Marco Furio Camillo | |
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Tribuno consolare della Repubblica romana | |
Marco Furio Camillo dal Promptuarii Iconum Insigniorum di Guillaume Rouillé | |
Gens | Gens Furia |
Tribunato consolare | 401 a.C., 398 a.C., 394 a.C., 386 a.C., 384 a.C., 381 a.C. |
Dittatura | 396 a.C., 390 a.C., 389 a.C., 368 a.C., 367 a.C. |
Marco Furio Camillo (in latino Marcus Furius Camillus; circa 446 – 365 a.C.) è stato un politico e militare romano e uno statista di famiglia patrizia.
Fu censore nel 403 a.C., celebrò il trionfo quattro volte, cinque volte fu dittatore e fu onorato con il titolo di Pater Patriae, Secondo fondatore di Roma.
(LA) « Post viginti deinde annos Veientani rebellaverunt. Dictator contra ipsos missus est Furius Camillus, qui primum eos vicit acie, mox etiam civitatem diu obsidens cepit, antiquissimam Italiaeque ditissimam. Post eam cepit et Faliscos, non minus nobilem civitatem. Sed commota est ei invidia, quasi praedam male divisisset, damnatusque ob eam causam et expulsus civitate. Statim Galli Senones ad urbem venerunt et victos Romanos undecimo miliario a Roma apud flumen Alliam secuti etiam urbem occupaverunt. Neque defendi quicquam nisi Capitolium potuit; quod cum diu obsedissent et iam Romani fame laborarent, accepto auro ne Capitolium obsiderent, recesserunt. Sed a Camillo, qui in vicina civitate exulabat, Gallis superventum est gravissimeque victi sunt. Postea tamen etiam secutus eos Camillus ita cecidit, ut et aurum, quod his datum fuerat, et omnia, quae ceperant, militaria signa revocaret. Ita tertio triumphans urbem ingressus est et appellatus secundus Romulus, quasi et ipse patriae conditor. » | (IT) « Dal Senato fu inviato in qualità di dittatore contro i Veienti, che dopo vent'anni si erano ribellati, Furio Camillo. Egli li vinse prima in battaglia, quindi conquistò anche la loro città. Presa Veio, vinse anche i Falisci popolo non meno nobile. Ma contro Camillo sorse un'aspra invidia, con il pretesto di un' ingiusta divisione del bottino, e per tale motivo fu condannato ed espulso dalla città. Subito i Galli Senoni calarono su Roma e, sconfitto l’esercito romano a dieci miglia dall'Urbe, presso il fiume Allia, lo inseguirono e occuparono anche la città. Nulla poté essere difeso tranne il colle Campidoglio; e dopo averlo a lungo assediato, mentre ormai i Romani soffrivano la fame, in cambio di oro i Galli levarono l'assedio e si ritrassero. Ma Camillo, che viveva da esiliato in una città vicina, portò il suo aiuto e sconfisse duramente i Galli. Ma non solo: Camillo inseguendoli ne fece tale strage che recuperò sia l'oro ch'era stato loro consegnato, sia tutte le insegne militari da essi conquistate. Così riportando il trionfo per la terza volta entrò in Roma e venne chiamato "secondo Romolo" come fosse egli stesso fondatore della patria. » |
(Eutropio, Breviarium ab Urbe condita lib. I,20) |
Nel 401 a.C. fu eletto tribuno consolare con Lucio Giulio Iullo, Gneo Cornelio Cosso, Manio Emilio Mamercino, Lucio Valerio Potito e Cesone Fabio Ambusto[1].
Nonostante le discordie interne tra patrizi e plebei, sul fronte militare i romani riconquistarono le posizioni perse l'anno precedente a Veio, razziarono il territorio dei veienti, condotti da Gneo Cornelio e Furio Camillo, mentre a Valerio Potito fu affidata la campagna contro i Volsci per riconquistare Anxur, che fu posta sotto assedio[2].
Nel 398 a.C. fu eletto tribuno consolare con Lucio Valerio Potito, Marco Valerio Lactucino Massimo, Lucio Furio Medullino, Quinto Servilio Fidenate Quinto Sulpicio Camerino Cornuto[3].
I Romani continuarono nell'assedio di Veio e, sotto il comando di Valerio Potito e Furio Camillo, saccheggiarono Falerii e Capena, città alleate degli etruschi.
Per approfondire, vedi Roma e le guerre con Veio e Caduta di Veio. |
Furio Camillo fu nominato dittatore nel 396 a.C., dopo che i romani, guidati dai tribuni consolari Lucio Titinio Pansa Sacco e Gneo Genucio Augurino caddero in un'imboscata organizzata da Falisci e Capenati, nella quale lo stesso Gneo Genucio perse la vita. Furio nominò Publio Cornelio Maluginense Magister Equitum[4].
Camillo infuse un nuovo coraggio e un nuovo entusiasmo nell'esercito romano e nella popolazione, punì i disertori e i fuggiaschi delle precedenti battaglie e scaramucce, stabilì un giorno per la chiamata di leva, corse sotto le mura di Veio a rincuorare i soldati che stavano continuando l'assedio, tornò a Roma a reclutare il nuovo esercito. Nessuno cercò di farsi esentare e anche "gli alleati Latini ed Ernici si offrirono volontari. Completata l'organizzazione, il dittatore fece voto di indire grandi giochi e di restaurare il tempio della Madre Matuta quando Veio sarebbe stata conquistata.
Camillo si diresse su Veio. Strada facendo sconfisse Capenati e Falisci, ne prese gli accampamenti e un grande bottino. Arrivato sotto le mura di Veio fece costruire altri fortini e fece cessare le pericolose scaramucce inutilmente combattute nello spazio fra il vallo romano e le mura etrusche.
Poi ordinò la costruzione di una galleria che doveva arrivare fino alla rocca nemica. Gli scavatori furono divisi in sei squadre che si avvicendavano ogni sei ore.[4].
Basandosi sul favorevole procedere delle operazioni, Camillo si pose il problema della spartizione di un bottino che si preannunciava superiore a quello di tutte le precedenti guerre assommate. Se spartito fra i soldati con avarizia se ne sarebbe scatenato il risentimento ma si sarebbe arricchito lo Stato. Se fosse stato generoso con i combattenti i patrizi avrebbero contrastato le decisioni. Il Senato, investito del problema si divise: una fazione guidata da Publio Licinio Calvo Esquilino voleva che chi si aspettava del bottino se lo andasse a prendere a Veio, al seguito delle truppe. L'altra fazione, patrizia, capeggiata da Appio Claudio, chiedeva il versamento alle casse dello Stato per poter diminuire le tasse con cui veniva finanziato il soldo dei militari. Il Senato decise di "non decidere", lasciò al "popolo", riunito nei Comizi, la parola finale.[5].
« Perciò venne annunciato che chi avesse voluto prendere parte alla spartizione del bottino di Veio avrebbe dovuto recarsi all'accampamento del dittatore. » |
(Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 2, 20.) |
« E si chiedevano (i veienti) con meraviglia come mai, mentre per tanti giorni non c'era stato un solo Romano che si fosse mosso dai posti di guardia, adesso, come spinti da un furore improvviso, si riversassero in massa alla cieca contro le mura » |
(Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 2, 21) |
« Questa mossa pose fine alla carneficina. » |
(Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 2, 21) |
La statua di Giunone Regina fu portata a Roma, dove le fu dedicato un tempio sull'Aventino, dove Furio Camillo ne dedico uno nuovo a Mater Matuta, dopo che fu celbrato il trionfo, e la vittoria fu festeggiata con 4 giorni di feste[6].
Nel 394 a.C. fu eletto tribuno consolare con Gaio Emilio Mamercino, Lucio Furio Medullino, Lucio Valerio Publicola, Spurio Postumio Albino Regillense e Publio Cornelio Scipione[7].
« Quando arrivò il giorno delle elezioni dei tribuni, i senatori riuscirono, anche se con uno sforzo enorme, a ottenere la nomina di Marco Furio Camillo, adducendo come pretesto la necessità di avere un comandante per le guerre (mentre in realtà cercavano un uomo adatto a contrastare la prodigalità eccessiva dei tribuni). » |
(Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 2, 26.) |
Nel racconto di Livio i Falisci, dopo essere stati sconfitti in una battaglia campale dai romani condotti da Furio Camillo, si disposero a resistere ad oltranza, chiudendosi dentro la città; i romani si predisposero per sostenere un lungo assedio.
« Ormai si aveva l'impressione che l'assedio fosse destinato a durare quanto quello sostenuto sotto Veio. E così sarebbe stato se la fortuna non avesse concesso al generale romano l'opportunità di offrire una dimostrazione delle sue ben note capacità in materia di strategia militare e contemporaneamente un'immediata vittoria. » |
(Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 2, 26.) |
Ai Falisci fu concessa la pace, contro la corresponsione della paga ai soldati romani per quell'anno[9].
A Gaio Emilio e Spurio Postumio fu invece affidata la campagna contro gli Equi. I due tribuni, dopo aver sbaragliato i nemici in campo aperto, decisero che mentre Gaio Emilio sarebbe rimasto a presidiara Verrugine, Spurio Postumio avrebbe saccheggiato le campagne degli Equi. Ma i romani, durante questa azione, furono sorpresi e sbaragliati da un attacco degli Equi.
Nonostante la sconfitta, e nonostante molti soldati di guarnigione a Verruggine, si erano rifugiati a Tuscolo, temendo un successivo attacco degli Equi, Postumio riuscì a riorganizzare l'esercito, ed ad ottenere una nuova vittoria campale contro gli Equi[10].
Nel 391 a.C., accusato di aver distribuito in modo ingiusto il bottino bellico, Marco Furio decise di andare in esilio volontario ad Ardea, proprio quando i Galli Senoni, condotti da Brenno, cingono d'assedio Chiusi, che invia degli amabasciatori a Roma per chiedere aiuto contro i Galli.
Probabilmente l'eccessivo potere e autorità, oltre che le antipatie esplose contro di lui per il suo forte orgoglio patrizio e la sua entrata trionfale in Roma su un carro tirato da cavalli bianchi, furono le reali cause che dettero luogo alle infamanti accuse.
Sembra che i Romani furono costretti a pagare un pesante dazio e a consegnare le insegne cittadine per far togliere l'assedio. Successivamente, mentre i Galli tornavano indietro verso i loro territori, i Romani richiamarono Furio Camillo nominandolo nuovamente dittatore. Secondo la leggenda, Camillo, raccolte le truppe romane, inseguì i Galli, li sconfisse facendone strage e recuperò le insegne ed il bottino romano. Secondo altri fonti storiche, tuttavia Furio Camillo riuscì a ricacciare i Galli lontano dal territorio romano, ma essi si ritirarono comunque in possesso del ricco bottino di guerra. Invece secondo Tito Livio[12], Furio Camillo nominato dittatore mentre la città era ancora posta sotto assedio, riuscuì ad arrivare a Roma prima che fosse pagato il riscatto concordato con il comandante dei Galli Brenno, riuscendo a sbaragliarli in due battaglie campali.
Ottenuto il trionfo, riuscì a convincere i Romani a non emigrare a Veio, abbandonando la città, essendo per questo fatto ricordato come il Secondo Fondatore di Roma.
« Dopo averla salvata in tempo di guerra, Camillo salvò di nuovo la propria città quando, in tempo di pace, impedì un'emigrazione in massa a Veio, nonostante i tribuni - ora che Roma era un cumulo di cenere - fossero più che mai accaniti in quest'iniziativa e la plebe la appoggiasse già di per sé in maniera ancora più netta » |
(Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 4, 49.) |
L'anno successivo, nel 389 a.C. fu nuovamente nominato dittatore, quando Roma dovette fronteggiare la minaccia dei Volsci, degli Equi e degli Etruschi, che pensavano di non dover trovare resistenza dall'Urbe, uscita stremata dalla lotta con i Senoni[13]
Dopo aver chiamato la leva, e riorganizzato l'esercito, lo divise in tre parti, affidandone una, che si stabilì a Veio, a Lucio Emilio Mamercino, con il compito di fronteggiare l'attacco etrusco, un'altra a Aulo Manlio Capitolino, con il compito di proteggere la campagna romana, e preso il comando della restante parte, condusse l'esercito contro i Volsci, sconfiggendoli a Mecio, nei pressi di Lanuvio[14]. In seguito a questa sconfitta, i Volsci da più di sett'anni in guerra contro i romani, firmarono la propria resa.
Dopo i Volsci, Camillo attaccò gli Equi, riuscendo ad espugnarne la città di Bola.
In quel frangente la città di Sutri, alleata dei romani, stava subendo l'assedio da parte degli etruschi, e per questo aveva mandato ambasciatori a Roma, per richiederne l'aiuto. Camillo, tornato in città proprio mentre gli ambasciatori promuovevano la causa di Sutri, decise immediatamente di portare aiuto alla città alleata, riuscendo a cogliere di sorpresa gli attaccanti, proprio mentre erano entrati in Sutri per razziarla. Gli etruschi che abbandonarono le armi, ebbero salva la vita, ma furono venduti come schiavi. Tornato in città, Camillo celebrò il trionfo per le tre vittorie ottenute in quell'anno[15].
Nel 386 a.C. fu eletto tribuno consolare con Quinto Servilio Fidenate, Lucio Orazio Pulvillo, Servio Cornelio Maluginense, Lucio Quinzio Cincinnato Capitolino e Publio Valerio Potito Publicola[16].
Quando Anzio riprese le armi contro Roma, sostenuta anche da giovani fuorisciuti Latini ed Ernici, il Senato decise di affidare le operazioni belliche a Furio Camillo, che volle con sé il collega Publio Valerio. A Quinto Servilio fu affidato il compito di organizzare un esercito da porre nella campagna romana, a difesa della città da possibili attacchi degli Etruschi, a Lucio Quinzio fu affidato il compito di presidiare le mura cittadine, a Lucio Orazio di organizzare tutto l'approvigionamento di guerra e a Servio Cornelio l'amministrazione della città[16].
I Romani si scontrarono con l'esercito di Volsci, Latini ed Ernici, numericamente superiore a loro, nelle campagne intorno a Satrico; è a questa campagna che si riferisce l'episiodio leggendario di Furio Camillo, che lancia il vessillo romano oltre le schiere nemiche, per spronare i romani al combattimento.
« Dopo aver quindi suonato la carica, scese da cavallo e prendendo per mano l'alfiere più vicino lo trascinò con sé verso il nemico gridando: «Avanti l'insegna, o soldato!». Quando gli uomini videro Camillo in persona, ormai inabile alle fatiche per l'età avanzata, procedere verso il nemico levarono l'urlo di guerra e si buttarono all'assalto tutti insieme, ciascuno gridando per proprio conto «Seguite il generale!». Si racconta anche che Camillo ordinò di lanciare un'insegna tra le linee nemiche, e che gli antesignani furono incitati a riprenderla. » |
(Tito Livio, "Ab Urbe Condita", VI, 8.) |
A Furio Camillo, tornato a Roma per ottenere il permesso di attaccare Anzio, il Senato affidò il comando delle operazioni belliche contro gli Etruschi che, approfittando dell'impegno romano contro i Volsci, avevano attaccato le città alleate di Sutri e Nepi[17].
Inviati Lucio Quinzio e Lucio Orazio a presidiare le campagne dove si era svolto lo scontro contro i Volsci, Furio Camillo e Publio Valerio condussero l'esercito cittadino alla volta di Sutri, che fu liberata dagli Etruschi, che l'avevano occupata, grazie ad un'azione coordinata. Infatti mentre Camillo occupava gli assedianti con un attacco su di un lato della città, Publio conduceva l'altra parte dell'esercito, che entrò a Sutri dalla parte più sguarnita[17].
La riconquista di Nepi si presentò più difficile, anche per la defezione di parte dei cittadini, passati dalla parte degli occupanti Etruschi. Anche in questo caso i romani ebbero la meglio, riuscendo a riconquistare Nepi, massacrando gli etruschi e quanti fra i nepi si erano uniti a loro[18].
Nel 384 a.C. fu eletto tribuno consolare Servio Cornelio Maluginense, Gaio Papirio Crasso, Publio Valerio Potito Publicola, Servio Sulpicio Rufo e Tito Quinzio Cincinnato Capitolino[19].
Tutto l'anno fu segnato dalla vicenda del processo condotto contro Marco Manlio Capitolino, conclusasi con la sua condanna a morte[20].
Nel 381 a.C. fu eletto tribuno consolare con Lucio Postumio Albino Regillense, Lucio Lucrezio Tricipitino Flavo, Aulo Postumio Albino Regillense, Lucio Furio Medullino Fuso e Marco Fabio Ambusto[21].
Contro tutte le regole, la conduzione della campagna di guerra contro i Volsci, che avevano occupato la colonia di Satrico, fu affidata a Furio Camillo, ed a Lucio Furio, estratto a sorte tra gli altri tribuni, che avrebbe dovuto fungere da aiutante di Furio Camillo, ormai avanti negli anni[22].
Lucio Furio però iniziò a criticare il generale, perché questo, arrivati davanti a Satrico, aveva adottato una tattica attendistica, in ragione del maggior numero degli avversari. E quando Lucio Furio, che era pur sempre un magistrato di pari grado, gli prospettò la necessità dell'attacco contro i Volsci, Furio Camillo non si oppose, lasciando al collega il compito di condurre l'attacco, riservando per sé il comando delle riserve.
« Il fautore dello scontro schierò la prima linea, mentre Camillo assicurò la copertura delle retrovie, disponendo un solido contingente di fronte all'accampamento. Poi si andò a piazzare su un'altura, osservando con attenzione i risultati dell'altrui strategia. » |
(Tito Livio, "Ab Urbe Condita", VI, 3, 23.) |
Tra i tanti prigionieri i romani ne riconobbero diversi provenienti dalla città alleata di Tuscolo, e per questo Furio Camillo ne portò alcuni a Roma, perché fossero interrogati dai Senatori.
Il Senato decise immediatamente per la guerra contro Tuscolo, affidandola a Furio Camillo, che, contrariamente ad ogni pronostico, volle come collega Lucio Furio. Arrivati a Tuscolo i romani trovarono la città aperta, e tutti i cittadini disarmati, intenti alle loro normali attività. A questo punto Furio Camillo permise ai maggiorenti della città di recarsi a Roma, per ottenere il perdono dai Senatori, che lo concessero, proprio in virtù dell'atteggiamento apertamente remissivo dei tuscolani[24].
Quarta dittatura [modifica]
Nel 368 a.C., nel pieno della battaglia politica tra Plebei e Patrizi, per la definizione dei futuri assetti politici di Roma, e per la definizione della questione dei debiti contratti dai plebei (e della loro conseguente riduzione in schiavitù se non onorati), quando i tribuni della plebe Gaio Licinio Calvo Stolone e Lucio Sestio Laterano portarono le tribù a votare le proprie proposte di legge a favore dei plebei, nonostante il veto espresso dagli altri tribuni della plebe, controllati dai patrizi, il Senato nominò Marco Furio Camillo dittatore per la quarta volta, allo scopo di impedire la votazione delle leggi proposte da Licinio e Sestio[25].« E dato che le tribù erano giù state chiamate a votare e il veto dei colleghi non ostacolava più i promotori delle leggi, i patrizi allarmati ricorsero ai due estremi rimedi: la più alta delle cariche e il cittadino al di sopra di ogni altro. Decisero di nominare un dittatore. La scelta cadde su Marco Furio Camillo, che scelse Lucio Emilio come maestro di cavalleria » |
(Tito Livio, Ab Urbe condita, VI, 4, 38.) |
« Tuttavia, prima ancora che la contesa avesse designato un vincitore tra le due parti in causa, Camillo rinunciò al proprio incarico, sia perché - come hanno scritto alcuni autori - la sua elezione non era stata regolare, sia perché i tribuni della plebe proposero e la plebe si disse d'accordo che, qualora Marco Furio avesse preso qualche iniziativa in qualità di dittatore, gli sarebbe stata inflitta un'ammenda di 500.000 assi » |
(Tito Livio, Ab Urbe condita, VI, 4, 38.) |
Quinta dittatura [modifica]
Nel 367 a.C., nominato dittatore per fronteggiare un'invasione dei Galli, nominò Tito Quinzio Peno Magister Equitum[26].I romani affrontarono i Galli nei pressi di Albano, sconfiggendoli e mettendoli in fuga. Tornato a Roma, a Furio fu tribunato il trionfo.
« E non ostante l'enorme spavento ingenerato dai Galli e dal ricordo della vecchia disfatta, i Romani conquistarono una vittoria che non fu né difficile né mai in bilico. Molte migliaia di barbari vennero uccise nel corso della battaglia e molte altre dopo la presa dell'accampamento. I sopravvissuti, dispersi, ripararono soprattutto in Puglia, riuscendo a evitare i Romani sia per la grande distanza della fuga, sia per il fatto di essersi sparpagliati in preda al panico » |
(Tito Livio, Ab Urbe condita, VI, 4, 42.) |
Morte [modifica]
Sebbene patrizio nell'animo, comprese la necessità di fare concessioni alla plebe e fu determinante nel far approvare le Leggi licinie sestie. Morì di peste all'età di 81 anni (365 a.C.).« Ma ciò che rese degna di menzione quella pestilenza fu la morte di Marco Furio, dolorosissima per tutti non ostante lo avesse raggiunto in età molto avanzata. Egli fu infatti uomo assolutamente impareggiabile in qualunque circostanza della vita. Eccezionale tanto in pace quanto in guerra prima di essere bandito da Roma, si distinse ancor più nei giorni dell'esilio: lo testimoniano sia il rimpianto di un'intera città che, una volta caduta in mani nemiche, ne implorò l'intervento mentre era assente, sia il trionfo con il quale, riammesso in patria, ristabilì nel contempo le proprie sorti e il destino della patria stessa. Mantenutosi poi per venticinque anni - quanti ancora ne visse da quel giorno - all'altezza di una simile fama, fu ritenuto degno di essere nominato secondo fondatore di Roma dopo Romolo » |
(Tito Livio, Ab Urbe condita, VII, 1.) |
Bibliografia [modifica]
Fonti primarie [modifica]
- Livio V, 10; VI, 4
- Plutarco, Camillo
- Polibio II, 18
- Eutropio Breviarium ab Urbe condita I, 20
Fonti secondarie [modifica]
- Theodor Mommsen, Römische Forschungen, II, pp. 113–152 (1879)
Note [modifica]
- ^ Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 10. È dubbio se si tratti del primo tribunato o del secondo, visto che per Tito Livio, Furio Camillo fu eletto tribuno consolare già nel 403 a.C. (vedi Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 1) e che cita esplicitamente la nomina del 401 a.C. "per la seconda volta"
- ^ Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 12.
- ^ Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 2, 14.
- ^ a b Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 2, 19.
- ^ Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 2, 20.
- ^ Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 2, 23.
- ^ Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 2, 26.
- ^ Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 2, 26-28.
- ^ Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 3, 27-28.
- ^ Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 2,28.
- ^ Tito Livio, "Ab Urbe Condita", V, 3, 32.
- ^ Livio, Ab Urbe condita, V, 4,45-55
- ^ Livio, Ab Urbe condita, VI, 2; Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, II, 1.
- ^ Livio, Ab Urbe condita, VI, 2
- ^ Livio, Ab Urbe condita, VI, 3
- ^ a b Tito Livio, "Ab Urbe Condita", VI, 6.
- ^ a b Tito Livio, "Ab Urbe Condita", VI, 9.
- ^ Tito Livio, "Ab Urbe Condita", VI, 10.
- ^ Tito Livio, "Ab Urbe Condita", VI, 2, 18.
- ^ Tito Livio, "Ab Urbe Condita", VI,2, 18-20.
- ^ Tito Livio, "Ab Urbe Condita", VI, 3, 22.
- ^ Tito Livio, "Ab Urbe Condita", VI, 3, 22.
- ^ Tito Livio, "Ab Urbe Condita", VI, 3, 24.
- ^ Tito Livio, "Ab Urbe Condita", VI, 3, 25-26.
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita, VI, 4, 38.
- ^ Tito Livio, Ab Urbe condita, VI, 4, 42.
Voci correlate [modifica]
- Tempio di Giunone Regina (Aventino)
- Roma e le guerre con Veio
- Caduta di Veio
- Dittatore romano
- Storie di Furio Camillo a Palazzo Vecchio
Altri progetti [modifica]
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