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Wednesday, March 13, 2013

Ricitelli, "Francesca da Rimini" (1896), su libretto di Pellico (1815)

Speranza

1896

Pancrazio Primo Riccitelli (n Cognoli di Campi, 8 agosto 1875, m. Giulianova, 27 arzo, 1941), Francesca da Rimini: dramma per musica. Tratto del Canto V dell’Inferno (Divina Commedia) di Dante Alighieri. "Francesca da Rimini: dramma per musica, libretto tratto dalla tragedia di SILVIO PELLICO del 1815. -- (ed. di Firenze, Adriano Salani, 1899. Tratto del Canto V dell’Inferno (Divina Commedia) di Dante Alighieri. Pellico ottenne un grande successo la sera del 18 agosto 1815 quando venne rappresentata per la prima volta la nota e tragica vicenda di Paolo e Francesca, che sulla scena venne interpretata da Carlotta Marchionni (per la sorella di questa il Pellico nutrì una grande passione a stento ostacolata dai familiari). Tradizione patria, romanticismo e accenni non sempre velati di pattriottismo decretarono un successo straordinario dell'opera, sicuramente una delle più acclamate del tempo, e la "figura di Francesca segna la nascita, in Italia, di uno dei più popolari archetipi di poesia romantica, quello tipizzato sul binomio virtù-sfortuna. L'originalità dello scrittore saluzzese consiste nel mediare i due termini sottolineando morbidamente il motivo della tentazione, della lotta contro le insidie del peccato", tema che si troverà anche ne Le mie prigioni. "Molto alfieriana appare la Francesca, nell'essenzialità della trama che inizia a svolgersi gà a un passo della catastrofe. Quattro sole figure occupano la scena: Francesca, suo marito Lanciotto, suo cognato Paolo Malatesta, suo padre Guido Minore da Polenta. La concentrazione degli affetti drammatici è rafforzata dalla ristrettezza dell'ambito familiare. Il vero nucleo è la gelosia di Lanciotto, tanto più rabbiosa in quanto impotente, perché entrambi i rei proclamano bensì di amarsi, ma assicurano di sacrificare l'amore ai rispettivi doveri di moglie e di fratello." DRAMATIS PERSONAE: Lanciotto, Guido Francesca, Paggio, Paolo. Scena Quinta: Paolo solo.












PAOLO. Vederla, sì, l’ultima volta! Amore mi fa sordo al dover. Sacro dovere saria il partir, più non vederla mai; nol posso. Oh come mi guardò! Più bella la fa il dolor: più bella, sì, mi parve, più sovrumana. E la perdei! Lanciotto me l’ha rapita! oh rabbia! oh!… Il fratel mio non amo? Egli è felice: ei lungamente lo sia. Ma che? per farsi egli felice squarciar doveva ei d’un fratello il core?
Francesca s’avanza senza veder Paolo.
FRANCESCA: Ov’è mio padre? Almen da lui sapessi se ancor qui alberga… il mio cognato! Io questemura avrò care sempre. Ah sì! lo spirto esalerò su questo caro suolo ch’egli asperse di pianto!… Empia, discaccia sì rei pensieri: io son moglie.
PAOLO. Favella seco medesma, e geme.
FRANCESCA. Ah questo loco lasciar io deggio, di lui pieno è troppo. Al domestico altar ritrarmi io deggio… e giorno e notte innanzi a Dio prostrata chieder mercè de’ falli miei, che tutta non m’abbandoni, degli afflitti cuori refugio unico, Iddio.
PAOLO. Francesca.
FRANCESCA: Oh, vista!… Signor… che vuoi?
PAOLO: Parlarti ancor.
FRANCESCA: Parlarmi? Ahi! sola io son! Sola mi lasci, o padre? Padre! ove sei? la tua figlia soccorri… Di fuggir forza avrò.
PAOLO: Dove?
FRANCESCA: Signore… Deh non seguirmi! il voler mio rispetta. Al domestico altar qui mi ritraggo; del cielo han d’uopo gl’infelici. (…)
PAOLO: T’amo, Francesca, t’amo, e disperato è l’amor mio!
FRANCESCA: Che intendo? Delirio io forse? che dicesti?
PAOLO: Io t’amo.
FRANCESCA: Che ardisci! Ah taci! Udir potrian. Tu m’ami? Sì repentina è la tua fiamma? Ignori che tua cognata io son? Porre in obblìo Sì tosto puoi la tua perduta amante? Misera me!… questa mia man, deh, lascia: delitto sono i baci tuoi.
PAOLO: Repente non è, non è la fiamma mia. Perduta ho una donna, e sei tu: di te parlava, di te piangea, te amava, te sempre amo, te amerò sino all’ultim’ora… e s’anco dell’empio amor soffrir dovessi eterno il castigo sotterra, eternamente più e più sempre t’amerò.
FRANCESCA: Fia vero? M’amavi?
PAOLO: Il giorno che a Ravenna io giunsi ambasciator del padre mio, ti vidi varcare un atrio col feral corteggio di meste donne, ed arrestarti a’ piedi d’un recente sepolcro, ed ossequiosa ivi prostrarti, e le man giunte al cielo alzar con muto, ma dirotto pianto. Chi è colei? dissi a talun. – La figlia di Guido, mi rispose. – E quel sepolcro? – Di sua madre il sepolcro. – Oh, quanta al core pietà sentii di quell’afflitta figlia! Oh qual confuso palpitar! Velata eri, o Francesca, gli occhi tuoi non vidi quel giorno, ma t’amai sin dal quel giorno.
FRANCESCA: Tu… deh, cessa!… m’amavi?

PAOLO: Io questa fiamma alcun tempo celai, ma un dì mi parve che tu nel cor letto m’avessi. Il piede dalle virginee tue stanze volgevi al secreto giardino; e presso al lago, in mezzo ai fior proteso, io sospirando le tue stanze guardava, e al venir tuo tremando sorsi. Sopra un libro attenti non mi vedeano gli occhi tuoi, sul libro ti cadeva una lagrima. Commosso mi t’accostai.

Perplessi eran miei detti, perplessi pure erano i tuoi.

Quel libro mi porgesti e leggemmo.

Insiem leggemmo di Lancillotto come amor lo strinse.

Soli eravamo e senza alcun sospetto… gli sguardi nostri s’incontraro… il viso mio scolorossi, tu tremavi, e ratta ti dileguasti.

FRANCESCA: Oh giorno! A te quel libro restava.

PAOLO:

Ei posa sul mio cuor. Felice nella mia lontananza egli mi fea. Eccol – vedi le carte che leggemmo: ecco, vedi, la lagrima qui cadde dagli occhi tuoi quel dì.
FRANCESCA: Và, ti scongiuro. Altra memoria conservar non debbo che del trafitto mio fratel.
PAOLO: Quel sangue ancor versato io non avea. Oh patrie guerre funeste! Quel versato sangue ardir mi tolse. La tua man non chiesi e in Asia trassi a militar. Sperava rieder tosto, e placata indi trovarti ed ottenerti. Ah! d’ottenerti speme nutrìa, il confesso.
FRANCESCA: Ohimé! ten prego, vanne: il dolor mio, la mia virtù rispetta. Chi mi dà forza ond’io resista?
PAOLO: Ah, stretta hai la mia destra. Oh gioia! dimmi, stretta perché hai la destra mia?
FRANCESCA: Paolo!
PAOLO: Non m’odii? Non m’odii tu!
FRANCESCA: Convien ch’io t’odii.
PAOLO: E il puoi?
FRANCESCA: Nol posso!
PAOLO: Oh detto! ah! mel ripeti, donna, non m’odii tu?
FRANCESCA: Troppo ti dissi. Ah crudo! Non ti basta? Va, lasciami.
PAOLO: Finisci: non ti lascio se in pria tutto non dici.
FRANCESCA: E non tel dissi ch’io… t’amo? Ah! dal labbro m’uscì l’empia parola. Io t’amo, io muoio d’amor per te. Morir bramo innocente. Abbi pietà!
PAOLO: Tu m’ami? tu?… L’orrendo mio affanno vedi. Disperato io sono: ma la gioia che in me scorre fra questo disperato furor, tale e sì grande gioia è che dirla non poss’io. Fia vero che tui m’amassi? E ti perdei!
FRANCESCA: Tu stesso m’abbandonasti, o Paolo. Io da te amata creder non mi potea. Vanne: sia questa l’ultima volta.
PAOLO: Ch’io mai t’abbandoni possibile non è. Vederci almeno ogni giorno!
FRANCESCA: E tradirci? e nel mio sposo destar sospetti ingiuriosi? e macchia al nome mio recar? Paolo, se m’ami, fuggimi.
PAOLO: O sorte irreparabil! Macchia al tuo nome io recar? No; sposa d’altro tu sei, morir degg’io. La rimembranza di me scancella dal tuo seno: in pace vivi. Io turbar la pace tua? perdona; deh! non pianger, Francesca, non amarmi. Che dico? Amami, sì, piangi sul mio precoce fato… Odo Lanciotto. Oh Cielo! Dammi tu forza! A me, fratel.

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