Speranza
Paolo e Francesca – La “Francesca da Rimini” di Gabriele D’Annunzio
Gabriele
D’Annunzio, Francesca da Rimini, Milano, Treves, 1903.
Atto III, scena
V
I due cognati si guardano, nel primo istante, senza trovar parola, entrambi
scolorando. Ancora s’odono i suoni lontanare per il palagio. Dalla finestra la
camera s’inaura del giorno che declina.
FRANCESCA.
Benvenuto, signore mio
cognato.
PAOLO.
Ecco, sono venuto, avendo udito i suoni, per portarvi il mio
saluto, il saluto del mio ritorno.
FRANCESCA.
Assai presto siete tornato: con
la prima rondine. Le mie donne eran qui che cantavan la ballata per salutare il
marzo. Et era qui anco quel mercatante fiorentino che seguitò la vostra scorta.
M’ebbi da lui le vostre novelle.
PAOLO.
Di voi novelle mai non m’ebbi laggiù.
Nulla più seppi di voi, da quella sera perigliosa che m’offeriste una coppa di
vino e mi diceste addio con la buona ventura.
FRANCESCA.
Non m’è nella memoria
questo, signore. Io ho molto pregato.
PAOLO Non vi sovviene?
FRANCESCA Io
ho molto pregato.
PAOLO Io ho molto sofferto. Se è vero che sofferitore
vince, io vincere dovrei…
FRANCESCA Che?
PAOLO La mia sorte,
Francesca.
FRANCESCA E qui tornato siete?
PAOLO Vivere
voglio.
FRANCESCA Non più morire?
PAOLO Ah, vi sovviene della morte
imprecata che non mi volle! Almeno questo v’è nella memoria.
La donna si
ritrae alquanto volgendosi verso la finestra, come schiva di quella violenza mal
contenuta.
FRANCESCA Paolo, datemi pace! È dolce cosa vivere obliando, almeno
un’ora, fuor della tempesta che ci affatica. Non richiamate, prego, l’ombra del
tempo in questa fresca luce che alfine mi disseta come quel sorso ch’io m’ebbi
al passo della fiumana bella. Pensare io voglio che l’anima s’è mossa da quella
riva per venire in questo asilo ove la musica è sorella della speranza, et
ignorare il male che ieri fu sofferto e quello che sofferto sarà dimane, e tutta
la mia vita con tutte le sue vene e con tutti i suoi giorni e tutte le sue cose
più lontane per un’ora vederla acquietarsi come una corrente in questo mare che
gli occhi miei vedono sorridente, se nonli illude lagrima che trema e non si
versa. Pace in questo mare che tanto era selvaggio ieri, et oggi è come la
perla, datemi pace!
PAOLO.
La melodia di primavera odo, che dalle vostre
labbra corre sul mondo, quella che cavalcando pareami udire nel vento della
corsa, ad ogni svolta, ad ogni valico, e su la cima delle colline e al limite
dei boschi e lungh’essi i torrenti, quando il mio desiderio curvo in arcione
avvampava con l’alito la criniera del mio cavallo folle, e l’anima viveva della
rapidità come la torcia trasportata, e tutti i suoi pensieri, tranne uno, tranne
uno, in dietro si perdevano come faville.
FRANCESCA Oimé, Paolo, faville sono
le vostre parole e non danno tregua, e ancora nel vento della corsa vive l’anima
vostra e seco mi trascina paventosa. Io vi prego, vi prego che voi mi diate pace
sol per quest’ora, mio bello e dolce amico, a fin ch’io posa addormentare in me
l’antica pena et obliare il resto, e riavere ne’ miei occhi il primo sguardo che
s’affisò nel vostro viso sconosciuto; perché solo di questa rugiada hanno
bisogno le mie ciglia aride, sol di riavere in loro la maraviglia di quel primo
sguardo; e senton elle che la grazia viene, come un tempo sentivano nel sogno
l’appressare dell’alba, sentono che saranno consolate forse, nell’ombra della
ghirlanda nova…
PAOLO Inghirlandata di violette m’appariste ieri a una sosta,
in un prato dove mi ritrovai io solo, dilungatomi gran tratto della scorta.
S’udia soltanto tintinnire il freno del cavallo che pascolava; e si vedean le
torri di Meldola di là da un bosco. E tutta la campagna era aulente di voi, nel
mattino alto. E m’appariste con le viole; e vi tornò sul labbro una parola che
da voi fu detta: Perdonato ti sia con grande amore!
FRANCESCA Tal parola fu
detta, e la gioia perfetta se n’attende… (gli occhi di Paolo errano per la
stanza) Ah, non guardate intorno le cose mute che sembrano gioiose e non sanno
se non l’onta e il dolore. Non le sfiorò l’autunno, la primavera non le
rinnovella! Guardate il mare, il mare che con Dio fece testimonianza alla parola
che fu detta, grande e splendente di là dalla battaglia, silenzioso di là dal
clamore furibondo, e una vela andava andava sola alle sue fortune, come quella,
vedete? E da noi prova teribile fu fatta. Ora sedete qui alla finestra; e non
con l’arme per uccidere uomini, ma senza crudeltà, ecco, tenete, Paolo… con
questa ciocca di basilico… (Ella toglie dal testo una ciocca e la offre al
cognato che, nell’appressarsi, urta il piede contro il maniglio della cateratta
e si sofferma) Avete urtato il piede contro l’anello della cataratta che v’è là
per discendere nella stanza di sotto. (Paolo si china un poco a guardare.
Francesca gli porge il basilico) Ecco, tenete, odoratelo. È buono. Smaragdi l’ha
piantato in questo vaso per memoria di Cipro; e quando gli dà l’acqua ci canta:
“A suolo, a suolo, basilico ti stendo, che tu ci dorma, che tu lo tagli, che tu
l’odori, che di me ti rammenti!” A Firenze ogni donna tiene sul davanzale il suo
basilico. È vero? Non volete parlarmi un poco della vostra vita? Sedete qui.
Parlatemi di voi. Come avete vissuto?
PAOLO.
Perchè volete voi ch’io rinnovi
nel cuore la miseria di mia vita?
Mi fu a noia e spiacque tutto ch’altrui
piaceva. E solamente la musica mi diede qualche ora di dolcezza. Io fui talvolta
nella casa di un sommo cantatore nominato Casella, e quivi convenivano taluni
gentili uomini.
Guido Cavalcanti tra gli altri, cavaliere de’ migliori, che si
diletta del dire parole per rima, e Ser Brunetto dottissimo rettorico tornato di
Parigi.
E un giovinetto degli Alighieri nominato Dante.
E questo giovinetto mi
divenne caro, tanto era pieno di pensieri d’amore e di dolore, tanto era ardente
in ascoltare il canto. E alcuna volta ebbe da lui un bene inatteso il mio cuore
che sempre chiuso era; perché la troppa soavità del canto alcuna volta lo
sforzava a piangere silenziosamente, e, vedendolo anch’io con lui piangeva. (Gli
occhi di Francesca si empiono di lagrime, la sua voce trema).
FRANCESCA Voi
piangevate?
PAOLO Francesca!
FRANCESCA Piangevate? Ah, Paolo, sia
benedetto colui che v’insegnò tal pianto! Io pregherò per la sua pace. Ora Io vi
vedo, vi rivedo come allora, dolce amico. È venuta la grazia alle mie ciglia!
(Ella appare trasfigurata dalla gioia perfetta. Con un gesto lento si toglie dal
capo la ghirlanda e la pone sul libro aperto che è da presso)
PAOLO Ora
perché vi togliete dal capo la ghirlanda?
FRANCESCA Perché non mi fu data da
voi, com’io vi diedi quella rosa che colsi da quell’arca. Ho sentito che già non
è più fresca! (Paolo si leva, s’accosta al leggio e tocca le violette)
PAOLO
È vero. Vi sovviene? In quella sera di fuoco e sangue, mi chiedeste in dono un
bello elmetto. Io ve l’offersi, et era di fina tempra. L’acciaio e l’oro non
sanno che sia il disfiorire. Ma voi lo lasciaste cadere. Vi sovviene? Io lo
raccolsi. E l’ho tenuto caro come corona di re. Quand’io lo cingo, immantinente
s’innalza il mio valore e nel mio capo non penetra pensiero che non arda. (Egli
è chino sul libro) Ah la parola che i miei occhi incontrano! “… fatto più ricco
che se voi gli avessi donato tutto il mondo…” …
Qual libro è questo?
FRANCESCA .
La famosa istoria di Lancillotto del Lago.
(Anch’ella si leva e s’appressa al
leggio)
PAOLO
Già letta l’avete?
FRANCESCA
Sono giunta nella lettura a
questo passo.
PAOLO
Dove? Qui dov’è il segno? (Egli legge)
“…ma non mi
richiede di niente…”
Volete seguitare?
FRANCESCA Guardate il mare come si fa
bianco!
PAOLO Leggiamo qualche pagina, Francesca!
FRANCESCA Guardate
quello stormo di rondini, che arriva e segna l’ombra sul bianco mare!
PAOLO
Leggiamo, Francesca.
FRANCESCA E quella vela ch’è sì rossa che par
foco!
PAOLO (leggendo)
“Certamente, dama" – dice allora Galeotto – "ei non si
ardisce, né vi domanderà mai cosa alcuna per amore, perché teme, ma io ve ne
priego per lui, e se bene io non vi pregassi, sì lo doveresti voi procacciare,
perché non potresti voi più ricco tesoro conquistare”.
Et essa dice…
(Paolo trae
leggermente Francesca per la mano)
Ora leggete voi quel ch’essa dice.
Siate voi
Ginevra.
Sentite come odorano le violette che abbandonaste?
Via, leggete un
poco!
(Le loro fronti si avvicinano chinandosi sul libro)
FRANCESCA
(leggendo)
“Et essa dice:
Io lo so bene, et io ne farò ciò che mi comanderete."
E
Galeotto dice:
"Gran mercé, dama. Io vi prego che voi gli doniate il vostro
amore…”
(ella s’interrompe)
PAOLO Leggete ancora!
FRANCESCA No, non vedo
più le parole.
PAOLO Leggete: “Certamente…”
FRANCESCA “Certamente", dice
essa, "io gli prometto." "Ma che egli sia mio et io tutta sua, e che emendate sien
tutte le cose mal fatte…” Basta, Paolo.
PAOLO (leggendo con voce divenuta
roca e tremante)
“Dama", dice esso, gran mercé."
"BACIATELO, A ME DAVANTI, PER COMINCIAMENTO DI VERO AMORE".
Voi, voi! Che dice essa? Ora che dice? Qui.
(I
loro volti pallidi sono chini sul libro, così che le guance quasi si
sfiorano)
FRANCESCA (leggendo)
“Dice:
"di che io mi farei pregare?" "Più lo
voglio io che voi…”
PAOLO (seguitando, soffocatamente)
“E si tirano da paret."
E la reina vede il cavaliere che non ardisce di fare di più.
Lo piglia per il
mento e lungamente lo bacia in bocca…”
(Egli fa quell’atto istesso verso la
cognata, e la bacia. Quando le bocche si disgiungono, Francesca vacilla e
s’abbandona sui guanciali) Francesca!
FRANCESCA (con la voce spenta) No,
Paolo!
* * * *
Atto V, scena IV
Francesca, sola, trasale udendo battere
leggermente alla porta. Posa lo specchio, spegne col soffio il doppiere.
VOCE
DI PAOLO Francesca!
Ella apre con un gesto veemente. Con l’anelito della sete
ella si getta nelle braccia dell’amante.
FRANCESCA Paolo! Paolo!
PAOLO O
mia vita, non fu mai tanto folle il desiderio mio di te. Sentivo già venir meno
dentro al core gli spiriti che vivono degli occhi tuoi. La forza mi si perdeva
nella notte, uscitami dal petto, come un fiume terribile di sangue, fragorosa; e
paura ne avea l’anima, come nell’ora chiusa che con Dio mi provasti per la
saetta e m’alzasti là donde non ritorna l’uomo per volontà di ritornare… Non è
l’alba? Non è già l’alba? Tutte le stelle tramontavano nei tuoi capelli sparsi
ai confini dell’ombra ove labbra non giungono! (Più e più volte lei reclinata
bacia sui capelli appassionatamente)
FRANCESCA Perdonami, perdonami! Lontano
anche tu m’apparivi, lontano e muto, con le pupille aride e fisse quale tra le
lance inflessibili quel giorno. Un sonno duro più d’una percossa mi spezzò
l’anima come uno stelo; e parvemi giacere su le pietre perduta… E sopraggiunsemi
quel sogno che da lungo tempo io vedo, quel sogno selvaggio che mi lacera; e
tutta di terrori fui piena; e le mie donne mi videro tremare, piangere…
PAOLO
Oh, piangere!
FRANCESCA Perdonami, perdonami amico dolce! Risvegliata m’hai,
liberata da ogni angoscia. E non è l’alba; le stelle non tramontano sul mare; la
state non è morta; e tu sei mio, et io son tutta tua, e la gioia perfetta è
nell’ardore della nostra vita. (L’amante la bacia e ribacia
insaziabile)
PAOLO Rabbrividisci?
FRANCESCA Aperta è la porta, e vi passa
l’alito della notte. Non lo senti? È questa l’ora silenziosa che versa la
rugiada su le criniere dei cavalli in cammino. Chiudi la porta. (Paolo chiude la
porta) Paolo, vedesti tu con gli occhi tuoi allontanarsi i cavalieri?
PAOLO
Sì, lungamente li scorsi dalla torre finché l’ultima lancia non si nascose
nell’oscurità. Vieni, vieni, Francesca! Ore di gaudii lunghe ci son davanti, con
la selvaggia melodia d’autunno e il rapimento della solitudine in fuoco e il
violento fiume che non ha foce e la sete immortale; ma pur l’ora che fugge mi dà
l’ansia di vivere con mille vite, col tremore dell’aere che t’abbraccia, con
l’affanno del mare, con la furia del mondo, perché niuna delle cose infinite che
sono in te mi resti ignota et io non muoia senza aver divelta dal tuo profondo e
assaporata l’infima radice della mia gioia. (Egli la trae verso i cuscini di
sciamito, presso il davanzale)
FRANCESCA Baciami gli occhi, baciami le tempie
e le guance e la gola… così… così… tieni, e i polsi e le dita… così… Prendimi
l’anima e riversala; perché la volge indietro, verso quello che fu, il soffio
della notte; la rivolge alle più lontane cose la parola notturna, e il bene che
goduto fu m’ingombra il cuore, e quale fosti io ti veggo, non quale tu sarai,
mio bello e dolce amico.
PAOLO Ti trarrò, ti trarrò dov’è l’oblio. Più non
avrà potere sul desiderio il tempo fatto schiavo. E la notte e il dì saran
commisti sopra la terra come sopra un solo origliere; e le mani dell’alba non
sapranno più disgiungere le braccia oscure dalla bianche braccia né districare i
capelli e le vene loro.
FRANCESCA Dice quel Libro, là dove tu non leggesti:
“Siamo stati una vita, e degna cosa è che noi siamo una morte”.
PAOLO Sia
chiuso il libro! (Egli si leva; chiude il libro sul leggio; e spegne il doppiere
col soffio) Non vi legger più. Altrove scritto è il destino. Nelle stelle è
scritto che palpitano come la tua gola e i tuoi polsi e le tue tempie, forse
perché ti furono monile e serto quando andavi ardendo per le vie del cielo. In
quale vigna cogliesti tu questi bei grappoli? Hanno l’odore dell’ebbrezza e del
miele, come le vene gonfi di delizia, frutti notturni! I piedi fiammeggianti
dell’Amore li premeranno. Dammi la bocca. Ancora! Ancora!
La donna è
abbandonata su i guanciali, immemore, vinta. A un tratto, nell’alto silenzio, un
urto violento scuote l’uscio, come se taluno vi dia di petto per abbatterlo.
Sbigottiti, gli amanti sobbalzano e si levano.
LA VOCE DI GIANCIOTTO
Francesca, apri! Francesca!
La donna è impietrata dal terrore. Paolo cerca
con gli occhi intorno, tenendo la mano al pugnale. Lo sguardo va al maniglio
della cateratta.
PAOLO (a bassa voce) Fa cuore! Fa cuore! Io mi getto giù per
quella cateratta, e tu vai ad aprirgli. Ma non tremare! (Egli apre la cateratta.
L’uscio sembra schiantarsi agli urti iterati)
LA VOCE DI GIANCIOTTO Apri,
Francesca, pel tuo capo!
PAOLO Aprigli, aprigli! Va. Rimango sotto l’imposta
e attendo. Balzo fuori se gridi, s’ei ti tocca. Non tremare! Va franca! (Egli fa
per gettarsi giù, mentre la donna gli obbedisce e va ad aprire vacillando)
LA
VOCE DI GIANCIOTTO Apri, Francesca, pel tuo capo! Apri!
Aperto l’uscio,
Gianciotto tutto in arme e coperto di polvere, si precipita nella camera
furibondo, cercando con gli occhi il fratello. Subito s’accorge che Paolo,
stando fuori del pavimento con il capo e le spalle, si divincola ritenuto per la
falda della sopravvesta a un ferro de la cateratta. Francesca, a quella vista
inattesa, getta un grido acutissimo, mentre lo Sciancato si fa sopra l’adultero
e lo afferra per i capelli forzandolo a risalire.
GIANCIOTTO Sei preso nella
trappola, ah, traditore! Ben ti s’acciuffa per quelle chiome!
La donna gli
s’avventa al viso minacciosa.
FRANCESCA Lascialo! Lascialo! Me, me prendi!
Eccomi!
Il marito lascia la presa. Paolo balza dall’altra parte della
cateratta e snuda il pugnale. Lo Sciancato indietreggia, sguaina lo stocco e gli
si avventa addosso con impeto terribile. Francesca in un baleno si getta
tramezzo ai due; ma, come il marito tutto si grava sopra il colpoe non può
ritenerlo, ella ha il petto trapassato dal ferro, barcolla, gira su sé stessa
volgendosi a Paolo che lascia il pugnale e la riceve tra le
braccia.
FRANCESCA (morente) Ah Paolo!
Lo Sciancato per un attimo
s’arresta. Vede la donna stretta al cuore dell’amante che con le sue labbra le
suggella le labbra spiranti. Folle di dolore e di furore, vibra al fianco del
fratello un altro colpo mortale. I due corpi allacciati vacillano accennando di
cadere; non danno un gemito; senza sciogliersi, piombano sul pavimento. Lo
Sciancato si curva in silenzio, piega con pena un de’ ginocchi; su l’altro
spezza lo stocco sanguinoso.
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