gramsci nella
storiografia filosofica e nella storia della cultura, «Filosofia italiana»,
Dialettica e società civile. Gramsci “interprete” di Hegel, «Pólemos. Materiali
di filosofia e critica sociale», Marx e i marxismi italiani, «Giornale critico
della filosofia italiana», La “via alla
storia” di Ginzburg, in Streghe, sciamani, visionari. In margine a Storia
notturna di Ginzburg, Presezzi, Viella, Roma, Filosofia e storia della
filosofia nella riflessione di Sasso, «Filosofia italiana», Opere Sapienza
Roma. Dipartimento di studi filosofici ed epistemologici, su lettere uniroma1.
Intervista sulla storia della "Rivista trimestrale" Intervista di M.
su Croce del //diacritica/ letture-critiche/lo-
storicismo-di-croce-e-la-morte-della- metafisica-intervista-a- M. Socrate e
Gentile. Se consideriamo i libri custoditi presso la biblioteca personale di Gentile,
troviamo, a proposito di Socrate, soprattutto opere di autori italiani, con
alcuni dei quali da tempo era in corrispondenza: oltre le vecchie versioni di Ferrai
(Padova), vi figurano le edizioni dell’Apologia curate da Acri (riproposta da
Guzzo) e da Manara Valgimigli (Bari); le opere di Giovanni Maria Bertini (fra
cui l’edizione di Senofonte), che, come si dirà, avevano occupato la critica di
Bertrando Spaventa; quindi i libri che via via, nella prima metà del secolo,
erano apparsi in Italia: quelli di Zuccante, che Tocco aveva presentato alla
Reale Accademia dei Lincei, poi quelli di Covotti, Mignosi, Labriola, Banfi,
Levi, Brocchieri. Ma a proposito di
Socrate, Gentile utilizzò anche altri mo- menti della storiografia filosofica
italiana, appoggiandosi, per esem- pio, ad alcuni testi dello storico del
cristianesimo Alessandro Chiap- pelli e del romanista Pascal. Se allarghiamo lo
sguardo oltre i confini nazionali, i riferimenti principali rimangono quelli di
Zeller (a cui si era prevalente- mente richiamato Spaventa), ma anche di
Gomperz e di Tannery. Di Zeller, Gentile possede i primi due volumi
dell’edizione Mi piace ricordare che la ricerca su libri, opuscoli e
periodici posseduti da Gentile 1 può ora essere svolta online sul sito della
Biblioteca di Filosofia della Sapienza di Roma, grazie al lavoro di
digitalizzazione del catalogo compiuto sotto la direzione del dott. Gaetano Colli:
cfr. Colli. Anche il catalogo dei corrispondenti dell’archivio di Gentile
(custodito presso la “Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi Filosofici” a
Villa Mirafiori) è consultabile nel progetto “Archivi on-line” del Senato della
Repubblica. italiana della Filosofia dei Greci curata da Mondolfo; e di
Tannery conservava la seconda edizione, di Pour l’histoire de la science
hellène, che la moglie Erminia aveva donato, con dedica, al figlio Giovannino.
A Zeller, come si sa, dedicò un ampio necrologio nel quale elogiò la sua opera
di storico criticandone tuttavia i princìpi neokantiani2; e avvicinandovi, ap-
punto, i nomi di Tannery e quello, «così geniale», di Gomperz. Proprio a
Gomperz, d’altra parte, aveva fatto un più che positivo riferi- mento nella prolusione
palermitana su Il concetto della storia della filosofia, dove parlò di un
«concetto equivalente al mio, che nella storia della filosofia si riassuma
tutta la storia dell’umanità»4; e, nella lunga recensione che nel 1909 dedicò
al Socrate di Zuccante, ne parlò come di «uomo di gusto», sia pure privo del
«bernoccolo del filosofo», assumendone soprattutto la critica della
testimonianza di Senofonte. Gentile si trovò di fronte, fin dalla giovinezza,
due modelli inter- pretativi, tra loro, per altro, connessi. In primo luogo le
pagine che Ber- trando Spaventa aveva dedicate a Socrate, dapprima discu- tendo
sulla “Rivista contemporanea” la memoria torinese di Giovanni Maria Bertini
Considerazioni sulla dottrina di Socrate6, poi nel grande corso sulla filosofia
italiana, dove aveva aggiunto, come appendice, lo Schizzo di una storia della
logica, nel quale riprendeva il tema socratico7. Il secondo riferimento è
Labriola, la cui memoria su La dottrina di Socrate era stata ripubblicata da
Benedetto Croce per l’editore Laterza. Per quanto, in maniera caratteristica,
nel discorso preliminare del all’edizione degli Scritti filosofici di Spaventa,
si limitò a un breve cenno alla discussione con Bertini8, e anche nella
Prefazione al Gentile. Bertini. Ma la memoria, a cui Spaventa si riferisce, era
stata presentata in una seduta. Poi in Bertini. Da una lettera a Spaventa, si
apprende che l’articolo di Bertrando era solo il primo di una serie di scritti
socratici, che poi non realizzò: cfr. Spaventa La filosofia italiana nelle sue
relazioni con la filosofia europea, in Spaventa Gentile Gentile e Socrrate
volume Da Socrate a Hegel mancò di entrare nel merito della questione9, è da
ritenere, per le ragioni che si vedranno, che l’influenza spaven- tiana pesasse
in maniera determinante nella sua prima lettura di Socrate. Spaventa confuta
l’interpretazione di Bertini, cercando di definire i rapporti, da un lato, tra
Socrate e la filosofia antica, e, d’altro lato, tra Socrate e la filosofia
moderna. Per tale confutazione, si era appoggiato al capitolo hegeliano delle
Le- zioni sulla storia della filosofia e all’opera di Zeller, ma anche, per
deter- minare i caratteri generali del pensiero greco, alla traduzione francese
di Claude Joseph Tissot della Storia della filosofia di Heinrich Ritter10.
Tuttavia, la lettura di Socrate risultò ben diversa da quanto quei libri
potevano suggerirgli. Possiamo dire, in breve, che se per Hegel è Parmenide il
vero iniziatore della filosofia, perché ha sollevato il pensiero alla massima
astrazione dell’essere11, per Spaventa la filosofia inizia propriamente con
Socrate, che ha scoperto la dimensione del “concetto”, superando il naturalismo
immediato della precedente vita greca. La critica a Bertini si appuntava su
questo aspetto. Per Bertini, di fronte all’attacco dei sofisti, Socrate aveva
restaurato l’ethos greco, sal- vandolo dalla dissoluzione. Per Spaventa, le
cose andavano diversa- mente. Non solo Socrate non aveva restaurato la vita
greca, ma le aveva inferto «il vero colpo di grazia» (La dottrina di Socrate,
in Spaventa), ponendo un nuovo principio, quello della «soggettività
universale»: caratterizzata la filosofia presocratica come indistinzione
immediata di pensiero ed essere, Socrate aveva inaugurato l’antitesi dei due
termini, senza tuttavia trovarne l’unità e la sintesi, e anzi la- sciando al
pensiero moderno questo compito ulteriore. I sofisti, dun- que, lungi
dall’essere dei distruttori, si presentavano quali profondi innovatori, anche
se il loro soggettivismo era piuttosto un individuali- smo, fermo alla
dimensione naturale ed empirica dell’individuo. So- crate trasformava, con la
dottrina del concetto, questo individualismo in un autentico, universale
soggettivismo: «in questo senso» – scriveva Spaventa – «Socrate e Cartesio, che
che ne dica il professor Bertini, si rassomigliano». Spaventa Parmenide,
Hegel [Ritter Cfr. Hegel Ma soprattutto, per il riferimento a Da questo
punto di vista, Socrate non appariva affatto come un fi- losofo pratico o
morale, ma come un filosofo schiettamente teoretico. Più precisamente, il
carattere della sua filosofia veniva indicato in un radicale formalismo.
Bisogna prestare attenzione all’uso che Spaventa fece di questa espressione,
per certi versi anticipando i temi della sua riforma della dialettica.
Formalismo significava che Socrate, scoprendo il principio nuovo della
«soggettività universale», lo riconosceva solo nella forma, nell’attività
dialogica della ricerca della verità, in quanto presupponeva, alla maniera di
tutto il pensiero antico, il contenuto og- gettivo e naturale: se per i
moderni, scriveva, la soggettività è non solo «universale» ma «assoluta», «il
puro rapporto del pensiero a se stesso», per Socrate «non è già il soggetto che
determina l’essere oggettivo, ma l’essenza oggettiva delle cose che determina
il soggetto». La visione moderna – per cui, come si chiarirà nella riforma
della dialet- tica, il pensiero è negazione determinante dell’essere -- appariva
qui rovesciata, nel senso che l’essere si delineava come il cercato, come la
verità ideale del soggetto. Questa tesi del formalismo era quella vera- mente
decisiva nell’interpretazione di Spaventa, poiché a essa veni- vano ricondotti
tutti i temi della riflessione socratica: l’induzione, il dialogo, l’ironia, e
poi soprattutto l’ignoranza, interpretata come con- sapevolezza della mancanza
di verità del soggetto, quasi come ammis- sione del limite storico della
propria posizione. E ancora, l’eudemoni- smo socratico diventava (seguendo qui
i Magna moralia) l’assenza del concetto del Bene e, quindi, la sua
identificazione con l’utile. Infine, ed è un altro aspetto di rilievo (e qui la
fonte era in parte aristotelica in parte hegeliana), mancava in Socrate la
psicologia, cioè la cognizione della parte irrazionale dell’individuo, delle
passioni: la sua soggettività «universale» non riusciva a cogliere né il
contenuto del concetto né la base irrazionale dell’individuo, restando sospesa
tra il particolare e l’universale e non potendo intravedere la sintesi e
l’unità tra i due momenti, cioè l’autentica realtà e immanenza del concetto.
Nella memoria su La dottrina di Socrate, con la quale vinse il premio della
Regia Accademia di Scienze Morali e Politiche di Napoli, Labriola non citò mai
lo scritto di Spaventa, ma certo ne riprese [Si veda per questo aspetto Mustè
La dottrina di Socrate, in Spaventa. Gentile e Socrate 43 almeno un paio di
aspetti14. In primo luogo riprese la tesi del formali- smo, a cui dedicò la
parte centrale dello scritto e che anzi sviluppò fino alle conseguenze estreme,
mostrando come «il suo di Socrate sapere è pura esigenza» e «quello che egli
cerca deve ancora trovarlo» (Labriola). In secondo luogo, insisté sulla
mancanza in Socrate di ogni notizia di psicologia, con accenti e motivi molto
simili a quelli che Spaventa aveva adoperato nella polemica con Ber- tini. Ma
certo mutava il quadro complessivo dell’interpretazione, anzi tutto per la
scelta, molto radicale, di affidarsi esclusivamente o quasi alla testimonianza
di Senofonte, non attribuendo, scriveva, «a Socrate nessun principio, massima,
o opinione che non sia, o esplicitamente riferita, o indirettamente accennata
da Senofonte»; poi per il fatto che la tesi spaventiana del formalismo serviva
ora a recidere i rapporti tra Socrate e la tradizione filosofica presocratica (ibid.,
555), superando il problema stesso che aveva animato la discussione tra
Spaventa e Bertini. Per Labriola, Socrate non era affatto un filosofo: «Socrate
come semplice filosofo – scriveva – è un parto d’immagina- zione» (ibid., 569);
e tanto meno poteva essere considerato come «il creatore del principio della
soggettività», neanche di una soggettività «universale» come quella di cui
Spaventa aveva parlato. Al contrario, la figura di Socrate era ricondotta a due
linee fondamen- tali di lettura, tra loro convergenti: da un lato il processo
di sviluppo della religione greca, dove Socrate aveva inserito l’idea della
divinità «come intelligenza autrice e reggitrice del mondo», riuscendo per
questo «a isolare la sfera morale dalla naturale; d’altro lato, in relazione
agli studi che allora conduceva per «una storia dell’etica greca» interpretò
Socrate come concreta espressione della crisi della storia greca, come
l’emergere di una colli- sione tra forma della tradizione e volontà
dell’individuo: per cui, sorge nell’individuo «il bisogno di rifarsi da sé
quella certezza» che l’opinione comune ha smarrito, tornando a porre, con
l’esercizio del dialogo, le[ L’interpretazione di Labriola è stata analizzata
da Cambiano, Il Socrate di Labriola e la storiografia tedesca e da Spinelli,
Questioni socratiche: tra Labriola, Calogero e Giannantoni che si leggono
rispettivamente nel primo e nel terzo volume di Punzo3, Spinelli ricorda
opportunamente un breve quanto penetrante articolo di Giannantoni, Il Socrate
di Labriola, apparso nel supplemento di “Paese sera”. Tra gli altri studi, mi
limito a ricordare Cerasuolo, e le lucide osservazioni di Poggi domande
induttive sulla definizione, sul «cosa è» la giustizia, la virtù, la santità.
Per certi versi, Labriola seguiva la linea interpretativa di Spa- venta, ma ne
modificava la prospettiva, calando Socrate non più nel centro problematico
della storia della filosofia ma in quello della vita religiosa e sociale del
mondo greco. A prescindere dallo sviluppo peculiare che ebbe nella memoria di
Labriola, la tesi spaventiana del formalismo di Socrate restò alla base delle
prime riflessioni di Gentile. Già nella tesi di laurea su Rosmini e Gioberti –
dove il problema principale, sulle orme di Donato Jaja, era quello
dell’intuito, e quindi della profonda differenza tra l’intuito ro- sminiano
dell’essere puro e quello, platonico ma soprattutto prove- niente da
Malebranche, delle idee determinate e formate (Gentile) – i riferimenti a
Socrate risentono della discussione di Spa- venta con Bertini. Lo si vede,
soprattutto, nella nota che inserì per di- scutere la memoria di Aurelio
Covotti Per la storia della sofistica greca. Studi sulla filosofia teoretica di
Protagora (pubblicata nel 1896 negli “An- nali” della Regia Scuola Normale
Superiore di Pisa), dove, criticando le interpretazioni di Wilhelm Halbfass e
di Theodor Gomperz, ribadì la necessità di distinguere l’individualismo
empirico di Protagora dal soggettivismo di Socrate, pur sottolineando la sua
distanza dal kanti- smo, mancando ancora in Socrate «il concetto del pensiero
come pro- duttività» (Gentile). Una lettura, questa, che trovò poi uno sviluppo
più organico nella recensione al Socrate di Zuccante, dove criticò
«l’interpretazione soggettivistica» di Protagora, che l’autore aveva dato,
insistendo piuttosto sul rapporto con Demo- crito: con riferimento a un
articolo di Victor Brochard, affermò anzi che la tesi dello storico francese
andava «rovesciata», perché non Demo- crito aveva appreso da Protagora i
princìpi della gnoseologia sofistica, ma viceversa questo, Protagora, era stato
«scolaro» di quello, di Democrito (Gentile). Questo tema del rapporto tra
Socrate e Protagora era d’altronde essenziale nell’equilibrio del libro, perché
tanto Rosmini che Gioberti avevano appunto confuso i due momenti
(l’individualismo e il soggettivismo), lasciando oscillare la figura di Socrate
tra Protagora e Platone: «il Gioberti» – spiegava Gentile Gli articoli di
Brochard vennero ristampati in Brochard (ma si veda la 4° edizione ampliata,
Paris, con l’introduzione di Delbos). Gentile e Socrate 45 «come il
Rosmini, non conosce altro soggettivismo che il falso antro- pometrismo
protagoreo», e perciò, aggiungeva, si vede costretto a tro- vare in Socrate
Platone, «altrimenti del maestro di Platone non si fa che una ripetizione di
Protagora» (Gentile). Alla maniera di Spaventa, insomma, il soggettivismo di
Socrate non andava confuso né con l’individualismo di Protagora né con la
successiva dottrina pla- tonica delle idee. Questo atteggiamento spiega anche
la presenza di Socrate nel saggio su La filosofia della prassi, dove, per
dimostrare che Marx aveva assunto il concetto della prassi dall’idealismo, e
non dal mate- rialismo, chiamò in causa il «soggettivismo di Socrate», facendo
dell’antico filosofo greco il primo idealista, anzi il primo teorico della
praxis: perché, spiegava Gentile, Socrate non concepiva la verità come un bene
formato da trasmettersi, ma come il risultato di un «personale lavorio
inquisitivo», cioè del dialogo e dell’arte maieutica: «il sapere – concludeva –
importava per Socrate un’attività produttiva, ed era una soggettiva
costruzione, una continua e progressiva prassi» (Gentile). Altrove scriveva che
il merito di Socrate «consiste appunto nel superamento di quella dualità di
volontà e intelletto, che è presup- posta così dal determinismo come dal
concetto del libero arbitrio»: e arrivava ad affermare che, se avesse
approfondito questo aspetto, sa- rebbe stato condotto «al concetto hegeliano
dell’unità di libertà e ne- cessità razionale» (Gentile). Di questa singolare
definizione di Socrate come primo idealista, Gentile darà una spiegazione, nei
Discorsi di religione, quando dirà che, con Socrate, «la filosofia acquista
coscienza del suo carattere idealistico», anche se questa co- scienza «si
oscurerà tante volte nel corso del suo sviluppo storico»: e quasi per dare un
esempio di tale oscuramento, ricordava l’«idealismo ancora naturalistico» di
Platone e Aristotele, che aveva ricompreso l’intuizione socratica nel realismo
del «mondo delle idee» e in quello di «Dio, forma o atto puro, o pensiero del
pen- siero. . Questi primi riferimenti, in larga parte ispirati dalla posizione
di Spaventa, cominciarono a complicarsi negli anni appena successivi, quando
Gentile iniziò a elaborare la filosofia dell’atto puro, e quindi, bisogna
aggiungere, ad approfondire la distanza tra dialettica del pen- sato e
dialettica del pensare, tra pensiero antico e pensiero moderno. Un preludio
della successiva lettura di Socrate può essere indicato, d’altronde,
nella lunga recensione al Socrate di Zuccante, dove Gentile, richiamandosi
implicitamente (senza mai citarla) alla posizione di Spaventa, chiarì due
aspetti fondamentali della pro- pria interpretazione. In primo luogo, in un
passaggio di particolare im- portanza, rielaborò e chiarì la tesi del
formalismo socratico, definito appunto come la sua «gloria». Scrisse infatti:
la verità è che la ricerca socratica è prevalentemente umana, perché l’uomo coi
sofisti era venuto al primo piano della speculazione, segna- tamente nella
rettorica. E lo stesso tentativo di sollevare a scienza la rettorica, operato
dai sofisti, ne mette a nudo l’essenziale formalismo, e fa sentire il bisogno
di quella più schietta e più concreta scienza dello spirito, che Socrate
persegue col suo motto divino: conosci te stesso. Qui è la radice dell’unità
del suo interesse speculativo, teorico, e del suo interesse morale, pratico:
qui anche la radice del formalismo spe- culativo e morale, a cui s’arresta lo
stesso Socrate. Il quale supera la forma rettorica con l’affermazione del
contenuto della rettorica (giusto, ingiusto ecc.): ma di questo contenuto non
definisce altro che la forma: il concetto come universale, non intravveduto da
nessuno dei filosofi precedenti: il concetto di ogni cosa (logica) e il
concetto stesso del giusto (morale). In che consiste il valore di questa
scoperta, che è la gloria di Socrate (Gentile). In secondo luogo, stabilito il
senso del formalismo socratico, Gentile chiariva il significato della scoperta
logica di Socrate, affermando che si trattava non solo, e non tanto, della
scoperta del concetto, ma del «concetto del concetto», della «essenza dello
spirito»: se i filosofi prece- denti sempre avevano adoperato concetto e
definizione, ora Socrate sollevava il pensare a «pensiero del pensiero»,
conferendo agli uomini una «seconda vista», quella della schietta universalità.
Grazie a Socrate, il pensiero diventava, per la prima volta, oggetto di sé
stesso, sostituendosi all’orizzonte della natura: e questo, oltre quello più
limitativo dell’assenza di un contenuto assoluto, era il carattere del suo
formalismo, inteso appunto come considerazione della forma logica in sé stessa.
Negli scritti di questo periodo, l’accento cominciava a battere con più forza
sulla continuità tra Platone e Aristotele, perché – scriveva – «con Aristotele
[non] si fa un passo avanti» rispetto al metodo trascen- dente di Platone
(Gentile). Non solo infatti, come precisò nella prolusione palermitana su
Il concetto della storia della filosofia, Platone aveva «trasformato» il
concetto socratico in «idee eterne e immobili, puro oggetto della mente»; ma
iniziò a riportare la filosofia di Platone alla fonte eraclitea e soprattutto a
quella parme- nidea, che ai suoi occhi costituiva il vero approdo del Teeteto e
del So- fista: «Platone» – scriveva – «non vide mai altro che l’essere immobile
e realmente immoltiplicabile, tal quale l’essere (fisico) degli Eleati. Qui si
doveva arrestare una filosofia ignara della natura dello spirito». Più che
Socrate, dunque, la filosofia di Platone in- contrava, con la teoria delle
idee, l’essere di Parmenide, superando in esso anche la primitiva lezione di
Cratilo. Fu nel primo volume del Sommario di pedagogia che il giudizio su
Socrate cominciò ad assestarsi. Gentile vi si soffermò in due diverse parti
dell’opera: in primo luogo, nella sezione su L’uomo, a proposito dei concetti;
in secondo luogo, nella parte terza, su Le forme dell’educazione. Il capitolo
che dedicò al «merito di Socrate sco- pritore del concetto» finì per risultare
piuttosto singolare. Riconobbe a Socrate il «merito straordinario» di avere
affermato «il carattere uni- versale del vero» (Gentile); ma subito aggiunse
che quel con- cetto non era poi il vero concetto, il conceptus sui, ma una
forma che, conseguita per via induttiva, con «un processo di generalizzazione»,
era piuttosto irreale, astratta, lontana dalla concreta determinazione del
mondo: offrì insomma del concetto socratico una lettura singolar- mente
negativa, quasi rappresentandolo nella figura degli pseudocon- cetti o finzioni
che, nella Logica e nella Filosofia della pratica, Croce aveva teorizzato. Di
più, in un capitolo successivo, affermò che il concetto socratico, «base
dell’erronea teoria platonica e aristotelica del concetto» , presupponeva la
scissione tra teoria e pratica: ne- gando dunque a Socrate proprio quel merito
che, come abbiamo osser- vato, gli aveva riconosciuto nel saggio su La
filosofia della prassi. La considerazione trovava uno sviluppo rilevante, come
si diceva, nella terza parte dell’opera, dove Gentile poneva la figura di
Socrate all’origine del concetto di «educazione negativa», collocandolo sulla
stessa linea che, nell’epoca moderna, avrebbe prodotto la «possente» opera di
Rousseau. A questo principio dell’educazione negativa, Gen- tile tornava a
rivolgere un elogio, perché capace di implicare «l’imma- nenza del divino
nell’uomo» e dunque di anticipare lo
spi- rito di libertà di Rousseau: ma anche qui osservava che Platone
aveva convertito la maieutica socratica in un innatismo delle idee, come
un ritorno dell’anima «a quella pura cognizione originaria che ella si reca in
sé dalla nascita». Una critica, d’altronde, che si legava all’idea, sostenuta
ancora nei Discorsi di religione, secondo cui il pen- siero antico non poté mai
accedere al problema morale, perché privo del principio stesso della volontà
(Gentile). In tutta la prima fase della sua riflessione, Gentile tenne fermo il
Socrate di Spaventa, cioè la tesi del formalismo e della scoperta della
soggettività universale, via via innestandovi i motivi essenziali nella propria
filosofia: così, nell’Introduzione alla filosofia parlerà di So- crate come del
«primo grande martire degl’interessi più profondi dell’uomo e della sua nobiltà
e grandezza» (Gentile), come di colui che, con il Nosce te ipsum, aveva vinto
l’antico naturalismo e sco- perto la «concezione umanistica del mondo»; e nella
più tarda Filosofia dell’arte arriverà a svolgere il motivo spaventiano (e
labrioliano) della mancanza di una psicologia in Socrate nella tesi, ben più
radicale, dell’assenza del sentimento e, in generale, del principio dell’arte
in tutto il pensiero antico (Gentile). Ma la trasforma- zione essenziale e
decisiva avvenne certamente nelle opere più siste- matiche dell’attualismo, in
modo particolare nel Sistema di logica, quando Socrate, come ora vedremo,
acquistò il volto più complesso di fondatore del logo astratto: che era uno
svolgimento dell’idea, comun- que presente in Spaventa, che proprio in lui, in
Socrate, e non in Par- menide e nei filosofi presocratici, andava indicato
l’autentico inizio della filosofia occidentale. Nella Teoria generale, dove il
problema fondamentale era quello dell’individuo e dell’individualità, si faceva
più nitido il quadro dell’intero sviluppo della filosofia greca, ponendo al
centro del natu- ralismo quella che definì «la disperata posizione di
Parmenide» (Gen- tile 1959b, 107), quintessenza dell’intero mondo mitico e
presocratico e carattere della «seconda natura» delle idee, stabilita da
Platone. Tra Parmenide e Platone, Socrate appariva come colui che aveva operato
«la netta distinzione tra genere e individuo», non riuscendo certo a trovare la
sintesi tra i due momenti, ma lasciando aperta, con il suo formalismo, tanto la
via platonica tanto quella aristotelica. Di fronte a entrambi, a Parmenide e a
Platone, Socrate era delineato come colui che «scopre il concetto come unità in
cui concorre la va- rietà delle opinioni»: affermazione di grande
significato, Gentile e Socrate
perché, almeno in senso formale, indica una rottura dell’intero natu-
ralismo antico, un presagio – se così può dirsi – della sintesi e della vera
individualità, che solo il pensiero moderno, osservando il con- cetto come
conceptus sui e come autocoscienza, arriverà, dopo il cri- stianesimo, a
compiere. Però, come si diceva, solo nei due volumi del Sistema di logica, la
figura di Socrate acquistò una nuova luce e un più preciso significato,
all’interno della dialettica del logo astratto e del logo concreto. Possiamo
dire che il punto centrale della considerazione delle forme storiche del logo
astratto è proprio il passaggio da Parmenide a Socrate, che è poi il passaggio
dal naturali- smo antico alla logica del pensiero pensato, inteso come momento
eterno e insuperabile del logo. Il punto socratico è quello fondamen- tale, se
non altro perché, superando la posizione, disperata e assurda, di Parmenide,
Socrate pone, nel concetto universale, l’intero circolo del pensiero antico,
che in Platone (con la teoria della divisione) e in Aristotele (con la teoria
del sillogismo) troverà solo uno sviluppo coerente e un adeguamento.
All’altezza della dottrina del logo astratto, Gentile segnava con meno forza,
rispetto ai testi precedenti, il distacco tra So- crate e Platone, ma indicava
con molta più forza la differenza tra So- crate e Parmenide. È vero che, in un
passaggio non privo di ambiguità, disse che Parmenide rappresentava «il
fondatore della logica dell’astratto», colui che «per primo cominciò a
intendere in tutto il suo rigore il concetto del logo quale presupposto del
pensiero» (Gentile). Ma subito precisò che tale fondazione del logo era in
verità una negazione del pensiero, perché il suo essere, privo di determina-
zione e di differenza, è in realtà mancanza di pensiero, il nulla del pen- siero,
il semplice immediato: e per Gentile, così come per Spaventa, non è l’essere di
Parmenide a segnare l’inizio della logica, come acca- deva in Hegel, ma il
concetto universale di Socrate. È con Socrate in- fatti, come ripete più volte
(concordando, per altro, con quanto Croce aveva sostenuto nella Logica), che
«nasce formalmente la scienza della logica» (Gentile), che viene posto non
«l’immediato essere astratto», ma la «mediazione», il «rapporto tra soggetto
definito e predicato onde si definisce», per cui, concludeva, «l’astratta
identità dell’essere naturale di Parmenide e di Democrito qui è vinta». E
altrove Croce. chiariva: «la
logica comincia propriamente con Socrate, quando l’es- sere spezza la dura
crosta primitiva della immediatezza naturale, in cui s’era fissato nelle
concezioni degli Eleati e degli Atomisti, e si me- dia nella forma più
elementare possibile del pensiero: identità che sia unità di differenze» . Nel
concetto socratico, nella definizione, è già tutta la logica antica, che
troverà nella dialettica platonica e nel sillogismo aristotelico solo uno
sviluppo necessario. Più precisamente, Socrate diventa, nel Si- stema di
logica, il fondatore della logica dell’astratto, che non si esprime più
nell’assurda immediatezza di A (essere naturale), ma nel rapporto A=A, che
indica il principio d’identità e l’intero «circolo chiuso», come lo definì, del
logo astratto: rapporto che è già rapporto di pensiero, perché il primo A si
distingue dal secondo A, generando la figura del giudizio, sia pure di un
giudizio analitico e definitorio. Così, il passaggio (che impegnò il secondo
volume dell’opera) dal logo astratto al logo concreto indicava anche il merito
e il limite della posizione socra- tica, il suo elogio e la sua critica: perché
il «circolo chiuso» che Socrate aveva fondato, immettendo l’uomo nella regione
del pensiero, era pur sempre un circolo, una mediazione e un movimento, e
perciò inclu- deva, sia pure in maniera inconsapevole, il riferimento del
pensato al pensare, dell’astratto al concreto. Lo includeva, come spiegò, nella
forma «mitica» di tutto il pensiero antico, non ancora come «pensa- mento del
logo astratto nel concreto», ma viceversa come «pensamento del logo concreto
nell’astratto» (Gentile). La lettura del momento socratico sembrava così
compiuta nei ter- mini fondamentali. Ma negli ultimi mesi della sua vita,
Gentile delineò una intera storia della filosofia, che doveva fare parte della
collana «La civiltà europea» della casa Sansoni, e di cui riuscì a scrivere
solo la prima parte, fino a Platone. Di questa opera, che è stata pubblicata a
cura di Bellezza, ci rimane, tra le carte del filosofo, l’in- dice dell’intero
lavoro (che si sarebbe dovuto concludere con la consi- derazione di Varisco,
Martinetti, Croce e Gentile stesso) e il manoscritto di un «prospetto» che si
riferisce alla parte successiva e non scritta sulla filosofia antica, fino alla
sezione terza, che avrebbe dovuto occuparsi di epicurei, stoici, scettici,
accademici e neoplatonici. Archivio della “Fondazione Giovanni Gentile per gli
Studi Filosofici”, manoscritti pubblicati. Gentile e Socrate 51 In questo
ultimo scritto sulla filosofia antica, Socrate diventava ve- ramente il centro
dell’intera considerazione, lo snodo decisivo tra na- turalismo e metafisica.
Più chiara e conseguente risultava, in primo luogo, la ricostruzione della
filosofia presocratica. Le due figure prin- cipali di questa epoca, Parmenide
ed Eraclito, rappresentavano due aspetti complementari della medesima
intuizione della natura e del cosmo, priva della luce del pensiero: nell’essere
di Parmenide, che è lo stesso fuoco di Eraclito fermato nel suo eterno ardere,
si riassume il peccato capitale della prima filosofia greca, che ora Gentile
definiva come «misticismo» (Gentile), come «intellettualismo» e «for- malismo»,
cioè – spiegava – come il primo esempio di una filosofia «che fa lavorare il
cervello, ma lascia, si può dire, vuoto e inerte il cuore». E tutto il
successivo atomismo, soprattutto in Demo- crito, gli appariva come l’esito
naturale di tale originaria assenza del pensiero, che finì, come doveva finire,
nel «pretto materialismo», dove «il pensiero è identico alla sensazione». S’intende
perché, nella linea che già era stata di Spaventa, Gentile riservasse parole di
elogio alla sofistica: a Protagora, come a colui che scopre «il tarlo se- greto
che rode questo essere a cui pur tutto, per chi pensa e ragiona, si riduce», e
che costituisce, dunque, tanto l’autocritica in- terna quanto il logico
compimento del naturalismo eleatico; e soprat- tutto a Gorgia, che scopre «la
potenza della parola», di quell’elemento attivo e umano che l’essere di
Parmenide non poteva includere né spie- gare: una potenza, quella della parola,
che rappresenta l’emergere di un nuovo mondo, di cui «non siamo più soltanto gli
spettatori, ma vi facciamo da attori». Sono i sofisti, perciò, che «preparano
Socrate e tutta la filosofia del logo che ne deriva», che «rendono possibile la
scoperta di questo nuovo mondo». E il capitolo su Socrate, come si diceva, co-
stituisce il cuore di tutta l’interpretazione che qui Gentile proponeva del
pensiero antico. A differenza di Labriola, anzi tutto, e in parte an- che di
Spaventa, Gentile mostrava di privilegiare nettamente il Socrate di Aristotele,
considerando inattendibile la descrizione di Senofonte, che ne fa «un troppo
bonario e grossolano pensatore», e in fondo anche quella di Platone, che nei
dialoghi presenta «un Socrate idealizzato e platonizzante»: «il Socrate storico
– scriveva – non è il Socrate platonico». «Più attendibile» dunque Aristotele,
pur «ne’ suoi cenni sommari», perché in Aristotele emerge- rebbe la vera
fisionomia di Socrate, autore di una sola ma fondamen- tale scoperta, quella
del concetto, o meglio della definizione e del giu- dizio, cioè del pensiero:
non il termine, ma il giudizio, «quel giudizio che come atto del pensiero
rivolto all’essere naturale Parmenide e i seguaci suoi avevano dimostrato
impossibile». Così Socrate compie il
«passo gigantesco», «trova il pensiero», e «il pensiero, per la prima volta, si
viene a trovare alla presenza di se stesso: di se stesso nell’oggetto che può
conoscere, e conosce».. Per questo, e solo per questo, Socrate rimane per
sempre «il modello da imitare» per ogni filosofo successivo, come «una delle
incarnazioni più splendide dell’ideale umano, se umanità vuol dire, come vide
So- crate, pensiero». La preferenza che Gentile accordava alla fonte
aristotelica derivava, d’altronde, da un lungo percorso, che aveva trovato
nella discussione con Zuccante un punto di particolare chiarezza. In quella oc-
casione, appoggiandosi ad alcune analisi di Gomperz e soprattutto di Joël,
aveva definito i Memorabili come l’opera «più sciagurata uscita dalla penna di
Senofonte: pesante, monotona, tutta infarcita di banalità e di vere caricature
dello spiritoso e malizioso dialogo socratico» (Gentile), soprattutto per la
tendenza ad attribuire a Socrate «una specie di prammatismo», eliminando quell’elemento
«logicistico» che per Gentile ne costituiva, invece, il tratto saliente. Di
conseguenza, aveva rifiutato l’intera impostazione di Labriola, che aveva as-
sunto il «Socrate senofonteo» come la pietra di paragone di ogni altra
testimonianza. Non si può tacere che, in tale uso delle fonti, si celava una
certa tendenziosità e forse qualche equivoco. Anzi tutto, come è facile
osservare, il richiamo ad Aristotele era, in verità, un riferimento quasi
esclusivo ai passi della Metafisica su Socrate come «fondatore della filosofia
concettuale» e «scopritore dell’universale» (Maier), con una larga
sottovalutazione di quanto, nella fonte aristotelica, rinviava alle dottrine
etiche e morali. Anche la contrappo- sizione fra la testimonianza aristotelica
e quella senofontea, seppure giustificata da un dibattito interpretativo allora
in corso (si pensi alle 18 Si ricordino, a questo proposito (soprattutto con
riferimento a Labriola, il cui scritto è definito «il migliore studio italiano
sull’argomento», e a Joël), le osservazioni di Calogero nella voce Socrate del
dell’Enciclopedia italiana. Gentile e Socrate diverse letture di
Döring e di Joël), trascurava i possibili legami che alcuni autori, come
Heinrich Maier o Georg Busolt, avevano stabilito tra i passi socratici di
Aristotele e i Memorabili senofon- tei19. Si trattava, insomma, di una
semplificazione del ben più arduo problema delle fonti socratiche, ma di una
semplificazione necessaria affinché, nel discorso di Gentile sulla filosofia
antica, emergesse in piena luce il posto assegnato a Socrate, come iniziatore
della logica e superatore del precedente naturalismo. Dunque Socrate appariva,
nelle pagine che ora Gentile vi dedicava, come la rappresentazione vivente
della scoperta del concetto come giudizio, e a questo principio del logo
andavano ricondotti tutti gli aspetti della biografia. Socrate fu, pertanto, il
maggiore dei Sofisti (Gentile), perché convertì la parola di Gorgia nella nuova
«fede nel pensiero», restituendo a quel mondo umano, che pure i sofi- sti, con
la loro opera distruttiva, avevano scoperto, il pregio dell’uni- versalità e
della verità. Questo era il senso dell’ironia e del dialogo: il dialogo,
possiamo dire, si superava nel logo, e si risolveva in esso, per- ché, come
aveva chiarito Platone nel Teeteto, era in verità un monologo, «un interno
dialogare della mente con se stessa» (ibid., 170), dove il concetto unico e
universale costituiva il presupposto e la mèta, l’inizio e la fine, dentro cui
i dialoganti, lungi dal distinguersi, si unificavano come simboli di un solo
ritmo logico. Certo Gentile riprendeva lette- ralmente l’indicazione
spaventiana del «formalismo socratico», ma in certo modo, come ora vedremo, ne
metteva piuttosto in rilievo l’aspetto positivo, schiettamente logico, rispetto
alla costru- zione successiva di una metafisica, culminante nell’opera di
Platone. «Formalismo» significava, perciò, visione formale del concetto e del
giudizio, fede nella forma del pensiero, non ancora fissato in un tra-
scendente mondo delle idee. Per molte ragioni non potrebbe dirsi che Gentile
trasformasse la fi- gura di Socrate in quella di un precursore dell’attualismo,
come per esempio era accaduto, a proposito di Gesù di Nazareth, ad Omodeo o a
Ruggiero: la sua prosa si manteneva più sobria, [Si ricordi la netta
affermazione del Maier, che risale all’edizione di Tubinga del Sokrates: «debbo
confessare che mi riesce incomprensibile come mai si siano potute dare tanta
importanza e tanta fiducia alle sue [di Aristotele] scarse osservazioni» (Maier)
controllata, ma certamente tendeva ad assegnare a Socrate un valore unico in
tutto l’orizzonte della filosofia antica20. Il «formalismo» indi- cava un
merito, non un difetto. E in tutto il capitolo sull’«essere come concetto», ne
sottolineò l’importanza, senza mai indicare il limite della visione socratica.
Limite che emerse piuttosto nelle pagine successive, quelle sull’«essere come
idea», dove, per spiegare il passaggio a Pla- tone, accennò pure al «problema
centrale di Socrate», consistente nel «dualismo da vincere» tra il mondo umano
e il mondo naturale, tra il concetto e l’esperienza, perché – scriveva –
Socrate «non aveva saputo dir nulla di quella natura che ci sta davanti, in cui
si nasce, si vive e si muore, e con cui all’uomo che pensa per concetti rimane
pur sempre da fare i conti» (Gentile). Era necessario segnare il limite di
Socrate, per offrire una spiegazione del passaggio successivo, quando il suo
«formalismo» ripiegò in una compiuta metafisica, tornando di fatto al
naturalismo e al mito eleatico dell’essere immutabile. E il lungo capitolo
sull’«essere come idea», che copre quasi la metà della parte scritta
dell’opera, costituisce in effetti una delle pagine più importanti, e in fondo
drammatiche, che Gentile abbia composto negli ultimi giorni della sua vita.
Parlò di «un nuovo abisso, che si de- lineava tra Socrate e Platone, come
quello che aveva diviso la filosofia umana di Socrate da quella naturalistica
che lo aveva preceduto; e ne preparò l’analisi con una sottile considerazione
delle scuole socrati- che minori, culminante nella figura di Euclide, che
«proveniva dall’eleatismo» e che per primo, inaugurando l’opera che sarà di
Pla- tone, «trasferiva il concetto o universale socratico dalla mente dell’uomo
nella realtà in sé. Di fronte al dualismo irri- solto di Socrate, tornava, fin
da Aristippo o Teodoro, il vento gelido della vecchia cultura, che riempiva il
«formalismo» di un contenuto antico, quello della natura, della trascendenza,
del realismo. Platone stesso, in fondo, compì questa opera necessaria,
appoggiandosi ai suoi veri maestri, l’«eracliteo Cratilo» e Parmenide, e ab-
batté «la barriera tra l’umano e il divino», innalzandovi sopra quell’edificio
possente che è la metafisica. All’analogia tra Socrate e Gesù, Gentile aveva
fatto riferimento nella recensione a G. Zuccante, Socrate. Fonti, ambiente,
vita, dottrina (Gentile). Per Omodeo, il rinvio è a Omodeo; per Ruggiero, al
primo volume di Ruggiero Gentile e Socrate Quando, in una decina di pagine di
forte intensità, entrò all’interno di questo meccanismo, e cercò di spiegare
con più precisione il passag- gio che si era consumato dal formalismo di
Socrate alla metafisica di Platone, Gentile non mancò di osservare che la
«soluzione» che la dot- trina delle idee aveva dato al «problema» di Socrate,
unificando ciò che nel maestro si conservava diviso, era in fondo fallimen-
tare, perché metteva capo a un nuovo e più duro dualismo, quello che si apriva
tra eraclitismo ed eleatismo: due anime – scrisse – inconciliabili: né Platone
riuscì più a mettere una a tacere, come in qualche modo erano riusciti a fare
Parmenide ed Era- clito e lo stesso Socrate. Il poderoso sforzo da lui tentato
di strin- gere insieme le due opposte esigenze pur nella forza indomabile
dell’energia con cui esse reciprocamente si escludono, non potrà non fallire. La
vicenda post-socratica delineava dunque la storia di un falli- mento; e di un
fallimento, bisogna aggiungere, che aveva un prezzo elevato per la filosofia:
perché l’idea di Platone altro non era che l’es- sere di Parmenide («dire idea
– scriveva – è lo stesso che dire essere») e il dialogo, che Socrate aveva
coltivato come ricerca sogget- tiva della verità, si irretiva nella dialettica
oggettiva delle idee trascen- denti, dell’essere, nella «dialettica consistente
nella relazione che hanno le idee in se stesse», in «dialettica oggettiva, che
è norma e fine della soggettiva» Gentile parlava bensì di conquista del
pensiero platonico, di progresso, ma in tutta la sua pagina circolava
l’impressione del regresso e della decadenza, del passo indietro, della
chiusura metafisica. Impressione che si fece nitida nel brano in cui, mettendo
a diretto confronto i due filosofi, Socrate e Platone, affermò che il primo, di
fronte all’antico naturalismo, aveva scoperto il pen- siero come «relazione»,
«soggetto, predicato e loro relazione», mentre l’altro quella relazione aveva
ricondotta «in un’idea suprema», unica e universale, e perciò l’aveva
annientata e assorbita nell’ordine ogget- tivo dell’essere che nega e dissolve
il pensiero: «quest’idea – spiegava – pel fatto stesso che totalizza la
relazione, l’annienta; perché l’idea delle idee, essendo unica, è irrelativa».
E dunque metteva capo all’«unità massiccia, immota, morta, che è tutto un
blocco, da prendere LA BANDIERA DI SOCRATE o lasciare. Proprio come
l’Essere eleatico. Pare pensiero, e non è. Che era una critica della metafisica
platonica e, al tempo stesso, il più alto riconoscimento a Socrate: il quale
restava, così, al centro di questa storia, come una possibilità inesplosa
dell’antico, che solo il pensiero moderno, dopo il cristianesimo, avrebbe
ripreso e realizzato. Nota bibliografica BERTINI, “Considerazioni sulla
dottrina di Socrate.” Memorie della Reale Accademia delle Scienze di Torino. Opere
varie. Biella: Amosso. CERASUOLO.“Il “Socrate” di Labriola.” In La cultura
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Degli Studi di Cassino, RITTER, Histoire de la philosophie ancienne, 4 voll.,
traduit de l’allemand par C.J. Tissot. Paris: Ladrange, SPAVENTA. Lettere,
scritti e documenti pubblicati da Benedetto Croce. Napoli: Morano, SPAVENTA,
Opere, a cura di Gentile. Firenze: Sansoni. Marcello Mustè. Mustè. Keywords:
la filosofia dell’idealismo italiano, popolarismo, governo federativo,
democrazia, kratos – natoli, il potere – un concetto di kratos – dirrito, il
principio politico, liberalismo, partito liberale italiano, comunismo, il libero economico, il libero etico, libero
politico, ri-sorgimento italiano, liberta del volere, “Gentile e Socrrate” --
-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Mustè” – The Swimming-Pool Library.
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