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Tuesday, March 12, 2013

***** -------- ******** PAOLO E FRANCESCA ********* ------- noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto del Lago come amor lo strinse ... -------***********

Speranza

"Noi leggiavamo un giorno per diletto..."

AMORE AMOR AMORNÒ
 romanzo "Francesca" di Flavio Nicolini dedicato ai Malatesta.

"Paolo e Francesca", regia di Vittorio de Sisti, soggetto e sceneggiatura di Flavio Nicolini, RAI Radiotelevisione
Italiana, 1990.

FRANCESCA D’ITALIA: Francesca da Rimini dalla rivoluzione giacobina a Trieste liberata": Centocinquanta cimeli in mostra per il centocinquantenario dell’Unità d’Italia.

RILEGGERE DANTE, RILEGGERE FRANCESCA…

Lectio magistralis sul quinto canto dell’Inferno

"I colori della passione: Francesca da Rimini nelle arti figurative tra Otto e Novecento"

ALLA RICERCA DEL BACIO PERDUTO: TOUR GUIDATO AI LUOGHI DEL MITO

"Il Libro, la Donna e la Cavalleria: dalla Vita nuova al libretto comico"

"Of Kings and Queens in Dante's Inferno"

"Decameron IV, 1: dal patetico al sentimentale"

" Victoria Ocampo: Francesca e il dantismo argentino"

"Leggere Petrarca, naturalmente ad Arquà"

"Libri Galeotti": tra romanzo e teatro (Settecento-Ottocento)

"Francesca Fin de Siècle: Oscar Wilde e De Gallienne"

"Scriver d’amore per farsi leggere: e così sedurre"

Perché qualcuno legga d’amore bisogna che qualcuno
d’amore scriva: spigolature dugentesche e d’oggidì

"Libri Galeotti" letture proibite

"Sul libro Galeotto"


Alberto Zanverdiani,
Xilografia in Morello Torrespini, Paolo e Francesca, Trieste
1919.


Nei due versi del canto V dell’Inferno di Dante, centrati sull’esperienza
immortale di Francesca Polenta e di Paolo Malatesta, detto il Bello, è racchiuso il senso di un "discorso d’amore" che attraversa i secoli.

‘Legger d’amore’ è quindi non solo un atto intellettuale, ma vitale, come tale avvertito per secoli da Dante Alighieri a Barthes, dall’antichità ai giorni nostri.

Un atto che si compie, sempre nuovo, ogni volta che abbiamo sotto gli occhi un testo d’amore, appunto, che ci ripropone una fondamentale esperienza, in un flusso incessante.

Un atto che ogni scrittore, e quindi ogni lettore, ha manifestato e accolto in maniere diverse, di volta in volta felici, ingenue, lacrimevoli, drammatiche, o talvolta non realizzate.

A questo flusso ininterrotto che ci circonda da sempre, al libro e
agli scrittori d’amore e di passione, è dedicata questa edizione delle
Giornate Internazionali Francesca da Rimini, appuntamento
riminese dedicato a un mito tra i più diffusi, popolari, amati, radicati
e longevi della cultura occidentale, dilagato, da due secoli, in tutti i
continenti in tutte le forme d’espressione artistica.

Un mito, Francesca da Rimini, nato dai versi di Dante Alighieri che ha vissuto
vita propria ispirando, dall’Ottocento ai giorni nostri, oltre mille
artisti ad ogni latitudine e che ha saputo conservare nel tempo il suo
fascino e il suo appeal anche nei confronti delle nuove generazioni
affermando valori positivi come:

-- l’amore eterno
-- la fedeltà
-- la libertà, e
-- il rispetto della vita e della persona.

“Legger d’Amore”, pur confermando la sua connotazione di convegno
di studi, ha proposto anche eventi di corredo quali la mostra

"Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto [del Lago]
come amor lo strinse…

documentaria

“Francesca d’Italia. Francesca da Rimini dalla rivoluzione giacobina a Trieste liberata”

-- realizzata nell’ambito delle celebrazioni
del Centocinquantenario dell’Unità d’Italia.

Uno spazio
importante delle Giornate è stato dedicato a “Rileggere Dante, rileggere Francesca...”,
 al cui interno vi è stata la proiezione di documenti
cinematografici d’epoca.

E come ormai tradizione, “Alla ricerca del Bacio perduto: tour guidato ai luoghi del mito”, ha
ripercorso luoghi e memorie legate al mito di Francesca con una visita
guidata a

Santarcangelo di Romagna, splendida città sulle colline riminesi,
che ha ospitato la giornata di chiusura del convegno.

Nel 2012 la sesta edizione delle Giornate ritornerà alle origini.

Si terrà infatti a Los Angeles, all’UCLA, dove, sei anni fa, nel corso del
convegno, Dante’s New Life in 20th-Century Literature and Cinema:
Modern Intertextual Appropriation of Dante, è nata l’idea di raccogliere
studi e contributi attorno a questo personaggio che, acora dopo
sette secoli, non finisce di affascinare sollecitando riflessioni su temi
alla radice dell’esistenza umana.

Ed avrà per linea guida "Donne all’inferno", e tratterà
di donne letterarie, quindi, precipitate in un qualche inferno (vero
o metaforico) per le loro colpe, o per la loro passione, o per quello
che una volta si definiva la follia.

O per scelta, anche. O semplicemente
per la loro natura di donne, spesso innocenti.

E tratterà di
aspetti della condizione femminile da scoprire, ancora oggi.

E su cui
riflettere.

 Così, anche questa volta, la vera Francesca, quella da Rimini,
avrà avuto la sua giusta considerazione come la prima, forse,
delle donne (celebri, ma anche quasi anonime come lei) che ha elevato
la sua dannazione a simbolo o a metafora di una vita comunque
esemplare: anche, e soprattutto, nel dolore, nel ‘peccato’ e nell’emarginazione.

Grazie a Dante Alighieri, naturalmente

Il Libro, la Donna e la Cavalleria: dalla Vita nuova al libretto comico

Il tema della ‘Francesca da Rimini’  tocca profondamente non soltanto i nostri gusti letterari individuali.

Ma anche il nostro modo di leggere e interpretare la letteratura.

Sono convinto che la maggior parte di noi presenti, se non tutti, ci siamo dedicati
alla lettura di opere “amorose” per passatempo, oppure per toglierci
la nostalgia di una cara persona assente.

Forse avremmo anche
scritto le poesie per l’innamorato, o l’innamorata, adoperando uno
stile illustre in modo di nobilitare il legame amoroso, oppure utilizzando
un linguaggio anticonformista, ma sempre con l’intenzione
che gli scritti venissero letti e capiti dalla persona a cui sono rivolti.

Abbiamo tutti letto i romanzi classici di Foscolo, Manzoni, Nievo,
Verga non soltanto a scopo intellettuale, ma anche per passatempo
o diletto.

Ma l’elemento romantico e il tema dell’amore (EROS), con implicazioni
sociali, politiche e spesso anche religiose ci prepara a ‘illuminar
la mente’, mentre leggere per diletto o passatempo arricchisce
l’esperienza al punto di farci condividere le esperienze dei personaggi
protagonisti del romanzo.

Abbiamo tutti studiato La vita
nuova e La divina commedia di Dante Alighieri, e questi due capolavori funzionano
come il nostro punto di partenza.

Ma anche senza arrossire,
ammettiamo di aver letto di nascosto o in compagnia di amici qualche
libro “proibito”.

Riflettendo su questa scena di esperienze individuali,
ci diventa chiara la diversità di approccio e di come trattare
il nostro argomento.

Leggere per passatempo, per studio o per curiosità
tocca una corda vitale nella nostra vita intellettuale e sociale.

Leggere rappresenta un’esperienza al tempo stesso passiva e attiva.

Leggere stimola

(Il Professor Mazzotta, nella sua analisi della figura di Francesca la inquadra in
un cornice dedicato al libro nel tempo.

Si presentano le domande, come dovremmo
leggere?’e è morale leggere per diletto?’

Nelle lezione svolte aYale con titolo "An Introduction to Dante" va toccato il rifiuto di Francesca di tenere una distanza interpretativa fra lei stessa e il personaggio letterario.

Si vedono G. Mazzotta,

"Dante Poet of the Desert. History and Allegory in the Divine Comedy",
Princeton 1979.

:Dante’s Vision and the Circle of Knowledge",
Princeton 1993;

"Critical Essays on Dante",
Michigan 1991

(Ci si rivolge all’intervento di Lia Celi che fa parte del ‘Processo a Gianciotto’
realizzato in videocassette, in cui dichiara che il fatto che Francesca
leggeva provocasse sospetto e gelosia dalla parte dal marito).

le emozioni e porta spesso a una reazione fisica che spesso conduce
alla creatività artistica.

Diversi critici hanno posto diverse opinioni sull’atteggiamento di
Dante Alighieri verso la lettura dei romanzi.

Alcuni nel quinto canto dell’Inferno
trovano una condanna del romanzo cavalleresco, altri come
Umberto Bosco vedono un messaggio che va oltre questa e che dimostra
un ripensamento dell’idealizzazione dell’amore (EROS) trovata negli
scritti giovanili del poeta.

Non si può negare però che la trasformazione
di Beatrice in simbolo teologico nel Paradiso elevi sempre più
il concetto dell’amore filosofico/spirituale e che rappresenti l’arrivo
a una destinazione interpretativa appena sondata nella Vita nuova.

Il tema ‘Leggere d’Amore’ come inteso da noi studiosi di Francesca
da Rimini nel suo contesto storico/letterario, nonché filosofico
e sociologico, impegna una considerazione dell’espressione in una
cornice medievale.

Risulta anche necessario un’analisi delle parole
messe in bocca a Francesca da Dante Alighieri poeta.

Il fatto che Francesca Polenta e Paolo Malatesta leggevano insieme è stato toccato
più volte da critici e osservatori, da Giuseppe Mazzotta1 a Lia Celi,
due nostri compagni di convegni riminesi, e questo fatto ci porta ad
considerare da più vicino la figura del lettore e della lettrice nel medioevo.

Serve anche ricercare il livello di preparazione scolastica del

(D. Alighieri, Vita nuova, Milano 1973, p. 19).

lettore medievale e la varietà dimateriale a disposizione.

Ci creiamo il
problema di giudicare il soggetto e il contenuto del romanzo cavalleresco
nonché lo scopo immediato della lettura.

Questo discorso ci pone
domande che non trovano sempre risposte.

Però apre la strada a diverse
possibilità di interpretazione, e a un resoconto delle alternative
aperte a Francesca e Paolo Malatesta quando hanno scelto di leggere "Il Libro di
Lancillotto del Lago e Ginebra -- ossia Galeotto redivivo".

Prima di tutto diventa palese che in questo breve studio ci si trova
davanti a cinque libri:

(1) il libro dentro il libro – Il Libro di Lancillotto
del Lago inserito nella narrativa di Francesca nel quinto canto
dell’Inferno di Dante.

Questo libro/immagine emerge come oggetto
simbolico che occupa lo spazio poetico/amoroso fra i due amanti.


(2) Il secondo libro è per forza L’Inferno, dimora eterna degli amanti
di Rimini.

(3) In più la fonte poetica dei versi messi in bocca a Francesca
richiede considerazione.

La vita nuova, opera giovanile di
Dante del 1292 e scritta per immortalare la sua Beatrice.

In quest’opera
Dante Alighieri,  portando insieme la tradizione sacra e profana e seguendo
una strada iniziata da Guinizelli si riferisce al ‘libro della mia
memoria’.

Questa realizzazione dei ricordi d’amore si sviluppa in un
trattato sull’amore in forma poetica e narrativa.

Bisogna anche riferire
all’esposizione del tema dell’Amore come fondamentale alla nostra
esistenza come svolto nel Purgatorio, seconda cantica della
Divina commedia.

Dante si riferisce alla dottrina universale dell’Amore
esposta anche nel Convivio.

Leggere tutti questi scritti corrisponde,
in un primo momento, a ‘leggere d’amore’.

Con il
capovolgimento della donna ‘stilnovista’ in Francesca nel Canto V,
la presenza del romanzo ‘cortese’ di "Lancillotto e Ginevra", e l’identificazione
dei due cognati dannati con quest’ultimi pare che Dante,
almeno a livello morale, s’impegni a differenziare fra il ‘buon leggere’
e il ‘cattivo leggere’.

La Donna come immagine letteraria

Questo studio critico/analitico si punta su due donne protagoniste
di due opere dantesche:

(a) la donna santificata della Vita nuova e

(b) la donna dannata dell’Inferno.

La seconda funziona come capovolgimento
della prima.

In più siamo di fronte a due lettrici:

(a) una che rivivendo
il mondo cavalleresco crea per sé e per l’amante una nuova
realtà in cui si identifica con l’adulterio della Regina Ginevra.

(b)
Ma
anche qui bisogna stare attenti e riferirci al libro ‘Galeotto’ in questione:
bisogna informarci sul vero ruolo di Ginevra nel contesto del
mondo cavalleresco.

La donna gentile, sia Beatrice o siano delle sue
compagne, si realizza in primo luogo come donna/donne ‘della mia
mente’.

Il rapporto fra Dante e la ‘donna gentile’ riflette il concetto
dell’Amore come attività intellettuale e religiosa che si afferma come
letteratura. Da uno che ‘dice’ Dante diventa uno che ‘scrive’. La
donna, da una che ‘vede’, ‘saluta’ e ‘sente’ ad un certo punto diventa
una che ‘legge’.

Diventando ‘lettrice’ si porta più avanti il processo
di trasformazione dell’innamorata, anche se rimane per lo più una
creatura astratta.

Il contrasto fondamentale fra Beatrice e Francesca,
ambedue lettrici d’amore rimane il contrasto fra intelletto e corpo.

ANIMA -- CORPO
Beatrice -- Francesca

Ambedue creazioni poetiche, Beatrice rimane una figura astratta
mentre Francesca si afferma, con le parole messe in bocca sua da
Dante, come una figura fisica contenuta in un romanzo d’amore con
triste fine, non lieto.

Aquesto punto bisogna riferirci di nuovo al tema dell’Amore del
Purgatorio, e all’esposizione di Virgilio sull’Amore nel diciassettesimo
Canto della seconda cantica della Divina Commedia.

Proprio al
centro della Commedia viene comunicata l’essenza dell’Amore come


(Quest’idea è già stata sviluppata in altre edizioni delle ‘Giornate Internazionali
Francesca da Rimini’).

(Si ricorda che il valore di " Lancillotto Cavaliere" va contro il dictum morale di
Dante scrittore cristiano).


radice di ogni bene e ogni male.

La Ragione, nella persona di Virgilio
spiega la capacità dell’Amore di errare se diretto a fine sbagliato,
o se si manifesta con troppo o poco vigore.

Lo naturale è sempre sanza errore,
Ma l’altro puote errar per malo obietto
O per troppo o per poco di vigore.
---- Purgatorio XVII, 94-96 7

Viene così messa in rilievo la struttura morale e geografica della
Cantica che si svolge secondo la teoria del male abietto e del troppo
e del poco vigore.

Si può anche osare di sostituire la parola
‘Lettura’ per ‘Amore’.

Concentrandoci sul tema della lettura nell’opera
dantesca si possono identificare esempi di lettura buona in
sé, come culto educativo, ma diretta a fine sbagliato, o per troppa
passione o poco valore scolastico.

Francesca ‘Lettrice’

La risposta di Francesca alla domanda di Dante riguardo le circostanze
in cui fiorì il suo amore per Paolo contiene tutta l’informazione
necessaria per formare un’opinione sui due cognati/ lettori:

Servono soltanto tre versi:


Noi leggevamo per diletto un giorno
di Lancialotto come amor lo strinse:
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
--- Inferno V 127-9

D. Alighieri, La divina commedia. Purgatorio, Firenze 2002, p. 325.

D. Alighieri, La divina commedia Inferno, Firenze 2002 p.90.

Questi tre versi, forse i più citati di tutta la Commedia meritano analisi
in quanto indicano il soggetto e le circostanze della lettura fatale.


David Green nel suo studio intitolato

"Donne lettrici nel medioevo" spiega che il leggere durante il medioevo
era considerato un esercizio intellettuale e per niente legato allo
scrivere.

In altre parole il leggere risultava passivo, anche se in un secondo
momento avesse provocato una risposta attiva.

Invece lo scrivere
era un’attività fisica e creativa.

In più indica l’uso di leggere da
soli, trovato negli scritti di Giovanni di Salisburgo (‘per se scrutans
scripturam’) e nella regola benedettina.

Leggere in gruppo faceva
anche parte della tradizione scolastica.

Nel Floire et Blanchflor si trova
riferimento a ‘studiare in gruppo’ – ‘lisent et aprendent’– ‘leggendo e
imparando’.

In questo romanzo medievale si trova anche l’esempio di
due innamorati che leggono insieme.

Nel Troilus and Criesyde di
Chaucer Deiphebus, il fratello di Troilus e Helen leggono e studiano
insieme.

Considerando quest’esempi si capisce che in ambedue le tradizioni
francesi e inglesi lo studio e la lettura in compagnia dell’innamorato
non erano attività fuori del comune.

La capacità intellettuale
della donna viene per la maggior parte sottovalutata nel tardo medioevo,
dando vita al detto popolare ‘leggere come una donna’– cioè
leggere senza capire o interpretare.

Il materiale principale esplicitamente
raccomandato e destinato alla donna medievale si divideva nelle
seguenti categorie: manuali per vergini, per suore e religiose, per mogli
(con raccomandazioni sull’ubbidienza, il portare avanti la casa o il castello,
più il comportamento nell’assenza del marito).

Figuravano
anche le vite dei santi.

Nel discorso del professor Green la figura di
Lancillotto del LAGO (TENORE, Paolo il Bello) viene indicata come esempio del cavaliere che riuscendo a
leggere poteva considerarsi anche un ‘religioso’, essendo capace di
copiare e trasmettere manoscritti civili e religiosi alla posterità.

Tornando
al contenuto morale dell’Inferno bisogna sottolineare il forte

D.H. Green, Women Readers in the Middle Ages, Cambridge 2007, p. 4.
 Si vedaWatt, Diane, Medieval Women’s Writing, Cambridge 2007.

contrasto fra l’etichetta che governava il comportamento del Cavaliere
del primo medioevo e quella della Dama del tempo di Dante.

Dai versi di Dante si capisce che i due cognati leggevano, ma il vero
significato della frase è difficile identificare: leggevano ambedue silenziosamente
o leggeva uno ad alta voce mentre l’altra ascoltava?

Oppure
facevano a turno?

Quale importanza hanno queste distinzioni?

Prima
non possiamo essere assolutamente sicuri che ambedue sapessero leggere,
o chi dei due in realtà si realizzasse come tentatore/tentatrice.

Si capisce
bene invece che la loro lettura non entrava nell’ambito dello studio
o dell’attività intellettuale come indicata da Dante nella Vita nuova.


Si capisce che leggevano per ‘diletto’, per passatempo, e che non
avevano altra compagnia.

Il loro ‘Leggere d’Amore’ pare proprio il
primo passo consapevole in un incontro d’amore destinato a finire con
l’adulterio.

Rivolgendosi ai versi 100-106 del canto e alla personificazione
dell’Amore, diventa chiaro che l’Amor che ‘strinse’ Lancillotto
non fu quello stilnovista, che si svolge in chiave filosofica e
religiosa.

Il riferimento di Francesca alla ‘bella persona’ sembra un riferimento
al proprio corpo, che nella Vita nuova non figura e cede
posto alla ‘mente’, alla ‘memoria’ e al ‘pensiero’.

Come falsificazione
del mondo stil novista il canto assume una posizione di contrasto con
il ‘Vero’, l’Intelletto’ e il leggere per ‘sviluppar la mente’.

La lettura si
interrompe col bacio:

La bocca mi baciò tutta tremante.

-- e non viene
portata a fine, quel giorno, o per motivi ‘amorosi’ o ancora più gravi,
l’essere sorpresi da Gianciotto Malatesta, il marito di Francesca.

La lettura così
si chiude nel tempo poetico dantesco.

Si ferma al brano più erotico - e
di conseguenza il messaggio morale del "Libro di Lancillotto del Lago e Ginebra -- ossia Galeotto redivivo", non fu assimilato
nel suo totale né dai lettori nel testo né da noi studiosi di
Dante.

Nella sezione seguente mi soffermo sull’importanza del Libro
di Lancillotto e sulla sua fama.

Questo servirà per discussione in un’edizione più avanti della serie ‘Francesca
da Rimini’.

U. Bosco, in D. Alighieri Inferno, cit., pp. 90-91.
Il Libro di Lancillotto del Lago e la sua Fama/Beatrice Lettrice?


Il rapporto amoroso "Lancillotto del Lago/Regina Ginevra (via Galeotto) fu visto nella tradizione
‘cortese’ come causa della rovina dei Cavalieri della Tavola Rotonda.


A questo punto bisogna dire che versioni diverse della leggenda
d’Artù circolavano in Europa durante il medioevo.

Non c’è da
escludere che Dante abbia letto una versione in cui è Lancillotto a
prendere l’iniziativa– come commenta Umberto Bosco nell’edizione
Le Monnier della Divina Commedia.

Pare che la versione citata da
Francesca contenga una falsificazione del romanzo francese in cui
è veramente la Regina Ginevra che bacia il timido e smarrito Cavaliere.


Allora falsificazione del culto cortese contenuto nella falsificazione
della donna angelica nella forma di Francesca?

Cito Bosco.

Questo era dovuto al rituale dell’omaggio amoroso ricalcato sull’investitura
feudale.

La donna (specie poi se si tratta di una regina
come nel romanzo francese) era colei che compiva il rito dell’investitura
amorosa.

In altre parole il bacio funzionava come un
‘pegno d’amore’.

Se accettiamo la tesi di Bosco possiamo identificare
non soltanto il capovolgimento di Beatrice ma anche quello di
Lancillotto che nelle pagine di Dante insieme a PaoloMALATESTA  risulta ‘tentatore’.


Potrà essere che la figura di Francesca tentatrice e bugiarda
emerge come non soltanto una falsificatrice della poesia e filosofia
stilnovista, ma anche del romanzo cavalleresco e del Cavaliere protagonista?

La vita nuova dedicata a Guido Cavalcanti sulle orme di Guinizelli,
nel contesto dell’attuale argomento, si classifica come un libro
di ricordi d’Amore e delle circostanze in cui venne scritta la poesia
amorosa da Dante per la sua Donna.

Si sviluppa come l’esaltazione
della Bellezza, della Virtù, della Saviezza di Beatrice in particolare
e delle Donne virtuose in generale. Fu scritto, secondo Dante, per

D. Alighieri, Vita nuova, cit. XIII.

altri poeti, cito: “propuosi di farlo sentire a molti li quali erano famosi
trovatori in quello tempo”.

Lo scopo del poeta pare di farsi sentire dalla Donna, dalla sua
donna.

Al XLI sembra di aver ricevuto una risposta alla sua poesia.
Al XXVI la Donna nella sua gloria ‘sente’ e ‘vede’.

Domande da
porre: legge Beatrice o leggono le altre donne la parola poetica della
Canzone, oppure la forma in Canzone viene suonata per loro in modo
che si arriva alla comunicazione poetica e melodica?

Pare però che
alla conclusione dell’opera il parlare diventi leggere.

“Poi mandarono due donne gentili a me pregando che io mandasse
loro di queste mie parole rimate”;

Tre domande si presentano: prima – La donna chiede una poesia
da leggere? Seconda – La donna dunque legge della filosofia
dell’Amore in linguaggio poetico? Terza – Questo è il ‘buon leggere’
il leggere bene che contrasta con la lettura di Francesca? Per
noi studiosi trattare con o Beatrice o Francesca consente di leggere
d’Amore nella poesia sublime di Dante.

Si legge dell’Amore santificato
e di quello cortese, di quello idealizzato e di quello sbagliato.

La figura di Beatrice rimane donna simbolo della virtù.

La narrativa di Francesca e la sua identificazione con la regina Ginevra eleva
le sue esperienze a livello ‘cortese’, con il trionfo dell’Amore seguito
da quello della Morte.

Conclusione parodica.

Leggere d’Amore nell’opera buffa.

Nel corso di questo discorso abbiamo visto come funziona il simbolismo,
la contrapposizione, la contraddizione, nonché la falsificazione
di testi a scopo di arricchire e portare complessità al tema
‘leggere d’amore’.

 La filosofia d’amore continua ad affascinare,
mentre con l’emergere dell’opera buffa, figlia della Commedia del
F. Romani, L’elisir d’amore, Milano 2011, p.6.

l’Arte, la presenza di libri e letture dalla parte femminile, in vena comica,
serve a legare la lirica al mondo comico e cavalleresco sempre
basandosi sul concetto filosofico/intellettuale.

Due opere di Donizetti
servono ad illustrare questo:
"L’elisir d’amore" 1832, testo di Felice Romani dopo La Philtre di
Scribe.

ADINA -- ISOTTA
NEMORINO -- TRISTANO

----


e Don Pasquale 1843, con testo di Ruffini.

Basta concludere dicendo che nel mondo della letteratura e della
musica è sempre piaciuto introdurre idee cavalleresche, anche in
chiave comica/parodica.

Il libretto di Elisir d’amore (1832), porta in
scena degli stereotipi della ‘commedia dell’arte’, il Capitano/Sergente,
il Dottore e la ricca villana.

Ambientato in un villaggio basco,
il mondo della vecchia Castiglia si trasforma in commedia popolare,
non mancando però la sofisticazione sempre presente in Romani/
Donizetti.

Adina risulta parodia della donna cortese.

Ricca proprietaria
tiene corte nella sua fattoria e legge.

Il suo leggere porta
significato dall’inizio, impressiona Nemorino che commenta.

Essa
legge, studia, impara”.

Non legge un romanzo del suo tempo, ma un
romanzo d’amore cortese che comincia:

"Della crudele Isotetta/ il bel
Tristano ardea/ né fil di speme avea/ di possederla un dì"

Il Sergente Belcore, discendente comico del Capitano della Commedia
dell’Arte introduce un mondo classico/metastasiano al rovescio:
si presenta come Paride, mettendo in ridicolo il mito del Pomo
d’oro:

Come Paride vezzoso/ porse il pomo alla più bella’/Mia diletta
villanella/ io ti porgo questi fior.
Il Dottor Dulcamara porta tutti i tratti del Dottore di Bologna con
un tocco del ciarlatano napoletano. I suoi portenti infiniti sono conosciuti
in “tutto l’universo e… in altri siti”.

Spesso scende da una
mongolfiera, oppure da nave spaziale. Con i suoi trucchi converte il
mito in realtà.

Norina del Don Pasquale, discendente della ‘vedova scaltra’ di
Goldoni, inizia la sua prima aria leggendo della conquista cavalleresca di un certo ‘Cavalier Riccardo’, e risolve di mettere in vista tutta
la sua ‘virtù magica’ nel suo gioco amoroso.


Dunque la lettura di avventure cavalleresche va oltre la tradizione
medievale.

Trovano posto nella commedia musicale, e portano sempre
il loro messaggio.

La sopravvivenza della lettrice che si ritira al mondo cavalleresco e cortese per scappare dalla realtà, ma anche per imparare fa parte della tradizione operistica italiana.

In Donizetti si
combinano immagini, parole e musica.

Lo studio di Beatrice, Francesca,
Adina e Norina ci porta dal sublime al ridicolo, dall’ intellettuale
al comico.

Ma siano sublimi o frivole, trovano la loro
ispirazione nella donna simbolo letterario che insegna, legge, oppure
ascolta la lettura di avventure cavalleresche che sa identificare con la
propria situazione amorosa.

Lussuriosi penitenti
Dante e Virgilio incontrano Paolo e Francesca.
Miniatura in “Codice Italico 2017”, Bibliothèque nationale de France, Paris.

Let's examine the topic of Kings and Queens in Inferno V.

The Pilgrim’s spiritual journey of cognition, comprising a descent
to the Gates of Hell and beyond to the frozen depths of Lucifer’s
abode, followed by a continuous ascent to a celestial realm outside
the confines of time and space towards the “luce intellettüal, piena
d’amore” (Paradiso XXX, 40) is a salvation drama encapsulating
many Christological echoes of death and resurrection.

For the Pilgrim,
the voyage through the realms of the dead involves a spiritual
cleansing and a mission of redemption to take back news of the souls
to the world of the living. Not only is he the only living character in
the poem, he is the one who undergoes the greatest transformation;
a vigorous regeneration in which he is invested with a higher and
more robust spiritual nature at every step of the journey.
In the English morality play, Everyman, the eponymous protagonist,
who is at the end of his life’s journey, stares into his open grave
because death is imminent and cannot be prevented. In Inferno I, the
lost Pilgrim stares helplessly into the dark forest gloom, an ominous
sign of his spiritual alienation from God if he is unable to reach the
sunlit mountain in the distance. However, Everyman’s fate is not the
Pilgrim’s, who is rescued from danger through the Virgin Mary’s intercession
and, once he begins his divinely-ordained mission, guided
by Virgil prior to the appearance of Beatrice, he can commence the
recovery of his spiritually damaged self and the acquisition of self-
(All quotations from the Commedia are taken from Dante Alighieri, La Commedia
secondo l’antica vulgata. Ed. G. Petrocchi, 4 vols, Milan, Mondadori
1966-67)

knowledge. Dante pilgrim’s journey constitutes not only a dynamic
and extensive geographical traversal but, more importantly, a journey
of self-understanding.

In the Commedia, Dante elaborates themes that are reminiscent of
the liturgical dramas, biblical pageants, medieval miracle and morality
plays that form part of the Corpus Christi cycle.At the same time,
he is formulating a unique fusion that transmits recognized elements
of literary culture through the written word, with elements familiar
to the culture of oral transmission, for example, vernacular recitations
and oral texts performed in the refined atmosphere of the imperial
court, as well as those to be found in popular street culture. In
this hybrid mix, Dante presents a sweeping and all-encompassing
view, as one critic has observed.

Dante’s poem is the fullest and most imaginative appropriation of
Christian salvation.Within the confines of the Christian scheme, the
Commedia stretches from the first day to the last night, from the
creation to the crucifixion and the resurrection.

At the same time, the Poet delves into the intimate recesses of
human experience, revealing the personal vicissitudes of a number of
his characters, including his own foibles, and highlighting the bond
that exists between the individual soul and its divine Creator. In the
Commedia, the nature of the individual soul’s relationship with God
during their lifetime is revealed most obviously by the allotted locality
of the soul in the afterlife. However, the soul’s true nature is revealed
through their personal exchanges with a curious and
communicative Dante character in the form of dynamic experiential
narrative that sets a new standard for lyric production.
Dante’s status as an exilic poet operating outside conventional


R. J. Quinones, Dante Alighieri, in Medieval Italy: An Encyclopedia. Ed. Christopher
Kleinhenz, Vol. 1, New York and London, Routledge 2004, p. 284.

borders means that his own identity and subjectivity as a writer enable
him to reformulate poetic discourse on his own terms, to cross
borders and to push at the margins of authorial practice in order to reveal
untold stories of salvation and damnation through the narratives
of ordinary and extraordinary folk recounted in the first person with,
in the case of some characters, the revelation of deeply-held personal
facts. Thus Dante’s treatment constitutes a vernacular dramatization
and metaphysical drama infused with pagan and Christian themes
but also strongly influenced by a diversity of popular elements.
Dante’s unique status as a writer dislocated from the political and literary
community of his developing years allows him to explore and
experiment, to deal in diverse currencies and infuse his work with
multiple views and unconventional perspectives.
In the probing of values, practices and positions of authority that
define his social era, Dante adopts a universality of approach that
transcends the work of his predecessors. The Russian poet Osip Mandelstam
employed futurist lexicon when he referred to Dante’s cantos
in the Commedia as missiles directed toward the future:
It is inconceivable to read Dante’s cantos without directing them
toward contemporaneity. They were created for that purpose. They
are missiles for capturing the future3.
Scholars are still attempting to catch up with Dante’s weapons of
poetic invention that are so original and ahead of their time. Suffice
to say that his approach in the Commedia is innovative, autonomous,
and achieves a compelling authenticity of voice in its characterisation.
Throughout the encounters across the three canticles of the
Commedia, Dante poet recasts the identity of people from all walks

O. Mandelstam, Conversation about Dante, in The Collected Critical Prose
and Letters. Ed. Jane Gary Harris. Translated by Jane Gary Harris and Constance
Link, London, Collins Harvill 1991, p. 420.

M. Picone,
"Trittico per Francesca"
III. Petrarca e Boccaccio lettori del canto
V dell’Inferno, in L’Alighieri 28 (2006), p. 25.

of life, retaining elements of the former living selves of the souls he
meets and observes, and shaping this fictional identity for his own
purposes, in order to expose to wider scrutiny the social, political
and sexual dynamics of his era; an age in need of spiritual and political
revitalisation.

In the case of Francesca in Inferno V, her act of reading about a
queen in love, leggere d’amore, involving Queen Guinevere who betrays
her husband King Arthur of Camelot, serves as a catalyst for a
cross-over from the world of literary imagination to real-life intimacy,
or as Picone observes.

Dal bacio letto si passa al bacio dato, a Paolo che bacia Francesca come Lancillotto aveva baciato
Ginevra.

In the creation of Francesca who reads and loves (unlawfully
without regret), we see Dante’s enactment of a singular, contemporary
model of female sexual agency.

One that dominates even
the sweeping portrait of unbridled erotic behaviour attributed in Inferno
V to famous queens and empresses from ancient times.

Dido,
Semiramis, Cleopatra and Helen are rulers who would jeopardize
their very kingdoms in pursuit of their sexual desires, even abrogating
the law in the fulfillment of an unnatural lust, as is the case with
Semiramis:

A vizio di lussuria fu sí rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.
--- Inf. V, 55-57.

And yet it is the portrait of Francesca and Paolo MALATESTA that commands
attention in the canto.

The candid, erotic and non-compliant stance
adopted by Francesca in the Inferno makes evident her unquenched
desire for her lover even after death.

In this respect, Francesca inverts the sacrality of the body-soul complex in order
to pay homage to the body everlasting.

Consigned to the Second
Circle of Hell, and in the absence of the body, Francesca asserts its
carnality through memory, while at the same time, in the assertion
of the soul’s detachment from God, she continues to ignore its
sacrality.

From a socio-political perspective, Francesca’s speech subverts
her real-life role as an obedient dynastic bride in a powerful ruling
family.

The fictional Francesca breaks the silence surrounding her
real-life persona as the murdered wife of Giovanni Malatesta.

Francesca
tells of the depths of her passion for her brother-in-law Paolo and
recreates her identity for the personalised narrative about “i due cognati”
(Inf. VI, 2) that the Pilgrim will take back to the living.

By
adopting a transgressive identity and speaking openly about her
physical
desire for Paolo, she deviates from the norms of her society, the
communal values, family relationships, conventions, and traditional
gendered roles assigned to her as a wife in a strongly male-dominated
culture.

Her speech challenges dynastic patterns of obedience,
silence and conformity.

The result is a potent model of sexuality articulated
by a female character who bears no vestiges of royalty but
is a contemporary woman of Dante’s time.

In this episode, which sets the scene for one-on-one dialogues
between the Pilgrim and a succession of souls in subsequent
episodes, Dante highlights oral forms and creates a narrative space
in which Francesca can perform and recount her individual story
without interruption from the hellish scene surrounding her.

Francesca and Paolo are well and truly foregrounded as the bufera
infernal continues to whirl the lustful sinners hither and thither
without respite:

La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
-- Inf. V, 31-33)

T. Barolini,
"Dante and Francesca da Rimini: Realpolitick, Romance, Gender"
in Speculum 75, p. 1.

As the two lovers emerge from Dido’s flock (“la schiera ov’è
Dido”, 85) in their metaphorical winged descent, the reader should
already expect, from the prequel of 87 lines before Francesca
speaks, that Dante’s intention is not to narrate a cronaca nera tale
that will sensationalise the murderous goings-on of a well-known
dynasty in Romagna.

Otherwise he would have cast Paolo in the
role of the principal narrator of the tragic love affair.

After all, Paolo
was an important member of the Malatesta clan and formerly a Capitano
del Popolo, and could easily have acted as spokesperson to
explain and justify the unlawful liaison to the Pilgrim.

Instead, Paolo
who should speak, in accordance with the social norms of the time,
is silent.

And Francesca, who should remain silent, speaks.


For the reader then, Francesca is not removed in time and space
as a Dido or Helen of Troy might have been had they conversed with
the Pilgrim in the Second Circle.

Therefore, with this powerful orectic
symbol of desire and carnal appetite, Dante introduces the element
of subversion by having an adulterous wife speak openly about
her affair with her husband’s brother.

It was not, after all,
an expectation that a guilty wife would assert her own identity in the
way that Francesca does.

Male-centred narratives of governance,
power and authority would deny her female agency and sexuality
being openly asserted and expressed in this manner.

Moreover,
Francesca’s real-life identity in historic records is scant and in the case of Francesca da Rimini
Dante is the historian of record.

In effect, Dante saves Francesca
from oblivion, giving her a voice and a name.

In relating her story,
Francesca ignores the dictates of family roles and values and affirms
her sexual identity.
Francesca and Paolo Malatesta, who in reading about a royal love affair,
trigger the release of their hidden desire, are described as located

(Jacopo della Lana, 1324-28, taken from Dartmouth Dante Project: on-line full
text database of commentaries on Dante’s Commedia, dir. by Robert Hollander:
http://dante.dartmouth.edu)

among the countless souls of those whose sexual liaisons form a
corpus of transgressive and destructive tales of erotic combustibility:
“e piú di mille / ombre mostrommi e nominommi a
dito” (67-68), for example:

Semiramide (Orosio’s Hist. I, 47-48),
Enea e Didone (Virgil’s Aeneid IV 552),
Elena and Paris
(Homer’s Iliad), and the Arthurian Cycle of legends.

The exchange
with the Pilgrim reflects the keen interest of both storyteller and
interlocutor to reveal all, to hold nothing back:

Ma dimmi

-- urges
Dante character

-- al tempo d’i dolci sospiri, / a che e come concedette
amore” (118-119).

The overwrought protagonist Dante
identifies “la prima radice”, the tipping point of forbidden desire,
as the moment that most obsesses and transfixes him.

When are
reason, contractual and family obligation, duty to one’s subjects,
and even the boundaries of natural sexual relations, overridden
and set aside in the quest for the satisfaction of one’s erotic desire
for an unlawful object?


Francesca’s and Paolo’s betrayal and deception are daring and
Giovanni Malatesta enacts a murderous revenge on the lovers, although
the homicide itself is not described.


Instead, it has been left
to the early commentaries to reveal the more lurid accounts of the
murder.

Or questa istoria si fu che Johanni ciotto figliuolo di messer Malatesta d’Arimino avea una sua mogliera, nome Francesca, e figliuola di messer Guido da Polenta di Ravenna.

La quale Francesca giacea con Paolo fratello di suo marito ch’era suo cognato.

Correttane
più volte dal suo marito non se ne castigava.

Infine trovolli in sul
peccato, prese una spada, e conficolli insieme in tal modo che
abracciati ad uno morirono.

In Inferno V, the double slaying is masked by the genteel elucidation
of events by Francesca, who recounts a love-lorn tale in
which death has not separated her from her lover.

In her recollection
for Dante’s benefit, Francesca describes the trembling mouth of
Paolo who kisses his beloved, just as the gallant Sir Lancelot kissed
the desired lips of his queen.

Dante focuses on the image of the
mouth, site of intimacy, and there is an urgency in his poetic practice
that injects the Paolo and Francesca episode with a powerful
dramatic realism:

"la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
Quel giorno piú non vi leggemmo avante."

----- Inf. V, 136-138.

Although the story’s dramatic quality is related to its focus on the
exigencies of the sexual corporeal self, it is set in a context in which
there can be no release, either physical or cathartic.

The souls in Hell have a form that enables them to speak and even weep, but they lack
concreteness.

Francesca can verbally express her love for Paolo Malatesta but
never again enact it physically.

Nevertheless, Dante constructs a narrative
form in which to portray and give voice to the carnal appetites
of the subjects; portray the triggers to action, the specificity of the emotional
state; the subjugation of the will but without the motions of the
living self.

In spite of its lyrical quality, Francesca’s speech (combined with
Paolo’s speechlessness) is one of intense emotional turmoil.

Affect
in extremis as she gives voice to her desire and her former identity as
Paolo’s lover.

Thus in death, Francesca and Paolo are mutually united
in the punishment that keeps them forever together and forever apart,
and unable to express their physical love and sexual impulses.

At the
same time, they are spirits in whom the undistilled desire still holds
sway.
As a soul located among royal personages, Francesca conveys

D. Glenn, Dante’s Reforming Mission and Women in the Comedy. Leicester,
U.K. Troubador 2008, p. 44.

her grand passion and evokes the ecstasy of physical love (EROS).

In the
absence of her body, she magnifies the perception of the erotic
self.

Her passion is also the cause of her suffering, as the need to
be with Paolo overrides all other considerations.

In this regard, the
episode generates an overwhelming sense of loss, suffering and
unrealised desire that finds expression in the densely-packed narrative.

E quella a me: “Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
-- Inf. V, 121-123.

Francesca’s lengthy monologue with its captatio benevolentiae,
rhetorical flourishes and anaphora is a curious, self-styled speech
that attempts to describe, in a synthetic manner, the unfolding of her
forbidden desire.

Francesca speaks about books and reading, repeatedly
refers to the verb “leggere”:

-- “Noi leggiavamo”, 127;
-- Quando
leggemmo”, 133;
-- non vi leggemmo”, 138

-- and the derivative
“quella lettura”, 131,

and


 

 


 her speech contains maxims drawn from

classical literature and a selection of medieval/contemporary texts:
 
-- Virgil
-- Ovid
-- Boethius
-- the Lancelot prose
-- Guinizzelli
 
--


 
 



More importantly, by employing an autobiographical framework,
Francesca sets the scene as the author of her own story about her former living self.

In this telling, the story is presented as one might expect
a myth or a fairy tale from long ago times to commence.

Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
-- Inf. V, 97-99.

The result is a selective narrative in which she can manipulate,
augment, omit, fictionalise or fantasise about the events that overtook
her.

In the figure of Francesca, Dante creates an identity that is
subjective, imaginary, potent and makes connections well beyond
the parameters of her former social role as a political bride in the
Malatesta dynasty.

The interpersonal quality of Francesca’s response is compelling.

The image of herself that she represents is idealised, self-articulated
and self-modelled, with its emphasis on love conquering all.

However,
there is no movement, no journey or transformation possible
for her love because there is no willing desire to be with God.

In
Hell, the souls are obdurate, hardened, impenitent.

Francesca’s condition
in the Second Circle is fixed and unchanging but her reflection
of herself is effusive as she unburdens herself to her avid
listener.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sí forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
--- Inf. V, 103-105.

The Pilgrim’s presence in Hell provides a precious channel of communication
to the living.

As the regal figures portrayed in the canto
were actors in a grand passion conveyed to readers like Francesca
through their stories of love, so too, Francesca magnifies her tale of
love, emphasising its supremacy and enlarging upon it through her referencing of others’ tales of unlawful desire:

“leggemmo il disïato riso
/ esser basciato da cotanto amante” (133-134).

In Inferno V, the gigantic figure of King Minos looms over the
Second Circle.

He is a central figure who dominates the incipit of
the canto:

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.
--- Inf. V, 4-6.

The status conferred on this figure is that of an infernal judge and
the subsequent tercets detail and elencate Minos’ duties in as brisk a
manner as possible.

“vanno a vicenda ciascuna al giudizio, / dicono
e odono e poi son giù volte” (Inf. V, 14-15).

King Minos’ mythological
status is connected to the transgressive and unnatural lust enacted
by his wife, Queen Pasiphae who gives birth to the half-man,
half-bull monster, the Minotaur, kept in Daedalus’ labyrinth.

The poet
grants Minos’ three lines of speech only in the form of a solemn
warning to Dante about the perils of the enterprise.

Although Virgil’s
response is delivered in a dismissive and authoritative tone, as he deflects
the warning and underscores the divinely-ordained nature of
the mission (“Non impedir lo suo fatale andare”, 22), nevertheless,
Minos regal status and the actions of his queen set a stamp on the
Second Circle.

Soon after, Dante and Virgil see the whirling souls
and Virgil points out individual figures in answer to Dante’s query
about their identity. Dante’s response is one of overwhelming “pietà”
and bewilderment.

Among Dido’s flock are the souls of royal figures involved in
sexual liaisons and betrayals. They are individuals who held the
reigns of power and who, instead of providing leadership for their
people, wilfully pursued the course of inordinate carnal desire in a
self-interested manner. The souls of the four royal women elencated
in Canto V:

-- Dido
-- Semiramis
-- Cleopatra
-- Elena

-- are linked by their identity as women in literary or historical texts
whose love affairs precipitate disaster for their peoples.

In the case
of the empress Semiramis, her incestuous relations with her own
offspring lead her to legislate a personal governance of desire.


With the shades of royal personages who surrendered to irrational
desires, Dante depicts lust in a bestial key (Pasiphae)

-- INCESTUOUS
liaisons (Semiramis, Tristan, Francesca)

-- the BETRAYAL of a
king/MARITAL partner (Helen, Isolde and Guinevere) and the breaking
of a vow of fidelity to the memory of a deceased spouse (Dido).

In
their treason against the crown (Laesa majestatis), Lancelot and
Guinevere (via Galeotto) betray King Arthur of Camelot.

Tristan and Isolde betray
King Mark of Cornwall.

Paris and Helen betray King Menelaus.

While Dido is unfaithful to the memory of her deceased husband,
Sychaeus.

In the case of the three forbidden couples

-- Paris and Helen
-- Tristan and Isolde
--  Lancelot and Guinevere

-- the betrayal
of a king and the three kingdoms of Sparta, Cornwall and Camelot
are also at stake.

Francesca utters her words in a quasi-regal tone whose syntactical
force renders a dignified quality to her tale, as though she
wishes to rise above the hideous contrapasso and burden of punishment
in Hell.

Her courtly manner echoes the words of Prince
Aeneas who unburdens himself to a responsive widowed Queen
Dido who is wanting to hear of his misfortunes upon leaving his
beloved Troy:


Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
-- Inf. V, 124-126.

By having Francesca use language and imagery connected to
figures of majesty, the ordinary is heightened and emboldened.

Her
frank and personalised dialogue creates an intimate setting in which
to convey her laws of love, recounting a sequence of events in which to absolve the all-conquering demands of the body.

Ultimately,
however, her world-oriented words and images convey profoundly
the notion of betrayal and spiritual negligence and, in this
respect, she may be compared with the regal figures whose company
she keeps in the howling tempest of the Circle of the Lustful.


Through the figure of Francesca, Dante creates a model with strong
literary overtones by means of which he interrogates the act of reading
and the socio-political undercurrents of his time.

Giuseppe Luigi Poli, Paolo e Francesca. Olio su tela, 1877. Bergamo, Accademia
Carrara. Particolare.

Dal tragico al sentimentale:
Decameron IV, 1 e la sua versione popolare

Come da secoli dimostrano in maniera sempre più dettagliata gli
studi critici dedicati alla famosa raccolta del Boccaccio, il testo del
Certaldese non solo si richiama costantemente alla complessa enciclopedia
della cultura dotta, ma in più premette implicitamente che
il lettore disponga di competenze interpretative e conoscitive più
vaste di quelle caratteristiche per la vita municipale e quotidiana di
quei tempi.

Alcune di queste strutture latenti sono state scoperte in un
tempo relativamente recente e si può supporre che le nostre conoscenze
si arricchiranno ancora, perché il Decameron rivela sempre
aspetti nuovi e in un certo senso sorprendenti. In più, spesse volte il
riferimento alle convenzioni letterarie vi si fa nella maniera che richiede
da parte del lettore la massima abilità: i modelli vengono “riciclati”
indirettamente, in chiave parodistica e comica, oppure per
raggiungere obiettivi inediti. A nobilitare artisticamente una forma
letteraria umile serve inoltre il ricorso nella prosa volgare a costrutti
latineggianti, l’uso di topoi noti dalla letteratura alta e di erudizione,
il riecheggiamento dell’amor cortese. L’autore sapientemente
sfrutta i precetti della retorica per confondere il lettore: i vari livelli
e le varie voci della narrazione creano sottili tensioni, l’andamento
della commedia dantesca d’oltretomba si applica ad una commedia
tutta mondana e umana. Il Boccaccio riprende la lezione della trattatistica
medica e psicologica del suo tempo sugli atteggiamenti da
*

Questo testo è apparso in una forma leggermente diversa nel volumetto Raccontare
in breve. Cinque studi sul racconto, Accademia Polacca delle Scienze, Biblioteca
e Centro Studi a Roma (Conferenze 107), Varsavia-Roma, 1996.

adottare durante la peste, muove una velata polemica agli autori di
messaggi ideologici illustrati da grandi cicli pittorici1.
Tuttavia il Decameron si può leggere – e certamente si leggeva –
anche ignorando tutto quel sistema di allusioni e riferimenti intertestuali
e intersemiotici. L’immagine del capolavoro boccacciano che
viene – o veniva – a crearsi nel corso di una tale lettura non è più la
stessa, ovviamente, ma non per questo l’opera diventa incomprensibile,
né – chissà – meno interessante. Una lettura limitata alle strutture
narrative più ovvie, al comico più immediato, ecc., situa il testo
ad un livello “basso” e lo riduce ad una raccolta di pettegolezzi, di
esempi moralizzabili e di frivolezze; la fortuna del Decameron ne
fornisce numerosi esempi nei vari adattamenti o nelle edizioni commentate.
Testimonianze di un simile atteggiamento si trovano da una
parte nei modesti manoscritti preparati da dilettanti, in cui l’interesse
per il racconto si accompagna all’indifferenza per il testo, e dall’altra
– nel senso contrario – nell’iniziativa del Petrarca che traduce in
latino la novella di Griselda (Decameron, X, 10) per non lasciarla
appunto troppo “in basso”. Era forse quella possibilità di leggere le
novelle del Boccaccio come testo di “livello basso” che costituiva la
garanzia del loro successo fino alla metà del Quattrocento: quando
quella funzione viene meno, perché sbiadisce l‘attualità e la salacità
del pettegolezzo, nella sua popolarità si nota un netto calo2. Del resto
anche i narratori posteriori al Boccaccio respingono quelle caratteristiche
della sua prosa che potrebbero essere decisive per una collocazione
alta, e invece riprendono quelle tipiche della tradizione
1

Cfr. L. Marino, The “Decameron” cornice. Allusion, Allegory and Iconology,
Longo, Ravenna 1979

G. Olson, Literature as Recreation in the Later Middle
Ages, Cornell University Press, Ithaca-London, 1982, L. Battaglia-Ricci, Ragionare
nel giardino. Boccaccio e i cicli pittorici del “Trionfo della morte”, Salerno
ed., Roma, 1988.
2 Cfr. Ch. Bec, Sur la lecture de Boccace à Florence au Quattrocento, in “Studi
sul Boccaccio”, IX (1976), pp. 247-260.

bassa. Un fenomeno analogo si può osservare nelle edizioni che presentano
la traduzione francese del Decameron: la linea “popolare”
continua fino al Cinquecento inoltrato.

Se il Decameron doveva dunque rappresentare il tentativo di
creare un modello “alto” della novella, è stato un tentativo per i primi
lettori spesse volte o incomprensibile, oppure inaccettabile. Molto
più tardi – soltanto dopo le Prose della volgar lingua bembiane – si
cercherà di situare la narrativa boccacciana ad un livello alto, soprattutto
in base a criteri stilistici e linguistici. Ciò costituirà il fondamento
della nuova popolarità dell’opera, ma sarà una popolarità
diversa, tra persone diverse, dovuta a letture diverse.
Nella prima novella della IV Giornata – dedicata interamente agli
amori che “ebbero infelice fine” – l’ambiguità è di un’importanza
fondamentale. Il contrasto tra la storia di Ghismonda e lo schema tipico
dell’exemplum4 è accentuato dal fatto che il Boccaccio ricordava
poco prima – nell’Introduzione alla Giornata – le regole della
retorica che dalle narrazioni richiedevano in primo luogo l’univocità
di un messaggio approvabile e una convenzionale fedeltà al reale:
“Quegli che queste cose così non essere state dicono, avrei molto
caro che essi recassero gli originali, li quali, se a quel che io scrivo
discordanti fossero, giusta direi la loro riprensione”5. Le tragiche e
nobili vicende della famiglia principesca di Salerno fanno venire le
lacrime agli occhi sia ai lettori (o meglio – ricordando l’intento dell’autore
dichiarato esplicitamente nel Proemio di “raccontare in soc-

Cfr. il catalogo della mostra organizzata nel 1975 dalla Bibliothèque Nationale
parigina Boccacce en France. De l’humanisme à l’érotisme, Paris, 1975.

A questo proposito cfr. H.-J. Neuschäfer, Boccaccio und der Beginn der Novelle.
Strukturen der Kurzerzählung auf der Schwelle zwischen Mittelalter und
Neuzeit, Fink Verlag, München 19832.

Giovanni Boccaccio, Decameron, IV, Intr., 39, a cura di V. Branca, Accademia
della Crusca, Firenze, 1976.

corso e rifugio di quelle che amano”6, e ancora l’Introduzione alla IV
Giornata – alle lettrici), che agli stessi narratori della gentile brigata.
In apparenza lo storia riprende uno schema ben conosciuto: il vecchio
padre, preoccupato solo dall’interesse e dall’immagine della famiglia,
trascura e poi condanna l’amore, da cui dipende la felicità di
sua figlia. Lo schema viene tuttavia arricchito e intricato in maniera
particolare. Il comportamento del padre sembra tradire qualche traccia
di un amore strano – per non dire incestuoso – nei confronti della
figlia: mentre ciò gli fa prendere alcuni tratti di un marito tradito e offeso,
tutto il racconto si avvicina ad un altro schema ben noto – quello
del triangolo erotico7. I convenzionali schemi narrativi vengono invece
radicalmente capovolti durante lo svilupparsi dell’intreccio: la
realizzazione efficace di un proprio progetto – la cattura e la punizione
degli amanti – equivale per il padre alla sconfitta. In questa
tragica storia non ci sono vincitori, e nessun modo di pensare o di
agire si rivela migliore degli altri.
Queste caratteristiche sarebbero forse già di per sé sufficienti per
classificare la novella di Ghismonda come racconto “alto”, sia nel
senso più tradizionale di una tragedia situata in un ambiente socialmente
elevato come corte feudale dell’Italia meridionale, sia nel
senso più moderno di un testo che richiede dal lettore specifiche competenze
letterarie. In più, lo schema narrativo serve come strumento
per trasmettere porzioni di enciclopedia di natura più dotta e sottile.
L’ambiguità si rivela allora funzionale per conferire alle questioni
trattate un carattere controverso, discutibile, ancora aperto a varie
soluzioni. Il racconto deve servire come consolazione al re della
Giornata IV, Filostrato; ma ci si può consolare con le tragedie degli
altri? E i momenti di felicità valgono il prezzo che alle volte deve

Giovanni Boccaccio, Decameron, Proemio, 13.
Cfr. M. Olsen, Les transformations du triangle érotique, Akademisk Forlag,
København, 1976.

essere pagato alla fine? Il contrasto con la novella successiva – in cui
si racconta un amorazzo effimero di un frate dissoluto e di una donna
sciocca e presuntuosa – mette poi in rilievo il fatto che vi si narrava di
un sentimento vero e profondo che non rientrava nei clichés e negli
stereotipi del quotidiano, ma meritava rispetto e comprensione, forse
addirittura rispetto e appoggio. Nella novella del Boccaccio la nobile
principessa oppone alle grette opinioni del padre il concetto dell’amore
poetico e filosofico d‘origine stilnovistica. Attorno al lungo dibattito
che si svolge tra di loro gravita in verità l’intero racconto. Esso non si
limita ad essere una esposizione di argomenti opposti, bensì diventa
una vera e propria controversia in cui il narratore cerca di essere imparziale.
Evitando di formulare norme assolute, il Boccaccio lascia la
questione sospesa nella relatività che pare spingere verso inevitabili
compromessi. Il carattere dotto, e quindi alto del racconto viene confermato
dal fatto che più tardi esso fu tradotto in latino da Beroaldo e
Bruni: la trasformazione – analoga a quella effettuata dal Petrarca per
la novella di Griselda – doveva assicurargli una collocazione non riduttiva
anche tra gli umanisti sprezzanti del volgare.
Tuttavia – e pure analogamente a quanto era avvenuto per la novella
di Griselda – la storia della tragica fine di Ghismonda fu rifatta
e godette di un’ampia diffusione anche nella forma destinata “ad uso
popolare”8. Testi di questo tipo uscivano dalle tipografie di tutta l’Europa
praticamente sin dal momento dell’invenzione della stampa e
presentavano tutto un insieme di caratteristiche di vario genere: circolavano
in edizioni povere e semplici, a prezzo relativamente basso,
e perciò erano facilmente accessibili anche ai lettori non abbienti o
non propensi a spendere cifre importanti per lo svago e per la lettura;
erano destinati agli utenti di cultura mediocre e contenevano unicamente
opere in lingue volgari adatte alla lettura collettiva; dichiaravano

Per questa definizione cfr. G. Demerson et al., Livres populaires du XVI-ème
siècle. Répertoire sud-est de la France, CNRS, Paris, 1986, “Introduction”.

finalità utilitarie, valori didattici e informativi, stretti legami con la
prassi della vita quotidiana. Una delle prime tipografie sorte a Firenze
ancora alla fine del Quattrocento produceva esclusivamente edizioni di
questo tipo9. La definizione “ad uso popolare” indica una categoria di
testi e non vuole suggerire che si trattasse di opere lette solo da un “popolo”
inteso in maniera più o meno vaga, né che il “popolo” leggesse
soltanto quel genere di letteratura, o che gli autori disponessero solo di
quelle competenze cui facevano riferimento nei loro testi. Del resto,
questi dovevano circolare con successo prima dell’invenzione della
stampa, e le prime tipografie sicuramente profilavano la loro attività
semplicemente in modo da sfruttare economicamente le tendenze del
mercato e i prodotti già esistenti.Ad una loro maggiore diffusione doveva
contribuire non soltanto il prezzo contenuto, ma anche – forse
soprattutto – la forma del testo conforme alle aspettative del pubblico.
L’adattamento della novella di Ghismonda in ottava rima – con
ogni evidenza approntato in funzione appunto di tali esigenze – si
trova già fra le primissime edizioni a stampa apparse in Italia (ma si
può supporre che esso esistesse assai prima di essere stampato e d’altro
canto lo si ritrova in circolazione ancora nel Settecento)10. La sua
carriera europea sarà brillante, dalla Gran Bretagna fino alla Polonia11.
Numerose e sostanziali modifiche rispetto all’originale po-

Cfr. R. Ridolfi, La stampa a Firenze nel secolo XV, Olschki, Firenze, 1958.

Cfr. E. Lommatzsch, Beiträge zur älteren italienischen Volksdichtung. Untersuchungen
und Texte, Band I, Die Wolfenbütteler Sammelbände, Akademie Verlag,
Berlin, 1950; Cantari novellistici dal Tre al Cinquecento, a cura di E. Benucci,
R. Manetti, F. Zabagli, intr. di D. De Robertis, Salerno ed., Roma, 2002.

Cfr. B. G. Passano, I novellieri italiani in verso, Bologna, 1868, J. Krzyz`anowski,
Z dziejów “Dekameronu” w Polsce [Per la storia del “Decameron” in Polonia],
Warszawa, 1927. Più generalmente sui lunghi cicli della letteratura popolare, si
veda G. Bollème, Littérature populaire et de colportage au XVIII-ème siècle, inG.
Bollème, J. Ehrard, F. Furet et al., Livre et société dans la France du XVIIIe siècle,
Post-face d’A. Dupront, Le Mouton, Paris-La Haye, 1965, pp. 61-92.


trebbero destare dubbi, da un punto di vista strettamente ortodosso,
circa il senso dei riferimenti all’autorità del Boccaccio che si ritrovano
in quel tipo di rimaneggiamenti, anzitutto se si tiene conto del
fatto che i motivi narrativi costituivano all’epoca un repertorio comune
che si poteva utilizzare – e che si utilizzava – assai liberamente,
analogamente a un repertorio di sentenze e di proverbi. Tuttavia,
anche se il rimaneggiamento della novella di Ghismonda si spinge,
come tanti altri, assai lontano dal suo modello, esso costituisce uno
di quei casi in cui la discendenza dall’originale pare essere evidente
anche per il pubblico più ampio. Nei testi degli “imitatori”, il Boccaccio,
accanto a pochissimi altri autori volgari, viene citato di nome,
e alla metà del Cinquecento in maniera simile – cioè in ottava rima
– viene riscritta la sua intera raccolta novellistica, pubblicata dal Marcolini
a Venezia nel 1554: sono le Cento novelle da Messer Vincenzo
Brugiantino dette in ottava rima che aspettano ancora uno studio
approfondito12.
La novella di Ghismonda funziona quindi come un’opera del
Boccaccio destinata “ad uso popolare”. La messa in ottava rima ne
facilitava la trasmissione orale e collettiva,mentre la lunghezza del
racconto – 80 stanze – lo rendeva adatto a essere recitato durante
un’unica “sessione”. Come accadeva spesso per i cantari, rivolgendosi
direttamente al pubblico, il rimaneggiatore pensava in primo
luogo agli ascoltatori che venivano riunendosi attorno a chi recitava
le sue stanze, e non ai lettori che leggessero la versione stampata;
evocando nelle prime parole il pubblico cui era destinato il racconto,
lo caratterizzava nella maniera più che sommaria ma tuttavia sufficiente
per dare l’idea della narrazione che doveva seguire:
12Aproposito si veda R. Alhaique-Pettinelli, Vicende editoriali attorno alle Centonovelle
da Messer Vincenzo Brugiantino dette in ottava rima, in Ead., Forme
e percorsi dei romanzi di cavalleria, Bulzoni, Roma, 2004, pp.165-180.

Donne leggiadri e voi gioveni amanti
che qui conduce volontà d’udire...13
Questa forma di trasmissione è premessa dall’intera invocazione,
in cui il narratore, parlando a chi l’ascolti o soltanto a chi lo potrebbe
sentire passando accanto, presenta brevemente ciò che avrebbe raccontato
poco dopo, e lo fa su un tono pubblicitario per attirarsi il maggior
uditorio possibile. Le prime ottave – dalla I alla III – costituiscono
una specie di ouverture che deve occupare il tempo in cui il pubblico
comincia ad affluire e l’artista attende che sia raggiunto il completo.
Donne leggiadre e voi gioveni amanti,
che qui conduce volontà d’udire,
apparecchiate gli occhi a dolci pianti,
che per far siete avanti di partire;
io ho tanta pietà di tal sembianti,
ch’a pena posso la historia seguire,
pensando pur che ad un simil punto
esser può ciascun huomo e donna giunto
Et per redur quest’opra a miglior fine
ricorro a quel fanciul che l’arco porta
“Signor – dicendo - de l’alme divine
tu sei mio sire, la mia guida e scorta,
mie rime adorna tanto pellegrine
& l’eloquenza mia fa tanto accorta
che metter possa al cor amor & fede
a chi non ha degli amanti mercede.
Anchor ricorro a te, mia nimpha altera,
che a lachrimare spesso mi conduce
13 Cit. secondo l’edizione Historia de Guiscardo e Gismonda, Firenze, 1553;
cfr. E. Lommatsch, cit., p. 3, n. 25.

col tuo splendor & sol di quarta sfera,
fidelissima speranza guida & duce,
io non posso levarmi di quel ch’era,
se non m’aiuti tu, splendida luce,
però mi presta tanto dono & pace,
ch’io possa dir d’un altro amor verace14.
La riduzione della novella boccacciana agli schemi tipici del cantare
è accompagnata da altre modificazioni significative. Nell’edizione
a stampa la novella porta il titolo dell’Historia de Guiscardo e Gismonda
e ciò non sembra del tutto casuale, visto che esistono pure rimaneggiamenti
dei racconti decameroniani in cui è stato conservato il
nome di “novella”15. In questo caso la scelta è dovuta probabilmente
al fatto che la differenza tra un’invenzione letteraria e i racconti dedicati
ai fatti realmente accaduti veniva percepita in maniera vaga e confusa.
La storia di Guiscardo e Ghismonda, estratta dal contesto
dell’intera raccolta, diventa così uno dei tanti racconti del ricchissimo
corpus dei casi d’amore, felici ed infelici, tratti dalla tradizione classica
e volgare, dalla aneddotica e cronaca minuta, come Historia di
Ottinello e Julia, Historia dell’infelice innamoramento di Gianfiore e
Filomena, Historia d’Hipolito Buondelmonti e Dianora de’Bardi, Historia
de Piramo e Tisbe, Historia di Florindo e Chiarastella, e tanti
altri. D’altro canto essa s’avvicina pure alle numerose relazioni che
mirano a sconvolgere il pubblico con l’evocazione degli orrori e delle
tragedie umane, seguite probabilmente con lo stesso spirito che segna
tanta parte della nostra odierna cultura di massa: un Horrendo e spaventoso
caso occorso nuovamente in ...– titolo corrente e stereotipato
– permette allora come oggi di immedesimarsi momentaneamente con
i protagonisti, di suscitare e superare le paure, per rafforzare infine nel
14 Ivi.
15 Cfr. p. es. La novella di Gualtieri marchese di Saluzzo, citata in numerose
edizioni da G. B. Passano, cit.
LEGGER D'AMORE
48
pubblico il senso di sicurezza16. L’obiettivo cui mirano queste narrazioni
non è quello di sollevare astratte questioni teoriche – come faceva
Boccaccio nella sua novella IV, 1 – di fare eco a controversie e dibattiti
per illustrare le contraddizioni dell’enciclopedia “alta” o per impartire
un insegnamento morale; il loro fine consiste nel destare
semplici reazioni emozionali: spavento, orrore, a volte il riso, ma innanzitutto
commozioni e compassioni facili e lacrimose.
Nel caso della novella di Ghismonda la riduzione non contraddice,
certo, l’originale; basta ricordare la reazione della gentile brigata: “aveva
la novella dalla Fiammetta raccontata le lagrime più volte tirate insino
in su gli occhi alle sue compagne”17. La versione “ad uso popolare” ne
riprende, tuttavia, soltanto una parte, quella che si può comprendere, e
che si può godere, utilizzando esclusivamente competenze culturali più
elementari. Per il resto, rimane il vuoto che dovrebbe venir ricompensato
dalla specifica abilità artistica del rimaneggiatore: essa non va, tuttavia,
oltre il ricorso alla rima, l’uso di una sintassi diversa da quella corrente
e quotidiana e il riciclaggio di alcune metafore pseudo-ricercate. È la
funzione melodrammatica che predomina su tutti gli aspetti:
apparecchiate gli occhi a dolci pianti
che per far siete avanti di partire
avvertiva il narratore, aggiungendo ancora
io ho tanta pietà di tal sembianti
ch’a pena posso la historia seguire.
Procedimenti simili che facevano appello al sentimentalismo lezioso
si ritrovano frequentemente nelle opere analoghe, e dovevano
16 Cfr. i repertori forniti da E. Lommatsch, cit.
17 Giovanni Boccaccio, Decameron, IV, 2, 2. Questa reazione non è tuttavia condivisa
da tutti, Filostrato commenta la novella “con rigido viso”.

sicuramente rispondere ai gusti più comuni e universali se venivano
sfruttati persino nelle formule pubblicitarie in cui è d’obbligo il ricorso
allo stereotipo univoco e non contestato.
D’Hiroldo et Prasildo vo’ cantare
tutta l’historia pien di lamento,18
dichiara uno dei rimatori, mentre l’editore della tragica storia
d’amore di Gianfiore e Filomena scrive sul frontespizio:
Istoria nella quale si narra la fede e amore [...] e come Gianfiore fu
impiccato dai fratelli di lei per ordine del padre, quale poi pianse
amaramente con la moglie la morte della figliuola che s’impiccò da
sé stessa. Opera molto piacevole19.
L’intenerimento tramite il registro melodrammatico è, accanto al comico
salace e grasso, il fine che gli autori e gli editori dichiarano più frequentemente:
il riso e la commozione facile sembrano due pilastri
principali del divertimento popolare. Infatti, anche la premessa che implicitamente
sta a fondamento di ogni intento didattico (il racconto parla
delle vicende che possono capitare a tutti, le regole che illustra sono universali
e ognuno ne deve tirare una lezione utile per sé personalmente)
qui sembra esaurirsi nell’effetto emotivo. Non sorprende quindi il fatto
che in una delle edizioni la novella di Ghismonda sia definita come Historia
compassionevole di doi amanti (il che d’altronde sposta la prospettiva
dalla coppia padre-figlia su quella costituita da figlia-amante, il
quale aveva originariamente una funzione piuttosto di comparsa),20 né
che l’aiuto del cielo deve servire a
18 La Historia de Hiroldo et Prasildo, s.d.l., cfr. E. Lommatsch, cit., p. 5, n. 4.
19 Istoria dell’infelice innamoramento di Gianfiore e Filomena, Firenze, 1556,
cfr. E. Lommatsch, cit., p. 4, n. 30. Il Passano cita invece un’edizione che descrive
il contenuto come Storia di gran compassione ... (cit., p. 112).
20 Cfr. G. B. Passano, cit., p. 48.

[... ] metter al cor amor & fede
a chi non ha degli amanti mercede.
Ciò che determina il funzionamento dell’opera è l’identificazione
degli uditori e del narratore con gli amanti infelici, per i quali si nutre
comprensione e simpatia, e il distanziarsi dalla crudeltà del padre.
Non vi è quindi lo spazio per una dialettica delle ragioni contrarie,
l’unica scelta essendo quella di una presa di posizione fondata sulla
solidarietà che nasce dalla similitudine delle esperienze. Pure l’autore
– che ora si presenta esplicitamente come scrittore e non recitatore –
conosce, infatti, le sofferenze degli amori nascosti, forse riecheggiando
in un certo senso Boccaccio del suo Proemio:
che debbe far un huom ch’al suo piacere
ha la cosa segreta e halla sola,
non può altro duro fascio sostenere
un riso, uno sguardo, una parola;
io arsi già, né mi potea tenere,
palido ero e smorto come viola,
ahimé, che per amor de la mia donna amata
vo’ scrivere questa historia ornata21.
Lo stesso modo di interpretare la prima novella della IV Giornata
del Decameron si manifesterà ancora nella già citata versione in ottava
rima preparata da Vincenzo Brugiantino non per le belle signorine
e per i giovani artigiani delle piazze cittadine, ma dedicata a
Ottavio Farnese, duca di Parma e di Piacenza. Tutte le novelle sono
accompagnate da allegorie e da proverbi; la storia di Ghismonda fornisce
una prova che
Non cura crudeltà, sdegno o rea sorte
Un generoso cor, né affanno, né morte
21 Historia de Guiscardo e Gismonda, cit.

e la relativa allegoria precisa che
Per Tancredi vien tolta la crudeltà, per Ghismonda l’animo generoso,
disposto al suo intento, il quale col nobil core non si muta per
spaventevole effetto seguitar il suo proponimento.
Definire il rimaneggiamento “ad uso popolare” soltanto in termini
di un abbassamento di livello può tuttavia parere nel caso della novella
di Ghismonda alquanto riduttivo. Per molti versi la caratteristica principale
del suo rapporto con l’originale sta piuttosto nella diversità che
nell’inferiorità. Caratteristiche analoghe si notano del resto in alcuni
epigoni del Boccaccio, i quali non hanno poi mai raggiunto un grande
pubblico22. Con tutto ciò, il confronto di versione “alta” e di versione
“bassa” porta verso due conclusioni. Nell’adattamento in ottava rima
si manifestano alcune caratteristiche – soprattutto i toni melodrammatici
e l’accento posto sull’effetto emotivo – che in un tempo successivo
diventeranno tipiche per la letteratura destinata a usi diversi da quello
popolare. Ciò suggerirebbe che i rapporti tra la letteratura “alta” e
quella “bassa” in molti casi andrebbero visti piuttosto in termini di reciprocità
e non di superiorità o autorità. Significativa da questo punto
di vista sembra l’edizione di Brusantino appena citata. D’altro canto i
modi in cui la novella di Ghismonda poteva creare ramificazioni – latine,
dotte e popolari – confermano il fatto che nel caso dei testi più
complessi e quindi aperti, le letture più sublimi non escludono quelle
più elementari, che i livelli culturali “alti” o superiori comprendono in
sé i livelli bassi o inferiori, così come un’enciclopedia più vasta comprende
in sé enciclopedie più ristrette. È il lettore che decide della collocazione
del testo e persino dell’attribuzione di caratteristiche
genealogiche. Ma i lettori di solito tacciono...
22 Tale è il caso di narratori come Giovanni Sercambi, Pseudo-Sermini o – in un
altro senso – l’autore de Il Paradiso degli Alberti.
Avvinti dalle parole
Felice Giani, La bocca mi/bacio tutto tremante. Galeotto fu il Libro e chi lo scrisse,
quel giorno piú non vi leggemmo avante. Acquerello, 1810 circa. Raccolta privata.
Particolare.

ROSSEND ARQUES
Let's examine Victoria Ocampo: il desiderio tra Francesca, Beatrice e Dante.

Un testo può svolgere il ruolo sia di messaggio sia di codice, oppure
svolgere entrambi i ruoli contemporaneamente. Se il lettore lo
adopera come codice, allora trasferisce i dati già noti della lettura in un
nuovo sistema di significati. “Se a una lettrice – scrive Lotman – viene
comunicato che una signora di nome Anna Karenina, a causa di un
amore infelice, si è gettata sotto un treno, ed essa, anziché aggiungere
nella sua memoria tale messaggio a quelli già in suo possesso, conclude:
“Anna Karenina sono io”, e rivede la concezione che ha di sé,
dei propri rapporti con certe persone, e magari il proprio comportamento,
allora è evidente che essa adopera il romanzo di Tolstoj non
come un messaggio del medesimo tipo di tutti gli altri, ma come un codice
in un processo di comunicazione con se stessa1”. Così leggeva i
romanzi la Tatiana di Puskin (Onegin, III X), lo stesso atteggiamento
aveva Madame Bovary, divoratrice di letture romantiche. Entrambe
queste eroine si rifanno all’archetipo di lettrice che è dato da Francesca,
il personaggio centrale del Canto V dell’Inferno. Ma nei modi e
nei detti di Francesca, proprio perché essa è un archetipo, tutto sa di
spontanea e genuina sorpresa. Da lei non ci può venire nessuna lezione
esperienziale sugli effetti della lettura, se non dopo la sentenza “Galeotto
fu il libro e chi lo scrisse”. Solo da quel punto in poi della narrazione
la sua esperienza vitale e sentimentale può a pieno titolo
diventare codice interpretativo per altre lettrici. “Francesca c’est moi”
– riconoscerà intimamente la lettrice che si sente travolta dalla passione
quando legge il canto dantesco dedicato alla lussuria.
1 Juri Lotman, Tipologia della cultura [1973], Milano, Bompiani, 2001, p. 126.

Le note che seguono vogliono essenzialmente presentare e analizzare
un caso poco noto di bovarismo o meglio francescanismo,
quello di Victoria Ocampo, l’autrice di "Francesca" e
l’ispiratrice della rivista letteraria rioplatense “Sur”, a cui collaborarono
tra gli altri, J.L. Borges, Bioy Casares, Silvina Ocampo, Ortega
y Gasset, ecc.

Ma prima di tutto cerchiamo di rispondere alla domanda: quale
valenza ha il dantismo nell’area di provenienza di Victoria Ocampo,
tenendo presente comunque che per appartenenza di classe ed educazione
in realtà la sua scoperta di Dante è più legata al dantismo
francese che a quello argentino, come vedremo.

Dante è di casa a Buenos Aires, così come in tutta l’Argentina e
in gran parte dell’America Latina.

Lo ha evidenziato in particolare un
convegno tenutosi a Salta, i cui atti sono stati pubblicati con il titolo
Dante en América Latina.

D’altra parte è un fatto facilmente intuibile,
non fosse altro per il grandissimo numero di italiani immigrati
in Argentina nel corso dell’Ottocento, dai quali discende una gran
parte della popolazione attuale.

Tuttavia la presenza di Dante in questa
parte del Nuovo Continente risale già ai tempi della Conquista, allorquando
circolavano esemplari delle sue opere principali, come
testimoniano la maggior parte delle biblioteche delle capitali sudamericane.
Ma vediamo più da vicino chi sono stati i più meritevoli
divulgatori di Dante in America Latina e i canali principali attraverso
i quali vi si è radicato, seppur con la premessa che i riferimenti non
sono affatto esaustivi, per quanto essenziali.
A cavallo tra ‘800 e ‘900 le traduzioni spagnole, sia locali che
provenienti dal continente europeo, diedero indubbiamente un importante
contributo alla conoscenza della sua opera, e ne fomenta-

(Dante en America Latina. Actas primer Congreso internacional Dante Alighieri
en Latinoamérica, Salta, 4-8 de octubre de 2004, a cura di Nicola Bottiglieri,
Teresa Colque, Universidad Católica de Salta, Edizioni dell’Università degli
Studi di Cassino, 2007. Relativamente all’Argentina possiamo ricordare Alma
Novella Marani, Dante en la Argentina, Bulzoni, Roma, 1983)

rono l’interesse. Meritano di essere qui ricordate le versioni di Bartolomé
Mitre (1897)3, di Cayetano Rossell (1871-72)4 e di Juan de la
Pezuela (1879)5, queste due ultime pubblicate in Spagna, ma con
ampia diffusione in America Latina e soprattutto a Buenos Aires. A
queste si aggiungeranno parecchi decenni dopo le versioni di Francisco
Soto y Calvo6 e di Ángel Battistessa (1902-1993)7, quest’ultimo
oriundo italiano. Ecco qui di seguito le versioni di alcuni di
questi autori, alcune in terzine, altre in versi sciolti e altre in prosa,
tutte relative al Canto V (vv. 127-138):

Nella sezione “Bibliografía de la traducción” dell’edizione “definitiva” della
sua versione della Comedia, Mitre ricostruisce il percorso della sua versione iniziata
nel 1889 con la pubblicazione della traduzione frammentaria dell’Inferno.
Importante è anche la prefazione alla versione definitiva che contiene una “Teoría
del traductor” in cui riflette sulla “literalitad y fidelidad al original”.

Si veda
lo studio di Longhi di Bracaglia, Mitre traductor de Dante, Buenos Aires.


Dante Alighieri, La Divina Comedia, según el texto de las ediciones más autorizadas
y correctas, nueva traducción directa del italiano por Cayetano Rosell; completamente
anotada y con un prólogo biográfico-crítico, escrito por Juan Eugenio
Hartzenbusch; ilustrada por Gustavo Doré, Barcelona: Montaner y Simón, 1870.

La Comedia de Dante Alighieri, traducida al castellano en igual clase y número
de versos por el Capital General Juan de la Pezuela, Conde de Cheste, de la Real
Academia Española, Madrid: Tipografía de Don Antonio Pérez Dubrull, 1879,
tomo I. La traduzione fu pubblicata a Barcellona nel 1979, anche se era stata ultimata
nel 1968, con un prologo di Mariano Roca de Togores. L’edizione contiene
una biografia di Dante e un giudizio elogiativo della traduzione stessa, che Bartolomé
Mitre non condivideva affatto, dato che la considerava «...inarmónica como
obra métrica, enrevesada por su fraseo, y bastarda por su lenguaje. Sin ser absolutamente
infiel, es una versión contrahecha, cuando no remendona, cuya lectura
es ingrata, y ofende con frecuencia el buen gusto y el buen sentido. Esto justifica
por lo menos la tentativa de una nueva traducción en verso».

Dante Alighieri, La Divina Comedia, versión lírica por Francisco Soto y Calvo,
Buenos Aires: Edición ordenada por el Ministerio de Justicia e Instrucción Pública
y dirigida por Nicolás Besio Moreno, 1940.

Dante Alighieri, La Divina Comedia, traducción, prólogos y notas de Ángel
Battistessa, Fondo Nacional de las Artes, Carlos Lolhe, Buenos Aires, 1972.

leíamos un día, por asueto/cómo al amor fué Lanceloto atado/solos los dos, y sin ningún secreto.
nuestros ojos, durante la lectura/se encontraron: ¡perdimos los colores/y una página fué la desventura/al leer, cual tal amante con ternura/la anhelada sonrisa besó amante/este por siempre unido a mi amargura/la boca me besó, toda tremante/Galeoto fué el autor al libro unido/ese día no leímos adelante (Mitre)

Leíamos un dia por entretenimiento en la historia de Lanzarote, cómo
le aprisionó elAmor. Estábamos solos y sin recelo alguno. Más de una
vez sucedió en aquella lectura que nuestros ojos se buscasen con afan,
y que se inmutara el color de nuestros semblantes; pero un solo punto
dió en tierra con nuestro recato. Al leer cómo el gentilísimo amante
apagó con ardiente beso una sonrisa incitativa, éste, que jamás se
separará de mí, trémulo de pasion, me imprimió otro en la boca.
Galeoto fué para nosotros el libro, como era quien lo escribió. Aquel dia
ya no leimos más.
(Cayetano Rosell)

Leíamos un día por consuelo,
Cómo fué Lancelot de amor herido:
Solos éramos ambos, sin recelo.
Cien veces á llorar nos ha movido,
Y a perder la color del libro el arte;
Mas un punto no más nos ha perdido.
Cuando a leer llegábamos la parte
Do aquél bebe de amor el beso blando,
Éste, que ya de mí jamás se aparte,

La boca me besó todo temblando.
Galeoto fue el libro, y aquel dia,
Ya nada mas leimos.
(Pezuela)

Leíamos un día el alma encesa
este y yo, en puro afecto y sólos, cuánto
amor en Lancelote hiciera presa.
Con los ojos cerrados al encanto
de la lectura, el rostro desteñido;
¡fue aquél segundo el que hoy sufrimos tanto!
¡Al llegar al relato conmovido,
de beso dado por el otro amante,
este que más de mí no se ha partido,
la boca me besó todo tremante!
Galeoto el libro fue y quien lo escribiera
y ese día el leer no fue adelante...
(Soto y Calvo)

Leímos un día, por recreo,
cómo el amor lo atrajo a Lanzarote;
solos estábamos sin sospecha alguna.
Varias veces los ojos se encontraron
en la lectura, palideció el rostro,
pero nos dominó sólo un pasaje.
Al leer cómo la sonrisa ansiada
fuera besada por un tal amante,
éste, de quien yo nunca he de apartarme,
la boca me besó todo temblante.
Galeoto el libro fue y quien lo hizo:
desde ese día nunca más leímos.
(Battistessa)
Sarà comunque con Lugones e la nuova generazione di scrittori


che Dante, e con lui Francesca, faranno la loro entrata folgorante
nella letteratura creativa e nella saggistica argentina.

Leopoldo Lugones
(1874-1938) è l’esempio più evidente di come la poesia dantesca
trovi eco nella prosa e nella poesia castigliana.

Per non
allontanarci troppo dal nostro argomento, ecco che la eroina riminese
compare più volte all’interno delle sue poesie o anche nelle epigrafi
che le accompagnano. In “Ave mía, gratia plena” del libro Los
crepúsculos del jardín (1905) il poeta ricostruisce la scena della “clásica
pareja / de algún amable Infierno psicológico...”8 mentre il verso
“Quel giorno più non vi leggemmo avanti” riecheggia nell’incipit
della poesia “Aquel día...”. Nel racconto “Francesca” all’interno del
libro Lunario sentimental (1909) leggiamo:

“Ya no leían; y así pasaron muchas horas, con las manos tan heladas
sobre el libro, que poco a poco se les fue congelando toda la
carne. Sólo allá adentro, con grandes golpes sordos, los corazones
seguían viviendo en una sombría intensidad de crimen.Ytantas horas
pasaron, que la luna acabó por bañarlos con su luz.
Galeoto fue el libro... – dice el poeta – ¡Oh, no, Dios mío! Fue el
astro.
Miráronse entonces; y lo que había en sus ojos no era delicia, sino
dolor. Algo tan distante del beso, que en ello cabía la eternidad. El
alma de la joven asomábase a sus ojos deshecha en llanto, como una
blanca nube que se vuelve lluvia al fresco de la tarde. ¡Y aquellos
ojos, oh, aquellos ojos negros como dos golondrinas de la Pasión.,
qué sacrificio de ternura abismaban en el heroísmo de su silencio! ¡
Ay, vosotros los que sólo en la dicha habéis amado, envidiad la tortura
de esos amantes que, en el crepúsculo llorado por las esquilas,
gozaban, padeciendo de amor, toda la poesía de las tardes amorosas,
 “¿Te acuerdas? ... El salón vasto y seguro.../ La estufa en que mermaban los tizones...
/ Lucían en el techo casi oscuro / su anodino esplendor los artesones. /
Bajo las rigideces laceradas / del severo brocado en desaliño, / con la espontaneidad
de las granadas / maduras, se entreabría tu corpiño.”, in Obras poéticas
completas, Madrid, Aguilar, 1948, p. 183.

difundida en penas de navegantes, de ausentes y de sentimentales
peregrinos, como en el canto VIII del Purgatorio.


Era già l’ora che volge il disio
Ai navicanti e ‘ntenerisce il core
Lo di c’han detto ai dolci amici addio;
E che lo novo peregrin d’amore
Punge, s’e’ ode squilla di lontano
Che paia il giorno pianger che si more.

Pálidos hasta la muerte, la luna aguzaba todavía su palidez con
una desoladora convicción de eternidad; y cuando el llanto desbordó
en gotas vivas -lo único que vivía en ellos- sobre sus manos, comprendieron
que las palabras, los besos, la posesión misma, eran nada
como afirmación de amor, ante la dicha de haber llorado juntos. La
luna seguía su obra, su obra de blancura y redención, más allá del
deber y de la vida...9”
Alla stessa generazione di Lugones appartiene anche Lorenzo
Longhi di Bracaglia (1883-1942), oriundo italiano nato a Roma, il
quale dopo aver concluso gli studi universitari a Roma e a Firenze,
approdò a Buenos Aires dove, oltre a insegnare latino e greco all’università,
pubblicò diversi studi su Dante, tra cui Mitre traductor
de Dante (1936).

Ma la fortuna di Francesca nel Río della Plata era solo agli inizi.
Di lì a poco, infatti, il nucleo di scrittori, capitaneggiati da Victoria
Ocampo e raccolti dal 1931 intorno alla rivista letteraria “Sur”,
avrebbe dedicato a Dante e ai suoi personaggi riflessioni e citazioni
di altissimo livello.

È a tutti nota la fascinazione che Jorge Luis Borges

Leopoldo Lugones, "Francesca", in Lunario sentimental (Obras poéticas completas,
cit., pp. 423-424).

Si vedano anche El pensamiento de Dante, Anagogía dantesca y Dante y la
conciencia actual, di chiaro orientamento cattolico.

nutre per Dante e che esprime in molti dei suoi saggi e delle sue
poesie.

Nel saggio “Divina Comedia” del libro " Siete Noches", Borges sintetizza così una peculiarità del poeta fiorentino

Dante tiene una curiosidad.

"Amor condusse noi ad una morte."

Paolo y Francesca han sido asesinados juntos.

A Dante no interesa el adulterio.

Sul dantismo di Borges, si vedano almeno i seguenti lavori: Jorge Luis Borges,
Nueve Ensayos dantescos, introd. di M.R. Barnatàn, pres. di J. Arce, Madrid,
Espasa-Calpe, 1982 [Nove saggi danteschi, prefaz. di Giorgio Petrocchi, ill. diWilliam
Blake, Milano, Franco Maria Ricci, 1985]

Siete noches, Buenos Aires, Fondo
de Cultura Economica, 1980 [ Sette notti, Milano, Feltrinelli, 1983]

Tutte le opere,
a cura di D. Porzio, Milano, Mondadori, 1984-1985, voll. 2;

Dante Alighieri, La
Divina Comedia, introd. di Jorge Luis Borges, Barcelona, Océano, 1999.

Per quanto
riguarda la critica:

Maria Teresa Giaveri
"Dante e Borges: “El Aleph”, in «Lectura
Dantis 2001» (2005), pp. 177-193;

Carlos X. Ardavin, Hacia una definición borgeana
de la literatura: Dante y “La Divina Commedia”, in «Chasqui» Swarthmore
(Pa), XXV (1996), 2, pp. 81-88;

Liliana Bellone, Antonio Gutiérrez, Jorge Luis
Borges: un guía en la travesía poética de Dante Alighieri, in «Dante en laAmérica
Latina» (2008), I, pp. 563-574;

Mafalda Benuzzi de Canzonieri, Borges lector del
“Infierno”, in «Dante en América Latina» (2008), I, pp. 213-222;

M. Bonatti, Dante
en la lectura de Borges, in « Revista Iberoamericana », XLIII (1977), pp. 737-744;


Gina Lagorio, Borges e Dante, in «DoctorVirtualis. Rivista online di storia della filosofia
medievale», III (2003) [http://filosofia.dipafilo.unimi.it/doctorvirtualis/; poi
in «Medioevo storico e medioevo fantastico in Jorge Luis Borges» (2003), pp. 25-
32].

Nicola Longo, La poesia di Dante secondo Jorge Luis Borges, in «Dante. Rivista
internazionale di studi su Dante Alighieri», IV (2007), pp. 89-114;

Roberto
Paoli, Borges e Dante, in «Studi Danteschi», LVI (1984), pp. 189-212 [poi, in versione
spagnola, in «Actas de las V Jornadas Nacionales de Literatura Italiana»
(1991), I, pp. 37-57 con il titolo Borges y Dante; poi in Borges e gli scrittori italiani
(1997) pp. 87-107].

Francisco Rodríguez Risquete, Borges: fervor de Dante, in
«Quaderns d’Italià. Departamiento de filologìa francesa i romanica. Area de filologìa
italiana», X (2005), pp. 195-218

U. Schulz-Buschhaus, Die Lecturae Dantis
des Jorge Luis Borges, in « Deutsches Dante-Jahrbuch », LXII (1987), pp. 77-93;
Laura Silvestri, Borges y Dante o la superstición de la literatura, in «El siglo de Borges
» (1999), pp. 385-408;

L. Terracini, Borges e Dante, in «Letture classensi. XIV»
(1985), pp. 121-136; J. Thiem, Borges, Dante, and the poetics of total vision, in «
Comparative Literature », XL (1988), 2, pp. 97-121.

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A Dante no le interesa el modo como fueron descubiertos ni ajusticiados.

A Dante le interesa algo más íntimo, y es saber cómo supieron que estaban
enamorados, cómo se enamoraron, cómo llegó el tiempo.

C’è poi la sorella minore di Victoria, Silvina Ocampo (1903-
1993), sposa dello scrittore Adolfo Bioy Casares (1914-1999), con
cui scrisse Los que aman, odian (1946), la quale non ha voluto o
forse non ha potuto sottrarsi all’influsso dantesco, che possiamo cogliere,
tra l’altro, nel brano di un racconto appartente al libro Las repeticiones,
ove sono evidentissimi i riferimenti a Inf. V:

Gli amanti
“Impossibile dimenticarle: una era più grande dell’altra. Entrambe
gialle con disegni neri. Sembravano una enorme pansé. Le vidi un
mattino di fine inverno mentre facevano l’amore lungo un sentiero.
Da principio credetti che fossero due foglie cadute da un ramo portate
via dal vento: da sole e così strettamente avvinghiate che una
trascinava l’altra e il vento le trascinava giù entrambe. E loro si
alzavano di nuovo e di nuovo il vento le trascinava giù come se fossero
di carta. E continuarono a lottare contro il vento senza sentirlo, così
concentrate su se stesse, innamorate, impazzite. No, no… non potevo
lasciarle in quel sentiero invernale. Mi inginocchiai e le presi per le ali.
Le sentii palpitare tra le mie dita come se stessero gridando. Le portai
a casa e le lasciai nel bordo della finestra, dove ancora soffiava il
vento. Mi misi a tavola con la sensazione che fosse molto volgare fare
colazione nel momento in cui due farfalle facevano l’amore nel bordo
di una finestra. Mi alzai molte volte per correre a guardarle. Il vento
continuava a soffiare e una delle farfalle continuava a trascinare l’altra
e l’altra continuava a rimanerle attaccata come se fosse infilzata. E il
mondo per loro era del tutto scomparso”

12 La traduzione è mia. Il testo è tratto da Silvina Ocampo, Las repeticiones y
otros relatos inéditos, edición al cuidado de Ernesto Montequin, Buenos Aires:
Sudamericana, 2006, pp. 53-54.

A questo si potrebbero affiancare i racconti Mariposas anaranjadas
copulando13 y Ocho alas14, che sono varianti più antiche del
brano riportato, e anche Los mastines del templo di Adrano, un piccolo
racconto tratto dal libro Las invitadas (1961).

A conferma della forte presenza dell’opera dantesca negli ambienti
intellettuali argentini, ricordiamo che proprio negli anni in cui
Victoria Ocampo comincia ad occuparsi pubblicamente di Dante,
l’architetto Mario Palanti (1885-1979) e l’industriale Luis Barolo
(1869-1922) mettono mano all’edificazione del Palacio Barolo, che
sarà ultimato nel 1923 e che è pieno di riferimenti al poema dantesco.


Dalla struttura, scandita in tre fasce, fino all’altezza che raggiunge
i cento metri, corrispondenti al numero totale dei canti, il
palazzo dell’Avenida de Mayo è il maggior esempio locale di architettura
esoterica del XX secolo.

Victoria Ocampo, Francesca e il labirinto delle passioni

Ma torniamo alla nostra lettrice bonaerense.

Victoria Ocampo
pubblica nel 1924 il suo primo libro intitolato "Francesca nella Divina Commedia"
 nella collana di saggi della
13 S. Ocampo, “Analectas”, pp. 149-150.
14 S. Ocampo,Cornelia frente al espejo, Barcelona, Tusquets, 1988, pp. 144.
15 S. Ocampo, Cuentos completos, Buenos Aires, Emecé, 1999, pp. 297-298.
1
Per quanto riguarda questo Palozzo si veda: Margarita Coelho, Elena Oliva,
El Palacio Barolo: “La Divina Comedia” representada, in «Dante en América
Latina» (2008), I, pp. 451-468;

Cristina Elgue-Martini, “La Divina Comedia”
en la arquitectura argentina: el Palacio Barolo de Mario Palanti, in «Dante en
América Latina» (2008), pp. 491-503

Rosanna Ventura-Piselli, Las tipologías
arquitectónicas tradicionales en el Palacio Barolo de Buenos Aires y la “Comedia”
de Dante, in «Dante en América Latina» (2008), II, pp. 835-858.

Victoria Ocampo, De Francesca a Beatriz. A través de la Divina Comedia. Epílogo
de José Ortega y Gasset, Madrid, Revista de Occidente, 1924. Tradotto dal

“Revista de Occidente”, diretta da José Ortega y Gasset che è anche
autore dell’epilogo.

Victoria Ocampo (1890-1955), appartenente ad una agiata
famiglia aristocratica di Buenos Aires, nel 1896 compie il suo primo
viaggio in Europa, facendo tappa in diverse città europee tra cui Londra
e Parigi.

Comincia a scrivere in francese, la lingua dell’alta società
di Buenos Aires, anche se tra i suoi antenati c’è José Hernández,
l’autore del famoso poema epico argentino Martin Fierro (1872).

Nel 1908 è di nuovo a Parigi dove frequenterà la Sorbonne durante
un biennio.

Al rientro a Buenos Aires sposa Luis Bernardo de
ESTRADA, con cui realizza un lungo viaggio di nozze in Europa, durante
il quale, a Roma, conosce Julián MARTINEZ, diplomatico e cugino
del marito, suo futuro amante.


Risale al 1920 la sua prima
collaborazione con il giornale “La Nación” per il quale scrive un articolo
in francese, intitolato Babel, che ha come argomento il Canto
XV del Purgatorio.

Nello stesso anno si separa dal marito ESTRADA e mantiene
con l’amante MARTINEZ la relazione che si fa sempre più tempestosa fino
a sfociare in una rottura definitiva.

Non è il gusto per il gossip che mi induce a registrare questi dati
biografici, quanto piuttosto la loro assoluta rilevanza per capire il
processo di mimesi attuato da Victoria verso la Commedia e in particolare
verso il Canto V dell’Inferno.

Un processo avviato dal libro
che mai smette la sua azione di mediazione e di modellizzazione
della realtà e che viene ben descritto da Girard, proprio in riferimento
al modello di comportamento suggerito da Francesca.

Vale a dire
che i libri non sono innocenti, dietro ogni libro c’è un autore che
cerca di sedurti, che fa sì che tu voglia imitarlo.

Nella mia terminologia
il libro svolge la funzione di mediatore, di modello di Paolo e
francese da Ricardo Baeza, il volume fu pubblicato nella casa editrice che dirigeva
Ortega con la chiara volontà di dare all’argentina l’opportunità di recuperare
la fiducia nella propria lingua, lo spagnolo, nella quale lei non si sentiva affatto sicura.


Infatti lei stessa confessa che lo spagnolo era per lei “una lengua chata” (cioè
“piatta”), cit. in Marta Capomar, Victoria Ocampo en la cultura del amor de Ortega
y Gasset, “Revista de Estudios Orteguianos”, 3 (2001), p. 235.

Francesca: il loro amore è dunque in un certo senso un amore copiato”


Al di là di certe inesattezze, come quella secondo la quale è Lancillotto
a baciare Ginevra mentre è l’inverso, Girard ci ha svelato
quanto è importante la mediazione del libro, la triangolazione del desiderio.


Francesca è una lettrice assidua, quasi una vittima di ciò che
legge, una madame Bovary avant la lettre.

La seduzione ovviamente non nasce con lei, risale a molto più indietro nella storia dell’umanità,
alle origini della specie umana e animale, fino al punto che è quasi
improprio parlare di storia ed è invece più decisivo il ruolo fondamentale
dell’istinto che sempre guida ogni individuo negli intricati
meccanismi della riproduzione.

La cultura umana ha creato fin dalle
sue origini i simulacri più diversi per indurre il desiderio.

Le immagini
e i testi dell’ars amandi e quelli posteriori della scientia sexualis
hanno alla base questo scopo fondamentale.

Pur tuttavia, fino a
questo momento della creazione dantesca, nessuno aveva pensato di
rappresentare il momento della seduzione come una spontanea e incoercibile
conseguenza della lettura di alcune pagine letterarie in cui
viene descritta una scena simile.

Il bacio ne è l’essenza e ad esso non
si possono sottrarre gli amanti che ne leggono la descrizione.

Nel
racconto che fa la stessa protagonista, è detto con insistenza quanto


Dall’intervista di S. Benvenuto a R. Girard: http://mondodomani.org/dialegesthai/
sb02.htm.

Dante ne fait pas d’histoire littéraire; il souligne qu’écrite ou
orale c’est toujours la parole de quelqu’un qui suggère le désir.

Le roman occupe
dans le destin de Francesca la place du Verbe dans le quatrième évangile. Le
Verbe de l’Homme devient Verbe diabolique [...] Imitatrice d’imitateurs elle sait
que la ressemblance est réelle entre elle et son modèle [...], mais cette ressemblance
ne se situe pas dans le triomphe de l’absolutisme passionel, comme l’imaginèrent
d’abord les amants et comme l’imaginent encore les lecteurs, elle se
situe dans l’échec, un échec déjà consommé au moment où s’échangera, à l’ombre
de Lancelot, le premier baiser” (R. Girard, Critique dans un souterrain, Lausanne,
L’Age d’homme, 1976, 144-145).

il libro e la letteratura siano responsabili di questa mimesi erotica.

Il
libro può essere traditore, e alcuni libri sono "Galeotti" perché inducono
gli umani a perdersi nei labirinti della piramide amorosa che il
poeta descrive nel Convivio IV, XII 14-17.

Dante crea in Inf. V una
scena il cui riverbero continua fino ai nostri giorni, diffondendosi su
tutti i generi artistici e interessando persino i comportamenti di coloro
che la ignorano.

L’amante di Rimini è un esempio manifesto di quello che Barthes
denomina “contagio degli affetti” (contagion affective), concetto secondo
il quale

ogni desiderio è espressione delle figure del desiderio
presenti nella letteratura e nell’arte.

Secondo Barthes, questa influenza
sarebbe così determinante che nessun desiderio può essere considerato
totalmente originale, essendo invece tutti e sempre condizionati
dagli schemi culturali vigenti.

 Rifacendosi alla famosa massima di La
Rochefoucauld (“Il y a des gens qui n’auraient jamais été amoureux
s’ils n’avaient jamais entendu parler de l’amour”, Massima 136) e all’analisi
freudiana delle relazioni fra psicologia individuale e psicologia
collettiva, Barthes arriva alla deduzione che la cultura è una
macchina che indica agli individui chi e che cosa bisogna desiderare.

Il desiderio è di per sé mimetico, anche se in modo inconsapevole o seminconsapevole.


Se il desiderio agisse in modo consapevole, forse non
sarebbe così essenziale per l’individuo.

Solo partendo dal concetto che
esso nasce da una passione autentica, nel senso di originale e spontanea,
per un oggetto amoroso concreto e nuovo, il desiderio trova efficacia
e profondità sufficienti a coinvolgere il soggetto amante in una
vicenda che, a guardar bene, ha ben poco di originale, dal momento che
si forma nell’alveo culturale dell’epoca in cui capita vivere.

La parola
scritta -scrive Girard- esercita un vero fascino.

Spinge i due giovani
amanti ad agire come se i loro atti fossero determinati dal destino.



R. Barthes, Fragments d’un discours amoureux, Paris, Seuil, 1977, pp. 163-
164, che, di fatto, prende il termine “contagion afective” di Sigmund Freud, Psicologia
delle masse e analisi dell’io (1921).

La parola è uno specchio in cui si contemplano per scoprire in loro stessi
le somiglianze con i loro brillanti modelli.

Francesca, che parla da dannata anche se ancora poco cosciente
della propria colpa, ha ben chiara invece l’importanza esercitata dal
libro, e quindi anche il ruolo decisivo dell’autore, nell’azione di spingere
lei e Paolo sulla via della perdizione.

Ecco quindi l’imprecazione --
“Galeotto fu'l libro e chi lo scrisse”.

Per l’ingenua (o forse non tanto)
amante, il colpevole è il libro, non certo il lettore né tanto meno la sua
scoperta debolezza.

Francesca, come ogni divoratrice di storie scritte,
si trova a vivere nella interpretazione che lei stessa fa.

Il bello è promessa
di felicità, scriveva Nietzsche.

E la lettrice di romanzi si lancia
su questa promessa.

Se cade nell’errore, ciò è dovuto al fatto che essa
vuole inconsciamente ripetere il gesto degli amanti bretoni, ma soprattutto
vuole rivivere l’ambiente in cui questa storia si svolge ed è stata
scritta.

I nostri desideri non si rivolgono soltanto verso un uomo o una
donna, ma verso un uomo o una donna che portano con sé, in un tutt’uno
compatto, paesaggi, incontri, libri, città, sentimenti e sensazioni.

Quando si desidera, si crea un intero immaginario, un mondo riferito e
congiunto alla persona desiderata.

Lo sa bene la pubblicità.

C’est toujours
avec des mondes que l’on fait l’amour” (Deleuze).

Colui che
desidera ha a sua disposizione una serie di elementi connessi al suo desiderio.

Così Francesca non desidera solo Paolo MALATESTA, ma tutto ciò che immagina
o sogna che l’amore per Paolo, mediato dal roman, potrebbe
darle.

Non è tanto Paolo MALATESTA che essa desidera, quanto realizzare la ingenua
idea di vivere, attraverso la relazione con lui, quell’atmosfera amorosa
suscitata dalla lettura del roman.

Il desiderio di Francesca per Paolo pertanto trascende l’oggetto desiderato.

All’inizio di Inf. VI Dante stesso si preoccupa di farci sapere che i due amanti protagonisti del canto precedente erano tra di loro cognati, in tal modo introduce un dato imprescindibile per la comprensione non solo della drammaticità della storia, quanto della tipologia
dell’errore che li aveva condannati alla pena eterna, nonché

R.Girard, Ibidem.
21 Cit.in M. Larrauri i Max, El desig segons Deleuze,València, Tàndem, 2000, p. 76.

dell’insulto del v. 107 (“Caïna attende a chi vita ci spense”).

È noto che
l’ADULTERIO, di per sé cruciale in questo canto, assume maggior rilevanza
essendo aggravato dall’INCESTO, un peccato perturbatore dell’ordine sociale,
dell’armonia familiare e delle regole della convivenza.

Tuttavia
Dante sembra volerci dire, quasi anticipando Hillman, che non c’è fiducia,
né amore, senza la possibilità di tradimento.

Il tradimento è la
porta attraverso la quale gli umani possono accedere ad una elaborata
complessità di concetti, è il varco che ci immette nel pericolo di un
amore sottomesso al desiderio terreno.

Attraverso il tradimento si compie
la conversione dell’amore ideale in animalità.

Sintomatico in questo
senso il contrasto tra il desïato riso del v. 133 e la bocca del v. 136,
il primo attribuito a Ginevra e il secondo a Francesca.

“Riso” è una parola
connotata intimamente con Beatrice, fin da Vita nova 12, dove appare
il “mirabile riso”.

Altrettanto si potrebbe osservare della parola
“sorriso” che, essendo un hapax nella Commedia, è interpretabile come
un miracolo.

È chiaro che ci troviamo davanti a una di quelle parole
chiavi che rendono possibile l’interpretazione della nuova poetica su
cui Dante si sta cimentando24.


Marco Santagata, "Cognati e amanti. Francesca e Paolo nel V dell’”Inferno”"

“Romanisches Jarhbuch”, 48, p. 139.

J. Hillman, Puer aeternus, Milano, Adelphi, 1999, p. 19.

Parola che da Amor che nella mente mi ragiona si proietta fino a ParXXX26.

Sull’argomento
si veda Marta Cristiani, Il “disïato riso”. Ridere, sorridere, splendere
nella “Commedia” di Dante, in «Il riso» (2005), pp. 1-14

Violeta Diaz-Corralejo,
Risa y llanto en “La divina comedia”: un esbozo de interpretacion gestual, in«Actas
del VI congreso nacional de italianistas» (1994), pp. 241-250

Peter S. Hawkins, All
smiles: poetry and theology in Dante, in «Publications of the Modern Language Association
of America», CXXI (2006), 2, pp. 371-387 [poi, rivisto, in «Dante’s Commedia.
Theology as poetry» (2010), pp. 36-59 con il titolo: All smiles: poetry and
theology in Dante’s “Commedia”]

Maria A. Roglieri, Dante’s imagery: “bocca”
and “riso” in the “Commedia”, in «Essays in honor of Nicolae Iliescu» (1989), pp.
11-24;

Luigi Spagnolo, Il riso di Beatrice, in «Letterature straniere &.Quaderni della
Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università degli Studi di Cagliari», IX
(2007), pp. 261-270.

Anche Victoria Ocampo è una lettrice vorace.

Quando si trova a Parigi, ma non soltanto quando si trova in questa città, divora quantità
immense di letteratura francese e inglese, ma anche russa, italiana,
spagnola e indiana (soprattutto Tagore).

Alla Sorbonne
frequenta i corsi di Bergson e di Hauvette.

Relativamente a quest’ultimo,
in una pagina di diario datata 9 marzo 1910, scrive:

Temo ser un personaje execrable.

Hace unos días, X. me decía.

A
pesar de sus ojos, es usted una cerebral.

Se burla del amor que inspira
a su modo escalofriante.

A pesar de la diferencia de años, soy yo el
cándido y el más fácil de engañar.

Y usted, sin embargo, para mí es
una chicuela.

Tengo la sensación de que representa una comedia para
matar el tiempo.

Exagera.

Tutta tua vision fa manifestazione
E lascia pur grattar do’vè la rogna...
Questo tuo grido farà come vento
Que le più alte sime più percuote...

Hoy terminó Hauvette su curso sobre La Divina Comedia.

Qué pena.

Me parece que los versos de Dante que acabo de citar se
dirigen a mí.

El alma de Dante es pariente de la mía.

Me siento
llena de talento, de inteligencia, de amor que quisiera comunicar.

He nacido para hacer grandes cosas y las haré, por exceso de todo.

Bisogna ricordare, comunque, che questo diario si trova nel volume
II dell’Autobiografia che lei cominciò a scrivere nel 1952.

È
difficile quindi dire se questa “coscienza”, questa così chiara e profonda
comprensione dei moti del suo spirito è tardiva oppure era già

Si veda il suo Tagore en las barracas de San Isidro, 1961.
26 V. Ocampo, Autobiografia, Vol. II: El imperio insular, Buenos Aires, Sur,
1980, p. 133.

presente in quegli anni. Piuttosto i dati che possiamo ricavare da questa
annotazione sono i seguenti: avvio di una buona conoscenza di
Dante tramite i corsi di Hauvette e una assidua frequentazione delle
opere del fiorentino, un continuo confronto intellettuale col poeta e
quindi un costante rispecchiamento delle proprie vicende d’amore in
quelle dei personaggi o del protagonista sia del poema che della
Vita nova.

Dato, quest’ultimo, che, seppur apparentemente irrilevante
rispetto alle successive esperienze e ai successivi scritti di Vittoria,
è comunque un primo segnale di quella relazione mimetica tra letteratura
e vita che qui tentiamo di analizzare.

Non c’è dubbio, però, che l’asse portante di questo processo è costituito
dal concepimento e in seguito dalla stesura e pubblicazione
del libro De Francesca a Beatrice, opera nella quale essa riversa le

Autore tra l’altro di H. Hauvette, Dante, introduction a l’étude de la Divine
Comédie, París, Hachette,1911.

Si veda in questo senso, un’altra descrizione della sua ossessione per Dante,
nelle pagine dell‘Autobiografia II El imperio peninsular [1952], pp. 151.

Como
yo seguía en ese momento, los courses de Hauvette sobre Dante, hablábamos
[ella y el pintor Dagnan Bouveret] de la Divina Comedia.

Yo le contaba, con
entusiasmo, mis impresiones de colegiala.

Tantos comentarios le hice que decidió
colocar en la mesa en que yo me apoyaba (para el retrato) una cabeza de
Dante que tenía en el atelier.

A mí me pareció perfecto.

Pero cuando se enteraron
en casa de la presencia de una “lírica hiena” (como diría Ortega en un futuro
prólogo) en la composición de un retrato mío, le hicieron notar, con diplomacia,
al pintor, que ese nuevo adorno no le iba a una chica de diecinueve años y que
resultaría pretencioso, o sería interpretado como manifestación de un ridículo
basbleuisme.

Dagnan contestó que mi afición por Dante le parecía justificar plenamente
“el adorno”, pero que estaba dispuesto a borrarlo y reemplazarlo por
unos pensamientos o una rama de laurel en un florero.

Así lo hizo.

Nos separaron,
pues, a Dante y a mí, en efigie, y el mundo vegetal ocupó su lugar sin (en
mi memoria) “briser son absence”.

Tan no la quebró que mi primer artículo, publicado
en La Nación, fue un comentario sobre la Comedia (diez años después....
es decir después de diez años de navegar contra viento y marea).

Mis entusiasmos,
CUANDO NO HAN SIDO DEFRAUDADOS, han sido tenaces y tentaculares
como la glicina”.

Ricordiamo, ad esempio, Leyendo el “Adolfo”, libro de amor (1916), pubblicato
nel primo volume di “El Espectador” (e ora in Obras Completas, II,
Alianza Editorial/Revista de Occidente, pp. 25-28)

Para la cultura del amor,
“El Espectador”, 2 (1917) (O.C., II, p. 141), articoli che poi faranno parte del
libro antologico Estudios sobre el amor (Buenos Aires, 1939), dal quale farà
parte anche l’“Epilogo” al volume dell’Ocampo.

In tutte queste riflessioni ha
un ruolo molto importante il suo rapporto con la bella “criolla” (“creola”), chiamata
anche “Gioconda australe”, perché è proprio lei, con la sua voluttà e bellezza
a ispirargli i pensieri attorno a un nuovo modo di costruire una relazione
con l’altro sesso, libero dalle convenzioni e dai vincoli legali, a una nuova teoria
dell’amore, che non cambia però sostanzialmente il ruolo classico della
donna.

Si veda anche il volume antologico Estudios sobre el amor, Buenos Aires,
Espasa Calpe Argentina, 1940.

Si vedano anche i suoi, Carta a Victoria Ocampo,
sue letture (Dante, Bergson, Proust ecc.), le sue vicende sentimentali,
i numerosi contatti con intellettuali del suo tempo, principalmente
uomini e il suo nascente femminismo o protofemminismo.

Questo
approccio così autoreferenziale è l’aspetto che provoca lo sprezzante
rifiuto del saggio da parte di Paul Groussac, direttore in quel momento
della Biblioteca Nacional de Buenos Aires e importante critico
letterario del suo tempo, che lo considera più “un desahogo dantesco”
che un vero e proprio saggio su Dante.

L’edizione appare con una lunga postfazione (Epílogo) di Ortega
il quale al contrario mette in rilievo l’acutezza dello sguardo scrutatore
della scrittrice sulla Commedia, cioè su “esa triple avenida de
tercetos estremecidos” scritta da “nuestra lírica hiena” (cioè Dante).
Ma non basta. Ortega fa una sintesi storica dell’influsso “peculiar de
la mujer”, cioè della cultura della “cortezia”, al centro della quale vi
è per l’appunto la “Donna”. Dice Ortega: “La ‘lei de cortezia’ proclama
el nuevo imperio de la ‘mezura’, que es el elemento donde
alienta la feminidad” (p. 139), allor quando “estas mujeres sublimes
se atreven a insinuar una disciplina de interior pulimento e intelectual
agudeza”. Ma in questa postfazione, come del resto in parecchi
dei suoi scritti sull’amore e sulla donna, dei quali l’Epilogo è di fatto
una sintesi29, il filosofo confonde l’influsso dell’immagine della

en “Revista Sur”, Número 347 (1980) e Meditación de la criolla, en Ortega y
Gasset José, Estudios sobre el amor, Madrid, Alianza, 1999.

donna, costruita dall’immaginario maschile, con l’essenza stessa
della donna. In lui amore e visione della donna (“la feminidad”) sono
inseparabili.

Alui interessa l’ewig-weibliche in quanto forza civilizzatrice
e riformatrice dell’umanità, concetto che dalla tradizione trobadorica
in poi si è diffuso in tutta la cultura occidentale e di cui
Dante è il più alto assertore.

ADante, afferma Ortega, basta il saluto,
il sorriso, il “disïato riso”, che “fu fine de’ miei desideri” per diventare
un altro uomo.

Ma questo succede perché, prima che madre, figlia,
sorella o moglie, la donna (“la hembra humana”, nella
terminologia biologista di Ortega) è donna nella misura in cui è incantesimo
o ideale dell’uomo.

Da ciò derivano poi tutte le altre forme
di femminilità nonché la selezione dei maschi più affini a questo
ideale. Non a caso “incantesimo” e “selezione” sono le parole chiavi
della sua teoria erotico-femminina.

Il femminismo dovrebbe, secondo
Ortega, partire proprio da questo enorme e costante influsso
sulla storia umana, che ha come corollario il fatto che essenzialmente
l’uomo fa mentre la donna è. Ortega disprezza la lotta dei movimenti
femministi che rivendicano i diritti politici delle donne. Attraverso la
differenziazione dei sessi, Ortega richiamava per la donna un posto
sociale che, di fatto, però, la condanna all’invisibilità, giacché era
convinto che la sua essenza consiste nello stimolare l’uomo all’azione
e al miglioramento.

Ciò che del saggio di Victoria affascina Ortega, al contrario di
Groussac, è proprio quel suo audace gioco a rimpiattino con le parole
di Dante, grazie al quale può mantenere con l’autrice quella relazione
erotico-intellettuale sorta fin dal loro primo incontro a Buenos Aires
nel 1916.

Balza agli occhi la galanteria, per non dire l’esibito gallismo,
che Ortega sparge doviziosamente lungo tutta la sua postfazione:
dall’elegante quanto insistente riferimento all‘eccitamento
dell’ideale (“organo de la excitación”, “¿Por què, Señora, es su prosa
tan muelle y lleva cada frase un resorte suave que nos despide elásticamente de la tierra y nos proporciona su ascensión?”), all’incitamento
finale, pieno anch’esso di marcati doppi sensi erotici, di recuperare
l’importanza del corpo al di là di ogni dualismo (“Yo pido,
señora, que organicemos una nueva salud, y ésta es imposible si el
cuerpo no sirve de contrapeso al alma. [...]

El cuerpo vivo es carne
y la carne es sensibilidad y expresión.”). Ne approfitta Ortega per
percorrere anche i meandri del cuore e della sensibilità della donna
di cui ammira grazia e bellezza. Viene quasi il sospetto che le proponga
di pubblicare il libro per avere un’occasione di sedurla con le
sue idee sulle “bellezze creole”, dalle quali sarebbe derivata la “Meditación
de la criolla” nel 1939 con cui conferma le tesi espresse nell’Epílogo
del 1924.

Sette anni dopo, dalle pagine della rivista “Sur” da lei fondata – il
titolo essendole stato suggerito dallo stesso Ortega –Victoria si sente in
grado per la prima volta di rispondere pubblicamente alle provocazioni
dell’autore dell’Epilogo con le riflessioni un po’ incongruenti e disorganizzate
contenute nell’articolo Contestación a un Epílogo de Ortega
y Gasset30 – dovute in parte a una sua recente lettura del libro di Bertrand
Russell, The conquest of happiness – in cui mescola citazioni di
La rebelión de las masas di Ortega con riferimenti critici a Lady Chatterley’
Lover di D.H. Lawrence. Di questo articolo possiamo qui evidenziare
soltanto alcuni aspetti rispetto ai quali prende le distanze dal
filosofo, che tuttavia suscita in lei grande ammirazione:
- l’insistere sul patimento proprio dell’amore-passione, in quanto
chi ama “in questo modo” è già nel circolo infernale;
- la critica alla rivalutazione del corpo in tempi d’inflazione della
fisicità, mentre ci sarebbe bisogno di maggior spiritualità: “Mas
parece, pues, que un alegato en favor del cuerpo no viene al caso
en un momento como el presente. ¿No está ya acaso toda la atención
puesta en él?” (p. 33);
30 V. Ocampo, Contestación a un epílogo de Ortega y Gasset, “Sur”, autunno
1931, pp. 15-52.

- la differenza tra il desiderio di “una bocca” e il desiderio del “sorriso
di quella bocca”.

“¿Quiere usted -escribe- algo más expresivo
de la unión del alma y de la carne? [...] quien desea besar la sonrisa
de una boca, “il disïato riso”, no puede sino amar.” (p. 36-37).

Anche in una conferenza su Anne de Noailles, in occasione della
morte avvenuta nel 1933, torna sull’articolo di Ortega, di nuovo per
criticare la sua visione del ruolo della donna che lui riduce alla vita
privata, per quanto interiormente ricchissima, in contrapposizione a
quella pubblica propria dell’uomo32. In questi stessi anni Victoria sviluppa
la sua idea del femminismo, che per lei è soprattutto la necessità
di esprimersi da parte della donna. Tuttavia sarà molto più tardi, al
tempo dell’Autobiografia e dei Testimonios, cheVictoria saprà trovare
la corretta maniera di rendere più chiaro e compiuto il suo pensiero su
se stessa e sul femminismo.

El monólogo del hombre no me alivia ni de mis sufrimientos ni de
mis pensamientos. ¿Por qué he de resignarme a repetirlo? Tengo otra
cosa que expresar. Otros sentimientos, otros dolores han destrozado
mi vida, otras alegrías la han iluminado desde hace siglos

Ma qui siamo arrivati alla fine della storia. Ora ci conviene fare

Pubblicata poi in “Sur”, luglio 1934, pp. 7-68. La poetessa Ana de Noailles,
che tempo addietro era stata considerata da Ortega come esempio di letteratura
romanza calda e voluttuosa, rappresenta ancora un altro momento di critica alla
teoria orteguiana della galanteria maschile che divide i ruoli sessuali in pubblico
(quello maschile) e privato (quello femminile), accusando il filosofo spagnolo
di “antifemminismo” perché si opponeva alla parità sia nel terreno sentimentale
che in quello intellettuale e creativo fra i due sessi. Cfr. M. Campoamor, Victoria
Ocampo en la cultura del amor de Ortega y Gasset, “Revista de Estudios Orteguianos”,
3 (2001), pp. 209-290, p. 286.

V. Ocampo, Contestación a un epílogo de Ortega y Gasset, cit., pp. 16-22.
V. Ocampo, La mujer y su expresión, en Testimonios. Segunda 1937-1940,
Buenos Aires, Sur, 1984, p. 174.

qualche passo indietro per ritornare al nucleo stesso del mimetismo,
anche perché della relazione fisico-intellettuale che il galletto “castizo”
avrebbe voluto stabilire con l’affascinante “criolla” si è occupata,
e del tutto esaurientemente, Marta Campomar34.
Qui ci preme focalizzare la nostra attenzione sull’importanza che
gli adulteri e incestuosi personaggi danteschi d’Inf. V e il loro stesso
creatore hanno esercitato su Victoria rispetto ai suoi sentimenti e al
processo di autocoscienza portato avanti su se stessa e sui suoi mezzi
espressivi come donna35.
Sappiamo dalla sua Autobiografia che essa mette mano al libro
su Dante mentre sta vivendo una storia clandestina con il cugino del
marito – amante e marito appaiono indicati solo con le iniziali rispettivamente
di J e M, corrispondenti a Julián Martínez, l’amante,
e Monaco Estrada, il nome con cui era chiamato il marito, Luís Bernardo
de Estrada.

Anche il marito di Victoria, come Gianciotto, è un
uomo sospettoso e attento ad ogni minimo movimento della moglie.


E di occasioni destinate a generare in lui sospetti e dubbi certamente
non ne dovevano mancare nei bei salotti frequentati dalla coppia, nei
quali si riuniva l’alta società parigina e in generale europea, ma anche
bonaerense: il principe Troubetzkoy, qualche altro nobile, dei fascinosi
italiani, ecc.

Il povero marito, come disse un conte italiano, non
sopportava che tutti si innamorassero di sua moglie.

Tuttavia il cuore
di lei, benché disponibile ad aprirsi ad un nuovo amore giacché
quello coniugale era già da tempo in crisi, non aveva ancora veramente
mai palpitato per nessuno, almeno fino a quando non si affaccia
sulla scena Julián. Da quel momento è come se un vento la
trascinasse in un vortice al quale lei non può opporre nessuna resistenza:
34 M. Campomar, cit.
35 Aspetto del quale si è occupata anche María Campomar in diversi momenti del
suo lungo e interessantissimo articolo.
36 V. Ocampo, Autobiografia. Vol. III: La rama de Salzburgo, Buenos Aires, Sur,
1981, pp.19-20 e ss.

Antes de saber que era J., éste me atrajo como jamás me había atraído
nadie.

Me ruboricé quando M. (su primo [cioè il marito di Victoria])
me lo presentó. (...)

En el momento en que lo vi, de lejos, su
presencia me invadió.

Él me echó una mirada burlona y tierna (…).

Miré esa mirada y esa mirada miraba mi boca, como si mi boca fuese
mis ojos.

Mi boca presa de esa mirada, se puso a temblar.

In quel momento sente che il suo destino è segnato, per sempre:

Sentada entre los dos primos, tan diferentes, sabía que no tenía ya
nada que ver con alguien a quien estaba ligada por la ley, y que una
afinidad física, de la que desconfiaba, me arrastraba cada vez más
hacia el otro.

In questa ricostruzione letteraria di tanti anni dopo quel loro
primo incontro, essa accosta la propria vicenda a quella di Tristano
e Isotta (“porque lo nuestro fue fuga en la nave que bogaba, y boga
siempre, en alta mar, hacia la península de Tristán. (...)

Tarde o temprano
y fatalmente, el telón se levantaría sobre la historia de un amor
pasión.”39).

In realtà, come appare chiaramente nella penultima citazione,
è Francesca che emerge dalle sue parole. Così tutto si regge:
la bocca, gli occhi che si fissano sulla bocca, anziché negli occhi dell’amante,
il tremore delle labbra.

La situazione diventa sempre più insostenibile.

Il marito non tollera
nessuna presenza maschile accanto a lei.

Sotto questa pressione,
Victoria decide di chiamare Julián, iniziando così un rapporto per il
momento puramente telefonico con lui, cosa che tuttavia dà la stura
a una lunga serie di lettere anonime che mettono in guardia il marito
circa l’infedeltà della moglie, per quanto questa infedeltà fosse an-
37 Ivi, p. 20.
38 Ivi, p. 22.
39 Ivi, p. 24.

cora soltanto nei pensieri di Victoria.

In questi loro contatti telefonici
parlavano di letteratura, si consigliavano libri, leggevano Colette,
Maupassant, Vigny.

Nos dábamos cita para leerlos a la misma hora.
“Alas diez, esta noche. ¿Puede?”Aveinte quadras de distancia, yo en
mi casa y él en la suya, leíamos.”

Riandando con la memoria a questi
anni, coincidenti con la definitiva separazione coniugale, Victoria
fa una riflessione interessantissima che al contempo è anche una storia
dell’amor passione e dell’amore mimetico.

Leggiamola assieme:

El matrimonio me había probado lo que sabía de antemano: el fenómeno
llamado amor de dos enamorados, que fija nuestro deseo exclusivamente
sobre una persona (por un tiempo largo o corto), no se reduce
a un mecanismo puramente fisiológico, aun cuando ofrezca todos los
síntomas de ese fenómeno.

Es también mecanismo fisiológico pero no
sólo eso. Estoy de acuerdo en que no puede dejar de ser (y hablo de la
variedad de amor llamada por Stendhal, cuyo vocabulario adopto: amor
pasión) atracción intensa por un cuerpo y un corazón (en ese amor pasión,
el cuerpo parece a veces preceder a cuanto lo acompaña e imponer
su acento).

Creo en suma que el corazón cuando lo acompaña,
puede tomar la sucesión del cuerpo y no a la inversa.

El amor pasión
es el de Paolo y Francesca, es decir, el tormento del círculo en que
Dante los coloca.

Esa pasión no es bella sino en su exceso y sólo se
concibe por su exceso.

Está siempre expuesta a sufrir represalias y el
mundo la castiga en cuanto la detecta.

Es provocación a la muerte, que
la corona siempre de una manera o de otra.

Sea con la espada de Gianciotto,
de Golaud, del traidor Melmot, sea por la propia espada.

Da questo punto in poi tutti i momenti, almeno nella lettura posteriore
che ne fa la scrittice, si proiettano sullo schermo della storia
degli eroi della letteratura dell’amore-passione. La semplice ombra
40 Ivi, p. 29.
41 Ivi, pp. 31-32.

di uno degli alberi del Corso che essa doveva attraversare per andare
a trovare finalmente l’amante si mescola con l’ombra del pino di
Cornuailles. Una vera ossessione mimetica. Ma la confessione definitiva
di questo rapporto mimetico con la letteratura è nel passo autobiografico
in cui riprende quello che aveva scritto nel libro De
Francesca a Beatrice, a proposito di Paolo e Francesca:
sordos por el incesante clamor de ayer [los celos del pasado];
amenazados en este presente por las incertidumbrees del mañana
[celos del futuro].

No pudiendo decir una palabra ni hacer un gesto
que no despierte un eco de un pasado enemigo, o de un futuro preñado
de agresiones, palabras y gestos se despojan para siempre de toda
alegría [joie]. Impetuosos y yaciturnos dolores de la pasión sensual:
Nulla speranza li conforta mai.

Nella conclusione un chiaro riferimento all’effetto mimetico:
Al escribirlo, yo pensaba en mis celos y en los de J. Los míos
apuntando hacia el pasado; los de J. hacia el futuro, como Otelo, no
era “easely jealous, but being wrought perplex’d in the extreme43.

È una donna in una gabbia sentimentale terribilmente angusta:
gelosa del suo amante, famoso tombeur des femmes, è a sua volta
oggetto di gelosia da parte sia del marito, che si sa tradito, sia dell’amante,
che paventa il tradimento. Caduta innocentemente nella trappola
del matrimonio borghese obbligatorio, scopre che in esso non
c’è posto per l’amore, che l’amore è in un altrove che si chiama adulterio
e che non è privo di pene infernali. Allora è perfettamente comprensibile
quella simpatia, quell’immedesimarsi di Victoria nelle
vicende di Francesca, per quanto nella sua inesperienza di vita vissuta
42 Ivi, p. 45; riferito a De Francesca, cit, p. 42.
43 Ibidem.

nessuna chiosa erudita sarebbe riuscita a chiarire quanto solo l’esperienza
e l’età possono svelare. Difficile era per chi inizia “a vivere e a
scrivere”44 capire in cosa consiste l’autentico supplizio degli amanti di
Inf V. Anzi all’inizio della lettura immagina che nessun tormento può
essere così terribile se viene sofferto accanto all’amante. Solo in seguito
si accorge della portata di questa condanna, la cui cifra si trova
proprio nella parola “giammai” (jamás), perché per poter assaporare
veramente qualcosa, bisogna fermarsi a guardarla. Subito dopo la scrittrice
rende universale (“Así como tantos seres...”) questa unione che è
allo stesso tempo solitudine di ognuno dei partner. Non solo, e qui fa
capolino la cogente situazione sentimentale della saggista, questi
amanti non riescono a essere felici perché sono sempre minacciati dall’angosciosa
incertezza del futuro, senza poter pronunciare né fare gesti
che non incidano sul passato nemico, e un futuro pieno di aggressioni:
“Y palabras y gestos despojándose para siempre de toda alegría”45.

Il colpevole apparente è Gianciotto.

In realtà più crudelmente di lui, Amore li aveva giá condannati.


El Amor los había conducido a la muerte de todo gozo.

Amor se
habría encargado de castigarlos en la tierra con ese castigo que tú
[Gianciotto] creías capaz solo al Infierno de infligirles.

Quasi eternamente erranti nel loro amore, eternamente assordati
dallo strepito dei loro cuori, eternamente accecati dalla notte dei loro
desideri, eternamente legati l’uno all’altro, eternamente soli...
Impetuoso e taciturno dolor que los aíslas el uno al otro. ¡Tú no
tienes tregua!47
44 V. Ocampo, De Francesca, cit., pp. 35-36.
45 Ivi, p. 38.
46 Ivi, p. 40.
47 Ivi, p. 42.

Questa non è una semplice lettura di Dante.

 È un primo tentativo
dell’autrice, che prende spunto da Dante per chiarire innanzitutto a
se stessa tutto ciò che si agita nel suo animo e che non riesce a trovare
altre vie di espressione.

In quella prima lettura dunque c’è già
astrattamente in nuce quanto emergerà 25 o 30 anni dopo nelle pagine
della sua Autobiografia.

A differenza però di Francesca, la sua
sofferenza è doppia.

In quanto adultera con un parente stretto del marito
(e in ciò potremmo ravvisare il carattere incestuoso della relazione
che l’avvicina ancor di più a Francesca) e in quanto donna
gelosa tormentata atrocemente dal passato sentimentalmente tumultuoso
dell’amante.

Ecco dunque la ragione di quella “odierna minaccia
del passato”, di quel “futuro gonfio di minacce” e di
quell’unione che isola i due soggetti. Essa comincia ad aborrire la
“bocca” di “cotanto amante” e a sognare il “disïato riso”. Scrive:
Esos ojos, esa frente, esa boca era una traducción en términos de
belleza, un comentario, una promesa de no sé que [...].

No necesitas
ya la boca sinó el “disïato riso”, que ibas más allà de los labios.
Contra esa roca viva que es un cuerpo (así de sensible), yo, ala de
pasión, erápida busca de una posible unión.

Desesperada de soledad
en una pasión compartida y satisfecha. Desesperada de amor. [...] La
boca había llegado hasta la boca y en completa plenitud. Pero el
“diïato riso” [...] se escurría siempre

Victoria scopre che anche accanto all’ amante l’amore non va oltre
alla “ bocca”, non è mai riuscito a trasformarsi in “disïato riso”.

E a lei
non basta più l’orizzonte erotico di Francesca e Paolo, desidera altro:
l’amore che Beatrice è capace di suscitare.Vuole essere anche Beatrice.
In questo momento sente che ogni grande amore-passione è un insieme
di nulla e d’immensità: Francesca e Beatrice appunto, come
due termini in contrasto, come due poli che si respingono. Sa che
48 V. Ocampo, Autobiografia, Vol. III, cit., p. 64.

solo il sorriso manifesta la fusione dell’anima e del corpo. Ma non sa
chi può rivelare il mistero di un amore più corale e completo. Solo
sente il vuoto, come se tra passione e amore ci fosse una contraddizione
insuperabile.

Come uscire da questo doppio inferno se non attraverso il libro,
le parole di chi era riuscito a lasciare da parte la bocca per raggiungere
la speranza intravista nel sorriso? E così, come lei stessa racconta,
leggerà e rileggerà senza pausa:
La Divina Comedia (all of books!) segura de que Dante, como gran conocedor
de los pecados, es decir del sufrimiento de la condición humana,
tendría oculto en algún consuelo, alguna revelación, algún bálsamo49.
Leggeva poi l’epistola a Can Grande in cui Dante afferma che il
fine del suo poema è allontanare l’uomo dalla condizione di miseria
interiore per avviarlo verso la luce. È la strada che lei aveva tentato
di ripercorrere con il suo De Francesca a Beatrice: dall’amore passione
all’amore, dal gesto della mano che afferra e si chiude sulla
presa al gesto della mano che si apre.
"Yo vivía Dante, no lo leía."

"Algunos versos me daban su bautismo,
pues sentía que estaban escritos para mí."

E se il mimetismo non fosse ancora abbastanza evidente ecco il
commento che tiene insieme l’intera interpretazione mimetica della
letteratura:
Mi necesidad de comentar la Divina Comedia nacía de un intento
de aproximarme a la puerta de salida de mi drama personal, tanto
como de mi real entusiamo por el poeta florentino, mi hermano51.
49 Ivi, p. 94.
50 Ivi, p. 97.
51 Ivi, p. 98,

Grazie all’esperienza di quel suo amore adultero, crescerà in lei,
mediata da Dante, e in parte da Ortega, una maggior consapevolezza
di sé come donna. Si realizza quindi il passaggio a una coscienza
femminista più alta e profonda, che si concretizza in una nuova immagine
di donna che contiene in sé non solo le ragioni del corpo e
dello spirito, di cui Francesca e Beatrice sono rispettivamente le metafore,
ma anche l’insegnamento di Dante, raffigurazione di quella
espressività52 e di quella creatività che lei e il femminismo, di cui era
sostenitrice, cercavano e rivindicavano da tempo, in contrasto con
vecchi e nuovi pregiudizi, dai quali tuttavia erano venuti molti stimoli
per una presa di coscienza circa l’uguaglianza della donna in tutti gli
ambiti.
 Si veda il suo La mujer y la expresión, cit. Riguardo alla scrittura delle donne
in America Latina si veda Hintze, Gloria, Escritura femenina: diversidad y género
en América latina, Universidad Nacional de Cuyo, 2004; Berenguer, Carmen,
Escribir en los bordes, 1987, parte 2, Editorial Cuarto proprio, 1994.
Quanti dolci pensier
Dante Gabriel Rossetti, Paolo and Francesca. Acquarello su carta, 1862.
Cecil Higgins Art Gallery & Bedford Museum, Bedford. Particolare.

Leggere Petrarca (naturalmente, ad Arquà)

Facciamo un piccolo gioco, o se preferite uno scherzo. Siamo –
qui sta il gioco – in un teatro: non un grande teatro metropolitano, ma
in un piccolo seppure aggraziato teatrino di provincia. Non lontano
da qui, a dire il vero: diciamo dalle parti dei colli Euganei, più o
meno in quello che oggi sarebbe a un dipresso il Nord-Est o se preferite
la provincia di Padova.
Come in ogni pièce che si rispetti, almeno quelle classiche, si faccia
conto che Il Prologo dia, secondo le regole, le coordinate non
solo geografiche ma anche umane e per così dire tematiche. Intanto,
il periodo. Qui non ci si sbaglia, perché quelle coordinate le conosciamo
addirittura giorno dopo giorno: è il 12 novembre del 1797, e
ne siamo sicuri perché il protagonista, di cui fra poco diremo, segna
la data fatidica con inchiostro per noi e per lui indelebile. È domenica
– sia detto per chi insegue la precisione, anche se il suddetto protagonista
questo non ce lo fa sapere (ci sono cose ben più importanti
su cui ragguagliarci, per lui).
Il protagonista, e adesso andiamo a conoscere meglio i personaggi,
è un giovane (presumibilmente poco più che maggiorenne, si
arguisce). Viene da Venezia, e si trova lì, sui Colli Euganei appunto,
per ragioni politiche. A dirla tutta ce lo ha spedito la madre, quasi
d’imperio, per paura di persecuzioni e vendette – a conti fatti, come
vedremo, sarebbe stato meglio se rimaneva dov’era. È un esule insomma,
più o meno volontario, lì espatriato dopo che – come dice lui
stesso - «il sacrificio della patria nostra è consumato». Quale sacrificio?
Quale patria?
Visto che siamo alla fine del 1797 la risposta è facile: dopo il trattato
di Campoformio, firmato ufficialmente il 17 ottobre, il territorio
della Repubblica Veneta è stato ceduto da Napoleone all’Austria, in
cambio della Lombardia – ma la decisione era stata presa dal Bonaparte
già dal 18 aprile, nei preliminari della pace di Leoben. Siamo
quindi in presenza non solo di un esule, ma di un patriota, uno che
aveva creduto a Napoleone e che ora, deluso e disilluso, è fuggito
sui Colli in odio ai nuovi despoti, gli Austriaci. Visto che siamo – direbbe
ora il Prologo – nel 150° dell’Unità, la cosa potrebbe anche
avere un senso storico e rievocativo. Ma ora, qui, non è di questo che
ci occupiamo, anche perché lo strazio politico, come vedremo, sarà
ben presto un po’ obliterato da altri dolori: questa volta, è intuibile,
sentimentali.
(Qui, visto che abbiamo parlato di dolori, si dovrebbe aprire una
parentesi e fare una citazione: I dolori del giovane Werther, in originale
Die Leiden des Jungen Werthers, di Johann Wolfgang Goethe,
volume pubblicato in Germania a Lipsia nel 1774 e più volte in seguito.
Raccontava, a dirla tutta, una storia simile, nomi e luoghi a
parte (lì per esempio invece che sui Colli Euganei siamo nel
campestre villaggio diWahlheim), e anche se l’elemento politico vi
era assente oggi ci si troverebbe probabilmente di fronte a una specie
di plagio: ma alla fine del Settecento la Siae non esisteva ancora, e
quindi lasciamo perdere. La faccenda, del resto, è nota).
Qualcuno potrebbe chiedere cosa fa, il giovane, tutto il giorno sui
Colli Euganei. E come si chiama, innanzitutto. La seconda domanda
è facile: Jacopo Ortis, nome ormai nella lista di proscrizione degli
Austriaci.

La prima invece si perde un po’ nel vago: il proscritto
legge, passeggia, e soprattutto sospira. Ma innanzitutto scrive: lettere,
a un amico non identificato se non dal nome, Lorenzo Alderani.
Molto paziente costui, si intuisce, al punto da mettere da parte amorosamente
le lettere del povero esule e pubblicarle, di lì a poco – ma
non anticipiamo i tempi. Ha cominciato a scrivere, l’Ortis, poco
meno di un mese prima, un mercoledì, esattamente l’11 ottobre, con
una letterina piena di recriminazioni politiche e molto romantica (lui


Le citazioni da U.Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di G.Bezzola,
Milano, Rizzoli, 1980, p. 48 (le citazioni si intendono d’ora in poi tutte da questa
edizione, con il solo rinvio alla pagina nel testo).
non l’avrebbe definita così, ma noi a posteriori sì: basti dire che in
neanche 20 righe il pronome io e l’aggettivo mio ricorrevano ben 17
volte, con un egocentrismo a dir poco sospetto – una mezza ossessione,
veramente).
Del resto l’esule nei riferimenti storico-letterari ci dà dentro eccome:
lui non lo sa, ma parecchi decenni dopo gli estensori di manuali
scolastici con frasi come questa, tratta dalla lettera successiva
di venerdì 13 ottobre, ci sarebbero andati a nozze:
Davvero – scrive – ch’io somiglio un di que’ malavventurati che
spacciati morti furono sepolti vivi, e che poi rinvenuti, si sono trovati
nel sepolcro fra le tenebre e gli scheletri, certi [di] vivere, ma disperati
del dolce lume della vita, e costretti a morire fra le bestemmie
e la fame.1
Mamma mia. Alcuni avveduti lettori molto tempo dopo avrebbero
parlato di toni lugubri e preromantici. A noi interessa qui intuire,
e anzi vedere abbastanza chiaramente, che tutto l’epistolario
che sta iniziando, e la storia che narra, si pongono sotto un colore a
dir poco livido. In altre parole, per chi entra in questo testo c’è solo
da lasciare ogni speranza.
Ma la solitudine per il povero Ortis non dura molto. Però fino a
quando c’è, la solitudine, le letture da Plutarco – popolarissimo fra i
rivoluzionari di Francia e d’Italia, va osservato, per le sue Vite parallele,
che sprizzavano libertà e repubblica da tutte le pagine – sono
l’alternativa a solitarie passeggiate campestri: «Non vedo persona
del mondo: vo sempre vagando per la campagna» (16 ottobre: p. 48),
scrive come un novello Petrarca euganeo (il riferimento è ovviamente
al sonetto Solo e pensoso, 35 dei RVF). Il ricordo petrarchesco,

troppo facile si direbbe, si tira dietro subito dopo anche un accenno
a una misteriosa Lauretta, di cui sappiamo poco o nulla ma che appare
e scompare ogni tanto, fanciulla «bella e giovine» (ivi) e travolta
da un regolamentare destino infelicissimo. Come si vede, il
panorama lirico si sta un po’ schiarendo.
(Un lettore attento delle carte foscoliane potrebbe suggerire che
si tratta, forse, di un residuo di precedenti abbozzi, che ogni tanto
riemerge come un fiume carsico, vista a un dipresso la location. Ma
lasciamo correre).
Quando invece il cielo è ancora plumbeo, nella disperazione, il
giovane se ne sta seduto «sotto il platano della chiesa» (è diventato
nel frattempo amico del parroco), leggendo pubblicamente ad «oscuri
mortali» (parole sue: p. 49) e anche a un indistinto auditorio di «tutti
i contadini» (p. 50) addirittura «le vite di Licurgo e Timoleone», ci
si può immaginare con quanta partecipazione di quei poveretti – che,
infatti «quantunque non comprendessero affatto, stavano ascoltandomi
a bocca aperta» (ivi).
In altre parole: siamo in presenza di un esaltato. Si direbbe, anzi,
e aggiornando un po’ i termini della questione, di un intellettuale un
po’ chic (non si dice proprio radical chic), che apprezza le masse
purché se ne stiano zitte, mentre è lui a sproloquiare, qualsiasi cosa
sproloqui. E a cui piacciono i villici finché se ne stanno a bocca
aperta: altrimenti son guai. Vecchia storia. Di lì a poco, tanto per dire
(il 24 ottobre, per la precisione), il lettore di Plutarco acchiappa per
il collo un «ribaldo contadinello» (ivi) che nel suo orto rubacchiava
e se ne stava sopra i rami di un pesco, e ci manca poco che lo faccia
secco appena ce l’ha, sono ancora parole sue, «fra le ugne» mentre
quello urla «Misericordia!» (p. 51).
Vecchia storia, ripeto. Una volta registrata con un certo stupore la
novità (indubbiamente mirabile) che sui Colli Euganei i rami del
pesco sono «ancora verdi» (p. 50) alla fine di ottobre, sarà il caso di
passare oltre. Ma la cosa può lasciare qualche traccia. Siamo, se mai
2 Sull’argomento rinvio al mio Specchio delle mie brame (in margine a un recente
studio sui giardini), in «Filologia e Critica», XXXIV, 1 (2009), pp. 123-
31 e bibl. relativa (lo studio a cui si fa riferimento è quello di F.Oneroso, Nei
giardini della letteratura, Firenze, Clinamen, 2009).
3 Per pura curiosità si noterà che il sintagma divina fanciulla è totalmente foscoliano:
non se ne hanno esempi nella letteratura, né lirica né in prosa, a lui anteriore.
qualcuno avesse avuto dei dubbi, non in una campagna reale, ma in
una specie di giardino letterario: dove, da che mondo è mondo, gli alberi
da frutto non hanno stagione né raccolto. Sono perenni, più o
meno, sempreverdi2. E tanto per adesso basti.
Come abbiamo già detto, l’esaltato Ortis non rimane da solo a
lungo. Sarà allora il caso di introdurre un altro personaggio: anzi,
come si direbbe nella cerimonia degli Oscar, il personaggio non protagonista
ma essenziale. In una parola: la fanciulla.
Non è passato nemmeno un mese dall’insediamento su quei Colli
Euganei un po’ troppo letterari e lirici, che la lettera del 26 ottobre,
un giovedì per chi ama la precisione (immediatamente dopo la punizione
al fanciullo ladruncolo), esordisce ex abrupto così:
La ho veduta, o Lorenzo, la divina fanciulla, e te ne ringrazio. La
trovai seduta miniando il proprio ritratto. Si rizzò salutandomi
come s’ella mi conoscesse, e ordinò a un servitore che andasse a
cercar di suo padre. Egli non si sperava, mi diss’ella, che voi sareste
venuto; sarà per la campagna; né starà molto a tornare. Una ragazzina
le corse fra le ginocchia dicendole non so che all’orecchio
(p. 51)3.
Bisogna riconoscere che l’autore qui ci ha saputo fare. Non solo
per lo choc narrativo (dal ribaldo contadinello alla divina fanciulla
in dieci righe il salto è notevole), ma anche perché in un colpo solo
ecco sulla scena ben tre personaggi nuovi: la fanciulla, la ragazzina

(che poi sarebbe la sorellina), e il padre, cioè il signor T***, come
scrive alla moda sette-ottocentesca l’autore. Non basta: se la sorellina
ancora è innominata, la divina fanciulla un nome ce l’ha: Teresa,
come è svelato subito dopo – l’amico Lorenzo in questo caso,
si arguisce, aveva fatto precedentemente un po’ di gossip epistolare.
(Qui il solito professore noterebbe un aspetto tra il filologico e il
mondano: nel passaggio fra la prima stesura, incompiuta e pubblicata
con le integrazioni indebite di tale Sassoli nel 1798 – cosa che farà
infuriare l’autore – e la prima edizione autorizzata e completata dal
Foscolo, 1802, alcune cosette cambiano. Ne notiamo intanto una, per
lo più risaputa: la divina fanciulla nel 1798 non era poi tanto ‘fanciulla’:
era anzi vedova, con figlia a carico. Il solito lettore bene informato
potrebbe a questo punto insinuare che, nel cambio di status,
influì di certo la conoscenza e l’innamoramento per la giovane Isabella
Roncioni, mentre, quattro anni prima, il disinvolto Foscolo sotto
quel personaggio allora un po’ più maturo aveva nascosto le mentite
spoglie di Teresa Pikler, moglie di Vincenzo Monti – e il fatto che
l’avesse ridotta, nel 1798, allo stato vedovile non era certo di buon
augurio per il povero Monti, che per altro, più anziano del Foscolo
di ben 24 anni, si sarebbe vendicato campando un anno più di lui).
Il povero Ortis non fa a tempo a conoscere padre e sorellina, mentre
Teresa si eclissa, che due giorni dopo, 28 ottobre, è già stretto
nelle spire della passione: «un demone mi arde, mi agita, mi divora»
(p. 51). Il riferimento è a dire il vero alla passione politica, esulcerata
dal ‘tradimento’ napoleonico, ma non v’è chi non veda che l’apparizione
della fanciulla ha scatenato il cuore e la mente del poveretto.
«Io sono predestinato ad avere l’anima perpetuamente in tempesta»,
aveva avvertito l’amico il 26 ottobre (ivi), e due righe prima aveva
esaltato «lo spettacolo della bellezza», insomma l’apparizione di Teresa,
associandolo alle sofferenze e ai «dolori» (parole sue: ivi) per
il sacrificio della patria. Su queste due sofferenze, quella politica e
quella amorosa, si snoderà la trama, tragica, dell’operetta: anche se

la seconda in ordine di tempo, quella sentimentale appunto, prenderà
presto il sopravvento.
È arrivato adesso il momento di presentare, ahimè, il terzo angolo
del triangolo. Angolo ottuso, si direbbe, se mai ve ne fu uno in
letteratura: non in senso matematico, ma proprio umano e personale.
Questo angolo ottuso si era già intravisto più o meno una settimana
prima, accanto al «signore T***»: ma indegno, per ora, anche
del nome. Eccolo qua:
“V’era con lui [con il «signore T***»] un tale; credo, lo sposo promesso
di sua figlia. Sarà forse un bravo e buono giovine; ma la sua
faccia non dice nulla. Buonanotte”
(lettera del 23 ottobre, p. 50: corsivo nostro).
Lapidario. Ma non passano dieci giorni che il titolare di quella faccia
che «non dice nulla» appare e definitivamente si insedia sulla scena,
anche con il suo nome: Odoardo. Siamo al 1° novembre, ed eccolo lì:
Mi lascio illudere, e l’apparente felicità di quella famiglia [il padre, Teresa
e la sorellina] mi sembra reale, e mi sembra anche mia. Se nondimeno
non vi fosse quello sposo, perché davvero – io non odio persona
al mondo, ma vi sono cert’uomini ch’io ho bisogno di vedere soltanto
da lontano. – Suo suocero me n’andava tessendo jer sera un lungo elogio
in forma di commendatizia: buono – esatto – paziente! e niente
altro? possedesse queste doti con angelica perfezione, s’egli avrà il
cuore sempre così morto, e quella faccia magistrale non animata mai né
dal sorriso dell’allegria, né dal dolce silenzio della pietà, sarà per me un
di que’ rosaj senza fiori che mi fanno temere le spine. (p. 52)
Un angolo ottuso. E non basta. Sempre nella stessa lettera (alla
fine della quale il povero Jacopo narra di come gli piaccia, a lui e
non al promesso sposo naturalmente, giocare con la sorellina e insegnarle
a leggere e a scrivere (modesta consolazione, si direbbe) ecco
la stoccata finale, il vero segno del disprezzo ormai incoercibile:
Del resto, Odoardo sa di musica; giuoca bene a scacchi; mangia,
legge, dorme, passeggia, e tutto con l’oriuolo alla mano. (p. 53)
E così è svelato anche il nome di questo insopportabile, preciso,
scontato antipatico. Che, verremo poi a sapere, è anche – colmo della
disgrazia e dell’abominio – ricco e austriacante, e promesso sposo in
definitiva solo per quello: il padre di Teresa, insomma il triste e deluso
dalla vita «signore T***», magari pensando di fare la fortuna
della figlia l’ha ‘venduta’ a questo tanghero in virtù della di lui ricchezza.
Così va il mondo – o meglio, così andava nel secolo decimottavo,
o almeno al suo spirare.
Così, mentre Jacopo, altro non potendo fare, col cuore in tumulto
si balocca con la sorellina per ora innominata, Odoardo periodicamente
se la spassa con Teresa – ma anche lei, vedremo, col cuoricino
già tumultuante, e non poco:
Frattanto ho preso a educare la sorellina di Teresa: le insegno a leggere
e a scrivere. Quand’io sto con lei, la mia fisonomia si va rasserenando,
il mio cuore è più gajo che mai, ed io fo mille ragazzate. Non so perché,
tutti i fanciulli mi vogliono bene. E quella ragazzetta è pur cara! bionda
e ricciuta, occhi azzurri, guance pari alle rose, fresca, candida, paffutella,
pare una Grazia di quattr’anni. Se tu la vedessi corrermi incontro,
aggrapparmisi alle ginocchia, fuggirmi perch’io la siegua, negarmi un
bacio e poi improvvisamente attaccarmi que’ suoi labbruzzi alla bocca!
(lettera del 1° novembre, p. 53)
Qui la faccenda, inutile sottolinearlo, comincia a farsi delicata,
ed è meglio soprassedere. Non potendo per ora avere la biondona
Teresa (sequestrata dall’ottuso, ma potente Odoardo), ci si accontenta
della biondina: una specie di Laura petrarchesca in sedicesimo,
di quattro anni, che però schiocca baci sulle labbra mica tanto petrarcheschi.
Passiamo oltre, sempre nella stessa lettera:

Oggi io mi stava sulla cima di un albero a cogliere le frutta: quella
creaturina tendeva le braccia, e balbettando pregavami che per carità
non cascassi. Che bell’autunno! addio Plutarco! sta sempre chiuso
sotto il mio braccio. Sono tre giorni ch’io perdo la mattina a colmare
un canestro d’uva e di pesche, ch’io copro di foglie, avviandomi poi
lungo il fiumicello, e giunto alla villa, desto tutta la famiglia cantando
la canzonetta della vendemmia. (p. 53)
C’è poco da fare: sui colli Euganei le pesche maturano il 1° novembre.
Miracolo? No, Arcadia, l’abbiamo già detto. Nel 1797 quel Nord-
Est è un luogo incantato, fuori dal tempo, abitato anche dalle Grazie, in
cui passeggiare lungo l’inevitabile fiumicello, raccogliere frutti perenni,
e cantare anche canzonette. Tutto ciò, si ammetterà, stende su questo
tragico romanzo epistolare, di solito preso a simbolo del Romanticismo
di ascendenza goethiana – o almeno di ciò che si indica manualisticamente
con il prefisso “pre-“, – un ampio, letterario velo di irrealtà.
Ora è necessario un breve excursus para-filologico. La sorellina,
che presto scopriremo avere anche un nome, Isabellina, è bionda,
come da manuale per poeti petrarchisti in fieri. Veramente ha anche
gli occhi azzurri, il che la farebbe piuttosto californiana (sul colore
degli occhi di Laura ci soffermeremo subito, fra due capoversi), ma
è un peccato veniale. E Teresa? Qui la cosa è meno semplice.
Perché nell’edizione del 1798, come si è detto poco fa e come
tutti sanno incompiuta, il 31 novembre l’esaltato Ortis passando sotto
la casa di Teresa aveva ascoltato un canto, o meglio alcune strofette
di Saffo intonate da una voce dolcissima:
Sparir le plejadi,
sparì la luna,
è a mezzo il corso
la notte bruna;
io sola intanto
mi giaccio in pianto.

Per questo rimando al mio I poeti preferiscono le bionde. Chiome d’oro e letteratura,
Firenze, Le Càriti, 2007, pp. 46 s.
Insomma, un anticipo, si direbbe, del più frusto Sanremo. Ma il
giovane – non è a caso che l’abbiamo definito un esaltato – fa addirittura
un balzo:

Balzando di un salto, ho trovato Teresa nel gabinetto di Odoardo
poco discosta da un acceso focolare, assisa su la sedia stessa ov’egli
soleva starsene nell’ore che dipingeva. Era ella neglettamente vestita
di bianco; il tesero delle sue nere chiome disciolte velava parte
della sua spalla destra e del seno, e scendeva a far parere più candido
l’ignudo braccio che mollemente accompagnava le rosate sue dita
mentre arpeggiavano fra le corde…
Eccetera eccetera. All’epoca. dunque, Teresa è nerocrinita. Ma
quattro anni (e un Sassoli) dopo, quando Foscolo rifarà la scena, ecco
cosa si presenta agli occhi assatanati dello stesso, sempre esaltato Jacopo:
Balzando d’un salto, ho trovato Teresa nel suo gabinetto su quella
sedia stessa ov’io la vidi il primo giorno, quand’ella dipingeva il proprio
ritratto. Era neglettamente vestita di bianco; il tesoro delle sue
chiome biondissime diffuse su le spalle e sul petto, i suoi divini occhi
nuotanti nel piacere, il suo viso sparso di un soave languore, il suo
braccio di rose, il suo piede, le sue dita arpeggianti mollemente…
tutto era armonia4.
Insomma: Teresa è bionda, ormai, anzi, biondissima. Certo, come
abbiamo detto qualche pagina più addietro, si tratta, anche qui, delle
conseguenze di elementi biografici ‘forti’: da Teresa Pikler si transita
a Isabella Roncioni. Ma forse c’è di più: il ritratto della Teresa 1798
è ancora modellato su cadenze neoclassiche, a tratti di ascendenza
miniaturistica-rococò, secondo il gusto eclettico del primo Ortis;

quello definitivo è, visibilmente, di diretta ascendenza petrarchistica.
Detto ciò in breve, passiamo oltre.
E veniamo agli occhi. Quelli di Laura sono senza colore, nel
senso che Petrarca, ossessionato dal biondo delle chiome, non ci ragguaglia
in merito. Di solito li definisce genericamente belli, o come
due stelle: non così le ciglia, che sono di hebeno [RVF, 157, 9],
quindi nerissime. In un luogo solo gli occhi sono chiari [RVF, 162,
10], dove l’attributo significa però ‘sereni, limpidi’, e non indica un
colore. Va pur detto però che nella tradizione a un dipresso petrarchesca
il contrasto fra chiome bionde e occhi neri verrà considerato
il punto più alto della bellezza: così ad esempio nel fondamentale
volume, sconosciuto in Italia, Les femmes blondes di due anonimi, in
realtà Armand Bascher e Feuillet de Conches, pubblicato a Parigi nel
1865. Va pur detto che il Botticelli, nella Nascita di Venere agli Uffizi
– una sorta di rappresentazione figurativa dello stereotipo anche
simbolico di Laura – dipinge gli occhi di Venere-Laura non certo azzurri,
bensì con pupille piuttosto scure. Teresa, nell’Ortis, ha senza
mezzi termini «grandi occhi neri»: lettera del 12 novembre, p. 56. E
tanto basti).
Adesso che abbiamo esaurito le presentazioni, eccoci al punto
che ci interessa. Lettera del 20 novembre: Jacopo riferisce, dopo un
intervallo epistolare di quasi venti giorni, ciò che è accaduto una settimana
prima. È, il 20 novembre, un giorno «d’inferno»: «piove,
grandina, fulmina» (p. 55). Ma non era così «sei o sette giorni addietro
», quando la natura era «più bella che mai» (ivi).
Cos’è accaduto, quindi, intorno alla metà di novembre?
È accaduto che il quintetto che ormai abbiamo conosciuto, compreso
quindi il padre di Teresa, è andato «in pellegrinaggio»:
Sei o sette giorni addietro s’è iti in pellegrinaggio. Io ho veduto la
Natura più bella che mai. Teresa, suo padre, Odoardo, la piccola Isabellina,
ed io siamo andati a visitare la casa del Petrarca in Arquà.
Arquà è discosto, come tu sai, quattro miglia dalla mia casa; ma per
più accorciare il cammino prendemmo la via dell’erta. S’apriva appena
il più bel giorno d’autunno. Parea che Notte seguìta dalle tenebre
e dalle stelle fuggisse dal Sole, che uscia nel suo immenso
splendore dalle nubi d’oriente, quasi dominatore dell’universo; e
l’universo sorridea. Le nuvole dorate e dipinte a mille colori salivano
su la volta del cielo che tutto sereno mostrava quasi di schiudersi per
diffondere sovra i mortali le cure della Divinità. Io salutava a ogni
passo la famiglia de’ fiori e dell’erbe che a poco a poco alzavano il
capo chinato dalla brina. Gli alberi susurrando soavemente, faceano
tremolare contro la luce le gocce trasparenti della rugiada; mentre i
venti dell’aurora rasciugavano il soverchio umore alle piante. Avresti
udito una solenne armonia spandersi confusamente fra le selve,
gli augelli, gli armenti, i fiumi, e le fatiche degli uomini: e intanto
spirava l’aria profumata delle esalazioni che la terra esultante di piacere
mandava dalle valli e da’ monti al Sole, ministro maggiore della
Natura. - Io compiango lo sciagurato che può destarsi muto, freddo e
guardare tanti beneficj senza sentirsi gli occhi bagnati dalle lagrime
della riconoscenza. Allora ho veduto Teresa nel più bell’apparato
delle sue grazie. Il suo aspetto per lo più sparso di una dolce malinconia,
si andava animando di una gioja schietta, viva, che le usciva dal
cuore; la sua voce era soffocata; i suoi grandi occhi neri aperti prima
nell’estasi, si inumidivano poscia a poco a poco: tutte le sue potenze
parevano invase dalla sacra beltà della campagna. In tanta piena di affetti
le anime si schiudono per versarli nell’altrui petto: ed ella si volgeva
a Odoardo. Eterno Iddio! parea ch’egli andasse tentone fra le
tenebre della notte, o ne’ deserti abbandonati dalla benedizione della
Natura. Lo lasciò tutto a un tratto, e s’appoggiò al mio braccio, dicendomi
- ma, Lorenzo! per quanto mi studi di continuare, conviene
pur ch’io mi taccia. Se potessi dipingerti la sua pronunzia, i suoi gesti,
la melodia della sua voce, la sua celeste fisonomia, o ricopiar non
foss’altro le sue parole senza cangiarne o traslocarne sillaba, certo
che tu mi sapresti grado; diversamente, rincresco persino a me stesso.
Che giova copiare imperfettamente un inimitabile quadro, la cui fama
soltanto lascia più senso che la sua misera copia? E non ti pare ch’io so-
migli i poeti traduttori d’Omero? Giacché tu vedi ch’io non mi affatico,
che per annacquare il sentimento che m’infiamma e stemprarlo in un
languido fraseggiamento. Lorenzo, ne sono stanco; il rimanente del
mio racconto, domani: il vento imperversa; tuttavolta vo’tentare il cammino;
saluterò Teresa in tuo nome. Per dio! e’ m’è forza di proseguire
la lettera: su l’uscio della casa ci è un pantano d’acqua che mi contrasta
il passo: potrei varcarlo d’un salto; e poi? la pioggia non cessa: mezzogiorno
è passato, e mancano poche ore alla notte che minaccia la fine
del mondo. Per oggi, giorno perduto, o Teresa. (pp. 55-57)
Tutta la descrizione della visita, anzi del «pellegrinaggio» (Arquà,
ci informa il solito, esaltato giovanotto, è a quattro miglia, e quindi
ci si può anche andare a piedi, prendendo magari una scorciatoia) è
nel segno del Petrarca e dei suoi derivati. Spunta, e non ci stupisce,
il ricordo diretto del Tasso, qui inserito nel bel mezzo del suo mito romantico:
poeta per definizione «malinconico» (p. 60), così come è
malinconica la povera Teresa promessa sposa a un buzzurro ma ricco
e austriacante (anzi, il suo aspetto «è sparso di una dolce malinconia
»: p. 56). E così la biondissima Teresa rivela, in un soffio allo stralunato
Jacopo, la sua tristezza:
Non sono felice! mi disse Teresa; e con questa parola mi strappò il
cuore. Io camminavo al suo fianco in un profondo silenzio. Odoardo
raggiunse il padre di Teresa; e ci precedevano chiacchierando. La
Isabellina ci tenea dietro in braccio all’ortolano (p. 57),
ortolano che, adesso si apprende, faceva parte del manipolo presumibilmente
senza capire nulla del dramma lirico che gli si svolgeva
sotto gli occhi.
Tutto il resoconto, che occupa parecchie pagine delle lettere,
spesso interrotte e poi riprese per mancanza d’animo a continuarle,
è straordinario: è, di fatto, una ‘messa in scena’ del dibattito petrarchesco,
che si vorrebbe tutto solitario e anzi solipsistico («Solo e
pensoso i più deserti campi…»), ma questa volta allestito in presenza
di non trascurabili rompiballe: il promesso sposo, tanghero sì ma geloso
(di lì a poco interrogherà Teresa per sapere di che stavano parlottando,
i due piccioncini: e d’altra parte a un certo punto Teresa lo
pianta in asso per appoggiarsi al braccio di uno Jacopo ormai definitivamente
fuori di sé: p. 56), il padre, cioè il signore T***, «ottimo
galantuomo» (p. 58) però finanziariamente rovinato, dotato di
«un’anima ardente» ma che aveva sempre vissuto «consumato da
passioni infelici» (ivi): in altre parole, un mezzo mentecatto che non
ha trovato di meglio che vendere la figlia al miglior offerente; la sorellina
Isabellina, che nei momenti meno opportuni si intrufola come
una trottola; e addirittura un ortolano.
Troppa gente.
Non soli, ma certamente pensosi, i due innamorati inespressi non
trovano di meglio, allora, che petrarcheggiare. Il povero Jacopo, che
dei due è di certo quello che ha studiato di più, trova anche il modo
di infilare là per là una citazione dall’Alfieri, quando si approssimano
alla casa del Petrarca («Quel Grande alla cui fama è angusto il
mondo, / per cui Laura ebbe in terra onor celesti»: dal sonetto O cameretta,
che già in te chiudesti, 1783); ma Petrarca domina.
Anche Teresa da parte sua petrarcheggia mica male, e probabilmente
in modo inconsapevole (è a dir poco ovvio, ma è anche inutile
dirlo, che qui il Foscolo le offre zitto zitto e brevi manu più d’un
volume di concordanze). Dopo aver rivelato la sua infelicità, ecco
che addirittura – per così dire – si ‘metamorfizza’ in Laura:
Eravamo già presso ad Arquà, e scendendo per l’erboso pendio,
andavano sfumando e perdendosi all’occhio i paeselli che dianzi
si vedeano dispersi per le valli soggette. Ci siamo finalmente trovati
a un viale cinto da un lato di pioppi che tremolando lasciavano
cadere sul nostro capo le foglie più giallicce, e adombrato dall’altra
parte d’altissime querce, che con la loro opacità silenziosa
faceano contrappunto a quell’ameno verde de’ pioppi. Tratto tratto
le due file d’alberi opposti erano congiunte da varj rami di vite
LEGGER D'AMORE
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selvatica, i quali incurvandosi formavano altrettanti festoni mollemente
agitati dal vento del mattino. Teresa allora soffermandosi
e guardandosi d’intorno: Oh quante volte, proruppe, mi sono adagiata
su queste erbe e sotto l’ombra freschissima di queste querce!
(lettera del 12 novembre, p. 57)
Siamo, con ogni evidenza, alle «Chiare, fresche e dolci acque»,
o almeno alla loro atmosfera, e a Laura che «le belle membra / pose»
in quella frescura e su quell’erba. In questa Valchiusa trasportata
dalla Provenza alla provincia di Padova è allora possibile anche una
confessione, sempre auspice, si direbbe, il gran poeta che lì è sepolto
in una casa che, romanticamente (il gusto delle rovine…) «sta crollando
» (p. 59):
Da ch’ei [mio padre] – continua irrefrenabile la novella Laura, noncurante
della presenza lì attorno del sospettoso Odoardo, probabilmente
con l’orologio in mano – s’è pur ostinato a volermi dare
un marito ch’io non posso amare, la concordia è sparita dalla nostra
famiglia. La povera madre mia dopo d’aver contradetto invano
a questo matrimonio, s’è allontanata per non aver parte alla mia
necessaria infelicità. Io intanto sono abbandonata da tutti! […] E
a questa parola, le lagrime le pioveano dagli occhi. Perdonate, soggiunse,
io aveva bisogno di sfogare questo mio cuore angosciato.
(ivi, pp. 57-58)
Il quadro è completo. In una specie di angolo petrarchesco
DOC, la divina fanciulla si è aperta al focoso ed innamoratissimo
Jacopo. Sola, abbandonata, sballottata fra un padre cretino, una
madre fuggitiva, e un promesso sposo idiota e per giunta ricco e
nobile e reazionario, c’è da stupirsi se la ‘novella Laura’ ha incontrato
per soprammercato un giovanotto spiantato, esule ed esaltato?
Le disgrazie, come forse si diceva anche allora, non vengono mai
sole.
Torniamo all’Ortis, inteso come romanzo epistolare. Il viaggio
alla casa e tomba del Petrarca, qui, unisce almeno due istanze importanti.
Da una parte il gusto delle tombe e della poesia sepolcrale,
fortissimo nel Settecento e che, come sappiamo, troverà poi
nei Sepolcri, di lì a poco, il suo esito e anche il suo capitolo finale;
dall’altra, il rinnovato interesse petrarchesco, che di quel gusto un
po’ horror (ma non ancora macabro come negli Scapigliati: per
quello bisognerà attendere ancora più di mezzo secolo) è qui il pendant
lirico – e Foscolo di Petrarca è molto di più che un seguace,
sì piuttosto un discepolo nella poesia e nei saggi critici che sarebbero
venuti, in seguito. Probabilmente sono sempre stati trascurati
passi come questo, sempre nella stessa, lunga lettera:
Io mi vi sono appressato [ai luoghi del Petrarca] come se andassi a
prostrarmi su le sepolture de’ miei padri, e come uno di que’ sacerdoti
che taciti e riverenti s’aggiravano per i boschi abitati dagl’Iddii.
(p. 59)
Un po’, insomma come in un anticipato pellegrinaggio alle urne
dei grandi in Santa Croce. In questi pensieri, ecco che spunta l’ombra
del Tasso, poeta ‘malinconico’ per eccellenza (p. 60) e infine la
recita, a mo’ di rosario, dei versi eterni del poeta di Laura.
Siamo arrivati al clou, se non del dramma certo dell’innamoramento
sub specie Petrarcae. A metà fra poesia sepolcrale e liricointimista,
mentre intorno la natura e la campagna reverenti ascoltano
e le fronde stormiscono dolcemente e il sole finalmente squarcia le
nubi,
frattanto io recitava sommessamente con l’anima tutta amore e armonia
la canzone: Chiare, fresche, dolci acque; e l’altra: Di pensier
in pensier, di monte in monte; e il sonetto Stiamo, Amore, a veder la
gloria nostra; e quanti altri di que’ sovrumani versi la mia memoria
agitata seppe allora suggerire al mio cuore, (p. 60)

come dire testi che si ispirano a quell’armonia fra natura (erbe,
fior…) e donna che, di lì a poco e anche in Petrarca, sarebbe stata
spezzata da una morte improvvisa: piovuta dal cielo impietoso per
Laura, cercata con un pugnale suicida per il povero Jacopo.
E il resto del quintetto, trascurando l’ormai dimenticato ortolano?
Mentre Isabellina, inconsapevole, corre tra quel ben di Dio
vegetale, il gretto Odoardo, che definire a questo punto prosaico è
dir poco, «andava a rivedere i conti del fattore» (p. 60), vero contrappunto
volgare a tanta ispirazione. E quel cretino del signore
T***, il padre? Se ne partirà per Padova: «tenete buona compagnia
alle mie figliuole, mi diceva egli questa mattina [incauto, a dir poco:
N.d.A.].Avedere, egli mi reputa Socrate – me? e con quell’angelica
creatura nata per amare, e per essere amata? e così misera a un
tempo! E io sono, sempre, in perfetta armonia con gl’infelici» (lettera
del 22 novembre: p. 61) – soprattutto, si direbbe, se titolari di
biondissime chiome e di occhi neri e profondissimi, ancorché tristi
come pochi.
Si sa come sarebbe andata a finire, dopo il casto bacio di Teresa
a Jacopo – Laura non si sarebbe mai spinta a tanto. Come peggio non
sarebbe potuta andare, naturalmente. Non è questo che ci interessa
qui, la fine della storia, a tutti nota e simile, a parte il modo del suicidio
(pistole per quello, pugnale per questo), a quella del povero
Werther.
A noi interessa, qui e in limine, trarre alcune considerazioni.
La prima: mai andare in pellegrinaggi sentimentali in troppi, e addirittura
con l’ortolano. Bene che vi vada, mentre la vostra (cioè,
veramente altrui) divina fanciulla piange, il di lei promesso sposo
pensa ai conti col fattore, e poi fa anche il geloso. La seconda: per
quanto sia bello leggere, sospirando, canzoni e sonetti del Petrarca,
proprio di fronte alla casetta e alla tomba di quel Grande, ciò non
esorcizza l’infelicità, anzi ne è il suggello («io sono sempre in perfetta
armonia con gl’infelici…»). La terza: Foscolo, come sempre
in tutta la sua opera, è un tiranno. Qui conclude e chiude degnamente, e intangibile dal ridicolo che sempre si annida fra le morbide
curve dei Colli, almeno cinquant’anni di romanzo epistolare,
e si appresta a fare lo stesso con un secolo di poesia sepolcrale,
annacquandola con letture di Petrarca ad hoc: cioè con un autore
che, ormai, solum è suo. La quarta: astutamente, Foscolo utilizza
il suo personaggio infelice per stabilire, sotto sotto, un canone.
Mai cita naturalmente Goethe; ma sì, oltre Plutarco, Dante, Tasso,
Alfieri, in seguito Parini e naturalmente il Grande dei Grandi, il
poeta di Laura. È un filtro, attraverso cui passa pochissimo e solo
quello che nobilita il nuovo auctor: che, alla fine, si staglia solitario
come ultimo dei Grandi del passato e primo dei nuovi del futuro.
E infine, la quinta e ultima, e la più originale. Immettendo in
quei Colli così morbidi e silenziosi la presenza del sepolcro (di Petrarca,
ma anche del suo personaggio Jacopo), Foscolo suggeriva
che in quell’Arcadia euganea la morte in fondo era di casa, si era
installata fin dall’inizio in pensieri cupi e orrorifici («io somiglio un
di que’ malavventurati che spacciati morti furono sepolti vivi…»).
Se tutta l’avventura del povero Jacopo, in gran parte di risulta e diciamolo
francamente di seconda mano, è allora una forma di metanarrazione,
di meta-romanzo epistolare, c’era solo una frase che
avrebbe potuto esservi posta ad esergo, e che Foscolo non scrive ma
lascia scrivere a noi, sulla scorta del Guercino e di Poussin: Et in
Arcadia ego.
Se ne sarebbe accorto, come al solito, Leopardi – di vent’anni più
giovane del Foscolo – che ovviamente aveva letto l’Ortis (lo cita
nello Zibaldone in una nota del 1820, ma solo per un pensiero politico
sull’Italia). Ecco allora la ‘leopardiana’ lettera dell’Ortis del 17
aprile:
Quando mi passa dinanzi la venerabile povertà che mentre s’affatica
mostra le sue vene succhiate dalla onnipotente opulenza; e
quando io vedo tanti uomini infermi, imprigionati, affamati, e tutti
supplichevoli sotto il terribile flagello di certe leggi – ah no, io non mi posso riconciliare. Io grido allora vendetta con quella turba di tapini
co’ quali divido il pane e le lagrime: e ardisco ridomandare in
lor nome la porzione che hanno ereditato dalla Natura, madre benefica
ed imparziale – la Natura? ma se ne ha fatti quali pur siamo, non
è forse matrigna? (pp. 89-90).

Lettura e natura
Anselm Feurbach, Paolo e Francesca. Olio su tela, 1864. Schack-Galerie,
Monaco.

Let's examine  Francesca fin de siècle: Oscar Wilde e Richard le Gallienne.
Dal libro al bacio.

1 O. Wilde, Complete Works, Introduced by M. Holland, Glasgow, Harper
Collins, 2003, pp. 1108-1155. Rimando anche alla recente edizione filologica,
The Complete Works of Oscar Wilde, Volume 4 Criticism: Historical Criticism,
Intentions, The Soul of Man, edited by J. M. Guy, Oxford, Oxford University
Press, 2007, pp. 123-206. Per l’edizione italiana, si veda O.Wilde, Opere, a cura
di M. d’Amico, Milano, Mondadori (Meridiani), 2000, pp. 1071-1156. La traduzione
in questo saggio è dell’autrice.


Nella seconda parte del saggio, The Critic as Artist (1891), intitolata:
“With some remarks upon the importance of discussing
everything” (Con alcune osservazioni sopra l’importanza di discutere
tutto)1, Wilde mette in scena due giovani esteti, Ernest e
Gilbert, che hanno letto gli stessi libri e vogliono capire se, oltre all’autore,
c’è veramente bisogno della figura del critico. Ernest definisce
il critico un interprete e Gilbert ritiene che se è così, egli
deve allargare le sue esperienze, intensificare le sue conoscenze,
applicarsi ad eseguire più forme artistiche, essere pronto a dimostrare
la relazione tra l’opera d’arte e la sua epoca, poiché diventerà
sempre più evidente che per le emozioni, per le impressioni,
per lo stesso stile di vita, le persone di cultura cercheranno sempre
più di attingere al patrimonio artistico. La vita è priva di forma. Le
catastrofi avvengono nel momento sbagliato alle persone sbagliate.
Nella vita ci si fa molto male e gli eventi durano o troppo poco o
troppo a lungo – sono i soliti aforismi di Wilde.

Ma come, interviene
Ernest, neppure quel sentimento melanconico sulla caducità
della vita, le “lacrimae rerum” invocate da Virgilio, ti toccano in
profondità? No, perché tutto è transeunte – risponde l’amico -: la

Già Matthew Arnold, uno scrittore molto apprezzato daWilde col quale, nel saggio
The Critic as Artist, aveva condiviso, in una prima redazione, oltre al titolo, molte
idee, aveva teorizzato che l’Arte poteva infondere soddisfazioni emotive e consolatorie
ed esprimere il senso del mistero perciò avrebbe potuto sostituire la Religione.
Si veda, The Study of Poetry in M. Arnold, Saggi di Critica Letteraria, scelta,
introduzione e note a cura di M. D’Amico, Bari, Adriatica, 1970, pp. 271-306 e
Introduzione, p. 69 e pp. 77 e ss.

giovane donna che abbiamo adorato e baciato follemente è già
cambiata, o non c’è più. Allora, domanda Ernest, la vita è tutta un
fallimento? Nella vita non si può mai provare di nuovo la stessa
intensa emozione, ma il mondo dell’Arte è completamente diverso2.
Allora Gilbert chiede all’amico di prendergli la Divina Commedia
dallo scaffale e gli dice:
“I know that, if I open it at a certain place, I shall be filled with a
fierce hatred of some one who has never wronged me, or stirred by
a great love for some one whom I shall never see. There is no mood
of passion that Art cannot give us, and those of us who have discovered
her secret can settle beforehand what our experiences are
going to be. (…)We can say to ourselves, “To-morrow, at dawn, we
shall walk with grave Virgil through the valley of the shadow of
death,” and lo! The dawn finds us in the obscure wood, and the Mantuan
stands at our side.We pass through the gate of the legend fatal
to hope, and with pity or with joy behold the horror of another
world.” (…)
[“So che, se lo aprirò ad un certo punto, sarò preso da un feroce odio
per qualcuno che non mi ha mai fatto del male, oppure infiammato
da un grande amore per qualcuno che non ho mai visto. Non esiste
nessuna sfumatura della passione che l’Arte non possa darci, e coloro
che hanno scoperto il suo segreto possono stabilire in anticipo
quali saranno le loro esperienze (…) Possiamo dire a noi stessi, “Domani,
all’alba, cammineremo col solenne Virgilio nella valle delle
3 O. Wilde, Complete Works, cit., pp. 1132-33 e The Complete Works of Oscar
Wilde, vol. 4 Criticism, cit., in particolare, pp. 167-68.

(Si nota l’influsso di William Blake, grande interprete di Dante, che nel
poemetto The Marriage of Heaven and Hell scrisse “If the doors of perception
were cleansed, everything/would appear to man as it is, infinite.”
(“Se si pulissero le porte della percezione, ogni cosa/apparirebbe all’uomo
come essa veramente è, infinita.”), cfr. W. Blake, Visioni, trad. di G. Ungaretti,
Introduzione di A. Tagliaferri, Milano, Mondadori (Oscar), 1973, p.
118-119).

( Secondo l’interpretazione originale diWilde, la catarsi poteva essere interpretata
come un rito d’iniziazione, un processo di liberazione estetica o risveglio
spirituale, cfr. Ph. E. Smith II and M. Helfand, Oscar Wilde’s Oxford Notebooks.
A Portrait of Mind in the Making, Oxford, Oxford University Press, 1989, p.72
e ss.)

ombre della morte,” e infatti! L’alba ci troverà nella selva oscura, e
il Mantovano sarà al nostro fianco. Varchiamo il cancello che intima
di lasciare ogni speranza, e con pietà o gioia, vediamo l’orrore di un
altro mondo. (…)]
“Out of the ceaseless winds that drive them, the carnal look at us
(…) Through the dim purple air fly those who have stained the world
with the beauty of their sin (…).”3
[Dagli incessanti venti che li trasportano, i peccatori carnali ci guardano
(…) Per l’aria cupamente purpurea volano coloro che hanno
macchiato il mondo con la bellezza del loro peccato (…)].
A questo punto gli esempi dalle tre cantiche si moltiplicano e lo
scopo dei due dialoganti è chiaro: il compito del critico non sarà
quello di provare ogni cosa; ma le sue letture lo porteranno “oltre le
porte della percezione e dell’inferno”4, dove potrà osservare ogni fenomeno
con calma, in compagnia di Dante e Virgilio, per poi tornare,
rinfrancato, ad esercitare il suo giudizio.
L’esperienza della lettura è eminentemente catartica5. Wilde,
usando Gilbert come suo portavoce attua una mise en abyˆme dell’esperienza
del vizio. L’esempio dei lussuriosi, “the carnal”,
come vuole la traduzione di H. F. Cary6 preferita da Wilde
(ch’era poi anche quella amata da Keats) non “the lustful” o “the
sensual”7, che nella traduzione inglese definisce la sensualità di
Cleopatra, trascinati eternamente da un vento impetuoso, sembra
scelto dall’autore con uno scopo preciso. Gilbert non distingue
tra le figure, né segnala la presenza di Paolo e Francesca, ma
continuando nella lettura dell’Inferno, accomuna coloro che
hanno peccato per “la bellezza del loro peccato”, e Paolo e Francesca
non possono che essere tra questi.Wilde conosceva bene la
triste storia di Francesca da Polenta la cui immagine forse poté
notare quando, durante il suo viaggio a Ravenna nel 1877, andò
di proposito a visitare la chiesa di Santa Maria in Porto Fuori
della quale descrisse i magnifici colori al tramonto nel suo poe-

6 Cfr. The Complete Letters of Oscar Wilde, edited by M. Holland and R.
Hart-Davis, New York, H. Holt, 2000, p. 735 n.2 (De Profundis). Henry
Francis Cary (1772-1844) pubblicò la sua traduzione dell’Inferno nel 1805.
Wilde, comunque, conosceva pure le altre traduzioni della Divina Commedia,
forse più lette dai vittoriani, quelle dei due dantisti americani: il poeta
Henry Wadsworth Longfellow, pubblicata nel 1867 e quella del letterato e
studioso, Charles Eliot Norton, completata nel 1892. Cfr. J. Losey, The Aesthetics
of Exile: Wilde Transforming Dante in Intentions and De Profundis,
in “English Literature in Transition”, 36:4, 1993, pp. 429-450. L’A. però
s’inventa una curiosa interpretazione della lunga epistola, De Profundis,
che Wilde aveva indirizzato a Lord Alfred Douglas mentre si trovava in prigione.
Più interessante è l’ipotesi adombrata da Losey che Wilde imita e si
identifica con Francesca perché anche lui in prigione sta vivendo all’inferno
e sta pagando per un peccato d’amore.
7 Cfr. R. W. Church, Dante and Other Essays, London, New York, Macmillan,
1888 e F. Hettinger, Dante’s Divina Commedia, its Scope and Value, edited by
H. S. Bowden London, Burns & Oates, NewYork, Catholic Publication Society,
1887. Entrambi i testi furono richiesti daWilde mentre era in prigione nel 1896,
cfr. Letters, cit., p. 673 nota e p.792.

metto Ravenna (1878)8 col quale vinse il Newdigate Prize che, di
fatto, lo lanciò come poeta.
La prima parte del saggio The Critic as Artist fu pubblicata sulla
rivista “The Nineteenth Century” nel luglio del 1890 col titolo The
True Function and Value of Criticism, ma la seconda parte, alla quale
Wilde aveva aggiunto il lungo passo su Dante, gli fu rispedita dall’editore,
James Knowles, perché la tagliasse definitivamente.Wilde
se ne lamentò con l’editore all’inizio di agosto9, ma il saggio apparve
con questo taglio, senza quei particolari riferimenti a Dante, nel numero
di settembre della rivista. Wilde provvide poi a reinserire i riferimenti
a Dante nell’edizione del saggio nel volume Intentions, del
1891.

Oscar Wilde fu un lettore precoce di Dante e della Divina Commedia per
tradizione famigliare, perché la madre, Jane Francesca "Speranza" Elgee, nutriva
un vero e proprio culto per il poeta italiano, essendosi persino inventata
una finta genealogia dagli Alighieri, per quella profonda curiosità
intellettuale che lo spingeva ad appropriarsi dei testi classici, e
per il desiderio di diventare lui stesso poeta, imitando i grandi poeti
del passato, anche attraverso gli esercizi scolastici della parafrasi,
della traduzione, della parodia.

Citazioni dalle opere dantesche sono
presenti nei Notebooks e nel Commonplace Book degli anni trascorsi
ad Oxford, tra il 1874 e il 1878 e mostrano comeWilde meditava sulla
8 O.Wilde, Complete Poetry, ed. by I. Murray, Oxford, Oxford University Press,
1997, p. 39. Nella parte finale del poemettoWilde ricorda che “Love only knows
no winter; never dies:/Nor cares for frowning storms or leaden skies.” (“Solo
l’amore non conosce l’inverno; non muore mai:/Né si cura di accigliate tempeste
o plumbei cieli” (vv.317-189). Parole che lo stesso Dante avrebbe potuto
proferire dopo aver ascoltato il racconto di Francesca.
9 The Complete Letters of Oscar Wilde, cit., p. 444.
10 Cfr. R. Ellmann, Oscar Wilde, London, Hamish Hamilton, 1987, p. 5.

Pure la
moglie di OscarWilde, Constance Lloyd, era un’attenta lettrice di Dante anche
nell’originale italiano, cfr. F. Moyle, Constance. The Tragic and Scandalous Life
of Mrs Oscar Wilde, London, John Murray, 2011, p. 214 e p. 217.

funzione della poesia, sul metodo storico e sulla filosofia di Hegel11.
Nel suo immaginario la stirpe dei Malatesta e la città di Rimini avevano
assunto connotazioni perverse. In The Duchess of Padua (1883)
– uno dei primi drammi wildiani—un personaggio descrive la città di
Rimini come un luogo di briganti12, e il signore di Rimini, Giovanni
Malatesta13, come un adultero malvagio (simile a Claudio in Hamlet),
che ha catturato il padre del protagonista, Guido Ferranti, e l’ha consegnato,
in cambio di alcuni feudi, al duca di Padova che poi lo ha ucciso.
Guido, come Amleto, deve vendicare il padre, ma s’innamora
della Duchessa e l’impresa si fa molto ardua finché la donna, che ricambia
il suo amore e sa d’essere sposata a un uomo malvagio, assassina
il marito. Alla fine, visto che non c’è scampo per i due amanti
fatali, essi commettono suicidio, come Romeo e Giulietta, pronunciando
le loro ultime parole apodittiche con tono melodrammatico:
Guido: They do not sin at all
Who sin for love.
Duchess: No, I have sinned, and yet
Perchance my sin will be forgiven me.
I have loved much.14
[Guido: Non commettono peccato coloro che peccano per amore/
Duchessa: No, io ho peccato, eppure/ Forse il mio peccato mi sarà
perdonato. Ho molto amato.]

Cfr. Oscar Wilde’s Oxford Notebooks. cit., pp. 124, 156, 204 (Commonplace
Book) e pp. 23, 108 (College Notebook).
O.Wilde, Complete Works, cit., p.612.
Ibidem, p. 609. Cfr. Ph. E. Smith II and M. S. Helfand, Oscar Wide’s Oxford
Notebooks, cit., p.124, dove Wilde ha annotato la somiglianza tra i peccati e le
superstizioni della Roma imperiale con quelle del Rinascimento, i Baglioni, gli
Sforza e i Malatesta da Rimini, prendendo spunto da J. A, Symonds, The Renaissance
in Italy, opera in due volumi, che conosceva bene e della quale pubblicò
la recensione su “The Pall Mall Gazette”, il 10 novembre 1886.
14 O.Wilde, Complete Works, cit., p.680.

Il 27 agosto 1882, mentreWilde era in tournée in America, andò a vedere allo Star Theatre di New York, la "Francesca da Rimini" di George Henry Boker che apprezzò, commentando, in una lettera
all’impresario Lawrence Barrett, ch’era una delle migliori produzioni
drammatiche moderne.

“Francesca da Rimini, which I saw in
New York, always remains in my memory as one of the best modern
productions of the stage."

Il 7 settembre dello stesso anno
chiese un incontro con l’attrice Mary Anderson per presentarle la
bozza della nuova tragedia The Duchess of Padua e discutere con
lei la possibilità di metterla in scena in America16, ma non riuscirono
a trovare un accordo. Barrett, comunque, decise di produrre
The Duchess of Padua che fu rappresentata a New York, al Broadway
Theater, solo nove anni dopo, il 21 gennaio 1891, col titolo
Guido Ferranti e senza il nome dell’autore sul cartellone. Il
dramma ebbe poche repliche fino al 14 febbraio e fu un clamoroso
insuccesso.
L’anno precedente, nel luglio 1890, Wilde aveva pubblicato il
romanzo a puntate, The Picture of Dorian Gray, nella rivista americana,
“Lippincott’s Magazine”. Dopo un’attenta revisione e l’aggiunta
di ben sette capitoli, fu poi edito in volume e lanciato sul
mercato internazionale, suscitando critiche e condanne. Nel romanzo
il protagonista viene introdotto dall’amico e ammiratore,
Lord Henry Wotton, alla lettura di un “libro fatale” che, evidentemente
non è il “libro galeotto” di Paolo e Francesca, condiviso da
due amanti di sesso diverso – ma che ha la stessa funzione di mise
en abyˆme svolta dal libro di Dante letto da Ernest e Gilbert,
quando concludono la loro discussione critica con un pensiero
sulla “bellezza del peccato”. Infatti il “libro fatale” di Dorian Gray,
The Complete Letters of Oscar Wilde, cit., p. 406. Nella lettera, datata “inizio
luglio 1889”, Wilde si dichiara pronto a raggiungere l’impresario a Kreuznach
per convincerlo a mettere in scena The Duchess of Padua.
 Ibid., p. 178 e ss..
 R. Severi, La biblioteca di Oscar Wilde, Palermo, Novecento, 2004, pp. 67-
86: “Il libro fatale”.
 O. Wilde, The Picture of Dorian Gray, edited by I. Murray, Oxford, Oxford
University Press, 1998, p. 106.
19 Ibidem, p. 120.

che alcuni critici hanno pensato di identificare con A Rebours di J.
K. Huysmans era –a mio parere – una summa dell’estetismo, in
cui si possono riconoscere riferimenti puntuali alla raccolta dei
saggi inclusi in The Renaissance (la “Bibbia” degli esteti, 1873) e
al romanzo del 1885 Marius the Epicurean di Walter Horatio
Pater17.
Nel capitolo undicesimo del romanzo, Dorian Gray mostra la
sua expertise di bibliofilo e si compiace, agli occhi dei suoi compagni
universitari, “to be of the company of those whom Dante
describes as having sought to “make themselves perfect by the
worship of beauty”. (“di appartenere al gruppo di coloro che
Dante descrive “essersi resi perfetti per mezzo del culto della bellezza”)
18. Alla fine dello stesso capitolo, leggendo dal “poisonous
book” (“libro avvelenato”) di coloro che, attraverso il “Vizio e il
Sangue e l’Accidia erano diventati mostruosi e pazzi”, si sofferma
su

Sigismondo Malatesta,

“l’amante di Isotta e Signore di Rimini,
la cui effigie fu bruciata a Roma perché nemico di Dio e dell’umanità,
colui che strangolò Polissena con un tovagliolo e diede
il veleno a Ginevra d’Este in una tazza di smeraldo e che in omaggio
ad una passione vergognosa costruì un tempio pagano per il
culto cristiano.

Sebbene lo stile poetico voglia ribadire il verso
di John Keats “Beauty is truth, truth beauty” da Ode on a Grecian
Urn, tuttavia non ci risulta che Dante abbia mai parlato del
“culto della bellezza”, né che Sigismondo Malatesta si sia mai
macchiato di tante nefandezze. Ma nell’universo estetico wildiano,
dove i poeti vivono in un cielo contiguo, è probabile che la
citazione di Dorian Gray provenga effettivamente dal romanzo di
20 Cfr.W. H. Pater, Marius the Epicurean, edited with an Introduction and Notes
by M. Levey, Harmondsworth, Penguin, 1985, p. 53 e nota.
21 Cfr. O. Wilde, The English Renaissance of Art, in The Uncollected Oscar
Wilde, edited by J.Wyse Jackson, London, Fourth Estate, 1995, p. 6. La conferenza
fu tenuta da OscarWilde il 9 gennaio 1882, a Chickering Hall, NewYork,
durante il suo tour americano.

Per la sua onnipresenza nel movimento estetico e per la sua inclusione tra i
“minor poets” influenti del periodo, si veda H. Jackson, The 1890s, New Introduction
by M. Bradbury, London, The Cresset Library, 1988. La prima edizione
risale al 1913.
The Complete Letters of Oscar Wilde, cit., pp. 327-28.

Walter Pater, dove del protagonista si dice “nelle parole di un
poeta che giungerà molto tempo dopo, egli doveva “perfezionarsi
attraverso l’amore della bellezza visibile”20. Un concetto che lo
stessoWilde aveva fatto proprio e che andava elaborando fin dalle
prime conferenze americane21.
Questa profondità di riferimenti e di pensiero non è riscontrabili
nella figura di Richard Le Gallienne (1866-1947)22, dandy
che si sposò tre volte ed ebbe tre figlie (una adottiva), poeta,
giornalista, letterato, che incontrò Wilde probabilmente alla fine
del 1887, o inizio del 1888, dopo avergli inviato il suo primo libretto
di poesie, My Ladies’ Sonnets23. Oscar lo introdusse nel
suo cerchio di conoscenze letterarie e Richard si mostrò particolarmente
affettuoso, come nel giugno del 1888, quando gli inviò
un breve manoscritto delle sue poesie con una dedica poetica che
inizia:
With OscarWilde, a summer- day
Passed like a yearning kiss away,
The kiss wherewith so long ago
That little maid who loved me so
Called me her Lancelot—
[Con Oscar Wilde un giorno d’estate/Trascorse come un bacio
24 Complete Letters of Oscar Wilde, cit., p. 397 n.1.
25 Ibidem, p. 457.
desiderato,/ Quel bacio col quale molto tempo fa/Quella fanciulletta
che mi amava tanto/Mi chiamò il suo Lancillotto—]
Ancora nell’aprile 1889, quandoWilde gli inviò la sua magnifica
favola, The Birthday of the Infanta (ch’era stata pubblicata contemporaneamente
a Parigi), Le Gallienne si congratulò in versi che terminavano:
So, Oscar, as I read your tale once more
Here where a thousand eyes may read it too,
I smile your own sweet ‘secret smile’ at those
Who deem the outer petals of the rose
The rose’s heart – I who through grace of you
Have known it for my own so long before.24
[Allora, Oscar, mentre leggo la tua favola ancora una volta/qui dove
mille occhi possono leggerla,/Sorrido con quel tuo “sorriso segreto”
a coloro/ Che ancora pensano che i petali esterni della rosa/Siano il
cuore della rosa—io grazie a te/Conosco la differenza da molto
tempo].
Entrambi continuarono a scambiarsi libri e complimenti. Oscar
il primo dicembre 1890 gli ricordò che “Friendship and love like
ours need not meetings, but they are delightful: I hope your laurels
are not too thick across your brow for me to kiss your eyelids.”25
(“La nostra amicizia e amore non hanno bisogno di incontri, ma
questi sono piacevoli: spero che la corona d’alloro non ti cinga
completamente la fronte perché vorrei baciarti sulle palpebre”).
Anche dopo il matrimonio di Richard, nel febbraio 1892, Wilde
continuò a inviargli inviti, a lui e alla “sua poesia” (la moglie),
come i biglietti per la sua prima commedia, Lady Windermere’s

26 Ibid., p. 552.
27 R. Le Gallienne, English Poems, London, Elkin Matthews and John Lane-
New York, The Cassell Publishing Company, 1892, pp.7-18. Cfr.

F. Bugliani-Knox,
"Galeotto fu il libro e chi lo scrisse": Interpretations and Reworkings of
Dante’s Paolo and Francesca.
In “Dante Studies, with the Annual report of the
Dante Society” n. 15, p. 226.

Fan. La corrispondenza tra i due terminò l’anno seguente in modo
molto amichevole, dopo la brillante recensione di Salomé che il
giovane poeta aveva pubblicato sul giornale “Star” il 22 febbraio
189326. Rimane, comunque significativa, la testimonianza di tutta
una generazione letteraria narrata in seguito da Richard Le Gallienne
in The Romantic ‘90s (1926).
Nel 1892, Le Gallienne pubblicò un poemetto narrativo a rime
alterne di 270 versi, Paolo and Francesca27 che inizia con la descrizione:
At Rimini, anigh that crumbling strand
[A Rimini vicino a quella costa che si sbriciola]
The Adriatic filcheth near and far (…)
[Che l’Adriatico espropria vicino e lontano]
per continuare con l’idillio ch’era nato tra i due giovani, Francesca
e Paolo, giunti insieme nella città sul mare, quasi si trattasse dei due
ragazzi cantati da E.A. Poe in “Annabel Lee”.

“Old Lanciotto” li lascia
giocare insieme mentre si occupa del governo del suo feudo.
Francesca si intrattiene sempre di più col bel Paolo che ama salire
sulle scale (come Romeo) per raccogliere frutta e i due quando s’incontrano,
si parlano con gli occhi.


Had but Francesca turned about and read

[Se Francesca si fosse solo voltata e avesse letto]

Paolo’s bright eyes that only dared to shine

[Gli occhi lucenti di Paolo che osavano soffermarsi]

On the dear gold that glorified her head.

[Sull’amato oro che glorificava il suo capo;]

Paolo le dona fiori che ha colto ed essiccato tra i fogli di qualche
amato volume e Francesca li conserva nel seno e sospira il suo nome
quando nessuno l’ascolta.

Si corteggiano, con la discrezione
esagerata dei timidi, dall’inverno alla primavera, quando uniti nella
stessa stanza, mentre Francesca ricama

Hard by young Paolo read of knight and dame

[Vicino il giovane Paolo leggeva di dame e cavalieri]

That long ago had loved and passed away:

[Che molto tempo fa amavano ed erano trapassati:]

He had no other way to tell his flame,

[Non aveva altro modo per annunciare la sua fiamma]

She dare not listen any other way

[Ella non osava ascoltare in altro modo]

But even that was bliss to lovers poor as they.
[Ma anche quella era gioia per loro due poveri amanti.]

The world grew sweet with wonder in the west

[Il mondo si addolcì di stupore in occidente]

The while he read and while she listened there,

[Mentre lui leggeva e lei ascoltava lì]

And many a dream from out its silken nest

[E molti sogni uscirono dal suo cesto di fili di seta]

Stole like a curling incense through the air;

[Come incenso che volteggiava nell’aria;]

Yet looked she not on him, nor did he dare:

[Eppure lei non lo guardò, né lui osò:]

But when the lovers kissed in Paradise

[Ma quando gli amanti si baciarono in Paradiso]

His voice sank and he turned his gaze on her,

[La voce di lui s’abbassò e lui la fissò,]

Like a young bird that flutters ere it flies,
[Come un giovane uccello con un frullio di ali prima del volo, ]
And lo! A shining angel called him from her eyes.
[Ed ecco! Un angelo luminoso lo chiamò dagli occhi di lei.]
Then from the silence sprang a kiss like flame,
[Poi nel silenzio si diedero un bacio infiammato,]
And they hung lost together; while around
[E si strinsero perdutamente insieme; mentre attorno]
The world was changed, no more the same (…)
[Il mondo cambiò, non fu più lo stesso (…)]
Infinite love throbbed in the straining bound
[Un amore infinito pulsava entro il confine allentato]
Of that great kiss, the long-delaying boon,
[Di quell’immenso bacio, ricompensa a lungo attesa,]
Granted indeed at last, but ended, ah! so soon.
[Donata infine, ah! così presto. (…)]
As the great sobbing fullness of the sea (…)
[Come il lamento del grande mare ingrossato]
So kissed those mighty lovers glad and brave.
[Così si baciarono quei due potenti felici amanti coraggiosi.]
Paolo legge e le parole diventano azioni visibili, imitabili, interpretabili.
I due protagonisti, baciandosi, abbandonano ogni riserva:
sono potenti, coraggiosi finché dura la notte.

Ma al primo canto dell’allodola
(lark), come Romeo e Giulietta, sanno che devono separarsi
e chiedere pietà a Dio. Francesca si rivolge a santa Lucia che
inviò i suoi occhi azzurri a chi voleva amarla; ma lei non vuole rinunciarvi
(p.14). Il poeta la chiama “sweet saint of sin, saint of the
deathless rhyme” (“dolce santa del peccato, santa della rima immortale”).
Dante si ricorderà di te.

 Cfr. T. S. Eliot, The Sacred Wood, London, Methuen, 1920, p. 150. Nell’ultimo
saggio intitolato “Dante”, l’A. annota:

Francesca is neither stupefied nor reformed.

She is merely damned; and it is a part of damnation to experience desires that we can no longer gratify.”

On the dark background of his theme sublime

[Sullo sfondo buio del suo tema sublime]

And Thou and He in your superb disgrace

[Tu e Lui nella vostra superba vergogna]

Still on that golden wind of passion shall embrace. (p.14)

[Rimarrete sempre abbracciati nel vento dorato della passione]

Però mentre essi s’attardavano nel letto, “Folded together,

weary with delight” (“Avvolti nell’abbraccio, sfiancati dal piacere”)
(p.15),

Lanciotto li scoprì.

 Era tornato prima del previsto,
quasi avesse avuto un presentimento del tradimento, e pazzo di
gelosia, scostò l’arazzo che nascondeva il letto, “dove giacevano
nel peccato come in una culla” (p. 17).

Ebbe un attimo di smarrimento
ma si riprese e li trafisse entrambi dicendo “Così, miei cari,
vi sposo per sempre all’inferno”.


Rimase Lanciotto inerme finché la luce del mattino sparse un bagliore
sui loro corpi, ma le loro anime erano ormai fuggite molto lontano
(p. 18).

Le Gallienne è un epigono del Decadentismo inglese che in
questo breve componimento mieloso s’ispira alle favole drammatiche
di Maeterlinck; non c’è nel suo testo un messaggio profondo,
un’elaborazione filosofica, né dobbiamo attenderci un linguaggio
cifrato da “fedeli d’amore”.

Davanti al profluvio di parole di Francesca
e al silenzio di Paolo, T. S. Eliot, che si era nutrito alla fonte
dell’Estetismo inglese, concluse che essi erano gli amanti dannati
e che la loro punizione consisteva nel provare ancora quei desideri
che non potevano più gratificare28. Paolo e Francesca non svaniscono,
come “The women (that) come and go talking of MicheRITA

langelo” e le sirene di Prufrock che conservano ancora il loro messaggio
enigmatico.
Nei riferimenti alla vicenda degli amanti fatali di Rimini di
Wilde e Le Gallienne si coglie il passaggio dal significato profondo
del libro che unisce il pensiero e il sentimento, al bacio che
esprime e conclude tutto ciò in un momento di vita, ma in esso fatalmente
ne esaurisce tutte le potenzialità poetiche.

Lettura spiata
Gustave Doré, Quel giornoi più non vi leggemmo avante. Inchiostro e guazzo
bianco su carta, 1861. Strasburgo, Museo d’Arte moderna e contemporanea.

Agatone – …A nostra volta cerchiamo di dare dignità al nostro mestiere,
come Erisimaco ha fatto con il suo.

Il dio [Eros] è poeta così raffinato
che è lui stesso causa per cui altri scrivano: tutti sanno che tutti
diventano poeti, anche se fino a quel momento alieni alle muse,
quando amore si impossessa di lui. Mi pare giusto dunque considerare
questo fatto come una degna testimonianza di quanto segue:
Amore è un artista versato nell’arte del comporre che ha a che fare
con la musica [intrinseca ed estrinseca al vero], perché quelle abilità
che non possediamo non le possiamo mica insegnare a un altro o ai nostri
vicini di casa. C’è forse qualcuno, permettetemi di chiedere, che
rifiuterà di sostenere che la composizione di tutte le forme della vita
è il compito precipuo per cui tutte le creature sono concepite e fatte nascere?
Platone, Simposio

La poesia d’amore scritta per notificare di sé l’oggetto del proprio
desiderio non finisce (e anzi, certe volte, incomincia) quando la persona
per cui è stata scritta o, per meglio dire, alla quale è stata indirizzata,
non potrà più leggerla.

Ma perché a qualcuno venga voglia
di leggere una poesia d’amore senza immedesimarsi con il suo destinatario,
apparente o reale, bisogna che qualcuno d’amore abbia
comunque scritto in maniera tale che la seduzione avvenga sul piano
della struttura del testo e del linguaggio con cui è stato redatto. La
qualcosa qualche volta è capitata e può tuttavia capitare. Spigolature
latine, dugentesche, anglo-secentesche, novecentesche … e quasi
d’oggidì.

Chi non ha mai scritto o letto d’amore con un fine seduttivo,
lanci la prima pietra. Chi non ci ha mai ricamato su, lanci la
seconda.

1 Come insegna Platone nel breve dialogo "Ione" il cui protagonista confessa a
Socrate di non sapere come, pur senza padroneggiare la materia di cui parla
Omero, di cui è rapsodo, egli scatena, recitandone i versi, forti emozioni in chi
lo ascolta, e in sé medesimo.

Interpretando in senso ampio – e indulgendo di conseguenza al
piacere di una sia pur minima pulsione equivocante – le istigazioni
che credo si possano evincere, legittimamente, dal tema che Ferruccio
Farina e gli amici del comitato scientifico ci hanno proposto per
questa quinta edizione delle giornate dedicate a Francesca da Rimini
questo mio intervento non sarà un contributo al chiarimento di nessuna
delle numerose questioni che pullulano con rinnovata insistenza
intorno al celeberrimo episodio dantesco, ma si configurerà come un
semplice precipitato, con brevi commenti, di citazioni amorose, di
lacerti estrapolati da testi intesi

1° a sedurre (scrivere d’amore per
ottenere),

2° ad analizzare (ma anche a teorizzare o, almeno, a circoscrivere)
il dato di conoscenza che potrebbe nascondersi nel fenomeno
amoroso (scrivere per conoscere nel rispetto delle premesse),



3° ad approfittare, sotto le mentite spoglie di una seduzione, o di
un’analisi, del pathos che amore si tira dietro quando le prime due opzioni,
rivelandosi improduttive, creano l’occasione di una conoscenza
esterna alle premesse (scrivere per ascoltare quel che il
linguaggio dice scrivendo d’amore).

Quella che segue, in altre parole, sarà una lettura a voce alta di
testi poetici, filosofici e filosofico-poetici, rigorosamente pertinenti
al tema dell’amore, e altrettanto rigorosamente slegati tra di
loro, tali dunque, da rendere impossibile qualsiasi casistica, anche
la più elementare. E però, nulla togliendo al gusto di leggerli, quei
testi, con enfasi, per appropriarci di quel valore aggiunto che è appunto
il risultato di una recitazione1, non ci faremo abbandonare
dalla speranza che il guazzabuglio, in cui verremo inevitabilmente
a trovarci, sia comunque non dico attraversabile, ma percorribile
in lungo e in largo, e che ad ogni passo sia possibile assaporare un


 Ricordo la profonda delusione che provai, quando una professoressa della
scuola serale mi spiegò che i trovatori e i siciliani e forse perfino Dante scrivevano
d’amore senza essere veramente innamorati, ma seguendo piuttosto una
teoria d’amore che nei casi di maggiore consapevolezza si ammantava di valori
epistemologici (Dante, Guido e, secondo loro due, non Guittone). L’informatrice
rincarò la dose, sostenendo che lo stesso valeva per le canzoni dei cantautori
come Celentano e Gino Paoli, con l’eccezione forse di Umberto Bindi,
autore ed esecutore di Il nostro concerto che si era innamorato veramente del suo
autista, al quale la canzone era dedicata. E comunque, per questi ultimi tre, innamorati
o no, la faccenda della complicazione epistemologica sembra impro-

godimento affine a quello di cui avremo avuto esperienza nei passi
mossi in precedenza.

Speriamo di poter dire, a fine lettura, di aver fatto una passeggiata
“intelligente”, cioè di avere percorso un sentiero, scelto non proprio a
caso, ma senza avere notizia sicura di quel che vi avremmo trovato,
spinti da una curiosità diffusa e accolta come punto di partenza solo in
quanto annunciatrice di rischio, di dis-trazione, attratti da un invito impreciso,
e irrinunciabile, e convinti, oltretutto, che anche camminando
lungo sentieri già percorsi, o quanto meno noti, si troverà sempre qualcosa
che, venendoci incontro ex novo, inietterà nella coazione del replicare,
il siero avvelenato e avvelenante della passione iscritta nel
desiderio del ripetere.

Aiuta un po’, in questo ex per ire non avaro di
asperità, in cui Heidegger reperiva la soglia stessa dell’esperienza, o
della consapevolezza del fare, la paura di non farcela che assale l’atleta
prima del cimento, nonché la fascinazione di poterla collegare, tale
paura, con il non risaputo, e però avvertito in un futuro anteriormente
presagito e vissuto, quando, in buona sostanza, ci accorgeremo di aver
letto e tradotto senza l’ausilio di nessuna grammatica o dizionario.
Pur facendo ogni sforzo per non soccombere alle lusinghe di qualche
malcelato furore tassonomico, ci metteremo in cammino a partire da
specimini di poesia d’amore scritta a scopo seduttivo da un qualsivoglia
innamorato, o finto tale2, ricordando che l’etimo popolare, e decisamente
errato, del ducere a sé, ha molta più probabilità di funzionare

come algoritmo essenziale del comporre versi d’amore, dell’etimo ufficiale,
assodato dai filologi, per cui sedurre deriva invece da una voglia
di erranza di cui ducere si ammanta grazie al sed che lo accompagna e
il cui valore avversativo inaugura un percorso di fuga dalla norma, e
dunque della morale. Ma è chiaro che le due istanze sono meno contraddittorie
di quanto sembri a prima vista perché il modo precipuo di
condurre a sé è quello di promettere incontri inusitati con l’altro, incontri
che traggano fuori dalla noia del “tutto esaurito” e che facciano
invece balenare la gioia del “chi l’avrebbe detto?”.
Seguiremo in particolare l’evolversi della figura e della funzione
del destinatario del testo, dal momento in cui compare come oggetto
dichiarato del desiderio di chi scrive, al momento in cui la sua presenza
diventa un fatto retorico, l’incarnazione di un invito a leggere il
testo poetico con l’intelligenza e l’attrezzatura necessarie a una non
aberrante o riduttiva decodificazione del messaggio che vi inerisce, e
fino al momento in cui tale destinatario/lettore interno al testo, prima
si trasforma nel proprio contrario e cioè in lettore/destinatario, e poi si
riduce (ma non è una riduzione epistemologica, tutt’altro) a lettore tout
court, un individuo che dovrà possedere i requisiti di cui disponevano
le configurazioni, gli attanti, che lo hanno preceduto, ma che diversamente
da quelli non viene neppure invocato.
Un clamoroso esempio di proposta erotica andata a buon fine si
può dire che apra il canone stesso della lirica italiana. Penso, naturalmente
a “Rosa fresca aulentissima” nel cui incipit
Rosa fresca aulentis[s]ima, - c’apari inver la state
le donne ti disïano - pulzell’ e maritate;
tra[ji]mi de ste focora - se t’este a bolontate;
per te non aio abento notte e dia,
penzando pur di voi, madonna mia
il rapido trapasso da rosa intesa come fiore e rosa intesa come donna si
impernia in una giaculatoria che nella sua trasparenza e impetuosità
(“tra[ji]mi de ste focora”) acquista il sapore di un godimento assicurato.
E infatti, dopo ben quindici attacchi rintuzzati, la donna cede e annuncia
anche lei la sua resa con un linguaggio che nulla lascia all’ambiguità:
Meo sire, poi iurastimi, - eo tut[t]a quanta incenno;
sono a la tua presenz[ï]a, - da voi non mi difenno.
S’eo minespriso ajoti, - merzè, a voi m’arenno.
A lo letto ne gimo a la bon’ura,
chè chissà cosa n’è data in ventura.
Qui è del tutto arbitrario sovrapporre il personaggio maschile, cui
si deve la proposta amorosa, all’autore del testo, anche se viene quasi
spontaneo il farlo. In realtà si dovrebbe concepire un autore che osserva
e traduce in parole la realtà di un corteggiamento in cui i ruoli
del seduttore e della sedotta sono culturalmente stabiliti.
La situazione può tranquillamente rovesciarsi. Ma quando a proporre
amore è un personaggio femminile, capita spesso che, da seduzione
e consenso, si passi alle coordinate della tentazione e della
ripulsa.


Più spesso che no, infatti, il corteggiamento non va a buon
fine, o sarà, alla lunga, occasione di pentimenti, lagrime e azioni redentive:
basta pensare agli amori di "Ruggero e Alcina" nel Furioso, o
di "Rinaldo e Armida"
nella Gerusalemme.

Alcuni, tra gli amori che si direbbero destinati fin dall’inizio al
successo, si concludono negativamente, anche se a promuoverli è la
dea stessa dell’amore, la quale, grazie a William Shakespeare, usa
parole che magari non hanno fatto gran presa su Adone, e però riescono
ogni volta a eccitare tutta quella parte dell’umanità cui è capitata
la fortuna di leggere la sua struggente perorazione:

‘Fondling,’ she saith, ‘since I have hemm’d thee here
Within the circuit of this ivory pale,
I’ll be a park, and thou shalt be my deer;
Feed where thou wilt, on mountain or in dale:
Graze on my lips; and if those hills be dry,
Stray lower, where the pleasant fountains lie.

ponibile.

[‘Tesoro’ gli dice ‘visto che ti ho isolato qui
In quest’orbita di pallido avorio, io ti farò
Da prato, e tu sarai il mio cerbiatto, cibati dove
più gradisci, per valle o per monte, bruca sulle mie
labbra, e se fossero aridi quei colli, spingiti oltre,
più in basso dove troverai le sorgenti del piacere]3.
Le conseguenze della preferenza accordata da Adone ai piaceri
della caccia, anziché a quelli promessi da Venere – preferenza difficilissima
da condividere – sono letteralmente catastrofiche: assomigliano
molto a quelle del peccato originale. Per colpa non proprio di
Adone, ma della sua morte, e quindi alla fine, sì, per colpa di Adone
che è proprio andato a cercarsela, Amore sarà causa di guai e tormenti
infiniti per tutti, anche per quelli che avrebbero, senza nemmeno
pensarci, preferito Venere ai cinghiali:
‘Since thou art dead, lo, here I prophesy:
Sorrow on love hereafter shall attend:
It shall be waited on with jealousy,
Find sweet beginning, but unsavoury end,
Ne’er settled equally, but high or low,
That all love’s pleasure shall not match his woe.
‘It shall be fickle, false and full of fraud,
Bud and be blasted in a breathing-while;
The bottom poison, and the top o’erstraw’d
With sweets that shall the truest sight beguile:
The strongest body shall it make most weak,
Strike the wise dumb and teach the fool to speak.
[A causa della tua morte, io qui dichiaro che Amore
d’ora innanzi avrà per compagno il dolore: la gelosia
curerà l’esecuzione di ogni sua mossa; dolcissimi
3 Venus and Adonis, vv. 129-134.

saranno sempre i suoi esordi e ripugnanti le sue
conclusioni; mai conoscerà equilibrio, anzi sarà
intessuto di alti e bassi così che il piacere non possa
mai pareggiare il dolore. Sarà volubile, falso, reame
d’ogni frode, sboccerà e appassirà nel tempo di un
respiro, miasmatico nel fondo, e saldo oltre misura
in cima. Con dolcezze che nascondono la sua vera
immagine renderà debolissimo il corpo più robusto,
istupidirà i saggi e agli schiocchi insegnerà a parlare.]4
Le maledizioni continuano, ma non abbiamo il tempo di star qui
a contarle tutte. Forse sarebbe il caso di fare un salto a casa dei nostri
secentisti, col Cavalier Marino in prima fila, e i musici del loro
tempo, che il disappunto amoroso seppero trasformare invece in madrigali,
e in felicissime arie, ma poiché tale materia richiederebbe
competenze e tempi di cui non disponiamo, dovremmo accontentarci,
qui, di un gustoso catalogo di paragoni in cui varie crudeltà si
rivelano di poco conto rispetto a quella contenuta nello sguardo sdegnoso
con cui la donna assediata respinge l’attacco dell’assalitore.
Leggiamo insieme questo squisito sonetto di Gaspare Murtola:

Più d’una spina rigida e pungente
ha il duro echino di castagna intorno;
più d’una spina il nobil cedro adorno,
presso la foglia di smeraldo olente.
Più d’una spina ancor fera e dolente
la rosa mostra in su l’aprir del giorno;
più d’una spina il bel ginepro e l’orno
ed il cardo e l’urtica aspra e mordente.
Più d’una spina l’istrice, col riccio,
scopre sul dorso maculato e nero;
più di una spina l’apro irsuto e riccio.
Ma più di questo e quel, fere e dogliose
spine hai nel guardo fulminante e altero
e ne le luci, Elpinia mia, sdegnose.

In netto e truce contrasto con tanta naturalistica leggiadria, la repulsa
amorosa può sfociare in grandi amarezze, in manifestazioni di
rabbia inusitata, in invettive. Campione dell’invettiva amorosa, nel
secolo trascorso, che quelli della mia età hanno sempre voglia di
chiamare il nostro secolo, è sicuramente Antonio Delfini, che così
esplode in alcune delle più perentorie tra le sue Poesie della fine del
mondo. Nell’“Antilaura dell’anticanzoniere”, la brutalità dell’eloquio
frana con la forza di una ricercata volgarità sulla tenue e malconcia
evocazione petrarchesca:

L’Antilaura dell’anticanzoniere ha detto che sei
Francesco Antipetrarca critico scemo dei tempi tuoi.
Non ti fare illusione moglie baldracca provinciale
immagine di frode di bruttura e di male!
Il mondo andrà avanti ancora: è certo.
E tu sarai regina dell’avvenire incerto.
Finirà il mondo quando le tue ossa in polvere
recheranno la peste alla gente spermatizzata
coi tuoi pensieri che mai avesti nel pensiero
ma sol tenesti sulle cappelle degli amici tuoi
ignoranti di tutto − e pur dantisti.
Io − la dantiera che mi offristi −
te la ricambio in poesia.
La fine del mondo ci sarà
ignobile signora che un operaio impiccherà.
4 Ibid., vv. 1135-1146.
5 Vedi Marino e i Marinisti, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1954,

Quel giorno vorrò vederti penzolare
sul chiarore dell’alba popolare.
Avrai le gambette strette con le calzette.
Non sperare!
Ti guarderò senza farmi le pugnette.
Sarà finito per sempre − e così sia −
lo psico-tempo della spermafilia.
Fu il tuo tempo e quel dei tuoi amici,
della tua cara mamma (oh quale dramma!)
fu ’l tempo de’ tuoi ganzotti mangia pernici.
Non fu il mio tempo, né quel della mia mamma!
Si leverà il sole, e sul tuo fiume un giorno
scorrerà limpida l’acqua. La città intorno,
ormai redenta e netta, avrà lo sguardo
del poeta a riguardarla e a rimirarla.
Ritirerò il sonetto − te lo prometto.
Roma, 29 aprile 19606
L’eccezionalità della posizione di Delfini e la sua frequentissima
assenza dai luoghi deputati della poesia amorosa – che sembrerebbero
disposti ad accogliere solo testi contrassegnati dal felice coronamento
dell’impresa, o da più o meno malinconiche rimembranze
– ci induce a una seconda citazione (tra le molte possibili):
È mio dovere scrivere la mala poesia
Che infine, dopo tanto tempo porti
A te mala carente, moglie del corto
Tismico, sofilofo, una vera mala sorte.
Descrivere i mali di te, pagliaccio iettatorio,
Sarebbe ancor far del male a me e ad altri.
Sia in queste righe raccolto tutto il male che ti voglio.
Nominarti non posso e non mi piace.
Distaccare il tuo orribile pensiero dalla penna
E dalla carta è quanto qui si vuole e si descrive.
Voi spiriti del mondo, buoni e cattivi,
Liberate la terra dall’infame presenza
Del pagliaccio, dei suoi figli e discendenti!
Tutto il male che hanno fatto sarà dimenticato:
Per la decadenza del ricordo di un paese maledetto
Che tornerà a farsi nominare, solo quando
Lei, il pagliaccio rosso imbellettato, i suoi figli
E discendenti saranno scomparsi.
Questa è una pagina esclusiva per la polizia.
Poi la libertà e la luce torneranno. Così sia.
Grande è stato il mio coraggio!
A morte signora sporca dell’oltraggio!
Corro a mettere le mani nell’acqua per un tanto.
Ed il lettore poi faccia altrettanto.
Roma 24 novembre 19597
Ascanso di equivoci, e dunque per non cadere nella tentazione di
leggere i testi di Delfini come le patetiche auto-escoriazioni di un individuo
ridotto al limite della ragione dalla propria insanabile frustrazione,
ci sia concesso di riportare qui il penetrante (considerando
soprattutto gli anni in cui venne espresso) giudizio di Giorgio Bassani
che quelle poesie tenne a battesimo presso l’editore Feltrinelli:
“Ma la violenza, la passione selvaggia che Delfini rovescia ancora
una volta in queste sue scene di provincia, non avevano mai raggiunto,
prima d’ora, un grado di tale intensità. Scrollatosi di dosso

6 Macerata, Quodlibet, 1995, p. 119.

l’impegno di ‘raccontare’ il suo mondo di donnacole avide e adorabili,
di avvocati famelici, di tristi notai, ecc. (oh, i loro nomi e cognomi!), il
poeta riesce a darcene una rappresentazione incomparabilmente più
atroce, priva soltanto in apparenza del fren dell’arte. Manca a questa
poesia un’unica cosa: il tatto. Ma anche il primo Grosz non ne aveva:
e nemmeno Villon, e Campana, ai quali, e non solo psicologicamente,
Delfini si apparenta. Le sue parolacce, i suoi turpi calembours, i suoi
versi scempi e zoppi: ci par già di sentire la voce di chi gli rimprovererà
tutte queste cose, praticando, per distinguere la poesia dalla nonpoesia,
la solita vieta selezione dei contenuti e delle forme. Noi, dal
canto nostro, siamo del parere che ai poeti autentici, come ai santi, sia
concesso proprio tutto: la bestemmia, comunque, in primo luogo”8.
7 “È mio dovere scrivere la mala poesia”, Ibid., p. 60.
8 Milano, Feltrinelli, 1961, bandella di copertina. L’edizione più recente (e completa)
delle poesie di Delfini è stata pubblicata da Quodlibet di Macerata, nel 1995, con una
pregevole introduzione di Giorgio Agamben. Parole essenziali su Delfini ha scritto
Alfredo Giuliani sulla Repubblica del 22 settembre di quell’anno, da cui volentieri
stralciamo: “Il poeta lotta contro le parole e contro gli assassini degli uomini e delle
parole. Oscilla tra la disperazione furente e l’esaltazione: «È inutile distruggere gli
anni, / inutile la Gran Situazione: / Non c’è più salvezza - più niente. / Rivoluzione,
parola trombone» (scrive nel novembre 1958). - «Oggi sono il capo di una grande
rivolta. / Mi ascoltan gli uccelli nel cielo / mi ascoltano i cani stavolta!» (conclude
la poesia «Torna la libertà» dell’agosto 1959).Arendere abitabile il mondo che sta
finendo penseranno gli squadroni dei fedeli d’Amore, guidati da «una Bambina con
una rosa in mano», figlia di Guido Cavalcanti! Gli ignobili imperversano e le parole
del poeta sono la realtà: «Mercanti, banchieri, avvocati, ingegneri, cocchieri, / non
siete che polvere di rotti bicchieri, / di cui faremo carta vetrata per sfregiare la faccia
/ dei nostri irricordabili ricordi di ieri». Delle parole Delfini brucia le scorie morte:
«È mio dovere scrivere la mala poesia». Il suo anticanzoniere amoroso e civile è
una rivolta iperbolica contro gli oltraggi della vita-morte. Digrignando, il poeta se la
gode infilando nei versi collages, filastrocche oscene, deformazioni nominali, metaplasmi
e metatesi burlesche. Ma a tratti Delfini è mirabilmente patetico e preso da
una sbandata pietà per l’impazzare del Male. Pietà che, non sia mai, potrebbe colpirlo
per la «sozza e immonda» antibeatrice che è la sua musa alla rovescia: «Se tu
ti ammalassi e tu chiedessi pietà... / che orrore dovertela concedere che orrore! / Non

Da un corteggiamento naufragato, come da un amore cui uno solo
dei due protagonisti decide di porre fine, si può per altro uscire in
forma ugualmente acerba ma assai più garbata, come succede in Elio
Pagliarani, un poeta che tutti conoscono per il poemetto La ragazza
Carla ma che, qualche anno prima, aveva composto alcune tra le più
persuasive, nuove, e meno maschiliste liriche d’amore di tutto il XX
secolo. Eccone una rapida carrellata in cui il poeta, pur non rinunciando
all’idea che se una donna non ci sta, o decide di non starci
più, è perché non è all’altezza del sua amatore, si assume, quanto
meno in parte, la responsabilità del fallimento.
A dirli questi mesi sembra agevole
con il margine di rischio necessario
a chiamare la vita col suo nome:
primavera invocata tempestiva
fu tempesta, e in vista della terra
il naufragio balordo; giugno vissi
per non perderti; è di luglio
la più cupa speranza di riuscire
a fare della morte un’abitudine.
***
È già autunno, altri mesi ho sopportato
senza imparare altro: ti ho perduta
per troppo amore, come per fame l’affamato
che rovescia la ciotola, col tremito.
***
Io non ti lascio alibi, ti amo
con la crudeltà necessaria per rischiare
la tua vita perché la mia è in gioco
ti ammalare - ti prego - non ti rinsavire / non diventare santa non ti riscattare! / Sarebbe
veramente schifoso doverti perdonare. / La mia vendetta che domando per te
è questa: / come adesso sei e fosti, stronza resta!».

ma d’istinto ti sei ritratta
dice Luciano che non hai sufficiente
vitalità.
Di misurarti
a petto del mio amore ero certissimo.
***
Amici, spesso buoni mi deridono
Gianni sostiene che a leggere i miei versi
traspare che non amo e che non so
amare: se è vero un no [o no]
non ha sospetto che non so
vivere. Amore, e tu non vieni
ad insegnarmelo.
***
Il verso “quanto di morte noi circonda”
Apriva, e nella chiusa, isolato, bene in vista
“e tu sola della morte antagonista”.
Ma già prima del termine di giugno
la mia palinodia divenne sorte:
nessun antagonista alla mia morte.
E sono vivo, senza rimedio
sono ancora vivo9.
Maestro insuperato di questo escamotage (il poeta ha commesso
un errore innamorandosi di una donna che non è in grado di cogliere
l’eccezionalità del suo amore per lei) è Giacomo Leopardi che in
“Aspasia”, con piglio assai più provocante di quanto non lascerebbe
pensare la sfortunata immagine che circola di lui nelle cartolerie e,
ahimè, anche dentro le aule scolastiche, sceglie come destinataria del
9 Totale S.E. & O., in Inventario privato, Milano, Veronelli 1959, pp. 39-46.

suo canto proprio la persona alla cui malìa dice, senza risultare del
tutto convincente, di essersi sottratto dopo due anni di inaudite sofferenze
(“Così nel fianco / Non punto inerme a viva forza impresse
/ Il tuo braccio lo stral, che poscia fitto / Ululando portai finch’a quel
giorno / Si fu due volte ricondotto il sole”) e che, è lecito supporre,
non leggerà, o leggerà distrattamente i versi che il poeta, a posteriori,
le rivolge. Oltre a questo fatto del destinatario impossibile, o assente,
su cui torneremo, è utilissimo confrontare l’incipit del Canto,
in cui la memoria del passato ha tutta l’aria di un non cancellabile
presente:
Torna dinanzi al mio pensier talora
Il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo
Per abitati lochi a me lampeggia
In altri volti; o per deserti campi,
Al dì sereno, alle tacenti stelle,
Da soave armonia quasi ridesta,
Nell’alma a sgomentarsi ancor vicina
Quella superba vision risorge.
Quanto adorata, o numi, e quale un giorno
Mia delizia ed erinni! E mai non sento
Mover profumo di fiorita piaggia,
Nè di fiori olezzar vie cittadine,
Ch’io non ti vegga ancor qual eri il giorno
Che ne’ vezzosi appartamenti accolta,
Tutti odorati de’ novelli fiori
Di primavera, del color vestita
Della bruna viola, a me si offerse
L’angelica tua forma, inchino il fianco
Sovra nitide pelli, e circonfusa
D’arcana voluttà; quando tu, dotta
Allettatrice, fervidi sonanti
Baci scoccavi nelle curve labbra
De’ tuoi bambini, il niveo collo intanto
10 Poesie e Prose, a cura di MarioAndrea Rigoni,Milano, MeridianiMondadori,
1988, p.103.
11 Ibid., p. 106.
Porgendo, e lor di tue cagioni ignari
Con la man leggiadrissima stringevi
Al seno ascoso e desiato. Apparve
Novo ciel, nova terra, e quasi un raggio
Divino al pensier mio10.
con la chiusa del componimento dove, con un’incauta, ancorché
comprensibile, mossa retorica il poeta assicura la sua non corrispondente
che
L’incanto è caduto
E spezzato con esso, a terra sparso
Il giogo: onde m’allegro. E sebben pieni
Di tedio, alfin dopo il servire e dopo
Un lungo vaneggiar, contento abbraccio
Senno con libertà. Che se d’affetti
Orba la vita, e di gentili errori,
È notte senza stelle a mezzo il verno,
Già del fato mortale a me bastante
E conforto e vendetta è che su l’erba
Qui neghittoso immobile giacendo,
Il mar la terra e il ciel miro e sorrido11.
Sarà! Le cose non sono del resto tutte rose e fiori, e anzi sono
plumbee, anche nei casi in cui tutto fila liscio, o potrebbe filare liscio,
nei casi in cui tra gli amanti parrebbe esistere una “corrispondenza
d’amorosi sensi”, per dirla col Foscolo de I Sepolcri. Su
questa frase peraltro conviene riflettere un istante, alla luce delle
parole pronunciate da Diotima nel Simposio di Platone. Dev’essere

chiaro infatti che il rapporto tra Erastes ed Erômenos, non potrà
mai essere quello auspicato da Aristofane, per cui la metà di un
tutto primigenio andrebbe a spasso per il mondo a cercare l’altra
metà in cui crede di poter ritrovare tutto ciò che gli è venuto a mancare
nel momento della separazione, ma è configurabile soltanto
come un’attrazione ispirata da una profonda diversità che, lungi dal
fare finta che non esista, sarà opportuno sfruttare come fonte di
energia, di inventività, in una parola di conoscenza. Non si tratta
dunque di soddisfare esigenze (l’aver bisogno di), ma di stimolare,
tramite l’alterità, il gioco perenne dell’esuberanza, della spinta gioiosa
verso l’inconoscibile. Di questa lezione di Diotima che fa risalire
la nascita di Amore al connubio di Poros (espediente, risorsa,
inventiva) e Penìa (povertà miseria, mancanza), ha fatto tesoro Jacques
Lacan, in più punti della sua opera e, segnatamente, nel Seminario
VIII dedicato all’argomento del transfert dove scrive non
solo che amore consiste nel “donare quello che non si ha”, ma
anche nel “fare un discorso, offrire una spiegazione valida, senza
possederla”12.
Aprenderla col senno di poi, cioè di oggi, ovvero con quella inevitabile
punta di acribia struttural-linguistico-freudiana che ogni lettore
attrezzato alla lettura di testi poetici non può fingere di non
possedere, anche la più semplice poesia di seduzione (o di rinuncia)
non verrà certo al mondo sine labe concepta. Due, in particolare, di
questi peccati o complicazioni sembrano balzarci incontro, non proprio
come “in corsa giganti giovinetti”, ma con la stessa irruenza di
un non evitabile assillo.
La prima è che chi scrive d’amore per ottenerlo resta spesso impigliato,
in un confronto tra il godimento sempre parziale che amore
comunque gli procura, e il godimento totale che avrebbe esperito

12 Paris, Seuil, 1991. Vedi soprattutto alle pagine 146-49, Lacan ricorda tra l’altro
che il Mito di Poros e Penìa non è testimoniato da nessun altro testo antico
all’infuori, appunto del Simposio.

nella fase iniziale della propria esistenza, prima della separazione,
della cesura dal corpo materno di cui gli resta inconsapevole memoria.
Se il disincaglio dal godimento primario, irraggiungibile, non
avviene, e se il godimento parziale non viene accolto, realisticamente,
come l’unico possibile, la poesia d’amore non potrà che essere
una sequela di lamenti perché nessun amore potrà mai
equivalere a quello perduto, né potrà compensare della sua perdita.
Scandisce con grande abilità i toni di questa situazione, tra gli altri,
Eugenio Montale:
Lo sai: debbo riperderti e non posso.
Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni grido e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l’oscura primavera
di Sottoripa.
Paese di ferrame e alberature
a selva nella polvere del vespro.
Un ronzìo lungo viene dall’aperto,
strazia com’unghia i vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch’ebbi in grazia
da te.
E l’inferno è certo13.
Dall’elegia non si scappa, se non cambiando mestiere, come
hanno fatto Rimbaud e la sparuta banda dei suoi seguaci. Sì perché,
nei meno capaci, la canzone del lamento è, per chi ascolta, intollerabilmente
noiosa, anche quando procura un analgesico intontimento
a chi la canta e a tutti quelli che scelgono di immedesimarsi con lui.
È dunque necessario errare, nel senso di uscire dall’orbita della pro-
13 I Mottetti, in Le Occasioni, in Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Milano,
Meridiani Mondadori, 1984, p.139.
pria matrice, di andare in fuga, come dicono i corridori ciclisti, non
in tutte come fanno i brocchi, ma in quelle vincenti (e ripetibili),
come fanno i campioni.
C’è, si è detto, una seconda complicazione, ovvero il fatto che
credendo di amare B, A, che scrive d’amore, ama in realtà C (presto
o tardi però si scopre chi è il vero oggetto del proprio amore),
non solo, ma meglio (o peggio) ancora, succede che parlando a D
del proprio amore per B (o C), D che ascolta si innamori lui di B
o di C quando non addirittura di A che gliene parla. A questo genere
di tentazione il testo biblico dell’Esodo aveva cercato di
porre rimedio ricorrendo al comandamento del non desiderare la
donna d’altri, che non è facilissimo a mettersi in pratica. Si conoscono
casi di uomini che in realtà desiderano solo le donne
degli altri e si conoscono psicanalisti secondo cui il vero oggetto
d’amore sarebbero gli altri e non le loro donne, la qualcosa è
spesso una magra consolazione, per chi si vede portar via la propria
compagna. C’è perfino il caso di chi parla di queste cose per
interposta persona, come fa Orazio che, avendo dichiaratamente
escluso dalla cerchia delle proprie ispirazioni la poesia di guerra:
Nolis longa ferae bella Numantiae
nec durum Hannibalem nec Siculum mare
Poeno purpureum sanguine mollibus
aptari citharae modis
saevos Lapithas et nimium mero
Hylaeum domitosque Herculea manu
Telluris iuvenes, unde periculum
fulgens contremuit domus
Saturni veteris: tuque pedestribus
Dices historiis proelia Caesaris,
Mecenas, melius ducta per vias
Regum colla minacium

[Non volere ch’io adatti ai suoni della cetra
la lunga guerra contro la truce Numanzia
o Annibale ostinato o il mare siculo fatto
vermiglio di punico sangue
né i Lapiti crudeli o Ilèo avvilito dal troppo
vino o i giovani figli della terra piegati
dalla mano di Ercole al tempo che le sedi
fulgide dell’antico Saturno tremarono
per il pericolo. Dirà assai meglio la tua prosa,
o Mecenate, la storia delle campagne di Cesare
e i re legati per il collo e tuttavia minacciosi,
strascinati per le vie]
descrive arditamente a Mecenate l’amore che Mecenate stesso prova
per la propria moglie. Le “astuzie amorose” rilevate da Orazio in Licimnia,
inducono facilmente a pensare che il poeta sia pervaso da
una sua non tanto nascosta pulsione scopofilica. Il destinatario apparente
è Mecenate, quello effettivo Licimnia:
Me dulcis dominae Musa Licymniae
cantus, me voluit dicere lucidum
fulgentis oculos et bene mutuis
Fidum pectum amoribus,
Quam nec ferre pedem dedecuit choris
ec certare ioco nec dare brachia
ludentem nitidis verginibus sacro
Dianae celebris die.
Num tu quae tenuit dives Achaemenes
Aut pinguis Phrygiae Mygdonia opes
Permutare veils crine Licymniae,
plenas aut Arabum domos,

cum flagfrantia detorquet ad oscula
cervicem aut facili saevitia negat
quae poscente magis gaudeat eripi
interdum rapere occupet?
[Per me la musa vuole che si cantino
con dolcezza gli sguardi vivaci di Licimnia,
tua signora, e la corrispondenza fedele
del vostro reciproco amore.
Per lei la danza non era un affare indecoroso
né il parlare allegramente, né l’abbracciare
le vergini splendidamente vestite nel giorno
della festa di Diana.
Non mi dirai forse che tu scambieresti
i capelli di Licimnia con i tesori di Achemene
o coi ricchi e vasti campi della migdonia frigia
o con le case opulente degli arabi,
quando ella ai baci ardenti porge il collo o si suoi
ti nega fingendo una breve crudeltà? Ma più sarebbe
deliziata se invece di aspettarli fossi tu a rubarglieli;
e intanto è lei che te li ruba per prima]14
Ma non possiamo dipingere un’affresco mettendoci all’opera con
un solo colore, a meno di non essere ossessivamente minimalisti, e
questo non era il caso di Orazio. La sua tavolozza disponeva di una
gamma inesauribile di pigmenti, laddove molti dei suoi contemporanei,
scrivendo poesie d’amore, hanno solamente inteso ragguagliarci
intorno ai loro successi o insuccessi, rappresentando quindi
stati di estasi, di odio, di gelosia, di rivalità, di cecità e di frequenti
14 Carminum Liber II, 12.

paragoni tra le proprie fortune o disgrazie e quelle di altri impaniati
in non dissimili grovigli. Niente affresco, quindi, ma, proprio per non
sottrarci a tanta pruriginosa ricchezza, un altro momento di succulenta
incertezza nel rapporto sotterraneo tra chi ama (o amerebbe),
chi è amato, e chi scrive d’amore (il tutto sotto gli occhi, bien sûr, di
un marito vecchio e/o rimbecillito). Sospettoso e, anzi, certo dell’infedeltà
della propria donna, il neotero Tibullo scrive tra l’altro:
… iam Delia furtim
nescio quem tacita callida nocte fovet.
Illa quidem tam multa negat, sed credere durum est:
sic etiam de me pernegat usque viro.
Ipse miser docui, quo posset ludere pacto
custodes: heu heu nunc premor arte mea
[… non riesco a sapere
a chi segretamente, con astuzie, nel silenzio
della notte Delia concede i suoi favori. Difficile crederle
anche se lei lo nega. Non dice forse lo stesso di me
a suo marito. Ah me disgraziato che le ho insegnato a eludere
ogni vigilanza. Sono vittima della mia stessa astuzia]15
Questo di Tibullo è un buon esempio non solo di triangolazione, e
anzi, si è visto, di poligonia amorosa, ma anche del ruolo determinante
che nella scrittura poetica d’amore ricopre il destinatario che non sempre
è quello esplicitamente dichiarato (Mecenate, nel caso di Orazio,
Amore, nel caso di Tibullo16), ma quello cui si vuole far pervenire il
15 Elegiae, I, 6.
16 Ibid. “Semper, ut inducar, blandos offers mihi voltus, / Post tamen es misero
tristis et asper, Amor. / Quid tibi saevitiae mecum est? an gloria magna est / In

messaggio della propria struggente insufficienza (come canta Paolo
Conte in Azzurro: “mi sembra di non avere più risorse senza di te …
e allora quasi quasi prendo il treno e vengo da te…ma il treno dei desideri
dei miei pensieri all’incontrario va…tra la lalà lalà”).
Ora, se il ruolo (psicologico) del destinatario è chiaramente di primaria
importanza nel caso di scritture amorose di tipo A (seduzione),
nei casi di tipo B (riflessione amorosa), e ancora di più in quelli di scivolamento
e di trasformazione dall’uno all’altro, esso assume un ruolo
determinante nella motivazione stessa della scrittura. Di questo smottamento
hanno dato circospetta ma insospettabile testimonianza alcuni
dei maggiori poeti del nostro Duecento, i quali hanno abilmente mostrato
come senza un’accurata valutazione di tale ruolo e delle sue metamorfosi,
la decodificazione del messaggio risulti mutilata, sia che il
poeta si rivolga direttamente alla persona amata, sia che ne parli indirettamente
a qualcun altro. Cosa che, per esempio, non succede per la
poesia epica o per quella ispirata da un’esigenza etica, che insieme a
quella erotica formano, secondo che ne scrive l’Alighieri nel De Vulgari
Eloquentia, i tre campi di eccellenza per operare all’interno dei
quali è vero, giusto e salutare adottare le modalità formali del genere
tragico e quelle metriche della canzone17.
sidias homini conposuisse deum? ” [Sempre tu mi attrai con blandizie dipinte sul
volto / ma poi diventi lugubre e crudele, o Amore. Perché vuoi farmi del male?
Forse / deve gloriasi un dio, di mettere nei guai un uomo?].
17 Sed ommictamus alios, et nunc, ut conveniens est, de stilo tragico pertractemus.
Stilo equidem tragico tunc uti videmur quando cum gravitate sententie tam superbia
carminum quam constructionis elatio et excellentia vocabulorum concordat.
Quare, si bene recolimus summa summis esse digna iam fuisse probatum, et iste
quem tragicum appellamus summus videtur esse stilorum, illa que summa canenda
distinximus isto solo sunt stilo canenda: videlicet salus, amor et virtus et que propter
ea concipimus, dum nullo accidente vilescant. [Ma per ora ometto tutti gli altri,
e, come è bene fare per prima cosa, tratterò dello stile tragico. È evidente che lo stile
tragico viene usato quando eleganza dei versi, altezza della costruzione ed eccellenza
dei vocaboli sono in armonia con la profondità del pensiero. Se ben ricordo,
ho già provato che le cose somme sono degne di stare con il sommo. Poichè lo stile

Occorre dunque ribadire, per l’appunto, che nella poesia erotica
(patetica) c’è la differenza determinante del destinatario che la separa
dagli altri due argomenti. Di guerra e di morale si può parlare a chiunque,
e a intere popolazioni o anche a nessuno. Ma per quella d’amore
un destinatario ci vuole perché, altrimenti, lo specifico stesso dell’erotico
va farsi benedire. Se uno lo toglie di mezzo, la poesia perde
tanto la funzione dell’ottenimento dell’oggetto d’amore, quanto la possibilità
di trasformare la vicenda amorosa in una ricerca conoscitiva
delle sue vicissitudini e premesse. Una dicitura senza destinatario che
abbia amore per argomento sarebbe dunque, si vuol suggerire, una poesia
d’amore soltanto in apparenza, come cercheremo di mostrare più
avanti. Ma forse ciò non è, in realtà, neppure possibile.
Rientriamo dunque, ancora per un po’, nelle coordinate del triangolo
poeta, oggetto d’amore, destinatario. Dante ne ha fatto argomento del
proprio percorso evolutivo, trattandone diffusamente nei capitoli XVII,
XVIII e XIX della Vita nuova, opera della quale si possono dire la chiave
di volta. Dopo aver scritto “tre sonetti, ne li quali parlai a questa donna
…credendomi tacere e non dire più, però che mi parea di me assai avere
manifestato, avvegna che poi tacessi di dire a lei …”, e dopo essersi
chiesto “vergognoso…Poi che è tanta beatitudine in quelle parole che
lodano la donna mia, perché altro parlare è stato il mio?”, Dante, come
tutti, veramente, sanno, decide di porre fine ai propri dubbi e di cominciare
a parlare di Beatrice rivolgendosi (e mantenendo quindi viva la
fictio del destinatario) ad altre donne che hanno manifestato alcune perplessità
nei riguardi del suo comportamento.
Ne viene fuori una poesia meravigliosa in cui non solo prende
corpo l’idea che il “ragionamento”, e non la razionalizzazione, procuri
l’“isfogarsi” (la fuga? la fuga musicale?) della mente, ma viene
tragico è sommo tra gli altri stili, quegli argomenti già individuati come sommi devono
cantarsi con questo stile: essi sono la salvezza, l’amore e la virtù, e ciò che
viene pensato per essi, purché non siano sviliti da cose non necessarie e accidentali.]
De vulgari eloquentia II, iv, 7-8.
anche ribadito il concetto del destinatario insospettato, quello che si
innamora, ascoltando. Attenzione dunque “donne ch’avete intelletto
d’amore”, e cioè attrezzate alla lettura di un testo necessariamente
reticente, e sfacciato allo stesso tempo: potrebbe capitarvi d’incontrare
un Dante Alighieri che, parlando di Beatrice in un momento in
cui l’ardire di un tale fatto non l’abbandonasse, vi farebbe innamorare
tutte quante. Di chi? Di Dante, naturalmente, o, per contagio, di
chi prende in prestito le sue parole:
Donne ch’avete intelletto d’amore,
I’ vo’ con voi de la mia donna dire,
Non perch’io creda sua laude finire,
Ma ragionar per isfogar la mente.
Io dico che pensando il suo valore,
Amor sì dolce mi si fa sentire,
Che s’io allora non perdessi ardire,
Farei parlando innamorar la gente:
E io non vo’ parlar sì altamente
Ch’io divenisse per temenza vile;
Ma tratterò del suo stato gentile,
A respetto di lei leggeramente,
Donne e donzelle amorose, con vui,
Ché non è cosa da parlarne altrui.
Ho messo in corsivo, per dare maggior evidenza a queste prime
inquietanti osservazioni, i versi in cui si manifestano il programma
e le intenzioni dell’autore, il quale però, nel congedo della canzone,
sembra far rientrare dalla finestra ciò che era uscito dalla porta. Sì,
perché qui scopriamo che la destinataria della poesia è comunque la
donna del poeta e che le donne che hanno intelletto d’amore (e per
sopramisura, anche qualche “omo cortese”) servono solo da staffette,
per fare avanzare il messaggio di posta in posta, di stazione in stazione,
di orbita in orbita e fino al luogo misterioso in cui la donatrice
di beatitudine si trova in compagnia di Amore.

Arrivati a questo punto, per altro, dobbiamo tuttavia ammettere
di esserci sbagliati: il destinatario finale, a sorpresa, è Amore stesso,
e la canzone una de-cantazione dei meriti dell’amante, quasi un attestato
di benemerenza che ne faccia, in un futuro non lontano, un
legittimo frequentatore della corte di quel dio che ride e che piange
e che, come tale, non è sostanza, ma semplice accidente in sostanza.
Canzone, io so che tu girai parlando
A donne assai, quand’io t’avrò avanzata.
Or t’ammonisco, perch’io t’ho allevata
Per figliuola d’Amor giovane e piana,
Che là ‘ve giugni tu dichi pregando:
“Insegnatemi gir, ch’io son mandata
A quella di cui laude so’ adornata”.
Se non vuoli andar sì come vana,
Non restare ove sia gente villana;
Ingegnati, se puoi, d’esser palese
Solo con donne o con omo cortese,
Che ti merranno là per via tostana:
Tu troverai Amor con esso lei;
Raccomandami a lui come tu dèi.
Tale complicazione è assente, grazie a Dio, nel congedo della celeberrima
Ballatetta in Toscana, di Guido Cavalcanti, in cui le donne
aventi intelletto d’amore sono rimpiazzate da una sola “donna piacente,
/ di sì dolce intelletto / che vi sarà diletto /starle davanti
ognora”.
Si tratta, ovviamente, di una donna specialissima che Cavalcanti
non esita a trattare come una divinità. Egli infatti mette sullo
stesso piano il “ragionare”, lo “stare davanti” e l’ “adorare”, provocando
un corto circuito che in tempi di letture più maliziose
(puntuali?) gli sarebbe costato il rogo. Ma leggiamo insieme l’intero
congedo:

18 Torino, Einaudi, 1986, p. 139, n. 46.

Tu, voce sbigottita e deboletta
ch’esci piangendo de lo cor dolente
coll’anima e con questa ballatetta
va’ ragionando della strutta mente.
Voi troverete una donna piacente,
di sì dolce intelletto
che vi sarà diletto
starle davanti ognora.
Anim’, e tu l’adora
sempre, nel su’ valore.
Qui dunque non solo una donna mortale può essere adorata ma
l’adorazione consiste nel “contemplar ragionando”, la qualcosa lascia
di stucco e fa compiere un enorme balzo in avanti alla poesia
d’amore, un balzo non di semplice grado, ma di genere. Pur non essendoci
dubbi che, come ci ricorda Giuseppe De Robertis nella sua
magistrale edizione delle Rime di Guido Cavalcanti, “il verbo ‘adorare’
[…] estraneo al Dante lirico […] è presente nel lessico dei provenzali
[e] rifluirà di qui nei più tardi stilnovisti, Cino e Frescobaldi,
nonché naturalmente in Petrarca”,18 egli è pur vero che, in Guido (e
poi in Petrarca, di cui sarebbe il caso di ribadire un po’ più spesso la
filiazione cavalcantiana – il che non si dirà certo di Cino o di Frescobaldi
–) la carica semantica dell’ /adorare/ inserito nel summenzionato
Congedo introduce un concetto che rifonda il pensiero stesso
d’amore, non più come materia di redenzione, ma come occasione discorsiva
di conoscenza, di pensiero pensante.
Anche Dante, si dirà, conficca il verbo “ragionare” in una posizione
di grandissimo rilievo e, anzi, di assoluta preminenza, all’interno
del proprio testo, ma, la differenza con Guido non può sfuggire:
il ragionare di Dante riguarda una mente attiva, in controllo degli avvenimenti;
una mente capace di virare dal parlare a al parlare di,

come abbiamo appena visto. In Guido, invece, il ragionamento si
svolge intorno a una “strutta mente”, e il suo argomentare è affidato
a tre distinti interlocutori: alla “voce sbigottita e deboletta” di un
cuore dolente, all’“anima” e a “questa ballatetta”, che le tengono venturosamente
compagnia: una compagnia non peregrina, ma certamente
incauta.
Con Guido, dunque la poesia d’amore passa non solo dalla situazione
A alla situazione B, ma anticipa seriamente la situazione
C, il locus non tanto amoenus dove il destinatario non è più semplicemente
sovrapponibile al lettore, come nel caso di una missiva,
e dove l’autore, lungi dal tessere trame di significato, si limita
a proporre catene di significanti di cui poi, con pazienza, la propria
mente distrutta, adorando, contemplando, e cioè ragionando, tenterà
(fallendo ogni volta, ben inteso) di venire a capo. Questo ragionamento
ha tutta l’aria di una promessa del dire, quale da
insuperato maestro, ci ammannisce Gabriele d’Annunzio ne La
sera fiesolana.
Dopo avere auspicato che parole fresche (prima strofa) acquisiscano
il suono delle foglie etc. etc., e dopo essersi augurato che parole
dolci (seconda strofa) acquisiscano quello della pioggia etc. etc.,
la terza strofa esplode in un perentorio, “io ti dirò”:
verso quali reami
d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l’ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s’incùrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
19 Vedi Alcione, in Versi d’amore e di gloria II, a cura di Annamaria Andreoli e
Niva Lorenzini, Milano, Meridiani Mondadori, p. 430.

che ogni sera l’anima le possa amare
d’amor più forte19.
Non può sfuggire la martellante sequenza, e anzi l’incastro mozzafiato
di fonti che parlano nel mistero (sacro) dei monti, e del segreto
che non ci viene rivelato, naturalmente, e in grazia del quale
però le colline diventano labbra chiuse sì da un divieto, ma che, ciò
malgrado, la volontà di dire, che in loro comunque alberga, rende
consolatrici novelle e talmente efficaci che l’anima (riconoscente) le
può amare ogni sera “d’amor più forte”. In questo D’Annunzio, come
nel Guido della Ballatetta, in circostanze diversissime e addirittura
antipodali, conta dunque l’infinita gamma dei toni che il poeta reperisce
nel proprio impulso a dire, e il ruolo del destinatario/lettore (o,
più probabilmente, lettrice) resta funzionale allo svolgersi del discorso
poetico.
Con Donna me prega, una delle più commentate (e torturate) canzoni
d’amore di tutta la letteratura italiana, Guido Cavalcanti, per
tornare ai nostri dugentisti, fa compiere ai problemi del vocativo e
dell’interlocuzione, un vero salto in avanti. Qui la distanza tra destinatario
e lettore si affievolisce e, al tempo stesso si complica ulteriormente.
Se ne chiarisce altresì la funzione: scritto in apparenza
per rispondere alle richieste di una donna che, more solito, dobbiamo
supporre idonea alla ricezione e all’intelligenza del testo da lei sollecitato,
ma non necessiarmente a lei indirizzato, sorge anche l’ipotesi
(ma per secoli la si è sbandierata come una certezza), che Guido
abbia redatto la propria canzone in risposta ai quesiti contenuti in un
sonetto di Guido Orlandi, quesiti che Cavalcanti affronta nello stesso
ordine del proponente, e accogliendo nella canzone (come ha rilevato
il professor De Robertis) “ben 4 delle 5 rime […], una per strofa,
e […] ben 7 parole-rima”. Ma lo stesso De Robertis avverte come già
Guido Favati avesse messo in dubbio l’affermazione riportata in al20
De Robertis, op. cit., p. 90.

cuni manoscritti antichi, e trascritta nella Raccolta Bartoliniana, secondo
cui, col suo sonetto, Guido Orlandi si sarebbe rivolto a Guido
Cavalcanti, in nome di una donna – “… al qual sonetto G.C. rispose
con la sua divinissima Canzone” –, e ritenesse anzi il sonetto stesso
“un’interpolazione posteriore […], composto sulla falsariga e sull’onda
della canzone”20.
Nel congedo, dopo il tradizionale saluto di commiato alla canzone
stessa, “sì adornata / ch’assai lodata – sarà tua ragione”, Guido
si rivolge esplicitamente ed esclusivamente a “le persone – c’hanno
intendimento” parola, quest’ultima, assai cara al poeta, che non solo
lo distingue da chi al suo posto avrebbe usato “intelletto”, ma qualifica
anche in senso radicalmente nuovo il ruolo del destinatario che
comincia qui a coincidere con quello del lettore. Si inaugura in Guido
una separazione tra il destinatario (donna) che è l’occasione del testo,
cui viene sottratta l’esclusività della lettura (tale ancora il caso della
Ballatetta) e il destinatario/lettore effettivo (persona, e anzi persone
che hanno intendimento) il quale viene investito di un compito esegetico,
e quindi, non di una semplice decodificazione: intendere è
diverso da comprendere (intellegere) ciò che le parole nascondono.
Il progetto di Guido è infatti, la costruzione di un testo di sublime
esattezza terminologica, la cui lettura dovrà essere, per ciascuno, una
forma di partenza ulteriore, un tendere a una presunzione di verità
lontana da qualsiasi fumisteria orfica e avente però come destino
reale la percezione dell’irrapresentabile normalità di amore.
Da questo momento il rapporto tra il destinatario che il poeta
aspira ad attirare nella ragnatela del proprio testo (destinatario che
può anche essere assente, o comunque non dichiarato) e il lettore necessariamente
invocato, sarà la vera spina dorsale della lirica
d’amore. Mi sembra addirittura clamoroso, in questo senso, il caso
del leopardiano Pensiero dominante, in cui assistiamo a un sottilissimo
e struggente scivolamento dall’invocazione ad Amore inteso
come fonte privilegiata di espressione:

Dolcissimo, possente
Dominator di mia profonda mente;
Terribile, ma caro
Dono del ciel; consorte
Ai lúgubri miei giorni,
Pensier che innanzi a me sì spesso torni.
Di tua natura arcana
Chi non favella? Il suo poter fra noi
Chi non sentì? Pur sempre
Che in dir gli effetti suoi
Le umane lingue il sentir propio sprona,
Par novo ad ascoltar ciò ch’ei ragiona21.
all’evocazione di una figura concreta, che in questo caso, oltretutto,
conosciamo benissimo, non essendo altri che la stessa di Aspasia, e
che, passata da ricordo a pensiero, sembra sopraffare con la sua “assenza”
ogni invito alla lettura rivolto a terzi:
Quanto più torno
A riveder colei
Della qual teco ragionando io vivo,
Cresce quel gran diletto,
Cresce quel gran delirio, ond’io respiro.
Angelica beltade!
Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro,
Quasi una finta imago
Il tuo volto imitar. Tu sola fonte
D‘ogni altra leggiadria,
Sola vera beltà parmi che sia.
21 Vedi Poesie e prose, op. cit., p. 93.

Da che ti vidi pria,
Di qual mia seria cura ultimo obbietto
Non fosti tu? quanto del giorno è scorso,
Ch’io di te non pensassi? ai sogni miei
La tua sovrana imago
Quante volte mancò? Bella qual sogno,
Angelica sembianza,
Nella terrena stanza,
Nell’alte vie dell’universo intero,
Che chiedo io mai, che spero
Altro che gli occhi tuoi veder più vago?
Altro più dolce aver che il tuo pensiero?22
A proposito di questa scomparsa, in presenza di Amore, di ogni
pensiero o cura che non riguardi amore stesso, così scrive Leopardi
nello Zibaldone:
“Quando l’uomo concepisce amore tutto il mondo si dilegua dagli occhi
suoi, non si vede più se non l’oggetto amato, si sta inmezzo alla moltitudine
alle conversazioni ec. come si stasse in solitudine, astratti e facendo
quei gesti che v’ispira il vostro pensiero sempre immobile e
potentissimo senza curarsi della maraviglia nè del disprezzo altrui, tutto
si dimentica e riesce noioso ec. fuorchè quel solo pensiero e quella vista.
Non ho mai provato pensiero che astragga l’animo così potentemente
da tutte le cose circostanti, come l’amore, e dico in assenza dell’oggetto
amato, nella cui presenza non accade dire che cosa avvenga, fuor solamente
alcuna volta il gran timore che forse gli potrà essere paragonato”23.
22 Ibid., pp. 96-97.
23 Alla pagina 59 dell’autografo, conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli, e
puntualmente indicata, come tutte, in ogni edizione recenti dell’opera. Sul tema di
amore ritorna anche argutamente l’autore neLa storia del genere umano che apre le
Operette morali, dove si legge, tra l’altro: “Giove compassionando alla nostra somma
Se è vero che un destinatario amoroso, presente o assente, coincidente
o meno con il lettore, è sempre determinante nell’assegnazione
di un testo alla categoria “lirica d’amore”, non è, naturalmente
vero il contrario. Eugenio Montale, per esempio, un poeta che si era

infelicità, propose agl’immortali se alcuno di loro fosse per indurre l’animo a visitare,
come avevano usato in antico, e racconsolare in tanto travaglio questa loro progenie,
e particolarmente quelli che dimostravano essere, quanto a sé, indegni della sciagura
universale. Al che tacendo tutti gli altri, Amore, figliuolo di Venere Celeste, conforme
di nome al fantasma così chiamato, ma di natura, di virtù e di opere diversissimo;
si offerse (come è singolare fra tutti i numi la sua pietà) di fare esso l’ufficio
proposto da Giove, e scendere dal cielo; donde egli mai per l’avanti non si era tolto;
non sofferendo il concilio degl’immortali, per averlo indicibilmente caro, che egli
si partisse, anco per piccolo tempo, dal loro commercio. Se bene di tratto in tratto
molti antichi uomini, ingannati da trasformazioni e da diverse frodi del fantasma
chiamato collo stesso nome, si pensarono avere non dubbi segni della presenza di
questo massimo iddio. Ma esso non prima si volse a visitare i mortali, che eglino
fossero sottoposti all’imperio dellaVerità. Dopo il qual tempo, non suole anco scendere
se non di rado, e poco si ferma; così per la generale indegnità della gente
umana, come che gli Dei sopportano molestissimamente la sua lontananza. Quando
viene in sulla terra, sceglie i cuori più teneri e più gentili delle persone più generose
e magnanime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì pellegrina e mirabile
soavità, ed empiendoli di affetti sì nobili, e di tanta virtù e fortezza, che eglino allora
provano, cosa al tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza
di beatitudine. Rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando
l’uno e l’altro a un medesimo tempo, e inducendo scambievole ardore e desiderio
in ambedue; benché pregatone con grandissima instanza da tutti coloro che egli occupa:
ma Giove non gli consente di compiacerli, trattone alcuni pochi; perché la felicità
che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo superata dalla divina.
Aogni modo, l’essere pieni del suo nume vince per sé qualunque più fortunata condizione
fosse in alcun uomo ai migliori tempi. Dove egli si posa, dintorno a quello
si aggirano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate dalla consuetudine
umana; le quali esso Dio riconduce per questo effetto in sulla terra, permettendolo
Giove, né potendo essere vietato dalla Verità, quantunque inimicissima a
quei fantasmi, e nell’animo grandemente offesa del loro ritorno: ma non è dato alla
natura dei geni di contrastare agli Dei”.Vedi Poesie e prose, volume secondo, ibid.,
pp. 17-19.

sempre rivolto alla destinataria dei suoi versi d’amore (vedi il campione
riportato a pagina 135) con il pronome della seconda persona
singolare, “con Satura (1971) e le raccolte successive procede, bruciandola
con gli acidi dell’ironia, a una liquidazione della sua vicenda
di poeta”24, dichiarando di aver volutamente sparigliato i sensi
attribuibili a questo suo TU, e dando come un colpo di spugna al ruolo
cui lo aveva destinato inizialmente (e, con spiccata alacrità e sapienza,
nei Mottetti):
I critici ripetono,
da me depistati,
che il mio tu è un istituto.
Senza questa mia colpa avrebbero saputo
che i tanti sono uno anche se appaiono
moltiplicati dagli specchi. Il male
è che l’uccello preso nel paretaio
non sa se lui sia lui o uno dei troppi
suoi duplicati25.
Da questo masochistico gioco degli specchi, non sembra esserci
via d’uscita.Ameno che non si imposti il ragionamento sulla base di
una dialettica negativa, ovverossia di un dialogo aperto alle implicazioni
dell’assenza e ci si chieda se, per esempio, la poesia di Giuseppe
Ungaretti con cui abbiamo scelto di chiudere queste note, non
possa iscriversi anch’essa nel canone della lirica d’amore, pur non offrendo
nessuno spunto all’identificazione di un destinatario, o di un
lettore privilegiato, ma proprio per il fatto di non riuscire a non farne
immaginare o sospettare uno:
24 Testa, Enrico, Introduzione a Dopo la lirica, poeti italiani 1960-2000. Torino,
Einaudi, 2005, p. VIII.
25 Il tu, in Satura 1962-70, in Op. cit., p. 283.
26 Si tratta dell’ultimo coro de La terra promessa,1952-60, in Vita di un uomo:
Tutte le poesie, a cura di Leone Piccioni, Milano, Meridiani Mondadori, 1977.
L’amore più non è quella tempesta
Che nel notturno abbaglio
Ancora mi avvinceva poco fa
Tra l’insonnia e le smanie,
Balugina da un faro
Verso cui va tranquillo
Il vecchio capitano26.
Davanti a un testo del genere il lettore si trova completamente
solo e disarmato. Non ci sono né vocativi, né invocazioni. Neppure
si ravvisano destinatari nominati, pur essendo il contesto iscrivibile,
quanto meno in apparenza, in una trattatistica amorosa. Uno strano
sorriso di tranquillità si stampa sul volto di un capitano che affida la
traccia del sentimento che in lui suscita la propria condizione senile
a due brevissime strofe. Un lettore disattento alle implicazioni della
virgola che sospende, ma non chiude, la prima strofa, dello spazio
bianco da cui è seguita e, soprattutto del verbo /baluginare/ con cui
si apre la seconda e che, proprio per la presenza di questi due elementi
(la virgola e lo spazio bianco), si sottrae come predicato al soggetto
della prima (Amore), potrebbe inclinare al sospetto che
Ungaretti gli stia raccontando due volte la stessa triste storia di un impoverimento
delle risorse erotiche.
Ma se non è Amore che balugina, non può che essere, proletticamente,
il vecchio capitano. Possiamo, e anzi dobbiamo accogliere
questo suggerimento per due ragioni: la prima è che la prolessi è un
andamento stilistico tipico dell’autore, e la seconda è che a far baluginare
un vecchio capitano ci si guadagna di più (semanticamente),
che a far baluginare un faro e cioè una luce d’amore, in tarda, tardissima
età. Oltretutto, in questa prospettiva, il capitano viene a trovarsi
in una situazione contraddittoria: egli va verso un faro da cui

proviene. La qualcosa potrebbe contrastare alle leggi della dinamica,
ma non certamente a quelle della psicologia. Quanto al destinatario/
lettore, o lettore/ destinatario, lui, o direi, più plausibilmente, lei,
è sì, assente, ma non inesistente. Cosa impedisce infatti di collegare
la sua trasparente non evocazione alla nostalgia stessa di un pieno
possesso delle proprie facoltà, e della generosità, necessariamente
perduta, di farne partecipe l’altro da noi?
Ma c’è di più: non è forse possibile risalire dalla riconosciuta presenza
degli speciali ingredienti grafici e linguistici che danno forma,
nel testo, alla persistente ricerca d’amore, al desiderio di una consapevole
messa in comune del linguaggio, di quel pensiero, anch’esso
dominante, che dando senso e spinta alla vita dell’altro potrebbe,
unico al mondo, distoglierci dalle sciagure del credere di combaciare
con l’altro, per non dire dell’ubbidirgli o peggio ancora di combatterlo?
Ma questo amore è anche agape, una sete di giustizia, una ricerca
perenne di verità: eros di ogni gesto in ogni situazione,
raddoppio costante della posta in gioco. Un impossibile? Sì, ma con
l’avvertenza che non gli impossibili sono privi di realtà, bensì i possibili
destinati, per definizione, a rimanere tali presso coloro che non
scrivono sotto il magistero di Amore.
Lettura di fuoco

Giuseppe Palanti, manifesto pubblicitario per l’opera Francesca da Rimini di
D’Annunzio musicata da Riccardo Zandonai. Milano 1914.

II termine erotismo con tutti i suoi derivati comporta una pregiudiziale
che condiziona profondamente la nostra capacità di leggere
testi quali i Sonetti lussuriosi e le Sei giornate di Pietro Aretino (e non
scelgo quest’autore a caso) e l’Histoire de ma vie di Giacomo Casanova.
Nel caso specifico dei nostri autori l’interferenza maggiore deriva
dall’impressione che si ricava da una lettura troppo disinvolta
delle loro opere e dall’immagine di un Aretino o di un Casanova empi
pornografi e seduttori, assidui frequentatori di prostitute o abbietti
sodomiti (è il caso delle accuse rivolte all’Aretino) tramandataci dai
loro piú o meno noti nemici, detrattori o lettori e critici conservatori
o bigotti2.
Ma a questa nostra incapacità di leggere opere simili e alla pregiudiziale
tramandataci dalla storia letteraria – e non dimentichiamo
la notorietà che circonda la figura di Casanova anche fuori d’Italia e
che alla fine si riflette anche su quella nostrana – si assommano in
primo luogo quel livello di lettura dell’erotico, anch’essa nel nostro
caso fuorviante, imposta dalla psicoanalisi e dalla psicologia dell’eros
di stampo anglosassone cosí popolare negli ultimi decenni, e
soprattutto 1’esplosione violenta a livello di massmedia e la commercializzazione
selvaggia di tutto ciò che viene considerato erotico

Libri galeotti, letture proibite1
1 Riprendo, con alcuni aggiornamenti e aggiunte, il testo di una relazione presentata
presso la Fondazione Cini di Venezia nel 2000.
2 Si veda anche il mio saggio “La produzione erotica di Pietro Aretino”, in Pietro
Aretino nel cinquecentenario della nascita, Roma, Salerno, 1995, vol. I, p.
49 sgg.
e pornografico. Si rischia insomma di leggere quelle opere esclusivamente
attraverso questi filtri socioculturali e pertanto di lasciarsi
fuorviare dai parametri di uno studio obiettivo e scientifico. Le domande
che dovremmo invece porci vertono sulla strategia narrativa
dell’autore e sul rapporto tra le due opere e la produzione erotica
coeva e anche classica.
Parlando del fatto che ben pochi intellettuali anglosassoni della
seconda metà dell’Ottocento avevano il coraggio di dichiarare per
iscritto la loro simpatia per 1’autobiografia casanoviana (“There are
few more delightful books in the world than Casanova’s Memoires.
That is a statement I have long vainly sought to see in print”3) –anche
se Wendel Holmes o Thackeray ne avevano parlato come di un’autobiografia
ideale – Havelock Ellis, nel capitolo dedicato a Casanova
nella sua raccolta di saggi intitolata Affirmations, pubblicata a Londra
nel 1898, scriveva che: “Every properly constituted `man of letters’
has always recognized that any public allusion to Casanova
should begin and end with lofty moral reprobation of his unspeakable
turpitude”4. È passato quasi un secolo da quest’affermazione di Ellis,
ma 1’atteggiamento nei confronti di Casanova non è cambiato di
molto. Anche se negli ultimi anni si è assistito a un certo revival critico
dell’Histoire de ma vie, soprattutto in Italia e in Francia, la maggioranza
dei lettori e critici ha mantenuto la vecchia pregiudiziale
condannata da Havelock Ellis e ha preferito soffermarsi su Casanova
personaggio “libertino” piuttosto che dedicarsi all’analisi del suo linguaggio,
quello erotico in particolare. Offro due esempi: 1’antipatia,
il ribrezzo direi di Federico Fellini nel rappresentare il personaggio
di Casanova nel film omonimo; la recensione alla seconda edizione

H. Ellis, Affirmations, Boston e NewYork, Houghton Mifflin Company, 1922,
p. 86. Di Ellis si veda anche Casanova in Rome, in Venice, in Paris: An Appreciation,
Boston, J.W. Luce, 1924.
Ibid.
americana dell’Histoire, uscita sul quotidiano “Los Angeles Times”
in cui un’insigne collega parlava esclusivamente degli exploits sessuali
del nostro e della noia che la lettura di tutti questi amplessi le
aveva procurato.
Vorrei a questo punto definire i termini erotico, pornografico e
osceno in quanto, per ripetere una famosa frase di Henry Miller, “discutere
la natura e il significato dell’erotico o dell’osceno è quasi altrettanto
difficile che parlare di Dio”. Uso questi termini rifacendomi
alle definizioni suggerite da Roger Thompson nel suo saggio Unfit
for Modest Ears. A Study of Pornographic, Obscene and Bawdy
WorksWritten or Published in England in the Second Half of the Seventeenth
Century:
“I."

Pornografico, scrittura o rappresentazione che ha come scopo
quello di risvegliare desideri sessuali, di creare fantasie sessuali o di
alimentare desideri auto-erotici. Il pornografo al minimo mira all’erezione
nel pornofilo.

II.

Osceno, la cui intenzione è di scioccare o disgustare, o di rendere
il soggetto della scrittura scioccante o disgustoso...


III.

Erotico, destinato a collocare il sesso nel contesto dell’amore,
della reciprocità e dell’affetto...”5.
Per Thompson il termine erotico comprende tutti e tre questi tipi
di scrittura (ai quali egli ne aggiunge un quarto, bawdy): seguo la sua
definizione.
È in quest’accezione che gia Ellis, usando la parola amore, love,
per descrivere le molte passioni di Casanova, spiegava che si sen-

Pornographic, writing or representation intended to arouse lust, create sexual
phantasies or feed auto-erotic desires. The pornographer aims for erection (at
least) in the pornophile.

Obscene, intended to shock or disgust, or to render
the subject of the writing shocking or disgusting.

  Erotic, intended to place
sex within the context of love, mutuality and affection.

tiva di poterla usare non eufemisticamente in quanto, sebbene “Le
passioni di Casanova crescessero e maturassero con la rapidità nata
da una lunga esperienza in queste cose, talmente fresca è la vitalità
dell’uomo che sempre vi è una freschezza verginale in ogni nuova
passione”6, mentre Piergiorgio Bellocchio parla di “eros elementare
e arretrato”, e delle Memorie quali “manifestazioni-celebrazioni di un
appetito spettacolare, di una vitalità eccezionale quanto generica,
mentre il dato specificamente sessuale passa in secondo piano”7. Casanova
non è un semplice biografo dei propri exploits sessuali. Se
leggiamo il libro solo in questa ottica, esso diventa inevitabilmente
monotono, perché viene ridotto ad una lunga teoria di amplessi, 122
in tutto, ognuno dei quali occupa spesso numerose pagine. Casanova
è invece un maestro della scrittura erotica; una scrittura che dialoga
e si cimenta costantemente con sé stessa, con i grandi scrittori della
tradizione erotica occidentale, di cui il suo autore si considera erede
e epigone, e con il lettore raffinato, colto, che sa cogliere 1’essenza
di quella scrittura anche nel contesto di quella ricca tradizione, e lasciarsi
cosí trasportare dall’onda di una sensualità pura, naturale, piú
vera di quella vera proprio perché vissuta attraverso quelle pagine. Il
lettore può in questo modo rivivere, attraverso 1’io parlante, quelle
avventure per confondersi in esse. Il piacere del testo deriva da queste
due componenti inestricabilmente legate tra di loro.
In un’età in cui il trattato, la biografia e 1’autobiografia erotico/
scandalosi sono de riguer: offro solo pochi titoli esemplificativi;
Les galanteries angloises di Rustaing de St. Jory del 1700;
1’anonimo Colloque ou entretien de deux dames pubblicato a Dijon
nel 1712; gli anonimi Maria, ou les veritables memoires del 1765 e

Casanova’s passions grew and ripened with the rapidity born of a long experience
in these matters, so fresh is the vitality of the man that there is ever a virginal
bloom on every new ardour”.
P. Bellocchio, Introduzione a G. Casanova, Memorie scritte da lui medesimo,
Milano, Garzanti, 1976, pp. xii-xiii.
1’Histoire de la vie de la duchesse de Kingston del 1789; 1’Histoire
de ma vie è anche una sfida gettata alla letteratura erotica coeva e a
quella della tradizione classica, quella tradizione che l’antica enciclopedia
bizantina Suda fa partire addirittura da Astianassa, ancella
di Elena moglie di Menelao, e che trova il suo rappresentante piú illustre
nell’Aretino dei Sonetti sopra i XVI modi e delle Sei giornate.
Nell’Histoire de ma vie 1’interlocutore privilegiato, 1’autore che serpeggia
dietro la minuziosa descrizione di tanti incontri galanti è proprio
Pietro Aretino. Sono le Sei giornate che fanno da sfondo agli
amplessi tra Casanova, Lucrezia e la sorella di costei, Donna Angelica:
Cinque minuti dopo, guardando attraverso il buco della serratura, le
vidi entrare accompagnate da Don Francesco che accese loro una lampada
da notte e le lasciò. Si chiusero in camera, si sedettero sul canapé
e vidi che si spogliavano. Lucrezia, sapendo che potevo udirla,
disse alla sorella di andare a coricarsi dalla parte della finestra. Ed ecco
la vergine, che ignara d’essere osservata si spoglia nuda e in questa
condizione estremamente seducente passa dall’altra parte della stanza.
Lucrezia spegne la lampada da notte e le candele, e si corica anche
lei. Momenti felici che non spero piú di riavere ma di cui solo la morte
potrà farmi smarrire il dolce ricordo. Credo di non essermi mai svestito
piú in fretta. Apersi la porta e caddi tra le braccia aperte di Lucrezia
che disse alla sorella: “il mio amore, taci e dormi”8.
Angelica ovviamente non riesce a dormire e all’alba cade anch’essa
nelle braccia di Giacomo. L’autore ci costringe insomma a diventare
voyeurs, a guardare in un primo momento la scena delle due
giovani fanciulle che si denudano attraverso gli occhi di Casanova
che guarda dal buco della serratura, proprio come nelle Sei giornate,
ove il gioco combinatorio delle permutazioni sessuali tra chierici e

8 Casanova, Storia della mia vita, Milano, Mondadori, 1983, vol. I, p. 280.
monache non è semplicemente raccontato dalla Nanna, giovane novizia
appena entrata in convento: 1’autore ci costringe a guardare
quelle scene con gli occhi stessi della Nanna attraverso le fessure, i
buchi dei muri delle celle. Nell’Histoire però il gioco combinatorio è
legato all’atto del vedere, è piú allusivo e meno pesante di quello aretiniano.
II testo ci costringe prima a guardare attraverso gli occhi del
protagonista. Assistiamo poi agli amplessi di Casanova e Lucrezia attraverso
Donna Angelica, che degli amplessi è testimone insonne per
molte ore. E quando, dopo la lunga notte d’amore Angelica, spossata
ma felice, spinge Giacomo nelle braccia della sorella oramai eccitata
e pronta a tutto, è attraverso i suoi occhi – di Angelica dico – che assistiamo
a quest’ultima permutazione amorosa. In ambedue i casi non
siamo piú semplici spettatori, perché il ritmo del racconto, il linguaggio
allusivo, la presenza continua della voce del protagonista ci trascinano
fino ad identificarci con lui, a vivere con lui la scena. Scena
che si ripete con la moglie di Josouff, alla quale Casanova racconta la
notte da lui trascorsa a Costantinopoli con Ismail assistendo al bagno
delle sue donne, racconto che “la infiammò al punto da farla arrossire.
Velavo tutti i particolari che potevo – continua il nostro – ma quando
mi trovava oscuro la signora mi costringeva a spiegarmi meglio: d’altro
canto nonmancava di sgridarmi quandomi facevo capire, e mi diceva
che mi ero espresso con troppo chiarezza. Ero sicuro di riuscire
in quel modo a far nascere in lei delle fantasie a me favorevoli. Colui
che suscita desideri può facilmente vedersi condannato a spegnerli...”9.
Sono i Modi dell’Aretino, uno dei libri denunciati da Manuzzi al tribunale
dell’inquisizione (“il libretto dell’Aretino con le pose lubriche”)
10; lo stesso libro che nel gennaio del 1754 aveva usato con M. M.
per “passare il tempo”: “Intanto guarda questo libretto - dice Casanova
alla sua amante - che ho preso nel tuo salottino. Ci sono le pose amorose
di Pietro Aretino. In queste tre ore voglio provarne alcune”.

9 Ibid., p. 448.
10 Vol. II, p. 3.
“L’idea è degna di te - risponde 1’amata - Ma ve n’è che non si possono
eseguire, e anche di insulse”. “Vero - risponde Casanova - ma ce
ne sono quattro molto interessanti”. Occupammo cosí le tre ore, terminando
la festa quando udimmo suonare il pendolo”11. E ancora, sempre
con lamonaca M.M. mentre 1’altro suo amante guarda da uno spiraglio:
Ci mettemmo [...] uno accanto all’altro davanti a un grande specchio
diritto, passandoci un braccio dietro la schiena. Ammirando la
bellezza delle nostre immagini, e bramosi di goderne, lottammo in
tutti i modi, sempre in piedi. Dopo 1’ultimo scontro, ella cadde sul
tappeto di Persia che copriva il pavimento. Gli occhi chiusi, il capo
riverso, stesa sul dorso, le braccia e le gambe come se la avessero
staccata in quel momento da una croce di Sant’Andrea, sarebbe sembrata
morta se non si fosse visto il pulsare del cuore. L’ultimo abbraccio
1’aveva sfinita. Le feci fare 1’albero dritto e in questa posa
la sollevai per lambirle il ricettacolo dell’amore che non potevo raggiungere
diversamente volendo metterla in condizioni di divorarmi
a sua volta 1’arma che la feriva a morte senza privarla della vita12.
L’albero dritto è una delle posizioni dipinte a parole dall’Aretino in
uno dei suoi sonetti lussuriosi (probabilmente il quattordicesimo) e graficamente
da Giulio Romano nel disegno apposto al sonetto stesso.
Il cuore è facilmente sorpreso o avvelenato da un discorso che
contiene parole, espressioni o descrizioni capaci di destare, nella fantasia
di chi ascolta o di chi legge, immagini lascive, diceva agli inizi
del Seicento 1’autore di uno dei piú importanti trattati sull’erotomania,
conosciuto e citato fino a tutto 1’Ottocento, il medico francese Jacques

11 Vol. I, p. 1013.
12 Vol. I, p. 1005. E così anche con Elena e Edvige a Ginevra, alle quali, scrive
Casanova, “feci […] eseguire le posizioni più difficili dell’Aretino, e ciò le divertì
oltre misura”, vol. II, p. 1145.
Ferrand13. L’atto del pensare, del conoscere – ce lo insegna Dante nel
quinto canto dell’Inferno, quello del libro galeotto – è strettamente legato
a quello dell’immaginare, alla creazione di immagini mnemoniche,
di phantasmata. E dato che di tutti i sensi esterni, il più perfetto è
la vista, insegnava già Platone, sono soprattutto le immagini convogliate
dalla vista ai sensi interni dell’anima a formare la base della conoscenza
umana: “nihil homo potest intelligere sine phantasmate”, “l’uomo non
può capire, conoscere nulla senza immagine mnemonica”, aveva sentenziato
Aristotele e ripetuto San Tommaso. L’immaginazione (vis imaginativa
o phantasia: i due termini sono intercambiabili fino a tutto il
Rinascimento), era definita come quella facoltà interna dell’anima che
“rappresenta e conduce dinanzi all’intellettiva gli oggetti ricevuti dalle
spie esterne [i cinque sensi e soprattutto gli occhi, tradizionalmente chiamati
«spie dell‘anima»] [...] è a questi che si richiama la parte intellettuale
o conoscitiva della mente per formare le proprie conclusioni, che
spesso sono false perché 1’immaginazione offre dei rapporti non veri”.
È su questa premessa, qui semplificata al massimo, che si era sempre
combattuta la lotta contro quelle immagini che potevano essere interpretate
falsamente dall’uomo o quelle parole che potevano ridestare pericolose
immagini sopite.

Quest’ultimo assunto, se anche le parole
avessero il potere di risvegliare immagini o di crearne delle nuove, era
un tema dibattuto fino a tutto il Settecento e oltre da medici, filosofi e
teologi e non solamente in Italia.

Ho già menzionato l’episodio di Paolo
e Francesca.

Offro altri due esempi: La complainte de François Garin,
marchand de Lyon è un lungo poema di 2316 versi scritto e pubblicato
nel 1460 da François Garin, mercante di Lione. Quando il mercante
deve ammonire i figli contro i pericoli che assediano i giovani, dopo
aver insistito sul potere della natura che “domina ogni creatura” ricorda
che i piú grandi nemici della probità morale sono la pigrizia, 1’ubria-

13 De la maladie d’amour ou mélancolie érotique, ed. critica a cura di D. Beecher
e M. Ciavolella, Paris, Classiques Garnier, 2010. Ed. italiana, Erotomania,
a cura di M. Ciavolella, Venezia, Marsilio, 1995.
chezza e la “bestiale vita di concupiscenza”. Ma è essenziale, egli ammonisce,
che i giovani non si diano alla lettura di storie o di poesie che
parlino d’amore14.

Garin non usa il termine lussuria quando parla dei giovani; nel testo
non si trova una sola parola di denuncia contro le prostitute, le étuves,
o contro la prostituzione. “Il cedere agli slanci del cuore (che sono legati
alla lettura) – commenta Jacques Russiaud in un’attenta lettura del
testo – gli sembra infinitamente piú pericoloso [...] della propensione
alle voluttà carnali”15. In Inghilterra invece si discute ferocemente se
permettere che i termini e le espressioni relative agli organi sessuali
vengano tradotti dal latino dei trattati accademici in inglese. Dato che
1’immaginazione non smette mai di funzionare, ma anzi continua a
operare anche nei sogni, scrive Helkiah Crooke nella Microcosmographia,
1’immaginazione ha il potere di comandare le “facoltà motive”;
cio significa che i moti, le affezioni, le passioni e le perturbazioni dell’anima
sensitiva possono essere attivati dalle parole in inglese, e gli
organi genitali possono rispondere venendo “puffed up”, “enfiati”.
Quando i sensi e 1’immaginazione sono stati stimolati dal vocabolario
della sessualità, la passione - che qui è definita come “un movimento del
sangue [...] dovuto alla speranza del piacere” - può travolgere la Ragione16.
Nel Seicento Samuel Pepys nel suo diario scriveva:
I did read through L’escholle des Filles a lewd book, but what doth me
no wrong to read for information sake (but it did hazer my prick para
stand alt the while, and una vez to decharger); and after I had done it, I
burned it, that it might not be among my books to my shame17.

14 A cura di J. Russiaud, Lyon, P.U.I., 1978, vv. 1978 ss.
15 Ibid., p. 140.
16 Microcosmographia, London, 1631 (prima edizione London, 1616), p. 248.
17 The Diary of Samuel Pepys, a cusa di R.C. Latham eW. Matthews, Berkeley-
Los Angeles, University of California Press, 1970-76, 9 voll., vol. IX, pp. 57-59,
cap. 21. Si veda amche il mio articolo sulla “Produzione erotica di Pietro Aretino”
cit, pp. 61-63.
È questa, appunto, la filosofia del discorso erotico. Dipingere con
le parole delle immagini che possano rimanere impresse a fuoco nell’immaginazione,
che possano risvegliare i sentimenti più intimi
delle pieghe più riposte del cuore, che riescano a diventare oggetto
di conoscenza: ecco uno degli intenti, forse il piú ambizioso, che Casanova
si propone nella propria Histoire, ma soprattutto in quelle
parti che piú ne identificano la vitalità, 1’umanità piú profonda. Se i
Modi dell’Aretino si articolavano, anche se in maniera ancora sperimentale,
lungo il doppio asse di “libro di Satira” e di sfida nei confronti
della poesia erotica e delle immagini, disegnate da Giulio
Romano, alle quali i sonetti erano apposti; e se nelle Sei giornate egli
scriveva alla maniera dei trattati erotici del1’antichità e riscriveva i
grandi trattati sulle cortigiane e sull’amore, Casanova nutre un desiderio
ben più ambizioso. Egli vuole re-inventare il linguaggio dell’eros
sfidando, attraverso la sfida lanciata frontalmente al1’Aretino,
tutta la tradizione erotica; egli vuole scolpire e dipingere con la forza
delle sue parole quello che nessun altro era riuscito a dipingere o a
scolpire: la natura del proprio io, e quindi dell’homo eroticus. Perché
la vera natura dell’uomo, la sua vera, profonda umanità consiste appunto
in quell’erotismo primordiale, nudo e innocente.

Passioni clandestine

Silvio Pellico, "Francesca da Rimini", ragedia, Londra 1818. Frontespizio della
rara edizione clandestina che porta un falso luogo di stampa – Londra – per poter
sfuggire alla censura nei territori sotto il dominio austriaco.
Raccolta privata.
Trafitta dalle parole

Luigi Zanetti, La Francesca da Rimini dedicata a sua Eccellenza la principessa
Donna Maria Ercolani nata Malvezzi Protettrice della Arti. Bologna, 1835. Micrografia,
china su carta. Raccolta privata. Particolare.

Il virtuoso Luigi Zanetti dedicò alla nobildonna bolognese, che ebbe Rossini
come ospite fisso e diede rifugio e sovvenzione a tanti patrioti durante il Risorgimento,
la micrografia che disegnò in 36 giorni di lavoro componendo la
scena dell’uccisione di Francesca con la scrittura miniaturizzata di tutta la tragedia
di Pellico e dei canti quinto e trentatreesimo dell’Inferno dantesco.
Ancor prima che l’icona di Marianna, la bella e agguerrita francese
nata sugli spalti della Bastiglia, iniziasse a trionfare con il berretto
frigio nelle piazze del Bel Paese grazie a Napoleone, il cuore
degli italiani aveva già cominciato a palpitare per una eroina della Libertà
tutta nostrana: Francesca da Rimini.

Certo, la creatura dei versi
sublimi di Dante, la figlia di Guido da Polenta, sposa per procura a
Gianciotto Malatesti come vuole la tradizione letteraria, per cinque
secoli era stata relegata dalla cultura dell’ancien regime al ruolo di
lussuriosa tra le fiamme dell’inferno, conosciuta e amata da pochi, indicata
come emblema di un peccato da aborrire da molti.

Ma nel 1795, un anno prima dell’arrivo in Italia di alberi della libertà
al suono della Marsigliese, ecco un poemetto a lei dedicato da
un giacobino in fuga, il romano Francesco Gianni, trasformarla in

Francesca d’Italia: Francesca da Rimini dalla rivoluzione
giacobina a Trieste liberata. Centocinquanta cimeli in mostra
per il centocinquantenario dell’Unità d’Italia

Francesca d’Italia…, è il titolo della mostra che si è tenuta dal 15 marzo al 25
aprile presso il Museo della Città di Rimini organizzata dal Comune nell’ambito
delle celebrazioni del Centocinquantenario dell’Unità. La decisione di illustrare
con materiali documentari il ruolo di Francesca e del suo mito nel Risorgimento
italiano è scaturita quando la Va edizione delle “Giornate Internazionali Francesca
da Rimini” era già stata programmata e i tempi ristrettissimi per la realizzazione
della mostra non hanno permesso di dotarla del doveroso catalogo. La
pubblicazione di queste brevi note, quindi, vuol supplire in qualche maniera alla
mancanza, richiamando l’attenzione su di un tema, proposto con la mostra come
appunto, che certamente merita ulteriori e più approfonditi studi. I riferimenti bibliografici
su quanto trattato possono recuperarsi in F. Farina, Francesca da Rimini,
sulle tracce di un mito, “Romagna arte e storia”, anno XXVI, n. 78, 2006.


I materiali esposti appartengono a raccolte private ad eccezione dei cimeli n. 1
(Biblioteca Civica Gambalunga, Rimini) e n. 42 (Museo della Città, Rimini).
vittima innocente ed eroica di leggi crudeli e di un inganno matrimoniale
voluto dal bieco potere di un mondo spietato.

Ed ecco nascere ed esplodere l’eroina della dignità e del riscatto
da oppressioni, dell’amore eterno, della fedeltà, della passione che
tutto vince, anche la morte. Che ben presto diventa un mito romantico
per eccellenza grazie a centinaia e centinaia di artisti che, a partire
da Gianni, la celebrano in ogni forma espressiva: dalla poesia al
teatro, dalla musica alla pittura.

Un’eroina portatrice di valori positivi tutti italiani: amore, forza,
passione e coraggio.

Creatura ideale a infuocare i cuori dei combattenti per la rinascita
della Nazione che si stava attrezzando per liberarsi dai domini stranieri
e conquistare la sua unità e la sua indipendenza. Così, dagli inizi
dell’Ottocento fino a quando anche Trieste viene liberata nel 1918,
non c’è barricata e battaglia sul suolo italiano che non veda in prima
fila qualche patriota, artista o no, inneggiare alla “Bella di Arimino”,
al suo coraggio, alla sua bellezza e alla sua italianità.
E al suo mitico bacio. Bacio che con il celebre dipinto di Ingres
è in bella mostra nella quadreria di Gioachino Murat, nel cui proclama
del 1815 da Rimini compare per la prima volta il richiamo all’Indipendenza
italiana.

E’ nella quadreria della Malmaison con una
tela di Coupin de La Couperie ammirata da Giuseppina di Beauharnais.
E’ negli appartamenti real/imperiali parigini dove Francesco
Gianni declama le sue odi per la famiglia Bonaparte.
E’ nelle corde di Byron carbonaro a Ravenna che dedica la traduzione
in inglese dei versi del V canto all’amata Teresa prima di
andare a combattere per la libertà della Grecia.
E’ nel cuore di Silvio Pellico che scrive titolando a Francesca la
più celebre tragedia dell’Ottocento tradotta in tutte le lingue e rappresentata
in tutti i teatri del mondo.
E non c’è padre della patria, poi, che non abbia avuto a che fare
in una qualche maniera con l’affascinante Francesca nata giacobina
ma convertitasi alla bellezza e all’amore, anche di patria. Mazzini,
nell’incipit del suo primo scritto politico Una notte a Rimini nel

1831, la evoca insieme, in pari dignità, ai valori irrinunciabili della
nuova Italia, il Dante, il genio, l’amore, Dio e la libertà…
Garibaldi la incontra nelle vesti dell’eroina di Pellico al Teatro di
Montevideo quando, nel 1842, ancora colonnello, combatte per la libertà
dell’Uruguay con la sua Legione Italiana.
Cavour intrattiene con Francesca continui affari “diplomatici” affidando
alla celebre attrice Adelaide Ristori la missione di ingraziarsi
le simpatie per la causa italiana presso le corti russe e tedesche approfittando
della sue tournée teatrali con le quali affascinava principi
e generali nelle vesti della Francesca di Silvio Pellico. Attrice, la
Ristori, che il Conte Camillo definisce “Apostolo del regno d’Italia”
per i suoi impareggiabili servigi patriottici di ambasciatrice di italianità
nei salotti culturali di mezzo mondo, oltre che per l’impegno
sulle barricate della Repubblica romana del 1849. Diversi e non proprio
culturali, invece, i rapporti del “Re galantuomo” con le Francesche
del tempo. L’ancora giovane duca di Savoia, assiduo frequentatore di
camerini di teatro e delle attrici che ospitavano, si ritrovò con una
paternità, mai riconosciuta, di una piccola Emanuela figlia dell’attrice
Laura Bon, reginetta dei teatri piemontesi anche nei panni di
Francesca.

Vittorio Emanuele II a parte, Francesca che accompagna le pulsioni
dell’Ottocento italiano ed europeo volte a recuperare identità,
valori, culture e nazioni, non è una bellezza da alcova ma una donna
forte e decisa che lotta per il trionfo dell’amore e della passione, con
amore e con passione, paladina ideale di chi combatte, anche a costo
della vita, per la causa italiana, repubblicano o savoiardo che sia. Lo
testimoniano le schiere di artisti, celebri o sconosciuti, che, incantati
dal suo fascino, le hanno dedicato più di settecento opere tra il 1795
e il 1900. Opere entrate nel cuore e nelle case degli italiani che hanno
contribuito a mantener vivo ancor oggi, dopo due secoli dalla sua nascita,
il bisogno di lottare per la dignità, la libertà e il rispetto delle
persone, uomini o donne che siano. Valori irrinunciabili in una civiltà
degna di tal nome.

Il declino dei secoli bui: 1790, l’ultima invettiva
L’erudito marchigiano Cosmo Betti da Orciano, Marche, è un testimone
esemplare della cultura “ufficiale” dell’antico regime in fatto
di amore, di tradimento e di forza dei sensi. Nei versi di una sua monumentale
opera di imitazione dantesca edita nel 1793, evoca Paolo
e Francesca con una rappresentazione che riflette il bisogno di rendere
emblematica, per ferocia, la pena infernale da infliggere a chi,
come i due giovani riminesi, peccava di passione. Eccolo descrivere
i colpevoli come personaggi orrendi, ancor più di quanto la letteratura
antica – pietà, dolcezza e commozione di Dante a parte - avesse
fatto nei cinque secoli passati.
Infami/ non avran giammai riposo, | E in pena riuniti al brando
antico | Van detestando il libro insidioso. | Non di colombe-, cui desio
pudico | … | Due draghi son, cui passa pertinace | Lancia comun, e
offendonsi a vicenda | E colle zanne, e coll’unghia tenace.
Nell’invettiva di Betti sono ancora lontane quelle idee di libertà,
di autodeterminazione, di rispetto della vita e delle persone, che di lì
a poco, invece, la Rivoluzione francese inizierà a propagare come
un virus dalla potenza incontrastabile.

Dante Alighieri, Comedia,Venezia, Giovanni Giolito de Ferrari, 1536.
Edizione ornata da una serie di illustrazioni xilografiche tra le quali
Dante e Virgilio dinnanzi a Minosse e mentre ascoltano Francesca.
Biblioteca Civica Gambalunga, Rimini.

Cosmo Betti, La consumazione del secolo, poema, Lucca, Francesco
Bonsignori, 1793.
Nel poema dell’erudito marchigiano compare una feroce invettiva
contro Paolo e Francesca descritti come due draghi.

Francesca giacobina:

Francesco Gianni e l‘eroina della libertà

Come ormai noto, la prima opera a stampa specificamente dedicata
a Francesca da Rimini è il poemetto composto da Francesco
Gianni, celebre poeta giacobino in fuga, che, proprio per la sua fede
rivoluzionaria, non ha timore di dissacrare la costruzione etica e morale
della Commedia dantesca, così come veniva percepita ai tempi.
Nei suoi versi Gianni trasforma la “Bella di Arimino” penitente, peccatrice
adultera e lussuriosa del passato, in una donna vittima di
leggi inique e di un potere bieco che le hanno negato la libertà di
amare imponendole un matrimonio, non voluto, addirittura con l’inganno.
Figlia della Rivoluzione francese, rinata attraverso i versi di
Gianni, la nuova Francesca s’appresta così ad invadere l’Italia e divenire
il simbolo del riscatto, della libertà, della fedeltà all’amore e
della passione che tutto vince. Anche la morte. Non più traditrice,
ma eroina. E Gianciotto non è più un marito tradito, ma un “torvo”
assassino uxoricida e fratricida che ha ingannato una creatura innocente
e innamorata.

I francesi di Napoleone entrarono a Rimini il 5 aprile 1797 terrorizzando
la città papalina da tre secoli sotto il dominio della chiesa,
come narra Michelangelo Zanotti nel suo Giornale dei Rimino:

“La
loro vista atterrisce i riguardanti mentre più non videro aspetti sì truci
e fieri”. Il bando con cui si annunciava il nuovo regime repubblicano
aveva toni tranquillizzanti. Meno tranquillizzante l’aspetto delle
truppe dalla “faccia annerita resa ancora più tetra e spaventevole
dalla folta e lunga barba”.

Francesco Gianni, Francesca di Arimino, Firenze, Luchi, 1795.
Si tratta della prima opera nota dedicata specificamente a Francesca
da Rimini.

L’autore, celebre poeta improvvisatore, era stato costretto
a fuggire da Roma dopo l’eccidio di Basseville a causa delle sua fede
giacobina.

4. Francesco Gianni, Versi improvvisati, Firenze, Luchi, 1795-1796.
Raccolta di versi, tra i quali un autoritratto del poeta, con aggiunta
manoscritta di note, versi di probabile mano dell’autore.
5. Francesco Gianni, Ritratto, incisione tratta da “L’Album”, a. III, n.
31, Roma, 8 ottobre 1836.
6. Libertà e Uguaglianza. Bando a stampa che annuncia l’arrivo
delle truppe francesi nella città di Rimini e l’innalzamento dell’albero
della libertà. Rimini 5 aprile 1797.
Nell’intestazione compare un’immagine xilografica di “Marianna”
con il berretto frigio e il fascio, emblemi della rivoluzione.


Luigia Caravoglio, Discorso recitato nel circolo costituzionale di
Rimini… dalla citt. Luigia Caravoglio, Rimini, Marsoner, 1798. La
giovane, appartenente ad una famiglia di attori probabilmente arrivati
a Rimini al seguito dei francesi, descrive nel suo discorso le doti
ideali delle donne democratiche liberate dal giogo antico dalla repubblica.
Il circolo costituzionale a Rimini aveva sede nel convento
dei soppressi agostiniani.
8. Repubblica Cisalpina, Dipartimento del Rubicone, Richiesta di informazioni
su tasse prediali. Rimini 1798.

Repubblica Cisalpina, Dipartimento del Rubicone, Lettera all’agente
municipale di Macerata Feltria per l’occupazione del convento dei
francescani. Rimini 2 settembre 1798.

Eduardo Fabbri, Francesca da Rimino, tragedia, Rimini, Marsoner,
1822.
L’opera del patriota cesenate era considerata la prima opera dedicata
all’eroina riminese fino a poco tempo fa, fino al ritrovamento della
Francesca di Francesco Gianni. Era stata messa in scena a Milano
nel 1901 durante la Repubblica Cispadana alla quale aveva aderito.
Fabbri fu in rapporto con Foscolo, Monti, Manzoni e Litta. E’ nota
una corrispondenza anche con Francesco Gianni, che potrebbe aver
suggerito a Fabbri il tema di Francesca. Aderì con entusiasmo alla
carboneria e fu sospettato di essere anche un cospiratore massone.

Ritratto del poeta patriota Eduardo Fabbri. Da Eduardo Fabbri, Sei
anni e due mesi della mia vita, Roma, 1915.


Pio VII, Barnaba Chiaramonti. Medaglia papale straordinaria a. XV,
per la ripresa di possesso dei territori dello stato della chiesa dopo il
viaggio di ritorno dall’esilio che ebbe soste a Imola, Cesena e Rimini.
Incisione di Pasinati. Argento.
13. Napoleone indica al commissario del governo Monge di donare dei
cannoni alla Repubblica di San Marino. Incisione con veduta di fantasia.
Boulanger, d’apres Aubry, Lith. G. Motte, Parigi 1826.
14. Michele Rosa, Per la sperata apparizione di S.M.I.R. Napoleone Imp.
De’ Franc. e Re d’Italia. Iscrizioni a nome della Comune di Rimini,
Bologna, 20 giugno 1805. L’opuscolo riporta le concioni predisposte
per festeggiare una sosta a Rimini di Napoleone che mai avvenne.
15. Repubblica Cisalpina, Napoleone Bonaparte primo console, 14-15
giugno 1800. Medaglia celebrativa della Battaglia di Marengo e della
Restaurazione della Repubblica Cisalpina. Incisione di LAVY su disegno
di Andrea Appiani. Bronzo.
16. Repubblica Italiana, Napoleone Bonaparte. Medaglia celebrativa per
i Comizi a Lione che il 26 gennaio 1802 sancirono la nascita della
Repubblica Italiana. Argento. Incisione di Manfredini.
Rimini, Francesca, Murat:
il proclama del 1815 e il dipinto di Ingres
Nel 1812 il celebre pittore francesce Marie-Philippe Coupin de la
Couperie aveva esposto al Salon parigino il dipinto “Gli amori funesti
di Francesca da Rimini”, subito acquistato dall’imperatrice Giuseppina
per ornare la Malmaison. Nel 1814, Carolina Bonaparte,
sorella di Napoleone e moglie di Gioachino Murat re di Napoli, aveva
commissionato al celebre Jean-Auguste-Dominique Ingres una tela
“Paolo Malatesta et Francesca da Rimini” per farne bella mostra nella
sua galleria napoletana accanto alla “Grande Odalisca” e agli altri dipinti
con fascinose nudità creati per lei dallo stesso Ingres.
Più che a una coincidenza, queste due Francesche in casa Bonaparte
fanno pensare ad una competizione tra cognate invidiose su

di un tema che iniziava ad andare davvero di moda. Basti pensare
che Ingres eseguì ben diciassette repliche della sua tela per i sempre
più numerosi devoti del bacio della coppia di Rimini e che,
nella scelta del tema di “Francesca”, Ingres e Coupin de la Couperie
furono subito imitati da una folta schiera di pittori sia in Francia
che nelle altre nazioni europee.

Tra i tanti che proposero le loro
Francesche nella prima metà dell’Ottocento vi furono

Alexander
Evariste Fragonard,

Henri Decaisne,

Eugene Delacroix, il tirolese
Anton Koch, l

o svizzero Johann Heinrich Füssli e l’inglese

William
Dyce.

Francesca, Rimini e Murat sono legati anche dal celebre Proclama
di Rimini del 30 marzo 1815 che, per la prima volta nella
storia, incita gli italiani a lottare per l’indipendenza della nazione.
Con i suoi quarantamila soldati napoletani, dopo esser stato acclamato
Re d’Italia ad Ancona il 19 marzo, Gioachino aveva giurato
di respingere gli stranieri invasori “oltre i confini che la natura
aveva dato alla nazione”, dilaniata e “umiliata al servaggio” da
venti secoli. “Dall’Alpi allo stretto di Scilla odasi un grido solo:
L’indipendenza d’Italia”, recitava il documento che porta il nome
della città. Un grido, il suo, il primo in assoluto lanciato per una Italia
libera e unita, che, come sappiamo, allora fu raccolto purtroppo
da pochi. Un grido, un sogno, destinato a concludersi in un baleno
con le sanguinose vicende ben annotate nel libro d’oro del Risorgimento:
il 5 maggio l’armata napoletana venne sbaragliata al castello
della Rancia, tra Tolentino e Macerata; il 20 maggio
Gioachino ritornò a Napoli, di nuovo in mano ai Borboni, per fuggire
subito dopo in Corsica; l’8 ottobre sbarcò a Pizzo Calabro con
trenta uomini nel disperato tentativo di riconquistare il regno perduto,
ove fu catturato e fucilato il 13 ottobre, dopo soli sette mesi
dal suo sogno riminese.
Un sogno e un proclama che, se non ebbero effetti immediati e
concreti, si posero però tra i pilastri su cui s’andò a costruire la tanto
sofferta e combattuta unità della nazione.
Un sogno e un proclama che colpirono al cuore “grandi” come

Alessandro Manzoni che nella sua celebre canzone che porta proprio
il titolo “Proclama di Rimini, 1815”, al verso 34 recita:
“liberi non sarem se non siam uni”.

Gioachino Murat, Principe francese. Medaglia celebrativa delle sue
imprese. Al rovescio è incisa la cronologia degli eventi e della vita
di Murat. Conio postumo. Bronzo.
18. Gioachino Murat, Re di Napoli e della Sicilia. Medaglia premio per
la scuola di belle arti del 1811, coniata a Napoli. Argento.
19. Dominique Ingres, Francesca di Rimini, incisione, Parigi, Grégire,
1844. Il dipinto dal quale è tratta l’incisione, era stato acquistato, e
forse commissionato, da Carolina Bonaparte, sorella di Napoleone e
moglie di Gioachino Murat attorno al 1814, quando aveva commissionato
al pittore francese la grande “Odalisca”.
20. Dominique Ingres, Françoise de Rimini, incisione di Didier, Parigi,
A. Salmon, 1847.
21. Dominique Ingres, Françoise de Rimini, Litografia di Aubry Lecomte
tratta dal dipinto di Ingres del 1819, Parigi, C. Motte, 1834.
22. Gioachino Murat, Decreto di concessione ai Fratelli di S. Giovanni
di Dio. Bologna, 3 febbraio 1814. Foglio manoscritto.
23. Gioachino Murat, Proclama di Rimini, Rimini, 30 marzo 1815. Tutti
gli studiosi sono sempre stati concordi nell’affermare che il primo
programma di rivendicazione dell’indipendenza, della libertà e dell’unità
nazionale apparso sulla scena italiana, è il documento noto
come il “Proclama di Rimini”. Uno storico proclama che il re generale
Gioachino Murat aveva lanciato mentre s’apprestava a invadere
l’Italia del nord e a combattere gli invasori austriaci nel disperato
tentativo di sopravvivere alla disfatta di suo cognato Napoleone. Con
i suoi quarantamila soldati napoletani, dopo esser stato acclamato
Re d’Italia ad Ancona il 19 marzo, Gioachino aveva giurato di respingere
gli stranieri invasori “oltre i confini che la natura aveva dato
alla nazione”, dilaniata e “umiliata al servaggio” da venti secoli.
L’importante documento murattiano, noto in due versioni tipografi-

che –a una e a due colonne, ambedue con lo stesso testo-, fu accompagnato
anche da un bando lanciato ai soldati, datato anch’esso
Rimini 30 marzo 1815, che incitava a una guerra “d’Onore e di Fedeltà
…per le libertà, per l’indipendenza della patria, pel trionfo dé
principi liberali messi in bando dà vostri nemici…”. Quando la storiografia
risorgimentale andava di moda, s’è discusso per molto
tempo se il proclama fosse stato diffuso proprio il 30 marzo, il 31 o
il 2 aprile, come sembrano far presumere i cronisti riminesi del
tempo Giangi e Zanotti; se le sue accorate parole si devono al grande
patriota Pellegrino Rossi, o agli altrettanto patrioti Francesco Saverio
Salvi, Francesco Poerio o ad altri consiglieri di Gioachino. Disquisizioni
erudite, certo importanti, ma che per nulla incidono sullo
straordinario valore storico e ideale di questo documento, che traccia
le fondamenta di un processo iniziato dopo la tempesta napoleonica
e conclusosi quasi cinquant’anni dopo, lanciato proprio da
Rimini.
24. Alessandro Manzoni, Il Proclama di Rimini, Frammento di canzone,
aprile 1815. Foglio volante. La poesia di Manzoni, scritta subito
dopo il bando di Murat, sarà diffusa nell’aprile del 1848 assieme a
Marzo 1821.
25. La pubblicazione del Proclama di Rimini, incisione di Edouardo Matania
da F. Bertolini, Storia del Risorgimento Italiano. Milano, Treves,
1886.
26. D’Ambrosio, Proclama ai romagnoli per combattere per la gloria,
l’indipendenza e la libertà, Faenza, 2 aprile 1815. Dopo pochi giorni
dal Proclama di Rimini, anche il generale Angelo D’Ambrosio comandante
delle truppe murattiane, avanzando verso nord, lancia un
appello ai romagnoli per unirsi alle truppe napoletane nella lotta per
l’indipendenza.
27. L’arresto di Murat a PizzoCalabro. Incisione in “Il Fotografo, Giornale
illustrato”, a. I, n. 15, Milano, 6 ottobre 1855.
28. La fucilazione di Murat. Incisione in “Cronaca italiana dal 1814 al
1850”, Firenze, Dini, 1852.

Francesca clandestina:
Pellico e l’Italia dei prodi

Silvio Pellico, con la sua Francesca rappresentata per la prima
volta al teatro Re di Milano il 18 agosto 1815 dalla compagnia di
Carlotta Marchionni e del riminese Luigi Domeniconi, aveva appannato
il successo delle tante Francesche già apparse nei teatri,
presso i librai o nei saloni d’arte. Almeno quindici, dal 1795 fino a
quel momento, tra opere letterarie, musiche o dipinti. E tutte composte
da patrioti, carbonari e cospiratori per la libertà.
L’esordio di Pellico avvenne sei mesi dopo il Proclama di Rimini,
tre mesi dopo l’abdicazione di Napoleone e la restaurazione imposta
dal Congresso di Vienna. E certo non è un caso.
Anche se fu necessaria una edizione clandestina con un falso
luogo di stampa “Londra 1818” (in realtà la stampa avvenne a Novara)
per circolare senza incorrere nella feroce censura di papalini e
austriaci, la creatura del futuro prigioniero allo Spielberg deve le proprie
fortune alla sua relativa “moderazione” e alla conseguente relativa
facilità di essere accettata anche nei luoghi e nelle città ancora
sotto il giogo dei tiranni. I primi autori che, a partire dal Gianni, avevano
dato autonomia alla Bella d’Arimino l’avevano proposta, infatti,
come donna fedele alle sue passioni, coraggiosamente
affrancata dalla morale corrente. L’avevano rappresentata praticamente
come una sovversiva, temibile, quindi, per una società dalle
regole consunte ma ancora ben radicate. La Francesca di Pellico si
proponeva, invece, come donna ricolma di pudore, d’amor filiale, di
fedeltà domestica anche se le passioni e la loro forza non le mancavano.
Anche in lei l’istinto era forte, ma per lei le regole della pudicizia
e delle virtù erano invalicabili. Era una Francesca che
rappresentava la nobiltà d’animo di chi, vittima di inganni e offese
nell’esigenza più intima dell’amore, aveva risposto all’ingiustizia,
molto romanticamente, con la morte, e aveva sacrificato il proprio
amore ai doveri di sposa e di cognata. Una Francesca virtuosa, patriota,
nobilmente e moderatamente rivoluzionaria e, quindi, social-

mente non pericolosa. Le uniche parole dichiaratamente patriottiche
si incontrano infatti alla terza scena:
Per chi, di stragi, si macchiò il mio brando?
Per lo straniero. E non ho patria, forse,
Cui sacro sia de’ cittadini il sangue?
Per te, per te, che cittadini hai prodi,
Italia mia, combatterò, se oltraggio
Ti muoverà l’invidia. E il più gentile
Terren non sei di quanti scalda il sole?
D’ogni bell’arte non sei madre, o Italia?
Polve d’eroi non è la polve tua?
Un’opera e un personaggio, comunque, destinati al successo.
Anche internazionale.
Pellico restò sempre legato alla prima e straordinaria interprete
della sua Francesca, la bella attrice Carlotta Marchionni della cui
sorella era innamorato. Ne “Le Mie Prigioni” ricorda il saluto affettuoso
che la Marchionni gli dedicò a Udine in un’alba uggiosa, mentre
lui e l’amico Pietro Maroncelli venivano tradotti in catene verso
la prigione austriaca di Spielberg.
Le edizioni di Pellico ebbero successo per tutto l’Ottocento e vennero
tradotte in francese, inglese e tedesco.
29. Francesca carbonara. Silvio Pellico, Francesca da Rimini, tragedia,
Milano, Giovanni Pirotta, 1818. Prima edizione a stampa della celebre
opera del patriota piemontese messa in scena per la prima volta
al Teatro Re il 18 agosto 1815 dalla compagnia Carlotta Marchionni
e Luigi Domeniconi, il celebre attore riminese.
30. Silvio Pellico, Francesca da Rimini, tragedia, Londra, 1818. Rara
edizione clandestina con falso luogo di stampa – Londra – per poter
sfuggire alla censura dei territori sotto il dominio austriaco.
31. Carlotta Marchionni. Medaglia in onore dell’attrice, prima interprete
della Francesca da Rimini di Silvio Pellico, dedicatale per i suoi spettacoli
bolognesi del 1822. Bronzo.

32. Ulivo Bucchi, Francesca da Rimini, tragedia, s.l., 1813. Scrittore
toscano, dichiara in premessa alla sua Francesca il suo impegno per
la rinascita d’Italia.
33. Giraldo Giraldi, Madonna Francesca, in Novelle di Giraldo Giraldi
fiorentino per la prima volta date in luce, Amsterdamo, 1819. Giraldo
Giraldi è lo pseudonimo di Gaetano Cioni, linguista, docente di fisica
all’Università di Pisa, novelliere. Cioni aderì alla rivoluzione napoleonica,
fu priore della magistratura fiorentina, segretario del Triumvirato
toscano e commissario straordinario per la Lunigiana dal 1891 al 1803.
Accolse Leopardi nel suo soggiorno a Pisa. Fu in corrispondenza e in
rapporto di amicizia con Alessandro Manzoni e con Nicolò Tommaseo.
34. Paolo P. Pietro Generali, Francesca di Rimini, dramma per musica,
Venezia, Casali, 1829.
35. Luigi Bellacchi, Francesca di Rimini, tragedia, Siena, Porri, 1824.
36. Antonio Morrocchesi, Dante in Ravenna, tragedia, Firenze, Ciardetti,
1822.
37. Silvio Pellico, Francesca da Rimini, tragedia, incisione in antiporta
di L. Terzaghi da dipinto di G. Bezzuoli, Torino, Schiepatti, 1830.
Prima edizione illustrata.
38. Ritratto di Silvio Pellico in una incisione di Santamaria da disegno
di Barbieri, in Silvio Pellico, Opere complete, Milano, Pagnoni,
1876.
39. Silvio Pellico allo Spielberg, incisione di Ballagny su disegno di G.
Moricci, Firenze, s.d. (1880 c.a).
40. La bocca mi baciò tutto tremante, incisione di Francesco Marcolini
su disegno di Bartolomeo Pinelli. Circa 1823.
41. Silvio Pellico, Francesca da Rimini, Copione di scena manoscritto,
s.l., s.d., post 1818.
42. Clemente Albéri, Paolo e Francesca sorpresi da Gianciotto, olio su
tela, 1828. Rimini, Museo della Città. Clemente era nipote del celebre
Eugenio e, come questi cresciuto in un ambiente famigliare
impegnato nella causa italiana.
43. Jessie W. Mario, Della vita di Giuseppe Mazzini. Opera illustrata
con ritratti e composizioni d’insigni artisti, Milano, Sonzogno, 1886.

44. Resoconto del Conte Bentivoglio Comandante delle truppe pontificie
sui fatti della Battaglia di Rimini. Bando a stampa. Rimini 30 luglio1831.
45. Notificazione del Card. Giuseppe Albani sul recupero della sovranità
pontificia nella città di Rimini e nelle altre città della Romagna.
Bando a stampa. Forlì 25 gennaio 1832.
46. Thomas Roscoe, The tourist in Italy, London, Jennings and Chaplin,
1831. Raffinata “guida” per viaggiatori colti, contiene una incisione
di Prout con il panorama di Rimini e la descrizione della città nella
quale, tra le cose notevoli, è descritta con rilievo la tragedia di Paolo
e Francesca.
47. Antonio Vesi, Rivoluzione di Romagna del 1831, narrazione storica
della battaglia delle Celle, Firenze, 1851.
La giovine musa:
Mazzini e quella notte a Rimini del 1831
…Eravi un sorriso in quel cielo azzurro, in quelle stelle aggruppate
come giovani fanciulle. Eravi un alito, una voce d’amore nell’aria,
nel fremito delle foglie, nel mormorio dell’acqua, che dolcemente
scorreva tra la verdura. Era una notte fatta per rammentar
Francesca, il Dante, il genio, l’amore, Dio e la libertà.….
L’incipit del primo scritto politico di Giuseppe Mazzini, Une nuit
de Rimini en 1831 che narra gli eroismi della Battaglia delle Celle del
25 marzo 1831, non lascia dubbi. Tra i valori del vero italiano, accanto
alle idealità somme di sempre e alle nuove da conquistare come
la Libertà, c’era lei, Francesca, la nuova Francesca. Non ricompresa
nell’opera del suo creatore, Dante, ma accanto a lui, accanto ai geni
di quell’idea di Italia per i quali Mazzini, e tanti rivoluzionari come
lui, stavano combattendo. Rivoluzionari e cospiratori che, seguaci di
Napoleone prima e poi dell’esule genovese, di Garibaldi o di Cavour,
ne avevano fatto una sorta di Marianna italiana la cui fama si ali-

mentava soprattutto nelle rivendite, nelle consorterie e nelle logge
carbonare e massoniche.
Francesco Gianni, che trattò per primo Francesca riscattandola
dal peccato e trasformandola in eroina, fu seguito da un vero e proprio
stuolo di artisti-patrioti che ne fecero il vessillo delle loro battaglie
con poesie e commedie, inneggiando a una italianità dalle
radici nobili e antiche, da liberare da oppressioni e da violenze. Patrioti,
rivoluzionari, carbonari, cospiratori, comunque spiriti liberi,
legati tra loro oltre che dal comune denominatore dell’Amor di Libertà,
spesso anche dal carcere di governi liberticidi o dall’esilio. Legati
da una rete di relazioni che si trasformava, al bisogno, in una
sorta di mutuo soccorso internazionale. Una rete che, con o senza società
segrete carbonare o massoniche, dopo la caduta di Napoleone
aveva congiunto uomini e idee di qua e di là delle Alpi, di qua e di
là della Manica.
Tra gli artisti autori di opere dedicate all’eroina riminese, numerosi
quelli che parteciparono ai moti del 1831: Caterina Franceschi
Ferrucci scrittrice ed educatrice; Filippo Mordani, storico ravennate,
carbonaro e massone; Gustavo Modena, attore, amico di Mazzini e
aderente alla Giovine Italia, eletto alla costituente romana del 1849,
poi esiliato; Filippo Pistrucci, poeta improvvisatore romano e disegnatore,
anch’egli, insieme al fratello, celebre incisore, amico di
Mazzini. Achille Castagnoli, giornalista e scrittore romagnolo, autore
di una Francesca stampata a Firenze nel 1841, tra i rivoltosi del
1831, fu invece un personaggio discusso. Nonostante avesse sempre
espresso nei suoi scritti ferme opinioni antipapaline e nonostante
fosse legato alle sette rivoluzionarie romagnole, fu contestato e sospettato
di delazione e doppiogiochismo. Mazzini lo definì “tristo
uomo”, Orsini “delatore”, D’Azeglio “ribaldo”. Condannato nel
1842 a vent’anni di reclusione perché carbonaro, fu liberato dall’amnistia
di Pio IX. Ciò nonostante, Rossini, Pacini e Donizetti si
erano offerti di portare in melodramma la sua “Francesca da Rimini”
e di rappresentarla alla Fenice di Venezia.
La notorietà di Francesca era, nel primo quarto dell’Ottocento,

già internazionale. Lo dimostra, tra le tante testimonianze, il popolare
manualetto per raffinati grandturisti inglesi, The tourist in Italy di
Thomas Roscoe che, tra le cose notevoli di Rimini, pone la vicenda
di Paolo e Francesca.
Forte fu l’eco, non solo in Italia, della Battaglia delle Celle del
1831, così come forte fu la reazione degli austriaci e del papa per reprimere
sommosse e fermenti patriottici.Adirigere la “pacificazione”
fu incaricato il Cardinal Legato di Urbino e Pesaro, lo spietato cardinale
Giuseppe Albani, urbinate, già segretario di stato, che fu nominato
da Gregorio XVI Commissario straordinario delle quattro
legazioni.
48. Giuseppe Mazzini, Una notte di Rimini nel 1831, con aggiunta di
varie poesie di Francesco Campedelli, Firenze, Giovanni Benelli da
S. Felicita, 1849.
49. Ritratto di Giuseppe Mazzini. Autore anonimo. Olio su tela.
50. Gregorio XVI, medaglia straordinaria per la fondazione del museo
egizio. Incisione di Pietro Girometti. Bronzo. 1839.
51. Uccisione del principe Luigi Napoleone nei pressi di Rimini, incisione
acquerellata da un libro illustrato tedesco. Circa 1840. Luigi
Napoleone (1804-1831), era figlio di Luigi Bonaparte e di Ortensia
di Beauharnais, principe ereditario di Olanda, fratello di Carlo Luigi
Napoleone, poi Napoleone III. Affiliato alla carboneria, morì il 17
marzo 1831 combattendo con i rivoltosi delle Provincie Unite nei
pressi di Rimini pochi giorni prima della battaglia delle Celle.
52. Battaglia di Rimini del 25 marzo 1831. Litografia acquerellata, circa
1840. I liberali del generale Zucchi schierati alle porta della città
contro le avanguardie austriache.
53. Battaglia di Rimini del 25 marzo 1831. Fatto d’armi avvenuto presso
Rimini la sera del 25 marzo 1831 fra gli avamposti dei liberali e
l’avanguardia dell’armata austriaca. Litografia di Cesare Mauro
Trebbi, Bologna, Mazzoni e Rizzoli, circa 1870.
54. Notificazione del Card. Giuseppe Albani con la quale si ordina la
consegna delle armi delle truppe nelle Legazioni a seguito dell’in-

gresso delle truppe pontificie con l’appoggio degli Austriaci, Imola,
27 gennaio 1832.
55. Notificazione del Card. Giuseppe Albani con la quale si ordina la
consegna delle armi delle truppe nelle Legazioni a seguito dell’ingresso
delle truppe pontificie con l’appoggio degli Austriaci, Imola,
25 gennaio 1832.
56. Giuseppe Albani, Cardinal Legato di Urbino e Pesaro, commissario
straordinario delle quattro legazioni. Medaglia celebrativa dell’incarico
di commissario delle Romagne e per le sue munificenze a favore
dell’arte. Incisione di Nicola Cerbara. Bronzo. 1831. Giuseppe
Albani (Roma, 13 settembre 1750 – Pesaro, 3 dicembre 1834), cardinal
segretario di Stato dal 1829 al 1830, era stato incaricato dal
papa di sedare i moti dei rivoltosi in Romagna.
57. Giuseppe Mazzini, medaglia celebrativa del primo centenario della
nascita, 1805-1905. Buenos Aires 1905. Bronzo.
58. Filippo Mordani, Paolo e Francesca, in Tre Novelle storiche, Bologna,
Bortolotti, 1839.
Bellezza carbonara:
dal salotto Malvezzi alle barricate d’Italia
Un contributo significativo alla diffusione delle idee del Risorgimento
si deve ai salotti culturali delle dame colte e raffinate che, consce
di rivestire un ruolo di primo piano nello scenario sociale,
avevano trasformato i loro palazzi in luoghi di incontro tra élites borghesi
e nobiliari.
Con la scusa del conversare, delle accademie poetiche e musicali
e delle relazioni mondane e galanti, queste romantiche femmes
d’esprit si trovarono spesso a dar diffusione e risonanza alle idee liberali
e rivoluzionarie fin dall’epoca prenapoleonica. Tra i salotti bolognesi
più attivi e più noti d’Italia per il suo impegno politico vi era
quello della principessa bolognese Maria Laura Malvezzi Hercolani
che ebbe Rossini come ospite fisso e che, a costo della libertà e della

“reputazione”, diede rifugio e sovvenzione ai patrioti negli anni in cui
si combatteva per l’Unità d’Italia.
Alei è dedicato un documento straordinario, la “micrografia” eseguita
da un virtuoso Luigi Zanetti che, in trentasei giorni di lavoro,
ha trascritto in miniatura, in forma di scena dell’uccisione di Francesca,
tutti i versi della tragedia di Pellico e dei canti quinto e trentesimo
dell’Inferno.
Un documento straordinario che dimostra le connessioni tra le
classi nobili più aperte con i borghesi e gli artigiani in merito a valori
come patria, indipendenza e libertà. Nobili e borghesi che insieme,
ad esempio, combatterono contro la guarnigione pontificia a
Rimini il 23 settembre 1845. Guidati da Pietro Renzi, una sessantina
di patrioti si impadronirono della città proclamando un nuovo governo
e diffondendo un documento destinato a diventare celebre, il
“Manifesto delle popolazioni dello Stato Romano ai Principi ed ai
popoli d’Europa” composto da Luigi Carlo Farini, allora esule a
Lucca. Manifesto che provocò le critiche di Mazzini che lo definì
“monumento di vigliaccheria, di stupidità, di tradimento dell’Idea
Nazionale”. Anche D’Azeglio fu critico verso la sollevazione riminese
fallita dopo tre giorni per la mancata insurrezione delle altre
città della Romagna e delle Marche. Nel suo “Degli ultimi casi di
Romagna” la definì un episodio “intempestivo, dannoso, perciò biasimevole.”
Biasimevole come Pietro Renzi accusato di ogni nefandezza,
compreso il tradimento dei liberali arrestati e la delazione alle
autorità pontificie. Bersaglio principale del liberale D’Azeglio era
comunque il dominio pontificio: “Dei moti di Romagna, delle uccisioni,
degli esilii, delle lacrime di tanti infelici, n’avete a render conto
a Dio, voi governo, e non i vostri calpestati sudditi. Il loro sangue vi
ripiomberà sul capo”.
59. G. Castagnola, Assalto a una caserma di Rimini, da G. Pistelli, Storia
d’Italia dal 1815. , Firenze, Ballagny, 1864.
60. Luigi Carlo Farini, Lo Stato romano dall’anno 1815 all’anno 1850.
Torino, Ferrero e Franco, 1850.

61. Luigi Zanetti, La Francesca da Rimini dedicata a sua Eccellenza la
principessa Donna Maria Ercolani nata Malvezzi Protettrice della
Arti, Bologna, 1835. Maria Laura Malvezzi Ercolani, dama bolognese
che ebbe Rossini come ospite fi sso (unire) e diede rifugio e
sovvenzione ai patrioti negli anni dell’Unità d’Italia, è opera del virtuoso
Luigi Zanetti che disegna la scena dell’uccisione di Francesca
con la scrittura miniaturizzata di tutta la tragedia di Pellico e dei canti
quinto e trentatreesimo dell’Inferno dantesco.
62. Achille Castagnoli, Francesca da Rimino, tragedia lirica, Firenze 1841.
63. Massimo D’Azeglio, Gli ultimi casi di Romagna 1846, in “Scritti
politici e letterari preceduti da uno studio storico sull’autore di
Marco Tabarrini”, Firenze, Barbera, 1872.
64. Massimo D’Azeglio. Ritratto in “Il Fotografo”, anno I, n. 24, Milano,
8 dicembre 1855.
65. Luigi Carlo Farini. Medaglia celebrativa dedicata dalla Provincia di
Ravenna al figlio benemerito “Dittatore dell’Emilia Luigi Carlo Farini,
che respinse il patto di Villafranca e pose le fondamenta dell’italiana
unità”. Bronzo, 1878.
Eroina dei due mondi:
Leight Hunt, Byron e Boker


Se nell’Ottocento Parigi era la capitale del mondo, Roma e l’Italia
erano la meta obbligata per gli intellettuali, meglio se romantici,
che si nutrivano, oltre che di idee di libertà, anche del piacere della
bellezza e della storia.

E, tra i loro soggiorni parigini da esuli o da
gaudenti, e le loro vacanze romane da turisti o da patrioti, le informazioni
e le sensibilità alle loro idee e ai temi che le rappresentavano,
si propagavano in maniera straordinariamente veloce. Di
quanto fosse radicata ed efficace in tutta Europa la rete che li legava,
Francesca da Rimini è testimone esemplare.
Nell’agosto 1815 a Milano era andata in scena Francesca di Pellico;
negli ultimi mesi dello stesso anno il poeta e scrittore radicale

inglese Leigh Hunt, incarcerato nella torre di Londra per i suoi scritti
contro Giorgio principe reggente, aveva scritto il suo poema The
Story of Rimini, che aveva Francesca per eroina, pubblicato nella primavera
del 1816. Durante la sua prigionia, a visitarlo quotidianamente
e a correggergli il lavoro era stato George Byron, lo stesso
Byron che, nel 1816, aveva incontrato Silvio Pellico a Milano e, affascinato
dalla sua tragedia, aveva iniziato a tradurla in inglese e che,
non pago, in pieno amore adulterino vissuto con la bella marchesa
Gamba, nel 1820, aveva dato vita a una propria poetica traduzione
del quinto canto. John Keats nello stesso 1820, aveva composto i
versi Reading Dante’s Episode of Paolo and Francesca, pubblicati su
“The Indicator” diretto da Leigh Hunt. Leigh Hunt che aveva visto
pubblicare a Philadelphia una edizione pirata della sua The Story of
Rimini pochi mesi dopo l’uscita ufficiale londinese.
“Francesche”, romanticismo, carboneria e massoneria, patrioti ed
esuli. Byron era stato affiliato a una rivendita da Pietro, fratello dell’amante
ravennate. Massone era Dumas che, nel suo Il conte di
Montecristo , elencava tra le cose straordinarie viste nel suo viaggio
in Italia “la stanza di Francesca e Paolo a Rimini”. Dumas ammiratore
di Giuseppe Garibaldi del quale aveva scritto una biografia. Garibaldi
che, ancor prima del grande raduno romano alla difesa di
Roma del 1849, aveva incontrato Francesca da Rimini nel 1842 a
Montevideo. Il generale, ancora colonnello in verità, si trovava nella
capitale uruguaiana con i suoi duemila uomini della Legione italiana
per combattere il tiranno argentino Juan Manuel de Rosas e, il 15 ottobre,
al Teatro Nacional aveva applaudito una rappresentazione della
Francesca di Pellico. Una Francesca che contagiò anche George
Henry Boker, considerato il più importante autore di teatro americano,
definito “poeta patriota” per le sue opere letterarie e poetiche
fortemente impegnate a sostegno dei federali nella guerra civile americana.
La sua monumentale Francesca da Rimini, a Tragedy in five
Acts composta nel 1854 continuò a riscuotere successi per oltre cinquant’anni,
fino al nuovo secolo, interpretata dalle più grandi compagnie
teatrali americane.

66. H. J. Leigh Hunt, The story of Rimini. Wells & Lilly, Boston, e M.
Carey, Philadelphia, 1816.

Si tratta della prima Francesca apparsa
sul territorio americano, con un’edizione avvenuta all’insaputa dell’autore.
La prima edizione, infatti era avvenuta a Londra nella primavera
1816.
Il romantico Henry, ritratto dello scrittore Henry James Leight Hunt
in un’incisione tratta da un giornale inglese. 1825 circa.

Lord Byron, Byron Works, Complete in one volume, New York,
1855. Contiene “ Il Bacio”, incisione in acciaio di Phillibrown dal dipinto
di Decaisne.

W. B Baumann, Françoise de Rimini, incisione dal dipinto di Decaisne,
in Cornelia, “Taschen Buchen fur Deutschen Frauen uf das
Jahr 1862”, Darmstatdt, 1862.

Il bacio galeotto, incisione dal dipinto di Decaisne. Parigi, 1841.

Phillips Stephen, Paolo & Francesca: A Tragedy in Four Acts, London
& New York, 1900.

In antiporta: incisione dal dipinto

"Paolo e Francesca" di George Frederic Watts del 1882.

L’opera di Phillips
era stata composta nel 1897. L’edizione a stampa conta oltre otto
edizioni inglesi e una traduzione italiana nel 1924.

R. Graves, Paolo and Francesca da Rimini, acquaforte tratta dal dipinto
di J. Noel Paton, 1870 circa.

Henry Francis M. A. Cary, Dante’s Inferno, edizione in inglese, con
74 tavole incise da disegni di Gustave Dore, Philadelphia, Altemus
editions, 1887 circa.

Gustave Dore, Paolo e Francesca, incisione di Pennemaker, 1894.

Henry George Boker, Francesca da Rimini, locandina teatrale per
la rappresentazione di Lawrence Barret al Chesnut St. Opera House
Philadelphia, 1890.
76. Lawrence Barrett as count Lanciotto, from “Francesca da Rimini
act. 3 scene 1”, Philadelphia, Gravure Gebbie & Co, 1887.
77. Henry George Boker, Francesca da Rimini, a Tragedy in five Acts,
Chicago, Dramatic Publishing Company, 1901.

Il triangolo della rivoluzione.

Francesca barricadiera tra Roma, Milano e Venezia nel 1848
I fermenti che scossero l’Italia tra il 1848 e il 1849 videro in prima
linea artisti che, in varie forme espressive, dedicarono all’eroina riminese
le loro opere.

Tra questi, Eugenio Alberi, letterato e storiografo
padovano di discendenza riminese, volontario anche nel 1859;
Bernardo Bellini, linguista lombardo; Giuseppe Bezzuoli, pittore e
scrittore fiorentino; Matteo Benvenuti, storico, scrittore di racconti e
libretti d’opera lombardo; Luigi Cicconi, poeta improvvisatore di
Sant’Elpidio a Mare, esule a Parigi per i suoi sentimenti patriottici;
Bartolomeo Galletti, generale, eroe della difesa delle mura romane
accanto a Garibaldi; Achille Majeroni, attore patriota milanese; Filippo
Meucci, poeta laziale; Adelaide Ristori, attrice tragica, soccorritrice
dei feriti a Roma nel 1848; Felice Romani, scrittore e librettista
genovese; Tommaso Salvini, attore lombardo, celebre Paolo nella
tragedia di Pellico; Felice Venosta, sulle barricate di Milano delle
cinque giornate. Non pochi, tra questi, i carbonari e i massoni, certificati
o in forte sospetto.

E tra loro Luigi Calamatta, incisore nato a Civitavecchia, tra i rivoluzionari
di Parigi nel 1830 e nel 1848, con Garibaldi nel 1866,
autore di una celebre incisione che raffigura Mazzini sulle mura di
Roma nel 1849.

La sua Francesca, tratta dal dipinto di Ary Scheffer,
anch’egli carbonaro affiliato alla loggia parigina di Lafayette, è considerata
una delle incisioni più belle dell’Ottocento. Un’opera “perfetta”
tanto che a Vienna, nella galleria di un mercante di stampe, il
focoso conte Zygmunt Krasiński (1812 - 1859), poeta e patriota polacco,
appena la vede così esclama: “C’est l’oeuvre parfaite d’un
maître. En l’apercevant, j’ai senti the perfect Beauty...”.
Con Scheffer e Calamatta, Francesca abbandona il bacio e si abbandona
a un abbraccio appassionato per dimostrare a romantici e
patrioti che la passione, d’amore come di patria, non teme la morte
perché sa conquistare bellezza, libertà e fama immortale.

78. Alejandro Dumas, Memorias de José Garibaldi, edizione in lingua
spagnola delle Memorie di Garibaldi, tomo primero, Paris, Libreria
de Rosa y Bouret, 1860.
79. Busto di Giuseppe Garibaldi. Bronzo. Italia 1900 circa.
80. Governo Provvisorio di Lombardia del 1848. Moneta da 5 lire in argento
abilmente trasformata in portamessaggi con chiusura a vite.
81. Fuga di papa Pio IX a Gaeta la sera del 24 novembre 1848. Bando
a stampa, Napoli 2 dicembre 1848.
82. Inaugurazione della lapide commemorativa di Giuseppe Garibaldi.
Rimini 20 settembre 1882.
83. Guardia Civica di Rimini, invito a riunire tutto il Battaglione di Rimini
nella caserma di San Francesco dove saranno presentati i nomi
degli Ufficiali. Bando a stampa. Rimini 29 aprile 1848.
84. Silvio Pellico, Francesca da Rimini, tragedia, edizione popolare,
Bologna, Borghi, 1861.
85. E. Mezzabotta, Il 1848, in “Biblioteca Patriotica, n. 7”.Roma, Perino,
1886.
86. Jessie W. Mario, Garibaldi et son temps, Illustrations de Edouard
Matania, Paris, Librarie Nationale, 1884.
87. Ary Scheffer, Françoise de Rimini, incisione tratta dal dipinto di Ary
Scheffer presentato al Salon parigino del 1835, oggi conservata a
Londra allaWallece Collection, Parigi, de Frey incisore, 1835.
88. Medaglia anepigrafe con ritratto e firma di Giuseppe Garibaldi.
Piombo, 1850.
89. Medaglia celebrativa con Pio IX e Ferdinando II delle Due Sicilie,
donata il 26 novembre 1848 dall’armata napoletana al papa durante
il suo esilio a Gaeta. Bronzo, 1848.
90. Medaglia dedicata “Al Principe Riformatore I Popoli Riconoscenti”
Carlo Alberto, Re di Sardegna. Argento, 1847.
91. Medaglia di Giuseppe Mazzini. Metallo bianco, 1882.
92. Notificazione al popolo del distretto di Rimini. Il legato Card. Marini
chiede al popolo riminese il ritorno all’obbedienza e al rispetto
delle leggi reprimendo i moti e punendo i colpevoli. Bando a stampa,
Forlì, 5 giugno 1848.

93. Il Ministro Sacchetti rende nota ai Romani l’autografo con il quale
Pio IX annuncia la fuga da Roma. Bando a stampa. Roma 25 novembre1848.
94. Decreto Pontificio sull’Ordine pubblico firmato da Pietro P. Odescalchi.
Bando a stampa, Roma, 26 novembre 1848.
95. Repubblica romana. Decreto con il quale si annuncia il decadimento
di fatto e di diritto del Papato dal Governo temporale dello Stato Romano.
Bando a stampa, Roma e Pesaro, 9 febbraio 1849.
96. Repubblica Romana. Il Triumvirato invita i Romani alla resistenza
per l’indipendenza. Bando a stampa. Roma 26 aprile 1849.
97. Ripristino del governo del Sommo Pontefice nelle quattro province
di Bologna. Bando a stampa, Ferrara, Forlì e Ravenna, 26 maggio
1849.
98. Foulard tricolore. Seta. Circa 1848.
99. Diploma e medaglie per la partecipazione alle campagne del 1848 e
1859 del Luogotenente e Generale Giacomo Carderina (1806-1899),
bronzo, 1865.
100. Luigi Calamatta, Françoise de Rimini, incisione tratta dal dipinto di
Ary Scheffer. Paris, Gache Editeur, 1843.
101. Giubba e berretto di un soldato garibaldino. S.d., stoffa e cuoio.
Museo garibaldino, Saludecio.
102. Notificazione contro le bande garibaldine in fuga. Bando a stampa,
Sant’Angelo in Vado, 4 agosto 1849. Museo garibaldino, Saludecio.
103. Daga da truppa della Guardia Civica Pontificia. Detta anche “gladio”
in quanto ispirata a quella dei Legionari Romani, ha la lama a
due tagli con punta a forma di foglia di ulivo e impugnatura a crociera
fusa in ottone. Al centro della crociera, su entrambi i lati, vi
sono due scudetti tondi destinati a ricevere da un lato il marchio della
Legazione e, dall’altro, il numero di matricola. In questo esemplare
il marchio è “C” che corrisponde alla Legazione di Bologna. La daga
è fornita di fodero in pelle con cappa e puntale in ottone. La lama di
questo esemplare è incisa in entrambi i lati: su un lato appare la
scritta “Unione e Forza”, sull’altro “AL VALORE LOMBARDO –
22 MARZO 1848”.

104. Spadone da Ufficiale della Guardia Civica Pontificia, ha la lama
dritta a un solo filo e punta incisa sui due lati con la scritta “W.
L’ITALIA” da un lato, e “W. PIO IX” dall’altro, in questo caso la
scrittaWPIO IX è stata abrasa dall’Ufficiale che aveva aderito alla
Repubblica Romana.
105. Il Municipio di Rimini, dopo la partenza del delegato Apostolico,
affida il governo della città e la tutela dell’ordine pubblico al Conte
Vincenzo Salvoni. Bando a stampa, Rimini, 22 giugno 1859.
106. Voto per l’annessione alla Monarchia Costituzionale del Re Vittorio
Emanuele II. Bando a stampa. Rimini 6 marzo 1860.
107. Annuncio dell’apertura al pubblico del nuovo ampio edificio dello
Stabilimento dei Bagni Marittimi in Rimino nel giugno del 1861.
Bando a stampa. Rimini 18 maggio 1861.
108. Arrivo del Marchese Massimo d’Azeglio Commissario del Glorioso
Re Vittorio Emanuele a Rimini. La città festeggia con una luminaria.
Bando a stampa. Rimini, 12 luglio 1859.
109. Annessione delle Romagne al Regno Costituzionale di Sardegna. Festeggiamenti
a Rimini con luminarie per la lieta notizia dell’annessione
al Regno di Sardegna. Bando a stampa. Rimini, 8 settembre 1859.
110. Pio IX scomunica il re Vittorio Emanuele II. Sonetto satirico. Circa
1860
111. Malvolti, Coscienza libera in libero stato. Aspirazioni. Codice di
leggi della Nazione. Rimini, Malvolti ed Ercolani, 1863.
112. Tommaso Bianchi, Sulla località più acconcia per fondare in Rimini
la Stazione della Ferrovia, Rimini, Albertini, 15 luglio 1858. L’opuscolo
contiene la pianta della città con l’indicazione del tracciato
della ferrovia.
113. Il Municipio di Rimini a ricordo dell’innalzamento del glorioso
Stemma di Casa Savoia il giorno 2 ottobre 1859 determina che il
Teatro Comunale sarà d’ora in poi chiamato Teatro Vittorio Emanuele.
Bando a stampa. Rimini 13 ottobre 1859.
114. Arrivo a Rimini del Cavalier Carlo Luigi Farini. Il Municipio di Rimini
accoglie l’illustre Governatore Generale delle Regie Provincie.
Bando a stampa. Rimini 22 febbraio 1860.

Italia unita e Francesca savoiarda:
il romanzo della realtà

Testimone esemplare di quanto e come il mito di Francesca da
Rimini abbia attraversato le vicende e i personaggi del Risorgimento,
è Adelaide Ristori, attrice e donna dalla vita avventurosa e romanzesca.
Aveva esordito nel 1837, quattordicenne, con la tragedia di
Pellico raccogliendo il testimone di Carlotta Marchionni per diventare
in breve tempo la regina del teatro italiano nell’Ottocento e passare
alla storia come l’attrice che ha saputo riscattare, dandole nobiltà
e legittimazione morale e sociale, una professione per secoli sinonimo
di scostumata guitteria. Una Ristori diva ma soprattutto “patriota”,
vera protagonista del Risorgimento, a partire dal suo legame
con i rivoltosi del 1848 e del 1849 quando fu accanto a Mazzini e a
Garibaldi nella difesa di Roma, fino alle “missioni diplomatiche” affidatele
da Cavour e da Vittorio Emanuele II per conquistare alla
causa dell’indipendenza italiana i reali tedeschi e l’imperatore di
Russia durante le sue tournèe. Come in una bella favola, Adelaide
incontrò anche un “vero” principe azzurro, il marchese Giuliano Capranica
del Grillo, rampollo di una delle più antiche casate romane,
con il quale potè vivere felice e contenta senza abbandonare la sua
arte e il suo amor di patria. Francesca da Rimini, con cui ha esordito,
l’ha accompagnata per la vita. Con Francesca ha valicato trionfalmente
le Alpi debuttando a Parigi, ove potè frequentare i salotti intellettuali.
Parigi capitale ove entrò in relazione con artisti celebri
come Lamartine, George Sand, Henry Martin, Legouvé, Gautier, Regine,
ma anche, e soprattutto, con esuli e “rivoluzionari” come Daniele
Manin e Niccolò Tommaseo o come l’irrequieto Dumas padre
che divenne un suo fanatico sostenitore. Dove incontrò un altro personaggio
legato indissolubilmente a Francesca da Rimini, Ary Scheffer,
esponente di primo piano della rivendita carbonara fondata da
Lafayette. Con Francesca Adelaide ha attraversato tutti i cinque continenti
strappando applausi e lacrime all’insegna d’amore, di libertà,
d’Italia bella e martoriata. Memorabile è infatti la sua tournée intorno al mondo durata duecentosettantacinque giorni, dal 15 aprile
1874 al 14 gennaio 1876, e nella quale ebbe al suo fianco come organizzatore,
il grande patriota generale Bartolomeo Galletti con lei
già nelle barricate romane del 1849.

Una vera regina del teatro italiano, Adelaide, che a fine carriera
poteva vantare spettacoli in 334 città, in 33 stati, in tutti i 5 continenti.
E che a Francesca da Rimini restò indissolubilmente legata,
anche quando l’età non le consentiva più di interpretarla. Per il pubblico,
infatti, Adelaide restava sempre l’appassionata amante, la giovane
e bellissima eroina riminese che aveva portato per il mondo
commuovendo romantici d’ogni dove. Francesca, la “nuova”,
l’eroina della passione, aveva segnato il suo precoce esordio nel
1837; nel 1845 le aveva fatto incontrare il grande amore della sua
vita; nel 1855, con il debutto parigino, l’aveva definitivamente “internazionalizzata”.
Con le recite fiorentine delle celebrazioni dantesche
nel 1865, l’aveva consacrata regina del teatro italiano. Con
Francesca della poesia dantesca, invece, nel 1898, la settantaseienne
Adelaide Ristori aveva voluto chiudere in maniera trionfale la sua
straordinaria carriera di attrice, di gran dama e di patriota, declamando
il quinto canto dell’Inferno al Teatro Carignano per l’Esposizione
Nazionale di Torino dinnanzi ai reali d’Italia. L’Italia era ormai
unita, Roma era capitale. Era quasi concluso un percorso che la
grande Ristori aveva accompagnato con la sua arte e la sua passione.
E, naturalmente, con la sua inseparabile Francesca da Rimini.
115. Bartolomeo Galletti, Il giro del mondo colla Ristori. Note di viaggio.
Descrizione del percorso artistico di Adelaide Ristori, con firma autografa
dell’autore (in alto a destra). Roma, Tipografia del Popolo
Romano, 1876. Contiene mappa del giro del mondo compiuto dalla
Ristori.
116. Adelaide Ristori, Memoirs and Artistic Studies of Adelaide Ristori.
Autobiografia dell’attrice illustrata con fotografie ed incisioni, New
York, Doubleday, Page & Company, 1907.
117. Frontespizio del libro Adelaide Ristori, Memoirs and Artistic Stu-

dies of Adelaide Ristori, Autobiografia dell’attrice illustrata con fotografie
ed incisioni, NewYork, Doubleday, Page & Company, 1907.
118. Ritratto di Adelaide Ristori, incisione del 1890 circa.
119. Loggia Garibaldi, n. 542 di L.A.M. Oriente di New York istituita l’11
giugno 1864 sotto l’ubbidienza della G.L. dello Stato di New York.
Attività svolta nel 1908. New York, 1908.
120. Gran Bazar a benefizio di Roma e Venezia. Ricevuta per adesione
alla sottoscrizione promossa a Londra da Giuseppe Mazzini. Londra,
18 marzo 1863.
121. P. Fornari, Storia Patria dal principio sino ai nostri tempi narrata ai
giovinetti e al popolo in 96 giornate, Milano, Paolo Carrara, 1870.
Incipit con i versi da S. Pellico, Francesca da Rimini.
122. Adelaide Ristori, figurina Liebig. Circa 1950.
123. Adelaide Ristori. Fotografia all’albumina formato Carte de visite.
Autografata.
124. Felice Venosta, Francesca da Rimini, racconto storico del secolo
XIII. Milano, Muggiani, 1876. Venosta fu patriota che combattè nelle
cinque giornate di Milano.
125. Matteo Benvenuti, Giuseppe Marcarini, Francesca da Rimini, parole
e musica, opera rappresentata al Teatro Carcano di Milano per
il carnevale 1871-72. Milano, Molinari, 1871.
126. Silvio Pellico, Francesca da Rimini, tragedia. Edizione popolare,
Bologna, Borghi, 1861.
127. Album fotografico dei padri della patria. Contiene ottanta fotografie
all’albumina dei personaggi che realizzarono l’unità d’Italia, tra i quali
Vittorio Emanuele II, Cavour, Mazzini, Garibaldi, i generali che comandarono
le più celebri battaglie. Tra questi una fotografia di un dipinto
di Bezzuoli che raffigura Francesca da Rimini. Italia, circa 1870.
128. Ritratto di Adelaide Ristori. Incisione da una fotografia di Mayer
and Pierson in “Illustrated Times”, Londra, 12 luglio 1856.
129. Bonaventura Genelli, Francesca da Rimini, Lipsia, 1867. Acquaforte.
130. Vittorio Emanuele II Re d’Italia. Medaglia dedicata al Padre della
Patria dal collegio romano dei commercianti. Argento, circa 1861.

131. Distintivo di appartenenza ad una loggia massonica di Montevideo
intitolata a Giuseppe Garibaldi. Circa 1905.
132. Distintivo di appartenenza ad una loggia massonica argentina intitolata
a Giuseppe Garibaldi. Circa 1920.
133. Medaglia celebrativa del XXV anniversario della presa di Porta Pia
1870-1895 coniata dal Municipio di Roma. Roma. Bronzo, 1895.
Italia liberata, Italia mutilata:
Dante, D’Annunzio, Francesca e Trieste
All’avvento del nuovo secolo, Francesca da Rimini entrò nella
vita del personaggio tra i più impegnati a ricordare all’Italia che
l’unità non era completa senza Trento e Trieste.
Conquistò infatti il cuore di Gabriele D’Annunzio, già immaginifico
e sempre più alla ricerca di nuove occasioni per esternare il
suo compulsivo fuoco dell’arte, proprio negli anni dell’apice del suo
tormentato sodalizio passional-culturale con Eleonora Duse.
“Poema di sangue e di lussuria” definisce egli stesso Francesca
da Rimini che compose nell’estate 1901 nella Villa del Secco, in Versilia
tra estasi e cavalcate sul mare.
Dodicimila versi, cinque atti ambientati a Ravenna, nelle case Da
Polenta, e a Rimini, nelle case Malatesta, tra torri e alcove più o meno
nascoste, con una trama che ricalcava, come ormai costume, la traccia
dell’inganno boccaccesco.
L’immaginifico, infatti, sembrava voler affidare gli effetti speciali ai
suoi personaggi e alle scene più che alla trama: alla dolcezza di Francesca
(già al primo atto, è ammaliata dalla vista del bel Paolo al quale
dona una rosa), alla ripugnanza che provoca Malatestino dall’occhio,
sanguinario, crudele e spione (che irrompe in scena proprio quando è
ferito nell’occhio), al sangue dei duelli e dei combattimenti, alle battaglie,
al fuoco che avvolge Rimini in battaglia, alle parole come “favilla”
di Paolo all’amata. A un Dante Alighieri citato per un incontro con
Paolo a Firenze. Al libro Galeotto, naturalmente, del quale Francesca,
soffocata dalla passione, non riesce neppure più a leggere le parole; a
un Gianciotto deforme e dallo sguardo feroce, ripetutamente stigmatizzato
come Sciancato. E, soprattutto, alla sensualità con la quale si
vuole caratterizzare rispetto alle precedenti tragedie che avevano schierato
femmine troppo dubbiose e dalla virtù troppo altalenante.
Il suo Paolo è un campione d’amore, insaziabile di baci e d’alcova,
che bacia, ribacia, abbraccia e stringe. La sua Francesca è
l’eroina della passione sensuale che, nell’ultima scena, sa anche trasformarsi
in donna guerriera dalla foga disperata che difende il suo
amore balzando tra la spada assassina e l’amante per restare abbracciata
a lui per l’eternità.
Nessun cenno apparente a patria e a unità nel poema del Vate che
sorvolerà Vienna e conquisterà Fiume. Solo passione che tutto vince
e che tutto legittima. L’Italia non irrompe nei suoi versi perché l’Italia
è Francesca. L’Italia è la passione, la forza di rompere le catene e
liberare amore e la bellezza.
Neppure nella Francesca da Rimini di Morello Torrespini edita
nel 1919, illustrata dalle xilografie del bravo Alberto Zanverdiani,
compare alcun cenno alla patria, all’unità e alla libertà. Solo baci,
amori, libri e alcove. Forse per festeggiare in libertà l’Italia finalmente
unita e libera dallo straniero. Questa raffinata Francesca dal
dolce fantasioso sapor di medio evo, ultima della nostra passeggiata
tra le tante del risorgimento italiano, è infatti, e forse non è un caso,
l’eroina del primo libro stampato a Trieste libera. Una Trieste italiana.
In una Italia finalmente unita.
134. Adolfo De Carolis. Locandina pubblicitaria della Compagnia drammatica
di Eleonora Duse, Francesca da Rimini, tragedia in 5 atti di
Gabriele D’Annunzio. Roma, Stabilimento Marzi, 1901.
135. Gabriele D’Annunzio, Francesca da Rimini, Milano, Treves, 1902.
Illustrazioni xilografiche di Adolfo De Carolis. Editio Princeps, legatura
all’antica in piena pergamena con lacci.
136. Adolfo De Carolis, xilografie da Gabriele D’Annunzio, Francesca
da Rimini, Milano, Treves, 1902.
137. Gabriele D’Annunzio, Francesca da Rimini, traduzione in tedesco di
Vollmoeller. Berlino, Fischer, 1903. Legatura in tela all’antica con
lacci. Illustrazioni xilografiche all’interno.
138. Gabriele D’Annunzio, Francesca da Rimini, traduzione di Arthur
Symons. New York, Frederick Stokes, 1902. Contiene foto di
Eleonora Duse. Copertina decorata Liberty.
139. Ritratto fotografico di M. Paolo Salvini nelle vesti di Paolo il Bello
nell’opera rappresentata al Teatro Costanzi di Roma. Foto Alinari,
1901.
140. Ritratto di Eleonora Duse come Francesca da Rimini in “The Theatre”,
vol. II, n. 18, New York, Arthur Hornblow, agosto 1902.
141. Trento e Trieste libere. Medaglia per la liberazione delle città.
D/VITTORIO EMANUELE III, ritratto del re a destra. R/All’intorno:
24 MAGGIO 1915 – 3 NOVEMBRE 1918, stemmi di Trento
e Trieste. Al centro: FEDE E MARTIRIO ACCESERO LE VIE
ALLALIBERTA’RESEROALLAVITTORIA ILVOLO- PAX. Oro
e smalti, 1918.
142. Gabriele D’Annunzio, Medaglia ai partecipanti al volo su Vienna
(1918) e alla spedizione di Fiume (1919). Bronzo con nastro tricolore,
1919.
143. Morello Torrespini, Paolo e Francesca, Trieste, 1919. Illustrazioni
xilografiche di Alberto Zanverdiani. Si tratta del primo libro stampato
a Trieste liberata.
144. I soldati Italiani che la unità della patria suggellando col sangue
caddero gloriosamente il XX settmbre MDCCCLXX sulla Breccia di
Porta Pia. Bologna litografia di Francesco Casanova.
145. I Padri della patria. Litografia. Circa 1890.
146-150. Cinque illustrazioni in cromolitografia tratte dal dipinto “Francesca
da Rimini, il bacio” di Amos Cassioli. Italia 1890 – 1920.

Letture popolari
Edel, Paolo e Francesca. Incisione xilografica in copertina di Nullo Amato,
Francesca da Rimini, Romanzo storico drammatico, Roma 1891.
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Francesca e il “principe Galeotto”
Il doppio titolo del Decameron
Troppo sottovalutato dalla critica, il cognome del Decameron
(Principe Galeotto) è la via maestra per arrivare alle fonti della sua
ispirazione e al suo significato globale1. Mentre il titolo allude infatti
semplicemente alla struttura esterna dell’opera, cioè le dieci
giornate in cui si articolano le 100 novelle, è il cognome che, attraverso
la citazione dantesca, ne indica la logica profonda, per la quale
l’amore non è solo il più rilevante e frequente dei temi possibili
(viene svolto in almeno il 75 % delle narrazioni), ma l’a priori della
scrittura e della lettura del testo. Esso rinvia infatti alle condizioni
psicologiche che ne hanno determinato la composizione (l’innamoramento
dello scrittore raccontato nel Proemio2) e a quelle che ne
1 Si osservi nel commento di Michele Barbi (La Nuova Filologia, Firenze, 1938,
p. 72), ripreso e condiviso nella propria edizione da Vittore Branca (Torino,
1980, p. 3), la neutralizzazione della perversa funzione adulterina e ruffianesca
che ha l’evocazione del personaggio in Dante e che Boccaccio attribuisce, capovolgendone
il significato morale e politico, al suo libro: “Come questo nobile
principe [Galeotto], per l’amore straordianrio che portava a Lancillotto (l’amava
‘maravigliosamente’ dice il B. stesso nel commento a Dante), s’era adoprato,
secondo doveva, a compiacerlo in ciò che gli faceva bisogno; così l’autore del
D., per quel suo grande amore alle donne del quale si confessa e compiace in
principio della quarta giornata, vuol prestare ad esse quel conforto e quell’aiuto
che per lui si può a sollevarle e distrarle nelle loro pene amorose e a consigliarle
nei dubbi e nei frangenti che possono loro occorrere”.
2 Ancora più significativa di tale a priori erotico della scrittura del testo è la difesa
dai detrattori, nella Introduzione alla IV Giornata, in cui Boccaccio rivenLEGGER

determineranno una proficua lettura (l’innamoramento delle lettrici
alle quali è destinato, secondo il Proemio). Il che estende alla scrittura
romanzesca l’assioma trovadorico che identifica l’impulso di
desiderio con l’ispirazione lirica, priva di senso, sia da parte del produttore
che da parte del fruitore, senza l’apertura dell’io al desiderio.
D’altra parte si tratta, nelle allusioni del cognome, di un amore interpretato
secondo la regola trovadorica e cortese che fa da sfondo all’episodio
di Francesca da Rimini, e cioè il desiderio vissuto in una
situazione di tipo adulterino, una triangolazione che è canonica nella
lirica e che Dante ha proiettato sulla cultura letteraria facendo dell’adulterio
il tema privilegiato del genere romanzesco (nella sua originaria
diffusione presso il pubblico cortigiano3). Boccaccio ha
quindi colto nel canto V dell’Inferno una preziosa indicazione di metodo,
che saldando il romanzo alla lirica mette in luce i contenuti originali
del romanzesco moderno e la nuova antropologia ad esso
sottesa, sviluppandone le implicazioni narrative nell’universo di personaggi
e situazioni che descrive nelle sue novelle.
Per avvicinarci al significato profondo dell’amore nella letteratura
medievale e poi moderna, bisogna in effetti metterne a fuoco la natura
necessariamente adulterina, così come essa viene descritta dai
trovatori e poi illustrata da Dante nell’episodio di Francesca. È apdica
il proprio diritto a innamorarsi, benché vecchio, adducendo esempi dei principali
stilnovisti: “io mai a me vergogna non reputerò infino nello stremo della
mia vita di dover compiacere a quelle cose alle quali Guido Cavalcanti e Dante
Alighieri già vecchi e messer Cino da Pistoia vecchissimo onor si tennero”. D’altra
parte, l’a priori erotico della scrittra romanzesca era stato già stato fissato nel
Filocolo, che si presenta come una narrazione voluta ed indotta dall’amata dello
scrittore (I,1) e a lei destinata come ad una privilegiata, se non unica, destinaria
(V, 97).
3 Non è un caso che le due parlate di Francesca (vv. 88-107 e vv. 121-138) evochino
il codice dell’amor cortese secondo due ben diversi paradigmi letterari,
quello lirico (la prima) e quello romanzesco (la seconda). Fra le questioni metaletterariamente
sollevate dal brano c’è anche quella della irradiazione del triangolo
di desiderio dalla lirica al romanzo.

punto la triangolazione dell’adulterio ciò che conferisce al desiderio
un valore antropologico storicamente originale (ignoto alla cultura
antica), poiché ciò che viene messo in discussione dalla letteratura,
attraverso la centralità dell’amore, è l’ordine politico che sul matrimonio
si fonda, ossia feudalesimo e patriarcato4. Innamorandosi, e
cantando il suo amore, il poeta si situa perciò in una posizione potenzialmente
sovversiva, comunque fortemente eccentrica, rispetto
alla ideologia di matrice teologico-ecclesiastica che fa da sfondo agli
ordinamenti e alla mentalità dell’epoca5. Proprio per questo, infatti,
come non si stancano di ripetere i trovatori di ogni paese, non c’è
canto, o poesia lirica, autentici che non sgorghino da un cuore innamorato.
In tale prospettiva, la privilegiata funzione di lettrice che Boccaccio
assegna alle donne indica ben più che una occasionale scelta
4 Si osservi come Pietro Abelardo, buon conoscitore della lirica del suo tempo,
nella sua Etica (Scito te ipsum, I, 10, 5–7), distingua nitidamente il desiderio direttamente
orientato verso una donna (pulsionale e quindi eticamente irrilevante)
da quello obliquamente orientato alla violazione dei diritti maritali (questo sì
eticamente perverso): “Sepe eciam contingit, ut, cum velimus concumbere cum
ea, quam scimus coniugatam, specie illius illecti, nequaquam tamen adulterari
cum ea vellemus, quam esse coniugata nollemus. Multi e contrario sunt qui uxores
potentum ad gloriam suam eo magis appetunt, quia talium uxores sunt, quam
si essent innupte, et magis adulterari quam fornicari appetunt, hoc est magis
quam minus excedere” [Succede spesso anche che, desiderando giacere con una
donna che sappiamo sposata, sedotti dalla sua bellezza, non vogliamo tuttavia in
alcun modo commettere adulterio con lei, che vorremmo non fosse sposata.
Molti, invece, desiderano per vanagloria le spose dei potenti, proprio perché
sono spose di essi, molto più che se fossero nubili, e desiderano più commettere
adulterio che fornicare, cioè, peccare in ciò che è più grave piuttosto che in ciò
che è meno grave]. Cito da Petri Abelardi, Opera theologica, IV, Scito te ipsum,
ed. R. M. Ilgner.
5 Sugli aspetti ideologicamente sovversivi della poesia dei trovatori mi permetto
di rinviare al mio Poetiche del desiderio. Saggi di critica letteraria della modernità,
Aracne, Roma, 1910, pp. 29-64.
di pubblico: essa è il segnale di quella svolta antropologica che il desiderio
adulterino rappresenta e che ha nelle “donne innamorate” il
suo motore ideale e l’autentico soggetto letterario. Il fatto che lo scrittore
moderno scriva per loro significa che l’orizzonte comunicativo
della letteratura e della cultura in generale si è spostato dal genere
maschile a quello femminile, la qual cosa implica una generale revisione
delle tematiche e degli strumenti espressivi6. Anche in questo
caso Boccaccio è lucido interprete di posizioni che erano state originariamente
di Dante, che aveva già teorizzato nella Vita Nuova7 e nel
Convivio8 il mutamento di genere della cultura letteraria, prima di
legittimarlo poeticamente attraverso il personaggio di Francesca, che
proprio per questo è destinata a diventare uno dei miti fondazionali
della modernità. Il riferimento al galeotto, nella intestazione del libro,
6 Ancor piu radicale è la scelta di pubblico femminile della Fiammetta, che
esclude gli uomini dal circuito dei destinatari del romanzo (Prologo): “Né m’è
cura perché il mio parlare agli uomini non pervenga, anzi, in quanto io posso, del
tutto il niego loro, però che sì miseramente in me l’acerbità d’alcuno si discuopre,
che gli altri simili imaginando, piuttosto schernevole riso che pietose lagrime
ne vedrei. Voi sole, le quali io per me medesima conosco pieghevoli e
agl’infortunii pie, priego che leggiate”.
7 XXV, 6: “E lo primo che cominciò a dire sì come poeta volgare, si mosse però
che volle fare intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d’intendere
li versi latini. E questo è contra coloro che rimano sopra altra matera
che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal principio trovato
per dire d’amore”.
8 I, ix, 5: “La bontà de l’animo, la quale questo servigio attende, è in coloro che
per malvagia disusanza del mondo hanno lasciata la letteratura a coloro che
l’hanno fatta di donna meretrice; e questi nobili sono principi, baroni, cavalieri,
e molt’altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e
molte in questa lingua, volgari e non litterati”. L’inclusione delle femmine nel
pubblico della letteratura è tanto più significativo se si pensa che non si tratta,
qui, di poesia d’amore o scrittura romanzesca, ma di letteratura in generale e soprattutto
filosofica: perfino sul terreno della scienza le donne sono indizio del
cambio di civiltà che Dante ha in mente attraverso il cambio di lingua.

vale quindi a situarlo, tutto quanto, nella logica del triangolo di desiderio
cui Dante allude nel V dell’Inferno, sia sul piano della peripezia,
che fa dell’adulterio la più romanzesca delle strutture narrative,
sia sul piano della mediazione letteraria del desiderio, che fa del romanzo
la più potente delle forme ideali in cui l’io si rispecchia e scopre
i propri (moderni) modelli.

La logica adulterina che impronta di sé la letteratura moderna fin
dalle sue origini, nei due generi più emblematici, la lirica e il romanzo,
esige, nel presente contesto, una breve riflessione di tipo teorico
che renda ragione della forza di irradiazione su tutto l’arco della
modernità dei testi che stiamo considerando (il V dell’Inferno, il Decameron
nel suo insieme). La triangolazione di desiderio di cui essi
ci parlano è infatti proiezione letteraria, canonica a partire dai trovatori,
di una struttura psichica scoperta dalla psicoanalisi e descritta
dal suo fondatore come complesso di Edipo.

Occultata dalla letteratura
e dalla cultura della antichità, il cui patriarcato strutturale impedisce
che la donna venga presa in considerazione come oggetto
privilegiato o unico di desiderio, essa affiora alla coscienza e alla
scrittura all’alba della cultura moderna, riorientando la scrittura letteraria
intorno alla capitale questione della costituzione dell’io, che
modernamente si costruisce secondo una duplice tensione: di desiderio
nei confronti della donna, di rivalità nei confronti dell’uomo (la
coppia infantile madre/padre viene tradotta nella coppia adulta midons/
gilos, ossia amata/marito)9. Trasparente nella lirica, tale logica
è evidente anche nel romanzo, se pensiamo ai cicli di Tristano e Isotta

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La triangolazione di desiderio è evidente non solo nel V dell’Inferno (Francesca,
Paolo e Gianciotto), ma anche nella Vita Nuova, relativamente alla quale il
lettore deve sempre immaginare che Beatrice ha prima un padre (alla cui defunzione
viene dedicato un fondamentale capitolo: il XXII) e un marito (sebbene
lo scrittore di lui non faccia mai menzione).

Nella logica del fin’amor, una
donna nubile o comunque libera da dipendenza familiare non avrebbe alcun significato.

e di Lancillotto e Ginevra, ed ha la sua più esemplare espressione
nella flaubertiana Madame Bovary, di cui Francesca rappresenta la
progenitrice ante-litteram.

Il bovarismo delle due eroine, ai due
estremi del ciclo di sviluppo del romanzo moderno (esempi estremi
di quel pubblico di “donne innamorate” cui Boccaccio dedica il suo
capolavoro), è quindi senz’altro leggibile nei termini della logica edipica
descritta da Freud.

Su un piano storico-antropologico, e non immediatamente
psicoanalitico, il fenomeno letterario del bovarismo è
stato descritto da René Girard, che, in un volume che è ormai un classico
della ricerca letteraria, ne ha messo in luce la natura specificamente
romanzesca attraverso il concetto di mediazione del
desiderio: la letteratura (in particolare il romanzo) viene concepita
come lo specchio immaginario in cui il lettore vede riflessa la propria
identità ideale, attraverso la figura di un ammirato protagonista; tale
protagonista rappresenta l’ideale dell’io cui il lettore cerca di uniformarsi
perseguendo oggetti di desiderio congruenti con tale identità.

Don Chisciotte si dedica ad imprese cavalleresche per somigliare
ad Amadigi di Gaula ed Emma Bovary si lascia sedurre da un dongiovanni
e da un avvocato di provincia per somigliare alle eroine dei
romanzi sentimentali che alimentano la sua immaginazione.

Alle origini della letteratura moderna europea, la mediazione romanzesca del desiderio viene esemplificata dalla storia di Paolo e Francesca, nell’Inferno di Dante, che diventano amanti per somigliare agli ammirati protagonisti dei romanzi cavallereschi, copiandone i comportamenti.

Secondo lo studioso, il romanzo moderno mette in
evidenza ciò che la letteratura e la mentalità del romanticismo nor-


René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del
desiderio nella letteratura e nella vita, Bompiani, Milano 1965.

Rinvio, sulla questione al mio Dante (“Inf.” V) e Buster Keaton: la mediazione
comica del desiderio, in «Tenzone. Revista de la Asociación Complutense
de Dantología», 8, pp. 123-146. In tale studio osservo il protarsi dello schema
basato sulla triangolazione di desiderio nel cinema.

malmente dissimulano, e cioè il carattere mai originario ed autentico
del desiderio, ossia, in linea con i postulati freudiani e lacaniani, la
sua sostanziale alterità.

L’intuizione di Girard risulta, però, ancora
più utile e produttiva se la mediazione del desiderio viene analizzata
a partire dallo stadio dello specchio descritto da Lacan12 e dalla triangolazione
edipica descritta da Freud.

La mediazione del desiderio ci
appare allora come il protrarsi nella età adulta di quella finzione di
sé che fin dal principio insedia l’altro nel cuore dell’io, e riproduce
nel triangolo dell’adulterio (dentro e fuori della letteratura) la triangolazione
edipica cui Freud attribuisce la definitiva orientazione
delle pulsioni di desiderio, contemporaneamente verso un oggetto
sessuale e verso un ideale dell’io.

La funzione mediatrice del romanzo, che indica al lettore l’identità
in cui proiettarsi per mettere a fuoco l’oggetto del proprio desiderio
e le strategie per conseguirlo, è stata mirabilmente descritta
proprio da Boccaccio in un testo che, apparentemente antitetico,
ideologicamente, rispetto al Decameron, ne mette proprio per questo
in luce le inconfessate valenze sovversive, e cioè il Corbaccio, nel
quale i modelli romanzeschi si sovrappongono all’immaginario sessuale
della donna, riscattandone comicamente la bassezza.

Ella s’usa nelle camere, ne’ nascosi luoghi, ne’ letti e negli altri simili
luoghi acconci a ciò, dove, senza corso di cavallo o suon di
tromba di rame, alle giostre si va a pian passo; e colui tiene ella che
sia o vuoi Lancelotto del Lago, o vuogli Tristano, o Orlando o Ulivieri, di prodezza,
la cui lancia per sei o otto aringhi o per dieci in una notte non
si piega in guisa che poi non si drizzi.

La forma di sé che il bambino riconosce nello specchio “situa l’istanza dell’io,
prima ancora della sua determinazione sociale, in una linea di finzione, per sempre
irriducibile per il solo individuo, -o piuttosto, che raggiungerà solo asintoticamente
il divenire del soggetto, quale che sia il successo delle sintesi dialettiche con cui deve
risolvere in quanto io la sua discordanza con la propria realtà” (Scritti, I, 88-89)

Il momento in cui Boccaccio sembra avvicinarsi di più alla situazione
descritta da Dante nel V dell’Inferno, per riprenderne in modo
estensivo la problematica, è forse la novella di madonna Filippa (VI,
7), nella quale l’adulterio (un marito che coglie in flagrante la moglie
con l’amante) viene rivendicato come un diritto della donna, nei confronti
di leggi particolarmente severe verso la adultera:
Nella terra di Prato fu già uno statuto, nel vero non men biasimevole
che aspro, il quale, senza niuna distinzion fare, comandava che
così fosse arsa quella donna che dal marito fosse con alcuno suo
amante trovata in adulterio, come quella che per denari con qualunque
altro uomo stata trovata fosse.

Il rapporto di intertestualità con la Commedia apparirà con maggiore
chiarezza se teniamo conto che, lì, il discorso di Francesca ha
come implicito destinatario il personaggio di Minosse e il principio
di giustizia che egli rappresenta.

L’inflessibile legge divina non contempla
la speciale situazione in cui si trovano gli innamorati, vittime
di passioni che aboliscono il loro libero arbitrio. Quindi il castigo
che viene loro inflitto è, nella prospettiva dell’amante, ingiusto.

È appunto questa la situazione in cui Boccaccio ci presenta il personaggio
di madonna Filippa, obbligata dal marito a difendersi davanti
al podestà del crimine che le viene imputato. Meno dotta di
Francesca, che chiama in causa i principi etici dell’aristotelismo, Filippa
ha tuttavia più fortuna nel rivendicare il proprio diritto ad amare
chi vuole, con un argomento che solo in apparenza è futile (nella sua
superficie comica), e che in realtà chiama in causa se non i massimi
sistemi della filosofia uno dei teoremi della filosofia poetica dell’amore.
Dopo aver denunciato la parzialità delle leggi cittadine, che

Sulla questione, rinvio a: L’averroismo di Francesca, in Le Passioni, a
cura di Ferruccio Farina, Editrice Romagna Arte Storia, Rimini, 2011, pp. 109-
118.
puniscono l’adulterio solo quando viene consumato dalle donne, “le
quali molto meglio che gli uomini potrebbero a molti sodisfare”, Filippa
chiede ed ottiene che si interroghi il marito sulla propria disponibilità
ad assolvere gli obblighi coniugali.

E se voi volete, in pregiudicio del mio corpo e della vostra anima,
esser di quella esecutore, a voi sta; ma, avanti che ad alcuna cosa
giudicar procediate, vi prego che una piccola grazia mi facciate, cioè
che voi il mio marito domandiate se io ogni volta e quante volte a lui
piaceva, senza dir mai di no, io di me stessa gli concedeva intera
copia o no.
Ottenuta dal marito la attesa risposta affermativa,
Ache Rinaldo, senza aspettare che il podestà il domandasse, prestamente
rispose che senza alcun dubbio la donna ad ogni sua richiesta
gli aveva di sé ogni suo piacer conceduto,
Filippa adduce in propria difesa un argomento, e cioè l’eccedenza
del proprio desiderio rispetto a quello del marito, che trasforma la
fedeltà coniugale in una questione puramente quantitativa: soddisfatte
le esigenze sessuali del marito, lei resta libera di disporre del
rimanente come meglio le pare, soprattutto se viene destinato a soddisfare
l’amore di un “gentile uomo” che l’ama più di se stesso:
Adunque, - seguì prestamente la donna - domando io voi, messer
podestà, se egli ha sempre di me preso quello che gli è bisognato e
piaciuto, io che doveva fare o debbo di quel che gli avanza? Debbolo
io gittare ai cani? Non è egli molto meglio servirne un gentile uomo
che più che sé m’ama, che lasciarlo perdere o guastare?
La arguta trovata dialettica scatena l’ilarità dei presenti, ma induce
poi anche i pistoiesi a cambiare leggi così ingiustamente severe:

Eran quivi a così fatta essaminazione, e di tanta e sì famosa donna,
quasi tutti i pratesi concorsi, li quali, udendo così piacevol risposta,
subitamente, dopo molte risa, quasi ad una voce tutti gridarono la
donna aver ragione e dir bene; e prima che di quivi si partissono, a
ciò confortandogli il podestà, modificarono il crudele statuto e lasciarono
che egli s’intendesse solamente per quelle donne le quali
per denari a’lor mariti facesser fallo.
D’accordo con il tema della giornata (“chi con alcun leggiadro
motto, tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvedimento
fuggì perdita o pericolo o scorno”), la novella gravita intorno al motto
di spirito di Filippa, che introduce un elemento quantitativo, nel contratto
matrimoniale, certo non previsto dalla morale corrente, ma che
era stato preannunciato, nel suo criterio rigorosamente fisiologico,
nella premessa del suo discorso, che attribuisce alle donne una maggiore
capacità di “sodisfare a molti”. Ed è appunto sul piano del naturalismo
radicale caratteristico di Boccaccio che va valutata
l’intenzione ideologicamente sovversiva del motto, che contrappone
due nature sessuali, quella dell’uomo e quella della donna, manifestamente
disuguali dal punto di vista della altrui soddisfazione. Le
leggi umane che proibiscono l’adulterio della donna stravolgono le
leggi naturali, poiché invece di riflettere, rispettando, l’eccesso femminile
di godimento sessuale, lo reprimono. Capovolgendo l’equazione
patriarcale che fa della donna un essere socialmente
destabilizzante per la sua incapacità di dominare la lussuria, Boccaccio
utilizza appunto l’eccesso di lussuria (cioè di desiderio sessuale)
come argomento contro leggi umane ingiuste perché
antinaturali. Il registro comico della novella, lungi dall’impoverire la
tendenziosità ideologica del motto, ne mette in evidenza il contenuto
sovversivo, come insegna Freud nel saggio dedicato al Witz.
La autodifesa di Filippa nei confronti delle leggi di Pistoia non
coincide esattamente con quella di Francesca nei confronti della
legge divina (rappresentata da Minosse). I discorsi delle due donne
hanno però punti in comune che ci fanno riconoscere in Filippa un’al-

lieva borghese della aristocratica Francesca, poiché quell’eccesso di
passione che la ravennate adduce per sottrarsi ai rigori di una legge
che prevede, per essere applicabile, la piena libertà del soggetto nella
scelta fra il bene e il male (libertà che l’offuscamento indotto dalla
passione riduce o annulla), la pistoiese lo interpreta (d’accordo con
tutta la tradizione misogina antica e medievale) come un elemento
caratteristico e proprio della fisiologia femminile. Il che implica un
rovesciamento dialettico di straordinaria audacia ideologica: non la
sospensione della pena per “incapacità di intendere” esige Filippa,
ma un adeguamento della legge alla natura femminile, incompatibile
con la fedeltà matrimoniale perché dispone di un “avanzo” di desiderio
sessuale che nessun marito sarebbe in grado di soddisfare.

Bibliografia

BRANCA, V. (a cura di, 1992): Giovanni Boccaccio, Decameron, Torino, Einaudi.

GIRARD, R. (1965): Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni
del desiderio nella letteratura e nella vita, Milano, Bompiani.

PINTO, R. (2007): Dante (“Inf.” V) e Buster Keaton: la mediazione comica
del desiderio, in «Tenzone. Revista de la Asociación Complutense de
Dantología», 8, pp. 123-146.
PINTO, R. (2010): Poetiche del desiderio. Saggi di critica letteraria della
modernità, Roma, Aracne.
PINTO, R. (2011): L’averroismo di Francesca, in Le Passioni, a cura di F. Farina,
Rimini Editrice Romagna Arte Storia, pp. 109-118.

Leggersi negli occhi
Bonaventura Genelli, Paolo e Francesca, Acquaforte in Umrisse zu Dante’s
gottlicher Komodie…, Lipsia 1867. Particolare.
Il brano della Manon Lescaut di Puccini che avete ascoltato
esprime potentemente l’immediato turbamento ed esaltazione che
l’amore produce nell’avvertire un inafferrabile sentimento di esaltazione,
quasi un uscire fuori di sé, una luminosa espansione della vita,
un allargamento dell’io che sente di non bastare più a se stesso e
cerca di fondersi nell’altro.
Platone lo ha descritto, non solo nel Simposio, ma in alcuni brevi
passi del Fedro, dove l’Eros è accostato alla divinazione e alla poesia
come alterazione della realtà percettiva e intellettuale. Anch’esso è una
forma di follia divina che ci innalza al di sopra della banalità della vita
quotidiana e dalla solitudine con il nostro io. È felicità e tormento, risveglia
il desiderio di ignoto e di completamento di sé e il timore di perdere
ciò a cui oscuramente si era sempre aspirato. Sembra una riscoperta
di noi stessi in vesti altrui, ma anche un pericolo di perdersi nell’altro.
Si desidera ciò che si è perduto e che non conosciamo se non
oscuramente, ma verso cui non potremmo, seppur involontariamente,
orientarci, se già in qualche modo non lo avessimo esperito. Conosciamo
e non conosciamo insieme, sappiamo e ignoriamo, vogliamo
e desideriamo, sperimentiamo una presenza che è fuggita e un’assenza
che ci attrae. Le immagini, i fantasmi di desiderio, hanno perciò
questo carattere ambivalente, bicipite, di passato remoto
indistinto legato a un futuro indistinto.
Questo accade quando l’oggetto d’amore è presente o vicino: lo
si vede, magari lo si tocca. Diversa è la dinamica del desiderio
quando l’oggetto è lontano nel tempo o nello spazio, quando si pensa
o si fantastica, quando l’amore esplode o si estenua nell’altalena tra
ardore e freddezza, vivide immagini di intimità e nostalgia, tra pia-

Turbamenti d’amore
cere e dolore, tra gelosia e ritorsioni. Se è vero, come sosteneva Corrado
Alvaro, che “la lontananza è il fascino dell’amore”, è vero anche
che la lontananza rappresenta un vuoto da colmare, specie quando si
è in presenza di ostacoli e di pericoli, come spesso accade in guerra.
La nostra vita sperimenta continuamente la separazione: dal corpo
della madre, dai genitori, dagli amici, da noi stessi come eravamo nel
passato. E cerca di abituarvisi e di farsene una ragione, specie quando
la separazione coincide con una perdita irreparabile. L’esistenza individuale
e sociale è un alternarsi di separazioni e ricongiungimenti, di
fratture e di saldature. Siamo incessantemente come potati da noi stessi
e dagli altri, dalla casa natale, dalla patria, e, soprattutto, dalle persone
che amiamo e di cui rimpiangiamo l’assenza e la lontananza.
L’amore colma la distanza spaziale e temporale, azzera la lontananza
attraverso la parola scritta, il messaggio che tiene in vita la
tensione, che evoca la voce e i lineamenti, per sottrarli all’oblio.
Poiché il tema del nostro convegno è Legger d’amore, tratterò un
suo aspetto attraverso una documentazione disparata, ignorando volutamente
la sequenza cronologica, mescolando poesia e scambi di
lettere tra personaggi fittizi con la corrispondenza tra individui reali
e accostando, in quest’ultimo caso, la corrispondenza tra menti elevate
a quella che dai fronti della prima e della seconda guerra mondiale
i soldati hanno indirizzato alle loro donne.
Per quanto riguarda la poesia, si tratta di Love after love del
grande poeta caraibico (di Santa Lucia) e premio Nobel per la letteratura
DerekWalcott.
Leggiamola:
LOVE AFTER LOVE
The time will come
when, with elation
you will greet yourself arriving
at your own door, in your own mirror
and each will smile at the other’s welcome,

and say, sit here. Eat.
You will love again the stranger who was your self.
Give wine. Give bread. Give back your heart
to itself, to the stranger who has loved you
all your life, whom you ignored
for another, who knows you by heart.
Take down the love letters from the bookshelf,
the photographs, the desperate notes,
peel your own image from the mirror.
Sit. Feast on your life.
AMORE DOPO AMORE
Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro,
e dirà: Siedi qui. Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato
per tutta la tua vita, che hai ignorato
per un altro e che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore,
le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti. È festa: la tua vita è in tavola1.

1 DerekWalcott, Love after love, in Sea Grapes, London-New York 1976, tr. it.
di Giulio Forti, in Mappa del nuovo mondo, Milano 1992, p. 99.
L’amore per l’altro, compreso l’amore attraverso la lettura, è
anche un modo per ritrovare se stessi, specie quando hai tirato
giù dallo scaffale le lettere d’amore, le fotografie, le note disperate.
La speranza di rincontrare noi stessi attraverso gli altri fonda la
possibilità di accogliere quella parte di noi che ci è sempre rimasta
estranea, che ci accompagna come un ombra e tuttavia costituisce
un’immensa riserva di senso e di vita di cui dobbiamo, almeno in
parte, riappropriarci. C’è quindi qualcuno o qualcosa che rappresenta
una donazione di significato alla nostra esistenza e che ci resta
oscuro. La promessa dell’amore è anche quella di riconoscere mediante
l’altro, di ciò che avevamo sempre ignorato, pur essendo
l’oscuro cuore della nostra nascosta identità.
Nella poesia di Walcott, questo ideale di ricongiungimento con
noi stessi – o come dicono i filosofi tedeschi – di Selbstbegegnung,
comporta l’incontro sulla porta o nello specchio, con un io più profondo
e non quello superficiale, da cui dobbiamo “sbucciare” la nostra
immagine narcisistica. Solo così potremmo non solo riconoscere
la parte nascosta di noi stessi, ma anche quella di quanti ci hanno
formato e potranno ulteriormente modificarci. Siamo, infatti, una
specie di corda che intreccia molte altre vite, sia reali (quelle delle
persone che abbiamo conosciuto come gli amici i genitori), sia immaginarie
(quelle delle persone che abbiamo visto al cinema e in televisione
o letto nei romanzi, perché siamo formati anche dalle “vite
parallele” incrociate nell’immaginazione).
La festa con noi stessi è una festa in cui noi riconosciamo di essere
dei nodi di relazioni che comprendono anche l’estraneo, lo straniero
che è in noi e fuori di noi. Festeggiare la vita significa pertanto rendersi
conto che facciamo parte di una catena e che siamo anelli di qualcosa
che è più grande di noi, che si prolunga nel tempo. L’estraneità a noi
stessi si può così, paradossalmente, convertire nel luogo d’accoglienza
dell’estraneità di tutti gli altri: in questa estraneità riconciliata con noi
stessi possiamo ospitare gli altri. Perché, in fondo, l’altro c’è dove lo si
fa entrare. E l’amore è la porta principale, da cui però possono entrare

più persone. L’identità della persona amata si mantiene nella distanza
temporale e spaziale attraverso le metamorfosi indotte dall’immaginazione
e dal desiderio. Questo è un aspetto messo in rilievo da Verlaine
nella poesia Mon rêve familier (Il mio sogno familiare): “Io faccio
spesso un sogno strano e penetrante / di una sconosciuta, che amo e che
m’ama. / E che, ogni volta, non è / né un’altra, né la stessa”)2.
Passando alle lettere d’amore, comincerò citando alcuni passi,
dalla nota, ma mai abbastanza conosciuta, corrispondenza fra Abelardo
ed Eloisa, di cui tutti ricordiamo lo spiacevole finale per Abelardo.
E vi aggiungerò alcune frasi di personaggi illustri nella cultura
dell’Ottocento e del Novecento.
Scrive Eloisa, guardando indietro con nostalgia al passato e ricordando,
dopo la forzata rottura con il suo amante ormai lontano, le
delizie del tempo passato assieme: “Quei piaceri d’amor che abbiamo
gustato insieme sono stati così dolci per me, che non posso pentirmene
e nemmeno cancellarne il ricordo. Da qualunque parte mi volga
mi sono sempre davanti agli occhi con tutta la forza della loro attrazione.
Anche quando dormo mi perseguitano le loro illusioni; perfino
nei momenti solenni della messa, quando la preghiera deve essere
più pura, le immagini oscene di questi piaceri si impadroniscono talmente
della mia povera anima che mi abbandono più a queste turpitudini
che alla preghiera. Io, che dovrei piangere su quello che ho
fatto, sospiro invece per ciò che ho perduto, e non solo quello che abbiamo
fatto insieme, ma i luoghi, i momenti in cui l’abbiamo fatto
sono talmente impressi nel mio cuore che li rivedo con te in tutti i
particolari e non me ne libero nemmeno durante il sonno”3.
2 P. Verlaine, Mon rêve familier, in Poèmes saturniens, in OEuvres poètiques
complètes, Paris, 1983, p. 63.
3 Abelardo e Eloisa, Lettere d’amore, a cura di E Roncoroni, Milano, Rusconi,
1971, pp.180-187 (cfr. l’altra traduzione italiana, da cui cito, di C. Scerbanenco,
con testo latino a fronte, Lettere di Abelardo e Eloisa, Milano, BUR, 1996, Lettera
Quarta, pp. 229, 231).

Un altro leggere d’amore (che Dante non conosceva, scrivendo di
Francesca) è quello del particolare genere di lettura praticata da Abelardo
con Eloisa: “Col pretesto delle lezioni ci abbandonammo completamente
all’amore, lo studio delle lettere ci offriva quegli angoli
segreti che la passione predilige. Aperti i libri, le parole si affannavano
di più intorno ad argomenti d’amore che di studio, erano più
numerosi i baci che le frasi; la mano correva più spesso al seno che
ai libri. E ciò che si rifletteva nei nostri occhi era molto più spesso
l’amore che non la pagina scritta, oggetto della lezione […] Il nostro
desiderio non trascurò nessun aspetto dell’amore, ogni volta che la
nostra passione poté inventare qualcosa di insolito, subito lo provammo;
e quanto più eravamo inesperti in questi piaceri, tanto più ardentemente
ci dedicavamo ad essi e non ci stancavamo mai. Quanto
più eravamo inesperti di quei giochi d’amore, tanto più insistevamo
nel procurarci il piacere e non ci stancavamo mai”4.
Con il tempo cambia la prospettiva con cui si giudicano gli eventi.
Brucia ancora nelle parole di Abelardo la memoria di quella passione
che lo aveva attanagliato e che lo spingeva persino a costringere con
la forza Eloisa alle sue voglie: “Tu sai a quante cose vergognose la
mia lussuria smodata trascinò i nostri corpi al punto che nessuna onestà
e rispetto per Dio fu sufficiente a trattenermi dal fango della palude
dei sensi, neppure nei giorni della passione del signore o di
qualsiasi altra solennità. Anche quando tu non volevi e, per natura più
debole, cercavi di rifiutare e di dissuadermi come potevi, spesso ti costringevo
ad accettare il mio piacere con minacce e percosse”5. Nel
ricordo della passata esaltazione il sentimento di vergogna e i pentimenti
postumi di Abelardo confliggono in parte con l’atteggiamento
di Eloisa, che ritiene l’intenzione buona capace di giustificare ogni
amore.
4 Abelardo, Historia calamitatum mearum, in Lettere di Abelardo e Eloisa, cit.,
Lettera prima, p. 69.
5 Lettere di Abelardo e Eloisa, cit., p. 265.

Dopo aver ricordato una delle prime corrispondenze letterarie di lettere
d’addio per chi parte in guerra, un testo classico, farò alcuni brevi
cenni conclusivi sulle cartoline e lettere dal fronte alle mogli, amanti e
fidanzate lontane, provenienti da raccolte private o da archivi militari.
Il riferimento a un classico è quello a un brano tratto dalle Eroidi
di Ovidio, in cui la Ninfa Enone, abbandonata, da Paride, ricorda i bei
giorni: “Spesso, in mezzo alle greggi, abbiamo trovato riposo al riparo
di un albero e l’erba frammista a foglie ci faceva da giaciglio. Spesso,
mentre ce ne stavamo sdraiati sulla paglia o sul fieno folto, un’umile
capanna ci ha riparati dalla candida brina […] I faggi, incisi da te, conservano
il mio nome: si legge Enone, tracciato dal tuo falcetto. E
quanto crescono i tronchi, altrettanto cresce il mio nome: crescete e tiratevi
su dritti per attestare i miei titoli! [Mi rammento, c’è un pioppo,
piantato sulla riva di un fiume, sul quale è incisa una scritta in mio ricordo.]
Vivi, ti prego, pioppo, che piantato sul margine della riva rechi
sulla ruvida corteccia questi versi: ‘Se Paride, abbandonata Enone,
potrà ancora vivere, l’acqua dello Xanto invertirà il suo corso andando
verso la sorgente’ […]. Furono tagliati gli abeti e segate le assi e, allestita
una flotta, l’onda azzurrina accolse le imbarcazioni spalmate di
cera. Piangesti nel partire […] Piangesti e vedesti i miei occhi in pianto.
Entrambi dolenti confondemmo le nostre lacrime. L’olmo non è altrettanto
avvinto dai rami di vite che lo allacciano, quanto le tue braccia
si strinsero al mio collo. Ah, quante volte, quando ti lamentavi di
essere trattenuto dal vento, i tuoi compagni risero: il vento era propizio!
Quante volte, dopo avermi congedata, mi richiamasti per baciarmi!
Con quanta fatica la lingua fu in grado di dire “Addio”! Una
leggera brezza fa gonfiare le vele che sventolano dall’albero ritto e
l’acqua sollevata dai remi, biancheggia. Inseguo tristemente con lo
sguardo, fin dove posso, le vele che si allontanano, mentre la sabbia si
inumidisce per le mie lacrime”6.
6 Ovidio, Eroidi, a cura di E. Salvadori, con testo latino a Fronte, Milano, Garzanti,
2008, V, Enone a Paride, pp. 41, 43.
Non posso soffermarmi a lungo sulle lettere e cartoline dell’Ottocento
e del Novecento da e per il fronte. Tra la vasta documentazione,
segnalo, tuttavia, in nota alcune fonti7.
Un’avvertenza; nell’attesa spesso spasmodica, di ricevere e ricambiare
i pensieri e gli affetti più intimi, non bisogna dimenticare
l’attenuazione di certi sentimenti e desideri a causa della censura militare.
Ne è ben consapevole il maggiore Aldo Beghi nella sua cartolina
alla moglie Iolanda del 2 maggio 1918: “Io attendo ansiosamente
tuoi scritti che mi portino notizie tue e le parole affettuose che tanto
desidero e che sono il mio solo conforto. Vivo della speranza di rivederti
presto e godere fra le tue braccia i tuoi baci soavi...Vorrei dirti
tante cose, ma non mi oso – qui – “. E lo sa anche Manlio Pertampi,
che scrive in questi termini alla consorte il 2 marzo 1943: “Nei miei
giri d’ispezione sono sempre solo, e ho tempo di pensarti a mio agio,
anche se non sempre posso mettere per iscritto ciò che penso”.
La guerra, la paura e i pericoli fanno esaltare quella quotidianità
che a molti appariva prima grigia e noiosa. Frequente è, infatti, il
rimpianto e la nostalgia per la vita relativamente anti-eroica e tranquilla
e per gli affetti saldi che si sono lasciati a casa. Li manifesta,
in toni lirici, Cristiano Nusdorfi dalla prigionia nella lettera del 12
giugno 1944: “O moglie adorata, un cuore come questo tanto voglioso
di dare amore, non avrebbe potuto altro che condurre una vita
felice, fatta di sentimenti giusti, nobili e cari, che per l’umanità dovevano
essere uno specchio, esempio tanto caro di virtù per le creature
della terra! Ma quella che sarebbe stata un’esemplare esistenza...

7 Oltre a L’ultimo fronte. Lettere di soldati caduti o dispersi nella seconda
guerra mondiale, a cura di N. Revelli, Torino, Einaudi, 2009 (il cui tono è generalmente
più drammatico), desidero segnalare la recente pubblicazione delle
Lettere d’amore dal fronte…io non sono tristo, a cura di Claudia Cencini, Pitigliano,
Strade bianche/Stampa alternativa, 2011, che si trova anche on-line
(http://www.google.it/search?client=firefoxa&rls=org.mozilla%3Ait%3Aofficial&
channel=s&hl=it&source=hp&q=Claudia+Cencini&meta=&btnG=Cerca+con+
Google).
è stata strappata dal nostro cuore, come un fiore portato via dal vento,
lontano dal suo giardino, dal suo nido “prescelto”, e gettato violentemente
nell’abisso, nella tristezza, circondato da fili spinati. E fili
spinati sono ora la mia casa, è qui che vivo di sentimenti dolorosi, di
un’esistenza straziata, fatta solo di ricordi belli e per questo ancor
più amari”8.
Voglio chiudere citando, scherzosamente, la reazione con cui le
donne pisane delle vecchie generazioni esprimevano il loro scontento
nel ricevere dal fronte sole le cartoline dei loro amati, invece di
godere della loro presenza in carne e ossa: “Ohimena, che passione,
averlo di ciccia e baciarlo di cartone!”.

Da Lettere d’amore dal fronte…io non sono tristo.
Francesca d’Italia
Manifesto della mostra realizzata nell’ambito delle celebrazioni per il centocinquantesimo
anniversario dell’Unità d’Italia. Rimini, Museo della Città,
marzo-aprile 2011.


R. Arqués è docente di letteratura italiana presso l’Università
Autonoma di Barcellona. Membro della “Societat Catalana d’Estudis
Dantescos” (SCED), è redattore della rivista di studi danteschi
“Tenzone”. Ha insegnato nelle Università di Cagliari, Venezia e Trieste.
Per quanto riguarda Dante e la letteratura medievale, si è occupato
prevalentemente della ricezione di Dante nel ventesimo secolo
in Spagna e in America del Sud e coordina attualmente un network
internazionale su “Dante e l’arte” dedicato alla ricerca sulla ricezione
artistica del poeta fiorentino, ma ha promosso e studiato la letteratura
italiana delle origini con la pubblicazione di libri e opere su Giacomo
da Lentini, Guido Cavalcanti, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio.
Recentemente ha pubblicato un’edizione spagnola del Secretum
di Petrarca (2011).

L. Ballerini vive a NewYork e insegna letteratura italiana moderna
e contemporanea presso l’Università della California di Los Angeles
(UCLA). È il direttore generale di Cum grano salis, una collana di libri
dedicati alla gastronomia storica pubblicati dalla Guido Tommasi Editore
di Milano. Ha pubblicato raccolte di poesie, antologie di poesia italiana
ed americana, testi critici, traduzioni. Ha tradotto in italiano
numerosi testi di autori americani tra cui: Herman Melville, Henry
James, William Carlos Williams, James Baldwin, Kurt Vonnegut.
La sua edizione de Gli indomabili di Marinetti è stata pubblicata da
Mondadori nel 2000, seguita da quella di Mafarka il futurista nella
primavera del 2003. È stato curatore di mostre di arte contemporanea
italiana, tra cui “Scrittura visuale in Italia” al Finch Museum di
New York e alla Galleria civica d’arte moderna Torino (1973) e
“Spelt from Sybil’s Leaves” alla Power Gallery di Sydney (1984).
È intervenuto in numerose conferenze: “The Disappearing Pheasant
I” (New York, 1991) e “The Disappearing Pheasant II” (Los An-
geles, UCLA, 1994). Nelle sue pubblicazioni ha più volte collaborato
con artisti tra cui: Paolo Icaro (La parte allegra del pesce, 1984
e Leggenda di Paolo Icaro, 1985), Eliseo Mattiacci e Remo Bodei
(La torre dei filosofi, 1986), Angelo Savelli (Selvaggina, 1988),
Marco Gastini (Una più del diavolo, 1994 e Navi di terra e di mare,
1999), Vademecum per il Carro solare di Eliseo Mattiacci (2004).
Nel 1992 ha ricevuto il premio Feronia per la poesia. Come storico
dell’arte culinaria ha curato l’edizione di Science in the Kitchen and
the Art of EatingWell di Pellegrino Artusi, mentre il suo Maestro Martino:
The Book of the Culinary Art è stato pubblicato nel 2004. Collabora
a “Gastronomica” e al programma “Gambero Rosso”.
Remo Bodei, laureato all’Università di Pisa, dove ebbe come maestro
Arturo Massolo che lo introdusse allo studio dell’idealismo tedesco
e in particolare alla filosofia hegeliana, ha perfezionato la sua
preparazione teorico-storico-filosofica a Tubinga e Friburgo, frequentando
le lezioni di Ernst Bloch ed Eugen Fink; ad Heidelberg,
con Karl Löwith e Dieter Henrich; poi all’Università di Bochum.
È stato visiting professor presso le Università di Cambridge, Ottawa,
New York, Toronto, Girona, Città del Messico, California Los Angeles
ed ha tenuto conferenze in molte università europee, americane
ed australiane. Dal 2006 insegna filosofia alla UCLA di Los Angeles,
dopo aver a lungo insegnato storia della filosofia ed estetica alla
Scuola Normale Superiore e all’Università di Pisa dove tuttora tiene
qualche corso. Appassionato cultore della poesia hölderliniana, all’autore
dell’Hyperion ha dedicato saggi di notevole interesse, con
Geometria delle passioni ha esteso la sua meditazione anche a protagonisti
della filosofia moderna come Cartesio, Hobbes e soprattutto
Spinoza. Studioso del pensiero utopistico del Novecento, in
particolare del marxismo eterodosso di Ernst Bloch e di autori francofortesi
come Adorno e Walter Benjamin, è intervenuto nella discussione
sulla filosofia politica italiana, confrontandosi e dialogando
in particolare con Norberto Bobbio, Michelangelo Bovero, Salvatore
Veca, Nicola Badaloni. I suoi libri sono tradotti in molte lingue.

Nel 1992 ha vinto il Premio Nazionale Letterario Pisa Sezione Saggistica.
Inoltre, ha curato la traduzione e l’edizione italiana di testi di
Hegel, Rosenkranz, Rosenzweig, Adorno, Kracauer, Foucault. Molti
suoi lavori hanno per oggetto lo spessore e la storia delle domande
che riguardano la ricerca della felicità da parte del singolo, le indeterminate
attese collettive di una vita migliore, i limiti che imprigionano
l’esistenza ed il sapere entro vincoli politici, domestici ed ideali.
Attualmente lavora sulla storia e sulle teorie della memoria.
Michela Cesarini, storica dell’arte, è collaboratrice dei Musei Comunali
di Rimini dal 1997 per la catalogazione del patrimonio e la didattica.
Studiosa di arte locale, ha ideato percorsi di valorizzazione
delle opere d’arte conservate al Museo della Città di Rimini e di monumenti
cittadini. Tra questi Arte e fede nelle chiese riminesi, in collaborazione
con la Diocesi di Rimini e Impara l’arte, corso di
aggiornamento per insegnanti giunto alla IX edizione. Ha curato mostre
e ha pubblicato numerosi contributi sull’arte riminese in monografie
e riviste specializzate. Collabora con il periodico“Ariminum”
e il quotidiano “Il Resto del Carlino” con contributi di carattere culturale.
È docente di storia dell’arte nella scuola superiore.
Massimo Ciavolella ha studiato presso l’Università di Bologna,
Roma, e della British Columbia (Vancouver, Canada), dove ha ricevuto
nel 1972 un Dottorato di Ricerca (Ph.D.) in Letteratura Classica,
Medievale e Rinascimentale. Dal 1970 al 1985 ha insegnato presso
la Carleton University di Ottawa, dal 1986 al 1996 presso l’Università
di Toronto, e dal 1996 è Professore d’Italiano e letteratura Comparata
e direttore del Dipartimento d’Italiano presso la University of
California a Los Angeles (UCLA). È stato condirettore delle collane
“Carleton Renaissance Plays in Translation” (Dovehouse Editions,
Ottawa), “Major Italian Authors” e “Italian Series” della University
of Toronto Press, e co-fondatore della rivista “Quaderni d’italianistica”.
Con il Professor Luigi Ballerini co-dirige la collana “Lorenzo
Da Ponte Italian Library” che si prefigge di pubblicare in traduzione

inglese 100 testi italiani che nei secoli hanno interagito con la cultura
anglosassone. È autore di molti articoli, recensioni e voci enciclopediche,
e ha scritto o curato vari volumi sulla cultura medievale e rinascimentale.
Tra le sue monografie: La malattia d’amore
dall’antichità al medioevo, Bulzoni, Roma, 1976; Comparative Critical
Approaches to Renaissance Comedy, Dovehouse, Ottawa,
1986; Saturn from Antiquity to the Renaissance, Dovehouse, Ottawa,
1992; Edizione critica dell’unica commedia rimasta di Gian Lorenzo
Bernini, L’impresario (a cura di), Salerno, Roma, 1992; Eros and
Anteros: Medicine and the Literary Traditions of Love in the Renaissance,
Dovehouse, Ottawa, 1993; Italian Studies in North America,
Dovehouse, Ottawa, 1994; La lotta con Proteo. 2 volumes,
Cadmo, Firenze, 2001; Ariosto Today. Contemporary Perspectives,
TorontoUniversity Press, Toronto, 2003; Culture and Authority in
the Baroque, Toronto University Press, Toronto, 2005.
Valeria Cicala è funzionario dell’Istituto per i beni culturali della
Regione Emilia-Romagna. Antichista per formazione e giornalista,
scrive di comunicazione dei beni culturali e di storia antica. Redattore
capo della rivista “IBC”, collabora con emittenti radio e tv;
è nella redazione di testate specializzate.
Per le Università di Bologna e Ferrara svolge docenze per master di
comunicazione e per la Scuola di giornalismo dell’Alma Mater.
Ferruccio Farina, storico del turismo e della comunicazione per immagini,
ha tra i suoi recenti interessi la fortuna e il mito di Francesca
da Rimini. Tra le monografie pubblicate: Francesca da Rimini,
sulle tracce di un mito, Rimini 2006; Architetture balneari della Belle
Epoque tra Europa e Americhe, Milano 2001; Baci, carezze e pensieri
d’amore. Messaggi amorosi in cartolina 1900 – 1950, Milano
1997; Le Sirene dell’Adriatico, 1850 – 1950. Riti e miti balneari nei
manifesti pubblicitari, Milano 1995; Il mare di Dudovich, vacanze e
piaceri balneari nei segni del più grande cartellonista italiano 1900
– 1950, Milano 1991; L’estate della grafica, manifesti e pubblicità

della Riviera di Romagna, Cinisello Balsamo 1989. Ha progettato e
dirige il sito “Balnea, Museo virtuale dei bagni di mare e del turismo
balneare”, realizzato in collaborazione con il Comune di Rimini
e la Regione Emilia Romagna. Ha fondato la rivista “Romagna Arte
e Storia” attiva dal 1980. Ha progettato e cura le Giornate Internazionali
Francesca da Rimini. È professore a contratto di Sociologia
del turismo alla Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di
Urbino Carlo Bo.
Roberto Fedi è ordinario di Letteratura italiana a Perugia. È studioso
di Petrarca e della poesia del Rinascimento e dei rapporti fra letteratura
e arti figurative, e della cultura dell’Otto-Novecento. Fra le sue
opere: volumi sulla cultura otto-novecentesca (Cultura letteraria e
società civile nell’Italia unita, Pisa 1984; Scritture novecentesche,
Firenze 2008), sulla lirica del Rinascimento (La memoria della poesia,
Roma 1990), una monografia su Petrarca (Milano 2002), l’edizione
critica del Diario di Jacopo da Pontormo (Roma 1996), un
volume su Ariosto (Ariosto today, University of Toronto Press 2004,
in collaborazione con M. Ciavolella) e uno sul rapporto fra l’idea figurativa
del biondo e la letteratura (I poeti preferiscono le bionde.
Chiome d’oro e letteratura, Firenze 2007).
Giulio Ferroni è uno storico della letteratura, critico letterario, scrittore
e giornalista italiano. Dal 1982 è professore ordinario di letteratura
italiana presso l’Università “La Sapienza” di Roma;
precedentemente, aveva insegnato dal 1975 presso l’Università della
Calabria. Ha scritto numerosi saggi di letteratura: su Machiavelli, su
Aretino, sul Novecento e su molti scrittori contemporanei. Collabora
con riviste e quotidiani italiani e stranieri. Tra i volumi pubblicati:
Mutazione e riscontro nel teatro di Machiavelli, Bulzoni, Roma 1972;
Il comico nelle teorie contemporanee, Bulzoni, Roma 1974; Le voci
dell’istrione. Pietro Aretino e la dissoluzione del teatro, Liguori, Napoli
1977; Il testo e la scena, Bulzoni, Roma 1980; Ambiguità del comico,
Sellerio, Palermo 1983; Storia della letteratura italiana, 4 voll.,

Einaudi Scuola, Torino 1991; Gianmatteo del Brica, Lettere a Belfagor,
Donzelli, Roma 1994; Dopo la fine. Sulla condizione postuma
della letteratura, Einaudi, Torino 1996; La scuola sospesa. Istruzione,
cultura e illusioni della riforma, Einaudi, Torino 1997; La scena intellettuale.
Tipi italiani, Rizzoli,Milano 1998; Passioni del Novecento,
Donzelli, Roma 1999; Dizionaretto di Robic, Centouno parole per
l’altro millennio, Manni Editori, 2000; Machiavelli, o dell’incertezza,
Donzelli, Roma 2003; I confini della critica, Guida 2005; Prima lezione
di letteratura italiana, Laterza, Roma-Bari 2009; La passion
predominante. Perché la letteratura, Liguori, Napoli 2009; Dopo la
fine, Donzelli, Roma 2010; Scritture a perdere, Laterza, 2010.
Diana Glenn è docente di italianistica presso la Flinders University,
South Australia, dove, fra l’altro, ricopre l’incarico di Vice Preside
dell’Istituto di Studi Umanistici. Ha pubblicato numerosi saggi e articoli
su riviste italiane e straniere ed ha curato (con Margaret Baker)
gli Atti di vari convegni su Dante: Dante Colloquia in Australia
1982-1999 (Adelaide: Australian Humanities Press, 2000) e Flinders
Dante Conferences 2002 & 2004 (Adelaide: Lythrum Press, 2005).
Nel 2008 ha pubblicato una monografia su Dante intitolata Dante’s
Reforming Mission and Women in the Comedy (Leicester, UK: Troubador
Italian Series).

D. O’Grady, irlandese, è professore ordinario di Studi Italianistici
e Comparati all’University College di Dublino, ove ha studiato
e ove ha conseguito il Dottorato di Ricerca (Ph.D.). É laureata anche
all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. È autrice di numerose
volumi monografici tra i quail Alexander Pope and Eighteenth-
Century Italian Poetry, Bern/NewYork, Peter Lang, 1986; The
Last Troubadours. Poetry and Drama in Italian Opera, London,
Routledge, 1990; Piave, Boito, Pirandello: From Romantic Realism
to Modernism, Edwin Mellen Press, Lampeter/ NewYork, 2000; edizione
critica de La locandiera di Carlo Goldoni, Foundation for Italian
Studies, University College Dublin, 1997. Più di quaranta i suoi
articoli e saggi pubblicati in Italia, Francia, Inghilterra e Irlanda.
Ha partecipato a convegni in Italia, Francia, Malta, Danimarca, Ungheria,
Inghilterra, Scozia e Irlanda. Ha organizzato convegni Internazionali
a Dublino su Goldoni, Boito e Futurismo. External
Examiner all’Oxford University e all’University of Leeds. È Cavaliere
dell’Ordine della Stella della Repubblica Italiana.

R. Pinto è docente di Filologia italiana presso la “Universitat de
Barcelona” e consulente di Studi Letterari presso la “Universitat Oberta
de Catalunya”. Collabora con la “Societat catalana d’Estudis dantescos”
e con la rivista di studi danteschi “Tenzone”. Ha realizzato due
edizioni spagnole della Vita Nuova, e numerosi saggi su temi danteschi,
fra i quali si segnala la monografia: Dante e le origini della cultura
letteraria moderna, Champion, Parigi, 1994. Fra le sue linee di
ricerca c’è anche la storia del cinema, alla quale ha dedicato diversi articoli,
fra i quali si segnalano, per i contenuti danteschi: Beatrice, Fellini
e gli uccelli, in “Dante”, 2, pp. 89-97, 2005; Dante (‘Inf. V’) e
Buster Keaton: la mediazione comica del desiderio, in “Tenzone”, 8,
123-146, 2007.
Piotr Salwa è professore ordinario di Letteratura italiana all’Università
di Varsavia. È autore di vari studi sulla novellistica italiana (Narrazione,
persuasione, ideologia. Una lettura del Novelliere di Giovanni
Sercambi, lucchese, Lucca 1991; La narrativa tardogotica toscana, Firenze
2004) e sulla fortuna di classici italiani in Polonia. Direttore di
una storia della letteratura italiana in polacco. Premio Mondello per la
traduzione (2008) e per le edizioni polacche del Petrarca.
Rita Severi insegna Lingua e Letteratura Inglese e Animazione Teatrale
all’Università degli Studi di Verona. Le sue ricerche spaziano
dai viaggiatori anglofoni in Italia alle Anglo-Italian Relations al
tempo di Shakespeare e di Oscar Wilde. Su Oscar Wilde ha pubblicato:
L’Anima dell’Uomo. Oscar Wilde e l’Italia (Palermo, Novecento,
1998), La Biblioteca di Oscar Wilde (Palermo, Novecento,

2005), assieme a Masolino D’Amico, Oscar Wilde, Le Arti, L’Italia
(Palermo, Novecento, 2001), Oscar Wilde & Company. Sinestesie
Fin de Siècle (Bologna, Patron, 2001). Ha curato la prima edizione
di E. Wharton, La Valle della Decisione (Reggio Emilia, Diabasis,
1999), M. Hewlett, Madonna of the Peach Tree (ed. bilingue, Bologna,
Patron, 2007); una nuova traduzione di George Byron, Parisina.
Sta per pubblicare una raccolta di saggi dal titolo Rinascimenti. Shakespeare
& Anglo-Italian Relations (Bologna, Patron, 2009).
Natascia Tonelli insegna Letteratura italiana all’Università di Siena.
Studiosa della letteratura medievale e umanistica, ha pubblicato numerosi
saggi su Dante e Petrarca, sulla cultura medica nella letteratura
delle origini da Cavalcanti a Boccaccio, sulla tradizione elegiaca.
Costante la sua attenzione anche per la poesia del Novecento, alla
quale in particolare ha dedicato un lavoro sul sonetto contemporaneo.
Condirige la rivista “Per leggere” dedicata a edizione, commento e
lettura di testi.


Francesca da Rimini & Co. between sin, virtue and heroism
DONNE ALL’INFERNO
Francesca da Rimini & Co. tra peccato, virtù ed eroismi
Giornate Internazionali Francesca da Rimini


Women in Hell
Francesca da Rimini & Co. between sin, virtue and heroism
Giornate Internazionali Francesca da Rimini

Progetto e realizzazione: UCLA Center for Medieval and Renaissance Studies e
Romagna arte e storia, rivista di cultura, Rimini
Comitato scientifico: Massimo Ciavolella, Valeria Cicala, Ferruccio Farina, Roberto
Fedi, Giuseppe Mazzotta, Piero Meldini, Deirdre O’Grady, Raffaele Pinto, Piotr
Salwa, Natascia Tonelli, Nadia Urbinati
Patrocinio di: Presidenza della Repubblica Italiana, Dante Society of America, Società
Dantesca Italiana, IBC, Istituto per i beni artistici culturali e naturali Regione
Emilia-Romagna
Cura dell’iniziativa: Massimo Ciavolella e Ferruccio Farina

WOMEN IN HELL
Convegno di studi
UCLA Center for Medieval and Renaissance Studies
Royce Hall, 10745 Dickinson Plaza Los Angeles, CA
Istituto Italiano di Cultura, 1023 Hilgard Avenue,
Los Angeles, CA

PASSIONI D’ITALIA
Francesca da Rimini nell’immaginario popolare
tra Europa e Americhe, tra Otto e Novecento
Esposizione di incisioni e proiezione di film d’epoca
Istituto Italiano di Cultura, Los Angeles, CA

PASSION ON PAPER
Francesca da Rimini, peccato e passione
Cimeli bibliografici in mostra
UCLA Charles E. Young Research Library,
UCLA Research Library Building,
Los Angeles, CA 90095-1575

Brittany Asaro, UCLA, University of California, Los Angeles

"Boccaccio’s Francescas: Comparing Inferno V and the Tale of Nastagio degli Onesti (Dec. V.8)
Luigi Ballerini, UCLA, University of California, Los Angeles
Teodora: a Gift of God Nowhere to be Found
but probably in Hell, Somewhere
Remo Bodei, UCLA, University of California, Los Angeles
"Attaccamento e abbandono: Francesca e Didone in Dante"

Massimo Ciavolella, UCLA, University of California, Los Angeles
Ferruccio Farina, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo
"Dall’inferno al paradiso: la trasformazione di Francesca nelle
arti visive tra XIX e XX secolo"

L’inferno in terra. Un manicomio femminile alla fine dell’Ottocento.
The Hell on the Earth. A Feminine Madhouse at the end of XIX
Century
Paolo Golinelli, Università degli Studi di Verona
Le “antifrancesche” storiche:
Cunizza da Romano e Matelda/Matilde di Canossa
Melina Madrigal, UCLA, University of California, Los Angeles
A lightly veiled hell: Arcangela Tarabotti’s La tirannia Paterna
Giuseppe Mazzotta, Yale University, New Haven, Connecticut
Didone amorosa
Deirdre O’Grady, University College di Dublino
Un ‘dualismo dantesco’:
Francesca da Rimini fra tentazione, tradimento e turbamento
Lucia Re, UCLA, University of California, Los Angeles
Metamorphoses of Thäis

Gianluca Rizzo, College of Franklin and Marshall
Mucchiachias Sathanae: le peccatrici di Dante e le streghe del
Folengo
Rita Severi, Università degli Studi di Verona
“The love which made hell, paradise”.
Ouida (Maria Louise Ramé, 1839-1908) re-writing
the Paolo and Francesca theme in Held in Bondage
Heather Sottong, UCLA, University of California, Los Angeles


"Three Argentine Visions of Francesca:
Victoria Ocampo, Jorge Luis Borges, and Leopoldo Lugones."

Dominic Siracusa, UCLA, University of California, Los Angeles
For the Poet’s Sake:
The Linguistic Sign and Women Who Lead to Hell
Cindy Stanphill, UCLA, University of California, Los Angeles
Damned if She Does and Damned if She Doesn’t:
The Griselda Complex in Moderata Fonte’s Il merito delle donne
Eduard Vilella, UAB Barcelona
Not even in Hell: Dante’s Isolde
IN TELECOLLEGAMENTO
Rossend Arqués, Università Autonoma di Barcellona
Scellerate donne. Note sulla semantica della “scelleratezza” nel
Trecento
Giulio Ferroni, Università “La Sapienza” di Roma
“Inferni” femminili nel Decameron
Raffaele Pinto, Universitad de Barcelona
Le lacrime di Beatrice (Inf. II)

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