Marsia è una figura della mitologia greco-romana, figlio di Eagro.
Secondo altre versioni sarebbe invece figlio di Olimpo.
Era un sileno, dio del fiume Marsia, affluente del Meandro in Anatolia.
Pindaro narra di come la dea Atena una volta inventato l'aulos lo gettò via, infastidita del fatto che le deformasse le gote quando lo suonava.
Marsia lo raccolse, causando il disappunto di Atena, che lo percosse. Non appena Atena si fu allontanata Marsia riprese lo strumento ed iniziò a suonarlo con una tale grazia che tutto il popolo ne fu ammaliato, affermando che avesse più talento anche di Apollo.
Marsia, orgoglioso, non li contraddisse, finché un giorno la sua fama arrivò ad Apollo, che testé lo sfidò (secondo altre versioni fu lo stesso Marsia a sfidarlo).
Al vincitore, decretato dalle Muse che sarebbero state i giudici della tenzone, era concesso il diritto di far ciò che volesse del contendente. Dopo la prima prova, però, le Muse assegnarono un pareggio che ad Apollo, ovviamente, non andava bene. Così, il dio invitò Marsia a rovesciare il suo strumento e a suonare: Apollo, logicamente, riuscì a rovesciare la cetra e a suonarla, ma Marsia non poté fare altrettanto con il suo flauto e riconobbe Apollo vincitore (secondo un'altra versione Apollo propose per poter eleggere un vincitore di cantare e suonare contemporaneamente, così che solo lui, che aveva uno strumento a corde, ci sarebbe riuscito). Il dio, allora, decise di punire Marsia per la sua superbia (hýbris, in greco) e, legatolo ad un albero, lo scorticò vivo.
L'episodio ispirò molti artisti tra cui Mirone, Prassitele, Ovidio, Tiziano e Dante; quest'ultimo in particolare lo ricorda nell'invocazione ad Apollo nel canto I del Paradiso (vv. 19-21).
Ovidio menziona la sorte dell'auleta nelle proprie Metamorfosi:
(LA) « Rettulit exitium, satyri reminiscitur alter, Quem Tritoniaca Latous harundine victum Affecit poena. "Quid me mihi detrahis?" inquit; "A! piget, a! non est" clamabat "tibia tanti". Clamanti cutis est summos direpta per artus Nec quicquam nisi vulnus erat; cruor undique manat Detectique patent nervi trepidaeque sine ulla Pelle micant venae; salientia viscera possis Et perlucentes numerare in pectore fibras. » | (IT) « Un altro si rammenta di quel satiro cui il figlio di Latona affisse una pena dopo averlo vinto col flauto Tritoniaco "Perché mi scortichi?" chiese; "Ahimè! mi pento!" gridava "un flauto non vale tanto!" Ma mentre egli disperava gli fu strappata la pelle dalle membra Nient'altro era che una ferita; ovunque promana il sangue, si scoprono i muscoli liberi e, rilasciate, senza pelle, pulsano le vene; potresti contare le viscere zampillanti e le fibre sanguigne. » |
(Metamorfosi, Libro VI, vv. 385-391) |
Nella parte finale del Simposio, Platone narra dell'elogio che Alcibiade fece a favore di Socrate, il quale lo paragona a Marsia:
« Per fare l'elogio di Socrate, amici, ricorrerò a delle immagini. Son sicuro che lui penserà che voglia scherzare, e invece sono serissimo, perché voglio dire la verità. Io dichiaro dunque che Socrate è in tutto simile a quelle statuette dei sileni che si vedono nelle botteghe degli scultori, con in mano zampogne e flauti. Se si aprono, dentro si vede che c'è la statua di un dio. E aggiungo che ha tutta l'aria di Marsia, il satiro: eh sì, Socrate, gli somigli proprio, non vorrai negarlo! E non solo nell'aspetto!" » |
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