Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice e Galluppi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Tropea). Filosofo
tropese. Filoofo calabrese (padre siciliano). Filosofo Italiano. Tropea, Vibo
Valentia, Calabria. “Gallupi is a great one; and much can be philosophised
about his philosophy of the ‘parola come segno del pensiero’” – Grice: “On top,
he was a Baron!” -- Eessential Italian philosopher. Figlio del barone Vincenzo e della nobildonna
Lucrezia Galluppi, entrambi della stessa famiglia Galluppi, una delle antiche
famiglie patrizie di Tropea. Dopo lo studio della lingua latina, apprese filosofia
sotto Ruffa. Trasferitosi a Santa Lucia del Mela, compì il corso elementare di
filosofia e presso il Seminario vescovile della cittadina peloritana.
Intraprese dunque lo studio a Napoli sotto Conforti. Sposa Barbara
d'Aquino, da cui ebbe quattordici figli, otto maschi e sei femmine.
Trascorre le giornate di libertà nella residenza privata di famiglia, cioè
Palazzo Galluppi, sulla Strada Provinziale a Caria, frazione di Drapia, alla
biblioteca o al giardino. Pubblica a Napoli “Sull'analisi e la sintesi”.
Durante i moti aderì alla causa liberale sostenendo la riforma costituzionale
dello stato e protestando quindi contro l'intervento repressivo degl’austriaci.
Si riavvicina alla monarchia. Insegna filosofia a Napoli. Membro dell'Accademia
Sebezia e dell'Accademia Pontaniana di Napoli, degl’affatigati di Tropea (il
‘furioso’), di quella del Crotalo di Catanzaro e della Florimentana di
Monteleone. Il suo merito maggiore consiste nell'avere introdotto in
Italia Kant. Le Lettere filosofiche sono definite il primo saggio in Italia di
una storia della filosofia. A G. sono dedicati il convitto nazionale, il liceo
di Catanzaro e il liceo di Tropea. A Tropea, la sua città natale, è attivo
il centro studi Galluppiani, associazione culturale dedita alla ripubblicazione
dell'opera omnia del filosofo e che di recente ha decretato l'ampliamento dei
fini statutari, fino ad accogliere e curare altre interessanti iniziative di un
certo spessore culturale. Periodicamente, il centro organizza il congresso
degli studi galluppiani, importante appuntamento di respiro nazionale, animato
da studiosi e saggisti provenienti da tutta Italia. L'attuale presidente è
Meligrana. Altre personalità di notevole importanza nella storia del centro
studi galluppiani sono Pugliese e Cane, filosofo, appassionatissimo studioso
dell'opera di Galluppi. Una vera dedizione, la sua che non è mai venuta
meno fino alla fine della sua vita. Organizzatore infaticabile di seminari,
simposi e conferenze, ha cercato di far conoscere il pensiero del G., favorendo
la pubblicazione dell'opera inedita "La filosofia della matematica"
la cui edizione lo ha visto anche quale curatore. Su G. pubblica numerosi saggi
ed articoli in quotidiani e riviste specializzate. Altre opere: “Memoria
apologetica” (Napoli, Vincenzo Mozzola-Vocola); “Grice, ovvero, Sull'analisi e
la sintesi” (Napoli, Verriento); “La conoscenza, o sia analisi distinta del
pensiere umano, con un esame delle più importanti questioni dell'Ideologia, del
Kantismo e della Filosofia trascendentale” (Napoli, Sangiacomo); “Filosofia”
(Messina, Pappalardo); “Lettere filosofiche sulle vicende della filosofia,
relativamente a’principii della conoscenza umana da Cartesio insino a Kant
inclusivamente” (Messina, Pappalardo); “Logica”; “Metafisica” (Firenze,
Tipografia della Speranza); “La volontà” (Napoli, Giachetti); “Storia della
filosofia” (Napoli); “Opera a cui si aggiunge l ‘Elogio funebre scritto da
Pessina, autore del Quadro storico dei sistemi filosofici” (Milano, Gio.
Silvestri); “Autobiografia”, “Scritti”
(Milano, Dumolard); La filosofia del Galluppi e le sue relazioni col
Kantismo, (Napoli, Morano); “Lettere filosofiche” (Bonafede, Palermo); “Epistolario
Lettere private. Inedite e rare, Franco Ottonello, Milano, Franco Angeli
("Filosofia e scienza nell'età moderna" Collana a cura della Sezione
di Milano dell'Istituto per la storia della filosofia. Dizionario biografico
degli italiani. Quella specie di deduzione con
cui da una causa, che cade sotto i sensi, deduciamo un efetto, che sotto i
sensi non cade, o da un effetto, che cade sotto i sensi, deduciamo una causa,
che sotto i sensi non cade, quando la connessione fra la causa e l'effeto non
si presenta a noi come necessaria, è fondata su questa verità sperimentale, le
cause simli producono o son accompagnate da effetti simili; ed effetti simili
suppongono cause simili. Tutti e due questi modi di dedurre i fatti, che
immediatamente non si sperimentano, costituiscono l’argomento detto di
analogia. Si argomenta dunque per analogia, quando dair osservazione di
soggetti simili si deducono qualità simili, e quando da cause simili si
deducono effetti simili, o da effetti simili si deducono cause simili. Ma resistenze,
che si deducono, sono di due manière. Alcune possono essere oggetto di esperie
tua, altre non possono esserlo. Sebbene quando vedo l’acqua, che non ho ancora bevuto,
e che giudico di aver essa la qualità di estinguermì la sete, non abbia ancora
sperimentato in questo caso particolare la qualità di cui parlo; pure è essa un
oggetto di esperienza, poiché posso di fatto sperimentarla, bevendo l’acqua che
ho presente. Sebbene prima di vedere la liquefazione della neve, io la deduco
dalla vicinanza del fuoco. Pure questa liquefazione può colpire i miei sensi,
ed essere un oggetto di esperienza. Ma vi sono infiniti casi, in cui
l’esistenze che si deducono, non possono divenire oggetto di esperienza.
Domandato ad un uomo perchè egli crede un fatto, che succede in luoghi ove non
è, per esempio, che il suo amico
soggiorna alla campagna, o viaggia per la Francia, egli vi darà per ragione un
altro fatto: allegherà una lettera che ha da lui ricevuto, alcune risoluzioni
che gli vide prendere, alcune promesse che gli ha sentito fare. Ora in tutte
queste deduzioni, si suppone, che alcuni dati moti dipendono dalla volontà
dell’amico; si suppone in conseguenza, che il suo corpo sia animato da uno
spirito simile al nostro. Ora lo spirito dell’amico, e le modificazioni inieinc
di esso, non possono giammai divenire un oggetto di esperienza: noi non
possiamo giammai sortire da noi stessi, e sentire l’anima sua, e ciò che in essa acca(k; noi dunque qui argomentiamo da
una esistenza, che è un oggetto sperimentale, ad un altra esistenza, che per
noi non può giammai divenire un oggetto
di esperienza. Quando vedo la lettera, di cui si parla io giudico, che
fu l’effetto de’ moti del corpo dell’amico, giudico inoltre, che questi
moti furono l’effetto della
sua volontà. Ora questa volontà
io non la posso sentire giammai, risalgo dunque qui da un effetto che colpisce
i sensi miei ad una causa, che non può giammai divenire un oggetto di
esperienza. Similmente se vedo piangere un uomo giudico che egli è afflitto,
ora l’afflizione di lui non puògiammai divenire un oggetto di esperienza per
ne; io dunque deduco qui da ciò che sperimento una causa,
che non posso sperimentare. Ora si
domanda: una tal deduzione è es M legittima? Allora che vedo un uomo, io vedo
un corpo simile al mio: se lo vedo camminare vedo questo corpo eseguire certi
moti simili a quelli, che io fo quando voglio camminare, da ciò conclude, che I
moti del corpo che vedo suppongono una causa
simile a quella, che ho
sperimentato, vale a dire uno spirito, che vuole tali moti. Pare dunque, che
questo caso possa ridursi alla stessa spezie di quello di sopra, cioè alla
deduzione di una causa
simile da un effetto simile. Ma
vi ha qui una differenza, di cui bisogna tener conto. Quando dal vedere un
orologio deduco 1’esistenza di un artifice, io ho osservato non solo gli
effetti simili, ma anche le cause simili, vale a dire, ho veduta molti orologi
fra i quali ho trovato della similitudine, ed Ito veduto ancora molti artefici
di orologi, fra I quali ho trovato ancora della similitudine. Ciò non accade, quando
da’ moti del corpo di un uomo deduco l’esistenza di uno spirito simile al mio,
da cui questo corpo è animato. Io non ho giammai sperimentato un altro
spirito,all’infuori del mio, quindi non lio giammai sperimentato la
similitudine delle cause, da cui derivano gli effetti de' quali si parla, io
dunque esco qui fuori deirespcnenia: se avessi erimontato piìi volte che alcuni
moti di altri corpi simili al mio derivano da spiriti simili al mio, allora la
mia deduzione avrebbe lo stesso fondamento dell’analogia, la quale mi autorizza
a dedurre da effetti che sperimento,simili aquelli che ho sperimentato, cause
simili aquelle che ho sperimentato. Ma qui siamo in un caso diverso;io sono
racchiuso nella sola osservazione di una causa sola: ho sperimentato in me solo
che alcuni dati moti procedono da un atto di volontà. Ma non 1’ho sperimentato
in altri, nè posso giammai sperimentarlo; or chi mi autorizza a concludere da
un caso solo una legge costante, ed universale della natura? Nell'argomento di
analogia si conclude per un caso ciò che abbiamo sperimentato costantemente in
tutti gli altri, che ci son occorsi: ho sperimentato molte volte, che il fuoco
posto in vicinanza della neve la liquefa, nè mi è occorso alcun caso, in cui
non abbia ciò sperimentato: vedendo del
fuoco posto in vicinanza della neve concludo, per questo caso particolare, ciò che ho
sperimentato costantemente nella
moltitudine degli altri casi. Ma quando
al veder muovere gli altri uomini giudico, che sono animati da uno spirito
simile al mio, procedo tutto al rovescio dell’analogia, poiché da un solo caso,
vale a dire da ciò che sperimento in me, giudico tutti gli altri. Questa
obbiezione merita di esser esaminata, poiché l’analisi dei motivi
de’nostri giudizi è1’oggetto della logica. Io ho camminato un
numero incalcolabile di volte, per varie direzioni, ed in vari luoghi. Ho
sperimentato questo fatto costantemente unito al mio volere. Ho sperimentato
fra il cammino di una volta equello di un altra una similitudine, ed una
similitudine fra l’atto di volere di una volta e quello di un altra. Ho dunque
qui sperimentato che effetti simili procedono da cause simili, vale a dire, che
il camminare consiste in moti volontari. Quando dunque veggo camminare un altro
uomo io concludo per questo caso particolare quello che ho sperimentato nella
moltitudine de’casi particolari occorsi in me stesso; non esco dunque dell’analogia, con cui si concludeda
molli ad uno. È nondimeno incontrastabile, che l'illazione non può giammai
divenire sperimentale, poiché 1’esistenza della volontà in un altro uomo, che
io deduco dal vederlo camminare, non può giammai divenire per me un oggetto di
esperiaiza come può divenirlo questa illazione: il fuoco che vedo liquefarà la
neve a cui è vicino: Ma ciò mi sembra, che non tolga alcuna forza alla
deduzione, che esaminiamo. Quando dal vedere il fuoco posto
in vicinanza della neve deduco la liquefazione di questa, io giudico prima
dell'esperienza; ressere perciò l’illazione di natura a poter divenire un
giudizio sperimentale,non influisce nella deduzione, L’illazione è vera per me
per la sua connessione colle premesse; non già perchè è un giudizio, il quale
può confermarsi coll’esperienza. Similmente, l’illazione di analogia, con cui
giudico che gl’altri corpi umani, fuori del mio, sono animati da uno spirito
simile al mio (“OTHER MINDS” WISDOM), è vera in forza della sua connessione
colle premesse, e l’impossibilità che ha questo giudizio di divenire
immediatamente sperimentale; non toglie mica il valore della deduzione. Ma qui
conviene aggiugnere qualche cosa molto importante. Che i moti chiamati volontari,
e che scorgo ne’corpi umani, non dipendano da una causa meccanica, ma da una
causa intelligente, mi sembra una verità necessaria della stessa natura delle
verità necessarie, che esprimono le leggi del moto. Se io sono ricco o potate, e deadcro d'innalzare un edifìzio, mille
braccia agiscono, e la mia volontà ha il suo effetto. La mia voce non ha fatto
impressione sul corpo de’travagliatori,
se non die per mezzo dell’aria, e no nha prodotto nell’atmosfera on’ agitazione
suflìciente a muovere de’corpi molto piìi piccoli di quelli che eseguono gl’ordini miei. La mia voce dunque non produce
l’effetto come causa meccanica. Bisogna perciò che un principio diverso
dall’agitazione dell'aria, o dalla mia parola produce questo moto ne’corpi, e
che la mia parola determina questo
princijiio a produrre i moti, che chiamiamo voloiitai. Non si può
riguardar la mia parola, se non che o come un molo eccitato nell’aria, o come
l’espressione della mia volontà. La mia parola non ha potuto come causa
meccanica produrre i moti, de’quali parliamo, perchè ciò come abbiamo veduto, è
contrario alla legge del moto, che un piccolo moto ne produca uno maggiore; al
che si aggiunga, che la mia parola non avrebbe
prodotto moto alcuno
nell’Ottentotto, o in un altro individuo che parla un linguaggio diverso dal
mio: per la sola espressione della mia volontà ha dunque
potuto la mia parola determinare ad
agire il principio del moto de’corpi die mi hanno ubbidito. Questo
principio è perciò un’intelligenza, poiché ha conosciuta la mia volontà nelle
mie parole. La proposizione dunque: vi tono alcuni moti ne’ corpi umani dieerti
dcU mio corpo, iquali hanno per causa una causa intelligente, mi sembra di
verità necessaria. La proposizione poi: vi sono alcuni moti ne’corpi umani dècer
si dal mio corpo i quali hanno per causa la volontà di uno spirito simile al
mio, e per conseguenza tali corpi sono animati come il mio, è di verità
contingente, e poggiata sull’analogia. Concludiamo nell’argomento di analogia
si deducono spesso cause, (M non possono divenir giammai un oggetto d’esperienza,
sebbene sieno simili ad altre cause, che si sperimentano. 2.° Vi sono nondimeno alcune deduzioni d’esistenze
che non possono divenire sperimentali, le quali deduzioni danno verità necessarie
in risultamento. Questa seconda parte della
conclusione enunciata si conferma da quello che si dice nell’ideologia circa resistenza dell’assoluto. Questo non
può certamente divenire un oggetto d’esperienza, intanto la sua esistenza è il
risultamento di un raziocinio legittimo, in cui una delle premesse è una
verità sperimentale. Noi diciamo; se vi
è il condizionale, et deve essere l’assoluto. Questa proposizione esprime un
giudizio analitico, e necessario: vi e
il condizionale. Questa seconda proposizione esprime un giudizio sperimentale;
vi è dunque l’assoluto. L’illazione è una verità necessaria. L’empirimo ci
riserra nel solo circolo dell’esistenze, immediatamente sporimetitali; nè ci
permette di passare da ciò, che cade immediatamente sotto 1’esperienza, a
ciò che
sotto la stessa immediatamente non cade.
Io vi ho fatto vedere il contrario; vi
ho dunque dimostrato la falsità dell’empirismo. L’argomento d’analogia
è fondato sul rapporto
d’identità. Ma l’identità può fra
due cose essere maggiore o minore.
L’identità fra il mio corpo ed il corpo di un altro individuo, che io chiamo
uomo, è maggiore di quella che passa tra il mio corpo ed il corpo di un CAVALLO.
Ora si domanda: tino a qual grado d’identità l’analogìa è un argomento
valevole, cioè un argomento certo ì È
questo un problema di difllcile soluzione. L’analogia ci rivela dunque
1'esistenza degli altri spìriti simili
al nostro. L’esperienza c’insa, che alcuni moti volontari in noi nascono, o
sono accompagnati da alcune affezioni interne del nostro spirito. Vedendo in
conseguenza moti simili in altri corpi umani, attribuiamo agli spiriti
animatori di tali corpi affezioni simili a quelle che abbiamo sperimentato in
noi. Allora che sono affetto EFFETO dal
sentimento della sete, corro a bevere ad una fontana che a me si presenta. Se
dunque vedo un altro uomo camminare verso una fontana, e bevere, giudico,
appoggiato sull’analogia, che egli sia modificato dal sentimento della sete, e
che voglia bevere. In queste deduzioni analogiche dove osservare ciò che vi ho
detto circa 1'aspettazione del futuro simile al passato, ili bisogna
distinguere il sentimento della deduzione meditativa. La dottrina generale che
ivi vi ho spigato, può applicarsi all’oggetto che ci occupa. Noi supponiamo ne’nostri simili delle anime
alla nostra simile. Noi facciamo tali
suppozioni in forza della I^gc della
nostra immaginazione, non già in forza de’raziocini, che abbiamo
sviluppato. Io suppongo l’incontro di
due uomini, privi sino a questo momento di ogni commercio,ancora cògli animali;
ridotti per conseguenza al circolo stretto de’propri sentimenti, e delle proprie operazioni. Ciascuno di essi
vede nell’altro un essere che gli rassomiglia in tutte le cose, che presenta le
stesse forme, possiede gli stessi organi, ne fa un simile uso. Egli crede
dunque il corpo che lo colpisce, animato da uno spirito. Or ecco, secondo la
mia dottrina, come si opera questo fatto intellettuale. Io suppongo che un di
questi uomini vegga l'altro camminare, questa percezione risveglia i fantasmi
simili del proprio corpo camminante in varie volte, e perciò anche i fantasmi
del proprio me affetto in tali circostanze da tali e tali modificazioni. Queste
riproduzioni si fanno con somma rapidità in modo che non posson essere fissate
dall'attenzione. Esse sono perciò obbliate l'istante appresso, in cui si son avute, intanto la percezione del corpo
simile al proprio determina l’attenzione
non solamente ad essa sola, m’ancora
alla percezione simultanea
del proprio me, e lascia
fuire le percezioni successive simili del proprio
corpo camminante in varie volte. La
piercezione del me
riprodotta si lega perciò a quella del corpo presente del mio
simile, invece di legarsi a quella riprodotta del proprio corpo camminante,
che si
è obbliata, e questo legame
costituisce il sentimento
interno di questa
specie di credenza.
L' obblio delle
percezioni riprodotte del
proprio corpo camminante
in varie volte,
nell’atto che rimane
quella riprodotta del
proprio me, fa si,
che questa ultima
si associi a quella presente del corpo simile. La
percezione riprodotta del proprio me rimane, perchè la percezione del corpo camminante
e quella del proprio me son legati
naturalmente in una
comune attenzione; essendo
associate dalla natura
stessa. Quella riprodotta del
corpo camminante s’ecclissa,
perchè quella del corpo
simile camminante richiama
l’attenzione. Lo spirito
trasporta dunque fuor di lui col pensiere l’idea del proprio me, che egli
immagina, e che stabilisce nel seno di quelle forme, che colpiscono i suoi
sguardi, ed a traverso delle quali il
suo sentimento immediato non può penetrare. Egli presta dunque il suo me al suo
simile, 1’anima della vita che respira in se stesso, e concepisce 1’esistenza
di un altro uomo. Tale mi sembra la spiegazione del sentimento della credenza che
esaminiamo. Risulta dalla stessa che noi concependo ciò che pensano gl’altri
uomini, non usciamo mica da
noi stessi. Nelle
nostre proprie idee
noi vediamo le
loro maniere di
essere, la loro
stessa esistenza. Da
ciò avviene, che
1’uomo misura dal
proprio spirito quello degl’altri, dal che nascono molti orrori. Noi non
possiamo accuratamente determinare lo stato dei fanciulli; e conoscere perciò l’epoca in cui hanno luogo le loro
abitudini intellettuali. Ma egli mi sembra incontrastabile, che queste abitudini si formano in loro
mediante la rapiditll di talune associazioni.
I fanciulli percepiscono negl’altri uomini de’ corpi simili al
proprio: &si sperimentano alcuni
moti spontanei del
loro corpo ed
altri simili ne
percepiscono nei corpi
degl’altri uomini. Queste similitudini, ed altre, che
si manifestano piu
tardi, determinano le associazioni di cui ho parlato. Ma non solamente
i moti volontari che osserviamo negl’altri, ci menano
a supporre nel loro
spirito alcune medincazioni. Ma ancora
certi moti e cambiamenti
necessari, che son gli stessi effetti
meccanici i quali accompagnano
i sentimenti interni dell' anima, come
il tremore e la
pallidezza nello spavento, le
grida, e le lagrime nel
dolore, il riso – risus signifiat
laetitiam interiorem, lacrima significat dolorem --, e il
tripudio nell’allegrezza. Questi
si manifestano incontanente da se
medesimi, anche ne’
fanciulli appena nati, principalmente i gridi ed il lamento
che accompagnano il dolore. Concludiamo. Noi
poniamo per mezzo di alcuni
cambiamenti che osserviamo ne' corpi altrui pervenire a conoscere ciò che
accade nel loro spirito. Questa conoscenza può essere meccanica o sia il
risultamenlo del sentimento
prodotto da alcune
rapide associazioni, e può
essere ancora l’illazione
di un RAZIOCINIO legittimo di analogìa. Possiamo
dir la stessa cosa in modo breve. Questa conoscenza può essere o istintiva o RAGIONATA.
Da ciò si vede che non è necessaria una
prima CONVENZIONE (cf. Grice: Meaning has nothing to do with convention) fra gl’uomini
acciò s’incomincino a intendere fra loro. LA NATURA rende gl’uomini tali che, conversando insieme
essi s’iiit elidono
ENTENDONO naturalmente anche SENZA L’ISTITUZIONE del linguaggio. Seguiamo la
supposizione de’due'solitari.
Sebbene 1'uno abbia compreso ciò che accade nello spirito dell’altro, non tì è
ancora un linguaggio propriamente detto – SENSU STRICTO, ma SENSO LATO; perchè
non si ‘parla’ se non quando SI CERCA DI
FARSI INTENDERE (il papagallo – Maurice, Locke); e se 1’uno
de’due individui penetra
il pensiero dell’altro
(TELEMENTAZIONE) ciò è accaduto
senza che questi cercasse a farglielo conoscere –senza avere l’intenzione della
sua intenzione communicativa di ser reconosciuta. I due individui di cui
parliamo, osservano, eh’eglino sono stati compresi, ed allora CERCANO DI FARSI
COMPRENDERE, e nasce cosi il primo linguaggio. Sviluppiamo questa
dottrina. Abbiamo veduto, che
il corpo degl’altri
uomini ci presenta
alcuni avvenimenti, la percezione
de’quali ci fa conoscere ciò che accade nel loro spirito. Ciò LA CUI IDEA
ECCITA L’IDEA DI UN’ALTRA COSA CHIAMASI SEGNO (Il fumo e segno del fuoco, la
nubbe oscura e segno di piuvia. Nel corpo di un altr’uomo vi sono dunque de’SEGNI
delle interne modificazioni dello spirito animatore di questo corpo. Siccome
tali SEGNI son tali per la costituzione DELLA NOSTRA NATURA, cosi si
chiamano SEGNI NATURALI. Vi sono,
in conseguenza, de’segni naturali de’pensieri o modi di essere dello spirito
degl’altri uomini. Ma non solamente vi sono di quello o questo SEGNO NATURALE de’pensieri
altrui; ma 1’uomo può conoscere che vi sono, cioè può conoscere che, con alcuni
dati mezzi, si può manifestare altrui ciò che si sperimenta internamente nello
spirito proprio. Supponiamo, che uno de’ due nomini supposti pianga, gridi, si
lamenti, senza avere l’ intenzione dì manifestare all’altro il dolore, che egli
sente; intanto 1’altro sapendo, che questi gridi, e questi lamenti sono soliti ad accompagnare
il dolore, conosce da questo segno il dolor dell’altro, ed accorre al soccorso
di lui, questi perciò comprenderà da tutto questo che egli è stato compreso. E
se avviene altra volta, che si trovi affetto dal dolore, ed in bisogno del
soccorso dell’altro, piange e grida
coll’INTENZIONE (non solo volunta o desiderio) di manifestare
all’altro il proprio dolore.
Così gl’uomini incominciano
dal comprendersi scambievolmente.
In seguito conoscono che
sono stati compresi,
e finalmente si determinano
a farsi comprendere. Cosi si osserva
in tutt’i fanciulli comunemente. A principio essi GRIDANO, e si lamentano
costretti unicamente dalla forza del dolore, SENZ’AVER L’INTENZIONE di
manifestarlo con questo o quello segno agl’altri, anzi senza sapere neppure che
cosa alcuna si puo ESPRIMERE col pianto e colle grida. Ma appresso, avendo
imparato che con tali segni si ottiene l’altrui soccorso, cominciano a
valersene avvertitamente per manifestare il loro dolore, e ricevere
il soccorso che
bramano. Ciò di
cui gl’uomini si
servono, per manifestare
agl’altri i propri pensieri,
chiamasi SEGNO ARTIFICIALE. Un segno naturale
divenne dunque NATURALMENTE naturalmente un segno ARTIFICIALE. Qui ha
termine l’educazione della
natura per le
nostre scambievoli comunicazicmi.
La natura insegna
all’ uomo che egli può
farsi intendere. E l’uomo può
non solamente servirsi de’mezzi NATURALE che LA NATURA gl’ha
mostrato per la COMUNICAZIONE NATURALE de’propri pensieri, ma può ancora ritrovarne
degl’altri simili. Il
primo e più semplice mezzo di comunicazione NATURALE, NON ARTIFICIALE,
che si offre allo spirito, si è quello di ripetere con riflessione ciò eh’egli
fa dapprincipio, senza prevederne le conseguenze, cioè di riprodurre quelle
azioni, per mezzo delle quali li si è fatto comprendere. Così si forma un primo
linguaggio, che può chiamarsi
‘linguaggio’ della natura,
poiché esso non
si compone se
non che di questo o quello SEGNO NATURALE, vale
a dire di questo
o quello SEGNO di cui LA
NATURA HA già senza di
noi rivestito i nostri pensieri
spreti, per renderli
sensibili agl’altri. Il linguagio
della natura è insufficiente per manifestare agli altri
tutt’i nostri pensieri. Noi
abbiamo al presente il linguaggio de’suoni articolati. I filosofi disputano sull’origine
di esso. La quistione si versa
sull’esistenza, e sulla possibilità,
cioè si cerca; gl’uomini hanno esH DA SE stessi ISTITUITO
il linguaggio. Questa ricerca suppone quest’altra. Gl’uomini abbandonati
austusi possono istituire il linguaggio. I nostri sacri libri, c’insegnano che
Adamo ed Èva (o l’uomo da Polifemo) SONO creati da divino (Polifemo) in uno
stato adulto con delle conoscenze in istato di riflettere e di COMUNICARSI i
loro pensieri. Il divino ù maqiiesta
all’uomo innocente ne’primi
istanti della creazione. Il divino (Polifemo) è dunque
l’autore primitivo del linguaggio. Ma io suppongo, dice Condillac, che, qualche
tempo dopo il diluvio, due bambini dell’uno, e dell’altro sesso siensi trariati
ne’ deserti, avanti che conosceno 1’ aso de’ vocaboli. A fare questa
supposizione, egli dice, io sono spinto dal fatto del giovane di
Chartres rapportato nelle memorie dell’accademia delle scienze. È questi del’età di 23 a 24 anni
sordo e muto di nascita. Comincia con gran sorpresa di tutta la città tutto ad
un colpo a parlare. Si sa da lui
che, tre o quattro mesi
prima, egli udisce il
suono delle campane,
ed è stato
estremamente sorpreso da
questa sensazione novella ed
incognita. In seguito gli è sortita una specie di acqua dell’orecchia sinistra,
ed acquisce l’udito in tutte e due le orecchie. Egli impiega tre mesi ad
ascoltare, senza nulla dire, assuefacendosi a ripetere sotto
voce le parole,
ch’ali udisce, ed
esercitandosi nella pronunciazione, e nelle
idee legate a’vocaboli. Io non so come questo fatto pu
autorizzare il filosofo francese, a fare
la supposizione di cui parla,
se non perché ciò mena a poter supporre, che due giovani di sesso diverso
sordi e muti di nascita, possono traviarsi ne’deserti o ne’boschi, indi
incontrarsi, e dopo l’ incontro ricever
tutti e due rudito. Questa supposizione non ha niente di assurdo;
ed è perciò lecito al filosofo di cercare, se in una tale supposizione questi
due giovani possano ISTITUIRE una società, ed un linguaggio. A ciò si può
aggiungere, che si rapporta, essersi in vari tempi vari fanciulli trovati
ne’boschi. Uno ne è sorpreso nell’Asia in compagnia de’ lupi, un altro dell’età
di circa 12 anni in Weteravia, un altro di 16 è scontrato fra una torma di
pecore selvatiche nell’Irlanda, un altro di nove fra gl’orsi nelle selve della
Lituania. Uno ne fu scoperto presso ad Hamelen nella Sassonia, una fanciulla
presso a Lwlla nella provincia di
Utrecht, ed un’altra è arrotata presso Chalons. Io per altro non comprendo come
questi fanciulli abbiano potuto vivere, se sono stati abbandonati, o perduti
prima di potersi alimentar da se stessi, ed in conseguenza prima di avere una
lingua. Si potrebbe supporre che principiano a parlare, quando si smarrirono. Ma
che poi, nella solitudine, interamente obliano quanto hanno imparato. Or si domanda. Se due di questi di sesso
diverso, si fossero per avventura incontrati nella stessa foresta, che sarebbe egli
avvenuto? E per limitarci all’oggetto delle nostre ricerche, domandasi:
avrebbero essi ISTITUITO una
lingua. Tralitsciando dunque, sull’origine del linguaggio,
la quistione di fatto, è egli
lecito di esaminare
quella della possibilità (cf. Grice on the contract in
contractualism), o di cercare se gl’uomini abbandonati
a loro stessi possono
istituire una lingua? L’esame di una tal quistione è molto
utile, per ben conoscere, e misurare le forze dello spirito umano, e queste ricerche ipotetiche ci menano ancora
a risultamenti che hanno luogo nel fatto reale. Io aggiungo dippiu, che alcuni
autori [ALIGHIERI, GELLI] anche su l’autorità de’nostri libri divini, hanno creduto,
che le lingue attuali – comme la lingua italiana -- sieno state istituite dagl’uomini
coll’uso delle loro forze naturali. Ecco come può essere accaduta la cosa. Nel
famoso avvenimento della costruzione della torre di Babele, per forza miracolosa, è cancellata dalla mente degl’uomini la
memoria intera del primitivo linguaggio. In seguito di un tale miracolo, gl’uomini
si divideno a torme secondo i rapporti di parentela e di amicizia, e si
stabilirono hi diverse parti
della terra. Sono dunque
abbandonati a se stessi, per
istituirsi un linguaggio; e così perduto
interamente il linguaggio
primitivo dì cui è stato autore il
divino stesso, le nuove lingue, che nasceno
sulla terra, sono un prodotto dello spirito umano. In questo modo si spiega
come gl’uomini perduto, per forza del
miracolo, il primitivo
linguaggio, non si sieno
più scambievolmente intesi
ne’linguaggi rispettivi.
Questa opinione ammette
un solo miracolo,
quale è quello della memoria
perduta del linguaggio
primitivo, laddove nell’opinione
contraria bisogna supporre
una gran moltitudine di miracoli,
l’uno in forza del quale gli uomini abbiano perduto la memoria del
linguaggio primitivo, e gli altri con cui il divino abbia istitue i
diversi linguaggi, che hanno luogo dopo
dell’avvenimento. Ora si puo dire,
non e verisimile, che il divio
moltiplica inutilmente i miracoli. Checché ne sia di tale opinione, noi
esamineremo qui la quistione della possibilifb. il rispetto che il filosofo deve
alla religione divina, che c’illumina, mi conduce a questa digressione. Per
esaminar la quistione proposta continuiamo la supposizione di sopra, e partiamo
dal punto ove siam rimasti. Abbiamo veduto l.° che gl’uomini per natura si
comprendono scambievolmente. 2.° che
conoscono di essere stati compresi. 3.° che con ciò si fanno
naturalmente un linguaggio artificiale, che è il linguaggio della natura. Vale
ad ire che fanno uso di questo o quello segno naturale, per manifestare agl’altri
i propri pensieri. Ma il bisogno non potrebbe spingere gl’uomini, a migliorare,
cioè ad acrescere questo linguaggio della natura, ritrovando de’segni analoghi?
Il pianto ed i gemiti manifestano -- risus significat laetitiam interiorem -- agli altri
il dolore da
cui un individuo
è affetto. Ma non manifestano lyica la CAUSA del dolore. Ora gl’uomini hanno spesso bisogno, per
essere soccorsi, dì manifestare agl’altri la CAUSA del loro dolore. Per tale
oggetto alcune volte bastano le circostanze. Uno de’due suppposti
solitari cade in
una fosa egli
non può senza
l’al trui soccorso cavarsene
fuora. Egli grida -- 1’altro
accorre, e si avvede della CAUSA del dolore del suo simile. Parimente se uno
de’due è inseguito da una bestia feroce,
e grida, l’altro conosce dalla circostanza la causa del dolore del compagno.
Spesso nondimeno la CAUSA del dolore non apparisce dalle circostanze.Tutti
generalmente acquistiamo l’abito, allorché ci sentiamo in alcuna parte
addolorati, di recare colà la mano. Se dunque uno de’due supposti solitari sente
dolore in qualche parte, egli
grida, e la mano corre naturalmente alla
parte addolorata. L’altro accorrendo alle grida, e spingendo per
avventura lo sguardo là, dove è corsa la mano dell’altro conosce il
luogo del dolore e se la CAUSA del dolore è una ferita, o una contusione, o
qualche altra cosa visible; allora conosce chiaramente questa causa. Qualora
l’uno vorrà porgere all’altro alcuna cosa, amendue stenderanno la mano l’uno
per darla, el’altro per prenderla. Questo moto
della mano potranno
da si naturale
divenire un SEGNO ARTIFICIALE, così si puo indicare
la causa del
dolore recando la mano su la
parte addolorata; e si potrà da uno de’due individui volendo dire all’altro che
non è vicino qualche cosa; e, non volendo o non potendo muoversi, stendere la
mano con entro la cosa che gli vuol PORGERE. L’altro similmente se cosa alcuna
brama aver dal compagno, porge la mano vota per prendere ciò che desidera. Fin
qui non si esce ancora dal linguaggio della natura. Ma già siamo al termine di
un altro linguaggio a cui il primo ci
mena. Vi sono due specie di cose di cui gl’uomini hanno bisogno di
eccitare le idee negl’altri. Alcune
possono nel momento stesso colpire i sensi tanto
di colui che vuol parlare quanto
di colui a cui si vuol parlare. Altre sono lontane o almeno invisibili, e non esistono nel momento, se
non che nello spirito di colui che vuol farsi comprendere. Tiguardo alle prime,
basta che colui che vuol parlare cioè che vuol farsi comprendere ecciti
l’attenzione del suo compagno, e la
diriga sull’oggetto che
gli vuol mostrare.
Abbiamo veduto che il
gesto può esser NATURALE
e divenire un SEGNO ARTIFICIALE. Ma alcune volte non è cosi.
Supponiamo che uno de’due solitari voglia mostrare all’altro un oggetto
lontano ma che
può esser veduto. Egli
avverte il suo compagno
per un GRIDO, ed allora
che questi volge
a lui gli sguardi. Il
primo dirige Io
sguardo su l'oggetto (un serpe_, che vuole mostrare
all’altro, e fa uso del dito (fingerwave, handwave), per meglio mostrargli la
direzione, che prende lo sguardo suo. L’altro
rimite, e la sua curiosità lo porta ad osservare ciò che occupa il suo
compagno. Questo grido, questo gesto, forma una prima spezie d’un SEGNO ISTITUITO (stablished), che
si possono chiamare segni indicatori (INDICARE – CONTENUTO DITTIVO,
INDEX). Osservate che il
segno di cui parlo non
e un segno INVOLUNTARIO SPONTANEO INCONTROLLABILE e naturale, perchè
il grido è naturale
nel dolore e nel piacere. Il
grido diviene da naturale artificiale *per* (con l’oggetto di) denotare il
dolore, o il piacere. Ma l’uno de’ due solitari avendo osservato, che l’altro,
quando egli manda fuori il grido, diriga a lui
il proprio sguardo, FA USO CONTROLATO E VOLONTARIO di un grido per
obbligare il compagno
a fissare su di
lui lo sgiiardo. Cosi, il grido
si estende a denotare ciò che denota questa proposizione di modo impoerativo: “volgiti a me.” Inoltre lo stendere [verbo in
infinitivo – cf. Grice MEANING] il dito (finger wave, hand wave) verso
l’oggetto (serpe) che si vuol mostrare non è un SEGNO NATURALE, ma un segno ICONICO
analogico, poiché vi ha una similitudine fra il moto che fa il dito
(finger-wave handwave: I KNOW THE ROUTE --- oohh: “VIENI”), ed il moto che far
dovrebbe il proprio
corpo per ginngerc
all’oggetto che si vuol
mostrare. Questi due moti avendo
la stessa direzione,
o pure, la direzione del dito (FINGERWAVE,
HANDWAVE, I KNOW THE ROUTE) è identica colla direzione che prende lo
sguardo. Per tal ragione io credo,
che il gesto di cui
parlo dove riguardarsi
piuttosto come un SEGNO
ICONICO IMITATIVO ANALOGICO, poiché il
moto del dito (fingerwave, handwave) imita
nella direzione il
moto che far
dovrebbe il proprio corpo per giungere pel cammino più corto all’oggetto
che si vuol mostrare, o pure imita la direzione dello sguardo. Ma servendo tal
gesto ad indicare un’oggetto (UN TIGRE), che può nello stesso momento colpire i
sensi de' due solitari, gli si pùò dare il nome di SEGNO INDICATORE (INDEX –
INDICAT – DICTIVE CONTENT, CONETUTO DITTIVO). Questi due segni indicatori di
cui parliamo equivalgono; a queste due proposizioni in modo imperativo: “volgiti
a me” + “guarda là”. Vi ha inoltre de’ segni imitativi, i quali servono a
denotare alcune cose future, od
altre cose che nel momento non possono
colpire i sensi di tutti e due i solitari. Supponiamo, che uno di questi sia in
A (St. Giles), 1'altro sia lontano ma a vista del primo in B (Banbury), che
l’oggetto lontano ma a vista di tutti e due sia in C (Christ Church). Inoltre
cl» il primo, non potendo muoversi per andare io C voglia manifestare all’altro
che vada in C, e che prendendo l’oggetto bramato ivi posto, lo rechi a lui
in A. Ecco come io immagino, che la cosa
potrà farsi. Il primo, con un grido,eccita 1'attenzione del compagno. Indi STENDE
IL DITTO (FINGER-WAVE) nella direzione della linea fra A e B. Poi, la muoverà
nella direzione di una linea parallela a quella fra B e _C_. Con questo moto, egli
‘dice’ (INDICA – ESPLICA ma non IMPLICA) al compagno che vada da B in C. E
questo moto è un segno IMITATIVO del moto che il compagno dee fare [INDICANTE
DI UNA VOLIZIONE], per secondare il desiderio dell’altro'io A. Questo moto, che il compagno dee fare è *una
cosa futura* che non può nel momento colpire i sensi de’due solitari. Ecco
dunque come con de’segni imitativi si possono denotare un’oggetto assente.
Supponiamo, inoltre, che l'individuo posto in B si conduca in C. L’altro, che
si trova in A, stende il suo braccio da A verso C in posizione orizzontale. Indi
fa un moto col braccio imitativo di quello che dee fare il compagno per
prendere l’oggetto posto in C. Dopo di ciò ritornando a mettere il braccio
nella stessa posizione orizzontale, lo ritrade a se con un moto contrario a
quello, con cui rha steso, e che è imitativo di quello che dee fare il compagno
per *venire* da C in A. Con i segni imitative dunque si puo denotare le cose
invisibili nel momento. Questi segni imitativi si possono eseguire in vari
modi. Così, per denotare una *serpe* si può sull’arena designare la sua forma,
o il suo moto tortuoso. Abbiamo veduto che vi sono de’segni naturali delle
nostre interne modificazioni, e che UN SEGNO ORIGINALMENTE NATURE PUO DIVENIRE
ARTIFICIALE, e così costituire un primo linguaggio, significazione,
comunicazione, manifestazione, che abbiamo chimato ‘linguaggio’ della natura
(cf. Condorcet, ‘comunicazione d’azione’).
Abbiamo detto inoltre che 1’uomo può con altri segni accrescere questo ‘linguaggio’
della natura, ed abbiamo chiamato i segni che accrescono il linguaggio della
natura, segni indicatori e segni imitativi. Ora qual principio può guidare
l’uomo a ritrovare le ultiqie SPECIE DI SEGNI? Nella logica pura lo spirito è
naenato nel passare analiticamente d’una proposizione ad un’altra, ad una certa
similitudine che passa fra l’una e l’altra. Il
princìpio della similitudine è dunque un principio d’invenzione, e
questo principio ha condotto gl’uomini, partendo dal ‘linguaggio’ della natura,
a ritrovare i segni indicatori ed i segni imitativi, queste due SPECIE DI SEGNI
possono perciò chiamarsi segni ANALOGICI. Difatto, fra il moto del mio dito
(finger wave, handwave), con cui mostro l’oggetto lontano, ed il moto che
dovrei fare col mio corpo, per arrivare, pel cammino più breve all’oggetto, vi
si osserva una similitudine: una
certa similitudine si osserva
eziandio tra un segno analogico imitativo
e ciò di cui è l'imitazione. Le interne
modìficazioni dello spirito possono manifestarsi per mezzo de’moti del corpo.
Il desiderio, il rifiuto, l’avversione,
il disostosi esprimono per mezzo de’moti del braccio, della testa, e per mezzo di quelli del corpo intero, moti
piò o meno vivi, secondo la vivacità, con cui ci portiamo verso di un oggetto,
o ce ne allontaniamo. Tutti i sentimenti dell’anima possono esser espressi
dalle posizioni del corpo. Esse dipingono di una maniera sensibile
l’indifferenza, l’incertezza,
l’attenzione, e le altre affezioni interne. Ora se ripetendo queste
azioni, e posizioni del corpo, si denota insieme, che esse non si riferiscono
ad affezioni presenti, allora denoteranno le modificazioni, da cui siamo stati
affetti. L’analògia acquista
spesso una grande estensione. Cosi,
per esempio, quando voglio attendere ad un oggetto, die colpisce i miei
occhi, dirigo lo sguardo verso di esso. Questa
direzione (GRICE’S FROWN) è segno dell’attenzione dello spirito. Ma io
posso ancora rivolgere la mia attenzione ad un oggetto invisibile. Se dunque
per denotare quest’ultima attenzione,
mi servo della direzione dello
sguardo, questo segno si
estende al di là di ciò, che naturalmente denota. Allora
che io peso un corpo, lo paragono
ad un altro; pesare è dunque paragonare. Ma paragonare
non è sempre pesare;
perciò, quando, per esprimere l’azione intellettuale che
paragona, io prendo nelle due mani de’corpi, come fo quando viglio pesarli,
questa azione è trasportata a denotare *più*
[IMPLICATURA come eccedenti – ‘Hasn’t been to prison yet: ‘He might’) di
quello che denota
in origine. Questa
TERZA specie di
segni, che l’analogìa
somministra agl’uomini, si puo
chiamare SEGNO FIGURATO. L’unione de’ segni
indicatori, imitativi, o figurati
costituisce il linguaggio analogico. Cosi, un segno naturale, divenendo
segno artificiale, costitoiscono il linguaggio della natura. Gl’uomini, guidati
dal principio della similitudine, partendo dal principio della natura,
inventano il linguaggio analogico. Ma fa d’uopo considerare l’ultimo
linguaggio, di cui abbìam parlato,
in colui che per parlarlo lo trova: ed
in colui che l’intende. Nel primo, il principio della similitudine guida la
meditazione a produrre nuove idee. Nel secondo il principio della similitudine
riproduce alcune idee simili a quelle che modificano attualmente lo spirito.
Quando colui che vuol parlare fa uso il primo di alcuni gesti, per denotare
alcuni dati pensieri, li, guidato dall’analogia, INVENTA QUESTI SEGNI (GRICE
DEUTERO-ESPERANTO), e questi segni, e questa invenzione è un prodotto della
meditazione. Ma colui che ascolta intende questi segni in forza del principio
meccanico dell’associazione dellé idee. Fra i principi particolari compresi
sotto questo principio generale, si contiene il principio della similitudine. In
forza di questo principio, il moto del dito riproduce l'idea del moto simile
del corpo intero, e questa riproduce quella delle modificazioni interne dello
spirito legate col moto del corpo intero. Colui che istituisce il linguaggio
per farsi intendere è attivo. Quegli che intende il linguaggio btituito è passivo.
I gesti, i moti del corpo, ed un SUONO INARTICOLATO costitubeono il linguaggio
chiamato da Condillac ‘linguaggio’ o COMUNICAZIONE O SEGNO d’azione. Su di esso
deve fare ancora due osservazioni. 1..° un tal ‘linguaggio’ o SIGNIFICAZIONE o
COMUNICAZIONE esiste ancora e esso accompagna quello del SUONO ARTICOLATO. Un
oratore parla eziandio coi gesti, colla posizione del corpo, co’ moti del
corpo, e principalmente co’moti degl’occhi (TURN TAKING IN CONVERSATION –
GRICE). Ciò che si chiama mimica
consiste appunto nell’arte di far concordare il ‘linguaggio’ d’azione con
quello del suono articolato. 2.° col
solo linguaggio d’azione, anche dopo l’istituzione di quello del suono ARTICOLATO,
alcune nazioni incivilite esprimevano de’ lunghi discorsi. PRESSO I ROMANI i
pantomimi rappresentano de’pezzi interi, senza PRO-FERIRE (utter) una parola
(PARABOLA), li bisogna dunque, che i pantomimi, partendo dal linguaggio della
natura prendeno l’analogb per guida, e
così poterono pervenire a farsi intendere. La scrittura santa ci somministra
ne’profeti molti esempi di questo linguaggio analogico d’azione. Così, per
darne un esempio, ad ogetto di denotare che la Giudea ch’è imita con Dio, è poi
stata da Dio rigettata e dispersa per la sua superbia ed idolatria, il profeta
Geremia, per l’ordine di Dio, si cinge con una cintura di lino i lombi, indi si
toglie questa cintura, e presso l’Eufrate in un forame di una pietra la
nasconde. Dopo molti giorni, ritorna aprendere la nascosta cintura, e la trova
infracidita in modo, cf)’ è inutile per qualunque uso. Nella profezia di
Geremia si possotm trovare molti esempi di questo linguaggio analogico d’azione.
Se i moti del nostro corpo da quello o questo SEGNO NATURALE divenne il SEGNO
ARTIFICIALE, e se questo linguaggio può essere accresciuto dall’analogia,
quello d’un SUONO che da SUONO NATURALE è ancora divenuto un SEGNO ARTIFICIALE
(“Ouch”), non puo similmente essere accrescinto dall’analogia stessa. Se un
selvaggio, per denotare il moto che dee fare, secondo il suo desiderio, il suo
compagno, può servirsi di un moto simile del suo DITO (hand-wave, finger-wave),
perchè, per *denotare* il muggito del bove, il belare delle pecore, il rumore
del tuono, non puo egli adoperare un suono simile. L'analogia che 1’ha menato all’invenzione dei primi
segni, dee menarlo ancora all’invenzione de’secondi. Il bisogno di *denotare*
questi suoni degl’oggetti o le cose sonori,
mena il sdvaggio a produrre fuori
de’ suoni imitativi (ouch), e così
nascono le prime voci radicali del linguaggio de’ suoni ARTICOLATI. Questi
suoni non poterono essere dapprincipio se non che mono-sillabi, come lo prova
l’esempio de’fanciulli (“da”). Ma l’analogia non è il solo principio del
linguaggio del suono ARTICOLATO, poiché non
sempre si debbono *denotare* un _suono_, o una cosa sonora (OUCH). Per
denotare dunque le cose che non mandano suono, l'analogia fa però conoscere agl’uomini,
che possono servirà d’un suono ARTICOLATO (non-iconico), per far à
comprendere. Ciò posto
se un selvaggio si
trova nel bisogno
di farsi comprendere, se non
trova altro mezzo
per ottenere il
suo fine, se non
quello del suono – la profferenza
vocale, OUCH --, perchè non puo
egli produrre un suono
arbitrario, il quale, poi compreso dall’altro, divenne un segno comune –
ESTABLISHED. Per rendere sensibile ciò che dico,supponiamo, che ì due solitari
immaginati siensi perduti di fbta, e che l’uno voglia ritrovar 1’altro, egli
conosce certamente che non puo far comprendere all’altro questa sua volontà se
non che per mezzo d’un suono. Egli manda dunque fuori un grido (“OOOOH – Indian
love song”). Questo GRIDO (OOOOH – Indian love call – cf. OUCH) da principio
non è, come ognun vede, se non che un puro EFFETTO NATURALE (cf. GRICE, OUCH).
Se il DOLORE è naturalinente sonito d’un suono INARTICOLATO (“Ouch”), dal pianto (lacrima significat dolorem, risus
significat laetitiam interiorem) e dal gemito (“OUCH” – groan); perchè il
bisogno di spiegarsi, e di MANDAR FUORI (PRO-FERRIRE) un suono, non
potrà esser seguito
da un suono QUALE
che siasi? Noi non possiamo determinar
la RAGIONE (non meramente CAUSA) per cui il selvaggio MANDA FUORI un tal suono
piuttosto che un altro, come, volendo camminare, non possiamo conoscere la
ragione (e non meramente causa) perchè abbiamo mosso il piede diritto anzi che
il sinistro, o questo anzi che quello. Questa ragione (e non meramente causa) può
consistere, almeno in parte, nella varia posizióne meccanica del nostro
cervello, e generalmente di tutto il nostro corpo. Ma saniamo
lo sviluppa della
nostih ipotesi. L’ALTRO selvaggio, sentendo il grido, di cui si parla, accorre a ritrovare il suo compagno (principio d’aiuta
mutua conversazionale), e come amendue osservano che un tal grido HA LA FORZA
(VIM, SIGNIFICATIO) di far che l’uno ritorni all’altro, i due solitari se ne
serviranno appostatamente. lu tal caso la voce di cui parliamo ha lo stesso
significato del verbo “vieni.” (GRICE: “I KNOW THE ROUTE”). Può dunque l’uomo
ritrovare un suono ARTICOLATO NON IMITATIVO (arbitrario, non-iconico,
artificiale), per denotare agli altri le sue interne modificazioni – e anche
una modificazione, per esempio, del clima (“Piove – Andiamo alla caverna”).
Egli può trovarsi nel bisogno di farsi comprendere dal suo simile con un suono.
Da un tal BISOGNO nasce la VOLONTÀ e INTENZIONE di mandar fuori un suono.
Questa volontà ha il suo effetto, ed un suono è da lui mandato fuori. Questo
suono è tale e non altro, perchè tale e non altro è lo stato fisico del corpo che
produce il suono (o del clima esterno – stato esterno, non interno – “Piove –
andiamo alla caverna), e lo STATO morale ancora dello spirito animatore di
questo corpo. Ecco spigata la nascita del SUONO ARBITRARIO (Ouch). Ciò che ho
detto è provato coll’esempio de’fanciulli. Eglino innanzi che abbiano appreso a
parlare, quando bramano alcuna cosa
ardentemente, nell’atto che si sforzano di acceimarla co’gesti, e co’
movimenti del corpo, per
lo più proferiscono
insieme una qualche
voce, poiché lo spirito, quando si trova in qualchegr ave bisogno mette
ad un tempo tutte le sue facoltà in azione. Questo è comune alle BESTIE ancora.
Anzi i sordi muti medesimi, benché nemmeno
sappiano di aver voce, ciò non ostante per non so qual movimento
meccanico, mentre s'impegnano di spiegarsi co’lorogesti,
principalmente quando si tratta di cose che molto l’interessano e che non
possono facilmente farsi comprendere, mandano anch’essi
quando una, e quando un’ altra voce. Gl’uomini possono
dunque istituire de’ SUONO ARTICOLATO ANALOGICO (ouch ouch), e possono
istituire ancora un SUONO ARTICOLATO ARBITRARIO. Lo chiamo ARBITRARIO non già
perchè e prodotto senza una
ragion sufficiente, ma perchè
non e un SUONO ICONICO O
IMITATIVO O ANALOGICO. Qual similitudine, per esempio, può mai trovarsi fra
questo suono “cielo,” ed il complesso delle sensazioni visuali che ci desta in
una notte tranquilla il firmamento 7£ perchè la costituzione fisica e morale,
in cui si son trovati gl’inventori delle lingue – come la lingua latina,
CAELVM, e l’italiana, CIELO -- allora che sono ndl bisogno di, con un suono, *denotare* uno
stesso oggetto, è stata varia non solamente per la natura, e per gl’abiti
contratti, ma eziandio per i climi, ed i siti. Perciò in
diversi luoghi di
questo globo terraqueo
nasceno DIVERSI suoni primitivi – cf. glottal clicks --, come è provato
per le radici
di tutte le
lingue cognite. n fatto de’fanciulli
prova senza replica che
gl’uomini possono arrivare
a comprendere il linguaggio
arbitrario. E meditando
attentamente su di
questo fatto si
può intendere come ciò
possa avvenire. Supponiamo
che un fanciullo' apprende il *significato* del
vocabolo ‘gallina’ (Grice, SHAGGY), il che può accadere unendosi d’alcuno alla *pronunciazione*
(realizzazione fisica) del vocabolo “gallina” (shaggy) l’*indicazione* del
volatile dal vocabolo denotato. Supponiamo, inoltre, che il fanciullo vede una
gallina _morta_ e che il giorno seguente
ascolti d’uno della famiglia questa proposizione: la gallina jeri morì, si
accorgerà che si vuole denotare l’avvenimento della morte della gallina accaduto
il giorno innanzi.
Supponiamo ancora che la proposizione: “La gallina jeri morì” siasi
udita più volte dal fanciullo in modo che egli 1'abbia impressa nella sua
memoria; « che avendo veduto una cagna partorita il giorno avanti, e sapendo il
signifìcato del vocabolo “cagna”, ascolti la seguente proposizione: “La cagna
jeri partorì.” Ecco la serie de’ fatti
intellettuali che in tal caso hanno luogo nello spirito del
fanciullo. l.° egli intende
che, colla proposizone, “La
cagna jeri partorì”,
si denota il
parto della cagna
da lui il
giorno antecedente osservato: 2.o. la pronunciazione del vocabolo “jeri,” per la le
dell’associazione delle idee, riproduce nel suo spirito l’altra proposizione, “La
gallina jeri mori.” 3.° volendo
intendere il significato
di ciascun vocabolo
delle due proposizioni,
il fanciullo dirige
la meditazione su
le stesse. 4. paragonando le due
proposizioni fra di esse, e coi
fatti dalle stesse denotate,
non meno che i
fatti stessi fra
di loro, il fanciullo
vede che le
due proposizioni sono IDENTICHE
[token] nel vocabolo “jeri” e che
i due fatti significati
sono IDENTICI nella circostanza
del tempo in cui sono accaduti; essendo
tutti e due accaduti nel GIORNO
PRECEDENTE A QUELLO IN CUI SI PARLA. 5.° con questi paragoni il fanciullo
intende il significato del vocabolo “jeri” ISOLAMENTE considerato (GRICE:
UTTERANCE-PART). 6.° dopo di ciò comprende eziandio il significato ISOLATO (GRICE UTTERANCE PART) de’ vocaboli “morì” e “partorì”;
poiché avendo compreso
il significato in
confuso delle due
proposizioni, ed indi
il significato distinto
del vocabolo “jeri,” e
sapendo dall’ altra
parte il significato
distinto de’vocaboli “gallina” e “cagna”,
conosce che i vocaboli “morì” e “partorì” sono
destinati a denotare i due
avvenimenti, e ne apprende
perciò il loro
distinto significato. Questo esempio
fa vedere che i
fanciulli meditano (BROOD OVER) prima di apprendere il linguaggio più di quello
che comunemente si crede; e che le nozioni soggettive d’identità, e dì
diversità sono ANTECEDENTI alla conoscenza della propria lìngua – latina,
italiana --, e servono ai fanciulli per
farla loro apprendere.
I vocaboli o PAROLE o denotano gl’oggetti
de’nostri pensieri, o l’azione dello
spirito su di questi oggetti. “Pietro è con Paolo”, i vocaboli Pietro e Paolo denotano gl’oggetti
de' nostri pensieri ; i
vocaboli, con denotano l'azione dello
spirito su dì quest’oggetti. Ma ciò richiede
ancora una maggiore
spiegazione. Il vocabolo “con” *significa* l’azione dello spirito
che attribuisce a Paolo
il rapporto di *compagnia*
con Pietro. Ma
acciocché lo spirito
ha la nozione soggettiva
di tal rapporto, è necessaria la
comparazione di Pietro con
Paolo riguardo alla
loro esistenza in
un certo tempo ed
in un certo
spazio. Questa comparazione aggiunge all'idea assoluta di Paolo il
rapporto di compagnia con Pietro. La voce, parola, vocabolo (preposizione), “con”
esprime un tal rapporto, e per
questa ragione un tal vocabolo
può riguardarsi eziandio
come SEGNO dell’azione dello
spirito che compara. Pur
tuttavia essendo il rapporto un prodotto della comparazione preliminare
all’atto del giudizio, è maggior esattezza il distinguere i vocaboli che
denotano l’azione dello spirito, in vocaboli di giudizio (“è” – Frege, segno
d’asserzione) ed in vocaboli di rapporto (“con”). £ questa distinzione si trova in un opuscolo
di GIGLI (si veda) intitulato “Metafisica
del linguaggio” (Milano).
Secondo questa osservazione
i vocaboli si distinguono
in vocabbli di
cosa, in vocaboli
di giudizio ed
in vocaboli di
rapporto. Così nella
proposizione, “Pietro è con Paolo,” [O PER USARE L’ESEMPIO DI GRICE,
PIETRO STRAWSON E FRA PAOLO GRICE E DAVIDE PEARS] i vocaboli “Pietro” (Strawson)
e “Paolo” (Grice) – o CATONE E CICERONE -- son vocaboli di cosa o oggeto
[linguaggio-oggeto], il vocabolo i, esprimendo l’atto del giudizio, è vocabolo di
giudizio, ed il vocabolo “con” [o FRA] è
vocabolo di rapporto. Esso denota insime l’azione comparativa, ed
il rapporto di
questa azione. Secondo
la grammatica generale
e ragionata di Porto Reale,
i vocaboli si distii^cno
in due classi. Alcuni vocaboli – alcune parole -- significano gli
oggetti o CONTENUTO de’nostri pensieri; altri significano
la forma, e la maniera
de’ nostri pensieri di
cui la principale
è il giudizio. Questa distinzione
mi sembra giusta è chiara. I vocaboli o le parole,
MATERIALMENTE considerati [SOOT, SUIT] sono o radicali o derivati, 0 toHituiti.
Radicali, o PRIMITIVI, son quelli vocaboli o quelle parole, che non
nascoti derivati, e sostituiti, e cosi
ad accrescere notabilmente il linguaggio
e la lingua italiana (CASA, CASETTA, CASINA). Difatti quanti nomi
sostantivi non si
possono trarre dagl’aggettivi, quanti
aggettivi da'sostantivi, quanti
nomi da'verbi, quanti
verbi da' nomi? I sostantivi nerezza, bianchezza, lunghezza
ec. tutti vengono
da nero, BIANCO,
lungo. Gl’aggettivi celeste, terrestre, marmo ec. derivano da CIELO,
terra, mare. I nomi speranza, amore, dolore, volontà ec. derivano dai verbi sperare, amare,
dolere, volere. 1wirbi “velare”, vestire ec.
nascono da velo,
veste. Inoltre quante
parole formar non si
possono dall’unione di due o più altre? I LATINI unendo il verbo “esse” a
varie PROPOSIZIONI, ne facevano: AD-ESSE, ab-esse, obesse, in-esse, proc-esse, prod-esse,
sub-esse; super-esse, inter-esse.
Dall’unione poi di un nome e di un verbo, quanti altri composti facessero
i greci e gl’ebrei, e quanti
ne facciano i cinesi, e tutti
gl’orientali, è abbastanza noto
agl’eruditi. Tutte le lingue originali, che diconsi
lingue madri, hanno pochissime radici primitive, per mezzo
delle varie combinazioni di queste compongono un gran numero di vocaboli. Gl’uomini dunque, per MANIFESTARE
agl’altri i propri pensieri, hanno potuto istituire il linguaggio dei suoni articolati.
Questa invenzione è la causa principale che ha
condotto il geqere
umano a quel grado
di coltura e di
perfezione in cui oggi lo vediamo. IL LINGUAGGIO FA L’ANALISI del
pensiere [cf. GRICE SIMPLE IDEAS PREDICATES PROPOSITIONAL CONTENT], e come sia
un valevole soccorso per la meditazione. Ma indipendentemente dalla influenza
che ha pel progresso delle nòstre conoscenze, considerato riguardo
all’individuo -- o gl’individui,
i conversanti -- che se ne serve, ne ha
una notabilissima considerato riguardo alla
società, e relativamente all’individuo,
che ascolta e riceve le altrui conoscenze. Il linguaggio può essere
considerato come un mezzo che fa progredire lo spirito nella propria
meditazione; ed ancora come un MEZZO DI COMUNICAZIONE scambievole de’pensieri
degl’uomini. Nel primo caso serve d’istrumento
all’azione meditativa, per ritrovare
la verità; nel
secondo presenta allo
spirito de’nuovi materiali
per le sue
conoscenze. Gl’uomini non potendo
esistere in tutti i luoghi nè in
tutti i tempi; segue che
non tutti possono
osservare tutti i
fatti. Un uomo può perciò aver osservato de’fatti che un altro non ha
osservato (IL POMMO E EDIBILE). Se dunque il primo COMUNICA al secondo le sue
osservazioni, questi conosce de’ fatti che non ha osservato; e questa
conoscenza ha per motivo1’altrui testimonianza, e costituisce ciò che si chiama
certezza morale. Domandate, per esempio, ad un napolitano, il quale non sia mai
uscito di questa città, perche egli crede l’ esistenza di tante altre città, di
Roma, di Milano, di Parigi, di Madrid, di Londra, di Timbuctoo d’Atlantide
d’Utopia ec. Vi adduce per motivo la testimonianza d’altri uomini che hanno
veduto le città nominate, ed egli è tanto certo dell’esistenza di queste quanto
lo sarebbe, se le vedes» co’propri occhi. Non basta che un uomo conosca un
fatto che un altro ignora. È necessario
che abbia la volontà di NARRARE – e narrare il vero [GRICE, il principio
dell’aiuta conversazionale], afllnchè l’altro non è dalla testimonianza del
primo *ingannato*. Per disgrazia dell’umanità
la volontà d’ ingannare
i propri simili
si trova non
poche volte negl’uomini; e non poche volte ancora accade che
gl’uomini INGANNINO [mislead] non già perchè
VOGLIONO INGANNARE [wilfully mislead], ma perchè O non hanno conosciuta esattamente il vero, O
sono stati d’altri ingannati. Da ciò lo scetticismo prende il motivo di
combattere la certezza morale. Ma dicano quello che vogliono gli scettici,
l’esperienza ci manifesta queste due
verità, l.° un uomo
può aver conosciuto de’fatti che un
altro, o non puo
conoscere o non conosce. 2.° vi sono alcuni fatti di tal natura, su
de’quali non si trova giammai concordemente fallace la testimonianza di coloro che
gl’hanno osservati. Non si è trovata giammai fallace la testimonianza di coloro
che sono stati in Napoli nello
assicurarmi dell’esistenza di
questa città. L’esperienza stessa
me ne ha assicurato, poiché essendo io
stato in Napoli (ma nato a TROPEA), ho
ammirato io stesso
co’miei occhi questa
magnifica città, ed ho così
trovata verace l’altrui testimonianza. La stessa esperienza ripeto circa molti
altri fatti. È dunque una verità di esperienza quella che stabilisce, essere la concorde testimonianza di altri
uomini circa alcuni fatti, un motivo leggittimo dei nostri giudizi Vi sono, è vero, degl’uomini che narrano de'
fatti de’ quali non sono stati testimoni
oculari, e su de’quali sono stati
d’altri INGANNATI [deceived], e vi sono ancora di quelli che volontariamente MENTISCONO
[lie]. Ma vi sono eziandìo de’testimoni non solamente oculari di alcuni fatti, ma
testimoni tali che non somministrano alcun motivo di dubitare della
loro veracità. È questa una verità che la propria
giornaliera esperienza ci
manifesta. Chiunque non
ha veduto Bonaparte è
sicuro nulla dì
meno, per la testimonianza
di altri, che vi
sia stato un
uomo così chiamato, il
quale ha esercitato
il sommo potere nella Francia,
perde poi il
trono, ed è MORTO PRIGIONERO nell’Isola di S. Siena Elena. Cf. Grice, I
KNOW CORSICA, I KNOW OF CORSICA. A suo
luogo parleremo de’limiti della
certezza morale. Qui mi son ristretto a stabilire la sua esistenza.
Per istabilirla ho stimato di salire a’suoi primi princìpi. Ho fatto vedere che
un uomo può intendere un altro, che l’uomo può voler essere inteso, e che da
ciò nasce la prima SIGNI-FICAZIONE, il primo SISTEMA DI COMUNICAZIONE o linguaggio
chiamato linguaggio della natura. L’analogia può accrescere un tale linguaggio e
far nascere ancora alcuni vocaboli
radicali analogici. Il bisogno può
menare poi gl’uomini a stabilire altri vocaboli radicali arbitrari; e
che così ha potuto nascere il linguaggio, de’suoni articolati. L’esperienza
m’insegna che vi sono delle cose circa le quali altri non s’ingannano, nè si
propongono d’ingannarmi. Da ciò concludo che
l’altrui testimonianza, cioè il linguaggio volontario degl’altr’uomini,
può in molti casi, circa ì fatti, essere
un motivo legittimo de’ nostri giudizi. Io non posso coesistere a tutte le
generazioni, ed a tutti
i luoghi. La mia durata è breve. Il mio luogo è quasi un punto nello
spazio. Intanto vi sono moltissime cose, die m’importa di conoscere, e che sono
accadute prima della mìa nascita, o che accadono in luoghi più o meno lontani
da quello ove io mi trovo. La
testimonianza altrui mi è dunque necessaria per l’acquisto di tali conoscenze.
Il linguaggio de’suoni, come
l’italiano, o il calabrese, è un linguaggio passeggierò e limitato ad alcuni luoghi. Un uomo che per mezzo delle
parole COMUNICA agl’altri i suoi pensieri non può farlose non che nel tempo in
cui egli parla e ne’luoghi ne’quali può estendersi il suono delle sue
parole. Un gran problema presentai al
genere umano: il problema consiste a
trovare il mezzo
di estendere a tutti
i tempi ed a tutti i luoghi il
linguaggo limitato della
parola. Voi già comprendete
l'importanza del problema enunciato, e che la soluzione di esso dee formare la
seconda epoca del progresso delle umane conoscenze ponendo la prima nella nascita del linguaggio parlato.
I fatti ovvi e ripetuti
incessantemente sogliono destar
poco l’attenzione del volgo degli uomini, e perciò non gli recano sorpresa. Vi ho
fatto sopra osservare quale studio fanno i
fanciulli per apprendere, sin da’ loro primi anni, ill
inguaggio della parola; intanto si crede forse che essi non meditino affatto;
appunto perchè comunemente iiiuno cerca di conoscere come i fanciulli
apprendano tal linguaggio. E un errore il credere che le cose sieno state in
tutti i tempi come sono in un
certo tempo. Qui è il luogo di fare uso di questa importante
osservazione. La nostra educazione letteraria incomincia,
dal fare apprendere a’fanciulli le
lettere dell’alfabeto. Ma v’ingannereste credendo che la scrittura, vale a
dire,l’arte di dipingere la parola e di
parlare agl’occhi, sia stata conosciuta nella prima fanciullezza del genere
umano. Noscorsi de’secoli prima che siensi trovate le lettere dell'alfabeto: la
scrittura non è stata conosciuta che
molto tardi. Siccome questa ci somministra un motivo molto fecondo di
conoscenze, cosi è necessario, dopo di aver cercato l’origine del linguaggio
parlato, di cercar quella del linguaggio scritto. Qual mezzo si può presentare
agli uomini, per perpotuafc la memoria de’fatti accaduti? In primo luogo si può osservare un tal
mezznello stesso linguaggio
parlato. La propagazione del
genere umano si
fa in modo che
gl’individui di una
età vivono insieme
per qualche tempo coi loro
antenati e coi loro discendenti. Un uomo può dunque narrare alla sua
fìgliuolanza tanto quello che egli stesso ha veduto quanto quello che c^Ii ha
udito da suo padre, da suo avo, ed a tutti coloro, che sono stati testimoni
oculari de’fatti accaduti prima della sua nascita, e del tempo in cui egli
avesse potuto osservarli, questo uomo essendo il primo testimone di udito,
costituisce il secondo anello della testimonianza. Gl’altri che ascoltano il
fatto da lui narrato ne costituiscono il terzo, il quarto ec. Così si forma una
serie non interrotta di testimoni oculari, e costituisce ciò che chiamasi
tradizione orale. La maniera più generalmente adoprata ne’primi tempi, per osservare la tradizione orale, è quella
di comporre una specie di ode o di cantico – L’ENNEIDE DI VIRGILIO. ARMS AND
THE MAN. – o gl’ANNALI d’ENNIO – ROMOLO E REMO -- Cotesta sorte di poesia
racchiudeva le principali circostanze degli avvenimenti che volevano
alla posterità tramandarsi.
Vedasi questo uso stabilito ne’secoli più remoti appo tutte le nazioni,
tanto dell’antico che del nuovo continente. Dopo la sommersione dell’esercito
di Faraone nel mare rosso, Moisè, e gl’istraditi composero un cantico di lode,
e di ringraziamento al Signore, nel quale cantico è espresso questo memorabile
avvenimento, come si legge nell’esodo. Al mezzo della tradizione orale, per
conservare la memoria degl’avvenimenti passati, si è aggiunto quello di alcuni
grossolani monumenti. L’uso dei primi secoli è di piantare un bosco,
d’innalzare un altare, o un monte di pietre, di stabilue delle feste [OVIDIO], e
di comporre de’ cantici in occasione di avvenimenti riguardevoli. Quasi sempre davasi a’luoghi
ove sono accaduti de’fatti memorabili, un nome relativo ai fatti ed alle
circostanze (MONTE PALATINO). L’istoria di tutte le nazioni somministra molte
prove ed esempi di queste antiche costumanze. Si vedono i patriarchi innalzare
un altare nei luoghi, ove è loro apparso il Signore, piantare de’boschi, fare
dei monti di pietra in memoria de’principali ancnimenti della loro vita c dare
a’ luoghi, ove sono accaduti de’nomi che ne richiamassero la memoria. Se si
consultano gli scrittori romaniprofani, questi attestano lo stesso. Ne’contorni
di Cadice vedevansi in altri tempi delle pietre ammassate, le quali si dicevano
essere i monumenti della spedizione dell’ERCOLE ITALIANO nella Spagna.Tutte
queste differenti pratiche hanno servito a rinfrescare la memoria de’fatti
memorabili, e a perpetuare le scoperte importanti. La tradizione supple allora
alla mancanza della scrittura. I padri spiegano a’loro figliuoli l’origine di
questi monumenti, e gl’istrueno de’fatti, i quali ne sono stati la cagione. Io
chiamo tradizione tanto la tradizione orale quanto l’unione della tradizione
orale coi monumenti. Fra lo spezie dei monumenti composti dagl’uomini, ad
oggetto di perpetuare la memoria
de’fatti passati, untt. delle principali,
che siasi presentata al loro spirito,
è stata la rappresentazione degl’oggetti corporali. I primi uomini
pensarono naturalmente, d’impiegar
questo mezzo, per rendere i loro
pensieri sensibili alla vista, e cominciarono
dal presentare agl’occhi il ritratto degli oggetti dei quali volevano parlare.
Per fare conoscere, per cagione di esempio, che un uomo uccide un altro,
eglino disegnano una figura umana stesa
per terra, ed una altra in faccia di quella dritta con un’arma alla mano. Per
fare intendere che alcuno è abbordato per mare in un paese, rappresentano un
uomo assiso sopra una barca, e così del resto. Da quello che degli antichi
monumenti è rimasto, puà assicurarsi, che in prima origine l’arte dello
scrivere consiste ili una rappresentazione informe e grossolana degl’oggetti
corporali. L’uomo di sua natura imita facilmente, ed in ogni nazione vedesi la
gente portata a ricopiare gl’oggetti che le si presentano. Le nazioni più
selvagge, o quello le quali hanno minor relazione e commercio con i popoli
colti, possiedono con tutto ciò una certa idea dell’arte del DI-SEGNARE, vale a
dire di rappresentare, beiichò rozzamente, gl’oggetti della natura. L’onir brache produce ogni corpo sopra una
superficie che gli sia opposta, quando il corpo si oppone al passaggio della
Ince, ha somministrate le prime idee del DI-SEGNO. Tirando su i limiti
dell’ombra alcune linee, allora che l'ombra
sparisce, la figura descritta con
queste linee è [ICONICAMENTE] simile alla figura del corpo che getta L’OMBRA.
Dopo le prime esperienze i primi popoli tentano di rappresentare, e di copiare
gl’oggetti senza l’ajuto della loro ombra. Hanno a poco a poco avvezzata la
mano a lasciarsi guidare dall’occhi o, ed a seguire le proporzioni suggeritele
dalla vista. Il DI-SEGNO nella sua origine consiste solamente nella
circoscrizione del contorno esteriore degl’oggetti. Si tenta dopo di esprimere
le parti interiori, che L’OMBRA [silhouette] NON DI-SEGNA, come per cagione di
esempio una testa, gl’occhi, il
naso ec. Il carbone, la creta ec. possono somministrare
a’primi uomini la maniera di DI-SEGNARE sopra il legno, sopra la pietra ec.
come ancora si sono eglino esercitati in ciò sulla sabbia, sulla terra molle
ec. Hanno in seguito con l’ajuto dei sassi, e di altri strumenti taglienti
procurato d’imprimere DE-SEGNI sopra le materie solide. La forma che prendono i
corpi molli insinuati ne’corpi duri, e l’impronta che lasciano i corpi duri
applicati a’corpi molli, hanno su^rito a’ primi uomini l’arte del modellare.
Questa ha a poco a poco prodotta quella
dell’intagliare nel legno, nella pietra, e nel marmo. In questa maniera il DI-SEGNO,
la scoltura, l’intaglio hanno la loro origine. Queste arti, a mio credere, hanno
preceduto la pittura. Hanno queste rappresentazioni degl’oggetti corporali
servito per molto tempo invece della scrittura
propriamente detta. Io chiamo
la rappresentazione degl’oggetti
corporali scrittura figurativa. Questa maniera di scrivere richiede
molto tempo. Si pensa perciò di renderla più semplice, ed invece di DI-SEGNARE per
intero a cagion d’esempio, un uomo, un albero, un cavallo, si DI-SEGNANO le
parti principali che li fanno conoscere; come per esempio la testa, la mano,
Marte (MASCHIO) e Vennere, ec. Ma questa scrittura fìgurativa non puo essere
suffìciente per esprimere tutti i pensieri degl’uomini. Vi sono molte cose che
non si possono dipingere, come sono lo
spirito, le sue facoltà, le sue modificazioni. È impossibile di parlare delle cose
materiali, senza unirvi delle idee die
non sono capaci d’immagini. Come
per esempio, descrivere
l’immagine dell’affermazione, e della negazione? Fa d’uopo dunque inventare i
segni di queste idee intellettuali e 1’analogia guida gli uomini a trovarli. Si
concepì una certa similitudine fra alcune qualità che si osservano negl’uomini, e quelle che si osservano negl’animali, e per esprimere, che un
uomo è in queste qualità simile ad un certo animale, si dice più brevemente, che il tale uomo è un tale
animale [un leone]. Cosi, per dire di un uomo, che li è prudente, che li è astuto, che è fiero e
crudele, si dice, che è un serpente
[PRUDENTE], una volpe [ASTUTO], una tigre [FIERO E CRUDELE]; DI-SEGNANDO dunque
l’immagine di questi tali animali si DI-SEGNANO *mediatamente* --
FIGURATIVAMENTE – l’immagini delle qualità spirituali (PRUDENZA, ASTUZIA, FIEREZZA
E CRUDELTA] di cui si tratta. Una tale rappresentazione costituisce ciò che
chiamasi geroglifico. I cinesi per cagion di esempio, per denotare che FoAt,
primo fondatore del loro impero, è dotato di prudenza, e di sagace ingegno, lo DI-SEGNANO
col capo umano unito ad un corpo di serpente.
Il successore di FoA», di nome
Xino, ad oggetto di denotare, che egli si applica all’agricoltura, ed
incomincia a porre i bovi sotto il giogo, lo DI-SEGNANO col capo di bove unito
al corpo umano. Gl’antichi denotarono la giustizia, dipingendo uvergine cogl’occhi bendati, tenendo in una
delle mani una bilancia, ed in un'altra una spada. La vergine figura la giustizia; la bilancia DENOTA
CHE che la giustizia consiste a dare a ciascuno il suo dritto, la spada SIGNIFICA
CHE la giustizia dee infligger la paia dovuta a’delinguenti, gl’occhi bendati
finalmente DENOTANO CHE denotano CHE la giustizia e IMPARZIALE e non dee avere
alcun riguardo alle persone, ma deve
agire conformemente alla legge, senza esser mossa da motivi estrinseci. Si vede
qui che la similitudine concepita fra alcuni
modi de’corpi, e le qualità dello spirito, dettò questo
geroglifico. La giustizia è una nozione astratta, e le nozioni astratte
sussistono sole nello spirito. Passa perciò una certa similitudine fra
l’astrazione e la personificazione, una
vergine non è macchiata da
alcuna impurità corporale, e la giustizia
dee esser monda da qualunque difetto. Quando per dare ad un altro una
quantità di merce, questa si pesa, ciò si fa per dargli ciò che gli appartiene.
Le similitudini fra alcune modificazioni del corpo, e quelle dell’animo si
deducono da ciò, che le prime sono i SEGNI NATURALI delle seconde. Denotando le
prime si denotano mediatamente le seconde. E siccome le prime son capaci
d’immagini corporali, così lo sono MEDIATAMENTE [FIGURATIVAMENTE] anche le
seconde. E questa rappresentazione mediate costituisce il geroglifico. Da ciò
si vede che la scrittura geroglifica si è unita alle volte alla scrittura
figurativa, come si vede ne’due esempi di
Fohi, e di Xino. Alle volte è stata
impiegata solq come
nell’esempio recato della
giustizia. Si vede inoltre,
come questo modo
di scrivere fa
le veci delle
proposizioni verbali. Cosi,
per cagion di
esempio, i geroglifici rapportati valgono
pel significato quanto
queste proposizioni verbali:
F(M fu
dotalo di sagacità. Xino pronwtse
¥ agricoltura, e pose « bovi sotto il giogo, fa giustizia dà a ciascuno U
tuo dritto, infligge la pena dovuta
a'delinguenti, né si lascia muovere
da motivi estrinseci. Osservate, che ne’geroglifici enunciati si trovano i segni
relativi al sogetto, al predicato, ed al verbo delle proposizioni rapportate.
Così il capo di forma umana nel primo geroglifico donata il soggetto della
proposizione cioè Fohi, il corpo serpentino denota il predicato, cioè la
segacità, e l’unione del capo umano al corpo serpentino denota l’unione del
predicato al soggetto significato dal verbo fà. Nel secondo geroglifico,
il corpo
di figura umana
denota il soggetto
della proposizione cioè
Xino. Il capo bovino denota il
predicato cioè l’aver promosso l’agricoltura, e l’aver posto i bovi sotto il giogo;
l’unione poi del capo bovino alla forma umana denota l’unione del predicato al
soggetto, espressa dal verbo promosse. Nel terzo geroglifico, il soggetto
della proposizione è significato dalla vergine; la bilancia, la spada,
la benda denotano i
predicati della proposizione, e l’unione di queste cose al
corpo della vergine denota l’unione de’predicati al
soggetto. Da ciò segue che un geroglifico può esprimere diverse
proposizioni, osia una proposizione composta. Ciò si vede
chiaramente nel geroglifico recato della giustizia. Wolfio riferisce che
un certo Comenio, volendo formare il geroglifico dell’anima, dispose de'punti
in modo da
formare una figura
simile a quella che presenta
l’ombra, prodotta dal corpo
umano su di
un piano perpendicolare all'orizzonte, ed opposto
direttamente al corpo umano, ed al lume. I PUNTI, secondo i geometri, essendo PRIVI
D’ESTENSIONE, *denotano* la SEMPLICITÀ dell’anima. La figura del corpo umano
costruendosi, per mezzo de'soli punti, senza l'intervento di alcuna linea, *denota*
la sostanzialità dell’anima umana, la quale sussiste indipendentemente dal corpo.
I punti, essendo disposti in modo, che necessariamente formano la figura del
corpo umano, *denotano* l’unione dell'anima col corpo, la quale unione si forma dall’autore della
natura, indipendentemente dalla volontà dell’anima. Finalmente questi punti,
essendo dispersi in tutta la figura del corpo umano, *denotano* la
dottrina degli scolastici, cioè che l’anima NON È NELLA GLANDULA PINIALE come
vuole Cartesio, o nel cervello come cuole l’ACCADEMIA, o nel cuore, come vuole
il LIZIO, ma è tutta in tutto
il corpo e tutta
in ciascuna parte.
ir geroglifico comcniano
equivale perciò alle scienti
proposizioni. l.° l’anima è semplice: 2.° l’anima è una sostanza. L’
anima, indipendentemente dalla sua volontà, è unita al corpo. 4.” 1' anima
esiste tutta in tutto il corpo, e tutta in ciascuna parte. Dopol’invenzione
della scrittura geroglifica portata al più alto grado di perfezione, di cui è capace, resta ancora agli uomini di
farp l’ultimo sforzo per ritrovare i
caratteri alfabetici, che sono i SEGNI del
suono [AUSTIN/GRICE, DE INTERPRETATIONE] non già degl’oggetti. Vi
sono stati in
ogni tempo degli
spiriti sublimi, i quali colle
loro invenzioni hanno ampliato notabilmente la sfera delle umane
cognizioni, ed hanno spinto velocemente il genere umano verso quel grado di coltura, in cui
(^gi te vediamo. Un
vocabolo (“shaggy”) è un SUONO o composto (“sha”, “shaggy”), o semplice (“a”). Per rendere durevole QUESTO SEGNO basta dunque
stabilire de’segni permanenti
de’ suoni semplici (AUSTIN/GRICE,
DE INTERPRETATIONE), che compongono i vocaboli. E per tale oggetto basta stabilire per segni de’suoni semplici ALCUNE
FIGURE – in lingua latina, 24: A B C D E F G H I K L M N O P Q R S T V X Y Z --,
e la scrittura alfabetica è trovata.
Ma (pianto tempo è egli trascorso, priachè una verità
cotanto semplice si presenta allo spirito
de’padri nostrii. Si vuole
render permanente il linguaggio
passaggiero della PAROLA (PARA-BOLA); e
non si pensa
di decomporre i suoni
ARTICOLATI [prima articolazione: sh- a, sha], e di stabilire de’segni
permanenti de’suoni semplici che compongono i vocaboli. Lo spirito intraprende
de’cammini lunghi e tortuosi per tramandare alla posterità la somma delle sue
conoscenze. La scrittura è prima
figurativa perfetta indi
figurativa imperfetta. poiché si
designarono prima gl’oggetti interi, indi le loro parti principali. In seguito
divenne geroglifica, indi sillabica, e finalmente alfabetica, lo dico prima sillabica, e poi
alfabetica, poiché penso coll’illustre Goguel autore dell’opera su 1’origine
delle leggi, delle arti, e delle scienze, che dopo la scrittura geroglifica sono
trovati i segni de’suoni delle sillabe de’vocaboli, prima che
si trovassero i segni de’suoni semplici che compongono i suoni delle sillabe.
In questa maniera di scrivere, la quale chiamasi scrittura sillabica non
s’impiega se non che un solo carattere per iscrivere ciascuna sillaba, di cui
vien composta una parola (PARABOLA). Non si esprimono allora né vocaboli, né consonanti.
Noi, per esempio, per iscrivere la
voce “pane” /pane/ impieghiamo quattro
lettere o fonemi: /p/ /a/ /n/ /e/. Nella
scrittura sillabica non
vi bisognano se
non che due
caratteri: /pa/ e /ne/. Ora
supponiamo che la
pronunciazione del vocabolo
“pane” risvegli l’idea del
suono “cane,” e questo quella del suono “sane,” e che lo spirito mediti,
e paragoni fra di essi questi suoni. Egli li decompone in sillabe, e trova, che
la sillaba “ne” è la stessa in tutti e tre questi suoni, il che gli viene
ancora insegnato dalla stessa scrittura
sillabica, poiché lo stesso carattere
indica il suono della sillaba “ne” in tutti e tre i vocaboli enunciati. Questa identità conosciuta mena lo
spirito a notare la diversità de’ suoni “pa,” “ca,” e “sa,” che sono
le prime sillabe
di questi vocaboli. Ma in questa
diversità lo spirito trova ancora
una identità nella desinenza. Tutte e tre queste sillabe cadono nel suono “a”.
Ciò conduce lo spirito a separare nelle
sillabe “pa,” “ca,” “sa,” il suono “a” dagl’altri suoni che vi si uniscono. E
siccome egli ha trovato i caratteri de’suoni “pa,” “ca,” e “sa,” così trova il
carattere del suono “a,” e quelli
de’suoni “p, “ “c,” e “s,” e
la scrittura alfabetica
è già trovata. Ecco
dunque i passi, che ha
dovuto fare lo
spirito per ritrovare
la scrittura alfabetica, l.° egli conosce che la maggior
parte de’vocaboli sono de’suoni composti, e che potevano perciò DECOMPORSI in
altri snoni. 2.° egli conosce che puo stabilire segni di segni
[GRICE – TYPE, U – versus TOKEN, u]], e segni permanenti di segni
passaggieri; 3.° egli
stabilisce de' caratteri, che sono
segni permanenti del
suono delle diverse
sillabe, e così nasce la scrittura sillabica. 4.° egli conosce che la
maggior parte delle sillabe sono de’suoni composti ancora, e siccome trova
de’caratteriche sono segni delle sillabe, trova ugualmente de'caratteri che sono
segni de’suoni semplici;
e così è nata la
scrittura alfabetica. Alcuni eruditi,
frai quali Goguet,
pretendono che i caratteri alfabetici sono derivati da'segni
geroglìGci, e che quest’ultimi hanno a poco a poco introdotto il metodo breve
delle lettere alfabetiche. Questa opinione è falsa sotto
un certo riguardo,
sebbene possa esser
vera sotto di
un altro. Per presentacela
quistione sotto un
aspetto filosofico, può
cercarsi: l.°: Lo spirito umano puo, senza passare per la
scrittura figurativa, e geroglifica, passare immediatamente dal linguaggio
della PAROLA [PARA-BOLA] al linguaggio
permanente della scrittura
alfabetica? È certo, che puo,
poiché fra i passi, che egli dove fare,
partendo dalla considerazione della PAROLA [PARA-BOLA], per giungere alla scrittura alfabetica non vi
sono certamente quelli della scrittura figurativa e geroglifica. Si può cercare
S.''.La scrittura figurativa e geroglifica dove condurre naturalmente lo
spirito alla scrittura alfabetica. La
scrittura figurativa e geroglifica non hanno relazione alcuna colle lettere
dell’alfabeto, e per tal ragione non possono condurre lo spirito a
ritrovare la scrittura alfabetica.
Ma possono sotto un altro
riguardo influire a questa invenzione. Queste due
scritture sono imperfette assai, e complicate. Lo spirito accorgendosi
della loro imperfezione e difficoltà, puo da ciò rivolgere la meditazione a
rendere più semplice, e facile il sistema de’segni permanenti. Si può cercare
3.° La figura de’segni geroglifici Jta puo server allo spirito, per concepir la
figura de' primi caratteri alfabetici. Le ragioni addotte da Goguet provano,
che lo puo. Paragonando, egli dice, con
attenzione quello che a
noi rimane dei
caratteri egiziani, colle figure geroglifiche intagliate sopra gl’obelischi
e gli altri monumenti, si ricava che le
lettere egiziane tirano da’geroglifici
la loro origine. Nell’alfabeto degl’etiopi, e nelle lettere majuscole
degl’armeni si trovano i vestigi assai
chiari della scrittura antica geroglifica. A queste ragioni se ne può
aggiungere un’altra. Col progresso del tempo il rapporto di similitudine tra il
geroglifico e la idea da esso significata, non si è piu ravvisato. Ciò è
accaduto per due ragioni
l.° alcuni rapporti
[figurativi – metaforici -- META-ICONICI – GRICE] di similitudine sono troppo
lontani. Si esprime, per esempio, l’impudenza per [BY] una MOSCA, la
scienza per una FORMICA. 2.° allorché sono
moltiplicati i volumi, si cerca il modo di abbreviare, e perciò invece
del geroglifico primitivo si fa uso di un altro carattere, che noi possiamo
chiamare la scrittura corrente de’geroglifici. Esso rassomiglia a’caratteri
cinesi. Dopo d’essere stato da principio formato dal solo contorno della
figura, divenne in stanilo
una sorta di
nota, hi questo
stato il geroglifico
puo riguardarsi come
il segno del vocabolo. Tosto che
si hanno da’segni permanenti de’vocaboli, puo
pensarsi di dare
de’segni permanenti alle
sillabe, ed indi a’suoni
semplici di cui è
composto il suono delle sillabe. L’essenza de’caratteri alfabetici si è
l’essere isolatamente considerati SEGNI
solamente di suoni [cf. AUSTIN/GRICE, DE INTERPRETATIONE],
non già
di idee. I caratteri, per esempio, a, e, i, o, u, b, c,
ec. [cf. GRICE, DISTINCTIVE FEATURES – FONEMI, FONEMA, ALLOFONICO],
isolatamente considerati nuli’
altro SIGNIFICANO se non
che alcuni suoni.
I caratteri poi della scrittura fìgurativa, e geroglifica, non denotano suoni ma idee, l’immagine di un serpente denota
l’idea del serpente, quella della prudenza ec. Le nostre cifre arabe,1, 2, 3,
4, 5, 6, 7, 8, 9, 0, sono ugualmente segni d’idee, non di suoni. Essi si
leggono diversamente presso le diverse nazioni, sebbene sieno ì segni delle
stesse idee. Questa differenza è della
massima importanza. Colla divcisa combinazione di un piccol numero di
caratteri, si possono scrivere tutti i vocaboli di una lingua parlata. Ma
quando i segni della scrittura sono segni d’idee non già di suoni, il numero di
questi segni dee corrispondere al numero de’vocaboli, il che rende il numero
de’caratteri molto grande, e perciò esige uno studio lungo, e difficile, per
apprendere a leggere,e scrivere, come è provato per l’esempio de’cinesi. È
questo un grande ostacolo al progresso della conoscenza. La gente di studio è obbligata
a sottrarre il tempo necessario, per apprendere le scienze, ed impiegarlo a
saper leggere e scrivere. L’arte di leggere e scrivere essendo di molto poche
persone, il resto della nazione dee restare nella ignoranza. Dello stesso
inconveniente partecipa anche in parte la scrittura sillabica, poiché il numero
de’caratteri, per significare ciascuna sillaba è di gran lunga maggiore di
quello, che è necessario per denotare i suoni semplici, di cui il suono di
ciascuna sillaba è composto. Così, per cagion di esempio con questi tre
caratteri alfabetici, a, b,c, si possono scrivere le seguenti sìllabe, ab, ba,
ac, ca,
bac, cab. In questo esempio il numero dei caratteri sillabaci è
doppio del numero de’ caratteri alfabetici. Se suppone quattro caratteri
ahabetici, a, b, c, e, il numero ddle combinazioni di questi caratteri, presi
due a due, è maggiore del doppio, cosi avremo, ab, ba, ac, ca, ae, eb, be, ec.
Uno de’ vantaggi dunque della scrittura alfabetica sulle altre scritture si è
il piccol numero de’segni, di cui ha bisogno la prima scrittura. È vero, che le
nostre cifre arabe sono per tale oggetto perfettissime, mentre con dieci
caratteri possono scriversi tutti i numeri possibili. Ma un tal vantaggio lo
debbono alla formazione delle idee da queste cifre designate, poiché queste
idee si formano tutte colla ripetizione della stessa idea che è quella dell’UNITÀ.
Un altro inconveniente della scrittura geroglifica si è l’incertezza del
significato. Uno stesso geroglifico può denotare cose molto diverse fra di
esse. Cosi la immagine del serpente dinota questo animale, la prudenza, e
’universo. L’immagine del lepre dinota questo animale, il candore, e la
timidità. L’invenzione del linguaggio della parola, el’invenzione della
scrittura alfabetica, che rende permanente il primo linguaggio di sua
natura passeggierò, fanno che l’uomo
possa gettare il suo sguardo in tutti i luoghi, ed in tutti I
tempi.L’esperienza c’ins^a, che gl’uomini possono, per mezzo della scrittura, trasmetterci
dei fatti che son veri e che la concorde testimonianza degli
scrittori circa alcuni fatti non si è giammai trovata fallace. Tutte le
gazzette dell’Europa all’epoca, in cui Bonaparte scese al trono della Francia annunciarono
questo avvenimento. Tutte le gazzette ugualmente hanno annunciato la morte del
sommo pontefice Pio VII. L’esperienza dei propri occhi avrebbo
potuto assicurare colui, che
avesse dubitato, della verità di
tali fatti. I fatti consegnati negli scritti possono colla conservazione degli
scritti, che li contengono, trasmettersi
alle future generazioni. È questa eziandio
una verità di
esperienza. Vi sono dunque
de’fatti accaduti in tempi lontani,
de’quali fatti noi possiamo conoscere
la verità. Il linguaggio
passaggiero della parola; quello
permanente della scrittura
alfabetica, e quello dei monumenti, possono dunque circa alcuni fatti,
essere motivi legittimi dei nostri giudizi. Tutti questi motivi concorrono a
stabilire la certezza morale. Credo utile d’addurvi un altro esempio, in
conferma di ciò che vi ho detto. Un terribile tremuoto, poi seguito d’altri,
cagiona dei danni notabili alle Calabrie, ed ancora alla città di Messina. Gl’abitanti
dei paesi danneggiati
sono obbligati di
uscire fuori dalle
loro abitazioni, e dì costruirsi
delle baracche per
abitarvi; alcuni le
hanno costruite in
lontananza dei paesi
diruti quali rimasero
perciò deserti. Cosi accadde, per
esempio, a Briatico, che è costruito di nuovo vicino al mare, e Briatico
antico presenta allo spettatore i segni delle sue mine. Altri hanno costruite
le nuove abitazioni in un suolo contiguo all'antico abitato. Cosi accadde a TROPEA, le cui nuore abitazioni sono
costruite lungo ed all'intorno della strada detta dell’Annunciata. Molti, che sono
stati testimoni oculari dell’avvenimento, vivono ancora molti
altri appartengono alle seguenti
generazioni. I primi narrano ai
secondi l’orìgine delle mine
che colpiscono i loro
occhi, non meno che
l’orìgine delle nuove
abitazioni, ciascuno testimone
oculare è istruito
dalla esperienza, che tanto egli, che gli
altri testimoni oculari narrano il
vero, e che coloro i quali narrano il fatto ad altri, per averlo
eglino inteso narrare da’testimoni oculari, narrano il vero. L'esperienza
dunque c’insegna, die vi sono dei testimoni di udito, la di cui testimonianza è
verace,e che la tradizione orale unita ai monumenti può trasmettere alle
generazioni future i &tti accaduti ne’tempi
da queste generazioni lontani. La memoria di questa
tremuoto si trova depositata in una moltitudine di scritti, i quali ancora
rimangono, ed i cui autori più non sono. La propria esperienza istruisce dunque
cisscun testimone oculare di questa importante verità: che per mezzo
de’monumenti, della tradizione orale e della scrittura alfabetica, si può
conservare la conoscenza
di alcuni fatti
passati. Intorno alle idee politiche del G., e più sulla condotta da lui tenuta nell’alterna vicenda
degli avvenimenti politici di cui è piena la storia di Napoli nel periodo della sua virilità, non si può dire
davvero che abbondino i documenti, né
che abbiano fatto tutta la luce
desiderabile gli studi consacrati a questo lato della biografia galluppiana da Tulelli, dal
Guardione e ultimamente d’ Arnone. Il quale ha scritto in
proposito una memoria molto accurata, ma per giungere a una definizione di G.
considerato sottol’aspetto politico, la quale è in aperto contrasto coi
documenti più sicuri da noi posseduti. Anche G., secondo l’Arnone, sarebbe
stato un giacobino! Della sua dottrina liberale e del suo
atteggiamento risoluto in favore delle pubbliche libertà e contro 1
intervento austriaco non è possibile che dubiti chi conosca i frammenti
che diè il Tulelli de’ suoi Pensieri filosofici sulla libertà compatibile
con qualunque Tulelli, Intorno alla dotte. ed alla vita politica del bar.
P. G., notizie ricavale da alcuni suoi scritti inediti e rari, negli Atti
della li. Accad. delle scienze mar. e poi. di Napoli. Guardione, Due
opuscoli di G., prec. dallo studio critico Dei concetti civili e politici
apportati da P. G. nella rivoluzione, Messina, D'Amico; a proposito di
questo opuscolo, Gentile nella Critica, V; N. Arnone, P. G. Giacobino,
negli Studi dedicati a Torraca nell’anniv. della sua laurea,
Napoli, Perrella. forma di governo, e i due opuscoli Della libertà di
coscienza e Lo sguardo d' Europa sul Regno di Napoli, ristampati
dal Guardione. Ma da quel liberalismo al giacobinismo c’è un bel tratto.
Né i documenti dell’Amone riscoperti 1 nell'Archivio provinciale di
Catanzaro bastano a superarlo. Da questi documenti apprendiamo che G.
chiede un passaporto per recarsi a Palermo « per attendere ad alcuni di lui
affari litigiosi. Il Re faceva rispondere dal Segretario di grazia e giustizia
al Preside di Catanzaro, che a G. si sarebbe accordato il passaporto, «
quando non vi sia niente contro il medesimo. Il Preside si rivolse per
informazioni al Vescovo e al Governatore di Tropea. Il Vescovo, il 16
ottobre, rispose: Quantunque apparentemente il suddetto sembri un
giovane morigeratissimo, e studioso anche di materie teologiche, pure non
gode buona fama, perché si pre¬ tende aversi ingoiato con lo studio vari
errori della vana filosofia, per cui fu, anni sono, denunziato sino a
Roma, e ne’ pochi giorni della falsa assunta Repubblica fu impiegato a
far traduzioni, per cui stiede lungo tempo trattenuto nel Pizzo: timoroso poi
all’eccesso, si andiede in Cosenza dopo liberato dal Pizzo; ed ora
vorrebbe andarsi in Palermo, dove ha degli interessi; ma per questi
meglio sarebbe andarvi il padre don Vincenzo [il padre di G.], mentre non
debbo io, né V. S. 111 . mettersi deve in compromesso nelle circostanze
nelle quali siamo. Tropea aveva avuto anch’essa il suo albero della
libertà e un governo repubblicano. Ma per pochi giorni. AH’avvicinarsi delle
schiere Gli è sfuggita la comunicazione che ne aveva fatta Gaetano
Capasso, alla Riv. Stor. del Risorg. ital. [Vedi ora, per un'altra
denunzia di pretesi discorsi giacobini del Galluppi, F. Scandone, Il
Giacobinismo in Sicilia, nell'A refi. Stor, sic., G. GIACOBINO del Ruffo la plebaglia aveva
abbattuto albero e governo, e uh comitato di cittadini era andato
incontro al Ruffo a Mileto, a prestargli ubbidienza. Per la quale il
Ruffo volle alcuni ostaggi, che fece tra¬ sportare a Pizzo. Tra essi
venne incluso il Galluppi, che per altro dopo alcuni giorni fu rilasciato
senza nessuna condanna. Aveva, secondo il vescovo sanfedista ',
tradotto qualche documento francese, forse qualche proclama o
decreto dello Championnet; ma la stessa voce raccolta dal vescovo della
gran timidezza del filosofo, ci spiega molto facilmente perché G.,
invitato dai giacobini della piccola città, dove forse era solo a
conoscere il fran¬ cese (e non lo conosceva né pur lui molto) e quando costoro tenevano il campo, non
potesse esimersene, pur non avendo un grande entusiasmo per la causa
repubblicana. Certo, non si compromise, se nella ristaurazione non patì
nessuna noia; e se il tenente colonnello don Giovanni de Mendoza,
governatore di Tropea, pur dopo diligenti investigazioni, non riusciva a
trovare nulla a carico di lui. « Mi sono informato, scriveva costui
il 19 novembre al Preside di Catanzaro, « dalle persone più probe e
timorate di Dio di questa ... città; però ho chiamato il decano don
Saverio Polito, il teologo Grillo, il penitenziere don Vinc. M.
Mazzitelli, il P. M. Carmelitano fra Carmelo Maria Collia ed il parroco
di San Demetrio di questa città, e dalle di costoro estragiudiziali
deposizioni, che presso di me si conservano, rilevai che G. è onesto, probo, e
di morigerati costumi; che frequenta spesso li Santi Sacramenti e la
chiesa, ove si fa vedere attento, e pieno di divozione; e che ad altro
non bada, se non allo studio, essendo anche un giovane virtuoso, 1
Su lui vedi la stessa memoria dell'ARNONE Vedi la mia pref. al voi. del
Toraldo, Saggio sulla filos. di G., Napoli. ”4 e da bene, e
che mai diede veruno scandalo; ma, per quanto cercai sì dalli stessi
testimoni, che da altri sapere l’oggetto per cui si volesse portare in detta
città di Palermo, non fu possibile sapersi la cagione, perché da
ognuno s’ignorava. Soltanto ho risaputo, che il di lui padre
don Vincenzo è siciliano, ed ivi tiene degli effetti, per cui suole
spesso andarvi anche col suddetto don Pasquale suo figlio: ma non posso
fame a meno farle presente esser stato, per quanto pubblicamente si dice,
il detto G. uno degli ostaggi di questa città chiamati dal sig. Vicario
generale nel Pizzo, ove [si] trattenne molti giorni e poi è liberato
senza veruna pena. Il Preside di Catanzaro si attenne al Consiglio
del prudente vescovo, e propone al Segretario di Stato che il
passaporto non è accordato. E non è accordato. Ma lo chiede poi, invece
del figlio, il padre, Vincenzo, che l’ha. Segno che a Palermo hanno
realmente bisogno di recarsi, l’uno o l’altro, per loro interessi
di famiglia. Pei quali forse egualmente G., reduce da Pizzo, invece
di fermarsi in Tropea, recossi a Cosenza, di dov’è la moglie, Barbara
d’Aquino. Non credo pertanto che questi documenti catanzaresi
bastino a farci annoverare il filosofo calabrese nella numerosa schiera dei
giacobini contemporanei. Certo nei Pensieri filosofici sulla libertà,
propugnando il principio della libertà di coscienza e di tolleranza
religiosa, egli ha parole forti contro coloro che dimenticano lo
spirito del Vangelo e non hanno ritegno di tramutare la religione nell’
istrumento del disordine, della persecuzione e della strage»; e non
dubita, ricordando i recenti fatti del Regno, di scrivere che « se
l’universalità del clero e del popolo di questo bel regno avesse
conosciuto il vero spirito del cristianesimo e la purità delle massime
del Vangelo, non si sarebbe visto un cardinale comandare delle
masse di ribaldi e di fanatici, ed innalzare il venerando vessillo della Croce
per segno dell’assassinio e d’ogni sorta di iniquità; né si vedrebbero
oggi con orrore tanti preti e frati alla testa delle masnade degli
uomini i più infami e più scellerati » Ma quando G. scrive di
queste parole che pur dimostrano bensì il liberale, ma non il
giacobino a Napoli erano tornati i
francesi con Bonaparte, il cui governo, J, gli aveva conferito 1’ ufficio di
controllore delle contribuzioni; e a Giuseppe era anche successo
Murat. Tutt’altro che giacobino è apparso a me qualche anno fa da un
suo brutto sonetto pubblicato in un giornale di Tropea 3 da Toraldo 4. Il
sonetto infatti dice: Della Patria il dolore, il lutto, il pianto.
La rea sorte fatai veder non voglio. Di Marte, di Bellona il fier
orgoglio. L’augusto trono di Minerva infranto, Spesso sedendo al bel Sebeto
accanto Col cor trafitto dal più fier cordoglio, Pria che de'
Franchi vacillasse il soglio. Dico nel mio pensiere, e piango
intanto. Un ferro io prendo.
Occhi miei, non piangete, Grido nel mio furore; io corro or ora Sollecito a varcar
l'onda di Lete. Ma già l’Angiol divin, che accanto giace.
Di man mi toglie il ferro, e grid’allora: Verrà Fernando: tornerà la
pace! Il primo editore fa precedere al sonetto le seguenti notizie:
« Dal manoscritto rilevasi che il sonetto mede- 1 Tulelli, op.
cit., pp. 109, in. * ArnoneL’ Eco di Tropea. 4 E da me
ristampato con qualche correzione di punteggiatura, per renderlo un po'
meno oscuro, nell’opera Dal Genovesi a G., Napoli (2 a ed. in 2 voli.,
col titolo di Storia d. filos. ital. Da Genovesi a G., Milano; ora in
Opere complete di Gentile, a cura della Fond. G. Gentile, Firenze,
Sansoni). simo fu letto alla nostra Accademia degli Affatigati
(assorta allora ad altissima fama), alla quale G. appartene col
distintivo il Furioso, e apparisce dedicato a Ferdinando, come chiusura di un
discorso, letto all’Accademia anzidetta, sul medesimo argomento.
Dalla parte opposta ove è scritto il sonetto, si legge: Ferdinando
Augusto, principe magnanimo, nell’ impetuoso turbine che minaccia
l'indipendenza nazionale, corri a salvarci. I destini della nostra
nazione son legati alla tua esistenza. — Ferdinando viene. Napoli è salvo. Il
mio discorso accademico è terminato. Firmato: G. fra gl’Affatigati il
Furioso. Siegue dietro il sonetto dello stesso
Accademico. Riproducendo il curioso documento, mi parve che discorso e
sonetto si potessero riferire alla reazione; e, dietro a me, anche Cesare
ritenne che il sonetto alludesse alla restaurazione di quell’anno. Ma
non tutto a quella prima impressione mi restava chiaro degli
accenni contenuti nel sonetto; e le difficoltà ora oppostemi dall’Arnone mi
persuadono che sonetto e discorso vanno spostati di sedici anni.
Prescindendo », dice Arnone che non ha potuto vedere il giornale di
Tropea, al quale io mi riferivo, e le cui notizie ora qui integralmente
riportate mi pare che tolgano ogni dubbio intorno alla paternità del
discorso e del sonetto, « prescindendo dalla loro autenticità maggiore o
minore (?), il sonetto e il brano del discorso accademico non possono mai
riferirsi alla reazione. Infatti, nel sonetto stesso si J R. De
Cesare, Taranto e mons. Capecelatro, Martina Franca, 1910 testr. dalla
Riv. Apatia ), p. n: «Il Capecelatro non fu solo a non aver fede nella
durata della Repubblica. Se egli non anda a Napoli, non vi anda neppure
Delfico, chiamato a far parte della Giunta del Governo, mentre G., che
pure ha principii liberali, recitava, all'Accademia degli
Affaticati di Tropea, un brutto sonetto, che si chiudeva: Verrà Fernando
: torna la pace . trova la designazione del tempo a cui si riferisce ;
giacché, col verso Pria che de’ Franchi vacillasse il soglio,
l’autore, stanco del fier orgoglio di Marte e di Bellona, deve
assolutamente alludere alla prossima caduta del trono di Murat 1 . Io
guardo bensì al settimo verso del sonetto, su cui giustamente ha fermato
la sua attenzione l’Amone; ma guardavo anche al quinto: Spesso sedendo al
bel Sebeto accanto, che contiene anch’esso una determinazione cronologica
non trascurabile. E poiché era noto che G. è a studiare a Napoli, pensai
che per soglio dei Franchi si dovesse in¬ tendere per l«appunto il trono
di Francia di Luigi XVI, che cadde quando G. dimora al bel Sebeto
accanto. E vedevo nel sonetto un’enfatica e grottesca rievocazione delle
ansie, da cui l’animo dell'autore sarebbe stato assalito fin dall’ 89
quasi presago dei lutti che la Rivoluzione francese preparava alla sua
patria. Non tutto, di certo, restava chiaro, come non tutto precisamente
diventa chiaro se s’intende, come propone ora l’Arnone, che col soglio
dei Franchi l’autore designi il trono di Murat. Ma vien colmato il grande
intervallo che rimaneva, secondo la mia ipotesi quando avvenne il ritorno
di Ferdinando IV a Napoli, che il Furioso avrebbe celebrato.
Ma, se accetto che il v. Pria che de’ Franchi vacillasse il soglio
alluda alla prossima caduta del trono di re Gioacchino, e ne argomento in conseguenza
che tra la fine di marzo 1815, quando Murat dichiara la guerra
all’Austria, e labattaglia di TolentinoG. Dove essere a Napoli non capisco
perché l'Arnone soggiunga : A me parrebbe che il discorso
accademico potesse riferirsi al tempo del viaggio di Ferdinando I
Borbone pel congresso di Lubiana, quando appunto il8
l’indipendenza del Regno di Napoli era minacciata dall’intervento austriaco.
Quando G. recita il suo discorso accademico è chiaro che Ferdinando
non era più lontano, ma già tornato a Napoli (Ferdinando viene,
Napoli è salvo); e l’accademia celebra la ristaurazione. È vero che G. trepida
per l’indipendenza nazionale, a causa dell’ intervento austriaco a
Napoli; ma gli austriaci sono chiamati da Ferdinando, che non puo perciò essere
cantato come il salvatore dell’indipendenza; laddove nel '15 il
Murat alla legittimità, a cui s’appellavano gli ambasciatori del
Congresso di Vienna e tutti i principi delle vecchie dinastie, opponeva in
Napoli il principio dell’ indipendenza; e a G., già murattiano, i
disastri dell’esercito napoletano e l’entrata degli austriaci nel Regno
dovettero realmente parere la più pericolosa minaccia alla indi-
pendenza di questo, finché non si ripresentò Ferdinando, a riavere, dopo il
trattato di Casalanza, dalle mani dell’ imperatore d’Austria le redini
del suo Stato due volte abbandonate. E le preoccupazioni che G.,
come quanti altri avevano servito il governo francese, dovette, prima di
quel trattato, nutrire gravissime e angosciose per la propria sorte, o almeno
per l’uificio che da nove anni teneva, possono anche spiegarci la
disperazione da cui nel sonetto dice d’essere stato preso per l’imminente
crollo di quel governo. E l’osanna al Borbone, dopo il trattato di
Casalanza, in cui l’imperatore d’Austria garantiva la sorte di
tutti 1 Volse i suoi maggiori pensieri alle cose interne; reputando
che più dei maneggi e dei discorsi valere gli dovesse il voto dei
soggetti e la forza dell'esercito, in tempi nei quali menavasi vanto dell’amore
dei popoli e della pace. Raccolse in quattro adunanze i migliori in¬
gegni napoletani, e lor disse che per gli ultimi avvenimenti, acqui¬
stata da noi piena indipendenza politica, era suo debito riordinare il
regno senza o soggezione, o somiglianza,, o gratitudine ad altro stato,
così adombrando le tollerate catene per nove anni»: P. Colletta, Storia
del Reame di Napoli. i funzionari del passato regime, era pel controllore
delle contribuzioni dirette nella Provincia di Calabria ulteriore
l’espressione d'un sentimento sincero l 2 . Né giacobino, dunque, né
antigiacobino. Ma liberale e patriota, se non nel senso del 1799, in
quello più antico della tradizione paesana di Napoli e della
posteriore storia italiana. Del suo patriottismo e
liberalismo son documento bastevole gli opuscoli politici che G. scrive
in cui ripiglia le idee dei Pensieri filosofici, rimasti inediti, e
scendeva in campo a difesa della libertà e dell’ indipendenza minacciata
dall’Austria. Ma la lettura di questi opuscoli, o almeno dei due a noi
pervenuti e qualche anno fa ristampati da Guardione, induce
piuttosto a ricollegare G. alla tradizione di Giannone, del Tanucci, di
Vico e di Filangieri, anzi che a ricondurlo sotto l’influsso esotico del
giacobinismo rivoluzionario. Nei Pensieri filosofici (di cui si
conoscono soltanto alcuni frammenti pubblicati dal Tulelli) egli ha già II sonetto pare tuttavia debba
riferirsi non al 1815, ma all’anno seguente. Perché gl’affaticati in cui
esso è letto come ci è fatto sapere da un suo storico, riunivasi
raramente; anzi dal 1801 il silenzio sostenne sino a quando nella
Chiesa dei Liguorini, canta del Santo fondatore dell’Ordine » (forse il 2
agosto quando ricorre la festa del Liguori): N. Scrugli, Discorso
storico intorno all’Accad. degli Affaticati, annesso alle Notizie
archeologiche e storiche di Portercole e Tropea, Napoli, Morano. Ma
le notizie raccolte dallo Scrugli non sono esattissime. Infatti,
secondo lui, l’Accademia degli Affaticati sarebbe stata vietata nella
reazione, e non sarebbe più risorta fino al '48; laddove vi fu certamente
recitato il discorso di G. che qui appresso si pubblica. Opuscoli
filosofici della libertà individuale: Della libertà di coscienza e delle
conseguenze che ne derivano riguardo al matrimonio, dell’Autore del
Saggio filosofico sulla critica della conoscenza, Messina, presso
Antonino D’Amico Arena; Lo sguardo d'Europa sul Regno di Napoli, di G. di
Tropea, in Messina, presso Papparlardo. Entrambi gli opuscoli sono stati
ristampati dal Guardione, op. cit., e della sua ristampa io mi son qui
servito. aderito a quelle dottrine liberali, che il Filangieri
aveva propugnate nella Scienza della legislazione. « Per fissare »,
aveva detto, i dritti del pubblico potere, bisogna partire dal
considerare lo stato di natura come anteriore allo stato politico, se non
in ordine di tempo, almeno in ordine di ragione. Tutti gli uomini sono
per natura in uno stato di libertà, in cui ciascuno può fare ciò
che gli piace, senza dipendere da un altro, posto ch’egli non offenda gli
altrui diritti. Ogni uomo non ha dunque altro dritto per rapporto ad un
altro che di non farsi molestare nell’esercizio dei propri dritti. Or
questo dritto che ciascuno ha per rapporto agli altri, nella civil
società è confidato al pubblico potere, il quale è custode e vindice dei
dritti di ciascun cittadino contro gli attentati degli altri ». Movendo
da questo principio, a differenza del Rousseau, G. separa nettamente il
dominio giuridico-politico da quello della religione. Riconosce che
la potestà politica dee curare che i cittadini sieno virtuosi. Ella dee
riguardare come un male la depravazione del loro spirito; dee mettere in
opera quei mezzi che promuovono la virtù ed arrestare i progressi del
vizio; e però può parere che abbia bisogno del soccorso della
religione. Ma è d’uopo distinguere tra virtù e virtù. Le leggi, dice
Portalis, non dirigono che alcune azioni determinate; la religione regola il
cuore. Le leggi sono relative al cittadino; la religione s’impadronisce
di tutto l’uomo. Ma se le leggi arrestano il braccio e la religione
regola il cuore, dico io, dunque, che la depravazione del cuore non
dee punirsi che dalla sola religione, vai quanto dire, dal solo Dio che
n’è l’autore; ella è dunque estranea alla sanzione della legge. Se le
leggi non son relative che al cittadino, e la religione s’impadronisce
dell’uomo, le leggi devono dunque contentarsi della sola virtù
civile e lasciare alla religione le virtù dell’uomo. Egli bisogna
distinguere l’uomo giusto agli occhi dell’eterno, che tutto vede,
dall’uomo giusto civilmente. Chi è giusto innanzi a Dio, lo è anche
civilmente, perché la sua legge vuole che si obbedisca alle potestà
costituite; ma si può esser giusto civilmente, senza esserlo,
naturalmente, secondo la religione. Le opinioni religiose pertanto
non cadono sotto la sanzione delle leggi, e l’irreligiosità non può esser
punita Ogni maniera di persecuzione del resto è contraria allo
spirito del Cristianesimo. Intorno al quale G. scrive una delle poche
pagine eloquenti, che siano uscite dalla sua penna. Questa religione
divina, egli dice, annuncia agli uomini una morale che perfeziona
la natura. Lo spirito del Vangelo non è che imo spirito di
fratellanza e di amore. Esso è contrario allo spirito di persecuzione e
di ferocia. Se non siete ricevuti ed ascoltati, dice G. C. ai suoi discepoli,
scuotete la polvere delle vostre scarpe e partite. I primi banditori del
Vangelo non impiegarono altre armi per la sua propagazione, che la
forza della parola. La religione deve avere la sua sede nello spirito, e
lo spirito non rigetta l’errore e non abbraccia la verità, se non a proporzione
dei lumi che egli riceve, e trattandosi di religione, a proporzione
della grazia celeste che il Padre de’ lumi gli dispensa. Le prigioni, le
forche, le mannaie, i roghi non cambiano certamente lo spirito dell’uomo, e
l’incredulo non lascia d'esser tale, ancorché vada ad esalare il suo
spirito fra i tormenti più crudeli. L’uomo abusa di tutto. La ministra
della pace e della pubblica tranquillità divenne col progresso del tempo in
mano del superstizioso e del fanatico, l’istrumento del disordine, della persecuzione
e della strage. Questo mutamento di condotta, non della religione, che in
se stessa è santa ed immutabile, ma ne’ suoi ministri, fu sorgente
d’incredulità. Nell’opuscolo sulla Libertà di coscienza la stessa
questione è ripresa e approfondita sì dal rispetto - Gentile, Albori.
I. speculativo e sì da quello politico. Vi ritroviamo quella morale
kantiana, che è professata negli Elementi, nelle Lezioni di filosofia e
nella Filosofia della volontà. La regola della moralità delle azioni è la
coscienza uniforme alla legge»: legge puramente formale anche per
G. Il quale infatti soggiunge. Si può agir male seguendo una
coscienza erronea, ma si agirà male ancora facendo il bene in
contraddizione dei dettami di una coscienza erronea ». E su questi principii,
rannodandosi alle dottrine liberali di FILANGIERI (si veda), fonda la sua
dimostrazione del diritto del matrimonio civile abolito nel Regno
dal codice: il quale aveva stabilito non potersi celebrare
matrimonio legittimo « che in faccia alla Chiesa, secondo le forme
prescritte dal Concilio di Trento. Già nell'opuscolo precedente aveva
provato che « la libertà del pensiero è il primo diritto inalienabile
dell’uomo; e che tale libertà è illimitata. Ora, se questa libertà
è illimitata, se la moralità consiste nella conformità della
coscienza alla legge, o meglio, della volontà alla legge della coscienza,
ne viene per conseguenza che quelle azioni, le quali debbono essere
necessariamente in armonia col pensiero, non possono giammai essere
forzate; ma debbono rimanere nel campo libero del privato
cittadino. Potrà intervenire il diritto positivo nel culto religioso
esterno; ma non nel culto interno. E in quello esterno non potrà di certo
intervenire per obbligare il cittadino ad un culto contrario alla propria
credenza, bensì per permettere un dato culto e impedire quindi che
venga offeso e turbato da chi non vi si conformi ». Ma deve
10 Stato permettere tutti i culti? Tra il Montesquieu contrario e
il Marmontel favorevole alla libertà dei culti, G. dichiara di non voler
esaminare di proposito 1’importante questione », poiché egli si occupa
piuttosto della libertà individuale, e però della sola libertà di
coscienza, laddove la libertà del culto supporrebbe un gruppo sociale che
abbia abbracciato un culto diverso da quello di altri gruppi, ed esce
quindi dalla sfera del diritto indi¬ viduale. Tuttavia ritiene
conveniente che si possa per ragioni politiche non permettere l’esercizio
pubblico di un culto diverso da quello stabilito. Quanto al
matrimonio, dato il suo interesse pubblico, esso rientra nella sfera di
attività del potere politico: che ha il diritto di far leggi positive sul
matrimonio, le quali, lasciando illeso il diritto naturale, determinino
ciò che la natura non determina, e che ha influenza su la felicità
nazionale»; ma deve limitarsi a «prescrivere le condizioni per la
validità del matrimonio come contratto civile, e lasciare alla libertà del
cittadino, se vuole al contratto unire la forma religiosa, che T innalza
a sacramento. Altrimenti verrebbe ad esser lesa la libertà di
coscienza, ossia quell’ essenza della morale, che G. chiama legge di natura o
diritto naturale. Tale principio a Napoli è riconosciuto dal codice
francese; e certo quella legislazione, tranne il mormorio di qualche
fanatico, che osa chiamarsi teologo, non produsse fra noi il menomo
disordine. Ma, tornato Ferdinando, i superstiziosi spaventarono la
sua coscienza ». Quindi il matrimonio rientrò nel puro dominio
ecclesiastico. E si fa dippiù, dice G.: il Concordato diede alla Chiesa
il potere giudiziario sul matrimonio; potere, che dee esercitarsi in
conformità del codice del Vaticano, e così la sovranità temporale
rimase spogliata de’ suoi sacri ed inalienabili diritti sul matrimonio ».
G., nelle cui parole è agevole sentire l'eco della tradizione
giannoniana, ora che Napoli sembra risorta a più libera tuta per
l’ottenuta costituzione, parla in nome della filosofia («la filosofia non
dee oggi temere di alzar la voce contro di questi abusi) ; e chiede
che il matrimonio torni ad essere per lo Stato contratto civile; e
protesta contro la censura preventiva. stabilita nella Costituzione
spagnuola, per i libri che trattino di religione. Il secondo
opuscolo, assai più importante per la conoscenza delle sue idee politiche,
quantunque rechi anch’esso sul frontespizio la data del 1820, non par che
possa essere anteriore ai primi del febbraio 1821. Infatti v’ è
detto che « un’armata austriaca si fa vedere in volto minaccioso nella
bella Italia » 1 2; con accenno evidente, se non erro, all’ordine del
giorno del barone di Frimont, di cui si ebbe notizia a Napoli tra il 15 0
il 20 di quel mese In quei giorni un altro filosofo napoletano,
Borrelli, compone un inno di guerra, che, messo in musica dal Rossini, fu
cantato al San Carlo la sera del 21 febbraio. La seconda strofa
diceva: O straniero, che guerra ci porti, Chi ti offese ?
quell’ ira perché? Va, rispetta la terra de' forti....
Ma sprezzante 1’iniquo c’ invade, Ha di sangue nell’occhio il
desir. Cittadini, tocchiamo le spade: Qui si giuri
svenarlo o morir! G. dal fondo delle Calabrie rivolge all’Europa (ma
fin dove sarà giunto ?) il suo opuscoletto, enfatico nella forma, ma
savio ed acuto nella sostanza, per scongiurare anche lui l’invasione straniera
e la soppressione delle libere istituzioni. Rifa brevemente, con
giudizi che ricordano l’alta intelligenza storica di Vincenzo
Cuoco, la storia di Napoli, a conferma del principio, che oppone alle prepotenti
pretese del- [Rist. cit., Vedi De Nicola, Diario napoletano in calce
all'Arch. slor. napol., 1905, fase. 3). l’Austria: che la storia se la
fanno i popoli da sé, e interromperla ad arbitrio è violenza, e lo stato
violento non è durevole. Tutto, egli dice, « cangia incessantemente
nel mondo ; ma tutto cangia gradatamente... Questo principio igno¬
rato o negletto ha spesso fatto abortire i migliori pro¬ getti di riforme
». I grandi avvenimenti, che pare mutino d’un tratto miracolosamente lo
stato di un popolo, in realtà sono l’effetto d’un « concorso di cause, al
quale l’unione di una picciola causa dà quella forza stupenda, onde
hanno origine gli avvenimenti che formano l’epoche delle nazioni ». Come
dai patiboli del '99 si potè giungere alla libertà del '20 ? G. studia
questo problema. La rivoluzione, per lui, è la conseguenza degl’errori
commessi dal governo borbonico (G. parla sempre di Ministero);
quando, dopo aver favorito in tutti i modi le tendenze liberali promosse
e alimentate dalla filosofìa, a un tratto, spaventato dalla Rivoluzione
francese, che intanto aveva accelerato il movimento degli animi verso la
ri-generazione politica, esso volle violentemente arrestarsi, e tornare
indietro, e dichiarò guerra al liberalismo, e si propose di ripiombare la
nazione nella barbarie. La venuta dei francesi fu la piccola causa che
fece rovinare il trono, le cui fondamenta erano state da lunga pezza
lentamente scavate da’ suoi ministri. Così i Giacobini, che s’appigliarono alla
massima della perfetta imitazione dei francesi, senza chiedersi se
Napoli fosse preparata alla democrazia, e alla democrazia francese, come
1’Issione della favola, invece di Giunone, abbracciarono la nuvola.
Giudizio che non è certo quello di un giacobino. Successe la reazione; e
il governo, anzi che mostrarsi ammaestrato dagli avvenimenti passati,
tornò cieco, feroce, dispotico; e accrebbe quindi sempre più il desiderio
d’un cangiamento. Aggiungi l’azione continua della Francia sulle
cose d' Italia, e gli errori della diplomazia: ed ecco Bonaparte e
Gioacchino, che non sono più i francesi, ma i correttori e moderatori
dispotici della libertà, i quali compiono l’abolizione del
feudalismo nel Regno, e vengono via via elevando la coscienza
civile della nazione. Questa al ritorno di Ferdinando è già matura
per la Costituzione: la cui richiesta per altro è affrettata dagli errori
che toma sempre a commettere il Ministero. Fra i quali G. non manca
di ricordare il concordato ignominioso, che annienta tutte le riforme
dall’epoca dell’augusto genitore di Ferdinando fino al suo ritorno fra
noi. Mostrata la necessità storica della rivoluzione del 1820 e
della costituzione che Napoli s’era con essa conquistata, il filosofo protesta
contro l’intervento straniero, e minacciosamente esclama: Un’ invasione è
ella facile nelle attuali circostanze della nostra nazione? Il '99,
il 1815 sono gli stessi tempi per noi del 1820? Si è mai veduto in
altri tempi, allorché il nemico ci minacciava, l’agricoltore, l’artista,
il prete, il monaco stesso domandare l’iniziazione nelle società patriottiche
per emettere il giuramento di vincere, o di morire per la difesa
della costituzione e del trono? Siamo così abituati a rappresentarci G.,
attraverso i suoi saggi meramente speculativi, dove non spunta mai
favilla di passione umana, o un accenno storico, o un’allusione
personale, e attraverso le memorie di quel suo insegnamento
universitario, tutto chiuso, nel periodo di puro raccoglimento spirituale
per Napoli, nella speculazione sopramondana.: che questa specie di
G. inedito, agitato dalle preoccupazioni politiche e storiche del mondo
in cui visse, ci riesce di uno strano sapore nuovo e d'un vivo interesse.
E ne viene aggiunta una linea caratteristica e simpatica alla figura
del nostro vecchio e caro scrittore; che viene ad occupare anche lui il
suo posto non pur nella storia del liberalismo italiano, ma in quella
schiera di acuti pensatori improntati della più schietta italianità, i
quali, rifacendosi direttamente o indirettamente da VICO (si veda),
si opposero all’ astrattismo antistorico e rivoluzionario di
Francia. Lungi, dunque, dall'apparirci un giacobino, G., pel suo
modo d’intendere e giudicare gli avvenimenti contemporanei, ci si
presenta come un liberale, penetrato del senso della realtà e razionalità
della storia. Né questa figura viene menomamente turbata dal
nuovo documento che qui appresso si aggiunge a queste note: un altro suo
discorso accademico, letto a Tropea (nella solita Accademia degli
Affaticati) in lode questa volta di Ferdinando II, pel suo avvenimento al
trono Discorso che io ho avuto sott’occhio nell’autografo, e
trascritto fedelmente. Esso, ad ogni modo, non può suscitare né
meraviglia, né rammarico in nessuno che ricordi con quali lieti auspicii
salisse al trono il nipote di quel Ferdinando, a cui iG. aveva
inneggiato nel 18x5. « La giovanezza del re », scrisse lo stesso
Set¬ tembrini nella sua Protesta, « la recente rivoluzione di
luglio in Francia, e i movimenti di Romagna, alzarono la nazione a
novelle speranze ». E molto meglio nelle Ricordanze: «Quando re Ferdinando II saliva
sul trono delle Sicilie, cominciò bene, e a molti parve un buon principe.
Ogni giovane a venti armi è buono, come ogni fanciulla a quindici anni è
bella. In un suo Manifesto dichiarò di voler rammarginare le piaghe
che da più anni affliggevano il Regno, ristorare la giustizia, riordinare
le finanze, promuovere le industrie ed il commercio, assicurare in ogni
modo i beni dei suoi amatissimi popoli. Quando poi diede un’amnistia, per
la quale tornarono a le loro famiglie molti esuli, molti prigionieri, le
speranze crebbero e l’allegrezza fu grande. Gli uomini savi dicevano che
egli aveva fatto una brutta orazione funebre a suo padre; ma gli davano
lode perché scacciò parecchi ministri e servitori, che durante il
regno di Francesco avevano fatto mercato d’ogni cosa, perché
restrinse le spese della casa sua, tolse via le cacce, e volle vivere con
certa semplicità e parsimonia, che il popolo chiamò avarizia. Pareva a
tutti cortese perché dava udienza a tutti, domandava, rispondeva,
provvedeva subito, e ricordava i nomi di quanti aveva una volta
veduti. Anche Nerone, uscì a dire, uno di quei giorni, esso Settembrini
tra giovani suoi amici e maggiori d’età: anche Nerone cominciò col quam
mallem nescire scribere. L’ è scopa nuova, ma di quella mala erba: fate
che s’usi, e vi riuscirà Borbone come il padre, e come l’avolo. E
gli diedero del matto '. « Io che sono stato vittima del suo insaziabile
dispotismo » — scrive Nisco nell’accingersi alla storia del suo regno, e
che ne porto ancora i ricordi ai piedi ed ai polsi, rifarò con
civile orgoglio la storia dei suoi primi anni di regno, i quali
sono andati confusi con quelli che seguirono, massime dopo il quarantotto,
quando la natura borbonica, ridestandosi ampiamente in lui, lo menò a divenire
l’avver¬ sione non pure d’Italia, ma d’ Europa ». E ricordando la
soddisfazione generale di quei primi mesi del nuovo re, raccontava : Alle
acclamazioni dei popoli facevan eco i prosatori ed i poeti di quel tempo,
e nell’entusiasmo della sperata redenzione, sventuratamente poi
tradita, vennero fuori giovani ed uomini egregi, fra i quali Filioli, i
Baldacchini, i Dalbono, Ruffo e quella sublime donna, che mai non si contaminò
di servo encomio, Guacci. E quando 1 Ricord., c. V., rimosso ogni ostacolo
derivante da colpe politiche al conseguimento dei pubblici uffizi,
abilitò all’esercizio delle pubbliche cariche gl’ impiegati ed i militari
destituiti per le politiche vicende, concedè ai detenuti in carcere, espatriati,
esiliati e condannati napoletani e siciliani alle galere e all’ergastolo di
ritornare nelle loro famiglie, Saverio Baldacchini il chiamò in un
suo inno, Padre a tutti, che il gaudio Del perdonar provò;
e dall’animo purissimo della giovane Guacci si elevò quella
nobilissima esclamazione Oh ! lieto il sire, Che nell’amor dei
popoli riposa Al coro delle lodi si unì adunque anche il filosofo di
Tropea, tuttavia controllore delle contribuzioni, col seguente discorso; in cui
l’adulazione del suddito par s’indirizzi all’ idea dell’ottimo sovrano
piuttosto che alla persona del giovine monarca ; onde si direbbe che a
tratti assuma il tono dell’ammonimento anzi che del panegirico. Alcuni
accenni di dottrine filosofiche, che vi si mescolano, come i riferimenti
ai concetti del bello e del sublime, dimostrano il già sessantenne
filosofo incapace di distrarre la mente dalle sue astratte meditazioni. E
questo è forse l’ultimo scritto, in cui gh accadde di volgere attorno uno
sguardo, per esprimere il suo pensiero su fatti e personaggi
contemporanei. . 1 N. Nisco, Gli ultimi trentasei anni del Reame di
Napoli, Napoli, Morano. Pel felice avvenimento al Trono delle
Due Sicilie di FERDINANDO II Discorso Accademico di G.
Di letizia ripiena, Accademia illustre, io ti rimiro. Con la
rapidità del fulmine l’arrugginita cetra riprender ti vedo. Il tuo vivo
ardore, di scioglier la lingua al canto, espresso nel tuo volto io leggo.
Sì, dell’estro che ti accende, l’oggetto io ben ravviso. Un giovine eroe
ascende sul trono di Ruggiero: il dolore, che ingombrava i nostri
cuori, sparisce: in tutti i volti degli abitatori delle Due Sicilie, con
vivi ed espressivi colori, la gioia dipinta si vede. Un grido di letizia
dappertutto rimbomba. Ma non è la gioia il solo effetto, che la
comparsa del giovine Re sul trono ha universalmente prodotto ne’nostri
cuori. Un vivo sentimento di ammirazione e di devozione verso la sacra
persona di lui, si è immantinente acceso ne’ popoli di qua e di là del Faro.
Ferdinando II, l’augusto discendente di tanti Re, non solamente quel sentimento
fa nascere, che, in una ridente primavera, l’aspetto d’una deliziosa
campagna, negli animi sensibili alle bellezze della natura e dell’arte,
suole produrre; ma quel sentimento eziandio produsse, che in una
vasta pianura, la veduta dell’azzurra volta del cielo, in una notte
serena, l'anima colpisce dell’osservatore attento a contemplar
l’universo. Ferdinando II è dunque un oggetto non solamente
bello, ma sublime. Come bello, la sua G. GIACOBINO ? I3I
comparsa sul Trono ha inondato di letizia il cuore de’ suoi popoli;
come sublime, di ammirazione e di devozione gli ha colpiti. Il bello ed
il sublime producono diverse affezioni morali: l’uno rallegra, ed in
certe circostanze fa pianger di tenerezza. L’altro l’ammirazione e la
devozione produce. Nondimeno, quando il sublime si riguarda come una
causa, che su la nostra felicità influisce, all’ammirazione ed alla
devozione fa esso succedere la confidenza e la letizia. Tale è il
sentimento, che provano i soldati di un’armata, quando sanno che il loro
generale è uno Scipione, un Alessandro, un Camillo ; e tale appunto
è quello che in noi produce la vista di Ferdinando II sul trono delle Due
Sicilie. Se il bello ed il sublime l’oggetto sono dell’eloquenza e
della poesia, se senza un oggetto, che sia defl’una e dell’altra qualità
fornito, il genio dell’oratore e l’estro del poeta languiscono; se l'alto
personaggio, che è l’oggetto di questa letteraria adunanza, è dell’una e
dell’altra qualità eminentemente adorno, con ragione, Consesso illustre della
città di Alcide, di estro animato ti veggo, per fare oggetto de’ tuoi
canti l’augusto principe, che al Trono ascende di Carlo III. Con ragione,
cogli occhi a me affissi, che dell’onore di esser tuo oratore son
fregiato, attento ti miro. Tu vuoi udir dal mio labbro la dipintura
dell’alto personaggio, che verso di lui attira i nostri sguardi. Tu
brami, che i motivi io ti esponga, che dalla velocità incalcolabile del
pensiero aggruppati insieme, i sentimenti di gioia, di ammirazione e di
devozione ne’ nostri cuori producono. Ferdinando II è bello: nel suo volto
dipinto si vede la candidezza deH’anima sua, ed una certa
misteriosa espressione del buon senso, del buon umore, del brio, 1
Tropea, città, secondo la leggenda, di Ercole. Vedi Nicola Scrugli,
Notizie archeologiche di Portercole e Tropea, pp. 15-17. della
benevolenza, della sensibilità e delle altre amabili disposizioni. Con
questa sua bella fisonomia e colle sue belle maniere, la letizia egli
sparge ne’ nostri cuori. Ma non è questo il punto di veduta, sotto di cui
io mi propongo di dipingerlo. Ferdinando II ci ha colpiti di ammirazione e di
devozione, ed a questi sentimenti è successa la speranza e la letizia.
Egli è dunque un oggetto sublime. Un oggetto sublime è grande. Egli è,
per conseguenza, grande. Ma qual grandezza siam noi costretti ad ammirare
in lui ? Sarà forse quella degli Alessandri, e de’ Cesari ? Quella vera
grandezza, che in questi gravi capitani dell’antichità noi ammiriamo, si trova
bensì nel nostro Eroe. Ma questa non è quella, che più immediatamente ci
colpisce, e che più in lui risplende. Una grandezza guerriera può trovarsi
negli uomini i più nefandi. Siila non era insieme un gran capitano, ed mi
mostro di crudeltà ? Ferdinando II è grande, perché conosce i
doveri di un Re. Egli è grande, perché adempie i doveri di un Re. È
questo l’oggetto del mio discorso. Parte Prima Un pensiere è grande,
allora che esso è esteso. Un pensiere che, nella sua espressione la più
semplice, comprende tutti i pensieri particolari, che vi si rapportano, è
un pensiere grande; e l’anima, che lo sente in sé, sperimenta un sentimento di
grandezza. Il sentimento della grandezza è il sentimento della forza o
del potere. Colui che possiede una verità generale, sente che ha in
suo potere tutte le verità particolari che vi son comprese. Egli è
simile a colui che, posto su la cima di un alto monte, comprende, con un semplice
sguardo, un vasto e variato orizzonte. Floro ci desta un pensiere grande
quando ci rappresenta, in poche parole, tutti gli errori di
Annibaie dicendo: Allora che poteva servirsi della vittoria, amò
meglio goderne. Una consimil grandezza si ravvisa nell’ idea, che egli ci
dà di tutta la guerra di Macedonia, quando dice: «Il vincere fu
l’entrarvi». Uno spirito sublime racchiude le verità particolari in una
che sia la più generale, e per conseguenza la più semplice.
Ferdinando II, asceso sul trono de’ suoi antenati, vede, con un
colpo d’occhio, tutti i doveri di un Re: egli li racchiude in un
principio generale. Il suo pensiere è grande: egli che lo concepisce, è
grande in conseguenza. La prima parte del mio discorso accademico è
terminata. È terminata? Accademia illustre, ti credi tu forse,
con questo mio breve parlare, delusa nella tua aspettazione ? Hai tu
forse sperimentato un sentimento dispiacevole, simile a quello che
sperimentar suole uno spettatore di un’azione teatrale, allora che una causa
improvvisa lo chiama in altro luogo, ed interrompe il suo piacere ? Ma
cesserà in te questo momentaneo doloroso sentimento. La rapidità
incalcolabile del sentimento mi ha fatto attraversare, in un baleno, un
vasto spazio. Io non ho potuto arrestare la sua impressione. Lo
scotimento prodotto nell'anima da qualche grande oggetto, l’alza
notabilmente sopra il suo stato ordinario. Si desta in lei una specie di
entusiasmo piacevolissimo finché dura, che le fa comprendere, con uno sguardo,
una moltitudine di oggetti, ma da cui l’anima tosto ricade nella sua
ordinaria situazione. Percorrerò dunque di nuovo, ed a passi osservabili,
lo spazio trascorso. Iddio, eh’ è il legislatore dell’intero
universo, diede all’uomo una legge, e la impresse nel cuore di lui.
L’uomo è dalla sua natura determinato allo stato della civil società. In
questo stato solamente può egli perfezionar se stesso, ed adempiere la
sua destinazione. L’uomo ha in se stesso le tendenze, i mezzi e la legge
di vivere nella civil società. La società civile non può sussistere senza
un essere morale, dotato del potere legislativo ed esecutivo. Un
tal essere è il Sovrano. Nelle monarchie semplici, il sovrano è il
Re. Ma Iddio ha voluto l’esistenza della civil società su la
terra, per la felicità degli uomini; 1’esistenza dunque della sovranità,
come ordinata a quella della civil società, è voluta da Dio per la
felicità degli uomini. Queste semplici riflessioni ci menano infallibilmente
alla conoscenza del principio generale della morale de’ Re. La
destinazione dei Re su la terra è di rendere, per quanto è loro
possibile, felici i loro sudditi. Ecco il principio luminoso e
sublime, che tutti racchiude i regi doveri. Ma non udiamo noi
forse questa sublime e consolante filosofìa annunciarsi a’ popoli delle
Due Sicilie, nel primo momento del suo avvenimento al trono,
dall’augusto Ferdinando II ? Ascoltiamo la sua voce sovrana in
quell’ammirabile proclama, che destò ne’ nostri cuori l’ammirazione e la
devozione per la sua sacra persona, e che di vera gioia gl' inondò. Il
giorno otto di novembre dello scorso anno 1830 Ferdinando II ascese sul
trono, ed in quell’ istesso giorno egli così parlò a’ suoi sudditi
: Avendoci chiamato Iddio ad occupare il Trono de’ nostri augusti
Antenati, sentiamo l’enorme peso, che il supremo Di¬ spensatore de’ regni
ha voluto imporre sulle nostre spalle, nel- l'affidarci il governo di
questo Regno. Siamo persuasi che Iddio, nell’ investirci della sua
autorità, non intende che resti inutile nelle nostre mani, siccome neppur
vuole che ne abusiamo. Vuole che il nostro Regno sia un Regno di
giustizia, di vigilanza, e di saviezza, e che adempiamo verso i nostri
sudditi alle cure paterne della sua Provvidenza. 1 II proclama si
può leggere nella Collezione delle leggi e de' decreti reali del Regno
delle Due Sicilie, sem. II, Napoli, Stamp. Reale. A voi, gran Dio,
che avete nella vostra mano il cuore de’ Re, per inclinarlo secondo la
vostra volontà sempre santa, grazie siano rese del prezioso dono, che
nella vostra misericordia ci avete concesso. Non mica nel furore
del vostro giusto sdegno, ma nelle vedute imperscrutabili della
vostra misericordia, voi ci avete inviato a reggere i nostri destini il
giovane eroe, che ci sorprende colla sua sublime sapienza. Egli riconosce
che non dee punto abusare dell’autorità di cui voi l’avete rivestito;
che è suo sacro dovere, di far che regni fra di noi la giustizia, e
che egli sia il felice istrumento delle cure paterne della vostra provvidenza
su di noi. Ciò è lo stesso che riconoscere esser egli destinato da
voi a render felici i suoi sudditi. Ciò è lo stesso che proclamare
il principio generale della morale de’ monarchi. Il principe, che così parla a’
suoi popoli, non ha mica il crine canuto: egli è un giovanetto, che
ha appena compiuto il quarto lustro della sua età. Egli è dunque dotato di
un’anima grande ; ed è con ragione, che qual Grande è salutato da’ popoli
delle Due Sicilie. Un’anima grande ha solamente potuto concepire il pensiero
sublime, che tutta racchiude la morale de’Re; ed un’anima grande ha
potuto, invece di essere distratta dallo splendore del Trono,
specialmente in un’età giovanile, concentrar tutta se stessa nell’espressione
de’ propri doveri, ed esserne profondamente
penetrata. Nell’ammirabile proclama il nostro gran Re non solamente
conosce la sua augusta destinazione nel governo de’ suoi popoli, ma vede
ancora i mezzi principali, che debbono fargli conseguire il gran fine. Egli
scovre nel principio le illazioni. Egli vede, in primo luogo, che
gli uomini non possono esser febei, senza esser virtuosi: egli
conosce T intima relazione, che passa fra la virtù e la Religione; che i
sentimenti rebgiosi conducono alla virtù, come la virtù conduce alla
Rebgione. Egli comprende che la vera religione viene in soccorso della pubblica
autorità, e per estendere la sanzione delle leggi, e per ottenere ciò che
esse non possono prescrivere, e per evitare ciò che esse non potrebbero
sempre giugnere ad impedire; ed egli conclude, che dee proteggere
la divina Religione, che c’ illumina. I grandi, dice il celebre
Massillon, « non son grandi se non perché eglino sono le immagini della
gloria del Signore, ed i depositari della sua potenza. Eglino dunque debbono
sostenere gl’ interessi di Dio, di cui rappresentano la maestà, e
rispettare la Religione, che sola rende rispettabili loro stessi.
Dalla Religione volge il nostro gran Re lo sguardo alla giustizia.
Egli vede che la felicità de’ cittadini richiede una gelosa custodia de’
loro diritti. Egli conosce che questa custodia è il sacro dovere del
potere giudiziario. Egli è convinto che il Re nell' istituzione di questo
potere, e nell’elezione de’ membri, che debbono comporlo, deve
porre la maggiore attenzione che gli sia possibile. Il cittadino dee, sotto la
protezione della legge, e del pubblico potere, vivere tranquillo: egli
non dee temere che i suoi diritti sieno violati. Magistrati, a cui la
regia maestà consegnò la spada di Temi, ascoltate la voce del sapiente
legislatore. Tutti i miei sudditi, egli dice, debbono essere uguali agli
occhi della legge. I tribunali debbono essere un santuario, che la
corruzione, la prepotenza, T intrigo, non debbono giammai profanare. Se i
giudici debbono essere indipendenti nelle loro sentenze, eglino non
debbono essere legislatori. L'accordar grazie ed eccezioni è una funzione
estranea al loro potere. L’impero della legge dee essere
universale. Noi vogliamo dice il Proclama che i nostri tribunali
siano tanti santuari, i quali non debbono mai essere profanati dagl' intrighi,
dalle protezioni ingiuste, né da qualunque umano riguardo o interesse.
Agli occhi della legge tutti i nostri sudditi sono uguali, e procureremo
che a tutti sia resa imparzialmente la giustizia. I cittadini non possono
essere felici, se lo Stato non è ricco. Uno Stato, dice un celebre
politico, non si può dire ricco e felic.e, che in un solo caso, allorché
ogni cittadino con un lavoro discreto di alcune ore può como¬ damente
supplire a’ suoi bisogni ed a quelli della sua famiglia. Un lavoro
assiduo, una vita conservata a stento non è mai una vita felice. I dazj
eccessivi sono contrarj alla felicità di cui parliamo; ed i dazj debbono
essere eccessivi, allora che il Tesoro generale dello Stato presenta un
voto. E qui l’anima grande di Ferdinando II ci si mostra allo scoverto.
Egli non dirige il suo sguardo su le pompe de’ Re, su i palagi de’
Grandi, ma lo dirige su i cenci, e su i tugurj de’ poveri e degl’
infelici. Al suo penetrante sguardo tosto si svela lo spettacolo
doloroso della soma pesante de’ dazj, che gravita sul suo popolo. La
sua grande anima ne è profondamente penetrata, ma non abbattuta. Le
grandi passioni innalzano l’anima, e scovrire le fanno degli oggetti
incogniti agli uomini ordinari. Ferdinando II vede quasi nel momento
stesso il voto spaventevole del Tesoro generale, ed i mezzi di
ripararlo. La grande opera della instaurazione delle reali finanze, è
tosto nella gran mente del Principe magnammo già delineata. La felicità
de’ cittadini richiede ancora, che lo Stato sia temuto e rispettato al di
fuori. Ad un si grande oggetto conferisce un’armata disciplinata,
valorosa ed animata dal nobile ardore di gloria. E Ferdinando II si fece già
ammirar da capitano, prima di farsi ammirare da Re. Augusta
filosofia! Se io a te consagrai sin da primi anni la mia vita, se non ho
avuto altro scopo ne miei scritti, che di annunciare la verità al genere
umano, se tu vedi che io ardisco di parlare ad un Re, da te non si
concepisca contro di me alcun sospetto, che mi avvilisca a’ tuoi sguardi. No,
l’adulazione non ha profanato il mio linguaggio. Io non ho prestato al
mio Eroe i miei 10 - Gentile, Albori. I. pensieri, per formarmi un
prototipo di mia immagi¬ nazione. Io gli ho osservati in lui, che nel suo
proclama gli esprime. Io ho dunque, senza rimorso di arrossire al
suo cospetto, il diritto di concludere : Ferdinando II è grande
perché egli conosce i doveri di un Re. Parte Seconda
Ferdinando II adempie egli i doveri di un Re ? Il tempo, in cui
1’Eroe di questo discorso regna su di noi, non è ancora di tre mesi; ed
egli ha tali e tante cose operato, che con ragione i sudditi suoi, nella
sincerità del loro cuore, 1' hanno unanimemente acclamato per
Grande. Ferdinando II è un personaggio straordinario. Pe’ personaggi di
tal fatta i giorni sono anni, e gli anni sono de’ secoli. I loro passi
sono di una rapidità incalcolabile, ed agli occhi degli uomini ordinar]
sembrano de’ prodigi- Eglino, quando anche la loro vita fosse molto
corta, formano l’epoche della storia; perché producono quei
memorabili avvenimenti, che cambiano lo stato de’popoli, e fanno a questi
percorrere un cammino diverso. I loro nomi resistono al furore del tempo,
che tutto distrugge. Ferdinando II ascende al trono de’suoi antenati,
nell’aurora della sua vita. Un uomo ordinario sarebbe stato sedotto dallo
splendore del Trono: egli avrebbe sdegnato le penose cure del governo di
un Regno; egli sarebbe stato colpito dal fasto de’ grandi. Il giovin Eroe
chiude gli occhi alle pompe incantatrici del Trono, ed attento gli
rivolge su i mah del suo popolo. Egli non vuol assidersi in mezzo de’
grandi pria di piangere cogl’ infelici. Una serie d’infausti avvenimenti
produce torrenti di mali, ed immerge nel dolore e nel pianto gli
abitatori di queste belle contrade. Un muro di separazione s’innalza fra
di noi. Esso divide i sudditi da’ sudditi. Quelli della parte sinistra son
privi della vita civile, nell’atto che la necessità ne chiama degli
altri, che sono insufficienti, alle pubbliche cariche. Il potere
giudiziario perde tanti ragguardevoli magistrati. L’amministrazione tanti
prudenti e savj amministratori. La indizia tanti valorosi campioni. Gran
Dio, chi riparerà i nostri mali ? Voi avete udito i gemiti de buoni
e virtuosi cittadini di questo bel Regno: la vostra voce finalmente dal
Cielo si è udita. Popoli delle Due Sicilie, rasciugate le vostre lagrime
: i vostri cuori si aprano alla gioja. Un Re di un’anima eroica ascende
sul Trono: egli sanerà le vostre piaghe : egli vi farà risorgere a
nuova vita. Sì, il core magnanimo di Ferdinando il Grande è
commosso all’aspetto de’ mah di una gran parte de sudditi suoi. Egli
sente, nella sua clemenza, che, essendo l’immagine di Dio e del Redentore
divino su la Terra, dee qual padre correre ad abbracciare il figliuol
prodigo. Egli vede, che la discordia in un Regno è la sorgente di
mali deplorabili, e che un principio saggio dee farla cessare. Egli conosce, che
i Re debbano regnare su i cuori de’ loro sudditi. Il memorando decreto
del 18 dicembre del 1830 è pubblicato. Il muro di separazione è
rovesciato. La gloria di Ferdinando II sarà immortale ». Tacete,
animucce infelici, in cui la calunnia ha posto la sua sede, tacete. Che
cosa mai dir vorrete ? Che il Reai Decreto or ora citato è una finzione ?
Che esso non avrà alcuna esecuzione? No, l’anima eroica di Ferdinando II
non cape siffatta bassezza. I reali Decreti del dì 11 del corrente
gennaio 3 vi ammutoliscano. Ferdi- [A questo punto d'altra mano, in
margine: «La tempesta politica fa traviare dal retto cammino anche i
migliori talenti. L’atto sovrano del 18 dicembre 1830 portava un indulto in
favore dei condannati come rei di Stato, e di coloro che per ragioni
politiche si trovavano esclusi dagli impieghi civili e militari.
3 Allude ai due decreti nn. 104 e 106, emanati con quella data da
Ferdinando II, col primo dei quali si cercava di curare le piaghe
ALBORI DELLA NUOVA ITALIA nando II regna senza distinzione, su i
cuori di tutti i sudditi suoi. Tutti si riguardano quasi fratelli,
perché vivono sotto T impero di un Re, che è loro Padre. DalTuna
all’altra estremità delle Due Sicilie una sola voce si ascolta : Viva
l’Eroe! Viva Ferdinando II il Grande! Tutti sì, tutti son pronti a
versare per un tanto clemente Monarca il loro sangue. La virtù non dee amarsi
che per se stessa, e sarebbe, in buona filosofìa, un distruggerla il
riguardarla qual mezzo per la felicità. Ma è essa una verità
incontrastabile, che l’uomo virtuoso sarà felice, ed il vizioso infelice.
Quale spettacolo più commovente per l’anima di Ferdinando II di quello che gli
presentò la capitale ne' giorni ix, 12 e 13 di gennajo, e la relazione,
che certamente gli pervenne, della letizia universale innalzata sino al
più vivo entusiasmo di tutto il Regno ? Il piacere di rendere milioni di
uomini felici, e di vedersi da essi adorato ne ha esso forse un eguale su
la terra ? Il Principe magnanimo intese nel suo cuore, che egli ha tanti
soldati, quanti sudditi conta il suo regno. Egli vide il suo Trono
immobile, la sua gloria immortale. La grand’opera della rassicurazione
delle reali finanze la dicemmo già delineata nella gran mente del
nostro Eroe. La mano incomincia tosto ad eseguire il disegno profonde
che erano nelle finanze del Regno, sopra tutto dei domimi continentali, per le
conseguenze fatali della straniera usurpazione: gli avvenimenti disgraziati del
1820#; si esponeva con leale franchezza il deficit della tesoreria generale
di Napoli, che ammonta a 4 345 251 ducati; per colmare gradualmente il quale
si annunziava una serie di lodevoli economie nella milizia e nei
ministeri, oltre straordinari rilasci della cassa privata del Re e
dell'assegnamento della R. Casa; l’abolizione del cumulo degli stipendi;
l’imposizione di una ritenuta ai soldi e pensioni superiori a 25 ducati
mensili; e in compenso pel « sollievo della parte più bisognosa del
popolo » si diminuiva della metà il dazio sul macino. Con l’altro decreto
veniva prescritta « una generale economia nelle spese a carico dei comuni di
qua del Faro per invertirla nella diminuzione de’ più gravosi dazi
comunali». Vedi Collezione cit., a. 1831, sem. I, pp. n-17, e 18-20.
G. GIACOBINO? I4I del pensiere. I Re imprimono alle loro
azioni un carattere di gloria, che spinge i sudditi ad imitarle. L’idea
di grandezza si associa a quella delle azioni de’ grandi, e l’impero
delle idee associate sul cuore umano è molto esteso. Quindi la virtù,
quando si scorge nelle azioni de' grandi, di qualunque grandezza essi
sieno adorni, rende la virtù rispettabile su la terra. Guidato da
questo sublime pensiere, Ferdinando II incomincia da sé la nobile
impresa. Que’ insti spazj di terra riserbati alla caccia de’ Re son tosto
restituiti all’agricoltura. Questa misura diminuisce le spese relative
alla persona del Re, ed aumenta la pubblica ricchezza. Un rilascio è
conceduto dalla borsa privata del Principe: altro ne è fatto
dall’assegnamento della Casa reale. La classe degl’ impiegati è chiamata
ad imitar l’esempio del Reggitor supremo dello Stato: ed il reai Decreto
del di 11 gennaio contenente una diminuzione di dazj, vien tosto a
colpirci di ammirazione e di gioja. Se tali sono le imprese di
Ferdinando II in men di tre mesi, che cosa non dobbiamo noi sperare in un
lungo regno, che gli auguriamo felice ? Egli ha promesso la
restaurazione della giustizia. La sua promessa è sacra ed immutabile. Il
passato ci autorizza a sperare il futuro. Sì, il cittadino vivrà
tranquillo sotto 1 * impero della legge. Il regno di Astrea rinascerà su
le nostre contrade. Ed io non posso trattenermi di finire col poeta
latino: lam redit et virgo, redeunt Saturnia regna, lavi nova
progenies caelo demìititur alto. Con la pubblicazione del suo proclama il
Giornale ufficiale annunziava le sue disposizioni per l’abolizione delle
cacce »: N. Nisco, Gl’ultimi trentasei anni del Reame di Napoli. G. è
stato detto a ragione gran riformatore della filosofia italiana ; e aspetta
ancora un degno illustratore della sua vita e del suo pensiero . Noi ne diremo
soltanto quanto è neces sario al disegno di questo lavoro. Nasce a Tropea, in
Calabria dal barone Vincenzo e da Lucrezia G., una delle più antiche famiglie
patrizie di quella cittaduzza. Fattii primi studi di latino, è mandato a scuola
di filosofia e matematica d’un abile maestro, tal Ruffa, che gli pone in mano
la Logica di GENOVESI (si veda) e la Geometria di Euclide; e l'innamora
talmente di questi autori e di queste discipline, che G., anche innanzi negli
anni, non rivede quei saggi senza una certa commozione. Ma non si ferma a GENOVESI
(si veda); perchè alcuni suoi compagni l'induceno a leggere la Teodicea del
grande avversario di Bayle. E G. ne è invogliato a studiare tutto il sistema
nelle opere del Wolff, come anche ad applicarsi alla teologia, poichè nella
scuola si è introdotto, scrive egli stesso, un certo misticismo. Studi
teologici e metafisici continua a coltivare a Napoli, dove si reca, da Palermo,
ove il padre qualche anno prima aveva condotto la famiglia. Frequenta le
lezioni di teologia di Conforti, il Sarpi napoletano, e quelle di greco di
Baffi; entrambi vittime gloríose. Studia la Bibbia, la storia antica,
l'ecclesiastica, la patristica, Vedi il brano autobiografico pubblicato da PIETROPAOLO
nella Rivista di filosofia scientifica di Morselli, &., e ripubblicato da TORALDO
nel suo Saggio sulla filos. di G. e le sue relazioni col kantismo, Napoli,
Morano ( dove per una gvista è stampato
amabile per abile. specialmente
Agostino. Ma, per la morte del suo minor fratello Ansaldo, dove rimpatriare per
attendere all'azienda domestica ; e sposa Barbara d'Aquino di Cosenza, dalla
quale ha quattordici figli! Negl’elementi di psicologia egli stesso ricorda la
sua numerosa figliuolanza, che nella sua casa non grande gli impede co'suoi
strepiti infantili di studiare la filosofia e le matematiche, senza la sua
grande passione per questi studi. Persistetti, egli dice, e l'esercizio mi pose
in istato, che io me ditavo tranquillamente, non ostante i giuochi strepitosi,
i pianti e le grida de’ragazzi. Per rispondere alle censure che certi
ecclesiastici avevano fatto di alcune sue proposizioni, pubblica una Memoria
apologetica Nè tralasciava frattanto di coltivare la filosofia : ma i saggi
filosofici che legge, com'egli c’informa, sono tutti della scuola cartesiana. Legge
Condillac, e qui comincia la seconda epoca della sua vita filosofica. Le opere
di questo filosofo fecero cambiare la direzione dei suoi studi nella filosofia,
lo compresi, - ci dichiara G., – che prima di affermare qualche cosa su l'uomo,
su Dio e su l'universo, bisogna esaminare i motivi legittimi dei nostri giudizi
e porre una base solida alla filosofia; che bisogna perciò risalire all'origine
delle nostre conoscenze, e rifare in una parola il proprio intendimento. Così
egli scrive quando è molto progredito nella critica della conoscenza, e aveva,
si può dire, approfondito il problema. Forse la prima lettura di Condillac non
gli diede quella netta coscienza, che parrebbe da queste parole, dell'im
portanza della questione gnoseologica . Certo, l'avviò per questa strada, che è
la strada maestra delle filosofia moderna, facendolo ritornare sul Saggio di
Locke. E primo frutto di questi nuovi studi fu nel 1807 un opuscolo
Sull'analisi e la sintesi; le due ; 2.a ed., Firenze, Pagani. Anche Vico nella
sua vita ricorda con quella sua disinvolta vanità di esser * uso sempre a
leggere o scrivere, o meditare » tra lo strepito de' suoi non pochi figliuoli.
In Napoli, pei torchi di Vincenzo Mozzola - Vocola. Autobiografia citata.
Napoli, Verriento. Tirato in pochi esemplari non messi in vendita,
quest'opuscolo è divonuto oggi rarissimo. Una copia è conservata dalla
Biblioteca Universitaria di Napoli, nella Miscellanea Imbriani. I facoltà che occuperanno un posto primario
nella filosofia dello spirito galluppiana. Tutto intento a' suoi studi, e senza
allontanarsi mai da Tro pea, se di là « con l'occhio e col pensiero, come
immaginava in un suo affettuoso elogio Vista, non si sarà rivolto « alla
prossima Cotrone, ed ai suoi costumi ed alle sue idee trovato un modello nella
vita e nella sapienza del divino Pita gora; certo avrà seguito gli avvenimenti
politici dei for tunosi tempi del decennio francese in Napoli, com'è certo che
partecipò vivamente con l'animo alle riforme liberali allora at tuate o
vagheggiate. Scrisse anche un opuscolo Sulla libertà com patibile con ogni
forma di governo, rimasto inedito. E da re Gioacchino è nominato controllore
delle contribuzioni della provincia di Catanzaro. Della parte da lui presa alla
vita pub blica contemporanea si ricorda pure un opuscolo, Lo sguardo
dell'Europa sul Regno di Napoli, in difesa degli ordini costituzionali
napoletani minacciati dal Congresso di Lai bach, e contro l'intervento
straniero. E altri due opuscoli avrebbe indirizzati al Parlamento napoletano,
l'uno Sulla libertà dell co scienza e l'altro Sulla libertà della stampa;
opuscoli ora irrepe ribili, ma che non dovevano contenere niente di diverso
dallo scritto Su la libertà compatibile con ogni forma di governo, di cui
larghi squarci e transunti furono pubblicati; nei quali il Nostro mostrasi
largo fautore di ogni libertà, 4. Quando scrisse l'opuscolo Sull'analisi e la
sintesi G. ancora non conosceva nulla di Kant, secondo che egli stesso ci
attesta. La conoscenza di questa filosofia, egli dice, non cam biò punto la
direzione dei miei studi ; io continuai le mie appli [Memorie e scritti di L.
LA VISTA, Firenze, Le Monnier, Vedi quel che no dice TULELLI in un'interessante
memoria Intorno alla dottrina ed alla vita politica del bar . P. G. - Notizie
ricavate da alcuni suoi scritti ine diti e rari, negli Alti della r. Acc. delle
scienze mor . e pol. di Napoli, I, 201 e sgg. Il TULELLI pubblicò un'altra
memoria : Sopra gli scrilli inediti del bar, P. G. negli stessi Atti del 1867,
III, Vedi l'opuscolo più sotto citato di BISOGNI, Omaggio Vedi la prima delle
due memorie del Tulelli. Pare tuttavia che nella reazione G., che allora
trovavasi a Tropea, non abbia mantenuta quella condotta che si conveniva a un
amico della libertà . Nell'Eco di Tropea) TORALDO, al quale pure si deve il
citato Saggio sulla filosofia di G. con appendice di scritti inediti, ha
pubblicato questo bruttissimo sonetto recitato dal Nostro noll'Accademia degli
Affaticati di quella città : cazioni su l'intendimento umano, ma profittai
molto delle fati che del filosofo di Koenisberg ; io riconobbi il merito dei
problemi elevati dalla filosofia critica, sebbene trovai insufficiente la so
luzione che questa ne avea dato . Le meditazioni da me por tate su la filosofia
critica, elevarono molto più alto i miei pensieri e mi presentarono delle nuove
vedute nella scienza dell'intendi mento umano. E vedremo infatti quanta parte
del criticismo kantiano si rispecchi nel Saggio filosofico sulla critica della
co noscenza, di cui il Nostro pubblico i primi due volumi a Napoli, [Questa
prima conoscenza di Kant provenne a G. dalle esposizioni nè complete nè esatte
di Villers e di Kinker e Della Patria il dolore, il lutt, il pianto, La rea
sorte fatal veder non voglio, Di Marto, di Bellona il fler orgoglio, L'augusto
trono di Minerva infrant, Spesso sedendo al bel Sebeto accanto Col cor trafitto
dal più fler cordoglio, Pria che de' Franchi vacillasse il soglio, Dico nel mio
pensiere, e piango intanto. Un ferro io prendo. Occhi mici, non piangete, Grido
nel mio furore ; io corro or ora Sollecito a varcar l'onda di Loto. Ma già
l'Angiol divin, che accanto giace, Di man mi toglie il ferro, e grid'allora
Verrà Fernando: tornerà la paco! Il sonetto è conservato su un foglio volante,
che reca dalla parte opposta queste parole che sono la conclusione di un
discorso accademico :Ferdinando augusto, principe ma gnanimo, nell'impetuoso
turbino che minaccia l'indipendenza nazionale, corri a salvarci. I destini
della nostra nazione son legati alla tua esistenza. Ferdinando viene, Napoli è
salvo. Il mio discorso accademico è terminato. E poi : G. fra gl’affatigati il furioso.
Siegue dietro il Sonetto dello stesso accademico A me pare che discorso e
sonetto possano riferirsi alla reazione. Le frasi di questo passo meritano
particolar considerazione per quel cho si dirà più innanzi del pensiero
galluppiano. Pei torchi di Domenico Sangiacomo. Seguirono altri 2 vol. Messina,
Pappalardo; poi un 5.° e un 6. °, per cui l'opera fu compiuta,, presso lo
stesso Pappalardo. In Napoli fu incominciata la 2.a edizione migliorata ed
accresciuta. Philos. de Kant, ou
principes fondamentaux de la philos. trascendentale, Metz, 1807. ( 4) Essai
d'une exposition succincte de la Critique de la Raison pure ; trad. du l'ol
landais par. J. le F.; vedi su questi e gli altri
primi scritti francesi sul Kant l'im portante memoria del PICAVET, La philos.
de Kant en France, proposta alla sua trad. della Critica della Ragion pratica
(Paris, Alcan). dalla Storia comparata dei sistemi filosofici del Degerando.
Egli non seppe mai il tedesco, nè mai conobbe la traduzione latina di alcune
opere kantiane, già ricordata, fatta dal Born; nè era uscita peranco la
traduzione che il cav. Man tovani fece della Critica della ragion pura, e che
sarà poi la sua fonte principale. Pubblica gl’Elementi di filosofia contenenti
la Logica pura e la Psicologia, e promette l'Ideologia, La logica mista, la
Filosofia morale, che infatti uscirono in altri volumetti, e una Storia
filosofica ragionata, che un avvertimento dell'editore al quinto volumetto
annunzia non si sarebbe piu pubblicata avendo l’autore su l'oggetto intra presa
un'opera estesa. E questi saggi, i migliori testi di filosofia per le scuole
che si siano avuti finora in Italia, per i loro squisiti pregi didattici
d'ordine e di chiarezza, si divulgarono presto per tutta Italia, procacciando
molta fama al benemerito autore. Scrive alcune lettere sulla storia della
filosofia, indirizzate a Fazzari, che a Tropea insegna gli Elementi di lui e
desidera da lui stesso di essere orientato in mezzo al caos delle opinioni, che
al presente scrive G. nella prima lettera — agitano il mondo filosofico, e di
essere sovrattutto informato della filosofia critica. E queste lettere l'autore
raccoglieva in un bel libro, piccolo di mole ma che è il primo degno saggio di
storia della filosofia in Italia, il quale diede [Nè soppe tanto di francose da
tradurre da questa lingua sonza errori di senso. Vodi per un esempio
curiosissimo la mia prefazione al Saggio di TORALDO. Aggiunse più tardi gl’Elementi di
teologia naturale. Si fa a Firenze una edizione di tutti questi Elementi di
filosofia con aggiunte dell'autore e note di P.(OMPILIO ) T.(ANZINI) S. (
COLOPIO ), pubblico lettore; ristampata a BOLOGNA. Di questa Storia della
filosofia non è pubblicato poi che il primo volume contenento il primo dei duo saggi
d’Archeologia filosofica, che l'autore intende premettere all'opera. Ne conosco
solo l'odizione di Milano, Silvestri, nella quale precode l'Elogio funebre
scritto da PESSINA. Lellere filosofiche sulle vicende della filosofia
relatiramente ai principii delle cono scenze umane da Cartesio sino a Kant
inclusicamente, Messina, Pappalardo. Le lettere in questa edizione sono
tredici. Una 14. ne aggiunse l’A. alla 2.a edizione (Napoli), con un Discorso
di BLANCH per venire fino a Cousin e a SERBATI. E questa 2. edizione è
riprodotta in quella di Firenze, Fraticelli. occasione al Romagnosi di scrivere
una Esposizione storico-critica del kantismo e delle consecutive dottrine. E
altre cinque Lettere sull’ontologia indirizzd a un amico, dove si adopera a
mettere in chiaro, da un punto di vista kantiano, la futilità dell'ontologia
wolfiana. Ma queste lettere non sono venute in luce che recentemente. Per tutti
gli scritti già divulgati G. s'è reso noto per tutta Italia; e SERBATI, appena
stampati suoi Opuscoli filosofici, glielo invia da Milano, dichiarandoglisi
obbligato se egli, che ha arricchita la filosofia, quella scienza avvilita e
profanata nei nostri tempi, anzi distrutta, avesse voluto aggradire l'opera e
comunicargli qualche lume relativo alle materie che sono in esse contenute. E
si stabilì fra i due filosofi un carteggio assai istruttivo per chi voglia
conoscere le relazioni storiche delle rispettive loro dottrine . Varie
accademie l'aggregano a’loro soci. Fra esse la Sebezia e la Pontaniana di
Napoli. Quivi G. torna; e subito vi pubblica una traduzione dei Frammenti di
Cousin, con una prefazione e una dissertazione del traduttore, in cui si
confuta il domma del l'unità della sostanza, ove però son comprese le
osservazioni di G. intorno alle altre dottrine di Cousin non accettate. Avendo
meditato su di questo sistema filosofico, trovo in esso delle vedute sublimi,
ed insieme un errore pe Che ne scrive
prima una recensiono nella Biblioteca Italiana, di Milano. Nella stessa
Biblioteca. Vedi Opp. filos . ed . e ined ., di G. D. R. con annotazioni di
GIORGI, Milano. Su questo scritto e in generale sul Kantismo in Romagnosi vedi
l'art. del CREDARO nella Riv. di filos. Italiana. Vedi ciò che ne ho detto
nella prefazione al citato Saggio di Toraldo. Dovo queste lettere sono stato
tutte cinquo pubblicato per la prima volta. Solo le prime due sono state edito
da PIETROPAOLO, Scritti inediti di P. Gall. nella Riv, filos. scient.. Vedi GENTILE,
Rosmini e Gioberti (Pisa, Nistri). La
filosofia di Cousin, trad . dal francese, ed esaminata dal bar. P. G., a spese
del N. Gabinetto lotterario. Si incontra anche una postilla del traduttore
relativa ad alcune massime morali di Cousin,
ricoloso. Quindi, accompagnando la traduzione con la detta dis
sertazione, ei credeva di porre il lettore filosofo in istato di conoscere non
solo la filosofia di Cousin, ma di giudicarla. Il saggio frutto presto molto
favore all'eclettismo francese a Napoli, e specialmente al suo capo, che dal
canto suo fa conoscere G. in Francia, e anche fuori per mezzo dell'amico
Hamilton, che in un giornale filosofico di Edimburgo scrive un articolo sul
Nostro. A Napoli è persuaso da amici a chiedere la CATTEDRA di logica e METAFISICA
vacante. Presentato al ministro degl’interni marchese di Pietracatella, questi,
udito il suo desiderio, l'invito a cimentarsi a un esame. Ma egli con sdegnosa
semplicità calabrese risponde. E chi c'è a Napoli che possa esaminare G.?
L'amico che lo presenta rimane sconcertato. Ma il nostro filosofo ha il suo
decreto di nomina. Con che festa noi, narra Settembrini con quanta calca tutte
le colte persone si anda a udire la sua prolusione, e poi le lezioni che egli
appollaiato su la cattedra detta con l'accento tagliente del suo dialetto! Ci
sono sempre i maldicenti, i quali diceno che egli è mezzo barbaro nel parlare,
ma in quel parlare è una forza di verità nuova, ma l'ingegno è grande, e il
cuore quanto l'ingegno. Da una novella prova delle sue attitudini didattiche
dando alle stampe un'opericciuola: Introduzione allo studio della filosofia. Ma
nel seguente anno, primo del suo insegnamento, coi primi due volumi della
Filosofia della volontà dedicati al marchese di Pietracatella, poi e --- Si
conservano nella biblioteca del Cousin, appartenente alla Ropubblica, le
lettere a lui di G. Vedi l'art. da me pubblicato su Cousin e l'Italia nella
Rassegna bibliograf. della letter. ital. Cousin fa tradurre in francese dal
Peisse suo discepolo le lettere di G.; o questi da Trinchera le lezioni di
Cousin Sulla filosofia di Kant, aggiungendovi egli delle note, come è notato a
suo luogo. Un'affettuosa commemorazione di G. fa Cousin all'Accademia di
Francia, o pubblica nel Journal des Économistes, riportato nell'Omnibus di
Napoli, dove G. scrive su Cousin. Vedi FIORENTINO, Man . di storia della
filos., Napoli; SETTEMBRINI, Ricordanze, Napoli, e il Discorso cit . di
BORRELLI, ammontati a quattro, già composti a Tropea, comincia a pubblicare le lezioni
di logica e METAFISICA, dettate a Napoli, vero modello di quel lucidus ordo
tanto raccomandato da Venosino. Ne compì la stampa; di cui fa una seconda
edizione e una terza; ristampata da Tramater. A proposta di Cousin, in
concorrenza con Hamilton che ha un solo voto, venne nominato socio
corrispondente dell'Accademia delle scienze di Francia. E, a proposta di
Guizot, Filippo lo insigne della croce della Legion d'onore Ei se ne sdebita
con le sue Considerazioni filosofiche sul l'idealismo trascendentale, ossia sul
sistema di Fichte, memoria presentata all'Istituto di Francia, accademia delle
scienze morali e politiche; e mandando più tardi, poco prima di mo rire, uno
scritto su la teodicea dei filosofi antichi, che fu inserito come il precedente
negli Atti dell'Accademia. Pubblica una Storia della filosofia. Vi si tratta
della filosofia greca, non però secondo la successione delle scuole, sibbene
considerando e criticando le diverse opinioni dell'antichità sull'origine
dell'universo e del genere umano fino ai neo-platonici. Una siffatta opera,
dice in un elogio funebre dell'autore un affettuoso discepolo saria stata
monumento novello di gloria italiana, se a nostra disavventura la vecchiezza,
le malattie, le sciagure non avessero di tale infievolito l'animo di lui, ch'ei
non potè vederla compiuta, ed a perfezione condotta. Infatti gl’ultimi anni
della vita del nostro filosofo sono amareggiati da sciagure che ne affrettarono
la morte. Già uno dei figli maschi è caduto, com'ei narra, vittima del furore
d'un sconsigliato. Ed egli ne scrive e stampa (Messina) l'elogio. Poi gli è morta
la moglie. Ora, in una insurrezione scoppiata a Cosenza perde la vita un altro
suo figlio, Vincenzo, che è capitano. Il vegliardo Vedi la lettera di Guizot in
LASTRUCCI, P. G. studio critico, Firenze, Barbèra Stampate in italiano, da'
torchi del Tramater. Negl’Atti dell'Accademia francese sono pubblicato come la
successiva memoria in francese. Elogio funebre di G., per E. PESSINA, in Op.
cit ., p. XIII. ne fu profondamente addolorato e agli amici che tentavano con
fortarlo disse : « Avrei desiderato che morisse per una causa più nobile e
giusta. Borrelli ne disse degnamente le lodi presso al letto funebre, fra una
folla, che recarono a spalla la salma compianta alla chiesa di S. Nicola ; e
gli celebrarono funerali solenni nella chiesa di Sant'Orsola a Chiaia, in cui
recita un'orazione il gesuita Curci. Campagna piange la morte del filosofo in
un sonetto filosofico, lamentando che con lui si partisse dalla terra Una
favilla dell'eterno lume. Dall'Accademia delle scienze morali e politiche a G.
venne eretto un busto a Napoli, da lui onorata con molti altri spiriti magni.
Molti saggi ha ancora in animo di pubblicare, oltre i ricordati, e molti
manoscritti di lui ci son rimasti, ora in deposito presso la Biblioteca
nazionale di Napoli, i quali fan testimonianza della larga estensione degli
studi fatti da lui in teologia, storia dell'antica e moderna filosofia,
filologia greca e latina, storia, matematica, astronomia. Meno vita modesta e
di grande raccoglimento: assorto negli studi, visse veramente per la scienza,
in cui riuscì ad imprimere orme profonde, rinnovando la filosofia italiana.
Egli infatti è il solo dei filosofi napoletani da noi studiati, dopo GENOVESI (si veda), che esercita una
influenza molto notevole al di fuori del regno, su tutti gli studi filosofici
nazionali, Pubblicato nel Museo di scienza e lett.; v. DE SANCTIS, La letter .
ital., Napoli, Morano, e nota di CROCE] Oltre la memoria ricordata di Tulelli,
vedi l'olenco dei mss. galluppiani nel l'opuscolo citato di Pietropaolo. Per la
biografia v. anche PALMIERI, Elogio stor . del bar. G. con alcuni poetici
componimenti recitati in un'adunan za tenuta per cura di Palmieri in Napoli.
V'è oltre l'elogio un sonetto di Campagna, un carme latino di A, Mirabelli,
alcune sestine d’Anzelmi, un'ode latina di Guanciali e un sonetto improvvisato
dall’egregio poeta Regaldi che per una congiuntura si trova presente alla
nostra adunanza, - Vedi anche la necrologia Morti e morenti di CORRENTI,
Rivista europea, ristamp. in Scritti scelti, ed. Massarani, Roma, Sonato.
L'articolo di RACIOPPI, Il Bar, P. G., nel Poliorama pittoresco; l'opuscolo di
BISOGNI, Omaggio alla memoria del b. P. G. nell'occasione che in Tropea il
Munic. e la Prov. innalzano una statua all'illustre filosofo, Napoli, Morano (
in 11. Nella quattordicesima delle Lettere filosofiche G., volendo determinare
le relazioni della sua filosofia, ch'egli chiama sperimentale, col criticismo
kantiano, si fa a descrivere le varie fasi attraverso le quali era passato il
suo pensiero . Ma la de scrizione non è molto accurata ed esatta. Abbiamo visto
come fino circa ai trent'anni suoi autori sono Leibniz, Agostino e i filosofi
della scuola di Cartesio; e si può dire che egli fosse in un periodo di
dommatismo metafi sico, che rimase poi sempre nel fondo del suo pensiero ; non
solo perchè molto più tardi, quando aveva studiato anche Kant, con tro di
questo egli affermava che « la filosofia è essenzialmente dommatica, e non può
essere che dommatica. Essa dee contenere delle verità assolute; ma anche per
altre ragioni: La lettura di Condillac gli fa intendere, che c'era una que
stione preliminare dą risolvere prima di ogni metafisica : ricer care, cioè, i
motivi legittimi dei nostri giudizi, quindi risalire all'origine delle nostre
conoscenze, rifare, egli dice, l'intendimento. Condillac e Locke cangiarono
insomma la direzione de' suoi studi. Segue perciò fino circa a quando venne a
conoscenza di Villers e di Degerando, un periodo pre-kantiano di revisione
della conoscenza; al quale periodo appartiene l'opuscolo Sull'analisi e la
sintesi, In questo egli concede a Locke e ai suoi seguaci, che tutte le nostre
idee hanno origine da' sensi, che pertanto tutte le nozioni universali vengono
a formarsi dal paragone degli oggetti particolari, e che le cognizioni
particolari ci menano alle nozioni universali, e non già viceversa. Ma si propone
la questione se lo spirito, tosto che ha formate le nozioni universali, possa
paragonarle, scovrirne i rapporti, e quindi applicare questa cognizione
universale alle idee particolari, racchiuse nell'idea universale, che si è
paragonata colle questo opuscolo è pubblicato uno scrittorello inedito di G.
Sulla semplice apprensione). Uno studio biografico ha pure dato in luce
PIETROPAOLO, nel Pensiero contemporaneo di Catanzaro. Non c'è riuscito di
vedere la biografla pubblicata nel Giornale dell'equilibrio, citata dal
Palmieri, scritta da TULELLI sopra note comunicatemi questi dice, accennando
molto probabilmente a questa biografia dall'autore medesimo; Atti della R.
Accad. d. scienze morali e polit. Letl.
filos. Sull'analisi altre . Per es ., delle due proposizioni generali ogni
cerchio ha tutti i suoi raggi uguali e ogni corpo è grave, nella seconda tra
corpo e gravità non havvi una connessione necessaria e il loro rapporto non può
affermarsi se non mediante il soccorso dell'espe rienza ; nella prima invece è
nell'idea del cerchio la ragione di affermare l'uguaglianza de' suoi raggi; e
fra le due idee v'è un legame necessario, che non dev'essere attestato
dall'esperienza. V'ha dunque, conchiudeva il Galluppi, verità generali cui lo
spi rito non perviene dalle verità particolari (sensazioni), « ma per mezzo del
semplice paragone delle idee universali, ch'egli si ha formato; e v'ha poi
verità generali che derivano dalla cognizione delle singole verità particolari,
che ci fornisce l'esperienza. Le une costituiscono le conoscenze a priori e
necessarie ; le altre le conoscenze a posteriori e contingenti. Le prime sono
principii ana litici, in quanto si devono all'analisi delle idee generali già
acquisite per l'esperienza; laddove le seconde sono un prodotto della sintesi
delle verità particolari, non altrimenti che le idee universali. Sicchè già
nell'opuscolo G. arriva a quella forza analitica e forza sintetica di cui fa
nel Saggio il fondamento di ogni giudizio, distinguendolo net tamente dalla
sensibilità. In quell'opuscolo si poteva egli dire ancora puro empirista?
Certo, egli fa ancora, come Locke, derivare dalla sensazione ogni idea
universale, e puramente speri mentale faceva ancora la materia delle conoscenze
a priori. Giacchè le idee generali, fra cui può ammettersi un rapporto neces
sario a priori, sono esse stesse sperimentali a posteriori . Tutta quanta la
materia della nostra cognizione deriva dall'esperienza. Ma un a- priori si
ammette nella sintesi, che, elaborando il dato immediato dei sensi, ci conduce
alle idee universali e alle cono scenze contingenti, e più nell'analisi che ci
fornisce conoscenze indipendenti dall'esperienza . In quell'opuscolo adunque
l'empiri smo crudo cui il lockismo per mezzo dei sensisti francesi era stato
ridotto, non era accettato. E notevole sovrattutto era in esso questa netta
distinzione tra conoscenze a priori necessarie e co noscenze a posteriori
contingenti, fatta da G. quando igno rava affatto la distinzione kantiana di
giudizi analitici e sintetici alla quale corrisponde precisamente. Ne pare
ch'egli allora cono scesse i Saggi filosofici sull’intelletto umano dell'Hume,
nel quarto dei quali ritrovasi quella distinzione tra i legami di causalità,
fon damento delle cose di fatto e relazione d'idee, scoperte per mezzo di
semplici operazioni della mente, che giustamente si è voluto preluda alla
teorica di Kant.Nel suo Saggio, la posizione di G. si determina assai più
chiaramente. Egli, bene o male, ha già studiato Kant, e combatte l'empirismo di
Condillac, d’Elvezio, di Tracy; di quel Tracy, che ancora a Firenze, al dire
d'un arguto scolaro di Cousin, rappresenta le chef et maitre, celui qui l'a
dit; e dichiara che la geometria, questa scienza pura, razionale, è la pietra
immobile su cui va a rompersi la macchina debole dell'empirismo; e che, infine,
non è vero esattamente ciò che egli aveva ammesso o, almeno, non aveva
combattuto, nell'opuscolo: derivare cioè tutte le idee universali dal paragone
delle particolari. Parve a lui che la critica di Kant fosse una vera rivolu
zione. La rivoluzione kantiana, scrive nella prefazione del Saggio, merita, più
di quel che si crede, l'attenzione dei pensatori. Asseriva bensì, che il
criticismo non fosse altro che un neo logismo, sotto il quale non si faceva
passare che una questione vecchia, quella dell'origine delle nostre idee. Ma le
prime parole della sua prefazione erano tuttavia le seguenti. L'oggetto di
quest'opera è la critica della conoscenza, o l'esame della realtà della scienza
dell'uomo. Che cosa posso io sapere? Son io capace di conoscenze reali? Quali
sono i motivi legittimi di queste conoscenze? Quali sono i limiti prescritti al
mio spirito, limiti che non gli è permesso di oltrepassare senza precipitare
nell'abisso dell'errore ? Tali sono le ricerche sublimi ed importanti che mi
occuperanno. Ora queste sublimi ricerche, come tutti sanno, sono appunto quelle
del criticismo kantiano ; che se è una rivoluzione, sarà cer tamente una
novità. Vedi JAJA (si veda), Saggi filosofici, Napoli, Morano. E a quel saggio
di Hame è G. ricondotto da Kant, nella IX delle sue Lettere filosofiche, per
spiegare, esponendo la critica del concetto di causa fatta da Hume, perchè la
lettura di essa svegliasse Kant dal suo sonno dommatico . Ma ivi, ricordando la
distinzione di Hume tra cose di fatto e relazione d'idee, non ne avverte punto
la parentela con la divisione kantiana dei giudizi. Vedi GENTILE, Rosmini e
Gioberti. Se non che, a giudizio di G.,
la critica di Kant, lungi dallo stabilire la realtà della conoscenza, tende
radicalmente a distruggerla; che i suoi risultati sono essenzialmente scettici
; e quindi una buona dottrina della conoscenza non può costruirsi se non in
opposizione a quella critica . Una critica, insomma, ci vuole ; ma non quella
di Kant. E quale dunque? Noi non esporremo ne' loro particolari le teorie di G.
e le critiche delle altrui dottrine ond'egli stabilisce le pri me. E poichè col
Saggio filosofico la sua dottrina è già fissata, senza seguire l'ordine
cronologico delle opere, possiamo dall'una e dall'altra di esse raccogliere i
tratti caratteristici della sua fi losofia e farne un corpo compiuto. G., come
gli antichi psicologi metafisici ammette un sistema di facoltà dello spirito; e
a capo di tutte pone la co scienza o sensibilità interna. Questa è la facoltà
per la quale lo spirito percepisce, sente se stesso, il me, la cui esistenza è
una di quelle verità primitive, che ci sono attestate dall'esperienza, ma non
si possono dimostrare ; come già pensano Cartesio e Leibniz. Nè vale
l'obbiezione che noi non percepiamo se non le nostre modificazioni, e che
l'idea del me si dedurrebbe percið da quella delle modificazioni, pel principio
che non v'ha atto senza soggetto. Non v'ha sentimento delle proprie
modificazioni donde si possa separare quello del proprio essere; perchè non si
può percepire l'astratto, ma il concreto, non il dolore, ma il me dolente. Il
me adunque è un dato dell'esperienza, che bisogna ac cettare come una verità
primitiva di fatto ; e l'atto con cui lo si apprende, è la percezione
immediata. Qui G., ritornando alla posizione cartesiana, ne sente tutta
l'importanza. Egli osserva nel Saggio filosofico, che il defi nire, come si fa
comunemente, l'idea per la rappresentazione dell'oggetto nella mente, separando
cosi l'oggetto dalla mente, e il far consistere quindi la norma della verità
nella conformità della nostra rappresentazione con l'oggetto esteriore, apre
irrepa rabilmente la porta allo scetticismo. « Se gli oggetti, se la re gione
dell'esistenza son separati dallo spirito, chi getta un ponte per passare dal
pensiero all'esistenza, all'oggetto ? Questo ponte si fa consistere nelle
immagini degli oggetti. Lo spirito, dicesi, possiede le immagini degli oggetti
; ma in questo caso lo spirito non potrà giammai conoscere la conformità di
queste immagini cogli originali, e la verità andrà sempre lungi da lui. Me [Saggio]
morabili parole, per cui G. non solo non
è un prekan tiano, come credono i più, ma va innanzi al Kant dei neokan tiani ;
del quale egli in questo luogo discopre espressamente il vizio principale,
notando che il fenomenismo critico è una con seguenza della falsa posizione
volgare dell'oggetto rispetto al sog getto, presunta dalla definizione
dell'idea testé riferita. L'idea del me, a proposito della quale l'autore fa
queste osservazioni, non ci deve esser data da una percezione che sup ponga il
termine percepito opposto al soggetto percipiente. L'Io ed i suoi modi non sono
separati dall'atto della coscienza, ma gli sono presenti. La coscienza li
prende dunque immediatamente, e fra questa percezione e gli oggetti percepiti
non v'ha alcun intervallo . Questa coscienza, questa percezione è dunque
l'appren sione e l'intuizione della cosa percepita. E le intuizioni, secondo G.,
son vere, non perchè son di accordo cogli oggetti, ma perchè elleno agiscono
immediatamente sugli oggetti, e li prendono. Nè bisogna cercare di definire la
percezione, perchè non se n'ha se non una nozione semplice, e ognuno pud solo
rimettersene alla propria coscienza per istruirsene . Il semplice, adunque, il
principio da cui parte G., è questa immediata coscienza di sè, che egli dice
percezione o in tuizione ; la cui verità è fondata nella identità dell'essere e
del pensiero, come in Cartesio . « Tutta la scienza dell'uomo riposa su la base
unica della coscienza di se stesso (Saggio)
. Sicchè la filosofia del G. è un vero soggettivismo, come si può vedere anche
dal suo concetto della filosofia. Che cosa è mai la filosofia? Ella è,
rispondono alcuni filosofi, la scienza di ciò che è . In conseguenza ella è la
scienza dell'uomo, del mondo, di Dio. Una tal definizione suppone, che l'uomo
possa giugnere a conoscere se stesso, il mondo e Dio. Ma, dicono altri
filosofi, bisogna prima esaminare se l'uomo può saper qualche cosa ; e su qual
fondamento può egli saperla . La conoscenza dei nostri mezzi di conoscere è
certamente una conoscenza prelimi nare alla scienza delle cose. Da ciò segue
che la filosofia pud riguardarsi sotto due aspetti, o come la scienza delle
cose, o come la scienza della scienza umana. Considerata sotto il primo aspetto,
ella può chiamarsi scienza oggettiva; considerata poi sotto il se condo, può
chiamarsi scienza soggettiva. Ma se la filosofia è la scienza prima, la quale
dee contenere la legislazione di tutte le Li investono, dice più innanzi. altre
scienze, voi vedete bene esser necessario di considerarla nel secondo aspetto.
A cið tende la celebre massima dell'antichità conosci te stesso . Io dunque la
riguarderò come scienza sogget tiva. E scienza della scienza la definisce già
negli Elementi di ideologia. Negli Elementi di filosofia morale la dice : la
scienza del pensiere umano, distinguendola in teoretica e in pratica, secondo
che studia l'intelletto o la volontà. Egli ha insomma un concetto moderno della
filosofia, giustificato dal suo principio : che è la coscienza di sè. Ma come,
partendo da tale principio, egli costruisce la realtà conoscitiva? E qual
carattere dà al suo soggettivismo la sua costruzione? Prima di tutto, avverte
giustamente G., bisogna di stinguere l'ordine cronologico delle nostre
conoscenze dall'ordine scientifico, Noi abbiamo con la prima sensazione e come
fonda mento di essa la coscienza del nostro Io ; ma essa non è certo una
coscienza di riflessione. Vale a dire, c'è di fatto questa co scienza che è il
Primo scientifico ; ma non si rivela se non alla riflessione filosofica
posteriore, molto posteriore, cronologicamente. Perchè questa coscienza
primitiva si rivelasse effettivamente, lo spirito dovrebbe cominciare da un
giudizio ( lo esisto ), ed essere già in possesso dell'idea astratta di
esistenza, laddove ei comincia invece da una percezione o sensazione che voglia
dirsi . Comincia da una percezione complessa : dalla percezione del me che
riceve delle modificazioni, dalla percezione del me che percepisce il fuor di
me. Ora lo spirito presta successivamente la sua attenzione ai diversi elementi
che compongono l'oggetto di questa prima percezione, decompone, divide questo
oggetto ; poi lo ricompone di nuovo e forma il giudizio, che è perciò il pro
Lett. filos., lett. Questo stesso concetto è svolto nella Prolusione del 1831:
Introduzione alle lezioni di logica e di metafisica del bar . P. G., Napoli,
Gabinetto bibliografico e tipografico (ristampata in fronte alle LEZIONI di
logica e di METAFISICA) e nelle primo tre di questo lezioni. Vedi puro il suo
articolo Filosofia nella 1." dispensa dello Ore solitarie, rivista diretta
allora da Riola, Mancini e Curion, più
tardi da solo Mancini. Nella Continuazione delle Ore solitarie ovvero Giorn. di
scienze morali, legislat. ed econom., è un altro scritterello del G.: Sul
panteismo di Lamennais. Saggio filos.,. dotto dell'analisi e della sintesi
della percezione complessa. Sic chè bisogna ammettere nello spirito, oltre la
facoltà della sensibi lità ( interna o coscienza, ed esterna), quelle
dell'analisi e della sintesi. 22. Il fuor di me ci viene offerto adunque dal
me, da quella coscienza che cogliendo il me lo coglie modificato dal fuor di
me. Questa coscienza, che il Galluppi dice pure sensazione, corri sponde, come
bene osserva Spaventa, alla coscienza sensibile dell'Hegel ; è l'unità ancora
confusa ed indistinta di soggetto ed oggetto. Allorchè, dice il Galluppi, la
modificazione esterna « è percepita col me, che modifica, io non ho ancora che
una per cezione ; ma quando ella è riguardata come distinta dal me, e poi
riunita a lui dall'atto dello spirito, io allora giudico Saggio, lib . I, §
18). Ora, se conoscere è questo distinguere e unire, è chiaro che conoscere [GRICE
COTCH] per G. non è sentire ( percepire [GRICE POTCH]), ma giudicare. Quindi
egli combatte i sensisti, insistendo sulla dif ferenza sostanziale che corre
tra sentire e giudicare, notando come giudicare importi necessariamente un
rapporto, e come non sia possibile indicare l'impressione esterna, l'organo
sensorio che ci manifesta la conoscenza del rapporto. La forza analitica e la
forza sintetica dello spirito sono distinte dalla sensibilità; come già aveva
sostenuto nell'opuscolo. La coscienza sensibile è adunque l'unità fondamentale
del conoscere ; l'unità che è condizione dell'analisi e della sintesi, ne
cessaria a tutti i nostri giudizi. Ma come si giustifica questa unita ? Il fuor
di me è sentito, dice G., come un molteplice del quale ciascuna parte è
distinta dall'altra e le modificazioni di una parte non sono, nel mio
sentimento, le modificazioni delle altre . Il tronco di un albero è distinto
dai rami : ciascun ramo è distinto da un altro : il moto di un ramo può stare
senza il moto di un altro e di tutto l'albero. Questa molteplicità si raduna
nel me, il quale alla coscienza si rivela sempre lo stesso, sia che [Saggio
filos., ed Elem . di Psicologia. Lo stesso è detto negli Elem, di Psicol..
Saggio G. riferisce un notevolissimo passo dell'Emilio di Rousseau sul valore
del giudizio ; passo che conferma la parentela che col fllosofo ginevrino ha
quello di Koenigsberg. Elem . d'Ideologia] ragioni, che giudichi, o che
percepisca ; talchè « il soggetto di un giudizio può avere una composizione
fisica ed una unità logica che gli vien conferita dal pensiero, che appunto
sintetizza nella sua unità il molteplice fisico . Questa unità del pensiero
s'addi manda unità sintetica, la quale se si ravvicina a quella forza analitica
e forza sintetica che s'è accennata, s'intenderà come un'attività distintiva e
unitiva insieme . E un'attività sintetica originaria dell'essere conoscitore
appunto è ammessa dal G. Ora la coscienza di sè coglie adunque l'Io che
sintesizza, uno e semplice, indivisibile. E l'unità sintetica del me, suppone
percið l'unità metafisica del me stesso che è la semplicità o spi ritualità del
principio pensante. Senza di essa non sarebbe possi bile la scienza, poichè la
scienza suppone la riunione di tutti i pensieri da' quali si compone; ed
essendo un pensiere distinto dall'altro, come si farebbe l'unione di questi
pensieri senza un centro di unione? Ove si incontrerebbero i diversi raggi del
sapere ? L'agente che costruisce, è necessario che abbia tutti i materiali
della costruzione. L’io di Newton, ripete qui G., che ritrova il calcolo
sublime è lo stesso io che ha apappreso la numerazione aritmetica. Senza
l'unità metafisica del me non sarebbe possibile l'unità sintetica del pensiere,
e senza l'unità sin tetica del pensiere non sarebbe possibile alcuna scienza
per l'uomo. Questa unità sintetica della coscienza originaria ha una intrin
seca parentela, come ognun vede, coll'appercezione originaria di Kant. Col
quale G. s'accorda nel ritenere che l'essenza particolare specifica dello
spirito umano ci è ignota affatto. Ma data questa coscienza originaria, che
forza analitica e sintetica insieme, tutte le nostre conoscenze derivano,
secondo G., dai sensi ? Nel libro I del suo Saggio filosofico egli, rife
rendosi allo scritto del 1807, scrive : Io suppongo in tale opu scolo che tutte
le idee universali derivano dal paragone delle particolari ; ma cið non è vero
esattamente, poichè vi sono alcune idee soggettive. La tesi degli empiristi che
non ammettono nella nostra conoscenza se non elementi oggettivi, è
insostenibile. Elem . d'Ideol. Lettera a SERBATI, Tropea nella Sapienza,
rivista di filos. e lettere. Cfr. GENTILE, Rosmini e Gioberti. Elem . d'Ideol.;
cfr . Saggio Saggio] ma In quell'autobiografia intellettuale che è nella
quattordicesima delle sue Lettere filosofiche G. dice, che il problema della
sua filosofia dell'esperienza fu questo : « Ma lo spirito umano è un agente ; e
colla sua azione non potrebbe forse sviluppare dal suo interno qualche elemento
che egli non riceve, ma che produce ? E questo elemento soggettivo non potrebbe
forse esser tale, che lasciasse intero l'elemento oggettivo, che cooperando
collo stesso non recasse alcun nocumento alla realtà della conoscenza, l'estendesse
e la fecondasse? Infatti, questa rimaneva la più grave difficoltà del G. contro
l'a priori: che l'a priori con la sua soggettività scalzasse la realtà della
conoscenza, come rimproverava a Kant per le forme dell'intuizione e
dell'intelletto e come rimproverava al Rosmini per la idea dell'Ente
indeterminato. Perchè egli non ebbe il giusto concetto delle categorie kantiane,
ritenendole quasi preformazioni dell'intelletto . Del resto, nella critica che
fa delle idee innate, pure avendo combattuto nel primo libro del Saggio l’in
natismo di Leibniz, si può ben dire che ne accetti il principio ne gli Elementi
di ideologia. Egli distingue idee accidentali all'intelletto e idee essenziali.
Le une non tutti gli uomini possono formarsele, perchè non a tutti è dato di
avere le sensazioni che sono il materiale donde l'analisi può ricavare coteste
idee . Le altre non mancano a nessun uomo, perchè derivanti da sensazioni co
muni a tutti . Sicchè anche le idee essenziali dell'intelletto pre suppongono
l'esperienza ; e se per idee innate si vuole intendere idee, che non sono il
prodotto della meditazione (analisi) su i sentimenti (sensazioni), tali idee
non hanno esistenza » . Ma, « se per idee innate s'intendono quelle idee, di
cui ogni uomo porta costantemente in se stesso i germi per isvilupparle, e che
ogni uomo capace di meditare pud in qualunque luogo ed in qua lunque tempo
acquistare, idee che ho chiamato idee universali all ' intelletto, l'esistenza
di siffatte idee mi sembra incontrastabile ... Noi conveniamo con Locke, che
tutte le nostre idee hanno la loro origine ne' sentimenti: conveniamo ancora,
che tutte le idee sono acquistate ; ma crediamo di dover fare distinzione fra
idee generali, e di ammettere alcune idee per l'acquisto delle quali ogni uomo
porta costantemente in se stesso i materiali necessari; da questi germi, che
sono nello spirito si sviluppano le idee essen [Vedi il mio Rosmini e Gioberti,
p. 79 e sgg. ziali al pensiero umano, e che si ritrovano in tutte le lingue.
Donde è chiaro che G. tiene per innate nel senso leibni ziano, di attitudini,
disposizioni, germi, coteste idee essenziali all'intelletto, quali sarebbero le
idee di corpo, spazio, causa, unità, numero, ecc .; comecchè tutta la sua
Ideologia sia una deduzione di queste e altre simili idee dalle sensazioni. Ma,
quali sono queste sensazioni o sentimenti portati costan temente da ogni uomo
in se stesso ? Se ogni uomo li possiede co stantemente, essi sono necessari,
essenziali costitutivi dello spirito. Lo spirito è questi stessi sentimenti. E
come potrebbe es sere altrimenti, se tali sentimenti devono servire alla
formazione di idee essenziali all'intelletto (facoltà conoscitiva in generale)?
G. dice, che essi sono i sentimenti « che in qualunque luogo, ed in qualunque
tempo modificano lo spirito di ogni indi viduo del genere umano. Dunque, essi
sono immanenti real mente allo spirito, nè questo si può concepire senza di
essi. Ora tal carattere nella filosofia del Galluppi compete solo ai senti
menti del me e del non me inscindibilmente legati fra loro, costi tuenti il
gran fatto, il Primo, dal quale deve cominciare la filosofia. Questo fatto è
universale per tutti gli uomini, per tutti i luoghi, e per tutti i tempi. Il
complesso de ' sentimenti racchiusi in questo fatto dee dunque riguardarsi come
essenziale all'umano intendi mento. Il quale, fornito della forza di analisi e
di sintesi, può con la sua azione feconda sviluppare da questi sentimenti e
così produrre tutte le idee che gli sono essenziali. Ma la stessa produzione è
essenziale, se i prodotti sono essenziali ; tal chè lo spirito, partendo
dall'indistinta e oscura coscienza del me e del fuor di me, non raggiunge il
grado dell'intelletto, se non per questa spontanea produzione che fa, mediante
l'attività ond'è for nito, delle idee di sostanza, causa, corpo, spazio, tempo,
unità, numero, ecc., di cui ha in sé i germi indefettibili. Intorno al valore
di questo virtuale a priori di G. si può esser tratti in inganno da certe sue
espressioni, dalla sua polemica contro l'innatismo, dal bisogno da lui così
spesso e for temente affermato dell'esperienza, che è esperienza sensibile,
come unica sorgente delle conoscenze reali . Ma bisogna attender bene al valore
della sensibilità nella teoria di G.. La sua sen sibilità è coscienza, è sentir
di sentire, è l'unità ancora indistinta di soggetto ed oggetto, che egli
concepisce come Primo attivo e [Saggio] produttivo ; di cui vedremo quanto si
gioverà a fondare l'ogget tività del conoscere . Ora, dato questo Primo
come coscienza sen sibile, egli non può ammettere più un intelletto opposto al
senso e ricco a priori di determinazioni dal senso indipendenti. Perchè
l'intelletto è uno sviluppo del senso e le sue determinazioni es senziali non
possono non essere contenute virtualmente nel senso insieme con l'attività che
possa dallo stato virtuale portarle al l'attuale, fecondandone i germi. E
questo è, come tutti sanno ora o dovrebbero sapere, il vero concetto dell'a
-priori kantiano, preparato dalle virtualità innate di Leibniz ; e in que sto
concetto il Galluppi evidentemente sorpassa e si lascia addietro il kantismo
volgare, com'egli l'intese e come tuttavia si vuol sostenere dai neocrịtici,
che concepiscono senso e intelletto in assoluta opposizione, in un dualismo
inconciliabile . Questo punto della filosofia di G. non è stato studiato e
apprezzato ancora abbastanza. La idea essenziale di G. corrisponde preci
samente all ' acquisitio originaria, con cui Kant define il suo a priori nella
famosa lettera a Eberhard, come l'idea accidentale all'acquisitio derivativa.
Sono idee acquisite le idee essenziali come tutte le altre idee ; ma esse sono
le acquisizioni originarie che la coscienza fa per la sua propria attività
salendo al grado del l'intelletto . 29. Fermata questa teoria, G. ha ragione di scrivere : « Io non ho ammesso
idee anteriori a ' sentimenti, in modo che non gli suppongano neppure come
condizione ; ma ho ammesso alcune idee essenziali all'intendimento, ed ho
stabilito questa dottrina sopra solidi fondamenti... lo nego le idee innate nel
senso di idee anteriori ed indipendenti assolutamente da' senti menti ; io le
ammetto nel senso di idee naturali, o d'idee per l'acquisto delle quali si
possiede una disposizione o virtualità naturale. E poichè così viene a dire il
medesimo del Kant bene inteso, a me pare che abbia pur ragione di soggiungere :
« Io dunque credo di aver trovato il mezzo di conciliazione fra i due sistemi
contrari su la formazione delle nostre idee » ; come è merito reale di Kant, che
naturalmente G. non poteva riconoscere, di avere operato siffatta conciliazione
del puro em pirismo e del puro intellettualismo. Il meglio che se ne sia detto
sono le tre pagine di SPAVENTA, nella sua mo moria Kant e l'empirismo, rist .
in Scrilti filosofici, Napoli, Morano Saggio. Per fare intendere meglio la
propria dottrina G. la raffronta a quella di Leibniz. Conviene con l'autore dei
Nuovi saggi sull’intelletto che lo spirito non è tabula rasa; che vi sono molte
idee, che lo spirito ricava dal fondo del proprio essere, meditando sul
sentimento di se stesso » ; non solo gli accorda che sono in noi queste
disposizioni e virtualità naturali, ma am mette certe modificazioni passive o
sia i sentimenti, che contengono i materiali o le condizioni di tutte le idee
naturali. E, dichia rando meglio la dottrina del Leibniz, ripete che riconosce
con lui esservi « molte idee essenziali all'intendimento, che l'anima non ha
bisogno di ricavare dalle impressioni de ' sensi esterni, ma che può ricavare
dal proprio fondo. Le idee sono innate come attitudini o virtualità naturali. E
questo ritiene anche G. « Ma io non mi contento di rimanermi in idee vaghe : io
determino le mie espressioni. L'anima nostra ha un'attitudine, una
preformazione naturale per alcune idee ; poichè : 1. ° ella ha originariamente
ed incessantemente i sentimenti necessari a for marsi tali idee; 2. ° questi
sentimenti sono i materiali delle idee, o le condizioni indispensabili per le
idee ; 3.0 l'anima ha origi nariamente nella sua natura le facoltà necessarie
per formarsi tali idee; 4. ° l’anima ha in sé originariamente la disposizione,
che pone in esercizio le facoltà elementari della meditazione. Data questa
dottrina, ch'egli ben dice non potrebbe esser contrastata dalla stessa scuola
di Locke, s'intende agevolmente perchè G. continui sempre, in tutte le opere
sue, a com battere l'a - priori kantiano, inteso come parte di conoscenza già formata
avanti all'esperienza ; esperienza, che era per lui, come vedremo, la sorgente
dell'oggettività, della realtà del sapere umano. La filosofia è essenzialmente
dommatica, egli ha detto ; e kan tismo per lui significava scetticismo, in
grazia appunto di quel l'a -priori soggettivo, anteriore ad ogni esperienza,
onde reste rebbe inquinata, secondo la teoria di Kant, tutta la conoscenza.
Pure riuscì anch'egli a certe idee soggettive, che ammise come costitutive
della conoscenza, e innocue, benchè soggettive, allá realtà di essa . Quali
sono cotali idee? Per rispondere a questa domanda bisogna dare un cenno delle
sue teorie dell'analisi e della sintesi. Queste due facoltà non sono soltanto,
come s'è visto, il fondamento di ogni giudizio, ma [Meditazione dice G.
l'analisi e la sintesi insieme.] il fondamento anche di ogni idea universale.
Giacchè ogni idea universale nasce dalla sintesi degli elementi comuni che
l'analisi discopre in più percezioni simili. L'analisi e la sintesi sono quindi
le forze produttive di tutto il conoscere. L'analisi precede ; segue la sintesi
. L'una si presenta sotto quattro forme : come atten zione propriamente detta,
quando lo spirito si ferma a considerare un solo degli oggetti fornitigli dal
senso, escludendo tutti gli al tri ; come attenzione parziale, quando lo
spirito contempla soltanto una parte dell'intero oggetto, che gli si
rappresenta ; come astra zione modale, quando lo spirito separa il modo dal
soggetto cui inerisce ; e come astrazione del soggetto, nel caso inverso, [La
sintesi è di tre specie : sintesi reale, quando lo spirito unisce ciò che gli
vien dato congiunto dalla esperienza, cioè la relazione tra il soggetto e le
sue modificazioni, o quella tra causa ed effetto ( epperò v'ha propriamente due
specie di sintesi reale) ; sintesi ideale oggettiva, quando scopre relazioni
logiche tra oggetti reali ; sintesi ideale soggettiva, quando scopre, come
avviene nelle matematiche pure, relazioni logiche tra idee nostre, non imme
diatamente forniteci dall'esperienza; cioè le relazioni tra le idee generali.
La siņtesi non può riunire se non per rapporti, le cui no zioni devono essere
possedute dallo spirito, a mo' di categorie . E alle quattro maniere di sintesi
corrispondono quattro nozioni di rapporti, le quali, per ciò che s'è osservato,
dovrebbero essere di lor natura tutte soggettive : e sono le nozioni di
sostanza, causa, identità e differenza ; idee essenziali all'intelletto umano,
« sem plici vedute dello spirito, le quali derivano dalla sua facoltà di
sintesi. Rapporto, come aveva notato il Laromiguière nelle sue Le zioni di
filosofia, è l'atto della comparazione o l'idea che risulta da questo atto . «
Ora se la comparazione, dice G., è una sintesi, e se il risultamento di questa
sintesi è un'idea che non [Elementi di psicologia; Saggio Saggio G distingue
ancora la sintesi immagi nativa come la facoltà di riuscire in una percezione
complessa, alla quale non corrisponda alcun oggetto naturalo, diverse
percezioni di cui ciascuna ha un oggette naturale fuori dell'attuale
combinazione ( Saggio, e Psicologia) . Ma s'intende cho questa sintesi non ha
valore teorico o conoscitivo, ma solo pratico od estetico . Saggio. Alcune
dello idee semplici, dice ivi più sotto, sorgono dall'attività sintetica e
queste sono i rapporti risulta da un'impressione, e che non ha percið un
oggetto reale al di fuori, segue che vi sono idee semplici, le quali sono sola
mente soggettive ed un prodotto della sintesi. Suppongono le sensazioni, ma
sono prodotti semplici dell'attività sintetica dell'in telligenza. Infatti
seguono, come ogni idea di rapporto, al para gone, che è un'azione dello
spirito . Pel paragone non basta che si abbiano nello spirito insieme due
percezioni : è necessaria l'a zione che riferisce l'una all'altra. Parrebbe
adunque, che le idee dei rapporti, queste vedute dello spirito, o modi della
sua attività sintetica, non differissero punto dalle categorie kantiane. Ma
l'autore afferma recisamente il contrario . Non vuole aver nulla di comune con
Kant; vuol fondare una vera filosofia dell'esperienza, e afferma come una delle
esigenze ineluttabili della filosofia, che la connessione fra le esistenze, per
cui è possibile la scienza, non deve essere una creazione dello spirito, bensì
un dato dell'esperienza; cioè del senso, che per lui, come vedremo, è norma
dell'og gettività del conoscere . Insomma, nota un suo critico, gli elementi
soggettivi ammessi da G. son sempre determinati da qualche cosa di reale che si
trova negli oggetti ; e Kant percið è scettico, G. no. Ed in verità esso, G.,
scrive che la stessa connes sione deve essere un dato dell'esperienza, quando
si tratta di og getti esistenti che dan luogo alla sintesi reale : e che questa
sin tesi « riunisce gli elementi reali di un oggetto reale ; e li riunisce
perchè li trova realmente riuniti. Così, dicendo : Io son sensitivo, riunisco
al me le sensazioni : ora tanto l'io che le sensazioni son cose reali, e
realmente le sensazioni son cose reali, c realmente le sensazioni sono unite al
me. Quest'unione non è dunque l'opera del mio spirito : io non posso fare altro
che conoscerla distinta mente . Questa sintesi copia dunque, dirò così, la
realtà delle cose, ed è per cid che io la chiamo sintesi reale. Or dunque,
queste idee di rapporti sono o non sono un pro dotto dell'attività sintetica
del soggetto? Qui, s'è detto, havvi una flagrante contraddizione. Sentire un
rapporto, secondo G. è un espressione assurda ; e la connessione delle
esistenze, che è un rapporto necessario, non si potrebbe sentire ; eppure si
deve . « Se fosse creata da noi cotestà connessione, scrive Fioren (Saggio Saggio
Saggio LASTRUCCI Saggio; cfr . Psicologia] tino, la realtà della scienza
sfumerebbe; e G., impaurito delle conseguenze, contraddice ai suoi principii .
Il nesso tra il me, sostanza, e le sue sensazioni, tra la sensazione e la causa
esterna, cotesto doppio rapporto è sentito . Ei non osa dire sen tito, e dice :
è dato. La questione è importante e merita ogni più seria considerazione. Prima
di tutto bisogna distinguere, come fa G., le due nozioni di causa e di sostanza,
da quelle di identità e diver sità. Le une sono un prodotto della sintesi reale,
le altre della ideale ; le une sono dei veri rapporti reali, le altre semplici
rap porti logici . Ora questi rapporti logici sono veramente creati dallo
spirito, nascono per l'attività di questo, sono idee dello spirito e nulla
fuori di queste idee. Di esse l’autore dice che « lo spi rito non riceve dal di
fuori questi elementi semplici ed essenziali delle sue conoscenze, ma li ricava
dal proprio essere, cioè li produce . Esse corrispondono appuntino alle
categorie kantiane . Nè vale opporre, come altri ha fatto, che anche questi
rapporti presuppongono l'esperienza, e ricevono da questa i termini, fra cui
intercedono . I termini fuori del rapporto, ho detto altrove, cioè prima del
rapporto, sono termini del rapporto ? E si badi che dell'esperienza G. ha un
concetto tutto kantiano, perchè essa consiste, secondo lui, nel giudizio, il
quale vede un rap porto fra i nostri sentimenti. Il solo errore del criticismo,
che ha de ' semi preziosi di verità, consiste nell’aver troppo generalizzato
riguardando « tutti i modi di connessione fra le nostre percezioni come
soggettivi, negando la sintesi reale, confondendo l'esperienza primitiva, cui
la sintesi reale dà luogo, con l'esperienza secondaria, scientifica e comparata,
che è produzione soggettiva della sintesi ideale . Dunque, a confessione di G
stesso, egli è schietta mente kantiano nella teoria della sintesi ideale, come
attività sin tetica generatrice delle due idee di rapporto, identità e
diversità, all'occasione delle sensazioni, che ne sono condizione indispen
sabile. (La filos. contemp. in Italia, Napoli, Morano Psicologia Saggio LASTRUCCI
G. (Saggio) non parla di esperienza, ma di sensazioni, supposte
cronologicamente como a condizione indispensabile » delle idee d'identità e
diversità. Saggio. Vedi anche Lettere filosof.
Soggettive pur sono le idee di causa e di sostanza . Ma G. distingue fra
soggettivo e soggettivo . V'ha, egli dice, il soggettivo rispetto all'origine,
e v’ha il soggettivo rispetto al valore ; e altrettanto dicasi dell'oggettivo.
Altra è la questione dell'origine delle conoscenze, altra è la questione della
realtà loro. « Io dichiaro, scrive l'autore, che per oggettivo in tendo ciò che
nelle nostre cognizioni deriva dagli oggetti che si conoscono, e per soggettivo
ciò che nelle stesse deriva dal soggetto conoscitore. Questi due vocaboli si
prendono ancora in un altro senso, quando si parla della realtà delle nostre
conoscenze: l'oggettivo dinota allora quell'elemento della nostra conoscenza, a
cui corisponde una realtà in sè, ed il soggettivo dinota ciò a cui non
corrisponde nessuna realtà. Dunque le idee di causa di sostanza sono soggettive
per l'origine, ed oggettive rispetto alla realtà, epperò si dicono relazioni
reali, laddove, quelle di identità e di diversità sono soggettive, e per
l'origine e pel valore, e son dette perciò semplici relazioni logiche . E però
resta fermo, che anche le idee di sostanza e di causa siano un prodotto
dell'attività sin . tetica dell'intelligenza, perchè da essa derivano ; il
senso è inca pace di darcele. Se non che esse, invece di avere un semplice
valore logico, hanno una corrispondenza nella realtà, pel nesso, che è tra la
sostanza e i modi, tra la causa e l'effetto. Ma G. dice che il rapporto della
sintesi reale ( sia di causa, sia di sostanza ) è dato dall'esperienza . Si, ma
devesi inten dere, dato rispetto alla realtà oggettiva di cotesto rapporto.
Dato in quel luogo di G., che pur bisogna metter di accordo con tutta la sua
dottrina, vale solo oggettivo (rispetto al valore). La difficoltà vera è la
seguente : come ciò che è soggettivo rispetto all'origine, può essere oggettivo
rispetto al valore ? Que sto è lo scoglio della filosofia della esperienza
propugnata da G.; ma è pur uopo notare i grandi sforzi fatti da lui per evi
tarlo. S'egli si fosse sempre ricordato dell'osservazione, dianzi ac cennata,
relativa alla comune definizione delle idee : che cioè non bisogna separare ed
opporre oggetto a soggetto, ove non si vo glia incorrere nello scetticismo, non
avrebbe avvertita nessuna dif ficoltà in questa questione della sintesi, circa
la soggettività della sua origine e l'oggettività del valore. Egli non avrebbe
concepito un'oggettività distinta dalla soggettività. Saggio. 43. Di
quell'osservazione fondamentale si ricorda certamente nella sua teoria
dell'oggettività di tutte le sensazioni, quando af ferma che la sensazione è la
intuizione dell'oggetto, e sog giunge: Per non far nascere equivoco in una
materia molto importante, io chiamo intuizione la percezione immediata dell'og
getto, in modo che l'esistenza della percezione supponga neces sariamente
quella dell'oggetto. Se ogni sensazione è di sua na tura la percezione di un
oggetto esterno al principio sensitivo, se quest'oggetto non è rappresentato
dalla sensazione, esso è dunque reale, come è reale la sensazione. La realtà
dunque del l'oggetto sentito mi è data dall'atto della coscienza; il quale mi .
dà la realtà della sensazione : ecco dunque la realtà esterna fra le verità
primitive di fatto ; ecco risoluto uno dei problemi fon damentali nella critica
della conoscenza (Saggio) . In tutta la teoria dell'oggettività del conoscere
si può dire adun que, che G. confermi ciò che aveva detto fin dal primo
capitolo del suo Saggio circa la coscienza, o conoscenza prima, conoscenza del
me e dei suoi modi ; coscienza fatta consistere appunto in un'intuizione
immediata, tale che « fra questa perce zione e gli oggetti percepiti non v'ha
alcun intervallo. Pare che per tutta la sfera della conoscenza immediata ei sia
disposto a chiedere, come aveva chiesto infatti a proposito della comune
definizione delle idee in generale. Se gli oggetti, se la regione
dell'esistenza son separati dallo spirito, chi getta un ponte per passare dal
pensiero all'esistenza, all'oggetto?
Argomento insolubile, com'egli dice, ai filosofi dommatici. Senso ed oggetto, sia che si tratti di senso
intimo o di senso esterno, non si possono scompagnare. Il senso è la misura
adeguata e sicura della realtà, comecchè il dato del senso debba poi venire
elaborato dalla forza analitica e sintetica dello spirito onde si perviene alle
idee e a'giudizi. Il senso costituisce, per le idee e i giudizi cui dà luogo,
l'esperienza primitiva o imme [G. non ammette l'incosciente. La scuola di
Leibniz ammotte delle percezioni di cui non si ha coscienza : alcuni Allosofi
adottano questa opinione ; ma molti altri, co' quali io son d'accordo, non
ammettono alcuna percezione, di cui non si abbia coscienza. Non si può
percepiro alcun oggetto come un fuor di me, senza perco pire il me, poichè la
percezione di un di fuori è ossenzialmente la porcezione di più oggetti ; se
non vi ha due oggetti, non vi è un di fuori. Se la percezione di un ſuor di me
non è possibile senza quella del me, segue che non possono esservi nello
spirito delle percezioni senza osser sentite. Elem . di psicologia] diata;
immediata rispetto all'oggetto, in cui s'appunta imme diatamente nella
intuizione. Dall'esperienza primitiva va distinta poi la comparata, o derivata
o secondaria, la quale consta dei giu dizi d'identità o diversità che noi
portiamo sulle idee offerteci dalla primitiva esperienza : giudizi d'un valore
puramente logico e soggettivo . I giudizi della esperienza immediata hanno per
og getto gl'individui. Questa acqua ha la qualità di estinguer la sete . Questo
calorico liquefà la neve vicina . Sono giudizi particolari, che non si possono
generalizzare, nè possono costituire l'esperienza secondaria, fondamento delle
scienze, se con le impressioni sensibili, coi dati oggettivi non si combinano
quegli elementi soggettivi, che sono le due vedute dell'identità e diversità .
Per dire la propo sizione generale : l'acqua estingue le sete, - io devo, in
seguito alle successive esperienze delle varie acque che m'hanno estinto la
sete, comprendere sotto una nozione generale tutte queste acque, e le azioni
loro di estinguer la sete ; il che significa che lo spirito dee vedere un
rapporto d'identità fra questi soggetti particolari e fra le loro particolari
qualità; rapporto d'identità che il senso non mi può fornire ; perchè esso non
mi dà che successivamente le singole acque. Della scienza si potrà dire
giustamente che è una costru zione soggettiva per mezzo dei materiali offerti
dalla esperienza primitiva. G., in verità, non può attribuire altro valore che
questo, che è il kantiano, alla scienza. Se la conoscenza vera della natura ci
vien fornita dalla scienza, anch'egli deve dire cnl Kant, che lo spirito,
legando gli sparsi caratteri datigli dal senso, costruisce il gran libro dalla
natura . Eppure.egli ritiuta (Saggio) una tal soluzione. « La distinzione delle
due esperienze, egli dice, è della più alta importanza, per determi nare il
valore delle nostre conoscenze. È della più alta importanza, perchè se i
rapporti di sintesi ideale nell'esperienza derivata sono soggettivi, quelli di
sintesi reale nell'altra espe rienza sono essenzialmente oggettivi; in questa
esperienza (pri mitiva ) l'esistenze son date allo spirito : egli ne è
spettatore, e non il conoscitore : una connessione fra l'esistenze gli è anche
data : egli dee conoscerla, non ispiegarla o comprenderla. Ma questa
distinzione non tocca punto la soggettività della scienza, in quanto prodotto
della sintesi ideale ; anzi la conferma. G. [Saggio] nella epistemologia è un
kantiano puro. Checchè egli ne dica, tale è la sua dottrina. Ed ecco la
stridente contraddizione cui lo condusse il suo voluto sperimentalismo. La
scienza, la parte più certa della cono scenza, è soggettiva ; e la conoscenza
sensibile è di sua natura oggettiva; che, per lui, è come dire che la scienza è
rosa dal tarlo dello scetticismo, laddove l'esperienza sensibile è certa e
reale . Le conoscenze necessarie ed universali, che sono il pernio di ogni
specie di conoscenze, hanno un valore puramente logico, e le conoscenze
contingenti e particolari sono reali . Il che avrebbe dovuto condurre G. al più
schietto nominalismo ; perchè se le nostre conoscenze veramente oggettive, sono
quelle dateci dai giudizi particolari dell'esperienza immediata, sfuma la
realtà dell'universale . E un realista G. certamente non Egli combatte tuttavia
l'empirismo nominalistico di taluni seguaci del Locke, come l'Helvetius, i
quali negano le idee universali, asse rendo che quelle, che tali appariscono,
non sono se non termini generali, vocaboli vôti di senso . « Perchè, dice G.,
al ve dere un uomo che non abbiamo giammai veduto, noi diciamo è un uomo ? Se
non avessimo un'idea universale di questa specie, come vi rapporteremmo
quest'individuo? L'esistenza delle idee universali nello spirito è talmente
attestato dalla intima coscienza, che si dura fatica a supporre che vi sia
stato chi l'abbia contra stata » (Saggio) . Nè anche Locke, secondo G., nega le
idee universali ; e come Locke egli è concettua lista . Siamo sempre lì : la
cognizione universale, scientifica ha sì un valore, ma un valore logico. E al
Rosmini, che gli dichiarava in una sua lettera di non vedere « come dal
soggetto possa venire l'universalità e la neces sità delle cognizioni . Il
soggetto è essere particolare e contingente, e non può produrre un effetto
maggiore di sè » ; egli rispondeva, che la necessità che ha luogo nelle
cognizioni, è una semplice « legge logica del pensiero umano, da non
confondersi con la ne cessità metafisica; legge logica espressa dal principio
di contrad dizione, e, come ogni altra modificazione dell'anima nostra, me
ramente soggettiva . E aveva un bel ribattere il Rosmini, che la necessità
logica e la necessità metafisica non sono in fondo che una sola necessità ( in
questo punto è tutta la novità, non pic Cita il
Saggio, dove Locke spiega la gonesi delle idee universali.] cola, – di
SERBATI verso G.) : « Io non suppongo mica, replicava G., che vi sia una
necessità metafisica distinta dalla necessità logica ; ma solamente combatto
quei filosofi che riguardano quella necessità, che è meramente logica, come una
necessità metafisica, che trasformano la prima nella seconda. L'origine di tal
necessità logica mi sembra già determinata ; essa è nella natura del soggetto
noi non dobbiamo cercarne la causa efficiente, ma arrestarci alla causa formale
di tal neces sità. La sua scienza, perciò abbiamo detto altra volta, come
quella di Kant, s'è chiusa nella cerchia invalicabile del fe nomeno; sicchè
egli riesce, per la scienza, a quel criticismo che voleva correggere . Gli
sarebbe bastato estendere la - sua teoria della sensibi lità o meglio
dell'esperienza primitiva alla esperienza secondaria . Non l'ha fatto, perchè
gli premeva salvare la realtà del mondo esterno ; e così s'è messo in
disaccordo con se stesso, accoppiando al criticismo puro dell'epistemologia il
più crudo dommatismo nella gnoseologia. I due elementi in lui non si fondono, e
un'in tima contraddizione travaglia tutta la sua filosofia. 49. Infatti ammessa
giustamente come soggettiva l'origine della nozione che abbiamo della
connessione reale delle cose ( come sostanza o come causa, sussistenza, egli
dice per lo più, ed effi cienza ), il valore oggettivo delle medesime non può
essere e non è infatti in G., che una semplice affermazione dommatica. La
percezione del me è la percezione di un soggetto con le sue modificazioni.
Sicchè, egli dice, nella coscienza del me, – che è il principio della nostra
filosofia, è data « 1. ° la connessione fra la percezione e l'oggetto ; 2.º fra
il soggetto e la modificazione ; 3." fra la causa e l'effetto, il che vale
quanto dire, che in questo fatto primitivo ci è data la base della filosofia, e
la realtà delle nostre conoscenze. Su per giù, è sempre questa la dimostra
zione data da G. della realtà delle connessioni tra sostanza e modi, tra causa
ed effetto. Le connessioni sono reali, perchè il me, termine reale della
coscienza è soggetto (sostanza ) di modifi cazioni, e queste modificazioni a
lor volta sono effetto dell'azione del mondo esterno . Ma i termini noi
possiamo percepire, non i rapporti: e i termini in quanto connessi nel loro
rapporto non pos siamo percepirli, se non applicando ad essi quelle nozioni di
rap Rosmini e Gioberti. Saggio.] porto, onde già dobbiamo essere forniti. Chi
ci garantisce che i rapporti, che con queste nostre vedute, di origine
soggettiva, noi scorgiamo tra i termini percepiti, abbiano un fondamento ogget
tivo ? Chi ci costruisce questa volta il famoso ponte di passaggio dal soggetto
all'oggetto ? Chi ci sottrae a quell'argomento inso lubile ? Il dommatismo è
evidente. C'è un passo, nel terzo libro del Saggio, contro la sin tesi a priori
di Kant, che merita qui speciale considerazione. Il filosofo di cui parliamo, –
scrive G., ha confuso l'operazione sintetica co'suoi prodotti, che sono le
percezioni del rapporto fra le idee paragonate. Allora che lo spirito rapporta
un termine della relazione all'altro, egli esegue una sintesi, la quale è il
principio efficiente che pone un termine rapportato. Lo spirito nel termine
rapportato vede un rapporto, ed esegue con ciò un'analisi, indi unisce questo
rapporto, che aveva separato dal termine rapportato allo stesso termine, e
compie il giudizio. Lo spirito, prima della comparazione, non aveva che il
termine della relazione : dopo la comparazione ha un termine rapportato :
l’atti vità sintetica ha dunque posto dal suo fondo, nel termine della
relazione, il rapporto, e questo rapporto è un elemento sogget tivo aggiunto
all'oggettivo. Quale che sia il valore di questa osservazione contro il
giudizio sintetico a priori ( io non credo che ne abbia alcuno ; chè il
giudizio è già avvenuto con quella prima operazione dell'attività sintetica,
che consiste nel rapportare i termini), certo è notevole e giusto il concetto
del soggettivismo dei rapporti accennato qui dall'autore; ma vi apparisce pure
evidente falso concetto che ei s'è formato dell'oggetto. Termine e termine
rapportato son cose differentissime; il primo è un dato, il secondo è il
prodotto di quel principio efficiente, che è la sintesi. Ma il termine è
termine in quanto è termine rapportato ; sicchè il termine si può dire che
venga posto, rità, dall'attività sintetica dello spirito . E questa è la
dottrina di Kant. Ma se il Galluppi ne avesse piena consapevolezza, non do
vrebbe dire, che lo spirito PRIMA della comparazione non aveva che il termine
della relazione. No, non aveva niente : non c'è prima il termine, l'elemento
oggettivo, a cui dopo venga ad ag giungersi l'elemento soggettivo, il rapporto
: termine e rapporto nascono ad un parto, nè lo spirito può percepire il
termine della relazione, senza il rapporto, nè questo rapporto è nulla di
concreto fuori dei termini ai quali viene applicato . Questo prima e questo
dopo, di cui parla G., accusano quella separazione di oggetto e soggetto,
quella opposizione da lui già criticata come punto di partenza donde non sia
dato arrivare a una conoscenza certa. Sicché, anche per le nozioni di identità
e diversità ( alle quali, s'intende, egli si riferisce nel passo ora citato) G.
si di batte nelle strette della soggettività, come qualcosa di differente e
assolutamente opposta a quella oggettività, che s'era proposto di fondare
contro il criticismo kantiano. Ma le sue velleità empi ristiche rompono sempre
in quel principio fondamentale della co scienza di sè, preso dalla filosofia di
Cartesio, onde si nutrì, come abbiamo notato, la mente di lui nel suo primo
periodo speculativo. E la conclusione del Saggio filosofico è che tutti i
motivi dei no stri giudizii (senso intimo, sensi esterni, evidenza, memoria,
razio cinio e testimonianza degli altri uomini) « hanno per motivo me diato ed
ultimo il senso intimo » : e quindi « tutta la scienza dell'uomo riposa su la
base unica della coscienza di se stesso, e chiunque tenta di toglier questa
base è indegno, che si ragioni con lui ; poichè non si ragiona col nulla. E
così nella chiusa delle Lettere filosofiche. Io ho poggiato – dichiara l'autore
su la veracità della coscienza la veracità di tutti gli altri nostri mezzi di
conoscere ... ; non si può supporre la veracità di alcun mezzo di conoscere
senza supporre la veracità della coscienza, e supponendo la veracità della
coscienza, la veracità di tutti gli altri nostri mezzi di conoscere segue
necessariamente. Così, secondo me, l'aliquid inconcussum è nella coscienza, ed
essa è la base di tutto il sapere umano. Ma se si ricordasse sempre, che
principio e aliquid incon cussum è la coscienza, G. non dovrebbe parlare mai di
quella oggettività indipendente dal soggetto, alla quale vuol ripor tare le
relazioni di sostanza e di causalità ; e in verità non riesce a scoprirne che
una origine soggettiva e a darne una giustifi cazione, come s'è visto, fondata
unicamente sul sentimento del me. Si potrebbe dire, che egli parla di un
oggetto soggettivo for nitoci dalla sensazione, che da lui è detta di sua
natura oggettiva . Egli, infatti, rigetta la distinzione di qualità primarie e
secondarie, come arbitraria e falsa, e sostiene che tutte le nostre sensazioni [Saygio]
soggettive, nè più nè meno di quel senso del tatto, in cui Condillac indicava
il filo d'Arianna col quale si potesse uscire dal labirinto della soggettività,
« convengono in ciò, che tutte sono le percezioni di un soggetto esterno ; son
differenti, poichè sono i modi diversi di percepir questo soggetto : questi
modi diversi di percepirlo costituiscono per noi le diverse qualità degli
oggetti esterni, le quali sono perciò i diversi rapporti di questi oggetti con
noi; e che, « qualunque ipotesi si adotti su la natura de ' corpi, è
incontrastabile che il mondo dei corpi non esiste nel modo in cui ci apparisce
; e che noi non conosciamo dei corpi se non le qualità relative », talchè il
pensiero bensì è una realtà in sè, « ma l'estensione non è almeno certo se sia
una realtà o un fenomeno e addirittura « la conoscenza che noi abbiamo de '
corpi è meramente fenomenica . E però G. non può parlare se non di un oggetto
soggettivo, di un oggetto termine essenziale del soggetto. Ma allora perchè
contrapporre oggetto a soggetto, e sin tesi reale a sintesi ideale? Siamo
sempre nella sfera del soggetto, e l'attività sintetica dello spirito darà
luogo sempre a una sin tesi ideale . Dov'è il punto di separazione tra la res e
l'idea ? Non rampollano entrambe dalla coscienza di se? Per metter d'accordo G.
con se stesso dovremmo dire, che quello che ei dice sintesi reale e sintesi
ideale non siano se non due gradi della sintesi soggettiva, qualche cosa di
simile della sintesi di primo e di secondo grado, che Spaventa e Tocco han
rilevate in Kant. Vale a dire, bisognerebbe anche la sintesi reale ritenere
pura operazione soggettiva; ma non tanto soggettiva quanto la ideale, perchè
l'una si esercita su una relazione che la coscienza, questo ultimo motivo,
questa. norma suprema della verità, attribuisce al mondo esterno, lad dove
l'altra non ragguaglia che termini aventi un valore logico. La sintesi reale
coglie, diciamo così, i rapporti degli individui, in cui, secondo G., consiste
la realtà; la sintesi ideale coglie, invece, i rapporti che intercedono tra le
idee generali, già formate per la forza analitica e sintetica dello spirito. Di
modo che la materia della sintesi reale è oggettiva, nel senso che di Elem. di
Psicologia. Non vi ha fenomeni nel santuario del mio essero, dice G., Saggio,
Saggio] cemmo poter avere per G. l'oggetto; e la materia della ideale è una
pura formazione soggettiva. E se la coscienza ha da es sere sempre la fonte
della verità, se noi non possiamo parlare di altra verità, se non di quella che
tale apparisce alla coscienza, i rapporti che si scoprono dall'attività
sintetica nella materia og gettiva saranno rapporti reali, e si potrà pur dire
che siano og gettivi pel valore ( poichè il valore è attestato dalla
coscienza); e i rapporti che dalla stessa attività sintetica si scoprono nella
materia soggettiva, non possono avere più che un valore logico, perchè sono
rapporti di concetti, ci concetti nel concettualismo di G. non sono reali. Alla
coscienza i rapporti appariscono tali quali appariscono i termini che essi
connettono; fra termini oggettivi, rapporti reali; fra termini astratti e
soggettivi, rapporti ideali. I termini infatti non possono essere percepiti per
quel che sono, se non coi loro rapporti, coi quali e pei quali vengono ad
essere quei dati termini. Ma allora non bisogna separare la facoltà
dell'analisi e della sintesi da quella della sensibilità (o coscienza ), come
fa G.; perchè la sensibilità come tale non potrà mai percepire un rapporto,
come bene avverte G. stesso. Allora bisogna andare molto più addentro, che
questi non sia andato, nel concetto dell'unità del me. Certo è che G., mosso a
scrivere il suo Saggio, che è la sua opera capitale, dal bisogno di assodare la
realtà del conoscere contro la critica di Kant, non riesce a distrigarsi dal
soggettivismo nella epistemologia; e nella gnoseologia vi riesce solo
contrapponendo al criticismo kantiano un oggetto, che non è tale se non per un
dommatismo preso dalla coscienza volgare, e che non può non metter capo nella
tesi scettica del criticismo, appena venga innanzi alla riflessione
scientifica. La sua stessa critica perpetua di Kant, e quell'oscillare continuo
tra le lodi più sincere e il biasimo più acerbo del criticismo, dimostrano
l'acutezza del suo spirito, che intende la gravità del problema sol [SERBATI scrive
al p. Giacomo Maso et Roma: Pare a lei che la filosofia di G. è veramente sana?
Noti bene, non metto in dubbio le intenzioni dell'ottimo calabrese, a cui
professo sincera stima. Parlo solo della sua filosofia. Di questa dubito, o
piuttosto non dubito; perocchè agl’occhi miei ella si volge in circolo perpetuo
dentro al soggetto-uomo, e nel soggetto-uomo non vi ha nulla d’immutabilo:
manca il punto fermo a cui appoggiare la leva. Vedi La Sapienza] evato dal
Kant, e insieme la sua impotenza ad uscire da quel cerchio sconfortante segnato
dal filosofo di Koenigsberg attorno allo spirito umano; l'impotenza in cui
rimase per non essere salito al concetto adeguato di quella coscienza, che è il
primo della sua costruzione filosofica. E dopo quattro libri di discussioni, di
polemiche contro quei filosofi, trascendentali, che non si sa se siano filosofi
che ragionano, oppure frenetici che delirano, il saggio filosofico finisce
anch'esso nella tristezza del mistero: La scienza umana è limitata. Essa può
successivamente perfezionarsi. Ma essa non può oltrepassare certi limiti. Non è
più reciso l'ignorabimus di Reymond. E il primo limite dello spirito umano,
secondo G., è questo: noi abbiamo una nozione generale della sostanza, ma noi
non conosciamo affatto la natura, o come suol dirsi, l'essenza di ciascuna
sostanza in particolare. E fin qui ha ragione Kant. Secondo limite: ignorando
le prime sostanze, ignorar dobbiamo il come le cause efficienti producono i
loro effetti; e l'efficienza è per noi un mistero. Dunque nè anche nel ritener
soggettivo il rapporto di causalità ha poi un gran torto Kant! Ma tutto quello
che è incomprensibile, non è mica assurdo, avverte G.; e questo basta a salvare
la creazione. Terzo limite: noi ignoriamo affatto le qualità assolute de’primi
componenti de'corpi; noi conosciamo alcune qualità relative di alcuni aggregati
delle prime sostanze della materia. I corpi non sono tali quali a noi si
manifestano. E questo, in verità, è un po ' più di quel che sostiene Kant: pel
quale, se il NOUMENO va distinto dal fenomeno, appunto perchè ignoto, non si
può dire che differe dal fenomeno stesso. Differe? Non differe? Se a queste
domande si desse una risposta, non si ha più un noumeno. Qui, dunque, G. è più
kantiano di Kant. Quarto limite: la conoscenza importa successione, processo,
passare da un principio a ciò che ne procede : ma Dio è ne [Passo del Saggio
che CREDARO raccomanda a coloro che fanno di G. un kantiano; ni kantismo in
Romagnosi, Riv. ital. di filos.Vedi il celebre opuscolo Ueber d. Grenzen d .
Naturerkenntniss, Lipsia; e LANGE, Gesch. d . Materialismus, Iserlohn Saggio Saggio,
lui gazione assoluta di ogni successione: in questo essere infinito non vi è
alcuna cosa che precede l'altra; perciò la sua natura ci è perfettamente
inesplicabile ed incomprensibile. I metafisici intanto non si credono tutti
incapaci di comprendere la natura divina; ma uno di essi, e de' più moderati, GENOVESI
(si veda), avendo tentato, per esempio, di concepire in che modo questo mondo è
architettato dal divino progenitore, non è riuscito che a una spiegazione
contraddittoria. Il volere spiegare l'atto creatore intelligente è una
contraddizione; poichè è un supporre qualche cosa antecedente a (come GENOVESI
(si veda) è costretto a porre nel divino progrenitore prima l'essere e poi il
conoscere, prima il conoscere e poi il volere o l'operare. Questo è
incomprensibile, e lo scrutatore della divina maestà resta oppresso dalla sua
gloria proposizioni che non hanno forse il rigore scientifico della dialettica
trascendentale, ma che riescono, mi pare, al medesimo risultato. Che più? Kant
riconosce come tutti i filosofi il grande valore delle matematiche; ma anche in
esse G. trova dei limiti. Noi conosciamo esattamente, egli dice, le relazioni
logiche tra le nostre idee astratte; e ne son prova l'aritmetica e la
geometria. Ma noi non conosciamo tutte queste relazioni, perchè il loro numero
è inesauribile; e la conoscenza di queste relazioni non si estende quanto le
nostre idee. La nostra scienza è percið molto limitata sotto tutti i riguardi
egli conclude: ed è la conclusione del Saggio intero, vale a dire della sua
filosofia sperimentale. Questo mi pare criticismo schietto, sufficiente di
certo a fare ascrivere G. alla direzione kantiana, pur con tutte le sue più o
meno ragionevoli invettive contro il soggettivismo di Kant; se anche Testa, che
altri dice l'unico kantiano che abbia avuto l'Italia, è pur persuaso che Kant,
distruggendo il sensismo, non fosse riuscito a sostituirvi altro che un sistema
soggettivo che distrugge la scienza verace. Molto ha contribuito a mascherare
il kantismo galluppiano, e ben più che le sue dichiarazioni e le sue proteste,
che non [Vedi il capo X ed ultimo del lib. IV del Saggio . CREDARO, Testa e i
primordii del kantismo in Italia, Rendic. Acc. Lincei. Vedi dello stesso
CREDARO Il kantismo in Romagnosi (Riv. it. d. filos.), dove si oppone a chi fa
di G. un kantiano, uno dei soliti passi del Saggio contro il trascendentalismo.
Come scrive nel suo ultimo libro La mente di Taverna, Genova hanno o non
dovrebbero avere molto valore per la valutazione del critico, alcune speciali
dottrine, che basta accennare brevemente. E in primo luogo: rifiuta nientemeno
che la stessa sintesi a priori, che è come dire il nocciolo sostanziale del
kantismo. La distinzione che la scuola trascendentale pone fra i giudizii
analitici ed i giudizii sintetici a priori è assurda. Queste son parole di G..
E qui non si tratta di una semplice affermazione. C'è anche la prova. Se le due
idee A e B non hanno alcuna identità fra di esse, lo spirito non può
riguardarle che come distinte, e senz'alcun legame fra di loro: è impossibile,
dunque, ch'egli vi percepisca un rapporto necessario di convenienza fra di
esse: dire in conseguenza che lo spirito dee percepire necessariamente un
rapporto di convenienza fra due idee diverse è affermare che lo spirito puo
pronunciare una contraddizione evidente. Tutt'i giudizi necessarii debbono, in
ultima analisi, risolversi nel principio di contraddizione: essi son dunque
tutti analitici, ed i giudizii a priori non possono essere che necessarii.
Ammettere dei giudizi necessarii non poggiati sul principio di contraddizione è
un assurdo manifesto. Se lo spirito non vede alcuna contraddizione nell'opposto
di un suo giudizio, egli non può certamente riguardarlo come necessario. I
giudizi sintetici a priori non possono dunque esistere. Somiglia non po’, a dir
vero, al ragionamento di quel tale aristotelico restio agl'inviti di GALILEI
(si veda) di guardare attraverso il cannocchiale. Ma è il ragionamento di G.; e
questo basta allo storico, il quale dirà che il filosofo di Tropea, chiuso nel
cerchio della logica formale e nel ferreo apriorismo delle sue regole, non puo
ammettere e non ammise il risultato principale della Critica kantiana, che è la
sintesi a priori. In effetto, egli dice negl’elementi di logica pura, un
principio sintetico, puro, a priori come Kant lo suppone, è una cosa contraria
alle nozioni fondamen tali di una sana logica. Infatti, egli soggiunge,
prescindendo dall'esperienza, nella sfera delle mie idee, io non posso unire B
con A, se non riconoscendo che B è uguale ad A, o ne fa almeno parte. Che se B
eccede A in estensione in valore, come potrei attribuire ad A, come sua
proprietà, tale eccedente di B, non ritrovato in A? Saggio. Così la critica del
Saggio è confermata negl’elementi con esplicito appello alle leggi della logica
formale, per la quale certamente non è possibile la sintesi a priori kantiana,
perchè l'identità non è conciliabile colla differenza, e se la necessità
richiede l'identità, rifugge dalla differenza. È inutile mostrare il valore
della critica galluppiana, fondata come quella di Degerando con cui va
raffrontata, e quella stessa di SERBATI, sopra l'intelligenza della sintesi a
priori de sunta dalla sola Introduzione alla Critica della ragion pura (nella
2.a edizione) coi famosi esempii: 7 + 5 12 ecc. Giova piuttosto ricordare che
la vera sintesi a priori non con siste propriamente nell'unione di predicati a
soggetti, onde siano già belli e formati i concetti; bensi nella formazione
medesima dei concetti: problema, di cui non s'accorse affatto G., a proposito
di Kant, ma riproduce, del resto, e risolve egualmente nella sua teoria
dell'analisi e della sintesi, che, munite dei rapporti soggettivi dell'identità
e diversità, servono anzi tutto alla formazione delle idee, e nella sua teoria
del giudizio, essenzialmente distinto dal sentire, e necessario alla percezione
di qualsiasi rapporto. Questa della sintesi a priori è uno dei motivi
prediletti della critica italiana intorno alle dottrine del Kant, e ricorre
spesso nei saggi di G. Ma non è la sola teoria kantiana che egli [Ma, so
sintesi a priori e logica formale sono assolutamente inconciliabili, non
bisogna conchiudore: dunque, aut aut: o si rifiuta la sintesi a priori, o si
rifiuta la logica formale. Su questo punto si fa molta confusione. Vi torna su
in un lavoro; qui vuole solamente aggiungere, che la dottrina della sintesi a
priori fa parte della teoria della formazione delle conoscenze; laddove la
logica formale studia i rapporti delle conoscenze già formate o delle
conoscenze in sè; e notare, che, se il pensiero non ha da essere un quissimile
del vano lavoro delle danaidi, non s'ha da far consistere solo in un
accroscimento delle conoscenze, ma anche in un'intuiziono delle già acquisite.
Un anonimo nota in un opuscolo molto arguto e tagliente contro il nuovo
professore dell'università che le belle ed acute riflessioni, con cui G.
combatte negl’elementi della logica pura il giudizio sintetico a priori, sono
tolte da LAROMIGUIÈRE, Leçons de philos. Vedi : Degl’lementi e della Introd. allo
studio della filos. del celebre Bar. Galluppi, giudizio dato all'editore da un
suo amico, Napoli, De Bonis. L'opuscolo reca di Napoli. Scritto con molta
vivacità e castigatezza di lingua, rimprove a G. l'inesattezze di certi suoi
esempii presi dalla geometria e dall'algebra, l'ignoranza in generale delle
scienze fisiche e naturali, la scarna o niuna cognizione dei classici antichi
combatta. Anzi, non v'è quasi teoria esposta nella critica della ragion pura
che venga risparmiata nel saggio galluppiano e nelle parti delle altre opere
che ne dipendono. Lo spazio, il tempo, le categorie, lo schematismo, la
dialettica trascendentale gli offrono materia di lunghe e energiche
discussioni, il cui scopo è sempre la confutazione di Kant. Aggiungi le
frequenti proteste contro il trascendentalismo e l'idealismo, che per G.
equivalgono allo scetticismo, proteste nelle quali G. unisce a Kant Fichte e
Schelling, per quel poco che ne puo conoscere da traduzioni o esposizioni
francesi; ed è evidente che il lettore sbadato e il critico ottuso non
potessero e non possano vedere il filosofo di Tropea che agl’antipodi di quello
di Koenigsberg. Il vero è che per
un'esatta intelligenza delle dottrine di questo, il primo incontra
insormontabili difficoltà nei limiti della sua cultura; la quale non si estende
oltre la letteratura filosofica italiana e francese e alle traduzioni (allora
pochissime e affatto insufficienti) che ci sono in queste lingue delle opere
tedesche. Quello che puo intravvederne indirettamente, è naturale che gli dove
riuscire oscurissimo, e restargli innanzi con tali lacune, che s'egli ne ha
coscienza, non è certo provato alla critica della filosofia tedesca. Egli,
scrittore chiarissimo e pensatore analitico per eccellenza, manifestamente
soffre nello studio che puo fare di quegli scrittori. Nella critica di Fichte,
sforzandosi d'intendere il vero signifi della filosofia, la leggerezza
nell'appigliarsi alla moda francese, e quindi la pedanteria e confusione del
metodo analitico imitato dagl’ideologi, e perfino i barbarismi e l’improprietà
di espressione. L'opuscolo pare fa una certa impressione. Galluppi risponde col
silenzio. Ma i suoi pupilli con due opuscoli: D’un giudizio dato d’ignoto
giudice sur alcune parole del chiarissimo B. P. G. appella MORENO, Napoli,
Trani; Al giudizio dato d’un anonimo su talune opere del chiarissimo P. G.
risposta di PISANELLI, Napoli, Ruberto o Lotti. Curioso l'opuscolo di Pisanelli
nella parte in cui difende G. scrittore, per l'enfatica digressione che vi è
contro il purismo. Per questa parte invece Moreno riconosce che G. non è puro
elegante e gentil dicitore; il che non toglie ch'ei è, alla sua volta, pessimo
scrittore. Vodi le Considerazioni filosofiche sull'idealismo trascendentale e
sul razionalismo assoluto, Napoli. Di Schelling non pare che conosce nulla di
originale, all'infuori della trad. francese di Bruno. Di Fichte cita la trad.
francese della Bestimmung des Menschen.] cato della costui dottrina dell'io
puro, dichiara ai colleghi del l'Accademia francese. Qui l'oscurità alemanna
comincia ad affliggermi. Io che non amo ne' discorsi filosofici, se non che la
chiarezza e la precisione, son qui circondato dalle più dense tenebre. E
termina la sua memoria invocando le regole wolfiane De stylo philosophico, e
domandando agl’amici della verità e del progresso della filosofia, se lo
scrivere i trattati filosofici in un modo più oscuro di quello, in cui è
scritta la teogonia d’Esiodo, è esso un segno di progresso verso la verità o
pure verso l'errore. Altri più recentemente si son lagnati dell'oscurità di
alcuni scrittori filosofici, e si son levati in difesa del bello stile. Ma,
come nel caso di G., molto spesso l'oscurità che si vede negl’autori, non
dipende da un loro difetto, sibbene dalla insufficienza nostra a intenderli;
chè nessuno è chiaro a chi non sia preparato e non procuri in ogni modo e con
ogni mezzo d'intendere. Comunque, la dottrina di G. è cosa ben distinta e
diversa dalla sua intelligenza e dalla sua critica di Kant; e della prima è
indubitabile che s'ispira a Kant e non riesce a risultati essenzialmente
differenti. In sostanza egli è più kantiano di Kant. Questi, criticata la
ragion pura, nega il valore scientifico, oggettivo, della metafisica, ma le
riconosce un ufficio regolativo [CF. STRAWSON, PROFESSOR OF METAPHYSICAL
PHILOSOPHY], e scrive una metafisica della natura come una metafisica dei
costumi. Ma G. si rinchiude in un assoluto psicologismo, per usare parola
giobertiana; e, pienamente conseguente alla sua filosofia dell'esperienza,
tiene fermo alla dottrina dei limiti della scienza umana; e alla metafisica
sostituisce l'ideologia. La sua cattedra ufficiale è di logica e METAFISICA. Ma
egli nella Prolusione annunzia che tratta della filosofia teoretica, ossia
della scienza dell'umana scienza, e da pertanto la legislazione suprema di
tutte le scienze. La metafisica tratta, egli dice, delle idee essenziali
all'umana ragione. Nella prima lezione rifiuta la definizione della filosofia
data da Wolf, sostenendo che egli volle una [Ricordo per semplice curiosità che
sostenne il kantismo di G. RoDRIQUEZ, Lett. sulla filos. sogg . ed oggettiva DEL
BARONE G., Messina; cui rispose SIMONETTI, Analisi critica della Lettera ecc.
Napoli, Fernandes, Lezioni di log . e METAFISICA] definire piuttosto l'infinita
sapienza conforme a quel suo enunciato che Deus est philosophus absolute
summus, e attribuendo alla filosofia wolfiana il difetto ascrittole appunto da
Kant, di confondere la cosa con l'idea della cosa. Nella seconda lezione
commenta il suo concetto della filosofia come scienza del pensiere umano ne’suoi
elementi, nelle sue funzioni e nelle sue leggi; nozione, fa notare, della più
alta importanza. Prevede la possibile osservazione. Ma è il pensiero il solo
oggetto della filosofia? E la ontologia, la cosmologia, la teologia naturale,
la fisica? Queste scienze, risponde G., in parte si riducono alla ideologia,
scienza del pensiero, e in parte escono fuori dal campo della filosofia.
L'ontologia studia alcune nozioni universali, essenziali all'umano
intendimento; e la dottrina delle nozioni, delle idee non appartiene forse alla
scienza del pensiero? Lo stesso dicasi della cosmologia e della teologia
naturale. Sicchè G. conchiude. Tutte le parti dunque della metafisica
appartengono alla scienza del pensiere umano. Quanto alla fisica, in parte è
filosofia (psicologia, per le relazioni che questa scienza studia tra i fatti
fisici quali sono in sè e i fatti fisici quali appariscono a noi, e teologia);
e in parte, quale si tratta comunemente nelle scuole, se non può ridursi a
rigore alla scienza del pensiero, è nondimeno una scienza che le è contigua, e
che serve a rischiarare, ed a perfezionare la filosofia intellettuale. Sicché
la metafisica, nel sistema du G., è bella e ita assolutamente. E se la
filosofia per lui si divide com'è detto nella lezione in filosofia speculativa
o teoretica, che studia l'anima (soggetto del pensiero) in quanto conosce, e in
filosofia pratica, che studia l'anima in quanto vuole, è chiaro che nè anche
questa puo essere fondata su alcun principio metafisico. Kant non arriva a
questo punto. Ma prima di accennare i principii di G. nella filosofia pratica,
bisogna fare un'altra osservazione generale, che ci pare di non poca importanza.
Nella Prolusione G., vantando le ragioni del metodo sperimentale, avverte che
non bisogna però mutilarlo. Anzi prenderlo tutto intero nelle sue specie e ne’suoi
risultamenti; ne confonderlo con l'empirismo; giacchè la filosofia
intellettuale, come egli chiama quella che insegna, non ammette solamente
quelle esistenze, che cadono immediatamente sotto l'esperienza; ma quelle
ancora, che l’esperienze sperimentali suppongono necessarie. Quindi ella deduce
tanto dall'esistenza del mondo materiale, che da quella del mondo
intellettuale, che a noi si manifesta, l'esistenza eterna d’un’intelligenza
creatrice. E ciò in modo simile a quello in cui l'astronomia, partendo dal
cielo empirico, pone un cielo razionale. Il cielo razionale sarebbe il cielo
costruito dall'astronomo mercè la forza portentosa del calcolo, della geometria
e del raziocinio, onde si sbalza dal centro del planetario sistema la terra, e
vi si pone il sole; si trasforma in masse di meravigliosa grandezza quei
piccolissimi corpi, che sembrano tanti chiodi affissi nel firmamento, si
determina le distanze, le orbite ed i tempi delle rivoluzioni de’pianeti. Sicché,
per G., anche la filosofia intellettuale, la ideologia, la filosofia
dell'esperienza, con tutti i suoi limiti, ha il suo cielo razionale; come l'ha
del resto il criticismo con la sua cosa in sé. Ma la cosa in sè per Kant è un
puro concetto limite, di cui s'afferma l'essere non il come; che si afferma,
non si conosce; laddove G. dedica tutta la seconda parte della sua ideologia,
che intitola Teologia naturale, allo studio dell'assoluto e de’suoi attributi,
come se Kant non è mai esistito. Il nome di questo qui non ricorre se non nelle
ultime pagine, dove è detto insensato il suo impegno di contrastarci la
possibilità di una teologia naturale e filosofica. Ma tutta questa parte
evidentemente è non solo in contraddizione con la critica kantiana, ma anche
con lo stesso Saggio dell'autore, la cui conclusione riesce a quella dottrina
dei limiti della scienza. Che dire adunque del vero pensiero di G.? È vero,
come è detto nel saggio, che lo scrutatore della divina maestà resta oppresso
dalla sua gloria? O è vera la teologia delle lezioni? Le due dottrine sono
certamente inconciliabili. E io non dubito d’asserire, che se G. non scrive le lezioni
per i suoi pupilli a NAPOLI in uno de’periodi di più cupa servitù intellettuale
che attraversa il pensiero italiano, la seconda parte dell’ideologia non
sarebbe stata scritta. Questa opera, dice l'autore nella prefazione delle lezioni,
non è mica la ripetizione dei miei Elementi di filosofia nè di altra mia opera
antecedente. E nota altresì che serbando le leggi essenziali di un metodo, può
questo ricevere delle variazioni accidentali. Intende egli alludere alla
teologia naturale, di cui tratta per la prima volta in queste Lezioni? Si noti
che non parla di nuovi svolgimenti del suo pensiero, ma di variazioni di metodo;
onde non puo accennare a parti ora per la prima volta trattate della sua
filosofia che non importa alcuna modificazione di principii. Si noti anche che
la seconda parte dell'Ideologia è come appiccicata alla prima. Solo alla fine d’una
lezione, dell’ideologia, l'autore dice. L'essere è o finito o infinito. Io
divido perciò l'ideologia in due parti, nell'ideologia del finito ed in quella
del l'infinito. E in questa distinzione così accennata è tutta la ragione della
teologia naturale o ideologia dell'infinito, cui son dedicate le ultime lezioni
del corso. Le dottrine non essoteriche hanno ben più stretti legami coi
principii sostan ziali dello spirito d’un pensatore; e questi le fa sempre
sgorgare specialmente quando siano dottrine così importanti, rispetto a quella
filosofia dell'esperienza, onde G. si
proclama sempre assertore le fa sempre sgorgare, bene o male, dalle dottrine
per l'innanzi professate, le pone, bene o male, in accordo con esse, per
rimanere esso stesso d'accordo con sè medesimo. Nell'opera di G nulla di tutto
questo. Io propendo pertanto a non attribuire alcun valore a quella parte delle
lezioni nel sistema delle idee galluppiane. Non penso già che egli le detta e
le pubblica contro la sua coscienza, ma certo contro la sua coscienza
filosofica. Egli pensa certamente quanto scrive e insegna degl’attributi
divini; ma quella parte del suo pensiero non è stata da lui elaborata
filosoficamente ne coordinata quindi alla sua speculazione. Chi insegna e non
s'è trova nel caso del nostro filosofo, di esser costretto da un programma a
insegnare anche ciò che il suo spirito non ha maturato e fatto suo, e
insegnarlo quindi nella forma in cui ordi nariamente si dà, e in cui è pur bene
che sia offerto all'intelletto del pupillo? Chi non si trova a dover insegnare
qualcosa di più di quello che in buona fede e a rigore potrebbe dir di sapere,
o di quello ond'egli può dirsi veramente persuaso? Chi oltre a ciò che, per sè
e per altrui, deduce chiaramente da’propri principii non ha insegnato
qualcos'altro, che da quei principii sinceramente non sa derivare nè per altrui
nè per sè? G. non ha per sè una teologia più filosofica di quella che è esposta
nelle [Della religione tratta anche negl’elementi di filos. morale. Ma se la
sbriga in un breve capitolo, che non ha nessuna pretensione filosofica, e si
limita a una semplice notizia molto compendiosa del concetto della religione
cristiana.] sue Lezioni; in questa fermasi il suo pensiero; ma stimo che non vi
s'acquetasse; perchè una consapevole o inconscia insoddisfazione dove fargli
sentire che nella sua filosofia dell'esperienza non c'è posto per quella
teologia. S'è accennato che sulla fine della teologia naturale l’autore si
ricorda dell'impegno insensato di Kant di contrastare la possibilità di una
teologia. E che fa egli per combattere l'assunto kantiano? Scrive così. Kant
insegna che i giudizii su cui la teologia naturale – cf. WILDE’S READERSHIP IN
NATURAL THEOLOGY -- e filosofica poggia, sono sintetici a priori e fenomenici,
privi di una assoluta realtà. Egli dice che le verità necessarie della teologia
naturale non sono mica identiche, ma sintetiche; e che le verità di fatto non
sono che mere apparenze, che fenomeni privi della realtà noumenica ed assoluta,
indipendente dal nostro modo di vedere. G., nella critica della conoscenza segue
passo passo la dialettica kantiana; e volendo parlar con giustizia, non può
negarmisi, che l'ha invincibilmente distrutta. G. mostra che i giudizii
sintetici a priori sono assurdi; mostra eziandio che le verità sperimentali ci
danno pure delle conoscenze delle cose in se stesse considerate. Questo è
tutto. Ora, poniamo che è esatta l'esposizione del pensiero del Kant. Ma la
critica della sintesi a priori non giustifica, tutto al più, che la posizione
dell'assoluto, come avviene per l'appunto nel Saggio dello stesso G.; dove
partendo dalla pretesa impossibilità dei giudizii sintetici a priori, si dice,
contro Kant, che non è tale neppure il principio: dato il condizionale, si deve
dare l'assoluto; e si conchiude quindi che il condizionale dell'esperienza è
reale in sé, non fenomenico, e che nella sua realtà è pur data quella
dell'assoluto. E nel Saggio tutto finisce li. E la conclusione dell'opera è
quella che ab [Acoopna al Saggio filosofico; Lez. Quindi accenna alle critiche
che alla sua confutazione della sintesi a priori aveva mosse ROVERE (si veda) nel
Rinnovamento e lo ribatte. Un'ottima osservazione contro questa deduzione fa
col suo solito acume Tesia, il quale crede come SERBATI che G. non mova un
passo fuori del soggettivismo. È falsa, egli dice, la premessa che il
condizionale sotto il rispetto del condizionale sia un termine dato
dall'esperienza. Quosta non ci dà che sensazioni e sentimenti. Ma le sensazioni
non sono il condizionale? Si, sono, ma non ci sono date come tali
dall'esperienza. La qualità d'essere condizionale è una veduta dello spirito,
non è nella sensazione, opperò non è trovata nella sensazione. Vedi Le ricerche
apolog. del crist, del popolo da Bignami esaminate, Lugano] biamo vista. Gli
attributi divini son dichiarati incomprensibili. Nè quell'assoluto del Saggio
differisce molto dalla cosa in sè kantiana. Ma nelle lezioni non c'è solo
l'assoluto, bensì la scienza del l'assoluto; e non viene giustificata. La
conclusione dell'opera si limita ad affermare che mostrando l'oggettività delle
nozioni di sostanza, di causa e dell'assoluto, il criticismo è rovesciato, e la
realtà della conoscenza è stabilita. Sono le ultime parole delle lezioni; ma
potrebbero essere a miglior ragione le ultime del Saggio, perchè in quelle si
cerca di provare qualcosa più dell'oggettività della nozione che la mente
possiede dell'assoluto. Se la teologia naturale avesse avuto nella mente di G.
la stessa saldezza dei principii più genuini della filosofia dell'esperienza,
la sua etica non avrebbe mancato di esservi subordinata. Invece ne è
assolutamente indipendente. Anzi, pure inspirandosi all'idealismo kantiano, non
tiene affatto conto dell’esigenze sentite dal Kant nella Critica della ragion
pratica e nella FONDAZIONE DELLA METAFISICA DEI COSTUMI. Forse egli non conosce
nulla direttamente di queste opere, e della morale kantiana non dove avere che
l'indiretta notizia fornitagli dalle solite esposizioni francesi. Non per
questo si può dire con certi critici, che i suoi quattro volumi della Filosofia
della volontà non contengono nulla di nuovo, anzi, di fronte a Locke ed Hume,
ed a tutta la specula zione contemporanea, segnano un sensibile regresso verso
il vecchio rancidume metafisico e teologico. Chi giudica così non deve avere
grande familiarità con questo rancidume, e certo è assolutamente falsa la sua
sentenza, che la morale galluppiana sia ispirata all'idealità patristica e
scolastica. Non si potrebbe dire nulla di più inesatto intorno a quella morale.
Basta una sommaria esposizione per convincersene. Bisogna prima di tutto
osservare, che G. insegna filosofia teoretica o, com'egli dice, intellettuale;
e non v'ha quindi occasione di trattar mai la morale. Ma egli pubblica un volumetto
del suo manuale scolastico, gl’elementi della FILOSOFIA MORALE [cfr. AUSTIN,
WHITE’S PROFESSOR OF MORAL PHILOSOPHY, dopo Hare]; e prima d'assumere
l'insegnamento scrive La filosofia della volontà, Vedi l'art. La speculazione di P. G., Rivista
di filos, e sc. affini di BOLOGNA. In essa, secondo che egli dichiara nella prefazione,
si propone di trattare in un'opera estesa lo stesso argomento di quegl’elementi,
ma col metodo stesso del saggio filosofico, ossia con la discussione e l'esame
delle varie dottrine relative ad ogni materia. Ma non dove aver compiuto il
lavoro prima di salire la CATTEDRA di logica e METAFISICA; e non pare che vi
sia potuto più tornare; sicchè non tutte le parti del volumetto degl’elementi
vi sono riprese e novellamente trattate con quella maggiore larghezza, che
l'autore s'èproposta. E il disegno di essa, delineato sulla traccia degl’elementi,
gli rimase colorito meno che a metà. Nella Filosofia della volontà comincia dal
distinguere nell'uomo l'agente fisico della natura, disposto o mosso ad operare
pel fine della propria felicità, e l'agente morale, disposto o mosso ad operare
dal principio del proprio dovere. Distingue anche i movimenti che nel corpo
umano si osservano, in meccanici, che non dipendono dalla volontà, e volontari,
per cui sol tanto l'uomo può dirsi agente. Chiama quindi filosofia della
volontà quella scienza che fa conoscer l'uomo considerato come un agente; e
divide questa scienza in quattro parti. Nella prima, dice esamino l'uomo considerato generalmente come
un agente. Nella seconda l’esamino sotto l'aspetto d’agente morale. Nella terza
sotto l'aspetto d’agente fisico. E nella quarta finalmente l'esamino riguardo
alla sua esistenza in uno stato futuro, dopo il fenomeno della morte; e ciò in
conseguenza della sua virtù e de' suoi vizi. Questo il disegno. Ma delle
quattro parti ideate i primi tre volumi dell'opera e il primo capitolo del
quarto trattano solo la prima. Gl’ultimi due capitoli di questo quarto volume e
dell'opera iniziano appena la trattazione della seconda, com'è svolta negl’elementi;
e DELLA TERZA E DELLA QUARTA NON C’È NULLA; laddove negl’elementi l'una, intitolata
De' mezzi per esser felice, è trattata con relativa larghezza, e dell'altra c'è
pure un cenno col titolo, Della religione. Sicché, quantunque l'autore
appaiasse questa sua filosofia della volontà col saggio filosofico, come
l'opera contenente la sua filosofia pratica accanto a quella contenente la [I
primi due volumi, presso Giachetti in Napoli; il 3.° vol., presso la stamperia
Tramater in Napoli. La dedica al MARCHESE DI PETRACATELLA reca Napoli] a sua
filosofia teoretica; è evidente, che se la filosofia della volontà presenta
discusse con grande ampiezza questioni brevemente accennate negl’elementi, di
questi non può fare meno chi voglia acquistare un concetto compiuto delle
teorie pratiche galluppiane; e in essi deve principalmente attingere quella
parte di coteste teorie, che spetta più propriamente alla morale. Dal disegno
stesso dell'opera maggiore si scorge un pregio non comune in questo ramo della
filosofia del nostro: voglio dire la pienezza del suo concetto dello spirito
pratico. Egli, com'è chiaro già da quelle semplici indicazioni, non vede tra la
felicità e il dovere quella dualità inconciliabile, in cui si dibatte l'etica
prima di Kant e nello stesso Kant; quella dualità che finisce inevitabilmente,
secondo l'uno o l'altro pensatore, o con la negazione dell'uno o con la negazione
dell'altro principio, o nel concetto puramente utilitario o in quello del puro
disinteresse. G. vede che sono due i fini dell'umano volere: due fini però
conciliabili tra loro, sì che uno non importi la negazione dell'altro. L’uomo
infatti è agente fisico e agente morale insieme; e per es sere agente fisico
non cessa di essere agente morale; e viceversa: segno manifesto, che tra i due
fini non c'è opposizione assoluta. La confutazione perentoria dell'utilitarismo
(UTILITARIAN, FUTILITARIAN) dal punto di vista etico sta in questo concetto,
che G. vide nettamente, come apparrà meglio dalla notizia che ora ne daremo.
Tutta la prima parte della sua filosofia pratica s'aggira adunque intorno
all'attività in generale dell'uomo: è, come noi diremmo, una semplice
psicologia pratica. Parla quindi del desiderio, della volontà, dell'influenza
della volontà sull’intelletto, e viceversa, e in generale dei principii motori
della volontà, e della libertà umana. Questa è la trattazione più ampia, e
occupa quasi per intero il secondo e il terzo volume della Filosofia della
volontà. Non avendo voluto G. lasciare
senza risposta nessuno degl’argomenti che sono stati addotti contro l'esistenza
del libero volere. Della volontà il nostro dice che non può definirsi. Ne fa una
facoltà, avvertendo bensì, che le diverse facoltà, che concepiamo nel nostro
spirito, non sono certamente tanti agenti diversi: esse non sono che lo spirito
stesso considerato relativamente ad una determinata specie di modificazioni,
che avvengono in lui. Si potrebbe intendere per volontà la facoltà [Quindi,
secondo l'autore, è volontà il nostro spirito stesso considerato relativa di
volere; ma questo come ogni atto semplice non può definirsi, e non se ne può
altrimenti avere la nozione che dirigendo la nostra attenzione sul sentimento
che abbiamo di questo atto, ossia ricorrendo alla nostra personale coscienza.
La volontà senza gl’atti di volere è indeterminata come volontà; è lo spirito
stesso in generale. La determinazione della volontà è la produzione de’voleri
particolari; e siccome, dice G. stesso, lo spirito è il principio efficiente
de'voleri, così può dirsi tanto che lo spirito determina se stesso, quanto che
la volontà determina se stessa. La volontà, come nota Locke, va ben distinta
dal desiderio. Un idropico, malgrado il desiderio di bere, si astiene
dall'acqua. Egli dunque DESIDERA DI BERE, ma NON VUOL bere. In tali casi vi
sono desiderii opposti, fra i quali la volontà si determina. Per G. tra
desiderio e volere c'è una recisa differenza. Quello non è, come ordinariamente
si crede, un fatto d'attività dello spirito, ma, come oggi si direbbe, un fatto
puramente emotivo; quel misto di piacevole e di spiacevole onde lo spirito è
affetto per la percezione d'una sensazione in se stessa piacevole, ma assente,
e però causa d'un dispiacere tanto maggiore, quanto più lontano è il futuro, in
cui si pensa che essa sarà provata, Quando, come fa Wolff, si vede nel
desiderio uno sforzo, un'avversione, un'inclinazione, o ci si contenta di
metafore fallaci, o si confonde col desiderio il volere, onde i movimenti
corporei sono l'effetto. Sforzo, tendenza, inclinazione, allontanamento son
tutti vocaboli, che applicati all'anima non presentano alcun senso. Come dal
desiderio, la volontà va distinta dall'intelletto; sicchè può parlarsi di
un'influenza esercitata dalla volontà sul l'intelletto, come di un'influenza
esercitata dall'intelletto sulla volontà. Quanto alla prima, G. vede un potere
della volontà perfino nelle sensazioni, in quanto lo spirito può esporre o pure
sottrarre i propri sensi all'azione de’corpi esterni; e quindi procurarsi o
privarsi di alcune date sensazioni. Quindi mente a quella specie di
modificazioni, che abbiam chiamato voleri. Insomma, gl’atti singoli
presuppongono un quid nella natura dello spirito; o questo quid è la volontà. Filos.
d. vol., Psych, emp. L'autore s'accorge che questo potere della volontà si
esercita indiretta ci parla di sensazioni volontarie e sensazioni involontarie;
e come i desiderii sono un effetto delle sensazioni, trova che vi sono e
desiderii volontari e desiderii involontari; e come anche i fantasmi seguono le
sensazioni, anche tra i fantasmi pone la stessa distinzione nel campo
dell'immaginazione. Quando si passa dalla sensibilità alle facoltà dell'analisi
e della sintesi, non si tratta più di un potere indiretto, ma im mediato della
volontà sull'intelletto; e dicesi attenzione; nel cui studio l'autore si
trattiene con diligenza e acutezza, che fan degne quelle pagine di esser lette
ancora, pur dopo tanto progresso nella conoscenza dei fenomeni psicologici. E
come l'analisi e la sintesi sono le due attività spirituali onde vengono
prodotte tutte le conoscenze, l'impero su di esse vale l'impero su tutto il
conoscere. Che più? L'associazione è anch'essa volontaria e involontaria.
L'abito, questa seconda natura morale, può dirsi anch'esso volontario, quando
consta della ripetizione volontaria di atti volontari; e conferisce a
quell'educazione onde ognuno è responsabile, poichè egli ne è l'artefice. I giudizii
temerarii sono colpevoli, perchè volontari; in essi l'attenzione si volge a
fantasmi, cui non dovrebbe rivolgersi, e l'uomo vuol manifestare i giudizii che
da quei fantasmi deriva, confondendo l'immaginare col giudicare. Infine, da
questo impero della volontà sull’intelletto la distinzione dei moralisti di
ignoranza vincibile e invincibile. In quanto all'influenza dell'intelletto
sulla volontà, è chiaro: che la vita dello spirito, come nota G., comincia
dalle sensazioni. Ora queste, secondo che sono piacevoli o no, determinano lo
sviluppo dell'attività dell'anima; suscitano i desiderii che influiscono sulla
volontà. Quindi nasce il problema: in quanti modi l'intelletto influisce sulla
volontà? E se ciò che nel nostro spirito dispone o eccita la volontà all'atto
di volere, dicesi principio attivo della volontà, si domanda: quanti sono i
principii attivi della volontà? E non sono RIDUCIBILI TUTTI AD UN SOLO
PRINCIPIO, come sue varie modificazioni? Elvezio concentra tutti i principii
dello spirito nella fisica sensibilità. Ma, annientata così tutta l'attività
dell'anima, e mente; ma non vede che pertanto in questi casi trattasi d'un
impero del volere sul corpo, e non propriamente sull'intelletto. Tutta questa
dottrina dell'influenza della volontà sull'intelletto è anche negl’Elem. l’uomo
riguardato come solamente sensitivo ed animale, la virtù nei saggi d’Elvezio
scomparve dall'universo, e vi è rimpiazzata da un grossolano egoismo. L'uomo
per Elvezio è tutto ciò che le cause esterne lo fanno essere. Egli rica le
conseguenze logiche più rigorose dal sensismo del Condillac, che uso tutti i
riguardi per la morale e per la religione, ma non ragiona coerentemente al suo
principio della sensazione trasformata. Elvezio parte dallo stesso principio, e
ne deduce illazioni che fanno orrore. Ma, come è falso nella filosofia
intellettuale che tutto sia sensibilità fisica o da essa derivi, com'è falso
ridurre il giudizio che è attività sintetica e analitica, al mero fatto passivo
della sen sazione, così è falso nella filosofia pratica non distinguere dalla
passività del senso l'attività e la libertà della volontà, e non riconoscere
l'origine soggettiva del dovere. Non è vero che tutto lo spirito sia
sensibilità; e perciò il presupposto elveziano è privo di fondamento. Non è
vero che i piaceri e i dolori, che agiscono sul volere, sieno in ultima analisi
sempre piaceri o dolori fisici provenienti da sensazioni; è incontrastabile,
che vi sono anche piaceri o dolori intellettuali provenienti da pensieri.
Quindi una prima divisione dei principii motori della volontà o motivi:
desiderii inriflessi, quelli in cui lo spirito è passivo, e principii riflessi,
in cui lo spirito è attivo. I primi si possono dire anche semplicemente
desiderii, gli altri, ragioni. I principii irriflessi si possono ridurre a
sette; appetito fisico (fame, sete, amor fisico), desiderio della propria
eccellenza, curiosità, sociabilità, desiderio della gloria, emulazione e
potere, affezioni. La ragione è principio d’atti volitivi come principio
economico e come principio morale; o, come G. dice, in quanto esamina ciò che
conviene alla nostra felicità, fa il calcolo dei beni e dei mali, e dirige le
nostre azioni a produrre un certo stato dell'anima; e allora si chiama prudenza
; e in quanto ci mostra il bene e il male morale, e ci comanda di far l'uno e
non far l'altro; e allora può dirsi ragione legislatrice della nostra volontà. I
principii della prudenza sono quattro: un piacere che ci priva di maggiori
piaceri è un male; un piacere, che ci produce maggiori dolori, è un male. Un
dolore, che ci libera da maggiori dolori, è un bene. Un dolore, che ci produce
maggiori piaceri, è un bene. A questo punto l'autore si propone la questione
della libertà, alla quale dedica la maggior parte del l'opera sua, ma della
quale noi ci sbrigheremo in poche parole. Questa è la parte più vecchia della
sua filosofia, e una delle meno logicamente dedotte dai principii della sua
speculazione. In essa egli sente la forza del pregiudizio come impedimento
insormontabile alla visione della verità più evidente; e ci si vede la
sopravvivenza di una vecchia dottrina, che mal si connette all'organismo del
nuovo pensiero; anzi vi rimane aggiunta e giustapposta come membro morto che
l'artificio collochi al posto di quello che manca in un corpo vivo. Dal suo
concetto dell'unità metafisica dell'io, dal suo concetto delle facoltà come
semplici principii costitutivi della natura dello spirito, G. avrebbe dovuto
esser condotto a più elevato e concreto concetto della libertà, che non sia
quello da lui ancora difeso a forza di sottigliezze ingannevoli e d'illusorii
ragionamenti. Egli vede la distinzione tra sensibilità, intelletto, e volontà,
di cui fa tre facoltà distinte, ma pur facendole scaturire dall'unico io, non
giunge a scorgerne la recondita unità. E veramente, separato l'intelletto dalla
volontà, da ciò che v'ha d’umano, di spirituale nella volontà, non è possibile
altro con cetto di questa, all'infuori di quel vuoto volere, che è il
fondamento della libertà bilaterale. Questa è la libertà a cui giunge G.: la
libertà per cui nell'atto stesso che vogliamo [GRICE SCRATCH MY HEAD], potremmo
non volere; quel potere, che non si esercita, e la cui essenza stessa è di non
esercitarsi nel momento stesso che lo sentiamo. Questa libertà del volere è
determinata nettamente dal suo confronto con la necessità del sillogismo. La
coscienza ci attesta, che noi non siamo liberi di tirare o non da due premesse quella
data conclusione, laddove ci attesta il contrario rispetto ai singoli atti del
volere. E siccome [Nella Filosofia della volontà tutto finisce con la
enumerazione di queste leggi. Negl’Elementi invece, tutto un capitolo è
dedicato ai MEZZI PER ESSER FELICE (CF. GRICE, SOME REFLECTIONS ON HAPPINESS).
Quivi fra i piaceri intellettuali si annovera il piacere estetico; e quindi i passi
contengono una breve trattazione di estetica. Elem. La libertà, io dico, è il
potere di volere, o di NON volere un oggetto percepito; Filos. d. vol.] la
coscienza è quel fatto fondamentale, a cui il filosofo deve sem pre far capo,
la sua testimonianza basta a provare la realtà della libertà. Tutti gl’argomenti
contrari non reggono alla critica. Ma negl’Elementi G., prima di appellarsi al
testimonio della coscienza, ricorre a un argomento, che rivela subito la
paternità kantiana. Nella coscienza del dovere e del premio o delle pene che
spettano all’azioni si comprende, egli dice, la coscienza della nostra LIBERTÀ
(cf. GRICE FREEDOM). Non si comandano le azioni necessarie, come non si comanda
ad un sasso il cadere se non è sostenuto (FREE FALL). Le azioni necessarie non
sono riguardate come meritevoli nè di premio, nè di pena. La coscienza della
legge interiore contiene la coscienza della propria LIBERTÀ (GRICE FREEDOM).Il
comando suppone in colui, a cui è diretto, il potere di eseguirlo e di NON
eseguirlo. Devi; dunque, puoi, dice Kant. Non bisogna, del resto, porre G. fra
le anticaglie pel suo concetto della LIBERTÀ (GRICE FREEDOM). L’INDETERMINISMO
ANZI È UNA DELLE CONCEZIONI OGGI ALLA MODA; E NON MANCA IN ITALIA DI
RAPPRESENTANTI; i quali si sforzano di combattere il concetto della direzione
unica ed unilineare degl’atti del volere, ponendo nello spirito un
irriconciliabile dualismo, che lacera internamente l'unità dell'individuo
umano, e sta quasi condizione necessaria, se non sufficiente, della libertà
morale. E ancora uno dei più acuti psicologi che ha l'Italia afferma che il
concetto del volere libero, cioè non coatto estrinsecamente (libertas a
coactione), nè intrinsecamente (libertas a necessitate) è una verità, la quale,
sebbene accanitamente combattuta da molti e sotto molti rispetti, resta sempre
inconcussa per chi, scevro da pregiudizii e forte nelle convinzioni morali, non
si lascia smuovere da’sofismi ne turbare dalle difficoltà. Il vero è, che una
questione mal posta non può aver mai la sua vera soluzione; e potrà sempre far
accettare or l’una or l'altra di due opposte soluzioni. Quella del libero
arbitrio è stata appunto una questione mal posta, per l'indeterminatezza del
con cetto del volere, su cui si fonda. Giacchè, se si determina rigorosamente
il volere, è impossibile escluderne la ragione, e non vedere quindi, che se han
torto gl’indeterministi a difendere la libertas Filos.; cfr. gli Elem. Vedi il
lodato saggio di PETRONE, I limiti del determinismo scientifico, Modena, Roma;
cfr . BOUTROUX, De la contingence des lois de la nature, Paris. BONATELLI,
Elem. di psicologia e logica, Padova]a necessitate, non hanno minor torto i
deterministi a combattere la libertas a coactione: gl’uni perdendosi in una
vuota creazione dell'intelletto astratto, gl’altri rompendo nello scoglio
fallace del meccanismo. E dire che non è mantato chi ponesse bene la questione,
e le desse quindi una soluzione da soddisfare le opposte esigenze e dissipare
tutte le difficoltà! Stabilita, comunque, l'esistenza della libertà morale, si
tratta per G. di risolvere questo problema: esiste un bene e un male morale? E
ne chiede la soluzione, anche questa volta, alla coscienza. L'esistenza del
bene e del male morale, e per conseguenza di una legge morale naturale, è una
verità primitiva attestataci dalla nostra coscienza. Darne una dimostrazione è
impossibile, senza avvolgersi in circoli viziosi, al pari di chi volesse
provare allo scettico l'esistenza e la realtà del nostro conoscere. La
coscienza ci dice che esiste una legge morale naturale, ossia necessaria ed
originaria che si dice dovere: indipendente dalla legge positiva, come
dall'opinione altrui, valida nel segreto dell'anima nostra. Donde viene a noi
la nozione di essa? Chi indipendentemente dalla legge positiva mi comanda di
non uccidere un uomo, di RENDERGLI IL DEPOSITO, CHE MI HA CONFIDATO? È la mia
ragione, la quale comanda alla mia volontà. Son io che comando interiormente a
me stesso. Questo comando non mi viene dunque dal di fuori; ma dall'interno del
mio essere. Il predicato dei giudizii morali è l'idea del dovere; e questa idea
viene da noi, dice il nostro filosofo, non dagl’oggetti. La nozione del dovere,
egli dice anche esplicitamente, è una nozione soggettiva essenziale alla nostra
ragione. Meglio non si potrebbe dire. Altro che rancidume, e idealità
patristica e scolastica! Nessuna più esplicita e più coraggiosa proposizione avrebbe
potuto pronunziarsi in omaggio al moderno, al vero soggettivismo. Soggettivo il
dovere, ma anche essenziale: questa è la giusta definizione non solo del vero
soggettivo, ma anche del vero oggettivo, dopo Kant, quando bene s'intenda. E
nella morale G. riproduce Kant bene inteso, senza esitazioni e senza
limitazioni. Annunziata la soggettività del dovere egli dice con accento di
sincerità commovente. È questa una verità per me evidente, e credo che tale
sembrerà a chiunque vi rifletta di buona fede. Filos. d. Vol. Tutto ciò trovasi
anche negl’Elementi. La nozione del dovere rende la ragione ragion pratica o
legislativa (tutta terminologia kantiana, come si vede). Essa è essenziale alla
ragione, e perciò potrebbe dirsi innata. Ma non sono già innati i principii
della morale, ossia i singoli doveri. Non uccidere: se questo precetto fosse
innato, dovrebbe esser tale anche l'idea d’omicidio, la quale ci viene invece
dall'esperienza. L'uomo è però costituito di tal natura, che la nozione del
dovere sorte, nelle occasioni, dal suo proprio fondo. Insomma, quel che vi ha
di a priori in G., come in Kant, è la forma del giudizio pratico; e la materia
è data dall'esperienza. In che consista il dovere, non è determinato in quella
nozione soggettiva ed essenziale, che costituisce la Ragion pratica. Di a
priori nello spirito e quindi di essenziale nei fatti etici non havvi che il
predicato onde si giudicano le azioni morali: cioè appunto la forma.
Soggettivista come Kant, G. è del pari formalista nella morale. La nozione del
dovere, egli dice, sorte dall'interno di noi medesimi, ed applicandosi alle
azioni che si presentano allo spirito costituisce quei giudizii, che sono
precetti o COMANDI – COMMANDAMENTI o MANDAMENTI. Questi precetti, in
conseguenza, son proposizioni *SINTETICHE*; poi chè essi sono un prodotto
necessario della sintesi della RAGIONE, che aggiunge ad alcuni dati atti liberi
l'elemento del dovere. Questi giudizii, sebbene suppongano alcuni dati
sperimentali, non sono però sperimentali. Essi possono, in conseguenza,
riguardarsi come giudizii A PRIORI. Questa dottrina non ha bisogno di commento.
In essa l'implacabile avversario del Saggio filosofico riconosce la verità del
sistema di quel grande uomo, com'egli lo chiama nella morale, che è Kant, In
varie parti delle mie opere filosofiche, dice nella Filosofia della volontà, io
ho mostrato l'assurdità de'giudizii SINTETICI A PRIORI,, ammessi dalla scuola
di Kant. Ma i giudizii sintetici di cui ho io parlato nelle mie opere di
filosofia teoretica, sono giudizii teoretici, non già giudizii pratici. E negli
Elementi di morale. I giudizii sintetici a priori TEORICI mi sembrano assurdi.
Ma dall'esame profondo della nostra facoltà di volere son forzato di ammettere
i giudizii sintetici A PRIORI PRATICI, i quali son precetti. Mi sembra
impossibile lo stabilire altrimenti la moralità delle azioni. Elem., Filos.
della vol.. Fuori di questo soggettivismo morale G., come Kant, non vede altro
che EUDEMONISMO (alla Grice/Ackrill), o morale dell'interesse (alla Butler),
come egli dice; e questa gli pare soltanto una morale apparente. Quando
s'intende la giustizia come un interesse bene inteso, si finisce
necessariamente col sommettere la giustizia a qualche cosa che non è la
giustizia. Distinguendo l'interesse bene inteso dal male inteso, non si pongono
in opposizione due interessi differenti.Al contrario, si pone in fatto, che non
vi ha che un interesse unico, che l'uomo giusto e l'uomo ingiusto hanno
egualmente in veduta; e che fra essi non vi ha che questa differenza, che
l'uomo giusto è un uomo accorto, e l'ingiusto un imbecille. Ora contro questa
concezione morale militano tre argomenti. La volontà dell'uomo virtuoso
differisce intrinsecamente da quella dell'uomo vizioso. Laddove nella morale
dell'interesse la volontà d’entrambi è unica; perchè entrambi vogliono la cosa
stessa: il proprio utile (UTILITARIAN, FUTILITARIAN). La virtù vera è una dote
del volere; e nella morale dell'interesse, invece, sta tutta nell'accortezza
dell'operare; poichè col cuore più perfido si può saper fare il proprio utile. La
legge morale dee essere assoluta ed universale. Invece la morale utilitaria è
fondata sulla situazione ipotica dell'uomo, la quale, cambiandosi, cambia
parimenti nell'uomo il principio di direzione, e la virtù diviene vizio, il
vizio virtù. Sicché la morale utilitaria è falsa, distruggitrice d’ogni vera
virtù si privata che pubblica. La virtù è causa della FELICITÀ; poichè, se
diviene mezzo, cessa di essere virtù. La morale è essenzialmente disinteressata.
La virtù è amabile per se stessa, indipendentemente dal premio, che la segue.
Ma la coscienza di averla praticata dev'essere un piacere puro distinto dal
piacere preveduto dal premio, ed indipendente da questo. Nella Filosofia della
volontà l'autore sostiene che se il principio dell'utile non può produrre la
virtù, nondimeno può concorrere col principio del dovere a produrla. Non manca
tuttavia di notare che tale concorrenza non impedisce, che l'azione sia
prodotta dal principio disinteressato del dovere; poichè il princi [Filos. d.
vol. G. non ammetto che dall'utile proprio possa nascere l'utile altrui, che
l'egoismo, come ora si direbbe, possa generare l'altruismo. L'uomo nulla può
amare fuori di se stesso se non per se stesso. Fil. d . vol.; Elementi] pio
dell’utile in tal caso toglie solamente o diminuisce gl’ostacoli all'esercizio
della virtù. Sicché, insomma, non è una vera e propria concorrenza. L'azione
morale è effetto unicamente del principio del dovere assoluto e universale, CATEGORICO.
Pare che G. si opponga alla rigidezza razionalistica della morale di Kant; ma
in realtà sono d'accordo nella medesima dottrina. Negl’Elementi l'autore pare
accenni veramente a Kant, dove dice. Alcuni filosofi alemanni hanno preteso che
l'ubbidienza al dovere dee esser l'effetto del puro rispetto della ragione per
la legge, senza alcuna specie di piacere, nè di amore. Una tal dottrina è
falsa, e contraria alla testimonianza irrefragabile della coscienza. Ma egli
spiega così il suo pensiero. Non si dee esser giusto e benefico, per esser
felice; poichè anche quando la moralità non fosse una sorgente di felicità, non
si dovrebbe abbandonare. Ma più la virtù è pura e disinteressata, più vivo è il
piacere, che risulta dalla coscienza di averla praticata. Il piacere unito
all'esercizio del proprio dovere dispone all'azione doverosa la volontà
dell'essere ragionevole. Ma non bisogna confondere le conseguenze di un fine
col fine stesso. L'uomo virtuoso vuole il dovere per se stesso: e questo è il
fine ultimo della sua volontà; egli, in conseguenza, non fa il dovere per lo
piacere; ma il piacere non lascia di accompagnare la pratica del dovere. Ora
questa dottrina è in opposizione a un kantismo mal inteso: al kantismo cui
s'allude da Schiller nel famoso epigramma sullo scrupolo di coscienza. Ma Kant,
in verità, non ammette meno di G. quel piacere che consiste nella soddisfazione
che ci dà la coscienza d'aver adempiuto il proprio dovere; ma come G. tene a
distinguere questo piacere morale consecutivo all'azione virtuosa dal piacere
patologico a cui uò essere ispirata un'azione non virtuosa; ad affermare che il
sentimento morale è conseguenza non principio P. es. nella prefazione alla
Tugendlehre scrive. Ich habe an einem Orte (der Berlinischer Monatsschrift) den
Unterschied der Lust, welche pathologisch ist, von der moralischen, wie ich
glaubo, auf die einfachsten Ausdrücke zurückgeführt. Die Last nähmlich, welche
vor der Befolgung des Gesetzes hergeben muss, damit diesem gemässgehandelt
werde, ist pathologisch, und das Verhalten folgt der Naturordnung; diejenige
abor, vor welcher das Gesetz hergeben muss, damit sie empfunden werde, ist in
der sittlichen Ordnung. Werke (ed.
Rosenkr.); cfr . Krit. pr. Vern., in Werke.
della moralità. Kant bensì
osserva che il piacere per l'atto virtuoso compiuto e il rimorso per il delitto
presuppone che si sa apprezzare il valore del dovere e l'autorità della legge
morale; ond’è che la legge morale è il fondamento di questi sentimenti, non
viceversa. Si deve essere, dice Kant, almeno per metà di già galantuomini per
potersi fare un’idea di tali sentimenti. Osservazione che mi pare perentoria
contro ogni specie d’EUDEMONISMO (alla GRICE). Sicché, anche per questo
rispetto, la morale di G. riproduce quella del Kant. Nella morale G. si attiene
al criticismo del saggio filosofico. La sua morale, come quella di KANT, è
indipendente dall'esistenza di Dio. All'ateo, con la sola considerazione
dell'umana natura può provare l'esistenza del bene e del male morale,
indipendentemente dalla considerazione dell'utile. Perchè l’ateo, qualora non
voglia esser sordo alla voce della coscienza, non può non riconoscere una legge
morale, che gli comanda di esser giusto e benefico. Giacchè il dovere si
conosce per se stesso, è un elemento semplice di tutte le verità morali, che
sgorga dall’intimo di noi stessi. Le difficoltà d’altri incontrate a dedurre
dalla natura umana per sè considerata la legislazione morale, derivano dalla
inesatta e incompleta comprensione di questa natura; cui si attribuisce solo il
principio dell'utile e si nega il principio morale. Si parte dal principio che
nella natura umana non vi può essere altro principio RAZIONALE d’azione che
quello della propria felicità. Ora qual meraviglia che partendo da un principio
insufficiente a generare il dovere non si giunga ragionando con conseguenza ad
una verità pratica? Anzi, secondo G., l'idea del divino non è sufficiente a
spiegarci l'origine del dovere: perchè una conoscenza teoretica non è
sufficiente a generare un principio pratico. Ma, dice GENOVESI (cf. GRAZIA,
FILOSOFIA ORTODOSSA), LA RAGIONE umana è fallibile: è spesso traviata dal
personale interesse. Eppero i suoi dettami non possono essere norma delle
nostre azioni. E G. replica, che questo scoglio non si evita certo con la tesi
dell'origine di [Cfr. del resto questo passo di G. I difonsori della moralo
dell'interesso bene riguardano il rimorso come motivi, che debbano determinar
l'uomo a fare il proprio dovero. Ma noi sostenghiamo, che l'uomo virtuoso dee
fare e fa il proprio dovere per se stesso, indipendentemente dagl’effetti che
seguono dalla pratica della virtù e da quelli del vizio. Filos. vina della
morale. Perchè la legge morale bisogna sempre che sia conosciuta dagl’uomini; e
conosciuta, naturalmente, per mezzo della loro RAGIONE. Nè maggior valore ha
l'argomento a cui arrestavasi TAMBURINI (si veda): che non si può concepire
legge senza legislatore. Il legislatore, dice G., è essa LA RAGIONE, in quanto
ragione pratica. Un ultimo punto d'incontro di G. con Kant è il seguente.
Secondo il filosofo italiano è un principio essenziale della RAGION pratica che
la virtù è degna di premio, il vizio è degno di pena: giudizio *SINTETICO* A
PRIORI. Ora, se noi crediamo a questo principio, dobbiamo pure credere
all'immortalità del nostro spirito; perchè l'uomo virtuoso in questa terra non
è sempre felice, nè sempre sfortunato il malvagio. Che il vizio dev'esser
punito intanto è indimostrabile, come che la virtù debb’esser premiata. E
indimostrabile, perchè è un giudizio *SINTETICO*. Ma è legge inalterabilmente
impressa nella realtà del mio essere; è la voce di quella RAGION pratica, che è
la legislatrice delle nostre azioni, e che non ci può ingannare, se la virtù
non è nome vano. Uno stato è necessario in cui quel principio ha il suo valore
reale, la sua piena esecuzione. Inoltre, io trovo nel santuario del mio essere
la necessità d'una ricompensa della virtù e d’una punizione del vizio; vi trovo
pertanto la necessità di un giudice supremo. Vi è dunque un'intelligenza suprema,
infinita, assoluta, che si manifesta a tutti gl’esseri intelligenti. Questo
supremo legislatore e giudice è il divino. È, comesi vede, su per giù, la
teoria kantiana dei postulati della RAGION pratica. Ma G. sente la difficoltà
che s'oppone a una deduzione teoretica da un'esigenza morale, e si domanda:
possiamo noi sulla semplice esistenza delle nostre affezioni in noi, stabilire
la realtà degl’oggetti di esse? Anche al Kant si affaccia un problema simile; e
fa escogitare quella teoria del primato della RAGION pratica sulla ragion
teoretica, che è una vera rinunzia a ogni diritto di vero e proprio filosofare,
e perciò a ogni fondamento filosofico della stessa morale. G. non fa motto di
questa teorica, forse convinto della sua manchevolezza, e tenta ogni via per
distrigarsi dalla difficoltà ravvisata. Ma non pare che le ragioni trovate lo
persuadano bene. Giacchè, infine, Elem. Vedi l’ottime osservazioni di MATURI,
Principii di filosofia, Napoli, si prova a dimostrare l'immortalità dell'anima,
indirettamente, dimostrando che non si può provarne la mortalità. Se pure que
sta può dirsi dimostrazione. Egli dice in sostanza, dopo qualche esitazione. L’esperienza
ci mostra che gl’oggetti delle nostre affezioni sono reali. Ma fra le nostre
affezioni c'è la tendenza alla immortalità. Dunque l'anima è realmente
immortale. Bisogna riconoscere che in generale le nostre tendenze naturali non
sono defraudate del loro oggetto. Una di queste tendenze è la curiosità. E non
possiamo noi forse, dice G., spesso soddisfare la nostra curiosità. Questo
spesso, veramente, guasta, e non poco, l'argomentazione dell’autore; il quale
si contenta di constatare con l'esperienza. Non vi ha alcuna tendenza nel cuore
umano la quale non possa qualche volta raggiungere l'oggetto cui ella tende.
Qualche volta! Dunque l'asserzione dell'immortalità dell'anima non è nulla
d'apodittico. È meramente problematica. Per dirla schietta, il nostro filosofo
è convinto che il domma dell'immortalità importi alla filosofia morale come il
più fermo sostegno della virtù infelice ed un freno potente alla licenza del
vizio. Ma chiuso nel suo sperimentalismo, ignaro degl’espedienti mal fidi del
Kant, non sa fondare teoricamente il suo principio, non sa darne una
giustificazione filosofica. Più filosofo nella sua impotenza degl’odierni
prammatisti, che con la maggiore disinvoltura creano una metafisica per uso e
consumo della morale, quasi che lo spirito ha fine più degno del vero. Quasi
che il bene potesse fare a meno di essere il vero bene. Stabiliti comunque i
suoi principii generali della morale, che sono principii essenzialmente
formali, come tutti i principii soggettivi, si può rimproverare a G. ch'egli ne
deduca i singoli doveri. Ma anche in questo egli s'accorda col KANT, la cui dottrina
della virtù, nella seconda parte della metafisica dei costumi, per quanti
sforzi facesse l'autore di salvare il suo formalismo, è in assoluta
contraddizione col principio formale da cui si vuol derivare. Il formalista
così nella logica come nella morale deve lasciare alla storia il compito di
dare un contenuto alle leggi soggettive, epperò necessarie ed universali, dello
spirito. Certo, con tutti i suoi difetti, che non sono solamente suoi, anche
nella morale G. rappresenta un progresso immenso Elem. della filos. morale,
cap. sui filosofi precedenti. In conchiusione, egli con le sue ispirazioni
kantiane, co'suoi studi accuratissimi su tutta la gnoseologia post-cartesiana
si libera dalle angustie del sensismo e dello spiritualismo dommatico; e inizia
in ITALIA un nuovo periodo speculativo; nel quale il nostro pensiero,
rinsanguato delle idee più vitali della filosofia tedesca, si solleva con SERBATTI
e con GIOBERTI a un'altezza non più toccata da noi dopo i grandi pensatori del
Rinascimento. Galluppi errs in calling natural
semiotics, ‘il linguaggio dell natura,’ since no tongue is involved!” But we
can forgive him for that since he genially realizes, unlike King Alfred, that
one can use ‘dire’, ‘con questo moto del ditto, egli dice al compagno che vada
da B in C” Segno figurato, motto dei bracci quando imito il moto de pesare para
figurar paragonare. – Grice: “Gallupi’s scheme is a complex, and much better
than Locke. He
notes that ‘natural’ can apply to ‘sign’, and it is a natural fact that men
will start using ‘natural’ signs in an artificial way – this he calls ‘natural
sign’ – in that it is already an utterer making the gesture, as when he
sneezes, intentionally. Galluppi has always in mind the dyad, what he calls il
‘compagno’ – so he plays with fifty variants on a theme. A makes a gesture –
with the finger, with the arm --. Galluppi speaks of the ‘proposizione’ being
communicated even in these cases – a ‘grido’ is equivalent to the proposizione
that the compagno is to ‘turn his attention towards the utterer’ – In the
‘natural’ sign, as used in communication, we are already in the realm of the
artificial – only a black cloud naturally means rain – Galluppi hardly dwells
on a ‘grido’ signifying pain in a natural way. He notes that we progress. And
he keeps looking for the reasons in the utterer and the addressee for all this.
So like me, he looks for a motivational rationale – a ‘semantic’ freedom – or
‘prammatica’ as he would say. Since he is an illuminista, he is only concerned
about this in terms of a minimal taxonomy of signs. So between the signs used
in communication he distinguishes three types: the imitative, the indicative
(different criteria) and the figured sign – not figurative – ‘segno figurato’ –
when a lot of pantomime takes place. It is only THEN that he explores the
arbitrariness: one loses one’s compagno, and utters, “Where are you?” – so
since this worked, they agree that ‘Where are you’ will mean, “I lost you –
where are you?” --. And then we have a full lingo – or semiosis. He rightly
thinks that his is an improvement over Lucrezio!” Pasquale Galluppi. Galluppi. Keywords: gesto, grido, gemito,
moto del ditto, dolore, causa del dolore, circustanza, segno naturale, segno
istituito, segno commune (istituito per la comprensione mutua), segno
arbitrario, segno artificiale, segno imitative, segno indicatore, segno figurato,
segno analogico, segno figurativo -- gesto della mano, lo sguardo, communicare,
sentire, volere, Gentile, il canone nella storiografia filosofica italiana –
Gentile su Galluppi. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Galluppi," per
Il Club Anglo-Italiano,The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria,
Italia.


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