È verità comunemente ammessa die l’econo¬
mia politica o, senz’altro, l’economia sia una scien¬ za sociale. Questo vuol dire ch’essa non studia 1’/ionio ceconomicus e i fenomeni economici, quali si possono immaginare in uno stato presociale o an¬ tisociale, ma considera invece gli aspetti economi¬ ci della vita sociale nella sua organicità essenziale. Ed è chiaro che in tanto può studiarli e inten¬ derli sistematicamente in quanto la vita sociale abbia essa stessa un’unità, un ordine, una di¬ sciplina: sia, in altri termini, non uno stato di natura bensì un organismo politico, uno Stato. Fondamento, dunque, di ogni scienza sociale e del- l'eeonomia in particolare è il concetto di Stato, con il correlativo problema dei rapporti tra Stato e in¬ dividuo. Per intendere la storia dell’economia po¬ litica e le vicende degli indirizzi predominanti (economia liberale ed economia socialista) è ne¬ cessario indagare come le diverse scuole abbiano impostato e risolto tale problema. Se si guarda all'economia classica e in gene¬ re all’economia più comunemente intesa come scientifica, si deve convenire che essa è stata via via costruita e perfezionata dal secolo XVIII a oggi tra¬ scurando, qualche volta in modo assoluto e sem¬ pre in modo essenziale, il problema dello Stato. Dal- reconomia del baratto fino a quella complicatissi¬ ma delle banche e dell’industria contemporanea, tutti i trattati sono stati concepiti in rapporto a una vita economica in cui dello Stato non si sente qua¬ si mai il bisogno di occuparsi, come se fosse real¬ tà estrinseca e irrilevante ai fini di una vera co¬ struzione scientifica. La spiegazione di questo fatto, evidentemente in antitesi con la qualifica di scienza sociale con cui si caratterizza l’economia, va trovata nella partico¬ lare concezione dello Stato teorizzata dalla scienza politica e giuridica dal secolo XVIII in poi, e classi¬ ficata ormai globalmente con l’epiteto di liberale. Essa sorge come reazione ai vecchi sistemi politici, per i quali lo Stato era una realtà diversa dagli indi¬ vidui che lo componevano e sì rappresentava quin¬ di ai loro occhi conte un’autorità meramente arbi¬ traria, con fini propri e opposti a quelli dei sud¬ diti: sorge come bisogno di distruggere un potere estrinseco e dannoso, e con tale esigenza non può far altro che rivendicare i sacri diritti dell’indi¬ viduo, nella cui celebrazione si vede l’unico scopo così della vita sociale come della ricerca scientifi¬ ca. Allo Stato, che storicamente appariva come un limite e un ostacolo, anziché come essenza e vita deirorganismo sociale, si opponeva una negazione perentoria destinata a mutare radicalmente non solo i rapporti politici, ma anche i fondamenti di ogni scienza sociale. Si può anzi affermare che, solo in seguito a questa violenta ribellione, il pensiero — 5 — scientifico acquista la libertà indispensabile per uno studio sistematico dei fenomeni sociali, e ciò vale a spiegare perché le cosiddette scienze sociali si rin¬ novino sostanzialmente, si costituiscano e cerchino di organizzarsi tra loro soltanto dopo la prima metà del Settecento. L’esigenza immediata era quella del¬ l’assoluta negazione, dalla quale ci si ritrasse uni¬ camente per le necessità irriducibili di una vita po¬ litica organizzata: il ritorno alla natura non poteva essere altro che il grido nostalgico di un ideologo. Ma se la negazione non poteva divenire totale, essa tuttavia si spinse al massimo limite consentito dai tempi, e, in sede scientifica, alla realtà dello Stato non si riconobbe se non la funzione del tutto estrin¬ seca di salvaguardare le sfere di arbitrio dei singoli individui, Se unica realtà e unico valore sono quelli dell’individuo, se al mondo non c’è altra finalità oltre quella che l’individuo si pone nel suo chiuso egoismo, ne consegue che allo Stato deve spettare 1 unico compito di determinare i confini tra quegli infiniti regni costituiti dai singoli cittadini e di sorvegliare la loro pacifica convivenza: esso non entra nella vita dell’individuo, ma ne resta al mar¬ gine come garante. Ora è chiaro che uno Stato così concepito non deliba trovar posto nella maggior parte delle scien¬ ze sociali: esso è più una realtà di diritto che non una realtà di fatto, e la sua considerazione tende a esaurirsi nelle indagini di carattere giuridico. Va¬ lori e fini sociali sono quelli dell’individuo, che si affermano e si negano indipendentemente dallo Sta¬ to, il quale ha il solo scopo di non farne turbare il libero svolgimento. Di questa funzione di tutore le scienze sociali possono e debbono, dunque, disinte* — 6 — ressarsi, in quanto essa non modifica la realtà dei fatti sociali, ed anzi rende possibile la loro genuina attuazione. A tali presupposti ideologici e politici si deve ricondurre in particolar modo lo svolgimento della scienza economica classica. Facendo sua questa so¬ luzione del problema circa i rapporti tra individuo c Stato, essa dà allo Stato un valore positivo solo in quanto garante della libera concorrenza, ma lo ritiene perturbatore e distruttore di ricchezza ogni volta che intervenga attivamente nella vita econo¬ mica: assume poi ad oggetto della propria indagine 1 unica realtà dell individuo, considerato nella sua vita immediata e mosso esclusivamente dai suoi par¬ ticolari interessi. L homo asconomicus è per defini¬ zione extrastatale. Di qui l’equivoco fondamentale di tutta la scienza economica quale è pervenuta fino a noi. Se la scienza, infatti, non deve studiare l’organismo sociale (lo Stato) perché questo, in quanto organi¬ smo, non ha un significato e un valore proprio, non avrà, per ciò stesso, nulla da dire all’individuo sin¬ golo che di quell’organismo fa parte. L’individuo scisso dall’organismo è per definizione anarchico, e norma della sua vila non potrà essere che il suo ar¬ bitrio affatto soggettivo: la scienza non può inse¬ gnargli niente perché non può saperne niente. Per saperne qualcosa bisogna che un individuo esca dalla sua particolarità, si esprima, entri in relazione con gli altri individui e venga, dunque, a far parte di una vita sociale organica : dello Stato. Solo allora ; solo, cioè, quando Yhomn ceconomicus è diventato cittadino, la sua attività diventa intelligibile e su¬ scettibile d’investigazione scientifica. Ma la scienza economica si è voluta ostinare in questo assurdo, di considerare l’individuo pre¬ scindendo dallo Stato; e non è potuta giungere die a risultati mediocrissimi : le sue soluzioni sono, in fondo, tutte negative, e si riassumono sostanzial¬ mente nel dogma della libera concorrenza. Il quale, se ben si riflette, vuol dire solo cbe la scienza si ri¬ mette all arbitrio degli individui, e che la soluzione più perfetta del problema economico è quella che scaturisce dal cozzo indisciplinato di tutti gli infi¬ niti interessi particolari. Allo Stato la scienza dice: non fare; all'individuo: fa quel che ti pare. Questa l'essenza dell’economia classica. 1 tentativi fatti per uscire dal circolo vizioso del liberalismo tradiscono tutti il bisogno di supe¬ rare una soluzione affatto negativa del problema della scienza economica. Se non che l’incapacità di abbandonare il presupposto individualistico non ha consentito di giungere a una sistemazione scien¬ tifica che non fosse nella massima parte illusoria. E infatti, una volta ammesso il fondamento soggetti¬ vistico dell’economia, null’allro restava da fare al¬ l’economista se non aggirarsi all’infinito in quella contraddizione in termini in cui si risolve ogni ten¬ tativo di conoscere le leggi sistematiche dell’arbitrio. Se al puro e semplice « fa quel che ti pare », lo scienziato ha voluto aggiungere una sola parola di carattere positivo, lo ha potuto fare soltanto illu¬ dendosi di entrare nel mondo ermeticamente chili- so del soggetto. Così si spiega il sorgere della scuola psicologica e matematica, con la quale si è creduto di attingere il maximum della scientificità e si è condotto all assurdo il postulato classico dell'indi- vidualismo. Scuola psicologica : e cioè costrizione dell’anima umana entro schematismi arbitrari, con¬ cepiti da chi non aveva nessuna dimestichezza con gli studi di psicologia; riduzione dell’/iomo cero- nomicus all’edonista, o all’egoista, o all’altruista, e, in ogni caso, a un’etichetta di cui non sì sarebbe potuto dare nessuna giustificazione: livellamento dei soggetti e cervellotica costruzione del tipo, che rendesse uniforme e perciò intelligibile la multi¬ forme vita individuale; negazione, insomma, del vero mondo della soggettività e sostituzione ingiu¬ stificabile di una formula meramente fantastica alla realtà che si pretende conoscere. Scuola matema¬ tica: e cioè quantificazione di quegli stessi elementi soggettivi illusoriamente determinati: comparazio¬ ne di dati incomparabili perché essenzialmente di¬ versi; processo astrattivo sorto su illegittime astra¬ zioni e perciò irriducibile alla concretezza della vita; formule algebriche, dunque, che non potranno mai vestirsi di numeri effettivi. L indirizzo psicologico e matematico, sorto a correzione ed integrazione di quello liberistico, è valso solo a mettere in luce l’errore fondamentale. Gli individui nella loro particolarità sono esseri necessariamente eterogenei: i gusti, i bisogni, gli interessi, le finalilà non sono paragonabili: nessuno potrà mai dire quante volte il profumo di un fiore vale per una signora aristocratica più che per una popolana, ed io stesso, che presumo di conoscermi, non potrò mai dire quante volte il godimento da- tomi da una sensazione corrisponda a quello procu¬ ratomi da un altra, o dalla stessa in un momento diverso. Nessun tentativo dì approssimazione può essere concepito seriamente e perciò tutta la cosid¬ detta economia marginalistica non è suscettibile di alcuna interpretazione di carattere pratico. Conclu¬ dere, come fa 1 economia liberale, che il massimo dell utilità sociale equivale alla somma dei massimi delle utilità individuali significa dire una cosa senza senso, se è vero che di addendi incomparabili — come sappiamo dalla più elementare conoscenza matematica non è possibile fare la 6omma. Con il tentativo di passare dal massimo benes¬ sere individuale a quello sociale, si chiude il ciclo dell economia classica o liberale, e la vanità del ten¬ tativo ne conferma il definitivo dissolversi. Di un inondo concepito coinè moltitudine caotica di in¬ dividui, vivente ognuno sotto il solo impero del pro¬ prio arbitrio, è insensato voler fare la scienza. Scien¬ za vuol dire disciplina, e l’individuo che non è an¬ cora cittadino è senza disciplina; vuol dire norma, c 1 individuo non può riconoscerne alcuna oltre il suo gusto del momento; vuol dire, soprattutto, co¬ noscenza obiettiva e universale, e l’individuo del li¬ beralismo è soggettività particolare. A tale indi¬ viduo l'economista si volge solo per constatarne la natura e garantirne la primitività: lungi dal gui¬ darlo e disciplinarne gli interessi, lo abbandona al cozzo brutale della domanda e dell’offerta, in cui tutto il suo ideale si riassume. È la scienza dell’a¬ narchia. — 10 All’economia liberale si è opposta quella so¬ cialista. Tutti i presupposti della prima sembrano negati dalla seconda, che all’individuo sostituisce la classe, la società, lo Stato. Ma lo Stato di cui parla il socialismo ha lo stesso difetto di origine di quello liberale: esso, cioè, è sempre considerato come una realtà diversa dall’individuo, come limite dell’attività individuale e sua condizione estrinseca. La situazione si è invertita, ma il problema è ri¬ masto impostato nella stessa maniera, poiché l’anti¬ nomia individuo-Stato in entrambi i casi è risolta sacrificando uno dei due termini all’altro; e, in quanto il termine sacrificato ha conservato un mi¬ nimo di validità, esso rappresenta una limitazione, sia pure necessaria, della realtà del termine iposta¬ tizzato. Limite deirindividuo è Io Stato nel libera¬ lismo, limite dello Stato è l’individuo nel socialismo. L’incapacità di risolvere l’antinomia con l’iden¬ tificazione di individuo e Stato ha condotto il so¬ cialismo a concepire lo Stato burocraticamente. Se lo Stato infatti non è la realtà stessa della Nazione, ma viene entificato e opposto alla Nazione, esso non può concepirsi se non come un organismo a sé e con organi propri. Quando il socialismo nega la proprietà privata e dichiara che i mezzi di produ¬ zione appartengono allo Stato, evidentemente attri¬ buisce a questo una personalità giuridica ed econo¬ mica distinta da quella dei privati: ed è chiaro che, se lo Stato ha una personalità distinta, deve avere i — 11 — anche il motlo di vivere ed agire distintamente, at¬ traverso quei determinali organi che costituiscono appunto la burocrazia. È così che la teoria socia¬ lista, negando l’individuo nello Stato, sostituisce al¬ l'economia individuale quella burocratica e fa dello Stalo, in quanto realtà giuridica diversa dagli indi¬ vidui, il proprietario, il datore di lavoro, il rispar¬ miatore, il distributore, e via dicendo. La critica violenta e altezzosa che reconomia classica ha opposto all’economia socialista è sostan¬ zialmente giusta e irrefutabile. Se contro il libera¬ lismo ha ragione il socialismo in quanto richiama l’attenzione dall’individuo allo Stato, contro il so¬ cialismo ha egualmente ragione il liberalismo clie rivendica la superiorità dell’economia individuale rispetto a quella statale. L’economia statale è per definizione un’economia monca e patologica, poiché essa non solo accentra e quindi limita la vita eco¬ nomica, ma ne affida la direzione a un organo relati¬ vamente estrinseco quale è la burocrazia. Quando il liberale afferma che lo Stato è cattivo ammini¬ stratore, ha perfettamente ragione, perché per Sta¬ to s’intende appunto una realtà sopraordinata e non costruttiva della cosa amministrata. In altre pa¬ role si vuol dire che l’industriale, il quale nasce c vive con la sua industria facendo di essa la stessa ragione della sua vila, farà prosperare la sua azien¬ da indubbiamente meglio del burocrate, che nell’in¬ dustria a lui affidala vede solo la contingente espres¬ sione del suo dovere di funzionario. Ma più che antieconomica l’economia statale è livellatrice e mortificatrice delle attività indivi¬ duali. che lulte sì debbono uniformare al meccani¬ smo burocratico e perdere quella libertà di movi- 12 — menti la quale costituisce la condizione prima della loro iniziativa. La comune opinione del carattere tradizionalista e conservatore della burocrazia è la più evidente conferma della sua incapacità a rinno¬ varsi con quel ritmo acceleratissimo che è proprio della industria contemporanea : l’economia statale tende per sua natura a diventare economia statica. Il dualismo di individuo e Stato, che ha reso inadeguate le soluzioni dell’economia classica e di quella socialista, non è stato superato neppure dai tentativi compiuti, specialmente in questi ultimi de¬ cenni, per la costruzione della cosiddetta economia nazionale o di Stato (la Volkswirtschaft o Staats- wirtschafi dei Tedeschi). Anche quando tali tenta¬ tivi non si sono ridotti a concepire la vita della Na¬ zione come la somma delle vite dei singoli indivi¬ dui, e si è voluto invece considerare l’organismo so¬ ciale con caratteristiche e finalità proprie, l’econo¬ mia pubblica è rimasta sempre accanto all’econo¬ mia privata e la necessità della loro assoluta iden¬ tificazione non è stata mai dimostrata, né da socio¬ logi né da nazionalisti. I sociologi, infatti, tutti com¬ presi dal compito di descrivere le varie forme della vita, si sono preoccupati soltanto di analizzare le diverse economie, dall’individuo alla famiglia, alla classe, alla Nazione ecc., di classificarle e di studiar¬ ne estrinsecamente i rapporti; i nazionalisti, poi, infatuati dall ideologia della Nazione, non hanno saputo far altro che ipostatizzarla come una realtà — 13 — superiore all’individuo, affermando in conseguenza la superiorità deireconomia nazionale e la subordi¬ nazione a essa di quella individuale. In entrambi i casi lo Stato è rimasto come una delle forme, sia pure la massima, della vita sociale; e l’economia ad esso relativa come una delle forme, sia pure la su¬ prema, delle possibili economie. E in tal guisa il — pensiero scientifico e andato oscillando dall’ideolo¬ gia anarchica del liberalismo a quella statolatria del socialismo e del nazionalismo, senza mai cogliere l’essenza del problema. Respinto a volta a volta dagli assurdi di uno dei due estremi, si è ritratto acriticamente dalle conseguenze ultime delle opposte concezioni, ed è al solito scivolato verso i mezzi ter¬ mini dell’eclettismo: il concetto di Stato è penetrato di straforo nei trattati deireconomia scientifica, e quello di individuo e di libera iniziativa nelle co¬ struzioni ideologiche degli statalisti. La soluzione integrale del problema è delinea¬ ta, se pur non ancora esplicitamente chiarita, nel- Tordinamento corporativo del regime fascista. Si tratta per ora di un’intuizione politica più che di vera consapevolezza scientifica, e anzi la lettera di alctine disposizioni legislative consacra ancora il dualismo di individuo e Stato. Nella stessa formula¬ zione della Carta del Lavoro, alcune espressioni di principi, e soprattutto il famoso articolo 9, legitti¬ merebbero le vecchie interpretazioni liberali e so¬ cialiste, di cui abbiamo discorso. « L’intervento del- — 14 — lo Stato nella produzione economica — dice infatti 1 articolo 9 — ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente 1 iniziativa privata o quando siano in giuoco interessi politici dello Stato. Tale inter¬ vento può assumere la forma del controllo, dell'in¬ coraggiamento o della gestione diretta ». Nulla di strano che questo articolo abbia pro¬ dotto i più svariati malintesi nell'interpretazione dell'economia corporativa. I liberali vi hanno visto a ragione la conferma delle loro dottrine, poiché gli stessi classici più ortodossi hanno sempre soste¬ nuto che, per motivi eccezionali o per superiori in¬ teressi politici, lo Stato può e deve intervenire nella vita economica del paese. 1 filosocialisti, insistendo sul maggior intervento statale che la Carta del La¬ voro promuove, 1 hanno legittimamente interpre¬ tata come un passo decisivo verso Tordinamento socialista. Gli eclettici hanno piaudito entusiastica¬ mente. illusi di veder consacrata la solita via dei mezzi termini. Gli economisti della cattedra, infine, hanno dato un'occhiaia distratta e hanno senten¬ ziato senz’altro che Teconomia corporativa non esi¬ ste, risolvendosi essa in una mera prassi politica contingente. E che Leeonoinia corporativa non esista par¬ rebbe, infatti, dimostrato dal fatto che i tentativi finora compiuti per defi nirla e sistemarla scientifi¬ camente hanno condotto alla riduzione del nuovo al vecchio n alle sterili soluzioni di compromesso tra liberalismo e socialismo. Ma fortunatamente l’infe¬ lice esito dei tentativi è dovuto soltanto aU’inoppor- tuno zelo degli interpreti, i quali, per malinteso ossequio alla lettera, si sono lasciati sfuggire lo spi¬ rito più profondo della Carta del Lavoro e del fa- seismo in generale. L’imperfetta dizione dell'art. 9 fii spiega proprio per la mancanza di una sistema¬ zione scientifica del nuovo concetto dell’economia e gli interpreti avrebbero dovuto capire che la Carta del Lavoro, per il suo carattere rivoluziona¬ rio, costituisce un punto di partenza più che un punto dì arrivo, e che alla scienza spetta appunto il compito di rendere esplicita e sistematica quella visione che in essa è intuitiva. L’articolo 9, dunque, non può essere considerato come la chiave di volta e il criterio infallibile del sistema, sihbene come una delle proposizioni da interpretarsi e coordinarsi alla luce delle nuove esigenze. Le quali trovano piuttosto la loro esatta formulazione nell'articolo 1. per cui « la Nazione italiana... è una unità morale, politica ed economica, che si realizza integralmente nello Stato fascisla »: nell’articolo 2, per cui « il la¬ voro. solto tutte le sue forme intellettuali, tecniche e manuali, è un dovere sociale e soprattutto nel- 1 arlicolo 7, per cui « l’organizzazione privata della produzione essendo una funzione di interesse na¬ zionale, l’organizzatore dell’impresa è responsabile deH’indirizzn della produzione di fronte allo Sta¬ to )). È qui il motivo più profondamente rivoluzio¬ nario del fascismo, per cui si afferma l’identità so¬ stanziale di interesse pubblico e privato, di benes¬ sere dei singoli e potenza nazionale. Certo, nella Carta del Lavoro, questa identità alle volte si spezza e riappaiono i due termini dell’antinomia, ma al nuovo bisogna guardare e non al vecchio, con gli occhi ben intenti all’avvenire. Quando l’articolo 7 proclama il privato responsabile di fronte allo Sta¬ to della sua vita economica, vale a dire di ciò che per la tradizionale mentalità politica e scientifica 16 — si ritiene il più geloso attributo della sfera di arbi¬ trio dell’individuo, rende finalmente Fuorno citta¬ dino, lo trasforma in organo costitutivo dello Stato, e distrugge alla radice ogni differenza tra ciò che è privato e ciò che è pubblico. Il cittadino risponde di tutta la sua vita allo Stato cui appartiene, per¬ ché il fine della sua vita è quello stesso dello Stato; e, in quanto ne differisca, in quanto vi si opponga, o anche in quanto si presuma indipendente da esso, è illegittimo. Ma, perché Firnificazione della sfera pubblica e di quella privata sia effettiva e non illusoria, è necessario avere dello Stato un concetto heu più adeguato di quel che non abbiano i socialisti e. tanto meno, i liberali. Chi ritenesse che lo statalismo che propugna la Carta del Lavoro sia sostanzialmente sullo stesso piano dell ideologia socialista non sa¬ prebbe poi come spiegare la riaffennazione della proprietà privata. Se questa non è una contraddi¬ zione vuol dire che Ira socialismo e corporativismo, e cioè tra queste due forme di statalismo, v’ha una differenza essenziale che occorre chiarire. E il chia¬ rimento dovrebbe già risultare da quanto è stato detto sul carattere burocratico dello Stato sociali¬ sta, concepito tuttavia come entità distinta dagli in¬ dividui. Il vero Stato è, al contrario, la stessa realtà dell’individuo e sì esprime quindi, non in partico¬ lari organi e istituti, sibbene nella vita stessa di ogni cittadino. La proprietà deve rimanere privata, per¬ ché essa è già assurta a finalità e caratteri pubblici con 1 elevazione del proprietario a organo costitu¬ tivo dello Stato. Credere che la proprietà da privata diventi pubblica solo se essa venga amministrata direttamente dallo Stato, significa identificare lo Stato con la burocrazia, e opporlo all’individuo; si¬ gnifica insomma arrestarsi all’ideologia liberale e socialista. Lo Stato per realizzarsi nella sua integrità non ha bisogno di livellare, disindividualizzare, annien¬ tare l’individuo e vivere della sua ^istruzione: al contrario esso si potenzia col potenziamento dell’in¬ dividuo, della sua libertà, della sua proprietà, della sua iniziativa, della sua peculiare posizione nei rapporti con gli altri individui. E tutto ciò è pos¬ sibile, in quanto 1 individuo non è più un mondo particolare e la sua libertà non si chiama più ar¬ bitrio, ma e individuo sociale che nella prosperità dell’organismo statale vede il proprio fine. I/indi- vidualisino del liberalismo e lo statalismo del socia¬ lismo sono superati, perché sono trasvalutati i ter¬ mini di individuo e Stato che avevano condotto ai due assurdi opposti. Avere coscienza precisa di tale trasvalutazione non è davvero cosa molto facile, soprattutto perché occorre vincere continuamente il pregiudizio tra¬ dizionale che ci porta a entificare lo Stato, a opporlo a noi stessi, a riconoscerlo soltanto in determinati organi e funzioni. La vecchia concezione intellettua¬ listica è ormai così radicata in noi e la stessa termi¬ nologia che siamo costretti a usare è così aderente al concetto dello Stato come personalità trascen¬ dente i cittadini, che non ci riesce agevole sfuggire a tutti i paralogismi del senso comune. E in siffatto modo si spiega l'accusa di metafisicheria che si vuole — 18 — rivolgere, anche da persone non sciocche, all’iden- tificazione di Slato e individuo. Ma bisogna resistere all apparente evidenza di queste critiche e persua¬ dersi che quando un concetto ha davvero fonda¬ mento speculativo è per ciò stesso il più pratico, e vale a risolvere anche quelle difficoltà di carattere tecnico, che invano si cercherebbe di rimuovere con i vaghi concetti del senso comune, se pur questi sembrino agli occhi degli inesperti i più precisi, i più certi, i più assiomatici possibili. Negate infatti questa metafisicheria che è l'identità di individuo e Stato, e vi accorgerete che, volendo precisare sul serio il concetto apparentemente lapalissiano dello Stato e dei suoi limiti, ogni definizione riesce ina¬ deguata. e quella che sembrava una salda realtà di¬ venta un nome senza consistenza. 11 concetto, dunque, fondamentale e sistema¬ tico dell economia corporativa è la statalità di tutti i fenomeni economici. Economia individuale ed eco¬ nomia statale sono termini assolutamente identici. Questa conclusione, così netta e perentoria, sembrerà paradossale e assurda a ogni economista che abbia tuttavia nel cervello i! più piccolo pregiu¬ dizio classicista e individualista: ma, per chiunque voglia riflettervi su, con mente aperta e con buona volonlà, dovrà pure apparire come la verità più lo¬ gica ed evidente. Le obiezioni che si possono sollevare sono prin¬ cipalmente due: Luna di carattere psicologico, la 19 — seconda in particolar modo tecnico-economica. Se¬ condo la più ovvia osservazione psicologica sembra che tra il mio interesse di privato e quello pubblico dello Stato vi sia non solo differenza, ma spesso op¬ posizione. Il cittadino, ad esempio, che investe in un modo piuttosto che in un altro i suoi risparmi, fa gli interessi propri, e le sue decisioni in proposito sono indifferenti allo Stato: il cittadino, poi, che cerca di sfuggire alle imposte fa gli interessi suoi e si oppone a quelli dello Stato. Ecco dunque due economie ben distinte e con finalità differenti: l’una individuale e l’altra statale. Senoncbé basta saggiare appena la fondatezza di queste opinioni per convincersi della loro superfi¬ cialità: e infatti è chiaro che il modo d’investire i risparmi dei cittadini non può essere indifferente allo Stato, perché non può essere indifferente allo Stato che l’indirizzo economico sia tino piuttosto che un altro, che certe industrie siano favorite o neglette, che le forze produttive siano armonica¬ mente finanziate: quanto poi airopposizione dì in¬ teressi individuali e statali che si verifica nel caso del cittadino che si sottrae alle imposte, è non me¬ no evidente ch’esso dimostra soltanto il lato abnor¬ me della vita economica e noii può essere assunta a criterio distintivo di due economie. Non si nega che il dualismo tra individuo e Stato esista, ma si vuole affermare ch’esso rappresenta l’aspetto nega¬ tivo e non quello positivo della vita sociale. Questa, nella sua essenza, importa l’unità dei due termini e può scientificamente studiarsi alla luce di tale uni¬ tà: il dualismo sempre risorgente — e necessaria¬ mente risorgente per la stessa dialettica della vita umana, che è perfezionamento e non perfezione — indica ii Iato patologico, l’ostacolo «la rimuovere, e insomma l’arbitrio fuori della legge e fuori della scienza. Cbi ipostatizza il dualismo e lo legittima facendone il fondamento di due economie, indivi¬ duale e statale, confonde il positivo col negativo, la legge con la sua infrazione, e costruisce infine due simulacri di scienza. L obiezione di carattere tecnico, che sembra legittimo sollevare contro l’assoluta identificazione di individuo c Stato, concerne la possibilità d’inter¬ vento dello Stato nell'economia individuale. Appa¬ re, infatti, evidente che, se lo Stato alle volte in¬ terviene a controllare, incoraggiare, gestire, ecc., e alle volte invece si disinteressa completamente, vuol dire eb’esso rappresenta una realtà diversa da quella su cui esercita il controllo: la possibilità dell intervento è la conferma ad oculos del dualismo. Eppure a una analisi più appropriata del pro¬ blema una simile rappresentazione dei fenomeni economici deve risultare fondamentalmente errata ed equivoca. Se infatti lo Stato non vien concepito in forma mitologica, come un organo o un insieme di organi sui generis, ma come la stessa Nazione nella sua organicità (giuridicità) essenziale, è chia¬ ro ch’esso non può intervenire perché è sempre presente, immanente in ogni manifestazione, sia pu¬ re la più trascurabile, degli individui costitutivi della Nazione. Si può intervenire negli affari degli altri, ma intervenire in quelli propri è cosa senza — 21 — senso. Ogni atto economico da me compiuto s’inne¬ sta nel sistema economico della Nazione cui ap¬ partengo (vedremo poi come nella Nazione entri anche il mondo internazionale) e risulta quindi da esso condizionalo, anche se nessuna particolare nor¬ ma lo regoli esplicitamente. Questa sistematica di¬ sciplina, per cui il mio atto economico si realizza nell’organismo statale, costituisce il così detto in¬ tervento dello Stato, il quale è, per ciò stesso, asso¬ lutamente sostanziale. Pensare che possa esistere un fenomeno economico che si sottragga a questa di¬ sciplina e che viva in un mondo extrastatale, è pen¬ sare l’assurdo. Fenomeni antistatali potranno es¬ servi, e saranno appunto gli atti di arbitrio dell'in¬ dividuo che si oppone alla disciplina statale, ina fe¬ nomeni extrastatali no, perché fuori dello Stato v’c il nulla. Da un punto di vista assoluto, dunque, è illo¬ gico parlare di intervento dello Stato. Ma dell’asso¬ luto — ci oppongono gli empirici — noi non ci oc¬ cupiamo: noi intendiamo spiegarci un fenomeno molto concreto e innegabile, e cioè quello dello Sta¬ to che pone un dazio, un calmiere, sovvenziona una industria e via dicendo: di uno Stato, in altre paro¬ le, che ha una personalità distinta da quella degli individui e che, come soggetto economico diverso, compie degli atti che gli individui non possono com¬ piere. E credono così, codesti empirici, di aver ta¬ gliato la testa al toro, senza accorgersi invece che di ogni problema non ci sono due soluzioni, una filo¬ sofica e lina empirica, una assoluta e una relativa, sibbene una soluzione sola e propriamente quella giusta. La quale, in questo caso, consistendo nell as¬ soluta identità di individuo e Stato, dà a quello Stalo 22 — di cui parlano gli economisti un significato molto meglio determinato ch’essi non pensino, e cioè il significato di una delle particolari espressioni della vita dello Stato. Nessuno si sogna di negare quella realtà di fatto che è lo Stato nell’accezione più co¬ mune del vocabolo: nessuno quindi pretende nega¬ re che esista un’amministrazione centrale con un bilancio proprio (il bilancio dello Stato), con fina¬ lità sui generis, e con fenomeni economici peculiari: si vuol soltanto affermare che questa realtà non è lo Stato, bensì uno degli elementi dello Stato, la cui vita effettiva è nell’organismo integrale della Nazione, ipostatizzare quell’elemento, e vedere sol¬ tanto in esso lo Stato, significa precludersi la via a un’intelligenza adeguata dei fenomeni economici. Gli empirici, al solito, potranno esserci indul¬ genti e concederci di aver ragione circa il modo di intendere il concetto di Stato: ma — essi continue¬ ranno a opporci — sia pure elemento lo Stato di cui parliamo, noi intendiamo discutere appunto di esso quando ci riferiamo al suo intervento nella vita economica. Senonché tale soluzione del problema sarebbe affatto illusoria, come quella che ridurrebbe a una questione di parole la più sostanziale delle questioni. Ammettere, infatti, che lo Stato di cui parlano gli economisti sia un elemento dello Stato e non esaurisca la realtà di questo, significa ricono¬ scere ch’esso è appunto elemento di un organismo dal quale non può scindersi, ovvero ch’esso è coes¬ senziale a ogni altro elemento dell’organismo me¬ desimo. Per tradurre questo concetto nei termini usua¬ li, è facile osservare che il bilancio dello Stato vive in un’unità indissolubile con la vita economica del- — 23 — la Nazione, sì che nessun fenomeno economico sfug¬ ge a un rapporto diretto o indiretto con esso. Quan¬ do lo Stato fissa un’imposta, non modifica soltanto l’economia dei colpiti dall’imposta, ma anche di quelli non colpiti: così quando lo Stato stabilisce un dazio protettore, non muta soltanto le condizio¬ ni dell’industria protetta, ma contemporaneamente quelle di tutte le altre. Ogni intervento dello Stato è globale. Credo che non vi sia ormai nessun economista che voglia contestare una verità tanto lapalissiana: ma purtroppo da essa non si è tratta ancora in ma¬ niera veramente esplicita la conseguenza inevita¬ bile, e cioè che lo Stato, per il fatto stesso di essere, interviene sempre; e che discutere quindi si può su questa o su quella forma di intervento, ma non sulla legittimità ed economicità deirintervento. Tutti gli infiniti tomi che si sono dedicati alla discussione del problema circa il valore economico dell’intervento statale, e tutta la secolare opposizione dei liberisti a ogni forma di intervento, riposano su un colossale equivoco, dipendente appunto dall’errato concetto di Stato. Discutere se sia lecito o no l’intervento dello Stato e nello stesso tempo riconoscere la ne¬ cessità del bilancio dello Stato —- vale a dire, per l’Italia, di un movimento annuo di decine di mi¬ liardi — è un assurdo che può non risultare sol¬ tanto alla cecità degli economisti puri. I quali non sanno quel che si dicano quando affermano che 1 i- deale della vita economica sarebbe quella della più perfetta libera concorrenza. Se una Nazione è tale in quanto è Stato, la libera concorrenza, quale è concepita dagli economisti, non solo non è raggiun¬ gibile, ma è negata nel modo più perentorio. Per — 24 — conseguire que! presunto ideale bisognerebbe spez¬ zare 1’organismo. negare lo Stato e tornare al cozzo violento dell’anarchia di natura. 11 progresso di una Nazione, al contrario, è segnato dalla sua organi- cita sempre maggiore, e cioè dalla sempre più con¬ sapevole realtà dello Stato; il quale, in conseguen¬ za, tende a diventare sempre più immanente alla vita degli individui e sempre più costitutivo di ogni loro manifestazione. L’intervento dello Stato, in al¬ tri termini — se ancora d’intervento può parlarsi — è di fatto, e tende a diventarlo anche nella co¬ scienza comune, la realtà stessa della vita econo¬ mica. E se la scienza dell’economia auspica il trion¬ fo dell ideale opposto, è troppo palesemente fuori di strada. Allorché la Carta del Lavoro, dunque, dice all’articolo 9 che « l’intervento dello Stato nella pro¬ duzione economica ha luogo soltanto quando man¬ chi o sia insufficiente 1 iniziativa privata o quando siano in giuoco interessi politici dello Stato », parla, evidentemente, un linguaggio d’altri tempi. Se lo Stato interviene sempre, perché è sem¬ pre presente e i suoi interessi politici investono tutta la vita della Nazione con cui si identifica, è chiaro che tutta l’economia tradizionale deve spo¬ stare il suo centro di indagine e trasformarsi fin dalle fondamenta. Il suo problema era, infatti, quel¬ lo della libera concorrenza (economia individuale), e della convenienza o meno, in certi casi, dell’inter¬ vento statale (economia prevalentemente monopo* listica): oggi diventa quello delle forme statali del- l’intervento e della organizzazione dell’economìa, nazionale. 11 binomio di libera concorrenza e mo¬ nopolio non ha più significato, e i due termini si risolvono in uno solo, quello della unità organiz¬ zata della vita economica, in cui la stessa concor¬ renza viene disciplinata. Cade così l’argomentazione degli economisti, cbe affermano essere tutte le for¬ ine della vita economica riconducibili alle due sole ipotesi della libera concorrenza e del monopolio. La forma è unica ed è quella lìbera e monopolistica insieme, in un’unità tale per cui il concetto di li¬ bertà e quello di monopolio sono radicalmente Ira¬ sformati e resi inintelligibili in quanto distinti. Gli schemi non servono più perché non rispondono a nessuna approssimazione alla realtà, e sono anzi nella loro essenza opposti alla realtà. Liberi sono gli individui, ma nella Nazione, in questo colossa¬ le monopolio in cui la loro concorrenza si effettua: questa è la realtà a cui invano si opporrebbe il tradizionale dilemma. Né si creda di sfuggire a questa conclusione passando dall’economia nazionale a quella interna¬ zionale, poiché la Nazione non va concepita anti¬ storicisticamente come un’entità limitata dai suoi confini e, nei suoi rapporti con le altre Nazioni, alla stessa guisa dell’uomo di natura rispetto agli altri individui. La Nazione include in sé il mondo internazionale, e lutto ciò cbe costituisce la vita di questo mondo non ha altra sede appunto che nel¬ la Nazione, unità suprema di là dalla quale non esiste che l’unità astratta, perché non dialettica, del¬ l’umano genere. Il compito che si deve perciò pro¬ porre la scienza è, sì, la costruzione sistematica del- - 26 — 1 economia nazionale, nia intendendo questa come unità concreta ne] mondo internazionale, che non e, neppur esso, riconducibile alPideologia anarchi¬ ca del liberalismo, in quanto rientra nella discipli¬ na e nel sistema della Nazione. È al sistema che bi¬ sogna tener sempre fissi gli occhi, specialmente oggi che 1 organizzazione della vita economica sta in¬ cendo passi giganteschi e che, dinanzi al rapido pro¬ cesso di unificazione delle industrie, del commer¬ cio, dei mercati e delle banche, diventa sempre più anacronistico e irrisorio lo schematismo individua- listico della tradizionale economia pura. Riassumendo, possiamo ormai determinare i capisaldi della nuova economia, facendoli tutti de¬ rivare dal concetto fondamentale della statalità dì ogni fenomeno economico : 1) Subordinazione di ogni fenomeno econo¬ mico al fine statale (essenziale politicità o storicità dell’economia). 2) Interdipendenza dei fenomeni economici, considerata in funzione del fine statale ( sistematicità o organicità della vita economica). 3) Carattere pubblicistico della proprietà privata e della vita economica individuale. 4) Obiettività dei fenomeni economici data dall obbiettività del fine statale, e quindi loro intel¬ ligibilità scientifica, in contrapposizione alla sogget¬ tività dell individualismo (ofelimità). ■') Critica dei concetti di libera concorrenza — 27 — e monopolio, e affermazione di un’effettiva e più profonda libertà economica (negazione del liberi¬ smo anarchico e del vecchio statalismo burocratico). 6) Carattere internazionale della Nazione e unità essenziale del mondo economico. Questa Veconomia corporativa o senz’altro la economia. Poiché è bene intendersi una volta per sempre, ed escludere perentoriamente quel mostruo¬ so tentativo di concepire la scienza economica come una forma astratta, da adeguarsi a una qualunque delle infinite ipotesi economiche. L’ipotesi è nna sola e, cioè, quella interpretativa dell’effettiva realtà sto¬ rica: il resto non è che fantasia di puristi, abituati a scambiare le formule con la vita. La scienza dell’e¬ conomia non può essere che una, perché una è la vita ch’essa studia: e non ha bisogno dì aggettivi. Quando contrapponiamo l’economia corporativa a quella liberale o socialista o nazionalista, non inten¬ diamo dichiarare una nostra preferenza rispetto a questi possibili sistemi economici, ma vogliamo pro¬ prio affermare la scientificità della prima rispetto al carattere ideologico ed arbitrario delle altre: l’ag¬ gettivo corporativa , che noi aggiungiamo all’econo¬ mìa, ha il solo scopo di distinguere la vera dalla falsa economìa, e non un’economia da un’altra. Che poi essa si chiami corporativa e non altrimenti, vuol dire non ch’essa si identifichi immediatamente — e perciò in modo contingente — con l’ordinamento corporativo, ma soltanto che in questo ordinamen- — 28 — lo la consapevolezza delle sue verità si è resa più esplicita ed evidente. Che lo Stato sia costitutivo essenziale della vita individuale non è verità che si instauri col regime corporativo, né è limitata alla vita politica deiritalia di oggi : ma mai come nel¬ l’Italia di oggi questa verità è stata esplicitamente affermata : mai si è concepita la vita economica na¬ zionale come un’unità così saldamente organica. L’epiteto di corporativa non è dunque arbitrario, né menoma comunque la dignità della scienza a cui si applica oggi ai soli fini polemici contro il libera¬ lismo, il socialismo, il nazionalismo ecc. Poiché, se 1 economia corporativa è senz’altro l’economia, Io stesso non si può dire, ad esempio, di quella pre¬ sunta economia pura che è la quintessenza dell’eco¬ nomia liberale. A chi, seccato della qualifica di libe¬ rale attribuita al suo metodo scientifico, ha prote¬ stato di volersi porre al di là dei particolari indirizzi e di voler fare solo della scienza, oggi è possibile da¬ re una smentila categorica. E la smentita suona così: — fino a quando sulla prima pagina dei trattati di economia non figurerà, a guisa di postulato fon¬ damentale, il concetto di Stato, sarà vano parlare di scienza e sarà stolto negare il preconcetto seco¬ lare del liberalismo individualistico. La scienza, abbiamo detto, è una: e tutti gli indirizzi scientifici dal mercantilismo alla scuola fisiocratica e dal liberismo allo storicismo, al so¬ cialismo, al corporativismo non sono che i momenti del suo unico processo storicamente determinato. L economia corporativa vuol rappresentare soltanto lo sladio più avanzato del processo, in cui tutti i precedenti debbono risolversi trasvalutandosi. A chi fosse troppo preoccupato del pericolo di subordi- — 29 — ilare la scienza a fenomeni politici contingenti, pos¬ siamo rispondere che la politica non profana la scienza quando a essa ci s’avvicini con la fede dello scienziato e non con l’anima del politicante. TI pa¬ vido si ritrae per falso pudore, e nega l'obiettività della scienza col volerla troppo salvaguardare: il ricercatore spregiudicato non teme, invece, di fissar gli occhi nella realtà di cui viviamo, e di scoprire l’eterno nel contingente. II L’IDENTIFICAZIONE DI INDIVIDUO E STATO La difficoltà maggiore, che si è incontrata nel¬ la comprensione della tesi dell’identità di indivi¬ duo e Stato, è derivata generalmente dal non aver approfondito i concetti di individuo e di Stato che si ponevano a fondamento del rapporto di identifi¬ cazione. È chiaro che. prima di discutere sulla va¬ lidità di tale rapporto, occorre rendersi conto del significato dei termini che si confrontano, perché, se si suppone noto il significato stesso, si insiste evi¬ dentemente in quella concezione dell’individuo e dello Stato, che ha condotto, nello sviluppo storico del pensiero, airantinnmia da noi contestata. Stori¬ camente, vale a dire nel processo della attività spe¬ culativa come di quella pratica e politica, è certo che lo Stato si è configurato a guisa di un ente con¬ trapposto e sovrapposto all’individuo: e si è par¬ lato, quindi, di autorità di fronte a libertà, di sovra¬ nità di fronte a sudditanza, di arbitrio politico di fronte a interesse economico, e via dicendo. Lo Sta¬ to, insomma, era una sovrastruttura, sia pur neces¬ saria, della vita degli individui, e si esauriva nel compimento di particolari funzioni, dette appunto — 31 — statali. Ne derivava che lo Stato poteva individuarsi in determinati organi e in determinate persone, cui erano attribuiti determinati compiti, entro una sfe¬ ra esplicitamente circoscritta e non coincidente che in minima parte con la sfera d’azione degli indivi¬ dui. A questo Stato, così concepito, gli economisti negavano e negano tuttora la possibilità di un inter¬ vento benefico nella vita economica degli individui. Ed avevano ed hanno perfettamente ragione; così come hanno torto quegli altri economisti che, senza persuadersi del mutato concetto di Stato, accedono tuttavia ecletticamente all’opinione della possibi¬ lità benefica di un certo intervento statale nell’eco¬ nomia individuale. Se lo Stato trascende, sia pure ri¬ spetto a una zona soltanto, il campo d’azione del- l’individuo, esso non può non turbarne Tequilibrio ogni volta che vi porti un mutamento. Ammettere la possibilità di un intervento benefico, di un solo, di un transitorio, di un limitatissimo, del più pic¬ colo tra tutti gli interventi immaginabili, significa ammettere la possibilità che lo Stato alteri vantag¬ giosamente con quel suo intervento tutto il sistema generale dell’equilihrio economico della vita degli individui, e cioè faccia coincidere, non limitatamen¬ te all’oggetto del particolare intervento, ma nella totalità delle determinazioni, la propria realtà con quella degli individui. Se si vuol restare nell’ipotesi che Stato e individuo siano due realtà diverse, an¬ che solo parzialmente diverse, la conclusione logica non può essere che una, e precisamente quella del liberismo intransigente: lo Stato non deve interve¬ nire mai e per nessuna ragione; il suo intervento, implicando sempre un’alterazione dell’equilibrio na¬ turale, non può essere che nocivo. — 32 - Se non che la concezione storica dello Stato, che ha dato luogo a tali conseguenze nel campo del¬ la scienza economica, ha cominciato a modificarsi profondamente proprio quando, nella seconda metà del secolo XVIII, i classici dell’economia iniziava¬ no una sistemazione della loro scienza con la consa¬ pevolezza critica del carattere negativo di uno Stato trascendente. Sì che tutta la scienza dell economia si è venuta costruendo sul presupposto dell’antitesi di Stato e individuo, in funzione di quel concetto di Stato che rispondeva alla realtà storica anteriore al processo di trasformazione. E a poco a poco — quasi senza nessuna consapevolezza — si è giunti al paradossale risultato di uno svuotamento progressi¬ vo della scienza delFeconomia, svuotamento non do¬ vuto ad errore nella critica dello Stato trascendente, ma solo aU’illusione di credere ch’esso davvero esi¬ stesse e che esistesse perciò quell’individuo extra¬ statale, su cui la scienza aveva costruito il castello delle sue astrazioni. Il fondamento liberistico di tutta l’economia classica e della migliore economia contemporanea, e l’atteggiamento antistatale che l’accompagna, costituiscono certamente l’interna lo¬ gica e il principio sistematico di questa scienza: e possiamo aggiungere che, se lo Stato fosse quella realtà che gli economisti immaginano e se l’indivi¬ duo fosse quel soggetto economico che la scuola psi¬ cologica ha caratterizzato spingendo all’assurdo il concetto già implicito nelle teorie dei classici, la scienza dell’economia avrebbe raggiunto un grado notevole di perfezione, forse il più alto grado rag¬ giungibile sulla base di tali presupposti. Ma il guaio, o meglio la fortuna è che così quello Stato come qucll’individiio non esistono in realtà, e che col — 33 mancare dei presupposti si vanifica inesorabilmen¬ te tutla la costruzione faticosamente elaborata. È quell ìntimo anacronismo di principi e finalità che caratterizza la crisi della scienza economica con¬ temporanea, sia pure attraverso gli sforzi che da più parti si vanno facendo per superare -— in modo peraltro molto empirico — l'antinomia di cui si comincia ad avere coscienza. Né la colpa può at¬ tribuirsi completamente agli economisti, -se è vero che ancor oggi si stenta ad acquistare familiarità con i nuovi concetti fin nel campo più rigorosamen¬ te speculativo, e solo ìin'infima minoranza di gius- pubblicisti comincia a porsi con qualche precisio¬ ne problemi del genere. Tuttavia è tra gli economi¬ sti soprattutto che si nota la maggiore riluttanza ad occuparsi della questione, o addirittura l'ignoranza della sua esistenza : tra gli economisti che, per tra¬ dizione di specialismo scientifico, disdegnano di va¬ licare in qualsiasi senso gli arbitrari confini della loro scienza e credono di contaminare la purezza della economìa coordinandola con il processo della speculazione, della politica e del diritto. Si spiega perciò come essi possano tener fede dogmaticamen¬ te a concetti tanto controversi, accontentandosi di dar loro un significato empirico rispondente a pre¬ supposti teorici di altri tempi: si comprende infine come possa suonar loro strana, e anzi impertinente, la pretesa di chi chieda loro il significato dei con¬ cetti di Stato e di individuo. L’economista — essi rispondono — non pre¬ tende porsi e risolvere scientificamente questi pro¬ blemi; egli accoglie questi termini nel significato corrente e a tutti noto, e su essi costruisce i teoremi deH'economia. Che poi il significato corrente non 3 - Sunna — 34 — sia rigoroso e sia anzi suscettibile di critiche più o meno radicali, è questione cbe reconoinista non di¬ scute, perché relativamente indifferente alla sua scienza: a lui hasta richiamarsi con quei termini a una realtà di fatto riconoscibile facilmente da chiunque. ') E il ragionamento non farebbe una grinza se potesse esserci veramente un significato comune precisamente determinato dei concetti di Stato e di individuo, se, cioè, noi potessimo sul se¬ rio sostituire mentalmente a quelle parole una qua¬ lunque realtà di fatto a confini netti. Ma, al contra¬ rio, è facile accorgersi cbe. quando ciò si volesse fare con sincerità, ogni sicurezza vacillerebbe, e a poco a poco all’illusione della certezza subentrereb¬ be la certezza dell’illusione, i termini diverrebbero ambigui e la presunta realtà di fatto andrebbe allar¬ gandosi o restringendosi arbitrariamente fino a com¬ prendere tutto o a ridursi a un misero moncone. Sottigliezze — si obietterà ancora incredulamente, — questioni di lana caprina, da cui resta turbato soltanto chi è abituato a spaccare in quattro il ca¬ pello, ma che non possono preoccupare sul serio ehi guarda alla realtà nelle sue manifestazioni es¬ senziali: se tutti parliamo di Stato e c’intendiamo perfeLtamente, vuol dire che, in sostanza, sappiamo *) Questo è, in sostanza, l'appunto che mi fece il Gotitii nel eno (apporlo al Congresso di Bolzano (settembre 193(1). o Lo Sialo, si disse, non può intervenire in un dato momento, perché è presente sempre. Ma non bisogna prendere la parola intervento in senso di¬ verso da quello che ormai è di uso comune » (Il procedimento spe¬ rimentale dell’economia corporativa, in « Giornale degli econo¬ misti», otlohre 1930, pag, 8741. La risposta alle obiezioni del Gobbi dovrebhe risultare abbastanza chiara da lutto il contenuto di que¬ sto capitolo, che vorrei porre come pregiudiziale di ogni ulteriore discussione sulla validità dei principi della scienza economica. — 35 — tutti che cosa esso sia. o per lo meno che cos< m>i crediamo che sia. Ebbene, a rischio di apparire banali, abban¬ doniamo per un momento il terreno più propria¬ mente scientifico della discussione, trascuriamo cioè le attuali controversie dottrinarie, e scendiamo an¬ che noi a quel senso comune cui ci richiamano pe¬ rentoriamente alcuni economisti, quasi avessimo perso il contatto con la terra per la velleità di cor¬ rere inutilmente per i cieli. Scendiamo, dico, a ra¬ gionare all ingrosso e a determinare su per giù que¬ sto comunissimo concetto dello Stato: vediamo, in¬ somma, se è possibile giungere a una conclusione pralica qualsiasi, che ci autorizzi poi a rimanere fedeli a ciò che gli economisti dicono quando parla¬ no di Stato e individuo, di intervento, di libera concorrenza, di monopolio, ecc. Se vi perverremo, se potremo comunque pervenirvi, ogni ragione di dissenso sarà tolta, e ognuno potrà proseguire in pace il suo cammino; ma se, per avventura, ciò non fosse possibile, bisognerebbe pure che gli econo¬ misti si decidessero ad affrontare tutte le conseguen¬ ze e a mettere cioè in discussione tutti i principi della loro scienza. Tra le diverse risposte che potrebbero darsi alla domanda: «che cosa è lo Stato?», credo che un economista finirebbe col preferire quella che si ricollegasse al concetto di bilancio dello Stato: Stato è 1 ente il cui bilancio si chiama appunto bi¬ lancio dello Stato. E sarebbe ima risposta precisa, — 36 — inequivocabile., perfettamente individuata nell’or- ganismo di un sistema scientifico, sì cbe ogni ulte¬ riore discussione sulla sua legittimità dovrebbe ap¬ parire inutile. Ma se gli economisti danno allo Sta¬ to questo significalo ristretto di amministrazione centrale, non è certamente a esso che si limitano quando parlano di intervento statale nell’economia individuale. Nessuno infatti crede di dover distin¬ guere l’intervento dello Stato strido sensu da quel¬ lo, ad esempio, della provincia, o del comune, o di un ente pubblico in genere: e nessuno pensa a un rapporto necessario tra intervento politico e bilan¬ cio dello Stato quando si stabilisce, ad esempio, lina riduzione del numero delle osterie. Ci deve essere, dunque, un altro criterio per determinare i confini di quella realtà cbe gli economisti chiamano Stato, e studiano in rapporto ai fenomeni della libera concorrenza. A tal riguardo, oggi Stato in Italia sono senza dubbio anche l’organismo corporativo e il partito nazionale fascista, che di gran lunga tra¬ scendono la particolare vita del bilancio statale, e da cui nessuno potrebbe senza arbitrio prescinde¬ re per spiegarsi l’attuale vita economica della na¬ zione. E dunque lo Stato si allarga necessariamen¬ te, anche se ci limitiamo a questa prima considera¬ zione empirica del problema, daH’ammiiiistrazione centrale a quella periferica, da pochi organi deter¬ minati a una molteplicità indefinita di poteri rego¬ latori. Sì che l’economista deve tornare a porsi il problema da capo e andare alla ricerca di un crite¬ rio comprensivo di questa più vasta realtà cui deve riconoscere la qualifica di Stato. Non più tecnicamente rilevabile attraverso un particolare fenomeno economico come quello del - 37 — bilancio statale, la distinzione di Stato e individuo deve a questo punto trascinare l’economista di là dai confini della sua scienza, e indurlo a ricercare nel campo del diritto e della politica quel concetto di Stato che gli è necessario per costruire scientifi¬ camente una teoria degli effetti economici dell’in¬ tervento statale. Lo sconfinamento è, al solito, in gran parte inconsapevole e la soluzione del proble¬ ma resta, nella letteratura della odierna scienza eco¬ nomica, affatto indeterminata ed equivoca. All’in- grosso si può dire che l’economista contrappone Stato e individuo intendendo contrapporre governo e governati. E anche questa distinzione potrebbe reputarsi precisa e perentoria, se fosse possibile in realtà individuare non arbitrariamente il concetto di governante; se fosse possibile, in altri termini, distinguere di fatto i governanti dai governati, os¬ sia la volontà e 1 azione economica dei governanti dalla volontà e dall’azione economica dei governa¬ ti. Se lo Stato, in effetti, è sinomino di governo, l’in¬ tervento statale non potrà concepirsi se non come quello esercitato da un’autorità governativa, ma, anche qui, nessun economista può essere tanto in¬ genuo da identificare tale autorità con la persona del sovrano e con il gabinetto. Anche qui è neces¬ sario scendere dal governo strido sensu al potere governativo esteso a tutte le autorità centrali e pe¬ riferiche, da quelle dei ministri a quelle degli enti locali, delle federazioni, dei sindacati, del partito, ecc. E il problema di nuovo si allarga in modo in¬ definito, senza che alEeeonomia sia possibile em¬ piricamente raggiungere i limiti dell’attività gover¬ nativa e degli uomini che la impersonano. Di gerar¬ ca in gerarca si scende tutta la scala dell’ organismo 38 — sodale, senza die sia mai possibile arrestarsi e tro¬ vare sul serio l’individuo che sia governato senza governare. Quando anche si sia scesi fino al fondo della scala e si sia raggiunta la massa degli indivi¬ dui che sembra non abbia altro compito sociale se non quello di lavorare e di obbedire, si deve pur riconoscere, e lo Stato moderno lo riconosce di fat¬ to, che la massa stessa si articola, si eleva, si spiri¬ tualizza e fa cioè sentire la sua volontà. In quanto essa è qualche cosa nel mondo sociale, è azione, e cioè governo, così come lo stesso ordinamento giu¬ ridico riconosce allorché a essa affida il compito di votare, vale a dire di porsi a tu per tu con la supre¬ ma autorità governativa, e riconoscerla o discono¬ scerla, darle o toglierle il governo, e quindi condi¬ zionare e disciplinare tutta l’azione governativa. Governo e governati vengono perciò a fondersi nel circolo della vita polìtica, e gli ultimi toccano i pri¬ mi, in un organismo unico armonicamente costitui¬ to. Quest’organismo, che tutti li comprende e che si esprime in una volontà unica, è appunto e sol¬ tanto lo Stato, con il quale l'individuo, in quanto animale sociale, non può non coincidere assolu¬ tamente. A questo nuovo concetto e a questa nuova real¬ tà dello Stato, per cui l’antinomia di Stato e indi¬ viduo si è venuta via via risolvendo, si è pervenu¬ ti a traverso un processo storico che qui non è il caso di illustrare in modo particolare. Basti dire ch’esso è il processo dello spirito umano, del pen¬ siero del secolo XÌX e dei primi decenni del XX, 39 — della critica della vecchia trascendenza e dell’ul- tima sua forma concretatasi neìl’individualisino il¬ luministico : è il passaggio del liberalismo dalla sua forma irrazionale e anarchica a quella organica e disciplinata, è il trasformarsi dell’opposizione più o meno radicale all’autorità e alla realtà dello Sta¬ to nel riconoscimento del suo universale valore im¬ manentistico. Naturalmente le fasi dello sviluppo non si possono individuare con facilità e anzi di esse non è dato aver coscienza, se non quando si sia pervenuti alla piena comprensione dei risultati rag¬ giunti: sono fasi riconoscibili solo dall’occhio esper¬ to del cultore di studi storici e filosofici, che sa ri¬ salire alle fonti del nuovo orientamento speculati¬ vo e determinarne la necessità logica, ragione del- rineluttabile shocco nella vita pratica. E allo sto¬ rico solo è, quindi, consentito di volgersi con piena consapevolezza alla presente realtà politica per adoperare in senso non occasionale termini ed espressioni relativi a un’esperienza anch’essa non occasionale. Quando si parla, non ciarlatanesca¬ mente, di economia corporativa, non s’intende par¬ lare né di una speciale forma di economia relativa a una contingente esperienza politica, né di una esperienza politica arbitraria da ordinare scientifi¬ camente. S’intende, invece, riconoscere storicamente e scientificamente un ulteriore sviluppo della scien¬ za economica, ossia l’erroneità di certi suoi presup¬ posti e la necessità di sostituirli con altri: e s’inten¬ de, insieme, riconoscere la razionalità di uno svi¬ luppo politico, dovuto agli stessi motivi spirituali dello sviluppo scientifico e tutt’uno con esso. Stato corporativo ed economia corporativa sono, in altri termini, frutti imprescindibili dello spirito moder- — 40 — no ed espressioni del massimo livello da esso rag¬ giunto : qualunque sia la forma clic verrà assumen¬ do 1 idea eorporativa, è eerlo che essa, per il su¬ periore concetto di Stato che rappresenta, informe¬ rà tutta la scienza e la politica deH’avvenire. Ma perché la previsione non riesca fallace è necessario saper discernere bene ciò che vi ha di essenziale nel movimento corporativo, e non con¬ fondere la sua realtà positiva con le particolari for¬ me, con i molteplici tentativi e anche con le inevi¬ tabili deviazioni della complicata prassi politica. Il che vuol dire che non bisogna considerare i fatti nella Ioto immediatezza indistinta, bensì valutarli alla stregua di un criterio storico che ne spieghi la necessità logica. Se essi sono frutto della storia non possono intendersi se non attraverso la storia, os¬ sia attraverso lo sviluppo del pensiero che nella storia si esprime, e debbono essere avviati verso quegli ulteriori ideali che sorgono dalla consapevo¬ lezza storica e scientifica. Allora l’idea corporativa può venire sul serio individuata e resa intelligi¬ bile, cioè elevata alla considerazione scientifica, non a titolo di nuovo oggetto di studio, ma come ra¬ gione interna dello stesso processo scientifico. Allo¬ ra l’idea corporativa esce dalla vaga formulazione propria di un’esperienza politica in rapidissimo movimento e si riconosce in una verità storica che è frutto di una secolare elaborazione dottrinaria e pratica : l’identità di Stato e individuo. Ora, se guardiamo all’ordinamento corporati¬ vo da questo superiore punto di vista, dobbiamo convenire che il suo effettivo significato storico sta appunto nel tentativo di rendere sempre più con¬ creta l’organicità statale della vita della nazione, e 41 — cioè di rendere lo Stato sempre più immanente alla vita dell’individuo. Nel regime corporativo lo Stato è destinato a perdere la caratteristica di un ente tra¬ scendente, a non contrapporsi, cioè, agli individui che sono soggetti alla sua autorità, ma ad estendere via via i propri confini scendendo dal vertice alla base e ricomprendendo senza residui tutta la realtà sociale. L’autorità dello Stato non è più una disci¬ plina che si impone ai cittadini dall’esterno, ma è la stessa disciplina con cui lo Stato si organizza nel suo interno: poiché nella corporazione si incontrano di fatto Stato e individuo, e reciprocamente si tra¬ sformano in un rapporto dialettico che dà significato a entramhi i termini. Cosi nel diritto come nell’eco¬ nomia rincontro, naturalmente, si esprime con la identificazione progressiva del pubblico e del pri¬ vato, e basta guardarsi intorno per convincersi del¬ la radicale e rapidissima trasformazione die questi concetti vanno subendo in tutti i rapporti della vita sociale. Parlare oggi, ad esempio, di proprietà pri¬ vata, senza riconoscere anche ad essa un sostanziale carattere pubblicistico, è un assurdo che risulta evi¬ dente a ogni giurista non fossilizzato. E, se dal con¬ cetto base della proprietà scendiamo agli altri infi¬ niti che a esso si ricollegano, tanto dal punto di vi¬ sta giuridico quanto da quello economico, è facile ac¬ corgersi che tutti acquistano un significato statale al quale nella realtà non possono sottrarsi. Costi, prez¬ zi, salari, iniziative, imprese, banche, negozi, com¬ merci, ecc., tutto è ormai, non solo implicitamente come sempre, ma anche con progressiva consapevo¬ lezza ed esplicita volontà, subordinato a una disci¬ plina statale di cui sarebbe assurdo voler segnare i confini. Ed è proprio questa impossibilità che or- mai rende chiaro, anche sul terreno della realtà politica, il progressivo svuotamento delle locuzioni tanto abituali nella letteratura della vecchia eco¬ nomia. Che cosa può mai significare oggi intervento statale nell economia individuale, quando si è reso esplicito anche ai più ciechi che non esiste alcun atto economico che non sia condizionato dall’or- ganisnio statale? Finché lo Stato si personificava in un ente e si esauriva nell opera di una burocrazia, esso poteva intervenire in una realtà che era fuori dell ente e della burocrazia: ma oggi che Io Stato non è, neppure in apparenza, un ente, né si limita a una huroerazia, perché si estende attraverso la vita sindacale a tutti gli individui, oggi finalmente è scomparso il soggetto stesso dell’intervento facendo scomparire con sé tutte le proprie particolari ma¬ nifestazioni. Per chi continuasse a sorridere scetticamente sarà opportuno portare un esempio molto noto: quello del calmiere. Non so se molti hanno riflet¬ tuto sulle vicende che ha subito il calmiere in Ita¬ lia in questi ultimi anni: a chi non lo avesse fatto e si domandasse 6e oggi in Italia esistono tuttavia dei calmieri, dovrebbe apparire chiara una sola ri¬ sposta e cioè che oggi in Italia la parola calmiere non ha più significato, è diventata anacronistica e ha seguito la sorte di quella concezione politica ed economica che il fascismo viene liquidando. An¬ cora fino a qualche anno fa si parlava di bardature economiche e della necessità di sopprimerle, an¬ cora si contrapponeva l’intervento alla libertà e si discuteva quindi sulla legittimità o meno dei cal¬ mieri. Oggi la questione è superata, non risolta né nell’uno né nell’altro senso, ma vuotata di conte- — 43 — mito attraverso la consapevolezza acquisita dell’as¬ soluta unità della vita economica italiana. Che si¬ gnificato dar piu alla parola calmiere quando in po¬ chi giorni prezzi e costi sono mutati in tutto il paese in virtù di una sola parola d’ordine? Quando con¬ tratti collettivi, stipendi, salari, prezzi di vendita all’ingrosso e al minuto, ecc., sono tutti legati da una ferrea disciplina nazionale? Che non è, si compren¬ de bene, una disciplina arbitraria e quindi antigiu¬ ridica e antieconomica, ma, almeno nella sua realtà migliore, il disciplinarsi stesso, e dairinterno, della vita economica d^l paese vista in funzione di un unico fine statale^ È lo Stato che coincide con l’indi¬ viduo e lo risolve nella propria organicità : è l’indi¬ viduo che vede nello Stato la sua ragion d’essere e lo risolve nella propria volontà. La tesi dell'identità di Stato e individuo, che teoricamente e storicamente si è venuta delineando, può ancora andare incontro — come si è già accen¬ nato — a una obiezione di carattere empirico, fon¬ data sulla constatazione di un reale contrasto tra l’attività e le finalità economiche dell’individuo e quelle dello Stato. È vero — ci si può opporre e ci si oppone in effetti da più parti — che in teoria, ossia, idealmente. Stato e individuo coincidono, ma nella concreta vita sociale è pur vero che l’opposizione o almeno la differenza c’è, e con il suo solo esserci non può non smentire la teoria. O voi dunque — si continua — vi contentate di restare in un’atmosfera — 44 — di pura idealità io cui la teoria si esaurisce com¬ piutamente in se stessa, e allora potrete avere an¬ che ragione: o voi invece volete che la teoria si ade¬ gui alla realtà e serva ai suoi fini, e allora dovete riconoscere che la vita è radicalmente diversa da quella che voi andate teorizzando. Nel primo caso fate una metafisica, nel secondo lina cattiva economia. Prima di rispondere esplicitamente a questa obiezione, sarà opportuno ricercare le ragioni effet¬ tive del contrasto indubbiamente esistente e sempre risorgerne nella vita sociale tra fine pubblico e fine privato. Tale contrasto — diciamo anche noi — c’è e sarebbe stolto negarlo o porlo comunque in dub¬ bio, tanto evidente esso è nella vita di ogni giorno e nella coscienza intima di ognuno di noi. Se diminui¬ scono gli stipendi e io sono uno stipendiato, posso logicamente convincermi della necessità e quindi dell’utilità economica nazionale della riduzione, ma, se mi fosse lecito sottrarmi alla legge comune, e ot¬ tenere che il mio stipendio sfuggisse al provvedi¬ mento generale, con molta probabilità sarei lieto dell’eccezione e agirei perché essa si verificasse. Il che vuol dire che in realtà tra il mio fine indivi¬ duale e quello stalale c’è un contrasto esplicito e che l’agire economico mio non è identificabile con quello dello Stato. Ma se così è, non bisogna tuttavia arre¬ starsi al riconoscimento e occorre spiegarsi la con¬ traddizione Ira ciò che sarebbe logico e ciò che è reale. E basta appena porre il problema in questi termini per accorgersi che la ragione dell’indiscu- libile fatto è appunto contraria alla logica, è essen¬ zialmente. profondamente illogica. Il contrasto, in altri termini, c’è, ma è dovuto a una deficienza, a — 45 — una negatività; esso rappresenta il lato patologico dell’effettiva realtà sociale, ossia l’elemento disgre¬ gatore e non quello unificatore della società. Se poi volessimo renderci conto della radice del male e ricercare in'quale dei due termini del rapporto Stato-individuo si verifica la ragione del contrasto, dovremmo riconoscere che non a uno solo di essi può limitarsi la colpa, poiché a fon¬ damento di entrambi è sempre una attività umana suscettibile di degenerare nelFegnismo antisociale, l’identità si spezza o almeno si attenua ogni volta che l’individuo si fa diverso dallo Stato: ogni volta insomma che lo Stato diventa sopraffattore o che l’individuo diventa ribelle. Alcune brevi osserva¬ zioni potranno chiarire il duplice modo del sorgere dell'antitesi. E cominciamo dallo Stato, contro il quale ge¬ neralmente si appuntano le critiche degli economisti, insofferenti del contrasto soltanto quando l’azione statale ne sia la fonte. Chi può negare un qualsiasi fondamento alle critiche dei liberisti contro gli in¬ terventi dello Stato nel campo dell'economia indi¬ viduale? E se non è possibile una negazione pe¬ rentoria, come si spiega il verificarsi di interventi dannosi e antieconomici? Per rispondere in modo scientificamente esatto bisogna convenire che l’azio¬ ne economica statale è nociva soltanto quando lo Stato non è veramente tale, e cioè quando rinnega la sua realtà universali zzatrice e si parti eoi arizza in determinati individui o in una determinata classe. Il modo, poi, in cui il particolarizzarsi dello Stalo può effettuarsi è duplice, a seconda che lo Stato si differenzia dalla nazione per ignoranza o per inte¬ resse. Nel primo caso lo Stato — o, per non equi- — 46 vocare, il governo in senso stretto, o, meglio ancora, gli individui che lo impersonano — interpreta ar¬ bitrariamente la volontà della nazione e agisce in senso antieconomico perché rompe l’organismo so¬ ciale, imponendo una volontà affatto individuale, disgregatrice di quella universale. È il governante che vuole agire per lo Stato, ina che in effetti opera contro lo Stato per l’incapacità di dare valore uni¬ versale alla propria volontà. Nel secondo caso, in cui il governante agisce per interesse proprio, non solo manca la capacità di universalizzarsi e di assurgere veramente a Sta¬ to, ma c è addirittura la volontà di particolarizzatsi anteponendo dolosamente la propria individualità allo Stalo. È il caso del tiranno o della classe diri¬ gente che abbassa la nazione a strumento dei propri fini particolari. Ora, è chiaro che tanto nel primo quanto nel secondo caso la tesi dell’identità d’individuo e Stato, lungi dall essere scossa e compromessa, è lumino¬ samente confermata nella sua assolutezza. Il duali¬ smo infatti è possibile in entramhi i casi non per la contemporanea esistenza di due realtà distinte che sarebbero l’individuo e lo Stato, nia per la inesi¬ stenza di una vera volonlà statale. Sono individui (Stato) che si contrappongono a individui (sudditi) in un contrasto anarchico di fini particolari: l’unità di individuo e Stato non può effettuarsi, perché inanca quella realtà universale in cui i due terniini debbono incontrarsi e sintetizzarsi; manca — rigo¬ rosamente parlando — lo Stato. E l’individuo si oppone allo Stato non perché veda in esso uno vo¬ lonlà e un fine universali contrastanti con la propria volontà particolare, ma solo perché vi scorge una — 47 volontà anch essa particolare che non ha alcuna ragione intrinseca di prevalere. Queste stesse osservazioni, fatte per dimostrare 1 origine patologica del dualismo di Stato e indivi¬ duo, valgono, presso a poco negli stessi termini, per il caso che la colpa di esso debba attribuirsi all’in¬ dividuo. È vero che 1 individuo spesso concepisce il proprio fine e il proprio interesse come contrastanti con quelli dello Stato, ma la ragione va trovata an¬ che qui o nell'ignoranza del valore del fine statale o nella volontà di sopraffare lo Stato abbassandolo a strumento del proprio interesse particolare e vio¬ lentando la volontà degli altri individui. In entram¬ bi i casi la sua condotta non si spiega con l’esistenza di due realtà distinte: individuo e Stato, ma solo con la negazione di uno dei due termini. È rindividuo che non riconosce lo Stato. Se per poco lo riconosces¬ se, se ne ritenesse giustificata l’esistenza e lo sentisse come valore da difendere, diverrebbe sua preoccupa¬ zione quella di conformare la propria volontà alla volontà dello Stato, di coordinare cioè il proprio mondo con quello dello Stato in un'unità superiore in cui i due termini si risolvessero. E insomma an¬ cora una volta si deve concludere che se di Stato può propriamente parlarsi, se lo Stato non è un nome ma una realtà effettiva, esso non può che coincidere con l’individuo. L’antinomia sussiste e sempre sussisterà, ma come il male nel processo dello spirito, vale a dire come la volontà di negare ciò che ha valore uni¬ versale, di sopprimere o di menomare lo Stato. Forse neppure dopo l’analisi del contrasto tra Stato e individuo possono ritenersi definitivamente combattute le obiezioni che si fanno alla tesi della identità dei due termini. Ebbene — ci si potrebbe ancora dire — sia pur giusto quanto voi sostenete e sia pur vero che il contrasto denota soltanto la man¬ canza o la menomazione della realtà dello Stato, ma intanto, comunque, il contrasto c’è ed è fonda- mentale, sì che da esso non è lecito prescindere, sen¬ za abbandonare la realtà concreta e smarrirsi dietro un utopistico ideale. Noi dobbiamo fare la scienza della vita quale essa storicamente ci si presenta, e non quella di un mondo astratto, fosse anche il più celestiale dei mondi possibili. A evitare ogni timore di tal sorta potremmo richiamarci al carattere radicalmente storicistico del nostro assunto: nessuno più di noi può aver l’in¬ tenzione di aderire alla realtà e di trovare in essa e soltanto in essa la norma scientifica. E perciò sarà opportuno dichiarare senz’altro perentoriamente che nessuno più di noi è convinto deH’esistenza del contrasto; che nessuno più di noi è disposto a rico¬ noscere l’impossibilità dell’eliminazione totale, sia pur fantasticata nel più lontano futuro, del contrasto stesso. L’antinomia c’è e sempre risorgerà, perché essa è nella dialettica della vita, sì che sopprimerla davvero per sempre significherebbe sopprimere con essa la vita. La quale non è perfezione ma processo I ; di perfezionamento, e perciò non identità statica dì individuale e universale, vale a dire non conquista definitiva del valore, ma sforzo continuo di adegua¬ mento dell’individuale all'universale, ossia conqui¬ sta di valori sempre più alti. Per adeguarsi allo Sta¬ to l'individuo deve vincere se stesso, superare la propria particolarità, dominare gli impulsi, rinun¬ ciare all’arbitrio, disciplinarsi insomma attraverso una serie di sforzi, in cui il dualismo riaffiora continuamente e non può mai dirsi risolto per intero. Ma se questa è legge di vita, anzi la vita stes¬ sa nel suo svolgimento, occorre poi saper distin¬ guere entro il processo i due termini dialettici e non confondere il negativo con il positivo. L’individuo è veramente tale, è cioè una realtà positiva o un valore spirituale solo per quel tanto che riesce a universalizzarsi nello Stato: per quel tanto invece per cui resta al di qua dello Stato egli è non valore, irrazionalità, mero arbitrio disgregatore della real¬ ta sociale; è particolarità chiusa in se stessa e inca¬ pace di divenire comunque termine di rapporto, lira, è chiaro che un soggetto il quale sfugga alla possibilità di un rapporto con gli altri soggetti — se non sfuggisse, la sua particolarità sarebbe con ciò «lesso superata, e quindi l’ipotesi negata — è asso¬ lutamente negativo, ossia assolutamente inintel¬ ligibile. Volerlo considerare oggettivamente, fa¬ cendolo assurgere a contenuto di scienza, è im¬ presa tanto disperata e assurda, quanto quel¬ la di voler fare scienza dell irreale: e purtroppo in questa assurda fatica si è cimentata finora la scienza dell’economia per quel tanto per cui ha vo¬ luto tener fede ai suoi presupposti e assumere veste ^ • SniJTtì 50 — sistematica. 11 così detto homo aeconomicus è ap¬ punto l’ipotesi astratta dell’individuo visto, non in un particolare aspetto della sua attività di uomo — come erroneamente è stato ritenuto dagli econo¬ misti —, bensì nella mera negatività del soggetto considerato come particolare. Esso, dunque, non è un’ipotesi scientifica — per astratta cbe la si vo¬ glia pensare — ma proprio l’ipotesi negativa della scienza: se esistessero di fatto gli homines aecono¬ mici, il loro agire, per definizione, non sarebbe su¬ scettibile di sistemazione scientifica. Per quel tanto, invece, per cui l’uomo entra in rapporto con gli altri e supera la propria parti¬ colarità nell’opera di collaborazione, per quel tanto appunto esso diventa intelligibile e logicamente considerabile. La sua azione trascende, infatti, l’ar¬ bitrio e si razionalizza, il suo procedere si discipli¬ na secondo norme determinate e la sua soggettività si risolve neH’organismo della vita sociale, nello Stato. Per quel tanto, insomma, per cui individuo e Stato si identificano, il soggetto economico — In Stato cbe è individuo o l’individuo che è Stato — diventa una realtà positiva, e l’azione economica diventa suscettibile di considerazione scientifica. O si fa scienza e si riconosce l’identità sostanziale dei due termini, o si ipostatizza l’individuo consideran¬ dolo positivo nella sua particolarità e si rinuncia alla scienza. Ogni via di mezzo è fatalmente desti¬ nata all’equivoco e all’errore. A illustrare l’argomentazione potrà forse valere un esempio tratto da altre discipline: la gramma¬ tica o la sintassi. Sono discipline cbe ci indicano le leggi del parlare e dello scrivere; leggi non fis¬ sate arbitrariamente, ma ritrovate nella realtà di coloro die parlano e scrivono. Se non che, così co¬ me nel rapporto tra individuo e Stato nella vita economica, anche qui l’individuo non si adegua sempre all universale della legge e comunemente sgrammatica. Anche qui il parlar secondo gramma¬ tica è un ideale che di fatto non è mai raggiunto, né sarà mai raggiunto; eppure a nessuno viene in mente di fare la grammatica dell’individuo e di porre a fondamento di essa l’arbitrio di parlare co¬ me si desidera. Se si vuol fare scienza occorre pur considerare l'elemento positivo e non quello nega¬ tivo: occorre cioè determinare l’universale in cui gl'individui convengono e non il particolare che non riescono a superare. Ora, la scienza deH’economia ha mirato proprio a fare la grammatica dell’indivi¬ duo, e, quando non è stata arrestata lungo la china dalla forza imperiosa della realtà, è precipitata ad¬ dirittura nell unica conseguenza possibile, quella dell ideale della libera concorrenza, che, mante? nendo ancora il paragone, vai quanto l’ideale del lihero parlare, ossia del parlare senza gram¬ matica. Ma potrebbe forse osservare a questo punto I economista a fondo positivisteggiante — noi non vogliamo indicare norme di vita. Noi vogliamo, cioè, indicare nella libera concorrenza non un ideale economico, ma un ipotesi economica : se si raggiun¬ gesse I ideale della lihera concorrenza quali feno¬ meni si verificherebbero? — ecco il problema. Eb¬ bene, rispondiamo ancora una volta, l’ipotesi non ha senso come non avrebbe senso lo sforzo del gram¬ matico che volesse studiare la grammatica di un ipotetico paese in cui ognuno parlasse un linguag¬ gio proprio. 0 la libera concorrenza ha una qual- siasi disciplina e si compone nella vita statale, e al¬ lora si può analizzare entro l’ambito di tale disci¬ plina; o la libera concorrenza è davvero l’incontro irrazionale di soggettività particolari, e allora non può essere cbe abbandonata a se stessa. Nelle osservazioni che precedono si è cercato di dare un concetto preciso della tesi dell’identità di individuo e Stato, e di mostrarne il carattere sto¬ ricistico, che la pone non a fondamento di una qual¬ siasi opinione scientifica, bensì come principio in¬ formatore necessario della nuova scienza economica, in quanto la si renda adeguata al livello speculativo e politico della vita contemporanea. A quali conse¬ guenze il nuovo principio conduca nella costruzione sistematica dell’economia non è possìbile illustrare se non costruendo appunto la nuova scienza; tutta¬ via deve già a questo punto risultar chiaro che le conseguenze non possono essere di carattere acces¬ sorio o particolare, ma tali da trasformare radical¬ mente la fisionomia della dottrina economica. Spo¬ stare il soggetto economico daWhomn cecoiwmicus, ossia dall’individuo particolare, all’individuo visto nella sua identità con lo Stato, significa mutare nb imis i concetti di valore, di utilità, di benessere, di bene economico, di ricchezza, di libera concorrenza, di monopolio, di intervento statale, ecc. : di tutti i concetti fondamentali, cioè, dell’economia quale si è venuta costruendo da secoli. Sarà una trasfor¬ mazione lunga e faticosa, e tanto più ardua quanto — 53 — piu ci si andrà avvicinando alla trattazione dei prò- blem, particolari, in cui è facile smarrire la coscien- za c ei presupposti e degenerare in un falso tecnici¬ smo. Ma sarà una trasformazione assolutamente ne- cessarla, alla quale converrebbe che aprissero fin da ora gli occhi quegl, economisti che si cullano tutta- via nella illusione di possedere leggi e teoremi di inoppugnabile certezza. BENESSERE INDIVIDUALE E BENESSERE SOCIALE Uno dei problemi fondamentali dell’economia, in cui la tesi dell’identità di individuo e Stato può Irovare la conferma del suo valore critico e rico¬ struttivo, è certamente quello del benessere. Preoc¬ cupazione costante della scienza è stata la ricerca delle condizioni necessarie per il raggiungimento del massimo benessere individuale e del massimo benessere sociale, e a questo supremo fine si può dire siano subordinate tutte le particolari teorie e indagini degli economisti, anche quando essi ri¬ pudiano come antiscientifico il concetto di disci¬ plina normativa. Se essi confrontano, infatti, le di¬ verse ipotesi economiche e ne studiano, sia pure astrattamente, le peculiari conseguenze, debbono avere, per il fine stesso che si propongono, un cri¬ terio di confronto, e debbono poter esprimere un giudizio comparativo di valore (economico). Vero è che Feconomista, a cui oggi si domandi se sia mi¬ gliore il regime di libera concorrenza o quello di monopolio, risponde di non potersi pronunziare in merito dovendosi limitare scientificamente a espor- — 55 — re 1 andamento dei fenomeni economici nei due casi indicati, ma è pur vero che tali fenomeni — presi almeno a uno a uno, — non possono chiarirsi e determinarsi se non in funzione di un concetto quantitativo (più o meno utile, maggiore o minore reddito, aumento o diminuzione della produzione, ecc.) che è implicitamente valutativo o normativo. Si potrà non concludere in favore dell’uno o del- 1 ahro regime, ma ciò dipenderà esclusivamente dal¬ l’impossibilità di sommare con esattezza tutti i prò e tutti i contro delle diverse ipotesi, non dal¬ la rinuncia a determinare i singoli prò e i sìngoli contro. Così, quando l’eoononiista afferma che la moneta cattiva scaccia la buona, condan¬ na, limitatamente al fenomeno preso in esame, la emissione di moneta cattiva, anche se poi, tenendo presenti altri fenomeni, riconosce che in determi¬ nati casi l’emissione di moneta cattiva possa essere necessaria. E deve allora risultare chiaro che la rinunzia dell economista a far diventare normativa la sua scienza va attribuita unicamente all’incapa¬ cità di una visione sistematica dei fenomeni eco¬ nomici e all impossibilità di decidersi fra regimi economici non bene determinati in tutte le conse¬ guenze. Un’economia veramente sistematica, seb¬ bene fondata su un principio affatto negativo, era 1 economia rigorosamente liberistica, che assumeva a fondamento logico della scienza la libera concor¬ renza e vedeva in essa l'ideale normativo della pras¬ si politica. Ma quando la negatività del principio si è andata a poco a poco rivelando anche ai più orto¬ dossi, il rigore sistematico si è affievolito e la scien¬ za è scivolata inavvertitamente nel frammentari¬ smo di indagini contradditorie. La ricerca è diven- — 56 — tata più complessa e meno dogmatica, e in tal senso sì è accostata maggiormente alla vita e alle esi¬ genze dello storicismo, ma, per l'incapacità di domi¬ nare il mondo in la] guisa allargato, è caduta in un relativismo scettico scientificamente disorganico e praticamente inutile e dannoso. Si che, se oggi ci 6Ì volgesse intorno e si domandasse agli economisti quale sia la strada da percorrere per giungere al massimo benessere individuale e a quello sociale, non si potrebbero ascoltare che risposte monche, indeterminate e, peggio ancora, evasive. Gli uni ci direbbero che il problema riguarda la distribu¬ zione e non la produzione, e tenderebbero perciò a convertire il problema economico in un proble¬ ma di politica economica, per lavarsene le mani e rimettersi al prudente arbitrio delluomo polìtico; allri ci risponderebbero che la soluzione teorica è sempre quella della lihera concorrenza, la quale in aslratto garantisce il massimo di ofelimità indivi¬ duale e SQciale: ma poi aggiungerebbero che tale soluzione teorica ha bisogno, per una quantità di ragioni determinabili o indeterminabili, di correttivi più o meno radicali; altri ancora distinguerebbero tra benessere individuale più propriamente econo¬ mico e benessere sociale, determinato, invece, da motivi in gran parte di natura extraeconomica : al¬ tri, infine, si smarrirebbero nella casistica del con¬ tingente e accumulerebbero risposte su risposte, senza venire a capo di nulla. Ma tutti poi eviterebbero di affrontare o sommariamente ri¬ solverebbero il problema fondamentale di determi¬ nare sul serio il concetto di benessere individuale e sociale, e quindi tutti si porrebbero nell’impos¬ sibilità di dare una risposta scientificamente rigo- — 57 — rosa. Poiché, al solito, l’incapacità degli odierni eco¬ nomisti di dar veste sistematica alla loro scienza sta proprio nel sorvolare sui presupposti della costru¬ zione e nell impelagarsi in una congerie disastrosa di questioni oziose o addirittura inesistenti, smar¬ rendo la nozione stessa del problema che pur si vuole affrontare. E perciò ancora una volta occorre fermarsi al limitare, e domandarsi con precisione che cosa vuol dire benessere individuale, che cosa benessere sociale, e che cosa infine il rapporto tra le due specie di benessere. Vediamo anzitutto quale significato hanno pre¬ teso di dare e quale significato hanno effettivamen¬ te dato al concetto di benessere gli economisti indi¬ vidualisti o liberali, nel tentativo più sistematico da essi compiuto per la soluzione di questo pro¬ blema. Vogliamo riferirei in particolar modo alla interpretazione soggettivistica del concetto di uti¬ lità, e quindi alla cosiddetta ofelimità massima indi¬ viduale e statale. Credo che, anche limitando a que¬ sta teoria la nostra indagine critica, nessun econo¬ mista vorrà accusarci di unilateralità, perchè nessu¬ no potrebbe sul serio affermare resistenza nella scienza economica contemporanea di una conce¬ zione più comprensiva del problema in esame. Con il concetto di ofelimità la teoria classica dell economia individuale ha raggiunto il massimo rigore che le era consentito. Se il soggetto econo¬ mico è 1 individuo singolo con finalità proprie estra- nee a quelle degli altri individui, la nozione oggetti¬ va di utile va necessariamente cangiata in quella soggettiva di ofelimo: nessuno potrà affermare in astratto Futilità di un bene, perché beni per se stessi utili non esistono, essendo la loro utilità in funzione dei gusti e dei relativi bisogni degli individui, L u- tilità di un bene varia perciò da indivìduo a indivi¬ duo da momento a momento della sua vita: quello stesso bene cbe oggi è al sommo delle mie aspira¬ zioni e cbe m’induee a sacrifici notevolissimi, può diventare domani affatto irrilevante e tale da co¬ stringermi addirittura a nuovi sacrifici per disfar¬ mene. Vano era dunque il tentativo dei vecchi eco¬ nomisti di determinare il valore dei heni e di spie¬ gare obiettivamente le ragioni della loro utilità: utile è soltanto Fofelimo, vale a dire ciò cbe ri¬ sponde al gusto contingente e arbitrario di dii com¬ pie la scelta economica. Tutta la cosiddetta economia marginalia ha preso le mosse da questo presupposto fondamen¬ tale e si è trascinata fin qui nell'illusione — non sempre cieca e totale — che nel puro soggettivi¬ smo fosse tuttavia possibile alla scienza di porre un certo ordine, frazionando idealmente in unità ele¬ mentari i vari beni di un individuo e confrontando le unità ultime di ciascun bene tra loro. Se sog¬ gettivo è il concetto di utile, entriamo pure nell’ani¬ ma del soggetto e facciamo la sintesi delFeeonomia e della psicologia: così hanno pensato i più coerenti tra gli individualisti, giungendo infine alla conclu¬ sione alquanto lapalissiana che di veramente certo nella logica di ogni indivìduo non v’è che il biso¬ gno di procurarsi beni economici in quantità tali da rendere eguali le soddisfazioni procurate dalle uni- 0 — 59 — tà ultime dei diversi beni. Il ragionamento, a prima vista impeccabile, si è svolto in questi termini: se io vado al mercato a comprare pane e vino è chiaro che comprerò tanto pane e tanto vino da far coin¬ cidere il piacere che potrà procurarmi l’ultima parte del mio pane con quello che potrà venirmi dall’ulti¬ ma parte del mio vino. Se l’ultimo boccone del mio pane avesse per me maggiore o minor valore dell’ul- timo sorso del mio vino, la mia opera sarebbe illo¬ gica, perché rinuncerei senza ragione al massimo di utilità possibile, facendo acquisto di troppo vino o di troppo pane. Estendendo il ragionamento a tut¬ ti i miei beni e misurando la quantità di ognuno posso giungere a determinare il valore relativo di essi: posso cioè avere una nozione sperimentale del mio equilibrio economico. E se infine dalla mia persona passo a quella degli altri individui che for¬ mano la collettività, posso sempre sperimentalmente e oggettivamente giungere alla nozione di un equili¬ brio generale, che è tuttavia la risultante di molte¬ plici mondi assolutamente soggettivi. Si compie in tal guisa il miracolo della trasformazione di un’eco¬ nomia psicologica in un’economia matematica, e ciò che sembrava l’espressione di un arbitrio inaf¬ ferrabile e indeterminabile diventa elemento rigoro¬ samente determinato in una formula algebrica. Ma la matematica è in questo caso una cattiva consigliera e conviene aver la forza di resistere al suo fascino, per non essere trascinati in un mondo tanio più fantastico quanto più tecnicamente per¬ fetto. E dalle sue equazioni vogliamo per un istante ritrarre lo sguardo per ritornare all’mdividuo eco¬ nomico e vedere se tanta scienza possa comunque illuminarlo nel suo cammino e se, soprattutto, pos- ea comunque illuminargli la strada che gli altri individui percorrono con lui. Ora è chiaro che l’economia marginalista non può dare all’individuo nessun criterio orientativo nel mondo economico, poiché l’azione economica, qualunque essa sia, è sempre, per definizione, la migliore possihile. Se vado al mercato, compro quel hene, in quella quantità, e a quel prezzo che rispon¬ dono nel modo più infallibile all’unico criterio logi¬ co eh io possa in queiristante seguire: al criterio cioè del mio gusto e del mio bisogno. Fare libera¬ mente una cosa che non piaccia è evidentemente una contraddizione in termini, e se dunque fonda¬ mento dell’economia è l’ofelimità, ogni atto eco- mico, in quanto compiuto senza costrizioni, e ne¬ cessariamente perfetto. E se perfetto è ogni atto, perfetto sarà pure il sistema degli atti ossia tutta la vita economica, si che ogni individuo, che agisca lìberamente, non può non vivere lina vita rispon¬ dente al più allo ideale economico e non esser sem¬ pre nello stato del massimo benessere possibile. Se non che una perfezione così a buon mer¬ cato ha già dato qualche sospetto a taluno degli economisti più intelligenti e c’è stato chi, sia pure di sfuggita, dando uno sguardo più profondo alla vita del soggetto, si è accorto nientemeno che le ofe¬ limità marginali non sono confrontabili tra di loro, neppure nello stesso individuo e neppure nello stes¬ so istante. E poi si è notato che il marginalismo im¬ plica la possibilità per lo meno ideale di frazionare in unità elementari ogni bene economico e che in¬ vece tanti beni economici sfuggono necessariamen¬ te a tale procedimento. Obiezioni queste che, ag¬ giunte a molte altre, hanno cominciato a scuotere la — 61 — fede che dai pm si aveva nel rigore del principio escomi» \f a non tanto si sarebbe avvertita lL- surdita della posizione, se non si f osse tornali al p . aggio, dapprima inconsapevolmente ritenuto le- fanello* dall’equilibrio individuale a quello collettivo e cioè dal benessere del singolo a quello della società. Posto, infatti, l’individuo a centro del sistema, il massimo di ofelimità gene¬ rale non ai e potuto trovare che nella somma dei massimi delle ofelimità individuali, e allora logica¬ mente il p rmin problema è sparito, in quanto rias- ?.°. r lt0 Senza ^e ® 1 l du, nel secondo: ogni individuo ubero raggiunge il suo massimo e con ciò stesso rag- giunge la somma massima la società di cui egli fa parte. Al a scienza non resta da far altro che pren- der atto del migliore dei mondi possibili. Se la scienza volesse comunque uscire da que¬ sto suo atteggiamento dì completa passività di fron¬ te al problema del massimo benessere individuale e sociale, il primo scoglio contro cui i suoi sforzi do¬ vrebbero necessariamente infrangersi sarebbe quello del confronto tra il benessere di due individui di- yersi. Abbiamo già accennato allbbiezione di chi ha dichiarato inconfrontahili le ofelimità margina- h di due beni per uno stesso individuo, ma in quel caso si era tuttavia nell’ambito del soggetto econo¬ mico e la possibilità del paragone restava in qual¬ che modo suscettibile di discussione. Ma quando si tratta di confrontare il benessere di due individui e lo stesso presupposto psicologico soggettivista che nega a P” 01 ; 1 °8 ni senso alla ricerca ed esclude la possibilità di un qualsiasi risultato. E basta appena accennare a questa conseguenza della teoria per ac¬ corgersi che la presunta soluzione del problema è affatto verbalistica e vuota. Se dire massimo di be¬ nessere sociale vuol dire somma di massimi indivi¬ duali, questa somma deve pur concepirsi possibile e gli addendi debbono pur potersi confrontare. Ma confrontare vuol dire conoscere il rapporto quanti¬ tativo della soddisfazione che un medesimo bene procura a due persone diverse e tale rapporto è pur¬ troppo impossibile per definizione. Dunque? Dun¬ que il circolo vizioso è senza uscita di sorta e occor¬ re impostare diversamente il problema. Né, d’altra parte. l’economista potrebbe rinun¬ ziare al confronto, attenendosi per astrazione a un tipo medio di uomo, che rendesse omogenei gli ad¬ dendi da sommare. In tal caso, infatti, l’unica so¬ luzione del problema sarebbe di eguagliare tutti i redditi individuali e di presumere in tal guisa rag¬ giunto il massimo benessere sociale. Il che, oltre tutto, sarebbe in netta antitesi con il criterio di li¬ bera concorrenza, che è a fondamento, assoluto o relativo, dell’economia marginalista. Ma il guaio peggiore di questa ingarbuglia- tissima situazione viene a porsi in evidenza allorché l’economista è costretto a passare dall’economia in¬ dividuale a quella della collettività (Stato, enti pub¬ blici, sindacati, società, ecc.) L’agnosticismo dello scienziato trova qui un limite assoluto ed egli non può più evitare di rispondere con precisione ai pro¬ blemi che scaturiscono dalla coesistenza delle due economie. Se lo Stato deve stabilire un’imposta, qua¬ li industrie e quali redditi colpirà e con quale cri¬ terio? È chiaro che il criterio economicamente non può essere che uno e cioè quello del massimo be¬ nessere sociale: ma intanto tale massimo può con¬ cepirsi solo in regime di libera concorrenza e Firn- posta è estranea per definizione a tale regime, e slugge necessariamente alla logica del suo sistema. imposta Sara scelta esclusivamente con criteri ex¬ tra-economici e l’economista, al solito, non solo non potrà dire la sua parola, ma non riuscirà poi in al¬ cuna maniera a misurare gli effetti di un imposta dal punto di vista del benessere sodale: egli non potrà, cioè, giudicare né a priori né a posteriori del¬ la bontà di un’imposta. Lo stesso ragionamento può ripetersi a propo¬ sito di qualsiasi intervento statale nella vita econo¬ mica del paese: anzi lo stesso problema dell’inter¬ vento acquista una nuova fisionomia e rende vana ogni attività dello scienziato in questo campo. Quan¬ do gli economisti si sono poco o molto allontanati dalla tesi rigorosamente liberista e hanno ammes¬ so la possibilità, in determinate condizioni, di un in¬ tervento statale economicamente vantaggioso, han¬ no dato, senza avvedersene, un colpo mortale alla teoria dell’ofelimità, rendendo oggettivo ciò che avevano perentoriamente affermato come soggetti¬ vo, e confrontando, sia pure in astratto e in linea di mera ipotesi, il benessere procurato da due si¬ tuazioni economiche diverse. 0 si tien fede al ca¬ rattere soggettivo della ofelimità e allora bisogna lasciare 1 individuo arbitro incondizionato della sua vita economica e giudice incontrollato del suo be¬ nessere; o si ammette, anche per un attimo e con ogni sorta di limitazioni, la confrontabilità delle soddisfazioni, e allora si deve rinunziare a costrui¬ re la seienza sul fondamento della scuola psicologi¬ ca. Ma intanto convien pure riconoscere, con i sog¬ gettivisti, che il benessere procurato da una sterlina a un povero è maggiore di quello procurato a un ricco e che, in tesi generale, uno stesso bene procu¬ ra soddisfazioni diverse a diversi individui; come pure bisogna riconoscere, contro i soggettivisti, che qualunque indagine relativa ai problemi economici implica inesorabilmente la determinazione obietti¬ va di un rapporto tra diversi stati di benessere: e ingomma è necessario concludere che tra soggetti¬ vismo e oggettivismo economico esiste un'antinomia radicale, sulla quale non si è fatta la debita luce, e che perciò rende infecondi tutti gli studi e i tenta¬ tivi compiuti dagli economisti per giungere a una costruzione veramente sistematica. Il problema che vien fuori dalle considerazio¬ ni precedenti è, dunque, quello di trovare un crite¬ rio con il quale superare Tantinomia di ofelimo e utile, ossia di soggettivo e oggettivo, e dare in con¬ seguenza un significato intelligibile e non contrad¬ ditorio ai concetti di massimo benessere individuale e massimo benessere sociale. La via da seguire deve essere naturalmente quella prescelta dagli stessi economisti che hanno posto la nozione di ofelimità a fondamento della scienza, vale a dire l’analisi psicologica del soggetto economico. E non sarà cer¬ tamente colpa nostra se i confini della particolare scienza economica saranno valicati, come non è sta¬ ta colpa dei puristi che sono scesi su questo terreno, anche se oggi fanno la voce grossa a chi osa parlare di rapporti tra scienza e filosofia. La distinzione tra ofelimo e utile domina ormai tutta la scienza eco- — 65 — nomica e ne spiega 1 attuale struttura: se non si vuol dunque accoglierla come le colonne d’Èrcole dello scienziato, bisogna pur che i tecnici si abbas¬ sino a discuterla, lasciando per un poco di ammi- rare e perfezionare i maestosi castelli matematici che vi hanno fondato sopra. 3 ) La teoria soggettivista considera l'individuo economico, che fa una scelta, come dominato im¬ mediatamente da un gusto o da un bisogno che è quello che è: essa non si rende conto né si vuol render conto del perché di quel gusto, né del rap¬ porto tra un gusto e un altro dello stesso individuo. Vero è che di tale rapporto si parla quando si con¬ frontano tra loro le utilità marginali dei diversi be¬ ni acquistati da un individuo e si afferma ch’esse sono eguali, ma il rapporto si limita a una scelta economica puntualizzata in un dato momento della vita di un individuo e non vale in alcuna maniera a chiarire il passaggio da un equilibrio di gusti a un altro equilibrio di gusti, o, più semplicemente, da un gusto all altro. Inoltre, anche quando il rappor¬ to lo si supponga puntualizzato in una data scelta, esso non può tradursi in un’eguaglianza quantita¬ tiva se non attraverso Tarhitrio dello scienziato, per- che di fatto l’ofelìmità dei diversi beni non è con¬ frontabile dal soggetto, se per definizione questo si intenda dominato da una mera molteplicità di gu¬ sti. Per dosare un gusto e il bene atto a soddisfarlo è necessario rendersi conto di rapporti logici deter- v-u L V n S Ca de “ dlst,nzi .°. ne è stala da noi fatta nel saggio Tr ' r ?oi°n P * j 610 ’ m L, ‘ crltlca dell’economia liberale, Milano, re\es, Ì9ó0. Ad essa quindi rimandiamo il lettore che volesse ap¬ pio on ire. la questione: qui ci limitiamo a presupporla e inten¬ tino insistere invece sui criteri ricostruitivi cui essa dà luogo. * - — 66 — minabili con criteri che non possono ridursi al gu¬ sto stesso: in guanto semplici gusti, il gusto di un profumo e quello di un colore non sono confron¬ tabili. E fin qui è arrivato lo stesso Pareto. Se oggi vado al mercato e acquisto una deter¬ minata quantità di beni, in tanto posso far questo consapevolmente in quanto pongo un ordine nei miei gusti, e li determino e li graduo in una visione complessiva della mia vita. Così non mi abbando¬ nerò al primo capriccio cbe ini verrà in mente e non esaurirò il imo avere nella soddisfazione del primo bisogno apparentemente imperioso, ma va¬ glierò 1 oggi e il domani, i bisogni che mi è lecito soddisfare e quelli al cui appagamento debbo ri¬ nunziare, i capricci e i doveri, e insomm 3 mi spie¬ gherò la ragione dei miei gusti e agirò con la coe¬ renza logica che avrò saputo raggiungere. Sarà buo¬ na o cattiva la mia logica, ma pensare che i miei gusti possano guidarmi a caso, senza alcuna logica che li leghi, è pensare l’assurdo. Ma dire logica, significa già dire soggettività non immediata né irrelata: significa dire vita unificata e universale, significa vedere i miei gusti in rela¬ zione con quelli degli altri cbe con me vivono. Lungi daH’essere inconfrontabile, ogni mio gusto si spiega soltanto in funzione degli altri miei gusti e dei gusti degli altri, e nelPintimo della mia co¬ scienza è un continuo confronto attraverso cui i miei gusti sorgono e si modificano. E vado allora al mercato e compero dei beni economici che servono per me e per i miei, perché è anche un mio gusto e un mio bisogno che i miei soddisfino i loro gusti e i loro bisogni: e la mia scelta economica, allora, sarà certamente mia e in rapporto aH’ofelimità che — 67 — i diversi Leni per me rappresentano, ma io non sono più il soggetto che immaginano gli economisti, chiuso in una sfera assolutamente impenetrabile, bensì un individuo in rapporto ad altri individui e perciò attore di lina vita economica che si svolge in virtù di tale rapporto. Se poi cerchiamo di determi¬ nare meglio la natura del rapporto e di precisarne i limiti, ci accorgiamo ch’esso non solo lega la mia persona alla mia famiglia, ma anche agli amici, ai compagni di lavoro, alla classe, al paese e infine allo Stato in cui la mia vita si disciplina e sì potenzia. Nel mio agire economico, come in tutto il mio agire, mi propongo, dunque, un fine che è mio e che risponde ai miei gusti, ma questo fine non è ar¬ bitrario e si spiega solamente inquadrandolo nella vita dello Stato; sì che, se altro fosse lo Stato, altre sarebbero le condizioni di vita in esso esistenti, al¬ tri i gusti dei cittadini e altro, insomma, il fine che ciascuno di essi potrebbe porsi e in effetto si por¬ rebbe. Se io non sono un ladro o un farabutto, se cioè il mio agire economico non ha un valore ne¬ gativo, il fine che io ho in vista deve essere in ar¬ monia con quello dello Stato, e non perché lo Stato me lo comanda dall’esterno, ma perché la mia stessa vita individuale non ha significato senza lo Stato, e tanto più significato ha quanto più con lo Stato si identifica. Appena l’uomo supera la mera animalità e diffe¬ renzia i suoi gusti da quelli della fiera, sorgono bi¬ sogni che hanno un’origine affatto sociale: nessuno dei tanti beni economici che si son venuti creando nella storia dell’uomo sarebbe stato mai prodotto senza il fondamento della collaborazione. E collabo- rare vuol dire appunto tendere a un medesimo fine — 68 — e cioè avere un medesimo gusto e un medesimo bi- sogno. Se 1 utile economico fosse veramente l’ofeli- mo, nessun bisogno potrebbe soddisfarsi, che, se mi viene il gusto di avere un’automobile, h soddisfa¬ zione di esso mi è possibile solo in quanto lo stesso insogno e stato inteso dalla società in cui vivo e in cm esistenza delle automobili, perciò, si è resa pos¬ sibile. h S e, al contrario, l’utilità delle automobili rappresentasse soltanto una mia particolare ofeli- mita, nessuna forza al mondo potrebbe valere ad ap- pagare il mio gusto, perché nessuno coìlaborerebbe con me al raggiungimento del fine propostomi. An¬ che quando da me solo, estraneo a tutti, mi costruissi un oggetto atto a soddisfare un mio specialissimo gusto non potrei rinnegare la natura sociale di esso e porlo m rapporto al giudizio di approvazione o disapprovazione degli altri individui, che sono sem¬ pre presenti nella mia coscienza di uomo, nonostante il mio proposito di prescinderne assolutamente. So¬ no quel che sono in forza del processo storico che m me s individua, e la mia azione deve avere sem¬ pre il carattere di universalità che è proprio della stona. Utile e ofelimo coincidono nel modo più ri¬ goroso e 1 illusione della loro differenza può sor¬ gere soltanto considerando l’aspetto negativo del- I uomo che si oppone alla logica della vita, e quindi allo Stato che di quella logica è l’espressione con¬ creta. Ma in quanto si oppone alla logica, l’ofelimo, al solito, non può essere oggetto di scienza e resta a indicare il limite della scienza come il limite della vita. L antinomia tra soggettivismo e oggettivismo economico si risolve negando ogni positività al sog¬ gettivismo che non coincida con l’oggettivismo, e cioè al procedimento puramente arbitrario e irre- — 69 — lativo dell’individuo. I gusti e i bisogni di cui l’eco¬ nomista può e deve occuparsi sono quelli cbe si rendono intelligibili nell organismo della vita sociale e cbe rispondono quindi a finalità essenzialmente sociali: gli altri non sono veramente gusti né biso¬ gni, bensì piuttosto manifestazioni patologiche di un attività antisociale e vanno perciò considerati unicamente da questo punto di vista. Parlare in un Iratlato di economia dell ofelimo in quanto diverso dall'utile vai quanto occuparsi del furto o del ri¬ catto come mezzi razionali di produzione. Risolta l’antinomia tra individuo e Stato, ossia Ira ofelimo e utile, è possìbile tornare al problema del massimo benessere senza incontrarsi nelle diffi¬ colta che rendevano assurda ogni soluzione. Il con¬ cetto stesso di benessere si sposta dalla soddisfazio¬ ne del gusto immediato a quella di un gusto consa¬ pevole e logicamente determinato: il benessere non è più in relazione a uno stato naturale cbe va appa¬ gato per il fatto stesso di essere, ma in relazione a un fine da raggiungere e da far valere nell’organi- smn della vita statale. È quindi dallo Stato, e non dall’individuo in quanto concepito senza lo Stato, cbe occorre prender le mosse per intendere quale significato possa avere la ricerca del massimo be¬ nessere individuale e sociale. Non dallo Stato, tut¬ tavia, concepito come somma di individui, bensì dallo Stato cbe è volontà unica e unica finalità, ogni giorno storicamente determinata e in continuo pro¬ cesso di superamento. Ma domandarsi che cosa sia e come si raggiunga il massimo benessere dello Stato vai dunque quanto chiedersi che cosa sia e come si raggiunga il massi¬ mo ideale dello Stato stesso: ed è chiaro che a un tale quesito non nuò seguire che una sola risposta, e cioè che l’ideale di una Nazione è esso stesso pro¬ cessuale e diventa più grande e più alto via via che 10 si raggiunge, così come il massimo benessere che una Nazione può proporsi non ha limiti di sorta e s ingigantisce via via che il benessere aumenta. Se non che non ci si potrebbe arrestare a questa con¬ statazione, che pur è Tunica logica e incontroverti¬ bile, senza eliminare addirittura il problema da ri¬ solvere e senza eludere quel tanto di legittimo che pur si cela nella affannosa ricerca delle vie per rag¬ giungere il massimo benessere. Occorre, dunque, che quesla stessa constatazione si traduca in termini di scienza economica, dando una risposta non effimera a un problema sia pur malamente impostato. Se muoviamo dal concetto dell’unità dell’orga- nisnio statale, possiamo agevolmente convincerci che 11 valore dei beni economici varia, aumenta, dimi¬ nuisce, o addirittura si annulla, col variare del fine dello Stato. Se una legge stabilisce l’uso di una mer¬ ce considerata pressoché inutile fino alla formula¬ zione della legge stessa, quella merce acquista im¬ provvisamente un valore economico che nessuno prima si sarebbe mai sognato di attribuirle. È lo Stato, che con un atto di volontà ha creato un va¬ lore economico, e conseguentemente ima ricchezza già prima esistente, ma non come ricchezza. Le quali considerazioni, si badi bene, non hanno una por- 71 tata ristretta al caso di una legge vera e propria, ché anzi con il termine legge si vuol significare ogni espressione della vita sociale, sia cli’essa giunga alla determinatezza di una norma giuridica, sia ch’essa si limiti alle vaghe linee di una opinione, di un uso, di una moda, di una convenzione, ecc. Basta assistere a una vendita all’asta per accorgersi delle vicende, a volte stranissime, dei beni economici: ciò che un tempo rappresentava un grande valore, è caduto in disuso e buttato via come cosa inutile, o di nuovo è tornato in gran pregio rispondendo a diversi bisogni spirituali. Ma è chiaro che questa vicenda non è l’espressione di un arbitrio indivi¬ duale, sibbene di un processo storico che ha una logica. Anche la moda più strana e più insulsa non si afferma se non risponde direttamente o indiret¬ tamente a un’esigenza dell’epoca e delle particolari condizioni in cui fa la sua apparizione. Quest’esi¬ genza è appunto la legge che dà vita ai valori eco¬ nomici, come a tutti i valori della vita, e fa nascere gusti e bisogni che non sono individuali senza per ciò stesso essere collettivi. Ne deriva che tutti i beni pennoniici, e quindi la ricchezza di una nazione, sono concepibili e sono determinabili unicamente in funzione della volontà e del fine statale. Nulla esiste che sia un bene economico in sé, bene è solo in quanto tale lo fa essere la volontà dello Stato; e la ricchezza di una nazione, quindi, può variare e varia in effetti continuamente, anche senza che muti la quantità dei beni esistenti. Il che, espresso in al¬ tri termini, vai quanto dire che non esiste una na¬ zione povera o una nazione ricca in senso assoluto, ma povera o ricca ogni nazione diventa a seconda del valore attribuito ai Leni ch’essa possiede o che — 12 — essa è in grado di produrre. In questo senso ogni nazione può essere ricca, perché la ricchezza di¬ pende esclusivamente dalla sua volontà. Ora, se si conviene in queste considerazioni, e in parte almeno di esse convengono, sia pure in¬ direttamente, molti economisti, il quesito circa la via per raggiungere il massimo benessere sociale può ricevere una risposta precisa anche dal punto di vista più particolarmente economico. E la via da seguire è appunto quella che vien rivelata dalla de¬ terminazione storica dell ideale economico della nazione: determinazione cui si perviene studiando il problema economico in rapporto al problema po¬ litico e che si esprime perciò in un programma non aprioristicamente fissato una volta per sempre, ma in continuo sviluppo e perfezionamento. Il pro¬ gramma naturalmente si concreterà in un indirizzo d insieme e in direttive particolari ben precisate, e tutti i suoi aspetti si integreranno a vicenda in modo sistematico, sì che le diverse manifestazioni dell’at- tività economica non abbiano a contrastare tra di loro. E l’indirizzo potrà essere, ad esempio, preva¬ lentemente agricolo o prevalentemente industriale, tendente all incremento o alla limitazione demo¬ grafica. favorevole o contrario all’emigrazione, e via dicendo; tutto in relazione all’avvenire del paese, alla sua individualità e alle sue condizioni: le quali consentiranno poi di determinare in qualche manie¬ ra le direttive generali che dovranno essere seguite nell'attuazione delle tante iniziative della vita eco¬ nomica e come in ognuna di esse debba aversi sem¬ pre di mira il fine comune. Si comprenderà, in tal guisa, come e perché siano da favorirsi certe indu¬ strie e da vincolarsi certe altre, siano da potenziarsi 73 — al massimo le industrie più specificamente nazio¬ nali e siano da trascurarsi quelle più rispondenti ai fini e alle risorse di altri paesi; siano, infine, da crearsi gusti, bisogni diretti ai beni economici che più conviene produrre. Poiché bisogna ben convin¬ cersi che il problema del massimo benessere socia¬ le non si risolve solo creando il modo di soddisfare al massimo i gusti e i bisogni esistenti, ma soprat¬ tutto modificando, correggendo, creando gusti e bi¬ sogni in relazione all’ideale economico — ed eco¬ nomico in quanto politico — della nazione. E si comprende che quest’opera non deve svolgersi uni¬ camente entro i confini dello Stato, ma divenire il programma della stessa politica economica interna¬ zionale, che soprattutto airestero conviene far na¬ scere il gusto di ciò che è prodotto dell’industria na¬ zionale: possibilità questa di cui purtroppo gli Ita¬ liani hanno parecchi esempi in casa loro, dove tan¬ ti usi stranieri si son lasciati attecchire e con essi l'importazione di tante merci che fanno passare in seconda linea le nostre. Né questo solo aspetto, più propriamente pro¬ duttivo. va considerato del problema, che anzi ad esso è strettamente collegato quello distributivo, in quanto in un’economia dinamica — e può esistere un’economia non dinamica? — ripartizione dei red¬ diti e determinazione della produzione sono pre¬ cisamente la stessa cosa. È chiaro che in un’econo¬ mia nazionale ben consapevole la ripartizione dei redditi avverrà favorendo gli uomini e le industrie la cui attività produttiva sarà più in armonia con l’ideale economico del paese. Questo ideale deter¬ mina il valore dei beni e questo stesso ideale deve determinare la scala dei valori umani, clie sono in — 74 — rapporto con quei beni. Beni e uomini che ven¬ gono perciò ad acquistare un significato economico solo nel] organismo statale di cui sono espressioni, e che perciò possono essere valorizzati davvero solo se nell organismo statale sia chiara la consapevolez¬ za della loro particolare funzione e la volontà che essa si adempia nel miglior modo. Se poi, dal problema de] massimo benessere sociale, passiamo a quello del massimo individuale, la soluzione ci dovrà apparire logicamente impli¬ cita nel già detto. Sì è visto che ogni individuo vive la sua vita individuale come vita statale, e che an¬ che ciò che sembra più proprio della sua persona¬ lità ha un significato e un valore in quanto è in rap¬ porto con l’organismo sociale. Ne deriva, dunque, che il fine di ogni individuo — così politico come economico — non può essere che quello di poten¬ ziare al massimo la propria personalità in funzione del fine politico ed economico della nazione. Se sono un buon cittadino, vale a dire se la mia attività non è antisociale e negativa, il mio massimo ideale è quello di esser degno della mia nazione e di fare lutto il possibile per esserne degno. La ricchezza cui tenderò non sarà in antitesi con questo ideale, ma la consacrazione delFessermi reso degno, più dei non ricchi, della mia nazione. Se cosi non fosse, tenderei alla ricchezza senza preoccuparmi del mez¬ zo, vi tenderei soprattutto col furto. Ma se così è, le condizioni per raggiungere il mio massimo benes¬ sere individuale non possono essere che due, e cioè in primo luogo la mia decisa volontà di adeguarmi al fine statale e di contribuire nel modo migliore alla realizzazione di esso: in secondo luogo, poi, il rico¬ noscimento sociale della mia attività e il relativo — 75 — compenso proporzionato. Sì che volendo giungere a una definizione : imissimo benessere dell’individuo è quello che gli proviene dall adeguazione perfetta del compenso della sua opera al valore della sua personalità vista in funzione del fine supremo dello Stato. Se poi volesse conoscersi come e quando il mas¬ simo benessere individuale possa effettivamente conseguirsi, sarebbe da osservarsi che, di fatto, esso è sempre raggiunto perché ogni individuo ha quel che si merita, dato l’ideale consapevole cui è per¬ venuto il suo Stato, ina che poi non è mai raggiun¬ to una volta per sempre, in quanto il livello spiri¬ tuale dello Slato è in continuo sviluppo e con esso la capacità di riconoscere più adeguatamente In¬ pera dell’individuo. Se, ad esempio, ci proponessi¬ mo il problema di conoscere se gli attuali stipendi dei professori rispondono al massimo benessere in¬ dividuale di questi, dovremmo convenire eh essi rispondono perfettamente alla consapevolezza che lo Stato ha del valore di questa funzione in rappor¬ to alle altre della vita sociale, ma dovremmo altresì augurarci, e contribuire con la nostra opera a rag¬ giungere, la realizzazione di uno Stato, in cui la funzione culturale fosse maggiormente valorizzata e perciò meglio compensati fossero i professori a confronto di altre categorie di lavoratori. C’e sem- pre uno St a to reale e uno S ta to ideale nella 3iaiet - tica della storia, e il p roblem a del massimo bencs- sere, c osì social e come individuale, d eve av ere una soluzione che viva in questa dialettica. — 76 — Basta impostare in tal guisa il problema del massimo benessere per accorgersi del significato che nella sua soluzione può avere lo Stato corporativo; il quale si differenzia dallo Stato liberale così co¬ me dall’economia liberale si differenzia la nuova economia. La soluzione scientifica non può diffe¬ rire da quella politica perché scienza e politica non possono essere che le manifestazioni di una stessa vita spirituale. Allo Stato liberale non poteva ac¬ compagnarsi che l'ideale scientifico dell’uomo ceco- nomicus, del massimo benessere sociale come som¬ ma dei massimi individuali, dell’ofelimità che si differenzia dall’utilità; allo Stato corporativo deve dar significato il principio dell’identità di individuo e Stato, del massimo benessere sociale come mas¬ simo benessere nazionale e individuale, deH’utilità che si identifica con l’ofeìimità. LA LIBERTÀ ECONOMICA 11 problema della libertà non può avere che un unica soluzione, sia che lo si consideri dal punto di vista filosofico, politico e giuridico, sia che lo si traduca in termini di scienza economica. Coloro che parlano della libera concorrenza come di una ipotesi scientifiea apolitica da porsi accanto alla opposta ipotesi del regime monopolistico, anch’essa - apoliticamente considerata, dimostrano soltanto di aver smarrito completamente la nozione storica dei concetti che adoperano, e soprattutto dei concetti di individuo, di Stato, di benessere individuale e so¬ ciale, sui quali la scienza economica deve poggia¬ re come sui suoi fondamenti primi. Avendo già di essi largamente discusso, basterà farli riaffiorare nel¬ la determinazione del concetto di libertà, quale può venir dato dall esame il più immediatamente ade¬ rente alla vita effettiva della socielà economica. Il modo comune di intendere la libertà è quel¬ lo individualistico di arbitrio, per cui ogni uomo si considera veramente libero quando ha la possibi¬ lità di fare lulto ciò che desidera, senza subordinare o comunque legare la sua volontà a quella di qual- — 78 — siasi altro. Perché ciò sia logicamente possibile è necessario che 1 individuo, per dirla in termini rous- seauiani, sia unità intera e non unità frazionaria : occorre cioè che egli non faccia parte di un orga¬ nismo sociale, ma viva allo stato selvaggio, soddi¬ sfacendo da solo a tutti i suoi bisogni. Ne deriva, dunque, che l’usuale nozione di libertà si adegua soltanto all idea presociale dell’uomo-fiera. Facciamo invece il caso di due uomini o di piu uomini che, insoddisfatti dì una vita puramente animale, decidano — e anche qui restiamo nei ter¬ mini di Rousseau — di legarsi in società, divider¬ si il lavoro, e migliorare con l’unione delle forze il tenore della vita. Allora la situazione cambia ra¬ dicalmente e i collnhnralori debbono anzitutto porsi il fine comune da raggiungere, a esso subordinando le singole attività. Se prima, ad esempio, l’uomo svegliandosi al mattino poteva andare a caccia o restare ili riposo rinunciando per un giorno al cibo, ora, invece, a caccia deve andarvi in ogni caso, per¬ ché il sistema piu perfezionato di ricerca e cattu¬ ratone degli animali esige ch’egli sia al suo posto pronto ad aiutare gli altri individui con i quali si è unito in società. S’egli restasse a riposare, gli altri dovrebbero rinunziare alla sua collaborazione, e la società si spezzerebbe, perché il fine comune per cui si è costituita non potrebbe essere raggiunto. Il pas- saggio dalla fiera all’uomo implica dunque: 1) la costituzione di un organismo sociale; 2) la determi¬ nazione di un fine comune; 3) Fideiitità di questo fine comune con ì fini dei singoli; 4) l’elevazione del fine comune a legge della società e la subordina¬ zione a essa dei singoli membri; 5) la conseguente necessità dell’attuazione della legge e la trasforma- — 79 — zione dell’organismo sociale in Stato; 6) l’identità del benessere individuale e di quello statale; 7) la rinunzia definitiva alla libertà intesa come arbìtrio. Si apre a questo punto un dilemma, al quale non vedo come si possa seriamente sfuggire: o la vita civile non è conciliabile con la libertà o della libertà occorre formarsi un concetto che non sia quello di arbitrio individuale. Prima di risolvere il dilemma, occorre elimi¬ nare ogni dubbio circa la possibilità di un terzo ter¬ mine. e precisamente di quel terzo termine escogi¬ tato dalla stessa teoria contrattualistica, secondo cui il necessario vincolo imposto dalla vita sociale do¬ vrebbe essere il minimo possibile e tale da lasciare la più ampia sfera all’arbitrio dell’individuo. È que¬ sta la teoria ebe è a fondamento dello Stato liberale e, secondo essa, l'unico arbitrio vietato al singolo sarebbe quello dell invadenza nella sfera di arbi¬ trio degli altri individui: il contenuto sociale o sta¬ tale sarebbe appunto la garanzia dei particolari ar¬ bitri. Ma e chiaro che questa teoria, equivocando sui termini di società e Stato, sposta il problema, ponendolo in termini affatto fantastici: io Stalo vien concepito come un ente distinto dalla società e la legge è ridotta al significato formale e negati¬ vo di limite. Se riportiamo, invece, la questione nei termini concreti dell’agire economico, è facile con¬ vincersi che la legge non è un limite formale, bensì una esplicita norma di produzione e di distribuzio¬ ne. che non si esaurisce in un divieto di sconfina¬ mento. ma impone un determinatissimo lavoro. Se voglio far parte della società, debbo in modo asso¬ luto occupare il posto che mi spetta e fare tutto quello che il mio posto esige. Quando sono entrato — 80 — in società con il mio simile, non Tho fatto per di¬ videre la mia sfera dalla sua e segnare i confini della mia proprietà (legge limite, Stato carabiniere, ecc.) ma l'ho fatto per condurre con esso una vita mi¬ gliore, per produrre più e meglio, per raggiungere risultati impossibili alle mie sole forze (legge di azione, Stato etico). Sì che il confine posto tra la pro¬ prietà mia e quello degli altri non ha neppure esso un valore négàlivojjfi^pura“difesa''tjrrisTTpi^e^de'- ter ni ina li va-del-campo _in cui esercitare la mia ope¬ ra di collaborazione: non indica la sfera del mio arbitrio, ma il mio posto di lavoro. Né quello che io faccio, vincolato dalla società, può stare comunque accanto ad altro ch’io fac¬ cia all’infuori di questo vincolo, perché all’infuori del vincolo io non ho altra realtà oltre quella dell’a¬ nimale, e tutto quanto daH’aniinale mi distingue ho conquistato nella società, collaborando, ossia sotto¬ mettendomi alla legge del fine comune. Se oggi v’è apparentemente la possibilità di separare un’atti¬ vità libera da un’altra obbligatoria, ciò avviene solo per un equivoco di valutazione, che consiste nel considerare alcuni elementi sociali scissi dalla vita da cui sono stati originati. Ma, a guardar bene, biso¬ gna pur convincersi che nulla della nostra condotta sfugge alla legge della convivenza sociale e che an¬ che nelle questioni propriamente personali, noi agiamo secondo una volontà comune, individuale e sociale insieme, in piena identità di termini. Se mi vesto, posso apparentemente abbigliarmi come mi detta la fantasia, ma in realtà debbo pur seguire le leggi, gli usi, le tradizioni, il gusto, ecc., della so¬ cietà in cui vivo; e se, ad esempio, posso mettermi una cravatta rossa ovvero una grigia, anche questo — 81 — arbitrio non è un arbitrio, ma un operare entro quel¬ la legge che nell’attuale momento storico impone varietà di colori nelle cravatte. Questa è la realtà della vita sociale, e, quanto più progredita e complicata essa diviene, tanto più ferrea è la disciplina cbe la governa e die deve ren¬ dere possìbile l’armonia di tanti elementi disparati. Le leggi, i regolamenti, le mode, gli usi, le conven¬ zioni, gli orari ecc. ecc., investono sempre più me¬ todicamente tutta la nostra vita quotidiana, da un minimo cbe è lasciato alle forme rudimentali di vi¬ ta (vita dei campi) a un massimo elle caratterizza l’azione dei maggiori esponenti della politica, della cultura, dell’industria e del commercio. Sì che as¬ senza di arbitrio e massimo di civiltà divengono via via termini equipollenti, e la vita del più civile uomo di domani non può immaginarsi se non attra¬ verso un’adeguazione sempre più perfetta della vita e della volonlà del singolo a quella dello Stato. Ma, dunque, si potrà obiettare dai nostalgici del liberalismo vecchio stile, la vita deve diventare una schiavitù, un procedimento meccanico e ineso¬ rabile, al quale non sia possibile sottrarsi a nessun costo, per rivendicare la spensierata felicità di chi si leva al mattino arbitro incondizionato della pro¬ pria giornata? È dunque questa la vera civiltà o non conviene buttar tutto all’aria e tornare all’imme¬ diatezza della natura? Questione vecchia cotesta, almeno quanto l’o¬ pera di quel Rousseau cbe ci ha dato In spunto per discuterla : e, appunto perché vecchia, orinai risolta e superata, se pur la soluzione non abbia ancora avuto modo di pervenire agli orecchi degli econo¬ misti. Essi amano indulgere tuttavia al miraggio di d ■ Spinila — fe¬ lina libertà individualisticamente intesa, e non si sono neppure domandati se ormai occorra, o se sia comunque possibile, che la scienza economica dia anch'essa un altro significato al termine tradiziona¬ le. Poiché di un altro significato deve ben potersi parlare, dato che al dilemma sopra proposto non si può rispondere, evidentemente, eoi negare addi¬ rittura la libertà. Notiamo anzitutto che la libertà dei liberali è. per loro stessa eonfessione, una libertà a mezzo, la quale lia sempre qualcosa da invidiare alla com¬ pleta libertà dello stato di natura. A quell’assoluto arbitrio si è dovuto rinunziare per necessità di vita e per sicurezza reciproca, ma intanto di una rinun¬ zia pur sempre si tratta, che fa assaporare con vo¬ luttà quel giorno felice in cui, per il superiore livel¬ lo della comune moralità, sarà possibile abolire lo Stato e la sua funzione di inutile gendarme. La li¬ bertà del liberale, dunque, nessuna maggiore pro¬ fondità e spiritualità acquista con lo svolgersi della storia, che anzi essa ha lasciato alle sue spalle il pro¬ prio modello perfetto e immodificabile. Basterebbe questa considerazione per farci diffidare della giu¬ stezza della comune soluzione del problema: se li¬ bertà è sinonimo di valore, la sua realtà non può essere che nel suo approfondirsi e spiritualizzarsi continuo, sì che il suo modello possa brillare della luce dell’ideale da instaurarsi e non perdersi nel buio della preistoria. — 83 — La giusta soluzione, dunque, dovrà ricercarsi nel concetto di una libertà che non si è persa, ma cbe si deve conquistare; di una libertà non sei- vaggia, ma identificabile addirittura con la vita ci¬ vile. E la via ci è indicata dalla stessa ipotesi con¬ trattualistica, da cui volutamente abbiamo preso le mosse per restare nell’ambito dei problemi cari agli ideologi del liberalismo. Quando due o più uomini deliberano di unirsi in società per migliorare le loro condizioni, liberamente si sottopongono alla legge del comune lavoro, e questa legge diventa, per ciò stesso, il contenuto del loro atto di libertà. Libertà e legge, lungi dairescludersi, si identificano senza residui. Ma la loro identificazione, si badi bene, non è accidentale, bensì essenziale, perché, se contenuto dell atto di libertà non fosse la legge, la libertà stes¬ sa tornerebbe ad essere arbitrio. Quel che distingue infatti la liberta dall arbìtrio è appunto l’univer¬ salità della prima di fronte alla particolarità del se¬ condo: il selvaggio può agire in un qualsiasi modo; 1 uomo civile, invece, deve agire secondo una volontà che, pur essendo sua, abbia insieme un valore uni¬ versale {la legge). Costitutivo, insomma, del nuovo concetto di li¬ bertà deve essere la sua identificazione con la legge, ossia la identificazione della volontà particolare con quella universale, dell’individuo con In Stato. Né si creda che il libero processo secondo cui gli individui si costituiscono in società si esauri¬ sca nell’atto della costituzione — il quale anzi non esiste ebe nella fantasia dei contrattualisti — poiché esso si perpetua in tutta la vita sociale e ne ca¬ ratterizza ogni momento. La legge cbe lega gli indi¬ vidui nel comune lavoro non si determina una volta 84 — per sempre meccanicizzando l’attività da essa rego¬ lata, ma si rinnova continuamente in virtù della stessa forza d’iniziativa che l’ha fatta sorgere. Ogni individuo, infatti, è indotto a perfezionare l’organi¬ smo sociale ed escogita nuovi procedimenti e ricerca nuove vie, sempre insoddisfatto dei risultati conse¬ guiti e sempre pronto a conseguirne di nuovi. Ma si comprende che in questo processo ogni iniziativa del singolo deve inserirsi nel processo unitario della vita sociale: la sua volontà deve diventare la vo¬ lontà di tutti e la sua libertà di attuarla deve coin¬ cidere con la legge che ne impone l’attuazione. Che se l’iniziativa restasse particolare e si giustapponesse a infinite altre iniziative ancli’esse particolari, tutte si intralcerehbero a vicenda spezzando l’organismo della socielà e portandolo fatalmente alla disgrega¬ zione aiomistica. Questa identificazione iniziale e processuale della volontà e libertà del singolo con l’universa¬ lità della legge risulta molto evidente dalla consi¬ derazione del funzionamento di una qualsiasi as¬ sociazione. Anche se prendiamo ad esempio il caso limite dell’associazione a delinquere, dobbia¬ mo convenire ch’essa si costituisce con un atto di libertà dei singoli membri, volonterosi di sottoporsi alla sua disciplina; che i singoli tendono al benes¬ sere dell’associazione vedendo in esso il proprio; che ogni particolare iniziativa di un membro è su¬ bordinata all’approvazione degli altri; e che insom¬ ma l’associazione tanto meglio vive, ed è capace di conseguire il fine che i singoli si sono proposti nel formarla, quanto più unitaria è la sua volontà e quanto più rigorosa la sua disciplina. Ma se dall’e¬ sempio di una singola associazione, passiamo a quel- 85 — 10 della grande società che è lo Stato, l’evidenza della identità si attenua, i termini del problema diven¬ gono indecisi e la questione arbitrariamente si spo¬ sta dando luogo agli equivoci propri dell’individua¬ lismo liberale. Ogni cittadino nello Stato, come ogni delinquente nell’associazione di cui abbiamo di¬ scorso, 6arà tanto più degno di appartenere alla so¬ cietà quanto più saprà far coincidere la sua libera volontà con quella sociale. Che se nel caso del citta¬ dino par ci sia differenza tra il benessere proprio c quello dello Stato, la ragione va trovata solo nel fatto che, per la maggiore estensione e complessità dello Stato rispetto all’associazione a delinquere, più facilmente il cittadino smarrisce la coscienza dell’or¬ ganismo e più facilmente è indotto a frodare gli al- Iri membri della società cui appartiene. Ma per ciò appunto il contrasto tra le due volontà rappresenta 11 lato negativo e non quello positivo della vita dello Sfato e tutte le forze debbono essere impegnate a eliminarlo. Anche nell’associazione a delinquere uno dei membri può sottrarsi alla disciplina sociale e averne i vantaggi senza gli oneri, ma egli sarà ap¬ punto il prepotente, l’elemento disgregatore della società e finirà col fare il danno di essa e quello proprio. In tal guisa considerata la libertà, si compren¬ de come si sia decisamente sorpassata l’ambigua so¬ luzione del problema data dal liberalismo. Il citta¬ dino non si sdoppia più in due attività opposte, nell una delle quali si conserva la libertà originaria dell' uomo di natura e nell’altra invece si riconosce Tobbligatorietà della legge: il cittadino è libero in ogni sua manifestazione a patto che tale libertà sap¬ pia conquistare dimostrando il valore dei suoi atti e facendo 1 ! perciò riconoscere dalla società di cui fa parte. La libertà per esser vera deve costare, e il suo costo è dato appunto dallo sforzo necessario a trasformarla da volontà particolare in volontà uni¬ versale. Abbiamo ora gli elementi cbe ci sono indispen¬ sabili per discutere il tormentatissimo problema del¬ la libera concorrenza e del monopolio. Secondo i termini tradizionali la libera con¬ correnza si esercita Ira individui cbe cercano il massimo benessere individuale, senza alcuna preoc¬ cupazione del fine sociale. L'ideale della perfetta concorrenza è appunto quello dì un giuoco di for¬ ze individuali autonome, la cui autonomia o irre¬ latività sia assoluta, 6Ì cbe il fenomeno economico scaturisca dall’incontro indisciplinato di interessi diversi e opposti. Ogni limite sociale, ispirato dalla visione di un fine che trascenda quello dell’arbitrio dei singoli, è considerato come una menomazione della concorrenza e come una forza antieconomica. Si consacra in tal modo nel campo delFeconomia l’assolutezza del principio della libertà come arbi¬ trio, cbe aveva dovuto trovare un limite nel ricono¬ scimento della necessità giuridica dello Stato. Quando tuttavia da questa concezione ideolo¬ gica ritorniamo all’analisi dell’effettivo processo del¬ la vita sociale, dobbiamo riconoscere cbe un tal mo¬ do di intendere l’ideale economico è intimamente incongruente. Se la società, infatti, è costituita al fine di collaborare, essa implica, come abbiamo vi- sto, una disciplina comune, una legge che neghi gli arbitri dei singoli, e cioè i loro interessi individuali in quanto altri da quelli sociali. Ne viene di conse¬ guenza che o bisogna ripudiare la libera concorren¬ za come un fenomeno essenzialmente antisociale o bisogna intenderla e promuoverla in un senso ra¬ dicalmente diverso da quello comune. Per rendere più evidente la questione sarà opportuno ritornare un momento all’esempio del- l’associazione a delinquere, e vedere in questa for¬ ma rudimentale di società il sorgere della concor¬ renza e il suo adeguarsi al fine unico della colletti¬ vità. Determinate le mansioni dei sìngoli membri, a qualcuno di essi può sembrare dì avere attitudini speciali per un compito assegnato a un altro. In tal caso egli fa la proposta di mettere a confronto le due capacità e di decidere chi dei due debba essere adibito a quel compito o anche se debbano esservi dedicati entrambi. Si inizia così nell’ambito della società un fenomeno di concorrenza, ma esso ha il peculiare carattere di essere voluto dalla società stessa e per un fine sociale: volontà e finalità che ne costituiscono l’intima legge e l’unica ragion d’es¬ sere. Lungi dall’affermarsi come un contrasto di in¬ teressi particolari, esso si realizza e sì giustifica in virtù del criterio fondamentale della società, per il quale ogni atto dei singoli membri è integralmente libero e insieme integralmente necessitato. Né diverso deve apparire l’opposto caso del monopolio, che, secondo l’interpretazione corrente, rappresenterebbe l’antitesi netta della libera con¬ correnza, perché toglierebbe ai singoli la libertà di far valere i propri interessi particolari. Ritornando anche qui all’esempio dell’associazione a delinquere, è facile dimostrare che, quando uno dei suoi com¬ ponenti abbia rivelato qualità speciali per Tadempi- mento di una funzione, l’attribuirgliene il mono¬ polio è atto libero di tutti, e, né più né meno della libera concorrenza, fondato sulla comune volon¬ tà. Libera concorrenza e monopolio, dunque, visti nella loro effettiva origine e giustificazione, si ri¬ velano dotati della stessa libertà e della stessa neces¬ sità, e nessun elemento essenziale può comunque ca¬ ratterizzarne una differenza logica. La molteplicità dei concorrenti nell’un caso e l’unità del monopoli¬ sta nell’altro sono affatto apparenti, poiché la vo¬ lontà che agisce in entrambi i casi è quella di tutti, e identici ne sono gli effetti. Questa tesi, teoricamente ineccepibile, può ap¬ parire smentita dalla realtà della vita economica, in cui concorrenza e monopolio troppo evidente¬ mente si differenziano nei caratteri costitutivi e nel¬ le conseguenze immediate. È esperienza molto ele¬ mentare quella che ci insegna il diverso determinar¬ si dei prezzi nei due casi, né alcun ragionamento potrà mai riuscire a convincerci che si tratti di un unico processo. Bisogna trovar, dunque, la ragione della differenza e vedere in che modo essa possa conciliarsi con i risultali cui siamo pervenuti. Caratteristica della libera concorrenza è l’ar¬ bitrio dei singoli non vincolati da alcuna necessità, caratteristica del monopolio la necessità eliminatri- ce di ogni libero procedimento : due fenomeni op¬ posti, entrambi in antitesi con il carattere fondamen¬ tale della società, quale è stato fin qui chiarito. Il che può subito farci avvertiti che i due fenomeni, in quanto si differenziano, non rispondono al regolare effettuarsi della vita sociale, ma ne rappresentano — 89 — la radicale alterazione e trasformazione. Libera concorrenza e monopolio sono i casi limiti, patolo¬ gici e assurdi, della normale vita economica caratte¬ rizzata dairidentificazione della libertà e della legge. La prova più evidente della contraddittorietà e anormalità dei due fenomeni opposti può esserci data dalla constatazione della impossibilità di una loro effettuazione integrale. Anche il liberista più convinto è oggi d accordo nel ritenere che una vera libera concorrenza non è mai esistita né potrà mai esistere e, anche guardando ad essa come al perfetto ideale, egli si arresta alla solita soluzione a mezzo del liberalismo politico, che in tal guisa riaffiora in economia attraverso questo riconoscimento di fatto : è tutto il mondo della necessità che grava suH’arbi- trio dei singoli e finisce col distruggerlo o con Tele- vario alla vera libertà. Né altrimenti avviene per il monopolio, costretto sempre a far i conti con una concorrenza potenziale, sempre limitato dalla for¬ za della legge o dalla pressione delTopinione pubbli¬ ca, spesso evitato per vie traverse o collaterali. È la realtà effettiva che reagisce sulle sue deformazioni e lentamente o violentemente finisce con Taverne ragione. I$|W La libertà economica, dunque, non può conce¬ pirsi se non come la perentoria negazione degli op¬ posti arbitri rappresentati dalla libera concorrenza e dal monopolio, ovvero dalTanarcbia e dalla tiran¬ nia economica. E basta porre in questi termini rigo¬ rosi il problema per comprendere tutta la vanità de¬ gli sforzi compiuti dagli economisti per riportare i loro teoremi a quelle due ipotesi scientifiche. Lungi dall’essere scientifiche, quelle ipotesi esprimono la più radicale istanza antiscientifica e conducono ne- — 90 — cessariamente a una generale, continua miscompren- sione dell’essenza della vita economica. Né vale op¬ porre che tali ipotesi sono soltanto schemi irreali ed astratti, ai quali lo scienziato perviene per intende¬ re fenomeni economici in prima approssimazione: ciò che a quegli schemi si rimprovera non è l’astrat¬ tezza, bensì la netta opposizione alla realtà effettiva dei fenomeni economici sociali, i quali si svolgono normalmente fuori di quelle ipotesi e vi tendono solo in quanto degenerane*. Perché la scienza econo¬ mica possa darci il tipo astratto del fenomeno eco¬ nomico occorre che abbandoni decisamente la via finora percorsa e, al di sopra dei concetti negativi dj libera concorrenza e monopalio, ponga quello evi¬ dentissimo e concretissimo di collaborazione , Resta ora da esaminare come l’ideale della vera libertà economica debba intendersi nelle sue deter¬ minazioni pratiche e quale via debba seguirsi per la sua più profonda attuazione. Se il nuovo concet¬ to è fondato stili identità di liberta e di legge, è chia¬ ro che instaurare una maggiore libertà economica vuol dire rendere sempre più rigorosa tale identità e cioè considerare 1 individuo sempre più identico allo Stato, così nei fini della vita come nei mezzi per raggiungerli. L ideale della vita economica e di quel¬ la sociale in genere dovrà condurre a una lotta più consapevole contro tutte le forme dualistiche ten¬ denti a separare il mondo dell’individuo dalla real¬ tà dello Stato, e dovrà insemina imporre il capo- — 91 — volgimento delle ideologie individualistiche del li¬ beralismo politico e del liberismo economico. Il che nel campo più strettamente economico si traduce nell'istanza scientifica e pratica di combattere con ogni mezzo 1 individualismo che ispira il dogma del¬ la libera concorrenza e insieme lo statalismo che per 10 più è a fondamento delle forme, monopolistiche. Consentire ancora che gli individui si esauriscano in una lotta destinata al soddisfacimento di parti¬ colari interessi, e non ricondurre la lotta stessa ai fini dello Stato, significa indulgere tuttavia alla più immorale e antieconomica forma di vita politica, riaffermando inconsapevolmente il trionfo del più egoistico arbitrio. Se lotta deve esserci e rimanere a fondamento del progresso, occorre ch’essa si im¬ pegni per la conquista di un più alto fine statale, e sempre con la coscienza di tendere a un benessere individuale che sia il benessere sociale: non lotta dunque di individui contro individui per il trionfo degli uni sugli altri, bensì lotta tra gli individui per 11 trionfo di un unico fine che rappresenti il massi¬ mo bene di tutti. Non si tratta di eliminare la con¬ correnza, ma di intenderla nel solo significato giu¬ sto, che è quello dell’affermazione dell’iniziativa in¬ dividuale nella ricerca del bene comune. Essa deve svolgersi nello Stato e per lo Stato, con ì limiti, la disciplina e la volontà dello Stato: la statalità deve costituirne l’essenza e il fine. Ma se convien combattere l’individualismo tra¬ dizionale della lihera concorrenza occorre poi eli¬ minare con non minore energia tutte le forme sta¬ tali che tendono a differenziarsi dagli individui. Come 1’individiio degenera nell’egoismo, così lo Sta¬ to degenera nel particolarismo della classe o degli — 92 — uomini dominanti: allora esso diventa lina forza contro altre forze, un’entità contro altre entità, e il dualismo di benessere individuale e benessere sta¬ tale si riafferma come differenza di arbitri e di egoismi. Così si spiega e si giustifica incontroverti¬ bilmente la critica del liberalismo alle forme sta¬ tali monopolistiche o comunque di intervento. Quan¬ do il monopolio, o l’azione economica dello Stato, è ispirato da una volontà trascendente quella dei cittadini, quando lo Stato si differenzia dalla Na¬ zione e diventa burocrazia o governo o oligarchia o comunque un ente particolare con volontà autono¬ ma, allora 1 intervento statale è antieconomico e il monopolio distruzione di ricchezza. All’arbitrio de¬ gli individui abbandonati nella lotta egoistica si so¬ stituisce l’arbitrio di un governo che impone un pro¬ prio fine altrettanto egoistico : e in entramhi i casi la libertà economica è radicalmente legata. Il perfe¬ zionamento della vita economica non potrà essere che in forme sempre più unitarie di collaborazione, con il progressivo allargarsi degli organismi produt¬ tivi e il disciplinarsi delle varie forze nell’unico si¬ stema statale. Questa è l’intuizione fondamentale dello Stato corporativo, destinato a realizzare con progressiva consapevolezza la compenetrazione e identificazione assoluta di individuo e Stato, ossia della volontà e dell’iniziativa dell’individuo con il fine supremo dello Stato. ECONOMIA NAZIONALE ED ECONOMIA INTERNAZIONALE La critica dell’econoinia liberale e la tesi del¬ l’identità di individuo e Stato, che di quella critica è la inevitabile conclusione, hanno condotto a una impostazione radicalmente diversa dei problemi tra¬ dizionali. E la differenza fondamentale va trovata nella sostituzione del concetto di molteplicità di sog¬ getti economici — gli individui o gli homines (Econo¬ mici, arbitri del proprio mondo particolare, limita¬ to solo dalle sfere di arbitrio degli altri individui — con quello di organismo economico unico, con unica volontà e unico fine, quello statale. Nell’economia liberale la molteplicità degli individui è sostanziale e costituisce il valore base della costruzione: l’uni¬ tà del mondo economico risulta solo dalla giustap¬ posizione e conciliazione estrinseca delle diverse vo¬ lontà e dei diversi fini. Nell’economia nuova, invece, l’unità dell’organismo politico è il presupposto im¬ prescindibile, e la molteplicità degli individui è ri¬ solta in essa senza dualismi di alcuna sorta. Si nega, cioè, che oltre al fine statale abbia ragion d’essere un qualsiasi fine economico individuale. Naturai- — 94 — mente questa differenza teorica tra le due economie ha una conseguenza pratica anchessa fondamenta¬ le, che può, all ingrosso, determinarsi contrappo¬ nendo al concetto di concorrenza e di lotta, che do¬ mina la vecchia economia individualistica, quello di collaborazione e di organizzazione che è caratteri¬ stico della nuova. La concorrenza e la lotta sono an- ch essi concetti trasvalutati : non cozzo violento di interessi diversi e contrastanti, ma sforzo e compe¬ tizione per il miglior raggiungimento deirinteresse unico. La stessa nozione di equilibrio viene ad essere intimamente corretta, in quanto non si pensa più ad una risultante meccanica, ma a un processo in¬ telligentemente voluto e guidato. Dove i soggetti sono molti, Limita è secondaria e fatale: dove il soggetto è uno, l’unità è originaria e intelligente. Ma ima grave obiezione può sollevarsi a que¬ sto punto, ed è stata difatti sollevata a difesa del¬ l’economia individualistica. Ammesso pure, si dice, che la concezione unitaria del soggetto economico si dimostri giusta e irrefutabile, quando si consideri a fondo la realtà di un'economia nazionale, non per questo il ragionamento può estendersi all’economia internazionale. Se Stato e individuo si identificano, facendo con ciò diventare unico il soggetto economi¬ co, resta tuttavia sempre una molteplicità di stati, che non possono non concepirsi come molteplicità di soggetti economici. Ne consegue — si conclude perentoriamente — che, se l’economia individua¬ listica non ha più valore per lintelligenza dei feno¬ meni economici nell’ambito di una Nazione, essa è. ciò non ostante, l'unica che ci consenta di compren¬ dere i fenomeni dell’economia interstatale. Gli sta- I — 95 ti, infatti, diventano essi individui economici e la toro azione va considerata alla stessa stregua di quella degli individui dell’economia liberale, Crite¬ ri fondamentali per l’intelligenza della loro vita eco- nemica saranno quelli di concorrenza e di lotta : secondaria e necessaria sarà l'unità della vita econo¬ mica: meccanico e fatale l’equilibrio delle diverse forze contrastanti. E il ragionamento, a prima vista, sembra im¬ peccabile, sì da rendere vana o almeno solo parzial¬ mente valida la tesi dell’idemità di individuo e Sta- to: la struttura dell'economia liberale e individua¬ listica resta quella che è, almeno per ciò che riguar¬ da la vita internazionale. Ma fortunatamente il ra¬ gionamento non resiste a un’indagine più accurata e profonda, e la stessa critica rivolta all’individuo cittadino finisce per valere per l’individuo Stato- I economia individualistica non può reggere in nes¬ sun caso, perché non può reggere il principio natu¬ ralistico su cui essa è fondata. Per chiarire adeguatamente la questione è ne¬ cessario approfondire il concetto di Stato e di rap- porto interstatale quale si è venuto delineando at¬ traverso la speculazione e il diritto pubblico con¬ temporaneo, Occorre precisare alcuni presupposti teorici c e servano a illuminare la concreta prassi nella vita economica. Di organismo economico inteso come unità es¬ senziale, se pur in modo affatto meccanicistico, si è — % - già parlato dai sociologi, i quali, muovendo dall’in- dividuo isolato, son passati alle diverse forme dei gruppi sociali (famiglia, tribù, società, comuni, re¬ gioni. nazioni, umanità) tutti ponendoli su di un unico piano ed eliminando ogni differenza qualita¬ tiva tra i gruppi stessi. E si parlato, quindi, di eco¬ nomia individuale, familiare, nazionale, sociale, mondiale, ecc., riconoscendo la possibilità di tante economie quante sono le forme sociali o di un unica economia che tutte le comprenda. Pur ammessa, perciò, la necessità di considerate i fenomeni eco¬ nomici nell’organismo della vita sociale, sembrereb¬ be. dal punto di vista della sociologia, affatto in¬ giustificata Videntificazione di individuo e Stato, e la riduzione dell’economia a economia statale. Per¬ ché mai arrestarsi o sollevarsi allo Stato per ricono¬ scervi il fondamento della scienza economica, se è possibile concepire una vita economica sia di grup¬ pi inferiori allo Stato sia dell’umanità che gli Stati tutti comprende? L’obiezione, anche qui, sembra inconfutabile e decisiva ; e finisce per congiungersi all’altra dell'e- conomia individualistica, in quanto riconosce, essa pure, la molteplicità degli individui sociali, o come persone fisiche o come gruppi di persone. Al solito, l’esigenza sociologica antindividualistica, e perciò antiliberale, è condotta dai suoi presupposti natu¬ ralistici agli stessi risultati della tesi che vuol su¬ perare. Ma l’obiezione, anche qui, è destinata a ca¬ dere definitivamente quando si abbia la forza di sollevarsi a un punto di vista più alto, dal quale e le persone e gli enti possano essere considerati nella loro vera essenza unitaria. Unità che non può esser data né dall’individuo particolare, in quanto uno — 97 — Ira ì tanti, né dall’umanità, in quanto sommaNi^^ wU tanti, bensì dallo Stato in cui l’individuo e Fuma- nità acquistano la loro effettiva concretezza. Il superiore punto di vista nel quale occorre metterci per giungere a questo risultato è dato dal¬ la concezione storicistica o dialettica della vita so¬ ciale, per cui allo Stato e soltanto allo Stato è con¬ sentita quella vera individualità ebe coincide con la vera universalità. E la ragione è questa: che tut¬ ti gli individui (persone o enti) che sono nello Sta¬ to, vivono, appunto, nello Stato, e sono perciò in esso risolti come momenti della sua vita; laddove al di sopra degli stati non può concepirsi un’umanità che sia organismo unitario (Stato o superstato) sen¬ za annullare, per ciò stesso, il concetto di Stato. Lo Stato, infatti, ha questo di caratteristico rispetto a tutte le altre unità sociali storicamente esistenti: di essere la suprema unità dialettica della storia, in quanto è unità differenziata rispetto alla moltepli¬ cità degli stati e non ha al di sopra nessuna unità differenziata. Lo stato-umanità è una contraddizio¬ ne in termini in quanto unità senza molteplicità, e perciò unità statica, indifferenziata e indifferenzia¬ bile, sottratta a ogni dialettica spirituale. Lo Stato non può essere che unità-molteplicità, ossia vera¬ mente sovrano, per il fatto di avere una sovranità riconosciuta dagli altri stati: se non ci fossero gli stati a riconoscere lo Stato, Io Stato non sarebbe perché non avrebbe coscienza della sua sovranità, non avendo ragione di essere sovrano. In tanto lo Stato può dettar legge ai cittadini, in quanto deve fonderli in un unità che viva e si affermi nella mol- leplicità: che, se questa molteplicità non esistesse, lo Stato non avrebbe un fine suo, ma vivrebbe per i " ■ Svinilo — 98 — fini degli elementi che lo compongono: non sarebbe perciò sovrano ma strumento, e la vera sovranità competerebbe agli organismi (persone o enti) cbe vi¬ vono nello Stato; sollevati al grado di vero indivi¬ duo, unità-molteplicità, o unità dialettica. Questo primo risultato della nostra indagine ci consente di rifiutare ristanza sociologica di più eco¬ nomie sociali, a seconda delia qualità dei gruppi considerati, o di un’unica economia sociale, coinci¬ dente con l’economia dell’umanità. La vera unità storicamente concreta è quella dello Stato, e perciò l’economia scientifica non può essere cbe statale. Ma, se ! istanza sociologica è superata, non altrettanto sembra quella individualistica, cbe si fonda appunto sulla molteplicità degli stati. Che, anzi, questa se¬ conda obiezione pare rafforzata dal riconoscimento esplicito die abbiamo fatto della molteplicità degli stati, e addirittura del carattere essenziale e impre¬ scindibile di tale molteplicità. Se non cbe, guardan¬ do più a fondo, si deve convenire cbe il nostro rico¬ noscimento non può avere lo stesso significato di quello su cui si fonda l’obiezione individualistica, per il fatto cbe nel caso nostro si tratta di nna mol¬ teplicità essenziale soltanto ai fini deirunità. E la unità è lo Stato, ossia l’individuo concreto, in cui gli stati, in quanto molteplicità, si risolvono senza residuo. Per intendere con precisione questo carattere di interiorità degli stati rispetto allo Stato, occorre m — 99 — ritornare al concetto di sovranità, cui abbiamo pri¬ ma accennato. Perché lo Stato sia sovrano è neces¬ sario che tale sovranità sia riconosciuta dai cittadi¬ ni, ma è necessario insieme che venga riconosciuta dalla molteplicità degli stati. Il che vuol dire che la sovranità ha due aspetti egualmente impresce- scindibili: uno interno e 1 altro esterno, rispetto ai cittadini e rispetto agli stati. E se di fronte ai primi la sovranità si esprime con ridentificazione dei fini individuali col fine statale, è necessario che anche di fronte ai secondi la sovranità abbia la stes¬ sa ragion d’essere. In altri termini, nella vita inter¬ nazionale lo Stato deve vedere negli stati altrettanti elementi del proprio organismo unitario, vale a dire altrettanti strumenti del proprio fine. Il che, si badi bene, non va inteso nel senso assurdo di un nazio¬ nalismo cieco, bensì in un senso affatto spirituale e perciò il più internazionalistico possibile. Come i cittadini, invero, sono strumenti dello Stato, non sacrificando i propri fini particolari a quello dello Stato, bensì riconoscendo che i primi si identificano col secondo e lottando per un sempre maggior ri¬ conoscimento di tale identità, così gli stati debhono trovare nel fine dello Stato gli stessi loro fini par¬ ticolari e dare incremento a una vita che, se è po¬ tenziamento dello Stato, è, per ciò stesso, potenzia¬ mento della collaborazione internazionale. Se così non fosse, se cioè lo Stato non fosse so¬ vrano così verso i cittadini come verso gli stati, non si avrebbe sovranità di sorta, perché la stessa sovra¬ nità, esercitata sui cittadini non sarebbe sovra¬ nità, in quanto necessariamente condizionata dalla realtà degli altri stati. Il che sanno bene quei giu¬ risti i quali non ammettono che il diritto interna- — 100 — zionale sia un diritto superstatale, di natura diversa dal diritto interno. Due modi, insoninia, ni sono di intendere la vita internazionale: uno, che può dirsi liberale o individualistico, per cui esistono gli stati nella loro molteplicità atomistica, legati da un rap¬ porto estrinseco concepito come risultante della coesistenza degli stati stessi; un altro, invece, che potremmo denominare idealistico o storicistico, per cui esiste Io Stato nella sua unità assoluta, che ri¬ solve in sé dialetticamente la molteplicità degli stati, legati da un rapporto sostanziale e intrinseco che è il fine stesso dello Stato. Da una parte una vita in¬ ternazionale che è quella che è, bruto incontro di forze eterogenee e di fini particolari contrastanti; dall’altra un organismo internazionale che ha un fine consapevole e un unico centro : lo Stato. Ora, se applichiamo questo concetto dello Stato e della vita internazionale alla scienza dell’econo- mia, possiamo ripetere in questa sede la critica già svolta a proposito deireconomia liberale o indivi¬ dualistica. 0 si accetta la concezione atomistica della vita internazionale, e allora bisogna riconoscere che una scienza deireconomia non può esistere, in quan¬ to i fenomeni economici internazionali hanno la stessa illogicità (itnprevedibililà) dei fenomeni eco¬ nomici dell’individuo soggettivisticamente inteso e non possono sottrarsi alla sfera del puro arbitrio ; o, invece, si crede che una scienza deireconomia possa esistere, e allora bisogna riconoscerne il fon¬ damento in un organismo intelligibile, che è, così nella vita economica nazionale come in quella in¬ ternazionale, lo Stato nella sua concretezza storica e nella sua consapevole attualità. E lo Stato in nes¬ sun caso può venir superato o sostituito, come prin- 101 — cipio primo della scienza, senza annullare la scien¬ za stessa nella sua possibilità teorica e nella sua validità pratica. Ancora una volta l’identità di in¬ dividuo e Stato segna il punto di arrivo delle scien¬ ze sociali in genere e deireconomia politica in par¬ ticolare. Risolto il problema dei rapporti tra economia nazionale ed economia internazionale, riconducen¬ dolo al più vasto problema del concetto dello Stato, occorre ora mostrarne le conseguenze più partico¬ larmente economiche e vedere in quale senso le con¬ clusioni cui finora è pervenuta la scienza vadano rivedute e corrette. È opportuno anzitutto precisare il significato che per la scienza tradizionale ha il concetto di eco¬ nomia interstatale. Purtroppo tale precisazione non può avere che un carattere tulio negativo, in quanto a rigore per reeonomia classica un problema eco¬ nomico interslatale non può neppure sussistere. Da¬ to, infatti, il concetto di homo ce conomicus come presupposto fondamentale della scienza, tutta l’in¬ dagine si esaurisce in un’economia individualistica nella quale non v’è posto alcuno per lo Stato. Quan¬ do lo Stato ha fatto sentire la sua esigenza impre¬ scindibile, airesigenza stessa si è tentato soddisfare individuando lo Stato in un ente particolare, con un fine e una vita economica propri, diversi da quelli degli individui. Ne è derivata, nella migliore delle ipotesi, una sottoscienza sui generis cui si è dato il nome di scienza delle finanze. Ma lo Stato vero, quello che si identifica con l’individuo, e ne costituisce la vita logica, quello non è entrato mai in questione e i fenomeni economici sono stati stu¬ diali in quanto fenomeni interindividuali. La vita economica naturale esclude lo Stato e si esprime tutta nella libera concorrenza delle forze partico¬ lari, sì che rintervento statale può essere studiato lutt’aì più come causa di deviazione dal corso na¬ turale, ossia come uno degli ostacoli alla libera estrinsecazione delle forze in contrasto. E questa conclusione non varia col passare dall’economia na¬ zionale all’economia internazionale, per il fatto stes¬ so che lina nazione o uno Stato come unità econo¬ mica è negato a priori nel modo più categorico. Come neirambito dello Stato i fenomeni econo¬ mici si svolgono indipendentemente dallo Stato, così si svolgono pure quelli che si verificano nel più vasto mercato mondiale. Non sono, infatti, gli stati che contrattano fra loro, sibbene gli individui o i gruppi di individui che ne fanno parte, e che agi¬ scono economicamente così quando si trovano ad appartenere a una stessa nazione, come quando so¬ no cittadini dì stati diversi. I fenomeni economici che ne risultano sono precisamente gli stessi, e la scienza non ha ragione di porre un qualsiasi pro¬ blema al riguardo. Problemi diversi nascono invece quando tra slato e stato si elevano delle.barriere che distìnguo¬ no il mercato interno da quello esterno. Sono le barriere doganali, espressioni tipicamente statali, che alterano tutti gli scambi facendo sorgere, anche nell’economia classica, la specifica teoria del com¬ mercio internazionale. Tuttavia bisogna star bene attenti alla natura del problema, e non credere che 103 la scienza tradizionale abbia con ciò abbandonato o comunque menomato il presupposto individuali¬ stico. Lo Stato di cui, anche qui, discorre la teoria, è sempre quello che è oggetto della scienza delle finanze e cioè un ente a sé con particolari fini e fun¬ zioni. E la scienza in tanto lo prende in considera¬ zione in quanto esso fa deviare l'economia naturale dal suo libero corso. Se, infatti, si analizzano le co¬ muni teorie del commercio internazionale, è facile avvedersi come tutto il loro contenuto si risolva, per un verso, in un’istanza negativa, implicita o espli¬ cita, contro l'intervento degli siati (soppressione delle barriere doganali), e, per un altro verso, nel¬ l’indagine delle conseguenze che il sussistere delle barriere doganali ha nell economia degli individui appartenenti ai diversi stati. In ogni caso si resta ligi al presupposto d eWhomo ceconomicus , unico centro e ragione della vita economica, e si resta con¬ seguentemente ligi al vecchio concetto di Stato, in¬ teso come una superfetazione, sia pur necessaria, e un limite più o meno grave della libera vita dell’in¬ dividuo. Una vera economia internazionale può nascere solo col sorgere del concetto di Stato, come organi¬ smo economico di carattere universale ; lo Stato, cioè, come soggetto economico in cui si fonde tutta la vita economica dei cittadini. In che cosa consista la differenza essenziale dei due concetti di Stato nella concreta prassi economica potrà risultare molto agevolmente da un esempio notissimo. In Italia si produce meno grano di quel che non si consumi: non solo, ma io posso trovar convenienza a rinun¬ ziare alla coltivazione del grano e a importarlo dal- 1 estero. Secondo la dottrina liberale, della conve- — 104 — nienza economica di produrre grano o di importar¬ lo, sono giudice assoluto io solo: lo Stato è tenuto a disinteressarsene completamente. Nel caso di un suo intervento, questo è dovuto o a ragioni politiche concepite come extraeconomiche o al bisogno di provvedere, mercé i proventi di un dazio doganale, alle spese inerenti alle sue peculiari funzioni. 0 un problema politico, dunque, o un problema di scien¬ za delle finanze: e l’economia scientifica, in ogni caso, non ne è toccata, racchiusa come essa è nel- Tindagine dello scambio tra me, produttore e consu¬ matore, e il produttore straniero. Ma quando lo Stato cessa di essere un ente particolare per dive¬ nire la stessa nazione nella sua unità, il problema del grano diventa problema economico solo in quan¬ to problema nazionale. E come quello del grano 6Ì impostano tanti e tanti problemi — a rigore tutti i problemi economici — che non hanno significato al¬ cuno per l’economia fondata sul presupposto del- Vhomo ceconomicus. Che significato, infatti, posso¬ no avere per una concezione individualistica pro¬ blemi come quelli della ruralizzazione o industria¬ lizzazione, dell’incremento demografico, deH’emigra- 5 ) Quando considero la scienza delle finanze lucri dell'economia politica non intendo parlare di un'estraneità assoluta, bensì rela¬ tiva al particolare concetto di Stalo sul quale la scienza delle fi¬ nanze finora è stata costruita. Dato uno Stalo —- essa dice — else ba particolari funzioni (pubblica sicurezza, giustizia, esercita, ecc.l, esso deve pur avere un proprio bilancio; e le sue entrale e le sue spese, come pure la loro influenza sulla vita economica dei citta¬ dini, devono esser studiate dalla scienza economica: tuttavia la vita economica dello Stato è altra cosa dalla vita economica dei citta¬ dini, sì che scienza delle finanze ed economia politica non coinci¬ dono. Cbi invece crede allo identità di indivìduo e Stato deve ne¬ cessari ante me intendere tale identità come fondamento di quella di scienza delle finanze ed economia. Ma sul problema della riforma della scienza delle finanze avremo modo di tornare in altra sede. — 105 — zione, ecc.? A ognuno, secondo i suoi gusti e le sue capacità, risponde Peconomia pura, perché per essa tali problemi sono tanti quanti gli individui. Ognuno al suo posto secondo il fine unico dello Stato, ri¬ sponde la nuova economia, perché per essa tali pro¬ blemi si risolvono in uno solo. E i gusti si educano e le capacità ci creano: sì che al posto di tanti cen¬ tri economici se ne mette soltanto uno, e all’incon¬ tro di tanti mondi si sostituisce un organismo con¬ sapevole. Organizzazione: ecco la grande realtà della vita civile in genere e della economia in particolare; ma organizzazione vuol dire organismo e l’organismo non può essere che unico: lo Stato. V’è poi l’organizzazione internazionale e sem¬ bra vi sia anche un organismo internazionale. E di¬ fatti esso esiste, ma in un senso diverso da quel che comunemente si crede. Se lo Stato ha un fine da raggiungere, risolve a suo modo tutti quei pro¬ blemi economici cui abbiamo prima accennato, ri¬ solvendo la vita economica dei cittadini in quella della propria unità. Ma è chiaro che il fine non sa¬ rebbe raggiunto se lo Stato non operasse egualmente con gli stati, che tutti, direttamente o indirettamen¬ te, entrano in rapporto con esso. Scendendo anche qui a un esempio concreto, possiamo notare come l’Italia per industrializzarsi deve importare alcune materie prime e trovare i mercati di esportazione per i manufatti. 11 che è possibile solo in quanto altri stati siano disposti a darci quelle e a comprare questi; vale a dire a divenire strumento di raggiun¬ gimento del fine che ci proponiamo. Ora, le condi¬ zioni necessarie perché gli altri diventino mezzi per il nostro fine sono essenzialmente due. Prima: che il fine che ci proponiamo sia davvero propo¬ sto, e cioè sia un fine consapevole; seconda: che si abbia la capacità di far divenire tale fine il fine economico degli altri stati. Perché la prima con¬ dizione si verifichi è necessario che lo Stato si iden¬ tifichi con l’individuo, ossia con la nazione, e sia organismo unico, soggetto economico unico. Perché si verifichi la seconda è necessario che lo Stato si identifichi con Tumanità, ossia con la vita interna¬ zionale, risolvendo nel proprio organismo l’organi¬ smo internazionale. La forza dunque che ci può consentire di raggiungere il nostro fine è forza or¬ ganizzativa di noi e degli altri, ossia la forza di col¬ laborazione, in cui la lotta e la concorrenza vengano risolte come momenti dialettici. Vi sono, infatti, due modi di concepire la lotta e la concorrenza economica — come, in genere, ogni sorta di lotta —: l’uno per il quale il fine della lotta è la distruzione dell’avversario, l’altro, invece, per cui il fine è l’unificazione delle volontà. TI pri¬ mo è puramente negativo e infecondo, il secondo, momento necessario di ogni sviluppo e progresso. Ora, nel campo economico internazionale una lotta intesa nel primo senso non potrebbe avere alcuno scopo intelligibile all’ìnfuori di quello del distrug¬ gere per il distruggere. E ciò non può lasciar dub¬ bio di sorta se si pensa che lo stesso effetto della distruzione sarebbe raggiungihile senza il minimo sforzo chiudendo i confini e facendo divenire l’eco- nomia nazionale un’economia chiusa. Se i confini restano aperti, è segno che gli altri stati non sono ostacoli da abbattere, ma forze da utilizzare, e uti¬ lizzare vuol dire coordinare le proprie forze per procedere in un’unica direzione. Allora la concor- 107 rema diventa — così come nel campo nazionale — voluta, disciplinata e subordinata al fine nazionale da raggiungere: il suo scopo non è più quello di eliminare delle forze avverse, ma di convertirle a una funzione che risulti più rispondente ai bisogni dell’organismo. 11 che si ottiene non lasciando che i concorrenti si urtino a vicenda seguendo i propri fini particolari, ma regolando la competizione verso la più opportuna divisione di lavoro. Che le conclusioni, cui siamo pervenuti, noti siano arbitrarie e utopistiche, lo dimostra, a chiun¬ que abbia gli occhi per vedere, la trasformazione sempre più rapida del mondo economico nella di¬ rezione indicata. All’interno il processo di unifica¬ zione della vita economica ha fatto passi gigante¬ schi e tutto fa pensare che il cammino sarà an¬ cora più notevole nel prossimo avvenire. Il concetto di organismo economico va sostituendosi, nella real¬ tà ancor prima che nella scienza, a quello di indi¬ viduo o di homo o economicus, tra svalutando soprat¬ tutto i concetti di monopolio e di libera concorren¬ za. Sul terreno internazionale poi le intese e gli ac¬ cordi economici sono sempre più frequenti e l’esa¬ sperazione della lotta doganale va richiamando sem¬ pre più l’attenzione generale sulla necessità di una organizzazione più salda e profonda delle forze eco¬ nomiche dei diversi stati. E anche qui la concorren¬ za va di fatto mutando i caratteri arbitrari di una volta, per rientrare nel circolo di un sistema dalla — lofi - cui logica unità viene incanalata e corretta. È una disciplina certamente più ardua e instabile, data la immensità del mercato e la molteplicità degli ele¬ menti da controllare, ma solo i ciechi potrebbero negare 1 abisso che corre tra l’atomismo economico di alcuni decenni fa e l’ingranamento odierno d’in¬ finiti centri economici in giganteschi organismi a ca¬ rattere internazionale. Né l’urto e l’esasperazione di tanti nazionalismi sorti o rafforzati nel dopoguerra riescono ad arrestare questo processo di collabora¬ zione internazionale, che è, d’altronde, l’unico stru¬ mento di un nazionalismo non illusorio. L’economia individualistica o liberale ha fatto il suo tempo e la realtà ce lo insegna additandoci le necessità della vita economica dentro e fuori i confini. Al dogma del liberismo e alla fede nella lotta incondizionata degli arbitri dei singoli va sostituendosi la convin¬ zione critica dell’apriorità dell’organismo economi¬ co coincidente con la realtà dello Stato. E con la realtà deve ormai procedere la scienza, che, non avendo più a suo oggetto una molteplicità caotica e inintelligibile come quella presupposta dal liberi¬ smo. può cominciare a veder chiaro nella logica del- 1 organismo economico e trovare quei fondamenti sistematici che ha invano perseguito per due secoli. LIBERISMO E PROTEZIONISMO Dopo aver precisato il concetto di libertà eco¬ nomica e i rapporti tra economia nazionale ed eco¬ nomia internazionale è possibile procedere all’ana¬ lisi della secolare antinomia tra liberismo e prote¬ zionismo. Nessun problema della scienza economica e stato tanto dibattuto come questo e l immensa let¬ teratura sull argomento continua di giorno in gior¬ no ad arricchirsi di nuovi saggi, che sostanzialmente si esauriscono nella ripetizione dei motivi fonda- mentali addotti dai fisiocrati in poi in favore del- 1 una o dell altra tesi. Ma, nonostante tutta questa mole di studi, sta di fatto che l'antinomia è rimasta teoricamente e praticamente insoluta, sì che liberi¬ sti e protezionisti continuano tuttavia ad accusarsi a vicenda di sproposilare nel campo scientifico e di rovinare, in pratica, l’economia della nazione. La soluzione classica del problema — confor¬ me al motivo fondamentale della scienza dell’econo¬ mia quale si è venuta configurando dal secolo XVI1T a — è quella rigorosamente liheristica. Muo¬ vendo dal presupposto del carattere naturale della vita economica, si è giunti a fil di logica alla eonclu- sione che. così negli scambi interindividuali come in quelli internazionali, le varie forze vadano la¬ sciate affatto libere nel loro giuoco e che il risultato dell’anarchico incontrarsi e scontrarsi sia quello della loro più perfetta composizione. A tale teoria naturalistica degli scambi internazionali ha dato poi — come si è detto — nuova forza la scuola psicolo- gico-matematica, che, giungendo, col Pareto, al con¬ cetto di ofelimità e frantumando, in tal guisa, il giudizio della economicità delle azioni nella molte¬ plicità dei soggetti economici postulati, ha sottratto alla sfera di competenza dello scienziato e a quel¬ la dell’uomo politico la stessa possibilità di un giu¬ dizio obiettivo di valore. Intervenire negli scambi non si può perché si ignorano in modo assoluto le utilità soggettive di coloro che scambiano. L'opposta tesi protezionistica, invece, non ha mai trovato un fondamento ideologico così deciso e preciso e, sebbene confortata dal costante esem¬ pio storico di una politica più o meno antiliberisti- ca, è rimasta nel campo scientifico in condizioni di evidente inferiorità. Il che spiega come essa nella maggior parte dei casi non abbia assunto le carat¬ teristiche di una vera e propria teoria, ma si sia li¬ mitata a contemperare il rigore della concezione li- beristica, mettendo capo a varie forme interme¬ die. E il compromesso ha finito, in sostanza, col trionfare nella letteratura scientifica più recente, sia per l’impossibilità di eliminare in modo assolu¬ to i motivi della tesi protezionistica, sia per la sem¬ pre maggiore coscienza storicistica dei cultori del¬ l’economia, costretti, volenti o nolenti, ad avvici¬ narsi alle nuove concezioni speculative. I tentativi di conciliazione si possono raggrup- — Ili — pare intorno a due tipi principali. Gli ortodossi bau- no mantenuto fede al postulato Veristico limitali- dosi a confinarlo nel campo della così detta econo¬ mia pura. Da un punto di vista astrattamente eco¬ nomico, essi dicono, resta incontrovertibile che ogni dazio protettore distrugge ricchezza: ciò non vuol dire, tuttavia, che in pratica sia da eliminare sem¬ pre e dovunque ogni sorta di barriere doganali; possono esservi, infatti, altre ragioni di carattere politico che consiglino l’intervento protettivo non ostante il danno economico da esso prodotto. Ma accanto agli ortodossi vi sono ormai parecchi esem¬ pi di economisti che, nello stesso ambito dell’eco¬ nomia pura, ammettono la possibilità di un dazio proficuo. Secondo essi, l'economia pura non può stabilire a priori se un dazio sia economicamente vantaggioso o dannoso: in certi casi la protezione, lungi dal distruggere ricchezza, è condizione neces¬ saria per il suo accrescimento. A chi, direttamente o indirettamente, segua le tracce della vecchia economia sembra verità di ca¬ rattere addirittura lapalissiano che con le soluzioni del problema ora prospettate si siano esaurite tutte le alternative possibili. 0 liberismo, o protezioni¬ smo o forme intermedie di compromesso: e la ve¬ nta va cercata eliminando due di queste soluzioni. Ma chi ormai ci ha seguito nella critica della scien¬ za economica e nella riduzione dei diversi indi¬ rizzi a quello classico liberale, può agevolmente 112 rendesi conto dell’impossibilità di giungere a un risultato davvero conclusivo accettando i termini della questione e limitando l’indagine a una sem¬ plice scelta. Se il problema ha messo capo a queste tre alternative e fra di esse si è dibattuto per due secoli, è segno cb'esso è rimasto aderente a una de¬ terminala concezione scientifica e cbe è vano ten¬ tare ancora di risolvere l’antinomia, senza superare quella concezione e porre la questione in termini affatto diversi. Ma perché il superamento non sia illusorio e perché l’antinomia appaia nella sua as¬ soluta irriducibilità, è necessario anzitutto chiarire la sostanziale identità dei due termini opposti. Oc¬ corre, in altre parole, dimostrare che liberismo e protezionismo non sono due soluzioni cbe si ripor¬ tano a due diverse concezioni della vita economica, sì che l’errore dell'uno possa significare o per lo meno possa non escludere la verità dell'altro, ben¬ sì che l’uno e l’altro scaturiscono da uno stesso prin¬ cipio informatore e rappresentano Tantinomia in¬ terna di esso. L’errore dell’uno è lo stesso errore dell'altro, ed entrambi si spiegano con l’errore del principio di cui sono espressioni. Il principio, s’intende, è quello solito dell’in¬ dividualismo economico. Si parte dal presupposto che le forze reali siano gli indivìdui nella loro au¬ tonomia e si pretende ch’essi soddisfino i loro bi¬ sogni nel libero giuoco della concorrenza, Nel caos in cui si scontrano le infinite forze individuali ognu¬ na salvaguarda come può i propri interessi e cerca di trarre il massimo profitto possibile. Così come per la naturalistica legge della selezione, i migliori si affermano e trionfano, i peggiori sono travolti e soccombono: né mai altro equilibrio o compo- - 113 — sizione delle forze si instaura che non sia quello de¬ rivante dall urto disorganico e disordinato. Ora, in questa concezione liberistiea o individualistica del- 1 economia, la teoria protezionistica, se appare co¬ me una contraddizione alle leggi di natura e però sostanzialmente illogica dal punto di vista scienti¬ fico ortodosso, è tuttavia escogitata per servire allo stesso sistema della concorrenza di cui apparente¬ mente è la negazione. Quando un’industria chiede un dazio protettore lo fa esclusivamente per vince¬ re la concorrenza, e il dazio si risolve in un aiuto a una delle forze concorrenti e non in una forza eli- minatrice della concorrenza. Anche nel caso di un dazia proibitivo il fine ultimo è quello dì spostare e non di eliminare la concorrenza: i dazi, insonuna, non sono che altrettante forze gettate sul mercato per meglio resistere allumo e vincere nella lotta. Ma, con o senza dazi, la vita economica resta sem¬ pre quella primitiva o naturale di una bruta molte¬ plicità di elementi contrastanti. Nel mercato inter¬ nazionale come nel mercato interno si incontrano soggetti economici diversi, reciprocamente estranei fino al momento deH’incontro e che dal solo atto deirincontro debbono trarre norma per l’ulteriore difesa di propri fini particolari. Ragione della con¬ correnza è quindi il persistere di una molteplici¬ tà atomistica incapace di unificarsi, e il mercato, che è appunto la classica espressione delFeeonomia liberista, rappresenta il campo di lotta di individui (persone o nazioni) fino allora chiusi in mondi non comunicanti. 8 ■ Ambita — 114 Il carattere primitivo della vita economica fon¬ data sul principio della concorrenza (compreso in questo termine l’intervento protezionistico) è do¬ vuto, dunque, alla sua disorganicità o irrazionalità. Come il liberalismo politico di cui è la necessaria conseguenza, essa è il punto di partenza per il cam¬ mino della civiltà e non l’ideale della civiltà stessa. Il trionfo assoluto della concorrenza, lungi dal rap¬ presentare, come pensano i liberisti, un ideale da raggiungere allorché sarà superata ogni sorta di pregiudizi antiscientifici, è soltanto una realtà che si perde nella notte del primitivo stato di natura, in quello stato precontrattuale che vagheggiava la mente del ginevrino. Il carattere irrazionale della vita economica fondata sulla concorrenza e sul protezionismo è da¬ to appunto dalla irrelatività primitiva degli uomini e dei paesi, i quali rimangono gli uni fuori degli altri e non possono o non vogliono fondersi in un organismo unico. Credere che ogni forza economica possa rimanere autonoma e tuttavia ottenere il mas¬ simo di utilità possibile nello spontaneo equilibrio di tutte le altre forze, significa cadere nella più grossolana delle contraddizioni, in quanto si pre¬ tende far derivare la razionalità da un processo non razionale. Se razionalità vuol dire universalità, os¬ sia unità di volere e di fine, è chiaro che il modo migliore di raggiungere il fine non potrà esser quel¬ lo di ignorarsi reciprocamente e di procedere per vie diverse. La scienza deH’economia che finora ha — 115 — teorizzato la libera concorrenza o la protezione è caduta in un errore che ha tutto compromesso.’in quanto ha cercato di dare le leggi di ciò che è ex ege.. e ha lasciato fuori proprio la vita economica razionale. Libera concorrenza e protezione sono al di qua di ogni norma per il fatto stesso che sono al di qua di ogni organismo: esse rappresentano rat¬ inino, la natura, il male, il frammentarismo, la ne¬ gatività, msomma, della vita; e fare scienza di esse vai quanto fare scienza del caso. La vera vita eco¬ nomica e quindi la vera scienza può sorgere soltan¬ to allorché si comincia a uscire comunque dalla ir- relatività e a unificare i mezzi e i fini da raggiun¬ gere. Se, in apparenza, la vita degli individui e quella delle nazioni è stata finora denominata dalla concorrenza e dal protezionismo e tuttavia ha pro¬ ceduto nel cammino della civiltà, ciò è dovuto in realtà al fatto che, di là da ogni liherismo e prote¬ zionismo, si è andata sempre più affermando una intesa e una collaborazione di forze completamente sfuggita alla miopia degli scienziati. Accordo, collaborazione, organismo: ecco ì termini del problema, una volta superato il pre¬ supposto irrazionale deH’individualisnio. E tanto più è necessario porsi per questa via quanto mag¬ giore è lo sviluppo della vita economica e dei suoi elementi essenziali. Se, infatti, si resta nei limiti di iorze individuali o quasi, la cieca competizione dà luogo a danni meno appariscenti e profondi: ma quando, come nella vita contemporanea, gli orga¬ nismi economici sono diventati tanto complessi e grandiosi, andare avanti ignorando quel che fa¬ ranno gli altri significa esporsi a crolli improvvisi e spaventevoli. Superate in gran parte nella vita — 116 — economica interna le forme dell’individualismo e divenute normali le forme delle società anonime, delle banche, dei trust , ecc., continuare a tener fe¬ de all’individualismo nei rapporti internazionali di¬ venta sempre più assurdo e pericoloso. La crisi eco¬ nomica mondiale è l’espressione più evidente e con¬ vincente di tale assurdo. Dunque: né liberismo, né protezionismo; nes¬ suna, insomma, di quelle soluzioni che presuppon¬ gono l’autonomia radicale delle forze economiche. Anche qui l’obiezione più facile sarà quella che deriva da una grossolana ipostasi della lotta e della dialettica della vita. Ma, anche qui, è facile rispondere che c’è lot¬ ta e lotta, e che il cammino della civiltà sta appunto nel rendere sempre più elevata e spirituale la com¬ petizione e sempre più abnorme ed eccezionale la guerra. E della guerra e non della competizione han¬ no proprio i caratteri la concorrenza economica e la protezione, in quanto tendono a sopraffare e non a collahorare con l’avversario. La competizione che si deve instaurare è quella che ha per fine l’incie- mento dell’organismo e si svolge quindi nell’ambito deU’organismo, non quella che ha, invece, per fine l'incremento dell’individuo (persona o nazione) visto nella sua particolarità irrelata. Dalia tesi teorica è molto facile scendere alla pratica applicazione nella vita politica. La realtà urge da tutte le parti e sta già facendo giustizia dei vecchi dogmatismi scientifici. Dobbiamo renderce- - 117 — ne 9empre più consapevoli e affrettarne il procedi¬ mento. Le forme concrete di realizzazione sono na¬ turalmente quelle die tendono all’unificazione del- 1 organismo economico mondiale. In primo luogo, lo studio internazionale delle forze economiche dei diversi paesi e delle vie più adatte alla loro colla¬ borazione e fusione. E, in conseguenza, la politica degli accordi industriali e commerciali atti a rea¬ lizzare quella fusione. La traduzione in pratica della tesi non avver¬ rà tanto facilmente, né mai in forma assoluta. Ma, se questa è la mèta cui tendere, bisogna die il pe¬ riodo di transizione sia informato alla coscienza del punto d arrivo. Voglio dire che nell’organizzare l’e¬ conomia della nazione occorre dalle fin d’ora quella fisionomia che più risponde alla sua funzione spe¬ cifica nel sistema dell’economia mondiale. Elimi¬ nando, per quanto è possibile, ogni sterile concor¬ renza, deve cercarsi un’affermazione dell’industria che assuma un’importanza essenziale nella vita del nostro e degli altri popoli. 11 nostro orizzonte deve allargarsi e non si può più pretendere di giovare alla nostra economia senza con ciò stesso giovare al- 1 economia degli altri. Questa è la legge di ogni or¬ ganismo e a questa legge deve essere informata an¬ che la politica economica di un paese che voglia guardare sul serio all’avvenire. V è, abbiamo detto, una concorrenza superiore a quella comunemente intesa; ed essa si vince oggi ponendosi all avanguardia nel processo dell’unifica¬ zione. La grandezza economica di una nazione si instaura col darle un posto di primo ordine nell’or¬ ganismo internazionale: chi ha la consapevolezza — Ufi — della via da seguire può concorrere più decisamen¬ te degli altri alla creazione di un organismo in cui far valere al massimo le proprie energie. Ma a que¬ st'azione politica internazionale va accompagnata, s intende, una trasformazione adeguata della vita interna in modo da porla all’altezza di quella vita mondiale del cui rinnovamento ci si fa promotori. Per uscire dai termini generali e scendere al- 1 esempio pratico del nostro Paese, che dei fonda¬ menti della nuova economia ha tentato prima e più degli altri una concreta attuazione, è facile preci¬ sare alcune conseguenze imprescindibili da cui trar¬ re norma per l’avvenire. L’Italia è la prima na¬ zione — si può aggiungere la Russia, ma per essa dovrebbe farsi altro discorso — cbe ba proceduto alla formazione di un sistema economico nazionale, attraverso l’ordinamento corporativo: ma i suoi sforzi, per quanto innovatori e fecondi, non posso¬ no raggiungere un risultato decisivo finché il suo sistema rimarrà un centro organizzato in mezzo a una vita mondiale disorganizzata. La vera vittoria del fascismo o del corporativismo si avvererà il gior¬ no in cui avremo fascistizzato o eorporativizzato tutto il mondo. Fino a quel giorno avremo la pos¬ sibilità di resistere un po’ meglio degli altri ai ma¬ rosi dell’oceano, ma rimarremo in gran parte in ba¬ lìa di essi. Primo compito, dunque, quello di per¬ suadere il mondo della verità dell’economia corpo¬ rativa e di farsi iniziatori di un sistema corporati¬ vo internazionale. Ma questo fine, a sua volta, im¬ plica la necessità di considerare fin d’ora il sistema corporativo italiano, non come un sistema a sé, chiuso e sufficiente nella sua autonomia, bensì co¬ me il sistema in cui si risolve tutta la vita econo- — 119 — mica mondiale. E alla realtà di questo più ampio sistema bisogna volgere gli occhi per la soluzione degli infiniti problemi propri della nostra nazione. Se, per esempio, nella soluzione del problema del grano consideriamo il sistema economico na¬ zionale come un sistema chiuso, è chiaro che spin¬ geremo al massimo la produzione fino al punto da non importare più un quintale dall’estero; ma se, al contrario, badiamo al sistema corporativo mon¬ diale, i nostri sforzi tenderanno a raggiungere una produzione massima per ettaro coltivato, ma insie¬ me a ridurre progressivamente la superficie colti¬ vata. È evidente che una produzione che per reg¬ gersi ha bisogno di un dazio di 75 lire a quintale oltre a varie altre provvidenze legislative, e che non può sperare di modificare sensibilmente que¬ ste condizioni nell avvenire, deve rappresentare uno stadio provvisorio nel processo dell’organismo mon¬ diale. Ben diverso è il problema dell’industria si¬ derurgica e delle industrie meccaniche nella cui soluzione non si può affatto convenire con i teorici del liberismo. (Tanto è vero che l'economia corpo-, rativa è di là da ogni liberismo o protezionismo). Le industrie siderurgiche e meccaniche sono al fon¬ damento di tutta la più alta industria moderna, e una nazione che vi rinunci, si suicida. Ma anche qui occorre non perdere d’occhio il sistema mon¬ diale e quindi indirizzare tali industrie verso quelle forme superiori in cui il tecnicismo (preparazio¬ ne e ingegno dei dirigenti e bontà della mano d'o¬ perai diventi fattore di produzione predominante fino a rendere trascurabile il maggior costo delle materie prime. — 120 - Alla visione dell’avvenire, verso cui certamen- te si cammina a gran passi, contrasta la politica dell’oggi con altissime barriere doganali e con la sfrenata concorrenza. Ma se la logica è dell’avveni¬ re -— ci dicono ancora gli scettici — intanto come si va innanzi? Dobbiamo togliere le barriere e dar ra¬ gione ai liberisti, ovvero dobbiamo elevarne anco¬ ra e difenderci a tutti i costi? La vita economica sociale, si è detto, è cono¬ scibile scientificamente solo in quanto razionale e organica. Se il problema resta posto nei termini consueti della concezione individualistica, nessuna risposta può darsi ebe abbia valore di norma. Li¬ berismo e protezionismo sono le soluzioni di uno stato di guerra, di un urto violento e indisciplinato; e in guerra, si sa, ci si difende come si può. Se un individuo viene affrontato, deve uccidere o deve corazzarsi? Tutte e due le soluzioni sono buone, ma certo sarebbe meglio che i due casi fossero eli¬ minati e ebe gli avversari si dessero la mano, ri¬ solvendo in modo logico la ragione del contrasto. E così oggi nella vita economica internazionale: cerchiamo di affrettare il processo di razionalizza¬ zione, e intanto andiamo avanti con o senza bar¬ riere doganali, secondo l’urgenza del momento e le particolari condizioni economiche e politiche. L'ORDINAMENTO CORPORATIVO DELLA NAZIONE E L’INSEGNAMENTO DELL’ ECONOMIA POLITICA (Lettera operici di Rodolfo Berlini al prof. Ugo Spirilo) Chiarissimo Professore, Intorno ai problemi dell’Economia corporativa ai è formala in breve tempo una vasta letteratura, ma di ca¬ rattere — oom Ella afferma — piuttosto giornalistico, mentre i tentativi di rigorosa sistemazione scientifica della nuova materia sarebbero scarsi o poco notevoli. Di tale condizione di cose Ella chiama responsabili gli eco¬ nomisti della cattedra, i quali evitano di parlare di quei problemi, considerandoli pertinenti ad un indirizzo an¬ tieconomico e, per ciò stesso, estraneo alla scienza. Richiesto cortesemente del mio avviso, non voglio chiudermi in un silenzio che potrebbe essere interpretato come un adesione al modo di fare e di pensare, da Lei attribuito ai miei autorevoli eollegbi. Veramente, il mio tacere avrebbe avuto piuttosto lo scopo di prender tem- po, innanzi di esporre un’opinione molto radicale, la cui elaborazione non è forse arrivata a termine nel mio pro¬ prio pensiero. Ma, se non è arrivata a perfetto termine, essa ha già fatto tal cammino, che il discorrerne non parrà intempestivo o inopportuno. Le persone di spirito non la troveranno neppure irritante. Io consento in quasi tulle le riflessioni da Lei svolte — 124 — nell’articolo: «Verso l’Economia corporativa» 11 — ma vado più diritto alla sede del male. Dico dunque, senza ambagi, che alcuni economisti fanno dell'Economia teo¬ rica una mezza scienza. Non « mezza » nel significato po¬ co riguardoso di scienza superficiale, dalle conclusioni mal cucite alle premesse; ché anzi (io lo riconosco vo¬ lentieri) da certe cattedre fluiscono ragionamenti, i quali partecipano del rigore delle matematiche. Dico mezza scienza nel significato dimensivo dei termini, ossia dot¬ trina che nelle sue premesse fondamentali non ha gettato il seme di questioni che pur le appartengono; questioni di vita della stirpe o di potenza della Nazione; questioni di interventi o non interventi dei poteri pubblici nei rap¬ porti d’interesse privato; questioni anche di scuole o di parLiti economico-politici. Certo, ogni buon professore sa trattarne, e spesso ne tratta in apposite lezioni dedi¬ cate alla politica economica, alla storia delle dottrine, ecc.; ma altro è che ne discorra fuori sistema, per la col¬ tura generale de’ suoi allievi, senza sentirsi obbligato a farlo dalla forza delle premesse; ed altro è che ne di¬ scorra, perché così esige lo sviluppo logico degli enun¬ ciati, previdentemente inseriti in uno schema introdut¬ tivo della disciplina. Ora, il problema dell’ordinamento corporativo, al pari di altri consimili, non è discusso affatto (a quanto sembra) o è discusso « fuori sistema » a titolo semplice¬ mente informativo. Esso appartiene alla... seconda metà della scienza — quella che non s’insegna come scienza, ma piuttosto come storia — e invano ne cercheremmo nella prima metà i cardini d’attacco o i motivi prenio- nilorii. Ciò dipende anzitutto, a mio avviso, dalla ripugnan¬ za che provano non porhi economisti ad accogliere nei loro preliminari scientifici il concetto dello Stato, quale fattore della produzione. Tale disposizione d'animo non si giustifica menomamente. Il processo della ricchezza è la risultante di due fasci di forze componenti : l’attività individuale, singola o associata, e l’attività dell’organiz- ’) Cfr. La critica dell'economia liberale. Milano, Treves, 3930, pag. 730. — 125 — zazione politica, di cui lo Stato è l’espressione suprema. I punti d'applicazione di queste forze (diciamoli cosi per completare la similitudine coi fatti della meccanica) son da ricercare nella stessa ricchezza esistente al momento iniziale del processo — ricchezza in gran parte d’origine ereditaria, cioè prodotta da anteriori generazioni. Fa della scienza a metà colui che si ferma alla prima com¬ ponente e tace della seconda o l’assume come « costante » lungo tutta la linea di condotta della sua disciplina. Lo Stato, che provvede alla difesa nazionale, alla sicurezza, alla giustizia, alla viabilità, all'istruzione, ecc., e trasfor¬ ma così buona parte della ricchezza privata in potenza collettiva (che rigenera ricchezza), è un produttore con¬ tinuo di beni, servizi e ordinamenti aventi carattere di stretta complementarità coi beni, servizi e ordinamenti dell’iniziativa privata. E come questi secondi si svilup¬ pano in quantità e varietà, col progredire dell incivili¬ mento, e fanno luogo a rapporti viepiù complessi o dif¬ ferenziati tra gli individui o i gruppi, così i primi, cioè i loro complementari forniti dallo Stato, non hanno co¬ lonne d’Èrcole che li fermino ad un punto obbligato. Lo Stato è coevo all’uomo, ché la prima famiglia umana fu in embrione un impero. I caratteri di necessità e immanenza, che gli son proprii, non ammettono che si prescinda da esso per astrazione, come se fosse una circostanza secondaria, accidentale o di semplice pertur¬ bazione. Basterebbe un momento d’incertezza nella vita dello Stato per rompere tanti fili nel tessuto della so¬ cietà, da gettare il disordine in ogni specie di operazioni. Voler vedere in esso anzitutto un elemento perturbatore dell’attività spontanea dei privati e dei loro calcoli edo¬ nistici, è generalizzare solo a suo carico difetti di funzio¬ namento che non sono né più rari, né meno gravi presso i singoli individui. Si può invece assumere lo Stato come una « costante )) fin che l’assunto giovi alla soluzione di problemi in prima approssimazione; ma per conclusioni più aderenti alla realtà è mestieri rivedere da vicino il valore della costante. E allora si scorge che costante non è. Lo Stalo è un organismo in evoluzione, ad immagine degli uomini che lo compongono e soprattutto ad imma¬ gine degli uomini più rappresentativi di interessi, dì 126 ideali, di temperamenti, che esercitano una influenza sulla legislazione e si avvicendano al potere. Qui cessa d’esser valida la similitudine presa dai fatti della meccanica. Nelle scienze l’uso dei trafilati, che sono spedienti proprii delle belle lettere, vuoisi fare con cautela e sobrietà. Coloro invece che vi insistono a fondo, trattando le forze evolutive dell’uomo, come se fossero le forze rigide della fisica, non scrivono Teconomia del- 1 homo sapiens, ma dell’uomo-macchina, tutto ruote den¬ tate e molle di precisione. Può l’eeonomista addurre a sua scusa che Io studio della componente « Stato » appartiene ad altre discipli¬ ne? T.’eccezione d’incompetenza sarebbe irricevibile. Ad altre discipline spetterà di considerare lo Stato ir rela¬ zione ad altri scopi della vita, che non siano la costitu¬ zione della ricchezza; ma per questo particolare scopo, che implica la conoscenza di due variabili essenziali e interdipendenti, l’egoismo individuale e lo spirito di so¬ lidarietà nella sua più imperativa espressione che è lo Stato, sarebbe strano che il più interessato ad averla, non la volesse avere che per una delle variabili e chiamasse « pura « anziché « incompleta » la teorica innalzata su base siffatta. Ho insistito varie volte su questo punto: non esserci Ira 1 homo oer.onomicus e il cittadino ( civis ) soluzione di continuità. La moda di oggigiorno è quella di separare una figura dall altra. Ma se c’è qualità che non si possa isolare dal soggetto dell’Economia politica se non per un capriccio dialettico, è proprio quella del cittadino. Essa lo segue come l’ombra il corpo. L’individuo può essere dotto o indotto, credente o miscredente, originale o imitatore, padre o non padre di famiglia; ma cittadino lo è sempre. E come tale spiega un'influenza più o meno grande sulla formazione del costume e su quella del Di¬ ritto. L’àomo ceconomicus, dunque, inseparato dal cit¬ tadino, è creatore del Diritto. Ecco scoprirsi alla nostra veduta l’aspetto genuino della questione. Tutti veniamo al mondo con un patrimonio eredita- — 127 — to, che può variare da zero a qualche miliardo di no¬ stra moneta; ci presentiamo alla carriera della vita, come ad una gara di corsa, movendo da posizioni iniziali van¬ taggiose o svantaggiose. La distribuzione dei corridori in posti di partenza diversamente avanzati rispetto al tra¬ guardo, non è per anco entrata nelle regole «sportive» ma certamente fa regola nel mondo economico. Anzi, il pri¬ missimo capitolo da scrivere in Economia — dopo la de¬ finizione e un po’ di nomenclatura — dovrebb’essere pro¬ prio quello delle posizioni iniziali più o meno avanzate (leggasi: distribuzione più o meno equa della proprietà) che la sorte e la legge ci assegnano al nostro nascete, per¬ ché da esse dipendono molte cose: educazione d’ambien¬ te, modi di sentire riguardo al valore dei beni e dei ser¬ vigi, professioni preferite, capacità di resistenza nei con¬ tratti, possibilità (grazie al diritto successorio e al feno¬ meno dell’interesse del capitale) di far vivere una discen¬ denza « infinita » su una quantità « finita » di ricchezza. E così via. Ond’è con meraviglia che vediamo gran parte degli economisti e l’autore stesso della felice similitudine « posizioni iniziali » relegare la premessa in capitoli terminali dell’insegnamento o in separata sede; insom¬ ma, fare dell’Economia teorica una costruzione senza la chiave di volta, che le è necessaria per reggersi in piedi in tutta la sua interezza. I fatti dimostrano che l’uomo (chiamisi pure l’uomo economico) venuto al mondo senza i favori della sorte, cioè in posizione iniziale svantaggiosa, si industria come cittadino, a modificarla in meglio per sé o per la sua clas¬ se, influendo, come può, sulla legislazione; e se ci venne in posizione favorita s’industria, come cittadino, a con¬ servarla. Le armi a ciò non sono tutte dell’arsenale eco¬ nomico, perché una delle parti in campo, già per ipo¬ tesi non ne possiede; se le possedesse in pieno, vorrebbe dire che disuguaglianza di posizioni non c’è, e non c’è la ragion del contrasto. Le armi, allora, sono quelle del cit¬ tadino: la scheda elettorale, la lega di resistenza, lo scio¬ pero, ecc. ; e le chiamo del cittadino, in quanto presup¬ pongono il riconoscimento di libertà e diritti che a poco a poco fanno mutare il viso e l’animo al legislatore. Or si domanda: questo giuoco di azioni e reazioni potendo — 128 — riuscire pericoloso alla collettività, ossia agli stessi com¬ battenti e ai semplici spettatori, a chi toccherà di rego¬ larlo nell interesse della pacìfica collaborazione delle classi? A chi, se non allo Stato, a cui fanno capo tutti i problemi attinenti alla coesione sociale? Ed ecco come dalla considerazione del cittadino — qualità inseparabile dal soggetto dell’Economia politica — arriviamo al regolamento dei contrasti di classi, come ufficio di competenza dello Stato. Che il regolamento sia bene o male idealo, che il servizio valga o non valga quello che costa, sarà questione subordinata da risolvere in Economia applicata, se l’altra Economia teme di per¬ dere della sua purezza. Il fatto che il regolamento im¬ plichi un costo, non costituisce motivo perché si debba riguardarlo come un affare antieconomico ed estraneo alla scienza. Chi afferma questo, dimentica che i beni, i servizi, gli ordinamenti che lo Stato crea, non li crea ex nihilo ; il rapporto in cui stanno coi beni, servizi, ordi¬ namenti prodotti dall’iniziativa privala è di stretta com¬ plementarità, complementarità ebe deve intendersi nel duplice rispetto, delle utilità e dei costi. Gli economisti, che vedono nell'aumento di spese ge¬ nerali delle aziende una ripercussione, a tutta perdita, dell’assetto corporativo della Nazione, si mettono da un punto di vista unilaterale, quello degli imprenditori; ed anche in questo riducono la loro scienza ad una mezza scienza. L’assetto corporativo fu pensato nell’interesse di ambo le parti: imprenditori e lavoratori; meglio ancora, fu pensato nell'interesse generale del paese. La disciplina restituita al lavoro, lo spirito di concordia che va infor¬ mando ogni giorno più i contratti collettivi e il valore morale della magistratura che veglia sulla loro osservan¬ za e sui mutamenti delle condizioni del mercato, sono vantaggi, che non si misurano in moneta, come non si misurano in moneta quelli di una efficace organizzazione della giustizia, della sicurezza, dell’istruzione o della difesa nazionale. Si ripensa forse con nostalgia ad un’economia pret¬ tamente individualista? Senza dubbio essa, limitando al- 1 estremo le funzioni dello Stato, riduceva al minimum le spese dell’azienda pubblica e di riflesso alleggeriva il 129 — carico alle private imprese; ma lasciava esposti ad un maximum di rischio i buoni rapporti delle classi, Che le poche funzioni attribuite allo Stato erano giusto quelle desiderate dai cittadini delle posizioni favorite, ai quali faceva comodo che la macchina collettiva da produrre il diritto e la forza esecutiva del diritto, lavorasse a con¬ servarle. Ma era inevitabile che gli altri cittadini rumi¬ nassero a farla lavorare altrimenti, prendendone in ma¬ no le leve, di forza o di sorpresa. Quindi lotta aperta o insincera collaborazione di classi. Molti molto si aspettano da un sistema collettivista. \ogliono, dunque, un maximum di funzioni dello Stato, il sistema implicando la trasformazione, graduale o di impeto, dei servizi oggi resi dalla privata proprietà e dalla libera concorrenza in servizi pubblici. Ma quel ma¬ ximum si accompagnerebbe ad un minimum di rendi¬ mento del lavoro e delle libere iniziative. Tale la previ¬ sione più ragionevole. D'altronde lo sfruttamento del- 1 uomo per l’uomo, cacciato dalla porla rientrerebbe dalla finestra, perché esso è un fenomeno generale, non del- 1 officina soltanto, ma dell’ambiente stesso della famiglia, di quello delle amicizie, dei partiti politici, ecc.; ha ra¬ dici nella natura umana. 11 sistema socialistico ne svi¬ lupperebbe in un senso la fioritura, come il sistema in¬ dividualistico la sviluppava in un altro senso. L’assetto corporativo nazionale si tiene egualmente lontano dai due estremi: mira ad attuare un maximum di rendimento del lavoro con un minimum di attriti fra le classi sociali e di ritardi per il progresso civile della Na¬ zione. Se non è il sistema perfetto, è perfettibile. Avrei altro da dire, ma la lettera aperta vuol essere chiusa. Le sono quasi grato, caro professore, d’avermi indotto a scriverla. Che, alla mia età, si può anche pro¬ mettere un trattato di Nuovi principiì, ecc.; ma difficile e mantenere la promessa! Devotissimo Rodolfo Benini 5 - S m bit* La lettera che precede fu pubblicata in Nuovi Studi di diritto, economia e politica (1930, fase. 1, pp. 45-50) ed era seguita da un articolo di Massimo Fnvel su L’individuo e lo Stato nella scienza econo¬ mica (pp. 51-6 7) in cui si discutevano alcune mie af¬ fermazioni. Al Bellini e al Fovel rispondevo con le pagine seguenti: LA RIFORMA DELLA SCIENZA ECONOMICA E IL CONCETTO DI STATO 11 tentativo compiuto da questa rivista per un primo orientamento nello studio dell’economia corporativa comincia a dare i suoi frutti, e già si veggono chiarite alcune posizioni fondamentali, che consentono una certa disciplina nell’ulteriore ricerca. I due scritti pubblicati in questo fascicolo — la lettera aperta del Benini e l’articolo del Fovel — sono due sintomatici documenti di quella svolta decisiva nella storia della scienza economica che de¬ ve ormai risultare evidente a chiunque abbia una mentalità non irretita da pregiudizi dogmatici. Ma il risultato raggiunto è soprattutto notevole perché il significato della svolta è stato reso esplicito e ìne- quivocahiìe, ed è stato posto il criterio fondamen¬ tale per le nuove costruzioni scientifiche. Si è usciti — ìai insomma dallo stato dì disagio proprio di chi, pur insofferente del vecchio, non conosce ancora la nuo¬ va via da intraprendere ; e si è posto un quesito che non può più restare senza una risposta categorica. Rodolfo Benini, con squisita ironia e con una critica che va anche al di là delle sue affermazioni esplicite, ha accusato senz’altro l’economìa teorica di essere una mezza scienza, e mezza « nel signifi¬ cato dimensivo dei termini, ossia dottrina che nelle sue premesse fondamentali non ha gettato il seme di questioni che pur le appartengono; questioni di vita della stirpe o di potenza della Nazione; que¬ stioni di interventi o non interventi dei poteri pub¬ blici nei rapporti d’interesse privato; questioni an¬ che di scuole o di partiti economico-politiei. Certo, ogni buon professore sa trattarne, e spesso ne tratta in apposite lezioni dedicate alla politica economica, alla storia delle dottrine, ecc. ; ma altro è che ne discorra filari sistema, per la coltura generale de’ suoi allievi, senza sentirsi obbligato a farlo dalla forza delle premesse; ed altro è che ne discorra, perché così esige lo sviluppo logico degli enunciati, previdentemente inseriti in uno schema introdutti¬ vo della disciplina ». « Ciò dipende », continua il Benini, « anzitutto dalla ripugnanza che provano non pochi economisti ad accogliere nei loro preli¬ minari scientifici il concetto dello Stato, quale fat¬ tore della produzione. Tale disposizione d’animo non si giustifica menomamente ». E non si giustifica perché « lo Stato è coevo all’uomo », perché tra 1 homo (Economicità e il civis non ci può essere so¬ luzione di continuità, perché infine solo « per un capriccio dialettico » è possibile isolare la qualità del cittadino dal soggetto dell’economia politica. — 132 — Né meno categorico è l'atteggiamento del Fo- vel, il quale prende atto « che la scienza — ripe¬ tiamo ancora: la scienza nel suo stato più puro — è negativa di fronte alle scelte statali, le esclude da sé, non le mette neanche, a rigore, nel novero delle scelte, è, insomma, negativa di fronte allo Stato. Ciò può essere venuto per le origini antista¬ tali della scienza economica stessa; oppure per un incolpevole e vergine oblio teorico: oppure insom¬ ma (sia detto con la massima prudenza) per un er¬ rore, che la ha viziata fin qui. Lasciamo andare: il nascere del fatto poco ei importa. E ci importa, in¬ vece, il fatto stesso, che è questo: per la scienza l’ipotesi statale, o, meglio, lo Stato-ipotesi è (op¬ postamente aH’individuo-ipotesi) la non economia; e lo è solo, e solo perché la scelta statale implica per definizione, la non libera scelta individuale ». 11 quesito, dunque, che si pone oggi alla scien¬ za può formularsi brevemente così : — È lecita ed è scientificamente giustificabile una costruzione si¬ stematica dell’economia pura che prescinda dal con¬ cetto dì Stato e dal rapporto tra Stato e individuo? E in caso negativo, in quale senso tale concetto va introdotto nella scienza e a quali conseguenze teo¬ riche deve condurre? Questo, il punto di partenza per un’intelli¬ genza critica dell’economia corporativa, e ci sem¬ bra ormai che nessuno onestamente possa eludere il problema con una fin de non recevoir. Finché il corporativismo s’intende come una mera espe¬ rienza pratica, i puristi possono disinteressarsene, chiusi come sono nel loro preconcetto dualistico dei rapporti tra scienza e politica, ina quando esso si traduce in una perentoria istanza teorica, bisogna — 133 — pur decidersi ad accogliere o a respingere critica- mente. E noi ci auguriamo di avere dall’esperien¬ za dei maestri un valido aiuto all’attuazione del no¬ stro programma. Una volta posto il problema in siffatti termi¬ ni, il primo punto da chiarire e da precisare con¬ cerne, naturalmente, il significato stesso da attri¬ buirsi al termine Stato e, correlativamente, al ter¬ mine individuo. E su tale punto conviene insistere con molta perseveranza, soprattutto perché il con¬ cetto di Stato sembra a prima vista il più semplice ed evidente che ci sia, sì da poter su di esso co¬ struire senza preoccupazioni di sorta; ma la sicu¬ rezza, poi, con cui si procede su tale terreno viene subito a mancare appena si cessi dal presupporre noto il conceLto e si tenti di determinarlo effettiva¬ mente. 11 che ci sembra di poter dimostrare alla lu¬ ce degli stessi scritti sopra accennati. 11 Benini parla dello Stato, come di chi « prov¬ vede alla difesa nazionale, alla sicurezza, alla giu¬ stizia, alla viabilità, all’istruzione, ecc. », e altrove osserva che « il processo della ricchezza è la risul¬ tante di due fasci dì forze componenti: l’attività individuale, singola o associata, e l’attività della organizzazione politica, di cui lo Stato è l’espres¬ sione suprema ». Ora, questo linguaggio implica un dualismo irriducibile di Stato e individuo, e per quanto il vigile senso di concretezza che ispi¬ ra il Benini lo conduca a concepire i rapporti di complementarietà delle due forze nel modo più in- 134 timo e indissolubile, sussiste tuttavia una radicale contrapposizione di funzioni e di finalità che com¬ promette il sistema, Tanto è vero che il Benini av¬ verte infine il bisogno di mettere in guardia contro la tendenza di attribuire « un maximum di fun¬ zioni [allo] Stato », perché « quel maximum si accompagnerebbe ad un minimum di rendimento del lavoro e delle libere iniziative ». L’assetto cor¬ porativo sarebbe ottimo sol perché « si tiene egual¬ mente lontano dai due estremi ». Inutile dire che la critica contro il colletti¬ vismo, ripetuta dal Benini e mossa da tutta l’eco¬ nomia lihcrale a quella socialista, è esatta nella dia¬ gnosi e nella conclusione, ma occorre tener presente che il socialismo è superato sol perché è superato il concetto di Stato ch’esso implica, e che è quello stesso del liberalismo, dal quale non riesce a stac¬ carsi neppure il Benini. Lo Stato, cioè, è circoscrit¬ to a un ente immaginario, in limiti imprecisabili, e con personalità essenzialmente distinta da quella degli individui che lo compongono. Si cambia cioè 10 Stato con un organo centrale, relativamente estra¬ neo alla vita della nazione e perciò sopraffattore delle energie individuali. Di quest’organo — che è poi la burocrazia — a ragione si diffida e giusta¬ mente si protesta contro l’attribuzione che a esso si voglia fare di un maximum di funzioni. Ma questo è lo Stato ancien regime, al quale 11 fascismo deve opporsi con tutte le sue forze, perché essenzialmente contrario al suo spirito; lo Stato non deve essere, non è, un organo fuori del- Torganismo, una sovranità opposta ai sudditi, una realtà sui generis diversa dal cittadino: lo Stato, insomma, non è più quello contro cui insorgeva il — 135 — secolo elei lumi e che si è trascinato come misero residuo nella storia del liberalismo. Lo Stato s’iden¬ tifica con l’individuo, in una sintesi idealmente as¬ soluta, e, di fatto, sempre più realizzabile e realiz¬ zata. Se noi cercassimo infatti di precisare i confini dello Stato ci accorgeremmo subito di questo pro¬ gressivo suo immedesimarsi nella vita della nazione. Dallo Stato alle provincie, ai comuni, agli enti pa¬ rastatali, agli enti morali è tutto un lento compe¬ netrarsi della vita pubblica in quella privata, sino all’esperienza rivoluzionaria del fascismo che, pri¬ ma sul terreno più strettamente politico dell orga¬ nizzazione del partito , poi, e ben più radicalmente, su quello dell’organizzazione sindacale, ha posto decisamente l’esigenza di un combaciamento assolu¬ to della sfera dell’attività statale e di quella indi¬ viduale. Lo Stato contro il quale nacque il liberali¬ smo è veramente morto eoi morire dello Stato pro¬ pugnato dallo stesso liberalismo. E continuare oggi a discutere dello Stato, illudendosi di poterlo in¬ dividuare entro quei limiti in cui lo si individua¬ va nel Settecento, significa perpetuare un equivoco di gravissimo pregiudizio per tutte le scienze so¬ ciali. Il potere dello Stato non ba limiti e chiunque tentasse di determinarne le funzioni resterebbe fa¬ talmente a mani vuote: ogni determinazione della sua sfera rispetto agli individui sarebbe fondamen¬ talmente erronea. Ritornando ora alle esemplificazioni del Belli¬ ni è facile spostare i termini del problema: uno Stato come quello concepito dal fascismo, non prov¬ vede soltanto « alla difesa nazionale, alla sicurez¬ za, alla giustizia, alla viabilità, all istruzione, ecc. )), ma provvede a tutto perché è immanente a tutto. Ed — 136 esso perciò non può rappresentarsi come un fascio dii forze da aggiungersi all’altro delle attività indi¬ viduali, bensì come le stesse forze individuali nella loro vita solidale. Di quest unica vita sono manife¬ stazioni tutti i poteri pubblici e privati, centrali e periferici: e, nel campo economico, il bilancio dello Stato, quello degli enti pubblici, degli enti para¬ statali e morali, delle organizzazioni di partito e sindacali, e infine di tutti i cittadini, che tutti nello e per lo Stato vìvono. Ogni barriera che si volesse porre a un punto della serie sarebbe affatto arbitra¬ ria e irragionevole. E si comprende, dunque, come 1 ideale del corporativismo non debba esser quello dì rimanere egualmente lontano dai due estremi (sopravvento dell’iniziativa privata o della pubbli¬ ca), bensì di rendere insussistente il problema eli¬ minando ogni differenza tra l’essenza delle due ini¬ ziative. Certo, se per Stato s’intende la burocrazia, affi¬ dare ad essa l’economia nazionale non può non es¬ sere una mostruosa utopia: ma lo sforzo del fa¬ scismo deve essere appunto quello di sburocratiz¬ zare lo Stato, elevando ogni cittadino al grado di funzionario pubblico. Il processo di trasformazione non è dei più facili e dei più rapidi: v’è anzi il pe¬ ricolo di periodi di transizione in cui il fenomeno burocratico si aggravi, e dia luogo a nuovi inconve¬ nienti. Si pensi che l’organizzazione sindacale e cor¬ porativa, prima di aderire in modo soddisfacente alla realtà, è destinata in gran parte a pesarvi su come una soprastruttura — vale a dire come una burocrazia. Ma gli ostacoli non debbono arrestare il cammino, anzi debbono porre la necessità di ac¬ celerarlo, sì da superare con energia sufficiente gli inevitabili punti morti. E per accelerare il ritmo, a me sembra che uno dei mezzi {ondamentali deb¬ ba essere fornito dalla scienza, la quale deve sgom¬ brare il terreno dai pregiudizi teorici che arrestano, con la forza della tradizione, la stessa mano del¬ l’uomo d’azione. L immedesimazione assoluta della vita dello Stato con quella dell’individuo dà il criterio pre¬ ciso della riforma della scienza economica, la quale, dunque, non è « mezza scienza nel significato di- mensivo dei termini )), vale a dire nel senso di es¬ sersi occupata dell’individuo (una delle componen¬ ti) e non dello Stato (l’altra componente), ma mez¬ za proprio nel significato deteriore di scienza fon¬ data su premesse erronee, e propriamente sull’ipo¬ stasi di un individuo e di uno Stato inconcepibili, o concepibili soltanto come manifestazioni patolo¬ giche (individuo anarchico e Stato tiranno). ÀI quale ulteriore concetto sembra accennare il Fovel nella chiusa del suo articolo quando dice che per colmare l’iato tra le scelte dette libere del¬ l’individuo e le scelte dette non libere dello Stato (( si può tentare di mostrare che anche le sedicenti scelte libere dell’individiio non sono libere, ma eco¬ nomicamente imperative, quanto quelle statali; e ciò perché sono esattamente prescritte dalle scelte pure libere degli altri individui, ossia dalla società economica. Oppure si può tentare di mostrare che anche le cosidette scelte non libere dello Stato sono libere, né più né meno che le scelte individuali; - 138 — e questo perché anche le scelte dello Stato non sono altro, anch’esse, che scelte di individui nella società economica ». Senonché per il Fovel, Stato e individuo hanno ancora una loro particolare per¬ sonalità, e lo Stato conserva una fisionomia cor¬ pulenta, che rende estremamente difficile il processo di risoluzione della sua autorità nella libertà degli individui e viceversa. Quando l'iato sarà effettiva¬ mente colmato, il vero concetto di libertà economica apparirà in tutta la sua luce e le forme stereotipate della libera concorrenza e del monopolio, che re¬ stano a fondamento della costruzione del Fovel, si risolveranno in uno schema economico ben altri¬ menti adeguato alla realtà. II SE ESISTA, STORICAMENTE, LA PRETESA REPU- GNANZA DEGLI ECONOMISTI VERSO IL CON¬ CETTO DELLO STATO PRODUTTORE Alla lettera sopra riportala del Benini rispose anche L. Einaudi con il seguente articolo pubbli¬ cato in Nuovi Studi (1930, jasc. V, pp. 302-314). Caro Renini, 1. Mi è accaduto solo adesao di leggete, una tua sug¬ gestiva lettera aperta pubblicata nel lasci colo di gen¬ naio-febbraio di quest’anno dei Nuovi Studi-, suggestiva, perché costringe a pensare e a dubitare. Le questioni « di interventi o non interventi dei poteri pubblici nei rapporti d’interesse privato; questioni anche di scuole o di partiti economico-poi itici », sarebbero di quelle questioni che dagli economisti sono discusse «fuori si¬ stema » ; apparterrebbero a quella « seconda metà della scienza, quella che non s’insegua come scienza, ma piut¬ tosto come storia ed invano ne cercheremmo nella pri¬ ma metà i cardini d’attacco o i motivi premonitorii ». Quale la spiegazione del fatto? fecondo te, eaao « dipen¬ de anzitutto dalla ripugnanza che provano non pochi economisti ad accogliere nei loro preliminari scientifici il concetto dello Stato, quale fattore della produzione ». E benissimo aggiungi: «Tale disposizione d'animo non — 140 — si giustifica menomamente. Il processo della ricchezza è la risultante di due fasci di forze componenti : l’atti¬ vità individuale, singola o associata, e l’attività dell’or¬ ganizzazione politica, di cui Io Stato è l’espressione su¬ prema... Fa della scienza a metà colui che si ferma alla prima componente c tace della seconda o l’assume come « costante » lungo tutta la linea di condotta della sua disciplina. Lo Stato, che provvede alla difesa nazionale, alla sicurezza, alla giustizia, alla viabilità, all’istruzinne, ccc., e trasforma così Intona parte della ricchezza pri¬ vala in potenza collettiva (che rigenera ricchezza), è un produttore continuo di beni, servizi e ordinamenti aventi carattere di stretta complementarità coi beni, ser¬ vizi e ordinamenti dell’iniziativa privata ». 2. Chiudo qui la citazione, perché, altrimenti, do¬ vrei riprodurre tutta la tua bella lettera. Né la chiudo, per ridiscutere il problema della parte avuta dallo Stato nella produzione della ricchezza; ma esclusivamente per porre un problema di storia: chi sona quei cotali economisti (non pochi, dici tu, e dal contesto del di¬ scorso sarebbero i più, sicché occorre affermare con¬ tro di essi, quasi come teoria nuova, la tesi dello Stato come fattore necessario e inscindibile della produzio¬ ne), M i quali repugnerebbero ad accogliere nei loro pre- J ) Appunto perché non intendo menomamente intervenire nella sostanza della discussione aperta Ira te ed il prol. Spirito : ma soltanto porre un dubbio storico su ehi e quanti siano coloro ■ quali reputarono alla tesi da te posta, così non discuto la critica che a queeta tesi muove lo Spirito: implicare dessa, sebbene mate¬ riata di realtà, un « dualismo irriducibile di Stato ed individuo » oramai superato dalle nuove concezioni dello Stato, le quali iden¬ tificano lo Stalo con l’individuo «in una sintesi idealmente ssso- Ima, e, di latto, sempre più realizzabile e realizzata ». Vero è che, incidentalmente, lo Spirito afferma ebe il suo dualismo è implicito nel « linguaggio a da le adoperalo. Il che porterebbe a chiedersi se, per avventura, non si traiti di un contrasto — Ira la tua (e quindi fra quella degli economisti ebe io tento di dimostrare essere identica alla tua) e la tesi dello Spirito — più di linguaggio — di terminologia, che di parole. Se io possedessi la meravigliosa facoltà «he in sommo grado aveva il compianto amico Vadali di tradurre una qualunque teoria dal linguaggio geometrico in quello algebrico, da quello edonista in quello della morale kantiana, dalla termino- — 141 — limiaari scientifici il concetto Hello Stato come fattore della produzione? La domanda non è impertinente. È rosi suprema¬ mente difficile sapere chi, in economia, ha detto o non detto qualcosa, ei è dichiarato fautore od avversario di un certo indirizzo, o teoria, soxT-attutto è così straordi¬ nariamente difficile riprodurre, anche usando il massi¬ mo scrupolo, esattamente il pensiero altrui che forse, penso, sarehhe opportuno non citare mai nessuno e non attribuire ad altri, neppur ricordati genericamente, un qualunque pensiero. 3. La mia impressione è che di codesti negatori o dimentichi dello Stato, non ce ne siano oggi e non ce ne siano stati mai tra gli economisti. Non bisogna scam¬ biare per negazione o repugnanza atteggiamenti men¬ tali profondamente diversi. Se l’economista intendeva compiere una ricerca del tipo che diceBi « astratto » — ed i classici conseguirono i loro maggiori successi per tal via — era ovvio ragionassero sulla base di premesse semplici, ridotte talvolta ad una sola, e giungessero a conseguenze vere nell’ambito delle premesse fatte. Se tra le premesse non aveva luogo lo Stato, sarehhe illo¬ gico tuttavia affermare che essi lo negassero o vi repu¬ gnassero. Anzi, il loro stesso procedimento logico di- logia economico pura normativa in quella applicala precettistica, potrei tentare di ritradurre la pagina dello Spirilo nella formuli- allea tua, orna economialica classica. Sarebbe un esercizio feconda, simile a quelli di cui racconta Loria, da lui intrapresi in gioventù; di RBporre 6uccessivamenie una data dimostrazione economica prima in linguaggio di Adamo Smith, e poi di Ritardo e quindi di Mar», di Stuart Mill e di Cairnes. Ma sono esercizi che vanno, come fa¬ ceva Loria, dopo fatti, ripoBti nel cassetto. Giovano ad ingegnate la umilio ad ognuno di noi, quando per un momento ci illudiamo dì aver visto qualcosa di nuovo. Perché se questo novità poteva essere stala delta con le loro parole e inquadrarsi nel pensiero dei vecchi, segno è che quel qualcosa era contenuto in quel pensiero. Ma non posaono né devono impedire che ogni generazione usi quel linguaggio che meglio si adatta al modo suo di pensare e d’inlen- dere il mondo. Si riscrive la Binria ; perché non si dovrebbe riscri¬ vere la scienza economica, prima in termini di costo di produzione, e poi di utilità e quindi di equilibrio statico e poi di equilibrio dinamico? — 142 — mostrava che essi affermavano la esistenza dei fattori esclusi e riservavano ad allra indagine il tenerne conto. Si può criticare il metodo, si può cercare di dimostrare che con quel metodo non si può giungere alla scoperta della verità; non si può tuttavia dire, senza offesa alia verità storica, che a causa della adozione di quel me¬ todo essi negassero la esistenza dei fattori da eui in prima approssimazione astraevano. Tanto poco negava¬ no o repugnavano che, per lo più, quando esei dall’in¬ dagine astratta si voltavano alla concreta, dalla costru¬ zione di schemi ipotetici passavano allo studio dei pro¬ blemi reali, ossia complessi e vivi, essi per lo piò face¬ vano nelle loro discussioni gran parte allo Stato. 4, Si può ammettere, sebbene storicamente si deb¬ ba andare assai guardinghi nel fare affermazioni ge¬ nerali in proposito, che gli economisti, a partire dai membri della « setta » fisiocratica, attraverso allo Smith sino allo Stuart Mill non compreso (e cioè gros¬ so modo, dal 1750 al 1850), siano stati contrari all’inter¬ vento dello Stato e favorevoli al laissez faire, laisser passar. Ma fu già dimostrato (c(t., per le fonti, una mia recensione del libretto The end oj laissez-faire del Kev- nee, in La Riforma Sociale, 1926, p, 750 e eegg.) che sif¬ fatta contrarietà non era teorica, ma puramente contin¬ gente. l 'avversione all’intervento dello Stato non ave¬ va cioè alcuna connessione logica necessaria coi postu¬ lati fondamentali della dottrina economica, non faceva corpo, come dici tu, con i cardini d’attacco della scien¬ za; ma discendeva da ragioni contingenti. L’osservazio¬ ne degli effetti dannosi delle vecchie corporazioni d’arti e mestieri, e del vincolismo economico e doganale spie¬ gano abbastanza il liberalismo di Adamo Smith e dei classici. Dopo le ricerche di Nicholson in A Project oj empire (di cui il concetto dominante è che per lo Smith la considerazione delTacquisto della ricchezza deve ce¬ dere dinnanzi a quella della difesa ossia della grandezza dello Stato: de.je.nce is oj much more impor lance than opulence)-, dopo Laureo libretto dello Schùller, Les éco- nomistes classiqu.es et leurs adversaires fin cui viene di¬ mostrato, testi alla mano, che la accusa rivolta agli eco- — 143 — Doratati di avere creato un fantoccio (il eosidetto homo rp.conomicus] avulso dai luoghi, dai tempi, dalla storia, c di aver dato ad un puro strumento di indagine figura di realtà concreta o storica, è una invenzione gratuita dei loro avversari socialisti, socialisti della cattedra, eco¬ nomisti storicisti, ecc. eec.], non è più lecito attenersi ad una tesi dimostrata. all’iiifuori di ogni dubbio, contraria alla verità storica. Quegli stessi economisti, i quali affer¬ mavano i danni di certe determinate maniere di inter¬ vento dello Stato reputate feconde di male, altrettanto recisamente affermavano la necessità rii quell’azione (« azione » e non « intervento », ae la parola intervento implica il concetto che lo Stato si immischi sempre in cose non sue] nelle maniere che reputavano più con¬ facenti all’indole dello Stato e più vantaggiose alla col¬ lettività. 5. S'intende che sempre, prima e dopo il 1850, fu d’uopo non occuparsi degli imitatori, dei pedissequi, dei sicofanti i quali colgono a volo le idee che corrano nel¬ l’aria ed impasticciando scienza e pratica, un po’ di sen¬ so comune e molti pregiudizi correnti, si gittano dalla parte che è alla moda e dimentichi oggi di quel che avevano asseverato ieri, oggi sono liberisti e domani, in¬ differentemente, interventisti. Costoro non sono scien¬ tificamente nulla, sebbene siano i maggiori fabbricanti di scuole, di conventicole protezioniste, interveniste, li- beriste, cattedratiche e delle vane ingiurie che i rispet¬ tivi adepti ai scagliano l’un l'altro. 6. Dopo il 1850, la caratteristica fondamentale del pensiero degli economisti in questo particolare campo (naturalmente essi si occuparono sovratutto di problemi più difficili, che dai laici sono detti, per dispregio, tecni¬ ci e che sono e probabilmente sempre saranno i proble¬ mi economici specifici) è stato un approfondimento vie maggiore del problema dei rapporti fra Stato, indivi¬ duo, società, gruppi sociali. Da Stuart Mill a Marshall, da Marshall a Pigoli è tutta una indagine minuta e deli¬ cata, la quale talvolta diventa un ricamo tenuissimo, ri¬ volta a precisare, a limitare, a scrutare i metodi di mas- — 144 — situi 77 azione della ricchezza, del benessere, della felici¬ tà, della potenza degli uomini organizzati in società. Come è accaduto in tutte le scienze progressive, ogni passo innanzi si innesta su perfezionamenti precedenti ed è preludio a perfezionamenti successivi. Nella nostra chiesa non è di moda la parola superamento, che veg¬ go assai usata tra ì filosofi; ma ben potrebbe tale parola eesere usata ad indicare gli stadi successivi del pensie¬ ro economico, di cui ognuno non nega ma contiene e trasforma gli stadi precedenti c sarà contenuto e tra¬ sformato negli stadi fuluri. 7. Perché, caro Benini, non ricordare il contributo che taluni italiani colleghi tuoi e miei maestri hanno dato a queata meravigliosa ascesa della scienza econo¬ mica? Per ragioni scientifiche di divisione del lavoro, è toccato a quella sottospecie degli economisti, la quale studia ed insegna la cosiddetta scienza delle finanze, di occuparsi dello Stato e dell’indole teorica del suo ope¬ rare. Piace anche a me il pensiero che supera Stato ed individuo ed insieme li fonde; ma piace non meno e per la difficoltà dell’impresa soddisfa intellettualmente di più lo sforzo di coloro che hanno tentato di ficcare lo sguardo in fondo all’azione dello Stato ed hanno tenta¬ to definire in che cosa consistesse la sua azione. Scarta¬ ta la concezione errata dì uno Stato il quale interviene a cose fatte, a ricchezza prodotta e preleva l’imposta per consacrarla, ossìa distruggerla, sia pure per altis¬ simi fini pubblici (ed un ultimo vaghissimo ricordo di questa concezione lo vedo nelle tue stesse parole, lad¬ dove parli di uno Stato, il quale (( trasforma buona par¬ te della ricchezza privata in potenza collettiva », dove l’errore involontario sta nel supporre che esista una ric¬ chezza « privata » da trasformare, dopoché essa è stata prodotta, in qualcosa di collettivo, mentre la realtà è che la ricchezza che lo Stato trasforma in potenza col¬ lettiva, non fu mai privata, ma fin dall’inizio era prodot¬ ta dallo Stato, se per prodotta intendiamo cosa che non sarebbe nata se lo Stato non fosse esistito e non avesse operato secondo l’indole sua), i teorici italiani intorno al 1890 assai discussero intorno all’indole dell’apporto _ — 145 — od azione dello Stato. Tu bene bai scritto, continuando, che nella atessa maniera come i beni, i servizi e gli or¬ dinamenti delTiniziativa privata « ai sviluppano in quantità e varietà, col progredire dell’incivilimento, e fanno luogo a rapporti viepiù complessi e differenziati Ira gli individui o i gruppi, così i [beni, servizi ed ordi¬ namenti] loro complementari forniti dallo Stato non Iranno colonne d’Eicole che li fermino ad un punto ob¬ bligata ». Quarantanni fa Ugo Mazzola aveva già scrit¬ to: c< Dato che i fini individuali tendano continuamente ad accrescerai e differenziarsi, dato che la cooperazione politica sia una forma di condotta umana pel consegui¬ mento o migliore conseguimento loro, anch’cssa tende a specificarsi ed accrescersi, e quindi la tendenza delle funzioni dello Stato è verso la specificazione e l’accre¬ scimento ». 8. I dati scientifici della finanza pubblica (Roma, 1890) sono un autentico capolavoro che la scienza deve a quel brillantissimo ingegno di Ugo Mazzola, spento¬ si, ahimè! troppo innanzi tempo. Ed un capolavoro è anche II carattere teorico dell'economia finanziaria, pubblicato due anni prima da Antonio De Viti De Mar¬ co; libro di un economista tutto rivolto non a repugna¬ re ma ad approfondire la concezione dello Stato come fattore della produzione. Sulla traccia di siffatti mae¬ stri e senza menomamente sospettare di dire cosa re¬ pugnante al pensiero degli economisti, anzi persuaso di rimanere nella scia classica io potevo, dopo averlo af¬ fermato nel 1912, scrivere nel 1919: «La teoria econo¬ mica finanziaria afferma che nella combinazione di fat¬ tori (la quale conduce al massimo di produttività) en¬ tra anche lo Stato e che quindi il pagamento di una data imposta, quella dimostrata più conveniente dal¬ l’esperienza, è condizione necessaria perché lo Stato in¬ tervenga nella misura più opportuna, come fattore di quella combinazione complessa, la quale appunto dà luogo al massimo di produttività. Lo Stato non è l’unico né i] primo in grado tra i fattori produttivi; ma alla pari degli altri è un fattore che, dove più dove meno, a seconda dei risultati ambiti, deve intervenire perché M - Sfidili — 146 — si abbia la combinazione più economica... INattualmente lo Stato agisce come fattore produttivo in conformità dell’eseeT suo; non cioè come industriale od organizza¬ tore della produzione, ma come ente politico: soldato, magistrato, educatore, difensore degli interessi generali, esercente quelle imprese che non sarebbero affatto o sarebbero male esercitale dai privati imprenditori. In tal guisa esso collabora al raggiungimento della mèta clic è la massima produzione di beni materiali e spiri¬ tuali, alla massima elevazione degli uomini. Non sem¬ pre l’azione dello Stato è intesa all’arricchimento dei singoli; che anzi può darsi il contrario; che a certuni singoli lo Stato tolga assai e poco dia. Non l’uguaglian¬ za fra il dare e l'avei'e dei singoli è il fine dell’imposta; sibbene l’elevazione massima della collettività ». - 1 ) 9. Della repugnanza da te constatata negli econo¬ misti « ad accogliere nei loro preliminari scientifici il concetto dello Stato come fattore della produzione » io non vedo adunque possibile dare una dimostrazione fondata sui testi scritti dagli economisti medesimi; e J ) Di. Osservazioni critiche intorno alla teoria deU’ammorm- mento dell’imposta e teoria delle variazioni nei redditi e nei va¬ lori capitali susseguenti alFimposta, in Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino, voi. 54, 1918-1919, pag, ]A83; e prima a pag. 287-89 del voi. 63 della serie seconda delle Memorie della delia Accademia. Nella mia noia ranalisi della natura dell’azione dello Stato, sebbene a lungo svolta, era la premessa necessaria della di¬ scussione di mi problema particolare: come l'Imposta influisca su) saggio dell’inieresse e sui valori capitali, e la premessa generale ero necessaria per giungere alla conclusione che la imposta, con trattamente alL’opinione comune, aumenta i redditi e i valori capi¬ tali. Ma Antonio De Vili De Marco, indipendentemente e svol¬ gendo concelli contenuti in germe nella citata sua memoria del 1888, condnreva quella medesima premessa teorica del carattere produttivo dello Stato a vaste illazioni interessanti tolta reeonomia pnhhlira nei suoi recenti I primi Principii dell’Economia finan¬ ziaria (Roma, 1928), ed io cercai nuovamente di utilizzarla in un volume, il cui titolo medesimo Contributo alla ricerca dell’ottima imposto (Milano. Università Bocconi, 1929) indica che »i tratta di uno sforzo, non monta se bene o male riuscito, per scoprire quella maniera di sistema tributario ebe agisca come parte di quel complesso meccanismo dal quale deve risultare l'ottima serietà — H7 — panni diffìcile dare siffatta dimostrazione, in quanto, scrivevo nel 1919, « affermare che gli economisti sono contrari alla Stato ] ) è dir cosa altrettanto insensata co¬ me chi dicesse che certi astronomi sono nemici del sole, della luna o delle nuvole » (nota citata, p. 1094). 10. Confesso essere difficile contrapporre con suc¬ cesso alla comune credenza nell’anti-slatalismo e nel- 1 astrattezza degli economisti un’opinione, meglio ragio¬ nata sui testi, simile a quella che fa al già citato Ni- cholson presentare la figura di Adamo Smith come quella di un fervido nazionalista, espositore dello sche¬ ma piti radicale di unione imperiale britannica che mai sia stato messo innanzi, aborrente, fuor del campo stru¬ mentale proprio di esse, dalle ipotesi e dalle astrazioni, tutto attaccato ai fatti ed all'esperienza. 11. Tanto maggiore è la difficoltà, se si pensa che gran parte di colpa in questo travolgimento della ve¬ rità storica hanno gli stessi economisti od almeno quel¬ la sezione di essi, la quale ai è dedicata alla fatica, no¬ di nomini, in un ottimo Sialo, in un’ottima popolazione, ece. ece. fellema astretto senza dubbio ; ma astrazione da una realtà, la quale, se gli uomini cooperanti nello Sialo agissero in un cèrto modo, potrebbe avvicinarsi allo schema. Coloro che così esaltano il compito dello Stato erano, come Mazzolo, vivacissimi liberisti; od hanno lama, come De Vili-De Marco e lo scrivente, di tali. V’è contraddizione tra la loro teoria e quella che si qualifica come loro azione pratica? Rispondeva già nel 1919 di no « essendo ovvio ehe l’epiteto di « liberista » appli¬ calo agli economisti è privo di significato ed essendo caratteristica degli economisti dichiarare preferibili certe azioni non perché com¬ piute^ dagli individui, ma perché più economiche, più leronde, a parità di costo, di altre, sia che esse siano compiute dagli individui a dallo Stato ». (Cfr. nota citata a pag. 1094). ) La proposizione: « gli economisti repugnano ad accogliere il concetto dello Stato come fattore della produzione » si può conver- lire nell altra: «gli economisti inclinano a considerare lo Stato come distruttore o consumatore della produzione privata » e poiché non ai può volere rio che è dannoso, la seconda proposizione sì converte agevolmente in quella del testo: « gli economisti sono contrari allo filala ». Caduta la tesi delia repugnanza, cade tutta la sequela. — 148 fidissima del resto, di scrivere manuali di storia delle dottrine economiche. Si pigli in mano l’aureo libretto deiringram (traduzione italiana di Torino, 1892) o la bella e bene scritta storia di Gide e Risi o l'eruditissima, bibliograficamente mirabile, introduzione del Cessa, e il quadro non muta : la Btoria delle dottrine economiche è una specie di campo di battaglia in cui a vicenda trionfano gli interventisti-mercantilisti, fautori dell’in¬ tervento statale, e poi i fisiocrati e gli smithiani detti anche ottimisti, contrari allo Stato ed amanti della li¬ bertà, combattuti prima dalle varie sette socialiste e poi battuti in breccia dagli storicisti nuovamente teneri di un intervento dello Stato più o meno intenso. A mala pena qua e là affiorano altre denominazioni di scuole, ad es. di a classici », le quali accennano ad un conte¬ nuto non polarizzato nel problema dello Stato; ma pur quelle poche volte il « classico » non è assunto in sé, ma come sottospecie di un genere, di cui la caratteristica sempre si riferisce a quel contrasto fra individuo e Sta¬ to. Gide e Risi, ad es., collocano gli ottimisti ed i post¬ classici tulli nel libro intitolato al « liberalismo » e in quello delle dottrine recenti mettono a fianco a fianco, quasi si trattasse di partigiani del medesimo principio, gli edonisti, i nazionalizzatori, gli anarchici e i sol i- daristì. 12. Aborro dalle scomuniche in materia di metodo: e mi affretto perciò a dichiarare subito che considero perfettamente legittimo il metodo prevalente nello scri¬ vere la storia delle dottrine economiche. Ad una condi¬ zione: che sia ben chiaro che quella non è una storia delle dottrine economiche o del pensiero degli econo¬ misti come tali, ma è una storia dei rapporti fra la filo¬ sofia e l’economia politica, fra la teoria politica e quella economica, fra la storia in generale ed il comportarsi concreto degli economisti. Quegli storici hanno imma¬ ginato di fare una storia delle dottrine economiche ed hanno invece scritto una storia dell’influenza che le idee filosofiche correnti e le circostanze politiche, eco¬ nomiche, sociali esercitarono sul pensiero degli econo¬ misti, e specialmente su quella parte dei loro pensa- r 149 - meati che toccava i fatti concreti elei giorno. Storia per fermo importantissima e utilissima; alla quale avrebbe tuttavia assai giovato eSBeTe intrapresa come tale. Ep- perciò ai gusta di più il libro di James Bonar, Philosa ■ phy and Politicai Ecnnomy in some o/ their historical relations, volto appunto dichiaratamente allo studio del¬ le influenze della filosofia sugli economisti e di qualche modesta contro-influenza di questi ultimi sulla prima. Ed anche si apprezza la Geschichte der Nationaldkonomie di Augusto Qncken, malauguratamente ferma al primo volume dell’antichità, del medio evo, dei mercantilisti e dei fisiocrati, perché apertamente dichiara di aver voluto perseguire lo studio delle influenze del pensiero generale su quello particolare economico e perché ha compiuto lo sforzo col consueto « a fondo » germanico. 13. Che cosa deliba essere invece la storia propria delle dottrine economiche si potrebbe in parte dire ri¬ producendo una celebre pagina di Mafleo Pantalconi: « Già nel 1841 Francesco Ferrara rilevava che gli auto¬ ri che scrissero sulla storia dell'economia di solito non distinsero due cose intrinsecamente diverse, anzi il più delle, volte opposte fra di loro. Lo stato economico delle nazioni e i mutamenti che esso ha sofferto col volgere dei secoli vennero mescolati con resposizione dei tentativi fatti dall’ingegno umano per Scoprire le leggi del fenomeno economico. Egli rileva che il Blan- qui sostiene una vicendevole dipendenza fra lo studio degli avvenimenti e quello delle dottrine e contrappone alla sua tesi l’altra : che queste due maniere di storia non hanno alcuna data comune... Vi sono teorie e si¬ stemi che sembrano totalmente estranei a ogni influen¬ za d’ambiente, quando per ambiente s’intendono le isti¬ tuzioni economiche o quelle politiche. Al Walraa, p. e«., si deve di aver per primo formulate tutte quante le con¬ dizioni dell^equilibrio economico. Ehbene, di fronte a questo prodotto teorico ora si dica quali elementi d’am¬ biente del secondo impero abbiano deternrnato in lui quella concezione e trasformato il suo cervello in un automatico registratore dei medesimi! Oppure, se que¬ sto non riesce, si dica p. es. di quale terremoto eia stata 1 FiO l’ultima vibrazione la teoria della curva dei redditi del Pareto! Nei venti, o più di venti, teoremi che valsero al Ricardo lama imperitura di esimio economista, v’ha quello dei costi comparati. Invano ne cerco il suggeri¬ mento negli eventi del tempo. Concepì il Dupuit il con¬ cetto della rendita del consumatore e un modo di cal¬ colarla; fece il Cournot per primo una teoria del prez¬ zo in caso di monopolio; seppe il Marshall definire ri- goTosamente l'elasticità di una curva di domanda e di una curva di offerta e servirsene per formulare una bella serie di teoremi: dove l’ambiente? » (Dei criteri che devono in/ormare la storia delle dottrine economi¬ che, in Erotemi di Economia, Bari, Laterza 1925, voi. I. p. 237). 14. Non intendo prender partito intorno al pecu¬ liare criterio di scrivere la storia delle dottrine econo¬ miche propugnato con tanto sarcastico brio dal Panta¬ loni e su cui tanto inchiostro si versò nel 1898 quando egli espose la tesi : Storia delle verità e non degli er¬ rori. Partili tuttavia certo che la storia delle dottrine economiche, messa a paragone delle anzidette storie dei rapporti fra filosofìa ed economia, fra idee ed istituzio¬ ni politiche e sociali ed idee economiche, sarebbe per un verso cosa assai più smilza e per un altro assai più ardua. Essa dovrebbe occuparsi solo di quelle che sono dottrine economiche proprie, ossia postulati, assiomi, teoremi, corollari enunciati dagli economisti come tali e non come filosofi, o polìtici o religiosi od industriali. Quei teoremi o corollari non sono moltissimi e ai chia¬ mano prezzi di monopolio o di concorrenza, o dei heni congiunti, costi comparati, distribuzione dei metalli preziosi fra i diversi paesi del mondo, rendite del pro¬ duttore, del risparmiatore, del consumatore, equilibrio economico, equazione degli scambi, rapporto fra mo¬ neta propriamente detta e surrogati della moneta, ela¬ sticità delle curve di domanda e di offerta, traslazione e capitalizzazione dell’imposta, doppia tassazione nella tassazione del risparmio e simili astruserie, fortunata¬ mente noiose per la comune degli uomini e poco ap¬ petitose per filosofi, storici, politici, pratici esercenti banca e commercio e industria, sebbene atte a formare Tunica e suprema delizia degli economisti di professio¬ ne. Da qualche secolo gli economisti faticano per co¬ struire, in questo campo chiuso, un bell’edificio astrat¬ to di teorie logiche e coerenti. Sono lontanissimi dalla mèta e questa non sarà mai raggiunta, perché ad ogni passo compiuto, nuove mète, nuovi teoremi attraggono la loro attenzione. Per tanto tempo si erano industriati a creare schemi astratti statici, rappresentazioni atte a raffigurare un meccanismo in equilibrio in un dato mo¬ mento. Disperavano, per la imperfezione degli strumen¬ ti di ricerca da essi posseduti, di riuscire mai a creare schemi atti a raffigurare il « movimento » da un equi¬ librio a quello successivo; ossia a trasformare i loro schemi astratti relativi ad un momento del tempo in schemi pure astratti, ma relativi al susseguirsi dei mo¬ menti col tempo. Da qualche anno si sono gettati su questo terreno vergine e, nonostante la difficoltà dell’im¬ presa, non dobbiamo disperare che un giorno un uomo di genio, capitato a prediligere la dinamica economi¬ ca abbia qualcosa da dire ai filosofi ed ai politici che quei campi del movimento, ossia del reale e del vivo hanno sempre, a modo loro e giustamente a modo loro, coltivato. Per ora, non sarebbe bene che noi confessas¬ simo di non essere riusciti, in tante generazioni adorne di qualche uomo di genio e di molti ingegni di prim’or- dine, i quali avrebbero onorato, se ci si fossero dedicati i più illustri campi della matematica pura, della fisica, della chimica e delle altre scienze, ad uscire dal regno del se, dell'ipotetico, delTirreale? Non per mancanza di buona volontà; ma per sordità della materia, la qnale appena ora si piega, in mano a sottilissimi statistici ar¬ mati di tutti i più penetranti strumenti del calcolo, a fornire qualche pallidissima luce, per ora diffusa attra¬ verso a schemi astratti, intorno al reale, che è vita e movimento. 15. Dna storia propria delle dottrine economiche dovrebbe studiare quale aia il laborioso processo per cui si giunse alla costruzione dell'edificio scientifico quale oggi esiste: come dai pochissimi teoremi sconncs- — 152 — ai, rozzamente espressi che ai era riuscito ad adombra¬ re. dicasi, -verso la metà del secolo XVIII, ai aia riusciti a moltiplicare quei teoremi, a perfezionarli, ad espri¬ merli sempre più correttamente e sovralutto a connet¬ terli tra loro, a formarne uno schema sempre più com¬ patto, coerente, logico. In questa storia non compari¬ rebbero protezionieti e liberisti mercantilisti e fisiocrati, ottimisti e pessimisti, individualisti e socialisti, tutte classifiche di gran rilievo nella storia della politica, della pratica economica, delle classi sociali, dei modi di governo, ma prive di significato nella storia propria delle dottrine economiche. Comparirebbero Tizio e Caio, ciascuno col proprio nome, ciascuno per quel pic¬ colo o grande contributo, che egli apportò alla costru¬ zione dell’edificio. Comparirebbero anche quelli che ta¬ luno chiama gli eretici delTeconomia od almeno quelli che apparentemente negando o criticando o vituperan¬ do gli economisti loro contemporanei, suggerirono, col¬ la critica, un perfezionamento ai teoremi accettati. Gi- ganteggerebbe, fra tutti, la figura di Davide Ricardo, il vero creatore della scienza economica, se per crea¬ tore si intenda colui che agli sparsi e slegati teoremi diede un centro, un riferimento comune, creando un primo, imperfetto ma primo, schema di equilibrio eco¬ nomico generale. 16. Esistono talune approssimazioni a questa ideale gloria delle dottrine economiche, la quale si occupi sul serio di dottrine e soltanto di dottrine economiche. Fu¬ rono scritte, per accidente, da economisti che non vole¬ vano fare storia di dottrina ma esporre la scienza eco¬ nomica c, ad occasione delle proprie, esposero o discus¬ sero o ricordarono le dottrine altrui. Recentissime le prime 113 pagine delle Lezioni di Economia pura di Gustavo del Vecchio (Padova, 1930), incompiute quanto si voglia, scritte, protesta l’autore, a guisa di prolego¬ meni al suo trattato e non per fare storia di dottrine; ma appunto perciò il miglior modello di storia che oggi sia sul mercato librario italiano. Scomparsi invece dalla circolazione i Prìncipii di economia pura di Panta¬ loni, le cui note e le cui attribuzioni di paternità ai — 153 — teoremi del testo sono la migliore storia « pura » di dot¬ trine economiche che si conosca. Con i Principii di Pan¬ taloni alla manto facile è, anche per un principiante, mettere alla gogna gli imbroglioni i quali si pavoneg¬ giano di furti! Sarebbe quasi perfetta VA Review oj Economie Theory di Edwin Cannan (Londra, 1929) ge l’autore non si foaae limitato ai problemi della produ¬ zione e della distribuzione della ricchezza, volutamente ignorando, forse nella speranza di avere forza e. tempo di trattarne in altro volume, i problemi di moneta, ban¬ che, commercio internazionale, e se, accanto a qual¬ che dimenticanza di autori non inglesi, il Cannan non fosse posseduto dal demone, simpaticissimo demone, di distruggere, di mettere in luce gli errori, le imperfe¬ zioni, Fa caso delle scoperte invece del succo di verità e del lento crescere. Come ammonitrice però una sem¬ plice scorsa aD’indice di quest’opera, forse la migliore che possa essere consigliata a chi, affacciandosi alle so¬ glie della scienza economica e sentendo gran frastuono di scuole e grande strepito di battaglia fra individua¬ listi, liberisti, socialisti, storicisti, ecc. ecc., voglia sa¬ pere qualcosa di quello che economisti di razza repu¬ tano aia il contenuto di quella scienza ! Si discute, sì, Ira gli adepti della chiesa economica, ma non su quei primi principii dell’egoismo, deH’homo aeconomicus, della libera concorrenza, da cui i laici immaginano sia¬ no gli economisti tanto preoccupati. Ciò che li preoc¬ cupa, nel campo della produzione e della distribuzione, almeno a scorrere le pagine del Cannan, sono soltanto che cosa si debba intendere per prodotto, per capitale, costo di produzione, terra, rendita, quasi-remlita, pro¬ fitto, interesse, divisione del lavoro, produttività decre¬ scente e simili. Cannan potrà essersi sbagliato nella scelta dei problemi, di cui ha intessuto questa sua storia della scienza; ma egli è indubbiamente, fra i viventi, uno degli uomini che più acutamente sono forniti di quel sesto senso, che ai chiama a volta a volta giuridico od economico o filosofico, e che chi non ee l’ha dalla nascita non so lo può creare. Del sesto senso, per lui, economico, Cannan è tutto penetrato; ne vibra, nel più profondo dell’essere, appena da lontano fiuta Dell’aria — 154 — l’onda breve o corta dello sproposito economico e su¬ bito protesta (vedi la sua An econamist’s protesi). Il socialismo, l’interventi amo ecc., lo fanno protestare; ma solo quando a lui ne arriva l’eco attraverso lo spropo¬ sito, l’errore di ragionamento o di buon senso. Se lo Stato interviene senza errore, Cannan non protesta ; il che significa che l’interventismo, il liberismo, il socia¬ lismo, non sono problemi che interessino il sesto senso, se non quando sì traducono in una verità od in un er¬ rore relativi a quei problemi speciali i quali interessi¬ no l'economista. E ciò vuol dire ancora che, se è utile fare una storia delle dottrine di confine fra reconomia e la politica e la filosofia, è bene fare anche un’altra storia, delle dottrine proprie economiche, una storia questa assai più minuta e complicata e sottile dell’altra; e forse meritevole di essere scritta prima, perché l’altra sappia precisamente di che cosa si occupano gli econo¬ misti. Quella del Cannan, al solito, non è stata scritta col proposito di far storia di dottrine; poiché essa è un trattato, in cui si discutono e si ricordano, scrupo¬ losamente, le teorie degli autori i quali scrissero prima di lui. Né sono una storia voluta le Prefazioni del Fer¬ rara, sebbene siano risultate il più gran monumento finora eretto a celebrare i fasti della nostra scienza. Le prefazioni agli economisti italiani, ai fisiocrati, a Carey, a Rae, a Storch, ai monetaristi offrono a Ferrara l’oc¬ casione di riesporre, ripensare, discutere le teorie degli altri e creare una sua teoria. Egli è un politico, un pa¬ triota, un lottatore, oltreché un economista; epperciò nelle sue prefazioni la materia specifica economica non è separata dalle altre. Ma egli è sovratutto grande eco¬ nomista; e di lui sopravvivono appunto quelle pagine nelle quali egli espone critica e ricrea le teorie econo¬ miche. Nessun paese al mondo possiede un capolavoro paragonabile a questo: trattato e storia, in forma bi¬ slacca di prefazioni scucite. 17. Ho lasciata per ultimo la sola storia scritta come tale e con intendimenti non troppo dissimili da quelli a cui si dovrebbe informare la storia delle dottri- 155 — ne: il catalogo rii Me Culloch. Un tempo le The Lì- telature oj Politicai Economy di J. R. Me Cullaci) correva tra le mani di tutti gli economisti e Ferrara, ad es., la usava e citava spesso. Adesso è diventata un ferro del mestiere dei librai antiquari (specializzati in eco¬ nomia) i quali vi imparano il valore vero dei libri vec¬ chi (anteriori al 1R45) che hanno in magazzino. Quello di Me Culloch è un semplice catalogo; ma è classificato per materie, con giudizi, talvolta con estratti. I giudizi sono maligni; ma sono dominati dalla premessa: Tizio ha detto qualcosa che poi Ricardo perfezionò? Caio aggiunse qualcosa a quel che Ricardo disse? Me Cnl- loch non era un genio; ma, essendo solo un eruditissi¬ mo uomo e buon ragionatore, ehbe il merito di vivere tutta la vita laboriosa in estatica ammirazione di Ri¬ cardo. E poiché Ricardo è l’alfa e l’omega della nostra scienza, e tutto finisce in lui e tutto da lui comincia, per accettazione o negazione, così accade che il catalogo del suo pedissequo sia un gran libro. Dove si impara a distinguere il loglio dal grano; dove, dallo spazio attri¬ buito, ai comincia a capire quali siano i problemi eco¬ nomici e quali no; dove sì vede l’adoratore di Ricardo, per far dispetto a Malthus, togliere persino al suo idolo la palma della scoperta della teoria della Tendila per attribuirla giustamente ad Anderson. L'onesto uomo non previde i progressi della scienza posteriori al 1845 e per conseguenza non capì Cantillon, sebbene anteriore a lui di quasi un secolo, non avvertì Llovd e Cournol, i quali precorrevano i tempi. Ma tentò di unicuique suum tribuere e lo tentò, per quanto stava in lui, nel puro campo della scienza economica. Speriamo sorga qualche redivivo Me Culloch, diligente e paziente come lui, il quale scriva, diviso per teorie, dalle più generali alle più speciali, questo libro desideratissimo ed illeggibile, coll’auailio del quale si possa appiccicare ad ogni teo- tia o teorema o corollario il cartellino degli autori e dei perfezionatori, e si possa rispondere alla domanda: chi Fha detto? ed all’altra: è già sialo detto? A quest’ul¬ tima, novantanove volte su cento, sono tentato di ri¬ spondere di sì. Il bello o il brutto viene quando, dopo, bisognerebbe rispondere alla prima domanda. Li, po- — 156 — SU di fronte al quesito: chi ha esposto per il primo uno di quei teoremi intorno ai quali noi poveri dia¬ voli di economisti ci arrapiniamo e rispetto a cui di¬ ventiamo belve feroci se c’è chi li storca o li ripeta male o li reinventi a proprio particolare profitto — ri¬ diventiamo gente da nulla. Con la quale confessione personale di ignoranza finisco chiedendoti venia, caro Beruni, per aver consumato tante parole intorno ad un problema di attribuzione di paternità, laddove quel che importa non è di rimestare le verità acquisite ma i conquistare verità nuove. La venia richiesta mi sarà forse liberamente da te concessa riflettendo che la no¬ tizia delle verità acquisite è necessario fondamento per la conquiata delle verità nuove. Luigi Einaudi Àlla lettera dell’Einaudi rispose il Renini nel¬ lo stesso fascicolo dei Nuovi Studi (Coesione e soli¬ dari e là, pp. 315-320) e alla sua risposta seguiva questa mia postilla: LA STORIA DELL’ECONOMIA E IL CONCETTO DI STATO Luigi Einaudi ha voluto porre un problema di storia e nessuno più di noi può essergli grato di aver portata la discussione in tale campo, nel quale soltanto riteniamo possibile la chiarificazione dei termini e delle soluzioni. Ma con la storia non si scherza, neppure per passatempo, e « la meravi¬ gliosa facolta che in sommo grado aveva il coni- — 157 — pianto Vailati di tradurre una qualunque teoria dal linguaggio... edonista in quello della morale kan¬ tiana )) sta a dimostrare unicamente il confusioni¬ smo mentale di chi ai cimenta in simili esercizi. Ora, a me sembra che l’Einaudi abbia un ben cu¬ rioso concetto della storia, se vuol ridurla a una mera ricerca della paternità, quasi per far opera di giustizia distributiva. Se The Literature. af Politicai Economy di Me Cullncb è passata nelle mani dei librai antiquari, è segno che questo era l’unico scopo al quale potesse servire, che, infatti, solo per ra¬ gioni estrinseche e comunque secondarie può in¬ teressar di sapere se una tale teoria scientifica si debba all’uno piuttosto che all’altro, ovvero in parte all'uno e in parte all'altro. Se questo ha da inten¬ dersi per storia, lasciamola pure da parte e occu¬ piamoci d’altro. A un simile paradosso l’Einaudi, come già il Pan- laleoni, è pervenuto evidentemente per ragioni po¬ lemiche contro tutti i dilettanti dell’economia e del¬ la storia deH’economia, contro tutti i politicanti del¬ la scienza che si moltiplicano a vista d’occhio, con sempre maggiore baldanza e sfrontatezza. Se non che i motivi polemici, quando non sono trattenuti nei limiti che loro convengono, diventano a loro volta antiscientifici e finiscono col compromettere la stessa dignità della scienza che si vuol difendere. 11 dire oggi, sulle orme del Pantaleoni, che nella storia dell’economia non dovrebbero comparire « protezionisti e liberisti, mercantilisti e fisiocrati, ottimisti e pessimisti, individualisti e socialisti « e che queste son (( tutte classifiche di gran rilievo nel¬ la storia della politica, della pratica economica, del¬ le classi sociali, dei modi di governo, ma prive di si- ■ — 158 — gnificalo nella storia propria delle dottrine econo¬ miche », non può non suonare per lo meno ana¬ cronistico agli orecchi di chiunque abbia inteso le esigenze dello storicismo contemporaneo e sia con¬ vinto dell unità sistematica della vita sociale. TI moltiplicarsi dei dilettanti accanto agli economisti puri non è senza ragione, e finché questi si ostine¬ ranno a rimanere in « un campo chiuso )) non riu¬ sciranno a liberare la loro scienza dai contatti pro¬ fani, Son proprio gli economisti che debbono affac¬ ciarsi ai problemi dei filosofi, degli storici, dei poli¬ tici e dei pratici; che debbono prenderne atto e ri¬ solverli tutti, pur nei limiti della scienza dell’eco¬ nomia. Allora soltanto l’economista comprenderà che far la storia della teoria dei prezzi di monopo¬ lio e di concorrenza, o dei beni congiunti, dei costi comparati ecc., significa intendere la necessità sto¬ rica del sorgere dì tali problemi, attraverso le con¬ dizioni filosofiche, politiche e pratiche del tempo. Il Pantaleoni poteva illudersi che nei teoremi del Ricardo, o nel concetto della rendita del Dupuit, o nella teoria del prezzo di monopolio del Cournot, non fosse alcun rapporto con l’ambiente storico, ma la sua illusione era dovuta alla stessa inconsapevo¬ lezza speculativa che lo induceva ad accettare come indiscutibile e scientificamente determinato il con¬ cetto dell’egoismo. È proprio questa mancanza di coscienza storica quella che grava disastrosamente sulle discipline economiche. Concepita la storia nella sua unità organica in cui gli individui entrano come momenti di una sola realtà, cessa naturalmente il rompicapo che tanto preoccupa l’Einaudi: «chi l’ha detto? è già stato detto? ». Rispondere a queste domande, in¬ fatti, si può in due modi del tutto diversi, e propria¬ mente in senso astrattamente erudito o in senso con¬ cretamente storico. Nel primo caso si ricercherà l’in¬ dividuo che più o meno materialmente ha formu¬ lato un dato teorema, nel secondo invece si deter¬ minerà il momento storico in cui lo stesso teorema doveva formularsi e perciò in effetti è stato formu¬ lato: nel primo caso il risultato della ricerca è un dato di fatto, una notizia; nel secondo è un princi¬ pio di intelligibilità. In ciò consiste la ormai trita differenza Ira cronaca e storia, alla quale purtrop¬ po convien ritornare per precisare concetti che pur dovrebbero essere acquisiti da un pezzo. Gli eco¬ nomisti, per non contaminare la loro scienza, di¬ sdegnano come filosofici questi problemi, e intanto prima o poi son costretti ad affrontarli; e allora si assiste al curioso spettacolo di scienziati puri che per troppo purismo si affogano proprio nel dilet¬ tantismo che disprezzano, autorizzando i più illeciti e mostruosi arbitri. L Einaudi stesso non è riuscito a sfuggire al dilemma e ci ha dato nell’articolo che precede un esempio evidente di quel che può co¬ stare uno sconfinamento a chi ne neghi per princi¬ pio la liceità. — 160 — Ma lo sconfinamento, per conto nostro, è indi¬ spensabile, sì che non può essere buon economista cbì pretenda rifiutarvisi: anzi lo stesso rifiuto non ha senso, e sta a dimostrare soltanto 1 inconsapevo¬ lezza dello sconfinamento effettuato. Così, nel caso dell’Einaudi, egli non si accorge di trascendere il campo della pura economia con la semplice affer¬ mazione del concetto di Stato, e si smarrisce in una ricerca storica che non può dare alcun risultato per l’assoluta indeterminatezza dei termini adope¬ rati. Basterebbe porre la pregiudiziale della defini¬ zione dello Stato per accorgersi che una cosa è lo Stato per il Benini, un’altra per l’Einaudi, una ter¬ za infine per la concreta realta della storia. Che, in¬ fatti, per risolvere un problema come cjuello che si pone l’Einaudi, il primo quesito a cui rispondere deve formularsi propriamente così: — qual era il concetto, e quindi la realtà, dello Stato quando si compì la sistemazione classica della scienza dell’e- conomia e quale trasformazione esso ha subito du¬ rante il secolo XIX e i primi decenni del XX? Non rispondere a tale quesito, o ignorare la sua impre- scindibilità, significa rendere inutile e assurda ogni soluzione dei problemi relativi all’azione dello Sta¬ to: ma, intanto, rispondervi significa trascendere la presunta economia pura e affacciarsi in quel più grande campo della storia, dal quale 1 Einaudi pre¬ tende ritrarsi. 161 I] non essersi posto il quesito doveva neces¬ sariamente condurre a una totale iniscoinprensione della giusta esigenza del Benini, che è appunto l’esi¬ genza di un nuovo concetto dello Stato e quindi di un nuovo concetto deH’economia. Badate — dice¬ va in sostanza il Benini — lo Stato non è un es¬ sere trascendente l’individuo, ma è un suo costi¬ tutivo essenziale: la scienza economica dunque non può farsi senza porre a mo ? di premessa fon¬ damentale il concetto di Stato. Ma gli economisti — risponde PEinaudi — non hanno inai negato lo Sta¬ to e quindi nulla di nuovo si dice quando lo si riaf¬ ferma. E qui vièti fuori la domanda impertinente: chi sono quei cotali economisti i quali repugne¬ rebbero ad accogliere nei loro preliminari scienti¬ fici il concetto dello Stato come fattore della pro¬ duzione? Alla domanda ha risposto il Benini da par suo, pur restando nei limiti di quel dualismo che ho altra volta indicato, ma credo opportuno aggiun¬ gere un osservazione che potrà valere a chiarire il problema nei suoi stessi presupposti storici. Se lo Stato s’intende come un ente diverso dagli indivi¬ dui, e accanto agli individui, è chiaro che nessun economista P ha mai negato e ha mai negato la sua qualità di produttore: ciò è tanto lapa¬ lissiano da non consentire ulteriore discussione. Ma 6e lo Stato s’intende, come deve essere oggi in¬ teso e come è nella realtà concreta, immanente 11 - 162 agli stessi individui, si che il suo agire sia I agi¬ re stesso degli individui in quanto nazione, al¬ lora è assolutamente cerio elle nessun economista l'ha mai riconosciuto e posto a fondamento della scienza economica. È assolutamente certo, dico, per¬ ché questa è una affermazione storica, e in quanto tale non teme smentita: non consente, cioè, di porre il problema se il nuovo principio sia stato mai af¬ fermato, perché affermarsi non si poteva prima che il pensiero contemporaneo nel suo processo storico fosse pervenuto alla dimostrazione dell'assoluta im¬ manenza dello Stato nell individuo. TTI PROPAGANDA POLITICA E SCIENZA Una delle difficoltà maggiori da superare nell;» trattazione dei problemi corporativi è data certa¬ mente dallo stato d’animo di coloro che in preva¬ lenza se ne sono occupati e tuttora se ne occupano; stato d’animo in cui la preoccupazione — anche in senso buono — dell’ambiente politico ha preso un tale dominio da convertire l’esigenza della ricerca in quella dell’affermazione dogmatica. Chi fa della propaganda politica assume di fronte alla verità da diffondere un abito religioso di ammirazione acri¬ tica; che gli è necessario per destare un consenso immediato e di natura prevalentemente sentimenta¬ le. E la sua opera è senza dubbio utile e anche ne¬ cessaria, specie dopo una rivoluzione che esige un radicale mutamento nella coscienza del popolo. Ma il guaio comincia quando con questo stesso abito apo¬ logetico si pretende entrare nel campo più propria¬ mente scientifico per ottenervi un pari consenso im¬ mediato e totalitario. Guaio di carattere scientìfico, perché si porta confusione proprio là dove occorre maggiore serenità e spregiudicatezza: guaio di ca¬ rattere politico, perché si disgustano i più seri uomi- ni di scienza e 8 impedisce la loro conversione, o per lo meno il loro avvicinamento ai nuovi pro¬ blemi. E nel nostro programma l'affermazione dell'u- nità di scienza e politica, ma è chiaro che una tale unità non va intesa nel senso di abbassare la scien¬ za alla politica come comunemente la s’intende, bensì nell opposto di elevare la politica a coscienza storica e critica. A questo programma si deve ser¬ bar fede nel modo più assoluto e intransigente, e ci si deve opporre, quindi, a ogni tentativo di diver¬ sione polemica e a ogni spostamento dei problemi dal terreno scientifico a quello della propaganda spicciola. Questo ci è parso opportuno chiarire, perché dalle prime polemiche destate dalla nostra anali¬ si della letteratura corporativistica abbiamo notato una pericolosa confusione di motivi tutt’altro che scientifici, dei quali saremmo disposti a non occu¬ parci affatto, se non fosse per metterne in luce ap¬ punto il carattere antiscientifico. L'esempio più significativo di tale situazione mi sembra sia quello del prof. Arias, il quale in un articolo a me rivolto e pubblicato in Politica Socia¬ le {Schermaglie corporativiste - Economia e co¬ scienza corporativa, dicembre 1929, pp, 819-823) critica l’identità d’individuo e Stato con la seguente argomentazione: « Ma la Carta del Lavoro « consi¬ dera l’iniziativa privata come lo strumento più effi¬ cace e più utile dell’interesse della Nazione » e par- la di « intervento deilo Stato » nelle sue varie for¬ me e di « responsabilità dell’indivìduo di fronte allo Stato ». Tutto questo non avrebbe significato se, nell’economia corporativa. Stato ed individuo fossero una « identità assoluta » (pag. 821). Ora — a parte il fatto se la mia tesi sia giusta o no — è certo elle opporre a una considerazione critica un articolo della Carta del lavoro significa confondere le lingue e generare disorientamento. l a Carta del lavoro non può essere un limito, della scienza, ma solo un punto di partenza: ed è dovere dello scien¬ ziato di sottoporla alla sua analisi crìtiea. Quando ho espresso il mio dissenso nei riguardi dell’articolo 9, e bo cercato di mostrare ch’esso è in contrad¬ dizione con lo spirito più profondo della stessa Carta e del fascismo in genere, credo di aver adem¬ piuto ad un mio categorico dovere di studioso; e il prof. Arias avrebbe dovuto confutare le mie argomentazioni e non pormi dogmaticamente di fronte alla lettera di una disposizione. Peggio avviene quando il prof. Arias, in un ar¬ ticolo di Critica fascista (Le funzioni economiche del Consiglio delle. Corporazioni. l r ' gennaio 1930, pp. 3-5) e in un altro pubblicato su II Popolo d’Ita¬ lia (Economia corporativa - La premessa psicolo¬ gica, 3 gennaio 1930), fa un panegirico della co¬ scienza corporativa e mi fa negare « che la coscien¬ za corporativa possa essere il fondamento dell’eco- nomia fascista ». E evidente che io non posso mai aver negato quel che l’Arias crede, per la sempli¬ cissima ragione che la coscienza corporativa è ap¬ punto una di quelle locuzioni che avranno un’indi¬ scutibile valore nella lodevole opera divulgatrice compiuta dall’Arias, ma sono assolutamente prive — 166 — di qualsiasi significato scientifico. È chiaro infatti che ai fini di un regime corporativo ci vorrà lina coscienza corporativa, come ai fini di un regime li¬ berale o socialista sarà necessaria una coscienza li¬ berale o socialista: ciò è tanto lapalissiano che non si vede proprio come l'Arias possa dubitarne o du¬ bitare eh io ne dubiti. Ma il problema scientifico — che è poi quello di una superiore consapevolezza politica — comincia proprio là dove l’Arias si ar¬ resta e consiste nel rendersi conto dell’oggetto di quella coscienza, vale a dire delio Stato corporativo e dei suoi rapporti con l’individuo, dell’unità o del¬ la dualità di individuo e Stato, del soggetto delPeco- nomia politica, e così via attraverso una serie di quesiti, dei quali l’Arias si sbarazza troppo facil¬ mente scambiandoli per giuochi di parole. Altrimenti — e sia detto senza malignità — la famosa coscienza corporativa corre il rischio di degenerare nel suo opposto e cioè in un deplorevole stato d’incoscienza. IV I LINEAMENTI DI ECONOMIA POLITICA DI AGOSTINO LANZILLO Non sarebbe il caso di occuparsi di questo li¬ bro ) del lanzillo, in cui la costruzione scientifica in gran parte informala alle dottrine del Pareto, ri¬ vela a ogni passo infinite crepe e contraddizioni, e anziché rappresentare un passo innanzi sulla via segnata dal maeslro, tende ad accentuare proprio il lato più manchevole del sistema di lui, conclu¬ dendo in fine con una esaltazione alquanto retorica della disgraziata sociologia. Per rendersi conto della indeterminatezza e della ambiguità dei presuposti scientifici, da cui il Lanzillo prende le mosse, baste¬ rebbe leggere i capitoli che riguardano l’interesse, i bisogni, i heni economici, Futilità, la ricchezza, e insomma tutti i concetti destinati a segnare l’am¬ bito di ricerche proprie della scienza economica. Le multiformi definizioni che si incontrano a ogni passo e si moltiplicano all’infinito, quasi per sor¬ reggersi e giustificarsi a vicenda, mostrano all’evi- I Milano, Isliimo Ediloritile Scienlifito, 1930, pp. xxin-430. — 368 — denza quanto installile sia il terreno sul quale il Lanzillo ha osato avventurarsi. Non sarebbe, dunque, il caso dì occuparsene, se non fosse opportuno valersi di questo esempio per stigmatizzare ancora una volta una mentalità in netta c irriducihile antitesi con l’economia cor¬ porativa. Difficilmente si potrebbe oggi concepire un libro più ostinatamente ligio al dogmatismo dei classici e all’affermazione dell assoluta identità di scienza economica c liberalismo (pag. 375). Ep¬ pure il Lanzillo, come dimostra in molte pagine di questo stesso libro, ha una mentalità giovanile e acuta, si dice entusiasta del fascismo e della sua po¬ litica economica, e si sforza di portare sul terreno scientifico i fenomeni della vita contemporanea (americanismo, politica demografica, bonifica inte¬ grale. ecc.). Anzi egli comincia con l’affermare de¬ cisamente la « coincidenza fra scienza e vita », e più volte dimostra di dare un senso non effimero a queste parole, cui tuttavia non riesce a tener fede in modo sistematico. Ne viene di conseguenza che la personalità dell’Autore e la sua stessa opera si scindono in due parti assolutamente inconciliabili, mettendo capo per un verso alla vecchia scienza na¬ turalistica, insofferente di ogni legame storicistico, e per un altro a una concezione politica extrascien- tifìca, che pur irrompe di tanto in tanto compromet¬ tendo la costruzione scientifica. L’indeterminatezza di tale atteggiamento si ri¬ vela fin dalla Prefazione, in cui si cerca poco abil¬ mente di porre le mani innanzi e di rispondere in modo troppo sommario alle inevitabili critiche. « Qualcuno potrà osservare », dice infatti il Lanzil¬ lo, «che la materia svolta nel volume si riferisce il He questioni teoriche, e che non sono affrontati problemi fondamentali della struttura economica moderna quali i trust c cartelli, le organizzazioni di categorie, le nuove esperienze corporative (glo¬ ria tutta italiana e fascista). Rispondo che ho, a ra¬ gion veduta, escluso tali questioni dal presente vo¬ lume. Le questioni accennate, ed altre ancora, so¬ no polarizzate nella indagine centrale circa le fun¬ zioni dello Stato moderno di fronte alla attività eco¬ nomica dei singoli, delle classi sociali c dei popoli. 11 problema è di importanza vitale, non escludo di poterlo esaminare in altro tempo » (pag. xxin). Dico subito che queste parole sono di colore grigio e che il Lanzillo aveva per lo meno il dovere di chiarirle e rendere il lettore edotto di quella « ra¬ gion veduta « così infelicemente ispiratrice. Non è vero, innanzitutto, che il volume si riferisca soltan¬ to a questioni teoriche: il conflitto tra Stati Uniti ed Europa, la politica demografica del fascismo, la bonifica integrale, ecc., sono certamente argomen¬ ti di carattere meno teorico che i trust e i cartelli o la funzione economica dello Stato. Riconoscere che questi ultimi problemi sono fondamentali della struttura economica moderna e insieme lasciarli fuori della scienza economica è una contraddizione così flagrante e assurda che basta per svalutare a priori tutto il sistema, spezzandone l’unità in modo irrimediabile. Ma è poi vero che il Lanzillo escluda tali pro¬ blemi per una qualsiasi ragione che non sia quella della volontà di negarli, come extra-economici e an¬ tieconomici? Questo era il quesito al quale avrebbe dovuto rispondere senza far uso di mezzi termini e affermando esplicitamente ciò che è nello spirilo — 170 di tutta la trattazione, e cioè il liberalismo ad oltran¬ za. l’antistatalismo, ranticorporativisino, la perento¬ ria condanna, insomma, di tutto ciò a cui si ispira la nuova esperienza politica. E che sia proprio cosi finisce in fondo per confermare lo stesso Autore (piando, pur ripetendo il proposito di non occupar¬ si del problema dello Stato, vi accenna come a fon¬ te di protezionismo e di vincolismo (pag. 373) o ri¬ duce l’economia corporativa a « un metodo politi¬ co-sociale di governo )) per cui lo Stato — secondo il più vieto liberalismo — ha per fine « il benesse¬ re dei propri componenti » (pag. 380) e « opera con metodo nel campo concreto dell’economia non per soprapporsi o surrogarsi all’individuo — che è la cellula primigenia e fondamentale e la ragion di essere [il corsivo è del Lanzillo] dello Stato — ma per comporre tutti gli attriti, i contrasti, le contrad¬ dizioni economiche e sociali, in una visione unita¬ ria, che sappia essere più feconda e vitale» (pa¬ gina 381). Dopo di che non si arriva più a compren¬ dere come un uomo, così perentoriamente fedele alle ideologie del liberalismo di genuina inarca il¬ luministica, possa tuttavia illudersi di aderire co¬ munque al regime fascista. Ma perché andar parlan¬ do di una scienza che sorge dalla vita, se tra l’opera scientifica e quella politica v’è un tale catastrofico abisso? L’incapacità di far aderire la costruzione scien¬ tifica al processo storico della realtà si rivela fin dal¬ le prime pagine del volume, quando il Lanzillo in¬ genuamente si domanda perché da parecchi decen- — 171 — ni la società economica abbia preso un indirizzo pratico in sostanziale contrasto con le risultanze della scienza e se possa « credersi probabile il ri¬ torno dei popoli ai precetti della scienza economi¬ ca » (pag. 10). Domande ingenue, dico, per chiun¬ que sappia vedere la ragione del contrasto nel cri- slallizzarsi del pensiero scientifico in confronto con lo sviluppo della vita e sia convinto a priori del¬ l’impossibilità di ripetersi della storia. Che se al Lanzillo il quesito non sembra assurdo, ciò è pos¬ sibile solo in quanto egli continua a vedere nella realtà di oggi e di domani quelle stesse categorie che vi vedeva la scienza di ieri, e non si accorge an¬ cora che il suo ragionamento non torna più, perché ben altri e diversi sono i problemi che la scienza e la vita debbono porsi. Egli può avere l’illusione di essere rigorosamente nel vero, ma soltanto per¬ ché continua a scambiare la realtà viva con quella che è morta, e a usare nell'antico senso concetti che hanno profondamenle mutato di significato. Certo, se StaLo, se libertà, se concorrenza, se individuo, dovessero intendersi oggi allo stesso modo dei tem¬ pi di Adamo Smith, le conclusioni a cui sarebbe ne¬ cessario pervenire sarebbero ancor quelle; ma il mondo ha camminato e con esso lian camminato tutte le ideologie che si ponevano a presupposto del¬ le scienze sociali. E se lo Stato, ad esempio, poteva rimaner fuori del sistema economico in quanto esso non era un costitutivo della realtà sociale, bensì una condizione estrinseca del suo regolare svolgimen¬ to, non può rimaner fuori oggi che in esso si rico¬ nosce tutta e sola la vita della nazione. « Limitare la concorrenza », scrive il Lanzillo, « sarebbe lecito allo Stato che fosse sicuro di essere più competente — 172 — dei privati. Ma è difficile pensare che uno Stato, che è poi un Governo, cioè un gruppo di uomini politici fi una burocrazia organizzata, abbia e possa avere a Umidirli amministrative, tecniche e inventi¬ ve in problemi diversissimi. Ed è semplicemente errato ritenere che possa fare meglio un organo bu¬ rocratico, che nulla rischia e non vive dal di dentro un dato problema economico, e spende denari non suoi, del singolo e del privato ebe rischia patrimo¬ nio, nome e avvenire. Chi ha comprensione della forza creatrice della concorrenza intende come il protezionismo, comunque si manifesti, debba agire come forza di arresto, negatrice ed antivitale » (pag. 374). Ora, il Camillo avrebbe perfettamente ragione se dello Stato non si potesse avere altro concetto se non quello di governo, o di gruppo di nomini politici, n di burocrazia organizzata, ma egli combatte invece contro i mulini a vento, se allo Sialo si dà l’unico significato rispondente alla realtà, e cioè quel significato di società o dì uazione orga¬ nizzata che il fascismo vuol rivendicare con l’ordi¬ namento corporativo. Ed è chiaro che in questo più concreto Stato i termini concorrenza e protezioni¬ smo assumono anch’essi un valore affatto diverso, e vanno discussi con argomenti di ben altro genere. Cadono per ciò stesso — e non perché errate ma perché estranee al problema essenziale — tutte le critiche mosse all’intervento dello Stato, tutta l’apo¬ logià della libertà e del valore dell’individuo, tutte le argomentazioni in favore della concorrenza illi¬ mitata. E rimane invece insoluto, perché neppure sfiorato, il vero problema di che cosa sia e debba essere l’economi a di un organismo sociale unitario quale è lo Stato. — 173 Cerchiamo di approfondire ed esemplificare seguendo le tracce del Lanzillo nella identificazio¬ ne da lui compiuta di concorrenza ed economia. <( La concorrenza ili fondo «, afferma egli perento¬ riamente. « si identifica con il fenomeno della vi¬ ta » (pag. 212). Essa « è la espressione più geniale della inventività umana, in quanto le situazioni concorrenti demoliscono le situazioni precedenti, creano e determinano per effetto della capaci¬ tà inventiva dell' uomo, le situazioni nuove » {pag. 213). «Limitare la concorrenza significa im¬ pedire il processo creativa della inventività umana, cioè intralciare il miglioramento della produzione, o — è lo stesso -— negare il progresso )) (pag. 374). « Ogni coazione della libertà economica, che derivi da ragioni di necessità, da coazioni esterne, da atti di violenza, da leggi positive, da consuetudini, da atti di impero, costituisce una limitazione della azio¬ ne livellatrice dei prezzi, operata dal mercato. Osta¬ colano la libertà economica quelle teorie le quali fondano su precetti di natura morale etica religiosa la formazione dei prezzi e vorrebbero subordinare l'opera del mercato a premesse dì natura estrinseca alla vita economica stessa. Sotto questo aspetto il socialismo in tutte le sue forme, come collettivismo, come comuniSmo, come democrazia sociale, costi¬ tuisce un intralcio allo sviluppo del mercato, in quanto vorrebbe sostituire alla distribuzione dei valori della produzione, alla formazione dei prezzi — 174 delle merci, ecc., che il mercato fa attraverso rin¬ contro delle forze in contrasto, norme di natura mo¬ rale o sociale o religiosa, esterne al processo spon¬ taneo di esso » (pag. 214). Questa difesa della libera concorrenza o sen¬ z’altro della libertà economica è — come già ab¬ biamo osservato per tutto il libro — di carattere evidentemente equivoco. E infatti chi si fermi alla prima impressione, e sia convinto di quella dialet¬ tica storicistica della vita che traspare dalle parole del Lanzillo, non può non consentire con una tesi di impronta affatto idealistica, ma il giudizio si mu¬ ta Tadicalmente non appena si rifletta sul modo con cui tale libertà è intesa e sulla riduzione ch’essa im¬ plica del massimo valore spirituale al più caotico fatto naturale. La libertà auspicata dal Lanzillo è, come tutte le leggi economiche da lui rivendicate, un’affermazione essenzialmente naturalistica (pagi¬ na 208), al di qua di ogni scienza e di ogni consa¬ pevole prassi politica. « La funzione del mercato », conferma egli esplicitamente, « si esplica in modo automatico; non esiste nessuna testa dirigente, nes¬ sun organo che prescriva e definisca i limiti dei mo¬ vimenti, le forze, le leggi che determinano i prezzi su qualunque mercato; il prezzo si forma in modo spontaneo e irrazionale, obbedendo alle leggi na¬ turali della economia. Le norme regolatrici, gli or¬ gani direttivi nei mercati moderni, si limitano a stabilire la procedura delle transazioni, i diritti ed i doveri degli operatori, le garanzie giuridiche delle operazioni. Sfugge alla volontà degli operatori e dei preposti alle contrattazioni l’essenziale, gli impulsi che determinano un prezzo e che modificano, di ora in ora talvolta, il suo livello » (pag. 206). Ora il - Lanzillo no» dà a queste sue proposizioni il valore di una diagnosi dello stato di fatto dei mercati na¬ zionali e internazionali, bensì quello dell’ideale di ogni mercato che risponda a una sana vita econo¬ mica: bisogna, in altri termini, affidarsi alla natura lasciando che essa risolva i problemi, di cui la scien¬ za economica discute soltanto ai fini di determinare il proprio compito assolutamente negativo. « La in¬ dagine degli scienziati è diretta precisamente », se¬ condo il Lanzillo, « a cercare quali di questi feno¬ meni naturali primitivi, si svolgano in modo unifor¬ me, sì che possano costituire delle vere leggi della ntlività economica dell’uomo » (pag. 25). Non si tratta dunque di costituire una vita economica sem¬ pre più organica e disciplinata, ma di sottomettersi senza reagire a fenomeni naturali primitivi. Vero è che lo stesso Lanzillo in altra parte del volume rivendica il valore dell uomo, in quanto questo « op¬ pone alla forza cieca della natura la sua forza intel- lettuale e morale, che tende a dominare la natura imprigionandone le forze nel senso economico, nel senso razionale, nel senso morale »; ma anche tale rivendicazione finisce in un misero compromesso, per cui « l’economia è quindi da una parte sotto¬ messa alle leggi cieche della natura, dall’altra si svolge a seconda delle norme della vita sociale, crea¬ te dalla collettività umana » (pag. 53). Non è chi non veda nel guazzabuglio di idee in cui si è dispersa a poco a poco l’indagine del Lanzillo, ora idolatra della natura e prono dinanzi alle sue leggi inderogabili, ora entusiasta dell’atti¬ vità creatrice dell’uomo c della sua capacità di do¬ minio sul mondo naturale fino al punto di afferma¬ re che « la storia umana è storia dell’individuo, è — 176 battaglia perenne dell’uomo contro la natura: è una negazione, in un certo senso, della natura « (pag. 53). Il Lanzillo sottolinea l’inciso « in un cer¬ to senso », ma, se non si fosse limitato alla sotto¬ lineatura e avesse cercato di precisare in quale senso la storia dell’nonio è la continua negazione della natura, avrebbe certamente approfondilo l’analisi e avrebbe forse finito col dare unità al suo pensiero e con lo spazzar via epici deteriore naturalismo che tutto lo inficia. Alla luce di queste considerazioni possiamo ora renderci conto del valore da attribuirsi alla ipo¬ stasi della libera concorrenza e della libertà econo¬ mica in genere. La libertà che rivendica il Lanzillo è quella della natura e dell’abbandono alle sue leggi cieche o è quella umana « che si svolge a seconda delle norme della vita sociale, create dalla colletti¬ vità umana »? Questo è il problema che oggi 6Ì pone alla scienza economica e che il Lanzillo invece non rende mai esplicito e risolve infine aderendo pro¬ prio alla prima soluzione. Basta porre con rigore la questione per accorgersi come tutta l’indagine del Lanzillo sia rimasta al di qua di essa e perciò ne¬ cessariamente infeconda, V i sono due modi — ripetiamo — di concepire la libertà: l’uno, quello deH’uomo selvaggio, che non ha leggi di sorta e nessun limite oltre quello che gli vien dal cozzo con la natura e con gli al¬ tri uomini: l’altro, quello dell’uomo civile, che espli¬ ca la sua attività nella disciplina della legge e nel- 177 l'organismo unitario della vita sociale. Ora. il pro¬ cesso storico consiste appunto nel progressivo tra¬ passo dalluna all’altra forma di libertà, sì che la seconda sia addirittura la negazione della prima e s’identifichi con lo stesso concetto di legge, di cui la prima rappresentava l’astratta antitesi. Che lutto ciò sia in gran parte pacifico nel campo del diritto sta a testimoniarlo il fatto che oggi nessuno ardirebbe sostenere sul serio la necessità di abo¬ lire i codici e di lasciare all’arbitrio incontrollato dei singoli il comporsi degli interessi in contrasto, in modo che l’inventiva e l’iniziativa di ciascuno potessero esprimersi nella loro assoluta immedia¬ tezza: ma ciò purtroppo non riesce ancora a dimo¬ strarsi con la stessa evidenza nel campo econo¬ mico. in cui gli economisti si rifiutano di prendere in considerazione il problema e lo ignorano addi¬ rittura. Se nessuno può farsi giustizia da sé nel campo della vita giuridica, perché tutti se la do¬ vrebbero fare da sé nel campo della vita econo¬ mica? Se la libera concorrenza è legge di vita, lo deve essere in ogni manifestazione, e, se il ragio¬ namento che la giustifica è quello della necessità dialettica della lotta, tale necessità è in ogni caso valida. 11 fatto è che la libertà costituisce, si, la legge della vita, ma non concepita naturalistica¬ mente come arbitrio, sibbene spiritualmente come sviluppo logico e conquista progressiva di ideali sempre maggiori. E allora le leggi sociali non sono limite al suo realizzarsi, bensì condizione impre¬ scindibile di esso e fondamento saldo della nuo¬ va costruzione, sì che tanto più lihero è un popolo quanto più salda e rigorosamente rispettala è la legge che lo governa. Né diverso può essere l’idea- 15 • Sfinvtu — 178 — le della libera concorrenza economica, se non vo¬ gliamo che gli arbitri dei singoli si sopraffacciano e distruggano reciprocamente, anziché comporsi c potenziarsi in una competizione consapevolmente disciplinata. Anche qui la libertà ha valore solo nel processo sistematico della vita sociale e nella visione deirunica sua finalità. Se l’ideale del mer¬ cato è quello auspicato dal Lanzillo, esso implica la patologica e aprioristica rinunzia a ogni logica, a ogni criterio economico e infine a ogni possibi¬ lità di costruzione scientifica. Se è vero, infatti, che il prezzo deve formarsi « in modo spontaneo e irrazionale )) e che deve sfuggire « alla volontà de¬ gli operatori e dei preposli alle contrattazioni l’es- senziale, gli impulsi che determinano un prezzo e che modificano, di ora in ora talvolta, il suo li¬ vello )), vuol dire che la scienza economica non ha ragion d’essere e che il successo e l’insuccesso di ogni impresa è puramente fortuito. Che se, invece, è possibile anche nel campo economico scegliere a ragion veduta la via da hattere, ossia prevedere in qualche modo il risultato delle proprie azioni o delle proprie speculazioni, ciò significa che una certa razionalità governa pure questo aspetto della vita, e che lo scopo supremo della prassi e della scienza è appunto quello di rendere sempre più in¬ telligibile il processo di tali fatti, coordinandoli e subordinandoli in un sistema sempre più logico. Vuol dire insomma che anche nella vita economica non deve sussistere l’anarchia e l’arbitrio, sibbene una libertà che abbia un’intima coerenza logica e che perciò sia resa possibile solo dall’unità consape¬ vole dell’organismo in cui si attua. Il che è poi con¬ fermato in modo indubbio dai fatti, come può ben — 179 — riconoscere chiunque confronti l’andamento dei mercati odierni — nazionali e internazionali — con quelli di qualche secolo addietro e constati che va progressivamente attenuandosi l’irrazionalità dei prezzi, che si rende sempre meno fortuito l’in¬ contro della domanda e dell'offerta, e che soprat¬ tutto muta radicalmente la fisionomia delle crisi economiche. È l’unità dell’organismo che via via disciplina la bruta molteplicità delle iniziative in¬ dividuali. ECONOMIA LIBERALE ED ECONOMIA CORPORATIVA l Lettera aperta a S. E. Pasquale Jannaccaue) Eccellenza, Nell’articolo Scienza, critica e. realtà economi¬ ca (Riforma unciale, novembre 1930, pp. 521-528), in cui ha voluto vivacemente criticare i miei scritti di economia, ancli’Ella si è compiaciuto di insiste¬ re nei triti luoghi comuni che formano il muro divisorio tra la gente assennata e i filosofi. Ma poi¬ ché la divisione esiste ed Ella non vuole compiere alcuno sforzo per comprendere le « espressioni pre¬ ziose ed alquanto ermetiche del linguaggio filoso¬ fico più moderno » da me adoperato, La prego di non voler giudicare in ine il filosofo e di non rivol¬ germi dei complimenti (« filosofo più che scien¬ ziato ») di cui Ella non potrebbe scientificamente rispondere. Come non può rispondere, del resto, di nessuna delle affermazioni contenute nelle pagine dedicatemi, se è vero che in esse è pur dovuto scen¬ dere in qualche modo sul mio terreno per incon¬ trarmi e combattermi. Se la mia è « critica d’arte « — 181 - t / 1:1 e se le mie pagine possono soltanto procurare « un certo diletto estetico », le lasci confutare dai letté« rati e non si avventuri in un campo che non è quello della Sua scienza. Altrimenti, Eccellenza, corre il rischio di contaminare la severità dei Suoi studi e di indulgere a giudizi critici che sono, in effetti, impressioni da dilettante. In ogni caso, Ec¬ cellenza, legga con maggior attenzione ciò che vuol giudicare e non mi faccia dir cose che non ho mai dette e che sono anzi agli antipodi delle mie affer¬ mazioni. Io ho chiamato economia liberale tutta i’eco- nomia politica. Ciò rappresenta per Lei una con¬ fusione che avrebbe tre origini. La prima consi¬ sterebbe nel confondere un’ipotesi scientifica con un precetto o un ideale, e questa veramente sareb¬ be una strana cosa per uno storicista, il quale affer¬ ma la immanenza della norma alla realtà: ma, di grazia, quando, dove e come ho fatto una simile confusione? La seconda sarebbe che, « in un tiro a bersaglio, è molto più facile mandare all’aria il leggiero berretto della Libertà che il bronzeo elmo di Minerva; e quindi v’è un interesse pratico a mutar questo con quello sulla testa della scienza economica ». Ora, a parte l’insinuazione volgaruc- cia delì’mteresse pratico, sta di fatto che, se Ella può disinteressarsi del « leggiero berretto della Li¬ bertà » per occuparsi esclusivamente del « bronzeo elmo di Minerva », io soli costretto a mandar all’a¬ ria il primo per poter costruire il secondo su un L — 182 — ben più solido concetto della stessa libertà: poiché è bene non indulgere in alcun modo airequivoco e non far credere, a coloro che son soliti di giudi¬ care per sentito dire, che con la critica dellecono- mia liberale si voglia negare, anziché potenziare, la libertà economica. La terza origine, infine, sa¬ rebbe « la scarsa conoscenza che lo Spirito sembra avere delle opere speciali e propriamente tecnicbe degli economisti ; di guisa ebe, standosene pago a certe generalità, egli può tenere per « liberali )), sol perché economisti, Malthus quanto Ricardo, Si- smondi quanto Sav, Stuart Mill quanto Jevons, Cournot quanto Bastiat, W'alras quanto Pareto, Wagner quanto Marshall, Sax quanto Menger, Lo¬ ria quanto Pantaleoni, e via discorrendo! ». Ma anche per questa terza origine l’accusa rivoltami non è giustificata, non perché si sia dimostrata di fatto la mia conoscenza o la mia ignoranza degli economisti sopra citati, bensì perché rargomenta- zione poggia su di un timido «sembra», il quale non può certo elevarsi a criterio scientifico. Se Ella vuole insistere nel rimprovero deve anzitutto di¬ scutere con me il concetto di liberalismo, e poi di¬ mostrarmi che a uno solo di quegli economisti non competa l’epiteto di liberale, com’è stato da me inteso. Liberale, secondo il punto di vista dal quale mi son posto, è chi ritiene l’individiio in tutto o in parte estraneo alLorganismo statale e perciò sog¬ getto di alcune azioni economiche estranee ai fini dello Stato: liberale, in altri termini, è chiunque non giunga all’identificazione di individuo e Stato. In tale senso è chiaro che nessuno degli economisti indicati può sfuggire alla critica da ine fatta; nep¬ pure i rappresentanti di quel socialismo di cui al- I — 183 Liovc ho dimostralo lo stesso pregiudizio individua¬ listico in termini di statalismo. Che poi Ella possa contestarmi la legittimità dell’uso che io faccio del concetto di liberalismo è luti’altra questione, estra¬ nea all’accusa com’è stata da Lei formulata: co¬ munque mi permetto ricordarle che queiruso non è arbitrario, hensì strettamente legato a una conce¬ zione speculativa e storica, elle Ella molto difficil¬ mente potrebbe confutare. Solo quando l’avrà fatto o almeno avrà tentato di farlo, sarà il caso di ri¬ prendere la discussione. Quanto alla distinzione ch’Ella fa tra critica d’arte e critica scientifica non credo utile né op¬ portuno discutere qui la Sua tesi : qualunque cri¬ tico d’arte che si rispetti si sentirebbe offeso della funzione da Lei attribuitagli. Per quel che riguar¬ da in particolare la critica scientifica Le dirò mol¬ to francamente che una critica « puramente nega¬ tiva » non è mai esistita né può esistere: è una con¬ traddizione in termini. Che poi la scienza sia « un lento trasformarsi », « un continuo processo di re¬ visione », inteso come « travaglio interno della scienza stessa )), e perciò non possa essere d un Iratto negata in blocco e sostituita con altra scien¬ za, è verità non solo lapalissiana, ma da me espli¬ citamente riaffermata quando ho detto che la scienza «è lina: e lutti gli indirizzi scientifici, dal mercantilismo alla scuola fisiocratica e dal liberali¬ smo allo storicismo, al socialismo, al corporativi- 184 emo, non sono che i momenti del suo unico pro¬ cesso storicamente determinato. L’economia cor¬ porativa vuol rappresentare soltanto lo stadio più avanzato del processo, in cui tutti i precedenti deb¬ bono risolversi trasvalutandosi ». Sì cbe quando si afferma la necessità di mutare i presupposti della scienza economica, non si vuol già, come Ella arbi¬ trariamente mi fa dire, « elevar la pretesa cbe i cultori d’una scienza abbandonino d’un tratto i lo¬ ro presupposti, le loro ipotesi, le loro leggi, cioè tutto quanto è servito, nella faticosa elaborazione di più generazioni, a convertire l’indistinto in di¬ stinto, per altri presupposti, dei quali non sia an¬ cora stata sperimentata la fecondità e la virtù chia¬ rificatrice » ; ma si vuole affermare soltanto la crisi interna della stessa scienza economica, e. cioè l’in- lerna necessità di rivedere i propri presupposti per adeguarli alle nuove esigenze scientifiche. Le quali nuove esigenze, si badi bene, non sarebbero se non ci fossero già state le vecchie, così come, in parti¬ colare, non potremmo avere il nuovo concetto di libertà economica senza avere già sperimentato il valore e i limiti del vecchio concetto liberìstico. Una nuova affermazione scientifica è sempre una negazione perentoria della vecchia, ma solo a patto di sorgere appunto dalla sua negazione, e di rias¬ sorbirla in un superiore concetto. E sarebbe quin¬ di il caso di finirla con ii ritornello della pura ne¬ gatività della mia critica e con l’invito formale di costruire da un giorno all’altro tutto un nuovo si¬ stema fino all’ultimo dei particolari. Al sistema — che del resto è nel suo nocciolo già implicito in lutili quel che ho scritto finora — sto lavorando ponendo pietra su pietra, ma intanto non sarebbe forse inop- — 185 — portuno che anche altri si persuadesse di una certa legittimità della critica fin qui svolta e non la pren¬ desse tanto leggermente dall’alto rinunciando a priori a una piu effettiva collaborazione. Credere che quella critica sia mera velleità di un filosofo e incaponirsi a non vedere l’attuale crisi della scienza economica, è segno di un dogmatismo che confina con l’ingenuità. E veniamo alla famosa pietra di paragone che è data dal problema della libera concorrenza e del monopolio. « Il gran rimprovero », Ella dice, « che lo Spirito muove agli economisti tradizionali è di non comprendere la realtà. Ma l’unica prova che egli porti di questa incomprensione starebbe nel- l’aver essi ordinati ì loro sistemi intorno alle due configurazioni estreme della libera concorrenza e del monopolio, ignorando la figura del sindacato ! Forse il nostro critico non sa che ormai, nella scien¬ za economica, le due espressioni di libera concor¬ renza e monopolio non sono che due forinole per denotare sinteticamente il concorso di un certo nu¬ mero di condizioni, la cui presenza rende determi¬ nato il mercato, mentre la mancanza di una sola lo rende indeterminato. Il prohlema fondamentale dell’economia essendo la determinazione dei rap¬ porti di scambio (valori, prezzi), è naturale che gli economisti abbiano dato il massimo rilievo allo stalo di libera concorrenza perfetta c di monopolio assoluto, perché solo nell’nna o nell’altra ipotesi v’è una situazione determinata di equilibrio sta¬ bile, e quindi un prezzo normale intorno al quale gravitano i prezzi reali di mercato, come satelliti intorno al sole )). In tal guisa anch’Ella cerca di di¬ fendere l’economia tradizionale restringendo al so¬ lito, le figure della libera concorrenza e del mono¬ polio a due forinole scientifiche astratte. Ma il guaio è — lo ripeto ancora una volta — che quelle for¬ inole non possono essere scientifiche perché inti¬ mamente contraddittorie: io nego, in altri termini, che con 1 ipotesi della libera concorrenza si possa — sia pure nel modo più astratto — rendere de¬ terminalo il mercato e giungere a una situazione determinata di equilibrio stabile. Potrò sbagliare, ed Ella potrà convincermi dell’errore, ma sino a quando non avrà confutato la mia argomentazione, rimarrà al di qua di essa, con la conseguenza di fraintendere completamente il mio pensiero e di continuare a discorrere di cose che nulla hanno a che fare con la mia tesi. E purtroppo tutto il re¬ sto del Suo articolo è la prova più manifesta della radicale incomprensione del principio da cui ho preso le mosse. Perché la ragione del fraintendimento possa apparire chiara, mi sembra opportuno rifarmi a quanto Ella mi attribuisce in una nota a pag. 526. « Lo Spirilo », Ella afferma, « sfonda una porta aperta quando dice che il movente edonistico non è il solo movente di azioni economiche )). Orbene, — 187 — io non solo non sfondo alcuna porta aperta, ma ne¬ go esplicitamente che si possa parlare di moventi diversi delle azioni economiche: nego cioè che esi¬ stano moventi edonistici e moventi non edonistici della nostra condotta. Un infortunio peggiore, Ec¬ cellenza, non poteva capitarle! Ma è proprio cosi, o altrimenti la tesi dell’identificazione di individuo e Stalo non ha più significato. Da questo equivoco fondamentale scaturisco¬ no, poi, le considerazioni eh’Ella fa intorno al si¬ stema corporativo italiano. Dopo aver stigmatizza¬ to con me « coloro che hanno fin qui tentato di co¬ struire una teoria dell’economia corporativa sem¬ plicemente parafrasando la Carta dal lavoro e le leggi che ne derivano — quasiché 1 esegesi di un testo legislativo possa dar vita ad una scienza e non debba invece da essa riceverla », Ella stesso finisce col prendere alla lettera la Carta del lavoro e col porsi un compito scientifico di assurda realizzazio¬ ne. « È appena necessario avvertire », Ella dice, « che il problema posto dalla Carla del lavoro è molto più complesso di quei prohlemi di massima ofelimità individuale e collettiva, o di massima uti¬ lità per la collettività e della collettività, che sono stati studiati da Cournot, Walras, Edgeworth, Pa¬ reto, Pigou. Pantaleoni e tanti altri economisti. Nel sistema corporativo si tratterebbe di realizzare, quanto meno, due massimi: uno della collettività, come somma d’individui, e uno della Nazione, co¬ me entità distinta. Occorrerebbe quindi ricercare se le relative condizioni siano compatibili fra loro, e con quelle poste per la soluzione di altri proble¬ mi parziali (determinazione dei salari, interesse della produzione, ecc.) ». Ma se veramente questo — lftfi — dovesse essere il compito dell’economia corporati¬ va. vana sarebbe ogni speranza di riuscita ; e non occorre certo un grande acume scientifico per com¬ prendere che. se di due massimi è questione, e cioè se moventi edonistici e moventi non edonistici coe¬ sistono, 1 economista può pure dichiarare ialli- mento e rinunciare airimpresa disperata. Se l’eco¬ nomia corporativa ha un significato, questo non può vedersi che nella determinazione del massimo di utilità dello Stato in quanto identico con l’indi¬ viduo: nia per giungere a tale risultato bisogna an¬ zitutto convincersi che la determinazione dell’utile dell’individuo particolare, come quella dell’utile della collettività in quanto somma di individui, è un’utopia scientifica che è potuta fiorire soltanto nei cervelli degli economisti. VI L’ECONOMIA ATTUALIZZATA i Risposta a Benedetto Croce) Alcuni mesi or sono Benedetto Croce « osser¬ vando il corso delle cose » si era accorto niente¬ meno che <( tra le parecchie cose che si sono dissol¬ te in Italia negli ultimi anni, c’è anche il cosiddetto idealismo attuale Yr. e dopo questa constatazione si era proposto di non sprecar oltre parole su un argomento che ormai fa sorgere in lui « una curio¬ sità meramente retrospettiva » (La Critica, 20 lu¬ glio 1930, pp. 317-320). Ma, per quanto retrospet¬ tiva, questa « curiosità » non lo lascia in pace un momento e par che la fobia per l’idealismo attuale sia rimasta 1 unica nota veramente viva e colorita della sua attività di questi anni. Non è esagerato affermare che dai più, oggi, La Crìtica si attende e si sfoglia soprattutto per il desiderio di trovarvi l’immancabile battuta contro il nemico dissolto. Ed è un desiderio un po’ morboso, qual si conviene all’atteggiamento morboso che Io suscita, attraver¬ so di esso creando, nelle zone della mezza cultura, una nuova sorta di popolarità e di forma mentis crociana. — ign Ora, il Croce si è accorto che l’idealismo at¬ tuale sta per prender moglie e sposare non sapreb¬ be dire se, monogamicamente, la Scienza, o, poliga¬ micamente, le Scienze. Se ne è accorto, e trova quindi 1 occasione di tornare a parlare di ciò cbe non merita conto discutere, ma che tuttavia lo stuz¬ zica (« all’invito non so resistere ») e gli fa scrivere delle pagine, di cui infine nuovamente par che si penta, accorgendosi di aver fatto « troppo onore » a cose che rivelano soltanto (( la loro nullità scien¬ tifica » {L’economia filosofata e attualizzata, in La Critica, 20 gennaio 1931, pp. 76-80). Oh. quanta insincerità in questo ostentato timore di abbassarsi c in questa superbia vinta ancora una volta dal bi¬ sogno di giustificarla. Non si accorge il Croce del valore diseducativo di questo suo atteggiamento che costringe, ad esempio, me, che pur avrei desiderio di discutere le sue obiezioni da un punto di vista esclusivamente scientifico, ad analizzare i suoi sen¬ timenti e i suoi umori personali per rendermi esat¬ to conto dei limiti della sua critica? Il Croce mi fa osservare cbe l'identificazione di filosofia ed economia è un sofisma che non regge al cimento della realtà. « Quando ci si prova real¬ mente », egli dice, « a costruire quella Economia che è Filosofia, si giunge al ponte dell’asino, per¬ ché, se si filosofa, si trascende la scienza economica (passando di necessità a trattar di logica o di filoso¬ fia dell’utile), e, se ci s immerge nella scienza, si ces- 19] — sa o si sospende di filosofare » (p. 76). Il che pò- Irebbe anche essere verissimo, ina è appunto quel¬ lo che occorreva dimostrare per opporsi alla mia tesi. Intanto è opportuno prender atto di un per¬ ché, che, se non spiega nulla, ha tuttavia il valore di una riaffermazione esplicita e categorica del dua¬ lismo crociano di scienza e filosofia, intesi come distinti nel tempo. I modi di far sentire la mia voce nel campo della scienza economica sarebbero, secondo il Cro¬ ce, due, e propriamente l’uno di « accompagna¬ mento » e ] altro di a correzione ». il primo « con¬ siste nel venir continuamente rammemorando di¬ nanzi alle proposizioni dell’Economia, che queste sono « astratte » ( come se la scienza potesse esser mai altro che astratta!) e che la realtà concreta sì risolve nella filosofia e nella storia »; e inoltre « rin¬ tronandoci gli orecchi a ogni passo, a ogni delto dell’Economia, mercé la pedantesca glossa: che la concretezza è solo nel Soggetto » (pag. 77). Ora, se questo fosse il mio modo di procedere, si avrebbe ragione di ritenermi puerile, querulo, arrogante e seccatore, ma il fatto è che tale funzione di ac¬ compagnamento non solo non è stata esercitata nel modo che descrive il Croce, ma non è stata eserci¬ tata in nessuna maniera, che, anzi, la stessa tesi dell identificazione di filosofia ed economia esclude la possibilità di esercitarla. E infatti se io ho ricor¬ dato che le proposizioni della scienza economica sono astratte, ho poi dimostrato che sono anche concrete; aggiungendo — contrariamente a quel che si potrebbe arguire dalle parole del Croce — che accanto all’economia non v’è una filosofia o una storia, le cui proposizioni siano altrimenti astratte 192 — o altrimenti concrete. Quanto, infine, al far rin¬ tronare gli orecchi con lo « pedantesca glossa: che la concretezza è solo nel Soggetto », mi permetto far osservare che il Croce giudica anche qui per partito preso: se avesse la pazienza di rileggere i miei scritti senza prevenzioni, si accorgerebbe dello sforzo costante da me compiuto per evitare formu¬ le generiche e troppo tecnicamente filosofiche. Quel¬ la glossa, pedantescamente ripetuta, offenderebbe il mio gusto ben più di quello del Croce, adusato, com’egli è, a ripeterci glosse del genere da alcuni decenni. 11 secondo modo di penetrare nella scienza economica, quello della « correzione », si esercite¬ rebbe accusando tutti gli economisti d’individuali¬ smo, di atomismo, di utilitarismo, di antistoricismo, di veder ('individuo e disconoscere Io Stato, di es¬ ser liberisti e liberali, di ignorare che la libertà non può conseguirsi se non nello Stato o dallo Sta¬ to. Al che il Croce fa anche lui lo scandalizzato, come un qualsiasi economista cattedratico, e si com¬ piace del solito ritornello: «Ma che si scherza? Hanno mai veramente cotesti signori aperto un trattato di Economia o procuralo d’intenderne il contenuto? E come, in questo caso, non si sono ac¬ corti che gl’« individui », dei quali discorre l’Eco- nomia, non hanno nulla da vedere con quelli dei quali il diritto traccia i diritti e i doveri versa lo Stato e la Filosofìa del diritto ricerca i rapporti che ha il concetto di essi con quello dello Stato, ma sono nient’altro che sinonimi e simboli di « bisogni », « soddisfazioni di hisogni », mezzi di soddisfazio¬ ne », « produzione di mezzi » e simili, coi quali si stabiliscono le leggi e s’istituisce il calcolo economi- — 193 — co? c che, parimenti, lo Stato o gli Stati sono colà nient altro che simboli di forze interferenti nei pro¬ cessi prima disegnati, e modificatrici del loro an¬ damento regolare? » (p. 78). A questo ritornello ho già risposto più d’una volta, ed il Croce avrebbe pur potuto prendere atto della mia risposta prima di ripeterlo. E ho risposto che ho cercato invano nei trattati degli economisti un significato tecnico e non equivoco di individuo e di Stato; e che purtroppo gli economisti hanno sem¬ pre presupposto chiari ed evidenti questi concetti fondamentali della loro scienza. Ma la mia rispo¬ sta non si è limitata a tale constatazione, che anzi, passando a illustrare il significato di quei bisogni, di cui gli individui sarebbero i simboli, mi sono im¬ battuto nel concetto di nfelimo, che mi ha ricon¬ dotto dritto dritto all’individuo della psicologia e della filosofia del diritto, E allora è colpa mia se ho impostato la discussione in termini scientifici e fi¬ losofici insieme, identificando l’individuo dell’eco¬ nomia con rindividuo tout court e procedendo alla critica della teoria marginalità? E, d’altra parte, ha mai provato il Croce a intendere sul serio i bi¬ sogni e a trattarli scientificamente, prescindendo dal concetto di individuo cui si riferiscono? Egli mi domanda se ho mai aperto un trattato di econo¬ mia o se ho procurato d’intenderne il contenuto; ma, di grazia, quale trattato ha egli mai aperto in cui abbia trovato un concetto di bisogno, scientifi¬ camente determinabile indipendentemente dal con¬ cetto filosofico di individuo? Se, poi, dall’individuo si passa allo Stato e si cerca di rendersi conto del valore e dei limiti di questa (( forza interferente )) nei processi dell’eco- 13 • Sfinirò — 194 — nomia individuale, non solo ai ha da ripetete il ra¬ gionamento testé fatto, ma l’antitesi individuo- Stato si delinea subito con caratteristiche tali, da rendere assolutamente fuor di proposito l’obiezio- ne del Croce. E basterebbe elencare pochi binomi — libertà e intervento, concorrenza e monopolio, prezzi economici e prezzi politici per convin¬ cersi che l’individuo e lo Stato son proprio quelli che la filosofìa del diritto ha il compito di definire. Del resto, faccia il Croce la controprova e ci defi¬ nisca, restando in un terreno puramente economi¬ co, quella forza interferente di cui lo Stato sareb¬ be il simbolo. Ci provi, e noi attenderemo paziente¬ mente i risultati: però fin d’ora gli garantisco che, se il risultato non sarà negativo, una nuova scienza dell’economia avrà visto la luce. « Come non hanno capilo )), continua a oppor¬ mi il Croce, rinforzando la dose, « che l’Economia non cangia natura quali che siano gli ordinamen¬ ti sociali, capitalistici o comunistici, quale che sia il corso della storia, al modo stesso che non can¬ gia natura l’aritmetica per variare delle cose da nu¬ merare? O bisognerà comandare all’aritmetica di non permettere che quattro e quattro facciano otto, e di aspettare quel che deciderà in proposito lo Sta¬ to, che è il Dovere e che è Dio ? Quale « vulcano » filosofico o morale avevano lasciato spegnere gli eco¬ nomisti, il cui metodo non è filosofico ma matema¬ tico, e il cui assunto non è di etica? Non sono ovvie presso gli economisti le distinzioni tra economia pura ed economìa politica, tra legge economica e politica economica, e lo stesso liberismo dal la¬ sciar fare e lasciar passare non è stato innumeri volte dichiarato, nei rispetti dell’azione statale, 195 — una massima di valore pratico o empirico? )> (pp. 78-79). Che il Croce non comprenda l'accusa di anti¬ storicismo da me rivolta alla scienza economica, non deve certo meravigliare chiunque legga i perio¬ di ora riportati. L’economia come l’arilxnetiea non cangia quale che sia il corso della storia : l’economia è matematica anch’essa, e quattro e quattro hanno fatto e faranno sempre otto. Con quale entusiasmo accoglieranno queste parole ì nostri economisti ma¬ tematici, che giurano sulla purezza della loro scien¬ za 1 Ma che queste parole avessero dovuto suo¬ nare con tale durezza anche sulla bocca di un filo¬ sofo e di uno storico, non ci saremmo davvero aspettato. Oh, dunque, anche per il Croce la distin¬ zione tra economia pura ed economia politica è ovvia? Che ovvia sia sembrata e sembri a tanti eco¬ nomisti — non a tutti — è cosa fuori dubbio, ma non crede il Croce che io, aprendo quei tali trattati cui egli allude, abbia già dimostrato come, in real¬ tà, la distinzione non stia né in cielo né in terra, e sfugga immediatamente dalle mani, appena si cer¬ chi comunque di precisarla? Ecco, io non vorrei ritorcere l’accusa di scarsa conoscenza delle opere degli economisti, ma non so proprio come spiegar¬ mi questa fiducia illimitata che il Croce ha sull’e¬ sistenza effettiva di un’economia pura e, peggio an¬ cora, di una economia matematica che non abbia fondamenti illusori. Non si lasci intimidire dall ap¬ parente rigore delle ben collegate serie di formule, penetri un poco in questo mondo di superiore tecnicismo e veda se gli sia possibile trovare un ten¬ tativo sistematico di economìa matematica — nella possibilità e opportunità del metodo matematico — 196 — nella determinazione dei rapporti di alcuni feno¬ meni economici non ci può esser dubbio — che non poggi su basi di creta e non si riattacchi a presup¬ posti affatto arbitrari e verbalistici. L articolo del Croce si chiude con un esempio, che dovrebbe provare ad oculos la riduzione allW surdo dell’economia attualizzata. Ma l’esempio — oltre la poco simpatica e poco generosa ironia ver¬ so un uomo che merita tanto rispetto — riesce a provare soliamo una cosa, vale a dire la poca co- scienziosilà di un critico che pretende di far giusti¬ zia di un tentativo scientifico, artificiosamente ridu- cendolo a una sua particolare espressione. Poeti giorni prima che uscisse il fascicolo de La Critica era apparsa sul Giornale critico della filosofia ita - liana la mia recensione del libro di Emilio La Boc¬ ca [Abbozzo di una interpretazione idealistica del¬ la economia politica , Perugìa-Vcnezia. «La Nuo- va Italia », 1930, pp. vm-295): che io non intenda a quel modo l'identità di scienza e filosofia, al Cro- ce avrebbe dovuto risultar chiaro, e che nel libro dei La Rocca io veda Io stesso pericolo che vi vede il Croce, anche questo avrehhe dovuto essere evi¬ dente a chi si fosse accinto alla discussione con animo sereno. Ma di serenità oramai il Croce non è piu capace e prima di ogni altra cosa egli cerca di convincersi che le nostre « manipolazioni pseudo- dottrinali siano più o meno direttamente a servigio di equivoci ideali », che lo autorizzino a diicuter- — 197 — uè in maniera astiosa e ingiusta. Terreno, questo dell ingiuria, nel quale sarebbe vano seguirlo, sia che si cercasse di pagar della stessa moneta eia che si tentasse di persuadere dell’errore. In chi lavo¬ ra con fede, trascurando frutti che pur sarebbe fa¬ cile (e quanto facile!) raccogliere, la ripetuta insi¬ nuazione del Croce può gettare solo un’ombra di tristezza: forse un giorno, ritornando con altro ani¬ mo su queste discussioni e avendo altri elementi per giudicare gli uomini di oggi, egli sentirà il rimorso dell’ingiustizia commessa. Ed ecco la recensione del libro del La Rocca : È un audace tentativo di dominate nelle sue grandi linee tutta la scienza economica da un punto di vista rigorosamente idealistico : un tentativo che va conside¬ rato con molta attenzione da quanti sono persuasi della necessità di porre in primo piano il problema del rap¬ porto tra scienza e filosofìa. 11 La Rocca, dopo aver ac¬ cennato al principio fondamentale dell’attualismo, cer¬ co appunto di chiarire nel secondo capitolo il concetto di scienza in generale e di scienza empirica in partico¬ lare, e conclude « che se non può proprio parlarsi di identificazione perfetta tra quella che è l’attività del filosofo e quella che è l’attività dello scienziato, non deve potersi escludere tra esse una parentela molto stretta che, mutate talune circostanze, potrebbe diven¬ tare quasi tra esee una vera e propria identificazione » (pp. 19-20). In verità, questa soluzione, così schemati¬ camente riassunta, non può non apparire alquanto in¬ decisa e problematica, né tutte le argomentazioni che la precedono e la seguono valgono a farci superare ef- fettivamente lo stato di dubbia da casa ingenerato. L’Au¬ tore ai oppone con malta efficacia a una concezione ne¬ cessariamente naturalistica della scienza, ma quando si tratta di giungere alla estrema conseguenza di tale critica arretra un po’ perplesso e ripristina il dualismo che voleva eliminare: la distinzione di scienza e filo¬ sofia, dialetticamente negala con acutezza non comune, ai riafferma infine in modo categorico e nel senso forse più pericoloso. « Ma », osserva infatti il La Rocca, « se una distinzione rigorosa Ira le due non si può avere perché non può nel fatto aver luogo, non è mica detto che una distinzione dedotta dal diverso oggetto o fine che entrambe perseguirebbero non si possa avere. Si può avere di fatti, consistendo la prima nella risolu¬ zione nello spirito della realtà universale, e l'altra nella risoluzione in esso di un aspetto particolare della realtà universale » (pp. 33-34). Dove è. chiaro che la realtà universale viene abbassata a oggetto e che la filosofìa si concepisce ancora al vecchio modo intellettualistico. La soluzione non molto rigorosa del problema ha avuto le sue necessarie conseguenze nella scelta dei cri¬ teri seguiti per determinare i principi fondamentali del- 1 economia. La filosofia come scienza della realtà uni¬ versale è rimasta un presupposto di fronte all’economia che è scienza di un particolare aspetto di quella realtà, sì che la ricostruzione filosofica dell'economia è stala intesa nel senso di ricondurre ì principi scientifici alle categorie filosofiche. E il La Rocca ha potuto perciò avvicinarsi all’economia dall'esterno c tradurre i prin¬ cipi scientifici in termini altualisticì, senza preoccupar¬ si troppo della fecondità di un tale procedimento, desti¬ nata a esaurirsi in una zona di confine tra la scienza c la filosofìa, intese al vecchio modo. Concepito in tal guisa il problema, la prima preoc¬ cupazione del La Rocca è stata quella di individuare il principio primo della scienza economica, e l’indivi¬ duazione naturalmente e stata da lui cercata non sul ter¬ reno storico dell’origine c dello sviluppo della econo¬ mia, bensì sul terreno filosofico della dialettica dello spirito. L a priori è stalo inteso non nell’attualità dell’e¬ sperienza scientifica, ma come la determinazione pre- — 199 scientifica del principio della scienza. E il principio è diventato allora un momento assoluto della dialettica dello spirito, astoricamente concepito. «Ma», dice in¬ fatti il La Rocca, parlando del rapporto tra economia ed etica, « se per quel che riguarda la sua legittimità filosofica esso si identifica perfettamente col principio dell’eticità, non si deve concludere insieme, che non possa avere un suo oggetto speciale c inconfondìbile pur sulla base della sua realtà etica. Es90 può ben af¬ fermare un suo originale compito: quello della spiritua¬ lizzazione-materializzazione, deH’acquisizione-alienazio- ne, della valorizzazione-degradazione, il quale non è certo il compito della eticità che, se lien l’occhio al primo termine, non lo tiene, nello stesso tempo, ad entrambi » (pag. 131). Tale procedimento dialettico non si limila alla de¬ terminazione del principio primo, ma si estende a tutti i concetti tradizionali della scienza economica, e il La Rocca tenta di dedurre apeculativamente anche i ter¬ mini di produzione, circolazione, distribuzione e con¬ sumo; e finisce infine con l’idealizzare la figura dell im¬ prenditore identificandolo addirittura con il soggetto economico. Ma per quanta fede e calore l’Autore pon¬ ga in siffatta ricostruzione, l’astrattezza del procedi¬ mento non può non colpire l’attento lettore, che vede, pur attraverso l’esigenza giustissima di cui il La Rocca è tra i primi sostenitori, il grave pericolo di un ritorno all’hegelismo o al filosofismo antiscientifico. Ho voluto insistere più sul lato negativo che su quello positivo del libro del T,a Rocca — che pur è ricco di belle pagine e di acutissime critiche — perché ritengo necessario e urgente sgombrare nettamente il campo di tutti quei preconcetti filosofici e scientifici ohe non consentono ancora di giungere all’assoluta con¬ vinzione di un’unica forma del sapere e alla conseguen¬ te ricostruzione storicistica della scienza. L idealismo attuale ha dato il colpo di grazia al concetto intellet¬ tualistico di categoria, che è vano voler fare risorgere comunque in una malintesa determinazione di prin¬ cipi assoluti. I principi di tutte le scienze non possono che ricercarsi sul terreno concreto dell esperienza sto- sebbene egli siTuìa^ R ° CCa ’ w problemi filosofie-; ■■ narnn •of.ro « MMh> (atelier,„ (1 ]i M "r iivemlno^ne 0110 ■ mente sinonimi. — lv enlano necessaria- d 1'~ » '•*.Srrjiar * »- vn IL METODO MATEMATICO IN SOCIOLOGIA E IN ECONOMIA In un articolo, Verso Veconomia corporativa , pubblicato nei Nuovi studi (1929, pp. 233-252: ora riprodotto nel volume La critica dell’economia li¬ berale, Milano, Treves, 1930) ebbi occasione di oc¬ cuparmi del professor de Pietri Tonelli e di ac¬ cennare agli errori metodologici delle sue teorie di politica economica. Esemplificando in una nota, scrivevo : « Rinviando la critica della concezione ebe il de Pietri Tonelli ha della scienza della po¬ litica economica a quando sarà pubblicato il tratta¬ to che I A. annunzia, ci limitiamo qui, in via d’e¬ sempio, a riferire una delle presunte leggi della nuova disciplina. Nella prolusione citata {Di una scienza della politica, in Rivista di politica econo¬ mica, 1929, fase. 1) si afferma perentoriamente che « gli impulsi non si possono creare, né distrugge¬ re «, che, « se gli impulsi esistono, si trovano in proporzioni diverse in tutti gli uomini, dello stesso tempo e di tempi diversi )), ecc. Non ci meraviglie¬ remmo se tutto ciò, prima o poi, fosse tradotto in termini matematici e additato come una delle — 202 — eipiesaioni della scienza più pura ; ma la facilità che cobi bì dimostra di trasportare sul terreno scien¬ tifico i termini più empirici e indeterminati non può non rendere diffidenti contro le leggi dell'eco¬ nomia razionale. La mentalità è sempre la stessa, e cioè — piaccia o non piaccia l'aggettivo essen¬ zialmente dogmatica, come potrebhe riconoscere anche il de’ Pietri Tonelli, qualora provasse a do¬ mandare a uno studioso di psicologia e se Raffermare che gli impulsi non si creano né si distruggono pos¬ sa avere un qualsiasi significato men che banale » (pagg. 235-236). Come risposta a questa critica il de' Pietri Tonelli non ha trovato di meglio che recensire con troppo evidente acrimonia il volume in cui Parti- colo è stato riprodotto (Rivista di politica economi¬ ca, 31 dicembre 1930, pp. 1014-1015). Ma a una recensione che si limita a una filza di improperi non è il caso di ribattere : la polemica diventerebbe per¬ sonalistica e quindi estranea ai fini di una discus¬ sione scientifica. Sarà piuttosto opportuno prende¬ re in esame quel trattato che allora il de Pietri Tonelli ci annunciava e di cui recentemente è ap¬ parso il primo volume (Corso di politica economi¬ co, voi. I, Introduzione, Padova, Cedam, 1931, p. 216). Purtroppo le previsioni contenute nella mia nota sono state confermate dalla realtà, e sarà sufficiente qualche assaggio perché chiunque vo¬ glia giudicare con animo sereno se ne possa con¬ vincere. Dopo aver discusso in generale dell'oggetto della politica economica, 1\A. determina gli elemen¬ ti fondamentali dello studio. « Per limitare », egli scrive, « o meglio, per delimitare, il campo della — 20.1 — ricerca politica che ci interessa e metterlo alla por¬ tata della mente dello studioso, si può cominciare con lo sceverare e considerare, in sé, e nelle loro reciproche relazioni, tre elementi fondamentali della realtà sociale, cioè della vita delle cerehie so¬ ciali. Insieme coi fatti di natura, questi clementi formano la vita deU’universo. Tali elementi sono precisamente: 1) gli impulsi, che indicheremo con I, cioè i moventi, o le determinanti, o gli stimoli, ecc., quali i bisogni, i sentimenti, gli interessi, le passioni, il raziocinio, ecc., assai vari e che si con¬ viene debbano effettivamente esistere e operare, per indurre gli uomini ad agire e ad esprimersi ; 2) gli atti, che indicheremo con A, cioè le azioni, di diversa specie, a cui si ritengono indotti gli uomini, soprattutto dagli I; 3) le espressioni, che indiche¬ remo con E, cioè le manifestazioni di linguaggi, ge¬ stiti, verbali e scritti, riguardanti appunto gli I e gli A » (pag. 7). Tutta la costruzione del sistema è impostata su questa tripartizione della realtà sociale, sì che convien fermarsi al limitare e domandarsi quale sia il carattere e la validità scientifica di tali pre¬ supposti. È chiaro che una distinzione fra impulsi, atti ed espressioni non può avere valore sistematico se non si giustifica alla luce di tm criterio scientifi¬ co, ed è chiaro che un tale criterio non può trovar¬ si se non nella disciplina che si occupa ex professa di tali fenomeni. La distinzione, in altri termini, ha bisogno di una giustificazione logica che le ven¬ ga dalla psicologia: ogni allra giustificazione sareb¬ be di carattere empirico e però irrilevante ai fini di un sistema scientifico. Ma, intanto, dal punto di vi¬ sta psicologico, nessuno potrebbe dare un qualsiasi — 204 — valore a quella distinzione, affatto arbitraria aia per la scelta degli elementi, sia per la loro defini- zione, sia per l’interferenza dei rispettivi campi, bolo chi non ha alcuna dimestichezza con questi studi può illudersi di dare un significato critico a termini così radicalmente antiscientifici. . Si P° lr ehbe, a questo punto, porre una pregiu- disiale perentoria a tutto il sistema escogitato dal de Pietri Tonelli e chieder conto di tali presuppo¬ sti, esihiti senza alcuna garanzia della loro legitti¬ mità. Ma noi vogliamo far credito all’À. e ammet¬ tere che si possa accettare, su un terreno meramen¬ te astratto, una classificazione ottenuta con un gros¬ solano senso comune. Se non che, riconosciuto nel senso connine o nell’opinione il fondamento della distinzione, è possibile pervenire da essa a risulta¬ ti che trascendano la sfera del senso comune e dell’opinione? In altri termini, se la distinzione ha carattere empirico, può da essa ricavarsi una qual¬ siasi conclusione non empirica? La risposta non do¬ vrebbe esser dubbia, e il lettore dovrebbe aspettar¬ si che nel resto del volume si continuasse a discu¬ tere mantenendosi sullo stesso terreno sul quale poggiano gli elementi fondamentali. Ma le cose, purtroppo, procedono ben diversamente, perché, appena esposta la distinzione delle tre classi, le classi stesse vengono ipostatizzate e si comincia a giuncare con esse come con quantità esattamente definite. Le tre classi a loro volta si suddistinguono m classi minori, in cui l’arbitrio della definizione e sempre più palese, ma nelle quali la rigidità del metodo appare via via più dogmatica. La molteplì- cita delle classi acquista corpulenza numerica, e tra lettere e numeri si trova subito il materiale per una — 205 — trasformazione in termini matematici. Dopo poche pagine le grossolane definizioni si sono cangiate in entità aritmetiche c dalla penna tecnicamente formidabile del de Pietri Tonelli cominciano a scaturire le formule algebriche. Per chi volesse de¬ libare la bontà del metodo riportiamo il seguente periodo: « Così ad es., in 5a la ed Iy possono, ne¬ gli individui e quindi nelle C. accentuarsi, palesan¬ do individui e C materialistici; in 82 , Ix ed le pos¬ sono, negli individui e quindi nelle C, accentuarsi palesando individui c C spiritualistici; in II 2 , Ih ed le possono, negli individui c quindi nelle C, ac¬ centuarsi, palesando individui e C aperti alle no¬ vità nel campo spirituale; in 122 , Ih ed Iy possono, negli individui e quindi nelle C, accentuarsi, pale¬ sando individui e C aperti alle novità nel campo pratico; in 22 , la ed Ih possono, negli individui e quindi nelle C, accentuarsi palesando individui e C inclini a rinnovarsi nel loro interesse, poiché co¬ loro i quali hanno lai ,2 ed Ib son coloro che voglio¬ no salire nel campo economico e in quello politico e son disposti alle mutazioni necessarie » (pp. 39 - 40.) Son cose che farebbero sorridere ironicamen¬ te, se poi non atterrissero con la conseguenza di duecento pagine irte delle più complicate formule matematiche, sotto le cui lettere e i cui numeri si celano le elucubrazioni psicologiche e sociologiche del professore de’ Pietri Tonelli, ad ineffabile gau¬ dio dei suoi studenti. Non è il caso, naturalmente, di dimostrare ciò che ha solo bisogno di esemplificazione: casi simili di aberrazione scientifica si spiegano solo con mo¬ tivi di carattere patologico che fanno smarrire ogni contatto con la realtà e con quello stesso buon sen- — 206 — so con cui la imitazione vorrebbe iniziarsi. E tanto più grave diventa la sensazione del patologico, quanto più l’A. insiste sul carattere obiettivo delle sue ricerche, facendo amene riserve sulla loro at¬ tendibilità. Come non rimanere addirittura scon¬ certati leggendo, dopo non poche costruzioni mate¬ matiche relative agli impulsi, che « ancora non sap¬ piamo se gli I siano una nostra astrazione, per co¬ prire la nostra ignoranza, non esistendo di fatto che gli A; ovvero se gli 1 siano effettivamente una realtà finora poco o nulla conosciuta »? (pag, 44). Le constatazioni ora fatte a proposito del li¬ bro del de 1 Pietri Tonelli non vogliono limitarsi a un caso particolare, ma dal caso particolare, in cui l’assurdità giunge alla massima evidenza, debbo¬ no estendersi un po’ a tutti i tentativi di mateinatiz- zare i fenomeni sociali e alla stessa economia mate¬ matica quale è comunemente intesa. L’unione della psicologia e della sociologìa con il metodo matema¬ tico è una delle espressioni più gravi della menta¬ lità antiscientifica che domina nel campo delle scienze sociali: e non è ormai lecito ritenere comun¬ que valido uno solo dei tentativi compiuti in tal senso. Il che, si badi bene, non è dovuto a una im¬ possibilità costitutiva di applicare la matematica a siffatti fenomeni, bensì all’incapacità di ridurre a unità matematiche ì fenomeni stessi. E l’incapaci¬ tà si spiega eoi fatto che, se gli studiosi i quali si cimentano nell’impresa hanno una preparazione — 207 matematica sufficiente, non hanno poi alcuna pre¬ parazione scientifica alla intelligenza dei fenome¬ ni psicologici e non si sono resi conto delle critiche mosse alla sociologia dalla speculazione moderna. Sì che, assumendo a fondamento delle proprie ri¬ cerche concetti scelti e definiti arbitrariamente, scambiano l’oggettivo col soggettivo, il determina¬ to con 1 indeterminato, e matematizzano indifferen¬ temente tutto, senza preoccuparsi di raggiungere l’effettiva quantificazione degli elementi posti nel¬ le loro formule. L’errore del procedimento appare con maggio¬ re evidenza nel campo delle ricerche sociologiche, dove 1 incongruenza stessa delle conclusioni basta a far giustizia dell inutile fatica degli studiosi che tuttora vi insistono. Ma purtroppo nel campo della cosiddetta economia matematica l’illusione è più saldamente radicata e le conseguenze dell’errore, meno manifeste, sono e diventano sempre più pe¬ ricolose. Siccome a nessuno può venire in niente di negare l’opportunità e la necessità di servirsi della matematica nella analisi dei fenomeni econo¬ mici, il senso del limite si smarrisce agevolmente e messici per quella china si sdrucciola a poco a poco dalla matematica utile all’economia all’economia ma¬ tematica, che è la negazione dell’economia. Per comprendere la differenza che passa tra l’uso lecito della matematica nel campo delle scien¬ ze economiche e la cosiddetta economia matemati¬ ca, è necessario distinguere la matematica come mezzo di ricerca dalla matematica come sistema in cui le ricerche vanno composte e fissate una volta per sempre. Ora, la validità del primo criterio non dimostra affatto la legittimità del secondo, che è fa- 208 — talmente destinato a fallire. La matematica come sistema, infatti, implica la necessità di quantificare non solo i fatti economici, ma anche la ragione di tali fatti; e il processo di oggettivazione, perciò, investe illecitamente il mondo della soggettività. Basta riflettere un poco sui risultati dell’econo- mia matematica del Pareto per accorgersi delle mo¬ struose conseguenze cui dà luogo rillegittimo bi¬ sogno di presupporre quantificato o comunque quantificabile ciò che condiziona lo stesso processo di quantificazione. Perché gli economisti possano una buona volta uscire dal vicolo cieco in cui si sono andati a ficcare, occorre che si decidano ad abbandonare la loro psicologia da dilettanti e a di¬ stinguere nettamente il fatto dall’atto, vale a dire ciò che è necessario considerare in veste di numero e ciò che del numero è condizione. Allora final¬ mente si accorgeranno che l’economia matematica non è possibile, per il semplice fatto che il numero è nella vita, ma la vita non può essere numero. Per chi lavora, desideroso soltanto di allarga¬ re gli orizzonti e di aver la certezza di andare in¬ nanzi nel cammino della scienza, vi sono dei dis¬ sensi che hanno perfino maggior valore dei con¬ sensi. E sono i dissensi dei cattedratici, che, allar¬ mati e disorientati dai colpi inferti agli schemi tradizionali della loro scienza, scendono in campo uno dopo l’altro a difendere il loro regno perico¬ lante, non senza gratificare di burbanzose parole chi osa ficcarvi lo sguardo un po’ a fondo. Ne ven- gon fuori delle confutazioni, le quali, o raggiun¬ gono 1 effetto contrario per la inadeguatezza dei vecchi criteri di giudizio relativamente alle nuove teorie da combattere, o addirittura sbagliano il ber¬ saglio per la mancanza di quel tanto di buona vo¬ lontà che occorrerebbe per scorgerlo davvero, e per la fretta di liberarsi di qualcosa che inconsciamen¬ te s intuisce come un grave pericolo. Effetto con¬ trario, dico, in quanto tali critiche finiscono col fa¬ re insuperbire chi ne è oggetto e col far trascurare, in conseguenza, anche ciò che di valido può essere al fondo di siffatte negazioni globali e violente. H • Spirita — 210 — 0 come non insuperbire, infatti, considerando lo sforzo compiuto dal prof. Aldo Contento ’) at¬ traverso ima quarantina di pagine dedicate a di¬ fendere P homo (Bconomicus dalle, mie critiche.' 1 Come non insuperbire di fronte a tanta ingenuità di argomenti e a tanta incomprensione della mia tesi? Ma è un malinconico insuperbire, come quel¬ lo di cbi pur vorrebbe convincere e far sì che la propria certezza, sempre più consapevole e salda, diventasse la certezza degli altri. Il che purtroppo non è neppur da sperare di fronte a chi troppo evi¬ dentemente è su una strada affatto diversa e parla un linguaggio che non consente la discussione. La risposta non può avere valore che per i terzi, vale a dire per quelli che, affacciandosi più spregiudi¬ catamente alla questione, sono in grado di vedere obbiettivamente e di fare quello sforzo di buona volontà che è indispensabile per comprendere ciò che si vuol giudicare. Prendendo lo spunto da quanto affermarono Alfredo Rocco e Filippo Carli nel congresso della Associazione Nazionalista del 1914, che non vè « forse un’azione economica che l’uomo compia sotto la spinta del puro interesse economico, cioè sotto l’impero del principio edonistico », il Con¬ tento giustamente fa osservare che Vhomo cecarw- micini è una astrazione scientifica per nulla com¬ promessa dall’affermazione dei nazionalisti, con la quale non si può non concordale. Dal punto di vi¬ sta scientifico una sola cosa importa ed è la preci- J ) Albo Contento, Dilesa dell'ut homo cBconomicus ». L'ahomo (Bconomicus » nello Staio corporativo, in « Ginnialo degli economi¬ sti ■», luglio 1931, pp. 485-522. 211 sazione del concetto di homo cecanomicus : preci¬ sazione alla quale 1 A. vuole addivenire dopo aver convenuto con me che « molta dell'incertezza che domina nello svolgimento e nelle conclusioni della scienza economica, derivi da una mancata defini¬ zione di quel postulato, cui si assegnano valore e li¬ miti più o meno diversi » (pag. 487). Senonché rac¬ cordo si arresta a questa constatazione, dopo la quale le vie divengono sempre più divergenti, per non incontrarsi mai più. E, per cominciare, il Contento attribuisce anche a me la mancata precisazione del concetto, quasi che fosse possibile precisare ciò che si nega in quanto imprecisabile. Io ho affermato che l’uomo osconnmicus non può valere come ipo¬ tesi scientifica, perché è un termine scientificamen¬ te tutt altro che rigoroso e determinato: chi pensa il contrario ha il dovere di mostrare la possibilità di ima definizione valida, ma non può pretenderla da me. Alla definizione, per conto suo, si è accinto il Contento, eliminando in via preliminare i comuni concetti di egoismo, edonismo e utilitarismo. Que¬ sti concetti non sono adatti a caratterizzare Y'homo (Bconomicus ed è stato un errore degli economisti aver fatto implicitamente o esplicitamente una ta¬ le confusione. La dimostrazione che ne dà l’A. non appare, in verità, gran che persuasiva, fondata cont essa è sulle definizioni dei vocabolari dello Zingarelli e del Tramatter: comunque possiamo dare per buona la conclusione e passare all'analisi del concetto che si vuol sostituire a quelli ritenuti errati. « Richiamandoci al pensiero », scrive il Con¬ tento, « di quelli che fecero dell’fi. ne. il postulato fondamentale, o la base di tutto l’edificio scienti- — 212 fico, può dirsi deva intendersi, con tale designa¬ zione. 1 individuo immaginato nella sua pura con¬ dotta economico, la quale, nei moventi e nei fini, si ritiene informata, generalmente, ad un tipo uni¬ forme corrispondente alla ricerca della massima soddisfazione col minimo di sforzo cioè all'appli- « azione integrale del principio del minimo mezzo » (pag. 488). Si comprende bene come dopo questa defini¬ zione l’A. non sappia giustificare la critica che si fa dell 5 *. ck., né sappia vedere alcuna incompatibi¬ lità tra Vh. 03. e la concezione corporativa dell’eco¬ nomia. Un individuo che cerchi di seguire il prin¬ cipio del minimo mezzo non solo è perfettamente a posto qualunque sia l’ambiente politico in cui vive, ma è anche Punico individuo concepibile nel¬ la sfera della normalità. Il che riconosce esplicita¬ mente lo stesso Contento quando afferma: « Ogni uomo vivente tende a comportarsi da h. ce., cioè misurando la convenienza dei mezzi al fine, non pure nel rampo stoltamente economico , ma in ogni campo della sua esistenza, e affermiamo che, se co¬ sì non fosse, se ognuno non cercasse di condursi, sempre, seguendo il principio della economicità, danneggerebbe, alla fine, non pure se stesso, ma la società tutta intera. Chi così non facesse, sistemati¬ camente, darcbhe prova non tanto di non essere un egoista , quanto di essere... un incosciente! » (pa¬ gina 494). E allora? Relegate nella sfera delFinco- scienza le azioni non subordinate alla legge del minimo mezzo, l’uomo è sempre Vh. ce. non pure nel campo stoltamente economico, ma in ogni cam¬ po della sua esistenza [il corsivo è mio], né resta dunque modo di distinguere mediante tale princi- — 213 — pio le azioni economiche dalle non economiche. Il presupposto fondamentale della scienza economica si dissolve in una vuota generalità e la fictio del- 1 h. ce. si rivela ancora una volta assolutamente ina¬ datta a servire da ipotesi scientifica. Ex ore tuo iu- dico te: e non v’è bisogno di aggiungere altro alla confutazione che il Contento ha fatto involontaria¬ mente della sua definizione. Inutile dire che con ciò stesso viene a mancare ogni ragion d’essere alla critica mossa al Rocco e al Carli — con la quale pur avevamo convenuto — tendente a mostrare il carattere astratto dcll’ft. re.: se Yh. re. è colui che segue il principio del minimo mezzo, h. re. è l’indi¬ viduo concreto nella pienezza della sua realtà, in ogni momento. Dato un concetto così anodino di li. re., si com¬ prende come il Contento non sappia spiegarsi il suo necessario collegamento col liberalismo politi¬ co. Qualunque sia la concezione politica dell’eco¬ nomista, l’astrazione dell’/i. re. resta nella sua as¬ soluta integrità, perché rispondente a un rapporto di mezzo a fine che non muta per il mutare del fine. V’è Yh. re. nel regime liberale, come in quello auto¬ cratico come nel democratico, e Yh. re. adatterà la sua condotta all’ambiente in cui vive seguendo tuttavia in ogni caso il principio della economicità. Di qui scaturisce la seconda accusa che il Con¬ tento muove alle mie affermazioni circa l’intervento dello Stalo e il rapporto Ira individuo e Stalo. Per l’A. esistono due modi d’intendere lo Stato e, in — 214 — particolare, lo Stato corporativo. « Secondo alcuni, die partono dal vecchio e normale concetto dello Stato, quale ente rappresentativo degli interessi ge¬ nerali dei cittadini, creato come organo ad essi su¬ periore, la figura dello Stato corporativo è una con¬ cezione che evitando i mali dello stretto individua¬ lismo, o liberalismo, come quelli del completo sta¬ talismo, riunisce di tali principi i vantaggi, crean¬ do nuove forme d'organizzazione politico-economi¬ ca, nelle quali le varie categorie ed i vari ed oppo¬ sti interessi sociali si riuniscono e con temperano, consentendo al progresso della vita civile un più armonico e intenso sviluppo. Secondo alcun altTo. come, e specialmente, lo Spirito, la differenza con¬ sisterebbe in ciò, che la nuova forma, non pure av¬ vicina e unisce, ma chiaramente accomuna e imme¬ desima Stato e cittadino, in modo da renderli un unico ente » (pag. 506). Alle due diverse teorie il Contento fa seguire i seguenti perentori giudizi: «La seconda delle ri¬ cordate concezioni è, a nostro avviso, inconsistente per lo Stato corporativo, come per ogni altro Sta¬ to. Se pur corrispondesse alla realtà, e sarebbe, evi¬ dentemente, per qualunque Stato, ciò avrebbe im¬ portanza dall aspetto filosofico, più che economico. La prima invece, fondamentalmente vera, parte da un presupposto errato, quale quello della sempli¬ ce condotta negativa dello Stato nella organizza¬ zione liberale)) (pp. 506-507). E il Contento conti¬ nua mostrando come anche lo Stato liberale sia sem¬ pre intervenuto, in misura maggiore o minore, nell’e- conomia della Nazione e abbia quindi influito sulle economie individuali. Con l’economia corporativa non si è mutato il problema, e l’intervento dello — 215 - Stato è rimasto sostanzialmente della stessa natura. L’unica questione viva è quella dei limiti di tale intervento, e i limiti sono stati certamente spostati, richiedendo nìf individuo una limitazione più am¬ pio alla sua condona economica. Ld ecco come 1"A. può concliiudere ripetendo ancora una volta la concezione dello Stato contrattualista-liberale per cui questo, « pur frenando l’arbitrio individuale », concede all’uomo ({il massimo di libertà compati¬ bile in lina civile convivenza » (pag. 522). Ma, intanto, scartata come meramente filosofi¬ ca (che cosa mai il Contento intenderà per filo¬ sofia?) la teoria dell’identità di individuo e Stato, mito il ragionamento ha preso altra direzione e la mia tesi, che pur si voleva confutare, non è stata neppure sfiorata. Io volevo contrapporre Stato libe¬ rale e Stato corporativo in quanto il primo è con¬ cepito come Stato limite delle libertà individuali e il secondo invece come Stato potenziatore delle libertà stesse: volevo contrapporre al dualismo di individuo e Stato, e alla conseguente distinzione di economia individuale ed economia statale, l'unità dei due termini e la negazione dell economia indi¬ vidualisticamente concepita: volevo insomma ne¬ gare, insieme alla vecchia concezione economico- politica dello Stato, quel concetto di homo cecono- micus che il Contento si affanna a difendere. Ma la risposta dell'A. lascia assolutamente impregiu- dicala la questione, perché gira, senza affrontarlo, proprio il principio fondamentale della mia cri¬ tica, vale a dire quello che dà significato e valore a tutte le particolari conseguenze. Quell’ indivi¬ duo che vive nello Stato senza essere lo Stato e che perciò può venir limitato nella sua liher- - 21o tà dallo Stato stesso; quell'individuo che ha finì propri, realtà propria e diversa, sia pure in parte, dall’organismo di cui è espressione; quel- 1 individuo è appunto l’esponente del liberali¬ smo politico e del liberalismo economico, in net¬ ta antitesi col corporativismo come è stato da me teorizzato. Quell’individuo si è scientificamente dimostrato irreale, e con lui è venuto a mancare ogni fondamento alla ficiio dell’homo oeconomicus di cui è il presupposto necessario. Non avendo in¬ teso né avendo comunque analizzato questa nega¬ zione perentoria, il Contento è rimasto anche lui sulle orme del vecchio liberalismo, precludendosi la via a ogni comprensione del significato rivolu¬ zionario della concezione politica del fascismo e del corporativismo. Al quale proposito il Contento crede di scoprirmi in grossolana contraddizione, quando io, pur avendo riconosciuto proprio di ogni Stato il carattere dì immanenza all’individuo, af¬ fermo esplicitamente che solo l’economia corpora¬ tiva pttò dirsi sul serio scientifica. « Confermato così, anche su questo punto », dice infatti l’A., « il carattere di congiunzione, o di derivazione, dello Stato corporativo da quello liberale, non possiamo spiegarci come lo Spirito, che asserisce non potersi separare, nel campo economico, la concezione della vita dello Stato da quella delle economie indivi¬ duali, dato che lo Sialo interviene sempre in que¬ ste, sostenga poi che soltanto l’economia corpora¬ tiva sia degna del titolo di scientifica, scrivendo; « che lo Stato sia costitutivo essenziale della vita individuale non è verità che s’instauri col regime corporativo, né è limitata alla vita politica dell’Ita¬ lia di oggi: ma mai come nell’Italia di oggi que- — 217 — sta verità è slata esplicitamente affermata, inai si è concepita la vita economica nazionale come una unità così saldamente organica ». — 11 semplicismo di questa conclusione è troppo evidente per dover¬ vi insistere. — Sarebbe come dire che soltanto quello del 1928 fu degno del nome di inverno, per¬ ché mai come allora ci si accorse del freddo ! » pa¬ gine 514-515). Ma semplicistica, a ver dire, è la osservazione del Contento ed egli stesso dovrà con¬ venirne se rifletterà sul senso preciso delle mie parole. Che la concezione copernicana del mondo sia la sola scientifica non vuol dire che prima di Copernico il mondo fosse governato da altre leg¬ gi; allo stesso modo con l’economia corporativa, o, per essere più esatti, con l’economia che riconosce l'identità di individuo e Stato (il corporativismo essendo solo l’espressione teoricamente realizzante- si di questa identità), si giunge alla consapevolezza della vera realtà dello Stato e ci si pone in grado di eliminare quegli errori teorici e pratici che osta¬ colavano la libera affermazione deH’individuo. Tra la libertà del liberalismo e quella del corporativi¬ smo bene inteso, v’è appunto la stessa differenza che passa tra Vhomo mconomicus e l’individuo vi¬ sto nella sua identità con lo Stato. RIFORMISMO 0 RIVOLUZIONE SCIENTIFICA? In «n recente articolo (1/economia corpora¬ tiva, l’individuo, lo Stato e una polemica, in Po¬ litica Sociale, maggio-giugno 1931, pp. 479-494) Massimo FoveI cerca di chiarire in qual senso egli consente e in qual senso dissente dalle tesi da me sostenute. E conclude con questa pagina che è op¬ portuno trascrivere per intero: « Identificazione ideale, dunque, fra individuo e Stato. D’accordo. Ma per quale via? Qui si affaccia la terza cosa, che si deve dire allo Spirito. Essa è che, se la sua po¬ sizione del problema è perfetta, la soluzione che egli ne dà è, dal punto di vista della scienza econo¬ mica, imperfetta. Dal punto di vista della scienza economica, noti bene Io Spirito, e non già da un altro diverso, per esempio, quello genericamente storico. Ma però, noti ancor meglio lo Spirito, dal punto di vista della scienza economica toni court. e non già di quella detta liberale. E dove sta Firn- perfezione? Non si può certo qui. nello scorcio di quest’articolo, già troppo lungo, neanche deliba¬ re la questione. Indichiamo soltanto la grande di- — 219 — rettivi! di marcia. Eccola. Spirito tenta la idenli- ficuzione ideale dell'individuo e dello Stato, risol¬ vendoli entrambi in una terza nozione, che è la Nazione. Ora ci chiediamo noi. forse, qui, se questo tentativo può, scientificamente, riuscire? Ossia se la nozione di Nazione sia esprimibile in termini quantitativi? No. Si può anche aggiungere che non siamo troppo diffidenti in proposito. 0, almeno, non vi crediamo molto meno di quello che crediamo al- l'esprimibilità quantitativa dell’individuo. Ci limi¬ tiamo invece a dire clie, tentando questa via. Spi¬ rito tenta ab imis una nuova scienza economica. E che noi invece pensiamo che la identificazione pos¬ sa avvenire, estendendo allo Stato lutti i dati for¬ mali dell’individuo (e viceversa), cosi come oggi la scienza economica lo concepisce. E che, così facen¬ do, la identificazione voluta si realizza attraverso una espansione energica, ma non eversiva, della scienza economica, quale oggi si presenta. È un me¬ todo. È un metodo anche questo — esso consiste nell'innestare nuove teorìe sui vecchi principi ria¬ nalizzati e rifecondati, e che chiameremo riformi¬ sta — che ha i suoi vantaggi. E che, tralasciando quelli teorici che ci trascinerebbero nel cuore della questione, ha i vanlaggi pratici seguenti. Metten¬ dosi per questa via si potrebbe marciare, almeno per un bel tratto, fianco a fianco con altri molti stu¬ diosi; quelli che anche in altri paesi pensiamo soprattutto alla nuova scienza economica dinamica americana — lavorano a rinnovare e a ricostruire, senza ripudiarla, la scienza economica accettata. Si utilizzerebbero, agli effetti della penetrazione delle nuove teorie nello spirito pubblico e sopratutto nel¬ le élites, quei sedimenti, che la tradizione sdentili- — 220 — ea forma sempre, ravvivandoli senza distruggerli » (pp. 493494). Massimo FoveI, dunque, d’accordo con me con la tesi fondamentale di ricostruire la scienza eco¬ nomica alla luce del principio della identificazio¬ ne di individuo e Stato, non erede che ciò debba farsi operando una vera rivoluzione scientifica e propone un metodo riformista ebe concilii il nuo¬ vo col vecchio e utilizzi i sedimenti della tra¬ dizione. Ora, lasciando da parte i vantaggi pra¬ tici che sono e debbono essere fuori questione, bi¬ sogna riconoscere che una scienza, qualunque essa sia, non può progredire che su se stessa, svolgendo e perfezionando i principi che ne costituiscono il fondamento. È questa una verità ormai lapalissia¬ na, specialmente per chi riconosce nello storicismo il carattere precipuo della nuova scienza. Chi si proponesse a un bel tratto di arrestare il corso del¬ le cose, e ricominciare daccapo, dimostrerebbe per lo meno una grande ingenuità e sarebbe costretto suo malgrado a smentire con i fatti la sua pretesa verbalistica. Anzi, v’ha di più: a guardare bene a fondo, ogni scienza coincide con la sua storia, e in¬ tenderla e perfezionarla non si può senza intende¬ re e continuare il suo processo di formazione. E se questo avviene in generale per ogni scienza, tanto più deve verificarsi per le scienze sociali e per le- conomia politica in particolare: scienze in cui l’a¬ derenza alla vita storica è più immediata e palese e in cui le vicende politiche sono più manifesta¬ mente condizioni del sorgere e dello svilupparsi di certi problemi teorici. Né ad altro, in fondo, ha miralo lutto il lavoro eia me compiuto, con cui ho cercato di porre in chiaro il delincarsi delle nuove — 221 esigenze scientifiche alla luce de] processo storico che in esse è sboccato trasvalutondosi. Ora, è chiaro che. se questo è il nostro pro¬ gramma e il carattere fondamentale della nostra critica, porre il dilemma se convenga meglio una revisione riformistica o un’opera rivoluzionaria non può avere il significato che a] dilemma stesso si da accennando all utilizzazione dei residui tra¬ dizionali. Nessun dubhio infatti che tutto il pas¬ sato vada utilizzato e inverato, e non superficial¬ mente o rapsodicamente, bensì nella sua realtà in¬ tegrale e imprescindibile. Nessun dubbio, dunque, che si debba trattare di riforma e non di negazione pura e semplice di quanto è stato fatto nel campo di questi studi: di riforma, e cioè di ulteriore pro¬ cesso che viva dell’esperienza già fatta e la conduca a nuovi e più profondi risultati. Se non che c’è riforma e riforma: quella che si svolge nel ritmo normale della vita di ogni gior¬ no e cambia il mondo quasi inavvertitamente po¬ nendo pietra su pietra; e quella, invece che segna un punto di arresto e di ripresa, perché nel lento processo di trasformazione ci si accorge a un trat¬ to che la via presa non è proprio la più adatta e che, se non si vuol precipitare, eonvien volgersi in altra e più giusta direzione. V’è, insomma, la tra¬ sformazione ordinaria e quella straordinaria, sen¬ za che tra l’una e l’altra ci sia iato o contraddizio¬ ne, che anzi il lento modificarsi delle condizioni crea a poco a poco mia nuova situazione, la quale all’improvviso si svela ed esige un nuovo orienta¬ mento. Abbiamo allora la rivoluzione, che non è, si comprende, neppur essa negazione, bensì pro¬ cesso accelerato e rapido dissolvimento di tutto il — 222 negativo che via via era andato affiorando. Una ri¬ voluzione degna di questo nome non è eversiva, non distrugge nulla che non sia già distrutto, ma toglie via le macerie perché il lavoro proceda senza im¬ pedimento. e il nuovo si affermi in tutta la sua pie¬ nezza di vita. A chi ci domandasse, a questo punto, se nella revisione della scienza economica occorra oggi una opera riformistica o rivoluzionaria, potremmo si¬ curamente rispondere, senza timore di essere frain¬ tesi. che la crisi di questa disciplina è giunta ormai a un punto culminante e che vano sarebbe aver fiducia in soluzioni non assolutamente radicali. Ma si deve, poi, aggiungere, che la rivoluzione da noi auspicata acquista un carattere storico sui generis e quasi in apparente contraddizione con quanto è stato fin qui detto. È una rivoluzione, infatti, che nega, in un certo senso, la scienza economica quale si è venuta svolgendo da due secoli a questa parte e che tende a far riprendere il cammino ex nova, per vie finora non tracciate. Contraddizione apparente, dico, perché anche qui la negazione non è sterile negazione, e cioè an¬ nullamento di qualcosa che abbia una realtà posi¬ tiva, bensì riconoscimento esplicito dell’inesistenza di ciò che si nega. E quel che si nega è addirittura la dignità di scienza airecnnomia costruita da Smith in poi: si nega, in altri termini, che sia esistito un economista capace di superare l’empiricità delle ri¬ cerche particolari per assurgere a un sistema infor¬ mato a un principio unico e organico; si nega che L la sistematicità dei più famosi trattati di economia sia più che estrinseca e formale; si nega, infine, che ci sia un solo concetto fondamentale dell’economia (valore, utile, bene economico, gusto, homo ceco- nomicus, libera concorrenza, ece.) cui si attribuisca un significato non intimamente contradditorio. Si comprende bene come un’affermazione così perentoria, così grave e paradossale, debba provo¬ care il dissenso e anzi lo sdegno di ehi, educato a questi studi, ha imparato a venerare come sommi maestri Smitli e Ricardo, Stuart Mill e Pareto; ma bisogna pure una buona volta spezzare l’angusto cerchio in cui l’economista si chiude, geloso del suo tecnicismo, e reinterpretare i classici alla luce del loro tempo, dei loro presupposti speculativi e delle esigenze loro fondamentali. Occorre, insomma, far scendere gli dèi dall’olimpo in cui sono stati posti con scarsa consapevolezza storica e procurare di giudicarli con criteri più larghi e comprensivi, sen¬ za farsi deviare dall’esagerato rispetto di fame con¬ solidate troppo esotericamente. Ma perché questa opera dia i suoi frutti, è necessario pure che coloro i quali sono urtati nelle loro convinzioni o nelle loro opinioni abbiano la forza di considerare senza intolleranza i risultati che loro si offrono, e soprat¬ tutto si dispongano a sceverare ciò che nelle loro convinzioni è frutto di ricerca personale da ciò che vi si confonde come presupposto acquisito e indi¬ scutibile sol perché non discusso. Certo, agli occhi loro deve apparir strano ed assurdo che si possa du¬ bitare del valore scientifico di una siffatta discipli¬ na e che scrittori ritenuti classici nel senso più alto della parola siano di punto in bianco riportati a una non aurea mediocrità; ma essi debbono pur — 224 — convenire che tutto è relativo e che con un occhio solo si è re nel inondo dei ciechi, sì che chiudendo¬ si nel mondo dell'economia non v’è da meravigliar¬ si se diventino luminosissimi soli le semplici lan¬ terne del più vasto mondo della cultura. 0 che for¬ se avrebbero nozione della loro piccolezza i lillipu¬ ziani se non conoscessero altro che il paese di Lilli¬ put? Né, d’altra parte, è lecito pretendere che i giganti di Lilliput siano presi sul serio fuori del lo¬ ro regno. E 1’economia non è un regno che possa vivere in una beata solitudine. Uno degli esempi tipici del consolidarsi di una fama esageratamente superiore alla realtà dei me¬ riti effettvi è quello di Adamo Smith, il cosiddetto fondatore dell’economia scientifica. ) Mezzo empi¬ rista e mezzo huonsensista, incline per educazione alle vaghe ideologie, con troppa abbondanza colti¬ vate nelle sfumature di una etica inconsistente, lo Smith era certo la persona meno adatta a dar for¬ ma scientifica a una disciplina come l’economia. >) Vero è rbe ormai i migliori Ira gli storici dellVonomia met¬ tono per lo meno in dubbio tale qualifica, ma ciononostante Smith reeta sempre in altissimo loro e in lulti i modi si certa di gon- tiare ciò che a Smith non appartiene o ciò che, a lui appartenendo, non è certamente esempio di particolare prolondilà. Tra labro Adamo Smith è diventalo il classico ohbligalorio per chi si presento agli esami di concorso per l’insegnamento dell’economia politica nelle scuole medie. A quale titolo? Sta di fatto che i candidali non lo Studiano e gli esaminatori girano al largo. Evidentemente ne gli uni nò gli altri riescono a entusiasmarli per una sì grande □para. Non sarebbe tempo di finirle? 225 Ma, intanto, se il suo nome, per quel che rigirarti 1 etica, è stato completamente offuscato dai colossi della speculazione, a cominciare dal suo maestro ed amico David Humc, Leu altra è stata la sorte della sua opera sulla ricchezza delle nazioni, assur¬ ta, non certo per meriti superiori a quelli della sua etica, a pietra miliare o addirittura iniziale della storia della scienza economica. E il più strano è che tra le lodi più comunemente rivolte allo Smith v’è appunto quella di aver sistemato in un organismo unitario ciò che prima di lui era frammentario e disperso. Ora, se v’è cosa che salta subito agli oc¬ chi a chi legga 1 opera dello Smith, è proprio la sua radicale incapacità a porre unità nelle sue consi¬ derazioni e a dare una qualsiasi veste sistematica alle sue aprioristiche affermazioni da esscryist. Se poi dall unità passiamo alle singole teorie, la stessa indeterminatezza di limiti e di formulazione si ri¬ vela, anche là dove l’espressione verbale sembre¬ rebbe più categorica e decisiva; e da indetermina¬ to a indeterminato, si scende giù giù fino alla fine dell opera senza aver mai agio di poggiar su un ter¬ reno di una qualche solidità. Comunque — valore sistematico a parte — quale la parola nuova dettaci da Smith? Vano sarebbe cercare una risposta nella sua opera, ma anche vano cercarla negli storici e negli apologeti che ne hanno consacrato la fama. La letteratura in¬ torno a Smith è immensa, ma tutta fondamental¬ mente viziata dal pregiudizio di trovare ciò che non c’è: nulla di strano dunque che ancor oggi si di¬ scuta se Smi ili abbia seguito il metodo deduttivo ovvero quello induttivo, se la sua economia sia con¬ ciliabile con la sua etica, se l’interesse personale 15 - Spunto — 226 — faccia a pugni con la simpatia, e via dicendo: re¬ stando sempre, come Fautore di cui si discute, nel campo di un’economia a base di opinioni. Che se poi si tenta di fare di Smith il teorico del libera¬ lismo economico, lo si solleva, sì, nel campo della storia, dandogli finalmente una fisionomia ben de¬ terminata, ma si commette una grande ingiustizia verso i fisiocrati che in modo ancor più perentorio e genuino erano giunti prima di lui alle stesse con¬ clusioni. Figura scialba e inconsistente, mentalità antiscientifica c mnralisteggiante, Adamo Smith è tuttavia oggi onorato come il padre o uno dei pa¬ dri dell’economia: non è certo questa una grande garanzia per la serietà di una scienza. Ma l’esempio di Smith non è un'eccezione nel¬ la storia dell’economìa, che anzi il fatto che egli stia ancora a godere una fama pressoché incontra¬ stata è la dimostrazione più evidente del livello spe¬ culativo al quale sono rimasti gli economisti poste¬ riori. Sviluppatasi sempre fuori o ai margini del movimento idealistico, l’economia politica ha rice¬ vuto a volta a volta l’impronta di filosofie di secon¬ do ordine, rese ancora più superficiali dal contat¬ to con i fenomeni empirici presi a trattare. Empi¬ risti, storicisti, scettici, positivisti, sociologi, ideolo¬ gi dell’umanitarismo, e simili, si son conteso il campo, costringendo la realtà viva dei fatti econo¬ mici entro gli schematismi aprioristici di vieti dog¬ matismi. E la realtà è stata svisata e resa irricono¬ scibile, ora in nome della scienza, ora in nome di una astratta idealità sociale, senza mai uscire dal¬ l'astratto che si postulava e senza mai accostarsi alla vita per intenderla davvero e dominarla con una scienza che non fosse una pseudoscienza. Non — 227 — è qui il caso di continuare in una esemplificazione che saia data in forma organica in altra sede: tan¬ to più che a questa conclusione non è opportuno arrestarsi considerando solo gli economisti che han¬ no fatto la scienza, ché anzi dagli economisti con- vien passare alla scienza per vedere se il lavoro di molti non ahhia potuto compensare la mediocrità dei migliori. Al di là della consapevolezza dei sin¬ goli. la scienza può venirsi costruendo in modo pressoché anonimo, col lento fondersi e integrarsi dei contributi degli studiosi, e quella concezione che non è stata mai chiara nella mente di ciascuno scienziato, tutt’assorto nel suo lavoro particolare, potrchhe rivelarsi all’occhio dello storico abituato a guardare dall’alto e a comprendere il molteplice nell’unità. Ma purtroppo v’ha nella storia dell’eco- nomia un vizio di origine che ha tolto finora a que¬ sta scienza la possibilità di giungere a un organi¬ smo logico e non contradditorio. È un vizio sui ge¬ neris, in quanto più che infirmare la perfezione della scienza, ne ha addirittura vietato la nascita: è un presupposto assolutamente negativo che ha sbarrato il cammino prima che si avesse modo di incamminarsi. Si è detto che si cercherebbe invano nella sto- iia dell economia un sistema informato a un prin¬ cipio unico e sistematico. Ma se questo è vero in senso positivo non è altrettanto vero in senso ne¬ gativo; e a tutti è noto, infatti, come la storia del¬ l’economia coincida in modo quasi assoluto con la — 228 — storia del liberalismo economico, anche se questo, velato da un apparente obiettivismo scientifico, sia rimasto celato agli occhi di molti economisti. Un principio informatore c’è stato, dunque, e sistema¬ tica perciò deve essere stata la scienza che ad esso si è attenuta. Il che è tanto evidente da non poter temere smentita, soprattutto da parte di chi quel principio ha cercato e cerca di mettere nella mag¬ gior luce possibile, ad esso riportando anche quelle conseguenze teoriche che ai più non sembrano ne¬ cessariamente connessevi. Ma il fatto è che quel principio lungi daH’essere un principio costruttivo è meramente negativo e distruttivo, sì che proprio ad esso si deve Timpossibilità in cui l’economia si è trovata di assurgere a vera scienza. Per intendere la negatività del principio è op¬ portuno confrontare la storia dell’economia con quella del diritto, dal secolo XVIII in poi. E il con¬ fronto si rende necessario per il chiarimento di quel concetto di individuo, che è alla base di tutte le scienze sociali quali si sono svolte in questi ul¬ timi due secoli. Presupposto, infatti, di queste scien¬ ze, che, alimentate dalle ideologie illuministiche, hanno poi avuto il loro massimo sviluppo col positi¬ vismo sociologico, è l’esistenza di un individuo con¬ cepito come un microcosmo, un individuo, cioè, fine a se stesso, con volontà autonoma, con libertà di arbitrio, e insomma come un mondo chiuso in sé, col sacrosanto diritto di rimaner chiuso e di re¬ gnare indisturbato entro la sua sfera d’azione. È il presupposto liberale, ormai superato da una cri¬ tica perentoria e inconfutabile, in nome di una libertà ben altrimenti profonda e coerente. Ma in¬ tanto a quel presupposto bisogna risalire per spie- garsi il valore e i limiti delle scienze sociali nella loro attuale struttura. Ora, da una libertà intesa in senso atomistico è chiaro che non può, a rigore, derivare alcuna scienza, se è vero che una scienza è tale in quanto studia dei rapporti obiettivi. Una scienza sociale può esistere solo a patto che la società costituisca un organismo e cioè un’unità intelligibile. Ma quando si sostiene a priori che la vera unità è l’in¬ dividuo e che i rapporti sociali sono disciplinati al solo fine del benessere individuale, l’oggetto della scienza si frantuma nella molteplicità di individui, per definizione irrelati e inconfrontabili. L’unica scienza che si salva è il diritto: e il perché è evidente. Se la società si costituisce e vive non per un fine sociale bensì per la salvaguardia dei fini individuali, l’unico contenuto della società sarà la difesa dei diritti reciproci e Tunico conte¬ nuto della scienza sociale sarà Io studio dei limiti delle sfere individuali: il diritto. Sarà anche que¬ sta una concezione formale ed estrinseca del dirit¬ to, inadeguata alle superiori esigenze oggi manife¬ statesi, ma intanto è certo che un contenuto speci¬ fico e positivo la scienza del diritto lo ha pur re¬ stando nell’ambito di una teoria prettamente in¬ dividualistica. E un contenuto positivo ha il dirit¬ to perché ha lo Stato cui propriamente quella fun¬ zione compete, e che in tanto lia una realtà in quan¬ to ha lo scopo di garentire le sfere degli arbitri in¬ dividuali. Si spiega, dunque, molto bene come la scienza giuridica ahhia potuto tanto svilupparsi in questi ultimi due secoli; e si spiega anche prescin¬ dendo dal fatto che al mondo giuridico si sono af¬ facciati scienziati e filosofi di ben altra forza specu- — 230 lativa che non quella dei più illustri economisti. Si può dire anzi che nel diritto si conchiude ed esau¬ risce teoricamente tutto il mondo sociale illumini¬ sticamente inteso, senza alcun margine per altra scienza che non sia affatto descrittiva. Trasportato questo stesso principio nel cam¬ po deH’economia, esso si è necessariamente mu¬ tato in principio distruttore della scienza. E, infat¬ ti, logicamente lasciata in disparte la realtà dello Stato — realtà affatto giuridica con l’esclusiva fun¬ zione di determinare i confini interindividuali — o relegata in una particolare scienza detta scienza delle finanze, l’economia ha ipostatizzato l’indivi¬ duo, rendendolo assolutamente irrelato attraverso l’astrazione dell’/tomo veconomicus. Ma una volta fatta oggetto di scienza una molteplicità irrelata, nessuna via era aperta per la determinazione di un qualsiasi rapporto entro la stessa molteplicità. 0 Yhomo (Economicus è veramente arbitro e allora la relazione tra gli homines si potrà soltanto consta¬ tare a posteriori, o la relazione è in qualche modo scientificamente determinabile e allora l’arbitrio dell’individuo è negato. E la scienza economica per gran parte è stata fedele al principio individuali¬ stico giungendo a conclusioni meramente negati¬ ve (libera concorrenza), e quando se ne è scostata è caduta in una serie di contraddizioni che hanno rotto l’unità del sistema, o ne sono rimaste al margine. Peggio è avvenuto quando l’economia, raffina¬ ta metodologicamente e spinta da esigenze di mag¬ giore sistematicità, ha voluto togliere al proprio liberalismo la veste di mera ideologia politica, tra- ducendn il presupposto individualistico in termini — 231 — di pura scienza. Ne è venuta fuori la scuola psico¬ logica e matematica, sboccata in quel fuoco d’arti- tìzio cbe è la teoria dell’equilibrio economico ge¬ nerale. Non è il caso di ripetere qui quanto si è detto altrove e ripetutamente di questa scuola: basterà porre in rilievo l’antinomia irriducibile tra l’esi¬ genza di scientificità che l’ispira e l’impossibilità di soddisfarla per la natura stessa del presupposto da cui muove. Tutta la storia dell’economia è giun¬ ta al suo logico plinto di sbocco e ha segnato il fal¬ limento di una scienza costruita su una base illu¬ soria. Alla debolezza speculativa degli uomini si è aggiunta la contradditorietà del principio informa¬ tore e l’economia ha invano tentato per due secoli di sollevarsi a un grado veramente scientifico. La scienza dell economia è ancora una speranza del- l’avvenire. Ma cbe cosa è oggi, dunque, la scienza della economia? Credo che migliore risposta non pos¬ sa esservi di quella data da Luigi Einaudi parlando della storia delle dottrine economiche, nelle pa¬ gine riportate in questo volume. Per lui tale storia « dovrebbe occuparsi solo di quelle che sono dot¬ trine economiche proprie, ossia postulati, assiomi, teoremi, corollari enunciati dagli economisti come tali e non come filosofi, o politici, o religiosi, o in¬ dustriali. Quei teoremi o corollari non sono moltis¬ simi e si chiamano prezzi di monopolio o di con¬ correnza, o dei beni congiunti, costi comparati, di- — 232 stribuzione dei metalli preziosi fra i diversi paesi del mondo, rendita del produttore, del risparmia¬ tore, del consumatore, equilibrio economico, equa¬ zione degli scambi, rapporto fra moneta propria¬ mente detta e surrogati della moneta, elasticità del¬ le curve di domanda e di offerta, traslazione e capi¬ talizzazione dell’imposta, doppia tassazione nella tassazione del risparmio, e simili astruserie, fortu¬ natamente noiose per la comune degli uomini e poco appetitose per gli uomini storici, politici, pra¬ tici esercenti banca o commercio o industria, seb¬ bene atte a formare l’unica e suprema delizia degli economisti di professione. Da qualche secolo gli economisti faticano per costruire, in questo campo chiuso, un beH’edificio astratto di teorie logiche e coerenti. Sono lontanissimi dalla meta e questa non sarà mai raggiunta, perché ad ogni passo compiuto, nuove mete, nuovi teoremi attraggono la loro at¬ tenzione. Per tanto tempo si erano industriati a creare schemi astratti statici, rappresentazioni atte a raffigurare un meccanismo in equilibrio in un dato momento. Disperavano, per la imperfezione degli strumenti di ricerca da essi posseduti, di riu¬ scire mai a creare schemi atti a raffigurare il « mo¬ vimento » da un equilibrio a quello successivo ; os¬ sia a trasformare i loro schemi astratti relativi ad un momento del tempo in schemi pure astratti, ma relativi al susseguirsi dei momenti del tempo. Da qualche anno si sono gettati su questo terreno ver¬ gine e, nonostante la difficoltà dell’impresa, non dobbiamo disperare che un giorno un uomo di ge¬ nio, capitato a prediligere la dinamica economica, abbia da dire qualcosa ai filosofi cd ai politici che quei campi del movimento, ossia del reale e del vi- — 233 — vo, hanno sempre, a modo loro e giustamente a modo loro, coltivato. Per ora, non sarebbe bene che noi confessassimo di non essere riusciti in tan¬ te generazioni adorne di qualche uomo di genio e di molti ingegni di prim’ordine, i quali avreb¬ bero onorato, se ci si fossero dedicati, i più illu¬ stri campi della matematica pura, della fisica, della chimica e delle altre scienze, ad uscire dal regno del ■Se, dell ipotetico , dell irreale? Non per mancanza di buona volontà; ma per sordità della materia, la quale appena ora si piega, in mano a sottilissimi statistici armati di tutti i più penetranti strumenti del calcolo, a fornire qualche pallidissima luce, per ora diffusa attraverso schemi astratti, intorno al reale, che è vita e movimento )). Confessione di fallimento, dunque, e riduzione della scienza alla molteplicità di alcuni postulati, teoremi e corollari. E questa è la parola di uno di quegli economisti che, rifiutando la qualifica di liberali, credono ancora alla saldezza scientifica di teoremi alla concezione liberale pur intrinseca¬ mente connessi. Vano sarebbe per lui fare una sto¬ ria dell economia, che fosse la storia di un principio della molteplicità delle sue derivazioni. Soltanto alla molteplicità deve badare lo storico e ricercare 1 atto di nascita dei vari teoremi che mette conto d’illustrare. Al di là dei teoremi non c’è il sistema e tanto meno la storia del sistema. E la scienza dunque non c’è se non come giustapposizione di ri¬ cerche particolari. La diagnosi è precisa, ma non altrettanto pre¬ cisa ne è l’interpretazione. La scienza non c’è per¬ ché è fallito quel principio liberistico che la negava nell atto stesso rEinformarla : oggi non sono rimasti che gli scarsi frammenti (postulati, teoremi, corol¬ lari) che vanno finalmente intesi e rifusi alla luce di un principio ricostruttivo positivo. E, se è vero che il nuovo principio deve rappresentare il supera¬ mento del vecchio, contrapponendo alla pura nega¬ tività di un individuo irrelato la positività e la con¬ cretezza deiridentificazione di individuo e Stato, non può trattarsi evidentemente di un procedere sulla via già percorsa se non nel senso di ripren¬ dere il cammino con la consapevolezza del fallimen¬ to avvenuto. Nulla di quanto si è fatto deve essere negato: e nessuno potrebbe in buona fede cancel¬ lare i tanti risultati raggiunti nella soluzione di par¬ ticolari problemi (molti, se non tutti, tra quelli ci¬ tati daH Einaiidi, e altri ancora non meno impor¬ tanti); ma soli risultati limitati a fenomeni ridotti a termini matematici, o illustrati da una sapiente sta¬ tistica, o descrittivi di momenti storici determinati: non sono la scienza, l’organismo, il sistema, in cui la luce e sempre unica perché unico il principio c il fine. Quel che si nega è appunto la scienza che non c’è, e non ci potrà essere fino a quando non sarà compiuta quella rivoluzione scientifica di cui fin qui si è discorso. CRITICHE DI FILOSOFI Tra le tante critiche rivolte alla tesi della iden¬ tità di filosofia e scienza nell’applicazione fattane nei problemi della scienza economica, meritano di essere considerate a parte quelle che ci provengono dai cultori della filosofia. Curiosa posizione, invero, la nostra, di fronte a scienziati, che loro malgrado sono indotti a occuparsi, sia pure di sbieco, di filo¬ sofia, per rispondere alle critiche di principio che loro moviamo; e di fronte a filosofi, costretti a scivo¬ lare, con evidente senso di disagio, nel campo scien¬ tifico, per salvare la filosofia da una presunta con¬ taminazione. Curiosa, perché ci troviamo a dover discutere con illustri scienziati, i quali, per evi- dente inesperienza di studi filosofici, vengon fuori con ingenuità sconcertanti e gettano un’ombra non lieve sulla stessa scienza che professano; e con non meno illustri filosofi, i quali immaginano una scienza che non esiste e con essa fanno i conti senza voler uscire dal guscio di quella pseudo uni¬ versalità di cui si ritengono depositari. E gli uni e gli altri, naturalmente, ci combattono in relazione a quella filosofìa o a quella scienza che non cono¬ scono e concordano a priori nella conclusione di ritenerci pseudofilosofi o pseudoscienziati. Ma non è colpa nostra se, stando nel mezzo, ci punge il de- — 236 — siderio di sollevarci sulla reciproca incomprensione di cui gli uni e gli altri danno prova, e di dimo¬ strare come quell’universalità cbe i filosofi difen¬ dono sia verbale e apparente e come il rigore si¬ stematico di cui gli scienziati sono orgogliosi abbia la stessa consistenza delle affermazioni filosofiche che si lasciano sfuggire. A noi non resta cbe invi¬ tare ancora una volta a porsi da questo più com¬ prensivo punto di vista, dal quale è possibile una visione precisa di quel cbe siano la falsa filosofia e la falsa scienza. Armando Carlinicomincia con l’avvertire, in linea di massima, cbe « bisogna vincere il pre¬ concetto, ancora molto diffuso, cbe ci siano dei principi da riformare nelle scienze con criteri filo¬ sofici, per poi procedere alla riforma di esse. I principi sono immanenti al lavorio scientifico, il quale procede riformandosi da sé: l’enunciazione dei principi avviene dopo, non prima ». Se non che tale modo d’impostare il problema presuppone già un dualismo dogmatico di scienza e filosofia che preclude inevitabilmente la strada alla com¬ prensione del nostro tentativo. Se principi scienti¬ fici e criteri filosofici son cose diverse, se 1 enun¬ ciazione dei principi vien dopo, se il lavorio scien¬ tifico procede riformandosi da sé, vuol dire cbe la lesi dell’identità di scienza e filosofia resta fuori discussione e che rammonimento va a coloro i quali 5 ) CIr. la sua recensione del mio libro su Lo critica dell'econa- mia liberale, in Leonardo, agosto 1931, pp. 354-455. — 237 mescolano una scienza e una filosofia intese Alla vecchia maniera. Per conto nostro non possiamo aver la pretesa di riformare i prìncipi delle scien¬ ze con criteri filosofici perché non conosciamo cri¬ teri filosofici che non siano i principi stessi delle scienze: ammettiamo che il lavorio scientifico pro¬ ceda riformandosi da sé per la semplice ragione che non conosciamo alcun altro lavorio oltre lo scien¬ tifico: e infine non possiamo ammettere che l enun- ciazione dei principi avvenga dopo per la stessa ragione per cui non possiamo ammettere che av¬ venga piìma essendo i principi, come ben osserva il Carlini stesso, immanenti al lavorio scientifico. Ma il Carlini non si arresta a queste osserva¬ zioni e riafferma il dualismo in modo ben più pe¬ rentorio. « La vita », egli scrive, « nella filosofia gentiliana è pura spiritualità e personalità del sog¬ getto: per lo scienziato, è nel divenire storico della realtà eh egli studia, e a questa cerca di adeguare i suoi concetti. La scienza, se non procede così, con questa mentalità, non è più scienza. Introdurre nella scienza una questione morale (la consape¬ volezza che quel mondo della scienza ha dei limiti, e che in noi è una ragione di vita che lo supera) è distruggere il prohlema proprio dello scienzia¬ to ». Dove è da osservare che la vita del soggetto è appunto il divenire storico della realtà ch’egli stu¬ dia; che il mondo della scienza non ha limiti, bensì li ha ogni scienza vista nella sua particolarità ; e infine che lo scienziato, il quale non avesse la con¬ sapevolezza dei limiti della sua particolare scienza, non sarebbe scienziato. Del resto, il dualismo cui si arresta il Carlini è più un residuo di vecchie teorie che non una pre- — 238 — cisa convinzione. Tanto è vero ch’egli ammette la « bontà » dei miei saggi e la spiega « non con gli schemi dellTntroduzione ma con quanto l’autore vi porta di conoscenza concreta dei problemi di¬ battuti, e soprattutto con quel vivo senso della sto¬ ricità di questi problemi ch’è, nel campo della cul¬ tura in generale, specialmente per noi italiani, una delle conquiste fondamentali dell’idealismo con¬ temporaneo ». Ora, è chiaro che il senso della sto¬ ricità dei problemi discussi è appunto la consa¬ pevolezza dei limiti delle affermazioni scientifiche e sta a dimostrare, in atto, l’identità di scienza e filosofia. Che poi l’Tntroduzione si riduca a schemi irrilevanti ai fini delle affermazioni scientifiche contenute negli altri saggi, è cosa per lo meno di¬ scutibile: comunque ciò non denoterebbe la natu¬ ra filosofica dellTntroduzione in contrasto con la natura scientifica dei saggi, bensì lo scarso valore filosofico e perciò lo scarso valore scientifico della Introduzione stessa. In altri termini, in essa per¬ marrebbe alcunché di quell’astrattismo filosofico che noi ci proponiamo di combattere non meno del correlativo astrattismo scientifico. Il dualismo di scienza e filosofia è presuppo¬ sto in modo ancor più perentorio da Giulio Cola¬ marino, *) che ripetutamente ha voluto dimostrare 3 ) G. Col AM arino, Scienze e filosofìa, in Nuovi problemi, di¬ cembre 1930, pp. 97-116; recensione di U. Spirito, La eritrea della economia liberale, ibid,, gennaio-febbraio 1931, pp. 93-98; Scienze sociali, filosofia e scienze economica, ibid., luglio-settembre 1931, pp. 481494. — 239 — 1 autonomia della scienza dando come unica legitti¬ ma una scienza non filosofica e perciò a lui. stu¬ dioso di filosofia, affatto ignota. « Ma peggio sa¬ rebbe certamente », egli osserva, « se l’idealismo assoluto volesse entrare nel dominio della scienza per migliorarla e renderla più rispondente alla vi¬ ta — come appunto sostiene il libro di cui parlia¬ mo. Non potendo la filosofia dettar legge alla scien¬ za. né costruirla come una finzione intellettuale che le rimarrebbe sempre estranea, potrebbe acca¬ dere che, col concorso di circostanze che non oc¬ corre specificare, l’invocato connubio tra scienza e filosofia, segnasse in Italia l’inizio di un periodo di grande confusione, se non nel mondo della cultu¬ ra, per lo meno in quello della scuola » (recensione cit., pag. 95). E qui, al solito, si parla di una filo¬ sofia che dovrebbe entrare nel mondo della scienza, e di un connubio di scienza e filosofia, laddove la tesi che con ciò si vuol combattere è quella di una scienza che è filosofia e che filosoficamente progre¬ disce correggendo i suoi principi. Non si tratta di unire due mondi, bensì di riconoscerne l’identità. Al che il Colamarino, finché rimarrà sulla via in¬ trapresa, non potrà certamente giungere per l’ine¬ sperienza da lui dimostrata degli studi scientifici in genere e deireconomia in ispecie. Chi dubitasse di questa mia affermazione non avrebbe che a leggere le osservazioni che il Colamarino fa sulla mia cri¬ tica del Pareto, e riflettere in particolare sul se¬ guente passo, in cui si cerca di svalutare il mio giu¬ dizio giudicandolo meramente filosofico. « Bisogna concludere perciò », egli scrive, « che di uno scien¬ ziato è troppo vano e tardivo fare la critica filo¬ sofica, dopo che tale critica si è già esercitata sulla ■ forma del sapere scientifico, e che quella critica è poi anche fuor di luogo se deve valere per gli scien¬ ziati. Se Pareto non avesse scritto il Manuale, tutti i suoi libri pseudostorici e sociologici non sareb¬ bero valsi a ricordarlo agli scienziati, e quindi lo Spirito non avrebbe sentito il bisogno di occuparsi di lui. Ora, parlare di Pareto, come egli ha fatto, svalutando il Manuale, e concentrando tutto Tinte- resse sullo scetticismo sorto nell’animo paretiano nel vano tentativo di combinare insieme la sociolo¬ gia con l'economia, significa rimanere ai margini dell’argomento, rinunciare a parlare di scienza per eccessivo attaccamento alla filosofia » (ibid., p. 97). Se il Colamarino avesse letto davvero il Pareto e si fosse reso conto delle mie critiche, non avrebbe certamente scritto queste righe che sono la confer¬ ma decisiva dell’impossibilità in cui egli si trova di discutere il problema dei rapporti tra filosofia ed economia. Il Manuale ch’egli contrappone ai li¬ bri pseudostorici e sociologici è proprio il libro del Pareto in cui le ideologie sociologiche e pseu¬ dofilosofiche prendono il sopravvento sulla scien¬ za economica più aderente alla tradizione rappre¬ sentata dal Cours, e mettono capo a leggi e teoremi privi di qualsiasi rigore logico. Lungi dal rinun¬ ciare a parlare di scienza per eccessivo attaccamen¬ to alla filosofia, io ho voluto dimostrare Tinconsi- stenza scientifica della costruzione del Pareto do- vuta al suo impelagarsi nella filosofia (che è, s’in¬ tende bene, una cattiva filosofia). Se il Colamarino ritiene che scientificamente il Manuale rappresenti qualcosa di altro e di meglio di ciò che è stato da me filosoficamente criticato, lo dimostri, e si finisca ima buona volta dì contrapporre al mio Pa- reto un Pareto scienziato che nessuno dà prova di conoscere e di saper difendere contro un giudizio che ne investe i principi fondamentali. E qui mi occorre di dare un consiglio ai con¬ traddittori, filosofi o economisti, che siano, ma so¬ prattutto se economisti: non continuino a oppormi inutilmente vaghi filosofemi e opinioni approssi¬ mative sulla possibilità o impossibilità del mio as¬ sunto, ma cerchino di saggiare in concreto la vali¬ dità deile critiche particolari e dei criteri ricostrut¬ tivi. Allora soltanto la discussione potrà riuscire feconda ed esser liberata da quel filosofismo di cui sono purtroppo infetti i miei accusatori. Delle tan¬ te pagine che il Colamarinn mi ha dedicate non in¬ teressano certo quelle che pongono una pregiudi¬ ziale filosofica: non interessano e perciò non le di¬ scuto. Interessano invece, e vorrei quindi discute¬ re, le osservazioni circa i problemi concreti della scienza economica, ma purtroppo di queste vi ha molta scarsezza negli articoli citati. L’unico punto un po’ determinato è quello che concerne l’ipotesi dell homo cp.canomic.ua, dal Colamarino riproposta a fondamento della scienza economica. Contro il Contento, ch’era della stessa opinione, e che ave¬ va definito Yhoìno mconomicus « l’inividuo imma¬ ginato nella sua pura condotta economica, la quale, nei moventi e nei fini, si ritiene informata, gene¬ ralmente, ad un tipo uniforme corrispondente alla ricerca della massima soddisfazione col minimo sforzo, cioè all’applicazione integrale del principio lfi - Suino — 242 — del minimo sforzo », avevo opposto che, se tale è l’ homo cp.conomicus. l’uomo è sempre economico, in ogni campo della sua esistenza, perché sempre tende alla massima soddisfazione col minimo sfor¬ zo, e che dunque « la fictio dell’/i. ce. si rivela an¬ cora una volta assolutamente inadatta a servire da ipotesi scientifica )). Ora, su questo ragionamento, « impressionante nella sua semplicità », come dice lo stesso Colamarino, si trova modo di sofisticare distinguendone la validità scientifica da quella filo¬ sofica e concludendo che il principio si estende, sì, a tutti i campi deH'attività umana, ma acquista un particolare significato allorché si parla di econo¬ mia politica. « E qual’è », continua il Colamarino, C( l’economicità sulla quale si erge l’edificio della scienza economica? È indubbiamente l’attività che sì esercita nella produzione, nello scambio, nel con¬ sumo dei beni materiali, misurabili, trasferibili, o riducibili comunque a nozione quantitativa. E Yho- mn oeconnmicus non è altro che l’individuo che esercita tale attività: individuo che non è certo l’Io della filo sofia e neppure tutto l’individuo sociale (che allora la economia sarebbe tutta intera la scienza sociale), ma che è appunto quell’astrazione, quella fictio necessaria alla scienza dell’economia » (Scienze sociali ecc., pp. 490-491). Ma con ciò il Colamarino conferma appunto che la definizione del Contento, e di tanti altri prima, è errata, per¬ ché generica, e che il vero homo ceconomicus è in¬ vece Vindividuo che esercita la sua attività nella produzione, nello scambio, nel consumo dei beni materiali, misurabili, trasferibili, o riducibili co¬ munque a nozione quantitativa. Filosofica o scien¬ tifica che fosse, la mia obiezione era dunque vali- da e la definizione è stata cambiata. Che poi la nuova formula non abbia, neppur essa, alcun va¬ lore scientifico, è cosa che dovrebbe risultare ab¬ bastanza evidente dopo tante discussioni in pro¬ posito, ma non sono alieno dal tornarvi su, se al Colamarino, o a qualche altro in sua vece, venisse il desiderio di maggiori delucidazioni. Ciò che im¬ porta è di discutere su questa piano, senza conti¬ nuare a domandarsi se si tratti di scienza ovvero di filosofia, e cercando, semplicemente, di ragio¬ nar bene. LA NUOVA SCIENZA DELL’ECONOMIA SECONDO WERNER SOMRART À coronamento della sua grande opera di sto¬ ria economica. Werner Sonibart ha voluto com¬ piere un tentativo di sistemazione scientifica dei principi fondamentali dell’economia, e ha scritto un’opera (Die drei Nationalókonomien, Miinchen und Leipzig, Duncher und Humhlot, 1930, pagi¬ ne xii-352) intenzionalmente rivoluzionaria, che non potrà non destare scandalo presso tutti gli eco¬ nomisti convinti dell'assolutezza e infallibilità del¬ le loro leggi. Ai cattedratici ortodossi che si com¬ piacciono della solidità di quel corpo di dottrine economiche messo insieme dai classici e via via per¬ fezionato dagli scienziati puri pervenuti al rigore delle discipline matematiche, il Somhart getta riso¬ lutamente in faccia l’accusa di radicale incongruen¬ za e di cieco dogmatismo. Lungi dal rappresentare una scienza esatta, l’economia si trova oggi in una « situazione disperata » (verzweifelle J.u&tand un- serer Wissenschaft) che il Somhart non teme di rappresentarsi con le fosche tinte di uno spaven¬ toso caos. Naturalmente il giudizio è confortato — 245 - dallanalisi dei motivi e dalla dimostrazione inop¬ pugnabile della indeterminatezza dei principi su cui la scienza delFeeonomia è stata fondata. Si tratta di un imprecisione che ha involto lo stesso concetto di economia e poi lutti i metodi di ricerca e tutta la terminologia scientifica. Criteri estrinseci di classificazione, interferenza di motivi disparati, delimitazioni arbitrarie, presupposti infondati e concetti equivoci hanno portato la confusione nel campo degli studi economici, facendo smarrire ogni senso dei suoi confini e delle sue caratteristiche peculiari. « L’economia si è accontentata fin qui di concetti che a guisa di vagabondi si sono aggirati tra 1 confini dei vari paesi, senza Leu sapere dove avessero diritto di cittadinanza. Con tal genia er- rante e vagabonda l’economia ba voluto riempire i quadri del suo esercito di concetti: valore, biso¬ gno, bene, piacere, pena, utilità, eco., e ha persino concesso a questi vagabondi la dignità di concetti fondamentali. (Grundbegriffe) » (pag. 247). Non si tratta dunque di eliminare errori o di colmare lacune, bensì di trasformare ab imis tutta la scienza economica mediante l’assunzione di prin¬ cipi affatto diversi e a confini ben determinati. Non v’è uno solo dei concetti di cui ] a scienza eco¬ nomia oggi fa uso che non sia di carattere empi- ri co e perciò suscettibile delle infinite interpreta¬ zioni giustificate dalle contingenze del suo uso. Aver la pretesa di far della scienza rimanendo su un terreno così poco stabile è un assurdo che il Somharf riesce a mettere efficacemente in luce, mostrando l’urgenza dei rimedi. Ed egli senz’altro’ afferma, con simpatico orgoglio, di aver appunto intenzione di recare « un po’ d’ordine in questo 246 — caos )) ( p. 19) e di dar finalmente rigore scientifi¬ co a una disciplina che con troppa evidenza ha di¬ mostralo di non averne affatto. Con questo libro una nuova epoca dovrebbe, dunque, iniziarsi nella storia della scienza economica. Per chiarire la sua posizione di fronte a tutti gli altri indirizzi scientifici, il Sombart compie fin dalle prime pagine una generale ripartizione dei sistemi di economia in tre grandi tipi, caratteriz¬ zati dal metodo di ricerca: il metafisico o normati¬ vo (Tirhtende Nationalokonomie), il naturalistico o classificatorio o descrittivo (ordnende A lational- Òknnomie) e infine lo spiritualistico o critico (vpt- slehende Nationalokonomie). Del primo sarebbe rappresentante tipico Sau Tommaso, del secondo il Pareto, del terzo il Sombart (das « meinige »). E tutto il libro quindi vien ripartito in tre parti, due delle quali volte alla critica dei sistemi giudicati inadeguati (metafisico e naturalistico) e l’ultima invece destinata a porre i fondamenti della nuova costruzione spiritualistica. L’economia normativa non ba lo scopo di stu¬ diare il mondo nella sua effettiva realtà, ma di in¬ dicare ciò ch’esso deve divenire: non si riferisce all’essere ma al dover essere, e in quanto tale pone le direttive della condotta umana per l’instaurazio¬ ne dell’economia giusta. I concetti su cui essa si fonda sono perciò concetti sociologici come classe o mestiere; concetti di giustizia come giusto prez- — 247 zo, giusto salario o giusta distribuzione; concetti di valore come sfruttamento, ecc. I suoi fini sono quelli di determinare i valori assoluti, di riconnet- tcre ad essi le proposizioni scientifiche, di tradurli nella pratica della vita e di segnalare le deviazioni della realtà dall’ideale. Dopo aver esposto i vari tipi di questa econo¬ mia normativa, l’Autore si domanda se essa sia scientificamente ammissibile e se possa quindi rap¬ presentare il vero canone metodologico dello stu¬ dioso. Nella risposta si rivelali d’un tratto tutti i limiti dell’orizzonte speculativo del Sombart e si iniravvedono le difficoltà che egli dovrà superare per liberarsi, almeno in parte, dai pregiudizi della ideologia da cui prende le mosse. Ancora fedele al concetto positivistico di scienza e alla conseguente critica antifilosofica, egli distingue in modo cate¬ gorico il mondo dell’esperienza dal mondo dei va¬ lori, la scienza dalla filosofia, e alla prima ricono¬ sce la possibilità di una verità obbiettiva laddove alla seconda consente un significalo esclusivamente soggettivo. L’economia, in quanto scienza, non può indicarci l’ideale di una maggiore produzione, per¬ ché tale ideale implica la soluzione di un problema non semplicemente economico, ma totale o meta¬ fisico, quale è quello del fine sociale: implica, cioè, una particolare visione del mondo una Weltan- schauung, che trascende assolutamente i meri dati scientifici. Né è possibile, secondo il Sombart, che tale concezione integrale informi comunque di sé una scienza particolare, perché la differenza fra la parte e il tutto, ossia tra la scienza e la filosofia, non è soltanto quantitativa, bensì anche qualita¬ tiva. La filosofia è da lui intesa come intuizione re- 248 ligiosa, come conoscenza personale e soggettiva: se essa si insegna, i] suo insegnamento non può con¬ siderarsi come 1 introduzione a una verità, ma co¬ me una suggestione personale del maestro sull’a- lunno, come un invito alla lede del maestro. La conoscenza filosofica, perciò, è essenzial¬ mente relativistica e può rivelarci un solo aspetto della realtà, mutando legittimamente da persona a persona, con pari validità per ognuno. Alla fede scientifica, originariamente positivistica, il Sombart può giustapporre, senza timore di ledere la sicu¬ rezza obiettiva dell’esperienza, una filosofia rela¬ tivistica e scettica, fornitagli a troppo buon mer¬ cato dall’indulgente Simrnel. E allora dalla scien- za si dà il bando a tutti i giudizi di valore, che. in quanto personali, non possono costrìngere logica¬ mente, ma debbono rimanere fuori dell’esperienza e dell’evidenza. 11 loro fondamento è Femore: per i valori 1 uomo vive e muore, ma i valori non co¬ nosce: essi appartengono alla sfera filosofica o reli¬ giosa, nella quale dunque può solo rientrare tutta l’economia normativa. In tal guisa vien liquidato dal Sombart uno dei tipi fondamentali della scienza economica, e il lettore non può non rimanere sorpreso dalla facilità e diciamo pure — superficialità, con cui si ripetono monotonamente la istanza scientifi¬ ca del positivismo, l’affermazione dogmatica della validità di un’esperienza e di un’evidenza logica non meglio definite, l’accusa di relativismo alla fi¬ losofia, e 1 impossibilità scientifica di un qualsiasi giudizio di valore. Se dovessimo arrestarci a que¬ sta prima parte del libro, non avremmo che a con¬ cludere in modo affatto negativo, perché se il Som- — 249 — bari avesse sul serio mantenuto fede a tale pozio¬ ne iniziale, nessun motivo nuovo e nessuna nugoli esigenza sarebbero scaturiti dalla sua ricostruzione. 1] dualismo di conoscenza e fede, di fatto e valore, di oggettivo e soggettivo, ci appare finora così radi¬ cale e grossolano, da far ritenere completamente fallito il tentativo e da far per lo meno dubitare della serietà di un effettivo riordinamento della scienza economica. Più che la rozzezza dei motivi critici^ meraviglia vedere in un uomo di tanta cul¬ tura l’assoluta incapacità di prender atto dello svi¬ luppo del pensiero contemporaneo e delle infinite istanze critiche sollevate d’ogni parte al massiccio credo positivistico, cui il Sombart sostanzialmente serba ancora fede. Lo stesso Pareto, del quale egli ricalca fin qui le orme, aveva detto queste cose in ben altra e più nuova maniera: né si capisce come vi si possa ancora tanto insistere, senza porre in campo argomenti nuovi o senza impostare diversa- mente la logora questione. Si tratta, oltre tutto, an¬ che di sensibilità e di gusto. Ma fortunatamente il Sombart. pur portando attraverso tutto il libro il peso di tali presuppo¬ sti, sa presto sollevarsi a un altro livello e affac- ciare esigenze in netta antitesi con le prime affer¬ mazioni. Da una parte si affina in lui il concetto di esperienza, dall altra si attenua fin quasi a scom¬ parire il crudo dualismo di scienza e filosofia. E già nell analisi del secondo tipo di sistemi econo- — 250 — mici, quello classificatorio o descrittivo, si comin¬ cia a delineare una forte istanza critica rispetto al¬ la comune concezione naturalistica della scienza. Caratteristiche della scienza della natura so¬ no la validità universale e l’assoluta obiettività dei principi e delle leggi: ma questo risultato, che è il risultato più grande raggiungibile dalla scienza, è possibile solo a patto di rimanere in una zona me¬ ramente formale. Se analizziamo, infatti, le propo¬ sizioni delle scienze naturali, ci accorgiamo ch’es¬ se si riferiscono a fenomeni morii, già realizzati fìssati e resi calcolabili attraverso un processo di elementarizzazione. Il tutto, l’essenza della natura sfugge completamente e va relegato nei campi della metafìsica: ciò che resta oggetto di scienza sono i particolari aspetti, i fatti semplici, i fenomeni mi¬ surabili, i quali vengono raccolti e ordinati secon¬ do principi formali estrinseci (concetti generali, schemi, leggi, uniformità). « La conoscenza, come viene intesa nelle moderne scienze naturali, è una comprensione esteriore delle cose; è una conoscen¬ za dal di fuori, o, come fu anche detta, particolare, vale a dire ch’essa si limita a un solo carattere: la quantità (Gròsse). Fornendoci solo la misura o il numero delle proprietà dei fenomeni, le scienze naturali hanno sostituito un rapporto formale e unilaterale all’unità complessa )) (p. 112). Ora, v’è un modo di costruire la scienza del- reconomia, che si ispira appunto a tali criteri na¬ turalistici, poco preoccupandosi del valore conosci¬ tivo dei risultati. E il Sombart giustamente ravvisa nei seguaci di questa ordnende Nationalókonomie non solo i teorici delFoggettivismo, ma gli stessi sog¬ gettivisti, gli psicologi, i marginalisti e i seguaci delle — 251 — teorie dell’equilibrio. Egli non si lascia ingannare da un presunto soggettivismo e. dopo aver osservato (pagg- 110-111) cbe esiste un modo naturalistico di fare la scienza dell’anima e dello spirito, giunge fino a rilevare il carattere equivoco del principio di ofe¬ limità del Pareto (p. 128). Una critica condotta in termini sì efficaci e ri¬ gorosi della concezione naturalistica della scienza basta a farci comprendere come la posizione piat¬ tamente positivistica dell’altra critica alla richtende Nationalókonomic non fosse sufficiente per indivi¬ duare il livello speculativo cui il Sombart è perve¬ nuto. Qui si rivela una coscienza abbastanza esatta e approfondita di tutto quel movimento di reazione idealistico alla scienza che ha caratterizzato gran parte del pensiero filosofico e scientifico degli ultimi decenni, e si dimostra a chiare note una radicale in¬ soddisfazione per rinfallibile obiettività e assolu¬ tezza di cui presumevano avere il monopolio i po¬ sitivisti. Se, quindi, si volesse nuovamente definire, limitandoci a questa seconda tappa, la concezione speculativa del Sombart. occorrerebbe cercarne i li¬ miti in quella stessa critica alla scienza cbe caratte¬ rizza le filosofie contemporanee antintellettualisti- che. E i lìmiti allora si ritroverebbero nel dualismo di natura e spirito, cbe pesa purtroppo sulla scien¬ za e sulla filosofìa come dualismo delle stesse disci¬ pline, e che fa ritenere tuttavia a molti insupera¬ bile la concezione naturalistica delle scienze natu¬ rali. L’accusa che il Sombart muove alla scienza della economia non riguarda, per sua esplicita con¬ fessione, la scienza della natura, la quale è e deve essere naturalistica, e necessariamente degenera nel¬ la metafisica quando voglia supeiare il proprio ca- — 252 — ratiere meramente formale (p. 119): il che vuol dire che scienza naturale e scienza sociale sono as¬ solutamente eterogenee, e che alla prima competono metodi di ricerca affatto diversi da quelli seguiti dalla seconda. La conseguenza ultima sarà che la scienza sociale per quel tanto che interferirà con la scienza naturale diverrà per definizione impossibile e assurda, come appunto confermerà nell’ultimo svolgimento del suo pensiero lo stesso Sombart. Egli, al solito, non sospetta che la critica alla scienza ha il solo valore di una critica alla concezione natu¬ ralistica della scienza e non pensa neppure che la scienza della natura possa farsi con altri criteri che non siano quelli estrinseci del positivismo : dalla sua critica perciò egli non perviene a una nuova visio¬ ne della scienza, in generale, bensi soltanto a un distacco arbitrario delle scienze sociali, che vorreb¬ be sottrarre alla metodologia propria delle scienze naturali. È questo certamente un passo innanzi ri¬ spetto alla comune critica alla scienza, ma è un passo fatto a costo di un dualismo che compromet¬ terà inevitabilmente la nuova costruzione. Dall’analisi compiuta della richtende Nationa- lókonomie e della ordnende Nationalókonomie so¬ no scaturiti per contrasto i caratteri che do¬ vrà avere la vera scienza dell’economia, la ver- stehende Nationalokonomie. E il problema viene a porsi in termini almeno apparentemente rigo¬ rosi, quando il Sombart affaccia l’esigenza di un cri- terio conoscitivo che sfugga per la sua obiettività al relativismo di una metafisica soggettività e non si esaurisca d altra parte in una sistemazione affatto estrinseca e classificatoria dei fenomeni sottoposti a indagine. La nuova scienza dovrà giungere alla essenza della realtà economica, pur non abbando¬ nando mai il terreno concretissimo dell’esperien¬ za. Per giungere a questo risultato il Sombart com¬ pie il maggiore sforzo speculativo che gli è possibile assumendo entusiasticamente a guida indiscussa il pensiero del nostro Vico, dal quale appunto trae argomento per ipostatizzare il dualismo, cui abbia¬ mo accennato, di scienza della natura e scienza so¬ ciale. (( lo sono disposto )), afferma risolutamente il Sombart, « a riconoscere in Giambattista Vico il pa¬ dre delle moderne scienze dello spirito e di un rela¬ tivo particolare metodo di conoscenza. Egli è. a mio modo di vedere, il primo che nei tempi moderni ab¬ bia contrapposto con coscienza le scienze storiche alle scienze naturali e abbia dimostrato la necessità per le prime di un metodo d indagine diverso dal¬ l’usuale)) {p. 156). E che il Vico sia proprio il padre della « verste- bende » sociologia il Sombart vuol dimostrare tra¬ scrivendo addirittura nel testo italiano il noto passo della Scienza nuova: «Questo mondo civile certa¬ mente egli è stato fatto dagli uomini: onde se ne possono, perché se ne debbono, ritrovare i Principi dentro le modificazioni della nostra medesima men¬ te umana. So che a chiunque vi rifletta sopra, deve recare una somma maraviglia, come tutti i Filosofi seriosamente si studiarono di poter conseguire la Scienza di questo Mondo naturale, del quale, per¬ ché Dio egli il fece, esso solo ne ha la Scienza ; e tra- — 254 — scurarono di meditare su questo Mondo delle Nazio¬ ni, o sia Mondo civile, del quale, perché l’avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la Scienza gli uomini ». Ora, la scienza dell’economia, come tutte le scienze sociali e la sociologia in genere — il Som- bart preferisce ancora questo termine a quello di storia — riguarda appunto il mondo fatto dagli uo¬ mini, vale a dire non il mondo della natura, bensì quello dello spirito o della Kultur : quel mondo che noi possiamo conoscere veramente perché costruito da noi. « Noi e noi soltanto siamo i creatori della cultura e ci muoviamo in questo piccolo mondo co¬ me Dio in quello grande. In questo nostro mondo noi siamo in effetti il Dio onnisciente e onnipoten¬ te » (p. 199). Intesa in tal modo la cultura come tutta l’opera umana in contrapposizione alla natura, si compren¬ de bene come il Sombart possa concepire una scien¬ za dell’economia spiritualistica e al tempo stesso sperimentale e obiettiva. Metafisica era la richtende Natianalòkonomie perché presumeva di conoscere un mondo trascendente il nostro pensiero: forma¬ listica era la ardnende Nationalòkonomie perché vo¬ leva arrestarsi nel campo delle scienze sociali agli stessi criteri validi per le scienze naturali : ma non più metafisica né formalistica sarà la verstehende JSationalókonomie, che potrà giungere all’essenza delle cose, senza tuttavia sconfinare in un mondo trascendente. Essa potrà divenire veramente una Erfahrungxwi.'isp.nschaff, quando sarà concepita come una Geistwissenschaft nel senso di Kulturtcissen- schaft. - 255 — Con l’affermazione della verstehende Nationnl- ofconomie come sociologia il Sombart raggiunge il più alto livello che gli è consentito dai suoi presup¬ posti filosofici: e alla luce di essa ci è ota possibile ritornare alle critiche delle due prime forme scien¬ tifiche dell’economia e intravederne quel più pro¬ fondo significatico intuitivo che mal ci è apparso attraverso la rigorosa riduzione in termini logici che ne abbiamo fatto. Perché adesso ci è dato ca¬ pire come la critica grossolanamente positivistica rivolta alla richtende Natiflìialakonomie non stava a dimostrare una meschina adorazione del fatto, vi¬ sto fuori della vita dello spirito e della storia, bensì piuttosto l’insofferenza per ogni forma di scienza moralistica, volta a determinare aprioristicamente i fini dell’attività umana in genere e di quella eco¬ nomica in ispecie. Se in quella critica predominava senza dubbio il vecchio pregiudizio positivistico di un’esperienza intesa in modo affatto oggettivo, è pur vero che a esso si accompagnava una coscienza sto¬ ricistica di ben altro valore, tendente non all’elimina¬ zione dei valori spirituali, bensì al loro spostamento dall’astratto campo della metafisica moralistica alla salda e concreta realtà della storia. Che è poi la 6tessa esigenza che induce il Sombart a svalutare le scienze naturali e insieme il modo naturalistico dì costruire la scienza economica. Non che egli non creda utile una sistemazione formale dei dati dell’econoniia, che anzi ne conferma in questo stes- so libro l’opportunità e addirittura la necessità, ma non ritiene che in essa possa esaurirsi il compito di una scienza destinata allo studio di una realtà viva e progrediente quale è l’attività umana creatrice della storia. Gli economisti tanno finora oscillato tra un arbitrario moralismo e un formalismo tautolo¬ gico e non hanno mai saputo assurgere a una effet¬ tiva comprensione dei fenomeni che volevano spie¬ garsi: il Sombart ne ha visto efficacemente le ragio¬ ni ed è salito a lina forma superiore di storicismo. Lo storicismo del Sombart, infatti, è molto di¬ verso da quello tradizionale della scuola storica e si comprende come egli non ami troppo la parola, che pur è la più adatta a caratterizzare la sua po¬ sizione. Al vecchio storicismo il Sombart è giusta¬ mente contrario e la diagnosi che ne compie coglie proprio il segno. Se la scuola storica aveva avuto rintuizione delle complessità e varietà dei fenomeni economici, non aveva poi saputo elevarsi fino al loro dominio ed era finita neH’irrazionalismo : lo storicismo, come descrizione empirica dei fenomeni visti nella loro caotica molteplicità, non è la scienza ma la negazione della scienza. Lo storicismo del Sombart, invece, penetra al fondo della mutevole realtà e vuol coglierne la lo¬ gica del movimento: e questo può fare, perché, gra¬ zie a Vico, ha compreso che quella logica è la logica stessa del nostro pensiero. Ma se così è, necessaria¬ mente ne deriva che in tanto è possibile intendere un qualsiasi fenomeno della realtà — e nel caso particolare, un fenomeno economico — in quanto lo si riconduce al sistema integrale di quel pensiero che gli ha dato origine dando origine a tutto il mondo della cultura. Vano e assurdo è ogni ten- — 2S7 — tativo di determinare un qualsiasi principio scien¬ tifico nel campo dell'economia, se non si tiene ben presente che il fatto economico è intelligibile sol¬ tanto in funzione di tutti gli altri aspetti della realtà in cui esso sorge e si svolge. E il significato stesso dei termini cbe si adoperano dagli economisti non è definibile se non in rapporto alle diverse condi¬ zioni storiche, continuamente variando con il va¬ riare di queste; sì che soltanto con un atto di ar¬ bitrio ingiustificato è possibile agli economisti fis¬ sare una legge sciertifiea di presunto valore asso¬ luto, trascendente il tempo e lo spazio. L’errore più grave della scienza economica quale si è svolta fin qui è stato appunto quello di ipostatizzare alcuni termini e alcuni principi, obliando il nesso loro imprescindibile con la concreta vita storica dalla quale termini e principi avevan tratto alimento. Anche le parole di significato più generale e appa¬ rentemente affatto libere da legami con una parti¬ colare epoca storica — ad es. scambio — in effetti non significano nulla, e per diventare davvero in¬ telligibili hanno bisogno di una determinata qua¬ lificazione storica — lo scambio presso i primitivi, nell’epoca capitalistica, ecc. Il che implica che la scienza dell’economia va ricostruita ex novo, come scienza storica che utilizzi concetti storici e si pon¬ ga perciò in grado di superare l’attuale stato caotico dovuto al giustapporsi di principi originati da di¬ verse situazioni storiche e tuttavia messi su di uno stesso piano, con la pretesa di farli corrispondere a qualsiasi situazione storica. Si continuano oggi a ritenere scientifiche tante leggi dell’economia clas¬ sica, e non ci si accorge che quelle leggi non hanno più valore perché i termini in cui sono espresse 17 - Srum — 258 — hanno cambiato di significato, senza che Leconomi- sta ahhia riflettuto sulla portata di tale mutamento. E a poco a poco l'economia è diventata un lavoro di mosaico, in cui ogni pietruzza sta per conto suo, senza che neppure in tale indipendenza possa avere una fisionomia sua, suscettibile com’è di infinite co¬ lorazioni, alle diverse luci che la illuminano. 11 Somhart ha visto come pochi questa essenziale inor¬ ganicità e incongnienza della scienza economica e ha saputo scoprirne la piu profonda ragione. Senonché il Somhart non può raccogliere tutti i frutti della sua concezione per i limiti stessi entro cui rigorosamente la circoscrive arrestandosi alla dottrina dì Vico. Se l'aver riallacciato il nuovo sto¬ ricismo al pensiero del grande filosofo italiano co¬ stituisce il più gran merito del Somhart, l’aver poi creduto che si possa ancor oggi, dopo due secoli di intensissimo travaglio speculativo, impostare il pro¬ blema proprio negli 6tessi termini, è purtroppo tale un errore da compromettere in modo irrimediabile il risultato di ogni ricerca. L’errore — come si è già accennato — consiste nel dualismo vichiano di mondo umano e mondo naturale, considerati l’uno come fattura dell’uomo e l’altro di Dio. Poiché si può essere dualisti quanto si vuole, ma bisogna pur rendersi conto che, se esi¬ stono due realtà, esiste per ciò stesso il problema del loro rapporto. Ora, tale rapporto è sfuggito in gran parte alla mente del Vico, ed è appena analiz¬ zato dal Somhart che lo concepisce in modo molto estrinseco e a posteriori. Egli non si preoccupa, in¬ fatti, di ricercare 1 unità originaria dei due mondi, sì ch’essi possano rendersi intelligibili alla luce di un unico fine, ma si limita a constatarne i rapporti — 259 — di coesistenza e il reciproco influsso: le due realta restano presupposte e la soluzione del problema si trasforma in un mesebino modus vivendi. Se l’uomo fosse davvero costretto a creare — secondo le parole del Somhart — il piccolo mondo della cultura lasciando nel mistero della sua essenza il grande mondo della natura creata da Dio, eviden¬ temente il grande non potrebbe non soffocare il pic¬ colo e renderlo affatto illusorio. Se viviamo nella natura, se natura siamo noi stessi venendo alla luce, se la nostra vita fisica e spirituale è costretta a svol¬ gersi nelle determinate condizioni fissate dalla na¬ tura, com’è poi possìbile comprendere l’essenza di quel che facciamo ignorando l’essenza di quel che troviamo? Se esistono due mondi, l’uno nostro e l’altro di Dio, è pur necessario che il primo sia su¬ bordinato al secondo e adegui il proprio fine a quel¬ lo dell'altro; ma se è così, o l’uomo conosce il fine di Dio, vale a dire l’essenza della natura, e allora può agire seguendone le tracce, o non lo conosce, e allora procede alla cieca senza aver coscienza della direzione del proprio cammino. E la scienza, del cui rinnovamento il Sombart giustamente si preoc¬ cupa, deve ormai decidersi ad affrontare il proble¬ ma nella sua integrità, diventando storicistica nel senso più rigoroso della parola e cioè intendendo per storia dell’uomo la storia stessa del mondo, e riconoscendo in tal guisa l’identità assoluta di sto¬ ria e di filosofia. Scienza storicistica e scienza filo¬ sofica non possono essere altro che sinonimi. Da questa conclusione rigorosa e perentoria il Sombart si è ritratto per un residuo di positivistico odio contro la filosofia e per il conseguente agno- ticismo metafisico ; ma s’egli si informasse più ade- — 260 — ^natamente dei risultati del movimento idealistico italiano finirebbe forse eoi convenire cbe, se ancora di metafisica resta traccia nella filosofia contempo¬ ranea, è proprio in cotesto agnosticismo positivisti- co, il quale, proprio perché nega la possibilità di conoscere l’essenza della natura, ammette niente¬ meno l’esistenza di un mondo trascendente e si pre¬ clude la via a una conoscenza effettiva della realtà. Perché si possa parlare di scienza è necessario cbe il nostro conoscere non abbia limiti insuperabili e cbe il mondo di Dio sia lo stesso mondo nostro: fino a quando nel concetto tedesco di cultura non sarà risolta anche la natura, esso non potrà carat¬ terizzare l’umana realtà nella sua più profonda consapevolezza. Che tale sia veramente il limite della concezio¬ ne del Sombart basterebbe a dimostrarlo la parte ricostruttiva della sua teoria, nella quale dovreb¬ bero essere tracciate le linee maestre della nuova scienza economica. Putroppo questa è la parte più scadente e irrilevante del libro, dove l’insostenibi- lità del dualismo viebiano finisce col rivelarsi a ogni passo in continua ed evidente contraddizione, e do¬ ve l’urgenza dei motivi più disparati non consente una visione organica del problema. Tutto ciò ch’era stato negato e relegato nel mondo della filosofia o della metafìsica, viene ora bruscamente fuori a riaf¬ fermare esigenze imprescindibili, e il Sombart lutto accetta rifacendo un posticino alla filosofia deH’eco- nomia, alla richtende ISationalòkonomie, alla dot¬ trina dei valori, ece., senza che nella molteplicità degli elementi giustapposti sia più possibile discer¬ nere un criterio direttivo rigorosamente determina¬ to. È la scienza che deve servire alla vita e cbe deve perciò riconciliarsi in qualche modo, attraverso una serie di compromessi, con il mondo naturale e il di¬ vino incautamente trascurato. Ma intanto Punita della visione si spezza a causa della molteplicità dei punti di vista e la scienza diventa la somma ano¬ dina di infinite constatazioni. L’esigenza storicistica è tradotta in termini po9tivistici e si muta nel bi¬ sogno di tutto includere oggeltivisticamente nel gran pozzo della scienza, dove tutto il bene e tutto il male va buttato a pari titolo per il fatto stesso di esistere. E la così detta W'ertefreiheit torna a essere ancora una volta — sia pure attraverso qualche timida smentita — il più alto ideale scientifico. Se vogliamo ora trarre le somme di quanto 6Ì è detto e indicare brevemente il risultato del tenta¬ tivo compiuto dal Somhart di giudicare tutta la scienza economica classica e contemporanea, e di gettare le fondamenta della nuova costruzione, dob¬ biamo concludere che l’istanza critica dell’opera supera di gran lunga il breve abbozzo sistematico e che il lato veramente positivo si riduce in effetti a una mera esigenza. Quel che v’è di saldo e peren¬ torio nel volume è la diagnosi, spietata ma giustis¬ sima, delle attuali condizioni della scienza. La erisi è presentata nelle sue effettive proporzioni e soprat¬ tutto nc sono indicate con grande precisione le ra¬ gioni più notevoli: dogmatismo, antistoricismo, in¬ determinatezza di principi e di terminologia, asiste¬ ma licita, metodo naturalistico, moralismo. Sono ac¬ cuse di cui gli economisti non riescono a persuader- — 262 — si, ma che pure ormai dovrebbero richiamare una più profonda attenzione ed essere esaminate con mentalità più sgombra da preconcetti. A noi in par¬ ticolare, che da quattro anni andiamo precisando questa diagnosi nei Nuovi studi di diritto, econo¬ mia e politica, non può non esser gradita l’analogia dei risultati cui è pervenuto il Sombart; e tanto più interessante e fecondo sarebbe raccordo se potesse estenderei al lato più propriamente ricostruttivo del sistema. Poiché se la diagnosi della economia attuale basta a dimostrare la necessità di una visio¬ ne storicistica della scienza, non è sufficiente di ner sé sola a chiarire la peculiare forma che deve avere il nuovo storicismo. F a noi pare che il Sombart, per gli stessi presupposti speculativi da cui prende le mosse, è fatalmente destinato ad arrestarsi ad una forma di positivismo vichianeggiante in cui la vita vera della storia 9Ì frange e si acqueta tuttavia nell’eclettica stasi contemplativa della sociologia.
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