Grice e Vernia: la ragione conversazionale dei peripatetici, o del lizio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Chieti).
Filosofo italiano. Grice: “I love Vernia, but then any
Englishman would, especially when learning that Saint Thomas (Aquino) would
have made such a fuss about him!” -- Essential Italian philosopher. Allievo a
Padova di PERGOLA e Thiese e successore di quest'ultimo. Ha come collega POMPONAZZI
(il Pomponaccio). Tra i suoi allievi: NIFO e PICO. Seguace dell'ermetismo
imperante a Padova, cura un'edizione di Aristotele, il lizio. V. sostenne
l'unità dell'intelletto -- dottrina poi abbandonata a causa di una condanna
inflittagli dal vescovo di Padova --, l'autonomia della fisica rispetto alla
meta-fisica, e la superiorità della scienza della natura sulle scienze
dell'uomo. Saggi: “Contra perversam Averrois opinionem de unitate intellectus
et de animae felicitate”; “De unitate intellectus et de animae felicitate”; “Expositio
in posteriorum capitulum secundum in fine”; “Expositio in posteriorum librum
priorem”; “Quaestio de gravibus et levibus”; “Quaestio de rationibus
seminalibus”; “Quaestio de unitate intellectus”; “Quaestio in De anima. Bellis,
“L’aristotelismo” – del lizeo (Firenze, Olscheki editore, Treccani Enciclopedie
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Esaminiamo in prima quali
sieno le sue cose stampate, le quali sono poco conosciute, si perché si trovano
inserite in altre opere, si perché scritte con caratteri molto fitti, danno
pena all'occhio anche molto paziente. La dissertazione più conosciuta é
l'ultima, contro l' unità dell'intelletto di Averroe; tanto è vero, che nella
seconda iscrizione apposta al monumento trasportato dalla chiesa di S.
Bartoloneo all'oratorio dell'ospedale civile di Vi-cenza, è precisamente questo
ultimo scritto ricordato. Del Vernia sono stampate sei dissertazioni. La prima
porta la data del 1480 (') ed è: quuestio un ens mobile sit toliusphilosopine
nuturalis siljectum ('); essa si trova nel commento sul de general. et corrupt.
di Aristotele, di Egidio Romano, di Marsilio Ingnen, e di Alberto di
Sassonia. La seconda é collegata colla terza, e tratta della partizione
della filosofia; è una prolusione ad un corso di un anno intorno alla fisica di
Aristotele. La terza è: utrum medicina jure civili sit nobilior: è come una
conclusione della seconda (°); tutte e due sono nella fisica di Burleo, e sono
precedute da una lettera a Sebastiano Baduario, censore di Vicenza (3), nella
quale ricorda il Vernia la grandezza della di lui famiglia, di cui i capitani
sono scolpiti nelle immagini del Palazzo Ducale di Venezia. Il Badua-rio fu
discepolo, come il Vernia, di Paolo della Pergola, ed addivenne illustre
scotista. In sua casa fu educato il compaesano del Vernia, Nicola Manupello, di
Chieti, che fu fisico e medico. E qui soggiunge, che essendo stato pregato
dagli stampatori di emendare il libro sulla fisica di Burleo che era corrotto e
che doveva leggere agli scolari, volle premettere la divisione della filosofia
e l'ampia questione de inchoatione formaruin da lui trattita, ed al Baduario
dedicata. Questa ultima questione è andata perduta; almeno finora non la
rinvenni. La partizione della filosofia e l'altra sulla medicina portano la
data della fine di febbraro 1482 (*). La quarta dissertazione è sul de
gracibns et lucciles, dedicata a Berardo Bolderio filosofo e medico veronese;
tratta se i gravi ed i leggeri inanimati si muovano da se stessi o da altro,
quando sia rimosso ogni impedimento. Essa si trova nello scritto
sull'intelletto contro Averroe. La data non ci è veramente segnata; ma siccome
essa é citata nella quinta dis-sertazione, e non nelle altre prevedenti, è da
dirsi essere la quarta. La quinta dissertazione é: questio an denter
unicersalin realia, ed é premessa al commento sulla fisica di Urbano Servita,
Averroista. Il Renan seguendo l'Hain, ha creduto che sia una prefazione (');
invece è una questione a se, che la poca relazione propriamente culla fisica.
Antonio Alabante scrive al Vernia di leggere ed esaminare il manoscritto di
Urbano Servita, e di vedere se ne sia stato l'autore Giovanni Marcanova, ovvero
Ur-bano. Il Vernia risponde che il manoscritto nel primo esemplare è di Urbano:
Marcanova lo copiò e fu trovato nei libro di costui senza indice: che è degno
di essere stampato, jerche Urbano supera moltissimi averroisti, e non islugge
le questioni le più difficili della fisica. Corrisponde alla gentilezza e stima
di Alabante di Bologna con pari condutta, mandandogli la dissertazione sugli
uni-versali, perché la legga e gli dica se può essere stanpata. La
lettera di accompagnamento porta la data del giugno 1492 da Padova; e la
dissertazione è stata terininita nel 17 febbraio 1492 (*). Sino a questo tempo
il Vernia è un pretto averroista, mostrando nei suoi scritti unlampo di
razionalitá e di liberta di filosofare pregevole e rarissima a quei
tempi. Ma alla sorveglianza del Vescovo di Padova e alla • pietá di un
uomo dottissimo quale era il Barozzi non poteva sfuggire il libero pensiero del
Vernia. Imperocche il Barozzi nel 4 maggio 1489 aveva emanata la scomunica lutae
sententiae a tutti quelli che disputavano pubblicamente quoris quaesito colore,
sull'unità dell' intelletto. Il Vernia con tutto ciò si mantiene ancora
fermo ai suoi principii; sperava che essi fossero mantenuti illesi colla
pubblicazione delle sue dottrine, affidata alla protezione di uomo colto ed
autorevole che l'aveva accolta. Cio non basto a salvarlo: una più severa
minaccia di seo-munica direttamente al Vernia dovette venire, la quale
l'obbligava a ritrattarsi. Non si puù spiegare diversamente la vicinanza delle
due date, della quarta e della sesta dissertazione, nella quale ultima il
Vernia si ritratta interamente del suo averroismo. La questione degli
universali porta la data del 17 febbraio. La lettera poi di accompagnamento di
questa dissertazione diretta ad Antonio Alabante porta la data di giugno 1492;
mentre quella contro l'unità dell'intelletto è del 18 settembre, dello stesso
anno, 1192. Non dustrente ophtelmia quae me tune molestant, soggiunge il
Vernia in fine: una circostanza tuti'altro favorevole a fare scrittura.
Argomento da ciò, che il Vernia la dovuto affrettarsi a fare questa
ritrattazione. Che la dissertazione sesta sia un po' affrettata ed un poco
anche confusi, é in qualcle parte evidente. Che rimanga il dubbio di avere
abbandonato l' averroismo perfettamente, e evidentissimo; ed il Barozi se n'era
già accorto. Epperò non possiamo noi accettare come veridica la sua
confessione, cioé, che solo per disputare e per aguzzare l'ingegno tentò di
corroborare con argonenti l'opinione di Averroe intorno all'unico
intelletto. Contro tale dichiarazione sta non solo la dissertazione
precedente dello stesso anno sugh universali, in cui si professa pu-ru
averroista, ma anche un'altra che è sparita, intorno al-1180 nella prina
questione preliminare intorno al soggetto della fisica ('). Ma la vita di
insegnante per 33 anni nell' università di Padova sarebbe stata troppo scarsa
di frutti intellettivi, se il Vernia si fosse limitato a queste sole sei
dissertil-zioni. Giá abbiamo visto che egli emendo la fisica di Bur-leo. Anche
ai tempi di Pomponazzi il Burleo godeva all-cora grande autoritá nella scienza.
Ed alcune opere di lui erano già andate perdute (°). Un altro lavoro di
cur-rezione di edizione lo fece intorno al de caelo et murulo del Gianduno. Il
Pellenegra di Troja che insegno filosofia morale a Padova, ci da notizia di
avere più accuratamente stampate le questioni del Giandono che furono emendate
dal Vernia ('). Noto questa notizia molto rilevan-Imperocché sono di credere
che molti hanno pubblicato dei lavori del Vernia, non originali però, ma
intorno ai commenti di Aristotele, appropriandosi in tutto e per tutto gli
scritti del filosofo chietino. Che il Vernia non abbia perduto il tempo sulla
cattedra, si rileva dalle sue stesse parole nelle quali dice che essendo stato
professore per 33 anni a Padova, credeva essere poco decoroso, se non avesse
pubblicato ció che avea raccolto con diligenza per tanti anni dagli autori
greci e latini. Egli non cessava tutti i giorni di forbire e ritrallare i commenti
che aveva fatto su tutti i libri di Aristotele, perché potessero meritare di
essere pubblicati ('). Ma mandava alla stampa in prima l'opuscolo sulla
immortalità secondo la fede cattolica, aí-finché fosse esso come il conduttiero
delle altre opere. Prega inoltre Domenico Grimani di accettare questo
dono durante il tempo, che egli da un'aitra mano ai coinmenti di Aristotele. Se
la lettera dedicatoria è scritta nel 1499, nella quale confessa che egli ha già
pronti questi commenti, ma non li pubblica perché hanno bisogno di essere
ricor-secondo il tenore del suo opuscolo, cioè contraria ad Averroe, di cui era
stato per tanti anni fautore. Quindi si può supporre, o che egli non li abbia
pubblicati prima per la minaccia del Barozzi, ovvero che dal 1499 egli siasi
messo a ritrattare tutti i commenti in senso anti-averroistico, e che non li
abbia finiti per gli acciacchi della sua età. Pochissimo é stato anche il tempo
dalla pubblicazione dell'opuscolo alla sua morte; quindi si può ritenere che i
suoi scritti sieno andati nelle mani degli altri. Una caratteristica
quasi costante si può notare negli scritti del Vernia, la quale è duplice,
materiale e formale. Il Vernia è molto ordinato nel suo scrivere: quasi
tutte le sue dissertazioni sono divise in tre parti: la prima espone tutti
coloro che hanno deviato da Aristotele e dal suo commentatore, Averroe; la
seconda, che cosi al buno sentito entrambi intorno al quesito proposto, e la
terza contuta le opposizioni addotte dagli avversari. Questo tenore di dividere
in tre parti l'argomento era però comune a tutti i tomisti e scotisti. Ciò
riguarda la materia dei suoi argomenti. Circa la sua opinione, a quale cioé,
dei filosofi più si accostava, è da dire in genere, che egli sebbene
averroista, era piu veramente un albertista. Tomista non mai periettanente. Il
suo storzo è di mostrare che l'opinione di Averroe poco differisce da quella di
Al-berto. Lo dice finanche nella sua sesta questione contro l'unità
dell'intelletto. Sebbene in quest'ultima sia stato costretto ad essere tonista,
per avvalorare la sua ritratta-zione. Il Vernia insegnava propriamente li
tisica nell'Università di Padova ('), e non poteva sottrarsi all'esameseguace,
di S. Tommaso, o di Alberto ('). Tale questione era, se l'oggetto della filosofia
naturale era l'ens mobile, come disse S. Tommaso, ovvero il corpres mobile,
come opinó Alberto. Osserva che Egidio Romano combatté l'o-pinione di S.
Tommaso, perché la scienza naturale non è subalterna della metafisica; poiché
tre sono gli abiti speculativi, il metafisico, il matematico, ed il naturale. E
se la mobilità è un' accidentalità, questa non deriva punto dall' essere, in
quanto questo è obbietto della metafisica. La scienza naturale non é
parte della metafisica, ma que-sta e quelle sono diverse parti della filosofia.
Di S. Tom-maso la la più buona opinione, dicendolo il migliore espo-sitore tra
i latini; ma pure non solo in questa, ma in altre questioni gli é spesso
contrario. Lo Scoto volevi invece clie l'oggetto dalla fisica fosse la sostanza
naturale, che é soggetto del moto e di altre aflezioni. Ma se per naturale s'
intende il sensibile, soggiunge il Vernia, esso è il soggetto che é
principio di moto e di quiete. Sostiene perció che il corpo mobile sia il
soggetto della fisica (°). Otto sono le condizioni requisite per un subbietto
di una scienza: che sia reale, uno almeno per unitá analogica, universale,
adeguato, primo noto in quanto alla sua ragion formale, che abbia parti, che
abbia affe-zioni, che abbia principii. Ora l'errore di Antonio Andrea è di aver
posto l'essere come comune a Dio ed alla crea-tura. Queste otto condizioni si
trovano nel corpo mobile,l'ammettere il noto come soggetto di scienza, risponde
che quell'accidente solo non entra nella scienza, il quale non ha causa.
Due difficoltá considerevoli s'incontravano in tale de-finizione della fisica.
Se il corjo mobile é il subbietto della fisica, gli angeli sono mobili, ma non
sono corpi: inoltre, il cielo non é composto di materia e forma, e quindi cone
può essere l'obbietto della fisica? La questione dell'an- gelo
intorbidava la liberta di filosofare nella scienza na-turale. Intorno alle
specie ci era quella della plurabilita, o moltiplicabilità dell'angelo,
che non era ammessa da S. Tommaso, perché ogni angelo rappresentava la specie
tutta. Per l'anima umana invece si doveva sostenere la plu- rabilita,
altrimenti si cadeva nell'averroismo, e si ri-conosceva l'unita dell'intelletto
umano. Il Vernia confessa che egli intende di parlare secondo la ragion
na-turale in tale questione: e dice che gli angeli non si possono muovere con
una velocita infinita, perché la ve-locita dura un certo tempo: il loro moto
locale, se fosse veloce infinitamente, dovrebbe avere uno spazio infinito ;
locché non conviene all'angelo. Esso é dunque una so-stanza semplice ricettiva
di luogo, e quindi di moto. Era giá il primo indizio, con cui egli si dipartiva
dalle veritá di fede e della teologia ('). I teologi invero volevano con-cedere
all'angelo il moto infinitamente veloce, ovrero l'ubiquità, negandogli il
luogo. Locché e contraddittorrio per il Vernia (3). E se con S. Tommaso
ammetteva che l'angelo rappresentando tutta la specie, era impluri-ficabile, lo
stesso sosteneva rispetto all'intelletto umano ('). Ma si riserva di
trattare tale questione in quella dell'in-telletto. Se questo scritto sia
stato pubblicato, non si sa: forse dovette sparire dietro la persecuzione del
Barozzi; non credo però che gli fu impedito di pubblicarlo. Il Nifo pare che lo
accenni. Imperocché e chiaro che la citazione sui concorda perfettamente colla
dottrina che espone e che pol Il Nito combatte. Cioé, che per sostenere l'
unità dell'in-telletto, disse un nuoro espositore, che una stessa forma
spirituale informa subbiettivamente la fantasia e l'intel-letto. Imperocché la
forma spirituale può essere una di numero in diversi soggetti, come il colore
nell'acqua e nell'aria. L'intelletto in se come uno in atto informa il nostro
intelletto, ed é la specie intelligibile; informa an-clie la fantasia, ed è il
fantasma (*). La seconda difficolta era: se Averroe aveva
ammes- so che il cielo non è coinposto di materia e foria, perché é
ingenerabile e pur tuttavolta è mobile, come poteva abbracciare l'idea del
corpo mobile il cielo e le cose terre-stri? Il Vernia risponde che la sostanza
mobile è cio che è soggetto alla triplice dimensione. Pare accostarsi per ciò
all'opinione di Egidio romano che poneva identici natura nel cielo e nella
terra. Ma pure non é veramente cosi; perché confessa altrove che il cielo è
atto, e non si da in esso passaggio dall' essere al non essere. Il punto
di vista interessante per caratterizzare fin da ora il chietino filosofo è
questo nel primo suo lavoro, di-chiarare, cioè, la fisica indipendente della
metafisica: sottrarre la natura, per quanto poteva, dall'influenza della
teologia. Fin di ora i fisici non stunno in accordo coi metafisici. E una linea
di condotta che è troppo costante nel Vernia. La seconda
dissertazione intorno alla partizione delli filosofia è una prolusione che fece
in un anno del suo insegnamento; nel quale dovendo esporre la filosofia
na-turale, esamina quali sieno le relazioni delle varie parti del sapere al
tutto. La filosofia, dice il Vernia, è la perfezione del sapere; essa è
prattica, speculativa e razionale; e riducendo, è reale e razionale. Questa
ultima è la logca; dando a questa il solo valore razionale e non reale, il
Vernia si dichiara vero occamista: non tomista, né scotista. In tal guisa
seguiva la tradizione patavina cirça la logi-ca, la quale, non solo di
Nicoletto Veneto e da Nicola della Pergola era stata ritenuta come speculativa
secondo Alberto, il differenza di alcuni tomisti che la dissero pratica, ma
anche di valore nominale; e cio era la massima distinzione degli occanisti
moderni dai logici antichi che erano o tomisti, o scotisti ('). Siccome tre
sono gli atti di ragione in eni jo siano errare, tre sono le parti della logica
che servono a dirigerci alla verita. Le Categorie che Aristotele e
Platone ricevettero da Archita Tarentino, servono a non attribuire id una cosa
uni qualitá che conviene ad un'altra. Il libro de interpretalione tratta delle
enunciazioni singole, in cui vi è la composizione, o la divisione
dell'intelletto. Il terzo atto é il sillogino pertetto: ed è questa l'arte
nuova che fu da Aristotele ritrovata. Questa parte é divisa nell'inventiva e
nella giudicativa: quindi la topica e la sofistica. Lia giudicativa è
l'analitica, di cui la prima tratta del sillogismo comune in cui si risolve la
conclusione nella preinessa;la seconda é quella che riduce gli elletti alle
loro cause. La risolucione prima é relativa alla seconda ; perché quella
é comune ad ogni sillogismo, questa é speciale al sillogismo che versa intorno
alle cose necessarie. Al libro dei primi analitici viene quello dei topici;
e poi quello dei secondi analitici, e finalmente quello degli elen-chi. Doyo,
la rettorica e la pratica. La scienza reale poi é divisa in prattica e
speculativa. Quella in fattiva come la medicina, ed in attiva clie
com-prende l'etica, l'economica e la politica. Questa com-pren Je la naturale,
la matematica e la divina. La consi-derazione intorno al mobile in se è della
fisica, che è pri-una tra le parti della filosofia naturale: se si considera il
solo moto locale, ecco la trattzione del cielo; se verso la forina, ecco il
libro della generazione; se verso il mi-sto, si la il libro dei meteorologici,
e quello dei minerali : se é animato, questo o è in genere ed ecco il libro
de parcis naturalibus, o é specitico, ed e il de planlis et de
animalibus. La scienza dell' anima contiene tre parti : la prima il
trattato deila vita e della morte, poi quello de respirationo e il de jucentute
et seneclule, de causis lougitulinis et bieritatzs citae, de sunate et
acgrie-dine el de nutrimento, i quali due ultimi libri non ci pervennero. La
seconda ciò che riguarda il motivo, de cresis motes animalium et de pingresse
animalium. La terra cio che è propriamente del sensitivo, quindi de sense
et sensat), de memoria et reminiscentia, de sonno et vigiliu. Ma perché dai
sinili si procede al dissimile, per-ció dopo il libro dell'anima in genere,
vien quello del senso, del sonno e della veglia. L'intelletto non a. endo
concretez/a nel corjo, é delle sostance separate che ap-partengono alla
metatisica. Sbagliano perciò coloro che dicono soggetto del libro dell'anima il
corpo animato e che l'anima sia sostanca del corpo. Perché il corpo ani-mato
secondo le operazioni comuni a tutti i corpi animati,è soggetto del libro
perenni animalinm: considerato poi secondo le operazioni specifiche è il
soggetto dei libri de animalibus et plantis. Il Vernia è nella dottrina
dell'anima in armonia colla dottrina del cielo. L'anima è propriamente
l'intelligenza, così nel cielo, come nell'uomo L'intelligenza è sostanza
separata; eppero non appartiene veramente alle cose né celesti, né umane.
L'anima come senso, come fantasia, appartiene alla natura, siccome la forma e
la materia del cielo danno il cielo nella sua pienezza. Questa dottrina del
1482 è in pieno accordo colla dissertazione inedita del 1491, se il cielo é
animato. Di qui è chiaro l'ordine delle arti liberali: cioé, prima
apprendiamo la grammatica, indi la logica e la parola, poi la filosofia
naturale e la matenatica: da ultimo la divina sapienza. Da questa seconda
dissertazione non comparisce per noi nulla di notevole, salvo una mente
abbastanza ordinata in mezzo a tutto il ginepraio dei trattati aristotelici. Si
può ritenere che il Vernia gia si era dichiarato per l'unità dell'intelletto
fin dal 1482, perché dichiara l'intelletto non avere concreteria nel corpo,
essendo una potenza separata. Una dottrina che aveva per conseguenza la
mortalitá dell'anima. Imperocché egli confessa che non solo la sensazione, ma
anche la memoria appartengono alla vita sensitiva. Il senso non è che una
specie dell'anima. L'intelletto come unico appartiene alla metafisica.
Non sappiamo se a quest'ora avesse gia pubblicato il suo traltato de unitute
intellectus. Forse no: ma questa dichiarazione è già abbastanza, oltre quella
che si trova nella prima dis-sertazione, per dichiararlo rigido
averroista. La terza dissertazione, se sia jiù nobile la professione
della medicina o quella del dritto civile ('), ha qualcheche di spiritoso.
Nissuno si deve meravigliare che il Ver-nia abbia preso a trattare quest'argomento;
poichè era egli un medico e filosofo. Difatti, distingue in questo lavoro la
medicina come scienza di cui parla, dalla medicina come arte, la quale dipende
da quella. I medici artisti sono quelli che discreditano la nostra medicina,
dice lui: e dovrebbero essere espulsi dalle città ('). Dopo avere
esposto alcuni argomenti in contrario, tra cui, che il fine del dritto è fare
l'uomo virtuoso, quello della medicina conservarlo nel suo essere solamente,
che con questa si sana il corpo, con quello si sana l'anima, ragiona cosi per
la parte vera. La medicina riguarda la conservazione dell'individuo, che è come
la sostanza migliore di ogni accidente. Il dritto si appoggia sull'autorità dei
dottori, la medicina dá una certezza dimostrativa. Essa veramente dipende
immediatamente dalla filosofia na-turale. Senza di quella nulla si
conoscerebbe: ed in essa consiste la felicità, anzi che nella convivenza, che è
una certa felicita. Dimostra a lungo la felicità consistere nella speculazione;
e gli pare clie il giurista sia più lontano dall'ultimo fine che attinge il
naturalista. La medicina fu sempre avuta più in onore, epperò fu bene
ricompensata. Qui non gli mancano vari esempi dalla storia. Una scienza
indeterminata e variabile non può mai essere davvero scientifica. Tale è la
legge degli atti umani, in cui è impossibile dire universalmente un vero: anzi
è utile in certi casi particolari osservare l'opposto di una legge (°). I
forestieri che entrano nella cittá, sono puniti: ma se questa è assediata, ed
entrano per liberarla, sono degnidi premio. Cne leges cariantui secundum
locorum commoditutes et ad libitum hominum. Leges enim Ju-stiniani in Gallia
nihil culent. Aristotele nel V dell'etica le rassomiglia alle misure del vino e
del frumento. Simi-liter non naturalia et lumana justa non eadem ubi-que. Dopo
aver distinto la inedicina come scienza da quella come arte, osserva che gli
scicnziati medici non solo fanno gli esperimenti, ma ricercano le cause di essi
dalle cose naturali. E se ad Esculapio gli Ateniesi, ad Antonio Musso i
Romani per avere sanato Ottavio Augusto ere:-sero una statua di bronzo, che
cosa dovremmo fare noi a Gerardo Bolderio di Verona, principe tra i
moderni medici? ('). Osserva clie i legislatori dei suoi tempi sono
privi di cultura e li disprezza, perclé non conoscono le scienze morali, nè
quelle dell'anima. Tali non furono gli antichi legislatori, come Solone ed
Aristotele, che erano periti nella scienza naturale. Dopo aver riferita
l'autorità di (icerone nella pro Murena, in cui dice che se Servio Sulpicio
aprese dritto civile, non perciò trova aperta la via al consolato, mette in
ridicolo alcune glosse che si trovano nel codice giustinianeo (*). Fra le
risoluzioni delle difficoltà poste nella prima parte della discussione, noto
questa. Sebbene la virtú siapreferibile alla vita nel genere dei costumi,
perchè la morte è preferibile alla vita turpe, perché è più lodevole chi muore
per virti di chi vive ozioso; pure nel genere della natura non è cosi, anzi è
l'opposto, essendo preferibile l'essere alla virtú. E siccome, più essenziale è
il genere di natura di quello del costume, è meglio vivere cle è il fine della
medicina, che essere virtuoso che è il fine della legge. Acuta riflessione!
Questa dissertazione mi è apparsa la più originale tra tutte, perché, oltre che
è lasciata interamente la forma scolastica, essendo scritta in maniera molto
spigliata e libera, è piena di osservazioni punto, sprezzabili ('). Né si dica
che era usuale a quei tempi l'invettiva dei professori di vari studi contro i legisti,
i quali erano decaduti nella stima jer l'aridità delle loro dottrine (*).
Imperocchè il Vernia si mostra jiuttosto inspirato ad un altissimo concetto che
è vero : cioè, che la scienza della natura è la sola che ci procaccia una
felicita per le verità conosciute, le quali non sono variabili come le leggi
umane. Comprendo che da essa risulta pure evidente lo stato di decadimento
della giuri-sprudenza a quei tempi. Ma il Vernia indica pure il modo come
rinsanguare quegli studi coll' estendere la coltura a quelle sorgenti, da cui
puó fluire la vita del pensiero che era rimasta assiderata nella forma e nella
parola. La questione de paritus et lecilus è di poca impor-tanza: tratta
se i gravi e leggieri inanimati, rimosso l'impedimento, si muovono localmente
da se, o da altro. Espone secondo il solito, le opinioni devianti da
Aristotele e le confuta, quella di Averroe che é la stessa di Ari-stotele, e
finalmente risponde alle obbiezioni. Platone che pose l'anima e le cose
inanimate muoversi da se, è in opposizione ad Aristotele, che volle nissuna
cosa poter muovere se stessa. Alberto disse muoversi per accidente; e che non
ci è bisogno del movente nel moto naturale, ma solo nel violento: e questo è
l'aria. Ma osserva che ogni moto ricerca per se il movente, e tali sono i
gravi. Contro S. Tommaso che disse i gravi fin-maliter si muovono da se, ed
effectire dal movente, dice che per il moto in atto ci è bisogno del movente in
atto. Neppure l'opinione di Gianduno che disse il movente essere la
forma, e la materia la cosa mossa, sta benc, perché allora la forma sarebbe
movente e mossi, perché il moto in atto è distinto dal motore. Alcuni teologi
separarono la gravità dalla sostanza; e dissero clie l'ostia consacrata cade in
giù come gravità, non come sostanza. Ma questa opinione non è naturale: e
non ne parla perciò ('). Egli dice che i gravi e leggieri, dopo che sono
ge-nerati, si muovono da se, rimosso l'ostacolo, ai loghi naturali propri, e
fuori di essi sono mossi dall'aria per l'impeto dato dal morente violento. I
proiettili sono mossi dall'aria secondo Averroe, la quale è causa della
velocita. Imperocché il mobile in fine è più veloce, perché maggiore
quantità d'aria lo segue nel fine, che nel principio.Lo stesso succede per
l'acqua, perché aria ed acqua sono corpi interminati, indifferenti a qualunque
figura, come non é dei solidi. Cosi si spiega, perché la balista percuote più a
certa distanza che vicino, perché i raggi si uniscono nello specchio a certa
distanza. E curioso che si mantiene più fedele ad Averroe che ad Alberto, il
quale secondo lui non ha detto bene che i gravi sono mossi dal-l'impeto ad essi
dato e non dall'aria e dall'acqua, perché i gravi misti terminati non sono nati
a ricevere tali vio-lenze. Altrimenti un uomo getterebbe a maggiore distanza
una piuma che un pezzo di ferro; locché è contro l'e-sperienza. E se il maestro
Gaetano risponde, che avendo il ferro più materia, riceve più impeto e va
quindi a may-giore distanza, gli osserva il Vernia che, data una pietra ed un
pezzo di ferro della stessa quantita, il ferro dovrebbe andare a maggiore
distanza. Cio proviene perché la mano si applica meglio alla pietra, che alla
piuma ('). Questa dissertazione fa troppo desiderare la venuta di Galileo
per isciogliere questo quesito della fisica che arri-luppo nel buio le povere
menti aristoteliche (*). Nella quinta dissertazione, un dentur
unirersalia vea-lia, il Vernia è ancora pretto averroista, cioè sino algiugno
del 1492. Espone secondo il solito le opinioni devianti da Aristotele e dal
commentatore, poi quella di questi due, e finalmente risolve un numero immenso
di obbiezioni. Dice che gli universali o sono concetti puri secondo Occam,
ovvero sono reali secondo Burleo nel prologo della fisica; oppure ci è la via
media in quanto sono reali nella cosa singolare e formali
nell'intenzione. Il Vernia prende lo stato della questione non dai
primordi della discussione, ma dalle ultine forme che aveva assunte nella
scienza ('). Perché il Burleo discepolo di Occam stando alla pura questione
filosofica, aseva guardato più alla parte fisica dei generi e delle specie, ed
Occam aveva ridotto la soluzione al puro nominalismo. Non crede dover fare
lunga discussione sugli universali ante rem, parendogli fuori proposito pei
tempi della scienza. Noi che camminiamo nella via media, dice lui, affermiamo
che l'essenza di ogni cosa si può considerare doppiamente, cioè in se, e nella
materia, in quanto è quell'aptitudo realis che nou è particolare, perche è una
essenza non di unitá di numero, ma l'unità secondo l'aptiludinem
communicabilitatis. È una comunità non di materia, ma di forma. Ed é appunto
questa inchoulio formae che é reale. Cosi nello sperma non cessa mai la forma
umana, fin tanto chie l'nomo si perfeziona. Altrimenti la forma sarebbe creata
dal niente di se. Il Vernia è un fisico, e non può trattare la questione degli
universali, se non dal lato della sua scienza. Essa si può dire che si
identiticacon quella dei germi della vita, sino ad un certo punto. Occam
aveva sciolto la questione degli universali negando ogni esistenza astratta e
tutto riducendo il loro valore al puro termine. Ma la specie non ha valore in
se? Ecco il Burleo che ammette quest' universale nella specie : il Vernia lo
chiama unita di forma che é increata, eterna, appunto per negare la creazione
temporanea della specie. La difficoltà era per l'anima intellettiva,
ritenendosi che essa è creata prima e poi infusa nel corpo. Sebbene ciò, dice
il Vernia, é secondo la mente dei sacri teologi, non è però secondo la mente di
Aristotele ('). Poichè secondo Averroe nel settimo della metafisica non può uno
stesso effelto essere prodotto da due agenti che non sono subordinati
nell'operare, e che non concorrono aggiustata-mente allo stesso effetto. Cosi
sarebbe di Dio e di un particolare agente nella generazione di Socrate. Epperó
egli é di opinione clie la dottrina di Alberto a questo punto poco differisca
da quella di Averroe. Il quale volle tutte le forme prodotte ed emanate dalla
potenza della materia e non per creazione, la quale credette essere impossibile
(°). Quindi l'anima intellettiva non è creata, maché la volle creata. Ma cio
che ha esistenza preesistente, è al aeterno. Il Vernia nella questione
dell'anima vede la cosa secondo il fatto. L'uomo genera l'uomo per l'apretito
naturale clie non può essere indarno. L'agente fa la mil- tazione,
trasmutando la materia dalla potenza all'atto, non congregando due cose jer
fare l'unità di un effetto: cosi si approssima alla creazione. La forma non si
crei, ma si produce per generazione. La creazione de noco non gli va. La
generazione non é per trasferimento secondo Anassagora, nè per le idee secondo
Platone. Per Averroe quando succede la generazione, vi è qualche cosa che si
completa: la forma è il termine di essa. La forma particolare è distinta dalla
essenza che la include; jercio essa non si crea, ma si genera. Se Alberto dice
che è creata dal niente di se stessa, rispondo che è jer accidente ge-nerata. E
se soggiunge che incomincia ad essere de noco, rispondo anche dicendo non dal
niente di se stessa, ma da qualche clie di se, cioè dalla essenza che è
l'incoazio-ne ed il seme nella stessa specie. E coloro che non intendono queste
cose, non hanno il cervello abilitato al bene, e non sono atti a filosofare
secondo i principi di Aristotele ('), il cui assioma è dal niente niente farsi.
La quale dottrina fu accolta da tutti quelli che parlano na-turalmente. Ottima
confessione ! Ma osserva ancora che la forma della specie non è distinta
da quella dell'individuo; perché nell'uomo vi è una forma particolare che si
dice l'anima cogitativa. Nello sperma da cui si ha l'uomo, non si distruggono
le parti di esso, ma si generano successivamente le forme dell'uono, finchè si
perfeziona la forma umana. L'incoa-tivo sene non è una potenza subbiettiva, ma
potenza formale, distinta dalla materia ('). Da ciò segue darsi gli universali
reali. Anzi arriva a dire che tutte le specie rimangono in ogni ora, altrimenti
tutto sarebbe corrutti-bile, locché appartiene al solo singolare. Perfino il
concetto di finalità nella natura non lo ammette; poiché il fine è ens
rationis, il quale è ben diverso dal processo naturale, che non dipende
dall'anima nostra. L'incoazio- ne è reale, dice più prima, é nella
materia, non è nell'intuizione delle cause agenti (*). Segue una immensità di
obbiezioni che tralascio per brevità: qualcuna solo voglio menzionare. Con
questa teoria in ogni uomo vi sarebbe qualche che dell' asino; risponde : in
potenza vi é questa indifferenza della specie, in atto no. (3) Essendo questi
universali separati dall'individuo, non vi sarebbe la necessita dell'intelletto
agente. Risponde: questo essere necessario a produrre nell'intelletto jossibile
mediante i fantasmi le intenzioni dell'intelletto in atto. Nota poi con Alberto
che questi universali incorporei sono sempliciquiddità ulique eristentes, come
la quantità indetermi-nata. Infine a Burleo che nega gli universali nella
mente, altrimenti si andrebbe all'infinito nei concetti comuni, e cosi non vi
sarebbero principi primi della scienza, rispon-de, che il concetto dell'
essenza in ratione entis è singo-lare, in ratione signi è comunissimo. Un uomo
e un uomo sono lo stesso rutione signi, ma differiscono mate-rialiter. Per
questa dottrina egli si avvicina di molto ad Occam che è un puro terminista;
ritiene con lui gli universali nella mente rutione signi, e combatte Burleo
clie li negó nella mente: ma ritiene con costui la realtà degli universali come
enti obbiettivi, che nego l'Occan. In questa dissertazione vi è del
buono, vi è del fal-so. Ad ogni modo è la ultima manifestazione del suo
averroismo. Il Vernia nega la creazione perché riconosce in natura la sola
generazione: ed arriva sino a toccare la questione nebulosa della generazione
spontanea colla dottrina della indifferenza dei generi. Non fa eccezione per l'uomo
e neinmeno per l'anima cogitativa, dicendola una specie non diversa
dall'individuo, un' accidentalità della natura, per cui non ci è bisogno della
creazione de noco. Nega l'infondersi dell'anima nel corpo umano secondo S.
Tommaso, reputando sufficiente la generazione per l'appetito naturale inerente
all'uomo. Questo è il lato più vero dell'arerroismo professato dal Vernia. E se
ritiene gli universali separati dai singolari in quanto sono in se, non è
meraviglia che sia costretto ad ammettere anche l'intelletto agente che
completa nell'uomo la cognizione. Il Vernia mi pare proprio sospeso tra il
cielo e la terra, tra la scolastica antica a cui non può dare un totale addio,
e la nuova dottrina della realtá della natura di cui ne ha qualche presagio. E
certo peró, che se altro scritto mancasse a conoscere qualche valore negli
studi naturali, questa quinta dissertazione è la più valida prova del suo
talento negli studi filosofici. Con questa dissertazione quinta preceduta
dall'altra, se il cielo èanimato, inedita, il Vernia chiude il suo averroismo
il più deciso. E si noti che è una dissertazione pubblicata dopo il 1479 in cui
fu minacciato della scomunica; cioé nel giugno del 1402 ovvero tre mesi prima
della sua ritrattazione, due mesi prima del trattato de intellecte del Nifo,
che ne era il preludio. Nel 26 ¡gosto (') e nel 18 settembre (°) dello
stesso anno, 1492, arviene, che discepolo e maestro, cioe il Nifo prima e poi
il Vernia scrivono due trattatelli contro l'unità dell'intelletto di Averroe.
Il trattato de intellectu del Nifo è molto più lungo: maci sostara e quine di
io iu pablicato nel 1503, cosi quello del Vernia vidde la luce nel 1499. Il
Naude ha detto che il de intellecte di Nifo fu prima di quello de unitrle del
Vernia (3). É vero, perché nella dedica del libro a Sebastiano Baduario,
patrizio Veneto, dice che gli avevabe procurato di stamparla, se non ci fossero
stati gli invidiosi che lo accusavano di eresia. Da ció si è argomentato che
nel 1491 il Nifo aveva giá fatto il trattato; e che avendo diteso il Vernia, si
attirò sopra di lui accuse di eresia; epperò fu costretto a pubblicarlo
nell'anno dopo, avendolo prima del tutto emendato ('). E questo ha potuto
essere sino al Giugno del 1492, quando il Vernia era ancora averroista. Ma mutatosi
d'opinione il maestro, si muto anche lo scolaro (%). Ki-mane la difficoltà
rispetto al Vernia, che è maggiore di quella del Nifo, come dopo più di due
mesi soltanto cambio opinione, cive da averroista addivenne antiaveroista col
trattato de unitute intellectus contro Averroe. Di cosi subitanea mutazione la
causa dovette essere la scomunica del Barozzi fattasi sentire un po' più
efficacemente. Che il Nifo ricerette dal Vernia l'indirizzo fondamentale
dalla sua ritrattazione, risulta non solo dall'andamento del libro de
intellecte nel tutto insieme, ma anche da un'al-tra circostanza che c' induce a
credere cosi. Il Nifo confessa nella dedica del commento de anima (') al Giulio
cardinale dei Medici, che tutte le cose raccolte sul de anima da lui fin da
quasi fanciullo gli furono rubate e stampate a sua insaputa e col suo nome,
acciocché la cosa fosse più verosimile (). Si capisce che queste cose raccolte
furono sotto scuola del Vernia. E se il de intellectu a confessione del Nifo si
intende per il commento de anima, e deve succedere a questo, ed è giudicato il
primo parto suo giovanile, è ragionevole supporre che l'un e l'altro libro
sieno stati inspirati dal suo maestro nei punti principali della
ritrat-tazione. Percorriamo ora brevemente la sesta dissertazione, per
vederne il contenuto. Dice che Anassagora, Esiodo, Senofane, Melisso e
Parmenide convengono nel porre che sia lo stesso Dio e l'anima intellettiva:
unico Dio, unico intelletto. Di qui nacque l'errore di Averroe e di altri
peripatetici che dicono uno essere l'intelletto in tutti. Democrito e
Leucippo non facendo differenza tra senso ed intelletto, ammisero l'anima fatta
di atomi. Empedocle volle l'anima composta degli stessi principii delle cose,
perché conosce queste cose. Costoro dunque ammettono l'anima generabile.
Riferisce l'opinione di Pitagora che pose l'anima immortale per la
metempsicosi, e di Platone che disse l'anima da Dio creata, infusa nei corpi.
Ma Ori-gene secondo S. Tommaso volle l'anima creata de noronon eterna,
rinchiusa nel corpo pel peccato originale. Avicenna che ammise
l'immortalità, disse le specie non causate dai fantasmi per l'agente
intelletto, ma clie questi dispongano l'anima a ricevere le specie. Dopo ciò,
magna discordia inter peripateticos, perché in Aristotele non si trova sciolta
né la prima ne la seconda questione, cioe an anima intellection sit forina
substantiulis humani corporis, utrunce sit in eo felicitabilis.
Alessandro ammise l'anima intellettiva essere eterna, e pose l'intelletto
agente e possibile come eterni. Averroe non avendo conosciuto il horo
dell'anima di Aristotele, disse l'intelletto possibile corruttibile, ed intese
per intelletto possibile l'anima cogitativa. Ma se è immortale l'agente, tale è
anche il possibile. La sua attitudine a tutto ricevere è in consonanza colla
libertà. Qui ci è una esposizione delle ragioni per cui Averroe ammise l'unita
dell'intelletto; perché è impossibile l'infinita moltitudine d'intelletti,
perché non non vi è moltitudine nella stessa specie se non per la materia,
perché è impossibile la creazione. E subito dopo una imprecazione ad
Arerroe. Conchiude coi peripatetici più famosi che tra Platone ed
Aristotele non ci è discordia, se non nelle parole, e che l' anima sia
sostanziale dans esse forinaliter corpori hurano, moltiplicata in singulis
hominibus, ab acteï-no creata a deo et corporibus infusa. E ciò secundum
sacrosanctam Rom. Ecclesiam et veritatem. Ma ci è qualche cosa di più: sostiene
che queste cose non solo bisogna credere ex fide, sei philosoplice, non dicendo
nulla di contrario ai principii di Aristotele. Arriva ad ascrivere ad
Aristotele anche la creazione: locché é la cosa più strana per il Vernia, che a
questo profosito si era cosi decisanente espresso cessario cambiarne altre con
quella connesse. Ritiene perciò che all'anima non conviene mutazione per
l'acquisto della scienza. Per l'unione ai fantasmi è l'universale co-
nosciuto. Ma il singolare non può essere conosciuto prima dall'intelletto, ma
solo dal senso in cui vi è mutazione. Nega quindi al Gianduno che l'intelletto
per conoscere l'universale abbia prima bisogno della conoscenza del
par-ticolare; altrimenti vi sarebbe mutazione nella scienza, e quindi
alterazione nell'intelletto. Cosi spiega che l'inten-dere è per reminiscenza.
Similmente circa la indivisibilità dell'anima, il cui opposto ammise Averroe,
Osserva che se l'anima non fosse tale, l'uomo non sarebbe lo stesso da mane a
sera. Un altro inciampo era, come l'anima intellettiva dá l'essere al corpo
umano. Crede una stoltezza l'affermare col Gianduno che non può avvenire se non
jer miracolo, che una forma inestesa dia l'estensione. Qui intanto anche
lui si rifugia alla fede, ut fideles po-nunt. Finalmente ne dimostra la
immortalità: ciò che é indebilitabile per la esistenza dell'oggetto, è immortale.
L'intelletto è tale: è eterno, come gli universali, non è organico, jerché la
sua operazione non è corporea. Un argomento spesso riprodotto dal Pomponazzi, è
questo : non si va da un estremo all'altro senza un mezzo. Tri la forma
astratta e la nateriale ci è la media che dá l'essere alla materiale: e jer
questo conviene colla be-stia, ed è incorrutibile come la celeste natura. In
mezzo a tante difficoltà che tratta, egli è però convinto che lasoluzione si
trova nella fede: e e Platone si accostò alla verità, non la vidde
completamente. Sei soluin ficiles inspirationis lemine fidei illuminati
ceritatem attingere complete, et soli complete salisfuciunt omnies poesi-
tis in his difficultatibies. Da questa dissertazione si vede che il
Vernia mostra di aver perduto ogni vigoria speculativa, ed ogni connes sione
stretta di pensare. Ed essa si può piuttosto accettare come una confessione di
fede, anzi che come una vera tesi scientifica. Il rifugio nella scienza era S.
Tommaso, od un Platonismo cristiano. Tale era l'intonazione che aveva dato il
Bessarione venendo in Italia: e questa si seguito piuttosto a Firenze, che a
Padova. E nissnn dubbio che questo indirizzo lo segue il Vernia. E credo che
gli faceva coin-modo per levarsi dagli impicci che gli dava il Baroz-zi, e
perché desiderava il canonicato di Aquileia, al quale avrebbe trovato ajerta la
via con tale pubblica con-tessione. Ma, siccome è troppo difficile abbandonare
quelle idee che sono state il nutrimento di un giovane intelletto; cosi anche
qui si vede in mezzo alle imprecazioni ad Averroe ed alle eccessive dottrine di
fede, una tendenza a mitigare l'averroismo, cioè a con-temperarlo colle
dottrine della chiesa. Ed il Barorzi gli dice nella lettera di risposta che lui
la fatto bene di fare questo opuscolo, sia che senta cosi, sia che no, perché
la sua autorità è grandissima. E lo paragona a S. Paolo con- vertito; ma
pure il sospetto sulla sua fede non cessó to-talmente. Epperò egli replica la
sua confessione dopo pochi mesi dalla pubblicazione del suo opuscolo nel suo
testamento. Il Nifo nella età giovane imito in tutto il suo mae.tro nella
tarda etá colla sua barcollante fede nell' arerroi-smo. Cosa che il Pomponazzi
gli osservò bene nel de-fensorium. Che autorità ha quest'uomo (ei dice) che
mentre ora segue l'unita dell'intelletto che noi diciano essere di Averroe,
prima l'ha condannata! Allude appunto al trat-se il sistema secondo il
Bessarione, di non avere nissun criterio proprio. E nella prefazione al de
Anima egli professa col Bessarione (') che né Platone ne Aristotele arrivarono
perfettamente alla fede ortodossa; ma in loro si osserva una parvenza della
nostra religione, che poi il creatore per mezzo della dottrina del suo figlio
rivelò più manife-stamente. Le sentenze perció di Platone e di Aristotele si
debbono accomodare a quella di Cristo. Tale fu il Ver-nia nell'eta decrepita, e
tale il Nifo nella gioventi. Il sistema era molto commodo non solo a non
avere disturbi quali ebbe il Vernia, ma anche ad aprirsi una via sicura agli
onori che la chiesa impartiva. Era il tempo della simonia allora: una fede
anche larvata ci voleva semj re, come scala alle lucrose onorificenze.
Noi non ci meraviglieremo delia confessione del Ver-nia, o meglio della sua
ritrattazione, perclé ancle il povero Pomponari fu obbligato a confessare che
gli argomenti del Padre Crisostomo, dell'ordine dei predicatori, contro il suo
trattato de immortalitale erano fuori ogni dubbio. E si obbliga che il suo
libro non puù esser venduto senza quella aggiunzione! Solo ci possiamo meravigliare
del suo discejolo che seppe imitare a proprio vantaggio ció che fu un tratto di
deboleza senile del suo maestro, senza aver mai dato in tutte le sue 44 opere
un lampo di ingegno un po' libero e meno servile alla chiesa.Nicoletto
Vernia. Vernia. Keywords: i parepatetici, i parepatetici padovani – i
parepatetici di padova, il lizio, unita, Aquino, method in philosophical
psychology -- Refs.: The H. P. Grice Papers, Bancroft MS – Luigi Speranza,
“Grice e Vernia: viva Aristotele!” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza,
Liguria. Vernia.
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