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Monday, August 15, 2011

Frieschi

Gian Luigi Fieschi.

Andrea Doria, per sopperire alle grandi spese derivanti dalle imprese dell'imperatore, carezzava i nobili genovesi più doviziosi, incaricandoli di ambascerie e d' altri uffici onorifici, e per questa via li induceva a prestare cospicue somme a Carlo V e a far fronte del proprio a molti carichi cui la repubblica difficilmente avrebbe potuto provvedere.

Tra questi nobili segnalavasi il conte Sinibaldo Fieschi che con generosità straordinaria sosteneva di proprio le-spese delle ambascerie di cui era incaricato dalla repubblica, anticipava somme in nome della repubblica stessa senza chiederne poi il rimborso, e a soddisfare i desideri della nuova signoria, rinunziava alla porta d' Archi ch' egli possedeva e a molti altri beni che a quella stavano contigui verso oriente, accettando a compenso l'esenzione delle gabelle per se e successori e la somma di 4000 lire annue a lui e suoi discendenti.

Ora per queste sue splendidezze accadde che morendo egli, la famiglia Fieschi si trovò ridotta in condizioni piuttosto ristrette, tanto che la vedova Maria della Rovere coi figli si ritirò nel castello di Montoggio per limitare le spese. Aggiungi che la Signoria non volle più pagarle le 4000 lire annue pattuite per la cessione della porta d'Archi, onde la famiglia Fieschi si vide anche di quelle diminuite le sue già scarse entrate.

Per contro Andrea Doria viveva con principesca magnificenza e, singolarmente il nipote Giannettino, figlio di Tommaso Doria, ch'egli aveva adottato quale suo erede, e a cui aveva fatto impalmare la figlia di Adamo Centurione il più ricco de' suoi tempi, conduceva vita sfarzosa, eccedendo la condizione del privato, come dice il Casoni, e superando di gran lunga gli altri cittadini colla grandezza del corteggio, degli arredi e del seguito.

Il raffronto cominciò forse a far nascere l'odio contro i Doria nell' animo giovanile di Gian Luigi

tino Doria, superbo ed altero con tutti, non da eguale ma da inferiore e suddito; quale odio non è a dire come divampasse poi in terribile desiderio di vendetta quando seppe che Giannettino amoreggiava colla sua Eleonora.


Aggiungi a queste ragioni private e personali, i consigli dei Farnesi che tenevano la Sedia Apostolica e signoreggiavano su Piacenza ed erano pieni di mal talento contro Carlo V e Andrea Doria; gli eccitamenti che certo dovevano venire al conte Fieschi dalla Francia la quale a dare un colpo alla preponderanza spagnuola in Italia desiderava togliere Genova dalla quasi sovranità del Doria; e quelli non meno forti dei fuorusciti e dei malcontenti del nuovo stato di cose, e si avrà un complesso di motivi più che plausibili a spiegare se non a giustificare la congiura del Fieschi, cui non faceva difetto l'ambizione.

Era questi, scrive il Canale, di viso bellissimo, aveva la persona ben formata e nobilissima; la mente vasta e capace d'ogni più grande pensiero e d'ogni più smisurato desiderio, congiunta ad una volontà tenacissima che quanto più difficile e lontano se ne dimostrasse l' effetto tanto più si ostinava nell' ambito proposito; addestrato in ogni esercizio cavalleresco, di modi gentili, parlare cortese e di tale accento ed amabilità che a se di leggieri traeva chiunque volesse.

A stimolare il Fieschi alla vendetta si trovò un Giambattista Verrina che gli abitava vicino, uomo feroce, nemico dell'antica nobiltà, appartenendo egli alla nuova, e cupidissimo di novità, il quale seppe entrare talmente nelle sue grazie da diventarne il consigliere inseparabile. A costui si aggiungeva un Raffaele Sacco giureconsulto savonese che gli serviva da giudice pei suoi feudi, partigiano dei francesi, e pur egli stimolame ad operare contro i Doria. Un terzo, a nome Vincenzo Calcagno da Varese, gli stava a' fianchi quale consigliere e sebbene delle sue azioni fosse complice, pure sembra gli consigliasse prudenza e moderazione.

Tra costoro alli 22 novembre del 1546 si concluse la congiura di ammazzare il Principe Andrea Doria, il capitano Giannettino, messer Adamo Centurione, e tutta la nobiltà di condizione. Questo venne rivelato dal Sacco, il quale aggiunse che il Verrina non desiderava che il Fieschi operasse d'accordo con Francia, ma da solo, essendo sua segreta intenzione di uccidere il come dopo la congiura per non stargli soggetto, odiando in genere la nobiltà.

Il Fieschi a preparare l' esecuzione del suo piano, aveva tolto in affitto o acquistato quattro galere pontificie, s'era indettato col nipote del Papa, Pier Luigi Farnese duca di Piacenza, per avere aiuto d' uomini e denari, mentre con Francia, assicurano il Mascardi e le note dell'ambasciatore Cesareo in Genova e di Ferrante Gonzaga, aveva concluso un trattato pel quale la repubblica dalla soggezione spagnuola sarebbe passata alla soggezione francese, rimanendone egli capo.

Il Gonzaga trapelava le file d'un intrigo tra il Fieschi e il re di Francia e ne avvertiva l'imperatore. L'ambasciatore suo in Genova Figueroa, ne chiedeva al Doria, il quale lo rassicurava dicendo che nulla si aveva a temere, lui vivente. Anche l'ambasciatore veneto a Parigi aveva scoperto che quakhe cosa si tramava tra il re Cristianissimo e il conte Fieschi.

Questi a sua volta avvertito di tutto ciò, comprese la necessita di affrettare lo scoppio della congiura se non voleva da un momento all' altro essere scoperto o tradito.

Vili.

La congiara del Fieschi.

Fermati gli accordi, ricevuti denari dal re di Francia, il Fieschi preparava i suoi villici al maneggio dell' armi, carezzava la nobiltà nuova, si dimostrava amorevole protettore del popolo e della plebe, mentre il Verrina spargeva tra i capi popolari la speranza di prossima libertà, eccitandoli ad avere fiducia nel conte e ad aiutarlo quando ne fosse stato il caso.

Da ultimo venne destinata la notte del 2 gennaio 1547 per mandare ad effetto la congiura.

Nel giorno, che cadeva in domenica, il Fieschi introdusse in città e quindi parte nel suo palazzo di Vialata, parte sopra una delle galere del papa che stava in porto, molti suoi contadini armati e alcuni soldati mandatigli dal Farnese.

A smentire poi, qualunque voce che sulle sue trame potesse correre, il conte cavalcò per la città grazioso ed amabile con tutti, recandosi a visitare Andrea Doria e il nipote suo Giannettino del quale tolse in braccio e baciò i figliuoletti; di guisa che il principe, all' Ambasciatore Figueroa che era corso allora a dargli nuovi avvisi delle pratiche fatte dal Fieschi, ebbe a dire: Oh! vi par egli che così cara persona possa imaginare, non che ordire sì pravi disegni?

Uscito dal palazzo Doria, il Fieschi recossi alla casa di Tommaso Assereto detto Verze ov' erano raccolti alcuni nobili e si congiunse ad essi. Altri giovani nobili, che sapeva a lui affezionati, raccolse per via, e tutti li condusse verso le cinque di sera nel suo palazzo. Usciva di nuovo, andava ad invitare altri gentiluomini ad una cena che diceva aveva ordinata per allegria, e con questi pure faceva ritorno al palazzo.

Cenarono, poscia il Fieschi tutto in arme si presentava ai convitati dicendo loro che a francare Genova dalla servitù spagnuola e dalla prepotenza di Giannettino egli aveva risoluto sollevare la città, che a tale scopo aveali radunati, avendo stabilito in quella notte di liberare la patria.

Tutti giurarono che l'avrebbero seguito, tranne due, Giobatta Cattaneo Bava e Giobatta Giustiniano, che vennero rinchiusi in una stanza; quindi dato ordine che gli armati silenziosamente s' avviassero, salì nelle stanze della moglie cui svelò ogni cosa e s' accomiatò da lei dicendo che il domane sarebbe uno dei principi più invidiati d'Italia o il più infelice.

Con circa 300 armati il conte Fieschi scendeva da Carignano, s'impadroniva della porta d'Archi che lasciava affidata al fratel suo naturale Cornelio, ordinava agli altri suoi fratelli Gerolamo ed Ottobuono di pigliare la porta di S. Tommaso, ed egli per S. Andrea, S. Donato si condusse al ponte dei Cattanei. Il Verrina salì sulla galea pontificia, e nello stesso tempo Tommaso Assereto tentò impadronirsi della Darsena, ma i soldati che la custodivano lo respinsero.

Intanto il Fieschi giungeva pure alla Darsena e un soldato, Scipione Borgognino, suo suddito, gli aperse la porta della gabella del vino. Balzò allora coi compagni sulle galere del Doria, ingaggiando fiera pugna.

Il Fieschi balzava da una nave all'altra, arditamente intrepido ad incuorare i suoi e a combattere, quando salito sopra uno scalandrone che stava appoggiato da un capo sulla nave dall'altro sul lito, ondeggiando la nave, lo scalandrone cadde in mare e insieme il Fieschi, che, armato com'era, non potè liberarsi dalle acque limacciose del porto, e col frastuono che nella notte regnava, nessuno essendosene avveduto, miseramente vi annegò.

Gerolamo ed Ottobuono Fieschi eransi in questa resi padroni della porta di S. Tommaso, dopo qualche conflitto coi soldati che la tenevano.

Il rumore della pugna e del trambusto dalla Darsena e da S. Tommaso giungeva al palazzo Doria, tanto che Giannettino, credendo si fossero ammutinate le ciurme, balzò ratto dal letto e con due paggi avviossi alla Darsena; ma poichè giunse alla porta di San Tommaso appena fece atto d'introdursi per lo sportello, un colpo d'archibugio nel petto lo stese al suolo,

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mentre altre ferite compierono poi L' assassinio. Affermasi dall' ambasciatore cesareo che Ottaviano Fieschi a meglio accertarsi della morte di Giannettino lo colpisse ancora colla spada, ferendolo.

Occupata la Darsena e le porte della città, e ucciso Giannettino, avrebbe la vittoria dovuto arridere ai Fieschi, ma scopertasi la morte del conte Gian Luigi lo scoraggiamento s'impadronì di molti, tanto che il fratello Gerolamo corse invano le strade gridando Gatto, Libertà e Fieschi, chè pochissimi lo seguirono.

I cittadini pieni di timore chiudevansi nelle proprie case, scrive Massimiliano Spinola; sì poca era la simpatia del popolo verso i Fieschi, e così forte lo spavento e l' orrore incusso negli animi. Il principe Doria saputa la morte del nipote fu indotto dai suoi a rifuggiarsi nel castello di Masone. Il Senato non sapendo bene come fossero le cose, ignorando perfino la morte del conte, delegava una commissione che andasse a trattare con lui, e un indulto generale decretava ai Fieschi e a quanti erano compromessi nella facenda.

Gerolamo Fieschi, dopo aver tentato invano di sollevare la città, vedendosi abbandonato dai suoi e in grave pericolo, rientrò nel palazzo di Vialata, dove si recò Ambrogio Senarega segretario del Senato a significargli l'indulto concesso a patto sgombrasse la città. Gerolamo accettò e andò subito a rinchiudersi nel castello di Montoggio; mentre l'altro suo fratello Ottobuono col Verrina, il Calcagno e il Sacco che s'erano ricoverati sulla galea pontificia, salpavano per Marsiglia.

Aggiustate alla meglio le cose, il Doria invitato dal Senato tornava in Genova, ricevendo condoglianze d'ogni parte d' Italia e d' Europa per la morte di Giannettino e rallegramenti per lo scampato pericolo e la fallita congiura fieschina; e la notte del 4 gennaio venne eletto doge Benedetto Gentile il quale, sebbene fosse congiunto dei Fieschi, l'ambasciatore cesareo scriveva ch'era buon servitore di Sua Maestà.

Il cadavere dell' infelice Gian Luigi raccolto dalla melma della Darsena, venne, per ordine del Doria, ricacciato in mare per togliere qualunque pretesto di disordini quando gli fossero stati fatti funerali.

IX.

Conseguenze della congiura.

Ad istanza dell' imperatore Carlo V, Andrea Doria chiedeva al Senato revocasse il perdono accordato ai congiurati e per contro li condannasse nelle persone e nei beni quali colpevoli di lesa maestà. Il Senato non ebbe il coraggio di respingere tale richiesta e condannò a perpetuo bando i fratelli Fieschi, colla confisca dei loro beni, la distruzione delle loro case dai fondamenti, e l'incameramento dei loro domini. L'8 febbraio fu cominciata la distruzione dello splendido palazzo Fieschi in Vialata. Eguale condanna fu lanciata contro Raffaele Sacco, Vincenzo Calcagno, Giobatta Verrina, De Franchi e molti altri.

Siccome però Gerolamo Fieschi s'era chiuso in Montoggio con molti soldati e il Verrina di Francia era venuto ad aggiungersegli, deliberati a difendersi, furono mandate truppe, guidate da Agostino Spinola, ad espugnare quel castello. Ne fu cominciato l'assedio nei primi di maggio; ma la ostinata difesa degli assediati non consentì allo Spinola d' impadronirsene che l' 11 giugno, e non già per valore d'armi, ma per tradimento di soldati forestieri che Agostino spinola. ;j paschi aveva a> suoj stipendi.

Tosto erano scannati Vincenzo Calcagno, Gerolamo Manara e due altri servitori dei Fieschi; quanto agli altri furono sottoposti a processo, e condannati a morte, alla galera o al bando. Gerolamo Fieschi, il Verrina e Desiderio Cangialanza vennero decapitati in Montoggio, mentre il Senato ordinava la demolizione del castello.

Si procedette poscia alla divisione dei beni dei Fieschi tra la repubblica, il duca di Parma e l'imperatore Carlo V, il quale una parte ne donò ad Andrea Doria e altra parte ad Antonio Doria che teneva quattro galee a suo servizio.

Dopo la congiura fieschina, l'imperatore e i suoi ministri credettero opportuno il momento di assoggettare in modo assoluto la repubblica genovese alla dominazione spagnuola, epperò fu da loro convenuto che in Genova si facesse introdurre buon nerbo di truppe, si eleggesse a capitano generale Agostino Spinola e si rifabbricasse la fortezza del Castelletto.

Le trattative per colorire tale disegno furono lunghe ed intricate. Il Senato rifiutossi energicamente a lasciare introdurre nuove soldatesche in città, e quanto alla nomina dello Spinola e alla erezione della fortezza, il Doria vi si oppose con tanta fierezza che Carlo V ordinò ai suoi agenti non insistessero più oltre su tali punti; ma il Gonzaga e il Figueroa proseguirono le pratiche per vie indirette con diplomatica scaltrezza.

Il principe Doria incaricava Adamo Centurione di persuadere l'imperatore a desistere dalle sue pretese, e il Centurione proponeva a Carlo V di tentare la riforma del governo repubblicano prima di costrurre la fortezza. Ma di ciò volle incaricarsi il principe Filippo figlio ed erede di Carlo, il quale recossi in Genova sopra una flotta di 98 legni comandata dal Doria. Arrivando, pretese di alloggiare nel palazzo pubblico, ma dovette contentarsi del palazzo Doria regalmente sontuoso offertogli dal principe.

Ma innanzi che questo avvenisse, il Doria, giusta la proposta fatta all'imperatore dal Centurione, indusse il Senato a riformare il governo mediante la legge detta del Quarantesette dall'anno in cui fu emanata, e per ischerno del Garibeito, perchè il Doria soleva dire che con tale legge si dava garbo o sesto alle cose pubbliche.

Mediante questa legge il Maggior Consiglio che prima si eleggeva tutto a sorte, si stabilì che dovesse eleggersi per 300 membri a sorte, per 100 a voti; il Minor Consiglio composto di 100 si eleggesse pure a voti e non più a sorte. Per tale modificazione la somma delle cose era tolta quasi toltamente al popolo, e ristretta nelle mani dei nobili vecchi detti di San Luca a danno dei nuovi detti di S. Pietro.

Giunto quindi in Genova il principe Filippo, con questi si radunavano a consiglio nel palazzo di Fassolo, il duca d' Alba , Ferrante Gonzaga e l' ambasciatore Figueroa, al quale interveniva il Doria dichiarando che alla conservazione pacifica dello stato genovese bastava la riforma del governo da lui fatta. Visto che col Doria non si sarebbe riusciti allo scopo voluto, si volevano intavolare pratiche cogli Spinola, col cardinale Doria e Antonio Doria; ma il duca d'Alba sconsigliò il tentativo che potea tornare pericoloso se scoperto dal grande ammiraglio.

Ora accadde il 3 dicembre di quell'anno 1548 che, per violenza degli spagnuoli, scoppiasse un tumulto in città, a sedare il quale accorsero i soldati della repubblica e Agostino Spinola con maggiori forze. Il principe Filippo, cogliendo l'occasione, avrebbe voluto colla forza, sotto pretesto di domare il popolo ribelle, rendersi padrone di Genova, ma il Senato calmando il disordine e inviandogli il Doria a dargli soddisfazione dell' accaduto, mandò a vuoto il triste divisamente

Ma non rimase più a lungo in Genova quel principe , chè l' 11 dello stesso mese parti per Milano , proseguendo per lettere la pratica per l'erezione della fortezza, consigliando l' imperatore ad imporre su Genova colla forza delle armi la propria volontà e cercando con mille artifizi d'indurre alle sue voglie il vecchio Doria, ma senza risultato.

X.

Congiura di Giulio Cibo.

Contro la sovranità del Doria e dell' imperatore non fu sola a macchinarsi la congiura di Gian Luigi Fieschi, chè un seguito quasi non interrotto di,congiure , le une alle altre più o meno collegate, si tramò dagli Adorno, dai Fregoso, dagli Spinola, da Nicolò Doria e da altri, d'intelligenza col re di Francia, il quale aspirava più che mai a ristabilire in Italia quella preponderanza che la Spagna gli avea tolta col trattato di Madrid.

Ma fra tante, meritevole di un cenno particolare, si è quella di Giulio Cibo cognato del Fieschi, marchese di Massa e Carrara.

Era egli fornito da natura d'intelligenza pronta e perspicace (copio dal Musettini), e d'ingegno facile e accorto, per cui avea risposto con singolare profitto alle cure de' suoi maestri e istitutori; e per cultura di mente e per gentilezza di modi faceasi molto distinguere fra i giovani di sua condizione, dei quali era appena alcuno che l'aggiugnesse per avvenenza e robustezza di corpo.

Entrato quale paggio in corte di Carlo V, in sui vent' anni fece ritorno in patria desideroso di governare i suoi feudi, persuaso che la madre gli avrebbe consentito. Trovò invece la madre, ribelle al suo desiderio, designare come erede al marchesato il secondogenito Alberico. Allora Giulio ricorse alla violenza, alle minaccie, scrisse per soccorso a Cosimo de' Medici duca di Firenze, al principe Andrea Doria, ai marchesi di Lunigiana. Ottenuti alcuni aiuti, nel settembre del 1546 s'impadronì di Massa e Carrara, e poscia, sebbene fosse sospetto di complicità nella congiura del cognato, nel]' anno seguente sposò la sorella di Giannettino Doria.

Ma la madre del Cibo che mal sapeva del toltogli dominio, brigò tanto presso l'imperatore da ottenere che ordinasse la consegna del marchesato in mano dello zio cardinale Innocenzo Cibo. Si rifiutò Giulio ad obbedire, ma stretto in arresto in quel di Pisa, l'ordine venne eseguito. Allora per mediazione del cardinale fu pattuito tra il Cibo e sua madre che questa gli avrebbe lasciato i feudi conchè le pagasse 40 mila scudi. Giulio pagò subito la metà, e poichè di 20 mila scudi era in credito dal principe Doria quale dote della nipote, lo sollecitò al pagamento spiegandogli il bisogno che ne aveva.

Il Doria rifiutò pagare; il Gonzaga, cui pure ricorse il Cibo, gli diede buone parole, ma non volle aiutarlo; Cosimo de Medici non volle pure venire in suo aiuto: mentre d'altra parte la madre pretendeva quella somma nel termine pattuito, altrimenti si teneva lo stato

Disperato del caso, irritato coll' imperatore, col Gonzaga e sopratutto col Doria, sfogò in Roma con Ottavio Farnese tutto il suo malumore, e, poco appresso, col cardinale di Bellay che confortandolo gli promise l' aiuto del re di Francia se gli avesse prestato servizio.

E qui Giulio Cibo era indotto dai cardinali di Bellay e di Lorena e dall'ambasciatore francese e farsi capo d'una nuova congiura, ordita da parecchi cittadini genovesi, per rivolgere lo stato della repubblica. In compenso gli si davano 2000 scudi di pensione e il grado di colonnello di fanteria.

Ad un convito in cara del cardinale Bellay, il Cibo indettavasi con Cornelio Fieschi, Tommaso Assereto e Paolo Spinola per effettuare la progettata rivolta in Genova, e si stabiliva l'uccisione di Andrea Doria e di Adamo Centurioni. Altri convegni ebbero luogo in Venezia, dove si ordinavano i movimenti dei congiurati, i quali dovevano essere sovvenuti dal governatore francese di Mondovì; poscia ciascuno partì per la sua destinazione.

Giulio Cibo s'incamminò a Ferrara e traghettato il Pò incontrossi col cardinale di Guisa che lo infiammò all'impresa. Proseguì per Parma e, sebbene fosse avvisato che la sua trama era scoperta dal Gonzaga, volle seguitare il viaggio. Infatti un tal Paolino di Castiglione d'Arezzo, suo intimo, aveva ogni cosa rivelata a Ferrante Gonzaga governatore di Milano per l'imperatore.

Il Cibo scendeva a Pontremoli con dieci uomini il 22 gennaio 1548. Lo assaliva improvviso il governatore del luogo con archibugieri spagnuoli, e malgrado la sua disperata difesa, ferito cadde in loro mani. Condotto a Milano, fu processato, torturato e poichè si confessò reo di lesa maestà, la mattina del 18 maggio fu decapitato.

Ottaviano Zino, altro dei congiurati, arrestato in Genova, fu pure decapitato, e il suo cadavere esposto al pubblico; quanto agli altri, essendosi tenuti lontani dai domini imperiali e dalla repubblica, vennero dichiarati ribelli e furono incamerati i loro beni; e fra essi si volle comprendere il conte Scipione Fieschi, fratello di Gian Luigi, diciasettenne, per togliere in lui ogni diritto sui beni della famiglia.

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