Ultime imprese del Doria.
Il corsaro Dragut, ricuperata la libertà mediante lo sborso di cospicua somma, era tornato a pirateggiare, conquistandosi vasta possessione sulla costa africana a danno degli spagnuoli che stavano in Susa e Monastir, dipendenti da Tunisi, ed in ultimo aveva conquistato, per tradimento, il forte di Mehdge.
Andrea Doria informato, nel marzo del 1550, di quest' ultima impresa di Dragut, con venti galere, fece vela per la Barberia, passando prima da Napoli e dalla Sicilia, ove imbarcò truppe spagnuole. Arrivato a Tunisi raccolse il re Muley-Hassan stato detronizzato e accecato dal figlio, s'impadronì di Monastir e quindi cinse d' assedio la fortezza di Mehdge stata ben munita da Dragut, che s'era rifuggiato nell'isola Djerbe. L'assedio fu lungo e difficile; il 10 settembre fu assalito con straordinario vigore e penetrò nella terra contestata. Quindici giorni dopo il Doria tornava in Genova, festeggiato per la vittoria riportata.
Ma non vi rimase lunga pezza. Nei principii del 1551 s'imbarcò novellamente ritornando a Mehdge, che fortificò per bene; quindi tentò la presa dell'isola Djerbe, ove sapeva trovarsi Dragut; ma questi con abile strattagemma riuscì a sfuggirgli impadronendosi d'una nave che proveniva di Sicilia recandogli soccorso. Il vecchio Doria, irritato del tiro giuocatogli dall' astuto corsaro, fece ritorno in Genova, ma l' anno seguente trovossi di nuovo a fronte di Dragut presso l'isola di Precida, costretto a pigliare la fuga, onde non cadérgli nelle mani, come gli caddero sette sue galere.
Frattanto era scoppiata fierissima guerra tra Enrico II re di Francia e l'imperatore Carlo V, e quegli alleato del sultano Solimano aveva volto le proprie armi sulla
Corsica, la quale per la sua posizione tornava favorevole centro pei francesi nel Mediterraneo. Il marchese di Termes guidava le truppe francesi, Dragut comandava la flotta ottomana. Ispiratore ardente e guida secura dell'impresa era Sampiero di Bastelica.
Il 22 agosto 1553 gli alleati franco-turchi approdarono vicino a Bastia e, poichè scarso era il presidio genovese dell'isola, in breve se ne impadronirono, solo eccettuata Calvi ch' eroicamente tenne ferma' la sua fede alla repubblica genovese, o meglio al Banco di S. Giorgio cui allora apparteneva l'isola.
Qui fu grande la costernazione alla notizia di tanto disastro, e ne fu commosso anche l'imperatore; onde Andrea Doria accettò, malgrado l'età, la carica di capitano generale per la spedizione di Corsica, conferitagli dalla repubblica. Cominciò egli ad inviare come avanguardia Agostino Spinola con ventisette galere e tremila uomini che, sbarcati a Calvi, costrinsero il marchese di Termes a levare l'assedio.
Intanto ultimati i preparativi della repubblica il Doria con trenta galere, quattordici altre navi, ottomila uomini e una grossa artiglieria, gettò l'ancora nel golfo di S. Fiorenzo, ove lo raggiunse lo Spinola. Dapprima cinse d'assedio Bastia, costringendo i francesi a capitolare, quindi San Fiorenzo dov'entrò il 17 febbraio 1554. Ma presto dovette abbandonare la guerra di Corsica, che durò ancora con varia vicenda sino al 1559, quando venne stipulata la pace di Cateau-Cambrésis, chiamato dall'imperatore a difendere la penisola italiana dall'armata di Dragut il quale aveva lasciata la Corsica dopo la presa di Bonifazio il 22 settembre 1553.
Malgrado la tarda età sua, il Doria seguitò a servire Filippo II dopo che Carlo V abdicò, nella guerra contro Francia, e si può dire di lui che posò le armi solo quando la morte non gli permise più di maneggiarle, il 25 novembre del 1560, presso a compiere i 94 anni.
E qui non dirò, col Petit, che oggi sia giusto e morale, condannarne la memoria; dirò invece che oggi è doveroso esporne la vita quale fu veramente, non come la vollero dipingere i suoi panegeristi.
XII.
Sampiero di Bastelica. — Guerra di Corsica.
Sampiero nel xvi secolo fu il campione dell'indipendenza corsa come nel secolo Xviii lo fu Pasquale Paoli : arditezza, coraggio a tutta prova e non comune abilità politica e militare erano le sue virtù. Nato in Bastelica, terra grossa e civile della diocesi di Aiaccio, come dice il Casoni, da
detta terra, secondo l'usO Sampiero di Bastelica.
dell'isola, prese il cognome. Abbracciato il mestiere delle armi, servi a Roma, in Toscana e quindi in Francia, dove Caterina de' Medici, che amava gli uomini risoluti, lo tolse a proteggere. Pel suo valore fece rapidi passi nella carriera, tanto che col grado di colonnello lo vediamo istigatore della conquista francese della Corsica nel 1553 — conquista di cui fu l'anima e il nerbo principale, eccitando egli i Corsi suoi concittadini a scacciare gli odiati genovesi e ad aprire le braccia ai francesi.
Costretto a ritirarsi dall' isola colle truppe del marchese di Termes dopo la pace di Cateau-Cambresis, per la quale la Francia rilasciò la Corsica in potere dell' ufficio di S. Giorgio, che non potendo da solo sostenerla la retrocesse al governo della repubblica, Sampiero fece ritorno in Francia, eccitando quella corte ad aiutarlo a cacciare la signoria genovese dall'isola sua.
La morte di Enrico II, che lasciò il regno in potere del minorenne Francesco II suo figlio, sotto la tutela di Caterina de' Medici e in preda alle guerre civili, non permise pel momento alla Francia di secondare i desideri di Sampiero, il quale perfino al corsaro Dragut e a Solimano ricorse, ma invano, per essere aiutato nella vagheggiata impresa.
Ora accadde, a eccitare maggiormente l'odio profondissimo che s'annidava nel suo animo contro i genovesi, che la moglie sua, Vannina d'Ornano, della quale egli era innamorato e fieramente geloso, lasciossi facilmente indurre, da messaggieri della repubblica di Genova, ad abbandonare la casa maritale in Marsiglia e, a bordo di una galera, rifugiarsi in Genova dove avrebbe avuto onori e protezione. Ma scopertasi la fuga da un confidente di Sampiero, egli riuscì in tempo a ripigliarla e a consegnarla al marito che la strangolò.
Addolorato di questo fatto, di cui incolpava i genovesi, pellegrinò ovunque poteva trovare e creare loro nemici; e così implorò gli aiuti di Francia, dei Medici, dei Fieschi e dei Fregosi; ma respinto da tutti, odiato da tutti per la morte di Vannina, il 12 giugno 1564 sbarcò nell'isola di Corsica sebbene ne fosse bandito, seguito da pochi partigiani sperando di eccitare una sollevazione.
E la speranza non fu delusa. Una tassa del tre per cento sulle proprietà, e un' altra di una lira per individuo state imposte dai genovesi provocarono dei torbidi, profittando dei quali Sampiero fece scoppiare la rivolta, ripigliando la guerra con qualche successo. Ma i genovesi ricevuti rinforzi guadagnarono ben tosto il terreno perduto, e la guerra tra i Corsi ribellati e i genovesi seguitò con ferocia senza pari per circa tre anni. Un comandante genovese fatto prigioniero fu dato a divorare ai cani, tanto era l'odio che animava quegli uomini!
Genova aveva messa una taglia per la testa di Sampiero, e non mancò il traditore che per vendetta personale e per avidità di guadagno favorisse i disegni de' genovesi. Tratto Sampiero in un' imboscata tesa da Raffaello Giustiniani, per opera di Vitiolo d'Ornano, cadde morto trafitto da un' archibugiata nelle spalle , mentre eroicamente pugnava.
Il figliuolo suo, Alfonso Ornano, fu acclamato lor capo dai ribelli, ma ben presto per opera di Giorgio Doria, abilissimo governatore dell' isola in nome della repubblica, i principali capi della rivolta, compreso il figlio di Sampiero, posarono le armi riparando in Francia. Ai rimasti fu concessa una grande amnistia, e i Corsi inviarono una solenne ambasciata a protestare della loro devozione a Genova.
Quattro anni dopo, cioè nel 1573 Alfonso Ornano si recò in Genova quale ambasciatore del re di Francia a chiedere l'assodamento di 800 corsi, e appena egli fu innanzi al Senato si prostrò a ginocchia , dice il Casoni, e supplicò i Padri a condonargli i trascorsi della prima gioventù; il che tornò molto gradito al governo della repubblica.
XIII.
Impresa di Finale. — Perdita di Scio.
Governava il marchesato di Finale, Alfonso II del Carretto con modi aspri e feroci, quando nel 1558 i finalesi si rivolsero alla repubblica di Genova, che ne aveva l'alto dominio, per aiuto e protezione. S'interpose dessa presso il marchese, ma questi ricevette poco garbatamente l'inviato di Genova cui diede ri
sposta evasiva; onde gli fu spedito contro un esercito che assediò in Castel Gavone il marchese Alfonso. Questi ricorse per aiuto al governatore di Milano, protestandosi suddito dell'imperatore; ma poichè i soccorsi domandati non gli vennero, s' arrese a patti.
Entrata la repubblica in pieno possesso dì Finale, Alfonso corse a piedi di Ferdinando I imperatore dolendosi dell'occupazione dei Genovesi, i quali misero sottosequestro il marchesato presso il principe Andrea Doria sino a definizione della vertenza.
La causa durò lungamente. L'imperatore respinse le ragioni di Genova che se ne appellò al Pontefice, il quale, con breve del 10 marzo 1561, le rigettò egualmente ordinando la restituzione del marchesato ad Alfonso. Nel 1563 fu fatta una transazione per la quale la repubblica lasciò in possesso del marchese il Finalese; ma la causa si ripigliò nel 1585 e mai fu ultimata.
Quando poi il Finale si fece asilo di ribaldi della peggiore specie, i quali molestavano nonchè gli abitanti di colà, quelli altresì delle terre contigue della repubblica, questa si deliberò a comperarlo dall'imperatore Carlo VI nel 1713 per un milione e 20 mila pezze da lire cinque genovesi.
Ma ciò che tornava di danno incomparabile ai Genovesi era la chiusura del commercio di Levante, onde la repubblica inviava nel 1555 al sultano quale ambasciatore Giovanni De Franchi per ottenere la facoltà di liberamente commerciare ip Costantinopoli e nel
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Mar Nero. Consentiva il sultano e Nicolò Grillo era nominato bailo pei genovesi in Oriente, quando, per intrighi dell'ambasciatore di Francia, venne tolto il consenso che prima era stato accordato, e il De Franchi col Grillo furono costretti a partirsene.
Rimaneva ancora in potere dei Genovesi l'isola di Scio su cui aveva sovranità la famiglia Giustiniani, quando, per ultima sventura, una flotta turchesca nel 1566 simulando amicizia approdò all'isola e se ne rese padrona, conducendo prigionieri, i Giustiniani che vi si trovavano, in Costantinopoli, d'onde vennero relegati a Caffa da cui furono liberati dopo tre anni per intercessione di Carlo IX re di Francia.
E qui è degno di ricordo il fatto di 18 fanciulli e giovanetti Giustiniani che condotti nel serraglio per ordine del Sultano perchè fossero allevati nella religione maomettana, non vollero piegare nè per lusinghe nè per minaccie, ai desideri del sovrano; onde furono barbaramente uccisi.
Colla perdita di Scio e la guerra di Corsica è facile immaginare in quali tristi condizioni versasse la repubblica di Genova; e a renderle più tristi non mancavano le intestine discordie, provocate da quelle stesse leggi per le quali Andrea Doria ebbe tante lodi. XIV.
Lotta fra i due Portici.
La legge del Garibetto, raccogliendo la somma delle cose in mano della vecchia nobiltà a discapito della nuova, fomentò la discordia tra il portico di S. Pietro e quello di S. Luca in guisa tale da provocare ben presto una lotta dapprima cogli scritti poi colle armi.
Quei del portico di S. Luca, ch' erano della vecchia nobiltà, trattavano con certo disprezzo quei di S. Pietro, poichè eleggendosi ogni 6 mesi due senatori, uno per portico e godendo il più delle volte la precedenza quello di S. Luca costoro usavano dire: Oggi si è fatto il Magnifico, dimani faremo il Zanni; onde rancori ed odi che degenerarono in vero tumulto nel 1571, a calmare il quale non valse l'intervento del Senato.
Ad accrescere le discordie cittadine, intervenne la creazione degli Alberi genealogici delle famiglie, primo quello dei Lomellini, i quali vennero formati allo scopo di chiarire la confusione che nelle famiglie nobili s'era introdotta colla riforma degli Alberghi del 1528; e poichè da tali Alberi si escludevano coloro che propriamente non discendevano dal capo stipite della famiglia principale, i nobili di S. Pietro, che aggregandosi agli Alberghi avevano lasciato il proprio nome per assumere quello dell'Albergo e voleano quindi essere considerati parte integrale della famiglia, se ne richiamarono altamente in Senato e presso i giudici civili.
Il popolo nell'occasione prese le parti del portico di S. Pietro, e si venne alle armi. Fu tentato di sollevare la plebe di Pre, col grido di: viva il popolo e la libertà; ma senza risultato. L'ambasciatore del re di Spagna fece radunare i deputati dei due portici in San Domenico per venire ad un accomodamento; ma il popolo insisteva per l'abolizione delle leggi del 1547.
Allora i nobili di S. Luca, apertamente aiutati dal principe Gio. Andrea Doria, figlio di quel Giannettino che venne ucciso nella congiura fieschina, e nipote d'adozione del grande ammiraglio, di cui aveva ereditato le ricchezze e le alte cariche nel regno di Spagna, ma non le virtù e l'ingegno, introdussero in città molti armati disposti a sedare i tumulti colla forza.
Il popolo si commosse, si elesse diversi capi per dirigere la difesa, inviò Matteo Senarega, già cancelliere della Repubblica, al papa Gregorio XIII a notificargli la ragione che lo metteva in armi: intanto furono barricate le strade, i posti principali furono fortificati, muniti di guardie e artiglierie. Rotte tutte le comunicazioni, ogni rione ebbe un capo, e la valle di Polcevera fu sollevata a difesa della città, temendosi un' invasione spagnuola.
Il pontefice esortò alla calma il popolo genovese; l'ambasciatore spagnuolo e il Senato cercarono mitigare gli animi; ma il popolo arditamente pugnando respingeva le truppe del principe Doria e si presentava al Senato reclamando minacciosamente l'abolizione delle leggi del 1547.
Il Senato non vide altro scampo che quello di soddisfare alle domande popolari; epperò il 15 marzo del 1575 a suon di tromba furono abolite quelle leggi e la gabella del vino. I nobili di S. Luca, non vedendosi più securi in Genova, ripararono a Finale, e quei di San Pietro preponderarono allora nei consigli della repubblica.
Mandò il papa il cardinale Morone a pacificare gli animi; il principe Doria domandò al re di Spagna una flotta per domare la città; ma non riuscirono, nè il cardinale pacificamente, nè la flotta spagnuola che fatta una dimostrazione innanzi al porto se ne andò, visto il grande eccitamento popolare, sia perchè il papa ne pregò D. Giovanni d'Austria che la comandava, sia perchè i nobili di S. Luca volevano che la flotta combattesse sotto il loro comando e lo stendardo della repubblica.
Ma per la venuta in Genova dell' ambasciatore francese Carlo di Birago, il re di Spagna diede ordine a Don Giovanni che sottomettesse ad ogni modo i Genovesi; onde una guerricciuola ch' ebbe fine per intromissione di ambasciatori imperiali i quali indussero i Collegi a rimettere la soluzione delle vertenze ai ministri dell'imperatore, del re di Spagna e del Pontefice.
Si radunarono a congresso detti ministri in Casale, e i lavori furono lunghi e difficili per le pressioni che
ad essi venivano d'ogni parte; finalmente il io marzo del 1576 nella chiesa di S. Croce di detta città furono pubblicate le nuove leggi costituzionali di Genova. Per queste leggi erano abolite le divisioni di nobiltà vecchia e nobiltà nuova; cessavano d'esistere gli Alberghi; chiunque vi era aggregato doveva ripigliare il nome che per l'aggregazione aveva abbandonato; si stabiliva che i nobili non potessero dedicarsi alle arti meccaniche.
Colle leggi di Casale, l'elezione dei due Consigli venne deferita a trenta elettori scelti ogni anno dal Minor Consiglio; i senatori si rinnovassero per sorteggio fra 120 padri per prudenza e virtù i migliori; il doge fosse biennale e d' età non minore di 50 anni, abitasse in città e convenientemente ricco da poter sostenere con onore la dignità.
Accettate quelle leggi dal Senato, rientrarono in città i fuorusciti, e il principe Gio. Andrea Doria, perchè si era adoperato in quella riforma, venne onorato del titolo di Conservatore della libertà della patria e gli fu eretta una statua accanto a quella dello zio che certamente avrebbe rinunziato alla propria per non stare alla pari del suo poco degno nipote.
Infatti, avendo preso parte alla famosa battaglia combattuta a Lepanto il 7 ottobre del 1571, non solo non vi si distinse, ma dai suoi contemporanei ricevette biasimi gravissimi per la condotta tenuta, che i più competenti storici moderni confermarono e dei quali tentò invano difenderlo con pietoso pensiero il concittadino generale Veroggio. Nè Giannandrea si segnalò come buon ammiraglio in altre campagne navali, nè come cittadino si meritò davvero gli onori tributatigli dal servile Senato, lui vivente, e nel 1606 quando morì.
E qui sarebbe argomento di molte considerazioni il fatto che essendo passato lo stesso anno 1606 per Genova, il marchese Ambrogio Spinola chiamato dal re di Spagna alla sua corte, reduce dalla Fiandra dove aveva dato splendide prove di essere il migliore generale della monarchia spagnuola e dei suoi tempi, i Collegi, per opposizione fatta da due senatori, non reputarono opportuno onorarlo pubblica
Ambrogio Spinola.
mente; mentre egli onorava veramente il nome genovese in tutta Europa. La qualcosa dimostra come il governo della repubblica non tributasse più gli onori alla virtù, ma alle parvenze illustri, e come le deliberazioni fossero informate essenzialmente da passioni personali.
Di che sono prova ancor più manifesta gli atti successivi del governo ligi a Spagna, ad onta del decoro e dell'interesse della patria, ispirati dal timore di perdere i cospicui capitali che i ricchi genovesi possedevano nel regno spagnuolo e di cui minacciava la sicurezza il governo di Madrid quante volte non vedeva presta a suoi ordini la nostra repubblica.
Congiura di Coronato.
Bartolomeo Coronato apparteneva alla nobiltà del portico di S. Pietro, ma per lato di madre poteva dirsi appartenesse anche a quella di S. Luca: tuttavia seguiva le parti dei nobili nuovi e godeva nel popolo grande autorità e riputazione essendo pronto di lingua, dice il Casoni, e di mano , e sagace nel conciliarsi amici e seguaci.
Egli dapprima fu uno de' capi, anzi il principale, del popolo sollevatosi nel 1574; quindi venne incaricato di distribuire denari alla plebe, per averla affezionata, e di esaminare i titoli di coloro, fra i ricchi popolani, che desideravano essere ascritti alla nobiltà. Per queste attribuzioni molto s'accrebbe la sua autorità, e, profittandone, collegato a Tomaso Carbone, uomo austero, nemico dei nobili vecchi, amante del popolo, mosse aspra guerra ai signori di S. Luca, quattro dei quali furono banditi.
Quando poi Don Giovanni d'Austria cominciò a guerreggiare la repubblica, il governo avendo creato un magistrato di sei nobili per sopraintendere alle cose della guerra, Bartolomeo Coronato ne fu eletto capo, ed egli seppe in tale ufficio così bene cattivarsi la fiducia del Senato e di tutti gli altri magistrati da parere quasi l' arbitro dello Stato.
È lama che il Coronato aspirasse alla Dittatura e che sarebbe riuscito ad ottenerla se altri autorevoli cittadini non gli si fossero opposti; pure egli continuò a combattere contro la vecchia nobiltà, opponendosi ed eccitando il popolo ad opporsi al compromesso stabilito dai Collegi come quello (ed era credenza generale) che metteva la repubblica alla mercè dell' impero e di Spagna.
In quei giorni certo Silvestro de Fazio, medico, per l'incoronamento del nuovo doge, fece un' orazione pungente e sediziosa, a detta del Casoni, biasimando l'accordo fatto ed incitando il popolo a proseguire la guerra; e il Senato l'avrebbe punito se non avesse cercato salvezza nella fuga. Il che dimostra come il malumore fosse profondo e generale per l'ordinamento della cosa pubblica e per quel compromesso del cui buon esito si dubitava.
Emanate le nuove leggi di Casale, fu scoperto che Bartolomeo Coronato aveva ordito una congiura allo scopo di ritornare il governo di Genova ai popolari.
Mal soddisfatto degli spagnuoli i quali, a quanto si dice, gli avevano promessa una pensione di tremila scudi perchè cessasse dall'opporsi al compromesso; malcontento dei nobili, sui quali vedeva di non poter più sovrastare nel Governo; — chiamò segretamente alcuni principali popolari, manifestando loro il disegno di sollevare il popolo contro la nobiltà ed ordinare lo stato democraticamente. Tale disegno incontrò l'approvazione di molti non soddisfatti delle nuove leggi, e già si facevano i preparativi per mandare ad esecuzione la congiura, quando, s'ignora come, il Governo ne fu avvertito , e Bartolomeo Coronato cadde nelle mani della giustizia.
Sottoposto solennemente a processo, fu dichiarato decaduto da tutti gli onori e dignità e dannato a morte. Fu egualmente proceduto contro i suoi complici, alcuni dei quali, come lui, lasciarono il capo sul patibolo; e poichè parve che gli auditori della rota criminale si mostrassero indulgenti verso gli accusati, il Senato li fece processare e, sebbene non risultasse nulla a loro debito, vennero privati della carica ed esiliati.
XVI.
Congiura di "Vassallo e Leveratto.
Maria de' Medici, donna astuta e intrigante, andando da Firenze sposa ad Enrico IV re di Francia, fu costretta, pei tempi burrascosi, a trattenersi alquanti giorni in Portofino. Ivi conobbe un Giambattista Vassallo che desideroso di fortuna la seguitò alla corte francese, dove vagheggiò il disegno di dare la repubblica di Genova alla Francia, per averne dignità e ricchezze.
Il Vassallo aveva un cognato, a nome Giovanni Gregorio Leveratto, di professione medico, che viveva in Genova e godeva di qualche reputazione. Entrambi, dice il Casoni, di abilità e destrezza forniti nel con
versare, s'intesero intorno al modo di mandare ad effetto il triste disegno, e stabilirono di sorprendere una piccola porta della città che da Carignano metteva al mare e per quella introdurre notte tempo in Genova i soldati francesi che all'uopo fossero stati inviati da Enrico IV.
Genova, dopo la congiura del Coronato, godeva solo da pochi anni d'una quiete non certamente gloriosa, ma che tuttavia poteva giovarle pel miglioramento delle sue finanze dissestate. Una fiera pestilenza nel 1579 aveva uccisi in Genova 28250 persone, nella riviera di levante 14000 e in quella di ponente 50000; le soldatesche della repubblica erano state decimate, e non poco tempo ci volle prima che essa di tanto disastro si ripigliasse; quindi è a ritenere che se il Vassallo e il Leveratto d'intesa col re di Francia avessero potuto mandare ad effetto la progettata congiura, Genova non avrebbe potuto resistere. Ma per la salute della repubblica occorse che il Leveratto comunicasse ogni cosa a Giovanni Antonio Marasso suo confidente il quale, non si tosto il potè, tutto andò a rivelare al governo.
Arrestato immediatamente il Leveratto e sottoposto a tortura, confessò la macchinazione com' era stata concepita, epperò, condannato a morte, venne decapitato sulla piazza del Vastato. Quanto al Vassallo, vivendo alla corte di Francia, fu dichiarato ribelle e condannato ad essere ucciso se cadeva nelle mani della repubblica.
Tre anni dopo, cioè nel 1604 essendo stato assassinato Ercole Grimaldi principe di Monaco, la Repubblica vi mandò con quattro galere Orazio Lercaro e Giorgio Centurione sotto colore di proteggere il figlio dell'ucciso, Onorato, e conservargli lo stato contro le insidie del Duca di Savoia; ma in vero allo scopo, se gli riusciva fatto, d'impadronirsi di quel principato, mentre vi agognavano da un lato i Savoini, dall' altro il re di Spagna che infatti v' introdusse un presidio a mezzo del conte Compiano zio di Onorato Grimaldi.
Tentativo meschino, meschinamente condotto che forse valse a crearle l'odiosità dei principi di Savoia, senza alcun benefico risultato.
XVII.
Prima guerra Savoina.
I principi di Casa Savoia ampliando i loro stati al di là e al qua delle Alpi mediante matrimoni, guerre, e trattati, fin dal xv secolo disegnarono di impadronirsi di Genova che avrebbe fornito loro il modo di aspirare a più vasto dominio. Ma gli accordi pattuiti prima nel 1449 dal duca Lodovico con Raffaele Adorno pei quali il primo si obbligava ad aiutare il secondo a cacciare di Genova Lodovico Fregoso, ricevendone in cambio certa ingerenza nel governo della repubblica e prestanza di galere e balestrieri, e gli altri, concordati nel 1452, pei quali Genova avrebbe dovuto passare alla dipendenza di quel duca, per più ragioni non poterono avere alcun effetto. Ond' è che per allora e quindi per tutto il xvi secolo non vedemmo alcun atto di ostilità tra Savoia e Genova; ma tali ostilità scoppiarono per la prima volta nel 1625 a proposito della piccola terra di Zuccarello su cui Genova vantava dei diritti, stata acquistata dal duca Carlo Emanuele I due anni prima dall'imperatore.
Stretta alleanza colla Francia, Carlo Emanuele che carezzava il disegno di cacciare gli spagnuoli d'Italia e costituire la penisola in un solo stato per la sua Casa, assaltò la repubblica con 14000 fanti e 2500 cavalli propri, spalleggiato da un grosso esercito francese sotto il comando del connestabile di Lesdiguières e del maresciallo di Crequi.
La repubblica era preparata a difendersi contro il solo duca di Savoia, ma non poteva certo resistere ai due alleati; per cui costoro in breve occuparono Novi, Voltaggio e Gavi e s'avviarono ad impadronirsi senz' altro di Genova stessa. Di che erano così securi che si accordarono innanzi sul possesso di questa città; ma l'arrivo di una squadra di settanta galere spagnuole nel porto di Genova mandò a vuoto i loro piani, chè il Lesdiguières, seguendo le istruzioni del suo re, non volle compromettere le armi francesi in un assalto che poteva non riuscire per la strenua resistenza dei cittadini e per l'aiuto della flotta di Spagna, e, a gran dispiacere del Duca di Savoia, si ritirò.
I Genovesi allora, mediante aiuti giunti loro da Milano, ripresero le terre state prima occupate dai nemici, e quando Carlo Emanuele accorse a riconquistarle fu costretto alla fuga abbandonando nelle mani dei Genovesi i suoi cannoni.
Visto che colla forza non gli riusciva impadronirsi di Genova, il duca di Savoia s'intese con Claudio de Marini, stato esiliato dalla repubblica nel 1607 ed entrato a servizi di Francia viveva in Torino quale ambasciatore di quel re, per trovar modo di averla per sorpresa. Claudio intavolò pratiche con un suo congiunto, Vincenzo de Marini ch' era direttore delle poste in Genova, il quale acconsentì di prestarsi a favorire i disegni del duca; ma la trama fu scoperta e Vincenzo lasciò il capo sul patibolo; Claudio fu condannato per alto tradimento, la sua testa fu posta a prezzo e distrutta la casa che aveva nella piazza dei Salvaghi in Genova al cui luogo fu eretta la chiesa di S. Bernardo.
Il re di Francia protestò contro la sentenza che colpiva il suo ambasciatore in Torino, stabilì un premio di 60 mila lire a chiunque uccidesse uno dei giudici che aveva condannato il De Marini e ordinò l' arresto di quanti genovesi si trovassero nel regno e il sequestro dei loro beni. Ma la pace di Mongon firmata il 5 maggio del 1626 giunse in buon punto a far cessare un conflitto che avrebbe potuto riuscire funesto alla repubblica.
Un articolo di quel trattato di pace invitava il duca di Savoia e la repubblica di Genova a rimettere ad un arbitrato le loro differenze; ma l'arbitrato non potè aver luogo, perchè il duca voleva che arbitro fosse Claudio de Marini, che Genova non poteva riconoscere, e pretendeva che anzitutto i Genovesi gli restituissero quanto gli avevano preso nella guerra.
Scoppiata la lotta per la successione del duca di Mantova, Carlo Emanuele si alleò a Spagna, ma segretamente negoziava l'alleanza con Francia se gli permetteva di occupare Genova; però tergiversando egli tra Francia e Spagna nulla concluse, e nuovamente, per mezzo d'una congiura, tentò di riuscire allo scopo desiderato.
XVIII. Congiura del Yacchero. Viveva in Torino nelle grazie di Carlo Emanuele certo Giovanni Antonio Ansaldo figlio di un oste di Voltri, divenuto mercante ed ora inalzato alla dignità di Conte; uomo scialaquatore e vizioso, il quale venne incaricato dal duca di trovargli partigiani in Genova che gli dassero in suo potere la città.
L'Ansaldo recatosi in Genova s'abboccò con taluni ricchi borghesi, facinorosi ambiziosi di nobiltà, tra quali principalissimo Giulio Cesare Vacchero nato in Sospello in quel di Nizza, di padre malvagio, il quale nella sua giovinezza era stato relegato in Corsica per reati commessi, e un giovane Fornari, vano ed impetuoso che si credeva invidiato dai nobili per le ric
chezze che aveva e a sua volta li odiava per non essere loro pari, e il medico Martignone, e si tennero conciliaboli in casa del Vacchero, nei quali l'Ansaldo prometteva larghi aiuti del duca di Savoia, di cui si spacciava incaricato d'affari.
Il Vacchero insieme all' Ansaldo si condusse segretamente in Torino a concretare gli accordi col duca, e questi gli fornì denari per assoldare qualche centinaio di soldati, coi quali impadronirsi del palazzo ducale, gli promise che al primo avviso, suo figlio sarebbe accorso alle porte di Genova colla cavalleria, e intanto gli consegnò i diplomi di colonnello per lui e pel Fornari.
Tornato in città il Vacchero, cogli altri congiurati cominciò l'assoldamento di quanti individui potè, scegliendo i capitani fra coloro che più erano abili nelle armi, e già era fissato il giorno e le modalità della rivolta, quando uno dei congiurati, Gianfrancesco Rodino, recatosi dal doge Gian Luigi Chiavari, dietro una cospicua somma di denaro, tutto gli rivelò.
Radunati prestamente i Collegi, furono colpiti da stupore a tanta audacia, e non avendo il coraggio di assalire la casa del Vacchero ove stavano radunati i congiurati in arme, il doge diede ordine al bargello di arrestare il Vacchero senza dirgliene il motivo.
Il bargello maravigliato di ricevere un tal ordine, essendo il Vacchero conosciutissimo in tutta la città, ne fece parola con due amici incontrati per via, i quali, essendo due dei capitani assoldati, subito ne fecero avvertiti il Vacchero e gli altri che rapidamente fuggirono alla campagna. Però le perquisizioni eseguite in sua casa fornirono numerose prove della congiura, per cui inseguiti i fuggitivi molti caddero nelle mani della giustizia.
Il Vacchero s'era ricoverato in una villa solitaria insieme ad un complice volgare; ma poichè il governo offriva un premio a chi glielo consegnava, un tale rivelò dove egli stava nascosto e rivelò pure dove s'era nascosto il Pomari, onde entrambi caddero nelle mani della signoria. Processati, vennero condannati a morte.
Il duca di Savoia prese le difese del Vacchero e suoi complici, minacciò rappressaglie se la repubblica eseguiva la sentenza, mise in moto il governatore di Milano in favore dei congiurati; ma nulla valsero le sue pratiche. Tutti furono condotti al patibolo, e la casa del Vacchero in piazza del Campo venne rasata al suolo.
In seguito a questa congiura, venne istituito, nell' ottobre dello stesso anno, il magistrato degl' Inquisitori di Stato perchè invigilasse alla sicurezza della repubblica.
L'anno seguente 1629 per mandato del duca di Savoia, un bandito di Voltri doveva appiccare il fuoco al Senato facendolo saltare in aria quand'era congregato; ma avendo egli confessato la cosa ad un padre Barnabita, questi ne fece avvertito il governo che condonò ogni pena al bandito, gratificandolo di un'annua pensione*
F. DOSAVER. 21
Per buona fortuna, la morte di Carlo Emanuele liberò la repubblica di quell' insidiatore costante della sua indipendenza, e il 5 luglio 1633 potè firmarsi l'atto definitivo di pace col suo successore Vittorio Amedeo I restituendosi reciprocamente prigionieri, armi e terre occupate, restando Zuccarello proprietà dei Genovesi e pagando questi al duca una somma per frutti estratti dalla valle d'Oneglia.
XIX.
Opere pubbliche. — La città di Maria.
Dopo la contesa col Duca di Savoia pel marchesato di Zuccarello, il Senato reputò conveniente ampliare la cinta della città, comprendendovi le colline sovrastanti, e a tale lavoro deliberò presiedesse Giacomo Lomellino, impiegandovi 8000 operai. Iniziata la costruzione delle nuove mura e fortificazioni nel 1630, con straordinaria attività lavorando, nel dicembre del 1632 era ultimata, cingendo Genova dalla foce del Bisagno alla Lanterna, e quindi per un percorso sopra le circostanti colline di oltre dieci miglia. La spesa incontrata fu superiore ai dieci milioni di lire.
Poichè dal 1606 al 1617 era stata costrutta la via Balbi, nel 1632 si diede mano alla nuova strada dalla porta di S. Tommaso fino alla spiaggia di Sampierdarena, e nel 1635 la Repubblica aprì una strada tra Pegli e Voltri, per comodo delle carrozze, le quali in detto anno, dice il Roccatagliata, erano cresciute a venticinque.
Anche il porto subì ampliamenti notevoli, chè dal piccolo seno di Giano sotto la collina di Sarzano, s'era esteso fino a Santa Limbania.
Nel 1637 il Senato deliberò la costruzione del Nuovo Molo su progetto di Ansaldo De Mari, e il i.° maggio dell'anno seguente venne posto mano ai lavori. Erano stati stanziati allo scopo 500,000 scudi, ma non bastando, si fece ricorso al Banco di S. Giorgio. Il Molo, finito di costrurre nel 1642, era lungo oltre 400 metri; ma nel 1651 gli furono aggiunti altri 50 metri per collegarlo alle rupi della Lanterna. Nel 1642 si fabbricarono altresì i magazzeni del Portofranco per comodo del commercio; e due anni dopo venne aperta la via che da S. Domenico mette a S. Stefano detta Giulia, da un Giulio Della Torre, che ne fu il costruttore.
Nel 1650 s'iniziarono i lavori dell'Albergo di Carbonara, condotti a termine nel 1657, contribuendo all' opera benefica i cittadini per circa due milioni di lire; e nello stesso anno i Magistrati del Comune ordinarono nuovi lavori all'Acquedotto civico costrutto, a quanto pare, da Marino Boccanegra verso il 1274, sebbene le sue origini siano forse più antiche, e stato man mano migliorato ed ampliato nel 1303, nel 1335, sulla fine del cinquecento, nel 1622 e nel 1636.
L'anno 1637 il Gran Consiglio deliberò di mettere sotto il protettorato di Maria Santissima la Repubblica, riconoscendo da essa la sua salvezza nelle guerre e pestilenze che ultimamente l'avevano travagliata; onde il giorno 25 marzo venne inalberato lo stendardo collo stemma della repubblica, e l'immagine della Madonna colla corona reale sulla torre del palazzo pubblico, su tutte le fortezze e sulla Capitana. Si fecero in detto giorno molti festeggiamenti, e la cerimonia ebbe luogo nella cattedrale di San Lorenzo, ove il doge Gio. Francesco Brignole, assistito dai due Collegi, presentò all'Arcivescovo Cardinal Gio. Domenico Spinola, in un bacile d'oro, lo scettro e la corona regia colle chiavi della città; quali oggetti il Cardinale depose sull'altare offrendogli alla Madonna, come insegne del comando. Della cerimonia fu rogato atto pubblico a mezzo del Cancelliere della repubblica.
In memoria del fatto, furono coniati nuovi scudi d'argento, nei quali da uua parte venne sostituito il griffo e l'iscrizione Conradus rex dall' immagine della Vergine coronata col bambino in braccio e le parole et rege eos.
Sulle porte della Lanterna e del Bisagno, ultimate nel 1643, vennero collocate immagini della Madonna e vi fu apposta l'iscrizione: Città di Maria Santissima.
Correva il mese di maggio del 1648, quando il governo della repubblica fu avvertito tramarsi da due anni una congiura a suoi danni dal nobile Giampaolo Balbi.
Era questi, dice il Casoni, dotato di gentilezza di schiatta, di sottigliezza d'ingegno, d'ardire, di sagacità e di facondia; delle quali virtù però da qualche tempo abusava facendole servire alla corrutela e al vizio. Aveva tolto in affitto sotto il nome d' un suo fidato, Giambattista Questa, una casa vicino all'Oratorio di S. Antonio in Sarzano, dove fatto un buco sotterraneo s' aveva aperta una via al mare. Di questa opportunità meditò valersi per dare la sua patria in mano ai francesi, e all' uopo se ne aprì con Stefano Questa fratello di Giambattista, ch'era capitano di Francia a servigi del Granduca di Toscana e nimicissimo dei genovesi che lo avevano bandito. Per suo mezzo comunicò la sua intenzione ad un ufficiale francese che ne fece relazione al cardinale Giulio Mazzarino, primo ministro di Francia, il quale non approvò la proposta reputandola inattuabile.
Poco appresso i due fratelli Questa andarono in Francia ben istruiti del progetto del Balbi e ne parlarono col Mazzarino, che a tutta prima non parve alieno dal tentarlo. Il progetto era che mentre la flotta francese si trovava nel seno di Vado, nottetempo si avvicinassero due o tre Vascelli alle mura di Sarzano e per l'apertura praticatavi, in comunicazione colla sua casa, s'introducessero in città un migliaio di soldati, i quali nel mattino sarebbero secondati da tutta la flotta entrata nel porto di Genova. In guiderdone, compiuta l'impresa, il Balbi chiedeva il governo di tutta la Liguria e della Corsica col tìtolo di Arciduca di Genova. Ma ben studiata la cosa, trattandosi in quei giorni della pace tra Francia e Spagna, il Mazzarino rispose che per allora il re non poteva tentare cosa alcuna, che però proseguissero il Balbi e i suoi complici nelle buone disposizioni.
Stefano Questa tornato a Genova senza speranza di prossimo guadagno, mentre il Balbi si trovava in Milano, svelò il tutto al governo ricevendone larga ricompensa e l'impunità per se e il fratello.
Tosto il governo richiese per mezzo dell'Ambasciata di Spagna l'arresto del Balbi che dimorava in Milano; ma avuto egli sentore del pericolo, rifuggiavasi tra gli Svizzeri e quindi dall' Ambasciatore di Francia, donde passò a Parigi. Intanto gl' Inquisìtori di Stato con decreto del 7 luglio 1648 lo condannarono a morte, promettendo l' impunità e lire quarantamila a chi l'uccidesse o facesse uccidere e lire diecimila a chi lo consegnasse vivo nelle mani della giustizia.
In Francia il Balbi conferì spesso e lungamente col Mazzarino intorno al suo disegno, ma questi per le poche floride condizioni finanziarie e morali del regno di Francia e sì forse anche perchè nutrisse affetto verso la repubblica di Genova, respinse recisamente le offerte del Balbi; il quale disperato ricorreva alla Spagna offrendogli il suo progetto e quindi tornava al Mazzarino, fino a che morì miseramente in Amsterdam nel 1675 circa.
XXI.
Congiura di Stefano Raggio.
Due anni dopo, nel giugno del 1650, levò grande rumore in città la notizia dell' arresto di Stefano Raggio per ordine degl' Inquisitori di Stato.
Era il Raggio, per famiglia e ricchezza, in fama tra i principali cittadini, ma d'indole focosa e intemperante onde lasciavasi facilmente trasportare ad eccessi nel colmo dell' ira. Essendo stato un suo figlio bandito per reati commessi, egli concepì contro il governo un odio ferocissimo ed in particolare contro il doge allora in carica Giacomo De Franchi di cui sparlava pubblicamente.
In quella venne denunciato al governo di avere sollecitato un gentiluomo a tramare insieme a lui a danni della repubblica; onde i Collegi ordinarono che con molta cautela venisse tratto in arresto. La qualcosa avvenne nottetempo mentre il Raggio trovavasi in letto. Egli non oppose resistenza e quietamente lasciossi condurre dai birri nella Torre accanto al palazzo ducale insieme alla famiglia e colle carte che gli furono sequestrate.
Istruito il processo, tre nobili dichiararono essere stati dal Raggio sollecitati a lavorare contro il governo, e fu prodotta una lettera di Giampaolo Balbi diretta al Raggio che farebbe credere vi fosse tra i due intelligenza nella congiura. Egli dapprima negò recisamente di non aver mai nulla ordito contro lo Stato, che solo aveva espresso sentimenti di libero cittadino; ma poi confessato reo da due testi, preferendo la morte volontaria a quella infamante sul palco, con un piccolo coltello che aveva in tasca si feri mortalmente. Tuttavia innanzi di morire tornò a protestarsi innocente e in tali proteste cessò la vita il 21 luglio.
Il dì seguente venne condannato quale reo di lesa maestà, gli furono confiscati i beni, fu privato della nobiltà, vennero banditi i figli suoi nonchè spianata la casa che aveva presso san Donato, apponendovi nel luogo una lapide infamante la quale fu tolta nel 1816.
Il cadavere del Raggio fu esposto sulla piazza attigua al palazzo criminale: fine del vero indegno di un uomo dello stato suo, come dice il Casoni, e che essendo fino dalla prima sua gioventù entrato a' maneggi della Repubblica, ed avendo retta la città di Sarzana erasi governato con tanto decoro de' trattamenti , e con tanto disamore del guadagno e con tanta integrità nell' Amministrazione della giustizia che aveva di lui concepito l'universale un esito di lunga differenza dal sortito.
XXII.
Congiara di Della Torre.
Carlo Emanuele II succeduto, in tenera età, nel trono di Savoia, a Vittorio Amedeo I, quel desso con cui Genova aveva conclusa la pace nel 1633, non sì tosto ebbe presa la direzione dello Stato volse gli avidi occhi sulla repubblica già tanto desiderata dall' avolo suo, e, dapprima colle insidie, quindi colle armi, ne tentò l'impresa. I pretesti non mancavano sebbene futili, come quelli che riguardavano la delimitazione di confini di certe borgate di nessun valore. A risolvere amichevolmente la questione il re di Francia aveva mandato l'abate Servient che emise sentenza abbastanza equa per ambe le parti; ma il duca di Savoia non accettò la sentenza, e la vertenza ebbe a degenerare in un conflitto.
Mediante pratiche di un frate piemontese, che vi dimorava, agenti del duca cercavano di far ribellare Savona alla repubblica e allo scopo di facilitare colle armi il movimento, il duca stesso guerniva di truppe le frontiere dello stato verso Genova coll'apparente intendimento di fortificare Ceva e Alba. Il governatore di Mallare, Gio. Battista Cattaneo, diede notizia delle trame che,
a suo avviso, si ordivano, al Senato; ma questo non vi pose attenzione.
Quand' ecco nel 1672, a risvegliare il Senato dall'indolenza, gli viene rivelato che Raffaele Della Torre, a capo di molti banditi, d'accordo col duca di Savoia e con intelligenze in città, muoveva ad occupare Genova.
Raffaele Della Torre, nato qui di nobile famiglia, aveva sortito da natura animo precocemente malvagio che sapeva coprire dalle parvenze di bontà e cortesia. Dopo aver commesso molti reati contro le persone e le cose, con alquanti suoi sicari assalì una nave che carica di valori navigava da Genova a Livorno e ne fece bottino. Scoperto questo nuovo misfatto, egli fuggì a Marsiglia, mentre gli veniva istruito il processo in seguito al quale fu condannato alla forca e alla confisca dei beni.
Il Della Torre da Marsiglia era passato ad Oneglia quando gli giunse la notizia della condanna, e con quel governatore ducale lamentossi fieramente della repubblica pronunziando minaccie di vendetta. Il governatore riferì ogni cosa alla Corte e a Carlo di Simiane marchese di Livorno, che, avendo in moglie fin dal 1659 una Grimaldi e recandosi perciò di sovente in Genova per suoi interessi erasi legato con Raffaele d'intima amicizia, lo invitò a recarsi in Torino, dove lo presentò al duca il quale lo trattò cortesemente e lo creò capitano dei corazzieri in un suo reggimento
Il marchese di Simiane lo informò dei disegni del duca su Genova e lo invogliò ad aiutarne l'attuazione promettendogli largo guiderdone se riusciva. Accettò il Della Torre l'invito, e recatosi a Finale a mezzo di un suo corrispondente, Giovanni Prasca, interessò Angelo Maria Vico che stava in Mallare, uomo capace e grandemente reputato, che ben si dispose a secondarlo. Combinò allora con Carlo Emanuele che l'esercito suo investisse Savona e la fortezza di Vado mentre egli, con gente raccolta nel Monferrato e nel Parmigiano, sarebbe sceso nella valle del Bisagno a sorprendere la città di Genova, dove intanto i suoi emissari avrebbero disposto per facilitargli l'apertura delle porte.
Le truppe ducali sotto il comando del conte Catalano Alfieri si disponevano infatti ad entrare nello stato della repubblica occupando Altare e le Carcare, e d'altra parte il Della Torre con bande raccogliticcie si gettava nella vallata del Bisagno, quando la Repubblica fu avvertita dal Vico di quanto erasi tramato a suoi danni.
Scoperta così la congiura, il governo di Genova mandò con celerità nuove soldatesche a Savona ordinando a quel governatore, Girolamo Spinola, che rafforzasse i paesi di confine e provvedesse a tenere in freno i soldati savoiardi, e deputò Marco Doria a battere la vallata del Bisagno e Giambattista Gentile quella del Polcevera.
Raffaele, informato che tutto era stato scoperto, prese la fuga e ritirossi in una villa del Piacentino donde passò a Torino.
Il governo per riconoscenza verso il Vico gli decretò una pensione annua di 400 scudi, la condotta di una compagnia di fanti con quattro armati a sua personale custodia; e proceduto d' altro lato all' arresto di alcuni che col Della Torre avevano tenuto rapporti, ordinò che fossero appesi alla forca.
Quanto a Raffaele, poichè non fu possibile arrestarlo, verso la metà di settembre, venne una seconda volta condannato a morte per alto tradimento, fu stabilito un premio di 20 mila scudi a chi lo consegnasse vivo o morto, banditi i figli e posta una lapide infamante sulla Torre accanto a quella del Balbi.
Il Della Torre sempre irato contro la patria e il Vico che l'aveva tradito, si studiò, coll'invio di una cassetta contenente delle pistole che aprendosi sparavano, di ucciderlo, e poscia con una cassa, vera macchina infernale, di far saltare in aria la Dogana; ma entrambi i tentativi andarono falliti. Dal duca di Savoia ebbe una pensione, con cui visse diversi anni nella valle d'Aosta, sotto il titolo di Conte Rosa, e più tardi, morto Carlo Emanuele, avuto il capitale corrispondente a quella pensione andò vagando pel mondo, fino a che nel 1681 venne ucciso in Venezia mentre mascherato correva le vie di quella città.
XXIII. Seconda guerra Savoina. Carlo Emanuele visto ch' era fallito il disegno d'impadronirsi della repubblica col tradimento, gettata la visiera, mosse la sue truppe all' aperta guerra.
Stavano le soldatesche piemontesi per avanzarsi su Savona quando addi 25 giugno il Simiane, che le capitanava in assenza del Catalano, fu avvertito che la congiura di Della Torre era stata scoperta. Egli proseguì egualmente la sua marcia e giunse in vista di Cà di Bona e della Ferriera, ordinando la sua truppa in battaglia; ma non tardò ad avvedersi che i soldati della repubblica (copio dal La Marmora) stavano schierati a contendergli il passo, occupando specialmente la torre di Bona, primo posto dei genovesi, presidiato da 100 corsi. Vedendo sventato il suo progetto di sorpresa, non giudicò il marchese di proseguire più oltre il suo cammino e fece rivolgere di bel nuovo il passo alla sua gente verso Saliceto, senza nè meno che i soldati ascoltassero la messa, essendo giorno di domenica. Recatesi quindi le truppe verso l'Ormea, occuparono il ponte della Nava e s'impadronirono della Pieve dov'era scarso presidio, movendo poi l'esercito, diviso in due schiere, per Albenga e Porto Maurizio.
In Genova fu allora mirabile l' unione dei cittadini nella difesa della patria. Il doge Alessandro Grimaldo, abilissimo nelle cose dalla guerra, quattro senatori e quattro membri del Minor Consiglio furono delegali a provvedere alla difesa, e con pertinaccia si addimostrarono degni della fiducia in loro riposta. Nobili, mercanti, monasteri e conventi, le stesse gentildonne offersero denari e gioie, per far fronte al nemico. Furono mandate tutte le galere a difesa delle terre marittime sulla riviera di Ponente, mentre un esercito abbastanza numeroso era ordinato per terra contro quello del duca.
Questo ricevuto un rinforzo sotto il comando di Gabriele di Savoia, che assunse la direzione suprema della spedizione, s'impadronì di Castelvecchio; ma i genovesi l'assalirono e fecero più di 1500 prigionieri, fra cui il marchese di Parella, il conte di Castellamont, generale d'artiglieria e circa 40 altri ufficiali e un grosso bottino. Assediata quindi Oneglia, la presero con tutta la vallata facendo 800 prigionieri, e pigliando 6 bandiere di Savoia e 21 tamburi oltre tutte le artiglierie.
Alla notizia di queste vittorie, le potenze si commossero. Il papa e il re di Spagna vollero intervenire a far cessare le ostilità; ma Luigi XIV l' orgoglioso e prepotente monarca francese fece prevalere la sua mediazione, inviando nove vascelli nel mare ligustico e imponendo che a lui i contendenti rimettessero l'arbitrato , e intanto sottoscrivessero una sospensione d' armi.
Il signor di Gaumont fu inviato dal re di Francia a partecipare quelle intenzioni alle parti belligeranti. Il duca di Savoia pretese innanzi tutto gli fosse restituita Oneglia, che i genovesi rifiutarono, malgrado l'invito del Gaumont. Allora quegli s'impadronì di Ovada e poscia colla forza entrò in Oneglia protetto per mare dalla flotta francese.
Protestarono i genovesi; ma il Gaumont li fece avvertiti che se si opponevano sarebbero caduti in disgrazia del suo Re, e quindi dovettero piegare. Sottoscritta la sospensione d'armi, il 18 gennaio 1673 l' inviato francese pronunciò il lodo e la pace fu conclusa.
XXIV.
Bombardamento di Genova.
Luigi XIV dopo avere imposto la pace alla repubblica di Genova, non si peritò a romperla per soddisfare il proprio orgoglio, e nello stesso tempo vedere se gli riusciva d'impadronirsene, onde cacciare d'Italia la preponderanza spagnuola stabilendovi la francese.
Quel re, cui poco era mancato non cingesse la corona imperiale, ma che di fatto primeggiava su tutti i principi d'Europa, pretendeva che il suo primato fosse da tutti riconosciuto col salutare la sua bandiera. Così mentre per antica consuetudine le navi estere entrando nel porto di Genova salutavano collo sparo delle artiglierie, Luigi volle che quando entrassero le proprie navi, le artiglierie della repubblica fossero le prime a salutare. Dinnanzi alla prepotenza della grande monarchia del re Sole, la povera nostra repubblica non poteva che cedere, ma chiese però che eguale condiscendenza ottenesse dagli altri stati.
Or accadde nel 1679 che comparendo nel porto una flotta comandata dal Signore di Mans le fu differito il saluto, perciocchè la repubblica avesse saputo come dinnanzi al porto di Villafranca il saluto non era stato fatto; onde il Signore di Mans avvicinatosi a Sampierdarena cannoneggiò rabbiosamente il luogo, e passato quindi innanzi a S. Remo, sebbene qui fosse salutato, cannoneggiò pure il paese e prese dieci barche che condusse in Francia. Mandò la repubblica ambasciatore al re per giustificare la sua condotta, ma quegli accampò maggiori pretensioni, da cui non valsero a distoglierlo le istanze del papa Innocenzo XI.
Intanto re Luigi inviò a Genova il Signor di Damcourt per avere esatto ragguaglio dello stato, delle sue rendite e spese, forze marittime e terrestri e condizioni politiche interne; il quale Damcourt riferì che Genova doveva essere considerata come porta d'Italia e che chi ne fosse padrone sarebbe l' arbitro della pace in questa parte d' Europa.
Ad aggiungere nuova ragione d'odio nel re di Francia, questi chiese alla repubblica che restituisse al conte Sinibaldo Fieschi, rifuggiato colà per debiti, i beni stati già sequestrati ai suoi maggiori per la congiura di Gian Luigi; alla quale domanda la repubblica rispose che non poteva aderire.
Poco appresso per difendersi dagli Algerini che pirateggiavano, furono armate quattro nuove galere, il che tornò sgradito a Francia che, supponendo quelle galere destinate ad aiutare la Spagna colla quale guerreggiava, mentre la repubblica serbava la più stretta neutralità, ne fece aspra rampogna al governo, di cui non volle sentire spiegazioni.
La repubblica ben comprendeva che da un momento all' altro la Francia le avrebbe mosso guerra, epperò, a mezzo del suo ambasciatore a Madrid, Gio. Andrea Spinola, sollecitò la formazione di una lega tra essa, la Spagna, l'imperatore, lo Statolder d'Olanda e gli altri stati italiani contro il re prepotente; ma poichè non fu possibile allora combinare la lega convenne in un trattato d'alleanza colla Spagna, la quale si obbligava a stanziare un grosso corpo di truppe nel milanese e ad inviare la flotta comandata dal duca di Tursi nel porto di Genova, mentre la repubblica da sua parte le anticipava, a titolo di prestito, cospicua somma per le spese di guerra.
Stava in Genova quale ambasciatore di Francia il conte di Saint-Olon, che trattando il governo con modi alteri e brutali eccitava vieppiù i Genovesi a resistere. Il Saint-Olon non mancò d'informare il suo re dell'alleanza con Spagna, ed egli subito avrebbe mandato
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volentieri a punire questa piccola repubblica che osava contraddirgli, se la flotta spagnuola non fosse allora arrivata in porto stazionandovi alcun tempo. Anzi re Luigi fece le fìnte di rappattumarsi con essa, perchè ascoltando i lamenti che essa gli faceva dei mali modi del Saint-Olon, lo richiamò disponendo che a sostituirlo qui si recasse il signor di Jouvigny.
Il Saint-Olon, prima di partire, chiese ai Collegi in pubblica udienza, in nome del suo re, che la repubblica abbandonasse immediatamente l'alleanza della Spagna e si ponesse invece sotto la protezione del re Cristianissimo, che le navi genovesi salutassero lo stendardo di Francia nel modo imposto dal re, che si stabilissero in Savona certi magazzeni di sale precedentemente chiesti.
Il doge e i collegi sebbene meravigliati di tanta pretensione, risposero calmi che eran dolenti di non poter soddisfare ai desideri del re Luigi di cui desideravano essere nelle grazie; ed il Saint-Olon partì, senza che il suo successore più arrivasse. Per contro la repubblica che non si aspettava a una subita rottura, non richiamò l'ambasciatore suo a Parigi Paolo de Marini che, contro il diritto delle genti, venne in seguito chiuso nella Bastiglia.
Luigi XIV che nel 1683 aveva deciso di bombardare Genova e n' era stato impedito dalla presenza della flotta spagnuola, nella primavera del venturo anno, dopo le gravi sconfìtte inflitte dai suoi generali a Spagna e il ritiro di quella flotta nei porti di Catalogna, eccitato dal suo ministro Colbert che senza la distruzione di Genova vedeva non poter Marsiglia avere il primato nel commercio del Mediterraneo, deliberò senza più l'attacco. Allestiti con rapidità straordinaria gli armamenti delle sue galere, il 6 maggio 1684 la flotta francese composta di 16 grossi vascelli da guerra, 20 galere, 10 palandre, ciascuna delle quali portava due mortari da bombe, 27 tartane, 8 feluche e altri 70 bastimenti da remo e 2 brulotti da fuoco, montati da 8000 soldati e molta nobiltà, sotto il supremo comando del marchese di Seignelai salpava dai porti di Provenza. Il 15 veniva pubblrcato un manifesto del re Luigi contenente la dichiarazione di guerra a Genova, non stata mai notificata alla repubblica, e il 17 i genovesi videro apparire innanzi al loro porto la flotta francese.
Non appena la repubblica fu avvertita degli armamenti francesi, mandò a Madrid, a Napoli, a Milano per soccorsi, chiedendo l'invio della flotta spagnuola nel porto di Genova e che si tenessero pronte le truppe nel milanese per accorrere alla difesa terrestre. Fu creata una Giunta di guerra con pieni poteri composta di otto persone presieduta dal doge Francesco Mario Lercaro, soggetto, a detta del Casoni, di un cuore ugualmente intrepido e sincero, e che univa ad una eminente capacità un pari zelo, e però direttore di sommo consiglio, sommamente opportuno in un tempo di sì spinosi affari e di tanto pericolo. Vennero chiesti mille soldati spagnuoli a rinforzare il presidio
della città, e il supremo comando venne affidato a Don Carlo Tasso cavaliere di S. Giacomo peritissimo nelle cose guerresche.
Ancoratasi la flotta francese innanzi al porto di Genova, fu salutata con colpi di cannone a cui risposero le navi, e il giorno seguente si presentò al marchese di Seignelai una commissione di sei nobili a complimentarlo e a chiedergli ragione della sua venuta. Il marchese dopo aver detto che il suo re era mal soddisfatto della repubblica, consegnò alla commissione una scrittura perchè su quella deliberasse il governo. La scrittura concludeva invitando Genova a consegnare subito le quattro galere, ultimamente costrutte, una delle quali fornita della ciurma e pronta alla navigazione, e ad inviare quattro senatori a domandare perdono al re di Francia assicurandolo della maggiore sommissione ai suoi ordini dati in passato e a quelli che in avvenire credesse dare, avvertendo che la risposta sarebbe attesa fino a cinque ore dopo mezzogiorno, dopo di che sarebbe senza fallo eseguita la distruzione della città.
Il governo resistette all' invito minaccioso e diede ordine si apprestasse la difesa. Poichè fu visto sul fare del giorno dopo un vascello francese predare una barca genovese, la Giunta di guerra ordinò al generale Tasso di dar principio alle ostilità contro le pallandre che s'erano intanto avvicinate alle mura della città.
Le pallandre ai primi colpi partiti dalle mura, si allontanarono fuori del tino di cannone e cominciarono quindi a vomitare sulla città bombe provocando straordinario spavento e desolazione nella cittadinanza. Durò il bombardamento quattro giorni rovinando case, incendiando palazzi, edifizi pubblici, colla morte di molti cittadini. Il governo dal palazzo ducale aveva dovuto trasferirsi nell' Albergo dei Poveri in Carbonara, quando il marchese di Seignelai, cui pareva di aver sufficientemente danneggiato la città, fece cessare il fuoco e mandò un parlamentario a chiedere si sottomettessero senza dilazione o altrimenti avrebbe gettate altre diecimila bombe nella città. Convocati i Consigli, questi deliberarono di non pattuire accordi sotto il calore delle bombe e di affidarsi alla energia e costanza dei cittadini nella difesa.
Le pallandre ripigliarono allora lo sparo dei mortari, e nella notte del 22 maggio alcune scialuppe tentarono lo sbarco in Albaro, ma vennero respinte dai soldati di guardia con gravi perdite, e quei pochi francesi che riuscirono a sbarcare furono fatti prigionieri. Nello stesso tempo un maggior nerbo di truppe sbarcò a Sampierdarena, sotto la protezione di 14 galere; ma assaliti dai Polceveraschi da un lato e dall' altro da soldati usciti dalla porta della Lanterna, dopo breve combattimento, si videro costretti a ripigliare il largo per non essere sopraffatti.
Continuò il bombardamento fino al giorno 28 maggio, ed avendo il Seignelai esaurito tutte le munizioni di guerra che aveva, il dì seguente si rimise alla vela verso Tolone.
I danni prodotti dalle bombe furono gravissimi, ma non così grandi come ne menarono vanto le relazioni fatte alla corte di Francia; mentre la eroica resistenza dei Genovesi in quest' occasione, dimostrò al mondo che non erano del tutto smarriti i fieri spiriti di un tempo e guadagnò loro le simpatie di tutti i potentati, ed insieme il maggior odio di Luigi XIV; poiché Genova fu l'unico Stato che non s'inchinò a domandargli grazia mostrando, come scrive il Laurent, che i liberi abitanti d'una debole città avevano più decoro e più coraggio che l' Imperatore ed i re.
La repubblica intanto rinnovata l' alleanza col re di Spagna e fatta sicura che la pace non si sarebbe conclusa tra Francia, Spagna e l'impero senza esservi compresa, si apprestò a maggiore difesa contro le spedizioni francesi che si temevano prossime; quand' ecco arriva fiotizia che in Ratisbona il io agosto s'era conclusa una tregua firmata dall' imperatore anche a nome del re di Spagna, esclusa la repubblica di Genova giusta i desideri di Luigi XIV.
Fu ancora tentato, ma indarno, un amichevole componimento coll'intromissione del papa e del re d'Inghilterra; quel re pretese che il doge e quattro senatori si presentassero innanzi a lui protestando devozione, che la repubblica pagasse cento mila lire al conte Fieschi e gli restituisse i beni confiscati a Gian Luigi, che disarmasse le quattro galere e si obbligasse a non più armarle se non d' ordine del re di Francia, che rinunciasse a qualunque alleanza, mantenendosi perfettamente neutrale, che assegnasse magazzeni di sale in Savona per gl' impresari del re, che soddisfacesse a tutti i danni che i Genovesi avessero cagionati ai Francesi durante la guerra.
Fu d'uopo cedere. La repubblica era sola a lottare contro il potente monarca che già preparava armata ed esercito per punirla della resistenza frapposta alle sue volontà, e consentì a firmare, a mezzo del suo ambasciatore De Marini liberato dalla Bastiglia, la pace in Versailles il 12 febbraio 1685, alcuni articoli della quale mitigavano alquanto le pretese del re prima accampate. Il 25 aprile poi, partirono da Genova il doge Francesco Maria Lercari, e i senatori Giannettino Garibaldo, Agostino Lomellini, Paride Salvago e Marcello Durazzo con molto seguito di nobili cavalieri, e il 15 maggio furono ricevuti pomposamente dal re Luigi in Versailles. Trattenutisi in Francia alquanti giorni, fra molti festeggiamenti, fecero ritorno in Genova il 19 giugno.
XXV.
Rivoluzione in Corsica.
La repubblica di Genova, dopo la pace di Ratisbona, si chiuse in una prudente neutralità durante la guerra scoppiata nell' esordire del XVIII secolo per la successione di Spagna; sebbene ciò non le impedisse di soffrire il passaggio di truppe belligeranti e il pagamento di una forte contribuzione all' imperatore nel 1708 per i feudi imperiali che ancora esistevano nella sua circoscrizione. È degno però di ricordo il fatto che il duca di Savoia Vittorio Amedeo II, passato all' alleanza austriaca , assalito nei suoi stati dalla Francia e stretta d'assedio la capitale, chiese ricovero a Genova per la sua famiglia, che qui vi tenne diversi mesi onorata dimora nel palazzo d'Ignazio Pallavicino a S. Bartolomeo degli Armeni. Il che non impedi al duca di negoziare l'occupazione di Savona a danni della repubblica; e se i negoziati non gli riuscirono a buon fine, non fu certo perdi' egli di cuore vi rinunziasse. Come pure la generosa ospitalità non valse ad impedirgli di travagliare in più guise lo stato genovese, per mezzo del principato d'Oneglia che a lui stava soggetto.
Tuttavia, per un periodo di circa quarant' anni, la repubblica potè godere d' una quiete relativa, quando a turbarla gravemente nel 1727 scoppiò fiera e terribile la rivoluzione nell' isola di Corsica.
I Corsi soffrivano di mala voglia la dominazione genovese, come quella che li teneva tirannicamente soggetti e in qualità più di schiavi che di sudditi. Le stesse famiglie genovesi che da diverse generazioni s' erano stabilite in quell' isola erano considerate d'un grado inferiore, rispetto al parentado rimasto in Genova. I vescovi dati alle diocesi erano stranieri e l'influenza che su quel popolo, profondamente religioso, malgrado i suoi vizi, avrebbero potuto esercitarvi era
della città, e il supremo comando venne affidato a Don Carlo Tasso cavaliere di S. Giacomo peritissimo nelle cose guerresche.
Ancoratasi la flotta francese innanzi al porto di Genova, fu salutata con colpi di cannone a cui risposero le navi, e il giorno seguente si presentò al marchese di Seignelai una commissione di sei nobili a complimentarlo e a chiedergli ragione della sua venuta. Il marchese dopo aver detto che il suo re era mal soddisfatto della repubblica, consegnò alla commissione una scrittura perchè su quella deliberasse il governo. La scrittura concludeva invitando Genova a consegnare subito le quattro galere, ultimamente costrutte, una delle quali fornita della ciurma e pronta alla navigazione, e ad inviare quattro senatori a domandare perdono al re di Francia assicurandolo della maggiore sommissione ai suoi ordini dati in passato e a quelli che in avvenire credesse dare, avvertendo che la risposta sarebbe attesa fino a cinque ore dopo mezzogiorno, dopo di che sarebbe senza fallo eseguita la distruzione della città.
Il governo resistette all' invito minaccioso e diede ordine si apprestasse la difesa. Poichè fu visto sul fare del giorno dopo un vascello francese predare una barca genovese, la Giunta di guerra ordinò al generale Tasso di dar principio alle ostilità contro le pallandre che s'erano intanto avvicinate alle mura della città.
Le pallandre ai primi colpi partiti dalle mura, si allontanarono fuori del tino di cannone e cominciarono quindi a vomitare sulla città bombe provocando straordinario spavento e desolazione nella cittadinanza. Durò il bombardamento quattro giorni rovinando case, incendiando palazzi, edifizi pubblici, colla morte di molti cittadini. Il governo dal palazzo ducale aveva dovuto trasferirsi nell' Albergo dei Poveri in Carbonara, quando il marchese di Seignelai, cui pareva di aver sufficientemente danneggiato la città, fece cessare il fuoco e mandò un parlamentario a chiedere si sottomettessero senza dilazione o altrimenti avrebbe gettate altre diecimila bombe nella città. Convocati i Consigli, questi deliberarono di non pattuire accordi sotto il calore delle bombe e di affidarsi alla energia e costanza dei cittadini nella difesa.
Le pallandre ripigliarono allora lo sparo dei mortari, e nella notte del 22 maggio alcune scialuppe tentarono lo sbarco in Albaro, ma vennero respinte dai soldati di guardia con gravi perdite, e quei pochi francesi che riuscirono a sbarcare furono fatti prigionieri. Nello stesso tempo un maggior nerbo di truppe sbarcò a Sampierdarena, sotto la protezione di 14 galere; ma assaliti dai Polceveraschi da un lato e dall' altro da soldati usciti dalla porta della Lanterna, dopo breve combattimento, si videro costretti a ripigliare il largo per non essere sopraffatti.
Continuò il bombardamento fino al giorno 28 maggio, ed avendo il Seignelai esaurito tutte le munizioni di guerra che aveva, il dì seguente si rimise alla vela verso Tolone.
I danni prodotti dalle bombe furono gravissimi, ma non così grandi come ne menarono vanto le relazioni fatte alla corte di Francia; mentre la eroica resistenza dei Genovesi in quest' occasione, dimostrò al mondo che non erano del tutto smarriti i fieri spiriti di un tempo e guadagnò loro le simpatie di tutti i potentati, ed insieme il maggior odio di Luigi XIV; poiché Genova fu l'unico Stato che non s'inchinò a domandargli grazia mostrando, come scrive il Laurent, che i liberi abitanti d'una debole città avevano più decoro e più coraggio che l' Imperatore ed i re.
La repubblica intanto rinnovata l' alleanza col re di Spagna e fatta sicura che la pace non si sarebbe conclusa tra Francia, Spagna e l'impero senza esservi compresa, si apprestò a maggiore difesa contro le spedizioni francesi che si temevano prossime; quand' ecco arriva fiotizia che in Ratisbona il io agosto s'era conclusa una tregua firmata dall' imperatore anche a nome del re di Spagna, esclusa la repubblica di Genova giusta i desideri di Luigi XIV.
Fu ancora tentato, ma indarno, un amichevole componimento coll'intromissione del papa e del re d'Inghilterra; quel re pretese che il doge e quattro senatori si presentassero innanzi a lui protestando devozione, che la repubblica pagasse cento mila lire al conte Fieschi e gli restituisse i beni confiscati a Gian Luigi, che disarmasse le quattro galere e si obbligasse a non più armarle se non d' ordine del re di Francia, che rinunciasse a qualunque alleanza, mantenendosi perfettamente neutrale, che assegnasse magazzeni di sale in Savona per gl' impresari del re, che soddisfacesse a tutti i danni che i Genovesi avessero cagionati ai Francesi durante la guerra.
Fu d'uopo cedere. La repubblica era sola a lottare contro il potente monarca che già preparava armata ed esercito per punirla della resistenza frapposta alle sue volontà, e consentì a firmare, a mezzo del suo ambasciatore De Marini liberato dalla Bastiglia, la pace in Versailles il 12 febbraio 1685, alcuni articoli della quale mitigavano alquanto le pretese del re prima accampate. Il 25 aprile poi, partirono da Genova il doge Francesco Maria Lercari, e i senatori Giannettino Garibaldo, Agostino Lomellini, Paride Salvago e Marcello Durazzo con molto seguito di nobili cavalieri, e il 15 maggio furono ricevuti pomposamente dal re Luigi in Versailles. Trattenutisi in Francia alquanti giorni, fra molti festeggiamenti, fecero ritorno in Genova il 19 giugno.
XXV.
Rivoluzione in Corsica.
La repubblica di Genova, dopo la pace di Ratisbona, si chiuse in una prudente neutralità durante la guerra scoppiata nell' esordire del XVIII secolo per la successione di Spagna; sebbene ciò non le impedisse di soffrire il passaggio di truppe belligeranti e il pagamento di una forte contribuzione all' imperatore nel 1708 per i feudi imperiali che ancora esistevano nella sua circoscrizione. È degno però di ricordo il fatto che il duca di Savoia Vittorio Amedeo II, passato all' alleanza austriaca , assalito nei suoi stati dalla Francia e stretta d'assedio la capitale, chiese ricovero a Genova per la sua famiglia, che qui vi tenne diversi mesi onorata dimora nel palazzo d'Ignazio Pallavicino a S. Bartolomeo degli Armeni. Il che non impedi al duca di negoziare l'occupazione di Savona a danni della repubblica; e se i negoziati non gli riuscirono a buon fine, non fu certo perdi' egli di cuore vi rinunziasse. Come pure la generosa ospitalità non valse ad impedirgli di travagliare in più guise lo stato genovese, per mezzo del principato d'Oneglia che a lui stava soggetto.
Tuttavia, per un periodo di circa quarant' anni, la repubblica potè godere d' una quiete relativa, quando a turbarla gravemente nel 1727 scoppiò fiera e terribile la rivoluzione nell' isola di Corsica.
I Corsi soffrivano di mala voglia la dominazione genovese, come quella che li teneva tirannicamente soggetti e in qualità più di schiavi che di sudditi. Le stesse famiglie genovesi che da diverse generazioni s' erano stabilite in quell' isola erano considerate d'un grado inferiore, rispetto al parentado rimasto in Genova. I vescovi dati alle diocesi erano stranieri e l'influenza che su quel popolo, profondamente religioso, malgrado i suoi vizi, avrebbero potuto esercitarvi era
straniere; ma i più, diffidando di lui, avendo già concepito qualche sospetto sul suo conto, non vollero lasciarlo partire. Alcuni anzi ruppero apertamente con lui, e gli dichiararono che se entro un mese gli aiuti promessi non arrivavano lo avrebbero abbandonato. Scorso il mese, convocò il parlamento, tentò nuove vie per rafforzare il suo credito e in ultimo chiese la facoltà di uscire dal regno per sollecitare e condurre in persona le truppe di soccorso.
Il barone Teodoro ebbe la facoltà domandata e subito parti con alcuni famigliari per Livorno, ove la repubblica voleva che 11 Granduca di Toscana lo arrestasse, ma il principe rifiutossi; indi volse a Napoli. D'altra parte i reggenti da lui lasciati, Paoli e Giaffiero, pubblicarono un manifesto avvertendo che il re Teodoro era partito per agevolare i soccorsi e mettere il sigillo alla loro prosperità ed indipendenza.
In Genova si deliberava intorno alla necessità di sottomettere i Corsi invocando l' aiuto di qualche potenza straniera, e il pensiero dei più era rivolto alla Francia; ma innanzi ogni cosa il consiglio deliberò di offrire ai ribelli un perdono generale anche per gli stessi capi e un'esenzione dalle imposte per dodici anni.
I reggenti Paoli e Giaffiero convocarono l'assemblea dei principali, la quale dichiarò che la Corsica non sarebbe entrata mai in negoziati se prima i Genovesi non si fossero vincolati ad accordare un' amnistia generale senza eccezioni, a non proibire il porto d'armi, a permettere ai Corsi la massima libertà e, dopo altre condizioni, quest' altra: che non avrebbe fatto alcun accordo senza la garanzia d' una potenza straniera.
I Corsi volevano essere trattati da pari a pari, i Genovesi volevano trattarli da ribelli che si sottomettevano: non fu quindi possibile alcun accordo.
Giungevano in quella nell'isola lettere di Teodoro che annunciava il suo prossimo arrivo con vascelli, soldati e armi. I suoi partigiani spargevano tali notizie con grande eccitamento del popolo che si radunava nelle chiese a cantare il Te Deum, e gli animi dei ribelli ringagliardivano.
Queste notizie allarmarono siffattamente il governo genovese che, dopo lunghe discussioni, deliberò di chiedere gli aiuti di Francia. Luigi XV consenti alla domanda, e sei battaglioni furono spediti in Corsica sotto il comando del conte di Boissieux. La repubblica doveva provvedere gli alloggiamenti, il vitto e le paghe, e pagare due milioni al re di Francia per compenso dell' aiuto fornito.
Appena il Boissieux fu in Corsica, stabili una sospensione delle ostilità per trattare della pace, ed indusse i Corsi a dare degli ostaggi che furono mandati in Provenza. Egli, pur difendendo la dominazione genovese, invitava i capi degl' insorti a tornare in ubbidienza, che la Francia avrebbe garantito condizioni liberali ed eque; e Paoli e Giaffiero scrivevano al cardinale Fleury, primo ministro di Francia, protestando della loro obbedienza alle volontà del re loro padrone, al che il cardinale rispondeva: « Voi siete nati sudditi della repubblica la quale è vostra padrona legittima. Non bisogna che vi illudiate, il re non può avere diversi principii, ma egli vi tratterà come suoi figli. La repubblica tenterà tutti gli espedienti ragionevoli per rendervi il giogo dell'obbedienza non solo sopportabile, ma dolce e leggero altresì. » Domandava quindi che i Corsi nominassero dei deputati a negoziare in Bastia sotto la mediazione francese. Replicava G-iaffiero che i deputati sarebbero stati mandati, ma sostenendo il diritto dei Corsi alla loro nazionalità ed indipendenza. Il Fleury dichiarò non poter accettare tale riserva e che il re sarebbe stato dolente di doversi spogliare della veste di pacificatore per divenire nemico. La repubblica pubblicò allora un regolamento per l'amministrazione della Corsica all'incirca come quello già emanato dal principe di Wittembergh, pregando l'imperatore e i re di Francia e Spagna di garantirlo. Pareva che tale regolamento dovesse incontrare le simpatie dei Corsi, ma in realtà essi non vollero saperne. I soldati francesi che andavano a ritirare le armi degl' insorti erano massacrati a tradimento nei boschi, onde il nome di Vespri corsi.
Intanto il barone o re Teodoro incoraggiava, sebbene da lontano, la resistenza. In Olanda, dopo esservi stato arrestato per debiti, incontrò dei protettori che gli fornirono una nave per portare soccorsi in Corsica; ed infatti alcune armi e munizioni furono da tale nave distribuite fra gl'insorti; ma gli uomini che portava furono dispersi ed uccisi. Teodoro che non si era avventurato a sbarcare, tornato in Olanda, ebbe altri quattro vascelli equipaggiati a quanto pare dagli stessi protettori; ma per tempesta tre dei vascelli capitarono a Livorno dove furono sequestrati, e Teodoro coll' altro andò a Portovecchio. Qui la guarnigione si oppose al suo sbarco, per cui, fermata l'ancora, dal bordo del vascello lanciò manifesti nell'isola, invitando i suoi fedeli ad andargli incontro; ma pochi accolsero l'invito, e Paoli e Giaffiero gli fecero sapere che se non aveva forze proprie sufficienti a cacciare i Genovesi dall' isola, non sbarcasse; e Teodoro, compreso il pericolo che poteva correre, volse la prora a Napoli.
Il regolamento, colla garanzia del re di Francia e dell'imperatore, venne pubblicato il 18 ottobre 1738, e l'anno seguente il conte di Boissieux morì in Bastia. A surrogarlo fu mandato il marchese di Maillebois con nuove truppe, il quale, più che colla forza, colle gentili maniere, indusse buona parte degl'isolani a deporre le armi; ma il commissario genovese de Mari colle sue prepotenze rendeva difficile il compito del generale francese, che tuttavia verso il 1740 riesci a pacificare quasi tutta l'isola.
Il re di Francia allora informò il Senato genovese che avendo finita la guerra, egli avrebbe ritirato le sue truppe; ma il Senato che temeva si ripigliasse l' insurrezione non sì tosto fossero partiti i francesi
F. DOKAVER. 23
pregò il re a lasciare nell' isola una parte delle sue truppe. A questo condiscendeva, conchè gli fossero consegnate le città d' Ajaccio e Calvi e una strada di comunicazione fra esse; ma diffidando la repubblica di consentire a tale consegna, e d'altra parte essendo prossima una guerra europea dove la Francia si sarebbe trovata impegnata, il re ritirò tutti i soldati, lasciando Corsi e Genovesi ad accomodarsi fra loro.
XXVII.
Guerra per Finale.
Il marchesato di Finale, causa per moltissimi anni di querele, liti e guerre alla repubblica di Genova, mediante l'acquisto che, come già dissi, questa ne fece dall'imperatore Carlo VI nel 1713 per una somma rilevante, pareva dover essere fuorf di contestazione e non essere più cagione di guai a chi veramente ne aveva acquistato il possesso; quando pel trattato di Worms conchiuso il 13 settembre 1743 tra Maria Teresa, figlia di Carlo VI ed erede del trono imperiale per la prammatica sanzione, e il re di Sardegna, il Finale ritornò in campo a procurare seri disturbi alla repubblica.
Morto Carlo VI nel 1740, Maria Teresa ritenevasi sicura della successione, ma diversi principi tedeschi vi accamparono diritti, ed infatti venne eletto imperatore il duca di Baviera che prese il nome di Carlo VII. La
Francia si mostrò ostile a Maria Teresa, cui rimaneva solo fedele il regno d'Ungheria; e così pure la Spagna e la Prussia la quale allora sotto il governo di Federico il Grande cominciava ad ingrandirsi e a farsi potente.
La regina d' Ungheria strinse alleanza col re d'Inghilterra e col re di Sardegna, cedendo a quest'ultimo, in compenso degli aiuti che le avrebbe prestato, diverse terre e provincie attigue al Piemonte, fra cui il marchesato di Finale.
Non sì tosto la repubblica apprese questa cessione se ne lamentò alle corti di Vienna e di Londra, dimostrando i diritti che dessa aveva sul Finale, principalmente per l'atto d'acquisto fattone dall'imperatore Carlo VI; ma prima si ebbe vaghe parole rassicuranti che nel trattato nulla vi era a danno suo, quindi, pubblicato il trattato, risposte ironiche ed irrisorie.
La Francia, la Spagna e Napoli (ove regnavano tre rami della famiglia Borbone) sollecitavano la repubblica ad unirsi con loro che ne avrebbero sostenuti i diritti; ed essa, poichè si vide così malamente trattata dalla corte di Vienna, aderì alle loro proposte e il i maggio 1745 firmò il trattato* di alleanza in Aranjuez. Però il Senato pubblicando questo trattato protestò di volersi conservare neutrale, di non prendere parte alcuna alle querele delle potenze belligeranti, dichiarando che, senza rinunziare alla rispettosa amicizia verso di esse, armava a sola difesa dei suoi diritti che venivano conculcati dal trattato di Worms.
Immediatamente cominciarono le ostilità. La repubblica armò un corpo di ottomila uomini sotto il comando di Gio. Francesco Brignole (elevato nel '46 alla dignità dogale), che unito ad altre truppe franco
ispane, occupò Serravalle, pigliandone il Brignole possesso a nome della repubblica, e quindi si spinsero sino a Tortona, Piacenza, Parma e Pavia vittoriosi. D'altro lato i gallo-ispani avevano già occupato Oneglia e Loano, e sebbene Francesco Brignole. gli austro-sardi si fossero
impadroniti di Novi e Gavi, presto, coll'avanzarsi dei nemici, le abbandonarono: onde l'esordio della guerra si mostrava favorevole ai genovesi; ma ben presto alla prospera fortuna seguirono i rovesci.
GÌ' inglesi bombardarono Genova, Savona e Finale, ma con poco risultato, e rovinarono quasi completamente S. Remo; manifesti del re Sardo e di Maria Teresa eccitavano i Corsi a sollevarsi nuovamente contro la repubblica, onde questa si trovò costretta a nuove lotte nell'isola, e da ultimo la battaglia di Piacenza avvenuta il 16 giugno 1746 costrinse gli alleati franco-ispani a ritirarsi, abbandonando la repubblica a lottare da sola contro il vittorioso esercito austro-sardo.
XXVIII. Gli Austriaci a Genova. Invano i Genovesi fecero istanze ai generali spagnuoli . -e francesi perchè lasciassero truppe a difesa della loro città; dapprima sembravano a ciò disposti, e forse lo «rano, ma l'inseguimento vittorioso degli austriaci che, superata la Bocchetta poco guardata, stavano quasi alle porte di Genova gl' indusse a ritirarsi a loro volta precipitosamente.
Gli Austriaci sotto il comando del generale Brown superata la Bocchetta scesero a Campomorone e il 4 settembre entrarono in Sampierdarena.
Impaurito il governo e spaventata la cittadinanza tutta dalla vicinanza del nemico, fu mandato al generale Brown un rinfresco che venne respinto. Gli fu inviato il maresciallo di campo Escher ad esporgli che la repubblica non aveva guerra con l'imperatrice regina, e si ebbe brusca risposta; gli furono spediti poco dopo Ranieri Grimaldi ed Agostino Lomellini per tentare di pacificare il nemico, ma questi non volle sentire discorsi e mandò ai Genovesi il generale Gorani con un foglio contenente le domande di ciò ch'egli pretendea. In quel subito balenò l'idea della resistenza, e forse se il governo fosse stato meno timoroso i genovesi avrebbero potuto far pagare ben cara agli austriaci la loro prepotenza, assalendoli quando le acque della Polcevera improvvisamente inondarono loro il campo da affogarne un migliaio; ma lasciata passare l'occasione e arrivato il domani, giorno 6, il generale Botta Adorno a pigliare il supremo comando dell'esercito imperiale, questi trattò ancora più aspramente gli inviati genovesi Marcellino Durazzo e Agostino Lomellini, dichiarando che se entro poche ore non era soddisfatto delle domande contenute in un foglio loro consegnato, avrebbe usato la forza.
Detto foglio conteneva, sotto forma di dodici articoli, le seguenti domande: Fossero consegnate alle truppe imperiali le porte della città, rimanendone prigioniera la guarnigione, dovendosi dichiarare subito i disertori che sarebbero con ciò ammessi al perdono; fossero consegnate tutte le armi, artiglierie, munizioni da bocca e da guerra raccolte per la sussistenza militare, e che la repubblica ordinasse ai sudditi e alle soldatesche di non commettere ostilità contro le truppe imperiali; fosse libero l'accesso del porto di Genova ai bastimenti delle potenze alleate dell' imperatrice; fossero rimessi nelle mani dei commissari gli effetti dei Napo-Galli-Ispani, notificando i soldati che di quelli si trovassero in città; fosse consegnato il castello di Gavi, e permesso il libero passaggio nel territorio della repubblica alle truppe imperiali; si recasse il Doge con sei senatori a Vienna entro un mese a chiedere perdono degli errori commessi, e fossero liberi tutti i prigionieri di guerra fatti dalla repubblica; si sborsassero subito 50,000 genovine da dispensarsi all'esercito a titolo di rinfresco, salvo le contribuzioni di guerra che fosse per chiedere il commissario conte di Cotek.
I due deputati genovesi letto il foglio fecero osservare come non si poteva, a termini delle leggi in vigore , rispondervi entro poche ore; al che il Botta rispondeva non esservi altra legge che quella data da lui; onde, ritornati in città sulla mezzanotte, riferirono ogni cosa al Doge che radunò straordinariamente i Collegi. Intanto fu adunato un consiglio di guerra per sentire se la città era in condizioni di potersi difendere; ma il consiglio dichiarò che non era possibile la difesa neppure per poche ore. Quindi i Collegi non avendo speranza di soccorsi dai gallo-ispani, sottoscrissero il foglio rinviandolo al generale austriaco che subito fece occupare la porta della Lanterna e posti adiacenti e, poco appresso, anche la porta di S. Tommaso.
Ad aggravare le condizioni della repubblica, il giorno 8 settembre comparve al governo un foglio del conte Cotek col quale domandava per le spese di guerra il pagamento di tre milioni di genovine, il primo entro 48 ore, il secondo fra otto giorni e il terzo fra quindici da contarsi dalla data del loglio, colla minaccia di fuoco, ferro e sacco in caso di dilazione nei pagamenti. Andarono deputati a implorare dal Cotek un po' di equità, ma non ottennero che la dilazione di pochi giorni pel pagamento del primo milione, il quale fu giuocoforza torlo dal Banco di S. Giorgio non avendo il governo altro modo di procurarselo.
Passati pochi giorni il Cotek richiese minaccioso il
pagamento del secondo milione, e il Botta, che già aveva avuto le 50 mila genovine, chiedeva viveri, tende e bastimenti per le sue truppe; onde il governo fece sentire suoi lamenti alla corte viennese e interessò in suo favore il re d'Inghilterra e gli Stati d'Olanda; ma senza utilità, chè il Cotek reclamava ancora più fieramente il pagamento degli altri due milioni, e il Botta dichiarava che l'imperatrice considerava lo stato di Genova come il Mogol donde avrebbe tratto i tesori occorrenti alla guerra. Allora fu mestieri al governo porre di nuovo le mani nel Banco di S. Giorgio; così in diverse riprese potè pagare 900 mila genovine, mentre andava raccogliendone altre dai privati.
S'interponeva il Papa a favore della povera repubblica, e l'imperatrice pareva disposta a rinunziare al terzo milione, di che i cittadini menavano grande alleggrezza; quando il conte Cotek rinnovò istanze pel pagamento di detto milione e di altre maggiori somme. Costernato, il governo genovese dichiarava al Botta non avere più denari da soddisfare a tali domande; al che il Botta rispondeva consigliando disponesse dei capitali che i privati avevano sui banchi d'Inghilterra, d'Olanda e altrove.
Aggiungi le prepotenze della soldatesca austriaca verso i cittadini di qualunque ceto; le pretese del generale Botta che voleva dal Senato la liberazione di prigionieri per reati comuni, salvacondotti per debitori, rimozione di giudici; onde grandissima irritazione era nella popolazione e nello stesso governo, sebbene quest' ultimo la celasse sotto un prudente riserbo.
XXIX. Rivoluzione di Fortoria. Avendo gli austro-sardi deliberato di portare la guerra in Provenza a danni di Francia, a quella volta furono spedite molte truppe, e occorrendo loro artiglierie, il generale Botta domandò al governo della repubblica cannoni e mortai colle rispettive munizioni. A tale domanda il governo rispose che la repubblica non poteva concedere a danni altrui quelle artiglierie che soltanto a sua difesa erano destinate, e che nel rimanente essa non aveva rimedio d'opporsi alla forza qualora avesse voluto levarle con violenza. Il Botta, non curandosi della protesta, ordinò fossero tolti i cannoni dai posti ove erano situati e trasportati alla Lanterna per ivi imbarcarli.
Intanto aumentavano le domande di denaro. Oltre il pagamento del terzo milione, il conte Cotek ne chiedeva un quarto per i quartieri d'inverno e altre somme a diversi titoli, sempre accompagnando ogni domanda colle minaccie più terribili, dicendo che quanto possedevano i cittadini era proprietà dell' imperatrice e che dalla sua generosità avrebbero dovuto riconoscere quanto essa loro lasciava. Il Botta pretendeva da ultimo occupare colle sue truppe diversi punti della città, e all'uopo mandò ufficiali che i punti convenienti scegliessero.
Ferveva il malumore nel popolo a stento represso, vedendo gli Austriaci correre baldanzosi per le vie di Genova; e più mal soffriva di vedersi asportare le artiglierie che già avevano servito a sua difesa, per cui un nulla bastava ad eccitare la rivolta che covava in petto d'ognuno.
Correva il 5 dicembre sul tramontare quando un drappello di soldati austriaci trascinava un mortaio per la via di Portoria. Ad un punto la strada sprofonda sotto il peso del mortaio, e i soldati chieggono aiuto ai popolani, che subito avevano formato capannello, per rialzarlo. Rispondevano di mala voglia all'invito, quando il caporale che guidava il drappello adirato alza il bastone e lo lascia cadere sulle spalle di alcuni più
riluttanti. Qui fu dove un popolo assuefatto ad essere sempre colla maggior dolcezza trattato (copio da Giovanni Francesco Doria testimone dei fatti) e non accostumato a vedersi comandare con sì fatto linguaggio, perdè finalmente la pazienza, ed intesosi dalla voce di un ragazzo in lingua del paese un motto: Che Vinse? il quale nella toscana favella vale a dire: che la incominci a rompere? si vide come una pioggia di sassi improvvisamente scagliati contro gli austriaci, talmente che questi furono costretti ad abbandonare il mortaio ed a salvarsi colla fuga.
Corre subito per tutta la città la voce della rivoluzione portoriana, e tosto numeroso popolo si raccoglie sulla piazza del palazzo ducale chiedendo ad altissime grida armi per combattere gli austriaci.
Stavano allora radunati i Collegi i quali rinforzarono la guardia or.de non venisse invaso il palazzo, e delegarono quattro patrizi a conferire coi capi popolari esortandoli alla calma. Sopraggiunta la notte e una dirottissima pioggia, i cittadini si ritirarono alle proprie case, onde parve cessato ogni rumore.
Il governo intanto aveva spedito Nicolò Giovo al generale Botta per fargli conoscere che la sommossa di Portoria era stata provocata dai soldati austriaci e a pregarlo di non irritare maggiormente il popolo che si sarebbe poi ridotto difficilmente alla calma. Il Botta dichiarando di spregiare e non temere i nostri popolani, dispose che pel domani un più forte drappello si recasse a togliere il mortaio dov' era sprofondato.
Infatti la mattina del 6, cento granatieri con baionetta in canna entrarono da porta S. Tommaso scortando gente che dovevano adempiere a quella bisogna; ma non sì tosto furon veduti dai popolani di Pre, una sassaiuola furiosa li costrinse a retrocedere; mentre d'ogni parte il popolo sollevato gridava: armi, armi, e ne cavava ovunque sapeva ve ne fossero. Si disarmavano i soldati di guardia, mandandoli a rifornirsi d'altri fucili dal governo, si assaltavano le case e le botteghe degli armajuoli, provvedendosi, quanti potevano, di armi, protestando volersi cacciare gli abborriti austriaci.
XXX.
Cacciata degli Austriaci.
Improvvisate barricate verso le strade donde poteano avanzarsi i nemici, il popolo si dispose ad assalire la guardia della porta di S. Tommaso; ma in quel subito non gli venne fatto di raggiungere lo scopo, non essendo per anco ordinato di fronte ad una milizia ben armata e disciplinata.
Intanto deputati del governo tornavano al Botta, facendogli notare i pericoli che potevano derivare dal popolo tumultuante; al che quegli rispose che a sedare il popolo, la repubblica lo assalisse alle spalle colle sue truppe, ch'egli colle proprie lo avrebbe assalito di fronte. Anche il padre Antonio Visetti della compagnia di Gesù recossi dal generale per indurlo a più miti consigli; ma inutilmente.
Il domani 7 dicembre, il popolo, meglio ordinato, tornò a radunarsi in arme, trascinando artiglierie per impadronirsi della porta di S. Tommaso; e il Botta ripeteva la proposta al governo di assalire il popolo fatta il giorno dianzi, a cui il Senato rispondeva: che mai avrebbe potuto condiscendere a voltare contro i propri sudditi, che come figli riguardava, quelle armi che soltanto erano destinate alla difesa dei medesimi,
nè aver esso modo alcuno di quietare un popolo, stato ridotto alla disperazione, ed altamente irritato.
Il generale austriaco mandò subito a richiamare le truppe che per la riviera di ponente si avviavano in Provenza, e quelle che stavano in Novi e nella riviera di levante; ma queste, mentre speravano di giungere pel Bisagno ad unirsi col grosso dell' esercito in Sampierdarena, si videro assalite dai Bisagnini in arme e parte costrette a ritirarsi e parte a dichiararsi prigioniere.
Durò tutto il giorno il combattimento, malgrado la pioggia, e poichè gli austriaci alzarono bandiera bianca chiedendo un armistizio di poche ore, si recarono dal Botta il principe Doria e Agostino Lomellini dicendo: che il popolo voleva riconsegnate in mano della repubblica le porte della città, che non si togliesse altre artiglierie e le tolte si restituissero e che non si chiedesse più altro sborso di denaro. Rispose negativamente il Botta; ma l' armistizio fu prorogato con piacere d'ambo le parti: per l'austriaco che attendeva rinforzi, pel popolo genovese che si ordinava militarmente.
Tutta la giornata del 9 passò in trattative d'accomodamento , e l'armistizio venne prorogato sino al mattino del giorno seguente. Tornarono il Doria e il Lomellini a esporre le domande del popolo al Botta, ma questi sdegnato li tenne in arresto sino alla mattina del 10, nel quale giorno la popolazione tutta, senza distinzione di sorta, compresi gli stessi frati e preti, ben disposta, armata, colle vie barricate, munite di artiglierie, era decisa a combattere per la liberazione della patria. Lo stesso Arcivescovo, Monsignor Saporiti, benediceva i combattenti e li esortava a pugnare con valore; per cui egli e il suo clero a guerra finita, s'ebbero violenti censure dell' Austria, alle quali risposero con una bellissima lettera a stampa dimostrando essere stato loro lecito impugnare le armi a difesa del luogo natio. Un mortaio fu trascinato sul colle di Pietraminuta, da dove poteva bersagliare il nemico nella sottostante località di Acquaverde e oltre; e così ogni altro punto della città era validamente fortificato.
Spirando l'armistizio, volevano gli austriaci rinnovarlo; ma il popolo, che sospettava un tranello, si rifiutò di accordarlo. Ritornò il padre Visetti per indurre il Botta ad accettare le condizioni dei Genovesi, ma quegli tanto tergiversò, che quando si decise a firmare il foglio presentatogli dal gesuita, le ostilità erano già cominciate tra gli austriaci che stavano ai Filippini e il popolo radunato in via Balbi.
Ai primi colpi di cannone, suonarono a stormo le campane della città: il popolo accorre arditamente alla pugna, fa prigioniera la compagnia che stava nella commenda di S. Giovanni detta allora di Malta, s'impadronisce della porta di S. Tommaso, e, quale torrente che straripa, insegue gli Austriaci furiosamente che, opposta alquanta resistenza, volgono le spalle dandosi a precipitosa fuga verso Sampierdarena. I contadini scesi dalle soprastanti colline li cacciano altresì da S. Benigno, costringendoli ad abbandonare la porta della Lanterna della quale s'impadroniscono i genovesi.
Sopraggiunta la notte, lasciata buona guardia ai punti occupati, i cittadini tornarono alle proprie case rallegrandosi di aver liberato la patria dal prepotente nemico.
Anche dalla parte del Bisagno gli austriaci avevano avuto la peggio, lasciando oltre tremila prigionieri; segnalandosi nei combattimenti, per valore e coraggio, quei contadini e singolarmente il fanciullo decenne Pittamuli che con una fascina accesa diede fuoco ad un casale ove stavano rinchiusi, difendendosi strenuamente , molti soldati. 1
Tra i popolani genovesi si segnalò, in quella memoranda giornata del io dicembre, Giovanni Carbone, garzone d'osteria, che s'era fatto capo e guida dei cittadini e combattè, anche ferito, con rara intrepidezza impadronendosi della porta di S. Tommaso, le chiavi della quale consegnò al Doge in seno ai Collegi, di cendogli, che il popolo col proprio sangue le aveva ricuperate e meglio le guardassero in avvenire i signori.
Gli Austriaci ritiratisi in Sampierdarena, non reputandosi sicuri, ne partirono, ritirandosi al di là della Bocchetta, lasciando preda dei genovesi gli equipaggi e molti fra essi che feriti o malati non poterono rapidamente fuggire.
Nel contempo il popolo genovese, incoraggiato dalla vittoria, avrebbe voluto liberare Savona assediata dai piemontesi, ma il generoso tentativo non ebbe lieto effetto, chè la guarnigione col commissario Agostino Adorno dovette capitolare innanzi le giungessero i soccorsi che a lor volta s'indugiarono per via.
Tentava il Botta da Novi di ripigliare la perduta città, ma quando le sue truppe stavano per scendere nella valle del Polcevera, i polceveraschi arditamente le respinsero, e un corpo di ottomila cittadini inviato loro incontro, le obbligò a rifuggiarsi in Novi. La corte viennese spogliava del supremo comando il Botta e nei primi del febbraio 1747, lo affidava al conte di Schulembourg, fieramente irritata contro la repubblica di Genova, il governo della quale accusava di doppiezza e tradimento.
XXXI.
Tumulti popolari.
Tra l'8 e il 9 dicembre il popolo, ordinandosi, aveva impiantato il suo quartier generale in via Balbi, nel palazzo ove allora aveva sede il collegio dei gesuiti ed oggi destinato alla Università degli studi, creandosi un proprio governo. Presiedevalo Tommaso Assereto detto l'Indiano, ed eleggevasi a capo delle milizie Carlo Bava mediatore. Si nominavano poi membri del governo per ciascun sestiere: Giobatta Ottone tappezziere, Giuseppe Comotto pittore, Giuseppe Tezzoso merciaio, Camillo Marchini scritturale, Duval e Muratti negozianti, Francesco Lanfranco pizzicagnolo, Lazzaro Parodi e Andrea Uberdò calzolai, i fratelli Stefano e Domenico Costa tintori, Domenico e Francesco Siccardi, impresari, Giuseppe Malatesta facchino, Giovanni Carbone garzone d'osteria, Alessandro Gioppo pesciaiuolo, e Bernardo Cartassi. Questo magistrato popolare, con pieni poteri, diresse il rivolgimento e la guerra contro gli austriaci con abilità e senno; ma poiché tra i nobili, che tenevano il governo della repubblica, e i popolani non regnava buon accordo, e questi ultimi consideravano i primi come loro nemici e nemici della patria, si levò tra il Senato e il Quartier Generale un conflitto, eccitato da mestatori inviati appositamente dagli Austriaci, da cui generarono tumulti gravissimi.
Il Senato provvedeva in quel modo che meglio poteva a difendere lo stato contro le nuove previste invasioni; mentre non trascurava d'inviare ambasciatori alle potenze estere per interessarle a favore di Genova e a sollecitare aiuti dai re di Francia, Spagna e Napoli in forza del trattato d'alleanza di Aranjuez: quando il 14 gennaio del 1747 si sparse voce in città che i nemici si avanzavano dalla Bocchetta in gran numero, sollevandosi grande disordine. Un Gian Stefano Noceto si diede allora a correre per le strade gridando « che dal Governo e dai patrizi, tradito il misero popolo, risoluto si era di sacrificarlo alle vendette degli austriaci, nè doversi differire il procurare la comune salvezza, prevenendo il colpo, ed opprimendo i traditori, prima che da questi oppressa fosse la moltitudine. »
In poco istante la piazza Nuova fu piena di popolo
nè aver esso modo alcuno di quietare un popolo, stato ridotto alla disperazione, ed altamente irritato.
Il generale austriaco mandò subito a richiamare le truppe che per la riviera di ponente si avviavano in Provenza, e quelle che stavano in Novi e nella riviera di levante; ma queste, mentre speravano di giungere pel Bisagno ad unirsi col grosso dell' esercito in Sampierdarena, si videro assalite dai Bisagnini in arme e parte costrette a ritirarsi e parte a dichiararsi prigioniere.
Durò tutto il giorno il combattimento, malgrado la pioggia, e poichè gli austriaci alzarono bandiera bianca chiedendo un armistizio di poche ore, si recarono dal Botta il principe Doria e Agostino Lomellini dicendo: che il popolo voleva riconsegnate in mano della repubblica le porte della città, che non si togliesse altre artiglierie e le tolte si restituissero e che non si chiedesse più altro sborso di denaro. Rispose negativamente il Botta; ma l' armistizio fu prorogato con piacere d'ambo le parti: per l'austriaco che attendeva rinforzi, pel popolo genovese che si ordinava militarmente.
Tutta la giornata del 9 passò in trattative d'accomodamento , e l'armistizio venne prorogato sino al mattino del giorno seguente. Tornarono il Doria e il Lomellini a esporre le domande del popolo al Botta, ma questi sdegnato li tenne in arresto sino alla mattina del 10, nel quale giorno la popolazione tutta, senza distinzione di sorta, compresi gli stessi frati e preti, ben disposta, armata, colle vie barricate, munite di artiglierie, era decisa a combattere per la liberazione della patria. Lo stesso Arcivescovo, Monsignor Saporiti, benediceva i combattenti e li esortava a pugnare con valore; per cui egli e il suo clero a guerra finita, s'ebbero violenti censure dell' Austria, alle quali risposero con una bellissima lettera a stampa dimostrando essere stato loro lecito impugnare le armi a difesa del luogo natio. Un mortaio fu trascinato sul colle di Pietraminuta, da dove poteva bersagliare il nemico nella sottostante località di Acquaverde e oltre; e così ogni altro punto della città era validamente fortificato.
Spirando l'armistizio, volevano gli austriaci rinnovarlo; ma il popolo, che sospettava un tranello, si rifiutò di accordarlo. Ritornò il padre Visetti per indurre il Botta ad accettare le condizioni dei Genovesi, ma quegli tanto tergiversò, che quando si decise a firmare il foglio presentatogli dal gesuita, le ostilità erano già cominciate tra gli austriaci che stavano ai Filippini e il popolo radunato in via Balbi.
Ai primi colpi di cannone, suonarono a stormo le campane della città: il popolo accorre arditamente alla pugna, fa prigioniera la compagnia che stava nella commenda di S. Giovanni detta allora di Malta, s'impadronisce della porta di S. Tommaso, e, quale torrente che straripa, insegue gli Austriaci furiosamente che, opposta alquanta resistenza, volgono le spalle dandosi a precipitosa fuga verso Sampierdarena. I contadini scesi dalle soprastanti colline li cacciano altresì da S. Benigno, costringendoli ad abbandonare la porta della Lanterna della quale s'impadroniscono i genovesi.
Sopraggiunta la notte, lasciata buona guardia ai punti occupati, i cittadini tornarono alle proprie case rallegrandosi di aver liberato la patria dal prepotente nemico.
Anche dalla parte del Bisagno gli austriaci avevano avuto la peggio, lasciando oltre tremila prigionieri; segnalandosi nei combattimenti, per valore e coraggio, quei contadini e singolarmente il fanciullo decenne Pittamuli che con una fascina accesa diede fuoco ad un casale ove stavano rinchiusi, difendendosi strenuamente , molti soldati. 1
Tra i popolani genovesi si segnalò, in quella memoranda giornata del io dicembre, Giovanni Carbone, garzone d'osteria, che s'era fatto capo e guida dei cittadini e combattè, anche ferito, con rara intrepidezza impadronendosi della porta di S. Tommaso, le chiavi della quale consegnò al Doge in seno ai Collegi, di cendogli, che il popolo col proprio sangue le aveva ricuperate e meglio le guardassero in avvenire i signori.
Gli Austriaci ritiratisi in Sampierdarena, non reputandosi sicuri, ne partirono, ritirandosi al di là della Bocchetta, lasciando preda dei genovesi gli equipaggi e molti fra essi che feriti o malati non poterono rapidamente fuggire.
Nel contempo il popolo genovese, incoraggiato dalla vittoria, avrebbe voluto liberare Savona assediata dai piemontesi, ma il generoso tentativo non ebbe lieto effetto, chè la guarnigione col commissario Agostino Adorno dovette capitolare innanzi le giungessero i soccorsi che a lor volta s'indugiarono per via.
Tentava il Botta da Novi di ripigliare la perduta città, ma quando le sue truppe stavano per scendere nella valle del Polcevera, i polceveraschi arditamente le respinsero, e un corpo di ottomila cittadini inviato loro incontro, le obbligò a rifuggiarsi in Novi. La corte viennese spogliava del supremo comando il Botta e nei primi del febbraio 1747, lo affidava al conte di Schulembourg, fieramente irritata contro la repubblica di Genova, il governo della quale accusava di doppiezza e tradimento.
XXXI.
Tumulti popolari.
Tra l'8 e il 9 dicembre il popolo, ordinandosi, aveva impiantato il suo quartier generale in via Balbi, nel palazzo ove allora aveva sede il collegio dei gesuiti ed oggi destinato alla Università degli studi, creandosi un proprio governo. Presiedevalo Tommaso Assereto detto l'Indiano, ed eleggevasi a capo delle milizie Carlo Bava mediatore. Si nominavano poi membri del governo per ciascun sestiere: Giobatta Ottone tappezziere, Giuseppe Comotto pittore, Giuseppe Tezzoso merciaio, Camillo Marchini scritturale, Duval e Muratti negozianti, Francesco Lanfranco pizzicagnolo, Lazzaro Parodi e Andrea Uberdò calzolai, i fratelli Stefano e Domenico Costa tintori, Domenico e Francesco Siccardi, impresari, Giuseppe Malatesta facchino, Giovanni Carbone garzone d'osteria, Alessandro Gioppo pesciaiuolo, e Bernardo Cartassi. Questo magistrato popolare, con pieni poteri, diresse il rivolgimento e la guerra contro gli austriaci con abilità e senno; ma poiché tra i nobili, che tenevano il governo della repubblica, e i popolani non regnava buon accordo, e questi ultimi consideravano i primi come loro nemici e nemici della patria, si levò tra il Senato e il Quartier Generale un conflitto, eccitato da mestatori inviati appositamente dagli Austriaci, da cui generarono tumulti gravissimi.
Il Senato provvedeva in quel modo che meglio poteva a difendere lo stato contro le nuove previste invasioni; mentre non trascurava d'inviare ambasciatori alle potenze estere per interessarle a favore di Genova e a sollecitare aiuti dai re di Francia, Spagna e Napoli in forza del trattato d'alleanza di Aranjuez: quando il 14 gennaio del 1747 si sparse voce in città che i nemici si avanzavano dalla Bocchetta in gran numero, sollevandosi grande disordine. Un Gian Stefano Noceto si diede allora a correre per le strade gridando « che dal Governo e dai patrizi, tradito il misero popolo, risoluto si era di sacrificarlo alle vendette degli austriaci, nè doversi differire il procurare la comune salvezza, prevenendo il colpo, ed opprimendo i traditori, prima che da questi oppressa fosse la moltitudine. »
In poco istante la piazza Nuova fu piena di popolo
Vienna, quando pel trattato di Worms fu costretta a gettarsi neh" alleanza dei Borboni e quindi in guerra coll' impero.
Allora gli alleati austro-sardi non mancarono di tribolare la repubblica anche nell'isola, chè nel 1745 Domenico Rivarola corso, elevato alla dignità di colonnello dal re di Sardegna, con alcune centinaia di soldati e l'appoggio di vascelli inglesi sbarcò nell'isola e avvicinatosi a Bastia costrinse il commissario genovese a ritirarsi in Calvi, rendendosi egli padrone di quella città; e perdutala quasi subito, occupò la torre di S. Fiorenzo, ripigliando nel 1748 l'assedio di Bastia, la quale cadde novellamente in sue mani prima che arrivasse in sua difesa un piccolo distaccamento francese inviato dall' ambasciatore di Francia in Genova.
Intanto correva voce che il re di Sardegna preparasse una spedizione di quattro mila uomini in Corsica. Allora il Senato ricorse al duca di Richelieu, che per la guerra cogli Austro-sardi si trovava in Genova, e lo pregò vivamente di mandare quante più truppe poteva a difesa dell'isola, senza far osservazione sulla cessione delle piazze forti; onde il Richelieu affrettossi ad inviare guarnigioni in Calvi, Bonifacio, Ajaccio e Bastia sotto il comando del signore di Cursay.
Ma la pace di Aquisgrana, sottoscritta in quei giorni, per la quale Genova rimaneva padrona di Finale e della Corsica, avrebbe dovuto indurre i francesi a lasciare l'isola, ov'erano accorsi per difenderla dall'invasione piemontese; però la considerazione che, partiti i francesi, i Corsi si sarebbero di nuovo sollevati e che qualche altra potenza accogliendo i loro inviti si sarebbe potuta impadronire dell' isola indusse i Genovesi a chiedere e i Francesi a conservare i loro presidi.
I Corsi da lor parte vedevano volentieri la presenza dei francesi nell'isola, tanto più che il generale Cursay ne pigliava apertamente le difese contro il commissario genovese; e rimettendosi alla volontà del re di Francia, fu concordato un regolamento che, dopo lunghe discussioni, nel 1752 parve incontrare le simpatie di tutte le parti, ma infatti non gradì ad alcuno e non fu possibile mandarlo in esecuzione.
II re di Francia promise allora di continuare alla repubblica i sussidi che da tempo le dava, ma deliberò il ritiro delle sue truppe dall' isola. Gradatamente che questo ritiro aveva luogo, i Genovesi rimanevano di fronte ai Corsi padroni assoluti nell' interno e risoluti a non piegarsi all' antica dominazione. In quella , Gafforio che teneva la suprema potestà sui Corsi, venne assassinato in un imboscata, dicesi ordita dai genovesi; e poichè i corsi poco si fidavano di un altro lor capo Mario Matra ch' era succeduto nel comando al Rivarola, deceduto, rivolsero altrove i loro sguardi a cercarvi un capo.
Giacinto Paoli ritiratosi nel regno di Napoli, vi aveva lasciato un figlio a nome Pasquale che allora contava ventidue anni ed era luogotenente alla corte napoletana. A questo giovane ufficiale si rivolsero i Corsi, memori del padre suo, invitandolo a pigliare la loro direzione.
Pasquale Paoli di elettissimo ingegno, ardente di patriottismo, pieno di coraggio, ambizioso e fornito di un naturale talento politico finissimo, accettò V invito con entusiasmo e tutto si votò alla liberazione del proprio paese. Sbarcato in Corsica il 23 aprile del 1755, fu eletto governatore a vita. Matra ben presto, geloso della sua autorità, fors' anche venduto ai genovesi, ribellò alcuni soldati e tentò di abbattere il Paoli; ma, dichiarato traditore della patria, fu vinto ed ucciso.
Pasquale Paoli trionfava, e da vero dittatore governava l'isola, sovvenuto dagl' inglesi segretamente -o apertamente a secondo dei casi, ma tenendosi sempre in buoni rapporti colla Francia.
Nel 1756 un corpo di tremila francesi sbarcò nell'isola per difenderla contro gl' inglesi, e Paoli ne Pasquale Paoli, salutò l'arrivo con piacere; ma poco vi rimase, chè per la guerra dei sett' anni la Francia avendo grande bisogno di truppe nel continente lo richiamò.
La condizione dei Genovesi rimpetto agl' isolani si faceva più critica. Lo stesso pontefice accoglieva le istanze di Paoli quale supremo capo dei corsi e inviava un Visitatore Apostolico a riordinare i vescovati della Corsica abbandonati dai titolari genovesi; e alle proteste della repubblica, il Papa rispondeva colla minaccia dell' interdetto.
Il doge Agostino Lomellini vagheggiò in questi tempi di pacificare la Corsica mediante concessioni ed elargizione di denari. Fece offrire a Paoli il titolo di generale dei Corsi a vita, conchè inducesse i suoi a sottomettersi. Furono all'uopo spese enormi somme, contratto un imprestito, deliberate nuove tasse; inutilmente. Paoli raccolti i Corsi annunziò ch' egli era ricercato dalla repubblica per negoziare una pace, le condizioni della quale potevano essere vantaggiose; essi decidessero il da farsi. Guerra e libertà, fu la risposta del popolo, il quale in una solenne assemblea proclamò la propria indipendenza dichiarando di non riconoscere più alcun legame tra esso e Genova.
Paoli notificò alla Francia e a tutte le potenze il deliberato del popolo, e quindi completò l' organizzazione del suo paese sotto tutti i rapporti. Decretò perfino l'istituzione d'una Università, ed invitò Gian Giacomo Rousseau a divenire il legislatore dei corsi, ma il grande filosofo ginevrino, per divergenza nelle opinioni religiose, non accettò l'invito.
Oramai la Corsica si poteva dire perduta per la repubblica, e solo una forte potenza poteva ricuperarvi il predominio da essa perduto.
XXXIV.
Cessione della Corsica alla Francia.
Finita la guerra dei sett'anni, la repubblica, poichè altro non le rimaneva a fare, rivolse istanza al re di Francia di nuovi aiuti per conservare, ridurre e pacificare l'isola; ma questa volta il re non si decise ad accordarli che dopo lunghi negoziati tendenti a stabilire la dominazione francese in Corsica. Finalmente il 6 agosto del 1764 fu concluso un trattato tra Genova e la Francia pel quale questa inviava in Corsica un corpo di tremila uomini che prendesse in deposito per quattr' anni tre città marittime sulle cinque che ancora tenevano i genovesi, col solo obbligo di conservarle, ritirandosi da dette tre città le truppe e i commissari genovesi, rimanendone assoluti governatori gli ufficiali francesi. Costoro poi avevano l'incarico di tentare la pacificazione dell' isola, raccomandando la sommissione ai ribelli, ma senza costringerveli colla forza.
In virtù di questo trattato, la Francia veniva ad acquistare una preponderanza nell'isola, dopo la quale altro non poteva seguire che il possesso. Pasquale Paoli aveva in precedenza negoziato colla corte francese un trattato pel quale il re Luigi XV veniva proclamato protettore della Corsica, ma gli aiuti prestati alla repubblica non permisero la conclusione
di quel trattato, sebbene^ non mancassero i sussidi a Paoli nell' opera sua patriottica.
Quando i francesi guidati dal marchese di Marboeuf sbarcarono nell'isola, un'assemblea di corsi deliberò di non attaccare nè essi nè le città da essi occupate, ma di stare sull' arme, ed invitò Paoli a seguire le buone pratiche colla Francia, rinnovando le dichiarazioni già fatte nel 1736.
Genova chiese poco appresso nuove truppe alla Francia, ma le fu risposto che senza la cessione in perpetuo d'una piazza forte, non le sarebbero accordate. Domandò allora che fosse prorogato il termine di quattr' anni pel soggiorno delle truppe francesi nell' isola, ma anche a questa domanda la Francia oppose la richiesta di nuovi compensi. Allora Genova tutta si persuase che più nulla poteva fare per conservarsi il regno di Corsica.
L' unione nazionale in Corsica era pressochè completa, le stesse terre ancora occupate dai genovesi mandavano i deputati alle assemblee; i navigatori delle due riviere accettavano i passaporti di Paoli per salvaguardare le loro spedizioni commerciali. In ultimo i corsi attaccarono l'isola di Caprera, forzando la guarnigione genovese a capitolare.
Questi fatti decisero i genovesi a scegliere tra l' abbandono della Corsica e la cessione della stessa alla Francia. Quest'ultimo partito prevalse, e furono fatte aperture colla corte di Versailles; ma questa volle una proposta ufficiale formale. Le trattative si condussero a lungo vagamente, ora interrotte, ora riprese con ardore, alle quali Paoli non fu estraneo; finalmente nel 1768, addi 15 maggio, fu concluso un trattato in forza del quale la Corsica passava nelle mani del re di Francia come in deposito, dietro il pagamento di due milioni di lire da farsi in dieci anni. La sola città di Bonifacio fece dei lamenti non appena seppe di quella cessione, ma le altre città furono illuminate a festa. Nuove truppe sbarcarono nell'isola, e le stesse navi che vi avevano condotte quelle condussero a Genova i soldati e i funzionari genovesi; l'anno seguente, 1769, la Francia notificò alle potenze che la Corsica era passata sotto la sua legislazione.
Pasquale Paoli protestò contro l'aggregazione della sua patria alla Francia; resistette con ardire alle forze francesi che di continuo sbarcavano nell'isola; ma all' ultimo egli rifuggiossi in Londra e i Corsi dovettero piegare alla soggezione di Francia.
XXXV.
Gli effetti della rivoluzione francese in Genova.
Dopo la cessione della Corsica alla Francia, la storia di Genova non registra più alcun avvenimento degno di memoria, e quasi si potrebbe dire che di fatto la sua storia civile e politica viene violentemente soppressa dal contraccolpo della grande rivoluzione del 1789.
Le idee di libertà e d'uguaglianza svolte dai pubblicisti francesi avevano già preparato il terreno alla rivoluzione non solo in Francia, ma in tutta Europa; onde non si tosto si sparsero le notizie dei deliberati dell'Assemblea Legislativa e della Convenzione Nazionale per i quali era abolita la nobiltà, soppressa la monarchia, distrutti i privilegi feudali e del clero, in Genova si levarono a rumore quegli spiriti che a tali idee avevano già aperto la mente ed il cuore, opportunamente eccitati da commissari francesi.
Il re di Sardegna, Vittorio Amedeo III, proponeva un' alleanza tra i governi italiani per opporsi al torrente rivoluzionario che ogni parte dilagava; ma la repubblica di Genova, come quella di Venezia, protestò volersi serbare neutrale, sebbene la nobiltà, nelle cui mani stava il potere, tremasse al progresso delle idee francesi.
L'Inghilterra, che s'era alleata col re di Sardegna e l'imperatore d' Austria contro la Francia, mandava una flotta nel Mediterraneo al duplice scopo d'indurre la repubblica di Genova ad entrare nella loro lega e di difendere la riviera di ponente da un' invasione francese. A rompere la neutralità della repubblica, due navi inglesi assalirono nel porto di Genova una fregata francese, la Modesta, e, uccidendone moltissimi marinai, se ne impadronirono. Protestò la Francia a mezzo del suo ministro residente Tilly, minacciando gravi danni alla repubblica; ma questa col pagamento di quattro milioni di lire compose, pel momento, la vertenza.
Ma l'invasione dei francesi nella riviera di ponente rendeva effimera la neutralità della repubblica, la quale d'altra parte era tormentata dagl'inglesi che di quell' invasione la volevano responsabile.
Il vittorioso avanzarsi delle truppe francesi eccitava gli animi disposti a libertà; onde il governo della repubblica procedeva all' arresto dei principali anche per dare una prova ai nemici di Francia ch'esso non favoriva le novità della Senna. Ma a capo di quelle truppe era un uomo di genio, Napoleone Buonaparte, che in breve ridusse alla pace il re di Sardegna e costrinse l' Austria a ritirarsi sbigottita.
Per istruzioni ricevute dal Direttorio di Parigi, Buonaparte si volse quindi su Genova e, pigliando a pretesto l'affare della Modesta e alcuni assassini di francesi avvenuti nel territorio della repubblica, chiese riparazione dei danni, minacciando altrimenti distruzione. Il governo tergiversò alquanto, pauroso dei francesi e degl'inglesi, minacciosi a lor volta, finalmente piegò a Francia e il 9 ottobre 1796 convenne nell' alleanza francese.
Ma altresì il governo aristocratico doveva far luogo al democratico, onde il 22 maggio dell'anno seguente un fiero tumulto eccitato da Filippo Morando, un Vitaliani di Napoli, Filippo Doria, sovvenuti da' Faypoult, ministro di Francia, imponeva al Senato che riformasse lo stato; e già riuscivan essi all'intento quando una controrivoluzione popolare correva le via della città gridando: Viva Maria, morte ai Giacobini! Di qui una lotta fraterna che insanguinò le vie della città, nella quale il Senato ebbe vittoria; ma vittoria dolorosa, chè il Buonaparte dopo molte intimazioni y cui rispondeva sommesso il governo genovese, faceva avanzare le proprie truppe sino alle porte di Genova, costringendo il Senato ad inviargli deputati per riformare il governo.
Andavano al Buonaparte in Montebello Michelangelo Cambiaso, Luigi Carbonara e Gerolamo Serra, e con lui concordavano il 5 di giugno: che il governo rimettesse alla nazione il deposito della sovranità che gli aveva confidato; che riconoscesse stare la sovranità nell'universalità dei cittadini; che si rimettesse l'autorità legislativa a due consigli rappresentativi, l'uno di 300 l'altro di 150; che il potere esecutivo risiedesse nel senato composto di dodici eletti dai consigli e presieduto dal doge; che si abolissero tutti i privilegi; che intanto si creasse un governo provvisorio di 22 persone presieduto dal doge, e che questo governo entrasse in ufficio il 14 giugno.
In questo giorno, il doge Giacomo Brignole, confermato dal Buonaparte nell'ufficio, assumeva il nuovo governo con plauso della popolazione che inalzava alberi di libertà sulle piazze, accendeva fuochi di gioia e inneggiava al Buonaparte. Traevasi al palazzo ducale dove si toglieva il libro d'oro della nobiltà genovese, che venne bruciato sulla piazza dell' Acquaverde, si demoliva la statua eretta ad Andrea Doria, ed insieme si commettevano atrocità
contro coloro ch' erano sospetti avversari del nuovo ordinamento. Una costituzione basata su quella della repubblica francese era tosto concretata.
Si sollevavano, eccitati dai nobili e da alcuni preti, i contadini del Bisagno prima e poscia quei di Polcevera; ma il generale francese Duphot ristabiliva la quiete, vincendo i sollevati in Albaro e a S. Benigno.
Nuove truppe francesi col generale Lannes vennero in Genova pigliandovi stanza, e la nuova costituzione veniva pubblicata il 2 dicembre del 1797 sostituendo all' antica repubblica di Genova, la Repubblica Ligure essenzialmente democratica e foggiata su quella francese, con un direttorio presieduto da Luigi Corvetto.
XXXVI.
Genova e Napoleone.
Per la partenza dall'Italia di Napoleone, le cose de' francesi andarono a rovescio, e sull' esodire del XIX secolo più ad essi non rimaneva che lo stato ligure, a difendere il quale, contro gli austriaci, fu mandato il generale Andrea Massena nizzardo, valorosissimo soldato, che prese alloggio nella nostra città il 10 febbraio 1800 nel palazzo di Ambrogio Doria sulla piazza di S. Domenico, ora palazzo Galliera.
Avanzatesi contro Genova le truppe austriache, imbaldanzite dalle recenti vittorie, sotto il comando di Melas, e appostate per mare le navi inglesi sotto il
F. Donaver. 25
comando di lord Keitk onde impedissero l'approvvigionamento della città, questa fu strettamente assediata.
Il generale Massena resistette con intrepidezza senza pari per quattro mesi ad un blocco che affamò la cittadinanza in modo spaventevole. Pel 30 maggio Buonaparte aveva promesso di arrivare dinanzi a Genova; ma essendo passato quel giorno senza che gli aiuti comparissero, Massena trattò della resa con l' ammiraglio inglese e il generale conte Ott, rimasto al comando dell'esercito austriaco, e il 4 giugno furono concordati i patti della resa, dettati dal generale francese e accettati dai nemici. Massena uscì dalla città cogli onori delle armi, e gli austriaci subito crearono una reggenza temporanea che tenne l' ufficio appena 20 giorni, chè il 24 dello stesso mese, dopo la celebre battaglia di Marengo, vi entrava il generale Suchet occupandola militarmente.
Buonaparte istituì allóra una commissione governativa presieduta da Giambattista Rossi e una consulta legislativa di 33 persone; ma tutti costoro ben poco 0 nulla fecero per l'ordinamento dello stato e pregarono Napoleone a dare loro una costituzione, di che nel 1802 li compiacque.
La nuova costituzione portava: Un senato reggesse la repubblica con podestà esecutiva, diviso in cinque magistrati: il supremo, quello di giustizia e legislazione, dell'interno, di guerra e marina e delle finanze. Il senato fosse composto di 300 membri, avesse in obbligo di presentare alla consulta nazionale le leggi da farsi, eleggesse il doge sopra una triplice nota presentata dai collegi. Il doge presiedesse il magistrato supremo ed il senatore, e stasse in carica sei anni. Il magistrato supremo fosse composto del doge, dei quattro presidenti degli altri magistrati e di quattro senatori eletti dal senato. I collegi erano tre: dei possidenti, dei negozianti e dei dotti, da cui doveva derivare ogni potestà suprema politica, civile ed amministrativa.
Questo nuovo regime governativo s'inaugurò il 28 giugno e Gerolamo Durazzo venne eletto doge. Fu l'ultimo dei dogi genovesi, chè nel 1805 Napoleone Buonaparte fattosi creare re d'Italia e imperatore di
Francia, unì la repubblica ligure al suo regno, dividendola in tre dipartimenti: di Genova, Montenotte e Apennini.
Il 30 giugno, fra lo sparo delle artiglierie, il suono delle campane, arrivava in Genova l'imperatore Napoleone cui Michelangelo Cambiaso, costituito sindaco della città, presentava le chiavi delle porte. Ebbe alloggio nel palazzo Doria, all' uopo preparato, e quindi festeggiamenti splendidissimi in casa Durazzo e d'altri nobili genovesi ch' egli decorò di titoli cavallereschi e gradi di corte.
Il commercio genovese potè allora rinfrancarsi alquanto all' ombra della bandiera francese, e tornare elemento di ricchezza alla nostra città; ma volgendosi, nove anni dopo, al tramonto la stella napoleonica, Genova subì nuove e dolorose traversie.
XXXVII.
Unione di Genova al regno Sardo.
I sovrani europei alleatisi contro il grande Napoleone, invocando i principi di giustizia e di libertà, eccitavano in Italia i popoli a scuotere il giogo dello straniero, dichiarandosi disposti a ripristinare gli antichi governi. Così lord Guglielmo Bentinck il dì 8 marzo del 1814 scendeva a Livorno con truppe inglesi e italiane, emanando un proclama col quale dichiarava volere l'Italia risorta a libertà. Aiutato dalla flotta inglese si avviava verso la riviera di levante e, giunto a Chiavari, dichiarava apertamente essere intenzione degli alleati di restituire l'indipendenza ai Genovesi. Qui stavano a guardia soli sei mila francesi comandati da Fresia il quale dovette arrendersi; e allora si costituì un governo provvisorio composto di Gerolamo Serra, specchiato cittadino d'antica nobiltà e fattosi in seguito scrittore di una pregiata Storia dell'antica Liguria, col titolo di presidente, e di Andrea De Ferrari, Ippolito Durazzo, Agostino Pareto, Giancarlo Brignole , Paolo Gerolamo Pallavicini , Agostino Fieschi , Domenico Dealbertis, Giovanni Quartara , Marcello Massone, Giuseppe Fra
Vega , Luca Solari , Giu- Gerolamo Serra.
seppe Gandolfo , risorgendo la Repubblica Ligure del 1797.
I Genovesi speravano bene che gli alleati mantenessero le promesse contenute nei proclami di Bentinck, e tutti erano lieti della ricuperata autonomia repubblicana; quando giunse loro notizia che i sovrani radunati in Parigi, dopo la disfatta di Napoleone, avevano stabilito di riunire lo stato di Genova al regno di Sardegna onde opporre uno stato più vasto e più forte alle future possibili invasioni francesi.
II governo di Genova mandò subito a Parigi Agostino Pareto perchè vedesse di scongiurare tale pericolo o, qualora non fosse possibile, d' ottenere le
condizioni migliori; ma inutilmente, chè gli alleati convocatisi poco dopo a congresso in Vienna deliberarono l'unione di Genova al Piemonte, affidando ad una commissione lo studio delle condizioni di tale unione. I Genovesi avevano delegato il marchese Antonio Brignole Sale, d'animo valoroso e di alto senno, a patrocinare la loro causa a quel congresso; ma poichè egli vide essere irrevocabile la decisione, entrò in trattative colla commissione subito nominata per combinare le condizioni più favorevoli alla sua città.
Il governo di Genova, considerando oramai inutile ogni ulteriore resistenza, protestava dinnanzi al mondo della violenza che veniva fatta alla repubblica e rassegnava il potere nelle mani del colonnel/o Dalrymple il 26 dicembre del 1814.
Il 7 gennaio dell' anno seguente Vittorio Emanuele I re di Sardegna pigliava possesso del Genovesato insieme all' antico stato piemontese ritornatogli in forza del trattato di Vienna.
XXXVIII.
Genova nel Risorgimento Italiano.
Così finiva la Repubblica di Genova, o Ligure come negli ultimi tempi era detta, divenendo dipendenza di quella Dinastia che tante guerre e congiure aveva ordite e iniziate per rendersene padrona; ma quest' annessione era oramai entrata nello spirito pubblico onde non suscitò nè grandi lamenti, nè tumulti.
Genova unita al Piemonte cooperò alla prosperità del regno sabaudo col suo commercio, colle sue ricchezze. L'attività meravigliosa dei suoi figli congiunta ai ricordi di un' era gloriosa repubblicana giovarono a diffondere in Piemonte e quindi in tutta Italia idee di libertà e d'indipendenza. Dal suo seno usciva nel 1805 Giuseppe Mazzini che primo nel 1831 bandiva il programma dell' unità italiana, quando tutti tacevano per paura dell' esilio, della carcere e del patibolo; dalle sue riviere originava Giuseppe Garibaldi che, con eroismo veramente antico, si faceva lo strenuo campione di quel programma.
Nel 1846, anno foriero di grandi avvenimenti, si radunavano in Genova a congresso gli scienziati italiani e vi si parlava altamente d'Italia; nel 1847 non furono ultimi i Genovesi, fra cui quell'anima intrepida di Nino Bixio, a spingere Carlo Alberto a promulgare lo Statuto, alla cui compilazione lavorarono belli
Giuseppe Mazzini.
ingegni nostri. E ricordiamo con piacere come nella prima Camera Subalpina due genovesi fossero chiamati da Carlo Alberto nel Consiglio della Corona, Vincenzo Ricci ministro dell' interno prima e poscia delle finanze, e Lorenzo Pareto ministrò degli esteri, che governarono lo stato sardo in momenti gravissimi per sè e per la causa italiana.
Dopo la battaglia di Novara, Genova insorse tratta in inganno dalle allarmanti notizie sull'avanzarsi degli Austriaci e sulle condizioni dell' armistizio concluso da Vittorio Emanuele II e Radetzky, onde fu d'uopo al governo sardo restaurarvi la sua autorità colla forza, inviandovi contro Alfonso La Marmora; ma da questo episodio tristissimo in fuori, Genova ebbe parte nobile e generosa nel risorgimento italiano coll' obolo spontaneo, col sacrificio dei suoi figli.
I volontari genovesi seguendo Garibaldi nelle varie campagne del riscatto nazionale, inspirati dalla poesia del nostro Tirteo, Goffredo Mameli, si fecero ammirare pel valore e l' ardimento dimostrati. Ed è bene ricordare come nella casa segnata col n. 3 in via Cairoli, abitata allora da Agostino Bertani, si organizzò in gran parte la spedizione dei Mille che partita da Quarto il 5 maggio 1860 in un baleno, all'Alta Italia già liberata dallo straniero, uni il regno delle Due Sicilie, per cui nel marzo del successivo anno fu resa possibile la proclamazione del regno d'Italia.
Genova in oggi non più sede d'una repubblica, ma centro nobilissimo della nazione italiana, fornita d'un amplissimo porto, grazie alla generosa donazione di venti milioni per parte d'un suo cittadino, Raffaele Deferrari Duca di Galliera, altro non aspira ad essere che la regina del commercio nel Mediterraneo, come ne ha il diritto per la sua posizione geografica e per le sue tradizioni: ai suoi figli il compito di farla grande, ricca e potente coll'operosità feconda nei traffici e nelle industrie marittime e terrestri, dimostrandosi non degeneri discendenti di coloro che occupavano elevatissimo ^josto nel mondo commerciale e bancario del XIII secolo.
Monday, August 15, 2011
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